FERDINANDO GREGOROVIUS
Passeggiate per l'Italia
Subiaco Attraverso l'Umbria e la Sabina—Il Ghetto e gli Ebrei di Roma—Macchiette romane—Storia del Tevere—L'impero, Roma e la Germania—Una settimana di Pentecoste in Abruzzo
Versione dal tedesco
Ulisse Carboni—Libraio Editore ROMA Via delle Muratte, 77 1907
I diritti sulla presente traduzione sono riservati
Stab. Tip. della Società Poligrafica Editrice Roma, Piazza Pigna, 53.
Varî critici italiani, occupandosi del primo volume di queste «Passeggiate per l'Italia» con cortesi parole di lode al coraggioso editore romano ed al traduttore, domandavano per quali ragioni quest'ultimo avesse voluto mantenere l'incognito. «Dinanzi ad opere severe e poderose, quali appunto quelle del Gregorovius,—scriveva uno di questi critici—il traduttore, responsabile dinanzi all'autore ed al pubblico dell'opera sua, ha il dovere sacrosanto di far conoscere il proprio nome».
L'appunto, lo riconosco completamente, era giusto, e son qui a fare doverosa ammenda ed insieme a giustificarmi.
Per ragioni, che sarebbe fuor di luogo qui esporre, consegnato il manoscritto del primo volume, non mi fu affatto possibile rivedere, neppur fugacemente, le bozze e curar l'edizione; cosa, questa, che dovette essere affidata ad altra cortese persona. Per questo, per questo solo, non credetti opportuno apporre il mio nome al primo volume.
Premessa questa breve, ma doverosa giustificazione, tengo a render qui vive grazie al signor Attilio Rinieri de Rocchi, che mi aiutò nella non lieve fatica della traduzione, ed all'egregio avvocato Francesco Zunini che corredò, con paziente lavoro di ricerca, i vari capitoli, di cui questo volume si compone, di dotte ed utili note.
Ed ora invito i lettori a seguire il grande storico in queste sue nuove «Passeggiate» descritte in varie date, ma comprese tutte nel febbrile periodo della nostra insurrezione, nel periodo in cui il potere temporale dei papi oscillava sempre più, avvicinandosi al crollo finale. La «Saturnia tellus» si è trasformata: è dunque bene che rimangano consacrate, in geniale opera d'arte, le impressioni subìte in quella terra da un così profondo conoscitore della storia e della vita romana, quale fu appunto Ferdinando Gregorovius.
Roma, nel dicembre 1906.
Mario Corsi.
SUBIACO. La più antica abbazia dei Benedettini dell'Occidente. (1858).
SUBIACO. La più antica abbazia dei Benedettini dell'Occidente (1858).
A ventiquattro miglia da Roma, in una delle più belle vallate della Campagna romana, irrigata dal gelido Aniene, giace la famosa abbazia dei Benedettini di Subiaco. Gli Appennini distaccano qui una catena di monti, le alture Simbruine, che dividono lo Stato della Chiesa dal Regno di Napoli, la terra di confine del quale è l'antica regione dei Marsi, oggi Marsica, provincia appartenente agli Abbruzzi. L'Aniene scaturisce su questo confine, sopra Filettino, e, precipitando impetuoso, forma una lunga ed in parte angusta valle, che fino a Tivoli è limitata da monti ricoperti di boschi di castagni e di olivi. Sulla sommità di questi monti si ergono, lungo il corso della corrente, dei cupi castelli medioevali, Filettino, Trevi, Jenne, Subiaco, Agosta, Cervara, Marano, Anticoli, Roviano, Cantalupo, Saracinesco, Vicovaro, San Polo, Castel Madama e Tivoli. Questo è anche per la maggior parte il territorio di quell'antica abbazia benedettina, luogo memorabile dell'ancor poco conosciuto medio evo del Lazio romano, culla del monachismo dell'Occidente.
Da questa selvaggia solitudine, fra i monti brulli ebbero origine tutti i monasteri che, sotto forma di colonie della Chiesa romana, si sparsero per tutta l'Italia, la Sicilia, la Germania, la Francia ed anche per la lontana Britannia. I monaci mantennero stretti i rapporti fra queste regioni e Roma, e, in mezzo alle barbarie di secoli oscuri, essi posero i germi della civiltà (meriti che possiamo ancora riconoscer loro) e tennero viva la coltura classica, copiando, scrivendo, e studiando i codici, alla fioca luce della lampada, nelle loro buie celle, mentre tramandavano gli avvenimenti del loro tempo in cronache e notizie di inestimabile valore. Così è: uomini che si erano allontanati per principio dal rumore del mondo, divennero i padri degli scritti storici, fatto questo che cessa di parere strano, quando si pensi che i chiostri in quei secoli avevano stretti e continui rapporti con la vita politica.
Voglio in queste pagine fare la storia, per sommi capi, di una delle più notevoli abbazie. Dal punto di vista storico e scientifico, Subiaco è certamente superata da Montecassino, e di molto: questo chiostro è il più antico antenato di quello che sorge presso il Liri; per tutto il medio evo anzi fu il faro solitario della scienza, come lo attestano oggi i suoi preziosi archivi e la dottrina diligente de' suoi monaci. Ma anche la storia di Subiaco è interessantissima per la cronaca degli avvenimenti del medio evo negli stati romani, ed è anche un quadro, ricco d'insegnamenti, del feudalismo ecclesiastico. Mentre intorno a questo chiostro si andava a poco a poco formando uno Stato feudale da lui dipendente, esso entrava come possente principato nella giurisdizione territoriale romana, il cui re era l'abate, ed i potenti baroni erano i monaci, ai quali per lungo tempo rimasero devote ed ubbidienti le città, i cavalieri ed il popolo della campagna.
La fondazione dell'abbazia risale al tempo in cui l'eroica stirpe dei Goti dominava, con Teodorico, Roma e l'Italia, e ritardava con savie leggi, ancora per un mezzo secolo, il tramonto definitivo della civiltà romana; ma il crollo dell'impero era già completamente avvenuto. Allora, mentre si andava disgregando l'antico ordinamento del mondo, e si spezzavano i legami di stato e di città, si manifestò nel popolo il bisogno di fuggire dalla società e di rifugiarsi in una vita di solitudine e di pace, come già era avvenuto al principio del secolo quarto. Benedetto fondò il monacato occidentale, e fu, col suo più giovane contemporaneo, Gregorio Magno, uno dei creatori della gerarchia romana. Quanto questa gli dovesse, anche quel pontefice lo riconobbe; egli stesso, nel secondo libro de' suoi dialoghi, parlò dell'opera del suo fratello d'armi di Subiaco, che aveva liberato l'Occidente dalla signoria dei bizantini, aveva istituito una regola nazionale romana, e aveva inviato per tutte le regioni i suoi seguaci, onde collegarle a Roma.
Benedetto nacque a Nursia nella Valeria[1] nell'anno 480, ed all'età di quattordici anni venne a Roma, per iniziarsi agli studî di umanità. Ma presto, assalito dalla brama della solitudine, cominciò ad errare per i deserti monti Simbruini, e qui visse, in una caverna, assorto in estatiche meditazioni. Il luogo si chiamava Sublacus, ed era noto anche a Plinio per una bella villa di Nerone, il quale aveva fatto, sbarrando con una arginatura l'Aniene, costruire quivi tre laghetti artificiali, per pescarvi le trote con reti d'oro. Queste trote sono ancora famose come al tempo di Nerone, ma i laghetti durante il medio evo scomparvero. Al tempo in cui il giovane romito viveva lassù, non esisteva ancora la città di Subiaco;[2] però sulle rovine della villa di Nerone era sorto un chiostro dedicato a S. Clemente, ed uno de' suoi monaci, di nome Romano, soleva ogni giorno portare del cibo alla grotta del giovane Benedetto. Questi, persuaso da sua sorella Scolastica, uscì finalmente dalla caverna, come Maometto; la fama della sua santità si era già diffusa, e siccome molti romani si erano uniti all'ispirato anacoreta, egli gettò le regole fondamentali dell'Ordine e divise i fratelli in dodici piccoli chiostri. Questi si trovavano tutti nella medesima valle, nella selvaggia solitudine dei monti. Nel contemplare quel solenne cerchio di monti, che ora rudi e ripidi si slanciano nell'azzurro, ora invece gaiamente coperti di verdeggianti boschetti, nei quali risuona la dolce canzone dell'usignuolo, non si può fare a meno di apprezzare il sentimento della natura, che albergava nell'animo del giovane ispirato. Non una di quelle incantevoli vedute, cui solo l'orizzonte è limite, delle quali è ricca la Campagna romana, alletta e trattiene qui l'occhio, ebro di sole e di vita; no: l'orizzonte è qui chiuso e costretto da rupi selvagge.
Verso settentrione si innalzano, simili a giganteschi promontorî, due grandi monti, fra i quali precipita l'Aniene, che si apre violentemente la via fra enormi blocchi di rocce, attraverso ombrosi scoscendimenti, e, col suo eterno e melanconico strepito, immerge nel sogno l'anima del solitario viandante.
Qui, sulle nude pareti rocciose, in dodici chiostri, abitavano i santi di Roma, simili a corvi montani, e la valle di Subiaco poteva paragonarsi ad una di quelle deserte valli d'Egitto, dove Atanasio ed Antonio riunirono intorno a loro innumerevoli schiere di anacoreti.
Ma l'invidia di un prete delle vicinanze di Vicovaro (Varia), scacciò il patriarca da Subiaco; Pelagio[3] tentò un giorno di mandare all'aria quei chiostri col lascivo allettamento di belle ragazze, che ebbe l'impudenza di mandare nelle celle dei monaci; allora Benedetto abbandonò il luogo profanato, dove aveva per molti anni meditato e studiato colla compagnia di tre giovani corvi da lui allevati, e si diresse a Montecassino, dove l'anno 529 fondò il famosissimo chiostro. Ma in Subiaco qualche cosa di lui era rimasto; egli stesso vi aveva lasciato Onorato come suo successore, in qualità di abate. La storia dei dodici chiostri è poco conosciuta: sembra che la tremenda guerra di distruzione dei Goti abbia impedito loro di prosperare. Onorato costrusse il chiostro principale, consacrato ai santi Cosma e Damiano; è questo il solo rimasto dei dodici, e porta il nome di S. Scolastica. I Longobardi distrussero gli altri nel 601;[4] i Benedettini scacciati si rifugiarono in Roma, dove il papa aprì[5] loro il chiostro di S. Erasmo, sul monte Celio. Gregorio Magno ci si presenta come il vero fondatore della potenza mondiale dell'abbazia di Subiaco; a lui è attribuito un atto con cui nel 599 avrebbe concesso a quell'abbazia una quantità di beneficî e di privilegi, e questa pergamena apocrifa è diventata poi la base sulla quale i Benedettini si sono arrogati infiniti diritti. L'originale è contenuto solo in un rescritto, detto autentico, del 1654. Ci sono anche altri documenti di questo genere, donazioni di Gregorio IV e di Nicolò I, e dei re Ugo e Lotario, dell'anno 941, che nessuno studioso di coscienza può ritenere genuini. Le falsificazioni si diffusero tanto nel chiostro, che Leone IX nel 1051 bruciò di sua mano molti documenti.
L'abbazia di Benedetto rimase abbandonata per 104 anni, finchè Giovanni VII,[6] nel 705, la popolò nuovamente. Ma i Saraceni la distrussero nell'840, finchè sotto l'abate Pietro I, alla metà di quel secolo, fu nuovamente riedificata. Abbattuta per l'ultima volta dagli Ungheresi, nel 938, fu finalmente ricostruita da Benedetto VII, nell'anno 981; questo pontefice consacrò, il 4 decembre, la chiesa del chiostro sotto il patronato di S. Benedetto e di S. Scolastica. Da quel tempo l'abbazia non ha sofferto più danni per mano di nemici, ed ha cominciato a fiorire, arricchita da donazioni valide e non contestate.
I cronisti narrano che la potenza feudale di Subiaco cominciò nel secolo XI, nel tempo in cui il feudalismo si andava estendendo in tutte le regioni. La considerazione del chiostro era divenuta così grande, che potenti baroni della Campagna romana donavano a S. Benedetto castelli e possessi; così il conte della Marsica, Rainaldo, concesse ai monaci Arsoli, Anticoli, Roviano e molti castelli con essi passarono all'eterno feudo dell'abbazia. Gli abati in questo tempo divennero i veri baroni. Ma è assai strano che Subiaco stessa, che si era accresciuta e, prima, formata sotto la protezione dell'abbazia, non cadesse in potere degli abati. Nel cortile del chiostro di Santa Scolastica si vede, nella parete presso la porta della chiesa, una pietra murata: essa contiene un'iscrizione del 1052, del quarto anno cioè del pontificato di Leone IX, la quale dice che il venerando abate Uberto edificò la torre del chiostro in onore di Cristo, del suo rappresentante Benedetto e della sorella di lui Scolastica; enumera quindi tutti i possessi del chiostro, la grotta di Benedetto, i due laghetti che ancora esistevano, il fiume Aniene, con l'uso del mulino e il diritto di pesca, e ventiquattro castelli nel territorio dell'Aniene.
La città di Subiaco però non vi è nominata.[7] Molto probabilmente divenne soggetta al chiostro dopo che l'abate Giovanni V, nell'anno 1068, ebbe costruito sul luogo la rocca, o fortezza, come afferma un cronista dell'abbazia. Questa fortezza si erge ancora presso il palazzo municipale, sebbene assai cambiata di aspetto, sul monte piramidale, sui fianchi del quale è fabbricata la città.
Giovanni V, cardinale diacono di S. Maria in Dominica a Roma, abate possente e guerriero, sembra sia stato il vero fondatore della potenza temporale di Subiaco. Per 59 anni egli vi regnò come principe; condusse guerre fortunate contro i baroni delle vicinanze, e dopo aver riempito di ricchezze il chiostro, ed edificata una chiesa sopra la grotta di Benedetto ( sacrum specus ) per perpetuarne la memoria, morì assai vecchio nel 1121. Da quel tempo gli abati benedettini furono annoverati fra i principi guerrieri e temuti della Campagna romana, come gli Orsini e i Colonna, coi quali osarono gareggiare. I loro vassalli, i contadini e gli abitanti dei castelli che loro appartenevano, gemevano sotto un dispotismo feudale, tanto più terribile, in quanto che era esercitato da uomini le cui passioni non potevano essere attenuate o limitate da nessun riguardo politico. Essi stessi erano i ministri del dispotismo del chiostro e del potere dell'abate sovrano, da loro eletto; ma, d'altro canto, si rifacevano sui vassalli, come incaricati di riscuotere le imposte, come segretari e giudici, senza appello, di vita e di morte. L'abate mandava in ogni castello un monaco che vi esercitava da signore una giustizia barbarica, e per primo, nell'anno 1232, Gregorio IX dispose, per alleviare la sorte dei vassalli, che ogniqualvolta i castellani avessero da rendere giustizia, dovessero unirsi una specie di procuratore legale scelto nella cittadinanza. In principio si chiamò, secondo l'uso del tempo, buon uomo, poi castellano. Finalmente il diritto di rendere giustizia fu tolto ai monaci, che restarono però amministratori ed esattori delle imposte, col diritto di sorvegliare le moltitudini; il preposto al castello, nominato dall'abate, esercitava la giustizia indipendentemente da lui, ma in suo nome.
I sudditi dell'abbazia si dividevano in tre classi: i liberi, che non erano obbligati a servire come soldati del chiostro, perchè non portavano rendite al feudo; i milites, che, nella loro qualità di vassalli del chiostro, dovevano servirlo con le armi, e finalmente i contadini o servi della gleba, tutti dipendenti da un connestabile. Così l'abate imperava su un piccolo esercito di vassalli obbligati al servizio militare; più tardi egli assoldò anche delle bande, nè più, nè meno degli altri baroni, e, se era di spirito bellicoso, guidò in persona a cavallo le sue truppe alla battaglia, con lo scudo e la spada.
Le ostilità con i vicini vescovi di Preneste, Tivoli, Anagni, o con i baroni dei dintorni, diedero spesso occasione a fatti d'arme; anche entro le tombe si poneva la spada al fianco dell'abate.
Essi appartenevano alle più note famiglie nobili della Campagna romana, come, fra gli altri, ricorderò il bellicoso Lando, nipote di Innocenzo III, dell'illustre prosapia dei Conti di Segni; morì questi nel 1244. Ma nè la ferrea potestà che esercitavano, nè la severa disciplina preservarono talora il chiostro dai più funesti scompigli. Le condizioni e gli eventi del papato in Roma si riflettevano in piccolo sull'abbazia di Subiaco.
I monaci erano animati da un vivacissimo spirito di parte, e l'audace ambizione di alcuni di essi si faceva beffe di tutte le leggi di Benedetto. Dopo la morte dell'abate, nell'anno 1276, il monaco Pelagio, raccolti armati per costituirsi signore temporale del luogo, assalì il chiostro, scacciò i monaci, e dopo aver saccheggiato il tesoro, ritornò a Cervara, luogo selvaggio, rupestre, sopra Subiaco, dove si tenne armato per quattro anni, aspettando che l'abbazia rimanesse indifesa e senza capo.
Il papa scelse un nuovo abate e lo mandò contro di lui con molte truppe, che solo dopo un difficile assedio riuscirono a sopraffare i ribelli.
Questo stato di cose peggiorò durante l'esilio avignonese, e per molti anni l'abbazia rimase senza capo; quando poi un papa vi mandò un abate di Avignone, che col suo reggimento tirannico mise la disperazione così nei monaci come nei vassalli. Bartolomeo da Montecassino, consacrato abate nel 1318, vi condusse la più scandalosa esistenza; sulla fortezza stabilì un harem di belle ragazze ed i monaci seguirono il suo esempio.
Il chiostro minacciava di dissolversi: se così non accadde, fu per la severità del francese Ademaro. Questo tirannello divenne abate nell'anno 1353. Ci possiamo immaginare facilmente l'ambiente, quando si sappia che Ademaro non esitò a far un bel giorno appiccare per le gambe sette monaci suoi nemici, che furono bruciati a fuoco lento. Era ghibellino convinto; battè una volta sull'Aniene, presso la porta di Subiaco, le truppe del vescovo di Tivoli, partigiano del papa. Ancora oggi gli abitanti mostrano allo straniero il ponte ad un arco, munito di torre, che conduce a Subiaco, attraverso l'Aniene, quello stesso che Ademaro aveva fatto edificare col bottino dai prigionieri di Tivoli.
Il disordine era giunto al colmo; uno dopo l'altro gli abati erano costretti ad abbandonare la dignità. Vedendo infruttuose le riforme più volte tentate con decreti ed ordinanze della Curia romana, Urbano VI risolvette di por fine con un'azione repressiva e vigorosa a quell'anarchia. Con la bolla dell'anno 1386 egli tolse ai monaci il loro antico e prezioso diritto di eleggere l'abate. Dalla fondazione del chiostro essi avevano eletto 57 abati, ed erano fieri del privilegio del loro piccolo principato elettivo, che sorpassava per venerabile età i regni della terra; a malincuore dunque dovettero piegarsi all'ordine pontificio, e da quel tempo cominciò a declinare lo splendore di questa abbazia benedettina.
Furono i pontefici che scelsero d'allora in poi gli abati, e questi nuovi capi del chiostro si dissero manuales, perchè ricevevano l'investitura dalle mani del papa. Il primo di questi fu Tommaso da Celano, ardente seguace di Urbano, uomo di qualità e doti superiori. Tale ordine di cose durò fino all'anno 1455, nel quale gli abati, sino allora arbitri della forza e giurisdizione feudale, e di essa terribilmente armati, perdettero anche questo diritto.
Si narra che la continua tirannide che esercitavano sui loro sottoposti sia stata la causa di tale perdita. Finchè il loro governo come una maledizione posò sui poveri sudditi, che riempivano le carceri, e spesso erano anche precipitati nei pozzi sotterranei della fortezza, i lamenti del popolo si alzarono alti e strazianti. Un caso segnò il momento della liberazione. Nel novembre 1454 quindici giovanetti schernirono per via due monaci e aizzarono contro loro dei cani: i fratelli del chiostro se ne lagnarono presso l'abate e la notte seguente questi mandò i suoi birri alle case ove abitavano i giovani, appartenenti alle più note famiglie del luogo, e al cader del sole la popolazione vide i quindici infelici impiccati alla forca, in un punto che anche oggi si chiama Colle delle Forche. Allora la popolazione si sollevò, assalì il chiostro, uccise i monaci, li precipitò dalle finestre nell'abisso, e devastò l'abbazia. In seguito a questo fatto, Callisto III, il 16 gennaio 1455, ridusse Subiaco in commenda e dispose che un cardinale ne godesse i ricchi beneficî, sotto il titolo di abate; ed il primo fu il dotto spagnolo Juan Torquemada, cardinale di Santa Maria in Trastevere, cui comandò di riformare l'ordinamento di Subiaco e di tutti i castelli dipendenti. Fu allora stabilito un nuovo statuto, secondo il quale ogni abate era obbligato al giuramento di governare rettamente innanzi ai membri della comunità di Subiaco, mentre da parte sua la popolazione doveva giurare a lui fedeltà. Al primo cardinale abate Torquemada ed a questo chiostro spetta la bella fama di avere dato alla luce la prima opera stampata fuori di Germania.[8] Ne furono editori Corrado Schweinheym e Arnoldo Pannartz che, prima di stabilire la stamperia romana al palazzo Massimi, trovarono ospitali accoglienze a Subiaco. Qui anzi essi terminarono il 30 ottobre 1465 di stampare le Istituzioni di Lattanzio, e pubblicarono nel 1467 l'opera di S. Agostino: De civitate Dei. Questi magnifici ricordi della signoria monacale a Subiaco sono insieme degni monumenti della nostra patria tedesca; ancor oggi li conserva la biblioteca del chiostro di S. Scolastica.
Torquemada morì in Roma nel 1467 e gli successe un altro spagnolo, Rodrigo Borgia, divenuto poi Alessandro VI.
In Subiaco le preziose opere di stampa non ricordano il suo nome, ma lo ricorda la rocca del palazzo, a cui nel 1476 aggiunse un'ala sormontata dalla torre quadrata. Si vede ancora il toro del suo stemma sul muro esterno, dove un'iscrizione dice che il cardinale Rodrigo munì la rocca per la difesa dei monaci e dell'abbazia e per la sicurezza dei confini della Chiesa Romana. Sedici anni dopo fu inalzato al seggio pontificio; egli pagò anche il voto datogli nel conclave dal cardinale Giovanni Colonna, avendogli promessa l'abbazia di cui sino ad allora aveva goduto i beneficî. Ma l'amicizia fra Alessandro VI e i Colonna ebbe breve durata: la più potente famiglia romana cominciò ad attraversare i disegni dei Borgia, che miravano a formare un grande dominio temporale, per mezzo della forza e dell'astuzia, a danno dei grandi baroni. Il cardinale Colonna dovette far vela per la Sicilia ed abbandonare la commenda, che per tutta la durata del pontificato di Alessandro, fu occupata dal palermitano Luigi de Aspris.
Era quel terribile papa appena morto, che Colonna fu reintegrato nella commenda dal suo successore, Giulio II. Nel 1508 la passò egli stesso al famoso suo nipote Pompeo: questo lascivo cardinale dicesi conducesse a Subiaco la bella Marsilia, figlia di Attilio Corsi. Un giorno il padre brandendo un pugnale riuscì a penetrare nella camera del seduttore, ma fu afferrato dai servi e gettato in un sotterraneo segreto. Pompeo si era già guastato con Giulio II, che aveva riunito l'abbazia di Subiaco con quella di Farfa, terzo degli antichi conventi benedettini, fondato nel VI secolo nel territorio sabino, ed allargato ed esteso dai duchi longobardi di Spoleto, nei dominî dei quali il monastero si trovava. I rapporti fra le due abbazie diedero d'allora in poi occasione a continue lotte: un partito voleva riunirsi ai monaci di Montecassino, ciò che ebbe luogo nel 1514; l'altro, il partito tedesco, stava invece per la fusione con l'abbazia di Farfa. Farfa aveva il titolo di abbazia imperiale e contava molti tedeschi fra i suoi monaci: essi ricorsero più volte all'imperatore e, più volte scacciati da Montecassino, i benedettini vi furono reintegrati dai papi.
Pompeo Colonna, scomunicato da Giulio II, ma riammesso in grembo alla madre Chiesa da Leone X, passò la commenda al nipote Scipione. I Colonna erano potenti nella Campagna romana, dove si erano formati un piccolo regno delle città degli Ernici e dei Volsci; essi pensavano perciò d'incorporare anche Subiaco nei loro possessi, e siccome i cardinali di questa famiglia ottenevano dai papi che fosse assegnata la commenda ai loro nipoti, viventi ancor essi, così fu loro possibile di essere padroni di Subiaco per ben 116 anni. Per tutto questo periodo il paese rimase ai Colonna, nonostante le continue lotte coi papi. Clemente VII subì per questo una tremenda sconfitta. Le sue truppe distrussero nel 1527 la rocca di Subiaco, ma il 28 giugno dell'anno successivo furono completamente battute, sotto il comando di Napoleone Orsini. La bandiera tolta in quella giornata alle truppe pontificie, si conserva, come trofeo, nella chiesa di S. Scolastica, e ogni anno, nello anniversario, si festeggia a Subiaco, con una processione, questa vittoria ottenuta su di un pontefice.
Questi ricordi storici sono ancora vivi in tutta la regione.
Il dominio dei Colonna fu un governo baronale, fatto di arbitrio, senza legge, simile al dominio lombardo-spagnolo dipinto dal Manzoni nel suo romanzo. Questi cardinali non vedevano nella porpora che indossavano che il manto della sovranità; dei banditi assoldati, già noti allora sotto il nome di bravi, obbedivano fedelmente ai loro minimi cenni, e nè la proprietà, nè l'onore delle famiglie erano sacri a quelle masnade accampate nel cortile della rocca. Mentre duravano ancora le contese tra Farfa e Montecassino, una notte, Scacciadiavolo, il temuto bravo di Pompeo, con 44 armati piombò sul chiostro di S. Scolastica, lo saccheggiò e ne scacciò tutti i monaci. Si dice che vi avesse avuto mano anche il cardinale; fatto si è che egli fu destituito dal papa, ma per esser subito dopo rimesso al suo posto. La storia di quel tempo è piena di simili violenze, e molti luoghi di Subiaco ne tramandano la cupa memoria: si mostra ancora la piazza, per esempio, in cui parecchi cittadini furono sepolti vivi. Subiaco vide, fra le altre atrocità, anche lo spaventoso matricidio che impedì la grazia della famiglia Cenci. Un membro della casa Santa Croce di Roma avendo nel 1599 strangolato la sua propria madre a Subiaco, il papa, appena saputolo, firmò la condanna a morte di Beatrice Cenci, della matrigna e del fratello.
Intanto la potestà di Subiaco passava dall'uno all'altro Colonna, la storia dei quali è legata a quella del chiostro; così Marcantonio Colonna, così Camillo e finalmente Ascanio, che fu della famiglia Colonna l'ultimo cardinale-abate di Subiaco. Abitava questi nella rocca, spudoratamente, con la sua amante Artemisia, che aveva elevato a sua sostituta nella direzione dell'abbazia, ogniqualvolta egli doveva assentarsi; la cosa sollevò tanto scandalo che la commenda fu tolta ai Colonna. Dopo la morte di Ascanio, nel 1608, il papa l'assegnò a suo nipote Scipione Caffarelli Borghese, che la tenne fino al 1633.
I Colonna non hanno lasciato in Subiaco nessun bel ricordo; si vedono soltanto nella fortezza, che essi fecero costruire ed abbellire, delle stanze ornate dei loro stemmi.
Mentre fino al secolo xvi gli Orsini e i Colonna furono i padroni veri e propri della Campagna romana, dopo il XVI secolo subentrarono in questo dominio le più recenti famiglie, i Borghese e i Barberini, portate su da papi nepotisti. Essi acquistarono le più belle proprietà del Lazio, e le posseggono ancora (1858). Le città di questa regione mostrano sempre i loro palazzi massicci e spaziosi, dalle cui pareti pendono i polverosi ritratti dei baroni di quel tempo. Se ne trovano molti; ed anche nella cittaduzza montana degli Ernici, dove scrivo queste righe, mi trovo in mezzo a quadri famigliari di antichi cardinali e di maestose dame del secolo XVII; fra i cardinali ho notato il volto roseo di Scipione Borghese. Era il tempo dell'assolutismo galante e sensuale, in parrucca incipriata e calze di seta, il cui carattere era imbelle, intrigante e scandaloso, non meno che prosaico. I baroni in corazza e maglia del medio evo si eran mutati in principi molli che, sdraiati sui divani delle loro camere, gustavano i frutti che il vassallo tremante portava loro al castello. Ogni volta che i cardinali facevano il loro ingresso in Subiaco per prendere possesso dei beneficî, arrivavano alla testa di un piccolo esercito mercenario, e, accompagnati da un nugolo di servi, ricevevano sulla porta dalle mani del magistrato le chiavi della città.
I Borghese furono presto cacciati da Subiaco dai Barberini. Urbano VIII, capostipite di questa ricca casa, assegnò la commenda al nepote Antonio, nel 1633; da questo tempo i Barberini seppero molto bene seguire l'esempio dei Colonna, poichè per 105 anni l'abbazia rimase nelle loro mani; Antonio accrebbe anche la potenza del cardinale-abate; aggiunse al diritto di giurisdizione baronale anche quello vescovile, che fino ad allora avevano esercitato i vescovi confinanti di Tivoli, Anagni e Palestrina, sui diversi castelli. Così il commendatore di Subiaco fu insieme barone e vescovo, con terrore del povero popolo. Le leggi erano così inumane che solo per aver preso una quaglia o un fagiano si era puniti con dieci anni di galera. Tuttavia il governo dei Barberini portò un po' di bene: Subiaco, per la sua posizione naturale, su di una ricchissima corrente di acqua, era specialmente adatta all'industria, e deve al primo Barberini le fabbriche di carta, di cotone e di stoffe colorate, che occupano e nutrono anche oggi alcune centinaia di operai; nulla però si è potuto fare per sviluppare queste industrie, poichè esse son rimaste un monopolio della commenda cardinalizia.
Intanto i monaci non avevano dimenticato che essi un tempo erano stati i signori feudali dell'abbazia; colsero dunque l'occasione della morte di Francesco Barberini, nel 1738, per far valere i loro antichi diritti. Nominarono vicario quegli che era stato abate, Bernardo si lasciò condurre nella chiesa della città, ricevette là dal gonfaloniere del popolo il giuramento dei sudditi, giurò egli stesso gli statuti, e dopo una completa cerimonia di presa di possesso, fu portato in processione per Subiaco, imitando in tal modo l'insediamento di un nuovo papa. Così, come se fosse stato un abate del xiii secolo, promulgò editti, insediò suoi agenti nei castelli, fece grazie, richiamò esiliati e tenne un linguaggio da principe. L'editto inaugurale del suo governo comincia con queste pompose parole: «Noi, Don Bernardo Cretoni, dell'ordine di S. Benedetto, monaco e professo del sacro imperiale chiostro di S. Maria della Farfa, e per grazia di Dio abate regolare del sacro chiostro di S. Scolastica, e, per grazia della Santa Sede Apostolica, Vicario della medesima Santa Sede apostolica, vicereggente temporale e spirituale». Ma lo sfrontato abate trovò la più ostinata resistenza nel popolo, cui non sorrideva punto l'idea di tornare sotto il dispotismo della cocolla, ed un'eguale resistenza nella gelosia della parte religiosa secolare della città. Gli uni e gli altri ricorsero al Pontefice, e questi diede la commenda al cardinale Spinoza, che come plenipotenziario prese finalmente possesso di Subiaco.
Verso la metà del secolo XVIII era divenuto acerbissimo l'odio contro tutte le istituzioni feudali e il monacato, venuto in contrasto con gli stati laici, doveva risentirne gli effetti. A Subiaco si formò una congiura contro i benedettini; si cantavano canzoni di scherno contro i monaci e nelle strade, dei declamatori raccontavano la storia del chiostro, eccitando la popolazione con la narrazione dei soprusi e delle violenze patite. I monaci, che non avevano potuto reprimere una sollevazione avvenuta il 13 maggio 1752, invocarono l'aiuto delle truppe romane: una compagnia di côrsi entrò in Subiaco, e con essa un commissario pontificio per farvi un'inchiesta. Avendo la commissione riconosciuto quale era la radice del male, papa Benedetto XIV risolvè di abolire i diritti feudali dei benedettini. Un papa che aveva il nome di Benedetto ebbe il coraggio di rinnegarlo, e, mentre egli annientava uno dei più antichi principati ecclesiastici del mondo, si metteva su quella via di riforme nella quale poi doveva seguirlo l'infelice suo successore. Egli abolì per sempre, il 7 novembre 1753, la giurisdizione temporale del cardinale-abate di Subiaco, e gli lasciò soltanto alcuni titoli e rendite di natura feudale, che sussistono ancora in gran parte e sono abbastanza gravosi. Il principato temporale passò allo Stato e fu esercitato da un governatore e da un giudice, che venivano nominati dalla Sacra Consulta. La commenda cardinalizia rimase un beneficio semplicemente spirituale; il suo primo titolare, in questa nuova condizione, fu Giovanni Battista Banchieri.
Questa fu la fine dell'ordinamento medioevale della famosa abbazia, e da quel tempo la sua storia perdè ogni interesse. Però fra i suoi cardinali-commendatori ve n'è uno notevole per avere efficacemente favorito, secondo le esigenze dei nuovi tempi, la civilizzazione di quella regione, ed è Pio VI, Braschi, che, nominato cardinale-abate nel 1773, rimase tale anche quando fu fatto papa, e colmò Subiaco di beneficî. Oltre alla costruzione di vari edifici, come la cattedrale, un grande seminario, il restauro del palazzo, ed altro, suo titolo principale alla riconoscenza di quella popolazione è la bella strada che, lungo l'Aniene, conduce a Tivoli: per mezzo di questa strada egli collegò l'abbazia alla capitale della regione. I cittadini di Subiaco gli innalzarono perciò un arco di trionfo, sul modello dell'arco di Tito; è un ornamento di quel luogo che il medesimo pontefice aveva fatto diventare città. Pio VI entrò a Subiaco nel maggio 1789 passando per questa porta d'onore.
Ma ben presto la Repubblica franco-romana abbattè quello che rimaneva; due volte essa soppresse il chiostro, finchè Pio VII lo ristabilì nel 1814. Gli ordinamenti dell'abbazia sono da quel tempo rimasti come erano stati fissati nel 1753; il cardinale-abate possiede uno dei più ricchi beneficî della chiesa; i monaci, non più signori di castelli e di vassalli, hanno ancora molti beni e coloni; i loro possessi, coltivati a olivi ed a viti, giungono sino ai piedi dei monti Volsci. L'ammontare della rendita annuale che appartiene anche oggi al chiostro, è valutata da 8 a 10,000 scudi.
L'abbazia stessa conta presentemente nel suo territorio 21,000 e più abitanti, ripartiti in sedici villaggi e castelli: Subiaco, Trevi, Jenne, Cervara, Camerata, Marano, Agosta, Rocca Canterano, Canterano, Rocca di Mezzo, Cerreto, Rocca Santo Stefano, Civitella, Rojate, Affile e Ponza. Fra questi Trevi e Affile sono antiche colonie romane. Meglio che da qualunque altro luogo, la vista di questa regione, ch'è il territorio superiore dell'Aniene, si gode da una delle alture del Serrone, che separa la valle dell'Aniene da quella del Sacco. I castelli dell'abbazia sono situati, eccetto Subiaco, sulle sommità rupestri dei monti, e sono grigi come le pietre calcaree che li circondano. Il bizzarro modo di edificare, la selvaggia solitudine, le vesti, l'idioma, i costumi, rendono la regione degna di grande attenzione. Ma spaventosa è la miseria di quei montanari: il loro nutrimento, che si limita spesso a cattivo granturco, è meno sicuro di quello degli animali della campagna, per i quali la natura ha in qualche modo provveduto. In nessun luogo d'Italia ho visto una miseria più spaventosa quanto in alcuni di quei luoghi. Bisogna entrare nelle stamberghe di quei coloni dei monti, o vederli vangare la terra, al melanconico canto dei loro ritornelli, e lavorare più accanitamente dei muli, per compiangerli quanto essi meritano. Meglio che nelle cronache del tempo, nei loro cenci e nei volti emaciati e pallidi per la febbre si legge la storia delle violenze della potestà feudale dei baroni e dei monaci.
Più viva e interessante della storia politica del chiostro sarà pel lettore la descrizione di quelle particolarità che allontanano l'occhio dell'osservatore dalla miseria della popolazione, e lo volgono altrove. Mentre il vassallo serviva e soffriva la fame, il monaco ben nutrito risedeva nel suo chiostro, e lo abbelliva con quadri artistici e con memorie di altri tempi; della qual cosa noi dobbiamo essergli grati. Esistono due chiostri a Subiaco, che stanno sotto un solo abate e formano una sola corporazione: di S. Scolastica il primo, il secondo di S. Benedetto, chiamato anche Sacrum specus. Giacciono ambedue fuori della città, sulla riva destra dell'Aniene, nella solitudine dei monti. Il primo è il più antico: è una bizzarra e pittoresca massa di edifici, fra i quali si erge una torre quadrata, innalzata dall'abate Umberto, nel 1053. Il miscuglio di stile romano e gotico delle finestre e delle nicchie rivela la traccia di diverse epoche, ma nel complesso mostra ancora soltanto alcuni resti dell'epoca più vetusta, specialmente nei cortili. Il chiostro fu più volte restaurato e la sua chiesa attuale è una costruzione del secolo scorso. A questo secolo noi dobbiamo anche attribuire la facciata del convento, mentre la corte seconda, o interna, rimonta, come si rileva dall'arco romano e dai pilastri, al secolo XVII. Pitture moderne sulle pareti e sui pilastri, in condizioni miserevoli, ricordano la storia dell'abbazia; vi sono rappresentate in grandezza naturale le figure dei papi e dei principi che visitarono il chiostro, fra gli altri l'imperatore Ottone III e l'imperatrice Agnese. Alcune iscrizioni recano la lista completa dei luoghi posseduti un tempo dall'abbazia.
Di qui si passa in un cortile intermedio, situato dinanzi all'entrata della chiesa: è notevole per alcuni resti di architettura gotica, specialmente per un grande arco di pietra, scannellato, ornato di figurine e di spirali. Qui si trova anche il più antico monumento posseduto da S. Scolastica, cioè un rozzo bassorilievo in marmo del 981, del tempo degli Ottoni tedeschi e della più profonda barbarie romana. È un quadrato di alcuni piedi di larghezza e di eguale altezza, che porta scolpite quà e là immagini medioevali. Su di un fusto ornato di foglie si erge un vaso: due bestie orecchiute si arrampicano con le quattro zampe sul fusto, sollevandosi per bere il contenuto del vaso. Il loro aspetto è così enigmatico, che non mi credo nel caso di poter decidere se siano lupi o cervi, volpi o cani, od altri animali. Sul dorso di una sta un uccello in atto di beccare. Tutt'intorno corrono fregi e ornati in pietra. Il corpo di una delle bestie contiene una iscrizione che ricorda come Benedetto VII consacrasse la chiesa del chiostro il 4 dicembre 981.
EDIFICATIO UIUS ECCLE SC E SCOLASTICE TEMPORE DOMNI BENEDICTI VII PP. AB. IPSO PPA DEDICATA Q. D. S. AN. AB INCARNATIONE DNI CCCCCCCCCLXXXI M. DE CB. D. III. INDICTIONE VIII.
Sul bassorilievo si trova un'altra iscrizione rovinata, della quale mi è stato impossibile decifrare il principio. Di fronte a questa, accanto alla porta della chiesa, si legge l'iscrizione del tempo di Leone IX, di cui ho già parlato.
La chiesa stessa, della quale la primitiva fabbrica era stata consacrata da Benedetto VII, non ha più nulla di antico. Ma se si entra nel vero e proprio cortile del chiostro, a destra, si trova uno spazio quadrato intorno ad un pozzo ornato di quelle piccole colonne ed archi rotondi come se ne vedono a Roma in molti chiostri: è del principio del secolo XIII, memoria del potente abate Lando e della famosa famiglia artistica romana dei Cosmati. Gli esametri sull'entrata principale dicono:
COSMUS ET FILII LUCAS ET JACOBUS ALTER ROMANI CIVES IN MARMORIS ARTE PERITI HOC OPUS EXPLERUNT ABBATIS TEMPORE LANDI.
Questi degni maestri furono più felici nei loro monumenti funerari e tabernacoli che in questa costruzione, che non può in nessun modo sostenere il confronto col chiostro dei benedettini di S. Paolo in Roma. Le colonne (ogni due ve n'è una doppia e contorta) sono semplici e rozze; i capitelli sono brutti e a forma di trave; nè mosaici, nè intagli ornano l'arco e il cornicione. L'arte sembra qui essersi adattata alla rozzezza della campagna.
Questi sono essenzialmente gli unici o i più notevoli resti di un passato così ricco e così lungo, che ha subìto tante devastazioni. Gli edifici del chiostro, spaziosi nell'interno, con molti corridoi, celle, camere, e sale per usi diversi, sono in gran parte recenti. Sono entrato con piacere e curiosità solo nelle biblioteche e nell'archivio dei benedettini; i ben catalogati scaffali contengono materiali preziosi per la conoscenza del Lazio nel medio evo. Alcuni scaffali sono consultabili e visibili a tutti, altri inaccessibili, e la bacchetta magica del Muratori stesso non riuscì a farne aprire i ripostigli. Di gran pregio è il Regestum insigne veterum monumentorum Monasteri Scholastici, in pergamena, raccolta di documenti dal nono secolo in poi.[9] Mancano documenti anteriori. Nessuna delle cronache di Subiaco è stata data alle stampe, eccettuata una anonima che giunge sino al 1390 ed è edita dal Muratori. A questo fu interdetta la stampa di una cronaca più particolareggiata, scritta da un tedesco di Treviri nel 1629: Chronicon Sublacense P. D. Cherubini Mirtii Trevirensis anno Dni 1629.[10] I monaci permettono di vederla: è assai più completa dell'altra, neppure quella stampata, di Guglielmo Capisacchi di Narni (1573); non può dirsi un lavoro notevole, ma solo una compilazione, senza corredo di documenti. La storia dell'abbazia giace ancora sepolta in questi archivi; l'ha scritta di nuovo il canonico Janucelli, ma anche l'opera sua non è scientifica. Ho avuto fra mano un manoscritto del 1833, che contiene una storia abbastanza esatta dell'abbazia; n'è autore Silvio Mariani, di Subiaco, morto testè in Grecia. Egli si è servito dei cronisti sopra nominati, ed anche di alcuni documenti, ma la sua opera non è, essa pure, che manoscritta. È dettata con spirito liberale e consta di 492 pagine: debbo ad essa molte delle notizie che qui sopra ho riportato.
La biblioteca è piccola ma notevole per quegli antichissimi incunabuli tedeschi di cui ho già dato notizia. Ho preso in mano con gioia i preziosi, belli e ben stampati volumi in-folio che mi porgeva un giovane benedettino tedesco. In fondo all'opera di Lattanzio ho trovato scritto: « Lactantii Firmiani de divinis institutionibus adversus gentes libri septem, nec non ejusdem ad Donatum de ira Dei liber unus, una cum libro de opificio hoîs ad Demetrianum finiunt. Sub anno Dni MCCCCLXV pontificatus Pauli papae. Anno ejus secundo. Indictione XIII die vero antipenultima mensis Octobris. In venerabili monasterio Sublacensi. Deo gratias ».
Spontaneo grido di gioia, questo, di quei bravi stampatori che, per modestia, nemmeno hanno manifestato il loro nome. Ciò mi ricorda il motto che i greci e i latini del medio evo ponevano in fondo al manoscritto copiato, per coronare le proprie fatiche:
ὥσπερ ξένοι χαίρουσι πάτριδα βλέπειν οὕτως καὶ οἳ γράφουσι τέλος βιβλίου.[11]
S. Scolastica conta ancor oggi circa settanta fratelli, fra cui parecchi tedeschi, e l'attuale abate, Don Pietro Casaretto, ha severamente riformato la disciplina dell'ordine. Ora, a quanto mi si è detto, i monaci sono stati messi a magro regime; ma visitando la bella cucina, dalla volta profonda, un odore gradevole di grasso, degno di Omero, mi ha colpito le narici e non mi è parso esattamente secondo la regola pitagorica di S. Benedetto, proibente l'uso della carne.
Passiamo ora al vero santuario dei Benedettini, a quel piccolo secondo chiostro che alla metà del secolo XI fu edificato sulla grotta di Benedetto, e per questo chiamato sacro speco. I monaci di Montecassino nel 1688 aprirono una strada per salirvi, via ripida, che conduce, traverso le rupi, alla grotta, offrendo magnifici panorami. Mentre il viaggiatore ha sotto i piedi la corrente spumeggiante, vede la bella valle di Subiaco e il burrone dell'Aniene. In lontananza, dove la valle sembra chiudersi, si scorge l'alpestre paese di Jenne, patria di Alessandro IV e dell'abate Lando dei conti di Segni. Immediatamente prima della grotta si trova un ombroso e oscuro boschetto di quercie, che forse già attrasse il solitario Benedetto, e che anche oggi, come un bosco sacro degli antichi, annuncia la vicinanza di un mistero.
I piccoli fabbricati, fondati l'uno di seguito all'altro sulla grotta, sono appoggiati alla parete scoscesa della rupe, e presentano all'aspetto un miscuglio originale di stili e sono ornati fin dall'esterno di pitture. Si passa sopra un ponte murato, che deve essere stato nel medio evo un ponte levatoio, e si penetra in una lunga galleria che conduce nell'interno ed è ornata d'imagini non antiche degli evangelisti. Su di una parete si leggono questi buoni distici:
Lumina si quaeris Benedicte quid eligis antra?
Quaesiti servant luminis antra nihil.
Sed perge in tenebris radiorum quaerere lucem,
Nonnisi ab obscura sidera nocte micant.
E sotto:
D. O. M. ordinis S. Benedicti Occidentalium Monachorum Patriarchae cunabula.
In verità mi son creduto d'un tratto piombato nella misteriosa atmosfera di quei tempi straordinari, allorchè, passato dalla galleria nella prima chiesa, improvvisamente mi sono trovato in un piccolo duomo di splendida architettura gotica, nel soffitto e nelle pareti del quale si andavano già attenuando, per l'annerirsi graduale degli affreschi, il barbaglìo di luci multicolori. Invisibili monaci cantavano in coro il vespro; le loro voci possenti di basso risuonavano solenni e ritmiche attraverso l'ombra crepuscolare della chiesa, e nelle pause delle loro litanie si udiva il rauco gracchiare dei corvi. Tre corvi novelli sono infatti nutriti nel chiostro in memoria di S. Benedetto, e sembra che il numero tradizionale di questi simboli viventi dell'ordine non venga mai oltrepassato.
Sarebbe difficile una descrizione minuta del chiostro, tanto famoso per i suoi dipinti. Molti sono i tempietti e le cappelle, di costruzione laberintica, siccome si conviene ad un edificio fabbricato tra le rupi. Quei tempietti e quelle cappelle in parte sono fondati sulle grotte stesse, delle quali talora è visibile la nuda roccia; in parte sono appoggiati sulla parete della rupe. Si scende da una chiesa all'altra mediante scalini, e si crederebbe di essere dentro a catacombe montane, cariche di colori, scintillanti di ceri sugli altari. In queste cripte non si trovano soffitti o pareti che non siano ornati di affreschi, rappresentanti la vita di Benedetto, scene della storia del chiostro e della vita dei santi, o rappresentazioni allegoriche. La storia del monacato raggiunge con la vita di S. Benedetto il suo punto culminante epico-eroico, parallelamente ai canti cavallereschi delle lingue neo-latine. Non terribile come le leggende dei martiri del cristianesimo, che sostenevano la loro disperata lotta per la vita, ma penetrato di una mite dolcezza fantastica, esso spiega una ricchezza sorprendente di gradevoli motivi artistici. Mi sembra anche che i miracoli di Benedetto abbiano in sè più poesia di quelli degli altri santi, pochi eccettuati. L'amore fraterno tempera in essi l'egoismo di una esistenza d'eremita, separata del tutto dal mondo, e nobili ci sembrano in essa le avventure di Benedetto e di Scolastica, la loro solitudine, il lungo peregrinare sui monti, la distruzione dei templi pagani, l'erezione di nuovi chiostri. Al maestro si uniscono nobili giovani; fra gli altri Placido, l'apostolo di Sicilia, e Mauro, l'apostolo di Francia; essi guidano la fantasia dalla limitata solitudine dell'eremita ad un orizzonte pieno di storia e di destino. La vita di Benedetto si prestava ad essere soggetto di pittura; e perciò questo grandioso ciclo del monacato, che ha avuto la sua influenza anche sui poemi del Graal e di Titurello, ha trovato in Subiaco la sua rappresentazione classica.
L'intero Lazio non ha nulla di simile a questi quadri, se non forse, in un certo senso, le pitture della cripta del duomo di Anagni. Il loro studio è utile per la storia dell'arte, appartenendo questi affreschi a stili diversi: a quello bizantino, a quello di Cimabue e di Giotto, fino ai secoli xv e xvi. Ne parlerò brevemente.
La prima chiesuola, edificata, secondo un'iscrizione, dall'abate Giovanni V, nel 1116, fu ornata con affreschi nel 1220 da Giovanni VI. Questi affreschi ricoprono letteralmente le pareti, e, benchè rozzi ed imperfetti nel disegno, mostrano tuttavia una rara freschezza di vita ed una potenza epica naturale, straordinaria nello stile delle cronache trasportato nella pittura, se ci è lecito usare questa espressione. A destra e a sinistra sono rappresentate molte scene della vita di Cristo, il suo ingresso in Gerusalemme, quadro ricco di figure, la sua passione e gli avvenimenti dopo la sua morte. In oggi gran parte sono anneriti; pure, per fortuna, essendo stati fatti dei restauri, appaiono meno danneggiati dei quadri che trattano la vita di S. Benedetto. In uno di questi il santo è rappresentato mentre si rotola tra le spine per allontanare l'apparizione di una splendida donna, ed in un altro lo si vede intento a scrivere, nella sua grotta, le regole dell'ordine; e sotto v'è questo antico tetrastico leonino:
Hic mons est pinguis, multis claruit signis,
A Domino missus sanctus fuit Benedictus,
Mansit in cripta, fuit hic nova Regula scripta.
Quisquis amas Christum talem sortire Magistrum.
Una piccola tribuna, scavata nella volta nuda della roccia, chiude questa chiesuola; dinanzi ad essa stanno, all'estremità della navata, tre archi acuti su eleganti colonne, a foggia di arco trionfale, le cui lunette sono ornate dai ritratti dei genitori di Benedetto, Probo e Abbondanza.[12] Dietro vi è un piccolo altare-tabernacolo, l'unico lavoro così detto alessandrino che io abbia trovato nel chiostro, nel quale altare il mosaico, contrariamente all'uso del tempo, è stato surrogato da un affresco.
Una serie di piccolissime cappelle conduce nell'interno e forma un corto e angusto passaggio che si può paragonare alla navata traversale d'una chiesa. Anche qui tutte le pareti sono coperte di quadri, che sono stati, però, di recente restaurati in modo vergognoso, con colori stridenti ed eccessivi. Sono quadrucci isolati, o piccole composizioni: vi si vede, Benedetto che cena con la sorella, la morte di due santi e quella di Placido e di Mauro. Si trova anche lassù un antico sarcofago di bambino, circondato da graziosi bassorilievi che raffigurano degli uccelli ed è innalzato sopra una piccola colonna per servire da vaschetta. Una scala conduce nella chiesa inferiore o media, particolarmente memorabile; anche qui tutte le pareti erano coperte di pitture, ed alcune iscrizioni ci hanno conservato il tempo e il nome dell'artista. Vi si legge in caratteri gotici: « Magister Conxolus pinxit hoc opus »; altrove: « Stamatico Greco pictor perfecit A. D. MCCCCLXXXX ». Consolo fu pittore della fine del xiii secolo, prima dunque di Cimabue, e prima che la pittura italiana si liberasse dai caratteri tipici dello stile bizantino. Forse egli è lo stesso artista che ornò di pitture murali il vestibolo di S. Lorenzo fuori le mura a Roma, sotto Onorio III, ambedue questi lavori essendo di quel tempo e della stessa scuola. I dipinti di Consolo—e di lui sono la maggior parte degli affreschi del chiostro—conservano ancora la maniera greca, ma certo non in tutta la sua violenta e cruda magrezza. Si trovano fra di essi sorprendenti figure di nobili forme, e con una semplicità di panneggiamento, che rammenta l'arte antica. Ad ogni modo questo antico maestro, il cui nome (da κομψός?) sembra rivelare il greco, è molto efficace e forse egli dipingeva, come scolpivano i Cosmati, greci essi pure (κοσμήτης) e suoi contemporanei, a Roma, a Subiaco e nella cripta del duomo di Anagni.
Vi sono in questa chiesa sotterranea pitture di soggetti disparatissimi; la maggior parte riferentisi alla storia del chiostro. Sotto la scala si vede Innocenzo III consegnare un diploma all'abate Giovanni VI, e Gregorio I dare all'abate Onorato l'atto di donazione. Parecchi trattano la vita di S. Benedetto; uno, che lo rappresenta con la nutrice, è notevolissimo per la gradevole figura della donna e l'ottimo panneggiamento; un altro rappresenta, in modo originale, la sua morte: il santo con la tonaca nera sta su di un giaciglio; dalla sua bocca un raggio di luce conduce alla piccola nuda figura della sua anima, che un angelo alato già reca fra le sue mani. L'angelo ha una bella espressione, un pronunciato profilo greco e gli occhi a mandorla. La dolce inclinazione della testa, già prima di Giotto espressione caratteristica del grazioso, ricorda vivamente le migliori imagini delle catacombe. Questa mirabile figura di un tono medio bruno non è stata, fortunatamente, ritoccata. Vi sono molti altri quadri con figure di bambini, di cui è inutile parlare: non tutte sono del medesimo artista, e talune senza dubbio appartengono già al secolo XI, poichè strettamente fedeli alle peggiori forme bizantine. Tali sono i colossali quadri del soffitto, rappresentanti apostoli e santi che contrastano aspramente con gli affreschi delle pareti, e che sono stati barbaramente restaurati.
Nella parte centrale della chiesa si trova anche la grotta di Benedetto, che mi ha ricordato assai vivamente la grotta famosa di S. Rosalia a Palermo, sul monte Pellegrino. Sotto un ricchissimo altare sta una marmorea figura del giovane santo in preghiera innanzi la croce; è un'opera non cattiva della scuola del Bernini;[13] e forse l'effetto che produce è accresciuto dalla penombra in cui si trova. Qui tutto ha un carattere di giocondità; la graziosa piccolezza di queste chiesuole, cappelle e grotte, splendenti e multicolori, sembra un giuoco di fantasia, come non ho visto mai in altre rappresentazioni religiose. Si potrebbe dire un libro illustrato di poetiche leggende, prive di dolore e di sangue, ma ricche di fantastico colorito, come la vita dei pii anacoreti nel deserto.
La religione vi è presentata sotto forma di favola, e produce un effetto corrispondente a questa. Il carattere del chiostro è appunto questo, ed è forse unico nel suo genere. Ivi lo spirito non è mai portato a gravi pensieri; in questa sacra grotta nemmeno il più fervente dei cattolici potrebbe sentirsi penetrato di venerazione: gli stessi artisti, che avrebbero voluto suscitare il senso della pietà con quadri melanconici, sono stati dalla scherzosa giocondità dell'insieme eccitati invincibilmente ad intonarsi all'ambiente. Questo ho sentito in due affreschi, che stanno di fronte, sulle strette pareti, presso una scala che dalla grotta mena nella sottostante cappella. Rappresentano il «Trionfo della Morte», secondo la nota canzone del Petrarca: la Morte, funebre cavaliere, dopo aver saltato a cavallo su dei cadaveri, colpisce con la spada un giovane che s'intrattiene con un compagno a parlare. Di fronte stanno tre tombe aperte: nella prima giace una giovane donna, morta da poco tempo; nell'altra si scorge il suo corpo già nauseabondo e decomposto; nella terza finalmente il suo scheletro. Un vecchio pare spieghi queste varie fasi del nulla; egli ammaestra tre bei giovanetti, in eleganti abiti, coi falchetti sul pugno, che gravemente lo ascoltano. L'autore di questo memorabile quadro, che disgraziatamente ha molto sofferto, non è conosciuto; sembra sia dell'epoca del Ghirlandaio. Di lui forse è pure la Strage degl'Innocenti a Betlemme. Questo soggetto è trattato artisticamente e semplicemente: un gruppo di madri, con i bimbi lattanti fra le braccia, con ansia affettuosa li stringono al seno; verso di esse si avanzano dei guerrieri con la spada sguainata. Io non ho mai visto trattato con tanto sentimento drammatico ed estetico questa scena piena di orrore, soggetto preferito della pittura di tutte le epoche; e tanto più si deve lodare l'ingegno dell'artista, se si ricorda il ributtante carnaio rappresentato negli arazzi del Vaticano! L'artista di Subiaco ha capito che egli avrebbe potuto commuovere anche facendo solo indovinare o temere l'inumano. Il quadro è di proporzioni assai piccole.
Ho trovato anche altre rappresentazioni artistiche originali; specialmente due figure di S. Stefano e di S. Lorenzo. Il primo santo è lapidato; il pittore o il restauratore ha voluto con strano pensiero inserire nel quadro delle vere pietre, e nel suo zelo ha rappresentato materialmente l'aureola, rompendola coi sassi. S. Lorenzo è una graziosa figura giovanile, vestita di un ricco panneggiamento; tiene nella destra la palma, nella sinistra il libro e sta eretto sulla graticola.
Aggiungo ancora che dalla cappella descritta si scende in un'ultima grotta, assai piccola; si dice che qui Benedetto abbia ammaestrato nelle sacre scrittura i suoi scolari.
Le pareti sono coperte di stucchi e mostrano resti di antichissima pittura. Tali sono le principali curiosità del chiostro; ma non vogliamo dimenticare la parte superiore, da dove si gode una vista superba della rupe gigantesca sulla quale questi santuarî sono costruiti. Essa cade a piombo, e sembra volersi precipitare sul chiostro; ma fortunatamente si trova là effigiato il santo che con la mano stesa, come per trattenerla, sembra esclamare: Fermati, o rupe; non danneggiare i figli miei! Quando sono entrato nel cortile ho trovato appollaiati ai piedi della figura del santo tre corvi, che raucamente gracchiavano. Questi sinistri uccelli con le loro voci lugubri e le tonache nere da benedettini mi sono sembrati attributi propri del santo, come nell'antica mitologia altri uccelli sono sacri ad altri Dei.
I corvi hanno una parte di qualche importanza nella storia di Benedetto, dissi già che lo accompagnarono nel suo viaggio da Subiaco a Montecassino, e aggiungo ora che gli salvarono la vita. Infatti, avendo un nemico mandato a Benedetto del cibo avvelenato, essi lo portarono via, lontano, sulle rupi. Il corvo dei monti mi è sembrato un vero uccello da monaci; in ogni modo è un simbolo migliore di quello dei domenicani, consistente in un cane con la face in bocca.
Anche in un altro luogo mi sono ricordato dell'antichità, anzi di un nome celebre. Vi è nel chiostro anche un giardino di rose, sulla sommità della rupe. Un tempo erano rovi, precisamente quelli nei quali Benedetto si era avvoltolato a corpo nudo. Quando nel 1223 il famoso fondatore dell'ordine francescano visitò Subiaco, innestò alle spine delle rose, le cui discendenti stanno ancora in fiore. Col tempo si sono scoperte meravigliose virtù in queste rose. Un monaco mi disse seriamente che esse, ridotte in polvere e inghiottite, guariscono qualunque malattia o incantesimo. Il monaco non mi disse però se esse possiedono anche la preziosa virtù delle rose di Apuleio; in ogni modo non avrei potuto verificarla.
ATTRAVERSO L'UMBRIA E LA SABINA. (1861).
Attraverso l'Umbria e la Sabina. (1861).
Una gita da Roma nella Tuscia romana, nella Sabina e nell'Umbria è oggi tanto più attraente, in quanto che chi viaggia in queste province, or' ora annesse al regno d'Italia, ha campo di fare molte e nuove osservazioni importanti. Invece di viaggiare con la diligenza, è assai meglio prendere un vetturino fino a Perugia. L'istituzione italiana dei vetturini sarà fra pochi anni soppiantata dalle ferrovie, e vi sarà certo chi li rimpiangerà, perchè, se non sempre comodo, questo mezzo di viaggiare ha pure i suoi vantaggi, primo fra tutti quello di far conoscere la regione che si attraversa, cosa in ferrovia quasi impossibile. Il mio vetturino trottava allegramente sull'antica via Flaminia, di buon mattino, sotto uno splendido cielo di settembre. Meraviglioso è un viaggio attraverso questa campagna; il Soratte e i monti Sabini, dalle linee vigorose, offrono a destra le più gradevoli vedute. Di paesi se ne incontrano pochi in questo deserto; dopo il terzo miglio si trova Prima Porta, Saxa Rubra degli antichi, così detta per i grossi massi di tufo rosso che vi si trovano. Questa pietra vulcanica è particolare della regione tosco-romana; essa forma pittoresche colline, scoscendimenti, mura naturali e contrafforti. Chi conosce Veio e Civita Castellana, si ricorderà di questa caratteristica che tanto si discosta da quella del Lazio.
Il Tevere scorre attraverso il paese in belle volute, piacevolmente incorniciato da lontane catene di monti. Lo si perde di vista, quando si piega a sinistra, verso Castelnuovo, per raggiungere Rignano. Lungo la strada incontrai un plotone di cavalleria pontificia, che in mezzo alla polvere trottava rapidamente; compresi subito quale scopo aveva quest'ultima commedia militare nel territorio papale.
Si sa bene che la Tuscia romana, separata per mezzo del Tevere dalla Campagna romana o Lazio, è chiamata Patrimonio di S. Pietro. A torto si fa datare questo possesso dalla donazione della contessa Matilde, la famosa paladina della gerarchia romana, che non aveva veramente dei dominî in quei luoghi, ma possedeva invece qua e là nel Lazio molti castelli. Ciò che si chiama Patrimonio di S. Pietro fu essenzialmente la parte fondamentale e più antica degli Stati della Chiesa; qui sono gli inizî del possesso, e il primo dominio temporale della Santa Sede fu Sutri, sul lago di Bracciano, dono del re longobardo Luitprando.
Nell'epoca carolingia il vescovo romano signoreggiava su tutte le attuali città della Tuscia romana, la quale era amministrata da suoi delegati col nome di Duces, Comites, Rectores. Ma a poco a poco questo possesso si perdè, e dopo la caduta del regno carolingio alcuni conti ereditarî se ne impadronirono. Ai tempi della contessa Matilde il pontefice non aveva più possessi, sia temporalmente che politicamente, nè in Tuscia, nè in Sabina; cento piccoli conti e baroni v'imperavano, in barba alle donazioni di Pipino e di Carlo. Ci vollero molte guerre e molti secoli per rimettere la Santa Sede in possesso dell'antico patrimonio.
Ci fermammo sei ore a Rignano, paese appartenente alla Comarca di Roma; al di là comincia la delegazione di Viterbo. È piccolo e di poco interesse, per quanto fosse ducato, come molti altri paesetti romani. Il primogenito di casa Massimo porta il titolo di duca di Rignano.
Nell'albergo del paese trovai un colonnello pontificio che era partito in congedo pel suo paese, Macerata, ma che era stato rimandato indietro a Narni dai piemontesi, perchè sul suo passaporto mancava il visto del console italiano. Egli mi parlò della severità delle guardie italiane di confine.
Mi disse che tutto ciò che veniva da Roma era sospetto di mene reazionarie. Correvano, anche per Rignano e gli altri luoghi vicini, voci sull'irruzione di 200 napoletani, e di una banda reazionaria che, movendo da Corneto, si preparava a passare il fiume.
Qualcuno assicurava anche di aver visto la truppa, e si temevano eccessi, come nel napoletano. Anche il mio vetturino si impensierì e decise di accorciare la tappa giornaliera, fermandosi a Civita Castellana. Era dunque il movimento di questa truppa di zuavi, o altro che fosse, che aveva determinato l'avanzata della cavalleria papalina lungo la corrente del fiume. Senza saper più nulla di positivo su questa cavalleria, nel pomeriggio continuammo la nostra magnifica gita attraverso la Campagna.
La campagna si faceva sempre più bella, di mano in mano che si avanzava verso Civita Castellana. Si passò sulla via Flaminia proprio ai piedi del Soratte, ed io potei osservare per un bel pezzo di strada il paese, la torre medioevale e la chiesa sorgenti sulla sua sommità. Quel monte, a cui Orazio e Virgilio han consacrato celebri versi, è in terra etrusca, ed è visibile anche da Roma.
Si leva isolato, in una massa rossastra, acuta e bella di pietra calcarea, di fianco al Tevere. Il suo aspetto d'isola, i suoi colori, e la gradevole forma, mi ricordarono il monte Cairo nelle vicinanze di S. Germano. La sua altezza supera i 2000 piedi.
L'archeologo lo conosce per il culto primitivo che avevano per lui gli abitanti, e lo storico per doverlo spesso ricordare nel medioevo.
Quel papa Silvestro che si lasciò regalare dall'imperatore Costantino—quando, secondo la leggenda, lo battezzò nel palazzo Laterano—Roma e tutta l'Italia, anzi tutto l'Occidente (e per quanto tempo non si è creduto a questa ridicola donazione?), quel papa fortunato visse nelle solitudini del Soratte, finchè durò l'ultima persecuzione dei cristiani. In suo onore fu eretto nel medio evo il chiostro di S. Silvestro, sulla cima del monte, e, si dice, sulle rovine di un tempio di Apollo. Per molto tempo questo chiostro fu celebre e visitato, come uno dei più antichi nella regione romana. Carlomanno, il primogenito del grande eroe franco Carlo Martello, vi vestì l'abito nel 746, ma cambiò poi l'eremitaggio con quello più bello di Montecassino, per sottrarsi alle moleste visite che non cessavano di fargli i nobili franchi, quando si recavano a Roma.
Anche altri chiostri sorsero in questo luogo: ai piedi del monte era quello di S. Andrea, ora distrutto, dove nel secolo x il monaco Benedetto scrisse una cronaca ricca di notizie storiche. Pertz la trovò a Roma nella biblioteca Chigiana e la fece stampare nei Monumenta Germaniae. Questi luoghi si possono veramente considerare, qui sui confini dell'antica Sabina, come la culla dei benedettini. Di là dal Tevere, poco lungi dal Soratte, giace anche oggi il chiostro primitivo di Farfa, oggi abbandonato, famosa costruzione longobarda, abbazia imperiale e ghibellina che diede spesso alloggio agli imperatori tedeschi che scesero nella valle del Tevere. I ricercatori di notizie del medio evo romano devono alla diligenza e sagacia dei suoi monaci il prezioso codice dei Regesti di Farfa, che la Vaticana conserva. Questa importantissima raccolta di monumenti, appendice importantissima ai Regesti di Pietro Diacono di Montecassino, è oggi una delle principali fonti d'investigazione storica. E davvero con non lieve interesse osserveremo la grandiosa campagna intorno al Soratte, se ricorderemo che più d'uno dei nostri imperatori tedeschi di qui scese verso Roma, al tempo delle lotte col papato gregoriano.
Ai piedi del monte esiste ancora il guado del Tevere che gl'imperatori solevano passare, presso l'antico Flaianum, oggi Fiano.
Molto mi dispiacque di non poter visitare il paese di Sant'Oreste, appollaiato graziosamente in cima al monte. Gli archeologi pretendono che il famoso tempio di Feronia sorgesse un giorno lassù, e che la città, costruita in quel luogo, si chiamasse Sant'Edistio, corrotto poi in San Resto e Sant'Oreste; ma è più verosimile che il nome venisse alla città da quello stesso del monte Soratte, che durante le oscurità medioevali si sarebbe poi mutato nel nome di un santo ignoto o apocrifo.
Alle sei giungemmo a Civita Castellana. Il panorama di questo luogo meraviglioso è insuperabile, più bello ancora di quello di Veio. Il paese si leva su erte rocce rossastre, coperte da piante rampicanti, simili a mura naturali; ai suoi piedi scorre il fiume Treia. È ben fabbricato, ha molti ponti, uno dei quali somiglia al nuovo ponte dell'Ariccia, pur non essendo così grandioso. La valle, stretta e bellissima, formata dalle rupi che il Treia attraversa, è ricca di singolari vedute, tali da formare certo l'ammirazione di ogni pittore. La posizione di questa città etrusca è stata scelta con rara fortuna ed acume.
Qui certo fu la primitiva Faleria. Nel medio evo, quando i saraceni resero malsicuri questi dintorni (essi distrussero una volta anche l'abbazia di Farfa), l'antichissima Faleria, abbandonata fin allora, fu ripopolata, perchè fortemente situata su una piattaforma di rupi; così si formò Civita Castellana, sede di conti per molto tempo, e spesso nominata nella storia dei papi. Il terribile avversario di Gregorio VII, Guiberto di Ravenna, antipapa col nome di Clemente III, passò qui i suoi ultimi anni, e quivi morì. Anche Alessandro III vi finì i suoi giorni. Oggi questa ospitale e spaziosa città (di soli 2400 abitanti) offre poche cose degne di nota. Da tempo antico è vescovado, come quasi ogni altro luogo un po' importante del Patrimonio di San Pietro. La cattedrale di Santa Maria è degna di esser visitata, col suo portale romanico e il vestibolo, notevole monumento del XIII secolo. Ha archi e finestre in stile gotico-romanico; colonne e un architrave a mosaico. Nel vestibolo si conservano antiche iscrizioni, la più vetusta delle quali ricorda una donazione di beni fatta alla Chiesa nel IX secolo.
La città, del resto, non ha reliquie municipali interessanti; del periodo feudale non resta che l'antico castello, costruzione della fine del secolo XV, con le armi dei Borgia; Alessandro VI lo fece costruire da Antonio Sangallo. Servì negli ultimi tempi come prigione di Stato, e molti visitatori ricordano di avervi veduto il famigerato brigante Gasparone, parente del cardinale Antonelli.[14] Io dimenticai di domandare se viveva ancora. Mi ricordo che a Roma qualcuno narrava di averlo visitato, per curiosità, e di avergli chiesto quanti omicidî avesse commesso, al che aveva egli risposto: «Non molti, forse appena una ventina».
Oggi la bandiera francese sventola sulla torre pittoresca e nera di Civita Castellana, poichè questo è il punto estremo del Patrimonium Petri verso la Sabina, e l'occupa una guarnigione di truppe napoleoniche. Alcuni soldati francesi mi dipinsero come molto triste e noioso il loro soggiorno in quel luogo solitario e remoto; ed avevano veramente ragione di lamentarsi, perchè ivi è impossibile ripararsi contro l'inclemenza del sole, che dardeggia senza pietà.
Dopo una notte di riposo, passata nel discreto albergo della Posta, che trovandosi nel punto dove convergono le strade dalla Sabina, da Nepi, Amelia e Viterbo, è abbastanza frequentato, mi accinsi a passare i confini pontifici e ad entrare negli Stati piemontesi. Il segno del confine era il Tevere, che col suo corso divide le terre del Patrimonium Petri dall'Umbria e dalla Sabina.
Partito la mattina alle cinque da Civita Castellana, giunsi in poche ore a Borghetto, pittoresco castello sul fiume, oggi l'ultimo villaggio pontificio, sotto il quale il Tevere scorre in una larga e bella valle; gli sono vicini i monti della Sabina, e con essi molte località, ora (1861) piene di piemontesi e di lombardi.
Qui il fiume, già abbastanza largo, è traversato dal ponte Felice, bel monumento costruito da Sisto V (Felice Peretti) nel 1589.[15] Fino a questa località il Tevere può essere risalito da battelli, anzi da qualche anno, da Ripetta a Roma, è stato stabilito un traffico per mezzo di battelli a vapore, e così la capitale è collegata alla Sabina. La siccità estiva aveva molto assottigliata la corrente, e fra tutto io non vidi che due o tre barconi di carbone, legati alla sponda. In mezzo al ponte, sopra l'iscrizione di Sisto V, sventolava la bandiera francese. Di là da questo confine comincia il nuovo Stato, che la rivoluzione italiana nel 1859 creò per fas et per nefas. All'estremità del ponte erano due tricolori italiani, ancora incoronati di alloro appassito. Sembravano gettare sguardi sospettosi sullo stendardo di Francia, mentre i robusti granatieri piemontesi stavano in sentinella dinanzi ad una vicina capanna. Essi avevano un aspetto grave e sospettoso, quando mi chiesero il passaporto nel loro sgradevole dialetto. Mentre lo esaminavano, volli utilizzare quel tempo di attesa, ritornando in mezzo al ponte per copiare le iscrizioni di Sisto V e di Urbano VIII. Ma—strano a dirsi—un granatiere me lo impedì: egli mi venne dietro, e mi dichiarò abbastanza vivacemente che non poteva permettermi di ripassare il ponte, e che egli stesso non poteva varcare di un sol passo la bandiera francese. Così dovetti convincermi dell'efficacia di quel simbolo. Ogni rimostranza fu inutile, il bravo soldato non volle udir ragioni, ed io dovetti tornar indietro. Del resto, tanto egli che l'impiegato della dogana furono con me perfettamente corretti. Il panorama della Sabina che si gode dal ponte è bello e vasto. Di contro è l'antico e cupo Magliano, sede di un vescovo che qualche mese fa fu incarcerato; più oltre Poggio Mirteto, ora una delle stazioni più importanti dell'esercito piemontese di confine, mentre il governatore civile di tutta la Sabina risiede in Rieti, città più grande, fino a poco fa residenza del delegato pontificio.
M'internai nella bella regione montuosa, piena di colli ridenti, ricchi di vino, olio e castagne, abitata da gente forte, onesta e patriarcale, ma ignorante e primitiva. Il carattere di questa regione non ha nulla di comune con quello del Lazio, pieno di sole e di luce; somiglia piuttosto a quello dell'Appennino centrale. La straordinaria siccità dell'estate aveva anche là bruciato i campi; il granturco presentava un aspetto deplorevole; anche l'olivo era poco rigoglioso; solo le viti promettevano un abbondante raccolto.
La prima città che si trova su quella strada è l'antichissima, ora assai piccola, città di Otricoli, nella quale si rinvennero molte antichità celebri, fra le quali la testa di Giove del Vaticano. Notiamo anche che ivi fu arrestato dai cavalieri del Barbarossa il famoso Arnaldo da Brescia, che fu consegnato ai cardinali e giustiziato poi a Roma. Egli aveva già ai suoi tempi insegnato ciò che ora l'Italia chiede ai papi.
Per dimostrare l'annessione all'Italia, quasi non bastassero le bandiere, che già in gran copia avevo vedute, si aggiungevano ora le armi di Savoia, dipinte di fresco sui muri. Vidi sempre in maggior numero granatieri, lancieri, bersaglieri coi cappelli piumati e le mantelline turchine, simili a comparse teatrali; più là trovai la guardia nazionale, dalle poco brillanti uniformi.
Otricoli fa parte dell'Umbria, ma il confine fra le due provincie è difficilmente rintracciabile e sempre variabile. Oggi questa città appartiene alla delegazione di Spoleto, e da essa si entra nel territorio dell'antico e una volta così potente ducato.
Sotto Otricoli si apre la stretta e selvaggia valle della Nera, impetuoso fiume montano che si dirige verso il Tevere, e che una volta segnava il confine geografico fra l'Umbria e la Sabina. Viene quindi Narni, una delle più antiche città umbre, col suo bel castello e i campanili delle sue chiese. Il luogo è assai ameno; la Nera, uscendo dalla sua strada incassata fra le rupi, entra in una valle grandiosa e scorre fra armoniose colline. Un antico ponte romano riunisce ancora le due rive. In fondo si scorgono i verdi monti dell'Umbria, amenissimi e ricchi d'incantevoli luoghi, fra cui ricorderò Amelia. A cinque miglia di distanza giace l'antica Interamna, oggi Terni, in mezzo a verdi colline, la patria di Tacito. Nulla, credo, possa essere più attraente di una gita per questi luoghi in primavera o in autunno.
Oltre il suo bel castello, Narni possiede notevoli chiese e conventi, come la cattedrale, consacrata al primo vescovo della città, San Giovenale; però il tesoro maggiore è rappresentato da un dipinto famoso dello Spagna, l' Incoronazione della Madonna, nel convento degli Zoccolanti.[16] Dello stesso artista si trovano quadri in molti paesi dell'Umbria; alcuni gli sono però stati erroneamente attribuiti.
Di mura ciclopiche non si hanno qui che pochi avanzi, e degli antichi monumenti romani di questa città, dove nacque Nerva, non rimane che il ponte di Augusto sulla Nera. Quest'opera, un dì grandiosa, appare anche oggi ammirabile, sebbene dei tre o quattro archi che la componevano, ne resti uno soltanto. Le imponenti rovine, i flutti vorticosi della Nera, un vicino convento, la città colla sua solenne architettura, tutto contribuisce a dare a questo paesaggio un carattere d'incomparabile bellezza.
Marziale gli ha dedicato i mirabili versi:
Narnia sulphureo quam gurgite candidus amnis
Circuit, ancipiti vix adeunda jugo;
Quid tam saepe meum nobis abducere Quintum
Te juvat, et lenta detinuisse mora?
Quid Nomentani causam mihi perdis agelli
Propter vicinum qui pretiosus erat?
Sed jam parce mihi nec abutere, Narnia, Quinto;
Perpetuo liceat sic tibi ponte frui.
Verso la metà del secolo XII il ponte crollò. Al tempo degli Hohenstaufen non doveva esistere già più, perchè Parsifal Doria, generale di Manfredi, si annegò, mentre voleva guadare in quel punto la corrente a nuoto, col suo cavallo, ambedue coperti di ferro. Si costruì allora il nuovo ponte, più comodo per la sua posizione, essendo troppo grande la spesa necessaria per restaurare l'antico.
La menzione fatta del valoroso Parsifal mi rammenta un'altra grande figura di guerriero, che forma ancora uno dei vanti dei Narnesi: in Padova di fronte alla cattedrale sorge il monumento equestre in bronzo del Gattamelata, opera di Donatello, la prima di questo genere compiuta in Italia durante il Rinascimento. Fu fatta per incarico della Repubblica di Venezia, che così volle onorare la memoria di uno de' suoi più fedeli condottieri, che fino al 1441 aveva servito la bandiera di S. Marco. Erasmo Gattamelata nacque a Narni.
Un altro Narnese diede lustro alla città nel secolo XV: il cardinale Bernardino Eroli, morto nel 1479, di cui la tomba è visibile nelle grotte di S. Pietro a Roma.
La famiglia di lui, che esiste ancora a Narni ed è una delle prime del patriziato, abita un antico palazzo. Uno de' suoi membri è il marchese Giovanni, distinto antiquario, ricercatore di documenti; egli è veramente la cronaca vivente della sua città, della quale ha descritto a fondo e riunito nella sua Miscellanea Narnese le cose più notevoli. Mi trattenni alquanto in questa città, e visitai questo degno signore. La vita di un patrizio in un piccolo centro campagnolo deve essere tanto più limitata e monotona quanto più esso possiede istruzione e talento. Il marchese, lieto di ricevere un viaggiatore, tanto più poi che veniva da Roma e che si occupava di storia, mi accolse con grande cortesia, e soddisfece pienamente alle mie domande circa l'archivio municipale di Narni, come sopra gli archivi delle altre città umbre, e mi invitò ad accompagnarlo nel suo studio. Non era uno studio di disegno o di pittura, ma di fotografia. Quando vi entrai credetti di esser penetrato in un tepidario, perchè il calore era così intenso da potersi appena tollerare. Egli mi mostrò i suoi lavori, che erano invero così poco riusciti da non allettare gran che i visitatori.
Da Narni m'internai con vera gioia nell'Umbria, in questo giardino dell'Italia centrale, irrigato da vivaci corsi d'acqua, cosparso di olivi e di verdeggianti colline. Tutto vi è sereno e aggraziato; persino il dialetto degli abitanti è pieno di melodia. Non è davvero strano che la pittura umbra, così gradevolmente viva e ideale, abbia avuto nella natura la sua fonte precipua. L'Umbria fa veramente intendere che cosa sia la Toscana, ancora più bella e gradevole.
Dopo una breve corsa attraverso la campagna fertile e ricca, giunsi a Terni, patria di Tacito, famosa per le cascate del Velino, città attivissima di 9000 abitanti. Non vidi le cascate, ma girai per la città, che si presenta come un borgo abbastanza pulito, nel quale il periodo del Rinascimento e lo stile baronale pomposo hanno soffocato il medio evo caratteristico. Molti notevoli palazzi indicano che vi risiede una ricca nobiltà. Anche la vita politica ha qui uno speciale movimento.
Essendo una città di qualche importanza, più grande di Narni e, per numero di abitanti, venendo subito dopo Spoleto, Terni aspira ad avere un significato politico. L'italianizzazione vi fu accolta con entusiasmo; su molte insegne di botteghe operaie vidi già i colori bianco, rosso e verde da poco dipinti; anche sulla mia tavola all'albergo stava il tricolore. E non faremmo altrettanto noi in Germania, in analoghe circostanze?
Cresce in Italia una specie di zucca, detta cocomero, che al di fuori è verde, e, tagliato, mostra una polpa purpurea, e intorno una zona bianca: i colori italiani. A questo proposito ricordo di aver veduto questo spettacolo: un cocomeraro aveva inalberato sul suo banco un grande tricolore, sopra il quale era dipinta la dea dei cocomeri nei suoi tre colori naturali; con la scritta in trasparenza: Natura mi diè questi colori. Lo spiritoso cocomeraro faceva un degno richiamo! Anche nei dominî pontificî la coccarda del governo è di solito rappresentata da un uovo sodo tagliato in mezzo. Su questi due simboli corrono fra la popolazione dei saporiti motti di spirito.
La rivoluzione italiana ha portato con sè, come mi ha insegnato l'esperienza, una vera rivoluzione nei nomi delle strade e dei caffè, tanto che chi tornasse dopo una assenza di qualche anno nella sua città, difficilmente riuscirebbe a raccapezzarcisi. Le piccole piazze coi nomi di S. Maria, S. Paolo, ed altri, ora prendon nome da Vittorio Emanuele, e tutti gli altri santi e patroni sono ovunque sostituiti da Garibaldi, Cavour, Ricasoli, ed altri uomini della spada o del parlamento. Sarebbe interessante contare i caffè che oggi in Italia hanno il nome di Garibaldi!
Terni è ora il quartier generale del comandante Brignone e di molta fanteria di linea. Io vi trovai i muri delle strade coperti di proclami per la chiamata delle classi sotto le armi. Mi fu detto che nell'Umbria la popolazione si sottopone più volontieri che non nelle altre province dell'ex-Stato pontificio all'obbligo della leva. Anche qui però vi sono molti disertori che vanno ad alimentare la reazione nel napoletano, tanto più che la sorveglianza dei confini da quella parte è assai difficile. Ci vorrà molto tempo perchè gl'italiani si abituino al servizio militare obbligatorio. L'esenzione dal servizio militare è stata veramente un prezioso beneficio del regime papale, beneficio inestimabile per il contadino.
Grande è il numero degli emigrati romani a Terni, come del resto in tutta l'Umbria ed in tutta la Sabina. L'emigrazione sparsa nei diversi luoghi mi fu detto essere superiore a 5000 individui, ma forse questa cifra è inferiore alla realtà.
Una gran parte dei forusciti viveva finora in Rieti, ma una discordia scoppiata fra i romani ed i cittadini di quella città li ha costretti ad abbandonare il luogo ed a spargersi per l'Umbria. La loro esistenza è abbastanza difficile e penosa, perchè i comitati creati allo scopo di soccorrerli hanno mezzi insufficienti. Cospirano attivamente così vicino a Roma, dove il comitato nazionale è in relazione diretta con essi. Secondo ogni verosimiglianza sono essi che redigono i giornali umbro-sabini, come l' Italia e Roma di Perugia. Questi fogli sono letti avidamente, e molti esemplari penetrano anche nella Città dei Cesari.
Da Terni partii per Spoleto; percorsi per molte ore una regione montuosa, fresca, ricca di quercie. Si valica l'Appennino sopra Terni, o, per meglio dire, attraverso il monte Somma. La strada, assai buona, giunge fino alla sommità lungo la gola detta Strettura, salendo gradatamente. I due versanti del monte da ambo i lati sono boscosi; non si vedono paesi; solo qua e là qualche casale. De' bei buoi bianchi erano stati, per rinforzo, attaccati alla vettura, e mentre essi lentamente salivano l'erta, potei permettermi una breve camminata su quella ripida strada. L'aria era fresca e leggera: si sarebbe potuto camminare ore intere senza stancarsi. Dei briganti non c'era da temere, poichè tutta l'Umbria ne è immune. Avendo lasciato un po' indietro la carrozza, vidi d'un tratto un uomo accoccolato, nascosto in un cespuglio, che appena mi vide si mise a farmi energicamente dei segni, e precisamente quelli che soglion fare gli italiani per chiamare a sè. Io mi fermai in mezzo alla strada; l'uomo mi accennò di proseguire il mio cammino. Voleva dirmi di essere cauto? Finalmente scese egli stesso dalle rupi nella strada, e lo riconobbi per un giovane e simpatico milite della guardia nazionale.—Sembra che diffidiate di me—disse—ma io vi ho fatto cenno soltanto per dirvi che potete continuare la vostra strada e non guastare così il mio giuoco. Io debbo star qui a sorvegliare un giovane e una ragazza che stanno laggiù nella valle, e veder quello che fanno.—Il soldato mi disse queste parole un po' eccitato. Terribile cosa la gelosia! Anche quella solitudine che sembrava creata solo per pensieri e fatti patriarcali, nascondeva nel suo seno il terribile mostro! E non fu inutile la posta del giovane: dopo poco la coppia sbucò fuori da un cespuglio; la fanciulla si allontanò dall'amante e seguì la riva del torrente, mentre questi scompariva. Difficilmente sarà sfuggito ad una coltellata!
Presto raggiungemmo la cima del Somma, dove i buoi furono staccati. Di qui si scese per la strada che costeggia una gola simile a quella percorsa all'insù, e che corre per sei miglia attraverso splendidi monti; dopo poco ci si presentò meravigliosamente la vecchia Spoleto e sotto a noi la valle del Clitunno, e la pianura ove scorre il Tevere. Uscendo di mezzo ai monti, Spoleto appare bella come nessun'altra città, e sopratutto pittoresca, con la sua nera rocca, le molte torri massicce che la coronano, e le mura merlate. La luce dorata del sole la illuminava morendo, e contribuiva a dare al quadro magnifico un perfetto e grandioso carattere storico. Influisce molto vedere da un punto, piuttosto che da un altro, per la prima volta una città vetusta; la prima impressione è quella che rimane. Io non conoscevo ancora Spoleto, che racchiude in sè una storia tanto ricca, che va da Faroaldo, duca longobardo, fino all'infelice generale Lamoricière, che nel 1860 stabilì qui il suo quartier generale per la difesa degli Stati della Chiesa contro gli usurpatori.
Quando entrai in Spoleto si cancellò dalla mia mente l'imagine di ogni antico ricordo; sulla bella spianata una folla di gente elegante si pigiava; le strade erano simpatiche e linde, le case moderne, ed un'aria di sereno benessere dava l'impressione più gradevole di una vita gaia e tranquilla.
Il ducato longobardo di Spoleto fu fondato nel 570, subito dopo che Alboino discese in Italia col suo popolo. I suoi due primi duchi furono Faroaldo e Ariulfo; questi, provincia a provincia, tolsero ai greci una gran parte dell'Italia centrale, e cioè tutta l'Umbria, la Sabina, la Marsica (oggi Abbruzzo), e le Marche di Fermo e di Camerino. I papi soffrirono spesso molestie da parte del ducato di Spoleto, fondato alla fine del VI secolo. Anche quando Carlomagno pose fine al regno longobardo, rimase tuttavia abbastanza grande la potenza dei duchi di Spoleto, divenuti vassalli franchi. La Francia stessa assicurava la loro dignità; dopo la caduta dei Carolingi, Guido di Spoleto potè porsi sul capo la corona imperiale. Egli la passò quindi al figlio di Lamberto, un nobile giovane, che morì improvvisamente nell'898 per una caduta da cavallo. Guido e Lamberto ottennero la corona imperiale e furono i due imperatori nazionali eletti dal popolo italiano in opposizione ai candidati di nazione tedesca, sebbene fossero di razza franca.
Quando più tardi l'impero cadde con gli Ottoni e passò alla nazione tedesca, gl'imperatori si impadronirono del ducato, e non vi fu più a Spoleto dinastia ereditaria. In seguito Spoleto fu annesso alle terre della contessa Matilde, come anche Ancona, finchè i papi con lusinghe ed astuzie riuscirono ad impossessarsi di quel ducato, sul quale già da Carlomagno accampavano diritti. Innocenzo III, e specialmente Gregorio IX, aggiunsero alla Chiesa le Marche di Ancona, Camerino e Fermo. Così la vera presa di possesso di quei luoghi da parte della Chiesa data dal principio del sec. XIII; ma dipoi essa perdette di nuovo molte di queste terre, col volgere degli anni, e, dopo varie vicende, in pochi giorni nel settembre 1860 le perdette tutte e per sempre.
Lamoricière aveva scelto Spoleto come suo quartier generale, perchè la posizione era buona, e potevano di là mandarsi truppe in tre direzioni. Il generale Schmidt aveva il quartiere a Foligno; Pimodan stava a Terni con la seconda brigata, e De Courten a Macerata. Lamoricière si aspettava di dover ripiegare verso il sud contro Garibaldi, che era nel Napoletano, ma quando seppe del generale Fanti, capì che i piemontesi avrebbero investito l'Umbria e le Marche. Il giorno 8 settembre i volontari di Masi irruppero da Città della Pieve nello Stato pontificio e marciarono su Orvieto. Il 10 settembre Lamoricière riunì le sue milizie, e il 12 si gettò sulle Marche, seguito da Pimodan. Nella cittadella di Spoleto aveva lasciato 300 irlandesi del maggiore O'Reilly, con due cannoni. Questa piccola fortezza fu presa dai piemontesi del generale Brignone il 17 settembre; secondo le istruzioni del Lamoricière, gli irlandesi la difesero valorosamente, respinsero un assalto e si arresero solo dopo 12 ore di combattimento. I piemontesi ebbero, a detta del Lamoricière, 100 morti e 300 feriti; i papalini 3 morti e 6 feriti. È abbastanza curioso che nell'ultimo fatto d'armi di questa fortezza abbiano preso parte degli irlandesi.
Si vedono ancora le tracce di quella lotta. Ora non vi è più guarnigione, ma invece un bagno penale.
Del resto il ricordo di questi fatti si è assai indebolito nella città; la delegazione si è mutata in una sottoprefettura, dipendente da Perugia, sede del commissario generale dell'Umbria. Così Spoleto ha perduto del tutto il carattere di città capoluogo di provincia; la sede dei delegati poteva essere paragonata ad una piccola corte, e questi governi provinciali dei cardinali legati godevano d'una certa indipendenza; tutto questo ora è passato; i prefetti e i sindaci entreranno al posto delle provincie politiche d'un tempo, le quali rimarranno solo un ricordo storico.
Le strade salgono il monte con lieve pendio, e graziose piazze le interrompono qua e là. Molti luoghi sono assai pittoreschi e veramente italiani, ma spesso sporchi e mal tenuti. Si vede ancora che questa città dominò in altri tempi una ricca regione e fu centro d'una monarchia, benchè conti ora solo 9000 abitanti. Anche qui nell'architettura il Rinascimento prevale. L'alto medio evo è stato soffocato dalle epoche successive; dell'antichità romana si vedono alcuni avanzi, ed una vetusta porta presso il palazzo Gavotti ricorda Annibale che, dopo la famosa battaglia sul Trasimeno, fu respinto da Spoleto. Essa si chiama ancora Porta di Annibale o della Fuga.[17] Invano si ricercherebbero in Spoleto antichità longobarde. La mia prima domanda fu questa: dov'è il palazzo degli antichi duchi? Nessuno seppe darmi una risposta, ed anche lo storico del ducato di Spoleto, Gian Colombino Gatteschi, mi dichiarò d'ignorarlo. Così l'oblio sommerge la residenza di principi un giorno così grandi e potenti; non ne rimane una traccia, non una pietra. Solo una dubbia tradizione dice che il palazzo Arroni, sulla piazza del Duomo, occupi il luogo dove, fin dal primo duca Faroaldo (539), risiederono Ariolfo Toto, Trasmondo, Angebrando, Ildebrando, Gisulfo, Lamberto e Guido, finchè coll'ultimo della loro lunga serie, lo svevo Corrado, il ducato ebbe termine nel 1198.
Ora il duomo, uno dei più antichi monumenti di Spoleto, sorge su una bella piazza, con lo sfondo pittoresco delle vette montane. Fu edificato nel 617 dal terzo duca Teodelapio, poi più volte restaurato. È una bella ed armonica chiesa, con una torre sulla facciata in stile romanico-gotico del secolo XIII. L'atrio è moderno: è opera del Bramante. Un grande mosaico, opera del Solsterno, orna la facciata: porta la data del 1267. Si osserva in esso con stupore il primo sviluppo libero dell'arte umbra. In questa chiesa Fra Filippo Lippi, uno dei più simpatici pittori della seconda metà del secolo XV, si è eternato coi suoi affreschi nel coro, dove egli stesso giace. L'interno è quasi tutto restaurato di fresco; delle iscrizioni medioevali non ne rimane alcuna, nemmeno nell'atrio. Il duomo è oggi il più notevole monumento, l'ornamento maggiore di Spoleto, insieme con San Pietro, una chiesa di stile lombardo, degna di molta considerazione. La sua facciata è coperta di sculture, in alcune delle quali è rappresentata, in modo assai primitivo, la favola del « Roman du Renard ».
Questa comunità conserva un pregevole, anzi meraviglioso affresco dello Spagna, la Madonna con i santi, ed una iscrizione su marmo, che ricorda la distruzione della città, compiuta dal Barbarossa. Trascrivo fedelmente questa iscrizione:
HOC EST SPOLETVM CENSV PPLQE REPLETVM QVOD DEBELLAVIT FRIDERIGVS ET IGNE CREMAVIT SI QVERIS QVANDO POST PARTV VIRGINIS A N O MCLV TRES NOVIES SOLES IVLIVS TVNC MENSIS HABEBAT
Molto probabilmente in questo incendio la residenza dei duchi di Spoleto andò perduta.
In special modo pittoresco è l'acquedotto gigantesco[18] che congiunge la città al monte Luco. Questo monte è diviso dal colle, su cui sorge la fortezza, da un abisso di 260 piedi; al disopra di esso è un enorme ponte di dieci archi. L'edificò il duca longobardo Teodelapio nel 604, e fu poi più volte restaurato. Se si prende la piccola strada del ponte per andare a monte Luco, si gode la vista dell'abisso vertiginoso e profondo, su cui spesso soffia un vento terribile. Questo mi costrinse anzi a rinunziare di attraversarlo. Monte Luco è il Monserrato dell'Umbria.
Dopochè nel VI secolo un santo siriaco, Isacco, ebbe fondato lassù un eremitaggio, vi sorse nel X secolo il chiostro di S. Giuliano ed una serie di eremitaggi. Di questi ne restano ancora alcuni, ma gli eremiti son da lungo tempo scomparsi. Di parecchie delle loro cappelle i cittadini di Spoleto si sono fatte delle graziose villette. Una passeggiata nei boschi di quercie del monte è un vero godimento, l'erba balsamica esala il suo aroma, le brezze agitano le millennarie cime delle quercie: appena si ode di tanto in tanto un suono, un fremito di campana: vi regna un silenzio divino. Di lassù si può rintracciare, nella sottostante campagna, la striscia bianca della via Flaminia, che sale fino alle porte della città e in lontananza si perde nella pianura.
Ma più maestosa di ogni altra cosa appare la rocca che domina la città e la pianura, e che si stacca sui monti solenni: un dado turrito, dalle linee nobili e armoniche, uno dei più bei monumenti del medio evo. Il famoso cardinale d'Albornoz, contemporaneo del tribuno Cola di Rienzo, aveva nel 1356 riedificato questo già antichissimo edificio, che fu poi terminato da Nicolò V. La memoria degli antichi duchi e dei potestà che risiedettero in questo castello è del tutto scomparsa, ma dalle finestre del fosco edificio sembra al viaggiatore di scorgere ancora la figura di una donna famosa, che fu signora di Spoleto, quella cioè di Lucrezia Borgia, figlia di Alessandro VI, la Cleopatra del secolo XV. Suo padre la nominò nel 1499 reggente della città e del distretto di Spoleto, fatto nuovo questo nella storia della Santa Sede. La bella duchessa abbandonò Roma a cavallo, con grande seguito, l'8 agosto. Dinanzi a Spoleto la ricevettero con grande onore i priori della città, e l'accompagnarono al castello, dove pose la sua residenza. Ella presentò allora ai suoi dipendenti la sua nomina, ed un Breve di suo padre così concepito:
«Amati figli, a voi salute ed apostolica benedizione. Abbiamo conceduto il possesso del castello e il reggimento delle nostre città di Spoleto e Fuligno, della loro contea e distretto, alla nostra diletta figlia in Cristo, donna Lucrezia di Borgia, duchessa di Bisceglie, per il maggior bene di questi luoghi. Fidando nella particolare intelligenza, fedeltà e rettitudine della sullodata duchessa, come in altri Brevi abbiamo dichiarato, ed anche facendo appello alla vostra abituale obbedienza a Noi ed alla Santa Sede, speriamo che riceviate la vostra nuova duchessa reggente con gli onori e la riverenza che vi impone la vostra deferenza verso di Noi. Desideriamo dunque che degnissimamente la riceviate, e che, per conservare il nostro favore e per evitare la nostra disgrazia, voi ubbidiate alla duchessa reggente Lucrezia Borgia, in generale e in particolare, per tutti quei diritti e quelle consuetudini concernenti il suo governo, e per tutti quei comandi che ad essa piacerà di darvi, come alla nostra medesima persona, con tutto lo zelo e la diligenza, per darci novella prova della vostra fedeltà ed obbedienza. A Roma, in S. Pietro, segnato coll'anello del Pescatore, 8 agosto 1499—Adriano (Secretario)».[19]
La vita di Spoleto a Lucrezia Borgia, improvvisamente chiamata a succedere agli antichi duchi longobardi, dovè certo sembrare noiosa e intollerabile. Non rimane nulla del suo governo, se non la riconciliazione avvenuta fra le due comunità di Spoleto e di Terni. Nell'archivio municipale di Trevi esiste ancora un documento sottoscritto di sua mano con questa formula: « Placet ut supra Lucrezia de Borgia ». Questa donna rimase a Spoleto breve tempo. Il 21 settembre visitò a Nepi suo padre, e nel mese di ottobre tornò a Roma. Pochi mesi dopo, nel luglio 1500, le morì lo sposo Alfonso di Aragona, duca di Bisceglie, che Cesare Borgia fece prima pugnalare sulla scala vaticana, poi strangolare nel suo palazzo.
A Spoleto rimasero alcuni suoi impiegati: Antonio degli Umioli di Gualdo, dottore in diritto, e il suo segretario Cristoforo Piccinino. Il 10 agosto 1500 Alessandro VI affidava il governo della città a Ludovico Borgia arcivescovo di Valenza.
Per recarsi da Spoleto a Foligno, bisogna attraversare la famosa valle del Clitunno, dov'è il piccolo e grazioso tempio di questo dio fluviale, tempio che non ha però più nulla a che vedere con quello descritto da Plinio; sorge vicino alla stazione postale detta Le Vene, presso la sorgente di una fonte più pura del cristallo.
Intorno la campagna è ridente, con lo sfondo incantevole delle montagne umbre. Percorrendo, come ho fatto, questi dominî che appartennero ai papi, bisogna convenire che era il loro un ben prezioso Stato, di cui la corona nessun re avrebbe sdegnato. Se si sono viste con i propri occhi queste campagne e queste antiche città, si capisce che sarebbe stato necessario un sovrumano disinteresse per rinunciare a questo antico possesso ereditario. Ma nulla può contrastare ed opporsi alla forza del tempo.
Foligno ha il doppio degli abitanti di Spoleto, ed è città assai industriale: vi sono fabbriche di carta, di candele di cera e di confetti; i migliori d'Italia, almeno così dicono. Giace in una pianura che è il punto d'incrocio ed il centro delle ferrovie umbre e romane, il che non è senza importanza per l'avvenire della città.
In essa tutto è più o meno moderno; vi ho però trovato alcuni palazzi dello stile del Bramante. La cattedrale può dirsi moderna in seguito ai molti restauri; solo la facciata conserva il suo stile gotico, ed ha un antico portale. Altre chiese sono notevoli per i loro quadri; così San Nicolò, possiede un capolavoro della scuola di Foligno, un quadro di Nicolò Alunno, maestro del Perugino.
Da Foligno si va in breve tempo a Trevi ed a Spello, che è situata sopra un'altura. Queste città sono caratteristiche e medioevali; le loro nere mura turrite e le antiche porte conservano i segni di un lontano passato. Presso Spello si vedono ancora molte case in rovina, come furono ridotte dallo spaventevole terremoto del 1831. Ciò non è per vero una prova dell'attività di questa popolazione. Così ci si avvicina alla valle del Tevere, che scorre qui fra i colli di Perugia e di Assisi. Sotto Bastia lo si passa, ancora piccolo ed esiguo. Intorno la campagna appare fertile e ben coltivata, specialmente a granturco e a viti.
Passai dinanzi ad Assisi senza entrarvi, perchè pensavo di recarmivi comodamente da Perugia. La patria di San Francesco sorge solennemente su un'altura a terrazze, con le molte antichissime torri e le massiccie mura della chiesa del santo. Due miglia circa al di sotto si vede la grande chiesa di Santa Maria degli Angeli. Fu costruita nel secolo XVI sulla cappella di San Francesco, e abbattuta poi dal terremoto. Gregorio XVI la fece riedificare dall'architetto Poletti.[20] È una copia del San Pietro di Roma, in proporzioni gigantesche. Quale strano contrasto fra la città medioevale e questo edificio moderno che non porta più nemmeno traccia di slancio religioso e mistico! Visitandolo, la prima cosa a cui vien fatto di pensare è il prezzo che questo tempio deve essere costato.
Si può dire soltanto a sua lode che è assai ben situato. Nel centro esiste intatto il santuario di San Francesco: una piccola cappella gotica, che stona vivamente con ciò che la circonda. Fu edificata in questo luogo in memoria dell'apparizione delle rose che avrebbe suggerito al santo, mentre pregava devotamente, di fondare il famoso ordine. Tavole votive e doni sono appesi nell'oscuro oratorio, costellato qua e là di ceri, alla luce scialba dei quali si scorgono fedeli che pregano inginocchiati. Questa cappella è il santuario dell'Umbria. I due lati esterni sono ornati di affreschi: uno è opera di Overbeck, e, a quel che si dice, è la migliore sua composizione; l'altro, molto restaurato, è un bel quadro della scuola del Perugino, forse dello Spagna. I due quadri sono fra loro nello stesso rapporto in cui una chiesa nuova sta con una chiesa antica, o come un santo moderno sta ad uno antico, o almeno come un pittore di santi moderno ad uno antico. Ogni tempo ha la sua fisonomia, e i fiori artificiali non hanno nè profumo, nè anima. Il pittore più felice, anzi più grande, non potrebbe oggi comporre un'opera che esercitasse su di noi il fascino che esercita un Perugino, uno Spagna, un Pinturicchio.
Nel convento di Santa Maria vivono 90 francescani. La rivoluzione, come mi assicurò un monaco, non ha toccato nessuno dei chiostri di Assisi. Nondimeno questi mi apparve triste e depresso. Quanto si è detto sulle soppressioni dei monasteri dell'Umbria è inesatto. Dovunque io mi sono fermato, ho veduto monaci. L'Italia non se ne libererà mai, mai potrà bandirli del tutto dalle sue terre. Essi appartengono alla terra come i suoi fiori e i suoi animali. I cappuccini, gli zoccolanti, i benedettini, gli scolopî ed i varî altri ordini, non sono stati affatto soppressi, benchè monasteri di altri ordini siano stati chiusi per la legge Siccardi. I possedimenti della Chiesa, estesissimi nell'Umbria, sono stati sequestrati e non venduti. È però indiscutibile che qua e là si è proceduto in modo un po' troppo sommario.
Alta, su i suoi molti colli, che si levano dal fiume sottostante, di aspetto vetusto e analogo a quello di Palestrina, Perugia si mostra allo sguardo del visitatore. Appena entrati in questa città, si sente la sua imponenza, come città essenzialmente medioevale, ricca di caratteristici ricordi municipali. Città principale della regione, prospera, lieta, museo dell'arte umbra, vecchio centro di scienze e lettere, essa fu la gemma più bella del diadema pontificio, e perciò fu trattata con indulgenza e considerazione. Fin dall'epoca bizantina Perugia fu, almeno di nome, possesso della Chiesa, eppure per secoli interi si sottrasse, come altre città, al dominio di quella, e primeggiò fra le repubbliche vicine. Governata a volta a volta dai popolari (Raspanti) e dai nobili (Beccarini), ondeggiante fra guelfi e ghibellini, divenne, per queste lotte e fazioni, residenza di molti papi, mentre davano opera alla propria istallazione sulla sede di San Pietro. Il famoso papa Innocenzo III vi morì nel 1216 e vi fu seppellito sotto la stessa volta che accolse Martino IV, il quale morì per aver mangiato a cena, un sabato santo, troppe anguille del lago Trasimeno. Anche Innocenzo IV risiedette in Perugia. Vi morì pure l'infelice Benedetto XI, l'ultimo dei papi che regnarono prima dell'esilio di Avignone.
Durante il secolo XIV questa repubblica municipale fiorì straordinariamente; tutta l'Umbria le fu soggetta; nel 1370 però dovette sottomettersi nuovamente al papa. Cinque anni dopo i cittadini si ribellarono e demolirono la fortezza papale, ma alla fine di quel secolo furono ancora una volta assoggettati; non per questo cessarono le lotte intestine. Le famiglie degli Oddi e dei Baglioni, specialmente quest'ultima, ebbero una parte importante in questi rivolgimenti. Il noto Braccio Fortebraccio, che nel 1416 si fece signore della città, nacque a Perugia. Finalmente: Giulio II sottomise Paolo Baglioni, che fu poi giustiziato da Leone X in Castel Sant'Angelo a Roma. Paolo III annientò l'ultimo resto dell'indipendenza di Perugia, e d'allora in poi la repubblica fu retta da cardinali legati, che risiedevano nel nobile e antico palazzo del Comune.
Perugia ha, più di molte altre città italiane, mantenuto il suo carattere medioevale; non si trova qui quella frivolezza moderna che ha ormai invaso le città; ma v'è comune quella cortesia di modi, seria e solida, che data dal tempo dei conflitti cittadini fra la nobiltà e la borghesia. Oggi i nomi dei Braccio e dei Baglioni, dei capi-partito e dei tiranni, sono eclissati da quelli degli artisti e degli artefici. Il Perugino è lo splendore, il vanto più bello della città. A Perugia è stato completamente compreso il valore e la grandezza di quell'ingegno, che servì di base al genio di Raffaello. Ma non voglio portare nottole ad Atene, dilungandomi sull'opera di questi grandi artisti.
Perugia si divide in città alta e città bassa, collegate da strade, scale e da ponti in mattoni, dai quali si gode la mirabile vista della città e della campagna. La città alta è la vera ed antica Perugia, ed è anche la parte più bella: il pittoresco Corso, coi suoi palazzi del secolo XV ed anche del XVI, è un vero monumento della grandezza repubblicana. Le loro facciate, romanico-gotiche, si completano l'una l'altra in modo sorprendente, e sono documenti storici; si potrebbe anzi dire che ci presentano proprio i lineamenti della città, il suo volto medesimo. V'è anche il grandioso palazzo comunale, che rimonta al 1281, cupo e severo, vasto ed oscuro, di architettura moresca alle finestre e ai portali, decorato degli stemmi dei principi e delle città alleate. Ai piedi del grifone, emblema di Perugia, sono appese le catene della porta di Siena, rapite dai Perugini.
La piazza del Duomo, verso la quale è volto un lato del palazzo comunale, è ornata anche dalla grande fontana di Giovanni Pisano, e dalla statua in bronzo di Giulio III. Non dico nulla del Duomo, nè di molte altre chiese, come S. Domenico, nella quale è la tomba di Benedetto XI, Sant'Agostino e San Francesco, perchè di esse si è parlato infinite volte; e infinite volte son stati descritti i tesori conservati nei grandi palazzi privati: Conestabili, Donini, Baglioni, Bracceschi e Baldeschi, Monaldi, Penna e Cenci.
Non lungi dal Corso sorgeva la fortezza pontificia, opera di Paolo III Farnese e del suo terribile nipote Pier Luigi che straziò infamemente la città. Questo sinistro edificio fu costruito sul luogo dove sorgeva un tempo il grande palazzo Baglioni. Nel 1848 fu smantellato a furia di popolo, ed ora non resta più, per ricordarlo, che un mucchio di pietre; quel luogo fu anche teatro delle ultime lotte contro Schmidt, comandante degli svizzeri pontifici.
Le rovine di questo castello hanno un aspetto melanconico; io vi trovai una folla di persone, specialmente di giovanotti, che vi passeggiavano con evidente soddisfazione, e contemplavano con interesse i resti della loro piccola Bastiglia, mentre si intrattenevano con le narrazioni dell'ultimo assalto subíto da essa e della capitolazione alle milizie del generale Fanti.
La vecchia fortezza non ebbe mai, del resto, un importanza strategica. Fu soltanto destinata a tenere in freno i cittadini.[21] Le truppe piemontesi poterono avvicinarvisi da ogni lato e impadronirsene senza ostacoli, nè resistenza da parte della sua guarnigione. Non si sa bene che cosa si erigerà su queste rovine; un grande edificio vi farebbe certo bella figura.[22] La posizione è ottima; la vista incantevole, scorgendosi la valle del Tevere e la fila dei verdi colli. La piazza dinanzi agli avanzi della fortezza è già stata chiamata Vittorio Emanuele, in memoria, come dice una lapide, del 14 marzo, giorno in cui il Parlamento nazionale lo proclamò re d'Italia.
Una strada conduce dal castello alla parte inferiore della città. Già da lungo tempo gli spalti sono stati adibiti come luogo di passeggio. Ma questo genere di passeggio è spesso malagevole, perchè troppo ripido. Vidi con piacere i viali di castagni tedeschi, che la siccità aveva del tutto spogliati di foglie; solo qua e là presentavano alcuni ciuffi di fiori secchi sui rami. La vegetazione è a Perugia più tarda che nella valle sottostante; prima della venuta dell'inverno questa città si ammanta di neve.
E' sempre consigliabile per un forestiero visitare il passeggio di una città che ancora non conosce. Talora nei giorni di festa ci si trova la parte migliore della cittadinanza. Ma sotto questo rispetto io non posso dire molto bene di Perugia. Anche nei più bei pomeriggi la sua passeggiata mi apparve poco frequentata; le signore uscite a spasso coi mariti erano poche; in grande quantità invece le cocottes, che si aggiravano fra i viali, sfacciatamente, con un velo in testa. E' deplorevole che la rivoluzione del 1859 abbia fatto perdere a molte città italiane il decoro che le distingueva prima di quell'epoca; almeno così sembra: le città dell'antico Stato pontificio sono ora in preda alla più sfrenata licenza. Io non ricordo di aver veduto mai in altro luogo una così sfrontata mostra di ragazze quale vidi in Perugia, dove, di pieno giorno, nella strada principale, nel Corso, dei giovani non si peritavano d'intrattenersi liberamente con queste femmine. E' incredibile lo strabocchevole numero di fotografie oscene che è sparso per l'Italia, e che proviene dall'industria francese. E' altamente encomiabile la proibizione fatta in Roma per mezzo di un editto, della vendita di simili imagini. Si dovrebbe fare in ogni città la stessa cosa. Nulla corrompe tanto la pubblica moralità quanto questa licenza.
Tutto sommato, Perugia è una città priva quasi di vita. Di truppe regolari ne vidi ben poche; la guardia nazionale ha occupato tutti i posti. Le truppe volontarie, da poco arrivate, saranno, mi si è detto, incorporate nell'esercito regolare. Il loro capo, Masi, ora colonnello, fu in origine segretario di un principe Bonaparte, passò molti anni in America, dove tentò invano molte speculazioni. Nel '59 passò i confini della Toscana come capo di bande volontarie e si distinse a Montefiascone. In lui si è veramente conservato il carattere dei condottieri del medio evo.
Gl'italiani odiano il servizio militare regolare, per lo spirito indipendente del loro carattere, insofferente di ogni giogo. Vidi l'esercito di Francesco II di Napoli nel 1859, mentre si dirigeva su Aquila: appariva bene armato e ben organizzato; ma dinanzi ai volontari di Garibaldi si disperse. Ora quelle truppe disciolte si sono raccolte qua e là, sotto il comando di briganti e di avventurieri, come Chiavone, Crocco, Ninco-Nanco e Cipriani, per battersi valorosamente come briganti e come tali farsi ammazzare. Un metodo di lotta così romantico è conforme all'indole meridionale. Alle bande di Masi (composte anche di cavalleria) si uniscono sempre molti volontari, anche di Roma, fuggiti spesso ancora adolescenti dalle loro case, per servire a Perugia o a Spoleto. Nei caffè si vedono giovani ufficiali in gruppi vivaci, pieni d'entusiasmo e di patriottismo. In generale ognuno sembrava qui, come del resto in tutta l'Umbria, pieno di speranza, quantunque non si dissimulasse le difficoltà della situazione. Un nucleo di reazionari è rimasto nella regione, composto specialmente di antichi impiegati,[23] i quali sono stati lasciati quanto più era possibile nei loro uffici. La nobiltà umbra, specialmente la perugina e quella che appartiene all'antico patriziato, è rimasta in gran parte fedele all'antico regime, temendo di venir soverchiata dalla democrazia, ed anche perchè tutti i suoi interessi son legati alla Santa Sede. Essa si tiene appartata nei suoi possessi o nei suoi palazzi cittadini. La nobiltà inferiore al contrario si è unita volentieri al movimento, e così pure il basso clero.
Perugia non possiede meno di 36 fra monasteri e conventi, alcuni dei quali, quelli dei domenicani per esempio, sono chiusi; i monaci si sono prudentemente e astutamente ritirati nel territorio romano. I preti dell'alto clero sono contrari al movimento, ma si comportano con prudenza. Tutto l'episcopato umbro sta, come un sol uomo, col pontefice, e questa fermezza del clero in tutta l'Italia, salvo poche eccezioni, ha qualche cosa d'imponente e di bello. I vescovi, con le loro lettere pastorali, si sono opposti alle disposizioni del commissario dell'Umbria, in quanto quelle disposizioni concernevano i conventi, i possessi della Chiesa, l'abolizione del Foro ecclesiastico e della sorveglianza del clero sulle scuole. Questo commissario, di nome Gualterio, non ha dato nessuna importanza alle proteste, e continua imperturbabilmente l'opera sua. La stampa è libera. Nella papale Perugia ora si vende liberamente la Bibbia del Diodati, come a Firenze, e presso i librai si trovano esposte al pubblico vivacissime invettive contro il papato. La Gazzetta dell'Umbria e l'ebdomadaria Roma e l'Italia, ambedue di Perugia, contengono di continuo articoli roventi contro i preti della regione e contro i cardinali di Roma. Così l'antico regime, costretto a limitarsi ad una opposizione del tutto passiva, è soverchiato dalla potenza del nuovo.
L'università, un tempo sotto la protezione dei papi, segnalatasi sempre per valenti insegnanti, è teatro degli stessi antagonismi. Molti professori, membri della nobiltà umbra, son reazionarî; la parte giovanile invece si è gettata a capo fitto nella rivoluzione. Il ristagno negli studi è sensibilissimo, e la gioventù sempre più diserta le lezioni per prendere le armi. Naturalmente di questi perturbamenti ne risente soprattutto il mondo letterario, a cui la pace e la concentrazione sono necessarie. Niente accenna che questo stato di cose debba cessare. Perugia, come è stato detto ridendo, dovrebbe divenire la capitale d'Italia: così almeno proporrebbero seriamente alcuni cittadini, fondando i loro desiderî sul fatto che la città è il punto più centrale della penisola e per molti rispetti meritevole di tale onore.
Lo scopo del mio soggiorno in Perugia era un'accurata indagine negli archivi della città e specialmente nell'archivio dei Decemviri, al palazzo pubblico, che doveva servirmi per la storia medioevale di Roma. Ora tutti gli archivi dei conventi soppressi sono riuniti in quello municipale. Ne sono stati soppressi 22, ad eccezione di quelli dei frati questuanti e dei benedettini di San Pietro. Gli stessi conventi furono già una volta soppressi nel 1810, e molti documenti andarono perduti in quel tempo. Un professore dell'università, Adamo Rossi, mi condusse nel chiostro dei Serviti di Santa Maria Nuova, dove in più stanze sono stati raccolti gli archivi della città. Qui vidi mucchi di pergamene sovrapposte o sparse sul pavimento, alla rinfusa, spettacolo melanconico, come di un tesoro troppo grande e troppo pesante per poter essere sollevato e riordinato. Noi vi penetrammo infatti come veri ricercatori di tesori, e sollevammo nubi di polvere nel rovistarli, ma non scoprimmo un sol documento di qualche interesse: tutti avevano un'importanza strettamente locale.
L'abbandono di questo convento è incredibile; ne' suoi cortili solitari cresce l'erba; i ragni tessono le loro tele nelle sale e nei lunghi corridoi; talora un monaco muto e spettrale si aggira in quella solitudine come un fantasma del passato. Vi si sente l'odore di un'epoca tramontata per sempre.
Nel famoso e vetusto convento di San Pietro, dove vivono ancora otto monaci, abitò per due anni Gregorio IX, il grande avversario di Federico II. Conta 900 anni di vita; la sua chiesa, una bella basilica, con antiche colonne di granito, è ritenuta come la gemma più preziosa della città, ed è un vero museo della pittura umbra. Contiene splendidi quadri del Perugino, di Orazio Alfani, del Doni, dello Spagna e di altri maestri, e preziosissime copie delle opere del Perugino e di Raffaello, eseguite dal Sassoferrato. I benedettini di questo convento non si lagnavano della loro sorte; essi sembravano anzi rassegnati. Il degno abate si mostrava favorevole all'unità d'Italia, solo sperava che Roma fosse conservata al papa. Io mi accorsi che avrebbe voluto dire qualche altra cosa che non disse. A quest'abbazia è stato concesso il privilegio di rimanere intatta, come quella metropolitana di Montecassino, fino alla morte dell'ultimo monaco. Questi frati hanno ora istituito una scuola di agricoltura per cinquanta alunni.
Un giovane benedettino mi condusse nell'archivio del convento, che conserva diplomi imperiali di Enrico III, di Corrado III e di Barbarossa, e molte Bolle papali. Formava il suo vanto principale il più antico documento che Perugia possegga; il privilegio di Benedetto VII, del 978, fondatore e primo abate del convento. Quando gli svizzeri pontificî, sotto il comando dello Schmidt, nel 1859 assaltarono Perugia, fecero un'irruzione nell'abbazia e la devastarono. Gettarono all'aria i diplomi (così mi fu detto) lacerarono i sigilli delle Bolle e distrussero anche alcuni preziosi documenti. Di quello di Benedetto VII ne fu salvato un frammento, che fu poi messo sotto un cristallo alla parete dell'archivio. Un monaco ha composto sul fatto un epigramma latino, che tramanda ai posteri i misfatti del Furor Helveticus.
Io continuai il mio viaggio attraverso l'Umbria con lo scopo di far sempre nuove indagini negli archivi delle varie città, dove fui sempre ricevuto assai cortesemente, grazie alle lettere che mi aveva dato il ministro dell'istruzione, Michele Amari. Nessun altro luogo del mio viaggio mi ha lasciato un'impressione gradevole quanto la città di Todi.
Questa antichissima città umbra, in origine Tuder o Tudertum, sorge sopra un colle ridente, presso la valle del Tevere, fra vigne e olivi. Lontana dalle grandi vie di comunicazione, appare come assopita nei sogni del suo passato, in una placida tranquillità che però non è morte.
Era già notte quando, giunto con la diligenza ai piedi della collina di Todi, mi feci condurre alle porte della città per cercare una locanda. Il mio ingresso fu assai triste e melanconico; le strade strette ed oscure e la solitaria locanda alla quale fui condotto, non mi presagivan nulla di buono. Ma dovetti ricredermi la mattina seguente, quando il sole dissipò la tristezza del luogo.
In pieno giorno Todi mi apparve come una simpatica cittadina, incantevolmente situata, conservante quel carattere nettamente medioevale che ora così poche città possono vantare. Circondata di vetuste mura, in parte ancora di costruzione etrusca, questa città copre il colle su cui giace in modo da conservare alle piazze una livellazione sorprendente, a dispetto della ripidità del monte. Vecchi palazzi, brune torri medioevali, pittoreschi edifici gotici, chiese e conventi, sono sormontati dal grandioso duomo.
Sulla piazza principale sorgono gli edifici pubblici, i monumenti del tempo in cui Todi era una repubblica libera, arbitra di guerre e di alleanze, come Terni, Spoleto, ed altre città. Nel secolo XIII, il suo periodo aureo, essa era in grado di mettere in campo mille cavalieri armati; e mentre ora non conta che 4000 abitanti, ne contava allora 30,000. La sua costituzione guelfa era profondamente democratica; il governo era nelle mani delle corporazioni artigiane, che avevano una rappresentanza al Consiglio. Un potestà e un capitano del popolo, i quali stavano in carica un solo anno e dovevano essere stranieri, governavano questo Stato libero e rendevano giustizia. Si trovano nella loro lista molti nomi romani, delle maggiori famiglie del XIII secolo: Colonna, Orsini, Frangipani, Annibaldi, Cenci, Caetani, Savelli, Malabranca, e altri.
I monumenti più notevoli di questa storica repubblica sono oggi il palazzo comunale e il palazzo del governatore, ambedue sulla piazza principale. Il primo è un grande edificio in stile gotico-romanico, di belle proporzioni, con una splendida scala esterna in pietra. L'altro ha un'alta torre, ed è coronato su tutta la fronte da merli, ugualmente di architettura pseudogotica, con una potente torre. In faccia a questi è la cattedrale pure di architettura pseudo-gotica con un'alta torre, l'interno ha tre navate, la principale delle quali mostra ancora la volta gotica primitiva dell'XI e XII secolo; una quarta navata minore è stata aggiunta in tempi posteriori. Dopo il duomo, la chiesa più notevole di Todi è San Fortunato, grandioso edificio gotico del secolo XIII. San Fortunato è il patrono della città, e la sua chiesa è pittoresca, severa e solenne.
Durante il mio soggiorno in Todi passai gran tempo a San Fortunato, dove si trovano gli archivi della città. Ottenuto dal sindaco il permesso di frequentare l'archivio, l'archivista, Angelo Angelini, mi condusse in una stanza posta sotto la chiesa, presso la sacrestia. Rimosso un vecchio inginocchiatoio, ci apparve la porta che metteva direttamente nell'archivio. In esso, ammonticchiate contro la parete, stavano innumerevoli pergamene, quasi tutte in uno stato compassionevole, e in mezzo alla stanza, sopra una tavola, altre pergamene, gettate alla rinfusa, coperte di un denso strato di polvere, le quali facevano parte un tempo della biblioteca del cardinal vescovo di Albano, Bentivegna d'Acqua Sparta. Di quest'uomo fa menzione una volta Dante nel suo poema. Morì nel 1289.
La biblioteca si riduce a questo solo archivio; io vi lavorai per molte ore. Dapprima ero sorvegliato da un valletto del Comune; poi, avendo io voluto vedere in ciò un segno di sfiducia, me ne fu affidata senz'altro la chiave, con facoltà di andare e venire a mio piacere.
Allora si sparse per Todi la voce che uno straniero faceva grandi ricerche nell'archivio della città; in seguito a questa voce, mi vidi comparire dinanzi il presidente della corporazione dei sarti, con un fascio di fogli sotto il braccio, con gli statuti cioè della sua corporazione. Era un giovane correttamente vestito, dall'aspetto intelligente. «Io vengo—mi disse—a chiedere il vostro parere, trovandosi la corporazione in un grande frangente».
A queste parole repressi a stento un sorriso, pensando che cosa avessi fatto di grande nel mondo, perchè a me, uno straniero della Prussia orientale, si venisse a chiedere un parere per una corporazione di sarti dell'Umbria! Assunsi però un atteggiamento grave e solenne, come un savio greco.
Egli proseguì, lamentandosi del governo italiano che aveva osato porre la mano su tutti i beni delle opere pie e su certe rendite della loro corporazione. Evidentemente il governo aveva considerato l' ars sartorum della città come una confraternita o associazione a scopo religioso. Essa possedeva ab antiquo l'ospedale di San Giacomo.
Le rendite di questo, 360 scudi all'anno, erano state reclamate e sequestrate dal governo, contro un derisorio compenso. Il presidente della corporazione con grande facilità mi disse che la rivoluzione del 60 era stata fatta principalmente dagli operai, e che egli stesso aveva in quell'epoca preso le armi ed aveva con le truppe marciato contro Orvieto. E questa era la ricompensa!
Il governo stesso aveva raccolto quelle rendite, ed aveva con esse impinguato la cassa ecclesiastica! Il giovane presidente aveva mandato alla prefettura di Perugia i documenti atti a comprovare i loro diritti, ma questi documenti non erano stati presi in considerazione. Ora, siccome queste pergamene erano indecifrabili e in Todi nessuno aveva potuto ricavarne nulla, mi pregava di esaminarle e di dirgli poi se da esse si potevano o no rilevare i diritti della corporazione così bistrattata.
Io gli dissi di tornare il giorno seguente. Egli venne e si lasciò persuadere che quei documenti non erano che strumenti notarili e che non avevano per la corporazione che un valore di antichità: mi confessò di averlo già sospettato.
Del resto, questa corporazione dei sarti di Todi è una florida e bella istituzione medioevale, che conta già più secoli di esistenza.
Essa ha ancora un capo, console, e dodici consiglieri, fratelli. I suoi statuti sono chiaramente esposti in un volume in pergamena di sessanta fogli: datano dal 1308, ma nel 1492 furono tradotti dall'originale latino in italiano.
Trascrivo il principio di questo documento:
« El prohemio della matricola de sartori: capitolo I.
«Nel nome del Nro signor Iesu Xto et della beatissima sempre vergine Maria sua madre: et del beato sancto Michele Arcangelo, et del b. sancto Ioanni Baptista et Ioanni Evangelista, et de beati apostoli S. Pietro et S. Paolo: et de beati confessori sancto Fortunato, sancto Calisto et S. Cassiano; et de tutti i sancti et sancte della corte celestiale. Questi sono i ordinamenti et statuti iscritti dell'arte de sarturi et cinaturi della città et contado de Todi: facte et ordinate per glomini della decta arte; nel tempo dello officio de consoli, cioè delli sapienti homini Iacobuccio Dondreelle; del rione de sancta presedia, et de Cechole de Manello; del rione della valle; iscripti per me ser Francesco de maestro Iacomo publico notario della detta arte; nel tempo et negl anni del signore nell mille trecento otto: nella indictione sexta: nel tempo del pontificato del nro signore Benedecto papa duodecimo: et addì venti dua de novembre».
In Todi conobbi molte gentili persone che in ogni modo mi favorirono, fra cui Alessandro Natali, già libraio in Roma e cittadino di quella città, ora editore della «Storia di Todi» del Leoni, e della «Vita di Bartolomeo d'Alviano», famoso capitano nato a Todi al principio del secolo XVI. Questo Natali è rettore economo di Monte Cristo già monastero, ora ospizio dei trovatelli. Mi condusse in questo ospizio, che ricovera 98 fanciulli. Anche là visitai l'archivio, dove vidi molte pergamene, che riguardavano il luogo stesso, destinato una volta come ricovero pei lebbrosi.
Mi mostrò anche il convento dei Cappuccini a Monte Santo, posto su una collina, presso la città. La sua piccola chiesa possiede sull'altare maggiore un pregevole quadro dello Spagna,[24] dello stesso soggetto del quadro di Narni: l'incoronazione, cioè, della Vergine. Ambedue queste tele sono autentiche e originali. Il priore ci offrì del caffè, e mi chiese di Witte, la cui fama di dantista è giunta fino in questa solitaria cittadina. Mi fu anche mostrato un manoscritto di Fra Jacopone, di questo profondo mistico dell'ordine di Celestino, nemico animoso di Bonifacio VIII. Morì a Colazzone nel 1304, ma è sepolto a S. Fortunato. Si attribuiscono a lui le parole dello Stabat Mater, e forse non a torto. A Monte Santo trovai un monaco intento a copiare un codice che fra le altre poesie di Fra Jacopone, conteneva anche lo Stabat Mater. Però vi sono manoscritti più antichi delle poesie di questo francescano, a Venezia e a Firenze; quelli di Todi non possono rimontare oltre il XV secolo.
Tutti coloro coi quali feci relazione in Todi, mi parvero soddisfatti della loro tranquilla ed angusta residenza; al lume di luna, la sera, le signore si recano alla passeggiata sotto l'antica rocca, ora caduta in rovina. Da questa si arriva alla chiesa della Consolazione, edificata su disegni del Bramante. Non v'è in Todi una grande nobiltà feudale: le antiche famiglie son quasi tutte scomparse. Fra queste nel medio evo erano considerevoli gli Acti o Atti, gli Oddi, i Fredi, i Bentivenga, i Caracci, i Pontani, i Landi, i Corradi, gli Astancalli.
Molti palazzi ricordano ancora queste famiglie, ma sono abitati da altre o da discendenti impoveriti. Oggi che tutto è fatto per servire ai bisogni del momento, noi dovremmo sentire vergogna dinanzi a questi palazzi edificati per sfidare i secoli, palazzi che troviamo fin nelle minori città! Questo dicevo ad un tal Pierozzi di Todi, dottore in diritto e autore di commedie in versi. Oh quanti autori drammatici invidierebbero questo solitario cittadino di Todi che, nel palazzo ereditato dai padri, gode una serena e vera felicità!
A Roma mi avevano consigliato di spingermi fino ad Aspra, sui monti della Sabina, dove è un importante archivio municipale ed una superba selva. Quando fui di ritorno a Terni, risolsi di andarvi, tanto più che una buona strada da Terni conduce nelle vicinanze di quel castello. V'era però un inconveniente di qualche importanza: in Aspra non vi sono alberghi. Un abitante di Terni si occupò di trovarmi un alloggio, scrivendo in precedenza una lettera ad un suo conoscente. Noleggiai una carrozza e partii da Terni alle 4 del mattino del primo agosto. Si attraversa una regione montuosa da settentrione a mezzogiorno, su una buona strada, cosparsa di poche e piccole abitazioni e ricca invece di bei boschi di quercie. Le montagne si aprono e si allontanano a Torri, antico castello che nel secolo X appartenne alla famiglia romana dei Crescenzi, potentissima nella Sabina. Nera e pittoresca, sorge su di un colle, da dove si gode la vista del monte Soratte, della Campagna romana, dei monti della Sabina, degli Appennini, e a sinistra di un profondo scoscendimento, dominato da una rupe, sulla quale si leva un oscuro gruppo di case, circondato da mura nere e coronato di torri. Questa è Aspra, la Casperia dei Romani, vero nido di aquile, inaccessibile ed inattaccabile.
Era mezzodì, ma l'aria era lassù ancora fresca e leggiera. Dopo i molti e lenti giri che la strada fa nella valle profonda, cominciammo alfine a salire la montagna faticosamente, e giungemmo dinanzi alle mura. Qui il cocchiere si arrestò, e mi spiegò che il paese non aveva strade praticabili. Scesi allora e mi avviai verso la porta. Qual luogo spaventosamente solitario e selvaggio! Strettissime e oscure vie fra case ammonticchiate e soffocantesi a vicenda, o piuttosto che vie, letti di torrenti montani: ecco Aspra.
Era domenica. Il popolo di Aspra, vestito di giacchette grigio-azzurre, secondo il costume sabino, giocava a palla dinanzi alle case. Tutti mi guardarono con grande stupore. Mi feci condurre al Municipio, dove giunsi dopo un faticoso saliscendi. Il sindaco di Aspra, vestito con la giacchetta da operaio, mi disse che aveva ricevuto lettere che mi concernevano da Terni e da Perugia, ma che io non potevo quel giorno visitare l'archivio, essendo festa, ed essendo il segretario occupato altrove. Aggiunse che avrei trovato alloggio dal calzolaio, che teneva una specie di locanda.
Fui condotto da questo signore in una casa d'aspetto miserabile, e mi fu mostrato un buco che veniva chiamato anche camera. Aveva una finestra rotta, che sbatacchiava alla brezza vivace, ma che lasciava però vedere un panorama d'indescrivibile e sublime solennità. Io mi gettai stanco su di uno sporco letto in un angolo della stanza, ma dovetti presto rialzarmi per le punture delle zanzare e di altre bestioline maligne. Il mio ospite mi pose presto dinanzi un pranzo, che io non toccai, e, disperato, dichiarai che non potevo rimanere in quel luogo. Mi affrettai a tornare dal sindaco, che mi accompagnò dal suo segretario. Uniti tutti e tre sotto un arco che congiungeva due strade, tenemmo consiglio. Finalmente quei nobili signori risolsero di aprirmi l'archivio, e di andare in cerca di un alloggio possibile in qualche buona famiglia; della prima cosa s'incaricò il segretario; della seconda il sindaco. Il segretario mi condusse dunque al Comune, un fabbricato massiccio ma non molto antico, e mi fece entrare in una stanzetta, nella quale si trovavano due armadii con le preziose memorie del Comune. Vi trovai molti documenti che concernevano il Senato romano medioevale, poichè Aspra formava in quel tempo una comunità indipendente, come altri paesi sabini dei dintorni, ma sotto la giurisdizione del Campidoglio, che vi mandava i suoi rettori, o podestà. Vi erano anche—strano a dirsi—dei documenti apocrifi del secolo X.
Al cader della notte il segretario tornò per dirmi che una delle migliori case del paese era pronta ad accogliermi. Mi condusse, infatti, in una casa d'aspetto decoroso. Una signora, giovane ed alta, mi ricevette, e mi disse che la sua casa si onorava di ospitare uno straniero. I suoi modi erano distinti e civili, come il suo abito. Mi accompagnò nella mia camera, facendomi traversare un deserto e tetro salone, dove poche settimane prima era caduto un fulmine; le finestre e il camino avevano sofferto, come la parete esterna che si era spaccata, e lasciava scorgere il cielo azzurro. Nulla era stato fatto per riparare in qualche modo a quello sconcio. Antiche armi familiari mostravano che la casa era stata un giorno fra le maggiori del paese.
L'aspetto poco confortante del salone mi rese curioso di vedere la camera. La signora ne aprì la porta: era abitabile ed aveva un buon letto romano. Comparve il fratello della signora, un bell'uomo, cacciatore accanito dei boschi sabini; indossava la divisa di capitano della guardia nazionale. Fui invitato in modo assai cortese a fare quello che più mi piaceva, in piena confidenza; ed io accettai le loro offerte, alla condizione che mi permettessero di fare i miei pasti presso l'ospite primitivo, al quale ero stato indirizzato da Terni, al che essi gentilmente acconsentirono. Passai in Aspra due piacevoli giornate, nonostante l'orribile impressione ricevuta sulle prime. Lavorai nel piccolo archivio dal mattino alle cinque della sera, ciò che suscitò in tutti una straordinaria meraviglia. Andavano e venivano intorno a me dei curiosi; mi salutavano amichevolmente, ma con stupore, non avendo visto da molti anni un forestiero. Io mostrai al segretario una preziosa pergamena del tribuno Cola di Rienzo, diretta alla comunità di Aspra. Mi pregò di fargliene una traduzione italiana, che gli dettai, e che fu posta come memoria nell'archivio. Nel pomeriggio mi recai con questo signore e col maestro del paese, un laico, al convento dei Cappuccini, dove si festeggiava una ricorrenza. Il convento è bello e solenne, sopra un monte coperto di quercie. Alcune donne stavano inginocchiate nella piccola chiesa, tutta avvolta nell'ombra. Sul portale erano altre persone, fra cui le donne del mio compagno, e alcune fanciulle, delle quali una di straordinaria bellezza, una creatura di sedici anni appena, nel fiore della sua primavera, ma grave e pensosa. Felice l'abitante di Aspra, che potrà accogliere quell'essere incantevole nella sua casa fumosa, battuta dalla folgore! Mi presentarono a quelle signore, fra le quali divisi dei fiori artificiali che avevo preso al monastero, e che furono assai graditi. Dove vidi mai io un panorama così superbamente bello, quale potei godere dall'alto del monte dei Cappuccini? Dinanzi a me il Soratte grandioso, e la valle del Tevere, i colli umbri, la Sabina, il Lazio, la Campagna romana: tutta questa regione immersa nella porpora del tramonto, pareva un'apparizione fantastica. Sui monti vicini regnava una maestosa solitudine, rotta da cupi castelli e da città. Verso occidente, lontano molte miglia, si scopriva una piccola altura, presso la quale un'altra ne sorgeva a forma di cupola: monte Mario e la cupola di S. Pietro. La sera di Pasqua anche il popolo di Aspra gode dell'illuminazione di questo monumento meraviglioso; esso lo scorge, all'estremo orizzonte, come una sfera di fuoco. Dal tetto del convento contammo ben 28 paesi, più o meno vicini, dei quali nominerò alcuni pochi, perchè si possa intendere la straordinaria ampiezza di quella veduta: il Soratte, Civita Castellana, Ronciglione, Caprarola, Collevecchio, Montasola, Stimigliano, Magliano, Roccantica, Poggio Sabino, La Fara, Poggio Mirteto, Montopoli, Torrita sul Tevere, che sembrava una striscia d'argento, Filacciano, Cantalupo, monte Gennaro, Tivoli, Palestrina, i monti Albani.
Quando tornammo ad Aspra, il sindaco stava sulla porta della sua casa, e ci invitò ad entrare. Il bravo uomo si chiamava Asprone; poteva perciò vantarsi di incarnare perfettamente la comunità, di cui si trovava a capo. Conobbi anche sua moglie, un'opulenta matrona. Dovetti, solo, sedermi sul canapè, mentre la moglie del sindaco mi serviva un piatto di ciambelle sabine. Quindi il sindaco, accesa una candela, discese in cantina, e tornò poco dopo recando un grosso bocale di terracotta colmo di vino. Bevemmo abbondantemente, ed io brindai alla prosperità di Aspra e del suo magistrato, la qual cosa commosse molto i miei ospiti. Parlarono con meraviglia della mia strana velleità di andare in un luogo così remoto e perduto fra i monti, per ricercare e leggere antiche pergamene. Mi pregarono di tornare presto, ma per molte settimane, per tutto l'autunno.
Quando lasciai il sindaco, il segretario mi pregò di fare anche a lui l'onore di una visita: evidentemente non voleva cederla in gentilezza al suo superiore. La sua giovane moglie mi ricevette nella sua modesta abitazione, con un bambino al petto, del tutto scoperto, e così rimase a sedere vicino a me per tutta la visita. Altro vino e altre ciambelle mi furono offerte. Più tardi presi congedo dai proprietari della casa che così ospitalmente mi aveva accolto; anche da loro ricevetti calorosi inviti di ritornare, ed una lettera per dei loro parenti romani. Quando la mattina dopo mi alzai, un lume ardeva ad una finestra della casa, ma nessuno si mostrò. Un asinello mi aspettava alla porta, ed io partii da Aspra lieto e soddisfatto di aver trovato nei cuori di quella popolazione l'incanto stesso della natura meravigliosa che li circondava. Attraversata una bella regione montuosa, giunsi a Passo Corese, dove presi la posta e feci ritorno a Roma.
NOTA.
Questo capitolo porta la data del 1861, ma quanto si riferisce alla gita nell'Umbria e nella Sabina è invece notato sotto l'annata 1864 nei Diari romani del Gregorovius, tradotti da Romeo Levera e pubblicati dall'Hoepli nel 1895, ai quali rimandiamo il lettore poichè completano la narrazione, avvertendo che negli stessi Diari poche note appena ci informano sulla fermata a Perugia e sul viaggio da Roma a Firenze nell'agosto 1861.
IL GHETTO E GLI EBREI DI ROMA. (1853).
Il Ghetto e gli ebrei di Roma. (1853).
Ammassato in un cupo e triste angolo dell'Urbe, rimpetto al Trastevere, abita qui da più secoli, quasi reietto dal resto del genere umano, il popolo degli ebrei di Roma. Di essi tratteranno queste pagine, che l'autore ha ricavato parte da scritti antichi e moderni, parte dalla bocca degli stessi ebrei. Più volte chi scrive ha percorso il Ghetto romano, e la sua popolazione, unica antica rovina vivente fra le rovine della città, gli è sembrata degna di attento studio.
L'arco di Tito al Foro rappresenta il trionfo del distruttore di Gerusalemme. Nel fregio di quest'arco il sacro fiume Giordano è rappresentato da un vecchio portato su di una lettiga; e sotto la volta dell'arco, sotto il quale non passerà mai un ebreo,[25] il vincitore ha fatto scolpire gli oggetti tolti al Tempio di Gerusalemme, il candelabro a sette braccia, la tavola d'oro, l'arca dell'alleanza, e le trombe d'argento per l'anno del giubileo. Sono trascorsi quasi 1800 anni da che l'arco fu eretto, e di quella Roma che dominava il mondo intero non restano che rovine, polvere, simboli morti del culto antico. Ma se ci si dirige dall'Arco di Tito verso il Tevere e si percorre il Ghetto, si vede qua e là, su qualche casa, il candelabro a sette braccia scolpito nel muro. E' la stessa imagine che si è veduta sull'arco di trionfo; ma essa sta qui come testimonianza vivente della religione d'Israele, poichè ancor oggi abitano qui i discendenti di quegli ebrei che Tito portò seco a Roma. Entrando nella Sinagoga ebraica si scorgono sulle mura le stesse sculture, le tavole della legge, la tavola d'oro del Tempio, le trombe del giubileo. Il popolo ebreo tuttora esistente, e non distrutto, innalza oggi le sue preghiere all'antico Jehova, dinanzi alle stesse imagini che un giorno Tito portò a Roma. Jehova dura ancora, dopo scomparso Giove Capitolino.
Ivi è il portico di Ottavia. Rovinati e cadenti, i suoi grandi archi, i suoi pilastri si drizzano sempre a lato del Ghetto. E' di là che Vespasiano e Tito partirono col corteo trionfale per celebrare la loro vittoria su Israele. Fra gli spettatori eravi pure un ebreo, Giuseppe Flavio, il famoso storico, che non ebbe vergogna di assistere al trionfo del vincitore della sua gente e di scriverne una particolareggiata relazione.
Dobbiamo a questo vile cortigiano ebreo la descrizione del trionfo.
«Dopochè—egli narra—l'esercito verso sera fu entrato in città, venne ordinato sotto il comando de' suoi capi dinanzi al tempio d'Iside; ivi passarono la notte i due capitani Tito e Vespasiano, che sul fare del giorno ne uscirono, coronati di alloro e vestiti di porpora, per recarsi al portico di Ottavia, dove attesero i senatori, i primi magistrati della città e i cavalieri più nobili. Di fronte al portico era stato innalzato un palco, su cui stavano sedili d'avorio; i due imperatori vi presero posto e allora le truppe proruppero in evviva e presero a vantare le loro geste. I soldati erano senz'armi, vestiti di seta e coronati di alloro. Vespasiano dopo avere ascoltato gli applausi, fece fare silenzio, e, sorto in piedi, si velò il capo e pronunziò una preghiera di ringraziamento. Tito fece lo stesso. Dopo la preghiera Vespasiano rivolse alcune parole ai convenuti, e congedò i soldati, perchè si assidessero ad un banchetto, che, secondo l'uso, era stato preparato dagli imperatori. Quindi l'imperatore tornò alla porta detta del Trionfo, perchè vi si passava sempre in queste occasioni; quivi mangiarono, vestirono gli abiti trionfali, offrirono un sacrifizio agli altari eretti presso la porta; dopo di che ebbe luogo la marcia trionfale, che attraversò il teatro, affinchè il popolo la potesse meglio godere».
Augusto aveva fatto costruire in onore di sua sorella Ottavia quel magnifico portico a due file di colonne. Una parte della facciata esiste ancora ed è addossata al mercato del pesce, che confina col Ghetto, presso la chiesa di S. Angelo in Pescheria, ch'è un'antica basilica, la cui storia si riconnette con quella degli ebrei, perchè nel medio evo erano costretti ad ascoltarvi le prediche. E' veramente un caso senza esempio nella storia che presso quei portici di Ottavia, là dove Vespasiano e Tito passarono in trionfo, reduci dall'avere sconfitto gli ebrei e distrutta Gerusalemme, i discendenti d'Israele ponessero la loro sede in Roma. Intorno a quel portico, una volta magnifico ed ora sepolto sotto le immondizie, il popolo degli ebrei fa i suoi affari.
Sulle lastre di marmo delle sue sale e de' suoi templi, i figli dei prigionieri di Gerusalemme vendono oggi il pesce, senza che nessuno di essi pensi neppur lontanamente all'importanza che ebbe un giorno questo luogo nella storia d'Israele.
Il Ghetto romano è fra tutte le comunità israelitiche d'Europa la più importante, per i rapporti storici del popolo d'Israele con l'Urbe. Altre, soprattutto quelle della Spagna e del Portogallo, e la Sinagoga di Amsterdam, offrono un più vivo interesse, ma tutto teologico, a causa delle loro scuole talmudiche; nessuna però è tanto antica e tanto importante quanto la Sinagoga romana: questa rappresenta la più vetusta radice del cristianesimo nella capitale stessa del mondo cristiano.
Se si pensa che qui, in questa stessa Roma, il popolo ebraico si mantiene da oltre 1800 anni, non si può fare a meno di rimanere stupiti dinanzi alla sua forza di resistenza. Sembra quasi incredibile che una razza così maltrattata, benchè rinnovata per l'aggiunta di nuove famiglie, tuttavia quasi sempre della medesima stirpe decadente, abbia potuto sopravvivere, attraverso i secoli, in quegli stretti vicoli, in mezzo a quell'atmosfera appestata, conservandosi per secoli sempre la stessa, quasi vivendo una vita tutta propria.
Fin dal tempo di Pompeo gli ebrei si stabilirono in Roma. Cacciati parecchie volte dalla città sotto i primi imperatori, vi fecero sempre ritorno, ed ai tempi di Tito si stabilirono dove sono tuttora, nel luogo per essi il più pericoloso del mondo, sotto gli occhi dei loro nemici, prima, di quei Romani che avevano distrutta Gerusalemme, poi, sotto quelli dei Papi, rappresentanti di quel Cristo che essi avevano posto in croce. Fin dai tempi di Pompeo furono fatti segno al disprezzo, e finalmente, radunati in un ghetto come una corrotta tribù di paria, si tennero uniti strettamente rimanendo sempre gli stessi, per secoli e secoli e sopportando la terribile uniformità del loro stato.
Essi vissero senza speranza, ma pure sperando, secondo il carattere del popolo d'Israele, cui i profeti promisero il Messia. Impotenti a lottare apertamente con i loro nemici, si trincerarono nel triste e possente appoggio della miseria, della consuetudine e della tenacità di propositi tutta propria della razza ebraica. La loro forza nel soffrire appare tanto più meravigliosa in quanto che essi non si confortavano, come i martiri, nel pensiero di una ricompensa in un'altra vita.
La natura stessa sembra che abbia dotato questa fra le più infelici classi umane dei più forti istinti di vita. Forse qualunque altra stirpe in tali condizioni sarebbe scomparsa, incapace di sopportare un disprezzo così profondo; ma gli ebrei ne furono capaci, e si conservarono, indistruttibili, nel centro stesso del cattolicismo. Segregati dal consorzio civile, gli ebrei non tentarono mai di mescolarsi fra le altre razze; anche i loro tardi nipoti sono oggi stranieri ai cristiani della città, nè più nè meno di quello che lo furono i padri loro ai tempi di Pompeo. Allora e sotto gl'imperatori, sebbene tenuti in grande disprezzo, erano trattati al pari delle altre sètte orientali, al pari dei siriaci, degli egiziani, dei persiani, e non vivevano appartati come oggi. Tra le molte sètte religiose dell'antica Roma gli ebrei costituiscono la sola che si sia conservata, e conservata senza variare.
La storia degli ebrei di Roma è, nei primi tempi almeno, difficile a ricostruirsi, scarse essendo le testimonianze degli scrittori romani.
I rapporti fra Roma e Gerusalemme datano dal giorno in cui Pompeo entrò in questa città, e, spintovi dalla curiosità, sordo alle preghiere dei giudei, osò penetrare nel sacro tempio. Pare sia stato Pompeo a portare per il primo schiavi ebrei a Roma; certo a quel tempo erano già in questa città liberti ebrei ed altri loro concittadini, trattivi probabilmente dal desiderio di lucro. Essi vivevano liberamente, praticavano pubblicamente i loro riti religiosi, ed i principi e le principesse ebraiche, onorati allo stesso modo degli altri principi dell'Asia, poterono qualche volta presentarsi in Senato ed al palazzo imperiale; allora vi erano ancora principi ebrei.
Il felice Erode venne più volte a Roma ed entrò nell'intimità dei Cesari con tutti i titoli della sua regale dignità; fu accolto ai loro banchetti, e prese posto nel loro palco a teatro. Così pure si videro nel Palatino Archelao e la principessa Salome, Antipa e Antipatro; parecchi principi ebrei furono pure educati alla corte imperiale di Roma, fra cui Agrippa, nipote di Erode, l'avventuriero che fu compagno di studi di Druso e amico intimo di Caligola. Il giovane ebreo libertino era appena uscito dalla prigione, dove era stato rinchiuso per debiti, che Tiberio lo gettò di nuovo in carcere e ve lo lasciò a languire sei mesi, finchè la morte dell'imperatore lo venne a liberare e Caligola lo nominò re degli ebrei.
E' nota la parte brillante che ebbe in Roma Berenice, sorella e amante di suo fratello Agrippa il giovane, ultimo re degli ebrei. Dopo la distruzione di Gerusalemme, ebbe stanza nel palazzo di Tito, ma nonostante i suoi intrighi, non riuscì a salire sul seggio imperiale.
Dopo Erode Agrippa, nessun altro ebreo occupò più una posizione importante in Roma, fino al pontificato di Gregorio XVI, che, per ragioni facili a capirsi, fece la più lusinghiera accoglienza, nello stesso Vaticano, al barone Rothschild.
Mentre i principi della Giudea si succedevano a Roma, molti dei loro correligionari si erano già stabiliti nella città. Cesare fu loro favorevole, come lo provano i lamenti che essi levarono in suo onore, allorchè cadde sotto il pugnale degli assassini. Augusto pure lasciò loro completa libertà di dimorare in Roma e di attendere ai loro affari; dicesi che alla sua morte abbiano pianto una settimana. A quell'epoca non si era peranco assegnato loro uno speciale quartiere della città, sebbene Filone narri che Augusto aveva donato agli ebrei una parte del Trastevere. Abitavano un po' dappertutto; la maggior parte però nell'attuale Trastevere, dove sorgeva la loro più antica Sinagoga. Secondo la tradizione romana, fu là che abitò l'apostolo Pietro, presso la chiesa di Santa Cecilia, dove dimoravano pure molti ebrei. Un'altra tradizione vuole che egli abbia dimorato anche sull'Aventino, nella casa dei santi Aquila e Prisca, due sposi ebrei convertiti al cristianesimo.
Nella curiosissima opera di Filone, intitolata «L'ambasciata a Caio», si può vedere sino a qual punto Augusto fosse clemente con gli ebrei. Il dotto alessandrino afferma che Augusto trattò sempre con dolcezza gli ebrei, conferma che essi abitavano nel grande quartiere del Trastevere, erano per lo più schiavi liberati e non furono costretti a mutare le consuetudini dei loro padri. La liberazione di quegli ebrei è tuttora ricordata da un bellissimo sepolcro sulla via Appia, che porta i nomi di due ebrei, Zabda e Akiba. Augusto sapeva, continua Filone, che gli ebrei possedevano delle sinagoghe, nelle quali si radunavano ogni settimana per essere ammaestrati nella sapienza dei loro padri. Tollerava pure che essi, alla nascita di un primo figlio, inviassero a Gerusalemme denaro, perchè si facessero sacrifici in favore del fanciullo. Eppure egli non li cacciò mai da Roma, nè li privò del diritto di cittadinanza romana: non mutò nulla nelle loro sinagoghe e nelle loro adunanze. Arrivò sino ad ornare il Tempio di Gerusalemme di doni preziosi e offrirvi delle vittime; e rispettò il sabato a tal segno che ordinò che non si facesse agli ebrei la distribuzione del grano in quel giorno, ma bensì nel giorno seguente, non potendo essi il sabato dare nè ricevere denaro, nè altro.
Filone fu inviato, nell'anno 40 dell'èra cristiana, dagli ebrei di Alessandria, alla testa di un'ambasceria, all'imperatore Caligola, per protestare contro le crudeli persecuzioni che essi soffrivano da parte degli abitanti di quel grande centro commerciale. Egli narra come Caligola ricevesse questa deputazione nelle sua villa di campagna: l'imperatore correva come un pazzo da una camera all'altra, dando ora ordini di nuove costruzioni, ora per far disporre e collocare antiche imagini, mentre gli ebrei lo seguivano attraverso la casa, fra le risa dei presenti. L'imperatore poi domandò loro con scherno perchè non mangiassero carne suina. «I gridi ed i fischi di quelli che ci beffavano—dice Filone—erano così forti, che pareva di essere in un teatro». Abbiamo, dunque, fin dall'antichità, un esempio di quelle scene che si ripeterono in Roma in ogni tempo, nel medio evo ed anche in epoche più recenti, per esempio, allorquando gli ebrei, schierati a Monte Giordano o davanti all'arco di Tito per prestare omaggio al nuovo papa, rimanevano esposti ai fischi dei monelli ed agli schiamazzi del popolaccio.
Caligola aveva una ragione tutta sua di essere irritato contro gli ebrei. Gli era venuta la fantasia di far erigere una sua statua di colossale grandezza, nella quale era rappresentato come un Dio, nel santuario di Gerusalemme; avendo saputo che il popolo ebraico, solo al mondo, s'era rifiutato di rendergli gli onori divini, ordinò dunque, a Petronio, governatore della Fenicia, di compiere il suo desiderio. Allora, se si deve prestar fede a Giuseppe ed a Filone, tutta quanta la Giudea, vecchi, giovani, donne, fanciulli, si riversò in massa sulla Fenicia; simili a una nuvola coprirono il paese; ed erano tanti e tali i loro lamenti e i loro pianti, che quando tacevano, l'eco li ripeteva ancora a lungo nell'aria. Si gettarono ai piedi di Petronio e lo supplicarono di ucciderli tutti quanti, dicendo che non avrebbero mai permesso un simile sfregio al tempio del loro Dio. Questa scena fu una delle più grandi tragedie di un popolo, delle quali si abbia memoria, e questa resistenza morale contro Caligola è una delle più belle pagine della storia ebraica, più luminosa delle geste di Davide e di Salomone.
Petronio rimase commosso e scrisse all'imperatore per distoglierlo dalla sua idea. L'amico d'infanzia di Caligola, il re Agrippa, si recò egli stesso a Roma ad intercedere in favore del suo popolo. Narra Filone che il suo terrore per la minacciata profanazione del tempio, fu tanto, che fu portato via svenuto, e poi cadde in una pericolosa malattia. Infine scrisse a Caligola una splendida lettera, in seguito alla quale il pazzo tiranno, cui il mondo intero elevava templi, altari, statue, abbandonò l'idea di far innalzare la sua effige nel santuario di Gerusalemme.
La morte repentina di Caligola preservò gli ebrei di Roma dalla sua vendetta. Disgraziatamente Filone non ci dice nulla delle loro condizioni in quell'epoca. Essi occupavano già il Trastevere e vi avevano formato una sinagoga di liberti, della quale è fatta menzione sotto questo nome negli Atti degli Apostoli (I, 9).
Dacchè i misteri cristiani penetrarono in Roma, gli ebrei e i cristiani furono confusi in una stessa setta comune, errore facile a spiegarsi, perchè questi ultimi erano per la massima parte ebrei convertiti. Così subirono anche le stesse persecuzioni. Nell'anno 51 furono gli uni e gli altri da Claudio scacciati dalla città. Già prima, Tiberio, dietro consiglio di Seiano, li aveva fatti una volta deportare in Sardegna, sotto l'accusa di usura sfrenata. Ma essi seppero ritornare e mantenersi in Roma; il loro numero aumentò a tal segno, che sotto i primi imperatori salì a oltre 8000, cifra che, se esatta, supererebbe del doppio il numero degli ebrei che abitano attualmente la città.
Quando Tito ebbe finito di distruggere Gerusalemme, fece condurre a Roma una turba di ebrei prigionieri, parte dei quali fu condannata a morte ed il resto vi si stabilì.
Stimo opportuno continuare la descrizione del trionfo di Tito, affinchè il lettore, a cui sia ignoto Giuseppe Flavio, possa avere un'idea di quello stupendo spettacolo. «È cosa difficile—dice Giuseppe[26] —descrivere la varietà di questo spettacolo, la sua magnificenza sotto ogni riguardo, sia per splendore d'oggetti, sia per la loro ricchezza e rarità. Tutto ciò che vi può essere di più prezioso e di più peregrino, comparve in quel giorno a provare la grandezza dell'impero romano. Si videro oggetti ornati d'oro, d'argento e di avorio, e non già in piccol numero, ma in tanta copia da sembrare il corso di un fiume. Si videro abiti tinti della più fine porpora, o ricamati mirabilmente in Babilonia, pietre scintillanti incastonate in corone d'oro ed in altri gioielli, ed in tanta abbondanza, da non crederle vere. Seguivano le imagini degli Dei, di proporzioni gigantesche e lavorate divinamente; e poi stoffe rare di tutte le specie, animali rarissimi, ecc. Coloro che prendevano parte al corteo indossavano abiti
purpurei ricamati in oro, ed in special modo erano ornati i soldati chiamati a partecipare agli onori del trionfo. Anche la schiera dei prigionieri attirava la generale attenzione: i loro abbigliamenti, di svariatissimi colori, distraevano gli spettatori dal triste aspetto delle loro stanche fisonomie. Il massimo stupore l'eccitarono poi i magnifici baldacchini: si temeva che gli uomini destinati a portarli non avessero la forza di sorreggerli. Taluni erano a tre e quattro piani, disposti in modo sorprendente ed artistico. Parecchi erano ricoperti di tappeti ricamati in oro, e sopra tutti scintillavano lavori artistici in oro e avorio. La guerra era rappresentata sotto tutte le sue forme ed in ogni suo aspetto; vi si scorgevano contrade devastate; intere file di nemici morti o posti in fuga; prigionieri; immense e alte mura che rovinavano all'urto delle macchine; ricche città distrutte; torrenti di sangue; disarmati che imploravano pietà; templi e case in fiamme, precipitanti sui loro abitatori; e finalmente, in mezzo a tutta quella desolazione, un fiume che volgeva le sue onde, non già per irrigare i campi e dissetare gli uomini e gli armenti, ma per spegnere quel generale incendio.
«Tutto ciò confermavano gli ebrei di aver sofferto durante la guerra. L'accurata rappresentazione dava un'idea di tutto quanto era avvenuto. Presso ogni baldacchino stavano i condottieri dell'esercito nemico, fatti prigionieri. Seguivano numerosissime barche. Il bottino di guerra era immenso, ma tutto scompariva al cospetto degli arredi del Tempio di Gerusalemme, che comprendevano la tavola d'oro massiccio, un candelabro pure d'oro, con le sette lampade, simbolo presso i Giudei della santità dei sette giorni, e infine, ultima preda, la legge di Dio. Venivano poi gli uomini recanti statue della vittoria, d'oro e d'avorio, e quindi Vespasiano e Tito, entrambi a cavallo, ed a fianco di quest'ultimo Domiziano, riccamente vestito, a cavallo di un magnifico destriero. Meta del trionfo era il tempio di Giove Capitolino. Giunto davanti a questo, il corteo si arrestò, giacchè l'araldo, secondo un antico costume, doveva ivi dare l'annunzio della morte del condottiero generale dell'esercito nemico. Era questi Simone di Giora, che seguiva esso pure la marcia trionfale. Venne tratto con una corda al collo, sulla rupe che sorge di fianco al Foro, e ivi fu percosso con le verghe. In quella località, secondo le leggi romane, si eseguivano le condanne a morte. Quando dunque fu annunciato che Simone era morto, si levò un grido solenne, generale di gioia, ed ebbe principio il sacrificio. Dopo le preghiere e la solita distribuzione di denaro al popolo, gl'imperatori fecero ritorno al loro palazzo, dove ebbe luogo un grande banchetto. Tutta Roma festeggiò questo dì, quale giorno di solenne letizia, per l'esito felice della guerra, per la fine della discordia civile, per la speranza di splendido avvenire».
Vespasiano innalzò un magnifico tempio alla Pace e vi collocò tutti gli arredi del santuario di Gerusalemme; le tavole della Legge però furono conservate nel palazzo dei Cesari. L'arco, nell'interno del quale sono con tanta maestria rappresentati gli arredi del tempio e la marcia trionfale, non venne terminato che dopo la morte di Tito. Nel medio evo fu chiamato «Arco delle sette lampade», o, come si legge nel libro Mirabilia Urbis Romae « Arcus septem lucernarum, Titi et Vespasiani, ubi est candelabrum Moysi cum arca ». I Frangipani, che eran padroni del Foro e del Colosseo, se ne servirono come porta del loro castello, la Turris Cartularia al Palatino. Solo sotto Pio VII, nel 1821, l'arco fu restaurato e ridotto come è oggi. Presentemente è uno dei più bei monumenti della città, per quanto restaurato alla moderna.[27]
Tito, dopo il suo trionfo, rifiutò di prendere il titolo di Judaicus, prova questa del disprezzo che gl'ispiravano gli ebrei. Però, come Vespasiano, tollerò la loro presenza in Roma. Le loro colonie si erano d'altronde accresciute grandemente per la venuta degli schiavi e dei liberti. Vespasiano aveva loro concesso il libero esercizio delle loro pratiche religiose, a condizione che pagassero a Giove Capitolino il mezzo sesterzio a testa che sino allora avevano versato nel tesoro del Tempio. Ancora oggi gli ebrei pagano questo tributo alla Camera Capitolina.
Sotto Domiziano, narra Svetonio, il fiscus judaicus veniva riscosso con grande rigore. Gli ebrei, che sino ad allora avevano abitato liberamente il Trastevere, furono da questo imperatore cacciati dalla città, e fu loro assegnata come residenza la valle della Ninfa Egeria, dietro un pagamento in denaro. Di ciò fa menzione Giovenale nella satira terza:
Hic ubi nocturnae Numa constituebat amicae:
Nunc sacri fontis nemus, et delubra locantur
Judaeis, quorum cophinus foenumque suppellex:
Omnis enim populo mercedem pendere iussa est
Arbor, et ejectis mendicat silva Camoenis.
In vallem Egeriae descendimus, et speluncas
Dissimiles veris. Quanto praestantius esset
Numen aquae, viridi si margine clauderet undas,
Herba, nec ingenuum, violarent marmora tophum!
Quando Giovenale si recava per la porta Capena nella valle Egeria, vedeva, a quanto pare, gli ebrei mendicanti andare qua e là come zingari, con fasci di fieno e ceste sulle spalle. I fasci di fieno servivano loro di letto, e nelle loro paniere recavano i cenci, di cui facevano commercio, e il proprio cibo. Secondo quello che hanno lasciato scritto i Romani, le loro occupazioni e i loro mestieri non differivano da quelli di oggi.
Il disprezzo dei Romani per quegli infelici era così grande che si considerava come un'onta metter piede nelle loro sinagoghe, mentre partecipare al culto d'Iside, di Mira e di Priapo non era ritenuto affatto un disonore. Ed è strano che quel culto di Dio che in Roma rimase in ogni tempo libero da feticismo e idolatria, sia stato trattato sempre con tanto disprezzo.
Nella quattordicesima satira Giovenale si lagna della superstizione che spingeva i Romani ad accostarsi al giudaismo:
Quidam sortiti metuentem sabbata patrem,
Nil praeter nubes et coeli numen adorant,
Nec distare putant humana carne suillam
Qua pater abstinuit; mox et praeputia ponunt:
Romanos autem soliti contemnere leges,
Judaicum ediscunt, et servant ac metuunt ius,
Tradidit arcano quodcumque volumine Moses.
A quel tempo gli ebrei solevano già predire la buona ventura, vendere filtri d'amore e sortilegi. Giovenale infatti ne parla nella satira sesta.
Quum dedit ille locum, cophino foenoque relicto,
Arcanam Judaea tremens medicat in aurem,
Interpres legum Solymarum, et magna sacerdos
Arboris, ac summi fida internuntia coeli,
Implet et illa manum, sed parcius. Aere minuto
Qualiacumque voles Judaei somnia vendunt.
In questi versi Giovenale descrive così vivacemente gli ebrei, che ci sembra di aver dinanzi veramente un tipo di vecchia strega. Ai tempi di Domiziano le ebree uscivano spesso, durante la notte dalla valle d'Egeria per introdursi nella casa di qualche voluttuosa dama romana, e ciò si è ripetuto sino ai nostri giorni. Numerose donne del Ghetto vagavano per la città dicendo la buona ventura, spiegando alle nobili signore i sogni della notte, o vendendo loro filtri d'amore. Appunto a queste pratiche si riferisce una bolla di Pio V, con la data del 1569, che comincia con le parole: Hebraeorum gens sola quondam a Domino electa. Questo decreto che bandiva gli ebrei da tutte le città degli Stati della Chiesa, eccettuate Roma ed Ancona, è un importante documento storico; ne riporto alcuni passi che corrispondono ai versi di Giovenale; «Privato de' suoi sacerdoti e dell'autorità della sua legge, scacciato dal paese dove Dio nella sua misericordia l'aveva primitivamente stabilito, dal paese in cui scorreva il latte e il miele, da più secoli il popolo della Giudea erra per il mondo, odiato, coperto di disprezzo, rivolto a mestieri vergognosi e infami, pronto sempre a discendere sino alla più abbietta schiavitù per guadagnare di che vivere». Poi la bolla papale parla dei loro mestieri. «Senza fermarsi a parlare dell'usura, con cui spogliano di ogni loro avere i cristiani, noi li denunziamo a tutti come ricettatori, autori o complici di furti, come soliti a nascondere, a trasformare gli oggetti rubati, sia profani che sacri, per renderli irriconoscibili. Molti di essi s'introducono, con la scusa del commercio, nelle case di donne oneste, provocandole ad ogni sorta d'impudicizia, e peggio ancora, dannandone l'anima con artifizi diabolici, con vane profezie, con stregonerie, con arti magiche e sortilegi, facendo credere che son capaci di predire il futuro, squarciare i veli, trovare tesori, scoprire oggetti celati e rivelare tante e tante altre cose ancora che non è dato ai semplici mortali di conoscere».
L'origine del disprezzo in cui furon costantemente tenuti in ogni tempo gli ebrei in Roma dipende certo dagli ebrei stessi; essi provocarono sempre il riso de Romani quasi fossero delle caricature. E' indiscutibile—senza con ciò voler recare offesa a molti bravi e degni ebrei e tanto meno all'intero popolo di Israele—che agli occhi di un europeo il tipo prettamente ebreo presenta un non so che di bizzarro che lo rende ridicolo, come ridicola doveva essere la grottesca danza di Davide dinanzi all'arca, cotanto ingrata anche agli occhi di Micol. Si aggiunga a questo l'idea di esser la nazione prediletta da Dio, l'opinione generalmente radicata in essi che la storia abbia dato loro ragione in questa pretesa; finalmente il disprezzo verso tutte le altre credenze, il ribrezzo di avere un contatto con ogni altra razza umana, tutto ciò fece scontare a questo popolo la pena del suo amor proprio nazionale, della sua ripugnanza ad avere rapporti con gli altri uomini, infino a tanto che furono dai cristiani confinati in un ghetto.
Poco si sa sulle condizioni degli ebrei a Roma sotto i successivi imperatori. Quando Adriano ebbe di nuovo distrutto Gerusalemme e migliaia di ebrei furono venduti per suo ordine sui mercati della Siria, la colonia di Roma aumentò considerevolmente per le immigrazioni. Essa continuò ad abitare nel Trastevere. Il suo cimitero era situato dinanzi alla porta Portese, presso il Gianicolo; lo si scoprì nel XVII secolo. Gli ebrei ne possedevano un altro davanti alla porta Appia. Si può vederlo oggi presso S. Sebastiano, nella vigna Rondanini, dove è stato rimesso alla luce nel 1857. Si compone di catacombe che sembrano del III secolo e assomigliano in tutto nella loro disposizione a quelle cristiane di Roma. I sarcofaghi ebraici sono talvolta decorati d'imagini, vi si vede spesso scolpito il candelabro dai sette bracci. Gli epitaffi degni di nota non sono mai in ebraico, ma in latino od in greco, ciò che prova che gli ebrei di Roma in quell'epoca si erano appropriati la lingua che si parlava intorno a loro. Anche i morti di quelle catacombe devono avere appartenuto alle due sinagoghe di Roma, di cui la più antica fu fondata al tempo di Pompeo e la più recente era essenzialmente alessandrina. Disgraziatamente la storia degli ebrei a Roma in quel periodo è sepolta nell'oscurità.
Quando il cristianesimo diventò religione di Stato la posizione degli ebrei divenne ancor peggiore, perchè al disprezzo che essi ispiravano nei Romani si unì l'odio dei cristiani. Costantino per il primo vietò loro di tenere al proprio servizio cristiani, e da allora ciò fu come un precetto di separazione fra le due comunità. Il codice teodosiano prescrisse poi leggi ancora più severe per impedire la fusione degli ebrei e dei cristiani; proibì che si celebrasse in tutto l'impero la festa di Haman, in cui i giudei avevano l'abitudine di rappresentare il loro nemico sotto i tratti del crocifisso per poi bruciarlo in mezzo ad alte grida.
Al tempo del sacco di Roma per opera di Alarico, gli ebrei del Trastevere soffrirono crudelmente. Fra i tesori rubati dal re visigoto vi furono anche i vasi del tempio di Salomone che egli aveva presi a Roma come preda; alcuni però gli sfuggirono, perchè più tardi Genserico ne trovò ancora quando giunse a Roma. Trasportati a Cartagine, caddero nelle mani di Belisario e furon da questi riportati a Bisanzio. Gli ebrei allora, come afferma Procopio, li reclamarono all'imperatore Giustiniano, che li fece portare in una chiesa di Gerusalemme. Strana storia, invero, quella di questi tesori del Tempio, portati altra volta a Roma da Tito! Ancora nel medio evo, al tempo in cui furon redatte le « Mirabilia Urbis Romae » circolava su ciò una leggenda, si credeva cioè che l'arca dell'alleanza, il tabernacolo, il candelabro dai sette bracci e gli abiti di Aronne fossero conservati come reliquie nel Laterano.
Al tempo dei Goti è menzionata una volta la Sinagoga di Roma; il popolo la saccheggiò e il nobile Teodorico fece una legge a protezione degli ebrei.
Poco si sa sulle condizioni degli ebrei durante i secoli seguenti. Sappiamo solo che continuarono ad esistere come comunità e che più volte resero omaggio agli imperatori tedeschi, quando venivano incoronati, cantando in lingua ebraica le laudi tradizionali. Sempre dimorarono in Trastevere ed esercitarono il loro commercio vicino ai ponti del fiume e sui ponti stessi. Infatti il ponte dei Quattro Capi, vicino al Ghetto attuale, si chiamava « Pons Iudaeorum » e anche quello degli Angeli era designato nello stesso modo: probabilmente dei banchi di ebrei erano situati su questi ponti.
Ad eccezione di qualche lampo di odio popolare, gli ebrei del resto non subirono a Roma quelle feroci persecuzioni che soffrirono in altre città d'Europa. Roma non è mai stato terreno propizio al fanatismo religioso; l'antica tradizione di tolleranza verso tutti i popoli vi si è sempre conservata. Perfino le crociate che provocarono in tutta l'Europa spaventevoli esplosioni di odio contro gli ebrei, non ebbero le stesse conseguenze in Roma. Una sola volta, nel 1020, noi troviamo nella storia notizia di una persecuzione propriamente detta contro gli ebrei, ed ebbe origine da un terremoto.
I papi riconobbero sempre la Sinagoga come una legale comunità dell'urbe; essa era pareggiata alle altre comunità straniere dei greci e dei germani. L'inquisizione, introdotta ai primi del secolo XIII, ebbe per essa, al principio, gli stessi riguardi. Così, a un dipresso, gli ebrei acquistarono in Roma una certa importanza come cambiavalute e come medici. Il commercio del denaro e la scienza medica essendo passati quasi interamente nelle loro mani, essi non tardarono in queste qualità a rendersi necessari al Vaticano.
Il viaggiatore Beniamino di Tudela, ai tempi di Alessandro III (1159-1185) contò in Roma 200 ebrei ricchi, liberi, tenuti in grande considerazione, tra i quali il papa aveva scelto dei servitori. «Qui—egli dice—si trovano persone sapientissime, fra cui il primo è il grande rabbino Daniele, un altro rabbino Daniele, un giovane bello e intelligente frequenta la corte di Alessandro in qualità di ministro del papa», cioè come banchiere.
Il curioso è che Pier Leone, l'antipapa Anacleto II (morto nel 1138), era nipote di un ebreo convertito. La sua famiglia fu annoverata fra le più grandi famiglie patrizio e per più secoli. Questa razza, largamente dotata dalla natura e dalla lotta che acuisce l'intelligenza, seppe dunque infiltrarsi, come di contrabbando, sino nell'intimità dei papi. Mentre le donne ebree andavano a predire la buona ventura nelle nobili famiglie, gli ebrei erano ammessi liberamente, in qualità di banchieri o di medici, presso i papi che si trovavano in ristrettezze finanziarie o ammalati.
Si trova il nome di tutti i medici ebrei dei papi nell'opera di Mandosio, Degli archiatri pontificj, completata dal Marini (Roma, 1784). Il primo di questi fu Giosuè Halorki, medico dell'antipapa Benedetto XIII (1394), il quale sembra aver avuto una speciale predilezione per gli ebrei. Halorki si fece più tardi battezzare e prese il nome di Gerolamo di Santa Fede; e sotto questo nome scrisse un libro contro gli ebrei: « Hieronimi de Sancta Fede ex Iudaeo Christiani contra Iudaeorum perfidiam et Talmud tractatus, sive libri duo ad mandatum D. PP. Benedicti XIII ».
Egli fu maledetto dalla Sinagoga.
Innocenzo VII, del quale fu antipapa Benedetto, nel 1406 accordò il diritto di cittadinanza a certi ebrei di Trastevere, fra cui a Elia di Sabbato, a Mosè di Lisbona, a Mosè di Tivoli, i quali erano medici e portavano il titolo di «maestri». Godevano costoro grandi privilegi ed erano dispensati dal portare il segno obbrobrioso di Giuda.[28] Medico particolare di Martino V fu Elia, appartenente al Ghetto romano. Così fino al XVI secolo, nonostante le bolle di scomunica promulgate da più papi, si trovano medici ebrei in Vaticano. Come orientali, come imparentati con gli Arabi, gli ebrei furon tenuti ovunque, anche presso i principi e gl'imperatori, in grande considerazione per la loro sapienza medica. Samuele Sarfadi, rabbino spagnuolo, uomo dotto ed eloquente, fu il medico di Leone X.
Naturalmente qualche cosa del favore che godevano i medici ebrei si rifletteva sulla comunità di Trastevere; ma a causa della natura stessa del reggimento della Chiesa, reggimento tutto personale, la sorte degli ebrei di Roma dipendeva unicamente dal carattere del papa che regnava; e questa incertezza del domani teneva gli ebrei in continuo timore, e li esponeva spesso a uno stato senza legge.
Già parecchi Concilii avevano da molto tempo prescritto la separazione dei cristiani dagli ebrei, e imposto a questi un marchio distintivo in segno di disprezzo. Innocenzo III, il promotore dell'inquisizione, rinnovò queste prescrizioni nel 1215, ed altri papi dopo di lui ne seguirono l'esempio. Senonchè gli ebrei non le osservavano, riuscivano ad eluderle, o si riscattavano col denaro. Talora poi un papa più clemente revocava gli editti che il suo predecessore aveva emanati.
Giovanni XXII perseguitò gli ebrei e fece pubblicamente bruciare il loro Talmud; Innocenzo VII invece fu loro favorevole. Fu il romano Martino V che mostrò ad essi la maggiore benevolenza; rese loro la facoltà di esercitare medicina e decretò poi che tutti gli ebrei degli stati della Chiesa, e non più solo quelli di Roma, avrebbero da allora in poi contribuito alla tassa del carnevale. Ma il suo successore Eugenio IV, un veneziano nemico della razza trafficante d'Israele, ristrinse di nuovo i loro diritti; proibì loro di commerciare coi cristiani, di abitare nelle loro case, di prestare loro assistenza come medici, di girare per tutta la città, di costruire nuove sinagoghe, e di occupare alcuna carica pubblica. Decretò inoltre che la testimonianza di un ebreo contro un cristiano non avesse alcun valore, e infine li obbligò a pagare annualmente alla Camera capitolina 1130 fiorini ed a contribuire con altre imposte ai sollazzi del carnevale.
Era invalso a poco a poco l'uso di valersi in modo indegno degli ebrei per questi divertimenti carnascialeschi, che avevano luogo in piazza Navona, sul colle Testaccio e pel Corso. Non solo gl'infelici dovevano fornire una squadra di vecchi che, vestiti in foggia grottesca, dovevano precedere la cavalcata dei senatori all'apertura del corso, ma dovevano anche esporsi all'onta di correre essi stessi. Il veneziano Paolo II fu il primo che, volendo festeggiare il 1468, anno di pace, offrì ai Romani lo spettacolo delle corse dei cavalli e della corsa degli ebrei.
Ancora oggi sopravvive nelle città d'Italia l'uso di solennizzare certi giorni di festa con le corse dei Palii, così dette perchè il premio consiste in stoffe di seta date al vincitore. Allorchè Paolo II offrì questo sollazzo al popolo, fece correre negli otto giorni di carnevale cavalli, asini, bufali, vecchi, giovanotti e ragazzi ebrei. Prima di lanciare quest'ultimi nella pista, venivano riempiti ben bene di cibo, per render loro più penosa la corsa e provocare il riso del popolo. Essi dovevano correre dall'Arco di Domiziano sino alla chiesa di S. Marco, in mezzo agli urli e agli schiamazzi dei Romani, mentre il Santo Padre assisteva allo spettacolo da un balcone riccamente addobbato, e rideva di cuore. Si potrebbe credere che la parte che a queste corse prendevano gli stessi Romani, togliesse a quella degli ebrei il suo carattere di umiliante; ma bisogna avvertire che per questi era un divertimento, a cui essi si offrivano spontaneamente, mentre gli ebrei vi erano costretti con la forza. Coloro che ai dì nostri hanno assistito alle corse di cavalli nel Corso, che sostituirono più tardi quelle degli ebrei, e che hanno visto il popolo quasi folle eccitare gli animali con grida furiose e con fischi, possono immaginare quello che nei barbari tempi del medio evo dovessero soffrire gli ebrei correndo lungo il Corso fra gl'insulti e in mezzo a quel tumulto.
Per lungo tempo il popolo volle questo spettacolo; io ho trovato, nella Roma nova di Sprenger del 1667, che gli ebrei dovevano correre nudi, con una sola fascia intorno ai fianchi, e l'autore dice che i primi a correre erano gli asini, poi gli ebrei, poi i bufali ed infine i «barberi».
Durante due secoli gl'israeliti di Roma soffrirono questo volgare insulto, sino al giorno in cui Clemente IX, Rospigliosi, nel 1668, cedendo alle loro suppliche, li esentò dalla corsa a patto che pagassero un tributo annuo di 300 scudi, e concesse loro che, invece di precedere la cavalcata del Senatore, prestassero omaggio ai reggitori della città nella sala del trono, e fornissero i premi per le feste del carnevale.
Solevano i notabili ebrei, quali rappresentanti della comunità israelitica, presentarsi ai reggitori della città in Campidoglio nel primo sabato di carnevale. Giunti nella sala dove quelli sedevano, gli ebrei si gettavano ai loro piedi e offrivano un mazzo di fiori e 20 scudi, perchè fossero impiegati ad addobbare il balcone, su cui il Senato soleva, in piazza del Popolo, prendere posto. Si recavano quindi dal Senatore e, secondo l'antico uso, lo supplicavano di conceder loro di abitare ancora in Roma.
Il Senatore metteva ad essi il piede sulla fronte, poi ordinava loro di alzarsi e diceva, secondo la consueta formola, che gli ebrei non erano già ammessi in Roma, ma soltanto tollerati per misericordia. Anche questa umiliazione è ora scomparsa; ma ancor oggi gli ebrei il primo sabato delle feste di carnevale vanno al Campidoglio e prestano il loro omaggio, offrendo il tributo per i palii, che essi devono procurare per i cavalli che ora divertono il popolo in luogo degli ebrei.
Non mancavano nel medio evo altre cerimonie, a cui dovevano prender parte. Nella festa per la presa di possesso del Laterano, fatta dal nuovo papa, essi dovevano mandare a lui una deputazione, come già un tempo avevano dovuto prestare omaggio agli imperatori romani. Quando l'imperatore saliva al trono, gli ebrei facevano per lui in Gerusalemme offerte e sacrifici; dice già Filone nella sua «Ambasciata a Caio» che essi tre volte offrirono sacrifici per Caligola, la prima, quando salì al trono, la seconda, quando cadde gravemente ammalato, e la terza, quando ritornò vittorioso dalla Germania. Che anche gli ebrei in Roma facessero lo stesso, è indubitato; essi si presentavano nelle feste di omaggio innanzi all'imperatore come imploranti protezione, per chiedere a lui quella tolleranza che era stata loro concessa da Augusto
E quando agl'imperatori sottentrarono i papi, mutarono le forme, ma l'essenza delle cerimonie restò qual'era. Ad ogni omaggio a un nuovo papa, sulla via che doveva percorrere il corteo, compariva una delegazione di ebrei col Pentateuco sulle spalle. Secondo una frase di S. Girolamo, essi eran considerati quasi come i bibliotecari della religione cristiana, perchè avevano conservato nella loro arca dell'alleanza l'Antico Testamento. E mentre si accostavano al nuovo papa per implorare la sua protezione, dicevano di far ciò prima, perchè i padri loro avevano fatto altrettanto con gl'imperatori, e poi perchè, attendendo essi il Messia che li doveva liberare dalla schiavitù, ogni nuovo papa poteva essere appunto quello destinato a rompere il loro giogo.
A cominciare da Calisto II, che nel 1119 ricevette dagli ebrei tale omaggio, esistono documenti che narrano queste cerimonie. In tutte gli ebrei portavano il Pentateuco sulle spalle, andando incontro ad Eugenio III, ad Alessandro III, a Gregorio IX. Il Cancellieri, nella sua opera Storia dei possessi, ne dà una minuta descrizione, tolta dai diari dei maestri di cerimonie della Corte Pontificia.
Il luogo dove gli ebrei si presentavano al papa non fu sempre lo stesso. Ai primi del medio evo era nel rione detto «Parione» che gli ebrei attendevano il pontefice che si recava al Laterano. Il vecchio poema latino del cardinale Giacomo Stefaneschi, ci descrive l'omaggio degli israeliti reso a Bonifacio VIII nel 1295:
«Ecce, super Tiberim positum de marmore pontem
Transierat, provectus equo, turrique relicta
De campo Iudaea canens, quae caecula corde est,
Occurrit vesana duci Parione sub ipso,
Quae Christo gravidam legem plenamque sub umbra
Exhibuit Moysi, Veneratus et ille figuram.
Hanc post terga dedit, cauto sermone locutus.
Ignotus Iudaea deus, sibi cognitus olim.
Qui quondam populus, nunc hostis; qui deus et rex
Obnubi patitur, praesentem temnere mavis,
Quem fragilem reputas hominem, sperasque futurum,
Et latet ipse deus».
Di qui si scorge che fino da allora la cerimonia dell'omaggio aveva luogo con quelle forme che furon conservate anche in seguito; gli ebrei attendevano al suo ritorno il nuovo papa, cantandone le lodi; presentavano al pontefice il libro della Legge; questi lo prendeva, faceva le viste di leggerne qualche parola, poi lo restituiva agli ebrei dicendo: «Confermiamo la Legge, ma condanniamo il popolo ebreo e la sua interpretazione». Quindi procedeva oltre e gli ebrei facevano ritorno alle loro dimore, amareggiati dal dolore o confortati dalla speranza, secondo quello che avevano creduto leggere negli occhi del nuovo papa.
Spesso si collocavano anche al di là del Ponte di Adriano e talvolta a Monte Giordano. Sebbene questa collinetta formata di rovine e di rottami, dovesse il suo nome a Giordano Orsini, membro dell'antica famiglia patrizia che vi aveva costruito il suo palazzo, forse fu scelta dagli ebrei per la fortuita coincidenza del nome con quello del biblico fiume della Giudea. Ivi stavano i discendenti d'Israele, portando un Pentateuco riccamente legato in oro e ricoperto di un velo, circondati dal popolo che li insultava e li derideva, finchè non appariva il papa; allora s'inginocchiavano e gli presentavano il volume della Legge.
Le ingiurie e i cattivi trattamenti, a cui in queste circostanze gli ebrei venivano sottoposti crebbero tanto col tempo, che Innocenzo VIII, nel 1484, cedendo alle loro vive preghiere, consentì che si presentassero a lui nel cortile di Castel Sant'Angelo. Il maestro delle cerimonie, Burcardo, così descrive la cerimonia: «Allorchè il papa fu giunto, dinanzi a Castel Sant'Angiolo si arrestò, e gli ebrei che si erano fermati presso le fortificazioni inferiori, comparvero col libro della Legge, che porsero al Santo Padre, rivolgendogli delle frasi in ebraico che ad un dipresso significavano questo:—Noi, uomini ebrei, in nome della nostra Sinagoga, preghiamo Vostra Santità di volervi degnare di accogliere e sanzionare la legge mosaica, che l'onnipotente Dio diede a Mosè, nostro sacerdote, sul monte Sinai, nella stessa guisa che si degnarono accettarla e confermarla i venerati pontefici predecessori di Vostra Santità.—Il papa rispose:—Noi confermiamo la Legge, ma condanniamo la vostra credenza e la vostra dottrina, imperocchè colui che voi dite dover venire in terra, già venne e fu nostro Signore Gesù Cristo, come la Chiesa insegna.—Terminata la cerimonia, gli ebrei si ritirarono».
E quando si pensi che questo Castel S. Angelo non era altro che il mausoleo di Adriano, il quale aveva distrutta da cima a fondo Gerusalemme per ben due volte, e condotti gli ebrei in schiavitù, sarà facile comprendere come anche questa stessa località dovesse riuscire invisa agli ebrei, che non odiavano meno la memoria di Adriano di quella di Tito.
Per una eccezione Pio III, nel 1503, trovandosi infermo, ricevette gli ebrei in una delle sale del Vaticano stesso. Giulio II li ricevette di bel nuovo alla Mole Adriana, dove gli diressero un lungo sermone, e dove specialmente parlò con singolare eloquenza il rabbino spagnolo Samuele, medico del papa. Questi rispose prout in libello, vale a dire secondo la forma stabilita dal libro dei cerimoniali.
Anche Leone X, Medici, in occasione della elezione del quale, nel 1513, si fecero le feste più splendide che abbiano mai avuto luogo per un papa, ricevette gli ebrei in Castel S. Angelo. La scena è stata descritta dal maestro di cerimonie Paride de' Grassi. Gli ebrei stavano alla porta del Castello, sopra un palco di legno ricoperto di ricchi tappeti e di broccati lavorati in oro, e dove ardevano otto grandi torcie in cera, ed ivi tenevano le tavole della Legge. Allorquando fu giunto il papa che cavalcava una chinea bianca, gli ebrei lo pregarono, secondo il solito, di confermare la legge. Il papa prese il libro aperto dalle loro mani, lesse alcune parole e disse:
«Noi confermiamo ma non approviamo» dopo di che lasciò cadere a terra il libro, e proseguì la sua strada.
Fu questa l'ultima volta che la cerimonia ebbe luogo; da allora in poi venne soppressa, o perchè progredito lo spirito dei tempi, o per altre ragioni a noi ignote.
Fu imposto per contro l'obbligo agli ebrei di addobbare con stoffe preziose parte delle strade per le quali dovevano passare il nuovo papa e il suo corteo. Allorquando prese possesso Gregorio XIV, nel 1590, gli ebrei dovettero parare con tappeti la salita del Campidoglio e l'arco di Settimio Severo. In seguito venne stabilito che dovessero ornare l'arco di Tito, e la via che porta al Colosseo. Fu loro pertanto forza assoggettarsi all'onta di dover adornare l'arco trionfale eretto in onore del distruttore di Gerusalemme.
E ciò ebbe luogo alla elezione di tutti i papi che vennero di poi. Gli ebrei dovettero ogni volta addobbare l'arco di Tito, ed aggiungere ai tappeti emblemi che si riferissero al papa, contraddistinti da sentenze latine tolte dall'Antico Testamento. Gli emblemi, ordinariamente in numero di venticinque, erano per lo più molto significativi, e colle loro sentenze in linguaggio simbolico prettamente orientali. Vi era rappresentato, per esempio, l'albero della mirra, che offre spontaneo il suo balsamo senza che abbisogni d'incisione ed aggiuntovi il detto: «Benedetto il principe che è generoso». Altrove il pellicano, che nutre i figli col suo sangue colla scritta: «Si privò di tutto dandolo ai poverelli» (Salmo 112, 1, 9). Una palma irradiata dal sole e sopra: «Fiorirai al pari di una palma»; e al di sotto: «Benedetta sia la tua venuta». Il rinoceronte che immerge il suo corno in una sorgente,—una conchiglia di mare aperta,—la fenice e l'arcobaleno—un cigno che mangia spighe mature,—uno sciame d'api,—un gelso,—un'arpa inghirlandata di fiori,—il mare con sirene che cantano, e sopra il cielo, verso il quale drizzano il volo molti usignuoli ed al di sotto il versetto d'Isaia: «Cantano tutti insieme».
Questo linguaggio figurato ricorda le solennità di ugual natura, colle quali gli Arabi di Sicilia accoglievano i re normanni loro signori. Gli ebrei accudivano con lagrime e con lamenti ad ornare il monumento della loro onta, e quando dall'arco di Tito facevano ritorno al loro sudicio Ghetto, certamente si purificavano, con lamentazioni geremiache e con preghiere, della profanazione che avevano dovuto commettere umiliandosi innanzi al vicario di Cristo.
Si deve però fare un'osservazione singolare: col rinascimento la mitologia pagana trovò mezzo di cacciarsi perfino negli usi e negli atti degli ebrei, particolarmente nei secoli decimosettimo e decimottavo, nei quali dopo Leone X e Raffaello, rinati gli studi delle antichità, gli Dei dell'Olimpo tornarono in fiore. Ed è propriamente divertente e piena di contraddizione la tendenza in questo senso, che si può osservare negli ebrei di Roma, particolarmente nel secolo XVIII che fu l'età aurea del Parnaso barocco. In questo, anche gli emblemi degli ebrei divennero mitologici; le loro poesie di omaggio parlavano di Apollo e delle muse, facendo una strana miscela di antichità pagana e di Vecchio Testamento, che pare ed è tanto più singolare, quando si ponga mente che questi emblemi, queste poesie venivano dal popolo d'Israello, dedicate ad un papa. I maggiori emblemi mitologici si rinvengono in quelli dedicati a Pio VI ed a Pio VII. Si vedeva Ercole, dalla cui bocca uscivano le catene d'oro destinate a trarre a sè i popoli, e sotto il versetto biblico: «Le labbra dell'uomo pio sono ripiene di dolcezza» (Prov. 10, 32). Vi si scorgeva il monte Parnaso fiancheggiato da due terrazzi ricoperti di tappeti, su cui stavano cavalli e muli, che mangiavano del grano, e sotto il versetto di Giobbe: «Esso ci ammaestra per mezzo degli animali da tiro», miscuglio più barocco che immaginare si potesse, Parnaso, muli, e Giobbe tutto confuso. Vi si scorgevano Giunone con un giglio, Atlante che regge il mondo, Minerva coll'olivo, un tempio dove stava Mercurio colle tre Grazie, e sotto vi si leggeva: «Non torrà gli averi a coloro che camminano nella diritta via» (Salmi 84, 12).
E' molto probabile che fra tutte quelle figure mitologiche, quella di Mercurio, il patrono dei negozianti e dei banchieri, il Rothschild dell'Olimpo, dovesse essere quella che tornava più accetta, più intelligibile agli abitanti del Ghetto. Del resto tutti gli emblemi di quel povero popolo si riferivano sempre più o meno ad un'idea sola; danaro, sempre danaro; e difatti vi si scorgevano immancabilmente i corni dell'abbondanza, dai quali sgorgavano monete d'oro, vino e pane.
Gli ebrei presentarono a Pio VII, Chiaramonti, tutti i loro emblemi e motti raccolti in un volume splendidamente legato, e maestrevolmente miniato, e glielo porse in Venezia il rabbino Leone di Leone di Ebron, vestito alla foggia orientale, con turbante, haftan, e lunga barba. Un poema latino in distici elegiaci lo accompagnava e la dedica in lingua latina era la seguente:
PIO SEPTIMO P. O. M. QUA DIE IMPERII GUBERNACULO SOLEMNITER SUSCEPIT QUOD BONUM FELIX FAUSTUMQUE SIT FESTIVISSIMA HEBRAEORUM UNIVERSITAS D. D. D.
Come si vede, gli ebrei di Roma non avevano abitato senza profitto presso il classico portico di Ottavia. Il poema poi seguitava dopo aver cominciato con esclamazioni lagrimose prettamente giudaiche, e prima di arrivare al papa chiamava in scena Apollo.
O si me Cythara plectroque juvaret Apollo,
Concinerem summi maxima regna Pii.
Meque peregrinis audiret versibus uti,
Quidquid habet tellus, quidquid ex axis habet.
Principis astra super ferrem clarissima facta,
Queis comes it recti non temerandus amor;
Quippe suis, velut illa, polo fulgoribus umbras
Dimovet, e vulta quos radiante jacit.
Ast pro me Pindi veniant et culmina Musae
Quas cecinit vatum fabula graeca deas.
Hae resona fundant solemnia carmina voce,
Tympana pulsantes, sistra lyrasque manu,
Hae Temidis celebrent servantem jura decorae,
Qua duce subjectis imperat agminibus:
Candoremque sinus dantis cum pace salutem,
Viribus ingenii, pondere consilii.
Magnanimis nitit ille notis, prudentibus aeque.
Ne summum videat gloria tanta diem!
Culmina Gregorium nutu qui celsa creavit,
Sospitet, omnigenis condecoretque bonis,
Edat, ut arbor aquae prope rivos consita, fructus,
Et diadema suum vinciat usque caput.
Hic niteat solusque, ferax sit dactilus ipse:
Adspiciat laetos ire, redire dies.
Gaudeat urbs, precibus nunquam non acribus instet,
Ut sibi sint Pacis numera juncta Piae.
Per Gregorio XVI gli ebrei fecero dipingere dal pittore Pietro Paoletti di Belluno, concittadino del nuovo papa, un libro che conteneva tutti gli emblemi e tutte le poesie, e fattolo riccamente legare lo presentarono al pontefice, che volle mandarlo in dono al Capitolo della sua città natia. Anche a Pio IX, attualmente regnante, venne presentato un libro simile, nel quale il rabbino di Roma, versatissimo nella letteratura ebraica, e abilissimo calligrafo, a quanto mi assicurarono i suoi correligionari, raccolse preziosi emblemi, e sentenze bibliche, scelte con molto criterio ed il libro era tanto riccamente legato ed ornato, che costò circa cinquecento scudi.
Tali erano le cerimonie che, secondo gli usi e le costumanze di Roma, si compivano dagli ebrei nell'occasione della elezione dei papi. Se non che, anche in altre località avevano luogo funzioni analoghe. Troviamo nel dizionario del Moroni la minuta descrizione delle solennità, colle quali gli ebrei di Corfù festeggiarono la nomina di un nuovo arcivescovo. Quando nel 1780 Francesco Maria Fenzi fece il suo solenne ingresso in quella città, gli ebrei gli prepararono uno spettacolo veramente originale. Apriva la marcia un ebreo vestito all'italiana col bastone del comando, e lo seguivano altri tre, con lunghi bastoni, questi rappresentano i patriarchi; venivano quindi dodici giovanetti, vestiti all'italiana, i quali raffiguravano le dodici tribù, ed avevano tutti in mano un pomo d'argento, e quindi altri dieci giovani, con mantello sulle spalle, che rappresentavano i dieci rabbini savi, conservatori della legge mosaica ai tempi dei Cesari. Seguivano ancora altri undici giovanetti, che portavano mazzi di fiori, i fratelli di Giuseppe, accompagnati da quattro servitori, come se stessero per presentarsi al re Faraone; subito dopo otto uomini, portanti vasi e palme, gli otto conservatori del precetto della circoncisione; quindi ventiquattro ebrei, il doppio del numero delle tribù, con vassoi e vasellami d'argento, coi guanti alle mani che raffiguravano il fiore d'Israello. Seguivano ancora quattro ebrei, con voluminose parrucche e bastoni; un gruppo di quarantotto ebrei con berrettone di pelo, fra i quali sei cantori che cantavano salmi; indi una quindicina di giovanetti, che portavano sul petto l' urim ed il thummim; poscia un nuovo gruppo con frutti e palme, finalmente di nuovo altri cantori. Venivano dopo i quattro grandi sacerdoti Mosè, Aronne, David e Salomone, a cui tenevano dietro i leviti. Poscia i tre giovanetti della fornace ardente. Chiudeva la marcia un gran rabbino decrepito, che pareva la quaresima ambulante; vestito tutto di bianco, e a fianco del quale stavano due altri vecchi, con in mano ciascuno un vassoio pieno di foglie di fiori. Il Pentateuco tutto adorno di campanelli, di frutti, di corone di argento, era posto sotto un baldacchino bianco, portato da quattro fra gli ebrei più ragguardevoli. Il libro della legge venne aperto in sei diversi punti della città, e ricoperto di foglie di fiori tolte dai bacili, e sempre colle più vive manifestazioni di gioia degli ebrei. Le foglie, che cadevano a terra, erano raccolte dalle donne ebree, che se le riponevano, quasi sacre reliquie, in seno. La processione era divisa in quattro sezioni, in memoria delle quattro schiavitù d'Egitto, di Babilonia, di Roma, e della presente. L'arcivescovo finalmente venne ricevuto da sedici ebrei, sopra un palco eretto in vicinanza del Duomo, e riccamente parato; egli portava la mitria, e teneva in mano il pastorale; un ebreo postosi il cappello in capo, e gettato via il mantello, pronunciò un breve discorso di complimento, cui monsignore fece cortese risposta.
Come appare chiaro, una simile processione, avente tutta l'impronta nazionale ebraica, poteva farsi bensì a Corfù, ma non avrebbe potuto mai aver luogo a Roma. In quest'ultima città, dove il culto cristiano sfoggia appunto in processioni pubbliche, una processione nazionale ebraica, avrebbe fatto conoscere con troppa evidenza al popolo che la pompa cattolica in gran parte non è di origine antica propriamente cristiana, ma piuttosto una specie di riproduzione delle antiche processioni degli ebrei. Non era però questa la vera ragione, per la quale gli ebrei in Roma non comparivano in forma cotanto solenne; sarebbe superfluo accennarlo. I monelli di Roma avrebbero preso a sassate una esposizione pubblica dei riti mosaici, e Dio sa di quanti lazzi, di quanti frizzi quella sarebbe stata oggetto. Inoltre si sarebbero guardati bene gli ebrei di fare sfoggio di oro e di argento, e quando comparivano davanti ai papi lo facevano coll'aspetto della miseria, timidi, tremanti, in apparenza propriamente servile.
Ma torniamo alle sorti degli ebrei sotto i successori di quel Paolo II che primo li fece correre nel carnevale. Ora oppressi, ora trattati con una certa indulgenza, come da Paolo III della famiglia Farnese, la loro sorte peggiorò sotto il pontificato di Paolo IV. Questo, fanatico napoletano, della famiglia dei Caraffa, introduttore della tortura e della censura a Roma, zelante inquisitore, appena salito sulla cattedra di S. Pietro, pubblicò, nel 1555, la bolla Cum nimis absurdum, che regolava la condizione della corporazione israelitica di Roma. Revocò tutti i privilegi concessi antecedentemente agli ebrei; vietò ai loro medici di curare i cristiani, proibì loro di esercitare le arti, il commercio, le industrie, di possedere beni immobili; accrebbe loro i tributi e le imposte. Vietò loro perfino di assumere il titolo di don col quale, secondo l'usanza di Spagna e di Portogallo, si onoravano gli ebrei più distinti. Allo scopo di separarli e di distinguerli totalmente dai cristiani, prescrisse non potessero uscire dal Ghetto se non col cappello e con un velo, entrambi di colore giallo, il cappello per gli uomini, il velo per le donne. «Imperocchè, dice la bolla, è cosa assolutamente assurda e sconveniente che gli ebrei i quali per propria colpa sono caduti in ischiavitù, abusando insolentemente della misericordia loro dimostrata dai cristiani, abbiano l'impudenza di abitare promiscuamente con questi, di non portare verun distintivo, di tenere i cristiani al loro servizio e perfino di acquistare case».
Finalmente Paolo IV stabilì il Ghetto, quartiere per l'abitazione obbligatoria degli ebrei. Fino ai suoi tempi avevano questi goduto, tuttochè non fosse loro espressamente garentita, della libertà di abitare dove più loro piacesse in Roma. Come era naturale, raramente risiedevano nel centro della città, nè fra i cristiani che li odiavano, e si erano stabiliti per lo più nel Trastevere, e sulle sponde del fiume, fino al ponte di Adriano. Ora il papa assegnò loro un angusto e separato quartiere, come era stato fatto a Venezia, che comprendeva poche strette e malsane strade presso il Tevere, e che stendevasi dal ponte Quattro Capi fino alla Regola. Il quartiere era chiuso da mura con porte. Ebbe dapprima il nome di vicus judaeorum e più tardi quello di Ghetto: questo deriva probabilmente dalla parola talmudica ghet che significa «separazione». Fu nel giorno 26 luglio 1556 che gli ebrei presero possesso del loro ghetto, piangendo e sospirando come i padri loro quando venivano tratti in schiavitù.
Paolo IV fu per gli ebrei di Roma il crudele Faraone che li espose a tutti i mali derivanti dalla mancanza di spazio, e da una località bassa e umida, per la vicinanza del fiume, il che dava origine ad un intero esercito di piaghe d'Egitto. Allorquando morto il cupo Caraffa nel 1559, il popolo romano, per sfogare contro di lui la sua rabbia, si sollevò, saccheggiando il palazzo dell'inquisizione e la Minerva, sede dei domenicani, si videro gli ebrei, uomini per natura timidi, che non avevano preso mai parte alle rivoluzioni, neppure ai tempi di Cola di Rienzo, sbucare dal loro quartiere, per imprecare essi pure alla memoria del papa defunto. Un ebreo ebbe perfino l'ardire di mettere sulla statua di papa Paolo in Campidoglio il suo vergognoso cappello giallo; il popolo rise, atterrò la statua, la fece a pezzi e la testa del papa con la tiara fu fatta rotolare nel fango. È facile immaginarsi quale sorte fosse riserbata agli ebrei, dopo stabilito il nuovo tribunale dell'Inquisizione. Parecchi ebrei furono bruciati sulla piazza della Minerva, a Campo de' Fiori, dove solevano avere luogo gli Autos-da-fè. In quell'epoca venne bruciato anche Giordano Bruno.
Rinchiusi nel Ghetto, gli ebrei non ne erano punto proprietari, poichè le case appartenevano ai Romani, e vi avevano stanza pure famiglie distinte, come i Boccapaduli. Erano quelli proprietari; gli ebrei soltanto inquilini. Perchè potessero rimanere perpetuamente rinchiusi in quelle strade, era mestieri assicurare loro un modo durevole di starvi, poichè senza di questo gli ebrei si sarebbero trovati esposti a due pericoli: mancanza di tetto, qualora i proprietari non avessero voluto averli più per inquilini; impossibilità di pagare, o aggravio incompatibile, quando i proprietari avessero voluto aumentare le pigioni. Si promulgò pertanto una legge,[29] che ordinava dovessero i romani restare padroni delle case affittate agli ebrei, ma averne questi il possesso a titolo enfiteutico; non potessero i proprietari espellerli, sempre che avessero pagata regolarmente la pigione, nè si potesse aumentare questa; fosse lecito agli ebrei praticare nelle case quegli ampliamenti od innovazioni che ritenessero di loro convenienza. Il diritto derivante da quella legge ebbe il nome che porta tuttora di jus Gazagà. In forza di questo l'ebreo rimaneva proprietario assoluto del suo contratto di locazione, poteva lasciarlo in retaggio ai congiunti o ad altri, lo poteva alienare, e ancor oggi è ritenuta cosa vantaggiosa possedere per diritto di Gazagà un contratto di locazione trasmissibile per eredità, ed è molto ricercata quella giovane ebrea, che può recare in dote al suo sposo un tale documento. In forza di questa legge benefica fu assicurato agli ebrei un tetto.
Pio V, Ghislieri, nel 1566, confermò la bolla di Paolo IV, promulgò ordini severi per impedire agli ebrei di vagare per la città e perchè venissero di notte rinchiusi nel Ghetto. All'Ave Maria le porte di questo venivano irremissibilmente chiuse, e gli ebrei còlti fuori andavano soggetti a punizione, sempre quando non riuscissero con danaro a corrompere i guardiani. Nel 1569 lo stesso papa proibì agli ebrei di abitare altre città degli Stati della Chiesa, eccetto Roma ed Ancona, poichè prima erano stati tollerati pure a Benevento e in Avignone.
Questo editto era stato promulgato appena, che Sisto V lo revocò, facendo brillare tra le miserie del Ghetto un raggio di umanità. Questo grande papa, rinnovatore di Roma, dove pressochè ogni strada, ogni edificio ricorda il suo nome, sentì compassione del popolo d'Israele; pubblicò nel 1586 la bolla Christiana pietas, infelicem Hebraeorum statum commiserans, con la quale rese gli antichi privilegi agli ebrei. Permise loro di abitare nello Stato romano, cioè in tutti i luoghi murati, città e castella dell'agro romano. Loro concesse facoltà di esercitare qualunque commercio o negozio, ad eccezione di quelli del vino, grano e carne; permise loro di trafficare liberamente con i cristiani, di valersi parimenti dell'opera di questi, vietando loro unicamente di tenere al servizio persone cristiane. Si prese pensiero di migliorare le loro abitazioni; lasciò ad essi facoltà di aprire scuole o sinagoghe quante volessero; parimenti permise loro di fondare biblioteche ebraiche; prescrisse non si potessero chiamare gli ebrei in giudizio nei giorni delle loro feste; abolì l'obbligo di portare il segno di Giuda; vietò che si battezzassero a forza i bambini degli ebrei; e che si aggravassero di tasse straordinarie gli ebrei in viaggio; diminuì le imposte loro assegnate, riducendole ad un modico testatico, e al pagamento di una somma fissa per l'acquisto dei palii del carnevale. Diede per tal guisa Sisto V l'esempio al mondo di un papa propriamente cristiano, la cui memoria sarà benedetta in ogni tempo; e tornerà sempre a lode del suo nome, quanto, per impulso d'animo generoso, operò a vantaggio degli ebrei.
Finalmente questa volta nella lotteria era toccato un buon numero agli ebrei, ma appunto, perchè era una lotteria, poteva tutto ad un tratto venirne fuori uno cattivo. Infatti pochi anni dopo la morte di Sisto V, Clemente VIII, Aldobrandini, revocò tutte queste liberali disposizioni e rinnovò l'editto Caraffa, ripiombando gli ebrei nella desolazione.
Nè solo rimasero in questa misera condizione per tutto il secolo XVII, ma la loro miseria nel secolo XVIII aumentò per gli editti di Clemente XI e di Innocenzo XIII. Questi vietò agli ebrei qualunque commercio, ad eccezione della vendita dei cenci, panni usati e ferri vecchi, o come dicevasi volgarmente stracci-ferracci, e soltanto Benedetto XIV nel 1740 permise loro di aggiungervi la vendita di panni nuovi, alla quale attendono tuttora assiduamente e con profitto. Si videro pertanto fino da quel tempo gli ebrei aggirarsi per le case con le loro vecchie mercanzie e si è udito fin da allora per le strade risuonare il grido « aeo! » col quale annunciavano il loro meschino commercio.
Ancor oggi si sente spesso in tutte le strade di Roma il malinconico grido del povero ebreo, che con un sacco sulle spalle lancia il suo «Ròbbi vè!»
Il secolo XVII, nel quale i Medici accordarono tante agevolazioni agli ebrei in Toscana, fu forse l'epoca più infelice per il Ghetto di Roma. Trovo in un libro romano del 1677 ( Stato vero degli ebrei in Roma; Stamperia del Varese) la notizia che a quell'epoca il numero degli ebrei era di 4500, fra i quali si contavano 200 famiglie agiate. L'autore dice che nel secolo XVI il Ghetto pagava 4861 scudi annui di tributi, e che nel secolo XVII non ne pagava più che 3207. Sebbene quello scrittore sia grandemente ostile agli ebrei, non avrei argomento per tacciarlo di non esser veritiero. L'autore asserisce che ad onta delle incessanti lagnanze che gli ebrei andavano movendo di continuo, il Ghetto era ricco; e che, pagati tutti i tributi, risparmiava ogni quinquennio 19,470 scudi, e che possedeva un capitale di un milione di scudi. Non c'è dubbio che vi erano in quell'epoca ebrei ricchi a Roma, e che in mezzo ai manutengoli dei ladri, e ai negromanti del Ghetto, v'erano degli usurai che accumulavano interessi sopra interessi. Nessun papa riuscì mai a impedire questa piaga dell'usura nel Ghetto; i nobili indebitati proteggevano gli ebrei, e mentre il Ghetto era oggetto di disprezzo generale, il patrizio romano, il cardinale e talora il papa, accoglievano con complimenti nel loro palazzo, l'usuraio dal giallo berrettone. L'autore di quello scritto dice che gli ebrei avevano estorto coll'usura ai cristiani 235,000 scudi, e che non passava sera, in cui non entrassero per le porte del Ghetto nelle case degli ebrei almeno 800 scudi usciti dalle tasche dei cristiani. Quel popolo astuto sapeva far danari con qualsiasi mezzo; e l'usura degli ebrei dava alimento all'odio dei cristiani per essi. Giovanni di Capistrano aveva una volta fatto offerta di una flotta ad Eugenio IV per trasportare gli ebrei di Roma di là dal mare. «Ora che egli è morto, dice il nostro autore, sarebbe a desiderare potesse mandare dal cielo una flotta a papa Clemente IX per purgare Roma di tutti quei ribaldi». I Rothschild del Ghetto romano in quell'epoca esigevano d'ordinario il diciotto per cento. Oggi ancora il danaro degli ebrei fa le loro vendette sui cristiani; ancor oggi nel Ghetto s'impresta ad usura. Tutti colà si agitano, si muovono per guadagnare, per fare danaro, e come potrebbe essere altrimenti? Un giorno che passavo in una strada del Ghetto, una povera donna che cuciva dei cenci, mi chiamò dicendomi: «Signore, che cosa comandate?» Volendo provare la sua presenza di spirito, risposi subito: «cinque milioni!» E la donna di rimando: «Sta bene! quattro per me, e uno per voi!»
Nel XVIII secolo si esigeva con rigore che gli ebrei assistessero in certi giorni determinati ad una predica, destinata a convertirli. Già Gregorio XIII nel 1572 aveva prescritto dovessero ascoltare la predica una volta per settimana. Un ebreo, convertito, come ben si può immaginare, era stato il promotore di questa usanza, certo Andrea, che con tutto il servilismo di un convertito, aveva insistito vivamente presso papa Gregorio per la promulgazione di quell'editto. Si vedevano pertanto al sabato comparire nel Ghetto gli sbirri che spingevano a furia di frustate in chiesa gli ebrei, uomini, donne e fanciulli, al di sopra dei dodici anni. Dovevano assistere alla predica, per lo meno cento uomini e cinquanta donne, e più tardi il numero fu portato a trecento. Alla porta della chiesa una guardia contava questi uditori forzati, e nell'interno della chiesa stessa la polizia li sorvegliava, e se un qualche ebreo sembrava distratto, o sonnecchiava, era destato da un colpo di frusta. La predica era fatta da un frate domenicano, dopo che si era tolto dall'altare il Santissimo Sacramento; e il sermone versava sul testo dell'Antico Testamento che gli ebrei avevano in quello stesso giorno udito leggere e spiegare nella loro sinagoga, e che veniva commentato nel senso del dogma cattolico, allo scopo di far conoscere agli ebrei la verità cristiana. Queste prediche da principio venivano fatte in S. Benedetto alla Regola, ma più tardi ebbero luogo in quella chiesa di S. Angelo in Pescheria, dove Cola di Rienzo aveva tenuto i suoi primi discorsi infuocati ai Romani.
Queste prediche vennero ridotte a poco a poco a cinque sole per anno, e stavano per andare addirittura in disuso, allorquando Leone XII, il gretto Genga (1823-1829), volle rinnovarne l'obbligo. Oggi però, anche questa barbarie è scomparsa; venne tolta di mezzo, a quanto mi si disse, nel primo anno dal pontificato liberale di Pio IX.[30]
L'ebreo convertito, acquistava come di diritto la cittadinanza romana, con tutti i vantaggi che sono a questa inerenti. Non era raro che ebrei appartenenti al Ghetto si facessero battezzare, e questi, come suole avvenire di tutti coloro che abbracciano una nuova religione, erano i più fanatici nel volere ottenere conversioni che non quelli stessi che li avevano convertiti. Si possono leggere ancor oggi sul frontone di una chiesa che sorge rimpetto al Ghetto, presso il ponte Quattro Capi e dove sta dipinta una crocifissione, scritte in ebraico ed in latino le parole del secondo versetto del capitolo sessantesimo quinto d'Isaia: «Io stendo tutto il giorno le mie mani verso un popolo disobbediente, il quale batte una via che non è la retta». E questa esortazione fu fatta incidere da un ebreo convertito.
Secondo l'uso del medio evo, gli ebrei che si battezzavano in Roma, assumevano il nome dei loro padrini; e siccome per lo più si ricercavano questi fra le famiglie più distinte della città, ne avveniva che gli ebrei in certo qual modo si infiltrassero nel patriziato romano più antico. Vi furono dei Colonna, dei Massimi, degli Orsini, ebrei ed anzi, si pretende ora a Roma che parecchie famiglie patrizie, le quali vanno superbe del loro titolo principesco, dopo essersi spente, siano state continuate dagli ebrei di Trastevere.
Anche al giorno d'oggi, in cui sono scomparsi gli antichi maltrattamenti contro gli ebrei, si osservano per il battesimo solenne di uno di questi, o di un turco, le solennità che furono anticamente in uso. Hanno luogo ogni anno, nel sabato santo, nel battistero di S. Giovanni in Laterano, e siccome questa cerimonia sembra sia considerata come obbligatoria e deve aver luogo ad ogni costo, quando manca un catecumeno da battezzare, fa venire un turco od un ebreo da fuori. E' perfino accaduto che giudei o turchi si sian fatti battezzare più volte per lucro. Nel 1853 assistei al battesimo di un'ebrea. Essa stava presso la fonte battesimale avvolta in bianchi veli, con un cero acceso in mano, simbolo della luce che l'aveva rischiarata, e dopo essere stata unta sulla fronte e sulla nuca degli olii santi, ricevette il battesimo in quella vasca di Costantino, dove Cola da Rienzo si era tuffato un giorno nell'acqua di rose; e quindi fu ricondotta processionalmente al Laterano. Il cardinale che l'aveva battezzata, la cresimò davanti all'altare, quindi espresse al popolo la sua gioia per il grande miracolo compiutosi sotto i suoi occhi, in forza del quale, una creatura umana, in preda poco prima ai demoni e condannata all'inferno, tutto ad un tratto si era rivestita della innocenza di un bambino, ed immersa nella pura luce celeste.
Anticamente si parlava con maggiore energia; infatti il gesuita Stefano Menochio, nel suo libro Stuore, stampato in Venezia nel 1662; asserisce che gli ebrei puzzavano nella stessa carne, e che quel cattivo odore spariva immediatamente in seguito al battesimo. Narra, con tutta ingenuità, che perfino l'imperatore Marco Aurelio si lagnò del cattivo odore degli ebrei, e che questo fatto è incontestabile, e che appunto gli Agareni si fecero battezzare per non puzzare come cani.
Leone XII, accordò agli ebrei il diritto di acquistare case, purchè ne possedessero di già l' Jus Gazagà. Ampliò pure la periferia del Ghetto, includendovi la via Reginella ed una parte della pescheria, in guisa che venne ad avere otto porte, che erano chiuse e guardate la notte. Durante la dominazione francese in Roma, fu tolto il sequestro degli ebrei nel Ghetto, essi ebbero facoltà di stabilirsi in qualsiasi parte della città e di esercitarvi ogni commercio. Ma Pio VII, nel 1814[31] chiuse di nuovo il Ghetto, e le cose tornarono come prima fino al papa oggi regnante.
Torna ad onore di Pio IX l'avere atterrato le mura del Ghetto, la qual cosa avvenne, come mi accertarono gli ebrei stessi, prima della rivoluzione di Roma; in guisa che il merito di questa disposizione si deve attribuire per intiero al pontefice, e non fu una concessione fatta allo spirito dei tempi. Caddero le mura e le porte del Ghetto, ed in seguito, in conseguenza delle nuove idee, fu data facoltà agli ebrei di abitare dove meglio loro piacesse in Roma, e di esercitare liberamente ogni mestiere e negozio. Il Ghetto pertanto, ha cessato di esistere quale prigione; ma dura tuttora quale quartiere, il più malinconico di Roma, ed è raro che un ebreo si prevalga del diritto che gli spetta di abitare altrove, poichè l'antico e radicato pregiudizio gli rende malagevole, se non addirittura impossibile, quanto gli è dalla legge permesso.
Un giorno, era di sabato, stavo presso la fontana di piazza Navona, quando parecchie ebree vestite a festa vennero, e si fermarono a contemplare le sculture della fontana. Una romana le guardò con disprezzo e rivolgendosi a me disse: «Guardate, guardate, ora sono nè più nè meno di noi cristiani».
Le riforme politiche del 1847 posero fine pertanto a quella schiavitù degli ebrei di Roma, che aveva durato tanti secoli; speriamo almeno che la potenza della pubblica opinione saprà dimostrarsi superiore ai pregiudizi qualora mai potesse risorgere, e che le scarse libertà ora concesse agli ebrei di Roma, si estenderanno tanto da permettere loro di prendere parte a tutti i vantaggi della coltura e della civiltà. La prospettiva è tuttora lontana, ma finalmente vi ci siamo avvicinati. La popolazione del Ghetto sale attualmente a circa 3800 persone, numero enorme se si confronta al ristretto spazio del Ghetto stesso, che non equivale in estensione alla quinta parte di parecchie piccole città di tremila abitanti. Tutta «l'università degli ebrei» è sottoposta alla Congregazione superiore della Inquisizione, e il loro tribunale è quello del Cardinale Vicario. Nelle materie di semplice polizia è competente il presidente della regione di S. Angelo a Campitelli. L'Università Israelitica poi ha il diritto di regolare la sua amministrazione interna, per mezzo di tre così detti fattori del Ghetto, che durano in carica sei mesi. Questi sorvegliano l'ordine delle strade, provvedono al reparto delle imposte, tassando ognuno secondo le proprie facoltà; e provvedono all'assistenza degli ammalati, e dei poveri. Il Ghetto paga in complesso allo Stato, ed a parecchie corporazioni religiose, circa tredicimila franchi annui.
Abbiamo finito la storia degli ebrei di Roma. Ora vogliamo dare un'idea del Ghetto nel suo stato attuale.[32]
Allorquando lo visitai per la prima volta, il Tevere era straripato, e le sue acque gialle scorrevano per la strada più bassa chiamata Fiumara, le case della quale hanno in parte le loro fondamenta nell'acqua. Le acque erano salite fino al portico di Ottavia, e coprivano i piani inferiori delle case circostanti. Qual malinconico spettacolo presentava il povero quartiere degli ebrei, inondato dalle acque torbide del Tevere! Ogni anno il popolo d'Israello va soggetto a questo diluvio; il Ghetto galleggia sulle acque, nè più nè meno che l'arca di Noè con i suoi uomini e i suoi animali. Ed il male diventa maggiore allorquando il mare grosso, per il vento di ponente, contrasta lo sbocco alle acque del fiume ingrossato dalle pioggie; allora chi abita in basso si rifugia nei piani superiori. Mi si fece osservare il segno dell'altezza raggiunta dalle acque del fiume nell'inondazione del 1846; allora le acque invasero per intiero tutti i piani inferiori. Nello scorso autunno e nella primavera di quest'anno l'inondazione fu di corta durata, abbastanza sensibile però, perchè io potessi formarmi un'idea precisa dei gravi mali che porta seco. Tuttavia si dice che la mortalità nel Ghetto non sia maggiore che in altri quartieri della città; non fu forte nemmeno durante il colera del 1837. La mortalità, se si giudica dal numero delle lapidi mortuarie degli ebrei, sembra molto ristretta. Queste lapidi bianche con le loro iscrizioni stanno, miseri monumenti di reietti, in una località classica di Roma, in un angolo del Circo Massimo, fra le erbe selvatiche e la cicuta. E là nella più antica arena di Roma, costrutta fin dai tempi di Tarquinio Prisco, che si trova oggi il cimitero israelitico, denominato volgarmente Orto degli ebrei.[33] Strano giuoco del destino!
Vi è come una relazione segreta possente e simbolica tra la fisonomia dei luoghi e quella degli uomini e delle cose. Ho avuto troppe volte occasione di far questa osservazione, per non doverla ricordare qui. Ed anche l'aspetto dei dintorni di questo Ghetto di Roma mi parve tale da ispirare una profonda malinconia. Non parlo soltanto di quel portico di Ottavia occupato ora dagli ebrei, che sorge cadente in rovina, aprendo i neri suoi archi sulla vicina pescheria, fetido ed oscuro mercato, dove i pesci stanno in mostra sopra banchi di pietra. Se leggiamo poi il nome della piazza più vicina alla Sinagoga troveremo che porta quello di Piazza del Pianto, dalla chiesa di S. Maria detta del Pianto, e se mai vi fu nome che si attagliasse al popolo di Geremia, si è questo; poichè non vi fu certamente popolo che abbia versato tante lacrime, quanto quello degli ebrei di Roma. Sulla piazza del Pianto un antico palazzo sorge fra due chiese. Sopra una di queste si legge la dedica alla Vergine Maria del Pianto, sull'altra il nome di chi la fece costruire e cioè Francesco Cenci. Questo nome fa venire i brividi ricordando la terribile tragedia di Beatrice Cenci, figliuola infelice di Francesco. Il palazzo della famiglia Cenci si trova proprio di fronte alla Sinagoga, e nei giorni di festa vi si possono sentire i canti lamentevoli.
V'è di più. In questo palazzo oggi abita il pittore Overbeck. Non mi fu possibile trattenere un sorriso per la strana coincidenza, quando entrai nello studio, dove le anime pie entrano come in un santuario, e dove un uomo pallido con lunghi capelli, amabile e dolce, pronuncia a voce bassissima, appena intelligibile, poche parole, per dare spiegazioni intorno alle imagini sante che stanno sui cavalletti. Ed anche queste sono tranquille e quasi atone; un S. Giuseppe morto tra le braccia del Salvatore; una Madonna addolorata, che ha l'aspetto di un'ombra; un Cristo che sfugge ai suoi persecutori scomparendo tra le nuvole; teste di angeli, colle ali e senza corpo; figure ed arte senza vita, discorsi senza parole, imagini senza colorito; sulle mura la Madonna addolorata; la passione di Cristo; fuori la storia tragica della Cenci; là il Ghetto inondato, qui S. Maria del Pianto, e nel mezzo il beato Angelico della pittura moderna.
Prima del 1847 un alto muro divideva la piazza dei Cenci da quella detta Giudia, che ha pure nome di Piazza delle Scuole. Aprivasi su questa la porta principale del Ghetto; mura e porta sono state demolite, ed i materiali giacciono tuttora in parte al suolo.
Entriamo ora in una delle strade del Ghetto stesso; colà troveremo Israello intento ad un incessante lavoro. Le donne ebree stanno sedute sulla porta delle loro abitazioni, o nella strada stessa, poichè le loro stanze basse ed oscure mancano di luce, ed ivi stanno assiduamente occupate nello scernere cenci, nel cucire o fare rammendi. E' incredibile il caos, e la quantità di stracci e di cenci che si trovano colà. Si direbbe che gli ebrei vi abbiano radunato quelli del mondo intero. Stanno ammucchiati davanti alle porte, di ogni foggia, di ogni colore, antiche stoffe ricamate, broccati, velluti, cenci di colore rosso, turchino, arancio, bianco, nero, tutti vecchi, laceri, consunti, in mille e mille pezzi. Io non ne ho veduti mai di simili, nè in tanta quantità. Gli ebrei potrebbero rivestirne tutto il creato, e mascherare tutti gli abitanti di Roma da arlecchini. Gli ebrei si immergono in quel mare di cenci, quasi vi volessero cercare i tesori, o almeno un pezzetto smarrito di broccato in oro; essi infatti sono ricercatori appassionati di antichità, nè più nè meno di quegli altri che scavano e smuovono macerie e rottami, colla speranza di scoprire un pezzo del fusto di una colonna, un frammento di scultura, una moneta o qualche altra reliquia del passato. Quei Winckelmann del Ghetto pongono tanto orgoglio nell'esporre i loro cenci, quanto i mercanti di antichità nell'offrire dei marmi. Questi magnifica il pregio di un pezzo di giallo antico, l'ebreo quello di un pezzo di seta gialla; quegli vi vanta il porfido, il verde antico; l'ebreo uno straccio di damasco di colore verde o di velluto. Non v'è nè pietra dura, nè alabastro, nè marmo bianco o nero, nè breccia cui l'antiquario del Ghetto non abbia la sua merce da contrapporre. Vi si può trovare un saggio di ogni moda, dai tempi di Erode il grande, fino a quelli dell'inventore del paletot e tutte le vicende subite dalle fogge di vestire del mondo civile sono abbandonate alle ipotesi della critica, e chi sa non si possano rinvenire reliquie storiche di Romolo, di Scipione l'Africano, di Annibale, di Cornelia, di Augusto, di Carlomagno, di Pericle, di Cleopatra, di Barbarossa, di Gregorio VII o di Cristoforo Colombo, e chi sa di quanti altri ancora?
Le figlie di Sion seggono ora sopra tutti que' cenci; cuciono, rammendano tutto quanto si può ancora rammendare. Sono somme nell'arte del cucire, del ricamare, del rappezzare, del rammendare; non c'è alcuno strappo, in una drapperia, in una stoffa, per quanto grande esso sia, che queste Aracni non riescano a fare scomparire, senza che più ne rimanga traccia.[34] Tutto questo commercio si pratica per lo più nella strada inferiore, vicina al Tevere, denominata Fiumara, ed in quelle laterali, di cui una porta il nome delle Azzimelle, dal pane senza lievito. Ho spesso guardato con stringimento di cuore quelle povere creature pallide, deboli, curve sui loro aghi, perpetuamente in moto, uomini, donne, fanciulli e ragazzi. La miseria traspare da quelle capigliature incolte, da
quei visi di color bruno gialliccio, che non ricordano in alcun modo la bellezza di Rachele, di Miriam o di Lia. Solo di quando in quando ti sorprende il lampo dello sguardo di un occhio nerissimo e profondo che si solleva dall'ago e dal cencio, quasi a dire: «Ogni ornamento è scomparso dalle figliuole di Sion. Quella che era principessa fra i pagani, che portò la corona nella sua patria, è ora condannata a servire e piange tutta la notte per modo che le lagrime le rigano le gote; non v'è chi si muova a pietà di essa; tutti la disprezzano, e sono diventati suoi nemici. Il popolo di Giuda è nel servaggio, condannato alla miseria, ai più duri servigi; abita fra gl'infedeli, tutti lo maltrattano, non ha nè quiete nè riposo. La collera di Dio si è tremendamente aggravata sopra la figlia di Sion!»
Non è però oggetto di queste pagine descrivere le miserie del Ghetto, del resto miserie eguali, se non maggiori si trovano in tutte le grandi città del mondo, anche fra le nazioni più civili. Nè si deve credere che per quanto riguarda le strade e le abitazioni, il Ghetto di Roma sia di effetto più ripugnante dei quartieri più poveri di Parigi, Londra o Berlino. Aggiungo volentieri che a Roma gli ebrei sono caritatevolissimi gli uni verso gli altri; che l'agiato soccorre largamente il povero; che lo spirito di famiglia, dote caratteristica e costante del popolo d'Israello, vi si mantiene più vivo che forse in qualunque altra comunità di ebrei, e come parimenti sia un fatto, che questi uomini sobri e laboriosi sono raramente processati per delitti. Ciò che colpisce maggiormente chi si aggira nel Ghetto, è l'angustia, la sporcizia di quel laberinto di strade, di vicoli fiancheggiati tutti da case altissime. I poveri ebrei sono quasi come sovrapposti e ammucchiati in un colombario e tanta angustia di abitazione fa più impressione che altrove in Roma, città che siede in una vasta pianura, caratteristica propriamente per gli ampî spazî vuoti, per le dimensioni in ogni cosa grandiose della sua architettura, per i suoi palazzi colossali e pei suoi conventi in gran parte deserti.
Sono meno infelici quegli ebrei che abitano la parte superiore del Ghetto, e particolarmente la via Rua. Questa strada, più ampia delle altre, con case abitabili, si potrebbe in certo modo considerare come il Corso del Ghetto, perchè anche sotto una stessa legge, anche nella servitù l'uomo fa valere i diritti della disuguaglianza. Nella via Rua abitano gli ebrei che hanno in tasca il migliore titolo di Gazagà; taluni vi posseggono case, e sono addirittura agiati. Qui stanno le più belle botteghe dei negozianti in pannine a principiare dalle più ruvide e grossolane fino alle stoffe più preziose. Gli ebrei che riescono a diventar ricchi, si portano volontieri, a quanto mi si assicurò, ad abitare in Toscana.[35] È poi cosa singolare che sulle insegne nel Ghetto si leggano pochi nomi prettamente ebraici. Gl'israeliti di Roma hanno preso in gran parte nomi di città italiane, come Asdrubale Volterra, Samuele Fiano, Pontecorvo, Gonzaga. Parlano pure in generale l'italiano,[36] e non mi è mai accaduto di sentirli conversare fra loro in lingua ebraica; anche nel modo di vestire non si distinguono dal resto della popolazione e neppure alle loro feste mi venne fatto di notare costumi orientali.
La parola di festa, accoppiata a quella del Ghetto, suona quasi ironia, se si pon mente alla storia ed alla condizione attuale degli ebrei; per questa stessa ragione però un tale spettacolo non può a meno di riuscire attraente anche in questa Roma, dove le feste sono così numerose. Nei giorni in cui le strade di Roma sono animate da tutte queste feste, in cui tutti godono, ammirano, in cui il denaro circola largamente, mentre tutte le strade, tutte le piazze sono adorne di arazzi, di fiori, mentre da ogni casa i lumi splendono, e le carrozze succedono alle carrozze, i pedoni ai pedoni, il popolo d'Israello seduto innanzi la sua porta nel suo Ghetto, riman tetro e solitario, continua ad affaticarsi nel suo lavoro, col sudore della sua fronte, senza toglier gli occhi dai mucchi dei suoi cenci.
Ma arrivano anche le sue feste. Allora il povero rigattiere lascia in disparte i suoi stracci, indossa i suoi abiti migliori e raddrizza la sua incurvata persona. Ed in ciò credo debba consistere la poesia delle feste, da cui sprigiona il loro più vero significato, esse non compiono appieno la loro vera missione se non quando strappano l'uomo dal lavoro quotidiano, sciogliendolo in certo modo dai vincoli della servitù, trasformandolo in un altro uomo ideale, non più soggetto alla miseria, alla preoccupazione continua dei mezzi di campare la vita. Questo popolo singolare, quando si raduna nei giorni delle sue feste, dovunque si sia, in qualsiasi parte più remota o più inospitale del mondo, si considera quale l'antico popolo d'Israello, quale il discendente diretto di Abramo e d'Isacco, il fiore dell'uman genere, che Iddio di sua propria mano volle porre sulla terra. Ho assistito nel Ghetto alla festa di Pasqua; seppi per caso che era prossima, passeggiando pel Ghetto, e scorgendo davanti a tutte le porte i rami di cucina rilucenti di pulizia, e tutte le fonti occupate da gente che lavava, puliva arredi e masserizie domestiche. Mi si disse che ciò si faceva a motivo della festa di Pasqua, che era imminente.
Dopo le grandi solennità cristiane della settimana santa e della Pasqua, in S. Pietro e nella Cappella Sistina, che in presenza di tanti capolavori dell'arte si possono ritenere per le funzioni più imponenti del culto cristiano, riesce attraente lo assistere in quello angusto ed oscuro quartiere del Ghetto, ad una festa di Pasqua, e di rinvenire le antiche basi, appena mutate, del culto cattolico di Roma. Sono propriamente quelle le radici di questo culto, e quanto più l'albero crebbe e si è sviluppato ed esteso con magnificenza, tanto più le radici si sono sepolte nella notte.
La sinagoga romana comprende cinque scuole in uno stesso fabbricato, la scuola del Tempio, la Catalana, la Castigliana, la Siciliana, e la Scuola nuova. Il Ghetto di Roma trovasi dunque diviso in cinque sezioni, ognuna delle quali rappresenta le nazionalità diverse degli ebrei di Roma, i cui padri o risi devano fin dall'antichità a Roma, o son venuti dalla Spagna o dalla Sicilia. Mi si disse che la scuola del Tempio sola discenda direttamente da quelli portati a Roma da Tito. Ogni sinagoga ha la sua scuola, nella quale i ragazzi imparano soltanto a leggere, scrivere e contare; non vi si insegnano però le scienze; ciascuna ha il suo santo dei santi, dove si conserva il Pentateuco.
All'esterno la sinagoga si distingue non solo per le sue iscrizioni, ma anche per la sua architettura. Gli ebrei hanno ornato il loro tempio quasi di nascosto e di notte tempo. Pare abbiano tolto qua e là, tra la prodigiosa quantità di marmi, di cui abbonda la città eterna, un paio di tronchi di colonne, di capitelli, ed alcuni frammenti di marmo per adornare il loro tempio. Nel mezzo alcune colonne corintie sorreggono un frontone; nel fregio sono raffigurati in istucco il candelabro a sette braccia, un'arpa ed una cetra.
Un rabbino mi aveva invitato ad andare la sera nella sinagoga, dove, mi aveva detto, si sarebbero cantati i vespri, assicurandomi che avrei potuto sentire un oratorio ben eseguito. Venuta la sera, gli ebrei si accalcavano alla porta della sinagoga. Vidi tra la folla parecchi romani, fra i quali alcuni sacerdoti. Ci fecero aspettare forse una buona mezz'ora, e non mi dispiacque l'attesa, ed il veder aspettare gli altri, poichè questo era un segno di giustificata indipendenza, dato almeno una volta da una razza oppressa e disprezzata. Finalmente le porte si aprirono, e salito per una stretta scala, arrivai nell'interno del tempio.
Avevo veduto la sinagoga di Livorno forse la più ricca del mondo, ma mi era sembrata assai meno degna di osservazione di questa del Ghetto romano. L'edificio di Livorno è ampio e sobrio; le sale del tempio di Roma sono piccole, pittoresche, bizzarramente decorate e di aspetto esotico. Nella occasione della festa di Pasqua le mura erano state ricoperte di tappeti di stoffa rossa ricamata in oro, sui quali si leggevano dei versetti dell'Antico Testamento. Nello stesso modo per le feste cattoliche si ornano le chiese in Roma con tappeti e stoffe dorate; è un uso orientale, preso in prestito dal tempio di Salomone. La gran sala della sinagoga aveva un aspetto imponente e maestoso. Il soffitto è a cassettoni come quello delle basiliche romane, ma essi sono soltanto delle imitazioni dipinte. Intorno al fregio si trovano bassi rilievi di stucco, che rappresentano i varî oggetti riferentisi al culto israelitico. Vi si scorgono il tempio di Salomone, rappresentato con tutte le sue porte, le sue sale e i suoi altari, il Mar Rosso, l'arca santa, coi cherubini, gli abiti e la tiara sacerdotali, da cui traggono origine i costumi primitivi dei vescovi e dei papi; vasi, piatti, pale, cucchiai, bacili, padelle e sedili, finalmente tutti gli strumenti musicali, timballi, tamburi, arpe, cetre, flauti, le trombe del giubileo, cornamuse, cembali, finanche il sistro d'Iside egiziaca, che si osserva così di frequente nelle statue del Vaticano. L'immaginazione degli ebrei, come si vede, volle circondarsi qui di tutti i ricordi del tempio di Gerusalemme.
Nella parete a settentrione si apre una finestra di forma circolare, divisa in dodici campi distinti per varietà di colori, simboleggianti le dodici tribù d'Israello; e la forma riproduce quella dell' Urim e Thummim, ornamento formato da pietre preziose, che d'ordinario soleva portare sul petto il gran sacerdote. A ponente sta il coro, di forma semicircolare, con una tribuna in legno per il primo cantore e per i cantori. Stanno su questa il candelabro d'argento e altri vasi pure d'argento, di figura strana, che servono a ornare il Pentateuco. Di fronte, nella parete a levante trovasi il Santo dei Santi, un tempietto a colonne corinzie con bastoni sporgenti, che ricordano quelli usati per portare l'Arca dell'alleanza. Il tutto è ricoperto da una tenda ricamata; in cima ad ogni cosa campeggia il candelabro a sette braccia. Il Pentateuco, rotolo voluminoso in pergamena, sta rinchiuso nel Santo dei Santi. Lo si porta in giro processionalmente per la sala, e dal pulpito lo si presenta ai quattro punti cardinali, mentre gli ebrei alzano tutti le braccia, e prorompono in grida. Questo è in certo modo l'equivalente dell'elevazione per gli israeliti. E' il Dio più possente della terra, che ancor oggi signoreggia il mondo, non col Verbo ma con la Lettera, non coll'amore ma con la Legge. Il giudaismo è la più positiva fra tutte le religioni, e per questo motivo dura oggidì tuttora. Di fronte alle forme infinitamente varie, riccamente fantastiche della chiesa cattolica, che ha introdotto nel mondo una nuova mitologia, si rimane colpiti del carattere così differente di questo culto di Jehovah, rigido, senza imagini, senza fantasia ammirabile nella sua assoluta semplicità.
Gli ebrei seggono nel loro tempio, davanti al loro Dio col capo coperto dal cappello o da una berretta, quasi fossero pari d'Inghilterra, o si trovassero alla borsa. Regna la più perfetta disinvoltura nel canto e nella preghiera; ognuno canta quando vuole, o chiacchiera col suo vicino. Il primo cantore sta davanti al coro. Mi fece senso la fretta, colla quale si cantavano, o meglio si mormoravano tutte le preghiere. Le donne stanno in una galleria superiore, protette da una graticciata e sono invisibili.
In un'altra sala si cantavano i vespri. Anche questa era addobbata, e scintillante di lampade. Il soffitto di essa non era piatto come quello dell'altra, ma bensì a piani sovrapposti e terminava in una cupola di forma bizzarra. I cantori sedevano nel coro, dietro al rabbino o primo cantore. Questi era vestito di un lungo abito nero, e portava in capo una berretta sacerdotale nera, molto alta, dalla quale scendevano ai due lati i lembi di un velo bianco. La semplicità di questo costume mi stupì e mi fece pensare all'antico costume sacerdotale degl'israeliti, la cui magnificenza rifulge ancora nel costume attuale del papa. Ogni qualvolta il gran sacerdote nel tempio di Gerusalemme si accostava al tabernacolo, vestiva una tunica bianca di lino, con una sopravveste a frange, di colore turchino. Campanelli di oro e palline di granate stavano appese alle frange. La tunica era fermata da una fascia a cinque striscie, di oro, porpora, giacinto, scarlatto e bisso. Gli ricopriva le spalle una specie di manto degli stessi colori, riccamente ornato d'oro, fissato sul petto da fibbie d'oro, a foggia di scudo, ornate di sardoniche, sul petto portano l' Urim e il Thummim formato di dodici pietre preziose. Aveva in capo la tiara di bisso intessuto di giacinto, attorno alla quale correva una fascia d'oro, su cui stava scritto « Jehovah ». In tal guisa è descritto da Giuseppe il costume del gran sacerdote, e si capisce che il suo aspetto dovesse essere imponente.
I cantori eseguirono assai bene il vespro, mentre il rabbino pronunciava di tanto in tanto qualche preghiera coprendosi il volto con il velo, per palesare la sua afflizione. I canti erano armoniosi, però non di stile antico, e piuttosto nel gusto di un oratorio moderno. Vi erano belle voci di giovanetti, bassi stupendi, talchè anche in questo vespro del Ghetto si poteva riconoscere l'influenza di Roma. Anche il popolo d'Israele può menar vanto del suo miserere. Quella povera gente andava superba, ed era felice di saper fare essa pure una produzione artistica nel suo povero quartiere sperduto. Le lodi che loro si manifestavano erano accolte con vero compiacimento. Avendo espresso il mio elogio sentii il mio vicino, un giovinetto ebreo, ripetere con premura ai più lontani l'elogio. «Che cosa ha detto?» «Bene, bene, stupendamente eseguito. Avete proprio una cappella Sistina».
Ma è tempo di finire. Valessero se non altro queste pagine ad invogliare qualcuno a scrivere la storia completa degli ebrei di Roma. Sarebbe argomento assai più interessante e meritevole di studio, che non le sterili dissertazioni sopra punti insignificanti di archeologia. Uno studio sul Ghetto romano potrebbe servire moltissimo a chiarire lo sviluppo successivo del cristianesimo in Roma, e varrebbe non poco a completare nel modo più utile la nostra conoscenza della storia della civiltà.[37]
L'autore di questo scritto non ebbe per iscopo di trattare soltanto la questione civile degli ebrei di Roma, ma piuttosto di rappresentare la vivacità del contrasto fra il cristianesimo storico e il giudaismo storico nella città eterna. Il carattere di questa metropoli, quale attualmente si presenta ad un osservatore attento, porta l'impronta dei tre grandi periodi della civiltà del genere umano: il paganesimo, il giudaismo e il cristianesimo. A malapena si possono distinguere, talmente sono connessi, e talmente il culto cristiano ha riuniti in sè l'elemento giudaico e quello pagano. Per non
far parola di questo ultimo, percorrendo Roma, visitando le sue magnificenze, ad ogni passo traspare lo spirito, la forma del giudaismo, perfino nei capolavori dell'arte cristiana. Parlando della scultura, qual'è la più sublime creazione in marmo del genio cristiano? Il Mosè di Michelangelo, sulla tomba di papa Giulio II. Parlando della pittura, le stanze e logge di Raffaello, la cappella Sistina, innumerevoli chiese e musei sono pieni di rappresentazioni e di scene dell'Antico Testamento. Parlando della musica, quali sono i pezzi più sublimi, che si eseguiscono durante la settimana santa nella Cappella Sistina? Le Lamentazioni di Geremia ed il Miserere, canti degli antichi ebrei. E di questo popolo, cui la sorte affidava i documenti stessi della umanità, e al quale il cristianesimo ha tolta una parte del suo patrimonio, continua a vivere in quest'angolo del Ghetto, a due passi da San Pietro, una reliquia delle più antiche e storicamente notevoli.
Ma anche questo popolo disprezzato ha voluto vendicarsi a modo suo del mondo cristiano, poichè a tutti gli altri simboli della sua religione che ha trasmesso al mondo moderno, uno potentissimo ne ha aggiunto che resta il più potente di tutti ed è il vitello d'oro, attorno al quale danza il mondo intiero, come è profetato, scritto e rappresentato nei libri di Mosè.
MACCHIETTE ROMANE. (1853).
Macchiette romane. (1853).
Queste pagine, buttate giù in qualche momento d'ozio, vogliono comparire variopinte come un carnevale, ed esser quasi un caleidoscopio. Tenteremo intanto di mettere un po' d'ordine in questo mondo intricato di figure, che presenterà immagini di vivi e di morti, burattini, ballerini, mimi, prediche di bimbi, teatri popolari, e altre rarità stupende, in linea sempre ascendente.
Il primo atto avrà luogo, come di ragione, sotto terra.
Una sera durante la settimana dei morti la luce delle torcie mi attirò ad entrare nel Panteon di Agrippa. Un sacerdote predicava sul purgatorio, esortando gli uditori a pregare assiduamente, poichè ricorrevano appunto quei giorni, durante i quali si possono alleviare le pene espiatorie, ed in cui l'efficacia della preghiera è maggiore.
Che qui, per quei di là molto s'avanza
disse già l'anima di Manfredi nel purgatorio. Il sacerdote parlava con grand'enfasi con voce sonora, e in quel modo teatrale che assumono i sacerdoti italiani volgendosi al popolo. La sua predica trovava nel Panteon di Agrippa sede adatta a produrre grande impressione. «Imperocchè—gridava—noi camminando qui calpestiamo dappertutto cenere: pensate soltanto agli innumerevoli cristiani che un giorno Nerone, Decio e Domiziano gettarono in preda alle belve o fecero crocifiggere, strangolare». La voce del prete risonava potente in quell'ampia e silenziosa rotonda a metà illuminata, e l'eco ripercotendo sotto quelle volte i nomi terribili di Nerone, Domiziano, Decio, Diocleziano, parea volesse evocare gli spiriti dell'antica Roma. Ero seduto presso la tomba di Raffaello, e gettando lo sguardo in quella mezza oscurità, sui gruppi dei fedeli inginocchiati e sulla figura bianca del predicatore, questi mi appariva come un mago in atto di evocare i morti.
Questa scena del Panteon m'indusse a visitare le chiese sotterranee di Roma. Durante l'ottavario dei morti si rappresentano in questi sepolcri storie di martirî e scene bibliche, che sono abbastanza originali. Le cappelle di questi cimiteri sono per solito due, una superiore ed un'altra sotterranea, nella quale stanno propriamente le sepolture. Durante l'ottavario dei morti, nella chiesa superiore s'innalza un catafalco ricoperto di una coltre nera, circondato da cipressi e da candelabri, sul quale vengono posati un crocifisso e un teschio. I sacerdoti cantano i salmi dei morti, e i devoti ed i curiosi, chi in piedi, chi in ginocchio, riempiono la chiesa, quasi evanescenti in una nuvola di fumo d'incenso.
Ecco l'oratorio della Morte, presso il ponte Sisto; scendiamo nella chiesa sotterranea.[38] Vi scorgeremo cose strane. Tutte le pareti, tutti i soffitti sono ricoperti di rilievi, di rabeschi e di mosaici fantastici. Sono fiori, rose, stelle, quadrati, croci, ornamenti di ogni maniera, quali soltanto un'immaginazione orientale può concepire, e tutto è combinato nel modo più ingegnoso, soltanto con ossa umane. Si dura fatica a prestare fede ai propri sensi. S'immagini una cappella sotterranea, riccamente illuminata, costrutta tutta di teschi, di scheletri, colle pareti formate di ogni maniera di ossami, e la si popoli di una folla di creature viventi, donne per la maggior parte e ragazze, signore in abiti di seta, dalle belle e vivaci fisonomie, che ridono e cinguettano in mezzo a tutto quell'apparato di morte, in quell'atmosfera impregnata di effluvi cadaverici, avviluppate nei vortici del fumo degli incensi.
Presi posto a lato di una ragazza seduta precisamente sotto uno scheletro che sghignazzava; ella stava chiacchierando allegramente colla sua vicina di cose che avevano a che fare con tutt'altro che con la morte: pensoso e quasi atterrito, stavo contemplando lo scheletro e la sua giovane preda, sulla quale stendeva le mani, poichè la ragazza era seduta in modo che sembrava caduta fra le braccia dello scheletro. Era proprio la danza dei morti del nostro Holbein rappresentata al vero.
Interi scheletri sono posti nelle nicchie della cappella. Ciascuno tiene fra le ossa delle mani un cartello, su cui si legge una sentenza morale, un ricordo della vanità della vita, un eccitamento ai vivi di pregare per i defunti che soffrono e sperano. Certamente ci volle non poca abilità artistica e pazienza a disporre tutta questa funebre decorazione. Qui parte delle mura fu ricoperta unicamente di teschi di bambini, là, di persone adulte, altrove vennero formati arabeschi di clavicole, di costole, di ossa del petto, di dita, di articolazioni. Gli stessi candelabri sono formati in modo fantastico di ossa umane, ed è meraviglioso scorgere come il senso artistico e la legge estetica siano quasi riusciti a vincere il ribrezzo ispirato dalla materia adoperata. Ma quantunque l'arte sia riuscita a tanto, e abbia scherzato colla morte, riducendo a creazioni artistiche quanto ispira il maggior ribrezzo ai viventi, quanto si usa tener sepolto nelle viscere della terra, quello spettacolo riesce sempre penoso e repulsivo. Mi parve rappresentare il colmo dell'abnegazione religiosa più fanatica o, nella forma più bizzarra, il trionfo sopra la morte e sopra l'orrore che essa ispira. Se fosse possibile che una di queste cappelle mortuarie dell'anno 1853 dopo la nascita di Cristo rimanesse sepolta sotto terra tanto tempo, quanto le tombe degli egiziani e degli etruschi, e venisse scoperta dopo tre mila anni, sarebbe senza dubbio un monumento importantissimo per la storia della civiltà, dal quale la posterità potrebbe farsi un'idea della essenza intrinseca del culto cristiano. Ma, anche per noi contemporanei, è abbastanza istruttiva la vista di una di queste cappelle mortuarie dei cristiani di Roma, perchè ci fa penetrare in modo meraviglioso nella essenza stessa del cristianesimo.
Gli Egiziani che usavano portare attorno davanti i banchetti le mummie dei loro antenati, affinchè il gaudente si rammentasse la fine di tutte le cose, sono considerati da noi quello fra tutti i popoli della terra, che ha saputo superare meglio l'orrore della morte, e la loro religione vien chiamata dalla nostra filosofia religione della morte. Ma difficilmente quei cupi Egiziani avranno fatto cose simili a quelle che si vedono in queste cappelle cristiane. In nessuna rappresentazione mistica di una religione la morte e i cadaveri ebbero tanta parte; la passione, la crocifissione, la deposizione dalla croce, la sepoltura di Cristo, la sua risurrezione, la lunga schiera dei martiri durante le persecuzioni di Nerone, Domiziano, Decio, Diocleziano e altri imperatori hanno dato al culto cristiano un'impronta funerea, han determinato l'intera concezione della vita e così hanno dato alla vita cristiana, alla musica, alla scultura, alla pittura, l'idea della morte. La saggezza profondamente vitale della coscienza tedesca, che s'impossessa potentemente di tutto quanto ha vita spirituale, seppe, da tutte queste idee di morte, ricavare la danza dei morti dell'Holbein, rappresentazione plastica della sapienza dei proverbi di Salomone.[39]
Ma, a chi mai potrà esser venuto in mente per il primo di formare un mosaico di ossa umane? Mentre stavo esaminando quella cappella dei morti, mi sembrava che l'idea ne dovesse esser germogliata nella pazza fantasia del nostro Hoffmann, oppure mi immaginavo di scorgere un cappuccino impazzito che, nel cuore della notte, alla luce incerta di una lampada, stesse ammucchiando e ordinando tutte queste ossa, prorompendo in una risata quando gli riusciva comporre un rabesco. Uno scheletro lo aiutava in questo lavoro, era lo scheletro di un artista, che da vivo era pazzo. Ora stavano vicini l'uno all'altro, maneggiando tutte quelle ossa, e ridevano ridevano soddisfatti, quando riusciva loro di disporle artisticamente. Ma è ancor più probabile che tutto quello strano lavoro sia stato compiuto nelle tenebre da due pazzi fatti scheletri. «Padre, dicevo ad un cappuccino che mi stava vicino, quale confusione quando tutte queste ossa, questi teschi dovranno ricercare il loro posto»—«Sicuro, mi rispose serio il frate, nel giorno del giudizio universale, quando i morti risorgeranno, qui dentro dovrà esserci un gran chiasso».
Anche la cappella dei morti al convento dei cappuccini, in piazza Barberini, è disposta ed ordinata nello stesso modo di quella di ponte Sisto. Se non che qui l'arte non è riuscita a superare ugualmente l'orrore che ispira l'aspetto della morte. Qua e là gli scheletri furono rivestiti dell'abito cappuccino, ciò che produce un'impressione terribile. Uno scheletro nudo ispira minor ribrezzo, poichè è cosa naturale, mentre al contrario, coperto di un abito è orribile, e ha veramente l'aspetto di uno spettro. Vidi pendere dalla volta due piccoli spettri, sospesi per aria, come si rappresentano talvolta graziose figure di angioli; erano gli scheletri di due principessine della casa Barberini. Mi dissero che la terra che serve per la sepoltura dei cadaveri, fu portata da Gerusalemme e li consuma rapidamente.
Nella nostra cappella al ponte Sisto arrivava dalla chiesa superiore la voce dei preti che andavano salmodiando: «Domine! Domine! Miserere!» quasi voce delle anime che in purgatorio vanno
cantando miserere verso a verso.
Ad un certo punto i fratelloni scesero a basso con stendardi neri, nere croci, cappucci del pari neri, portando torce ed incensori; si collocarono nella cappella su due file, e intonarono i salmi penitenziali. La luce vacillante delle torce, il fumo dell'incenso che saliva in alto, sembravano dar vita e moto agli scheletri; si sarebbe detto che tutte quelle ossa intonassero anch'esse l' In te Domine speravi, od il Beati quorum tecta sunt peccata. Non so se cantassero questo o altro; ma l'anima di già oppressa rimaneva davvero atterrita. Vidi alcune donne vestite a nero che piangevano
«di pentimento che lagrime spande.»
e preso da intenso desiderio di aria, di luce, di vita, fuggii, da quel purgatorio,
«E quindi uscimmo a riveder le stelle.»
Ed ora siate benedette care e lucide stelle! voi durate tranquille, immutabili, nelle notti limpide di questo bel cielo di Roma, gettando la vostra luce sulle deserte catacombe della storia, come uniche divinità, che qui abbiano continuato a sussistere! Di quanti mutamenti non foste voi spettatrici in queste vie! Vedeste i sacerdoti d'Iside, di Melitta, coribanti e Galli, le processioni di lamento per Adone, i cori di Mitra, ebrei, cristiani, che si recavano alle loro feste nelle catacombe, o arsi vivi, negli orti di Nerone, dove ora S. Pietro erge al cielo la mole della sua cupola!
Nella oscurità della notte, per la strada deserta, mi apparve una luce solitaria che si avanzava verso di me. Aspettai per vedere che cosa fosse. Era un ragazzino di forse quattro anni, bello, biondo, riccioluto che avanzava, tenendo in mano un piccolo cero acceso. Si avvicinò, guardando tutto giulivo la fiamma della sua fiaccola, ad un palazzo, innanzi al quale stava un mucchio di trucioli, e vi appiccò fuoco. Poi cominciò a saltarvi intorno, sempre tenendo il suo moccolo, spingendo gli uni contro gli altri i ricci, perchè ardessero tutti. Era davvero un bel quadro notturno. Capitò un forestiero ed offrì al bimbo un baiocco, ma questi lo lasciò cadere, dicendo ripetutamente «no, no, la candela è mia, non voglio darvi la mia candela». Non poteva capire che gli si volesse fare un dono e quando gli spiegammo che poteva avere le due cose, il denaro e la candela, allora prese il baiocco, e ci stese timoroso e quasi piangendo la sua candela. «Che commovente ragazzo, disse lo straniero, è l'innocenza in persona!» Per me fu uno spirito luminoso che mi tolse l'impressione orribile del purgatorio, e mi liberò dai fantasmi.
In una parte della chiesa che sovrasta a quelle cappelle mortuarie e anche nei cortili annessi, su palchi eretti appositamente, si rappresentano con figure di cera storie di martiri, o fatti tolti dalla Bibbia.[40] Il popolo accorre a tali rappresentazioni, con la stessa curiosità e con soddisfazione uguali a quelle, con cui presso di noi, nelle campagne, si accorre ai gabinetti di figure di cera, che fin dai tempi remoti riproducono gran parte dei fatti dell'Antico Testamento, e specialmente quello straordinariamente popolare del giudizio di Salomone. Se il personaggio principale rappresenta un santo od un martire, non mancano divoti che loro rivolgono le preghiere, particolarmente per ottenere la liberazione delle anime dei loro cari dalle pene del purgatorio. Più di un baiocco e di un grosso cade nel vassoio di rame, posto presso la porta o di fianco al palco, su cui sorgono le figure. Spesso ancora un chierico va su e giù davanti al palco, scotendo una grossa borsa che tiene in mano, e facendo risonare le monete che contiene, per eccitare i fedeli alla carità.
Nella cappella della morte si era rappresentata una scena tolta dalla vita di S. Agnese. La giovane martire bionda, ricciuta, compariva tra le nuvole coperta di veli finissimi, quasi trasparenti, e la veneravano inginocchiati intorno a lei i membri della sua famiglia. L'atteggiamento delle figure, la vivacità dei colori, coi quali erano dipinte, testimoniavano dell'impegno posto dalla Confraternita che aveva ordinata la rappresentazione, perchè essa non fosse inferiore a nessun'altra, ed anzi riuscisse a superarle tutte in bellezza. Nella cappella dei morti di S. Maria in Trastevere si era rappresentato l'incontro di Mosè con Jetro nel deserto, un vero idillio campestre, con accessori di rupi, di palme e di un branco di pecore; ma la più splendida di tutte queste rappresentazioni era quella del cimitero presso S. Giovanni Laterano.
Qui si era riprodotto il martirio di S. Erasmo. Il santo era rappresentato appoggiato ad un piedistallo, col ventre sfondato da cui uscivano gli intestini che due carnefici afferravano e giravano attorno a un arcolaio. Il santo non vedeva, non sentiva più nulla, poichè il suo capo morente cadeva a terra. Stava presso di lui un sacerdote di Giove, colla testa inghirlandata, splendidamente vestito, che additava con un gesto di compiacenza la statua del nume, che stava in un angolo, e davanti alla quale ardeva il fuoco del sacrificio. Questo sacerdote pagano non aveva affatto l'aspetto fanatico o diabolico, ma un'aria bonacciona, come volesse dire: «Vedi, Erasmo, amico mio, noi ci prepariamo a strapparti le budella, perchè non hai voluto sacrificare a questo Giove potentissimo; fallo, te ne scongiuro, figlio mio, finchè sei ancora in tempo, e tutto sarà dimenticato». Invece l'altitonante Giove era rappresentato con una faccia orribile, da Kobold o da Moloch. A tutta la scena del martirio, di cui solo l'ironia può menomare il senso di crudeltà, è presente l'imperatore Adriano che vi assiste, tranquillamente seduto sul trono, con contegno maestoso, rivestito della porpora imperiale con a lato due guardie colla lancia in pugno. Ha una stupenda barba nera, ed è coronato d'alloro. Mi stupì vedere quell'imperatore che trattò in generale molto umanamente i cristiani di Roma, presente a quella scena da cannibali; e devo dichiarare ad onor suo, che non si prese mai il gusto, tutto giapponese, di far spaccare il ventre alla gente.
Le figure del resto erano disposte con molta intelligenza, vi si scorgeva evidentemente la mano di un artista, e non ricordo aver veduto mai migliori statue di cera. Per quanto fosse selvaggia, la scena produceva minor impressione del quadro spaventoso del Poussin nella pinacoteca Vaticana, che pure la riproduce; poichè qui l'osservatore non pretendeva trovare un'opera d'arte. Nel quadro del Poussin invece furono trascurate tutte le leggi più volgari dell'arte e, per provare piacere nel contemplarlo, bisogna essere un macellaio od un gladiatore. L'arte cristiana sembra abbia superato il piacere barbaro che gli antichi Romani provavano a contemplare le ambasce di morte degli uomini e degli animali; ma riuscì più meschina, più disgustosa. Che cosa infatti può recare maggiore offesa ai sensi di umanità di un tal quadro, o della pittura della chiesa di S. Bartolomeo all'isola che rappresenta quel santo scorticato vivo, oppure degli affreschi della chiesa di S. Stefano Rotondo, che riproducono le varie specie di supplizi dei martiri, le une più barbare delle altre, con buon disegno e colori vivaci e con una verità che grida vendetta in cielo? Se un antico greco potesse visitare oggi le gallerie d'Italia e le sue chiese, potrebbe credere di esser capitato in mezzo ad un popolo di ciclopi antropofagi, che avesse una religione da cannibali riprodotta nella pittura, nonostante tante altre opere che si direbbero dipinte dalle Grazie in persona.
Il gusto dei Romani per le figure, per i gruppi, per ogni rappresentazione scenica è generale e pronunciato in modo meraviglioso. Non vi è festa, in cui non si possa riconoscere. In parecchie chiese si possono vedere raffigurate scene bibliche, leggende, la nascita, la passione di Cristo. Si può osservare questo senso nelle botteghe stesse dei venditori di commestibili e nei banchi, dove si fanno cuocere cibi sulla pubblica strada. Anche questi hanno i loro santi, i loro patroni, le loro feste e gareggiano nell'adornare i loro negozi con fiori, pitture, lampade, statuette. Non appena arriva il carnevale, le botteghe dei pizzicagnoli, dei venditori di cacio, di salsicce, di prosciutti e di altre specie di commestibili, assumono l'aspetto di tempietti, nei quali in certo modo è venerata una preziosa salsiccia quale divinità della specie, quasi mistica dea dei salsamentari. Nello stesso modo che nelle cappelle mortuarie le pareti sono ricoperte ed ornate di teschi e di ossami, il pizzicagnolo trasforma la sua bottega in una graziosa cappella di salsicce. Le pareti sono di forme di cacio disposte in bell'ordine; altre sono composte di pezzi di lardo, di carni bianche, il tutto ornato di ghirlande, di rabeschi di carta dorata o argentata. La volta è formata di un mosaico di salsiccie e di salami; altri sono sospesi per aria, tra i fiori, i rami d'alloro e di mirto, non meno graziosamente che le baccanti negli affreschi di Pompei, o le seducenti stagioni di Giulio Romano. Si possono considerare quali opere d'arte, fatte a forza di salsicce e di salami. Nella parete di mezzo si apre una grotta misteriosa, dove, fra le salsicce ed i salami, è rappresentata la passione di Cristo, in un tempietto, attorno a cui si può girare, per contemplare tutte le figure e figurine. In ogni angolo ardono lampade, scintillano candele, e l'imaginoso artista salsicciaio, raggiante di gioia, di amor proprio e di grasso, pare che gridi solennemente dal suo banco alla folla che ingombra la bottega, «anch'io sono pittore!». Popolo felice, allegro quanto un fanciullo, ma popolo tuttora fanciullo! Possiede però tutta la storia universale, pulcinella, l'arte, il sole del mezzogiorno, fiori, frutta, vino in quantità inesauribile. Si osservi come questo venditore di commestibili riduca ad una scena di marionette la grande tragedia dell'umanità, come si comporti fra le sue salsicce, e vi apparisca quasi trionfatore sopra la morte!
Questa città di Roma è veramente un mondo di figure originali. Vi si può trovare rappresentato in figure lo sviluppo di tutta quanta la storia del mondo, partendo dai musei del Vaticano, del Campidoglio, scendendo alle chiese, alle fontane del Bernini, fino al teatro dei burattini. Se in tutte queste figure venisse infusa la vita, potrebbero cacciare dalla città tutta la popolazione attuale, e sarebbe allora curioso, invero, quello che ne risulterebbe, a cominciare dall'Apollo del Belvedere fino al piccolo pagliaccio di piazza Montanara ed al povero S. Erasmo, cui vengono strappati gl'intestini. Ma non sarebbe soltanto questo un divertimento burlesco per la fantasia, ma anche argomento di serie riflessioni. Poichè tutte queste figure, figurine, figuracce di divinità, di uomini, di animali, sono ad un tempo figure storiche dell'umanità, e rappresentano lo sviluppo delle sue vicende durante vari e vari secoli; e alla fine questo burattino potrebbe prendere posto a fianco del Laocoonte, ed esclamare: «anch'io sono Laocoonte!».
Attualmente vi sono in Roma due teatri di marionette o di burattini, uno in piazza Montanara, l'altro in quella di S. Apollinare. Il primo, quello veramente popolare, frequentato dalle classi inferiori; il secondo possiede burattini già inciviliti, che recitano anche in abito nero e guanti gialli, e lo spettacolo ha termine spesso con un magnifico ballo. I fantocci invece del teatro di piazza Montanara sono tuttora incolti, recitano in costume medioevale e il loro portamento è tuttora primitivo, rozzo e senza grazia. Rappresentano spesso storie di cavalieri antichi, talvolta pongono sulla scena Enea e il re Turno, ma sopratutto poi romanzi del medio evo, e l'intiero Ariosto di modo che mantengono viva nel popolo la tradizione di tutte quelle favole poetiche, ciò che non è piccolo merito. Oggi sta attaccato all'Arco dei Saponari, vicino al teatro dei burattini, un gran cartellone, in cui si annunzia in lettere colossali, che si recita la scoperta delle Indie, fatta da Cristoforo Colombo, nell'anno 1399, che così, conforme alla verità, è scritto sul maestoso annunzio.
La piazza Montanara, che più propriamente si dovrebbe chiamare strada, posta ai piedi della rupe Tarpea, fra questa ed il Tevere, è punto abituale di ritrovo per il popolo di Roma e particolarmente per le classi inferiori, e per gli abitanti della campagna, che vengono in città. Tutto vi spira miseria e sudiciume; dalla qualità delle merci esposte sui banchi si capisce che qui i contratti si fanno a spiccioli. Chi sarà difatti che comprerà quei mozziconi di sigaro, che i monelli raccattano per le vie e che si vedono esposti in vendita entro cassette di legno? Li comprerà per la sua pipa o il povero, o l'operaio campagnolo. Non manca neppur qui lo scrivano pubblico seduto al suo tavolo, all'angolo di una casa, con carta, penne e un enorme calamaio, pronto a scrivere con uguale facilità lettere amorose, di ricatto, contratti, ricorsi e suppliche. Il teatro dei burattini ha trovato in quella strada sede adatta: lo frequentano monelli di strada, mendicanti, operai, giornalieri, che hanno diritto di rallegrarsi, di ricrearsi la sera colle favole dell'Ariosto.
Avviciniamoci alla porta ancora socchiusa del vicolo dei Saponari, dove tutto è ancora nell'oscurità, e di dove sorge un chiasso, un rumore di gente che contrasta, si pesta, si affolla davanti al botteghino, dove si vendono i biglietti e alla scala che porta al teatro. Siamo sempre in carnevale e il pubblico sarà numeroso. La casa vecchia, sudicia, sorge in un piccolo vicolo cieco, malamente illuminato da una lampada, quando non splende la luna. Al piano terreno è una stanzaccia, una specie di antro, dove si vendono i biglietti. I posti sono di tre specie; si paga un baiocco per la platea, due baiocchi per il lubbione e tre per il palchettone. Noi che siamo ricchi, prendiamo i primi posti, abbiamo in mano il nostro biglietto, e possiamo entrare. Ma, non è questa impresa di poco momento. La stretta scala è tutta occupata da spettatori smaniosi d'entrare, e specialmente di monelli, ognuno dei quali vuol arrivare per primo; tutti si spingono, e fanno un chiasso d'inferno. Cento piedi e cento mani sono in moto, e nessuna tasca è sicura da una perquisizione indiscreta. Bisogna passare per una porta stretta, e non si va avanti che a forza di pugni e di spintoni. Alla porta sta un cacciatore pontificio, condannato a fare continui sforzi, per non venir schiacciato dalla folla.
Siamo riusciti ad arrampicarci nel palchettone per una scala da pollaio, ed abbiamo preso posto su lunghe e zoppicanti panche di legno dietro una balaustrata che corre lungo il muro. Possiamo di là contemplare la sala. Un sipario con figure mitologiche, Apollo, ed alcune muse, che a malapena si possono riconoscere, tanto tutto è vecchio e logoro, nasconde per ora i misteri della scena. Pende dalla volta una specie di cassa di legno, intorno alla quale sono appese le lampade che fumano, con molti cartocci di carta ficcati nelle fessure, dei quali non riusciamo a comprendere l'uso. Su quella cassa pestano i piedi gli spettatori a due baiocchi, poichè a quell'altezza sta il paradiso terrestre. Sotto di noi giace la platea. Se quando Ercole venne a Roma per uccidervi il gigante Caco sull'Aventino, avesse visto quella platea, le avrebbe probabilmente dedicato una delle sue imprese; e invece di imparare a ripetere oggidì nelle scuole «in settimo luogo ripulì le stalle di Augia,» diremmo: «in settimo luogo ripulì il teatro dei burattini di piazza Montanara». Perchè questa platea, da quando esiste, non ha avuto mai nè l'onore, nè il beneficio di una spazzatura. Il suo pavimento di nuda terra è ricoperto da uno strato di buccie di semi di zucca,[41] di pelature di
frutta, di pezzi di carta, che formano un mosaico naturale. Siede sui banchi una gioventù cenciosa, rampolli di Roma, nutriti del latte della lupa, discendenti rapaci di Romolo, talchè osservando le fisonomie degli adulti, contemplando le facce abbronzate, le capigliature folte, nere e incolte di tutti quei mascalzoni, si può proprio ritenere di essere capitati in mezzo ai briganti ed ai banditi, cui Romolo dava asilo. Pel momento è innocentissimo il chiasso diabolico che di laggiù sale alle nostre orecchie; è tutto pacifico lo scopo di questa riunione, poichè tutta questa gente non ha altro desiderio fuorchè quello di godersi una bella rappresentazione di marionette, piacere certo innocente e tutto infantile. Tutta l'assemblea, del resto, ha l'aspetto di fantocci, poichè in questi giorni di carnevale vengono nella platea le maschere, e vi si scorgono pulcinella, pagliacci colle fruste e colle vesciche di porco ripiene d'aria, dottori, ciarlatani. Prendono posto fra le risate universali; regna un'allegria generale, chiassosa, e il rumore diventa sempre più infernale. Tutta quella gente ha bisogno di ristori, di rinfreschi e si vede arrivare un venditore che con rara abilità riesce a cacciarsi e aggirarsi fra i banchi, tenendo con le due mani un paniere contenente ciambelle, paste e cartoccini pieni di semi di zucca tanto graditi. Subito tutta la platea comincia a rompere coi denti semi di zucca, le cui bucce vanno al suolo ad aumentare il mosaico e i cartocci vengono conficcati nelle fessure del lubbione, dove rimangono piantati, o da dove pendono come stallatati in una caverna. Il rumore ed il tumulto diventano indescrivibili.
Intanto sono giunte nel palchettone anche alcune dame, ninfe della rupe Tarpea; è l'ora di dar principio allo spettacolo. Si urla a squarciagola «Si cominci! Si cominci!» E la musica seda il tumulto. Dio mio, quale musica! In un angolo del palchettone stanno tre suonatori, uomini dai polmoni di bronzo, suonatori di tromba dotati di un fiato miracoloso. Se pure non discendono da quelli che diedero fiato alle trombe di Gerico, provengono senza dubbio in linea retta da quegli antichi pelasgici tirreni, che primi portarono le trombe in Italia, e le introdussero nella città dei Tarquini. La loro musica è proprio musica da atterrare le mura. Nonostante i fischi, le grida, gli urli, e tutto quel baccano, i tre musicanti continuano imperterriti a soffiare nei loro strumenti, e di quando in quando un sonoro squillo di tromba riesce a dominare tutto quel rumore indiavolato.
Ora i burattini stanno per entrare in iscena, e potremo vedere le più belle storie: Carlomagno e i paladini, Orlando, Medoro, Lancillotto, il mago Malagigi, il sultano Abdorrhaman, Melisandro, Ruggero, il re Marsilio e la regina Ginevra, eserciti intieri di Mori, di Saraceni, e assistere a terribili battaglie.
Oggi si recita la bella storia di Angelica e Medoro, ovvero Orlando furioso e li Paladini. Si leva la tela e compaiono i burattini. Vengono fuori con un salto il prode Orlando e Pulcinella suo scudiero, ed ambedue non toccano terra; Orlando è ricoperto di ferro dalla testa ai piedi, e tiene in mano la durlindana, Pulcinella ha i calzoni bianchi, la veste bianca dalle larghe maniche e il berretto bianco a punta. I burattini sono alti circa due piedi, le loro membra sono perfettamente snodate e si prestano a tutti i movimenti; le loro gambe di legno si agitano di continuo battendo la scena, ed i loro moti, i loro sussulti, congiunti alla voce rauca e al fare declamatorio dell'attore invisibile che li fa parlare, producono un effetto veramente comico.
L'occhio intanto si abitua alle proporzioni di questi fantocci, e quando uno non vuole obbedire alle fila che lo fanno muovere, si vede tutto a un tratto comparire una mano d'uomo per richiamarlo al dovere, questa sembra la mano di un gigante, e pare cosa soprannaturale.
Mentre i fantocci recitano, e si sfidano enfaticamente l'un l'altro, o si commuovono nei passi teneri, accade talvolta che qualche spettatore dalla platea voglia prender parte alla rappresentazione, e getti sulla scena fra i fantocci un pezzo di legno o altra roba. Una sera, in cui si recitava la storia dello scellerato Ganelone vidi un giovane scagliare un pezzo di legno sulla testa del vile traditore, e credo che l'abbia fatto colla stessa eroica indignazione che spingeva il nobile cavaliere Don Chisciotte a mandare in pezzi colla sua spada i burattini di un teatrino, perchè il suo onore non gli consentiva di tollerare che vili traditori portassero in prigione nel loro castello una nobile e virtuosa dama. Il pubblico prende sempre viva parte alla rappresentazione, e non mancano le critiche e le fine osservazioni che provano come gli spettatori comprendano benissimo ed apprezzino quanto si recita.
Le scene furiose che si ripetono di frequente, sono quelle che vengono accolte con maggior allegria. Quando Orlando va in furore pel tradimento di Angelica, si agita e si dimena con tanta rabbia, con tanta violenza, che tutta quanta l'armatura, elmo, corazza, bracciali, gambiere, cade pezzo a pezzo e l'eroe finisce per trovarsi in camicia come Amadigi delle Gallie. Allora atterra con la spada una capanna da pastore, due alberi, e una rupe gridando sempre «a terra! a terra!» E anche Pulcinella si mette ad urlare a sua volta «a terra!» scagliandosi contro la capanna.
Nelle scene di battaglie, che si ripetono quasi in tutte le rappresentazioni, si suona continuamente il tamburo tra le quinte. I mori, i cavalieri, i paladini combattono durante tre o quattro minuti con un ardore straordinario; i burattini sono maneggiati dall'alto con somma destrezza, e le loro membra si prestano a tutti i movimenti con tanta precisione, che si sentono gli urti delle spade, e si fa un chiasso indicibile. Vidi Orlando stendere al suolo, sempre colla stessa bravura, una diecina di pastori ed una quantità sterminata di mori. Quando ha luogo un battaglia, gli eserciti si avanzano, indietreggiano, si urtano, ed i morti cadono sempre due a due, perchè i fantocci arrivano a due a due, combattono due contro due, finchè, divenuta generale la mischia, o trionfa un paladino, o Pulcinella pone termine, con un lazzo, alla battaglia.
Pulcinella, parla sempre con una voce gutturale[42] che si presta straordinariamente all'effetto comico e si vale per lo più del più puro dialetto trasteverino. La stravaganza del suo dire è grande, ma spesso i suoi lazzi sono spiritosissimi. È questa dote caratteristica dei popoli di razza latina, particolarmente degl'italiani e degli spagnoli. Nella loro poesia popolare riescono a mescolare, in modo originalissimo, l'elemento tragico con quello comico. Leporello non è punto diverso da Pulcinella. Calderon, meglio forse di ogni altro poeta della sua nazione, ha saputo riprodurne fedelmente e felicemente il carattere popolare, particolarmente nel suo dramma il Mago meraviglioso. Nel nostro Faust del teatro dei burattini, che pur troppo non si recita più che raramente, Pulcinella, quantunque truccato da tedesco, pure conserva la sua vivacità. Invece nel Faust di Goethe, Wagner ha perduto il suo carattere originario ed è diventato una figura intellettuale, incomprensibile pel popolo. Pulcinella si è rifugiato in Mefistofele, e specialmente nella parodia della scena del giardino, il diavolo sostiene una parte del tutto analoga a quella di Pulcinella; poichè l'essenza della maschera italiana non consiste già nell'ironia, ma nella parodia che presenta, come carattere speciale, la stravaganza delle parole.
La bella storia di Cristoforo Colombo viene rappresentata al teatro dei burattini da ben quattordici giorni in fila, e tre volte per sera. E' un'opera squisita, che eccita grandemente la curiosità, specialmente per la comparsa improvvisa degl'indiani. La favola si presta a tutte le condizioni richieste da un dramma romantico, quali il vile tradimento, l'amore, la gelosia, i sentimenti cavallereschi, le imprese eroiche, le lotte, e soprattutto battaglie senza fine. Il traditore in questo dramma è Roldano, unico personaggio importante oltre Colombo; in questo eccellente dramma Roldano era passato dalla parte degl'indiani, e lo si vede seduto in trono, coperto di piume da capo a piedi, prendendo l'aspetto d'un uccello di paradiso. Gl'indiani sono anch'essi coronati di magnifiche piume, e ne portano pure alle gambe come Mercurio. Roldano li chiama soldati; del resto sono ben esercitati, e adoperano in battaglia fucili ed altre armi da fuoco. Colombo è vestito alla spagnola, con un collare, e porta un berretto nero. Non è considerato come paladino, ma come ammiraglio, quindi non ha la spada al fianco. Parla poco, ma in compenso parlano tanto più i suoi aiutanti Pisandro, Glorimondo e Sanazzaro. Si sfidano alla sua presenza due gentildonne coperte di corazza, come l'eroine dell'Ariosto, e l'offesa Martidora uccide la sua nemica ed il marito di questa. Pulcinella sostiene la parte di scudiero di Colombo. Compare un angelo che dà a Colombo un anello destinato ad ammaliare Roldano e i suoi indiani, nello stesso modo che il cavaliere Jone ammaliò col suo corno il sultano di Babilonia e i pagani. Alla vista dell'anello gl'indiani scompaiono per aria, ma Roldano cade morto al suolo. Arrivano allora due demoni, muniti di nodosi randelli, che, dietro ordine di Pulcinella, lo bastonano a dovere. Quest'atto di giustizia eccita un giubilo indicibile nella platea che, alla vista di tale azione morale, prende a strepitare come un nuvolo di rondini; anche il tamburo della giustizia fa udire il suo rullo, e un sonoro squillo di tromba pone fine alla scena. Vidi alcuni giovani lanciare pallottole di carta contro il vile traditore, come se volessero fargli meglio conoscere la giusta indignazione della platea.
A questo punto cala la tela. Chi non sia stato presente a un intervallo fra un atto e l'altro al teatro di piazza Montanara in Roma, non può immaginare che cosa sia chiasso o rumore. Sembrava di essere nell'arca di Noè, e che tutti gli animali facessero udire contemporaneamente le loro voci. Mi tornò alla mente la descrizione della vita notturna degli animali nelle foreste vergini fatta dall'Humboldt; quella gazzarra di trecento giovani accompagnava colla voce, con mirabile sangue freddo, un coscenzioso suonatore di tromba. Intanto si alzavano continuamente dalla platea de' giovani che tentavano di penetrare nel palchettone, arrampicandosi come tanti scoiattoli, martore o lucertole. Se il cacciatore pontificio che stava di guardia nel palchettone, se ne avvedeva, regalava loro un magnifico pugno sulla testa, e li ricacciava in basso; ma quelli non si smarrivano affatto, e subito ricominciavano la scalata. Appena poi fu calato il sipario, alcuni si arrampicarono sul proscenio e sollevarono il telone di sotto in su, per vedere se lo spettacolo avrebbe tardato molto a ricominciare.
Le ultime scene del Cristoforo Colombo presentano uno dei più bei quadri di battaglia, perchè i due eserciti, spagnolo ed indiano, muovono l'un contro l'altro, scaricando le loro armi da fuoco. Si spara anche un colpo di cannone, ed allora gli indiani, dopo aver combattuto, muoiono anche tutti da valorosi, sempre due a due. Lo sparo delle armi da fuoco, il rullo dei tamburi, lo squillo delle trombe, lo sbattere delle gambe dei fantocci sul tavolato della scena, le grida della platea producono il più forte rumore di battaglia, che io abbia mai inteso un teatro.
Per solito i teatri di burattini danno tre rappresentazioni ogni sera. Cominciano all'Ave Maria, e alla prima che è sempre breve, tiene dietro una seconda cui si dà il nome di Camerata lunga.[43] Rinunciamo ad essere spettatori della Camerata lunga, e preferiamo recarci all'altro teatro di burattini in piazza Sant'Apollinare.
Dovremo, per andarvi, attraversare la fiera di piazza Sant'Eustachio, in mezzo ad una sterminata folla che grida, fischia, strilla, schiamazza in modo da assordare. A Roma non si usa, come da noi, fare i regali la vigilia di Natale; si è scelto un giorno più adatto, quello della Epifania, in cui i re magi offrirono i doni a Gesù bambino. Per festeggiare questa ricorrenza, comincia il 6 gennaio una fiera dietro il Panteon.[44] Le strade che vi portano offrono merci di ogni natura, specialmente giocattoli, di apparenza quasi sempre elegante e graziosa. Ve n'è tale quantità da soddisfare tutti i ragazzi del mondo. Una folla immensa percorre queste strade; alcuni battono tamburelli, altri soffiano entro conchiglie a foggia di corno, altri ancora battono l'una contro l'altra delle tavolette, e specialmente poi tutti fischiano entro fischietti di gesso, simili a balocchi da ragazzi, che raffigurano pulcinelli, ballerini, cani, uccelli. Ragazzi vestiti da pulcinella percorrono le strade a schiere, fischiando a squarciagola. Il chiasso è indiavolato, tutti fischiano, fanno rumore, ed anche persone serie cedono all'esempio, e si vedono col fischietto alla bocca. Queste migliaia di voci stridenti producono un effetto tale da far impazzire anche un filosofo. Strano a dirsi! Quello stesso impulso che spinge talora gli uomini a dissimulare la loro fisonomia dietro una maschera, li porta anche a mascherare la loro voce e la loro lingua e ad emettere i suoni più strani.
Siamo intanto giunti al teatro di piazza S. Apollinare. Questo secondo teatro di fantocci, che ebbe dapprima il nome di teatro Fiano,[45] e che al tempo dell'ultima repubblica romana fu rinomato per la figura satirica di Cassandrino,[46] attualmente sostituita da quella, politicamente innocente, di Pulcinella, è come abbiamo già notato un teatro di burattini inciviliti. Le marionette recitano qui innanzi ad un pubblico decente, su di una scena piccola, ma molto convenientemente disposta, ben dipinta, con tutto quanto occorre per una accurata rappresentazione. Gli spettatori possono prendere posto nella piccola sala della platea, o sul palchettone. Si pagano tre baiocchi pei posti nella prima, cinque pel palchettone, e questi prezzi non permettono l'ingresso alle classi inferiori. Gli spettatori appartengono al ceto medio, ed anche a quello distinto, che non rifugge dal procurarsi qualche volta il piacere di una recita di burattini. Il proscenio è bene illuminato, vi è una piccola orchestra che eseguisce pezzi di musica negl'intermezzi, ed il sipario è nuovo ed elegante. Anche qui si recitano drammi romantici, come quello conosciutissimo del Volfango fiero; però i personaggi sono vestiti pulitamente e con eleganza; i cavalieri portano belle armature, le dame abiti di seta e di velluto; ma per lo più vi si recita la commedia in abito nero e guanti gialli, drammi familiari, farse, commedie d'intrigo, in cui talvolta si fanno figurare ricchi inglesi. Pulcinella è vestito come suo fratello del teatro di piazza Montanara, e serba la stessa natura; però le sue maniere sono più civili, più adatte al diverso ambiente, in cui vive. La sua destrezza però è somma, giacchè quando siede riesce anche ad incrociare le gambe l'una sull'altra, e a muovere i piedi, come hanno abitudine di fare gl'inglesi. Nelle nozze, o in altre occasioni solenni, i cavalieri e le dame siedono, con tutta gravità, sopra cuscini, e assistono ad un ballo che l'orchestra accompagna colla musica. La destrezza e la grazia, di cui fanno prova questi fantocci in tali balli, è in verità meravigliosa, poichè non solo eseguiscono i passi più difficili, colla leggerezza e col garbo che potrebbero spiegare la Cerrito, o Pepita, ma tutti i loro movimenti, tutti i loro atteggiamenti, la convenienza con la quale s'inchinano, ringraziano, salutano, movendo le braccia, hanno qualche cosa di sorprendente. Nulla si trascura di quanto può contribuire alla riuscita di un'azione coreografica. Tutti questi fantocci si muovono, si agitano in allegra polka, si librano come farfalle, girano in punta di piedi e ogni ballo finisce sempre con un quadro plastico e qualche volta con un fuoco di artificio. In una parola, l'arte di far danzare i fantocci raggiunse nel teatrino di S. Apollinare il non plus ultra.
Abbiamo così veduto almeno una parte lieta di questa Roma seria, malinconica, severa, e Pulcinella giulivo e festoso in mezzo a tutte queste rovine, sopra tutte queste catacombe, nè più ne meno dei grilli che cantano fra l'erba dei ruderi del palazzo dei Cesari, e delle rondini che cinguettano sulla tomba di Cecilia Metella.
Vorrei ora accompagnare il mio lettore ancora nel teatro popolare di piazza Navona, ma sento la voce di un ragazzo che predica e che mi tenta ad entrare nella antica e bella basilica di Ara Coeli, in Campidoglio. Qui predicano mattina e sera ragazzetti tanto maschi che femmine, nella settimana che precede la festa dell'Epifania; in questo giorno terminano le prediche. Non è troppo forte il distacco da un teatro di burattini a una predica fatta da ragazzi dai sei agli otto anni. Anche qui, centro dello spettacolo è sempre un fantoccino, il santo bambino di Ara Coeli, adorno di una splendida corona tempestata di pietre preziose.
In una cappella della chiesa è rappresentata con bell'arte la grotta di Betlemme e l'adorazione dei Re Magi venuti dall'Oriente; i personaggi sono di cera, nè mancano gli accessorî delle pecore e del paesaggio. La Madre di Dio è seduta nella grotta e tiene in grembo il bambino, cui i re, inginocchiati, presentano i loro doni. All'esterno sta inginocchiata contro una colonna una figura con un mantello scarlatto, pantaloni larghi alla turca e turbante in capo, che stende le braccia verso il bambino, in atto di preghiera. Dalla parte opposta, parimenti contro una colonna, è una donna di alta statura, di aspetto distinto, che pare additi il santo bambino a quel mezzo turco che le sta contro. Nella persona di questo si volle rappresentare, niente meno, l'imperatore Augusto, e nella donna la Sibilla che secondo una delle leggende più profonde del Cristianesimo predisse ad Ottaviano, in una visione, la venuta di quel bimbo, destinato a signoreggiare il mondo.
Di faccia alla grotta, nella navata opposta della chiesa, s'innalza un pulpito, dove salgono a predicare, l'uno dopo l'altro, ragazzi dai sei ai dieci anni, per la durata di circa cinque minuti, e ciò per quasi due ore, alla presenza di forse qualche migliaio di persone. Sale pel primo sul pulpito un grazioso ragazzetto, e dopo essersi fatto il segno della santa croce, prende a recitare, con tutti quei gesti e quegli atteggiamenti, propri dei ragazzi quando declamano, una predica sulla venuta al mondo del Salvatore. Dopo di lui viene un ragazzo più grande, vestito da chierico, che disimpegna ancor meglio la sua parte. Grida in modo enfatico, scaglia i fulmini della sua eloquenza, nè più nè meno di cappuccino, gesticolando quanto un tiranno di compagnia drammatica. Si capisce che ha disposizione naturale per la mimica; ogni volta che nella predica ricorrono le parole: capo, occhio, orecchio, porta istintivamente la mano al proprio capo, all'occhio, all'orecchio. Dovendo nominare il suono dell'arpa, si atteggia immediatamente nel modo di chi volesse suonare quello strumento. Questa maniera di accennare fanciullescamente colla mimica le cose di cui fa parola, riesce molto divertente, e ottiene l'approvazione di tutti gli uditori, alcuni dei quali sono venuti per devozione ad ascoltare le prediche fatte dai ragazzi, e altri per divertirsi come ad un teatro di burattini. Nessuno di quei ragazzi è menomamente imbarazzato, anzi i più sembrano andar superbi di dover comparire innanzi a tanta gente e, superata l'impressione del primo momento, la loro voce diventa sempre più sicura, i loro gesti sempre più teatrali. Molti oratori in parlamento avrebbero motivo di augurarsi la disinvoltura di quei bambini nel parlare in pubblico, e pochi oratori poi si possono vantare di avere un uditorio composto di persone appartenenti a tante nazioni, quanto quello di questi fanciulli in Ara Coeli.
Dopo i maschi vengono le femmine, graziose ragazzine ricciolute, coi cappellini guarniti di piume e i vestitini di raso. S'inginocchiano un momento, fanno il segno della croce e cominciano il loro sermone. È curioso, a dir vero, sentire quelle creaturine parlare del peccato di Adamo, dal quale ci ha redenti il Signore; della credenza nella vita eterna; del Verbo che si è fatto carne in Gesù Cristo; della sua morte per cui mezzo ha salvato il genere umano. Sarebbe come se i burattini di piazza Montanara, i piccoli paladini che rappresentano con tanta enfasi azioni eroiche, parlassero in onore di Gesù Cristo e snudando la spada contro i mori, sfidassero a battaglia tutto l'esercito degl'infedeli; o se le damine di quelle scene, interrompendo le loro declamazioni sentimentali, cominciassero tutt'ad un tratto a vantare le delizie dell'amor divino.
Vedendo questi piccoli oratori, si crederebbe che anche i loro sermoni e le cose che dicono, dovessero esser puerili, e si dovessero considerare come un passatempo, cui si dovesse, in certo modo, assistere col microscopio; ma la cosa è molto diversa; sono vere e proprie prediche in istile solenne, cui non manca l'apparato di erudite citazioni. E non è raro udire ragazzine, talvolta di poco più di sei anni, corroborare le verità che bandiscono, colla autorità dei Santi Padri, e dire: così asserisce, così c'insegna S. Paolo, S. Bernardo, S. Agostino, Tertulliano.
Credo stia scritto in qualche luogo: «Quando taceranno i profeti, parleranno i bambini, e quando taceranno i bambini, i sassi diranno amen! » Del resto in qualche luogo ora cominciano a parlare i tavolini; ma l'uomo serio, e veramente religioso, non può a meno di restare colpito da questo culto di ragazzi in Ara Coeli, e considerarlo come una metamorfosi del cristianesimo. Che cosa direbbero S. Pietro e S. Paolo, se capitassero mai in quella chiesa, e vedessero qual risultato abbiano avuto le loro predicazioni?
Osserverò soltanto che la signora Enrichetta Beecher Stowe, autrice della Capanna dello zio Tom, che esaltando oltremisura la precocità del nostro secolo, ci presentò nella sua Evangelina, di cinque anni, un predicatore metodista, per non dire addirittura un genio del cristianesimo, potrebbe trovare nello spazio di un'ora in Ara Coeli, per lo meno dodici piccole Evangeline, che per di più hanno studiato e conoscono tutti i Santi Padri.
I ragazzi intanto che hanno sorriso all'immagine del bambino, in braccio a Maria come ad un fantoccio, finita la predica, s'inginocchiano e recitano una preghiera al bambinello. Una ragazzina gli dice: «O dilettissimo fra tutti i fanciulli, degnati di volgere i tuoi occhi sopra di noi e di gettare uno sguardo di misericordia sopra noi peccatori!». La considerazione di cui gode in Roma il bambino di Ara Coeli è immensa, e vi si rannoda anche una leggenda. Anni sono una giovane inglese, s'innamorò a morte di lui; andava ogni giorno in chiesa per visitarlo, e la sua passione andò tant'oltre, che un bel giorno si decise a rapirlo. Fece fare in segreto un altro bambino identico, un bimbo lattante, lo portò in chiesa, e lo sostituì a quello legittimo che si portò a casa. Ma giunta la notte tutte le campane della chiesa e del monastero presero a suonare; i monaci uscirono e trovarono il bambino inginocchiato fuori della porta del tempio, in atto di volere bussare. Esso era fuggito dalla casa dell'inglese, ed era ritornato; questa è la leggenda del bambino d'Aracoeli. Dopo d'allora la sua reputazione crebbe, e lo si vede anche spesso uscire in carrozza, quando lo portano a far visita a qualche ammalato.[47] Nell'ultima rivoluzione di Roma ebbe anche la sua parte: il popolo aveva fatto a pezzi ed incendiato le carrozze dei cardinali, ed aveva anche tirato fuori dalla rimessa la vettura di gala del Papa, che voleva distruggere. Alcune persone assennate, o del partito favorevole al Papa, tentavano opporsi a quell'atto vandalico e per salvare la carrozza del Santo Padre proposero di offrirla in dono al bambino di Ara Coeli. Nessuno dei repubblicani si arrischiò a contraddire questa proposta, e il bambino venne messo solennemente in possesso della carrozza papale, ed anzi, per provare che era diventata veramente sua, i frati lo mandarono un giorno a spasso sul Corso, nella carrozza papale.
Stiamo ora a vedere: La processione si muove, il bambino è tolto di grembo alla divina
Madre; lo si porta in giro per la chiesa e sulla scala esterna, da dove lo si mostra al popolo, quindi la processione lo riporta nella sua nicchia. Vi sono stupende teste artistiche tra quei frati francescani di Ara Coeli, che, mezzo sepolte nella tonaca, somigliano a un blocco di travertino romano che esca di terra, con una iscrizione mezzo cancellata; vi sono teste che paiono di bronzo, altre voluminose come quella dell'imperatore Claudio, e faccie piene come quella di Nerone.
E basti delle prediche dei bambini.
Andiamo invece al teatro popolare Emiliani, l'infimo tra tutti quelli di prosa. La compagnia drammatica Emiliani, non meno che i burattini di piazza Montanara, ha posto le sue tende in località adatta al suo repertorio, cioè in piazza Navona.[48] In questa grande piazza, la più bella di Roma, e che fu lo stadio di Domiziano, hanno luogo nel mese di agosto le feste popolari, poichè allora si chiudono le fontane, si inonda la piazza, e la popolazione deve attraversarla in carrozza, quando non preferisca passarla a guado, come certuni fanno per divertimento.[49] Nel mezzo della piazza sorge la magnifica fontana fantastica del Bernini, composta di un rozzo scoglio, ai cui angoli stanno le statue colossali di quattro divinità fluviali: il Nilo, il Gange, il Danubio, e il Rio della Plata, e in cima a tutto sta l'obelisco del circo di Massenzio. Due altre fontane versano le loro acque alle due estremità della piazza. Intorno all'obelisco, nel tratto della piazza compreso fra le due fontane laterali, si raduna ogni giorno da mattina a sera grande quantità di gente, poichè lo occupano venditori di castagne arrostite, erbivendoli, fruttivendoli, rigattieri, ferravecchi, e la piccola borghesia accorre a comperare quanto le occorre. La folla richiama sulla piazza ciarlatani, giocolieri, domatori di belve; e squilli di tromba annunziano di tanto in tanto gli spettacoli offerti al pubblico. Di quando in quando si sente anche risuonare sulla piazza una voce potente, che grida «ai biglietti! ai biglietti!» Sulla porta del teatro, che non si distingue da quelle delle case vicine se non per un enorme cartellone, stanno venditori di pasticcini e di semi di zucca, che tengono la loro merce in vista, su banchi elegantemente arredati. La folla si avvicina alla cassa e si compone per lo più di persone del medio ceto, di bottegai, di piccoli possidenti, che sono in grado di spendere da tre a cinque baiocchi per passare una sera al teatro.
La sala è disposta in tutto come quella del teatro di piazza Montanara, ma è più grande. Il contegno degli spettatori della platea che accompagnano una musica scordata pestando i piedi, fischiando, o battendo il tempo colle dita sulla spalliera dei banchi, rammenta più di una volta il pubblico del teatro di piazza Montanara. Qui le donne, sono di più e l'allegria, secondo il lodevole costume del popolo italiano, non passa mai i confini della decenza. Si possono vedere sui banchi della mamme che allattano tranquillamente le loro creature, mentre si godono la rappresentazione, cui prendono viva parte. Si alza la tela, sulla quale è dipinta una scena di satiri, col vecchio Sileno ebbro, e siccome non sappiamo che cosa si reciti, è necessario stare attenti. Compare un vecchio usuraio che attira a sè la cantiniera di un reggimento, alla cui mano pretendono un cadetto ed un sergente. Questi fa la parte del buffone, non fa altro che bere continuamente acquavite. Mentre sta sulla scena, arriva un personaggio pallido, piuttosto alto, con baffi e basette, che calza stivaloni. Dice, a parte, essere venuto per visitare i suoi soldati, il che ci fa nascere il dubbio possa essere, se non addirittura un re, almeno un gran generale. Mentre passeggia su e giù per la scena, arricciandosi i baffi, e facendo risonare gli speroni, cava di tasca un'enorme tabacchiera, fiutando tabacco di continuo, talchè in breve ne ha coperti i risvolti dell'uniforme. Il personaggio misterioso si presenta al sergente come un povero veterano, e gli chiede che cosa potrebbe fare per lui nel caso avesse bisogno di denaro. Allora il sergente gli fa vedere la lama della sua spada confessandogli di aver venduto quella di acciaio, che ha sostituito con un'altra di legno; in quel mentre arriva lo strozzino. Il vecchio Federico, poichè il marziale veterano con baffi e basette è proprio lui in persona, gli vende la sua tabacchiera d'oro, per il prezzo derisorio di un federico d'oro.
Nell'atto seguente il sergente ubriaco dorme su di una seggiola e giunge un tamburino che lo desta, battendo un gran colpo sulla sua cassa. Compaiono sei cacciatori pontifici che arrestano l'usuraio ed appare allora il vecchio Federico in grande uniforme, con enormi mostre gialle, sempre con baffi e basette, e con un immenso cappello a lucerna. Il sergente ubriaco non tarda ad alzarsi ed a mettersi in posizione, ma vacilla continuamente, il che eccita una viva ilarità nel pubblico, mentre il vecchio Federico fa finta di non avvedersene, ed accenna a voler punire severamente tanto l'usuraio, che il sergente. Vuol far decapitare il primo, e il sergente stesso deve procedere a questa esecuzione colla sua propria spada. L'usuraio, dopo infinite preghiere e suppliche, si rassegna alla sua sorte e si è già messo ginocchioni; il sergente pure, dopo molte difficoltà, si persuade ad eseguire la sua parte: colloca la sua vittima nella posizione più adatta, poi si inginocchia e prega la Madonna di assisterlo in quel duro frangente. Finalmente quando si rialza e si apparecchia a dare il colpo, grida tutt'ad un tratto: «Miracolo! Miracolo! Guardate, la Madonna ha tramutato in legno la lama della mia spada!» Segue il generoso perdono del vecchio Federico che condanna però l'usuraio a mantenere per tre giorni il reggimento a tutte sue spese. Il vecchio Federico vien chiamato alla ribalta, e con adatta concione invita il pubblico rispettabile a voler onorare il teatro della sua presenza per il domani a sera, dovendosi rappresentare Artaserse Re di Persia, annuncio che è accolto con viva soddisfazione.
Questa bella commedia dimostra come il vecchio Federico rimanga, quasi un mito, vivo anche nella memoria del popolo italiano che ancor oggi nei tedeschi distingue gli austriaci dai prussiani. Della Prussia non conosce che la storia del vecchio Federico che considera come un secondo Attila, e come vincitore degli austriaci.
Gli attori del teatro di piazza Navona sono mediocrissimi, li direi inferiori a quelli delle compagnie che recitano sui teatri più meschini della Germania, e specialmente la parte femminile non si distingue certo per bellezza. Ogni rappresentazione del teatro Emiliani termina o con un ballo, o con una pantomima, o con quadri viventi, come la morte di Abele, Ahasvero o l'Ebreo errante, Virginia Romana, Salvator Rosa fra i briganti, o altre simili scene.
Una sera il cartellone recava l'annuncio di uno spettacolo molto promettente, intitolato Ravanello spaventato da un morto parlante. Doveva essere cosa straordinaria ed allegra assai. Era la storia di Don Giovanni, travestita in romanesco volgare. Il protagonista conservava, come nel dramma spagnolo, il suo vero nome, chiamandosi don Tenorio, ma Leporello assumeva il nome di Ravanello; Donna Anna, Don Ottavio ed il Commendatore non mutavano nome, nè carattere. In questa parodia popolare Don Giovanni non è per nulla rappresentato come un Faust della sensualità, ma unicamente come uomo leggiero, privo di senso morale. Il suo carattere si svolge in un'azione qualsiasi. Egli ammazza il Commendatore per vendetta, introducendosi notte tempo nella stanza di lui. Più tardi nel cortile della chiesa ha luogo la scena dell'invito della statua, a cavallo, come nell'opera di Mozart, soltanto mancano i frizzi di Leporello. Il Commendatore compare al banchetto, con una faccia ridicolamente orribile, da diavolo infarinato. Don Giovanni, atterrito, invita lo spettro a prender posto a tavola ed a servirsi. «Non mangio, risponde l'ombra». «Vorreste udire della musica?» replica Don Giovanni. «Sì» risponde lo spettro. Allora la musica suona per alcuni istanti, mentre Don Giovanni e il Commendatore stanno l'uno di faccia all'altro senza dir verbo. Questa scena è bella e produce profonda impressione, perchè la musica vi ha la parte di potenza celeste, quasi voce di un Dio invisibile, quasi annunzio del giudizio tremendo che sta per colpire Don Giovanni. Appena cessata la musica, il Commendatore invita a sua volta don Giovanni a pranzo a casa sua, cioè fra le tombe, e Tenorio, da vero caballero, non attentandosi a declinare l'invito, risponde che andrà.
Lo troviamo quindi solo fra le tombe: in mezzo ai monumenti è apparecchiata una tavola ricoperta d'una coltre nera, sulla quale stanno fiaschi e bicchieri; la mensa è adorna di teschi umani. Tutt'a un tratto l'arrivo dello spettro è annunciato, come nella prima scena, da alcuni colpi sotterranei e subito si erge solenne la sua bianca figura. «Mangia!» grida lo spettro. Don Giovanni impaurito si ritira e risponde con voce tremula: «Non posso mangiare». «Vuoi sentire la musica?» «Sì», risponde don Giovanni. Segue una breve pausa, durante la quale si ode solamente la musica; i musicanti, quattro suonatori di corno ed uno di contrabbasso, fanno tutto il loro possibile per produrre un'armonia infernale, ed era facile, riconoscere, dalla fisonomia degli spettatori, che raggiungevano pienamente il loro intento. Non appena tace la musica, lo spettro comincia a parlare, e rivolge in tuono cappuccinesco una viva esortazione a Don Giovanni, perchè rientri in sè stesso, pensi alla salute dell'anima e si volga a Dio. Ma Don Giovanni, con alterigia di cavaliere, rifiuta di convertirsi. Allora viene il colpo di scena finale: il Commendatore prende Don Giovanni per mano, s'apre una botola, da cui salgono fiamme terribili di pece greca, e Don Giovanni, appena vede la voragine, novello Curzio, si slancia eroicamente tra le fiamme.
Nell'ultima scena si vede l'inferno stesso, colle fiamme rappresentate da fuochi di bengala, e in mezzo ad esse Don Giovanni quasi nudo, incatenato, coi capelli irti, sdraiato per terra e tormentato da alcuni diavoli, ministri della inquisizione infernale. Il dannato urla: «Sono già mille anni che soffro! Non c'è proprio più salvezza?» E i diavoli tra le quinte rispondono: «Nessuna! Nessuna!» Scende la tela. Questa è la riduzione del Don Giovanni ad uso del popolo. Essa non tende che all'effetto morale; tutta l'allegria e lo spirito sono scomparsi, e Ravanello è diventato una figura insignificantissima, poichè i lazzi, con cui comincia, cessano alla metà del dramma.
Sapevamo che in questo teatro Emiliani si rappresentavano anche di tanto in tanto tragedie, e non ci siamo voluti privare del piacere di assistere alla recita della più commovente, forse, fra le tragedie italiane, la Francesca da Rimini. Il famoso episodio dantesco non ha ispirato soltanto pittori, ma anche poeti, molti dei quali tentarono portarlo sulle scene, quantunque poco si presti all'effetto drammatico. Byron stesso dice nei suoi diarii di aver pensato a prendere la Francesca da Rimini ad argomento di una tragedia. E' un peccato che non lo abbia fatto, perchè, quando anche non avesse prodotto opera adatta ad essere rappresentata, era tal poeta da scrivere cosa stupenda. La grande semplicità dell'azione rende disagevole lo sviluppo drammatico, e richiede un sommo poeta che senta e sappia parlare il linguaggio delle passioni. Silvio Pellico fu l'unico che fino ad un certo punto vi sia riuscito. Nella sua Francesca da Rimini l'azione si svolge bene; i caratteri sono nobili e ben disegnati, quantunque non sia grande l'effetto drammatico. Essa è ritenuta opera classica in Italia, e viene rappresentata tanto nei grandi che nei piccoli teatri. In questi giorni era rappresentata contemporaneamente qui in Roma in due teatri: al Valle integralmente, ed in quello Emiliani ridotta a parodia.
Andiamo a quest'ultimo. Gli attori recitano in dialetto romanesco, cioè nel più puro linguaggio dei Trasteverini. Francesca da Rimini è travestita, o per dire più esattamente, è ridotta trasteverina. Sarebbe come se si recitasse l' Ifigenia del Goethe in basso tedesco, o il Faust nella traduzione in lingua volgare fiamminga del Bleeschauer. Da noi non sarebbe possibile fare una caricatura di una tragedia classica; non sarebbe possibile trovare un teatro, per quanto piccolo e meschino, che si arrischiasse a presentare al pubblico, ad esempio, la Maria Stuarda, ridotta a parodia. Le tragedie da noi non diventano ridicole che qualche volta, quando sono male rappresentate; ma non vengono mai ridotte tali a bella posta.
Nel teatro di piazza Navona tutto contribuiva a rendere lo spettacolo ridicolo: il dialetto adoperato dagli attori, ed il loro modo già per sè stesso deficiente di recitare, particolarmente della Francesca. Recitando seriamente le parti loro in quel dialetto ridicolo, convertivano, per così dire, il coturno in pantofola e rassomigliavano ai personaggi di Piramo e Tisbe.[50] Il vecchio Guido da Polenta si era fatto una gobba, e recitava come un folletto con brache di velluto e in maniche di camicia. L'infelice Francesca aveva un aspetto esuberante di salute, da fare invidia a qualunque serva o campagnola. Lanciotto e Paolo sembravano due volgari attaccabrighe. Tutti però declamavano con grande serietà, seguendo l'originale passo passo, i pensieri elevati della tragedia non erano soltanto voltati in dialetto, ma trasformati nel senso non meno che nella forma. Era sempre la stessa tragedia, ma ridotta, in forza del diritto del carnevale, a una farsa. Anche Melpomene si era in certo modo mascherata, facendosi i baffi col carbone.
Lo straniero che non capisce la differenza fra la lingua italiana ed il dialetto trasteverino, non ride che per la parodia dei modi tragici; ma il romano ride pure pel dialetto. E' un divertimento di carattere tutto locale. Quando il vecchio sire di Ravenna disse, per esempio a Francesca: « Statte mosca » l'ilarità fu generale e rumorosa. Domandai ad un giovanetto seduto presso di me, che era convulso dal gran ridere, la ragione di tutta quella ilarità: « Mosca » mi rispose, vuol dire «zitto» in trasteverino.[51] Invece di niente i trasteverini dicono nientaccio, ed anzi le terminazioni in accio ed in uccio sono caratteristiche del loro dialetto, e non mancano mai di eccitare le risa. Questo dialetto, come buona parte dei dialetti italiani, aggiunge volentieri in fine la particella ne ed ama raddolcire le finali in are ed ire, dicendo andane, partine, in vece di andare, partire. Sostituisce parimenti volentieri la r alla l, dicendo, ad esempio, der teatro invece di del teatro.[52] Del resto, anche l'espressioni erano ridotte a forma volgare. Lanciotto, per esempio, dice una volta a Paolo: «Bada; ti voglio triturare come un salame». La tragedia di Silvio Pellico termina coi versi:
«basta, onde tra poco
Inorridisca al suo ritorno il sole».
che in dialetto diventano: «venga al suo ritorno la tremarella al sole». Il passo di Dante, in cui Paolo e Francesca narrano che leggevano la storia di Lancillotto e di Ginevra, fu tradotto «noi leggevamo un giorno la bella storia di Chiarina e di Tamante» che è una canzone côrsa, diffusa per tutta Italia, e che si vende, stampata su foglio volante, su tutti i muriccioli. «Che cosa direbbero mai Dante e Silvio Pellico, domandai a un mio vicino, se potessero vedere la loro favola ridotta a questo modo, su queste scene?». Il vicino mi fissò meravigliato e quando parve avesse capito il mio pensiero: «Eh, rispose, si vuol ridere!» E invero, ho vedute poche cose più ridicole della scena, in cui Lanciotto uccide Paolo e Francesca; nella quale mentre sono entrambi già stesi a terra, Paolo dice all'amante «Checca! Perdono!.. Ohimè, essa è crepata, ora devo crepare anch'io!» e il sire di Ravenna gobbo, in maniche di camicia e brache di velluto, avvicinandosi ai cadaveri esclama: «Non più sangue, perchè non venga la tremarella al sole!». Cala la tela.
Si può assistere al teatro Emiliani anche alla Medea in dialetto romanesco, od a Didone abbandonata, in cui Enea, come fondatore favoloso di Roma, lusinga il popolo coi ricordi eroici. Di ciò basti, ma perchè il lettore possa farsi un'idea del dialetto trasteverino, do qui il principio del cartellone del teatro:
TEATRO EMILIANI
in Piazza Navona
INVITO STRASORDINARIO
Per la sera der giorno de Giuvedine 27 Gennaro der mille ottocento cinquantatrene. A Benefiziamento della prima donna Pantomimica assoluta Marietta Descarsi. Si rappresenterà come dice il cartellone, Purcinella Impicciato in tra' una Mucchia de sorci dopo na nova pantomimica tutta de spettacolo, fadica d'un regazzino granne de 5 anni e questa se chiama Er Naufragiamento de Tom-Pusse. Nella Camerata lunga si darà la stessa sera di nuovo il primo dramma, poi un «Balletto in punta e tacco» quindi il Capo d'Opera der Sor Pietro Metastasio «Didone abbandonata», infine la Pantomimica e balletto. Perciò, conchiude il cartellone, venite e ridete e fate ridere anche l'attrice, di cui è oggi la beneficiata, ed essa vi darà per rincompensa «tutto quello che tié chiuso nder petto».
Dante nel suo libro «De vulgari eloquentia» chiama il dialetto romano il più brutto dei dialetti d'Italia.[53]
I due teatri di burattini di piazza Montanara e di S. Apollinare sono col teatro Emiliani le scene veramente popolari di Roma, che hanno carattere locale. Conviene aggiungervi nell'inverno il grande teatro Alibert[54] per l'opera, ed in principio della bella stagione il teatro popolare che occupa gli avanzi del mausoleo di Augusto.[55] Gli altri teatri non hanno carattere locale; soltanto quello Capranica, che sta nella piazza di fianco al collegio dello stesso nome, può essere considerato come teatro di transizione fra quelli popolari ed i teatri seri. Vi si recitano tragedie, commedie, drammi, azioni spettacolose, opere, pantomime e balli di ogni genere. Le parti giocose vi sono sostenute dallo Stenterello, specie di buffone toscano senza maschera caratteristica, che quantunque giocoso sostiene qualche volta pure parti di una tal quale serietà. Egli può dirsi il Pulcinella di tutta l'Italia superiore e centrale, e lo si vede anche ogni tanto al teatro Emiliani a fianco di Pulcinella stesso. Per un teatro popolare toscano un buon Stenterello è indispensabile, quanto un buon tenore od una buona prima donna per un teatro d'opera. I cartelloni teatrali non mancano mai di aggiungere, ai titoli delle produzioni rappresentate, le parole con Stenterello come si aggiungono a quelli dei teatri di burattini le parole con Pulcinella.
Oltre il teatro Capranica, vi sono in Roma i teatri Torre Argentina, Valle, e Tordinona detto anche Apollo; quest'ultimo è dedicato particolarmente all'opera in musica; nell'ultimo inverno vi si dava il Trovatore, opera nuova del Verdi. Il teatro Valle è il più grande fra quelli in cui si recitano tragedie e commedie; da Pasqua vi recita ed entusiasma il pubblico che preferisce la tragedia, una buona compagnia torinese, di cui è principale ornamento la distinta signora Ristori. Vi si recitano spesso, come in Germania, traduzioni dal francese, qualche volta anche drammi di Kotzbue e raramente produzioni di Goldoni, di Silvio Pellico, e più raramente ancora dell'Alfieri, troppo inviso alla censura papalina. Tutti questi teatri non rientrano nella sfera di questi cenni sui costumi e sulle cose di Roma.[56]
Ma è ormai tempo di calare il sipario e di riporre tutti questi fantocci entro le loro scatole. «Nella commedia, come in questo mondo, dice Don Chisciotte, recitano imperatori, papi e cento altri personaggi; ma quando si arriva alla fine, quando scompare la vita, giunge la morte che spoglia tutti degli abiti e dei costumi dai quali si riconoscevano e si differenziavano; nella fossa tutti sono uguali».
Ed ora, lettori miei, voglio presentarvi un personaggio romano, che sta esposto rigido e morto sul suo letto di parata fra le torce che ardono, contemplato avidamente a bocca aperta da numerosa folla, particolarmente di popolani, che non osavano innalzare i loro sguardi verso di lui, mentre era vivo e che si levavano timidi e rispettosi il cappello quando passava nella sua carrozza di gala. Era un cardinale, ora giace in una sala del palazzo della Consulta, steso sul letto funebre rivestito delle sue principesche vesti rosse. Che meschino apparato per un uomo che governò lo Stato romano, ed il cui nome fu congiunto agli avvenimenti più grandi della storia contemporanea! La sala è piccola e non è delle più pulite. Le stoffe di seta nera del letto funebre sono vecchie, logore, macchiate, rappezzate in più punti, e di certo hanno già servito a più di un cardinale. Ardono due ceri, un sacerdote ritto contro un leggìo recita le preghiere per i morti. La folla entra ed esce; nella maggior parte sono operai, donne e ragazzi, che contemplano con indifferenza il viso livido del cadavere, che rammenta una colonna rotta, di porfido rosso, di un qualche tempio antico. La testa è voluminosa, marmorea, con pochi capelli bianchi; i suoi tratti denotano una volontà ferrea e una rassegnazione tranquilla. Poco mancò che si posasse nel 1846 su questo capo la tiara pontificia, oggetto delle sue lunghe speranze; quando morì Gregorio XVI, nessuno dubitò della elezione a Sommo Pontefice di questo rinomato uomo di Stato, ministro di Gregorio, arcivescovo di Genova, gran priore di Malta, abate di Farfa, antico nunzio pontificio a Parigi, molti dei cardinali erano sue creature, il suo partito a Roma era esteso e potente; radunatosi il conclave, alla prima votazione raccolse la maggiore quantità di voti. Egli non dubitava affatto della sua elezione e, tranquillo sul suo esito, già pensava al nome che avrebbe assunto. Ma l'elezione al papato è come una lotteria; a questo cardinale toccò un biglietto bianco. Un sacerdote che aveva bussato un giorno alla sua porta a Genova, chiedendogli protezione e appoggio, il povero conte Mastai Ferretti ottenne la tiara pontificia, ed il vecchio Lambruschini si dovette inginocchiare innanzi a lui, e baciare i piedi di Sua Santità. Ora è qui esposto Lambruschini, il genovese altero, inflessibile, che non aveva mai ceduto a nessuno, che aveva regnato per Gregorio: uomo di grande energia, di natura dispotica, di un rigorismo monacale, inaccessibile a tutte le passioni umane, preoccupato unicamente della signoria della Chiesa, uno dei pochi superstiti del tempo antico, della vecchia scuola. Vide cinque papi sulla cattedra di S. Pietro, il sesto gli tolse la tiara. A quali solenni avvenimenti non aveva egli assistito dalla rivoluzione francese a quella di Roma del 1848! Quante persone, imperatori, re, principi regnanti e spodestati, non aveva conosciuto! Invecchiato nel culto della teocrazia, promotore indefesso dello assolutismo della Chiesa, gli era toccato assistere all'ultima rivoluzione che Pio IX stesso aveva provocato colle riforme; decrepito, sull'orlo della tomba, aveva dovuto fuggire da Roma come un malfattore. Lo avevo visto molte volte nelle solennità della Chiesa, accasciato per gli anni, incurvato, tremante, dignitoso come un patriarca, seguire vacillante la processione, o entrare nella cappella Sistina. Tutti gli occhi erano rivolti su di lui, e la folla mormorava «Quello è Lambruschini!» Ed ora il mendicante cencioso, il povero operaio, lo contemplano sul suo catafalco, e ripetono franchi e liberi da ogni timore: «Ecco Lambruschini!» Ora giace là, oggetto indifferente, estraneo al mondo, alla storia, fantoccio ormai dimenticato che ha sostenuto la sua parte, e che deve cedere il posto ad altri. Tutta questa pubblicità, questa esposizione di un cadavere, ha qualche cosa che incute terrore, e mi spingeva quasi a rivolgere un ultimo discorso al defunto cardinale, mentre stavo pensando al suo grado eminente, alla sua grande attività, alla sua vecchiaia, e contemplavo con rispetto la sua salma.
Ma chi si dà pensiero della vita o della morte d'imperatori, re, papi, cardinali, o di qualsiasi altra persona, qui in Roma? In mezzo a tutte queste grandi rovine della storia universale, tutto quanto in altri luoghi sarebbe grande, solenne, qui diventa piccolo, meschino, come una rappresentazione di marionette; poichè qui impera quasi un tanfo di porpora e l'aria è come impregnata di nomi d'imperatori e papi defunti.
Proseguendo a passare in rivista questo mondo di fantocci dove dovrò condurre i miei lettori? Sul Corso, dove pendono da ogni finestra tappeti rossi gallonati d'oro; dove mille belle donne sorridono dai balconi, gettando un nuvolo di fiori, che cadono a terra come quelli della pianta di pesco, quando il venticello di primavera agita i suoi rami. Rechiamoci alla chiesa di S. Antonio presso le terme di Diocleziano, dove si dirigono in lunga fila cavalli bardati in varie fogge, dove potremo ammirare le carrozze del papa e la sua bella mula bianca, e lo stupendo equipaggio del duca Boncompagni-Ludovisi tirato da sedici cavalli, che l'abilissimo cocchiere guida da solo stando in serpa.[57] Ma tutto questo attrae meno folla che la comparsa meravigliosa del grasso lucido.
La nostra attenzione però si concentra su quella lunga fila di persone che camminano solennemente a due a due, e che sembrano tuttora appartenere al medio evo come altrettante figure dipinte da Giotto, dal Ghirlandajo, o da Sandro Botticelli. Tutti questi uomini, vestiti di una lunga tonaca rossa, hanno la testa coperta da un cappuccio a punta, che scende fino a ricoprire anche la loro faccia, con due aperture per gli occhi; camminano tutti a piedi scalzi. Hanno i lombi cinti da un cilicio, alcuni portano croci, ma i due spettri rossi che aprono la marcia portano in mano teschi umani e ossa di morto.[58] Mormorano preci camminando. E' la compagnia dei Sacconi rossi; la loro figura è proprio bizzarra, e riconduce ai tempi antichi. Ma vi sono anche confraternite di altri colori, e passeggiando la sera per Roma è facile imbattersi in cortei funebri, nei quali i fratelli portano cappuccio nero, o celeste, e sono vestiti di bianco o di giallo. Queste figure si possono vedere ogni giorno per Roma, e quando s'incontrano nei quartieri più deserti e più antichi della città, come le regioni Monti, Campitelli, o in Trastevere, o soltanto quando i cappuccini precedono il feretro colle loro tonache color tabacco, colle loro barbe inargentate, portando un cero acceso, preceduti alla lor volta dalla croce, le piazze e le strade deserte della città assumono un aspetto indicibile di morte e di malinconia.
Il culto di Roma, anzi tutta la vita interna della città, ha il carattere di una processione; e questa è davvero la città delle processioni. E quando non si fanno processioni, che cominciano principalmente nei mesi di maggio e di giugno, vi sono altre comitive che vanno a due a due per le piazze della città, e danno loro un aspetto solenne. Osservate: sono ragazzine che camminano processionalmente, guidate e dirette da monache. Sono vestite di nero con un fazzoletto bianco al collo, portano una cuffia bianca con nastri neri; precedono le più piccine, quindi in linea crescente arrivano giovani dai diciotto ai venti anni. Sono allieve di un istituto, che vanno alla passeggiata. S'incontrano con una camerata di giovanetti, pur essi condotti a passeggio guidati da preti. Anche questi camminano a due a due, disposti del pari in linea crescente. Vestono abito nero, portano il cappello a cilindro anche i più piccoli, e questa schiera di trenta a cinquanta ragazzi, vestiti in questo modo severo, che li fa sembrare nani invecchiati, produce un'impressione che eccita l'ilarità. Quando s'incontrano questi ragazzi neri con quelle ragazze nere, si lanciano a vicenda sguardi pieni di desiderio; ma si passano a fianco senza dir parola. Poverini! Non parlano, non odono, sono sordomuti gli uni e le altre, e soltanto a segni possono comunicarsi i loro pensieri.
Sarebbe impossibile enumerare tutte le corporazioni e le comunità che s'incontrano per Roma, procedenti così due a due, nella loro uniforme. Sono centinaia, in questa città, le provincie del socialismo clericale, centinaia i falansteri ecclesiastici, da superare la fantasia di Goethe o di Fourier.
Ecco, compare un'altra comitiva di giovani vestiti di una specie di caftan alla turca, col colletto diritto, filettato di rosso, fra loro vi sono due mori, e molte faccie olivastre, abbronzate, parlano tutte le lingue dell'Europa, dell'Africa, dell'Asia; parlano il cinese, l'indostano, il persiano, l'abissino, il copto, le lingue del Malabar e dell'Orange: sono allievi del collegio di Propaganda, futuri missionari. Questi altri invece che s'avanzano, dalla capigliatura bionda e dall'abito tutto rosso, parlano tutti tedesco; sono allievi del Collegio germanico.[59] Ed ecco ancora altri collegi dalle vesti turchine, nere, bianche, sono inglesi, scozzesi, allievi del Collegio Nazareno, o dell'altro dei nobili. Chi li potrebbe nominar tutti?
Intanto questo grasso lucido che ci ha sempre seguito e accompagnato, vuole oramai che si parli di lui; deve però avere ancora un tantino di pazienza, perchè abbiamo da vedere ancora un altro spettacolo curioso. Venite meco, o lettori, sulla piazza di S. Giovanni in Laterano, e ricordate che siamo nello splendido mese di giugno; qui deve svolgersi una gran processione: vi saranno tutti gli ordini religiosi, innumerevoli confraternite, parecchie belle ragazze con coroncine d'argento in capo, e abiti che non sono cuciti, ma tenuti insieme unicamente a forza di spilli come un mosaico;[60] vedrete croci gigantesche oscillare nell'aria, non sostenute dagli uomini che le portano, ma che si appoggiano soltanto su di una borsa di cuoio che i portatori recano sul petto, e ciò malgrado son maneggiate con tale destrezza che ogni giocoliere invidierebbe.[61] Questa processione sterminata passerà in mezzo all'ospedale di S. Giovanni tra una fila di letti, sui quali sono donne e ragazze malate, che riceveranno la benedizione. Avete visto o sentito mai, lettori miei, nulla di simile? Ragazze ammalate che ricevono visite non solo dai loro cari, ma dal popolo romano, da tutti i Quiriti? Le porte dell'ospedale sono aperte, dovunque sono fiori e fronde, alabardieri svizzeri stanno impalati sulla soglia imponenti e rossicci come garofani o gigli rossi, ma a nessuno è vietato l'ingresso: entrano le persone a centinaia; entriamo noi pure. Qual vista! Dove siamo mai? Passiamo pian piano, non ci è permesso fermarci presso i letti. Osservate, quanto è bella e ariosa la corsia, con quanto gusto è decorata! Oggi la malattia celebra la sua festa e prende in prestito dalla salute belletto e ornamenti, poichè in questa Roma tutti vogliono fare la loro comparsa almeno una volta, tutti avere la loro festa, la gente ricca e felice, i mendicanti, gli storpi ed anche i morti. Guardate la doppia fila di letti, come sono puliti e bianchi, come sono ornati di tappeti rossi, gallonati d'oro e di fiori artisticamente disposti. Ogni letto pare una poesia di Matthisson, o di Geibel. In ognuno sta seduta o coricata languidamente una ragazza o una donna, vestita di lini candidi come la neve. Molte hanno l'aspetto aggravato, ma molte appariscono più belle per la malattia. Osservate quella ragazza, come la sua fisonomia è trasformata dalla convalescenza, e come splende pel fascino incontrastabile della debolezza; i suoi occhi nerissimi scintillano come illuminati dalle reminiscenze. Non tarderanno a riacquistare tutto il loro splendore. Vorreste arrestarvi, o miei lettori? Ma non è permesso; ai piedi di quel letto, custode dell'onore, sta un giovane soldato armato di fucile, tal quale come se fosse di sentinella ad una polveriera. E là, dove sta seduta quella ragazza, cui l'ardore della febbre imporpora le gote e i cui sguardi si perdono quasi vaganti nello spazio, là siedono le vecchie infermiere, vestite di giallo, simili alle Parche. Usciamo, usciamo, che questa stanza è più pericolosa della stessa malaria, al lume di luna. Potrete ora dire di avere visto una scena di spedale, di questa singolarissima città di Roma.
Come potremmo intanto sfuggire al grasso lucido! Ecco un circolo di persone, in una strada qualunque, dal cui centro sorge una voce che declama. Andiamo a quella volta, che cosa troviamo? Il legittimo grasso lucido. Scorgiamo sull'angolo di una casa un cartellone rosso, attaccato or ora: ci affrettiamo a leggerlo; che cosa sarà mai? Il legittimo grasso lucido. Siamo seduti al caffè Ruspoli, un ragazzetto s'aggira per le sale, offrendo un foglietto agli avventori. Che cosa vi sta scritto? Il legittimo grasso lucido. Questo legittimo grasso lucido ha dunque esso pure un diritto incontestabile di attirare a sè l'attenzione generale, e certo non è poco merito l'aver inventato, nell'anno 1850 dalla nascita di Cristo, una vernice lucida; che non contiene nè vetriolo, nè alcun'altra sostanza corrosiva, e che non solo ammorbidisce in sommo grado qualunque cuoio, ma possiede per di più la virtù di aumentarne la durata in modo incredibile e meraviglioso. Una tale invenzione è degna di esser esposta al pubblico, ai piedi dell'obelisco, in faccia al Panteon. Stanno là, presso un tavolo coperto di scatolette di latta, contenenti la preziosa vernice, due oratori popolari che parlano per ore intere, con un fiume di eloquenza che mai non si arresta nel suo corso, della eccellenza del grasso lucido. Se si desse al più grande fra tutti i filosofi l'incarico di dire qualcosa in lode di un lucido da scarpe, in due minuti avrebbe finito; ma quest'uomo con un abito unto e con un panciotto di velluto, che sembrano anch'essi coperti di grasso lucido, parla ore intere senza mai fermarsi, sulle materie che compongono il grasso lucido, sui suoi pregi, e non divaga mai dal suo tema; trova sempre nuovi argomenti, nuove idee, nuove immagini, riferentesi al grasso lucido, e al rapporto che ha con l'economia domestica, con la civiltà umana, con le varie specie di corami, col tempo, con la temperatura, col sole, con le stelle, con la sua influenza sull'anima umana.
Fin dalla prima mezz'ora cadono le bende dagli occhi degli uditori, cominciano quasi a persuadersi delle specialità, dell'eccellenza del grasso lucido; a poco a poco giungono a capirne l'immensa importanza, e, quasi quasi, non riescono a spiegarsi come abbiano potuto vivere fino a quell'istante privi di quel ritrovato sublime. Intanto l'oratore continua a spolmonarsi. Gorgia, Protagora e Carneade non hanno mai vantato tanto la giustizia, quanto egli il grasso lucido. Meriterebbe che si istituisse nella Università di Padova una cattedra, dalla quale potesse parlarne ex professo; egli si dà già per professore e membro di parecchie accademie scientifiche, come pure il suo collega; e additando questo, avverte che il signor professore ha scritto non meno di undici volumi intorno al grasso lucido. «Non è vero, professore, che hai dimostrato nel tuo decimo volume, che questo insuperabile grasso lucido, unico in Europa, possiede la proprietà di ammorbidire il più duro cuoio di bue, e di renderlo soffice come un velluto?». Il professore risponde di sì e siccome l'altro è rauco, e non può ormai più continuare, comincia a sua volta a vantare i pregi dell'incomparabile specialità.
Dimostra in primo luogo in che consista il grasso lucido. «Si vorrà sostenere, egli dice, che questo grasso lucido, contiene sali alcalini, sostanze corrosive. Ora domando io, credete voi che un uomo vivente possa trangugiare impunemente del vetriolo? Credete voi davvero che un uomo possa mangiare acido solforico? Ebbene, voglio darvi una prova convincente; mangerò alla vostra presenza questo grasso lucido, esso non mi ucciderà, non mi darà alcun disturbo, ma al contrario mi procurerà la stessa soddisfazione che potrebbe darmi la polenta più squisita». Detto fatto, il professore trangugia una discreta quantità di grasso lucido, dopo di che l'uditorio rimane profondamente scosso e persuaso che il grasso lucido certo non contiene vetriolo. «Compratelo dunque, urla il grande filosofo, approfittate di questo solo e unico grasso lucido eminentemente economico, indispensabile e innocuo. La scatoletta non costa che tredici baiocchi. Ma che ho detto? Tredici baiocchi? Sono dodici! Guardate! Anzi ve la do per dieci!».
E per dimostrare che il grasso rende lucida qualsiasi sostanza, agguanta un pezzo di carta e lo vernicia con singolare destrezza, e con un sorriso di compiacenza; afferra quindi un giovinotto, e sempre declamando e gesticolando gli lustra una scarpa. Il giovane è raggiante di soddisfazione, quasi non è ancor persuaso della fortuna toccatagli, poichè non gli è accaduto mai, dacchè è al mondo, di avere una scarpa lucida. «Vedete, dice il professore, questa scarpa pareva poco fa la scarpa di un porco, ora riluce come l'argento; un bambino appena nato potrebbe ridurla così, senza la menoma fatica». Il giovinetto se ne va con una scarpa lucidata e l'altra no, e non alza l'occhio per tutta la strada dalla sua scarpa lustra, come se volesse specchiarsi nella sua felicità.
Questa rappresentazione del grasso lucido ci mette in grado di frequentare la buona società, e di andare anzi ad una festa da ballo.
Questa non si darà nè presso il duca Torlonia, nè in casa del duca Braschi; ma sarà più interessante e più degna di osservazione che non un ballo in appartamenti principeschi e nei costumi dell'epoca di Luigi XIV. Sarà il così detto ballo dei modelli, in una vasta e deserta sala di via Claudiana.[62]
Vi è in Roma una classe di persone, la cui vita è tanto strana e singolare, che potrebbe fornire ai novellieri migliori argomenti, che non la vita di quella Maria dei Fiori, e di quelle grisettes che la moderna letteratura francese innalzò a ideali della bellezza muliebre e al grado di muse della poesia. Le persone che troveremo a questo ballo sono modelli degli artisti, tanto uomini quanto donne, che hanno la triste sorte di dover stare parecchie ore della giornata nella immobilità più perfetta. Campano la loro esistenza in grazia delle belle e caratteristiche forme del corpo. Si presentano in tutti gli atteggiamenti possibili. Una ragazza rappresenterà oggi la Venere dei Medici, domani Diana, Arianna, la Madonna, una Baccante, la Maddalena, Psiche, una dea, una schiava, Miriam, una vestale; oggi sarà nuda, domani tutta velata; vestita dei costumi più ricchi e più svariati: ora da turca, ora da greca, ora da donna di Albano, o della campagna romana, o da antica romana. La povera creatura deve ridursi ad una specie di statua, il cui incarico è di rimanere quanto più sia possibile immobile, nella posizione assegnatale dall'artista che la tratta quasi come un manichino, facendole muovere gambe e braccia, e tutto il corpo fino a che l'abbia ridotta a quella attitudine che desidera.
Oltre le grandi accademie, dove si tiene in giorni ed ore determinate la scuola di disegno, vi sono anche accademie private che provvedono modelli, e nelle quali si può avere accesso pagando una modica retribuzione. La più famosa è quella di Nicola di via Claudiana che ha una particolare abilità nel fare il modello, e nell'arte della rappresentazione plastica può gareggiare col migliore commediante.[63]
Una sala di disegno del modello offre uno spettacolo veramente nuovo e singolare; non l'avevo veduta mai nemmeno dipinta, e il vederla in natura, mi persuase che potrebbe dare argomento ad un bel quadro di genere. In una squallida sala il modello, sia uomo che donna, sta immobile come una statua, su di una specie di piedistallo. Intorno a lui seggono i disegnatori disposti ad anfiteatro, e talvolta salgono ad un centinaio, appartenenti a tutte le nazionalità, francesi, inglesi, tedeschi, americani, polacchi, russi, danesi, belgi, italiani. Ognuno ha davanti a sè un tavolinetto e un piccolo lume, e copia il modello ora seduto, ora in piedi, di fronte, a tergo, di fianco; chi lo disegna a matita, chi col gesso, altri ancora all'acquerello, taluni addirittura da principianti, altri mediocremente, alcuni in modo eccellente. Gli uni lo disegnano tal quale è, gli altri lo abbelliscono, e quella specie di statua assume diversi caratteri, come uno scritto affidato a diversi copisti. Questa sala fa pensare ad una tipografia, dove ogni compositore, seduto, colla sua lampada innanzi, getta a capo chino il suo sguardo alternativamente sul manoscritto e sulla composizione. Nel vedere i movimenti simultanei di tutti quei disegnatori silenziosi, collo sguardo di continuo rivolto verso il modello che sorge immobile dal suo piedistallo come un idolo, mentre da una parte non è possibile trattenere il sorriso, dall'altra si prova compassione per quella povera creatura, bersagliata da continui ed incessanti sguardi, condannata a un supplizio di genere nuovo, quello di farsi vedere e lasciarsi disegnare.
Già da due ore la vittima si trova nella stessa posizione; la sua faccia è accesa; l'occhio infuocato, tutti i suoi lineamenti e la respirazione affannosa accennano a stanchezza. Che penserà mai quella statua vivente? Probabilmente a nulla. Di quando in quando spunta sulle sue labbra un sorriso, e si capisce che le chiude convulsamente per non prorompere in uno scroscio, che d'un colpo guasterebbe la sua posizione. Forse si sente ridicola; forse le sembrano stupidi e ridicoli tutti quei disegnatori; forse la fisonomia di uno scarabocchiatore biondo sembrò buffa alla giovane romana, ed eccitò la sua ilarità.
Il proprietario di quella sala dà in carnevale, in onore dei modelli, una festa da ballo, alla quale essi prendono parte in costume, e vi sono invitati gli artisti e i loro amici; anche gli stranieri possono procurarsi un biglietto d'invito.
Per avere un'idea delle danze nazionali dei romani, per vederle eseguite in tutta la loro varietà, in tutta la loro grazia, bisogna assistere ad uno di questi balli, offerti ai modelli. Lo spettacolo è reso ancor più attraente dalla varietà dei costumi, tra i quali primeggiano quelli della campagna romana, e i migliori sono quello di Albano, e l'altro così ricco di Nettuno. Anche l'orchestra, composta di mandolini e di tamburelli, ha carattere completamente nazionale. Anche d'ottobre si può vedere la gioventù romana eseguire nelle osterie e nei campi le sue danze nazionali, perchè nel tempo delle vendemmie accorrono fuori delle porte, specialmente della porta Angelica, numerose brigate di ragazze e di giovanotti; e si possono vedere suonare il tamburello, e ballare alle falde di Monte Mario, sulle strade, o nelle osterie. Talora alla sera queste ragazze rientrano in città, cantando, e quando si vedono passare per le vie, talune con un tirso adorno di fiori, altre con fiaccole, cantando vivaci ed allegre canzoni si crederebbe di veder passare un corteo di Menadi o di Baccanti.
Entriamo ora nella vasta sala di via Claudiana che il proprietario ha decorato con particolar cura. Dalla volta pendono ghirlande di fiori, altre corrono lungo i muri, altre sostengono il lampadario. Non mancano strisce di carta d'oro e d'argento, nè numerose lanterne colorate. La decorazione ha qualcosa di campestre, il pavimento è nero come la terra, e per di più ineguale; i suonatori sono già al loro posto, coi loro strumenti, tamburelli e mandolini, le modelle stanno sedute presso le pareti, prosciolte questa volta dalla loro immobilità, anzi piene di vivacità e di brio. Molte vengono dal Corso, dove sono state, sedute sopra sedie date a nolo lungo i palazzi, a ricevere od a distribuire fiori. Le madri accompagnano le figlie, perchè tutte le modelle che hanno cura della loro reputazione, sono sempre accompagnate dalla mamma, anche quando vanno nelle accademie a posare.
La società è molto mista, perchè arrivano anche dal Corso numerose maschere di second'ordine, e la sala non tarda ad essere invasa da forestieri di ogni paese, che desiderano veder ballare le modelle. La decenza naturale, i modi piacevoli e disinvolti di queste povere ragazze sono davvero sorprendenti; la finezza naturale del popolo italiano si trova sempre e dovunque in tutte le classi della società; se questo ballo, in cui i modelli danzano con trasporto, durasse anche fino a giorno chiaro, lo spettatore non potrebbe mai sorprendere un atto meno che conveniente, o che, soprattutto, varcasse i confini della decenza.
Sono giovani allegre e piene di brio, che godono nel ballare; ed è un vero godimento ammirare la vivacità e la grazia dei loro movimenti, e vedere sui loro volti dipinta la gioia e la soddisfazione. Chi non avesse mai assistito ad un ballo nazionale nei paesi meridionali, o vi avesse visto solamente le feste del gran mondo, e le assurdità dei balli da teatro, non potrebbe fare a meno di prender viva parte alla mimica animata e vivace di uno di questi balli veramente popolari. La musica adatta dei mandolini e dei tamburelli, coi loro suoni alquanto striduli, la varietà dei costumi e dei colori, l'oro, il rosso, il verde, le belle e giovanili forme dei ballerini e delle ballerine, la distinzione e la nobiltà di quei profili romani, producono un effetto stupendo, e spesso l'intrecciarsi di tutte quelle figure, il loro volteggiare, cambiar posizione, apparire, scomparire, ricomparire, sempre con grazia, vivacità, e disinvoltura, danno l'idea di una scoltura fantastica in rilievo.
Si ballano varie specie di danze, tanto nazionali che straniere. Il ballo nazionale, prettamente romano, è il saltarello che vien ballato da una coppia sola di ballerini. Esso non si svolge in grandi linee; consiste piuttosto in piccoli movimenti molto rapidi, particolarmente della parte superiore del corpo. Possiede una somma vivacità mimica, ha qualcosa delle baccanti, è però meno aggraziato di un ballo saltato che si svolga in linee circolari.[64] Le ragazze ballano anche la polka che oramai ha conquistato tutto il mondo, e si provano pure nel waltzer strisciato, senza raggiungere però l'eccellenza dei tedeschi che si muovono in linee orizzontali, mentre in Italia, secondo l'indole della danza nazionale, lo si salta. Il ballo tedesco è una danza comune a due persone, mentre il ballo italiano consiste piuttosto nell'esporre la bellezza delle forme del corpo, in una danza di due persone, l'una di fronte all'altra, ed è quindi più drammatico.
Intanto che le belle e giovani romane stanno ballando e facendo pompa delle loro grazie, andremo in fretta a vedere incendiare la girandola, affinchè tutte le svariate figure che abbiamo visto, e che ebbero principio colla danza dei morti, abbiano termine, come si conviene, con un fuoco d'artificio.
Una volta la girandola si incendiava al Mausoleo di Adriano, lo stesso giorno in cui s'illuminava la cupola di S. Pietro; ora invece la si incendia al Pincio, verso piazza del Popolo, sulla quale prospetta quella stupenda passeggiata. Dicono che da Castel S. Angelo l'effetto fosse migliore ed è molto probabile, perchè si poteva vedere da tutta la città; ad ogni modo, anche dal monte Pincio, è sempre uno spettacolo magico.
Appena da Castel S. Angelo vien dato il segnale con un colpo di cannone, tuonano le artiglierie sul Pincio, e la girandola come un'eruzione vulcanica, o un fiume di fuoco, si slancia fumando e sibilando dalla spianata che sovrasta la facciata del Pincio. Sorge da terra simile a un manipolo gigantesco di grano, o ad una pianta di palma, e fischiando, scoppiettando, sale verso il cielo che pare voglia ricoprire per metà. L'occhio, affascinato da tutto quel lampo di luce, non ha tempo di discernere i particolari; prima che si possa fissare, tutta quella mole di fuoco si trova di già al di sopra del capo di chi la sta osservando ai piedi dell'obelisco di piazza del Popolo; e mentre va dileguando, pare piovano miriadi di stelle dal cielo. Non è propriamente uno spettacolo, ma una vista subitanea e repentina di un'immensa fiammata, che in un batter d'occhio abbaglia e scompare, lasciando quasi l'impressione di una visione fantastica.
La girandola è scomparsa, una nuvola di fumo si dilegua lentamente sulla piazza del Popolo; le stelle splendono nuovamente nel cielo limpido e sereno e comincia dietro le piante del Pincio lo scoppio dei mortaretti, e dei petardi senza luce, quasi forieri di nuove apparizioni. Uno di questi ultimi scoppia dietro le sfingi di marmo, che stanno all'ingresso del Pincio, e mentre seguono ai colpi alcune scintille che salgono verso la nuvola di fumo, le sfingi cupe e misteriose sembrano esseri diabolici evocati dall'abisso. Ora un fuoco artificiale illumina la facciata di una chiesa gotica, o di un tempio, che sullo sfondo scuro dei pini assume l'aspetto di una creazione magica. Il tempio va scomparendo a poco a poco, ed allora scoppiano le bombe e si sprigionano razzi tinti in rosso, in violetto, in bianco, che si riversano in innumerevoli scintille, come pioggia di stelle. La piazza è continuamente illuminata da tutti questi serpenti di fuoco che salgono nell'aria, e in mezzo a questa luce, l'obelisco di Sesostri, dedicato un giorno al Sole nella lontana Eliopoli, sorge solitario offrendo alla vista i geroglifici della sua meravigliosa scrittura figurata. Le sfingi, l'obelisco orientale, i pini, i cipressi, le varie e molteplici statue del Pincio, le colonne rostrate, le fisonomie malinconiche degli schiavi daci col berretto frigio, Roma armata di lancia, e le tante altre immagini di marmo che ora compaiono, ora scompaiono in quella luce dubbia, sono un apparato eccellente, per produrre un effetto veramente magico. Tutto ad un tratto l'intera città è rintronata dallo scoppio di una bomba e dal fragore delle artiglierie, e appare immersa in un mare di fuoco ardente, la bella immagine di Roma eterna, che attraverso tutte le vicende della storia, mantenne sempre la sua maestà, a cominciare dalla prima invasione dei Galli ancora barbari, fino all'ultima dei discendenti di questi.
Ecco ora un nuovo spettacolo sorprendente! Scaturiscono dai due lati del Pincio cascate di fuoco, onde fumanti, fosforescenti, che producono precisamente il rumore di una caduta d'acqua, e sono una riproduzione stupenda e naturalissima delle cascatelle di Tivoli. Anche queste scompaiono; ma continuano i razzi a stella, i fuochi d'artificio di ogni specie, di ogni forma, che riempiono l'atmosfera di luce, di fumo, dilettevoli a vedere; seguono ruote di fuoco, scintille, covoni fiammeggianti; tutto ciò strepita, sibila, rimbomba, tutta l'atmosfera è avvolta in un fumo infuocato e gli spiriti degli elementi sembrano migliaia di folletti di fuoco, draghi di luce, lucertole, mosche, lucciole, serpenti di fuoco che festeggino il più pazzo carnevale di streghe nell'aria, o che traversino il cielo.
E ora di nuovo silenzio e oscurità. Sono spenti gli ultimi avanzi della chiesa gotica sul Pincio, e comincia un altro spettacolo. Sorgono fra le piante del monte, fra i pini, i cipressi, gli allori, figure di animali, di pesci, che illuminate si innalzano lentamente, e si librano nell'aria sopra la porta del Popolo. Sono palloni volanti illuminati all'interno, che salgono ora isolati, ora a tre o quattro insieme; s'innalzano, scendono, vanno a destra e a sinistra; alcuni molto in alto, presso le stelle, altri si tengono pigramente in basso; così essi traversano l'aria smeraldina. Qua e là uno spirito dell'aria prende uno di questi pesci e lo porta lontano; qui un altro prende fuoco ed avvampa. Anche quest'apparizione scompare, tuonano ancora una volta tutte le artiglierie, ancora una piccola girandola di razzi; un ultimo colpo di cannone e tutto è finito.
Ma come è mai possibile ritornare a casa, rinchiudersi in una stanza oscura e malinconica, mentre la luna piena splende in quel cielo trasparente, e illumina della sua magica luce queste moli gigantesche della città eterna?
Bisogna girare per Roma, al lume di luna, evocando i morti che non tardano a sorgere tutti dalle loro tombe, imperatori e re, guerrieri e poeti, papi e tribuni, cardinali e nobili del medio evo, per rianimare tutte queste rovine.
Saliamo al palazzo dei Cesari, i cui ruderi giganteschi, colonne, archi, mura, sorgono dai cespugli. Abbiamo sotto i nostri piedi illuminato magicamente dalla luna, il Colosseo, simbolo della storia grandiosa di Roma imperiale, quasi gigantesca conca granitica, in cui sembra questa Roma abbia radunato tutto il sangue della storia universale; di fianco sorge l'arco di Costantino, limite di separazione fra il mondo pagano ed il Cristianesimo; più in là l'arco trionfale di Tito, limite di separazione fra il Giudaismo ed il Cristianesimo; dovunque lo sguardo si spinga, s'imbatte in rovine della storia, e tutto è silenzioso, tutto tace. Nelle rovine del palazzo dei Cesari non si ode che il grido della civetta. Quanti avvenimenti si avvicendarono in questi luoghi! Quante persone si aggirarono in queste sale imperiali! Augusto, Tiberio, Caligola, Nerone, Tito, Domiziano, gli Antonini, Eliogabalo, gli dei della terra ed i suoi demoni. Qui regnarono tutte le passioni; virtù e vizio, generosità, follia, saggezza, malizia infernale; qui si provarono tutti i sentimenti che cuore umano può albergare. Qui il mondo fu governato, torturato, sciupato, giocato in una notte. Qui regnarono persone di ogni età e di ogni sesso; vecchi e donne; uomini e ragazzi; schiavi ed eunuchi; qui tutti dettarono leggi. Ora tutto è morto e silenzioso, quando non si sente il grido della civetta che svolazza sotto le volte cadenti. Volgiamo lo sguardo alla parte opposta verso la città eterna; splendono migliaia di lumi, ma essa tace. Centinaia di cupole, di torri, di colonne, di obelischi s'innalzano verso il cielo azzurro, rischiarate dalla luna; di quando in quando si sente il suono di una campana. Tranquillità magica, profonda, quasi il tempo stendesse su questa Roma un velo impenetrabile di silenzio e di pace.
Due colonne emergono nella notte da quel labirinto di case, sormontate da due statue di bronzo, che rappresentano i patroni della città, dopochè ne discesero gli imperatori. Sono gli apostoli S. Pietro e S. Paolo, che hanno preso posto sulle colonne di Antonino e di Traiano; il primo colle chiavi in mano come conquistatore del cielo, di cui può aprire e chiudere le porte; il secondo con la spada in pugno, come conquistatore della terra. Stanno questi due guardiani di Roma nel silenzio della notte, nella aerea loro dimora, dominando tutte le rovine e tutti i palazzi.
Forse stanno preparando una solenne allocuzione o una lode a Maria, perchè fra poco non saranno più soli a dominare Roma; a giorni sorgerà sopra una terza colonna un'altra figura, una bella vergine coronata di stelle sopra una mezza luna. Già si vede sulla piazza di Spagna l'antica colonna pagana sormontata da un casotto di tavole. Furono già poste le fondamenta e benedette solennemente; gli operai stanno di già lavorando a lustrarne il fusto, e gli artisti nei loro studi stan preparando la statua della Vergine Immacolata che Pio IX vuole innalzare su quella colonna.
Roma l'8 dicembre 1854 assunse tutto ad un tratto l'aspetto di Nicea. Due cento cinquantacinque vescovi e prelati, convocati da tutte le parti del mondo, un popolo di vecchi, un'assemblea di patriarchi dell'orbe cattolico, uomini simili a Matusalem e Noè, vi si erano radunati. Ovunque si andasse, ci si aggirava come tra apostoli, padri della Chiesa e papi risorti. In quelle stesse strade che pochi anni prima brulicavano delle bandiere tricolori della libertà moderna, non si scorgevano più che le teste di Medusa antiche e canute dei vescovi della Spagna, del Portogallo, del Brasile, dell'Irlanda, dell'Austria, delle Indie, della Scozia, della Francia; si sarebbe potuto credere che per una magia il tempo fosse tornato indietro di alcuni secoli e fosse risorta la Roma del medio evo con un concilio lateranense.
Fu l'8 dicembre 1854 che Pio IX proclamò solennemente il dogma dell'Immacolata Concezione. Fu questa la conclusione gesuitica delle riforme del papa, una volta intellettuale e liberale. Su queste riforme del 1847 e sulla rivoluzione, cui diedero origine, sorgeranno quella colonna e quella Madonna, per insegnare ai posteri come ogni cosa al mondo rapidamente si trasformi.
Fra non molto la Madonna di piazza di Spagna, di fronte al palazzo di Propaganda, terrà compagnia ai due apostoli, e molte cose avrà da raccontar loro e da lamentare con loro; poichè in ogni modo sarà anche essa la Madonna più recente, e in certo modo figliastra della rivoluzione. Ma dimenticavo la sorella maggiore di lei, che già sorge sulla più bella colonna di Roma, e che da due secoli e mezzo tiene compagnia ai due apostoli. E' questa la Madonna di S. Maria Maggiore, collocata sulla grandiosa colonna corinzia dell'antico tempio della Pace. Essa è figlia della restaurazione della religione cattolica, eretta nel 1614; una maestosa Madonna di bronzo, che fu spettatrice della guerra de' trent'anni. Quanto dovrà meravigliarsi, quando vedrà sorgere la giovane sua sorella in atto di implorar protezione!
Ho adempito ora al mio compito: avevo promesso ai miei amici di presentare loro una varietà di figure romane, le une più degne di attenzione delle altre; e ora non mi è possibile salire più alto, a meno che non voglia salire al cielo sulle ali degli angioli, e sulle nuvole, con quegli uomini e quelle donne che Pio IX ha santificati in questo stesso anno. Ma un tal volo d'Icaro è pericoloso; ci contenteremo di rimanere presso S. Pietro e S. Paolo, perchè anche la loro dimora aerea, in cima ad una colonna, è pur sempre più ferma e più sicura delle nuvole.
«Ma», mi domandava un amico, «che cosa ne pensate? verrà un giorno, in cui S. Pietro e S. Paolo scenderanno dalle loro colonne, e fuggendo per le porte di Roma, s'incontreranno nel Salvatore, che dirà loro: « Domine, quo vadis? » Quale pazzia fare una simile domanda! ma maggior pazzia sarebbe il rispondere. Poichè, diceva il savio Apollonio di Tiana, convien prestar fede a Sofocle, che ha detto stupendamente:
«vecchiezza e morte
Soli ignoran gli dei; le umane cose
Tutte tramesce onnipossente il tempo».
STORIA DEL TEVERE. (1876).
Storia del Tevere. (1876).
Caeruleus Tibris, coelo gratissimus amnis ( Virgilio ).
Per un istante il mondo civile fu compreso di sgomento al pensiero che il Tevere stesse per scomparire da Roma, e che al posto delle sue sacre onde che si svolgono in dolci curve sotto sei vecchi ponti, e traversano una parte della sublime città,—non fosse più visibile che un magro ruscello, o un canaletto melmoso, o una via tra due monotone file di case.
Questo bizzarro, o, come lo chiamano oggi a Roma, questo fanatico progetto fu preso da Garibaldi al gran Giulio Cesare. Come il valoroso generale ebbe compiuto le titaniche lotte della sua esistenza, combattute contro i mostri della tirannide che straziavano la sua patria, venne a Roma per intraprendere l'ultima fatica, a simiglianza di Ercole: e domare il divino fiume Tevere che nemmeno dai Cesari era stato vinto. Egli somiglia ora al vecchio Faust che si dà a coltivare i campi, a prosciugare paludi, a bonificare terreni.
Un uomo, infatti, che come lui aveva consacrata tutta la vita ad un'opera di distruzione di un vecchio mondo, e di ricostruzione di un nuovo stato di cose, nel campo politico e sociale, difficilmente avrebbe potuto, almeno io credo, nella sua azione indefessa, sentire, come noi sentiamo, il fascino delle memorie storiche e la santità dell'espressione monumentale, di cui per secoli si è improntata la città di Roma. Egli non contemplò forse mai Roma dalla cima di Monte Mario o dal Gianicolo col sentimento profondo di venerazione di Cola di Rienzo, del Petrarca, di Flavio Biondo, oppure di Gibbon e di Niebuhr; egli non pensò, fissando lo sguardo sulla maestosa corrente del Tevere, che cosa sarebbe divenuta Roma, l'eterna città, senza il suo fiume!
Togliere il Tevere a Roma sarebbe più che togliere gli occhi ad un volto umano, e lasciare al loro posto le vuote occhiaie. Sarebbe strappare violentemente alla divina metropoli, se non l'anima, almeno il pensiero. Sì, il Tevere è il vivo pensiero di Roma; se lo si deviasse e si colmasse il suo letto, non sarebbe più possibile concepire con esattezza la configurazione e la forma di Roma; molti luoghi, cui son collegati ricordi di leggenda o di storia, diverrebbero d'un tratto irriconoscibili, e Roma sarebbe ridotta ad un palinsesto, del quale nessuno potrebbe decifrare la primitiva scrittura.
Finchè il Tevere attraversa Roma e la sua classica campagna, esso è un fiume sacro della civiltà; è il Nilo dell'Occidente. La leggenda fa anche nascere dalle sue stesse acque il dominio mondiale di Roma; furono le sue acque che deposero Romolo e Remo presso le radici dell'albero di fico, sotto il Palatino; e così fu fondata Roma. Sulle rive del Tevere furono edificati i templi ai due fondatori del secondo impero romano: San Pietro e San Paolo; e nei flutti del Tevere fu sommerso, secondo la leggenda, il simbolo originario della religione giudaica: il candelabro dai sette bracci del Tempio di Gerusalemme.
Mille memorie dei tempi antichi e medioevali si specchiano nel Tevere. Il Ponte Sant'Angelo, sul quale da più di mille anni i popoli dell'Occidente passano per peregrinare a San Pietro, e Castel Sant'Angelo, lì presso, costituiscono essi soli due cronache, nelle quali è racchiusa tutta la storia del Medio Evo. Che sarebbe di loro, se il Tevere cessasse di scorrere sotto le arcate di quello, sotto le mura di questo?
A sua volta ognuno degli antichi ponti della città di Roma è una via della storia; sotto i loro archi si direbbe che scorra il fiume stesso del tempo. Chi, stando sul Ponte Cestio—che unisce l'isola al Trastevere—può contemplare senza commozione profonda l'indescrivibile aspetto di Roma che si stende sulle due rive, co' suoi antichi templi, le rovine del palazzo dei Cesari, le brune torri del medioevo, le arcate spezzate dei ponti, le innumerevoli chiese, le case vetuste e singolari,—e tutto questo riflesso, come per un raggio sublime, nella dolce, bionda, luminosa acqua del fiume? E si dovrebbe un giorno, da quel punto stesso, contemplare una strada, su cui, fra due pareti di pietra, corressero le vetture e i carri?
E l'Aventino colle sue verdi e ripide pendici, e il Campidoglio non dovrebbero più dominare la maestosa corrente? La Ripa romea o grande, la Ripa greca, l'antichissima Marmorata non dovrebbero più trovarsi se non nei libri degli antiquari? Il nome di Trastevere diverrebbe dunque ironia? Le gialle ripe dell'Acqua Acetosa e dei monti Parioli, dove il Tevere ricorda veramente il Nilo, e dove dopo aver ricevuto l'Aniene selvaggio, si avanza in tutta la sua maestà per fare il suo ingresso solenne in Roma: tutto ciò dovrebbe sparire, perdersi nella sabbia? E la Basilica di San Paolo, là dove il Tevere ha ancora barche a vela, verrebbe a trovarsi sul limite di una strada polverosa?
È assurdo parlare con serietà di un simile progetto. L'antico dio fluviale non si lasciò domare nemmeno da Achille. Come in Omero lo Scamandro atterrito ricorse a Giunone contro le violenze di Vulcano; un simile timor panico poteva incutersi al dio Tevere minacciandolo di morte per esaurimento: così esso fu punito del suo formidabile scoppio d'ira nel dicembre 1870. Questo anno fatale per le immani catastrofi, l'anno, in cui precipitò l'impero del terzo Napoleone, in cui si costituì novamente l'Impero tedesco, in cui il debole Pio IX si lasciò riconoscere dal Concilio l'attributo della divinità, poco prima di perdere la sua potenza temporale, quest'anno portò a Roma una delle più terribili inondazioni. Il Tevere, dicono a Roma, ha sempre predetto i grandi avvenimenti, o la sua onda li ha di poco seguiti. Vates, veggente, lo chiamò Plinio.
La corrente uscì subitamente dalle sue rive sulla via Flaminia il 28 dicembre, alle cinque del mattino e, subito, tutta la parte bassa della città fu sommersa dalle onde. L'acqua si incanalò, limacciosa e cupa, pel Corso, e giunse a via del Babuino fino a Piazza di Spagna. Tutto Campo Marzio, la Lungara, Ripetta, il Ghetto furono coperti dalle acque; la bellissima Piazza del Popolo si cambiò in un lago, dal quale emergeva solitario l'obelisco di Eliopoli, la cui base, fino ai leoni che gettano acqua dalla bocca, era del tutto coperta dai flutti. Si andava per il Corso e per le altre strade in barchetta, come nei canali di Venezia. I danni si calcolarono a parecchi milioni.
I bacchettoni gridarono subito che era quello il dito di Dio, effetto della scomunica di Pio IX; l'infallibile pontefice poteva ben crederlo, sebbene egli stesso avesse provocato in Roma una più violenta inondazione.
Ogni volta che le cronache medioevali accennano alle piene del Tevere, parlano anche di un mostruoso drago, o serpente d'acqua, che avrebbe provocato la piena, scatenando le onde sulla città; ma questa volta l'inondazione fu accompagnata dalla visita di un nobile re, Vittorio Emanuele; fu essa che lo condusse nella città, offrendogli un pretesto per la prima un po' imbarazzante visita. Egli giunse la mattina del 31 dicembre, e scese al Quirinale. Venuto a prender possesso della città di Roma in nome dell'Italia, la trovò allagata e desolata, come l'aveva rappresentata un giorno Cola di Rienzo nelle sue allegorie. A mezzogiorno si fece condurre, avendo a fianco Lamarmora, per le vie di Roma, sfigurata e melmosa, e pur prodiga a lui di caldissime acclamazioni: firmò al Quirinale il primo decreto datato da Roma, col quale prendeva atto del plebiscito romano. La sera ripartì per Firenze. Il papa non visitò la sua Roma sofferente, ma restò come prigioniero, chiuso nel suo Vaticano, guardando pensieroso il diluvio dalle alte finestre.
Questa inondazione del 1870 eternamente memorabile riportò sul tappeto un'antichissima e vessata questione: come por fine ad un male che spesso si ripeteva con grave danno della città, la quale, per di più, stava per divenir sede del governo italiano? Ai molti e gravi ostacoli di ogni maniera che si dovevano vincere, si unì anche la minaccia perpetua di un'inondazione del Tevere. Il Governo italiano, ed anche il Municipio di Roma (decreto reale 1 o gennaio 1871), nominarono delle commissioni che studiassero e riferissero sui loro lavori intorno a questo problema; oggi possediamo stampati i risultati di questi studii, ma non sono decisivi. Disegni e progetti furono presentati in gran quantità allo scopo di regolare e tener a freno la corrente del Tevere, e a questi molti altri progetti si aggiunsero, periodicamente rinascenti di secolo in secolo, e vertenti sul collegamento di Roma al mare, sul rinnovamento del porto di Traiano, sul prosciugamento delle paludi pontine, sulla bonifica dell'agro romano.
Dal 1870 la letteratura relativa al corso del Tevere si è considerevolmente aumentata. Da quell'epoca sono stati pubblicati più di 80 nuovi scritti, sul problema del Tevere, da ingegneri, tecnici, professori di matematica e di scienze naturali. A questi studî zelanti non fu estraneo Garibaldi che si interessò sempre della questione; e questo è già un merito non indifferente pel grande uomo, non diminuito dal fatto che i suoi progetti non offrivano possibilità di pratica attuazione.[65]
La letteratura sul Tevere non data solo dal 1870, ma segue la storia delle piene del fiume e, come vedremo, non è possibile rintracciarla oltre l'anno 1495. Da quest'anno, famoso per la grande inondazione, al tempo di Alessandro VI Borgia, essa ha proceduto senza interruzione, poichè ogni nuova manifestazione della collera del fiume ha risollevato sempre il problema e ha dato origine a scritti sull'argomento.
Il benemerito bibliotecario dell'Alessandrina di Roma, Enrico Narducci, ebbe la felice idea di riunire in un catalogo tutti gli scritti sull'argomento, così pubblicò il suo Saggio di Bibliografia del Tevere.[66] La biblioteca dell'antico Pater Tiberinus non conta oggi meno di 412 numeri di scritti di ogni specie e natura; di epigrafia, storia, geografia, archeologia, tecnica, epigrammatica, poesia, e via dicendo, ed anche di bolle e editti papali;[67] e in essa si ha uno specchio delle facoltà scientifiche ed immaginative di parecchi secoli. Se il Narducci ha compilato questo catalogo con grande cura ed amore, talchè merita non piccola lode per questo lavoro bibliografico, che per la sua rarità ed importanza è tale da destare grande interesse in ogni bibliofilo, esso però non può chiamarsi completo, perchè anche alla ricerca più diligente qualche scritto doveva necessariamente sfuggire.
Da tutte queste fonti letterarie si potrebbe ricostruire una vera storia del Tevere, e trattarla sotto varî punti di vista. Il primo sarebbe quello fisico, e sotto questo aspetto la questione è stata esaurientemente trattata. Giuseppe Ponzi, professore di storia naturale a Roma e senatore del Regno, ha pubblicato scritti di questo genere fin dall'anno 1860: una Storia geologica del Tevere e una Storia naturale del Tevere, degli studii sul suo delta, con la riduzione in scala più piccola delle carte idrografiche e topografiche del Canevari.
Un'altro punto di vista sarebbe quello topografico-storico, e si ricollegherebbe alla storia naturale del Tevere, sebbene la descrizione dell'aspetto del territorio di Roma, nei tempi preistorici, debba essere lasciata alla fantasia dei poeti (come ha tentato l'acuto Ampère nella sua Histoire Romaine à Rome ), in tempi in cui il Soratte era un'isola, Monte Mario un promontorio, ed isole erano i sette colli; tuttavia le più antiche condizioni topografiche dell'origine e della conformazione di Roma in rapporto al Tevere possono essere ben comprese e ricostruite.
Voglio solo ricordare il prosciugamento delle depressioni più antiche, come il Velabro ed il Foro, che costituisce la prima lotta che Roma abbia sostenuto contro il Tevere; i rapporti dell'antica fortezza capitolina, dell' Arx, col fiume; l'opera di costruzione delle cloache della città, e finalmente la costruzione dei ponti.
Dall'anno 1530 fino ad oggi la storia delle inondazioni del Tevere è stata accuratamente trattata in relazione alle cause delle inondazioni stesse. Questa storia rappresenta la desolazione della città di Roma per opera di quel fiume stesso cui essa deve la sua origine, e che mai ha potuto tenere a freno. Strano a dirsi, la capitale del mondo maltrattata da un fiume che è tra i più piccoli d'Europa![68] E non poterono averne ragione nè gli imperatori romani, dominatori di una metà del mondo, che provvidero Roma e le provincie di ingenti costruzioni, strade, canali e porti, nè i loro successori, i papi. E questo rapporto di Roma col Tevere ci sembrerà tanto più strano, se penseremo alla piccola Olanda che sostenne col mare le sue lotte titaniche e vittoriose. Il fiero fiume, in apparenza così mite, rimase effettivamente il solo ribelle dell'Impero Romano, di cui sempre derise ogni sforzo diretto a domarlo!
La storia delle sue inondazioni comincia con lo sbarco dei gemelli Romolo e Remo, quindi con l'origine mistica di Roma, e prosegue, naturalmente con molte lacune, attraverso i lunghi secoli della Repubblica e dell'Impero, secondo i dati degli antichi scrittori.
Ogni straripamento del Tevere spaventava gli antichi romani come prodigio, come presagio di gravi avvenimenti, o come minaccia dell'ira divina: e questo pregiudizio continuò sotto il dominio dei papi. Per lo più all'inondazione seguivano, per le acque rimaste stagnanti qua e là, gravi malattie con febbri pestilenziali nella popolazione.
Livio dice più di una volta che queste inondazioni, ai tempi della Repubblica, spargevano un vero terrore nel popolo e riporta che per l'espiazione si consultavano i libri della Sibilla e venivano ordinati pubblici sacrifici e preghiere. Sotto l'imperatore Ottaviano il fiume visitò nuovamente la città e danneggiò gravemente parecchi edificii nel Campo Marzio.
Il popolo superstizioso attribuì una volta (22 a. C.) questo sinistro al fatto che Augusto non aveva rivestito l'autorità consolare. Si sollevò allora sdegnato e minacciò di incendiare la Curia, dove si teneva chiuso il Senato, se questo non avesse subito creato Augusto dittatore e censore a vita. Così un'inondazione del Tevere contribuì a rafforzare il potere monarchico. Ricordiamo i versi di Orazio:
Vidimus flavum Tiberini, retortis
Litore etrusco violenter undis,
Ire dejectum monumenta regis
Templaque Vestae.
I danni prodotti dal Tevere nella parte bassa di Roma furono già nell'antichità assai gravi. Più volte il Ponte Sublicio, allora il più importante, fu rovinato dalla corrente. Si pensò al modo di por rimedio a questo danno; ma poichè non sappiamo che cosa abbiano progettato gl'ingegneri di Roma del tempo della Repubblica, possiamo dire che la storia della questione del Tevere cominci veramente con Cesare.
Fra i giganteschi progetti di lui eravi quello di deviare il corso del fiume da Roma, in modo che, girando intorno al Gianicolo, andasse poi a scaricarsi nel mare attraverso le Paludi Pontine presso il capo Circeo, invece che ad Ostia. La morte di Cesare impedì la realizzazione di questo progetto, come di molti altri. Se fosse stato eseguito, non solo sarebbe mutata la configurazione della città, ma avrebbe subìto grandi alterazioni anche la sua storia, cambiando praticamente i suoi rapporti coll'Italia meridionale.
Il successore di Cesare, Augusto, riprese ad occuparsi della questione del Tevere, ma in proporzioni più modeste. Egli nominò una Commissione di più che 700 tecnici, ma non ne risultò che un ripulimento del letto del fiume, e la creazione di una magistratura permanente i: curatores alvei et riparum Tiberis. Augusto stesso coprì questa carica, ed Agrippa fu Curator Tiberis a vita.
La leggenda giudea favoleggiò allora che il primo imperatore di Roma avesse fatto rivestire il letto del fiume con lastre metalliche.
L'inondazione del 14 d. C. fece prendere a Tiberio altre misure; egli affidò lo studio della questione ai senatori Ateio Capitone e Lucio Arunzio, e nominò una commissione di cinque senatori da scegliersi ogni anno per la sorveglianza del fiume. Questi si trovarono una volta d'accordo nel disegno di deviare l'acqua della Chiana (che esce dal lago di Chiusi e si gettava anticamente nella Paglia, e con questa nel Tevere) nel letto dell'Arno, ma i fiorentini si opposero, e il Senato rigettò il progetto. Oggi il senatore Francesco Brioschi, uno dei più attivi membri della Commissione per la sistemazione del Tevere, chiama questo la prima idea di un reale rimedio, che l'antichità abbia avuto in proposito.[69] Nel secolo xvi i Medici di Firenze ripresero quest'antico progetto e, dopo importantissimi lavori idraulici, la Chiana fu finalmente portata nell'Arno.
Sotto l'imperatore Claudio, come afferma un'iscrizione scoperta a Porto nel 1836, per questo nuovo porto del Tevere furono scavati dei canali dal fiume al mare ( Emissisque in mare urbem inundationis periculo liberavit ). Nerone, nel suo pensiero delirante, concepì anche il disegno di condurre il Tevere a scaricarsi nel golfo di Napoli. Traiano riprese i lavori dei canali di Claudio, dopo che una piena aveva desolato Roma, e da lui ebbe nome il canale di Fiumicino ( Fossa Trajana ), che è il solo rimasto navigabile, mentre il braccio sinistro del Tevere, naturale, si interrava presso la foce.
Aureliano che circondò Roma di quelle storiche mura, alle quali, principalmente nei primi secoli del medioevo, essa dovette la sua conservazione e i papi la loro indipendenza, fu l'ultimo imperatore romano che ebbe cura di pulire il letto del fiume e di arginare le rive.
Dal tempo di Claudio in poi, i Curatores si limitarono a questi lavori immediati di ordine pratico, e Plinio, in un passo ove parla dell'arginatura del fiume, afferma che era divenuto difficile passare da una riva all'altra ( Hist. Natur. III. 5). Ogni grandioso progetto fu abbandonato.
Il Brioschi scrive: «L'antica Roma, che tanto dovè soffrire delle inondazioni del Tevere, non ci ha lasciato nulla di durevolmente utile contro le inondazioni stesse; essa non ci ha lasciato alcun esempio da seguire, non ci ha additato alcuna strada che potesse condurre alla soluzione del problema».
Le cause più gravi dei ripetuti straripamenti del fiume vanno senza dubbio ricercate nella quantità d'acqua portata a lui dai fiumi Paglia, Nera ed Aniene. Ultimamente vi si è aggiunta anche quella quantità d'acqua che i molti acquedotti dell'interno della città versano nel fiume ed è anche possibile che vi abbia contribuito. Ma anche quando i Goti assediarono le città e distrussero le condotture d'acqua, le inondazioni non cessarono, furono anzi in quegli anni molto gravi: bisogna però anche tener conto del fatto, che dopo la caduta dell'impero romano e dopo la scomparsa del Senato e di tutte o della più gran parte delle autorità preposte alla cura ed all'amministrazione della città, non fu fatto più nulla per lo spurgo dell'alveo e per l'arginatura del fiume.
Col vi secolo dell'èra nostra cominciano, con alcune lacune, nelle cronache medioevali i racconti delle inondazioni. Una delle più terribili avvenne nel novembre 589, sotto Pelagio II, e fu seguita dalla peste.
Gregorio da Tours l'ha descritta: in seguito ad essa caddero dalle fondamenta gli antichi granai dell'Aventino e molti edificii del Campo Marzio. Miracolosamente il Panteon resistè, quantunque da tanti secoli si fosse trovato assai spesso in così grande pericolo, cui edifici men solidi non avrebbero potuto resistere.
Molte volte questa magnifica Rotonda d'Agrippa fu inondata a tale altezza, che si doveva andarvi per mezzo di barche, giungendo la piena fino all'altar maggiore.
Non voglio qui ripetere la storia delle piene del Tevere nel medio evo: da parte dello Stato nulla più venne fatto per la prevenzione del male; gli argini anzi avvallarono[70], il letto del fiume si alzò, cosicchè i danni sofferti dalla parte bassa della città dovettero essere più rilevanti che nei tempi precedenti. Più volte, narrano i cronisti, ponti e porte furono smantellati. Il crollo d'un antico portico presso S. Marco (Porticus Palacinae) fu opera d'una piena dell'anno 791, ed ancor oggi alcuni avanzi di ponti che si trovano nel letto del fiume stanno a ricordare le inondazioni. La piena penetrava quasi sempre, come nel decembre 1870, dalla Porta del Popolo (Flaminia) e irrompeva furiosa nella via Lata, l'attuale Corso, giungendo fino alle falde del Campidoglio. I mesi delle inondazioni erano da novembre a febbraio, fra i quali pericolosissimo il primo.
Dal ix al xiii secolo la storia delle piene è assai monca, non perchè il fiume visitasse meno spesso la città, ma perchè le cronache non ne parlano. Il 1 o febbraio 1230 Roma fu colpita da una inondazione spaventosa. Era allora papa, Gregorio IX, il vivacissimo nemico del gran Federico II di Hohenstaufen. Egli si trovava fuggiasco a Perugia, quando la repubblica di Roma si levò in arme contro di lui. L'improvvisa inondazione fece sui Romani l'effetto che già aveva fatto su di essi al tempo di Augusto; preso da superstizioso spavento, il popolo mandò legati al Papa supplicandolo di ritornare a Roma. Egli tornò e trovò la città immersa nella desolazione, cercò di sollevarla, fece ricostruire il ponte dei Senatori (oggi Ponte Rotto) che era stato abbattuto dalle acque, fece ripulire i canali di scolo otturati, e altri ne costruì.
Quarantasette anni dopo, il 25 novembre 1277, mentre la Santa Sede era vacante e il collegio dei Cardinali riunito a Viterbo doveva eleggere il nuovo pontefice sotto le pressioni di Carlo d'Angiò (contro i desideri del quale nominò poi Nicolò III Orsini), il fiume devastò Roma nuovamente. Questa inondazione è notevole particolarmente, perchè con essa ha principio la non breve serie di iscrizioni, con cui i Romani solevano ricordare, sulle facciate delle chiese o delle case, l'altezza raggiunta dalle più gravi inondazioni. Ancora non esistevano idrometri.
L'iscrizione di quell'inondazione suona così:
HUC TYBER ACCESSIT SED TURBIDUS HINC CITO CESSIT ANNO DOMINI M.CCLXXVII. DIE. VI. NOV. DIE VI. ECCLESIA VACANTE.
Il Narducci ha trovato quest'iscrizione, fino allora sconosciuta, in un manoscritto scorretto della Biblioteca Angelica; essa si trovava in una scala di marmo presso la chiesa dei Santi Celso e Giuliano in via dei Banchi. È ancor oggi ben conservata; io stesso la vidi, anni fa, murata sotto un piccolo arco, non lontano dal palazzo Cicciaporci, sulla parete della casa che gli sta dirimpetto. È incisa su una lunga e stretta tavola di marmo, coi caratteri degli ultimi tempi degli Hohenstaufen, che segnano il passaggio al così detto carattere gotico.
Gli uomini di quel tempo solevano dare a queste notizie, che noi esprimiamo con brevità e semplicità statistiche, un'intonazione solenne e poetica. In ciò sta non piccola parte dell'attrattiva dell'epoca medioevale, come più di ogni altra cosa dimostrano le iscrizioni funerarie. Durante il Rinascimento, quando l'epigramma tornò a fiorire, queste notizie sulle piene del Tevere divennero vere e proprie graziose poesie latine. Si soleva rappresentare sulla lastra di marmo il fiume col simbolo di linee ondeggianti, in mezzo alle quali appariva una barchetta pericolante: una mano coll'indice steso accennava l'imagine. Spesso vi era anche una croce. Col secolo xviii l'uso dell'epigramma tiberino cessa, e prende il suo posto la notizia nuda e cruda. Ora poi ci si contenta di una linea che segna il livello massimo dell'acque e delle parole: Alluvione del Decembre 1870. Per la maggior parte tali iscrizioni furono poste sulle facciate delle chiese del Campo Marzio, e in particolar modo la facciata della Minerva è da considerarsi come l'idrometro del più lontano medioevo[71].
Dopo l'iscrizione del 1277 troviamo una lacuna di cento anni. L'alluvione dell'8 novembre 1376 si trovava ricordata alla Minerva, su una lastra di marmo che è andata perduta. Questa alluvione precedè il più grande avvenimento dell'epoca, il ritorno dei papi da Avignone sotto Gregorio IX. Dal secolo xv, e precisamente dal 25 Novembre 1415, possediamo la esatta e completa serie cronologica delle inondazioni, fino ai nostri giorni. Come esempio dò qui un'iscrizione del tempo di Sisto IV:
CREVIT AD HOC SIGNUM TRANSCENDENS LIMINA TYBRIS OCTAVA JANI, QUAE MEMORANDA DIES. TERRITA ROMA, NOE REDEUNT NUNC TEMPORA, DIXIT, DILUVIO, ATQUE ITERUM CORRUET OMNE GENUS. HUNC ANNUM VERSU LONGO EST DESCRIBERE VERUM QUAE NUMEROS SIGNAT HIC NOTA JUNCTA DOCET. M.CCCC.LXXVI.
Alessandro VI si trovò a due grandi alluvioni, nell'ottobre 1493 e il 5 decembre 1495. Poco dopo le onde del Tevere dovevano trasportare il cadavere del figlio di lui, duca di Candia. Suo fratello, Cesare Borgia, lo aveva fatto trucidare e gettare nel fiume; quel Cesare Borgia che aveva fatto precipitare dalle mura di Castel Sant'Angelo l'infelice Astorre Manfredi e tante altre vittime. Al tempo del terrore dei Borgia non passava notte che non si trovasse qualche ucciso nelle placide onde del fiume. Ma esso aveva trascinato al mare ne' suoi flutti fatali anche due imperatori romani, Massenzio e Massimo, un papa romano, Formoso, e le ceneri di Arnaldo da Brescia.
L'alluvione dell'anno 1495 è ancora ricordata da parecchie iscrizioni nel Campo Marzio e cominciano in quell'epoca a pubblicarsi in Roma scritti relativi al Tevere, per mezzo della stampa, che già dalla Germania era giunta a Roma.
Il Narducci indicava come primo scritto di questo genere la poesia del noto poeta popolare Giuliano Dati dal titolo: Del Diluvio di Roma del MCCCCLXXXXV adì IV. di Dicembre. Et daltre cose di gran meraviglia, con una incisione in legno rappresentante l'inondazione.
A questo possiamo aggiungere il componimento poetico di un umanista tedesco. Jacobi Locher, alias Philomusi, Carmen de diluvio Romae effuso. Ibid. Dec. 1495.
In questo tempo sembra si siano riprese le ricerche tecniche sulla questione del Tevere; Bramante, a quel che pare, diede il consiglio di ritrarre sui colli la Roma abitata, e fece il progetto dei lavori. La spesa per questo progetto, che è restato assai oscuro, era stata preventivata in un milione di scudi, per il che Leone X non ne fece poi niente. Il lettore potrebbe stupirsi che al tempo di Nicolò V, qual grande ideatore di progetti sull'edilizia romana, che voleva perfino render navigabile l'Aniene, non si sia pensato a provvedere al fiume, ma ciò si spiega pensando che il Tevere sotto il suo pontificato si mantenne abbastanza tranquillo.
Ci fu un'inondazione sotto Leone X nel 1519; poi la più terribile di tutte quelle avute sin'allora, quella dell'8 ottobre 1530. Era pontefice quel disgraziato Clemente VII, sul quale un destino crudele sembrò dilettarsi a radunare ogni sorta di sventure; tre anni prima egli aveva assistito al sacco di Roma. I contemporanei ci hanno lasciato descrizioni complete di quest'ultima inondazione. Vi sono anche parecchie iscrizioni che vi si riferiscono. Eccone una:
SEPTIMUS AURATUM CLEMENS GESTABAT ETRUSCUS, ARTE PEDUM SALIIT QUAM VAGUS VSQUE TIBER QUIPPE MEMOR CAMPI, QUEM NON COLUERE PRIORES AMNIBUS EPOTIS IX NOVA TECTA RUIT. VTQUE FORET SPATII IMPLACABILE ULTOR ADEMPTI ET CEREREM ET BACCHUM SUSTULIT ATQUE LARES. RESTAGNAVIT VIII. IDUS OCTOB. AN. MDXXX.
(sulle mura dell'antico convento degli Agostani a S. Maria del Popolo).
Cinquant'anni non bastarono, si disse, a rimetter Roma dai danni che soffrì in quell'inondazione, che raggiunse, secondo si può rilevare dall'idrometro di Ripetta, metri 18.97.
E poco prima Roma aveva subito l'invasione dei soldati di Carlo Quinto!
Allora il poeta Luigi Alamanni scrisse il suo poema Il Diluvio romano, che dedicò a Francesco I di Francia.
A quel tempo risale la prima storia delle piene del Tevere, scritta dall'auditore di Clemente VII, Ludovico Gomez, stampata a Roma nel 1531. Essa è la base di ogni posteriore lavoro sull'argomento. De prodigiosis Tiberis inundationibus ab urbe condita ad annum MDXXXI. Commentarii Romae apud F. Minutium Calvum, Anno MDXXXI, in-4.
Il secolo xvi vide anche le piene del 1547, 1557, 1572, 1589, 1598; ognuna diede occasione a pubblicazioni dei contemporanei. Andrea Bacci, famoso medico e scienziato, scrisse nel 1558 il suo libro sul Tevere, nel quale tratta della natura della corrente e delle inondazioni. Nel 1576 seguì la Tiberiade, trattato del giurista Bartolo da Sassoferrato. La piena del 24 dicembre 1598 diede occasione ad una quantità grandissima di scritti, e fu la più violenta conosciuta, raggiungendo un'altezza di metri 19.56. La corrente sommerse il ponte Sant'Angelo, e ne asportò i parapetti; abbattè metà del ponte Palatino (chiamato da allora ponte Rotto) e ruinò tutta quella fila di case che da Tor di Nona va a Ponte Sant'Angelo. Era allora papa Clemente VIII Aldobrandini.
Tre giorni prima era tornato trionfante da Ferrara dove aveva preso possesso degli Stati di Casa d'Este.
Pubblicò la bolla De luctuosa Tyberis e ordinò pubbliche preghiere.
Un epigramma, a Castel Sant'Angelo, ora scomparso, diceva:
ANNO CHRISTIANAE SALUTIS MDIIC DIE XXIV DECEMBRIS ERIDANI IMPERIO CLEMENS, ET PACE PER ORBEM AUREA REDDIDERAT SAECULA, ROMA, TIBI. CUM SUBITO TYBERIS ASSURGENS HUC EXTOLLIT UNDAS ET TE PENE SUIS CONTUMULAVIT AQUIS. SCILICET EXTOLLANT ANIMOS NE GAUDIA NOSTROS TEMPERAT ADVERSIS PROSPERA QUAEQUE DEUS. IO. FRANCISCUS ALDO BRANDINUS ARCIS HUJUS ET. S. R. E. COPIARUM GENERALIS PRAEFECTUS POSUIT
Furono pubblicati in quell'occasione importanti scritti del Castaldi, del Castiglione, degli architetti Carlo e Domenico Fontana, di Paolo Beni, e di altri, che ricercavano le cause del male e proponevano rimedi. Il governo pontificio prese atto dei progetti, chiese consiglio a tutti i tecnici d'Italia, emanò editti e decreti, ma nulla fece di concreto, si ricorse perfino agli incantesimi piuttostochè alla scienza: Pio V fece gettare nel fiume un Agnus Dei di cera, e credette con questo di aver scongiurato definitivamente nuove inondazioni.
Gli scritti sul Tevere continuano nel secolo xvii in grande abbondanza. Quel secolo contò cinque grandi piene negli anni 1606, 1637, 1647, 1660 e 1686. La terza cadde sotto il pontificato di Innocenzo X Pamphili, al tempo della famosa Olimpia Maldacchini, sua cognata, il cui favorito era un tal Conte Fiume.
Ciò diede materia allo spiritoso Pasquino per un salacissimo epigramma che fece scoppiar dalle risa tutta Roma; vi si vedeva raffigurata una donna nuda, delle linee ondulate, rappresentanti le acque, giungevano fino alla metà del corpo; e sotto si leggeva:
Fin qui arrivò Fiume.
Notevoli sono gli scritti di Filippo Maria Bonini: Il Tevere incatenato (1663) e dell'ingegnere Cornelio Mayer, olandese. Ingegneri e dotti chiedevano sempre più insistentemente che il Tevere fosse reso navigabile e che fossero ristabiliti gli antichi porti di Ostia e Porto. Numerose pubblicazioni trattano l'importante questione, dibattuta fino ai dì nostri. Si pubblicarono anche delle elegie sul Tevere; un poeta, Caracci, scrisse una Assemblea dei Fiumi che dedicò a Cristina di Svezia. Vi si raffigurava un Tevere piangente, uno coronato, uno lieto e uno festoso nello stile di quell'epoca, in occasione di feste di nozze o per adulare persone principesche.
Già nell'anno 1545 Francesco Maria Molza aveva fatto pubblicare la sua Ninfa Tiberina.[72]
Nel secolo xviii il Tevere inondò la città negli anni 1702, 1742, 1750, 1772, 1780, ma senza produr gravi danni. Il Brioschi dice che nel 1742 si pensò al primo lavoro serio e scientifico per risolvere la questione del Tevere: la livellazione del fiume dalla confluenza della Nera al mare, eseguito dagli ingegneri bolognesi Chiesa e Gambarini nel 1744, per incarico di Benedetto XIV, e stampata a Roma nel 1746.
I tecnici si erano mostrati contrarii alle proposte di arginare le rive del fiume, dare un'altro sfogo ai canali di scolo della città; deviare una parte della corrente, a monte di Roma, con uno o più canali, e accorciare con tagli opportuni il corso serpeggiante del Tevere al di sotto della città.
Essi avevano invece consigliato di togliere i mulini da Roma; di demolire i resti dei ponti Trionfale e Sublicio, di pulire con gran cura il letto del fiume, di dare maggiore apertura agli archi dei ponti, di rimuovere insomma tutti gli altri ostacoli, tenendo conto anche di quelli prodotti dall'isola tiberina (di San Bartolomeo).
I consigli pratici di questi ingegneri, nota Brioschi, rimasero infruttuosi, e dei loro lavori non è rimasto che il piano di livellamento, che ancor oggi può vantaggiosamente venire consultato.
Il xix secolo conta quattro grandi inondazioni; quelle del 1805, 1843, 1846, e del 1870. La prima accadde il 2 febbraio, mentre Pio VII era a Parigi, ove era andato ad incoronare imperatore Napoleone. In seguito a quella piena, Ponte Molle, che assai aveva sofferto, fu restaurato come oggi lo vediamo. Nei primi decennî del secolo videro la luce nuovi scritti sul Tevere, dei quali son degni di memoria quelli degli archeologi romani Carlo Fea, Nibby, Rasi e Piale.[73]
Anche la piena del 1843 accadde nei primi giorni di febbraio, le due ultime si verificarono il 10 e il 28 decembre. Queste segnano per un caso assai strano, il sorgere e il cadere dello stesso papa, Pio IX, l'ultimo dei papi che ha governato Roma da monarca terreno.
Quando avvenne la prima di queste inondazioni, il 10 dicembre 1846, erano passati solo cinque mesi dall'elezione di Mastai: il nuovo papa festeggiava i trionfi dell'amore e dell'entusiamo d'Italia, come non li ebbe forse mai alcun suo predecessore. Le sue vedute e azioni, ancora colorite idealisticamente, si unirono con la corrente di pensiero del tempo, per favorire quella rivoluzione nazionale, le cui onde scatenate dovevano poi il 20 settembre 1870 inghiottire lo stato della Chiesa.
Ma quando avvenne l'inondazione del 28 dicembre 1870, Pio IX vide le sue devastazioni come pontefice infallibile, ma anche come principe detronizzato e volontario prigioniero in Vaticano. Nello stesso tempo Napoleone III, precipitato dal trono, giaceva prigioniero in un castello tedesco!
L'inondazione del 1870 sarà forse l'ultima a devastare la città di Roma; se si può supporre che il nuovo governo trovi il vero rimedio al male. Esso ha trovato la questione totalmente insoluta, perchè dal 1803, sotto il governo pontificio non si mandò innanzi la cosa: si presero solo le misure relative al fiume dagli ingegneri Benedetti e Venturoli; fu messo l'idrometro a Ripetta, e diminuito il numero dei mulini galleggianti, che datavano dal tempo di Belisario, come asserisce Procopio.
Col 1 o gennaio 1871 comincia una nuova era nella vessata questione del Tevere. Le Commissioni di ingegneri del governo italiano e del municipio romano gareggiarono in attività. Ne risultarono molti lavori tecnici e memorie degli ingegneri Canevari[74], Possenti, Vescovali e Baccarini. Furono pubblicate altre opere private: ho già nominate quelle del Brioschi, che del resto appartiene alla Commissione, e raccomando ai lettori in modo speciale l'opera del Carcani pubblicata prima del 1870, alla quale debbo molte notizie, particolarmente per quel che riguarda i tempi antichi.[75]
Questi studi, dice Brioschi, condussero ad un progetto generale e tre particolari. Il primo si accorda (prescindendo dalle condizioni mutate) con quello che i tecnici avevano proposto ad Augusto, e che da lui fu cominciato ad eseguire, e fu poi tre secoli dopo ripreso da Aureliano.
Consiste soprattutto nel pulire il letto del fiume, liberarlo dagli ostacoli e regolarizzare la corrente. A questi si aggiunsero altri progetti, la cui arditezza, per quel che riguarda il costo e la grandiosità dell'impresa, fu poi superata di molto dal progetto di Garibaldi. Questi considerava il suo piano sotto tre aspetti, come Giulio Cesare: liberare Roma dalle piene; allacciare la città al mare con un canale navigabile ed un porto; finalmente bonificare la campagna romana.
Due ingegneri, Filopanti e Amadei, limitarono e ridussero questo progetto, concretandolo in queste linee: deviamento del Tevere in un nuovo letto; arginamento di questo nuovo letto; deviamento dell'Aniene nel medesimo; costruzione di un porto fluviale presso Roma; di un canale nella città e di una strada al posto dell'antico letto, fiancheggiata da case sui due lati.
La novità e l'arditezza dell'idea di allontanare da Roma il Tevere, l'arteria della sua storia, fece rumore nel mondo intero, che non ricordava più il progetto di Giulio Cesare. I difensori del progetto facevano anche brillare il miraggio degli innumerevoli tesori che si sarebbero trovati nel letto del Tevere.
Questa attraente previsione non poteva dirsi del tutto infondata. Solo dieci anni prima il rinvenimento dell'antico deposito di marmi sotto l'Aventino, fatto dal Visconti, aveva meravigliato il mondo intero, ed ora l'aspettativa di preziose scoperte era esaltata da quel che già si era rinvenuto negli scavi dell'Esquilino e del Viminale, dove erano sorti i nuovi quartieri.
Nonostante tutto ciò che è stato estratto dal secolo xv ad oggi, si può affermare con sicurezza che nel seno di Roma innumerevoli tesori aspettano la bacchetta magica che li porti alla luce. Il pensiero di questi tesori nascosti eccita in modo speciale la fantasia dei Romani; una volta, con l'autorizzazione del governo pontificio, io stesso ne fui testimonio, si ricercò nel Colosseo un tesoro del quale alcuni pretendevano di aver trovato in un libro l'esatta descrizione.
E non potrebbe il Tevere nascondere tesori nel suo seno intatto?
Se l'onda del Reno nascondeva il palazzo dei Nibelungi, come dice la leggenda, non dovrebbe il Tevere albergare qualche antica e più nobile stirpe? Che cosa non rivelerebbe il suo fondo allo sguardo dell'universo, quanto oro, quanto marmo, quanto bronzo, quante iscrizioni? Anche rinunziando a cercare nel suo fango il Licnuco d'oro di Gerusalemme, molto resterebbe a scoprire di raro e di prezioso che vi si è affondato nel corso dei secoli. Si narrava nel medio evo che Gregorio Magno avesse fatto gettare nel Tevere molte antiche statue, e questa favola probabilmente accenna al fatto che molte opere d'arte vi si sono, comunque, inabissate.
Del resto più volte il Tevere ci ha restituito opere dell'antichità.
Lo scultore Flaminio Vacca ci dà notizie in proposito nel suo ben noto scritto: Memorie di varie antichità, trovate in diversi luoghi della città di Roma (1594). Sotto Clemente X fu trovato a Ripa Grande un tesoro di monete d'oro. Già il Cardinal di Polignac († 1741) emise il progetto di pulire il letto del Tevere e trarne fuori gli oggetti antichi che vi si trovano. Nel 1773 si fecero ricerche di questo genere e il genovese Bernardo Poch scrisse in quell'occasione: De' Marmi estratti dal Tevere e delle iscrizioni scolpite in essi. Anche nello antico porto di Trajano furono trovate varie antichità e così nell'Aniene. Nel fondo di questo fiume deve ancor trovarsi una tavola di pietra coll'iscrizione di Narsete, che eresse il ponte Salaro, tavola che precipitò alla fine del secolo xviii. E quante preziose sculture che ornavano le splendide ville che sorsero un tempo sulle due rive, non potrebbe nascondere l'Aniene! Il progetto di prosciugare il Tevere per estrarne i tesori nascosti tornò in ogni tempo ad allettare gli spiriti: lo proponeva nel 1855 Annibale Nuvoli nel suo scritto Del Tevere; e nel 1818 si era già pensato di istituire a quello scopo una società.
L'idea dunque di un mondo fatato di tesori immersi nel fiume assicurò per un istante un interesse fantastico al progetto di Garibaldi. Ma quale più grande e mirabile tesoro per Roma, del Tevere stesso? Come rassegnarsi a perderlo per l'incerto rinvenimento di questi tesori?[76]
Ecco il giudizio del Senatore Brioschi sul progetto di Garibaldi: «Considerandolo dal punto di vista igienico, edilizio, e tecnico, questo progetto non dovrebbe nel suo complesso venire respinto, ma sotto altri aspetti esso ha in sè qualche cosa di assolutamente contrario alle esigenze e ai criteri della moderna civiltà. Mentre infatti tanti stranieri archeologi e storici vengono a Roma, a passar buona parte dei loro anni per investigare nei suoi monumenti e nelle sue iscrizioni la vita di questo popolo che fu il dominatore del mondo; mentre prima cura del governo nazionale fu di prender possesso di quelle località, dove nuovi scavi possono condurre a nuove scoperte, e di dare a queste ricerche un indirizzo saggio e scientifico; sarebbe inconcepibile determinazione quella di trattare Roma, senza una necessità assoluta, riconosciuta e dagli italiani tutti e dal mondo civile intero, come una città dell'America del Sud, e derubarla del suo più grande monumento, di quel monumento che più d'ogni altro ha determinato, fissato, prodotto la sua storia. Non so se il generale Garibaldi e i suoi collaboratori hanno pensato alle conseguenze del loro progetto; ma io oso affermare, e non dubito che molti saranno con me, che, piuttosto, io mi contenterei come Augusto, di diminuire in varî modi la violenza delle inondazioni, o secondo il consiglio di Bramante, riedificherei Roma sui colli».
Sembra del resto che Garibaldi stesso abbia limitato poi il suo progetto a diminuire la massa d'acqua del Tevere, lasciandolo scorrere assottigliato sotto i ponti, fra due ripe provviste di muraglioni e di banchine.
A Roma è infatti accarezzata l'idea di costruire un Lungo Tevere che da Piazza del Popolo conduca a Castel Sant'Angelo. Esso potrebbe, se grandiosamente costruito e senza badare a risparmiare i milioni, arricchire la città di un incomparabile ornamento. Pure non si potrebbero trovare, io spero, molti Romani che desiderassero di vedere trasportata a Roma la compassata e rigida figura di Firenze moderna coi suoi Lungarno dai monotoni parapetti di pietra.
L'Arno, che nell'estate si assottiglia tanto da scomparire, traversa Firenze tra due muraglioni eguali e diritti, ed ha l'aspetto d'un canale artificiale. Il Tevere invece ha una corrente vivace, impetuosa, piena anche nel cuor dell'estate, e la sua bellezza consiste appunto in questa sua natura selvaggia e libera.
Esso conserva fin dentro Roma l'aspetto di un libero figlio dei monti, e scorrendo nella città dei Cesari, non ha dimenticato i verdi colli ed i campi dell'Umbria, dalla quale discende.
Al suo ingresso in città, a Porta del Popolo, ai prati di Nerone, a Ripetta, esso rapisce lo spettatore per la idillica e campestre bellezza delle sue rive. In quale altra grande città sarebbe dato vedere un fiume così pittoresco, nel quale, presso il porto di Ripetta, un vecchio barcarolo, il Caronte del Tevere, da lunghi anni traghetta i passeggeri sulla sua antica barca coperta da un rozzo e sghembo tetto di legno, raccomandata ad una lunga fune? Egli lascia la riva laggiù, presso il luogo dove è stabilito l'idrometro, dove un giorno fu precipitato nel fiume il duca di Candia, figlio di Alessandro VI, e approda al più originale e naturale di tutti gli approdi, sulla rena della spiaggia, dalla quale si sale la ripa su scalini, che i piedi stessi si sono creati affondandosi nel terreno, per giungere subito, in mezzo alla più tranquilla solitudine, fra i verdi boschetti e le vigne.[77]
Al posto di questa classica riva io non mi rassegnerei mai a vedere dei noiosi e monotoni Lungotevere: questo alito della campagna e della solitudine, che penetra fin dentro la città, dà a Roma un incanto speciale e tutto suo.
La bellezza del Tevere, entro la città, consiste poi soprattutto nelle sue serpeggianti volute, che i gruppi architettonici delle sponde fanno così varie e pittoresche!
Il senatore Brioschi un giorno, mentre mi rassicurava riguardo al progetto di Garibaldi, dicendomi che sarebbe certamente caduto, riuscì ad infondermi un altro timore, affermando che si aveva l'intenzione di togliere al Tevere le sue più forti curve, tagliandole opportunamente, per facilitare la discesa della corrente. Così ora, appena sfuggito alle arginature di Garibaldi, il padre Tevere corre quest'altro serio pericolo!
I progetti in proposito non sono ancora definitivi ed ancora è incerto a che cosa riusciranno. Ahimè! già nel 1871 dovemmo dire addio per sempre all'antico, caro, storico aspetto di Roma; così, presto o tardi muterà anche l'aspetto del biondo Tevere. Si ricordino però gl'Italiani di tener conto dei desiderî di tutto il mondo civile: di non guastare l'antico senza assoluta necessità, e di mantenere con amore ciò che forma la bellezza tutta particolare della città, bellezza che non potrebbe più esserle restituita, ed il suo incomparabile incanto storico.
NOTA.
Trent'anni sono trascorsi da quando Gregorovius scrisse la storia del Tevere ed un altro capitolo sarebbe da aggiungere: le belle sponde, tra le quali scorreva libero ed indomito il Pater Tiberinus sono scomparse e solo a ricordarle ci restano gli acquerelli del Roesler Franz; hanno preso il loro posto i muraglioni ed i lungo-tevere tanto paventati dal Gregorovius che sono quasi compiuti ed il simulacro di Garibaldi, che ne fu il propugnatore indefesso, sta a contemplarli dall'alto del Gianicolo.
Questi giganteschi lavori hanno già dato decisivi risultati e la città è ormai al sicuro dalle inondazioni che prima la invadevano periodicamente; intanto si stanno riprendendo i progetti per assicurare la navigabilità da Roma al mare e quella interna fino al confluente della Nera.
Non fu possibile conservare alla città il suo aspetto tradizionale, ma a giustificazione ripetiamo col Geffroy:
«Si è sempre visto il periodo nascente infliggere a quello che lo ha preceduto qualcuno di quei danni che i contemporanei, attaccati alla tradizione, hanno tenuto come sacrilegi, in attesa che altri monumenti ed altri ricordi acquistino essi pure la dignità che viene dall'età e cadano finalmente alla lor volta, sospinti dalle nuove generazioni. E' la legge della vita».
L'IMPERO ROMA E LA GERMANIA
L'Impero, Roma e la Germania. A proposito dal Sacro Romano Impero di James Bryce (Londra 1867).
Uno studioso inglese, assai giovane ed intelligente, si è proposto un tema bello ed importante, quello cioè di seguire l'idea dell'Impero dalla sua origine alla sua fine (1806), nei suoi diversi momenti; ed ha condotto a termine il suo lavoro servendosi di una profonda cultura storica e di un'alta visione filosofica. Il suo libro è tra i migliori pubblicati sull'argomento, e deve essere per i tedeschi di grande interesse sentire la voce di uno straniero sulla questione del tanto esaltato e tanto vilipeso Romano Impero della nazione tedesca. Non pochi invero penseranno subito che un inglese d'oggigiorno non possa trattare questo tema che con volterriana ironia, ma dovranno riconoscere, letto il libro, che mai finora è stato parlato sull'argomento con tanta ampiezza di vedute, con tanto simpatico interesse per il principio imperiale e per la sua grandezza.
L'idea imperiale è, coll'idea della Chiesa, uno dei concetti fondamentali, sui quali si è basata tutta la civiltà occidentale. Ambedue son formazioni universali, creazioni latine, dalle quali è sorta la città universale per eccellenza: Roma. Esse hanno plasmato e, fino al nostro secolo, dominato il mondo europeo; sono state linee fondamentali della nostra civiltà. Se e perchè, oggi che le reliquie del medioevo spariscono nell'ultimo processo di dissoluzione, queste idee sono superate, e se la società europea abbia già acquistato la forza di prendere una nuova ed organica forma di universale confederazione, questo dovrà chiedersi ogni pensatore.
Bryce cominciò la sua trattazione col secondo secolo dell'antico Impero Romano, senza ricercarne le radici fuori della storia particolare dello stato romano medesimo e senza gettare un rapido sguardo sull'Oriente e sul principio autocratico giudaico.
Ho altrove parlato dello Stato teocratico e della missione universale del giudaismo, dal quale poteva solo aver origine l'idea cosmopolita del cristianesimo, che incontrandosi col principio di dominazione mondiale del popolo romano, assunse una forma del tutto nuova.
La conquista di metà del mondo conosciuto dovette far sorgere nello spirito romano il pensiero di uno stato universale romano che, alla caduta della repubblica, s'incarnò e prese forma decisa nel cesarismo, assumendo tutta l'importanza di un dogma politico.
Questo dogma tornò poi anche durante il medio evo nella coscienza romana, anche nei tempi più infelici della sua decadenza, quando Roma non era più che il Monte Testaccio della storia mondiale!
Roma caput mundi regit orbis frena rotundi, era il motto inciso nel sigillo degli imperatori tedeschi. Dante, l'Isaia del suo tempo, è tutto pieno di questo dogma, e non meno di lui Petrarca e Cola di Rienzo. I degeneri Romani si riguardavano ancora come i legittimi signori del mondo, e i depositarii dell'idea imperiale; di questa s'impadronì il papato, assimilandola all'idea giudaica di una religione di stato e di un popolo eletto. Così, collo sparire del principio cesareo pagano, Roma divenne colla Chiesa il centro della monarchia spirituale e temporale. Questo principio assunse una forza suprema nella storia dell'Occidente, che per lunghi secoli fu da esso tutta sconvolta; e nessuno può dirlo meglio del popolo tedesco, che per il primo, col grande avvenimento della riforma, cominciò a liberarsene.
Dal tempo di Costantino i confini dell'impero Romano divennero, a poco a poco, anche quelli della religione cristiana, e quanto più essa penetrava nello stato, tanto più si diffondeva in esso il principio imperiale che plasmò e formò la Chiesa romana. Essa divenne la forma religiosa dell'Impero. Al concetto dell'unità dell'Impero corrispondeva quello dell'unità della Chiesa. Il capo riconosciuto di ambedue era l'imperatore, che si chiamò poi anche Pontefice Massimo. Nacque allora la Chiesa imperiale romana. Come si chiamava romano l'Impero, così si chiamò romana la Chiesa. Ancora non v'era nessun papa; 400 e più anni dopo Costantino, si inventò la favola religiosa ben nota, secondo la quale, quel primo imperatore cristiano si ritirò umilmente in un angolo del Bosforo per lasciare al Papa il dominio di Roma e di tutto l'Occidente. Il concetto che il vescovo di Roma non fosse sottoposto all'Impero e all'imperatore, rimase del tutto ignoto a Costantino, e a tutti i suoi successori, ed anche ai Carolingi, agli Ottoni, ed agli Arrighi. La divisione dell'Impero in due parti, Oriente ed Occidente, non poteva in nessun modo attaccare il principio dell'unità dell'Impero Romano.
I Bizantini si chiamarono imperatori romani; essi nominavano i papi, o ne riconoscevano l'elezione.
Ma la caduta dell'Impero Romano d'Occidente sotto i barbari, e l'invasione germanica che, in mezzo alle onde limacciose dei barbari, diede all'Occidente una nuova conformazione, provocarono la separazione effettiva dell'Impero, e necessariamente insieme della Chiesa, che qua fu romano-germanica, là greco-slava. Anche nell'Occidente si delinearono così due correnti: romanismo e germanismo, sistema universale dell'accentramento, e libero individualismo. La storia d'Europa sino ai nostri giorni si è aggirata intorno ai loro contrasti, alle loro alleanze, alle loro conquiste, alle loro battaglie.
Ma se i Germani riuscirono a rovesciare l'Impero d'Occidente, non intaccarono però l'idea dell'Impero, che persistè: la sua tradizione era inestinguibile. Ogni vita politica delle nazioni era allora concepibile soltanto sotto le forme dell'Impero, che era il simbolo e l'espressione della civiltà stessa. Di più il principio imperiale fu validamente sorretto dalla Chiesa.
A poco a poco essa era entrata nella organizzazione complicata dell'Impero, che l'avea aiutata a sorgere, ed aveva ripreso il suo indirizzo nelle provincie tutte politiche e amministrative.
I suoi membri erano in istretti rapporti l'uno con l'altro, e ricorrevano per ogni questione a Roma, secondo la gerarchia, poichè già essa era riguardata come il centro ideale dell'Impero, dove il Vescovo, nonostante non poche opposizioni, rappresentava il capo spirituale della cristianità. Il solido organismo della Chiesa, che aveva ereditato tutta la civiltà del mondo or ora tramontato e lo spirito politico dei Romani, potè offrire resistenza all'invasione barbarica, e, nella rovina della società, mantenere in sè l'idea universale dell'unità della razza umana e della repubblica cristiana. Ho già parlato dell'importanza di questa tenace sovravvivenza della città di Roma, che ci sembra una fatale legge storica.
La Chiesa salvò e custodì l'idea dell'Impero fra le mura aureliane; trapiantò nei Germani questa idea latina, e potè così dipoi affermare di aver essa restaurato l'Impero affidandolo alla nazione germanica. Ma essa stessa, senza l'Impero, non avrebbe mai potuto mantenere la sua forza cosmopolita che sarebbe rimasta teorica, o si sarebbe frazionata in chiese di popoli e di terre diverse, perdendo così il principio dell'unità e dell'indissolubilità. L'Impero era il correlativo necessario della Chiesa.
Ora, poichè nello sfasciarsi dell'Impero Romano d'Occidente, fra le sue rovine rimase essa sola come un organismo incrollabile e un'autorità morale inconcussa, le convenne lasciar entrare nella cittadinanza romana i barbari che possedevano ora tutto l'Occidente.
La civilizzazione di quei popoli è il fatto più notevole e grandioso della Chiesa, così grandioso che difficilmente si può abbracciar tutto con parole. Dove l'Impero Romano aveva diffuso le sue leggi, la sua favella, le sue colonie, che erano riuscite a latinizzare i Germani, la Chiesa si preparava a gettare le basi nazionali della sua signoria gerarchica. Ma per molto tempo ancora i Germani, ritiratisi nel centro o verso il settentrione delle loro terre, lontani dal Mediterraneo latino, avevano opposto efficace resistenza al romanismo, difendendo il principio della loro individualità, che doveva prima o poi entrare direttamente in lotta con l'idea centrale del mondo latino: la Chiesa imperiale.
Ma dapprima la cristianità si romanizzò per le forme esterne dell'amministrazione e della lingua del culto, per le feste religiose, per i rapporti con Roma, la nuova Gerusalemme, sulla quale venivano a poco a poco ad incontrarsi i raggi di due monarchie universali: la politica e la religiosa.
Ci vollero tre secoli perchè i Germani fossero tanto maturi da prendere una supremazia decisiva nell'Occidente, e ciò avvenne sotto la forma dell'Impero Romano, ristabilito da Carlo Magno, re dei franchi cattolici. In questa risurrezione dell'Impero la Chiesa ebbe una parte preponderante. Il fatto dell'incoronazione di Carlo diede poi occasione ad una dibattutissima questione: qual'era l'origine dell'Impero di Carlo e dei suoi successori?
Di dove era scesa la loro autorità? Il popolo e il Senato romano si dissero nettamente fonte sola e legittima di quella autorità. L'Imperatore affermava da parte sua di aver ricevuto la corona da Dio, o per diritto di conquista, il che per i principi equivale sempre, praticamente, al diritto divino. I papi rispondevano che era stata opera loro l'incoronazione e l'erezione del nuovo Augusto, e dichiaravano che l'Imperatore aveva ricevuto la sua corona per investitura papale, come Feudo Christi, o del suo vicario e sotto questo titolo ancora la riteneva.
Ma questa famosa disputa appartiene ad un periodo posteriore, quando verrà ad affermarsi la suprema potestà del papato. Al tempo di Carlo Magno non c'era ancora nessuno che dubitasse che l'Imperatore, il successore legittimo di Augusto, di Trajano e di Costantino, non fosse anche il capo supremo di tutta la repubblica cristiana, ed anche, perciò, della città di Roma e del suo vescovo. Egli aveva confermato il papa nel suo ufficio, e questi era stato eletto sotto gli occhi dei suoi legati plenipotenziari; poteva anche giudicarlo col suo Tribunale. Carlo Magno indicò a reggere l'Impero suo figlio, in una adunanza imperiale, senza interpellare il pontefice: non vi poteva essere alcun alto potere legittimo che quello che veniva dall'Imperatore, o che era da lui riconosciuto.
Così si produsse per un momento nella monarchia universale di Carlo l'accordo e l'unità dell'Impero e della Chiesa, quando suo invitto ed incontrastato arbitro era l'Imperatore, il cui ufficio era quello di reggere e mantenere in armonia la repubblica cristiana come Imperator pacificus.
Ma questo stato ideale fu presto turbato dagli elementi d'inimicizia rimasti fino allora latenti. Il principio imperiale venne presto a trovarsi in contrasto col principio romano pontificio; l'Imperatore col Papa. La lotta di questi due, la più lunga ed acerba che la storia ricordi, produsse ed accompagnò il processo della civiltà europea. L'idea latina della monarchia universale fu soltanto pienamente messa in pratica dalla Chiesa Romana, erede della romanità classica, mentre i Germani vagheggiavano quell'idea piuttosto da un lato teorico, essendo troppo contrario a quel principio il loro spirito d'individualità e di nazionalità nel potere temporale (feudalismo) e spirituale. Essi avevano la tendenza costante e tenace ad allontanarsi dal centro. Già la divisione di Verdun aveva spezzato la monarchia occidentale di Carlo Magno, e al tempo degli ultimi Carolingi la maestà imperiale si era offuscata al punto da sottomettersi all'investitura papale. La Chiesa era venuta prendendo chiaramente la forma di una monarchia spirituale col vero centro in Roma, ed i suoi membri gerarchici eran venuti attorcigliandosi strettamente all'Impero, avviluppandolo in una inestricabile e soffocante intessitura. Centinaia di vescovi e di abati erano i potenti strumenti dei papi, tanto più pericolosi per l'Imperatore, inquantochè essi erano insieme suoi vassalli, principi dell'Impero, e membri della feudalità spirituale. La Chiesa si fece così ogni giorno più potente, finchè colla sua organizzazione, la sua armonia, e la sua forma spirituale rimase nei suoi dominii speciali; ma quello stesso indebolirsi progressivo dell'Impero la minacciò ad un tratto di tale rovina, che essa comprese esserle immediata e imprescindibile necessità di mantenere o di ristabilire l'Impero stesso nei suoi diritti.
Colla caduta dei Carolingi si erano determinate condizioni tali da produrre nuove invasioni barbariche: il papato vide in pericolo l'unità della Chiesa, poichè facilmente si sarebbero potute formare delle Chiese nazionali appoggiate ai principi locali, come già era stato tentato al tempo dei Carolingi.
Roma e l'Italia erano agitate da pericolose fazioni. I duchi nazionali d'Italia cercavano di rendersi indipendenti dall'Impero e di far latina ed italiana la corona imperiale, ciò che avrebbe portato la conseguenza di proclamare forzatamente Roma capitale dell'Impero. In Roma stessa la nobiltà acquistava potenza; essa mirava a fare dell'ufficio pontificio quasi un feudo derivante dalla sua investitura diretta; ciò che, al tempo dei conti di Tuscolo, le riuscì esattamente!
Ma la politica dei papi era nettamente tracciata fin dal tempo del ritiro di Costantino a Bisanzio. Non consentire in Italia nessun impero o regno nazionale, e mantenersi libera e fedele Roma. I papi volevano un Imperatore, e ne avevano bisogno; ma questo doveva star lontano da Roma, e rimanere unito ad essa solo da un principio teorico che essi stessi dovevano dirigere e governare. L'Imperatore doveva tutt'al più venire a Roma per ricevere in ginocchio la corona nella basilica di San Pietro, come un'investitura papale, e per giurare di difendere la Chiesa e di rispettare i diritti degli stati che da lei dipendevano. Ma aveva appena l'Imperatore formulato queste promesse, che il Vicario di Cristo cercava di disfarsi al più presto del suo gravoso e molesto difensore, rendendosene di fatto indipendente e riservandosi di chiamarlo in Italia ogni volta che il suo dominio temporale fosse minacciato da gravi pericoli, per imporgli il mantenimento delle sue promesse ed esigere l'opera del suo esercito.
Non senza gravi motivi la Chiesa aveva sempre cercato di mantenere la dignità e la potenza imperiale nella dinastia germanica dei Franchi, che era e rimaneva totalmente straniera.
Carlo, dopo aver donato ai papi l'ingente patrimonio, aveva abbandonato Roma, senza farla capitale e sede dell'Impero, e non per mistica deferenza per il pontefice, ma per quella stessa necessità politica che costrinse Diocleziano e gl'Imperatori che gli succedettero, a stabilire la loro sede là dove era necessario tener unite tutte le forze per resistere alle invasioni barbariche. Così anche il mondo germanico, al quale era passata l'autorità temporale, doveva cercare il suo centro di gravità nel suo interno, e non in Roma.
Per ciò, alla caduta dei Carolingi, la Chiesa si affrettò, per la necessità della propria conservazione, a rendere l'autorità imperiale ai Germani, contro il desiderio e malgrado gli sforzi dei duchi italiani. Ottone il grande fu così il secondo restauratore dell'Impero, che avvinse alla monarchia tedesca, alla quale rimase per sempre, formando l'Impero romano dalla nazione tedesca. Da Corrado, i suoi re si chiamarono, dopo l'elezione, anche re dei Romani, considerando la corona romana appartenente ai Germani. Così questo stato assunse la legittimità di un diritto, non però di un dogma, poichè in tempi posteriori i monarchi di Francia aspirarono alla corona imperiale e lottarono ancora per ottenerla, e ne portarono una volta il titolo uno spagnolo ed un inglese, eletti dagli Stati dell'Impero medesimo.
La continuazione dell'Impero sotto la forma di una dinastia nazionale (la tedesca) era però contraria al principio romano dell'Impero; giacchè, dopo che furon sopite nell'antica Roma le lotte nazionali, col diritto universale alla cittadinanza romana ascesero al trono senza distinzione Siriaci, Traci, Arabi, Spagnoli, Greci e Goti. Ogni libero cittadino di Roma poteva aspirare al supremo potere, secondo il concetto dell'Impero universale. La Chiesa assunse lo stesso principio, essendo anch'essa universale, Siriaci, Greci, Latini, Germani occuparono senza contrasto la Santa Sede. Ogni cittadino romano libero poteva occuparla, purchè vestisse l'abito ecclesiastico. A questo principio la Chiesa dovette gran parte della sua diffusione e della sua potenza; il giorno in cui essa rinunziò ad esso, e legò definitivamente la tiara ad una nazione, l'italiana, come il diadema imperiale si era ristretto ad un'altra nazione, la tedesca, quel giorno segnò la limitazione della potenza pontificia e la fine della funzione cosmopolita del Papato.
Intanto non era un semplice accidente storico quello che risolutamente attribuiva alla nazione tedesca la potenza imperiale. Il tempo ha mostrato poi il significato profondo di questo fatto che al tempo di Ottone I non era stato ancora afferrato. Infatti la nazione tedesca aveva in sè, più di molte altre, il principio stesso della universalità, e lo portò fino ai nostri giorni: l'Impero che la dominò e che durò fino al 1806, fu l'espressione della natura idealistica di questo popolo. Esso possiede da tempo quella facoltà che le altre nazioni hanno acquistato appena ai dì nostri, di penetrare nell'esistenza e nella coscienza profonda dei popoli stranieri, e di assimilarseli senza perdere la propria individualità, intendendo lo svolgimento completo dell'umanità in tutte le sue varie fasi. Lo spirito tedesco è atto a lasciar agire su di sè gli spiriti degli altri popoli, e farsi così, quasi direi, un'officina della mondiale civiltà. Esso somiglia in ciò al popolo greco, lo spirito del quale esso aveva preso dal popolo italiano, per adempire ad una missione mondiale. Novello Ercole, esso si è sobbarcato a molte fatiche per il bene degli altri, e anche all'increscioso e lungo servizio della tutela. Anche oggigiorno si intravede che questo popolo, dopo un languore solo politico, non intellettuale, si rialzerà ed avrà per sè l'avvenire, poichè la sua missione non è compiuta, e si compirà sotto nuova forma, ben diversa dalle conquiste imperiali! La nazione tedesca è paziente e giusta; la sua rivalità ha già un carattere di universalità; i popoli si lasciano attirare da essa, perchè subiscono l'influenza del pensiero filosofico della patria nostra. C'è presso di lei solo un popolo che abbia uno spiccato carattere mondiale, è la libera Inghilterra anglosassone, essenzialmente pratica nel suo dominio del mare, nelle sue industrie, nelle sue colonie.
Mentre così l'Impero si nazionalizzava con Ottone I, la Chiesa era minacciata da un grave pericolo; quello della separazione del germanismo dal romanismo, i quali prima o poi dovevano impegnare una lotta a morte. Seguiremo il processo di questa lotta, e considereremo i suoi risultati: la liberazione della Germania dal principio romano, e il ritorno del Papato e della chiesa imperiale al romanismo.
L'idea dell'Impero, Impero internazionale, astratto ed ideale, si era indebolita, mancandole una base nazionale; rifiorì subito e prosperò invece appena potè appoggiarsi alla nazione tedesca. Passarono tre secoli da Ottone I alla caduta degli Hohenstaufen, nel qual tempo la Germania si alzò ad un universale dominio. Sotto gli Ottoni la Chiesa dovette inchinarsi alla potenza imperiale. I papi furono, come i vescovi di tutto l'Impero, nominati dagl'Imperatori che si erano arrogati il diritto della loro scelta. Grande fu la potenza della dinastia Franca: sotto Arrigo III l'Impero toccò l'apice della potenza. Ricadde poi per la debolezza dell'infelice Arrigo IV. Le cause di questo fatto sono molteplici, ma due fra di esse sono essenziali: il movimento dell'aristocrazia feudale tedesca e la riforma gerarchica della Chiesa, compiuta dal grande pontefice Ildebrando. L'Impero si era completamente feudalizzato; l'aristocrazia dei conti e dei duchi cresciuta in potenza si era arrogata il diritto dell'elezione imperiale, e lo stesso aveva fatto la nobiltà spirituale dei vescovi, degli abati e dei prelati, i quali, forniti di smisurate proprietà, avevano preso il primo posto fra gli Stati, come principi dell'Impero. Così sorse un sistema clerico-feudale che fiaccò la Corona. Questo fu il principio di ogni susseguente indebolimento della Germania.
Al contrario il Papato, rialzandosi dalla sua profonda abbiezione, saliva ad alta ed universale potenza colla riforma di Ildebrando, il rivolgimento più grande e profondo che abbia avuto la Chiesa prima della riforma tedesca. La Chiesa non si staccò dall'Impero, ma si rese indipendente. La scelta dei pontefici fu sottratta all'influenza imperiale ed alla sua approvazione, e affidata ad un Senato di cardinali; la scelta dei vescovi toccò ai Capitoli. La Chiesa tornò alla gerarchia. Il celibato dei preti alzò una barriera fra il numerosissimo clero—che era uno stato nello stato, un popolo nel popolo—e la comunità, dalla quale prima il potere spirituale proveniva direttamente per elezione. L'abolizione dell'investitura laica del clero minacciava di sottrarre del tutto quest'ultimo alla potenza imperiale, e, mentre mirava ancora a fare di tutta Europa un feudo della Chiesa, il papa, con la donazione della contessa Matilde, si costituiva uno Stato nel cuore d'Italia, che, a detta del pontefice, gli serviva come emblema della sua signoria universale. Il diritto canonico, il cui nucleo principale era formato dal principio della sovranità assoluta del pontefice sulla Chiesa e sulle nazioni, fu contrapposto al diritto imperiale, e imperò solo nella lunga lotta contro le eresie, gli scismi, le falsificazioni dei monaci sulla donazione di Costantino e sui falsi decretali d'Isidoro. La grande lotta delle investiture agitò l'Europa per mezzo secolo e finì con un compromesso o concordato che lasciava la vittoria al Pontefice.
Il potere spirituale minacciava di soffocare quello temporale: lo sviluppo della civiltà e la libertà umana in ogni campo risentirono di questa tendenza, e l'Europa fu minacciata dal pericolo di un dispotismo orientale. Questo poteva aver origine o dal fatto che l'Impero soggiogasse la Chiesa o dall'altro che la Chiesa soggiogasse l'Impero. Ildebrando aveva allontanato il primo pericolo, ma esso ora ricompariva dall'altro lato, dal lato del papa. Gli Hohenstaufen lo combatterono; sulla loro bandiera è scritto il principio ghibellino: Separazione del potere temporale da quello spirituale; il clero privato di ogni diritto politico usurpato, e ricondotto alle primitive e pure condizioni cristiane; il potere temporale tolto al pontefice. Questa era l'idea germanica di Arnaldo da Brescia che non tramontò più, sebbene questo primo riformatore della debole politica dell'Impero cadesse vittima del suo tentativo.
Gli Hohenstaufen opposero all'autocrazia papale l'autocrazia bizantina imperiale; essi combatterono il diritto canonico col diritto romano che si era elevato già a scienza; quando i papi affermavano di essere i vicarii di Cristo, signore della terra e del cielo, e perciò anche padroni della terra per grazia e diritto divino, ribattevano i dotti germanici che, secondo il diritto romano, nessun altro monarca v'era sulla terra all'infuori di Cesare. Ma questa teoria aveva perduto ogni sua forza col feudalizzarsi dell'Impero. Quel monarca del mondo era in Germania stessa combattuto dalla nobiltà feudale, che si faceva sempre più forte, e in Italia dallo spirito nazionale e dalla democrazia. Il pontefice si alleò coi tre nemici dell'Impero; si nazionalizzò col principio guelfo; divenne italiano, patriottico proprio, mentre l'Impero andava perdendo radici in Germania sotto gli Hohenstaufen, e cercava in Italia una base. Ma non essendogli riuscito di fondersi con la monarchia tedesca nazionale, l'Impero doveva cadere.
La lotta vittoriosa dei comuni lombardi contro il Barbarossa segna il momento, in cui in Italia si formò una nazionalità latina e di carattere comunale; gli elementi germanici avevano perduto ogni forza ed ogni personalità. La feudalità era germanica, straniera, e importata: il comune latino la soverchiò; ma le città italiane non combatterono nella loro gloriosa guerra il principio imperiale romano, ma il principio feudale imperiale che era germanico. Il grande Barbarossa si ritirò saviamente dall'Italia, e rese alle città la loro indipendenza.
Allora l'Impero avrebbe potuto risorgere e riprender vita come monarchia tedesca, frenando a tempo questa rinuncia all'Italia. Ma il fatalissimo matrimonio siciliano di Arrigo VI, e la non ancora esaurita lotta di principii fra l'Impero e la Chiesa resero questo impossibile. L'astuto Arrigo arenò nel suo disegno di rendere ereditaria in Germania la corona imperiale a dispetto dell'aristocrazia temporale e spirituale. In Italia, dove egli aveva aggiunto alla sua casa le corone di Napoli e di Sicilia, restaurò il feudalismo germanico sotto le forme di principati feudali tedeschi, limitò gli Stati della Chiesa, e strinse un anello di ferro intorno a Roma ed al Papa. Ma la sua morte precoce, la vacanza dell'Impero e le lotte per la conquista del trono, depressero d'un tratto nuovamente la potenza imperiale. Il grande Innocenzo III impugnò la bandiera della nazionalità italiana, battè i signori feudali tedeschi, e si fece signore di uno Stato della Chiesa rinnovellato, e protettore d'Italia. Con questo famoso pontefice la Chiesa raggiunge il suo massimo splendore. Egli fece del Papato il tribunale supremo e internazionale d'Europa, ciò che era stato un tempo l'Impero ed avrebbe dovuto essere ancora e rimanere. Il potere temporale e spirituale per un momento si trovarono riuniti, e minacciarono l'Occidente con un dispotismo cesareo-papale.
Contro questa pericolosa potenza della Chiesa al tempo di Innocenzo, che risolutamente tendeva alla dominazione universale, mentre considerava il suo stato come un suo feudo privato, sorsero a combattere l'eresia evangelica e l'Impero monarchico rinnovato dal grande Hohenstaufen Federico II. Se questi due elementi si fossero alleati, una precoce riforma avrebbe fiaccato la Chiesa gerarchica; ma i tempi non erano maturi nel secolo xiii, e non erasi ancora formato un forte stato nazionale; ma già i germi di una riforma futura da parte della Germania si diffondevano per tutta Europa. Invano Federico II chiamò i re ed i popoli ad unirsi sotto la sua bandiera per strappare al papa la giurisdizione temporale e per rendere al clero il suo carattere spirituale; rimase solo nell'eroica lotta. Lo spirito indipendente dei reami che si erano sottratti all'autorità imperiale, l'aristocrazia e la cittadinanza democratica lo avversarono, alleati del fanatismo religioso, mentre egli stesso si era allontanato dalla terra nazionale germanica che, sola, poteva dargli autorità, potenza, vigore. La sua patria non voleva più in quel tempo sostenere guerre italiche per uno scopo dinastico; essa lasciò cader Federico. Egli morì incompreso dal suo tempo, in tragica solitudine, l'ultimo vero Imperatore del grande Impero; incapace di riunirlo tutto di nuovo in una forte forma monarchica, egli fu vinto. Gli epigoni della casa Hohenstaufen, Corrado, Manfredi e Corradino lottarono invano per la ricostituzione del legittimo Impero. Il tempo lo aveva soverchiato. L'accordo che sembrava regnare fra l'Italia e la Germania dal tempo di Ottone I, si sciolse; l'Italia si rese indipendente, di fatto, dall'Impero, le cui ultime provincie si dissolvevano grado a grado, mentre l'autorità imperiale si andava perdendo anche in Germania durante il lungo interregno.
Si potrebbe credere a questo punto che anche l'idea imperiale dovesse andar perduta sotto le rovine della dinastia degli Hohenstaufen; ma ciò non accadde in nessun modo. Essa continuò a vivere in Germania e in Italia come un principio tradizionale di gloria, e dalla Chiesa medesima essa fu conservata con cura. Solo in apparenza questa era riuscita vincitrice nella gigantesca contesa cogli Hohenstaufen; in realtà essa era profondamente scossa ed esaurita dalle sue lotte. Praticamente essa non poteva mantenere nelle sue mani l'artifizioso congiungimento dell'autorità temporale e spirituale; esso rimase come dottrina teorica della Chiesa, alla quale si opponevano lo spirito stesso del cristianesimo e l'indole occidentale. Il papato si vide isolato, solo, alla vertiginosa sua altezza. L'Italia, dove esso era tornato come un trionfatore, non gli offrì più una base razionale, poichè lo vide incapace a riempire l'abisso che separava tuttora i Guelfi dai Ghibellini, ed a rovesciare la democrazia comunale che era venuta in potenza anche nella città di Roma.
Gl'Italiani si erano liberati dall'Impero feudale tedesco coll'aiuto del Papa, ma non avevano ora nessuna intenzione di subire la signoria teocratica di lui. Lo spirito d'individualità insorse contro di lui, sotto la forma sia di repubblica cittadina, sia di tirannide o signoria. Si presentò intanto un altro pericolo: lo stato nazionale monarchico, del quale Federico II aveva portato in Sicilia il disegno, e che si sviluppava già in Francia. La debolezza della Germania e dell'Impero fecero sempre la forza della Francia: dopo la caduta degli Hohenstaufen l'autorità politica passò necessariamente con gran vigore a quella nazione. Con essa però si era alleato il papato per combattere gli Hohenstaufen; esso aveva chiamato in Italia una dinastia francese, e, con Carlo d'Angiò, l'aveva posta sul trono delle Due Sicilie. Così questa dinastia, appoggiandosi alla Francia, minacciò di divenire un pericolo per il papato come lo era stato, sullo stesso trono, la dinastia degli Hohenstaufen che si appoggiava alla Germania. Era cambiata la provenienza del pericolo, ma il pericolo rimaneva, e presto il papato se ne doveva accorgere a sue spese. Esso si affrettò a ristabilire l'impero nella nazione tedesca: Rodolfo di Asburgo fu eletto re dei Romani e come tale riconosciuto dal Papa. La restaurazione dell'Impero della nazione tedesca per mezzo degli Asburgo non era più che una vana apparenza. Gli Asburgo divennero volentieri i difensori della Chiesa, e ad essa abbandonarono senz'altro tutti i diritti imperiali, e riconobbero nell'Impero un feudo del pontefice. Già i primi fondatori di questa dinastia, nella quale la Chiesa ha trovato sempre finora (1866) la sua più valida difesa, cedevano al romanismo e ad esso si alleavano. Intanto però lasciavano il papato e l'Italia tranquillamente al loro destino, giacchè nè Rodolfo, nè Alberto passarono le Alpi per venire a prendere la corona Imperiale, ciò che Dante riprova così severamente. I nuovi difensori della Chiesa non salvarono nemmeno Bonifacio VIII, e non liberarono il papato dalla schiavitù francese, nella quale esso doveva necessariamente languire dopo aver voluto ad ogni costo annientare la potenza imperiale.
L'Impero, entità astratta, non aveva potuto trionfare sulla Chiesa gerarchica; la nazione francese lo potè. Il papato cadde per sempre dall'altezza a cui l'aveva innalzato Innocenzo III; esso era stato forte, finchè era stato in lotta coll'Impero; questa lotta l'aveva rafforzato; appena essa cessò, il papato si sentì debole.
Riprendendo l'idea di una completa signoria sulle anime e sui corpi di tutti gli uomini, di tutti i principi, di tutti i popoli, Bonifacio VIII lanciò la famosa bolla Unam Sanctam, ritorcendo la teoria del congiungimento dei due poteri nelle mani del pontefice, contro la monarchia francese, e, ciecamente sfidandola, precipitò in sua balìa. Il papato fu condotto prigioniero ad Avignone. Là si gallicizzò, e per settanta anni rimase vassallo dei re di Francia. La Chiesa d'Ildebrando e l'Impero degli Ottoni erano finiti, deformati dall'aristocrazia gerarchica e feudale, dall'arbitrio sfrenato e dagli abusi. Queste grandi forme universali, nelle quali aveva riposato per tanto tempo l'Occidente, si dissolsero rapidamente sotto l'influenza dell'individualismo germanico. La monarchia incipiente e l'approssimarsi della riforma laceravano quà in modo visibile e rapido, là in modo lento ed oscuro, la grande tela dello spirito medioevale.
Quando, al principio del secolo xvi, il papato abbandonò il suo terreno storico, l'Italia, e si ridusse nella lontana Avignone, in quella terra che agitavano terribili lotte fra Guelfi e Ghibellini, dovè tornare d'un tratto l'idea dell'Impero e dell'Imperatore come una via di salvezza.
Questo principio latino si risvegliò con tale delirante e ardente fede nell'animo degl'infelici Italiani, da ricordare l'attesa del Messia da parte dei Giudei. Infatti gl'Italiani di quel tempo somigliavano, nelle loro sventure agli Ebrei: Dante fu il loro profeta. Il suo immortale ditirambo: Ahi serva Italia di dolore ostello, ha avuto la sua significazione e giustificazione storica fino al nostro tempo, quando nel dicembre 1866 gli ultimi francesi si imbarcarono a Civita Vecchia. L'apoteosi dell'Impero fatta da Dante, egli ne vide l'aquila librarsi fino in paradiso, i suoi ammonimenti all'imperatore, il benvenuto dato ad Arrigo VII, sono prove del culto per l'Impero che aveva tradizionalmente profonde radici nel mondo latino, anzi in tutto l'Occidente.
Arrigo di Lussemburgo rispose all'appello dei Ghibellini e venne in Italia a placarla come Imperator Pacificus e a restaurare l'imperiale maestà, veltro allegorico, per dirla con Dante. Ma il suo tragico viaggio verso Roma e le infelici sue lotte in Toscana mostrarono la debolezza dell'ideale di fronte alle pratiche circostanze della vita, l'evanescenza del sogno di fronte alla realtà. Il suo sarcofago, nella ghibellina città di Pisa, è il monumento funebre di tutto l'impero.
Ma l'idea imperiale non era morta, e si nutriva col nuovo spirito della riforma. Sua arme era lo spirito irrequieto e anelante al meglio, che anima l'umanità, e con essa combatteva ancora la Chiesa dottrinaria. Mentre dunque l'Impero precipitava sempre più in basso, e perdeva ad uno ad uno i suoi diritti e le sue provincie, esso persisteva in Occidente come teoria filosofica, alla quale si alleavano gli elementi eretico-evangelici che uscivano dal seno della Chiesa corrotta.
Alle pretese degli arditi papi francesi, i quali, ritirati in Avignone al sicuro dagli Italiani e dai Tedeschi, reclamavano la signoria imperiale come loro dovuta, e sempre più cercavano di umiliare l'Impero, rispondeva lo spirito secolare del tempo nella scuola dei monarchisti, dei quali era guida e luce Dante Alighieri. La monarchia fu simbolo di rigenerazione, per la gioventù che cresceva; il principio monarchico segnò, caso unico nella storia, il progresso della riforma nello spirito umano per la sua liberazione dai ceppi della Chiesa gerarchica medioevale. L'opera famosa di Dante, De Monarchia, poneva le basi alla nuova scienza di un diritto di stato, sebbene egli non trattasse di stati reali, ma di una grande ideale monarchia, o repubblica universale, sotto lo scettro dell'Imperatore. Con una dialettica scolastica e sofistica Dante dimostrava che la monarchia universale, l'Impero, era necessario al bene della società umana; chè l'autorità imperiale apparteneva di diritto al popolo romano, e, attraverso questo, all'Imperatore; che l'autorità dell'imperatore derivava immediatamente da Dio e non dal pontefice. Dimostrava l'indipendenza dell'Impero dalla Chiesa, e, colla separazione dei due poteri già tentata da Arnaldo da Brescia e dagli Hohenstaufen, riduceva la Chiesa nei suoi veri confini.
Il principio ghibellino della indipendenza della monarchia fu subito diffuso nelle regioni più civili di tutto l'Occidente, considerato da un punto di vista più o meno filosofico. Le correnti di pensiero riformatore della Chiesa, muovendo dal dogma della povertà evangelica, col quale prima i Valdesi, poi i Francescani combatterono la dominazione universale della Chiesa, la sua gerarchia e il suo potere politico, si concentrarono nel principio monarchico, e la futura alleanza fra il regno e la riforma era già di fatto stabilita. Sorse una schiera di riformatori. I nomi di Marsilio di Padova, di Guglielmo d'Occam, di Giovanni di Janduno, di Enrico di Halem e di Luitpoldo di Bebenburg segnano lo svolgimento della nuova lotta per la riforma dell'impero occidentale e della Chiesa.
L'opera famosa di Marsilio, il « Defensor Pacis » costituiva il programma di questa grande ed acuta scuola di riformatori, precursori di Lutero. Essa andava oltre i concetti ancora scolastici di Dante; non si limitava soltanto ad affermare l'indipendenza dell'Imperatore dal Papa, ma pretendeva senz'altro la sottomissione del Papa alla potenza imperiale. Negava e metteva in ridicolo la teoria tomistica dell'infallibilità e del primato del pontefice; negava la sua autorità spirituale medesima come capo supremo della Chiesa; affermava l'uguaglianza evangelica di tutti gli Apostoli e di tutti i sacerdoti. Il Concilio diceva essere superiore al pontefice, e affermava unico documento originario della dottrina cristiana essere la Sacra Scrittura.
Di questi elementi nel tempo si servì Ludovico il Bavaro, quando intraprese la famosa lotta contro Giovanni XXII. Secondo la teoria di Dante, che il popolo romano fosse la fonte dell'autorità imperiale, e secondo la dottrina dei monarchisti, che il re dei Romani, una volta eletto, non aveva bisogno dell'incoronazione, nè dell'unzione, nè della confermazione del Papa per essere di pieno diritto Imperatore, Ludovico prese in S. Pietro a Roma la corona imperiale dalle mani del popolo romano o dei suoi delegati, i baroni laici. Fu questa una rivoluzione, il crollo del principio legittimista degli Hohenstaufen, che negava al popolo romano questo diritto di sovranità.
Nel giudizio del suo tempo, Ludovico democratizzò l'impero non solo, ma deprezzò la corona dei Cesari fino a farne un feudo del ruinato Campidoglio e della meschina repubblica di Roma. La sua azione che appare così acuta che potrebbe esser chiamata moderna, non era però l'espressione di una convinzione reale, ma di un sentimento passeggero, insolente ed altero. Questo primo Imperatore che ebbe la corona dalle mani del popolo, fu un uomo senza tenacia di volere e senza genio. Egli si disse, in presenza del Papa, peccatore pentito, e ad Avignone chiese umilmente l'assoluzione e l'incoronazione papale. Egli rese al pontefice la sua autorità, sebbene gli Stati di Germania avessero a Rense e a Francoforte, proprio in quei giorni, fatto la dichiarazione solenne della indipendenza della corona imperiale dalla Chiesa e dal Papa. Questa famosa dichiarazione fu il risultato pratico di quella lotta fra Ludovico e il papato, nella quale l'Imperatore era il reale, se non apparente, trionfatore. Essa proclamava la separazione della Germania da Roma, separazione che prima o poi doveva di fatto verificarsi. L'Impero, che si andava sottraendo così all'autorità della Chiesa, si circoscriveva sempre più strettamente, o per limitarsi finalmente al solo Impero tedesco.
Le idee di Dante e del Petrarca sull'eterna significazione di Roma come capitale universale e metropoli dell'umanità, e centro della universale monarchia, trovarono già in quel tempo, col teorico rinascere dello spirito romano, un'espressione fantastica nel Campidoglio medesimo. Mentre il papato stava lungi nella sua cattività francese, l'Imperatore lontano anch'esso e scaduto dall'antica dignità, e l'Impero stesso era dissolto, sorse il tribuno popolare Cola di Rienzo e proclamò sulle rovine capitoline gl'inalterabili diritti di sovranità del popolo e del Senato romano, dinanzi al tribunale del quale, egli invitò a presentarsi l'Imperatore, i principi dell'impero, e gli alti prelati della Chiesa. Nel suo delirante pensiero si trovava pure un metodo non privo di logica; ed i suoi sogni non erano soltanto parto accidentale della sua fantasia, ma spiegabili derivazioni del processo storico dell'idea dell'Impero e di Roma, che avrebbero potuto ricondurci ad una misura e ad un disegno politico che una volta per sempre offrisse un programma degno di seria considerazione.
Così l'Impero doveva di nuovo essere nazionalizzato italiano; un italiano doveva, per libera elezione di tutti i delegati della penisola, per un plebiscito anzi, essere fatto Imperatore e risiedere in Roma. Tutte le città furono dichiarate libere e fu accordato loro il diritto di cittadinanza romana, a titolo originario della loro libertà; tutti furono invitati a radunarsi, per mezzo dei loro delegati, in Roma loro madre, ed a formare una confederazione italiana, dalla quale fossero esclusi gli stranieri. Il motto moderno l' Italia farà da sè, e l'idea della indipendenza nazionale italiana e della sua unità furono in sostanza già nel pensiero di Cola chiari e precisi, e ciò assicura al geniale sognatore uno dei primi posti fra i patrioti d'Italia. Il grande disegno trovò ostacolo nella fugacità del genio politico di Cola, nella gelosia delle città e dei tiranni della penisola, nell'avversione della Chiesa, ed anche perchè era vana e irrealizzabile l'idea di una restaurazione dell'antica repubblica romana. Con Cola il dogma politico di Roma tramontò, ma la rinascita del mondo antico si effettuò sotto forme ideali e letterarie. Vicino a Cola dobbiamo porre il Petrarca, il grande apostolo del Rinascimento, in cui si formò allora quell'ambiente particolare, sul quale poterono dissolversi e perdersi i partiti dei Guelfi e dei Ghibellini ed anche l'idea dell'Impero.
Il disegno di portare in Italia la dignità imperiale fallì così completamente, ed essa rimase alla corona tedesca. Anzi, caso strano, più d'una volta essa fu rivestita dal ramo slavo del Lussemburgo, poichè i successori di Arrigo VII furono i re di Boemia. Con Carlo IV, nipote di Arrigo, l'Impero toccò l'infimo grado della sua potenza: secondo il Villani, questo re si recò alla sua incoronazione come un mercante si reca alla messa. Secondo le istruzioni del pontefice egli si trattenne in Roma le ore strettamente necessarie per compiere la cerimonia dell'incoronazione. Abbandonò Roma e l'Italia in mezzo alle ingiurie e alle beffe, ma con la borsa piena, il più deplorevole Messia che mai apparisse in Italia, dove era stato chiamato dalle vane e idealistiche speranze nutrite dal Petrarca; come un tempo suo nonno da quelle di Dante! Il viaggio di Carlo a Roma finì di distruggere l'ideale dei ghibellini che fin allora avevano voluto vedere nell'Imperatore il salvatore d'Italia.
Nondimeno, l'idea imperiale continuò a vivere, e il potere imperiale fu ancora teoricamente riguardato come il più alto e più atto a reggere il mondo; così l'Impero ebbe un vivace risveglio al principio del secolo xv con Sigismondo, re dei Romani, ultimo discendente di Arrigo VII. La causa di questo risveglio teorico, ma che pure ebbe anche pratici risultati, deve ricercarsi nello stato di profonda decadenza nel quale era precipitata la Chiesa, la quale chiese di nuovo aiuto al potere imperiale per tentare una via di rinnovamento e di salvezza. Il ritorno del papato da Avignone a Roma fu seguìto dalla rovina della Chiesa, la più spaventevole che mai si sia data.
La sconfinata corruzione della Chiesa minacciava di farle seguire la sorte dell'Impero, e di scinderla in più Chiese regionali; e per la durata di due pontificati sembrò imminente una separazione di essa in una metà germanica ed una romana. Stava in giuoco il concetto fondamentale della sua universalità: allora accadde che d'un tratto l'idea dell'Impero acquistò una forza internazionale nuova. La dottrina di Dante e degli imperialisti del tempo di Ludovico il Bàvaro riprese vigore e fu seguita anche in Francia, dove il principio monarchico si era molto sviluppato dopo la lotta fra Bonifacio VIII e Filippo il Bello.
Tutti i popoli dell'Occidente guardavano ora all'Imperatore come al capo della universale Repubblica e al legittimo giudice della Chiesa, il quale doveva chiamarla dinanzi al suo tribunale supremo per sentenziar sui corrotti pontefici. Gerson e Pietro d'Ailly presero il posto occupato un tempo, ma in un cerchio ben più ristretto, da Marsilio da Padova e dai suoi compagni di lotta. Il Concilio si erigeva sul pontefice: Sigismondo lo convocò, come re dei Romani, a Costanza. Questo grande Concilio, che, per l'autorità dell'Imperatore, depose papi e fece scegliere da un Conclave di deputati nazionali il nuovo Papa, segnò un'epoca nella storia del mondo. L'idea dell'Impero apparve allora per l'ultima volta come un principio internazionale di ordine e di pace, che portava con sè il ricordo di un glorioso passato. Ma con esso si chiudeva la storia dell'Impero, poichè esso più non riposava sopra un potere effettivo, ma sopra un dogma ideale.
Col secolo xv tutti i rapporti politici subiscono grandi variazioni: i popoli escono dalle forme cattoliche della Chiesa e dell'Impero, e assumono forma moderna. Il mondo europeo entra in una fase totalmente nuova del suo sviluppo, e nel secolo xvi esso offre l'aspetto di varii nuovi gruppi di stati uniti fra loro per mezzo di alleanze e di leghe determinate da bisogni dinastici o nazionali. Il grande rivolgimento di tutto l'Occidente, cominciato alla metà del secolo xv e continuato nel seguente, fu operato da molti e possenti fattori: invenzione della stampa, rinascimento della cultura e dell'arte classica, caduta sotto i Turchi dell'Impero bizantino, caduta del dominio arabo in Spagna, formazione della monarchia spagnola, scoperta dell'America, fondazione della potenza della dinastia degli Asburgo, sviluppo della monarchia francese, e finalmente la Riforma.
Dall'anno 1439 la Corona imperiale tornò agli Asburgo, e rimase in quella dinastia fino all'anno 1806 senza interruzione, se non di brevissima durata. Federico III fu anche l'ultimo re che fu incoronato a Roma, se eccettuiamo fra i successori Carlo V che fu sì incoronato dal Papa, ma a Bologna, nessun altro Imperatore fu unto e incoronato più dalle mani stesse del pontefice, ma i re tedeschi dopo la loro elezione si chiamarono, secondo gli articoli imperiali, imperatori eletti, e fu aggiunto: del Sacro Romano Impero della Nazione tedesca. Di fatto, si trattava veramente di un Impero tedesco. Si spezzò così ogni legame fra Roma e l'Italia, e l'Impero, e l'Imperatore tedesco non si recò più in quella regione che per trattare affari politici o dinastici che casualmente lo avessero richiesto.
La dinastia degli Asburgo, nella quale era di fatto divenuta ereditaria la carica imperiale, radunò sotto di sè, dal tempo di Massimiliano, uno straordinario dominio, dal Reno al Danubio inferiore, ed a questo fatto si deve la durata della dignità imperiale in quella casa e lo slancio che la storia della Germania ha avuto fino ai nostri giorni. Infatti l'Impero, avendo perduto le sue provincie primitive: l'Italia, la Borgogna, la Provenza, la Svizzera, cercò nel dominio degli Asburgo, nella parte orientale dell'Impero, il suo centro di gravità, là dove i popoli danubiani potevano formare una massa compatta contro l'irruzione di nuovi barbari, Turchi e Slavi, entro i confini. Bisognava poi pensare a stabilire un ostacolo ad occidente contro il pericoloso estendersi della monarchia francese. Ma tanto questi che quei confini furono debolmente muniti, e la caduta di Vienna sotto i Turchi fu solo impedita dall'aiuto della Polonia, mentre i confini occidentali furono ignominiosamente abbandonati. La dinastia degli Asburgo, preoccupata soltanto di sè e delle sue terre ereditarie, lasciò la Francia spingersi fino al Reno, mentre, per motivi concernenti la sua politica particolare, cambiava nel secolo xviii la Lorena, provincia imperiale, per la Toscana, che divenne così un possesso dei secondogeniti della casa di Asburgo.
La formazione di questa sovranità austriaca, che si andava aggravando sulla Germania propriamente detta, minacciava di ridurre il popolo tedesco ad un'appendice dell'Austria, come giustamente dice Bryce. Gli Asburgo salirono presto sotto Massimiliano e Carlo V ad una tale potenza, che essi furono di nuovo preoccupati delle antiche idee di dominio universale, ma con basi molto più reali e positive di un tempo. Massimiliano tentò seriamente di realizzare la grande idea di farsi pontefice, per riunire in sè i due poteri temporale e spirituale e riformare Chiesa ed Impero; suo nipote Carlo V, dopo avere ereditato l'Olanda, la Spagna intera, Napoli, e conquistato Milano, si vide arbitro di un grande Impero cesareo, quale nemmeno Carlomagno aveva posseduto con tanta estensione e potenza d'armati.
Carlo V, imperatore, avendo ricacciata nei suoi confini la Francia, eterna rivale della Germania, ingranditasi a spese dell'Impero, si ripresentò nella storia dell'Occidente un breve periodo simile a quello reso illustre da Carlo Magno; un periodo storico che poteva consentire la formazione di un dominio imperiale costretto nelle ferree leggi del Cesarismo, valido a rendere indipendenza e libertà ai possedimenti già sottratti all'Impero.
Per coronare l'edificio, Carlo V avrebbe potuto abbattere il Papato, e dar mano egli stesso alla desiderata riforma; così avrebbe riunito le due potenze della Chiesa e dell'Impero, e, nuovo Costantino, fondato una nuova Chiesa imperiale e nazionale.
Ma in questi giganteschi disegni non si teneva conto dello spirito germanico; la Riforma, questo grande fatto liberatore, diede nel momento opportuno un gran colpo al Cesaropapismo di quell'arbitro del mondo. Essa fu il risultato di un secolare processo svoltosi nella Chiesa e nell'Impero; suoi precursori furono tanto gli antichi Imperatori germanici che combatterono l'assolutismo e il potere temporale dei Papi, quanto gli eretici evangelici che avevano combattuto il dogma, la gerarchia e la supremazia spirituale esclusiva del pontefice. L'idea romana dell'accentramento fu soverchiata e soffocata dal principio della libertà del pensiero, e l'idea della comunità universale, rappresentata fin allora dalla Chiesa cattolica romana e dall'Impero a lei legato, si perdè nella luce della nuova libertà spirituale.
Gli effetti della rivoluzione degli stati dell'Occidente sarebbero stati incalcolabili, se Carlo V si fosse messo a capo del movimento della Riforma. Ma alcuni possedimenti del suo impero, come Napoli, Milano, e la Spagna bigotta, lo designavano nemico della Riforma, mentre questa stessa, per il suo principio di decentramento, era pericolosa nemica dell'idea imperiale e della sua inseparabile Chiesa imperiale. La Riforma colpì a morte l'idea imperiale; e fu monarchica, perchè aveva bisogno dell'appoggio dei principi per poter tener testa all'Imperatore ed al Papa. La vittoria del principe Maurizio di Sassonia pose termine a questo movimento, arrestando d'un colpo la potenza di Carlo. Il riconoscimento della confessione di Augusta fiaccò definitivamente il principio dell'Impero e della Chiesa imperiale.
Era necessaria un'aspra lotta di cento anni combattuta dalla Chiesa riformata per la propria esistenza contro la Chiesa cattolica romana, dalla quale si era scissa, perchè l'opera di Lutero e dei suoi seguaci acquistasse solida consistenza. Questa terribile lotta per l'esistenza fiaccò la Germania e la rese politicamente debole. La faticosa liberazione della nostra patria dalla Chiesa di Roma le costò in fatto uno sforzo immenso che l'esaurì più profondamente, che non avesse fatto l'antico legame con Roma e l'Italia che aveva per secoli asservito la nostra forza nazionale ad un dogma politico-religioso, in una terra straniera. Ma lievi furono i sacrificii fatti dalla Germania dal tempo delle guerre di religione fino alla pace di Vestfalia, poichè valsero a conquistare la libertà della fede e del pensiero, che è la base della moderna civiltà europea. Il grave pericolo che derivava dalle primitive tendenze monarchiche della Riforma, per cui si poteva ancora pensare a riunire il potere temporale e quello spirituale in un pontefice, principe protestante (secondo l'aforisma cujus regio ejus religio ), fu allontanato e superato per lo spirito germanico d'individualità e per l'indipendenza territoriale dei principi tedeschi. Invece di una Chiesa generale riformata si ebbero tante singole Chiese, ma anche così frazionato, lo spirito della Riforma rimase abbastanza potente da tener testa alla grande nazione del cattolicismo, sia pure colla perdita di qualche provincia. Il principio della libertà di coscienza ha oggi generalmente trionfato; anche in Italia, nella immediata vicinanza del pontefice, esso è divenuto un diritto, oramai acquisito per sempre. E' il diritto universale di cittadinanza dello spirito occidentale: la vecchia Chiesa, legata all'Impero o allo Stato, scompare; essa ricade, libera anche essa, in seno alla società.
La Riforma aveva risollevato il diritto medioevale dell'Impero, ma il trattato di Vestfalia, riconoscendo l'eguaglianza delle due confessioni, nell'Impero, legittimava la separazione di esso da Roma.
Nel sistema medioevale Chiesa ed Impero non formavano che un solo organismo; l'Imperatore era difensore di quella, doveva vegliare sulla sua unità ed inseparabilità, e soprattutto dar opera ad estirpar l'eresie. Ma ora principi protestanti sedevano in Parlamento presso i cattolici; ora l'Imperatore era eletto da voti di cattolici e da voti di eretici, contemporaneamente. La corona rimaneva elettiva: perchè non avrebbe potuto un principe protestante essere eletto all'Impero? Ma questo segreto disegno dei protestanti non fu mai colorito. La dignità imperiale rimase, di fatto, agli Asburgo, per via ereditaria, e per la tradizione e per la grande potenza privata di quella dinastia. L'Austria frattanto dominava dunque in Germania, e l'Imperatore mirava solo a scopi che concernevano l'Austria stessa, il che non mancò di suscitare nelle grandi case tedesche un vivo malcontento. Già al tempo della pace di Vestfalia il famoso giurista Chemnitz (Hippolytus a lapide) mirava a strappare la corona agli Asburgo, sostenendo che il loro dispotismo imperiale, il loro egoismo di schiatta erano le sole cause della decadenza della nazione tedesca. « Extirpatio domus austriacae » è il profondo grido che i protestanti gettarono poco prima del 1648. Essi volevano che tutto ciò che sapeva di romano, fosse estirpato dalla Germania, che doveva crescere da sè per propria virtù e potenza, e attaccarono naturalmente anche l'idea imperiale latina che ancora trovava un'espressione nella casa di Asburgo, così strettamente legata a Roma. Così colla pace di Vestfalia essi ottennero, la Francia si affrettò ad assentire, che i principi territoriali della Germania fossero dichiarati sovrani.
Quel trattato dichiarava finito l'antico Impero, ed infatti esso non era più che un'alleanza fra molti stati indipendenti retti da piccoli sovrani assoluti, il cui capo titolare rimaneva l'Imperatore, i cui antichi diritti sulla aristocrazia del Parlamento (Reichstag) non erano più che un'ombra. La sua potenza non gli derivava dall'essere Imperatore, ma dal popolo delle terre appartenenti alla corona degli Asburgo, a mantenere ed ingrandire le quali, assiduamente mirava.
L'Impero non più romano ma tedesco condusse dopo la pace di Vestfalia un'esistenza che offre la visione storica più deplorevole. Gli stati vicini erano venuti intaccando le sue terre di confine; la Francia era giunta, a forza di astuzia e di abili manovre, fino al Reno; la Svezia e la Danimarca avevan conquistato le Provincie del Nord; la Polonia si stendeva fino all'Oder; le terre numerose degli Asburgo formavano, nel sud-est, uno Stato a sè che tentava di assorbire a poco a poco la Baviera. Il resto della Germania era un caos di staterelli sminuzzati, di signorie territoriali, di principati retti a sistema assoluto, nei quali il sentimento nazionale era caduto più in basso che nella vicina e meno divisa penisola italica. L'Impero stesso era incurabile; le riforme fatte da un grande imperatore, quale fu Giuseppe II, dovettero naufragare.
Per la rigenerazione nazionale e politica della Germania, caduta in così tristi condizioni, doveva nel nord presentarsi un aiuto insperato. La storia della formazione e dello sviluppo della monarchia prussiana è l'unica bella pagina nella storia della lunga decadenza dell'Impero. In seno a questo nobile germe giaceva nascosto l'avvenire della patria. Lo stato prussiano divenne la rocca del protestantismo nel continente europeo, e suo ufficio fu quello di difendere la Germania contro le ingerenze di Roma, contro la Francia, le popolazioni slave che minacciavano ad Oriente, e contro la Scandinavia che minacciava al Nord. Questo ufficio fu coscienziosamente eseguito.
L'erezione della Prussia a regno nel 1701 segna un'epoca nuova nella storia tedesca. Da quel punto questo piccolo stato vide nettamente tracciata dinanzi a sè la strada che doveva seguire. Necessariamente esso aspirò ad una supremazia sulla parte settentrionale della Germania, e si trovò rivale della casa d'Austria per l'egemonia tedesca. L'esistenza della monarchia prussiana era evidentemente e fatalmente pericolosa per l'Impero: si determinò un dualismo di natura politica e religiosa che già la Riforma aveva prodotto, e che ebbe per effetto particolare la formazione della monarchia prussiana. La lotta della dinastia degli Hohenzollern contro la dinastia degli Asburgo, del regno tedesco contro l'Austria e l'Impero, fu il punto centrale della storia della Germania, le cui vicende ormai dipenderanno dalle vicende di quella lotta. Federico il Grande, vincendo Imperatore ed Impero, consolidò validamente la sua monarchia; questa, come già quella degli Asburgo, ma in minori proporzioni, ripeteva le sue origini da una piccola dinastia mezzoslava; ma seppe tedeschizzarsi, questa piccola monarchia egoistica, ciò che non riescì mai alla dinastia degli Asburgo con tutte le sue terre ereditarie, e divenire un'immagine, un modello, un microcosmo della Germania, assorbendo a poco a poco antiche famiglie tedesche, annettendosi questa e quella provincia dell'Impero, e tollerando entro di sè, l'una vicino all'altra, tre confessioni che godevano tutte di un eguale diritto di cittadinanza. Il sorgere e lo svilupparsi della Prussia, questo nuovo germoglio fiorito dal tronco di un vecchio ed illustre albero rinnovellato, l'Impero, è una mirabile evoluzione, una fatale trasformazione dell'Impero stesso. Quando essa sarà compiuta, la Prussia passerà, tramonterà anch'essa, cioè ascenderà gloriosamente nella nuova giovane Germania. Lo spirito della nazionalità tedesca, con le sue speranze nel futuro, con la sua attività letteraria e scientifica, si rivolse, fin dal tempo di Federico il Grande, alla Prussia come al cuore della patria, benchè essa, come già l'Austria degli Asburgo, sembrasse seguire egoistici disegni d'ingrandimento, senza preoccuparsi troppo dello sviluppo nazionale. Ma le guerre d'indipendenza delinearono nettamente la missione della Prussia. Queste guerre salvarono la nazionalità germanica: l'Impero non c'entrava più, era da un pezzo tramontato; esse spezzarono il nuovo dominio romano universale che si era alzato sulle sue rovine.
L'idea universale dell'Impero, combattuta dalla Riforma, dalla separazione della Germania da Roma, dal trattato di Vestfalia e dal sistema politico che ne derivò, era risorta con forza mirabile dalla Rivoluzione francese e formò il nuovo Cesarismo napoleonico. Il geniale conquistatore, di razza latina, riportò sul suo trono il principio della monarchia mondiale, mentre egli, come tutti i suoi predecessori, si dichiarava successore di Carlo Magno. Con abile mossa storica, egli si impadronì di un antico e tradizionale principio, e con esso animò, infuse uno spirito al suo Impero improvvisato, che, altrimenti, sarebbe stato una riunione ingente di paesi conquistati, che anche un Attila o un Gengiskan avrebbe potuto raccogliere. Secondo la sua gigantesca fantasia, egli somiglia per essa come per molti altri tratti a Cola di Rienzo, ma in grandi proporzioni, la dominazione romana doveva rinnovarsi e passare dalla nazione tedesca, nella quale si era a lungo indugiata, a quella francese. Questa era detta una Translatio o Restitutio Imperii ad Francos. Il ristabilimento della Chiesa cattolica, che la Rivoluzione aveva abbattuto, sta in stretta relazione con questo disegno napoleonico. Con la Chiesa egli strinse il Concordato. Egli si rivolse al Pontefice per essere da lui solennemente unto ed incoronato, come a lui si era un tempo rivolto il re franco Pipino, per ottenere da lui, in nome della Chiesa, il riconoscimento e la convalidazione della sua usurpazione.
Così si trovava ora di nuovo in Europa un Imperatore coronato dal Pontefice vicario di Dio, il quale, di fronte all'Italia e a Roma, prendeva l'attitudine che avevano avuto gli antichi Imperatori germanici. Egli s'incoronò con la corona di ferro dei Longobardi. Chiamò suo figlio re di Roma, e, come doveva logicamente accadere in questo rinnovamento dell'idea imperiale, entrò poi in lotta col Pontefice, come i suoi predecessori, e gli contese, come essi, lo stato, il dominium temporale. Anzi egli giustificò il fatto di togliere al Papa le sue terre con l'espressiva dichiarazione che egli intendeva revocare tutti i privilegi che gl'Imperatori suoi predecessori avevano concesso al Papa. Cola di Rienzo aveva un tempo emesso un editto simile, quando aveva proclamate nulle le donazioni fatte dagl'Imperatori tutti, fin dal tempo di Costantino, che ritornavano di diritto al popolo e al Senato romano.
Bryce osserva che l'Impero tedesco ed il suo Imperatore si trovarono di fronte all'usurpatore Napoleone nella stessa situazione, in cui si trovò l'Impero bizantino, quando Carlo Magno usurpò la corona di Costantino. Ma Vienna o Regensburg fece meno opposizione al conquistatore ed alle sue pretese di dominio mondiale, di quello che non aveva un giorno fatto Bisanzio. Quando, alla formazione della Confederazione del Reno, gli Stati tedeschi del Sud si staccarono dall'Impero, e riconobbero Napoleone quale loro protettore, l'Imperatore Francesco II depose per sempre la corona di Costantino, di Carlo Magno, di Carlo Quinto; rimase Imperatore dei suoi dominî ereditarî di Austria. Non si nota qui una singolare coincidenza di forme storiche rinnovate? Non si poteva considerare quella famosa Austria, il baluardo dell'Europa contro i Turchi, come una specie di nuovo Impero romano d'Oriente? E non subì essa la stessa sorte dell'Impero bizantino, che si andò lentamente esaurendo?
Quando apparve l'atto d'abdicazione dell'Imperatore tedesco del 6 agosto 1806, esso non produsse, osserva con stupore il Bryce, nel mondo che lo udì, un'impressione molto maggiore di quella che aveva prodotto, al tempo del conquistatore Odoacre, la caduta dell'antico Impero romano. Nondimeno ogni patriota ed ogni uomo di pensiero doveva essere profondamente commosso dalla considerazione che in quel momento la più antica istituzione dell'Occidente toccò il suo estremo tramonto. Quell'impero infatti datava da Giulio Cesare! Aveva avuto, come nessuna altra istituzione all'infuori della Chiesa, 1800 anni di esistenza! La dignità imperiale era rimasta per un millennio, salvo interruzioni momentanee, in seno alla nazione tedesca. Le più grandi memorie della storia dell'Occidente erano ad esso indissolubilmente legate; i caratteri, le vicende, le forme varie dei popoli erano inseparabili dalle vicende, dalle forme, dal carattere di esso. L'idea più nobile ed alta, quella della solidale unione dell'umanità intera, scopo verso il quale questa deve assiduamente dirigersi, aveva costituito il principio fondamentale e particolare di questo Impero. Ora, venendo esso ad estinguersi, non doveva essere una mancanza sensibile nell'organismo europeo?
Occupato da lunghi anni dalla trattazione di questo tema, che è uno dei fondamentali per chi studii la storia della città di Roma nel medio evo, ho accolto con vera soddisfazione il bellissimo libro del signor Bryce e ne ho fatto tesoro, e quest'opera è invero ben degna di ogni considerazione per l'oculatezza e per la chiarezza della visione che l'autore ha saputo risuscitarci dinanzi, dell'idea imperiale nella storia. Egli mi aveva già in Roma partecipato le sue idee, oggetto per me di vera ammirazione. Nemmeno un tedesco potrebbe aver trattato quel soggetto con maggior perspicacia e profondità. Il suo libro si aggiunge alla lunga serie di trattati di scienza politica sul principio imperiale, serie che comincia col Libellus de Imperatoria Potestate del IX secolo e che continua fino ai dì nostri. Gli studiosi conoscono a questo proposito la collezione di Schardius e Goldast.
Nella conclusione della sua opera, Bryce così parla, a glorificazione dell'Impero, e nelle sue parole pulsa ancora il pensiero di Dante e di Petrarca:
«L'opera dell'Impero medioevale fu benefica, ma a proprio danno; esso nutrì, apparentemente combattè, le nazioni che erano destinate a prendere poi il posto occupato da lui; esso pose un freno alle barbare popolazioni del Nord, e le ridusse ad una forma di civiltà; favorì e conservò le arti e la letteratura dell'antichità. In tempi di violenza e di dominazione, esso impose ai suoi sudditi il dovere di un'ubbidienza razionale verso una autorità, il cui motto era: Pace e religione. In un tempo, in cui più si inasprivano gli odii di nazionalità, esso tenne alto il principio di una confederazione dei popoli europei, nuocendo così a sè stesso, poichè aveva bisogno di un potere dispotico centrale. Non basta: esso insegnò agli uomini il retto uso dell'indipendenza nazionale, insegnò loro ad innalzarsi ad un concetto di attività e di libertà spontanee, concetto che è sopra, ma non contro, la legge, e per giungere al quale l'indipendenza nazionale, se bene intesa, non è essa stessa che un mezzo». «Da Augusto a Carlo V il mondo civile intero credette alla sua necessità come fondamento di un eterno ordinamento del mondo, e i teologi cristiani, non meno chiaramente dei poeti pagani affermarono che la caduta dell'Impero doveva essere anche la rovina del mondo. Pure ora l'Impero è caduto, ed il mondo sussiste, e si accorge appena del mutamento. Ma che cos'è questo che abbiamo detto in confronto a tutto ciò che si potrebbe dire su questo profondo e vastissimo argomento? Ciò che qui sarebbe necessario, e che praticamente è impossibile, si è considerare l'Impero come un tutto, come una sola istituzione, nella quale ha avuto il suo centro la storia di diciotto secoli, e la cui forma esteriore è rimasta immutata, mentre è cambiato il suo spirito e la sua essenza. Chi, del resto, sarebbe capace di rappresentare esattamente il papato? Coloro che non vedono in esso che un gigantesco albero Upa, pieno di fronde e di eresia, sono tanto lungi dall'aver penetrato il mistero della sua esistenza, quanto i politicanti convenzionali, che con frasi rotonde spiegano il suo sviluppo, lo analizzano come un'opera dell'arte meccanica, misurano le sue energie e danno uno sguardo sommario e semplicista ai suoi effetti, così ai buoni come ai cattivi. Egualmente il sacro romano Impero è superiore ad ogni descrizione o spiegazione. Sapremo ben poco di lui quando avremo conosciuto le idee che nutriva Giulio Cesare, allorchè gettò le sue basi, sulle quali Augusto seppe costruire, o quelle di Carlo Magno che ne ricostruì l'edificio, o quelle di Barbarossa e del nipote di lui, quando si diedero a frenarne la precipitosa ruina. Le genti future ne sapranno poco di più, quando considereranno il medio evo ad una maggiore distanza di noi, che viviamo ancora in un periodo di reazione contro ogni forma medioevale. Essi vedranno e concepiranno nuove forme della vita politica, la cui natura noi potremmo appena intuire. Ma quando essi vedranno più vasto orizzonte, non vedranno perciò più profondamente; al contrario la loro vista sarà superficiale e leggera. L'Impero, che noi scorgiamo ancora come una gigantesca figura all'orizzonte del passato, si sommergerà sempre più nell'ombra ai loro occhi, quanto più essi seguiranno la strada dell'avvenire. Nondimeno, come potrà esso mai perdere la sua importanza nella storia del mondo? In lui infatti si è concentrata la vita dei secoli passati, tutta intera; da lui è fiorita tutta la vita del mondo moderno».
Tornerò a questo punto, andando verso la conclusione, all'anno 1806, nel quale si spense definitivamente l'Impero, nella forma tedesca degli Asburgo. La vita europea si svolse allora per sedici importantissimi anni in mezzo a lotte di supremazia e di sviluppo, che diedero origine, sulle rovine dell'Impero, a forme sociali di tale natura, che sembrarono avere distrutto fino ai suoi ultimi resti il medio evo per compiere un nuovo assetto politico. Si spense dunque così del tutto quel principio dello spirito occidentale, dal quale erano germogliati, e nel quale avevano trovato la loro espressione, l'Impero e la Chiesa? Oppure, quale aspetto visibile e riconoscibile hanno questi assunto?
Osserviamo che l'idea imperiale non tramontò nel 1806, poichè Napoleone se ne impadronì e la trapiantò dalla Germania, sua sede ormai legittima, in Francia, fondando una nuova monarchia universale. Era suo disegno di dare a questa, come autocrate, i cui vassalli fossero i re dell'Occidente, eguali leggi ed eguale indirizzo verso una forma generale di civiltà. Come un antico imperatore egli si spinse nell'Oriente barbarico per allargare i confini dell'Impero, ed avrebbe trasportato fino a Bisanzio le aquile imperiali, come aveva fatto a Roma, se la natura stessa delle cose lo avesse consentito. La sua storia meravigliosa, se considerata esteriormente e da un solo punto di vista, sembra risuscitare il gigantesco sogno mondiale di Roma, ed il vecchio principio dell'Occidente, dal quale l'Europa potrà liberarsi solo, quando avrà raggiunto una forma superiore di libertà e di civiltà. Il grande sogno si dileguò per incanto al soffio possente del libero vento che, dal tempo della riforma tedesca, conduce invincibilmente l'Europa alla libertà e combatte e ricaccia indietro lo spirito medioevale della reazione. La riforma ha sciolto dai vincoli il pensiero individuale; la rivoluzione francese ha fatto libera e cosciente l'attività e l'energia della nazione. Ambedue hanno cooperato a illuminare i popoli, a farli liberi, forti e clementi, tali infine che non possono più tollerare alcun dispotismo militare. La caduta di Napoleone dimostrò chiaramente l'impossibilità di un grande potere centrale. Il mondo diverrebbe più facilmente tutto repubblicano o cosacco!—era questo un motto famoso del grande uomo.
Quando il cesarismo napoleonico precipitò, era giunto il momento di condurre a termine una riforma politica per mezzo di un concilio di popoli. Le circostanze si presentavano simili a quelle del tempo, in cui l'Europa vide il papato minacciar rovina, e tenne a Costanza un concilio. Come allora inutilmente si tenevano i concilii, così ora inutilmente si bandiscono i congressi. Il Congresso di Vienna ebbe tanto buon successo nel dare un nuovo assetto politico all'Europa, quanto il Concilio di Costanza nel portare riforme sostanziali nella Chiesa. Così accadde che la storia degli ultimi cinquant'anni non contiene propriamente altro che la reazione dei popoli contro gli accordi presi al Congresso di Vienna e la distruzione dell'artificiale edificio che questi avevano edificato. L'Impero dunque non fu ristabilito, ma rimase il concetto—non di una potenza centrale europea, ma di una autorità internazionale, atta a tenere uniti ed alleati i popoli colla pace e nella religione;—questo concetto, che esprimeva un bisogno serio e reale, che tornava a farsi sentire, fu tradotto in atto nell'alleanza delle potenze. Il Sacro Romano Impero si cambiava nella Santa Alleanza, la quale, per quanto nociva allo sviluppo politico degli Stati, aveva originariamente per base un principio di universale umanità.
Allora, guidata dalla Santa Alleanza e dai suoi Congressi, comincia la vergognosa reazione contro le libertà che con tanta fatica erano state conquistate. Questa reazione non riuscì: i popoli dicevano sempre più chiaramente le loro ragioni e le loro aspirazioni verso un lontano ideale di autonomia politica e d'indipendenza.
La scossa napoleonica aveva destato i popoli dalla loro apatia, e, sotto la sua impressione, le nazioni si eran levate, coscienti, alle guerre della liberazione. Egualmente Napoleone, abbandonando ormai il vecchio sistema dello stato medioevale, aveva attraversato l'Europa, spargendo su tutti i popoli il fecondo seme democratico della rivoluzione francese. Questo seme non andò perduto, e le vibrazioni della rivoluzione continuavano, allargandosi in cerchi sempre più ampi e sonori. Riforma e principii del 1789, erano virtù nascoste e latenti in quel seme. La teoria dell'equilibrio artificiale delle potenze, che doveva assicurare la pace all'Europa, cadde completamente, avendo la base in un'innaturale costrizione e in un mutilamento teorico delle nazioni, tale che le riducesse alle volute proporzioni rispettive! La partizione della Polonia era l'ultima grande preoccupazione della politica del Gabinetto europeo. La lotta del nazionalismo contro le tendenze della politica ai nostri giorni è stata ben combattuta, e talora vittoriosamente. Ristabilire la nazionalità voleva dire rispettare, anzi difendere la sua unità e la sua indivisibilità.
In questo movimento di tutta l'Europa due nazioni hanno acquistato di fresco un'importanza decisiva: l'Italia e la Germania, queste due antiche sorelle nemiche, che un ideale d'universale dominio aveva per mille anni tenuto in contesa perenne. L'una era stata sede della Chiesa e del pontefice; l'altra dell'Impero e dell'imperatore. Esse si erano divisi fra loro questi due poli del mondo politico. Esse avevano fatalmente subìto la medesima sorte di universale grandezza e di debolezza nazionale, l'una per causa dell'Impero, l'altra per causa del Papato. Nell'una s'insinuava tenacemente la Chiesa come una potenza straniera (romana); nell'altra egualmente l'Impero come una potenza straniera (tedesca). Ed anche quando l'Impero fu tramontato, e precipitò la grande monarchia francese, le medioevali relazioni fra le due regioni continuarono, poichè l'Austria rimase in possesso della Venezia e della Lombardia, mentre cercava di mantenere la supremazia sulla Germania intera. Così continuava una fittizia autorità dell'Impero, mentre l'Austria acquistava, coi secondogeniti della Casa regnante, una grande potenza nel centro d'Italia. Manteneva intanto, con le strette relazioni colla Chiesa, quell'ufficio di protettrice della Santa Sede, che già fu suo nel medio evo, e non perdeva la sua influenza sulla Chiesa stessa. Recentemente stringeva con Roma il famoso concordato.
In ambedue queste regioni, l'Italia e la Germania, la lotta per la nazionalità offre aspetti analoghi. Il Piemonte e la Prussia, divenuti regni sul principio del secolo XVIII, si rassomigliano per la loro situazione nordica, per le loro tendenze nazionali ed anche per la tenace fermezza dei loro sforzi, che presero le mosse da così modesti principî. Così anche offrono fra loro dei punti di contatto i loro due uomini di Stato dei tempi recenti; soltanto le proporzioni e le energie furono differenti. Scopo della nazione italiana erano l'indipendenza e l'unità, e il Piemonte si mise alla testa della popolazione tutta per raggiungerle. Le nemiche erano l'Austria, col suo resto di potenza imperiale, il paese straniero ed oppressore, e la Chiesa, che nel 1815 aveva riottenuto il suo stato politico, l'alleata naturale dell'idea imperiale, la nemica naturale dell'unità d'Italia, come di tutta la civiltà moderna. La vittoria fu ottenuta straordinariamente presto per il concorde sforzo nazionale, l'aiuto della Francia, le condizioni della Prussia che lottava per lo stesso fine, e l'opinione pubblica europea che voleva alfine libera l'Italia.
Il governo di Napoleone III, senza la volontà del quale l'Italia non sarebbe mai stata libera, rappresenterà una pagina molto importante nella storia del nostro secolo, giacchè in esso si trovarono riunite le idee tutte del tempo e le tendenze politiche, e in esso agirono forze e correnti contraddittorie in modo assai caratteristico; l'imperatore stesso poi aveva dato il primo impulso, con e senza la sua volontà, a quel tentativo di riforma politica che aveva naufragato al Congresso di Vienna. Era suo il programma delle Convenzioni del 1815: una vera rivoluzione nella diplomazia europea! Egli si fece così l'alleato dei popoli che lottavano per la nazionalità, e restaurò quell'Impero francese di suo zio che aveva soggiogato le nazioni. Ciò faceva il suo governo incerto in tutte le direzioni; egli spezzò la Santa Alleanza e la lega delle potenze. Si alleò egli stesso coll'Inghilterra, e ciò gli assicurò il trono, quel trono che l'Inghilterra stessa, d'accordo colle terre del continente, aveva rovesciato quando vi sedeva sopra suo zio. Questi artificî diplomatici però non avrebbero fatto di Napoleone l'uomo dell'epoca, se egli stesso non si fosse impadronito, per svolgerle, delle tendenze della sua nazione durante quel periodo, come già nel 1848 aveva trovato la sua strada appunto al primo scoppiare di quelle tendenze. L'aiuto che egli offrì all'Italia, ormai matura per la liberazione, gli valse una riputazione ed una preminenza in Europa. Egli era salito al trono in mezzo agli assalti che Oudinot aveva dato alle mura di Roma, e portato e sostenuto dal clero cattolico. Egli si assicurò Roma, e con essa avocò a sè la più grande questione del secolo, quella dell'esistenza della Chiesa medioevale come potenza politica; era il suo turno oramai, dopochè l'Impero che l'aveva fondata e sorretta aveva toccato la sua fine. Napoleone divenne il protettore e l'avvocato della Chiesa e occupò quel posto di giudice ed arbitro internazionale, che prima di lui solo gl'imperatori tedeschi avevano propriamente occupato. Effettivamente ricomparve per un momento nella storia l'idea dell'Impero nella potenza temuta di Napoleone III. E' stato detto che egli avrebbe potuto, imperatore, raggruppare le nazioni latine sotto la sua egemonia, ma l'indomabile spirito nazionale lo incamminò su altra strada. In quest'uomo tutto fu dubbioso, equivoco; la sua spada, a due tagli, ferì anche lui stesso. La bomba di Orsini affrettò nel suo stato la reazione. Napoleone, protettore di Roma, doveva anche divenire protettore della nazione italiana che tendeva all'acquisto e di Venezia e di Roma. Lo spirito nazionale d'Italia lo soverchiò e gli strappò successivamente le varie parti del suo primitivo programma. Il progetto di una confederazione guelfa, della quale doveva far parte l'Austria, ormai ridotta in tristi condizioni, e della quale il Papa doveva prendere la direzione, venne meno dinanzi alla lotta che l'Italia intraprese per raggiungere l'unità, nella quale essa si rinchiuse come per un processo di cristallizzazione. Le provincie della Chiesa furono acquistate da lei col consenso di Napoleone: la convenzione di settembre limitava ancor più la potenza del Pontefice, e della posizione politica della Chiesa faceva una pura questione territoriale italiana. Seguì poi la emancipazione della nazione italiana, appena formata, dalla Francia per mezzo dell'alleanza colla Germania, il grande risultato della quale fu duplice: la rovina dell'Austria e l'acquisto della Venezia. Napoleone, usando per l'ultima volta della sua autorità di arbitro internazionale, consegnò questa all'Italia. Il ritiro dei francesi da Roma nel dicembre 1866 annunziò definitivamente che Napoleone rinunziava alla sua preminenza imperiale e lasciava pienamente libera l'Italia una.
A questo punto un gran mutamento si opera nella storia d'Europa, che il tempo renderà più visibile e che a noi, attualmente, sembra consistere principalmente nella caduta irreparabile dell'idea imperiale e della Chiesa imperiale. Mentre Napoleone abbandonava il Papa al suo destino, mentre l'Italia si metteva nettamente in contrasto col papato, essendo divenuta nazione libera, completamente indipendente da Roma, fu dato il colpo di grazia a quell'antico principio romano, che, non poteva più sussistere quando la Chiesa aveva perduta la sua sovranità. La debolezza del papato, inoltre, significa la debolezza del principio di legittimità e di autorità. L'antica lotta dei due principii dell'Occidente, dello spirito latino e dello spirito germanico, è stata finalmente decisa, almeno così sembra, coll'unità d'Italia a spese della Chiesa, e colla grande battaglia di Sadowa a spese degli Asburgo e della potenza francese. Lo spirito tedesco della riforma ha ottenuto sui campi della Boemia una nuova vittoria, che sarà feconda di conseguenze, sul mondo medioevale, e verosimilmente renderà alla Germania la perduta potenza. L'Impero si rinnoverà colla Casa degli Hohenzollern che ascende invincibilmente verso di esso, ma non sarà più una potenza cesarea di conquista, all'uso antico, ma un'alleanza nazionale, la quale, posta nel cuore d'Europa, starà a vegliare e salvaguardare la pace, la libertà, la civiltà dall'Occidente. In questo nuovo Stato tedesco la Chiesa sarà quantità trascurabile, perchè non più politica, ma socialmente libera. Nell'avvenire questo Impero tedesco potrebbe radunare intorno a sè in una confederazione tutti gli elementi germanici dell'Occidente, mentre i gruppi dei popoli slavi e latini si riunirebbero analogamente fra loro. La storia mira evidentemente a questo triplice risultato. Allora una eguale potenza di tutti i popoli, finalmente appagati in tutti i loro bisogni nazionali, ed una civiltà libera e generale, a cui si giungerà certamente attraverso mille vie e mille canali, potranno preservarci dal pericolo di uno squilibrio di potenza, sia dall'una che dall'altra parte.
Quando io scriveva le precedenti pagine, non poteva prevedere quale stupendo sviluppo fosse per prendere in breve volger d'anni la storia della mia patria. La folle dichiarazione di guerra di Napoleone III, derivata dal culto barbarico per l'idolo militare che ancora perdura in Francia, ha prodotto conseguenze di primaria importanza storica. L'intelligenza e la forza della nazione tedesca spezzarono la temuta potenza della Francia imperiale come una canna marcita. L'imperatore francese, i suoi generali, i suoi marescialli, il suo grande esercito, una volta terrore del mondo, come per una malìa, son fatti d'un tratto prigionieri di guerra. Il grande Impero francese si dissolse in polvere al tocco elettrico dello spirito nazionale tedesco, ed il papato, l'antico papato imperiale e millenario, si piegò anche esso inaridito ed inerte. Il re-papa latino e lo imperatore latino precipitarono insieme, ed in cospetto di Parigi assediata, nella notte di Natale del 1870, 1070 anni dopo Carlomagno, l'Impero, potenza nazionale tedesca, è ritornato alla dinastia protestante degli Hohenzollern. La fine dell'Impero nel 1806 appare oggi dunque soltanto come il principio di un interregno, il più lungo che la storia tedesca conosca. Ora noi incominciamo la riforma politica della Germania. E' sorprendente e bello poter oggi considerare la tenacia e la durata dell'idea imperiale, che è divenuta ora mirabile espressione del principio moderno della libertà di coscienza e della nazionalità.
Roma, Natale, 1870.
UNA SETTIMANA DI PENTECOSTE IN ABRUZZO (1871).
Una settimana di Pentecoste in Abruzzo. (1871).
Dopo un inverno faticoso, l'amico Lindemann[78] ed io volemmo concederci lo svago di una gita, durante la settimana di Pentecoste, nel selvaggio ed ancora così poco noto Abruzzo.
Avevamo intenzione di vedere Rieti, Aquila e il Gran Sasso d'Italia, scendere dai monti di Popoli al lago Fucino, visitarvi le opere di prosciugamento del Torlonia, festeggiare la gloriosa resurrezione dell'Impero tedesco sul campo di battaglia dell'ultimo Hohenstaufen, e poi tornare a Roma per Tagliacozzo sulla via Valeria. Tutta questa regione, indescrivibile paradiso, la visitammo nella fioritura d'un limpido maggio. Voglio adesso parlarne un poco, almeno dell'ultima tappa da Popoli a Tagliacozzo, perchè parlare dell'interessantissima Aquila mi porterebbe via troppo tempo.
Per godere appieno del paesaggio bellissimo della terra d'Abruzzo, che dovevamo attraversare, salimmo la vigilia del giorno della nostra partenza da Aquila, verso sera, sulla fortezza di questa città. Essa appartiene all'epoca di Carlo V; una possente aquila imperiale bicipite, di pietra, ed una lunga iscrizione latina, ricordante la costruzione di questo castello per opera del vicerè don Pedro di Toledo, marchese di Villafranca, stanno ancora sul ben conservato portale di marmo, di bella architettura cinquecentesca. Questo castello situato in piano, circondato da una fossa profonda, rammenta quello simile che si trova a Milano. Esso non ha più alcuna importanza strategica;[79] serve solo come caserma e dovemmo abboccarci con l'ufficiale di picchetto, per ottenere di essere ammessi a visitarlo. Quando rispondemmo alla sua domanda, relativa alla nostra nazionalità, che uno di noi era tedesco del sud e l'altro tedesco del nord, alleati d'Italia, quell'ufficiale dall'aria annoiata e dalle forme erculee, si rischiarò in volto, ci salutò, togliendosi il berretto, e ci invitò ad entrare. Come si cambiano i tempi! Anche solo pochi anni fa il nome della nostra patria avrebbe ottenuto l'effetto opposto!
Dai merli del castello contemplammo quel superbo panorama degli Abruzzi, dove le catene dei picchi nevosi si spiegano solenni e severe. Aquila è situata sui contrafforti del Gran Sasso, da Aquila vediamo questo re degli Appennini immediatamente sulla nostra sinistra. Nella trasparenza dell'aria vespertina esso appare così vicino che si distinguono benissimo gli anfratti, gli spigoli, i rilievi della sua piramide; eppure ci vogliono due lunghi giorni di viaggio per giungervi! Pochi hanno asceso questa montagna, ed essa è quasi mitica e sconosciuta, come tutta la regione limitrofa.[80] E' un nodo montuoso di figura allungata, di forme gigantesche e massiccie, almeno per quel che si può giudicare vedendolo da Aquila. Dal centro di questa massa montuosa si alza ora una specie di cono o di gobba, coperto di neve; questo è il Gran Sasso, il punto più alto d'Italia: 9000 piedi di altezza.[81] Alla destra di Aquila si stende un'altra regione montuosa, senza picchi nevosi, la cui porzione anteriore è però limitata dai nebbiosi e qua e là nevosi monti sopra Sulmona, ammantati dalla porpora del tramonto e sormontati dalla maestosa e scintillante Maiella. Dall'altro lato, verso Rieti, la nevosa Leonessa,[82] monte bellissimo che si vede da Roma. Esso perde appena in giugno la sua veste di neve, quando sul Pincio fioriscono i granati. Da Rieti noi l'avevamo costeggiata andando verso Aquila. Così costeggiammo il Gran Sasso per raggiungere Popoli.
Questa regione abruzzese non ha ancora ferrovie. Si comincia ora a tracciarne, essendo esse necessarie, anche per ragioni strategiche. Si sta costruendo una linea sul Pescara fino al mare Adriatico, dove si riallaccia alla linea di Ancona, ed è qui il punto centrale di scalo dei prodotti degli Abruzzi. Questa linea dovrà toccare Sulmona, Popoli, Aquila, Rieti e Terni e con una diramazione abbracciare la Marsica, il lago Fucino e Sora, mentre si ricongiungerebbe per Roccasecca alla linea Napoli-Roma.
Ora si viaggia in piccole vetture di posta molto primitive, che non differiscono in nulla da quelle in uso nella Sabina e nella campagna romana. La strada è bellissima: passa per monti e valli, in regioni pittoresche con lo sfondo del Gran Sasso, fra castelli e rocche in rovina, come Poggio Picenze, Barisciano, Castel Nuovo, Ritegna (?) Navelli, tutti sull'Aterno rumoroso. Fra Collepietro e Popoli varcammo un alto passo, dal quale si gode una magnifica veduta sulla lussureggiante vallata di Sulmona, che è come un enorme giardino racchiuso in un cerchio di nevose montagne. Una volta esse racchiudevano un lago, come quello Velino presso Rieti. In tempi preistorici tutte queste valli abruzzesi erano laghi; ora non rimane che il lago Fucino, ed anche questo sarà presto prosciugato. In basso si scorge Popoli, su una roccia rossastra; su di esso le torri gialle e le rovine della rocca dei Cantelmi, e dietro Sulmona, patria d'Ovidio, ai piedi della Maiella che sembra serrare la valle. La strada che conduce a Popoli scende a zig-zag con gomiti così bruschi e curve così forti, che rammenta la strada del Gottardo o altri passi delle Alpi.
Nulla di più ridente di questa piccola antica città con i suoi frutteti e le sue vigne assolate; il fiume Aterno prende da questo punto il nome di Pescara. Chi non conosce questo nome famoso nella storia di Carlo V? Appena entrati in città, trovammo la popolazione in gran movimento, essa aveva aspetto contadinesco; una strana comitiva di uomini ci venne incontro suonando una fanfara; era preceduta da giovanotti che su di un'alta pertica portavano una caldaia di rame ed altri lucenti utensili da cucina, tutti adorni di bandierine, fiori e corone. Era un corteo nuziale, e, secondo l'uso del luogo, la dote della sposa era portata in processione per viaggio. Popoli è una città di coltivatori e di vignaioli. I vini degli Abruzzi, o almeno quelli che si fanno là ed a Sulmona, sono celebrati in tutta la regione, e sarebbero esportati di più, se fossero migliori le strade. Ci è stato detto che a Popoli si compra un litro di ottimo vino per l'inverosimile prezzo di un soldo, e si piantano dei maglioli per nulla inferiori a quelli di Borgogna.
Popoli, rappresentando il punto di congiunzione delle strade commerciali di Aquila, Pescara e Sora-Avezzano, è già oggi uno dei luoghi più popolosi e frequentati degli Abruzzi. Vi notammo infatti un'animazione che ricordava Napoli e le città meridionali.
Salimmo sull'antica rocca, donde si gode un incomparabile panorama. I Cantelmi, stirpe provenzale, la eressero; essi eran venuti a Napoli con Carlo I d'Angiò, resero grandi servigi a questo conquistatore nella lotta con Manfredi e Corradino, e, arricchiti di molti feudi nel regno di Napoli, divennero una delle più potenti famiglie feudali. I Cantelmi possedettero anche per molto tempo la bella Sora sul Liri. In nessun altro luogo d'Italia il feudalismo ha fiorito come nel Napoletano. I Normanni, gli Hohenstaufen, gli Angiò, gli Aragona; poi gli Spagnoli, dopo Carlo V, crearono infiniti feudi, cosicchè in quella regione si può dire non esista paese cui non sia annesso un titolo di conte o di marchese. Nessuna regione, anche, cambiò tanto spesso di signoria per l'eterna lotta delle dinastie e delle nobiltà. Se non erro, l'attuale duca di Popoli seguì l'ex-re di Napoli, Francesco, nel suo esilio sul remoto e gelido lago di Starnberg. Il lago di Starnberg è uno dei luoghi più pittoreschi e suggestivi che conti la Germania, sulla sua tranquilla riva ospitale, coronata di boschi e di casolari, ben vi possono i fuggiaschi affaticati della vita e della storia, riposare nel silenzio e nell'ombra. Ma ci vuole un'anima tedesca per godere la bionda bellezza di quella natura e non sentirsi intirizzire; potrebbe un luogo come quello consolare un esule che ha negli occhi e nel cuore il sole di Napoli?
Noi viviamo in tempi, nei quali la dea Fortuna gira assai velocemente la sua ruota; quando s'ebbe mai più di ora materia per dissertare sul vecchio tema de exilio e de varietate fortunae? Gli antichi Romani, da Scipione, esempio dell'esule sereno e rassegnato, molto si distinsero nell'arte di sopportare degnamente l'esilio. Si dice che la religione cristiana e la diffusa cultura abbiano ai nostri tempi reso i dolori più tollerabili che nell'antichità, nella quale il più forte di tutti i sentimenti era l'amor di patria; questa è, e rimarrà, una bella frase. Queste considerazioni feci anch'io guardando la rocca dei Cantelmi, che mi faceva ricordare Starnberg e Chiselhurst. Nello sfondo del nostro viaggio, nube lampeggiante, stava la lotta spaventosa di Parigi colla Comune. Appena giunti in paese, chiedemmo dei giornali, per conoscere le ultime notizie. Ci dissero che in Popoli c'è un Casino, o meglio una Casina, come chiamano negli Abruzzi e nella Marsica qualche cosa di molto simile a quello che si chiama Museum nelle città della Germania meridionale. La sera ci condussero in un caffè, e da questo, salite parecchie scale, ci trovammo nelle due stanze dove la Casina di Popoli aveva fissato la sua segreta sede. Alcuni signori giocavano al biliardo alla luce crepuscolare di fumose lampade; noi fummo gentilmente introdotti nel gabinetto di lettura, dove trovammo giornali italiani, ma non molto recenti, che aveva portato la posta di Aquila e di Pescara.
Per il giorno seguente noleggiammo una vettura per recarci al lago Fucino per il selvaggio monte di Raiano, viaggio di un giorno intero.
Una volta vi era servizio di posta con Avezzano; ora non più, non so per quale ragione, forse perchè si sta costruendo la nuova strada di Aquila attraverso la montagna. L'antica strada è bellissima e praticabile. Traversammo il Pescara, vivace corso d'acqua montanino, ricco di trote, largo qui come il Liri a Ceprano. Attraverso questa regione incantevole giungemmo a Pentima, poi sull'altipiano dell'antico Corfinium dei Peligni.
La bellezza della valle da Sulmona a Popoli, colla catena del Gran Sasso e le altre montagne intorno, è tale che non può esprimersi con parole. Io non vidi mai un paesaggio così superbamente stilizzato, come questo di Corfinio, da non paragonarsi nemmeno colle famose località siciliane. E' una veduta di alpi e di nevi nella smeraldina limpidezza della luce del sud. Anche sotto questo cielo i monti hanno nevi eterne, ma queste non hanno la grandiosità sinistra dell' elemento; sembrano essere state posate sugli spigoli scintillanti da uno spirito di bellezza, per aumentare lo splendore di queste montagne. Sotto l'azzurro del cielo lo scintillìo delle nevi ha un risalto speciale, magico. Teatro più bello dell'altipiano di Corfinio questa scena sublime non potrebbe avere, e si potrebbero passare delle ore e dei giorni interi assorti nella sua contemplazione, dimenticando il piccolo mondo degli uomini.
In mezzo a questa natura grandiosa, quasi eroica, in quest'aria fresca e serena, potrebbe sorgere una forte città dalla popolazione sana ed esemplare. Vedemmo molti resti di antiche mura, ed una chiesa non vecchissima, ma d'una considerevole antichità, unico particolare del quadro che ricordasse il presente ed il tempo. Essa è di travertino giallastro e brillante. Si chiama San Pelino, e da essa prende il nome l'altipiano. Deve essere stata eretta verso il 1400, ma, a giudicare dalle iscrizioni, prima di essa vi doveva già essere in questo luogo un'altra chiesa, eretta sulle rovine d'un tempio pagano. Il materiale di costruzione è stato preso da Corfinium, come sì rileva dai frammenti d'iscrizione che si trovano sulla parete esterna.
Presso uno di questi frammenti trovai questo scritto medioevale, coi caratteri del tempo dei Cosmati, e anche coi nomi e le parole usate dai Cosmati stessi nelle loro iscrizioni: VGO. HOC. F. OPVS. ARNVLFVS. EP. PLEBI. DI.—ciò che non mancò di meravigliarmi molto. Ancor oggi sul tabernacolo di S. Paolo a Roma si legge: Hoc opus fecit Arnolfus cum socio suo Petro.
Come è incomparabilmente grande qui la natura, ugualmente grandi sono le vestigia della storia di Roma. Corfinium fu per lunga serie d'anni il centro della più violenta rivoluzione d'Italia, la terribile sollevazione degli alleati contro i privilegi della sovranità assoluta di Roma. In questa città gli eroici Marsi, i Sanniti ed altre popolazioni strinsero alleanza, si dichiararono indipendenti da Roma, crearono, sotto Quinto Silio, consoli e Senato, e chiamarono Corfinium, Italica. In terribili guerre la Comune delle popolazioni italiane lottò per la cittadinanza romana; seguirono altre guerre sociali, e la grande guerra servile: le figure di Mario e Silla, Ottavio, Cinna, Sulpicio e Rufo, nonchè Pompeo e Cesare, si presentano agli occhi del viaggiatore che segue col pensiero questa catena galvanica di lotte gigantesche dell'aristocrazia colla democrazia, del diritto popolare col privilegio, che conduce all'apparizione del Cristianesimo e del suo ideale democratico. Ed essa non finisce qui: la lotta è eterna come il principio che la provocò.
Mentre noi qui, sulla luminosa pianura di Corfinium, riandiamo col pensiero quelle rivoluzioni e guerre civili per la conquista dei diritti da parte dei Comuni d'Italia, i comunardi di Parigi chiamano alla riscossa le città di Francia contro il principio di stato della centralizzazione; essi abbattono i monumenti imperiali e regali, e spargono su di essi infiammato petrolio, facendo di Parigi un rogo. Se mai la ragione e il diritto furono fondamento di una guerra civile, ciò accadde nel caso della guerra marsica.
Un granellino di ragione Bismarck lo trovò anche nel pandemonio della Comune di Parigi. Negli eccessi della recente rivoluzione parigina riconosciamo in parte il fanatismo della furia partigiana latina, ed anche un po' della grandiosità dell'anima romana. I posteri potranno forse meglio di noi sceverare il torto dalla ragione in questo periodo storico, e giudicare in modo più mite quello scoppio d'un malore sociale. La recente storia di Francia offre infatti una forte analogia con quella dell'antica Roma.
Già da ottanta anni quella regione è agitata da rivoluzioni che la fanno oscillare fra la repubblica e l'impero. Il cesarismo romano ha trovato raramente buon terreno per svilupparsi in Italia, sua terra d'origine, ma è esulato in Francia.
In Italia, invece, il principio della centralizzazione romana non passò allo Stato, ma alla Chiesa ed al potere temporale.
Sarebbero ben da compiangere gl'Italiani se facessero di Roma, loro capitale, un vampiro della nazione; certamente al più presto non mancherebbe un Corfinium. Già troppo le differenze e le autonomie delle Provincie sono state intaccate in Italia; e si deve alle tenaci tradizioni ed ai resti dei Comuni medioevali, se ancora non sono sensibili inconvenienti maggiori del nuovo stato di unità.
Ma, laggiù, da un colle si staccano cupe masse di case, e le torri di una cattedrale: è Sulmona; e la figura del sereno poeta delle Metamorfosi e delle Eroidi, poi esule infelice, ci si presenta: Ovidio fu proprio l'uomo creato per fare le più profonde riflessioni sull'instabilità della fortuna! Dal luminoso e raffinato mondo romano egli precipitò fra i selvaggi Sciti del Mar Nero, coperti di pelli di belve! Quante volte, laggiù, egli non avrà pensato con melanconica e straziante brama ai monti e alle valli floride della patria sua, ai giochi della sua giovinezza a' piedi della Maiella!
Un'altra figura storica, lontana da quella di Ovidio, come la notte dal giorno, come può esserlo un ascetico santo da un sereno pagano, ci apparisce dietro Sulmona, e riempie delle fantastiche memorie medioevali l'azzurro leggermente nevoso della Maiella. Da quelle grotte un timido montanaro eremita fu sbalzato d'un tratto sul trono pontificio: Celestino V, predecessore di Bonifacio. In S. Maria di Collemaggio presso Aquila, dove egli fu condotto da re Carlo di Napoli per esservi incoronato, egli giace sepolto; ed io visitai là il suo mausoleo. La sua storia è il più strano episodio del Papato, un poema di santità, tutto fragrante di romanticismo medioevale, incomparabile ed unico negli annali della Chiesa.
Un altro figlio diretto del medioevo leva la sua ombra sulla Maiella: Cola di Rienzo, l'ultimo tribuno di Roma, in esilio, e non più vestito di broccato e di seta bianca, ma nella cella di quei Celestini che il papa-eremita aveva fondato. Anch'egli fu dunque un eremita della Maiella, cinquant'anni dopo Celestino. Dopo la sua cacciata dal Campidoglio, andò errabondo nel napoletano, e si rifugiò poi in queste solitudini, visse cogli eremiti, assorto in meditazioni sulla riforma universale, alla quale si credeva chiamato. Di là mosse verso Praga, per partecipare all'Imperatore Carlo le profezie degli eremiti abruzzesi e le sue proprie idee geniali.
Da Corfinium quante prospettive storiche si presentano alla mente del viaggiatore! Quinto Silio, Ovidio, Celestino, Cola di Rienzo. E dovunque, davvero, in Italia, in questi paradisi naturali che da una bellezza conducono ad una bellezza più grande, dovunque troviamo vive e fresche le fonti della storia! Da ogni lato balzano figure del mito e della storia più ricca e più grande del mondo!
Nessuna terra è più suggestiva, in nessuna terra pulsa come in questa il sangue della civiltà!
Se oggi essa appare monumentale, e di sasso, essa getterà un giorno la maschera! Questo inesauribile campo di sèmina della civiltà ha anche un'altra missione, oltre quella di essere il camposanto di un grande passato. Lo spirito luminoso di questa nazione tornerà, presto lo speriamo, a splendere come al tempo di Dante e di Raffaello!
Montammo in carrozza e giungemmo presto a Raiano, piccolo villaggio all'estremità dell'altipiano, dal quale poi si sale alla Costa (?), possente fianco del monte, attraverso il quale, dopo molte ore di cammino si giunge al lago Fucino. Si sale lentamente serpeggiando. A Raiano rinforzammo con buoi il nostro tiro. Andando innanzi incontrammo una numeroso gregge di pecore e di capre che i pastori, uomini giganteschi, coperte di pelli le spalle, impugnando il pungolo, conducevano lentamente alla montagna. Più oltre vedemmo i pendìi tutti coperti di greggi, che vi passano l'estate. Cani dal lungo pelame, della grandezza dei San Bernardo, fanno la guardia; essi portano un collare di cuoio con punte di ferro, che li protegge dal dente dei lupi abruzzesi.
Giungemmo alla prima altura sopra Raiano, donde si godono sempre nuove e incantevoli vedute del Gran Sasso, del monte Golgano(?), della Maiella e di tutta quella regione montuosa, strana solitudine di rupi rossastre appoggiate la une sulle altre o spaccate da profondi crepacci di mille forme, sormontate dal maestoso Gran Sasso.
In questo luogo il fiume Pescara si perde sotterra; si passa quindi una valle, dopo Goriano Sicoli, e più là fra umide e cupe montagne si apre un passo,chiamato Forca,[83] come molti son chiamati in Svizzera.
Vi giungemmo a mezzogiorno. Si poteva essere a 4000 piedi sul mare, ma l'aria vi era tepida e dolce; delle allodole cantavano e degli usignoli svolazzarono da un cespuglio.
A Forca ci imbattemmo cogli ultimi viandanti, cavalieri o pedoni; poi non si incontrarono più che greggi di pecore inerpicantesi sui dirupi. Ai lati strade mulattiere conducono ad Alba[84] e ad Avezzano, e sono antichissime; nel medioevo servivano da strade militari. Così procedemmo per ore sulla roccia brulla, di color bruno. Degli amici di Roma avevano trovato rischiosa la nostra gita in questa solitaria contrada che, dopo le Calabrie, è la più frequentata dai briganti.
Fino al 1860 ne era abbondantemente infestata, ed ancora se ne incontrano nei dintorni di Sulmona. Il vetturale non si stancava di narrarci, durante il viaggio, queste storie di briganti; una l'ho ancora in mente. Sette fratelli, di forza erculea, divennero un bel giorno banditi e, venuti in queste montagne, si diedero a rubare, ad uccidere, a sequestrare persone, a far bottino, di notte, di centinaia di pecore. Cinque di essi morirono, due scomparvero. Alcuni cittadini di Aquila che qualche anno dopo portarono al mercato di Trieste seta grezza da vendere, riconobbero i due malandrini in due mercanti che avevano stabilito in quella città un fiorente commercio. Il governo austriaco li consegnò a quello italiano, e quei banditi sono ora, rinchiusi nelle prigioni di Aquila, dove attendono la loro condanna a morte.
Ancora un'altura, e dinanzi agli occhi si stende una profonda depressione larga più miglia, superbamente circondata da altissimi monti, oscurati ora dall'avvicinarsi del temporale. A destra si erge una catena, la cui più alta vetta, una doppia piramide colossale, è ancora coperta di neve. È il monte Velino, che divide il territorio d'Aquila da quello di Alba; alla sua base giace il campo di battaglia di Corradino, e più sotto il lago Fucino. A questo punto fui deluso nella mia aspettativa. Mi aspettavo uno specchio d'acqua scintillante ed azzurro, e vidi un lago oscuro per l'ombra del cielo e dei monti, di un grigio-plumbeo confuso. Mi parve un morente che prendesse congedo dalla dolce vita, e la sua vista mi depresse e mi mise di cattivo umore.
Ma quando ci fummo avvicinati, a circa un'ora di distanza, esso cominciò a sorriderci azzurro, e mostrò di avere ancora un bacino abbastanza considerevole, grande all'incirca come il lago di Bracciano. Pure non potrà aver più di 21 miglia di perimetro. Quando era ancora intatto ne aveva 35. Più di 15 miglia mi parve dover essersi ristretto! Scendemmo alla località più vicina alla riva del lago, ad un castello detto Cerchio, che ora si trova a 4 miglia dalle acque. Ci riposammo in una solitaria taverna, e proseguimmo per Avezzano.
Vedemmo per via uomini occupati a costruire strade, ponti, tagliare pietre; tutta una vita febbrile di lavoro, prodotta dalle opere di prosciugamento. Ai lati della strada si ergevano ridenti alture coperte di orti e di vigne, che un tempo erano state in riva al lago. Sopra un notevole villaggio, detto Celano, si vede un grande castello con mura merlate; Celano fu un tempo con Alba e Tagliacozzo una delle capitali della Marsica nel medioevo.
L'antica Marsica, detta anche, per la strada consolare, provincia Valeria, poi Abruzzo, giungeva fino al lago Fucino. Ma nè nell'antichità, nè nel medioevo i suoi confini sono nettamente assegnabili. La sua sorte durante il medioevo o è immersa nell'oscurità, o è inestricabile confusione. Al principio del secolo VII Valeria è detta la capitale episcopale della Marsica, luogo d'origine del pontefice Bonifacio IV (608-615). Se questa città sia scomparsa, se sia stata l'antico Marruvium, e se sia mai esistita una Civitas Marsicana, è incerto. Quando i Longobardi s'impossessarono delle antiche città romane, la regione Marsica intorno al lago manteneva il suo antico nome, ed era un castaldato. Il Castaldius Marsorum è nominato spesso nei documenti del secolo VIII, come anche le città di Celano, Transaqua,[85] Atrano, Alba, ed altre. Forse esso aveva la sua sede a Celano. Quando i duchi longobardi di Spoleto soggiacquero ai Franchi, il castaldato divenne una contea. I conti della Marsica datano, sembra, dall'imperatore Ludovico II. Stirpi franche soppiantarono le longobarde. Nel secolo XI la casa dei conti Trasimondo, Berardo e Oderisio divenne assai ragguardevole; essa affermava di discendere dai Carolingi. I conti di Celano erano ancora potenti al tempo dell'imperatore Federigo II, dal quale si staccarono per volgersi al papa. Cogli Angiò altri rapporti si stabiliscono; le condizioni mutano, e i romani Orsini entrano nella regione del lago Fucino; alla fine del secolo XIII Carlo II di Napoli l'investe delle contee di Tagliacozzo e di Alba. Contro di loro lottano più tardi i Colonna, per il possesso della Marsica, quando Martino V diede Alba e Celano ai suoi fratelli. I Colonna si chiamarono dal 1432 duchi della Marsica, e vi possedevano allora ben 44 località, fra cui Alba, Avezzano, Celano e Transaqua. Nel 1463 perdettero Celano che passò ad Antonio Piccolomini, nipote di Pio II. Mantennero Tagliacozzo e Alba. Avezzano divenne proprietà degli Orsini, ma per poco tempo; i Colonna cacciarono dalla Marsica la famiglia rivale.
Noi non avevamo tempo di visitare l'interessante Celano, e ci limitammo ad Avezzano. Questa cittadina giace in piano, in un ridente e lussureggiante paesaggio, a tre quarti d'ora dal lago. Ha ancora antichi edifici di stile gotico-romanico, e la bella rocca degli Orsini.
Il famoso Gentile Virginio la eresse nel 1490, essa ricorda il castello di Bracciano, eretto da Napoleone, padre di Virginio.
Marcantonio Colonna, il vincitore di Lepanto, ingrandì il castello, vi pose dei trofei della guerra contro i Turchi, adornò le sale con pitture, delle quali non resta più traccia. Sul portale della rocca si legge una iscrizione, nella quale egli si chiama: Marsorum Talliacotiique Dux, Marchio Atisse, Albe et Manupelli Comes.
I tempi degli Orsini e dei Colonna, di questi re della Campagna romana, i cui nomi e le cui imprese riempirono dei secoli, sono divenuti leggendarii, come il ducato dei Marsi. La rocca di Avezzano, oggi proprietà dei Barberini Colonna, è divenuta una miserabile caserma, e solo lo stemma degli Orsini e dei Colonna ricorda ormai il suo grande passato. Il re della Marsica è oggi Torlonia; egli ha denari e possiede il genio dell'industria. A due passi dall'antico castello si vede una nuova grande piazza, ad un angolo della quale sta scritto: Piazza Torlonia. Là il Creso di Roma si fabbrica un palazzo; dovunque si vada in questi paesi, si sente parlare di lui.
Nelle città della Marsica i coloni e i vassalli maledivano un giorno gli storici loro tiranni Colonna ed Orsini, che coprivano ogni anno di ferro e di fuoco quella regione incantata che giace sulle rive del lago di Fucino. Ma oggi il nome, per nulla storico, di Torlonia è ripetuto qui con stima e riconoscenza da poveri e ricchi, signori e plebei. Torlonia coi denari ha fatto risorgere questa regione. Egli arma migliaia di uomini di pala e di vanga; migliaia di uomini egli nutre; dà in affitto i campi a famiglie e comunità. Ha riscattato dal lago miglia e miglia di terra, e vi sorgeranno nuove città; per 99 anni egli sarà il re della Marsica e possederà la nuova terra; vi avrà un monumento che tramanderà ai posteri la gloria di questo grande prosciugatore.
All'albergo di Avezzano chiedemmo, maliziosamente, pesci del lago. Non ne avevano; i pesci erano morti a migliaia sulle rive lasciate a secco dai lavori intrapresi; devono aver ricoperto d'argento una ben vasta estensione di terra! Che cosa c'importa dei pesci! ci disse l'ostessa, fanatica partigiana del prosciugamento, se noi guadagniamo dei campi? Che c'importa del lago, se avremo dei giardini? Nella nuova terra fioriranno i nuovi coloni. Ciò è esatto, ma sarà distrutta così una grande opera naturale, e l'Italia sarà vedovata per sempre di una meraviglia della natura, di uno dei più fulgidi suoi gioielli. Io non so assuefarmi all'idea che questo solenne lago, che per migliaia e migliaia d'anni ha specchiato nelle sue acque questi monti severi e maestosi, debba scomparire per sempre. Temo che ugual sorte tocchi presto anche al Trasimeno: anche quello vorranno versare nel mare, per guadagnar pascoli e campi; e chi sa che già non stiano furtivamente visitando le sue coste dei funesti capitalisti intenti a calcolare in quanta prosa sonante si possa convertire questa incantevole poesia naturale! Sì, il denaro e le macchine a vapore van prosciugando nel mondo la poesia, ma solo un mercante potrà rallegrarsi di questo.
Le rive del lago non misurano più che tre miglia. Dove poco fa si agitavano le onde e i pescatori gettavano le reti, sono ora verdi seminati, campi solcati dall'aratro, e divisi fra loro da segni di confine portanti lo stemma e le iniziali di Torlonia. L'allodola già ha nidificato sulla nuova terra, e l'allegra figlia dei campi intona già su di essa canti di giubilo.
Il Comune di Avezzano intentò lite al Torlonia, facendo valere i propri diritti sulla nuova regione; ma i contendenti si accordarono per una certa somma di denaro.
Arrivammo al cantiere dei lavori, dove ci si presentò uno strano spettacolo, che in piccolo ricordava i lavori del canale di Suez. Un canale largo e profondo è stato scavato dalla sponda del lago: in questo scorrerà l'acqua del lago, quando sarà compiuto il prosciugamento e quando sarà stata tagliata la diga. Delle cateratte massiccie, di pietra bianca squadrata, sono state costruite con fattura semplice e solida. Nel canale ed intorno erano centinaia di operai occupati a riempire di melma dei cesti e a portarli via su di un colle vicino. In gran parte eran donne che compivano questo lavoro. I loro fazzoletti rossi, le loro vesti variopinte, secondo il costume di Sora, davano alla riva un aspetto straordinariamente animato. Il nuovo canale viene a trovarsi in una posizione molto più bassa dell'antico per mezzo del quale già una parte del lago era stata prosciugata. E questo canale si dirige direttamente verso il monte Salviano dove sono anche gli antichi emissarii di Claudio.
Vedemmo anche tre colossali gallerie, una sopra l'altra, parte in muratura, parte scavate nella roccia, che si trovano molto al di sopra della superficie del suolo. Di là dal monte scorre il Liri, presso Capistrello, attraverso la valle di Nerfa, dalla quale scaturisce presso Cappadocia; in questo Liri sarà condotto il Fucino. L'emissario di Claudio fu già espurgato dall'imperatore Federigo II, poichè già per molti secoli ed anche nell'anno 1826 era stato più volte tentato il prosciugamento del lago. Questo tentativo ebbe felice esito soltanto nel nostro tempo; una società di capitalisti, fra cui molti francesi, intraprese circa 12 anni fa questa grande opera. L'emissario di Claudio fu in questa occasione riattivato, approfondito ed allargato. Torlonia, finalmente, assunse per suo conto l'alta direzione di tutta l'impresa. Fra pochi anni il prosciugamento del lago sarà compiuto.[86]
Dall'alto dell'emissario di Claudio si vede assai bene tutta la superficie del lago ed i monti all'intorno. A mezzogiorno si elevano i monti di Sora; nel vederli mi ricordai delle mie gite sul Liri. Cinque anni fa da Sora, dove mi ero dovuto fermare in quarantena, essendo scoppiato il colèra, volevo partire per Avezzano, ma i briganti m'impedirono di prender quella via. I monti della Maiella appaiono ad occidente. Eppure è sempre il monte Velino quello che attira su di sè l'attenzione dello spettatore; anche se si è volto altrove lo sguardo, bisogna riportarlo su di esso, tanto appare mirabile per la sua adamantina figura. Sembra che non riceva luce dal cielo, ma che risplenda di luce propria ed illumini i monti, il lago ed i piani.
Che meraviglioso specchio dev'essere stato il lago nella sua integrità! Ancora esso appare così incantevole nello splendore della sera, che si può pensare, guardandolo, alle ninfe e alle galatee nuotanti nei suoi flutti. Le ninfe presto moriranno come i poveri pesci e cederanno il posto al fieno e alle biade. Le fronti celesti dei monti che si sono specchiate finora in quest'onda favolosa, presto dovranno prendere congedo dal loro amico, il Dio Fucino. Presso Trasacco veleggiano ancora delle oscure barche e lì vicino s'innalzano al cielo bianche nubi di vapore che vengono dalle macchine che aspirano l'anima al povero lago. Torlonia, il grande seccatore della natura, è sordo all'appello delle ninfe; egli non teme neppure la vendetta dei pesci che potrebbero tormentare i suoi sogni. Egli non crede più alla mitologia d'Ovidio; ha denari e può sfidare gli dei, che dichiareranno fallimento. Potesse egli almeno risollevare dal lago le città che vi sono sprofondate, Marruvium e Pinna! Una leggenda narra ch'esse vi sono sepolte.
Prendemmo di buon mattino una carrozza per andare a visitare il campo di battaglia di Corradino e la vicina Tagliacozzo. Era un'incantevole mattinata primaverile, il monte Velino coi suoi campi di neve, tutti i solenni monti d'intorno, lo specchio azzurro del lago, le castella merlate sui verdi colli, risplendevano in un'atmosfera limpidissima: tutto aveva un aspetto fantastico di linee e di forme nella placida tranquillità della natura. Colle parole non si può esprimere ciò che io sentivo. Neppure nei sogni più belli potrebbe una fantasia di poeta, fosse anche Dante od Omero, immaginare uno scenario di così eterea bellezza, come questo che fu teatro della cupa tragedia di Corradino. Solo un campo di battaglia conosco, che gli si possa paragonare, sebbene di genere differente: è quello dove cadde, presso il Vesuvio l'eroe goto Teia.
Tutta questa scena ha per centro il Velino; esso ha la natura distesa reverente ai suoi piedi, come un tappeto; il lago, le rive ridenti, i campi palentini bagnati dal Salto. Dal monte maestoso si staccano delle alture, sulle quali sorgono le antiche rocche dei Marsi, rovinate e corrose dall'edera, intere cittadelle medioevali con chiese, conventi e castelli. A destra si erge, come un'isola verde, e un tempo emergeva dalle onde del Fucino un colle roccioso, sul quale si trova la favolosa Alba Marsorum, o Fucentia, con resti di mura ciclopiche e antichi templi. In essa condusse melanconica esistenza Perseo, re della Macedonia, cui toccò la sorte di Corradino! In questa lontana Alba egli si sarà trovato come in un luogo incantato; e invero quale più straordinaria prigione per un re? Al di sotto, Androsano; più là, su un dolce pendio verdeggiante, Magliano, e sopra, addossati a gigantesche rupi oscure, Massa,[87] Corona e Rosciolo. L'Imele, detto anche Salto,[88] si getta nel fiume Velino, che a sua volta si getta nella Nera e questa nel Tevere. Esso si svolge in curve fra questi monti, lungo una valle, nel lato opposto della quale si trova l'ultima montagna Fontecellese. Sul pendio di questa sta Tagliacozzo, ma ancora non si può vedere.
Con una risoluzione disperata rinunziammo ad Alba, e ci dirigemmo sulla pianura palentina. Traversammo prima il villaggio di Cappelle, coronato di giardini. Qui già cominciano i campi palentini che si estendono fin sotto Scurcola e Tagliacozzo. A destra la pianura è chiusa dal monte S. Nicola, sul quale si trova Scurcola coronata dalle alture di Magliano e di Alba. Di fronte ad Alba si alza il colle S. Felice, dove, secondo la tradizione, il vecchio Erardo di Valery aveva nascosto nei cespugli quella retroguardia che decise le sorti della battaglia. Anche oggi quel luogo si chiama Le difense.[89] Nello sfondo si scorge il monte S. Antonio (?) coperto di neve, gli alti monti di Capistrello e Corcumello, e molte altre punte gigantesche. L'altipiano fra la Scurcola e S. Felice si chiama la Palenda, il vero centro del Campo palentino solcato dal Salto. Carlo d'Angiò era venuto da Aquila attraverso il passo del Monte Velino, e aveva preso posizione sulla destra del Salto sotto Alba. Corradino era venuto da Tagliacozzo per la via Valeria, e si era posto sulla sinistra del Salto, sulla Villa Pontium, sotto la Scurcola. Per una notte mantennero i due avversari queste posizioni, finchè il Senatore di Roma, Don Arrigo di Castiglia, passò il Salto e impegnò la lotta.
La battaglia è chiamata con varî nomi dai cronisti del tempo, di Tagliacozzo, di Alba, di Campo Palentino, della Scurcola.
Anche Dante dice:
e là da Tagliacozzo
Dove senz'arme vinse il vecchio Alardo;
Questo prova soltanto che Tagliacozzo al tempo di Dante era il luogo più importante dei dintorni, mentre Scurcola era un piccolo castello dipendente da Alba, e del quale appena si conosceva il nome. Indubbiamente la battaglia dovrebbe prender nome dalla Scurcola, perchè il Campo Palentino, che Carlo in alcuni documenti indica come luogo dello scontro, si trova esattamente sopra Scurcola. Il feroce vincitore a ricordo della battaglia costruì lì stesso il convento di S. Maria della Vittoria, immediatamente presso il ponte sul Salto e presso la Villa o Castrum Pontium, dove Corradino tenne il suo ultimo quartier generale.
Ecco il fiume ed il ponte! Dei pioppi fiancheggiano il fiume, dove stanno a lavoro alcune donne con dei bambini. Due passi ancora, e siamo di fronte a neri avanzi di mura e di pilastri, ultimi resti dell'abbazia di S. Maria della Vittoria. Carlo d'Angiò più volte visitò questo convento, per inebriarsi al ricordo della battaglia. Un paio dei documenti che lo riguardano son datati di là. Non si sa in qual tempo l'abbazia decadde e andò a rovina.
Ci affrettammo a salire alla Scurcola. Questo villaggio copre col suo labirinto di strettissime strade il dorso roccioso del monte, la cui pietra serve in parte di selciato alle vie. Sul punto più alto si trova la cattedrale, S. Maria, che sembra appoggiarsi alla torre rotonda dell'antica rocca, oggi in rovina. Gli Orsini la costruirono, secondo mi fu detto; poi appartenne ai Colonna che anche oggi portano il titolo di baroni della Scurcola. L'edera avvolge strettamente mura e portale, e nasconde lo stemma.
Tutto il paese è come il monumento dell'antica battaglia. Si leggono con strano stupore i nomi storici di queste sporche e strette viuzze: Via Carlo d'Angiò, Via Corradino, Via Ghibellina. Gli abitanti stessi sembrano viventi tradizioni di quell'avvenimento, che è la gloria e il vanto del luogo, e l'unica ragione di visitarlo. Come a Benevento non è spento il ricordo della battaglia di Manfredi, così qui il ricordo di quella di Corradino. Ogni scurcolano colto sembra conoscere fin nei più minuti particolari la storia della caduta di quel principe, e potrebbe servire di guida ad ogni straniero. Un cortese canonico ci condusse nella chiesa. Essa ha ancora un portale gotico del tempo degli Angiò, ma nell'interno è del tutto rinnovata; il sacerdote ci mostrò il tesoro più prezioso del suo luogo natio: un'immagine della Madonna che Carlo stesso fece eseguire per S. Maria della Vittoria; e ci fornì alcune indicazioni relative ad essa. L'immagine è di legno dorato, e rappresenta la Madonna seduta; essa ha fra le braccia il Bambino, che tiene in mano il globo del mondo. E' un lavoro che non ha nessun carattere barbarico, di un genere sorto prima in Italia che in Francia, come conferma la tradizione della Scurcola. Si trovò quell'immagine sotto le rovine di quel chiostro nel 1757, e fu trasportata nella chiesa del villaggio. In questa occasione si ebbe il barbaro gusto di coronare con due laminette d'oro le due teste delle immagini. Nella sacrestia se ne conserva anche la custodia in legno, fregiata dei gigli degli Angiò e ornata d'immagini ben conservate e di ottima esecuzione, rappresentanti la crocifissione di Cristo ed altre scene bibliche.
Scendendo dalla rocca e dalla chiesa girammo nella parte inferiore della cittadina, cercando se vi fosse nulla di notevole da scoprirsi. Una piccola piazza, detta Piazza del Municipio, attrasse la nostra attenzione, avendo veduto sullo stemma del municipio questa scritta: Domus Universitatis Scurculae. Nello stemma si distingueva un ponte con cinque gigli. Il sindaco del luogo, un distinto e solenne vecchio dalla lunga barba grigia, mi disse che quello stemma aveva origine dal Castrum S. Mariae in Pontibus, che una volta i Templari avevano posseduto presso il Ponte del Salto; questo dev'essere quel Castrum pontium dove risiedette Corradino.
Il sindaco ed altri signori si riempirono di ammirazione per le battaglie tedesche, che han fiaccato perfino la grande Francia, e riandammo insieme la storia del nostro grande Impero, la sua grandezza e la sua caduta al tempo degli Hohenstaufen, le sventure e le lotte della nostra patria che susseguirono: l'apparizione ai dì nostri di un Barbarossa, tarda ma feconda di un Messia; il rinnovamento dell'Impero degli Hohenstaufen negli Hohenzollern. Ciò che Arrigo IV aveva invano tentato, l'unificazione della Germania sotto una dinastia ereditaria, è stato raggiunto solo ora, dopo 600 anni. Gli Hohenstaufen caddero, perchè si allontanarono dal suolo nazionale e spostarono il centro di gravità dell'Impero nella straniera Italia, ancora chiusa all'ideale di una monarchia universale romana. Anche il nobile Arrigo VII scontò quel sogno cesareo con una morte subitanea in Italia. Quante rivoluzioni e quante lotte di pensiero politico e religioso, prima di veder vinto questo principio imperiale romano, prima che in vista di Parigi assediata, nel castello di Luigi XIV a Versailles, fosse alfine proclamato l'Impero nazionale tedesco! «Bisogna che il sangue sparso da Corradino sia presto o tardi vendicato», diceva, già ai tempi di Carlo V, Reissner il biografo di Frundsberg. Il sangue di Corradino è ora per sempre vendicato, ed anche i delitti degli Hohenstaufen in Italia (seppure, con le idee di quel tempo relative al diritto si può parlare di delitti) son tutti espiati. I grandi imperatori svevi stanno solennemente al culmine della nostra storia, e ne rimarranno le più eroiche figure, finchè duri la memoria tedesca.
Credo che a nessun tedesco prima che a noi due, in quel giorno, sia stato mai concesso di guardare il campo di battaglia di Corradino con occhio così orgoglioso e sereno. Con quali sentimenti il nobile Raumer considererebbe oggi queste pianure palentine, egli che le visitò e le studiò nel 1817, due anni dopo la caduta definitiva del primo Napoleone? Come lungi era allora da lui, che ci ha dato una storia nazionale degli Hohenstaufen, il pensiero che egli avrebbe assistito, in una tarda età da patriarca, alla caduta di un altro Napoleone e alla ricostituzione della Germania in Impero nazionale e prima potenza del mondo! Tanto scherno, tante oltraggiose ingiurie e tanto danno ebbe a patire la nostra patria dalla Francia fin dai tempi degli Angiò, per tanto tempo fummo deboli, esautorati, perchè divisi, che ora ci sarà alfine permesso di alzare orgogliosamente la testa. Dai campi palentini della Scurcola vada dunque un saluto di giubilo alla patria, al grande nuovo imperatore del ceppo degli Hohenzollern, al ristabilitore dell'Impero, e a tutti gli uomini che con la spada e con lo spirito han contribuito a renderci il nostro Impero tedesco. I loro nomi e le loro imprese passeranno di generazione in generazione divenendo forse mito, e come oggi dei tardi nepoti sui campi della Scurcola ripensano ai tempi eroici di quella battaglia, un giorno sui campi di Wörth, di Metz, Sedan e Parigi, altri riandranno con la mente ai tempi gloriosi in cui su quei campi si formò la libera ed una Germania.
Ecco Tagliacozzo! Ha un aspetto cupo, visto così in distanza, con la rocca dei Colonna in rovina, tutto raccolto sul dorso accidentato del monte rupestre! Ci aspettavamo una massiccia mole di pietra, quando passammo attraverso la grande Porta Marsicana, e invece trovammo con meraviglia una piazza gradevole, con una bella fonte, circondata da pittoreschi edifici con balconi e finestre gotiche, e palazzi del Rinascimento. Entrammo in un albergo le cui dimensioni di palazzo, come la grande e bella strada nella quale si trova, ci riempirono di stupore. Nei secoli xv e xvi debbono aver fiorito qui delle ricche famiglie all'ombra della signoria colonnese. Io avevo in questa città un amico che più volte a Roma mi aveva invitato a visitarlo, ma disgraziatamente non si trovava in città; trovai però sulla porta della farmacia suo nipote, un giovane che fece volentieri le parti dello zio. Dovemmo alla sua gentilezza, se visitammo tutto ciò che vi è di notevole in questo luogo. Nei documenti è chiamato Taliacotium, antica città degli Equi o Cicolani. Ma essendo stato tradotto Tagliacozzo in volgare, così vediamo nello stemma cittadino due cavalieri che tagliano una clamide. Vidi questo stemma al municipio, che si è annidato in un antico convento abbandonato.
Il signor B. ci condusse in molte vetuste chiese e finalmente al palazzo Colonna, un palazzo che ha apparenza di fortezza, la cui parte superiore è, per le finestre, di stile gotico del secolo xiv, e il portale invece appartiene al puro Rinascimento. Lo stemma d'Aragona dimostra che la costruzione del palazzo va attribuita ad un Orsini; infatti molti Orsini entrarono nella famiglia degli Aragona di Napoli. Questo castello fu forse costruito da Giordano Orsini; il nemico di Cesare Borgia, si chiamava de Aragonia, conte di Tagliacozzo. Fu nell'anno 1499 che il re Federigo di Napoli decretò che Tagliacozzo ed Alba dovessero appartenere ai Colonna, come anche la baronia di Carsòli.
Nell'interno di questo palazzo trovammo grandiose sale adorne di antichi ritratti di famiglia, i cui nomi nessuno più potrebbe dire. Alcune pie suore vi tengono ora una scuola per bambine. Noi ammirammo stupiti la giovinezza, la grazia e la bellezza di forme di due fra queste monache, che eran venute dal Piemonte. Esse ci fecero visitare compiacentemente tutto il palazzo, e anche la cappella notevole per antiche pitture. Questi dipinti, del secolo xv, sono però molto ritoccati; fra gli altri vi è una bella adorazione della Vergine e del Bambino. Anche la loggia del palazzo è degna di nota; queste logge, così belle e pittoresche, non mancano quasi mai nei palazzi baronali. Quella di Tagliacozzo mi ricordò esattamente l'altra del palazzo colonnese a Genazzano, nella quale son dipinte le città che i Colonna possedevano. La loggia di questo castello si apre sul monte Velino; poggia su colonne corinzie; ha sulle pareti affreschi della scuola toscana; immagini di imperatori romani e di generali; vi è anche il poeta Ovidio, in toga rossa come un cardinale.
Visitammo finalmente, per espresso desiderio delle suore, la loro scuola femminile che occupa una delle più grandi sale del castello. Là dovemmo, con cipiglio da ispettori, osservare dei quaderni che quelle bambine non si stancavano mai di presentarci ed anche assistere ad un esperimento di geografia.
Un antico castello baronale non potrebbe trovare oggi migliore uso che quello di albergare una scuola. In Italia mancano le scuole popolari ed esse sole potranno diradare la profonda ignoranza ed anche l'immoralità, nella quale giace ancora una parte di questo popolo.
Il partito reazionario era molto forte in Tagliacozzo, secondo ci fu detto, ed il passato governo napoletano conta ancora in questa città i suoi partigiani. Dopo il sessanta vi furono scontri sanguinosi con le schiere dei volontari e rappresaglie e vendette da ambo le parti. Questo stato di cose fu favorito dalla vicinanza del confine dello stato pontificio, dal quale la reazione potè ancora sentirsi appoggiata, ma anche qui è cominciato un periodo di calma ed i briganti tanto ufficiali che privati sono scomparsi.[90]
A Tagliacozzo la via Valeria finisce a cul di sacco. Nessuna strada carrozzabile conduce in Sabina, dove noi volevamo andare; vi sono solo strade mulattiere sul ripido dorso dei monti. Noleggiammo dei cavalli da montagna, grosse bestie dall'ossatura poderosa, che sono abituate ad arrampicarsi per questi sentieri dirupati. Ognuno di essi aveva una guida che lo tirava con una fune, guida abituata come lui ad arrampicarsi. Così andammo cavalcando, da Tagliacozzo attraverso la gigantesca solitudine montuosa, e per otto ore passammo attraverso rupi scoscese, boschi di quercie e di faggi dalla densa ombra, traversammo torrenti e fiumicelli, sui quali non erano ponti.
Vedemmo durante il cammino la rocca di Tagliacozzo in rovina, poi l'altissima Roccacerro; appena giungemmo qui, cambiammo direzione, dando l'ultimo addio al paesaggio della Marsica. Presenta esso un panorama meraviglioso di catene montuose dalle nude sfumatore che salgono al cielo per giganteschi scalini. Maestosamente s'innalza su di esse il monte Velino, in lontananza i monti di Sulmona e di Sora; nel centro s'innalza monumentale, sulla cupa massa delle rupi, la rocca di Tagliacozzo che sembra liberamente librarsi nell'aria a guisa di un'aquila. Il mio amico Lindemann, maestro del paesaggio italiano, rimaneva rapito della sublimità di questa incomparabile scena. Essa potrebbe ispirare un quadro del più alto stile eroico, ed io mi auguro che egli voglia farne un'opera d'arte degna del suo Etna; mi piacerebbe anche vedere dipinto dalla sua mano il campo di battaglia di Corradino col monte Velino per isfondo.
Un pericoloso sentiero dirupato ci condusse a Colli, annidato nell'alta solitudine delle rupi. Anche qui facemmo l'osservazione che lo stile del Rinascimento, della fine del xv e del principio del xvi secolo, è la forma architettonica corrente in tutte le località anche le più piccole della regione. In questi Castelli durano inalterati degli edifici per trecento e quattrocento anni, costruiti come sono con le pietre di questi monti. Trovammo infatti delle bellissime finestre e porte del Rinascimento nei villaggi più piccoli e più miserabili; mentre negli Abruzzi, già ad Antrodoco ed a Cittàducale, trovammo predominanti le forme gotiche. Sembra che queste si siano mantenute più a lungo in quella regione che nel Romano dove cominciarono a venir meno dopo la metà del xv secolo. Questi due stili compendiano i caratteri architettonici di tutte le contrade che visitammo.
Da Colli scendemmo in un bellissimo bosco di quercie, attraverso il quale scorre un affluente del Salto, il Torano. Passammo quindi per Carsòli e dopo una cavalcata di parecchie ore attraverso i deserti ed umidi monti di Riofreddo e di Oricola giungemmo finalmente ad Arsoli sulla via Valeria, feudo dei romani Massimo, con uno splendido lume di luna. A questo punto risalutammo con profondo sentimento patriottico, la vetusta terra romana, la campagna di Roma, come già a quel punto si chiama. La strada conduce da Arsoli attraverso la bella valle dell'Aniene a Tivoli, e da Tivoli a Roma.[91]
NOTA
Segnaliamo al lettore l'opera d'imminente pubblicazione Roma e lo Stato del Papa dal ritorno di Pio IX al XX Settembre di R. De Cesare, nella quale si trovano importanti notizie sugli ebrei di Roma (vol. 1 o, cap. XV); sulla scuola di nudo di Gigi (vol. 1 o, cap. XII); sui teatri (vol. 1 o, cap. XVI); sulle processioni (vol. 2 o, cap. XX); notizie che chiariscono e completano quanto descrive il Gregorovius nel Ghetto e gli ebrei di Roma e nelle Macchiette romane; in proposito è anche da consultare l'opera di William Wetmore Story, Roba di Roma.
NOTE:[1] Oggi Norcia nell'Umbria. (N. d. T.).[2] Secondo Jannuccelli, Dissertazione sull'origine di Subiaco, gli schiavi cristiani, impiegati da Nerone per la costruzione della sua magnifica villa sublacense, dettero origine alla città. (N. d. T.).[3] Questo prete è anche conosciuto sotto il nome di Fiorenzo o Fiorentino. (N. d. T.).[4] Non esiste alcun documento del VII secolo intorno a Subiaco.[5] Fu papa Leone VII che posteriormente al VII secolo donò il convento di S. Erasmo ai Benedettini. (N. d. T.).[6] Per molto tempo si è creduto, stando ad una bolla attribuita a Giovanni VII, che il ripopolamento dell'abbazia fosse dovuto a questo papa; oggi si è potuto stabilire che quella bolla è invece del papa Giovanni XVII (Vedi Regestum Sublacense ). (N. d. T.).[7] La rocca abbaziale, costruita nel secolo xi dall'abate Giovanni V, nel punto culminante del paese, farebbe ritenere Subiaco feudo del monastero. (N. d. T.).[8] Intorno alla prima stamperia in Italia ed ai primi tipografi a Subiaco, vedi prefazione del Chronicon Sublacense del Padre Cherubino Mirzio pubblicata a Roma nel 1884 a cura della Società Romana di Storia Patria. (N. d. T.).[9] Questo Regestum è stato pubblicato nel 1882 a cura della Società Romana di Storia patria. (N. d. T.).[10] Anche il Chronicon Sublacense del Mirzio fu pubblicato nel 1884 a cura della stessa Società. (N. d. T.).[11] Come ai viaggiatori è dolce rivedere la patria, così ai copisti la fine del libro. (N. d. T.).[12] Probo o Euprobo della famiglia Anicia ed Abbondanza di quella dei Reguardati furono i genitori di Benedetto e di Scolastica, nati da un sol parto. (N. d. T.).[13] È opera del Raggi, detto il Lombardo, allievo del Bernini. (N. d. T.).[14] Gasparone fu liberato nel 1871 e spesso fu veduto in Roma, dove gli erano resi omaggi come ad una vittima dell'epoca papale.[15] Ponte Felice fu costruito da Augusto e restaurato da Sisto V. (N. d. T.).[16] Questo quadro, attribuito anche al Ghirlandaio, dalla chiesa di S. Gerolamo degli Zoccolanti fu trasportato nel Palazzo pubblico. (N. d. T.).[17] Sulla porta è incisa la seguente iscrizione
ANNIBAL CAESIS AD TRASIMENVM ROMANIS VRBEM ROMAM INFENSO AGMINE PETENS SPOLETO MAGNA SVORUM CLADE REPULSVS INSIGNI FVGA PORTAE NOMEN FECIT
(N. d. T.).
[18] Questo acquedotto-viadotto è chiamato Ponte delle Torri da due torri erette alle estremità. (N. d. T.).[19] Il breve è nell'Archivio di Stato di Spoleto. Vedi F. GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia, Firenze, Le Monnier, 1874, pag. 113. (N. d. T.).[20] La Chiesa di S. Maria degli Angeli detta anche Portiuncula perchè innalzata sul poco terreno concesso a S. Francesco dai benedettini per fondarvi il suo ordine, fu cominciata nel 1569 su disegni del Vignola da Galeazzo Alessi e Giulio Ponti. Al Poletti si dava l'attuale facciata. (N. d. T.).[21] «Ad coërcendam Perusinorum audaciam» così diceva il decreto di Paolo III che ordinava la costruzione della fortezza.[22] Oggi nel centro della spianata già occupata dalla fortezza sorge il palazzo provinciale. (N. d. T.).[23] Membri dell'aristocrazia e del clero.[24] Oggi il dipinto si trova nella pinacoteca del palazzo comunale. (N. d. T.).[25] La tradizione popolare voleva che gli Ebrei provassero spavento e ripugnanza a passare sotto questo monumento. (N. d. T.).[26] Della guerra giudaica, VII, 5 (N. d. T.).[27] La restaurazione si deve al Valadier e fu fatto per consolidare l'arco in seguito al suo isolamento, la parte ricostruita, affinchè si distinguesse, fu eseguita in travertino e senza sculture. (N. d. T.).[28] Gli ebrei dovevano portare in testa in segno di riconoscimento un cenciolino di color giallo detto sciamanno dall'ebraico Siman (segno). Pio VIII abolì ufficialmente quest'obbligo che dopo la restaurazione del 1814 era rimasto lettera morta. (N. d. T.).[29] L' jus di gazagà che in ebraico vale possesso continuato cominciò ad essere regolato col breve «Dudum» del 27 febbraio 1562 da Pio IV, Medici (1559-1565), e venne in seguito perfezionato da Clemente VIII, Aldobrandini (1569-1605), col breve « Viam veritatis » del 5 giugno 1604.
Intorno all' jus di gazagà vedi lo scritto di A. Baccelli in Studi giuridici e questioni forensi, Roma, 1904. (N. d. T.).
[30] Fu don Michelangelo Caetani Duca di Sermoneta, che nel 1848 ottenne da Pio IX che gli ebrei non fossero forzati ad assistere alle prediche. (N. d. T.).[31] Editto del Cardinale Rivarola, 12 aprile 1814. (N. d. T.)[32] Da quando il Gregorovius scrisse queste pagine sono scorsi più di cinquanta anni; da quell'epoca gli ebrei hanno acquistato tutti i diritti degli altri cittadini ed il Ghetto è scomparso. La sua completa demolizione, eseguita dal 1885 al 1888, venne compresa nel piano regolatore della città ed in quello dei lavori del Tevere e l'area su cui sorgevano i poveri ed infetti abituri degli ebrei e che va dal portico d'Ottavia al palazzo Cenci, costeggiando il Tevere, lungo i muraglioni tra il ponte Quattro Capi e quello Garibaldi, è destinata alla fabbricazione e vi sorge maestoso il nuovo monumentale tempio israelitico costruito nel 1903 su disegni del Costa e dell'Armanni.
La popolazione del Ghetto si è sparsa un po' per tutta la città: un forte nucleo ha passato il ponte Garibaldi per andare ad abitare il nuovo quartiere dei Prati di San Cosimato alle falde del Gianicolo; però nelle vecchie strade circostanti al Ghetto si vedono tuttora molte botteghe di ebrei. (N. d. T.).
[33] Il popolo lo chiama l' Ortaccio; la strada che vi conduce è ancor oggi chiamata: Via dell'Orto degli Ebrei, ora non vi si seppellisce più, è stato invece aperto al Camposanto del Verano un reparto israelitico. (N. d. T.).[34] Le ebree erano e sono tuttora abilissime nel ricucire all'ago d'oro, cioè nel riconnettere due o più parti di panno in guisa che non se ne scorga la commessione. (N. d. T.).[35] Specialmente a Livorno che l'About nella sua Rome contemporaine chiama il paradiso degli Ebrei, mentre Roma ne era l'inferno. (N. d. T.).[36] Il romanesco del Ghetto differiva da quello comune sia per alcune voci e modi speciali, come le esclamazioni: mordivoi! (accorciamento di per amor di voi usato nel parlare altrui e come voce prenominale di apostrofe); badonai! (perdio!); per la vita mia!; per la vita di mio padre!; sia per altre particolarità-come l'allargamento della vocale e accentata in fonnamènto, testamènto, tètto, e simili; sia per cambiar sempre in maschili i plurali femminili, così: li lèggi, li scòli, li raggioni, ròbbi vècchi (grido quest'ultimo dei rigattieri ebrei).
Così un ebreo era riconosciuto tra mille e dileggiato pel suo modo di parlare e per la pronuncia speciale di un dialetto molto simile al romanesco, di cui non era che una variante caratterizzata dalla cantilena nasale e strisciata. Questo dialetto conservava alcune parole e frasi ebraiche, alcune delle quali, principalmente a causa di scherno, passarono storpiate nel romanesco, come ad esempio:
Badanai da Badonai, adoperato a significare gli stessi ebrei.
Tatanai da Adonai, indica grida confuse di più persone; derivato probabilmente dalle replicate invocazioni ad Adonai (Dio) nelle preghiere dette in comune nella sinagoga.
Baruccabbà dalle prime due parole del saluto rituale Baruh abba bescem Adonai (Benedictus qui venit in nomine Domini) di cui gl'israeliti si servivano e che divenne nel romanesco nomignolo di scherno per gli ebrei.
Tareffe, denota magagnato, puzzolente, tolto dall'ebraico taref, derivato dal verbo taraf, sbranare, dilaniare, che si applica alle carni illecite, sia perchè non macellate secondo il rito, sia perchè appartenenti ad animali vietati.
Cascerro, da cascer, vale retto, congruo, conveniente, è l'opposto di taref.
Aèo, era uno dei gridi dei cenciaiuoli girovaghi ebrei, oggi scomparso, si usa in senso metaforico a denotare malandato, guasto.
Quantunque il Ghetto sia sparito ed i suoi abitanti si siano dispersi per i diversi rioni della città, tuttavia persiste la differenza nel modo di parlare degli ebrei, sebbene accenni e sia destinata a scomparire.
(Vedi passim i Sonetti romaneschi di G. G. Belli, editi a cura di Luigi Morandi. Lapi, Città di Castello, 1886-1889). (N. d. T.).
[37] Intorno al Ghetto ed agli ebrei in Roma vedi: Natali, Il Ghetto di Roma, Roma 1887; Baracconi, I Rioni di Roma, Torino, 1905; Ampère, L'Empire Romain à Rome, Paris, 1867; About, Rome contemporaine, Paris, 1861; Valadier, Rome vraie, Paris, 1867; Berliner, Ein beitrag zur geschichte der Juden in Rom, Berlin, 1890; Augustus J. C. Hare, Walks in Rome, London, 1905; Dott. Philiph, The Jews in Rome. (N. d. T.).[38] È questa la chiesa di S. Maria dell'Orazione e Morte in via Giulia, detta semplicemente La Morte, dove ha sede l'Arciconfraternita dello stesso nome, detto anche La buona Morte, che ha lo scopo di andare a raccogliere i cadaveri abbandonati per la campagna e quelli dei poveri morti in città, ai quali anticamente dava sepoltura nel suo oratorio. (N. d. T.).[39] Hans Holbein il giovane (1499-1554) dipinse la Danza dei morti che si trova nel palazzo di città di Basilea. (N. d. T.).[40] Sulle rappresentazioni sacre in occasione della commemorazione dei defunti, vedi Cracas, III serie, anno I, n. 9. (N. d. T.).[41] I semi di zucca salati sono detti in romanesco bruscolini e bruscolinaro colui che li vende. (N. d. T.).[42] I burattinai solevano dare la voce a Pulcinella, quando non lo facevano parlare in dialetto napoletano, mediante un istrumento detto pivetta, formato da due pezzi di latta riuniti da un cordone, attraverso i quali la voce passando acquistava un suono stridulo e ridicolo simile al chiocciare di una gallina. La pivetta è ancora usata dai burattinai girovaghi. (N. d. T.).[43] Ogni rappresentazione si diceva camerata o più popolarmente, anche adesso infornata, perchè l'angustia del luogo fa soffrire il caldo di un forno. (N. d. T.).[44] I casotti per la fiera, in cui si vendevano specialmente pupazzi da presepio fino a Natale e dopo fino all'Epifania giocattoli, si erigevano all'ingresso dell'Avvento; la fiera fu poi trasportata in piazza Navona, dove ora agonizza; il chiasso vi si fa specialmente durante la notte della Befana. (N. d. T.).[45] Il Bertolotti nel suo articolo «Le rappresentazioni coi burattini a Roma» in Fanfulla, 1882, n. 64, dà al teatro il nome di Fiando. Ricordiamo che Fiando fu un burattinaio celebre in tutta Italia per le sue marionette incivilite e perfezionate; però a Roma si seguitò a chiamare Fiano il teatrino di S. Apollinare perchè prima di questo un altro ne esisteva nel palazzo Fiano in piazza S. Lorenzo in Lucina di fianco alla Chiesa e Fiano indicò per antonomasia teatro dei burattini. (N. d. T.).[46] Sui burattini di Roma e specialmente su Cassandrino, vedi Stendhal, Rome, Naples et Florence, Paris, Levy, 1872, pag. 317, e Frederic Mercey, articolo nella Revue des Deux Mondes, 15 aprile 1840. Vedi anche Maes, Curiosità romane, Serie III, Roma, 1885. (N. d. T.).[47] I religiosi zoccolanti di S. Maria in Aracoeli trasportavano in vettura a passo lento il bambino per visitare gli infermi ridotti agli estremi. (N. d. T.).[48] Il teatro Emiliani occupava il vasto locale dove oggi è il deposito di ferramenta della ditta Monami dal lato tra la via S. Agnese e il vicolo dei Lorenesi. (N. d. T.).[49] Piazza Navona veniva allagata tutti i sabati durante il mese di agosto. (N. d. T.).[50] Coppia di amanti babilonesi, le cui avventure celebrate da Ovidio nelle Metamorfosi, 4, 55 e seg., ricordate da Dante, Purg. 27-37, e da Shakespeare nel Sogno di una notte d'estate, divennero eccessivamente popolari in grazia alle rozze incisioni che formarono l'ornamento delle case operaie e contadine. (N. d. T.).[51] Far mosca per far silenzio è pure del fiorentino; in romanesco si dice comunemente: Zitto e mosca! o semplicemente mosca! ed anche far moschiera quando si vuol dare maggior caricatura al discorso. (N. d. T.).[52] Sul dialetto romanesco vedi Belli, introduzione ai Sonetti, vol. 1 o, Ed. Lapi, Città di Castello, 1882; Sabatini F., Volgo di Roma e L'ortografia del dialetto romanesco, Roma, Loescher, 1890. (N. d. T.).[53] Però ha prodotto quel monumento che sono i Sonetti del Belli, ai quali rimandiamo una volta per tutte il lettore, come alla più completa illustrazione di tutto quanto è descritto in queste pagine. (N. d. T.).[54] Il teatro delle dame, detto d'Alibert nel vicolo dello stesso nome, presso piazza di Spagna, era il più vasto teatro di Roma, ma anche il più disadorno e di cattiva forma, fu distrutto da un incendio il 15 febbraio 1863. (N. d. T.).[55] L'anfiteatro scoperto Corea in via dei Pontefici era annesso al palazzo della famiglia Corea ed era fondato sulle sostruzioni del mausoleo di Augusto; fino alla proibizione di Pio VIII vi si fecero le giostre delle vaccine; fu famoso per i fochetti, fuochi d'artificio che vi si incendiavano nelle domeniche d'estate; in generale gli spettacoli vi terminavano all'Ave Maria. Oggi è sparito ed al suo posto sorge il teatro Umberto I. (N. d. T.).[56] Di questi altri teatri quello Capranica è stato chiuso e l'Apollo fu demolito in seguito ai lavori del Tevere. (N. d. T.).[57] Per la benedizione dei cavalli che si fa in occasione della festa di S. Antonio abate che ricorre il 17 gennaio. (N. d. T.).[58] Precedono i convogli funebri i così detti mandatari, specie di servi delle confraternite, vestiti di una livrea dai colori della compagnia. (N. d. T.).[59] Il popolo li chiama gamberi cotti, appunto dal colore del vestito. (N. d. T.).[60] Queste ragazze che vanno in processione sono per lo più zitelle, cui è stata assegnata nell'anno una dote da qualche congrega e si chiamano le ammantate dal manto bianco che le ricopre e che è di un tessuto fine, sul quale vengono infilati degli spilli comuni in modo che formino dei disegni, per lo più di fiori, che rilucono come se fossero d'argento. (N. d. T.).[61] Questa croce immane di cartapesta, che vien portata nelle processioni, vien detta tronco perchè foggiata in due grossi tronchi d'albero nella loro rozzezza naturale. (N. d. T.).[62] Via Claudiana, per quanto ci consta, non è mai esistita. (N. d. T.).[63] Verso il tempo, in cui furon scritte queste pagine fu famosa l'accademia del modello Giggi Tallariti che ebbe sede prima in piazza S. Silvestro, rimpetto alla posta attuale, poi in via Margutta. (N. d. T.).[64] Sul saltarello, ballo figurato che ricorda la tarantella napoletana e che prende il nome dal salto che spiccano i ballerini ad una battuta più marcata di tamburello, vedi Cracas, III serie, anno 1 o, N. 6. (N. d. T.).[65] Il Consiglio comunale di Roma nella seduta 19 maggio 1882 decretò la coniazione di una medaglia d'oro in onore di Garibaldi «a titolo di benemerenza cittadina per la grande iniziativa da lui presa, affinchè lo Stato provvedesse all'attuazione dei lavori necessari per la sistemazione del Tevere». (N. d. T.).[66] Saggio di Bibliografia del Tevere presentato alla Società Geografica italiana nella tornata del 13 febbraio 1876 dal socio Enrico Narducci. Roma—Giuseppe Civelli, 1876.[67] I bandi e chirografi, le bolle, gli editti, gli statuti, le notificazioni e le disposizioni dirette specialmente a regolare la navigabilità e la navigazione sono moltissimi e vanno dal 1562 al 1869; sono interessantissimi per la storia del nostro fiume ed alcuni hanno tuttora vigore, come quelli che regolano la polizia delle ripe e dell'alveo e la servitù della via alzaia. (N. d. T.).[68] 370 km. di corso, 340 dalla sorgente a Roma, 30 da Roma al mare. Il suo corso attraverso la città di Roma è di 4105 metri. Massima larghezza a Ponte Molle 160 m. Profondità media 8 m. ( M. Carcani. Il Tevere e le sue inondazioni, Roma, 1875).[69] Francesco Brioschi: Le inondazioni del Tevere in Roma. Roma, 1876.[70] Intorno all'arginatura delle ripe del Tevere sotto i Romani, vedi lo scritto del Borsari nel Bollettino della Commissione archeologica comunale di Roma, 1889, pag. 165 e seg. L'intiera materia delle inondazioni, della navigazione del Tevere e dei provvedimenti relativamente ad esse presi nei tempi antichi, è ampiamente trattata dal Preller in un articolo intitolato Rom und der Tiber, nelle Berichte der Sächsischen Gesellschaft, 1848-49. (N. d. T.).[71] Gli epigrammi sulle inondazioni del Tevere si trovano sparsi nelle raccolte d'iscrizioni del Galletti e Forcella, nel Tevere incatenato del Bonini, nel Narducci, nel Carcani, etc.[72] Anche nel 1852 è comparso un poema Il Tevere del romano Giuseppe Gioacchino Belli.[73] L'amministrazione francese, durante il periodo napoleonico dal 1809 al 1814, aveva stabilito di costruire i muraglioni lungo il Tevere urbano ed il relativo progetto era stato redatto dall'ingegnere francese Navier. Vedi: Tournon, Études statistiques sur Rome et la partie occidentale des États romains, Paris, 1831, vol. 2 o, libro V, cap. IV, pag. 178. Il Tournon soggiunge, profeticamente, che prima o poi, l'esecuzione di tale progetto si sarebbe imposta ad un governo, pel quale il risanamento e l'abbellimento di Roma fossero interessi di primo ordine (N. d. T.).[74] Il Canevari fu il relatore (22 Luglio 1871) della Commissione nominata dal Consiglio Comunale nella seduta 3 Giugno 1871 e nella sua relazione si accenna già ai lungotevere ed ai muraglioni di sponda. (N. d. T.).[75] Questa importante operetta originariamente vide la luce nel 1859 nel periodico l' Album, mutilata dalla censura, fu nuovamente pubblicata dalla «Casa Italiana Editrice di Roma» nel 1883, tralasciando però di riportare le importantissime iscrizioni relative alle piene. (N. d. T.).[76] Negli scavi fatti per le fondazioni dei muraglioni e delle pile dei nuovi ponti sono venuti alla luce diversi oggetti, non tanti però quanti si sperava e sono stati depositati nel Museo Nazionale Romano nelle Terme Diocleziane. (N. d. T.).[77] È questo oggi il quartiere dei Prati di Castello che tre ponti (Margherita, Cavour e Umberto) collegano alla vecchia città. (N. d. T.).[78] Il pittore tedesco Karl Lindemann-Frommel (1819-1891), socio dell'Accademia di S. Luca fu per molti anni intimo amico del Gregorovius e ne illustrò l'idillio «Capri».[79] Anche questa rocca, come quella di Perugia, era stata elevata « ad reprimendam audaciam Aquilanorum » come ricordava una lapida che era sulla porta.[80] Oggi è meta di molte ascensioni e la Sezione di Roma del Club Alpino italiano vi ha costruito un rifugio (2200 m.) inaugurato nel 1886. (N. d. T.).[81] La vetta più alta è il monte Corno o Corno grande (2921 m.). (N. d. T.).[82] È la giogaia del Terminillo (2213 m.). (N. d. T.).[83] È questo il famoso passo di Forca Caruso che mette in comunicazione la conca di Celano con la valle dell'Aterno, è una specie di seno tra due alte montagne; ha fama spaventosa, più che per l'orrida natura, per le leggende che la fantasia popolare vi riconnette. (N. d. T.).[84] Alba Fucense. (N. d. T.).[85] Oggi Trasacco. (N. d. T.).[86] I lavori di prosciugamento e bonifica del lago di Fucino, che hanno trasformato l'antico bacino del lago in 16000 ettari di terreno coltivato e ferace, furono iniziati nel 1854 da una Società per azioni cui, scarseggiando essa di mezzi, si sostituì il principe Alessandro Torlonia, che aveva già sottoscritto metà del capitale e che disse risolutamente: «O io asciugo il Fucino o il Fucino asciuga me». Solo nel giugno 1876 emersero le terre più basse ed oggi il piano dove posa la statua della Vergine sopra un piedistallo alto sette metri e mezzo, in testa al nuovo emissario, indica l'altezza cui giungevano le acque del lago. Per il prosciugamento e la bonifica furon spesi 43 milioni e 137,209 lire, di cui 24,263,994 pel solo prosciugamento. Torlonia fu creato da Vittorio Emanuele II principe del Fucino. Sul territorio bonificato vivono circa 7000 agricoltori ed altrettanti operai, subentrati ai due o trecento pescatori che prima vivevano sulle sponde del lago. (N. d. T.).[87] Massa d'Alba. (N. d. T.).[88] Il Salto è detto Imele alle sue sorgenti. (N. d. T.).[89] Facciamo notare che la parola difesa, nelle Provincie facenti parte dell'ex regno di Napoli, è adoperata per denotare quella porzione del demanio comunale convertita dai baroni in loro esclusivo dominio, cingendola, a difesa, con siepi ed altri ripari, per impedire ai cittadini di penetrarvi per l'esercizio degli usi civici.
La parola difesa è anche adoperata ad indicare il demanio chiuso per tutto l'anno all'esercizio degli usi altre volte denota la chiusura per un determinato periodo o la riserva per il raccolto di alcuni frutti, come la ghianda e le castagne, altre volte ancora che il demanio è chiuso sempre per il popolo ed aperto per gli altri usi. (Vedi: Nozioni di diritto demaniale feudale per Donato A. Tommasi in Forti, e De Rensis, Il Codice dei Demani comunali nelle provincie napoletane e siciliane, Roma, 1906).
E' dunque più che probabile che per una di queste ragioni la località venga chiamata Difese, e che lo sventurato Corradino non c'entri affatto. (N. d. T.).
[90] Vedi: Bianco, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano, 1864. (N. d. T.).[91] Consulta Guida dell'Abruzzo di C. Abbate, Roma, 1903. (N. d. T.).
INDICE
- Prefazione Pag. iii
- Subiaco » 1
- Attraverso l'Umbria e la Sabina » 49
- Il Ghetto e gli Ebrei di Roma » 115
- Macchiette romane » 199
- Storia del Tevere » 289
- L'impero, Roma e la Germania » 331
- Una settimana di Pentecoste in Abruzzo » 399