PASSEGGIATE PER L'ITALIA
VOLUME 5

FERDINANDO GREGOROVIUS

Passeggiate per l'Italia

Volume 5

Girgenti. I Canti popolari siciliani. Pompei e i Pompeiani.

Versione dal tedesco di Mario Corsi

INDICE

Notizie sull'Autore

Nacque Ferdinando Gregorovius il 19 gennaio 1821 nella piccola città di Neidenburg, presso la frontiera polacca, in un antico castello medioevale fondato dai cavalieri teutoni. Suo padre era consigliere di giustizia a Neidenburg: appena innalzato a questo ufficio, ottenne dal Governo che il glorioso castello, in gran parte ruinato ed abbandonato, venisse interamente restaurato. Ivi prese sede il tribunale e fra quelle storiche mura, che tanto dicevano del passato, si stabilì la numerosa famiglia del consigliere di giustizia.

Certo, questa dimora esercitò la sua influenza sul giovane Ferdinando: egli stesso ha lasciato detto che forse non avrebbe scritto la Storia di Roma nel medioevo, se non avesse trascorso la sua giovinezza in quel vecchio castello dei cavalieri tedeschi. Si aggiunga a questo la rivoluzione della Polonia nel 1830, quando egli aveva nove anni, di cui udì narrare tutte le fasi, e gli episodi più impressionanti e le memorabili gesta. Sin da allora ei dovè cominciare ad appassionarsi ai grandi fatti del passato, ricollegandoli a quelli del tragico e sanguinoso presente, e a comprendere l'odio contro l'oppressore e la pietà per l'oppresso.

Nel 1831 al giovane Gregorovius morì la madre di etisia, e poco dopo egli fu dal padre mandato in ginnasio, a Gumbinnen, in casa di un suo zio. Terminati nel 1835 questi studi, passò all'Università di Königsberg, per seguire i corsi di teologia, continuando così una tradizione della famiglia, giacchè l'avo, il padre ed il nonno di suo padre erano stati pastori evangelici alla stessa parrocchia nella Prussia orientale. Ma la teologia non rappresentava pel giovane studente la sua più alta aspirazione ed in breve ei l'abbandonò per dedicarsi invece interamente agli studi filosofici, letterari e storici. Kant ed Hegel, spiegati da Carlo Rosenkranz, lo entusiasmarono e per un momento si credette destinato a diventare egli pure un filosofo.

Non pertanto, per esaudire un desiderio di suo padre, nel 1841 sostenne felicemente gli esami di teologia; dopo di che abbandonò Königsberg, e vagabondò per qualche tempo in cerca della propria via, dopo essersi laureato anche in filosofia con uno studio sul Senso del bello in Plotino e presso i neoplatonici.

In questo periodo di transizione, quando ancora nella sua mente v'era qualcosa di caotico che impedivagli di vedere il dritto cammino che gli si apriva dinanzi, compose molte liriche e un romanzo, Werdomar e Wladislaw, che apparve nel 1845. Fu il tributo del giovane scrittore al sorgente romanticismo tedesco che doveva poi tanto irritare Federigo Nietzsche. L'azione tutta fantastica si svolgeva nel mondo in cui era vissuto, sul confine tedesco-polacco. Il libro non ebbe un grande successo, ma fu letto, sopratutto a Königsberg. Le sventure della Polonia scossero e commossero fortemente Ferdinando Gregorovius, il quale, nel 1848, riassunse sulla questione le sue idee in un opuscolo, L'idea polacca. Più tardi pubblicò, sullo stesso argomento, una raccolta di liriche, Polen und Magyarenlieder ( Canzoni polacche e magiare ).

Già in questi suoi primi lavori palpitava quel sentimento della vita dell'umanità, quell'alto ideale umano che fu — come ha detto Domenico Gnoli — come la stella a cui per tutta la vita sollevò l'occhio dell'anima. «Io credo — scriveva nel romanzo sopra ricordato — nell'umanità e nel suo genio». E in un altro suo scritto vagheggiava «la fratellanza di tutti gl'interessi, di tutte le religioni, di tutte le culture».

Nel primo centenario di Goethe pubblicò un caratteristico studio, Mastro Guglielmo ne' suoi elementi socialisti, nel quale Goethe appare come il Colombo della Germania che ha scoperto l'America dell'Umanesimo.

L'anno 1851 segna una data di grande importanza pel grande storico, perchè in quest'anno egli, per la prima volta, rivolse la sua attenzione su Roma e su Roma scrisse una specie di biografia drammatica, una tragedia, La morte di Tiberio, che se non era un'opera di grande valore artistico e teatrale, appariva già come un preludio alla sua grande opera avvenire sulla città dei Cesari. E difatti, poco dopo cominciò la Storia dell'Imperatore Augusto, che più tardi rifece ed ampliò.

In questo anno, 1852, avvenne un fatto che ha la sua importanza biografica: il pittore storico Luigi Bornträger, suo carissimo amico, su consiglio dei medici, partì per l'Italia e Gregorovius decise di seguirlo. Visitò dapprima Venezia, poi, nell'estate, percorse la Corsica, che illustrò in due volumi, si fermò a Firenze, donde proseguì per l'Isola d'Elba, poscia Roma, Napoli, tutta l'Italia meridionale e la Sicilia. Fu in questa sua peregrinazione attraverso la penisola che scrisse per la Gazzetta d'Augusta molti dei capitoli che figurano in queste Passeggiate per l'Italia, apparse in Germania in cinque volumi sotto il titolo di Wanderjahre in Italien, editi dal Brokhaus di Lipsia; e cioè i capitoli: «San Marco in Firenze», «Melodie toscane», «L'Isola d'Elba», «Idilli delle spiagge romane», «Il Ghetto di Roma», e negli anni successivi gli altri che formano questa raccolta.

In queste monografie il suo ingegno aveva trovato la forma spontanea, originale in cui manifestarsi in tutta la sua ricchezza, riunendo in un genere nuovo, nel paesaggio storico, le forze e le attitudini varie che aveva esercitato ne' suoi lavori di gioventù: il pensiero del filosofo e la fantasia del poeta, la tavolozza del pittore e la ricerca dell'erudito.

Ecco quello che ne ha scritto un poeta di fama ed un conoscitore di cose romane di valore indiscutibile, Domenico Gnoli:

«Gregorovius entrò in Roma coll'animo del visitatore, proponendosi di proseguire il suo viaggio dopo aver osservato e illustrato nel presente e nelle origini storiche quanto di più caratteristico lo colpisse. Incominciò infatti con uno scritto sul “Ghetto di Roma,” ma avvinghiato a poco a poco dal fascino della città eterna, gli mancò la forza di allontanarsi, e la stazione si cambiò in sede. A comprendere l'impressione profonda prodotta dalla vita di Roma sull'anima fantastica e meditativa del Gregorovius, conviene rappresentarsi quel tempo di cui il ricordo, a noi stessi che vi abbiamo vissuto in mezzo, è come la lettura d'una storia lontana. Se qualche moto si agitava in Roma, nulla ne appariva alla superficie; ma ne' silenzi di quell'isola medioevale pareva vivere solo la storia. La vicenda degli avvenimenti del mondo, l'assiduo lavorío della scienza, le nuove battaglie del pensiero vi giungevano come il sordo frangersi delle onde in una spiaggia remota. Un passato d'immani grandezze, di glorie immani schiacciava col suo peso il presente, e l'avvenire anch'esso era aspirazione al passato: i contemporanei di Roma erano gli eroi biancheggianti nel marmo, i martiri dormenti sotto i mosaici dorati delle basiliche. E Gregorovius aspirava con tutta l'anima la poesia della storia. Vedeva tre città, Gerusalemme, Atene e Roma rifulgere come città universali nella vita del mondo: Gerusalemme portare alla civiltà il monoteismo, Atene l'opera creatrice del pensiero e della fantasia, Roma l'azione, l' Imperium, l'idea dello stato universale, dell'unità della gente umana; e quindi Roma ereditare dalla Grecia la cultura dell'intelletto, dalla Giudea la religione universale ed estendere la civiltà coll'organamento universale dell'Impero, al quale succede la monarchia universale della Chiesa che, accogliendo l'organamento dello Stato, si fa dominatrice e legislatrice dell'università dei popoli cristiani. Egli vedeva la Chiesa associarsi al Germanesimo che aveva atterrato l'Impero, la Germania per lunghi secoli avvinta a Roma coi legami della fede e dell'Impero germanico romano, e la storia della città divenir parte integrante della storia tedesca. Da Roma, come da una specola sublime, gli si apriva sott'occhio tutto il medio evo, e le ricordanze nazionali spiccavano per lui sul campo della storia del mondo cristiano. Pieno l'animo della grande epopea romana, la vastità della materia spezzava la forma ristretta del Paesaggio storico e si allarga nell'ardito concetto della storia di Roma nel medio evo».

Così Ferdinando Gregorovius pervenne, attraverso a queste mirabili e pittoresche monografie, alla grande opera di Roma medioevale, opera che si leva come monumento gigantesco a perpetuare la gloria della città eterna e che alla fama dell'autore è monumento perenne.

Ormai l'Italia era divenuta per lo storico tedesco la sua seconda patria, ed egli vi rimase sino a quasi gli ultimi anni della sua vita, sino al 1890, allontanandosene solo di tanto in tanto per dei brevi periodi, nei quali tornava in Germania. Durante l'inverno e la primavera, egli correva ogni anno fra' suoi amici italiani, specialmente a Roma. Dopo il 1880 visitò la Grecia, l'Egitto, la Siria, e frutti di tali viaggi furono degli studi sulla storia e i dintorni di Atene, l'idillio «Corfù», la monografia «Atenaide», brevi lavori che dovevano poi compendiarsi nella sua opera maggiore, la Storia della città di Atene nel medio evo, apparsa nel 1889.

In questo frattempo, però, terminata la sua Storia di Roma, egli aveva scritto un volume su Lucrezia Borgia, su documenti tratti dagli archivi di Modena e di Mantova (1874); una monografia su Urbano VIII in lotta con la Spagna e l'Impero ed alcuni nuovi capitoli di queste Wanderjahre in Italien.

L'ultimo lavoro dello storico tedesco fu una conferenza sulle «grandi Monarchie o gl'Imperi universali della Storia», tenuta il 15 novembre 1890 all'Accademia bavarese delle scienze di Monaco. In quest'anno egli aveva abbandonato Roma, lieto delle molte prove di ammirazione e di affetto ricevute; contava di tornarvi nell'autunno seguente, quando suo fratello Giulio si ammalò gravemente. Era da poco uscito di convalescenza, quando, alla sua volta, Ferdinando si ammalò. «Ho da pochi mesi compiuto il settantesimo anno — scriveva egli il 28 gennaio — sicchè di ragione sono entrato nella via Appia e mi trovo vicinissimo al bustum ». Egli prevedeva prossima la morte. Tre mesi dopo soltanto, infatti, il 1º maggio 1891, Ferdinando Gregorovius «cittadino romano» si spegneva nella città di Monaco.

M. C.

GIRGENTI (1855).

Girgenti. (1855).

Partimmo, a cavallo, il mio compagno ed io, da Palermo alla volta di Girgenti, l'antica Agrigento. Giuseppe Campo — nativo della vetusta città saracena di Misilmeri, — la miglior guida di tutta la Sicilia, ci aveva forniti di due ottimi muli; lui stesso, poi, ne cavalcava un terzo su cui erano caricati anche i bagagli. La giornata era magnifica: passato Monreale, percorremmo una strada montuosa e deserta per la quale non trovammo anima vivente, se escludi le aquile di Giove, che ci guardavano dall'alto tranquille e silenziose, oppure disegnavano nell'aria ampie spire coi loro voli. Così camminammo parecchie ore sino a che alla nostra vista non si distese la meravigliosa pianura di Partinico e di Sala, vicino al golfo di S. Vito. A dritta si trova Borghetto, l'antica Hykara, patria di Laide, la più bella donna dell'Ellade, che i Greci condotti da Nicia portarono bambina ad Atene.

Le linee del golfo di S. Vito sono belle e insieme grandiose, come quelle di Cefalù; la pianura, poi, è tra le più feraci della Sicilia, così lussuriosa nella vegetazione da far pensare ai tropici. Ci soffermammo a Sala, minuscolo villaggio, e quindi, risaliti in groppa ai nostri muli, traversate regioni fertili, vigneti e oliveti, giungemmo ad Alcamo, città montanara. Il paesaggio acquistava in grandiosità a misura che avanzavamo, assumendo quasi carattere greco con l'armonia delle sue montagne colorate da tinte calde, or rosse, or verdamente cupe. Il carattere di quella contrada — grazie i giganteschi pini, i malinconici cipressi, le palme annose, gli aloe dagli snelli fusti fioriti — è reso più grave dall'autunno. Qui tutto è monocromo, scuro sovrapposto allo scuro e, con meraviglia, si vede quanto possa la natura con una sola tinta fondamentale.

Stanchi di una camminata di nove miglia tedesche, con la non lieta prospettiva di doverne percorrere dieci all'indomani, undici il terzo giorno e nuovamente dieci il quarto, prima di giungere a Girgenti, arrivammo in Alcamo che era sera inoltrata.

Questa è città linda e piacevole, di circa 15.000 abitanti, con un vetusto castello saraceno. Altro non posso dire, se non che in una miserrima locanda fui martirizzato tutta la notte dalle zanzare, in modo tale, che portai per venti giorni le cicatrici prodottemi dalla voracità di quegli alati spiriti notturni. Alla sera, il capitano della guardia ci offrì la scorta militare che doveva esserci compagna sino a Segesta; ma noi la rifiutammo.

Per vedere il rinomato tempio di Segesta, ripartimmo mentre ancora lucevano le stelle e, per nove miglia, camminammo in un paese deserto, tra monti calcarei. Orione, vera stella sicula, della quale Messina ha fatto un mito, sfolgorava su tutte le altre. Già, in Sardegna, ove il popolo l'ha nominata stella dei Re Magi, avevo ammirato questo astro; ma fu solo in Sicilia che lo potei contemplare in tutta la sua magnificenza; i suoi raggi sprizzavano come fuoco d'artifizio. Intanto s'alzava la brezza mattutina, il cielo si imbiancava ad oriente, si diradavano le tenebre e si dissipavano le nebbie; le sagome dei monti accennavano a dileguarsi e compariva il mare, di purpureo si tingea la campagna e Orione spariva dopo avere brillato per lo spazio di una notte meravigliosa.

Improvvisamente, si parò dinanzi ai nostri occhi il tempio di Segesta; sebbene fossimo ancora lontani tre miglia, lo vedevamo ergersi solitario sulla scura pendice del monte, da cui maggioreggiava sul severo paesaggio, bello di aspetto e tale da non poterlo dire rovina, poichè stava con tutte le sue colonne e i due suoi frontoni. La strada che porta colà è un sentierucolo battuto solo dai pastori ed è fiancheggiata per oltre un miglio da piante di aloe, in numero di cento circa per parte, di venti piedi d'altezza, formanti come un viale sino al tempio che sorge sui fastigi di una brulla collina.

Quella terra nera punteggiata da cardi selvatici, meschino pascolo per le capre; quella profonda solitudine; i ricordi delle antiche favole troiane; i versi sonori di Virgilio; la guerra di Segesta con Selinunte, che die' origine alla spedizione degli Ateniesi contro Siracusa e a tanti eventi storici; ogni cosa eccitava la nostra fantasia.

Qui la solitudine è maggiormente pittorica che non quella di Pesto, e l'aria v'è quasi saturata di favole, di miti, di tradizioni, di memorie storiche. Sedendo nell'antico teatro dissepolto da Hittorf, l'occhio raccoglie in sè tutta quella regione di magica solitudine, di tragica serietà; si scorgono il golfo di Castellammare, i monti di Alcamo; ai piedi si svolge una valle selvaggia nel cui fondo corre il favoloso Krimolfo; all'opposta parte si rizza il monte grigio di Calatafimi e ne' suoi fastigi si discerne la città di colore scuro e cupa. Volgendo lo sguardo ad occidente, si vede una catena di colline giallastre e, più in alto, fantastici monti azzurri, i monti Erici, su cui s'ergeva, ora non più, il tempio a Venere. Oltre sconfina il mare Egeo, che attira lo sguardo sulle spiagge ove fu Cartagine e ricorda le guerre puniche.

Non indugerò a parlare del tempio di Segesta, già sufficientemente noto.

Proseguimmo la nostra strada verso il monte Pispisa oltre il tempio, in arida solitudine, senza incontrare che rari pastori vestiti di pelli di montone, pascolanti i loro greggi; non trovavamo che pochi cespugli, cardi selvatici coperti di lumache bianche che circondavano quasi ogni pianta, e traversammo terreni, riarsi e fenduti dal sole, su cui non eravi la più lieve orma di sentiero.

D'un tratto, ci apparvero, verso oriente, il mare Egeo, il monte Erice a piramide e ai suoi piedi Trapani — l'antica Drepano —, le isole del mare Egeo, che scintillavano tra lo scintillìo delle onde, e le spiagge di Marsala e Mazzara, che si stendono fino al Lilibeo.

Ivi giungono direttamente i venti cartaginesi, e il battello che salpava allora alla volta dell'Africa, in dodici giorni m'avrebbe portato a Tunisi, in terra punica.

Verso il mezzodì, sotto un sole insopportabile, arrivammo a Vita, meschino villaggio smarrito nella solitudine, abitato da più meschina gente, di carnagione bronzea, dai capelli crespi come quelli dei negri, parlante un dialetto di cui nulla capivo. Scendemmo presso un calzolaio, mangiammo quel po' che il campo ci potè procurare e rimontammo sui muli per guadagnare Castelvetrano, ove dovevamo pernottare. Malgrado bella fosse la strada che percorrevamo, la stanchezza ci impediva di percepire ciò che ci circondava. Dopo dieci miglia tedesche, toccammo finalmente Castelvetrano, ma io non ebbi la forza di scendere dal mulo e fu necessario mi aiutassero.

Con la prospettiva di dovere all'indomani fare nuovamente undici miglia, rotto come mi trovavo in tutte le membra, non mi stimavo in condizioni di potere sopportare quella marcia faticosa; ma ebbi agio di sperimentare come l'uomo è capace di qualunque sforzo allorchè voglia seriamente. La costanza vince anche la cocciutaggine di un mulo.

Così all'indomani, feci, senza eccessiva difficoltà, quelle undici miglia e le ultime dieci sino a Girgenti, quasi piacevolmente.

Il mio compagno di viaggio — còlto fino dal secondo giorno da un colpo di sole — fu meno fortunato di me; stette assai male nella zolfara di Alcara e fu salvato da certa morte grazie solo la prontezza di un salasso; ma gli fu necessario allettarsi a Palermo per varie settimane.

Partimmo il 6 settembre da Castelvetrano per recarci a Selinunte, sul mare africano. Il mattino era di quella bellezza come sola può trovarsi in Grecia od in Sicilia.

Non è possibile descrivere con la parola la magnificenza versicolore del cielo ad oriente. Io precedevo gli altri per assaporarmi indisturbato la bellezza di quel fenomeno; giunto all'estremo limite della città, mi soffermai presso una chiesa antica, sotto alcuni alberi e sospinsi gli occhi infra il mare verso Selinunte, lontano circa sei miglia. Orione mandava ancora la sua luce purpurea, e il cielo si stendeva con quella peculiare limpidezza di cui solo la lingua greca, con la parola etere, può darci la precisa sensazione.

Scendendo da Castelvetrano, verso il mare per circa sei miglia, traversando pingui campagne, si scorgono già da quella distanza i diruti templi di Selinunte, di cui, per dare pallida idea della grandiosità, è sufficiente quanto sto per dire.

Il giorno non era ancor bene uscito dalle tenebre ed io scorgevo qualche torre in rovina; una, snella ed alta, primeggiava sull'altre nei silenzi dell'alto. Dissi a Giuseppe che sarebbe stato conveniente andare in quella città, che mi pareva ragguardevole sotto ogni punto di vista e nella quale mi sorrideva la speranza di trovare un gelato. Ma Giuseppe, sorridendo, mi rispose:

— Quello che a voi sembra città, altro non è che un ammasso di rovine dei templi di Selinunte.

La vista di quelle rovine sulla sponda del mare, in una regione deserta, non ha l'eguale al mondo e là solo ho potuto sentire quel che significhino le parole rovine classiche. Si contemplino da presso o da lontano, quei ruderi dell'antica fastosità greca, vi avvolgono sempre di maraviglia e di rispetto quasi superstiziosi. Contornati da florida vegetazione, aventi in sè ancora una forma esteriore non priva di significato, sono estremamente pittorici: triglifi, metope, frantumi di fusti di colonne scannellate, capitelli dorici colossali, giacciono — nelle loro forme graziose — confusamente, sì come zolle di un campo arato; la prepotenza del tempo passò su d'essi, si accumulò da una parte e dall'altra confusamente, bizzarramente. Un certo ordine impera in qualche punto sotto il lavorio pervicace di quella diuturna distruzione; così le enormi colonne del tempio di Giove olimpico sono distese a terra sul posto ove sorgevano, al pari di membra infrante di gigante caduto nell'aspra battaglia; poche colonne sorgono ancora sulla propria base — come quelle note sotto il nome di Pileri dei giganti — e su esse ergesi dominando, regina di rovine, la deserta solennità della campagna.

La località dell'antica Selinunte, a ridosso di alturette nei pressi del mare, è indicata da due gruppi di quelle rovine. Quello di levante è costituito in maggior parte da un tempio diroccato; l'altro di ponente, dai ruderi della città, e nella sua compagine, pittorescamente disordinata, si vedono i resti di quattro templi. Camminando su quei massi, quegli architravi, quelle cornici, avvinghiati e quasi sepolti da sterpi, da piante florispine selvatiche, si turba la quiete delle serpi brune, uniche abitatrici di quel mondo morto.

Il Selinos, oggi Madinini, scende al mare fra questi due gruppi di rovine; la spiaggia è bassa, il fiume l'ha resa paludosa, e su entrambe le sponde non si vedono che stagni arsicci, cosparsi di erbe, di fiori azzurri e di molti gigli fragranti.

Sin dall'antichità più remota, le paludi formatisi attorno a Selinunte ammorbarono l'aria e diedero origine a pestilenze; così che Empedocle venne chiamato da Girgenti acciocchè si provasse a combattere tanta iattura, e si pretende che mediante molteplici canali scavati a traverso le paludi, fosse riuscito a redimere la città.

Non dirò dei templi di Selinunte, ma ricorderò che qui si rinvennero le famose metopi, ora nel museo di Palermo, che aiutarono tanto nello studio dell'arte antica. Non voglio dimenticare, anche, che lo storico Tommaso Fazello, il frate che diede alla luce nel XVI secolo la più recente storia di Sicilia, nacque nei pressi di Sicilia.

Nel rimanente d'Italia, si vede la vita moderna vicino alle rovine, come nella campagna romana; oppure si vedono, le une a fianco delle altre, rovine di epoche diverse. Quelle di Selinunte sono tutte del medesimo tempo, e attorno non hanno alta di vita; davanti si stende la deserta solitudine dell'orizzonte e del mare.

Camminando verso levante, giungemmo al fiume Belice, l' Hypso Potamos degli antichi, e, dopo alcune foreste di sugheri e spiagge di sabbia, toccammo Menfrici e da qui, per deserta pianura, ci fermammo a passare la notte a Sciacca ( Thermae Selinuntiae ), piccola città di 16.000 anime, con castello pittoresco, posta su di una collina in faccia al mare.

Dopo Sciacca si cammina per circa quattro miglia tedesche lungo la spiaggia, ora fra sassi e conchiglie, ora su terreni paludosi, ora seguendo il greto dei torrenti, alla ventura, senza strada battuta. Attraversammo un torrente, il Platani, l'antico Alico; sulle sue sponde pascolavano mandrie di buoi dalle lunghe corna, i quali, come ebbi agio di constatare, sono di pelame rosso — i veri buoi di Elio — mentre nel continente sono di candido pelame. I mandriani — di miserabile e rozzo aspetto — stavano a cavallo, come quelli della campagna romana e delle paludi Pontine.

Dopo aver lasciato la spiaggia del mare, ci inoltrammo in una regione di colline disabitate, coltivate a grano: non un villaggio! L'abbandono più completo! Non rammento di aver mai visto paese più deserto...

Nell'uscire da alcuni cespugli fui colpito dalla vista di uno stagno disseccato, piano e candido come neve.

Finalmente arrivammo a Montallegro, dopo avere cavalcato per ventiquattro miglia italiane. Montallegro non corrispondeva con il nome, alla sua povertà e allo squallore suo: circondato da campagna arida, su cui allignavano poche viti intisichite e radi olivi, avrebbe meglio meritato il nome di Montristo.

Poichè si soffriva penuria d'acqua, da un secolo il villaggio era sceso dall'alto del monte; però si scorgono ancora due aggruppamenti di case vicini l'uno all'altro: l'antico in alto, con le sue vie, le sue case in piedi ma disabitate, quasi mummia di villaggio; il moderno, ai piedi del monte stesso, pressochè deserto e, come il primo, squallido squallido.

Le case sono costituite di roccia calcarea, grigia, triste. In questi pressi sorgeva un dì Kolikos, l'antica città di Heraclea Minoa che ricordava il nome di Minosse; quando questo re venne in Sicilia per perseguitarvi Dedalo e fu ucciso dalla figlia del re Corato, i Cretesi, venuti con lui, identificarono Minoa. Poche grotte e qualche sepolcro scavati nella roccia, sono gli ultimi resti della antichissima città.

Da Montallegro, per squallide contrade, sotto la molestia del sole cocente, giungemmo a Siculiana, cupo paesello, su un monte arido, in cui non crescono, tra l'asprezza delle rocce, che cactus pungenti. Qui è grande la miseria degli abitanti...

In tutti questi paraggi, le donne portano una specie di scialle nero o bianco, a guisa di mantiglia, che rialzano sul capo, e gli uomini, berretti alti a punta, pure neri e bianchi. Da per tutto è odore di zolfo e, qua e là, si vedono solfatare fumiganti. Di fronte a Siculiana, anticamente, sorgeva Anedra e si trova dopo una catena di piccole colline, di natura vulcanica e che contengono tutte, più o meno, del zolfo.

La notte era intanto sopraggiunta e noi cavalcavamo in quella sterminata solitudine al chiarore stupendo di luna, non udendo altro rumore fuorchè lo strido degli uccelli notturni e il mugghiare lamentoso del mare a cui ci avvicinavamo a poco a poco.

Giungemmo, così, a Molo di Girgenti, piccolo porto lungi tre miglia circa da Agrigento, e la notte era profonda allorchè entrammo nell'antica Akraga, la patria di Empedocle, ora la meschina città di Girgenti.

All'incerta luce delle stelle tutta quella solitudine assumeva un aspetto classico e malinconico e, allorchè, al mattino, fui alle porte della città, vidi un paesaggio di poco inferiore ai campi di Siracusa per grandezza e solennità di stile.

Eravamo nell'antica Agrigento, e m'è forza, per soddisfare ad una promessa, dire brevemente di questa formosa vetusta città e dei suoi monumenti.

Essa giace in una pianura incassata scendente al mare, distante oltre tre miglia, e circondata da colline sassose e di aspetto imponente. Due fiumi corrono ad oriente ed occidente di questa pianura: l' Akraga e l' Hypoa, denominati oggi rispettivamente S. Biagio e Drago. Questi circoscrivevano da due parti il perimetro della città e si congiungevano a' piedi delle mura di questa a mezzogiorno; qui il secondo perdeva il nome e scendeva al mare riunendo le sue acque con quelle del primo.

La pianta dell'antica Agrigento si presentava come un triangolo irregolare, fiancheggiato dai due fiumi, con la base verso nord, appoggiata contro due colline: il Kamiko, per cui trovasi con Girgenti e la Minerva. Questa era la città propriamente detta, a cui si accostavano i sobborghi, Neopoli (città nuova), come la denomina Plutarco, la quale si allargava sotto il Kamiko occupando quasi tutta l'altura.

Le alture naturali ed un dedalo di gole e di fossati, costituivano le difese della città, e ancora oggi ne sono visibili le vestigia a levante ed a mezzogiorno.

Ponendosi dove sorgevano le mura a sud, nel centro di quella serie di templi divisi, dei quali sono giunte sino a noi alcune reliquie, si ha davanti una costa di grandiosa e malinconica bellezza, della quale è meglio tacere piuttosto che tentare la descrizione con parole.

La pianura scende al mare e offre, nel suo aspetto solenne e deserto, un paesaggio di forme severe che doveva trovarsi in completa armonia con la grandezza monumentale dei templi dorici.

Tutto vi è grandioso: l'orizzonte ampio, il mare vasto, calde vi sono le tinte e la terra arida ci indica la prossimità dell'Africa; l'unica vegetazione che qui si scorga è quella malinconica degli olivi.

All'ingiro — ove s'ergevano templi, ove ancora posano centinaia di tombe, di loculi, di grotte — sorgono qua e là tronchi di colonne e il suolo è coperto di avanzi di architravi colossali e di triglifi; tutto vi chiama alla contemplazione, all'ammirazione, e chi non si sente commosso a quella vista, vuol dire che non nutre nessun amore per l'antica Grecia, e non sa apprezzare la splendida civiltà di questa.

Non è possibile considerare una città distrutta o parlare dei suoi monumenti senza prima ricordarne le vicende. Perciò io voglio anzitutto dare un cenno della storia dell'antica Agrigento nella speranza che il lettore di queste pagine sia indotto a fermarsi in questa città di fama mondiale e di completare quanto io accenno semplicemente. Vi sono inoltre nella vita di Agrigento una folla di grandi figure, il cui nome è sulle labbra di tutti, in quanto questa città fu una delle principali fra le città elleniche, e se non così potente come Siracusa, fu però ricca in non minore misura di felici e spirituali qualità.

Anche prima dei Greci era già un centro importante dei Sicani. Il suo re Kokalus aveva, secondo il racconto di Diodoro, ospitato Dedalo fuggiasco e questi costruì per lui sul Kamiko una rocca alla quale si poteva accedere solamente per una tortuosa via artificiale.

In questo castello imprendibile portò Kokalus il suo tesoro.

L'Agrigento ellenica sorse nei due anni della 49ª olimpiade (582) come città coloniale della vicina Gela, e presto superò in importanza la città madre: avendole dato un rapido sviluppo il commercio con Cartagine.

Gli Agrigentini avevano prima una forma oligarchica di governo secondo gli statuti di Charondas di Katana, che durò fino a che Falaride la mise in mano ai tiranni. Quest'uomo straordinario era Cretese di nascita. Incaricato della costruzione del tempio di Zeusi Polieus, si giovò di questa impresa che gli metteva a disposizione denaro e uomini, nonchè il punto più forte della città.

Egli assoldò dei mercenari, armò i prigionieri e mentre che si celebrava la festa di Cerere, si rese signore e tiranno di Agrigento. Ai Greci era così odiosa la monarchia, che concepirono Falaride come un mostro favoloso, e la sua crudeltà diventò proverbiale.

A tutti è nota la leggenda del toro di bronzo arroventato, che Perillo dovette costruire per quel tiranno a fine di farvi morire dentro gli stranieri e le persone a lui nemiche.

Il toro d'Agrigento e l'immagine del toro di Dedalo furon rimandati a Creta e di poi alla vicina Cartagine, dove furono sacrificati degli uomini nei fianchi del toro.

Che il toro di Falaride esistesse veramente lo afferma Diodoro. Egli racconta: Himilkone lo ha spedito a Cartagine dopo la conquista di Agrigento, ma Scipione, 260 anni dopo, in seguito alla distruzione di Cartagine, lo ha ritornato agli Agrigentini.

Il toro di Falaride ha servito a Luciano per due dialoghi satirici, dove egli fa comparire degli inviati del tiranno in Delfi i quali portano come offerta al Dio quella macchina infernale, e il crudele tiranno vi è presentato come un uomo giusto; egli, inoltre, per bocca dei sacerdoti, fa comparire il dono del feroce come un'assai religiosa offerta.

Non è facilmente possibile potere spingere più oltre la malignità contro la Chiesa come Luciano ha fatto in questi suoi scritti.

Falaride fu potente e crudele, ma anche egli col tempo, circa verso la metà del VI secolo a. C., si distinse a guisa degli altri tiranni greci come uomo d'intelligenza, e visse nella compagnia di filosofi e artisti.

Si raccontano di lui dei tratti di generosa magnanimità come la storia di Menalippo e Cariton che ricorda quella Dionisia di Damon e Pitia, e quella che viene ricordata dal famoso Stesicoro. Falaride, che aveva assoggettate tante città, si alleò una volta con quelli d'Imera, a patto che essi dovessero eleggerlo a loro capo e potersi così vendicare dei loro nemici. A ciò si oppose Stesicoro: egli venne al popolo e raccontò una favola. Un cavallo pascolava una volta, solo, in un campo; venne il cervo, più forte, e lo cacciò via. Il cavallo andò per aiuto dall'uomo e lo pregò di castigare il cervo. Bene, disse l'uomo, però tu mi devi portare sul dorso. Il cavallo acconsentì, si vendicò così del cervo con l'aiuto dell'uomo, ma portò per sempre il morso che questi gl'impose e subì il suo dispotico dominio.

«Così, disse Stesicoro, volete somigliare anche voi al cavallo della favola, o uomini d'Imera; voi dovete ben riflettere prima di sottomettervi al giogo di Falaride». Gli Imeresi rifletterono, infatti, e quindi abbandonarono ogni idea di alleanza col tiranno.

Però, poco dopo cadde il poeta in suo potere e gli fu condotto davanti. Ma non gli fece alcun male, bensì gli offrì ospitalità e ricchi doni, prendendo molto diletto a' suoi sapienti discorsi, e all'armonia dei suoi canti, e lo licenziò quindi con ogni onore.

Assai importante appare l'influenza che i filosofi avevano sui tiranni di Sicilia. Come nei tempi favolosi gli eroi erravano pel mondo per distruggere i mostri, così più tardi i filosofi viaggiavano pel mondo per liberarlo dai tiranni.

Il cómpito della filosofia è sicuro: liberare l'umanità da ogni specie di tirannia, e questo scopo è chiaramente espresso nelle antiche relazioni dei famosi viaggi compiuti dai Pitagorici e dagli Eleusini. Vanno verso Falaride Demostene, Zenone di Elea e Pitagora per ammonirlo, allontanarlo dalla tirannia, e rivolgerlo alla virtù. Nella vita di Pitagora sono narrati i ragionamenti che un filosofo ebbe con Falaride. Egli paragonò i cattivi e i buoni modi di vivere, gli scopi, le capacità, le imperfezioni e le passioni dell'anima, rese manifesta l'onnipotenza di Dio dalle sue opere, e convinse così l'incredulo tiranno.

Egli non tacque del castigo che aspetta ai violatori della legge, e parlò molto sul giudizio divino e sulla virtù, sulle vicende della sorte e della bramosia degli uomini pel possesso e la sovranità.

Ai discorsi dei filosofi rispondeva così il tiranno geniale: «Per la signoria è come per la vita. Nessuno vorrebbe nascere se sapesse anticipatamente il martirio della vita, però appena si è nati non si vuol più morire; così nessuno vorrebbe essere tiranno, se conoscesse anticipatamente la pena che soffrono i tiranni; appena però lo si è divenuti, non si può più cessare di esserlo».

Si ricordano le parole profonde che un siracusano rivolse a Dionisio. Quando questi una volta era in dubbio se deporre la sovranità o no, uno dei suoi amici gli disse: «O Dionigi, la tirannide è una bella veste da morto!»

Il presente, così mi sembra, fa rivivere quei tempi della tirannide con un esempio visibile nel ricordo: esso mostra che la natura umana è eternamente la stessa. Quando si paragonano i due grandi periodi della tirannide, la ellenico-sicula e la medioevale, che si equivalgono, con l'apparizione della nostra giovane tirannide nei suoi intrighi e nelle sue macchinazioni, si vede che nulla è nuovo sotto il sole. È cessata solamente la vecchia libertà dei discorsi filosofici e i nostri professori di filosofia adesso non fanno che creare o combattere dei sistemi e delle chimere, che non hanno nessun potere sulla felicità dei popoli.

Una favola dice che Falaride perdette la vita per una parabola di Pitagora. Parlava una volta, il gran filosofo, alla sua presenza e a quella dei cittadini della paura degli uomini davanti ai tiranni e dimostrò come essa fosse senza fondamento con l'esempio dei colombi, che, paurosi, fuggono davanti lo sparviero e invece potrebbero metterlo in fuga se essi contro di esso coraggiosamente si volgessero.

Questo discorso infiammò un cittadino presente, che raccolse una pietra e la gittò contro il tiranno: altri seguirono il suo esempio e così Falaride rimase ucciso.

Altri raccontano che Zenone di Eleusi spingesse gli Agrigentini alla rivolta contro di lui.

Il ricordo di Falaride si è mantenuto nel mondo e così notevole sembrò quest'uomo all'antichità che gli si attribuirono centoquaranta lettere morali e filosofiche, sulla autenticità delle quali però i dotti hanno lungamente disputato.

Dopo la sua morte fu di nuovo innalzata la democrazia e a capo dello Stato subentrarono due uomini saggi, Alkmener e Alkander, sotto il potere dei quali la repubblica rifiorì e divenne così ricca, che i cittadini cominciarono a portare abiti bagnati nella porpora.

La lussuria e la loro essenza geniale e sofistica sembrano essere state principalmente causa della loro rovina.

Al tempo di Gerone di Siracusa, un uomo molto forte, Tirone, riuscì a diventare il tiranno in Agrigento. Egli si era imparentato con quel re e ambedue i capi siciliani si aiutavano nell'esecuzione dei loro progetti. Cominciò allora il periodo di fioritura della Sicilia dopo che i Cartaginesi presso Imera ebbero a soffrire una sanguinosa sconfitta nell'anno 480. Il maggior numero di prigionieri cartaginesi l'aveva fatto Agrigento, e parecchi cittadini tenevano nella loro casa 500 incatenati. Però il numero maggiore fu assegnato alla comunità, dalla quale furono obbligati a trasportare le pietre che servirono a fabbricare i tempî d'Agrigento, ed a lavorare nei canali sotterranei che il celebre Faax aveva ideati. Oltre a ciò gli Agrigentini costruirono una piscina per ingrassare dei pesci rari per le loro cene raffinate; essa offriva anche un quadro pittoresco, così dice Diodoro, perchè molti cigni vivevano nelle sue acque. Gli abitanti piantavano inoltre su tutta la loro terra la vite e molti alberi da frutta.

La signoria di Tirone fu il periodo più splendido di Agrigento. Il commercio e l'agricoltura resero assai ricca la città, che si arricchì di belle opere architettoniche, plastiche e pittoriche; feste pompose dilettavano il popolo e alla corte del mite signore si videro i sapienti e i poeti dell'Ellade: Pindaro, Bacchilide, Eschilo furono in Agrigento; quando una questione sorta fra Gerone e Tirone stava per trascinarli alla guerra, si intromise per rappacificarli il gran poeta Simonide. Pindaro inoltre compose i suoi canti olimpici di vittoria su Tirone di Agrigento che aveva vinto col suo ardire, e magnificò nei canti istmici Kenokrate Akragas come la più bella fra le città del mondo.

Tirone regnò sedici anni. Quand'egli, nell'anno 472, morì, il popolo gl'innalzò una bella tomba e gli rese gli onori degli eroi. Suo figlio Trasidaos non gli somigliò; odiato dagli abitanti, fu scacciato e più tardi giustiziato a Megara. Gli Agrigentini avevano abbattuto i tiranni e avevano dato a tutta la Sicilia il segnale della liberazione dalla tirannia.

Mentre, dunque, nelle città veniva esaltata la democrazia, Empedocle in Agrigento dava una costituzione che assegnava uguali diritti tanto all'aristocrazia, quanto al popolo.

Sembra che le basi politiche del gran filosofo fossero rappresentate dall'eguaglianza di tutte le classi di cittadini; egli però si considerò come un Dio, come vien riferito da lui stesso.

Vestiva di porpora e portava una corona d'oro sulla chioma lunga e abbondante; quando usciva lo seguivano paggi graziosamente abbigliati. Così lo descrissero gli antichi, come un eroe nel quale la natura spiegò il suo più alto valore. Empedocle fu una delle figure più fulgide nelle quali i Greci abbiano ammirato il genio; i biografi postumi gli attribuirono la più alta coscienza della divinità del genio umano.

La filosofia naturale della quale fu maestro Empedocle, non rimase astratta in lui, ma l'applicò alla vita; e fu uno dei più grandi medici dell'umanità. Egli aveva liberato i Selinuntini dalla peste, e così meravigliose apparivano le sue guarigioni, che di lui si favoleggiò che sapesse resuscitare i morti.

La medicina divenne così la scienza prediletta dei Siciliani: accanto ad Empedocle troviamo il suo amico Pausania e il suo emulo Akrone di Agrigento. Fu anche famoso più tardi, nella scienza medica Erodico, fratello di Gorgia, e al tempo di Aristotile Menecrate di Siracusa. Questi imitò la vanità di Empedocle, e di lui vengono narrate storie assai amene. Non prendeva denaro per le sue cure, ma voleva solo che i suoi pazienti si nominassero suoi schiavi. Aveva guarito, ancora, con grande arte, due ammalati; essi dovevano seguirlo ovunque, chiamandosi uno Ercole, l'altro Apollo; però egli era Giove! Una volta scrisse a Filippo di Macedonia la lettera seguente:

«Menecrate Giove a Filippo, salute!

«Tu regni in Macedonia, io regno nella Medicina. Tu puoi far morire quelli che stanno bene, io posso assicurare gl'infermi di vivere sani fino alla vecchiaia, se essi mi ubbidiscono. La tua guardia del corpo è di Macedoni, la mia di quelli che ho guarito. Poichè io, Giove, ho ridato la vita!».

Rispose il re:

«Filippo augura a Menecrate cervello sano. Ti consiglio di fare un viaggio a Anticyra».

Anche Plutarco racconta che ad una lettera di Menecrate ad Agesilao di Sparta, questi in simil guisa rispondesse:

«Il re Agesilao alla sanità di Menecrate».

Si scorge già, come alla scienza naturale, della quale la Sicilia era la patria, cominciasse ad unirsi la ciarlataneria, come alla filosofia cominciasse ad unirsi la sofistica. La Sicilia, patria dei sofisti, era anche la patria dei ciarlatani, e anche oggi questa regione è caratterizzata in diversi modi da menti sofistiche e dal ciarlatanismo, ed io credo che non perderà mai questi caratteri, essendo i prodotti della sua natura vulcanica.

Empedocle preludiava già alle storie magiche e meravigliose dei tempi seguenti. Intorno alla sua morte la leggenda futura distese una luce favolosa, come per il famoso Apollo di Tyana e per molti altri semidei e profeti cristiani. Si racconta che egli abbia richiamato in vita una donna già morta e che sia quindi andato con molti amici nella villa di Peisanax per fare dei sacrifici. Quando essi al mattino si svegliarono, si accorsero che mancava Empedocle. Se ne domandò agli schiavi, dei quali uno solo potè riferire che aveva sentito gridare nella notte da una voce soprannaturale il nome di Empedocle. Quando egli si svegliò vide una luce celeste, un chiarore di fiaccole e poi nulla più.

Così Empedocle fu subito collocato fra gli dei. Secondo un'altra leggenda, il filosofo salì sull'Etna e si precipitò nel cratere. Il monte poi rigettò una delle sue scarpe. Si dice che Empedocle abbia scelto questa morte dopo che i Selinuntini gli avevano tributato onori divini, per rafforzare in loro la credenza ch'egli fosse un dio.

Ciò non pertanto, secondo quanto dice Diogene, egli morì nel Peloponneso.

Gli Agrigentini gli eressero una statua che i Romani più tardi portarono a Roma e posero davanti la Curia.

La temperata democrazia che aveva introdotta Empedocle si mantenne a lungo in Agrigento.

Però il carattere della città aveva molte somiglianze con quello di Sibari e di Taranto.

Avversi alle imprese guerresche, gli Agrigentini si mantennero neutrali anche nelle guerre fra Siracusa ed Atene. La loro lussuria era senza limiti. Fabbricavano, dice di loro Empedocle, come se dovessero vivere in eterno, e banchettavano come se dovessero morire il giorno dopo.

In tutto il mondo fu famosa «la opulenza della mensa agrigentina». Diodoro ci informa della vita d'Agrigento poco tempo prima della distruzione di questa città, e possiamo quindi farci un concetto vivo della ricchezza e della mollezza de' suoi cittadini. Possedevano eccellentissimi cavalli, che erano rinomati in tutta l'Ellade. Non solo s'innalzavano loro dei monumenti funerari, ma perfino ai piccoli uccelli tenuti in casa da ragazze e da paggi.

Quando un Exanctos aveva vinto nella corsa dei carri, lo si conduceva in città con 300 coppie di bianchi cavalli, tutti di Agrigento.

La ricchezza dei cittadini era straordinariamente grande.

Antistene festeggiò le nozze di sua figlia dando un banchetto a tutto il popolo nelle strade; la sposa fu accompagnata da 800 carri e molti cavalieri; alla sera suo padre organizzò un'illuminazione con i mezzi possibili in quel tempo. Fece ricoprire le are di tutti i templi con della legna e in un attimo, quando sulla rocca fu acceso un fuoco, tutti quelli si accesero. Si divertivano facilmente e già fin d'allora amavano le illuminazioni, come oggi nel sud d'Italia, dove la passione per i fuochi d'artificio produce tanto stupore nella gente del Nord.

Così ricco come Antistene era Gellia. Considerava tutti gli amici come suoi ospiti. Lo stesso facevano molti altri in Agrigento; secondo un vecchio uso invitavano chiunque. Perciò dice Empedocle della sua patria: che fu «una porta sacra per gli ospiti, lungi restando la falsità».

Una volta, imperversando un temporale, vennero ad Agrigento, da Gela, 500 cavalieri. Gellia li prese tutti con sè e diede ad ognuno del suo guardaroba un doppio vestito. Nella sua cantina aveva 300 anfore di pietra, delle quali ognuna conteneva 100 barili; accanto ad esse vi era un tino della capacità di 1000 barili, dal quale il vino colava nelle anfore.

Si può arguire da ciò la magnificenza delle case e lo splendore dei banchetti. Gli uomini — dice Diodoro — si abituavano fin dall'infanzia al lusso; portavano abiti e ornamenti preziosi, amavano specialmente i pettini per la chioma e le fiale d'oro o d'argento per profumi. Molto meglio rivela la mollezza degli Agrigentini l'ordinanza emessa al tempo dell'assedio della città fatto dai Cartaginesi, la quale ordinanza prescriveva ad ogni sentinella di non portare più di un materasso, una coltre, una coperta e due origlieri.

Chi può biasimare questi uomini se, sotto un cielo bellissimo, fra le voluttuose dovizie della natura, ricchi di sapienza e di cultura, Elleni e cittadini liberi, trascorrevano in gioie la vita così fugace? Ma chi può compiangerli e meravigliarsi se questa città, la cui popolazione era di circa 800,000 uomini soggiacque in poco tempo ai Cartaginesi?

Vi sono pochi avvenimenti nella storia che dimostrano la incostanza delle cose umane in modo così schiacciante come la improvvisa caduta di Agrigento.

Dopo la sconfitta degli Ateniesi davanti Siracusa, la città di Segesta aveva chiamato in aiuto i Cartaginesi. Erano comparsi essi in grandi forze nel 409 condotti da Annibale figlio di Giskone e avevano già distrutto Selinunte e Imera.

Siracusa, che non vedeva con dispiacere la caduta di queste città, non si affrettò a salvare Agrigento e Gela, e perciò quel tempo è il più ignominioso degli Elleni di Sicilia; esso offuscò la fama dei Greci nei turpi vizi, dei quali, come in tutti gli altri popoli del Sud, maggiore fu l'ira di parte.

Nel 406 soltanto tornarono i Punici con forze novelle.

Gli Agrigentini, che avevano a temere i loro primi assalti, assoldarono lo spartano Dexippo con 1500 uomini e chiamarono pure dei mercenari campani.

Annibale e Imilcone accamparono davanti la città, ad ovest del colle di Minerva, da ogni parte e al di là dell'Akaragas; fecero costruire un baluardo, facendo distruggere all'uopo i monumenti funebri. Cadde però il fulmine sulla tomba di Tirone, la peste scoppiò nel campo e colpì lo stesso Annibale: questi cattivi presagi gettarono un panico superstizioso nell'esercito.

Imilcone proibì allora la distruzione delle tombe, offrì al Moloch, in espiazione, un ragazzo e per Poseidone fece affondare nel mare molti animali.

Mentre i Cartaginesi investivano Agrigento, i Siracusani mandavano in suo soccorso il loro generale Daphnaus con truppe.

Egli battè gli Africani che gli si fecero contro e Agrigento sarebbe stata salva se i suoi corrotti generali avessero fatto una sortita dalla città. Ma essi invece fecero il possibile perchè il nemico si mettesse in salvo nel suo campo. Il popolo sollevatosi lapidò i traditori.

Avendo Daphnaus bloccato i Cartaginesi, questi videro sorgere il pericolo di morir di fame. Però il caso li aiutò, giacchè le navi cartaginesi catturarono il carico di grano che doveva approvigionare Agrigento. I cittadini avevano usato con prodigalità dei viveri, anzitutto perchè non abituati alle privazioni e perchè poi si cullavano nell'idea della prossima fine dell'assedio.

Fu consumata presto la provvisione dei viveri. Però non questo bisogno, ma la mancanza di forza difensiva propria abbattè la città; i mercenari la tradirono.

Prima disertarono al nemico i Campani, sotto pretesto che era scaduto il loro tempo di servizio; si allontanarono poscia anche Dexippo e Daphnaus. Agli Agrigentini allora mancò l'animo. I loro capi, dopo essersi assicurati che i viveri erano finiti, comandarono al popolo di abbandonare, tutti insieme, nella notte seguente la città. Avvenne l'inaudito; così presto si scoraggiò questo popolo numeroso che esso, invece di tentare tutto il possibile, come più tardi fecero Siracusa e Cartagine, si coprì dell'onta di abbandonare al nemico la fortissima città con tutti i suoi tesori. Venuta la notte, uscì il popolo: uomini, donne, fanciulli, empiendo l'aria di grida di dolore. Tanta era la paura e così vile l'animo loro, che non si curarono dei congiunti ammalati e dei vecchi deboli.

Molti cittadini però rimasero e si diedero la morte per perire almeno nella dimora dei loro padri.

La folla del popolo si avviò verso Gela con una scorta di armati, e si videro le ragazze educate tanto mollemente, camminare a piedi.

Nella deserta città entrò Imilcone dopo 8 mesi di assedio. Quelli che vi erano rimasti, furono trucidati. Si dice che il ricco Gellia, rimasto in vita, si nascondesse nel tempio di Atena e quando vide che gli Africani non risparmiavano nemmeno gli Dei, incendiò il tempio e perì con le sacre offerte.

Il bottino d'Agrigento, che non era stata mai conquistata da nessun nemico e che, secondo l'affermazione di Diodoro, era allora la più ricca città ellenica, dovette essere stato immenso. Imilcone mandò le opere d'arte più preziose a Cartagine, che poi caddero nelle mani dei Romani. Fece quindi devastare Agrigento e bruciare i templi. Tracce d'incendio si vedono ancor oggi in parecchi architravi. E dopo che i Punici vi ebbero svernato, Imilcone distrusse completamente la città. Come racconta Diodoro, fece infrangere tutte le opere d'arte dei templi, ritenendo che il fuoco non le avesse sufficientemente annientate. La cultura subì allora una perdita inestimabile, proprio nel fiorire del tempo di Pericle; avendo inoltre molte altre guerre devastatrici funestata la Sicilia, il suolo dell'isola è rimasto assai impoverito. I popoli che distrussero la Sicilia greca, il Cartaginese e il Romano, erano egualmente barbari.

Questo terribile destino aveva colpito Agrigento nell'autunno dell'anno 406 prima della nascita di Cristo e d'allora in poi la città non si sollevò, sebbene una nuova popolazione vi si stabilisse. Corinzio la popolò con una colonia nell'anno 341, sicchè a poco a poco si rialzò. Essa persino si sollevò durante la tirannide di Agatocle di Siracusa, mentre questi era occupato nel suo strano viaggio in Africa allo scopo di assoggettarsi tutta la Sicilia. Però il piano fallì e Agrigento cadde di nuovo in potere degli Africani.

Sorse in seguito, come tiranno, Finzia, un nuovo Falaride. Gli Agrigentini lo cacciarono via e si diedero a Pirro di Epiro, la cui signoria fu però assai breve. La città divenne di nuovo cartaginese ed anzi una delle loro piazze principali, nella guerra contro i Romani; essi mantennero questa città ancora dopo la caduta di Siracusa. Nella prima guerra punica fu di nuovo in Agrigento un figlio di Annibale, Giscone con 50,000 uomini.

I consoli L. Postumio e Q. Emilio circuirono Agrigento con 100,000 uomini, dove Annibale si difendeva accanitamente. Avendo però Annibale fatto una sortita per liberarsi, ed essendo stato battuto, i Cartaginesi furono sloggiati dalla città. I Romani l'avevano assediata per 7 mesi, e quando vi entrarono, massacrarono il popolo con accanito furore e lo trattarono più iniquamente di come i Punici avevano fatto una volta. I cittadini rimasti in vita furono tutti tratti in schiavitù (262 a. C.). Non molto tempo dopo però ricadde Agrigento in potere del generale cartaginese Cartalus che fece distruggere e incendiare l'infelice città. Quando cadde Siracusa si trovavano ancora in Agrigento Epecide, Annone e Mutines contro Marcello. Mutines fu un Punico d'Ippona, che aveva spinto il grande Annibale in Italia; egli ottenne dei brillanti successi comandando la cavalleria, sì che tutta la Sicilia era piena del suo nome. Annone invidioso, gli tolse il comando e Mutines, per vendetta, cedette Agrigento ai Romani. Notte tempo aprì le porte della città al console Lavinio. Annone ed Epecide ebbero appena il tempo di salvarsi su di una barca. Coll'usata ferocia i Romani punirono Agrigento, i maggiorenti della città furono uccisi, i rimanenti furon venduti come schiavi.

D'allora la bella città di Empedocle e di Tirone si perdette nella storia.

Al tempo degli Elleni si distinse per nobili intelletti. Le diedero lustro Empedocle, Pausania, Acrone il filosofo, oratori e medici, Proto scolaro di Gorgia, Dinoloco lo scrittore di commedie, Phaas l'architetto, Metello il maestro di Platone, nella musica, Fileno lo storico e ancora nel tempo della miseria, quando Verre rubò alla decaduta Agrigento gli ultimi tesori che la grazia dello spogliatore di Cartagena gli aveva lasciati, onorò la sua patria Sofocle, difendendola davanti ai Romani contro quel ladro.

Si può supporre che Agrigento, prima delle ultime conquiste si sia limitata al Kamikus, dove sta anche oggi, da 2000 anni durevole nella miseria come nello splendore. Nell'anno 825 la presero i Saraceni, i successori dei Punici provenienti dalle stesse terre. Il loro ultimo emiro, Kamul, vi fu sconfitto nel 1106 dal conte Ruggiero. D'allora Agrigento diventò feudo di nobili famiglie cadendo sempre più in basso, arrivando ad una popolazione di soli 16,000 abitanti.

Passando sul colle di Minerva si raggiunge quella fila di templi che stanno sul confine meridionale delle mura della città. La loro vista sullo sfondo del mare Libico, quando il sole ardente illumina le loro pietre gialle e fa sfavillare le colonne potenti, è ancor oggi incantevole; e fa pensare quanto stupenda dovesse essere nell'antichità.

Il bel tempio di Giunone Lucina è il primo della serie. S'innalza su di un piccolo colle, ed è a metà distrutto; soltanto da una parte esistono ancora le sue 13 colonne doriche che sostengono l'architrave.

Sul prospetto solo due colonne stanno ancora in piedi, con un pezzo dell'architrave; alle rimanenti mancano i capitelli, o sono abbattute e spezzate. Il tempio giace sopra un alto ripiano di quattro gradini.

Era circondato da 34 colonne doriche con 20 scannellature; di esse 13 stanno ai lati e sei nel prospetto. Le colonne hanno cinque palmi di diametro e un'altezza di circa cinque metri. I loro capitelli sono scolpiti con eleganza ed armonia.

Disgraziatamente nulla è rimasto del frontone e del fregio. Nelle rovine si notano tracce d'incendio. Lo storico Fazello fu il primo che diede a questo, come agli altri templi, il nome, perchè prima si chiamava la «Torre delle pulselle».

Secondo Plinio, Zeusi dipinse per esso il celebre ritratto di Giunone e per modello gli Agrigentini misero a sua disposizione cinque delle più belle fanciulle della città. Cicerone però riporta lo stesso episodio pel quadro di Elena, nel tempio di Giunone a Crotone.

Dai gradini del tempio si abbraccia benissimo il circuito dell'antica città.

Vicino a chi guarda si ergono le mura meridionali, formate dalla rupe naturale, come si vede anche in qualche punto dell'antica Siracusa, dove l'a picco di una rupe servì di muro. Molte tombe, colombari, nicchie e sepolture rotonde si scorgono nel muro.

Anche il tempio della Concordia sorge su di una collina, in mezzo ad un pittoresco insieme di rovine e di fichi d'India. È completo fino al tetto, che manca con le due fronti e tutte le colonne. Anch'esso posa su quattro gradini ed ha 34 colonne.

Non distrutto dai Cartaginesi, ha sfidato vittoriosamente il tempo e nel medioevo, essendo stato trasformato in chiesa, se ne impedì così il suo deperimento. Quando nel secolo XV si fece della cella una cappella, si introdussero nelle pareti laterali i due archi che rimangono ancor oggi. In seguito, la chiesa fu abbandonata, e nell'anno 1748 il principe di Torremuzza restaurò il tempio. Fazello gli ha dato il nome di Concordia, con la quale non ha che fare nessuna divinità dorica. Fra tutti i templi italiani e siciliani, nessuno ha conservato la cella così intatta come questo; le scale che conducono dalla sua entrata orientale sul tetto sono rimaste intatte in ogni loro parte.

Senza dubbio è il più completo dei templi siciliani, poichè quello di Segesta rimase incompleto, non scorgendosi in esso il minimo indizio di cella. Le colonne maestose, i capitelli colossali, le belle proporzioni dell'architrave che ha preservato gli ornamenti del suo triglifo, la grandezza semplice dell'architettura, offrono il più puro godimento estetico. La costruzione dorica è certamente la più bella dell'antichità, certo non apparisce inferiore alla plastica e alla poesia, la cui forza e la cui purezza viveva nell'anima del popolo greco, che fu capace di trovare quelle semplici leggi architettoniche. Guardando un tempio dorico non si può fare a meno di ricordare in quali grandi e semplici ritmi si è sviluppata la vita dei Greci, se l'intero modo di sentire nazionale, che quel popolo espresse nel modo più originale ed evidente nell'architettura religiosa, si potè rappresentare in simil guisa.

Noi comprendiamo benissimo quest'armonia, che è così semplice come una relazione fondamentale geometrica; però ancora non possiamo afferrare l'intero senso della sua intima connessione coi costumi del popolo. Io son persuaso che il duomo cristiano di Monreale (Palermo) sia il più bel contrapposto a questo tempio della Concordia.

Se la Sicilia non avesse altro che questi due edifici, monumenti di due grandi culture, rimarrebbe sempre una terra meravigliosa. Il tempio dorico è l'effigie vivente del tenace ordinamento del mondo greco e delle sue tragiche necessità; il caso, e tutto il fantastico è escluso da questa prima forma; nessun principio pittorico predominante vi signoreggia, non v'è ancora il lusso del disegno, nè il giuoco di diverse figure.

Il terzo tempio è quello di Ercole, un tempo il primo d'Agrigento, oggi una massa gigantesca di rovine che giacciono fieramente accavallate. Una sola colonna scannellata si erge da quel caos. Si contemplano con stupore quei blocchi di pietra, quei bellissimi capitelli, le rovine dell'architrave, che hanno conservato tutti le tracce della loro coloritura purpurea, e quei pezzi di colonna scannellata che giacciono miseramente all'intorno simili a gigantesche pietre molari, sepolti per metà nel terreno e coperti da piante incolte. Questo tempio, vicino all'Olimpion, era il più grande della città e aveva fama mondiale: il suo porticato aveva 38 colonne doriche, di cui 6 sulla larghezza e 15 per la lunghezza, numerando pure le colonne degli angoli. Il loro diametro era di 8, 5, 10 palmi, la loro altezza col capitello poco più di quattro metri.

Vivaci colori, il rosso, l'azzurro, il nero e il bianco, ornavano l'architrave; il fregio era munito di teste di leoni nella scanalatura, e di decorazioni floreali. Serradifalco calcolò la lunghezza del tempio in 259,2,8 palmi e la larghezza in 97,10,6. La cella era ipatrica. In essa sorgeva l' Ercole di Mirone, in bronzo; Cicerone narra che la base di questa statua del dio era levigata per i molti baci di coloro che venivano a pregare nel tempio. Oggi possiamo fare la stessa osservazione in S. Pietro a Roma, dove i baci dei cattolici hanno consumato il piede del S. Pietro di bronzo.

Si può rimproverare al tempo e agli elementi la distruzione delle opere d'arte, se gli stessi lavori in bronzo sono così vergognosamente baciati?

Questa singolare analogia di costumi non è del resto l'unica comune al paganesimo ed alla Chiesa cattolica.

Il magnifico Ercole svegliò le brame di Verre, che decise di rubarlo, dal momento che gli Agrigentini non glielo volevano cedere. In una notte tempestosa fece forzare il tempio da schiavi armati; essi vi erano già penetrati e stavano per togliere il bronzeo dio dal suo posto, dov'era saldamente piantato, quando il popolo corse alla loro volta. «Non vi fu nessuno in Agrigento, così dice Cicerone, che per quanto debole per vecchiaia, o indebolito, che in quella notte, spaventato da quella notizia, non si sollevasse e prendesse un'arma. L'intera città affluì in poco tempo al tempio». I ladri furono inseguiti e non portarono con sè che due soli quadri. I Siciliani crearono un motto sul mal riuscito tentativo di furto, dicendo: «Fra le fatiche di Ercole si dovrebbe cantare da oggi la sconfitta di quel mostro di Verre».

Nello stesso tempio dovette sorgere l' Alkmene di Zeusi, che riuscì così meravigliosamente bene, che il pittore non si accontentò di nessun prezzo e volle dedicare il quadro alla deità. Nell'anno 1836, sotto le macerie si trovò la statua di Esculapio, senza testa, ora esposta nel museo di Palermo.

Continuando, arriviamo alle rovine del più famoso dei templi siciliani, una delle opere più grandi dell'antichità, l'Olimpion. Fu fabbricato dopo la vittoria presso Imera e nello stesso tempo che sorgevano il tempio di Giove a Selinunte, il Partenone ad Atene, il tempio di Zeus in Olimpia, il tempio di Giunone in Argo, mentre cioè in tutti i paesi ellenici si generalizzava la perfezione dello stile dorico. Gli Agrigentini avevano condotto appena a termine l'immenso edificio, e mancavagli solamente il tetto, quando scoppiò la guerra coi Cartaginesi, e la conseguente distruzione della città rese impossibile il suo completamento.

Imilcone saccheggiò l'Olimpion, ma benchè i barbari devastassero l'interno, non potevano che difficilmente pensare ad abbatterlo, data la grandezza e la saldezza della costruzione. Colpisce il carattere della sua architettura, giacchè non aveva peristilio con colonne isolate, ma era attorniato da pareti con mezze colonne. Polibio vide ancora intatto il meraviglioso edificio, e tale si conservò fino al medioevo, andando però sempre più in rovina per le ingiurie del tempo e per i terremoti; e fu anche danneggiato dalla barbarie di coloro che usavano le sue pietre quadre come materiali da costruzione, fino a che gli ultimi resti che si reggevano in piedi, precipitarono a terra. Così racconta Fazello, che ritrovò il tempio e che aveva saputo del tempio e del suo nome dai ricordi del popolo: «Sebbene ciò che rimane del fabbricato sia caduto nel corso dei tempi, un pezzo però rimase molto tempo in piede appoggiandosi a tre giganti e ad alcune colonne. Ciò è ricordato ancor oggi nella città di Girgenti ed anzi lo han posto nel loro stemma. Però, anche questo pezzo cadde per la incuria degli Agrigentini nel 9 dicembre 1401». Un poeta contemporaneo cantò questa caduta di ruderi nei seguenti rozzi versi leonini, dei quali riportiamo la traduzione libera subito appresso, come quella che spiega la ragione dello stemma di Girgenti:

Ardua bellorum fuit gens Agrigentinorum

Tu sola digna Siculorum tollere signa

Gigantum trina cunctorum forma sublima.

Paries alta ruit, civibus incognita fuit.

Magna gigantea cunctis videbatur ut dea.

Quadricenteno primo sub anno milleno

Nona decembris deficit undique membris.

Talis ruina fuit indictione quinquina.

Possente sempre fu in guerra la valorosa gente degli Agrigentini.

Tu sola degna veramente fra tutti i popoli siculi di elevare

Nello stemma il trino segno de' Giganti, portentosi per forma fra tutti.

Ruinò a terra l'altissimo muro, ed i cittadini più non l'ebbero in cura.

Parve a tutti la mole gigantesca della statua essere una divinità.

Nell'anno quattrocento uno dopo l'anno millesimo.

Nel nono giorno di dicembre cadde il monumento da ogni parte.

Tale ruina ebbe luogo correndo la quinta indizione.

Girgenti continua a portare sul suo stemma i tre giganti e le rovine dell'Olimpion, dal popolo chiamate col nome di «Palazzo dei Giganti».

Oggi del gran tempio non resta altro da vedere che la sua pianta, che si è potuta formare per l'assetto dato alle rovine, e la sua grandezza mette stupore.

Ai lati si è formato un argine di macerie coperto di piante selvagge; alcuni olivi hanno messo radici fra le rovine. La massa maggiore è dalla parte di ponente, dove i pezzi giganteschi sono ammucchiati gli uni sugli altri, e sotto vi sono dei frammenti di colonne nelle cui scannellature un uomo trova comodamente posto. Però, per quanto questo ammasso sia grande, appare piccolo in rapporto al tutto, e fa anzi ritenere che la maggior parte del materiale sia stato portato via.

Con le pietre quadre di uno di questi templi fu costruito, al tempo di Carlo III, il molo attuale di Girgenti. Nel mezzo del pavimento libero, vi è disteso uno di quei giganti che servivano da cariatidi. È formato di varî mazzi di tufo calcareo conchiglifero, uniti l'uno all'altro.

La testa gigantesca, a causa delle intemperie e della caduta, è informe, ha capelli inanellati e un berretto frigio; le braccia sono sollevate in alto per sostegno, come nelle cariatidi.

La statua è lunga quasi 30 palmi e rivela molto bene lo stile egiziano, finendo in punta al basso, e tiene i piedi uniti. Ricorda perciò i giganteschi monumenti di pietra di Menfi e di Tebe; e quella figura di gigante dalla forma strana appare come il dio stesso che si sia posto a dormire l'ultimo sonno sotto le rovine del suo tempio, e nè terremoti, nè lotta di elementi, nè lo strepito della storia del genere umano lo possono svegliare. Diodoro ha descritto la meravigliosa costruzione. I templi sacri, e specialmente quello di Giove rivelano la bellezza della città in quel tempo. Tutti gli altri sono bruciati o distrutti, perchè Agrigento fu spogliata diverse volte. L'Olimpion rimase senza tetto, perchè in quel mentre sopravvenne una guerra. Dopo la distruzione della città, gli Agrigentini non vi tornarono per completarlo.

È lungo 340 piedi e largo 60 (secondo Winkelmann dev'essere 160) alto 120 senza le fondamenta. È il più grande di Sicilia e a cagione della robusta costruzione può anche mettersi a paro di quelli forestieri. Benchè l'edificio sia incompiuto, la sua pianta è chiara. Mentre in altri la casa del tempio è circondata da sole pareti o attorno alla divinità da colonne, questo ha ambedue i sostegni. All'esterno sono poste delle colonne in giro alle pareti, nell'interno del tempio sono quadrangolari. La parte esterna delle colonne, le cui scannellature sono così larghe da potervi stare un uomo, ha una circonferenza di 20 piedi, quella interna 12 piedi. Nel frontone dalla parte di levante era rappresentata la lotta dei giganti in bei rilievi, e dalla parte di ponente la presa di Troia. Le figure sono conformi al carattere di ogni protagonista. Le rovine e le fondamenta dell'Olimpion sono sufficientemente autenticate dalle indicazioni di Diodoro. Il tempio posava sopra cinque gradini come sopra un piedistallo ad esso proporzionato; aveva una lunghezza di 417 palmi e una larghezza di 203. Fu l'unico della specie dei pseudoperipteri; lo circondavano delle mura nelle quali erano incastrate 14 mezze colonne scannellate, di grandi proporzioni.

Alle mezze colonne all'esterno corrispondevano dei pilastri quadrati all'interno. Dalla parte di levante, dove in altri si praticava l'entrata del tempio, Serradifalco contò il numero dispari di 7 mezze colonne, disposizione questa veramente fuori del comune.

Egli è d'opinione che l'entrata fosse dalla parte di levante e l'architetto avesse tolto la colonna dispari del centro per avere la porta da quella parte. Benchè la larghezza di essa nei templi dorici fosse ordinariamente più grande del doppio intercolunnio, l'architetto si ingegnò in quel modo, non interessando tale regola pel pseudoperiptero.

L'interno era diviso in tre parti, nel senso della lunghezza, per mezzo di due file di pilastri, uniti con dei muri, sicchè il centro veniva destinato alla cella e le ali servivano da peristilio. Non si è potuto sapere dove erano collocati quei giganti, dei quali alcuni hanno aspetto femminile, con i lunghi capelli; se addossati ai pilastri o attorno alla cella. Non essendo rimasto altro dei grandi rilievi del frontone che dei frammenti rovinati, così l'unico resto di scultura dell'Olimpion è dato da tale cariatide.

È molto da rimpiangere la perdita di quelle sculture, perchè se si fossero conservate, sarebbero state insieme con la metope di Selinunte un grande acquisto per la storia dell'arte. Il caso forse potrà far rinvenire qualche loro resto.

Tornando verso il tempio d'Ercole, in prossimità del taglio praticato nelle mura, si scorge la tomba di Tirone. È un monumento quadrangolare di blocchi calcarei, costituito di due costruzioni sovrapposte: la sottostante non è cementata, è divisa da un cornicione dalla superiore, la quale finisce in una piattaforma e chiude il monumento. In ogni angolo è una colonna scannellata con capitelli ionici e basi attiche.

Verosimilmente questo edificio è un cenotafio del tempo dei Romani, e possono anche aver ragione coloro che sostengono, sia stato il monumento di qualche cavallo.

Non lungi, verso sud e presso il mare, sono le rovine del tempio d'Esculapio dove una volta era l' Apollo di Mirone, che Imilcone portò a Cartagine, e Scipione ridonò agli Agrigentini, e che Verre finalmente rubò.

Sono questi i resti dell'antica Agrigento che si trovano fuori le mura. La lunga linea di templi che vi sorgono deve aver offerto altra volta uno splendido panorama a quelli di Eraclea, cioè a quelli che venivano dal mare, che percorrevano prima gli ubertosi campi e vedevano poi al di là delle mura i templi, i sacri protettori della popolosa città, che copriva le colline con le sue strade e con i suoi splendidi edifici, e che finiva da una parte col tempio di Minerva sulla rupe più alta, a levante, e a ponente con l'Acropoli. Fino alle più piccole rovine di questa città interna sono scomparse. Il suolo è coperto ovunque di vigneti, e fra di essi vengono tirate fuori continuamente monete, vasi e altre antichità.

Quasi nel centro dell'antica area della città sorge la villa del Ciantro Panisseri, al quale appartengono alcune antichità. Nei dintorni si mostra il cosiddetto oratorio di Falaride, cosa che non può mettersi in relazione con quel tiranno. Il piccolo edificio è di forma oblunga, con basi attiche e capitelli dorici ed è senza dubbio di origine romana. I monaci di S. Nicola lo hanno mutato in una cappella cristiana.

Nel piccolo museo del pittore Politi di Girgenti si trova il modello dell'Olimpion, secondo le indicazioni di Diodoro e dei moderni archeologi; esso dà una chiara idea dell'edificio, la cui grandezza per altro viene ad essere molto chiaramente dimostrata dall'estensione delle pareti che lo limitano. Però le colonne, non essendo state isolate, gli dovettero togliere la sveltezza e la bellezza che ha l'Olimpion di Selinunte, il più splendido fra i templi siciliani, appunto perchè le sue colonne sono isolate.

Come le mezze colonne o le colonne addossate alla parete nuocciano all'effetto dell'edificio, si può vedere oggi nella pomposa facciata di S. Pietro, le cui colonne doriche per poco sono inferiori di mole a quelle di Selinunte e di Agrigento.

Le proporzioni dell'Olimpion di Selinunte, che del pari non fu portato a completamento sono, secondo Serradifalco: lunghezza 425,2, larghezza 192,6 palmi. Diametro delle colonne circa 13 palmi, e un'altezza straordinaria di 68,2 palmi, 8 colonne di prospetto e 17 ai lati. Se si immagina un tale edificio perfettamente completo, non ve n'è nessuno che gli si possa paragonare.

Il tempio di Zeus in Olimpia era lungo solo 278 palmi, il tempio di Diana di Efeso 445, quello di Apollo di Didna 407, il tempio di Nettuno a Pesto 242 di lunghezza e 165 palmi di larghezza, il gran tempio di Edfu in Egitto era lungo 378.

Al disopra dell'Olimpion, verso ovest, sorge l'assai pittoresco resto del tempio di Castore e Polluce; chiamato così da Fazello e giacente in terra fino a poco tempo fa. Le quattro colonne principali col frontone sono state trovate da Serradifalco e Cavallari fra le macerie e felicemente rimesse in piedi. Sono doriche, scannellate e coperte di stucco bianco. Il tempio aveva 13 colonne in lunghezza e 6 in prospetto. Trovati i singoli pezzi di questo bell'edificio ridotto in rovina, si poterono mettere insieme in modo che fosse chiaro il carattere dell'insieme. Era policromo, e nell'architrave si vedono ancora dei resti di pittura. Il fregio è un lavoro molto grazioso, delle teste di leone sono poste nelle gronde.

Serradifalco ritiene il tempio greco senza dubbio, però con ristauro romano.

L'ultimo monumento della serie meridionale è verso ovest ed è il cosidetto tempio di Vulcano.

È l'unica cosa antica fra il Kamicus e le mura meridionali della città, giacchè nella città non si presenta più nulla d'antico, eccettuati i cosidetti resti del tempio di Zeus Polieus, sulle cui fondamenta è stata innalzata la chiesa di S. Maria dei Greci. Scendendovi con delle fiaccole, si vedono ancora alcuni gradini e pezzi di colonne doriche.

Però un tesoro raro contiene la cattedrale, un vistoso edificio sul Kamicus.

Vi serve da fonte battesimale il famoso sarcofago, i cui bassorilievi rappresentano delle scene della Fedra di Euripide. I musei romani sono ricchi di sarcofaghi degni di nota, però generalmente i loro bassorilievi, fatti nel tempo post-ellenico curano più il contenuto di ciò che viene rappresentato, che la bellezza dell'esecuzione.

Invece nel sarcofago di Agrigento lo scultore gareggia col poeta, e difficilmente si sarebbe potuto rappresentare con maggior commozione la scena della tragedia nella quale Fedra cade in deliquio.

È nota la predilezione dei Siciliani per Euripide, i cui versi bastavano per fare andare in estasi i Siracusani, e dopo la sconfitta di Nicia molti prigionieri ateniesi ebbero la libertà, perchè declamavano quei versi.

Si deve aggiungere che questo sarcofago è opera d'arte siciliana. Il valore dei rilievi dal punto di vista artistico è ineguale; sembra che l'anima dell'artista non sia stata divisa egualmente in ogni parte. Come in pochi altri sarcofaghi, l'azione qui è rappresentata in una successione bene sviluppata; comincia con la caccia d'Ippolito, sulla quale anche Euripide fonda l'odio di Venere. Il bel garzone è a cavallo con la lancia confitta nel cignale attorniato dai cani. Tre altri cacciatori vi partecipano con mazza, spiedo e pietre. Un quarto trascina un cane. Tra i fogliami si osserva il cactus siciliano (fico d'India). Segue la seconda scena sul lato minore destro, culmine e anima di tutto, con un rilievo della massima bellezza e leggiadria. Vi è Fedra seduta sulla sedia, di classico aspetto, d'espressione ideale; la balia è dietro di lei che la copre; un'ancella tiene abbassato il suo braccio destro, il sinistro fa atto d'impedire ad Eros, mentre questi punta la sua arma.

L'artista ha espresso magistralmente la causa del malanno, l'affanno d'amore e la lotta morale nell'animo di Fedra, il cui ritratto è il più splendido come riuscì ad Euripide, e dove egli diventò lirico come Calderon. Giovani donne, dal bello aspetto, tengono delle cetre davanti agli ammalati d'amore: e anche questo motivo è assai bello; le figure però sono semplici e dure come quelle simili degli antichi affreschi. Benchè sianvi riuniti molti contrasti, Fedra illanguidita, le donne che la servono nella sua follia, la vecchia balia, le giovani suonatrici di cetra, hanno tutti una drammatica fierezza.

Assai piacente è il corteggio delle Grazie melanconiche all'apparire di Fedra. È il poema più commovente della potenza di Eros, e la composizione di questo rilievo si può mettere al paro di quelli che possediamo a Pompei.

La terza scena mostra, sul lato esterno, Ippolito con la lancia in mano, gli amici con cavalli e cani ai lati, il capo mestamente chino, mentre la balia gli fa noto l'amore della matrigna. La fine è completata sull'ultima parte laterale: Ippolito giace al suolo precipitato dalla biga, mentre il guidatore cerca di frenare i cavalli; il mostro nettuniano, immoto, è accennato leggermente di dietro. Molte teste e figure in quest'opera magistrale sono guastate grandemente; nell'insieme però la scultura è conservata piuttosto bene. Fra i brutti quadri che pendono nella cattedrale, rendendo percettibile la mitologia da lazzaretto del cristianesimo, questo antico sarcofago sta come straniero, di un altro mondo, mentre si celebra il trionfo silenzioso del genio greco sul cristianesimo.

Chiudo con esso questi frammenti di Agrigento. Gettai sguardi lontani sulla riva del mare, e sarei volentieri andato verso le coste meridionali, verso Noto; però avevo toccata la meta e tornai a Palermo attraversando l'isola in due giorni di marcia.

Oltrepassammo Aragona, dove si erge un magnifico castello baronale. Dietro sta Comitini con le inesauribili miniere di zolfo. Ci vennero incontro molti muli carichi di zolfo. I pezzi di un bellissimo giallo e di forma regolarmente quadrata son belli a vedere. Ovunque sulla strada zolfo rotto e calpestato, e qua e là nei monti spesse colonne di fumo proveniente dalle miniere, e che riempiono l'aria di odor di zolfo; si sente fisicamente che si è nell'isola dell'Etna. La sua maggiore industria e la vera sorgente di vita delle impoverite terre siciliane è solo lo zolfo, che in grande quantità viene esportato in Inghilterra.

Attraversammo diverse volte il fiume S. Pietro che si getta nel Platani. Serpeggia variamente attraverso una melanconica valle rupestre e si getta in silenziosi campi sui quali pascolano i buoi rossi; nessun ponte passa su di esso. Mi piacque guardarlo tante volte: Giuseppe Campo assicura con certezza matematica che l'abbiamo passato trentasei volte.

L'ardore sciroccale nella valle ci dava le vertigini, e noi desideravamo ardentemente un ristoro, il sorso rinfrescante di un sorbetto, ma nulla si vedeva intorno. Due volte ci fermammo in un gruppo di case di campagna, dove abitavano dei maniscalchi, che ferrarono i cavalli. Il paesaggio diviene più importante e più pittoresco a metà strada fra Palermo e Girgenti; alti pini e cipressi e potenti carrubi rompono la monotonia che ci aveva presi e corriamo silenziosi all'apparire della luna siciliana. Chi può descrivere una simile notte di luna in un tale caos omerico, ove non si ode altro che il passo dei muli e qua e là l'elegia dell'uccello di Minerva? Andavamo così sul nudo monte, verso le miniere di Lercara.

Dalla piccola Lercara la strada va verso Palermo e si può servirsi della posta. Io cavalcai di buon mattino, mentre il mio compagno, essendosi ammalato, proseguiva in carrozza. Il giorno era chiaro e meravigliosamente bello. Dopo Belle Fratte e oltrepassato il ruinato castello di Palazzo Adriano verso Misilmeri, pervenni alla bella dimora del cortese Campo. L'eccellente mulattiere mi accolse in casa sua con sorbetti, mi caricò sulla bestia una cesta dell'uva più bella, che aveva còlta dal giardino del principe Buongiorno e mi lasciò in compagnia de' suoi figli, coi quali feci le nove miglia che mi dividevano da Palermo. Una buona strada porta attraverso i lussureggianti dintorni della città, lungo la campagna fiorita, i cui giardini d'aranci raggiungono il vecchio Panormus.

I canti popolari siciliani.

I canti popolari siciliani.

I canti popolari della bella Sicilia, nel dialetto dell'isola, dall'antica Siracusa, da Agrigento, dalla spiaggia ricca di palme di Selino, da Palermo, dal fabuloso Etna, sono rarità preziose e misteriose che noi salutiamo di gran cuore. E li abbiamo ricevuti raccolti da Leonardo Vigo,[1] insieme con quelli toscani raccolti dal Tigri, perchè tutti e due i libri sono apparsi in questi ultimi anni. Ciò che le campagne d'Italia producono di prezioso appare raccolto in queste foreste vergini della canzone e trasmutato in fiorite immagini di poesia. È necessario leggere tutte e due le raccolte per apprezzare i grandi doni di cui è fornita questa Nazione, che appunto ora è agitata di nuovo da un così profondo movimento politico; bisogna scendere nelle genuine regioni del popolo che, non ostante la demoralizzazione dello stato politico ed amministrativo, ha saputo dettare le bellezze di questi canti, per amare gli Italiani come meritano. Si devono abbandonare le città e rifugiarsi nelle campagne, si deve cercare il popolo, non nelle grandi strade, ma nelle montagne senza strade, dove esso lavora e canta, per farsi un concetto esatto delle sue belle qualità. La musa popolare di questo paese, con simili rami fioriti nelle mani, è capace di disarmare l'odio più feroce di anime nemiche. Ed è principalmente bene che il suo canto innocente abbia visto la luce appunto oggi che essa, mite come la cicala d'Anacreonte, canta le sue belle canzoni in mezzo al tuonar del cannone ed agli schiamazzi dei partiti.

Poichè i Siciliani hanno pubblicato le loro canzoni contemporaneamente con i Toscani, ci viene offerto il destro di fare degli interessantissimi paralleli; e questo simultaneo apparire delle gemme più preziose tra le canzoni d'Italia può essere considerato come un felice avvenimento per la storia della poesia. Ciò che è cresciuto nella dolce e leggiadra Toscana, come potrebbe essere diverso dalla graziosa e ben formata lingua e dal bene sviluppato senso d'arte dei Toscani? Noi troviamo nella raccolta del Tigri solamente ciò che vi abbiamo cercato, e la nostra fondata aspettativa non viene sorpassata. Ma il concetto che noi abbiamo della poesia popolare siciliana si fonda più su quello che non sappiamo che su quello che sappiamo. Il dialetto toscano è il più puro d'Italia; il siciliano è oscuro spesso agli Italiani stessi. La letteratura, le condizioni e le città della Toscana ci sono ben note, ma la remota Sicilia è rimasta ancora molto misteriosa per noi. Il solo nome di Sicilia eccita la fantasia anche di chi non ha veduto con gli occhi questo paradiso divenuto selvaggio. L'immagine delle sue bellezze ha per noi qualche cosa di mistico, nè la parola dei poeti, nè il pennello dei pittori possono rappresentarci un paesaggio siciliano. Che carattere avranno quindi i canti che, non modellati da mani colte, sono sorti spontaneamente dagli elementi di quella natura meridionale ed incantevole?

L'Italia del Nord e la Toscana si sentono fiere di tutta la fioritura medioevale. Sul Lazio brilla ancora l'inestinguibile splendore della grande Roma e del canto di Virgilio. A Napoli comincia quel soffio ellenico che dà a tutta l'Italia meridionale quella sua atmosfera incantevole. La Sicilia è tutta pervasa da quel soffio. La musa latina vi entra solo come ospite straniera; ma la musa dell'Ellade ci saluta con gli antichissimi canti mistici e con i nomi di Stesicoro, Teocrito ed anche con quelli di Pindaro e di Eschilo. Ai ricordi ellenici si uniscono i punici, e si respira l'aria della vicina Cartagine. Uno spirito bizantino viene dall'Oriente, e poco dopo l'orientale poesia degli Arabi, che così a lungo regnarono nell'isola. Un'altra corrente di cultura si precipita dal Nord e trasporta in terra di Sicilia il romanticismo della cavalleria normanna e del grande periodo svevo della nostra patria tedesca. Poi segue il dominio degli Aragona e di Spagna: e così si incontrano e si fondono in quest'isola unica i più diversi caratteri della cultura mondiale: Grecia, Roma, Cartagine, Bisanzio, Bagdad, Germania, Francia, Spagna e Napoli. E tutti questi paesi hanno lasciato qui la loro orma, ed hanno creato questa straordinaria natura siciliana.

Appunto per questo diventa di grande importanza l'osservazione seguente. La Sicilia è stata tanto a lungo sotto il dominio di così numerosi elementi stranieri, e pure nessuno di questi elementi è riuscito a disperdere il linguaggio popolare ed a distruggere quei fondamentali caratteri nazionali sui quali riposa, come in Toscana, la poesia popolare. Il dialetto siciliano è un antichissimo ramo del grande ceppo latino. Io, per amore del signor Vigo, lo chiamerò siculo, e lo farò derivare da quei Siculi che in tempi remotissimi abitarono sulle rive del Tevere e nel Lazio, prima di essere costretti ad emigrare in Sicilia ed a stabilirsi quivi presso i Sicani. L'antico idioma di Sicilia era anche un ramo di quell'idioma che in terra ferma si distingueva in sabino, osco e latino, e la lingua dei Siculi (Siculo non è che un sinonimo di Italico, come ha dimostrato il Niebuhr) può sempre considerarsi come la lingua madre dell'odierno dialetto siciliano. Il lungo e splendido dominio degli Elleni nell'isola vi diffuse la lingua greca come lingua letteraria, senza distruggere però l'idioma siculo-italico, e vicino ai canti di Stesicoro e di Teocrito continuano a risuonare i canti popolari dei pastori siculi sui monti come sulle rive del mare. I Romani posero fine all'influenza greca, e trovarono nell'isola un dialetto assai affine alla loro lingua, e che dovettero considerare arcaico, e che durante la loro secolare dominazione dovettero latinizzare, come già avevano fatto con la lingua etrusca. La stessa discendenza da una stessa razza e da una stessa lingua materna avvinse strettamente la Sicilia all'italia, come ad una grande patria comune, e tutte le conquiste posteriori non riuscirono che a staccare solo politicamente la Sicilia dall'Italia. Dopo che l'Impero Romano passò nelle mani di Bisanzio, il popolo siciliano si mantenne fedele al suo idioma italico, e la cultura e la lingua greca che, dopo una lunga interruzione, rientrava di nuovo nell'isola, potè impadronirsi solo del culto.

Ancora più notevole è la resistenza vittoriosa che l'idioma dell'isola oppose alla lingua araba; difatti, durante una dominazione di duecento anni, i Maomettani non riuscirono nè ad estirpare il linguaggio, nè a soffocare il cristianesimo. Gli Arabi rimasero stranieri nell'isola, e il dialetto siciliano si perpetuò anche senza l'aiuto di monumenti scritti. Gli Arabi accettarono anzi i nomi più usitati di luoghi, fiumi e montagne, mentre i Siciliani, come gli Italiani in generale, presero da loro solamente alcune espressioni. Così sono parole arabe: dugana, maremma, giarra, bagaredda, sciarra, zzammara, zibibbu, arcova, ecc... Appena i Normanni conquistarono la Sicilia, la lingua araba disparve dall'isola. E gli stessi Normanni trovarono un linguaggio popolare così vivente e così armonioso, che non si provarono nemmeno di far prevalere il loro proprio normanno-francese; perfino nella Corte ben presto dominò il siciliano; e fu sotto la loro protezione che i poeti siciliani poterono per la prima volta lasciare scritti i loro versi.

Con questi fatti e storicamente con il poeta Ciullo d'Alcamo comincia la storia del dialetto siciliano, ed il suo sviluppo si può seguire fino ai nostri giorni su documenti scritti. L'ardente patriottismo dei Siciliani, così ben fondato sulla loro grande ed antica cultura, e così spiegabile per la posizione insulare della loro bella terra, ancor oggi si rifiuta di considerare l'idioma siciliano come un dialetto dell'italiano. Esso è una lingua propria e originale, se non proprio la lingua madre dell'italiano. I Siciliani non hanno dimenticato ciò che Dante ha detto nel suo trattato sulla lingua volgare, cioè, che tutto quanto gli Italiani composero in volgare deve essere detto siciliano e dovrà esserlo anche pel futuro. Quest'opinione di Dante non si è avverata, perchè la lingua toscana ha dato il suo nome all'idioma letterario italiano, ed il siciliano non ha conservato che la gloria di aver forniti i primi saggi poetici scritti.

Io sono pronto ad ammettere col Vigo che una tradizione assai vivace si sia mantenuta dall'antico siculo all'odierno siciliano, appunto come le radici dell'odierno italiano possono ricercarsi nella lingua che si parlava nella Sabina e nel Lazio, ancora prima che Roma dominasse l'Umbria; ma ciò non toglie che il siciliano, anche ai tempi di Ciullo e di Federigo, non sia in rapporto al latino che una lingua volgare, perchè il latino ha un tempo modificato l'antico siculo, così come ha modificato tutti gli altri idiomi regionali d'Italia. Nel secolo xii, mentre non vi era ancora una universale lingua italiana consacrata dalla cultura e dagli autori, all'infuori del latino, la lingua si spezzava in tante forme diverse quante erano le provincie; ogni forma conservando naturalmente le antiche radici italiche, ma tutte anche assumendo i caratteri che dava loro l'antica e nuova corruzione del latino. Il siciliano non era che una di queste forme, e da quel tempo più vicina alle altre forme che non sia ora, perchè dopo molti secoli di poca cultura il siciliano si è guastato, ed oggi è molto diverso da quello adoperato dai poeti dei secoli XII e XIII. E pure anche oggi il dialetto siciliano ha molte somiglianze con quello dei Napoletani, dei Còrsi e dei Sardi, ed anche qui, nel centro dell'antico Lazio, a Genazzano presso Palestrina, dove scrivo queste pagine, ascolto ogni giorno voci da me trovate nei canti popolari siciliani. Anche qui, in molte parole la lettera r viene posposta, così che anche qui si dice crapa e non capra, e Capranica, il vicino nido di roccie, viene chiamato Crapanica.[2] Invece di Clorinda qui si dice Crolinda e Craudia invece di Claudia, e così si dice andare a balle (valle), e invece di padre mio, patremo, come a Napoli ed in Sicilia, invece di questo e esso, quisto ed isso; invece di so, sacciu. E, come in Sicilia, anche qui l' nd dei gerundi e dei sostantivi si muta nel doppio n ( vivenno, campanno, granne, banno e munno ). Perfino le stesse forme barbariche in ora ed ara del latino corrotto, che io ho trovato così spesso nei documenti romani del IX, X e XI secolo, ritrovo ora qui in questo dialetto, come in Sicilia. In quel tempo i notai scrivevano ed il popolo diceva fundora come plurale di fundus, censora (da census ), arcora (da arcus ), bandora (da bandus ); in una scrittura del secolo X ho trovato perfino l'accusativo domoras da domus. Questi barbarismi, che si leggono ancora nella cronaca di Giovanni Villani, erano in uso nel popolo da tempi antichissimi, perchè il popolo prende volentieri quelle desinenze che piacciono all'orecchio.

Erra quindi il Vigo quando fa derivare il siciliano ficora (plurale di ficus ) dal figuier; i Siciliani formano oggi il plurale in modo analogo a quell'antico linguaggio volgare: ramira (da ramus ), ficara (da ficus ), e così nomira, loghira, ronura, ortura. Anche qui a Genazzano, 37 miglia lontano da Roma, sento tutti i giorni dire come a Messina le ficara e le ramora; e pochi giorni fa mentre andavo verso l'antica Norma nei monti Volsci, mi divertii a far parlare un ragazzo che mi accompagnava, ed oltre le parole già citate gli intesi dire, proprio come un siciliano, marmora invece di marmi.

In generale si può dire che tutti i dialetti d'Italia hanno una stessa base fondamentale. Se il poeta sardo don Gavino Pes canta:

Li dì, l'ori, e l'istanti

Chi viè possu; cun sinzeru amori

Offeru a chist'Amanti,

Chi da l'omu nò vò sinnò lu cori.

il suo canto è assai simile a quello dei Siciliani, e se la canzone popolare còrsa dice:

Un ghiornu mill'anni

Mi sarà pensandu a te;

anche essa somiglierà molto a quella siciliana. Tuttavia il dialetto siciliano ha alcune particolarità molto notevoli, specialmente nella coniugazione dei verbi che terminano in ari ed iri. La seconda persona del plurale ha poi l'aggiunta prenominale vu ( voi ), dicisti-vu, vidisti-vu. Il Vigo mette in evidenza la grande dipendenza della coniugazione siciliana da quella latina; per esempio, in latino: vidi, vidisti, vidit, vidimus, vidistis, viderunt; in siciliano: vitti, vidisti, vitti, vittimu, vidisti-vu, vitturi. La terza persona del perfetto finisce in ao o au, invece di ò, durao invece di durò, ed anche questa forma si trova in altri dialetti come anche il futuro aggio, partiraggio per partirò, che deriva da partir-aggio, vale a dire, ho a partire, perchè aggio è la forma dialettale ed antica di ho e quindi partirò è uguale a partir-ho. Ancora oggi nella provincia romana si dice aggio invece di ho. Molte parole che terminano in u nel dialetto siciliano, non sono che parole latine a cui il popolo ha tolto la desinenza s o m: tempus-tempu, bonus-bonu, matrimoniu, muru, periculu, maritu. In questo il siciliano, come il sardo è più vicino al latino del toscano che ha mutato la desinenza us in o. La terminazione in u è del resto comune a tutti i dialetti d'Italia e certamente deriva dall'antichissimo latino popolare. Il dialetto siciliano ha anche i per lettera finale al posto di e come notti invece di notte.

Il cambiamento del b e del v è antichissimo e si trova già nelle innumerevoli iscrizioni cristiane dell'Impero al Vaticano. Il siciliano trasforma bibere in viviri, bos in vo, brachium in vrazzu, buca in vucca, e votum in botu.

Caratteristico del dialetto siciliano è il cambiamento del doppio l in doppio d, per esempio beddu invece di bello, iddu e idda invece di illo e illa. Ma poichè questa forma si trova presso i Sardi, è dubbio per me che essa derivi, come sostiene il Vigo, dai Cartaginesi. Del resto è il Vigo stesso che nella sua notevolissima introduzione dice: «Questo idioma che io ho chiamato insulare e che ha una sola ed identica impronta, vive non solo in Sicilia, ma anche in Calabria, certamente con speciali modificazioni, ma con uguali caratteri, e le sue traccie sono numerose in Sardegna ed in Corsica. Dopo tanti secoli e tante vicissitudini politiche, in alcune città delle Calabrie si parla quasi come in Sicilia. Ciò dipende dalla origine comune e perciò il de Ritis dice: “Dalla cinta degli Appennini fino al mare, l'idioma popolare è campano, o se si vuole osco e per conseguenza simile al siciliano”».

L'espressione campano è felice, perchè abbraccia anche la lingua popolare dei Romani, del Lazio e di una parte della Tuscia. Se si confronta il romanesco, quello per es. della Vita di Cola di Rienzo, con le cronache pugliesi, con quella per es. di Spinello, ed anche con le siciliane, si osserverà subito quanta comunanza vi sia tra loro. Ma dall'altra parte degli Appennini, la Romagna, le Marche, la Lombardia, Venezia e il Piemonte parlano un altro gruppo di dialetti in cui l'influenza straniera delle lingue gallo-francese e longobardo-tedesca è facilmente riconoscibile. I confini quindi dell'idioma volgare italiano coincidono con quelli dell'Italia propriamente detta e storica, che va dagli Appennini alla Sicilia e che ha il Lazio per centro.

Questo volgare può essere più antico del tramonto della potenza romana, e le sue traccie più antiche possono trovarsi nelle commedie di Plauto e presso Ennio; ma la sua completa formazione data solamente dal perdersi del latino, come ho potuto osservare in centinaia di documenti latini dei secoli VII-XI. Allorchè la cultura scientifica e politica di Roma annegò nella barbarie, il latino sparve dall'uso del popolo, e le forme dialettali più basse divennero le dominanti, accogliendo in sè le sformate rovine del latino. Il moderno linguaggio d'Italia è sorto, come la seconda Roma, dai bei marmi dell'antico linguaggio di Roma, si è poi formato lentamente, magnifico fenomeno di trasformazione della cultura, e ha dato poi i suoi fiori in Toscana. Alla Sicilia toccò il duraturo onore di aver coltivato per la prima questo volgare campano, perchè sotto i re normanni ed ancor più sotto Federigo esso fu innalzato a linguaggio della poesia, designata come aulica e arricchita delle forme della canzone e del sonetto, così che i primi poeti italiani conosciuti sono siciliani e principi tedeschi di Sicilia. Con ragione può dunque il Vigo dire: «Allora noi fummo Italiani». Questo merito dà al siciliano un bel carattere venerando, e se si legge la raccolta del Vigo insieme con quella toscana del Tigri, sembra di udire la voce della madre vicino a quella della figlia più colta. E difatti l'odierno siciliano suona assai arcaico. Un ampio abisso di cultura lo separa dal toscano, mentre l'originario idioma di Ciullo d'Alcamo, di Iacopo Lentini, di Pier delle Vigne e di Federigo II, reso puro dai poeti, ma pur sempre idioma popolare siciliano del secolo XII, somiglia di più al toscano odierno che non il siciliano che si parla oggi.

Il fissarsi dell'italiano come lingua letteraria data appunto da quel secolo XII in cui vissero quei cantori siciliani. Prima di Ciullo non ci rimangono documenti scritti nè in siciliano nè in italiano, se si eccettua il frammento di una canzone apparentemente del secolo XI, che si trova nell'archivio di Monte Cassino e che è stato pubblicato nella Storia dei duchi e dei consoli di Gaeta del Federici. Tuttavia i diplomi latini anche anteriori a quell'epoca formicolano di espressioni in volgare, che lasciano bene intravedere l'esistenza di un linguaggio popolare. Nei documenti romani da me osservati non c'è tanta abbondanza di frasi volgari, come ce n'è in quelli còrsi del X secolo, messi in luce dal Muratori e dal Mittarelli; e le frasi interamente italiane che io ho trovate in un documento latino del X secolo esistente a Monte Cassino ( Sao che chelle terre per chelle fini che contene trenta anni le possete parte sancti Benedicti ), provano che il popolo parlava già italiano, la cui esistenza risale a molti secoli indietro.

L'odierno siciliano poi si differenzia da città a città, da pianura a pianura. Oltre di ciò l'isola presenta il fenomeno stranissimo di un altro linguaggio che, quantunque italiano, è perfettamente estraneo ai Siciliani che non lo capiscono neppure. È questo l'idioma delle colonie longobarde in Sicilia. Ed è veramente sorprendente che ancor oggi possano trovarsi in Sicilia dei discendenti di quei Longobardi, di Alboino, di Rotari, di Liutprando e di Desiderio, un tempo così feroci, poi così devotamente inciviliti, mentre in Lombardia ed a Benevento almeno da sette secoli si sono sperduti nel grande elemento italiano. Il dominio dei Longobardi venne distrutto da Carlomagno; ma il fiorente ducato di Benevento, aveva sopravvissuto alla rovina, e si era mantenuto, quantunque diviso nelle tre città di Benevento, Salerno e Capua, fino all'undecimo secolo. I Normanni poi distrussero anche questi ultimi belli avanzi della signoria longobarda. Quando Roberto e Ruggiero ebbero conquistata la Sicilia, molti Longobardi di Benevento e di Salerno, che avevano combattuto nell'isola sotto le loro bandiere, vi fissarono la loro dimora stabilmente, ed a loro se ne unirono altri venuti dalla Lombardia, quando Ruggiero prese in moglie Adelaide di Monferrato. Questi Longobardi si fissarono a Piazza, Nicosia, Aidone, San Fratello, Randazzo, Sperlinga, Capizzi e Maniace e Ruggiero dette loro un conte longobardo, Enrico fratello di sua moglie e figlio di Manfredi, marchese longobardo. L'antico idioma germanico dei Longobardi aveva certamente da lungo tempo ceduto il passo all'italiano, ed i lontani pronepoti non parlavano più il linguaggio eroico di Alboino; pure il loro dialetto diventato italiano conservava accenti, voci e terminazioni germaniche. In alcuni paesi della Sicilia i Longobardi si mescolarono con i Normanni e quando questi ultimi furono in numero preponderante, la lingua longobarda prese un'intonazione francese che ancor oggi è riconoscibile. I Normanni, come i Greci e gli Arabi, sono scomparsi dalla Sicilia senza lasciar traccia: queste colonie longobarde invece hanno resistito per otto secoli agli attacchi dell'elemento siciliano, prova questa non solo della straordinaria tenacità di questa razza, ma anche del basso livello della cultura siciliana. Alcune di queste colonie oggi naturalmente non esistono più, e il Vigo che fa ascendere a 30.000 anime la popolazione longobarda di quei tempi, osserva che il loro linguaggio oggi si parla solamente a Piazza, San Fratello, Nicosia e Aidone; ed anche in questo, a Nicosia gli elementi franco-normanni sono in proporzioni non disprezzabili, e solo a San Fratello la lingua si è mantenuta prettamente longobarda.

Il Vigo racconta un aneddoto che mette in evidenza la forma di dialetto parlato da queste colonie. Quando nel 1806 Ferdinando III passò per Piazza, domandò ad un contadino: «Che cosa mi avete fatto trovare qui a Piazza?» Ed il longobardo rispose: « Ppi V. M. a Cciazza gh'è 'nciangh cing dì fi riau ». Parole, dice Vigo, più incomprensibili della lingua del diavolo e che fanno pensare al cinese. Tradotte in italiano significano: «Per V. M. v'è un piano pieno di fichi reali». A San Fratello, osserva ancora il Vigo, si dice parduoma a dumbard (longobardo) quando gli abitanti vogliono parlare sanfratellese e parduoma a datin quando vogliono parlare latino, cioè a dire siciliano.

Un'ottava di San Fratello suona così:

Ajudam tucc a sgugghier st'strecc,

Cunfess ù mie debu e 'un m'ámmucc.

A miei figgh cuminzà a dumer ù mecc,

Ognun si van abbuscher ù sa stucc.

Volu camper li fommi, brutt'impecc',

E roi divaintu cum i babalucc,

E quand puoi fan i scaramecc

'N spartuoma la fam 'n tucc 'n tucc.

Eccone la traduzione italiana:.

Aiutatemi a sciogliere questa matassa

Confesso il mio debole e non mi occulto,

A miei figli cominciò ad ardere il mecco,

Ognuno si vuol buscare il suo astuccio:

Voglion campar le femmine, brutto impiccio.

Ed esse addiventano come le lumache,

E quando poi faranno i picciolini.

Ci spartiremo la fame in tutti in tutti.

Oltre queste colonie longobarde, vi sono poi quelle albanesi anch'esse molto notevoli, che da oltre quattrocento anni conservano il loro idioma ed il loro culto greco. Dopo la caduta dell'Epiro nelle mani dei Turchi, molti compagni del celebre Giorgio Castriota Scanderberg si rifugiarono in Italia, alcuni stabilendosi in Calabria, altri accolti in Sicilia da Ferdinando il Cattolico. Quei di Sicilia vi giunsero nel 1482 sotto la guida del loro capitano Giorgio Mirsgi, e presero dimora a Palazzo Adriano. Poco dopo ne giunsero altri e si fermarono nelle vicinanze di Palermo, dove occuparono i feudi dell'arcivescovo di Monreale, Merco e Aidingli che da allora prese il nome di Piano de' Greci. Oggi gli Albanesi di Sicilia sono circa diecimila ed abitano Mezzojuso, Contessa, Piana e Palazzo Adriano. Qui, oltre la loro lingua nazionale albanese, parlano anche greco, e così la lingua di Eschilo, di Pindaro e di Platone un tempo nazionale dell'isola, poi per lungo tempo abbandonata per rifiorire brevemente sotto i Bizantini, torna per la terza volta a risuonare in Sicilia, e questa volta per opera di gente che aveva perduta la sua patria. Queste piccole colonie, vicine alle rovine degli antichi tempi, fanno ripensare al periodo glorioso in cui gli Elleni fondarono le splendide città di Siracusa, Agrigento, Selinunte e tante altre. Il loro rito è bizantino, e fa quindi ripensare a quel periodo certamente non glorioso in cui gli imperatori bizantini governarono, o meglio oppressero l'isola, fino a che se ne impadronirono i Saraceni e due secoli dopo i Normanni che latinizzarono il culto. Il vescovo greco degli Albanesi risiede in Palermo e nel vescovado v'è pure un collegio o seminario greco, da cui sono usciti degli ellenisti di valore tra i quali Crispi. A questo semplice istituto si riducono ora le antiche scuole di sofisti e di filosofi nella patria di Gorgia e di Empedocle. Il greco naturalmente è, per gli Albanesi, solo l'idioma del culto e della scienza. Il linguaggio di cui si servono tra loro e nel quale compongono le loro canzoni e le loro apostrofi alla patria è ben diverso. Il Vigo afferma che fino a poco tempo fa era loro costume ogni anno al 24 giugno (forse il giorno in cui lasciarono la patria) di riunirsi sul Monte delle Rose ed al sorgere del sole di cantare, rivolti verso l'oriente, un lamento, di cui ecco il ritornello:

O' ebúcura Morée

Cù cuur të glieë néngh të peë.

Ati cám ù zootintát,

Ati cám ù mëmën t'i me,

Ati cám ú t'im vëlua.

O ébúcura Morée,

Cù cuur të glieë néngh të peë.

Il lettore che non ha mai inteso parlare albanese, può, da questo saggio, vedere come questa lingua non abbia alcuna affinità con le altre lingue conosciute. Essa infatti rappresenta un problema tra le lingue vive, come l'etrusco lo è tra le lingue morte. Il dotto linguista monsignor Crispi nella sua introduzione alla piccola raccolta di canzoni popolari siculo-albanesi da lui inserita nel libro del Vigo, dice: «L'albanese è così antico che si può considerare come una lingua originaria cui somiglia per meccanismo e per suono. Difatti somiglia alla caldea ed alla ebraica ed è intimamente legata alla frigia, alla pelasgica, all'antica macedonica e alla primitiva eolica. La sua maggiore gloria è appunto quella di essere una delle lingue originarie da cui è sorta la divina lingua degli Elleni. Ma quantunque questa lingua sia così vetusta, e quantunque possa considerarsi come un fenomeno assai raro che essa si sia mantenuta sempre viva nella bocca del popolo, pure essa ha avuto pochissimi scrittori e quindi non ha mai acquistato un carattere letterario». Se la cosa è veramente così che la lingua degli Albanesi sia la lingua originaria dell'Ellade, e, se nel dialetto siciliano si possono trovare ancora le tracce dell'antica lingua originaria sicula ed italica, allora in Sicilia sarebbe avvenuto uno strano riavvicinamento tra le lingue affini che furono originarie del greco e del latino. L'alfabeto originario degli Albanesi era il fenicio; ma ora essi si servono, e già da lungo tempo, dei caratteri greci, e, nella propaganda che fanno a Roma ed in Sicilia, dei caratteri latini. E con questo monsignor Crispi ha aggiunto alla raccolta del Vigo 17 canzoni e due canti spirituali, dandone a lato la traduzione italiana. Non trovo in queste canzoni speciali caratteristiche di bellezza, sono molto lontane dalle celebri antiche canzoni popolari dell'Epiro e della Grecia, nel tono e per la forma somigliano più alle ballate serbe; pure qua e là hanno un'intonazione particolare, per qualche accenno di carattere siciliano o napolitano.

Occupiamoci ora della poesia popolare siciliana genuina. Nella introduzione alla mia traduzione in tedesco di alcune poesie di Giovanni Meli, ho gettato uno sguardo sulla poesia siciliana dai tempi di Ciullo fino a quelli di Meli, ma senza occuparmi della poesia popolare. Difatti i noti poeti siciliani come don Antonio Viniziano, il marchese Rao, Vitale da Gangi, Giovanni Meli, Domenico Tempio e Ignazio Scimonelli sono poeti letterati, quantunque essi abbiano scritto in quello stesso idioma nel quale il popolo anonimo compone le sue belle canzoni. Solamente il celebre Pietro Fullone di Palermo, vissuto ne primi anni del secolo XVII e le di cui innumerevoli poesie hanno avuto una diffusione enorme in tutta l'isola, può considerarsi come un vero poeta popolare e il caposcuola della poesia rustica di Sicilia. Egli stesso appartiene al popolo, perchè era un povero tagliatore di pietra che lavorava nelle reali galere. Nella sua facilità quasi senza esempio d'improvvisatore in ogni genere di componimenti, sacri, profani, erotici, epici e satirici, si ha un'espressione personale del carattere, naturalmente poetico del popolo siciliano; pure la sua vena era così ricca che dopo di lui (morì il 22 marzo 1670) nessuno lo potè mai uguagliare. Tuttavia vi sono sempre nel popolo dei poeti i nomi dei quali vengono tramandati e che fanno stampare in fogli volanti le loro poesie di occasione. Il Vigo, che a questa classe di poeti ha rivolto tutto il suo amore e tutta la sua attenzione cita come viventi e specialmente degni di lode, Alaimo, Adelfio e La Sala da Palermo. Il primo di questi tre fa lo zappatore, e si è reso celebre per una ricca vena satirica. Il Vigo lo chiama il Salvator Rosa della poesia rustica; Stefano la Sala poi ne è, sempre secondo il Vigo, l'Ariosto. Questo poeta vive poveramente in Palermo, fabbricando chiodi; il Vigo lo conobbe nel 1845, quando egli faceva stampare le sue poesie col suo ritratto e con una litografia rappresentante il suo mestiere. Ma il popolo gli ordina solo delle canzoni e non del lavoro, così che la fabbrica del povero La Sala non vuol prosperare.

Assai notevole è ciò che il Vigo dice sull'accademia poetica dei mendicanti ciechi di Palermo, e che da sola basta a provare lo straordinario senso poetico dei Siciliani. In tutta la Sicilia i ciechi esercitano l'arte della musica e del canto, l'innumerevole quantità di tabernacoli e di cappelle dove si venerano immagini sacre, le novene del santo protettore, il Natale, le feste di S. Giuseppe, di Maria e di S. Rosalia, la settimana santa, i venerdì di marzo, e poi le nozze conspicue, il carnevale, ecc. dànno moltissimo da fare ai ciechi. Si vedono andare da un capo all'altro di Palermo, guidati da un ragazzino e cantare sul violino e sulla ghitarra le laudi in onore dei santi, canzoni d'amore, di gelosia e d'odio, o storie di banditi come Testalonga, Fra Diavolo, Tabbuso, Zuzza. Essi sono così occupati che è possibile averli solo dopo averli chiamati in precedenza. A Palermo hanno formato una vera e propria accademia con relativi statuti.

La interessante storia di questa scuola di ciechi trovatori è la seguente. Nel 1661 i ciechi di quella città si riunirono e ricevettero l'autorizzazione di organizzarsi in congregazione, alla quale alcuni cittadini pietosi donarono una rendita annua di 42 once. Nel 1690 il generale dei gesuiti Tirso Gonzales concesse loro come luogo di riunione l'atrio della casa dei professi; concessione di cui godono ancora oggi. Quando l'ordine dei gesuiti fu soppresso, i ciechi continuarono a godere l'uso di quel locale. I gesuiti tornarono poco dopo ed il re donò loro la terza parte delle entrate di tutte le congregazioni che si radunavano nella casa dei professi.

I poveri ciechi cominciarono da allora e continuano ancora a lamentarsi che l'ordine di Gesù abbia tolto loro tutte le rendite, ed intentarono anche un processo che di tanto in tanto rinnovano con qualche atto per non far prescrivere il loro diritto. Finalmente nel 1815 Ferdinando III si piegò alle loro continue lamentele e concesse loro una rendita annua di 14 once da prelevarsi sulla sede vacante vescovile. Ma i ciechi continuano più ostinati degli Illuminati a lottare contro la Compagnia di Gesù. I gesuiti volevano cacciarli dalla casa dei professi, i ciechi non volevano cedere, fondandosi sui documenti che possedevano, ma che non potevano leggere nè vedere. Mentre il duca di Laurenzana governava la Sicilia, essi ottennero un ordine ministeriale che li manteneva nella casa dei professi. I ciechi chiusero questo decreto così importante per loro in un forziere munito di tre chiavi e il Vigo racconta che lo conservavano con tanta gelosa cura, da non permettere nemmeno a lui, che pure era un loro benefattore, di esaminarlo, per paura che egli potesse essere un emissario dei gesuiti. E così i ciechi hanno sconfitto l'ordine di Gesù, un trionfo assai importante e commovente di Orfeo diventato cieco e mendicante contro il potentissimo generale Ignazio Loyola.

La Congregazione si compone di trenta membri, tutti suonatori e cantori. Alcuni sono compositori di nuove rime ( trovatori ) altri rapsodi che quelle rime cantano e diffondono. Essi si obbligano di non cantare nelle case di piacere, nè di portare in giro per le strade poesie profane; recitano inoltre ogni giorno il rosario, ed ogni anno al 2 novembre pagano 10 grani per la commemorazione dei ciechi defunti, ed un tarì per la festa dell'Immacolata l'8 dicembre. Hanno inoltre un cappellano che dice loro la messa ogni mattina, ed un gesuita presso il quale si confessano il primo giovedì di ogni mese, ed al quale devono far leggere le loro poesie per la censura. Hanno poi degli impiegati propri, un superiore, due aggiunti e sei consultori. Fieri della loro associazione, si vantano d'essere soci della Congregazione di S. Maria Maddalena in Roma, ed il loro misterioso forziere racchiude anche un breve del vescovo Mormile, nel quale è concessa un'indulgenza di 40 giorni a chiunque fa cantare una poesia ad un cieco. Ogni socio era tenuto un tempo di presentare ogni 8 dicembre, una nuova poesia in lode della Madonna; ma ora questa usanza è andata scomparendo. Se si assiste ad una loro riunione, commuove vedere questi infelici sedere in circolo come tanti Omeri, pieni di ardente zelo, cantare uno dopo l'altro le loro nuove composizioni, accolte sempre da un caldo applauso di tutti i camerati, mentre i ragazzi che fanno loro da guida si riposano del loro servizio, seduti per terra in un angolo e si divertono a qualche giuoco infantile.

Questa è la pittura che il Vigo ci offre dell'accademia dei ciechi di Palermo, un interessantissimo quadro della vita del popolo, pel quale dobbiamo essere assai riconoscenti all'autore. Ogni lettore correrà con la mente a quelle noiose e pretenziose accademie, che ancora fioriscono in tutte le città d'Italia e dove signori e dame recitano i loro sonetti faticosi, proprio come al tempo del Marini. E pure sarebbe difficile trovare un solo poeta che senta così santamente la poesia come quelli di Palermo. Io non conosco nessun verso di questi poveri cantori, perchè il Vigo non ne ha riportato nessuno, ma comunque essi sieno, e per quanto aspro sia il loro archetto, pure io credo che le Muse ascoltino questi ciechi maestri con un tranquillo sorriso, e che talvolta si degnino anche di mandar loro una buona rima ed un buon concetto.

Durante la mia permanenza in Sicilia ho avuto spesso l'occasione di ascoltare qualche improvvisatore o qualche rapsode che nella strada, circondato da un cerchio di persone attente, narra qualche storia cavalleresca o qualche novella. Sono anche questi uomini assai strani, ciechi o gobbi, e mi ricordo specialmente di uno in Catania, il quale gesticolava con una mazza nelle mani, ed appena narrava di un combattimento tra cavalieri, la mazza cominciava a fare dei terribili mulinelli per l'aria; ed in quei momenti rassomigliava assai al cosidetto Esopo della villa Albani a Roma. Quando si è notata la serietà e l'avidità con cui il popolo sta ad ascoltare questi improvvisatori, non fa più meraviglia che l'isola formicoli di canzoni e di ballate. In tutta la Sicilia è celebre la pietra della poesia. Si trova a Mineo e il Vigo dice: «È una credenza popolare che per diventare poeta, bisogna andare a Mineo e baciare la pietra della poesia». Se qualche mio compatriota, trovandosi in Sicilia, vuole anch'egli farne la prova, vada a Mineo, contrada Camuti, e nella villa di Paolo Maura troverà la pietra della poesia. Tuttavia chi dà questo bacio, non col cuore puro, torna indietro da Mineo con così poco estro poetico come se tornasse da Abdera[3]. È strano che anche gli Irlandesi abbiano una tradizione simile; difatti essi dicono lo stesso della pietra di Blarney; chi la bacia diventa eloquente.

Nessun popolo, compreso il napoletano, possiede una così spiccata attitudine per l'improvvisazione, come il siciliano. Quando siede dinanzi ad un bicchiere di vino, la sua gioia si manifesta in rima senza nessuno sforzo.

Di questo talento ha dato una prova Giovanni Meli nel suo Ditirambo che io ho tradotto. A nessuna delle loro feste, di qualunque genere siano, mancano i poeti popolari. «Ognuno canta per sè» dice il Vigo, «come gli antichi trovatori, ed è seguito da una folla di popolo che lo applaude e lo paga fino a che la gara dei cantori e degli ascoltatori infiamma la tenzone. I poeti si raccolgono sotto l'ombra di un albero, o in una taverna e prima di dar principio alla lotta, tentano di investigarsi a vicenda per conoscere le forze avversarie. La prosa è bandita, si salutano e si provocano in versi, poi si attribuiscono i temi per l'improvvisazione. Il vinto viene fischiato e cacciato via, mentre il vincitore continua a cantare allegramente ed a strimpellare la sua ghitarra. Ma la fine abituale di queste tenzoni è che il vinto si slancia come un dannato sul vincitore, e solo l'intervento di qualche prete che accorre al frastuono, riesce a separare i contendenti». Il Vigo racconta di aver assistito a Palermo ad una tenzone pacifica il giorno di S. Giovanni: «Erano radunati da cinque a seimila spettatori per aspettare il mezzogiorno, ora in cui l'immagine del santo viene portata fuori della Chiesa e collocata nel mezzo della piazza. Ecco che nella macchina preparata per accogliere il santo salgono cinque poeti, Antonio Russo, un ragazzo condotto da suo padre, un fabbro, Giovanni Pagano, il ciabattino Andrea Pappalardo e il contadino Salvatore da Misterbianco. Uno dopo l'altro cantano le virtù ed i miracoli di S. Giovanni e poi comincia la tenzone. Tutti si servivano dell'ottava siciliana; meno Pappalardo che componeva sestine con due rime piane in fondo. Tutti e cinque erano assai bravi ed ardenti, ma il fabbro superava tutti gli altri. Nessuno sa, continua il Vigo, da quanto tempo vige l'uso di queste tenzoni, quello che è certo è che sono antichissime, e che meritano tutto l'incoraggiamento possibile, perchè non solo sono di grande utilità, ma anche perchè fanno ripensare alle nobili tradizioni dell'epoca greca».

La straordinaria facilità degli Italiani e dei Siciliani d'improvvisare, viene mantenuta desta per mezzo di forme tradizionali con le quali poetano. Presso i popoli che non hanno ritmi universalmente noti ed adoperati, l'improvvisare è molto più difficile, perchè c'è maggiore sforzo individuale. Il popolo italiano possiede fin dall'antichità le sue ben determinate forme ritmiche. Quasi da per tutto, in Toscana, nel Lazio, a Napoli e in Sicilia specialmente viene adoperata l'ottava; difatti tutta la voluminosa raccolta del Vigo non contiene, salvo poche eccezioni, che ottave, nelle quali vengono espressi gli stati d'animo più differenti. L'ottava, così come è stata adottata dai Siciliani, ha le rime che si incrociano quattro volte, mentre nell'ottava toscana, tanto in quella popolare, quanto in quella letteraria adoperata dall'Ariosto e dal Tasso, le rime s'incrociano solo tre volte di modo che gli ultimi due versi rimano tra loro. L'ottava siciliana ama l'assonanza, così che spesso anche le quattro rime contrastanti, modificate solo con qualche leggero cambiamento, si avvicinano alle altre quattro, per esempio usi-asa, etu-atu, uppa-appa. Ciò dà una grande dolcezza musicale e il Vigo cita come modello la seguente ottava:

Susiti, amanti mia, susiti susi.

'Ntra ssu lettu d'amuri 'un arriposi;

Vinni a spizzari ssi sonnura duci,

Di ssi biddizzi 'nciammari mi vosi,

Grapitimi ssi porti si su chiusi,

Quantu sentu l'oduri di li rosi.

Idda ccu li so' modi graziusi

Grapiu, mi contintau, mi detti cosi.

Si comprende come non sia difficile poetare con un idioma così incomparabile. L'ottava, e solamente una, è del resto più che sufficiente al cantore. Essa può contenere tutta la canzone o tutto il poema, essa è una canzone d'amore, una sentenza, un lamento, una serenata e tutto quello che si vuole. Il suo nome è canzuna come in Toscana, e talvolta anche strambotto o stornello, come si dice nell'Etna. La parola strambotto, che secondo il Tigri viene da strano motto, è assai antica; rimonta per lo meno al secolo XV. Lo strambotto è a buon diritto considerato come un'invenzione dei Siciliani, ed i Toscani solo più tardi ne hanno modificato la disposizione delle rime. La patria di questa ottava si rileva facilmente leggendo la raccolta del Vigo. Si confrontino difatti le ottave del Vigo con quelle della raccolta toscana dei Tigri e si vedrà che i Toscani si sono staccati dalle forme degli antichi trovatori siciliani. Mentre in Sicilia l'ottava è rimasta costantemente immutata, in Toscana non solo vi hanno apportata la modificazione cui ho già accennato, ma non hanno conservato neppure la disposizione delle rime dei primi sei versi. Spesso in Toscana anche gli ultimi due versi della sestina propriamente detta rimano tra loro, così che l'ottava finisce con due coppie di versi rimati.

Come in Toscana, così anche in Sicilia vi sono gli stornelli dei fiori e che i Toscani chiamano appunto stornelli. La raccolta del Tigri ne contiene una grande quantità ed alcuni così belli, così arguti e così poetici che non è possibile trovarne di simili in nessun altra lingua. Questa deliziosa forma di poesia popolare è diffusa, così come lo sono i fiori, per tutta l'Italia, ma la sua vera patria è in Toscana, nel giardino d'Italia. In Sicilia invece essa è meno prospera. Difatti nella raccolta del Vigo gli stornelli sono pochissimi e nessuno raggiunge il profumo e la grazia di quelli toscani.

Quando il Vigo si accinse a questa patriottica raccolta distribuì per tutta la Sicilia una circolare, nella quale erano così suddivisi gli argomenti che egli intendeva raccogliere.

1. Canti d'amore, d'odio, di disprezzo, di gelosia, d'abbandono, di lontananza, di nozze, ecc. 2. Ninne-nanne. 3. Indovinelli. 4. Fiori. 5. Canti funebri. 6. Canti sacri. 7. Canzoni di banditi, di vendette, di streghe e di guerra. 8. Canti popolari longobardi ed albanesi.

Il libro è riuscito discretamente completo, specialmente per il numero uno. Ma, come mi comunica lo stesso sig. Vigo, ne è in preparazione una nuova edizione con l'aggiunta di molti altri fiori, e molte altre canzoni di briganti e di vendette, di cui la Sicilia è molto ricca e che potranno servirci per un interessante confronto con le belle canzoni còrse sullo stesso soggetto. Mi aveva già colpito il fatto che in tutta la raccolta del Tigri non vi sia una sola canzone di soggetto storico; ora lo stesso fatto ho riscontrato nel Vigo. Il canto popolare italiano tratta quasi esclusivamente d'amore. L'eterno splendore del cielo e la svegliatezza di mente degli Italiani sono poco favorevoli allo sviluppo della leggenda e della ballata, e poi la quantità, la grandiosità e l'esattezza dei fatti storici in questa patria della storia non consentono il fiorire della leggenda storica. Ed il popolo canta un avvenimento storico solo quando la leggenda se ne è impadronita e lo ha trasformato.

Nelle montagne d'Italia ho trovato innumerevoli rovine di antichi castelli, ma neppure una di queste rovine è popolata di leggende popolari propriamente dette, come accade in Germania ed in Inghilterra. Ma all'incontro non c'è luogo in Italia che non abbia negli annali storici una derivazione antichissima, e pochi che non abbiano la loro storia speciale stampata e assai diffusa, con dilucidazioni archeologiche che sono le peggiori nemiche delle Muse, come il fumo lo è per le api.

Il Vigo ha molto saggiamente aggiunto ad ogni poesia il paese donde essa proviene, e solo alcune città sono rimaste, e non per sua colpa, prive di qualche saggio in questa raccolta. Solo una poesia ho trovato di Siracusa, nessuna di Agrigento, Taormina, Cefalù e Monreale. Le più numerose di tutte sono quelle della patria dello stesso Vigo, Aci Reale, una delle più incantevoli cittadine del mondo, posta in un piccolo paradiso ai piedi dell'Etna, non lontano dal mistico Aci, dalle sorgenti sacre e dirimpetto all'isola dove Polifemo languiva per Galatea. Se si è veduto quel paese dove le rose fioriscono perennemente, pieno di aranci e di viti, non fa più meraviglia che in mezzo a quel popolo le Muse abbiano un così dolce e melodioso canto. Dopo Aci i migliori saggi ci vengono da Messina, da Catania, dallo stesso Etna e poi da Palermo, Mineo, Raffadali, Lentini, Termini, Modica, Bronte, Itala, Piazza, Siculiana, Aderno e da molte altre città che un tempo ascoltarono la Musa dell'Ellade. Se i grandi poeti siciliani, Stesicoro e Teocrito, se gli stessi Pindaro e Simonide ascoltassero le canzoni che ancora oggi, dopo più che duemila anni, fioriscono sulle rovine delle città greche illustri, cantate da un'altra razza, non potrebbero rifiutare il loro applauso. Le antiche fogge dell'ode sono scomparse e solo la canzone bucolica si è rinnovata per virtù del Meli. La strofa artistica si è trasformata nell'ottava rimata; la Musa ha cambiato lineamenti, ma anche la nuova è bella, piena d'espressione, di spirito e di sentimento. Perchè la Musa è immortale, come la Natura, ed il cuore degli uomini che canta sotto la guida di lei, i suoi dolori e le sue gioie.

Se si paragonano le canzoni amorose raccolte dal Vigo con i rispetti pubblicati dal Tigri, si rimane sorpresi dalla loro somiglianza. La concordanza di queste forme popolari è una prova evidentissima della unità della nazione italiana. L'unica confederazione che abbia salde radici è quella della poesia. Una storia sanguinosa ha dilaniate le sue provincie, la politica delle altre nazioni, ed anche quella interna dei vari Stati, ha resa sempre più profonda la separazione; il regionalismo divide ancora una città dall'altra, la mancanza di industrie, di commerci e di strade allontana territori vicini, ed anche intellettualmente mancano all'Italia le grandi ed universali correnti intellettuali che mantengono stretti i rapporti. E ciò non ostante nella poesia popolare degli Italiani, c'è un'impronta nazionale indistruttibile, che afferma con energia davanti a tutto il mondo l'unità della Nazione. La canzone popolare è il tesoro dove la nazionalità conserva le sue inalienabili pietre preziose. Infatti leggi, diritto, libertà, istituzioni politiche e cittadine si cancellano e si distruggono lungo il corso degli avvenimenti storici, ma la lingua, con la quale il popolo parla e canta, è un elemento che dura fin che quel popolo dura. In questo senso della nazionalità le due raccolte di poesie toscane e siciliane sono un significantissimo documento storico dell'intima unità del popolo italiano e di tutto ciò che i Latini ed i loro discendenti indicano con la parola indoles.

Si leggano queste poesie e si vedrà di quanta nobile, fine e delicata cultura di cuore è capace questo popolo che pure è costretto a vivere sotto così dolorose condizioni politiche e cittadine, e quasi senza istruzione di sorta. Si ripete fino alla nausea il fatto di viaggiatori di tutte le parti del mondo che hanno veduto l'Italia solo dalla diligenza, trattenendovisi un paio di mesi o solamente un paio di settimane e percorrendola solo sulle grandi strade maestre, e poi scrivono dei grossi volumi sulle condizioni di questo popolo, ripetendo continuamente le stesse frasi, forse per vendicarsi di qualche brutto tiro giuocato loro dagli albergatori di campagna. Ed essi conoscono l'Italia, come conosce Roma chi l'ha veduta una sola volta di notte alla luce di uno zolfanello. Per imparare a conoscere un popolo, si deve saper scrivere e saper parlare con esso, e si deve frequentarlo nelle sue feste e nel suo lavoro, nei monti e nelle valli. La poesia popolare è una landa che la civiltà falsificante non ha ancora profanata.

Le stesse sensazioni, lo stesso concetto degli uomini e delle cose, la stessa poetica rappresentazione delle cose, lo stesso culto dei sentimenti, specialmente riguardo alla cavalleresca galanteria verso le donne, dominano in questi canti popolari e la stessa espressione del pensiero poetico si trova in Toscana, nel Lazio, nella Corsica, in Sardegna ed in Sicilia. Questo culto poetico procede con la stessa unità, come il culto religioso; e come l'anima popolare mostra ovunque in Italia le stesse tendenze, così anche le forme poetiche sono pressochè uguali anche a traverso qualche particolarità locale. Le stanze della Toscana hanno per esempio, oltre le modificazioni già accennate, la caratteristica di ripetere il concetto principale, ciò che dà loro una bella impronta popolare. Il ritornare sembra che sia proprio caratteristico della Toscana. Ma nell'insieme la poesia popolare italiana ha un comune stile architettonico.

La forma italiana è più ricca di quella esclusivamente trocaica degli Spagnuoli e di quella così monotona nell'insieme dei Serbi e dei Greci. La poesia popolare italiana ha la forma della stanza epica, e rappresenta la base immediata della poesia letteraria, che nei suoi momenti più gloriosi non è altro che la perfezione delle stanze popolari: un fatto questo che è della più alta importanza perchè dimostra che in Italia la poesia letteraria e quella popolare non sono divise da nessun abisso. Da noi in Germania le poesie di Schiller e di Goethe, come prodotti di una perfetta cultura letteraria, sono molto lontane da quegli strati in cui fiorisce la canzone popolare; in Italia invece i capolavori perfetti del Tasso e dell'Ariosto non sono affatto separati dalle regioni che hanno dato origine alle poesie raccolte dal Tigri e dal Vigo. In molte ottave popolari io trovo frequentemente concetti che ho già veduti nella poesia letteraria. E quindi od essi sono proprietà originaria del popolo, od il poeta popolare li prende a prestito dall'alta poesia perchè non discordanti da tutto l'insieme della vena popolare. Per esempio in una canzone di Raffadali trovo:

Vinissi chiddu patri chi ti fici,

Fari non nni po' chiù, persi la stampa.

ed Ariosto dice:

Natura il fece, e poi ruppe lo stampo.

Un'altra canzone comincia col noto verso di Dante:

Donni ch'aviti 'ntellettu d'amuri.

Inoltre vi è un'altra fonte d'intimi rapporti in questo paese tra la poesia popolare e quella letteraria, fonte che deriva dalla natura stessa del popolo. Infatti anche la poesia popolare degli Italiani ha in sè qualche cosa di letterario, perchè il popolo italiano è artista per natura.

Il senso della bellezza delle forme diffuso in tutte le classi, il fine gusto per la misura, la grazia naturale dei movimenti, il modo di vestire, il contegno che rendono gli Italiani (e questo lo ammettono anche i loro più acri nemici) molto superiori a tutti gli altri popoli, si manifestano meglio che altrove nella canzone popolare. In essa si riscontra un'arte di poetare che è divenuta una seconda natura, oppure una natura che senza sforzo si trasforma in arte. La poesia elevata non è che il canto popolare meglio abbigliato, e le ottave popolari composte non senza arte, risplendenti di metafore belle e talvolta anche meravigliose, somigliano alle belle donne della campagna quando, nei giorni di festa, si adornano con orecchini rilucenti, con collane di coralli e con anelli d'oro.

La poesia popolare italiana è ricchissima d'immagini, ed offre ai poeti elevati un tesoro inesauribile in cui essi possono attingere, tanto più che la metafora, questa polvere variopinta che riveste le ali della Musa, si è quasi dispersa nella loro poesia moderna. La metafora è qualche cosa di più di un semplice ornato nell'architettura di una poesia; essa è il mutevole spirito della fantasia che dà bella veste ai pensieri, che toglie alla rappresentazione delle cose la sua dura uniformità, che le rende poetiche e le mette in rapporto con la vita morale e materiale. La metafora riposa nel senso della natura e dà significato agli innumerevoli collegamenti che sono in essa. Il poeta che lavora chiuso nel suo studio ha difficoltà a trovare le metafore, mentre per un poeta popolare è facilissimo, e sbaglierà solo se ne accumula troppe. Un poeta serbo paragona con bella immagine, le sopracciglia della donna amata alle nere ali aperte di una rondine; un poeta còrso dice che il cuore di un bandito è diventato per l'odio così piccolo, come una palla di fucile; un poeta siciliano chiede alla sua bella che sciolga i suoi capelli e li faccia fluttuare fuori della finestra, come una scala di seta. Queste immagini appaiono qua e là come fugaci meteore nella poesia letteraria, mentre il poeta popolare le semina a piene mani come fiori di una siepe vivente.

Quest'arte di personificare e di dipingere poeticamente le cose, è in generale un dono della poesia naturale, specialmente nel Sud ed in Oriente, e gli Italiani a questa qualità aggiungono anche la sottile e trasparente chiarezza dell'ingegno, ed anche una natura arguta che si diletta delle antitesi; di modo che la loro poesia popolare si avvicina assai a quella letteraria. L'Italiano è per eccellenza un logico, un abile dialettico, un avvocato nato, un sofista; non c'è niente di vago nella sua fantasia, non conosce il sentimentalismo, nè le mezze tinte, nè l'ansioso divenire e svilupparsi degli elementi della vita; così come il suo anno non conosce la lunga primavera, nè il suo giorno conosce il lungo crepuscolo. Le sue sensazioni sono estreme e pronte e guidate dal pratico impulso di una volontà cosciente e non dal desiderio doloroso. L'oscillare in una pena incerta che come un essenziale elemento della poesia nordica, le dà gli aspetti bellissimi di un tramonto, è interamente sconosciuto agli Italiani. Il Vigo per formare la sua raccolta ha chiesto, bene specificatamente, canti d'amore, di odio, di disprezzo, di gelosia, di abbandono, di lontananza e di nozze, e sono sicuro che un raccoglitore tedesco non avrebbe domandato tali motivi, mentre avrebbe trovato un numero incalcolabile di canzoni esprimenti sentimenti ed aspirazioni vaghe.

Nella poesia popolare italiana il concetto chiaro e la coscienza dello scopo frenano e limitano le sensazioni. Essa quindi non è lirica e musicale secondo le nostre idee, ma ha sempre qualche cosa di epico e di rappresentativo. La poesia popolare nordica è ricca di sentimento e di pensiero. La meridionale è graziosa ed arguta. La quantità di trovate e di motivi originali è meravigliosa e con tutto ciò rimane l'ingenua espressione dell'anima di un popolo che è bello, vivace ed arguto per natura. Io ho letto attentamente le due raccolte, la toscana e la siciliana, e le ho trovate tutte e due ugualmente forti nelle qualità sopra accennate. La ricchezza di motivi è ammirevole in tutte e due; gli eterni, e semplici stati del cuore vi sono continuamente ripetuti con nuove e incantevoli immagini. Tuttavia a me pare, e non ho paura di confessarlo al Vigo, che il canto popolare toscano sia più grazioso, più fiorito e più dolce di quello siciliano. Quantunque la raccolta siciliana contenga molte canzoni straordinariamente delicate, pure nell'insieme ne trovo di più nella raccolta toscana.

La poesia toscana ha tinte così delicate come quelle dei pittori di Siena e di Fiesole ed un movimento così bello come lo hanno le Grazie di Lippi, Botticelli e Ghirlandaio. E ciò non è opera solamente del melodioso dialetto che si parla sulle rive dell'Arno e dell'Ombrone, ma anche del temperamento degli uomini che in Toscana è più dolce ed in Sicilia più energico. La canzone popolare toscana è molto più lirica di quella siciliana, e quindi si accosta di più alla nostra poesia tedesca; ma è anche più libera da regole; la siciliana invece ha forme più artistiche e letterarie. Molte canzoni delle due raccolte hanno uno stesso motivo ed uno sviluppo quasi uguale, ed è difficile riconoscere se è la Musa toscana che è penetrata in Sicilia, o viceversa.

Mi limito a tradurre solo qualche ottava di questa bella raccolta siciliana, cercando di conservare per quanto è possibile l'originaria spontaneità e rinunciando così a crearmi la fama di un buon traduttore. Anche l'abilità di un Rückert si troverebbe imbarazzata nel riprodurre le quattro rime o le assonanze senza intaccare profondamente il senso e l'andamento della canzone. Non è possibile rendere l'incanto di simili poesie popolari; se ne può dare solo una pallida idea.

Ecco un'ottava che viene da Itala:

Acula, vai vulannu mari mari

Spetta quantu ti dicu dui palori,

Quantu ti scippu tri pinni d'ali,

Mi cci fazzu 'na littra a lu me' beni;

Tutta di sangu la vogghio lavari,

E ppi sigillu ci mettu lo cori;

Quannu la littra è spidduta di fari,

Acula, porticcilla a lu me' beni.

L'ottava seguente di Raffadali non è possibile tradurre con le rime, perchè perderebbe tutta la sua bellezza. I versi siciliani terminano di regola con la parola più significativa sulla quale cade l'accento del pensiero e su cui riposa tutta la bellezza del verso. Ma per noi Tedeschi è quasi impossibile terminare con quattro rime senza che le parole rimate non sieno le più secondarie.

Bedda, ca tra li beddi si' fenici,

Nni lu me cori addumasti 'na lampa

Tu di li cori si' l'imperatrici,

E cu ti vidi pazziannu campa.

Zoccu si leggi a lu munnu o si dici,

E 'na faidda avanti a la to vampa;

Vinissi chiddu patri chi ti fici,

Fazi non nni pò chiù, persi la stampa.

Termino qui, augurando al signor Vigo una meritata fortuna alla sua opera. Egli ha conservato uno dei più bei monumenti della letteratura siciliana ed ha collocato un magnifico gioiello nel forziere in cui si conservano i tesori della musa popolare che noi Tedeschi apprezziamo tanto, sin dai tempi di Herder. È molto tempo che la letteratura italiana non produce niente che possa anche lontanamente paragonarsi a quanto hanno raccolto il Tigri e il Vigo dell'opera di pescatori, di contadini e di altri operai. È un riposo il leggere quelle raccolte e dimenticare lo sforzo delle povere rime stentate dei poeti letterati. Gl'Italiani possono ascrivere a grande consolazione il fatto che queste raccolte sieno venute alla luce in questo momento; perchè esse sono la più splendida apologia dell'Italia, sono il parlamento popolare delle Muse che innalza la sua voce anche all'estero, dove viene ascoltata con simpatia.

EUPHORION

POEMETTO POMPEIANO

DI

FERDINANDO GREGOROVIUS

TRADUZIONE E NOTE

DI

MARCO GALDI

Pompei, la storica e infelice città della Campania, ha sempre esercitato sugli animi degli artisti un'attrattiva affascinante di maga. Difatti, quelle zolle arrise dal sole e irradiate dalle sovrumane bellezze della natura, su cui, in un momento d'ira, il Vesuvio osò riversare la piena del suo mal contenuto furore, riducendo in un mucchio di rottami e di polvere quanto prima era stato rigoglio e splendore, presentano all'occhio dell'artista tale un interesse, ch'ei non sa, nè può distaccarsi dall'oggetto della sua contemplazione, senza riportarne una impressione profonda di meraviglia e di magnificenza. Giacchè, dinanzi alla sua accesa fantasia sfilano, come attraverso a un caleidoscopio, immagini e figure che un dì popolavano quel sito delizioso: ed il pensiero, con audacia pari alla sua forza, sormontando le barriere del tempo e dello spazio, raccoglie e ricostituisce, nella universalità della sua comprensione, gli avanzi dell'età passata e, al lume della storia, rianima le spente sembianze affacciantisi all'orlo dello smosso sepolcro, mentre, quasi soffiandovi dentro, v'infonde vita, calore e sentimento.

A questo fenomeno d'irresistibile seduzione magica, che assorbe e rapisce gl'ingegni, va dovuta la ricca fioritura di romanzi e poemetti, inspirati dall'idea d'intrecciare, qual più qual meno, gloriosi fregi e corone intorno al nome immortale di Pompei.

Si tratta di far rivivere la civiltà trascorsa, cómpito invero assai arduo, come quello che richiede la piena ed esatta conoscenza di ciò che chiamasi ambiente storico. E a tal uopo, o librandosi in alto sulle ali della loro bizzarra fantasia, inventando così situazioni ed intrecci, o pigliando le mosse da qualche opera d'arte, venuta fuori alla luce del sole dopo tanti secoli d'oblío, e allargandola e sviluppandola nei suoi varî atteggiamenti, i poeti — nel senso più ampio della parola — ci trasportano col pensiero ai tempi passati, ci riproducono, in mezzo a scene caratteristiche, le passioni e le lotte che un dì agitavano e laceravano i cuori dei figli della Campania, indovinano e quasi vogliono strappare alla polvere il segreto di ciò che avveniva dopo l'immane catastrofe della città.

Così il Pompei di Augusto Vecchi, gli Ultimi giorni di Pompei di Eduardo Bulwer, l' Arria Marcella di Teofilo Gautier, l' Euphorion di Ferdinando Gregorovius ecc.

Di quest'ultima gemma dello storico di Roma medioevale, che io qui presento modestamente tradotta in italiano, piace discorrere un po' più da vicino, perchè si vegga se e fino a qual punto l'autore sia riuscito nel suo intento.

Giova però, anzitutto, qui riprodurre il giudizio che ne dà il Sogliano nella sua rassegna dei tentativi fatti per ricondurre ad una piena vita gli antichi abitanti di Pompei: «Meno noto degli Ultimi giorni, ma non meno felicemente riuscito parmi l' Euphorion di Ferdinando Gregorovius... il traduttore di Giovanni Meli. È un grazioso poemetto in quattro canti, la cui azione si svolge in Pompei, nella famosa casa di Diomede... I quattro canti sono intitolati Oneiros (sogno), Amore e Psiche, Pallas Athene (Minerva) e Thanatos ed Eirene (morte e pace), dalle figure che ornano il candelabro, eccellente lavoro di Euforione, e che forma il pernio del poemetto».

Come ognun vede, un'opera d'arte, e non certo delle più fini ed eleganti, è quella che sorprende e colpisce il Gregorovius, commovendolo a tal segno da fargli creare tutta una serie di situazioni e di intrecci, armonicamente disposti e collegati fra di loro. Si direbbe quasi che la fantasia dell'artista vada scovando fin là dove occhio umano non giunge, o se mai passa indifferente, gli elementi meno noti o meno opprezzati, per materiarli poi di forti e geniali concezioni ed imprimervi un'impronta stabile e duratura di grandezza e splendore. Così come l'alchimista sapeva scoprire le recondite virtù di disadorni metalli, e con l'aiuto di processi e combinazioni ottenerne dei mirifici effetti, pei quali sperava di aver finalmente ritrovato la panacea del genere umano...

Il candelabro, intorno a cui s'avvolge la delicata storia d'amore, fu realmente scavato nella casa del ricco commerciante pompeiano, ed oggidì figura in una delle splendide raccolte del Museo Nazionale. Però — il Gregorovius medesimo lo avverte — il bronzo ha assunto una nuova figurazione nella fantasia di lui; come son di sua invenzione le lampade che l'adornano, le immagini che vi si ammirano scolpite, l'idea alla quale debbono prestarsi per afferrare e conquidere potentemente l'immaginazione del lettore.

Euphorion — dal nome dello schiavo artefice del candelabro — è un poemetto prettamente simbolico, e l'allegoria v'è profusa a significare come nulla valga contro la forza dell'amore, specie quando nato dall'arte, e come questo sopravviva persino al sepolcro, trovando sempre il modo di riaccendere la spenta fiaccola del sentimento.

Omnia vincit amor: è la tesi che poeticamente illustra il Gregorovius, contornandola e abbellendola degli svariati colori della sua tavolozza. Non distinzioni di grado, non vantata nobiltà di natali, non fiere persecuzioni o rampogne, possono rattenere l'impeto di una passione pura e ardente, divampata nel cuore di due giovani innamorati. Che anzi, là dove più palese si oppone la differenza di casta, sembra quasi che talora intervenga di proposito una forza arcana a soggiogare l'altrui ribelle volontà, per sancire con un vincolo indissolubile la comunione dell'affetto e dare così compimento al più bello degli ideali umani. Questa volta è il Vesuvio che trama la sua orrenda congiura contro i diritti della boriosa aristocrazia, cospirando ai destini di Euforione e permettendogli di tradurre in atto un sogno, già da tempo concepito e vagheggiato nella quiete operosa della sua officina.

Euforione, lo schiavo artista, ama Ione, la figlia di Arrio, la giovane avvenente ed esperta delle più signorili costumanze romane e della più fine cultura. Nell'intimità del suo cuore, ei che pur si eleva tanto su gli altri suoi simili per ingegno e nobiltà di sentimento, ben s'avvede di perseguire un ideale assai ardito, sol perchè ai piedi gli si attacca plumbeo e grave il mondo e si suole dai beffardi vilipendere il lavoro manuale come qualcosa d'ignobile e servile. Quella tunica di schiavo l'inceppa e rattrista e una vampa di vergogna gli sale in volto, mentre però la sua anima si spinge sempre più sospirosa verso la luce... Di natura irrequieta e bollente, facile agli entusiasmi ed allo sconforto, come il suo Icaro che spicca il volo fino all'astro fiammante per cadere poi nella spalancata voragine, ha peraltro fiducia nella bontà del suo padrone, entro le cui vene scorre ancora una goccia di sangue ellenico. E in tal fiducia, nell'agognata attesa dell'ora del riscatto, lavora attorno al candelabro di bronzo per farne un regalo pei festeggiamenti di Ione, benchè di tanto in tanto l'assalga il dubbio e la disperazione...

I due giovani pompeiani vissero insieme i teneri anni della fanciullezza, sognarono insieme un mondo di belle cose, nella loro piccina fantasia vagheggiarono ideali di gioia e di felicità, anzi per essi i giorni si svolsero come sempre avviluppati in una vaporosa nube di sogni... Ma quest'età trascorse, ed Euforione e Ione non più si baloccarono coi loro gingilli, perchè una grande distanza dovè separarli, l'uno restando come imprigionato nell'officina di schiavo, l'altra correndo ad attingere il fremito della vita in mezzo alla elegante società romana. Ma già il dio dell'amore aveva scoccata furtivamente la sua freccia, già gli aculei della passione si erano conficcati nei cuori...

Ecco il simbolo del sogno che adorna la prima lampada del bronzo.

Separato a lungo per imperscrutabile volere della sorte, Euforione rivede, il giorno prima della festa, nello splendore degli abbigliamenti, la graziosa compagna d'infanzia, reduce da Roma. Al suo cospetto, si sente come confuso e resta perplesso; ma Ione, rievocando i dolci ricordi della fanciullezza e la vita agitata vissuta nel rimescolío della capitale del Lazio, ha come un senso di rimpianto per i giorni trascorsi insieme sulle sponde del Sarno e di disgusto per quelli passati fra i rumori della cosmopolitica città. E a poco a poco il cuore le s'intenerisce alla vista di chi l'è dinanzi nella tunica di schiavo, e così, impietosita, arriva fino a svelargli il segreto d'un sogno... Fra le rovine avvolgenti d'ogni intorno Pompei, mentre il mare si distendeva al di sotto come inviluppato in una densa caligine, Euforione le si presentava con due ali arcuate sulla spalla, invitandola a fuggire sui flutti ondeggianti... e lei, afferrata, fuggiva verso lidi lontani...

Oh potenza dell'amore precorritrice degli eventi! Chi avrebbe detto che Ione, già promessa sposa ad un ricco pompeiano sceltole dal padre, sarebbe stata invece la consorte invidiata d'un suo schiavo artista, solo per la suggestiva potenza dell'arte?

Così Amore e Psiche, le simboliche figure della seconda lampada, intrecciano i loro destini a quelli dei due amici, che l'impari sorte aveva diviso, e pei sentieri della speranza li avviano al conseguimento della pace e della felicità...

Anche i rosei anni della giovinezza voleranno via nella rapida corsa delle Ore, ma a conforto dei sogni e delle voluttà per sempre dileguate rimane l'Arte che vivifica la vita, apportando la luce rischiaratrice delle tenebre.

Euforione simboleggia appunto quest'arte che, inspirandosi ai quotidiani bisogni, solleva lo spirito alla contemplazione di un ideale più sereno, e lo ritempra alla tranquillità e alla calma necessaria al lavoro, dopo le ansie tormentose e gli ardori delle passioni giovanili. Così, quando i due coniugi avranno bevuto, fino all'ultima goccia, alla coppa dei piaceri, allora, nel tempietto delle pareti domestiche, l'uomo devoto al culto di Pallade Atena intesserà intorno al capo ancora carezzevole della compagna una ricca ghirlanda di artistici fiori, come prova del suo immenso amore e della sua anima libera e forte. E Ione sarà la sposa felice, cui l'Arte presenterà devotamente i suoi omaggi: dall'alto del suo piedistallo, ove salgono gl'incensi dell'adorazione e della glorificazione, guarderà beata chi per lei suda nel bronzo, ed allora gli sorriderà con aria di compiacenza, ammirando riflessa nel viso dei figliuoli l'immagine operosa di lui...

Il candelabro è per ispegnersi: già tre lampade non dànno più guizzi. Simbolo delle età dell'uomo, esso accenna all'ultima fase della vita. Dopo i sogni, le follie dell'amore, le intime e secrete soddisfazioni dell'arte, non resta che il soave conforto delle rimembranze. L'uomo si ripiega su sè stesso e rivolge indietro lo sguardo, desideroso di conoscere il proprio passato. Non più stimoli di passioni, non intemperanze, non lotte, non disinganni: tutto è equilibrio ed armonia, e la dea Eirene, la celestiale sorella di Tanato, vi aleggia sopra il suo mite soffio; poi subentra la morte e la vita serenamente finisce...

Euforione e Ione pagheranno anch'essi il loro tributo alla Natura: fra le carezze ed i trastulli vissero insieme gli anni innocenti dell'infanzia; separati dalla sorte, sentirono entrambi bruciare nei loro petti il fuoco dell'amore; accomunati dal medesimo destino in mezzo al lapillo crocchiante vomitato dal Vesuvio, voleranno verso lidi lontani, ove coi frutti dell'arte euforionea crescerà su una novella famiglia, allietata dalle allegre grida di bimbi vezzosi, finchè non tramonteranno come l'astro benefico del giorno, legando il loro nome all'ammirazione dei posteri...

Tale è nelle sue linee generali il poemetto del Gregorovius; un inno all'amore che nasce dall'arte e di arte si nutre e per cui dalla morte stessa balza fuori rigogliosa e sorridente la vita. Inquadrato in una bella cornice di descrizioni ed episodi, lumeggiato dai riflessi dell'ambiente pompeiano che penetra e colorisce ogni menomo particolare, irrigato da una copiosa vena di sentimentalismo che rinfresca e purifica le più riposte fibre del cuore umano, esso mi pare perfettamente riuscito. Si potrà forse obiettare che la vivezza ed il bagliore delle immagini rincorrentisi ad ogni passo conferiscano un non so che di ricercato o lezioso al soggetto, nocendo in parte alla sua semplicità ed eleganza; ma chi vorrà ciò pensare, fa mestieri ricordi che sempre e in ogni tempo la rievocazione di Pompei nella storia della sua grandezza e della sua rovina impennò le ali al pensiero, dette libero varco alla fantasia, sprigionò la favilla del genio, dischiuse tutto un tesoro d'immagini vaporose e iridescenti... E non è senza forte commozione che noi, assistendo allo svolgersi dell'idillio dei due giovani pompeiani, ora udiamo estasiati l'eco dei canti che risuonano lungo la via delle tombe, ora guardiamo esterrefatti il Vesuvio rigido e fiero, che vomita fiamme lingueggianti, ora contempliamo il lusso sfarzoso e gli artistici mosaici della casa di Arrio, ora infine proviamo come un brivido di morte dinanzi alla folla pazza di dolore, che fugge al mare in cerca di scampo, attraverso alle vie già mezzo sprofondate e coperte dalla cenere... E questa commozione, naturalmente, vien determinata in noi dal fatto che il colorito storico in Euphorion è ben mantenuto: Pompei rivive nelle sue abitudini e nelle sue costumanze, i personaggi sono mossi ed animati dallo spirito del tempo, la civiltà che vi freme dentro è proprio quella di allora.

Dove, forse, non si riesce a spiegare, o meglio a giustificare l'assunto del nostro poeta, è nelle lunghe e spesso astruse parlate ch'ei mette in bocca ai suoi personaggi. Che anzi — se non è troppo arrischiato il paragone — a me pare che qui l'autore arieggi la nota consuetudine dei poeti alessandrini, i quali nel corso delle loro opere si dilettavano d'introdurre delle questioni di ogni specie, per ricamarvi poi intorno una ricca e varia trama di considerazioni più o meno originali e bislacche e sfoggiarvi il lusso della propria erudizione.

In verità, sorprende non poco che un commerciante stia lì a discutere di arte e a manifestare con acume e profondità di argomentazioni i suoi pensieri al riguardo; così non sembra verosimile che uno schiavo, decoratore di muliebri gingilli e costruttore di candelabri, si allontani tanto dalla realtà cruda che lo investe per fissare da vicino un radioso miraggio di luce, e tanta commozione e tanto entusiasmo provi per l'arte sua manuale, da parlare di fiamma purificatrice, di forza che crea, di lavoro che redime...

Anche qui, come del resto in tutta la intonazione del poemetto, si potrebbe riprendere la medesima fosforescenza dello stile, il medesimo colorito lussureggiante della verseggiatura; ma quel che giova notare più particolarmente si è che il Gregorovius tratteggia qui tutta una teoria estetica dell'arte, considerando questa nei suoi principî, nei suoi mezzi e nelle sue finalità. Insomma, egli si vale dei suoi personaggi per introdurre e discutere una questione di per sè stessa già tanto trattata, e riconnette all'ambiente pompeiano quello che costituisce il risultato delle sue ricerche e della sua esperienza. Così, quando l'egiziano Serapione e l'elleno Euforione filosofeggiano su gl'intenti e le aspirazioni dell'arte, sono entrambi mossi dalla mano segreta del Gregorovius, entrambi animati dal soffio potente della parola di lui. Ma questo studio appunto, d'insinuare cioè le proprie convinzioni nello svolgimento tranquillo e sereno dell'idillio, doveva evitarsi per un poemetto, ovvero ridursi entro più stretti confini.

A parte però questo neo, che spicca evidente agli occhi del lettore, è bene avvertire che in tutto il resto i caratteri dei singoli personaggi sono ritratti con molta abilità psicologica: Euforione incarna il tipo dello schiavo raggentilito ed urbano, dall'anima libera e grande, che è tutto fede nell'arte sua, nel lavoro delle sue dotte mani. Ione è la giovane passionata e sensibile, niente orgogliosa della pompa che la circonda, e in cui si direbbe che già incominci a spuntare il germe del sentimento cristiano. Arrio è il commerciante arricchito, l'epicureo che guazza nell'oro e crede di annegare nelle coppe spumanti il bieco fantasma della morte, sempre fiero e superbo di una comprata nobiltà; Ion, l'ingenuo fanciullo che pure nello spavento e nella desolazione non sa dimenticare i suoi ninnoli; Menandro, l'immagine dell'invidia che occhieggia torva e sprezzatrice l'altrui lavoro, pronta al biasimo ed al sarcasmo, dove altri ha una parola di lode e d'incoraggiamento; Serapione, infine, — per tacere di qualche altra figura secondaria — l'immagine della vecchiezza intelligente e sagace, che legge nel lampo degli occhi del giovane e con fatidica antiveggenza ne vaticina i trionfi futuri...

Ora, se si tien conto della difficoltà enorme che si affaccia agl'ingegni nel far rivivere una civiltà passata, cotanto diversa dalla loro — alla qual cosa accennavo poc'anzi — ond'è che molti tentativi miseramente abortirono, come pure dei mezzi che l'arte sa suggerire al Gregorovius per fargli superare egregiamente la prova, si dovrà considerare l' Euphorion come uno dei più perfetti e indovinati quadri pompeiani, una delle più vive e geniali pitture del tempo, in cui ogni tinta fu suggerita da un'impressione di meraviglia e di compiacimento, ogni linea tracciata col cuore.

Ed io vo' augurarmi che tale appunto lo giudichi il benevolo lettore, se pure sia riuscito a ritrarre e trasfondere nella veste italiana la bellezza sentimentale che vi sfolgora e tutto il brio che sì efficacemente lo anima.

Cava dei Tirreni, ottobre 1905.

Marco Galdi.

Canto I. ONEIRO.

Allegri suoni echeggiavano nella magnifica casa di Arrio, canti di schiavi operosi e risa di solerti fanciulle, che insieme con gli efebi intrecciavano nel cortile molti e graziosi fiori variopinti, quale addobbo festivo per il domani. Tutto ciò che ognora offrivano i campi ed i giardini di Pompei, era lì dintorno accumulato; già si contornavano le colonne di ghirlande di edera e scintillavano rosei nastri. Agili poi correvano su e giù gli affaccendati schiavi, a frotta portando vasi e brocche e aurei utensili per la festa, perchè dappertutto raggiasse e splendesse la casa di serena bellezza.

Ritornava la desiderata figliuola di Arrio, che il padre aveva condotta a Roma dalla piccola Pompei, acciò vi osservasse il mondo, i costumi, e una nobile educazione ne compisse il fiore della gioventù. E subito il padre aveva convitato a banchetto gli amici, perchè degni ospiti onorassero la nuova arrivata; e chi ora vedesse la casa quale si ergeva magnificamente la più bella di Pompei,[4] sentirebbe scoppiarsi il cuore di gioia e arriderebbe alla festa.

Se ne stava nel cortile il capo degli schiavi Peisandro, appoggiato ad una colonna dell'ingresso; a voce alta gridava: «Intrecciatemi presto, o efebi e fanciulle, i serpeggianti fiori; Elio declina al mare; già cresce più forte colà intorno alla bruna e fumante cima del Vesuvio una irradiazione del colore dell'iride. Quest'oggi l'aria è afosa e non aleggia dal golfo nessun soffio respirabile. Affrettate le mani, ne tocca festeggiare la divina Ione».

Affrettate le mani, ne tocca festeggiare la divina, Ione! — Così come un'eco risuonò questa voce di là, alla finestra, dove sul cortile sorgeva il luminoso e aereato piano. Frattanto, s'indugiava nell'officina tutto ingegnoso ed occupato un garzone, curvo sulla tavola presso la finestra; e con le sue abili mani intrecciava una ghirlanda di fiori, come gli efebi nel cortile, ma una molto più bella, e la foggiava con ogni cura intorno alla nitida base del magnifico candelabro che gli si ergeva dinanzi, opera eccellente di bronzo bruniccio.

Agile come l'alta figura delle mani creatrici dell'arte spiccava l'immagine del maestro nel fascino della leggiadra gioventù, pure ravvolto in una tunica di lana, come si conviene agli schiavi. Spesso ei tendeva lo sguardo giù nel cortile e contemplava gli azzurri monti di Sorrento sopra il golfo, come il roseo vespro alitava già mollemente su in alto alle cime gl'infocati colori. Ed egli raddoppiava ancora la fretta della mano e dei sottili martelli, quasi la paura lo spingesse. Eppure non mancavan solo che pochi intrecci di foglie, giacchè la maggior parte erano state battute. Ma il candelabro s'ergeva bell'e compiuto, un'opera d'arte divina.

Sulle zampe del leone risplendeva la luccicante base robusta e levigata; vi si poteva bene specchiare dentro una fanciulla. Sul suo orlo dentellato con molta finezza si avviticchiava un ramo di vite battuto in argento e d'accanto si elevava l'altare fiammante, nitido e bello, e di contro la magnifica opera plastica. Ivi danzava agile con le vivaci membra una pantera, ardita e superba, poichè sul suo dorso sedeva il divino cavalcatore, incoronato di pampini, Dionisio, avente per tazza un lucido corno.[5]

Così queste figure ne ornavano graziosamente la base. Or dalla base si ergeva la poderosa opera di bronzo, leggiadra per il capitello e le braccia e le lampade pendenti, arrivando fino a sommo il petto di un uomo all'impiedi. Consisteva in un pilastro di stile corinzio, una maschera lo abbelliva dinanzi al capitello, e di dietro sporgeva una grossa testa di toro. Ed era una maraviglia a vedere come belle di sotto al capitello s'incurvassero le braccia che, protendendosi, sostenevano quattro lampade. Così era anche grazioso vedere il loro giuoco e la loro forma intrecciata di foglie, splendida, scintillante e crespa come le foglie del fiore d'acanto. Ma da ogni braccio scendeva giù sospesa a catene rilucenti una lampadina, e queste lampade risplendevano magnifiche d'un bronzo raggiante a color d'oro, come all'ombroso ramo le rosse arance. Artisticamente spiccava ognuna, distinta per una imagine allegorica. Così sulla prima si elevava delicata una figura di bronzo, con una torcia lucente: era Oneiro, il dio del sogno, quale una farfalla nell'azzurro crepuscolo della sera.

Ben altrimenti effigiata era la seconda: ivi sedevano dall'aspetto celestiale, cianciando e baciandosi ad un tempo, due giovani figurine innamorate, Amore e Psiche uniti insieme. Come colombi teneramente baciucchiantisi col becco nella selva, essi si accarezzavano vagamente, e l'avvenente Psiche innalzava nella destra la torcia, mentre con le braccia la cingeva il Nume e la baciava con affetto.

La terza lampada era anch'essa variamente configurata. Sulla curva calotta serio con le ali basse e dagli occhi intelligenti poggiava un uccello; il notturno gufo di Pallade Athena; tra gli artigli reggeva la torcia più grande, fiso e grave spingendo innanzi lo sguardo, e ridestava anche il senso della serietà. Ma l'ultima delle lampade svegliava commozione e malinconia: Tanato v'era scolpita, spegnendo la torcia nella notte; e le si librava a volo di fianco l'amica Ora Eirene, ravvolta in un velo, col pacifico ramo di palma ricurvo nella mano.

Così era fregiato il candelabro artisticamente scintillante in bronzo, ma il maestro dava ancora colpi di martello sugl'intrecciati viticci. Talora sollevava il capo, tal altra lo abbassava di nuovo e buttava giù per la nuca la nerissima chioma, quindi guardava con aria di compiacenza l'opera sua e subito prorompeva sospiroso in cotesti vaghi accenti: «Oh arrecami domani la salvezza, Orione, tu lampa del cielo!» Ma la fronte era mesta, e si rigonfiava scintillante il suo occhio fondo come per un trepido dolore e per un impaziente desiderio lontano.

Così ei se ne stava tutto intento al lavoro, senza sapere che di nascosto, appoggiato alla colonna accanto alla porta, lo adocchiava di lontano uno straniero; era un vecchio di vigoroso aspetto; lo ravvolgeva una nera veste pieghettata, succinta da cinghie di porpora sidonia. Bruno era il colorito del volto, la figura come d'un uomo che abiti da lungo tempo il giallo Egitto. Ed egli contemplava fiso il candelabro e stupiva dinanzi a quell'officina così ricca di vasi e di artistiche forme, queste già belle e complete nel getto del bronzo, quelle appena abbozzate in duttile cera e in molle argilla. Ma nel mezzo dell'officina s'ergeva una statua dissimile dalle altre e doppia — così pareva, — perchè dei veli increspati la nascondevano allo sguardo, mentre di sotto al panno si delineavano i robusti contorni di agili corpi di eroi.

A un tratto il vecchio si appressò, battè leggermente sulla spalla dello schiavo e disse: «Un assai eccellente maestro tu sei diventato, o Euforione, da che l'ultima volta io vidi te e le opere delle tue artistiche mani. Magnifico è questo bronzo! non ne ho visto uno simile e pure ne ho contemplati di belli e tanti ne ho acquistati in Egitto e in Roma. E chi avrà la ventura di vedersi nella sua stanza circondato dagli sprazzi di luce di quest'opra incantevole, avrà bene a godere del magnifico possesso».

Ma in segno di amichevole saluto il giovane gli porse la destra e subito rispose: «Sia il benvenuto, o Serapione, degno ospite ed amico! Solletica forse questo enigma il tuo spirito egiziano? Caro mio, tel dico subito: no! tu non mel compri neanche per tutti i tesori di Ramesse! Molti giorni e molte notti taciturno e paziente ho io vegliato accanto al lavoro e lungamente mi sono io stesso quasi fuso modellando questo bronzo, e con esso ho diviso la mia vita. Ahimè! tutto quello che arreca diletto sembra scaturito unicamente dal piacere; ma il maestro che creò, sedette qui muto sull'opra, incombendo al lavoro, e ne intesserono la varia tela la speranza, il dolore, il desiderio della felicità, la desolante tristezza. Ora ne rendo grazie alle Ore: dall'ondeggiante getto di bronzo mi uscì l'opera perfetta e corrisponde ora pienamente al disegno, piacevole nella sua serietà».

A ciò muto rimase l'Egiziano, contemplando estatico l'immagine meravigliosa, mentre il giovane Elleno dallo sguardo lampeggiante ripigliava: «O vecchio, tu guardi estatico, eppure pressochè estranea mi sembra la forma; essa se ne sta ora lì freddo e irrigidito bronzo senza moto e senza vita, come un prigioniero ed uno schiavo dagli sguardi più strani. Ma essa mi viveva calda e luminosa nel petto infuocato, come l'immagine delle stelle che si disegnano librandosi nel cielo. Son già quattro anni da che meditai questo candelabro, una volta in sul vespro, quando la mia morta madre Serena veleggiò verso Roma insieme con la figlia di Arrio. Ma io sedetti col più profondo dolore sulla riva del mare, seguii con l'occhio la vela, finchè l'allontanantesi nave disparve in un crepuscolo di porpora. Allora vidi lassù nel cielo la sacra costellazione di Orione fiammeggiare sugli ansanti flutti; come agitato da un nume stavo allora a guardare la zona delle stelle celesti, quando mi si presentò al cuore la figura di questo candelabro e l'immagine delle lampade. Tutto ciò come in uno specchio mi rifletterono nell'anima le carezzevoli stelle, ma dormì la mia opera e soltanto ora l'ho finita».

«Davvero, replicò il vecchio, fu allora la tua buona sorte a fornirtela: oh te beato, nel cui cuore albergano le Grazie!»

«Ben dici il vero, o vecchio, rispose l'altro con rapido gesto, eppur sempre con piacere sento agitarmisi nel cuore un impulso di gioia, un impulso a modellare la superba figura: come una musica mi risuona di continuo nel petto, tal che i pensieri mi si muovono incessantemente in una nuova allegra danza di figure e di forme, intrecciando e sciogliendo le arie come una lira melodiosa. Anche nel sogno, quando stanco dal lavoro diurno desidero appisolarmi, mi s'agitano nello spirito delicate immagini; come contemplo allora felice la forma della pura bellezza, che mai arrivo a comprendere quando son desto. Ma ahimè! ciò che di meglio l'uomo anela, gli penzola sul cuore, solo come un sogno celestiale, ahimè! solo come una fuggevole brama! Io sento il mio spirito così elevarsi in alto, allora vorrei, o Serapione, volando più in alto e sempre più in alto, accostarmi agli antenati divini. Ma grave e plumbeo mi si attacca ai piedi il mondo, e un affanno paralizzante erra nel labirinto del mio cuore. Oh come mi addolora profondamente quella frase dei motteggiatori, quand'essi, sparlando della graziosa arte della mano che foggia il bronzo, disprezzano il lavoro manuale come qualcosa d'ignobile e una bassa necessità umana. Ma per l'eterna luce! Guarda l'artistico intreccio di queste agili forme! Anch'esse sono l'immagine scolpita della Grazia, o amico, e dànno l'idea del bello e del sublime. Perchè anche a me veglia sul cuore e sulle mani la Musa».

«Che tu sia consolato! proruppe con gioia il vecchio, tu non eserciti veramente alcun vile mestiere: io chiamo sempre magnifico il lavoro delle mani. Ben t'invidiano molti; l'insieme di queste forme avvenenti te lo dette la divinità; non più ricche si presentarono esse alla mente dell'artista che infonde nel bronzo le forze vivificatrici della Grazia. Duolmi però teco, che tu debba creare come uno schiavo servile ciò che solo ai liberi si addice: la servitù arreca onta alla sacra arte! Nè mai a questa dovrebbe accostarsi un uomo di oscura condizione, ammantato di veste da schiavo: no, libero di corpo ei dovrebbe essere e libero di anima, come i figli dell'etere, gli Dei placidi e sorridenti».

Allora una vampa di vergogna salì in volto allo schiavo, sollevò con rabbia la destra e gridò pieno di angoscia queste grame parole: «Hai tu veduto le notti che io affannosamente — ohimè! — ho pianto sul misero giaciglio, contorcendo il cuore e le mani? E quando di notte, sì spesso sedendo come una vigile figurazione del dolore che strugge, io accuso la mia vile sorte, oh! allora s'avanzano nella triste disabitata officina le figure di Dei scintillanti in bronzo, in pietra e gridano: qui stiamo noi! ci scolpì Fidia, ci scolpì Policleto, mi lavorò Mirone, mi lavorò Prassitele, uomini dell'Olimpo. Or chi sei tu mai, infelice, che osi stendere anche la mano alla fiamma di Prometeo? Allora ohimè! esse sghignazzano sonoramente e con piedi di bronzo calpestano il mio cuore che ansa. Al banchetto dei tetri dolori siede la mia anima, o vecchio, cibandosi di un duplice affanno. Ma nel petto non mi vien mai meno l'anima rovente, anzi nei dolori più forte si spinge sospirosa solo alla luce. Allora mi sento battere dentro, allora mi vengono mille pensieri; allora come per ischerno mi s'agita nello spirito la forma snudata simile alla convulsa Menade, io contemplo l'immagine più bella. Ma presto l'estasi svanisce, e di nuovo mi sembra tutto così meschino, così insulso, e spregevole financo la forza e la propria attività, e più non appaio a me stesso nobile, come chi con pesante martello batta sull'incudine il suo ferro che sprizza scintille. Allora nello sdegno manderei in frantumi le mie opere e strozzerei fin nel germoglio tutti gl'impulsi divini».

A ciò serio e sarcastico soggiunse quegli: «Come sono vani e meschini i dolori dei mortali! E intanto l'uomo sempre scontento ingrandisce il suo misero pulviscolo fino alle proporzioni del mondo; sulla nuca ei solleva la sfera del cordoglio e si crede ben presto un Atlante. E ciò che di soave gli si desta nel petto, non più germoglia in un vago fiore, non più in un placido frutto; ma solo l'istinto ne prorompe pieno di bacchico furore, provocando gli Dei alla lotta, e così l'anima diventa sempre un campo di battaglia».

Ma il giovane dal viso sconvolto, tutto iracondo, gridò: «Vuoi tu vedere come il mio cuore è schiavo e come arido scorre in me il fonte della forza immortale, da cui credevo di attingere? Mira: qui sta la mia vergogna, umidi ancora sono i panni che avvolgono la mia opera. O vecchio, io lavorai intorno alla figura, a lungo stetti ginocchioni e pregai gli Dei perchè spandessero su queste immagini un raggio del loro lume vivificatore che penetra fiammeggiando le opere. Ma nessuna vita vi scese, nessun vezzo seducente, perchè dal cuore alla mano un demone, schernendo, arresta ed impedisce all'artista da strapazzo la corrente magnetica del suo animo. Sì, io riconosco d'esser non altro che uno schiavo, e sebbene io circondi il mio animo del più caldo sentimento e dello scintillio di entusiastici pensieri, pure, quando mi accingo ad un'opera, mi si disvela con ischerno la mia impotenza».

E con un tratto violento strappò dall'immagine il panno, da quell'immagine che alta e coperta si ergeva nell'officina. E si offrirono allo sguardo, dall'argilla azzurrognola, due alte figure, congiunte in un poderoso gruppo. Eran Dedalo ed Icaro, il suo celeste figliuolo, che, imprigionati nel labirinto della roccia di Creta, si fecero con la loro arte le ali per sottrarsi arditamente alla mortifera voragine. Ma il padre, già vecchio divino, sedeva presso i crepacci della rupe, tranquillo e intento a fabbricare con pratica mano le ali dalle penne maestre del cigno selvatico. Sparpagliata ed a mucchi stava a lui dintorno sul suolo una quantità di fioccose piume; ed Icaro, il giovane entusiasta, era presso il padre, avido di desiderio, pronto a volare, intollerante di freno. A lui già s'inarcavano, circondando come di argini le rilucenti spalle, due agili ali di sirene, di color cupo qual notte porporina, arditamente e saldamente connesse, forti per dare impeto al volo. Ed esse si agitavano, già ventilavano come cigno sollevantesi, quando la sua ala stride sui neri flutti. Così stava l'ardente giovane, con gli occhi rivolti al cielo; ma lavorava ancora, tranquillamente affaticandosi, il vecchio con una pensosa serietà...

Meravigliato contemplava l'Egiziano e stupiva come il sembiante dello schiavo si rassomigliasse tanto ad Icaro per la giovinezza e per la figura. «Robusta mi sembra, gridò egli, e grande, ma solamente disarmonica quest'opera; manca qui lo spirito tranquillo ed anche la sobria forma. Tu creasti un Dedalo senza vita, perchè l'impeto dell'entusiasmo ti attirò ben presto la mano alla figura del focoso figliuolo: tu elevasti a un Titano l'entusiasta Icaro che fu abbagliato dal sole».

A ciò pieno di cattivo umore rispose l'offeso giovane: «No! tu non comprendi giammai la mia alta e bollente natura, non mai tu intendi il mio desiderio così potentemente alato. S'avvii pure la vecchiaia alla polvere del sepolcro, limiti per bene la zolla del securo intelletto e con ansia d'avaro calcoli la mercede della sua fredda arte che, con la polvere della conoscenza, foggia i dolori terreni e i momentanei piaceri. Ma lo spirito, che le superne Muse infiammarono, deve liberarsi dalla notte greve e dal labirinto della polvere opprimente. L'anima del poeta, attratta dalla luce, alza grida di gioia al cielo ed ei non fa distinzione tra umano e divino. Sulle ali dell'amore s'innalza al sole per accendere pel popolo mortale la sacra fiaccola di Prometeo al raggio della bellezza immortale. Ardito siede tra gli Dei, ardito squarcia il velo di Iside, osservando la ineffabile parvenza divina. Non hai tu mai agognato le alte sfere della bellezza, quando fuor del mondo hai guardato nell'etere scintillante? Non mai quindi nel tremito ti sollevò in alto il petto bramoso? Ah! chi non volerebbe come Icaro, chi non vorrebbe come lui respirare la luce celeste, quand'anche dovesse pagare con la morte l'ebbrezza di tale entusiasmo e la voluttà dei polsi librantisi a volo?»

Allora tranquillo sorrise il vecchio e dolcemente disse: «Assai bella è negli occhi del giovane la fiamma dell'entusiasmo, bella la lagrima del desiderio, nutrita nel profondo del seno per le occulte sorgenti della luce e l'immagine primigenia e velata della vita. Ascolti pure il barcollante mortale il canto delle sfere cullarsi sulla polvere nella comprensione ampia del cosmo, ma sia pur certo che alla fine ei non stringe che un sogno. Perchè noi uomini non siamo posti sull'aereo delle nubi sì da contemplare oziosi le alate danze delle stelle. No! noi stiamo tra l'incombente necessità del sepolcro e la terra nutrice! Aimè! un atomo di luce e un pulviscolo luccicante dell'eterea fiamma dell'anima scintilla nel petto caduco: ma per l'uomo esso è tutto ed un profondo enigma. Come innanzi alla sfinge tebana, così sempre muto innanzi al proprio spirito sosta almanaccando il mortale e vacilla nell'oscuro labirinto del proprio cuore continuamente per un falso, malsicuro e tortuoso sentiero. Guarda un po' Dedalo! quanto poco arrivi a comprendere il saggio! Egli è il padre del lavoro manuale, un secondo Prometeo per l'uomo; compie un'opera buona e possente, quindi si solleva con impeto all'arte divina, qual suo sublime e serio fondatore, e ve lo portano le ali, le ali fabbricate con arte e con sicurezza. Simile a quel maestro anche tu! sì, resta nell'officina di Dedalo! Quel che è bello riesce a pochi, ai più ciò che è buono, il grande è solo di pochissimi. Ben vidi io tanti e tanti precipitare vertiginosamente dall'etereo cammino, così come egli sprofondò nella spalancata voragine per la fiacchezza; ma solo pochissimi vidi cimentarsi a cose audaci, o amico, in quanto seppero modestamente non dare ascolto alle lusinghe del Dio che soffiava nel petto. Perchè sempre ci aleggia dintorno il canto fascinatore delle sirene, traendo ciascuno dal suo proprio cammino oscuro come la notte. Sì! chi ciò potesse, bene per lui! chè non chiamato gli si accosta il Genio a prestargli le sue ali robuste».

Così il vecchio, e tacque; e guardava estatico le sublimi figure, mentre dal cortile echeggiava in pari tempo un giulivo canto e spesso nel canto risuonava il nome melodioso di Ione. Pallida s'era fatta la gota del giovane, mesto il suo sembiante; ma Serapione vide il mutato aspetto e gridò subito: «O strano uomo! se tu fossi libero, ben si slancerebbe lassù, nel cielo, la tua forza. Pur non ti scoraggiare, o amico! orsù e spezza il giogo, perchè di molto è capace la risolutezza».

Ma Euforione si calmò ben presto, indicò il suo candelabro e disse con accento di serietà: «Ben so io che le opere degli uomini sono un olocausto, o vecchio, per implorare dal cielo il riscatto. E in ciò è riposta la mia speranza, che è per me un araldo divino della luce! Arrio è nobile e come un padre mi tratta; pure a lui scorre nelle vene una goccia di sangue ellenico. Una volta un tale gli eseguì nell'officina un lavoro d'un'arte così rara che pien di gioia ei lo mostrò agli ospiti ammirati, e perciò l'onora, concedendogli l'ambita libertà. Di ciò mi ricordai quando creai questo candelabro, perchè io lo espongo quale offerta per la festa del domani». E subito arrossì, affrettando il suo detto.

Serapione allora scrollò il capo: «Indarno tu speri! Arrio riscatta di buon grado tutti gli altri, dei quali può fare a meno, non però te che sei la ghirlanda e il fiore dell'officina, te che ogni città accoglierebbe a braccia aperte. Credimi, Euforione, è tutta mutata l'umanità! Altri tempi, altre esigenze! L'uomo non è più in grado di contemplare il grande, l'ideale e le figure così come incantavano il cuore negli splendidi giorni dell'Ellade. Poichè per lui fiorisce il mondo, un più vago cielo ogni giorno, assai somministra la terra, ed anche il mare che lo circonda offre tesori su tesori; il cittadino accumula preziosi beni. Ecco, ora egli chiama l'artista, che deve arricchirgli ogni giorno di bellezza e prestare nobili forme ai comodi d'una vita agiata. Or tu davvero sei fatto per soddisfare cotesti desideri, o amico. Se tu vedessi Alessandria, la magnifica principessa del mare, tu stesso verresti meco, quale un celeste passeresti dovunque, a te l'oro affluirebbe nel seno, l'amore di parecchie donne avvenenti ti sedurrebbe»; e così guardò in viso allo schiavo con aria interrogatrice e penetrante. Sinistramente muto se ne stava il nobile artista, con una stizza nello sguardo da far meraviglia. E sorridendo con espressione disse il commerciante: «Per domani io disposi la partenza, la nave è stata oggi noleggiata, chè m'invade uno strano timore come se qui s'appressasse la sciagura. L'aria mi mette un brivido d'angoscia e un opprimente raccapriccio del cielo mi paralizza il capo: di notte spesso mi desta un demone improvviso, mostrandomi immagini di fuoco al polo e stelle erranti. Presso il monte si agitano meteore e figure gigantesche, spesso anche ne echeggia come un suono di trombe e di tube rimbombanti. Vieni, come libero ti accolgo e ti salvaguardo alla mia terra».

Oh come scattò il giovane stupito, come gridò allora con collera: «Taci, o vecchio, che non ti dica una parola sconvenevole, pur nell'ira del ribrezzo che tu m'ispiri nel petto. Poichè questa sacra casa è come una patria per me: qui visse Agatarco mio padre, quantunque schiavo forzato; qui l'arte ei mi apprese, e quasi come un figlio mi tenne Arrio fin da quando egli morì. Non mai come uno schiavo, ma come un simile io appaio ai dissimili nella casa, sempre, per la divina arte. Che altri sogghignino, a me solo disgusta questa veste di schiavo che, ohimè! dal padre ereditai! No! non può la stizzita Erinni farmi scappare con ignominiosa fuga. Sì, mi offrissi pure il tesoro delle Indie, io vivo qui più volentieri da schiavo, che da signore nel più deserto paese straniero».

Così diss'egli crucciato e battè sulla spalla all'ospite amico. Ma il vecchio gli strinse ambo le mani e affettuosamente disse: «Bene a te, che alberga nel tuo spirito la virtù anche accanto al Genio. Oh potessi io coi miei propri beni riscattarti, ben volentieri mi addosserei una parte del carico».

Tacciono entrambi, agitando le parole nel petto, appoggiati sulla grata, dove libero innanzi allo sguardo si stendeva il cortile. E colà gli schiavi sulle scale a piuoli sollevavano con sonoro canto la ombrosa ghirlanda, in modo che ben ne ricingesse la porta.

Ascolta! allora risuonò subito nel portone un suono di timballi dolcemente ondulato, e saltò nell'atrio un ragazzo danzando e agitando a battuta gli aurei sonagli del timpano, simile ad un Amore nella sua chioma nera e ricciuta; quindi comparvero delle donne leggiadramente e splendidamente adornate. Ma passò innanzi a loro d'un'andatura maestosa una fanciulla, svelta come l'Ora del maggio, che viene sui campi. Indossava con disinvoltura una veste vaporosamente intessuta di azzurre viole, e di sotto ne traspariva la tunica bianca come neve, strettamente allacciata alle piene forme del corpo. Sulla spalla cadevano le pieghe della veste ch'essa portava con avvenenza e con grazia. E la sua ricca chioma, bruno-dorata come il fiore dell'elicriso, s'intrecciava fittamente e scendeva, sostenuta da nastri scintillanti, dappertutto, sulla fronte e le guance giù fino al collo gentile. Lenta ella camminava e coi neri occhi guardando giù raggiava di leggiadria, come il raggio di luce che abbellisce la sera. Allora le donne che intrecciavano corone e i garzoni nel cortile le sparsero fiori dinanzi, gridando un sonoro: «Salute a te!» A un tratto lanciò uno sguardo alla finestra la fanciulla che s'allontanava, rapida, e disparve nel portico della casa ombrato da colonne.

«Vedi un po', disse il vecchio, vedi Ione, la figlia di Arrio! Niente di più nobile può vantare altrove la bella Pompei. Ma così precipitano i tempi nella corsa che tutto trasforma. Quand'io venni da Arrio negli anni passati a portargli vasi di mirra e stoffa di Tiro, vi vidi tanto spesso quali avvenenti fanciulli e partecipai volentieri ai vostri giuochi. A te era sorella di latte la ragazza, e per ischerzo vi si chiamava nella casa Amore e Psiche. Ma il fanciullo è divenuto un maestro d'arte e come vergine brillante e come superba signora dominatrice torna a casa la fanciulla di allora. A lei tra breve il padre sceglierà uno sposo fra tutti i liberi della città e i primi dei ricchi aspiranti».

E d'un tratto volgendosi dalla grata, proruppe lo schiavo: «Come s'è fatta afosa l'aria! come ansa colà il monte impetuoso, vomitando dal cratere nugoli di fumo! Sembrano le aure imbevute di zolfo; a me duole il capo per queste emanazioni che si diffondono all'intorno. Guarda, il sole è al tramonto, si fa tardi: domattina, o ospite amico, io verrò a trovarti presso il mare e ti porterò la novella della liberazione».

A ciò quegli: «Hai fatto bene a richiamarmi, poichè da molto indugiavo. Arrivederci; tutto riesca secondo il tuo desiderio, o mirabile giovane: possa il giorno vegnente essere per te la festa della liberazione!» — Così disse il commerciante, fe' cenno col capo e si voltò subito per partire.

Ma Euforione restò nell'officina: era pallido come il marmo, il cuore gli pulsava forte e rapido nel petto. Timido gettò ancora l'alato sguardo nel cortile, si voltò via subito e stette dinanzi l'immagine di Icaro, sinistro, immerso nell'ombra, contemplando il poderoso lavoro. Quindi gli si oscurò sempre più la guancia, e fiammeggiando gli salì negli occhi una collera impetuosa e terribile. «Pazzo, ei gridò, tutto quello che tu ami è troppo lontano, troppo alto per te! E fino alle stelle tu tendi le mani di schiavo! Va' via, sogno celeste! Sia morto il passato, morto per me!» E con impetuosa mano s'avventò alla statua di Icaro, la divelse e guastò; cadde dalle spalle il maestoso capo, ruzzolando su pei piedi i gentili tratti del volto tristemente deformi; frusciando cadde giù una delle ali, giù dall'alto stramazzò la spalla e il braccio e il ferro che lo sosteneva. — Ad un tratto come sbigottito Euforione rattenne la mano furente, gli s'inorridì lo sguardo, alla vista di quel figliuolo di Dedalo così bruttamente mutilato, frantumato nelle sue forme fiorenti, dal tronco grigiastro, mentre il capo era lì rigido e raccapricciante sul suolo, quasi che dolente, dallo sguardo interrotto, con profondi sospiri si lamentasse! «Ahimè! come tu, pazzo, hai frantumato nel nulla l'immagine della celeste aspirazione, e come, precipitata dall'alto la tua sacra forza, il sole si spegne nel tuo petto rinnegandoti ogni cosa! Icaro io fui, e tu? ahi! tu ora rimani nella polvere!»

Così stette lungamente il maestro, guardò immoto il confuso disfacimento e dagli occhi cascarono giù amare lagrime a lungo trattenute, come se ne sta un fuggiasco, che il rapido naviglio allontana dal patrio lido, e che, appoggiato all'albero, l'occhio rivolto ancora alla città nativa, contempla le sponde che si disperdono, le azzurre vette che scompaiono, e tutte insieme le figure della perduta felicità. Ma egli guarda lì fermo nei flutti del mare informe e nebbioso e da gli occhi cadono le lagrime della terribile malinconia.

Ascolta! Rimbombò di nuovo il timballo e sempre più vicino echeggiò nel cortile, e risuonò alla finestra il canto del garzone. Ma Euforione si affrettò a coprire con panni la brutta e deforme immagine, e trillando e cantando salì le scale il caro Ion e sorridente entrò per la porta.

«Salute! gridò lieto il garzone, salute a te, il più caro dei mortali! Il padre vuol darti un saggio consiglio per l'opera artistica che Pansa desidera per sè. Oggi si banchetta nella villa presso la sponda del mare e v'interviene anche la sorella con le donne, per godere il fresco refrigerante della sera. E tu non la vedesti ancora, non le hai dato il benvenuto: pure tutti quelli di casa glie lo dettero. Tu solamente siedi racchiuso e muto nella ricca officina tra i bronzi, e quasi tu stesso diventi per me un freddo bronzo. Vuoi vedere la sorella? O che cosa stai meditando? Ognuno la glorifica e tutti complimentano la bella. Anche a te essa porge il suo saluto e mi disse in pari tempo ch'io devo condurti, se lo vuoi, nella villa di sera, perchè ti dica avanti la festa di domani una parola di saluto». E il ragazzo non ascoltò la risposta, ma agile saltò attorno al candelabro ammirando con gioia puerile. «Oh come tutti spalancheranno gli occhi su di te! O carissimo, gridò egli, nessuna parolina avevo io susurrato alla sorella, ed essa mi domandò subito tante cose di questo o di quell'altro. Son sempre con lei e starei sempre ad ascoltare i racconti che sa farmi di Roma; com'è magnifica e grande la città! Essa mi portò anche molti regali, molte cassettine artistiche di oro, di oro fino, e molte vesti di oscura porpora, ciò che tutto io ti mostrerò così com'è conservato nella camera; ed anche il timballo. Ecco, i magnifici sonagli son di oro risuonante, così li hanno anche in Roma i fanciulli, quando danzano la scrosciante ridda nelle feste bacchiche». E lieto rise il garzone e saltellò nell'officina, quindi uscì fuori saltando e cantarellando per la porta spalancata.

Già il sole s'immergeva nelle onde alla roccia di Ponza, che dietro la vetta della verdeggiante isola di Ischia verso ponente emerge azzurrognola dal mare come la corolla del fiore di loto. E ancora un raggio fiammante attraversava l'aperta grata riempiendo del suo roseo lume l'officina e rischiarando il candelabro. E magicamente risplendeva l'opera magnifica, tutte le lampade che pendevano in giro raggiavano di luce.

Euforione intanto guardava pien di mestizia il bel fenomeno, nè, pieno di malinconia, l'opera sua prediletta lo rallegrava, quell'opera che a lui più d'ogni altra avrebbe dovuto piacere. Ma tuttavia si calmò e si addolcì l'impeto dell'animo. D'un attimo gettò sulla spalla la sua sopravveste e uscì fuori dall'officina verso l'aperto, recando nell'animo virile la dolce figura del dolore.

Età felice, quando ancora attorno agli occhi distende il velo il seducente Dio del sogno; scorrono gli anni, la Parca che ronza lo toglie e allora si presenta grave agli occhi il muto Destino. Ma l'amore si diletta dell'impari sorte degli uomini, scocca allegramente la sua freccia e nella notte che incombe soffia le segrete vampe con il battere delle ali dei sogni.

Canto II. AMORE E PSICHE.

Già la notte avvolgea il mare e gli ombrosi monti della Campania che mollemente s'innalzano intorno al golfo di Napoli, ricingendolo come ghirlanda, placidi riflettendo le cime nelle acque eternamente azzurre. Sempre tremola l'onda al bacio di Elio durante il giorno, sempre nella tiepida notte al bacio ardente degli astri. Risplendeva ora un'intensa luce rossastra sul Vesuvio; nuvole di fuoco aleggiavano attorno alla cresta del monte rumoroso; lontano se ne accendeva al riflesso l'aria e lo specchio del mare; lontano nella campagna guizzava anche un chiarore sulle terre di Nola, dove sempre Flora ricopre i prati e i colli di olezzanti germogli come di vampe, e l'albero di granato di Persefone, dai rossi bocciuoli, arde dei riflessi del vermiglio fiore vulcanico. E come se di nuovo fosse emersa dal mare la sera, dappertutto il cielo e la terra divennero purpurei per il bagliore del Vesuvio.

Ma Euforione passeggiava lungo la sponda del mare, solitario ed anelante, con trepido piede, e spesso tratteneva il passo ad ammirare estatico l'incantevole quadro notturno di Pompei. Scintillanti risplendevano i templi e nitido il grandioso foro; rossicci i pinnacoli della città, i teatri e i portici marmorei. Le case allineate nei vicoli che si dilungano per diritto, eleganti e piccole, come ville e palazzine d'estate, sembravano davvero costrutte dalle divinità marine del golfo, perchè vi abitasse una felice genía di uomini che passa oziosa i giorni nel piacere e nel sollazzo, e simili a lampade raccolte intorno al mare esse raggiavano di luce. Anche scintillanti nel porto erano le navi nerastre, che se ne stavano ivi strette contro un argine di tufo innanzi all'áncora. E con lo sguardo stanco, quasi avesse trovato di là la nave di Serapione, riconoscendola al volto raggiante di Iside, se ne stette ivi lungamente Euforione e gli sembrò di vedere la nera figura del commerciante appoggiato al timone, in atto di contemplare le stelle del polo e il chiarore del monte. E subito si sottrasse dalla curva insenatura del mare, come un profugo dai criminosi suoi pensieri. Ma per la notte errava un rumore insolito e strano, come se una gru da lungi corresse sul mare con le sue ali susurranti e l'aria risuonasse dal canto della migratrice.

Lungo la sponda s'ergeva la villa principesca di Arrio, in mezzo a un boschetto di platani e di alti pini, d'ogni intorno circondata di mura, donde sporgevano grossi vasi di fiori e statue seducenti di delicato aspetto. Volentieri colà s'intratteneva il ricco uomo durante l'autunno, per godere dei suoi possedimenti e dell'incantevole campagna: dal Sarno al mare si stendeva a mo' di anello su anello il suo podere. Ciò che i suoi superbi antenati avevano per lo innanzi acquistato in terra straniera, case e campagne in Roma, nell'Apulia, nel Sannio, ovvero lungo la spiaggia veneta, tutto vendè il nipote, col proposito di accumulare quivi, in terra natia, il suo cospicuo patrimonio in innumerevoli e fiorenti beni. E già mezza Pompei era sua, già mezzo Ercolano gli apparteneva ed anche sino a Stabia intorno alle falde del Vesuvio si prolungava le bella tenuta di Arrio.

Euforione si accostò ora pian piano alla porta spalancata; oh come se ne stava accanto alla porta e guardava in alto nel cielo radioso, tutto agitato, perchè mille pensieri gli turbinavano nella mente! E allora lo prese subito per mano l'ilare Ion, il suo Ion che già lo aspettava e gridò: «Come giungi tardi anche tu! Pansa ha ora mandato a chiamare mio padre, perchè essi vanno alle falde del Vesuvio ad osservare se mai muti la cresta del cratere, di ciò avendoci avvertito i timidi vignaiuoli. Ma vieni a casa, stiamo lì insieme a chiacchierare un'oretta; dentro, nella sala, le fanciulle danzano ancora delle allegre danze, che provano per l'indomani secondo la moda di Roma, con canto giulivo, e tutte le istruisce la intelligente sorella».

Così disse Ion e si avviò attraverso le arcate di bosso del giardino, salendo la magnifica scala della casa che, fatta di pietra gialla, si estendeva fino al portico. Essi ora attraversarono l'ombroso atrio, dove ogni ospite si divertiva ad osservare le dipinte pareti e i leggiadri fregi del suolo risplendente di mosaico. Dalla sala echeggiò intanto un suono assai allegro, un cinguettio di flauti e uno strepito di nacchere; nel medesimo tempo risa soffocate di fanciulle e i passi cadenzati di piedi sparenti nella danza. Subito Ion condusse nella camera interna il ritroso Euforione ed agile e furbo scappò fuori di balzo e si allontanò.

Affascinante era la stanza e ombreggiata da una gradevole quiete, cui rischiarava il fioco splendore di una lampada sospesa. D'ogni intorno, sulla rossiccia parete come alla soffitta scintillavano figure belle e scherzose, simili ad immagini della notte che il sogno soavemente dipinge; poichè ivi un intelligente pittore aveva profuso sulle pareti con senso artistico i colori della poesia. Qui sporgevano di mezzo ai fiori maschere e svolazzanti farfalle, colà il grillo di Anacreonte che guidava il leggiadro carrettino forzatamente tirato al passo da un uccello variopinto; poi Amorini, che sedevano trasognati accanto alla peschiera, adescando i pesci i quali si dimenavano nell'onda di cristallo. Ma a preferenza delle altre seducevano lo sguardo quelle Menadi sul fondo nerastro, che dolcemente si libravano nel velo ondulato e spargevano scherzose la serica chioma alle aure, con gli occhi fisi in alto, come se beate volassero al cielo. Tutto era ricco all'intorno e disposto in un cumulo di bellezze. Dappertutto scintillava oro, dappertutto avorio, perle e lapislazzuli; dappertutto era un leggiadro ornamento di stoviglie, di tavole e di armadi. E là scorreva gorgogliando da un'arcuata nicchia la polla di acqua fresca giù nella conchiglia, che una ninfa di marmo ginocchioni le offriva, una figura del celebre artista Menandro. Nel mezzo era una tavola collocata proprio sotto la lampada, incastonata in alabastro; lucida risplendeva la lastra come la luna. Ma essa non portava alcun fregio, come sempre la desiderano le fanciulle, volentieri mettendo in mostra delle cosette per farle vedere, le cassettine o le figurine di oro e le variopinte conchiglie del mare. Sopra vi splendeva soltanto un vaso d'unguenti, conformato a mo' di tulipano, da un bel calice ricurvo, come quando esso, l'Ebe dei fiori, dopo che s'è imbevuto di rugiada, ne porge alla cicala. Non però si sorreggeva sul gambo, chè una Pandora lo teneva nelle mani sollevate, e sul coperchio si vedeva raffigurata Venere come quando usciva dal bagno. Pien di gioia il maestro riconobbe la sua opera e subito la prese dalla tavola fra le mani, quell'opera che una volta, in un'ora di tristezza, aveva egli stesso modellata e data a Ione come ricordo del commiato.

A un tratto stridè la porta, una veste ondeggiante dette un fruscio e la padrona, Ione, la figlia di Arrio, si fermò subito davanti a colui che estatico la contemplava. Come una diva, stava lì commossa l'alta e piena figura della compagna d'infanzia. Stupefatta l'avvenente fanciulla guardò Euforione, egli alzò gli occhi e si confuse, poi con gli occhi fisi a terra rimase perplesso, con la bella immagine di Pandora fra le mani, come s'ei fosse venuto, timido oblatore del cuore, per offrirle la figura e lei per prenderla nella mano.

«Come tu pure, diss'ella sorridendo, mi richiami ora quell'età in cui congedandoti e separandoti da me m'offristi l'opera scultoria! Innanzi a me tu stavi allora come adesso nella medesima camera, di sera, ed io con piacere ricevetti dalle tue mani l'opera che mi si offriva. Vedi, son già passati e trascorsi gli anni, eccomi di bel nuovo, tu mi t'aggiri dinanzi di bel nuovo nella medesima parvenza, come se sul nostro capo si fossero fermate le ore. Sì, sempre come un oblatore, o Euforione, tu mi passasti davanti, ed ora così ritorni, come un donatore a chi è povera di doni».

Ma il giovane confuso aprì i neri e vividi occhi e li abbassò di nuovo, quindi grave così parlò: «Ben fermo è il tempo che incessantemente trasforma tutte le cose, per colui che resta solo, sempre stretto dal cerchio uniforme del giorno: come potrebbe il tempo ed il mondo cambiarlo? Taciturno ei custodisce i sacri tesori della ricordanza e, fedele a sè medesimo, prova gli stessi piaceri ed anche gli stessi dolori. Pure a chi spensierato passa i lunghi e instabili giorni, lieto godendo la piena visione del mondo e della vita, ben dilegua il passato come una nera e sperdentesi immagine di sogno. Anch'ei però s'allontana, torna di nuovo a casa, poco la riconosce e non più gli è sufficiente una piccola cerchia. Così sei anche tu mutata per me, o nobile padrona».

A ciò subito rispose la giovane con assennata parola: «Sì! ben vissi in Roma i volubili anni, lontana dalla patria e dagli ottimi amici; così volle mio padre, allorchè rimasi orfana sì per tempo con la perdita della madre affettuosa. Magnifica è la città e grande e oltre ogni dire abbagliante la vita che vi serpeggia, però mi spaventa la confusione della folla. Roma rassomiglia al caos, dove tutto s'agita e si dimena confusamente. Spesso mi tremava il cuore colà, ed io mi sentiva sola, pazzo il mondo sembravami, falsa ogni umana attività. Ma la zia mi canzonava spesso schernendomi con pungenti parole, mentre io sospiravo la patria più bella. Copiose lagrime versavo, così spesso mi richiamava al pensiero la bella Pompei e il golfo e la placida spiaggia e questa casa con i variopinti cubicoli. Sì, i miei mesti pensieri ritornavano spesso sospirosi da Roma all'età della felice fanciullezza trascorsa nella patria, così come le rondini ritornano in primavera in cerca del nido ove crebbero senza pena, godendo degli scherzi del sole. Ma morì, ohimè! la tua carissima madre Serena, la mia fedelissima dama, a cui tutto io confidavo. Ora ella riposa lontano in Roma, lungo la via Appia e non più guarda il figlio, consolandogli l'afflitto cuore coi suoi sguardi amorosi. Ma un'amichevole parola di saluto anch'io voleva dirti, perchè domani non mi stessi dinanzi pieno di uggioso rimprovero quando converranno a festa nella sala i nobili amici».

Come quando un suono sprigionandosi da flauto eolico nella sera, penetra giù nel cuore e vi desta il soave desiderio d'un sogno beato, così volava a lui la parola, quella voce melodiosa. «Ma perchè io dovrei sembrare afflitto? E non mi son io, così gridò egli, rischiarato gli anni alla luce di quel giorno sospirato? Ecco, già esso s'avvicina e sarà anche per me un giorno di festa, colà, nella sala addobbata del padre, poichè tu, nobile, mi concedi una parte della festa con l'amica e incoraggiante parola».

Ma Ione rivolse rapida da lui lo sguardo lampeggiante, guardò nella notte piena di scintillio che si stendeva purpurea sul mare vaporoso, e rossa copriva come di fuoco i neri cipressi e le cime dei pini; non spirava in nessun luogo un alito di vento, ma il mare mugghiava e si sentiva il frangere delle onde. A un tratto disse la fanciulla: «Come è diventato a me estraneo il mondo, tutto all'intorno sembra mutato al mio spirito cosciente, altra la sorte degli uomini nella loro fortuna privata. Anche tu m'appari un altro, io ora veggo la tua veste di schiavo; ciò che mai ha rattristato per lo innanzi la mia anima indifferente, ora invece mi eccita malinconia nel ritrovarti così tetro e addolorato, con l'immagine del silenzioso affanno nel volto, che mi pesa sull'animo come un tacito e accusante rimprovero. Giacchè veramente un Dio ti ha fornito d'un senso superiore, prestandoti i doni celesti a preferenza degli altri uomini ordinari. Ma la natura non ristà mai nel petto d'un uomo insigne, essa s'agita continuamente; perciò ei deve lavorare e modellare, trasfondendo nella vita la forza divina, acciò un tempo la posterità glorificante lo accolga nel novero degli uomini migliori. Tutto ciò ho io considerato piena di affanno fin dal mio ritorno, da che tu mi apparisti ed io vidi la tua triste natura, sì che a mala pena potetti riconoscere l'amico e l'allegro compagno. Molto mi riferì anche il fratello e molte cose ei mi narrò, come tu eseguissi nell'officina una immagine in argilla, perch'io ne afferrassi il senso nello spirito presago, intendendo il tuo animo sospiroso e i tuoi segreti ed agitati pensieri. Ma ascolta la mia parola, chè questo io volea dirti. Supplice io cinsi le ginocchia del padre, con mesta preghiera implorai da lui il tuo riscatto, perchè liberato dalla triste schiavitù, libero ne andassi nel mondo, lasciando la piccola Pompei, per ammirare altre città, dove son riuniti degli uomini eccellenti. Che se anche malvolentieri, pure mio padre mi accontenterà domani nel desiderio, commosso dalla potente gioia del dì festivo».

Ma Euforione rimase come sbalordito dal suono della parola; sul suo volto si diffuse il pallore della morte e con impeto tese in alto le mani, esclamando: «Come mai, Ione, hai escogitato di darmi questo dolore, facendomi errare in terra deserta, quale un girovago fuggiasco? Assai egregiamente ricinge l'uomo la magnifica corona della libertà, e per lui essa è il colmo della forza, il suggello e la consacrazione delle opere. Ahimè! io la desiderai ardentemente per l'amore alla santa arte figurativa, che la Musa infondeva nel cuore a me, disgraziato schiavo, acciò gli altri non avessero a dileggiare l'opera del mio lavoro manuale, schernendo anche le mie produzioni per questa oscura veste. Perciò io muto lavorando mi esercitai nell'arte nelle ore di mestizia, senza sosta meditai e lavorai per chetare il demone nel petto. Sperai un giorno la redenzione, sappilo bene, o padrona; la sperai dalla tua festa se mai allora il magnanimo genitore rimunerasse con la libertà quell'opera che segretamente meditai, dì e notti intento ad eseguire la degna produzione. Vedi, eran confusi pensieri, era un puerile dolore soltanto, alimentato nel petto da un vago ed instabile desiderio. E prima che mi si allontanasse dal tuo viso animatore, cacciandomi nel mondo, io sommergerei nelle profondità del mare il mio lavoro più diletto, perchè non beasse della sua magnificenza alcun occhio umano. Tu pur mi fosti la Musa dell'arte e la Musa della vita, o padrona, che per tempo mi dischiuse il cielo del bello con fervore e m'apprese le opere della grazia celestiale. Giacchè mi ridestasti nell'animo giovanile lo spirito informatore per l'arte creatrice, e mi guidasti le timide mani, allorchè, fanciullo, vegliai accanto al padre nella sua officina dedalica, quand'ei faceva del nero metallo una immagine maravigliosa.

«Serio e muto egli lavorava senza posa con le artistiche mani. Fu allora ch'io modellai nella duttile cera una seducente opera plastica e te la offrii, felice e orgoglioso come un artista. E l'entusiasmo m'invase il petto, l'opera sinceramente ti piacque; e un'altra ne meditai e lieto te l'offrii, e così divenni un modellatore di giocattoli e gingilli. Poichè la tua immagine pendeva sempre nel mio pensiero, la tua vita s'intrecciava sempre alla mia opera. Allora mi si fece leggera la mano, e germogli da germogli eruppero potentemente dal mio spirito entusiasta, tanto che mio padre se ne meravigliò ed anche Arrio, il tuo austero genitore, mi accolse nel cuore come un suo figliuolo. Ma venne il tempo desolante, tu ne andasti via e si dileguò ben presto anche il mio Genio nella notte buia del dubbio. L'anima, contristata da strane visioni, mi si vuotò d'immagini, e allora indossai dapprima questa veste di schiavo che umilia, sentii come tante catene a me d'intorno e piegai il cuore sotto il giogo della servitù.

«Lasciami tacer di quel tempo, chè oramai è di già passato; libero ora io son divenuto, come chi a lungo languì in una torre umidiccia, ma la porta gli si apre e gli aleggia subito dentro un raggio dell'eterea luce e un soffio della vitale primavera.

«Ciò non accada, Ione! non mai io svesta questa tunica di schiavo; la libertà mi sembrerebbe pur simile alla morte e il mondo mi apparirebbe d'intorno come la notte deserta e un carcere tetro e privo di stelle. Io lo so bene, tuo padre ti eleggerà ben presto uno sposo fra i giovani e il primo dei ricchi aspiranti; allora, quando tu andrai sposa al focolare di lui, oh lasciami ancora adornare con arte e con molte immagini la tua casa, affinchè di me ti rammenti, del compagno della passata fanciullezza!»

Così ei proruppe e dagli occhi lampeggiarono dolorosi sguardi.

E con tremula voce replicò la vezzosa fanciulla, mente nel petto ansante e commosso il cuore le fremeva: «Qualche cosa di strano mi par di avvertire, come se la terra leggermente mi tremasse sotto ai piedi e il capo mi si assopisse nei sogni. Afosa è l'aria quaggiù, e la notte accesa risplende febbrilmente nel cielo: di nuovo mi scende nell'animo la strana visione, l'immagine che ieri notte s'aggirava attorno al mio letto. Ma io lo so bene: era il mio proprio pensiero, poichè tanto mi disse mio fratello della figura di Icaro. Ecco: piena di ambascia io sedevo nella notte là, sul monte, dove gli si arrossa in alto la voragine, il terribile cratere. Fosca era d'ogni intorno la pianura coperta di cenere solfurea; nero si stendeva al di sotto il mare e solo un astro scintillava nel cielo, mentre un fuoco di fumante lava mi circondava accerchiandomi. Ad un tratto tu mi apparisti dinanzi, con due raggianti ali arcuate sulla spalla, e tenevi ancora pronta nelle mani un'altra ala a dicevi: “Fino a quando dovrò io portare le catene, o Ione? Tu venisti, eppur tutto hai dimenticato; ma io feci per me le ali ed anche per te, o padrona. Vieni, noi voleremo lontano sui flutti ondeggianti del mare, prima che il fuoco del Vesuvio ci consumi le ali.” E tu m'afferrasti, con te andai via... e mi svegliai».

Così la fanciulla e subito sbigottita riprese in tono grave: «Che cosa mai io ti dico! non so dirti quest'oggi una parola assennata, così mi vaneggiano i sensi come in sogno per l'afa dell'aria e il caldo del vento libico. Bell'e passati son ora per sempre i cari giorni della fanciullezza, e noi stiamo come amici sulle rive separatrici del fiume, che si fanno i segni dell'addio. Sì, ben lo so io, il bene a noi sembra più spesso un male, chè sovente gli Dei avviluppano la felicità in una nera nuvola, e il nobile animo si piega devoto ad ogni destino. Egregiamente risoluto esso adempie a tutto ciò che sempre esigono i celesti, finchè limpida gli si apre la via a una meta più bella. Ecco, io son venuta, tu devi pur andare, o amico, tosto che domani, in ricorrenza della festa, mio padre soddisfarà al mio vivissimo desiderio. Oh sappi pure che ben volentieri ti ricorderanno gli amici ed anch'io serberò di te una eterna memoria. E adesso permetti, o Euforione, ch'io taccia e me ne vada».

Ma nella stessa guisa che, subito sciolto dalla stretta del sogno, si leva il dormiente, al quale battendo sul capo l'ambrosio raggio di luce desta gli spiriti assopiti, e chiara albeggia la coscienza, così ben presto si svegliò il cuore nel petto del giovane. Pien di dolore, ma nel medesimo tempo pieno di beatitudine, egli alzò in alto lo sguardo, quindi abbassò il capo e tacque, stringendo più forte le mani al petto. Ed ambedue tacquero e stettero, i due bellissimi giovani, l'un contro l'altro silenziosi; pure tra questi due cari giovani invisibile se ne stava sorridente il celeste mago Amore e qua e là li toccava, annodando l'ambascia dei loro cuori. E sospirarono le onde del mare profondamente; tranquille stavan le aure ed un'afa era nel cielo fiammante. E la luce del Vesuvio cadde d'improvviso, d'un insolito chiarore, nella stanza semioscura e aleggiò luminosa abbagliando le due giovani figure; un rumore sordo rimbombò in alto, come se tremasse profondamente convulsa la terra febbricitante.

E Ione guardò in viso all'amico, vide i nobili lineamenti impalliditi, gli occhi le s'intorbidarono ad un tratto, tese in alto le mani ed esclamò: «Addio, Euforione!» Ed egli le prese e le tenne serrate le mani pulsanti e sempre più caldo si sentì scorrere il sangue nelle sue, e sotto ai piedi gli parve traballare la terra convulsa.

Già tuonava cupo cupo nell'aria, da per ogni dove, negli abissi; come un murmure rimbombava nel cielo e tuonava nella voragine del monte. Allora si sentì come un tremito più volte ripetuto, cigolò la casa, tremarono rintronando le mura, vacillarono le colonne con sonoro rimbombo e il suolo ondeggiò come i flutti.

Come sull'orlo solfo-spirante dell'Averno sen vanno a volo barcollando per l'esalazione le rondini pigolanti e stordite sulla rossa arena, cui solcano con le prensili ali, così vacillò la fanciulla alla scossa delle aure elettriche, così barcollò e cadde sulla spalla dell'amico. Caddero sul petto di lui i morbidi riccioli di Ione, sul cuore gli fiammava il capo divino, mentr'essa, sostenendosi, gli avvinghiava le nitide braccia, e l'altro, tremante, la stringeva forte e stava come stordito nei sensi: per la scossa di terremoto il mondo vacillava intorno. Egli era come rapito e solo gli sembrava che il cuore ondeggiante sprofondasse nel flutto della dolorosa sventura. Sulla loro bocca Amore spicciolava come fiori parole interrotte, spargendo intorno esclamazioni e grida e il bisbiglio dei sacri nomi dell'amore: i nomi di Euforione e di Ione.

Voci risuonarono nella casa, voci di fanciulle altosquillanti, e subito nella porta balzò fuori gridando il trepido Ion: «Guai a noi! guai! così proruppe; la casa traballa rovinando a precipizio, lassù vomita fiamma il monte e tutto ricopre di torrenti di fuoco; ma il padre ha fatto or ora a noi ritorno per il giardino». E appena aveva pronunziato queste parole, appena avevano sciolto le mani quei due, quando ecco presentarsi in fretta sulla porta il padre, Arrio, ritto nel capo e nella persona, ravvolto in una toga increspata, serio e imperioso all'aspetto. Ei però non s'accorse del confuso sembiante dei due giovani, troppo soggiogato egli era dall'orrore dei sensi; solo s'avvide che la figlia se ne scappò rapida nella stanza attigua e che con gli occhi fissi giù a terra se ne stava davanti a lui nella stanza l'acceso Euforione. Con imperioso e interrogante sguardo fisò il tacito schiavo, e non iracondo ma austero pronunziò queste vibrate parole: «A che tu mai qui ti trattieni nel gineceo, o garzone, audacemente inoltrandoviti? Così tu attendesti al mio cenno? Altro luogo ti si confaceva, nel cortile o nel portico fra il rimanente stuolo degli schiavi, perchè nessun atto sconveniente deve turbarmi la disciplina e la regola della nobile casa. E fa' in modo di non eccitarmi all'ira, assottigliandoti il benefizio degli amichevoli doni; nessun altro infatti si vanta dei favori che Arrio e i figli della casa a te concedono. Orsù, via, o garzone, e lesto confondimi tutti pel giorno di domani, o greco, con le tue eccellenti e famose opere». Così disse e seguì in fretta la figliuola nella stanza attigua.

Ma il giovane era ancora come inebriato, ancora come nel sogno. A mezzo soltanto comprese la voce di Arrio e a mezzo solo l'afflisse la parola di lui: così ei se ne stava immerso in una profonda contemplazione. Ma subito con grido eccitante lo prese per mano il fanciullo e lo condusse fuori nel giardino attraverso l'atrio aperto. Com'egli uscì fuori nel buio fiamme-spirante del giardino, stranamente avvolto da una luce crepuscolare, e vide la mobile vampa sospesa estendersi in alto sul cielo, sulla terra e sul mare, quasi che il suo spirito fosse sciolto dall'essere, gli parve di fuggire lungo il cielo, simile ad Icaro, in estasi beata sulle ali di Aurora.

Canto III. PALLADE ATENA.

Canzone, prima che tu t'allontani con la mutevole lampada della vita, va', mostrati lieta in mio nome ai lontani amanti e dispensa corone di dolce ulivo e così parla: «Salute a voi, o nobili e pochi! Voi alimentate sempre nel petto le fiamme ideali e fuggite la vanità e le tristi consuetudini del giorno. Non vi manchi mai la luce nella vita, mai la gioia del cuore. Alla vostra casa fiorente batta sempre propizia l'Aurora e v'introduca nella casa le Ore celesti. Ed alle feste siano invitati come ospiti gli Dei, per distribuire i doni dell'amore ed esaudire i prudenti desiderî».

Deserta era quel giorno Pompei ed oscura nella festa di Ione, l'aria cupa ed il mare come spento nell'afa plumbea. Senza vampe il Vesuvio, e il suo capo era velato da una nube fulva, che il vento del sud spingeva in alto verso il cielo. E come se errasse il Sonno per le vie e le case di Pompei, sembravano irrigiditi la città e il lavoro dei solerti cittadini. Non un rumore risuonava dal porto, nè nel mercato, nè nell'officina come altre volte, quando il pieno giorno incitava gli uomini al moto: così incombeva l'aria e l'accidia del vento che snerva.

Pure chi a passo premuroso fosse andato nel sobborgo Augusto Felice, accanto a quei palagi e lungo i frondosi giardini, si sarebbe soffermato subito alla casa di Arrio ed avrebbe origliato lungi nei portici, tutti ornati di nastri e fiori. Alto vi giubilava il canto, cui si mischiava il suono allegro dei flauti lidî e il tintinnio del metallo e delle arpe sonore. Garzoni in vesti variopinte e graziose fanciulle si vedevano agili portare le vivande attraverso il fitto delle colonne. Ed echeggiava sensibilmente un ronzio dalle aperte sale, dove, appoggiati su cuscini e su coltri di Tiro, uomini e donne accomunati si divertivano a banchetto, festeggiando il ritorno di Ione insieme col lauto trattamento di Arrio.

Euforione se ne stava adesso nell'atrio, cupo origliando ai suoni delle festa, solo, in preda ai pensieri del suo cuore. Intorno s'aggiravano i compagni, i maestri di utili arti, l'orgoglio di Arrio e il fior fiore delle magnifiche officine, ch'egli aveva di per sè stesso anche accresciuto, dopo averlo ereditato dal padre; perchè tutto quel che di meglio ciascuno potè modellare con premurosa cura, gli parve ora giusto di consacrare alla festa ed agli ospiti degni. Tutti, cautamente, tenevano nelle mani dinanzi a sè un lavoro artistico, chi un'immagine a mosaico, chi un vaso con le anse, un altro gioielli scintillanti e collane di rossi coralli; l'uno un tessuto filato in oro, questi le gemme che abilmente scavò nel sanguigno diaspro di Cipro ovvero nel crisolito e negli strati dell'onice leggiadra.

Ma Euforione se ne stava, pieno di grazia, nella turba dei molti compagni, con le mani appoggiate all'alto candelabro, al suo incantevole lavoro; perchè questo, messo da lui in disparte, spiccava come un enigma, ravvolto in una nivea tela di lino. In tutto ei sembrava mutato e la sua nera e ricciuta chioma si levava liberamente su gli altri, con una tranquilla serietà. E non parlava, per quanto tutti, avidi di desiderio, mormorassero fra loro, sperando ognuno la ricompensa, sia della libertà, sia d'un dono qualsivoglia. Nel petto però gli batteva spesso il cuore come in estasi, quando risuonava il melodioso nome di Ione; allora gli pulsava più rapido, ma subito frenava la piena del sentimento, parendogli già di essere a bordo della nave di Serapione e di vedere le onde giù correre frettolosamente all'estraneo lido.

Passavano le ore per quelli che ivi aspettavano ansiosi enumerando le fasi della festa: mimi e cori di danzatori in giro si vedevano andare e venire; quand'ecco si accostò ammiccando l'ordinatore Peisandro, e subito introdusse nella sala i volenterosi uomini coi doni. Com'essi entrarono, mettendosi in fila lungo le rilucenti colonne, gli sguardi del giovane corsero ben presto sulla sala, ed ei vide presso il padre Arrio la figlia maestosa: severa e seria ella lo guardò coi neri occhi.

Ad un tratto con queste parole si rivolse agli ospiti il magnifico padron di casa: «Vedete, o amici, i figliuoli di Dedalo si son presentati per offrire doni alla festa, le pregevoli opere della Grazia. Orsù avvicinatevi, o uomini, e mostrate come anche nella mia casa Pallade Atena abbia compiuto con arte cose belle ed eccellenti. E ciascuno a cui sarà fatto dono mi esalti, lodandomi di avermi saputo asservire lo stesso Fidia e Zeusi».

Disse, e i giovani presentarono le graziose opere della bellezza, che il padrone distribuì in dono agli ospiti. E intorno passavano i regali: con compiacenza lodavano gli uomini e le donne ora urne magnificamente ornate e vasi d'alabastro, ora nappi da belletto e specchi di bronzo ben cesellato; volentieri essi lodavano fermagli e corni con allegoriche e gioviali figure, ovvero vasi d'oro e di ambra artisticamente levigata.

A un tratto Ipato, fanciullo ancora negli anni, eppure assai pratico a dipingere sulle tavolette i miti del poeta ellenico, portò un quadro a colori, un grosso quadro lumeggiato. Se non che questa volta non gli era riuscito — così appariva — ed Arrio allora increspò torvamente la fronte e disse con accento di rimprovero: «Troppo giovane ancora tu sei, o Ipato; veggo dal quadro che tu preferisti dipingere l'orrido, la città di Troia divorata dalle fiamme. L'artista smorzi moderatamente le tinte spaventevoli, pio sappia scansare le Furie e non mai ci sveli nell'opera il capo di Medusa: no! le figure non dimostrino se non un dio liberatore degli affanni».

E appena ebbe detto queste parole, che gli ospiti origliando guardarono fuori pieni di meraviglia — libera si stendeva agli sguardi la superba contrada, libero il Vesuvio — e s'udiva rimbombare il cratere del monte e scrosciare cupamente, quand'ecco una fiamma rapida come vortice guizzò nel cielo. A riprese mugghiavano dei forti scoppi e si riversavano nuvole di fumo e tenebre. E l'aria diveniva fulva, scendeva come un rosso crepuscolo, ricoprendo di densa luce la campagna e le onde ribollenti del mare. D'un subito tutto s'acchetò e tacque l'ansante cratere che fumava.

«Non abbiate paura del monte, gridò Arrio; anzi esso offre uno spettacolo alla festa, e già nelle sue viscere lo rode la rabbia. Batta pure imperversando il terremoto con pie' di bronzo, rimbombi pure cupo; afoso ahi! e soffocante spiri il vento sud; no! non abbiate paura del monte; noi già conosciamo il modo d'agire del vecchio: per la collera gli si gonfia a un tratto la rossa vena della fronte, ma poi tosto sorride di bel nuovo pacato. Intorno al mento gli aleggiano tenere aurette, e le Ore e Bacco e Pomona e Cerere, la seducente madre, gli cingono con rose il ginocchio. Versate libagioni di vino, o amici, al padre Vesuvio».

Disse e spruzzò del vino al Vesuvio e insieme con lui ne spruzzarono anche gli ospiti, e continuarono a parlare con gli occhi rivolti al fosco cratere, temendo le rinnovate scosse di terremoto, la lava e la rovina delle pianure. Ma ben presto il vino cacciò via la preoccupazione, svelto circolò il boccale del mulso e come coppieri andavano intorno lo stesso Bacco ed Amore.

«Guardate Euforione! gridò Arrio di nuovo. Guardate lì il migliore che se ne sta dietro ai buoni. O come mai tu indugi tanto, o garzone! Orsù, avanti! che cosa di giocondo tu porti quest'oggi alla festa?»

E tutti lo contemplavano, vedendo come il grazioso giovanetto, nel fascino fiorente della giovinezza s'avanzasse d'un'andatura virile. Le donne bisbigliarono molto fra loro, le ragazze lo guardarono ed anche Ione guardò commossa, mentre le palpitava il cuore nel petto.

«Fosco s'è fatto il giorno, disse ben presto il garzone, la notte già s'avvicina; io porto la luce!» Ed ammiccando fe' cenno agli schiavi di portare dal lato suo l'opera velata, sollevandola sulla tavola. Allora intorno sedettero ad aspettare gli ospiti silenziosi, dallo sguardo interrogatore. Con tremule mani ei tolse il niveo panno di lino, e ne uscì fuori la forma slanciata e scintillante dell'opera dell'arte, bella come il fiore dell'aloe che spicca nella corona delle foglie, sporgendo il pomposo gambo dall'aureo frondame. La bellezza fiammeggiava all'intorno e lungi risplendeva il bronzo simile al sole. E risuonò un grido di gioia, sonoramente applaudirono le donne e di bocca in bocca corse un'esclamazione di meraviglia.

Ma Euforione se ne stava lì presso il suo lavoro, con grazia s'inchinò davanti a Ione e disse: «Salute alla figlia di Arrio! La quale, ritornata fra noi, come attiva padrona comanda nella sala e da vera massaia provvede a distribuire dalla pienezza della casa. Non le manchi mai la luce nella vita, mai la gioia del cuore! Risplenda lungamente per lei e anche fino alla più tarda sera questo bronzo. Ma il suo ritorno alle pareti domestiche sia come un araldo banditore di benedizione!» Disse, le s'inchinò profondamente e se ne stette rispettoso con gli occhi bassi al suolo. Pure una rapida fiamma divampando salì alle guance della fanciulla; nella sala d'intorno esultava il grido di plauso, e tutti gli ospiti si precipitarono, elogiando, verso il candelabro.

E Silvia, la figlia dell'edile Vetranio, esclamò: «Con quanto significato e con quanta bellezza l'ha ideato l'artista! Ben sarebbe orgogliosa del dono la stessa Giulia, la figlia dell'imperatore Tito!» E con voce sonora alto gridò Pansa: «Che bel colpo d'occhio! Il bronzo sembra davvero lavorato dallo stesso Efesto! O divin garzone, tu mi sei fra gli artisti un re!»

Allora dal sedile si levò Menandro, l'eccellente maestro dell'arte plastica, al quale la Musa non aveva mai concesso i suoi doni con iscarso favore; molte statue infatti di Dei egli lavorò nel marmo e molte opere scultorie pose nei templi delle città campane. Se non che, invido del lavoro altrui e piccolo, della figura di Esopo,[6] covava l'invidia nell'animo e la brutta serpe della gelosia. Ora sarcastico incominciò con stridula voce: «Come mi son facili alla lode gli uomini, quando qualche cosa di luccicante abbaglia i loro ingenui occhi! No! non più mi state a lusingare, o amici, il magnifico padron di casa, altrimenti ei ci rinchiude tutti, artisti e lavoratori insieme, nell'officina degli schiavi!.. Oggi ognuno si chiama artista, dopo aver fatto un vaso nitidamente orlato, tripodi, lampade e tazze e stoviglie di bronzo. Chiamate voi già divino e celeste meraviglia a vedere tutto quel che serve soltanto all'uso quotidiano, e mi nominate già arte quel che mestamente eseguì uno schiavo con l'animo stretto dal bisogno? E che cosa allora resterà per noi degno di un onore conveniente, se hanno lo stesso valore per la gente avvezza a lodare una pentola, una lampada ed una immagine di Giove seduto sul trono?!»

Così disse il censore, ed Euforione ascoltò le parole che gli umiliavano l'arte ed il lavoro nell'anima innamorata. Ma nella collera gli sobbalzò il cuore nel petto, rapido corse all'opera sua vilipesa, poggiò la destra tremante sulla base inargentata e ad alta voce disse: «Le parole ingiuriose ed offensive che tu, o Menandro, hai testè pronunziato non possono ridondare a onore d'un uomo celeberrimo. Gli Dei distribuiscono la felicità terrena, ma non sempre una nascita libera rende felice l'anima insieme col corpo: spesso essi legano alcuni di animo libero ad una schiavitù indissolubile, ma prestano invece intorno al cuore dello schiavo le ali olimpiche, volentieri mandandogli la Musa a consolare l'anima sofferente, perchè lo accomuni ai migliori dei mortali ed ai saggi. Ed anche a me dette molto la Musa, essa mi dette l'amore al bello che redime, il senso per penetrare nelle forme e per imprimere modellando anche nelle cose piacevoli un forte contenuto. Libero anch'io sono come te, sappilo bene, o critico sgarbato, libero parlò al mio cuore il nume che dentro vi alberga».

Così gridò egli nella collera e cercò gli occhi di Ione.

Tutti l'ammirarono e gli schiavi se ne stettero ad origliare intorno ansiosi; allora con un secreto cenno lo animò Pansa ed Euforione proseguì il maraviglioso discorso: «Chiami tu questo un volgare e triste bisogno quotidiano? È un lavoro manuale, oh bene! ma è anche arte che diletta gli uomini, perchè, come il nume bifronte, esso pure ha un duplice aspetto e graziosamente riunisce in sè il buono ed il bello. Due mondi preziosi sono assegnati all'anima degli uomini: da una parte essa assurge all'infinito, compagna degli Dei celesti; dall'altra, compagna della polvere, spazia nel finito; varia è la sua abitazione, e un tempio ed una casa le sono egregiamente preparati per dimora. Salute a te, cui la Musa die' l'arte che plasma gli Dei; nel tempio essa governa sublime e desta alla luce l'anima ammutolita. Austera è la sua figura, muta e solinga essa impera quaggiù, come la divina necessità e il Fato dallo sguardo grave. Ma l'arte gioconda che io esercito, si spazia bellamente nel mezzo della vita, nella terrena e socievole casa. Essa è sorella alla tua e si scambiano entrambe i doni: la tua presta alla mia la maestà, la grazia e l'eterea chiarezza, ma la mia le regala la pienezza della forza e la gagliarda virtù. La forma che tu hai annodata, la cara arte mia la scioglie di nuovo e dà libero corso a Fantaso, l'incantevole ed astuto dio dell'invenzione. Essa origlia sempre al giuoco della natura, da cui prende in prestito la forma, e graziosamente adatta l'effige animale alla pianta e alla stessa forma umana, spiegando sensibilmente il fenomeno intrigato ed enigmatico della vita. È anche bello tutto ciò che di finito la vitale necessità ci offre, quando l'uomo animato l'afferra e lo modella in plastiche forme, imprimendo alla materia greggia lo stampo della divina libertà, in modo da divenire per lui stesso un celestiale godimento il bisogno quotidiano. Sì, chi chiamerebbe a ragione ignobile e misera quest'arte che nelle pareti domestiche così propizia governa come un'economa? Tutto ciò di cui la vita ha bisogno per godimento e per conforto del cuore, essa tocca con le mani che sanno trasformare in leggiadre figure. Anche ciò che è ordinario sa rendere raro, e prezioso ciò che è comune, piacevole la necessità, e per lei l'abitudine diventa un attraente poema. Ecco, essa offre i frutti di Pomona in preziosa tazza, versa il vino dalla brocca orlata di figure nel corno da bere e presenta allo sguardo la rosa purpurea in tenero cristallo. Inoltre, sospende il lume al candelabro modellato con arte molteplice, perchè a doppio piacere rianimi e ridesti gli spiriti. Guardate così questo svelto lavoro! Quando l'olio esalante ne ha impregnato ogni lampada ed esse splendono all'intorno come una pensile ghirlanda, non brillerà forse ai lieti visi e alle sagge conversazioni, ovvero alla danza scrosciante e al suono giubilante dei flauti? Per lungo e lungo tempo risplenda di gioia questo candelabro! E sia una sentinella al banchetto ospitale e lungamente per te, o Ione, un messaggio di felicità e d'innumerevoli feste!»[7]

Ciò disse e tacque. Amore gli aveva fortemente attizzato la fiamma della parola nel petto con gli sguardi entusiastici della fanciulla. E finì così il silenzio di ammirazione; intanto si udiva fremere il rimbombo del Vesuvio, quand'ecco si levò un grido di giubilo: dalle chiome si sciolsero le donne le ghirlande inanellate, le gettarono su di lui, e come avviene a chi contempla la sbocciante primavera, quando dai rami di pesco lo zefiro spazza via la fioritura, così s'intrecciarono attorno al giovane e caddero le agitate corone, mentre sulle spalle, intorno al capo scrosciava la pioggia di fiori. Ed egli confuso apparve ancora più bello coronato di fiori, simile a un celeste nei tratti: ognuno lo guardava con gioia. Ma Menandro nascose tra le labbra il suo tacito malumore, levò in alto la mano e fissò Arrio con occhio interrogatore.

A ciò Pansa: «O socratico garzone, ti benedica Apollo! Tu hai ben parlato; vieni domattina alla mia villa, perchè ti versi dell'oro nelle mani; ed Arrio saprà bene offrire all'eccellente giovane un regalo che gli farà maggior piacere».

Allora gridò lieto Arrio: «Oh! accendete subito le lampade, le artistiche lampade, in onore di colei che è ritornata! Come un genio, come un genio amico c'è venuta oggi la luce, perchè l'aria già si annebbia e la notte scende più presto del solito!»

Ma subito Ione: «A me sola conviene, o padre, a me sola s'addice consacrare le lampade con le mani ospitali, e non deve alcun dito umiliante toccarmi l'opera divina!» E s'alzò; il solerte fratello le porse l'orciuolo dell'olio, ed essa lo versò nelle lampade, mentre leggermente le tremava la mano. E con un lume acceso, simile ad Amore, se ne stava a lei dappresso l'incantato giovane, aspettando con gli occhi sorridenti. Non appena ogni lampada si fu imbevuta di olio, egli porse subito alla sorella la candela fra le mani, ed essa con lo spirito presago non fallì, chè prima accese l'elegante lampada di Oneiro, poi l'attraente lampada di Psiche e di Amore, indi quella di Pallade e finalmente la lampada ultima della Morte.

Come è sospeso al cielo nella notte di ambrosia il sublime Orione con la splendida fascia, quando sul mar di Sicilia dolcemente lo guidano le Ore, e quando già s'appressa la rosea Alba e un crepuscolo tremula intorno all'immensa e nevosa cima dell'Etna, così fiammava ora il candelabro nel tremulo crepuscolo della sala da festa, e sul volto di Ione volava come uno sprazzo d'oro lo splendore del lume, trasfigurandola.

E risuonò un grido di giubilo, sonoramente applaudiron subito le donne e corse di bocca in bocca un'esclamazione di maraviglia. Ma un coro di cantori, che era nascosto dietro le colonne, dolce intuonò un'armonia che gonfiò di gioia il cuore di tutti.

A ciò disse Giulia, la sposa dell'eccellente Balbo: «Come armonizza bene il candelabro col suono dei flauti e coi canti! Come se gli si muovessero in giro all'intorno le figure di bronzo, esso agita delle tremule danze; eppure non ne intendo appieno il senso. Chi sa interpretare queste lampade? Sono ben scaltri gli artisti, che sempre avvolgono negli enigmi le figure delle loro magiche mani!»

«Giusta la tua osservazione, o bella, gridò Arrio, ed anche a me non riesce chiaro il senso. Ma tu ce lo dirai, o cantore Ismeno, poichè invero solo il poeta maneggia la chiave dell'arte, il poeta che è un re dominatore degli spiriti: mai la pietra silenziosa gli nega la sua voce ed egli desta al canto persino il bronzo irrigidito».

Assai volentieri s'accostò quindi il vecchio Ismeno, che il padre di Arrio aveva adottato in casa; argentea era la sua barba e bianca la chioma, e il dignitoso capo già ricurvo per la stanchezza della vita. Affabilmente ei cominciò subito: «Difficile cosa tu m'ingiungi, o nobile Arrio. Spesso anche l'uomo più colto sbaglia dinanzi all'idea del poeta, chè la segreta e misteriosa anima degli artisti profonda s'immerse nel getto fluttuante del bronzo. Perciò, se la mia parola sbagliando non desta alcuna eco nel bronzo, perdona, o maestro! poichè è estraneo a noi il pensiero degli altri uomini». E con le mani salutò l'amico; i due spiriti eccellenti se ne stavano presso la bella immagine come la primavera e l'inverno insieme.

«Con arte e con sapienza veggo qui modellata nel bronzo, disse Ismeno, l'immagine della nostra vita e la danza delle Ore. Graziosamente la prima Ora incomincia la sua: noi la chiamiamo fanciullezza. Essa s'accosta con incanto e soavemente con la fiaccola scintillante del Dio del sogno intreccia le sue melodiche danze intorno alla culla del bimbo. Ecco, il dormiente si desta, allora vengono le favole e le fiabe, gli allegri giuochi, e lo sciame dei sogni scherzosi introducono nella vita il bambino a divertirsi con beati trastulli. Nella tranquillità questi sogni assumono delle forme presso il suo cuore origliante e gl'intessono segretamente all'intorno un mondo che comincia a svilupparsi nelle immagini. Pien di presentimento si sviluppa il piacere e più tardi anche il tetro dolore, e germoglia il desiderio e la sorte riposa nel germoglio. Ma ben presto se ne torna in fretta verso il cielo l'Ora della fanciullezza, che ha compiuto il suo tempo.

«Vedete, s'accosta l'altra, Agitando la fiaccola dell'amore, danza nella vita la bella Menade, l'Ora della gioventù. Essa porge al giovane la coppa spumante del piacere e del desiderio, e dalla terra gli si dischiude un lembo di cielo. Non s'indugia nella polvere terrena, l'umanità gli sembra schiava e pigra; egli vola col sibilante cavallo aereo di Perseo a combattere i tiranni, ed erra come Icaro beatamente verso la luce, e come Fetonte infiamma il mondo di ardore. Solitaria cammina la fanciulla nella presaga tranquillità del cuore, finchè il nudo nume non le ferisca ad un tratto i sensi, e come Psiche essa cerca il fuggitivo, addolorata fino alla follia. O celestiale ed alata Ora della gioventù, troppo rapida ten vai, illudendoci! Sì, colui pel quale ancora risplende la fiaccola di Amore, è egli stesso un dio! Goda pure l'ora fuggitiva, quell'ora che non arrivano mai a compensare gli scettrati anni della vita, fossero pur mille, che l'uomo trascorre affaticandosi. Una volta sola gli Dei invitano a banchetto il mortale, ma Icaro e Fetonte precipitano in un attimo dal cielo, tramontano le speranze ed i vani desiderî come astri, la vita procede con pie' di bronzo e ammassa tombe su tombe. Anche l'ingannevole Amore getta via la sua veste sfolgorante e ci lascia nella colpa e nel pentimento l'Ora della gioventù.

«Vedete la terza! Come forte e luminosa spande la sua luce attraverso le tenebre! Bella nella corona di ulivo, la celeste messaggera di Pallade! Qui nell'uccello notturno si lasciò artisticamente indovinare il modellatore. In alto l'Ora solleva l'uomo dal falso sentiero della scompigliata gioventù e lo introduce tranquillamente nell'apparecchiata officina della vita, che la donna, propizia adornandola, gli assetta con amore operoso. Pallade gli apprende la saviezza e le opere espiatrici del lavoro, e piamente gli limita la sensibilità con la forza e con la sacra prudenza. E a lungo s'intrattiene la Dea, ben volentieri essa benedice all'uomo beato il cuore di Dedalo e le mani che incessanti lavorano. Ecco, già si ammucchiano le buone e le belle opere e così si accumula una grande eredità da nutrire i figliuoli; a un tale uomo non piace che quanto è duraturo, la simmetria armonicamente ordinata delle forze che agiscono sul mondo. Ma nel petto gli riposa il destino che gli Dei decretarono.

«Salve anche a te, o fiaccola della morte che scioglie la vita! Esausta si piega giù la mano e calmo riposa il cuore dopo la tempesta degli anni, senza che più s'agiti un desiderio od una speranza. Verso terra s'inclina il capo, quand'ecco si accosta ieraticamente Eirene, e con lei viene la ricordanza, la velata madre dei sacri dolori; ritornano le Ore da lungo tempo scomparse, con dolce saluto di lontano esse appaiono allo sguardo come le vele del mare, trasfigurate dal sole che tramonta. Ma con mestizia le contempla il vecchio e con profonda meditazione rivolge lo sguardo indietro alla vita e ai suoi gustati beni, e volentieri accoglie ora dagli Dei la morte, come il supremo dono. Così un giorno possa accostarsi anche a te con volto amico la morte, o Arrio, tardi nella notte porporina, quando sia già terminato il filo della tua vita. Ma il mio cuore anela la sua patria, sempre più calmo esso m'è divenuto ed a me pare come se qui d'intorno mi frusciasse l'ala della morte».

Così il vecchio. Dagli occhi suoi caddero le lagrime della malinconia. E come se per il mondo si fosse diffusa la calma della sera, onde rabbrividisce dappertutto la campagna e tacciono i canti nel bosco, così tutto si chetò nella sala: non una parola, non un bisbiglio si udiva. All'intorno serpeggiava il raccapriccio come il passeggio della morte, ma a volte rompeva il silenzio un rimbombo qual dei carri strepitosi della battaglia campale e s'udiva in pari tempo il ruggito delle tigri e dei leoni, che la città custodiva nelle gabbie per la lotta dell'arena, cupo e lontano, come sulla sponda del libico mare di sabbia s'ode nella tranquillità della notte echeggiare il ruggito delle fiere.

«La parola che dicesti, o vecchio, gridò Arrio alla fine sbalordito, risuonò ottenebrando la gioia; pure sappi che la Parca continua a filare benignamente nella nostra casa delle fila dorate».

Senonchè Ismeno guardò calmo verso il Vesuvio e disse: «O fortunato colui al quale parve nella vicenda dei tempi che le Ore avessero tutto compiuto! Ma fluttua e ondeggia la vita dietro leggi oscure. Alla cieca l'uomo oscilla nel dubbio come la canna, e alla notte oscura solo gli Dei annodano per lui il giorno. Così all'apparir d'ogni giorno se ne stia l'uomo devoto e pronto a ringraziare e consideri maravigliando il celestiale incremento della vita, come un dono della fortuna, sul quale giammai ha contato».

Disgustato riprese Arrio: «I vecchi cantano alla morte sempre il loro canto del cigno; poichè ad essi il tempo spense la fiaccola dell'Amore. Questo roseo ragazzo sen vola rapido, e non mai appare al cospetto dei vecchi; egli si cerca una preda migliore; Bacco però inghirlanda sempre di edera le bigie rovine. Vecchio, e come hai potuto dimenticare completamente il fido amico, che sulla tersissima base ha modellato l'artista per richiamarcelo alla memoria? Ecco, quella base significa la terra tutta inghirlandata di grappoli, e, araldo del piacere, sulla magnifica pantera si eleva Lieo, con in mano il suo corno splendente come la luna; perchè la natura non ci ha chiamato a vivere nell'indigenza, ma bello ci ha apparecchiato il mondo alla festa della vita fuggitiva. Goda dunque l'uomo; rapide passano le ore e più rapidi folleggiano i piaceri, come le rapide rose dell'amore. Condite, o ospiti, il vino! e qui a me si arrechino freschi fiori, perchè l'aria ci ha fatto appassire le corone sulle tempie». Disse e versò il falerno nel corno e ne offrì al vecchio.

«Se qualcuno può uguagliarti, o divino, aggiunse l'altro, è necessario ch'egli sappia offrire agli ospiti meravigliati il fior della parola. Una cosa sola ti è sfuggita, il fiammeggiante altare che Euforione ha qui modellato, al sommo della base. E chiuda il nostro discorso anche l'allegoria dell'altare: gli Dei bramano i sacrifizi, accostisi perciò il mortale volenteroso ai loro altari, pensando come presto fugga l'ora, acciò gli si conservi la luce e la gioia nobile e moderata!»

Così il vecchio; Euforione lo strinse affettuoso fra le braccia, profondamente commosso. Lucido splendeva il candelabro, sembrava il genio della vita terrena, vivificato dalla parola del sublime cantore. Nessun lume scintillava ancora nella sala, esso soltanto risplendeva lontano. D'intorno sedevano come ombre gli ospiti che, taciti e seri, guardavano le lampade. E Ione fissava incantata ora il bronzo, ora lungamente gli occhi dell'amico; e nel profondo del cuore agitato entrambi sospiravano di stringersi le mani. Quand'ecco si levò dalla sedia, col suo bel volto raggiante e sospiroso, coi neri occhi irradiati dallo splendore dell'alto sentimento, con le mani sollevate essa gridò come l'indovina: «Se al nobile s'addice il nobile, anche all'opera sia nobile la lode! Libero quindi sen vada l'uomo che gli Dei elessero araldo della loro luce immortale, anche lui onorino gli uomini come gli Dei. Libero ora tu sei, o Euforione, libero e sciolto dalla condizione di schiavo!»

E subito ricadde sul guanciale l'impallidita donzella. Allora il padre la contemplò e gli ospiti stettero ammirati ad osservare com'ella sembrasse convulsa ed agitata nell'anima e nel viso.

Come rumoreggiando il lampo dinanzi agli occhi di un uomo sbalordito guizza giù pel cielo nella terra crassa di vapori, così ora questa parola penetrò nell'anima di Euforione, ed egli vacillò, indi stette con lo sguardo verso il cielo, poi nascose il capo fra le mani e con profuse lagrime si buttò ai piedi di Arrio.

E vide piegarsi verso di lui il volto amico di Arrio, quand'ecco si fecero fosche le tenebre in un momento, fosche oltre ogni dire! Come se il mondo si spaccasse, dal Vesuvio si scatenò una bufera: il vasellame precipitò tintinnando, con fragore caddero le tazze e con rombo profondo risuonò anche il candelabro di bronzo, stramazzando giù nella sala, mentre all'intorno volavano schegge di marmo. Lontano rotolarono le lampade, sfuggite alle lacerate catene, facendo diguazzare l'olio in esse contenuto, e guizzavano le fiamme nella notte.

E un alto e orrido grido echeggiò nella sala, selvaggio come il capo di Medusa stava il rosso Vesuvio. Con fragore scoppiò il monte, e una figura di fuoco usciva dalla voragine, come il turbine del mare, e lambiva l'etere con le fiamme. Aveva l'aspetto di un pino, così s'inarcava una volta gigantesca di fiamme e cresceva, finchè ad un subito non s'agitò un rabbioso uragano di fuoco e con rimbombo sprofondò nelle viscere dell'urlante cratere.[8] E a un tratto una fosca caligine, con cupi fragori gorgogliava e ribolliva il fuoco interminabile, si sollevava di bel nuovo rapidamente, s'aggirava in vortice, e volavano i massi incandescenti come astri e come lune, d'uno splendore fantastico, come un esercito tuonante di comete che con la coda piena di scintillio sferzavano l'aria che mandava dei gemiti, finchè non si riversavano simili ad una spaventevole grandine di fuoco. Rosso come il sangue spumeggiava il monte, vomitando un'onda di metalli, e ne rotolavano cascate di fuoco e ardenti cateratte di lava.

Oscurità profondissima — e nera al cielo si levava la polvere. Scrosciando come pioggia cadeva e ricopriva la fumante città, sì che questa si dileguava allo sguardo; soltanto orride luccicavano le torri mandando vampe, e lottavano contro il fumo e il buio della cenere. Alto or mugghiava il mare, spaccandosi nel fondo, e rovina si assommava a rovina e s'alzava polvere su polvere nel nero orbe terrestre. Così in un subito precipita giù nella valle una catena di monti per il terremoto che tutto all'intorno sconvolge, così turbina il vorticoso caos della nera polvere, sì che tutto si offusca il cielo e versa sulle case e su gli abitanti fuggiaschi una pioggia interminabile di sabbia infocata, come ora scrosciava la cenere e fremeva e strepitava con fracasso, scorrendo simile al mare, rovesciando le porte della casa di Arrio.

E discese nella sala la notte flegrea e la morte versava la cenere nei bicchieri. Tutta l'aria buia si riempì di zolfo soffocante. E un indicibile grido di dolore echeggiò all'intorno, spaventevole; selvaggia si udiva la voce di Arrio, di Pansa, le stridule voci delle donne e degli uomini fuggenti; terribile era il grido di Euforione, mentr'egli, errando a tastoni lungo le colonne, faceva echeggiare del nome di Ione tutta la casa avvolta dal fumo. E qua e là cadevano e sporgevano le mani frugando in cerca della via, avvolti dal nembo di polvere e di crocchiante lapillo. Rosse faci, simili ai saltellanti fuochi fatui delle maremme, erravano e sparivano; e d'ogni parte orrende figure, simili alle larve del Tartaro e allo stuolo delle anime che gemono, quand'esse passavano, il torrente di fuoco fuggendo in mezzo al vapore gorgogliante, andavano a tentoni, correvano e precipitavano nella fuga e nella lotta disperata.

E come tutto fu spento, nella sala si vedeva fiammeggiare tranquilla una delle lampade, come scintilla un astro nel buio delle nuvole. Poichè dalla catena del candelabro essa cadde giù contro una sedia che la trattenne, e lì rimase sospesa, trattenuta dal braccio della sedia metallica, la luce vivificante di Pallade. Ed Euforione la prese disperatamente, la sollevò nella destra e subito corse via con un grido rimbombante.

Pure qui tu indugi, o Musa, e con profonda mestizia abbassi il tono della lira; mostri il tuo capo nella polvere azzurriccia, che ancora fa rabbrividire i posteri nella sala di Arrio, e lo pieghi cogitabonda e taci.

Canto IV. TANATO ED EIRENE.

Com'è placido, o morte, e come è bello il tuo regno colorito qui fra le rovine di Pompei, nel recinto della cenere che si inarca![9] Ben altra tu mi apparisti nelle macerie di Roma, come un Cesare maestoso che dalla via Appia infili i larghi archi, tacito e tetro, trionfatore del mondo e calpestatore dei popoli; ben altra nei campi di Siraco, dove ancora Aretusa versa giù nel mare le melodiche lagrime per il perduto dio e la rocciosa plaga giallognola mostra i solchi del tempo con tracce di tombe all'intorno, per quanto il falco la domina con lo sguardo.[10] Colà come Memnone tu mi apparisti, che manda dei gemiti, quando la madre Aurora lo sveglia e lo bacia sul capo. Ma qui come un ricciuto fanciullo, simile al sorridente Amore, tu mi appari, o Tanato, nelle scintillanti macerie di Pompei, scherzando con la polvere di oro e coi rottami dei vasi infranti. E coi lapislazzuli e i perduti ornamenti delle fanciulle tu ricami il tuo sepolcrale mosaico di figure fantastiche e favolose. Informami soavemente il canto e venga qui benigna Eirene, la celestiale sorella, e mi aleggi intorno al capo, eternamente. Ed ecco che aprì gli occhi Euforione; dove mai si trovava egli? Una nube gli avvolgeva lo sguardo e il capo accasciato dal dolore, e dello spruzzo delle onde grondava ancora la chioma e la testa. Era in un'arcuata caverna di rocce dentate, rischiarata in rosso dal vaporoso lume d'un tizzo acceso a mo' di fiaccola, che un uomo teneva in mano, ricurvo, nel vello peloso del pescatore, mentre gli sguardi inorridivano del raccapriccio di morte. Allora terribile mugghiò il mare con urlo, e le onde, freneticamente agitate, risuonarono intorno per le rupi sulla caverna scossa. Ivi pendevano in gran copia alle caviglie reti brunastre, canne da pesca, gomitoli di nasse e corde di paretelle. Ma al suolo sulla nera terra giacevano figure, vinte dal dolore, in un rigido deliquio. Fra la ciurma ivi sedea anche lo stesso Serapione, col grigio capo appoggiato alle mani, senza forza per l'indicibile pena. Inoltre, nell'abbigliamento di festa, coi lineamenti del tutto sformati, sconvolta e arruffata la chioma, inzuppata di acqua salsa, giacevano distesi sull'alga gl'infelici figli di Arrio, simili alla conchiglia di porpora che il flusso spinge alla riva sull'alga scintillante del mare.

Euforione li guardava fiso, come fantasmi, e piegandosi sulle ginocchia cercò di pronunziare queste interrotte parole: «Ohimè! dove siamo noi infelici precipitati? ci hanno, ohimè! trascinato giù nel profondo del mare gli urlanti gorghi? dove sono io mai? cadde Pompei, rovinò dalle fondamenta il globo terrestre? È questa la fossa? Ci ha tutti ingoiati la voragine del Tartaro?» E dagli occhi cercò di scuotere con forza il deliquio; ma la ragione gli girava intorno smarrita. Come quando di mezzo al fumo spuntano qua e là delle figure poco riconoscibili e di nuovo si offuscano, così a lui errava confuso lo spirito sulle immagini scomparse. Vide tutti gli orrori della notte, il Vesuvio e Pompei ravvolta nel fuoco, la casa della festa e Ione presso il magnifico candelabro, gli ospiti giulivi e l'improvvisa catastrofe. Vide Arrio fra le rovine presso la volta della casa, piegato accanto ad Ismeno, col capo morente tutto ricoperto di cenere. Vide uomini e donne, distesi nell'arena che si ammucchiava all'intorno, il popolo fuggente correre giù per la china delle strade a precipizio nelle nuvole di fuoco e sferzato da una gragnuola di lapillo, strillando come uccelli notturni, quando ne li caccia via lo scoppiettare dell'incendio. Ed ora ei vide sè stesso, nel vortice di cenere, con Ione sulle spalle e Ion appeso alla veste correre verso il mare di mezzo alla città in fiamme e alla turba confusa degli uomini; ed echeggiava l'aria dei lamenti del popolo che si precipitava nel mare, acceffando le barchette con grida angosciose, finchè il flutto li allontanava e di nuovo il riflusso li gettava sulla riva. E a lui pareva come se sprofondasse nel mare, come se tutte le acque furibonde lo inghiottissero nel gorgo; ma ad un tratto egli intese il rumore del bordaggio, un vociare confuso ed orribile e nel mezzo il grido risuonante di Serapione. E subito vide il vecchio, non più come l'illusione di un sogno febbricitante, sollevarsi sul suolo della caverna, nell'aspetto simile al nero Caronte, e cercò di chiamare per nome l'ospite amico, stendendogli con forza il braccio, mentre prima barcollava pieno di angoscia; ma la notte fosca gli avvolse ben presto il capo ricurvo.

Alto tuttavia urlava il mare percosso dal turbine impetuoso, fuori presso il roccioso lido, e già avevano i balzanti flutti trascinato quei fuggiaschi di Pompei nel naviglio del vecchio egiziano, che ora coll'albero infranto giaceva gettato sulla spiaggia salvatrice di Capri. Non lungi da Napoli si eleva la bella roccia dedalica dell'isola aprica. Ivi Amore si compiace di sognare nelle grotte di zaffiro origliando alla camera nuziale delle sirene del mare, dove, con delicato sorriso, le onde tremolano nel fosforo e l'aria narcotica intesse tranquillamente di azzurro il grazioso crepuscolo. Ma fremeva ora il mare intorno al lido tutto inarcandosi di onde cristalline, e la schiuma schizzava fin sulla cresta dell'isola. E come una nebbia, la cenere compatta e crocchiante copriva gli scogli, e lontano sulle onde l'uragano agitava un vortice di nubi. Rosse splendevano le rocce e rosso il golfo ribollente, ma fosco si agitava il mare nello splendore solfureo, impetuosamente illuminato dai lampi e poi di nuovo coperto subito dalla notte. E con luccicanti creste s'avvolgeano i sibilanti cavalloni, sbuffavano in alto inalberandosi e risuonando poi sulla scogliera, sì che intorno ne rintronava la spiaggia ed echeggiava con rimbombo l'isola.

Così passava rapido il tempo, non più partito dal mutare delle stelle nel cielo. Poichè non era nè giorno nè notte, e solo rossi bagliori raccapriccianti solcavano la terra che fumava. Se le ore scorressero, se i giorni si spegnessero nella notte senza misura di tempo, nessuno dei mortali avrebbe saputo.

Finalmente venne la calma; presso agli scogli di Capri cessava di fremere, stanco, il mare, e la tempesta delle nuvole ammainava le vele. E le nebbie squarciate, già tutte infrante a brandelli, affollandosi a mo' di schiera correvano e si spingevano al mare come corrono le flotte di ritorno alla loro patria dopo la terribile battaglia navale, serrate a schiere anch'esse ed affollandosi al suono delle tube, mentre le vele sventolano rotte intorno all'antenna e foschi sporgono i tronchi degli alberi spezzati; e le navi, stanche dalla lotta, tirano giù le vele stridendo come gru e sempre più lontano nereggia la fitta squadra sul mare.

E già dai crepacci della grigia nuvolaglia appariva l'azzurro del cielo, quando spuntò timido l'astro del mattino e dall'azzurra notte di ambrosia emerse con tutte le stelle la lampada degli Dei, Orione. E subito splendette l'aria, il chiarore divenne sempre più limpido, un vapore colorato si levò dalla sponda gialliccia del levante, morbido come il chiarore dell'Iride, quando affrettandosi al mare si trascina dietro il lembo della sua veste variamente ricamato a fiori e la traccia luminosa delle ali. Come un brivido corse un alito di vento e dalla scogliera si precipitò con alte strida il gabbiano, a tuffare nei flutti le sue ali strepitanti. Un grazioso sorriso mattinale rischiarava adesso il cielo, e spuntò rosea la magnifica Eos vivificatrice della città, mentre in largo s'accendeva il mare e risplendeva la cresta di Sorrento, come s'accende l'ebbro e sanguigno capo del fiammante papavero. Timide ricomparvero le rive, avvolte come in un velo d'incerto vapore: colà la riva di Pesto e qui gli scogli delle Sirenusse, di là la riva di Napoli e il giallo monte Miseno. Ma il dominante Vesuvio se ne stava lì maestoso nella sua pompa di porpora, tranquillo come un eroe che silenzioso contempli il campo di battaglia e i morti, niente affatto rannuvolato dal rimorso e appoggiato alla lancia luccicante della zuffa.

Appena spuntò Elio per sanare della sua luce la terra, il vecchio veleggiò subito con la sua nave verso la riva di Pompei, per osservare con i propri occhi e cercare tra i superstiti e i morti.

Ma chi può dire quale orribile e violento dolore assalisse ora i figli di Arrio, che si abbandonarono alla piena dell'affanno, quando, simili a naufraghi, si svegliarono sull'estraneo lido, privi di speranze, poichè il compagno svelò loro la sorte del padre e non cercò d'illuderli in nessuna maniera? Strappandosi i ricciuti capelli e percotendosi il petto, il fanciullo emise un profondo grido di dolore che si ripercosse lontano negli scogli di Capri.

Arrio! risuonavano le rupi, ed Arrio! ripeteva l'Eco. E con i sensi smarriti Ione vagava lungo la riva: ora, silenziosa contemplando le coste di Pompei, sollevava il braccio in alto verso il cielo con le labbra aperte senza profferir parola e pazza di dolore, ora lanciava nell'aria un grido improvviso. Non così nello spasimo del cordoglio uscì un giorno un canto di dolore dalla bocca di Cassandra, che contemplava i ruderi di Ilio, seduta sul lido nemico, e versava nel mare il suo affanno triste come la morte, impennando le aure del suo sacro grido di malinconia, come ora si lamentava Ione cercando il padre, gli amici, la patria, che senza tomba erano profondamente sepolti sotto la lava vomitata dal Vesuvio. Ed ella supplicava la morte, e spesso saltava avida di sprofondarsi nel mare; però la stringeva gemendo il fratello Ion e forte talvolta la cingeva con le braccia Euforione, versando lacrime di raccapriccio e unendo gemiti a gemiti. Essi passavano nel pianto il giorno come passavano anche nel pianto la notte, storcendo le mani con sospiro ed errando intorno alle rupi dell'isola, così come i figli del cigno, che seggono raccolti sul rossastro promontorio presso il mare e battono le ali e gridano senza fine con un gemito rassomigliante al suono dell'arpa nell'azzurra solitudine dei flutti, poichè il cacciatore uccise loro i genitori distruggendoli insieme col nido.

Di nuovo si fe' giorno. Quand'ecco ritornò anche Serapione, mentre quelli ansiosi, immoti nel sordo dolore, vuoto il petto di sorgenti di lacrime, tristi pensieri volgendo, sedevano sul giallo scoglio, sui gradini di marmo del palazzo, che Tiberio, il demone di Capri, un giorno si fabbricò cingendolo di magnifiche colonne, da' cui piedistalli scintillanti intorno alla scala si specchiavano giù nel mare immagini di numi tacite e severe.[11] Colà li trovò il vecchio, ei venne inerpicandosi per l'erta della riva e subito, come un uomo del quale lo sguardo precursore della parola accenni a qualcosa di triste, Serapione cominciò perplesso in tali accenti: «Infelici, oh che cosa debbo io ora riferirvi? come potrò riuscire ad esprimervi tutto ciò con parole? Un ammasso di polvere è diventata Pompei, inghiottita la città e sotterrata anche la sua gente! Nè il padre, nè la casa, nè gli amici, nè la patria sperate di vedere; l'inarcantesi terra tutti insieme li ricopre. Ahimè! nessun occhio li vide, e chi è sfuggito alla rovina dice che è morto Arrio, e morto anche Pansa ed è morto anche Ismeno! Chi discerne fra i molti che perirono? Da ogni parte imperversa la distruzione ed il caos, sembra che tutto sia una fossa sola. Le macerie coprono colà il paese sfigurato come con le onde fangose del Nilo. Plumbei si elevano gli ammassi della lava rappresa; monti vomitati dal monte seppellirono i campi e le città, e la terra fusa indurisce selvaggia, orribilmente compressa nelle sue zolle. E d'intorno deserto; un pantano di zolfo, un indicibile ammasso a strati di cenere e sabbia e frane e frantumi infiniti! La città precipitò nel profondo del Tartaro senza lasciare alcuna traccia; così del Vesuvio si distese su di essa un lenzuolo di polvere e una nera coltre di cenere, che non un tempio si scerneva, non il teatro, non la piazza, neanche una casa. Ma qua e là dal flutto di cenere un dorico capitello sporgeva il suo capo tentennante come un ebbro, e si vedeva l'orlo merlato d'una torre infranta. Ahimè! e di morti un esercito! gli uni fissi nella lava e gli altri nella sabbia, ovvero accomunati nelle onde fangose con le bestie marine, che il mare ora rivolge con raccapriccio negli orribili flutti insieme coi percossi alberi e le caviglie delle infrante navi. E il vento solleva un turbine di polvere; come nel deserto di Libia, su Pompei la cenere danza le furiose danze della morte. Napoli e Nola mandarono in fretta delle schiere di fossatori, se mai riuscisse loro di liberare qualcuno dai frantumi; ma questi uomini rimangon lì fermi, con le zappe inerti ai loro piedi, pieni di orrore e guardano la nera campagna flegrea. E come i corvi d'autunno riempiono di strida il terreno dissodato, accoccolandosi a stuolo, così seggono colà le donne gemendo fra i rottami, con monotone grida, e versano sul loro capo la polvere solfurea. Il dolore, segugio della morte, manda alti gemiti colà e cerca la via nella cenere ammonticchiata; la fame con lucente sguardo gironza intorno e fruga tra i rottami con urlante delirio. Oh come basterà la parola ad esprimere tutto ciò? Intorno al grazioso golfo ora la morte intreccia nere ghirlande; anche altre città caddero; caddero Ercolano ed Oplonti,[12] Stabia è coperta dalla notte. Da che la terra popolata uscì fuori del caos, giammai occhio mortale vide così violenta ed orrida distruzione! Cessate, deh, cessate dal lamentarvi! nessun dolore può misurare questi abissi vertiginosi e senza fondo. Muto sta l'uomo innanzi all'opera dei celesti, compreso di stupore e d'irresolutezza, e lascia compiere ciò che non può arrivare mai a capire. Lasciate che i morti riposino tranquilli e che il padre dorma nella sepoltura della casa, beati loro che non videro la caduta e lo squallore di Pompei, perchè un demone del cielo li rapì di mezzo alla festa».

Così il vecchio. Ancora alto gridava il giovanetto Ion con voce risuonante e con volto nascosto amaramente sospirava. Ma Ione, con le mani tese verso la sponda azzurro-velata di Pompei, d'un volto simile alla morte, rabbrividito e pallido, sparsa sul petto la chioma fluente, stava ferma a guardare nel mare, finchè le braccia non le si piegarono per istanchezza ed il capo non s'appoggiò alla spalla dell'amico Euforione, il quale sollevò per mano dal suolo anche il fanciullo.

E intenerito vide il vecchio come le giovani figure legasse insieme la catena del dolore e la catena dell'amore. E a lungo esse rimasero così silenziose nell'ansimante dolore e contemplarono malinconicamente la vita, quando a un tratto il vecchio proruppe: «Ben vede oggi il sole della trasformazione tante cose che i popoli istituirono, le età consolidarono, la repentina morte disciolse. Il povero ora si unisce al ricco e il signore chiama fratello lo schiavo. Che sono i desiderî degli uomini e che è mai l'affaticarsi per il futuro? Che cosa è il tuo dolore, o Euforione, che poco fa scagliasti selvaggiamente contro il cielo per una meschina figura di argilla? Ecco, Pompei giace nella polvere frantumata, rotta come un vaso che un fanciullo scherzando getta giù dal piedistallo. Ora vi abitano le larve e striscia pei muti palagi il verme schifoso, sedendo sull'oro e sulla seta di Tiro. E la notte eterna copre le preziose meraviglie della bellezza. Così come i ciottoli della roccia, il tempo rotola costantemente le opere degli uomini, schernendo i figli di Prometeo che, poveri creatori, formano polvere dalla polvere. I nipoti ereditano le macerie e la posterità dolente raccoglie anche la più sublime azione come un rottame di mezzo ai frantumi».

A ciò subito levò il capo il Greco e disse con commozione: «Ben dicesti tu il vero! Un sol minuto basta a dileggiare i nostri titanici dolori e i più eccelsi sensi divini, giacchè anche dietro la mano e l'opera di Fidia stava un giorno motteggiando la morte e placidamente si prendeva gioco dei rottami in cui quella si sarebbe ridotta. Pure tutto ciò che nel petto aspira con forte desiderio alla luce, ciò che tende all'immortale con la lieta brama del creare, o vecchio, non è un soffio della dileguantesi ora mortale! Cadono le città e i popoli, muoiono le opere degli uomini, ma rimane il potere dell'arte ed il lavoro che redime; i quali, sacerdoti celesti della luce e della libertà, peregrinano come messi andando dai padri alla vegnente generazione dei nepoti. E l'uomo si rinnova eternamente, ammassa opere su opere, attendendo pacifico alla perfezione del fiore della terra, con santa umiltà. Così io la penso, e quantunque ancora l'anima mi stilli di morte, pure mi è rimasta la forza e la brama infinita dell'operare. Anche a me han distrutta i celesti l'officina e le opere, e nel medesimo tempo il dubbio ed i miei piccoli dolori puerili. Eternamente adunque le macerie coprirono le opere dell'apprendista, per sempre quelle figure del sogno e della brama che lottava con energia giovanile. Ma come quando nella vampa del Vesuvio io tuffai l'anima, sì che essa, liberata dalla scoria della pesante materia e purificata dalla torbida miscela, tende ora alle vette apriche, così io son divenuto, così mi sento rinnovato, così ringagliardito dentro di me».

E l'Egiziano guardava lieto l'insigne giovane così entusiasta, ammirando com'egli, con ancora la veste di schiavo sulle vigorose forme, se ne stesse colà virilmente col capo sollevato e coperto da riccioli neri, simile al figlio di Dedalo che aveva modellato nella creta, ma più tranquillo e più grave; e l'ospite amico si compiaceva a guardare come per mano ei si tenesse la più bella fanciulla di Pompei.

«Strano, diss'egli; i celesti confondono sempre le sorti degli uomini, il flagello della Furia colpisce le teste dei potenti, mentre intorno al capo dello schiavo essa si trasforma per incantesimo in una ghirlanda. La morte diventa vita, la porta della tomba si cambia in un'eccelsa porta di trionfo! Oh te beato! Io ti esalto: come una fenice risorgesti dalla cenere di Pompei, e Iddio die' compimento a quel che tu presago modellasti. Tu sei libero e sfuggisti anche tu al labirinto della morte; io ti chiamo Dedalo ed Icaro ad un tempo, perchè i Geni ti prestarono le ali di entrambi. Oh! sollevate al cielo le mani, sollevatele in segno di ringraziamento, voi, che i celesti stessi guidarono sulle ali nella mia nave. E tu, o nobile e rassegnata fanciulla, che cosa scegli tu adesso? Non più vi sono vie per ritornare in patria; a novella vita e più grande risorgerai. Perchè colui che ha superato tali cose, ha ricevuto dalle eterne potenze una elevata destinazione, sempre più in alto nella vita. Vuoi tu andare a Roma col fratello? Colà abitano molti amici di tuo padre, o vuoi piuttosto scegliere la città di Napoli? Parla, io ti guido volentieri nella mia nave, dove desideri. Oppure comprendo esattamente quel che già presentivo, e che voi stessi ora mi date a intendere con lo sguardo e con l'unione fraterna delle mani?»

Non rispose a ciò la figlia dell'infelice Arrio, ma, immersa in profondi pensieri, abbassò lo sguardo, silenziosamente. Ed allora Euforione: «Ben hai tu presentito il vero, tu che ci fosti mandato per pilota dagli Dei, o santo ospite amico. Sì, noi veniamo teco, tu stesso l'hai predetto. Ma non come uno schiavo fuggiasco io monto a bordo della nave salvatrice, giacchè mi segue Ione, come compagna di viaggio all'uomo che essa stessa ha liberato dall'infamia della trista schiavitù. Colei che mi prometteva la vita, mi è stata ora legata dalla morte, ed il Vesuvio ci ha fuso, ohimè! le indissolubili catene. È forse un sogno? O Dei, come intendo io il subitaneo mutamento! Voi, sì, mentre io me ne sto pieno di meraviglia, mi vuotate sul capo ambedue i corni dell'abbondanza, mischiando il dolore al piacere e la morte alla vivificante salute. Oh come rimango confuso di vergogna dinanzi a voi, io che solo fra tutti soffrii meno! Io debbo sembrare ora come un misero mortale, che dai luccicanti rottami estrasse i più preziosi tesori, rubandoli ai caduti, e fu arricchito dalla prodiga morte. Perciò non so pronunziare alcuna adatta parola; mi batte il cuore nella speranza, eppure il dolore lo seppelisce in un raccapricciante silenzio. Questo solo io sento: Ione, tu vivi, e tu vivi per me, o fanciullo! E se ancora la preghiera dei vivi scende giù nell'Orco, ben udrà il padre gli ardenti voti, e si volgerà a me accennando dai campi elisi l'ombra placabile di Arrio. Lungi ora navigando sul mare noi andiamo in esilio, c'è di guida il dolore, e nel tempo stesso anche la speranza e l'amore, che di mezzo alle rovine ci costruisce di bel nuovo la patria. Poichè anche oltre il mare fiorisce incantevole la terra ospitale, anche colà risplende Eos e sorge per gli uomini d'azione anche Elio e Selene nell'amica sera».

Disse e indicò il mare e i monti luccicanti di Calabria, che dal vapore ondeggiante sollevavano la cima violacea. Lungi ridevano le onde e bello brillava il promontorio merlato della Licosa; qualche nave a vele spiegate correva giù verso il sud in una corsa beatamente alata. Ma ad Euforione sembrò come se il cielo di smeraldo risuonasse di festosi inni e come se echeggiassero di canti i rapidi flutti, che con ansante mormorio si rincorrevano sull'estesa assolata. Così stava egli commosso sulla riva crestosa di Capri, agitando la mano verso il mare porporino, mentre gli splendeva nell'occhio la celeste fiamma del desiderio.

E l'afflitta Ione sollevò il suo pallido volto e disse: «Ahimè! lungi, o amico, tu guardi, e le ali della speranza sollevano il tuo spirito coraggioso; ma nel mio petto il cuore sepolto come sotto le macerie, si è cangiato in un'urna, ripieno della cenere di morte. Io cerco vincere l'angoscia, e apprendo l'umiltà dal dolore, piegando religiosamente il mio povero capo innanzi alla triste necessità. Ma il grido del cuore, oh questo grido disperato mi ridesta sempre dal muto silenzio, ed allora mi rivolgo ai celesti domandando: ma sarà Pompei sempre coperta dalla cenere? E ritornerà mai a noi il nobile padre? Ed è per sempre sprofondato nei frantumi? E copriranno questi frantumi eternamente gli amici e le case ed anche la fiorente città? Io vivo sempre nel sogno ed orfana stendo le sospirose braccia verso la patria, verso i vani fantasmi della tomba. Perchè come sulla sabbiosa pianura il vento distrugge con la polvere per ischerno la traccia del piede frettoloso al viandante, così copre la sabbia tutta la mia vita ed i miei sensi. Tutto divenne intorno a me caos, e mi vacilla nel petto il cuore senza patria, strappato quasi alla sua ancora e spinto nell'onda del cordoglio verso il velato avvenire. Ahimè! della casa di Arrio sono questi gli unici avanzi, io e tu, Euforione, ed il piccolo Ion, a me carissimo sopra ogni altro!

Ed a ciò Ion: «O Ione ed Euforione, io ora vi amo doppiamente, perchè voi mi sembrate i genitori, essendo il padre disceso nell'Orco. Ma tosto che noi fabbricheremo la casa sulle rive del purpureo Nilo, sia essa com'era la nostra, chè non mai io dimentico la nostra abitazione, la quale s'ergeva sì bella con le colonne splendenti dell'azzurro del mare. Sabbia e frana la ricoprono, e ricoprono anche il podere e i tesori che il padre accumulò e la diligente madre raccolse. Di tutto posso consolarmi, solo non posso dimenticare i tuoi preziosi regali, o sorella, che poco fa mi portasti da Roma. Ed anche il candelabro di bronzo io piangerò, o amico; mi appare sempre agli occhi la bella figura e ripenso alle lampade scintillanti nella sala, al padre che stupito ivi sedeva ed agli amici che guardavano ammirati. Ma ora esso sen giace coperto di cenere, e nessuno attizza le incantevoli lampade, allietandosi del loro scintillio. Si affrettò subito un demone a trarlo giù nel profondo dell'Orco, fra le lare, per la regina Persefone, dove ora sta accanto al trono e illumina le orride tenebre».

«Lo ricopra pure la polvere, rispose sorridendo Euforione, e sia ora lampada sepolcrale per Arrio e per tutti gli amici: ormai mi ha già bell'è compiuto il destino. Esso era per me l'araldo della luce, un amico salvatore dell'amore; e un tempo, quando saranno trascorse le età e molte generazioni di uomini, quando noi tutti saremo dispersi coperti dalla polvere, i posteri lo ritroveranno; allora dinanzi ai tardi nepoti esso starà come uno straniero e un divino mistero. Ma forse un uomo, un osservatore, lo contemplerà, e con malinconia dirà allora: di chi erano le mani, le preziose mani che ne intesserono le forme e quali sensi commovevano il maestro, quando nell'officina modellava il lampadaro dedalico? Per chi esso infiammò e illuminò l'anima innamorata? Ed allora il mio bronzo racconterà a questo nipote stupefatto anche il destino di Pompei e la nostra storia passionale.

«Ma io stesso, soggiunse il fanciullo, apprenderò subito da te a modellare il bronzo, perchè anch'io diventi maestro di plastica, che ognuno onori ed ammiri con lode e celebrazione. Bello mi sembra pure che l'uomo si eserciti in tutto ciò che nessun destino, nessuna improvvisa distruzione può strappargli. Noi, ahimè, i figli del benestante Arrio siamo adesso come i più poveri del popolo, che sulla via polverosa chiedono l'elemosina. Ma tu unico e solo rimani ricco, tu porti teco tutti i beni, l'arte che rende felice il mortale ed il lavoro che crea e che ora nutrirà anche noi, orfani smarriti». Così disse il grazioso fanciullo ed Euforione se lo sollevò al cuore, lo strinse dolcemente al petto e guardò nel cielo commosso.

«Bene, gridò subito Ione, bene ci siamo noi scambiata la propria forma della felicità. Prima io stava altera e piena di splendore, e mi pareva che nessun desiderio soddisfatto mi bastasse, per quanto fossi circondata di ogni cura. E riuscii ad ottenere che la mia bocca potesse liberarti, o caro. Ma dei doni, o amico, che per l'innanzi offriva la figlia di Arrio per rendere gli uomini felici, questo, ahimè, era l'ultimo ed il più bello. Io son povera adesso, il mio tesoro d'un tempo è ora soltanto affanno e cordoglio. Mai tacerà questo immortale dolore, per quanti anni possano scorrere, perchè, dovunque io sia, la mia anima sarà rivolta alla tomba dei perduti amici, e dovrò piangere il padre e sempre piangere Pompei. Ma tu quale un celeste donatore mi porgi la salvezza. E come saprò io esprimerti i sensi del mio cuore che palpita? Poichè, come finalmente appare al nocchiero, sbattuto dalla tempesta, la più propizia pace nel porto, così tu sei per me il rifugio del dolore. Noi siamo tuoi, noi veniamo con te; ciò che oltre il mare lontano Iddio ci prepara, noi ce lo prenderemo con un amore operoso. Ed ora vieni, il mio cuore si strugge dal desiderio della partenza. E già satura di dolore io voglio piangere me stessa nella polvere di Pompei, poi prendici tutti, o vecchio, e facci viaggiare sulla tua nave amica ed ospitale».

Odi! e risuonò dalla spiaggia un canto, l'allegro e giulivo saluto del mare. Dalla nave rabberciata gridarono su verso la roccia i figli del Nilo, sollecitando il vecchio; dall'albero di abete sventolavano le banderuole, nel nord-ovest le bandiere fluttuavano e a bordo pendevano le corone d'ulivo e i rami dei sacri pini.

«Orsù! disse l'Egiziano, perchè lì basso la solerte ciurma mi chiama con strepito e si apparecchia a partire. L'animo di tutti aspira con ardente desiderio alla patria sicura. Affrettatevi dunque e calmate l'ansia affannosa del petto, o partenti, che è sempre dolce il piangere, dolce il dolore di ogni partenza; ma di là al capo di Pallade io mi fermo, finchè voi torniate a casa dai ruderi di Pompei. Alcuni giorni io vi permetto di restare colà per informarvi degli amici, ovvero per prendere delle disposizioni, nel caso che vi siano rimasti migratori, che il medesimo destino discaccia dal patrio lido. Io mi reco a dedicare qualche pia offerta nel tempio, com'è costume dei naviganti, perchè favorevole gli Dei ci mandino il vento da far vela e ci spingano la nave verso il divino Nilo, dove in un'agiata casa i miei vi tratteranno con ogni sorta di premure, finchè Pallade in seguito non vi erigerà la propria abitazione. Ma tosto che sarò a casa, mi farò dipingere da un pittore, che ben ne esegua il lavoro con arte, due preziosi quadri, indove si ammirino la città sprofondantesi col monte che vomita fiamme e la mia nave, così come i celesti me l'hanno tratta fuori dal gorgo vorticoso. Io voglio ch'ei ben mi riproduca questi quadri, e l'uno consacrerò colà nel tempio di Minerva, l'altro nel tempio d'Iside, dov'esso si eleva alto presso Canopo sulla gialliccia pianura di sabbia».

E qui discesero la sassosa scala del palazzo, che s'incurvava a mo' di porto intorno ai rossi scogli dell'isola. Lento seguiva il vecchio; tenendosi per mano, i due scendevano, e innanzi a loro saltellava rapido il roseo fanciullo, simile nell'elegante figura al ricciuto Amore, che guida gl'innamorati nell'azzurra lontananza della vita.

Subito saliron sulla barca, che rapida corse verso la riva di Pompei fendendo coi remi i tersi flutti. Ma la nave di Serapione passò fremendo lo stretto di Capri, e ben presto approdò presso il bel tempio di Minerva che s'innalzava accanto al lido del mare coi luccicanti merli, segnale al nocchiero e sacro e da tutti onorato fin da tempo immemorabile. Lo fondarono i coloni di Tafo, quando dalla terra ellenica veleggiarono per edificare sulla spiaggia di Napoli e nei campi di Cuma. E molti doni che per riconoscenza i nocchieri piamente consacrarono colà come offerte, vasi di bronzo, ornamenti di bionda ambra e tavole votive dipinte per l'improvviso scampo, si vedevano intorno nel tempio accumulati presso ogni altare. Molti ve ne consacrò il vecchio, distribuendo ai sacerdoti ricchi doni di oro e preziosi drappi di festa.

Erano già passati otto giorni; quando però giunse il nono e trascorse e già Elio tramontava in sulla sera, ecco, la barca si allontanò dal lido di Pompei. Con una gagliarda corsa passò daccanto agli scogli dell'alta Sorrento e Serapione la vide con piacere accostarsi. Euforione sorreggeva tra le mani la curva urna di bella forma campana, che lungi risplendeva rossa, di luccicante argilla ed ornata di leggiadre figure. Perchè della sacra cenere di Pompei Ione vi aveva dentro raccolto la polvere, qual funebre ricordo della patria. E adesso invece dei lari, invece del fuoco del focolare, presero seco la polvere nell'orciuolo, per metterlo un giorno nella nuova patria, religiosamente, come segnacolo della propria abitazione.

Serapione con gioia guidò subito sulla sua nave gl'innamorati, perchè più gagliardo spirava il vento di ponente col fresco della sera. I bruni figli dell'Egitto sollevarono ora le ancore pieni di desiderio, mentre il vento riempiva e gonfiava le vele. E la nera nave prese la corsa come il migrante Ibi.

Era già sera: il sole già tramontava di là alla roccia lungisplendente di Ponza, svanendo in un vapore di porpora con magnificenza e grandezza, come si spegne la vita dei popoli e delle età, spargendo sulla tarda generazione ancora un chiarore crepuscolare. Sempre più calma diveniva la terra, e già si spegnevano i monti di Sorrento e di là già si offuscava dolcemente e impallidiva l'alto Vesuvio. Ed essi sedevano a bordo tenendosi per mano e guardavano indietro placidamente, finchè disparve ai loro occhi la patria sepolta.

«Addio, Pompei! Addio o sacre tombe!» Così gridavano da bordo Ione, Euforione, Ion. «Addio, Pompei!» e correva fremendo il naviglio lontano e sempre più lontano nella vita. E scese la notte, magnifico scintillava a ponente Espero, e le Ore celesti accesero subito nell'azzurro la lampada degli Dei Orione, mentre le stelle dal cielo con dolce scintillio mandavano giù sulla nave i loro raggi benigni.

NOTA DELL'AUTORE

Il candelabro, che forma il nucleo di questo poemetto, fu, com'è noto, scavato nella casa di Arrio Diomede. Ora si trova al Museo di Napoli. Io l'ho rifatto alquanto in ciò che costituisce l'essenziale di questi canti, attribuendogli lampade di mia propria invenzione. Quelle che gli sono appiccicate nel Museo sono altrimenti conformate; l'una è senza figure, l'altra è adorna di due aquile, la terza presenta una figura di toro a metà e alla quarta infine servono come anse d'ornamento due delfini. Mi si vorrà scusare, quando si saprà che queste lampade non appartenevano originariamente al candelabro, ma gli sono state appiccate ad arbitrio. Le lampade primitive non si ritrovarono.

La figura del grazioso bronzo si trova nella Collezione del Museo Borbonico, e il lettore non si annoi della dolce fatica di scartabellare in quei volumi, finchè non l'avrà trovato. Egli sarà per lo meno largamente rimunerato dalla quantità dei magnifici oggetti, dovesse anche affaticarvisi intorno.

Coloro che hanno visitato la Pompei di oggi, non si meraviglino che io abbia avvicinato il mare alle mura dell'antica città, poichè così era il suo letto alla foce del Sarno, mentre dagli odierni avanzi di Pompei il mare s'è ritirato d'un miglio in seguito al riempimento di cenere, di lapillo e di lava. Del porto di Pompei parlano Floro, Livio e Strabone; esso serviva di emporio anche a Nola, a Nocera e ad Acerra.

L'antico nome dell'isola d'Ischia era Enaria; io però (alla fine del I Canto) ho conservato il nome odierno perchè più facilmente s'intendesse.

Da ultimo ricordo che nella casa di Arrio Diomede, ancor sempre la più bella di quelle finora scavate, sono stati ritrovati più di trenta scheletri. Di questi diciotto si scoprirono nella galleria sotterranea, uomini, donne e fanciulli: essi tutti avevano il volto coperto d'un panno, segno questo di abbandono e di rassegnazione. Presso di loro si ritrovarono collane, anelli, gemme e monete. Si scoprì il padrone di casa accanto ad uno schiavo, presso la porta che conduceva alla campagna: teneva una chiave in mano, mentre lo schiavo aveva preso con sè molte monete di oro in un sacchetto di tela con l'effige di Nerone, di Vespasiano e di Tito, e molte altre di argento e di rame. Pochi anni da che erano stati scritti questi canti, il signor Fiorelli, direttore degli scavi di Pompei, fece meravigliare il mondo con alcune immagini vere e proprie di Pompeiani che nella catastrofe avevano trovato la morte nella cenere. Egli le trasse alla luce del giorno con un metodo per quanto semplice altrettanto geniale, versando del gesso nelle incavature che le loro carni avevano lasciato sotto la cenere rappresa. Così egli ottenne solidamente rappresentate come impronte plastiche le figure di quegli infelici e il momento stesso e perfino l'espressione della morte. Chi vide queste statue, le più meravigliose fra tutte quelle che il mondo possiede, le avrà osservate non senza profonda commozione, poichè quello di cui solo la fantasia del poeta può dare un'idea, ei vide in piena e materiale naturalezza e realtà e come un testimonio del momento.

Al lettore sarà nota la descrizione dell'eruzione del Vesuvio in Plinio e Dione, e innanzi tutto egli si ricorderà degli Ultimi giorni di Pompei del Bulwer. Una estesa descrizione di questa catastrofe non fu toccata in questo poemetto, ed io ho lasciato alla Musa d'imitare quasi l'esempio di quegl'infelici nella cripta della casa di Arrio Diomede; poichè, incominciando a cadere la spaventevole pioggia di cenere, essa si copre il volto presso il rovesciato candelabro ovvero le lampade di Euforione, probabilmente per timore di essere soffocata, o almeno per una disperazione e rassegnazione più moderna che antica.

INDICE

Notizie sull'Autore Pag. 3

Girgenti 11

I canti popolari siciliani 69

Euphorion (Poemetto pompeiano)

Prolusione del Traduttore 119

Canto I. Oneiro 131

Canto II. Amore e Psiche 157

Canto III. Pallade Atena 177

Canto IV. Tanato ed Eirene 205

Nota dell'Autore 231

NOTE:

1. Canti popolari siciliani, raccolti ed illustrati da Leonardo Vigo, Catania 1857.2. Questo splendido luogo ha alcune particolarità di linguaggio che meritano d'essere notate. Mentre tutto intorno il popolo dice domani, a Capranica dice crai (da cras ) ed invece di dopodomani, biscrai.3. Cfr. Wieland negli Abderiti.4. Evidentemente quando il Gregorovius visitava Pompei e con l'anima di artista interrogava i ruderi della civiltà passata, la casa più bella ed elegante che colpisse l'immaginazione e la fantasia del visitatore, era quella del liberto M. Arrio Diomede, posta in capo al villaggio suburbano Augusto Felice. Difatti, quel grande quadrato bislungo, scavato in tufo bigio ed in pietre vulcaniche, che racchiudeva un vago giardino, un vestibolo dalle 14 colonne doriche, e portici e terme e quanto si può immaginare di più sfarzoso ed abbagliante per soddisfare alla umana ambizione, offre tuttora allo sguardo uno spettacolo assai grandioso.

Se non che, oggidì, un'altra casa, da cui, certamente, il Gregorovius avrebbe saputo attingere la sua materia di ispirazione per una scena idillica o qualcosa di simile, gli contende, a giusta ragione, il primato. È l'abitazione di una famiglia di Vettii, venuta fuori alla luce negli scavi del 1894-95, che occupa il lato sud dell'isola adiacente dal lato est a quella della casa « del Laberinto ». Ricca di decorazioni e pitture dell'ultimo stile, fatte con gusto squisito e con finezza di particolari; adorna di candidi marmi che paiono ancora animarla; ricinta d'un peristilio unico nel suo genere per la gran copia di sculture figurate ed ornamentali conservateci; fornita d'ogni sorta di comodità che l'arte e l'ingegno sanno escogitare per rendere più delizioso ed ameno il soggiorno dei mortali, essa desta un interesse ben più grande delle altre e supera, sotto vari aspetti, quella di Diomede, che lo storico insigne scelse a teatro delle gesta amorose del suo Euforione.

Chi desideri ampie e dettagliate notizie di questa importante scoperta, legga la dotta relazione del Mau inserita nelle Mittheilungen des Kaiserliches Deutsches Archeologischen Instituts, Roem. Abtheilung. Bd. XI 1896, e la descrizione riccamente illustrata che ne fa il prof. Sogliano nei Monumenti antichi della Accademia dei Lincei. ( N. d. T. )

5. L'immagine della vite come quella della pantera si può dire non iscompagnino quasi mai la figurazione di Dionisio o Bacco nelle pitture pompeiane. Così, per citarne un esempio, nella stessa casa dei Vettii, il dio del vino, secondo l'intenzione dell'artista che ha voluto riprodurre il trionfo di Dionisio, s'incontra sdraiato sopra un carro a quattro ruote in guisa di dischi tirato da due caproni, sul quale è stata messa sopra una pelle di pantera una kline senza piedi col basso fulcro avanti. E altrove, nel gruppo di Bacco ed Arianna, il primo è vestito di nebride e di una veste paonazza svolazzante dietro la schiena, con stivali alti ai piedi e lungo tirso sulla spalla destra ed è coronato di vite.

Del resto, in tutte le antiche rappresentazioni mitologiche, Bacco si dipinge qual fresco e rubicondo giovane (il puer aeternus ovidiano) con bionda capigliatura, una corona di ellera sulle chiome, con pelle di pantera cascante sugli omeri, assiso sopra un cocchio a guisa di botte tirato da tigri o da pantere, mostrando in una mano una bacchetta cinta di pampini di vite (tirso) e nell'altra additando grappoli di uva matura. Di qui le Baccanti nelle solennità religiose in onore del nume si adornavano del pari della pelle di tigre e del tirso. ( N. d. T. )

6. Di consueto, in quasi tutti gli scritti intorno ad Esopo, si dipinge il favolista come un mostro di bruttezza, dalla statura piccola e deforme; ma, molto probabilmente, questa pittura va dovuta anche all'ingegno bislacco di quel monaco di Costantinopoli, che visse verso la metà del secolo XIV, e che per il primo premise alla collezione delle favole esopiane una biografia, nella quale volle accozzare alcuni fatti, la maggior parte di una falsità stravagante e puerile. ( N. d. T. )7. Giova qui riassumere i criteri fondamentali su cui poggia la teoria estetica dell'arte del Gregorovius.

L'arte non è fine a sè stessa; la formula l'arte per l'arte è un non senso. L'arte, non animata dal soffio di nobili idealità, non ha valore alcuno. Essa invece, quando seconda gl'impulsi generosi del cuore o i palpiti ardenti di un ideale, sublima l'individuo, lo trasporta in una beata contemplazione di gloria e di amore, gli prolunga ed abbellisce la vita. Come, sotto l'impressione di un forte dolore, l'animo umano è capace di attingere dal dolore stesso una gagliarda virtù; così, individuandosi il soggettivo artistico in una passione, l'opera d'arte verrà fuori più eloquente e suggestiva, se passata per il filtro delle sofferenze morali.

All'arte va congiunta la più grande e nobile missione umana: non solo solleva lo spirito, infondendogli entusiasmo e vigoria e quasi indiandolo, ma ancora lo distriga dagli abietti ceppi del giogo, lo redime dall'opprimente servitù, gli dona quella libertà, nel cui seno è il segreto delle più eccelse cose. La libertà è infatti il suggello e la consacrazione delle opere: per essa le opere ricevono uno stampo durevole di forza e bellezza, per essa l'alato genio vi proietta sopra i suoi sprazzi di luce.

L'arte poi non è soltanto quella che noi ammiriamo riflessa e come emanante da una statua di Giove olimpico, grave e maestoso seduto sul trono: anche un candelabro, una brocca orlata di figure, che servono agli usi quotidiani della vita, entrano nei dominî dell'arte, purchè la mano che li modellò sia stata mossa e diretta da una generosa passione, da un plausibile intento. Gli è che il fine dell'arte non consiste tanto nel dilettare, quanto nel riuscire utile in qualche cosa: essa infatti, più che parlare e sedurre i sensi, deve conquidere i cuori; il concetto del bene dev'essere contemperato e frammisto in larga misura all'altro del bello.

In fondo, la teoria artistica del Gregorovius è calcata sulla dottrina di quegli esteti, i quali sostengono a buon dritto che il principio in arte libertas debba intendersi con una certa discrezione, e che le arti produttive del bello debbano essere subordinate al sentimento morale e religioso dell'ambiente. Senza dubbio l'arte deve muovere gli affetti, e muoverli in modo che arrechi piacere; ma questo piacere fa d'uopo che sia per essa più mezzo che fine. Inoltre, l'arte sarà vera solo quando sarà utile agli uomini, ed utile quando sarà conforme alla verità, essendo questa il suo principio.

Recentemente, il prof. D'Ovidio, in un magistrale discorso all'Accademia dei Lincei, affermava, con la coscienza di chi sa di dire il vero, che quando l'opera d'arte è animata dal soffio delle più nobili idealità umane, non solo l'efficacia sua sopra i lettori ne vien moltiplicata dal fondersi quelle con le idealità propriamente estetiche, ma l'artista medesimo, se è artista davvero, n'è ringagliardito nelle sue facoltà poetiche. Ed altrove asseriva rimaner sempre che l'artista e il critico non hanno il diritto di pretendere che, mentre tutte le altre manifestazioni della vita si limitano a vicenda, l'arte sola abbia un'autonomia senza freni, che possa sprezzare ogni altro diritto.

(Cfr. L'arte per l'arte. Seduta Reale dell'Accademia dei Lincei dell'anno 1905). ( N. d. T. )

8. Anche l' Andersen, per citarne uno, nel suo grazioso e spigliato Bilderbuch ohne Bilder, tracciando un quadro della città della morte, descrive press'a poco così l'aspetto del monte sterminatore:

«Andammo al tempio di Venere, che è di marmo scintillante...; l'aria era diafana ed azzurrognola, e in fondo stava il Vesuvio nero come carbone, dal quale si elevava il fuoco come fusto di pino; la illuminata nube di fumo giaceva nella quiete della notte come la corona del pino, ma era d'un rosso sanguigno...». ( N. d. T. )

9. Sembra quasi ascoltare l'eco della mossa lirica dell'apostrofe che il Corcia, in un capitolo su Pompei, che fa parte della sua pregevole Storia delle due Sicilie rivolge agli avanzi della dissepolta città: «O Pompeia! tu sei bella anche fra le tue rovine! Il tuo nome vivrà splendido e glorioso come quello degl'illustri sventurati; tu restituisci i tesori perduti dell'arte antica e però vivrai sempre nella memoria degli uomini!...» ( N. d. T. )10. Con i campi di Siraco, il poeta vuole qui alludere alla storica pianura di Siracusa, così detta dal nome della palude di Siraco, oggi palude di Pantano; e, forse, più particolarmente ai famosi avanzi della necropoli di Acradina, una delle cinque città murate che un tempo costituivano l'inclita ed opulenta terra dei Dionigi.

L'Acradina, che nel passato si elevava come il più florido quartiere accanto a quelli di Ortigia, Tica, Napoli ed Epipoli, non offre più oggi che cumuli di macerie frammiste a piantagioni di ulivi e di altri alberi fruttiferi, le vaste latomie o cave di pietre, ruine di bagni che portano il nome di Agatocle, ecc., oltre alle catacombe o grotte di S. Giovanni, incavate nel tufo calcareo.

Quanto poi alla fonte di Aretusa, dell'ampia piscina, cioè, di acqua dolce scorrente nella penisoletta di Ortigia, della quale favoleggiarono i poeti che comunicasse misteriosamente col fiume Alfeo d'Arcadia, la leggenda della metamorfosi che vi si riconnette, è ben nota perchè io ne faccia menzione. ( N. d. T. )

11. Sono celebri nella storia gli ozi tiberiani di Capri, la vita licenziosa che l'imperatore vi menò per ben sette anni, dimentico dei pubblici affari, le orgie, le gozzoviglie e gl'infami piaceri a cui si abbandonò ciecamente, dando ascolto alla voce adulatrice e perversa di Seiano e sfogando la sua libidine in ogni sorta di vizi che prima aveva mal dissimulati.

Chi voglia sapere di più, legga la triste relazione che ne fa Svetonio: è un capitolo che raccapriccia, mette i brividi al pensare fin dove possa giungere la umana depravazione!... ( N. d. T. )

12 . Oplonti era una mansione o, come oggi si dice, un luogo di fermata, che nei tempi addietro sorgeva nei pressi dell'attuale Torre dell'Annunziata . ( N. d. T. )