FERDINANDO FONTANA
1877.
A ANTONIO GHISLANZONI
SCUOLA MODERNA[1]
AD ANTONIO GHISLANZONI, DEDICANDOGLI IL LIBRO.
Alla tua nota satira Chi porse l'argomento? Forse i carmi d'un giovane Da pochi giorni spento?[2] Forse il Torso di Venere O il Düalismo ardito, Che una Musa propizia Dettava a un erudito?[3]
Non già!…. Dalle tue laudi Fu consacrato il primo; Tu lo sapesti scegliere Dal medïocre limo; [4] All'altro degli stolidi Soltanto il volgo indegno Oggi contrasta il fervido Estro e il robusto ingegno.
Forse dell' Inno a Satana[5] Ti spaventò il concetto? No!…. Che tu abborri i vincoli Che strozzan l'intelletto, E so che, quando mediti, Ti ribelli ai confini, Al pensier del filosofo Imposti dai cretini.
È ver, talora il genio Ama le forme strane, Ma il pensator sa leggere Nelle sue cifre arcane, E sa discerner l'enfasi Del verso che non crea Dal balenar fantastico D'una sublime idea.
Spesso il cantor d'Ofelia, Col labbro d'uno stolto, Strambi concetti mormora Ed è di nebbie avvolto, Ma sempre, come folgore Che irradia la tempesta, Risplende tra le nebbie L'olimpica sua testa….
Evvia!…. se qualche Bécero, Nelle invalide carte, Pallia coll'artificio La mancanza dell'arte; Se con grottesche immagini Pochi grulli impotenti Cercano un vieto elogio A mal composte menti;
Se nella solitudine Dove ti sei rinchiuso È giunto qualche cantico Di giovinetto illuso. Se un impudente o un ebete Parlando in metro oscuro S'imbranca colle vecchie Che dicono il futuro;
Deh!…. non armar la cetera Colla mordente corda! Carni di imbelli vittime Il verso tuo non morda! Frena, romito Antonio, La beffarda parola; Non dir che pochi stolidi Son la moderna scuola!
Serba ai pedanti, agli arcadi, Lo scherno e l'ironia; Taglia pei dorsi elastici Le vesti in parodia; Non fornir armi ai deboli Che temono di noi E che verranno a irriderci Cantando i versi tuoi.
Pensa che ai pochi giovani, Che vedon l'ardua meta, Il ben d'un raro plauso I grami giorni allieta…. E che il maggior cordoglio Che contristi i gagliardi È di sentirsi mettere Col volgo dei codardi.
[1] Questi versi vennero già pubblicati in risposta ad una poesia del signor Ghislanzoni, dallo stesso titolo, nella quale l'egregio umorista avea preso a far la satira di certi sedicenti innovatori letterarii. Più die a rispondere al signor Ghislanzoni, questi versi intendevano a metter in chiaro la differenza che passa fra costoro e quelli che operano con vero ingegno.
[2] Emilio Praga.
[3] Due splendide liriche di Arrigo Boito.
[4] Il Ghislanzoni fu il primo che incoraggiò l'ingegno di Praga. Quando questi pubblicò la sua Tavolozza, l'eminente critico, parlandone in un giornale cittadino, dava principio al suo articolo colle seguenti parole: " Finalmente, abbiamo un poeta. "
[5] L' Inno a Satana, di Giosuè Carducci.
LIRICHE
PREFAZIONE AI MIEI VERSI
Esser pöeti è legger nei futuri Giorni; è spaziar nel cielo delle indagini Condannate dai timidi cervelli; Esser pöeti o sentirsi maturi Quando nel sangue bollono i vent'anmi; È ridere di tutto, esser ribelli Alla gloria e agli affanni.
Esser pöeti è librarsi giganti Sull'universo e, in sè raccolti, vivere Animati da incognita scintilla; È accogliere del par sorrisi e pianti, Inni e bestemmie, rantoli e vagiti; È scrutar con impavida pupilla I misteri infiniti;
È piangere col vinto e coll'afflitto, Nè al forte, al vincitor, negare il plauso, Nè armar la cetra d'una corda sola; È comprender la colpa ed il delitto, Laudando il sacrifìcio e l'innocenza; È cantar tra un bicchiero e una carola Il chiostro e l'astinenza.
Prisma novello, col pensiero, i mille Raggi dell'universo in sè raccogliere E mutarli in cadenze e in armonie; Poi fra le genti seminar scintille, Fatali incendi suscitando intorno, Turbando il cranio alle persone pie… O illudendole un giorno!
Esser pöeti è salir sovra un monte, Di notte, quando il ciel di stelle è fulgido, E, in estasi, esclamar: "Credo! V'è un Dio!" E inginocchiarsi, e chinare la fronte, Ripieno il cor di mistica paura… Poscia negarlo o metterlo in oblio Discesi alla pianura!
Esser pöeti è viver d'illusioni Che sull'Eterno Nulla il piede appoggiano; È celiar con sè stessi e con coloro Che vi sanno ammirar nelle canzoni; È accettare, negando, il Bene e il Male; È desiare la miseria e l'oro, La reggia e l'ospedale.
Esser pöeti è tentar l'ocëano Della vita; è svelarlo; è, ansanti, correre Dietro un caro idëal…. cui non si crede! È comprender del tutto il nulla arcano, E, d'ogni cosa quaggiù disperando, Trovare ancora entusïasmo e fede Per vivere cantando.
Esser pöeti è abbandonarsi ai sensi; È compendiare un secolo in un distico; È mutar l'alimento del mattino, A vespro giunti, in voli eccelsi, immensi…. E, invero, questi versi sono usciti Dalle vivande o dal preteso vino Che l'oste m'ha imbanditi.
LA FORMA E L'IDEA
(A EMILIO PRAGA)
La forma son le tenebre, E la luce è l'Idea; La Forma è il rito, il simbolo Del pensiero che crea; Il pensiero è l'Iehova Dei veggenti profeti Che parla dai roveti., E la Forma è Gesù. La Forma è la parabola, La Forma è il pane, è il vino, È l'orto, il bacio, il Golgota, È la Croce, è Longino; E il pensiero è l'assiduo Svolgersi del crëato, Cui spiegar non è dato Alle menti quaggiù!
Eterna lotta!…. Scorgere L'Idea!…. Vedere il sole!… E disperar d'esprimerlo Con possenti parole! Nelle affannose veglie Concepir l'universo…. E alla foga del verso Non saperlo svelar! Dietro un fatal connubio Il cervello si stanca!…. Giunge lo sposo al tempio, Ma la sposa vi manca; Egli, il Pensiero, l'évoca Colla voce pietosa…. Ma la Forma, la sposa, Non si reca all'altar.
Ahi!…. Talora nel cranio, Indarno affaticato, Disperando, un terribile Dubbio m'è balenato! Pensai che forse esistono Idee sì vaghe e arcane Che invan le menti umane S'attentano a scolpir! Forse passò fra gli uomini Il sommo dei pöeti Fra la schiera dei mutoli E degli analfabeti…. E, forse, il suo silenzio Fu incompresa epopea, In cui sfuggì l'Idea Della Forma il martîr!
Ah!…. Perché, dunque, struggerti, O povero cervello? Contro la Forma, il despota, Sorgi, schiavo rubello! Non ti curar degli uomini! Vivi in te stesso e pensa!…. La tua melòde immensa Non rivelar che a te! Chiuso nel tuo silenzio Ogni idïoma oblia! Del tempo e dello spazio Comprendi l'armonia! Ogni idïoma e frivolo A esprimer l'Universo! Nato a servire un verso Il mio pensier non è!!
Evvia!…. Sorridi, Emilio!…. Sorge nel Ciel l'aurora, E, solitario, io vigilo Sulle mie carte ancora! Stolto!…. Giuro il silenzio, E ti favello intanto!…. Stolto!…. E rileggo il canto Che la mia man notò! Emilio, io voglio illudermi! Sono troppo felice! Mi risveglio da un'estasi E il pensiero mi dice: "Stretto è il fatal connubio! "Chiudi gli occhi e riposa…. "Questa notte la sposa "All'altar si recò…."
Milano, giugno 1875.
NOJA LETTERARIA
Favello a voi, cui ferve la scintilla Dei febbrili entusiasmi nel cervello; Favello a voi, dentro il cui sguardo brilla La balda gioja d'un pensier novello!
Favello a voi, che, frammezzo alle genti, Vecchi a vent'anni, in silenzio passate, Colla pupilla vólta ai firmamenti E colle mani alle reni appoggiate.
Favello a voi, cui nota è l'armonia D'ogni cosa creata, e cui son noti Cogli entusiasmi la melanconia E gli sconforti; a voi favello, iloti,
Dannati a conservar la stessa creta Leggendo dentro ai secoli venturi; Dannati a scorger la splendida meta Dietro le grate di carceri oscuri!
Favello a voi, per cui dolore e gioja, Pari al lampo, non duran che un istante, E che desiate, per fuggir la noja, Un'angoscia od un gaudio incessante;
Favello a voi, che vivete com'ebri D'un arcano licor sovra la terra, Ed avete un uncino nei cerébri Che l'Universo nei suoi moti afferra!
Noi siam mendíchi, a cui la gente antica Le briciole lasciò di lauta mensa; Viviam di stenti e il genio s'affatica Dietro una turba di fantasmi immensa.
Gli antichi Numi, ispirator dei carmi, Son morti nel sogghigno universale; La Natura ci annoja; il suon dell'armi Ne spaventa; ridiam dell'idëale;
L'amore è un campo in cui non resta zolla Da fecondare; senza scrosci è l'ira; Il nostro corpo e una corteccia frolla, Mentre la mente a nuovi cieli aspira.
E nuovi cieli, splendidi, profondi Come lo spazio, immaginar n'è dato…. Ma dall'estasi, a cui traggonci i mondi Senza cifra, un poëta non è nato!
I nostri canti son feti già morti; Sono la serpe che la coda addenta; Son l'urna ove troviam pochi conforti E la febbre che i giorni ne tormenta.
Noi li cantiamo a noi stessi soltanto, E all'ultimo levita siamo eguali, Che, derelitto nel suo tempio santo, Celebrerà da solo i ritüali….
E non ci resta che cingere i fianchi Col bigiastro mantel del pellegrino, E correre la terra erranti e stanchi, E abbandonarci ad un pazzo cammino….
Milano, luglio 1875.
LETTERATURA DISONESTA
A CESARE TRONCONI [1].
Que la muse, brisant le luth des courtisanes, Fasse vibrer sans peur l'air de la liberté; Qu'elle marche pieds nuds, comme la verité. ALF. DI MUSSET.
Dunque perchè le pagine Noi modelliam sul vero; Perchè neghiam di battere Ogni volgar sentiero; Perchè volgiamo intrepidi Le pensierose fronti Alla più vasta cerchia Di splendidi orizzonti;
Dunque perchè l'indagine I nostri libri ispira; Perchè i costumi ipocriti Ci fanno schifo ed ira; Perchè, toccando l'ulceri, La nostra man non trema. D'insultatori un popolo Ci scaglia l'anatema!?
Scosso all'ingiusto oltraggio, Tu ti contristi e piangi: Nelle dolenti veglie Fremi e la penna infrangi; E, forse, al melanconico Ingegno tuo tu chiedi Se un mondo immaginario È quel che ascolti e vedi!
Me pur gli insulti colsero Dei grulli e dei perversi, E, inesperto degli uomini, Un tempo anch'io soffersi.. Allor pensai che inutile Pazzia sono i miei canti, Che un vano desiderio È il vincere i pedanti!
E mi tentò, nell'aride Mie notti d'apatia, La vile idea di scegliere Men faticosa via; E, a tesser panegirici Alla Morale e a Dio, Nel branco delle pecore Giurai d'entrare anch'io!
Evvia!…. Sorridi!…. Il fascino Della verace Musa Venne a guarir l'insania Della mia mente ottusa! E da quel giorno, libero Da ogni dubbio codardo, Contro i melensi e gli Arcadi Io sursi più gagliardo!
E il temerario oltraggio Come una celia accolsi, E l'amarezza inutile Nella risata io sciolsi; E i profili ridicoli Di grotteschi figuri Della mia stanza vennero A popolare i muri.
Una lanterna magica Mi rallegrò le notti; E vidi volti d'ùpupa. Ventri che parean botti, E smisurate orecchie, E code smisurate, E uno stuolo di scimmie Da artisti camuffate.
Imitando dei chierici La vieta filastrocca, Tutte ad insulse nenie Aprivano la bocca; E, mentre mi passavano Lentamente dinanti, Un'eco lontanissima Ne ripeteva i canti:
"Heine e Musset son scettici "Degni dell'odio umano; "Giorgio Byron non merita "Una stretta di mano! "Con quei che il vero parlano "Non si discute mai!…. "Se sonvi error, celiamoli;…. "Correggerli?…. Giammai!
"Lasciam che il mondo seguiti "Le usanze inveterate; "Che le donne ci aizzino "A passioni dannate; "Che le fanciulle uccidano "I bambini illegali; "Che le piaghe si coprino "Con fiori e madrigali!
"L'amor del mondo è soffio…. "Ma guai chi fa all'amore! "Giusto è che i vecchi imprechino "Dei giovani al vigore! "La Società dev'essere "Il modello dell'Arte…. "Ma noi vogliamo scorgerla "Soltanto da una parte!
"Perché della famiglia "Son sante le affezioni, "Non canterem che bamboli, "Che madri in ginocchioni; "Non canterem che Sindaci "Che porgono l'anello; "Consulteremo il Codice "Per giudicare il Bello!
"Per chi dirà che esistono "Altre fonti di gioja; "Per chi dirà che a scrivere "Al par di noi si annoja; "Per chi dirà con libera "Parola un'opinione, "Invocheremo l' indice, "La Santa Inquisizione!
"Su, giovinetti!…. Facile "Strada v'abbiam dischiusa! "Crear vorreste?…. È inutile! "Deve copiar la Musa! "Deve copiare!…. E il plauso "Le largiranno tutti…. "E grideranno al genio "Babbi, mammine e putti!
"Lasciate che combattano "Per le donne gli stolti! "Esse non saran l'ultime "A graffiar loro i volti! "Le donne sono un popolo "Mansüeto di schiave…. "Non è d'un cuor di femmina "Il buon-senso la chiave!
"Su, giovinetti!…. Facile "Strada v'abbiam dischiusa! "A magri pranzi assidasi "L'indipendente Musa! "Sol nella vita pratica "Siate veristi! …. Il male, "Fatto con volto ipocrita., "Diventa più idëale!!"
Ahimè!…. Superba Lirica, L'ali su te ripiega! Non già tuonar., ma ridere Mi fe' quella congrega!…. Alle grottesche immagini Dal letto mio, celiando, Risposi, amico Cesare, Coi versi che ti mando:
"Tutto è quaggiù possibile! "Il tempo è omai passato, "In cui, fanciullo e ingenuo, "Mi son maravigliato! "Degli antichi filosofi "Or la saviezza imito; "Alla meta so incedere "Indifferente e ardito….
"E se color che insultanci "Bandissero domani "Che, per pudore, debbano "Portar le brache i cani, "Io, nel veder l'eccentrica "Innovazion morale, "Continüando a ridere, "Direi: È naturale!"
Napoli, 16 marzo 1876.
[1] Cesare Tronconi, l'autore della Passione maledetta e delle Madri… per ridere. Cesare Tronconi, il romanziere più calunniato e più vilipeso dagli spigolistri. Ripeto a bella posta il suo nome per risarcirlo in parte della guerra sleale e vigliacca mossagli da alcuni giornalisti, i quali per non dargli voga erano andati d'accordo per chiamarlo l' innominabile…. tout court.
VERITAS, VANITAS!
Una sera piovosa, äutunnale, Ora schivando il fango, ora una pozza. Io seguii la carrozza Che manda al Cimitero l'Ospedale.
Cimitero e Ospedal son buoni amici E tengono fra lor conti correnti. Davver, pochi clienti Si dan l'un l'altro tanti benefici!
L'Ospedale gli manda i suoi defunti, E il Cimiter lo paga col dolore, Che rende infermo il cuore E fa le donne e i giovinetti smunti….
L'Ospedale gli manda le sue spoglie, E il Cimiter gli manda i suoi pöeti, Che in mezzo ai sepolcreti Tentano col pensier le eterne soglie….
La carrozza che va dall'Ospedale Al Cimitero, portandovi i morti, M'ha dati più conforti Che non millanta libri di morale!
Filosofando, io le cammino allato E vo pensando a chi dentro vi giace, E, spesso, mi do pace Se per caso quel dì non ho pranzato!
La colomba che sopra v'è scolpita Par che dica, mandandomi un saluto: "Che giova esser vissuto! "Che giova il darci pena della vita!"
Or, quella sera, deposte le bare, Il negro carro era diggià partito, Ed io, come impietrito, Restai del camposanto al limitare.
Là m'inchiodava una visione strana, Di quelle che sa far soltanto il Vero, E che vede il pensiero Sol di chi studia la Commedia Umana.
Una vecchia magrissima e grinzosa S'era posta a seder sovra le bare, Ed io l'udìa cantare Una canzon con voce cavernosa.
La solinga megera, gravemente, S'accompagnava nelle note basse Battendo sulle casse Coll'ossa delle gambe macilente.
Elia diceva: "Io son la portinaja, "E sono vecchia, e di pessimo umore…. "Ma quando ero sul fiore "Degli anni, allora, ero leggiadra e gaja!
"Quanti baci, quand'ero ancor fanciulla, "Su queste spalle secche e questa bocca "Ora, bazza a chi tocca! "Io vo' morir, che non son buona a nulla!
"Forse, qui dentro, in queste casse bianche "Han chiuso qualche giovane d'allora, "Che si tolse all'aurora "Dalle mie braccia, colle membra stanche!
"Forse, a quel tempo, egli m'avrà adorata "Come a ventanni un'illusion si adora! "Il giovane d'allora "Amore, arte, piacer m'avrà chiamata!
"Chicchetussia dei mille amanti miei, "Che mi presti la bara a seggiolone, "Sappi che un'illusione "Per te, se fosti vivo, ancor sarei….
"E sarei la più triste e la più grama, "La più steril di pace e d'allegrezza, "E potrei d'amarezza, "Non più di gaudio, pagar la tua brama.
"Sappi ch'io sono ancora un'illusione, "Ma non siccome un dì bella e gioconda, "Né alla mia treccia bionda "Chiederesti il profumo e l'oblivione!
"Sappi che piangeresti in mia presenza, "Perch'io son l'illusion la più inumana; "La più caduca e vana; "L'illusion dei sepolcri: l' Esperienza!"
Agosto 1876.
LE DEMOLIZIONI
A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER.
Pietre, da tanti secoli In un bacio congiunte, Travi e barre, dall'acqua E dal sole consunte, Barcollanti casipole, Ieri viventi ancora, Oggi il Tempo vi mormora: "È giunta l'ultim'ora!"
Il Tempo!… Il triste scettico; L'êra, l'anno e l'istante; L'orco che mangia i popoli; L'impassibil quadrante; La sfinge inaccessibile; Il mistico serpente, Che afferra, eterno circolo, La sua coda col dente.
In un nembo di polvere Cadon le vecchie mura; Sembran côlte le tegole Da un'orrenda paura; Ed i balconi, vedovi D'imposte e senza vetri, Sovra i passanti guardano Come occhiaje di spetri.
Povere case!… Il rantolo Della vostra agonia Fu lungo!… Il dì novissimo Lentamente venìa! Barbari sempre, gli uomini V'han fatto i funerali, Pria che cadeste vittime Sotto i colpi mortali.
E accanto a voi scolpirono, A scherno, in questi giorni, Di fastosi palagî I superbi contorni. Ah! quei colossi risero Di voi pigmei morenti, E più amari vi fecero I fatali momenti!
Povere case!… Io vagolo A voi dintorno.—È notte. E l'ombre dalle fiaccole Rosseggianti son rotte; E, somiglianti ai demoni Cui l'eccidio conduce, I pïonieri nereggiano Sugli sprazzi di luce.
Ed io penso alla storia Delle mura cadenti; Ai drammi, alle commedie, Agli idilii innocenti Che si ordiron per secoli Nelle piccole stanze Ed impressero un marchio Sulle umane sembianze.
Ed io penso alle veglie, Alle insonnie, ai riposi, Alle fedi, alle infamie, Ai convegni amorosi, Ai sorrisi, alle lagrime, Ai dì foschi, ai dì lieti, Ai pöemi che videro Quelle quattro pareti!
Oh!… non ridete, splendide Case dai freschi ornati, Palagî da una magica Mano in un dì crëati! Or tutti a voi sorridono Con beata alterezza Ed i vostri muri spirano La balda giovinezza….
Ma verrà il dì che i posteri Vi chiameran capanne, Ed al suolo abbattendovi, Come fragili canne, Tesseranno una lirica Sovra i detriti immani…. Più caduchi edifizii Innalzando il domani!
Tu sol, bigio fantasima, Gotico tempio altero. Tu, frastaglio di guglie, Tu, gigante severo, Vedrai le metamorfosi Dei giorni che verranno, Sogghignando alla gioja, Sogghignando all'affanno!
Finchè il Tempo, il terribile Tarlo che rode il mondo, Verrà te pure a spingere Nell'abisso profondo; E forse, fra un millennio, Quivi sostando un uomo, Tenterà di far credere Che tu esistevi, o Duomo!….
Eugenio, sono effimeri, Al par di queste stanze D'ogni mortale i gaudii I pianti e le speranze; Il passato è macerie Su cui sorge il presente, E l'avvenire è il figlio D'un vegliardo cadente.
Oh! umani eventi! oh! frivole Parvenze d'un istante! Perchè dunque ci esagita Questa febbre incessante? Perchè dunque sussistono Il sepolcro e la culla? Perchè mai tanto fremito Se tutto attende il Nulla?
Perchè?… Perchè lo struggere E il crëar son la vita; Perchè la noja è l'unica Larva da noi fuggita; Perchè questa è l'armonica Legge dell'universo; Perchè senz'essa il cérebro Non mi darebbe un verso!
Milano, 2 ottobre 1875.
IN MORTE DI EMILIO PRAGA[1]
Egli visse sognando e sogna ancora Chiuso per sempre in questa negra bara; Sogna il tripudio della nuova aurora E il fior, che per il maggio si prepara.
Quand'ei moveva per le nostre vie Parlava sempre del supremo giorno, Ed un nembo di canti e d'armonie Al grosso capo gli aleggiava intorno.
E poi che il guardo umano invan s'attenta Di legger della Morte nei misteri, Ei rafforzava la pupilla lenta, Oppur tarpava il volo ai suoi pensieri.
E, spaventato dal fatal problema, Triste amatore d'un'estasi arcana, Cantava a sè medesimo un pöema Inebbrïando la sua forma umana!
Or, ditemi, fu in lui colpa o sventura Questo dispregio dei nostri costumi? Dobbiamo noi su questa sepoltura Rammentar la sua vita o i suoi volumi?
È vero!…. È vero!…. Ei calpestò un affetto, Che men compianta potea far sua vita!…. È vero!…. È vero!…. Al domestico tetto Per lui la mensa fu di duol condita!….
Ma chi di noi, sovra il proprio cammino, Non calpestò, rimpiangendolo, un fiore?… Nascer pöeta è orribile destino! Il cérebro talor soffoca il cuore!
Oh! guai nascer pöeta ove la Musa Non trova il pane per nudrire i figli! Ove ogni sciocco delle labbra abusa Per esser largo solo di consigli!
Oh! guai nascer pöeta ove il sol splende Ed infervora i cantici ispirati, Ma dove l'uomo allori e culto rende Soltanto ai pensatori trapassati!
Costui vivrà da pochi consolato, Fra il bivio orrendo d'essere un buon padre, O di spezzar la cetera indignato, Per altre voluttà meno leggiadre!
Costui vivrà la famiglia cantando, La famiglia idëal,—cui dritto avea— E ch'egli dovè perder lagrimando…. Chè, coi versi, nudrir non la potea.
Noi, cui sorride l'italo orizzonte, Siamo un popol di bimbi analfabeti! Da qualche lustro appena alziam la fronte…. Siam troppo grami per pagar pöeti!
Non turbi adunque questo popol gramo Il sepolcro d'un povero cantore…. Meditiam la sua vita e confessiamo L'ignoranza d'un secolo e l'errore!
Emilio! Emilio!… Son le tue parole Ch'io ripeto commosso… e (lo rammento) Da te un giorno le udii che le vïole Dicean l'april con profumato accento.
E tu piangevi per le tue sventure, Antiveggendo questo estremo istante, Senza sentirne le viete päure E mentre il viso tuo parea raggiante!
Poi soggiungesti sorridendo: "Amico, "Quando mi porteranno al cimitero "Verrai tu pure, com'è l'uso antico, "A far dei versi sul mio drappo nero;
"Ma ti ricorda degli accenti miei, "Ed agli astanti, quel dì, li ripeti…. "Se tu prima morissi, io li vorrei "Ripetere fra i mille sepolcreti.
"E là, dove la Morte i ricchi accoglie "E i poveri del par, tutti eguagliando, "Mi parria che dovrebber le tue spoglie "Ascoltare i miei versi giubilando!"
…………………………
Quest'oggi, in cui la legge di Natura Te primo, Emilio, al dì fatal condusse, D'ogni giogo servil la mente pura, Pieno il cor delle mie fedi inconcusse,
Io vengo a replicar su questa bara Le tue parole; io compio il tuo desìo…. E sento, amico, che mi è meno amara L'ultima volta che ti dico: Addio!
[1] Questi versi vennero letti dall'autore il giorno 28 dicembre 1875 sul feretro del poeta delle Penombre.
ANACREONTE
Fra le colonne—d'un bianco tempio Sacro a Minerva,—la Dea propizia Ai savî, austera Dea, Pensieroso sedea
Anacrëonte,—cantor dei fervidi Baci e degli inni—nati fra i calici E delle porporine Rose allacciate al crine.
Sedea pensoso,—stringendo l'abile Stil nella destra,—la intatta tavola Sulle gambe giacente Guardando avidamente.
Un sacerdote—dall'occhio linceo Di là passava;—vide l'insolito Vate nel sacro albergo E gli si fece a tergo.
Ei non udìllo;—come le statue Chiuse nel tempio—pareva immobile, E la fisa pupilla Non mandava scintilla.
Spesso la destra—la cerea tavola Avvicinava;—ma sulla tenue Veste che la copriva Non un verso scolpiva.
E d'inusato—pallor coprivansi D'Anacrëonte—le tempia, e l'unghia Tormentava la lama Con rabbïosa brama.
Nella clessidra—cadea la polvere, E intorno, intorno—con suon monotono, Sotto le arcate fosche, Ronzavano le mosche.
Alfin lo stile—sovra la tavola L'acuta punta—venne a configgere, E con note indefesse Questo cantico impresse:
"Perchè mi manca nel pensier la vita? "Perchè come una spugna inaridita "Mi sta il cervel nel cranio? "Perchè la luce mi niega i colori? "Perchè il profumo mi niegano i fiori, "E la Musa un esametro?
"Non sono io quello che i ridenti canti "Questa notte vergò?—Perchè gli incanti "Söavi, perchè l'estasi "E l'armonia dei non studiati carmi, "Come donne, veniano a visitarmi, "Innamorate e ingenue?
"Ed or ch'io chieggo un verso, una melòde; "Or che una sete mi esagita e rode "Di profumi e di cantici, "Non una lieta immagin mi consola, "E invano alla mia Musa una parola "Io chieggo in elemosina!
"Forse Minerva, l'äustera diva, "Si vendica di me;—greggia votiva "Non reco;—nel suo tempio "Prima di questo giorno io non entrai; "Gli amori, il vin, le rose io sempre amai!; "Minerva ama il trapezio!
" Anacrëonte dai versi söavi "Non t'è propizia la Diva dei savi! " "Dirà ridendo il popolo…. "Stolto!… Il più savio è chi gode la vita! "Il più savio son io!… Pòpol m'addita "Qual'è dunque il mio tempio!
"No!… Minerva è propizia al mio poeta! "Io sono un savio dalla fronte lieta!… "Rido, ma penso!—Ahi!… dubito "Che la mia Musa, de' miei baci stanca, "Or m'abbandoni!… Già il mio crin s'imbianca "E gli occhi miei si offuscano!…
"Nave sdruscita, si rintana in porto "A morir nella noja e lo sconforto! "Oh!… splendide memorie!… "Solcasti l'onde un dì, di fiori ornata, "E sulla tua bandiera inalberata "Stava scritto:— Odi Erotiche.
"Venian da lunge a udir la melodia "Che dalle tue seriche sarchie uscia "Sotto la man de' Zeffiri, "E del mar della vita i nocchier stanchi "Si fean dappresso ai tuoi dorati fianchi "Per guarir dalla noja.
"Giungevan mesti e cogli occhi infossati "E partivano lieti e consolati "In cor benedicendoti; "E, giunti in patria, alle persone care "Recavan, talismano salutare, "Un'ode a Bacco o a Venere.
"Or sei sdruscita; le sarchie di seta "Son rotte; il fianco tuo puzza di creta "Guasto dal tarlo e fracido!… "Povera nave, ti rintana in porto "Ahimè!… Pria di perire di sconforto "Languirai di memorie!
"O Musa mia, dammi un ultimo canto, "L'estremo bacio sia, l'estremo incanto "Dell'amor tuo!… D'un'estasi "Fammi ancora bëato!… E poi… ch'io muoja! "Più della morte ho in orrore la noja…. "E il dolore di perderti!
"Ahi!… Vane preci!… Nel pensier la vita "Mi langue!… Come spugna inaridita "Mi sta il cervel nel cranio! "Ahimè!… La luce mi nega i colori! "Ahimè!… Un profumo mi niegano i fiori "E la Musa un esametro!"
Sovra il suo ciglio—brillò una lagrima; Scosso era il labbro—da un lieve tremito; E la spaziosa fronte Chinava Anacrëonte.
Allor dei vate—battè sull'omero Il sacerdote,—la cerea tavola Colla destra additando, E disse sogghignando:
"Pazzi e pöeti—sono sinonimi! "Tu della Musa—ti lagni, il ciglio "Ancor molle hai di pianto…. "Ed hai crëato un canto!
Luglio 1875.
EVO MEDIO
(A GIUSEPPE GIACOSA)
Oh!… Il bel tempo dei miracoli, Dei giulivi menestrelli, Delle fate, degli spiriti E dei magici castelli! Oh! il bel tempo dei pigmei, Delle imprese e dei tornei!
Oh!… Il bel tempo delle maglie, Dei vestiti di velluto, Quando Iddio, la dama e il trono Si rubavano il tributo, E cantavasi il perdono Sul motivo dei fendenti, Ed insieme pullulavano I castelli ed i conventi!
Oh!… Il bel tempo dell'assiduo Alternar di paci e guerre, Quando i vescovi aggiravansi Cavalcando per le terre, Mentre ai piè delle Eminenze Chiedean tutti le indulgenze!
Beppe, il mondo di quell'epoca Pare un mondo immaginario! Il ladron della mattina Bacia a sera un reliquiario; Sulla massa che cammina, Come pecore attruppate, S'erge sempre, quasi a bussola, Il cocuzzolo d'un frate.
* * * * *
Eran più che innumerevoli I colori delle tonache; Una mistica lussuria Dava l'estasi alle monache; E cantavansi a distesa Inni e salmi nella chiesa.
Sovra un asse Frate Angelico Dipingea le sue Madonne; Sempre azzuro il manto aveano, Sempre rosse avean le gonne; N'era il capo incoronato Da un bel circolo dorato.
Gli alchimisti si sfiatavano Sulle brage dei fornelli; I teologi soffiavano Nei fanatici cervelli; Il delirio universale Era l'or filosofale.
Si chiedeva allo Zodïaco L'avvenir delle persone; I romiti fabbricavano Le medaglie e le corone; E diceano i benefíci Dei flagelli e dei cilici.
Come noi si va in America, Lor si andava in Palestina; Qual tesor ne riportavano Una scheggia peregrina Della croce di Gesù…. Nè chiedevano di più!
* * * * *
Oh!… I corteggi all'Evo Medio Nei trionfi e nelle feste! Oh! i cavalli, i fanti, i carri, L'oro e i drappi sulle teste! Eran splendidi e bizzarri I corteggi d'un possente, Smaglïanti come il crotalo Sotto il sol d'Affrica ardente.
Nani, alfieri, paggi e chierici, Gente bella e foggie strane E buffoni e trovatori E vezzose castellane Ed in mezzo ai gran signori, Del suo prence a mano manca, La ventraglia d'un cenobita Su una mula tutta bianca!
Imbandíansi sulle tavole Le vivande in piatti d'oro; Il vestito delle dame Era un piccolo tesoro: Della plebe il brulicame Facea ressa nelle vie, Quando andavano a godersela Monsignori e Signorie.
Poi le danze! Al suon di pifferi Di sirvente e di mandòle Tarantelle e cavalloggie Alternavansi a spagnole; E, vedute dalle loggie, Quelle genti a più colori Un gran mazzo ti parevano In cui vita aveano i fiori.
* * * * *
L'Evo Medio si compendia Nella chiesa e nel castello; Dominavan le nazioni Un guerriero o un fraticello; Fra le mille devozioni, (Sacerdote il trovatore) Una sola era pregevole, Beppe: quella dell'amore!
Nelle chiese c'era l'organo, Avean trombe i cavalieri, Ma la musica del popolo Era quella dei trovieri E le libere parole Uscian fuor delle mandòle.
Oh!… I bei tempi!… Il nostro secolo È una nenia e non un canto! Noi siam lucciole sbiadite, Essi il fuoco, essi l'incanto! Oggi i bozzoli e la vite Ci preoccupan l'idea Più dei lauri e della gloria D'una bellica epopea!
Oh!… I bei tempi!… Eppur s'io medito Sulle stragi dei possenti; S'io ricordo il Sant'Uffizio Ed i roghi dei sapienti; S'io rifletto alle baldanze Di tiranniche ignoranze;
Benedico le vittorie In onor dei Veri eterni, E il prosaico vestimento Dei filosofi moderni; Benedico dei presenti La volgar monotonia; Nella scienza e nei negozii Trovo ancor la poesia!
Penso, è ver, che in tutti i secoli Si pareggian beni e mali; Che gli umani desiderii Han confini sempre eguali…. Ma davver sono contento Di non viver nel trecento.
Agosto, 1876.
IL SECOLO DI PERICLE
(AL MAESTRO GIOVANNI RINALDI)
Sotto la ferrea—clava spartana Isterilivasi,—schiava gemente, La nata libera—volontà umana. Delfo, silente,
Sull'aureo tripode—parea dormire, Poichè le belliche—tube eran mute, Nè più all'Oracolo—chiedevan l'ire Senno e virtude.
Nojata e gelida—la Pitonessa Sonar nel tempio—non intendea Che d'una vecchia—la voce fessa Cui, sorda, Igea
Degli anni all'ónere—curva lasciava, O qualche timida—prece d'amore Che su virginee—labbra mandava L'ansia del cuore.—
Tebe era mutola;—tacea Corinto; Messene, esangue,—nelle sue mura Chiudeva un popolo—per sempre vinto Dalla sciagura.
Brandían gli Ellenii—zappe e bipenni! Di illustri ceneri—piene eran l'urne, E le Olimpiadi—venian solenni E taciturne
A baciar l'ampie—fronti dei saggi… Ma, in fondo ai bigî—tempi, un fulgore Brillava… ed erano—gli accesi raggi Di Atene in fiore.
A TAIDE
Taide, il mondo è un'accolita Di sciocchi e di bricconi; A poche menti garbano Le libere canzoni; Gli sciocchi non camminano Che coi piedi degli altri, E l'armi degli scaltri Son frasi e ipocrisia.
Il labbro, che ti predica L'azzurro e la morale, Beve, nell'ombra, al lurido Nappo del baccanale; Le donne oneste mostrano Nudo ai teatri il seno E chiameranno osceno Questo povero canto!
In custodia ridicola Ognun stringe la sposa…. E volge all'altrui talamo La mente desïosa; Mille impotenti giovani Sparlan dell'altrui donne…. E delle proprie nonne Si fanno i paladini!
È l'infanzia un miscuglio Di lubrici misteri; La pubertà ci innebria D'ardenti desideri; Ma i vecchi scaraventano Sovra noi l'anatèma, Se ne facciamo il tema D'un'ode in settenari.
L'arte greca è lascivia E l'insegna il pedante; Porta e Goldoni estasiano E venerato è Dante; Ma se noi, baldi giovani, Tessiamo un inno al Vero, Sorge un popolo intero A gridarci la croce!
Quadri, melodi e statue E commedie e volumi Tutti d'amor ci parlano Negli umani costumi…. È una rancida nenia! È un nojoso frastuono! Sempre lo stesso tôno Su una nota tenuta!…
Taide, tu pure, ingenua, Alla nenia credesti! Con chi primo ti piacque Una notte giacesti…. E trovasti, togliendoti Al convegno geniale, L'infamia e l'ospedale Dove morir di stenti.
Altre, di te più caute, Si ribellano al mondo E, odïandoli, agli uomini Fanno il viso giocondo; Ed, ingannate, ingannano; E rubano, baciando; E ridono, sputando In fronte ai derubati!
Innanzi a lor si inchinano Gli sciocchi riverenti, E i poeti le ragliano Con patetici accenti, E le madri del popolo, Che soffrono la fame, Alle fanciulle grame Le citano a modello!
Io nacqui troppo povero Per comperarne i baci, E non m'impiglio al vischio Dei lor sguardi procaci; Delle fanciulle ingenue La ritrosia m'annoja, Chè dell'amor la gioja Non disgiungo dai sensi.
Le donne oneste adescano Senza conceder mai; Fra gli imbecilli, o Taide, Finor non m'imbrancai! Odio gli altari e gli idoli A cui la turba grulla, Senza ottener mai nulla, Si inginocchia pregando!
Spose od amanti, il talamo E la tomba d'amore! La noja o l'amicizia Lo sùrrogan nel cuore…. Il Piacer, che n'è figlio, Come l'Ebrëo Errante, Con ardore incessante Cerca novelle forme!
Taide, tu sola, vittima Degli umani disprezzi, Ai tristi che ti insultano Rendi lagrime e vezzi, Chè le fanciulle povere Dal sangue ardente e buone, Perdendo un'illusione Non si mutano in serpi!
Tu sola sei possibile Per le menti severe, Che le catene abborrono Adorando il piacere! Tu, che ai ricchi ed ai poveri Mostri un egual sembiante E accogli in un istante Ogni filosofia!
Tu, che non rechi i triboli D'un amore geloso; Che non ti atteggi a vittima D'un dolor fastidioso; Tu, che ti serbi vergine, Anche da lebbra infetta Che bocca maledetta T'infiltrò nelle carni!
Tu, con cui scorre libera E aperta la parola; Tu, d'ogni umana lagrima Educata alla scuola; Tu, che dai per un obolo Ciò che l'altre, per anni, Con amarezze e inganni, Vendono a caro prezzo!
No!… L'amor non è l'unica Gioja al mortal concessa! Anche l'odio ha i suoi gaudî! E la vendetta anch'essa! E l'han le acute indagini Note ai sapienti, e l'ore Consacrate all'ardore D'un ambizioso sogno!
Vieni, povera vittima, Vieni!… Al tuo sen mi stringi! Al par di mille ipocrite, Taide, il delirio infingi! A sozze man proficua Tu stessa non comprendi Che la merce che vendi È una perla preziosa!
Vieni!… Svanita l'estasi Col sol di domattina, Ti lascerò, per correre Dietro un'Arte Divina…. Nè subirò la nenia Di promesse o lamenti, Che dei versi fluënti Potrian rompermi il filo!…
Milano, ottobre 1875.
LA NOTTE DI SAN SILVESTRO
La falange dei secoli stanotte Si accrescerà d'un milite novello; E di tanti dolor, di tante lotte, Di tante gioje, raccolte in un anno, Forse un'eco infedele per memoria I dì venturi avranno! Per legger dentro ai secoli remoti Noi meditiam la forma d'un avello; E i nostri figli, cui sarem mal noti, Mediteran nei nostri cimiteri, Dei nostri eventi tessendo la storia E dei nostri pensieri.
E strana legge!… I tumuli silenti Serban per lunghe etadi la parola, Mentre le mille voci delle genti Duran lo spazio che dura un istante, E vanno dei superstiti a morire Nel frastuono incessante! Ah!… Chi potrà afferrar l'attimo arcano Che al tempo stesso sussiste e si invola?! Chi mai potrà indicar con ferma mano Il limite sottil che fu segnato A divider fra loro l' avvenire, Il presente e il passato?!
E noi viviamo; ed ogni dì che fugge Segna una ruga sulla nostra fronte; E un'agonia lentissima ne strugge; E, tremebondi, a noi stessi chiediamo Se esisterem, trascorso un anno, ancora; E mormoriam: "Speriamo!" E interroghiamo gli eventi passati, E gli amori, e i dolori, e l'ire, e l'onte; E dai mille fantasimi evocati Attendiam le speranze ed i conforti, Baciando i figli che vedon l'aurora E ripensando ai morti.
Oh!… Tomba sconfinata!… Oh! Eterno Nulla! Tremendo Iddio che le esistenze ingoi! Oh! Infinito cammin!… Campagna brulla Dai nebbïosi orizzonti!… Ocëàno Sovra i cui flutti non scerne la sponda L'ansioso sguardo umano!… Dimmi, rispondi, che son divenuti I giorni senza numero, e gli eroi, E i popoli, che in sen ti son caduti? Che mai facesti tu di tanta polve Che, come l'onda s'accavalla all'onda, Su sè stessa s'avvolve?
Che mai facesti tu di tante glorie, Di tanti pianti e di tanti sorrisi? Che giovano ai presenti le memorie Se chi lasciolle eternamente è spento? Oh!… Triste scherno!… Un'êra di mill'anni S'accoglie in un accento! Oh!… Triste scherno!… Il mozzicon di sego, Nella cui scialba fiamma ho gli occhi fisi E presso a cui scrivo e bestemmio e prego, Val più dei raggi insiem moltiplicati Che piovvero dal sol su gaudi e affanni Nei secoli passati!
Oh!… Triste scherno!… Il mio vecchio bastone Vale gli scettri dei re che son morti! Il mio gramo cappel val le corone Che il tempo infranse! E il mio mantel sdruscito Val le toghe di porpora e di bisso Del popolo quirito!!! Cesare, Carlomagno e Bonaparte Ove siete?… Ove siete?… I volti smorti Spingete, o spettri, sovra queste carte…. Datemi voi l'accento arcano, il verso, Ond'io possa descrivere l'abisso Su cui sta l'Universo!
…………………………..
Io mi prostro!… In un'orgia di visioni S'accascia la brïaca fantasia…. Veggo mari di sangue, e templi, e troni Accatastati, e altari, e deliranti Moltitudini, e donne, e bare, e fiori, E spade luccicanti…. E tutta questa baräonda vola Dinanzi agli occhi della mente mia; S'apre ogni bocca e non dice parola; Batte ogni piede ed un fruscìo non s'ode; E, in fondo a un bujo ciel, senza fragori, Ogni folgore esplode.
Talor frammezzo alla gente piccina Giganteggia d'un Genio la figura; Socchiusi gli occhi e colla fronte china Passano i savî delle età trascorse, Color che innanzi all'ardüo problema Hanno esclamato: Forse! Ed io, fiutando l'aura che circonda Questa turba idëal che fa paura, Sento le nari tormentarmi un'onda Di lezzi e di profumi; una miscela D'odor d'alcòve e di tombe; l'emblema Che la carne rivela!
…………………………..
Dal suolo, ov'io gemevo, rovesciato Come un tronco cui svelse la bufèra, Io mi sollevo.—Il mio sogno è passato, Al pari d'ogni gente e d'ogni evento; Sorgo e, senza nudrir stolide fedi, Alla vita mi avvento. E a lei mi stringo, a questa grama vita Irta di noje, vana e passaggiera, Ma che all'avida bocca inaridita Può ancor porger la mistica mammella! A questa vita, il solo maravedi Dell'umana scarsella!
Dolce tesor di mie brevi giornate, Io ti vo' spendere in luce e in amore, In lagrime e in ebbrezze spensierate! Ah!… Ch'io frema!… Ch'io viva!… È nulla il resto! Muoja chi non vuol vivere!… I piagnoni, Non morti, io li detesto!… Io sparirò pria che i capelli bianchi M'abbian cinta la fronte, ed ho poche ore, Ma vo' morir colla testa sui fianchi Ignudi d'una donna amata e bella, Ripetendo le libere canzoni Di mia mente rubella!
Milano, dicembre 1876.
LA SENAVRA[1]
AI DOTTORI A. MAGNI E A. ARCARI.
Sognatori incorreggibili; Fervidissimi credenti; Cranî vasti e cranî piccoli Dai cervelli turbolenti; Furibonde crëature Piene d'ansie e di paure; Vociatori allucinati Dagli spettri torturati;
Barcollanti paralitici Avviati alla demenza; Infelici, cui sovreccita L'epilettica potenza; Pellagrosi, a cui la Fame Dissanguò le carni grame Per dipingere le rose Delle mense sontüose;
Catalettici, insensibili Come il cuor d'una beghina, Dallo sguardo spento e immobile, Dalla testa sempre china, Cui l'orrenda malattia, Ch'è peggior dell'agonia, Indurì la gamba e il braccio Come il ferro e come il ghiaccio;
Idïoti tardi e sucidi Dalle stolide risate; Silenziosi melanconici Dalle fronti ottenebrate; Vecchi e bimbi, uomini e donne, A cui celan vesti e gonne (Dalla modula uniforme) La goffaggin delle forme;
O pöeti, cui, per esserlo, Non mancò che l'equilibro; O confuse e sparse pagine Che talor non fan più un libro; O filosofi egoïsti Che furiosi, o lieti, o tristi, Suggeriste un entusiasmo All'indagine d'Erasmo;
Io vi veggo dell'Ospizio Negli androni lunghi e scuri Sfilar tutti e, a larve simili, Rasentar gli scialbi muri; E me stesso e il mondo oblio Nell'udir lo stropiccìo Delle scarpe trascinate Sulle pietre levigate.
Quest'Ospizio, or non è un secolo, Era un chiostro solitario; Vi dormian, tranquilli, i monaci Fra una cena ed un rosario: Quella pace chi rimembra? Tutto muta!… E il chiostro or sembra, Per le grida e il chiasso eterno, Una bolgia dell'inferno!
Quanti sogni!… Quanti fascini! Quanti inani desideri! Quante vacüe dovizie Di ipotetici forzieri! Quante inutili ambizioni Irte a mille umiliazioni! Quanto spreco di esistenze Per ridicole parvenze!
Quanto fremer di battaglie Idëali in queste mura! Che splendor di luci incognite! Che prodigi di natura! Che profumi di giardini…. Nel pensiero dei meschini! Che romane orgie evocate Dalle femmine eccitate!
Salve!… Salve!… Questo popolo, Che stropiccia i corridoi, È di re un'augusta accolita! È un manipolo d'eroi! Sono artefici immortali! Sono duci e generali! Sono menti sovrumane! Son duchesse e cortigiane!
Questo giovane, che medita, È un sapiente… che sa nulla! Questa vecchia ottuagenaria Va affermando esser fanciulla! Questo mostro d'ambizione Vi domanda un mozzicone! Questo semplice artigiano Vuole onori da sultano!
Una donna, melanconica E dal volto deformato, Vi susurra: "Dunque, Emilio, "Non m'inganno!… Sei tornato!" Ed un'altra, in foggie strane, Si rimbocca le sottane Al disopra dei ginocchi, Ammiccandovi degli occhi!
Chi combatte cogli spiriti Grida, impreca e il braccio ruota; Altri, al suol cadendo supplice, Resta in estasi devota; Poi proteste, insulti ed ire!… "Io son savio!… Voglio uscire! "Scellerati!… Al cenno mio "Ubbidite!… Io sono Iddio!…"
Se la vita è un mar simbolico, E se noi siam naviganti; Se quaggiù bonaccie e turbini Voglion dir sorrisi e pianti, O miei buoni, questa gente, Che non sa dov'è l'oriente, Questi miseri sparuti Sono naufraghi perduti!…
Ahi!… La Scienza, con un gemito, Dietro a lor perde il coraggio, Nè sa ancor qual sia la gomena Da gettar pel salvataggio! Incessante l'uragano Scuote il rabido oceàno…. Ed i fragili intelletti Si frantuman tra gli affetti!…
Fedi e infamie, amori ed odii, Amarezze ed illusioni! Ecco i venti, i nembi, i fulmini! Ecco i tristi cavalloni! Fino il duol del padre oppresso Nei nepoti resta impresso, E van pazzi a cento a cento Per chimerico spavento!
O follia, sei tu un'orribile E fantastica megera Che trapassi in mezzo agli uomini Come rapida bufera, E che godi, sghignazzando, A toccare il fronte blando Del dormente nëonato Con un dito arroventato?
O Follia!… Cupa voragine!… Viver… morti!—Esser sepolti…. Nè saperlo!—Aver lo spregio…. E non leggerlo sui volti! O Follìa!… Pensier tremendo!… Forse l'estro ond'io m'accendo È lo stigma del Destino, Che mi colse da bambino!…
…………………………..
Le notturne ore discesero; Son deserti i foschi androni; Già i maniaci s'addormentano Nei squallenti cameroni; Già dei poveri sospetti, Presso l'ànsole dei letti, I metodici guardiani Assicuran piedi e mani….
Deh!… Con sogni placidissimi La pietà li benedica! Chè sui pazzi sta l'anàtema D'una duplice fatica, E domani essi dovranno, Quando tutti sorgeranno Dell'albore ai raggi incerti, Risognare ad occhi aperti!…
Dalla Senavra, 26 settembre 1876.
[1] La Senavra è il nome dell'ospizio dei pazzi di Milano.]
IN ALTO
(A GIUSEPPE GALLOTTI)
Non domandarmi un cantico Per le umane passioni! L'inesorabil logica M'impone altre canzoni; Io non posso più esprimere Nè il pianto, nè la gioja, Chè mi vennero a noja Le lagrime e i sorrisi dei viventi. Mi rifiuto all'analisi Delle cose crëate, Per viver nel delirio Di altezze sconfinate; Ivi è un eterno fascino, Ivi, un pugno di polve, Che ignoto soffio avvolve, Sembrano gli astri nello spazio ardenti.
Dinanzi alla voragine Dell'eterna armonia Le passioni degli uomini Perdon la poësia; Così l'estremo rantolo Del nocchier si confonde Col ruggito dell'onde, Su cui passa, tuonando, la bufera!… Il Bene e il Mal s'intrecciano Nell'assidua natura; Il Bene e il Mal s'alternano Con sapiente misura; E, indivisi, si aggirano Fra il turbo dei viventi, Gelidi, indifferenti A chi piange, a chi ride ed a chi spera.
La medaglia simbolica, Dalla gianica faccia, Ha nella prima il gaudio, Nell'altra la minaccia; Ma si palesa agli uomini Sempre con fronte eguale, Perchè nel Ben sta il Male, Perchè nel Male sta del Bene il germe.
I contenti e le lagrime Dei poveri mortali Per varïar di secoli Saranno sempre eguali; I desiderii fervono In ogni crëatura… E il gaudio o la sventura Vengono a soddisfar l'umano verme,
E poi che un giorno ridere O pianger gli è concesso, Torna dei desiderii Il popolo indefesso; La noja uccide il gaudio Ed il dolor si accheta… E la caduca creta Ribeve al fonte dell'antica speme! È una storia monotona Degli uomini la storia! Sempre lo stesso fremito Di bassezze e di gloria! Sempre gli stessi gemiti Per gli stessi dolori! Sempre gli stessi amori! Sempre il labbro che ride e quel che geme!
Al suon delle battaglie Succedono le paci; Dopo l'orgie del sangue Vengon quelle dei baci; Come fantasmi, i popoli Agitando le braccia, Contorcendo la faccia, Per un istante passan sulla terra…. Nè resta che una debole Eco di tanti eventi, Che nel frastuon va a perdersi Delle novelle genti,… Poi ricomincia il turbine Dei desiderii arcani, Che dai cervelli umani Elettrico incessante si disserra!
Dal sorriso d'un popolo Nasce d'un altro il pianto; Per una gente è un empio Chi per un'altra è un santo; E le bufere scrosciano, E il sol sfavilla, e i fiori Si veston di colori, E nello spazio rotëan le stelle!…
Tutti, mendìchi e principi, Deboli e forti, tutti Proviam gli stessi gaudii, Abbiam gli stessi lutti! Il Bene e il Mal ci scuotono Coll'istessa potenza, E l'umana sapienza Alla gran legge invan si fa ribelle!…
No, il sorriso degli uomini, No, degli uomini il pianto, Nel cranio mio non destano Giocondo o mesto un canto; Perch'io so che le lagrime Fan più dolci i sorrisi; Perch'io so che indivisi Il Bene e il Mal s'aggiran fra i viventi. Sol nell'immensa sintesi Delle cose crëate, Nel supremo delirio Di altezze sconfinate Trovo dei carmi il fascino! Ivi, un pugno di polve, Che ignoto soffio avvolve, Sembrano gli astri nello spazio ardenti.
Giugno 1875.
CIRCOLO
(A PAOLO GORINI)
Un dì d'autunno, al tramontar del sole, In un ermo giardino entrò la Morte; E impallidìr le rose e le vïole Presàghe di lor sorte.
Le foglie, scosse da leggiero vento E per sottil pioviggin lagrimanti, Siccome colte da orribil spavento Si fecero tremanti.
E dal bigiastro ciel, parlando ai fiori, Disse una voce: "Così vuole Iddio! "Voi dovete morire!—Addio colori! "Olenti effluvii, addio!"
E la Morte passava.—Un'armonia Di indistinti sospiri e di lamenti Sorgea dovunque, ovunque la seguia Nei sentieri silenti.
Eran sospiri timidi, repressi, Come il fruscìo d'un abito di dama Che va di notte a colpevoli amplessi; Era un pianto, una brama
Di restar fiori e foglie un giorno ancora. Un povero giacinto domandava Di lasciargli veder la nuova aurora… Ma la Morte passava.
Il giranio avvizziva; le vïole, Baciandosi fra lor con aria mesta, Diceansi addio, e sull'umide ajuole Chinavano la testa.
Solo una rosa, una fulgida rosa Dal vivace color, nata il mattino, Surse a lottar, fidente e coraggiosa, Coll'avverso destino.
E alla Morte gridò: "Perchè degg'io "Morire adesso che son nata or ora? "La mia parte di vita io chieggo a Dio… "Io vo' vivere ancora!"
"Perchè vivere ancor?"—chiese la Morte. "Perchè ho terror del nulla…"—"Erri; m'ascolta: "Morir non è svanîr, ma cambiar sorte, "Nascere un'altra volta…
"La mia man non distrugge, ma trasforma; "Apportatrice di vita indefessa, "La Materia non muor; muta la forma, "Ma la creta è la stessa."
—"Lasciami dunque la forma presente, "Con te non mi lagnai della mia sorte. "Io voglio restar rosa eternamente!…" —Le rispose la Morte:
"E che dirà la terra, a cui tu devi "Porger te stessa in provvido alimento? "Tu dalla morte altrui vita ricevi; "A te l'altrui tormento
"Dà l'esistenza; il loto che si muta "Nel tuo stelo e le foglie ti colora, "Muore anch'ei; d'esser rosa ei si rifiuta "Ma pur convien ch'ei mora!…
"A che tanto terror?… Prima d'un mese "Che saran le tue foglie?… Od aria o loto. "Per ridonarle a te, l'April cortese "Le farà d'aria e loto.
"La stessa brama, che tu senti, avranno, "Morir dovendo, l'aria e il loto allora… "Ma poi, mutati, Iddio benediranno "D'essere rose ancora…
"Benediran l'Ente Infinito e Ignoto "E d'esser rose lo ringrazieranno,… "Per poi lagnarsi il dì che in aria o loto "Rimutarsi dovranno!
"È un'assidua vicenda!…—Il nëonato "È vecchio quanto il Tempo!—È un'infinita "Catena!… Tutto muore!… E nel Crëato "Freme eterna la vita!…"
Tacque e passò.—Cadean le foglie a mille Giallastre e secche; e dietro i tenui fusti Biancheggiavan le mura delle ville; E gli sfrondati arbusti
Parevan membra di bimbi malati Usciti da mefitici ospedali; Borea scopava coi buffi gelati Le foglie nei vïali;
E intorno, intorno, un susurro s'udia Confuso e fioco, come il suon lontano D'un'arpa, cui chiedesse un'armonia Un'aërëa mano.
Era un canto di grazie; era un concento Che nel vespro nebbioso si perdea; Le foglie e i fior caduti, a cento, a cento Lo ripetean.—Dicea:
"Ave, o Signor, che ci desti la vita, "Che loto ed aria quaggiù ci mettesti! "Possente Iddio, la tua bontà infinita "Fa che si manifesti!…
"Possente Iddio, ci manda un po' di piova! "Possente Iddio, ci manda un po' di neve! "E tien lungi l'April, che in forma nova, "Aimè, mutar si deve!
"Deh!… Tien lungi l'Aprile!… Ave, o Signore! "Noi siamo lieti della nostra sorte… "L'April tien lungi, chè mutarci in fiore "Vuol dir darci la morte!"
Milano, giugno 1875.
A FULVIO FULGONIO
O modesto filosofo, Che giunto a quarant'anni, Fra l'incessante turbine Di miserie e d'affanni, Vivi solingo e povero, E nel tuo cor securo Sotto l'usbergo del sentirti puro,
Di' qual è dunque il tramite Che al sepolcro conduce E cui conforta il raggio D'inestinguibil luce? Dimmi, come si vincono Queste umane tempeste, Che fan le genti o torve, o tristi, o meste?
Verso la tomba scendere Io ti contemplo, o amico, Come l'ombra di Socrate, Il grande savio antico; Tu pure d'ogni infamia, Con bocca altera e muta, Bevesti in questo mondo la cicuta!
Deh!… Se una pia memoria E un fervido entusiasmo, Possono ancora emergere Dall'umano mïasmo, Lascia ch'io possa volgerti Quell'arcana parola Che sa dire chi soffre e che consola.
Sorridi ancora!… Passano I secoli e le genti, E le plebi, al barbaglio Degli empi pläudenti, Tu non merchi gli applausi, Ma sul tuo franco viso Ami serbar l'impavido sorriso,
O modesto filosofo, Spesse volte affamato, Io mi faccio una gloria Di camminarti allato! O dolce amico, insegnami A vivere securo Sotto l'usbergo del sentirmi puro!
Agosto 1875.
LA CHIESETTA DEI MORTI
(A GIULIO CORSARI)
L'ho vista la chiesuola; essa è perduta In mezzo ai campi come un eremita; Ed è deserta, solitaria e muta, Qual chi studia il problema della vita.
O teschi, o tibie, o stinchi ammonticchiati, Macerie umane, chi vi mosse in terra? Insiem congiunti come v'han chiamati? Bécero, Truffaldino o Fortinguerra?
Sotto una rozza lapide sconnessa Dorme il vecchio curato del villaggio; Egli almen cogli offizii e colla messa Il nome a questa età lasciò in retaggio!
Ma un teschio, posto là, sul cornicione Con cent'altri, ridendo, par che esclami: "Bel profitto davver, se le persone "Deggion dir ti chiamavi e non ti chiami!"
Ed è un teschio giallognolo e pulito Siccome d'un nodar la pergamena, Ed ha la nuca dal profilo ardito E guarda in giù con un'occhiaja appena.
………………………….. ………………………….. ………………………….. …………………………..
È il mattino.—Sull'erba verde e folta Scintillano le gocce di rugiada, E il ritornello da lontan s'ascolta D'un villano che passa sulla strada.
La Natura e il Lavoro!—E poi?—La testa Poggiar sul cornicione d'una chiesa, Coi passeri che intorno le fan festa O col becco alle vuote orbite offesa!
E contemplare i proprii stinchi ignudi In una nicchia, messi insieme a mille, O (peggio ancora) un pöeta che sudi, E cerchi un verso alzando le pupille…
Ei colla vita di cento persone, (Che visser forse ognuna settant'anni) Farà dieci quartine o una canzone. Che l'udito ai viventi o strazii, o inganni!…
Poveri morti, perdonate!—Tutti Amor vi concepì; tutti una madre E un padre aveste; e amaste; e foste tutti Sposo, figlio, fratello, amico o padre…
Per una strofa che dalla matita Mi cade, voi viveste, ahimè, tant'anni! Un sol mio verso è costato una vita!… E una mia rima chissà quanti affanni?
Castelleone, agosto 1874.
A UNA DONNA INTELLIGENTE
Quand'io lessi i tuoi versi Ho pensato alla gioja Immensa e alla sventura Di chi può amarti, o bella crëatura.
Ho pensato all'arbitrio del destino, Che ti formò col puro cäolino Con cui formò il cervello dei veggenti: Ho pensato al delirio Di chi baciò i tuoi begli occhi lucenti; All'angoscia di chi, dopo il delirio, Vorrà, tremante, interrogarti il cuore, E, forse, troverà lento e sbiadito. Come un suono che muore, L'amoroso battìto!
Strano connubio!… Donna e intelligenza! I sogni, che s'incarnano Nella gentil parvenza! Strano connubio!… Intelligenza e donna!… Lucifero che cela il ghigno orrendo Sotto un pallido volto di Madonna! Una bionda e leggiadra testolina, Un gingillo da pôr sovra un guanciale, Che scruta ed indovina Il cupo abisso del Bene e del Male? Strano connubio!… Donna e intelligenza!… Una mandòla, cui la man d'amore Sa cercare una languida cadenza, E a cui scuote le corde Questo fantasma che sussulta e spia, E bacia, e sferza, e morde, E che gli umani chiaman: Poesia!
Quand'io lessi i tuoi versi Ho pensato alla gioja Immensa e alla sventura Di chi può amarti, o bella crëatura!
Io vorrei che alla mia donna adorata Mormorasse un mortal detti d'amore, Perch'io potessi trafiggergli il cuore O morir di sua mano; Ma, ginocchioni, il ciel supplicherei Che tenesse lontano Dal suo capo gentile Il più spietato dei rivali miei, Il Pensier, che solleva Il tristo tentatore Che un dì fe' perder Eva E poi distrusse ogni sogno d'amore.
E s'io t'amassi, ti verrei dinanzi Colle lagrime agli occhi e il viso bianco, E, come un pellegrin d'affanni stanco, Singhiozzando ai tuoi pie' mi getterei E, baciandoli, o donna, io ti direi:
"Di non udir quaggiù che la mia voce, "E d'esser sorda alle melòdi arcane "Che vibrano nel tuo capo adorato; "Perch'io temo che il sol della dimane "Ti risvegli più fredda all'amor mio; "Perch'io temo che i baci del Pensiero "(Funestissimo Iddio) "Ti tolgano per sempre ai baci miei!"
Questo, o donna, piangendo, io ti direi.
E se tu volgerai, dolcezza mia, Quasi ammaliata, le pupille al cielo Ov'abita il tuo Nume, io, soffocando Nel profondo del cor la gelosia, Afferrerò la balza del tuo velo Per tenerti qui in terra… o per morire, Se a quella reggia d'oro Poëta e donna, tu vorrai salire.
Agosto 1876.
IL DÌ DEI MORTI
Quest'oggi il calendario Segna il giorno dei morti, Il giorno in cui gli scheletri Han mistici conforti, Ed io, seguendo il popolo Come sopra pensiero, Mi trovo al cimitero Fra i cippi a vagolar. Qui tra le mute lagrime Delle madri dolenti, Tra gli ipocriti gemiti Degli eredi parenti, Tra i fiori che inghirlandano I cippi biancheggianti, Rovistando i sembianti, Comincio a meditar.
Chi mi disse che il fùnebre Campo, ov'io sono, ispiri Pensieri melanconici, Desolanti deliri? Chi mi disse che incutono Disinganni e paure Le mille sepolture Che stan dinanzi a me? Qui, dove gli altri parlano D'incompresi destini; Qui, dove gli altri perdonsi In mar senza confini; Qui, dove tutti fremono D'indicibil terrore, A me si spegne in cuore Ogni bugiarda fè.
Sulle zolle che atteggiansi A smaglïanti ajuole, Tra i fiori, che si volgono Desiosi ai rai del sole, Della Morte io non veggio La larva ischeletrita; Non la Morte, la Vita, O miei fratelli, è qui!… La Morte!… Che significa Questa strana parola, Che fa sgomento ai timidi E che i forti consola? La Morte!… Chi mi scioglie Questo fatal segreto, Che al cèrebro d'Amleto Il dubbio suggerì?
È la Morte una fisima Delle pusille menti! Se nacquer dai cadaveri L'erbe ed i fiori olenti, Se i vermi ha fatto nascere La carne imputridita, La forma, e non la vita, D'esistere cessò!… L'operosa materia Convien che a sè ritorni; La Morte è legge assidua; Noi moriam tutti i giorni! Noi moriam, trasformandoci Da bimbi in giovinetti! Noi moriam cogli affetti Che il nostro cor provò!
Perchè cercar nell'anima Le fede e la speranza? Perchè cercar nell'anima La postuma esultanza, Se scioglier la materia Ci può il fatal problema, Se il mistico pöema Essa cantar ci sa? Essa, l'eterno simbolo; Essa, l'eterna Dea; Essa, da cui germogliano E l'albero e l'Idea; Essa che dà alle indagini I responsi più esatti, Che non i sogni astratti Delle trascorse età!
Che v'importa dell'anime Dei figli trapassati, O padri, sovra i candidi Sepolcri inginocchiati? Via!… Chiudete l'orecchio Ad una sciocca turba, Che il pensier vi conturba Con sogni di terror! I vostri figli vivono; Sono raggi di sole, Son glebe, son garofani, Son aria, son vïole; Voi, pregando sugli umidi Fiori o sui secchi dumi, Ne aspirate i profumi E vivete con lor.
Oh!… Dite ai mille ipocriti Dalle fisime strane, Che noi, togliendo l'anima Alle credenze umane, Non vi togliamo il balsamo Delle memorie pie, I canti e l'armonie Che sanno consolar! Credete alla Materia Per creder nell'Eterno; Il Bene e il Mal sussistono; Ecco il Cielo e l'Inferno! Religïon purissima È la Scienza, la luce Che gli uomini conduce Ad amarsi e pensar.
PER IL SANTO NATALE
(A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER)
Eugenio, l'abitudine È una cinica Dea, Che avvelenò coll'alito Ogni sublime idea! Profuse il genio ai popoli Le perle smaglïanti E un'orda di baccanti In pietre le mutò!
Dal dì che all'Evangelio Pace e conforto io chiesi, Dal dì che il cor degli uomini A interrogare appresi E, come un serpe, ascondersi Vidi nel Bene il Male, Il giorno di Natale, Da allora mi indignò!
I pöetastri raglino Vieti e melliflui canti, Le olenti dame pensino Ai bambini lattanti, Credan davver gli stolidi Ch'oggi ogni sdegno è spento, Biascichi un complimento Ogni bocca volgar!
Io, solitario, medito Chiuso nella mia stanza Che retaggio di popoli Grulli è una grulla usanza… Nè a vagolar pei trivii Coi miei pensier discendo, Chè fuggo un quadro orrendo Che m'eccita a imprecar.
Giù v'è un delirio, un'orgia Di sangue e di carname; Polpe squarciate e muscoli Ornati di fogliame, Bestie sgozzate e viscere Ancora palpitanti, E rosse man fumanti, E gocciolanti acciar!
Lungi da me l'orribile Tripudio dei macelli, Ove le fronti pallide Di pecore e vitelli, Trofëo spaventevole, Col livid'occhio spento, Mandandomi un lamento, Mi possono guardar!
Lungi da me, o limosine D'un mondo imbellettato, Chicche donate ai bamboli D'un popolo affamato! Lungi da me l'ingenua Fede dei tardi ingegni, Che spengansi gli sdegni Coll'agape d'un dì!
Lungi da me quest'ebete Sfida a chi più divora, Quest'inno che da gonfie Ventraglie erutta fuora! Lungi da me l'effluvio Di frutta e di dolciumi, A cui gli acri profumi Inutil sangue unì!
O triste lotta!… O vincolo Fatal della Natura! È ver, dell'altrui sangue Vive ogni creatura! È ver, la morte è il nocciolo Che genera la vita! In terra e in ciel scolpita La dura legge io so!…
Ma, per far festa, uccidere, Non per sbramar la fame; Ma il rider tra i cadaveri, Gridando: Pace!… è infame! Ma l'esclamar tra i rantoli " Quest'oggi è un giorno gajo! " È lazzo da beccajo Che il sangue inebrïò!
Deh! Se nei vostri pargoli Sensi d'amor bramate Dal barbaro spettacolo, Madri, li allontanate… O scenderanno funebri Fantasimi crudeli A rapir loro i cieli Del sonno verginal!
Ah! dite lor che scordino Quest'efferata usanza; Che a feste meno stolide Rivolgan la speranza; Che verrà un dì in cui gli uomini Saran davver fratelli, Senza l'orgie e i macelli Di questo saturnal!
25 dicembre 1876.
CORAGGIO!
(AD ALBERTO BARBAVARA)
Tu sogni una condotta, un bel villaggio, Dall'esil campanile, a mezza china. Che si imporpori al raggio Del sol, quando declina, Come la guancia d'una giovinetta Cui si parli d'amore.
O mesto amico mio, biondo dottore, Talor lo sogno anch'io Questo tranquillo oblio; Talor m'accascio anch'io sul mio dolore Penso alla noja arcana Che da ogni cosa emana; Penso a quelli che furono E a quelli che verranno; All'albe ed ai tramonti ed all'affanno Che domina crëato e crëature; Alle molte sventure Ed ai pochi sorrisi Concessi a quei che pensano; alla culla Tanto presso alla tomba; A questo eterno nulla!
Tu sogni una condotta, un bel villaggio Dall'esil campanile, a mezza china, Che si imporpori al raggio Del sol, quando declina; Ed io perdo il coraggio Nella frivola vita cittadina! E nei ridotti, ove s'affolla un mondo D'ubbriachi e di cretini, M'aggiro; e il volto mio cogitabondo Porta il riflesso d'inconsci destini…
Pur se giunge una nota al mio cervello, Se vien qualche cencioso menestrello A strimpellare una canzon gioconda Al mio attonito orecchio, Una febbre m'inonda Di mille desiderii sconfinati; E penso ai vecchi errori, al mondo vecchio Che crollerà sotto il mio giovin pugno; All'arte nuova; ai versi cesellati, Coi quali passo qualche lieta notte Della mia giovinezza; E ritorno alle lotte, Ove soltanto il debole si spezza; Ed odio, ed amo, e scrivo, E lagrimo talor, ma fremo e vivo!
DITIRAMBO
(A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER)
Un giorno, Eugenio, tramontava il sole E tu mi stavi accanto, Ed al cervello mio le tue parole Suggerivano un canto.
Tu mi dicevi: "La scienza è la luce "Che feconda gli ingegni; "È la guida infallibil che conduce "A inesplorati regni…
Ai regni inesplorati, agli ideali "Che tu cercando vai, "A cui le menti, che han tarpate l'ali "Non arrivano mai."
Ed io dicevo: "È vero!… I giorni miei "Passan senza splendori! "Oh, quante notti fra i bicchier perdei! "E quante fra gli amori!"
E ripetevo: "La scienza è la luce "Che feconda gli ingegni! "È la guida infallibil che conduce "A inesplorati regni!"
Poscia, rinchiuso nella stanza mia, Quella notte vegliai; Degli intravisti carmi l'armonia Mi si aperse e pensai:
Scienza, che debbo chiederti? Qual ben puoi tu largirmi? Ahimè!… Dei canti il fascino Forse tu puoi rapirmi! L'entusiasmo puoi togliermi Che i giorni miei fa lieti! L'entusiasmo!… Il tesoro dei poeti!
Scienza, che debbo chiederti? Forse il concetto immenso Del nostro nulla?—È inutile! Io questa idea la penso… Come da vasto incendio Le scintille incessanti, Così dal nulla a me vengono i canti
Tu sai giunger, per aride E tortuose vie, In lande ove s'impressero, Da tempo, l'orme mie! Scienza, che debbo chiederti? Io volo, e tu cammini… Per soffermarci agii stessi confini!
Puoi tu insegnarmi il numero Degli astri rotëanti? Dirmi che sia lo spazio E cosa sian gli istanti? Dirmi perchè sussistano La luce, l'ombra e il moto, E come in foglie si trasmuti il loto?
Scienza, a crëare insegnami Un'erba od un insetto; A discerner le cause Dell'odio e dell'affetto; A indovinar l'incognito Principio della creta; Scienza, dei mondi apprendimi la meta!
Ed io, fervente apostolo E adorator dell'arte, Verrò a chiedere l'estasi Alle tue dotte carte, E vestirò coi fascini D'un eterno poëma La soluzione del vital problema!
Ma, fino allora, chiederti, Scienza, che deggio io mai? Forse l'oro e la gloria Che da tempo spregiai? Forse di qualche popolo Le gesta o la favella? Forse una data o il nome d'una stella?..
Ahimè!…La scienza è un briciolo All'ignoto involato! Noi non ghermiam che un atomo E gridiamo: È il Creato!… E perdiamo nell'ansie, E perdiam negli affanni L'incantevol sorriso dei verd'anni!
E poi, giunti sul margine Della vita che fugge, Anco cinti di gloria, Un pensiero ne strugge; È del Nulla il fantasima Che nell'estrema prova Ci mormora all'orecchio: Or, che ti giova?…
Lo so; i verd'anni passano Pei dotti e pei gaudenti, E forse nel silenzio Degli anni miei cadenti, Triste e scorato, ai fervidi Giovani dì pensando, Anch'io dovrò ripeter lagrimando:
"Stolto!… I bei sogni sparvero! "Sparvero e nappi e amori, "E i giorni tuoi tramontano "Qual sol senza splendori! "Scendi, rabbiosa ed invida, "Nella tua sepoltura "A mutar forma, o volgar crëatura!"
È ver!… Ma tutti muojono, E dotti e gaudenti! E allor che giova il plauso O il biasmo delle genti? In un pugno di polvere L'incompreso Destino Muta i cranii di Dante e d'Arlecchino!
………………………….. …………………………..
Viviam!… Rubando un briciolo, Affannosi, all'Ignoto, O tessendo una lirica Ad un pugno di loto, Pensiam che i giorni passano, E che—forse—Alighieri Invidia il bimbo partorito jeri…
E vorrebbe rivivere Per giornate più liete, Soffocando nel cèrebro Della Scienza la sete,… Per poi—forse—rimpiangere, Fatto vecchio, gli allori Fra le tazze oblïati e fra gli amori!
Viviam!… Rubando un briciolo, Affannosi, all'Ignoto, O tessendo una lirica Ad un pugno di loto, Pensiam che i giorni passano E che—forse—Arlecchino Vorria rinascer per studiar latino
E vorrebbe rivivere Per diventar dottore, L'esilarante arguzia Soffocando nel cuore… Per poi—forse—rimpiangere, Fatto vecchio, le cene Rubate al ventre… dalle pergamene!
Viviam!… Dei desiderii È la turba infinita; Per soddisfarla gli uomini Troppo breve han la vita!… E vivesser coi secoli Convien che il labbro gema: "Noi siamo affranti…o la turba non scema!"
Viviam!… Lasciam che passino Servi all'istinto gli anni! Tutti avrem pari i gaudii, Tutti pari gli affanni!…. L'eternità in un circolo Infinito ne serra!… È il Nulla in cui s'avvoltola la terra,
Luglio 1875.
PER UNA SUICIDA
Una bionda fanciulla innamorata Dal terzo piano si gettò stasera. L'han raccolta piangendo ed è spirata!
Domani i preti, colla stola nera, Com'è costume, a prenderla verranno Recitando la solita preghiera;
Domani tutti il nome suo sapranno, E morrà nel frasario d'un giornale Questa epopëa d'un immenso affanno!
Poveretta!… La veste nuzïale L'attendeva coll'alba!… Ella ha voluto Mutare in epitaffio un madrigale!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Un tempo, anch'io, giovinetto inesperto, Credea nei libri di legger la vita, E non vedea che sterile deserto!
E rivivea la fantasia romita In epoche lontano; in mezzo a gente Che incancellabil orma avea scolpita.
E tutti mi diceano amaramente: "Che noi non siam che un popol di fantasmi; "Che i nostri affetti son ceneri spente;
"Che son svaniti amori ed entusiasmi; "E che i lampi e i profumi eran mutati "In fosforo volgare ed in mïasmi!"
Ed io discesi nei trivii affollati, Non recando nè fedi nè illusioni, Arido figlio di padri annojati.
Ma l'impeto fatal delle canzoni Tacitamente palpitar mi fea! Ed io, passando fra i tristi e fra i buoni,
Fra lo splendore d'una eterna idea E le tenebre folte, il mar solcando Degli eventi, che intorno a me fremea,
L'oltraggio fatto a noi dissi esecrando; E nella notte altrui trovai l'aurora; E risi e piansi anch'io; e lagrimando
La strofa mi sgorgò calda e sonora; E ritrovai la fede e la speranza, Perché m'accorsi che si vive ancora!
Sì!… Si vive! Si lagrima! Si danza! Come un dì! Come sempre! E infin che luce Avrà il sole ed i fiori avran fraganza,
Questo dramma, ora lieto ed ora truce, In cui tutti abbiam parte, ed è la vita, E che un'ignota man scrive e conduce,
Palpiterà di passione infinita, Miscêla arcana d'ombra e di splendore! E tu eterna starai (lampa romita,
Oppure incendio divampante) Amore!
Ottobre 1876.
QUANDO?
(A DINO MARAZZANI)
Quando i giorni verranno Della malinconia, E morirà d'affanno Nel mio cranio la giovin fantasia,
Io penserò alle notti, Che passai con me stesso; Agli studii interrotti Per meditar della lampa al riflesso;
Io penserò alle sere, Che, coi pochi diletti, Confusi le preghiere Per l'Arte, per il Vero e per gli affetti.
Allora, stanco anch'io Dei furbi e dei cretini, Mi sentirò il desìo, Il santo ardor di più vasti confini!
Stringerò nella mano Un nodoso bastone, E me ne andrò lontano Un balsamo a cercar, l'oblivïone…
Andrò verso l'Oriente, Col sole sulla fronte, Guardando avidamente La linea circolar dell'orizzonte.
E bacierò le siepi E i fiori per la via, E cercherò i presèpi Ove deporre la stanchezza mia.
E scenderò, pensando, Alle vaste marine; E vedrò, palpitando, Gli splendidi tramonti e le mattine.
Ritroverò la vita Nell'immensa natura; E la gioja infinita Del creato empirà la crëatura…
Parmi d'aver dinanti Le romite vallate; Le strade biancheggianti Ove la fine polve arde in estate;
Odo stillar le fonti Dallo spungoso tufo E, la sera, fra i monti, Stridere il grillo ed ululare il gufo.
Sento l'acre profumo Dell'erbe e delle piante E, sull'umido dumo, La verde cavalletta saltellante.
Poi, quando il giorno estremo Degli erranti miei giorni, Col comando supremo Vorrà che in vermi il corpo mio ritorni,
Io cercherò una sponda Giallastra e desolata, Ove si franga l'onda D'una glauca marina sconfinata
Là poserò le spalle Sull'arena minuta, Che, come eterna valle. Verso un fondo nebbioso andrà perduta;
Rammenterô le storie Della mia giovinezza; Rivivrò di memorie, Di pianto, di speranza e d'allegrezza;
Ed atomo piccino Dinanzi alla Natura E dinanzi al Destino, Coll'unghie mi farò una sepoltura,
Guarderò i cieli azzurri, Il mar pieno d'incanti, Di calme e di susurri, E i pulviscoli in aria roteanti.
Là morirò tranquillo Dagli uomini lontano… E, forse, fatto brillo Dall'agonia, colla tremula mano.
Sovra la sabbia ardente, Pensando all'universo, Traccierò sorridente, O dolce amico mio, l'ultimo verso.
ARS, ALMA MATER
(AD ALBERTO BARBAVARA)
L'Arte morrà!… o La splendida Arte che amiamo, o Alberto, Morrà, come ingannevole Miraggio del deserto!… Oh! Tu non sai l'angoscia Che in petto mi fremea Quando la triste idea Nel cranio mi guizzò! Nata col primo palpito Dell'umano pensiero, L'Arte non era in fascie Quando cantava Omero; Ma dalle vette olimpich All'Ellenia stupita Dicea: "Narro la vita "D'un'arte che passò!"
Dal sacro fiume Egizio, Dal Gange e dal Giordano Alle colonne d'Ercole Che chiudean l'oceáno, Errante coi fenicii, Ape del sen fecondo, Ella versò sul mondo Il miel di sue virtù. E ad Iside e ad Osiride Eresse monumenti; E verseggiò le pagine Dei vecchi testamenti; E toccò l'arpa a Davide; E al popol patriarca Disegnò l'are e l'arca; E celebrò Visnù.
In Grecia Apelle e Fidia Le chieser marmi e tele; Ella insegnò la linea Divina a Prassitele, E a Socrate e a Demostene La possente parola, E ad Eschilo la scuola Delle passioni aprì. Le mani d'Aristotile Ne composer la storia; La chiamò Saffo, in lagrime, Amor; Pericle, gloria; Inspirò l'odi a Pindaro; Seguì Alcibiade a festa; E gaja dalla testa D'Anacrëonte uscì…
Poi trasvolò, coll'aquile Delle legioni, a Roma; Ed intrecciando i lauri Alla flüente chioma, Cantò i trionfi, il sonito Delle tube guerriere, Le spoglie e le bandiere Del Lazio vincitor. E quando la Repubblica, L'invincibile atleta, Sotto il pugno di Cesare Si sfasciò come creta, Ella, che adora il genio, Nella bellezza avvolto, Baciò, plaudente, in volto L'audace lottator!
E l'adorò, recandogli Un impero a tributo; E, ad eternarlo, complici Ebbe Tacito e Bruto; E quando ei cadde, vittima Di vendetta gloriosa, Gli suggerì la posa In cui dovea morir. Sovra il suo corpo esangue S'abbandonò piangendo; E si temprò all'incudine D'uno spasimo orrendo… Poi surse, e avea nell'occhio Sguardi così possenti Che n'arsero le menti Nei secoli avvenir,
Ella narrò a Virgilio L'egloghe e l'epopee; Apprese in versi a Orazio Le proverbiali idee; E rizzò terme e templii, E circhi e colossei, E sogghignò agli Dei, Agli aúguri, agli altar. Dai lidi della Nubia Chiamò il pardo e il leone; Tolse a femminee viscere Caligola e Nerone; Rovesciò il bianco pollice In faccia ai moribondi, E chiese se altri mondi Eran da conquistar!…
Mutati i lauri in pampini. Nuda dal capo ai piedi, A mense interminabili Volle Eterie e Cinedi; E, brïaca, in un'orgia, Di vino e di deliri, Cadde dai drappi assiri Sul pavimento d'or. Fra i bianchi intercolonnii Ella era ancor sopita, Quando un profeta mistico Venne a chiamarla in vita. Ei la coprì col ruvido Manto, le diè una croce, E colla blanda voce Le favellò d'amor.
Cosparsa il crin di cenere Seco a pregar l'addusse; La confortò di massime Söavi ed inconcusse, E in mezzo a ignoti popoli, Quasi selvaggi ancora, Vestitala da suora, La chiuse in monaster. Ella, seguendo l'indole Di sua mondana vita, Da preci e da cilicii Affranta ed intristita, Per scongiurar la noja Del chiostro freddo ed ermo, Tradusse in canto fermo I timidi pensier.
Indi miniò una bibbia, Cesellò dei rosari, E ricamò in fantastici Fregi gli scapolarí… La santità dell'opere La rese ardita, e un giorno A un'asse si fe' attorno Con piume e con color, E disegnò un'aurëola In mezzo a cui, raggiante, Pinse il volto mitissimo Del suo profeta e amante; E, le pupille in lagrime, Compunta a divozione, Disse alle genti buone: "Questi è Nostro Signor!"
Fu la sua voce armonica Che il nuovo dogma apprese; Fu per sua man che sursero E metropoli e chiese; E dissero i miracoli Di sue glorie passate, Le aguglie, le navate, I pöemi e gli altar. Pur, colle glorie, l'orgia Fatal non iscordava; E il giorno che un Pontefice La volle far sua schiava, L'Arte, la bella indomita, Volse le spalle al tristo, E fea ritorno a Cristo Per piangere e pregar.
Un'invincibil nausea Le saliva alla bocca, Chè l'andazzo del secolo La fea torva e barocca; Eran grottesche immagini Di frati, angioli e santi Con manti svolazzanti E iperbolici pel; Erano idee rachitiche Cinte di gonfie vesti; Sparía la pura linea Sotto i fregi funesti; E nei giardini mistici Della latina scuola Il puzzo di Lojola Isterilia gli stel.
E Sanzio, e Michelangelo Non eran polve ancora Quand'ella in Francia e in Anglia Vide la prima aurora; E, mentre di Giansenio La pura man guidava, Fremeva e palpitava D'Amleto col cantor. Poscia amò i nèi, la cipria, Le satire mordenti; Chiamò gli Enciclopedici In sale aurate e olenti; E, per fuggir degli Arcadi L'inesorabil belo, Della Germania al Cielo Cercò sorti miglior.
Ma sulla strada un pallido Giovinetto severo La soffermò, dicendole: "Io mi chiamo Pensiero. "Il mondo mi perseguita; "Io gli grido che l'amo; "Ma son povero e gramo, "E non mi vuole udir! "Tu sei leggiadra, e gli uomini "Aman le cose belle; "Or ben, di' lor che il raggio "Io scrutai delle stelle, "Che la pena ed il premio "Impartirò a chi tocca; "Per la tua rosea bocca "Io mi farò capir!…"
L'Arte e il Pensier si amarono. Ella porse al Pensiero Le gioje che sollevano; Egli le apprese il vero. Ma l'Arte, esperta e provvida, Recò al novello tetto Di cortigiana il letto, Di monaca il pudor. Dall'ideal connubio (Non più Minerva strana Nata da stolto cranio, Nè isterica cristiana, Ma dolce e melanconica, E d'austera parvenza) Nacque una figlia—o Scienza Tu palpitasti allor!
E, gigante, fra gli uomini Già il tuo nome risuona! Ma corre ancora il popolo Alla tua madre buona, E la sua voce armonica E i suoi racconti adora, E ride e freme e plora, Udendoli narrar. E l'Arte narra i dubbi, Che ne assedian qui in terra, E i miti, e i sogni, e i simboli, E la pace, e la guerra; Parla di re e di popoli, D'amorose leggende, E, dai palagi, scende Al rozzo casolar.
Poscia veggendo, trepida, Che dei tempi passati La monotona storia Ha i cèrebri annojati, Sferza colla commedia Le goffe costumanze, E scruta nelle stanze Gli intrighi ed i mister. E, risalendo ai limpidi Fonti della natura, Ci canta in un Idillio Crëato e crëatura, E insegna all'occhio l'ultima Gradazione di verde, Che da lontan si perde In profumo leggier.
L'Arte è la candid'avola Che tesse le sue fole; E noi, che ancor siam pargoli, Amiam le sue parole; Ma, fatti adulti, i popoli La chiameran ciarliera, Ed alla figlia austera Rivolgeranno il piè!… E cercheran l'oceano Del fiume antico uggiati; E scruteran dai vertici I cieli sconfinati; E chiederanno i fascini, Che il genio oggi dispensa, Alla natura immensa, Che tutto chiude in sè.
Forse tu sola, o Musica, Astrazion dell'idea. Vivrai, dell'arti l'ultima E più perfetta Dea! L'altre morran!… Le statue (Simulacri pallenti Delle beltà viventi) Cadranno infrante al suol; E voi, riflesso inutile Di ciò che esiste, o tele, Voi copriràn la polvere, L'oblío, le ragnatele! O libri, al fuoco!… Briciole Della filosofia!… Ogni fisonomia È un libro aperto al sol!
Alberto, ho il ciglio in lagrime Penso a quel dì fatale! Alla luce novissima Della scienza ideale! All'orrenda catastrofe Della tragedia trista! Penso all'ultimo artista Che quel giorno vivrà! Ei della madre suggere Vorrà l'esausto petto, E rabbioso e famelico Lo dirà maledetto; E forse, per resistere Un'ora all'ardua pugna, Lo graffierà coll'ugna E il sangue ne berrà!
Agosto 1876.
DE MINIMIS.
MORS TUA, VITA MEA
Era un uomo sensibile; dicea Che tutto vive d'una vita arcana; Che, come il bruco, si forma l'idea; Che non è sola l'esistenza umana.
E predicava ai bimbi e ai giovinetti Di rispettar gli steli delle rose, I nidi delle rondini, e gli insetti, E le sementi, e gli uomini, e le cose.
Poi, meditando l'incessante guerra Che la fame crudel move ai men forti, E pensando che ognun semina in terra Ad ogni passo migliaja di morti,
D'infinita pietà pianse angosciato, E, i cibi rifiutando alla natura, In un angol tranquillo del crëato S'adagiò, come morto a sepoltura.
Là, rivolgendo gli occhi moribondi Ai fil d'erba ed ai fior ch'avea vicini, Vide la vita di novelli mondi, La strana vita d'esseri piccini.
Vide un bruco, due ragne e un capinero, Il bruco, rosicchiando un'erba-menta, Rotava in essa, senza alcun pensiero, Il pungolo, che sfibra e che tormenta.
E poi che sazio, in estasi bëate Levava il picciol capo verso il sole, Le ragne da una foglia arsa sbucate, Si divisero il bruco nelle gole.
Le due comari, del bottino liete, Facevan l'una all'altra i complimenti, Quando, piombando dal vicino abete Il capinero, li mutò in lamenti.
Nel giallo becco ei se le prese entrambe Trillando gajamente: Il colpo è bello!… —L'uomo sensibil balzò sulle gambe, Stese la mano… e si mangiò l'uccello.
Luglio 1876.
FLECTAR, NON FRANGAR
(A LUIGI DELLA BEFFA)
Tu vuoi saper perchè la vita mia Colla gente volgare si consumi, E come io pensi un'ode all'osteria Fra gli sconci profumi;
Tu vuoi saper perchè fra gli imbecilli Cerco talora qualche idea sublime, E come mai le nebbie dei pusilli Mi dian l'audaci rime;
Tu vuoi saper perchè passo le sere Giuocando un trivial giuoco coi cretini Bevendo spesso le tisane nere Che l'oste chiama vini!
Io sono lo scultor che il sasso adora Con cui saprà dar vita ad una Dea; So che dopo la notte vien l'aurora, Dopo il dubbio l'idea.
So che il maggio fa seguito all'inverno, E che il torpore è padre all'entusiasmo, E che la vita è un alternarsi eterno D'olezzo e di mïasmo!
Come l'aquila anch'io dormo sovente In una grotta una lunga stagione, E nell'ore volgari e sonnolente Annego la ragione…
Poi spicco l'ali dall'oscuro nido E, librandomi in ciel, nel volo immenso Saluto il mondo con superbo strido…— È allor che canto e penso.
Autunno 1875.
MELODIA
Gli amanti passeggiavano—mentre cadeva il sole; Mormoravan le labbra—portentose parole; Un inno solo dalle labbra uscia, Un inno che diceva: La parola dell'uomo è melodia, Che sovra ogni idïoma si solleva!
Gli usignuoli cantavano—mentre cadeva il sole Echeggiavan nei boschi—i trilli delle gole; E un lieto canto dalle gole ascia, Un canto che diceva: Solo il nostro linguaggio è melodia Che sovra ogni idïoma si solleva!
Sui rugiadosi margini,—mentre cadeva il sole, Nelle ebbrezze del polline—cantavan le viole; Cantavano con note di profumi, E cantavano il maggio; E tremolanti sui roridi dumi Diceano: Il nostro è il più gentil linguaggio!
Nascosta in un rigagnolo,—mentre il sol tramontava, La femmina d'un rospo—ancor essa cantava; Il prediletto che quel canto udia, Da lungi rispondeva: La tua voce, o mia sposa, ë melodia Che sovra ogni idïoma si solleva!
Un pallido filosofo,—mentre il sol tramontava. Sulla strada maëstra—pensieroso passava; Egli ascoltò gli amanti, i fior, gli uccelli E i rospi, e disse in cuore: I linguaggi quaggiù son tutti belli, E specialmente se parlan d'amore!
Luglio 1876
SEMINARE E RACCOGLIERE
Il cuore è un ventilabro—e noi siam mietitori. Noi seminiam gli affetti a piene mani,
Crediam nelle sementi—che promettono i fiori, Crediamo nelle messi del domani.
Poscia, giunti nel mezzo—del campo della vita, Ci volgiamo alle zolle fecondate;
Non crediam più: speriamo;—speriam la via fiorita; Vogliam mietere i fiori e le derrate.
Ahimè!… Da pochi semi—la pianta si matura! Di molti sterpi la campagna è piena!
E un popolo d'arbusti,—spossati dall'arsura, Chinan la testa sulla gialla arena!
Noi moriam, seminando—la fede e la speranza, Raccogliendo la noja e l'amarezza,
Ai giovani invidiando—la inutile esultanza… E pur bramando lunga la vecchiezza!
Il cuore è un ventilàbro—e noi siam mietitori; Noi guardiamo le zolle fecondate
E le troviam coperte—di spine e di dolori O da compianti cippi funestate.
IL MARE CANTA
(A ENRICO CAROSELLI)
Il mare canta, il fremito dell'onde Son note, son cadenze, son canzoni; E i raggi che la luna in ciel diffonde Son tremule visioni.
I pescatori nelle glauche notti Del Gran Cantore ascoltano i concenti E alla spiaggia li recano, tradotti In melodici accenti.
Napoli abbraccia il mar, come un pöeta Abbraccia l'arpa, con cui ride o geme; Quando tranquillo è il mar Napoli è lieta, Quando è in tempesta freme.
Santa Lucia, febbrajo 1876.
EN ATTENDANT
Il ragno, che da un albero All'altro va tessendo la sua tela, Al pöeta, che smania Dietro i suoi canti, un conforto rivela.
Ei da un ramo si dondola, Acrobata sospeso a un fil d'argento; Tenta alla meta giungere,… Ma sempre invano!… E, allora,aspetta il vento.
Così il pöeta penzola, Pria di spingersi a voi, sulle illusioni; E tenta, e veglia, e spasima… Indi aspetta le sacre ispirazioni.
Luglio 1876.—In un bosco.
A UN CALENDARIO AMERICANO
Nella mia stanza ho un picciol calendario Da cui strappo un foglietto Tutte le sere, pria di pormi a letto.
Quante cose stan scritte Sull'esil cartolina! In alto il mese; poi, sotto la data, L'effemeride e un piatto di cucina! Ieri diceva:— Luglio—Ventidue; San Prospero—Battaglia nel tal sito, L'anno tale—Bollito Di filetto di bue.
Strano compendio della vita umana! La farsa e il dramma! Il sorriso ed il pianto L'esistenza è una cinica fiumana Che a ignoto mar discende! Oggi a foschi burron passa daccanto, Tra i fior domani d'un giardin risplende Sotto i raggi dell'alba, ed alla sera Rugge fra i massi d'orrenda scogliera!
Quand'io ti strappo, o breve cartolina, Sento una stretta al cuore; Sento la giovinezza che declina; Penso che l'uomo tutti i giorni muore!
Luglio 1876.
ACQUA DEI MONTI
È questa la purissima Acqua dei monti; La cristallina lagrima D'äeree fronti.
Anche le vette piangono Ed han sorrisi, Ed i cipressi alternano Ai fiordalisi…
L'acqua è l'ingenua figlia Dei cicli azzurri, E parlano d'ambrosie I suoi susurri.
L'acqua è la figlia tenera D'inferociti Giganti e, quasi a molcerli, Lambe i graniti.
Madonna d'Oropa, 1876.
IN CORPO DI GUARDIA
(A GIACINTO GALLINA)
È la sera.—Nei lunghi corridoi E nei vasti cortili Passeggiano i soldati. Ognun favella dei päesi suoi E dei volti gentili Che al villaggio ha lasciati. Si canta, si schiamazza, si riaccende La pipa.
In fondo agli anditi risplende La lucerna notturna, la facella Che veglierà di dentro, Mentre veglia di fuor la sentinella.
Quanti giovani ardenti! Menenio Agrippa ha detto Che le nazion son uomini viventi; Chi ne forma la testa E chi ne forma il petto, Chi le braccia e chi il ventre; ed a me pare Che l'esercito sia Il giovin sangue della patria mia.
Tramonteranno i giorni in cui le spade Scintilleranno ai rai del sole.—Allora Questi soldati di varie contrade Saluteranno la novella aurora; Rivedranno le madri e, l'ire spente, Muteranno l'acciaio dei fucili Nei miti aràtri; e obliando la guerra, Feconderan la terra Della loro vallata sorridente.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I trombettieri sono usciti.—È l'ora In cui debbo a sonar la ritirata; E una folla di gente entusiasmata Si farà ad essi attorno, E udrà gli squilli acuti e le cadenze Che usciran dalle trombe luccicanti; E seguirà, con fervide movenze, I soldati che tornano al quartiere.
Poi cesserà il clamor degli abitanti; Moriran le canzoni E moriranno delle trombe i suoni; Scenderà sui cortili e nelle stanze Un silenzio solenne; E l'ombra romperà dei corridoi La lucerna notturna, la facella Che veglierà di dentro, Mentre veglia di fuor la sentinella.
Quartiere San Filippo, Milano, agosto 1876.
ULTIMA RATIO
Allor che tatto tace E mi rinchiudo nella stanza mia. Sento una voce in cuore, un'armonia, Che mi susurra: La vita è la Pace.
Allor che nella storia Dei popoli e dei re scruto le gesta, Una smania m'opprime e mi molesta, E mi ripete: La vita è la Gloria!
Allor che dal languore D'una notte di baci io son spossato, Una voce mi giunge dal creato, Che mi ripete: La vita è l' Amore!
Quando un vecchio piloto Mi narra gli usi di lontane genti E dei suoi giorni i fortunosi eventi, Io ripeto fra me: La vita è il Moto!
Quando la melodia D'un verso o d'un liuto mi percote, Mi echeggian nella mente colle note Le parole: La vita è Poësia!
Se alla diva potenza Io penso del cervello di Keplero, Se a Spallanzani rivolgo il pensiero., Dico fra me: La vita è la Scïenza!
Ma, se in mezzo a una brulla Campagna, a meditar mesto m'aggiro, Guardo il cielo, la terra… indi sospiro. E ripeto fra me: La vita è il Nulla!
DIES.
ALBA
E sia così!—Sul nostro capo un altro Giorno risplenda!—A noi la luce; il bujo Agli antipodi!—A tutti la nojosa Catena della vita; a tutti, grami E possenti, la uggiosa vicenda Del cibo e delle vesti!
Un'alba ancora!
Pallida luce del lontano oriente, Sia tu di nebbie apportatrìce o nunzia Di lieto sol; abbia tu rose al crine O di pioviggin umida ne venga, Nulla ti chieggo!…
I desiderii miei Non han confine, e, novello Epulone, In questo inferno, ove innocente caddi, Io mille volte vo' morir di sete Pria di volgermi a te pietosamente Mendicando una gocciola!
Ahi!… D'Abramo Più ancor spietata, a me,—che nulla chieggo— Un balsamo fatale, alba, tu imponi!
L'illusïon m'imponi e la speranza, Che renderan più amari i disinganni; E illumini le carte, ov'io favello Con me stesso; ed aggiungi un altro filo A questo cencio, a questa ragnatela Del mio futile orgoglio; e mi conforti Di sublimi parole:
"All'opra!… Avanti! "Al lavoro!… Al lavoro!… A te, o pöeta, "La luce e il moto!… A te l'immenso dono "Di qualche centinajo di minuti!!…"
Vecchia megera, sfinge imbellettata, Scialba carogna rizzata sui trampoli, Dal ghigno sterëotipo e dai mille Fronzoli in similoro,… ad altri narra Le tue storielle!… Un vecchio lupo io sono Che non dà nei tuoi lacci!
"All'opra! All'opra! "Al lavoro!… "
E tu intanto, oscena arpia, Mi pagherai col rabescar di rughe Il mio sembiante; col pelarmi il cranio; Collo sfiaccarmi i muscoli e filtrarmi Nelle vene e nell'ossa,—a poco a poco,— Il gel dell'agonia!…
Nulla ti chieggo Alba!… No!—Errai!—Ti chieggo un verso; un verso Per maledirti, quanto umanamente È dato maledir!… Ora ai tuoi vezzi Presti fede chi vuole!… Io m'addormento!
MERIGGIO
9 FEBBRAJO 187*.
Piegate per gli amanti, scongiurate il Signore Che creò la sventura quando creò l'amore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tutti abbiam nella vita L'ora fatal che resta, come negro stilita Sul nostro capo, immobile, finché anuiam sottoterra. E. PRAGA.
Questo e il mio dì fatale!… O genti buone, Se i canti miei v'han dato un entusiasmo. Se una scintilla dell'anima mia V'arse un istante, siatemi cortesi D'una lagrima.
Ho qui dentro un'angoscia Che non ebbi giammai!… Oggi ho perduto L'illusione del mio primo amore! Un amore di fuoco, uno sfrenato Abbandono dei sensi!… Oggi colei, Che ieri ancor nei supremi deliri Mi chiamava il suo angelo, m'ha detto Che spento a un tratto si sentì nel coro Ogni disio di me!
Questo è il meriggio! Questo è il triste meriggio della mia Povera vita!
Io sono solo e piango, Ed amo ancora!
Oh!… N'ho provate tante D'amarezze quaggiù!… Negli anni primi Io senza guida rimasi qui in terra; Poscia, orrende compagne, ebbi la fame, E la miseria, e il freddo, e la crudele Compassion dei felici, e l'ironia Dei mille!…
E quelli fùr giorni di gioja Al paragon di questo!… Allora i canti Giocondamente mi nascean nel cranio. Ed io, recando un ideai tesoro Di pöesia, indifferente o lieto Passavo in mezzo alle sventure mie!
Oh! Maledetta la tua testa bionda, O crëatura, che hai forma di donna! Tu, venuta per compier l'anatèma Che un'altra mi scagliò, quand'io non volli Da amor turbati i miei futili sogni Di gloria!… Oh!… Mille volte maledetta Quella tua bocca ch'io baciai fremendo! Quelle tue carni che col labbro mio Consacrai tutte!
O carni!… O polve!… O vermi Olezzanti d'olezzi celestiali! S'agita ancora questo sangue mio. Tumultuando, s'io ripenso a voi! Ma un più intenso desir m'arde le vene! Ed è quel di vedervi entro una bara Scender sotterra a tornar vermi e polve! Maledetta la man che mi porgesti, O donna, il dì che ti venni dinanzi! Maledetto il tuo seno e maledette Le tue spalle! Ed il piè, con cui movesti Ai ritrovi d'amor che m'han bëato! E la tua lingua e le beltà recondite Del tuo corpo, in eterno maledette!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Io nacqui buono, e là, dove potea Giunger la mano mia, sempre una lagrima Tersi; e, piangendo, il perdono implorai Persin dai bimbi, se, cieco per l'ira, Recai loro un'offesa; ed amo i fiori E l'indulgenza; e un'immensa vergogna Mi sale al viso s'io penso che alcuno, Più debole di me, può dir: " Tu, forte, "Mi oltraggiasti! "
Ma in questa ora fatale Io medito un delitto; ed accarezzo Nefande idee di sangue; e s'io potessi Esser solo con lei, lontan da tutti, Non veduto, nell'ombra, io la vorrei Vigliaccamente uccidere!… Vorrei Vederla agonizzar fra le mie braccia; E guardarle negli occhi, annebbïati Dalla morte; e coll'ugne, gocciolanti Del sangue suo, vorrei scavarle io stesso La fossa; e seppellirla; e fra le genti Tornar ridendo; e pormi sulla faccia Una maschera; e il dì, che la sua salma Assassinata fosse discoverta, Vorrei mescermi al volgo impietosito; E simular le lagrime; e cantarne Le laudi: e a tutti asseverar, piangendo, Ch'io ne morrò d'angoscia!…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Oh!… Scellerate Aberrazioni!… Oh!… Mia povera mente! Oh!… Accesa lava dei miei fervidi anni! Deh'… Perdonate!… Io sono un pazzo!… Io piango E son solo!…
E il profil di quella bionda Testa di donna io l'ho dinanzi agli occhi Come nei dì ch'io la copria di baci!
Or mansueto le favello:
"O amata "Crëatura gentil, vorrei morire "Pria di vederti piangere!… Darei "Tutto il mio sangue per vederti lieta! "Alla legge d'amor chino la testa! "Qual colpa è in te se i baci miei, che un giorno "Ti davano il delirio, or ti dan noja? "Qual colpa e in te, che., lagrimando, forse "T'aggrappasti, nell'ultime giornate, "Ai ruderi sconnessi d'un affetto "Che cadeva in rovina?!
"È eterna legge "Che la fiamma d'amor non duri eterna! "Ma eternamente io porterò nel cuore "La tua dolce memoria! E benedetto "Dirò il giorno, in cui tu, nulla chiedendo "Fuor che carezze, a me, che non osavo "Neppur sperarlo, spalancasti il cielo "Di tue beltà!…
"Non ha gemme la terra "Che paghino una sola ora d'amore!… "Ed io fui ricco!… Ed or di mia dovizia "Le briciole soltanto, le memorie, "Conforteranno i miei venturi giorni!
"Ah!… S'io potessi (ineffabil miracolo!) "Dimenticare le tue carni e il tuo "Sembïante, e il tuo nome, e rammentarmi "Dei nostri baci e delle nostre notti "Come di baci e di notti trascorse "In altra vita che non sia codesta! "Come di eventi di tempi remoti!
"Deh!… Fa ch'io non ti vegga!… Solitario "Mi chiuderò fra quattro mura, e lungi, "Lungi di qui vo' seppellirmi, in fondo "A qualche tetra valle, o in cima a un'alpe, "Pur ch'io più non incontri nelle vie "Il tuo flessibil corpo da libellula, "Che nelle forme aggrazïate ha un fascino "Voluttüoso che insulta e tormenta! "Pur ch'io più non ti vegga!… o un vel di sangue "M'offuscherà dell'intelletto il lume! "Ed io dovrei bruttar la vita mia "Inconsapevolmente (ahi mi perdona!) "D'una macchia di sangue!"
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
O genti buone, Se i canti miei v'han dato un entusiasmo, Se una scintilla dell'anima mia V'arse un istante, siatemi cortesi D'una lagrima!
Ho qui dentro un'angoscia Che non ebbi giammai!… Oggi ho perduto L'illusïone del mio primo amore! Questo è il mio dì fatale!… E l'abbiam tutti, Genti buone, quaggiù!… Questo è il meriggio! Questo è il triste meriggio della mia Povera vita!… E mi coce il sollione Dei più torbidi affetti, ed ho nel cuore Il fuoco e lo splendore smaglïante Che nel meriggio abbacina ed uccide!
Io sono solo, e piango, ed amo ancora!
Milano, febbraio 187*.
SERA
Quando dai margini—verdi, le Driadi, Fuggendo i roridi—guazzi del Vespero, Solinghe traggono—verso gli spechi, I campi han echi
Indefinibili;—la brezza mormora; L'estremo bacio,—coi raggi vividi, Sugli alti culmini—dardeggia il sole; Rose e vïole
Pingon la glauca—vôlta dell'etere; I grilli trillano—fra l'erbe tenui; E dentro il calice—chiuso dei fiori, Nido d'amori,
Trovano un talamo—pieno d'effluvii Gli insetti; i placidi—sonni discendono; Ed accarezzano—le fronti umane Estasi arcane.
È allor ch'io medito—dei melanconici Miei versi il flebile—metro!… Di lagrime Un vel m'intorbida—l'occhio languente; Allor, dolente
D'inconsapevoli—mali, di squallidi Giorni d'angoscia—sento il presagio; Ricordo i rantoli—dei moribondi, Penso ai profondi
Misteri, ed évoco—mille fantasimi Torvi, ed enumero—tutte le noje, Tutte le ambascie,—tutti i sospiri, Tutti i deliri,
Che angustian l'anima—di quei che vivono! E sulle spiagge—dei vasti océani Singhiozzo e vagolo,—fremo ed impreco Al Fato bieco
Che in quest'assidua—vita, pulviscolo Gramo, mi esagita;—che in questo circolo Triste m'avvinghia—dell'esistenza; Vana parvenza,
Cui non i secoli—la via segnarono, E che precipita—(l'indivisibile Tarlo recandosi—d'un perchè ignoto) Giù nel remoto!…
Il Vespro è l'íncubo—della mia splendida Musa, che inebbriasi—di ardenti cantici Allor che in candide—nebbiose bende L'alba risplende;
Il Vespro è l'íncubo—della mia splendida Musa, che veglia—serena ed ilare; E a me gli esametri, nella notturna Ora, dall'urna
Dorata, prodiga—mescendo; il Vespero Ha, nella tremula—penombra, il dubbio E, nella mistica—melanconia Ha l'agonia!
Ed io, che, trepido,—di questa effimera Mia vita medito—l'ora novissima, Reco nell'intima—mente una vaga Scienza presaga:
Credo che il debole—fil, che mi tessono Le Parche, rompersi—dovrà al crepuscolo; E che il mio spirito—dovrà partire All'imbrunire;
Poichè, or che in fervidi—flotti il mio sangue Nelle ancor giovani—membra si esagita, Io, del crepuscolo—nella penombra, Mi sento un'ombra!
Ottobre 1876.
NOTTE
A MARIA.
Gli astri scintillano;—l'onda riposa; E sovra il glauco—specchio del mare Il raggio tremola—d'una pietosa Luce lunare.
Da lungi il circolo—delle pendici Chiude la baja—con braccia immani; Ivi approdarono—Libii e Fenici Mori ed Ispani.
Le barche dormono—presso la rada; Il flutto instabile—ne culla il sonno; Ed a fior d'acqua—guizzan l'orada La triglia e il tonno.
I fari splendono—là, in lontananza, Pupille immobili—fise nel vuoto; E par che evóchino—la rimembranza D'un dì remoto.
Maria, nell'anima—ho l'armonia Dei più ineffabili—sensi d'amore; Sul labbro ho un gemito—di pöesia E di languore!
E vorrei stringerti—sul petto, come Stretta è la baja—dalle pendici; E col tuo incidere—leggiadro nome Queste felici
Ore fuggevoli!—Libar vorrei Qualche satanico—filtro amoroso Che addoppi l'impeto—dei sensi miei!… Poscia al riposo
Eterno chiudere—gli occhi; il passato Tutto in un'estasi—ridir fra noi… Scendere all'Èrebo—martirizzato Dai baci tuoi.
CITTÀ ITALIANE
NAPOLI
(A MICHELE UDA)
Napoli è il pandemonio D'ogni stranezza umana; Vi si respira il soffio Dell'epoca pagana; Come al tempo dei Cesari Rimaser le taverne; Serban l'antica foggia L'anfore e le lucerne.
Il popolo s'inebria Di leggende e di canti; Ama le notti tiepide, I tramonti smaglianti, L'albe serene, il glauco Color della marina, Ciò che fa chiasso e luccica, Il lotto e Mergellina.
Ogni veste in fantastici Disegni si ricama; La ricchezza frastaglia I merletti alla dama, E l'abile miseria Alle povere donne In pittoreschi cenci Sa ricamar le gonne.
Di poco pane e d'acqua La plebe si nutrica; Ha l'apatia mirabile Della sapienza antica; Come adorava gli idoli, Adora i santi adesso; I simboli mutarono, Ma il culto è ancor lo stesso
I cocchieri bestemmiano Per le marmoree vie… E salutano agli angoli I Cristi e le Marie. Spesso la fame, squallida Larva, i tugurii invade… E cogli aranci i pargoli Giuocano nelle strade.
Oggi si muta in ghiaccio L'umor delle fontane… E le camelie sbocciano Col sol della dimane. Ogni edificio è un'ampia Mole che in cielo ascende… E a vivere sul lastrico Il cittadin discende.
Ieri l'orrendo tremito D'un sotterraneo moto Facea pregare e piangere Il popolo devoto… Oggi, già quasi immemore Del periglio mortale, Ei pensa alle baldorie Del pazzo carnevale.
Napoli è il pandemonio D'ogni stranezza umana! Un ineffabil fascino Dalle sue pietre emana; Pari alla vita assidua Di sua genial natura, Un incessante fremito Vibra fra le sue mura.
Bimbi, cavalli e monaci, Soldati e marinari, Dame, accattoni e lazzari, Ganimedi e somari, Cocchi, carri e curricoli, Mercajuoli ed artieri, Un mondo indefinibile Brulica nei quartieri.
I confratelli, in candidi Lenzuoli imbacuccati, Colle faci precedono I feretri dorati; E intanto, sotto i portici, Trofei multicolori, S'innalzano a piramidi Frutta, legumi e fiori.
Come pesci, i ladruncoli Guizzan fra dorsi e petti; Le cortigiane passano Ridendo ai giovinetti; E fra le ruote, gli uomini, Le donne ed i cavalli Delle capre lampeggiano I limpid'occhi gialli.
Echeggia intorno l'impeto Dalle robuste gole; La negra folla ondeggia Sotto i raggi del sole; Mille campane annunziano Battesimi e agonie… E Pulcinella sbraita Lazzi e corbellerie.
Dal porto, colla candida Ala cercando il vento, Le navicelle salpano Per Gäeta e Sorrento; E in fondo (immane fiaccola Che il Tempo non consuma) Sovra le cose e gli uomini, L'alto Vesuvio fuma.
O mia canzone, librati Nell'aria profumata; Guarda l'immensa cerchia Della città incantata; Vedrai che da Posilipo A Porta Capuana… Napoli è il pandemonio D'ogni stranezza umana.
Napoli, 3 febbrajo 1876.
CAGLIARI
(AD AGGELO SOMMARUGA)
Cagliari è fatta di case giallastre, Come un branco d'agnelle a un monte appese; E scivolan le scarpe sulle lastre Delle sue strade ripide e scoscese.
C'è una gran baja ed un porto piccino, Ove l'onda giammai freme adirata, E par che dica ad ogni brigantino: "Se tu cerchi la pace, l'hai trovata!"
Cagliari è gaja; ha un'aria patriarcale, E del buon tempo antico ama la legge; E non pensa a mutar la cattedrale Lo strano campanil che la protegge.
La turba scarmigliata dei picciocchi Gira dovunque col corbello in testa, E sguscia dei passanti fra i ginocchi Più delle anguille irrequïeta e lesta.
Quel corbello è il suo pane ed è il suo tetto, Ed il picciocco mai non l'abbandona; Se vuoi dormire egli ne fa il suo letto; È il suo scudo, il suo stral s'egli tenzona.
Quando piove ei lo muta in un ombrello, Lo cambia in parasol quando è l'agosto, Poi, pien di merci—tornato corbello— Per due soldi lo reca in ogni posto.
La gente dorme quando il giorno cade; S'alza coi primi albori e va al mercato; E le donne sciorinan per le strade I pannilini freschi di bucato.
I cittadini hanno la faccia rasa; Vengon dai monti i villosi sembianti; Le cittadine son massaje in casa E a San Remy son belle ed eleganti.
Gli innamorati hanno un costume strano, E l'uso è tal che nessuno ci abbada; La dama sta a un balcon del terzo piano Ed il damo le parla… dalla strada!
Di sibili infiorato è l'idïoma, Dolce all'amore; auster su labbri austeri. C'è qualche bimbo colla bionda chioma… Caso raro!… perchè son tutti neri!
Cagliari guarda il mar, mentre al suo fianco Ha liete valli e colli pittoreschi, E larghe vie dal suol sassoso e bianco, Ed irte siepi di fichi moreschi.
Grappoli enormi e picciolette viti Ornan le balze—ridenti festoni!— E all'arse gole fa graziosi inviti Lo scialbo color d'ambra dei limoni.
Siam quasi al verno e par di primavera! E melegrane e cedri ed ananassi Ti mandan, colla brezza della sera, Un saluto d'effluvii quando passi.
Cagliari guarda il mare, e, alle sue terga, Stan campi incolti e vergini foreste, Dove il cinghiale e dove il cervo alberga, Dove vette prezíose alzan le creste.
Ivi una febbre d'or spinge gli umani, Ma (ahimè!…) talvolta l' or sfugge agli audaci E resta sol la febbre all'indomani Che li dissangua cogli orrendi baci!. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Oggi è sagra, ed il popolo ha indossato Il costume gentil del suo päese; Nè più bello un pittor l'avria foggiato Cui fosse il Genio dei color cortese.
Lungo la baja è un ondeggiar festante Di gonne rosse dai botton lucenti; È una baldoria, un correre incessante Di cavallucci magri e intelligenti.
E intorno al picciol porto—ove diè fondo La carena panciuta dei velieri— Havvi una folla, un'accozzaglia, un mondo Di brache bianche e di berretti neri.
Cagliari, domenica, 22 ottobre 1876.
SOCIALISMO
Uscita da caligini profonde, Ch'io vo tentando e a penetrar non basto, Salute a te, nelle tue vie feconde, O Umanità, cui ciascun dì risponde Un idëal più vasto!
27 ottobre 1860.
(A. ARNABOLDI— Sulla montagna ).
EPISTOLA
A
ENRICO BIGNAMI
SOCIALISMO
Dal dì che pochi dissero:—"Ecco i nuovi orizzonti!" E che un fiero entusiasmo—scintillò sulle fronti, E che feudi e tiranni,—pregiudizii e messali Entraron, colla peste,—nel novero dei mali, L'umanità rïarse—d'una febbre incessante: Dei soffrenti si mosse—l'esercito gigante, E la tema scotendo—giù dai dorsi avviliti, Sorse a chieder ragione—degli insulti patiti.
Furon giorni di sangue;—rosseggiaron le vie… È ver!… Colle zizzanie—cadder rose e gazzie… Ma pari alle tempeste—son le amare vendette! Non han leggi in entrambe—e castighi e säette! Gli stolidi soltanto—vorrebber la Natura Eguale al freddo svizzero—che i suoi colpi misura!
Un tempo era il carnefice—del popolo maestro; Ei l'educò alla scuola—dei ceppi e del capestro; Al codice mitissimo—il popolo educato Si vendicò col sangue;..—come aveva imparato.
Al!… Non gettiam la pietra—su chi lava un oltraggio! Chi, fra noi, del perdono—ebbe sempre il coraggio? Nelle pagine lunghe,—su cui veglia la Storia, Tra le feste d'un giorno,—tra una colpa e una gloria, Tra il sovrapporsi assiduo—d'un evento a un evento, Dalle viscere umane—esce sempre un lamento!
Cristo, anch'egli, degl'empi—rese il braccio più ardito! E fu il giorno che in croce,—per le angoscie sfinito, Gridò un'ultima volta:—"Sopportate e tacete!"
Gli empi ne profittarono.
—E quando ei disse: "Ho sete!" D'aceto e fiel gli porsero—una spugna bagnata!
Or ben, quando dei buoni—fu la bontà oltraggiata, Non un giorno, ma secoli,—essi tacquer pazienti…! E gli empi li derisero—raddoppiando i tormenti.
Ma venne il dì che i buoni-dissero anch'essi: "Ho sete!" E avean sete di scienza,—di libertà!… "Bevete!…" Fu lor risposto. E il sangue—si diede lor dei figli! E morirono i padri—su fetidi giacigli! E messe alla tortura—für le membra del saggio!
Ah!… Non gettiam la pietra—su chi lava un oltraggio! Cristo era un uomo-dio;—noi non siam che mortali! Ei sapeva che il cielo—esisteva; che i mali, Con cui l'avean qui in terra—i tristi vilipeso, Gli fruttavan la gloria—del trono ov'era sceso!
Ma per noi questo cielo,—questa speranza sola, È un mistero!… Per noi—il cielo è una parola!..
Perchè voler, da fragili—e grame creature, Ciò che forse è miracolo—per divine nature?
Ma libriamoci in alto;—tra il vero e l'ideale; Ove l'aria non sfibra—questa carne mortale! E guardiamo sugli uomini;—sui viventi dell' oggi; Su coloro che popolano—le vallate ed i poggi, E che, orgoglio di vermi,—raggiungendo una vetta, A Giove antico atteggiansi—che scaglia la säetta…
Guardiam giù… Questo fiume—fatto di teste umane, Questa immensa valanga,—questo esercito immane, Ha un nome! Lo si mormora—con riverenza: Il Mondo!
Ei cammina!… Ei cammina!…
—Nel cèrebro fecondo Dei mille pensatori—egli attinge i portenti, I segreti, che dànno—la vittoria. Le genti, Attraverso agli oceani,—si favellano; i cieli Si spalancano; cadono—i fantastici veli Che rendean sacra d'Iside,—nei templi egizii, l'ara; Ogni giorno che sorge—ha un raggio che rischiara; Ogni giorno che passa—ha una tenebra spenta; E sull'eterna via—dei suoi destini (lenta, Per la vita degli uomini;—per un'idea, veloce) Mille grida adunando—in una sola voce, Travolgendo implacabile—chi non vuole o non vede, Questa immane fiumana,—questo Mondo procede!
Avanti!… Avanti!… Al mare,—o mistica fiumana! Alla foce!… Alla foce!…
—Ov'è dessa?… È lontana! Lontana più del sole!—Più del sol misteriosa! Chi potrebbe, osservando—ogni uomo ed ogni cosa, Predir l'ultimo giorno—dei terrestri abitanti?
Ma che importa!…
Alla foce!…-Al mare!… Avanti!… Avanti!…
Pur, come un dì le streghe—di Macbeth sul sentiero, A soffermar per poco—del Mondo il passo altero, Sorgon tre sfingi; e sono—sfingi rabbiose e grame; I moralisti ipocriti,—gli eserciti e la fame!
O roditori eterni—delle umane famiglie, Che dei padri cadenti—insultate le figlie, Perchè portan nel seno—un bambino illegale; Che vorreste la donna—ad una pietra eguale; Che eccitandone i sensi—con arti sopraffine Bramate, come i vecchi,—veder ignuda Frine Per turpemente chiederle:—"Sei tu ancora innocente?" O roditori eterni,—che dell'età fiorente Odiate i baci, e fate—che le madri, non spose, Cadano nei postriboli,—come foglie di rose Sui letamai; che, primi,—l'indagine vietando E incutendo nei cuori—un terrore esecrando, Obbligate le madri—a uccidere i bambini; O voi, che non leggete—negli umani destini Quest'ardente desío—di pace e fratellanza; Voi, che abbagliando gli uomini—con cinica baldanza, Togliete ai campi il braccio—dei giovani ventenni Per armarlo nei giorni,—in cui le idee solenni Sorgono a dimandare—che giustizia si faccia; O voi, che li spingete—all'orribile caccia Delle conquiste; o voi—che beäti ridete Nelle comode case—e buoni vi credete Perchè date una veste—allo spazzacamino; O voi, gretti ambiziosi,—che annebbiate col vino L'orizzonte ristretto—d'un esile onorario, E, colla banda in testa,—ed al passo ordinario, Sfilate per le vie—tronfiamente, perchè Un circolo operaio —surse vostra mercè, Ditemi, nei banchetti,—parlando agli operai, A chi smuove la terra—non ci pensaste mai?…
I poëti d'Arcadia—han pensato a costoro! Essi cantaron Fille,—Tirsi, Clori e Lindoro; Coprirono di cipria—le piaghe puzzolenti; Sulle teste dei villici—versaron l'acque olenti; Nascosero gli stracci—sotto i nastri ideali; Posero loro in bocca—idilii e madrigali; Indi li presentarono—alle dame annoiate!
Oh!… Vigliacchi sarcasmi!—Oh!… Ironie scellerate!…
Questi pastor da scena,—questi villan galanti Sono un popol di schiavi—dalle miserie affranti! Queste Filli, che cantano—canzonette sì gaie, Sono donne che muoiono—nelle immonde risaie! Questi Tirsi e Lindori,—che sputan madrigali Son pellagrosi e tisici!—Son carne da ospedali! Questi eroi dell'idilio,—nell'amore maëstri, Stancaron fin ad oggi—e giudici e capestri! E, fra le lunghe prediche—di parroci o curati, Fra le sevizie orribili—di chi li ha dissanguati Per sprecar in un'ora—quanto ha negato loro Pel lavoro d'un anno;—fra la sete dell'oro E la fame, gli errori—e lo spregio, i meschini. Gli arcadici pastori,—son ladri ed assassini!
Mentre noi cittadini,—nelle sere d'estate, Sorbiamo, a suon di musica,—le bevande diacciate, Essi cadon dal sonno,—veglian pallidi e infermi Nei campi, nelle vigne,—o attorno ai mille vermi Che daranno la seta!… —Mentre noi, nelle sere Invernali, danziamo,—o cerchiamo al bicchiere, O al teatro, o al tepore—d'un buon letto, la gioia, Essi treman dal freddo—su una lurida stuoia Sdraiati, e addormentandosi—nelle insalubri stalle, Invidiano lo strame—ai bovi e alle cavalle!
Lamentando una salsa—noi biasciam le vivande; Essi mangiano un pane—ch'è peggior delle ghiande! Noi ci lagniam d'un nodo—nei fili d'un lenzuolo; Essi dormon vestiti—sovra un umido suolo! Gli operai cittadini—sono ricchi in confronto; Men terribile è il male—ove il soccorso è pronto! Noi possiamo, mendichi,—trovar pietose mani; Essi son soli, poveri,—quasi ignoti… lontani!…
E la Fame li decima!
—Oh! la Fame!… L'arcano Problema, che scombussola—ogni sistema umano!
Come mai questo squallido—fantasma esiste? Noi Siamo pochi; la Terra—è grande; i frutti suoi Dovrebbero bastare—a color che vi stanno! Chi ruba?… Chi nasconde?—Ov'è dunque l'inganno? Perchè dunque chi suda,—e raccoglie, e lavora, Digiuna presso un uomo—che ozïando divora? Perchè mai chi le glebe—feconda di sua mano Ne reca ad altri il frutto—e muor di fame?
È strano!
Io so ben ch'è una fisima—l'eguaglianza sociale, Poichè, qui in terra, tutto—è bene, e tutto è male; Poiché ciascuno al mondo—predilige un tesoro; Il savio i suoi volumi,—l'usuraio il suo oro, Il poeta i suoi sogni;—poichè è vana speranza Fra miseria e ricchezza—ottener l'eguaglianza: Poichè fin che degli uomini—saran diversi i volti E nasceranno belli—e brutti, furbi e stolti, Deboli e forti, arditi—e timidi, i mortali Si rassomiglicranno,—ma non saranno eguali; So, che se tutti gli uomini—avesser oggi un pane Chiederebbero unanimi—il lusso alla dimane; So che è propria natura—d'ogni nostro bisogno Di svanir, soddisfatto,—crëando un altro sogno; Ma so ancor che un diritto—inconcusso è la vita; Che sovra cose ed uomini—una legge è scolpita, Una legge che domina—eventi, gaudi e lutti; Che la Terra ci grida:—"Figli, vivete tutti!"
Oh!… Tremiamo!… Nel sacro—nome di questa legge, Che prodiga i suoi doni—e che tutti protegge, Forse, un giorno, può insorgere—questo popol di schiavi! L'ire represse in Furie—posson mutar gli ignavi! I fucili cadranno—dinanzi alle bidenti! Come i patrizii antichi,—i borghesi piangenti Bacieranno i figliuoli—per morir di mannaia! Le canzoni, che ai padri—narrarono dell'aia E dei campi le cure,—tuoneran tra i macelli… E saran la funebre—ironia dei ribelli! Quelle mani incallite—saccheggieran le alcove Dove i ricchi dormirono—i lunghi sonni, e dove Procrëavan tiranni—alla timida plebe! I badili e le vanghe,—use a romper le glebe, Sfracelleran le teste—dei bimbi e dei vegliardi!…
Oh!… Facciamo giustìzia—prima che sia già tardi! Prima che sorga l'alba—di quel giorno tremendo! Facciam che i nostri figli—non bestemmin piangendo L'avidità degli avi—che, coi pingui retaggi, Avran lasciato ad essi—il livor dei servaggi!…
Ed or, rispetti umani;—inutili timori; Fanciulleschi desiri—di fanciulleschi onori; Genuflessioni timide—ad idoli tarlati, Arido galateo—coi nemici garbati; Martirii del cervello,—che proromper non osa Per mercar da un giornale—una linea graziosa; Amarezze inghiottite;—malintese prudenze, Che contro il rancidume—delle viete sentenze, Domate i sillogismi—del bollente pensiero; Oltraggi silenziosi—allo splendido Vero; Tacite abiurazioni—per la lode d'un giorno; Debolezze dell'uomo,—venitemi d'attorno!…
Io vi lascio sul limite,—che non varcai finora, Perchè siete il tramonto—ed io voglio l'aurora; Perchè se noi, quì in terra,—viviamo una giornata, Io d'ineffabil luce—la mia vo' illuminata; Perchè, sazio degli uomini,—io voglio amar l'Idea; Perchè gli oscuri baci—di questa sacra Dea Valgono i mille affetti—della gente piccina; Perchè val più il delirio—d'un sogno che affascina. Dell'entusiasmo d'obbligo—d'un ballo mascherato; Perchè ai dolor dei molti—io mi sono temprato, Perchè i ghigni di scherno,—la fame e la Censura, (Dalla fronte brevissima)—non mi fan più paura; Perchè la solitudine—amo più della folla; Perchè abborro i mïasmi—d'una carne già frolla; Perch'io cerco per scrivere—una pagina bianca E sui vecchi caratteri—il mio sguardo si stanca!…
Enrico, il cor mi batte—di generoso orgoglio! Sì, nella santa pugna—esserti al fianco io voglio! Noi propugniamo i dritti—della famiglia vera, Dei morenti di fame! —Sulla nostra bandiera Noi non scriviam: Rivolta! —Scriviam: Giustizia! Molti, Che mi furon diletti,—lo so, torcendo i volti, M'avran da questo giorno—in abbominio! I grulli Negli amori e negli odii—sono sempre fanciulli! Odian senza discutere;—aman senza pensare!
Tal sia di loro!…
Avanti!…—Avanti!… Al mare!… Al mare! Alla foce!… Alla foce!…—Degli errori all'oblio!…
Dammi la mano, Enrico,—son socialista anch'io!
NOVELLE IN VERSI
ACQUA E FUOCO
A FELICE UDA
ACQUA
I.
Chi conosce Mercallo? È un povero paese Tra i monti che sepárano—il lago di Varese Dal Verbano.
Fa in tutto—un seicento abitanti,
Quando i bachi e le vigne—dan raccolti abbondanti, I villani, alla festa,—cantano all'osteria E giuocando alla mora—bevon la malvasia. Quando il raccolto è scarso—e il pallido digiuno Entra nelle capanne,—e siede, come un bruno Fantasima, dappresso—ai freddi focolari, La taverna è deserta;—la nenia dei rosari Esce fuor dalle porte—dei meschini abituri (Dove spiccan le teste—sovra dei fondi oscuri), Come fuor da una chiesa—esce l'odor d'incenso.
Oh! La chiesa! La chiesa!—Ecco il tripudio immenso Dei villani! I beoni—frequentano la chiesa Anch'essi!.. Almeno là—possono alla distesa Metter fuori la voce,—quando l'economia Nei dì grami li tiene—lungi dall'osteria!
* * * * *
Or nel mille ottocento—e cinquanta, a Mercallo, Nell'unica taverna—all'insegna del Gallo, Abitava un vecchietto—con una figlia, bionda, Bella, diciassett'anni,—ben tornita e gioconda.
Gli affari prosperavano—che da parecchie annate, I villani contavano—men meschine derrate; E perciò nelle botti—non dormigliava il vino.
La fanciulla avea nome—Lisa; il padre Martino. Era un buon galantuomo—(cosa in un oste rara Ed in tutti i mestieri). —Stando al mondo s'impara. E Martino a sessanta—anni aveva imparato A pigiar bene l'uva,—a trovar sul mercato Fiducia, e ad adorare—l'unica figliuola.
* * * * *
Nel cinquanta a Mercallo—fu fondata una scuola. Era il verno.—Il Comune—fe' venir da Milano Un maestro; un bel giovane;—avea nome Graziano; Gli diè il lauto stipendio—di quattrocento lire All'anno, e un bugigattolo—dove poter dormire.
Con quattrocento lire—di Milano (vi pare, O miei buoni lettori?)—nessun la può scialare! Eppure il giovinotto,—contro ogni economia, Avea trovato il modo—d'andare all'osteria Tutte le sere! È vero—che beveva assai poco! Un bicchiere soltanto!…—Se lo sorbiva al fuoco,
Ma di bicchier quel verno—egli ne bevve tanti, Che in aprile Graziano—e Lisa erano amanti!
* * * * *
Il padre se ne accorse—e ne fu lieto assai, Ma nè a Lisa nè al giovane—volle parlarne mai. Gli piaceva il maestro.—Il suo piglio cortese Gli aveva cattivato—gli animi del paese. Era povero!… È vero!…—Ma cos'era Martino?… Viveva! Questo è il compito—di chi nacque meschino… E il vecchietto diceva:—"Presto l'avrò adempito!"
Quando la primavera—col suo tiepido dito Venne a schiuder le imposte,—inchiodate dal verno; Quando i campi e il creato—col loro canto eterno Intuonarono l'inno—della vita novella; Quando Lisa a Graziano—parve farsi più bella; Quando fu del vin vecchio—vuota l'ultima botte; Il maestro veniva—dopo la mezzanotte A passeggiar soletto—intorno all'osteria.
Allora al primo piano—una griglia s'apria.
Era Lisa.
I due giovani—non contavan più l'ore! Chi di voi l'ha contate—nei colloqui d'amore?
Ma le contava il vecchio—dal suo secondo piano.
"Come ti voglio bene!"—mormorava Graziano Alla bionda fanciulla.
Ella diceva: "Anch'io!"
Ed egli soggiungeva:—"Domattina, amor mio, "Voglio farmi coraggio!—Vo' chiederti in isposa "A tuo padre!…"
* * * * *
Il vecchietto—ascoltava ogni cosa, E rideva in cuor suo.—Eran tanto innocenti Quei colloqui!… Ei pensava—ai begli anni ridenti In cui per la sua donna—avea fatto altrettanto! Si sentiva commosso;—avrebbe quasi pianto Di gioia!… Ma l'aprile—passò; giugno passò; E l'estate trascorse;—e l'autunno arrivò; Né il povero maestro—aveva ancor trovato Il coraggio di dire:—"Io sono innamorato "Di vostra figlia" al padre. —In settembre le notti Divenner fresche. Il vino—nuovo dentro le botti Bolliva. "È strana cosa!"—Rifletteva Martino, "Graziano e Lisa in tutto—somigliano al mio vino! "Mentre di fuor fa freddo—hanno il cuore che cuoce!"
* * * * *
Una notte pioveva.—Parea quasi una voce Di lamento, lo squillo—delle poche campane Che suonavano l'ore—nelle valli lontane. Il tocco era passato.—Dal suo secondo piano, Ascoltando il colloquio—di Lisa e di Graziano, Il vecchietto tremava—pel freddo. Il giovinotto, Sfidando l'intemperie,—mormorava di sotto Alla nota finestra:—"Come ti voglio bene!"
"Anch'io!" Lisa diceva.
—E il maestro: "Conviene "Ch'io mi faccia coraggio!—Tuo padre domattina "Saprà tutto!… Speriamo!…—E poi, Lisa, indovina "Che rispose il curato—quando ieri gli ho detto "D'amarti?" "Che rispose?" —" Ma, Signor benedetto! "Esclamò: Fatti avanti!—Parla a Martino… Prova!… "Animo!… Se suo padre—la vostra unione approva, "Non c'è nissuno al mondo—disposto a benedirla "Più di me! "
"Giurabacco!—È tempo di finirla!" Spalancando le griglie—tuonò il vecchio dall'alto.
Il coraggioso giovine—fe' per spiccare un salto… E fuggire… Martino—gli gridò: "Ma, per Diana, "Fermati, giovinotto!—Cosa son?… La befana?… "Via!… Piuttosto che espormi—a mille infreddature "Fate presto, sposatevi,—mie care creature!"
* * * * *
Graziano sposò Lisa. —Era tempo! Martino Morì. Il maestro allora—lasciò i libri pel vino. Divenne ostiere. Lisa,—dopo quattr'anni, anch'ella Spirò, mettendo al mondo—una bambina bella Come un amore, e cui—lasciò erede del nome.
II.
Nel mille ed ottocento—settanta, colle chiome Che parevano d'oro,—allegra e ben tornita Era la nuova Lisa—la delizia e la vita Del padre, a cui la testa—s'era fatta canuta.
Egli la contemplava—in un'estasi muta; Le baciava la fronte;—la chiamava folletto; Le dicea di ripetergli:—"Oh! Mio babbo diletto!" Ai villani, recando—la solita scodella Di vino, domandava:—"Non è vero che è bella?" Volea che alla domenica—ogni donna, alla messa, Mormorasse vedendola:—"Guarda com'è ben messa!"
Le aveva appreso a leggere. —Su un libro d'orazioni Avea di proprio pugno,—con grossi paroloni, Scritto dei versi (ignoro—di qual poeta); questi:
Le fanciulle son angioli Che pregan col candore; Per esse il vecchio padre È il loro primo amore!
* * * * *
Ma pel povero padre—vennero i giorni mesti
* * * * *
Il volto allegro e sano—della bella fanciulla Si fe' pallido e magro "Che hai?" Le chiese. "Nulla!" Ella rispose. Il vecchio—divenne da quel giorno Pensieroso. Le stava—ogni momento attorno; Volea leggerle in cuore;—di notte non dormiva.
* * * * *
Una notte, fra l'altre,—(era una notte estiva) Egli balzò dal letto—e s'affacciò inquieto Alla finestra, Il lume—degli astri, mansüeto Come un guardo materno,—sulla terra piovea: Il corteggio dei colli,—da lungi, si perdea Dietro il caro ideale—dell'azzurro dei cieli; Lo stormir delle fronde—parea fruscio di veli; Le campagne riarse—dai torridi sollioni Beveano la rugiada;—le Talli aveano suoni Indistinti, söavi;—il villaggio dormia Sul guancial di granito—che e il monte gli fornia.
Ei guardò gli astri, i colli,—e l'azzurro orizzonte, E le piante, ed i campi,—ed il villaggio, e il monte Che gli sorgea daccanto…—Parea cercar la via Su cui stornar la mente—da una triste malia…
Ma la cercava invano!—Ei pensava a sua figlia.
* * * * *
Che è questo? Al primo piano—s'è dischiusa una griglia, Giù, nella via, si muove—un'ombra nera. Dice Una voce da basso:—"Lisa, notte felice! "Come ti voglio bene!"
—L'altra risponde: "Anch'io!"
Allor l'ombra soggiunge:—"Domattina, amor mio, "Voglio farmi coraggio!—Vo' chiederti in isposa "A tuo padre…" Ad un tratto—cordiale e fragorosa Scoppia, come una folgore,—una risata in alto. Già l'ombra coraggiosa—sta per spiccare un salto E fuggire… Ma il vecchio—le grida: "Evvia!.,. Perdiana, "Fermati, giovinetto!—Cosa son? La befana? "Orsù!.. Per risparmiarmi—le mille infreddature "Fate presto! Sposatevi,—mie care crëature!"
* * * * *
O lettrice cortese,—non dir che t'ho ingannata! È vero, troppo semplice—novella io t'ho narrata! La colpa non è mia—ma degli umani eventi!… Una storia monotona—han gli amori innocenti! Nella gente volgare—(che invidio e che rispetto Per rispettar me stesso)—si ricopia ogni affetto Di padre in figlio.
È un calcolo—infinitesimale; È l'acqua, che può forse—aver nome termale, O salsa, o benedetta,—o tofana, o stagnante, Ma s'assomiglia sempre—con ben poca variante!
E quest'acqua è il racconto.
* * * * *
—"Per farlo men meschino (Tu mi dirai) "Poeta—ci hai messo anche del vino!
Ahi!… L'acqua guasta tutto!—Persino il vino buono!
La bevanda fu insipida—te ne chieggo perdono… Vuoi un'altra novella? —La leggerai fra poco. Bada!.. Non riscaldarti!..—Ha per titolo: Fuoco!
Milano, 1875.
FUOCO
Era sera e pioveva. —Il tremolante raggio Delle lampade ad olio,—accese nel villaggio Dinanzi alle Madonne,—col giallastro bagliore Sulle pietre specchiavasi—della strada Maggiore; Sulle pietre, cui l'acqua—rendea lucide e nere, E alle quali imprecava—un grosso carrettiere, Perchè il mulo a ogni passo—scivolava. La via Era deserta. In alto—dicean l'avemmaria Due fesse campanuccie. —Di piombo il ciel parea, E la sottil pioviggine—silenziosa cadea.
* * * * *
Le galline e i piccioni,—nascosti sui fienili, O accovacciati agli angoli—dei luridi cortili, Borbottavan sommessi—cercando il posto adatto. Sulle ceneri calde—s'accoccolava il gatto. I dindi, che non amano—dormire affratellati, Sui carri e sulle travi—eransi sparpagliati; Taluni dai piuoli—d'una scala sbilenca Dominavan la scena. —Il bove e la giovenca Ruminavan sdraiati—nelle tiepide stalle, Pensando forse all'erba—brucata nella valle E alla miglior pastura—da sceglier la dimane.
Col muso fra le zampe,—dalla sua cuccia, il cane Guardava con disprezzo—dell'oche la famiglia, Mentre un fanciullo lacero—con una fronda in mano Di spingerla all'asciutto—s'affaticava invano.
L'orizzonte, all'occàso,—colla sua tinta scialba Facea dir: " Sol che guarda — indietro, pioggia all'alba! " E con questo proverbio—le rubizze comari Chiudevano le imposte—dei rozzi casolari.
* * * * *
Quella sera non c'era—benedizione in chiesa. La prebenda era povera,—non potea far la spesa D'accender tanti moccoli—tutti i giorni. Il curato Passava coll'ombrello—sull'umido sagrato, Movendo a lunghi passi—verso la farmacia.
Colà la vieta triade—del villaggio venia A far tutte le sere—la solita partita.
* * * * *
"Buona notte, Teresa!"—"Salute, Margherita!" "Dormite bene, Checca!"—"State bene, Gervasa!"
Eran le donnicciuole—che rientravano in casa.
* * * * *
I lumi scintillavano—nelle rustiche stanze; Sui talami nuziali—scendevan le esultanze; I vecchi accarezzavano—le coltri cogli sguardi; I bimbi sonnecchiavano. —Alcuni, più testardi, Strillavan nella culla—con noiosi lamenti. La nenia dello gocciole—dalle gronde cadenti, Come un canto materno,—diceva lor: "Tacete!"
I desiderii inutili—colle vampe segrete Turbavan le orazioni—delle fanciulle ed esse Accanto al picciol letto—pensavan, genuflesse, Dell'amante villano—all'ultima parola, E trovavano fredde—le candide lenzuola, E con stolidi accenti—pregavano il Signore Perchè la santa fiamma—spegnesse a lor nel cuore!
Sovra le brune case—il silenzio scendea, E la sottil pioviggine—lentamente cadea.
* * * * *
A un tratto, come il lampo—che le nubi rischiara, Risuonò da lontano—un'allegra fanfara.
I fanciulli, che uscirono—sugli alpestri sentieri, Tornarono di corsa—gridando: "I bersaglieri! I bersaglieri!!!"
Allora—fu un batter d'impennate, Un cigolar sui cardini—d'imposte spalancate, Un vagolar di lumi—sulle negre baltresche, Un vociar di padrone,—un chiamar di fantesche.
Si gridava: "Correte!…—Son qui!… Sono vicini!"
Le madri abbandonavano—le culle dei bambini; E, fra l'essere donne—curiose o madri buone, Prendeano il mezzo termine—d'affacciarsi al verone, Tenendo sempre a bada—colla coda dell'occhio Il letticciuolo, dove—miagolava il marmocchio.
* * * * *
La fanfara appressavasi.—Con un piglio insolente Parean le note acute—sfidar l'ombra silente.
Le fanciulle, lasciando—divozioni e rosari, Balzavan sulle soglie—dei bruni casolari; Colle pupille in fiamme,—battendo mano a mano, Saltellavan di gioia,—e guardavan lontano, In fondo alla contrada. —Gli squilli delle trombe, Come fìtta gragnuola—che sui tetti precombe, Echeggiàr nella via,—annunziando al villaggio Che i bersaglieri entravano. —Sotto il tenue raggio D'una lampada santa,—fantastiche visioni, Sfavillaron nell'ombra—le bocche degli ottoni.
* * * * *
I soldati marciavano—serrati; il suon dei passi Cadenzato e monotono—rimbombava sui sassi; I tinníti dell'armi—pareano strappi d'arpe; Nelle pozze e nel fango—cadean le larghe scarpe Insudiciando l'uose—strette sulle caviglie; La pioggia scivolava—sulle negre mocciglie E imperlava i cocuzzoli—dei cappelli alla scrocca.
I fanciulli, guardandoli,—aprian tanto di bocca; Le ragazze esclamavano:—"Che bei giovani!"
Ed era Bujo!!!
* * * * *
Dinanzi a tutti,—accanto alla bandiera, Marciava un uffiziale—dal torace spazioso, Dalle spalle quadrate.—Marciava silenzioso, Colla fronte dimessa;—parea sopra pensieri.
Pensava egli al domani?—Pensava egli all'ieri? Forse pensava a nulla! —Con piglio indifferente Egli passava in mezzo—allo stuol della gente Ed automa ambulante—si guardava i ginocchi.
Giunto presso a una lampada—l'uffiziale alzò gli occhi E si fermò. Due stelle—gli brillavan davanti; Due stelle nere, lucide,—che parevan diamanti. Erano due pupille,—cui fea cornice un volto Di giovinetta, pallido,—nella penombra avvolto.
Il soldato col guardo—esperto ed indovino S'accorse che quel volto—era un volto divino; Un volto sedicenne—di bellezza ideale! Vide due labbra tumide—dal taglio sensüale, Una fronte purissima,—un mento ovale e fine, Dalla pelle cosparsa—di linee azzurrine, E su due guance bianche—cader due brune anella.
Il soldato, baciandola,—disse: "Quanto sei bella!"
* * * * *
La fanciulla fu presa—da uno strano languore E mormorò, abbracciandolo:—"Assistimi, o Signore!" Indi trasse il soldato—sotto un andito oscuro; Spinse una porticella—che s'apriva nel muro E fe' cenno che entrasse. —Ei la seguì… La porta Fu chiusa.
* * * * *
Era una stalla.— Piovea la luce smorta Da una piccola lampada—che dall'alto pendea; Una magra giovenca—gravemente giacea Su poca paglia; agli angoli—delle rozze pareti I ragni sciorinavano—le polverose reti; La soffitta, composta—d'esili travicelli, Era negra pel fumo;—vanghe, zappe, rastrelli In un canto appoggiavano—l'aste lunghe e lucenti; In fondo c'era un mucchio—d'erbe e di fiori olenti Falciati nella sera. —La fanciulla s'assise Su quel mucchio di fiori;—alzò gli occhi e sorrise. Poi disse a voce bassa:—"Qui ci vede nessuno! "Mio padre dorme… E poi—sarà un minuto!" Il bruno Ufficiale si pose—a sederle dappresso.
Ella guardò per poco—lo smagliante riflesso Dei bottoni dorati—del giovane soldato; Li toccava, tremando,—col dito fusellato; Sembrava come assorta—in un sogno; chinava La testa sovra il petto—e quel petto anelava…
Ad un tratto, cogli occhi—socchiusi, alzò la faccia; Cinse il collo del giovane—con entrambe le braccia E………..—………… ………..—………….
* * * * *
Giovinette ardenti,—donne all'amor crëate, Da una stolida legge—a soffrir condannate, Non sognaste voi forse—il gaudio d'un istante Ricordando il profilo—d'un maschio sembïante?
O superbe matrone,—dalle vesti scollate, Che parlate d'onore—e di virtù parlate, Io sorrido al severo—vostro piglio glaciale Perchè so che i viventi—hanno un nemico eguale! La carne!… Questa schiava—ribelle, non mai doma, Che freme al sol contatto—d'una leggiadra chioma!
Voi pur siete di carne,—o severe matrone, E forse in qualche giorno—di suprema oblivione E d'ardore supremo,—da ogni sguardo lontane, Voi pure calpestaste—le convenienze umane, E ai baci d'un ignoto—vi abbandonaste ignude!
Chi narrerà i misteri—che un cuor di donna chiude? Chi gli incontri fatali—che il caso ha preparato?
Fu un istante!… Nessuno—lo seppe… Il fortunato Baciò, tacque e passò… —La matrona severa Ripigliò la sua maschera—nei crocchi della sera; Ad un detto men cauto—finse sentirsi offesa; Frequentò, come al solito,—e corsi, e balli e chiesa; Licenziò la domestica—e il fedel servitore Perchè nell'anticamera—parlavano d'amore; E, suscitando intorno—mille fiamme lascive, Visse, come ogni dama—che si rispetta, vive: Ipocrita a trent'anni,—bacchettona a cinquanta, Borbottona a sessanta,—e nel feretro santa!…
Giovinette di fuoco,—donne all'amor create, Da uno stolto egoïsmo—a soffrir condannate; Giovinette di fuoco—e superbe matrone, Che forse in qualche giorno—di suprema oblivione E di supremo ardore,—da ogni sguardo lontane, Calpestaste con gioia—le convenienze umane E ai baci d'un ignoto—v'abbandonaste ignude, Voi capirete il senso—che il mio racconto chiude!
* * * * *
Quando il bruno soldato—uscì sopra la via Gli passava dinanzi—l'ultima compagnia. Ei, raddoppiando il passo,—raggiunse la bandiera.
La fanciulla (che tale—da un istante non era), Sovra il mucchio di fiori—pareva addormentata… I suoi sogni di languide—vision la fean beäta.
Come noi sogniam spesso—negli anni adolescenti Di leggiadre donzelle—i bei volti ridenti, Ella sognava un nimbo—di giovinetti gai…
* * * * *
La fanciulla e il soldato—non si vider più mai,
Napoli, 29 febbraio 1876.
MASTRO SPAGHI
A
FELICE CAMERONI
MASTRO SPAGHI
I.
Mastro Spaghi era il boia—della città d'Urbino. Contava cinquant'anni;—era smilzo e piccino; Era calvo; il suo cranio,—da lontano, pareva Una palla di vetro.—Sul petto gli cadeva Una candida barba.—Avea gli occhi profondi, L'orbite cavernose,—i pomelli rotondi E violetti, le labbra—grosse e larghe. Campava Tirando il collo agli altri.
* * * * *
—La forca prosperava Nell'Evo Medio! Oh! Quelli—eran tempi bëati! Nè i maggiori colpevoli—erano gli appiccati!
I furbi ed i potenti—facevano man bassa, Come chi taglia spiche,—sui capi della massa. Le tanaglie e l'eculeo,—le scuri ed i capestri Fiorivan dappertutto. —Perciò v'eran maestri Nell'arte del carnefice! —A Roma avea gran nome Un boia, che sapeva—dal calcagno alle chiome Tanagliare una vittima,—senza farla spirare.
La Santa Inquisizione—avea fatto educare Molti allievi alla scuola—di cotanto maestro.
In quanto a mastro Spaghi—s'era dato al capestro.
* * * * *
Perchè vi spaventate,—o lettori cortesi, S'io parlo di carnefici? —Il nome lor lo appresi Nella storia dei popoli,—in cui tengon gran parte, Il dire mastro Spaghi—o il dire Bonaparte Per me suona lo stesso.—Ammazzare al dettaglio O in partita, gli è sempre—ammazzare.
Il barbaglio Della gloria e del genio—pel filosofo è nulla! Chè, sfrondati gli allori,—v'è la campagna brulla; V'è la campagna brulla,—tutta a macchie di sangue; Ove il forte sogghigna;—ove il debole langue; Ove stanno i carnefici—e le vittime. Evvia! Perchè mai vi spaventa—questa novella mia? Converrebbe abolire—la storia ed i cannoni Per non parlar di boia! —Abolirli?… Illusioni D'anime semplicette! —Togliam le guerre e il boia, E impossibile è il dramma,—e morirem di noia!
L'umanità è un malato—che di salassi ha d'uopo!
Ma finiran le guerre—e i carnefici!… E dopo? Che faranno i mortali?—Quali saranno i temi Degli umani discorsi—degli umani pöemi?
Saran la fede immensa;—l'amore universale; I viaggi nell'aria,—e l'assenza del male; Del male, che pei posteri—sarà l'egual chimera Di quel che è il ben per noi! —E s'anco fosse vera Questa ideal famiglia—degli umani (fra mille Miliardi di secoli)—figgiamo le pupille Ancor più innanzi… Il cèrebro—Mormora ancora: "E poi?…" Siam daccapo alla noia!
II.
—Fra tutti i pari suoi Mastro Spaghi emergeva—nell'arte del capestro. La gran pratica è vero—l'avea reso il più destro In tal ramo di scienza;—ma il suo merito c'era. Fabbricava lacciuoli—in siffatta maniera Che gli altri d'imitarlo—avean tentato invano! La seta più ribelle—di mastro Spaghi in mano Si mutava in un filo—così forte e sottile, Qual non l'avria mutato—la mano più gentile D'una donna ai ricami—espertissima.
* * * * *
Quando Saliva sopra il palco—era proprio ammirando!
Dall'alto della forca—con un braccio potente, Al segnale prefisso,—ei ghermiva il paziente; Gli chiudeva la strozza—col famoso lacciuolo; Poi, lasciata la vittima,—ratto balzava al suolo E, con ambe le mani—afferrati i ginocchi, Dava uno strappo… Il misero—schizzava in fuori gli occhi Tremava in tutto il corpo;—contorceva la faccia; Allungava la lingua;—dibatteva le braccia;… Ma era affar d'un istante!… —E il popolo plaudiva A lui che così presto—d'una persona viva Sapea fare un cadavere!
* * * * *
Il popol gli era grato, Perchè soltanto il popolo—era allora appiccato. I nobili morivano—di scure, e i popolani Dicean: "Se mi facessero—appiccare domani "Per man di mastro Spaghi—preferirei morire. "Mastro Spaghi ama il popolo,—chè non lo fa soffrire!"
III.
In vent'anni la fama—del nostro personaggio Nelle città d'Italia—avea fatto vïaggio, Raccontando la storia—di mille impiccamenti, Miracoli dell'arte,—alle estatiche genti; Tantochè mastro Spaghi,—il carnefice artista, Era chiamato ovunque,—al par d'un concertista Nei dì presenti; ed egli—era sempre in cammino.
Oggi appiccava un ladro—nella città d'Urbino; L'indomani a Piacenza—giungeva di gran fretta Per un villan, che avea—tentato far vendetta Contro il Duca, perchè—questi gli avea (badate Che inezia!) la sorella—e la sposa violate; Il dì dopo correva—a Firenze, chiamato Per un giovane ardente,—che aveva cospirato (Diceva la sentenza),—contro le leggi. Insomma, Mastro Spaghi pareva—una palla di gomma Che balza, ed agli astanti—sembra dir: "Dove vado?"
IV.
Adesso lo troviamo—a Sant'Angelo in Vado, Grossa borgata allora,—posta tra l'Appennmo Ed i repubblicani—colli di San Marino.
A Sant'Angelo in Vado—non c'è che una prigione.
Nel mille e due (secondo—la vecchia tradizione) V'abitavano i frati;—era un piccol convento; Non divenne prigione—che nel mille e trecento.
* * * * *
Mastro Spaghi sedeva—in un umida stanza, I cui muri, giallognoli—e a macchie, avean sembianza Di facce d'appiccati. —Era una notte estiva. Sui campi la finestra—della stanza s'apriva. Di fronte alla finestra—c'era una porta, quella D'un carcere, che un tempo—era stato una cella, Là stava il condannato—a morire domani Sulla forca.
Il carnefice—torceva nelle mani Un superbo lacciuolo.—Splendeva alla sua destra, Su un tavolo, una lampada. —La vicina finestra Tormentava il lucignolo—con buffi violenti, Di profumi campestri—söavemente olenti.
Mastro Spaghi annasava—le odorose zaffate Come un fanciul che sogna—le libere giornate Nella scuola rinchiuso,—e il cui sguardo si perde Alle cime dei pioppi—che si pingon di verde, E al cielo azzurro, mentre—il professor di greco Gli spiega la grammatica. —Non la più debol eco Il silenzio turbava. —S'erano i borghigiani Coricati assai presto,—per poter l'indomani Svegliarsi di buon'ora,—e gustar per intero La festa della forca.
* * * * *
—Dormiva il prigioniero? Io l'ignoro. Chi veglia—è mastro Spaghi. E questi Faceva a bassa voce—dei monologhi mesti:
V.
"Questo è quel dei dugento—che in vent'anni suonati "Spaccierò sulla forca.—I primi che ho spacciati "Mi costarono lagrime—di compassione! Io penso "Con vergogna a quei tempi!-Non avevo buon senso! "Cos'è strozzare un uomo?—Mandarlo all'altro mondo! "E questo (almen mi pare)—è un beneficio, in fondo! "Forse, che in questo qui—si sta meglio? Che bazza! "Chi non vi nasce ricco,—o di nobile razza, "O vigliacco del tutto,—o forte, o scaltro, od empio, "Ci viene per soffrire,—o per fare, ad esempio "Di me, la bella parte—di carnefice!"
* * * * *
Un grillo Lungi nella campagna,—turbò il sonno tranquillo Alle cicale, sopra—le piante addormentate, Con note così allegre—che parevan risate.
* * * * *
"Oh!… Le note dei grilli,—umili creature, "Piccioletti filosofi—desti nell'ore oscure, "Come son liete!" disse—il boia sospirando. "Essi vivono poco;—e col profumo blando "Delle erbette si innebriano;—son vestiti di nero "Per darsi fra gli insetti—un tal piglio severo, "Ma in cuor ridon di tutto!—Dormono la giornata, "Poi di notte nei campi—corrono all'impazzata!…
"E dir che, giovinetto,—io n'ho ammazzate tante "Di queste bestioline!… —Allora ero l'amante "Di Rita, la più bella—forosetta che Iddio "Ai campi regalasse!…—Almeno, a parer mio!
"Era bionda; abitava—qui presso, a poche miglia, "In una casettina—tra i monti. La giunghiglia "Ne baciava i mattoni—profumandola tutta. "Una quercia, simíle—ad una vecchia brutta "Che s'è presa d'amore—per un bel giovinetto, "Abbracciar del tugurio—parea volesse il tetto; "Un tetto di lavagna—nera, lucente, lina, "Su cui ridean gli steli—d'una rosa canina. "Mi parea che si amassero—quel tetto e quella rosa! "Anzi il tetto, agli abbracci—di Madonna Ghiandosa "Quasi per isfuggire—parea farsi più basso! "Chi conosce i misteri—d'una pianta o d'un sasso? "Noi ci viviamo in mezzo—cogliam le frutta e i fiori, "Caviam fuoco dal sasso…—ed ecco tutto!"
VI.
Fuori, Nell'aperta campagna,—il grillo allegramente Trillò ancor. Mastro Spaghi—sospirò nuovamente.
* * * * *
"Poveri grilli! Povere—bestiole liete! Quante "N'ho ammazzate!… Di Rita—ero allora l'amante! "La notte, quando tutti—dormivano, soletto "Io m'aggiravo intorno—alla quercia ed al tetto, "Spiando la finestra—dove Rita dormiva.
"Talora ella l'apriva,—ma quando non l'apriva "Che fare in mezzo ai monti—aspettandola?—Un poco "Sedea sull'erba e il guardo—alzavo al cielo. Il fioco "Lume degli astri piovere—sentia nelle pupille! "Oh! Quanti dolci fascini—han le notti tranquille! "Poi dagli steli, madidi—di rugiada, sul volto "Mi balzava un insetto.—Io ghermivo lo stolto… "Era un grillo; io grattavo—il suo ventre, per fare "Che il povero piccino—avesse a strimpellare "Qualche rullo di note—che svegliassero Rita… "Ma la bestiola in mano—mi moriva sfinita!. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"Oh!… Sta a veder ch'io piango—perchè ho ucciso dei grilli! "Per Dio! Strozzai tanti uomini—ed ho i sonni tranquilli!"
VII.
La lampada schizzava—bagliori incerti e vaghi Sovra il meditabondo—cranio di mastro Spaghi, Il lacciuol, colle mani—inerti, sui ginocchi Del boia era caduto.— Ei tenea fisi gli occhi Sul laccio e sulle mani… —Ma il suo pensier dovea Essere ben lontano.
* * * * *
—Il vegliardo dicea A fior di labbra: "Rita!…—Vent'anni son trascorsi! "Da allora n'ho provati—di angosce e di rimorsi! "Sono stato un vigliacco!—Quando il Duca d'Urbino, "Dopo l' jus primae noctis,—sorridendo, il mattino "A me t'ha rimandata,—io dovevo tacere, "O ucciderlo… od uccidermi!—Quando il tristo messere "Io di spacciar tentai—per vendicarmi, invano "Io raccolsi il coraggio—in codesta mia mano! "Questi privilegiati—che portano un gran nome "Hanno un certo prestigio—che fa rizzar le chiome "Ai più arditi; hanno un fascino—che noi, povera gente, "Siam dannati a subire;—hanno un piglio insolente "Che agghiaccia!… Superiori—a noi li fece Iddio! "Sospeso sul suo petto—rimase il braccio mio, "E la mano ribelle—non mi volle ubbidire!"
* * * * *
Una nottola venne—nella stanza a squittire Attirata dal lume;—fece due giri in tondo Nelle pareti urtando;—poi nel buio profondo, Fuori della finestra,—tornò, battendo l'ali, Spaventata d'avere—osato tanto.
VIII
Eguali Alle gocce che il tufo—nell'umide caverne, Lagrime solitarie,—lentamente secerne, Poche gocciole fredde—imperlavan la testa Del boia.
* * * * *
Egli diceva: "—Fu una notte funesta! "So che mi son svegliato—con pesanti catene "Ai polsi e alle caviglie.—Me ne ricordo bene!
"Non un raggio di luce!—Un fetore di morte "Mi saliva alle nari.—Le catene eran corte. "Mi addormentai di nuovo.—E d'essere un mastino "Sognai.— Fui risvegliato—sul fare del mattino "Da un uomo lungo e pallido.— Io gli chiesi chi fosse. "Ei non rispose, côlto—da un accesso di tosse; "Il fetor della carcere—gli grattava la gola.
"Fui condotto all'aperto.— Un frate colla stola "Negra mi passò accanto. Lo seguivan dei ceffi "Da ribaldi, che feano—orribili sberleffi "A un meschin che legato—ne veniva con loro.
" Alla forca!… Alla forca! "—gli gridavano in coro.
"Egli batteva i denti,—era tutto tremante; "E, non potendo piangere,—contorceva il sembiante.
"Allora l'uomo pallido,—che mi stava vicino, "Mi toccò sulla spalla,—e additando il meschino, "Miagulò:— " Il Serenissimo—Luca ti manda a dire "Se ti piace di vivere,—o ti piace morire. "Il carnefice è vecchio.—Se ti garba il mestiere "Comincia a strozzar questo.—Verrà il Duca a vedere. "Se il mestier non ti garba,—oppur non ci sei nato, "Invece d'appiccare—sarai tu l'appiccato. "Il Duca è giusto e buono;—a tanta sua clemenza "Mostrerai collo zelo—la tua riconoscenza. "Rispondi? Che vuoi essere:—Od appiccato, o boia?
"—Il secondo! Il secondo!"—Io risposi con gioia!
IX.
Egli stringea le labbra—e aveva chiuso gli occhi, Chè il duolo ama le tenebre. Le mani sui ginocchi Tremavano, ed il mento—sul petto si appoggiava.
* * * * *
"Me due volte vigliacco!"—mastro Spaghi pensava. "Potevo una sol volta.—esserlo!… Avrei dovuto "Tenermi la mia sposa—e scordar l'accaduto! "L'oltraggio era comune—a mille! Sarei stato "Felice! Forse un figlio—Iddio m'avrebbe dato "O una figliola, bella—come sua madre! Oh! Rita.,. "Dove sei? Mi narrarono—che te ne sei fuggita "In paese lontano,—quando ti venne detto "Ch'io facevo il carnefice,—e che m'hai maledetto! "Un pastore stamane—m'asseriva che al seno, "Partendo, ella teneva—sospeso il frutto osceno "Di quella notte orrenda…—una bimba dormente! "Da allora in poi nessuno—la rivide… Clemente "Iddio, se rivedere—un dì potessi almeno "Questa bimba, che Rita—tenea sospesa al seno!"
X.
E alzò gli occhi. Miracolo!—Dinanzi a mastro Spaghi Una forma di donna,—ai raggi fiochi e vaghi Della lampada, spicca,—sul buio della stanza.
È una fanciulla pallida—e bella. Ella s'avanza, Tenendo sulle labbra—l'indice, a passi lievi. Le sue pupille intorno—schizzano lampi brevi E inquïeti, e, scorgendo—colà soltanto il boia, Si volgono all'usciuolo—scintillanti di gioia.
Ella s'appressa al tavolo—e, tremando, vi getta Una manata d'oro. —Poi si ferma ed aspetta.
* * * * *
"Chi sei?" chiede il carnefice, —Ella cade ai ginocchi Di mastro Spaghi e dice—piangendo e alzando gli occhi: —"Tutto quest'oro è tuo;—questo è quanto possiedo… Guarda!" L'altro rispose—balbettando: "Lo vedo!"
Ma sulla giovinetta—il suo sguardo cadea, E la sua mano secca—a un altr'oro correa! All'oro dei capelli,—che le scendean qual velo Sulla fronte; e che gli occhi,—d'un azzurro di cielo, Coprivan quasi. "Dimmi,—dimmi dunque il tuo nome?" Soggiunse mastro Spaghi,—ravviando le chiome Alla bella fanciulla.—"Dimmi dunque, chi sei?"
* * * * *
—"Son orfana. Bambina—padre e madre perdei. "Eppure per molt'anni—sono stata felice! "Son bella; ho il sangue ardente;—faccio la meretrice. "Gli uomini li sopporto—se son vecchi o cattivi; "Cerco i baci di quelli—che son belli e giulivi. "Non ho fatto mai male—a nessuno! Giammai "(Pria per nulla, per poco—poscia) il piacer negai. "Eppur tutti, cercando—i miei vezzi procaci, "M'insultano! Gli insulti—scordo coi nuovi baci! "Amo le feste, i campi,—l'aria aperta ed i fiori, "E il vin che rende immemori—e che infonde gli ardori! "Le donne m'abborriscono!—Io rubo lor gli amanti!… "E dovunque si balli,—e dovunque si canti, "Il mio piede non manca,—non manca la mia gola!"
* * * * *
Mastro Spaghi esclamò:—"Povera figliuola!
* * * * *
—"Un dì venne a trovarmi—un bruno giovinetto, "Bello; parlava sempre—con dolcezza ed affetto… "Nicasio insomma! Tu—sai bene di chi parlo! "Del condannato…. "Ah!… Diamine!—Ch'egli abbia nome Carlo "O Nicasio," interruppe—mastro Spaghi, "giammai. "A color ch'ho appiccato—il nome domandai! "Che mi preme del nome—che porta un condannato!"
* * * * *
—"Anch'io feci lo stesso—con color che ho baciato!….. "Ma a Nicasio l'ho chiesto!—Mai non seppi spiegarmi: Il perchè glielo chiesi!—Ei diceva d'amarmi… Mi piaceva. Era bello! —Ma poi ne fui noiata…. "Era povero!… Eppure—egli non m'ha insultata "Quando gliel dissi! Pianse;—mi baciò il volto e il seno, "Quasi per ridestarvi—l'amore, e disse: Almeno " Non odiarmi! …" Venia—ogni giorno, recando "Cibi e fiaschi di vino. —Io ridevo trincando; "Ed ei parea tornare—dalla morte alla vita "Vedendomi gioconda. —Un dì esclamai: " Squisita " Dev'essere una lepre—col vin di Mercatello! "
Ei rispose: " Domani—porterò questo e quello."
" Baje! …" dissi ridendo,—" Tu una lepre?… Non sai "Che soltanto d'Urbania—col Signor ne mangiai? "Tu portarmi una lepre?—Tu pezzente e meschino?
—L'indomani egli venne—colla lepre e col vino!..
"Ah!… Io sono un'infame!—Egli aveva rubato!… "Gli intendenti del Duca—l'han preso e condannato!"
XI.
Ella si coprì il viso—con entrambe le mani.
* * * * *
La campagna avea un'eco—di gemiti lontani. Le foglie che stormivano—di fuori, nell'ortaglia, Parevano il fruscio—d'un abito a gramaglia. La lampada moriva. —Mastro Spaghi avea detto Ravvivandola: "È triste!—Povero giovanotto!"
E nell'olio una lagrima—al boia era caduta.
* * * * *
La fiamma scoppiettando—la stilla avea bevuta.
XII.
La fanciulla riprese: —"Io l'amo! Io l'amo! Io l'amo! "Io morrò s'egli muore!—Egli, povero e gramo, "Mi pagò più di tutti!—Ei d'amor mi ha arricchita! "Gli altri mi dan dell'oro!—Egli mi diè la vita! "Io lo voglio!… Dovessi—dar fuoco alla borgata! "Io pretendo di vivere—perchè mi sento amata! "Perchè voglio adorarlo,—e coprirlo di baci! "Lo comprendi, o carnefice?—Tu mi guardi? Tu taci?"
* * * * *
Ella facea paura. —Agitava le braccia, E diceva: " Lo voglio! "—con aria di minaccia. Correva per la stanza.—Abbrancava le grate Dell'usciuolo del carcere—con mani forsennate, Gridando: "Spingi! Aiutami!—Aiutami, amor mio!"
* * * * *
Ei mormorò di dentro:—"Lea, non perderti!… Addio!"
XIII.
Allora la fanciulla—divenne mansüeta Come un pazzo, cui nota—voce d'amico accheta. Il suo viso, che l'ira—aveva imporporato Tornò pallido. Il labbro,—qual ferro arroventato, Restò sol di carminio. —Ivi il sangue soltanto Afflüiva nei giorni—della gioia e del pianto; Ed un genio, guardando—quelle labbra procaci, Dovea dir: "Questa donna—è nata per i baci."
* * * * *
Mastro Spaghi, seduto—vicino alla lucerna, Somigliava alla statua—dell'attenzione eterna. Il morente lucignolo,—mobile e vaporoso, Fissava sul suo cranio—un punto luminoso.
* * * * *
Come un rettile, a terra—la fanciulla strisciando, A lui venne dinanzi;—e, gli stinchi abbracciando Del vegliardo, gli disse: —"Tu non l'ucciderai, "Non è vero?… Perdonami—s'io piansi e mi sdegnai… "Come sei bello!… Parla!—Io non credea davvero "Che gli uomini che fanno—un simile mestiero "Avessero una faccia—così buona, e che pare "Quella dipinta in chiesa—sul quadro dell'altare!"
XIV.
Mastro Spaghi taceva—fissandola nel viso; E nei suoi occhi azzurri—vedeva un paradiso. Un'iride ideale—di memorie e d'amore, Di dolci desiderii—soffocati nel cuore.
Come in mezzo alla nebbia—gli passava davante Della perduta sposa—il leggiadro sembiante, Che gli dicea: " Coraggio!—Se tu cedi, io perdono! "
Poi gli giungea all'orecchio—con argentino suona Una voce infantile;—quella d'una bambina; Che vinceva gli accordi—d'un'armonia divina.
* * * * *
Sovra la rozza panca—il vegliardo si scosse. Avea il pianto negli occhi—e mormorò: "Se fosse "Viva, avrebbe vent'anni—la povera piccina! "Vorrei diventar cieco—per averla vicina! "Che sarà divenuta?—Sarà dessa felice? "Forse è una gran signora…—Forse una meretrice!
* * * * *
Così parlava. Intanto—la dolente fanciulla Gli abbracciava gli stinchi,—senza comprender nulla.
Alfin surse da terra,—chè volavano l'ore. Avea l'occhio velato—da un osceno languore, Ed additando l'oro—mormorò al vecchio:
"Senti: "Questi sono testoni—tutti nuovi e lucenti… "Son dieci!… Sono pochi!—Ma se tu mi concedi "La sua vita, oltre l'oro—che scintillar qui vedi. "Io ti darò… me stessa!…—E sono bella!… Guarda!…" E si slacciò le vesti. —Ei con mano gagliarda, "Quasi sdegnato, e altrove—guardando, ricompose Le vesti. Ella la destra—gli strinse. Vi depose Un bacio e disse: "Grazie!—Oh!… Grazie, padre!
* * * * *
Allora, Nelle braccia serrandola:—"Lontana è ancor l'aurora!" Esclamò il vecchio. "Insieme—con voi verrò!.. Mia figlia, "Sì, mia figlia sarai!"
XV.
—E dalla ferrea griglia Del carcer, pochi istanti—dopo, uscivan tre ombre.
Le vie del firmamento—eran di nubi sgombre; La luna era abbagliante—d'ineffabil splendore; Nicasio e Lea correano—parlandosi d'amore.
Quella luna invitava—a amar, solo a vederla. La terra era d'argento,—il ciel di madreperla. E in quell'onda di luce—il triste gruppo avvolto Pareva un gruppo d'angioli—dal Signore raccolto, Perchè nel santo affetto,—che purifica tutto, Oblïasse ogni colpa,—oblïasse ogni lutto.
Di mastro Spaghi il cranio—fulgeva in modo strano; Lo si saria veduto—a tre miglia lontano.
Ei non se ne accorgeva. —Celiando, il giovinetto Quel cranio traditore—copri col suo berretto, E disse: "Affeddidio!—Questo tuo cranio vuole "Col suo sfarzo di luce—comprometter tre gole!"
* * * * *
Così senza spettacolo—rimaser l'indomani Di Sant'Angelo in Vado—i buoni borghigiani: E così, nella corsa—facendo invidia al vento, Sullo scorcio d'aprile,—l'anno milletrecento, Giungean, per imbarcarsi,—all'adriaca marina Un carnefice, un ladro—e una bella sgualdrina.
FINE.
INDICE
Scuola moderna
LIRICHE.
Prefazione ai miei versi La Forma e l'Idea Noia letteraria Letteratura disonesta Veritas, Vanitas! Le demolizioni In morte di Emilio Praga Anacreonte Evo Medio Il secolo di Pericle A Taide La notte di san Silvestro La Senavra In alto Circolo A Fulvio Fulgonio La chiesetta dei morti A una donna intelligente Il dì dei morti Per il santo Natale Coraggio! Ditirambo Per una suicida Quando? Ars, alma mater
DE MINIMIS.
Mors tua, vita mea Flectar, non frangar Melodia Seminare e raccogliere Il mare canta En attendant A un calendario americano Acqua dei monti In corpo di guardia Ultima ratio
DIES.
Alba Meriggio Sera Notte
CITTÀ ITALIANE.
Napoli Cagliari
EPISTOLA AD E. BIGNAMI.
Socialismo
NOVELLE IN VERSI. Acqua Fuoco Mastro Spaghi
112