Passeggiate per l'Italia

L'isola d'Elba San Marco di Firenze La campagna dei volontari intorno Roma Poeti romani contemporanei Avignone Ravenna.

Versione dal tedesco

Ulisse Carboni—Libraio Editore ROMA Via delle Muratte, 77 1907

I diritti della presente traduzione sono riservati

Stab. Tip. della Officina Poligrafica Editrice Roma, Piazza della Pigna, 53.

L'ISOLA D'ELBA. (1852).

L'isola d'Elba. (1852).

Una volta alla settimana il piroscafo dello Stato toscano, il «Giglio», fa in estate il viaggio per l'Elba, per portare i dispacci del Governo ed i passeggieri. Da Livorno il viaggio dura circa cinque ore, poichè si tocca Piombino, dove il bastimento si ferma per un certo tempo.

Sempre lungo la costa solitaria della Maremma, si è rallegrati dalla vista della verde pianura, che discende al mare, e che è limitata all'interno dai monti che circondano Volterra. Delle torri ai luoghi di approdo, alcuni piccoli porti, alcuni edifici per usi industriali e delle case coloniche sparse qua e là interrompono la striscia uniforme delle Maremme, che verdeggiano di boschetti di mirti, dove nel folto è una ricchissima caccia di cinghiali.

Ai tempi degli Etruschi su questa costa erano delle ricche città, potenti per la loro cultura, da Volterra sino a Cere e sino a Vejo nella Campagna Romana. Si passa dinanzi alla vecchia Cecina, un luogo che si trova ancora oggi collo stesso nome, vicino alla costa. Più al sud era la celebre Vetulonia, poi Populonium, una delle più possenti città degli Etruschi, la quale estendeva la propria signoria su tutte le isole vicine. Essa fu distrutta nella guerra civile tra Mario e Silla, cosicchè già, al tempo di Strabone, non rimaneva altro della sua grandezza che una vecchia torre, un tempio e pochi avanzi di mura. Le sue rovine sono visibili sul promontorio della piccola penisola che sporge dalla costa, luogo reso selvaggio da cespugli di pruni e dall'erica. Un piccolo fortilizio si erge in questo luogo. Veleggiando intorno alla penisola di Populonium si arriva al porto di Piombino.

Questa piccola città di appena 1200 abitanti era una volta dominio della casa Appiani, e nell'anno 1805 del côrso Felice Baciocchi, duca di Lucca e Piombino, marito di Elisa Bonaparte. Estinta la casa Appiani nell'anno 1631, il principato passò alla Spagna, e nel 1681 ad Ugo Buoncompagni-Ludovisi, i discendenti del quale ne tornarono in possesso dopo il 1815, sotto la supremazia della Toscana. Le stradicciole della città colle loro case gialle, il castello principesco in alto, e le mura nere ed una torre esposta ai venti sopra uno scoglio battuto dalle onde nel porto, guardano solitari giù nel mare. La veduta dalla città è degna di una residenza sovrana; un intero arcipelago sta dinanzi gli occhi, delle belle isole appaiono sulla superficie del mare: Giglio, Cervoli, Palmarola, Elba e Corsica. Precisamente di fronte e lontana solo una mezz'ora, l'Elba eleva le sue alte montagne, avendo avanti a sè le isole circondate di torri di Cervoli e Palmarola.

Quanto più ci si avvicina all'Elba, tanto più appariscono imponenti i suoi scogli; di paesi non vi è traccia, eccettuato un piccolo porto, che lasciamo sulla sinistra. La riva è ripida e di una tetra maestosità. Su in alto sulla cima di un monte sta ardita una antichissima torre grigia, chiamata dal popolo «Torre di Giove», un indicatore venerato dal navigante che drizza la prora all'isola di Napoleone.

La nave gira ora un promontorio e la sorpresa improvvisa non è piccola. Poichè in una volta si mostra il grande e bel golfo di Porto-Ferraio, un magnifico basso-fondo, chiuso a guisa di anfiteatro da alte montagne, le pendici delle quali sono coperte sino al mare da giardini, boschetti, ville, poderi, cappelle tra i cipressi, alte piante d'aloè e gelsi dalle verdeggianti ombre. A destra, il golfo è chiuso da una penisola, di cui l'istmo è molto stretto e in questa è la città ed il porto di Porto-Ferraio, l'antico Argo, più tardi La Cosmopoli, il bel monumento del fortunato Cosimo I, di casa Medici, e la prigione di Napoleone.

Io posi piede nella città col sentimento di chi entra nel regno idiliaco della storia. Le grandi, prime linee del golfo hanno qualcosa di festoso; la città sulla penisola, così graziosamente toscana, ha un aspetto di semplicità rustica e di benessere lungi dal mondo.

Le strade sono accalcate, ma visibili a colpo d'occhio; le piccole piazze ed i giardini odorosi, che sono lungo le alture, invitano decisamente a rimanere. La città tutta riluce in un tinta di sfondo giallo-chiaro, che armonizza perfettamente col verde degli alberi ed il celeste carico del mare. Un soggiorno adatto per re spodestati che vogliano scrivervi le loro memorie.

Anche le torri ed i bastioni dei tre forti, Stella, Falcone e Castell'Inglese, non hanno un aspetto severo. Ai loro piedi si trova il porto circolare, circondato da belle banchine, opera di Cosimo de' Medici. Per la tromba, la bella porta del centro, si accede nella città, dopo aver letto con soddisfazione l'iscrizione molto promettente:

TEMPLA MOENIA DOMOS ARCES PORTUM COSMUS MED. FLORENTINORUM DIE XII A FUNDAMENTIS EREXIT A. D. MDXLVIII.

Tutto costruì qui quel fortunato Cosimo, tempî, case, mura, castelli e porto; egli non lasciò a Napoleone costruire altro che i castelli in aria di un nuovo impero.

Il bastimento approda alla scalinata, dalla quale egli s'imbarcò un giorno, colla sua guardia per la Francia, una scena questa, che la fantasia ricostruisce subito; quante volte infatti per tutto il mondo non abbiamo veduto questo quadro? «L'imbarco di Napoleone all'isola d'Elba». L'occhio intanto guarda in su verso la gloriosa città, cercando l'abitazione dell'imperatore esiliato.

«Non vedete lassù, la ridente casa gialla sotto il forte Stella? Essa guarda appunto qui sul porto; vedete là, dove la sentinella stà dinanzi alla garitta.

«Quella colle piccole finestre? Qual palazzo delle Tuileries per un re pigmeo! Sembra un padiglione di giardino».

Quello è il palazzo dell'Imperatore, oggi residenza del Governatore.

Una barca ci porta alla banchina sulla quale si sono riuniti curiosando degli abitanti della città. Qui non c'è l'accalcamento di Livorno, dove non si è sicuri della propria vita fra i barcaiuoli e i facchini: qui tutto è quieto, umile e lieto. Dalla porta, si entra per una piccola strada, dove è il mercato del pesce e delle erbe, nella «piazza d'armi», una piazza lunga e stretta, in fondo alla quale è situata la chiesa principale della città. La più serena pace domenicale regna qui, una disposizione ed una comodità di vita veramente idiliache. Le casette pulite sono ornate di fiori, e dei pochi bisogni degli abitanti fanno fede le piccole botteghe, il caffè e l'albergo modesto «L'ape d'oro», nel quale prendo stanza insieme coi miei compagni di viaggio. Una modesta sala da pranzo, un paio di commensali semplici e silenziosi, un discreto vino d'isola, un pranzo frugale ed un albergatore leale e di poche pretese, ecco la prima impressione.

Non troviamo requie sino a che non siamo saliti su sino all'abitazione di Napoleone. Essa è situata tra i forti Stella e Falcone, sulla roccia, in alto, dimodochè guarda colla fronte sul golfo e colla parte posteriore sul mare verso Piombino, offrendo una bella vista. Ma certo questa veduta sulle coste attraenti d'Italia è troppo eccitante.

L'edificio è composto da un corpo di fabbrica centrale piatto con quattro finestre sulla facciata, e di due piccole ali laterali, che sono notevolmente più basse. Per queste si entra nell'interno, poichè il corpo di fabbrica centrale non ha alcuna porta. Un muro recinge il piccolo giardino, nel quale Napoleone faceva le sue passeggiate al mattino e la sera. Piante di limoni, fiori, un paio di busti marmorei nel verde, ecco tutta la ricchezza del giardino imperiale dell'Elba. Napoleone stesso lo creò, ornandolo di acacie. A me sembrò molto caratteristico di trovarvi piantati dei cannoni. Poichè il giardino appartiene al recinto del forte Stella, esso serve nello stesso tempo di trincea e senza dubbio i cannoni vi erano piantati tra i fiori, già al tempo di Napoleone e dovevano essere certo le piante preferite dell'Imperatore, chè gli davano l'odore più grato di tutti i fiori delle rose e degli aranci. Si può quindi immaginarsi l'Imperatore che si aggira qui nel suo giardino dei cannoni, che sosta presso un obice, nell'atto di macchinar piani e ponderare decisioni, investigando il mare, ove la costa d'Italia è abbracciabile dallo sguardo, scrutando più oltre sul continente, la platea della sua gloria, che gli ricorda le sue geste, rimproverandogli la sua inattività, e spunzecchia continuamente l'animo suo, dicendogli «Cesare, tu dormi».

Ma dobbiamo pur confessare che la figura di Napoleone all'isola d'Elba non ci commuove troppo. La forza eroica di un solo uomo, che lotta contro il mondo e sfida ostinatamente la sorte, è sempre degna di ammirazione, ma essa lascia freddi, quando non serve più alle idee ed agli scopi morali della storia, ma sibbene solo al proprio, piccolo egoismo. La storia aveva messo da parte Napoleone; ribellandosi dall'Elba egli apparve quale un uomo che non aveva più niente da fare nel mondo e che era esonerato dai suoi bisogni; la sua lotta era titanica come doveva esser quella di un solo uomo contro l'ordinamento del mondo; egli lo spezzò come una canna che viene stritolata da una ruota in movimento. Tale è l'impressione tragica dell'isola d'Elba e dei cento giorni.

Napoleone a Sant'Elena è di nuovo una figura ben diversa. Qui egli suscita una mestizia tragica, come l'eroe di una tragedia che noi vediamo morire, con l'anima purificata e riconciliata dalla passione.

Strano; in questo mare Tirreno esiste un'altra isola rocciosa, che porterà sempre nella storia un nome immortale, per l'esilio di un imperatore. E' Capri, il ritiro del terribile Tiberio. Elba e Capri, Napoleone e Tiberio, sono i due contrapposti del dispotismo pieni di contraddizioni; là un imperatore esiliato violentemente sulla piccola isola, che anela di tornare nella storia del mondo, preso d'angustia insopportabile, mai sazio di dominio e d'imprese eroiche; qui, un imperatore, che possiede incontestato il mondo, guidandolo con un cenno degli occhi, e che, con un sorriso mezzo ironico e mezzo pauroso, si esilia volontariamente sulla piccola roccia per vivere come un eremita.

In verità, fu una ingenuità fanciullesca delle potenze del 1814, l'esilio di Napoleone all'isola d'Elba. Si potrebbe essere tentati di spiegare quest'idea innocente dei più grandi uomini politici d'Europa, come un capriccio romantico. Pertanto, io ricevetti l'impressione dell'unico significato, che sta nell'esilio di Napoleone, all'isola d'Elba, improvvisamente, quando fin alle miniere di ferro di Rio io mi dissi allora che l'alta diplomazia del 1814 aveva pensato molto poeticamente di esiliare il Dio delle battaglie su questa isola del ferro. Dai suoi inesauribili giacimenti di minerale, i popoli si sono fabbricati armi per più di 20 secoli e Roma, alla quale Porsenna, re degli Etruschi che per primi fucinarono il minerale dell'Elba, aveva dettato una volta la condizione di adoprar il ferro per l'avvenire solo per utensili agricoli, ha conquistato poi il mondo col ferro di quest'isola.

Potevasi credere che il dominatore di mezz'Europa, che era abituato a giuocare con corone regali, si fosse potuto improvvisamente cangiare in un ufficiale pensionato, che pianta i cavoli sopra un'isola idiliaca, alleva uccelli, ha ai suoi ordini, a guisa di giocattolo, in ricordo dei tempi passati, un paio di granatieri e va a caccia la domenica coi vicini? Si pensava forse a Diocleziano, a Tiberio ed a Carlo V? Regnanti stanchi, depongono il diadema, perchè esso riesce loro pesante, dopo che si sono saziati; ma anche la più pesante corona non è mai sembrata grave sul capo di un uomo che l'ha strappata alla fortuna, quale figlio della rivoluzione. Tali uomini non possono cessare di dominare che rimanendo sopraffatti nella lotta, dalla sorte medesima. Strana idea quindi questa di porre il leone côrso su quest'isola, tra la Francia e l'Italia, giusto nel punto dove più bruciava la sua passione di dominio.

Tuttavia in questo luogo d'esilio di Napoleone vi è un significato anche più profondo. La fatalità che sovrasta ai grandi uomini è spesso di un'ironia crudele. Essa s'incarica di respingere le sue vittime al loro inizio e di colpirle dopo, quando esse tentano per la seconda volta gli dei della Fortuna. Se Napoleone saliva sopra uno di quei grandi monti di Marciana, dalla loro vetta egli poteva vedere la Corsica dinanzi a sè, con le sue città, co' suoi boschi e le sue montagne, e mille luoghi che gli ricordavano la sua gioventù. La vista doveva essergli dolorosa. In tal modo ei si trovò rigettato verso la terra, dalla quale era venuto da giovane, qual figlio ignorato della fortuna, con incerta brama di grandi geste.

Questo era insopportabile. Egli doveva rompere l'anello fatale; ma non riuscì a liberarsi dal tormento della sua sorte, che non gli risparmiò di tornare di nuovo dall'Elba in Francia nella veste dell'avventuriere, colla quale egli dalla Corsica era andato altra volta pel mondo.

Quando i marescialli Macdonald e Ney comunicarono a Napoleone che egli doveva scegliere, come sovrano, l'Elba od un altro luogo, ad esempio la Corsica, egli gridò: «No, no. Io non voglio aver niente di comune con la Corsica». Ci vuole poca psicologia a leggere qui nell'animo suo.—L'isola d'Elba! Chi conosce l'isola d'Elba? Mi si cerchi un ufficiale che conosca l'Elba! Mi si mostrino le carte che indicano la situazione dell'Elba! Elba, ebbene sia l'Elba! Ed un'idea passò nell'animo suo. I favoriti di sua sorella Elisa di Toscana erano quelli che avevano proposto l'Elba, poichè rimaneva assai vicina alla Toscana; e così egli andò ad assumere il possesso di questa piccola isola: e questo fu il risultato di quei tanti combattimenti che avevano sconvolto il mondo.

Il 20 aprile 1814 egli prese commiato dalla sua guardia. Mi si perdoni di ricordare cose vecchie e conosciute. Si rammenta pur volentieri la figura di un uomo straordinario, segnatamente nella sua caduta. Un tale spettacolo eleva l'anima ad una più savia considerazione della vita e dei suoi ordinamenti eterni. Se uomini piccoli cadono dall'altezza dei grandi, ove non li collocò la propria forza intrinseca, ma la debolezza dei tempi, si ha una fine terribile, non tragica. La caduta di Napoleone è per contro forse la tragedia più grande della storia del mondo.

Cosa disse quest'uomo, quando prese commiato dalla sua guardia, cioè dal suo istrumento di guerra? Le sue parole sono miste d'inesattezze e verità, di politica e sentimentalità! L'insieme della scena di separazione è caratteristico, poichè è del tutto teatrale. In genere, attorno alla figura di Napoleone c'è sempre maggior pompa teatrale e broccato d'oro da palcoscenico che non attorno a quelle di Alessandro e Pompeo. «Siate fedeli al nuovo Re, che la Francia si è scelto», così disse egli alle guardie piangenti; «non abbandonate la nostra cara patria, da troppo tempo infelice. Non piangete sulla mia sorte; io sarò sempre felice, sapendo che voi lo siete. Avrei potuto morire, niente era più facile per me; ma io voglio seguire senza arrestarmi la via dell'onore. Ancora ho da scrivere ciò che abbiamo fatto. Non posso abbracciarvi tutti, ma voglio abbracciare il vostro Generale. Venite, Generale... (egli stringe tra le braccia il generale Petit). Portatemi l'aquila... (egli bacia l'aquila). Aquila adorata! Potessero questi baci scendere a tutti i bravi nel cuore... Addio, figli miei... i miei voti vi seguiranno sempre... Conservate la mia memoria».

Il 27 aprile egli giunge a Fréjus, travestito poveramente, per scampare dall'assassinio progettato dalla Provenza, percorrendo in senso inverso la strada della propria fortuna. La strada che egli aveva percorso volando, come trionfatore, al suo ritorno dall'Egitto, attraversava egli ora frettolosamente, vestito da postiglione e da lacchè.

Una nave francese ed una inglese erano colà pronte nel porto. Egli prescelse l'inglese. Il 5 maggio egli approdò in Porto Ferraio; sette anni più tardi egli doveva morire in quello stesso giorno sopra una lontana isola nell'Oceano, il cui nome appena aveva udito ricordare.

Erano le 6 di sera: una bella giornata del mezzogiorno. Il popolo d'Elba, i suoi sudditi, era tutto sulla banchina. Poveri uomini con giacche di lana di capra, il berretto frigio in mano, aspettavano confusi, timorosi e curiosi il grande uomo, che aveva conquistato il mondo e regalato paesi e corone, come altri sovrani regalano anelli e decorazioni, e lo attendevano come loro sovrano, come principe dell'Elba. Una banda musicale suonava una nenia pastorale. Napoleone rimase di cattivo umore per la notte sul bastimento. Come si deve esser sentito serrato in questo piccolo golfo circondato da roccie, che sembra lo tengano prigione!

Quando mise piede sulla riva, lo ricevette il comandante francese Dalesme, sino allora in carica. Egli lo aveva prevenuto del suo arrivo, scrivendogli: «Generale, io ho sacrificato i miei diritti alle necessità della patria, riservandomi il possesso e la sovranità dell'isola d'Elba; fate sapere agli abitanti che scelsi la loro isola per mio soggiorno, dite loro che essi saranno sempre l'oggetto del mio più vivo interesse».

Elba, d'ora innanzi l'oggetto del suo più vivo interesse! Un guscio d'ostrica in luogo di tutto il mondo!

Il sindaco e gli anziani di Porto-Ferraio si presentarono con le chiavi della città. L'Imperatore li ricevette. Era la stessa scena, cui egli aveva assistito così spesso, a Berlino, a Vienna, a Dresda, a Milano, a Madrid, a Mosca,—solo gli attori erano cambiati ed erano ormai... il vecchio e balbettante sindaco di Porto-Ferraio ed un paio di anziani della cittadina.

Napoleone andò a stare nella casa del Governatore, e questa è appunto quel palazzo imperiale col piccolo giardino dei cannoni e le piccole aiuole di cui ho detto sopra. Egli cominciò senza ritardo a restaurare la casa. Io vi trovai una bella sala da pranzo e circa 10 o 12 altre camere, piccole e grandi, che sono abitate attualmente dal comandante della città e della fortezza. Nella camera da letto di Napoleone pendono dei quadri in rame, che rappresentano scene dell'Egitto; nello studio esiste ancora il suo tavolo di lavoro. Questo era dunque il palazzo delle Tuileries dell'Imperatore, il simbolo in miniatura della sua potenza, ed in rapporto ad esso stava la sua Corte. Gran Maresciallo di palazzo era il conte Bertrand; il conte Cambronne, il generale d'artiglieria Drouot ed altri componevano la Corte, che contava in tutto 35 cariche, ben rappresentate.

In verità, il soggiorno all'Elba somigliava alla villeggiatura di un imperatore romano, che si sottrae al cerimoniale della grande corte della capitale rumorosa e va a cercare, con pochi fedeli e pochi servi, aria e riposo ad Anzio od a Baia. Ma no, l'aria dell'Elba fu per i sensi di Napoleone probabilmente più opprimente che non quella dello scoglio di S. Elena, su cui egli pose piede completamente rassegnato.

Gli erano stati lasciati, come giuocattolo, 700 uomini di guardia a piedi e circa 80 uomini a cavallo. Si immagini ora quella casetta piena di veterani riuniti, quasi naufraghi sbattuti sopra un'isola ed accampati sulla riva. Chi udiva i discorsi di codesti rudi uomini, francesi, côrsi, italiani e polacchi, sentiva le cose più meravigliose e vedeva passare quadri di mezzo mondo innanzi a sè: le piramidi, i ghiacci terribili della Russia, le Alpi, Lipsia, Marengo, il sole d'Austerlitz, Eylau e non è tutto:—nomi come Ney,—oh, Ney! questo rattrista,—Marmont, Bernadotte,—che rattrista il vecchio cuore dei veterani,—Murat il falso, il magnifico Murat! Che avvenne di Murat? Oh, egli è laggiù in Italia, ancora Re! Con un bastimento che navighi due o tre giorni si può dargli la mano.—«Pazienza!» dice l'italiano.—«Viva l'Imperatore» grida il francese.—«Ancora niente è perduto,» dice il polacco.—Qualche volta si fanno esercizi; l'Imperatore non ha disimparato il mestiere. Si sparano i cannoni, ma i cannoni non fanno che brontolare nell'aria, e la loro è una cattiva musica.

Si deve eseguire un'impresa. L'Imperatore dell'Elba volle già nei primi tempi conoscere il suo nuovo Stato ed accompagnato dall'ambasciatore inglese Niel Campbell fece il giro dell'isola a cavallo. Si vuole che, temendo di essere assassinato, prendesse costui con sè ed anche una scorta di armati. Egli diffidava specialmente del comandante della Corsica, Brulart, che era stato a suo tempo capo degli Chouans ed amico di Giorgio Cadoudal, ed ora comandava in Corsica, come a dispetto di Napoleone. In un paio di giorni l'Imperatore si era persuaso che il suo regno non era grande; concepì però il piano di costruire strade, condotture d'acqua e fare miglioramenti. Egli voleva abbellire l'Elba, come Tiberio aveva abbellito una volta Capri. Lo spirito irrequieto cercava di occuparsi; d'altronde, doveva pur passare il suo tempo.

Napoleone che fabbrica all'isola d'Elba e traccia strade traverso le roccie, è un uomo pensoso, che disegna figure e linee nella sabbia; è il vecchio Federico, seduto sul tubo da condotture, dopo la battaglia perduta, che sta scavando dinanzi a sè col bastone.

Il suo sguardo cadde sullo scoglio di Palmarola. Egli mandò quaranta guardie ad occupare quell'isolotto, cosa che nessuno gli contrastò, poichè non era abitato da nessuno. Le vecchie guardie elevarono una torre e così il regno fu ingrandito.

Napoleone occupò anche quella piccola isola deserta di Pianosa, dove Augusto un giorno aveva esiliato il nepote Agrippa Postumio, che fu fatto trucidare subito dopo da' sicarî speditivi da Tiberio. L'isola fu protetta da un fortino. A ciò egli fu indotto forse da quell'antico nome imperiale, oppure dalla sorte di Agrippa, tanto simile, ahimè! alla sua.

Egli costruì magazzini, banchine, un paio di stalle per cavalli, una condottura d'acqua, un lazzaretto e lo stesso piccolo teatro di Porto-Ferraio, dove egli aveva il suo palco, come a Parigi. Per se stesso egli mise su una villa in campagna. Sulla destra del golfo una strada, da lui costruita, conduce a questa Versailles dell'Elba. Colà andava o cavalcava volentieri, egli, l'Imperatore, intrattenendosi spesso coi campagnoli che incontrava per via, spingenti innanzi a sè i loro asinelli carichi di frutta.

La valle, nella quale è sita la villa S. Martino, e dove si vuole che una volta abbia avuto un palazzo Scipione Nasica, è straordinariamente bella. Essa rimane nel grembo di quelle maestose montagne, che si elevano dal lato della Corsica. Un ruscello serpeggia nel verde del fondo, d'ambo i lati una ricca vegetazione, molte case sparse nel verde, e sino a dove giunge lo sguardo un'abbondanza benedetta di vigneti carichi d'uva, come se si fosse nella campagna felice di Napoli. Chi ha la contentezza nel cuore, può certo viver felice colà. Per tutto l'anno vi fioriscon rose; il clima è mite e l'aria aromatica e dalla parte che la valle si apre verso Portoferraio, il golfo ed il mare brillano fantasticamente.

La villa appartiene oggi al Principe Demidoff. Questo Creso russo la trasforma in un museo napoleonico. Essa diverrà magnifica con portici dalle colonne marmoree e sale incantevoli, dove si potranno ammirare tutti i fasti dell'Imperatore dipinti in affreschi sulle pareti. Napoleone però, che aveva piantato gli aranci sulla terrazza della villa, si contentò di far dipingere la sala da pranzo in stile egizio; in genere sembra che il ricordo dell'Egitto fosse il più caro della sua vita, poichè gli rappresentava le poesia epica e romantica della sua gioventù. Ora Demidoff ha raccolto tutte le possibili reliquie che sono inerenti alla storia napoleonica, e le disporrà nelle sale di S. Martino. Una reliquia napoleonica vivente ancora, nel cui possesso il principe è stato, egli non potrà esporre in questa villa, poichè, a quanto si dice, egli non l'avrebbe ben tenuta; voglio dire la sua prima moglie, Matilde Bonaparte, figlia dell'ex-re Girolamo, reliquia di Vestfalia.

Quando i cimelii saranno tutti a posto, mi dissero i lavoranti della villa, il principe farà venire tutti i venerdì a proprie spese un piroscafo da Livorno a Portoferraio, per trasportare tutti coloro che vorranno ammirare le belle cose. Per ora, nessuno deve entrare e questo sta scritto su di una tabella. Così io non potei entrare nella villa.

Tornando a Portoferraio, fui consolato dal bel chiaro di luna, che seppe narrarmi molte cose. Al chiaro di luna si osservano meglio le rovine e si medita meglio sui ricordi d'ogni specie; il fascino di una luce incerta si accorda così bene con tutto ciò che c' è di transitorio e di fugace!

Si può amare Napoleone? Potrà essere commossa sino alle lacrime un'anima umana tra mille anni al ricordo di lui, in uno qualunque dei teatri delle sue geste? Io lo dubito; io non lo credo.

Vi è un gran nome nella storia, che per metà suona nel nome di Napoleone: Timoleone. Il ricordo di quest'uomo del tempo antico, io lo confesso, mi commosse profondamente, quando ripensavo a lui, visitando il teatro di Siracusa. Come avrebbe avuto paura Napoleone dinanzi a questo greco, che lo avrebbe inviato a Corinto, disprezzandolo severamente, come il tiranno Dionigi. Altri tempi, grandezze diverse; Napoleone, nella sua gioventù, era entusiasta di questi eroi di Plutarco; quando divenne imperatore, confutava rabbiosamente Tacito e fece un panegirico a Tiberio.

Così spesso lo si è paragonato a Prometeo incatenato, che questo quadro è oramai vecchio; esso sta tuttavia tanto bene a questo eroe in esilio, che era in condizione di spezzare le catene dell'Elba, sino a che la forza e la violenza non lo ribadirono in ceppi diamantini allo scoglio di S. Elena. Dopo, quali lotte da giganti! Blücher e Wellington dovevano vincere questo genio, lanciati quali forza e violenza contro il semidio. Il generale degli ussari Blücher, adoperato nelle mani del destino quale mezzo per abbattere Napoleone, o diciamo con parola più modesta, a batterlo, poichè cosa avrebbe potuto fare un brav'uomo come Blücher, senonchè battere strenuamente... Questo è uno scherno amaro. La natura pertanto si serve delle grandi forze, se vuole formare o sviluppare qualcosa, delle più modeste, quando vuole compiere o distruggere.

A Napoleone le settimane trascorse all'Elba doverono sembrare anni. Egli si lamenta spesso con Campbell che gli siano stati tolti la moglie ed il figlio, negandogli un favore che è accordato anche ai più miseri degli esiliati dall'umanità.

Sua madre venne nell'estate. Come ritrovò Letizia Ramolino suo figlio! Anche il cuore vanitoso della madre era precipitato dall'alto della fortuna, ma non si spezzò; il cuore di Giuseppina, più nobile, si spezzò, 30 giorni dopo la prima caduta di Napoleone, alla Malmaison. Anche Paolina Borghese, sua sorella, una volta la nuova Elena del mondo, la bella etéra, ai piedi della quale giacevano sovrani coronati, venne ora a farsi dimenticare nella solitudine dell'Elba.

Molte persone vennero e se ne andarono misteriosamente. I sette porti dell'isola non erano stati mai così animati. Nei nove mesi vi entrarono 1200 bastimenti e 900 italiani e 600 inglesi vennero a vedere l'uomo dell'Elba, tra i quali molti ufficiali in uniformi italiane, francesi ed inglesi, ora da Marsiglia, ora dalla Corsica, da Genova e Livorno, ora da Napoli, Civitavecchia e Piombino. Con tutti Napoleone si intratteneva allegro e spiritoso e da tutti si faceva informare degli avvenimenti del suo paese e del continente.

Un giorno venne a Portoferraio una signora straniera con un bambino. L'Imperatore la ricevette segretamente, e l'alloggiò in campagna; dopo pochi giorni però essa ripartì col bambino per l'Italia, misteriosamente come era venuta. Circolarono molte dicerie, pochi soli seppero chi fosse la straniera; essa non aveva potuto sottrarsi agli sguardi della curiosità. Si può facilmente immaginare come Napoleone all'Elba si trovasse nella situazione di un uomo interessante, che soggiorna in una piccola città di provincia, spiato da tutti gli occhi, e chiacchierato da tutte le lingue. Quella signora straniera era una contessa polacca, il bambino, un figlio di Napoleone, il frutto di un'ora di delizia nella fredda Polonia. Io non so ciò che avvenne poi del bambino, ma credo poter accertare che questo bambino si sia presentato nel mese di dicembre 1852, quale ambasciatore ufficiale della Francia, dinanzi alla regina Vittoria d'Inghilterra, per annunziarle che la superficie del mondo, nonostante l'Elba e Sant'Elena, era divenuta di nuovo bonapartista, poichè 8 milioni di francesi avrebbero eletto commossi imperatore di Francia Luigi Bonaparte, unico figlio superstite dell'ex Re di Olanda.

E' un sogno. La storia del mondo ha talvolta i suoi sogni di vecchi amori e di avvenimenti antichi, come un individuo. Nell'anno 1852 essa sognò di Napoleone.

L'Imperatore intanto veniva svergognato da zie e comari, come si dice. In tutta Italia si affermava che una certa signorina Vantini aveva conquistato il suo cuore, che egli l'aveva ricevuta in ore romantiche, nella villa ed anche nel suo palazzo, e che essa inoltre già portava nel seno un secondo piccolo Napoleone ed infine che essa si vantava apertamente di ciò. Questa signorina era figlia di un possidente dell'Elba, un uomo che era stato sindaco di Portoferraio; egli era d'altra parte cognato di un certo signor Cornelio Filippi di Livorno. La sorella di questo signor Filippi tuttavia era una vera Messalina, amante dichiarata dell'inglese Grant, un negoziante di Livorno, e questo Grant a sua volta era un nemico accanito di Napoleone e manutengolo dello spione Giunti, ecc. ecc. E così si ebbe una storia di scandali anche all'Elba.

Il danaro cominciava tuttavia a mancare. Le entrate di Napoleone erano di appena 400.000 lire. La Francia, ad onta dell'impegno preso, non pagava la rendita annuale di lire 2.500.000 stabilita dall'accordo di Fontainebleau. L'Imperatore si lamentava e lord Castlereagh si interponeva per lui; ma il Governo francese tergiversava e non pagava, perchè sospettava probabilmente che l'esiliato volesse servirsi dei suoi denari per un qualche colpo di Stato; nella miglior ipotesi si temeva un'irruzione in Italia; che potesse però tentare uno sbarco in Francia, non passò per la mente a nessuno.

Qui all'Elba, nella prossimità della Francia e dell'Italia, i due paesi si son dovuti offrire da se stessi come teatri di una possibile restaurazione alla fantasia dell'Imperatore decaduto. Come deve aver passeggiato indeciso in questo giardino, in questo studio ed in quella villa, le mani incrociate sulla schiena, pesando sulla bilancia della scelta, qua la Francia e là l'Italia, qui il rinnovarsi di un cammino già noto, la restaurazione di un regno che gli era appartenuto, là una nuova strada, una monarchia del tutto nuova da fondare.

Sostiamo un momento, poichè questo è un punto misterioso nella storia di Napoleone, un punto di una seduzione straordinaria, quando si voglia formarsi un criterio, come tutte l'eventualità di un grande carattere. Per un minuto, può dirsi, balenò sull'Italia l'apparizione di un avvenire incalcolabile, mentre Napoleone era all'Elba.

Quali conseguenze ne sarebbero derivate infatti se questo uomo avesse improvvisamente dimesso la sua aspirazione verso la Francia, se egli, italiano, fosse comparso in Italia sotto un nuovo aspetto, quale ordinatore cioè ed unificatore di questi bei paesi, nella città mondiale di Roma, sul Campidoglio, qual romano imperatore della penisola latina?

E' fuori dubbio che un tale partito fosse preso in esame, ma a qual punto giungessero i rapporti di Napoleone cogli agenti dell'Unione italica, che avevano il loro centro a Torino, è difficile poter precisare, nonostante tutto quello che è stato scoperto. Quel progetto di un impero costituzionale a Roma, a capo del quale si sarebbe dovuto eleggere Napoleone, non suona più fantastico oggi, che nel 1814. Napoleone doveva essere imperatore romano, i Re di Sardegna e di Napoli sarebbero stati indennizzati con delle somme, le città principali, come Milano, Venezia, Firenze e Napoli, sarebbero state innalzate a vice-reami, per appagare il loro patriottismo, divenendo volta a volta sedi del parlamento nazionale. Il Papa fu dichiarato un fantasma, di cui si doveva liberarsi. Questo era il progetto italiano; per metterlo in esecuzione poteva bastare una guerra. Murat, allora ancora re di Napoli, poteva essere avviluppato in una guerra colla Francia; Napoleone sarebbe comparso nel momento dello scontro, nel qual caso egli avrebbe indubbiamente avuto ragione delle due armate, ed avrebbe compiuta l'unità d'Italia, obbligando i Borboni di Francia a riconoscerlo.

Ma basta con questi sogni. Napoleone manteneva l'Italia in tensione, quando egli prestava ad essi l'orecchio, ed infatti il suo sbarco nella penisola avrebbe fatto vacillare ogni cosa. Egli si sarebbe senza dubbio rivolto all'Italia, se la Francia non gli avesse offerto nessuna prospettiva; ma ciò, di cui i suoi agenti di colà lo informavano, mostrava chiaramente ch'egli non doveva che sbarcare per vedere sfumare come nebbia la restaurazione borbonica.

Intanto, nel palazzo all'isola si viveva semplicemente, senza destar preoccupazioni; Paolina, l'anima della società, dava ogni tanto una festa. Ma, affine di risparmiar danaro, il treno di casa era stato ridotto, qualche progetto di costruzione pure veniva sospeso e si vendeva persino un parco d'artiglieria. L'Imperatore stava tutto ingolfato tra le carte, i giornali ed i rapporti. Il suo piccolo studio aveva lo stesso aspetto, di quello alle Tuileries; l'uomo era pur sempre lo stesso, era Napoleone, che ruminava in fondo all'animo progetti colossali, piani di battaglia ed idee che dovevano sconvolgere il mondo.

In tal modo egli se ne stava nella piccola cameretta della sua casa di Portoferraio, sul tetto della quale sventolava il modesto vessillo dell'Elba, bianco ed amaranto colle api imperiali, mentre nello stesso tempo l'alta diplomazia sedeva a congresso a Vienna. Tutte le potenze d'Europa sono dietro il tavolo verde, mettendo in movimento mille penne e mille lingue; tutto il mondo è un protocollo ed un campo di lotte diplomatiche e tutto questo per il piccolo uomo dell'Elba. Questi, in silenzio e dimenticato, solo come un mago nella spelonca ove evoca spiriti invisibili, mandandoli fuori e ricevendoli di ritorno; quelli avvolti dal frastuono delle feste della vittoria e dei dibattimenti. Così passavano i mesi. Ad un tratto il piccolo uomo di ferro all'Elba si alza dal tavolo suo: il Congresso non è più; i principi ed i diplomatici si dividono ed il mondo torna ad essere di nuovo un campo di guerra infuriato.

Napoleone era informato di tutto quanto avveniva in Francia ed a Vienna; sul principio dell'anno 1815 la discordia minacciò di mettere gli alleati in guerra fra di loro. L'Austria, la Francia e l'Inghilterra si impegnarono per mezzo di una convenzione segreta contro la Russia e la Prussia. La Francia esigeva pure la restaurazione dei Borboni a Napoli. Il trono di Murat vacillava; egli si offrì quindi naturalmente quale alleato a Napoleone, per fare appello a quella unità d'Italia, a capo della quale egli avrebbe dovuto esser posto.

La parola terribile di Sant'Elena era già arrivata alle orecchie di Napoleone. Il partito era preso nell'animo suo. Egli divenne sempre più solitario; evitava di parlare a Campbell. Egli lo riceveva solo di rado e soltanto quando l'inglese ritornava da Livorno, ove andava qualche volta. Una nave da guerra francese incrociò allora intorno all'isola per spiare Napoleone, del quale si cominciò a dire che preparasse uno sbarco in Italia; invece la corvetta inglese, che era a disposizione di Campbell, navigava continuamente tra l'Elba, Genova, Civitavecchia e Livorno, su e giù.

Napoleone stesso, come sovrano dell'isola, possedeva dei navigli da guerra, cioè quattro bastimenti; essi veleggiavano spesso, manovrando sul mare, sotto il nuovo vessillo dell'Elba, che era rispettato anche dai barbareschi; spesso essi portavano ai capitani dei bastimenti elbani dei regali, dicendo che pagavano il debito di Mosca. L'Imperatore mandava di frequente fuori le navi, per nascondere i suoi propositi; ed egli tanto li nascose che solo Bertrand e Drouot furono a parte del segreto e lo conobbero appena 24 ore prima della partenza. Alle donne non fu detto niente; nella vicina Corsica lo sapeva soltanto Colonna, l'amico di Paoli e confidente di Napoleone.

La decisione d'imbarcarsi, di uscire da quella squallida solitudine, andando incontro a nuovi combattimenti da giganti, dovette essere una terribile scossa per l'anima di Napoleone, simile a quella di Cesare, quando passò il Rubicone. Certo fu uno di quei tratti disperati che si qualificano a seconda dell'esito, o come audacemente eroici e grandi, o come folli ed avventurosi. Tali momenti, nei quali un uomo deciso va incontro al suo destino a corpo perduto, conquistano tutto il nostro interesse, e, se l'impresa riesce, l'audacia stessa sembra che raddoppi la grandezza dell'eroe. Simile a quel Fernando Cortez, che lasciò bruciare dietro a sè i bastimenti, ci appare ora Napoleone, ed in verità egli andò alla conquista della Francia ed alla guerra contro gli eserciti delle potenze europee, con poche truppe di più di quelle che aveva l'avventuroso grande spagnolo quando si trattava di domare i selvaggi indiani. Certamente, due suoi grandi eserciti già stavano in Francia: il fascino del suo nome e l'odio contro la restaurazione.

Era di sabato, il 26 febbraio; Paolina dava appunto un ballo; le guardie e le altre truppe, 800 uomini, stavano in tenuta di marcia sulla Piazza d'Arme; sette bastimenti erano pronti per la partenza in porto; l'Imperatore appariva irrequietissimo; il piccolo uomo andava su e giù, alla finestra, guardava il cielo e il golfo che è mosso dalle onde muggenti. Le guardie ricevettero finalmente l'ordine di imbarcarsi! Alea jacta est.

Erano le otto di sera quando Napoleone scese dalla banchina nella barca.

Qui, nel momento in cui l'uomo poderoso prende il mare, per tentare gli Dei per la seconda volta, a me sembra che una voce gli gridi dietro: «La triste, eterna legge del fato dispone per tutte le cose, che quando esse hanno raggiunto l'apice, ricadano nel fondo più presto di quanto sono salite». La voce è quella di Seneca, di quell'antico uccello della disgrazia, che ha un diritto speciale di lanciare dietro a Napoleone questa massima, poichè egli vide finire in modo terribile i grandi della terra, l'imperatore Tiberio, l'imperatore Caligola, l'imperatore Claudio e Cesare Germanico, poichè egli rimase per otto anni in esilio in Corsica e studiò la saviezza e conosceva la natura per esperienza profonda, e così poteva predire pure la fine delle cose napoleoniche. Napoleone si allontanò veleggiando, non veduto dalla corvetta inglese, che era a Livorno. Il mare era grosso. Si sperava di aver passato la Capraja prima dello spuntar del giorno; però il vento cessò e al giorno si era ancora in vista dell'isola; solo alle 4 della sera circa si arrivò all'altezza di Livorno e subito si scorsero due fregate e poi una nave da guerra francese, la Zephir, che veniva incontro. Gli equipaggi volevano abbordarla, Napoleone però impose loro di nascondersi sotto coperta. Lo Zephir domandò alla nave ciò che c'era di nuovo all'Elba e Napoleone stesso rispose con la tromba: «L'Imperatore sta molto bene». Così sfuggi felicemente al pericolo.

Prima del suo imbarco egli aveva già redatto due proclami all'esercito ed al popolo francese; ma poichè non si poteva decifrarli, egli li buttò in mare e ne dettò altri due. Tutti coloro che sapevano scrivere ne fecero copie; si vedeva a bordo chi scriveva sulle trombe, chi sui colbac dei granatieri e sui banchi. Era una scena curiosa quella, chi si svolgeva sull' Inconstant,—questo era il nome del bastimento di Napoleone e della sua fortuna.

Ecco ora i due proclami.

Dal Golfo di S. Juan il 1 o marzo 1815.

Napoleone, per grazia di Dio e per la costituzione dell'Impero, Imperatore dei Francesi.

All'Armata: «Soldati! Noi non siamo stati battuti. Uomini usciti dalle nostre file hanno tradito la nostra gloria, il loro paese, il loro principe ed il loro benefattore. Coloro che da 25 anni furono veduti percorrere l'Europa per suscitarci nemici, che hanno trascorso la loro vita combattendo contro di noi tra le file nemiche, imprecando alla nostra bella Francia, avranno essi il vanto d'incatenare e dominare le nostre aquile, essi che non ne poterono mai sostenere lo sguardo? Dovremmo noi sopportare che essi raccolgano i frutti delle nostre fatiche gloriose, che essi s'impadroniscano del nostro onore e dei nostri averi? che essi rinneghino la nostra fama? Se il loro regno durasse, tutto sarebbe perduto, anche il ricordo stesso delle nostre memorabili battaglie. Con qual furore essi le sfigurarono e cercarono di avvelenare ciò che aveva meravigliato il mondo! E se restano ancora dei difensori della nostra gloria, si trovano tra i nostri nemici stessi che abbiamo combattuto sui campi di battaglia. Soldati! Nel mio esilio ho udito la vostra voce; io son qua dopo aver superato tutti gli ostacoli e tutti i pericoli.

«Il vostro Generale chiamato al trono per elezione del popolo, innalzato sui vostri scudi, vi è restituito. Venite, unitevi a lui. Strappate quei colori che la nazione ha proscritti ed attorno ai quali da venticinque anni si sono riuniti tutti i nemici della Francia. Inalberate quella coccarda tricolore che portavate nelle nostre grandi giornate. Noi dobbiamo dimenticare che siamo stati i padroni dei popoli, ma non dobbiamo sopportare che alcuno s'immischi nelle nostre faccende. Chi potrebbe pretendere di dominare su noi? Chi ne avrebbe la potenza? Riprendete quelle aquile che portavate a Ulm, ad Austerlitz, a Jena, a Eylau, a Wagram, a Friedland, alla Tudela, ad Eekmühl, a Essling, a Smolensk, alla Moscova, a Lützen, a Wurschen, a Montmirail. Credete voi che questo piccolo gruppo di francesi, che è oggi così altero, ne possa sopportare la vista? Essi ritorneranno colà donde sono venuti, ove continueranno a regnare se lo desiderano, come pretendono d'aver fatto per diciannove anni.

«I vostri beni, il vostro rango, la vostra gloria, i beni, il rango e la gloria dei vostri figli non hanno maggiori nemici di questi principi che ci sono stati imposti dagli stranieri. Essi sono i nemici della vostra fama, poichè il ricordo di tanti fatti eroici che hanno glorificato il popolo francese, quando combatteva contro di essi per sottrarsi al loro giogo, è la loro stessa condanna.

«I veterani delle armate della Sambre e della Mosa, del Reno, d'Italia, dell'Egitto, dell'Oriente, della grande Armata sono umiliati; le loro cicatrici onorate sono schernite; i loro successi sarebbero delitti e i prodi sarebbero ribelli se, come sostengono i nemici del popolo, i sovrani legittimi si trovavano tra le file delle armate nemiche.

«Gli onori e le ricompense appartengono a coloro che li hanno serviti contro la patria e contro di noi.

«Soldati! Venite, schieratevi sotto le bandiere del vostro Capo; la sua vita è la vostra: i suoi diritti sono quelli del popolo ed i vostri; il suo interesse, il suo onore, la sua gloria sono l'interesse, l'onore e la gloria vostra. La vittoria marcerà al passo di carica; l'aquila coi colori nazionali volerà di torre in torre sino alle torri di Nôtre-Dame. Allora potrete mostrare con onore le vostre ferite; allora potrete vantarvi di quello che avete fatto e sarete i liberatori della patria.

«Nella vostra vecchiaia, circondati dai vostri concittadini che vi ascolteranno con attenzione, racconterete loro le vostre grandi geste; voi potrete dire con orgoglio: anch'io facevo parte di quella grande Armata che entrò due volte nelle mura di Vienna, in quelle di Poma, di Berlino, di Madrid e di Mosca, che liberò Parigi da quelle infamie che il tradimento e la presenza del nemico le avevano impresse. Onore a questi prodi soldati, gloria della patria! e vergogna eterna ai francesi colpevoli, in qualunque condizione la fortuna li abbia posti, che combatterono per venticinque anni per dilaniare il cuore della patria.

firmato: Napoleone ».

Al Popolo francese.

«Francesi! La capitolazione del Duca di Castiglione consegnò Lione ai nostri nemici senza tentar difesa. L'esercito, il cui comando io gli avevo confidato, era in condizione di battere il corpo d'armata austriaco a lui contrapposto, per il numero dei suoi battaglioni e per l'eroismo e l'amor di patria delle truppe che lo componevano, passando così dietro il fianco sinistro dell'esercito nemico che minacciava Parigi.

«Le vittorie di Champ-Aubert, di Montmirail, di Château Tierry, di Bauchamps, di Monterom, di Craonne, di Rheims, di Arcis-sur-Aube e di Saint-Dizier, la sollevazione dei bravi contadini nella Lorena, nella Champagne, nell'Alsazia, nella Franca Contea e nella Borgogna, e la posizione da me occupata dietro gli eserciti nemici, in modo da tagliar loro i magazzini, i parchi di riserva, le comunicazioni e toglier così loro tutto il necessario, li avevano posti in condizione disperata. I francesi non erano mai stati sul punto di essere più potenti e la più bella parte degli eserciti nemici era irremissibilmente perduta; essa aveva trovato la propria sepoltura in quelle regioni deserte, che aveva spogliate così crudelmente, quando il tradimento del Duca di Ragusa consegnò ai nemici la capitale e produsse il dissolvimento dell'esercito.

«Il modo imprevisto di comportarsi di questi due generali, che tradirono in una volta la loro patria, il loro principe ed il loro benefattore, cangiò le sorti della guerra; la condizione del nemico era tale che, sul finire del combattimento che ebbe luogo dinanzi a Parigi, esso si trovava senza munizioni, avendolo noi separato dal suo parco di riserva.

«In queste improvvise e gravi circostanze il mio cuore era dilaniato, ma l'animo mio rimase incrollabile; io presi allora consiglio solo dal bene della patria; io mi relegai sui miei scogli in mezzo al mare; però la mia vita vi era e doveva esservi ancora utile. Non permisi al grande numero di cittadini che mi volevano accompagnare, di dividere la mia sorte; io pensavo che la loro presenza fosse utile in Francia; non condussi meco che un piccolo manipolo di prodi, necessari per la mia difesa.

«Elevato al trono per vostra elezione, tutto ciò che è avvenuto all'infuori di voi, è illegale. Da 25 anni, la Francia ha nuovi interessi, nuove istituzioni ed una gloria nuova, che possono esser garantiti solo da un governo nazionale e da una dinastia, sorta in queste circostanze. Un principe che regnasse su di voi, che fosse posto sul mio trono con la forza di quelle armi che hanno devastato il nostro paese, si appoggerebbe invano sui principî del diritto feudale; egli non garantirebbe che i privilegi di un piccolo numero di individui, nemici del popolo, che da 25 anni li ha sempre condannati in tutte le nostre assemblee nazionali. La vostra pace all'interno e il vostro prestigio all'estero sarebbero perduti per sempre.

«Francesi! Nel mio esilio ho inteso i vostri lamenti ed i vostri desiderî; voi avete reclamato questo governo ai vostri voti, ciò che solo è legittimo; avete accusata la mia lunga inerzia e mi proponeste di sacrificare la mia pace al bene della patria.

«Io ho traversato i mari in mezzo a pericoli di ogni sorta. Sono qua per riprendere tra voi i miei diritti, che sono pure i vostri. Non terrò conto di tutto ciò che è stato fatto, scritto o detto da alcuni dopo l'occupazione di Parigi; ciò non avrà nessuna influenza sui servizi rilevanti che essi prestarono per l'innanzi, poichè è degli avvenimenti di questa fatta che si trovino nell'organizzazione umana.

«Francesi! Non vi è nazione che, per quanto piccola, non avrebbe avuto il diritto di sottrarsi e che non si sarebbe sottratta all'onta di obbedire ad un principe che è stato imposto da un nemico, momentaneamente vittorioso. Quando Carlo VII ritornò a Parigi e rovesciò il trono effimero di Enrico VI, egli riconobbe di essere in possesso del trono, pel valore de' suoi prodi e non per mezzo del principe-reggente d'Inghilterra.

«Così io pure riconosco e riconoscerò a voi soli ed ai prodi dell'esercito il dovuto onore.

Firmato: Napoleone ».

Questi sono i proclami ch'ei scrisse nel mare d'Elba. Lo spirito militare di quei tempi, quando il popolo diveniva esercito, ed il sovrano, generale, ci si affaccia da questi documenti nella sua barbarie per l'ultima volta. Chi può leggere oggi senza sentirsi irritato queste frasi di gloria militare e di guerre dei prodi dell'esercito e sempre ed eternamente dell'esercito?

Il 1 o marzo alle 3, la flotta di sette trasporti arrivò nel golfo S. Juan; alle 5 Napoleone pose piede sulla terra di Francia. La schiera si nascose in un uliveto.

Come somigliava qui Napoleone agli eroi romantici della sua patria côrsa. Poichè, mostrandocisi ormai nell'atteggiamento di avventuriere, egli era essenzialmente côrso. I guerrieri più rinomati della patria sua avevano cercato di impossessarsi di essa dall'esilio, nella stessa maniera.

Nell'anno 1408 Vincentello d'Istria sbarcò con un paio di spagnoli e di côrsi su quell'isola, per strapparla ai genovesi. Dopo un combattimento glorioso egli fu preso e decapitato.

Giampaolo fece, nell'anno 1490, un'incursione in Corsica con quattro côrsi e sei spagnoli, ch'erano tutti il suo esercito. Dopo un combattimento glorioso, egli morì in esilio.

Tre volte irruppe il valoroso Renuccio della Rocca dal suo esilio in Corsica, la prima con 18 uomini, la seconda con 20, e la terza volta con 8 amici. Ogni volta egli entrava coraggiosamente nel paese, mettendo avanti editti di esilio e lanciando proclami, e contando sul concorso dei suoi amici. Egli fu ucciso nell'anno 1511, sui monti, dopo varii combattimenti gloriosi.

Nell'anno 1564 Sampiero, il più valoroso dei côrsi, sbarcò nella sua patria con 37 côrsi e francesi. Egli fu ucciso nell'anno 1567 sui monti, dopo gloriosi combattimenti cogli eserciti genovesi.

Con 500 guardie francesi, 200 cacciatori côrsi e con 100 lancieri polacchi, che non avendo cavalli, portavan essi stessi le selle, il côrso Napoleone Bonaparte partì in guerra contro la Francia e gli eserciti reali. Dopo gloriosi combattimenti egli fu relegato nell'isola di S. Elena.

Con un manipolo di côrsi Gioacchino Murat sbarcò nell'ottobre 1815 dalla Corsica a Napoli, per conquistare un regno. Egli fu fucilato dopo il suo audace sbarco.

Con un paio d'uomini, il côrso Luigi Bonaparte arrivò, ai nostri tempi, a Strasburgo, per conquistare una nazione di 35 milioni di abitanti. Il tentativo essendo fallito, egli sorprese di nuovo la Francia in Boulogne. La storia ha il dovere di riconoscere queste incursioni, senza dubbio avventurose, quali precedenti storici di un uomo che divenne imperatore dei francesi non molto tempo dopo. Pertanto, nessuno deve esser considerato felice, prima della sua fine.

Presto si abbattono le cose caduche, dice il vecchio Seneca. Rapido fu il volo di Napoleone dal golfo di S.Juan, a S. Elena, a traverso Waterloo. Il 2 marzo egli era a Cérénon, il 3 a Barême, il 4 a Digne, il 5 a Gap, il 7 a Lione, il 14 a Chalons, il 20 marzo alle 9 di sera egli entrava a Parigi. Il 1^o giugno egli era un uomo politicamente già battuto. Il 18 giugno egli cadde a Waterloo. Il 21 giugno tornò, in fretta, a Parigi; il 22 giugno egli dettò:

«Ma vie politique est terminée et je proclame mon fils sous le titre de Napoléon II empereur des Français!».

Il 15 luglio egli s'imbarcò sul Bellerophon; il 7 agosto sul Northumberland. Il 16 ottobre arrivava a S. Elena.

Dopo—e questo è l'ultimo quadro della storia di quell'anno meraviglioso—egli giacque sul lontano scoglio africano, nel suo letto di morte, pallido e muto, coperto col mantello turchino di Marengo, col busto marmoreo di suo figlio, il Re di Roma, ai piedi; i suoi amici fedeli Bertrand ed Antommarchi ed i suoi servi stanno in ginocchio, piangendo. Il sole si tuffa in tal momento nel mare. Il sacerdote che ha somministrato l'estrema unzione all'Imperatore, alza le braccia e dice: Sic transit gloria mundi!

Napoleone rivisse a S. Elena le sue opere e quello che egli fu, e pose alla sua carriera, a guisa di epigrafe monumentale, le seguenti significative parole:

«Io ho chiuso l'abisso dell'anarchia, ordinando il caos; io ho quietata la rivoluzione, nobilitati i popoli, e moderato i re. Ho incoraggiato qualunque gara, ho ricompensato ogni merito ed ho allargato i limiti della gloria. Tutto ciò è stato pur qualcosa.—Or dunque, da quale punto si potrebbe attaccarmi, dove lo storico non potesse difendermi? Forse nelle mie intenzioni? In questo egli potrà certamente assolvermi dall'accusa. Il mio dispotismo? Si vorrà però ammettere che la dittatura era necessaria. Si dirà ch'io era un ostacolo alla libertà? Egli proverà che l'arbitrio, l'anarchia e la più grande confusione stavano ancora alle porte. Mi si rimprovererà di aver amato troppo la guerra? Egli dimostrerà ch'io fui sempre attaccato. Che io anelassi la monarchia universale? Egli mostrerà che solo la combinazione casuale delle circostanze e solo i nostri nemici stessi sono stati quelli che mi vi hanno spinto passo a passo. Finalmente, si accuserà forse la mia ambizione? Ah, certamente di questa si troverà molto in me, ma della più alta e più bella, che ha forse mai guidato un uomo, intendo quella di ordinare ed inaugurare finalmente l'impero della ragione, l'esercizio ed il godimento completo di tutte le capacità (ingegno) umane. E qui lo storico si troverà forse costretto a rimpiangere che una tale ambizione non sia stata appagata ed esaudita».

Così pensava Napoleone a S. Elena della sua stessa missione. E non pertanto, egli fu un messia, come ogni altro prima di lui, cui la storia assegnava per compito di portare il mondo siccome un atlante per un certo tempo, e di rinnovare pel bene del progresso le fatiche di Ercole. E se deploriamo la natura umana, perchè essa si trasforma piuttosto per mezzo del dispotismo soldatesco di Napoleone, che per le leggi civili di Solone e Timoleone; se infine accusiamo apertamente questo grande uomo di aver dimenticato la sua missione e di esser perito pel suo egoismo e la sua sete di dominio, restiamo però pieni di stupore e di riverenza dinanzi alla sua figura e glorifichiamo la grande spinta che da lui è derivata alla vita dei popoli e al progresso generale.

Ho dunque dato all'Imperatore ciò che all'Imperatore appartiene e voglio dare pure agli elbani ciò che agli elbani spetta. Sono in numero di 20,000; un popolo pacifico, con usi e lingua prettamente toscani e senza caratteristiche di genere nazionale. L'isola è troppo piccola (essa comprende poco più di 7 miglia quadrate) ed è sita troppo vicina alla terraferma per aver potuto sviluppare in sè un proprio spirito popolare. Non si trova traccia di usi côrsi in questa roccia così vicina alla Corsica, e di vendetta si son riscontrati casi solo nei tempi antichi; oggi di essi non c'è più esempio. Il bandito côrso si rifugia solo nell'estremo bisogno all'Elba, dove egli non può rimanere. Un particolare comune ai due popoli isolani è l'ospitalità.

L'Elba conta le seguenti località: Portoferraio (il porto del ferro), la fortezza Longone e la marina di Porto Longone, Marciana con la marina, Poggio, Campo, Capoliveri, Pila, Sampiero, Rio con la marina, Sant'Ilario.

I paesi hanno un aspetto scuro e fosco, come quelli della Corsica, perchè sono costruiti con pietra naturale. Anche questi stanno sulle alture, a causa dei barbareschi, e sono difesi da torri. Dove il mare è prossimo, si sono formati dei luoghi di approdo che si chiamano appunto marine. Molto fruttifera e bella è la campagna nella valle che si stende dai monti di Marciana, a destra del gran golfo, sino a Porto Longone: essa attraversa l'isola per gran parte della sua lunghezza e forma un contrasto magnifico colla selvaggia imponenza dei monti. Questi raggiungono la loro massima altezza sopra Marciana, col Cavanna, che è alto quanto il Vesuvio. L'isola degrada assai verso la costa d'Italia. Dalla riva della Corsica, l'Elba appare come un solo monte di roccia, di magnifica doppia forma piramidale, poichè sono appunto le rocce di Marciana che sono rivolte verso la Corsica; dalla costa italiana, invece, si vede la parte più bassa distesa verso Piombino, ove si trovano riuniti i maggiori tesori dell'isola: il ferro e le frutta.

I monti di Marciana sono molto ricchi di granito e di marmo, di alabastro, di cristallo e d'altre pietre. La località di Marciana ha le migliori castagne; olive ce ne sono poche e cattive, così pure la penuria di legno è forte ovunque. Dappertutto crescono i limoni e specialmente ricercati sono quelli di Campo. Anche il vino vi è in abbondanza; il migliore lo ha Capoliveri, ove si fa un aleatico che eguaglia quello della Toscana. Nella grande vallata cresce molto il granturco. Per tal modo niente manca per vivere al popolo in questo attraente e mite paese, poichè, oltre alla fertilità dei giardini e dei campi, la terra gli ha dato anche i giacimenti inesauribili del ferro di Rio, ed il mare il suo sale ed i suoi pesci. Presso Portoferraio, gli Etruschi ed i Romani già prendevano sarde e tonni che si trovano colà in quantità stupefacenti. I pesci ed il ferro resero già nell'antichità a tutti i popoli che scorrevano avidi i mari dell'Elba e specialmente ai Côrsi, ai Fenici, ai Cartaginesi, ai Tirreni e ai Romani. L'isola si chiamava nell'antichità Aethalia, poi Iloa, e nel medio evo Ilva, donde è derivata l' Elba attuale.

Una buona strada carrozzabile conduce da Portoferraio per la valle sopra Capoliveri verso Longone, attraverso l'isola sino all'altra parte del mare. Si gira intorno al golfo sino a S. Giovanni, un piccolo sito con una capanna da pescatori, da dove le barche fanno il tragitto per Portoferraio. Ci mettemmo in una di queste barche e traversammo il golfo sino a S. Giovanni a vela spiegata, colla velocità di una freccia. Colà si sale un'altura, che è piena di avanzi di costruzioni romane e si discende poi giù nella valle dall'altra parte del golfo.

Qui esiste sulla marina una villa che è proprietà di un impiegato di Demidoff; io non mi ricordo forse di aver veduto altrove un sito più tranquillo. La graziosa casetta è circondata da un giardino con fiori ed aranci, in mezzo a colline di vigneti, e guarda sul bel golfo e su Portoferraio che le sta incontro e che di qui si presenta in un aspetto singolarmente seducente. Se si scende nella valle, è come se si passeggiasse in un giardino, in una campagna ricca e ridente, ove si vorrebbe volentieri trattenersi. Ovunque campi rigogliosi, verdi montagne, boschetti fioriti e di qua e di là il mare scintillante.

Un acquazzone ci obbligò, in mezzo alla valle di Capoliveri, a ricoverarci in una casa di contadini. Trovammo colà molti campagnoli, uomini e donne, occupati a preparare dei fichi da seccarsi. Ci offrirono pane, uva e vino nuovo, e poichè il mosto non ci piaceva, un vecchio andò a cercare un gran recipiente di terra, e ci versò da esso del vino rosso; era un ottimo aleatico del posto.

Noi riprendemmo il nostro cammino verso Porto Longone, col più bel sole (era di settembre) ed arrivammo a questo piccolo porto all'ora di mezzogiorno. La seconda città dell'Elba giace in una piccola baia, sotto rocce scoscese, sulle quali si eleva maestosamente la fortezza. Sulla spiaggia vi sono un paio di strade, sulle quali passano le onde, giungendo sin presso alle case. Qui regna una gran quiete ed un grande abbandono; alcuni bastimenti si cullano dolcemente sull'acqua; marinai e pescatori riparano delle barche capovolte e cantano una canzone monotona. Dappertutto vasi di fiori dinanzi alle finestre e sui balconi; più in là le piccole case si perdono addirittura tra i giardini rigogliosi, come le case dell'isola di Procida. Il suolo intorno a Porto Longone è più meridionale che intorno a Portoferraio. Colà l'aloè cresce in una magnificenza ed in una abbondanza che mi fecero stupire, poichè un intero viale di piante d'aloè, da ambo i lati della via carrozzabile, conduce per un'altura al porto di Longone. I loro cespugli di fiori, che somigliano a grandi candelabri, erano in piena fioritura. Io non aveva mai veduto prima, nemmeno nelle parti più meridionali della Corsica, tante aloè insieme; uno spettacolo simile lo vidi soltanto in Sicilia, ove una fila di queste piante, ordinate a caso dalla natura, conduceva al tempio di Segesta. Qui crescono anche le palme.

La fortezza di Longone a cui si giunge inerpicandosi per un piccolo sentiero, è costruita sopra un altipiano di una immensa roccia e, colle sue mura e le sue torri merlate, appare molto antica. Essa fu eretta dagli spagnoli, sotto Filippo IV e V. E' un fatto straordinario e curioso che questa piccola Elba sia stata divisa nello stesso tempo sotto tre diversi dominî; dappoi, mentre l'isola apparteneva al Principe di Piombino, questi cedette nel 1537 Portoferraio a Cosimo; il Re delle Due Sicilie per contro possedeva Porto Longone. Poscia, nell'anno 1736, tutta l'Elba, compreso Piombino, cadde sotto il regno di Napoli, e passò quindi nel 1801 al Regno d'Etruria, sino a che venne aggregata alla Francia nel 1805.

Gli Spagnoli rimasero molto tempo a Porto Longone, e ve n'è quindi rimasto il ricordo di essi ed anche oggi vi si adopera nell'apostrofe il «Don».

La fortezza è certo resistente, poichè la sua situazione la rende inaccessibile. Essa racchiude la città propriamente detta, un quadro deserto di distruzione e di abbandono. Una gran parte delle opere furono fatte saltare nel 1815 per ordine di Napoleone. La fortezza ha dovuto sostenere diversi attacchi, quando i Francesi combattevano anche qui gli Spagnoli, ai tempi di Luigi XIV. Un ufficiale della guarnigione toscana, presso la famiglia della quale passammo una bella ospitale giornata, ci fece vedere ciò che vi era di notevole. Egli era direttore della compagnia di pena, dalla quale egli ha raccolto i ravveduti in una scuola militare. Nel forte trovammo un piccolo gruppo di veterani toscani, dei quali alcuni conoscevano la Germania dai tempi napoleonici e vantavano tanto la bellezza delle sue regioni, come la nettezza delle sue case. Tutto ciò che il nostro ospite ci mostrò, dalla disposizione ed organizzazione interna della sua compagnia, alla sua amministrazione, e al suo codice penale, tutto era un vero modello di indirizzo militare; tutto aveva la sua regola ed ogni oggetto il suo posto assegnato, persino il ferro dei piedi ed il nerbo fatale.

Anche a Longone, Napoleone aveva un così detto palazzo, una casa non imponente, in cui egli scendeva tutte le volte che veniva a cavallo dalla sua capitale. La prossimità di questa fortezza gli si adattava in modo speciale. Egli soleva mangiare all'aperto, come racconta Valery nella sua descrizione dell'Elba, sotto il monte, seduto sopra un sedile scavato nella roccia (chiamato canapé ) ove aveva piantato in semicerchio dei gelsi. Di là osservava con un cannocchiale i bastimenti che passavano, e le coste d'Italia.

Di fronte al golfo di Longone è situato il forte Fucardo, con un faro per i bastimenti che entrano in porto. Intorno son rive pittoresche e dalla parte di terra i monti più scoscesi, che in qualche roccia ricordano Capri, senza avere certamente quel calore meridionale nel tono dei colori. In questi luoghi romantici e deserti, prossimo alla strada che conduce alle miniere di Rio, è situato l'eremitaggio di Monserrato, fondato dagli Spagnoli.

Attraversammo col nostro ospite le roccie per giungere a Rio. La strada conduce per contrade deserte, traverso pianure e sorgenti. Una di queste sorgenti porta il nome di Barbarossa, non dell'imperatore tedesco, ma bensì del corsaro che attaccò e saccheggiò, nel 1544, Porto Longone. Il suo nome è ancora vivo in diverse isole del Mediterraneo, forse in tutte, poichè non ve n'è alcuna in quei paraggi che non sia stata visitata da questo che fu il più ardito di tutti i pirati.

Passammo così per diversi piani e diverse colline rocciose, sempre rallegrati da nuove vedute di roccie, valli e mare, sino a che non discendemmo a Rio. Qui rumoreggia giù dalle alture un ruscello che si scarica nel porto. Da esso il luogo ha preso il nome di Rio. Di questo torrentello, il più rapido dell'Elba, si dice che non abbia origine nell'isola, ma che provenga dalla Corsica, da dove poi proseguirebbe per canali sotterranei al disotto del mare, sino a tornare alla luce nel Rio. Le foglie ed i rami dei castagni, che l'acqua trasporta con sè, dimostrerebbero chiaramente la sua origine côrsa. Comunque sia, questa nuova Aretusa sembra potersi riferire, secondo il significato poetico, alla sorte di Napoleone.

Un'altra considerazione ancora congiunge le miniere di Rio alla Corsica; di qui fuggì una volta, nel secolo XV, Pietro Cireneo, scrittore conosciuto dei côrsi, di cui la vita avventurosa di fuggiasco è simile ad un romanzo; fuggendo dal patrigno, egli giunse ancora bambino a Rio e guadagnò la sua vita nelle miniere di ferro, aiutando a portare coi somari il minerale al porto.

Il terreno rosso sul quale camminavamo ci avvertiva che ci trovavamo su terra ferrugginosa; dappertutto nient'altro che questa polvere di ferro; le colline d'intorno, scure e rossicce, coperte d'innumerevoli arbusti d'aloè, i quali con le loro foglie rigide, di un colore di bleu acciaio, e terminanti in punte di spine, sembrano essere tanti fasci di pugnali e di spade. Tutto ciò che incontrammo aveva questo color di ferro, gli operai di Rio, tinti di rosso nei vestiti, nella faccia e nelle mani, ed anche i cani stessi, che ci venivano incontro. Il porto stesso, verso il quale scendemmo, era rosso di polvere di ferro; sulla spiaggia giacevano mucchi di minerale, che di là veniva poi caricato sui bastimenti.

Cercammo il direttore dei lavori. Egli era un tedesco, la qual cosa appresi con grande gioia. Solamente il tedesco è, fra i vari popoli, il vero minatore; egli solo è capace di scendere nel pozzo della vita e di scrutare negli antri bui della natura il suo più profondo carattere. Qui egli scava di continuo, sino a che trova il minerale puro, e, dimentico di sè, non ricorda la primavera che è di fuori. Talvolta egli dorme giù nel fondo, come Epimenide, o come l'imperatore Barbarossa nel Kyfthäuser, quel vecchio minatore tedesco dalla corona aurea e dalla lunga barba cresciuta traverso il tavolo, oppure come il Tannhäuser nel Venusberg (Monte di Venere).

Il signor Ulrich, un uomo marziale, un tedesco di buona lega, ci venne incontro; anche la sua stretta di mano era ferrea, la sua parola breve e decisa e la sua voce straordinariamente potente. Ci ricevette cordialmente, come suoi compatriotti, ci condusse ai lavori e ci spiegò la loro disposizione. Le miniere di ferro dell'Elba, che sono amministrate per proprio conto da una Società toscana, erano da poco tempo sotto la sua direzione. Egli le ricevette in condizioni miserrime; in pochi mesi le ha però tanto migliorate che già ora si può calcolare la produzione annuale a 35,000 tonnellate, mentre non producevano prima che solo 22,000 tonnellate. Giornalmente vengono estratte 120,000 libbre di ferro; in estate però i lavori languono, perchè la lavorazione dei campi reclama gli operai, i quali sono per la maggior parte di Rio. Nell'inverno i lavori procedono molto più alacremente.

Già dai tempi più remoti la miniera di Rio era sfruttata, pure essa rende ancor oggi moltissimo, è un monte di circa 500 piedi di altezza, tutto di materiale di ferro. Nelle sue vicinanze vi sono ancora altri giacimenti non meno ricchi, quelli di Terra Nera, di Rio Albano e quello della Calamita, un vero monte magnetico. Già gli Etruschi sfruttarono queste cave; essi portavano il materiale a Populonium, sotto il cui dominio l'isola giaceva e colà veniva estratto il ferro. La penuria di legna non permette all'Elba il lavoro di fusione ed anche oggi il ferro viene fuso in fabbriche nelle vicinanze dell'antica Populonium, oppure il materiale viene imbarcato per Napoli, Genova, Marsiglia e Bastia.

Il sig. Ulrich ci dimostrò quanto gli antichi e i loro successori avessero scialacquato con questi giacimenti. Delle intere colline di terra ferruginosa inutilizzata sono state ammonticchiate, coprendo i giacimenti di minerale. Questa terra sprecata però è tanto ricca di sostanze, sì da dare pur sempre un ottimo materiale. Il signor Ulrich prese una manciata di terra, dove noi stavamo, ce la mostrò e disse;—«Osservate, la terra che io prendo qui alla superficie, dà ancora un ferro migliore di quello che ottengono i francesi nell'Auvergne, dove gli scavi son ben più difficili». Qui il minerale si trova veramente sopra terra e per diverse miglia in giro si sta e si cammina sul ferro. Le miniere di Rio sono più ricche di quelle possedute dal Demidoff in Siberia, e, probabilmente, di uguali ad esse non se ne trovano.

I lavori si limitano ancora alla superficie, e di opere sotterranee, non vi è altro che due gallerie; con tutto ciò si vedono i più bei giacimenti di minerale allo scoperto. Chi s'immaginasse di trovare a Rio dei pozzi di gallerie, delle cave con tutti i romantici accessori dei minatori, come lo avevo immaginato io, prima di vedere questo straordinario monte di ferro, sbaglierebbe di molto.

Gettai uno sguardo nei dintorni; dappertutto vi era malinconia e le opere stesse, queste colline rosse e nere, la terra color di ferro e la polvere di ferro scintillante producevano l'effetto del deserto, come i campi di lava e di cenere di un vulcano. Una torre merlata guardava tristamente dall'alto di uno scoglio sulle miniere. Era la torre di Giove. Innanzi a queste sinistre miniere, dalle quale la furia della guerra ha portato ininterrottamente nel mondo spade, lancie e palle, e dalle quali sembra essere emersa direttamente l'età del ferro, come è stato cantato dal poeta, dovevasi innalzare un monumento a Napoleone, ponendo sul piedistallo quell'ordine del Re degli Etruschi, Porsenna, che, cioè, per l'avvenire il ferro dovesse soltanto essere adoperato per fare arnesi per l'agricoltura e per le arti pacifiche.

La bella leggenda mi fa ricordare un fatto storico dell'antichità greca, un'altra condizione di pace. Quando Gelone dettò ai Cartaginesi la pace in Siracusa, dopo la battaglia di Himera, una delle sue condizioni fu questa, che essi dovessero in seguito cessare dal far sacrifici a Moloc. Anche questa ordinanza avrebbe dovuto esser posta sul piedistallo di quel colosso di ferro da erigersi all'Elba: non più vittime da immolare al Dio Moloc!

Io non so, tuttavia, se una tale êra icarica verrà mai, e se le olive di Elihu Buritt metteranno radici. I popoli mi sembrano che siano moralmente poco più grandi di quello che erano ai tempi di Porsenna e di Gelone di Siracusa.—Tanto in onore del Moloc politico, quanto di quello religioso, le nazioni si combattono oggi come ieri, ed il fiore della loro gioventù si lascia mietere così tranquillamente, come se la vita umana potesse rinnovarsi centuplicata come l'idra.

Per questo ci separiamo dall'isola del ferro col grido di Porsenna: «Non più spade nè lancie, ma industria ed agricoltura, e non più sacrifici umani a nessun idolo».

SAN MARCO DI FIRENZE.

San Marco di Firenze.

Il convento dei domenicani in San Marco a Firenze, oltre ad avere un'importanza storica, ne ha una immensa dal lato artistico. Deve la prima al Savonarola, l'altra a due maestri esimî nella pittura, Angelico da Fiesole e Fra' Bartolomeo. La piazza sulla quale sorge il convento è ancor oggi, come ai tempi di Lorenzo de' Medici, uno dei ritrovi della vita artistica fiorentina, il terzo, dopo gli Uffizi ed il palazzo Pitti; colà infatti son riunite la galleria delle belle arti e la famosa scuola degli incisori su rame.

Ai tempi di Lorenzo, nella contrada di San Marco esisteva quel giardino dei Medici, nel quale si trovava la prima raccolta di sculture antiche, sotto la sorveglianza del vecchio scultore Bertoldo. Colà si riunivano i più forti ingegni di Firenze e tutto ciò che emergeva nelle scienze e nelle arti e ciò che era già arrivato alla celebrità e che godeva del favore di Lorenzo. Come i pittori andavano nella cappella Brancaccio, per imparare a disegnare dagli affreschi di Masaccio, così gli scultori venivano in questo giardino de' Medici, per studiare la scuola antica ed intrattenersi con Angelo Poliziano, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. Da questo giardino si vedeva spesso andare Lorenzo, il Pericle di Firenze, nel convento di S. Marco, per chiudersi là in una cella e liberarsi dal dolce paganesimo. Qui si tenevano discorsi elevati, sull'anima mondiale di Platone, unendoli ad una ipocrita considerazione della successione di Cristo. Savonarola però si teneva in disparte, mormorando, e non rispondeva alle chiamate di Lorenzo.

Il convento era degno dei Medici; infatti lo avevano creato, a dir vero, essi stessi. La sua storia è in breve la seguente: il fondatore dell'ordine dei domenicani mandò in Toscana, nell'anno 1220, dodici seguaci; da questi furono fondati alcuni conventi, dei quali il più importante fu quello di Fiesole. Da quest'ultimo ebbe origine il convento dei domenicani di S. Marco. In origine questo era stato fondato, nel 1299, dai Silvestriani; però, al tempo della grande peste di Firenze, era decaduto. A San Marco scesero i domenicani da Fiesole indottivi da Cosimo dei Medici, che poco prima era tornato dal suo esilio di Venezia. Cosimo chiamò da Fiesole il celebre priore Antonino, il santo più grande del suo tempo. Egli era figlio dell'avvocato fiorentino Nicolò Pierozzi ed era nato nell'anno 1389. Nel suo sedicesimo anno di età era entrato nell'ordine dei domenicani a Fiesole, ove molto tempo dopo era divenuto priore. Cosimo lo indusse a trasferirsi a S. Marco, e ciò avvenne nel 1436, dopo che Michelozzo Michelozzi aveva ricevuto l'incarico di riedificare il vecchio convento dei Silvestriani. Egli demolì quasi completamente l'antico convento ed eresse una nuova fabbrica, imponente. Anche per Cosimo furono qui preparate due celle, come per un monaco, celle che si fanno vedere anche oggi, come quella di Savonarola, a titolo di curiosità storica. In questa solitudine, dice il padre Marchese, il priore Antonino fece udire al vecchio ambizioso, colla franchezza di un amico e coll'autorità derivantegli dalla santità della sua vita, quella verità che l'adulazione nasconde sempre al potente, ed è certamente dovuto al Santo, se Cosimo non divenne un despota comune.

Nell'anno 1443 fu terminata la fabbrica, e Cosimo fondò la celebre biblioteca di San Marco. Antonino divenne, tre anni più tardi, arcivescovo di Firenze. Egli morì nell'anno 1459, dopo essere stato ammirato da tutto il mondo per le sue virtù e dopo essersi interessato attivamente del miglioramento del clero.

Due grandi cortili ornano S. Marco; le lunette di questi cortili sono dipinte a fresco e contengono fatti della vita di Antonino dipinti da Gherardini, Dantini, Poccetti e da altri pittori. Tuttavia il tesoro maggiore del convento è rappresentato dalle pitture murali del Fiesole, il più antico maestro della scuola di Giotto. Quasi tutte le celle, la sala del capitolo, i corridoi ed alcune lunette dei cortili contengono sue pitture.

Con Fra' Angelico cominciarono quelle strane reazioni che il convento, tanto sollecito di riforme, intraprese contro lo spirito moderno della pittura classica italiana. La vita del celebre pittore fu narrata dal Vasari. Più particolareggiatamente fu però descritta da Vincenzo Marchese, un domenicano di San Marco. Questo erudito venne accusato di liberalismo da alcuni suoi confratelli dell'ordine, zelanti inquisitori, a causa del suo libro: «Lettere inedite di fra Girolamo Savonarola e documenti ad esso relativi»; e poichè si minacciava di mandarlo a Roma, si recò nell'anno 1851 a Genova ed è a capo della Società che cura ora la nuova edizione delle opere del Vasari nella « Raccolta artistica ».

Nell'anno 1845 pubblicò i «Ricordi degli esimi pittori, scultori e architetti dei domenicani, con alcuni scritti sulle belle arti». Già nel XVI secolo il Razzi aveva scritto una storia dei celebri domenicani, contenente anche la vita di qualche pittore, scultore ed architetto di quest'ordine.

Il Marchese sembra abbia ripresa questa idea, ponendola in effetto. Le biografie che egli ci dà colla sua opera, cominciano con Fra' Ristoro e Fra' Sisto, celebri architetti del secolo XIII, che edificarono la bella chiesa dei domenicani di S. Maria Novella a Firenze. Con maggiori particolari però ha descritto la vita dei pittori Fra' Angelico e Fra' Bartolomeo; la sua opera termina con un capitolo sull'impresa del Savonarola per la riforma delle arti.

Strettamente connesso a questo lavoro sta l'opera più pregevole d'incisione in rame di Firenze, che fu cominciata sotto la direzione del Perfetti: «S. Marco, il convento dell'ordine dei predicatori di Firenze, illustrato ed inciso principalmente secondo le pitture del beato Giovanni Angelico, colla vita dello stesso maestro ed un compendio storico di detto convento», opera del padre Vincenzo Marchese (Firenze, edito a spese dell'Associazione Artistica, 1850).

In questo studio il Marchese magnifica Fra' Angelico con troppa esagerazione, paragonandolo ad un profeta, a cui fosse stata affidata la missione di rinnovare la morente pittura religiosa. Colle sue pitture egli doveva conseguire la stessa riforma morale del genere umano che avevano raggiunta Antonino e Savonarola per mezzo dei loro scritti e delle loro pubbliche azioni.

Non si sa esattamente dove Fra' Angelico nacque. Il Marchese ritiene che egli provenga da Castel di Vicchio nel Mugello, distante alcune miglia da Colle di Vespignano, la patria di Giotto. L'anno di nascita sarebbe il 1387; il suo nome era Guido. Dapprima imparò a Firenze a dipingere in miniatura, come suo fratello Benedetto che era abilissimo in quest'arte. Presto si sviluppò in lui una schietta inclinazione in senso religioso, che si delineò sempre più, in contrasto colle tendenze decisamente realistiche dell'arte fiorentina. Il Marchese paragona arditamente quest'artista geniale con Talete che coll'ispirazione dei suoi versi e dei suoi ritmi spianò a Licurgo la via per la sua legislazione, poichè nello stesso modo Fiesole ha appianato al suo amico Antonino, co' suoi quadri, la strada per la riforma.

Nell'anno 1407 i due fratelli entrarono nell'ordine dei domenicani di Fiesole ed ivi vissero qualche tempo, sino a che la discordia papale non raggiunse anche questo. Guido, ossia Fra' Giovanni, come ormai era chiamato, peregrinò allora da Foligno a Cortona, ove dipinse molto secondo la maniera di Giotto, Spinello e Simone da Siena; e, dopo un'assenza di circa 4 anni, tornò a Fiesole. In seguito fu chiamato, nel 1436, al convento di San Marco, fondato da poco, per ornarlo di pitture. Ciò avveniva nello stesso tempo che Masaccio dipingeva le cappelle della chiesa del Carmine, Brunelleschi edificava la cupola del Duomo, Ghiberti approntava le porte del Battistero e Donatello e Luca della Robbia gareggiavano nella scultura.

Poichè a Fra' Giovanni, benchè avesse gran finezza nel dipingere, mancava ancora il disegno, la prospettiva ed il perfezionamento nei chiaroscuri, egli pure studiò dapprima le pitture del Masaccio e molto imparò da questo artista geniale, che di lui era assai più giovane.

A quest'epoca appartiene la grande pittura della sala del capitolo, che egli compì in S. Marco e che è una delle più belle che siano state fatte nel secolo XV, il suo capolavoro, l'ultimo fiore della scuola di Giotto; il soggetto ne è la passione, con santi in adorazione da ambo i lati. Il carattere dei due ladroni vi è riprodotto con molta perfezione. La testa del Cristo ha sofferto; i suoi tratti non son più precisamente riconoscibili. Ai piedi della croce sta, a sinistra, un gruppo di sorprendente eloquenza: la madre che sta per cadere in deliquio, abbandonando la testa e le braccia; la Maddalena, in ginocchio a lei dinanzi, la stringe al petto con ambe le braccia, i biondi capelli sciolti le cadono sulle spalle. Giovanni ed una delle donne sostengono Maria. Difficile sarebbe raffigurare più semplicemente l'altissimo effetto tragico; la sublimità agisce qui direttamente per la grandezza della natura interna. Non si trova nè nel Perugino, nè nel Francia, che pur furon maestri nell'arte di commuovere, una tale elevatezza.

Gli antichi non sono in genere più perfetti in questo senso. La loro grande e sicura concezione della vita spirituale è la loro gloria indistruttibile; essi sono epici e popolari, quelli di poi musicali e drammatici. L'immagine del dolore diviene più tardi sempre più ricca, ma anche più violenta ed unilaterale. Anche le altre figure sono importanti; messe del tutto naturalmente e senza legami da ambo i lati, agiscono solamente per la loro singola espressione. Esse rappresentano santi, ecclesiastici, vescovi o fondatori d'ordini, come Domenico, Bernardo, Francesco, Ambrogio, Tommaso d'Aquino, Agostino. Il colorito è molto spirituale, secondo la maniera di Fra' Angelico.

Quantunque egli abbia dipinto ancora molti altri quadri eccellenti, in nessuno ha tuttavia raggiunto una tale grandezza ed una tale forza, poichè questa manca talvolta nelle sue impressioni che divengono deboli causa appunto la loro soverchia delicatezza. Nell'Accademia delle Belle Arti, che possiede un gran numero di quadri del Fiesole, due vengono considerati quali i più eccellenti: la Deposizione dalla Croce e l'Estremo Giudizio. Quella è squisita per la profondità dei sentimenti e la soavità dei colori, questo non è invece una composizione di grande rilievo.

Fra' Angelico è più debole di tutto nella raffigurazione dell'inferno; la sua natura è troppo fanciullesca, per aver potuto creare delle figure diaboliche. I suoi diavoli eccitano solo il riso, non incutono spavento, egli rappresentò l'inferno in sette compartimenti, secondo Dante, ed in fondo vi dipinse pure Lucifero, che dilania con le sue tre fauci Giuda, Bruto e Cassio. Anche Angelico dipinse sotto l'influsso di Dante che era il compagno di Giotto, ed il Giotto della poesia.

La «Divina Commedia» ha d'altronde ispirato tutti i pittori, a cominciare da Giotto. Essa infiammò la fantasia degli artisti e la riempì di visioni sublimi e di idee poetiche; i loro quadri erano già stati abbozzati nelle composizioni dei versi di Dante; e molte scene dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso attendevano solo di essere tradotte in colori, per divenire quadri viventi. Io credo, in generale, che, senza Dante, la pittura religiosa d'Italia non avrebbe potuto svilupparsi così presto e raggiungere tale altezza.

Il dominio della sua poesia sull'arte della pittura durò per tutto il XIV ed il XV secolo, sino a che fiorì la pittura religiosa. Anche Michelangelo, l'ammiratore entusiasta di Dante, si conformò a lui, nello stesso modo come prima di lui vi si era conformato Luca Signorelli nel suo Estremo Giudizio nel Duomo d'Orvieto, che Fra' Angelico aveva cominciato a dipingere. Si trovano pure soggetti tratti da Dante, dipinti da vari maestri in molte chiese, come ad esempio l'Inferno ed il Paradiso dell'Orcagna, nella cappella degli Strozzi in Santa Maria Novella.

Insieme con la «Divina Commedia» anche «I trionfi» del Petrarca hanno avuto una grande influenza sulla pittura; ciò c'indica, fra i molti altri quadri, l'Orcagna stesso col suo «Trionfo della Morte» nel Camposanto di Pisa.

Fiesole dipinse in S. Marco anche la discesa di Cristo nel Limbo, dal quale egli trae i patriarchi: un quadro di grande finezza di colori. Non meno interessante è la sua «Adorazione dei Re Magi», uno dei pochi suoi quadri, nei quali sviluppa una certa gaiezza e varietà mondana. Questo soggetto è stato trattato spessissimo e con grandissimo amore. Per i pittori della scuola religiosa non vi sono che poche stoffe di maggior attrattiva e in quanto a ricchezza della vita poetica esso li sorpassa tutti. I contrasti sono sorprendenti, chiari e naturali: il figlioletto di un artigiano in una stalla, bue ed asino alla greppia; questo bambino vengono ad adorare i potenti della terra, conducendo sì lunghi corteggi di alabardieri e paggi riccamente vestiti, che portano oro e gioielli. Uno di questi re è sempre un vecchio di aspetto venerabile, e quando questi s'inginocchia dinanzi al bambino, la poesia della scena è ingrandita dal contrasto delle età. Il secondo re generalmente ha una faccia da moro, il terzo è di bella complessione, giovane e nobile, di guisa che i vecchi pittori sembra abbiano voluto rappresentare le tre parti del mondo. A questo si aggiunga la misteriosa lontananza dalla quale i re favolosi sono venuti, il buio della notte, la stella che porge spesso occasione di aggiungere al corteo un paio di astronomi, e si avrà nel tutto una fantastica novella orientale, nella quale si scorge l'influenza delle crociate.

La pittura toscana è ricca di immagini di questo genere. Due quadri magnifici di questa specie, di Domenico Ghirlandaio e Filippino Lippi, si ammirano negli Uffizi; due altri, capolavori della massima bellezza, li dobbiamo agli scolari di Fra' Angelico, Gentile da Fabriano e Benozzo Gozzoli. Il quadro di Gentile si trova nell'Accademia delle Belle Arti, quello di Benozzo nella Cappella Medici al palazzo Riccardi. Qui egli dipinse degli affreschi che, insieme con le sue pitture ammirate nel Camposanto di Pisa, appartengono alle migliori produzioni del suo tempo. La sua rara universalità si scorge già qui; egli abbracciò tutti i generi della pittura, dal paesaggio all'architettura, dalla figura agli animali, e tutto con una meravigliosa armonia. Nella suddetta cappella Riccardi egli dipinse i viaggi suntuosi dei re; a cavallo, a piedi o sul cammello, essi traversano in schiere interminabili ridenti pianure, monti e valli.

Fiesole, dal quale Gentile e Benozzo impararono, rimane col suo quadro al disotto di loro; egli non ha quella magnificenza solenne e quella ricchezza festiva che i suoi discepoli seppero rappresentare.

Molti altri quadri che egli dipinse in S. Marco meritano di essere ricordati, l'Orazione nell'orto, il Battesimo, l'Incoronazione della Vergine, dove si ritrova l'ascendente di Dante, ed il suo Cristo in pellegrinaggio; ma basta di essi. Tutti dimostrano la stessa semplicità di mezzi, la medesima concezione fanciullesca e la più profonda religiosità. Persino i suoi colori, dove predominano il bianco, il celeste ed un rosso pallido, si devono chiamare fanciulleschi. Le sue figure più attraenti sono spesso quelle eseguite in piccolo, quasi in miniatura; esse sono molto graziose e di finezza ammirevole come, fra le altre, gli angeletti di uno schizzo di altare negli Uffizi e le figure sul reliquario di Santa Maria Novella.

Fra' Angelico morì a Roma il 18 marzo dell'anno 1455; Nicolò V che lo aveva chiamato colà per dipingere in Vaticano, gli fece erigere un monumento sepolcrale nella chiesa della Minerva.

L'epigrafe lo eguaglia ad Apelle, al quale hanno avuto l'onore di essere stati paragonati molti pittori. Egli è stato l'ultimo grande maestro della scuola di Giotto; i naturalisti Maselino e Masaccio posero fine ad essa e crearono l'indirizzo moderno della pittura. La scuola antica che conduceva alla rappresentazione del nudo coll'ammirazione delle forme della natura umana, doveva trovare il suo completo svolgimento nel Tiziano, in Giulio Romano, nel Correggio e nel Michelangelo.

Allora dal chiostro di S. Marco, che aveva trovato nel Fiesole un difensore così convinto della pittura religiosa, venne nuovamente una reazione contro la scuola moderna e paladino ne fu Savonarola.

Egli combattè i Medici che avevano promossa la scuola antica, appunto con le loro stesse armi. Essi avevano fondata l'Accademia platonica ed erano pieni di ammirazione per il paganesimo; ma Savonarola stesso era un mistico platonico, come lo erano Lorenzo, Pico, Poliziano, Marsilio Ficino e molti altri.

Il priore di S. Marco teneva delle prediche platoniche sull'essenza del bello e tuonava contro le nudità dell'arte appunto da quel pulpito, di fronte al quale erano la sepolture dei suoi amici Pico della Mirandola e Angelo Poliziano. Il Marchese riporta un discorso del Savonarola, nel quale questi considera il bello platonicamente come l'anima e l'idea del buono. In forza di questa teoria egli sollevò una guerra fanatica contro la scuola antica e le arti che, volte alle cose mondane, a parer suo, traviano la razza umana. La violenza della sua parola scosse molti artisti che sino ad allora avevano dipinto o scolpito allegramente, e si videro l'eccellente Sandro Botticelli, Cronaca, Robbia, Bartolomeo, Lorenzo di Eredi e molti altri abiurare pentiti il loro paganesimo ai piedi del priore. Solo Mariotto Albertinelli e lo strano Piero di Cosimo non si lasciarono turbare, e restarono pagani ed avversari convinti del Savonarola e della sua setta morale.

Il 21 febbraio 1497 furono portati, al suono delle trombe e dei tamburi, tutti gli emblemi della mondanità sulla piazza della città. Ivi fu eretto un albero con molti rami, ai quali furono attaccati i ritratti delle più belle fiorentine, capolavori della pittura, nudi bellissimi, sculture di divinità, libri di musica, arpe e liuti, cembali e violini, carte, abiti di seta e di velluto; gli oggetti più costosi d'oro e d'avorio, ed anche le poesie del Petrarca e del Boccaccio si videro appese a quei rami. Gli esecutori di questo tribunale fanatico, che doveva giudicare le umane vanità, avevano perquisite le case, ed erano anche stati loro consegnati timorosamente, ed a titolo di penitenza, liberamente oggetti d'arte ed oggetti preziosi d'ogni genere. Un negoziante veneziano che si trovava appunto a Firenze e che non aveva scrupoli sull'essenza morale del bello, venne nell'idea ragionevole che sarebbe stato meglio vendere questi oggetti così preziosi per il commercio, anzichè bruciarli. Egli offrì così per tutte quelle vanità mondane la modesta somma di 20,000 scudi. In seguito a ciò, la Signoria lo fece senz'altro prendere, mettere sopra una sedia e ritrattare da un pittore platonico e il suo ritratto fu posto in cima al rogo. Così fu bruciato quest'albero con tutti i suoi tesori, in mezzo al giubilo della folla. Ciò avvenne sulla piazza stessa, ove un anno dopo fu arso il grande fanatico.

La morte del Savonarola rese inconsolabili gli artisti, suoi adepti. Molti smisero di dipingere, tra i quali anche Baccio della Porta, che rinunziò al mondo in segno di cordoglio e prese nel 1500 la tonaca dei domenicani. Baccio, o Fra' Bartolomeo come si chiamò da allora, restò sei anni immerso nel dolore e non toccò i pennelli. Dipoi, si rinfrancò e cominciò le sue pitture religiose sulla esortazione dei suoi fratelli dell'ordine. Ciò avveniva al tempo, in cui Raffaello tornava per la seconda volta a Firenze. Egli strinse amicizia con Fra' Bartolomeo ed imparò da lui il disegno ed i colori; sotto l'ascendente di lui fu iniziata la sua Madonna del Baldacchino, mai terminata, nella quale si riscontra chiaramente lo stile di Bartolomeo. Questi si formò a sua volta sulla maniera di Michelangelo e di Leonardo da Vinci, e molto lontano dal dipingere nella maniera dolce e delicata del Fiesole, divenne precisamente in S. Marco l'opposto del suo predecessore. La scuola di Giotto era vinta. Bartolomeo dimostrò quanto lo studio della plastica avesse influito sulla pittura; le sue figure sono spesso grandiose come quelle di Michelangelo e quasi statuarie, come specialmente il suo evangelista Marco nella galleria Pitti.

Egli morì nell'anno 1517; ci ha lasciato un ritratto del Savonarola, che ci rende in modo caratteristico la figura fanatica di questo profeta del Rinascimento. Poichè per quanto alto fosse il volo dei pensieri di quest'uomo straordinario, egli rimase pur sempre un monaco e più precisamente un domenicano.

In quel tempo stesso, nel quale Fra' Bartolomeo dipingeva in S. Marco, giaceva prigione colà in una cella un altro fervente ammiratore del Savonarola, il pittore in miniatura Fra' Benedetto. Nulla si conosce delle pitture di quest'uomo singolare; egli ci ha però lasciato una poesia originale, che compose nella solitudine della sua prigione. Questa è la più vecchia poesia epica sul Savonarola, del quale racconta la vita e la morte. Il suo titolo è: «Il Cedro del Libano». Il Marchese l'ha recentemente pubblicata di nuovo: Il «Cedro del Libano, ovvero la vita di Girolamo Savonarola, descritta da Fra' Benedetto in Firenze nell'anno 1510». Molti coetanei hanno scritto la vita del Savonarola, dice il Marchese, come Burlamacchi ed il Conte Francesco di Mirandola, ma quantunque essi conoscessero Savonarola, non possono aver goduto la sua intimità e la sua amicizia, come fu concesso a Fra' Benedetto per tre anni, durante i quali egli convisse col maestro in S. Marco. Lo stesso Savonarola lo aveva vestito dell'abito dei domenicani e questo suo discepolo soffrì ed operò molto per lui, e lo difese dopo la sua fine con un amore ed una costanza che gli valsero dapprima l'esilio e dopo molti anni di prigionia nel suo chiostro; un uomo singolare, il tipo del quale può solo avere riscontro in quei paladini del medio evo, senza macchia e senza paura, che furono cantati in versi immortali dall'Ariosto e dal Tasso.

Con ragione il Marchese annette un'importanza storica a questa poesia, poichè essa riporta fedelmente gli avvenimenti, di cui l'autore fu spettatore nella maggior parte coi propri occhi; credo perciò che valga la pena di tradurne alcuni brani, non prima però di aver dato qualche notizia della vita del poeta semplice.

Fra' Benedetto nacque nell'anno 1470 a Firenze. Suo padre Paolo era orefice, sua madre era, come egli stesso dichiara, una donna di spirito e ardita. Dapprima condusse una vita dissoluta, dopo però fu così conquiso dalle prediche del Savonarola, che entrò nell'ordine di San Marco. Era da tre anni nel chiostro, quando il giorno 8 aprile 1498 il furore popolare si sollevò contro il riformatore. Fra' Benedetto lottò insieme con altri monaci e partigiani del Savonarola con grande eroismo. Per caso anche Baccio della Porta si trovava quella sera nel convento; spaventato dalle grida del popolo e dall'infuriare del combattimento egli si nascose. Benedetto invece salì sul tetto della chiesa, alla quale era stato appiccato il fuoco, ed accoppò con pietre tanti nemici, quanti ne poteva raggiungere. Savonarola lo scorse e lo chiamò, scongiurandolo di deporre le armi; anche, allorchè il profeta si consegnò liberamente ai suoi nemici, Benedetto volle dividere la sua sorte, ma Girolamo glielo impedì.

Quindi egli racconta che fra i seguaci del maestro, Malatesta Sacromoro da Rimini fece da traditore, poichè questi consigliò Savonarola a consegnarsi al popolo, mentre che quegli (Fra' Benedetto) lo aveva scongiurato invano di imitare Paolo, calandosi con una corda e cercando il proprio scampo nella fuga.

Savonarola e Domenico furono tratti nel palazzo della Signoria; Silvestro si era intanto nascosto in convento. Anche questi però fu tradito il giorno di poi da Malatesta. Tutti e tre furono arsi il 23 maggio.

Benedetto fuggì dapprima a Viterbo, poscia cominciò però a provar rimorso di aver rinnegato anche solo per poco tempo il ricordo di Savonarola; egli tornò quindi a Firenze e cominciò a difendere coraggiosamente le dottrine del suo infelice maestro, quantunque dovesse affrontare la vendetta del partito avverso. Egli non risparmiava nessuno ed attaccò anche papa Alessandro VI. La conseguenza di ciò fu che dapprima fu scacciato dal chiostro e dopo vi fu imprigionato. Non è certo se egli abbia sofferto qui sino alla fine della sua vita. In prigione egli scrisse in difesa di Savonarola, su argomenti di teologia ed infine «Il Cedro del Libano».

Questa schietta poesia è scritta in terzine e si compone di undici capitoli. Non ci si attenda nessuna bellezza poetica da lui; essa è però degna di nota per la fedeltà, colla quale distingue gli avvenimenti e ci dà un'idea della vita di quel tempo. La catastrofe stessa è descritta in modo vivo ed indubbiamente esatto.

Dopo un esordio a guisa d'orazione, l'autore racconta gli avvenimenti della propria vita:

Nato di umili natali nella città dei fiori nell'anno 1470 nella contrada di S. Croce, ecc.....................

Benedetto passa a descrivere poi la corruzione del suo tempo; la pace regnava in tutto il mondo, ma il demonio seminava il male, il popolo era pieno di peccati vergognosi, la lussuria e la violenza erano generali. Regnava Alessandro VI, grande per cupidigia e libidine, ed ogni prete lo prendeva ad esempio.

In questo tempo il Signore aveva mandato nella mia città un servo devoto, chiamato Girolamo, ecc.....................

Il poeta racconta ancora, che un giorno sua madre, commossa dalla parola del Savonarola, lo eccitò ad andare alle sue prediche. Per quanto questo invito gli sembrasse duro, egli cedette finalmente ed andò nella chiesa di San Marco. Qui si sedette tutto vergognoso ed in silenzio tra gli uditori, suscitando la meraviglia della folla che non attendeva di veder ivi l'uccello goditore. E qui egli fa entrare in iscena il Savonarola che tiene una predica, come il Lenau fa nel suo romanzo del Savonarola.

Quando venne il mio profeta, Savonarola, egli montò umile sul pulpito ed io rimasi attento alle sue parole, ecc.....................

Prosegue poi in questo tono. E' la predica sull'arca di Noè: Benedetto ne ricevè una così profonda impressione sulla coscienza che fuggì subito in luogo remoto, dove cominciò con sè stesso un dialogo, in cui sono contenute delle chiare accuse.

E piangendo me ne andai, gettando lungi da me il mio essere leggero e dissoluto e la mia chitarra da sventato.

I suoi antichi compagni lo dileggiano e lo dicono ipocondriaco, lo invitano ai divertimenti, gli dimostrano come egli sia amato da tutti ed abbia molti amici e come nulla manchi alla sua vita. Non basta che i suoi camerati lo tormentino, anche i suoi sensi vengono finalmente indotti in tentazione ed egli li presenta quali persone:

L'occhio disse: Io non so che tu pensi; mi hai abituato a scorrere libero e libertà io voglio, perchè questa mi si conviene. L'orecchio mi disse, ecc.....................

Ma Savonarola lo conforta nella sua conversione ed egli inizia il principio della sua santa vita, assumendo per alcuni mesi il posto d'infermiere e di becchino in un ospedale. Il demonio lo tormenta tuttavia continuamente, nondimeno egli lotta valorosamente ed entra finalmente nel suo venticinquesimo anno d'età nell'ordine.

Come Bartolomeo aveva raffigurato in colori Savonarola, così lo descrive Benedetto in versi:

Piccolo di corpo, ma tutto salute; di membra minute, ecc.....................

Seguono i giudizi sull'animo suo, che si possono facilmente immaginare, ed un piccolo accenno alla sua operosità; quindi un intero episodio sul genere del Klopstock, nel quale il poeta fa cospirare i demoni contro Savonarola:

Il superbo Lucifero, il principe dell'Inferno, quando si accorse quali frutti raccoglieva il sacerdote, abbaiò forte come una bestia dilaniante, ecc.....................

Lucifero racconta in seguito ciò che egli abbia fatto di male dalla sua caduta dal cielo, come egli abbia scacciato Adamo dal paradiso, piegando sotto il suo dominio tutte le creature, come il popolo di Mosè si sia dato all'idolatria per effetto della sua preparazione e come egli abbia mandato fuori tutti i diavoli, per sterminare la fede, dopo la venuta di Cristo nel mondo:

E voi mentitori, sudicia razza di cani, non mi avete estirpato la fede. L'uno dice: oggi ancora lo faccio; l'altro: domani, ecc.....................

Per ordine di Lucifero i demoni partono con grida orribili. La loro opera si vede presto nella persecuzione del santo uomo, specialmente per parte dei Minori di Santa Croce, che gli interrompono in ogni modo la predica, aizzando il popolo contro di lui. Quindi Benedetto descrive l'assalto di S. Marco dell'8 aprile 1498.

Era di domenica, il giorno delle palme, quando Firenze si sollevò con grida selvaggie per prendere il frate vivo o morto, ecc.....................

Egli narra in seguito come venti soli amici del Savonarola respinsero gli assalitori, uccidendone il capo e scacciarono tutta la turba per tre volte. Tre volte tornò la folla inferocita all'assalto.

I nemici appiccarono ora il fuoco alle porte della chiesa e del convento. Il profeta era strettamente attorniato dai suoi confratelli col Sacramento, ecc.....................

Segue il discorso di conforto e di avvertimento del profeta, col quale egli annuncia ai confratelli che ha deciso di rimettersi spontaneamente nelle mani dei suoi nemici, in seguito al consiglio datogli da Malatesta con perfida parola.

Io vidi coi miei occhi com'egli si consegnò ai nemici col compagno Domenico e com'egli si rimanesse calmo e sereno in mezzo al popolo furente che lo minacciava, ecc.....................

Benedetto narra quindi come dopo la morte del Savonarola, i suoi seguaci rinnegassero la sua memoria ed abbandonassero vergognosamente la sua bandiera.

Non uno a dir vero gli restò fedele ed io stesso ho cominciato a tentennare. Il mio raffreddamento fu però corto e presto tornò il mio ardore, ecc.....................

L'ultimo capitolo contiene una lamentazione sulla fine del profeta e vi si narra in qual modo morisse. Poi la poesia, alla quale doveva seguire indubbiamente un'altra parte, termina, con un'invocazione al Savonarola, di ricordarsi della sua promessa e di proteggere il povero autore.

Il Marchese, al quale dobbiamo la pubblicazione di questa vecchia poesia, non ha scritto nessuna storia speciale del Savonarola, ma ha aggiunto una descrizione della sua vita all'opera pregevole già ricordata sugli affreschi di S. Marco. E' interessante conoscere come un domenicano oggi vivente parla dell'antico priore del suo convento. Egli dice dapprima: il lettore vedrà, come un uomo, che era forse il più grande dei suoi tempi, abbia incontrato una fine tremenda. Egli apprenderà, come non valsero a risparmiarlo, nè la nobiltà del suo spirito, nè la santità della sua vita, nè l'elevatezza del suo scopo. Egli conoscerà quali speranze morirono con lui e quali furono gli amari frutti della sua morte, e come patiboli e roghi non fossero bastevoli a spegnere la sete di vendetta nei suoi avversari, vendetta che infuriò ancora sul suo cadavere e sulla sua memoria. Pur nondimeno il suo nome risplende oggi onorato, dopo che le ire furon sepolte per sempre, ed è caro a tutti coloro che sono amici non paurosi della verità. Quest'uomo grande ed infelice è Fra' Girolamo Savonarola.

Importanti come aggiunta ad una storia del Savonarola sono le lettere ed i documenti che riguardano quest'infelice riformatore, pubblicati dallo stesso Marchese. Tra esse ve n'è una alla madre sua, Elena Buonaccorsi, al suo amico Domenico, a sua sorella Beatrice, a Pico della Mirandola, e tra i documenti anche lo scritto di Luigi XII al Governo di Firenze, nel quale questo re prega per una proroga all'esecuzione della sentenza del Savonarola. Alla fine della sua introduzione alle raccolte il Marchese dice: «Qui terminiamo le nostre pazienti ricerche sulla vita e la morte del Savonarola, coll'augurio che possa presto sorgere uno scrittore prettamente cattolico, diligente e giusto, che libero da tutti i pregiudizi di sètte politiche e religiose, ci presenti finalmente il vero tipo di questo grande, che in un tempo difficile e corrotto raggiunse una fama tanto alta, che nemmeno le calunnie di quattro secoli poterono scemare».

Il desiderio del Marchese è stato esaudito, poichè Pasquale Villari, professore di storia a Pisa, ha pubblicato un'opera pregevolissima, «La storia di Girolamo Savonarola ed i suoi tempi».

La campagna dei volontari intorno Roma.

La campagna dei volontari intorno Roma.

Nell'autunno 1866 l'Italia era in preda ad un eccitamento eguale a quello dell'anno 1859. L'Austria, l'ultima rappresentante della potenza imperiale tedesca, aveva dovuto cedere alla nazione italiana anche l'ultimo resto dei suoi possedimenti italiani. Il 19 ottobre, il giorno in cui gli Austriaci salparono per Trieste, e gli Italiani entrarono a Venezia, fu uno dei più felici e lieti giorni della storia d'Italia; esso segnò il ritorno della nazione italiana alla sua indipendenza dopo una schiavitù di più di tre secoli.

Gli Italiani dovevano questo grandioso risultato ai fatti d'arme della Prussia. Il potente legame d'alleanza, a cui essi avevano serbato fedeltà in momenti, nei quali avrebbero avuto la tentazione di abbandonarlo, fece sì che essi riuscissero come vincitori dalle sconfitte del loro esercito e della loro flotta.

Dopo la cessione di Venezia, l'Italia formò di nuovo una nazione sola, non essendo la sua unità più turbata che da Roma. Soltanto qui risiedevano ancora truppe straniere, l'esercito d'occupazione di Napoleone. Ma la posizione del Papato, che si appoggiava all'Imperatore francese, doveva ora mutarsi.

L'Austria aveva finora coperto il Vaticano dal Po; il formidabile quadrilatero era la trincea più valida del Vaticano. Ora essa era caduta e si era sciolto il legame di reciproci interessi che aveva fin allora tenuto avvinti il Papato e la Dinastia degli Absburgo. L'Austria cessò la sua politica italiana e con essa necessariamente vennero meno i suoi obblighi verso Roma. L'Italia poi, liberata dalla pressione dell'Austria, rafforzò l'alleanza colla Prussia, la quale era divenuta la prima potenza del continente, fiaccata la Francia, e inseguiva ora in Germania gli stessi ideali che aveva, in Italia, inseguito la Savoia.

Nell'autunno 1866 si sentì profetizzare che conseguenza di quegli avvenimenti doveva essere necessariamente la caduta del potere temporale dei Papi. Si avvicinava il momento in cui doveva cessare, secondo la convenzione del 15 settembre 1864, l'occupazione francese di Roma.

Ci si domandava se Napoleone si sarebbe attenuto strettamente a questa convenzione, cioè se avrebbe ritirato le sue truppe, e, nel caso affermativo, che sarebbe avvenuto del Papato. Sarebbero sufficienti le truppe pontificie, pochi reggimenti romani e pochi reggimenti stranieri, ad assicurare l'ordine nelle provincie dello Stato? Si diceva infatti che queste provincie si fossero legate con giuramenti segreti a sollevarsi al primo appello del Comitato Centrale mazziniano di Firenze. Per la difesa personale del Papa Napoleone aveva costituito la legione di Antibo. Questo corpo di 1200 uomini, in gran parte francesi, al comando del colonnello d'Argy, nel settembre 1866 era già sbarcato a Civitavecchia, ed era andato in guarnigione a Viterbo.

La caduta di Palermo in mano alle bande di Bentivegna (16 settembre), in cui potere rimase per 6 giorni, produsse in Roma un'impressione profonda: non poteva accadere qui alcunchè di simile dopo il ritiro delle truppe francesi? L'eccitazione divenne nell'ottobre assai acuta. Si parlava di diserzioni numerose nella legione di Antibo. Si sparsero notizie di un memorandum di Napoleone al Papa, nel quale costui, accennando agli eccessi di Palermo, proponeva che fosse accolta in Roma, dopo il ritiro delle sue truppe, una guarnigione italiana. Si parlava di dirette trattative fra Pio IX e Vittorio Emanuele per una riconciliazione.

Il 29 ottobre il Papa tenne un discorso ai cardinali, il quale fece cadere d'un tratto ogni speranza in questo senso. Pio IX protestò contro tutti gli atti del Governo italiano; anche, dopo la pace di Praga, non voleva saper nulla dei diritti della nazione italiana; considerava gli Italiani eretici ribelli, e finalmente esprimeva la sua risoluzione di lasciar Roma, se le circostanze lo richiedessero.

Vi era un partito di fanatici, che avrebbe voluto spingere il Papa ad andare in esilio. I Gesuiti desideravano la sua fuga non meno del partito democratico. Questo sperava di porre Roma a capo della Rivoluzione, e di proclamare la Repubblica in Campidoglio. Quelli non desideravano di meglio che di gettare l'Italia nell'anarchia coll'esilio del Pontefice, di suscitare le querele e gli aiuti dei cattolici di tutto il mondo, e finalmente l'intervento delle Potenze per ristabilire—possibilmente—lo Stato della Chiesa, come nell'anno di grazia 1815. Solo i moderati—e formavano la maggioranza—sostenevano concordi che il Papa doveva rimanere in Roma. Malgrado tutto essi speravano nella possibilità di un accordo col Papa, superando tutti gli ostacoli inerenti strettamente al sistema ecclesiastico—di un accordo con un Pontefice cui avevano tolto una gran parte dei suoi Stati, e la cui sede, Roma, era reclamata come capitale della nazione italiana. Si pretendeva un atto di sacrificio e di abnegazione da questo sovrano, un atto di cui la storia reale di nessuno Stato e di nessun monarca avrebbe potuto fornire un esempio! Il potere temporale è un principio antievangelico, ma è anche una condizione di cose che dura da oltre mille anni, e di tale importanza per la posizione del Papato, che questo dominio temporale potrà essere soppresso solo per mezzo di una riforma dei rapporti fra gli Stati europei. È vero che questa è già incominciata; ma finchè essa non sarà compiuta, nessun Papa intendenderà di rinunciare alla sua potenza temporale.

Il Governo italiano sembrava inclinato ad accettare trattative; esso affermava che, secondo gli articoli della Convenzione di settembre, non avrebbe, dopo il ritiro dei Francesi, nè attaccato il dominio pontificio, nè sopportato che altri lo attaccasse. Esso mandò truppe ai confini, per sorvegliarli, cioè per impedire che bande di volontari riuscissero a penetrare negli Stati del Papa. Intanto il Governo francese si dava pensiero di pareggiare la differenza del Debito pubblico dello Stato pontificio; e calcolava gli arretrati, per le provincie della Chiesa annesse all'Italia, in 12 milioni da pagarsi al Pontefice. Fece sapere al Governo italiano che era opportuno che mettesse all'ordine il partito d'azione, del quale si sapeva bene che, firmando la Convenzione di settembre, era intimamente risoluto a calpestarla alla prima occasione. Lo scopo dei democratici non era certo un segreto; avrebbe il Governo italiano autorità sufficiente per frenarne l'impeto? Dopo il ritiro dei Francesi essi volevano provocare la caduta del Papato e l'annessione di Roma all'Italia come sua capitale, facendo scoppiare la rivoluzione negli Stati pontificii e costringendo così il Governo italiano a rompere la Convenzione e marciare su Roma, sia col consenso di Napoleone, se egli voleva riconoscere per la seconda volta il fatto compiuto, sia senza, se egli intendeva di intervenire, e di opporsi all'esercito italiano.

Mentre il prossimo ritiro dei Francesi impensieriva la Curia e faceva sorgere in essa il dubbio, se fosse preferibile per il Papa, inerme di fronte alla rivoluzione, di abbandonare la città o di restarvi, i nazionali agitarono la questione: che cosa doveva fare il popolo romano in questo stato di cose. In novembre si pubblicò uno scritto: Il Senato di Roma e il Papa, che fu segretamente fatto pervenire agli ambasciatori, ai cardinali e ai notabili di Roma. Si risvegliavano in esso antiche idee di indipendenza municipale; le ombre di Cola di Rienzo, di Lorenzo Valla e di Stefano Porcari parlavano di nuovo ai Romani. Ma è dubbio se queste ombre apparissero in Roma per proprio conto, o, se, evocate in un gabinetto fiorentino, fossero poi mandate a Roma. Quello scritto cercava di dimostrare, rifacendosi a studiare la storia del Medioevo, che Roma non era mai stata in uno stato di sudditanza diretta e propria col Pontefice, che essa conservava ancora il suo diritto all'autonomia e che, ritiratisi i Francesi, si doveva ristabilire in Campidoglio il Senato e l'autorità municipale del popolo, e chiamare per plebiscito Vittorio Emanuele a farsi incoronare Re d'Italia in Campidoglio.

Ecco la chiusa di quel notevole scritto: «Passato è il tempo della violenza; le truppe francesi che per sedici anni hanno occupato Roma sono sul punto di abbandonarla; le milizie romane del papa vacillano: deboli per disciplina e per numero, esse sentono la vergogna di servire sotto un vessillo che non è quello della patria; le truppe mercenarie sono poche e malfide, e temono lo sdegno del popolo che mal tollera di vedersi limitato e impedito da una schiera di avventurieri l'esercizio di un sacro diritto. Il popolo romano vuole partecipare alla vita d'Italia; la gioventù si è già dichiarata, e alcuni patrizi si sono arruolati sotto la bandiera del Re. Tutti i cittadini infine vogliono pace, ordine, libertà, e non hanno intenzione di dipendere dall'arbitrio di cupidi condottieri o di pazzi ultramontani. Il Clero stesso, quel Clero romano, semplice, colto e virtuoso che non amoreggia con la Curia e con gli stranieri, desidera di unir la sua voce a quella di Milano e di Venezia. In una parola, la rivoluzione morale è compiuta. Se gli animi sono ancora tranquilli, se nulla è accaduto finora, ciò è perchè non si vuole in nessun modo turbare il tanto sospirato ritiro dei Francesi da Roma con un inopportuno movimento.

«Ma appena quello si sarà effettuato, tutta la cittadinanza dovrà, con la calma e la dignità proprie all'esercizio d'un inalienabile diritto, ristabilire il proprio municipio ed il proprio sistema amministrativo, allo scopo di difendersi, di mantener l'ordine per mezzo della milizia cittadina, e di annunziare al mondo la propria volontà. Il popolo romano, tornato padrone di se stesso, deve provvedere ai suoi destini per il bene proprio e della Patria ed esercitare il diritto che fu la massima politica della sua condotta e il sistema del suo Senato; diritto che ogni civile popolo europeo ha ormai ottenuto, e il nome del quale fu preso dai Romani medesimi: il Plebiscito! Il popolo romano si rivolgerà poi al Re d'Italia e gli dirà: Sire, venite a noi, a esaudire i voti dei nostri padri; venite a coronarvi coll'alloro che Dante, Machiavelli, Gioberti vi hanno promesso, e che voi avete ben meritato per il valore del vostro esercito, per il valore vostro e per il sangue di tanti martiri. Venite a coronare gli sforzi di tanti secoli, a realizzare il sogno di tante generazioni, ed a coronarvi sul Campidoglio con quella corona ferrea che avete conquistato sul Po. Noi Romani ci sentiremo felici, se saremo da oggi innanzi chiamati a difendere, insieme con tutti gli altri popoli d'Italia, questa corona, simbolo della libertà civile nell'indipendenza nazionale.

«D'altro canto, il popolo romano si deve rivolgere al Vaticano, e così parlare al Pontefice: Santo Padre, la rivoluzione italiana ha compiuto il suo corso e raggiunto il suo scopo. Ora essa si trova di fronte alla veneranda Basilica degli Apostoli, e vuole che voi sappiate che essa non vuol saccheggiarla, ne scuotere le fondamenta della Religione di Cristo, che è la religione di tutta Italia, e della quale voi siete il Primate, ma che anzi ha in animo di rendere a voi quella libertà che invano siete andato chiedendo a monarchi che unicamente sulla spada fondavano il loro diritto. Sotto l'egida delle leggi, all'ombra di una bandiera su cui sta scritto: Libertà della Chiesa e dello Stato, Voi potrete liberamente esercitare il vostro ufficio santo, non più circondato da armi straniere, ma difeso e sostenuto dalla reverenza e dall'omaggio di noi che, se non più Vostri sudditi, resteremo Vostri figli fedeli».

Questo scritto portava la data: Roma, il giorno dei morti; era firmato: Stefano Porcari, e, come luogo di stampa: Romae, ex aedibus Maximis 1866. Produsse una grande impressione; tutti i giornali ne parlarono, ed ebbe diffusione fino a Parigi.

Poco dopo apparve la circolare di Ricasoli del 15 novembre a tutti i Prefetti d'Italia; in essa il Gabinetto di Firenze dichiarava che avrebbe scrupolosamente rispettato la Convenzione di settembre; che il Potere temporale del Pontefice era divenuto una strana anomalia in mezzo alla civiltà del secolo presente, e che doveva essere trattato come ogni altra potenza secolare: il Papa solo, cioè, in Roma; che poi egli regolasse a suo piacimento i suoi rapporti col popolo romano, e questo i suoi rapporti con lui. In sostanza, la circolare diceva quel che aveva detto lo scritto del Porcari.

Parve ai papalini di vedere nelle parole di Ricasoli una provocazione. Essi consigliarono sempre più vivamente il Papa a partir per l'esilio. Secondo loro, egli doveva abbandonare Roma, andare a risiedere a Civitavecchia, circondato dalle sue truppe, ed aspettare là, seguendo l'esempio dei pontefici del Medio Evo che per lungo tempo si erano rifugiati in Viterbo o in altre città della provincia,—che un mutamento d'indirizzo, o una rivoluzione nella politica, lo richiamasse a Roma. Nel porto di Civitavecchia—gli dicevano i consiglieri gesuiti—si sarebbero radunate allora le flotte delle Potenze per difenderlo. In fatto accadde che in novembre si ancorarono in quel porto alcune navi da guerra francesi, spagnuole ed austriache. Così sembrava si volesse fare di Civitavecchia l'ultima tolemaide del Papato. Ma Pio IX tremava al pensiero di abbandonar Roma di nuovo. Doveva questo vecchio, giunto presso il termine dei suoi giorni, sfidare un'altra volta le amarezze dell'esilio e della fuga? Toccava all'imperatore Napoleone che aveva mandato a Firenze il generale Fleury di confermare il Papa nella sua convinzione di dover restare in Vaticano; là egli era debole; in esilio avrebbe potuto esser forte, ma si esponeva a un grave pericolo: la Francia cattolica si sarebbe certamente commossa, e con essa l'Episcopato tutto, compatta falange per la difesa del Papato minacciato. Si sparse anche la notizia che l'imperatrice Eugenia sarebbe venuta in Roma. Ma siccome questa principessa non poteva, come già Matilde di Canossa, porsi sulla breccia che il generale francese Montebello era sul punto di abbandonare, essa non sarebbe venuta che quale inviata del suo sposo (si diceva) per persuadere il Papa ad accettare l'articolo d'accordo che era stato formulato a Firenze, ed a rimanere, comunque, in Roma.

II.

Le truppe francesi erano a poco a poco ritirate dalle loro guarnigioni nella Provincia; esse venivano a Roma, per andare di qui ad imbarcarsi a Civitavecchia. Correva anche la voce, che il 4 dicembre il Papa stesso sarebbe partito per quella città, per visitare i nuovi lavori del porto e per risolversi circa una sua possibile residenza là, difeso dalle sue truppe. Molti dicevano che aveva intenzione d'imbarcarsi.

Si diffuse un foglio volante: Fra Giusto ai Romani. In esso si diceva che Roma era stata destinata dalla Provvidenza a fondere ed accordare la nuova civiltà coll'antica, la libertà colla fede, e ad emancipare l'umanità con un'opera di rigenerazione sociale e religiosa avente lo stesso carattere di eternità che avevano avuto il Diritto Romano e il Vangelo. La libertà romana, spoglia del materialismo pagano, e santificata dall'emancipazione cristiana, formerebbe la base dell'autorità ecclesiastica, cosicchè questa, liberata dalle forme materiali del principato, si svilupperebbe in tutta la purezza della sua nuova essenza spirituale. In calma dignitosa i Romani avrebbero ricevuto Vittorio Emanuele, il quale soltanto fra le mura di Roma poteva compiere l'opera sua liberatrice d'Italia. Questo idealista romano ammoniva i suoi concittadini a tenersi lontani da tutti i partiti estremi. E così terminava:

«La minaccia della fuga, che dei malvagi hanno voluto far pronunziare al Papa, non risponde alla bontà del suo cuore ed al sacro dovere del suo ufficio apostolico. Cristo l'ha solennemente dichiarato: la fuga si addice al capo di truppe mercenarie, non al pastore che deve aver cura del suo gregge. Pio IX è troppo profondamente conscio dei propri doveri per fuggir loro vilmente, o per permettere che le vie di questa sacra città siano macchiate col sangue dei suoi figli, sotto gli occhi del vicario di un Dio di pace e d'amore. Ma se la malizia dei suoi consiglieri dovesse strapparlo da Roma, se la ferocia dei suoi generali e dei suoi mercenarî dovesse spargere il sangue dei Romani, allora Dio, il mondo, giudici di questa viltà e di questo delirio, non farebbero che affrettare il pieno trionfo della causa italiana, giustificando ogni difesa legittima e necessaria».

I Francesi cominciavano a partire da Roma. Il 6 dicembre il generale Montebello insieme coi suoi ufficiali venne a prendere congedo in Vaticano. La scena fu solenne. Il Papa appariva grave e dolce di aspetto. Il discorso del generale, o, meglio, del suo Imperatore, e la risposta del Papa hanno un valore storico, perchè rispecchiano nettamente la situazione[1].

Il generale disse:

«Santo Padre, non posso dominare la profonda emozione che provo nel venire per l'ultima volta a presentare a Vostra Santità i nostri omaggi reverenti ed a chiedere la Vostra Santa Benedizione. Vi sono circostanze, nelle quali la tristezza inseparabile dai congedi si muta in vero e vivo dolore. Pure un pensiero mi conforta: se l'Imperatore, fedele ai suoi obblighi, ritira le sue truppe da Roma, non ritira però la sua protezione dalla Santa Sede. Alla nostra occupazione, durata 17 anni, segue una protezione morale che non sarà meno imponente ed efficace, freno per gli uni, incoraggiamento per gli altri.

«Possa il tempo che nella mano del potentissimo Iddio calma le passioni e ai dolori dà tregua, e edifica nella sua corsa più che non distrugga, possa il tempo ispirare in tutti quello spirito di conciliazione che solo può condurre alla soluzione delle attuali difficoltà ed assicurare al Capo supremo della religione l'indipendenza e la sicurezza di cui ha bisogno per poter esplicare liberamente, fino alla fine dei mondi, la sua attività spirituale.

«Questo augurio insieme con gli omaggi della mia reverenza, e all'espressione della mia profonda riconoscenza timidamente umilio ai piedi di Vostra Santità».

Il Papa rispose in francese così:

«Son venuto, miei cari figli, a dirvi addio nell'ora della vostra partenza.

«Quando la nostra bandiera lasciò la Francia colla missione di difendere i diritti della Santa Sede, essa fu accompagnata dagli auguri e dalle benedizioni di tutti i cuori cattolici. Ora essa torna in Francia, ed io desidero che essa sia ricevuta laggiù in egual modo. Ma non so, se ciò accadrà. Mi scrivono che i cuori dei cattolici sono commossi, perchè pensano alla difficile situazione, in cui si trova il Vicario di Cristo, il Capo della Religione Cattolica.

«L'ho già detto ai vostri compagni di arme: non ci facciamo illusioni; la rivoluzione giungerà fin qui.

«L'hanno detto, assicurato, proclamato, voi l'avete udito e letto. Si è fatto dire ad un'alta persona del governo d'Italia: l'Italia è fatta, ma non compiuta. Forse avrebbe potuto dire che essa non è ancora del tutto annientata, perchè le resta ancora una regione ove la giustizia, l'ordine e la religione regnano ancora.

«Essi potranno forse piantare sul Campidoglio la loro bandiera, ma si ricordino che vicino al Campidoglio è la rupe Tarpea.

«Essi potranno per un certo tempo rimanere padroni e sparger dovunque rovina. Che per ciò?

«Cinque o sei anni or sono, io parlava con un rappresentante della Francia. Prima di partire, egli mi chiedeva che cosa dovesse dire da parte mia all'Imperatore. Non ricordo precisamente, ma gli dissi press'a poco così: Vi narrerò un episodio della storia della Chiesa. Sant'Agostino era vescovo di Hippo, una città che voi conoscete, perchè appartiene ai nostri possedimenti d'Africa, quando quella città fu assediata da un esercito di barbari. Egli sapeva che ogni sorta di atrocità avrebbero subito gli abitanti, se la città fosse caduta, perciò egli si rivolse a Dio e lo supplicò: Voglio morire prima di esser testimone di tale orribile cosa. Dite questo da parte mia all'Imperatore. L'ambasciatore mi disse: Tranquillizzatevi, Santità, questi barbari non penetreranno fin qui.

«Egli non era profeta; era un degno gentiluomo.

«Un altro, che occupa ora un'alta carica, mi disse: Roma non può esser la capitale d'un regno; le manca tutto per esserlo; mentre possiede tutto per essere la capitale del mondo cattolico. Queste son buone e fidenti parole, senza dubbio, ma io ripeto: la Rivoluzione può venire, ed io non ho aiuto sulla terra.

«Son però tranquillo e rassegnato, fiducioso in Dio, che mi darà la forza necessaria.

«Andate, figli miei, io vi amo e vi benedico, insieme con le vostre famiglie e coi vostri amici. Se vedrete il vostro Imperatore, l'Imperatore di Francia, ditegli che io prego ogni giorno per lui. Mi dicono che la sua salute non è buona; io prego per la sua salute; mi scrivono che la sua anima non è tranquilla; io prego per la sua pace.

«L'Imperatore è capo di una grande nazione che porta il titolo di cristianissima; è un bel titolo, ma si deve fare qualche cosa per meritarlo; esso non deve essere la semplice e spontanea espressione del cuore.

«Bisogna pregare, e pregare con umiltà, fiducia e perseveranza; anche il capo di una nazione ha bisogno di questa confidenza in Dio, se vuol esser forte e se vuol ottenere ciò che desidera.

«Io non mi sdegno; vedete, io son tranquillo. Ma vedo che il mondo non è tranquillo. Confido nell'aiuto di Dio e vi benedico. Possa la mia benedizione accompagnarvi per tutta la vita!»

Il discorso del vecchio Pontefice fece profonda impressione. Molti ufficiali francesi avevano opinioni nettamente papaline, molti odiavano l'Italia; altri deploravano vivamente il legame che univa ora questa alla Germania, la quale aveva tolto a Napoleone l'onore di compire l'opera della liberazione d'Italia, ed ora era succeduta alla Francia nell'intimità con questa Nazione, ed ora forse univa ad essa le sue armi contro la Francia. Molti sentirono nel ritiro da Roma una sconfitta morale, come un abbandonare d'un tratto quella posizione veramente imperiale ed egemonica che la Francia aveva avuto sin qui. I soldati francesi affluirono al Vaticano per ricevere dal Papa i rosari benedetti da riportare in patria.

La partenza dei reggimenti cominciò il 7 dicembre, calma e ordinata. Li si sentiva attraversar la città, sul far dell'alba, al suono guerriero della loro marcia Partant pour la Syrie. Questo fu il loro saluto d'addio. Con quanta pompa e burbanza essi avevano occupato Roma, e con quanta timida tranquillità l'abbandonavano ora!

Tutte le porte, il Campidoglio e il corpo di guardia di piazza Colonna furono occupati da milizie romane La fisonomia della città parve mutata. Abituati da 17 anni a vedere quei bei reggimenti di Francia, i Romani guardavano ora con stupore i goffi soldati pontifici venuti al loro posto. Roma entrò in un silenzio di morte. Si sentiva da tutti che un periodo storico era chiuso, e che il Vaticano tornava nella sua solitudine. L'11 dicembre, alle otto del mattino, i Francesi sgombrarono anche l'ultimo posto, Castel Sant'Angelo. Un tenente degli zuavi venne con una mezza compagnia ai cancelli della fortezza, dietro i quali stavano le sentinelle francesi. Si parlamentò. Apparve un generale pontificio. La bandiera francese fu abbassata, alzata quella papale. Furono presentate le armi; i Francesi uscirono, vi entrarono gli zuavi.

Lo stendardo della Chiesa ondeggiò di nuovo sul mausoleo di Adriano presso l'arcangelo di bronzo, Michele. Questo arcangelo che si libra verso la città con le ali stese, riponendo nella guaina una grossa spada, è per la Chiesa il più bel simbolo della pace che essa deve dare al mondo, una di quelle idee che l'umanità dolorosa suol esprimere coi miti. Vi è nella storia dei simboli di tutti i tempi qualche cosa di così profondo come questo angelo che si libra sulla tragica tomba di un imperatore romano, anzi su tutta la città eterna, riponendo nel fodero la spada, a significare Redenzione e Pace? L'11 dicembre 1866 esso parve acquistare una nuova significazione simbolica. Non era la non evangelica spada della potenza temporale dei Papi il cui regno non deve esser di questo mondo, che l'Arcangelo riponeva per sempre nella guaina? La spada contro cui avevan lottato Arnaldo da Brescia, Dante, i nostri Enrichi e gli Hohenstaufen? O era semplicemente la daga che la Francia ringuainava abbandonando il Pontefice?

La partenza dei Francesi lasciò dietro di sè un sensibile vuoto. 17 anni di permanenza in Roma, se non li aveva fatti cittadini romani, almeno certo abitatori della città, e il loro aspetto guerriero era divenuto un tratto familiare della città. L'odio con cui da principio il popolo romano li aveva ricevuti, s'era a poco a poco dileguato colla consuetudine, e per il loro contegno esemplare. Di tutte le occupazioni di un paese da parte di truppe straniere, questa era certamente la più tollerabile, tanto più che non stava a significare una conquista, ma la difesa del Papato. Non costava nulla al paese; anzi lo arricchiva: i Francesi portavano annualmente a Roma in circolazione 12 milioni di lire. Il Papato che in condizioni normali si sarebbe dovuto rallegrare del ritiro di truppe straniere, ora doveva deplorarne la perdita. Il governo pontificio che per 17 anni aveva avuto presso di sè il Comando militare francese, che formava un altro governo, col quale esso spesso veniva a trovarsi in umiliante contrasto, ora aveva ripreso la sua indipendenza.

Il 14 dicembre 1866, le ultime truppe francesi s'imbarcarono a Civitavecchia: così quel giorno nessuna bandiera straniera sventolò più sull'Italia dalle Alpi al mare. Era questa una condizione nuovissima nella storia della Penisola, condizione che non si era più presentata dall'anno 1494. Mentre la Francia, per il diritto della nazione italiana e l'opinione pubblica di tutta Europa era forzata a cedere e ad abbandonare Roma, dopo avere obbligato l'Austria a sgombrare l'Italia,—un nuovo grande principio civile veniva chiaramente ad affermarsi.

Lo stesso giorno il Comitato nazionale segreto di Roma pubblicò in un foglio volante questo importante proclama:

«Romani! finalmente l'ultimo soldato francese, l'ultimo straniero ha abbandonato l'Italia. Dalle Alpi al mare nessuno stendardo straniero spiega più sull'Italia protezione iniqua o signoria. Questo spettacolo, doloroso per i nostri oppressori, è pieno di conforto per noi che dopo 18 anni rialziamo di nuovo la fronte, e vediamo Roma arbitra dei suoi destini. Questo gran giorno resti profondamente impresso nella memoria e nel cuore d'ogni romano che senta onore per la sua patria fin ora tanto infelice. Questo giorno, il 14 dicembre 1866, apre un'èra nuova, un'èra che vedrà, a fianco della religione purificata e liberata dal dispotismo, Roma stessa libera e fiorente.

«E' nostro, o Romani, questo compito. Una tarda giustizia ripone nelle nostre mani il destino di questa terra, finalmente! Il momento è solenne e decisivo. Tutto il mondo, commosso e variamente disposto, ha lo sguardo su Roma. Noi, forti della forza d'un inalterabile diritto, risoluti ad esercitarlo senza ledere in alcun modo i diritti del potere spirituale, teniamo pronti per il grande avvenimento la mente, il cuore, e, se ve ne sia bisogno, anche il braccio. Non vani discorsi, non malintesi movimenti, o azioni separate e inopportune! Rimanga fuori dalle nostre file chi non sappia portare altro contributo alla nostra causa. La nostra patria è ricca di ardire e di civile virtù; il momento decisivo lo mostrerà. Nessuna dimostrazione vana e disordinata, dunque. Questo infatti desidererebbero i nostri nemici, coloro che contano sui nostri errori per far ricadere l'Italia nell'antica schiavitù; essi son numerosi e perversi, e ci circondano, ci spiano, ci insidiano. Ma non dubitate; a loro son rivolti gli sguardi di coloro che vegliano instancabili per il nostro riscatto. Ma contro di essi bisogna specialmente usare l'unione e l'ordine, un contegno fermo, risoluto e tranquillo durante il tempo che ancora ci separa dall'esaudimento dei nostri desiderî.

«Riuniamoci, stringiamoci le mani e formiamo una solida catena per il nome e la gloria di Roma. In nome della patria, non una minima parte delle nostre forze vada perduta in questo solenne momento.

«Così uniti e stretti in un sol gruppo aspettiamo il momento opportuno. La vittoria è sicura. I giorni del dispotismo sacerdotale sono già inesorabilmente contati. Il vostro comitato sarà, ove occorra, pronto al consiglio e all'azione.

Il Comitato Nazionale Romano.

Roma, 14 dicembre 1866».

III.

I timori che al ritiro dei Francesi seguisse la sollevazione, se non di Roma, delle città del circondario e specialmente di Viterbo, si mostrarono ingiustificati; la tranquillità non fu turbata in nessun luogo. Questo fatto è dovuto in parte all'ottimo contegno delle truppe pontificie, organizzate nuovamente, e in parte al comando venuto da Firenze al Comitato Nazionale Romano. Per mostrare le sue buone intenzioni, il Governo italiano aveva preso disposizioni per il ritorno nelle loro sedi di tutti i vescovi scacciati o trattenuti in arresto. Aveva inoltre mandato a Roma Tonello, non solo perchè giungesse ad un accordo sulla questione del giuramento dei vescovi, e dell' exequatur reale, ma anche perchè portasse la proposta di quel grande progetto finanziario, che consisteva nel convertire i beni ecclesiastici d'Italia, valutati a due miliardi di lire, in una rendita mobile; così la Chiesa avrebbe acquistato una vera indipendenza dallo Stato. Queste trattative, anche se non seguite da effetti, richiamavano l'attenzione di tutti e rafforzavano l'opinione di quelli che speravano ancora in una conciliazione. La questione romana, da una questione europea, divenne, dopo il ritiro dei Francesi, una questione interna italiana. Ora il Papato si trovava circondato e stretto tutt'intorno dall'Italia, solo di fronte alle sue pretese: questa situazione appariva così insostenibile, che molti eran d'opinione che necessariamente dovesse in qualche modo stabilirsi un'intesa fra Roma e l'Italia.

Il partito italiano della città si era organizzato nel Comitato Nazionale Romano, il quale riceveva il suo indirizzo dal Governo di Firenze, ed era un suo organo. Queste erano le sue mire: accordo col Papato, spogliato del potere temporale; annessione di Roma all'Italia mediante plebiscito; dichiarazione di Roma a capitale, con la dinastia di Savoia. Sosteneva dunque la opportunità della quiete e dell'ordine, e della resistenza passiva.

Fin dalla fine del 1866 si oppose a questo il partito mazziniano, che voleva abbattere il Papato e costituire la Repubblica a Roma, dopo i quali avvenimenti sarebbe scoppiata—sognavano quei radicali—la rivoluzione sociale in tutta l'Europa e forse in tutta l'umanità? Questi partiti cominciarono a combattersi aspramente, ed anche questa scissione nel campo dei rivoluzionarii fu una causa di più della permanenza in Roma della tranquillità e dell'ordine.

Per le intenzioni pacifiche del Comitato Nazionale, i mazziniani gli affibbiarono il soprannome dispregiativo: la Malva. Ambedue questi partiti facevano stampar fogli volanti e giornali segreti; i nazionali la Roma dei Romani; i mazziniani la Sveglia. La vita ed il lavorìo segreto di questi governi sotterranei, della Roma sub-terranea rivoluzionaria, si sottrassero agli sguardi della Polizia che non riuscì a scoprire nè i capi, nè i locali, nè le stamperie. Forse quei giornali non furono mai stampati in Roma, bensì in altre città.

I mazziniani e gli emigranti italiani, appartenenti in parte alla loro sètta, tenevano vivaci riunioni nel Napoletano e in tutta l'Umbria. Si sparsero queste associazioni per tutta Italia e fecero nelle città propaganda per l'invasione a mano armata degli Stati della Chiesa. Già dal gennaio si era stabilito a Terni un deposito di armi e si richiamarono in quella città dalla Lombardia gli emigranti romani. Le armi dovevano essere introdotte segretamente nel Romano, cioè a Viterbo. Moustier, ministro francese degli esteri, avvertì di quel che si preparava l'ambasciatore dell'Imperatore a Firenze, perchè egli a sua volta richiamasse l'attenzione del Governo italiano.

I mazziniani diedero il primo segno di vita la notte del 10 febbraio 1867 con lo scoppio di varii petardi, che spaventarono la città. Ricorreva l'anniversario della proclamazione della Repubblica Romana del 1849. Del resto non vi furono eccessi; solo il Comitato Nazionale interdì la visita dei teatri e la celebrazione del Carnevale, cosicchè non si vide mai più melanconico Carnevale di quello del 1867. Fuori, ed anche alle porte di Roma, infieriva sempre più il brigantaggio. Tutte le strade erano malsicure; finalmente il Governo pontificio intervenne con una energica legge e con efficaci misure militari.

In tutta l'Italia cresceva l'agitazione. Dopo il rigetto per parte dei democratici e radicali, nemici di ogni libertà della Chiesa, del progetto finanziario di Scialoia, la camera italiana fu sciolta; le nuove elezioni agitavano tutto il paese e minacciavano di spingerlo alla rivoluzione. Dal trasferimento della capitale sembrava che il Governo italiano fosse scosso alle basi; la Monarchia, nonostante l'acquisto di Venezia, vacillava; la infelice guerra del 1866 aveva accresciuto la disistima, in cui essa era caduta. Disonestà in tutta l'amministrazione, rapidi mutamenti di ministero, difficoltà finanziarie, interno dissolvimento, tutto ciò produceva una situazione confinante coll'anarchia, in tutto ciò il Governo perdeva ogni prestigio morale. Il partito d'azione chiedeva sempre la violazione della Convenzione di settembre; non solo esso formava comitati segreti, ma palesi associazioni per una invasione negli Stati della Chiesa. Comitati di questo genere sorsero a Firenze, a Genova, a Bologna e altrove, senza che il governo credesse bene prendere dei provvedimenti. Garibaldi s'era ravvicinato ai mazziniani e seguiva i loro piani. Da Caprera egli accorse a Firenze il 23 Febbraio, durante la lotta elettorale per la nuova Camera, onde aiutare alla vittoria il partito democratico. Egli si recò allora come agitatore per le città italiane, eccitando le popolazioni ad una guerra mortale contro il prete, dalle cui mani bisognava ora liberare Roma.

Il 22 marzo il Re aprì il nuovo parlamento che, nel complesso, era composto come il precedente; non si fece parola sulla questione romana. Ai primi di aprile Urbano Rattazzi salì alla Presidenza del Consiglio, e il partito rivoluzionario sperò, sotto di lui, di ottenere ciò che non gli era riuscito di ottenere sotto Ricasoli, benchè ricordasse che era ben Rattazzi che aveva, per comando di Napoleone, organizzato la tragedia di Aspromonte.

Così, un altro partito democratico era andato prendendo forma, il partito d'azione di Garibaldi, che aveva lo scopo dichiarato di una invasione a Roma. Garibaldi fu eletto suo capo, e proprio da un Comitato mazziniano, con una lettera datata da Roma ( Centro dell'Insurrezione di Roma ), per quanto l'esistenza di quel Comitato, proprio in questa città, fosse piuttosto dubbia. Questo Comitato invitò, il 1^o aprile, i Romani a sollevarsi ed a rovesciare il governo dei preti; assicurava che, contemporaneamente, altre città degli Stati della Chiesa si sarebbero ribellate, poichè tutto era pronto; proclamava Garibaldi capo della sollevazione, Garibaldi che, dopo la nomina da parte del popolo di Roma nel 1849, era rimasto giustamente generale romano. In risposta, Garibaldi scriveva una lettera, indirizzata al Centro dell'insurrezione, datata da S. Fiorano 22 marzo, nella quale diceva di essere orgoglioso del titolo di generale romano, e annunziava di avere già scelto i Romani che dovevano formare l' élite dell'emigrazione romana a Firenze.

Contro questo appello dei radicali, il Comitato Nazionale pubblicò una protesta, il 9 aprile, ammonendo con essa i Romani di non lasciarsi condurre ad agire con leggerezza colpevole e pericolosa, e di aspettare il tempo opportuno per l'azione. Infatti, la quiete non fu turbata; ed anche il 12 aprile, anniversario del ritorno dall'esilio del Pontefice ed anche del suo scampo miracoloso dal crollo della sala a S. Agnese, fu festeggiato, come al solito, con la luminaria, e trascorse tranquillo.

Ma i segni precursori di un'invasione di schiere volontarie, come chiaramente apparivano dalla lettera di Garibaldi, davano molto da pensare al Governo romano; il cardinale Antonelli passava, il 26 aprile, una nota all'ambasciatore francese in Roma, conte Sartiges, nella quale esprimeva questi timori. Il Gabinetto francese consigliò quello fiorentino a vegliare sulle riunioni rivoluzionarie, secondo gli accordi del trattato di settembre, e ricevette da Rattazzi l'assicurazione che esso vegliava e che non v'era nulla da temere, poichè i comitati rivoluzionarii erano deboli e privi di mezzi. In occasione di un'interpellanza in Parlamento, Rattazzi dichiarò che, nella questione romana, egli avrebbe seguito la linea di condotta tracciata dal trattato di settembre.

Intanto il Governo francese era informato del diffondersi continuo del partito radicale. Ebbe notizia di un trasporto di armi in Viterbo, e del piano di Garibaldi, che consisteva nell'armare navi a Genova e con quelle sbarcare sulla costa romana, mentre frotte di emigranti avrebbero passato il confine napoletano; e a Roma gli emissarii dei rivoluzionari dovevano eccitare alla rivolta. Invero Garibaldi si metteva palesemente a capo dell'invasione; alla fine di aprile egli fece pervenire una circolare ai ministri d'Inghilterra, Prussia e Russia a Firenze, nella quale egli protestava contro la sovranità del Pontefice e ricordava che la Costituente del 1849 aveva nominato proprio lui a governatore di Roma, ed affermava che questo potere a lui affidato era ancora legittimo, e poteva essergli tolto solo da una assemblea di rappresentanti del popolo romano.

Nel maggio, il movimento ai confini e l'attività dei comitati si fecero più vivaci. In seguito alle note della Francia, Rattazzi rispose che Garibaldi si trovava ammalato a Signa e non aveva certo intenzione di tentare imprese temerarie, e che, comunque, il Governo vegliava. Si può effettivamente credere che tale fosse la sua sincera opinione, anche se segretamente pensava di utilizzare il movimento rivoluzionario per condurre ad una modificazione della Convenzione di settembre. Difatti, Rattazzi dispose perchè gli emigranti romani fossero allontanati da Bologna, dove era il centro dell'insurrezione. Intanto il cardinale Antonelli permetteva che le truppe pontificie si intendessero con quelle italiane per la sorveglianza dei confini. Nel giugno una prima schiera di 200 volontari avendo tentato di passare i confini a Terni, per comando del governo italiano, fu trattenuta. Si imprigionarono 60 volontari; gli altri si dispersero. Questo fatto produsse un'impressione assai favorevole, e tranquillizzò molti. L'invasione romana fu rimandata, non solo perchè si era insufficientemente provvisti di uomini e di armi, ma perchè il mantenimento della pace tra Francia e Russia modificava la situazione politica. La democrazia italiana aveva contato sulla guerra di quelle potenze in seguito alla questione del Lussemburgo, ma, per il trattato di Londra dell'11 maggio, questo pericolo si era allontanato.

Il mantenimento della pace salvò allora il potere temporale del Papa dalla rovina, che immancabilmente sarebbe avvenuta se la Francia si fosse impegnata in una guerra con la Germania. Ora si potevano fare, senza pericolo, le grandi feste del Centenarium Petri. Questo giubileo del principe degli Apostoli, del quale i papi si dicono successori, doveva, in mezzo alle agitazioni italiane per la minaccia di un'invasione degli Stati pontificî, affermare che Roma era città della Chiesa e la capitale del mondo cattolico. Fin dal principio di giugno, schiere di preti si diressero a Roma da ogni paese, su tutte le ferrovie italiane. Quattrocentonovanta vescovi e prelati, più di diecimila preti si radunarono in Roma, dove non si era mai visto nulla di simile, prima dell'istituzione delle ferrovie. Alberghi, abitazioni e strade erano rigurgitanti di clero. Roma sembrava subisse ora, dopo la temuta invasione delle camicie rosse di Garibaldi, un'altra invasione di sottane nere; tutto un popolo accorso in difesa della sua città.

In questa folla si distinguevano numerosissime nazionalità; ma Francesi, Italiani e Spagnuoli avevano la prevalenza, come a dimostrare ancora una volta la romanità della Chiesa cattolica. I Tedeschi si perdevano in mezzo a questo brulichio. Noto gli arcivescovi di Magonza, Colonia, Posen, Salzburg, Praga e Olmütz; mancava l'arcivescovo di Vienna. Si videro, in quell'occasione, tutti i costumi della Cristianità. Si ammirarono i fastosi e maestosi patriarchi di Oriente, la cui presenza rammentava i rapporti del culto cristiano coll'Asia e l'antico Testamento. Si videro anche dei Cinesi e dei Mori.

Mai, nemmeno nei tempi più luminosi del Papato di Leone X, si erano viste in Roma processioni simili a quelle che si svolsero per la festa del Corpus Domini e il giorno di San Pietro, nell'anno 1867. Queste feste rappresentarono la più bella e grandiosa rivista che mai pontefice abbia passato al suo clero.

La grande processione del giorno di S. Pietro, che uscì dalla chiesa nella piazza, e nella chiesa poi rientrò, durò due lunghe ore. Vi erano portati degli stendardi alti 20 piedi, rappresentanti i nuovi santi, o in punto di morte, o mentre stavano compiendo un miracolo, e fra questi santi (più di 200 martiri della missione giapponese furono allora beatificati) nessuno suscitò più interesse di Pedro Arbues, il terribile inquisitore di Spagna, la cui assunzione nel cielo dei beati fu giudicata, all'estero, come una aperta e chiara dichiarazione di guerra alle leggi dell'umanità e della civiltà. Il popolo, silenzioso torrente, per tutta la giornata entrò da una porta del tempio ed uscì dall'altra.

Cinquecento cantori facevano udire i loro inni dal cerchio interno della cupola di Michelangelo. L'illuminazione di questa volta scintillante d'oro era, il 29 giugno, incantevole e magica, come magico era l'effetto del tempio sfavillante di fuoco e di luce: rassomigliava, infatti, ad una sfera celeste nella quale innumerevoli stelle sprizzassero fuoco in mezzo ad una nebbia dorata.

La Cattedra Petri, sulla quale la leggenda vuole che l'Apostolo si sedesse, fu trasportata dal trono vescovile della Tribuna, nel quale Alessandro VII l'aveva fatta chiudere, in una cappella speciale, ed esposta alla pubblica venerazione. Dopo due secoli, essa tornò alla luce. Sul lato anteriore di questa antichissima sedia di legno si trovano delle placche d'avorio, nelle quali sono rappresentate le fatiche di Ercole. La folla si dava gran pena per strofinare, contro di essa, stoffe o anelli, che avrebbero così assunto virtù di amuleti.

Per otto giorni, Roma festeggiò la ricorrenza con processioni, illuminazioni, spettacoli accademici e musicali. Le manifestazioni più alte del culto si trovarono a Roma riunite, lo stesso anno in cui l'Esposizione mondiale di Parigi esibiva i frutti del lavoro e dell'ingegno del nostro secolo.

La festa apostolica dell'unità della Chiesa, nel suo centro a Roma, consacrata dalla storia, doveva, con immensa manifestazione del clero, mostrare che, nell'ingranaggio della macchina gerarchica, non mancava una sola ruota, che fra il capo ed i membri tutti regnava una perfetta ed inalterabile armonia, mantenuta senza sforzo e senza costrizione. Non si trovarono in Roma, in quell'occasione, imperatori, re e principi, come a Parigi; ma convennero qui pellegrini da ogni parte del mondo. I rappresentanti delle più antiche nobiltà legittime d'Europa erano venuti, e non senza doni, a rendere omaggio al Pontefice.

Al Vaticano furono donati, in quell'occasione, parecchi milioni, sia per le collette singole delle varie diocesi, sia per offerte private. Si contarono a Roma da 50.000 a 70.000 forestieri; ne vennero da tutte le Provincie del Regno d'Italia. Ciò dimostrava che la rottura, fra il popolo d'Italia e la Chiesa, non era poi tanto grave come si era voluto far credere.

Le catene di S. Pietro legavano ancora una parte dell'umanità, e mai questa portò più a lungo altre catene!

I paladini del Papato erano pieni di soddisfazione e di fierezza. Non si doveva dimostrare che Roma non poteva essere la capitale di un regno? Ebbene, non ne erano quelle feste la prova più luminosa? Le migliaia di preti, che si raccolsero in quei giorni intorno al Papa e fraternizzarono in mezzo alle sontuose feste della loro Chiesa, erano pieni tutti del medesimo entusiastico sentimento. Non avrebbero essi portato quell'entusiasmo nei loro paesi, nelle loro comunità, diffondendolo ovunque? Con questa festa del centenario doveva cominciare, dunque, la grande reazione e il trionfo della Chiesa su tutte le potenze ostili dell'universo. Così declamava, nell' Universo, Luigi Veuillot. Nessuno avrebbe creduto che a questo entusiasmo potessero seguire nella Chiesa momenti di un così crudo disinganno!

Nelle sue allocuzioni ai Vescovi riuniti, il 26 giugno e il 1 luglio, Pio IX annunziò il Concilio.

Era naturale che il Papa, nella lotta contro ciò che egli chiamava il Secolo e che noi chiamiamo lo spirito della civiltà, raccogliesse più strettamente intorno a sè tutta la gerarchia, e tentasse di esaltare la propria autorità nell'organismo della Chiesa. L'antica idea dell'infallibilità del Papa, innalzata a dogma, ritornò ora più determinata agli organi dei Gesuiti. L'infallibilità è il coronamento del Papato gregoriano. E non ha anche segnato, questo dogma, l'uscita dalla storia di questa grande forza ideale della Chiesa? Se doveva esser l'apoteosi del Papato, si sa bene che le apoteosi si comprano a caro prezzo.

La Civiltà Cattolica aveva solennemente proposto che tutti i preti e tutti i credenti venuti a Roma per il centenario facessero voto sulla tomba dell'Apostolo di sostenere per la vita e per la morte l'infallibilità del pontefice. Finora, essa diceva con cinica franchezza, i cattolici avevano portato a S. Pietro solo sacrifici e offerte materiali, sia le loro ricchezze, sia il loro sangue; ora si trattava di sacrificare la ragione stessa al principe degli Apostoli! Si sperava, così, di legare solidamente il clero tutto nei ceppi di questo voto, e di costituire, nella cristianità, quasi una lega santa di Cavalieri di S. Pietro; ma questa proposta dei Gesuiti non fu raccolta.

I vescovi radunati non fecero nuove dichiarazioni riguardo al Dominio temporale. Nel loro indirizzo al Papa, dettato da Heinald, dicevano soltanto che essi tenevano a ripetere quel che avevano già espresso nel 1862, e cioè di voler credere ciò che il Papa crede, e di voler respingere ciò che il Papa respinge. Non era già questa una dichiarazione della sua infallibilità?

In mezzo a tali feste giunse a Roma la notizia dell'esecuzione dell'arciduca Massimiliano, al Messico. Essa produsse un'impressione enorme. Molti clericali espressero, con soddisfazione, l'opinione che la morte di questo infelice principe fosse, per l'imperatore Napoleone, una specie di testa di Medusa; come egli aveva tradito Massimiliano, egli era pronto a tradire il pontefice! Si ricordava, ora, con meraviglia, la satira romana che nel 1864 aveva salutato l'arciduca, quando era venuto in Roma prima di partire per l'avventuroso viaggio al Messico, ed i suoi versi profetici:

Massimiliano, non ti fidare,
Torna sollecito a Miramare.
Il trono fracido di Montezuma
È nappo gallico colmo di spuma.
Il timeo Danaos, chi non ricorda,
Sotto la clamide trova la corda.

IV.

A queste magnifiche feste seguirono avvenimenti di tutt'altro genere. Bisogna cercare a lungo nella storia per trovare l'esempio di un così repentino e crudo contrasto, quale offrì Roma nel volger di pochi mesi. Se noi immaginiamo che fra i pellegrini accorsi a Roma si trovasse un asiatico o un africano, il quale fosse rimasto del tutto ignaro della politica europea, questo straniero avrebbe potuto dire parlando di Roma alla fine di giugno: «Roma, l'antichissima capitale del mondo cattolico, è non solo la più ricca e la più nobile, ma anche la più felice città della terra. Tutti i popoli vengono a turbe verso di lei, per portarle doni e tributi, e non dietro un severo e temuto ammonimento del loro sovrano, come nell'antica Roma, o negli imperi dell'Asia o dell'Egitto, ma volontariamente, per l'esaltazione del loro amore verso di Lui. Migliaia di pellegrini vi accorrono e si prostrano in orazione sulla tomba del Principe degli Apostoli e assistono nel suo sublime tempio, a cui nulla si può paragonare, a cerimonie d'una grandiosità indescrivibile. Sembra che l'amore degli uomini tutti coroni Roma di feste e di onori, dei quali è centro un venerando vecchio, al cui cenno i vescovi della terra e settantamila preti sono accorsi per dirgli che essi credono ciò che egli crede, che riprovano ciò che egli riprova, come migliaia di altri uomini che non sono preti, e che sono venuti anch'essi a tributargli onori divini».

Ora, se il medesimo straniero fosse tornato nella stessa città, solo tre mesi dopo, non avrebbe prestato fede ai suoi sensi, e si sarebbe creduto vittima d'un incantesimo. Avrebbe infatti trovato quella città, poco prima piena di un tumulto festivo e inghirlandata di fiori e coperta di tappeti e di quadri, quasi contaminata dalla peste, immersa nello stupore, nell'ansia, nel terrore, di notte per lo scoppio di bombe e di mine, di giorno per le pattuglie di impauriti soldati, che raccoglievano qua e là torme di arrestati. Avrebbe visto cannoni sulle piazze; le fosse di Castel Sant'Angelo riempite d'acqua; gli avrebbero riferito che quel vecchio, che pur ora aveva veduto esaltato al cielo, stava ora pieno di terrore in preghiera nel Vaticano solitario e squallido, chiedendo a Dio che lo salvasse dall'imminente pericolo, e divisando già di rifugiarsi in Castel Sant'Angelo e di rinchiudervisi. Avrebbe visto le porte di Roma serrate e rinforzate di dentro con terrapieni, i merli delle fortezze difesi da sacchi di terra; e gli sarebbe stato narrato che innumerevoli bande malconcie, affamate, male armate, vestite di rosse camicie, venivano da ogni parte verso Roma, al grido: Roma o morte! per conquistare la capitale della cristianità e imprigionare il Santo Padre, o cacciarlo esule per il mondo.

Intanto però, già nel giugno si era manifestato il colèra, che nel luglio crebbe di violenza. Il 6 agosto scoppiò ad Albano con straordinario vigore, mentre molte famiglie romane erano andate a passarvi l'estate. Là morì, l'8 agosto, la regina-vedova di Napoli, Maria Teresa, figlia dell'arciduca Carlo. Il timor panico riempì Albano; abitanti e forestieri si dispersero spaventati. Il cardinale Altieri che vi si era recato, come vescovo del luogo, per tranquillizzare con la sua presenza la popolazione, rimase vittima della sua abnegazione. Gli zuavi che erano là di guarnigione mantennero da soli l'ordine, e della loro attività va resa loro ampia lode.

Anche nel resto d'Italia infieriva il colèra, ma non interruppe il movimento rivoluzionario del partito d'azione, al quale le feste di Roma avevano acuito la smania di porre presto in atto i suoi disegni. Intanto la condotta del governo francese rafforzava la concorde aspirazione degl'Italiani; quel governo sembrava partire dal concetto che l'occupazione di Roma durasse ancora per mezzo della legione di Antibo. Non solo il generale Dumond era venuto a Roma per passare in rivista questa legione, che numerose diserzioni avevano mezzo disciolta, ma la pubblicazione di una lettera del maresciallo Wiel al colonnello d'Argy mostrava come queste truppe al servizio del Pontefice fossero considerate ancora siccome un corpo francese. Ciò provocò, alla fine di agosto, una nota di Rattazzi al Gabinetto di Parigi, nella quale egli faceva voti perchè il Governo francese non aumentasse le difficoltà, in cui si trovava l'Italia, risollevando la questione Romana e mettendo in pericolo la Convenzione di settembre.

La stampa democratica dichiarò violentemente che quella Convenzione era stata violata dalla Francia e che, quindi, anche l'Italia era in diritto di non più rispettarla. Il Governo, che ormai meditava—appoggiandosi alla Convenzione di settembre—di rinunziare a Roma e riconoscere la sovranità del Papa, e, per di più, minacciava continuamente l'Italia di un nuovo intervento francese, si trovò ad essere in contradizione con sè stesso, mentre si sentiva troppo debole per sostenere la pressione del partito d'azione in un'epoca nella quale, dopo il disgraziato progetto finanziario, vedeva crescere a dismisura i proprî imbarazzi.

Garibaldi visitò di nuovo le città italiane, parlando apertamente di una campagna contro Roma, dove, il 13 luglio, si erano già fusi e unificati il Comitato Nazionale e il Centro dell'Insurrezione, nella Giunta Nazionale Romana. Si raccolsero armi e denari, fino in Inghilterra, dove si era recato un figlio di Garibaldi. I confini dell'Umbria cominciarono a brulicare di figure sospette. Il 26 agosto l'Agitatore apparve a Orvieto. Qui egli raccolse il popolo a udirlo, attaccò nel suo discorso, accompagnato da grida di Roma o morte, tanto violentemente il Governo di Firenze, quanto quello di Parigi, e dichiarò finalmente che, nonostante la Convenzione di settembre, Roma doveva essere conquistata dal popolo sorto in armi. Si recò quindi a Rapallo, e l'8 settembre si trovò a Ginevra, al Congresso per la pace, dove i capi della democrazia europea si erano adunati per stabilire le linee di un programma della futura società europea. Garibaldi, salutato da unanimi omaggi, fu nominato presidente onorario di questo Parlamento.

I discorsi che egli tenne dal balcone della casa Fazy e quelli per l'inaugurazione del Congresso, furono così spinti, che urtarono anche molti dei suoi partigiani. Egli volle dimenticare che la città di Calvino e di Rousseau contava fra i suoi cittadini anche molti cattolici e che altri fra essi avevano opinioni aristocratiche e conservatrici. Le sue violente declamazioni contro il Papato e la Chiesa provocarono aperte proteste da parte della cittadinanza cattolica; fra i Riformati, i moderati non furono meno spaventati; nel Congresso si produsse una scissione, e Garibaldi lasciò Ginevra l'11 settembre, quasi clandestinamente, e del tutto disilluso.

Si recò allora a Genestrelle, deciso ad effettuare l'invasione romana. I preparativi e i piani strategici per questa audace impresa erano stati alacremente continuati fin dal suo soggiorno ad Orvieto. Si armarono truppe di volontari ad Ancona, a Foligno, a Bologna, a Firenze, negli Abruzzi, a Napoli. Depositi d'armi erano trasportati ai confini, e segretamente fin dentro gli Stati della Chiesa. I volontari si dirigevano da ogni parte alla spicciolata verso i confini, i quali erano custoditi dalle truppe di linea italiane, secondo la Convenzione di settembre.

Il carattere palese di questi armamenti sotto gli occhi del Governo, le invettive della stampa mazziniana, i proclami dei comitati nazionali, le lettere di Garibaldi, i messaggi dei legati di Roma e di Firenze spinsero il Governo francese a eccitare il ministero italiano ad un'azione pronta ed efficace, facendogli intendere come serie difficoltà potessero sorgere se fosse continuato quello stato di cose, difficoltà che l'Imperatore desiderava risparmiare a sè e al Re d'Italia. E infatti le difficoltà di Napoleone non erano poche. Egli desiderava non allontanare da sè l'Italia, in vista della minaccia sempre più vicina d'una guerra colla Prussia; allontanandosi dalla Francia, l'Italia si sarebbe avvicinata alla sua alleata di Padova; se poi egli avesse lasciato violare la Convenzione di settembre, avrebbe subìto un nuovo scacco, facendo la figura di un complice o di un canzonato. Se egli si risolveva all'intervento, secondo i desiderî del Pontefice, feriva anche gravemente il partito liberale di Francia, suscitando forse una guerra di disperata difesa in Italia, o rigettandola nell'anarchia, distruggendo la sua propria opera del 1859.

Dispacci urgenti da Parigi determinarono l'azione contro il partito rivoluzionario. Degli inviati di Vittorio Emanuele si recarono per persuadere Garibaldi in nome del re ad abbandonare i suoi intempestivi progetti e a ritrarsi a Caprera. Ma egli lasciò Firenze per raggiungere Arezzo passando da Sinalunga, e di là per far irruzione negli Stati della Chiesa.

Ma, per comando del Governo, a Sinalunga il generale fu arrestato il 23 settembre e mandato per ferrovia alla fortezza di Alessandria. D'un colpo questo fatto sorprendente cambiò la situazione; apparentemente il progetto dell'invasione venne meno con esso.

Il piano di Garibaldi era stato di provocare una sollevazione a Viterbo, per mezzo dei suoi agenti; ma dopo il suo arresto, il Governo papale si impadronì di loro e delle corrispondenze che avevano seco. Gli agenti di Garibaldi erano anche a Roma pieni di attività, ma dopo molto vano lavoro dovettero persuadersi che in questa città non c'era nulla da fare. Anche qui furono operati arresti in massa. Dei fogli volanti diffusi per la città annunciarono che la Giunta nazionale si era disciolta il 22 settembre, e che il 27 i così detti capi di sezione ne avevano formata un'altra al suo posto, «perchè la città non rimanesse senza Governo in tempi così difficili». La cattura di Garibaldi fu appresa all'estero con soddisfazione; si complimentò il governo d'Italia per aver finalmente trovato la forza di ridivenire padrone di un increscioso stato di cose, per il quale era permesso ad un capo popolo di porsi al di sopra delle leggi dello Stato, di formare un Governo proprio nello Stato stesso, di eseguire dei piani proprî, di versare il sangue del popolo, di mandarne in malora i denari affidatigli e di condurlo alla rivoluzione, determinando così la necessità di un intervento straniero, che immancabilmente sarebbe avvenuto. Infatti si diceva che una flotta francese fosse nel porto di Tolone pronta a salpare. La stima e la considerazione verso Garibaldi si era inoltre da tempo diminuita. Le sue copiose declamazioni, i suoi proclami numerosi, le sue stranezze (era giunto a battezzare egli stesso dei fanciullini come sacerdote dell'avvenire), l'imperversare senza tregua dei suoi tuoni senza il lampo dell'azione, e l'essersi egli ravvicinato al movimento mazziniano, avevano fatto impallidire l'aureola del grande agitatore, che aveva avuto sì eroica parte nella redenzione italiana[2]. Si deplorava in quel tempo che egli non fosse morto a Capua o ad Aspromonte, chiudendo così la sua vita di eroe popolare, invece di sopravviversi. La sua prigionia fu appresa con favore anche dai liberali di Roma; essi speravano che essa preludesse a negoziati diplomatici del Governo italiano, tendenti ad una liberazione definitiva da un intervento, anche morale, della Francia, e ad una modificazione della Convenzione di settembre. Ed effettivamente non c'era che l'Italia che potesse difendere gli Stati della Chiesa impedendo alle schiere dei volontari di farvi irruzione.

Ma il partito d'azione si sollevò vivacemente, chiedendo la liberazione del suo capo, membro inviolabile del Parlamento. Sotto la pressione di tumulti a Firenze e in altre città, Garibaldi fu condotto da Alessandria a Genova, e senz'altro rimesso in libertà, come almeno egli stesso dichiarò, —cioè imbarcato il 27 settembre per Caprera su un legno da guerra. Era stata cosa veramente seria la sua prigionia? Non era stato un giuoco per tacitare, diciamo così, il Governo di Francia, mascherando la rottura effettiva della Convenzione di settembre? Non si era fatto sparire il capo dell'invasione, perchè questa potesse seguire il suo cammino, più liberamente e meno manifestamente, e perchè, invece di un generale officialmente disconosciuto, e talora in segreto sostenuto, come a Marsala a Capua e nelle Marche, altri generali, nel nome d'Italia, la conducessero? Non aveva davvero la forza, il Governo italiano, di disperdere le schiere dei volontari, che si raccoglievano sui confini? Numerose truppe di ogni arme stringevano, è vero, da presso la linea dei confini romani, ma questa catena di milizie spesso diradava per varie cause i suoi anelli, permettendo a bande armate di introdursi agevolmente nello Stato pontificio. Appena all'estero si seppe che il Governo italiano aveva impedito l'esecuzione dei piani di Garibaldi e l'aveva imprigionato, contemporaneamente si fu informati che di fatto l'audace impresa dell'invasione era cominciata, e che apertamente proseguiva coll'appoggio del Governo italiano.

V.

L'invasione, da parte delle schiere di volontari, dello Stato della Chiesa, invasione che durò più di cinque settimane, rappresenterà un giorno un notevole e altamente drammatico episodio della storia di Roma e del Papato. Nella storia d'Italia essa sarà una pagina dolorosa, che non farà certo onore al Governo di quel tempo, del quale mostrò il macchiavellismo e la debolezza profonda. Se, nel futuro, le difficili questioni dei nostri giorni avran trovato una soluzione in un regime di libertà, i popoli si rivolgeranno indietro e considereranno quel periodo della nostra storia con stupore eguale a quello con cui noi consideriamo oggi le forme di anarchia medioevale e feudale.

E invero, nell'anno 1867, sembrarono risuscitate d'un tratto, con tutti i loro caratteri, le compagnie di ventura medioevali e quei condottieri del passato, che, indipendentemente dallo Stato, conducevano i loro eserciti attraverso le campagne. Chi fu allora in Roma testimone di questo stato di cose, credette di essere tornato d'un tratto a vivere nel Medio Evo, e in un paese dove nullo era oramai il potere delle leggi; vide cose e figure che aveva già riscontrate nelle cronache di quel tempo, al quale potè esattamente rassomigliare quest'epoca straordinaria. Garibaldi, l'uomo più moderno del suo tempo, secondo il suo ideale, è pure fra gli italiani del nostro tempo quello che, per la sua figura psichica, più profondamente è legato alle forme e ai sentimenti medioevali, ciò che spiega in parte la sua grande popolarità. Egli sta fuori dello Stato; come un condottiero; vive, eremita agitatore, in un'isola solitaria, lungi dal continente. Egli appare nella sua patria solo per mettere in esecuzione i suoi disegni, a dispetto dello Stato, per mezzo di agitazioni popolari e di schiere di volontari. Monreale, Sforza Attendolo, Piccinino e Fortebraccio avrebbero certo riconosciuto in lui un collega, un valoroso capitano di bande; al loro tempo, egli si sarebbe formata una repubblica militare, o avrebbe conquistata una corona ducale. Oggi, però lo distingue da quei condottieri il fatto che egli ha messo la sua spada al servizio della sua patria e del suo popolo. Egli combatte con disinteresse repubblicano per le idee del presente, anzi, forse, per le idee del futuro. Egli vuole abbattere l'idolo dell'assolutismo e della tirannía, così spirituale che temporale, ma vuol porre al suo posto un altro idolo, il cui dispotismo non potrebbe forse essere minore. Anch'egli, con la noncuranza di un tiranno degli antichi tempi, ha sacrificato la balda gioventù della sua patria, servendosene come di strumento per i suoi fini.

La questione romana, così profondamente connessa con tutto l'ingranaggio complicato del mondo europeo, pareva, a questo uomo di guerra, un nodo gordiano che la spada sola potesse risolvere. Ma egli non aveva la spada di Alessandro, e se anche ciò non è che un simbolo della realtà contemporanea, come l'uovo di Colombo, l'opinione europea non avrebbe mai riconosciuto in Garibaldi o in Mazzini e il suo partito, i suoi rappresentanti e i suoi patrocinatori.

E veramente sembra ai nostri occhi un sogno fantastico che delle schiere, accozzate alla rinfusa, male armate e senza disciplina, e tali che gli antichi condottieri d'Italia avrebbero sdegnato di prenderle al loro servizio, avessero la pretesa di conquistare Roma, come un Connestabile di Borbone! Eppure, proprio nel nostro tempo, un disegno di tal genere fu possibile, e ci mancò poco che questo sogno si trasformasse in realtà. Un giorno questo sarà un mito nella storia di Roma.

E l'ardente e nobile patriottismo di un guerriero della specie di Garibaldi, e l'audacia sublime che spingeva le sue schiere alla morte, saranno riconosciuti ed ammirati anche da chi ha condannato la sua impresa come dannosa alla patria, ed ha tremato al pensiero che il principio della libertà brigantesca degli Americani della Plata o del Chilì potesse trovare esplicazione anche in uno Stato della civile Europa. Ma questo è tutto quel che si può dire a questo proposito. Invece, lo spassionato giudizio del più caldo amico della nazione italiana e della libertà dei popoli considererà sempre, con disprezzo e disistima, coloro che seguirono, in questo falso giuoco, le regole del «Principe» di Machiavelli, perchè si deve annunciare fino ai confini del mondo la giustezza della massima di Washington, e provare che la migliore politica è la verità. La storia della politica fu arricchita, nel 1867, di una commedia tale, che a lungo dovrà l'umanità ricercar ne' suoi annali, per trovarne una simile; e, se in nome della libertà si perpetrarono spesse volte delitti, raramente in suo nome si commisero così fondamentali sciocchezze.

Il Gabinetto italiano, per la sua debolezza e per una specie di strana illusione, fu condotto a tollerare il pericoloso disegno dell'invasione, poi anche ad accettarlo e accelerarlo, ciò che gettò l'Italia nella più terribile crisi, mise in giuoco la monarchia e l'unità del paese, e produsse, in tutta la nazione, una spaventosa demoralizzazione. Così, fra una diplomazia senza forza ed una eroica furia di condottieri, si maturarono grandi errori. Si sperava in una sollevazione romana, la quale mancò. Non ve ne fu alcuna negli Stati della Chiesa, e tanto meno a Roma e a Viterbo, dove gli agenti del partito rivoluzionario facevano vani sforzi per suscitarla. Solo una vera rivolta negli Stati della Chiesa poteva, se fosse apparsa chiaramente l'espressione della volontà popolare, mutare la situazione, far sembrare giustificato un intervento da parte dell'Italia, e escludere assolutamente quello francese. Ma poichè essa non avvenne, e la popolazione dello Stato romano rimase tranquilla, invano si sarebbe voluto far passare per insurrezione popolare una invasione di truppe volontarie di altre regioni. Si contava, da parte di queste schiere, sulla inabilità e sul carattere imbelle delle truppe pontificie, oltre che sulla diserzione dell'elemento italiano; ma questi soldati, stranieri e paesani, si batterono con inaspettato valore, rimanendo fedeli alla bandiera, sulla quale avevan giurato. Si contava anche sugli errori del Governo pontificio, ma questo raramente dimostrò come allora tanta ragionevolezza e tanta forza, e seppe mantenere, in condizioni tanto difficili un contegno così legittimo e conveniente, che fece ottima impressione sull'opinione pubblica europea, specialmente perchè in contrasto con quello del Governo italiano.

Si sperava specialmente sull'approvazione tacita del protettore di Francia, e sul suo consenso alla modificazione del trattato di settembre. In Inghilterra correvano delle voci che affermavano prossima questa modificazione, per l'estate futura, e che Napoleone si sarebbe ricreduto e si sarebbe deciso all'intervento dopo che aveva appreso di sicure offerte di Rattazzi alla Prussia. Comunque sia, Napoleone non poteva lasciar manomettere dalla parte rivoluzionaria, contro la quale egli si era drizzato, un trattato da lui confermato e riconosciuto; egli intervenne—poichè lo Stato Romano non si era sollevato—a favore del Papa e del Potere spirituale, col quale voleva mantenersi in buona amicizia, dapprima esitando e temporeggiando, poi con inconsiderata gravità.

Secondo il piano di Garibaldi, l'invasione doveva procedere da tre lati; dalla Sabina e l'Umbria, dalla Tuscia e dal Lazio, dovevano le schiere dirigersi alla loro mèta: Roma. La prima è la via più breve e conduce direttamente a Roma, poichè qui i confini, a Corese e Scandriglia, sono distanti dalla città appena due ore di treno. Menotti, il figlio di Garibaldi, prese là il comando delle schiere che scendevano dall'Umbria. La seconda strada passa da Viterbo, prima mèta delle truppe che la seguirono, oggi seconda città dello Stato, situata in una ricca campagna ed abitata da una popolazione che fu sempre ritenuta audace, fiera ed amante di novità. Qui doveva assumere il comando Acerbi. Sulla terza strada, Nicotera doveva dirigere l'invasione contro Roma attraverso i Monti Latini. Questi ultimi due capi erano deputati al Parlamento italiano. Inoltre, dei manipoli minori dovevano far capo a queste strade da varii punti per assalire, qua e là, le guarnigioni pontificie, per tenere occupato e sparso tutto l'esercito pontificio col sistema della guerriglia.

Il grosso di queste schiere era formato di gente accozzata alla rinfusa, della quale una gran parte sapeva appena maneggiare un fucile. Le loro condizioni, che avrebbero fatto andare in visibilio un romanziere o un Salvator Rosa, hanno fatto dubitare e restare perplesso ogni uomo di guerra; erano camerieri, cocchieri, servi, studenti scrivani, contadini, sarti, calzolai, operai di ogni genere, lavoranti di fabbriche, ogni sorta di gente affamata. Nelle loro file si trovavano anche uomini e giovani di estesa coltura, nobili e ricchi, ed anche delle signore emancipate, che seguivano a cavallo il piccolo esercito. Simili imprese non si compiono che in Italia, perchè qui risponde ad esse il singolare carattere della popolazione. Certo che la leva, che muoveva tutta questa gente, era, in prevalenza, il bisogno e lo spirito d'avventura, ma sarebbe ingiusto considerare queste schiere solo come una riunione di mascalzoni e di canaglia. L'esaltazione patriottica si era dai circoli democratici diffusa fra le classi più infime della popolazione, e quei poveri operai si batterono eroicamente a Mentana. Vi erano infine, fra di essi, noti patriotti e spiriti nobili, i quali, pieni di sentimento patrio, avevano risoluto di sacrificare, alla patria, tutto, anche la vita. E questi andavano di mano in mano crescendo di numero; tutti gli stati e provincie d'Italia vi avevano i loro rappresentanti; finalmente dei veri e proprii soldati italiani, segretamente congedati, vennero a rafforzare queste bande di volontarii.

Erano divisi in battaglioni. La loro uniforme doveva essere la camicia rossa, ma non tutti ne possedevano una; molti indossavano, sui loro abiti, un pezzo di stoffa rossa. Tutti avevano ai cappelli una piuma di gallo o di falco. Le armi erano manchevoli e in cattivo stato. Molti non avevano che lancie, pugnali e sciabole. Alcuni battaglioni avevano armi usate, uscite dai magazzini delle guardie nazionali. Il metodo di approvigionamento e di rifornimento di questo esercito era primitivo, come quello del suo armamento. Essi facevano assegnamento sulle contribuzioni dei luoghi che occupavano, ma tutti sanno che i castelli dei distretti della Sabina e del Lazio sono in gran prevalenza abitati da agricoltori assai poveri, che vivono del grano dei loro campi, delle rendite dei loro vigneti, degli oliveti e castagneti. E si poteva davvero ben profetizzare che il patriottico fanatismo di Garibaldi avrebbe gettato nella miseria tante migliaia di persone, come al tempo di Aspromonte, se a lui ora non fosse riuscito, come allora, di trascinarsi dietro tutto il popolo italiano e di far levare in armi il popolo dello Stato Pontificio.

L'esercito che il Papa poteva opporre a queste schiere di volontarii, contava allora 12,981 uomini e 929 cavalli, di cui 8000 veramente atti e pronti a combattere. I corpi, disposti secondo il numero degli uomini, erano in quest'ordine: reggimento di zuavi, 2237; legione di gendarmi indigeni, 2082; reggimento di linea, anche indigeno, 1595; battaglione di carabinieri stranieri, 1233; legione francese d'Antibes, 1096; battaglione di cacciatori, 956 fanti e 442 cavalli; finalmente 5 batterie di artiglieria.

Questo esercito era formato da italiani dello Stato pontificio e da stranieri d'ogni nazionalità. Da quando il Papato si era trovato in serie difficoltà, al ritiro dell'esercito francese, tutte le regioni del mondo si erano date, con grande zelo cattolico, alla ricostituzione dell'esercito pontificio.

Numerose associazioni belghe, francesi, ed anche americane, inviavano a Roma casse piene di denaro e di armi, come tributo. La stampa cattolica diede ai nuovi volontarii l'enfatico titolo di Crociati di San Pietro, giubilando per il rinnovarsi della crociata. La piccola armata papale rappresentava infatti lo sforzo della cristianità intera; molte favelle e molte nazionalità vi erano rappresentate: scozzesi, irlandesi, polacchi, tedeschi, francesi, olandesi, belgi, canadesi, mori dell'Africa, italiani, spagnuoli si mescolavano sotto lo stendardo dell'arcangelo Michele; ed anche in questo cosmopolita esercito non era solo lo zelo religioso che spingeva tanta gente; in taluni era piuttosto lo spirito di avventura, il bisogno, o un passato da redimere.

Il corpo scelto della milizia di S. Pietro, la vera guardia dei cavalieri della Croce, erano gli zuavi. Lamoricière aveva istituto questo corpo in memoria delle sue campagne africane, quando nel 1866 il Pontefice lo aveva chiamato a Roma, salvatore del Potere temporale. Molti figli di antiche case legittimiste di Francia e del Belgio servivano in questo esercito come ufficiali, o anche come semplici soldati a piedi. Loro colonnello era De Charette, discendente del famoso capitano della realista Vandea. Il corpo era in prevalenza formato da francesi e da belgi, e parlava francese. Il loro costume mezzo turco, di colore turchino, un po' teatrale e appariscente, era volentieri indossato da molti signori. La maggior parte di questi ufficiali degli zuavi, ed anche dei soldati semplici, era piena di sentimenti cattolici e di ideali medioevali; essi ardevano dal desiderio di venire alle mani coi ribelli italiani, coi democratici dalla camicia rossa, gli eretici, e di vendicare tutti gli insulti patiti dal Pontefice negli ultimi anni.

A capo dell'esercito papale era il generale Kanzler, già ufficiale nell'esercito di Baden e da lungo tempo al servizio del Pontefice. Una abile ritirata del suo battaglione, dopo la battaglia di Castelfidardo, aveva richiamato l'attenzione su di lui, cosicchè fu promosso di grado e nominato vice ministro alla guerra. Il Ministero della guerra pontificio era stato sin qui affidato a prelati; ultimamente a Merode, cognato di Montalembert, e questo costume non poteva essere molto giovevole all'organizzazione dell'esercito. Quando, finalmente, esso fu affidato ad un uomo d'armi, subito se ne notò il visibile cambiamento. La serietà e l'attività del generale riordinarono in breve le truppe, e certamente lo Stato Pontificio deve al Kanzler se così a lungo potè resistere alle forze degli invasori.

Lo Stato della Chiesa era stato ripartito in zone militari: Viterbo, Civitavecchia, Tivoli, la Sabina, e Campagna e Marittima (Velletri e Frosinone). Queste formavano insieme una mezza divisione sotto il comando del generale De Courten; l'altra mezza divisione, un duemila uomini, risiedeva a Roma, sotto il generale Zappi. Nelle città maggiori risiedevano compagnie; nelle minori spesso soltanto posti di gendarmeria. La guarnigione della Campagna fu rinforzata da volontarî della popolazione campagnuola, i così detti ausiliari o squadriglieri, i quali formarono corpi militarmente organizzati, serbando il loro costume pittoresco della ciociaria e i sandali caratteristici. Si erano già costituiti militarmente al tempo della guerra contro il brigantaggio, nel 1866-67, nella quale avevano reso grandi servigi alla regione laziale. Un battaglione di essi, forte di 638 uomini, risiedeva a Frosinone e nei confini di Napoli. Altri si erano, altrove, incorporati nella gendarmeria. In complesso, la loro forza ammontava a 1200 uomini.

Alla fine di settembre il Lazio offriva uno strano e comico aspetto. Mentre lo Stato Pontificio si preparava a contrastare con tutte le sue forze l'occupazione di Roma e di tutto il territorio, ai confini facevano le loro evoluzioni da 10 a 20,000 soldati italiani, in una attitudine equivoca e misteriosa, che avrebbero dovuto tener lontano dai confini le schiere volontarie, ma, viceversa, le lasciavano palesemente entrare e uscire, mentre essi stessi cantavano inni patriottici, col ritornello: «Andremo a Roma Santa». Stavano, coll'arme al piede, a guardare tranquillamente centinaia di camicie rosse, divise in piccole bande, aggirarsi intorno ai confini, ardendo dal desiderio di irrompere nella regione pontificia, mentre il loro duce, il capo del movimento, il cui nome era da solo un grido di guerra, era ancora relegato sullo scoglio di Caprera. Intorno a quest'isola incrociavano sette legni da guerra italiani, come già i legni da guerra inglesi avevano un tempo incrociato intorno all'Elba, gelosi di un uomo più grande, che stava là preparando le audaci imprese contro il continente.

Il 29 settembre venne a Roma l'annuncio che era cominciata l'invasione. Nella notte, 40 garibaldini avevano passato i confini a Grotte S. Stefano in provincia di Viterbo, avevan disarmato quel posto di gendarmeria, strappato gli stemmi papali, e piantato la bandiera italiana. Poi si erano diretti su Bomarzo, dove si era ripetuta la scena stessa. Da quel giorno, ebbero spesso lungo qua e là in vari punti, piccole invasioni di questo genere. Il 29 stesso, altri occuparono Bagnorea e Torre Alfina, e il giorno seguente il luogo più importante, Acquapendente. La caserma dei gendarmi si difese, in questa città, per ben tre ore, poi si arrese. I garibaldini si impadronirono delle casse pubbliche, arrestarono il Magistrato e levarono contribuzioni. Dichiaravano di essere l'avanguardia del generale Acerbi; avevano a capo un tal conte Pagliacci, emigrato da Viterbo.

All'annuncio della occupazione di Acquapendente, il colonnello Azzanesi si mosse da Viterbo con truppe; piombò sui garibaldini il 2 ottobre a S. Lorenzo, li mise in fuga, prese molti prigionieri, rioccupò Acquapendente. I fuggiaschi si radunarono e Bagnorea, l'antico Balneum Regis. Un corpo di 95 zuavi ve li assalì di sorpresa, ma fu respinto con perdite, finchè non giunsero rinforzi pontificii. Bagnorea fu assalita il 5 ottobre; i garibaldini, in numero di 500, si ritirarono lasciando 100 fra morti e feriti e 178 prigionieri. Questo fu il primo fatto notevole di quella guerriglia. Esso mostrò, contro ogni previsione, che i soldati pontificii sapevano battersi con valore e serietà, ed erano tanto validi ed atti alla guerra, quanto erano inetti i loro avversarî.

Ogni giorno avvenivano a Roma partenze di truppe; la città pareva vuotarsi completamente di milizie, e giornalmente arrivavano notizie di nuove invasioni nella regione laziale. Una straordinaria eccitazione cominciò a notarsi in città, anche perchè venivano sparse ad arte, di tanto in tanto, delle notizie di sconfitte, di vittorie, di sollevazioni ipotetiche.

Le schiere volontarie, scacciate da Bagnorea, si erano gettate su Torre Alfina, piccolo villaggio sul confine toscano, fortissimo per la natura del luogo. Qui il generale Acerbi radunò le sue schiere, come in un quartier generale, per piombar su Viterbo, appena fosse possibile. Contemporaneamente altre bande si fortificavano a Nerola, Moricone, Montemaggiore, Montelibretti; piccoli e deserti luoghi della Sabina. Sono veri aggruppamenti di case in cima ad aspre rupi, dalle quali emerge la chiesa, e qualche torre medioevale diroccata, e il grandioso castello baronale, del tempo in cui gli Orsini dominavano tanta parte della Sabina.

Il giovane Menotti condusse là 600 uomini, coi quali sperava di poter irrompere nella campagna verso Tivoli, se appoggiato da altre truppe, e favorito dalla concertata conquista di Subiaco che doveva congiungerlo agli Abruzzi. Garibaldi aveva nominato il figlio suo luogotenente, con un decreto da Caprera; c'era anche una specie di dinastia garibaldina, e, mentre il vecchio leone ruggiva chiuso in Caprera, dovevano almeno i suoi figli, Ricciotti e Menotti, pugnar per la causa nazionale. Ma, quando il 7 ottobre, il colonnello Carette marciò sulle truppe di Menotti, queste ripiegarono su Fara. Ma furono inseguite, cacciate, e dopo breve lotta disperse; si ritirarono allora sui confini, benignamente ricevute dalle truppe italiane. Rinforzate, tornarono rinnovando qua e là la guerriglia. Le truppe pontificie mandavano ogni giorno prigionieri a Castel Sant'Angelo, ma le marcie e contromarcie continue, e le perdite che subivano, cominciavano a stancarle. La guerra d'invasione era cominciata nello Stato della Chiesa come una febbretta intermittente in un corpo malato: non avrebbe potuto in breve estendersi al capo, la già torbida Roma?

Dal principio di settembre, degli agenti di Garibaldi si occupavano attivamente a Roma per preparare e provocare una sollevazione. Nessun mezzo fu trascurato per raggiungere lo scopo. Armi, bombe, polveri erano pronte in luoghi segreti. Il Comitato Nazionale Romano, già disciolto, si ricostituì e bandì, l'8 ottobre, un proclama, dove era detto: «Romani, le provincie son già sollevate; fra poco l'insurrezione sarà generale. Noi dobbiamo unirci a questo movimento e appoggiarlo con tutte le nostre forze, perchè la vittoria delle provincie preparerà e faciliterà la vittoria di Roma. Siamo dunque tutti pronti. Il sangue dei fratelli che gli zuavi pontificii spargono ancora nella Provincia sia la favilla che incendierà i nostri spiriti. Romani, l'ora decisiva si approssima. In nome della Patria uniamoci, e che ognuno obbedisca solo al comando che ci verrà dal Comitato centrale. Unità e disciplina, ecco ciò che forma la forza. Ogni movimento inconsiderato, irregolare e isolato può essere di grave danno. Fidatevi a quel Comitato che ha dato già prova di forza, acutezza e fermo volere. Ora che è giunto il gran momento, egli saprà compiere tutto il suo dovere. Uniamoci fiduciosi e arditi; operiamo disciplinati, e la causa della civiltà sarà guadagnata».

Intanto i fatti mostravano che tutte le esagerate notizie dei fogli garibaldini erano spudorate invenzioni. Non in un luogo solo si ebbe una sollevazione nelle provincie. Potevano, del resto, delle bande indisciplinate, che assalivano e danneggiavano i villaggi, per poi fuggire appena si appressavano le truppe pontificie, aver forza morale sufficiente a trascinare le popolazioni a far causa comune con esse e ad andar con esse in rovina? C'era forse l'Italia dietro quelle bande? E in questo caso, non c'era da temere un intervento francese con le sue conseguenze inevitabili? Nè il cittadino, nè il campagnuolo vollero sapere di sollevarsi. L'invasione somigliava ad un fuoco fatuo che tremolava ai confini, e si accendeva per breve tempo, qua e là, senza risultato. Si sarebbe detta una guerra contro il brigantaggio, in grande.

L'11 ottobre era stata presa Subiaco; il vescovo e il magistrato supremo erano stati messi sotto sorveglianza; invano si era intimata la resa al castello. Comparvero alcuni zuavi, e i garibaldini si dileguarono, abbandonando precipitosamente la città.

Il 13 ottobre Menotti fu snidato dalla forte posizione di Montelibretti, dove era ritornato. Le schiere volontarie non facevano in nessun luogo progressi. Nicotera che, attraverso i confini napoletani doveva penetrare nella valle del Liri, non potè muoversi che il 13 ottobre, ed occupò Falvaterra. Ma il 15 fu battuto a Vallecorsa e cacciato dalla provincia di Frosinone. Castel Sant'Angelo si empiva di prigionieri. Il Papa comandava che fossero lautamente nutriti. A quegli uomini, prostrati dalla fame e dalle fatiche, egli mandava mantelli per ripararsi dal gelo notturno. Li visitò anche un giorno egli stesso, e disse loro: «Eccomi: io son colui che ritenete vostro nemico e di cui avete giurato la morte. E chi avete dinanzi a voi? un uomo vecchio e debole». Essi caddero in ginocchio dinanzi a lui e molti baciarono un lembo della sua veste. «E' buono—dicevano allora di Pio IX i Romani—ma ha due anime: una obbedisce all'Italia ed una ai gesuiti».

La stampa mazziniana dava notizie atroci sul trattamento di questi prigionieri; ma erano false. Negli ospedali e nelle prigioni li trattavano umanamente e benignamente. L'unica cosa di cui potessero lagnarsi i prigionieri, erano le visite e i sermoni di confessori e di preti mandati a loro per farli riconciliare con Dio.

VI.

Intanto, ogni giorno si faceva più grande il pericolo per Roma. L'invasione era l'idra dalle cento teste. Sempre nuove bande sorgevano, e sempre più apertamente appoggiate dalle truppe italiane. Gli arruolamenti eran fatti nelle città del Regno; le armi venivano loro dai magazzini della Guardia Nazionale. Le ferrovie erano al loro servizio, e centinaia di camicie rosse venivano ogni giorno trasportate dai treni ai confini. Anche a Roma si notavano sempre più numerose misteriose figure di stranieri; si facevano grandi arresti preventivi, ma non si riusciva a metter le mani nel centro dell'agitazione. L'aspetto della città diveniva ogni giorno più triste; il commercio cessava; il denaro monetato spariva. Si parlava di prossimi violenti tumulti, e la guarnigione romana, stanca e diminuita dalle malattie e dalle diserzioni, doveva sottoporsi ad un faticosissimo servizio di pattuglie.

Il 17 ottobre, il Papa pubblicò un'enciclica al clero cattolico, nella quale tratteggiava la disperata situazione romana. Nella ampollosità declamatoria abituale di questi atti, si notava, strano a dirsi, che proprio la prima frase dell'enciclica coincideva con quella: Levate in circuitu oculos vestros,[3] con la quale una volta il gran nemico del papato, Federico II di Hohenstaufen, aveva cominciato la sua enciclica alla cristianità contro Gregorio IX: «Alzate, o venerabili fratelli, i vostri occhi all'intorno e vedrete, e ve ne dorrete con Noi, le abbominazioni orribili che attualmente funestano la misera Italia. Ma Noi umilmente ci rimettiamo agli imperscrutabili voleri Divini, che vollero farci vivere in così tristi tempi, in cui, per opera di alcuni uomini, e proprio di quelli che reggono la cosa pubblica in Italia, sono calpestati i precetti di Dio e le leggi della Chiesa, e la miscredenza trionfa impunita. Da questo stato di cose derivano tutte le ingiustizie e tutti i mali di cui siamo addolorati testimoni; in questo stato di cose trovarono nutrimento e sprone quelle numerose bande di atei spieganti gli stendardi di Satana, e che portano scritto in fronte: Menzogna; che bestemmiano contro il Cielo in nome della ribellione, che insozzano tutto ciò che è santo, che calpestano ogni diritto divino ed umano, che, come lupi in cerca di preda, spargono sangue, corrompono le anime nel loro delirio, chiedono la mercede della loro perversità, derubano i fratelli, rendono più miseri i poveri e i deboli, aumentano il numero delle vedove e degli orfani, per denaro esaltano l'ingiustizia, e, cercando in ogni modo di sodisfare le loro perverse brame, spargono la desolazione e la morte nella nazione.

«O venerabili fratelli, oggi noi ci troviamo circondati da questa malvagia genìa. Sì, questi uomini vogliono, mossi da uno spirito diabolico, inalberare la bandiera della menzogna in questa nostra illuminata città, sulla sedia di Pietro, nel centro della fede e dell'unità cattolica. E i rappresentanti del Governo Subalpino, che dovrebbero dar opera a frenare questa gente, non arrossiscono di aiutarla, di fornire armi e tutto il necessario per facilitare la loro venuta a Roma. Ma queste persone—occupino esse pure un alto grado nella gerarchia civile—tremino di vedersi ben presto punite del loro contegno. Se da un lato, nella nostra umiltà, noi preghiamo caldamente Iddio di voler rivolgere su tutti questi infelici il suo sguardo benigno, per ricondurli sulla via della Giustizia e del Bene, d'altro canto non possiamo tacere i gravi pericoli che ci sovrastano in questa ora di tenebre. Noi attendiamo con animo tranquillo gli avvenimenti, sebbene commossi da tanto inganno, da tanta calunnia, da tanta menzogna, riponendo in Dio la nostra fiducia, in Dio che è la nostra salvezza e la nostra forza, e che non permetterà che coloro che fidano in lui siano vittime di tanti indegni miscredenti, ch'Egli ben saprà fiaccare e distruggere. Frattanto però, o venerabili fratelli, e voi tutti, o fedeli, che ci siete affidati, noi non vogliamo dissimularvi la triste posizione e il pericolo, in cui ci troviamo per opera del Governo Subalpino. E quantunque difesi finora dal valore del nostro fedele esercito, valore che si palesò già in mille fatti d'armi, pure pensiamo che, dinanzi al numero sempre crescente degli invasori, esso non potrà a lungo resistere. Non poco anche ci affida la pietà e la fedeltà dei nostri sudditi in queste tristissime ed empie congiunture, ma soffriamo anzi profondamente nel vedere anch'essi esposti a pericoli di ogni sorta da parte di quegli scellerati che, con ogni mezzo, li minacciano, li depredano, li tormentano...».

Il Papa non parlava della Francia, ma questo meditato silenzio era forse più efficace d'un appello diretto all'intervento delle potenze.

Tutti gli occhi eran fissi su Napoleone: anch'egli taceva, e sembrava ridivenuto la Sfinge misteriosa dell'epoca. Tutti si chiedevano che cosa avrebbe fatto di fronte ad una così palese infrazione del trattato di settembre. I liberali a Roma mormoravano, che tutto doveva essere stato accomodato a Biarritz; che la Convenzione di settembre doveva essere stata modificata, che l'Imperatore, sul punto di gettarsi nella prossima inevitabile guerra con la Germania, non poteva privarsi dell'alleanza italiana, e che prezzo di questa alleanza doveva essere lo Stato della Chiesa, che in poche settimane sarebbe tutto conquistato.

Ma il 17 ottobre, il giorno stesso in cui il Papa pubblicò questa enciclica, un telegramma così concepito, giungeva dal Ministero degli Esteri di Parigi al plenipotenziario francese a Roma, Armand: «Il Governo pontificio continui a difendersi energicamente; non gli mancherà l'aiuto della Francia». Questo dispaccio sorprese assai il Comitato Nazionale Romano, e fe' giubilare i conservatori. Napoleone mandò a Roma il generale Prudon, per dichiarare al Papa che l'intervento era deciso, e il cardinale Antonelli incaricò il nunzio di ringraziare l'Imperatore in nome del Pontefice.

Il Governo francese aveva, sinora, tenuto dietro con grande riserbo ai fatti d'Italia, limitandosi a dar consigli al Governo italiano. Questo aveva ripetutamente dichiarato che la sorveglianza dei confini era impossibile per la loro estensione e la loro configurazione naturale; avanzò quindi la proposta, poichè altra via non c'era per risolvere la crisi, di far occupare una parte dello Stato Pontificio dall'esercito italiano. Nigra,[4] plenipotenziario del Re alla Corte francese, fu incaricato di svolgere questo progetto, e intanto di far notare come una seconda spedizione francese nello Stato pontificio, non solo andava contro la Convenzione di settembre, ma era la più pericolosa per risolvere la questione romana. Occupando l'Italia una parte dello Stato Pontificio, non si voleva in nessun modo toccare i diritti della sovranità pontificia; si voleva solo ristabilire l'ordine turbato, e venire ad un accordo con la Francia, relativamente all'indipendenza del Papa, essendo il Governo italiano pronto, a questo scopo, ad invitare ad un Congresso le potenze.

Il Gabinetto francese rispose: «che esso era lieto che l'Italia riconoscesse la sovranità del Papa; che non aveva nulla in contrario a che si tenesse un Congresso delle potenze; ma poteva essere tenuto questo Congresso, se le truppe italiane avessero occupato lo Stato Pontificio, costringendo indubbiamente il Papa all'esilio? Il ritiro delle truppe francesi da Roma era stato conseguenza della convenzione di Settembre e della fiducia, da parte dell'Imperatore, che il Governo italiano avrebbe protetto il dominio papale da un'invasione. Mostrandosi ora il Governo italiano incapace a farlo, il medesimo trattato dava all'Imperatore il diritto di prendere provvedimenti per la difesa dello Stato pontificio.»

Rifiutato categoricamente il progetto di Rattazzi, la netta dichiarazione della Francia costrinse il Governo italiano a dichiarare di voler mantenere la convenzione. Il 19 ottobre, l'Imperatore mandò un ultimatum a Firenze; il suo rappresentante dichiarò a Rattazzi che Napoleone esigeva una prova della sincerità della dichiarazione fatta dal Governo, e cioè: soppressione degli arruolamenti, scioglimento dei comitati d'appoggio all'opera rivoluzionaria; e proclama reale che dichiarasse che dovevano essere disarmati e internati i volontari di Garibaldi.

Lo stesso giorno, il generale De Failly partì da Parigi per Tolone per prendere il comando supremo della spedizione; l'esercito era pronto a partire sulla squadra che aspettava ordini a Tolone, nel caso che il Governo italiano non si sottomettesse all' ultimatum.

Il Ministero Rattazzi si trovò in una posizione difficile; non solo aveva contro di sè la Francia, ma tutte le potenze, risolute a non porre ostacoli all'intervento francese. La Prussia medesima, su cui avrebbe potuto contare, gli sarebbe stata propizia solo quando Napoleone si fosse di nuovo impelagato nella questione italiana, e con ciò avesse perduto le ultime simpatie dell'Italia. Come poteva Rattazzi occupare il territorio dello Stato pontificio? A Roma nessun moto si produsse, che potesse dargli occasione o pretesto. Nelle casse della corrispondenza del Senato romano io trovai, in quel giorno 19 ottobre, solo uno scritto anonimo, che affermava la situazione a Roma essere così minacciosa, da richiedere l'intervento di truppe italiane nella capitale; il senatore dover presentare al Papa la proposta; migliaia di cittadini che avevano lasciato presso un notaio i loro nomi, esser pronti a dichiarare che questa era la volontà della città di Roma. In assenza del senatore marchese Cavalletti, i quattro conservatori inviarono al Papa questo scritto, dichiarando, però, che credevano bene darne contezza a Sua Santità, non dividendo in verun modo le idee espresse nella missiva, idee che ritenevano non convenire alla dignità del Governo.

E poteva davvero una lettera anonima, di dubbia origine romana, e che stava in troppo stretto rapporto col progetto mandato a Parigi da Rattazzi, valere come espressione genuina dell'opinione del popolo e del Senato di Roma?

La sera del 19 ottobre, il giorno della crisi, Rattazzi ricevette il congedo e il Re incaricò il generale Cialdini di comporre un nuovo Gabinetto. Cialdini era l'uomo di Castelfidardo, ma anche di Aspromonte, nemico delle schiere volontarie per principio, e perciò gradito alla Francia. In Firenze l'eccitazione si faceva sempre più grande; e nel dilemma: ritornare alla convenzione e ubbidire alla Francia; o mettersi dalla parte della rivoluzione e romperla con Napoleone; non si sapeva quale via fosse meno pericolosa. Intanto, mentre Cialdini si occupava infruttuosamente della composizione del Ministero, Rattazzi sbrigava ancora gli affari di amministrazione ordinaria; durante questa pausa, poterono mettersi in moto delle forze che condussero alla catastrofe.

L'Imperatore francese, sempre esitante, sempre doppio, desiderava di non essere costretto all'intervento. Egli fu lieto quando il suo plenipotenziario telegrafò, il 20, da Roma, che quel giorno non si trovavano più schiere volontarie nello Stato pontificio.

In fatti era riuscito, con grande sforzo, ai pontificii di rigettarle oltre i confini. La così detta legione romana, con la quale un emigrato, l'ex maggiore Ghirelli dell'esercito reale, aveva preso Orte il 17 ottobre, era stata cacciata; le schiere volontarie di Menotti, dopo il violento fatto d'arme del 18 ottobre, avevano dovuto, con grandi perdite, sgombrare Nerola; le bande di Nicotera, il 19, erano cacciate da Vallecorsa nel Lazio. In seguito a quel telegramma che annunciava tutti questi fatti, Napoleone, il 21, dava l'ordine di sospendere l'imbarco a Tolone. Il 22, il Moniteur ne dava notizia in un articolo che esprimeva anche la convinzione che l'invasione dello Stato pontificio avesse toccato il suo termine, e che il Governo italiano fosse risoluto al sicuro adempimento della convenzione di settembre.

Così l'intervento fu disdetto, con gran dolore di quelli che l'avevano tanto bramosamente sperato.

VII.

Intanto Garibaldi era restato a Caprera, in un'ansia penosa. Le lettere dei suoi figli e degli agenti rivoluzionari l'avevano informato dell'insuccesso della spedizione romana; era anche stato avvisato dei preparativi di Napoleone per l'intervento che il Governo italiano era sul punto di subire. Già una volta aveva egli tentato di fuggire verso Livorno, e le navi da guerra in crociera glielo avevano impedito. Egli concepì subito il disegno di mettersi alla testa delle schiere volontarie, di muovere su Roma, per iscuotere alla base il Papato e, nel caso d'insuccesso, di lasciare il proprio corpo fra questo e l'Italia.

Così il 16 ottobre egli lasciò Caprera sul suo battello, felicemente, come già Napoleone era fuggito dall'Elba. Con o senza la complicità dei legni da guerra italiani, raggiunse l'isola della Maddalena, dove una signora inglese lo ospitò; passò poi in Sardegna, donde, travestito, partì e il 19 ottobre, giorno decisivo, sbarcò sulla Maremma di Livorno, presso la torre di Vada. Apertamente giunse il 20 a Firenze. Nessuno pensò a ostacolare il suo viaggio. Rattazzi non era più al potere; il nuovo Ministero non si era ancora formato; il Governo si trovava nell'anarchia più completa.

Egli tenne pubblici discorsi sulla piazza di Santa Maria Novella; eccitò il popolo alla lotta contro il Papato e contro tutti coloro che per errore o per debolezza si trovavano sulla strada della santa causa patriottica. Fu entusiasticamente acclamato.

L'addetto d'affari francese chiese subito il suo arresto, per impedirgli di giungere ai confini e mettersi a capo della schiera dei volontarii, distruggendo così gli accordi diplomatici fra i due Governi, tanto faticosamente raggiunti. Si prevedeva che questo sarebbe accaduto indubbiamente. Ma Garibaldi, con rapida mossa, lasciò Firenze il 22 ottobre, mentre si spiccavano mandati di cattura contro di lui. La gendarmeria reale lo inseguì, e stava per raggiungerlo a Rieti, quando egli ne ripartì.

Il 23 ottobre si recò a Passo Corese e, per Scandriglia, penetrò nello Stato pontificio, dove i suoi due figli e altri capi, come Salomone e Frigesy, avevano raccolte alcune migliaia d'uomini. Fu informato allora Garibaldi dei fatti avvenuti a Roma il giorno precedente, ai quali non era estraneo il suo approssimarsi alla capitale, ma che rimanevano troppo al di sotto delle sue aspettative.

Si trattava ora di fare un colpo di mano su Roma, prima che i Francesi sbarcassero e la coprissero; possibilmente, essa avrebbe dovuto sollevarsi. Una sollevazione in Roma sarebbe stata decisiva. Cento volte era stata preannunziata, ma poi non era mai avvenuta. Da più settimane gli agenti mazziniani si davano da fare nella città. Un bergamasco, Francesco Cucchi, doveva condurre a termine quell'impresa. Si erano stabiliti segretamente dei depositi d'armi, uno presso San Giovanni de' Fiorentini un altro sotto San Paolo, nella vigna Matteini. Anche dei Romani si erano prestati e favorivano il movimento. Anche a Castel S. Angelo erano riusciti a corrompere due artiglieri, i quali, a un dato segnale, dovevano far saltare in aria il magazzino delle polveri. Poi, in molti luoghi, dove le truppe pontificie avevano le loro caserme, nel palazzo Serristori, in Borgo, nel palazzo Cimarra, ai Monti, ed anche nella caserma degli Svizzeri, in Vaticano, dovevano essere messe delle mine. Fu fissato il 21 ottobre per l'insurrezione. Quel giorno, la Giunta Insurrezionale Romana, che si era sostituita al Comitato Nazionale, pubblicò il seguente energico appello alla rivolta:

«Romani, alle armi! alle armi! per la nostra libertà, pel nostro diritto, per l'unità della Patria italiana e per l'onore del nome romano. Il nostro grido di guerra sia: Morte al Potere Temporale dei Papi! Viva Roma, viva la capitale d'Italia! Noi vogliamo rispettare ogni credenza religiosa, ma liberarci per sempre da una tirannia che ci separa a forza dalla famiglia italiana, e vuol perpetrare che a Roma sia estraneo il diritto di nazionalità, e che essa appartenga a tutto il mondo, ma non all'Italia! I nostri fratelli hanno già da più giorni alzato la bandiera della santa ribellione e arrossano del loro sangue la Via Sacra che conduce a Roma. Non soffriamo più oltre che essi rimangano soli. Rispondiamo al loro appello di eroi colla campana del Campidoglio. Il nostro dovere, la comunanza della causa per la quale si combatte, la tradizione di Roma, lo vogliono. Alle armi! Chi può portare un fucile, corra alla lotta! ogni casa sarà una fortezza, ogni ferro un'arma! I vecchi, le donne, i fanciulli possono costruire barricate; i giovani le difenderanno. Viva l'Italia, Viva Roma!»

Alla diffusione di questo proclama rispose un silenzio di tomba. Coloro che lo avevano composto, non conoscevano le condizioni dello spirito pubblico a Roma. Essi potevano contare solo sulle poche centinaia di uomini che segretamente erano stati introdotti nella città, e su quei pochi romani che erano stati persuasi a viva voce a secondare e favorire il tentativo di insurrezione. Roma non era più la città del medioevo. Allora essa aveva una cittadinanza chiusa solidamente nelle corporazioni di mestiere, la quale custodiva l'ideale di una repubblica politica indipendente; una milizia divisa nelle varie milizie dei rioni, al servizio del magistrato capitolino, ed una nobiltà in parte ghibellina, pronta sempre alla lotta. Allora la città si sollevava abbastanza di frequente contro gli odiati pontefici, che cacciava o costringeva al riconoscimento dei suoi diritti politici. Nella Roma attuale di 220,000 abitanti, le condizioni erano del tutto mutate. La cittadinanza non aveva più alcun carattere politico; la nobiltà conduceva, all'ombra degli alberi genealogici, una vita di vuoto ozio (le eccezioni erano rare); il che è vergognoso, ma storicamente spiegabile. In gran parte essa apparteneva a famiglie beneficate e illustrate dai papi che uscirono da esse. Ma parte della popolazione romana era devota al Governo papale, al cui servizio si trovava, che la nutriva, tenendola necessariamente soggetta, per mezzo del clero. Credevano dunque realmente, i mazziniani, che si sarebbe trovata in Roma una massa compatta, di sentimenti italiani, che si sarebbe sollevata al loro appello per costruire barricate, per farsi fucilare dagli zuavi, o in ogni caso, dopo una sanguinosa repressione per opera dell'esercito francese, per finire la vita in esilio o in carcere?

C'erano di guarnigione, nella città, circa 3000 uomini, al comando del marchese Zappi, e ripartiti in modo da poter in breve domar la sommossa, se fosse scoppiata. C'era l'ordine che cinque colpi di cannone dessero l'allarme da Castel Sant'Angelo. Furono prese molte misure di difesa, per consiglio specialmente del generale Prudon, il quale il 20 ottobre era venuto a Roma ad assicurare il Papa dell'immancabile protezione francese e a persuaderlo a restare a Roma, finchè la flotta francese da Tolone non fosse giunta a Civitavecchia. Egli consigliò anche di abbandonare le provincie, e di concentrare in Roma le truppe che vi si trovavano sparse, per difendere questa città, mira unica del movimento. Nella notte dal 21 al 22 ottobre si cominciarono a barricare le porte, a porre trincee dinanzi a quelle che rimanevano aperte, e a rincalzare, dal di dentro, con terrapieni, quelle che si potevano serrare. Questo si chiamava nel medioevo fabbricare le porte. Furono completamente chiuse le porte Maggiore, Salara, S. Lorenzo, S. Paolo, S. Pancrazio, S. Sebastiano. Il Ponte Rotto e il nuovo ponte alla Lungara furono resi impraticabili col levar via le tavole che li coprivano. I tre ponti sull'Aniene, Salaro, Nomentano e Mammolo, sulla via di Tivoli, furono minati. Si praticarono feritoie nelle mura, ed anche al Pincio, e si stabilirono batterie di cannoni. Se ne pose una al punto dove la ferrovia entrava in città. Le fosse di Castel Sant'Angelo furono empite d'acqua.

La notte del 22 ottobre trascorse passò tranquilla; si udì solo lo scoppio di petardi in molte strade, e l'allarme delle sentinelle e i colpi delle loro armi.

Una tensione febbrile era in tutti gli animi. Roma si sentiva separata dal mondo: i telegrafi erano inattivi, la posta irregolare; le ferrovie interrotte in parte ai confini dall'esercito pontificio medesimo. Sinistre voci correvano. Che contrasto fra la Roma splendida del giugno e la squallida Roma di ora!

Il 22 ottobre si diffuse la voce che la sera, in città, sarebbe scoppiata la rivolta; se ne parlava apertamente negli alberghi e nei caffè. Si sapeva che Garibaldi era andato a Firenze; si diceva che si sarebbe posto alla testa delle schiere volontarie, che Roma si sarebbe sollevata, e che egli vi avrebbe fatto il suo ingresso trionfale. Tutti gli orrori di una guerra civile per le vie, tutti gli eccessi che si compiono in una rivoluzione, forse anche un probabile saccheggio, riempivano molti di apprensione e di angoscia. In molte famiglie, dove erano da temersi vendette da parte del partito d'azione, regnava grande spavento. Era vivo ancora in città il ricordo del famoso sacco di Roma da parte delle bande del Borbone.

Verso sera l'aspetto di Roma si fece spaventoso. Botteghe e porte chiuse; qua e là si facevano arresti; gli accessi al corso deserto erano sbarrati da sentinelle; pattuglie a piedi e a cavallo percorrevano le strade.

Una bomba, gettata correndo da un uomo contro il corpo di guardia di Piazza Colonna, diede il primo segnale della rivolta. Subito dopo si udì un frequente scoppiar di petardi, un rumore di moschetteria, e un sordo rimbombo. Saltava in Borgo la mina a palazzo Serristori; una parte del grande edificio, dove avevano il quartiere principale gli zuavi, saltò in aria, seppellendo più di venti persone, in massima parte giovani musicanti del corpo e orfani della città. Fortunatamente non si riuscì a incendiare le mine poste sotto le altre caserme. Gli artiglieri che erano stati guadagnati alla causa rivoluzionaria, in Castel Sant'Angelo, erano già stati scoperti e imprigionati. Secondo il loro piano, i rivoluzionari, non più di 500 uomini, si erano divisi in piccole bande e dovevano impadronirsi dei varî posti militari. Il corpo di guardia del Campidoglio doveva essere forzato, e si doveva suonare la campana della torre per chiamare alle armi i Romani. I 50 garibaldini che mossero contro il Campidoglio, furono dispersi da un paio di fucilate. Eguale esito ebbe ogni altro tentativo del genere. Solo a porta S. Paolo i garibaldini, in numero di 400, al comando, dicesi, di un deputato italiano, riuscirono a impadronirsi del corpo di guardia. Una parte di essi occupò quella porta fortificata e a forma di rocca; altri si diressero verso S. Paolo, per impadronirsi del deposito di armi ch'era nella vigna Matteini. Ma la polizia l'aveva già scoperto e portato via. Un altro deposito, nascosto in una cava di pozzolana presso la basilica, non potè essere rintracciato da quelli stessi che ve l'avevano stabilito. La schiera, tornando verso la porta, si scontrò coi pontificii, e si disperse dopo breve combattimento. Anche la porta fu riconquistata dalle truppe papali. L'assalto al gassometro, presso il Circo Massimo, tentato allo scopo di far piombare Roma nelle tenebre, fallì egualmente.

La piccola schiera di volontarii, condotta dai fratelli Cairoli lungo il Tevere, verso la città, coll'intenzione di approdare a Ripetta, non giunse fin qui, ma occupò, fuori delle mura, una villa sulle alture dell'Acqua Acetosa.

Senza le armi sparse qua e là, le vesti lacere gettate sulla strada, delle traccie di sangue, e specialmente senza la rovina del palazzo Serristori, la grande maggioranza dei cittadini romani non avrebbe saputo, il mattino del 23 ottobre, che nella notte si era combattuto. Quella mattina stessa delle truppe mossero da Porta del Popolo verso l'Acqua Acetosa, per snidarne la schiera di Cairoli. Là, fra il Tevere e l'Aniene, presso la loro confluenza, sorgono dei colli verdeggianti che digradano in prati tranquilli fino al Tevere, il quale scorre maestoso fra due rive basse, in vista dei lontani e pittoreschi monti della Sabina. Qualche casetta di campagna sorge in quei colli detti Parioli. Su questi, nella villa Glori, si erano fermati i 70 volontarii, fra cui erano patriotti, uomini di coltura e di audacia, in gran parte possidenti di campagna e ingegneri, studenti, soldati. I due fratelli Cairoli li guidavano, Enrico deputato al Parlamento, e Benedetto, capitano d'artiglieria nell'esercito italiano. Fra loro vi era anche un conte Colloredo, napoletano, della casa Acton. Attaccati all'improvviso dai carabinieri pontificii, questi garibaldini si difesero da eroi, in una lotta corpo a corpo. Dopo che Enrico e molti altri furono uccisi o messi fuori di combattimento, i restanti si dispersero o furono fatti prigionieri.

VIII.

Garibaldi era appena giunto a Scandriglia, quando diede ordine ad Acerbi di marciare su Viterbo, e a Nicotera di fare irruzione nella Campagna romana. Egli stesso doveva, con 4000 uomini, dirigersi su Roma e impadronirsi di Monte Rotondo.

Il 23 ottobre, Acerbi per Torre Alfina si avvicinava a Viterbo con soli 800 uomini. In quella città si trovavano circa 200 pontificii al comando di Azzanesi. Questi riuscì felicemente a respingere gli assalitori, quando, nella notte del 24, Viterbo fu assalita alle sue sei porte, ad una delle quali, porta della Verità, fu appiccato il fuoco. I garibaldini si ritirarono con grandi perdite.

Garibaldi stesso occupava Monte Maggiore e Passo Corese, donde minacciava Monte Rotondo. Dai confini del Lazio i telegrafi annunciarono che i volontarii avanzavano su tutta la linea.

La posizione di Roma si faceva difficile. I 3000 uomini che vi si trovavano, già stanchi come erano, non avrebbero potuto difenderla, se le schiere dei garibaldini si fossero, da tutte le parti, riunite sotto le sue mura. E per di più non si era sicuri che non potesse aver luogo un secondo e più fortunato tentativo di rivolta. Erano stati arrestati centinaia di sospetti, ma, dal 22 ottobre, ogni notte dimostrava che la città era ancora piena di rivoluzionarii. Infatti, con le tenebre cominciava il giuoco dei petardi. Nell'ora che in Italia è più sacra, quella in cui suonano le campane i tocchi dell'Ave Maria, sembrava, in quei giorni, che Roma si riempisse di démoni usciti non si sa di dove, annunziati dal vivo e fitto scoppiettìo dei petardi, che si univa al suono solenne delle campane. Che cosa di più strano e suggestivo di questa armonia sinistra, fatta di bombe e di campane, esprimente, meglio che non possan far le parole, l'irriconciliabile conflitto di quelle forze del tempo, che lottavano oggi per il possesso di Roma, e che già tanti secoli avevano lottato?

Per alleggerire le fatiche delle truppe nel servizio di pattuglia, dei cittadini clericali avevano formato una milizia nazionale, della quale fecero parte anche figli di case principesche. Il 25 ottobre, seguendo in Trastevere le traccie di un focolare di rivoltosi, si scoprì un deposito d'armi in casa del fabbricante di stoffe Aiani. Gli zuavi diedero l'assalto a questa casa; del proprietario e dei garibaldini quasi tutti si fece strage; pochi furono presi prigionieri. Il medesimo giorno, il governatore militare di Roma proclamava la città in stato d'assedio, e comandava che fossero consegnate tutte le armi di proprietà privata.

Frattanto Garibaldi era apparso, nella notte del 24, sopra Monte Rotondo, villaggio situato in un incantevole colle che domina la valle del Tevere fino a Corese, e la campagna fino alla città, da cui dista solo tre miglia tedesche. Aveva fatto tagliare i telegrafi che univano il villaggio a Roma, per isolare i 370 italiani che vi erano di guarnigione, al comando del capitano Cortes. Il luogo era forte, e cinto di mura medioevali, e il castello baronale degli Orsini, oggi dei Ludovisi, poteva servirgli di rocca. Garibaldi attaccò Monte Rotondo con 400 uomini, ma non aveva artiglieria. I pontificii si servirono, con successo, di due cannoni, e respinsero gli assalitori. Ripetutamente rigettato, Garibaldi ricondusse più volte all'assalto la sua schiera; una porta fu incendiata, ed i garibaldini entrarono finalmente nel paese, mentre i difensori si ritraevano entro il castello. Questo, essendo stato minato, la piccola guarnigione si diede prigioniera di guerra la mattina del 26 ottobre, dopo una valorosa difesa di ben ventisette ore.

Garibaldi entrò a cavallo nella cattedrale di Monte Rotondo, volendo far qui la sua sosta; ed anche in ciò egli si palesò figura schiettamente medioevale. Così Francesco Sforza entrò a cavallo nel duomo di Milano conquistata; così fece re Ladislao di Napoli il suo ingresso nella chiesa di S. Giovanni in Laterano, essendosi insignorito di Roma. I prigionieri furono condotti anch'essi nel duomo, in presenza di Garibaldi, e siccome essi si scoprirono il capo, quegli, credendo lo facessero per rispetto verso di lui, fece loro segno di coprirsi[5]. Lodò poi il valore che i prigionieri avevano mostrato, degno, disse, di una miglior causa; li difese anche dal furore dei garibaldini, che già qualcuno ne avevano ucciso, e li fece condurre ai confini, di dove le truppe del re li trasportarono a Spezia, nel forte Varignano. Garibaldi passò la notte in un confessionale, mentre le camicie rosse facevano del duomo ciò che avevano già fatto di S. Pietro le selvaggie schiere del connestabile di Borbone.

Garibaldi era padrone del luogo più forte della provincia; ora Annibale era alle porte. Ma egli aveva ottenuto queste risultato, l'unico degno di nota in tutta quella campagna, avendo avuto 400 fra morti e feriti, e avendo perduto un tempo prezioso. La piccola guarnigione di Monte Rotondo aveva reso a Roma il più grande servizio; se non avesse trattenuto Garibaldi resistendogli vivacemente, egli avrebbe affrettato la marcia su Roma. Prendere Monte Rotondo era d'altra parte necessario, perchè esso congiunge le strade della Campagna romana alla strada dell'Umbria. Un esercito che l'abbia occupato, è padrone della strada di Roma e di quella di Passo Corese, mentre ha facile la ritirata sui monti di Tivoli e nell'Abbruzzo.

Se Garibaldi avesse allora avuto qualche migliaio di uomini ben armati, da gettare sulle mura di Roma, prima che i pontificii, richiamati, tornassero dai varii luoghi della provincia, avrebbe potuto avere in sua mano la città. Quanto spesso le sue deboli mura aureliane non erano state, nel medio evo, diroccate in qualche luogo meno vigilato, di notte, da una schiera di assalitori! Lo stesso poteva ora accadere. Le truppe pontificie non avrebbero potuto difendere la larga cinta di Roma. Chi li avesse veduti, quei pallidi e stanchi belgi ed olandesi, trascinarsi armati per la città, avrebbe ben potuto dire che essi sarebbero stati incapaci di respingere un attacco alle mura da parte dei volontari, e di opporsi loro validamente quando fossero entrati. Essi avrebbero potuto soltanto rinchiudersi nella città leonina, per difendere in Castel Sant'Angelo il Pontefice, finchè non giungessero soccorsi di Francia. In Castel Sant'Angelo si sarebbe, infatti, ritirato Pio IX, come già Clemente VII, per il corridoio sotterraneo che lo fa comunicare col Vaticano, ed avrebbe forse, dai suoi merli, assistito ad un secondo sacco di Roma.

Questa città che si trovava, dopo tre secoli, in condizioni analoghe a quelle del 1527, minacciata come allora da schiere volontarie, offriva allo spettatore, nel 1867, un quadro di indescrivibile stranezza, simile a quello che doveva offrire nel 1527. Si sarebbe detto che solo nomi e costumi fossero mutati. Invece del connestabile di Borbone, Garibaldi era sotto le mura di Roma, e forse sarebbe caduto nell'assalto alla città, e, per una ironia della sorte, avrebbe potuto, morendo, ripetere le parole medesime del Borbone: à Rome! à Rome! Invece di papa Clemente VII, Pio IX era assorto in preghiere nelle sale del Vaticano. Lo stesso grido di guerra che aveva guidato le schiere di Borbone e di Frundsberg, che era stato il grido dell'odio e del bisogno, era ora il grido dell'esercito di Garibaldi: Roma o morte! Come nelle schiere del Borbone si trovavano mescolati uomini di tutte le nazioni, così qui erano entrati democratici d'ogni parte d'Europa. Un uguale disprezzo per la Chiesa e le sue sacre funzioni, un uguale grido di furore contro il Pontefice ed il clero, risuonava allora come ora. Pure si potrebbe dire che i luterani del 1527 e gli Spagnuoli e gl'Italiani che si mischiarono ad essi, erano meno radicali nella manìa della distruzione dei garibaldini di oggi. Lo stesso effetto magico, che aveva prodotto il nome la figura del Borbone sulle sue schiere, ora lo produceva la figura ed il nome di Garibaldi. Come quelle marciavano cantando canzoni glorificanti il connestabile, così questi cantavano entusiasticamente la strofa:

L'ha detto Garibaldi,
E questa è verità,
Chi muore per la patria
In paradiso va.

Quando le schiere garibaldine furono nel duomo di Monterotondo, uno di essi salì sul pulpito, afferrò il crocifisso e cominciò un sermone burlesco, condito di innumerevoli sozze bestemmie, invitando finalmente l'uditorio ad invocare il Dio Garibaldi. Questo fu fatto in mezzo ad un indescrivibile baccano, dopo di che il predicatore esclamò: «Ed in nome di Garibaldi io vi impartisco la benedizione». Gli ascoltatori non risparmiavano ogni sorta di gesti osceni e schernitori delle sacre reliquie; quello salito sul pulpito fece, col crocifisso, il segno della croce, poi lo gettò al suolo riducendolo in pezzi.

Questo narra il domenicano prigioniero, cappellano degli zuavi[6], e dice: «I garibaldini appartengono a tutte le classi sociali; vi sono nobili, plebei, colti, incolti, ed ogni specie di briganti. Essi appartengono a tutte le nazioni e si sono tutti riuniti con lo scopo di condurre, contro la Chiesa e la società Cristiana, la campagna della distruzione; infine essi sono l'esercito cosmopolita del diavolo, la spaventevole caricatura dell'esercito cattolico. Fra di essi, molti hanno avuto una buona educazione cristiana ed hanno eccellenti genitori. Molti hanno pure ingegno e coltura ed anche maniere distinte e signorili. Però la massa è fatta di uomini di vita indegna ed errante, avanzi di galera, o di giovanetti fatti entrare con insidie nelle sètte segrete, o di vagabondi delle grandi città, senza fisso impiego, che vanno guadagnandosi il pane alla ventura, servendo da cocchieri, fattorini, facchini, garzoni e via dicendo. Altri sono braccianti ed operai. Tutti questi si arruolano per tentar la fortuna, per ammazzare o lasciarsi ammazzare, senza sapere perchè. Una febbre, un delirio vano li trascina alla lotta, e non se ne rendono conto. Fra loro sarebbe vano cercare una qualunque coesione ed unità di idee. Alcuni hanno lo scopo di distruggere il Papato, come a me stesso hanno detto; altri di fare l'Italia una; altri di togliere al Papa il potere temporale che, secondo loro, è contrario al Vangelo, altri di rovesciare tutti i troni e tutti i re; e molti, finalmente, lo scopo di rubare. Da questa varietà di intenzioni, nasce una indescrivibile confusione sicchè non c'è da far le meraviglie se talora si maltrattano e si fan del male fra di loro.

Se fra i loro comandanti uno ordina una cosa, un'altro ne ordina un'altra, onde l'abitudine di disprezzare e trasgredire i comandi. Ciascuno si crede un'autorità, e tutti vogliono dominare. Molti di essi non sarebbero cattivi, ma, in quei momenti di febbre, sono capaci di eccessi; ne fui purtroppo testimone a Monterotondo, e le sue chiese ne serbano le deplorevoli traccie. Le loro vesti sono intonate alle loro idee ed opinioni. Sarebbe difficile trovar fra di loro due uomini vestiti nello stesso modo. Molti portano la camicia rossa o il berretto rosso; alcuni son vestiti di rosso da capo a piedi, ma tutti hanno un cencio rosso in qualche parte. Di religiosità non mostrano traccie; molti ostentano odio verso ogni forma religiosa; in parecchi si potrebbe facilmente trovare un'esatta immagine dei demonî, così sinistra appare la loro veste fiammante, specialmente quando va unita ad uno sguardo selvaggio ed audace.

V'è un solo nome che li elettrizza: Garibaldi. Esso ha su tutti loro una tale autorità affascinante, da far veramente supporre, non essendo possibile scorgervi cause reali, una potenza diabolica a servizio della sètta segreta.»[7]

Il medesimo monaco descrive i suoi colloquî con Pantaleone, già francescano, e, dopo Marsala, cappellano di Garibaldi, al quale serviva da segretario e scriveva proclami, un siciliano schietto, di buon umore e di estrema vivacità. Fu proprio lui che trovò, per il primo, il grido di battaglia: Roma o morte! Del che egli stesso si vantava col nostro monaco, il quale dovè, del resto, a lui la sua salvezza. Pantaleone era forte e ben fatto; portava un berretto di pelle d'orso, detto all'Orsini, senza tesa, alla maniera armena; sulla camicia rossa recava, specialmente in battaglia, una giacca nera abbottonata, per non offrire un bersaglio al nemico. Aveva poi stivaloni e pantaloni scuri, al fianco una grande sciabola e al collo, attaccato ad una catena, un fischio per far segnali. Parlava con facilità sorprendente, con uno stile figurato ed elegante, sopra una infinità di argomenti. Soleva dire, assai spesso, che la religione cattolica è contro natura, che il papato è una menzogna, una frode che ha fatto il suo tempo e dovrebbe essere tolta via. Egli aggiungeva che i preti non amano le loro famiglie, che rinunciano all'amore coniugale, che deprimono e tengono soggetti i popoli per mezzo di mille menzogne, e via dicendo. Avendogli chiesto l'ingenuo monaco se avesse già contratto matrimonio, egli rispose: «Non ho trovato finora nessuna donna che abbia conquistato il mio cuore, e non so quando questo avverrà... ma non potrà tardar molto ad accadere, se non morrò prima. Togli via questa cocolla—diceva poi al monaco—simbolo di ignominia e di menzogna, e segui noi che siamo gli uomini della verità. Noi siamo i primi uomini della rivoluzione; è nostro compito di distruggere il papato e di insegnare le dottrine semplici del vero Cristo, senza miracoli e senza umiliazioni»[8].

IX.

La presa di Monterotondo suscitò spavento in Roma, dove più d'uno pensò a porre al sicuro i proprî valori.

La Giunta Insurrezionale Romana pubblicò questo proclama (27 ottobre):

«Romani! Da tre giorni voi spargete—senza armi, senza munizioni, animati solo dal sentimento del dovere, forti del vostro diritto—voi spargete timore e danno nelle file di una feroce soldatesca, che sta pronta alla lotta nei suoi quartieri, e mostrate così all'Italia e al mondo che Roma, anche se inerme, non può attaccare un'aperta battaglia, sa scrivere col proprio sangue la protesta contro il suo martirio. Nella prima notte del 22 avete scoperte e portate via le poche armi che servivano per la vostra difesa; avete costretto il nemico ad aprire la Porta S. Paolo, avete risolutamente assalito la guardia del Campidoglio e vendicato così i vostri morti, abbattendo tutti quegli avversarî che han potuto raggiungere le vostre armi. Una parte della caserma, Serristori saltò in aria, minata dalla vostra mano, e seppellì non pochi nemici sotto le rovine.

«In tutte le lotte a corpo a corpo il nemico piegò sotto i vostri colpi. Sopratutto seminarono il terrore nelle schiere nemiche le vostre bombe Orsini. Nella notte del 23, quando il nemico già si era messo sulle difese, osaste assalire, in S. Pietro e Tommaso, le pattuglie che accompagnavano i prigionieri, e riusciste a liberarli. Ai Monti, il sangue degli zuavi arrossò le strade; a Ripetta, presso il Clementino, sulla piazza Sforza Cesarini e in altri luoghi, ufficiali e soldati caddero colpiti da voi. Il governo papale, nella vana speranza di far credere all'Europa ingannata che Roma sia tranquilla, vi ha, da una settimana, tenuto in un effettivo stato d'assedio, senza osare di proclamarlo; ma questo giuoco non poteva a lungo durare, di fronte al vostro animoso contegno, ed i vostri oppressori sono stati forzati a riconoscere e dichiarare la vostra ribellione e la loro paura.

«Ieri fu dichiarato lo stato d'assedio e dato l'ordine del generale disarmo, ma con quella ipocrisia che è caratteristica principale del governo pretesco. Roma è messa in stato d'assedio e disarmata, non perchè i Romani lottano e muoiono, ma perchè una banda di uomini, introdottisi segretamente in città, turba l'ordine pubblico e sparge il terrore in una guarnigione di migliaia di soldati. O menzogna! Romani furono uccisi al Campidoglio, Romani i 200 prigionieri della porta S. Paolo, Romani la vecchia e il bambino uccisi nella caserma di Sora.

«Mentre quella menzogna si faceva ogni giorno più palese, il popolo di Trastevere, memore del suo passato, scese in campo, e afferrando con mano febbrile le poche armi restate in suo potere, si chiuse in una delle sue case come in una fortezza, e sfidò tutto l'esercito pontificio ad una lotta leale e cruenta. Erano cinquanta contro mille; ogni strumento, ogni arnese era un'arma, e per quattro ore resisterono. Il popolo inerme cercava di portar loro soccorso, ma ogni accesso era chiuso; impossibile avvicinarsi ai combattenti. Il numero soverchiò finalmente il valore; gli zuavi riuscirono, mentre già avevan veduto la strada seminata di cadaveri dei loro compagni, a penetrar nell'interno della casa, e allora non diedero quartiere. Nessuna ferocia potrebbe paragonarsi a quella di questi crociati del vicario di Cristo. Tutto fu massacrato: la famiglia Aiani, donne e bambini, senza pietà trucidata; i feriti con pochi colpi finiti di uccidere. Il Papa Re può benedire questo bagno sanguinoso e ringraziare il Signore.

«Romani! Era necessario dare una risposta di sangue alla proclamazione dello stato d'assedio, e voi l'avete data; era necessario porre tra voi ed il Papa una barriera di cadaveri, ed uno solo dei massacrati di Trastevere basterebbe a provare al mondo che non è più possibile una conciliazione fra Roma e i suoi tiranni. Se ciò non basta, se l'Italia non si affretta ed esita, se la vittoria non deve arriderci ancora, non sarà colpa nostra; noi avremo compiuto intero il nostro dovere, e questa pagina rimarrà nella nostra Storia. Ma abbiate fiducia: Garibaldi è alle porte; l'intervento francese sembra scongiurato; tutta l'Italia, Governo e Popolo, sta per riunire le sue forze ad uno scopo unico: Roma. Noi non saremo abbandonati. E' impossibile che questa esitazione si prolunghi; è impossibile che questo conflitto non termini colla proclamazione di Roma a capitale d'Italia».

Roma, 27 ottobre 1867.

Ma la speranza di avere scongiurato l'intervento francese dovette essere presto abbandonata. L'opinione pubblica in Francia sembrava favorevole a questa; solo i ministri Duruy e La Valette erano contrari, e parlavano in pro della causa italiana.

Il 24 ottobre, il papa ricevette, per mezzo del suo nunzio a Parigi, una netta dichiarazione dall'Imperatore, al quale aveva fatto conoscere le disperate condizioni di Roma, e Monstier, il 25, partecipò alle potenze che la Francia interveniva, perchè era stata commessa un'infrazione al trattato di settembre. Invano Vittorio Emanuele aveva tentato di provocare un intervento misto, non ottenendo che di ritardare la partenza della flotta da Tolone; ma il 26 ottobre il comando fu dato, e le corazzate francesi navigarono verso Civitavecchia.

In questa crisi, dal suo esito sembrava dipendere la sorte della sua monarchia, si risolse finalmente il Re al passo che da molto tempo avrebbe dovuto fare, cioè a mettersi deliberatamente dalla parte della legalità, ed a mettere un argine, per mezzo della violenza, al movimento rivoluzionario di Garibaldi.

Chiamato, il 27 ottobre, Menabrea al nuovo Ministero, egli pose un termine all'anarchia ministeriale, e pubblicò il seguente proclama:

«Italiani! Delle schiere di volontari, esaltate e trascinate per opera di un partito, hanno, senza l'autorizzazione mia e del mio Governo, varcato i confini dello Stato. Il rispetto che tutti i cittadini debbono alle leggi e ai trattati internazionali, approvati da me e dal mio Parlamento, esige, in questa occasione, da noi il compimento di un indeclinabile dovere.

«L'Europa sa che la bandiera, spiegata nel paese confinante col nostro, e sulla quale sta scritto distruzione della più alta autorità spirituale, quella del Capo della Religione Cattolica, non è la mia. Questo attentato pone la patria in grave pericolo e mi obbliga insieme a salvare l'onore del paese e ad impedire che siano confusi due scopi e due indirizzi diversi.

«L'Italia deve essere posta al sicuro dai pericoli che la minacciano; l'Europa deve vedere che l'Italia, fedele ai suoi impegni, non può e non vuole essere la disturbatrice dell'ordine pubblico.

«Una guerra coi nostri alleati sarebbe una lotta fraterna fra due eserciti, che han combattuto, l'uno a fianco dell'altro, per la medesima causa.

«Io, che sono arbitro della pace e della guerra, non potrei tollerarlo. Confido quindi che la voce della ragione venga ascoltata, e che quei cittadini d'Italia, che dimenticarono i loro doveri, ritornino presto nelle file del nostro esercito.

«I pericoli, a cui il turbamento dell'ordine e inopportune risoluzioni potrebbero esporci, debbono essere scongiurati, e rigidamente mantenuti il prestigio del Governo e l'inviolabilità delle leggi.

«L'onore del Paese riposa nelle mie mani, e non mi può, ora, mancare quella fiducia che in me ripose la nazione nei giorni del suo più profondo lutto.

«Appena sarà tornata la pace negli animi e l'ordine pubblico sarà ristabilito completamente, il mio Governo si occuperà, con sincero vigore, in collaborazione col Governo francese, per giungere ad un pratico accordo, atto a porre un termine alla grave questione romana.

«Italiani! Non dubito della vostra prudenza, quella prudenza che dimostraste sempre per l'amore del Vostro Re, e per questa Grande Patria, che noi, grazie ai comuni sacrifici, abbiam visto tornare ad essere annoverata fra le nazioni, e che vogliamo tramandare illesa e onorata alle future generazioni».

Febbrile divenne l'agitazione a Firenze. Si tumultuava per le vie. Si gridava: «Abbasso il Ministero Menabrea! Vogliamo Crispi, e andare avanti!» Si desiderava una guerra colla Francia: «Vogliamo Roma, capitale d'Italia! Viva Garibaldi! Viva l'esercito italiano in Campidoglio!» Le truppe mantenevano l'ordine. Severi comandi furon trasmessi ai confini per disarmare le bande e cacciarle nell'interno. Ora soltanto si chiusero gli uffici di arruolamento e si sciolse il Comitato rivoluzionario.

La situazione di Garibaldi diveniva disperata; egli non aveva forze sufficienti per gettarsi subito su Roma, dove, fin dal 27 ottobre, le truppe pontificie si andavano concentrando. Ora nulla più impediva che, dove queste si ritiravano, le schiere garibaldine avanzassero; che, il 28, Nicotera occupasse Frosinone e, il giorno seguente, Velletri; che Acerbi rientrasse in Viterbo; che Antinori, Pianciani e Orsini entrassero in Palestrina, Subiaco e Tivoli, dove si costituivano dei governi provvisori. Ora, quale significato poteva più avere l'invasione spinta fin sotto le mura di Roma, se i Francesi si avvicinavano, e il Governo italiano, che non aveva saputo frenare, anzi, che aveva armato questi corpi franchi, si rivolgeva contro di essi e li dichiarava nemici dello Stato?

Solo l'Aniene separava ormai Garibaldi da Roma. Il ponte Salaro era stato fatto saltare. Un tempo i Goti avevano distrutto questo ponte e Narsete l'aveva ricostruito; molte volte, nel corso dei secoli, esso fu tagliato e restaurato; l'ultima volta erano stati i Napoletani che l'avevano fatto saltare in aria ritirandosi da Roma nel 1798; anche l'iscrizione di Narsete si perde. Ora i suoi archi sono di nuovo ruinati nella corrente, offrendo un pittoresco spettacolo al viaggiatore.

Garibaldi fe' trincerare Monte Rotondo e Mentana, incerto sul da farsi. Egli si recò subito a Marciano e al Casino Santa Colomba, sulla via ferroviaria, a sette miglia da Roma.

I suoi bersaglieri avamposti erano sull'altra riva dell'Aniene, di là dal ponte, presso la bella torre de' Pazzi, e si avventuravano prudentemente fin sulle rive del fiume, per scambiar qualche fucilata con i papalini.

Il vecchio eroe popolare si aggirava intorno le mura di Roma, mentre ancora erano vivi i ricordi del 1848. Si narrava, in Roma, che egli si fosse introdotto travestito in città e due notti avesse passato a Palazzo Piombino. Si diceva che egli avesse giurato di penetrare in Roma attraverso quella stessa porta S. Giovanni, per la quale si era ritirato nel 1849. Fu allora che la sua fuga a San Marino e nella Pineta di Ravenna pose le basi della fama di questo duce nazionale, che così meravigliosamente ha rinnovato nel nostro tempo le imprese degli antichi condottieri. Erano passati da quel tempo diciotto anni. Quanti rivolgimenti si erano operati in Italia in questo spazio di tempo, quante strane vicende nella sua esistenza! Dapprima, anni infelici di reazione e di disperazione, ma anche di incessanti congiure, di nascosto lavorìo per il raggiungimento dell'ideale nazionale. Poi, dopochè la caduta di Venezia distrusse anche l'ultimo sogno di liberazione italiana, l'esilio di Garibaldi in America, dove con onorevole lavoro egli dovè guadagnarsi il pane; poi, sette anni dopo, il primo raggio di speranza col prender parte il Piemonte alla guerra di Crimea; ritorno di Garibaldi; l'alleanza della Francia nella insperata guerra d'indipendenza; il precipitoso crollo dei troni italiani; la sua spedizione in Sicilia con i mille; il suo ingresso in Napoli, che costituì il momento più brillante di tutta la sua vita, fatti questi che somigliavano più ad una romanza normanna che alla verità storica; la violenta annessione delle Marche, della Romagna, dell'Umbria; l'Unità italiana; la convenzione di settembre; Firenze capitale; Garibaldi in nuovo contrasto col Governo, nella solitudine di Caprera; la catastrofe disperata di Aspromonte; prigionia e angosce a Varignano; di nuovo Caprera; la seconda insperata guerra d'Indipendenza, coll'aiuto della Prussia! Venezia libera, l'Italia libera, fino all'Adriatico; non rimaneva che Roma, per compiere la realizzazione del sogno di unità del secolo XIX.

Garibaldi rivedeva ora, dopo 18 anni, questa Roma; egli era al suo cospetto, alla testa di nuove schiere di volontari, avendo di nuovo concepito il disegno audace di conquistarla. Egli giustificava la sua illegale impresa attuale proprio con quella data: 1849, e si chiamava generale dei Romani, come altri si erano detti, un tempo, re dei Romani. Ma le condizioni erano del tutto mutate; diciotto anni prima egli difendeva Roma; ora l'assediava e aveva a combattere con quei Francesi che, 18 anni prima, aveva combattuto sotto le mura di Roma; ed anche questa volta essi erano sbarcati a Civitavecchia, per penetrare in Roma. Il medesimo Napoleone li mandava per difendere lo stesso Pio IX, e sotto la sua protezione viveva quel Francesco II, che egli aveva cacciato da Napoli. Degli uomini del '48 rimanevano ancora Pio IX, Napoleone, Garibaldi, Mazzini, tutti ancora alla testa delle varie tendenze e correnti dell'epoca. Altri erano morti, come Manin, Balbo, Gioberti, Cavour.

Il 28 ottobre, la flotta francese apparve in Civitavecchia; il mare agitato ritardò di alcune ore lo sbarco, il 29, ciò che impressionò molto il partito clericale.

Un proclama del comandante generale De Failly, che era stato preceduto in Roma dai generali Polhès e Dumont, fu affisso il 30 per le strade di Roma; esso era così concepito: «Romani! L'Imperatore Napoleone manda per la seconda volta in Roma un corpo di spedizione, per difendere il Santo Padre e il trono pontificio dagli attacchi delle bande rivoluzionarie. Voi ci conoscete da lungo tempo; noi compiamo soltanto una missione morale e disinteressata. Vi aiuteremo a ristabilire la tranquillità e la fiducia nella cittadinanza. I nostri soldati rispetteranno, come prima, le vostre persone, i vostri costumi, le vostre leggi.

«Civitavecchia, 29 ottobre.

«Il Comandante Generale

del Corpo di spedizione francese

De Failly».

Il proclama fu letto dagli uni con soddisfazione, dagli altri con muto sdegno.

Ecco l'ordine del giorno che Garibaldi emise quello stesso 29 ottobre a Santa Colomba, prima che avesse avuto notizia che i Francesi già erano sbarcati a Civitavecchia.

« Corpo dei volontarii italiani.

«Quartiere generale S. Colomba, 29 ottobre.

«Gli Americani lottarono per 14 anni per conquistare l'indipendenza, e per farsi il più libero e potente popolo della terra; i Greci lottarono 11 anni e più, e così tutte le nazioni, che vogliono redimersi a indipendenza e unità, e non piegare e cadere in quella prostrazione, a cui era stata condannata la patria nostra dalla preponderanza straniera. Il popolo italiano, dopo il sublime slancio del '48, in pochi mesi si esaurì, e il piccolo insuccesso di Custoza lo fe' retrocedere di molto sulla strada gloriosa.

«La battaglia di Novara terminò la disgrazia d'Italia, e senza le famose difese di Venezia e di Roma, la storia di quella guerra sarebbe stata più che triste per noi.

«Noi siamo impegnati in una lotta col più intollerabile di tutti i governi, mentre alle nostre spalle ne sta un altro, simile a quello. Intorno abbiamo la corruzione, la disonestà, la viltà. Mentre un governo sparge menzogne sul conto dell'altro, l'uno e l'altro cercano un pretesto per schiacciare questo manipolo di volontari, che sono gli araldi magnanimi della coscienza nazionale.

«Dal disordine della nostra organizzazione provennero dapprima conflitti, il ripetere dei quali sarebbe vergognoso, ed anche in questo io riconosco la mano del tradimento, che ci vuole distruggere.

«A queste schiere di volontari, che offrono al mondo un così nobile spettacolo e che già han costretto schiere mercenarie a venire dall'estero a Roma e a far saltare i ponti che vi conducono, conviene un contegno che sia degno della loro alta missione. Dolori, privazioni, pericoli saranno gradito tema dei vostri discorsi, quando ritornerete alle vostre famiglie; e alle vostre donne, o giovani, racconterete con fronte più fiera le eroiche imprese da voi compiute. Ed ora affrettiamoci all'impresa che speriamo propizia!»

I liberali avevano sperato che l'occupazione francese si dovesse limitare a Civitavecchia; ma s'ingannavano. Napoleone aveva ora trovato il coraggio di dichiararsi alleato dei gesuiti e salvatore del Papato. Il 30 ottobre nel pomeriggio, i primi battaglioni francesi entrarono in Roma al suono delle fanfare. Scesero dal Quirinale, circondati dai legittimisti e dai papalini, i quali erano andati loro incontro fino alla stazione ferroviaria, per festeggiare un trionfo da lungo tempo atteso. L'aspetto di queste truppe era fosco e punto famigliare, come quello di gente che entra in terra nemica e ne sente l'odio su di sè. Molta gente era per le vie, ma silenziosa. Non una voce si levò.

Il 30 ottobre 1867 fu un triste giorno nella storia d'Italia; esso segnò un profondo esaurimento morale ed un grande regresso. Non era ancora passato un anno, dacchè i Francesi erano stati costretti, dalle condizioni politiche e dalla logica delle opinioni e dei fatti, ad abbandonare Roma. Allora tutto il mondo si era rallegrato coll'Italia, perchè finalmente questo giorno era giunto, dopo secoli di aspirazioni e di sforzi, verso l'indipendenza dalla dominazione straniera. Anche questo era stato illusione. I Francesi erano di nuovo sbarcati nel paese, e la loro nuova occupazione sembrava dire al mondo che l'Italia, incapace a mantenere la sua libertà, era caduta di nuovo per la propria debolezza nel vassallaggio di un signore straniero.

L'amarezza, la vergogna, la disperazione dei patrioti non ebbero limiti. Si aspettava la notizia dello scoppio della rivoluzione a Firenze e della caduta di Vittorio Emanuele. Forse in questa crisi lo salvò la risoluzione presa dal governo di far passare anche all'esercito italiano i confini dello Stato Pontificio. Gli Italiani toccarono li 30 Acquapendente, poi Civita Castellana, Ceprano e Frosinone, dove ristabilivano gli stemmi papali e vicino inalberavano la bandiera tricolore. Questa fu l'unica dimostrazione contro l'invasione francese, che il governo italiano trovò la forza di compiere; ma giunse di lì a poco un ordine categorico da Parigi che ingiungeva agli Italiani di ripassare i confini.

X.

Dopo il ritorno dei Francesi il governo Pontificio mandò di nuovo le sue truppe ad occupare i varii luoghi della Provincia, dai quali erano stati chiamati per difendere la capitale, e il 30 ottobre il Generale de Courten stesso muoveva su Albano e Velletri, dove le bande di Nicotera avevano stabilito un governo provvisorio.

Si voleva poi assalire Garibaldi stesso con tutte le forze, sloggiarlo dalla sua forte posizione e ricacciarlo oltre i confini. Egli aveva raccolto intorno a Monte Rotondo e Mentana circa 8000 uomini. Là egli fu testimone degli avvenimenti che avvilirono la sua patria e costringevano lui stesso a ripiegarsi ritirandosi sulle truppe italiane e a deporre le armi o ad attaccare audacemente i Francesi, i Pontificii ed a soccombere.

La sua situazione era disperata e insostenibile. Egli aveva dovuto inasprire, chiedendo loro contribuzioni, i villaggi della Sabina, assai poveri e contrarî all'invasione, la quale non offriva loro alcun vantaggio, ma solo le conseguenze più tristi della rivoluzione; mentre con ciò egli non era nemmeno riuscito a diminuire l'asprezza delle condizioni e la deplorevole miseria delle sue schiere affamate. Si commisero anche eccessi, in Monte Rotondo stesso. Per dare un esempio, Garibaldi fece fucilare due volontarî. Il popolo delle campagne aveva per lui poca simpatia, e riusciva difficile avere notizie e informazioni. Le sue truppe non erano dunque al caso di sostenere un serio urto coll'esercito pontificio disciplinato e bene armato, spalleggiato dalle truppe francesi. Avevano poi avuto tempo di riaversi dalle fatiche della guardia in Roma, ed erano fresche e riposate.

Le speranze e i disegni di Garibaldi si dileguavano. Un uomo di così violente passioni che non poteva ammettere separazione fra l'idea e l'atto, aveva potuto sperare d'impadronirsi di Roma, finchè; soltanto le truppe pontificie la difendessero ma dopo la venuta dei Francesi, la più audace fantasia doveva arrestarsi. L'intervento francese e il passaggio dei confini da parte dell'esercito italiano sottraevano ormai a lui ogni terreno per un'ulteriore azione extralegale. Egli vide in questi fatti un piano concertato di reazione, e se ne giudicò vittima. Prima si eran serviti di lui, ora volevano schiacciarlo. Il proclama del Re e di Menabrea gli mostrava che egli dovea aspettarsi un secondo Aspromonte. Messi da Firenze gli portavano la recisa intimazione di deporre le armi e rientrare nello Stato. Egli ricusò, e il primo novembre pubblicò quest'ordine del giorno:

«Il governo di Firenze ha lasciato occupare il dominio Romano che noi avevamo a prezzo di sangue prezioso conquistato, sottratto ai nemici d'Italia. Noi dobbiamo accogliere i nostri fratelli dell'esercito coll'abituale cordialità, ed aiutarli a cacciare da Roma i soldati stranieri che sorreggono la tirannia. Se poi delle vergognose trattative, continuazione della vile convenzione di settembre, possono tanto oltre dare autorità al gesuitismo e alla sporca Consorteria, da costringerci a deporre le armi in omaggio ed ubbidienza al 2 dicembre, allora potrò ricordare al mondo che io, generale romano, creato con pieni poteri dall'unico legittimo governo della Repubblica Romana, per elezione all'unanimità, io solo ho qui il diritto a difendermi colle armi sul terreno della mia giurisdizione; e che se questi miei volontarî, campioni della libertà e dell'unità d'Italia, chiedono Roma capitale d'Italia, fedeli al voto del Parlamento e della Nazione, essi non deporranno le armi che quando la patria sarà compiuta, la libertà di coscienza e di culto sollevata sulle rovine del Necromantismo, e i mercenarî dei tiranni fuor dei confini».

Garibaldi, trovandosi fra i due eserciti nemici, si sarebbe potuto ritirare, come si sperava, su Corese, per lì deporre le armi prima di essere attaccato dai Francesi e dai Pontificî. Si dice che, infine a un certo momento, volesse prender veramente questo partito. Ma perchè voler portare le sue truppe obbliquamente verso l'Appennino, e non direttamente su Corese, dove la strada non passa per Mentana? Si deve credere che egli volesse recarsi in una località qualsiasi del Regno per aspettarvi gli eventi, o forse anche tentar di trascinarsi dietro la nazione, sebbene il ricordo di Aspromonte dovesse ammonirlo della inverosimiglianza d'un buon successo. Effettivamente notizie di fonte italiana spiegano che Garibaldi aveva concepito il piano di ritrarsi coi suoi 8000 su Tivoli, di riunirsi là colle bande di Nicotera e di Orsini, e di gettarsi negli Abruzzi. Dicono che con questo intendimento la notte del 2 novembre egli die' l'ordine di marciare su Tivoli per Mentana. E' da notarsi che una parte dei volontari già si era diretta su Corese,—verosimilmente coloro non più atti a combattere,—per raggiungere di là la patria. In opposizione con questa versione che è quella degli ufficiali garibaldini Fabrizi, Mario, Missori, Menotti ed altri, abbiamo quella del partito francese di Roma che afferma che le forti posizioni, nelle quali furono assaliti i Garibaldini il 3 novembre, Monte Rotondo e Mentana, provano che essi non furono sorpresi nella ritirata, ma che aspettavano là il nemico.

La versione italiana fu anche confermata dalle notizie del Ministero della Guerra Romano, il quale afferma che, mentre i Garibaldini volevano operare a Tivoli il loro congiungimento, furono attaccati. Garibaldi poi confermò egli stesso questa versione.

Egli non cercò dunque la battaglia, ma vi fu costretto; è ingiusto dunque il rimprovero che gli è stato fatto di aver voluto porre in giuoco senza scopo a Mentana il sangue dei suoi soldati; e lo stesso si dica dell'accusa di aver voluto con quella battaglia far scoppiare una guerra fra l'Italia e la Francia; egli non aveva evidentemente alcun sentore il 3 novembre che i Francesi dovessero sostenere i Pontifici nell'attacco imminente. E' certo anche che, se egli si è voluto affermare forza indipendente e superiore alla nazione, ha in parte implicitamente reso possibile, e non voluto evitare, lo scontro.

All'atto del 3 novembre i Pontificî erano usciti da Roma in numero di 3000 al comando del generale Kanzler, seguiti dalla brigata francese Polhès, forte di 2000 uomini, per impadronirsi di Monterotondo e cacciarne le schiere volontarie. Garibaldi doveva prender questo. Verso mezzogiorno i Pontifici attaccarono, presso Mentana, gli avamposti di Garibaldi (I Francesi erano per la riserva). La sorpresa dei volontari, ai quali venne assai tardiva la notizia dell'avvicinarsi del nemico, e che si trovavano in marcia per Tivoli, fu grande. Essi non sapevano nemmeno dell'esistenza di truppe francesi nei dintorni. Il combattimento s'impegnò con uguale furore delle due parti. Due grandi principî del mondo presente lottarono quel giorno, nemici mortali; da un lato il capo della rivoluzione nazionale e della democrazia, alla testa delle sue schiere volontarie composte anche di patriotti di antiche stirpi; dall'altro lato il difensore del potere temporale dei Papi, con soldati volontari delle più cattoliche regioni d'Europa, molti dei quali animati da zelo ardente di crociati, pieni di odio contro l'Italia e la rivoluzione; figli questi in gran parte di antiche case legittimiste di Francia, del Belgio e della Polonia.

Le proporzioni del fatto d'armi di Mentana avrebbero potuto in altri tempi valergli il nome di battaglia; ma ora esso ci sembra di non grande entità numerica, se pensiamo ai colossali movimenti di truppa di altre battaglie contemporanee. Nondimeno questo combattimento avrà per due ragioni significato importante nella storia. Primo, perchè in esso ci trovarono di fronte due tendenze, due principî, due forze nettamente opposte dell'epoca nostra; secondo perchè chiuse tutto un periodo della Storia d'Italia e del papato temporale.

I volontari, male armati, indeboliti dalla fame e dal freddo—alcuni eran ragazzi di 15 o 17 anni—si batterono con eroico valore, colla picca, la spada, la baionetta; ma furono sloggiati dalle loro posizioni dal reggimento di Zuavi. Si gettarono sotto le mura della Vigna Santucci di fronte a Mentana, ed anche di lì dovettero ritrarsi. I cannoni pontificii e francesi, portati lassù batterono allora furiosamente le mura del Castello, mentre i due cannoni di Garibaldi, predati a Monterotondo, esaurirono dopo 50 o 60 colpi le loro munizioni. In queste condizioni i volontari fecero uno sforzo disperato per prendere ai lati il nemico con due forti colonne, tentativo che riuscì, e verso le due e mezzo del pomeriggio le truppe pontificie si videro a mal partito, e nel combattimento si sarebbero evidentemente cambiate le sorti, se il generale romano non avesse chiamato a soccorso la brigata francese. Anche se il loro appoggio fosse stato inutile, si sarebbe voluto mostrare che i Francesi c'erano ed aiutavano validamente i papalini. Essi avanzarono e coprirono i Garibaldini di una fitta pioggia di proiettili dei loro chassepots.

Il generale francese stesso scrivendo poi al Ministero della Guerra, diceva les chassepots ont fait merveille., frase supremamente inopportuna, anzi indelicata e villana, che l'Italia non dimenticherà più. I volontari furono sopraffatti; e dapprima essi non credettero francesi i nuovi assalitori, ma legionari d'Antibo; tanto era lungi da loro il pensiero che Napoleone permettesse ai suoi soldati di spargere sangue italiano. Ma quando si sparse la voce che i Francesi stessi attaccavano, i volontari gettarono le armi e si dispersero in fuga. Solo un battaglione s'indugiò a difendere le case, le barricate e il castello baronale di Mentana. Così esso protesse la ritirata che Garibaldi aveva cominciato su Monterotondo. I Pontificii e i Francesi non poterono penetrare nella forte posizione. La notte lo circondarono, per rinnovare l'attacco il mattino seguente, ma alle 5 fu inalberata bandiera bianca: un capitano garibaldino chiese, parlamentando col colonnello francese del 59^o linea, libera uscita con armi e bagagli; fu accordata libera uscita, ma senza armi e bagagli. Una compagnia francese doveva condurre la guarnigione di Mentana, prigioniera di guerra, a Corese, e consegnarla alle truppe italiane. Così la lotta non fu in alcun modo disonorevole. I vincitori stessi dovettero riconoscere il valore mostrato dai vinti.

Garibaldi stesso, che durante il combattimento non si era mostrato nelle prime file, ma aveva dovuto dare i comandi seduto in carrozza, si era già ritirato con due migliaia circa di soldati, quando fu dato l'assalto a Mentana.

Secondo dice Crispi, testimone oculare, la sera del 3 novembre Garibaldi giunse al ponte di Corese con 5000 nomini, se pure questa cifra è esatta. Là depose le armi, e il giorno seguente, per ordine superiore, fu incarcerato a Figline presso Arezzo. Quando le truppe pontificie ed imperiali la mattina del 4 mossero verso Monterotondo, trovarono che il luogo era stato sgombrato. Le perdite di Garibaldi furono grandi; 1000 uomini giacevano morti o feriti; circa 1400 prigionieri. Le perdite francesi non ammontarono, secondo i rapporti ufficiali, che a 2 morti e 36 feriti, quelle dei pontifici a 30 morti e 103 feriti.

La notizia della disfatta e della ritirata di Garibaldi giunse a Roma la sera del 3, e si sparse il mattino seguente. Essa provocò un'eccitazione di diverse nature. I nazionali fremevano al pensiero che i Francesi, alleati dell'Italia, avevan preso parte alla lotta come gendarmi del Papa, avevan tirato agl'Italiani come su bestie feroci, ed avevan esperimentato le qualità dei loro chassepots sui volontari quasi inermi. Li commoveva il pensiero che l'esercito regolare del Re, a poche miglia da Mentana, doveva essere stato testimone della battaglia, le armi al piede. Essi non sapevano per quale delle due nazioni dovesse ritenersi più vergognoso questo fatto d'armi, per l'Italia o per la Francia. Nella storia di Francia, la meraviglia di Mentana, sarebbe certamente rimasta, tragico capitolo della Gesta clericorum per Francos.

La via Nomentana offriva il 4 novembre un aspetto singolare. Centinaia di carrozze erano state portate nella notte, per la ricerca dei feriti. Questi già dal mattino avevano cominciato a venire a gruppi o alla spicciolata, tristissimo spettacolo, e fra loro erano anche delle piccole schiere vacillanti di feriti più leggeri, a piedi o a cavallo. Molti e molti Romani movevano loro incontro. Non dimenticherò mai l'aspetto di due garibaldini giacenti su un carretto che procedeva lentamente, non so se morenti o già morti. I loro volti già anneriti dalla morte sembravano ancora contrarsi nell'ultimo spasimo di dolore e di rabbia.

Verso mezzodì arrivò il primo gruppo di prigionieri, circa 400, scortato da papalini e da francesi. Essi camminavano disinvolti, con ostentata tranquillità. Uno dei loro ufficiali, un bel giovane dalla camicia rossa, camminava altero innanzi a loro. Il popolo se lo additava dicendo che era Menotti Garibaldi; ma sembra che non fosse vero. Quegli uomini erano giunti finalmente alla tanto sospirata Roma, ma in altre condizioni da quelle che avevano sognato; essi passarono attraverso la folla silenziosa fino alla prigione sul Quirinale.

Erano quasi tutti laceri o mal vestiti; pochissimi indossavano la camicia rossa; fra di essi ve ne erano molti straordinariamente giovani. Il loro aspetto diceva una odissea di privazioni e di dolori; su alcuni pallidi volti si leggeva ancora: Roma o Morte! Facevano un effetto di profonda commozione, che non avrebbero fatto se fossero stati bene armati e ben vestiti.

Io vidi il secondo gruppo di prigionieri, di 600 uomini, passare il Ponte Nomentano sull'Aniene. Essi sembravano in migliori condizioni dei primi. La maggior parte portavano la camicia rossa e il berretto rosso; alcuni avevan su questo delle penne; tutta la strada era illuminata da questi colori. Vi eran fra loro anche degli uomini maturi, dai capelli grigi, nell'uniforme della Guardia Nazionale Italiana. I capitani portavano ancora la spada, prova questa che avevano capitolato onorevolmente. Essi tacevano tutti; molti guardavano timidamente la folla che era venuta loro incontro da Roma. Un segnale dato dal corno avvisò che era giunto il momento del riposo; i soldati di scorta si stesero entro i fossati; dei prigionieri, la maggior parte rimase in piedi sulla via; alcuni si gettarono sulla nuda terra di Roma; altri si accomodarono a fianco dei papalini, i quali li lasciarono fare in silenzio; tutta la scena rappresentava un singolare quadro storico sul pittoresco paesaggio dell'Aniene, presso il vetusto e turrito ponte memore di Belisario. Su di esso stanno incise le armi di quel notevolissimo pontefice che fu Nicolò V, contro il governo del quale congiurò Stefano Porcari, per morire poi in Castel S. Angelo, per mano del carnefice. L'oro diffuso e luminoso del sole irradiava la solenne campagna, nel cui sfondo già biancheggiavan di neve le maestose vette dell'Abruzzo.

La marcia verso Roma di questi figli d'Italia destinati al carcere di Castel S. Angelo mi riportava il pensiero alle memorie della prima fanciullezza, quando io vidi a migliaia i vinti difensori della Polonia, dell'esercito di Gielgrid, passare prigionieri il confine, accompagnati dalle truppe prussiane.

Dinanzi al mio sguardo si presentavano di nuovo tutte le tragiche lotte dai popoli combattute su questo grande territorio di Roma, i secoli barbari del Medio Evo passati su questa città, la cui storia io già scrivevo da anni e ancora scrivo; e mi prese un'infinita tristezza quando tornai a considerare tutti quei prigionieri di guerra incamminati per Roma.

XI.

Cinque giorni dopo la battaglia io mi recai a Mentana con alcuni amici romani per visitarla. Fu una passeggiata incantevole attraverso la tranquilla campagna, sotto il sole puro e il cielo nitido di novembre. La via Nomentana era animata soltanto da gruppi di soldati. Sull'Aniene erano ancora attendate le vedette francesi. Passavano ancora carrozze che trasportavano feriti.

Antiche tombe romane in rovina sorgono nei campi che si attraversano, dove, secondo l'uso remotissimo dei padri, i pastori abruzzesi portano a pascolare le loro greggi. I belati delle pecore e le note tenui delle zampogne dei pastori riempiono l'aria di lamento e il cuore del viandante di mistero, sentimento che resta perennemente in ognuno che abbia attraversato quella sacra località.

Qua e là si erge una torre baronale diroccata, sulla cima di un verde colle, che rammenta l'epoca feudale, quando Roma era ancora una repubblica e il papa non era in essa padrone assoluto. Raramente si incontra qualche solitario casale adibito in parte ad osteria, con una torre medioevale a lato ed una cappella rustica. Ve ne è una ad otto miglia da Roma, detta Capo Bianco, che serve anche da taverna, ed ha sulla porta un boschetto di verdi lauri. Non era visibile un essere vivente; tutto sembrava morto, intorno. Il conte L. vi aveva mandato dei cavalli di ricambio, per poter proseguire il viaggio rapidamente.

Una strana e profonda gravità invase tutta la comitiva quando ci cominciammo ad avvicinare ai sanguinosi campi di Mentana. Io ricordavo la sublime ode del Petrarca:

Italia mia, benchè il parlar sia indarno...
Che fan qui tante peregrine spade?

Donna E. diceva i versi del nobile Leopardi:

Piangi, che ben n'hai d'onde, Italia mia...

Così una medesima querela discende da Dante e da Petrarca fino a Leopardi e ai dì nostri; quando potrà essa alfine cessare?

Da Capo Bianco ci avanziamo sui pendii dolci dei colli. Il paesaggio Sabino si spiega dinanzi agli occhi come un gran panorama di montagne di alto stile, verso cui sale una maestosa distesa di campi, di colore violetto nella lontananza, sulla quale si può seguire collo sguardo il volo delle aquile del Lazio. Si erge lì presso la possente piramide di Monte Gennaro sopra Tivoli; a destra i monti Prenestini, i monti Volsci, e le belle alture di Frascati, tutto soffuso di un tenue color di giacinto e piene d'una maestà placida e classica.

Qua e là sulla strada si trovano resti dell'antico lastricato della via Nomentana, in ben connessi poligoni di basalto. A dieci miglia da Roma si trova a sinistra su un colle una solitaria torre guelfa senza edifici adiacenti, costruita parte in peperino nero, parte in mattoni rossi, che è una proprietà della regione.

A destra sorge Monte Gentile, un casale di bell'aspetto, con torre, già castello degli Orsini, come lo mostra il nome assai frequente in quella famiglia; nel XV secolo, Capocci e Stefaneschi lo distrussero e lo abbandonarono. Nulla di più attraente di questi turriti casali romani, perduti nella melanconia di questa deserta e grandiosa campagna, così singolari e così classici, di cui Walter Scott si sarebbe certo innamorato.

Superando un'altura, si giunge al bosco di Mentana, un bosco di quercie tedesche, che qui sono rimaste nane. Già in questo luogo, e poi per tutta la strada fino al paese, noi vedemmo, per i fossi e i cespugli, una quantità straordinaria di cartuccie. Queste, e degli alberi abbattuti, erano l'unica traccia del combattimento, perchè i morti già erano stati seppelliti, ed i feriti ricoverati negli ospedali.

Mentana appare dietro questa boscaglia; prima la Vigna Santucci colle sue mura bianche, dove si combattè così aspramente; poi una cappella sulla strada, ancora piena di paglia, sulla quale più di un ferito trovò la morte. Il palazzo baronale degli Orsini sorge nello sfondo, simile ad una fortezza, con torri e merli, sul pendìo verde d'un colle, solitario e fiero come un ricovero di briganti; il paese è ancora nascosto da piccole alture. In basso la valle è fosca, circondata da colli sparsi qua e là di olivi e vigneti; ma tutto ha un aspetto selvaggio, sinistro ma, pittoresco.

Una strada conduce su per uno sperone di rupi giallastre. Ora si vede il paese, una fila di case senza interesse, simile ai castelli dei monti Sabini, che spirano tanta miseria e desolazione; si direbbero dipendenze del castello feudale, che una volta il signore vi ha annesso per comodo proprio, e dato ai suoi vassalli per abitazione. Dinanzi al palazzo sta la chiesa gentilizia. Essa era aperta e già riconsacrata e molti feriti vi erano morti; fra gli altri, un belga che era venuto a Roma e si era arruolato fra gli zuavi pochi giorni prima la battaglia. Una palla gli aveva spaccato il cranio; diciassette ferite gli avevano trapassato il corpo. Su un pezzo di carta, trovato presso di lui, stava scritto: le comte d'Erb, fils du duque d'Erb.

Dalla porta della Chiesa si accede al piazzale di fronte al castello, dove si vede una colonna senza capitello, intorno alla quale giacciono delle bisaccie militari. Qua e là, rovine marmoree dell'antico Nomentum. Sulla parete esterna della chiesa una statua mutilata che il popolo chiama San Giorgio. Il castello era pieno di soldati francesi, i quali si esercitavano coi loro fucili ad ago, che vantavano tanto, affermando che senza di quelli i Pontificii non avrebbero mai preso Mentana.

Entrammo nel castello che rivela parecchie epoche architettoniche. La parte più antica, formata dalle torri rotonde, mostra la maniera di costruzione del secolo XIII, che a Roma chiamano saraceno; cioè, queste torri son fatte di frammenti di peperino e di altri varî materiali di riempimento, fra cui pezzi di marmo. La parte anteriore del castello è invece assai più recente, ed ha finestre in stile rinascimento. I merli sono mezzo rovinati, alcuni furono fracassati dalle palle di cannone. In complesso, l'edificio appare come un castello baronale del medio evo, di prim'ordine. Sul portale stan le armi di Sisto V, o meglio di suo nipote Michele Peretti, al quale gli Orsini avevano venduto Mentana. Sulla porta giacevano ancora resti di fucili garibaldini, che gli assediati avevano spezzati, secondo l'uso guerresco, prima di capitolare.

Nell'interno, scale in rovina e stanze colle pareti squarciate dalle bombe. Nel cortile del castello le guardie francesi offrivano un pittoresco colpo d'occhio; stavano preparando il pranzo, tutte affaccendate intorno ad un fuoco che attizzavano con le bacchette dei fucili garibaldini. Ci furono portate delle palle di fucile, che avremmo facilmente potuto raccogliere per terra, di forma conica, di armi rigate o di chassepot; raramente se ne trovavano di quelle solite rotonde dei fucili garibaldini. Noi visitammo il piccolo solitario paese. I suoi abitanti erano rimasti per 15 ore nascosti nelle cantine, in preda allo spavento, mentre le palle rimbalzavano come grandine sui tetti. Vi fu un'eccezione; in una casa, una bomba aveva squarciato la parete di una stanza: ebbene, vi furono trovati donne e bambini tranquillamente seduti, come se nulla fosse accaduto. Ci fu detto che i garibaldini avevano occupato il borgo per otto giorni. Una donna ci raccontò che fra di essi vi erano dei signori simpatici, che pagavano quello che chiedevano, e aggiunse che un capitano aveva pagato un pollo 25 soldi, del che era rimasta molto soddisfatta. Altri non avevano potuto pagare nulla davvero, perchè non possedevano un soldo in tasca.

Noi riandammo col pensiero le vicende storiche di questo paesetto Sabino, che era pur ora tornato ad avere una parte nella storia non indipendente da quella che un tempo vi aveva avuta; ricordammo che già una volta i Franchi vi erano venuti per salvare un papa minacciato ed il suo potere temporale; che questo salvatore era stato Carlomagno. La località stessa dava agio di ricostruirne la storia.

Nell'antichità si era chiamata Nomentum. Da questo ebbe nome la strada, Nomentana, la quale però non apparteneva alle grandi strade romane, perchè presso Ereto, sotto Nomentum, si congiungeva alla Via Salara, presso l'attuale Monterotondo.

Più antica di Roma medesima, contemporanea di Fidene e di Crustumeria, i Romani la ritenevano come una delle colonie del re Latino Silvio di Albalonga, il quale certo conquistò quella regione sabina. Prese parte all'alleanza dei Latini contro Roma, in favore dei Tarquinii scacciati. Dopo la battaglia al lago Regillo, che stabilì l'egemonia della Repubblica Romana sul Lazio, Nomentum divenne un municipio romano. Questa città Sabina era però troppo piccola per potere avere una parte importante nella storia di Roma. È noto che Ovidio, Seneca e Marziale avevano possessi nel suo territorio. L'aria vi era salubre, il vino buono, e nelle vicinanze si trovavano sorgenti termali.

Nell'epoca cristiana dell'Impero germanico, Nomentum divenne presto un vescovado; lì presso, erano gli altri vescovadi di Fidene, oggi Castel Giubileo, Cures, e Forum Novum, che sussiste ancora. La serie dei vescovi nomentani va dal 415 al 964, nel quale anno si sospese la nomina dei vescovi, il che prova che la città era del tutto decaduta. Essa si era conservata, del resto, per ignote ragioni, più a lungo delle altre antiche città delle immediate vicinanze di Roma, le quali, al tempo delle invasioni barbariche, scomparvero. Eretum Crostumeria, Fidene, Gabii, Ficulea, Antemna sono sparite senza lasciar traccie. Anche l'antica famosa Cures, patria di Numa, decadde al tempo dei Longobardi, e vive ancora solo nel nome di Correse.

Nomentana esisteva ancora nell'anno 800 col suo nome antico, sebbene già fosse radicalmente cambiata; il 23 novembre di quell'anno Carlomagno, ch'era diretto a Roma per farsi incoronare in San Pietro, vi si fermò. La sua dimora in quel luogo, nello stesso mese di novembre, nel quale 1067 anni dopo delle bande di volontarii italiani tentavano di abbattere il dominio pontificio, che Carlomagno aveva fondato, ci sembra un fatto abbastanza strano e notevole.

La lotta degl'Italiani e dei Romani contro il potere temporale dei Papi cominciò già in quel tempo, poichè quel potere temporale era stato stabilito per il primo intervento di Pipino in Italia a favore della città di Roma, minacciata dai Longobardi. La storia dell'umanità non offre esempi di un'altra lotta di così lunga durata intorno ad un unico ed inalterato principio.

La ragione del viaggio di Carlomagno a Roma era la seguente. Papa Leone III, successore di Adriano, era stato, in seguito ad una congiura di nobili romani, fra i quali i nipoti stessi di Adriano primeggiavano, cacciato da Roma, dopo un tentativo di ucciderlo. Era fuggito prima a Spoleto, e di là si era ritirato a Paderborn. Il gran monarca rimandò anzitutto il fuggiasco con ambasciatori franchi a Roma, dove gli aristocratici, che si erano impadroniti del governo, non opposero alcun ostacolo al suo ritorno: ma, spaventati per l'imminente intervento, si sottoposero al processo e al giudizio di questi plenipotenziarii. Essi decisero in favore del Papa, ma i ribelli condannati si appellarono a Carlo, e questi venne solo un anno dopo, come aveva promesso a Leone, per tenere in Roma il suo tribunale, che il Papa, suo sottoposto in ogni questione temporale, ugualmente riconobbe.

Carlo calò col suo esercito nella Sabina, e sostò a Mentana per venire a Roma, non per la via Salara, ma per la Nomentana.

Questo prova solo che quel luogo aveva anche allora molta importanza perchè era la sola sede episcopale della regione Sabina. Da ciò si può dedurre che Monterotondo che dista solo mezz'ora da Mentana, ed è molto più grande e più abitabile di quella, nell'ottocento non esisteva ancora. Veramente si era creduto di riconoscere in Monterotondo l'antica Eretum; ma il Nibby si è pronunziato, con seri buoni argomenti, contro questa opinione, ed ha provato che quella località ha avuto origine soltanto nel più tardo medio evo. La Sabina formava originariamente una parte del ducato di Spoleto; Carlomagno l'aveva regalata al Papa, e solo molto più tardi la trasse in suo potere. Ma molto relativa era questa sua potenza sul territorio sabino prossimo a Roma. Tutta la regione era stata spaventosamente devastata, nel IV secolo, dall'invasione dei Longobardi: le sue città erano già quasi tutte decadute; nell'ottavo e nono secolo i documenti delle diocesi dimostrano che esse non erano più città, ma borghi.

Leone III era andato solennemente incontro a Carlo a Nomentum con i maggiori dignitarii della chiesa, una parte della nobiltà e della milizia cittadina e molto popolo. Carlo giunse a Nomentum il 23 novembre 800. Egli pranzò col Papa, dopo di che questi tornò a Roma per preparare il solenne ricevimento del monarca in S. Pietro, per il giorno seguente, mentre Carlo pernottò nel paese. In qual palazzo fece Carlo il suo pranzo col Papa, e dove passò la notte?

Nomentum era, mille anni fa, certamente più popolata di ora; e se l'antica città si trovava nella stessa ubicazione, in cui si trova oggi la miserabile fila di case presso al castello degli Orsini, essa poteva offrire, in piccolo, l'aspetto di tutte le altre città di quel tempo: rovine dell'antichità, tempi distrutti o trasformati ad altro culto, e palazzi di antica signoria, a fianco di tugurî abitati da una nuova generazione.

A Nomentum non risiedeva un conte; forse un tribuno, per analogia con altre città, vi aveva giurisdizione, se il paese però—cosa di cui dubito—era ancora abbastanza grande da essere sede di un tribuno. Non ci erano ancora stirpi baronali, nel senso del medio evo più vicino a noi. Soltanto 150 anni dopo si trova in Nomentum la stirpe dei Crescenzi, ricca e perciò dominante. Perciò indubbiamente abitò Carlo nella curia vescovile, la residenza, certo molto patriarcale, del vescovo di Mentana.

Fu dunque di là che il più grande dominatore dell'Occidente scese a Roma, il 24 novembre 800, e fu là che egli sostò prima di recarsi all'incoronazione. Un mese dopo Leone III lo incoronava appunto re dei Romani.

Il rinnovamento dell'Impero d'Occidente nella Dinastia Franca, a parte altre ragioni più generali ed elevate, era divenuto necessario per i Papi anche per questo, che esso dava loro il modo di mantenere il loro dominio temporale su Roma e sulle provincie. Poichè, senza la protezione dell'autorità imperiale, senza la sicurezza di un sempre pronto intervento franco, i Papi non avrebbero potuto affermare la loro signoria sulla regione romana. Questo fatto si era già allora manifestato palesemente, ma la storia posteriore del Dominium temporale non fece che offrirne nuove prove irrefragabili.

Nel secolo decimo questo dominio fu minacciato da un grande pericolo: quello della nobile casa dei Crescenzi, la quale appunto aveva in Mentana grande autorità. Essa apparisce, per la prima volta, nel 901, e, da quell'anno, si trovano molti Crescenzi fra i più ragguardevoli signori della città. Che questa casa già possedesse terre in Sabina, è mostrato dal fatto che un Crescenzio, nel 967, fu conte e rettore della provincia Sabina per incarico del Papa.

Nel 974, Crescenzio de Teodora si impadronisce del potere a Roma, e più tardi suo figlio Giovanni Crescenzio è a capo del partito nazionale romano. La sua storia forma un noto episodio del regno di Ottone III. I cronisti chiamano questo Crescenzio Nomentano. La sua famiglia che risiedeva quasi tutta nella Sabina e presso Farfa in particolare, si doveva quindi trovare in possesso di quel luogo, e Giovanni Crescenzio o era nato ei pure nei possedimenti de' suoi padri, o Nomentum era toccata particolarmente a lui per eredità. Proprio in quell'epoca sembra che venisse soppresso tale vescovado; e siccome si sa che l'ultimo vescovo fu un tal Giovanni, si può supporre che, essendo questo nome abituale nella famiglia dei Crescenzi, anche l'ultimo vescovo di Nomentum fosse un membro di quella famiglia. In quel tempo vi erano già dei conti ereditarî nel territorio pontificio. Perciò già nel 980 Giovanni Crescenzio poteva essere conte di Nomentum e avervi posseduto la sua fortezza, nello stesso luogo dove poi sorse il castello degli Orsini, che ancora vi sorge.

Nel 985, Crescenzio prese il titolo di patrizio romano e governò la città di Roma come suo capo temporale, durante la minorità di Ottone III. La sua potenza venne meno, quando Ottone, nel 996, venne a Roma per ricevere la corona imperiale dalle mani di Gregorio V, il primo Papa tedesco che egli stesso aveva innalzato a quella dignità. Crescenzio, condannato a morte come ribelle, prestò giuramento di fedeltà al giovane imperatore, e fu graziato. Ma Ottone se ne era appena andato, che l'astuto romano infranse il giuramento, cacciò il Papa tedesco e s'impadronì dei diritti imperiali. In questa usurpazione lo appoggiarono i suoi parenti di Sabina, il conte Benedetto e i suoi figli Giovanni e Crescenzio. L'usurpatore trovò una misera fine, quando Ottone III ebbe ricondotto in Roma il Papa con buon nerbo di soldatesche. Crescenzio si difese eroicamente in Castel Sant'Angelo, finchè si dovette arrendere. Fu decapitato, il suo corpo fu gettato dai merli di Castel Sant'Angelo e poi appiccato a una forca su Monte Mario. Per dei secoli Castel Sant'Angelo si chiamò la torre di Crescenzio.

Dopo la morte di Ottone III, i Romani crearono patrizio romano suo figlio Giovanni, potere che egli tenne fino al 1012, anno in cui morì. D'allora in poi, la famiglia dei Crescenzi si continuò in Sabina e a Roma, ma senza assurgere più a grande importanza. Il potere patrizio passò invece, dopo il 1012, ai conti di Tuscolo, i quali seppero farsi arbitri del potere temporale del Pontefice e della stessa Santa Sede.

Così nella storia dello Stato pontificio Nomentum è classica per essere stata sede di una antichissima stirpe ribelle al potere dei Papi. Era ciò noto all'ultimo discendente dei Crescenzi, che il 3 novembre 1867 lottò con i pontificii e cadde sul colle di Mentana, in difesa della Santa Sede?

Dopo il periodo dei Crescenzi, si parla raramente di Nomentum nei documenti della storia di Roma; esso è chiamato Castrum Nomentane, donde il nome Mentana o La Mentana. Già il mutamento di civitas in castrum, per designarlo, come si legge nelle bolle papali del secolo XIII, dice che quella città era decaduta tanto da non esser più che uno smantellato villaggio. Essa appartenne ai monaci di San Paolo, che la tramandarono nel secolo XII alla potente casa dei Capocci, finchè Nicolò III, della casa Orsini, diede Mentana al suo nipote Orso. Gli Orsini nel secolo XIII s'impossessarono di molte località sabine. Essi possedettero anche il vicino Monterotondo, Monte Gentile e Nerola. Costruirono a Nomentum il castello, l'attuale fortezza, verosimilmente sulle fondamenta dell'antica rocca, e vi rimasero più di tre secoli; poi, nell'anno 1595, la vendettero ad un nipote di Sisto V, Michele Peretti, principe di Venafro. Più tardi, divenne proprietà dei Borghese che la posseggono ancora.

XII.

Da Mentana si giunge in meno di mezz'ora per una strada assai buona fra cespugli e vigneti a Monterotondo. Il grande castello baronale, una volta degli Orsini ed ora appartenente al Principe di Piombino, è un edifizio imponente e bello, con una torre grandiosa, e sorge, in cima al paese che quasi nasconde. Era pieno di soldati francesi. Nel cortile giacevano più di mille fucili garibaldini, accatastati in disordine; cattive armi a percussore, forse della Guardia Nazionale, mucchi di baionette, guaine di sciabole, bacchette si vedevano sparse sul terreno. Erano state raccolte a Monterotondo e sulle strade vicine.

Fui condotto nella casa dove Garibaldi aveva abitato; questa si trovava nella piazza inferiore, non lungi dal Duomo. Qui egli aveva due camerette al piano superiore. Sul suo letto, coperto con una coperta gialla, era appesa una sacra immagine e un vasetto di cristallo coll'acqua benedetta, del quale egli si serviva tanto come dello specchio che stava nel canterano. Ora questa stanza è abitata da un capitano francese.

Vedemmo anche il Duomo, Santa Maddalena, dove si erano acquartierati i volontarii. Sugli altari si vedevano ancora ornamenti di chiesa infranti, vesti ecclesiastiche in brandelli, crocifissi e ceri spezzati. Nella sacrestia tutto era sossopra: gli armadi sforzati, i messali e i registri lacerati e sparsi a terra. Una donna che ci condusse là dentro, additò, con segni di spavento, il Tabernacolo dell'altare maggiore, dal quale era sparito il calice. Ci fu parlato di altre profanazioni, che non crediamo opportuno riferire; qualche cosa di simile al Sacco di Roma del Borbone. Furon veduti due volontarî far la guardia sulla porta, avendo uno una mitra in testa, l'altro un pastorale in mano. Questi volontarî seppellivano i loro morti alla rinfusa, nelle chiese stesse; gli ufficiali li calavano nelle tombe, avvolti in paramenti di broccato e d'oro.

A Monte Rotondo era più visibile che a Mentana il pauroso eccitamento dei paesi devastati dalla guerra; questa infatti ha solo 500 abitanti appena; quello 1300. Il popolo non era favorevole ai garibaldini: «L'invasione ci ha rovinato», ci assicurava un impiegato al Municipio, facendo grandi gesti e parlando con forza di tutte le imposte in denaro, foraggio, cavalli, esatte da Garibaldi, imposte che talora alcuni suoi indegni sottoposti prendevano senz'altro per sè.

La piccola città è situata, alta e forte, sul dorso di un'altura, dalla quale si gode una veduta bellissima dei monti sabini, fino a Monte Gennaro. Si vede Tivoli, Sant'Angelo e Monticelli, molto vicini; più lontano, la bianca Palombara, Montelibretti ed anche Nerola, e in mezzo ai monti l'abbazia benedettina della Farfa, che in tempi remoti fu distrutta dai longobardi di Spoleto, e poi ricostruita grandiosamente. Verso nord, la campagna è dominata dal dentato Soratte, ai cui piedi il Tevere serpeggia, uscendo dall'Umbria, per continuare il tortuoso cammino fino a Roma, accompagnato sulle due rive da due strade romane, la Flaminia e la Salara. Di Roma, a così grande distanza, si vedono ancora, come linee appena percettibili, le torri di Santa Maria Maggiore e del Laterano; ma la cupola di S. Pietro domina intera e piena, la solenne campagna, come una sfera oscura. Quando i pellegrini che vengono dall'Oriente per questa strada, sono giunti in vista di questi grandiosi segnacoli della Chiesa, possono lietamente inginocchiarsi e venerare! Vi sono molti quadri che rappresentano scene di questo genere. Un artista di genio potrebbe oggi prendere a soggetto questo drammatico contrasto: dei volontarî garibaldini in camicia rossa che, dalle alture di Monte Rotondo, vedono per la prima volta la cupola di S. Pietro.

Essa dovette sembrare loro il simbolo della méta così appassionatamente inseguita, come già ai Goti di Alarico o alle soldatesche affamate del Borbone e di Frundsberg doveva sembrare la città di Roma, veduta in lontananza. Il loro capo avrà forse loro spesso additato quella cupola sublime; e ne avrà loro parlato con parole fiammeggianti di patriottismo—come ne aveva parlato a Ginevra, al Congresso per la Pace, dal quale Garibaldi—per una ironia della storia—quasi immediatamente passò sul campo di battaglia, a Mentana!

E' cosa piena d'interesse rappresentarsi i pensieri che dovevano agitare l'animo di quest'uomo straordinario nell'avvicinarsi a Roma, di quest'uomo così vario di destino e di fortuna, la cui vita fu una lotta per la libertà combattuta in due parti del mondo! uomo che certamente avrebbe avuto una parte più notevole nella storia, se la natura al suo disinteresse da antico romano, e alla sua incomparabile attività e vigoria di carattere, avesse accoppiato il genio di un uomo di Stato.

Nel rivedere Roma, Garibaldi avrà ricordato con stupore quel tempo, già passato alla storia, in cui egli aveva difeso contro i Francesi la metropoli del mondo intero. Volgendosi alla campagna di Tivoli, si sarà visto nel ricordo ritirarsi da Roma, con altre schiere di volontarî, un po' meglio armati e disciplinati delle attuali, verso gli Appennini. Era il 30 luglio 1849.

Sorrideva al suo spirito il pensiero di entrare ora in quella Roma che già aveva dovuto abbandonare, e che formava la brama più ardente della sua vita. Ma egli non entrò in Roma; non piantò sul Campidoglio, nè lo stendardo della Repubblica, nè il tricolore italiano. Battuto dalle truppe del Papa e di Napoleone a Mentana, lo vediamo di nuovo prigioniero di Stato a Varignano. Misero sotto processo lui che non poteva essere soggetto a giudizio, perchè troppi complici aveva, la serie dei quali cominciava a Palazzo Pitti.

Il mondo che onora il patriottismo e il carattere, aveva lasciato che Garibaldi, l' enfant gâté et l'enfant terrible d'Italia, si sbizzarrisse a suo piacere nelle sue campagne in nome dell'Ideale, senza che il loro insuccesso diminuisse la simpatia verso di lui. Ma tutto ha un limite, come quella massima di Machiavelli nel Principe: «E' il fine che si deve considerare, non i mezzi». L'audacia romantica di Garibaldi può certo esaltare la gioventù che ha letto Plutarco, ma essa stanca il maturo giudizio dell'uomo di Stato e del cittadino cosciente. Che un eroe nazionale, così festeggiato, carezzato, reclami perpetuamente il privilegio di essere nell'eccezione, fuori della compagine e delle leggi dello Stato, e di formare una potenza a sè, questo sarebbe un assurdo e una impossibilità in ogni ben ordinato Stato d'Europa.

La monarchia italiana e il pensiero dell'unità hanno superato la terribile crisi (che la Demagogia di Garibaldi aveva provocato) rapidamente e felicemente. Se il giorno di Mentana avesse avuto il merito di liberare l'Italia dall'anarchia di un potere rivoluzionario, che si contrapponeva al Governo, questo dovrebbe riguardarsi come un reale vantaggio. L'invasione dei volontarii ci ha insegnato anche altre cose; essa ha mostrato la debolezza e l'immoralità dell'Italia, e diminuite le simpatie che verso di essa nutriva l'Europa; ha mostrato che era impossibile che il Potere Temporale durasse a lungo nella forma assegnatale dalla convenzione di settembre, ed ha ricondotto in Italia un principio che l'Europa sperava per sempre allontanato da lei. Non parlo della miseria e della rovina, in cui la guerra dei volontarii ha gettato migliaia di persone, al di qua e al di là dei confini romani. Se questa guerra poi, come riteneva Garibaldi, si deve ritenere come una guerra nazionale dell'Italia, contro il Papato per il possesso di Roma, allora affermeremo che il suo esito ha mostrato che nel 1867 il Papato era, ancora, più forte dell'Italia, e che la questione romana non poteva essere risolta colla sola violenza. Questo problema che col trattato di settembre fu, per riguardo all'Italia, mantenuto nei confini di una questione di opportunità territoriale, sarà di nuovo sollevato e riportato nella sfera della diplomazia europea?

E qual problema insolubile! C'è nelle cose umane qualche cosa di impossibile a risolvere? Un astuto motteggiatore consolava un patriota, osservandogli che gli Italiani si risollevano come vincitori dopo le disfatte che sogliono fiaccare gli altri popoli. Anche non potendo dar ragione a questo bello spirito, non vediamo ragione alcuna per disperare che si trovi un giorno un modus vivendi che sappia accordare l'indipendenza spirituale del Papato con le esigenze della Nazione. Il giorno in cui si troverà questa quadratura del circolo, l'umanità potrà festeggiarlo solennemente, perchè segnerà l'inizio di una nuova êra di pace, êra a cui tutti i popoli d'Europa mirano fiduciosi.

XIII.

Son passati tre anni dacchè io scrissi le pagine precedenti. La quadratura del circolo romano non è stata trovata, ma il nodo gordiano è stato reciso della spada. Perciò la Campagna dei Volontarî intorno a Roma ha bisogno di un'appendice.

La descrizione di questi ultimi tre anni di Roma e del Papato morente costituirà un giorno una pagina notevolissima della storia del nostro tempo, se la si saprà attingere al materiale diplomatico, e qua e là arricchirla dei fedeli ritratti dei personaggi più eminenti che ebbero parte in questa tragedia. Il titolo che le si dovrebbe dare sarebbe: «Storia degli ultimi anni e giorni del Potere Temporale».

Ora, per concludere, riporterò alcune date.

Alla fine del 1867 la vittoria di Mentana rassicurò completamente gli animi. Si vide con soddisfazione Napoleone trascinato alla reazione, in aperta rottura colla democrazia e la demagogia. Si desiderava perciò che egli restasse solidamente legato al potere. Il papa creava cardinale Luciano Bonaparte, il 13 marzo 1868, il primo Bonaparte che ottenesse la porpora! Per completare la sorprendente fortuna di quella casa, mancò solo che egli giungesse alla Santa Sede.

Roma era tranquilla. Nel Patrimonium Petri erano di nuovo i Francesi: circa 5000 uomini. La città aveva guarnigione solo di papalini. La Curia romana era ora occupata dell'idea del Concilio, la cui riunione indisturbata era finalmente possibile per il ritorno dei Francesi e la vittoria di Mentana. Con questo Concilio, preparato già da molti anni, i gesuiti intendevano coronare l'opera loro ponendo sulla testa del Pontefice la quarta e suprema corona, quella dell'infallibilità. Il 29 giugno 1868 fu pubblicata la bolla che convocava il Concilio per l'8 dicembre 1869.

Il caso volle che l'8 giugno di quell'anno stesso si celebrasse in Germania una solenne festa nazionale; si scoprì il grande monumento di Lutero, a Worms, alla presenza del Re di Prussia, lo scudo della chiesa protestante, il capo della Nazione tedesca, e l'ormai certo restauratore dell'Impero.

Nel programma dei gesuiti c'era già da tempo la guerra contro la Germania protestante, la Germania del pensiero e della scienza; si concepirono a questo proposito piani fantastici. Sognavano una nuova epoca nella storia, un'epoca di nazione e di crociata per cattolicizzare il mondo; il Papato padrone della terra, secondo le affermazioni del Sillabo e i decreti del prossimo Concilio. E che cosa meglio di una guerra della Francia contro la Germania avrebbe potuto aprire la via a tutto questo? Questa guerra che dovevano compiere le invincibili legioni di Napoleone, armate dei chassepots e delle mitragliatrici, così bene esperimentate a Mentana, avrebbe certamente annientata la potenza del protestantismo in Europa, e resa impossibile l'unificazione della Germania sotto gli Hohenzollern. Dalla certa vittoria della Francia seguirebbe il nuovo frazionamento d'Italia nelle sue parti, e il ristabilimento dello Stato della Chiesa, come al tempo di Consalvi. Allora Napoleone, il salvatore e protettore della Chiesa, sarebbe divenuto un nuovo Carlomagno, e l'umanità pacificata si sarebbe raccolta intorno alle due grandi metropoli della terra; Parigi, sede del dispotismo cesareo, centralizzante in sè la civiltà umana; Roma, la fonte infallibile della verità divina, manifestatasi nel gesuitismo.

La rivoluzione spagnuola e la caduta violenta della bigotta regina Isabella fu il primo colpo contro questi disegni. E chi sospettava che la candidatura al trono di Spagna sarebbe divenuto un fattore della storia del mondo?

Giunse l'anno del Concilio, il 1869. In Roma fervevano i preparativi.

Nulla ancora faceva prevedere prossime tempeste, se non forse in Germania, una vivace opposizione al Concilio, del quale si negava la necessità e si condannava lo spirito di parte. Si disegnavano i campi degl'infallibilisti e dei loro avversarii.

L'11 aprile il vecchio pontefice festeggiò il cinquantesimo giubileo, dacchè era divenuto prete; e deputazioni, indirizzi, augurî, doni piovvero da tutta la cristianità. La dimostrazione fu grandiosa e solenne; Roma divenne un teatro in festa, come nel 1867. Il papa che così si festeggiava, si credeva onorato da tutto il mondo, come suo capo spirituale. Queste feste gli sembrarono di buon augurio per il prossimo Concilio.

L'8 dicembre 1869 questa solenne adunanza ecclesiastica si aprì in San Pietro. Pioveva a dirotto, ma il tempio conteneva appena la folla accorsa. Roma, come tutta l'Italia, era allora tranquilla. Le truppe di Napoleone formavano la guardia del Concilio, che divenne il grande avvenimento dell'epoca, nel quale il mondo temeva di dover riconoscere una crisi di risveglio nella vita della Chiesa riunita, mentre duecento sacerdoti gli dichiaravano solennemente riconosciuti gli attributi della potenza divina.

Tutti conoscono come era costituito questo Concilio, i mezzi con i quali si ottenne la maggioranza, come fu schiacciata la minoranza, le lotte e i dibattiti de' suoi partiti. La sua storia fu accompagnata da una letteratura tutta speciale, quale non si era mai vista nei precedenti sinodi. L'opinione pubblica vigilava sul Concilio; essa teneva le sue sedute presso quelle di questo parlamento romano, i cui più segreti pensieri, piani e manovre sapeva svelare ed anche indirizzare.

Si sono uditi dei gravi cattolici credenti gridare allo scandalo per questo Concilio. Essi riconoscono tristamente, e loro malgrado, che la sua convocazione fu un incalcolabile errore, la sua opera una dannosa sfida allo scisma. La sua storia costituirà un giorno una pagina del nostro assai istruttiva e, come già fu detto dai cattolici, mostrerà alle generazioni future quanto grande fosse l'accecamento, quanto profonda la povertà di spirito e l'esaurimento dell'elemento romano della Chiesa in quel tempo.

Giunse l'estate del grande anno 1870. Già l'attenzione del mondo si era distolta dal Concilio, dove la strenua opposizione della minoranza tedesca e l'opinione pubblica stessa erano state forzate a cedere. Contemporaneamente, mentre la Chiesa doveva raccogliere nel suo Capo tutte le energie, lasciando i suoi membri inutili e impotenti per sempre, la Francia, con un nuovo plebiscito, si accentrava nella potenza imperiale. Allora l'orizzonte politico si turbò d'un tratto per la candidatura al trono spagnuolo.

Il 18 luglio 1870 fu pubblicato il nuovo dogma dell'infallibilità del Papa. Il tempio di S. Pietro si trovò in quell'occasione vuoto e deserto. Si scaricava un diluvio con violenza tropicale sulla città. Fra tuoni e lampi fu annunziato all'umanità che il Papa era infallibile.

Soltanto un giorno dopo, il 19 luglio, la tempesta si scaricava sulla Francia! L'Imperatore Napoleone dichiarava la più folle delle guerre alla Prussia e alla Confederazione del Nord.

Giunsero allora i grandi giorni della punizione per l'orgoglio e per la millanteria. La storia li ha registrati, giusti e solenni. La Germania si sollevò istantaneamente, compatta, gigantesca, irritata. La forza del popolo tedesco debellò in battaglie che furono macelli, l'Impero francese. Il 2 settembre Napoleone si arrendeva alla magnanimità del grande Re tedesco, che aveva così crudelmente offeso. Tutt'Europa tremò per il contraccolpo di questa guerra senza precedenti; tutto ciò che era in essa di fracido e di guasto dovette staccarsene.

A Parigi si proclamò la Repubblica. Gli Italiani chiedevano insistentemente Roma. Ma il vecchio eroe della Campagna dei volontarii del 1867 era passato in Francia per combattere al fianco dei suoi nemici di Mentana, col colonnello degli zuavi Charette, sotto la stessa bandiera:—per un'ombra ed un nome. Come Lucano egli poteva esclamare: Tuumque nomen, libertas, et inanem prosequar umbram; come lui sognatore nobile e fedele ai suoi principii.

Le truppe francesi si erano ritirate da Roma per difendere la patria; così lo Stato della Chiesa era di nuovo aperto ad una invasione. Il Governo italiano dichiarava decaduto il trattato di settembre colla caduta di Napoleone che l'aveva concluso, e disponeva per l'occupazione di Roma da parte delle truppe del Re, giustificandola come una necessità per la conservazione dello Stato e come una volontà del popolo d'Italia.

Strana e mirabile concatenazione logica di avvenimenti!

Il 19 settembre i Tedeschi stringevano intorno a Parigi, metropoli del mondo, il loro anello di ferro; lo stesso giorno trentamila Italiani erano alle porte di Roma, metropoli del mondo. Il 20 settembre, alle cinque del mattino, fu tirato il primo colpo contro le mura di Porta Pia. La lotta con le truppe pontificie fu semplice e breve. In Vaticano il Papa sedeva fra i cardinali e i diplomatici delle potenze straniere, che aveva mandato a chiamare. Si udirono i colpi di cannone dell'attacco. Il cardinale Antonelli riceveva e inviava dispacci. Venne l'ultimo, annunziante che tutto era finito.

Gli Italiani entrarono in Roma attraverso la breccia presso Porta Pia, il 20 settembre alle 11 antimeridiane, fra l'indescrivibile giubilo della popolazione, mentre, come per incanto, tutta la città si copriva di tricolori.

Il millenario Potere temporale dei Papi finì quasi inosservato. Questo che sarebbe stato in altro tempo un avvenimento mondiale di straordinaria importanza, si compì come un aneddoto sullo sfondo della grande guerra franco-tedesca. Questo tramonto tacito e inosservato della più antica e venerabile potenza d'Europa è profondamente tragico. Non fu il silenzio del mondo una condanna per lo Stato pontificio? Forse molte voci si sarebbero ancora levate in Europa, in suo favore, se il Concilio non avesse d'un colpo ridotto ai minimi termini la considerazione per il Papato. La caduta della sua potenza temporale fu la legittima conseguenza della più mostruosa richiesta che mai sia stata fatta all'umana ragione.

Il plebiscito dei Romani decise, il 2 ottobre, l'annessione di Roma all'Italia. Alla fine dell'anno venne il Re a visitare per la prima volta la città così crudelmente danneggiata dall'inondazione del Tevere, pretesto ben accetto per quella penosa visita. I Romani lo festeggiarono giubilanti. Vi rimase poche ore, e scrisse al Papa una lettera. Nel palazzo del Quirinale—il palazzo pontificio dal quale Pio IX ventiquattro anni prima era stato acclamato dal popolo Sole della nuova Italia, salendo al trono—Vittorio Emanuele firmava il suo primo decreto in Roma, prendendo atto del plebiscito. Era l'ultimo giorno dell'anno 1870. Con esso si chiuse una grande epoca nella storia della città e del papato.

Un tragico destino ricadde sul debole Papa, che aveva esperimentato tanti cambiamenti di fortuna e tante vicissitudini come pochi pontefici prima di lui. Prigioniero volontario, egli geme nel cupo Vaticano, negletto ora nella sua Roma, della quale era stato l'idolo. Che piccola cosa è ogni umana grandezza!

Una misteriosa sorte fece occupare a Pio IX la sua sede per un tempo più lungo di tutti i suoi predecessori, per quanto grande sia stata la loro importanza nel mondo! Il probabile ultimo Papa sovrano temporale ha anche governato Roma più di ogni altro!

Questi sono solo dati di fatto. Noi stiamo dinanzi alle porte serrate di un misterioso avvenire. La quadratura del circolo romano non è stata ancora trovata; il processo morale non è ancora risolto. Solo questo si può dire con sicurezza, che l'umanità, nel memorabile 1870, si è definitivamente liberata da un antico ordine di cose.

Poeti romani contemporanei. (1858).

Poeti romani contemporanei. (1858).

Si direbbe che le Muse, da Raffaello così bene rappresentate in una delle stanze del Vaticano in compagnia dei più grandi poeti, abbiano sempre a malincuore scelto Roma a loro dimora e solo di passaggio. Si capisce, del resto, che una città come l'antica Roma non potesse essere molto conveniente albergo alla poesia: il sentimento poetico non poteva ben fiorire nel frastuono di quel mondo; ma vi poteva invece la satira essere in grande onore, poichè il suo elemento è il brutto e il ridicolo.

Difatti, per tacere degli antichi, la Roma cristiana quali notevoli poeti ha prodotto? Questo domandavo io un giorno ad un poeta romano, mio amico; e, dopo aver ricordato Vittoria Colonna e Metastasio, egli mi fece conoscere altre produzioni poetiche della città, a me del tutto sconosciute. Giusto de' Conti, al principio del secolo XV scrisse un canzoniere: La Bella Mano; al principio del secolo XVIII troviamo un'epopea popolare: Meo Patacca; e in tempi più recenti, l'improvvisatore Gianni che celebrò le guerre di Napoleone; Marsuzi, autore delle tragedie Caracalla e Alfredo il Grande, e finalmente Luigi Bondi, traduttore delle Georgiche di Virgilio.

La poesia ama la vita mossa ed intensa; e da molti secoli Roma non è terreno per lei. Gli strepiti delle fazioni piacciono più alle Muse del clangore cupo delle campane e del mormorio delle litanie nelle processioni; il narcotico odore dell'incenso, che riempie interamente la città di Roma, non è un ispiratore efficace di poesia. La profonda severità delle ruine dell'antichità offre oggetto di meditazione al filosofo ed allo storico, ma i fiori della poesia appassiscono all'ombra melanconica di tante tombe. A Roma le pietre son più possenti degli uomini; il passato è gigantesco; il presente è piccolo invece, e il futuro coperto di un impenetrabile velo.

Una sera, mentre erravo per il Trastevere, sentii una ragazza che, sola, seduta sulla scala di una casa deserta, cantava, seria e pensosa:

«O Roma antica, Roma illustre, non sei più!»

Queste dolorose parole sulla bocca di una fanciulla mi parvero piene di significato. Non poteva dunque sorgere fra le rovine di Roma un genio lirico, vivace ed ingenuo? Sarebbe stato forse soffocato dalla storica malinconia delle rovine? Può darsi; ma anche una Musa così ammantata di tristezza avrebbe potuto essere bella e sublime, non come quella gonfia e rettorica delle notti romane del Verri, ma come quella di lord Byron nel Childe Harold, nelle sue apostrofi di artista nordico e di uomo libero.

Siamo però giusti verso i Romani; essi non poterono mai cantare e celebrare le loro ruine, perchè non fu mai loro permesso di rimpiangerle e di giudicare il presente dagli avanzi del passato. Essi, insomma, non poterono utilizzare il loro abito poetico.

L'antichità, come il medioevo, è pieno in Roma di motivi eroici e tragici, ed un poeta cittadino non avrebbe che a servirsene con abilità per suscitare immancabilmente dell'entusiasmo. Spesso, mentre assistevo nel Mausoleo di Augusto (oggi teatro Corea ) ai salti dei pagliacci, nelle loro curiose pantomime, o, per rara fortuna, vedevo rappresentare, nella traduzione del Maffei, la Maria Stuarda di Schiller, pensavo: quale impressione produrrebbe, in questo luogo, una tragedia romana su Bruto o Virginia! Come dovrebbe trascinare all'entusiasmo i Romani una tragedia su Cola di Rienzo, proprio qui, nel Mausoleo di Augusto, dove il corpo di quel tribuno fu un giorno bruciato!

I Romani lasciarono elaborare prima a Shakespeare, a Corneille, a Racine, a Voltaire, poi ad Alfieri, questa materia di teatro romano; e sul teatro romano quelle opere non si vedono nemmeno, e fra i busti di uomini illustri che adornano il Pincio, manca quello di Alfieri! Esso vi fu, per un momento; poi ne venne improvvisamente asportato dalla polizia—fatto questo a cui ho assistito io stesso e che riferisco qui, per risparmiarmi una chiacchierata più lunga, tendente a dimostrare l'impossibilità di un dramma nazionale romano di genere storico.

Se, oltre a parecchie altre ragioni di indole politica e fisiologica, che impediscono lo sviluppo del sentimento poetico in Roma, si pensa alla stagnante cultura letteraria, alla mancanza di giornalismo e di critica, alla decadenza del mercato librario,—che di poco si solleva soltanto negli affari degli antiquarî,—se si pensa a tutte queste condizioni di fatto, ci sembrerà tanto più interessante e degna di studio ogni attività poetica di questo popolo.

Il gusto per la poesia non è mai tramontato fra i Romani, che, come tutti gl'Italiani, amano i versi; il popolo di tutte le classi sociali spande a piene mani sonetti e canzoni, non appena un'occasione si presenta. C'è uno sposalizio? Sonetti. Nasce un bambino? Sonetti. Si laurea uno studente? Sonetti. Si veste una monaca? Sonetti. Viene sepolto un morto? Sonetti. Si festeggia un Santo? I sonetti piovono. Un monsignore è fatto vescovo? egli cammina su un tappeto di sonetti con le sue calze paonazze! Questi parti poetici d'occasione si raccoglievano un tempo nelle Accademie, nelle quali gl'ingegni erano legalizzati e ricevevano il bollo della scuola poetica tradizionale. Il furor academicus, una vera peste nel secolo XVII non soltanto in Italia, ma anche fuori, è ora del tutto sopito, e se a Roma ci sono ancora degli Arcadi, dei Quiriti, dei Tiberini, e anche degli accademici della S. Concezione, non si deve ricercare in essi un intendimento letterario. L'Arcadia, fondata alla fine del secolo XVII da Crescimbeni e da Gravina, il maestro e protettore del Metastasio, ha una fama mondiale. Il suo nome e il suo simbolo, una zampogna, bene delimitano gl'innocui campi, in cui cercava asilo la poesia dei Romani, e si conviene anche bene alla storia della città, il cui Foro, antico dominatore del mondo, si mutò in un Campo Vaccino, la cui campagna si coprì d'innumerevoli greggi, come per un immenso idillio, e il cui popolo, finalmente, si cambiò, da schiera di dominatori, in una mandra di pie pecore, che il Papa, buon pastore, guidava a pascere fra le ruine. Ai tempi di Göethe, che i pastori accolsero nel loro coro con grandi feste, l'Arcadia godeva ancora una certa fama; oggi, fortunatamente, è passata fra le curiosità, sebbene di tanto in tanto la sua zampogna torni a farsi sentire. La massa di poesie che vengono composte in quelle riunioni, può solo avere riscontro nella loro completa insulsaggine: leggendole, sembra di udire d'un tratto un coro multiforme di belati e di pigolii.

Per quanto anche oggi non vi sia in Roma ingegno poetico che, secondo l'antico costume, non si rinchiuda in questa o quella Accademia, dove gli si offre l'occasione di farsi udire a recitare i propri versi in una grande sala, pure queste Accademie sono grandemente decadute ed hanno perso la loro autorità. Una nuova generazione tende, anche in Roma, ad una forma e ad un significato più personale.

Cresciuta fra i moti dei passati decennî, che scossero i Romani dal loro sonno letargico, essa incarna le speranze dell'oggi e tenta anche in Roma, in condizioni così sfavorevoli, un rinnovamento della poesia, rinnovamento che sarà solo possibile, quando l'ingegno poetico, invece di portare l'antica livrea dei sonettisti, si vestirà d'una forma nuova, priva di artificî e palpitante di vita.

La nota fondamentale di questa giovane scuola romana è sopratutto la nota lirica della poesia del sentimento. La Musa realistica e politica tace in Roma, sebbene gli ultimi avvenimenti tanto argomento le abbian fornito; e questo non è da deplorarsi, perchè impedisce i giudizî immaturi e le frasi banali e comuni. A Roma, non è possibile una voce originale e profonda come quella del fiorentino Giuseppe Giusti. Qua non prevale che la lirica filosofica, ch'è in gran parte un riflesso della poesia del Leopardi, e l'eco del dolore universale dell'Inghilterra e della Germania.

L'influenza del Leopardi sui giovani poeti d'oggidì—essi delirano ancora per lui—è grandissima, ma forse non troppo sana. La sua forma classica e pura, la sua bella lingua possono prendersi a modello di perfetto stile, ma la fantasia poco può attingere ad un poeta che compone liriche senza immagini e senza metafore, ma solo con pensieri; la mente non può troppo esaltarsi al disperato nichilismo di una nobile anima, corrosa dal dubbio e dallo sconforto. La poesia di questo elevato e solitario spirito è formata dal grido straziante non solo della sua patria, ma dell'umanità intera, la quale piange sul destino particolare e, possiamo dire, eccezionale di un solo uomo: il poeta. Il suo modo di considerar l'esistenza è la scuola peggiore che si possa offrire ad un essere che nell'esistenza debba lottare.

Nei poeti italiani formati alla scuola di Byron, di Shelley, di Lenau, manca, per la particolare indole dell'anima meridionale, un sentimento che faccia equilibrio e contrappeso a quell'ironia, a quell' humor che son loro particolari, sentimento che, in ultima analisi, solleva l'uomo del Nord al disopra del suo dolore. L'indole meridionale ha dei contorni straordinariamente netti, e non sa produrre quell'accordo fra i sentimenti e le tendenze estreme ed opposte, che l'anima nordica perfettamente raggiunge colla sua sentimentalità, usando questa parola nel suo senso migliore.

E' anche un fatto che desta meraviglia, vedere nella poesia romana dei nostri giorni introdursi un elemento tedesco.

Mentre i Napoletani si dedicano con grande amore allo studio della filosofia tedesca di Kant, di Hegel, di Schelling, lo studio della poesia tedesca si è largamente diffuso nell'Italia del nord e centrale, ed ha preso un vero impulso. Le belle traduzioni del Maffei hanno introdotto Schiller, non solo sulle scene, ma nelle famiglie, ed i migliori lirici moderni, Heine, Lenau, Uhland, non sono ignoti in Roma. Molti degli attuali poeti romani parlano o capiscono il tedesco e leggono nell'originale i nostri poeti. Ciò che di essi specialmente li attrae, è il loro carattere grave, così diverso dalla poesia dei sonetti d'occasioni e dei concettini e degli artificii; è la musicale vivacità del sentimento, il caldo palpito lirico, la pittura felice dei varî momenti, la ricchezza degli stati psicologici descritti nelle loro sfumature più intime, e, finalmente, il culto panteistico della natura. Quest'ultimo esercita sugli Italiani uno speciale fascino: essi lo sentono in modo diverso e speciale. La forma della poesia italiana, bella, chiara, netta e plastica come la lingua stessa, subordina a sè il contenuto, mentre da noi il sentimento trabocca oltre le linee della forma. L'armonia è l'essenza di quella; la melodia di questa nostra poesia, che è la più ricca del mondo in canzoni. «Il desiderio, mi diceva un poeta romano, ecco ciò che caratterizza i Tedeschi nella loro poesia; questo sentimento rinnoverebbe la nostra poesia, se potesse esservi trasfuso».

Don Giovanni Torlonia indirizza, in una delle sue poesie, questi versi alla signora romana Teresa Gnoli:

E delle idee germaniche
Seguendo il volo libero, sublime,
Prendi soggetto alle tue nuove rime.

Don Giovanni è uno dei pochi aristocratici romani che coltivano le scienze per naturale bisogno. Ve ne sono però alcuni in Roma veramente côlti e pieni di attività, come Don Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, della stirpe famosa di Bonifacio VIII, e come Don Baldassarre Buoncompagni, così versato nelle scienze matematiche. Sapendo quanto la società romana sia poco favorevole ambiente per questi studî, nella lode verso questi uomini si deve aggiungere la riconoscenza della loro patria. Torlonia, uomo di molta coltura, si adopera con zelo a riportare in onore, in Roma, le belle lettere, da lungo tempo neglette. Ci vuole in Roma, e specialmente nell'aristocrazia, del coraggio per portare il titolo di poeta. Son passati i tempi di Vittoria Colonna e di Leone X, e le società arcadiche hanno fatto quel che era in loro potere per togliere alla poesia ed ai poeti la stima della società. «E' un poeta», dicono anche oggi i Romani, per designare un uomo che non esercita nè l'avvocatura, nè un'altra professione, e che passa i suoi giorni vagabondando e pigliando mosche per offrirle poi in vendita.

Don Giovanni è insieme mecenate e poeta, ed esser mecenate nella Roma d'oggi è grandemente più utile che esser poeta. La giovane scuola dei poeti romani, confortata ed aiutata da lui, gli si raggruppa intorno come libera accademia per reciproco incoraggiamento ed emulazione.—Nomino solo gli ingegni più originali, personali e indipendenti: Fabio Nannarelli, Ignazio Ciampi, Paolo Emilio Castagnola, Giambattista Maccari, e la poetessa Gnoli. Questa scuola ha fondato un organo proprio, sotto gli auspici di Torlonia, che promette di aver una parte non indifferente nella letteratura di Roma. Si chiama « La Strenna Romana ». Si chiama Strenna in Italia quel che noi chiamiamo Musenalmanach. Questa Strenna uscì la prima volta, a cura del Torlonia e del Castagnola, il primo dell'anno del 1858. Conteneva poesie e prose varie; fra l'altro riproduceva un frammento della Cronaca di Viterbo di Nicola della Tuccia, fatta stampare dal Ciampi. Questa miscela di poesie liriche e di scritti storici non è da lodarsi, ed io esprimo ai miei amici di Roma il desiderio di veder presto la parte poetica separata e pubblicata in volume a sè. Questa promiscuità si spiega, del resto, con la mancanza di giornali e riflette l'indole delle antiche accademie romane, dove i discorsi scientifici si alternavano con le conversazioni letterarie.

Sintomo caratteristico delle condizioni letterarie di Roma è il fatto che la Strenna Romana non viene pubblicata a Roma, ma a Firenze, presso il Le Monnier;—a questa famosa casa editrice fiorentina ricorrono tutti i poeti romani.

Comincio dalle poesie di Don Giovanni Torlonia ( Poesie, Firenze, 1856), un libercolo di 66 pagine, il più piccolo fra tutti quelli di cui parleremo. Lingua bella e pura, sentimento lirico e musicale, tendenza alla natura idillica: queste sono le sue caratteristiche. La Musa del Torlonia s'ispira alla lirica tedesca; una gran parte delle sue canzoni sono o variazioni di testi tedeschi, o imitazioni di poesie tedesche. Egli avrebbe tradotto felicemente Heine e Lenau, se l'audacia della metafora tedesca potesse esser resa dalla austera e rigida lingua italiana. Ciò è assai difficile, e mi ricordo di un tentativo fatto da un poeta italiano e da me per tradurre in italiano delle canzoni di Lenau. Quello che era naturale e semplice nel libero stile tedesco, diveniva gonfio e artificioso, quando lo si portava in questa lingua. Lenau, per esempio, dice: la primavera lancia le lodole, i suoi razzi di canto, nell'aria, e questo bell'ardimento non urta per nulla la nostra immaginazione di tedeschi: ma come frenerebbe il riso un uditorio d'Italiani che udisse recitare nella sua lingua questa frase poetica?[9]

Torlonia ha tradotto, tra l'altro, Espero, del Vergangenheit di Lenau.

—Oh quanto melanconico
E' d'Espero il fulgor,
Quando scintilla languido
Tra il giorno che si muor!
—Le nuvolette, simili
A impalliditi fior,
Sembra che un serto intreccino
Al giorno che si muor.
—Del cuore umano i gemiti
Ma le sue gioie ancor,
Al muto avello scendono
Col giorno che si muor.

I versi del Torlonia sono felici, ma non rendono pienamente il pensiero, benchè questi versi di Lenau fossero tra i più atti a lasciarsi tradurre in italiano. Ma questa traduzione può servire di esempio della grazia e facilità, con cui Don Giovanni maneggia il verso. Egli ha fatto anche una buona imitazione della Pittrice di fiori di Lenau, della canzone Io amo un fiore di Heine; e del Fiorellino miracoloso di Goëthe. Sembra che i suoi studi di botanica fatti nell'Agro Romano gli abbiano dato una predilezione per la poesia dei fiori, e di lui troviamo anche nella Strenna parecchie buone canzoni sui fiori dell'Agro Romano. Questo genere di poesia ha per gl'Italiani un carattere popolare, per i molti ritornelli di fiori che essi posseggono, i quali sono cantati specialmente dal popolo. Torlonia ha anche una buona imitazione del Poeta e la Natura di Geibel, ed una bella poesia: Racconto, per il quale ha preso il soggetto da una ballata inglese.

In questa poesia romana noi troviamo anche i fiori del nostro romanticismo tedesco. Sembra che la tramontana abbia trasportato il loro seme dai verdi colli della Svevia alle oscure rovine del Campidoglio e del palazzo dei Cesari. Questi rapporti di Roma colla lirica tedesca, meno importanti di quelli coll'Impero tedesco, sono abbastanza interessanti. Come Torlonia già disse, dei germogli della letteratura poetica tedesca possono essere atti a rianimare tutta la lirica italiana. E' vero che un albero d'oleandro darà solo fiori d'oleandro, e un tiglio, fiori di tiglio, ed inutilmente si tenterebbe di innestar l'uno sull'altro; è anche vero che il genio italiano è fondamentalmente diverso da quello tedesco, e tale deve quindi essere la sua lirica, che rispecchia l'anima del popolo; ma Don Giovanni intende soltanto che la Germania potrebbe rendere all'Italia un servizio di cultura letteraria, considerando specialmente il ravvicinamento che si va operando, più o meno profondo, fra i due popoli.

Fabio Nannarelli ( Poesie, Le Monnier, 1853 e 1856) è un poeta di ingegno non comune, cui arride certo un bell'avvenire; ha uno spirito nobile, appassionato del vero, che egli cerca nella poesia e nella vita, senza traccia di leggerezza e di frivolezza, come del resto tutta la giovane scuola poetica romana. Nannarelli conosce la letteratura tedesca, è un ammiratore di Schiller e di Lenau, sui quali ha scritto una monografia; ha in sè profondi elementi tedeschi, e la sua Musa ha un carattere strettamente germanico. La sua nota fondamentale è melanconica, grave e appassionata. V'è nella sua poesia un alito di morte, che sembra esser venuto a lui dalla Piramide di Caio Cestio, alla cui ombra dormon le ombre di Jung e di Schelley, grandi genî poetici riflessivi, così insoliti nella terra di Roma. L'insufficienza di una esistenza male ordinata, che i Romani sentono ogni giorno di più, più di un inglese o di un tedesco, spinge Nannarelli a cercare la solitudine e a sentire il culto del dolore, che in lui non è del tutto scevro di sentimentalismo. Sentendo l'abisso che separa l'aspirazione dalla realtà, egli si rivolge alla natura, come un tedesco, alla natura consolatrice e risanatrice, per la quale egli si sforza di giungere ad una contemplazione filosofica della universale armonia. Il motto di Tiedge:

Cerca la Speranza, la Fede e la Pace,
e cadi piangendo fra le braccia della Natura,

che egli ha messo ad epigrafe di una sua poesia, come altre volte dei brani di Schiller e dell' Amleto di Shakespeare,—indica esattamente l'indirizzo del suo pensiero poetico, il quale va errando in un mondo incorporeo di sogni, che toglie al dolore la sua umanità e lo relega nel regno nebuloso delle ombre. Questo è chiaramente espresso nella poesia: Una voce ed il Poeta. La voce esclama:—A che pensi così profondamente, o poeta? Coronati, orsù, la fronte col serto dell'amore!—Il Poeta:—L'amore more era un sogno, esso è appassito come le rose. La voce:—Rivolgiti allora verso la Natura!—Poeta:—Non ne viene che suono di sospiri.—La voce:—Rivolgiti alla Scienza, o Poeta:—L'anima trema dinanzi alla luce della verità, e non può afferrarla.—Voce:—Che ti resta allora?—Poeta:—La gioia delle lacrime e la pace nel mistero della tomba.—A questo conduce la Scepsi; la natura, nelle cui braccia il poeta cerca un conforto, diviene per lui un fantasma sospiroso, che gli fa desiderare vagamente la morte. La sentimentalità di un Jacopo Ortis è fino ad un certo punto perdonabile, perchè essa consciamente riposa sul dolore per una infelicità nazionale, ed esprime un forte sentimento patriottico; ma l'annientamento di se stesso e la negazione di ogni sano operare, non sono tollerabili, se ondeggiano vaghi come semplice materia di lirica.

Il culto romantico del dolore sembra serpeggiare come una malattia attraverso le letterature; pure, non frequentemente lo ritroviamo fra i Romani. E se ne guardino essi; altrimenti ci potrebbe ancora avvenire di vedere lo spirito di Werther che erra pel Colosseo, al lume di luna, con la guida del Förster sotto il braccio. Tra il Dolore e il Mistero della tomba sta sempre, anche per un romano dei dì nostri, il sapere e il lavoro. Travailler sans raisonner —dice il filosofo Martino al gran filosofo Pangloss, c'est le seul moyen de rendre la vie supportable; e se i Romani si lasciano sedurre da un sentimentalismo che non riguarda la loro nazionalità, possiamo ricordar loro giustamente: Cela est bien dit, Romains, mais il faut cultiver votre jardin.

Il poeta, frattanto, per la forza della sua natura, si solleva felicemente, al disopra di questi periodi di esaurimento nervoso, nel lucente regno del Bello, ed intona il suo dolore terreno alle eterne leggi dell'Universo. La sua poesia più bella, che Terenzio Mamiani non avrebbe sdegnato di sottoscrivere, è Vignanello.

Egli si trova nelle incantevoli campagne di Viterbo, presso il monte Cimino e, nella contemplazione della grande fiorente natura, trae dalla sua lira note pure e sonore. La prima parte di questa lunga poesia, Venere e Sirio, è una felice variazione sui temi filosofici e naturali: mentre egli, ammirando, contempla quelle due vividissime stelle, imagina che la prima gli dica: Ama! e la seconda: Pensa! Così esprime le due forze che riempiono e reggono il mondo morale, e per mezzo delle quali l'intelletto e la materia armonicamente si estrinsecano.

Buona e benefica è questa malinconia panteistica, che sgorga da un sentimento di pace rassegnata, e da un'anima che si è confusa e versata nella grande divinità della natura, dove più aperto rivelasi l'eterno amor.

Ogni volta che il poeta abbandona il vago e l'incerto per cantare la realtà, egli è felice. Felice è l'elegia A un bambino, composta contemplando un bambino che giuoca; e assai bello e profondamente umano è il sospiro: il sentiero della vita è dapprima sparso di rose, poi di rose e di spine; infine, di sole spine! Un'altra poesia non meno felice è: La viola dell'addio, il lamento d'una fanciulla sulla violetta che le donò l'innamorato prima di partir per la guerra. La sua purezza e il suo carattere intimo ricordano Chamisso.

Nannarelli tentò anche un poema, in versi sciolti, che risale alla sua giovinezza: Guglielmo. Egli vi narra la storia d'un amore infelice, che egli afferma aver tolta fedelmente dal vero. Guglielmo, costretto per ragioni politiche a cercare un asilo nel laboratorio d'uno scultore in bronzo, s'innamora della figlia dell'artista; ne fa in bronzo una bella imagine; lo troviamo, anzi, intento a questo lavoro ch'è riuscito assai bene. L'autore non mantiene poi la promessa fatta in questo buon principio, poichè l'azione non si svolge convenientemente, nè giunge ad una logica conclusione. Che un giovine ami, senza esser corrisposto, una ragazza, può essere una infelicità per lui, ma non è ancora una tragedia. Se egli si toglie la vita, noi possiamo solo compatire la sua debolezza, finchè questa catastrofe non è fondata su un intreccio tragico, netto e ben costruito. Ma se egli, acceso di furore, si pugnala nella sala dove la sua amata sta per andare a nozze, e dinanzi agli astanti, e dinanzi a lei stessa atterrita, dovremo confessare che egli non amava veramente la fanciulla, nè era degno di essere amato da lei. Di questi esempi di passione violenta ma selvaggia se ne danno nella vita, ma rimangono fuori del dominio della poesia. Sebbene non manchi di qualche pregio, questo tentativo ci mostra che il nostro autore non ha doti di tragedia o di poeta epico; ha invece, e ad un alto grado, quelle del lirico: slancio fantastico, immaginazione, calore di sentimento, forza riflessiva ed un'anima nutrita di studio e di meditazione, che non si appaga di frasi sonanti. Questo bell'ingegno potrà essere un vero ornamento di Roma, se saprà guardarsi dai traviamenti, e volgersi risolutamente alla vera fonte della poesia, lungi dalle nebbie dell'astrazione incorporea, al sentimento ed alla vita.

Un poeta più sereno, di tinta romantica, è Ignazio Ciampi. Gli riesce felicemente la canzone melodica e facile, come la sua Fata Morgana. Ciampi ha una fantasia fervida, una lingua gradevole, imagini leggiadre e piacevoli. Un'edizione accresciuta delle sue poesie conterrà prossimamente molte buone cose; quella che ho sotto gli occhi non contiene che una piccola parte della sua produzione lirica, fra cui—notevole particolare—delle imitazioni dal russo. La lingua russa, assolutamente barbara per un romano, non è conosciuta affatto in Roma, e Ciampi si è fatto tradurre in prosa italiana da un amico le canzoni di Puschkin, per mostrare ai suoi compatriotti come anche sotto una pelle d'orso può battere un cuore poetico. Anche questo fatto—che sarebbe sembrato inaudito in Roma fino a pochi anni fa—è un indizio del diffondersi di tutte le letterature europee. Roma è, durante l'inverno, un albergo di tutte le nazioni; i forestieri vi portano tutte le lingue e v'introducono tutte le letterature; nessuna meraviglia, dunque, se a Roma si comincia a notare l'influenza di ciò che non è nazionale. Ciò potrà allargarne l'orizzonte; però non tutte le nazioni possono avere un'influenza utile e benefica e non ve n'è nessuna che sia più della russa estranea all'indole italiana. I tentativi di Ciampi son dunque da considerarsi soltanto come una curiosità letteraria; ed egli sarebbe più benemerito della sua patria, se presentasse, in veste italiana, i poeti stranieri che hanno più stretta relazione con l'Italia, o che hanno un valore classico assoluto. Egli, del resto, maneggia assai bene l'ottava, e potrebbe perciò felicemente tradurre il Childe Harold.

Ciampi ha più volte mostrato la sua abilità nelle romanze in stanze. Scrisse due novelle in versi: Serena e Stella, la prima in tre, la seconda in cinque canti. Quella è una leggenda toscana, questa una saga normanna; ambedue son di genere assolutamente romantico, con storie d'amore, avventure e scene fantastiche. Lo stile è facile e scorrevole: le descrizioni, specialmente in Stella, sono calde e vivaci. Ma il nostro tempo ha perduto il gusto per questo genere fantastico e cavalleresco; ora si vuole la realtà e la profonda psicologia dei caratteri. Gl'Italiani, del resto, han poca attitudine per le romanze e le ballate, e non ammirano troppo nemmeno il veneziano Carrer. Ciampi ha preso un genere incerto e che partecipa di due nature, mentre avrebbe dovuto volgersi deliberatamente alla novellistica in prosa, descrivendo, per esempio, la vita romana; così avrebbe sfruttato un genere del tutto trascurato in Italia.

Teresa Gnoli, romana, le cui poesie adornano l'Almanacco Poetico, possiede un vero talento poetico, un profondo e pensoso sentimento che si esprime in belle forme. La sua Musa è patriottica e fra gli uomini porta, in nome delle donne della sua terra, il suo contributo alla civiltà nazionale. La letteratura femminile è copiosa e assai importante in Inghilterra, in Germania, in Francia, in America, ma in Italia è ancora limitatissima. Lo spirito mascolino sembra, in Europa, disposto a lasciare il campo alla donna, per quel che riguarda la produzione poetica, e di dividerlo con essa nel romanzo; per ora nulla di tutto questo si nota in Italia. Per quanto strano ciò possa sembrare, è pur vero che in nessun altro paese le donne sono, come qui, amanti della quiete familiare e nemiche della fama e della pubblicità. Il loro sistema d'educazione è ancora in gran parte quello del chiostro, ed esse hanno idee limitatissime sulla società e sullo Stato.

Nel medio evo romantico e violento vi furono figure femminili che i poeti d'Italia chiamavano loro muse ed ispiratrici, per il culto poetico della donna, che già vediamo in Dante e Petrarca; essi immaginavano che la loro donna fosse il sole mistico che accendeva la fiamma del loro ingegno. Più tardi le donne stesse cominciarono a far versi, e proprio in Roma sorse la poetessa più celebre, e, forse, lo ingegno poetico romano più vivace di ogni tempo. Recentemente avemmo in Roma donne improvvisatrici, ma l'arte non avea nulla che fare con esse.

Non sarebbe possibile paragonare le poesie della nuova poetessa romana con i canti di Vittoria Colonna, tanto più perchè la giovane signora Gnoli non ha voluto seguire nessun modello, ma aprirsi una via personale e quella percorrere senza esitazioni. Ed è riuscita. Spesso ella si rivolge al passato, ed una delle sue poesie migliori è appunto: l' Incontro di Beatrice e di Laura in Paradiso, dove felicemente evoca le due ombre, che amorevolmente si intrattengono, anime sorelle, e si dileguano poi come due stelle

Nova tracciando via
Di luce e d'armonia.

Bella ed efficace è pure una poesia sulle catacombe di Roma, su questo strano dominio delle ombre e del passato, figlio della Storia e della Morte. Le descrizioni dell'Inferno di Dante non fanno più spaventosa impressione di questi lunghi corridoi oscuri sparsi di ossa, di nicchie vuote, di sarcofaghi, di rozze imagini bizantine e d'iscrizioni oscure e sinistre; anche qui Dante avrebbe avuto bisogno di una guida come Virgilio. Ora, il Virgilio di questo mondo sotterraneo è il De Rossi, l'epigrafista dottissimo; e, rileggendo i versi della Gnoli, io ricordo con piacere l'escursione che nelle catacombe feci con la poetessa, l'improvvisatrice napoletana Giannina Milli ed il De Rossi che ci guidava. Hierusalem civitas et ornamentum martyrum Domini è il motto della poesia, tolto da un'iscrizione del III secolo.

La Gnoli fa seguire immediatamente alla Notte delle catacombe, l'Inno di Omero al Sole, e ci libera dal brivido delle catacombe con la contemplazione della Fonte di ogni luce e di ogni intelletto. In questi canti parla una spirito religioso; e sembra davvero che la Gnoli eccella specialmente nella grande lirica contemplativa. Ella tentò, con minor fortuna, il dramma lirico con Torquato Tasso a Sorrento. Ma questo genere melodrammatico non era più tollerato; il Pastor Fido e l' Aminta non ci fanno anch'essi più veruna impressione. Il melodramma può ancora avere un valore ed un contenuto artistico, quando è trattato con abilità drammatica misurata e delicatezza lirica altissima, come l' Eco e Narciso di Calderon; ma se eccettuiamo il coro d'introduzione del Tasso in Sorrento, che è assai buono, il resto si riduce ad un giuoco puerile, e la figura del grande poeta, che si è travestito da pastore e vive in mezzo ai pastori, i quali non lo capiscono nè lo rispettano, ci sembra non essere più che una marionetta, e tutto il componimento fornisce una nuova prova del sentimento incompleto e vano di quest'arte di maniera.

Paolo Emilio Castagnola e Giambattista Maccari son due poeti ch'han Muse sorelle. Troviamo anche in essi l'inevitabile querela delle miserie presenti; la sconsolata tristezza del Leopardi, per la quale tutto fuorchè il duolo è vano, ha sfiorato anch'essi, ma appena, come un sentore di muschio che si è insinuato nelle vesti di due uomini sani passati per la casa di un morto. Fondamentalmente, essi hanno due fresche e vive nature, e, invece del loro dolore, canterebbero volentieri la grande sventura della loro patria, se non temessero l'esilio. Ambedue hanno un senso giusto ed esatto della realtà e della storia.

Castagnola ha cantato in una romanza, Emellina, la tragica fine di Corradino, il tradimento di Astura e la sua morte. Emellina è il nome di una fanciulla, figlia di Frangipane, la quale, vissuta in un castello solitario fra il cielo, il mare e le selve, s'innamora di Corradino, al primo apparir di costui, e invano tenta di salvarlo. Il soggetto è buono, ma non sempre son buoni i versi. L'ottava non è trattata abbastanza nobilmente, e oscilla fra lo stile elevato e il tono popolare della cronaca; i caratteri sono indefiniti e romantici. Pregevole però, per bellezza lirica, è il canto d'addio di Emellina che flebilmente lamenta la sua sorte dall'alto della sinistra torre.

Se, di tanto in tanto, Castagnola tenta il canto politico, Giambattista Maccari esprime più spesso e più chiaramente il suo pensiero. La Musa politica trova in Roma, più d'una volta all'anno, occasione di farsi udire: cioè, quando si festeggia il favoloso Natale di Roma, per l'anniversario della morte del Tasso, e per la distribuzione dei premi nelle Accademie delle arti rappresentative. Non v'è poeta in Roma, che in tali circostanze non mandi arditamente un saluto alla patria, e una volta, a proposito d'una poesia di questo genere sulla fondazione di Roma, si proibì la vendita dei versi del Torlonia, ne' quali la politica non entrava affatto. Anche Maccari, dunque, ha scritto versi per queste occasioni. Le sue stanze Nel Natale di Roma sono piene di forza. Egli si rivolge ai Romani: O cittadini, che avete lasciato dietro di voi gloriose e sublimi ruine, ascoltate ora il mio lamento, sgorgato da sincero dolore, al vedervi indossare solo vesti pompose con altero cipiglio, mentre bandite da voi il sapere che disprezzate come cosa vana.

E alle donne romane dice: O donne che solo vi date a coloro che son ricchi di terre e di vasellami preziosi, e pensate solo a preparare vani tesori ai vostri figli: badate bene! L'ignoranza li avvolge e li sòffoca: quale sarà il loro avvenire?

Energici anche e commoventi sono i sonetti del Maccari, composti in occasione della distribuzione dei premi agli artisti. «Italia, i tuoi orgogliosi monumenti non son più che mute e inutili pietre: riànimati di nuovo spirito, e non prestare ascolto allo stolto che ti consola col ricordo del tuo grande passato»!

Che vi giova, degeneri nipoti,
L'andar superbi della gloria avita,
Se fatti siete a tutto il mondo ignoti!

Voci solitarie e virilmente nobili in mezzo alle rovine di Roma! Ne ringrazino di cuore il poeta gli Epigoni romani!

Maccari si volge al presente, e dalle rovine e dai palazzi passa alle capanne del povero. Già in Castagnola troviamo stornelli popolari, ma in Maccari essi sono più numerosi. Egli scrisse delle ballate che ci descrivono la vita nella campagna romana, come la Venditrice di fragole, che discende dai monti alla città, con la sua cesta elegante e colma di frutti. Il ritornello di questa ballata è il seguente:

È venuta in città la montanina,
Chi vuol comprar la fragoletta alpina?

Altri soggetti della poesia del Maccari sono la «Pastorella», la «Boscaiuola», che porta sul capo, fino alla città, il peso delle legna raccolte sui monti, il «Mietitore», e la «Cicoriara»; questi ultimi due sono soggetto d'idillii, dei quali il secondo è specialmente bello ed aggraziato. Queste cicoriare, raccolta la loro insalata nei campi, vengono a venderla a Roma, vestite di un abito campestre caratteristico, al Pantheon o a Piazza Navona. In queste descrizioni Maccari mostra un temperamento poetico felicissimo, e si sente che la sua Musa ha respirato le aure fresche dei campi! E proprio nella realtà e nella natura deve ricercare la sua rigenerazione la poesia italiana: questo dovrebbero intendere i poeti di Roma. Sotto questo aspetto debbo salutare con gioia una piccola raccolta di canti popolari che la Strenna Romana pubblica col titolo: Saggio di canti popolari di Roma, Sabina, Marittima e Campagna. Gli editori debbono molto all'opera del signor Visconti che nel 1830, per la prima volta, diede mano ad una raccolta di questo genere ( Saggio di canti popolari della provincia di Marittima e Campagna ). La raccolta attuale è piccola, ma preziosa. Essa comprende ritornelli di fiori della Campagna romana, quartine sabine, e finalmente delle stanze di dieci versi della Marittima e della Campagna latina.

I ritornelli sono bei fiori di campo, freschi e odorosi, cresciuti in piano o in monte. Non c'è forse fiore che il popolo qui non abbia messo a simbolo di qualche cosa. L'uomo dei campi applica volentieri ad un fiore una sentenza o un pensiero, racchiusi in un ritornello, sia per una rosa, o per un narciso, o una margherita, o per una viola. Ogni fiore gl'ispira una piccola poesia, espressa in tre versi pieni di sogno. Questo linguaggio dei fiori si perpetua per tradizione da una generazione ad un'altra, modificandosi e arricchendosi di tempo in tempo. Tutta l'Italia ha questo gusto gentile; i ritornelli errano per i campi con i lavoranti e talora si cantano gli stessi nella Maremma, in Corsica, nella Campagna di Roma. Ma la vera patria di questi ritornelli sembra esser la Toscana, il giardino d'Italia, la regione più felice forse e più geniale di tutto il paese. Questi ritornelli sono costruiti assai semplicemente. Il primo verso, brevissimo di solito, contiene il nome di un fiore; gli altri due, endecasillabi, esprimono il pensiero, in modo che l'ultimo verso rimi col nome del fiore, e quello di mezzo finisca di solito, con un'assonanza:

Io benedico della rosa il fiore;
Quest'è la sorte delle cose care;
S'acquista in pianto e si lascia 'n dolore.

Un ritornello senza fiore:

M'affaccio alla finestra, e vedo mare.
Tutte le barche le vedo venire
Quella dell'amor mio non vuol tornare.

Quest'ultimo pittoresco stornello, come dicono i Toscani, si trova anche nella raccolta di canti popolari toscani del Tigri, ma con una infelice variante: veggo 'l mare, invece che vedo mare. Tigri ne ha raccolti 425, e fra di essi si trovano dei veri gioielli poetici. In molti ritorna l'espressione m'affaccio alla finestra, come in questo, un po' lezioso:

M'affaccio alla finestra e vedo notte;
Con le lagrime mie bagno le lastre;
O fonte di bellezze, buona notte!

Trascrivo qui un ritornello siciliano dell'Etna:

Sciuri d'aranciu;
Tutti li beddi di ssu munnu munnu
C'un capiddu di tia non ci li canciu.

Oltre queste poesie minime meritano anche di essere ricordati i componimenti popolari di dieci versi della Maremma romana. In Toscana simili componimenti vengono chiamati «rispetti» ma hanno per lo più solo otto versi, e formano una strofa. Talora hanno un numero maggiore di versi. A Roma io non conosco che quelli di dieci versi a rime incrociate, con gli ultimi due a rima baciata. Queste strofe contengono sentenze morali, proverbi, o serenate e canti d'amore popolari.

Esse sono spesso ingenue, ma efficaci e piene di poesia. Da due decenni si è diffuso in Italia lo studio dei canti popolari; se ne son fatte più raccolte; recentemente è notevolissima la raccolta di canti umbri, liguri, piceni, piemontesi, romani, di Oreste Marcoaldi (Genova 1855); quella del Tigri: Canti popolari Toscani (Firenze, Barbèra e Bianchi, 1856) vero tesoro di poesia; e finalmente quella di Leonardo Vigo d'Acireale: Canti popolari Siciliani (Catania, 1857). L'isola di Sardegna è restata indietro, quantunque debba contenere materia innumerevole e pregevolissima. La piccola Corsica deve la raccolta delle sue belle canzoni al poeta Salvatore Viale.

Chiudo la mia notizia sui poeti di Roma, i cui nobili tentativi ed i buoni successi ho seguìto con amore per più anni, come ospite, mandando loro il saluto e l'augurio fraterno dell'amico, attraverso le Alpi, sulle rive del Tevere... Noi siamo tutti davvero, come dice la canzone popolare romana, tanti rami d'un tronco solo, tante fiamme d'un solo incendio![10]

AVIGNONE. (1860).

AVIGNONE. (1860).

Esiste un prestigio incancellabile in questo nome di Provenza, e questa contrada, irradiata dal più bel sole, rinomata per il suo bel canto, ricca di vigneti e di olivi, irrigata da un grande fiume, animata da mille ricordi dei tempi antichi, esercita tuttora un vero fascino sopra gli abitanti dei paesi settentrionali. Il riflesso romantico delle canzoni dei trovatori sta su di essa come la gloria di un tramonto sanguigno; imperocchè quell'epoca della poesia del medio evo è tragicamente collegata allo sterminio degli Albigesi, di quegli eretici coraggiosi, di quegli eroi del pensiero, che insanguinarono la poesia provenzale, la libertà delle repubbliche cittadine della Francia meridionale, la civiltà sociale di quelle contrade. Fu quello uno dei punti culminanti della storia del medio evo; i contrasti di tale epoca, sempre forti e pronunciati, lo furono maggiormente ancora colà ed in quel periodo di tempo di libertà e dispotismo, di amore poetico, voluttà, ed inquisizione, di fiori, feste e roghi fumanti di Giraldo di Borneil e di Pietro di Castelnau; di Bertran del Bornio e di S. Domenico. Si aggiunga l'attrattiva di una lingua melodiosa, nobile, la quale a poco a poco venne scomparendo del tutto, della lingua più antica fra le lingue romane, nella quale si scrisse e si poetò prima che l'italiano s'innalzasse a lingua letteraria; della lingua d'Oc o di Occitania, dalla quale ebbero origine quasi per contatto geografico le tre lingue principali di razza latina, l'italiana, la spagnuola e la francese.

Non havvi per avventura in tutta la Francia una provincia, nella quale si vada con eguale commozione. Se non che il treno corre troppo rapido, e quella contrada curiosa, le sue roccie rossicce, i suoi castelli diroccati, le sue città cupe e malinconiche, le sponde ridenti de' suoi fiumi, i suoi aranceti, i suoi vigneti passano non meno rapidamente davanti al viaggiatore che i ricordi storici evocati dall'aspetto di quelle regioni, Bosone di Arles, Raimondo di Tolosa, Simone ed Amaury di Monfort, i conti di Beana e di Oranges, Innocenzo III, Carlo d'Angiò, Ludovico VIII, S. Domenico, i trovatori, i santi, gli eroi, i sette Papi d'Avignone.

La Provenza, del resto, ha tutt'altro che l'aspetto di un paradiso; in molti punti la si potrebbe paragonare ai deserti dell'Arabia. Le contrade sono sassose, arse dal sole, spesso di aspetto selvaggio, bizzarro, malinconico, cupamente severo. Allorquando vidi quest'arida regione, compresi come avesse potuto esser teatro di guerre fanatiche e religiose; come su questa terra bruciata dal sole dovesse crescere una razza di uomini appassionata, come quivi, del pari che nelle Calabrie, dovessero regnare le passioni più svariate, ascetismo, entusiasmo, arditezza di concetti filosofici, amore di libertà.

Vive ancora qui la maledizione delle terribili crociate contro gli Albigesi, gli Ugonotti, delle guerre delle Cevenne, delle conversioni tentate da Ludovico XIV per mezzo dei suoi dragoni. Quasi si direbbe che le città deserte, i castelli che sorgono in rovina in cima alle rupi, sembrino parlare tuttora di quei tempi, come dei saturnali sanguinosi dell'ultima rivoluzione; e non fanno per certo lamentare la caduta della tirannia feudale. Se non che, non sono soltanto i castelli rovinati, che portano questa impronta severa e malinconica; la posseggono pure i villaggi, le città fabbricate con una roccia di colore giallo-rossiccio, che si direbbe infuocata, al mirarla fra le fronde magre dei gelsi e degli olivi. Neppure nei monti più selvaggi dello Stato Pontificio, nei monti Volsci, nella Sabina, neppure nella Corsica, ho veduto villaggi egualmente malinconici. Sono per lo più fabbricati alla rinfusa, senza ordine; le case costrutte di piccoli e rozzi sassi, coi tetti acuminati, sono piccole, a forma quasi di capanne; qua e là si scorge una finestra senza impannata, chiusa unicamente da imposte di legno; qualche volta l'intera parete ha soltanto una finestra e una piccola porta. Le strade sono piccole, strette, oscure, tortuose; meritano a mala pena quel nome, perchè, o disseminate qua e là senza ordine di sorta, od ammonticchiate le une sopra le altre, non si prestano alla formazione di strade regolari, e sembra piuttosto di trovarsi nei giri tortuosi del letto di un torrente, che in vie aperte alla comunicazione scambievole degli uomini.

Generalmente, sorge sopra ogni villaggio un castello rovinato, quasi marchio in fronte al sanguinoso medio evo. Pochi sono gli indizi, le traccie di arti belle; le chiese stesse sono più che modeste, e di architettura tutta primitiva. La vita che si vive in quei paesi pare estranea alla civiltà, porta in generale l'impronta della selvatichezza e della miseria. Difatti, per qual motivo i contadini abbastanza agiati di oggidì, i quali non hanno a temere più nè gli arbitrî nè i soprusi dei baroni, nè le scorrerie dei soldati di ventura, nè le sorprese dei satelliti dell'inquisizione, continuerebbero a rintanarsi in quelle meschine catapecchie, tristi avanzi del medio evo? L'abitudine è certamente, se non sempre dolce, pure abbastanza tenace, e gli abitanti del mezzogiorno sono più ostinati degli altri nei loro usi, nei loro costumi, particolarmente nelle regioni aride e montuose, di per sè ribelli al progresso agrario, e l'inerzia ed il sudiciume sono purtroppo qualità caratteristiche delle contrade.

Parlo dei piccoli villaggi della Provenza, non delle grandi città avvezze alla civiltà, alla vita sociale, le quali però sono esse pure di aspetto malinconico, decaduto e sudicie esse pure. Così è Donzères, così Mondragone col suo nero castello, così la Palud Mornas con le sue memorie sanguinose, Piolenc (nomi strani, bizzarri, sonori) così pure Orange, che richiama tutto ad un tratto al ricordo della storia della Borgogna, dei Paesi Bassi, dell'Inghilterra ed anche della Prussia; sede una volta dei principi, da cui derivò la casa di Orange, ma pur sempre città piccola, d'aspetto cupo, notevole per alcune antichità romane e medioevali.

Nelle campagne regna un profondo silenzio; si vedono appena qua e là alcuni contadini intenti a lavorare la terra, e, nonostante la vicinanza di due grandi città commerciali, quali sono Lione e Marsiglia, non vi si scorge quasi indizio di attività industriale e commerciale. Anche le stazioni della strada ferrata sono in generale vuote di passeggieri; ad ogni stazione però stanno aspettando preti col loro breviario, monache coi loro rosari e con le loro grandi croci. In una parola, questa contrada non è contrada francese; queste popolazioni dalla faccia abbronzata dal sole, dai capelli neri, non sono francesi; sono preti romani, o popolo misto di liguri, celti, borgognoni, visigoti, romani ed anche di greci massilioti, i quali tutti popolarono queste regioni con le loro colonie.

Le sponde qua e là altissime del Rodano, con le loro tinte calde, l'aspetto affascinante di esse in molte parti, come all'incantevole Roche de Glun, eccitano la fantasia, e quanto più uno si inoltra nel sud, tanto più il paese gli appare bello e originale.

Presso Mornas vidi i primi olivi, ma sembravano ancora delle piante esotiche. Di limoni e di aranci non ne vidi, ad onta della prossimità della città di Orange. Presso Sorga si varca il celebre torrente di questo nome, il quale scende dai monti romantici di Valchiusa, dove Petrarca cantò la bella Laura. Sorge in vicinanza Avignone, sul possente Rodano, e di là signoreggia tutta la contrada il palazzo dei Papi, uno dei più cospicui monumenti che ci siano rimasti del medio evo, gigantesco, di aspetto cupo; esso richiama alla memoria in certo modo quelli d'Egitto.

Avignone non è nè grande nè bella città, però varia di aspetto ed originale. Ai tempi dei Papi contava ottantamila abitanti; oggidì sono ridotti a trentasettemila quelli del decaduto capoluogo del dipartimento di Valchiusa. Al pari di tante città d'Italia, dalle quali si ritirò la vita storica, non è più che un monumento senz'anima. L'aria vi è, per così dire, impregnata di leggende, di storia, ma non già, come quasi ovunque in Italia, di belle e poetiche tradizioni; qui tutto è severo. Vi abbondano il fanatismo, la prepotenza baronale, l'assolutismo clericale; mancano la vita civile, il soffio della democrazia, i contrasti armonici della vita attiva e del genio della civiltà. L'ombra del suo medioevale castello ciclopico si stende su tutta la città, e si direbbe la opprima, le impedisca di risorgere; guardando da quello Avignone, si pensa involontariamente ad un legittimista caduto in bassa fortuna, sul logoro abito di velluto del quale, si scorgano tuttora vestigia di ricami in oro.

Allorquando camminavo sul selciato, veramente cattivo, di queste strade oscure e contorte, mi pareva di trovarmi ancora in Anagni, dove pure più d'una volta tennero corte i Papi e dove sussistono tuttora le rovine del palazzo di Bonifacio VIII. Quella città è decaduta, deserta, polverosa, incresciosa, quanto lo è appunto Avignone. Fu in Anagni che Bonifacio VIII fu sorpreso e trattato nel modo più indegno da Guglielmo di Nogaret, inviato dal re di Francia Filippo il Bello. Pochi anni dopo lo stesso re Filippo portava il papato esautorato e ridotto a' suoi voleri, nella cattività francese, o, come fu detta, di Babilonia, fissandone la sede quivi in Avignone. E queste reminiscenze storiche, queste relazioni fra le due città, mi facevano pensare sempre più ad Anagni, della quale serbavo profondo ricordo.

Le mura stupende della città, opera dei Papi, con le loro torri quadrate, con i loro merli, con le loro porte; l'alta ed ampia rupe ( Rocher des Doms ) con la cattedrale e coll'immenso palazzo; la città di aspetto grigio, dalla quale sorgono alcune antiche torri, il Rodano che lambe le mura; gli avanzi pittoreschi del ponte di S. Benezet; il ponte sospeso che porta nell'isola sul Rodano; sull'altra sponda di questo, l'aspetto bizzarro di Villeneuve-les-Avignon con le sue torri, e col suo castello; tali sono i caratteri principali, che prima appaiono, di Avignone.

La posizione della città, senza essere straordinariamente bella, non manca però di un certo pregio; imperocchè il nobile fiume dà alla città stessa ed al suo territorio un carattere di grandezza e di maestà. L'orizzonte è vasto e bello, e mi sorprese, ad onta delle mie fresche reminiscenze d'Italia, quando dalla riva del Rodano salii la lunga ed ampia gradinata che porta sul Rocher des Doms. Si scorge una campagna di aspetto completamente meridionale, coltivata ad oliveti, e con piantagioni di gelsi, di robbia, di viti, attraversata dal Rodano, dalla Sorga, dalla Duranza, irrigata da numerosi canali, popolata da moltissimi villaggi. Un cielo limpido e sereno si stende su quella regione di colline. Sulla sponda destra del Rodano, arida e di tinta gialla come le roccie della Sicilia, si scorgono le rive di Villeneuve, il forte S. Andrea, Chateau-neuf-des Papes, i monti ricchi di oliveti di Valchiusa, più in là l'alto Bentoux, l'azzurro Luberon, le cime delle Alpi del Delfinato e della Provenza, e finalmente le montagne della Linguadoca. Tutti questi monti non hanno le belle forme dei monti italiani, campeggiano però in un'atmosfera e sotto un cielo meridionale, ed annunciano la vicinanza del bel paese. Allorquando i cardinali italiani e romani (che sempre ve ne furono alla corte dei Papi francesi) gettavano lo sguardo su questi campi di Provenza, potevano fino ad un certo punto trovarvi un ricordo delle bellezze d'Italia ed una reminiscenza del panorama grandioso di Roma. I cardinali poi, ed i Papi francesi che l'amore di patria legava a queste contrade, potevano rivolgere sovra esse con soddisfazione i loro sguardi e consigliare agl'Italiani di consolarsi col vino eccellente di Borgogna, e con le belle avignonesi, dagli occhioni neri, diletto, questo, che essi non disprezzarono mai.

La vegetazione sul Rocher des Domes è tutta quanta meridionale. Vi crescono e vi fioriscono, sulle terrazze, i leandri, l'alloro, gli alberi della vite, le ginestre ed i pini, e vi scorsi pure alcune piante di aloe, per quanto queste piante d'Italia fossero piccole, tisiche, come piante esotiche. Si capiva che il suolo non era quello ancora, in cui potessero prendere tutto il loro sviluppo. Nel pensare allo splendore della vegetazione d'Italia, mi pareva che i Papi avessero cercato di portare nella cattività di Babilonia la flora romana. Gli aranci ed i limoni non crescono in Avignone all'aperto, per quanto vi sia caldo il sole, e non vidi che meschini gli allori, i cipressi ed i pini, che crescono cotanto maestosi in Roma. Del resto, il suolo di Avignone è fertile, produce vino ed olio eccellenti, fichi, mandorle e robbia soprattutto, in grande quantità.

Si riferisce alla coltivazione di quest'ultima pianta una grande statua di bronzo, che sorge sulla spianata del Rocher des Doms. Avvezzo a trovare in Italia sulle piazze delle cattedrali la statua del santo patrono della città, mi mossi verso quella per vedere quale fosse il protettore di Avignone, e trovai scritto sul piedistallo: A Jean Althem introducteur de la garance, les Vauclusions reconaissants.—1846. Di fronte alla cattedrale di Avignone, in prossimità del Vaticano francese, non sorge dunque la statua di un Papa, nè di un martire, nè di un vescovo, ma quella di un semplice cittadino, il quale introdusse nella Provenza, non già l'inquisizione, ma una pianticella la quale fa ricco il paese, tingendo di un bel rosso i calzoni di seicento mila francesi. E ciò mi confermò che non mi trovavo già in Anagni, ma in una città della Francia attiva ed industriale, fra Lione e Marsiglia. Giovanni Althen però non era avignonese, ma persiano. Venne in questa città nel 1756 e morì nelle vicinanze, a Caumont, nel 1774.

Non spirava un soffio d'aria, quando pervenni su quell'altura; benchè fossimo in ottobre, il sole splendeva ardente sulle nude rocce. Ma il vento del settentrione, il maestrale, come qui lo chiamano, si fa sentire sovente con forza, e la città vi è molto esposta; di qui l'antico proverbio:

Avenio ventosa
Sine vento venenosa
Cum vento fastidiosa.

Io però farei una correzione all'ultimo verso, dicendo: Cum et sine vento fastidiosa. Questo proverbio mi ricordò quello di Tivoli: Tivoli di mal conforto, o tira vento, o piove, o suona a morto.

Il nome di Rocher des Doms è derivato da Domnis o Dominis, e la cattedrale pure è denominata Nostra Signora des Doms. La rupe sopra la quale sorge è alta centotrent'otto piedi sopra il livello del mare, ed ottant'un piede sopra Avignone. Colà sorgeva l'antichissima acropoli e colà ebbero sede, in tutte le epoche, i principali monumenti della sua storia. Avignone rassomiglia in questo a parecchie città del Lazio e dell'Etruria, le quali ebbero nel punto più elevato l'antica rocca ed a fianco di questa il tempio, tanto durante il paganesimo quanto nell'êra cristiana; imperocchè le cattedrali ed i palazzi vescovili, fortificati e con le loro torri, furono in generale costrutti con i materiali tolti dai tempî dei pagani.

Prima di introdurre il mio lettore nel celebre palazzo dei Papi, voglio da questo Campidoglio avignonese gettare uno sguardo sulla storia di questa città e de' suoi dintorni, imperocchè, quale linguaggio possono parlare le pietre e le mura di una località famosa, se non se ne conosce la vita storica?

L'origine di Avignone è oscura; sorse certamente avanti G. C. I greci la nomarono Avenion, i romani Avenio, non si sa se togliendo il nome A vento, Ab avibus, Avineis, o da altra parola. La città fu indubbiamente capitale dei Cavari o Celti, i quali popolavano questa parte delle Gallie, e più tardi vi presero stanza pure i massiloti, quale un emporio sul Rodano. Avignone fu quindi colonia romana, con diritto di città latina, ed appartenne al pari di Ginevra, Grenoble, Valenza, Orange, Carpentras, Arles e Marsiglia, alla provincia gallica di Vienna nel Delfinato. Tutte queste città fiorirono sotto i primi imperatori, e si ebbero in esse numerosi monumenti d'architettura romana. In Avignone, però, nessuno ne rimane, mentre nelle sue vicinanze più o meno sussistono tuttora, in Orange, Carpentras, Cavaillon ed Arles. Può darsi sia vero quanto dicono i più recenti scrittori di Avignone, che quei monumenti siano stati distrutti dai Borgognoni, dai Goti, dai Franchi e dagli Arabi; se non, che nel considerare le mura colossali del palazzo dei Papi, mi pareva probabile che, al pari di molte chiese, di molti palazzi di Roma, dovessero celare nel loro interno più di un monumento romano.

La Provenza, ultima fra le provincie romane delle Gallie, divenuta finalmente romana per lingua, per costumi, fiorente per civiltà latina, ricca di scuole, di accademie, fu posseduta dapprima, per poco tempo, dai Visigoti, poscia dai Borgognoni; poi divenne provincia franca sotto Clodoveo. Se non che, tutte le razze germaniche furono sempre odiate dai Provenzali, i quali parlavano latino, ed anche allorquando i Franchi diventarono Francesi, la Francia meridionale sulle due sponde del Rodano, fino ai piedi dei Pirenei, si separò fin quasi ai tempi nostri per la lingua, per sentimento nazionale, per usanze, per costumi dal resto della nazione. La Francia meridionale si oppose violentemente alla dinastia dei Merovingi, quindi dei Carolingi; quelle provincie cercarono far regno a sè, e di qui ebbero origine i loro rapporti coi Saraceni, nemici giurati dei Franchi. Ma Carlo Martello, dopo aver sconfitto i Mussulmani presso Tours, li cacciò pure dalla Provenza, s'impadronì di Avignone, la quale aveva aperte le sue porte agl'infedeli e la pose a ferro ed a fuoco. In tal guisa la Provenza venne ridotta a signoria dei Franchi.

Intanto i Provenzali, dopo la caduta dei Carolingi, si sottrassero alla monarchia francese; elessero a Vienna (879) a loro re nazionale il conte Bosone, e così venne fondato il regno di Provenza, il quale ebbe pure il nome di Borgogna Cisiuranica, siccome quello che comprendeva molte parti dell'antica Borgogna, la Provenza, il Delfinato, un tratto della Savoia, Nizza, il Lionese, la Bressa e parte di Friburgo. Rimase separata la Borgogna Transiuranica fino al 933, nel quale anno i due regni furono riuniti e formarono il novello regno di Arles. L'ultimo re di questo, Rodolfo III, chiamò nel 1032 a suoi eredi i re di Germania, i quali mantennero a lungo su quelle provincie, attualmente francesi, e più a lungo ancora sulla Svizzera, la supremazia politica.

Sebbene passasse allora la Provenza a far parte del regno di Borgogna, continuarono però a governarla i suoi conti nazionali, in qualità di vassalli del regno e dell'impero. Dall'anno 900 in poi presero stanza in Arles e finirono per ridurre la loro signoria ereditaria pressochè indipendente, mentre sorgevano anche dei conti nazionali nella Linguadoca, e vi fondavano la famosa famiglia dei conti Raimondo di Tolosa.

Avignone appartenne al regno di Arles; ma, oltre i conti di Provenza, possedevano pure diritti sulla città, quelli di Tolosa, e quelli ancora di Forcalquier, di guisa che, prima di diventare dominio dei Papi, ebbe per lungo spazio di tempo tre signori, pur rimanendo soggetta ancora all'Imperatore di Germania; strana ed assurda combinazione, che solo il feudalismo e l'intricato suo sistema di diritto pubblico possono spiegare.

Nell'epoca avventurata in cui principiarono a svilupparsi ed a fiorire le libertà municipali, anche Avignone ottenne la propria autonomia, come l'avevano ottenuta Marsiglia ed Arles, e fu governata da consoli e da podestà, ad imitazione delle repubbliche italiane. L'imperatore Barbarossa confermò nel 1137 gli statuti di Avignone, ed allora la fiorente città prese pure il nome di repubblica imperiale.

Poco tempo dopo fu coinvolta nella grande agitazione, nel grande rivolgimento che prese nome dagli Albigesi.

L'affrancamento, l'emancipazione del pensiero andarono di pari passo coll'affrancamento della borghesia; e le città della Francia meridionale, dove fin dai tempi dei Greci e dei Romani eransi mantenuti sentimenti municipali, inalberarono con ardore la bandiera degli Albigesi e di Raimondo di Tolosa, per conquistare la loro piena indipendenza. È noto quale fu l'esito finale di quest'ultima lotta della Francia meridionale per la sua libertà; le crociate micidiali, bandite prima da Innocenzo III, quindi da Onorio contro gli Albigesi, ebbero per fine di annientare la libertà di quelle città, di rovinare la loro prosperità e di fare assorbire la loro nazionalità dalla Francia.

Simone di Monfort si rese padrone della Linguadoca, la bella proprietà dei conti di Tolosa; e Roma che a quei tempi regalava regni, quasi fosse stato il Papa padrone del mondo, lo confermò nel possesso di tali contrade. Se non che, l'infelice Raimondo e suo figlio, partiti da Genova, dove si trovavano in esilio, furono accolti con trasporto dalle repubbliche di Avignone e di Marsiglia, e si riaccese la guerra più accanita che mai. Un sasso, lanciato dalla mano di una donna, colse al capo Simone di Monfort, all'assedio di Tolosa, e gli Albigesi trionfarono per poco tempo.

Soggiacquero alla spada di Ludovico VIII, di cui l'aveva armato Onorio III. Il giovane Raimondo fu costretto alla pace, cedendo alla corona di Francia molte delle sue possessioni, ed alla chiesa romana parecchi de' suoi diritti sopra Avignone ed il contado Venosino. Roma guadagnò nella guerra contro gli Albigesi il primo titolo ad una novella signoria in Francia, ed ottenne particolarmente Venasque e Carpentras; sebbene questa cessione non avesse propriamente che il carattere di un pegno, e la Chiesa si trovasse poi costretta a dovere restituire quelle città ai conti di Tolosa. Non dimenticò però mai i suoi diritti, e fin dal 1273 il re di Francia fece cessione assoluta, e per sempre, ai Papi del contado Venosino.

Avignone, costretta da Ludovico VIII nel 1226 ad arrendersi, rimase ancora una volta soggetta ai conti di Tolosa ed a quelli di Provenza. Ma in forza dei patti della pace di Parigi, Raimondo aveva dovuto concedere la mano della sua figliuola ed erede Giovanna ad Alfonso di Poitiers, fratello del re. Colla morte del primo, avvenuta nell'anno 1249, si estinse la famiglia illustre dei conti di Tolosa ed i suoi possedimenti passarono alla Francia. Uguale sorte toccò alla stirpe dei conti di Provenza; l'ultimo di questi, Raimondo Berengario, maritò la sua figliuola Beatrice con Alfonso fratello di Carlo d'Angiò, che fu più tardi conquistatore di Napoli e carnefice di Corradino, e in tal modo anche la Provenza passò nel 1245 in potere della corona di Francia.

I due fratelli cercarono di far valere i loro diritti sopra Avignone e su altre città. Invano si rivolsero le repubbliche minacciate, per aiuto, al grande imperatore Federico II, loro alto signore, in forza degli antichi diritti dell'impero; dovettero soggiacere al duro conquistatore. Avignone si arrese il 10 maggio 1251; scomparvero così i suoi ordinamenti repubblicani e la fiorente sua civiltà municipale, alla quale doveva succedere sessanta anni dopo un'altra esotica e curiale, istituita dai Papi in quella stessa Provenza, che i loro predecessori, per mezzo di legati, avevano messa a ferro e fuoco, spegnendo la splendida civiltà della Francia meridionale, la brillante scienza di Arles, di Tolosa e di Nimes.

Avignone rimase esclusivamente ai re di Napoli, i quali portavano pure il titolo di conti di Provenza e di Forcalquier. Narrerò poi, nel palazzo stesso dei Papi, come la Chiesa romana potè ottenere questa città dalla corona di Napoli.

Il castello cupo, con le sue torri massiccie e colossali, le sue mura nere e gigantesche, interrotte da poche finestre gotiche irregolari, con i suoi fossati, con le sue saracinesche, con le sue prigioni sotterranee, produce non solo un'impressione di tristezza, ma anche sinistra. Nel complesso, il castello è un brutto edificio, un misto di fortezza e di convento, di palazzo e di prigione, fabbricato senza piano, senza disegno: una specie di laberinto. Sebbene la mole abbia una certa imponenza, questa fortezza papale in Francia, isolata da tutta quanta la storia del papato, senza veruna connessione con tutti gli altri monumenti del paese, offre un carattere di casualità, di meschinità, quando si pensi al Vaticano. Anche a fianco di questo sorge una fortezza, ma è il mausoleo di un imperatore romano; il genio delle arti ha ingentilita la sua mole e nelle sue ampie stanze brillano le meraviglie del mondo classico. A S. Pietro, a fianco del Vaticano, corrisponde in Avignone la piccola chiesa Notre Dame des Doms, annessa al castello. Rappresenta dunque, questa residenza passeggera, le sorti ed il decadimento del papato durante la sua permanenza in Francia; essa fu una prigione dei Papi, ed il suo castello baronale ricorda l'epoca del feudalismo, nella quale il supremo gerarca della cristianità non era altro che un vassallo della Francia e non arrossiva di fregiarsi del titolo feudale di conte Venosino e di Avignone.

La storia di sette Papi dà vita al castello, ma non basta a riempire quelle ampie stanze, a popolare le sue mura; appena i Papi ebbero abbandonato il palazzo, non presentò questo maggiore interesse di tanti altri castelli baronali.

Sulla porta principale d'ingresso si scorgono le armi di Avignone, una città sorretta da due aquile, e al disotto tre chiavi papali in oro; entrando, si trovano cortili deserti, mura altissime, scale eterne, lunghi corridoi come nei monasteri, cappelle gotiche ora chiuse, ampie sale attualmente tramezzate, stanze nelle torri, vôlte sotterranee, un vero laberinto di Dedalo, che fa venire le vertigini. Rimbomba il tamburo; i soldati gridano, schiamazzano, e, negli splendidi appartamenti che furono di Clemente VI, si vedono ora lunghe file di materassi e lunghe file di soldati francesi. Dopo che la rivoluzione del 1790 ebbe cacciato da Avignone i legati pontificî, il palazzo venne senza difficoltà ridotto ad uso di caserma, e serba tuttora quella destinazione. Ne ha tutto quanto l'aspetto, essendo stata devastata in modo barbaro dai soldati durante la rivoluzione, e sotto la restaurazione del 1815. I preziosi affreschi delle cappelle e di parecchie stanze furono interamente rovinati, e non vi si scorgono più che a mala pena alcune reliquie di belle pitture, della scuola di Giotto.

Queste mura, ora mute, furono testimoni durante settant'anni della storia del papato, in una delle epoche più memorabili d'Europa, quando cominciava a splendere di bel nuovo la luce delle scienze.

Il primo Papa di Avignone fu Clemente V, Bertrando du Got, arcivescovo di Bordeaux, volpe astuta in abiti sacerdotali. Eletto e confermato in seguito a segrete intelligenze con Filippo il Bello, si fece incoronare a Lione contro il volere dei cardinali; li costrinse a venire in Francia, a seguirlo in Avignone, dove fissò la sua dimora nel 1309. La città apparteneva allora a Carlo II re di Napoli; il Papa, pertanto, era suo ospite; non esistendo colà palazzo pontificio, Clemente andò ad alloggiare nel convento dei domenicani. Si prestò servilmente ai voleri del despota francese, sopprimendo vergognosamente l'ordine dei templari. Nell'atto di morire, il gran maestro di questi, Giacomo Molay, citò il Papa ed il Re di Francia fra breve davanti al tribunale di Dio, e volle il caso che la sua profezia non tardasse ad avverarsi: poichè Clemente morì in Roquemaure nel 1314. Arricchì i suoi nipoti, ma non lasciò di sè che la memoria di un ambizioso sordidamente avaro, quale lo qualificarono due grandi ed illustri fiorentini, storico l'uno, santo vescovo l'altro.

Dopo la sua morte, Avignone continuò ad essere residenza del suo successore, provenzale di nascita e contemporaneamente vescovo della città. Giovanni XXII si lusingò di poterla ridurre a signoria della santa Sede e di unirla al contado Venosino, ed a Carpentras. Si rinnovarono nella piccola Avignone le sorti di Roma; i Papi, i quali avevano a poco a poco acquistato in questa il dominio temporale, mirarono pure a diventare signori di Avignone, non appena ebbero fissata ivi la loro dimora. L'energico vecchio si decise di trincerarsi in un palazzo in suolo straniero, ed in podestà del Re di Francia. Questa nuova abitazione doveva diventare una rocca con fossi e con torri, ed a questa si offriva adattissimo il Rocher des Doms, che signoreggiava il corso del Rodano.

Giovanni XXII gettò le fondamenta della rocca di Avignone, e risale alla sua epoca la maggiore torre, detta Trouillas, la quale si estolle colossale, tuttochè non ultimata. Nel veder sorgere davanti ai loro occhi questo edificio, i cittadini di Avignone, attoniti, non potevano comprendere quale fosse la sorte riservata alla loro patria. Giovanni prese ad abitare la sua fortezza, e si fu da questa che scagliò nel mondo i fulmini delle sue scomuniche, i quali andarono a colpire anche Lodovico il Bavaro; ivi accolse pentito l'antipapa Pietro di Corbara, ed ivi lo tenne prigioniero fino alla sua morte. Giovanni XXII morì nel 1334, in età di novant'anni. Alla sua morte si rinvenne ne' suoi scrigni l'ingente somma di venticinque milioni di scudi d'oro, dei quali diciotto in moneta sonante, e sette in vasellami e pietre preziose.

Tali erano le ricchezze dei Papi in quel loro esilio di Babilonia ed in un'epoca in cui lo stato della Chiesa si trovava in piena rivolta e in cui tutte quante le Provincie erano rovinate.

Giacomo Fournier fu il terzo Papa di Avignone e prese il nome di Benedetto XII. Vecchio, senza genio, ma dotto in teologia, succedette all'abile Giovanni XXII, l'amico dei re, col lodevole proposito di purgare la Corte papale dal nepotismo e la Chiesa dai mille abusi. Cominciò allora a regnare nel palazzo pontificio una disciplina severa, tutta monastica. Se non che lo stesso Benedetto XII, dal quale molto speravano i Romani, rimase sordo alle loro preghiere, alle loro ripetute istanze, perchè trasferisse di bel nuovo la sede del Papato a Roma. Il partito francese vi si oppose virilmente; il re costrinse il Papa a rimanere in Avignone, motivo per il quale Petrarca lo fece segno ai più vivi rimproveri.

Benedetto XII ridusse l'abitazione di Giovanni XXII a guisa di fortezza inespugnabile, dandole anche in certo modo, seguendo in questo la sua indole, l'aspetto di un monastero; nè poterono più, i suoi successori mondani, togliere all'edificio questo carattere.

Clemente VI fu uomo di spirito, istruito, d'inclinazioni mondane, un perfetto gentiluomo della casa di Beaufort, amico del Petrarca, amante delle belle arti, della poesia, delle scienze; egli chiamò le Muse alla voluttuosa sua Corte di Avignone. La città che gl'Italiani, nella loro perdonabile irritazione, nomavano Sodoma, o la seconda Babilonia, fioriva in quella epoca e brillava di un fugace splendore; in un teatro così ristretto la Corte dei Papi e dei cardinali non poteva estendersi; e quei Papi francesi non furono che baroni provenzali, che cittadini della piccola Avignone. Mentre questa fioriva, Roma era divenuta un villaggio. Abbandonata dai papi, che avea cacciati le tante volte dalle sue mura, ne bramava ora ardentemente il ritorno, e dal momento che questi non si decidevano a ritornare, si abbandonava, la città eterna ad una delle imprese più singolari che ricordi la storia. Era il tempo di Cola di Rienzo.

I Romani mandarono un'ambasceria a Clemente VI per sollecitarlo a voler far ritorno a Roma; trovavasi fra i legati Cola. Fu appunto in Avignone che Petrarca lo conobbe. Fra gli ambasciatori c'era pure Stefano Colonna, capo della prima famiglia di Roma, amico del Petrarca, il quale per certo non nudriva allora il sospetto che fra pochi anni il giovine notaio avrebbe fatto uccidere i suoi figliuoli ed i suoi nipoti.

Nell'aggirarsi oggidì entro le squallide stanze del castello di Avignone, sorgono davanti agli occhi Petrarca, madonna Laura, non che la figura romantica dell'ultimo tribuno dei Romani, e rallegrano così la tristezza che regna entro a quelle mura. Se non che i soldati dai calzoni rossi di Napoleone, i quali, tornati appena dai campi di battaglia sanguinosi di Magenta e di Solferino, si andavano preparando in questo palazzo dei Papi a partire in guarnigione in quella stessa Roma papale, la quale trovasi ora in condizioni ben più critiche di quanto fosse ai tempi di Cola di Rienzo; quei soldati si frapponevano di continuo fra me e le immagini del passato. Essi non avevano idea veruna nè di Petrarca, nè di madonna Laura, nè di Cola di Rienzo, nè di Giovanna di Napoli; sapevano però che quelle mura avevano albergato Papi e potevano credere che anche attualmente un Papa era in certo modo prigioniero della Francia, e che si andava dicendo potesse venire condotto in Avignone. Sì, molte considerazioni mi facevano ricollegare, in quel castello dei Papi, il tempo dell'esilio avignonese col tempo presente.

Fu, pertanto, fra queste mura, ed in principio del 1344, che Cola di Rienzo tenne discorso a Clemente VI. Il momento era splendido, adatto ad un Demostene, o ad un Cicerone; il giovane oratore aveva posto tutto il suo impegno per arrivare a commuovere il Papa e quella nobile assemblea, acquistando contemporaneamente a sè fama non peritura. Fece una pittura vivace della miseria in cui era caduta Roma, e descrisse in particolar modo i soprusi, e la prepotenza dei baroni. Questa fu la causa della sua rovina. I Colonna, fra i quali il cardinale Giovanni ch'era presente, posero il Papa in guardia contro l'ardito demagogo, e Cola rimase un certo tempo in Avignone in povero stato, oggetto di scherno da parte dei cardinali e dei grandi. Allora Clemente VI si trovò costretto a rimandarlo a Roma, nella qualità di notaro della Camera municipale. Da quel momento ebbe principio la sua carriera fantastica in Roma, nella quale si propose non solo di richiamare la città all'antica grandezza, ma ancora di fondare l'unità d'Italia.

Il grande tribuno ricomparve ancora una volta nello stesso palazzo di Avignone. Il primo atto del meraviglioso suo dramma aveva avuto luogo in Roma. Venne nel 1351 quale prigioniero da Praga, consegnato dall'imperatore Carlo VI. Allorquando giunse in città, scortato da uomini armati, tutto il popolo si mosse per vedere l'uomo singolare, che avea operato cose cotanto straordinarie in Roma. Cola fu condotto nel palazzo, trattenuto ivi in carcere, dove gli si somministrava vitto scarso; gli venne fatto processo, al quale prese viva parte non solo Avignone, ma tutto il mondo. Era grande il prestigio del suo nome, de' suoi atti; la gloria classica di Roma circondava il singolare nipote che aveva osato vestire la toga e presentarsi qual tribuno del popolo che egli aveva incantato con uno spettacolo romano. Petrarca scrisse epistole ai Romani, richiedendoli di tentare, per mezzo di un'ambasciata, la salvezza del suo infelice amico. Intanto Cola se ne stava rinchiuso, fantasticando, in una torre del castello, forse in quella terribile Trouillas che esiste ancora. Veramente non si sa con precisione il luogo dove venisse rinchiuso, ma la tradizione accenna quella torre quale sua prigione. La sua prigionìa però si andò facendo meno severa; gli si mandavano cibi dalla tavola del Papa, gli si permise di avere dei libri, ed egli si immerse nella lettura assidua di Tito Livio, nel quale trovava descritta la grandezza antica dei Romani, ed in cui poteva ravvisare l'imagine tanto delle sue geste, quanto della sorte che lo attendeva. Visse colà fino all'agosto del 1353, nel quale anno il successore di Clemente VI non solo gli permise di ritornare a Roma, ma colà lo spedì in qualità di suo vicario. Lo strano capriccio della sorte permise al già caduto tribuno d'innalzarsi ancora una volta con splendore; furono quelli i suoi cento giorni di Roma; poi cadde trafitto da una spada, ai piedi del Campidoglio.

Domandai se per avventura esisteva nel palazzo qualche ricordo della presenza di quest'uomo singolare, ed il custode mi fece vedere un ritratto di Cola, che teneva nella sua stanza. Questo ritratto, dipinto ad olio, lo rappresentava in abito di senatore, con la testa dai riccioli neri, coperta da un berretto rosso. La sua testa grande e molto espressiva, il viso nobile, senza barba, presentava la fisonomia larga e grassa che si dice che Cola avesse avuto nell'ultimo periodo di sua vita. Il naso aquilino, di profilo prettamente romano, rivelava energia; lo sguardo era tranquillo e imperioso. Sotto il ritratto lessi queste parole: Nicolas Calabrini dit De Rienzi, tyran de Rome en 1347. Questo ritratto non aveva, a dire il vero, verun carattere di autenticità, ed apparteneva fuor di dubbio al tempo in cui il gesuita Cerceau pubblicò l'opera, senza valore: Conjuration de Nicolas Gabrini dit De Rienzi, tyran de Rome, venuta alla luce in Amsterdam nel 1734.

Un'altra figura storica del tempo di Rienzi e Petrarca aleggia nel palazzo di Avignone, quella di una bella e giovine principessa, accusata dell'uccisione del marito ed assolta dal Pontefice; Giovanna I regina di Napoli e signora di Avignone e della Provenza. Quale erede del regno, era stata fin dalla fanciullezza fidanzata dal suo avo Roberto I al giovane principe Andrea d'Ungheria. Questo re morì il 19 gennaio 1343, dopo aver stabilito un consiglio di reggenza per la durata della minorità di Giovanna. La principessa, giovane di sedici anni, punto non amava il suo consorte, di cui probabilmente non hanno gli storici napoletani esagerati i modi rozzi e la inettitudine. I baroni napoletani mormoravano contro la tracotanza degli Ungheresi che circondavano la giovane corte; decisero di sbarazzarsi di Andrea, tanto più che Clemente VI aveva di già pubblicata la bolla che prescriveva l'incoronazione anticipata del minorenne Andrea.

Giovanna trovavasi, il 18 settembre 1345, in Aversa col re suo consorte; nella notte Andrea venne chiamato fuori dei suoi appartamenti col pretesto di ricevere dispacci importanti, e, non appena l'infelice giovane apparve al balcone, fu afferrato da persone mascherate, le quali gli gettarono un laccio al collo e lo precipitarono, senza far rumore, nel giardino, dove si trovò al mattino il suo cadavere appeso ad una fune. Il popolo si commosse; la regina fuggì in tutta fretta a Napoli, dove si rinchiuse nel suo palazzo; la voce pubblica l'accusò di aver ucciso il marito, o, per lo meno, di essere complice dell'assassinio di questo. Ebbero luogo processi ed esecuzioni per ordine tanto di Giovanna, quanto del legato pontificio, che non si tardò a spedire da Avignone.

Intanto Ludovico di Ungheria, fratello dell'ucciso, preparava un esercito per muovere contro Napoli e vendicare la morte di Andrea; nel che riuscì completamente. Giovanna, giovane, bella, voluttuosa, come in tempi posteriori Maria Stuarda, e intelligente al punto che si diceva aver ereditate le splendide doti d'ingegno del suo grande avo, non sapeva in qual modo sottrarsi al pericolo imminente che la minacciava. Tolse a marito Ludovico di Taranto, suo cugino, per il quale nudriva una tenera passione già prima della morte del marito. Intanto il mondo risuonava delle accuse del re di Ungheria e delle proteste d'innocenza di Giovanna; le opinioni erano divise.

Comparvero gl'inviati di Ludovico e di Giovanna a Roma, davanti a Cola di Rienzo, e la regina si abbassò innanzi al tribuno del popolo, allora padrone di Roma e nello splendore della sua possanza, protestando la sua innocenza, con umili e lusinghiere epistole, accompagnate da ricchi doni. Sottraendosi però alla collera dell'ungherese il quale si avvicinava, si avviò, nel gennaio del 1348, in Provenza, sua proprietà, in compagnia del novello marito, e si presentò in Avignone a Clemente VI, il quale, feudatario di Napoli ed iniziatore del processo aperto contro di lei, era ad un tempo suo giudice e suo signore.

Il Papa le assegnò a stanza Villeneuve, sopra la sponda opposta del Rodano; convalidò il secondo matrimonio di lei, che non era conforme alle leggi canoniche, e fece istruire il processo, invitandola poi a comparire nel proprio palazzo, davanti ai cardinali ed ai baroni di Provenza. Giovanna pronunciò davanti all'assemblea una orazione latina a sua difesa, con tanto spirito, con tanta tranquillità, con tanta sicurezza, che tutti rimasero compresi di stupore. Il suo comparire in attitudine di accusata, di esule, la memoria del suo grande avo Roberto, protettore illustre della Chiesa e, più di tutto, la sua gioventù, la sua bellezza, la sua grazia, commossero tutti gli animi, e la giovane regina fu assolta dall'accusa di uxoricidio.

Bastò questo giudizio dei cardinali ad assolverla davanti alla propria coscienza? Era dessa veramente innocente quale la proclamarono? Fra gli storici napoletani, gli uni la condannano, gli altri l'assolvono, e la sentenza imponente dello storico d'Italia di maggior peso l'addita quale complice almeno del misfatto. Dessa fu consapevole del reo disegno, e non vi si oppose; al pari di quanto fece più tardi Maria Stuarda, in occasione della morte di Darnley.

Giovanna si preparò a far ritorno a Napoli per riconquistarvi il suo regno. Aveva d'uopo d'uomini e di danaro, e vendette, l'8 giugno 1348, la città di Avignone al Papa per la meschina somma di ottantamila scudi d'oro. Si trassero da questo fatto severe conclusioni; nessuna prova esiste a conferma di esse, ma il sospetto è facile a spiegare. L'uccisione di un re e l'assoluzione di una regina accusata di averlo spento, furono quelle che ridussero Avignone in signoria dei Papi. Giovanna riacquistò il regno di Napoli, che governò con senno e prudenza per molti anni, in mezzo ad agitazioni continue. Morto Ludovico di Taranto, sposò Giacomo di Aragona, e venuto a morte questi pure, tolse a quarto marito Ottone di Braunschweig. Cadde poi nelle mani di Carlo III di Durazzo, suo parente e nemico a morte, e questo pretendente alla corona ordinò ai suoi scherani di farla perire della stessa sorte toccata al suo primo marito. Così Giovanna di Napoli fu strangolata nel castello di Muro, nelle Puglie, nel 1382.

Mentre le mura del palazzo di Avignone richiamavano nella mia memoria questo episodio sanguinoso della storia del reame di Napoli, il mio pensiero si fermava a considerare le condizioni attuali del regno stesso, le cui sorti incerte ed agitate traggono a sè l'attenzione di tutta quanta l'Europa. Pensavo al giovane re Francesco rinchiuso nelle mura di Gaeta, erede degli errori e delle colpe de' suoi padri, fuggiasco dalla sua capitale, abbandonato dal suo popolo, stretto d'assedio dalle truppe italiane nella sua ultima fortezza, minacciato dal re di Piemonte, che mira a precipitare dal trono il suo congiunto, inalberando l'antica bandiera di Cola di Rienzo, la bandiera dell'unità d'Italia, con Roma capitale. Il fuoco dei cannoni di Gaeta è l'ultimo lampo del tramonto di un dispotismo che non poteva più durare.

Avignone, pertanto, era diventata, come abbiamo visto, proprietà della Santa Sede, e Clemente VI non tardò a prenderne possesso con sua grande soddisfazione, perchè vi si sentia non meno signore di quanto lo fosse già in Venasca e Carpentras. In un'epoca in cui la Chiesa era venuta perdendo a mano mano i suoi possedimenti in Italia, quel tratto di terra provenzale doveva apparire ai Papi come un vero asilo e come un rifugio inaccessibile alle tempeste, dinanzi all'aspetto della rivoluzione che sembrava dovesse di giorno in giorno scoppiare in Roma. Mentre per varî secoli erano stati dalla ribellione cacciati ripetutamente dall'Urbe ed era colà la loro esistenza divenuta continuamente precaria, in Avignone avevano quiete e tranquillità, ed i settant'anni d'esilio di Babilonia furono per lungo tempo i soli anni pacifici del Papato. Non c'è, quindi, da stupire che i Papi esitassero a staccarsi da Avignone.

Se attualmente la Chiesa romana possedesse un territorio di là dalle Alpi, non sarebbe improbabile che Pio IX, in condizione di cose che ricordano l'epoca di Cola di Rienzo, vi cercasse rifugio, invece di rimanere, sotto la dubbia protezione della Francia, in Roma.

Clemente ampliò ed abbellì il palazzo dei suoi predecessori. Vi eresse una stupenda cappella, o piuttosto una chiesa gotica, di gran lunga superiore, per ampiezza e per bellezza architettonica, alla cappella Sistina del Vaticano. La ornò, come del pari varie stanze del castello, di buone pitture a fresco, per opera di maestri chiamati d'Italia. Tutte queste pitture vennero distrutte; la cappella, divisa in due piani ed in varie camere, venne ridotta ad uso di caserma, e si vedono con dolore gli archi gotici incassati nei muri ed avanzi di pregevoli affreschi, che erano, senza dubbio, della scuola di Giotto.

Clemente VI morì il 6 dicembre 1352, dopo oltre dieci anni di pontificato e dopo aver vissuta vita piacevole e splendida. Aveva radunato in Avignone il fiore della Francia meridionale, ed introdotto il lusso alla sua corte; nelle sale del suo palazzo, gremite di belle dame, di cavalieri, di poeti, di artisti, di dotti, le feste si succedevano alle feste. Egli fu largo co' suoi nipoti, co' suoi favoriti, delle dignità della Chiesa e dei tesori accumulati dall'avarizia del suo predecessore. Fu il papa più brillante di quanti ebbero stanza in Avignone, ed il cupo castello sotto di lui si può paragonare al Vaticano nei tempi di Sisto IV, di Giulio II e di Leone X.

Tre papi abitarono ancora dopo di lui la Francia; l'ultimo di questi pose fine all'inopportuno esilio, riportando la sede del sommo pontificato nella città eterna.

Il severo Innocenzo VI fu il contrasto preciso di Clemente VI. Proscrisse ogni lusso dalla corte di Avignone, rimandò a Roma Cola di Rienzo, facendolo accompagnare dal cardinale Egidio Alvarez Albornoz, uno degli uomini di Stato e dei capitani più distinti che abbia avuto la Chiesa. Egli, difatti, riuscì a riconquistare al patrimonio di S. Pietro le provincie perdute, meglio di quanto non abbia saputo fare, a' giorni nostri, il generale Lamoricière. Roma stessa piegò davanti a quell'energico spagnuolo, e fece ritorno al papa. Innocenzo VI morì in Avignone il 12 settembre 1362.

Gli succedette Urbano V (1363-1370). Potè essere grato ai suoi predecessori, i quali avevano provveduto a cingere Avignone di mura, imperocchè, senza questa precauzione, sarebbe caduto nelle mani di quelle bande armate, le quali in allora percorrevano, saccheggiando, l'Italia ed il mezzodì della Francia. Circondarono quelle la città, ed il papa si vide costretto ad ottenere, con molto denaro, il loro allontanamento. Petrarca, oramai vecchio, esortò allora Urbano, perchè abbandonasse la Francia e facesse ritorno a Roma, divenuta tranquilla. I Romani lo avevano richiamato per mezzo di un'ambasciata, ed Urbano si portò difatti, nel 1367, nella desolata città; se non che, nel 1370, abbandonò di bel nuovo Roma e l'Italia, fattesi deserte, e non valsero a trattenerlo le supplicazioni di S. Brigida, la quale gli profetava la morte, quando facesse ritorno ad Avignone. E volle il caso che la profezia si avverasse, poichè Innocenzo cessò di vivere nel dicembre, non appena ritornato in Francia. Egli aveva ultimato il palazzo pontificio, aggiungendovi la settima torre, denominata degli Angeli. Le altre sei avevano nome Trouillas, S. Giovanni, l'Estrapade, S. Lorenzo, la Campana e la Gache.

Il suo successore Gregorio XI fu l'ultimo papa in Avignone. Scosso dalle preghiere dei Romani, di Pietro d'Aragona, delle sante donne Brigida e Caterina da Siena, la quale ultima venne persino a tal uopo in Avignone, abbandonò, il 13 settembre 1376, per sempre la Provenza, accompagnato da tutti i cardinali, ad eccezione di sei, i quali preferirono continuare ad abitare le loro amene ville sulle sponde del Rodano.

Perde da questo momento ogni interesse il palazzo dei Papi, imperocchè, dopo il loro ritorno a Roma, rimase deserto. Durante lo scisma, però, vi abitarono ancora due antipapi: Clemente VII e Benedetto XIII, il quale ultimo vi fu assediato.

Dal 1409 in poi, Avignone ed il contado Venosino furono governati da cardinali legati, fra i quali però gl'italiani, quasi sempre nipoti, punto non si muovevano da Roma, facendosi rappresentare da vice legati. L'ultimo fu Filippo Casoni; la repubblica francese lo scacciò per sempre col dominio papale da Avignone, e questa città venne funestata da atroci scene di sangue sotto Jourdan, Duprat e Jouve, nella notte dal 16 al 17 ottobre 1791. Si fa vedere tuttora, nella torre Trouillas, il luogo dove le vittime infelici erano precipitate da quelle belve umane, sitibonde di sangue. Era pur troppo naturale che l'odio, concentrato a lungo contro la dominazione pontificia, somministrasse pretesto a quegli atti crudeli: il popolo parlava di carceri sotterranee della inquisizione nel castello, di orribili misteri consumativi durante il governo dei legati. La favola narra che nel secolo XV, nell'epoca terribile dei Borgia, un vice legato avesse invitati i cittadini più distinti di Avignone ad una festa nel palazzo pontificio, che avesse chiuso quindi le porte delle sale, e, appiccato il fuoco agli appartamenti, avesse arsi vivi i suoi ospiti; così egli avrebbe vendicato un nipote assassinato da un marito tradito.

Quando si visita Avignone, sotto l'impressione di simili atrocità commesse dalla rivoluzione, sotto il ricordo ancora recente dell'assassinio del maresciallo Brune, commesso dai realisti il 2 agosto 1815, quando si vede quella popolazione rozza e fanatica, si prova un vivo desiderio di partire al più presto da quella città. Oggidì la popolazione di Avignone è ritenuta ancora per superstiziosa, rozza, irritabile, ignorante, ed è possibile che questa contrada possa divenire ancora teatro di brutti eccessi.

Non voglio però dimostrarmi ingrato verso una città così notevole, e mi ci tratterrò ancora un poco. Ci rimane a visitare l'antica cattedrale, il San Pietro di Avignone, ché difatti quello di Roma potè per ben settanta anni nutrire invidia a questa chiesa piccola, nera ed oscura, quale usurpatrice dei suoi diritti secolari. Intanto i Papi si trovarono in questo angolo del mondo, ridotti ad una semplice cappella, la quale sottraeva le pompe del culto e gli atti della storia della Chiesa agli sguardi della cristianità.

Nôtre-Dame des Doms, secondo la tradizione, venne fondata da Santa Marta sorella di Lazzaro, imperocchè la pia donna sarebbe sbarcata nella Camargue, avrebbe introdotto il cristianesimo nella Provenza e fabbricata la prima chiesa in Avignone, sulle rovine di un tempio d'Ercole. L'origine, del resto, di Nôtre-Dame, non è conosciuta, ed il suo vanto di essere stata edificata da Carlomagno trovasi tutt'altro che fondato; solo è certo che essa è una chiesa molto antica, come lo si vede dalla sua porta principale, di stile prettamente romano, fiancheggiata da due colonne antiche d'ordine corinzio. Il vandalismo della rivoluzione, il quale ridusse a mucchio di rovine altre chiese della città, non risparmiò neppure questa. Rimane, a soddisfazione dei dilettanti di antichità, la così detta cappella di Carlomagno, ma andarono miseramente perduti i monumenti di varî Papi, ricordi preziosi dell'arte gotica nel secolo XIV. Furono restaurate le tombe di Benedetto XII e quella più pregevole di Giovanni XXII, di gusto gotico, con fini sculture e con la figura del pontefice stesa sopra un sarcofago. In una nicchia esistono alcuni avanzi della tomba del cardinale di Armagnac; nel Sancta-Sanctorum si scorge la lapide mortuaria di Luigi Balbo Bertone di Crillon, soprannominato il Bravo, l'amico di Arrigo IV. Egli morì in Avignone nel 1615, e la sua statua in bronzo sorge sulla piazza dell'Horloge.

E' questa la più bella piazza della città, e trovasi a poca distanza, scendendo dal palazzo dei Papi. E' circondata da varî belli edificî, fra i quali l'elegante teatro ed il nuovo palazzo municipale, nello stile del risorgimento francese, preceduto da una corte sopracarica di colonne. Il custode, che me lo fece visitare, mi diceva con aria d'importanza che Luigi Napoleone aveva onorato quel palazzo della sua presenza, nel recarsi ad Algeri, che le scale erano state ricoperte da tappeti, e tutto il quartiere aggiustato con gusto squisito. L'Imperatore venne accolto con grande ostentazione; però il partito legittimista è ancora numeroso in Provenza, sebbene sia grandemente scaduto di ricchezze. Intanto Napoleone può per qualche tempo riposare tranquillo; ha per sè i proprietarî e le classi che lavorano; si odono per ogni dove le sue lodi: egli ha domato la rivoluzione, ristabilito l'ordine e, co' suoi trattati di commercio, ha procurato immenso vantaggio a queste contrade vitifere. Ed inoltre, notre préponderance!... Sono parole che si sentono ripetere ad ogni passo.

In fin dei conti convien però dire che il visitare questa città cagiona una grande stanchezza. Le sue strade, dove qua e là sorgono alcuni palazzi, in stile del risorgimento, alcuni edificî antichi e bizzarri, con porticati e cortili che richiamano a sè l'attenzione, sono cupe; l'atmosfera che vi si respira, è malinconica e suscita tristi ricordi.

Quanto non sono più belle le piccole città della Toscana, Prato, Pistoia, Siena, Arezzo, nelle quali ad ogni tratto s'incontrano meraviglie d'arte, memorie della libertà municipale, di una antica e splendida civiltà!

Ho visitato la maggior parte delle chiese di Avignone; non havvene una che si possa dire propriamente bella, e tutte, quasi, recano le traccie della devastazione dell'epoca rivoluzionaria. Entrai una domenica in S. Didier, chiesa di architettura gotica; era piena di donne velate di bianco, le quali, inginocchiate, cantavano delle litanie. Era un quadro pieno di anima e di vita; in quel raccoglimento devoto, nelle armonie di quei canti mi parve ravvisare l'influenza esercitata da Roma per lunghi anni su Avignone. Era un quadro di carattere prettamente romano, se non che la piazza attorno alla chiesa, ombreggiata da grandi alberi, non aveva affatto aspetto romano, nè meridionale, e mi ricordava piuttosto le chiese campestri delle care mie contrade natìe.

La folla dei fedeli non mi permise che di gettare un rapido sguardo sopra un bassorilievo, a cui si dà il nome di images du roi René; imperocchè queste sculture sono attribuite al buon Re; e non è a dire di quante statue e di quanti quadri lo faccia autore, nella Provenza, la tradizione.

Sorge, a poca distanza da S. Didier, la chiesa del patrono della città, S. Agricola, il quale è invocato in tutte le pubbliche calamità, e particolarmente nei tempi frequenti di siccità. Questa chiesa risale al secolo X e venne ampliata in secoli posteriori; la sua facciata gotica, con larghe torri merlate, è originale, e la semplicità dello stile ogivale anche nell'interno rivela la sua antichità.

Merita pure di esser ricordata la cappella dei penitents noirs de la miséricorde. Si conserva in essa il famoso crocifisso d'avorio di Guillarmin, opera del 1659, e la suora che lo mostra, narra la leggenda del nipote dell'artefice, condannato a morte, e, per intercessione di quel Cristo, salvato.

Avrei visitato molto volentieri la chiesa ed il convento dei domenicani, quale ricordo di un'epoca storica, della guerra contro gli Albigesi; ma quegli edifici stupendi furono rovinati totalmente dalla furia rivoluzionaria. Il primo Papa d'Avignone ebbe stanza in quel monastero, ora distrutto, ed ivi Giovanni XXII dichiarò santo il più gran filosofo del medio evo, Tommaso di Aquino, alla presenza del re di Napoli. Quel Papa riteneva, fra le cose sue più preziose, lo stupendo codice in pergamena della Somma del santo, e lo lasciò, morendo, alla biblioteca del monastero, con l'espressa condizione che dovesse essere fissato al muro con una catena. La rivoluzione venne a liberarlo, ed ora il prezioso volume, coperto della polvere dei secoli, gode della sua libertà o del suo oblio nella biblioteca civica. Caterina da Siena, monaca dello stesso ordine, rivolse in quel monastero le sue esortazioni al Papa, per persuaderlo a far ritorno a Roma. Era stato quel convento costrutto poco tempo prima, nell'anno 1330, e si assicura che il suo cortile fosse bellissimo e affatto non la cedesse per vaghezza a quello di S. Trofimo in Arles. I sanculotti rovinarono tutto, comprese pure le tombe di ventiquattro cardinali, sepolti nel convento. La chiesa, in gran parte distrutta, venne ridotta più tardi a fonderia di cannoni.

Per farsi un'idea delle vandaliche devastazioni, operate dalla rivoluzione nella Provenza, è d'uopo visitare il museo d'Avignone. Trovasi allogato in un palazzo ampio del secolo XVIII. Dopochè il benemerito dottore Calvet fondò questo museo nel 1810, vennero accolte in esso le reliquie delle arti belle tolte dalle chiese, dai conventi, dai castelli feudali, dai palazzi, non di Avignone soltanto, ma ancora dei dintorni. Vi sono rappresentate tutte le fasi del medio evo, fino all'epoca del risorgimento francese, la rénaissance; ed io provai tanto maggior interesse a contemplare questa collezione delle antichità del medio evo nella Francia meridionale, in quanto che avevo visitato, pochi mesi prima, in Norimberga, il museo tedesco, istituzione destinata a prendere un grande sviluppo, e meritevole dell'appoggio di tutta quanta la Germania.

Il museo di Avignone, del resto, anche per quanto riguarda l'epoca classica, è povero in paragone di quello di Norimberga, e, tuttochè sia diviso in varî rami, non presenta più che un periodo di civiltà. Nella galleria del medio evo si vedono numerose sculture, e si possono seguire i progressi della plastica, dagli antichi sarcofaghi cristiani fino agli avanzi dei mausolei dei cardinali di Brancas e Lagrange, del conte Raimondo di Beaufort e del maresciallo de la Palice.

Alla collezione di antichità classiche contribuirono quasi tutte le città del mezzodì della Francia; in complesso, però, è povera e non vi si vedono oggetti pregevoli; tanto più che quasi tutte quelle città posseggono il proprio museo. Si osserva, però, con interesse tutto quanto fu rinvenuto in questa parte della Francia, dell'epoca dei Romani, ed anche dei Greci. Vi sono parecchie antiche iscrizioni greche, e altre greche del tempo dei Romani. Si deve pure far menzione di una bella collezione di piccoli bronzi e di un ricco medagliere di tutte le provincie e di tutte le epoche della Francia. Trovasi, nello stesso palazzo, la biblioteca civica, la quale conta più di sessantamila volumi. Contiene parecchie buone opere sulla storia del mezzodì della Francia, ma sono scarsi i manoscritti ed i documenti originali. Gli atti del papato, durante la sua stanza in Avignone, vennero già da tempo, come è noto, trasportati negli archivi segreti del Vaticano. Stanno in una sala della biblioteca i ritratti degli uomini illustri appartenenti al dipartimento di Valchiusa, fra' quali il duca di Mahon, il prode Crillon, Giovanni di Althens, il cardinale Maury, il pittore Mignard, il dottore Calvet, e vi si vedono pure i ritratti di Petrarca e di Madonna Laura, i quali datano però da epoca posteriore.

Nel piano superiore c'è una galleria di quadri, abbastanza pregevole per Avignone; vi sono pochi buoni quadri antichi italiani, fiamminghi e tedeschi di valore, ma molti francesi, particolarmente di Mignard e dei cinque Vernet, la cui famiglia era originaria di questa città. Del resto, bisogna osservare che Avignone non ha prodotto nessun uomo che possa dirsi un vero genio; anzi nessuno dei celebri, a ragione o a torto, poeti della Provenza nacque sulle sponde del Rodano o della Durance. Era d'uopo venisse un forestiero da Arezzo, per dare a quelle contrade il prestigio poetico; ed Avignone gli offrì, ad argomento de' suoi versi armoniosi, una bella donna, come Crotone o Taranto offrivano le loro ragazze per modelli a Zeusi. Ben più avventurata fu Firenze che può vantarsi ad un tempo di Dante e di Beatrice.

Ed ora, addio, chiese, palazzi, musei e meschine antichità di Avignone! Come finiscono per stancare questi quadri, questi monumenti, queste reliquie dei tempi andati! Come riposa il ricrearsi nella vista della bella valle del Rodano ai piedi della città! Lo splendido sole di Provenza illumina le verdi isole del fiume, indora la collina di Villeneuve ed invita il viaggiatore a passeggiare all'ombra dei pioppi e dei platani agitati dal vento, a prestar ascolto al muggito delle acque poderose, a contemplare le grandi barche di trasporto che guizzano con la rapidità della freccia sotto gli archi del ponte! La vista, dalla porta dell'Ouille di Avignone, dell'ampio Rodano con le sue due isole, e con le rive singolari della Linguadoca, è bella davvero; non valse, però, a cancellare dalla mia memoria quella contemplata poco tempo prima, della Vistola, il gran fiume che svolge le sue acque profonde sotto gli archi giganteschi del ponte della strada ferrata presso Dirschau, nè l'immagine del Nogat che scorre tranquillo ai piedi dell'antica e bella Mariemburg. Il castello del medio evo, dei cavalieri dell'ordine teutonico, torreggia colà in modo assai più pittoresco che il palazzo dei Papi in Avignone.

Il fiume separa Villeneuve dalla città, e la Provenza dalla Linguadoca. Le due rive sono congiunte da ponti; di uno, di costruzione romana, non sussistono più che quattro grandi archi molto pittoreschi e che si estendono per un tratto dalla riva sopra il fiume, poi cessano. Su di essi sorge una piccola cappella, che guarda, solitaria e fantastica, i flutti. Narrasi che risiedesse in quella il santo uomo che aveva edificato il ponte stesso, e la leggenda relativa a quella costruzione è l'unica d'indole mite e poetica che io abbia trovata in Avignone.

Il piccolo Benezet stava custodendo al pascolo le pecore della sua povera madre sui monti del Vivarais, quando, tutto ad un tratto, i monti e le valli si trovarono immersi nelle tenebre per un eclissi; era il 13 settembre del 1177. Una voce esclamò: «Benezet, dammi ascolto, perchè io sono Gesù Cristo!» Il ragazzo spaventato rispose: «Dove sei, o Signore, e che cosa domandi da me?»—«Non aver paura, lascia pure pascolare le tue pecore, scendi al Rodano e fabbricavi sopra un ponte».—«Signore io non so dove sia il Rodano; sono un povero ragazzo, non ho che tre soldi in tasca, come vuoi che io possa costruire un ponte su quel fiume?» La voce replicò: «Fa quanto ti ho detto, poichè io so dove e come dovrai costruire il ponte». Il piccolo pastore scese dal monte piangendo, abbandonò il gregge, ed incontrò un pellegrino che camminava appoggiato al suo bordone, il quale gli disse: «Figliuolo mio Benezet, seguimi al luogo dove dovrai costruire il ponte.» Allorquando arrivarono al fiume e il ragazzo vide le acque di questo, ampie, rapide, profonde, prese a piangere più amaramente, se non che il pellegrino lo confortò, gli ordinò di salire in una barca, di scendere ad Avignone, di presentarsi al vescovo, e di partecipargli l'incarico che gli era stato affidato. Così fece Benezet, e trovato il vescovo che stava predicando nella cattedrale, gli disse franco e disinvolto: «Signor vescovo! Il Signore mi ha qui mandato per costruire un ponte sul Rodano». L'ardito ragazzo venne tosto arrestato e fu condotto davanti al vicario. Ripetè al giudice l'incarico che aveva avuto, e questi, additandogli un grosso macigno che trovavasi nella corte, gli disse sorridendo che avrebbe prestata fede alla sua missione, quando fosse riuscito a sollevare quella voluminosa pietra. Il ragazzo la sollevò tosto, la caricò sulle spalle, e la portò, fra gli applausi del popolo che gridava al miracolo, sulla riva del Rodano. In un momento si raccolsero cinquemila scudi d'oro, e si pose tosto mano alla costruzione del ponte.

Tale è la meravigliosa leggenda relativa all'antico ponte di Avignone, ed io non voglio toglierle il suo carattere poetico, coll'aggiungervi dei commentarî. La grande opera fu compiuta nel 1188, ma le bande catalane cominciarono a danneggiarla nel 1395, e, dopo d'allora, il tempo e la furia delle acque la ridussero a quello stato di rovina in cui oggi si trova.

Per arrivare a Villeneuve, esistono ora due altri ponti, uno in ferro, e l'altro in legno, i quali congiungono le due isole che sorgono sul fiume, denominate Ville de Piot, e la Barthelasse. Villeneuve-les-Avignons è un paese pittoresco. Dicesi che anticamente sorgesse in quella località Stathmos, o Statuma, emporio commerciale dei Massiliotti. Il paese attuale risale al 1226; fondato dai monaci di S. Andrea, venne ampliato e fortificato da Filippo il Bello. Serviva quasi di porto avanzato alla Francia sul Rodano, e tale rimase, finchè i re di Napoli e i Papi di Avignone furono padroni della Provenza. Sorge tuttora, a poca distanza dal fiume, una bella torre, la quale si suole chiamare torre di Filippo il Bello. La sua posizione, di fronte al ponte di S. Benedetto a cui può avere servito di difesa, è bella, ed è amenissima la passeggiata ombreggiata d'alberi per arrivarvi, colla vista del fiume e della mole imponente del palazzo dei Papi. Il villaggio, del resto, è grigio, deserto, malinconico e pare anche povero, sebbene vi siano alcune tintorie di robbia ed alcune filature. Solo si scorgono qua e là alcune chiese ed alcuni palazzi cadenti in rovina, i quali ricordano i tempi, per buona sorte passati, del feudalismo.

E' cosa ben curiosa, che nel mentre Avignone si vanta dell'uomo che introdusse nella Provenza la coltivazione della robbia, Villeneuve le possa contropporre quello che nel 1560 importò in Francia il tabacco, presentandone le prime foglie alla regina Caterina de' Medici. Non ho visto a Villeneuve nessuna statua in bronzo di Giovanni Nicot, ambasciatore di Francia alla corte del Portogallo, e glie se ne dovrebbe pure innalzare una, con una grande tabacchiera nella mano ed un grosso sigaro avana in bocca. Del resto, i sigari francesi non fanno punto onore a Giovanni Nicot, perchè sono di pessima qualità.

Poche sono le cose meritevoli di attenzione in Villeneuve: esiste, nella chiesa dello spedale, la tomba d'Innocenzo VI, monumento gotico in stile di tabernacolo, il quale trovavasi dapprima nella bella Certosa del luogo, ora interamente distrutta. Venne quello ristaurato, e la statua del Papa coricato è nuova. Sulla ripida collina Andaon vi è il forte, S. Andrea, tuttora in buono stato. Vi si accede per una grande porta e sull'altipiano della collina, cinto di mura, si vede una cappella. Di là si gode la bella vista del panorama della Provenza, simile a quella che si ha dal Rocher des doms, se non che ha il pregio che di qui si scorgono pure la città di Avignone e il suo castello. Allorquando il sole sul tramonto tinge le mura gigantesche di questo in rosa, o di colore violaceo, l'effetto è magico. Questo è il luogo opportuno per prendere congedo da questa antica Avignone, illuminata dal sole cadente.

Gettai uno sguardo di desiderio su quelle campagne della Provenza, che avrei pure voluto visitare. Ero attorniato da provenzali, e la loro antica favella mi destava mille ricordi sulla loro storia, sulla loro civiltà. Quella lingua si va perdendo; tutti gli sforzi per farla rivivere dei poeti, fra' quali il più illustre è Mistral, non valgono altro che a continuarle un'esistenza letteraria artificiale. Vorrei anch'io poter intonare le rime, piene di speranza, dirette da un poeta, ancora vivente, al suo amico Mistral; ma temo non esprimano altro che un pio desiderio.

Prouvenço, o pais dei troubaire
Lou gai-sabé reverdira:
Deja milo novèu cantaire
Dison lou béu tems que viendra
Lou mounde vèi la reinessènço:
Lei Troubadour van reflouri...
O moun païs, bello Prouvènço,
Toun dous parla pòu pas mouri.

RAVENNA. (1863).

RAVENNA. (1863).

Dal mese di agosto dell'anno 1863 un tronco di strada ferrata conduce da Castel Bolognese a Ravenna. Partendo da Bologna e passando per Imola, Lugo e Bagnacavallo, s'impiegano appena quattro ore per compiere il tragitto. E' per questo che una delle città più interessanti dell'antichità e del medioevo, relegata sino a poco tempo fa fuori di ogni circolazione e confinata in una solitudine, d'accesso difficile e mezzo morta, si è trovata ad un tratto lanciata nella corrente della vita mondiale.

Quasi tutte le città italiane ci rappresentano, nei loro monumenti, le due grandi epoche della storia del paese: l'antichità romana e il medioevo cristiano. Solo Ravenna resta come vestigia della transizione dall'una all'altra di queste due epoche; e sotto questo punto di vista è impareggiabile.

Ravenna ha visto, difatti, la caduta dell'Impero romano, il primo insediamento del regno germanico sulle rovine della potenza dei Cesari, i sessant'anni della supremazia degli Ostrogoti, i due secoli del dispotismo bizantino, e ne conserva inapprezzabili ricordi.

Nel contemplare questi monumenti del V e del VI secolo, il viaggiatore che per la prima volta arriva a Ravenna, prova delle impressioni paragonabili soltanto a quelle che suscitano le ruine di Pompei; e, difatti, Ravenna è la Pompei dell'epoca gotica e bizantina.

Lo stato quasi perfetto di conservazione degli edifici sembra un prodigio, quando si pensi ai secoli di barbarie e di devastazioni che hanno attraversato. Si spiega, in parte, per la fortunata circostanza che i Longobardi non riuscirono a strappare Ravenna agli esarca bizantini. Il re Liutprando non riuscì a entrare nella città che nel 727 o 728, cioè in un'epoca in cui la civiltà aveva addolcito sensibilmente i costumi degli invasori. Nè Liutprando, nè il suo secondo successore al trono longobardo, Astolfo, distrussero i monumenti di Ravenna; solo il sobborgo di Classe, a quanto sembra, fu distrutto da Liutprando.

Per lungo tempo Ravenna rimase sede dell'amministrazione bizantina in Italia, e Roma, caduta in grande decadenza, fu governata come una semplice città di provincia. Ravenna approfittò di questa situazione privilegiata e della sollecitudine degli imperatori bizantini, che la considerarono per lungo tempo come il gioiello più prezioso dei loro possessi in Italia.

Quando, più tardi, dopo la caduta del regno longobardo e dell'esarcato, il Papa rivendicò la popolazione della città, fondandosi sui diritti che gli concedevano le donazioni di Pipino, i patriarchi o arcivescovi di Ravenna combatterono questa pretesa. Essi stabilirono il loro dominio sulla Romagna, assunsero la successione degli esarca, e, sostenuti dai privilegi che loro accordavano gl'imperatori, respinsero per molto tempo i tentativi della Santa Sede, mantenendo la loro autorità su Ravenna.

Il ricordo dei tragici avvenimenti della decadenza romana e dell'invasione barbarica, i tempi di Stilicone, di Alarico, di Attila e di Genserico, la grande figura di Teodorico, le lotte gigantesche che misero termine alla dominazione dei Goti e immortalarono i nomi di Totila, di Belisario, di Teia e di Narsete; infine, l'oscurità quasi mistica del periodo degli esarca bizantini, a mala pena rischiarata, di tanto in tanto, da qualche debole barlume, proveniente dalle cronache del tempo: tutto ciò dà a Ravenna una grazia singolare e produce sullo spirito del viaggiatore un'impressione profonda.

Come ci apparirà la città che vide compiersi tanti avvenimenti? Senza dubbio ci sembrerà più malinconica e più tetra ancora della vecchia Bologna. Ma qui ci troviamo ancora dinanzi all'ironico contrasto che la realtà appone quasi sempre alla visione che la fantasia si forma delle cose.

La delusione è grande. Cento altre città d'Italia, anche dei piccoli borghi fortificati, sperduti nelle montagne, ricordano più vivamente il passato ed offrono al primo sguardo un aspetto più storico e più monumentale dell'antica città bizantina e gotica.

Non è che a poco a poco, vagando per la città, che si sente aleggiare su noi il soffio del passato. Ma allora l'impressione diventa più possente che altrove, paragonabile solo, per la sua intensità, a quello che si prova a Roma, per quanto diversa nella natura. E' l'anima della storia universale quasi intera, che anima i monumenti della Città eterna; quelli di Ravenna non appartengono che ad un corto periodo, ma l'impronta che ne conservano è più forte che altrove.

In tutte le strade di Ravenna regna un silenzio di morte; le case sono moderne e la maggior parte piccole; le vie larghe e diritte, la città essendo costruita su di un terreno piano. Dappertutto un profondo raccoglimento. Qua e là, sulle piazze, si vedono delle curiose colonne medioevali, con l'imagine di qualche santo; altrove, la statua di un Papa che beneficò la città, pensoso e assorto nelle sue meditazioni. Di palazzi, i quali in altre città rappresentano con tanto splendore la grande epoca guelfa, non si trova traccia. Di quando in quando solamente si scorge una torre rovinata. Le chiese invece sono numerose. Qualcheduna è stata restaurata; altre hanno conservato intatto il carattere gotico primitivo. In generale, sono di proporzioni piuttosto piccole; nessuna ha l'imponente maestà delle cattedrali di Pisa, di Siena o d'Orvieto. Si direbbe che siano state addormentate da qualche incantatore e si siano conservate così fino ai nostri giorni; esse danno a Ravenna un carattere di mistero e di poesia.

E' curioso notare che a Ravenna non si ritrova vestigia dell'epoca romana. I sobborghi di Classe e di Cesarea, un tempo importanti e ricchi di grandi edifici, sono oggi inghiottiti nelle paludi e resta appena qualche segno della loro esistenza. Ravenna fu un tempo l'Avignone degl'imperatori romani. Quando, nel 404, Onorio, temendo un'invasione di goti, trasportò la sua residenza da Roma a Ravenna, rinforzò le mura e si costruì un palazzo. In qual punto sorgeva questo edificio? E' impossibile determinarlo, oggi, benchè le guide non si facciano scrupolo di indicarne il punto preciso. Antonio Zirardini, giureconsulto erudito e archeologo dei più distinti di Ravenna, ha scritto, nel 1762, un eccellente libro sulle antichità della sua patria: Degli edifici profani di Ravenna.

La sua opera è ancora la migliore che si possa consultare in proposito, e pur tuttavia non getta che una pallida luce sulle origini di Ravenna.

Fu in questa residenza che Onorio ricevette la notizia della presa di Roma per opera di Alarico; e fu là che egli morì, nell'agosto del 423. Fu però sepolto a Roma, accanto a San Pietro. Per noi, il più antico dei monumenti storici di Ravenna è il mausoleo della sorella di Onorio, Galla Placidia, una delle più straordinarie figure di donna di quell'epoca; una di quelle di cui la sorte si trova legata, nella maniera più stretta e più tragica, ai destini dell'Impero romano spirante. La figlia del gran Teodosio a ventun'anno viveva nel palazzo dei Cesari a Roma, quando Alarico arrivò davanti la città, l'assediò, se ne impadronì e la saccheggiò. Galla Placidia, condotta a lui come prigioniera, dovette seguirlo in Calabria. Poco dopo, la figlia e la sorella degli imperatori romani si vide obbligata a sposare, a Narbona, Ataulfo, successore di Alarico. Ella accompagnò in seguito suo marito in Spagna, vi divenne vedova, vi perse il figlio Teodosio, e, dopo aver subìto indegni insulti, fu rinviata a Ravenna, presso suo fratello Onorio. Appena arrivata, questi la costrinse a sposare il generale Costanzo, da cui ebbe due figli, Valentiniano e Onoria. Morto a sua volta Costanzo, Galla Placidia fu bandita da Ravenna da suo fratello ed esiliata a Bisanzio. Dopo la morte di Onorio ne ritornò, scortata da una flotta greca, pose il suo giovane figlio Valentiniano III sul trono di Occidente, esercitò il potere per lunghi anni, come tutrice del giovane principe, in mezzo a difficoltà e calamità continue, e terminò infine a Roma, a 61 anni, nel 450, la sua esistenza agitata. Con suo figlio Valentiniano III, che fu assassinato cinque anni più tardi, si spense l'ultimo discendente della razza imperiale del grande Teodosio.

La storia dell'estinzione della famiglia di Teodosio segna quella dell'agonia dell'Impero romano, e il mausoleo di Galla Placidia ci appare oggi come la tomba della potenza dei Cesari. Entrando in questo piccolo e tetro sepolcro, rivestito di meravigliosi mosaici, si prova un senso di raccoglimento storico, così intenso come non lo risveglia neppure il mausoleo di Augusto, nè la tomba romana di Adriano. La disgraziata principessa volle essere sotterrata a Ravenna, ch'essa amava e che si era compiaciuta di arricchire di numerose chiese, e non a Roma, a cui la legavano così crudeli ricordi. Si era fatta fabbricare una tomba e l'aveva dedicata, come cappella espiatoria, ai santi Nazaro e Celso.

Ci si rende facilmente conto della diversità dei tempi, quando si paragona questa tomba dell'ultima dinastia imperiale di Roma ai maestosi mausolei dei primi imperatori. E' tutta impregnata di spirito cristiano; la sua forma è quella di una croce latina, lunga cinquantacinque palmi romani e larga quarantaquattro. La cappella è sormontata da una cupola, rivestita di mosaici, come pure lo sono le nicchie e le volte; una mezza luce vi penetra attraverso piccole finestre. Nel mausoleo si trovano cinque sarcofaghi; due piccoli, incastrati nel muro laterale dell'entrata, e tre grandi, posti nelle tre nicchie formate dai bracci della croce. Nella nicchia principale, proprio di fronte all'entrata, si scorge la più grande delle urne, alta sette piedi, semplicissima. Senza dubbio, là riposa la sorella di Onorio. La tradizione vuole che, durante varî secoli, essa restasse nel sarcofago, seduta su di un trono di legno di cipresso e ricoperta de' suoi paramenti imperiali. Secondo storici più moderni, il corpo non divenne polvere che nel 1577. Si dice pure che dei fanciulli introducessero un cero acceso nei fori del sarcofago e che le pareti prendessero fuoco: così fu ridotto in cenere ciò che restava di Placidia.

Quali personaggi sono rinchiusi negli altri sarcofaghi? Non lo si può determinare in modo esatto. I due più grandi contengono, probabilmente, i resti del generale Costanzo e di sua figlia, la sventurata principessa Onoria che, fidanzatasi al terribile Attila, dopo una vita di passioni avventurose, venne a trascinare stentatamente gli ultimi anni della sua esistenza in un chiostro di Ravenna. L'opinione che il corpo di Onorio si trovi del pari in uno di questi sarcofaghi è senza dubbio priva di fondamento, poichè questo imperatore morì, è vero, a Ravenna, ma fu seppellito nel mausoleo imperiale di Roma, vicino a San Pietro.

I mosaici del mausoleo di Galla Placidia sono notevoli per la loro antichità; risalgono avanti al 450, e sono i più antichi prodotti dall'arte cristiana. Oltre gli arabeschi, felicemente disegnati, rappresentano delle figure isolate di profeti e di evangelisti e in due punti l'imagine di Cristo. Qui, come in tutte le vecchie chiese di Ravenna, si rimane colpiti dalla fisonomia bella, giovanissima e imberbe del Salvatore. Questa concezione della figura di Cristo corrisponde del resto all'ideale che la gente si formò nei primi tempi del cristianesimo. Soltanto più tardi, il viso del Salvatore venne rappresentato sotto l'aspetto vecchio, tetro e lugubre del tipo bizantino. Ravenna offre la prova manifesta dell'errore di una tale appellazione. I maestri mosaicisti bizantini, e particolarmente quelli dell'epoca di Giustiniano, hanno dovuto lavorare a Ravenna più che in ogni altra città d'Italia. E anche nei mosaici di San Vitale, posteriori di 100 anni circa a quelli del mausoleo di Galla Placidia, noi ritroviamo lo stesso tipo giovanile della figura del Salvatore, molto lontano dalla tradizione detta bizantina e che si riavvicina piuttosto all'ideale primitivo, caratterizzato dalle pitture delle catacombe. Ma lo strano si è che il secondo tipo, quello che offre un'espressione quasi demoniaca, si trova di già sull'arco trionfale di San Paolo, a Roma, decorato egualmente di mosaici per ordine di Galla Placidia, ai tempi di Papa Leone I (440-462), come lo prova anche oggi l'iscrizione: Piacidiae pia mens operis decus... Il Salvatore vi è rappresentato in mezzo busto, in proporzioni sovrumane; l'espressione del viso è tetra, e sveglia un sentimento di terrore. In quei tempi non vi erano certamente a Roma artisti bizantini; i mosaicisti facevano ancora parte dell'antica scuola, di quella che aveva decorato le Terme. Il tipo severo e terribile della figura di Cristo proviene dunque da una concezione romana, e non bizantina.

Molte altre chiese furono fondate a Ravenna da Galla Placidia. Esse esprimono lo spirito profondamente religioso e melanconico di questa donna straordinaria, che consacrò gli ultimi anni della sua vita alle meditazioni religiose e alla pia contemplazione del passato. E, mentre noi non risentiamo che del disprezzo per quel triste Onorio, che, alla presa di Roma, pianse, soltanto, a quanto dicono, la morte del suo pollastro favorito «Roma», la vita così disgraziata e turbata di Placidia c'ispira, al contrario, simpatia e profonda pietà.

Dopo aver visitato la sua tomba, si può andare a vedere quella di Teodorico, che corrisponde alla seconda epoca della storia di Ravenna e ad uno dei più memorabili periodi degli annali d'Italia.

Il duce germanico, Odoacre, avendo, nel 476, messo fine all'esistenza dell'Impero romano d'Occidente ed essendosi proclamato primo re d'Italia, governò con saggezza e fermezza in Ravenna, quando fu attaccato da Teodorico. Per tre anni si difese gagliardamente; obbligato, infine, ad arrendersi, fu massacrato nel suo palazzo per ordine del vincitore, nonostante i patti della capitolazione.

E' da Ravenna che Teodorico governò l'Italia, riunita per l'ultima volta in regno sotto la dominazione dei Goti. Egli vi costruì un magnifico palazzo. Se egli avesse mai abitato questo edificio, si potrebbe concludere che la residenza degli ultimi imperatori d'Occidente si era di già sprofondata nella tormenta dell'invasione barbarica. Ma antichi scrittori, che si occuparono del palazzo innalzato da Teodorico, hanno fatto osservare che questi non inaugurò l'edificio costruito per sua cura, la qual cosa nel linguaggio dell'epoca significa che non vi abitò. Se ciò è esatto, caratterizza assai bene il destino degli Ostrogoti, che, in generale, non riuscirono mai a prendere piede stabile in Italia. Il re degli Ostrogoti continuò dunque, probabilmente, a risiedere nel vecchio palazzo imperiale, mentre faceva costruire l'altro, del quale alcuni frammenti sono rimasti.

Si scorgono nella strada principale che, da Porta Serrata a Porta Nuova, traversa Ravenna da un capo all'altro. Là s'innalza un alto muro in mattoni, sulla parte superiore del quale stanno una grande nicchia e otto piccoli archi romani. Le porte hanno egualmente la forma di arcate romane. Così come sono attualmente, col loro triste aspetto, questi ruderi ci fanno intravedere il medio evo nascente, caratterizzato dallo scomparire della grandiosa concezione architettonica romana. Questa riduzione di dimensioni appare, del resto, in tutti i monumenti di Ravenna. In verità, sarebbe azzardato appoggiarsi alla piccolezza delle vestigie del palazzo gotico di Ravenna per concludere che, nel suo insieme, questa costruzione non era nè sontuosa, nè grandiosa. Gli antichi cronisti affermano che Teodorico si fece portare da Roma e da Costantinopoli marmi preziosi e colonne, e che impiegò specialmente i ricchi avanzi del distrutto palazzo il «Pincio». Ciò è molto strano, poichè Ravenna stessa doveva essere una miniera di magnifici materiali. La residenza di Teodorico era, dicono, contornata da portici e ornata, all'interno, di splendidi mosaici.

Davanti la facciata del palazzo si trovava la statua equestre di Teodorico, in bronzo dorato. La bellezza di quest'opera ha vivamente colpito lo spirito dei contemporanei e di Carlomagno, mediocre conoscitore, in verità, in cose d'arte. Se la morte impedì a Teodorico di stabilirsi nella sua compiuta dimora, vi risiederono però i suoi successori. In seguito, vi si stabilirono gli esarchi, mentre l'antico palazzo degli imperatori subiva la sorte delle dimore imperiali di Roma, cadeva cioè a poco a poco in rovina. La stessa sorte ebbe a sua volta il palazzo di Teodorico, che durò press'a poco due secoli. Carlomagno lo saccheggiò col consenso di papa Adriano I, e ne trasse marmi e mosaici, che fece trasportare a Aix-la-Chapelle, per ornarne la sua celebre chiesa e il suo palazzo. Anche la statua di Teodorico fu da lui trasportata di là dalle Alpi. Però Zirardini, appoggiandosi a documenti antichi, afferma che nell'XI e anche nel XII secolo si faceva ancora menzione del palazzo dei re goti; dei resti assai importanti di esso si erano dunque conservati intatti, almeno sino a quell'epoca. Tutta una parte della città si chiamava «palazzo di Teodorico»; e anche oggi il nome del gran re dei Goti viene conservato da un quartiere di Ravenna, e il viaggiatore può vederlo, non senza stupore, scritto alle cantonate delle strade.

Non si può dubitare che il resto di muro, di cui si parla più sopra, abbia fatto parte del palazzo di Teodorico. La tradizione del luogo, in cui sorgeva questo fabbricato, non poteva in alcun modo perdersi in Ravenna. Del resto, un pezzo di mosaico fortunatamente conservato a Sant'Apollinare Nuovo, rappresentante la facciata del palazzo stesso, riproduce appunto uno stile architettonico analogo a quello del muro che ho descritto. Nel 1654, un legato del Papa fece incastrare in questo muro un'urna di porfido; e siccome questa era stata trovata presso la tomba di Teodorico, ne concluse che aveva contenuto le ceneri del gran re dei Goti e ciò fu arditamente affermato nell'iscrizione oggi ancora visibile.

Il re dei Goti morì il 30 agosto 526, in discordia completa con la chiesa di Roma e con Bisanzio; fu sepolto nel mausoleo che egli aveva fatto costruire per sè e per la sua famiglia, presso l'entrata della città. Questo celebre sepolcro, monumento della dominazione dei Goti in Italia, legame tra due periodi della storia dell'arte, si è conservato fino ai nostri giorni ad un dipresso come il mausoleo di Galla Placidia. La maggior parte dei famosi sepolcri di Roma sono stati completamente distrutti, come quello di Augusto, o trasformati in fortezze e resi affatto irriconoscibili, come quelli di Adriano e di Cecilia Metella; il monumento di Teodorico, invece, ha resistito al tempo, almeno nelle sue parti essenziali. Le arcate che circondavano probabilmente le terrazze del piano superiore, sono sparite; ma i secoli non sono riusciti ad abbattere i contrafforti di pietre da taglio, nè la gigantesca cupola monolita, che sormontava l'ultima dimora del grande re barbarico. Questo monumento è la prima cosa che colpisce il viaggiatore appena giunge a Ravenna, perchè la strada ferrata vi passa vicino, a circa cento metri. S'innalza in mezzo a vigne e giardini. Un viale d'alberi vi conduce; la folta erba che lo ricopre mostra chiaramente la scarsezza dei visitatori. Questa solitudine selvaggia e questa bella verdura armonizzano con i gusti dell'eroe germanico, innamorato della fresca natura, come lo era tutto il suo popolo.

Mentre la pia Placidia che visse per molto tempo a Bisanzio, si faceva seppellire in una cappella quasi sotterranea, splendente di mosaici e d'imagini sante, Teodorico, il re goto, preferiva una sepoltura degna di un capo di barbari del nord e di un Cesare romano. La semplicità grandiosa del monumento, di cui i giganti soli sembrano aver potuto sollevare il tetto di roccia, conviene bene alla memoria dell'antico Dietrich von Bern, dell'eroe di Nibelungi; ma, d'altra parte, il carattere romano dell'insieme della costruzione rievoca il ricordo del germano già quasi trasformato dalla civiltà. Ben si adattava là l'ultimo asilo pel sovrano amico del letterato Cassiodoro, per l'erede, nello stesso tempo che per l'emulo, degl'imperatori della Città eterna.

Al piano inferiore dell'edificio una porta arcata si apre su di una sala a vôlta, avente la forma della croce latina; al piano superiore c'è una porta quadrata che dà accesso alla sala, a cui la cupola serve di soffitto. Le due scale di pietra, che conducono a quest'ultimo piano, non furono compiute che nel 1780. Nessun sarcofago appare più nelle due sale vuote; nessuna iscrizione indica il luogo ove riposavano il gran re e i suoi successori. Nessuno sa dire in quale epoca sparvero le urne funerarie, nè in qual luogo furono trasportate. La leggenda sola racconta che il feretro di porfido di Teodorico stava in cima all'edificio sopra la cupola; ma questo non può essere che un errore, poichè il sarcofago doveva rimanere piuttosto nella gran nicchia del piano superiore, di fronte alla porta d'ingresso. Un'altra leggenda vuole che il sarcofago di Teodorico si trovasse nella chiesa di Santa Prassede a Roma. Più ammissibile è che, allorquando Belisario s'impadronì di Ravenna, i Greci e gl'Isaurii abbiano saccheggiato, per vendetta, l'interno del mausoleo e disperse lontano le ceneri del valoroso capo dei Goti; e se il sarcofago non fu distrutto allora, probabilmente uno degli esarca lo fece trasportare a Bisanzio come trofeo. In ogni modo, Carlomagno certo non lo trovò a Ravenna, perchè altrimenti l'avrebbe fatto trasportare ad Aix-la-Chapelle, ove, forse, sarebbe andato a inchinarsi.

Teodorico, costruendo la sua tomba sperava, sicuramente che tutta una sua dinastia vi sarebbe venuta successivamente a riposare; ma s'ingannava. La sua casa doveva bentosto crollare, in un rapido e terribile cataclisma, e l'impero intiero dei Goti venir travolto dalla stessa tormenta. Si pensa a questa brusca catastrofe, quando ci si trova in mezzo al mausoleo, fra le nude muraglie, e si cercano invano le traccie dei morti, ai quali doveva servire d'asilo. Amalasunta, la nobile e intelligente figlia di Teodorico, vi seppellì, nel 534, suo figlio Atalarico, ultimo rampollo del ramo paterno, ucciso, nell'età più tenera, dagli stravizi italiani. Poco dopo, Amalasunta fu strangolata, in un'isola del lago di Bolsena, e, a quanto sembra, il suo corpo fu riportato a Ravenna. Il suo sposo e, probabilmente, suo assassino, Teodato, sgozzato nel 536, mentre fuggiva da Roma verso Ravenna, non trovò neppur lui riposo nel mausoleo di Teodorico; e neanche la disgraziata Matavinta, figlia d'Amalasunta, che Vitige, successore di Teodato, aveva costretto ad accettarlo per marito. Come Vitige, essa terminò i suoi giorni in prigione a Bisanzio o in qualche altra città dell'Oriente. Quanto agli ultimi re ostrogoti, nessuno di essi lasciò a Ravenna la sua spoglia mortale. Il valoroso Totila fu seppellito sugli Appennini e Teia ai piedi del Vesuvio, sul campo di battaglia, ove aveva lottato come un eroe omerico.

Il viaggiatore tedesco sente passare su di sè il grande soffio della storia e, nello stesso tempo, prova un profondo e malinconico amore per la sua patria, quando, isolato in quel deserto di verdura, contempla la tomba di Teodorico. Intorno al severo monumento del re ostrogoto aleggiano le ombre di quel secolo eroico, in cui l'epopea greca di Omero sembra confondersi con l'epopea tedesca dei Nibelungi. La mente evoca le imagini di Belisario, di Narsete, di Totila, di Teia, di Teodorico e di Amalasunta, di Cassiodoro, di Procopio, di Boezio, di Giustiniano, di tante altre figure di goti e di greci, che recitarono la loro parte in uno dei più meravigliosi drammi che la storia universale annoveri, nel caos delle nazionalità, delle civiltà che si confusero e si combatterono sulla soglia del medio evo. A Roma, l'arco trionfale di Costantino segna la frontiera tra il paganesimo e il cristianesimo; a Ravenna il monumento di Teodorico è il tratto d'unione tra il mondo antico e il medio evo germanico-romano, mentre è, nello stesso tempo, la tomba dell'arte, della letteratura, della scienza e della civiltà, protetta in generale da Teodorico e da sua figlia, ma condannata a sparire dopo essi, per secoli e secoli, nelle fitte tenebre della barbarie. Le fondamenta della tomba si sprofondano ogni giorno di più nel sottosuolo paludoso. Un papa, bene intenzionato, Gregorio XVI, se non erro, tentò di sviare le acque stagnanti per mezzo di un canale murato, ma il suo tentativo fallì. Ho trovato io stesso, nella stagione più asciutta dell'anno, un vero pantano che, in autunno, immagino, invaderà il piano inferiore del monumento. Il peggio si è che le pietre da taglio del piano superiore qua e là si staccano. Il conte Alessandro Cappi, amante della conservazione di Ravenna, si è lagnato amaramente con me dello stato di abbandono, in cui si lascia il monumento, pel quale nulla si è fatto da molti anni; e io non posso qui che unirmi a lui per scongiurare gl'Italiani a prendere, il più prontamente possibile, delle misure atte a preservare da una maggiore ruina questo importante documento dei secoli scorsi. Chi si ricorda le parole di Cassiodoro, ultimo dei Romani, ministro dell'immortale Teodorico? Siccome si portava dinanzi a lui, contro i Goti, l'accusa di essere i distruttori della civiltà antica, egli gridò: « Gothorum laus est civilitas custodita! » E' questo un proposito, al quale si dovrebbero ispirare gl'Italiani d'oggi; se essi hanno un diritto storico sul monumento di Teodorico, noi tedeschi gli siamo legati da una specie di attaccamento morale. A questo titolo, mettiamo il mausoleo del gran re dei Goti sotto la protezione del sentimento di pietà che ordinariamente ispirano i ricordi del proprio passato glorioso. Grazie a Dio, non siamo più a quell'epoca di vero vandalismo, in cui si abbandonavano con indifferenza al disfacimento e alla rovina i più maravigliosi monumenti dell'arte e della storia.

Alla fine del 539, il grande Belisario fece la sua entrata da vincitore nella città di Ravenna, fino allora inespugnabile, e si stabilì nella dimora abbandonata di Teodorico. Non è pertanto a lui, ma al suo emulo in valore e gloria, all'eunuco Narsete che il destino riserbava l'onore di por fine alla spaventosa guerra intrapresa contro i Goti. Giustiniano nominò questo generale patrizio e governatore delle sue Provincie d'Italia; e Narsete fissò la sua residenza nel palazzo di Teodorico, e Ravenna continuò a essere considerata come la capitale d'Italia.

La più celebre delle chiese di Ravenna è quella di San Vitale, presso il mausoleo di Galla Placidia. Cominciata nell'ultimo anno di regno di Teodorico e continuata durante tutto il periodo della guerra contro i Goti, era ancora incompiuta, quando Belisario fece la sua entrata nella città. Finalmente, nel 547, l'arcivescovo Massimiano consacrò la chiesa nel momento in cui, per la seconda volta, Totila assediava Roma, e Belisario, per la seconda volta pure, la difendeva vittoriosamente. La costruzione di San Vitale è dunque contemporanea alla caduta dei Goti e glorificò il trionfo di Costantinopoli. Nella stessa epoca Giustiniano erigeva, nella sua capitale, il magnifico monumento di Santa Sofia, di cui l'imagine si riflette nella forma di San Vitale. Per la storia dell'arte, questa basilica bizantina rappresenta il tipo più puro dell'architettura e della pittura del periodo giustiniano, di cui restano, a parte Santa Sofia, così pochi monumenti originali anche in Costantinopoli. Ciò, sopratutto, per i mosaici così numerosi e così ricchi in tutte le basiliche bizantine del tempo di Giustiniano e di cui la maggior parte sono oggi scomparse.

San Vitale ha la forma di un ottagono, con cupola. Delle colonne interne sostengono la chiesa, e una galleria di archi la circonda a mezza altezza. La cupola era un tempo rivestita di mosaici, ma questi a poco a poco sono caduti, mentre conservati si sono invece nella loro integrità i celebri mosaici del presbiterio. L'edificio fu così solidamente costruito, che l'opera dura da 1300 anni, senza aver subìto la minima riparazione notevole: fatto questo veramente importante nella storia del mosaico. I rivestimenti di San Vitale sembrano appartenere a due epoche distinte, separate probabilmente da un secolo d'intervallo. I più recenti mosaici sono nella parte superiore del presbiterio. Le figure del Cristo e degli apostoli si avvicinano digià a ciò che si è convenuto chiamare tipo bizantino. Il Cristo è barbuto ed ha lunghi capelli biondi. Al contrario, nella tribuna il Salvatore appare con un viso più giovane; è seduto fra due angeli, sul globo del mondo, e offre la corona al martire Vitale, mentre a sinistra sant'Ecclesio, fondatore della basilica, gli porge la pianta dell'edificio. Il Cristo porta l'aureola con la croce, ed è vestito di un manto scuro, tutto di un colore. L'espressione di questa giovane fisonomia ha nello stesso tempo tanta grazia antica e purezza ideale, quanta non ricordo di averne mai riscontrata in nessun altro mosaico. Nella stessa tribuna l'artista ha osato rappresentare, al lato dei sacri personaggi, dei ritratti profani e contemporanei, quelli dell'imperatore Giustiniano e de' suoi cortigiani. Non conosco un altro esempio simile, poichè il celebre mosaico laterano a Roma, che rappresenta Carlomagno, non era destinato che ad una sala da pranzo. Sul muro di destra della tribuna si vede Giustiniano in piedi, la testa cinta da un'aureola; il che prova come allora questo simbolo non avesse ancora il significato dogmatico attribuitogli più tardi. Egli porta in mano un'offerta; sulla sua veste semplice e scura brilla una stella d'oro; i suoi piedi sono calzati da coturni di porpora bizantina; la testa è giovanile, di un ovale regolare, il corpo vigoroso e slanciato. L'imperatore ha i baffi, mentre i guerrieri che lo circondano, armati di lance e scudi col monogramma di Cristo, appaiono assolutamente imberbi. Dall'altra parte del dipinto, san Massimiano, seguito da due ecclesiastici, s'avanza incontro a Giustiniano. Si direbbe che, per rispetto alla maestà imperiale, la quale, del resto, rivendicava anche quella del supremo pontificato, si sia volontariamente spogliato dell'aureola; egli, difatti, non porta tale attributo; tratto caratteristico, questo, del dogma bizantino e che riflette la natura inaccessibile e il prestigio divino della potenza imperiale. Sappiamo, d'altronde, che l'aureola fu originariamente tratta dalle imagini di Apollo e che essa circondava digià la testa degli imperatori romani onorati nell'apoteosi.

Di fronte, sulla parete sinistra della tribuna, si vede la sposa dell'imperatore, Teodora, un tempo prostituta a Bisanzio e famosa per l'abilità sfrontata con cui riproduceva sul teatro le scene più impudiche, in seguito imperatrice d'Oriente e d'Occidente; essa pure è riprodotta con l'aureola di Cristo sulla testa, in un santuario, in mezzo ai Santi! Conoscendo le incredibili storie che su questa donna narra Procopio, il cronista di Belisario e l'ultimo degli scrittori classici dell'antichità, e ricordando come egli abbia stigmatizzato nella sua Storia secreta il carattere di Giustiniano, si rimane veramente stupiti di trovare una simile imagine in un quadro sacro di chiesa. Certo, noi non ne vorremmo essere privati per questo, poichè hanno per la storia un prezzo inestimabile. E siccome l'arte di quell'epoca era ancora capace di esprimere le rassomiglianze, si può ammettere che queste figure imperiali non fossero parto di fantasia e che si avvicinassero abbastanza all'originale.

Teodora v'è rappresentata come una donna giovane, bella, imponente e di aspetto veramente imperiale. Porta il sontuoso diadema bizantino, e il suo sacro mantello è riccamente ornato, alla foggia orientale, di ricami d'oro e di pietre preziose. Come Giustiniano, essa tiene in mano un vaso che porta a titolo di offerta. Ai suoi lati le dame della corte, di nobile aspetto come la loro padrona, sono vestite di broccato drappeggiato all'antica, in colori ricchi e svariati. E' notevole la loro pettinatura, la quale ricorda esattamente quella delle donne romane del tempo de' Flavii e degli Antonini. Sarebbe azzardato voler ritrovare dei ritratti autentici in queste figure, che si rassomigliano le une alle altre; ma pur tuttavia tali tipi muliebri, appartenenti all'epoca più brillante, più sontuosa, più raffinata della corte di Bisanzio, non si possono guardare senza interesse. L'artista ha dato loro un carattere di vera grandezza, senza mai cadere nell'esagerato. Un'eguale espressione di solennità e di gravità è trasfusa nella loro fisonomia, e così, nonostante il carattere profano, la santità del luogo non è turbata. Esaminando quegli splendidi mosaici non si può fare a meno di rilevare che l'arte bizantina, di cui sono un'emanazione, era ancora ben vicina all'antichità. Non vi è traccia di quella concezione religiosa esaltata, nemica di ogni gioia umana, nè di quello stile rigido monastico che si è preso l'abitudine, non so perchè, di chiamare bizantino.

Per ricche che siano le chiese di Roma in mosaici, non ne possiedono che di quelli dal VI secolo in poi, e non possono certo paragonarsi al valore artistico e storico di quelli di San Vitale. Mentre s'innalzava la basilica di Ravenna, o tutt'al più dieci anni dopo, sotto il governo di Narsete, si costruiva a Roma la chiesa dei Dodici Apostoli. Disgraziatamente dei mosaici che la ornavano nulla oggi resta. I soli mosaici conservatici di quell'epoca sono quelli dell'antica basilica dei Santi Cosma e Damiano, basilica costruita da Papa Felice IV sul Foro Romano (524-530). Lo stile n'è vigoroso e originale; ma sono ancora lontani dalla perfezione artistica dei mosaici di Ravenna.

Fui lieto di trovare in S. Vitale dei mosaicisti romani, che vi lavoravano da molti anni, sino dai tempi del Governo pontificio, intenti a restaurare i mosaici. Ci fu un tempo in cui, essendo quest'arte sparita da Roma, si facevano venire artisti da Bisanzio o dalla celebre scuola di Montecassino. Ma le cose cambiarono nel secolo XIII, quando, sotto Innocenzo III e Onorio III, l'arte romana prese un novello impulso. Da allora fino ai nostri giorni, con lievissime interruzioni, l'arte del mosaico si è mantenuta florida sulle sponde del Tevere.

Gli operai, padre e figlio, che incontrai a Ravenna, appartenevano ad una famiglia che da più generazioni praticava quest'arte, appunto come la famiglia dei Cosmati, i quali vissero a Roma nel XIII secolo. Ribel, uno dei mosaicisti, era, quando lo vidi, occupato a ripulire e riparare le parti guaste d'un mosaico laterale della tribuna, con un prodotto chimico testè scoperto, il quale permette di rendere ai mosaici, anneriti dal tempo, tutto il loro splendore. La prova che il mosaicista stava compiendo su una delle figure era talmente ben riuscita, che l'imagine, ringiovanita e rinfrescata, brillava dei più vivi colori. Col tempo tutti i quadri di San Vitale saranno sottomessi alla stessa operazione, e allora solamente potremo godere pienamente la loro primitiva bellezza.

Quegli artisti mi offrirono, come ricordo, un oggetto che non si trova certo facilmente negli albums di fotografie: il ritratto di Giustiniano, in formato di carta da visita. Essi avevano trovato un'imagine di questo imperatore in certi pezzi di mosaico, che dovevano aver adornato un tempo il muro interno, situato al disotto della porta di Sant'Apollinare l'avevano pulito e fotografato. Giustiniano vi era rappresentato come a San Vitale, ma soltanto in mezzo busto. Il suo viso somigliava a quello che ammirasi nella basilica, ma appariva più pieno e leggermente effeminato. Aveva la stessa toga sacra, attaccata alla spalla da un fermaglio di diamanti; il diadema era ornato, come sulle monete, da due file di pietre preziose. Attorno al viso si delineava egualmente un'aureola circolare, di color rosso porpora, cosparsa di punti bianchi, simili a perle. La figura si staccava su di un fondo d'oro, e al disotto si leggeva in caratteri romani il nome di Giustiniano. Un ritratto interessantissimo insomma.

La bella basilica di Sant'Apollinare fu compiuta quasi alla stessa epoca di San Vitale.

L'esterno, come quello delle altre basiliche di Ravenna, non ha verun interesse. Il campanile al suo fianco ha quella forma speciale che sembra particolare a Ravenna, ove se ne trovano parecchi altri esemplari. Queste tane, di aspetto barbaro, sono circolari e di altezza media, costruite di rozzi mattoni, senza armature, nè altri ornamenti, forate da piccole finestre arcate, che una piccola colonna divide in due parti. Credo siano costruzioni dell'VIII o del IX secolo, piuttosto che del VI. L'interno della chiesa si divide in tre vani, che sopportano ventiquattro colonne di marmo greco e che, come la maggior parte delle basiliche di Ravenna, presentano un carattere di nobile semplicità. Ciò che distingue queste chiese dalle costruzioni romane della stessa epoca, è che esse hanno conservato un'impronta di grazia serena e come attaccata ancora alle potenze terrestri. Si nota pure che esse sono la libera produzione di un'epoca piena di vita realizzante, con la sua propria originalità, un ideale passato allo stato di tipo. Benchè la vecchia città, cadente in rovina, dovesse, a quel tempo, fornire ampia messe di colonne antiche, gli architetti di Sant'Apollinare hanno sdegnato servirsene. Le loro colonne e i loro capitelli omogenei, ancora più difficili a produrre, sono opere originali e non copiate da altri monumenti antecedenti. È l'opposto di Roma, ove, per costruire una nuova basilica, riunivano ordinariamente il maggior numero possibile di materiali tolti da edifici antichi, ruinando colonne ed anche capitelli eterogenei.

Il vano centrale di Sant'Apollinare è ornato di bei mosaici. Se i mosaici di San Vitale sono notevoli per le personalità storiche, di cui ci offrono l'imagine, quelli di Sant'Apollinare lo sono per la rappresentazione dei monumenti esistenti in Ravenna a quell'epoca. Sulla parete destra del vano centrale si scorge, brillante di colori freschissimi, la città di Ravenna, con la chiesa di San Vitale, con vari altri monumenti e col palazzo di Teodorico.

Sul frontone del monumento si legge, a lettere d'oro, un nome che non poteva appartenere che alla dimora di Teodorico, quello di Palatium. Seguono venticinque imagini di santi, che tengono in mano delle corone, separati gli uni dagli altri da palme. Al termine della schiera, contornato d'angeli, sta un Cristo vestito di scuro e seduto su di un trono.

Sul muro di sinistra, una composizione simmetrica rappresenta un corteo di giovani sante, un'adorazione di magi e una riproduzione architettonica. La Vergine occupa il trono, ed è una figura dolce e graziosa; ha la testa cinta dal velo delle religiose. Quanto ai re magi, la loro origine barbara si manifesta nei mantelli corti fatti di broccato, nei colori vistosi e nell'abito intero. Prive di ogni personalità, uniformi anche nelle linee del volto, le sante donne sono avvolte in ricche stoffe bizantine e in veli bianchi; portano il diadema greco sulla testa. Queste imagini limpide, finemente ombreggiate, si distinguono da certe figure di santi appartenenti alla più antica maniera, come se ne vedono nelle basiliche romane, per esempio in San Paolo e in altre chiese, il più delle volte sull'arco di trionfo e sui quadri laterali delle tribune. Si ritrova in quelle di Sant'Apollinare la tradizione dell'arte antica. Nessun segno in esse della vicina barbarie; la monotonia stessa dei tipi non stanca l'occhio, e dà piuttosto all'insieme una specie di pace solenne, animata dalla grazia dei contorni e dalla ricchezza dei costumi.

All'estremità del mosaico si vede il sobborgo di Classe, oggi distrutto, che fa riscontro all'imagine di Ravenna della parete opposta. E' un castello solidamente fortificato, con torri merlate, a cui si stende dinanzi il mare azzurro, cosparso di vascelli dalle bianche vele. Nel suo complesso è di un effetto straordinario.

Ravenna non possiede nessun'altra chiesa che possa eguagliare la nobile opulenza e le felici proporzioni di Sant'Apollinare. Ha però ancora un certo numero di vecchie e notevoli basiliche, che mi limiterò ad indicare. Teodorico vi aveva fatto costruire parecchie chiese ariane, come quella dello Spirito Santo, ancora esistente, e di Santa Maria in Cosmedino: non mi ci fermerò, come non intendo fermarmi a parlare di altri monumenti più antichi, dell'epoca di Galla Placidia, come San Giovanni Evangelista, Sant'Agata e San Francesco. Solo la cattedrale della città meriterebbe uno studio profondo, perchè fu la sede dei patriarchi, un tempo così potente, ma ricostruita intieramente nel XVIII secolo. Questa cattedrale era la più antica delle chiese di Ravenna, di poco posteriore alle chiese romane di San Pietro e San Paolo e di San Giovanni in Laterano, risalendo all'arcivescovo Urso, da cui gli venne il nome di Basilica Ursiana. In origine era una basilica a cinque navate riposanti su cinquantasei colonne. Ne' suoi muri si trovavano rappresentate in gran numero scene della storia di Ravenna. Tutto ciò ora è scomparso, e qualunque sia l'interesse di alcune parti del nuovo fabbricato, niente di esso attrae in modo speciale la nostra attenzione.

Gli archivi del palazzo arcivescovile costituiscono oggi il suo tesoro più prezioso. La collezione delle pergamene, composta di quasi 25,000 documenti, quella dei papiri, che risale sino al secolo V, poteva essere considerata come una miniera inesauribile di documenti prima che parte di queste due collezioni fosse trasportata al Vaticano, parte distrutta e dispersa.

A poca distanza dal Duomo si trova ancora il vecchio battistero di San Giovanni in Fonte, esso pure attribuito all'arcivescovo Urso. Questa curiosa costruzione ottagonale si compone di due file di arcate romane sovrapposte, d'aspetto antichissimo, ed è sormontata da una cupola interamente ricoperta di mosaici, rappresentanti il battesimo di Cristo e i dodici apostoli.

Fuori della città si possono ammirare due vecchie basiliche: Santa Maria in Porto e Sant'Apollinare in Classe. Quest'ultima è, senza dubbio, la più bella chiesa di Ravenna. Visitiamola. Come è noto, una volta il mare si avanzava sino a poca distanza dalla città e, in grazia di questa vicinanza e dei corsi d'acqua e delle lagune, Ravenna godeva una sicurezza e un'importanza commerciale pari a quelle che più tardi dovevano fare la fortuna di Venezia. E come Venezia, Ravenna, di cui la fondazione risale a tempi favolosi, era originariamente in parte costruita su delle isole.

L'imperatore Augusto, conquistato da questa posizione topografica eccezionale, aveva deciso di riparare a Ravenna la flotta dell'Adriatico; di là l'origine del sobborgo di Cesare e di Classe, di cui il secondo prese il nome dalla stazione navale stessa. Per lunghi anni Ravenna serbò il monopolio del commercio nell'Oriente; poi, l'interramento del suo porto e circostanze politiche, finirono per produrre la sua decadenza, tutta a profitto di Venezia.

Da allora l'Adriatico si è ritirato a sette miglia dalla città, in guisa che non lo si scorge più da nessuna parte. Solo il vento umido, che giunge dal largo e passa al disopra delle foreste della costa, rivela la vicinanza del mare. Il punto stesso del vecchio porto non può più essere determinato con esattezza. Il nome d'una chiesa presso le mura della città, Santa Maria in Porto, e anche la piazza di Sant'Apollinare in Classe, sono le sole a indicare la regione, dove si trovavano un tempo i bacini e gli arsenali.

Per arrivare alla basilica di Classe bisogna percorrere circa tre miglia, in direzione nord-est. Da prima si traversa il Ponte Nuovo, al disopra del fiume Ronco; poi si scorge, a due miglia di distanza, in una solitudine completa, l'antica chiesa con a lato il campanile rotondo e cupo. Tutto all'intorno si stende una vasta pianura paludosa, d'aspetto severo e malinconico, rotta qua e là da risaie. Dalla parte del mare si scorge, come una cintura di un verde scuro, la celebre e immensa Pineta. Verso ovest s'innalzano all'orizzonte, lontano, le cime azzurognole degli Appennini.

Sant'Apollinare fu costruita nel 535 da Giuliano Argentario, al quale si attribuisce la maggior parte delle basiliche di Ravenna di quell'epoca. Nel 549, la chiesa fu consacrata dal patriarca Massimiano, il quale terminò anche San Vitale. Del portico quadrato che la circondava, non rimane più che la parte anteriore, la quale forma ora il vestibolo; questo, in tutte le vecchie chiese di Ravenna, è specificato col nome di Ardica (derivato da Narte). L'interno della basilica è magnifico; le sue proporzioni sono maestose e semplici. Ventiquattro superbe colonne di marmo greco, non tolte a templi antichi, ma scolpite espressamente per questo monumento e ornate di capitelli simili, separano le navate. Secondo l'uso primitivo, il tetto a travicelli non ha ornamenti. Lo spirito dei tempi antichi spazia su tutto il monumento, e questa impressione è vieppiù rafforzata dallo spettacolo di una lunga schiera di sarcofaghi nelle pareti delle navate laterali. Non ho visto in nessun'altra città, tranne ad Arles, una così grande quantità di sarcofaghi innalzati isolatamente nell'interno delle chiese. La vista di quelli di Sant'Apollinare ha immediatamente risvegliato in me il ricordo della famosa strada coperta di tombe della vecchia città provenzale.

Le urne funerarie di Ravenna si distinguono in maniera tutta speciale dai sarcofaghi romani dell'epoca cristiana. Roma ne possiede un gran numero, molto interessanti, in parte del secondo periodo del medio evo; se ne trovano nelle Grotte del Vaticano, nel museo di San Giovanni in Laterano e qua e là nelle chiese. Numerose tombe dei primi tempi del cristianesimo sono anche ornate da soggetti religiosi, scolpiti in rilievo. Le urne funerarie di Ravenna, invece, appartengono all'epoca gotica bizantina e anche all'epoca barbara, e quasi sempre sono dei sarcofaghi molto massicci, fatti di marmo greco, d'un bianco giallastro, senza ornamenti, tranne i simboli cristiani e una semplice iscrizione. A parer mio, nessuno di essi è improntato all'antichità pagana, come a Roma in alcune tombe papali. A Ravenna sono state tutte eseguite per lo scopo a cui erano destinate. Le loro forme, grandiose e originali, producono una profonda impressione; si direbbe che tali sarcofaghi, dalle volte sollevate e massiccie, abbiano servito di sepoltura a eroi goti, piuttosto che a patriarchi.

Sembra che l'arte della scultura fosse già spenta a Ravenna, avanti i tempi di Galla Placidia, poichè non la si ritrova viva che nei suoi rapporti diretti con l'architettura. L'arte di riprodurre figure si concentrò interamente nel lavoro del mosaico, e vi produsse, in quei tempi semi-barbari, una ricca e preziosa fioritura. Conforme all'uso cristiano, quei sarcofaghi venivano posti un tempo sotto il portico esterno della chiesa. Essi racchiudono i corpi dei patriarchi della città, dal V all' VIII secolo. A somiglianza di quanto si è fatto nella chiesa di San Paolo fuori le mura, a Roma, si sono ornati i muri delle navate di una fila di ritratti, rappresentanti la lunga serie degli arcivescovi di Ravenna; ma questa decorazione è di recente data. Come la lista dei Papi comincia da San Pietro, quella dei metropolitani di Ravenna si apre col missionario Apollinare, fondatore dell'arcivescovato. Il patrono e capo gerarchico di Ravenna era stato, secondo la tradizione romana, istituito vescovo da San Pietro, a Roma; era, dunque, discepolo del principe degli apostoli. Tuttavia, si rivendicò molto tempo per lui, contro San Pietro, la supremazia sul mondo cristiano; o, per essere più precisi, i vescovi di Ravenna suoi successori rifiutarono per vari secoli il primato di Roma. Le ricchezze temporali del seggio di Sant'Apollinare erano, d'altronde, considerevoli, poichè gli arcivescovi possedevano immobili lontani, perfino in Sicilia e in Oriente. Dopo la caduta del regno longobardo, come ho già ricordato, si eressero un momento a padroni dell'Esarcato, contro le pretese dei Papi.

Il patriarca di Ravenna era ancora, nell' XI secolo, così ricco e così potente che l'imperatore Enrico IV, durante la sua lotta contro Gregorio VII e la contessa Matilde, trovò in lui il suo più forte sostegno. Fu l'arcivescovo della città, Vilberto, che l'imperatore scelse per elevare alla dignità di anti-papa, sotto il nome di Clemente III; ma questo avvenimento segnò il termine della grandezza della chiesa di Ravenna.

All'epoca in cui l'Impero era fiorente, parecchi tedeschi furono innalzati dall'Imperatore alla dignità di arcivescovi di Ravenna e dotati per questo titolo di larghi privilegi.

La città vide pure qualcuno de' suoi metropolitani salire sul seggio pontificio, fra questi il ferreo Giovanni X e il celebre Gilberto o Silvestro II, ai tempi di Ottone III. Nello stesso tempo circa, due grandi santi, Romualdo e Pietro Damiano, gettarono un vivo splendore sulla chiesa di Ravenna. La storia degli arcivescovi forma, dunque, fino ai secoli XII e XIII parte integrante degli annali della chiesa romana e del medio evo italiano. Il primo tentativo di un'opera su questa storia risale alla metà del VII secolo, e fu Agnello da Ravenna a compierlo. La sua opera, il Liber pontificalis, reca l'impronta di quel tempo ancora barbaro, ma la sua antichità la rende di gran valore, e le numerose e preziose informazioni storiche che racchiude, le danno un prezzo inestimabile, mentre la sua infantile ingenuità la circonda di una certa grazia.

Dopo Carlomagno, fino all'epoca degli Hohenstaufen, ben pochi imperatori tedeschi tralasciarono di visitare Ravenna, sia nei loro viaggi a Roma, sia durante le guerre che sostennero in Italia: lo si rileva dagl'itinerarî:

La capitale dell'antico esarcato offriva agl'imperatori una forte posizione nella penisola, durante le loro lunghe lotte con le città e i Papi.

I titoli di proprietà che la Santa Sede faceva valere su Ravenna, non erano riconosciuti dagl'imperatori. Dal tempo degli Ottoni, la Romagna e l'esarcato venivano trattati come terre dell'Impero e governati da conti imperiali. Fu Rodolfo degli Hasburgo il primo a rinunziare solennemente, in favore della Santa Sede, ai diritti che per tutta l'antichità l'Impero aveva rivendicato su quelle provincie. Gli Ottoni ebbero per il soggiorno di Ravenna una predilezione speciale; e Ottone I, sopratutto, non vi dimorò meno di cinque volte, nel 967, 968, 970, 971 e 972. Questo principe, il più potente dei sovrani tedeschi che stesero la loro dominazione sull'Italia, considerava così poco il Papa come padrone di Ravenna, che si fece costruire un nuovo palazzo presso le mura della città. Il luogo di questa dimora imperiale non si può determinare con esattezza; certo è che nè Cesare, nè Classe erano ancora scomparse a quel tempo.

Ottone II dimorò due volte a Ravenna e Ottone III vi soggiornò a tre riprese. Fu qui che questo giovane principe proclamò il primo dei Papi tedeschi, suo cugino Bruno, che dopo, sotto il nome di Gregorio V, si pose sulla propria testa la corona imperiale. Ottone III amava Ravenna e i suoi santi, con quella passione esaltata che fu il segno distintivo del suo carattere. Ivi egli elevò dal seggio episcopale alla dignità pontificia il suo maestro, l'illustre Gerberto. Pochi anni appresso, Ottone III ripassava da Ravenna, questa volta fuggiasco, cacciato dai Romani, e vi rimaneva per alcune settimane, nel monastero di Classe, nella cella del famoso Romualdo, sotto il saio monacale e in mezzo a pratiche di penitenza.

Di questo avvenimento rimase ancora memoria sui muri della basilica, in iscrizione moderna, è vero, e di fattura ecclesiastica.

Eccone la traduzione: «Ottone III, imperatore di Germania, re dei Romani, sottomettendosi alla regola severissima di san Romualdo per la remissione dei suoi peccati, venne scalzo dalla città di Roma al monte Gargano, dimorò quaranta giorni come penitente in questo chiostro e in questa basilica, espiò i suoi delitti sotto il cilicio e con mortificazioni volontarie, dando un augusto esempio di umiltà e, Imperatore, illustrò questo tempio e insieme il suo pentimento»[11].

Il celebre convento di San Romualdo non fu soppresso che sotto il regno di Napoleone I. I suoi fabbricati in rovina si trovano presso la basilica, fra cespugli di felci e olivi. I monaci sono dispersi; uno solo fra essi erra ancora malinconico nella chiesa della quale è guardiano. La vecchia basilica rovina, insieme col campanile che le è al lato, e somiglia piuttosto a un faro che ad un campanile. La desolazione del vecchio monumento è infinita, e lo spettacolo della campagna deserta che lo circonda, dà una tristezza immensa, mentre è di una indescrivibile bellezza. Ho visto quella grande pianura paludosa durante un uragano che brontolava lontano sull'invisibile Adriatico e che aveva coperto il cielo di nere nubi. Le acque addormentate, coperte di piante acquatiche, le ruine sprofondate, la vecchia basilica e gl'immortali ricordi che essa evoca, la strada deserta che traversa la campagna nella direzione di Cesena, la cupa foresta di pini che si stende a perdita d'occhio e le cui cime gigantesche si stendono calme e maestose come grandi palme; dall'altra parte, attraverso l'atmosfera solcata di lampi, le torri dell'antica città: tutto questo insieme silenzioso, melanconico e morto, senza un cinguettio d'uccelli, senza un profilo umano, contribuisce a gettare l'anima in una profonda e indicibile commozione.

Le rive melanconiche del Ronco conservano ancora il ricordo di un altro avvenimento storico, quello che ha segnato la giornata dell'11 aprile 1512, uno dei più terribili scontri che abbia insanguinato il suolo italico, una lotta così eroica che Teodorico e Odoacre stessi ebbero ad ammirare il valore dei combattenti. E' là che gli eserciti alleati degli Spagnoli e del bellicoso Papa Giulio II, correndo in soccorso del generale Marco Antonio Colonna, rinchiuso in Ravenna, furono assaliti dalle truppe di Luigi XII, re di Francia, comandate dal giovane Gastone di Foix. I Francesi riportarono la vittoria; ma la pagarono con la vita del loro illustre ed eroico generale.

I più celebri capitani dell'epoca, quelli che dovevano illustrarsi nel gran secolo di Carlo V, spagnoli, francesi, italiani, tedeschi, il fior fiore dell'aristocrazia, tutti presero parte alla battaglia. Un grande poeta, l'Ariosto, si trovava nel campo del duca di Ferrara, e colui che più tardi doveva essere papa Leone X, allora legato, fu fatto prigioniero.

Se Gastone di Foix avesse sopravvissuto alla sua vittoria, nulla gli avrebbe impedito d'impadronirsi di Roma e di Papa Giulio II. Ma la buona sorte che si è sovente attaccata alla Santa Sede, apportò un buon cambiamento; i Francesi vincitori furono bentosto vinti e costretti a lasciare l'Italia.

La colonna commemorativa che si vede ancora oggi sul campo di battaglia, sulla riva del Ronco, fu eretta nel 1557, per cura del governatore pontificio della Romagna, Donato Cesi, che divenne più tardi cardinale. Delle iscrizioni incise su medaglioni di arte molto mediocre ricordano il grande avvenimento.

Non ho, disgraziatamente, potuto visitare la celebre foresta di pini, conosciuta sotto il nome di Pineta. La foresta sembra risalire ad una lontana antichità. Si dice che già al tempo dei Romani se ne traessero i materiali per la gettata del porto. L'esercito goto vi accampò, quando Teodorico assediò Odoacre in Ravenna. La maggior parte si compone di boscaglie di piante diverse, in mezzo alle quali si innalzano gli alti fusti dei pini. I frutti di questi alberi racchiudono delle nocciuole, a forma di mandorle, di cui Ravenna fa un commercio molto esteso. Si calcola a diecimila il numero delle staia di tale frutto, che ogni anno vengono spedite fuori. Gli abitanti di Ravenna mi hanno fatto delle descrizioni incantevoli dell'interno selvaggio e deserto della loro Pineta, delle macchie nelle quali i cacciatori inseguono il cinghiale, e delle regioni in cui la foresta si avanza sino alla costa e viene a morire in riva a golfi pittoreschi, bagnati dal mare. Il bosco si estende lungo l'Adriatico per una lunghezza di ventiquattro miglia, dalla città di Cervia sino alla foce del Po, chiamata Spina o Spinetrium. Misura tre miglia nella sua maggior larghezza.

Noi abbiamo studiato i monumenti di Ravenna, seguendo il succedere dei tempi piuttosto che l'ordine topografico, e non ci siamo occupati che di qualcuno di essi, di quelli che caratterizzavano meglio la loro epoca. Abbiamo rilevato che la grande epoca guelfa non si ritrova quasi in nessun palazzo, in nessuna chiesa. Ma in mancanza di questi monumenti, gli abitanti di Ravenna mostrano con orgoglio, in un vicolo secondario, una piccola cappella funeraria, che essi non cambierebbero con la più bella cattedrale del mondo. Là è sotterrato, a lato di Galla Placidia e di Teodorico, il più gran genio dell'Italia, eroe e vittima della lotta dei Guelfi e dei Ghibellini, a cui ha innalzato un monumento imperituro.

Quand'anche Ravenna non avesse altra attrattiva che la tomba di Dante, e altra gloria che quella di aver offerto l'ultimo asilo al Poeta, ciò basterebbe a preservare eternamente il suo nome dall'oblio.

Fu nel 1320 che Dante, senza patria e nella più estrema povertà, si recò da Verona a Ravenna. In quei tempi, racconta il Boccaccio, un nobile signore, Guido da Polenta, era padrone di Ravenna, città antica e celebre della Romagna. Egli era molto erudito nelle scienze liberali, onorava grandemente gli uomini di valore e specialmente quelli che la loro alta istruzione poneva al disopra degli altri. Quando seppe che Dante, di cui la riputazione era da lunga data giunta sino a lui, si trovava in Romagna, nella miseria e nello scoraggiamento, decise, senza esserne stato da lui sollecitato, di offrirgli un asilo e di trarlo dalla sua situazione disperata. Sotto la benevola protezione di questo nobile signore, Dante abitò Ravenna per qualche tempo, quando aveva perduto ogni speranza di ritornare a Firenze.

Là egli formò un certo numero di allievi, nell'arte della poesia, sopratutto usando la lingua volgare, che, primo fra gl'Italiani, come afferma lo stesso Boccaccio, ha saputo elevare all'altezza che il greco Omero il latino Virgilio avevano conquistato per la loro lingua materna.

La famiglia Polenta era divenuta nel 1275 padrona della città, dominata per lo innanzi dai duchi dell'antichissima famiglia dei Traversari: Guido da Polenta era nipote della bella Francesca, che fu maritata a Giovanni Malatesta da Verrucchio, podestà di Rimini, e del quale il poema di Dante ha immortalato il ricordo. Il signore di Ravenna non prese in mala parte i versi, ove l'ombra di Francesca da Rimini appare tra le ombre votate alla dannazione eterna.

Dante finì la sua vita a Ravenna sotto la protezione di Guido.

Il palazzo dei Polenta è scomparso senza lasciare la minima traccia, e della loro dominazione non resta altro monumento materiale che la tomba del poeta. A parte questo ricordo, niente risveglia più il loro nome, se non una lapide incastrata nel muro della chiesa di S. Francesco; essa rappresenta un uomo vestito di una tonaca dei frati minori e porta questa iscrizione: « Hic jacet Magnificus Dominus Hostasius de Polenta qui ante diem felix obiens occubuit MCCCLXXXVI die XIV Mensis Martii. Cujus anima requiescat in pace. »

Le lotte combattutesi nell'anima ardente di Dante, le passioni che animano così violentemente la sua opera e che gli hanno impresso il segno di una tale incomparabile personalità, tutte queste agitazioni si erano ben calmate, quando il gran poeta venne a terminare i suoi giorni a Ravenna. La fine della sua vita fu consacrata alle pie ed alte meditazioni, alla Vita contemplativa.

Ivi egli compose i suoi salmi della penitenza e il suo Credo. Sembrava si fosse trasformato in penitente come aveva fatto l'imperatore Ottone III che, dopo aver visto crollare il suo potere su Roma, aveva rivestito il saio e si era rinchiuso per pregare nella cella di Sant'Apollinare. Quando sentì avvicinare la sua fine (si spense il 14 settembre 1321), domandò che lo si sotterrasse vestito dell'abito dei francescani. Per questo i frati minori lo considerano come uno dei loro; si ricorda, d'altronde, che nel suo poema egli si era già rappresentato cinto della corda di quest'ordine.

Guido da Polenta fece seppellire il Poeta in un sarcofago di marmo nel convento dei frati minori. Si proponeva d'innalzargli un magnifico monumento, ma questo progetto non fu eseguito. Durante i disordini nei quali la famiglia Polenta perì, la tomba fu dimenticata. Nel 1482 soltanto fu ricordato il dovere sacro che era stato lungamente trascurato. I Polenta erano stati cacciati. Bentosto annessa a Venezia, Ravenna fu governata da pretori della potente Repubblica. Uno di questi ultimi, Bernardo Bembo, padre del celebre cardinale, riprese il progetto di Guido da Polenta e fece innalzare al poeta, nel 1482, un bel mausoleo. E' quello che ci viene mostrato oggi, ma trasformato dai legati del papa nel XVII e XVIII secolo. Si sa, infatti, che i Veneziani cedettero, nel 1509, Ravenna alla Santa Sede, sotto il pontificato di Giulio II, che riunì anche Bologna al dominio di S. Pietro.

La tomba di Dante ha la forma di un piccolo tempio, sormontato da una cupola e fabbricato nello stile del Rinascimento. L'interno è ornato di bassirilievi e d'iscrizioni. Quattro medaglioni rappresentano Virgilio, Brunetto Latini, Can Grande della Scala e Guido da Polenta. In faccia alla porta di entrata si trova il sarcofago di marmo, e al disopra il medaglione in rilievo del Poeta.

La celebre iscrizione, da lui composta dice:

Jura monarchiae superos Phlegetonta lacusque
Lustrando cecini voluerunt fata quousque:
Sed quia pars cessit melioribus hospita castris,
Autoremque suum petiit felicior astris,
Hic claudor Dantes patriis extorris ab oris
Quem genuit parvi Florentia mater amoris.

La tomba è sempre chiusa. Il conte Alessandro Cappi, che mi accompagnò nella visita al mausoleo, mi raccontò che nella suo gioventù aveva visto a Ravenna lord Byron, allora innamorato della contessa Guiccioli. Mai, mi disse la mia guida, lord Byron non passava in vista della tomba, fosse pure a distanza, senza scoprirsi rispettosamente, e mi sovvengo ancora dei bei versi che egli ha dedicato alla sepoltura di Dante.

Ed è, infatti, un santuario a cui ogni uomo di animo elevato non saprebbe avvicinarsi senza commozione, un luogo di pellegrinaggio e di raccoglimento per tutti coloro che sono capaci di comprendere e ammirare il genio creatore del Poeta, tanto potente da innalzare al disopra delle tempeste e delle passioni un ideale eterno di calma e di sublime serenità.

Dante simboleggia con la sua propria esistenza ciò che rende così maravigliosa la storia della sua patria, l'arte e la scienza producenti i loro più nobili fiori in mezzo alle più spaventose lotte civili.

Da questo lato e da tanti altri il Poeta fiorentino è il rappresentante e come l'incarnazione del genio italiano verso la fine del medio evo.

La solitudine in mezzo alla quale si drizza la tomba di Dante, produce un'impressione profonda, e bisogna felicitarsi che gli abitanti di Ravenna abbiano rifiutato ai Fiorentini pentiti la restituzione del loro tesoro nazionale. Dante continua così il suo destino d'esilio; egli riposa nella cella la cui ombra ospitale riparò i suoi ultimi giorni, in un monumento all'erezione del quale hanno preso parte la Serenissima Repubblica di Venezia e la Santa Sede. La sua tomba si drizza al largo, libera e isolata come una sepoltura di sovrano, come il mausoleo del grande Teodorico.

NOTE:[1] Io desumo questi discorsi dallo scritto di un ufficiale francese che assistè alla scena.[2] Evidentemente qui l'imparzialità del Gregorovius vien meno. Quando lo storico tedesco scriveva queste righe, si era andata formando, sopratutto all'estero, una campagna denigratoria contro l'Eroe luminoso della nostra Indipendenza. In Francia, per esempio, un liberale ed uno scrittore di valore, Maxime du Camp, scriveva contemporaneamente di Garibaldi altrettanto e molto di peggio. Ciò, del resto, non era che l'effetto della campagna subdola e celata dei nemici della nostra libertà. ( N. d. T. ).[3] Levate, venerabiles fratres, in circuitu oculos vestros, et videbitis, ac una Nobiscum vehementer dolebitis abominationes pessimas, quibus nunc misera Italia praesertim funestatur... Datum Romae apud S. Petrum die 17 octobris anno 1867. Pont. Nost. A. XXII.[4] Il conte Costantino Nigra, nato a Villa Castelnovo, Ivrea, nel 1828, e morto a Rapallo il 1 luglio 1906, fu una delle più illustri personalità del nostro Risorgimento. Cavour lo ebbe a segretario ne' suoi viaggi politici a Londra e a Parigi, sopratutto nel memorabile Congresso del 1856, dove il grande statista pose nettamente, davanti ai rappresentanti delle potenze, la questione della nazionalità italiana. Il Nigra rimase quindi alla Corte di Napoleone III, e divenne l'interprete gradito delle idee di Cavour e dei propositi di Re Vittorio Emanuele II. Fu ministro plenipotenziario dell'Italia presso la Corte di Francia sin dopo Sédan e grandemente sempre cooperò agl'interessi del nostro paese ed alla sua unità. ( N. d. T. ).[5] Questo tratto caratteristico ce lo narra il cappellano degli zuavi, anch'esso prigioniero, che ha descritto semplicemente e fedelmente la dimora dei garibaldini a Monte Rotondo nella «Prigionia del P. Vincenzo Vannutelli». Episodii della invasione garibaldina del 1867. Appunti storici estratti dal suo giornale. Roma, Salviucci, 1869.[6] La narrazione del cappellano Vincenzo Vannutelli è stata da contemporanei degni di fede e da storici sereni, imparziali, in gran parte sconfessata. Il Vannutelli aveva tutto l'interesse, si capisce, di mettere in luce Garibaldi e i suoi valorosi compagni. Al Gregorovius, storico di solito così imparziale e sicuro, si può solo rimproverare di aver troppo prestato orecchio a quello che allora si andava propalando per l'Urbe dagli avversari di Roma capitale d'Italia, e per quanto non abbia certo accettato come verità sacrosanta quanto il cappellano degli zuavi aveva scritto. Lo provano, a questo proposito, le seguenti parole:

«Il lettore si sarà accorto che il monaco romano del 1867 descrive i garibaldini colla ingenuità con cui Erodoto descrisse gli Sciti o Villani gli Unni. Quando, ancora prigioniero, ma sfuggito alla morte e travestito, viaggiava sulla linea ferroviaria di Spoleto, in un treno pieno di garibaldini che ritornavano nell'Umbria, nell'attraversare un tunnel, mentre il treno rallentava la corsa, egli, guardandosi intorno, pensava: «Ecco una esatta immagine dell'inferno. La luce incerta del vagone, la corsa sotterranea, il frastuono del treno, il clamore di tutti questi uomini vestiti di rosso, tutto contribuisce a farmi credere di essere piombato nel più profondo degli abissi infernali».

[7] «Dopo la presa di Monterotondo molti si fecero, col broccato degli abiti sacerdotali dei distintivi da ufficiale, si presentarono ai presunti loro subordinati e dissero: Vedete, io son tenente, capitano, e così di seguito; al che fu risposto con un applauso di scherno, con fischi ed altri acuti suoni che facevano mettendo le dita nella bocca».[8] Pantaleone difese il suo già compagno di fede, che doveva essere fucilato. Anche dei parenti, che egli aveva fra i garibaldini, parlarono in sua difesa; altri giovani gli fecero scudo col loro corpo contro i furenti, che volevano finirlo, e che erano istigati da una contessa emancipata, certa Martini, la quale raccomandava loro di spacciarlo. Il monaco fu posto in libertà, ma internato a Perugia, di dove tornò felicemente a Roma.[9] Il marchese romano Capranica ha tradotto Gli Albigesi e il Savonarola di Lenau; ma queste versioni son tuttora inedite.[10] Dall'anno 1858, in cui io scrivevo queste pagine, molte cose si son mutate nei circoli letterari di Roma. Il simpatico Giovanni Torlonia morì il 9 novembre 1858 nell'età di 27 anni, lasciando nella giovine scuola un irreparabile vuoto. Nannarelli fu chiamato a Milano professore all'Accademia; l'avvocato Ciampi ha svolto felicemente le sue facoltà, e adesso è fortunato autore di commedie in versi. Recentemente, anche l'ufficiale romano Muratori ha acquistato buona fama di poeta drammatico. (Nota dell'autore).[11] Otto III. Rom. Imp. Germ. Ob Patrata Crimina Austeriori Disciplinae Sancti Romualdi Obtemperans Emenso Nudis Pedibus Ab Urbe Romana Ad Garganum Montem Itinere Basilicam Hanc Et Coenobium Classense XXXX Diebus Poenitens Inhabitavit Et Hic Cilicio Ac Voluntariis Castigationibus Peccata Sua Expians Augustum Dedit Humilitatis Exemplum Et Imperator Sibi Templum Hoc Et Poenitentiam Suam Nobilitavit Anno DCM.

INDICE

  • L'isola d'Elba Pag. 3
  • San Marco di Firenze » 63
  • La campagna dei volontari intorno Roma » 91
  • Poeti romani contemporanei » 253
  • Avignone » 287
  • Ravenna » 343