LEA
GALLERIA TEATRALE
TEATRO
DI
Felice Cavallotti
VOL. IX.
LEA.
LEA
DRAMMA IN TRE ATTI IN PROSA
CON UN PROLOGO IN VERSI
DI
Felice Cavallotti
MILANO Presso CARLO BARBINI Editore Via Chiaravalle Num. 9 1890.
È assolutamente proibito a qualsiasi Compagnia di rappresentare questo dramma, senza il consenso per iscritto dell'autore.
Tutti i diritti riservati.
Legge 25 giugno 1865, N. 2337 e 18 agosto 1865, N. 2652; decreto 10 agosto 1875, N. 2680.
Questa produzione, per quanto riguarda la stampa, è posta sotto la salvaguardia del testo unico della legge 6 ottobre 1882 N. 1012, sui diritti d'autore, qual proprietà dell'Editore
Carlo Barbini.
Milano, 1890 — Tip. Wilmant di G. Bonelli e C.
PERSONAGGI DEL PROLOGO
- FULVIO, poeta di libretti e sciarade.
- BARDI, attor comico.
- 1.º AUTORE.
- 2.º »
- AUTORE della Lea .
- AVVENTORE.
- CAMERIERE.
- PADRONE.
- (Avventori che non parlano).
La scena si suppone nel Caffè del Teatro Manzoni in Milano.
PROLOGO
All'alzar della tela entra FULVIO. L'attor comico BARDI è già seduto per far colazione ed ha in mano un giornale. Un terzo avventore è immerso nella lettura di giornali e si alza ogni tanto a razzolare tutti i fogli che trova sui tavoli.
BARDI.
(a Fulvio che entra)
Ciao Fulvio...
FULVIO.
(va alla casella delle lettere, non trovando nulla, ne chiede al Cameriere)
Per me lettere?
CAMERIERE.
Nessuna.
FULVIO.
(al Cameriere che lo interroga tacitamente sull'ordinazione)
Il Trovatore.
CAMERIERE.
E... d'altro?
FULVIO.
Un bicchier d'acqua.
(va a sedersi, legge, cava delle carte e scrive)
CAMERIERE.
(Che perla d'avventore!)
BARDI.
(dal suo tavolino, al Cameriere)
Neh! questa carne è legno. Qui ci si rompe il dente.
CAMERIERE.
O se il signor Lombardi[1] l'ha trovata eccellente!
BARDI.
Vuol dir che il sor Lombardi avrà i denti migliori
Dei miei. Già, dover sempre trattar con certi autori...
Neh, Fulvio, senti un po' se questa è carne...
FULVIO.
(si leva dal suo posto, va da Bardi, e prende sul suo piatto per assaggio un boccone grosso)
Oh Dio!
(mangiando a bocca piena)
Ma questa è pietra calcare!
BARDI.
N'è ver? lo credo anch'io...
FULVIO.
(al Cameriere)
Cameriere, non vedi?
(prende sul piatto di Bardi e assaggia un altro boccone grosso)
Fa sangue!
CAMERIERE.
Vedo, vedo!
Che lei è un sanguinario!...
FULVIO.
E poi... aspetta...
(taglia un altro boccone e lo mangia)
... io credo
Che sia roba d'ier l'altro...
(assaggia un quarto boccone)
Sicuro! è lo stufato
D'ier l'altro!...
(a Bardi)
Non mangiarlo.
(Fulvio non ha lasciato quasi più nulla sul piatto. Bardi lo guarda un po' sconcertato. Fulvio se ne va, per tornare al suo posto, poi torna indietro e si versa da bere, nel bicchiere di Bardi, dalla bottiglia di lui)
Scusami, m'hai guastato
La bocca.
(beve e se ne va ripetendogli)
Non mangiarlo.
(torna al suo posto forbendosi la bocca)
BARDI.
(con rassegnazione al Cameriere)
Porta dell'altro e fa
Presto, che ci ho la prova.
FULVIO.
E dunque come va
Con la Lea?
BARDI.
S'è provata fin qui tre volte appena...
Ma sabato al più tardi andrà, credo, in iscena.
FULVIO.
(al Cameriere)
Ehi, dammi un cappuccino... e il numero passato dell' Arte.
(Cameriere la cerca e la vede in mano a Bardi)
CAMERIERE.
L'è in lettura.
FULVIO.
(si alza e va da Bardi)
Scusami, hai terminato?
BARDI.
Cioè...
FULVIO.
(senza lasciarlo finire, glie la leva di mano e torna al suo posto. L'altro rimane male)
Grazie.
(sorseggiando il cappuccino)
BARDI.
(lo guarda sconcertato)
Bel tipo!
FULVIO.
Camerier!
(Cameriere accorre)
Ma qui c'è
Troppo latte. Ci aggiungi un sorso di caffè.
(Cameriere eseguisce con gesti d'impazienza)
FULVIO.
E dunque, dimmi un poco, della Lea come sei
Contento? Che pronostichi?
BARDI.
Eh, proprio non saprei...
Alla lettura, ai comici piaciuta è immensamente.
FULVIO.
(sorseggiandosi il cappuccino)
Allora è un fiasco in regola.
BARDI.
E infatti, veramente,
Critici che l'han letta dicono che in coscienza
L'è una tale scempiaggine da perder la pazienza;
E che sul palcoscenico voleranno le mele...
FULVIO.
Oh, oh! dunque è probabile che vada a gonfie vele.
(Alcune figure mute — fattorino del telegrafo — venditore ambulante di zolfanelli, di cravatte — entrano nel caffè e vanno il fattorino al banco a portar dispacci, il merciaio a offrir la roba agli avventori: il Cameriere lo manda via)
(Fulvio dal suo posto, al Cameriere)
Ehi là, lo fai apposta? Ora è tutto caffè...
Mettici un po' di latte...
(gesto d'impazienza del Cameriere)
Il Secolo?
CAMERIERE.
(impazientito)
Non c'è.
FULVIO.
(addita un terzo avventore)
Se ce l'ha quel signore!
CAMERIERE.
Vede ben ch'è impedito.
FULVIO.
(va all'avventore)
La scusi, con suo comodo, quando lei ha finito...
(l'altro sentendosi parlare interrompe la lettura, per rispondere, Fulvio ne approfitta per levargli gentilmente e prestamente il foglio di mano)
Grazie.
AVVENTORE.
(Stupefatto)
Perdoni, io stavo leggendo...
FULVIO.
(ritornando col giornale al suo posto)
Oh non fa niente.
Grazie. Leggo da me.
AVVENTORE.
Ti pigli un accidente!
(entrano dall'ingresso interno, che dà alla sala da bigliardo, due giovani autori, discorrendo e gesticolando tra di loro vivamente)
1.º AUTORE.
(con uno scartafaccio aperto in mano, mentre confabula con l'altro)
Credi quell'uomo è meglio levarcelo d'attorno.
Dammi retta, ammazziamolo.
(si volge, nel dir questa parola, al Cameriere che la crede a sè diretta)
CAMERIERE.
(spaurito)
Eh?
1.º AUTORE.
(al Cameriere)
Due cognac.
(agli altri presenti)
Buon giorno!
2.º AUTORE.
Bene, ammazzalo tu.
1.º AUTORE.
Non mi sento.
2.º AUTORE.
Perchè?
1.º AUTORE.
Quegli altri due assassinj gli hai già lasciati a me...
Se devo fare io tutto... tutto io...
FULVIO.
(interloquendo dal suo posto)
Tanto più quando
In galera ci è posto per tutti e due.
1.º AUTORE.
(non avendo ben inteso)
Che?... quando?
Cosa?
FULVIO.
Dicevo, quando accoppati se n'è
Già un paio, è più economico spedirne almeno tre.
(fa cenno al Cameriere di portare tre bicchierini invece di due)
1.º AUTORE.
La finisci?
FULVIO.
Ho finito.
1.º AUTORE.
(al Cameriere che ha portato tre bicchierini)
Perchè tre bicchierini?
FULVIO.
(alzandosi e prendendone uno)
È il mio. Grazie. Ehi bottega!
(accenna al Cameriere i due Autori)
Pagano i due assassini.
1.º AUTORE.
Cioè...
FULVIO.
Zitti. È qui Bardi, che ci ha da dir sincera
La sua intorno alla Lea.
(gesti vivissimi di attenzione dei due)
BARDI.
Che ho a dir? dopo ieri sera
Non giuro più di niente. Quando una porcheria
Di quella fatta il pubblico ti manda in frenesia...
C'è da perder la testa...
1.º AUTORE.
Sfido! con quel po' po'
Di claque! Saranno stati, paganti, sì e no
Duecento...
2.º AUTORE.
Ed aver faccia tosta la Direzione
Di affiggere: esauriti i palchi e le poltrone!
1.º AUTORE.
Però del resto hai visto staman la Lombardia
Come ben te lo concia?!
2.º AUTORE.
(vivamente)
Ah proprio?
1.º AUTORE.
In fede mia,
Quello sì ch'è un articolo! Te lo stronca il lavoro
In un modo! in un modo!... Leggilo. Val tant'oro.
2.º AUTORE.
Questo però non toglie che ci sarà una piena
Questa sera... vedrai...
1.º AUTORE.
Che vuoi farci? La scena
L'hanno ancora in man loro, queste mummie impagliate
Di rètori e romantici, fin quando avrem spazzate
D'Augìa le stalle e l'arte dalle loro imposture,
Del Ver noi campion giovani, con la face e la scure.
2.º AUTORE.
E dire che, se invece d'arte moderna e vera,
Noi due pur fatto avessimo un dramma di maniera,
Al posto della diagnosi del novo io femminino
Stemprando azzurro e zucchero, come questo cretino,
Vedevi che successo di repliche entusiaste...
E invece...
(sospira)
FULVIO.
(interloquendo dal proprio posto, mentre legge)
Invece furono tórsoli e mele guaste.
1.º AUTORE.
(volgendosi indispettito)
Almen noi non si ruba! E le commedie mie,
(il collega gli fa un gesto di rimostranza, ed egli corregge il mie)
Le tue, nostre...
FULVIO.
Son vostre, sebben sian porcherie.
2.º AUTORE.
Crepa.
1.º AUTORE.
Lascialo dire.
(pigliando a parte, sotto braccio, il compagno, gli dice sotto voce con aria di mistero)
Somarelli ha trovato
Un libro da cui tutto il dramma fu rubato
Di peso, tale quale...
2.º AUTORE.
(vivissimo gongolante)
Davver? L'hai letto?
1.º AUTORE.
No,
Ma doman Somarelli mel porta e te lo dò.
2.º AUTORE.
Bisogna pubblicarlo... Proprio, dici... tal quale?
1.º AUTORE.
Se ti dico... due gocciole!... Il terz'atto, il finale
I dialoghi...
2.º AUTORE.
(fregandosi le mani)
Oh bellezza!
1.º AUTORE.
Zitto, c'è qui l'Autore.
(L'Autore della Lea entra dall'ingresso che dà sulla via)
2.º AUTORE.
(guardandolo di traverso)
(Plagiario!)
AUTORE.
Buon dì a tutti.
1.º e 2.º AUTORE, BARDI.
Gloria al trionfatore!
1.º AUTORE.
(solenne e commosso va ad abbracciarlo, come se la commozione gli togliesse la parola)
Si parlava di te. Già non ti dico niente...
2.º AUTORE.
(stessa mimica)
Nemmen io. Bevi e tocca! Corpo d'un accidente!
Si chiamano, eh, successi!...
AUTORE.
Non mi lagno.
1.º AUTORE.
Davvero?
2.º AUTORE.
(offrendogli un bicchierino)
Mi devi un par di guanti. Tocca!
AUTORE.
Grazie! Sincero
Dimmi: che te ne par?
1.º AUTORE.
Non dico niente. Sei
Tu e basta. Solamente... io forse ne farei
Quattro atti e non tre soli...
AUTORE.
Eh?
1.º AUTORE.
Già. L'azion mi pare
Troppo stretta. A poterla in quattro sviluppare...
AUTORE.
Vedrò.
2.º AUTORE.
(pigliandolo sotto braccio e tirandolo da parte)
Scusa: permetti un sol parere a me?
Io già in due atti soli vorrei ridurre i tre.
Serberei la gran scena del duel — quella è arte! —
E taglierei di pianta la scena delle carte.
AUTORE.
Se al pubblico è piaciuta!
2.º AUTORE.
Piaciuta qui... ma aspetta
Che la diano a Torino... e poi mi darai retta.
AUTORE.
(volgendosi all'altro dei due autorelli)
Senti Oreste!... Merlini qui dice che la scena
Delle carte...
1.º AUTORE.
È stupenda, sicuro. Però qui, da fratello,
Io taglierei di pianta la scena del duello.
AUTORE.
(Eccomi orizzontato!) Grazie!...
(cambiando discorso)
Ed a che ne siamo
Della commedia vostra?
1.º AUTORE.
Merlini ed io ci stiamo
Dividendo il lavoro. Andiam nelle idee d'arte
Tanto d'accordo...
AUTORE.
Vedo!
1.º AUTORE.
Che ognun fa la sua parte
Quasi senza bisogno dell'altro. Scusa sai...
(lo lascia per volgersi al suo compagno)
Finiam la divisione...
AUTORE.
Oh fa pure! fai! fai!
Ohe, là, Bardi! E la prova?
BARDI.
Manca men di mezz'ora.
AUTORE.
Bravo, per quei due tagli, possiam combinar ora.
(L'autore va a sedersi al tavolino di Bardi, estrae il copione e tra di loro due vi riscontrano e segnano a matita i tagli)
1.º AUTORE.
(nel lato opposto della scena seguendo a confabular col suo compagno, sulle mosse entrambi per andarsene)
Sicchè dunque io m'incarico... dei caratteri...
2.º AUTORE.
Bene!
1.º AUTORE.
Dell'intreccio?...
2.º AUTORE.
Benissimo...
1.º AUTORE.
Del taglio delle scene?...
2.º AUTORE.
Perfettamente...
1.º AUTORE.
(un po' sorpreso guardandolo)
E... d'altro?
2.º AUTORE.
... Del dialogo se vuoi...
È un lavor materiale per me seccante...
1.º AUTORE.
E poi?
2.º AUTORE.
Quanto ai finali d'atto, sai che ho fiducia in te...
1.º AUTORE.
(sconcertato)
O allora?
2.º AUTORE.
... Tutto il resto lo lasci fare a me.
(esce precedendo il compagno)
1.º AUTORE.
Ma come?...
(va dietro al compagno)
FULVIO.
(fermandolo)
Ma è giustissimo! mi pare un patto onesto.
Tu intreccio, scene, dialoghi, finali — e lui fa il
resto.
1.º AUTORE.
Ma io...
FULVIO.
Ma tu stai zitto. E prima che tu vada,
Se prometti esser savio ti conto una sciarada.
1.º AUTORE.
Ah! ah! le tue sciarade...
FULVIO.
Stai zitto. Ce ne' ho qui
Una che non la sciogli nemmanco in cento dì.
Io Sulamita, dei canti sposa,
Vo' dei capelli primi orgogliosa:
Io son la fine: la fine è il nulla:
Io sono il tutto sin da la culla.
Chi la indovina è bravo!...
1.º AUTORE.
E s'io te la indovino?
FULVIO.
Scommettiamo.
1.º AUTORE.
Eh?
FULVIO.
Da bere — giusto ho sete.
1.º AUTORE.
Adagino.
La Sulamita biondi capei dovrebbe avere
... Il primo è biondi.
FULVIO.
(trionfante)
Bestia! hai perso.
(al Cameriere)
Ehi là! da bere.
1.º AUTORE.
(si batte la fronte correggendosi)
— Ah! il primo è fulvi... e il nulla..., la fine, è un o che è zero...
Io il tutto — tu sei Fulvio... eh già: Fulvio è l'intero.
Ah, ah!
(tutti canzonan Fulvio)
Ci siam?
FULVIO.
(sospirando)
Da bere.
(al Cameriere)
Chartreuse di quella verde...
1.º AUTORE.
Che tu...
FULVIO.
(terminandogli rapidamente la frase)
Che tu mi paghi... Scusa, chi vince perde.
Grazie! alla tua salute.
(beve)
Come presto l'hai sciolta!
(assaporando la Chartreuse)
Se vuoi scioglierne un'altra...
1.º AUTORE.
(vivissimo)
No, grazie, un'altra volta.
(scappa via)
(Tra il dialogo dei due autori, e il successivo fra Bardi e l'autor della Lea, intercede qui una piccola scena muta. Una figurina elegante di donna, apparentemente una qualche attrice, guarda dietro i vetri della porta d'ingresso; il Cameriere corre a lei, parla seco, rientra sorridendo con malizia e va a riporre nel casellario vicino al banco una lettera consegnatagli; l'altro avventore ch'era in bottega si alza, s'accosta al Cameriere e con gesti gli domanda chi è quell'attrice; saputolo, le corre dietro. Il padrone del caffè, stando al suo banco, vede che l'avventore è corso via senza pagare, ne fa cenno al Cameriere che corre al vassojo dell'avventore, verifica infatti che non c'è il danaro e corre all'avventore dietro. Ritorna di lì a un momento mortificato, con gesto espressivo accennando al padrone che non lo ha potuto raggiungere e soggiunge)
CAMERIERE.
(al padrone)
Noti trenta!
PADRONE.
(dal banco prendendo il mastro e annotando con dispetto)
Notare sempre... pagare mai!
(fra sè scrivendo nel mastro)
Trenta... e dieci di coda... quaranta! Imparerai!
(chiude il mastro dispettosamente, e va via per l'ingresso interno che mette al bigliardo)
AUTORE.
(a Bardi nel correggere assieme il manoscritto)
Così ti par che vada?
BARDI.
Sì, sì... mi par... Però
S'intende, questa parte, ricordati, io la fo...
Per favore a te solo... Queste parti, noi, vedi,
Le chiamiam con un nome... lasciamo lì... ma credi
Che se non eri tu...
AUTORE.
Ti ringrazio.
BARDI.
Vuol dire
Che vedrai nei giornali di farlo ben capire...
Non ch'io ci tenga... Ma...
AUTORE.
Sta tranquillo.
BARDI.
(consulta l'orologio)
Ora vo
Alla prova...
(s'avvia)
AUTORE.
Anch'io vengo.
FULVIO.
(che stava leggendo o scrivendo, a questo punto si alza e ferma l'autore che sta per uscire)
C'è tempo. Aspetta un po'.
Quando va questa nuova?
AUTORE.
Va sabato — speriamo.
FULVIO.
E nemmeno a me proprio ne vuoi dir nulla? Andiamo!
Via!
AUTORE.
Ma lasciami.
FULVIO.
Il tema almen. Di me
Ti puoi fidare. Dopo dirotti anche il perchè.
AUTORE.
(impazientito)
Uff! La mia Nicarete l'hai vista sulle scene?
FULVIO.
Già. Quella ch'era moglie a due mariti.
AUTORE.
Ebbene
Tu della greca tunica i personaggi spogli,
E avrai or, viceversa, marito con due mogli.
Sei contento?
FULVIO.
(passandosi la mano sul mento e riempiendo la pipa)
Eh, mi sembra, scusa se mal m'appiglio,
Che il tema abbia la barba lunghetta un mezzo miglio.
La va, capisco al modo di svolgerlo... e poi se
Il tema è vero...
AUTORE.
È storico...
FULVIO.
(incredulo)
Storico?
AUTORE.
Eh, altro che.
Ti basti che nei fogli fu raccontato un fatto
Preciso tale quale lo narro al second'atto.
FULVIO.
Ne dicon tante i fogli! E poi non è ammissibile
Che un fatto, perchè vero, debba anche esser possibile.
Esempio: io illustro l'arte: l'arte mi rende zero:
È un fatto non possibile...
(sospirando)
eppur giuro che è vero.
E vuoi...
AUTORE.
Voglio, sian temi moderni o in veste achea,
Cavarmi sempre il gusto di svolger la mia idea.
FULVIO.
Che idea?
AUTORE.
La mia idea fissa, ch'è il mio chiodo qui in testa...
FULVIO.
(Oh anch'io... per chiodi...) E in grazia che idea sarebbe?
AUTORE.
Questa:
Le leggi di natura eterne, immote, arcane
Han dritto a precedenza sovra le leggi umane:
Queste sbagliano, mutano, o di capricci gioco,
O di violenti, o furbi, o deboli, o dappoco:
Variano con le foggie de le mutanti età,
Cogli eventi, coi gusti: e il fio la società
Dei loro sbagli sconta con lagrime e con guai...
Le leggi che natura pose non sbaglian mai.
Contro di lei diritti veri non sono: ell'è
Il diritto supremo: di savii e papi, e re,
Statuti, e dogmi, e codici, ella corregge o cassa:
Se leggi a lei si oppongono... straccia le leggi e passa.
Dice la Chiesa al giovine: — Tua sposa, ecco, son io,
Affetti e corpo donami, meco t'unisci in Dio:
A me dei verdi aprili dona il fior verginale.
Tutto il resto è menzogna, è peccato mortale. —
La natura risponde: — Ma che! frottole! Io sola,
Della tua vita, o giovane, so la vera parola:
Vuoi lotte? ecco qui il campo. Vuoi luce? ecco là il vero.
Qui cadder veri mártiri: lassù splende il pensiero.
Or per le lotte attingi vigore: ecco la tazza:
La sposa che ti occorre gli è un pezzo di ragazza! —
Sta il poeta a sentire: l'estro soffia nei mantici,
Ed ecco allora scrive... il Cantico dei Cantici.
Dice la legge: — In terra tocca a chi tocca. Gli uni
Sudino e gli altri godano: quel mangi e quel digiuni:
Il mio ed il tuo gli è il dritto: nel lotto disuguale
Di miseri e gaudenti sta l'ordine sociale. —
Risponde la natura: — Frottole! ognun che nasce
Ha dritto alla sua parte di gioie dalle fasce:
Se gli altri gliela rubano, io d'infelici amori,
Io di sudor sfruttati io vendico i dolori:
Serbo supreme gioie ai vinti nell'agone,
E a furia di compensi rimetto l'equazione. —
Ode il poeta: e nascono così nel suo pensiero
Prima Luna di Miele, dopo, il Povero Piero!
Dice il codice: — Fida sia la moglie al marito:
Sia calvo o bianco il pelo, guai chi ci mette un dito:
Fedel, sin ch'egli vive, lo segua ov'ei soggiorna,
Disonor, multa e carcere castighino le corna. —
Ahi, stolto! la natura prorompe: e che t'attenti
Legare i fiori teneri a tronchi arsi e cadenti?
Non ad amplessi sterili, a carezze senili
Non io dannavo il riso dei cor primaverili.
A forti amplessi e giovani diritto ha giovin core,
Come al suo ciel la rondine, alle sue brine il fiore:
Rondine e fior non badano di tue minaccie al suono:
Se ad esse il cor ribellasi — tu danna! ed io perdono. —
Attento il vate ascolta la disputa curiosa
E torna a casa a scrivere di Menecle la sposa.
Così i lavor più varii, con gli altri che sorvolo,
Mettono capo tutti ad un concetto solo:
Dall'idea madre scendono sì come varii fili
D'una sola matassa: e per diversi stili
In un sol vero unisconsi, come diverse spume
Per diversi torrenti vannosi a unir nel fiume.
FULVIO.
E dunque, per intenderci più chiaro, la tua Lea...
AUTORE.
È un'altra applicazione di quella stessa idea.
FULVIO.
Bravo! Tò un bacio! Ah! Bravo! Tal e qual come me!
Ma che combinazione! Tal e quale!...
AUTORE.
Cioè?
FULVIO.
Trenta libretti, vedi, tengo nel mio cassetto
Coordinati tutti a un unico concetto:
La legge che a saldare i creditor fa invito
Col dritto di natura compor dell'appetito.
Così ogni atto che scrivo comprende d'ordinario
Un acconto al trattore... o un capo di vestiario.
Quando, vedi, mi occorse comprar questo paltò,
A Corradino il capo troncai per man d'Angiò:
In altri dì rischiavo restar senza merenda
E allor dritto al patibolo mandai Bice di Tenda.
Pel calzolaio ho scritto: Due morti di pugnale!
Che fa precisamente un morto per stivale.
Il guaio gli è che, i conti, quei seguono a venire
E i drammi nel cassetto...
(sospirando)
talor stanno a dormire:
Le tristi note intanto, da Oriente da Occidente
Ti piovono, ti piovono inesorabilmente,
Si incalzano, si ammucchiano, si aggruppano con arte
Ne le diverse cifre su le diverse carte...
(estrae di tasca e presenta all'altro una nota di conti in una striscia di carta lunghissima che non finisce mai di svolgersi)
E in un gran conto solo si vanno a riunire...
Come i torrenti al fiume... Prestami venti lire.
AUTORE.
(prima sconcertato, poi lo abbraccia)
Oh mio povero amico! e che vuoi far con venti
Lire sole? Ten presto... Cinquanta. T'accontenti?
FULVIO.
(baciandolo con espansione)
Sei un cuor d'oro. Grazie.
(stende la mano per prendere il denaro)
AUTORE.
S'intende. Non adesso.
FULVIO.
(sconcertato)
Eh? Quando?
AUTORE.
Appena il dramma avrà avuto successo.
FULVIO.
(con gesto e smorfia di disappunto)
Ah!
(riprendendosi e sforzandosi sorridere)
Ma non c'è alcun dubbio!... Dubbio non c'è! non c'è...
Un successone!...
AUTORE.
(con effusione stringendogli la mano)
Oh grazie! Voglio credere a te!
Posso credere?...
FULVIO.
Diamine!... ti dico... a gonfia vela...
(va via lento esitante, e ripetendo, un po' a denti stretti: a gonfia vela! fatto qualche passo ritorna verso l'autore e senza guardarlo gli stende la mano)
Senti... dammene cinque... prima ch'alzin la tela.
FINE DEL PROLOGO.
LEA
Non ci è matrimonio, non unione, non legame fra due sposi che dal giorno in cui loro nasce un figlio. Togliete il figlio, ciò che giustifica e purifica quel connubio e quel connubio di fatto è rotto. Due sposi senza figli non rappresentano che un progetto abortito. È una specie di concubinaggio con autorizzazione governativa. Non c'è famiglia dove non sono figli.
P. L. STAHL.
Quel est le père de bonsens qui voudrait marier son fils à vingt ans?
Ne connait-on pas le danger de ces unions précoces?
BALZAC.
PERSONAGGI DEL DRAMMA
- LEA.
- RICCARDO VERNEDA.
- GIACOMO VERNEDA, suo zio.
- IDA.
- PLACIDO, maestro e segretario comunale.
- PEPPINO, bambino di Ida (anni 5).
- SINDACO di Corciago.
- MARIETTA, fantesca.
- Un giardiniere o domestico.
- Operai che non parlano.
Epoca moderna. L'azione del primo atto si svolge in un'osteria di villaggio in montagna — nel secondo e nel terzo sulla riviera ligure. Dal 1.º al 2.º atto passano sei anni.
ATTO PRIMO
Stanza modesta a primo piano in un'osteria da villaggio. — Un tavolo da pranzo nel mezzo, sedie e mobiglio alquanto rustico. — Oleografie alle pareti. — Da un lato un tavolino con oggetti da ricamo, da un altro un cavalletto da pittore con suvvi una tela in corso di lavoro. — Porte ai lati verso altre stanze dell'osteria e porta comune nel fondo a sinistra. — Nel fondo, in mezzo un balcone che dà sulla campagna.
SCENA PRIMA.
Zio GIACOMO, PLACIDO, un momento MARIETTA.
PLACIDO.
(per di dentro)
Per di qua, signor cavaliere...
GIACOMO.
(affacciandosi all'ingresso seguito da Placido)
Qui stanno?
PLACIDO.
Sissignore. Questa sarebbe la sala comune dell'albergo; ma non ci sono altri che loro — e siccome è la più bella, vi passano il dì...
GIACOMO.
(guardandosi attorno per la stanza)
Eccoci dunque finalmente nel nido delle due tortorelle... Cerca e cerca, tortorelline mie, vi ho snidato...
PLACIDO.
Questa osteria ella saprà che si chiama la Madonna della Neve; perchè la Vergine Santissima fece qui presso una apparizione e nella neve lasciò l'impronta dei piedi. Abbiamo anche una cappella dedicata a lei da uno del paese che fu soldato in Russia con Napoleone I, e fu al passaggio della Beresina, dove pigliò del freddo, e il freddo gli portò via le due gambe e le due orecchie... Sicchè al ritorno fabbricò alla Madonna una cappella votiva per ringraziarla...
GIACOMO.
Di avergli fatto perdere orecchie e gambe...
PLACIDO.
No, di avergli risparmiato il naso. Se il signore vuol visitarla...
GIACOMO.
No, no, grazie, più tardi. Dite piuttosto: nessuno è venuto prima di me oggi a cercar dei due giovani?
PLACIDO.
Nossignore.
GIACOMO.
Meno male... (Arriverà forse domani...) Da quanto tempo i due ragazzi son qui?
PLACIDO.
Da tre mesi. Si vede che sono sposini di fresco e passano qui la luna di miele. Giocano fra loro: un po' lei ricama, lui dipinge: quel quadro lì è dello sposo...
GIACOMO.
(osservando la tela)
Ah! la fuga in Egitto! (Bravi, bravi! San Giuseppe mi sentirà!)
PLACIDO.
Poi fanno delle lunghe passeggiate. Abbiamo infatti dei dintorni magnifici. Un panorama del lago e della valle stupendo! la vera poesia della natura!... Il mio collega segretario comunale che l'ha diretta a me, le avrà anche detto che io sono un po' poeta... Anche il signore deve esserlo... Se avrà tempo potrò mostrarle...
GIACOMO.
Grazie. Un'altra volta. Staran molto a tornare?...
PLACIDO.
Sono usciti a passeggio in montagna. Mi ero offerto accompagnarli, spiegar loro le bellezze... han preferito andar soli...
GIACOMO.
Capisco... Se sapessi da che parte sono andati...
PLACIDO.
(chiamando)
Neh, Marietta!... da che parte hanno preso i due forestieri?...
MARIETTA.
(affacciandosi da una porta laterale)
Verso Ghevio...
GIACOMO.
È lontano?...
PLACIDO.
Non tanto. Ma la potrebbe cogliere la pioggia per istrada...
GIACOMO.
(osservando fuori dal balcone)
Eh, ora non pare...
PLACIDO.
Gli è che abbiam da qualche giorno tempo instabile. (con fare d'importanza) Abbiamo delle grandi depressioni barometriche: dei ciclóni attraversano l'Atlantico, in direzione sud sud-est. Il mio collega le avrà detto che io sono anche un po' fisico e astronomo...
GIACOMO.
Ah!...
PLACIDO.
A meno che... (guardando fuori dal balcone) Oh aspetti... Passa lo speziale. (va dal balcone all'uscio da cui si è affacciata Marietta) Neh, Marietta, corri un po' a vedere il naso dello speziale... passa ora...
MARIETTA.
Ora vado...
GIACOMO.
O che c'entra lo speziale col suo naso?
PLACIDO.
Ah, il signore si vede che non è del paese. Noi abbiamo il naso dello speziale che serve all'uso pubblico. È il barometro del comune. Le nostre donne, prima di mettersi in via per andar lontano al mercato, lo consultano. Quando vuol fare cattivo tempo, il sangue risalendo alla fronte nella regione parietale superiore, il naso diventa smorto. Quando il tempo si mette al secco e al sereno, il sangue discende nei lobi inferiori e il naso dello speziale è più rosso di un garofano di quei rossi. Effetto del circolo del sangue. Il mio collega segretario le avrà detto che...
GIACOMO.
(prevenendolo)
... che lei è anche un po' medico. Ho capito.
MARIETTA.
(parlando dalla strada)
Neh, signor Placido?...
PLACIDO.
(affacciandosi al balcone)
E così?...
MARIETTA.
(come sopra)
Lo speziale ci ha il naso smorto... ci ha... (gettando un grido) Ahi!... Ahi!...
(Voce d'uomo irritato, dalla via)
Te lo darò io il naso smorto, brutta sfacciata!...
GIACOMO.
Eh, non pare che il vostro barometro sia molto contento di funzionare...
PLACIDO.
Ah già, si altera un po'... Io lo faccio apposta... Ha combattuto in consiglio il mio aumento di stipendio... e, a sentirlo, pretende di saperne più di me, che sono il segretario e il maestro del comune. Già, qui tutti, compreso il sindaco, pretendono di saperne... E se vedesse che zucche!... Intanto la consiglio a non uscire...
GIACOMO.
E allora, per guadagnar tempo, prenderei qualche cosa. Sono digiuno da stamane. Se volete fermarvi a mangiar due bocconi con me, senza complimenti...
PLACIDO.
(cerimonioso)
Troppo onore, signor cavaliere!
GIACOMO.
Ma che onore d'Egitto! andiamo! Non siete il segretario comunale?
PLACIDO.
E il maestro, per giunta! Due sacerdozii!... Due volte sacerdote! E sto peggio del sacrestano! Il signore avrà visto il mio nome nella petizione dei segretarii al Parlamento... Se vuol gradirne una copia...
GIACOMO.
Grazie. Ce l'ho.
PLACIDO.
Già, in gran parte l'ho redatta io. Eh, se non ci fossi io... Anche qui, faccio io tutto... Il sindaco è un ignorante presuntuoso... (guardando fuori) Oh, eccolo che rientra. (È la volta che lo mortifico!) Signor sindaco! Signor sindaco!...
GIACOMO.
Qui lo chiamate?...
PLACIDO.
Il sindaco è l'oste padrone di quest'osteria...
GIACOMO.
Ah!
SCENA II.
DETTI e il SINDACO.
SINDACO.
(affacciandosi)
Eccomi.
PLACIDO.
Signor sindaco, le ho condotto il signor cavaliere che viene a far visita ai due sposini qui d'alloggio... e desidera una stanza...
GIACOMO.
Per l'appunto.
SINDACO.
(inchinandosi e sberrettandosi)
Signor cavaliere!...
PLACIDO.
Intanto amerebbe mangiar qualche cosa...
SINDACO.
Vuol restar servito abbasso?
GIACOMO.
No, no, anche qui. Serviteci pur qui.
PLACIDO.
(al Sindaco, con sussiego, ripetendo)
Ha inteso, signor Sindaco? La ci serva pur qui.
SINDACO.
(rivolto allo zio Giacomo, senza badare alle parole di Placido)
Il signore pranza con un suo amico?... (durante il battibecco che segue fra sindaco e segretario, Giacomo osserva in giro per la stanza, esamina il quadro)
PLACIDO.
(c. s.)
Con me. Con me. Il signor cavaliere mi ha fatto l'onore di invitarmi... La ci serva (appoggia di nuovo con intenzione sulla parola) pur qui, signor sindaco...
SINDACO.
(ironico, a voce alta)
Non dubiti, signor segretario!... (a denti stretti) (Te la darò io...) (esce gettando occhiataccie al segretario)
SCENA III.
DETTI, meno il SINDACO.
GIACOMO.
Eh? Si direbbe che tra sindaco e segretario non andiate in tenerezze!... (E quei due signorini si fanno attendere...)
PLACIDO.
Le dirò... il sindaco non vuole mandar giù che io ne sappia più di lui... E noti, quando gli occorre di far bella figura, ricorre a me. Un mese fa era la festa dei due sposini che stan qui da lui...
GIACOMO.
Ah sì?...
PLACIDO.
Il dì della sposa. E per tenerseli dacconto, lui ha fatto venire la Giunta in corpo a portare gli augurj. Si intende, li ho dovuti far io... (declamando con enfasi)
In un giorno sì dolce e sì bello
Che d'Imene v'allieta l'ostello,
Io, sebben comunal segretario,
Sciolgo un canto non certo ordinario,
Per offrirvi gli omaggi del cor
Della Giunta coi proprj assessor!...
Io sebben....
GIACOMO.
(vivamente arrestandolo)
Basta, basta. C'è del Parini.
PLACIDO.
(inchinandosi)
Troppa bontà!
SCENA IV.
DETTI e il SINDACO.
(Il Sindaco rientra colle stoviglie e prepara la tavola alla lesta, dando occhiataccie al segretario. Dispone sulla tavola intanto pane, salame, dei peperoni e delle mele)
PLACIDO.
Oh così va bene! Il signor cavaliere qui ha fame... Ci serva presto, veda di far presto, signor sindaco...
SINDACO.
A lei... (nel porgergli un piatto cava di sotto l'ascella un grosso pacco di carte e glie lo butta sul piatto)
PLACIDO.
(sconcertato)
Cos'è?...
SINDACO.
Il verbale dell'ultima seduta di consiglio. Favorisca per la prefettura di farmene due copie.
PLACIDO.
Eh?
SINDACO.
(rifacendogli colla voce il verso)
E me le dia presto... Veda di far presto, signor segretario...
PLACIDO.
(a denti stretti)
Va bene... un momento...
SINDACO.
Ma il signor prefetto non può aspettare, e io come sindaco non lo posso permettere. Qui (accenna a un tavolino lì presso) c'è penna e calamaio. Il signore scuserà... Prima il dovere...
GIACOMO.
Ah già... il dovere. Intanto, comincierò a mangiar io. Eh? Ci avreste (al Sindaco) delle uova?...
SINDACO.
Ma subito...
PLACIDO.
(nel mettersi a scrivere, irritato)
E che non siano stantìe, mal cucinate come al solito...
SINDACO.
(canzonatorio rimbeccandolo)
E che le copie come al solito non sian piene di spropositi... (guardando fuori) Oh, signor cavaliere, vedo laggiù in fondo i miei due sposini che arrivano...
GIACOMO.
(balzando in piedi)
Di già? Allora, brav'uomo, se non vi increscesse andar di là a finire le vostre copie...
SINDACO.
Il signore dice benissimo... di là potrà lavorar più raccolto... (Placido si alza mangiandolo degli occhi)
GIACOMO.
Ma ora che ci penso, se m'arrabbio adesso subito, addio il desinare. E poi se stessi prima un po' a vedere come se la fanno... Sicuro!... (al sindaco) Dica un po', per non farmi veder subito, mi potrebbe servire in una stanza qui attigua...
SINDACO.
Come desidera...
GIACOMO.
Allora... presto...
PLACIDO.
(al Sindaco)
Disparecchi, disparecchi.
SINDACO.
(a Placido)
Copii, copii.
GIACOMO.
(dal balcone)
Vengono. Via, via. Lasci quel che resta. Ov'è la stanza?
SINDACO.
Di qui...
GIACOMO.
Mi raccomando... non dir nulla...
(Giacomo esce: dietro a lui, pur seguitando a bisticciarsi e ripetendosi ironicamente l'uno Disparecchi! e l'altro: Copii! escono anche Placido e il Sindaco)
SCENA V.
LEA e RICCARDO.
(Lea entra correndo con piccoli trilli allegri e va a rimpiattarsi dietro un mobile, come giocando a mosca cieca. Riccardo entra correndo dietro di lei e la vien cercando per gli angoli della stanza. Entrambi han l'aria di due ragazzi. Quando Riccardo è presso a Lea rimpiattata e sta per coglierla, questa lo previene e scappa fuori rimettendosi a correre).
RICCARDO.
(inseguendola per la stanza)
Ah, birichina!... (si rincorrono intorno al tavolo non ancora interamente sparecchiato. Riccardo ad un tratto si ferma) Tò! qui qualcuno ha mangiato...
LEA.
(fermandosi a sua volta e cogliendo di sul tavolo una mela)
Oh la bella mela!...
RICCARDO.
Me ne dai un po'...
LEA.
(ne taglia una metà e la tiene sospesa fra le dita)
Vieni a prenderla... (quand'egli s'avvicina per prenderla, fa finta di dargliela, poi se la mangia e scappa ridendo)
RICCARDO.
Ah sì? aspetta!... (la rincorre di nuovo. Lea nel fuggirgli rovescia il cavalletto su cui è la tela) Tò! guarda cos'hai fatto!... (corre a raccogliere da terra il quadro) La mia fuga d'Egitto!...
LEA.
(con fare fanciullesco)
Che ho fatto?...
RICCARDO.
(rimettendo a posto la tela)
Hai rovinato le orecchie al ciuco! Povero ciuco!
LEA.
Bene. Le orecchie ce le aggiusterai. Tanto, per ciuco, le eran corte. Gliene farai un bel paio più lunghe. E alla Madonna, se vuoi che mi somigli, i capelli ce li hai a far più biondi... (Riccardo dà due o tre ritocchi di pennello alla tela: Lea gli toglie il pennello di mano) Ma lascia lì adesso... a lavorare ci hai tempo...
RICCARDO.
Tempo... quando?
LEA.
Quando sarem poveretti...
RICCARDO.
E allora?...
LEA.
Allora... allora... (resta lì perplessa, pensierosa poi dà una crollata di spalle. Riccardo si è fatto pensieroso e un po' triste: Lea gli si appressa carezzevole) Per ora non sono io il tuo... più bel quadro?...
RICCARDO.
(guardandola affettuoso)
Lea!
LEA.
Non è di me sola che devi ora occuparti?...
RICCARDO.
E il parroco che aspetta il quadro da un mese...
LEA.
Che aspetti! Così l'asino avrà tutto il tempo di andar in Egitto, e di tornare.
RICCARDO.
E di star via tutto il tempo che i tuoi continuano a star in collera... (i due si sforzano di essere allegri, ma di un'allegria che vorrebbe cacciare qualche pensiero triste)
LEA.
(guardando innanzi a sè, cogitabonda)
Ebbene... se io per te ho lasciato i miei... — la mia mamma!... — anche tu a me puoi sacrificar qualche cosa...
RICCARDO.
(andando a lei affettuoso)
Hai ragione. Perdonami, Lea! Dammi un bacio.
LEA.
(volgendogli vivamente il capo, poi mutando bruscamente pensiero)
No. (va a sedersi al suo tavolino da ricamo e vi appoggia il gomito. Riccardo ve la segue)
RICCARDO.
Lea...
LEA.
(cogitabonda)
Che ora è?
RICCARDO.
Le cinque.
LEA.
A quest'ora andavo con la mamma al Pincio. Che starà facendo adesso?... Povera mamma!... Come fui cattiva!...
RICCARDO.
Lea!...
LEA.
Va là, va là, che l'abbiam fatta grossa... Scommetto che ora sta pensando a me... alla sua ingrata figlia fuggita... Ma quando papà si sia placato... andremo a trovarla, n'è vero? a domandarle perdono?...
RICCARDO.
Sicuro!...
LEA.
Tutti i giorni, vedi, questo pensiero mi torna. Se non avessi questa speranza, guai!... La mamma è tanto buona... e mi voleva un bene...
RICCARDO.
Com'è che non t'ha risposto?...
LEA.
Papà gliel'avrà proibito, o avrà intercettato la mia lettera... Oh, ma il giorno che a lui sarà passata la collera, e noi alla mamma potremo dire: Benedici i tuoi due figli che ti compenseranno con tante gioie il dolore... come sarò felice quel giorno... (si rasciuga le lagrime) quel giorno...
RICCARDO.
(con malumore)
E adesso piangi!... brava!... Grazie!
LEA.
No, no... (rasciugandosi gli occhi) purchè tu mi ami. Guai se non avessi te. (con affettuosità nervosa) Voglimi bene, Riccardo! Ora non ho che te! Mi vorrai bene sempre... proprio sempre?
RICCARDO.
Ma sempre... ma sempre!... cattiva!... (l'abbraccia e restano abbracciati)
LEA.
Me lo giuri... su questa medaglia della mamma...
RICCARDO.
Te lo giuro... idolo mio!... ma non ti voglio più veder piangere... (ribaciandola) E al diavolo ora le malinconie! Il parroco aspetterà...
LEA.
Sì, sì, lascialo aspettare... (sempre restando abbracciata seco, la testa sulla spalla di lui)
RICCARDO.
(rivolto al quadro)
E tu intanto resta lì con le orecchie mozze...
SCENA VI.
DETTI e Zio GIACOMO.
(S'è affacciato, non visto, dalla porta laterale, con lo stuzzicadenti in bocca).
GIACOMO.
(avanzandosi verso il quadro)
Sì, sì, restaci pure... Anche colle orecchie mozze, povero asino, avrai sempre più giudizio e più cuore di chi te le ha dipinte...
RICCARDO.
(attonito)
Zio Giacomo!... (rinvenuto dalla sorpresa corre ad abbracciarlo — l'altro lo arresta, con far brusco, del gesto della mano)
GIACOMO.
Già... proprio lui... zio Giacomo... Bravi! Bravi! Ci divertiamo in campagna, a quanto pare!... Gran bella cosa la campagna!... (con far canzonatorio) Il lago al chiaro di luna, la collina, le macchie verdi, gli usignuoli, i merli...
RICCARDO.
Zio!...
GIACOMO.
(rinforzando)
... i merli che zufolano... i grilli che cantano... le anime che si baciano... Che poesia!... Signorina, ho nuove di sua mamma...
LEA.
(vivissima)
Oh la mamma!... (resta interdetta, confusa)
GIACOMO.
Lei vorrebbe chiedermele, e non osa. Capisco. Gliene darò io. È stata poco bene...
LEA.
(sgomenta)
Dio mio!...
GIACOMO.
Ella non presumeva, fuggendole, di averle fatto un complimento... (Lea nasconde la faccia)
LEA.
(con trepidanza)
E... e... mi ha... perdonato?...
GIACOMO.
Bella novità! per che cosa ci sarebbero le mamme se non fossero fatte apposta per perdonare!... Per questo le loro creature ne abusano... Peccato che i padri non sempre siano della stessa pasta...
LEA.
Ah! il papà!...
GIACOMO.
Già, peccato ci siano dei papà intrattabili che non si rassegnano a vedersi dai monelli di scuola (gesto vivo di Riccardo, lo zio ribadisce la parola)... dai monelli di scuola rubar le figliole!...
LEA.
Per pietà, signore, mi dica tutto...
GIACOMO.
Calma, calma, signorina... (Riccardo lo guarda) ah già! mi sbagliavo! Signora... (alza gli occhi esclamando) a sedici anni!... Creda a me, non è il momento di inquietarsi... Era forse da pensarci un po' prima. Intanto, se permettesse, avrei da dire quattro paroline, a quattr'occhi... a mio nipote...
LEA.
(interroga inquieta dello sguardo Riccardo)
Riccardo! (Dio mio!... Tremo tutta!...)
RICCARDO.
Lea, aspettami di là. (le si appressa) Animo... vedrai non è nulla... Mio zio è rustico... ma buono...
LEA.
(lentamente, a capo chino, accomiatandosi)
Signore!... (esce)
GIACOMO.
(seguendola dell'occhio)
Povera ragazza!...
RICCARDO.
Sono ai tuoi ordini, caro zio!...
SCENA VII.
Zio GIACOMO e RICCARDO.
GIACOMO.
(si siede a un lato del tavolo in mezzo, tossisce, spiega il fazzoletto, soffia il naso, prende tabacco, ripone la tabacchiera)
RICCARDO.
(vedendo quei preparativi)
Ahi! cattivo esordio!...
GIACOMO.
Primo di tutto, caro nipote, non t'aspettavi, nevvero? alla dolce sorpresa di vedermi? Ma io ci tengo a fartela completa, e ti porto l'attestato dei tuoi studii di quest'anno. Quei pedanti di professori vanno all'antica, e tu, per loro, sei un genio moderno incompreso. Col pretesto che agli esami non ne hai azzeccata una... (gli porge il foglio) guarda qui, t'hanno bocciato! (Riccardo prende il foglio mortificato) Consolati!... hanno bocciato anche Dante!... Ma lui ha fatto la commedia... e anche tu ne stai facendo qui una...
RICCARDO.
Zio!... ma io...
GIACOMO.
(interrompendolo)
Ma tu la chiami un'ingiustizia. D'accordo. E poi tu vai col progresso. In illo tempore, vedi, un ragazzo di diciott'anni bocciato agli esami, ripeteva prosaicamente la classe... Adesso invece si butta poeticamente all'artista... o, per consolarsi, rapisce una ragazza da marito. Eh quante cose fanno ora i ragazzi alla tua età! E tutte in una volta! Giuocano, ballano, mangiano l'erre, cacciano piccioni, stampano elzeviri, imbrattan tele, si spelano in duello, pubblican verbali, seducono fanciulle, le piantano se povere, le sfregiano se infide, le rubano se ricche, citano Schopenhauer, fanno dell'alta critica, dell'alta politica, e, a tempo avanzato, dei grassi sposalizi... Fuorchè studiare sul serio, un po' di tutto fanno!...
RICCARDO.
Ma zio, tu non sai...
GIACOMO.
Se ti dico che so! L'arte è lunga, la vita è breve, e i genii pari tuoi amano scorciar la strada dell'arte e della fortuna: allora ci si fa accogliere in una famiglia di alto e ricco casato, dove ci sia una giovanetta che legga romanzi, studii le lingue e il pianoforte: le si scalda la testa con le romanticherie: un bel dì si scappa insieme, e si scrive dal nascondiglio ai genitori della rapita, obbligandoli garbatamente a scegliere tra il disonore della fanciulla e del nome, o il consenso al matrimonio per riparare allo scandalo. Poi si passa nascosti la luna di miele ad attendere che, placate le ire, dietro al consenso venga la dote alla sposa, e magari, anche, n'è vero? un congruo assegnamento allo sposo; perchè un genero dei duchi di Bajamonte, per quanto genero per forza, non è decoroso che campi di lavoro come un bipede qualunque... (passando bruscamente dall'ironico al serio) E di' un po', per l'onor dei Verneda di cui tu ed io portiamo il nome, mi fai adesso il famoso piacere di diventare almeno un pochino rosso di vergogna?...
RICCARDO.
Zio!...
GIACOMO.
(rinforzando, senza dargli tempo a parlare)
No, no, non basta. Non sei rosso abbastanza. Come questo peperone (piglia un peperone rosso dai piatti del dessert rimasti sul tavolo) come questo peperone, ti voglio! Così va bene.
RICCARDO.
Finora hai parlato sempre tu... ma sei ingiusto. Perchè nel mio amore per Lea non entrò mai pensiero sordido di interesse. Che colpa n'ho io se i suoi son ricchi e patrizi? Io non ci pensai, quando ci amammo. Niente di più schietto del nostro amore. Fu una fiamma improvvisa, sublime, che ci travolse entrambi, che unì le anime nostre, i nostri corpi, prima di unirci in faccia alla legge. Liberamente Lea si è data a me per tutta la vita; liberamente a questo amore ho legato il destino di tutta la mia...
GIACOMO.
Fino alla tomba...
RICCARDO.
Sicuro... anzi...
GIACOMO.
(con vivacità beffarda)
Anche più in là?... Bravo! Diffatti, trattandosi di amor sublime,... il bello tra marito e moglie, è amarsi dopo morti!... Tanti mariti volentieri comincerebbero da qui... Però la scadenza essendo sì lunga, ci avrai naturalmente riflettuto ben prima...
RICCARDO.
S'intende...
GIACOMO.
Come me. Anch'io vedi, m'innamorai giovanissimo. E amore, di quel fino! la ragazza era povera, avevo fatto per lei pazzie più di te, perchè nello andare a trovarla, invece di passar dal portinaio, qualche volta passavo dalla finestra,... per non incontrar obbligazioni coi parenti. Quando parlai di sposarla, mio padre, in anticipazione di assegno, mi regalò... due sonori scappellotti e mi mandò a Pisa a finir gli studi. Lei giurò sulla tomba di sua madre di aspettarmi tutto l'anno, io, su quella di mio nonno, di morire se la mi mancava di parola. Al ritorno la trovo fidanzata di un altro: le ricordo la promessa e la mi ride sul muso. Per istare in carattere, io dovevo ammazzarmi... ma... era una così bella giornata! i cespugli verdeggiavano, le acacie erano in fiore... uscii a prendere una boccata d'aria!... Di lì a un anno... mi innamoravo come un gatto di quella santa di tua zia. Oggi la mia prima fiamma è sposa felice di un barone che ha nel suo stemma, oltre la sua, le sette corone di Ottone Visconti: e io,... io benedico i paterni scappellotti, perchè, senza di essi, a quest'ora, tutte quelle corone sarebbero mie, e per uno stupido sproposito sull'alba della vita non avrei conosciuto neppur una delle sante gioie, che adesso sul tramonto me la fanno benedire!...
RICCARDO.
E con la mia Lea tutto questo che c'entra?... che vuol dire?
GIACOMO.
(annasando una presa)
Vuol dire — ecco — che la cresima di mio padre, se ti coglievo prima delle nozze, parola di onore, te la davo io; perchè se il chiedere giuramenti alle ragazze di sedici anni è una pazzia, il consegnarli alla legge per tutta la vita, è un delitto...
RICCARDO.
Zio!...
GIACOMO.
(rinforzando)
... un delitto... e l'esporsi al rischio di porre al mondo infelici ne è un altro: poichè la natura, signorino mio, non vuol violenze, e come le nozze di consanguinei, castiga le nozze di adolescenti; e quando il fisico non ha raggiunto il suo sviluppo, quando non si ha ancora (lo piglia per il petto) un torace di misura da passar la rassegna di leva, e si rischia di dar la vita a dei rachitici, signorino mio, non si va dal sindaco!... (guardandogli lo stomaco) Neanche sessanta centimetri! (con gesto comico) Provati a darmi dei nipoti, e poi vedi!...
RICCARDO.
(raumiliato)
Proverò...
GIACOMO.
(fermandosi di botto e guardandolo)
Sai perchè son venuto?
RICCARDO.
Per strapazzarmi... e per darmi del denaro...
GIACOMO.
Vieni qua...
RICCARDO.
(Vuol esser cattivo, non ci riesce...) (s'avvicina allo zio)
GIACOMO.
(con voce bassa alquanto mitigata)
Sei in rotta ancora coi parenti di Lea?...
RICCARDO.
Lo sai bene. Sai che suo padre...
GIACOMO.
Dopo il ratto, ha voluto le nozze, per salvar l'onore; ma ha giurato che in casa sua non metterai mai piede. Speriamo, perchè è di sangue vendicativo, che si limiti lì. Bisognerà dunque prepararsi a lasciar Lea per un po'... e prepararla...
RICCARDO.
Ah?... che! mai!...
GIACOMO.
Non c'è nè mai nè che! Bisognerà ti prepari a lasciare andar Lea. Io ora non le ho voluto dir tutto. Sua madre è a Nizza... molto aggravata; ha desiderato veder la figliuola... Un messo della famiglia, credo, fu spedito a prenderla con una lettera per lei... Dev'essere qui oggi o domani... Sono venuto avanti apposta...
RICCARDO.
Dio mio!... ma è impossibile!... Io non la posso lasciare andar sola!... Se suo padre la rià, non la lascia più tornare...
GIACOMO.
E se suo padre venisse qui lui, in persona, ci vorresti andar insieme?... Lasciati da lui vedere... e stai fresco...
RICCARDO.
(con risolutezza)
E allora io piuttosto...
GIACOMO.
(senza lasciarlo finire)
Tu piuttosto, dopo aver avuto il coraggio di rapire a una madre la figliuola, avresti anche quello di negargliene i baci nell'ora della morte... Adesso stai per farmene dire una grossa... (voce di Lea allegra, vivissima dall'interno che chiama Riccardo)
SCENA VIII.
DETTI e LEA.
LEA.
(di dentro)
Riccardo!... Riccardo!... (entra festosa gridando con una lettera ancor chiusa in mano e agitandola con gioia per aria) Una lettera della mamma!... Una lettera della mamma!... l'ha portata un messo ora!... Cara mamma!... volevo ben dire!...
RICCARDO.
Lea!... (costernato, imbarazzatissimo, fa per toglierle istintivamente la lettera di mano) Da' qua.
LEA.
(ingannandosi sul suo pensiero, sempre allegra)
Vuoi leggerla insieme?... Perchè mi guardi?... No, no, prima leggo io... Curiosone!... (bacia la soprascritta prima di aprirla) Curiosone!... (apre e legge le prime righe) Cielo... mio padre?... in paese... qui... a prendermi?... (scorre con ansia il rimanente e dà in un grido acutissimo) Ah!... mia mamma!... la mia povera mamma!... (Riccardo che le è già dietro l'ha abbracciata, la sorregge; Lea continua piangendo, contorcendosi) Mia mamma muore!... voglio vedere la mamma!...
RICCARDO.
(tenendola abbracciata)
No... no... sentimi, Lea,... mia adorata Lea...
LEA.
(divincolandosi in pianto)
La mamma muore... No, no... voglio vedere la mamma!... voglio vedere la mamma!... (scioltasi a forza dall'abbraccio di Riccardo corre verso l'uscio)
RICCARDO.
(correndole dietro mentr'ella si è già slanciata fuori)
No... no... Lea... fermati.... ti scongiuro... senti... non voglio...
GIACOMO.
(sbarrandogli risoluto sull'uscio il passo, fissandolo severissimo, le braccia incrociate sul petto)
Cosa... non vuoi?... (Riccardo china la testa sotto lo sguardo dello zio)
(Quadro — Cala la tela.)
FINE DELL'ATTO PRIMO.
ATTO SECONDO
Parco o giardino in riviera. A sinistra una macchia folta. A destra l'ingresso di un villino di cui appare la facciata, alta di alcuni gradini di marmo. Lungo il viale o sentiero verde che a sinistra vi conduce son disposti sedili di marmo o di legno rustici e colonnine sormontate da busti in marmo di donne. Si fanno nel giardino preparativi di festa. Alcuni operai attendono a disporre festoni e lampioncini sotto la direzione di Placido.
SCENA PRIMA.
PLACIDO, PEPPINO, Operai che non parlano, occupati nei preparativi.
PLACIDO.
(dando degli ordini e sorvegliando i preparativi, mentre il piccino gira di qua e di là per suo conto giuocando e disturbando i lavori)
Più in qua i lampioncini!... qui un festone, dei fiori!... via questa roba!... lesti! Peppino, stai cheto! (Peppino giuoca con un lampioncino) lascia stare!... dà qua!.. Hai finito di studiare?... La sai?...
PEPPINO.
Sì, che la so...
PLACIDO.
Guarda che se non la sai e non la dici bene, papà non ti compra il cavallino...
PEPPINO.
E se la dico bene?
PLACIDO.
Te ne comprerà due. O sentiamo un po'. Dilla su... ma adagio... (suggerendo) Cara mamma...
PEPPINO.
(facendo le bizze)
Non la voglio dire adesso... non la voglio...
PLACIDO.
Non vuoi?...
PEPPINO.
No.
PLACIDO.
Glielo dico a papà, sai. Da bravo! Ti do un chicco. Cara mamma...
PEPPINO.
(recitando con poca voglia)
Cara mamma, in questo giorno... (si ferma)
PLACIDO.
Avanti... Di letizia e fio...
PEPPINO.
... e fiori adorno...
Che benigno il ciel ti diè... ti diè... ti diè...
PLACIDO.
... ti diè... Via dunque... su. (Peppino tace e si gratta in testa: Placido segue a suggerire) Ridon l'onde e la collina...
PEPPINO.
... e la collina...
PLACIDO.
Ma vedi che non la sai ancora!... Uff! che pazienza!... avanti...
Ed il cantico a Lucina
Cede Apollo anche per me.
PEPPINO.
Ed il cantico in cucina
C'è del pollo anche per me.
Ed io lo mangio.
PLACIDO.
(dando uno sbalzo)
Ma che pollo! ma che pollo d'Egitto! mi fai disperare, marmottina!...
PEPPINO.
(bizzoso)
Marmottina te.
PLACIDO.
Te lo do io adesso il pollo, se non dici giusto...
PEPPINO.
O m'hai detto te che c'è il pollo! E io lo mangio.
PLACIDO.
(minacciandolo)
Guarda, Peppino...
PEPPINO.
(sempre più imbizzito)
E io non la dico più!
PLACIDO.
Peppino!... Uff! ci vuol tutta la mia autorità!
PEPPINO.
No, no, più più... (pestando i piedi)
PLACIDO.
Aspetta me...
PEPPINO.
Più, più... (fugge e il maestro lo rincorre, e correndo dà di petto in Giacomo che entra, avendo una valigia a mano. Peppino che scappa gli sgattajola fra le gambe)
SCENA II.
Zio GIACOMO e PLACIDO.
GIACOMO.
(entrando urtato dal maestro)
Ehi là... adagio... di grazia...
PLACIDO.
Oh signore... scusi... Lei cerca?
GIACOMO.
Mio nipote... Riccardo Verneda... cerco.
PLACIDO.
(ravvisandolo)
Ah... ma allora lei... è il signor cavalier Giacomo!... Sicuro!... Perdoni. Non l'avevo riconosciuto. Oh che fortuna rivederla... Signor cavaliere... dia qua! dia qua! (gli toglie premuroso la valigia e la depone sopra un sedile) che fortuna!...
GIACOMO.
Ma... e lei... di grazia?...
PLACIDO.
Come? non mi riconosce?
GIACOMO.
Sì... mi pare... ma non saprei...
PLACIDO.
Eh già, dopo tanto tempo! L'ala del tempo! dicevano gli antichi. Non si ricorda del maestro segretario comunale di Corciago?... di quella sera che lei capitò su in montagna... al villaggio... saran sett'anni... all'osteria della Madonna della Neve...
GIACOMO.
Ah, sì, mi ricordo! To' to'! siete voi? Come fate ad esser qui?...
PLACIDO.
Vicende umane! vicende umane! signor cavaliere! La nuova legge comunale è venuta... (sospirando con gravità) ma il miglioramento dei segretari non è venuto. Sono ancora poveri martiri dell'intelligenza, in balia di sindaci ignoranti ed arroganti. La mia dignità di sacerdote della scienza si ribellava a quello zotico di sindaco albergatore. Abbiam rassegnato le nostre dimissioni al Consiglio... e, non faccio per dire, il Consiglio comunale comprese l'alta gravità de' miei motivi e mi fece una di quelle dimostrazioni...
GIACOMO.
Le ha accettate?
PLACIDO.
(con energia)
Alla unanimità.
GIACOMO.
I miei rallegramenti. (gli stringe la mano)
PLACIDO.
Allora mi ricordai del signor Riccardo, ch'era stato assai buono con me in quei tre mesi e — in attesa di meglio — lui mi chiamò presso di sè a fare da maestro al suo bambino...
GIACOMO.
Quell'angioletto che dianzi scappava è il figlio di Riccardo?...
PLACIDO.
Precisamente. Angioletto ella lo chiama! Se non ci fossi io a tenerlo in riga! Fortuna che di me ha soggezione... Ma l'altro ieri mi ha tirato una pedata... e se non era...
GIACOMO.
(guardandolo sorridente)
... che gli incutete soggezione...
PLACIDO.
... già... a momenti me ne tirava un'altra.
GIACOMO.
Meno male. E dite un po': la mamma del bambino?
PLACIDO.
La signora Ida... la seconda moglie... Già, lei sarà al fatto di tutto.
GIACOMO.
Cioè... sì e no. Sapevo di un secondo matrimonio... e niente più... Sono sei anni che viaggio all'estero, e appena ieri sbarcato a Genova, trovo la lettera di mio nipote che mi dà il ben tornato, annunziandomi il suo soggiorno nella Riviera, e invitandomi alla festa sua...
PLACIDO.
Già... la festa della sua signora... Oggi è l'onomastico e compion sei anni dal matrimonio. Si sono sposati compiuto l'anno dalla morte di quella poveretta...
GIACOMO.
Povera Lea!... Com'è finita?
PLACIDO.
Eh, il suo Riccardo non l'ha potuta veder più, perchè, mórtale appena la mamma, il duca padre, che da un pezzo meditava il castigo, l'ha tenuta presso di sè come in carcere: e un bel dì, con l'aiuto di alte influenze e di preti, l'ha fatta scomparire in un convento all'estero... fin laggiù nella Spagna. Per quante ricerche e ricorsi alle autorità, non s'è mai potuto saper dove, finchè, a troncare le ricerche, un bel giorno dall'ambasciata pervenne al signor Riccardo un certificato di morte...
GIACOMO.
Su cui si vede che ha pianto assai...
PLACIDO.
Però della morta se ne ricorda... Guardi qui. (gli mostra il busto di Lea fra due altri)
GIACOMO.
(appressandosi al busto)
Ah! il busto di Lea!... (lo guarda) Poveretta!... (osservando insieme anche i due busti vicini) Meno male, l'ha messa tra Vittoria Colonna e Veronica Gambara; così, in compagnia delle donne illustri, la poveretta non si può lamentare...
PLACIDO.
(additandogli la corona appesa al busto)
Ma, vede, ci ha messo anche la ghirlanda!... E ogni tanto ce la rinnova. Anche gli antichi, come Lei sa benissimo... «Amaranti educavano e vïole...»
GIACOMO.
(prevenendogli in fretta il resto della citazione per impedirgli di continuare)
«Su le funebri zolle.» Mi congratulo. (guardando ancora il busto) Dormi, dormi laggiù, povera morta!... (rivolto al maestro) E son sei anni...
PLACIDO.
Dal matrimonio oggi in punto. Oggi la festa.
SCENA III.
DETTI e RICCARDO.
RICCARDO.
(sì è affacciato dal villino all'ultime parole e va ad abbracciar lo zio)
E la presenza di zio Giacomo renderà la festa più completa per la mia signora e per me!... (lo abbraccia) Caro zio! quanto tempo!... e quante cose!
GIACOMO.
(asciutto)
Ah sì, molte.
RICCARDO.
E come la mia Ida sarà contenta! Ella ti conosce come un vecchio amico. Ti ha sentito tanto da me nominare... Ora la vedrai...
GIACOMO.
Grazie.
RICCARDO.
E hai visto qui (additandogli Placido) una antica conoscenza...
GIACOMO.
Nell'esercizio di funzioni nuove...
RICCARDO.
Che farà del mio Peppino...
PLACIDO.
(inchinandosi con gravità)
... un cittadino utile all'umanità, profondo nella interpretazione dei poeti, docile coi maestri, pronto di mano, pronto di piedi... (accenna col gesto una pedata)... fin troppo...
RICCARDO.
Basta, basta... Signor Placido, corra ad avvertire la signora che c'è lo zio...
PLACIDO.
Ma subito... (porta via la valigia di Giacomo e nell'andarsene ripete fra sè a mezza bocca:) Sicuro, di piede fin troppo. (entra nel villino)
SCENA IV.
RICCARDO e GIACOMO
GIACOMO.
Lascia un po' che ti guardi...
RICCARDO.
Guardami pure. Che hai?
GIACOMO.
Eh, tutti i gusti son gusti. C'è chi, di mogli, ne ha troppo di una. A te ce ne voglion due. Non meritavi di perdere la prima.
RICCARDO.
Ma tu vedi in me semplicemente... un essere felice!
GIACOMO.
Vedo, vedo! Peccato che tutti non possano dire così... E... (gli addita il busto di Lea) quella poverina?
RICCARDO.
(con un sospiro)
Morta!
GIACOMO.
(osservandolo)
Quando Boezio in carcere scrisse il trattato della consolazione, si vede che non lo ha scritto per te. Fai presto tu a consolarti... e a servirti delle mogli morte per uso di decorazione nei giardini delle mogli vive!
RICCARDO.
Sei sempre ingiusto con me. Le seconde nozze sono anche un po' opera tua.
GIACOMO.
Ma se ti dico che hai ragione! Di un po', e questa almeno la ami?
RICCARDO.
Alla follia...
GIACOMO.
Come l'altra. Si intende.
RICCARDO.
Sei ingiusto, ti ripeto. Ricordati ch'io non volevo lasciarla andare al letto di sua madre...
GIACOMO.
E siccome era un delitto contro natura, te l'ho impedito... E se te ne fosse rincresciuto, e te ne fosse rimasto il rimpianto, adesso non mi faresti tanta cera...
RICCARDO.
Intanto così ella mi fu rubata...
GIACOMO.
Come tu l'avevi rubata prima...
RICCARDO.
E io quel giorno ho creduto di morirne... I pochi mesi vissuti con Lea tra l'ansie della fuga e del nascondersi, che rendevano ora tristi ora febbrili i nostri baci, eran passati su di me come un sogno fuor del quale mi parea di non poter vivere... Girai otto mesi per cercarne le traccie... Invocai i miei diritti, minacciai, ricorsi a magistrati, a consolati, a legazioni... tutto fu inutile... Otto mesi la poveretta irreperibile languì in un convento... e il console che mi trasmise il suo atto di morte non potè darmi neppure una sua riga, neppure un suo ricordo, una ciocca di capelli che mi recasse il suo ultimo addio!...
GIACOMO.
(con flemma ironica)
Allora abbiamo celebrate le esequie e dato sfogo alle lagrime. Quando il vaso delle lagrime fu pieno, e non ce ne stava neppure una di più... allora...
RICCARDO.
Oh, la provvidenza...
GIACOMO.
Ti mandò un angelo consolatore. Per questi regali non c'è che lei. Eri nato per essere marito ad ogni costo.
RICCARDO.
Tu ridi. Ma è proprio così. Dopo un anno, di quel sogno antico di voluttà e di dolore era rimasta una mestizia blanda in mezzo a cui venne a posarsi l'imagine di Ida. Non fu il turbine violento improvviso della prima volta... fu una dolce simpatia che a poco a poco mi vinse. La mia prima avventura aveva interessato Ida a me: mi parlava spesso della mia povera morta rapita: si impietosiva meco su lei. Così l'ombra di Lea, invece di frapporsi come un funebre ostacolo, continuò a star fra noi, affievolendosi, scolorandosi, smarrendo i contorni a poco a poco, finchè un bel giorno m'accorsi che l'ombra non c'era più... ma si era mano mano, insensibilmente tramutata nelle sembianze di Ida... La felicità presente non l'avrò meritata — ma so che le mie nozze, sono felici — e la verità del mio vivere è cominciata da qui. E poi... hai visto? Ora non siamo più soltanto due sposini... due tortore che tubano... non ci chiamiamo più soltanto l' amore... ci chiamiamo — la famiglia.
GIACOMO.
Ho visto.
RICCARDO.
N'è vero ch'è bello il mio Peppino?
GIACOMO.
Non gli insegnerai a rubar ragazze...
RICCARDO.
Cattivo! Ma vieni dunque a veder Ida... Poi avrai bisogno di cambiarti, riposarti...
GIACOMO.
Eh, un sonnellino magari... ho perso la notte. E tutte le volte che vedo un uomo felice, o mi vien sonno... o mi vien appetito.
RICCARDO.
(ridendo)
Ah, ah! (entrano nel villino)
SCENA V.
LEA e un GIARDINIERE (che poi esce).
(Lea entra dal fondo, pei viali, vestita a nero)
GIARDINIERE.
(accompagnando Lea)
Di qui... signora. Ecco, quella è precisamente la palazzina del signor Verneda.
LEA.
Grazie.
GIARDINIERE.
La signora desidera ch'io vada ad annunziarla?
LEA.
No, no, grazie, buon uomo. Non occorre. Attenderò, (mentre il Giardiniere s'avvia, come pentitasi, lo richiama) Cioè dite...
GIARDINIERE.
Che cosa?
LEA.
(vorrebbe interrogarlo e si ripente)
No, no, niente, andate pure.
GIARDINIERE.
(guardandola nell'andarsene)
Che originale!
LEA.
(sola) (uscito il Giardiniere corre verso il villino chiamando)
Riccardo!... (si arresta di botto) Son pazza!... Dio mio! come il cuor batte! par voglia scoppiarmi!... Egli è là, il mio Riccardo... L'ho tanto sospirata quest'ora... perchè adesso ch'è giunta, ho paura?... Sett'anni! Riccardo ed io eravamo poco più che fanciulli... e l'oblio ricopre tanto presto gli assenti, come l'erba le fosse... Se egli... (si scuote, cacciando il pensiero) Ah, mai! il dramma che ci unì non è di quelli che si dimenticano... Povera mamma mia! la tua morte meritava la mia lunga espiazione... ma tu mi hai perdonato... perchè io sono qui. (si guarda intorno, vede il proprio busto, s'avvicina, lo riconosce) Che vedo! son io! son io!... Dunque ei mi ricorda! dunque mi aspetta!... (cade in ginocchio) Grazie, o mamma!... E anch'io t'ho aspettato, mio Riccardo! Come voglio tornar bella per te!... amarti per tutto il tempo perduto!... (si avvia risolutamente verso il villino: a un tratto, ode dalla macchia a sinistra la voce del bambino: si arresta, come fulminata, in ascolto)
PEPPINO.
(di dentro, dalla macchia)
Non mi pigli...
PLACIDO.
(di dentro, dalla macchia)
Ah no? ti ci ho colto, birichino. Aspetta me.
PEPPINO.
E io scappo!...
PLACIDO.
Lo dirò alla mamma che rubi le arancie invece di dir la poesia...
PEPPINO.
E io non la voglio dire la tua poesia, perchè è brutta. E no, e no, e no...
PLACIDO.
Ah, è brutta? Le perle ai porci.
PEPPINO.
Sì, sì, brutta, brutta!...
PLACIDO.
Te la darò io. Giù quell'arancia...
PEPPINO.
Io no... voglio giuocar alla palla!...
PLACIDO.
(più minaccioso)
Giù quell'arancia!...
PEPPINO.
E io te la tiro!...
PLACIDO.
(colpito)
Ahi!... birbante! il mio naso! ora me la paghi!... (tutto questo dialogo, nell'interno della macchia è seguito avidamente da Lea immobile, come impietrata dal terrore)
SCENA VI.
PLACIDO e LEA, poi PEPPINO.
PLACIDO.
(sbucando dalla macchia sulla scena, in traccia del piccino, tenendosi il fazzoletto al naso)
Uff!... che serpentello! che serpentello ha da venire!... Ma che cosa farà con quelli che non gli mettono soggezione! Ah, il mio naso! Ehi là Giovanni... (chiamando il giardiniere, s'allontana)
PEPPINO.
(uscito il pedagogo di scena, Peppino ancora celato dalla folta macchia, entro cui si suppone arrampicatosi sopra un albero, lascia cadere due o tre aranci sulla scena; poi sporge circospetto fuor della macchia verde la testolina, per assicurarsi che il maestro non ci sia)
Non c'è più.
LEA.
(guardandolo atterrita)
Cielo!...
PEPPINO.
(vedendola e avanzandosi)
Una signora!... (le gira attorno con circospezione e curiosità infantile, intanto che raccatta le arancie) Ne manca una... (s'avvicina adagino a Lea, guardando per terra, se essa l'avesse tra i piedi: poi si risolve a dirigerle la parola) Tirati in là!...
LEA.
(lo guarda sempre più fissa, immobile, con ispavento: poi fa uno sforzo sopra sè stessa e dà una crollata di spalle)
Ah! che pazza! m'ha fatto paura!... è il bimbo di qualche vicino! È venuto di lì e la casa invece è da questa parte.
PEPPINO.
(tirandola per la veste)
Ma tirati in là. Ci hai sotto la mia arancia...
LEA.
(non rassicurata dalle proprie parole, si lascia macchinalmente tirar in là dal piccino che la tira per l'abito, seguitando a fissarlo con espressione di sgomento — poi in un nuovo sforzo di rassicurare se stessa e discacciare l'idea balenatagli, gli butta febbrilmente le braccia al collo)
Ma sì, piccino mio!... angiolo mio!... come sei bello!... come sei bello!...
PEPPINO.
(si lascia accarezzare e mangia uno spicchio di un'arancia)
Non mi voleva lasciar mangiare le arancie quel brutto cattivo... (a Lea) Te... ne vuoi?... (le offre uno spicchio)
LEA.
(continuando a carezzarlo, china su lui)
No, no, grazie, amore. Tienle per te. Come ti chiami?...
PEPPINO.
Peppino... e te?... (la voce di Ida dall'interno del villino chiama: «Peppino! Peppino!») La mamma chiama!...
LEA.
(percossa dalla voce di Ida che le giunge dal villino)
Cielo!... di là!... Ah! (si alza atterrita, ributtando bruscamente indietro Peppino e strappa dal busto ch'è lì presso la ghirlanda di fiori che vi è appesa).
PEPPINO.
Ah!... Cattiva anche te!... Perchè strappi i fiori?... Non son tuoi. Son di papà... Lo dirò alla mamma!... (chiamando) mamma... (mentre Ida dall'interno lo chiama ancora, il piccino correndo rientra nel villino).
LEA.
(cogli occhi sbarrati, fissi verso la porta per cui Peppino è scomparso, e segnando del dito la direzione, indietreggia come per terrore, balbettando):
Di là!... di là!... (mentre ripete con voce di spavento questi monosillabi, seguita a indietreggiare vacillando, poi si copre delle mani, in atto di angoscia suprema, il volto, e scompare dentro la macchia, nel punto che Ida di cui si ode la voce avvicinarsi, entra in iscena)
SCENA VII.
IDA, PEPPINO (rientrando con la mamma).
IDA.
(a Peppino)
Che facevi qui fuori? Che hai? (vedendolo cercar intorno con l'occhio).
PEPPINO.
(non vedendo più Lea)
Tò — non c'è più.
IDA.
Più... Chi?
PEPPINO.
C'era qui una signora cattiva... che mi ha picchiato...
IDA.
Picchiato?... Che! che!... se vedo io chi picchia il mio Peppino!...
PEPPINO.
Sì, sì, era qui adesso. È scappata via...
IDA.
Com'era?
PEPPINO.
Come quella lì... (addita il busto di Lea) E ci ha strappato i fiori...
IDA.
(vedendo la ghirlanda a terra)
Che vedo!...
PEPPINO.
È stata lei! Quella cattiva! ma è scappata!...
IDA.
(cogitabonda)
(Che è ciò?...)
PEPPINO.
(raccogliendo la ghirlanda da terra, la porge alla mamma da rimettere attorno al busto)
Mamma, ce la rimetti?
IDA.
(con gesto brusco glie la toglie e la torna a buttar via)
Lascia stare...
PEPPINO.
(s'allontana guardando intorno)
O dove è andata?... (minacciando con le manine) se la trovo... se la trovo... (esce per il parco).
SCENA VIII.
IDA sola, poi RICCARDO.
(Ida, repentinamente fatta triste e come assorta, guarda lungamente l'immagine di Lea. Riccardo esce dalla villa, le si avvicina in punta di piedi da dietro le spalle, le chiude gli occhi e la distoglie dalla contemplazione con un bacio)
RICCARDO.
Gelosa!
IDA.
(volgendosi)
Riccardo!... Ah! (gli si butta vivamente al collo)
RICCARDO.
Che guardavi?
IDA.
(appesa al collo di lui)
Niente.
RICCARDO.
Niente? Ti ho visto, (con dolce rimprovero additandole la ghirlanda per terra) E quei fiori strappati!... Gelosa di un'ombra!...
IDA.
Non li ho strappati io... li ha strappati qualcuno... Una donna che è passata di qui...
RICCARDO.
Una donna?
IDA.
Peppino l'ha vista. Vuoi ridere? Diceva che somiglia a quella lì.
RICCARDO.
(sorridendo)
Perchè non dirmi addirittura che è di qui passato uno spirito? Pazzerella!... e dai retta a quel folletto burlone...
IDA.
No, no... non è questo... Volevo dire...
RICCARDO.
Volevi dire che scegli male il giorno per essere di cattivo umore... Sai che cosa mi diceva testè lo zio? Che ha compreso, vedendoti, come fatta la follia di un matrimonio, si possa commettere la seconda. Sai che gli hai fatto una grande impressione?!
IDA.
(cercando rasserenarsi e sorridendo)
Si vede! Non s'è fermato cinque minuti... e ha chiesto subito di passare nella sua stanza...
RICCARDO.
Era stanco del viaggio... ed è un uomo alla buona, senza complimenti... Ma lo sentirai oggi a tavola...
IDA.
Tuo zio l'ha conosciuta la tua prima moglie, Lea?...
RICCARDO.
Sì, che l'ha conosciuta. Ma e dalli con Lea! Lasciamo stare — sopratutto oggi — i poveri morti — e non portiamo via loro i fiori... (fa per prendere la corona di fiori e rimetterla a posto. Ida gli ferma il braccio)
IDA.
No... lasciali...
RICCARDO.
(sorpreso)
Ida!...
IDA.
(con insistenza mista di mestizia)
Lasciali, te ne prego. Quei fiori, sai bene, io stessa ce li ho posti insiem con te. Io stessa ho sempre trovato pio il tuo ricordo, come impetrasse da quell'ombra perdono e benedizione al nostro amore. Ma oggi non so... sono triste... Oggi quel ricordo mi pare che s'alzi fra noi. (trattenendogli ancora di nuovo il braccio) Te ne prego!... Riccardo, mio Riccardo, ritornano i morti?
RICCARDO.
Ma sai che si direbbe che tu sia impazzita? Ed è proprio oggi, nella festa del nostro amore, che ti passano pel capo di queste ubbie?...
IDA.
(insistente, supplichevole, affettuosa)
Chiamale ubbie! Ma sei tu che me l'hai messe in mente. Te ne ricordi?
RICCARDO.
Di che cosa?...
IDA.
(appoggiando con affettuosa mestizia la testa sulla spalla di lui, mormora a voce piana e lenta senza guardar Riccardo)
«Un fior sovra un tumulo spiega...»
RICCARDO.
(un gesto vivo gli sfugge, come per porle la mano alla bocca e impedirle di proseguire)
Ida!...
IDA.
(vivamente)
No, no, lasciami dire... Non è per rimproverarti... È perchè allora sei stato sincero, che t'ho preso a voler bene. Mi sei apparso bello nel dolore... Ma ciò che mi scrivesti è scritto qui. (accenna il cuore)
«Un fior sovra un tumulo spiega
La pompa dei vivi color:
Simile all'amor che ne lega,
Ei vive... lo splendido fior!
«Un triste mister dello stelo
Gli dona la ricca beltà....:
Ei mesce l'umore del cielo
Con quel che la fossa gli dà.
«S'intesson le tenui radici
Con trecce lunghissime d'or....:
L'amor che ne rende felici
Le stesse radici ha del fior.
«Ma a mezzo la notte, lorquando
Pia scorge la stella brillar,
Il fior la sua stella adorando
Da sotto si sente chiamar.
«— L'olezzo io t'ho dato e i colori,
O immemore, amante del ciel!... —
Ahi, getta fra i nostri due cori
Lo stesso lamento un avel.»
(mentre Ida dice i versi, con voce lenta, dolce, mestissima, Riccardo ha gli occhi fissi a terra. Ida terminati i versi china il capo e piange)
RICCARDO.
(commosso, distogliendole le mani dagli occhi)
Ida... Ida... perchè piangi?
IDA.
Perchè fui una egoista allora, lo sento. Quella immagine morta che mi immolavi solleticava il mio orgoglio. Mi allettava trionfar d'una memoria. Oggi quella memoria si vendica. Mi fa triste... come se dalla tomba quella imagine minacciasse il nostro amore...
SCENA IX.
DETTI e PEPPINO, poi LEA.
PEPPINO.
(rientrando dal parco)
Mamma!...
RICCARDO.
(chiamando senza scostarsi da Ida)
Peppino! Vieni qui. (Peppino accorre, Riccardo lo bacia, poi presentandolo a Ida) E contro le minaccie della tomba questo angiolo guardiano non ti basta?
IDA.
(abbracciando convulsa Peppino e poi Riccardo)
Oh l'angiolo mio! mio Riccardo!
RICCARDO.
(additandole il busto di Lea)
Domani non lo vedrai più. Lo faremo portar via... Sei contenta?
IDA.
Sì... Sì... (sorridente fra le lagrime)
PEPPINO.
(baciando la mamma)
Mammina mia, come sei bella!...
RICCARDO.
Le carezze di Peppino e i baci miei... dimmi ancora hai paura dei morti? hai ancora paura?
IDA.
Mio Riccardo! (gli butta le braccia al collo con trasporto d'amore)
(Lea affacciatasi da alcuni minuti al limitare della macchia, ha seguito con ineffabile angoscia l'ultima parte del colloquio. Alle ultime parole di Riccardo dà un grido acuto di dolore)
LEA.
Ah! (cade in ginocchio semisvenuta)
IDA.
(Ida e Riccardo si voltano al grido. Ida, al veder Lea, pur senza riconoscerla, con espressione istantanea di spavento, copre istintivamente della persona e delle mani il suo piccino, e additando Lea a Riccardo, indietreggia balbettando a voce soffocata):
Sì, sì... ho paura... ho paura...!
(Quadro — Cala la tela)
FINE DELL'ATTO SECONDO.
ATTO TERZO
Stanza in un appartamento del villino di Riccardo e Ida a secondo piano. — In fondo porta d'ingresso e un balcone. — A sinistra prima quinta, porta che mette alle stanze di Ida. — A destra porta che mette alle stanze di Riccardo. — Nella stanza quadri e alcune tele in corso di lavoro. — Una di esse senza cornice appesa alla parete, è la tela della fuga d'Egitto già veduta nel primo atto. — Mobiglio artistico, signorile.
SCENA PRIMA.
Zio GIACOMO, per un momento un DOMESTICO.
GIACOMO.
(al Domestico entrando)
La signora Ida?
DOMESTICO.
È di là. Già tre volte ha domandato di lei, se era tornato. La signora par che abbia la febbre...
GIACOMO.
Ditele che l'attendo. (Domestico esce) Povera donna... cioè..., povere donne tutt'e due! Ancora non saprei chi delle due sia più a compiangere!... Oh che pasticcio! che pasticcio!... (passeggiando su e giù) Ecco il bel sugo dei colpi di testa della prima età!... Si piglia per amore il primo riscaldo di sangue, che come viene se ne va, e quando con la giovinezza arriva l'amor vero, ecco lo sterile capriccetto di un'ora torna dal fondo del passato a devastarvi la vita intera!...
SCENA II.
IDA e Zio GIACOMO.
IDA.
(entrando da sinistra, dalle sue stanze, e correndo a lui affannosa)
L'avete vista?...
GIACOMO.
L'ho vista.
IDA.
(con accento febbrile concitato)
Parlato?... (Giacomo accenna di sì). E così?
GIACOMO.
Verrà qui. Vuol parlare con voi...
IDA.
(c. s.)
Che vi disse?...
GIACOMO.
Quel che una moglie può dire. Che un atto di morte non basta per ammazzare chi è vivo e che la sua fede di matrimonio è in regola e che la moglie deve seguire il marito.
IDA.
Ma e voi?...
GIACOMO.
Io... non so...; di questi pasticci non ne avevo veduti fin qui che in teatro. Ma in atto pratico è un altro paio di maniche. Sapete il caso di Miss Multon e della Donna Pallida?
IDA.
Perchè?
GIACOMO.
Sarebbe il vostro — a rovescio — ma ci vorrebbe per voi. Miss Multon moglie colpevole del marito fido, e la Donna Pallida moglie fida del marito infedele — han tutte e due la cattiva idea di tornare dalla tomba in momento incomodo. Però, sì, entrambe finiscono a pigliare il mondo come viene e se ne tornano via in santa pace... Eh, se per gli imbrogli della vita reale bastassero le ricette dei drammaturghi!...
IDA.
Ma voi dunque... anche voi...
GIACOMO.
Io son d'avviso che nella vita reale nè Miss Multon nè la Donna Pallida avrebber rifatto la strada. Perchè tutt'e due quelle prime mogli avean figliuoli. E prima che una madre rinunzi alla sua prole...
IDA.
(vivissima)
Ah, nevvero! Ma di prole costei non ne ha. Ma non è una madre che torna dalla tomba. La madre son io. Il diritto materno è per me.
GIACOMO.
(con flemma)
Abbiamo anche degli esempi in contrario. Il conte Glauco, per esempio, che ritorna dalle crociate, con un fior di sposa e il bambino annesso, e trova la prima moglie, dal dolor dell'assenza, ancora viva. Il guaio è che il codice l'han fatto dopo le crociate... e quindi regola le cose alla moderna...
IDA.
(impaziente)
E dunque... e dunque?...
GIACOMO.
E dunque, qui bisogna trovare il modo di convincere Lea; altrimenti (tant'è... meglio dir tutto...) altrimenti in linea legale, da qui non s'esce che in questi modi:
a) con un'azione di nullità da parte di Lea, e un processo di bigamia da parte del Fisco... (Ida fa un gesto di spavento che l'altro calma) processo seguito da piena assoluzione per causa di buona fede.
b) con l'obbligo a Riccardo vostro marito — se Lea insiste — di tenersi la prima moglie, e separarsi... (con esitanza) dalla seconda...
IDA.
(con ispavento fra sè)
Da me?!...
GIACOMO.
(proseguendo titubante, senza guardarla)
... la quale a tenor di legge, non è moglie, il matrimonio essendo basato sulla erronea credenza di stato libero, e quindi nullo, art. 56, 104, 105.
c) collo stigma di adulterini... ai figli delle seconde nozze, il quale non si può togliere, essendo di questi vietata anche l'adozione. Articolo 205.
IDA.
(angosciata — piangente)
Dio mio!... mio figlio!... povero angiolo mio!...
GIACOMO.
Su, su! Colle disperazioni non si rimedia nulla. Non si tratta di disperarsi, ma di guardar le cose come stanno: e di convincere Lea, colle buone, per pietà di quella creatura, a tornarsene per la via ond'è venuta...
SCENA III.
DETTI e LEA; più tardi PEPPINO.
LEA.
(affacciatasi all'ingresso, alle ultime parole avanzandosi)
E chi oserebbe domandarglielo? (a Giacomo) Voi no, non è vero?...
IDA.
Signora!...
LEA.
Perdonate, signora, se non mi sono fatta annunziare. Nella casa di mio marito non mi è parso necessario...
IDA.
Ma io non so...
LEA.
Voi non sapete da che strada i morti ritornino fra i viventi. Felice voi!... Ma che importa! Pur che tornino. Ah, c'è del freddo laggiù! Fa così bene anche ai poveri morti tornare a riscalducciarsi quassù, sotto il sole!
IDA.
Dio mio!...
LEA.
Signor Verneda, avete avvertito la signora delle mie intenzioni? I fantasmi, lo so, sulla terra non han diritti; ma le mogli vere si dice che ne abbiano... se non vi rincrescesse lasciarci breve ora sole?
GIACOMO.
Come v'aggrada!... (Oh che imbroglio!) (nell'andarsene s'avvicina ad Ida e le parla sottovoce) Coraggio!... Parlatele colle buone!... tornerò!... (a Lea appressandosele) Siate pietosa! (guardandole entrambe con compassione) (Oh che imbroglio!) ( esce)
SCENA IV.
LEA ed IDA.
(Ida si lascia cader sopra una sedia e sta angosciata, muta)
LEA.
Dunque pare che io sia venuta in mal punto e che molte cose si siano cambiate in casa mia (gesto vivo di Ida) — di mio marito — dopo la mia assenza dai vivi. Voi non ne avete colpa, lo so. Il destino fu amaro ad entrambe. Ma più a me che a voi... Perchè nel cuore di Riccardo voi siete la gioia viva dell'oggi, io l'ombra mesta di un tempo che fu. Ma pesa, ma è triste anche all'ombre l'oblìo! Che colpa è la loro se non sanno rassegnarvisi?...
IDA.
Dio! Ma da che inferno...
LEA.
Da che inferno sono uscita? Che v'importa di saperlo! Pur che uscita ne sia. E poi, se l'inferno mi manda, i tormentati hanno diritto ad un sollievo. Voi non li conoscete quei tormenti, beata voi!... Voi lo ignorate che cosa sia piombar violentemente, nell'alba della vita, dalle braccia di uno sposo amante al freddo giaciglio di un sepolcro di vivi!... Vedersi a sedici anni, in un attimo, tutta la festa del vivere mutata nel silenzio e nel buio!... Mi credettero, mi vollero morta; — eppure là tra le fredde pareti di un chiostro, nelle notti lunghe di pianto, un pensiero, uno solo mi confortava; queste lagrime ch'io verso saranno le sue, queste notti saranno lunghe anche a lui!... Ei non ristarà dal cercarmi, finch'ei non l'abbia trovata la sua Lea!... Egli saprà trarmi di qui!... E quando la disperazione mi diè le forze della fuga e la pietà d'altri m'aperse le porte non ischiuse da lui, per lui solo mi riapparve bella la vita! Sperai, del riapparirgli visione cara, inattesa, lungamente invocata, una gioia che superasse ogni delirio di gioia umana! Vengo... e ritrovo... il mio posto preso da voi. Ebbene, non è giusto. Per tutto quel ch'io soffersi, giuro a Dio che non è giusto. Quel posto è mio. Lo riprendo. Ecco tutto.
IDA.
E il suo cuore siete ben certa di riprenderlo?...
LEA.
E voi così certa di poterne andare superba? Oh, lo so: egli vi deve aver detto: Ci fu un'altra donna che amai, che ebbe il mio nome, che mi sacrificò ogni cosa — perfino sua madre! — e alla quale giurai amore sì fervido da credere che ogni facoltà umana di amare ne restasse esaurita. Ebbene, no, per caso, n'è rimasta ancora qualche briciola,... ve l'offro... e voi quella briciola l'avete raccattata, il vostro orgoglio se n'è accontentato! (con accento sprezzante)
IDA.
Ah, è troppo!... (si padroneggia e ripiglia con un sforzo di calma) E se il suo discorso fosse stato diverso? Se egli fosse venuto a dirmi: Ida, nella vita dell'uomo si ama una volta sola e raramente quella volta è la prima. Nell'alba dei giorni, quando il cuore ignora le battaglie del dubbio e del dolore, la baldanza dell'adolescente chiama col nome d'amore il primo svegliarsi degl'istinti; si ama la prima che s'incontra per via; è il primo amoruccio che ogni uomo ritrova ne' suoi ricordi di scuola. Più tardi viene l'ora solenne che gli rivela la compagna vera. È allora veramente la prima volta ch'egli ama, ch'egli sa leggere nel libro eterno, ch'egli intende nell'amore tutto ciò che è di alto e divino... S'egli m'avesse detto o fatto credere ciò, che direste?...
LEA.
(con calma cupa e sarcastica)
Allora direi che la sventura sta su questo amore, perchè non ha fatto i conti con le tombe. Direi che la vostra parte è già troppo bella, perchè non ve ne dobbiate accontentare e lasciar qualche cosa anche agli altri: perchè un amore così divino non appartiene alla terra, può vivere anche fuori delle sue leggi e del rispetto degli umani. Direi: te felice che la tua parte è migliore della mia: non lamentartene, serba lassù in quella sfera celeste il posto che t'ha dato l'amore: io serbo qui sulla terra il posto che il diritto mi dà.
IDA.
E siete ben sicura che lo sia... il diritto?...
LEA.
Se lo sono!
IDA.
Siete ben sicura che lo sia?! In un'ora di capriccio avete legato alla vostra la vita di un giovane non ancora uomo: a quel capriccio sagrificaste la famiglia, egli a voi sagrificò studii e amor proprio e avvenire. La povertà che era il suo orgoglio, l'ingegno precoce ch'era la sua ricchezza lo invitavano alle vie dell'onore, alle lotte superbe dell'arte: per voi dimenticò sè stesso, quasi adattavasi a vivere della vostra fortuna...
LEA.
Signora!...
IDA.
Ebbene, il destino non permise di compir l'opera. E perchè quel capriccio non era la fiamma divina che sfida il tempo e gli uomini, bastò che gli uomini vi soffiassero sopra, perchè a Riccardo nel cuore non ne restasse più nulla. A me nel cuore di Riccardo... questo angiolo resta! (prende convulsa per mano Peppino entrato in quel mentre) È lui il mio diritto, è la madre che santifica le nozze, è la madre!... Voi, non madre, siete il sogno sterile, il nulla: io sono la famiglia, ossia il tutto!... Ma ditelo ancora che il diritto siete voi!... (dette queste parole con impeto, ribacia febbrilmente il suo piccino) Peppino mio!...
PEPPINO.
O mamma, perchè piangi? È quella signora cattiva che ti fa piangere...
IDA.
No, no, stai zitto, mio angiolo! Nessuno (guardando Lea) vuol far male alla mamma. E di questo (additandolo a Lea) che intendete di farne? Perchè il vostro diritto è lo stigma del bastardo per lui. Che male vi ha fatto questo essere? Chi avete da difendere contro di lui? Perchè è lui che difendo, non me. Siete piombata come il fulmine sulla mia vita — e sia pure. Avete per voi la legge, valetevene. Se dovrò uscire da questa casa, ne uscirò. Ma badate a mio figlio, badate a mio figlio!... perchè anche la leonessa protegge i suoi nati; così io proteggo il mio e non conosco un diritto più alto sulla terra, dopo quello di Dio!... (entra Riccardo)
SCENA V.
DETTI e RICCARDO.
IDA.
(proseguendo, a Riccardo che s'affaccia)
Ma vieni, vieni, Riccardo!... Ma proteggi me, proteggi il sangue tuo contro questo fantasma della tomba!... (coprendo con moto convulso della propria persona il bambino e quasi riparandosi seco dietro la persona di Riccardo)
LEA.
(come per movere a lui)
Riccardo!...
(Riccardo rimane muto, visibilmente in preda a violenta lotta, gli occhi a terra)
PEPPINO.
(aggrappandosi alla mamma)
Mamma, mamma... non piangere!... (a Lea) Signora cattiva, se facessero piangere la mamma tua...
LEA.
(arrestandosi come fulminata dalle parole ultime del piccino)
Mia mamma!... mia povera mamma!... Morta per me!... (cade in ginocchio) Infatti era giusto... Ecco il castigo. (si rialza e va con passo risoluto al gruppo dei tre. Il piccino si schermisce aggrappandosi intimorito alle vesti della mamma: ma Lea chinatosi per baciarlo, gli parla dolcissimo) No, no, piccino, non aver paura. La mamma tua non piangerà più. (a Ida) Ringraziate questa creatura... il vostro angiolo che ha vinto. Lasciatemi brevi istanti con lui. (additando Riccardo che si è abbandonato con angoscia sopra una sedia, la testa nelle mani)
IDA.
(tra rassicurata e dubitosa interrogando alternamente dello sguardo Riccardo e Lea)
Ma...
LEA.
(con voce triste ed amara)
Non vi basta la vittoria? Anche gli istanti mi vorreste contare? Oggi sono ancora io la legge, il diritto. Domani comanderete voi.
(Riccardo è balzato in piedi guardando Ida: questa, fissandolo, gli mostra il piccino che le si è avviticchiato alle vesti, e non cessando di additarglielo esce lenta con lui: sulla soglia abbraccia il piccino in uno scoppio di pianto)
SCENA VI.
RICCARDO e LEA.
(rimasti soli, Riccardo al lato opposto, violentemente commosso, cupo, gli occhi a terra senza guardar Lea, questa dapprima dirigesi lentamente al balcone, vi s'affaccia, guarda fuori, poi torna verso Riccardo)
LEA.
(con accento calmo a Riccardo che muto immobile, le braccia conserte tien gli occhi a terra)
Avete udito vostra moglie?... Voi che ne dite?... (Riccardo non risponde) Nulla? Bene, dirò io. Io avevo torto. Ed è vostro figlio che ha ragione. L'ho sentito nel suo pianto. È a me che tocca di scomparire. Scomparirò... perchè dell'oblìo vostro non pesi sopra quell'angiolo il castigo.
RICCARDO.
(violentemente commosso)
Oh Lea! voi siete generosa e grande — ma io, io non potrò mai perdonarmi...
LEA.
Oh, non frasi, non frasi... Non è il momento. Voi vi perdonerete da voi stesso e questo ed altro. Siamo tutti indulgenti verso noi. Quanto al perdono mio, perchè dovrei negarvelo? Paghiamo entrambi l'errore di esserci scambiati giuramenti nell'età che i giuramenti non tengono. Ma dalla esistenza vostra dipendono altre. Io sono libera. Riparar l'errore tocca a me.
RICCARDO.
Così me lo dite? E niente... niente altro a dirmi avete?... Che sarà di voi?...
LEA.
Oh, non cerchiamo di intenerirci e lasciamo da banda, ve ne prego, i falsi scrupoli! Guardate: quando venni qui, ho creduto, ho sognato che il ritorno del passato fosse possibile; tanto avevo sofferto, aspettando di vederlo tornare!... Ora l'illusione è svanita. Perchè il mio amore era fatto tutto quanto di fede nel vostro: questa fede mi rendeva bello il soffrire, mi consolava le notti di sogni, mi faceva amare il mio dolore. La mia mente vi immaginava infelice, trascinante per il mondo, nel chiuso dell'anima, la religione di un'ora d'ebrezza, la fede cavalleresca a una memoria, a una imagine, a un nome. Invece... vi ritrovo felice ed amato, in un mondo di affetti del quale io non sono più. Che resta? Da un lato una vuota formula di cose morte, dall'altro il diritto di un essere che s'affaccia alla vita. È giusto che l'ombra ceda il posto al mattino. Addio.
RICCARDO.
No, voi non dovete, non potete così partirvene... se è vero che avete perdonato. Non cerco scuse... no... Nella lotta orrenda di questo giorno sento un castigo che meritai, ma mi sento migliore di quel che volle il destino. Mio figlio, quell'angiolo, dianzi nel pianto si lagnava di voi e ogni suo ingiusto lamento era una fitta per me. La vostra partenza in questa forma, mi aggiungerebbe rimorso a rimorso. Io non vedo nel cuor vostro le vostre intenzioni: ma vedo qui un sacrificio che mi fa paura. Dove contate di andare?...
LEA.
(cupa)
Non so.
RICCARDO.
Che contate di fare?
LEA.
Non so. Non vi date pena. Non pretenderete che il vincolo che non fu catena per voi, poichè io ve ne sciolgo, resti catena per me. Muterò nome... andrò lontano... (Lea parla come fra sè, con sorriso amaro, a voce lenta, rotta, che ha in fondo le lagrime) Sono giovane ancora...; alla mia età la vita deve avere ancora sorrisi e carezze — ne conobbi sì poche! anch'io ho diritto alla mia parte!... (come cessando il monologo, si volge vivamente a Riccardo) Guardatemi! Oh, non sono più la ragazza da collegio, il fantoccio roseo di un tempo. Sono donna e bella... se fossi stata così quando ci sposammo, oh non mi avreste così presto dimenticata! Se fossi stata così, non li avreste obliati i baci di Lea! come di ferro rovente vi avrebbero bruciato le carni... e un altro pegno ci avrebbe riuniti... e allora anch'io, anch'io avrei difeso i miei nati... nel mio nido!... nel mio nido!... (le ultime parole muojono in un singulto di pianto)
RICCARDO.
(violentemente commosso)
Lea!... Lea!...
LEA.
(cercando ricomporsi e sorridere)
Oh, lasciatemi dargli un ultimo sguardo... al vostro nido!... (guarda intorno per la stanza) Come si deve amar quietamente, dolcemente, qui dentro!... meglio che non là fra le ansie e i rimorsi, nella osteria del villaggio!... Ve ne rammentate?... (con subito mutamento d'inflessione) Te ne rammenti, Riccardo?... Ah!... (il di lei sguardo cade sulla tela appesa alla parete: vi si accosta e la addita a Riccardo) E questa qui ancora la lasci? La fuga in Egitto! (mestissima) La nostra!... (esamina da presso la tela proseguendo con sorriso amaro) Perchè non l'hai finito?... Confessa che non t'è bastato l'animo...
RICCARDO.
No... mi faceva troppo male...
LEA.
Lo vedi che i ricordi di certi giorni non muoiono mai interi!... E le sembianze della Madonna... da chi le hai copiate, te lo rammenti?... (guardando la tela) Come era giovane allora la tua Madonna!... Però adesso i capelli... ce li ho più lunghi di quelli lì... più belli e più lunghi!... (sempre contemplando il quadro si viene snodando la capigliatura che le ricade sciolta, in massa foltissima e bionda, fin quasi ai piedi, poi si volge a Riccardo) La tua Ida così non ce li ha!... (indietreggiando verso il balcone guarda fisso con occhi ardenti Riccardo che a sua volta la guarda e par sotto il fascino di quella trasformazione di bellezza) Che mi guardi?... Perchè mi guardi?...
RICCARDO.
(a poco a poco sotto il fascino dello sguardo di Lea le si è venuto accostando, e piegando un ginocchio le dice con accento soffocato, supplichevole, affettuosissimo)
Lea!... perdonami!...
LEA.
(chinandosi su lui e prendendogli la testa nelle mani, gli susurra all'orecchio con accento rapido a fior di labbro)
Mi ami ancora?... Mi ami?...
RICCARDO.
Sì.
LEA.
(c. s.)
Verresti meco?
RICCARDO.
Sì.
LEA.
(che già si ritrova a due passi dal balcone, al sì di Riccardo ritirando ratta le mani dalla testa di lui, si drizza della persona ed esclama con accento vibratissimo)
Ah! era ciò che volevo!... (Riccardo la guarda sorpreso: ella soggiunge con sentimento profondo e voce dolcissima, quasi parlando fra sè) Ora sì che l'andarsene è bello!... (si volge a Riccardo che ansioso cogli occhi la interroga, gli pone affettuosa una mano sulla spalla e con accento dolce soggiunge) No... no... Vivi a tuo figlio... (Riccardo volge altrove la testa e si cela la faccia nelle mani per nascondere il pianto. Lea si è appoggiata affettuosa sulla spalla di lui standogli dietro, a un passo dal balcone)... il passato sta bene nella tomba... ebbe torto ad uscirne...
SCENA ULTIMA.
DETTI, IDA e PEPPINO.
(Ida col piccino si è affacciata dall'uscio, guardando ansiosa Riccardo e Lea; al comparire del piccino e di Ida, Lea getta alla rivale un'occhiata, si stacca rapidissima da Riccardo, e rivolta verso Ida termina la frase)...
... e ci ritorna!...
(in un lampo si getta dal balcone, ancor prima che Ida, che ha visto l'atto disperato e getta un grido di terrore e d'angoscia, abbia potuto accorrere a lei. Risponde al suo un grido di Riccardo che si precipita verso il balcone, mentre Ida cade in ginocchio presso il suo bambino, e se lo stringe atterrita, convulsa nelle braccia).
(Cala la tela)
FINE.