1876
14. Via Pasquirolo
Tipografia Sociale—Via S. Radegonda. 6.
I SUICIDI DI PARIGI
REGINA
EPISODIO PRIMO
I.
Il cesto da nozze e ciò che segue.
Il dottore conte di Nubo dava a desinare nella sua casa di campagna a Saint-James.
E' non aveva, a vero dire, l'abitudine di offrir pranzi; perocchè, quantunque si avesse in casa, da due anni, una nipote, e' continuava a vivere da scapolo, mangiando in città, al restaurant o al club.
Quel giorno, però, era in qualche guisa obbligato a violar la regola. Egli maritava sua nipote. Il fidanzato aveva inviato il cesto da nozze. Degli amici e delle amiche avevano espresso il desiderio di vederlo. Si era in campagna, al mese di luglio.
Due persone fra i convivi avevano mancato all'invito: Sergio di Linsac e la signora Augusta Thibault. Malgrado ciò, vi era ancora una ventina di commensali, assai festevoli per rallegrare il pranzo e fare onore alle squisite vivande servite da Potel.
La signora Thibault giunse pertanto, alla fine della tavola e diè, sul suo ritardo, di quelle spiegazioni, che in bocca di chiunque altri sarebbero state scuse, ma che sono sempre delle ragioni ragionevolissime nella bocca di una bella vedova. Insomma, ella aveva pranzato altrove.
Sergio di Linsac non comparve affatto.
Il desinare finito, gli uomini uscirono a fumar nel giardino. Le dame restarono ad ammirare o criticare il cesto da nozze—sopratutto, ad invidiarlo.
Imperciocchè, la prima sensazione che produce un bell'oggetto sur una femmina, è sempre un pensiero di appropriamento—il quale, se resta nello stato di desiderio nella donna ricca, diviene voglia spasmodica nella povera. L'Invidia è un'impotenza.
Alberto Dehal, il fidanzato, aveva menate le cose da principe. Era egli un ricco banchiere, ed aveva calcolato la spesa alla tavola pittagorica del suo amore.
Una duchessa del sobborgo Saint-Germain sarebbe stata rapita di quei doni. Regina vi prestò poco o punto attenzione. Ella faceva alle sue amiche gli onori dell'esposizione di quei regali, come un custode mostra e spiega i diamanti della Corona—per una fredda ed insipida nomenclatura.
—Oh! ma il disegno di questo scialle incarna un poema fatato di Saadi!—sclamò la signora Augusta, palpando uno sciallo dell'Indie di una bellezza incomparabile.
Si portavano ancor scialli a quell'epoca. La degradazione di gusto nelle donne li à poscia aboliti.
—No, cara te—rispose la nipote del dottore—esso non vien mica da Saadi, ma da uno Smith o da un Brown qualunque—il corrispondente del signor Dehal a Calcutta.
—Ma non si direbbe dunque che questo monile è uscito dall'officina di Benvenuto Cellini!—osservò la vecchia marchesa di Montmartel.
—Ebbene, sì! dite codesto al signor Alberto ed e' tirerà di tasca il listino di Froment-Maurice e vi risponderà: Benvenuto Cellini! sconosciuto nel mercato di Parigi.
—Vedete qui! Furono, per Giove, delle fate che stellarono questi pizzi!—mormorò il giovane poeta Marco di Beauvois! l'amico intimo di Sergio di Linsac.
—Corbellate voi, sir di Beauvois!—replicò Regina. Furono nè più, nè meno che delle povere creature Welche, bene in cenci ed affamate al punto, ve lo assicuro.
—Cara mia—disse la signora Augusta—tu ài bello ad affettare l'indifferenza; i tuoi occhi, il tuo aspetto ti tradiscono. Tu irradii.
—Proprio così—rispose Regina, e continuò, noncurante, l'esposizione del suo cesto.
Ella ammonticchiava così la biancheria di madama Petit su i cappelli di Alexandrine, i coturni di Muller sulle magiche seterie di Lyon. Si sarebbe detto che Regina non comprendesse nè la ricchezza, nè la bellezza, nè il gusto elegante di quei capi d'opera dell'industria francese; che ella non sentisse la maestà dell'abbigliamento—questa sovranità, questa poesia della donna. Una donna mal vestita è un oggetto d'arte mancato, un fiore senza colore e senza profumo. Però, osservando con quanta ricercatezza, con quale gusto Regina era azzimata, uno si rassicurava: ella era incapace di quella indifferenza nella religione delle toilette.
La rivista terminata, si uscì nel giardino. Alberto Dehal si slanciò all'incontro della sua fidanzata, gittando precipitosamente il puros che aveva acceso.
—Ah! chè n'eravate voi lì, signor Alberto!—disse Regina, accettando della punta delle dita il braccio del suo promesso—vi sareste rigioito dell'estasi di queste signore, contemplando i vostri meravigliosi regali.
—In fatto di estasi, io non ne conosco che una, madamigella—rispose Alberto d'un tuono sommesso.
—Sì—l'interruppe Regina—quella del sigaro.
Alberto si tacque.
—Quanto a me, io ne conosco due—riprese Marco di Beauvois…
—Il whist ed un poney di corsa—osservò Augusta sorridendo.
—…. I vostri occhi e la vostra bocca—soggiunse il giovane all'orecchio della vedova.
—Eh! caro, voi non farete mai sempre che di distici per avviluppare i bonbons fulminanti—osservò Regina, che aveva udito il motto del giovane poeta.
Si rientrò nel salone.
Le tavole da whist assorbirono una parte della società. Alcuni giovani circondarono il piano, ove Regina con noncuranza si assise. Si ascoltava di già!
Regina suonò alla ventura, tutti i pezzi che le vennero a mente, sfiorando qua e là il suo repertorio di opere, di valtzer, d'inni, d'oratori, correggendo Lanner con Bach, Rossini con Beethoven, Musard con Bellini, Haydn con Donizetti, passando dal gaio al lugubre, dal canto fermo alla danza alata, e legando il tutto con fioriture della sua fantasia, folgorante come un razzo. Imperciocchè, artista d'istinto prima di esserlo per scienza, ella non possedeva quel talento da conservatorio che consiste a saltabeccare, a sgambettare con un'agilità di scimmia sulla tastiera dello strumento; ma aveva quel sentimento della melodia che è lo scintillìo della musica.
La musica non è uno sforzo a superare; è un'idea a creare. L'artista non è un gladiatore; è un mago.
Alberto si tenne vicino al piano, silenzioso, gli occhi ebbri. Gli altri sclamavano:
—Va, Regina: ancora, ancora!
Bisognava essere giuocatore di whist per non discontinuare la partita in mezzo a quella cascata di melodie. L'orologio scoccò, per rompere la fascinazione del giuoco. Infatti, l'orologio suonando mezzanotte, i giuocatori si alzarono.
Alla mezza, eran tutti partiti.
Il dottore, che aveva guadagnato, sbadigliò spaventevolmente ed andò a coricarsi.
Ad un'ora del mattino, non era più in casa alcuno che non dormisse.
O' detto alcuno? No.
Regina non era neppure andata a letto.
La sua cameriera, Lisa, affastellava in un sacco da notte alcuni oggetti.
Quando le due donzelle si furono assicurate che il sonno chiudeva tutte le palpebre—perchè Lisa andò prudentemente ad ascoltare alle porte—esse scesero sulla punta dei piedi al salone.
Nick, il bel Terranuova, andò a leccare la mano di Regina e la guardò con occhi teneri e supplichevoli, quasi che avesse indovinato il disegno della fanciulla. Regina lo baciò. Nick si coricò, avendo compreso che gli era mestieri discrezione.
Lisa aprì allora dolcemente la porta vetrata che immetteva nel giardino.
Regina restò ad ascoltar per qualche secondo se alcun non le udisse. Poi, Lisa salì nella camera della padrona; recò giù un sacco da notte, un mantello da viaggio ed un cappello; spense il lume; ed entrambe uscirono, socchiudendo le imposte.
Nick gemè sommessamente.
La casa di campagna del dottore toccava il parco di Madrid, ove egli aveva diritto di passeggiare. Questo parco, scomparso oggidì, aveva ancora a quell'epoca una porta sporgente sul bosco di Boulogne, di cui il dottore possedeva una chiave per uso suo.
Lisa aprì—ed alle due del mattino si trovarono nel bosco. Lisa richiudeva la porta, quando un giovane si avanzò verso di loro.
—Regina! mormorò egli.
—Sergio! rispose questa.
Il giovane fischiò, ed immediatamente comparve una berlina di posta nascosta sotto gli alberi del viale.
Il postiglione aprì lo sportello senza soffiar verbo. Le due donzelle entrarono nella vettura con Sergio.
—Guida tripla—disse costui. Via d'Inghilterra.
I cavalli partirono ventre a terra.
II.
La lettera.
La luna navigava tranquillamente pel cielo. Il profumo degli alberi saturava l'aria infocata e voluttuosa. Le foglie alitavano appena, come il respiro di un fanciullo. Non una nuvola. Le stelle palpitavano di una luce azzurrognola. Si udì dunque nella berlina la parola: Grazie! pronunziata dal giovane, ed il rumore di un bacio lungo—protratto come la speranza! Il veicolo fendeva lo spazio a guisa di allodola. La parola magica: guida tripla, gli aveva dato le ali.
La sensazione che produce un coupè lanciato al galoppo à qualche cosa di elettrico e d'inebbriante. L'irradiazione delle forze animali che imprime il movimento alla vettura, si comunica al viaggiatore. L'immaginazione domina la mente. Gli oggetti esteriori perdono, nella rapidità della corsa, tutto ciò che ànno d'inarmonico e di angoloso. Una tiepid'aura avviluppa l'intera natura. Si può essere affranti e vaneggiatori in una diligenza o in un wagon; in una sedia di posta non lo si è mai.
Che s'immagini cosa dovesse essere un viaggio simile per due persone che si amano—e per una vispa cameriera, il di cui bernoccolo di osservazione era messo in azione da due molle: la curiosità e l'interesse!
Il dottor Gennaro di Nubo si svegliò l'indomani alla sua ora consueta e suonò pel suo valletto. Questi, secondo l'uso, entrò recandogli una tazza di caffè nero e dell'acqua calda per la toilette.
Alle nove, il dottore uscì nel salone per la colazione. Non trovando sua nipote con cui aveva costume di asciolvere.
—E Regina?—domandò al cameriere.
—Lisa non è comparsa stamane—rispose Trust, più preoccupato, a quel che sembra, della soubrette che della padrona.
—Io ti parlo di Regina, messer l'animale—sclamò il dottore.
—Ah! sì, scusi, padrone, madamigella non è alzata ancora, e neppur Lisa.
—Sarebbe ella indisposta?
—Ah! Dio mio! il signor conte à l'istesso sospetto che me. Perocchè l'è codesto che io mi domandava or ora, non vedendola svolazzar per le aiuole, inaffiando i fiori.
—Odi, Trust, io sarò costretto a mandarti via, amico mio.
—Oh! dear me! E perchè il signore vorrebbe egli mandarmi via così?
—Perchè tu ài completamente perduto lo spirito, dopo che quella sgualdrinella di Lisa è capitata qui.
—Ah! padrone, vi assicuro che io non ò nulla perduto in fatto di spirito.
—L'è forse vero… tu non ne avesti mai molto. Va ad informarti della salute della signorina.
Forte di quest'ordine, Trust se ne andò a picchiare all'uscio della camera di madamigella Lisa.
Io non so cosa avrebbe fatto questa virtuosa donzella se la si fosse trovata lì dentro. Ma, galoppando sullo stradale d'Inghilterra, ella non poteva certo rispondere. Laonde Trust, temendo pur sempre un malore—che Lisa, per esempio, non si fosse asfissiata per amore di lui—picchiò di nuovo, picchiò più energicamente, poi forzò la porta.
Il suo cuore batteva mettendo il piede in quella camera che sovente lo faceva vaneggiare. Ma e' restò d'un tratto come stupidito, vedendo il letto non sfatto, il baule aperto e quasi vuoto. Baciò di fuga il guanciale di Lisa, e discese precipitoso nel salone.
—Grande sventura, padrone, grande sventura—gridò egli entrando—Madamigella Lisa se l'è spulazzata.
—Triplo idiota!—urlò il dottore, fulminando Trust di uno sguardo di collera ed allungandogli un calcio, per un resto di vivacità delle sue abitudini napolitane.
Poi salì egli stesso all'appartamento di sua nipote.
Battè per un pezzo all'uscio. Non ricevendo risposta, non udendo il minimo strepito nell'interno della stanza, e' portò la mano al luchetto della serratura—dopo avere però picchiato di nuovo.
A suo grande stupore, e' senti un tiepido brivido circolargli per le vene. Il cuore accelerava i suoi palpiti; la mano vacillava. La natura si faceva giorno per una maglia forata nella cotta d'acciaio di quest'uomo! Ei vide i mobili aperti, mille oggetti sparpagliati qua e là, il letto intatto, la camera vuota.
Tutto di un guardo solo!
Restò in piedi, freddo, in mezzo di quella stanza, in mezzo di quelle vesti, di quei gioielli, di quella biancheria, di quei mille nonnulla deliziosi che idealizzano la donna e la fanno felice. Restò come di ghiaccio. Si sarebbe detto S. Antonio circondato dalle sue tentazioni annientate.
Questo stato di stupore però non durò che un istante.
Un leggiero rossore colorò tosto le sue guancie, quando, avanzando verso un guéridon vicino al letto, vi scorse su un foglio piegato a foggia di lettera.
L'era una lettera, infatti, all'indirizzo di lui.
Il dottore la disuggellò lentamente.
Il carattere era tracciato da mano calma. La carta profumata.
—Vi è della premeditazione in questa lettera—si disse il dottore esaminandola—per conseguenza, delle cose false. Vediamo.
Il dottore leggeva a mezza voce. La lettera cominciava così:
«Bando al rancore, mio caro dottore. Io mi ribello.»
Il dottore sorrise e borbottò, decifrando la lettera:
—Che roba infame questa scrittura all'inglese! Le lettere si ecclissano nei profili. Non vi è più la persona in questo carattere: esso è chiunque.
«Io mi ribello.» Sta bene: lo si vede.
«Io scompiglio i vostri progetti. L'uomo a cui volevate confidare il mio destino, o piuttosto il nostro destino, onorevole e degno sotto ogni rapporto, non era di mia scelta. E' non mi avrebbe lasciato mancar di nulla, nulla desiderare. Io sarei stata blasée, vecchia a venti anni!»
—Diavolo!—sclamò il dottore—che logica!
«Se voi foste stato mio padre, o anche mio zio, voi avreste forse osservato, conducendomi nel mondo, ove i miei sguardi volgevansi, chi faceva arrossir le mie guancie, brillare i miei occhi, tuffandomi in quello stupore che lambe la sciocchezza. Ma voi andavate nel mondo per conto vostro: io era per voi un refrattore—perchè non oso dire, la vostra ipoteca dell'avvenire.»
Il dottore passò la mano sulla sua fronte pallidissima e sospese per un istante la lettura. Aggrottava le sopracciglia.
—Molto bene!—sclamò poscia—Vediamo la fine.
«Io feci la mia scelta dal lato mio; ma all'antipodo della vostra. Che volete! Io adoro Victor Hugo: Spasimo per le antitesi!
—Ed io pure—mormorò il dottore.
«Al momento dunque in cui riceverete questa lettera, io sarò con la mia antitesi in una sedia di posta sullo stradale d'Inghilterra, ove andiamo a maritarci.»
—Ella mente—gridò il dottore. Ella è in via per l'Alemagna, la Svizzera o l'Italia—in questa contrada abbominevole ove un prete, per venti soldi, commette un sacrilegio con la stessa facilità con cui trangugia una ciambella in un bicchier di moscadello.
Ahimè! il miglior mezzo per metter fuori sella un diplomatico sarà mai sempre la verità!
«Non mi prendete dunque in uggia: ciascuno per sè!—e Dio per noi tutti, soggiungeva il mio confessore alla pensione. Io vi dimando la vostra benedizione—per parentesi—ed in piene lettere, la vostra benevolenza, come pel passato.»
Il dottore sorrise di nuovo.
«Chi sa ciò che può arrivare. Non vi è una via sola per andare a Roma.»
—Ella era civetta—pensò il dottore—si prepara a divenire sgualdrina.
«Ad ogni modo, ve lo ripeto, dottore: non rancori. Imperciocchè, se, al vostro punto di vista, io m'ò poco cervello per alloggiarvi delle ricordanze, io ò cuore abbastanza per dare loro un asilo. A rivederci, caro zio…
«REGINA.»
Il dottore restò qualche tempo a meditar su quella lettera. Non la rilesse. La sapeva già a memoria.
La testa inclinata sul petto; lo sguardo fisso sui mazzi di rose del bianco tappeto; le ciglia irsute; il respiro precipitoso; e' rifletteva. Poco a poco, però il suo viso spianossi. Trovandosi in piedi innanzi ad una Psiche, vi si mirò. La sua bocca s'increspò allora ad una leggiera smorfia, che aveva l'aria di un ghigno—uno di quei sorrisi che dànno la pelle d'oca agli agnelli nella società leonina in cui viviamo—e tentennando della testa si apostrofò!
—Tu eri proprio innocente, conte Gennaro di Nubo, dottore della Facoltà e membro dell'Accademia delle Scienze!…—Tu eri ben gonzo, convienine. Voler riescire per la linea retta? Giungere per la grande strada? Ah! bah! Altrettanto sarebbe valso di trangugiare il Panthéon in pillole.
E facendo un gesto di disprezzo contro sé stesso, ridiscese al salone, completamente freddo ed impassibile, ed ordinò la colazione.
Bevve enormemente di the; mangiò di tutto e trovò tutto eccellente.
Egli respinse perentoriamente, come imprudente, l'idea di comunicare l'avventura alla polizia, di segnalare la donzella e la fante per telegrafo, e di confidarle alle cavalleresche sollecitudini della gendarmeria.
La condotta di Regina doveva passare per una malizietta da testa romantica, una storditezza da pensionista. E' non doveva complicare la situazione, nè lasciare al mondo una presa qualunque sul fondo dei suoi sentimenti, sul movimento intimo del suo cuore. Doveva apparire sempre calmo, limpido, senza la minima ondulazione. Non doveva pregiudicar l'avvenire. Doveva avere un'anima incolore, muta, apatica.
Uscì dunque alla sua ora solita; visitò i suoi ammalati, e dopo le quattro, alla chiusura della Borsa, andò a trovare Alberto Dehal, per raccontargli lo strano ratto della sua fidanzata. Poi recossi al Circolo, ove trovò una lettera pressantissima di Augusto Thibault.
III.
Un buon viglietto di lotteria.
Nel mezzo della state del 1833, il dottore di Nubo trovavasi a Nicastro di Calabria.
Un editore gli aveva dimandato di ripubblicare la grande opera di lui: L'etnologia delle popolazioni dell'Italia meridionale, che, nel 1812, gli aveva conquistato il posto di membro dell'Accademia delle Scienze ed il nastro della Legione d'Onore.
Il dottore, viaggiava per distrarsi. Controllava il suo libro, onde metterlo al livello delle scoverte e delle dottrine, le quali avevan, dopo quell'epoca, allargato il dominio delle scienze naturali. Egli amava, d'altronde, percorrere quelle vaghe contrade, poco esplorate, e dove non s'incontra neppure lo stesso inglese! Gli osservatori si compiacciono in queste lande sociali ancora vergini, ove, di ogni sguardo, si squarcia un velo dell'incontaminata Iside.
Il dottore infatti, scovriva costumi e maniere nuove, paesaggi potenti di splendore, di contrasti, d'inatteso: un lembo del mondo primitivo, perduto ai pie' dell'Italia, in mezzo al XIX secolo.
Era un giorno di fiera.
Il dottore di Nubo, a cavallo, accompagnato da una guida, se ne andava a visitar le montagne. Traversava la piazza pubblica della cittaduzza.
Una banda di zingari ostruiva la via, circondata da una folla grande di curiosi cui aveva attirata.
La banda componevasi di una dozzina d'individui; più, quattro scimmie, due orsi, una ventina di asini, tre cani e lo zio Tob—il quale era il proprietario, il principe, il papa, il padre, il padrone, il tiranno di tutta quella roba.
Dond'e' venivano?
Essi arrivavano: ecco tutto!
L'industria ch'esercitano gli zingari nella Bassa Italia è complessa. Essi sono ferrai, maniscalchi, giocolieri, calderai, incantatori, stregoni, indovini di buona ventura, trovatori di tesori, ladri di fanciulli, scassinatori di porte… cozzoni sopra tutto. Gli uomini comprano e vendono asini; le donne rubano animali domestici, dicono la buona sorte alle fanciulle—cui esse maritano sempre riccamente e subito—o fanno peggio ancora—senza neppure accorgersi che fanno male. Si conoscono le loro costumanze. È inutile ribiascicarne.
Essi danno del compare a chiunque. Ànno numerosi segreti di cozzoneria.
Il più vecchio, il più magro, il più consunto dei ciuchi—un censore teatrale della specie—diviene nelle loro mani brioso come una vedova che si rimarita, uno scolaro in vacanza.
Quando voi credete che lo zingaro apra la bocca di questa povera bestia per mostrarvene i denti—cui ha testè segati per dissimularne l'età—egli le cola destramente nella gola una pillola infernale di peperone che le brucia le viscere, la incita alle follìe e le dà gli ardori verdi ed irresistibili di un cappuccino. Quando voi credete ch'e' ne carezza le groppe; egli le punge a dentro, mediante un cardo a punte acute nascosto nelle palme. Voi credete che la bestia è grassa come un abate benedettino; essa è nè più, nè meno che gonfia. Laonde, il contadino diffida a modo delle compre e delle vendite dei gitani.
Il dottore, fermo un istante dall'ingombro nella via di quella comitiva bizzarramente stracciona, vide venire a lui una creatura di dieci o dodici anni ch'egli suppose del sesso femminile, e chiedergli un piccolo dono.
Gli zingari non mendicano mai. Essi prendono a mutuo; domandano un piccolo regalo; rubano; ma non stendono la mano alla limosina. Crederebbero mancarsi di rispetto: ànno un'industria!
La vista di quella cosina—era una ragazza—colpì il dottore.
Ella era assolutamente un embrione, tanto era segaligna e magra. Ma quell'embrione, sviluppato dalla natura che ne aveva gettato i rudimenti, poteva divenire sublime. Per il momento, non iscorgevasi che delle ossa ammirabilmente organizzate; dei grandi occhi neri scintillanti come quelli di un serpente in collera; dei lunghi e castagnini capelli, che contornavano una fronte elevata e larga, a mo' di paralellogramma; una pelle che non era bruna, che non era pallida, ma che, animata da una circolazione meglio nutrita, poteva acquistare una tinta più chiara e trasparente di quella di una creola. Poi, una bocca grandicella, ma ben fessa ed armata di piccoli denti bianchi, acuti ed eguali; una vitina svelta, alta, soffice, pieghevole come un giovane pioppo. Insomma eran quivi i primi stami di una di quelle donne che, trasportate in una grande città ed in un mondo come Parigi e Londra, possono addiventare un flagello, una magia: che cominciano sempre per levarsi da Cleopatre avvegnachè finiscano talvolta in Maddalene.
Il dottore gettò una moneta d'argento alla bambina e continuò il suo viaggio per l'escursione progettata. Ma, cosa bizzarra! quell'abbozzo di donna gli trottò per lo spirito tutto il dì.
Si fermò di un tratto.
Non era però il magnifico orizzonte che si spiegava innanzi ai suoi occhi che lo arrestava.
E' non vedeva punto, dalla cima di quell'appennino, solcato da filicciuoli di neve come una tavola di vecchio rovere niellata in argento, nè il Mar Jonio dai flotti verdastri; nè il Tirreno arrovellato dai suoi cavalloni turchini; nè l'Etna che ondeggia in distanza in un'aureola di vapori violetti; nè quel cielo allo spazio infinito, che con la sua profonda limpidezza sembra raddoppiare la potenza della vista. No: e' non vedeva nulla di tutto codesto, nè altra cosa. Un'idea aveva traversato la mente del dottore di Nubo come un lampo nel fitto della notte.
—E s'io m'impossessassi di questa potenza?—brontolò egli alla fine.
E dette ordine alla guida di tornare immantinente a Nicastro.
I psicologi àn tanto scritto sull'origine, la nascita, la cristallizzazione del pensiero, che non se ne sa assolutamente più nulla. Laonde, io m'astengo netto dall'intraprendere un'investigazione metafisica su questo subietto—ne fosse pur questo il momento.
L'intuizione subìta dall'avvenire poteva ben essere nello spirito del dottore la conclusione di un seguito di ragionamenti anteriori, la soluzione di numerosi dubbii, di molte paure, di lunghe ricerche, di una meditazione attiva e persistente sul suo proprio passato. Il suo grido finale poteva ben essere l'ultima parola di un problema, di cui studiava le premesse da lungo tempo, l' ergo di un sillogismo che era costato, Dio sa quante veglie e quante preoccupazioni. Però chi lo sa? Il conte di Nubo non era comunicativo sulle sue evoluzioni psicologiche.
E' non era di quella pasta d'uomini cui Orazio qualifica di fruges consumere nati —buoni tutto al più ad ingollare la loro polenta—come un deputato ministeriale. La sua esistenza, zeppa, poco ordinaria, era scorsa a cielo aperto, a cielo offuscato, nei chiarori del mezzodì sovente, più sovente ancora nei ciechi abissi della notte.
Tornato a Nicastro, e' fece chiamare l'albergatore e gli disse:
—Io sarei curioso di contemplar da vicino e parlare al capo degli zingari, che ò visto stamane nella piazza della fiera. Potreste indurlo a venir qui?
—Nulla di più facile, eccellenza, se tuttavia non se l'è svignata dal paese.
—No: l'ò visto or ora: vi è ancora.
—In questo caso, eccellenza, vado a servirvelo in un quarto d'ora.
—Io non chiedo che il capo solo.
—Vostra eccellenza non vedrà che lui.
Infatti, poco stante, lo zio Tob arrivò.
Non mai Callot, o Moya, o Pinelli, non fantasticò di un cialtrone più compiuto di questo zio Tob. Giammai fiero Castigliano non portò cenci con più fierezza e nobiltà che codestui—vantandosi del resto di discendere dai re di Polonia, benchè nato nello Yorkshire.
La sua toilette era il più strano abuso del pleonasma—eppure sembrava nudo! Aveva una camicia a merletto sur una camicia da notte, sovrapposta essa stessa ad una camiciuola di rosso fustagno. Sulla camicia à jabot s'incrociava un panciotto di piqué bianco, alla Robespierre, sotto, un panciotto di velluto, preceduto da un terzo panciotto di raso nero, che mostrava i suoi lembi consunti in fra i due. Poi, su codesto, un pastranello che si sarebbe detto una vareuse rossa, un attila ungherese, ed un mantello alla spagnuola. Il suo capo era coperto da un feutre grigio a larghe falde, il quale dava libero passo, dai suoi molti buchi, alle ciocche di un'irsuta capigliatura che aspiravano a sventolare a grado dell'aure. Il feltro era sormontato da un'altra piuma di coda di galli, azzeccata da uno scheggiale brillante di acciaio, ed abbellito da una fettuccia di velluto. Poi ancora, dei calzoni azzurri larghissimi, cacciati a mezzatibia, in un paio di stivali alla scudiera, sui quali ballonzavano delle uose mal bottonate.
I capelli neri del babbo Tob si attorcigliavano sulle sue spalle come colubri. I suoi lineamenti, regolarissimi, rilevati da un naso aquilino delicato e da un paio di magnifici occhi neri, restavano ancora imponenti, malgrado l'estrema loro magrezza ed il loro colorito di oliva.
Tob era alto, nervoso, spigliato. Però tutto codesto indovinavasi anzi che vedersi, non essendo facile a discernerlo.
Lo zio Tob era un composto di toppe di rapporto. Ogni parte del suo corpo serviva a completare l'armonia ed a compensar la dissonanza della parte vicina. Ogni arnese aggiunto al suo vestito, serviva a dissimulare la soluzione di continuità dell'arnese sottoposto, di guisa che, ravvicinati l'uno all'altro, essi formavano appena un involucro più screziato che caldo.
La regolarità delle sue forme serviva appena altresì a temperare la ripulsione, che senza ciò avrebbero desta la sua magrezza e la sua itterizia.
Lo zio Tob si fè avanti di un'aria sicura, mentre le sue ossa scricchiolavano al suo passo. Non cavò il copri-capo. Prese per di più una seggiola, cui avvicinò a quella del dottore, ed attribuendosi la parola pel primo e dandogli del tu, al modo dei gitani, disse:
—Che mi vuoi tu, compare?
Il dottore non rispose da prima. E' cercava a rendersi conto dell'uomo con cui aveva a negoziare, mediante l'analisi della fisionomia e l'osservazione di quelle mille protuberanze—cui certe abitudini della vita e del pensiero sollevano sul corpo—sì eloquenti, quando li si sa interrogare da frenologo, non da ciarlatano.
Dopo due minuti di silenzio, che turbavano lo zio Tob, il dottore fiutando una presa di siviglia, disse lento, lento:
—Io sono straniero. Viaggio perchè mi annoio. Son curioso. Amo le storie bizzarre. Ora, come io m'immagino, caro, ch'e' vi potria essere nella storia vostra qualche cosa di piccante, vi ò fatto chiamare per chiedervene il racconto.
Il dottore aveva aperta la conversazione con mal garbo—non tardò ad avvedersene.
Lo zio Tob restò un istante come stupefatto, gli occhi spalancati, pensando sognare, sospettando, malgrado ciò, che non fosse innanzi ad un commissario di polizia. Poi si alzò pian piano, e rispose:
—Io pure, sono straniero. Io viaggio per vivere. Io non sono punto curioso. Detesto le storie, bizzarre o no. E come non ò nella mia vita nulla di ghiotto, e come, quand'anche ve ne fosse, io non l'avrei spippolato al primo ozioso venuto che prendesse la pena di chiedermelo a brucia pelo, io ti rispondo: addio compare.
—Scusatemi, signore—riprese il dottore alzandosi—io non aveva intenzione di offendervi. Se vi ò dimandato il racconto delle vostre avventure non è mica unicamente per un sentimento di curiosità. Un'idea più generosa ispiravami.
—Alle corte, compare—sclamò bruscamente lo zio Tob.—tu ài un servigio a chiedermi. Un uomo come te non scomoda un uomo come me pel semplice piacere di fare una chiacchierata come un vecchio paio di amici. Andiamo dunque al busillis. Che mi vuoi tu?
—Dappoichè voi mettete la quistione in questi termini—replicò gaiamente il dottore—io l'accetto. Andiamo al fatto.
—Andiamovici—ripostò il babbo Tob.
—Io ò rimarcato, nella vostra banda di gente e di bestie, una creaturina di dieci o dodici anni cui suppongo una fanciulla.
—Ah! ah!—fece Tob grattandosi il naso—Sì, infatti, è una fanciulla. E poi?
—È vostra figlia?
—Che ne so io? Del resto, appo di noi, il figlio appartiene alla comunità. E' non rileva che dal suo capo; non conosce che sua madre; ed è classificato dalla nazione ove nacque. Chi nasce in Ungheria è ungherese; chi nasce in Italia, italiano.
—Che diritto avete voi sulla vostra compagnia?
—Dimanda piuttosto, compare, qual diritto io non mi abbia.
—In questo caso, voi potete vendere quella fanciullina.
—Se volessi, il potrei senza fallo.
—Che prezzo, volendolo come il potreste, ne dimandereste allora?
—Io non ò detto che il volessi. Ma come tu ami a cianciare, cianciamo pur di codesto come di tutt'altro.
—Allora?
—Orbè, l'è secondo. Che vorresti tu farne, anzi tutto.
—Mia figlia—supponiamo.
—In questo caso, e' sarebbe più caro.
—Perchè?
—Perchè la sarebbe perduta per sempre per noi.
—Infine—sclamò il dottore con un po' d'impazienza.
—Cinque mila franchi—disse Tob, distillando le sillabe.
—Il prezzo di un cavallo inglese!—proruppe il dottore. Mille grazie. Compro una Circassa.
—Ti tengo—gridò lo zio Tob. Non è una figlia che tu compri allora, l'è un'utilità, l'è uno strumento, l'è un godimento o un servizio qualunque che tu acquisti infine. Tu calcoli semplicemente, non compi un'opera da filantropo.
—Ciò mi riguarda, brav'uomo.
—E ciò riguarda anche me. Cinque mila franchi, dunque.
—Impossibile. Addio.
—Vuoi tu comprarla alla libbra, compare?
—La carne viva inganna al peso. Voi sareste minchionato, caro. No.
—Ad ogni modo, ne daresti tu che?
—Mille franchi.
—Mille franchi! La sarà per me la gallina dall'uovo d'oro. Però dimmi questo, compare: ne farai tu una cristiana?
—Senza dubbio.
—Io diffalco allora cinque cento franchi di mancia pel diavolo. Prendila a 4,500 franchi.
—No.
—Ne farai tu una cattolica, apostolica, romana, compare?
—Sì.
—In questo caso, ne diffalco altri mille franchi—a causa della probabilità che la potrà un giorno tornare a noi, in un modo o nell'altro. Tre mila cinquecento franchi, allora.
—No. Due mila franchi, ecco l'ultimo mio prezzo.
—Un'ultima domanda, compare, insistè lo zio Tob, riflettendo—ove la conduci tu?
—A Parigi.
—Vada. Te l'abbandono per 3000 franchi. Tutto non è perduto.
Il dì seguente, lo zio Tob consegnava la fanciulla pel prezzo sopradetto, accettato dal dottore.
Infrattanto, il mercato conchiuso, il dottore faceva rivenire l'albergatore e gli comandava da cena per due.
—Io mi tedio a cenar solo e non mangio—diss'egli. A chi potrei indirizzarmi in città per averlo a conviva?
—Ah!—rispose l'albergatore—se vostra eccellenza ama il buon vino, noi abbiam qui il capitano della gendarmeria…
—Non vo' birri alla mia mensa, gnoccolone!—interruppe il dottore, conoscendo i polli di casa Borbone.
—Vi sarebbe inoltre l'arciprete.
—Io sono protestante.
—In questo caso, che vi sembra del medico?…
—Son medico anch'io. Ci arrovelleremmo prima di dar mano agli hors-d'oeuvres.
—Allora, eccellenza, io non so mica più… perchè il sotto-intendente non verrebbe.
—Nè io il voglio, perdio.
—Il suo segretario fa la corte alla moglie di lui, e non si scomoderebbe neppure pel re. Il sindaco à la gotta… Ah! un'idea.
—Dite pure.
—Vostra eccellenza gradirebbe ella un messere che mangia molto, ma molto?
—S'e' mi piacesse, per fermo.
—Ebbene, il cancelliere comunale è la perla delle tavole. E' non mangia mica sovente, il galantuomo, perchè è povero.
—Perchè è desso povero?
L'albergatore restò allampanato alla dimanda. E' sbirciò il dottore con attenzione, poi soggiunse:
—Cazzica! perchè è povero? Da prima perchè non guadagna abbastanza. In seguito perchè à una famiglia numerosissima. Infine, eccellenza, perchè giuoca alla lotteria quel po' di ben di Dio cui guadagna.
—Andate ad invitare il cancelliere—ordinò il dottore—e fate il festino per bene.
Il cancelliere accettò di balzo e giunse all'albergo.
E quest'uomo non aveva sul viso che occhi e peli; poi, un gobbo alle spalle, un piè più corto dell'altro. E' non rideva mai. Un libro sudicissimo faceva capolino d'una delle tasche della sua giacca.
Egli salutò sommariamente il dottore: la vista dell'imbandigione l'abbacinava.
La cena non fu guari allegra.
Messer lo scriba ingollava pietanze su vino e vino su pietanze. Il dottore assisteva, con noncuranza, al riempimento di quell'imbuto, aspettando il momento d'intraprendere il suo affare. Imperciocchè, non pretendiamo fare un mistero non aver egli invitato quel baratro per il piacere della di lui compagnia. Alle frutta, il momento gli parve propizio. Il degno uomo piangeva di tenerezza.
—Voi non siete mica ricco, l'amico, mi àn detto—sclamò il dottore.
—Lo sarò—rispose il cancelliere sfolgorante. Io non mi stancherò. O' un terno, che in tutte le giuocate rasenta l'uscita, e che mi avrebbe prodotto di già due ambi se io li avessi giuocati insieme. Ma, io vo' tutto, signore; tutto o nulla. Io lo spio, questo scellerato terno; e' verrà fuori, infine: ne son certo.
—E se io vi dessi dei numeri più certi ancora, eh! Meglio ancora che codesto: se io vi dessi dei numeri che usciranno senza neppur averli giuocati? Che ne dite?
—Peste e paradiso! signore… io direi… che voi vi burlate di me.
—Io non mi burlo giammai di alcuno. Io non scherzo mai.
—Ma allora, eccellenza… voi siete Dio o il diavolo.
—Ditemi un po'. Voi non giuocate dunque che dei numeri schietti schietti?
—Come mo? Vi sarebbe dunque altra cosa a giuocare?
—Senza la formola?
—Che formola?
—Non mi stupisco allora che perdiate sempre.
—Mi strangoli Dio, se ne comprendo goccia, gridò don Antonio.
—Lo veggo bene.
—Voi andrete a rivelarmi codesta formola—impose il cancelliere levandosi, fiammeggiante, con una energia ed una decisione che gli davano l'aria di un bandito.
—La formola del viglietto che giocherete la volta ventura, amico mio—rispose il dottore con calma—sarebbe la seguente; «Estratto dai registri dello stato civile della Comune di Nicastro, n°… pagina… ecc., ecc. Oggi, 20 aprile 1832, s'è presentato a noi, cancelliere della detta Comune, D. Antonio Bello, accompagnato da quattro testimoni onde fare iscrivere una bambina chiamata… chiamata… sì, chiamata Regina, cui il detto D. Antonio Bello ed i testimoni ànno dichiarato appartenergli, come pure a sua moglie Lucrezia Paolina Atripalda di Nubo, ecc., ecc.»
—In una parola, un atto di nascita!—riassunse lo scriba stupefatto.
—Nè più, nè meno…. secondo le vostre formole ordinarie.
Il cancelliere aveva ascoltato il dottore. Ora, come il discorso di costui gli sembrava incoerente, e' suppose che l'anfitrione gli favellasse in quel modo onde dargli dei numeri di lotteria così dissimulati, come talvolta si pratica.
I santi, i cappuccini non li danno altrimenti.
E' cavò dunque di saccoccia il libro sporchissimo che vi mostrava i lembi—chiamato Smorfia nell'ex-regno di Napoli—e che è una specie di dizionario con un numero appiccicato ad ogni parola. Cominciò a sfogliarlo, avvegnachè sel sapesse a memoria. Però non vedendo costrutto in quel che il dottore aveva detto, il cancelliere restò muto e si grattò il cocuzzolo a maniera di idiota.
—Ebbene?—fece il dottore. Rispondete voi? Vi va desso di guadagnar, a colpo sicuro, 500 franchi sur un terno?
—Sì, sì, balbuziò il cancelliere. Ma io non vi veggo il terno, io. Per esempio, noi abbiamo la bambina che fa 37, poi il padre che segna 15, e poi… buona sera.
Il dottore sorrise e rispose:
—Amico caro, quel che io vi chiedo è ben più semplice di tutto ciò. Io vi chiedo, secondo la vostra formola, di estrarre dai registri dello stato civile di Nicastro l'atto di nascita di Regina, figliuola di D. Antonio Bello e D. Maria Lucrezia, Paolina Atripalda di Nubo, nata il 20 aprile 1822. Capite voi?
Lo scriba comprese alla fine, e sorridendo a sua volta, chiese:
—Troverò tutto codesto nei miei registri, signore?
—Ciò vi riguarda—rispose il dottore un po' brusco. Io vi darò dimani un viglietto di 500 franchi contro l'atto in quistione, bollato, registrato, firmato dal sindaco e dal sotto-intendente.
—Ciò è grave!—mormorò il cancelliere.
—Cosa? ciò che vi chiedo?…
—Che voi non ne dimandiate che uno, di codesti atti.
—Ah!
—Va bene. L'avrete ad ogni modo domani. Perchè il sindaco firma sempre senza leggere, quando non firma in bianco nei suoi momenti d'ozio. Ma è mestieri far visitar l'atto dal sotto-intendente, onde legalizzare la firma del sindaco, ciò che io farò pure; poi dall'intendente, onde legalizzare la firma del sotto-intendente; infine dal ministro dell'interno a Napoli per legalizzare quella dell'intendente; e se voi dovete far uso di quest'atto all'estero, perchè desso sia autentico, bisogna farla vistare altresì dal ministro degli affari stranieri e dall'ambasciatore.
—Ciò mi riguarda—disse il dottore, dandogli congedo.
A mezzodì, il dì seguente, il dottor Gennaro conte di Nubo entrava nel coupé di posta, azzavorrato della sua nipote Regina Bello, munito dell'atto di nascita di lei legalmente falsato.
IV.
La gitanella.
La gitanella è oggimai Regina Bello, figliuola di un proprietario di Nicastro e dell'ultima erede della famiglia gli Atripalda di Nubo—nipote quindi del dottore Gennaro conte di Nubo.
Conte e non principe di Nubo, non avendo giammai voluto prendere questo titolo—tanto sacro era il culto ch'e' conservava alla memoria di suo padre, morto sul palco, per causa politica, nel 1799, a Napoli.
Il dottore sapeva, da sorgente autentica, che Maria Lucrezia Paolina di Nubo era morta presso la sua nutrice, nel 1807. Ma gli era utile ai suoi disegni di accreditare la leggenda, che questa fanciulla era restata nascosta, che aveva in seguito sposato un uomo oscuro, e che il governo borbonico aveva fatto vista, in questa circostanza, di nulla sapere, tanto più che la donzella non aveva dimandato, nè la restituzione dei beni di sua famiglia confiscati, nè la reintegrazione del suo rango.
Trapiantata di un tratto dalla polvere delle strade pubbliche—ove ella trottava quando non si accoccolava sulle groppe nude di un asino—in un bel coupé di viaggio, imbottito di crini e tappezzato di verde velluto, dopo qualche minuto di stupefazione, Regina cominciò a provare il mal di mare. Vedendola impallidire, il dottore la prese sulle sue ginocchia, le fe' sorbire una goccia o due di laudano in mezzo bicchier d'acqua, e subito gli spasimi dello stomaco della figliuola si calmarono.
Regina parlava l'ungherese, il russo, il tedesco, il polacco, il francese, e cominciava a cincischiare l'italiano. L'ungherese era la lingua di sua madre. Il russo, era la lingua del capo, il quale, quattro anni prima dello zio Tob, era lo czar della banda. Regina aveva vissuto quattro anni in Germania; due, nel mezzodì della Francia. V'erano nella truppa due polacchi ed una polacca—Senza parlare di due cani, sconcissimi e paganissimi, che scaturivano pure dalla nobile e cattolicissima Polonia—e dello zio Tob, il quale poteva esserne altresì, quantunque nato nel Yorkshire—non confessando giammai la sua patria, tuttochè si vantasse discendere dal re Augusto, per via scorciatoia. Regina parlava queste lingue con una maravigliosa facilità, senza accento, avvegnacchè pure senza grammatica.
Qualunque cosa la aveva visto, era restata impressa nel suo spirito. Qualunque cosa aveva udito, si era confitta nella di lei memoria. Non sapeva leggere, ma stampellava sulla via del pensiero. Poi, con un pezzo di carbone, sgorbiava le più strambe caricature e per fino i ritratti dei suoi camerati. Grattava un violino. Batteva naccare e tamburino con leggiadria. Per l'immaginazione, ella comprendeva e indovinava tutto, sovvenivasi di tutto, sapeva di tutto—e raccontando ciò che sapeva, mimicava con molta grazia i personaggi cui metteva in scena.
Regina si famigliarizzò subito col dottore—il quale, per leggere fino al fondo in quest'anima, prestavasi con compiacenza alle fanciullaggini, alle fantasie di lei.
Ella era completamente vergine d'anima, benchè il suo linguaggio, i suoi gesti, fossero bruttati dalle memorie di quella vita senza pudore, nè ritegno propria degli zingari. Il dottore non le fece mai un'osservazione—sapendo che con le nature, ove l'immaginazione predomina, l'osservazione è improficua e l'esempio è tutto. Nel medio dì un mondo nuovo, parlando un altro linguaggio, con altri costumi, Regina—calcolava il dottore—si eleverebbe immediatamente al medesimo diapason, e la damigella del mondo metterebbe senza pietà all'uscio la gitanella—senza aver bisogno di sermoni di morale, farla arrossire, sopra tutto farla pensare sul bene e sul male—ciò ch'è sovente pericoloso.
Il bene è di rado attraente, è mestieri ricordarsene.
Giunti a Napoli, il dottore spogliò Regina dei suoi cenci molticolori. Però, quando la vide azzimata da damigella civile, e' ne restò scompigliato.
Regina era brutta!
La disarmonia dell'attillamento aggiungeva abbellimento alla beltà rudimentale della gitana. Ora, l'armonia del vestito rilevava l'incoerenza, l'incompiuto, l' abrupto di quella leggiadria. L'occhio, inoltre, non aveva ancora trovato quel termine medio che si addimanda abitudine, e che è la linea di congiunzione ove gli estremi s'incontrano e le asperità scompaiono.
Imprigionata in gonne inamidate, in busti, in cerchi di balena e di acciaio, le trecce composte, il capo inquadrato in un cappellino rosa—ella che era bruna, stretta, stecchita, Regina aveva l'aria stupida, imbarazzata. Non sapeva più nè camminare, nè sedere, nè parlare, nè muoversi. Si dibatteva goffamente come un pesce tirato dall'acqua.
Questo stato di transizione, questo periodo di acclimatazione novella, quella specie d'intirizzimento fisico e di stupefazione morale, durarono una settimana. Regina piangeva più spesso che non parlava. Ma quella settimana trascorsa, della zingarella non restava più che l'istinto.
Il dottore si trattenne un mese a Napoli, poi si rimise in viaggio per la Svizzera. Viaggiando, e' raccontò a Regina, o piuttosto le apprese, l'istoria della di lei famiglia. Le parlò del padre, della madre, degli antenati, ricamando tutto codesto di circostanze assai naturali per spiegare alla figliuola—o meglio a coloro cui questa l'avrebbe poscia raccontato—la di lei vita nomada: come e per qual motivo ella era stata rubata dagli zingari; poi come ella era stata scoverta e riconosciuta dallo zio e messa in libertà.
Il romanzo era ammirabile di verosimiglianza, come lo sono spesso i romanzi—perchè il dottore aveva tirato partito dalla realtà, dalla vita di Regina. Questa s'intenerì sopra sè stessa—forse restò ella pure convinta del racconto. In ogni modo, ella percepì di volo che codesto doveva essere raccontato così, e che il più doveva essere obliato e taciuto.
Il dottore collocò Regina in una pensione di damigelle protestanti nel Cantone di Berna. Raccomandò alla direttrice di non cacciar dentro al cervello di sua nipote nè mitologia, nè catechismo, nè storia sacra, nè storia greca e romana, nè nulla di quella congerie di stolidezze che s'insegna in Francia alle donzelle. Chiese che le si apprendesse la grammatica, le matematiche, la geografia, la botanica, la storia naturale, i tratti principali della storia moderna di Europa, le lingue… e poi molta musica, disegno e ginnastica. Sopratutto la ginnastica.
Pagò in avanzo due anni di pensione e partì.
Passarono quattro anni prima che il dottore pensasse di andare a veder sua nipote, e perfino a scriverle. Ne riceveva qualche nuova dal banchiere di Berna, il quale pagava le spese di pensione.
Regina aveva adesso quindici anni.
Nel 1837, il dottore si decise infine a rivisitare la Svizzera.
E' si aspettava, senza dubbio, a trovare un cangiamento radicale nella gitanella che vi aveva lasciata. La natura e l'educazione avevan dovuto menare a buon termine l'opera, e realizzare o disingannare molte speranze e promesse. Ma tutto ciò cui il dottore aveva fantasticato lungo il viaggio, soprapponendo, per una specie di ricostruzione psicologica, immagine sur immagine, ritratto su ritratto, era rimasto indietro dalla realtà cui Regina doveva offrire ai suoi sguardi stupefatti.
La natura e l'educazione avevano principescamente finito lo schizzo, cui il dottore aveva intravisto a Nicastro. Regina era veramente divenuta, per bellezza, quella macchina infernale cui il dottore aveva presentito.
Il colorito stesso della giovinetta erasi rischiarato. Aveva acquistato quella pallidezza opaca ch'ànno le Italiane quando son pallide, non gialle—quella pallidezza perlata, cangiante sotto le pulsazioni, più o meno vive, del cuore, ed alla marea più o meno calda del sangue: un caleidoscopio di passioni! Poi, Regina sapeva tutto—o piuttosto parlava di tutto; perchè la sua memoria prodigiosa la serviva da sovrana.
Ella ricevè il dottore, innanzi al mondo, con il rispetto e l'affetto di una tenera nipote. Ma, non appena e' si trovarono soli, Regina si piegò all'orecchio del dottore e gli chiese:
—Orbene, caro zio, voi non mi dimandate dunque mica nuove della gitanella di Nicastro?
—Ella è morta, la piccola furfantella—rispose il dottore intrepidamente.
—Che disgrazia!—sclamò Regina—morta! Pertanto, convenitene, caro zio, quella scimmiuola lì era pur gentile.
—Io ne conosco un'altra che l'è di vantaggio—rimbeccò il dottore baciandola in fronte.
Il dì seguente ei partì…
E tre anni dopo, Regina di Nubo, nipote del dottore Gennaro conte di Nubo, usciva di pensione e veniva a Parigi.
Il dottore la presentò nel mondo l'inverno seguente. Ella aveva diciannove anni.
Ora, quale era lo scopo del dottore, armando con tanto splendore questa trappola, caricando questa torpedine, e sopra tutto procurando con tanta cura di eliminar dal soggetto qualunque cosa potesse esservi di urtante e d'inverosimile? Ove mirava desso? Che voleva? Tendeva egli un laccio? Si dava egli un complice? Lavorava ad un'opera buona? Si associava un aiuto? Si preparava egli le gioie della famiglia—e' ch'era solo, i due piedi volti alla vecchiezza? Ordiva egli disegni infami su quella pura creatura?
Per spiegare il pensier del dottore è mestieri da prima di meglio conoscerlo… Vi dimandiam dunque l'onore di presentarvelo.
V.
Il conte Gennaro di Nubo.
Il conte Gennaro di Nubo era il fratello cadetto del fu principe di Nubo di Napoli.
Questa famiglia aveva accettato con entusiasmo le idee repubblicane nel 1799. Aveva poi accolto i conquistatori francesi come liberatori e fratelli. Al reintegramento dei Borboni, quelli della famiglia di Nubo, che non perirono sul palco, furono sterminati dai briganti del cardinal Ruffo. I loro beni furono confiscati; il loro nome, devoluto all'infamia. Due individui però sfuggirono a questo massacro: una bambina, allora a nutrice e che poco dopo morì—Maria Luisa Paolina; ed il conte Gennaro.
Questi aveva previsto che cosa era per avvenire. Avendo dunque scongiurato inutilmente il suo fratello primogenito di espatriare con lui, e' precedè i francesi—i quali quinci a poco abbandonarono Napoli ed andò a fissarsi a Parigi.
Il conte Gennaro era stato l'allievo, l'amico del famoso dottore Cirillo—il quale, pur egli morì sul patibolo—e che era stato medico della madre del conte… e forse anche altra cosa. Il dottore Cirillo amò il fanciullo; di guisa che, all'età in cui gli altri garzoncelli affogano nella fasce della grammatica greca e latina, sotto la guardia di un gesuita, Gennaro sfogliava le aiuole fiorite della fisiologia e della fisica, ripiene di tante attrattive vaghezze. Giovane ancora, egli si librava di già nelle regioni le più elevate delle scienze naturali.
A Parigi, poi, il conte Gennaro s'invaghì degli studii medicali, trovandosi in contatto con i grandi spiriti della Francia dell'epoca—che era ancora la Francia dell'Enciclopedia e di Voltaire. Infine, e' prese servigio, come medico, negli eserciti dell'Impero e seguì la stella di Napoleone, a traverso l'Europa.
Le meditazioni scientifiche non avevano che di poco repressa la sua immaginazione, dalle lunghe e vaghe penne. Ecco perchè, i drammi commoventi, le vicessitudini, l'inaspettato dei campi di battaglia, lo affascinarono al punto, che, potendo per il suo sapere percorrere la carriera civile e pur quella dell'insegnamento, e' preferì l'agitazione, il subitaneo, il periglioso della vita militare.
E' dilettavasi sorprendere, colle sue osservazioni sempre un cotal poco sarcastiche, la natura presa alla sprovvista, in tutta la brutalità delle fasi differenti delle battaglie. Egli piacevasi a smussare i suoi sentimenti, la sua sensibilità istintiva, ad atrofizzare la sua anima. Egli erasi persuaso, che bisognava fare una grossa parte al cervello, a spese del cuore, se voleva riescire—in un'epoca in cui la forza fisica governava l'Europa e serviva di regola alle coscienze. Egli pesava i corollari inevitabili del sistema napoleonico: il culto dell'interesse; l'anatema dello spirito; l'annientamento completo di quantunque aveva rapporto con l'ordine morale dell'umanità… E non ne ripugnava.
Infatti, da quel punto, l'uomo non fu più per il dottor di Nubo altra cosa che un subietto a studio, un obietto a traffico. E' non stimollo più; non amollò più; non lo credè più. Lo commerciò, l' exploita. Divenne quindi scettico. Non trovò più nulla di attivo nè nella sua scienza, nè nella sua coscienza: non più fede di sorta, neppur quella del calcolo—il quale, in realtà, è pur esso una specie di fede ragionata. E' servivasi degli uomini come di materiali, e considerò le azioni umane come dei segni senza valore intrinseco, di cui si classificava la natura arbitrariamente, secondo la contrada, la latitudine, i secoli, la civiltà—: qui delitto, là deificamento!—E per conseguenza, non vizio, non virtù, non delitto, neppure azioni buone o perverse nella loro propria essenza. Tutto codesto non gli sembrava che una leva di convenzione per agitare il mondo. I nomi potevano esser diversi; l'efficienza era la medesima.
Il conte di Nubo amò le donne con veemenza—ma credendole e stimandole anche meno degli uomini. Egli le amò dei sensi e del cervello; giammai del cuore. Ed ecco perchè non commise mai sciocchezze, a causa di passione. La donna, secondo lui, rappresentava in società l'ufficio della moneta nel commercio: era un segno mediante il quale si scambiano i servigi sociali—lo scopo, l'intermediario, il salario di tutta la vita. Desiderò dunque la donna, se ne inebbriò, e la spese assolutamente come un pezzo d'oro. La ricevè, valutandone la somma di piaceri che la conteneva; la lasciò, senza rimpianti; la barattò, all'occorrenza.
Non avendo alcuna convinzione, non avendo alcuna tendenza elevata, il conte Gennaro di Nubo non poteva avere alcuna fissità nella vita. Era un eterno viaggiatore annoiato oramai di viaggi, stanco, spossato dal lavoro, dall'età, dalla sazietà. Cominciava perciò a sentire il bisogno di riposo. Ma e' non aveva trovato ancora nè il ramo, nè la nicchia dove avesse a riposare. Gli mancava quella calma dell'anima che addimandasi confidenza—senza la quale non vi è amicizia, senza la quale non vi è amore, nè famiglia possibili.
Egli spezzava la corrente magnetica che affluiva verso di lui. La sua potente intelligenza abbracciava e vedeva tutto; ma era il polo negativo contro il quale le fascinazioni della vita andavano ad infrangersi. Egli analizzava le tenerezze; indovinava le affezioni, come roba da chimica; e l'incantesimo si dissipava.
Sentendosi per il suo forte organismo della specie dei divoranti—come il leone, l'aquila, il boa—e' non ebbe più mercè per i deboli. L'istinto è la fatalità degli esseri organizzati; e' gli lasciò libero corso. Le vittime non lo commovevano più. Lo stesso delitto punto non l'arrestava. Ma la distruzione sgustollo alla fine, e lo usò.
E' provò allora, nella sua coscienza crepuscolare, una specie d'inquietudine che si avrebbe potuto dire un dubbio. Fece sosta un istante, misurando di uno sguardo l'orizzonte intorno intorno, onde orientarsi ed assicurarsi della via. Poi si rimise in cammino.
—A che pro' derogare?—pensava egli—La linea retta non è la linea della natura. La linea retta è la più lunga, è la più monotona. La natura ama la curva. Se l'uomo segue dunque la linea della natura—e quella della bomba—di chi la colpa? Se tale è il suo spirito, perchè pervertirlo? se Dio è che gl'infligge questa direzione, perchè contrariarlo? perchè cangiarlo? L'uomo rettilineo fu in ogni tempo l'uomo sciocco—anche quando se ne fece un Dio!
Ed il dottore studiava il procedere di Napoleone e di Pitt, che, andando entrambi per vie oblique, riescirono all'antitesi: l'uno divenne Imperatore, l'altro rovesciò l'Impero.
Questa vita di allerta necessitava naturalmente un consumo enorme di attività vitale e di energia. Perpetuamente a l'agguato, come gli animali carnivori, questa caccia al debole, questa battuta ai gonzi—che avevan durato circa trent'anni—avevano infine perduto per lui ogni interesse, ogni vaghezza. Non si vive a lungo in una regione elevata senza provar la vertigine ed il malessere.
E l'era proprio la posizione cui il dottore di Nubo occupava in società. E' si librava sull'ordine sociale. E' guardava dall'alto in basso le idee, i principii, i pregiudizii, le passioni, gl'interessi, quali, per una convenzione tacita, li si erano stabiliti ed accettati.
Arrogesi a ciò, che quella vita di uccellatore non lo aveva punto arricchito.
Il dottore spendeva con una prodigalità reale. Ora, per soddisfare a questi gusti assorbenti, occorreva una fortuna di Nabab. E' guadagnava certo, moltissimo, per tutti i mezzi; ma la ricchezza non faceva che traversar le sue mani.
In questa situazione di spirito, in questa posizione sociale, il dottore erasi più di una fiata dimandato:
—«Che addiverrò io nella vecchiaia, quando le mie forze saranno paralizzate, e la mia intelligenza sarà presso a poco ossificata?»
Inclinato al fatalismo, e' si fermò poco su questa considerazione. Ma dessa ritornava e ritornava poi inesorabile, ed accampava nel suo spirito con altrettanta e maggior persistenza che l'età sua avanzava; che i suoi proventi si assottigliavano; che le sue morali facoltà perdevano della loro sofficità e del loro rimbalzo. Inoltre, i dubbii cumulati poco a poco, goccia a goccia, sul suo conto, cominciavano adesso a pigliar forma, sostanza, ed il carattere di sospetto.
E' ritrovavasi precisamente nel parossismo di questa preoccupazione quando vide la gitanina, sulla piazza di Nicastro.
Il dottore insegnava che il pensiero nasce nella polpa grigia del cervello come il fiore dalla terra, e che l'impressione esterna teneva luogo di semenza. Ora, la vita della zingarella; le inquietudini sul suo avvenire; il suo stato di afflievolimento; il disgusto della sua vita equivoca… s'incrociarono nel suo spirito, si compenetrarono a vicenda, formarono una mischianza tenebrosa, informe, nella quale lungo lungo la via, e' non vide, non comprese assolutamente nulla. Arrivò così alla vetta della montagna di Nicastro.
Che la dottrina del dottore fosse buona o cattiva—ed è pur la nostra—chi à mai scandagliato a che tiene lo zampillar del pensiero, ove allogasi la sede della vita? Ciò che certo è, gli è che l'abbarbagliante lamina di oro—cui, di lontano, il sole ripercosso dal mare fece scintillare ai suoi occhi—dissipò come per incanto il caos ammonticchiato nel suo spirito, ed un'idea lo colpì.
Di un lampo, egli percorse ed acciuffò il suo avvenire; formolò un progetto.
Diede l'ordine di tornare a Nicastro. Ma allo scander misurato del passo del suo cavallo, gli avvenimenti, o, per meglio dire, i disegni, si svilupparono nella sua mente.
—Io sono vecchio—pensava egli. Fra non guari non sarò più in istato di lottare, e meno ancora di spezzare la stolida corrente della società quale essa è. Sono solo. Quando non sarò più forte abbastanza per tenermi in piedi e fuori la portata della folla, io cadrò. Ed altri, che procedono di già sulle mie piste, passeranno sul mio corpo. La miseria, l'umiliazione, forse il castigo, si rovesceranno su me. Io ò bisogno di lusso. O' abitudini di benessere che esigono una spesa enorme, e quindi dei guadagni eccessivi. Il delitto, l'imbecillità, le passioni, e gl'interessi degli altri àn provveduto fin qui alla mia esistenza. Li ò trafficati e taglieggiati, tenendomi in guardia ed imponendomi quando invitato non ero. Poichè dessi vivevano nel male e del male, che io mi fossi angelo o demone, avevano a subirmi…
Il conte si fermò un istante sul passato. Poi la sua meditazione si slanciò sulle onde dell'avvenire.
—Fra poco—pensava egli—io non potrò più nulla di tutto ciò, e chi sa? Per una monelleria della provvidenza—come essi la chiamano—lo schifo, sì abilmente condotto per trent'anni, potrebbe naufragare alla fine su quella spiaggia inetta e goffa che si addimanda la polizia correzionale o le Assisi… Fermiamoci a tempo. D'altronde, proviamo un po' dell'altra linea—di quella che addimandasi retta, perchè tutta la plebe la segue più o meno, e perchè il Codice l'à autorizzata, la religione l'à consacrata. Perchè no? Con l'abilità di un jockey abituato alla corsa sur un cammino accidentato, la corsa sur una via piana potrebbe essere, egualmente profittevole. Ma, ad ogni modo, è mestieri munirsi di un parafulmine e di un paracadute, per qualunque cosa possa arrivare. Quella piccola zingara, la di cui bellezza si annunzia con tante promesse, potrebbe contenere la mia salvezza. Le darò un'educazione brillante e spigliata; le aprirò tutte le porte del gran mondo di Parigi; sarò un mistero per coloro che vorranno scandagliare le mie dovizie… Sia dunque per le speranze che si allogheranno sulla mia successione—speranze cui raddoppierò in raddoppiando di lusso; sia per l'abbagliante bellezza della fanciulla, ella si mariterà riccamente… o soccomberà come una regina. Allora finchè lo potrò, seguirò la mia via. Quando poi sarò stanco, quando il pericolo sarà sicuro, io avrò il mio piccolo nido assicurato nei di lei penati—il mio Hôtel des Invalides —prima del suicidio. Perocchè, se ella guazza fra i milioni, potrei io morire all'ospedale, o avvelenarmi?… I creditori, avendo a traversare i cortili di un palazzo circondato da giardini e popolati di servi, divengono trattabili. Le diffidenze si spunteranno, quando mi si saprà coverto della corazza d'oro di mia nipote.
Questo progetto, materiale, volgare, sviluppato e seguìto in tutt'i suoi dettagli, spinto fino alle conseguenze le più remote dell'abiezione, dell'egoismo, della bassezza, del delitto, fermentò nello spirito del dottore.
E' lo mise poi in atto, circondandolo di tutte le precauzioni e di tutte le attrattive che dovevano farlo riescire.
Regina rispose a tutto, meravigliosamente. La macchina del conte di Nubo funzionò superbamente. Ella attirò tutti gli sguardi; svegliò tutte le avidità le più sfrenate. Regina ebbe un successo di voga nel mondo: fu alla moda, fu la lionne della stagione. Gli amorazzi, gli amoretti, le seduzioni, le tentazioni, le dimande in matrimonio piovvero a catinelle.
Il dottore restò saldo.
Regina però aveva indovinato lo scopo del suo allevatore, e con una certa leggerezza calcolata, gaissima d'altronde, glie lo aveva sviluppato un giorno in cui il suo pseudozio mostravasi un pochino più espansivo del consueto. Ella faceva vista, pertanto, di accomodarsi con docilità alla condotta del suo cornac —lo chiamava di questo nome—si lasciò pilotare, e si promise di giungere al porto con lui, combinando le sue proprie aspirazioni con i calcoli del suo exploiteur.
Il conte di Nubo credè avere alla fine trovato il suo desideratum nella persona di Alberto Dehal, il banchiere svedese. Egli analizzò la fortuna del giovane alla lente d'ingrandimento, per suo proprio conto. In seguito, scoprì che Alberto, oltre i milioni, possedeva uno spirito meditativo, poetico, un po' vaneggiatore, ma colto e fino, un aspetto distintissimo, ed amava Regina alla follia. Con delle condizioni simili, il matrimonio fu subito abborracciato.
Quando tutto fu definitivamente stabilito, il dottore significò il suo piano alla fidanzata.
Regina si sentì profondamente ferita dai procedimenti del conte. Si tacque nonpertanto. Fece anzi sembiante di annuire. Però, nel suo foro interno giurò di liberarsi a proposito.
Noi abbiam già visto ch'ella non vi mancò. E sappiamo ch'ella corre adesso sulla strada d'Inghilterra—non per le messaggerie, ove il dottore avrebbe potuto farla arrestare per telegrafo e dove si sarebbe trovata mista ad un mondo eccessivamente importuno nella sua situazione, ma in una bella sedia da posta, mollemente cullata nelle nuvole d'oro dell'amore.
Sergio erasi fatto precedere da un corriere per preparargli i cavalli da rilievo.
All'ora stessa, il dottore di Nubo, il quale aveva ripreso tutta la sua calma e si era rassegnato, leggeva al club la lettera di madama Augusta Thibault. E poco dopo, recavasi da lei.
VI.
Le consolazioni che non consolano.
La bella vedova giaceva distesa sur una dormeuse, nel suo boudoir, in négligé di mattino, quantunque fossero già le 9 della sera. Ella aveva interdetto la sua porta a tutt'i suoi amici ed aspettava il dottore con impazienza.
Di Nubo tamburinò carezzevolmente sulle belle guance della cameriera che gli aprì la porta del salone e le fe' segno di ritirarsi. E' penetrò in seguito nel boudoir, e baciò la sua amica.
—Ebbene, ch'avete voi dunque, bella incantatrice?—dimandò egli. Un novello accidente di maternità contrariata, eh?
—Dottore—disse Augusta con umore—io non ò il capo a scherzi quest'oggi. Abbiatevelo per detto.
—Benissimo—replicò il dottore—E' non si tratta mica dunque della fine di un imprudente oblio, di un…
—Basta, via…
—Allora, si tratterebbe egli forse di un principio di….
—Ah! voi siete incorreggibile.
—A meraviglia. Non abbiam dunque nè un principio, nè una fine. Tastiamo altra cosa.
—Fatela finita, su! Io sono ammalata.
—Oh! Io vorrei bene veder codesto, veh! che voi disponghiate del vostro corpo per una così villana bisogna—la malattia!
—Ciò è, pertanto.
—In questo caso… quanto codesto vi rende?—domandò il dottore sorridendo.
—Voi mi seccate. Andate pur via.
—Sareste voi dunque ammalata per bene?
—Voi nol vedete, eh?
—E dove codesto vezzoso corpicino soffre dunque, colomba mia?
—Al cuore, al cervello, all'anima… da per tutto… Io soffoco.
—Poffardio! che magagne! E voi possedete tutto codesto—voi—cuore, cervello, anima! Dite mò; vi avrebbero dessi rubato?
—Se non aveste i vostri laidi capelli fango di Parigi … vi batterai—vel giuro.
—Vedete mo' l'abitudine! Si calunnia perfino il colore dei miei capelli. Ma via, eccomi qui. Parlate: ch'avete voi?
—Io amo.
—A che tasso?
—Per nulla.
—Non trattasi allora di un agente di cambio o di un banchiere, m'immagino!
—Un artista—no, un poeta, un giornalista.
—Come domine vi siete cacciata voi in codesto brutto roveto?
—Lo so, io? la si è guizzata dentro di soppiatto, a mo' di ladro.
—Amore innocente, platonico, ideale, eh?
—Passate oltre.
—Amore cognito al mondo?
—Misterioso come una cospirazione.
—Allora?
—Allora, allora…—scoppiò Augusta; ma il miserabile m'à ingannata.
— Requiescat in pace! Ed è così difficile di sostituirlo? La letteratura è in sciopero in questo momento. Le odi non sono scontate alla Borsa. I giornalisti s'inscrivono all'ufficio di collocamento. Non avrete quindi che a scrivere, franco di posta, ai Petites affiches e vi si riporterà il vostro barboncello smarrito, o vi si servirà un rimpiazzante a modo.
—Orsù! cessate, in nome di Dio e del diavolo. O' bisogno di consigli. O' bisogno di cure. Soffro.
—Ebbene, in fede mia, debb'essere un bel bellimbusto colui che à fatto il miracolo di dotarvi di un cuore. Che nome date voi a codestui?
—Voi lo conoscete: Sergio di Linsac.
—Se lo conosco! Egli era uffiziale nello squadrone volante che caracollava intorno a mia nipote. Eppoi?
—E' m'à piantata lì… e si ammoglia!
—La fine prosaica di tutte le cattive commedie.
—Ritornando di casa vostra, ieri sera, trovai una lettera di lui, con la quale mi dà congedo, e mi annunzia che partiva per andare a sposare.
—In provincia?
—O all'inferno, che so io? E' mi lascia ed ammogliasi: ecco tutto. Ed io, l'amo.
Il dottore non rispose. Era divenuto pensoso.
—A che pensate voi dunque?—dimandò Augusta.
—A nulla. Avreste voi qualche sospetto della donna con cui il vostro poeta maritasi? perocchè non suppongo che la conosciate.
—In guisa alcuna. E voi?
—Io credo… Vi sono delle coincidenze strane… Sovvienemi adesso di parecchie cose a cui io non poneva mente. Pertanto… fo dei confronti…
—Insomma, la conoscete voi, sì o no!
—O' dei sospetti.
—Come ella chiamasi?
—Innanzi tutto, che pensate voi fare?
—Uno scandalo, un dramma, un'opera… un tafferuglio di tutt'i diavoli… e vendicarmi.
—Di chi?
—Di entrambi.
—Ciò è male.
—Male! che cosa?
—Lo scandalo.
—Ma io non posso far senza di lui. Non òvvi io detto che l'amavo, che n'ero pazza?
—Ragione di più per agire con prudenza. Volete voi riescire?
—Ad ogni costo.
—Mettete voi nel gioco perfino Alberto Dehal?
—E la Svezia.
—Perfino il principe di Lavandall?
—Dottore…
—Inteso.
—Il principe è la mia ultima posta!
—Sapete voi chi è la fanciulla, cui il vostro Sergio di Linsac à rapita la notte scorsa?
—Rapita?
—Sì, rapita, e con cui egli corre le grandi strade in questo istante?
—Nominatemela.
—Mia nipote.
Augusta saltò dal suo canapè e levossi in piedi, il viso pallido, gli occhi spalancati.
—Sì, mia nipote se n'è ita la notte scorsa—rispose il dottore.
—Ma in questo caso…
—Ma, in questo caso, come io non ò nulla a farmi del vostro poeta, ed abbisogno di mia nipote, io conto che voi agirete con prudenza e non bruscherete le cose, per non perder tutto irreparabilmente.
—Io perdo la bussola! sclamò Augusta ricadendo affranta sul canapè.
—Prestatemi il vostro principe di Lavandall.
—Impossibile. Voi lo sapete: egli è la mia provvidenza.
—Io v'ò detto: prestatemi il principe.
—No. Vi sono dei prestiti che non si ricuperano mai più.
—Voi sapete, belloccia mia, che io lo conosco, che lo incontro presso i ministri, nelle ambasciate, nei saloni del Faubourg. Laonde, se volessi rapirvelo, non avrei permesso a dimandarvi.
—Ma che volete voi dunque?
—Che me lo serviate in una festa, a casa vostra, alla mia prima richiesta.
—Sarà ciò subito?
—Non lo so ancora. Ciò dipende…
—Accetto.
—Infrattanto, calma e silenzio. Come vai tu, figliuola mia bella, adesso?
—Meglio, dottore. Ma Sergio…
—Che vuoi tu che io mi faccia di un poeta, di un giornalista, in un'epoca in cui ogni monello politico e morale, sciorina giornali, ed in cui il miglior poema è il listino della Borsa? Ve lo dò come buona mancia, va! Ma, ve lo ripeto, punto d'imprudenze, e non forziamo il tempo.
—Sia.
Il dottore baciò Augusta sulla fronte ed uscì.
VII.
Su per le nuvole.
Mentre cospiravasi a Parigi contro la felicità dei due fidanzati, essi correvano gaiamente la strada per l'Inghilterra.
Quando Lisa faceva le viste di dormire, ovvero cacciava il capo fuori degli sportelli della carrozza, le bocche dei due innamorati si rapprossimavano, si toccavano, si azzeccavano l'una all'altra, si assorbivano, e l'uno aspirava dall'altra un bacio lungo, melodioso, penetrante, luminoso come l'aurora che levasi, profumato di paradiso. Essi avevano tante cose a dirsi, che restavano in silenzio! Le cataratte della parola erano anguste: il troppo pieno traboccava dagli occhi in uno sguardo, dalla bocca in un bacio.
Essi divoravano la via, perchè la presenza di Lisa li incomodava, ma non potevano sbrigarsene con convenienza, prima che non si fossero sposati.
A Boulogne presero il paquebot. A Folkstone, la posta di nuovo… E non si fermarono più che alla frontiera della Scozia, a Gretna-Green, per celebrarvi il matrimonio provvisorio—cui dovevan poscia far sanzionare, alla privata, a Parigi, nella chiesa della Trinità.
Quegli sponsali scozzesi erano un pretesto per un lungo e delizioso vaneggiamento—cui addimandarono la luna di mele dell'amore.
L'albergatore della locanda di Gretna-Green li congiunse. Egli diede loro, alla benedizione, un estratto del registro ove egli iscrisse il compimento delle formalità delle nozze—estratto firmato da lui e da quattro testimoni, per eccesso di precauzione.
Quest'atto compiuto, rimandarono Lisa ad aspettarli a Parigi, e si misero in viaggio.
Ecco innanzi tutto il certificato: «Regno di Scozia. Contea di Dumfries, parrocchia di Gretna. Le presenti sono per certificare a tutti coloro che le vedranno, come mademoiselle Regina di Nubo, della parocchia di Nicastro nel regno di Napoli, e Mr. Sergio conte di Linsac, di Nantes, nel regno di Francia, essendo qui presenti ed avendo dichiarato che erano celibi, sono stati maritati oggi, secondo le leggi scozzesi, come l'attestano le nostre firme. Gretna-Green Hall, il 27 giugno…» Nomi dei testimoni.
Questo documento prezioso incassato, essi partirono per visitare le Terre Alte—Highland—a piccole giornate.
Viaggiatori poco frettolosi, una fontana, un cespuglio, un poggio a scalare o un bel panorama ad ammirare e bozzare sull'album… tutto serviva loro di pretesto per fermarsi. Sedevano, allacciavano le mani, ovvero consertavano le braccia, si guardavano seriamente, scoppiavano in un folle scroscio di risa, o si baciavano. Tutto cominciava e finiva per codesto.
La natura sembrava non occuparsi che di queste due felici creature. Se il sole sorgeva splendido di dietro le isole Orknei; se le alte cime dei Gramplans, il Ben Mac Dhui, il Cairngorn, il Brocriach… scintillavano sotto il riverbero del sole che fondeva lentamente gli strati di ghiaccio; se gli uccelli gorgheggiavano dei loro piccoli affari di famiglia; se il fiore apriva il suo calice per aspirare la brezza e la luce; se gli alberi ondulavano soavemente sotto i fuochi del sole al tramonto; se i paesaggi del Ben Lewis, del Ben Lomond, del Ben Nevis, del Cruachan si sviluppavano rapidi, profondi, incantevoli, viventi, armoniosi di tinte e di forma… ratto, Sergio e Regina s'invitavano scambiavolmente a quelle feste della natura.
—Gli è per te—diceva Sergio—che quel sole s'imporpora di tanta orgia di luce; l'è te che quel piccolo fiore curioso vuole spiare al passaggio; gli è di te che quegli augelli ciarlieri chiacchierano per dirsi: Vedi mo! che begli occhi! Tu non n'ài di così splendidi, mia vezzosa cardellina! Che bei capelli neri! Nasconditi, su, mastro corvo! Che testa viva ed allerta! Tu sei ben contadina, al paragone, signorina rondinella.
E tutto celebrava così il zonzare dei due mortali che traversavano una contrada poco bazzicata dalla turba, onde trovarsi, soli, intieri in faccia a Dio ed alla natura, con tutta l'opulenza infinita del loro amore.
—In fede mia—diceva Sergio—se io potessi tirar dal mio cuore altra rima che: t'amo! scriverei dei versi.
—Tira pure, tira, e scrivine ancora su codesta rima—rispondeva Regina.—Io ti darò la replica.
—Con la stessa parola?
—Imparate dunque, signor mio, che io rispetto la prosodia—rimbeccava Regina, baciandolo.
Di montagna in montagna, di villaggio in villaggio, di clan in clan, essi consumarono così due mesi di voluttà. Le ore snocciolavano come perle d'ambra d'un monile nelle mani di una cortigiana greca.
Essi non sfioravano il mondo che delle punte delle ali.
La vita materiale, a dir vero, non era delle più confortevoli. In fra le montagne di Argyle, di Ross, d'Inverness, di Stillig—dove essi s'inerpicavano a piedi, le braccia allacciate, gli occhi negli occhi più sovente che nel cielo—il pranzo, a quell'epoca, lasciava molto a desiderare, ed il giaciglio ancora di più. Ma quando eglino non avevano che un cattivo oat-cake —focaccia d'avena—o un milk-porridge —zuppa di latte—Regina l'accostava alle sue labbra, poi lo porgeva a Sergio, e diceva:
—Gusta un po' di questo camangiare!
E quando la sera non trovavano talvolta, in luogo di letto, che una manata di varech o un lembo di vecchio plaid striato, Sergio tendeva il suo braccio e diceva a Regina:
—Poggia il tuo capo su questo origliere!
Quanto lontana era Parigi! Come la vita era di rose!
Se un bel garzoncello dagli occhi attoniti vedevali passare, Sergio gettava a Regina uno sguardo ardente, smagliato di un sorriso significativo. E Regina arrossiva. Se una povera vecchia, dai capelli rossi, ben segaligna, ben disseccata, fermavasi e tendeva loro la mano in silenzio, Regina tuffava la sua mano nelle tasche di Sergio e dava alla meschina una moneta di sei pence, dicendole:
—Dalla parte di questo signore, la mamma!
Le sere in cui esse non trovavano albergo, domandavano ospitalità in qualche cottage di montanaro o in qualche House di landlord, e riuniti intorno alla tavola a the di fronte ad una bella fiamma di sterpi resinosi, Regina provocava la conversazione sugli usi e costumi della contrada, dimandava storie ed aneddoti, per arricchire l' album e la galleria del suo romanziere.
Sovente e' scalavano i dirupi a picco sul mare— falaises —per ammaliarsi, per contemplare le onde fosforescenti dell'Oceano che attaccava la spiaggia ai loro piedi, ed il cielo profondo scintillante di stelle azzurrognole. E Sergio esclamava:
—Gli astri di lassù non valgono questi!
E baciava gli occhi di Regina.
Poi esaltato da quello spettacolo e' le raccontava ora le lotte della sua infanzia e le follie dell'adolescenza, ora le gioie della sua vita giovanile e virile contro l'odio, l'indifferenza, la gelosia, gli ostacoli che aveva avuto a sormontare per praticarsi una via, tra ciò che puossi addimandare le savane delle lettere, e le steppe della politica. Egli apriva tutto intero il suo cuore: rimuginavano fino i più segreti ripostigli; prodigava checchè si aveva di passione e di sensibilità. E' non celava nulla, non sparmiava nulla. Sciupava senza riserbo, nè misura, sopratutto senza il tedio del dimani—quel tedio pensieroso che è lo scoglio a cui frangesi l'amor ingenuo ed ardente, il quale dà tutto in una volta sola, schiaccia e soffoca l'oggetto preso nei suoi artigli divini.
Cosa strana! quell'uomo che sapeva con tant'arte e talento distribuire le scene di un dramma, e condurre gli effetti di un romanzo, preparando le passioni, versandole gocciola a gocciola, con progressione ed opportunità, quell'uomo lasciavasi andare, nella vita reale, con una imprevidenza da adolescente.
Regina, lei, ritenevasi meglio, e vi guardava più al sottile. Ella smaniava di voglia per raccontare le scene bizzarre di sua fanciullezza—la vita da zingari, di cui essi vivevano adesso, richiamandone il sovvenire. Ella avrebbe raccontato quelle scene con le delizie egoiste di colui che, dall'alto dei veroni del suo castello, mira i cavalloni dell'Oceano correr l'un sull'altro a mo' di montagna. Ma Regina si raffrenò. Ella non discorse che della sua pensione, e della sua vita vaneggiatrice di giovinetta. Ella prodigò meno ancora l'amor suo—il suo cuore essendo del resto rimasto straniero alla sua scappatuccia.
Ella erasi entusiasmata, inebbriata del poeta, e lo aveva amato del cervello, infra la lettura di due odi e due romanzi.
Regina non lesinò dunque un briciolo di questa specie d'amore prismatico—cui si potrebbe addimandar pure fantasia. Ma quanto a quello del suo cuore, la gl'impose silenzio.
—Vedremo poi—dicevasi ella.—Ogni cosa a tempo suo. Ciò che dò oggi basta pel momento.
La donna à sempre, in fondo, un pensiero d'avvenire. In ogni cosa, ella sfiora il presente e passa senza fermarvisi. Il presente è un gradino di quella scala di Giacobbe cui ella vede perennemente rizzarsi dinanzi ai suoi occhi, avendo a cima quell'angelo ideale verso il quale ella aspira sempre, e cui non stringe giammai. L'è l'essenza della sua natura di edera—natura incompleta che mai non si basta.
Questa epopea di amore durò due mesi. Ma alla perfine l'ora della realtà scoccò.
Sergio, vero galeotto del pensiero, aveva contratto impegni per procurarsi quattrini. Lo si chiamava a Parigi per tenerli.
E' doveva somministrare un romanzo, in sei volumi, ad un giornale—romanzo di cui non aveva dato che il titolo: I Sesti Piani di Parigi. Del resto, non aveva abbozzato nè manco un'idea. Partendo, erasi proposto di meditare il suo soggetto viaggiando. Ed infatti, aveva di tempo in tempo fantasticato un tantino sul tema. Ma, avendo cominciato dal rêver dei sesti piani, era poi poco a poco disceso al primo, dove erasi visto con Regina, in uno splendido appartamento, circondato di lusso, di fiori, di felicità.
Sergio parlò dunque di ritorno—tanto più che il clima di Scozia cominciava a divenir rigido pel loro vagabondare.
Partirono quindi in sulla fine di settembre.
Sergio di Linsac aveva pregato il suo amico Marco di Beauvois di trovargli un alloggio e di farlo mobigliare alla larga, riserbandosi di ornarlo affatto secondo il gusto di sua moglie, al loro ritorno. Egli aveva ceduto il suo appartamentino da scapolo a Marco. Questi gli aveva procacciato un piccolo chalet, tra due giardini, nella via di Boulogne—dimora appartata, tranquilla, civettuola.
Regina trovolla stupenda e l'addobbò a magìa.
Lisa li serviva.
Qualche giorno dopo il loro arrivo a Parigi, Regina scrisse al dottore di Nubo una lettera meno burliera della prima. Alla quale il dottore non rispose. Alla vigilia del giorno prefisso per legittimare il matrimonio secondo le leggi francesi, Regina si recò dal suo ex-zio e gli portò una lettera di suo marito. Il dottore ricevè la sua ex-nipote gelidamente, non le diresse un motto di rimprovero, non fece alcuna allusione al passato. Gettò l'epistola di Sergio sul tavolo senza aprirla, e non andò nè al municipio, nè alla chiesa.
Regina cominciava a sentire una specie di freddo al cuore. Ella principiava a trovarsi sola e si atterriva di quell'isolamento.
Imperciocchè, checchè se ne dica, il marito non è mica tutto per una donna!
Per trovarsi a completo, la donna à mestieri sentirsi dietro una famiglia del passato—i parenti—ed innanzi una famiglia dell'avvenire—i figliuoli. Codesti sono le sue guardie del corpo. Un marito, anche imbecille, è poi sempre, più o meno, un padrone.
A quella specie di solitudine, cui le creava l'assenza dei legami del sangue, arrogevasi la libertà intera ed illimitata cui Sergio le lasciava, e la vita che costui era forzato condurre per compiere i suoi lavori.
Un uomo di lettere—poche eccezioni salve—è il peggiore dei mariti, per una donna che aspettasi a trovare in lui il pontefice massimo della bellezza di lei ed il primo gentiluomo di sua camera—un essere previggente, in una parola, dalle piccole moine, espansivo, delicato, innamorato.
Un uomo di lettere serio, non si mischia troppo al mondo, che per eccezione. Di consueto, egli vive fuor del mondo, di una vita fittizia, in mezzo ad esseri ch'egli evoca dal suo cervello. I giorni dell'uomo del pensiero scorrono in mezzo al cozzo delle idee che s'incrociano nel suo spirito; assiepato di sistemi, di dottrine, di collezioni, di teorie, di libri; in presenza di allievi o di nemici, di credenti o di denigratori; assorto, distratto, sgarbato, stanco, strano, perduto fra gli uomini reali. Però, quando à la sorte di sapersi lasciar dietro, nel suo gabinetto, tutta questa plebe di larve, il letterato o lo scienziato, è un trionfo di grazia—Egli indora e rallegra la vita di coloro che lo attorniano e l'avvicinano.
Libero di queste preoccupazioni, quando trovasi in contatto con stranieri o nel mondo, l'uomo di lettere o di scienze, spoglia la persona sua vera e s'investe di una parte—cui egli rappresenta del resto con una abilità suprema. Ma, nel grembo della famiglia, in faccia della moglie—per la quale egli crea quella miriade di spettri, che debbe loro servire il pane quotidiano—ben pochi uomini di lettere o di scienze si smentiscono o si trasformano; ben pochi rinunciano al loro essere intimo e si addobbano di un carattere forzato, e fuori dell'elemento abituale in cui vivono; ben pochi insomma divengono commedianti al loro focolaio. L'uomo della sala da pranzo, l'uomo della camera da letto, resta spessissimo l'uomo del gabinetto dal lavoro. Ed e' racconta a sua moglie la vita del suo pensiero e le gesta dei suoi fantasmi.
Se questa moglie è una donna superiore, se ama suo marito, ella interessasi a questa creazione quotidiana; invita suo marito a presentargliela, l'incita a parlare—accelerando così la procreazione. Ella l'aiuta dei suoi consigli—spessissimo eccellenti—Gli comunica le sue impressioni e le sue idee, non raramente giuste.
Una donna leggiera, una donna egoista, che vive in sè e per altrui, annoiasi dei vaneggiamenti, dell'idealismo di suo marito—se tuttavolta non ne diviene gelosa e se n'offende. Ella trovasi negletta.—Ella vede delle rivali nelle visioni di lui.
L'uomo di lettere, inoltre, à spesso dei doveri sociali, cui non può fare partecipare a sua moglie. Egli bazzica talvolta una compagnia ove una madre di famiglia si troverebbe fuori posto.
Sergio, capitano nella stampa quotidiana, lasciava dunque Regina assai soventi soletta, per delle lunghe sere, dopo aver passato tutto un giorno nel suo studio.
Egli vedevala per un istante all'ora dell'asciolvere; poi rientrando, ad un'ora del mattino, e' sedeva alle sponde del letto di Regina e chiacchierava con lei fino alle tre.
Egli era obbligato a desinare in città parecchie volte nella settimana. Lo si sapeva uomo di spirito, ed i suoi protettori lo servivano come un hors d'oeuvre ai loro commensali.
Quando era ben stanco, addormentavasi a fianco di sua moglie. Ma alle 8 del mattino, il galeotto ripigliava la sua catena—e via!
Regina aveva conosciuto Sergio nei libri scritti da lui, e nel mondo. Ella aveva per conseguenza conosciuto la maschera—direi meglio l'attore—Ed erasi invaghita di lui come un'educanda—avvegnachè la fosse di già bene sveglia e bene allerta. Ella aveva rinvenuto il medesimo essere durante i due mesi di peregrinazione passati insieme. Imperciocchè lì, Sergio erasi completamente obliato, aveva messo la sordina all'ebbolizioni del suo cervello; aveva rilegato ben lontano l'esigenze di Parigi, ed aveva vissuto del cuore. Adesso, egli aveva ripreso il suo giogo… E Regina nol riconosceva più.
—Me l'ànno cangiato—ella dicevasi—o egli m'à stranamente mistificata.
Ella pertanto non querelavasi. Però, un lievito di amarezza cominciava a germogliare nella sua anima. Non rimpiangeva nulla ancora, ma rifletteva.
A che rifletteva dessa?
L'ora giunse.
Le feste cominciarono.
Durante il suo soggiorno col dottore, Regina aveva frequentato i balli dei ministri, degli ambasciatori, del Faubourg Saint-Germain.
Il medico è un elemento neutro nella società. Egli è al suo posto dovunque, nel soffitto come alla Corte; egli à il suo libero parlare, il suo libero procedere; egli è re—egli ordina; egli è padre—e' consiglia. Nipote del dottore di Nubo, Regina andava ove il dottore voleva condurla; nipote del conte di Nubo—uno dei nomi più aristocratici in Italia—ella era al suo posto dovunque.
Non era la medesima cosa per la signora Sergio di Linsac—quantunque contessa.
Regina trovavasi identificata alla condizione di suo marito. Il suo posto era disegnato conseguentemente in quel medio ove l'uomo di lettere può vivere—nella sua qualità di uomo; il suo posto era determinato dal partito politico cui egli apparteneva. Dappoichè—nella sua qualità di artista—sopra tutto quando il letterato è celibe, egli non trovasi intruso in alcun sito.
Regina, che piacevasi a disegnare, spendeva i suoi dì nel suo piccolo atelier, sovente in compagnia di amici di suo marito. Perocchè il marito di bella donna non manca mai di amici, più o meno intimi, teneri, divoti, pieni di attenzione—disinteressati sopra tutto! Questi amici accorciavano un poco le lunghe serate di Regina e le rallegravano. Ma ciò non bastava. Ciò non soffocava, principalmente, il rimpianto del paradiso da cui era esiliata adesso. Ella sospirava i balli diplomatici e ministeriali, ed in cima a tutto quelli del Faubourg.
Ella trovava milensamente ridicole le feste della Chaussée d'Antin, e quelle del mondo della finanza. Ella sbadigliava a morire allo spettacolo—ove Sergio la conduceva ogni qualvolta ella lo desiderava. Regina principiò a sentire una specie di nostalgia del mondo elegante ed aristocratico. Non pertanto, ella divertivasi moltissimo a quelle feste fantastiche che davano di tempo, in tempo gli artisti—ma desse erano rare, perchè troppo costose.
Regina non fiatò motto a Sergio della rivoluzione che si operava nel suo spirito. Nè Sergio la scoprì. Il dottore, lui, era perfettamente al corrente di ciò che avveniva della sua pupilla.—Perchè Lisa lo raccontava a Trust, e Trust lo ripeteva al padrone. Solamente egli diceva:
—Ah! signor Dio, monsieur, Lisa si annoia; Lisa vuole andare al ballo; Lisa è andata al teatro; Lisa à voglia di pizzi e di cachemire.
Egli confondeva le persone; identificava la soubrette con la padrona.
Un mattino—il mattino del capodanno—il dottore colazionava, quando sentì due piccole mani poggiare sulle sue spalle, ed udì una voce insinuante che gli mormorava all'orecchio:
VIII.
Dove si vede… ciò che vedrete.
—Voi tenete dunque ancora il broncio, cattivo zio?—disse quella voce.
—Affatto—rispose costui tranquillamente. Io ti aspettava.
—Davvero?—gridò Regina, sfolgorante di gioia.
—Magari! Credi tu che io avrei vissuto sessant'anni per non imparar nulla? Ti aspettavo.
—Perchè allora non mi avete chiamata prima?
—Perchè io non aveva bisogno di te; e perchè io era sicuro che tu saresti venuta quando avresti avuto bisogno di me.
—Sempre lo stesso!—sclamò Regina, sospirando. Il vostro cuore non spiana dunque giammai le sue rughe?
Il dottore la fissò tra i due occhi e sorrise.
—Voi credete dunque che sono venuta perchè ò bisogno di voi?—chiese Regina.
—Non lo credo: ne sono certo—rispose il dottore. Ed ecco perchè soggiungo: sbrigati a dire che cosa ti occorre—perchè debbo uscire.
—Ma, non mi occorre proprio nulla. Voleva solamente…
—Grazie, e buon giorno. Prendi una tazza di thè?
—Venivo a far colazione con voi. Ma ora nol voglio più. Sareste capace di dire che non venivo se non per questo…
—E per altre cose.
—Ah! E quali dunque, se vi piace, signore?
—Mi riguarda ciò forse? Sarà di già bene abbastanza di udirlo. Non mi dò dunque la pena d'indovinarlo e di dirlo.
—A maraviglia. Voi divenite di una brutalità a far scoppiar d'invidia… un editore—direbbe mio marito.
—Gli è che gli editori ànno ragione quando ànno a fare con scribacchiucci del calibro di quello lì.
—Voi siete ingiusto, dottore. Il signor Sergio di Linsac è un uomo compito, di grande ingegno, di gran cuore, che mi ama molto e mi rende felice.
—Peste! lo tradiresti di già, per consacrargli un simile elogio da epitaffio al Père Lachaise?
—Mi pento di esser venuta. Oh! sì: dovevo pur saperlo che gli uomini come voi non perdonano mai.
—E perchè no… quando sprezzano l'offesa?
—Io sovverrommi mai sempre di ciò che ero, e di ciò che avete fatto per me. La gitanella di Nicastro aveva la sua piccola volontà; ma ella aveva altresì del cuore.
—Per chi, dunque?
Regina guardò a sua volta fissamente il dottore e rispose:
—Per quelli che l'ànno amata.
—In questo caso, io conosco mica male di deseredati. Ma passiam oltre. Adesso la gitanella in questione si annoia.
—Un pochino.
—Ella trova il tempo lungo, l'esistenza vuota, le serate monotone e scure. Ella è sola nel mezzo della folla, vedova al focolaio domestico. Ella si trova fuori di classe, fuori dell'orbita sua naturale…
—Voi credete?
—La giovinetta cotanto festeggiata nel mondo, si tedia, giovane donna più che giammai. La giovinetta sì elegante, sì scintillante di gusto e di semplicità, si trova, giovane sposa senza diamanti, senza carrozza, senza una falange di lacchè… attrice riboccante di brio e di spirito, in tutta la potenza dei suoi mezzi, ma senza teatro, senza pubblico.
—Voi esagerate, dottore.
—La fanciulla aveva vaneggiato di un Dio che doveva trasfigurare la giovane sposa. Ella à visto quel Dio trasformarsi egli stesso in una creatura fastidiosa, silenziosa, distratta, che beve, mangia, dorme, e carezza sua moglie—quando la carezza—come l'ultimo dei facchini dell'Auvergne.
—Eh, Dio mio! l'è la storia di chicchessia—sclamò Regina sospirando—l'è la storia della donna e del matrimonio. Perchè me ne lagnerei, io?
—E chi dice che tu te ne lagni? Io constato la situazione del tuo spirito.
—Ebbene. Quando ciò fosse? Io avrei torto: ecco tutto.
—Ma, è fuori dubbio che tu ài torto. Il realizzamento di queste visioni non può esser permesso che alle donzelle dell' Opera … o alle mogli dei milionarii. La moglie di uno scrittore deve fare i conti con la sua cuoca—quando ne à una—andare al mercato, portare delle toilettes modeste, e mettere da banda un po' di gruzzolo per i giorni di non lavoro, par i figliuoli—che capitano checchè si faccia per evitarli. Che sono, al postutto, tutte codeste follie della vita elegante? Tu le conosci pure. Tu le ài gustate, tu le ài divise con le duchesse e con le ambasciatrici. Quantunque un ex-zingara, tu devi esserne sazia, stufa. N'è vero, figliuola mia?
—Mica poi tanto!—sclamò Regina, sospirando.
—E tu ài torto. Tuo marito vive nobilmente della sua penna—lo riconosco, avvegnachè non l'ami. Ma il tempo della penna è passato. La Francia muore d'un ingorgamento di lettere. Mr. Guizot vi metterà ordine—e farà bene. Meno scienziati, e più sensali e agenti di cambio! Tu mi costavi dodici mila franchi l'anno. Adesso…
—Non ve ne costerò che sei mila…—susurrò Regina, carezzante.
—Mille grazie. Io mi riformo. Metto poste alla cassa di risparmio, per la vecchiaia—come le cuciniere. Chi sa che può avvenire? Prendi dunque il bruno del passato, e rassegnati.
—Io mi tedio a perirne.
—La gloria non ti basta, dunque, eh!
—La gloria è del sesso femminile, dottore. E poi, dessa è a mio marito.
—Non vi siete voi dunque mica maritati col regime della comunità? Egli ti celebra pertanto, nei suoi romanzi.
—Ebbene, sì. Egli mi à ultimamente collocata in un soffitto. La sua Regina è bella… ma abita il sesto piano sul mezzanino. Io l'avrei preferita in un palazzo. Mi capite?
—Il sesto piano è l'olimpo dell'amor vero. Non l'abita chi vuole.
—Si ama benissimo anche al primo piano, m'immagino.
—Ami tu tuo marito?
—Che domanda! l'avrei sposato senza ciò?
—Un milione di gaudi, allora. Un tugurio… ed il suo cuore!…
—E poichè vi siete, soggiungete: e sessanta mila lire di rendita!
—Io conoscevo un certo Svedese che ne possedeva trecento mila.
—Codesto, è storia antica… passiamo.
—Ne conosco che ne ànno cinquecento mila.
—Codesto è un sospiro di vedova… passiamo ancora.
—Vi auguro il buon giorno, signora contessa Sergio di Linsac.
—Quando verrete voi a pranzo da me—a pique-nique, bene inteso!
—Non ne so nulla. Non ne ò il tempo. Gl'inviti mi soffocano.
—Mettetevi al regime omiopatico.
—Io sono allopatico, carina—e non appostato—quantunque ciò sia alla moda. A proposito, se incontrate per avventura la gitanella in questione, ditele, che vi è per lei da Delille una veste e certi pizzi. Che vada a reclamarli. Inoltre, ditele che io vado al ballo dell'ambasciata d'Austria il 10 corrente, e che quella sera lì, io resterò in casa fino alle 11 pomeridiane, aspettando una vettura che venga a prendermi.
—Voi volete dunque pervertirla?—sclamò Regina, baciando il dottore sulla fronte. Io non porto mica di tali messaggi. Addio. O' fame, e vado ad asciolvere in casa mia.
—A vostro comodo, signora Alberto Dehal… ah! scusa! signora contessa di Linsac.
Regina fece un segno di minaccia col suo dito, scintillando di un sorriso che illuminò la camera.
Il dottore la vide partire ed un ghigno spaventevole si stemperò sul suo sembiante. Poi prese un foglietto e scrisse:
«Trovata. Al ballo dell'ambasciata d'Austria.»
Piegò quindi la lettera e vi mise l'indirizzo: «Al signor principe di Lavandall. Rue d'Amsterdam, n. 97.»
Si vestì ed uscì.
IX.
Eva ritorna all'Eden.
—Vittoria su tutta la linea, mio caro!—gridò Regina, rientrando e saltando al collo di suo marito.
—Che dunque?—sclamò costui.
—Lo zio à piegato. L'ò portato via di assalto.
—Ed e' à lasciato fare?
—Non mica. À resistito, il vecchio ostinato, à risposto di becco ed unghia; ma infine…
—Egli à ceduto?
—Completamente. La pace è firmata. Egli è stato per fine gentile.
—Al postutto che cosa gli costa codesto.
—Codesto?… gli costerà almeno sei o otto mila franchi, per il momento.
—Vale a dire?
—Vale a dire, ch'egli mi à annunziato esservi per me da Delille una veste e dei pizzi. Ora, poichè vi sono, non vo' fare le cose a mezzo.
—Ed è lui che paga?
—Bene inteso.
—Senza condizioni?
—Una sola.
—Me lo immaginavo. Quale dunque?
—Che il 10 gennaio io vada a prenderlo in carrozza per condurlo al ballo dell'ambasciata d'Austria.
—Addobbata di quell'abito e di quei pizzi in discorso?
—Lo penso bene.
—Per farne mostra innanzi ad una turba di stranieri, e provar loro, che in fatto di gusto, la Parigina è la prima donna del mondo?
—Il dottore è naturalista: egli ama provare con i fatti.
—Ebbene, mia cara, ne sono incantato.
Regina lo abbracciò ancora una volta.
—Ma tu sarai meco—disse ella.
—Uhm! codesto è un altro paio di maniche—borbottò Sergio.—Io sono in delicatezze con l'Austria.
—Come ciò?
—L'Austria è una vecchia civetta che vuol darsi l'aria, i gusti, l'andazzo, le passioni di una giovinetta. Ora, nella mia qualità di giornalista dell'opposizione, mi occorse più di una fiata provarle, che i suoi denti erano falsi; i suoi colori, belletto; i suoi diamanti, strass; i suoi addobbi, un vecchio resto di rivendugliola di toilette; la sua fierezza, burbanza scenica; la sua forza, un po' d'isterismo; ed il suo codazzo, dei creditori, i quali un giorno o l'altro finiranno per perder pazienza, e non mica amanti. Tu comprendi! dopo codeste brutalità, una vecchia ragazza non perdona mai.
—Ma allora?
—Tu andrai al ballo con tuo zio. Ciò è ammesso e si vede ogni giorno. Egli, è più austriaco del principe di Metternich. Ed io ne sono rapito; perchè io capisco, piccina mia, che la vita in cui forzato sono d'imbragarti, è scura e monotona. Non appartenendomi io stesso, posso appartenerti ben poco. Ma io non sono egoista.
—Lo so.
—Divertiti dunque, poichè tuo zio vuol di nuovo servirti di introduttore. Solamente, ricordati amica mia, che tu porti un nome che obliga. Io tengo poco ad un titolo che vienmi di antenati che furono alle Crociate. Ma tengo moltissimo a quello che vienmi da Dio, il quale me ne fè dono sotto la forma di strofe scintillanti, di romanzi passionati, e di una polemica politica che à spezzato più d'un ministro.
—Il nome tuo è pure il mio—risposa Regina—e ne sono fiera quanto te.
L'indomani fu per Regina una giornata di lavoro. Ella corse i negozi, le sarte, le modiste, i mercanti di fiori, i gioiellieri. Ella apparecchiava le sue armi da battaglia.
Vi è una certa ansietà nella donna che va per la prima volta nel mondo, dopo le sue nozze. Ella va a pigliar posto. Ignora ancora se la graziosa o civettesca disinvoltura della giovane donna farà obliare facilmente l'aria impacciata, la modestia quasi sciocca cui affettò fanciulla. Non conosce ancora quella linea indefinibile, e pertanto capitale, ove la facilità, l'indipendenza, la grazia, la seduzione, l'originalità delle maniere finiscono, e dove la libertà comincia. Ella conosce un uomo, ma non ancora gli uomini. Non à sperimentato ancora l'effetto del cangiamento che si è operato nella persona sua—se desso à aggiunto o tolto qualche vezzo ai vezzi suoi. Ella non à provato ancora le novelle armi della toilette di una donna: lo scollacciato, i monili, lo sguardo intrepido, il sorriso franco ed aperto, il rimbecco subito senza arrossire, la provocazione. Ella fa la sua prima entrata sul teatro attivo della vita. Mentre la giovinetta aspettava, ella va adesso ad agire. Ella presentasi sotto un'altra maschera, sotto un altro nome, in un'altra parte: riescirà?
Ella va a piantar questo problema—ed il dubbio, l'ansietà, l'agitano.
Regina sentiva tutto codesto. Ella andava a dar battaglia.
Ad ogni azzardo, ella cominciò dall'armarsi a meraviglia.
Portava una veste di crespo cilestre con un grande volant di pizzo bianco, rilevato ai lati da quattro grappoli di brughiera rosa. Il suo seno nudo si apriva sopra un mazzetto di mughetti. Alcuni rami di brughiera bianca s'innestavano nelle dense trecce dei suoi serici e lunghi capelli. Due bottoni, di un sol diamante, pendevano dalle sue orecchie rosee e sottili. Le sue spalle nude rivaleggiavano col soffice bagliore delle file di perle che serpeggiavano intorno ad un collo maravigliosamente bello. E le sue braccia bianche e rotonde impedivano di rimarcare le due girate di grosse perle che le allacciavano i polsi.
Regina era alta, flessibile, svelta come una liana. La sua vita avrebbe destato invidia in una vespa. I suoi occhi, di un nero bleu, illuminavano la sua fisionomia del più puro tipo spagnuolo della scuola di Zurbaran. Aveva una pallidezza sana, fresca come una gionchiglia, appetita e mordente, che rivelava l'equilibrio della vita, animando in modo eguale una struttura di primo ordine. Sul suo sembiante volteggiava quella calma calda e stellata delle notti di està. Le sue labbra rosse, un tantin carnute, erano un focolaio di amore, una pila voltaica di voluttà. Il naso, insensibilmente curvo, le dava un'aria fiera e degna, che imponeva rispetto ed indicava ad un tempo che, se giammai una passione agitasse il suo cuore, quella passione potrebbe diventare un uragano. I suoi piedi piccini, inarcati, elastici davano i brividi.
Quando Regina entrò nel salone, tutti gli sguardi si volsero e fermarono su di lei. In mezzo ad una folla d'inglesi—pettinate con uccelli di paradiso, azzimate di rosso e schiacciate sotto una bardatura di diamanti; in mezzo a delle matrone germaniche—caricate d'abiti di velluto verde pomo; infra Americane adornate come tabernacoli di ogni sorta d'oreficeria; d'Italiane, balenanti come iride, e di Russe splendenti di gioielli… quella giovane sì bella, sì elegantemente semplice, messa con un gusto sì squisito, di un portamento sì sereno e sicuro di sè, doveva naturalmente far senso, per la stessa bizzarria del contrasto. Regina, del resto, era di quel piccolo numero di Parigine che—adorne con la medesima aristrocratica semplicità—formavano la via lattea del ballo dall'ambasciata.
Ella divenne quindi all'istante il centro della festa. Gli inviti alla danza s'incrociavano.
Alberto Dehal, che era pur quivi, non osò neppure salutarla. Restò a contemplarla in uno stato di stupefazione estatica.
Il dottore si tenne sotto l'arco di una porta e calcolava. Ma non passò guari, e vide entrare nel salone, in faccia a lui, un signore di alta statura, il petto screziato di decorazioni, vestito da generale, ed i suoi lineamenti, i suoi capelli biondo-rossi, il suo portamento, tradendo la sua origine settentrionale.
Il dottore traversò la sala dove trovavasi Regina, e cui lo straniero traversava anch'egli lentamente, salutando questi, dicendo un motto a quegli e sbirciando tutti e tutto.
Lo straniero vide venirgli incontro il dottore e fermossi.
—Dottore—disse egli, porgendogli la mano—sono fortunato potervi annunziare pel primo che la nostra Accademia delle Scienze si è largito l'onore di nominarvi suo membro straordinario.
—Mille grazie, principe—rispose il conte di Nubo salutando. Il vostro sovrano debbe essere ben fiero di aver all'estero un rappresentante, come l'Eccellenza vostra, che recluta anime… anche per l'accademie!
—A proposito, dottore, vorreste voi permettermi di presentarvi uno dei nostri scienziati, che m'è capitato con l'ultimo corriere, e di pregarvi di piloteggiarlo un po' pel mondo della scienza?
—Sarò felice di essere ai vostri ordini, principe.
Essi parlavano così, un po' a voce alta, perchè molta gente stava loro intorno. Ma, senza cessar di parlare, il dottore aveva rinculato passo a passo nel vano di un balcone.
Quando si videro soli:
—Ebbene?—domandò il principe.
—Ella è qui.
—Quale dunque?
—La più bella del ballo.
—Sarebbe dessa la giovane che porta delle brughiere bianche tra i suoi capelli neri?
—Per l'appunto.
—Un abito cilestre con pizzi bianchi ed un mazzolino di mughetti sul seno?
—Vostra Eccellenza la dipinge.
—Dal color pallido.
—Proprio così.
Il principe, senza soggiunger sillaba, volse le spalle al dottore di Nubo e rientrò nel salone.
Regina era circondata da una palizzata di attachés d'ambasciate di tutte le nazioni.
La contradanza finiva allora. Ella favellava con ciascuno e con tutti nel tempo stesso, indirizzando la parola in inglese all'uno, rispondendo in russo all'altro, parlando in tedesco, per mettere sulla via un Prussiano che schermeggiava di un francese a mo' di singhiozzo. Il principe di Lavandall aleggiava intorno al circolo, e, pur chiacchierando con un maresciallo, non perdeva nè una sillaba, nè un movimento di Regina.
L'orchestra dette il segnale del walzer.
Il principe ed i passeggiatori sgombrarono il salone.
Il principe incontrò il dottore in un'altra camera dove giuocavasi al whist.
—Incantevole!—disse egli.
—Una moxa!—rispose il dottore, sorridendo. Dovunque la si vorrà applicare, porterà via un lembo.
—Bisogna che io le parli.
—L'è facile.
—Non qui però.
—Vi preparo allora un'incontro ad un ballo di madama Thibault. Là, voi sarete in casa vostra.
Il principe sorrise ed uscì, dicendogli:
—Il più presto possibile.
Alle due del mattino, il dottore rapiva sua nipote dalla festa. La quale dopo la partenza di lei, sembrò oscurarsi.
Regina era fulgurante di gioia e di bellezza. La vita del ballo aveva raddoppiato la sua vita.
Otto giorni dopo, il ballo da madama Thibault aveva luogo.
X.
Ciò che si cerca e ciò che si trova.
Sergio era partito da due giorni, per non so quale inauguramento di statua di grande uomo in una città di provincia.
Madama Thibault era uno di quei misteri delle grandi città, cui si sospettano, cui si indovinano anzi, ma cui non si riesce mica spesso a spiegare.
Il solo uomo che conoscesse il totale di questo logogrifo era il dottore di Nubo, perchè egli era stato in parecchie occasioni, come per tanti altri, il suo medico, il suo confessore, il suo complice, il suo coadiutore, il suo consigliere, e chi sa se non vi ebbero pure tra loro relazioni di altra natura.
Il dottore aveva conosciuto questa donna in una circostanza terribile. Egli aveva prestato i soccorsi del suo ministero al signor Thibault, che era stato portato in casa sur una barella, ferito a morte in duello. Poi, il dottore era restato medico della giovine bella vedovina.
Il signor Thibault aveva guadagnato una fortuna considerevole nel commercio dei grani. Quella fortuna era nel suo portafogli. Perocchè, egli andava a farne collocamento, quando una provocazione—sotto la forma di uno schiaffo—sopraggiunse,—e vi mise ostacolo.
Gli eredi non trovarono becco di quattrino di quella fortuna.
E si disse, che la vedova avesse rubato i parenti di suo marito; che il dottore le avesse tenuto il sacco nell'operazione.
Tutto codesto, nel fondo fondo, era presso a poco falso. Madama Thibault non aveva sottratto che un centinaio di mille franchi, tutt'al più.
Nondimanco, ella menava una grande esistenza!
Per giustificarla in un modo meno sgustevole, ella lasciava correre, senza troppo contraddirli, gli altri rumori sull'origine di sua ricchezza. La verità però l'è la seguente:
Madama Thibault aveva un magnifico appartamento nella via di Provence. Attiguo al suo appartamento, eravi un piccolo alloggio ove dimorava Sergio di Linsac. Se si fosse spostato la libreria di costui, sarebbesi scorto, dietro questo mobile, una piccola porta praticata nel muro, la quale aprivasi addirittura in un armadio a specchi, nell'appartamento vicino, nella propria camera da letto di madama Thibault. Augusta poteva amar così il poeta a suo comodo, senza che il mondo ne avesse giammai potuto indovinar nulla e neppur sospettarlo.
Bisogna però soggiungere che Sergio di Linsac non era iscritto nel bilancio di rendita di madama Augusta Thibault. Ella lo amava di cuore, lo amava dei sensi e la partita saldavasi così.
Ma la buona dama non si contentava della diaria un po' magrina del poeta.
Alla sommità della via di Clichy, eravi a quell'epoca una gran casa, con un'immensa corte, nel fondo della quale prendeva origine una scalinata di servizio. La gabbia della scala nascondeva quasi una porticina a vetri colorati, che non aprivasi mai, sporgendo in un piccolo giardino, affittato allora al proprietario di una palazzina dietro la casa. La porta a vetri era dunque interdetta.
Madama Thibault aveva affittato il quarto piano di quella casa, per allogarvi una povera vecchia paralitica sua parente, a cui portava affetto. E come la signora Thibault bruciava di carità a mo' delle divote, ella recavasi colà due o tre volte la settimana, onde largir sussidii alla congiunta, e restava a favellare a lungo con lei.
A lungo, diceva ella, ripetevano altri. In realtà madama Thibault non vi si tratteneva che cinque o sei minuti. Poi, discendeva con cautela, apriva la porticina vetrata, di cui possedeva la chiave, e si trovava nella stufa della palazzina—l'entrata principale della quale era nella via di Amsterdam, n. 97.
Quella palazzina apparteneva al principe di Lavandall.
Questi era iscritto sul bilancio d'introito di madama Thibault ad una quota variante, tra i 90 ai 100,000 franchi, l'anno.
Quando madama Thibault riesciva, verso le cinque, dalla palazzina del principe, e traversava il cortile della casa della via di Clichy, i portinai, se per avventura sbirciavanla dal loro covo, sclamavansi:
—La santa donna! quante consolazioni reca dessa all'inferma!
—Ed a voi, eh!—madama Pillet?—soggiungeva la cuoca del secondo piano.
Il signor Pillet degnava sorridere.
Quelle visite occupavano un tantino l'ozio dei lunghi giorni di madama Thibault.
Ma le notti erano altresì così lunghe, così solitarie, così silenziose! Non piacendole ricevere visite in casa, se ne andava al teatro od a far visita altrui.
Madama Thibault aveva un intendente che avrebbe sconcertato tutti gli etnografici del mondo, se si fossero avvisati di classificarlo e determinare a quale nazione appartenesse. Costui non aveva tipo, e parlava tutte le lingue come sua lingua nativa. Forse, rimuginando bene, noi avremmo potuto riconoscere, sotto l'epiderme di babbo Timoteo, l'antico capo degli zingari di Nicastro, lo zio Tob. Ma noi non abbiam tempo, in questo momento, di occuparci di codesta scoverta, che aveva fatto tanto onore alla scienza del dottor di Nubo.
Due mila franchi l'anno di salario, nudrito, vestito, alloggiato, ed altri piccoli accessori, facevano del babbo Tob, o Timoteo, un miracolo di fedeltà. Per lo manco, lo si diceva. La signora Thibault, del resto, non se ne lamentava. Il babbo Tim o Tob era discreto come i geroglifici della piramide di Louqsor.
Questo intendente l'accompagnava.
Si vedeva dunque madama Thibault in una baignoire, fino al secondo atto—talvolta fino al terzo, se la commedia l'interessava. Poi, nell'intermedio, l'intendente giungeva, gettava una pelliccia sulle spalle della padrona, discendeva, apriva lo sportello di una vettura che l'aspettava alla porta del teatro. Augusta entrava. L'intendente ordinava al cocchiere: Andate.
Egli, l'intendente, se ne iva per i piccoli fatti suoi.
E madama Thibault?
La degna dama bazzicava la soirées, faceva visite—diceva ella, diceva altresì l'intendente. In realtà, la signora Thibault recavasi in una deliziosa piccola palazzina, fra due giardini, nella via Neuve-des-Mathuarins—il paradiso del signor Alberto de Dehal. Ella restava quivi presso a poco fino alle due del mattino, dopo cui, il babbo Tim o Tob—che scaldavasi al camino, o passeggiava, o dormiva nell'anticamera fin dalla mezzanotte—le apriva di nuovo lo sportello del coupé e rientravano in casa.
Il signor Alberto Dehal, anch'egli figurava nel bilancio di entrata della bella vedova, per cinquanta o sessanta mila franchi l'anno—tutto compreso.
Con un'esistenza così piena e così sapientemente combinata, la signora Thibault passava nel mondo per una donna irreprovevole. Ella era patronesse di opere pie nella sua parrocchia. Questuava per i poveri alla messa cantata della domenica. Riceveva le visite officiali del signor curato, della società divota, e, quando ella vi consentiva, anche la buona società, la borghesia. Perfino qualche membro dell'aristocrazia avventuravasi a cacciare in quelle steppe. Per lo meno, codesto dicevasi a proposito del principe di Lavandall. Imperciocchè, di certi signori stranieri, di certi principi italiani, conti polacchi, baroni tedeschi, dicevasi, nè più nè meno, ch'essi bazzicavano la casa della vedovina schiettamente per sposarla.
Lo scudo non è desso forse la migliore delle armi?
Il ballo cui Augusta dava—ella non ne dava che due soli nella stagione—fu brillante.
I lions della festa furono, è inutile dirlo, il principe di Lavandall e Regina—l'uno per la sua colluvie di decorazioni; l'altra per la sua bellezza.
Il dottore presentò il principe a sua nipote—E costei ed il principe restarono a chiacchierare insieme un venti minuti.
Lavandall fu abbarbagliato dello spirito penetrante e fine della giovane; del tatto di lei ad indovinar tutto; della di lei abilità di tutto dire o di tutto dissimulare; della solidità del di lei giudizio e della chiarezza con cui esprimeva ciò che la voleva dire.
Quando il principe la lasciò, per discrezione, Alberto Dehal—che assisteva anch'egli a quel ballo e che l'aveva covata degli occhi senza volgerle la parola, come fatto aveva all'ambasciata d'Austria, le si accostò.
—Madama, vorreste farmi la grazia di un giro di walzer? chiese egli con voce commossa.
—Volevo riposarmi, signore—rispose Regina—ma a voi non posso rifiutare.
Levossi.
Alberto la prese fra le sue braccia.
Era estremamente pallido; si sentiva quasi svenire sotto il peso di quella donna, cui aveva tanto amata e cui amava ancor tanto! Si lanciarono alla danza.
—Madama—le sussurrò Alberto all'orecchio—non mettete giammai più il piede in questa casa, e diffidate.
—Di grazia, di che?
—Questa casa vi contamina. Voi siete in una gabbia di tigri. Partite all'istante. Non vi tornate più, e silenzio… silenzio assoluto!
Egli condusse Regina al suo posto e partì.
Regina rimase pensierosa. Poco dopo lasciò il ballo anch'ella. Non disse ad alcuno delle parole di Alberto. Però, riferì a suo marito di essere stata a quel ballo.
—Regina—rispose Sergio di un accento profondamente attristato—va pure nel mondo quanto ti aggrada. Frequenta i balli ufficiali e diplomatici, i balli del Faubourg… ma, se vuoi piacermi, fuggi il mondo borghese e quello dei finanzieri, checchè si siano. Io li detesto.
—Perchè dunque, amico mio?
—Li detesto d'istinto. Nelle regioni elevate, la corruzione, la seduzione, il vizio, la belletta non mancano di certo. Però, se tutto codesto disonora, codesto non imbratta. Imperocchè, quella gente sa orpellare il fondo con la forma. Ora, gli è vergognoso confessarlo, ma ciò è; noi viviamo per gli altri, molto; per noi, poco.
—Ài tu qualche cosa a rimproverare alla signora Thibault?
—Ella è una cliente di tuo zio. Ciò basta. Mi astengo parlarne.
—Ti comprendo amico mio. Non avrai più rimprocci a farmi.
Qualche giorno dopo, il dottore invitava Regina ad un ballo dal ministro della marina. Regina esitò.
—Come?—sclamò il dottore—saresti di già stufa?
—Magari, no.
—Ebbene, dunque?
—Ditemi, dottore, posso recarmi a codesto ballo con la stessa toilette che portavo al ballo dell'ambasciata austriaca?
—Mah! ciò ti riguarda.
—Lo so bene.
—Volgi allora codesta dimanda a tuo marito.
—Non è guari pochi dì, e voi pretendevate che il mestiere di uomo di lettere è mestiere di pezzenti.
—E lo pretendo ancora—a qualche eccezione tranne: rara avis! Ma di chi colpa se tu non ài ad indirizzarti ad un uomo di scudi?
—Dottore, non torniamo più su codesto. È un fatto compiuto.
—Allora vieni al ballo con la stessa toilette d'altra volta.
—Le donne si burleranno di me. Direbbero che dormo con essa.
—Allora, resta a casa.
—Mi vi annoio.
—E dire—sclamò il dottore quasi parlasse a sè solo—che con la metà dello ingegno che il marito di costei sciupa in frascherie fantastiche, in combinazioni fittizie, e' potrebbe, applicandolo a cose reali e serie, navigar sull'oro!
—Applicato a che mo', se vi piace, amico mio? A delle combinazioni di Borsa? Ad inventare un cappello meno ridicolo per gli uomini? un rimedio contro la malattia delle patate? un'assicurazione contro l'infedeltà dei mariti?
—Che pensi tu di quei piccoli bellimbusti che ti farfallavano intorno al ballo dell'ambasciata?
—Mah! che ve n'ànno dei dannatamente sciocchi e vani.
—E pertanto, ecco lì il vivaio degli uomini che avranno un giorno la fortuna degli Stati di Europa nelle loro mani.
—Compiango l'Europa, allora.
—Tuo marito, al paragone di quei fantocci lì, sarebbe un'aquila.
—Lo credo bene! E' ne fabbrica e demolisce, di uomini di Stato.
—Se egli volesse entrare nella diplomazia.
—Oh! per esempio!
—E perchè no?
—Perchè. Ciò sarebbe come un proporre a Scheffer di dipingere insegne per i mercanti di vino.
—Capisco. I gonzi del suo partito l'addimanderebbero apostata—quasi che il mondo fosse popolato di altre bestie che di codeste! Chi non è apostata di qualche cosa? Tu, però…
—Io?
—Perchè non utilizzeresti tu le tue abilità per lo bene di tua casa e per i tuoi piaceri?
Regina scoppiò in un fragoroso scroscio di riso.
—E che volete voi dunque ch'io faccia—dimandò ella.
—Ciò che fa la principessa di Tobelskoy; ciò che fa la contessa di Thent; ciò che fanno lady Mouthbury, la baronessa Steingel, la duchessa di Castelmoro… ed altre parecchie che nè tu, nè io, nè altri conosciamo.
—Ma le sono delle bas-bleu politiche codeste. Poffardio! Elleno predicherebbero i diritti della donna, per entrare in Parlamento e reggere un ministero. Io, io sono, tutto al più, una civetta soppannata di un abbozzo di artista.
—La diplomazia à più di facce che tu non ài di capricci.
—Ne avrebbe dessa una allora, non mica troppo brutta, perchè io potessi provarne?
—Si potrebbe rovistare nel vestiario.
—Quale mo', per esempio?
—Mah! che pensi tu di una fanciulla bella…
—Come me…
—Spiritosa… continua dunque.
—Come me—poichè ciò vi aggrada.
—Allerta, civettuola, insinuante; che avrebbe dei belli occhi per tutto osservare; che intenderebbe tutto; che comprenderebbe a mezza parola; che saprebbe far parlare; che saprebbe dare ad intendere; che fiuterebbe i secreti; che scompiglierebbe i progetti; che leggerebbe nelle anime; che dominerebbe le resistenze con un sorriso; che saprebbe farsi pagare un bacio con un segreto di Stato… un'ammaliatrice insomma, una…
—E voi credete che codesto prodigio di donna esista?
—Io la conosco.
—E che dovrebbe far ella, codesta donna miracolo, alla fin fine?
—La donna—niente altro che la donna.
—Oh!
—Vestire splendidamente ed elegantemente, correr le feste, frequentare i balli ufficiali, ricevere, cinguettare, ascoltare, comprendere, rammentarsi, e…
—Riferire… n'è vero, eh?
—Raccontare. Vi àn degli uomini che scrivono ai dì nostri la cronaca contemporanea come Saint-Simon, il cardinale di Retz, ed altri scrivevano la cronaca dei tempi loro. V'è la mania delle Memorie, delle auto biografie… Vi àn dei curiosi assai ricchi per pagarsi gli aneddoti, i si dice, i motti, il racconto degl'intrighi dei saloni; sapere ciò che Parigi ciarla, ciò che Parigi pensa, ciò che Parigi delira, ciò che Parigi fantastica, ciò che progettasi e ciò che si è in via di compiere. Vi sono dei signori stranieri, i quali, per allietare le nere cure dei loro sovrani, amano scriver loro delle follie di Parigi e tutto ciò che fermenta sotto il cranio di questa città turbinosa—come il principe di Talleyrand scriveva a Luigi XVIII tutto ciò che occorreva nei saloni di Vienna, al tempo del congresso… come la contessa di Lieven scrive alli Tzar Alessandro e Nicola…
—Ed il mio curioso in quistione, caro zio, non abiterebbe desso, per azzardo, nella via di Jérusalem, eh?¹
¹ In questa via è la prefettura di polizia.
—No, carina—rispose il dottore dopo un minuto di silenzio. Egli abita la via di Amsterdam, e chiamasi il principe di Lavandall.
—Bene. E ciò che codesto nobile signore richiede da codesta donna non si addimanderebbe, con nome proprio, senza ambiguità, con l'impertinenza sfrontata di un dizionario… dite, dottore, non si addimanderebbe desso spionaggio?
—Bazzeccole! stoltezza! L'uomo che riceve quaranta soldi al dì, e la spesa di ciò che consuma nei luoghi pubblici, spia. La donna che palpa 12,000 franchi di onorario, 24,000 franchi per toilette, e 20,000 per spese di ricevimento, osserva. L'è la logica del mondo… e della lingua.
—Tentatore!—gridò Regina levandosi di botto… e fuggendo.
Ella aprì la porta del salone e fece un passo nell'anticamera, poi si fermò. Riflettè quivi un istante, come qualcuno che cerca qualcosa. Poscia ritornò su i suoi passi, riaprì un filetto della porta del salone, passò di quivi la sua testolina svegliata, e mandò dentro, in uno scroscio di riso:
—Caro zio, accetto il ballo dal ministro della marina. E partì.
Il dottore di Nubo restò, degli occhi devaricati sulla porta, e borbottò:
—La tengo. Sarò vendicato!
Disgraziato! Egli non sospettava che veniva di pronunziare la sentenza di morte di quella creatura di venti anni!
XI.
Il frutto dell'albero della scienza.
Regina ritornò a casa affranta.
Vi àn certi pensieri, i quali per la loro intensità producono, in un momento, lo stesso spossamento di spirito che se durato avessero lungamente.
La proposizione del conte di Nubo aveva messo a soqquadro l'anima di Regina. Ella aveva trovato in quelle insinuazioni qualche cosa di anormale, di così mostruoso, qualche cosa di così ribrezzevole ed inatteso, ch'ella non sapeva più rendersi conto delle sue proprie idee, dei suoi propri sentimenti.
Una giovane donna, quasi ancora una fanciulla; una natura eletta, bella, ammirata, desiderata, aleggiante nelle regioni sfolgoranti della poesia e dell'arte, portando un nome senza macchia e glorioso, ella, ancor innocente civettuola, accolta dovunque con un sorriso, lasciando dovunque desiderio di sè in partendo: quella natura di fiore e di stella si era vista, di un tratto, tuffata, perduta nei gurgiti scuri della polizia. La donna di mondo marcata dello stigmata dello spionaggio, avendo in tasca una patente di agente provocatore! Quello sgorbio terrificante, ch'ella si sentiva impresso sul sembiante, stillare come catrame dal suo viso, la fece quasi sdilinquire. Ella videsi riconosciuta, smascherata, poi cacciata via dai lacchè, indicata a dito… Ella vide suo marito suicidarsi di vergogna. Si vide rugata, allaidita dal delitto… e rugghiò di dolore e terrore.
Regina giunse a casa sotto l'impressione di questo incubo. Imperciocchè la sua immaginazione, in qualche minuto, dalla via di Lille, ove dimorava suo zio, alla via di Boulogne, ove ella abitava, l'aveva travolta per tutte le sentine della bassa polizia e, di conseguenza in conseguenza, le aveva fatto traversare e percorrere tutte le infamie, tutti i tradimenti, tutte le miserie. Ella si chiuse nel suo atelier e si lasciò cadere sur un divano, ove si assopì.
Il suo polso batteva quasi avesse avuto la febbre.
Svegliandosi un'ora più tardi, molto più calma, Regina si fregò gli occhi come per cacciarne il sonno dai tristi sogni. Sollevossi sul cubito, sorridendo. Poi, dopo aver lasciato galleggiar qualche istante il suo spirito nel vago, ella riprese a ruminare col pensiero, in secondo ripasso e raffinamento, la conversazione con lo zio.
—Non m'à desso parlato di 24,000 franchi di spese di toilette e di 20,000 per spese di ricevimento?—pensava dessa. Non m'à egli ammonticchiato contesse su principesse e baronesse su duchesse? Non m'à egli parlato di balli, di spettacoli, di feste; e poi di cicalecci vivi ed insinuanti; e poi di vedere, ascoltare, ripetere ad un gran signore curioso, straniero, che vuole disannoiare non so più qual sovrano? La noia! oh! l'orribile baratro! Ma, vi rifletto: e se non si vedesse che ciò cui vuolsi vedere? e se non si ascoltasse punto, ma punto? Non si potrebbe dunque raccontar questo e non quello? Si potrebbe anzi non raccontar niente del tutto. Perchè, che debbe importare ad una onesta giovane donna, come me, la politica ed i suoi segreti, la diplomazia ed i suoi intrighi? Riflettiamo dunque.
Regina levossi e cominciò a gironzare per l' atelier, mentre la sua mente batteva le ali per lo spazio.
—Sì, riflettiamo. La morale impone di non calunniare e di non ripetere la maldicenze, di non portare intorno cose che potrebbero danneggiare l'onore e la vita delle persone. Sia. Ora, che la Francia civetti con la Russia, che l'Inghilterra cospiri con la Germania, e che si mettano in quattro per ingoiare di un sol boccone la Turchia, l'Italia… che importami, a me? Ciò si dice, ciò si pensa, ciò si fa… Se male ci è, essi non debbono fare il male. Lo fanno? Tanto peggio. Io lo appuro, me lo dicono, l'odo… e lo ripeto come un altro—ve'! proprio proprio come un giornale! Non resterebbe dunque, tutto al più, che una questione di data: io lo saprei e lo direi per la prima. Oh! ecco poi il gran delitto! Peccato da calendario. Cinquanta mila franchi ne assolvono ben d'altri, nel seno della chiesa! Ma tratterebbesi, a quanto pare, di forzare a parlare e di profittare dei miei mezzi di seduzione per cavar dei segreti, dei… che so io? Bah! non si vede che codesto in società, lo si vede tutti i dì… e ve n'àn pure di quelle che profittano di questi vantaggi per saccheggiare i bietoloni. Io farò parlare. Benissimo. Se l'agente di un governo qualunque è così malaccorto di parlare, tanto meglio che lo si smascheri. Egli non sarà impiegato più nella bisogna, e non sarà più periglioso.
Regina si assise di nuovo, e gli occhi fissi sur un pastello bozzato continuò a vaneggiare.
—Ma che uffizio superbo è poi quello di ricevere alti funzionari, e quindi della gente del corpo diplomatico, e poi dei giornalisti serii, ed inoltre il mondo della corte, dei generali, dei grossi banchieri, il nunzio… Trovo che davvero 20,000 franchi è troppo poco per codesto… Sì troppo, troppo poco… Occorrerà dimandare un aumento di dotazione sulle spese di rappresentazione. E chi lo saprà? Io sono a chiedermelo. Nè il principe, nè il dottore, nè io, certo, ne parleremo. Sarebbe dunque il diavolo che si accollerebbe codesta brutta bisogna per nulla? Decisamente, io penso che posso accettare. Il conte di Nubo, del resto, che è stato il mio miglior amico, non mi avrebbe consigliato una cosa simile, se la fosse stata cattiva.
Dopo questo esame di coscienza, dopo questa espansione di confidenza, Regina ebbe un novello accesso di dubbio. In seguito, una nuova crisi di bramosia. Poi ancora delle paure novelle. Ella bilicò infine su questa altalena per due giorni. Sovvennesi però di aver detto a suo zio, in un primo slancio di leggierezza, ch'ella accettava l'invito al ballo del ministro della marina. Se ne pentì. Poi se ne consolò sclamando:
—Il primo impulso è sempre il più retto; ed ò ben fatto. Ma la toilette?
Questo spettro offuscava il quadro.
Il dottore di Nubo, dal lato suo, sospettava bene della lotta che infuriava nel cuore della giovane. E' sapeva troppo bene di avervi gettato il germe di un cancro. Lasciò a questo germe pigliarvi vita e radice. Però, per accelerare lo sboccio, egli scrisse questo vigliettino alla nipote:
«Mio bell'angelo, il proprietario delle Villes de France mi deve qualche moneta. Vuoi tu darti la pena di andarla a toccare, in mercanzie? È l'ultimo credito che posseggo sui marcanti di mode. Profittane. Ti bacio su quel bel fronte ripieno di capricci.»
Il colpo fu decisivo.
Regina si dette una toilette splendida. Ed otto giorni dopo il sermone del dottore, si recò al ballo della rue Royale.
Il principe di Lavandall non vi mancò.
Egli trovò l'opportunità di porgere il braccio a Regina e di menarla intorno pei saloni. Le parlò per mezz'ora e completò la conversione sì maestrevolmente intrapresa dal dottore.
Regina ascoltò tutto, ridendo; rispose a tutto con spirito. Accettò tutto infine, ridendo sempre, quasi avesse portato una sfida al principe di esser serio in ciò che diceva.
Del resto, quantunque costui avesse uno scopo di più che Regina, egli vi si condusse con un tatto sì delicato, nascose così bene l'amante sotto il diplomatico, ch'e' sarebbe stato impossibile di comprendere la cosa di una maniera brutale ed offendersene.
Regina, d'altra banda, barcamenò con tanta scaltrezza e gaiezza, ch'ei sarebbe stato impossibile di accettare un'infamia di miglior grazia e con maggior buon gusto.
Capì dessa l'amante nella proposizione del diplomatico?
Nol sappiamo. Ma che cosa una donna non comprende dessa?
In ogni modo, si separarono a punto per non fissare l'attenzione. E come la conversazione era stata interrotta espressamente sur un capitolo curioso—e Regina era curiosissima—ella si lasciò sfuggire dalla labbra:
—A domani.
Il principe susurrò qualche parola al dottore.
Questi dette le sue istruzioni alla nipote.
XII.
Oh! i consigli, i consigli!
Erasi in carnevale.
Il ballo del ministro aveva avuto luogo il lunedì. Il giovedì, Sergio riceveva questo viglietto:
«Sabato, all'una del mattino, al Foyer dell'Opéra, seguite il domino a faveur rosa che vi toccherà la spalla. Trattasi del vostro onor di marito.»
Sergio lasciò scappar lentamente un buffo di fumo azzurro dal suo sigaretto, e sclamò gittando il viglietto su i tizzoni:
—Sempre e poi sempre delle infamie anonime!
Il viglietto cadde in un angolo del caminetto e si bruciò a metà.
—Ma, mi pare riconoscere quella scrittura—mormorò Sergio tirando dal fuoco la metà del foglietto.
Non ne restavano che due motti: «domino a faveur rosa» ed «onor di marito.»
Sergio esaminò attentamente quella scritta, poi disse:
—M'ero ingannato. È la scrittura di un uomo—scrittura cattiva, ma a sangue freddo; penna pesante; spirito distratto. Si direbbe che l'è una copia. Al diavolo allora!
E rigettò la carta nel fuoco. La fiamma l'assorbì: essa si annerì da prima, poi delle scintille vivide vi serpeggiarono, si accasciò, si ridusse in cenere grigia. Sergio assistè alle diverse fasi della distruzione della denunzia con compiacenza e rimase a meditare sul suo auto-da-fe. A capo di qualche tempo, gettò il sigaretto che gli bruciava le labbra e riprese la penna.
Egli scrisse una pagina o due molto sgorbiate e cancellate—e' che di consueto scriveva di un fiato, senza radiare una virgola, senza cangiare un motto! Le sue idee si presentavano adesso ingarbugliate, confuse, le immagini cozzavano nel suo cervello e svanivano in briciole scure. Era distratto. Il mondo a cui impartiva movimento e vita, svaporavasi per cedere il posto a fantasmagorie abrupte e strane. Franse la penna sur un presse-papier e levossi.
—Che natura milensa ed incorreggibile ch'è quella dell'uomo!—si disse egli. L'assurdo lo sedurrà mai sempre!
Accese un altro sigaretto, fece qualche passo pel gabinetto, aprì la finestra, poi prese un'altra penna.
Le sue idee nascevano più arruffate che prima. Volle farsi violenza. Fissò il suo spirito sur un obbietto: impossibile! Aveva le traveggole e scriveva una frase, mentre ne pensava un'altra. Allora egli tolse via la sua vareuse grigia, si cacciò addosso un pastrano, ed uscì per passeggiare e far visite.
Voleva recarsi all' atelier di Delacroix. Sul boulevard, incontrò un romanziere dei suoi amici, il quale, il naso al vento, era a caccia di tipi e di scene.
—Ebbene, caro,—gli disse Prospero Dalleux—i tuoi Sixièmes Etages de Paris finiranno per darti un château. Essi sono deliziosi.
—Piaggiatore!—rispose Sergio sorridendo. Li si leggono: ecco tutto.
—Li si leggono? di' dunque che li si divorano, che se li strappano, che non si parla che d'essi.
—Tu non ne diresti altrettanto in un articolo bibliografico, ve'! Ma, a proposito, vuoi tu darmi un consiglio?
—Più volentieri che venti franchi, figliuolo.
—Io mi son cacciato in un angiporto, nel mio romanzo.
—Sfonda l'angiporto, o sollevati in pallone.
—Su mo'! Trattasi semplicemente di questo: un marito à ricevuto una lettera anonima che l'invita a recarsi al ballo dell'Opéra, ove un domino a faveurs bleues vuole intrattenerlo sul di lui onore di marito. Occorr'egli che il mio piccolo brav'uomo si trasporti all'Opéra ed accetti l'invito?
—Innanzi tutto, mon petit, codesto è vecchio arci-vecchio, anti-diluviano, e tu faresti meglio frugar per altra cosa. Ma non importa. Noi viviamo tutti di bric à brac nel passato. Dimmi un po': il tuo marito conosc'egli il carattere della lettera? Sospetta egli l'autore di codesta missiva?
—No, o quasi no.
—In questo caso, tu non ài bisogno assoluto di codesto vecchio intingolo per la catastrofe. Io gli farei dunque sprezzar la denunzia e nol farei gire al ritrovo.
—Nol farei gire, nol farei gire…! L'è facile a dir codesto, in fra noi. Ma il mio marito non è un pizzicagnolo che può e che vuole passar oltre sur una simile circostanza. Senza essere geloso, egli à un profondo sentimento di dignità. Senza credere che una donna sia una proprietà inviolabile, per un articolo del codice civile, egli pretende, nonostante, che questa donna rispetti gl'impegni liberamente contratti, spontaneamente presi, sapendo tutta la portata dei suoi doveri, quali la società, a torto od a ragione, gliel'impone. Egli dà piena libertà a sua moglie, piena confidenza; ma egli non tollererebbe di guisa alcuna che codesta donna abusasse della lealtà di lui per coprirlo di ridicolo e di vituperio. Egli è indulgente per i capricci; inesorabile per le colpe. Infine, la di lui fierezza s'insorgerebbe a cogliere sulla bocca di sua moglie il guaime dei baci di un altro. Egli vede nell'infedeltà coniugale non una violazione di proprietà, ma una rottura di patto ed un segno di disprezzo per la sua persona. Tu comprendi allora ch'egli non può restare indifferente alla lettera del domino, quantunque anonima.
—Poichè tu ài messo al mondo un marito di così cattiva tempra, bisogna pur essere conseguente—lo veggo. Ora, innanzi tutto, non considerando in ciò che addimandasi disonore se non una rottura di contratto, egli non può volerne al suo rivale, non avendo egli trattato che con sua moglie. È dessa dunque che debb'essere sola risponsabile dell'infrazione, secondo la tua teoria. Non potendo per conseguenza vendicarsi da uomo, egli è sconvenevole e grottesco fare strepito, chiamare il prossimo a testimone delle sue piccole brighe con la moglie. Arrogi a ciò, ch'e' non bisogna giammai disonorare una donna con la pubblicità. Imperciocchè, anche decaduta e gualcita, la donna è sempre augusta pel dritto divino della bellezza e del piacere. Gli antichi, che non erano pertanto mica galanti, dichiaravano sacrilega, tu il sai, la mano che toccava il velo di una donna. Il velo! figurati la fama. Laonde, caro, da banda il contatto con denunziatori.
—Ma allora?…
—V'ànno altri mezzi per sapere a che stanno le cose—mezzi non buoni neppur dessi, però men fragorosi. Conosci tu una casa da ragguagli?
—No.
—In questo caso, tu farai fare al tuo marito ciò che fatto ò io stesso.
—Vale a dire?
—Ecco qui. Io aveva un'amante dotata di tutte le virtù cardinali e teologali del catechismo—e di altre ancora. Ella faceva sbocciar sulle sue spalle del Cachemire, cui io non le aveva mai regalati. Ella innestava ai suoi polsi, alle sua dita, alle sue orecchie, e dovunque, dei gioielli, cui io non aveva mai avuto la tentazione di comperare. Ella faceva fiorire sul bel suo corpo delle vesti magnifiche, cui io contemplavo solo con ammirazione negli étalages —a cinquanta mila franchi lontani dalla mia borsa. La madre della mia maîtresse era portinaia, ed il padre invalido. Per lo che, quei belli oggetti non le venivano certo mica dai dominii paterni. Malgrado ciò, la mia innamorata, che aveva la frega di poser, voleva passare assolutamente per donna onesta. Io abbomino le donne oneste, io: esse costano troppo caro! Io aveva un bel dire a Fanny ch'io non volevo punto della sua virtù, ma dei suoi vezzi. Ella mi avrebbe assolto, mi perdoni Iddio! che io l'avessi trovata brutta, gobba, sciancata, butterata… che so io? basta che io l'avessi sospettata capace di aver della morale e di andare a messa. Io mi piccai al gioco e volli finire per provarle, fatti in punto, ch'ella non aveva alcun titolo al compenso della virtù di Monthyon.
—Tu avevi ragione.
—Io era un imbecille, mon petit. Io perdetti la mia amante, la quale non costavami assolutamente altro che il soffio dei miei baci.
—E poi?
—Poi? Regola generale: la donna non debbe giammai aver torto che ai suoi proprii occhi, nel suo foro interno, senza che si dubiti mai ch'altri pure conoscano i suoi peccatuzzi. A questa condizione sola, ella può correggersi—e si corregge. La donna, se potesse giammai amar altro che il suo squisito visuccio, amerebbe l'uomo generoso.
—Borsa alla mano?
—Moralmente. Ma io mi condussi come uno gnoccolone. Me ne andai da madama Goupil.
—Cosa è codesta madama Goupil, innanzi tutto?
—Un tipo, mio caro, un tipo restato incognito per fino al gran Colombo di Parigi—il nostro sommo pontefice Balzac. Vuoi tu che ci rechiamo da lei?
—Non ne ò il tempo, oggi. Continua pure.
—Ebbene, nella via dei Martyrs, alla casa che fa angolo con la via di Naverin, al quarto piano, dimora una certa donna di cinquanta anni. Ella à perrucca, denti posticci, belletto sulle guance. Il suo alloggio è popolato di gatti e di conigli, che non vivono sempre nella più completa armonia. Le mura sono gremite di gabbie ripiene di canarini. Sul caminetto del suo salone si sguaia, sotto una campana di vetro, un barboncello imbalsamato, affiancato da due Gesù-bambino cacciati in boccali di alcool. Delle sedie a testa di sfinge, in velluto di Utrecht giallo, vi permettono—non senza inconvenienti, a causa dei chiodi che vi germogliano fitti—di mortificarvi le natiche, se siete stanco, mentre delle testuggini bene educate guizzano fra le vostre gambe, ed una dozzina di gazze e di corvi malappresi vengono ad appollaiarsi sul vostro cappello e lo marmorizzano di guano…
—L'è dunque l'arca di Noè codesto alloggio di monna Goupil?…
—Un'arca, sotto il regime d'una volpe—madama Goupil—ex… ecc.., ecc…—Voi potete soggiungere tutto ciò che vi aggrada, senza pericolo di calunnia.
—La vedo proprio.
—Tanto meglio. Madama Goupil, vedova, ecc., ecc…, à fondato una casa di ragguagli—quantunque, sia detto fra noi, io m'immagino ch'ella n'abbia un poco rubata l'invenzione. Comunque sia, voi vi presentate da questa nobile dama—la quale ne sa cinquanta volte più che monna polizia—e le dite…
—Ella parla dunque?
—Qualche volta. In ogni modo, ella ascolta. Le dite dunque: Madama, vorrei sapere vita e morte del signore o della signora Tal dei Tali. Direte il nome se vi piace, basta alla cosa d'indicar la persona. Ovvero, le direte:—Vorrei sapere come il signore o la signora So-and-So —come dicono gl'inglesi—passa il suo tempo. Date quindi l'indirizzo ed il segnalamento esatto, più esatto che all'uffizio dei passaporti, e pagate.
—Quanto?
—L'è secondo. Nelle circostanze in cui trovasi il tuo marito, l'è venti franchi al dì—più, le spese di carrozza, se carrozza v'à. Madama Goupil à i suoi agenti. Ella li apposta, o li slancia sulle piste della persona indicata, e… fouette cocher! Voi riceverete ogni dì, per messaggiere o per la posta, il giornale dei fatti e delle gesta dell'individuo sorvegliato. Quando credete di averne abbastanza, saldate i conti… e riposate tranquillo. Madama Goupil è una donna onesta, e la sua casa è una tomba. Altri dettagli sono superflui. Va a vederla. L'è una fisionomia a delineare che quella di madama Goupil—ed il tuo puntiglioso marito te ne presenta un'opportunità magnifica.
—Credo di averne quanto basta per questa fiata. Ci andrò un altro dì. Per il momento, vado a veder di meglio: una principessa russa, a cui mi àn servito l'altra sera, in fra due tazze di the—come un tigre del Bengala. Le debbo una visita per apprenderle che sono francese.
—Ed io men vado a spigolar da Granville. Molto di Sesti Piani, eh!
—Grazie.
Sergio prese un fiacre e se ne andò dritto da madama Goupil.
XIII.
Il giornale del segugio.
La sera, egli covava sua moglie di uno sguardo di desiderio ineffabile.
Giammai e' non l'aveva trovata così bella. E' ripentivasi della vigliaccheria di averla sospettata. E' voleva quasi confessare il suo errore e dimandarle perdono. La prese fra le sue braccia. L'assise sulle sue ginocchia. Le baciò la punta delle dita.
—To' il bel braccialetto che tu ài lì!—le disse egli. Io ignorava che tu avessi quel gioiello.
—Infatti, è lo zio che mel regalò ieri—ed io obliai mostrartelo.
Sergio ringuainò la confessione espansiva ch'era sul punto di farle, e parlò d'altro.
Sergio aveva compreso che per giudicare la condotta di sua moglie con un po' d'insieme non bisognava fermarsi ad un sol giorno della vita di lei, ma sorvegliarla per parecchi dì. Laonde, egli aveva pagato per cinque giorni, dicendo a madama Goupil, che andrebbe a prender egli stesso il giornale, o piuttosto il cartolare dell'investigamento.
Vi andò infatti al quinto giorno.
Madama Goupil gli rimise il quadernetto seguente:
«Primo giorno.
«La signora Sergio di Linsac—Sergio non le aveva mica detto il nome—è uscita a mezzodì e cinque minuti. È scesa a piedi per la via Blanche: à parlato con un signore decorato nella Chaussée d'Antin per due o tre minuti, ed è entrata nel negozio della Glaneuse. All'una e mezzo, à traversato i boulevards ed è entrata da Janisset, ove la ànno mostrato dei gioielli. À comprato qualcosa ed è uscita. Quivi à preso una vettura e si è recata dalla contessa di Boisbruns, via di Verneuil, n. 17. Riescita alle quattro e mezzo, à traversato il giardino delle Tuileries a piedi, ove à parlato ancora per cinque minuti con un giovane biondo a barba rossiccia. In seguito per la via della Paix—ove à ordinato qualcosa da Cuvillier—e per la via Caumartin, ella è rientrata in casa, via di Boulogne. Madama di Linsac aveva un abito color castagno chiaro, un Cachemire, un cappello di velluto nero. Non uscita nella sera, fino a mezzanotte.
«Secondo giorno.
«Madama è uscita all'una. Vestiva un abito di moire antico nero, cappellino lilas coverto di un velo nero. À preso una vettura di rimessa giù nella via di Clichy, che l'à condotta alla piazza della Concorde. À pagato ed è passeggiato a piedi per i Champs Elysées, viale Gabriel, fino alla porta dei giardino dell'ambasciata inglese.
«Un cocchiere, sur un coupé, aspettava. Madama à detto un motto. Il cocchiere si è precipitato di predella; à aperto lo sportello. Madama è entrata nel coupé, e sono partiti.
«Madama aveva bassato il velo. Al n. 97 della via di Amsterdam, il cocchiere à dato voce al portinaio. La porta si è aperta. La vettura è entrata. La porta si è rinchiusa, e la signora non è più uscita. Quella palazzina appartiene al principe di Lavandall. Alle cinque e mezzo, una vettura è uscita, portando via un signore solo. La dama è rimasta, se tuttavia non è uscita da un altro lato. La palazzina deve avere due uscite.
«Terzo giorno.
«La signora è sortita dal suo châlet alle nove meno un quarto. À preso un fiacre di rimessa ed è andata dal dottore di Nubo, via di Lille, n. 31. Alle dieci e mezzo è partita di là, à preso un'altra vettura ed è tornata a casa. Molti signori venuti in visita dalle tre alle cinque.
«Quarto giorno.
«Identicamente come il secondo giorno. Solo, il cocchiere del viale Gabriel l'à riconosciuta e le à aperto lo sportello senza dimandare il motto di passo.
«Quinto giorno.
«Uscita alle due, in veste bleue chiaro, à volants, cappello di peluche bleue, mantello di velluto nero. Una vettura, alla via Blanche. Comprato dei fiori, alla Chaussée d'Antin. Poi, come al secondo ed al quarto giorno, è andata al n. 97 nella via d'Amsterdam. È restata quivi. Alle sei, il coupè à portato via lo stesso signore—che è il principe Alessandro di Lavandall. La palazzina à un'altra uscita nella via di Clichy, n. 69.»
Leggendo questo infernale processo verbale, Sergio divenne eccessivamente pallido: e' si sentiva svenire. Lo rilesse, per avere il tempo di rimettersi.
Avrebbe voluto parlare all'agente che aveva seguito sua moglie, per volgergli mille quistioni sul portamento e l'aria di lei; informarsi se l'era gaia, se l'era sollecita, se sembrava abbattuta, ed altro, ed altro ancora. L'agente non era lì. E d'altronde, per sistema, madama Goupil nol metteva giammai in confronto con i suoi clienti, onde scansare i disordini possibili, cui una conoscenza reciproca poteva poscia occasionare.
Sergio pagò le spese straordinarie ed andò via.
Ne sapeva già abbastanza. Tre volte, in cinque giorni, dal principe di Lavandall, in quella palazzina cui tutta Parigi denunziava come il Parc-aux-Cerfs di sua Eccellenza!
Quando rientrò, all'una del mattino, egli andò ad abbracciare sua moglie, come di uso, ma non fermossi a lungo nella camera di lei. Pretestò un furioso mal di capo per andare a riposare nella sua propria stanza. Pertanto, non coricossi. Passeggiò la notte intera.
Egli giudicava sua moglie!
Alle cinque del mattino, agghiadato a mezzo, Sergio si annicchiò sotto le coverte. Ma il sonno non venne. Nondimanco, egli era calmo oggimai. Aveva preso una risoluzione. Dopo colazione, uscì. Voleva andare ad ispezionare personalmente i luoghi. Voleva, in seguito, prendere un fiacre; rinchiudervisi; bassar le tendinelle; appostarsi in faccia alla palazzina del principe. Passando nella strada, osservò che l' atelier di un pittore suo amico sporgeva proprio sul piccolo giardino che precede la porta interna della dimora del principe—tra giardino e stufa—di guisa che, restando a sentinella nell' atelier, egli poteva vedere tutto ciò che avveniva nella palazzina.
Salì dal suo amico.
Poi, parlando sempre, aprì la finestra dell' atelier e si assicurò ch'aveva ben giudicato della topografia del luogo. S'installò allora vicino la finestra ed allontanò un piccolo lembo di tela verde che figurava da bandinella e temperava la luce. Di questo modo, egli potè vedere liberamente di fuori senza esser visto. Chiacchierò molto col suo amico, mascherato dal cavalletto, e restò in agguato. Ad ogni strepito di carrozza, volgeva il capo dal lato della via.
Alle due, una superba vettura a due cavalli si fermò innanzi la palazzina, li cocchiere vociò: la vettura entrò nel giardino. E Sergio vide il principe, cui conosceva di vista, discendere sotto la marquise.
Mezz'ora dopo, giunse un coupè. Il cocchiere appellò pure: la porta si riaprì; si rinchiuse tosto. E Sergio scorse una dama, celata da un denso velo, saltar fuori d'un lancio, e d'un lancio spiccarsi nella palazzina.
La dama portava un abito verde scuro a strisce nere, un grande sciallo, un cappello nero.
E' riconobbe sua moglie.
Scambiò ancora qualche parola col suo amico, e ritirossi.
Aspettò Regina, che rientrò alle cinque e mezzo, a piedi, portando lo stesso vestimento della dama della palazzina del principe Alessandro di Lavandall.
—Tu sei incantevole, in quella toilette!—le diss'egli con un sorriso.
—N'è vero, amico mio? La trovan tutti elegante.
—Dove sei stata, ma chèrie?
—O' fatto un giro pel Bois de Boulogne poi ò passeggiato dieci minuti per i Champs Elysées, e rientro a piedi.
—Chi ài incontrato?
—Molta gente e niuno… Ah! il re.
—Decisamente, andrai tu al ballo delle Tuileries?
—Non ne so nulla, a fè. Credo però che non androvvi. Tu porti il broncio; e me ne vorrebbero forte, al Faubourg.
—Tieni tu tanto all'opinione del Faubourg?
—Mah! l'è il tribunale del mondo elegante di Europa.
—E che si dice, al proposito, di questo conte portoghese che à ucciso sua moglie, perchè innaspava delle relazioni col suo cocchiere?
—Ch'egli è stato uno sciocco…
—Come mo'?
—Di esservisi preso di maniera da compromettersi con la giustizia.
—Ah! il delitto, per un certo mondo, non è dunque che un affare di stile?
—Orbè! la legge stessa non ammette le circostanze attenuanti?
—Veggo bene, diletta mia, che tu ti risenti della ricrudescenza dell'amicizia per tuo zio.
—Via, Sergio, tu ài torto di non amare mio zio. Egli è migliore di ciò che tu penai.
—L'è possibile. Ma in compenso, tu l'ami per due… e mi rubi.
—Saresti tu geloso?
—M'ami tu dunque sempre, ma mie?
Regina si alzò, cacciò le sue dita tra i capelli di suo marito, scartò le ciocche dalla fronte e la baciò dicendo:
—Più che giammai.
Ella uscì.
Sergio la seguì degli occhi, aggrottando terribilmente le sopracciglia, e sclamò lentamente:
—Se avessi potuto dubitare ancora, questa parola sarebbe bastata per condannarla. Ella morrà.
Infatti, le donne infedeli raddoppiano gli attestati di amore e carezzano più teneramente coloro cui tradiscono. Ma Regina non mentiva. Ella amava suo marito.
XIV.
Complicazioni che tutto semplificano
Sergio si diede, per parecchi giorni, al lavoro il più ostinato. Egli voleva avanzar la bisogna dei suoi Sixièmes ètages de Paris, cui aveva in cantiere, e la spinse di fatto ben oltre. Imperciocchè era di già giunto allo scioglimento, quando cadde ammalato.
Mandò il suo manoscritto al giornale senza dare avviso della sua indisposizione.
Sergio non aveva solo lavorato, aveva altresì passate quasi tutte le sere nei saloni di Parigi, togliendo al sonno le ore cui destinava ai piaceri. Non lo si era mai visto più gaio, più galante, più felice con maggior vena, raccontar con più spirito e con più amplitudine. Lo si diceva innamorato di una principessa russa, la quale faceva mattezze per lui.
Egli aveva ricevuto un secondo viglietto anonimo, più circostanziato del primo col quale lo si invitava di nuovo al ballo dell' Opéra.
Non v'era andato.
Solamente, questa volta, invece di bruciare il viglietto, se lo aveva cacciato in tasca e si era recato da suo fratello, Giustino di Linsac, per mostrarglielo.
Giustino era fratello minore di Sergio, e medico. Luigi Filippo l'avvea fatto deportare, dopo l'affare Fieschi. Poi, egli era ritornato. Ma lo avevano gettato di nuovo in prigione, dopo l'attentato di Alibau. La sua clientela erasi dispersa malgrado l'immenso suo merito. Le sue opinioni rigide, rude, puritane, spiccate, mettevan paura nei timorosi—in quelli stessi del suo partito. Imperciocchè, il coraggio morale in Francia non è così comune come il coraggio fisico. Si brava la morte. S'impallidisce innanzi a un epigramma.
I due fratelli ebbero un colloquio di più ore, chiusi nel gabinetto del medico. E quando si separarono, si abbracciarono teneramente.
La politica li aveva un po' straniati. Giustino, repubblicano della tempera di Saint-Just, non approvava certe transazioni cui Sergio aveva creduto convenevole ammettere, cedendo alla forza delle cose.
L'indomani di questa riconciliazione, Sergio era caduto ammalato.
Suo fratello lo accudiva.
Infrattanto, il manoscritto mandato al giornale smaltivasi e volgeva alla fine. Il direttore dell'appendice gli chiedeva nuova copia di tutta fretta, perocchè non ne restava più che per tre feuilletons.
Preso così alla gola, dal suo impegno e dai suoi lettori, Sergio si era alzato ed aveva cominciato a scrivere. Ma si sentiva troppo debole.
Il campanello della cancellata del suo chálet risuonò. Andò alla finestra e scorse il suo amico Marco di Beauvois.
—Bravo!—sclamò Sergio. Arriva a proposito. Va ad aiutarmi.
Si assise innanzi al caminetto ed aspettò.
Marco non venne da lui. Era entrato nel piccolo atelier di Regina. Sergio andò in busca di lui. Ma, giunto alla porta dell' atelier, alcune frasi, cui infraintese, colpironlo.
Ecco ciò che Marco raccontava:
—………. Un'avventura, madama, che sarebbe stata davvero comica, se il vostro nome non vi si fosse mischiato, e se un uomo non fosse stato mortalmente ferito.
Sergio fermossi ed ascoltò.
—Il mio nome, voi dite?—gridò Regina—il mio nome al foyer de l'Opéra?
—Sventuratamente, sì, madama.
—Impossibile, signore.
—Io vi era, madama, ed ecco come le cose sono avvenute. Non debbo nulla dissimularvi.
—Parlate, al contrario.
—Eravamo riuniti, lì, verso l'una del mattino, un gruppo di giornalisti e di letterati e cicalavamo con delle maschere che ci facevano corona, di ogni specie di monellerie, quando, non so da chi nè perchè, il nome di Sergio fu pronunziato.
—«Non lo si vede più, disse taluno.
—«Lo si vede anzi da pertutto, adesso—sclamò un altro.
—«Egli è nel paradiso dei mariti—osservò un dominò al faveur rosa.
—«Egli è in Russia—sbadigliò Prospero Dalleux.
—«Proprio! egli coltiva le steppe di una principessa russa—ripostò Gaston di Beauval.
—«L'è giustizia—fece riflettere un Selvaggio. Egli si vendica. Un principe russo amministra sua moglie.
—«Che?—gridammo noi tutti.
—«Ebbene, sì, signori—continuò il Selvaggio. Madama di Linsac è un'abituata del Parc-aux-Cerfs del principe di Lavandall.
—Il miserabile!—gridò Regina saltando in piedi.
—Sì, madama, il miserabile—continuò Marco—ma quel miserabile—non aveva ancora finita la sua frase, che il signor Alberto Dehal gli aveva applicato una ceffata che rintronò in tutta la sala—gittandogli la sua carta al viso e gridando:
—Tu menti, facchino!
Il Selvaggio voleva slanciarsi sopra Alberto; ma io lo afferrai con violenza del braccio e gli dimandai la sua carta col suo nome. Egli si chiama il colonnello Stefano Stetzeneki, un polacco, e dimora al Faubourg Montmartre in un mobigliato mica mal mobigliato—imperciocchè à seco una deliziosa fanciulla di un vent'anni.
—Io credo sognare!—sclamò Regina quasi parlasse a sè stessa.
—Ieri—soggiunse Marco—Prospero Delleux ed io ci presentammo dal Polacco per sollecitare a mandare i suoi padrini. Egli li aspettava giusto allora. Nel pomeriggio, infatti, vennero da me due sotto-ufficiali dei chasseurs, e convenimmo che si sarebbero battuti stamane, alla spada, nel Bois di Meudon.
—Oh! Dio mio, Dio mio!—sclamò Regina.
—Alle otto, infatti, eravamo sul terreno.
—Ma il signor Dehal sapeva egli battersi alla spada?
—Lui!—sclamò Marco—egli è lo più forte allievo di Robert, signora. Sventuratamente, le cose non dovevano sciogliersi regolarmente. Il colonnello è uomo di un'età indefinibile. Perocchè à le guance bellettate, una parrucca rossiccia e dei baffi biondi lunghissimi. Quel sembiante colpì Alberto Dehal.
—«Io ò visto questo mariuolo altrove,—mi diss'egli.
Nondimeno, e' non vi fece più attenzione e si apparecchiò alla cosa con la calma che messa avrebbe ad una toilette da ballo.
—Chi avrebbe sospettato mai codesto in quel garzone!—mormorò Regina.
—L'è vero—riprese Marco. Tanto più, che il duello non doveva mica esser uno di quegl'incontri di convenienza, dopo i quali si dice: «l'onore è soddisfatto!» Alberto aveva freddamente sete del sangue del calunniatore. Questi, dal canto suo, doveva esser evidentemente assoldato da qualche odio o da qualche gelosia furibonda.
—Ma io non ò nemici!—fece Regina.
—Credete voi, signora? rispose Marco—Voi siete tanto bella, così elegante, così spiritosa… tutti coloro che non sono per voi… Infine, si misero in guardia. Ma non appena Alberto ebbe visto il suo rivale di profilo ch'egli sclamò:
—«Poffardio! ò il capo del bandolo adesso. Un istante!
—Ch'era dunque?
—Udite. Fecimo bassar le spade. Alberto si avvicinò al colonnello, e volgendosi a noi:
—«Signori, diss'egli, io non posso battermi con questo galuppo.
—Perchè dunque?
—Perchè dunque? dimandarono infatti il colonnello ed i suoi testimoni di una voce.
—«Perchè, signori,—soggiunse Alberto, costui è un lacchè.
E ciò dicendo, di un colpo di mano strappava la parrucca ed i baffi del Polacco, e di un gesto imperioso ordinavagli:
—«Zio Timoteo, va a prendere il mio pastrano e vestimi. Su presto, mariuolo.
—Mio Dio, mio Dio!—disse Regina. Ma chi era dunque codesto domestico?
—L'intendente di una certa dama Thibault, cui voi conoscete, signora.
—Possibile!
—Sì, signora, ed Alberto nol conosce che troppo. Ora, gli è impossibile di farsi un'idea dello scompiglio che si stampò sul viso di quell'uomo smascherato così. Divenne di un tratto furioso.
—«Ah!—gridò egli—voi non volete battervi meco? Ebbene io vi forzerò.
—«Gli uomini come te, miserabile, risponde Alberto con calma, li si trascinano al banco della polizia correzionale.
—«Io non domando mica meglio—rimbeccò il Polacco. Prendete questo infrattanto.
E ciò dicendo, allungò la spada, e ferì Alberto profondamente al collo, e dettesi a gambe.
—Oh! l'assassino!—gridò Regina, lasciandosi cascare sur una seggiola.
—Il Polacco aveva preso i due sotto-uffiziali dai chasseurs nella caserma della via di Courcelles—continuò Marco—allegando che andava a battersi, ch'era straniero, e che non conosceva anima viva. Questi, appreso oramai che roba fosse il loro primo, volevano corrergli dietro, perchè il brigante fuggiva come un lepre. Alberto li ritenne, supplicandoli di lasciarlo andar via tranquillo.
—«Vuolsi far scandalo per assassinar l'onor di una dama,—diss'egli con voce soffocata. Non l'avete udito? desidera un processo in polizia correzionale?
—Il signor Dehal è dunque gravemente ferito? chiese Regina con inesprimibile ansietà.
—Sì, signora. Ed io trovomi qui per codesto.
—Parlate, signore, che volete da me?
—Innanzi tutto, signora, il silenzio il più assoluto su tutto questo avvenimento. Sergio deve ignorarlo…
Il signor di Linsac aprì la porta dell' atelier, si fe' avanti ed obiettò:
—E perchè dunque debbo io ignorarlo, Marco?
Marco di Beauvois si avvicinò al suo amico e gli tese la mano senza aggiunger verbo.
—Marco, riprese Sergio, mia moglie come la moglie di Cesare, è al disopra della calunnia.
E dicendo ciò, prese Regina fra le sue braccia, e senza avvertir forse ch'egli aveva un resto di sigaretto acceso nella bocca, la baciò.
Ella gettò un piccolo grido.
Sergio le aveva bruciato il labbro.
—Voi venivate qui per qualcosa, Marco—soggiunse Sergio, dopo aver dimandato scusa a sua moglie di averla scottata.
—Sì—rispose il giovane—Alberto Dehal è sul punto di morire. Egli vorrebbe vedere per l'ultima volta colei che gli fu fidanzata, e cui, duolmi ripeterlo, egli ama ancora….
—Io non andrò! gridò Regina con impeto.
—Tu andrai, cara, rispose Sergio. Se io non fossi ammalato, ti accompagnerei io stesso in casa Dehal. Ma mio fratello va a venire ed e' mi rimpiazzerà. Andrete insieme. Noi non siam mica dei bourgeois, perdio!
Regina gli si avvinse al collo, e disse:
—Voi siete un nobile e generoso cuore, Sergio.
Sergio uscì.
Questa scena l'aveva commosso. Ricoricossi. Suo fratello trovò che aveva la febbre.
I due fratelli s'intrattennero per qualche minuto. Regina si assentò per andare ad indossare uno sciallo e mettere un cappellino per uscire con Giustino.
—Allora, a domani, fratello, eh?
—A domani, sì. Vorrei però che i giornali facessero innanzi tratto un po' di scandalo sulla scena dell'Opera e del bosco di Meudon.
—Non stare inquieto per codesto, Giustino—rispose Sergio. Coloro che àn manipolata la commedia, avran cura di darne partecipazione al pubblico. Vedo adesso donde il colpo è partito e cui vuolsi ferire. V'è lì sotto il dottore di Nubo, poichè vi è dell'Augusta Thibault.
Sergio non s'ingannava.
Il conte di Nubo raccontò l'avventura al club, senza nominare alcuno, della maniera la più comica, in presenza di un redattore del Corsaire. Questi andò per ragguagli alla caserma dei Chasseurs, ed il dì seguente, nella rubrica degli échos de Paris, si potè leggere l'aneddoto completo con indicazioni ed iniziali. Dicevasi:
«Una delle più belle giovani donne di Parigi, la lionne dei nostri saloni aristocratici, R* di L… moglie di uno dei nostri romanzieri più a la moda ed il più grazioso dei tempi nostri, il signor S* di L…—il signor principe di L… rappresentante in partibus di una delle grandi potenze del nord di Europa…—un poetico banchiere scandinavo, il signor A… D…—l'intendente di una bella vedova, conosciuta per l'eleganza del suo gusto ed i misteri della sua vita, madama A… T…»
Insomma, davansi tali segnalamenti, ch'e' sarebbe stato impossibile di confondere le persone, e raccontavasi la verità con l'esattezza di un processo verbale.
—Tu avevi ragione—disse Giustino l'indomani, presentando il giornale a suo fratello. Il colpo è dato.
—Ci servono appuntino. Dammi la fiala.
Giustino cavò lentamente di tasca un involtino, e sedè senza parlare, la testa inclinata sul petto, riflettendo. Sergio stese la mano per ricevere il boccettino. Lo prese, lo nascose sotto l'origliere.
Che sogni incantati n'aveva egli fatto, che ore celesti n'aveva egli vissuto su quell'istesso guanciale, faccia a faccia, bocca a bocca con Regina!
I due fratelli restarono in silenzio per qualche minuto.
—La ferita del signor Dehal è dessa mortale?—chiese Sergio.
—No—rispose Giustino—Non è che perigliosa.
Seguì un nuovo silenzio. Infine, Giustino si levò bruscamente e partì, senza soggiungere una sola parola, senza gittar neppure uno sguardo al fratello.
—Egli soffre più di me, in questo atroce giudizio—sclamò Sergio. Ma, non importa, giustizia sarà fatta.
E gittò il Corsaire sulla brace.
XV.
Un capitolo di romanzo.
Le emozioni, che dalla vigilia, colpo su colpo, eransi avvalangate su Regina, l'avevano sconvolta, disfatta.
Questa giovane non aveva conosciuto fin lì altri fremiti che quelli del piacere; altre cure, che le cure della toilette; altri turbamenti, che quelli dei desiderii non per anco soddisfatti; altre sensazioni, in una parola, che le sensazioni diverse che accompagnano il compimento delle imprese della vita elegante, della vita delle feste, dell'esistenza dei favoriti della fortuna e della natura. Ora, questa sultana dei saloni aristocratici subiva, da ventiquattro ore, i dolori più strazianti, le ferite più spietate cui potevano infliggere il denigramento, il rimorso, l'insulto, l'ignominia.
Ella era sottostata al racconto di Marco di Beauvois; al perdono di suo marito; al disdegno freddo di suo cognato; alla vista commovente delle sofferenze di Alberto Dehal; a Sergio—il quale l'aveva perfino richiesta di dettagli sullo stato del suo antico rivale, quasi e' fosse stato uno straniero! Ella aveva sofferto l'insonnio della notte; la battaglia del cuore che consigliavale di rivelar tutto a suo marito; lo stoicismo ateo del dottore di Nubo, il quale aveva riso il mattino di tutte quelle corbellerie; e l'incontro col principe, cui ella aveva dovuto vedere quel giorno istesso per informarlo di tutto ciò che era avvenuto.
Il principe sapeva tutto di già.
Regina era abbattuta. Ella bruciava dei fuochi della febbre. I suoi pensieri s'infrangevano sotto il suo cranio come i cavalloni corrucciati della tempesta addentano il lido.
Rientrando, alle cinque, un messaggiero portò una lettera per suo marito. Ella la prese e gliela recò.
—Vien dal giornale—disse Sergio scorgendola. Leggila.
Regina lesse:
«Non abbiamo seppure una linea di manoscritto per domani. Ce ne occorre ad ogni costo. La fine, la fine, la fine ad ogni modo.»
—Ebreo errante, marcia!—gridò Sergio poggiando il capo sul guanciale.
—Andiamo, amico mio—ripetè Regina—un po' di coraggio. Vuoi tu che io scriva sotto la tua dettatura? Puoi tu dettare?
—Che ne so io? La mia testa se ne va.
—Prova, amico mio, vediamo, io sono qui. Se non puoi, cesseremo.
Sergio si sollevò sul suo cubito, passò la mano sulla sua fronte, e concentrossi, per raccogliere le sue idee. Infine, cominciò a dettare.
Regina coprì di scrittura pagina su pagina. Era la fine del romanzo: Les sixièmes étages de Paris.
Regina, l'eroina del romanzo a cui Sergio aveva impartito il nome tanto amato di sua moglie, era per suicidarsi.
Sergio dettava:
«Il veggio era acceso. Le finestre e la porta ermeticamente riturate. Il povero giaciglio, non più verginale, ma innocente sempre era pronto a riceverla, come l'altare riceve le vittime delle tragedie antiche.
«Regina baciò religiosamente una ciocca di capelli di suo padre, il ritratto di sua madre, che pendeva al suo capezzale, a lato dell'immagine della madre di Dio. Ella cacciò bene addentro, in una piega del suo busto, un fiore da lungo tempo appassito, una lettera che conservava ancora le impronte delle sue lagrime—l'ultima, la lettera di separamento da Maurizio d'Apremont. Ella lisciò i suoi capelli, raggiustò la sua veste da domenica, di cui erasi azzimata per presentarsi innanzi alla morte, linda, bella, con tutte le eleganze che l'avevano adorna in la vita. Poi si assise alla sua piccola tavola, da cui cavò un foglietto di carta, e scrisse la lettera seguente:»
—Di' carina—chiese Sergio—vuoi tu darmi una tazza di the?
—Lo vo benissimo—rispose Regina alzandosi dallo scrittoio. Ma l'è terribile e stupendo. Non mai avesti tu più di vena. Tu sei ispirato, amico mio.
—Esaltamento di febbre—replicò Sergio. Al postutto, ch'è dunque l'ispirazione se non una febbre cerebrale? Ed io ò due febbri: una alla testa, una al cuore.
Regina fece un passo verso di lui. Ebbe una tentazione subita di gittarsi nelle braccia del marito e di dirgli: «Giudicami! ecco le mie colpe!» Ma ella credè di scorgere negli occhi di Sergio uno sguardo sinistro, una luce scura che l'arrestò. Volse quindi il dorso in silenzio e se ne andò lentamente a preparare il the.
Sergio seguilla degli occhi con ansietà. Si avrebbe potuto leggere sul suo sembiante il desiderio di richiamarla… Si astenne. Invece, sporse la mano e preso tutto il manoscritto cui Regina veniva di terminare.
Questa ritornò tosto col the.
Sergio poggiò la tazza sul mobile vicino al suo letto, e, leggendo sempre la scritta della moglie, o sorbendo a centellini la bevanda profumata, le disse:
—Andremo a continuare.
—Dammi i fogli allora—rispose Regina.
—Prendi un altro quinterno—replicò Sergio senza levar gli occhi dal manoscritto.
—Non v'è che della carta a lettere.
—Ma! la carta a lettere è pur della carta, perdio!—sclamò Sergio con impazienza, leggendo sempre.—Scrivi dunque.
Regina prese un foglietto, e, la penna in aria, aspettò in silenzio che suo marito dettasse.
Sergio continuò:
«L'è troppo tardi, amico mio. Tu m'ài colpita del tuo disprezzo e m'ài minacciata di abbandono. La calunnia mi à ferita. Io sono sola. Non posso dunque lottare; non voglio più restare in piedi nella lotta.
«Se tu mi avessi creduta, io avrei resistito, ed avrei forse provato al mondo ch'esso ingannavasi. Tu ti sei arrangato dalla parte de' miei insultatori. Io aveva vagheggiato la felicità con te, e gustata l'aveva per un dì. Poichè oggi tutto si abbuia, io abbandono il posto, cedo la parte, e mi ritiro—perdonandovi tutti.
«Se non lascio nulla dietro a me, neppur dei rimpianti, sii sicuro, amico mio, che io porto meco qualcosa: la sovvenenza di un amore cui la bufera à fulminato, ma cui Dio non à cessato un istante di benedire. Adesso, le apparenze son contro me. Mi lascio dunque schiacciare da esse… e muoio.
«È terribile pertanto morire a vent'anni! Ma, mestieri n'è. Addio. Io non voglio venir manco, intenerirvi… Addio, amico. Che Dio ti accordi l'oblio, perocchè tu ài di già il perdono della donna che ti amò tanto e che t'ama sempre.»
«REGINA.»
—Regina!—rispose costei, lasciando cader la sua penna. Io scoppio, amico mio. O' voglia di piangere. L'è ben triste la sorte di questa povera fanciulla.
—Restiamone dunque lì per oggi, allora—disse Sergio. Anch'io ò il cuore gonfio. Sì, fermiamoci. Non è abbastanza per un'appendice; ma dessi aspetteranno fino a domani. Porgimi codesto foglietto ed apparecchiami un'altra tazza di the. Non desino.
Regina dette la lettera ed uscì. I suoi occhi navigavano nelle lagrime.
Sergio raccolse tutta la copia di Regina, la piegò e la mise sulla colonnina a fianco al suo letto.
La sera, e' si lamentò di un gran mal di capo.
Regina pranzò sola, ed alle dieci, Sergio la rinviò nella camera di lei.
Durante tutta la sera non le aveva volto dieci parole.
Rientrata in camera, Regina pregò e si coricò.
Ella non abbracciò neppur Nick, la sua guardia del corpo, che restava tutta la notte in fazion alla sua porta. Ella pianse pure senza troppo sapere perchè. Ella pianse di quelle lagrime che talvolta colano, subite e mute, e che muovon da Dio, vengono per la via del cuore, e ci sollevano di una tristezza profonda e misteriosa.
Regina si addormentò alla fine; e due lagrime—due ritardatarie, due trainardes —limpide, lente, spuntarono agli angoli degli occhi, solcarono tranquillamente le guance e bagnarono i guanciali. Erano di quelle perle, per le quali il dio dei cristiani avrebbe perdonato ben altre colpe che quelle di Regina!
A mezzanotte, ella dormiva del sonno placido ed eguale dei bambini.
Altra cosa occorreva nel tempo stesso nella camera di Sergio di Linsac.
XVI.
Una visita notturna.
Sergio era restato nel suo letto, immerso in una meditazione profonda, che si traduceva sul suo sembiante, seguendo fasi diverse: ora, con un rapido rossore; ora, con crispazioni delle labbra e dei muscoli del viso; ora, con la fissità della pupilla che gli dava la maschera del catalettico. E' sollevavasi di balzo su i suoi origlieri, si avvolgeva sotto le coltri, come per sottrarsi alla presenza ed alla pressione di un fantasima. Poi ridiveniva freddo, come se ghiaccio fuso e non più sangue riempisse le sue vene.
In questo parossismo di quietitudine e' si levò, all'una del mattino. Bassò il lucignolo della lampada, ed, i piedi nudi, imbacuccato nella sua veste da camera, traversò il suo gabinetto e recossi all'altra estremità dell'appartamento, fino alla camera da letto di Regina. Quivi fermossi ed ascoltò.
Egli udì il rumore cadenzato cui faceva Nick, rimovendo la coda sul tappeto, ed il diapason eguale, lento, leggiero della respirazione di Regina.
Ella dormiva placidamente, profondamente!
Sergio restò qualche minuto ad udire quella musica santa del sonno dell'innocenza, poi ritornò nella sua camera.
Vi era ancora della bracia nel focolare.
Sergio prese il manoscritto, cui aveva dettato a Regina; ne tolse la lettera che questa aveva scritto a nome della Regina del romanzo, e cacciò il resto sotto i carboni ardenti. Ratto, la fiamma vi sorse e l'ultima scena dei Sixièmes étages de Paris disparve.
Sergio assistè perfino alla trasformazione, alla scomparsa delle ceneri nere della carta, cui respinse sotto la brace. Prese in seguito la lettera, e cavò di sotto il guanciale la piccola fiala, cui suo fratello gli aveva portato il mattino.
La camera di Regina era rischiarata da una veilleuse posta sul mobile vicino al capezzale. Il fondo di essa era immerso nell'ombra. Ma la fioca luce, che sprigionavasi di sotto ad un abat-jour di alabastro, cadeva in pieno sul sembiante della giovane.
Regina dormiva supino, la faccia volta al cielo.
I suoi lineamenti erano calmi. Le sue palpebre erano socchiuse, di guisa che scorgevasi, tra le due ciglia, come un orlo degli occhi—banda di perla incastonando una linea di nero smalto. Le sue labbra erano semi aperte, e le ai vedeva sempre sul labbro superiore la scottatura ancor viva—cui Sergio vi aveva impressa—come una foglia di rosa pizzicata da un bruco.
Ella era bella.
Ella avrebbe data la vertigine a tutt'altro uomo, che ad un marito oltraggiato e dominato dal demone della vendetta. Le mani di lei pendevano fuori dei lembi del letto, ed il suo peignoir, sbottonato sul seno, offriva allo sguardo delle delizie che avrebbero messo la disperazione nel cuore di un artista.—Imperciocchè alcuno non idealizza come dama natura, quando la si da questo compito!
Sergio, egli stesso, restò tocco, abbarbagliato. Un brivido terribile gli corse lungo la spina. Ebbe la tentazione di gettarsi su quella divina creatura, svegliarla di un bacio, e sottrarsi all'incubo che lo possedeva.
Egli sentì che l'inebbriamento guadagnavalo. Fece un passo per retrocedere ed urtò in Nick, dietro ai suoi talloni.
L'aspetto di quest'essere vivente, altro che la fata la quale lo ammaliava e lo attirava, operò in lui una reazione rapida. Il mondo reale lo riacciuffò. Egli mise allora la lettera, cui Regina aveva scritta sotto la sua dettatura e firmata, sul piccolo secretaire ove ella scriveva, e tornò innanzi al letto.
Egli era ancora a dimandarsi se assassinava o se eseguiva una sentenza!
Se Regina avesse aperto gli occhi, ella era salva. Se avesse potuto dire una parola, il boia sarebbe forse ridivenuto l'innamorato… Regina dormiva. La morte apparente rizzavasi tra suo marito e lei ed intercettava le correnti fra i due cuori.
Sergio cavò allora freddamente l'albarello del suo viluppo; sbirciò a traverso la luce il colore del liquido che vi si conteneva; lo sturò; e lasciò distillare una gocciola di quell'essenza d'inferno sulla piccola piaga che le aveva fatta col suo sigaretto.
La flittene erasi rotta e l'escara non ancora formata. La piaga era dunque viva.
Seguì un minuto secondo, che fu un'eternità.
E' lasciò cadere una seconda stilla.
Fu dessa una sensazione? fu una rivolta dell'istinto? Regina aprì gli occhi.
L'aspetto di Sergio doveva essere talmente scomposto e livido, che dessa, per intuizione fulminea, comprese tutto.
—Innocente ancora!—gridò ella tendendo le braccia al marito.
Era già troppo tardi di un secondo.
Regina ricadde sulle piume, la testa rovesciata fuori del letto…
Era morta.
Sergio gettò via per terra la fiala e fuggì.
Trovò alla porta Nick, che gli ringhiò orribilmente, e sordamente gemè.
Chiuse l'uscio ed andò a rificcarsi sotto le coperte.
Avrebbe voluto che quel giaciglio fosse l'abisso! Se non fosse piombato in deliquio, e' si sarebbe per fermo ucciso.
L'indomani, furono i gridi di Lisa ed i gemiti di Nick che lo tirarono di letargia.
Comprendendo allora tutta la portata dell'opera sua, ei si sarebbe infallibilmente denunziato, se suo fratello non si fosse trovato opportuno al suo capezzale per sorvegliarlo, per salvarlo.
Sergio corse alla camera di Regina, l'infraperse…. e fuggì.
Il dottore di Nubo, istruito dell'avvenimento, arrivò quindi a poco. Egli entrò nella camera dove era il cadavere, innanzi al commissario di polizia.
Il commissario leggeva la lettera di Regina.
Il dottore indovinò tutto, di un sol tratto, di un solo sguardo, ed uscì.
Egli entrò nell'appartamento di Sergio e rimase impiedi avanti ai due fratelli, ed in silenzio.
—Ella non era l'amante del principe di Lavandall—diss'egli infine, di una voce fioca e lenta. Ella non era che un agente diplomatico dell'ambasciata.
—Come?—gridò Sergio.
—Signor Sergio di Linsac—continuò il dottore—ecco due volte già che vi gettate a traverso della mia via. Guai a voi, se v'incontro una terza volta.
Il dottore uscì.
Sergio svenne.
La sera, i giornali di Parigi annunziavano, nei Fatti diversi:
«Una sventura orribile à colpito uno degli uomini i più distinti della stampa parigina. La signora contessa Sergio di Linsac si è suicidata col curare, in seguito all'infame calunnia sparsa sul conto di lei.
«Suo marito è pazzo di dolore.»
Il principe di Lavandall partì in congedo per un viaggio in Italia.
Ora, che era desso il principe di Lavandall?
Uditelo.
FINE DELL'EPISODIO PRIMO.
MAUD
EPISODIO SECONDO.
I.
The foundling hospital.
A capo di Lamb's-Conduit street, a Londra, sorge un grande edificio che occupa un considerevole posto nella strada.
À una spaziosa corte esterna, un gran giardino di dietro, Macklembourg Square all'est e Brunswik Square all'ovest.
Quest'edifizio occupa tre lati di un quadrato. La facciata è costrutta in pietre, le due ali in mattoni. Le finestre di mezzo sono ornate di vetri opachi; quelle dei lati di piccoli cristalli, sopra telari dipinti a rosso.
È il foundling hospital —l'ospizio dei trovatelli.
Il pubblico è ammesso a visitarlo ogni domenica, mediante una retribuzione di sei pence (dodici soldi), che si lascia in un vassoio tenuto da uno degli amministratori dello stabilimento, alla porta della cappella. Gli altri giorni l'ingresso è interdetto.
Vi si va la domenica per udirvi suonar l'organo, il quale non à altro merito che quello di essere stato regalato da Haendel. Vi si va per ammirare il ritratto del capitano Thomas Coram—il fondatore dell'ospizio—magnifico dipinto di Hogarth, e qualche altro quadro più o meno bello di Ramsay, di Shackleton, di Hudson e di Joshua Reynold. Vi si va per udir cantare e veder mangiare i figli del luogo; osservare come sono coricati e con quanta nettezza tenuti.
Ed invero, non poche tenere madri augurano ai loro propri figliuoli la sorte di quelli abbandonati—mentre tanti fra costoro invidiano la felicità dei fanciulli che ànno una madre!
Una bella mattina di giugno, raggiante di un sole caldo e limpido—cui i detrattori della mia cara Londra le negano anche nell'estate—una carrozza sboccò dal lato di Mecklembourg Square e si fermò innanzi all'inferriata dell'ospizio.
La carrozza era stemmata, tirata da quattro cavalli grigi pomellati, condotta da un cocchiere che pesava due tonnellate, a parrucca incipriata, forte in colore, raso il mattino, vestito di una livrea amaranto a lacci neri. Tre lacchè, similmente vestiti, recando ciascuno nelle sue mani un lungo bastone a pomo di oro, tenevansi in sul pedile di dietro.
Discesero, ed un di costoro si avvicinò allo sportello per pigliare gli ordini del padrone.
Questi disse un motto, ed il valletto andò a suonare al cancello, dimandando al portinaio se mistress Grown fosse in casa.
Alla risposta affermativa del funzionario (che in Italia sarebbe stato cavaliere, se pur no commendatore) il lacchè gli significò di aprire e di lasciar entrare la vettura nella corte.
In generale, gli inglesi ànno un certo rispetto per tutte le persone che girano in cocchio. Ma questo rispetto si eleva ad ammirazione, se il veicolo à aggiogato quattro cavalli, e ad adorazione se le quattro dette rispettabili bestie sono accompagnate da tre o quattro fanti affusolati di parrucche infarinate, di tricorni, e pastorale a borchie lucenti.
Laonde, il portinaio, che aveva contemplato tutto codesto, non oppose la minima difficoltà agli ordini del lacchè del visitatore, e la carrozza entrò trionfalmente.
Allora, il personaggio che l'occupava cavò dal taccuino una lettera e la rimise al valletto.
—Fate dimandare a mistress Grown—diss'egli—se la può ricevermi.
Il valletto penetrò nello stabilimento.
Il personaggio rimase nel cocchio.
A capo di qualche minuto, il valletto tornò ed annunziò al padrone che mistress Grown aveva l'onore di aspettarlo.
Infatti, leggendo la lettera, la buona dama non solo consentì a ricevere immediatamente lo straniero, ma, raggiustata di un giro di mano la sua toilette —che non era proprio disacconcia—uscì dal suo appartamento e venne all'incontro del visitatore—non senza di essersi previamente e ripetutamente mirata nello specchio.
Ahimè! ciò giovava poco alla povera donna! Imperciocchè, per essersi contemplata per cinquant'anni in tutti gli specchi possibili, perfin gli specchi ustoridi del Politecnico! la non aveva accorciati di una linea i suoi lunghi denti, nè fatto impallidir di un zinzino il rosso ardente delle sue guance, nè offuscato di un'impercettibile nuance il tuono carota dei suoi capelli.
Del resto, se queste piccole contrarietà fisiche l'avevano messa talvolta in collera contro la natura—sopratutto quando una velleità di matrimonio le aveva solcato la mente—giammai quella collera non si era volta contro altrui, nè si era fatta risentire neppur di rimando.
Mistress Grown era di un'inesauribile bontà, e di una calma supremamente britannica.
Statemi dunque a far delle glosse contro i capelli carota!
—Chi può essere codesto straniero «di grande distinzione» cui la duchessa di Shetland mi raccomanda di accompagnare io stessa nella sua visita allo stabilimento, senza manco indicarmene il nome?—si domandava la buona mistress Grown, uscendo dal suo drawing room.
Ella ne era ancora a chiedersi codesto, quando il personaggio annunziato comparve.
Mistress Grown era la direttrice della parte orientale dell'edifizio, destinata alle fanciulle.
Bisogna credere che la si aspettasse ad altro, perchè una tal quale sorpresa si dipinse sul suo viso all'aspetto di colui che si avanzava verso di lei.
D'ordinario, i visitatori serii che picchiano alla porta di questi ospizi sono dei pubblicisti—i quali si occupano di scienze sociali—o di uomini di una certa età e mica ricchi.
Il visitatore, questa volta, si presentava con grande spanto; portava lettera di una delle più grandi dame della corte, parente della regina, ed in un giorno in cui il pubblico non era ammesso.
Gli era poi costui un giovane di venticinque a ventisei anni. E il suo vestire semplice, il suo portamento modesto non indicavano, di modo alcuno, ch'egli potesse avere il petto coperto di decorazioni, e che il giorno innanzi egli avesse aggiunto l'ordine della Giarrettiera a quello del Toson d'oro, alla Legione di onore, alla placca in diamanti di S. Andrea.
Il suo andare era lento ed un po' stracco. Trascinava il passo come la gente distratta, la quale si cura poco della terra cui calpesta e del mondo che la circonda. Era molto pallido. Ma s'indovinava di un'occhiata, che quella pallidezza, pur non essendo affatto naturale, non era una pallidezza completamente malaticcia, nè sopra tutto quel pallore sinistro che denunzia il vizio od il rimorso.
I suoi capelli bruni, un cotal poco laschi sulla fronte, inquadravano un viso leggiermente allungato e si armonizzavano con i tratti avvenentissimi della sua fisionomia.
Portava tutta la barba, d'un colore alquanto men scuro dei capelli.
Uno sguardo opaco e chiuso in di dentro spiccava d'ordinario dai suoi occhi di smeraldo. Per momenti però, quello sguardo si allumava, come le lanterne cieche che si animano di botto quando le si dirigono verso l'oggetto cui si vuole rischiarare. Per ciò, appunto, il suo sembiante dal color scialbo ed inespressivo di già, si velava inoltre di uno strato di ghiaccio. Quell'uomo diventava allora un mistero. Tanto più che la sua bocca si componeva di raro al sorriso, quantunque facesse mostra di denti magnifici, fra due labbra pallide nascoste sotto lunghi batti.
Quell'aspetto sofferente non si spiegava. Imperciocchè, non magrezza, non linee curve, non contrazioni violente di muscoli, non rughe, nulla insomma, l'abbiam detto, che dinotasse il disordine dell'esistenza di certi chiostri, un guasto permanente nella salute. Nulla che indicasse la causa, a quell'età, di quel tono freddo, di quell'aria molle, di quello spossamento di fluido che, dal primo incontro, teneva a distanza coloro che l'avvicinavano.
Non svegliava alcuna simpatia. Ma eccitava una specie di sorpresa curiosa, e forse un po' di paura—sopratutto quando la sua faccia si oscurava ed e' rientrava in sè o si stecchiva sotto il sentimento della collera.
Era poi alto, smilzo, ben proporzionato, dall'insieme elegante e senza affettamento, avvegnachè portasse, camminando, la testa un po' inclinata sul petto e la mano dritta sul cuore.
Le sue maniere erano distintissime, ma poco calorose. Non un gesto, parlando, per rilevare l'espressione di una voce, d'ordinario sorda ed incolore. Non era parlatore. Al contrario, il suo verbo era corto, quando alcuna passione nol dominava. Sotto l'impulsione di un affetto qualunque, però, egli diventava eloquente, poeta, ed aveva un accento sarcastico ed amaro.
Questo personaggio si avanzò verso mistress Grown e la salutò del capo, con rispetto, senza dire motto.
—Milord—esclamò mistress Grown restituendogli il saluto—la lettera di Sua Grazia la duchessa di Shetland, cui vostra signoria mi à fatto l'onore recapitarmi, mi apprende che la S. V. desidera di visitare l'ospizio. Sono agli ordini vostri, milord.
Lo straniero s'inclinò leggiermente.
—Di dove V. S. vuoi cominciare?—dimandò mistress Grown—dai garzoncelli o dalle figliuole?
—Dalle figliuole, madama—rispose il visitatore, in inglese, come mistress Grown gli aveva favellato.
—In questo caso, milord, vogliate darvi la pena di accompagnarmi.
Lo straniero le offerse il braccio, e cominciarono la visita dello stabilimento.
Mistress Grown, pur volendo mostrarsi graziosa verso colui cui le avevano raccomandato, bruciava di voglia di conoscere lo scopo di quella visita. Come non era guari a presumere che quel giovane signore avesse dimandato una lettera ad una dama della corte, per andare personalmente, in treno di gala, a scegliere una cameriera in un ospizio, la sua curiosità doveva avere un altro interesse.
—Non è nemmanco possibile—ruminava nel suo capo mistress Grown—che egli venga a visitare i quadri della sala del comitato. La Marcia di Finchley di Hogarth, il cartone di Raffaello, l' Angelo ed Ismaele di Highmore, il Cristo di Willis, il Moise di Hayman, belli che siano, non richiedono un così alto intervento per essere ammirati. Verrebb'egli dunque per conoscere la storia del capitano Thomas Coram, e come quel bravo uomo fondò l'ospizio? Vien'egli per apprendere i nostri regolamenti e paragonarli a quelli del continente; per osservare come lo stabilimento è tenuto ed amministrato; per ottenere la statistica dei trovatelli raccolti? Non ne so nulla. Come dunque posso soddisfare ai suoi desideri se non l'indovino?
Malgrado si mettesse queste questioni, mistress Grown non osava nulla chiedere allo straniero. Si proponeva mostrargli tutto, tutto dirgli. Lo condusse dunque nella vasta sala ove le ragazze entravano in quel momento per pranzare.
Erano circa centocinquanta.
La sala, lindissima, era rischiarata da parecchi finestroni aperti, sporgenti sul giardino, da cui penetravano, nel tempo stesso, il sole a grandi ondate, la brezza, il cinguettare degli uccelli che folleggiavano negli olmi, ed il profumo dei fiori delle aiuole, misto all'odore delle vivande.
Delle tavole, senza mensale, coperte di tela verniciata, correvano da un capo all'altro della sala.
Ogni figliuoletta occupava il suo posto numerato.
La veste in cotonata bruna non le sformava troppo. L'azzardo le aveva abbellite di teste bionde, di occhi limpidi, di labbra rosee che sembravano sospirare i baci di una madre—e la minestra.
Quando ognuna fu al suo posto, un momento di silenzio seguì. Poi, dal centro delle tavole, una modesta ragazza di diciassette a diciott'anni, la più attempata della compagnia, intonò il benedicite di una voce dolce ed un poco commossa.
Aveva questa terminato appena la preghiera, che un'altra giovinetta cominciò a dispensare con rapidità ed appropriatamente le porzioni di carne e legumi, ammonticchiate nel piatto a lei dinanzi.
La direttrice ed il visitatore percorrevano il refettorio silenziosi e lenti.
Si sarebbe potuto leggere sul sembiante di mistress Grown la soddisfazione, con la quale constatava la ciera di salute che mostravano quelle fanciulle, ed il buon appetito con cui esse divoravano la loro pietanza. Mistress Grown dimandò perfino a qualcuna d'elleno se era soddisfatta.
Il viso dello straniero, all'incontro, restava impassibile. Guardava pertanto attentamente, e rallentava talvolta il passo onde meglio osservare. Gli capitò perfino di fermarsi due o tre volte innanzi alle più adulte di quelle figliuole. Ed allora, se gli si fossero messi gli occhi negli occhi, vi si avrebbe potuto trovar forse quella vita e quell'acuità che mancava loro di abitudine.
Fece due volte il giro della sala, senza disserrare le labbra.
Uscendo del refettorio, mistress Grown, che si sentiva imbarazzata di quel silenzio; che si trovava appesa al braccio di quell'uomo come a quello di una statua di bronzo; che era curiosa di più in più, bisogna dirlo, e che avrebbe voluto trovare nella bocca di lui l'espressione dei suoi sentimenti, gli dimandò timidamente:
—Ebbene, milord, la S. V. pensa dessa che noi compiamo il nostro dovere verso quelle sgraziate creature?
—Lo penso, madama—rispose lo straniero di un tono secco.
—Ed ora, milord, vostra Grazia vuole ella visitare i dormitori delle fanciulle?
—No, madama—rispose lo straniero. Piuttosto il giardino.
—Dopo l'appartamento della segreteria, non è vero, milord?
—Prima, madama, se il permettete.
Uscirono nel giardino.
Lo straniero camminava adesso un poco più sollecito, dirigendosi verso un viale ombrato da folti platani, al coperto dal sole che cadeva a piombo sui praticelli. Delle grandi magnolie, in vasi, riempivano l'aria di olezzo. Le aiuole spiegavano i loro addobbi di girani, di viole, di flussie, mentre le ravanelle; gli anthemi, le cobee, le volubili si arrampicavano su per i tralicci verdi del muro e li tappezzavano di fiori di oro, di zaffiro e di argento.
La caldura e la luce sembravano risvegliare in quel giovane signore una certa animazione; perocchè, forzando il grave suo silenzio, chiese:
—Madama, che fate voi apprendere alle figliuole di questo ospizio?
—Mica molto, milord—rispose mistress Grown un poco imbarazzata. Imparano a leggere, a scrivere, a cucire—in breve, ciò che può occorrere ad una povera famiglia.
—Quale sorte le attende uscendo di qui?
—Le più fortunate divengono cameriere. In generale, si fanno serve od operaie.
Lo straniero si tacque.
—La loro sorte non è poi brillante, milord—continuò mistress Grown. Ma noi ci studiamo, innanzi tutto, d'impedire che esse cadano nel male.
—Sono figlie tutte del popolo?—dimandò lo straniero.
—Lo più sovente, milord. Però, capita talvolta altresì che delle persone di una condizione più elevata vengano a nasconder qui il frutto della loro vergogna o il malore della loro leggiera condotta. Non si dà giammai spiega alcuna. Ond'è che la povera fanciulla, cui si destina ad una cucina o ad una manifattura, potrebbe bene avere una madre che va a corte ed un padre che siede in Parlamento.
—Non avviene mai che una madre riprenda la sua prole?
—Una sopra dieci mila. Quando una donna à fatto rinculare il sentimento della maternità innanzi a quello della vergogna, è ben raro che la abbia un ritorno e si corregga. Quasi sempre, la natura à perduto la sua partita contro la società.
Lo straniero si tacque di nuovo. Ma mistress Grown, che si accorgeva con soddisfazione il ghiaccio cominciare a fondere, e se ne attribuiva modestamente il merito, dimandò:
—Milord, desidera egli la statistica dei resultati morali e materiali del nostro ospizio—che è lo più considerevole di Londra?
—Grazie, signora—rispose lo straniero. Vogliate dirmi piuttosto il nome di quella giovinetta che à recitato il Gratia a desinare.
Mistress Grown guardò fra i due occhi il suo interlocutore, per provar di rendersi conto del senso intimo dell'interrogazione. Poi, dopo un istante di silenzio, rispose secco, secco:
—Maud, milord.
—Potreste farla venir qui e parlarle, madama?
—E che dovrei io dirle, milord, se me lo permettete?—obbiettò mistress Grown, di meglio in meglio stupita.
—Tutto ciò che vorrete, madama—riprese lo straniero;—basta ch'ella parli.
—Ah! sclamò la direttrice, osando guardare di nuovo. Vorreste interpellarla voi stesso, milord?
—Al contrario—rispose questi con vivacità. Io mi ritiro dietro quell'arcata di liane. Io non voglio che udirla.
Mistress Grown salutò profondamente, come qualcuno che si rassegna a cosa che gli spiace, ed uscì per andare in cerca della figliuola.
Due minuti dopo, la conduceva Maud della mano.
Lo straniero si nascose infatti dietro il pergolato.
Egli si sforzava di comprimere nel suo seno una specie d'inquietudine, che si tradiva fuori per un rianimamento inusitato delle guance ed una respirazione più calda e più celere. Le sue pupille, or ora sì opache, scintillavano adesso.
Egli avviluppò del suo sguardo la giovinetta, cui mistress Grown conduceva.
Se questa degna persona avesse potuto osservarlo, ella sarebbe restata sorpresa di trovare tanta vita in un sembiante cui aveva visto un momento fa sì placido e freddo, ed una espressione sì strana su dei lineamenti che un istante innanzi sembravano estinti.
Mistress Grown guidò la ragazza vicino ad un pergolato di clematite, come in passeggiando, parlandole con dolcezza, sorridendole con bontà. Ella non aveva coscienza di ciò che faceva. Ma pensava che il personaggio, il qual le era stato raccomandato di sì alto, e che pareva sì colmo di dignità e di distinzione, non poteva pigliarla a complice di una cattiva azione. Si prestava quindi adesso con non troppa repugnanza ai desiderii dello straniero. Poi una luce le traversò per la mente:
—Vorrebb'egli riparare un torto?—si dimandò ella interiormente. È troppo giovane, pertanto! Lo si sarebbe incaricato… Di che?
Maud la seguiva, niente affatto sorpresa dell'immenso favore di famigliarità cui la direttrice le mostrava. Sembrava così rassegnata, che la si sarebbe creduta indifferente. Non sperava ella adunque più nulla su questa terra, dove si spera sempre? Ovvero aveva dessa una confidenza più illimitata che altrui nell'avvenire?
Chi lo sa?
Una serenità completa regnava sul suo sembiante.
I suoi occhi non esprimevano alcun desìo—se tuttavia non n'era uno quel lungo sguardo di cui seguire una rondine, sì alto nel cielo, che la si sarebbe detta perduta nello spazio.
—Così che dunque, figliuola mia—diceva mistress Grown, continuando la conversazione—voi non avete alcuna preferenza per un mestiere anzi che per un altro?
—Dio mio, madama—rispose Maud—io so che debbo il mio tempo ed il mio lavoro a colui che mi dà del pane. Ch'egli ne usi allora come vorrà.
—Pertanto vi sono lavori più o meno duri, più o meno servili—soggiunse la direttrice. Noi abbiamo attitudini diverse, vocazioni… Ne avete voi una, figliuola mia?
—A che pro averne una, madama, se io non sono al caso di scegliere? Quando non si à neppure ciò che conforta i più piccoli uccelli del cielo, i più piccoli insetti dei campi: una madre! sarebbe mai lecito avere altri desiderii, madama?
—Chi sa, piccina mia—sclamò mistress Grown, volgendo gli occhi verso il traliccio di liane. Non sareste voi la prima creatura abbandonata che avrebbe trovato di un tratto una famiglia e l'opulenza.
—Sì madama—replicò Maud—ma Dio è troppo in alto per guardar sovente a di sì piccoli atomi e seminare miracoli. O' letto nella Bibbia…
—Come, figlia mia—l'interruppe la direttrice con tristezza—disperereste voi dunque della bontà di Dio?
—No, madama. Ma ò paura di averlo stancato a forza di domandargli sera e mattino…
—Dei sogni?
—Non ancora, madama: un miracolo!
—Ed avete avuto torto, figliuola mia. La cagion prima dei nostri mali sulla terra è la non-rassegnazione.
—Gli è vero, madama. O' avuto torto. Un giorno però voi mi diceste che, quando si depositò la mia culla alla porta di questa casa, si depositò pure una somma di 500 ghinee—un dono per lo stabilimento.
—Sì. E poi?
—Un altro giorno, madama, mi ricercarono per occuparmi in una casa di confezione come cucitrice. Io voleva andarvi. Voi mi diceste allora, madama, che si era imposto allo stabilimento, depositandomivi, di non disporre di me prima che io non mi avessi compiuto i sedici anni.
—Ebbene, che volete voi conchiudere di codesto?
—Dio mio! l'è chiaro, pertanto. Se vi impedivano di disporre di me, si voleva dunque reclamarmi prima di quell'età.
—Ah!
—Io ò terminato i miei diciassette anni, madama—soggiunse Maud con abbandono—ed alcuno non è venuto.
—Voi disperate, allora?
—Talvolta, madama. Perchè, ecco lì due anni, che non è scorsa un'ora della mia giornata, una sola delle mie notti, in cui io non mi abbia delirato di quell'assente. È dessa morta? mi dico. Ebbene, che mi si indichi la sua fossa, perchè io mi vada talvolta a piangervi e portarvi dei fiori. È dessa povera? io so lavorare; lavorerò per lei. È dessa colpevole? io le perdono—di gran cuore le perdono. Arrossisce di me? ebbene, che me la si mostri soltanto, ed io andrò alla sua porta a vederla passare e benedirla di tutte le forze dell'anima mia. Mi à dessa obliata? ma che la mi oblii. Io non le dimando nulla: non voglio che vederla una volta sola, una volta, per dare una forma al mio sogno implacabile, un obietto al mio amore assetato; per sapere ove volgere il mio sguardo nell'orizzonte, su quale testa invocare la benedizione di Dio, quale angelo adorare nella mia preghiera. Ò io torto, madama, di disperare talvolta, di aspettar sempre, malgrado ciò?
Mistress Grown si tacque un istante, non sapendo che rispondere.
Poi sclamò:
—Figliuola mia, è la volontà di Dio: bisogna obbedire.
—Per fermo, madama—replicò Maud sospirando. Nè è Dio che io mi accusi. Però, come avviene che Iddio—il quale alimenta così amorosamente gli uccelli del cielo; che dà ai fiori ammanto sì bello ed alito così profumato; che riveste gli alberi di fresche foglie per garantirli contro gli ardori del sole; e che tira delle farfalle da immondi bruchi… come avviene, mi domando io, che egli non abbia il male se non per le povere creature dell'uomo, come noi, e che ci orbi di ciò cui dà ai più miseri esseri della creazione: una madre?
La logica del sentimento è senza pietà. E la finisce per far di Dio un mostro, a forza di attribuirgli le più piccole vicissitudini della vita.
Se si fosse detto a Maud che non era Dio, ma una società rachitica che le rubava lo sguardo benedetto di sua madre, il suo dolore sarebbe forse divenuto ateo, trovando che vi era qualcosa al disopra di Dio, più potente di Dio: se stesso ed il mondo!
Il giovane forestiero, che restava senza fiatare dietro la spalliera di liane, gli occhi inchiodati sulla fanciulla, le orecchie tese, si fece avanti di un tratto.
A quell'apparizione inaspettata, Maud si turbò. Divenne di bracia, bassò lo sguardo, si ritirò di un passo indietro.
Lo straniero s'avanzò di un'aria grave verso le due donne e le salutò. Poi, dirigendosi a mistress Grown, le chiese:
—Madama, sarebb'egli permesso di cavare questa giovinetta da quest'ospizio?
Mistress Grown alzò gli occhi su di lui con un certo piglio di osservazione, poi rispose lentamente e con gravità:
—Lo si può, milord, conformandosi a certe regole stabilite dai fondatori.
—Quali, madama?
—Da prima, milord, è mestieri conoscere il nome della persona che piglia a sua carico l'esistenza del trovatello cui le si affida, ed in seguito che vuole ella farne.
—In questo caso, madama—riprese con solennità il forestiero—io vi dimando questa fanciulla. Io sono il principe Pietro di Lavandall, cugino della duchessa di Shetland.
La direttrice e Maud levarono gli occhi attoniti sul principe.
—Come, Vostra Grazia…?—prese a balbuziare mistress Grown imbarazzatissima, dopo alcuni minuti di silenzio… Ma… scusi, milord… non m'inganno io forse? Vostra Grazia dimanda…
—Io vi dimando, madama, questa giovinetta—rispose il principe vivamente agitato.
—Mille grazie per lei, milord—riprese la direttrice. Perocchè gli è, senza dubbio, per farne una cameriera della signora principessa di Lavandall…
—Punto, madama.
—Ma allora, milord—soggiunse mistress Grown, rivenendo un po' della sua sorpresa…—che vorreste voi fare di questa povera orfana?
—Mia moglie, madama. Voglio farne la principessa Pietro di Lavandall.
E ciò dicendo, salutò le due donne e si allontanò di un passo rapido.
—A casa, e ventre a terra—gridò il principe ai suoi lacchè, salendo in vettura.
Sentiva che la sua emozione era per sopraffarlo.
II.
Il giorno delle nozze.
Il generale principe Paolo di Lavandall era venuto a Parigi nel 1815 con gli eserciti confederati stranieri.
Alla corte di Luigi XVIII, egli aveva conosciuto Paolina, figlia maggiore del duca di Saint-Cassan, amica intima della famosa nipote del principe Talleyrand.
Paolina non era così bella che la duchessa di Dino, ma era altrettanto ardita ed intraprendente. Si susurrava chiotto chiotto nei saloni che ella arrivava dove altre, infinitamente più belle di lei, non avrebbero osato collocare neppure una speranza, e che, aggiungendo la vivacità caustica del suo spirito e la distinzione delle sue maniere ad una solida istruzione, spigolata nell'esilio, ella avrebbe potuto pretendere a passare per letterata—se non avesse preferito di essere una civetta.
Il principe di Lavandall s'invaghì di lei e la sposò.
E si fece correre il rumore che l'imperatore Alessandro—il quale l'aveva veduta a Vienna, in casa del principe di Talleyrand—lo avesse spinto alle nozze.
Di questa unione, dopo un anno o due, nacquero due gemelli: Pietro ed Alessandro di Lavandall.
Pietro, venendo al mondo il primo, godè del rango di primogenito, e, poco dopo, del titolo e dei diritti della sua nascita, alla morte del padre.
Quantunque gemelli, i due bambini si rassomigliavano poco.
Al fisico, la dissomiglianza consisteva unicamente nella gradazione del colore dei capelli—cui Pietro aveva scuri e Alessandro di un biondo dorato—e forse anche nel colorito—cui il primogenito aveva pallido ed il cadetto molto animato. Ma al morale, questa dissomiglianza era più profonda.
Pietro era un sognatore. Egli amava la solitudine; aveva un carattere fermo; un coraggio freddo; una grande tenacità di volontà. E' si mostrava poco aperto. Più esatto al compito cui si assegnava egli stesso che a quello cui gli si avrebbe voluto imporre. Poi, calmo fino alla mollezza.
Alessandro, all'incontro, era rumoroso, metti-brighe, pigro. Sempre dietro a gonne di pettegole, con le mani nelle cameriere. Sempre a bisdosso di un cavallo, od un fucile alla mano. Abborriva i libri. Amava la danza; folleggiava per i piaceri; dava volentieri degli scappellotti; e quando non lo si trovava nei boschi a snidare gli orsacchi, i lupi, i nidi di aquila, si era certi trovarlo nella sala d'armi.
Questa differenza di gusti e di costumi non impediva che i due fratelli si amassero teneramente. Però per cagione appunto di questa differenza, per spirito di antitesi, il padre—il quale aveva identicamente il carattere del suo cadetto—preferiva il primogenito, e la madre—la quale, una volta maritata ed allontanata dalla corte, era divenuta una donna seria ed ambiziosa—ammattiva pel figlio cadetto.
Al suo ritorno da Parigi, il principe Paolo aveva concepito qualche sospetto sulle inclinazioni dello tzar Alessandro per sua moglie. Erasi quindi dimesso dal servizio militare e si era ritirato nelle sue terre. Fu mestieri, per conseguenza, che sua moglie ve lo seguisse e vi restasse tanto ch'ei visse.
Dopo la morte di lui, però, la principessa—che aveva subito la solitudine come una punizione—prese tosto la risoluzione di recarsi a corte, ove la nuova Tzarina, dopo la morte di Alessandro, le aveva mantenuto il grado di dama d'onore, ed aveva fatto ammettere suo figlio Alessandro come paggio dell'imperatore Nicola.
La principessa Paolina voleva condurre con lei anche il figliuolo primogenito.
Pietro, oggimai il principe Pietro, le manifestò il suo desiderio di partire per l'Alemagna.
—E che vuoi tu andar a fare in Germania, all'età tua?—dimandò la madre.
—Visitare le università e studiare.
—Ah!—sclamò la principessa.
—Ma ad una condizione—riprese il principe Pietro.
—Bravo! ecco delle condizioni, adesso.
—A due condizioni, anzi, se vi piace, madama—continuò il principe.
—E quali? mio signor principe, se tuttavolta degnate comunicarle—chiese la principessa, ammiccando di un'aria ironica.
—Primo, di sgabellarmi del mio istitutore, e di viaggiare accompagnato da un solo cameriere.
—Benissimo. Quel povero padre Toufferel v'imbarazza dunque, o non sa egli abbastanza?
—Sa anzi troppo. Però, io non voglio più gesuiti intorno a me.
—E secondo?
—Secondo, di vivere affatto libero e padrone delle mie azioni. Io so chi sono e dove vado.
Queste dimande parvero strane, sopratutto al padre Toufferel—il quale governava la testa ed il cuore della principessa, oltre la coscienza di lei.
Si oppose un rifiuto perentorio.
Il giovane principe ricusò a sua volta di ricevere ulteriormente il gesuita, e protestò a sua madre che non si sarebbe recato a Pietroburgo che trascinato dalla forza.
—E perchè?
—Perchè io non voglio disobbedire, come voi disobbedite, madama, ai desiderii, agli ultimi ordini di mio padre e del vostro marito e signore.
Quest'attitudine colpì la principessa, e diede a riflettere al gesuita.
La principessa—che andava alla corte per godere della sua libertà—vide di uno sguardo ch'ella vi menerebbe seco un testimone uggioso delle sue azioni, e più tardi—quando il giovine principe avrebbe raggiunto i suoi diciotto anni, età determinata dal padre per la maggiorità di lui—un padrone severo.
Si lasciò dunque piegare.
Il gesuita calcolò più freddamente: che valeva meglio conservare la direzione della donna che l'educazione del garzone refrattario.
E Pietro partì per la Germania, il giorno stesso in cui sua madre ed il confessore partivano per Pietroburgo.
La vita del buchschaft esercitò sopra Pietro come un incanto.
Potendo pagare dei professori liberi, non si sommise alla severa disciplina della massoneria delle università germaniche. Non accettò dello studente che ciò che gli piacque—vale a dire l'abito, le maniere, la vita di studio mista alle dissipazioni, le libere aspirazioni, i vaneggiamenti elevati—quella mischianza, insomma, di metafisico e di artista che si trova accoppiata negli allievi istruiti delle scuole tedesche.
Non s'imbragò guari nè in teologia, nè in diritto, nè in pedagogia. S'innamorò invece dello studio della fisiologia, della chimica, della fisica. Poi, per una tendenza verso il soprannaturale che gli era propria, si cacciò capo giù nelle scienze mistiche e nelle speculazioni ermetiche.
Il professore di Tubinga, che lo dirigeva, era forte addentro a queste scienze e vi credeva coscientemente.
Il carattere di Pietro, di già sì serio, addivenne quinci in poi più grave e più scuro.
Un incidente lo immerse affatto nella tristezza.
Un giorno, a Heidelberg, e' venne a parole con uno dei suoi amici, a proposito d'una ragazza incontrata in un ballo. Si batterono alla spada. Si batterono da bravi. E sì bravamente, che, al terzo assalto, caddero entrambi nel medesimo tempo: Pietro, per svenimento; il suo avversario passato fuor fuori.
Ciò fu fatale al giovane principe di Lavandall.
La sua salute si alterò. La sua pallidezza aumentò di giorno in giorno. I suoi occhi perdettero il bagliore della giovinezza. Le sue guance smagrirono. I suoi lineamenti, completamente alterati, divennero di un tratto più maturi. Breve, l'insieme di sua figura acquistò un cotal che di strano e di turbato.
E' se ne penetrò, e s'impose per conseguenza un grande riserbo, una solitudine quasi completa. Evitò perfino le occasioni delle grandi emozioni.
Aveva torto? No.
No, perchè una sera, avendo ceduto all'attrazione di vedere il Wallenstein di Schiller, alle ultime scene del dramma, il suo cameriere lo raccolse svenuto nel suo palco.
Lasciò dopo di ciò la Germania, ed andò a Parigi.
Pietro di Lavandall aveva allora ventitrè anni.
Il dottore di Nubo gli consigliò di abbandonare lo studio, che ruinava la sua salute, e di addarsi alla vita elegante ed agli esercizi signorili dello sport.
Il principe lasciò quindi il nome d'imprestito, assunto in Germania, e si recò da suo avolo sotto il suo vero nome.
Il duca di Saint-Cassan presentò il principe alle Tuileries, ed a quella parte della aristocrazia francese che aveva accettato la monarchia democratica. Per il suo nome però, per il suo titolo, per i precedenti di suo padre, egli fu ricercato altresì e carezzato nei saloni dell'aristocrazia ribelle del Faubourg Saint-Germain.
La principessa di Lieven lo mise alla moda in mezzo al mondo dell'intelligenza.
Il principe di Lavandall era, oltre a ciò, ricchissimo, bel giovane, dalle maniere squisite, ma poco inchinevole verso il mondo e che, per ciò appunto, rilevava la persona a cui e' si piaceva interessare. Aveva un carattere eguale e fermo, e di una elevatezza costante nei sentimenti.
In una parola, a ventitrè anni, il signor di Lavandall era ciò che addimandasi un uomo serio, con cui è d'uopo contare, sia che prenda parte a qualcosa, sia che si astenga.
Infine, era affettuoso nel fondo, ed eccessivamente sensibile.
Il re Luigi Filippo gli dimandò una sera perchè non abbracciasse la carriera diplomatica.
—Perchè, sire,—rispose Pietro—il principe di Metternich ed il principe di Talleyrand àn fatto della diplomazia una mariuoleria elegante, ed i ministri di V. M. un'ingenuità pomposa.
—Ne siete voi ben sicuro?—disse il re, volgendo il dorso senza aspettare la replica.
S. M. rinculava innanzi alla spiega della frase ingénuité pompeuse, troppo, troppo cortigiana!
—Gli è un curioso giovane il vostro parente cosacco, signor duca—disse il re al signor di Saint-Cassan.
—Avrebbe spiaciuto a V. M.?—dimandò costui.
—Non bazzica egli dunque il mondo?
—Pochissimo, sire. E ciò che è più singolare, non à contratto alcun legame, nè con i giovani della sua età e della sua condizione, nè con gente di altra sorte.
—Non à desso un palco agl'Italiani ed all'Opéra?
—Sì, sire. Ma vi si mostra di raro, per qualche minuto solamente, e sempre solo.
—Non accetta inviti a pranzo?
—Neppure dal suo ambasciadore.
—Non si mostra ai balli?
—Solo per farvi un atto di presenza indispensabile, e di cui sarebbe impossibile astenersi. Ma non balla mai. À pranzato due volte sole al club, durante l'inverno, ed è passato tre volte pel Bois.
—À bei cavalli?
—I più belli che si siano veduti mai a Rotten-Row, a Londra.
—Giuoca allora?
—Lo si è visto, all'ambasciata d'Inghilterra, perdere tre o quattro mila luigi al whist—parlando di scimie col barone di Humbold, assiso accanto a lui.
—Ma allora che si dice di lui?—chiese il re, il quale aveva forse una ragione ad un'altra in questa investigazione persistente e minuta.
—La vita del principe, sire—rispose il signor di Saint-Cassan—non à nulla di apparente, e quindi nulla che possa dar presa alla maldicenza od alle congetture. Le donne sono intrigate di questo mistero che traversa i saloni. Gli uomini son tenuti in distanza da quel ghiaccio e da quella riserbatezza. Tutto al più, sire, taluno si permette dimandarsi a voce bassa: perchè quella specie di misantropia in mezzo a tanta opulenza di favori della natura? perchè quell'aria stravolta in un sembiante che attira la simpatia? E non si va più innanzi, sire. Perchè un conte italiano, la settimana scorsa, essendosi permesso di domandargli se non fosse malaticcio—con quel pallore sì intenso e quella tristezza sì costante—il principe gli dette del guanto sul muso, ed il dì seguente l'uccise in duello, di un colpo di pistola. E, cosa strana, sire! egli cadde svenuto nelle braccia del conte di Nubo—il quale era nel tempo stesso il suo medico ed il suo unico testimone.
Luigi Filippo ne sapeva abbastanza per ricusarlo come segretario dell'ambasciata di Russia.
Si era discorso di ciò, pare, alla corte di S. Pietroburgo, e lo si era ripetuto nei saloni della principessa di Lieven.
Si vide però il principe di Lavandall prolungare, una sera, più tardi che di costume, la sua presenza al ballo in casa del duca di Luxembourg, e spingere la compiacenza fino a ballare con la signorina di Perceval, a cui la duchessa lo aveva presentato.
Il conte di Perceval aveva passato la sua vita nell'emigrazione, vi aveva mangiato il resto del suo patrimonio—cui Bonaparte gli aveva restituito,—e sciupato con una ballerina la sua parte del miliardo, cui i Borboni avevano avuto cura di fargli ben pingue, per compensarlo della sua fedeltà.
Questo conte non aveva voluto udire a parlare del ramo cadetto —gli Orléans—e viveva adesso di una dotazione sui fondi secreti di Roma, cui il cardinale Lambruschini gli aveva fissata, in considerazione dei servizi che aveva resi al partito cattolico.
Il conte di Perceval si era ammogliato, dopo la Ristaurazione, per piacere alla signora di Cayla per meglio servire la Congregazione. Di questo matrimonio aveva colto, o raccolto, la bella personcina che aveva danzato col principe di Lavandall—la signorina Antonietta di Perceval.
Senza essere proprio sciocca, madamigella di Perceval—forse per timidità esagerata—s'imponeva una grande sobrietà di risposte, un grande riserbo di giudizi. Di guisa che passava per fanciulla di poco spirito, e desolava coloro i quali, per cortesia, si trovavano obbligati a chiaccherare con lei. Malgrado ciò, e forse a causa di ciò, dopo quella sera, dovunque Antonietta di Perceval andò, il principe russo si mostrò anch'egli.
Secondo la sua abitudine, non prolungava di molto la sua presenza nei saloni. Ma, durante il poco tempo che vi restava, alcun'altra persona non aveva il privilegio di disputarlo alla signorina di Perceval. Breve, le cose giunsero al punto, che si cominciava a dimandarsi se non si fosse caduto in inganno nell'apprezzamento dello spirito di quella giovinetta.
Di un tratto poi il rumore si sparse, che madamigella di Perceval sposava il principe di Lavandall.
—Scherzate voi?
—Il duca di Saint-Cassan à fatto la dimanda di matrimonio ed è stata gradita.
—Impossibile.
—Gli è il duca stesso che me lo à detto.
—Ed a me il conte.
I commentari cessarono. Lo stupore però non cessò.
Infrattanto si preparava il cesto da nozze.
La duchessa di Saint-Cassan e la sua cugina, la vecchia contessa di Cars, non si accordavano riposo—tanto l'impazienza del giovane principe era grande. La domenica seguente si fecero i tre bandi a S. Tommaso d'Aquino. Gl'inviti si spiccarono.
Due giorni più tardi, incontrandosi nei saloni dei Faubourg, la gente si diceva, di un tuono dolce ed insinuante:
—Non sapete? Il matrimonio di Lavandall è ito in malora.
—Come! rotto?
—Positivamente.
—Impossibile.
—Sì vero, che il principe è partito per Roma.
—Via, via! l'ò visto ieri sera, ed abbiamo anzi parlato dei suoi sponsali.
—Ciò può essere. Pertanto, ieri sera stessa, egli ebbe un colloquio col suo futuro suocero. La conversazione fu corta e secreta. Dopo che, il conte di Perceval, pare, ritirò la sua parola—ed il principe è partito stamane.
—Tutto codesto è vero—intervenne a dire il conte di Nubo. Il povero conte francese ha rifiutato la mano della sua figliuola al ricco principe russo. E questi corre le poste in questo momento sulla strada di Marsiglia. Che occorse egli fra quei due uomini? Alcuno nol sa; neppure la fidanzata. Alcuno nol saprà mai, forse.
Lo scacco subito, i commentari ingiuriosi che ne seguirono e circolarono, ferirono al vivo il principe di Lavandall. Visse a Roma un anno, senza vedere un' anima, tranne papa Gregorio XVI—che era un maiale —e che lo ricevè una volta ed andò a visitarlo due, nella di lui villa vicino Albano.
Il papa vi pranzò anzi, perchè Gregorio amava desinar bene, ed in casa Lavandall si faceva lauta mensa.
In questo frattempo, la madre del principe—la quale si era rimaritata ad un giovane conte polacco—capitò a Roma ed andò ad istallarsi in casa del figlio, verso il Pincio.
Tutto al contrario del principe di Lavandall—che scansava il mondo—la madre lo attirava intorno a lei a grossi fiotti.
Il principe Pietro si trovò di nuovo, dunque, malgrado lui, in mezzo alla società. La collera, del resto, era passata; il cordoglio si era calmato.
Egli cominciò, nonpertanto, a trovare i balli dei principi romani insopportabili; i desinari dei cardinali grossolani; gli spettacoli stolidi. Le feste di sua madre lo stancavano meno. Imperciocchè, se sua madre invitava l'aristocrazia romana e straniera, egli invitava nel tempo stesso, da parte sua, gli artisti e gli scienziati.
Ecco come codesto era avvenuto, con grande scandalo delle principesse romane—le quali non ricevono gli artisti ed i letterati che nei loro boudoir, dicesi, in un'altra camera più particolare, dicevan dessi.
Per fare eseguire un busto di suo padre, il principe Pietro aveva visitato lo studio di uno scultore francese, Filippo Mortier, che gli era stato indicato come uomo di rara abilità. Andando all' atelier, gli era capitato due o tre volte di non trovarvi lo scultore. Però aveva parlato con la sorella di lui, madamigella Aurora—la quale pingeva il ritratto in miniatura della principessa di lui madre—oggi contessa Soblowiski.
Madamigella Aurora, a vero dire, lasciava molto a desiderare, quanto a capacità d'artista. Ma ella pigliava il passo e precedeva di più tappe, anche le donzelle le più felicemente dotate, quanto a spirito ed a bellezza.
Ella ne aveva più, di entrambi, che tutte le principesse romane fuse insieme.
Il principe di Lavandall—forse contrariato la prima volta di non incontrare lo scultore e d'incontrare sua madre—ne fu ammaliato la seconda volta. Di poi, egli non si recò più allo studio che quando Filippo e la principessa non vi erano.
Il principe Pietro invitò alle sue feste lo scultore e la sorella, e qualche altro artista di Roma.
Arrivò ciò che era inevitabile.
Il principe—anima tenera ed affettuosa, uomo solitario e di natura timida—s'infiammò di madamigella Aurora, la quale, scaltraccia! restò ben calma da parte sua. Gli era in ogni modo savio, nel posto di quella savia damigella. Imperciocchè, che poteva ella aspettarsi dal principe di Lavandall, se non di divenire la sua amica?
Ora, quale non fu il suo stupore quando, un giorno, suo fratello le disse:
—Doh! la bella, tu non sai?
—Che mò?
—Indovina.
—Il papa à partorito.
—Ciò si è visto. Meglio ancora che codesto, birbaccia.
—Oh! oh!
—Io ti dò marito.
—N'era tempo, m'immagino.
—Forse. Ma, che mi affoghi, Satana! se tu avessi aspettato ancora dieci anni non avresti trovato di meglio.
—Lasciamo i se avessi ed avresti, e parla tondo. Con chi mi mariti tu? Con Pasquino?
—Ambiziosa! Sali ancora.
—Fino a che piano?
—Scendi al primo.
—Ci siamo. Con chi dunque?
—Col principe di Lavandall.
Aurora scoppiò in un immenso scroscio di riso.
—Gli è pertanto vero, giuro a Dio!—sclamò lo scultore. Quell'originale, mica più tardi che stamane, à avuto l'onore di dimandarmi la tua mano.
—Destra o manca?
—Ti porti il diavolo.
—E tu?
—Io ò risposto che tu eri la più milensa artista di Roma.
—Insolente. Ed egli?
—Egli à replicato… Indovina.
—Peste sia del tuo indovina!—scoppiò Aurora.
Vi era nello studio un pezzo di specchio. Madamigella Aurora lo avvicinò con grande serietà agli occhi suoi, e, dopo aver contemplato per alcuni secondi i suoi lineamenti stupendi, soggiunse, di un'aria fra il serio ed il comico, imitando la voce del principe:
—E perchè no, al postutto? Egli à risposto: madamigella Aurora è la più milensa artista, voi dite, signore? Io me la fumo! Ella è, in ogni caso, la più bella fanciulla di Roma.
—Alla lettera, sillaba per sillaba!—sclamò lo scultore.
—Egli à dello spirito, allora—replicò Aurora con la gravità di un giudice.
E si lasciò amare.
Chi non avrebbe fatto altrettanto?
Ma, una volta il fratello cacciato dentro nella cosa; una volta il motto magico di matrimonio pronunziato; bisognava venire a una conclusione. La modesta damigella voleva strombettare il proposito, parlare alla madre del principe, riempirne Roma e le quattro parti del mondo—come diceva papa Gregorio—che s'intendeva più di trippe alla milanese che di geografia. Prima di spingere le cose fin lì, il principe chiese un colloquio ad Aurora onde comunicarle i suoi pensieri.
Il colloquio ebbe luogo.
Fu corto.
L'indomani dicevasi per Roma:
—Il principe di Lavandall è partito stanotte!
La notizia era vera.
Aurora gli aveva negata la sua mano.
Un anno era scorso da questo avvenimento, ed abbiamo visto come il principe Pietro di Lavandall, due volte respinto—una volta dal padre della fidanzata, una volta dalla fidanzata ella stessa—si fosse poscia deciso a cercarsi una moglie in un ospizio di trovatelli—senza consultare le inclinazioni della fanciulla.
Una zia del principe era venuta di Alemagna—ove era prima dama d'onore della regina di Würtemberg—ed aveva condotta seco la giovinetta in Lamagna.
La sovrana l'aveva nobilitata.
Di guisa che, un anno dopo la scena dell'ospizio di Londra, in tutta la Parigi aristocratica si ripeteva la notizia che il principe di Lavandall sposava la contessa Maud di Walenheim.
Il matrimonio doveva aver luogo a Parigi nella chiesa protestante della strada d'Aguesseau.
Tutto era pronto nel palazzo del principe, ove la zia aveva condotto la fidanzata.
Si terminava la toilette delle nozze. Gli amici, i parenti, riempivano i saloni. Il principe entrò nella camera della zia—ove Maud si teneva, attorniata da cameriere—e dimandò che lo si lasciasse un istante solo con costei.
La zia e le cameriere uscirono.
Maud si guardava intorno con un'intensa timidità.
Pietro la prese per le mani, la guidò ad un canapè, e, facendola sedere, cadde alle ginocchia di lei.
—Maud—diss'egli, riprendendo nelle sue ambe le mani dalla fanciulla—angelo mio diletto, ascoltami.
Maud provò a rialzarlo, senza rispondere. Il principe restò e continuò:
—Per soddisfare alle leggi del mondo, andremo a presentarci or ora innanzi ad un altare, ove un prete benedirà la nostra unione. Ciò vi lega, voi, perchè quel prete è il vostro; il Dio di quell'altare è quello cui voi adorate e che vi à fatto così bella. Io, non sarò legato…
—Perchè dunque, signore?—dimandò Maud timidamente.
—Perchè il dio mio è un altro che il vostro, ed il mio Dio non à sacerdoti. Ma gli è dinanzi a voi che io vado a prestar giuramento; io vado ad impegnare a voi la mia vita. Accettatemi contessa Maud di Walenheim.
—Mio signore, voi avete dunque obliato che mi tiraste dal Foundling hospice di Londra?
—Eh! che importa donde io vi abbia cavata, mio bell'angelo!—riprese il principe. Le creature come voi vengono dal cielo. Chi si preoccupa del luogo ove giaquero le perle e i diamanti che adornano il vostro collo? Io vi amo, Maud. Io vi amo tanto quanto una creatura sulla terra può amare.
—Grazie—sclamò la giovinetta in uno slancio di riconoscenza, levandosi impiedi e rilevando il principe. Voi mi date più che io non avrei giammai osato di chiedere, più che non avrei giammai osato sperare: grazie, grazie, grazie!
—Io non vi dò nulla—continuò il principe, portando le mani della fanciulla sul suo cuore—e non vi domando nulla ancora. Il mio nome, le mie ricchezze, il mio cuore, certo, nella bilancia del mondo meritano qualche considerazione. Per me, tutto codesto non à valore alcuno. Ma voi, vi siete voi dimandata, perchè io mi andassi a cercare in una terra straniera, fra le fanciulle abbandonate, la moglie a cui volevo dar il mio titolo, la mia opulenza, il mio amore?
—Sovente—rispose la giovinetta.
—E vi rispondeste?
—Io nono ancora nelle tenebre, e…
—E?
—O' paura, ma ò fede: temo, ma credo.
—Ebbene—sclamò il principe—il giorno in cui lo saprete, il giorno in cui dovrete giudicarmi, Maud, ve ne supplico a ginocchi, siate indulgente. Innanzi di pronunziare la prima parola che vi verrà alla bocca, fermatevi, guardate il cielo… e forse mi aprirete le braccia e direte: io vi perdono!
—Voi mi spaventate—mormorò la contessa tremando.
—No, figliuola mia. Imperciocchè voi non avete alcun delitto a perdonare, neppure una colpa.
—Ma allora?
—Allora vi sovvenga che potrete versare la felicità in una esistenza, riparare l'ingiustizia o il gastigo di Dio…e che vi amo. Sì, io vi amo.
—Oh! se potessi comprendere!—sclamò Maud con un movimento istintivo d'ingenuità.
—Se volete comprendere, e non credere, io mi spiego—rispose il principe con impeto. Ma ve ne supplico ancora, abbiate confidenza. O' voluto parlarvi per dimandarvi questa grazia. Io transigo sul mistero della vostra nascita. Abbiate pietà del dolore della mia vita.
Maud si tacque per due minuti, poi chiese:
—Voi nascondete dunque un segreto?
—Sì.
—Se io avessi una madre, glielo rivelereste voi?
—Senza esitare.
—E quale sarebbe la condotta ch'ella terrebbe in questo caso?
—Un padre mi rifiutò la mano di sua figlia.
—Che condotta, credete voi, terrei io stessa, se mi parlaste?
—Un'altra donna, in una situazione identica, mi respinse.
Seguì un momento di silenzio.
Maud bassò gli occhi, mentre i colori si alternavano sul suo sembiante. Poi, alzandosi di un tratto, ella disse con una grande solennità, quasi la fosse nata in un castello:
—Principe di Lavandall, voi avete richiesta la mia mano?
—La vostra mano oggi,—rispose il principe con una specie di sussulto—domani…
—Il domani appartiene a Dio, signore—replicò la giovinetta di un'aria ispirata. Principe di Lavandall, eccovi la mia mano.
—Grazie, angelo del cielo!—sclamò il principe al colmo dell'entusiasmo.
—Tutto ciò che una donna può impartire, principe di Lavandall, io ve lo dò. Divozione, fedeltà, sommissione, sacrificio, fede… io metto tutto ai vostri piedi. Voi m'introducete alla vita. La mia vita, a partir da oggi, vi appartiene. Entrando nel vostro focolaio, io non lascio nulla dietro a me—nulla, che dei vaneggiamenti! Voi siete tutto per me, passato ed avvenire, parenti e sposo, la terra tutta intera: mia madre!
—Basta, Maud—fece il principe. Voi obliate però una parola, fra tutto codesto. Ora, se questa parola, che voi obliate adesso, la ritroverete giammai nel vostro cuore, ditemela! perchè giammai un uomo non avrà tanto studiato di sì ben meritarla che me. L'amore non si fabbrica, nasce.
E dicendo ciò, prese la mano della sua fidanzata e vi appoggiò per la prima volta le labbra.
Poi entrò nel salone con lei.
Il viso del principe portava lo stampo di un grande esaltamento. I colori vi andavano e venivano come le onde sulle rive dell'Oceano. Un sudor freddo perlava la sua fronte. Le sue mani erano madide e ghiacciate. Un sordo tremolio alterava la sua voce.
Si andò alla chiesa.
Il principe sollecitava dello sguardo la fine dalla cerimonia. Il mondo gli turbinava d'intorno.
Gli sponsali compiuti, i suoi muscoli, la sua anima, si rilassarono. Il suo sguardo, sempre commosso, divenne più sereno; la sua respirazione più eguale. Stringeva la mano di sua moglie in una convulsione di inebriamento.
Il dottore di Nubo, che era naturalmente fra i numerosi invitati, e seguiva degli occhi ansiosi le alterazioni di quel viso, trovò modo di guizzare fino a lui e di susurrargli all'orecchio:
—State forte contro voi stesso; stecchitevi, principe, e ritornate all'istante a casa.
Il principe trascinò quasi sua moglie, e gittandosi nella sua berlina di viaggio—che li doveva condurre dritto nella Svizzera—ordinò all'intendente:
—Fate il giro dei boulevards esterni, e ritornate al palazzo.
Poi bassò le tendine e cadde ai piedi di Maud. Questa non capiva nulla a quell'agitazione, a quelle contraddizioni, ai contrordini. Agitata, sorpresa, aspettava.
Il tatto di quella mano di donna amata calmò il principe.
Egli non pronunziò una parola e s'inebriò degli sguardi druidici di Maud—la quale, a sua insaputa lo magnetizzava.
Il palazzo di Lavandall—ove il principe non era atteso, dovendo egli partire per la Svizzera uscendo di chiesa—era quasi vuoto. Pietro condusse la sposa nei suoi appartamenti e chiuse la porta.
Le otto scoccavano.
L'appartamento era rischiarato da un fioco riflesso di luna, che penetrava dai balconi. L'aria era imbalsamata del profumo dei fiori che riempivano le giardiniere.
Un silenzio completo e fitto regnava tutto intorno. Uno strato di neve, spolverato sugli alberi del giardino e sulle aiuole, faceva trovar delizioso il soave calore dell'appartamento.
La figura di Maud, tutta vestita di bianco; la sua corona di fiori bianchi sulla ricca capigliatura bionda; la pallidezza cui le cagionava una strana emozione; la luce bianchiccia della luna che cadeva a piombo su lei dall'alto di un balcone, le davano qualche cosa di fantastico. Era una delle più belle visioni che avessero mai sfiorato l'immaginazione di un poeta.
Il principe di Lavandall la contemplava con occhi febbrili, smarriti; era agitato da un brivido straordinario.
Il suo viso era contratto. Le sue labbra, di un pallore spaventevole. Egli aprì di un tratto le braccia; allacciò sua moglie in una stretta convulsiva; le dette il primo…l'ultimo bacio! sulle labbra. Poi, la dietrospinse con un'estrema violenza, facendo uno sforzo terribile per snodare le sue braccia dalla vita della giovinetta—che si sentiva scricchiolare le ossa, spezzare e soffocare.
Ella andò a cadere sur un divano. Egli stramazzò per terra, svenuto.
Stravolta, smarrita, Maud non pensò neppure a chiamar aiuto.
Aprì il balcone per dar aria.
Un raggio brillante di luna, che si sprigionava da due nuvole, bagnò il sembiante del principe.
Maud rinculò spaventata.
Quel sembiante sì nobile testè, quei lineamenti sì belli, erano accartocciati da un'orrida convulsione. Le labbra spandevano una schiuma livida e sanguinolenta. Gli occhi rotavano ferocemente nelle orbite. Tutto il viso si copriva di una pallidezza lurida, piombiccia, schifosa a vedere.
Il principe era epiletico¹.
¹ Questa malattia non fa tanto orrore in Italia, dove si è visto Pio IX, l'imperator Ferdinando d'Austria e Ferdinando II di Napoli portarla sul trono. Nel resto d'Europa, la è considerata nel senso d'irresistibile repugnanza orrore e disgusto con cui è pinta in questo racconto.
Maud, spaventata, andò a rifugiarsi in un attiguo gabinetto, e pregò.
Due ore dopo, il signor di Lavandall rinvenne in sè. Si guardò attorno: era solo in mezzo alla tenebre, e… vedovo!
—Vedovo!—sclamò egli infatti, cercando dello sguardo e del desiderio la moglie.
E ricadde nel parossismo.
III.
Al castello di Lavandall.
Il giorno che seguì la scena cui abbiamo raccontata, il principe fece dimandare alla consorte se poteva riceverlo.
Maud aveva passata la notte—la sua prima notte di nozze—accoccolata sur un canapé nel boudoir. Le sue cameriere la avevano rilevata, all'alba, agghiadata di freddo e di orrore.
Un bagno caldissimo, qualche ora di riposo, le avevano poscia restituito un po' di calma. Ma il suo spirito era tuttavia sotto il peso dello spavento.
Quando le si annunziò la dimanda di suo marito, un tremor sordo la convulse.
Era alzata. Le sue cameriere, stupefatte ed intrigate dal mistero di quella strana notte, la circondavano.
Maud fece rispondere al marito che era pronta a riceverlo, e rinviò le fanti.
Tranne il pallore un po' più intenso, lo sguardo un po' più vago, la pupilla un po' più larga e fosca, e l'andare un po' più affranto, alcun'altra traccia non restava della crisi della notte sulla persona del principe. Era ridivenuto quel giovane calmo, bello, dalle maniere eleganti, che seduceva il mondo.
Vestito come per una visita di mattino ad una persona estranea, guantato, cappello in mano, e' si avanzò di un'aria serena e grave nel boudoir di sua moglie.
La principessa si levò.
Il suo primo movimento fu di rinculare di un passo. Poi, si precipitò incontro a lui.
Il principe la salutò rispettosamente, e, prendendola dalle punte delle dita, la ricondusse al canapé. Rimarcò che la tremava tutta.
—Madama—disse egli, dopo alcuni istanti di silenzio, unicamente turbato dal sibilo della respirazione commossa,—madama, io vengo a prendere i vostri ordini. Sono costretto a partir oggi stesso pel castello di Lavandall, ove mia madre mi aspetta da qualche giorno, ed ove mio fratello arriva stasera. Vengo a dimandarvi ciò che meglio gradite: se ritornare a Londra, restare a Parigi o permettermi di offrirvi l'ospitalità nella mia dimora.
—Monsignore, rispose Maud, tremando sempre e biascicando—ciò che vi dissi ieri, non lo ritratto oggi. Sono la vostra consorte, vi seguirò dappertutto.
Il principe salutò e si tacque un momento. Poi riprese:
—Madama, la vita al castello di Lavandall è ben triste, sopratutto monotona.
Maud sorrise malinconicamente.
—Un immenso edificio di granito grigiastro, addossato ad una montagna sterile, spaziando sur una pianura immensa, alberata, traversata da un fiume dalle acque terrose, circondato da villaggi con contadini più o meno infelici… ecco il castello!
—Io amo le montagne, amo i boschi, amo i fiumi, amo i disgraziati—rispose Maud, bassando gli occhi. Amo sopratutto la solitudine.
—La vita che si mena in quella magione—continuò il principe—è delle più lugubri. Il signore del luogo detesta e disprezza il mondo; lo fugge per conseguenza. Di visite, rarissime. Giammai feste. Non cacce. Qualche passeggiata solitaria. Sempre il silenzio. Gli stranieri potrebbero dire che la è dimora del rimorso. Altri sanno che la è il coviglio del dolore.
Maud si alzò come spinta dall'impeto di un sentimento generoso.
Il principe restò assiso e freddo. E continuò:
—Voi vedete, madama, che vi condannereste al più squallido dei chiostri, scegliendo quella residenza.
—La scelgo—rispose Maud, risedendo lentamente.
—Sola, straniera sur una terra straniera, in mezzo a stranieri, ecco, madama, ciò che voi sarete nel castello di Lavandall—soggiunse il principe, alzandosi a volta sua. Io parto stasera. La vostra servitù attende i vostri ordini, madama, per partire o restare, per seguirvi dovunque. Il mio notaro vi comunicherà, madama, che da domattina vi è una pensione di 200,000 franchi di rendita annua, costituita in vostro favore.
—Vi ringrazio, signore—rispose Maud con fierezza, raddrizzandosi sulla persona. Io non posso accettarla. Il mio posto è assegnato al vostro focolaio. Esso sarà così esiguo che io potrò farmelo; ma vi resterò—finchè non me ne avrete scacciata. Dio mel comanda.
—Sta bene—rispose il principe. Addio, madama. Non vedrete più nulla che possa cagionarvi ripulsione.
E così parlando, senza aspettare risposta, salutò rispettosamente ed uscì.
Maud lo seguì degli occhi; poi si accasciò sul divano e pianse.
Il principe partì la sera alle sette, non menando con sè che il suo vecchio intendente, il quale da quindici anni conosceva tutti i suoi segreti.
Maud diè congedo alle cameriere che l'avevano trovata la mattina in così lagrimevole stato, e partì la sera stessa, alle otto, accompagnata da quella fanciulla inglese, cui il principe le aveva dato quando la tirò dall'ospizio, e che le si era affezionata. Ella condusse seco altresì un maggiordomo, anche inglese, che l'aveva seguita da quell'epoca.
Quindici giorni dopo, il principe e la principessa di Lavandall entravano insieme al castello. Il principe aveva aspettato Maud ad una giornata di distanza dalla sua residenza.
Ora, quella residenza non era poi così tetra e desolata come il principe l'aveva dipinta a sua moglie. La si sarebbe detta, al contrario, un castello reale.
Era tutta costruita in marmo rossastro, vasta, ornata di terrazze che sporgevano sur una immensa campagna, bellissima. L'attorniavano dei bei giardini con ricche stufe. La popolavano un centinaio o due di servi. I mobili erano di un gusto squisito; le tappezzerie ricchissime; i quadri preziosi; le curiosità senza numero: tutto scelto, insomma, con intelligenza, gusto e conoscenza.
Una foresta di dieci leghe di diametro, ove serpeggiava una riviera dalle acque malinconiche e chiare, era gremita di laghetti, come dei pezzi di argento gittati sur un verde tappeto.
Il castello dominava, a parecchie leghe d'intorno, un numero di piccoli villaggi, con dei chalets dallo stile bisantino, chioschi e minareti di stagno, che risplendevano all'aurora ed al tramonto come guglie di oro, quando il sipario della nebbia, ondulata come i cavalloni del mare, si diradava.
Il clima era dolce. Il cielo profondo e sereno. L'aria pura. La contrada poco montuosa, ma non monotona. Perocchè una vegetazione vigorosa, animata, da parecchi corsi d'acqua, carezzava lo sguardo per una verdura graduata di tutte le tinte.
Un corriere aveva annunziato l'arrivo del signore. Tutti erano dunque in trambusto, e trenta mila fiaccole di legno resinoso rischiaravano la via al principe ed alla principessa, in mezzo ai loro servi, schierati su due file.
Il conte Alessandro venne loro all'incontro.
Erano parecchi anni che i due fratelli non si erano visti, benchè si scrivessero ogni settimana, l'uno per raccontare le sue imprese alla corte di Nicola, l'altro per minutare la storia della sua anima.
Io dico la storia della sua anima, imperciocchè il principe Pietro non partecipò mai nè a sua madre, nè a suo fratello, l'istoria dei suoi matrimoni naufragati, nè la storia di Maud.
Questa fanciulla era per tutti (la zia di Alemagna e la regina di Würtemberg tranne) la contessa di Walenheim.
Non appena i due fratelli si scorsero, balzarono di vettura e caddero l'uno nelle braccia dell'altro.
Restarono qualche minuto così, senza dir verbo.
Infine, Alessandro richiese suo fratello di essere presentato alla principessa.
Maud, imbaccuccata in una calda e ricca pelliccia, si teneva rannicchiata in uno spigolo della carrozza. Un raggio di Luna, a traverso i cristalli degli sportelli, le aleggiava sul viso e ne accresceva la pallidezza. Aveva l'aria di una visione.
Quando il principe aprì lo sportello per presentarle suo fratello, un fiotto di luce delle fiaccole, che circondavano la vettura, la inondò. La visione sembrò arrossire. Un hourrah! eclatante corse su tutta la linea, mentre il conte Alessandro diceva di una voce commossa:
—Permettete, madama, al primo dei vostri vassalli di baciare la vostra mano.
Quella mano era ghiacciata e tremante.
Alessandro la sentì a traverso il guanto.
Maud rispose semplicemente:
—Grazie, fratello!
Ma i due fratelli avevano tante cose a dirsi; Alessandro aveva tanti complimenti a fare a Pietro sulla bellezza della sua consorte; bruciava tanto di comunicargli tutt'i suoi progetti, tutti i suoi favori alla corte, sopratutto dello tzar… Il principe entrò nel coupé del fratello, e Maud continuò il suo viaggio sola.
Ciò colpì Alessandro. Si astenne però di esprimere alcuna osservazione.
La loro madre li aspettava sotto la marquise del verone, fra un esercito di lacchè e di servi che riempivano l'aria di acclamazioni.
La vista di Maud li abbarbagliò tutti.
E per questa semplice ragione, la giovane principessa spiacque alla vedova suocera.
Il principe condusse Maud nell'appartamento di lei, per riposare, per prepararsi al banchetto ed alla festa di notte che li aspettavano.
Entrando nella camera da letto, i loro sguardi caddero sur una lettera, in un vassoio d'oro, sopra una piccola tavola di malachite. Il principe, credendo che quella lettera, la quale li attendeva, fosse a lui destinata, la prese. Però, leggendo che l'indirizzo portava il nome di Maud, gliela rimise.
Questa l'aprì sbadatamente.
Era una lettera di mistress Grown, che ne conteneva un'altra.
Maud l'aprì, lesse e barcollò.
Il principe rimarcò tutto e non profferì verbo.
Maud gli porse allora ambo le lettere.
Il principe non lesse quella di mistress Grown. Lesse a mezza voce l'altra, concepita così:
«Se un dì sarete svanturata ed avrete bisogno di aiuto, scrivete ogni primo giorno del mese a mistress Evelyn March, fermo in posta, a Londra, e sarete protetta. Siete amata, avvegnachè sembriate abbandonata.»
Il principe salutò sua moglie, restituendole la lettera, senza soggiunger motto, ed uscì.
Maud gettò la lettera nelle fiamme del focolaio, e, malgrado lei, scattò fuori dal suo petto come un grido:
—È troppo tardi!
Il principe l'udì, e volse la testa per osservare sua moglie.
Ella contemplava quasi con gioia la distruzione di quel foglio di carta, che la rallegava ad un mondo sconosciuto.
Il principe portò ambe le sue mani al volto, e scomparve dicendo:
—Povero me!
Noi passiamo oltre la descrizione delle feste.
Lo tzar Nicola e la tzarina mandarono un monille di diamanti alla giovane sposa, ed un invito pel castello dell'Hermitage.
A cinquanta leghe intorno, la nobiltà russa venne a visitare la nuova castellana, e tutti si accomiatarono incantati. Perocchè non è mestieri di dire che la storia misteriosa di questi due martiri restò sprofondata nei loro cuori.
Il carattere del principe Pietro non sorprese alcuno. Alla Corte stessa dello tzar erasi favellato dei suoi gusti da scienziato e della sua capacità; ciò che aveva occasionato il rumore, lo tzar lo avesse in vista per un posto diplomatico. Ma se tutti—e la vecchia principessa ella stessa—s'ingannarono, vi eran ben due occhi, i quali, non fissandosi mai sovra alcuna cosa, vedevan tutto e vedevano a fondo.
Un mese scorse.
Esso era sembrato un'eternità alla vecchia principessa, che l'aveva passato mezzo a sbadigliare, mezzo a correr dietro al suo giovano marito. Il quale, a volta sua, correva dietro alle giovani contadine del principe, quando non era ubbriaco. Questo soffri-amore di una civetta di cinquantatre anni, imbalsamata di divozione e d'ambizione, avrebbe destato pietà, se non fosse stato ridicolo.
Non avendo dunque ad esercitare nè l'ambizione, nè la civetteria, nè la divozione a parata, in quel tetro castello di Lavandall—ove un giovane sole esso stesso spegnevasi—la principessa Antonietta parlò di ritorno a S. Pietroburgo, onde assistere alle ultime feste della stagione.
Il suo figlio primogenito non la ritenne.
Il suo figlio cadetto la sollecitò a partire, promettendole di andarla presto a raggiungere.
Ed il conte polacco la rapì quasi, vedendosi sorvegliato da vicino—in questa residenza di provincia—dal suo terribile dragone.
Partirono.
Alessandro restò.
Chi lo ritenne?
L'affezione per suo fratello.
Egli ignorava la ragione delle cose; ma aveva tutto indovinato: l'amore del principe per sua moglie; la pietà di Maud per suo marito; la loro vita solitaria e separata, in quell'appartamento che simboleggiava agli sguardi del mondo un nido di amore. Alessandro aveva intravisto che un abisso divideva questi due esseri, cui scorgevansi traversare insieme il cammino della vita.
Una circostanza però gli porse ben presto il filo di Arianna del mistero che lo investiva.
Dopo la cessazione delle feste e la partenza della vecchia principessa, la calma rientrò nel castello di Lavandall. E' non vi risuonava oggimai che una voce: quella del conte Alessandro. Non altro movimento lo turbava che quello cui vi portava il giovane conte con le sue cacce perigliose, le sue escursioni nelle vicinanze, i suoi fucili, i suoi cani, i suoi cavalli, i suoi compagni di piacere, i quali venivano a prenderlo od a tenergli compagnia.
Maud passava come un'ombra bianca e silenziosa in mezzo alla calma, o piuttosto al vuoto, che si allargava intorno a lei più sempre e poi sempre.
Non eravi attenzione minuta, prevenenza ch'ella sparmiasse a suo marito. Indovinava i desiderii di lui ed andava loro incontro. Faceva dei miracoli per imparare certi pezzi di Bellini e di Donizzetti, i quali le era sembrato toccassero di più il principe nei suoi viaggi per Francia ed Italia. Ed ogni sera, dopo il thè, ella lo prendeva dolcemente per la mano, si slanciava al piano, e gli modulava, a voce bassa, per lui solo solo, l'aria che aveva discifrata nel dì.
Ella divorava la notte i poeti, per recitare a suo marito gli squarci i più belli, nelle loro rare passeggiate sulle terrazze del castello, od accanto al fuoco, la sera. Ella studiava le scienze naturali, onde avere un obietto di conversazione che sembrava più gradevole al principe. Ella sapeva far nascere sul suo sembiante un sorriso che non era nella sua anima, per offrire un raggio di aurora a quella notte.
Gli è vero che nel suo sguardo Maud portava più sollecitudine che tenerezza; che dalla sua conversazione la parola amore era esclusa; ch'ella non fece giammai un segno per incoraggiar suo marito a rompere la cerchia terribile cui aveva scavata intorno a lei la sua prima notte di nozze; ch'ella non fece giammai un'allusione tenera per alleviare il supplizio di quel Tantalo; ch'ella non indicò giammai la via del cielo a quel dannato. Però, se si fosse scandagliata l'anima della giovane donna, vi si sarebbe forse trovato più timidezza che avversione.
Il principe le ispirava paura e pietà.
Se l'orrore non vi si fosse mischiato, l'amore vi si sarebbe guizzato.
Il principe, dal lato suo, non provò di nulla per favorire le proferte di sua moglie, i primi passi. Egli l'amava alla follia, e perciò appunto si mostrava più inesorabile. S'immergeva nella solitudine e nello studio. Correva i boschi a cavallo, seguito unicamente da Ivan (il servo fedele, che non lo aveva abbandonato da quindici anni), esecrando la vista delle umane creature, involandosi a sovvenenze che lo stringevan di presso, fuggendosi, fuggendo, reprimendo forse i rimorsi di non aver parlato, come parlato aveva ad Aurora Mortier, prima del matrimonio.
Egli cercava sottrarsi alla febbre dei desiderii che lo bruciava; scappar forse a suo fratello, la di cui gaia e sana giovinezza lo gittava in un vortice di delirii.
Il principe avrebbe voluto obliare, e si sentiva di più in più attirato, con una vertigine spaventevole, dagli oggetti ch'ei si sforzava di estirpare dal suo cuore e dalla sua memoria.
Maud lo fascinava.
Alessandro lo inteneriva.
Il principe passava le sue giornate nella biblioteca del castello, toccando a mille libri e non leggendone alcuno.
Parlava poco, talvolta con durezza, con ironia sempre. Ascoltava Maud distratto; suo fratello, attentamente. Egli spiava sempre, intento all'incognito, all'assente, a quello che sbrigliava la bufera nel fondo dell'anima sua ed aleggiava negli spazi infiniti. E' non sarebbe stato che una mente malata, se la prudenza, il soffio sì vicino, la vista sì abbagliante della sua giovane sposa—che gli svolazzava intorno come una nera farfalla—non lo avessero briacato di una demenza sensuale.
Quinci la sua malattia s'inciprigniva.
Quando e' la sentiva approssimare, sia che fosse nella sua camera da letto, o nel suo gabinetto, o nella sua biblioteca, egli toccava un campanello, in un modo convenuto, ed Ivan accorreva ed asserragliava le porte, ove egli restava a guardia fino a che la crisi non si fosse dissipata.
La consegna era inviolabile.
Ora, egli avvenne un giorno che il conte Alessandro avesse urgente uopo di parlare a suo fratello. Ne andò in busca alla biblioteca, ove recavasi di ordinario dopo l'asciolvere. Alessandro incontrò Ivan alla porta.
—Il principe è qui, Ivan?
—Sì, padrone.
—Apri.
—Non si entra, padrone.
—È egli solo?
—Solo.
—Lavora dunque?
—No.
—Apri.
—Impossibile, padrone.
—È per suo ordine?
—Padrone, sì.
—Che fa egli dunque?
Ivan si tacque.
Alessandro riflettè, poi soggiunse:
—Cotest'ordine riguarda me solo?
—Gli è per tutti, padrone.
—Anche per sua moglie?
—Padrone, sì.
—Ma egli non è ammalato, m'immagino, Ivan?
Ivan non rispose.
Alessandro riflettè, poi domandò:
—Posso tornare più tardi?
—Forse, padrone. Ma gli è meglio che non rivenghiate.
—Che cosa è codesto mistero?
Ivan tacque.
—Gli è la prima volta che mio fratello ti dà quest'ordine?
—L'è una consegna per certe circostanze.
—E se forzassi la consegna, Ivan?
—Padrone, bisognerebbe uccidermi prima. E poscia non sareste contento di essere entrato.
—Ne sei tu sicuro?
Ivan restò silenzioso.
—Me ne lamenterò a lui, Ivan, e tu sarai punito.
—Voi gli fareste della pena, padrone.
—Ma se la principessa volesse entrare, glielo impediresti tu veramente?
—A lei più che a tutt'altri padrone.
Alessandro si allontanò, pensieroso, ed uscì nel giardino.
Maud vi passeggiava.
Essi s'incontrarono di un tratto al gomito di un viale. Per un movimento istintivo, entrambi fecero un passo indietro onde evitarsi. Poi, arrossendo entrambi, si avanzarono vivamente l'uno all'incontro dell'altra, e si stesero la mano.
Seguì un momento di silenzio, camminando sempre verso la porta a vetri che immetteva in una sala del castello. Alessandro sforzandosi a ridere, disse infine:
—Cognata, io m'immagino che Pietro è in via di scoprir l'elexir della giovinezza eterna, perchè egli à piantato alla porta della sua biblioteca il suo cerbero Ivan, ed alcuno non entra.
Maud ebbe un brivido che non sfuggì agli occhi dei conte Alessandro.
—Io sono stato or ora mandato via—continuò egli—E se voi vi andaste, cognatina, avreste la stessa sorte. Me ne sono informato.
—Io non vi andrò, no—gridò Maud, di una voce che denunziava il terrore.
Maud non aveva parlato mai di suo marito con suo cognato. Ella ignorava dunque se questi conoscesse o no il segreto della malattia di lui. Ella aveva però sospettato talvolta che il fratello e la madre dovessero tutto sapere.
—Allora, voi siete a giorno di ciò che egli fa—riprese Alessandro con calma. Non parliamone più.
—Ma voi, voi non sapete dunque nulla?—dimandò Maud con ansietà.
—Che dunque, cognatina?
Maud scoppiò di un tratto in una esplosione di lagrime, e fuggì al suo appartamento.
Alessandro restò a piè del verone, come una statua. La sua immaginazione batteva i campi a ragione di cento mila leghe al minuto.
Una mano si poggiò sul suo braccio.
Il principe—rimesso dell'accesso—si era trascinato al balcone della biblioteca per rianimarsi al soffio di una giornata di maggio. Aveva visto sua moglie e suo fratello passeggiare. Non aveva udito la loro conversazione. Ma lo scoppio di lagrime e la fuga precipitosa di sua moglie lo avevano colpito. Uscì dunque e venne a suo fratello.
Questi, sempre assorto, non lo guardò e si lasciò condur via, dietro un ciuffo di arbusti, ove erano dei sedili di marmo.
Il principe si assise, in faccia ad un raggio di sole di pieno meriggio.
—Alessandro, cosa ài tu detto a Maud per farla piangere e scappar via così precipitosamente?—dimandò egli di una voce calma e sorda.
—Che tu non avevi voluto ricevermi… Ma che è dunque?—gridò Alessandro prendendo suo fratello fra le braccia. Mio Dio! che è dunque? Come sei pallido? come i tuoi lineamenti sono alterati! i tuoi capelli sono irti sul capo; i tuoi occhi smarriti, stravolti!… Dio mio! Dio mio! la tua camicia, la tua bocca, la tua barba sono macchiate di sangue… Pietro, Pietro… cosa è dunque, fratello mio?
—Nulla, Alessandro—rispose il principe provando di sorridere. O' avuto un terribile mal di denti ed ò tentato strapparne uno… senza riescirvi. Le gengive àn sanguinato… Calmati… e grazie.
—Pietro…—sclamò Alessandro, fissando il suo sguardo scrutinatore sul fratello, con un accento di rimprovero. Pietro, tu mi nascondi un segreto ch'altri conoscono, perfino un servo. Io credeva che tu mi amassi.
Pietro cacciò il capo nelle braccia del fratello, e non rispose altrimenti che per un singhiozzare represso.
Alessandro se lo strinse vivamente sul cuore e lo baciò sulla fronte, senza turbare il suo silenzio. Infine, il principe si raddrizzò bruscamente, e, prendendo il braccio del fratello, sclamò:
—Io non voglio involare alla provvidenza l'ufficio di fare dei miseri. Maud sorprese il mio segreto… e tu l'ài vista piangere. Tu pure, sarai tu un giorno testimone della mia miseria, ed il dolore entrerà nel tuo cuore. Non anticipiamo nulla. Il cordoglio arriva sempre troppo presto.
E dicendo ciò, e' tornò di un passo frettoloso nel suo appartamento, e vi si rinchiuse fino all'ora del pranzo.
A tavola si vide l'uomo consueto, calmo, composto, elegante… La procella era passata, non lasciando altro guasto che quelli cui essa aggiungeva ogni dì nel cuore più che nel corpo dello sventurato.
Alessandro però era stato profondamente colpito da quelle mezzè rivelazioni della giornata. Egli dava la caccia alle supposizioni le più stravaganti, ma sempre lontane dal vero.
E' non si abbassò ad interrogare Ivan.
E' rinunziò a comprendere suo fratello.
Egl'intraprese ad osservare sua cognata.
Alcuno non nasconde un segreto come una donna. Però, se il suo cuore vi è implicato, ella à inevitabilmente dei momenti di abbandono in cui si tradisce.
Se il giovane conte fosse stato un acuto psicologo, le sue osservazioni avrebbero presto messo capo ad un risultato. Ma il conte Alessandro non aveva persistenza nella sua analisi. Imperciocchè egli cominciava sempre per mettere innanzi il cervello, e lo trovava poi sempre distanzato dal cuore.
Lo studio di Maud era, gli è vero, fascinante. Ma forse, pure il conte Alessandro non fece nulla per scongiurar la magia.
Nell'esploramento di questa miniera misteriosa di un'anima, e' non rivenne che diamanti: la purezza, l'ingenuità, il candore, l'affezione, la divozione, la pietà, la tenerezza…. Maud cantava tutta la solfa della virtù per quel filosofo di venticinque anni, il più bel giovane dell'impero russo—«dopo l'imperatore» soggiungevano i cortigiani.
La bellezza di Maud era irresistibile. L'insieme lo aveva impressionato a prima vista. L'esame dei dettagli lo esaltava adesso.
E' si proponeva di sorprendere negli occhi di sua cognata il secreto della desolazione di lei… e si vedeva nascere l'iride! Egli sperava strapparle dalle labbra la parola del mistero… e vi vedeva pullulare baci che dimandano le ali! E' scandagliava la pallidezza di quel sembiante… e vi scorgeva la trasparenza! E' si aspettava a ritrovar su quella fronte le stigmate dell'ambascia… e vi leggeva l'elevazione della preghiera! La desolata si cangiava in fata; la fata cingeva l'aureola di una santa.
Che distanza dalle voluttuose bellezze che l'avevano inebriato alla corte di Pietroburgo! Queste gli inoculavano la febbre; Maud, l'estasi.
Maud metteva in evitare suo cognato la sollecitudine cui questi metteva ad incontrarla. Ella non usciva sola nel giardino, nel parco, a cavallo, in visita per soccorrere ai bisogni dei suoi servi, che quando il conte Alessandro era partito per la caccia o in visita presso i vicini. Ella voleva sfuggire le spieghe ulteriori sul conto di suo marito: ecco tutto.
Aveva dessa compresa altra cosa?
Ella aveva potuto avere un'intuizione, un sogno forse; ma non altro indizio che questi.
Ah! se ella avesse potuto interrogare suo marito che era sì penetrante!
Che abisso, infrattanto, in questo povero cuore torturato!
Il principe di Lavandall diveniva ogni giorno più misantropo. Gli era perchè gli accessi della sua malattia, lungi dal distanzarsi, si rapprossimavano?
Ogni qualsiasi cosa lo stancava adesso. Ogni piccola emozione lo scuoteva, al punto ch'ei non poteva più tollerare le corte conversazioni accanto al fuoco, dopo il desinare, ed i bricioli di musica cui Maud gli regalava all'ora del thè, come per lo avanti.
Adesso, dopo il pranzo, il principe si ritirava nelle sue stanze.
Maud lo imitava.
Il conte Alessandro passava le sue serate come poteva.
Talvolta però, alzandosi da tavola, il principe diceva al fratello:
—Vuoi che andiamo a prendere una tazza di thè da lei, se non la scomodiamo poi troppo?
L'invito era un gaudio per il giovane conte; un ordine per la moglie. Ma la riunione non si prolungava mai al di là delle nove.
Maud ed Alessandro vedevano bene che la salute del principe si alterava di peggio in peggio; che lo spirito di lui era più colpito, che la melanconia lo divorava.
Un giorno, Alessandro gli propose di fare un viaggio in Francia; andare alle acque in Germania. Gli occhi del principe corruscarono, e non rispose.
La vita diveniva intollerabile. Ora, se Maud aveva il dovere di subirla e l'abitudine di soffrirla, quali erano le ragioni—dimandavasi il principe—per le quali il giovane conte vi si sottometteva? Perchè non ritornava egli alla corte, piuttosto che proporre distrazioni di viaggio? Che interesse aveva egli a restare in quel soggiorno di cordoglio e di ombre—lui cui le feste invocavano, cui l'amore agognava, cui il favore del sovrano attirava?
Il principe Pietro trovavasi una sera sotto l'imperio di queste riflessioni, prendendo il thè da sua moglie, in compagnia di suo fratello, quando e' credette sorprendere, e sorprese di fatto, uno sguardo di intelligenza in fra le due giovani persone.
Lo sguardo del conte era intenerito; quello di Maud, spaventato.
E si facevano segno.
Il fatto è che la fisonomia del principe si scomponeva a vista; che i suoi occhi addiventavano orribilmente stralunati; che un pallore cinereo si diluiva sul suo sembiante; che la sua bocca contorcevasi; ch'e' tremava tutto; che sforzavasi di aggraffarsi alla tavola, al seggiolone; che, una parola agonizzava a rantolo nella sua strozza.
Maud diceva degli occhi al conte: chiamate Ivan!
Il conte si sentiva il cuore compreso di una pietà senza limite per suo fratello, cui egli tanto amava e cui vedeva tanto soffrire.
Il principe colse quello sguardo e cadde di peso sul solare, innanzi che suo fratello gli aprisse le braccia.
Maud gettò un grido di terrore e fuggì.
Il conte Alessandro possedeva adesso il segreto di quel disastro di famiglia. Egli rilevò suo fratello che si dimenava nelle convulsioni, e lo depose sur una dormeuse. Poi e' corse a chiudere gli usci, e fece chiamare Ivan.
Ivan venne. Ed ambo assistettero con amore la povera creatura perduta in tanta sciagura.
Alessandro restò presso di suo fratello tutto il tempo che le convulsioni durarono. Quando però la crisi si calmò, e' si ritrasse, onde non umiliarlo di sua presenza al ritorno dei sensi. Egli entrò nel gabinetto vicino, per sortire, e si fermò sulla soglia.
E' vide Maud a ginocchio, che pregava, suffusa, annegata nelle lacrime, gli occhi rivolti al cielo.
Il conte non seppe dominare la sua commozione. Fece un passo verso di lei, le cadde accanto in ginocchio e prendendole la mano gliela baciò.
Quel bacio era una rivelazione, una confessione, una catastrofe: esso risuonò.
Il principe sentillo ribalzare sul suo cuore, e levò la testa—sotto il peso ancora della mano della malattia.
E non potè sollevare il suo corpo. Ma e' vide suo fratello traversare la camera, senza volger la testa dal lato suo, e partir precipitoso.
IV.
Le spiegazioni.
Una settimana passò.
Il principe non uscì dai suoi appartamenti. Altri che Ivan non vi fu ammesso. A Maud e ad Alessandro, che andavano ogni giorni a chiedere nuove di lui, il laconico guardiano rispondeva invariabilmente:
—Meglio, ma non ancora in istato di ricevere.
Infine, un mattino, quando il conte si presentò per udire il bollettino ordinario sulla salute di suo fratello, Ivan gli disse:
—Il principe sta bene. Egli è uscito or ora a cavallo, e vi prega, padrone, di andarlo a raggiungere nello sboscato del lago.
—Non à detto altro?
—No, padrone.
Alessandro uscì, preoccupato.
Qualche minuto dopo saliva a cavallo.
Era una bella giornata in sul finire di maggio. Faceva ancor freddo come in febbraio a Palermo, ma la neve aveva fuso. Gli alberi delle foreste si coprivano di giovani foglie. Il sole svestiva le sue ultime nuvole e si alzava sereno e pomposo. Le viole smaltavano le macchie. Gli uccelli, disgelati, provavano melodie—per accertarsi che il freddo del verno non li aveva arraucati. Il cielo era puro, ma di un turchino grigiastro, ove una brezza tagliente ed uggiosa sforzavasi a connettere dei lembi di nuvole bianche.
Le bestie, magre e sporche, che aveano passato l'inverno negli stabbi, covavano i campi e la foreste di uno sguardo gaudioso, tosando qui un ciuffo di giovani erbe, decapitando là le cime degli arbusti. Il contadino, la contadina, sollecitavansi a dimandare alla terra la sussistenza del nuovo anno. Tutto spirava la giovinezza, la gioia, la pletora della vita che spandesi al di fuori. Un soffio di amore avviluppava la creazione, che sembrava palpitare e sorridere.
Un uomo solo trascinavasi quivi, tetro e freddo come le notti della Siberia: il principe di Lavandall.
Egli aveva legato il suo cavallo ad un cespo, ed erasi assiso sur un tronco di albero, alle sponde del lago.
Il lago azzurro corruscava, sotto i raggi del sole, come un monile di diamanti alle faci di una festa. Il principe contemplava il respirare delle onde; ma non scorgeva nulla. Imbaccucato in ampia pellicia, egli meditava, o piuttosto continuava il vaneggiamento che l'assorbiva da otto giorni. E' non si accorse neppure dell'arrivo di suo fratello.
Il conte Alessandro, da che scorselo da lontano, accelerò il passo, discese da cavallo, ed avanzò verso il principe, gridando:
—Eccomi qui, Pietro.
Il principe fece una mossa come qualcuno che si risveglia di soprassalto, e fissò il suo sguardo freddamente violento e acuto sul sembiante aperto del giovane.
Il conte gli aveva tesa la mano.
E' non toccolla.
—Pietro—disse il conte un po' sconcertato dell'attitudine sinistra di suo fratello—mi avete fatto avvertire di venirvi a trovar qui. Sono felice di vedervi.
E stese di nuovo la destra, cui il principe si astenne dallo stringere.
—Conte Alessandro di Lavandall—sclamò egli infine di una voce lenta e cavernosa—avevate desiderato di conoscere il mistero della mia vita. L'avete conosciuto; l'avete visto.
—Fratello—mormorò il conte mettendosi le mani sul volto—io ne sono annientato.
—Io pure—continuò il principe senza porre mente alle parole del fratello—io pure, io, voleva sapere. O' saputo; ò visto.
Alessandro impallidì e traballò.
—Ebbene—soggiunse il principe—poichè vi aveste il malanno di avvicinare le vostre labbra a questa coppa di fango e di lagrime, cioncatela tutta, fino alla belletta. Sappiatevi il resto.
Alessandro incrocciò le braccia sul petto, e restò impiedi, lo sguardo al suolo, l'aria costernata.
—Io sono un misero—sclamò il principe di una voce sorda e concentrata. A venticinque anni, colmo di tutti i favori della fortuna, io desidero la morte. Mi dicono avvenente; son di gran nascimento; sono ricco… e fo orrore! Io invidio la sorte del mendicante ebreo, cui i cani mordono all'uscio nostro: e' non è che povero! Io mi ebbi bello ad interrogare la scienza. Questa cortigiana, non à sorriso per la sventura. Essa civetta con le piccole malattie. Biascica nonsensi, in presenza di quei castighi fatali che si addimandano tisi, apoplessia, epilessia, gotta, ed il resto. Mi son tuffato nello studio, nelle feste, nei viaggi, nei pericoli i più insensati, onde, almeno, obliare. In capo a tutto ò trovato quest'orrido spettro… Ed il mondo sclama sul mio passaggio: che à dunque fatto quest'uomo alla Provvidenza per strapparlo lo scrigno delle felicità?!
—Ah! se sapessero!…—mormorò Alessandro.
—Proprio così; perocchè, quando si seppe, il ritornello cangiò. Il tempo delle prove arrivò. Pensai ad ammogliarmi.
Alessandro abbrividì.
Il principe avvertì quel sussulto.
—Incontrai nei saloni di Parigi una stolidella, figlia di un conte mendicante, debosciato, spia della corte di Roma, strumento dei gesuiti. Io non avrei voluto toccare della punta delle dita la donzella, della punta dei piedi il padre. La chiesi in matrimonio e feci la corte al sacripante. Tutto vola sulle ali di oro, cui io appicco all'affare, e gli sponsali si fissano. Io condussi il padre nel suo gabinetto, e gli dissi:
«—Conte, ò un segreto a rivelarvi.
«—Che dunque?—sclamò il facchino—Sareste voi che avete ucciso l'imperatore Alessandro?
«—E se ciò fosse?—risposi io, facendomi violenza per non schiaffeggiarlo—mi rifiuteresti voi la vostra figliuola?
«—Io direi—replicò il conte—uccidete lo tzar Nicola…. Questo cancella quello. E vi consegnerei mia figlia.
«—Voi mi confortate—ripresi io con un sorriso di sprezzo non dissimulato. Ma io sono meno colpevole di così. Il mio segreto è questo: io sono epilettico.
Il conte si alzò e salutò.
«—Principe mio—diss'egli—se io avessi a fare ad un borghese arricchito, ad un plebeo liscivato alla savonnette à vilain, a cui io avessi promesso mia figlia per ragione dei suoi scudi, io direi: Puah!—E chiamerei il mio lacchè per ordinargli: Riconduci il signore!
«—Bene—sussurai io fremendo—ed a me che dite voi, signor conte?
«—Principe—continuò egli—voi sapete che io non amo mica mia figlia alla follia. Malgrado ciò, io ò la coscienza di dirvi: principe, permettetemi che io ritiri la mia parola. L'epilessia in Francia fa orrore. Essa è considerata come una malattia ridicola ad un tempo che sordida.»
—Noi non seppimo mai nulla di codesto—osservò Alessandro.
—Vel celarono. Tutta Parigi conobbe che io aveva toccato un rifiuto da quel conte alle piccole limosine. Viaggiai. Conobbi a Roma un'altra giovinetta. Ella era bella, figlia del popolo, artista, senza pregiudizi, povera, piana di spirito…. Al posto mio, altri avrebbe provato di farsi di lei una ganza. E perchè no? Kaunitz diceva a Maria Teresa: che ogni donna diviene ganza dell'uomo che può sborsarne il prezzo. Io aveva il prezzo di Aurora Mortier. La dimandai, al contrario, in matrimonio. Questa volta non mi diressi ai parenti, ma a lei stessa, alla persona interessata:
«—Mio bell'angelo—le dissi—questo fiore, che vi sembra sì bello, à un intacco; esso è stato morsicato da un bruco. Io sono epilettico.
«Aurora rinculò all'altra estremità dello studio, e gridò:
«—Giammai, principe, giammai! Io non mi caccierò mai in fra le braccia di un uomo che, volendomi dare un bacio, può spezzarmi la spina dorsale in un accesso di convulsione.»
—Insolente!—sclamò Alessandro.
—Ella aveva ragione—riprese il principe sospirando. Non è mancato di un mezzo secondo che codesto non sia capitato alla mia ultima.
—Alla principessa Maud?—sclamò Alessandro rabbrividendo.
—Sai tu ove ò io raccolto codesta principessa, conte Alessandro? Io mi dissi: l'aristocrazia non vuol di me; la borghesia non vuol di me; scandagliamo il nulla. Proviamo di una di quelle creature che non ànno nè padre, nè madre, che sono figlie della deboscia, della miseria, dell'onta, dell'adulterio, del delitto… chi lo sa? L'è la schiuma delle sentine delle grandi città. Ebbene, io discesi in un ospizio di trovatelli e ne cavai questo cencio.
—Quella stella!—gridò Alessandro con fermezza.
Il principe non fece attenzione a questo grido, e continuò.
—Con costei fui più generoso che con le altre. Le dissi che una grande sventura pesava sul capo mio. Le dissi che io era stato repulso due volte. Mi offersi a rivelarle tutto. La supplicai ginocchioni di non giudicarmi innanzi di udirmi… Io l'ò amata… io l'amo… Le ò offerto la libertà, la ricchezza… Le ò detto di fuggirmi, di andar a vivere ove ella volesse, dove la vita potesse essere per lei un cielo stallato di gioie… Ella à voluto restare.
—Ed è questo il suo delitto? obbiettò Alessandro. Ella à fatto il suo dovere.
—Ella à voluto restare, ma la cortina di velluto della sua camera è per me più intraversabile che il mare dei poli. Essa ci separa, come un cratere, dall'ora prima. Maud à voluto restare, ma come uno scherno, come una provocazione, come un rimorso, come un rimprovero, come una vendetta, come un supplizio. Ella à voluto restare per scavare a questo dannato un inferno più profondo dell'inferno—gridò il principe, alzandosi. Voi avete spaventata la mia agonia col rumor dei vostri baci… Ed io rivivo per punire.
Egli aspettava forse una risposta, poichè si fermò, essendo tremante per tutte le membra.
Il conte Alessandro, pallido come un chiaro di luna, si tacque.
Il principe riprese, di voce solenne:
—Io ti fo giudice adesso. Se io sono colpevole verso quella donna, vendicala ed uccidimi. Se non lo sono, tu mi oltraggiasti. Ti aspetto dunque domani, qui. L'uno di noi debbe restarvi.
E terminando queste parole, il principe Pietro di Lavandall snodò la briglia del suo cavallo, lo montò e partì al galoppo.
Il conte Alessandro rimase per qualche istante immerso nella più profonda preoccupazione, poi si allontanò.
Il principe Pietro aveva tutto preparato per lo scioglimento di questo lugubre dramma.
Maud partirebbe l'indomani, a mezzodì, precedendolo sempre di una tappa. La sua cameriera ed il suo intendente inglese l'accompagnerebbero. Ivan resterebbe presso di lei, fino a che il principe non li avesse raggiunti al villaggio d'Imazoff, a quattro leghe dal castello.
—Ivan—gli disse il principe—con te io non ò, fortunatamente, bisogno di parafrasi per spiegarmi, nè di rettorica per persuadere. Da quindici anni da che vivi meco, ti sei identificato alla mia persona. Tu provi i miei dolori. Tu comprendi le mie sofferenze. Tu indovini i miei pensieri. Tu udisti come me ciò che occorse nel boudoir di mia moglie, mentre io mi torceva negli artigli del male, Ivan, io mi batto domani con mio fratello… Se io muoio… ella non deve vivere.
—Padrone, codesto duello è desso inevitabile?
—Inevitabile! Noi non possiamo più vivere insieme in questo mondo.
—La vostra decisione è dessa irrevocabile, padrone?
—Irrevocabile! Se sarà dunque mio fratello e non io che andrà a raggiungervi al villaggio d'Imazoff, apri la berlina di mia moglie, annunziale la mia morte, e bruciale le cervella di un colpo di pistola. Tu non avrai in seguito a presentare ai tuoi giudici che la lettera cui ti dò. L'imperatore ti farà grazia. Io ti fo ricco e libero.
—Padrone, tutto codesto è inutile: io avrò due pistole. I vostri ordini saranno compiuti.
Il principe l'abbracciò e sclamò:
—Sii benedetto, figlio! Perchè Dio, che le à dato tante cose, non le dette altresì la metà della tua anima?
Ivan uscì.
Il principe passò la sera a scrivere, a bruciare, a mettere in ordine carte. E' non volle ricevere sua moglie—a cui Ivan aveva trasmesso l'ordine della partenza per l'indomani.
Tutto ciò erasi passato presso il principe con una semplicità spaventevole. Nè la sua voce nè quella di Ivan non sembravano più commosse in quei preparativi di omicidio, che se si fosse trattato di una caccia ai colombi. Non quesiti, non discussioni, non dubbi, non esitamento, non rimorso: uccidila; sì!
Il conte Alessandro—il quale aveva compreso, alla voce di suo fratello, ch'ei si trovava in faccia di una fatalità inesorabile—non provò neppure di distornarla o di rimpicciolirla. Egli indovinò che ogni sforzo cui avrebbe fatto per piegare il destino, lo avrebbe anzi aggravato. Ritornò dunque al castello, pranzò nel suo appartamento e si coricò.
Il sonno non si presentò al suo primo appello. Ma il conte l'invocò con un bol di punch: ed il sonno obbedì.
Il giovane, d'altronde, aveva la coscienza in pace.
E' non fu mica lo stesso della principessa Maud.
Parecchie circostanze avevano concorso a cangiare in un'angoscia mortale l'ansietà in cui l'aveva gittato l'ordine di quella partenza precipitata.—Suo marito gliel'aveva fatto ingiungere dal suo maggiordomo.
Ivan, che aveva l'attaccamento il più vivo per Maud, dopo aver compiuto la commissione del suo padrone, le era caduto a ginocchio ai piedi, e baciandole la mano, con un intenerimento profondo aveva soggiunto:
—Voi mi perdonerete, padrona: io debbo obbedire.
Poi soffocato dai singhiozzi, si era precipitato fuori della camera.
Maud avendo mandato la sua cameriera a dimandare a suo marito se la poteva recarsi da lui, Sarah aveva visto sur un canapè, nella biblioteca del principe, una scatola a pistole, e due spade. Tom Barcley, il suo intendente, trovandosi nel cortile quando il conte Alessandro era rientrato, aveva rimarcato che la figura di lui era estremamente pallida, disfatta, stravolta. E Maud avendo, su questa osservazione, mandato questo stesso intendente a dimandare al conte se egli non fosse malato, Alessandro aveva risposto, di una voce interrotta dalla commozione:
—Dite a mia cognata di pregare per me!
A tutte queste circostanze arrogevasi quella voce interna che addimandasi presentimento, e che in certi organismi nervosi acquista la lucidità della profezia.
Maud, natura sognatrice, possedeva questo attributo di seconda vista, e la era affatto donna, come quasi tutte le inglesi.
Le donne del Continente àn tutte, più o meno, delle fibre virili!
Maud comprese che qualche cosa di terribile aleggiava nell'aria; e la sua disperazione aumentavasi, avendo coscienza di non poter nulla scongiurare.
Ah! se ella avesse potuto veder suo marito ed aprirgli il suo cuore!
Ella passò dunque la notte impiedi, ora a piangere ora a pregare—mentre Sarah compieva qualche preparativo di viaggio.
L'alba la sorprese accovacciata sur un canapé, in uno stato di annientamento completo.
Sara supplicolla di andare a prendere qualche ora di riposo, prima della partenza.
Maud si slanciò ad un balcone che sporgeva sulla grande spianata del castello, ed incollò ai vetri il suo viso allividito dal freddo.
Alle dieci, ella vide uscire la briska del conte Alessandro, e dirigersi verso la foresta.
Al punto stesso, Ivan, eccessivamente pallido ed agitato, venne a ricordarle, in nome del di lei marito, che a mezzodì una berlina di viaggio sarebbe nel cortile, e che ella doveva recarsi ad aspettare il principe nel villaggio d'Imazoff.
La vettura del conte Alessandro portava i due fratelli allo sboscato.
Poco dopo usciva Ivan, conducendo due cavalli sellati, carichi di un fascio avvilupato in una coverta da viaggio. Tutte le disposizioni erano state prese dal principe.
Giunta ad un certo punto della foresta, la vettura si fermò, ed i due fratelli discesero.
—Aspettate qui—disse Alessandro al lacchè.
Ed andò a raggiungere il principe che precedettelo a piedi.
Essi non scambiarono una parola.
Non una parola si erano detto nella briska.
Spuntando sullo sboscato, scorsero Ivan che vi spuntava da un altro viale, galoppando a briglia sciolta.
Alessandro sospirò.
Pietro fece un ghigno di sprezzo.
Quando Ivan ebbe raggiunto il luogo indicato dal principe, e' discese e legò i cavalli ad un vecchio abete morto, dai rami scorticati, imbianchiti, senza foglie, che tremavano e risuonavano alla brezza come le ossa di uno scheletro, a cui l'abete somigliava.
Due cavalli! uno per Ivan, l'altro per il sopravvivente. La briska, pel cadavere!
Poi Ivan svolse la coverta, e pose sur essa le due pistole e le due spade.
I due fratelli si approssimarono.
Il primogenito, le mani conserte dietro il dorso. Il cadetto, le braccia incrociate sul petto.
Quando furono giunti al sito dove Ivan li aspettava, fermaronsi, e si trovarono l'uno rimpetto all'altro.
Erano in una specie di aia di qualche centinaio di piedi di diametro, circondata da un gruppo di rocce bianche, arrotondate—le quali di lontano si sarebbero prese per una mandria di vacche della Campania che fa la siesta, tosando viole e bruiere; o per dei cranii di Titani, seminati sur un campo.
Gli era quasi un circo. Ed il vecchio abete, che avea l'aria di una forca, gli dava un aspetto sinistro.
Nonpertanto, il sole svegliava tutt'i canti della natura: terra e cielo palpitavano di vita!
Ivan risalì a cavallo, ed andò a costituirsi carceriere di Maud, aspettando di esserne l'assassino.
I due fratelli restarono un momento a squadrarsi, in silenzio; poi il principe proruppe:
—Ebbene, m'ài tu giudicato, conte di Lavandall?
—No—rispose Alessandro.
—No?—riprese il principe. Pertanto tu ài avuto tutta una notte per deliberare.
—È vero. Epperò non è il tempo che mi è mancato.
—E che dunque?
—Non si giudica ascoltando il solo accusatore.
—Chi ti à impedito di ascoltare altresì l'accusata?
—La paura di trovarti colpevole e di condannarti.
—Grazie. Io non ti aveva mica dimandata mercè—sclamò il principe con disprezzo.
—Ed io non dimando mica ad essere giudice—rispose il conte con calma. Amo meglio rimettermene al giudizio di Dio.
—Scegli le armi allora—replicò il principe.
—Principe, voi siete stato malato, la vostra mano trema. Io non posso scegliere la pistola: avrei troppi vantaggi.
—Che ciò non ti sconcerti. La mia malattia mi riguarda.
—Scelgo dunque la spada—disse Alessandro, prendendo quella che gli era dinanzi.
—Sia—sclamò il principe. Dammi l'altra.
—Le condizioni?—dimandò Alessandro.
—Alcuna. La morte d'uno dei due.
—Pietro, vuoi tu ascoltarmi un minuto?
—In guardia—gridò il principe mettendosi in guardia. Nella nostra famiglia non v'àn vigliacchi.
—Un solo minuto—replicò il conte—una sola parola…
—In guardia, ti dico—gridò il principe di nuovo, fendendosi.
Alessandro si pose in guardia, e lasciò l'assalto al principe.
Questi era destro, lesto, abile; ma la sua mano vacillava per debolezza. Alessandro parò. Avrebbe potuto disarmare a piacere ed uccidere suo fratello: nol volle. Non volle neppur troppo stancarlo. Fece una finta di coupé, ma assai larga, per lasciare il suo petto scoverto. Il principe allungò un colpo dritto, e forò suo fratello da banda a banda.
Alessandro cadde.
Il principe abbandonò la guardia della spada, volse le spalle, salì a cavallo e mormorò:
—All'altra, adesso.
E disparve.
Un minuto dopo, chiamava i famigliari del conte con la briska.
Venti minuti dopo, giungeva al villaggio d'Imazoff, dove Maud l'aspettava nella berlina.
Quando ella vide arrivar suo marito, il sembiante stravolto, lo sguardo feroce, gli occhi fuori dell'orbita, tremante di tutte le membra, comprese che un avvenimento tragico erasi compiuto, e svenne.
Il principe, avvicinandosi alla berlina ed aprendola, per annunziare a sua moglie l'assassinio cui veniva di commettere, non trovò che un corpo agghiacciato nelle braccia della cameriera.
Egli rinchiuse precipitosamente la vettura, e gridò ai postiglioni:
—Guida tripla: strada di Francia.
Poi entrò nell'altra berlina con Ivan, e seguì.
V.
Once again.
Dopo gli avvenimenti cui venghiamo di raccontare rapidamente, compiuti di un modo non meno rapido, non restava più posto, nel cuore del principe ed in quello di sua moglie, che per due sentimenti egualmente estremi: un odio feroce ed un amore forsennato.
In queste regioni tropicali dell'anima non è possibile che l'uragano.
Il principe fissò la sua dimora nelle vicinanze di Parigi, a Saint-Germain.
Molti mesi scorsero.
Il tempo però, il cangiamento di cielo e di residenza non produssero alcuna mutazione nella sua vita. Gli era lo stesso vuoto, la stessa solitudine, lo stesso silenzio, la stessa disperata tristezza che al castello di Lavandall. I domestici francesi, cui il principe aveva ingaggiati, non penetravano nell'atmosfera della famiglia. Perocchè Ivan sapeva che quella gente, i cui costumi son quasi sempre ignobili, si costituisce sempre giudice severo dei padroni. Ivan d'altronde bastava al principe; Sarah e Rosa bastavano alla principessa.
Un solo straniero frequentava il castello—ed ancora e' poteva passare per un vecchio amico: il dottore conte di Nubo. La salute del principe, ed oggimai la salute di Maud altresì avevan reso questa intrusione indispensabile.
Maud era attaccata da una malattia di languore.
Questo intervento di Dio nello scioglimento dell'opera sinistra del principe di Lavandall avrebbe dovuto illuminarlo, calmarlo, soddisfarlo in tutt'i casi. E' non ne fu che più esasperato. Non aveva egli detto: «All'altra, adesso?» Dio lo rubava di tutta la parte che vi prendeva. E' si decise allora a sorpassarlo in celerità.
Ma in Francia non era esattamente come nel fondo di una provincia russa, in un castello, innanzi la porta del quale la legge rincula, ove il padrone à, di fatto, dritto di vita e di morte.
In Francia si è permalosi della forma… si mette una bilancia nella mano della giustizia—affinchè dessa pesi bene quanto vale il ricco e quanto poco vale il povero! Si dice che la legge è cieca. Cieca è dessa: perchè segue un cane, il quale sa bene di qual dente morder la carne e di quale l'osso.
Il principe non aveva d'uopo di andare in busca dello strumento che doveva compiere la sua bisogna. Lo aveva sotto la mano—semplicissimo, destrissimo, opportunissimo: voglio dire il dottore di Nubo.
Non trattavasi che di trovare un metodo.
Chi cerca, finisce sempre per trovare.
Ma il principe aveva fretta: e' soccombeva sotto il peso della sua anima! Ed il dottore non ne aveva punto, perocchè, per lui, non solamente il tempo era oro, ma era pure un parafulmini.
Gli era questo, del resto, il solo punto di discordanza tra questo cuore e questo cervello malati.
Eppure, nè il principe, nè il dottore non aveva profferto un sol motto sull'obbietto!
Vi era compenetrazione di spirito: ecco tutto.
Se Maud fosse stata una donna italiana, la avrebbe provocato una spiega. Se fosse stata una francese, l'avrebbe fatta capitare. Donna essenzialmente inglese, la si taceva e moriva.
Non è che la non formasse il progetto di abbordare un giorno con suo marito lo scandaglio della loro esistenza. Ogni notte, nelle sue interminabili insonnie, suffuse di lagrime, ella dicevasi: Domani parlerò!
Infatti, la dimane arrivava; Maud aggiustavasi per quanto bella poteva; sforzavasi di risuscitare il sorriso sulle labbra diciannovenne, ed andava a picchiar all'uscio del principe.
Abitualmente, non era ricevuta.
Ma, una volta sopra dieci, l'inesorabile Russo l'ammetteva alla sua presenza.
All'aspetto di quell'uomo, la parola spirava sulle labbra di Maud, il sorriso tramutavasi in singhiozzo.
Il principe era irriconoscibile.
A ventisei anni, sembrava caduco. Gli stessi suoi capelli si brizzolavano. I suoi occhi, vitrei, si affossavano ogni giorno di più nelle orbite, come spaventati della luce. Le sue guance, scavate, ingiallivano. La sua fronte, sì pura, solcavasi di rughe intralciate. Solo la sua bocca, ardente di febbre, pareva bruttata di sangue.
Egli pure era attaccato da consunzione. Ma questa malattia, che abbelliva Maud dandole il diafano dei serafini della Chiesa, difformava il principe. E' trasudava la tisi dell'anima!
La vista di quella ruina turbava la ragione di Maud. Ella attribuivaselo.
D'altra parte, la vista di sua moglie metteva il colmo alla disperazione del principe.
—Sono io—dicevasi egli—che ò cominciato la distruzione di questa bell'opera di Dio, e che vado a compierla. Io, che sarei morto ai suoi piedi, come un giusto, per ottenerne un solo sguardo di pietà! Io le fo orrore. Io sento sprigionarsi da tutta la sua persona un fluido che mi respinge. Io mi consumo alla sua contemplazione, e mi spegno. Dio mio! poteva un uomo dare ad una donna più vaste prove di amore che io ne diedi a costei? Io ò ucciso mio fratello, per causa di lei… Però, se le parlassi ancora? Io vorrei strapparle almeno questa parola: Ti odio! Sopra una donna che odia si à una presa. La si può infine attirare, domare, tenerla. Un'ipocrita, come costei, è uno spettro che sfugge quando credesi di afferrarlo. Sì: che la mi dica almeno: Io ti odio! Ciò sarebbe un balsamo per la mia coscienza. Io potrei rispondere: Continua, tu fai bene; consuma la tua opera e muori con la gioia dei demonii… Ebbene, saggierò ancora una volta. Condannato, dimanderò una dilazione. Che io mi arrivi almeno a comprenderla!
Questa risoluzione presa, il principe spiò un'occasione propizia. Trattavasi conoscere l'ultimo verbo del suo destino.
L'era una bella mattina di ottobre. Il principe, steso sur un voltaire, s'inebriava di sole innanzi ad un balcone che sporgeva sul giardino, centellando una tazza di thè e bruciando un sigaretto. Sulle sue ginocchia, nascosto a mezzo da una veste da camera di nero velluto, poggiava aperto un volume delle opere di Humboldt.
Ivan introdusse il dottore di Nubo ed avvicinò una poltrona.
—Prendereste una tazza di thè, dottore!
—Perchè no? Vengo d'asciolvere al Pavillon d'Henri IV, con una delle vostre vecchie conoscenze, principe.
—Le mie conoscenze sono tutte vecchie oggimai, dottore. Chi dunque?
—Il conte di Perceval.
—Non è ancor morto?
—Lui morto? per chi lo prendete voi? È più giovane adesso che a trent'anni. Anzi, a quest'ora, tutta Parigi si occupa di lui.
—Parigi è ben amabile. Che à egli fatto? Si è ralligato agli Orléans? Sarebbe divenuto onest'uomo? È entrato ai gesuiti?
—Meglio, meglio che tutto ciò, principe. Io credo, tout bonnement, ch'e' si eserciti la mano all'assassinio.
—Diavolo!—sclamò il principe. Cotesto debb'essere allora assai piccante.
—Io non conosco ancora tutt'i dettagli della cosa. Me ne informerò e ve li conterò un altro giorno. So vagamente ch'egli è implicato nel suicidio di un rat dell' Opera, cui intratteneva. Questa donzella si sarebbe suicidata per un poeta, un romanziere, un giornalista, qualche cosa come codesto—un tal Sergio di Linsac. In realtà, e' pare che il conte di Perceval non aveva presa la ballerina che per sottrarle non so quali cambiali del marchese di Caboul.
—Il marchese… di Caboul!
—Già, il quale non è altro che il R. P. Buzelin, dello stabilimento dei gesuiti alla Rue des Postes—il convertitore dei RR. PP. nel mondo galante. Ora, io m'immagino, che il conte di Perceval à furacchiato la figlioccia per furacchiarle le carte, e che dà oggi alla bisogna il nome e l'aria di suicidio. Questo birbo di conte è uomo di spirito, diascoli!
—Proprio così—sclamò il principe ghignando.
—E' sa che, in ogni cosa, il metodo è tutto. Ebbene, egli à trovato un metodo che converrebbe a non poche genti… oneste.
-Ciò potrebbe esser vero—rispose il principe, lentamente, scandendo le parole ed inchiodando lo sguardo sullo sguardo impassibile del dottore di Nubo. Poi soggiunse:
—Dottore, volete voi fare un giro di passeggiata pel giardino? Datemi il braccio.
Il sembiante del dottore restò sereno, ed il suo cuore battè di soddisfazione.
E' non aveva raccontato l'aneddoto del conte di Perceval per nulla. Quella parabola significava: i tempi sono maturi; io sono pronto: finiamola!
E si rigioiva, accorgendosi che il principe l'aveva compresa così.
Il dottore possedeva infine questo metodo—questo metodo ch'egli cercava da tre mesi.
Poi, egli aveva premura. E' doveva recarsi in Svizzera. Aveva perduto una trentina di mille franchi al giuoco, al club. Aveva sottoscritto per un certo numero di azioni in un'intrapresa di scavi di carbon fossile, che prometteva molto. Aveva insomma bisogno di danari.
Gli onorari della sua professione lo facevano vivere come un nabab. Ma quelli onorari—che formavano una bella somma alla fine dell'anno—arrivavano gocciolo a gocciolo.
Ed il dottore abbisognava di centomila franchi in una manata.
Ora, non si dà una tale somma per ricuperar la salute. La si dà per un delitto.
—Un delitto!… l'è un metodo. Val desso la pena per darsi moina?
Facendo queste riflessioni, vedendo di già le sue mani nei scrigni del principe di Lavandall, il dottore di Nubo l'accompagnò nel giardino.
Faceva ancor tepido. Vi erano ancora abbastanza fiori, insetti, uccelli, per distrarli… per ascoltarli forse. Il principe s'intromise sotto una volta di pampani violetti che copriva un viale finamente sabbiato. Di un tratto, e' si fermò.
Il dottore irradiava internamente.
—Conte di Nubo—disse il principe—vi sentite voi capace di parlarmi francamente, da gentiluomo e non da dottore, che si crede obbligato di adoperare la speranza—e quindi la menzogna—come un mezzo di terapeutica?
—Se l'esigete, principe, io sono pronto.
—Ebbene—continuò il principe—voi vedete a che stato ne sono ridotto. Io lo sento, meglio pure che voi nol vediate. Malgrado ciò, io vi dimando: Posso io ancora guarire?
—Dell'epilessia?… no, principe mio—rispose il dottore.
—Gli è lungo tempo che ò preso il mio partito su codesto—replicò il principe di una voce sorda. Ma la consunzione?
—Il resto non mi scoraggia mica ancora—riprese il dottore.
—Perchè?
—Perchè vi è in voi un principio di atrofia della vita fisica, occasionata dall'esorbitante assorbimento della vita morale. L'anima vi divora. Bisogna dunque soddisfarla… o ucciderla. Io non afferro le cause di questa mancanza di equilibrio tra le due funzioni, il di cui esercizio parallelo costituisce la vita normale e la salute. Io non vi domando di penetrare nei ripostigli intimi del vostro cuore. Voi avete, ad ogni modo, dei pensieri, dei desideri, dei progetti, che vi rodono. Voi perdete il fiato camminando verso un fine;… e gli è così che il vostro corpo si spossa, che la lampa della vostra vita fumiga e soffoca la luce.
—Ciò è possibile—sclamò il principe, riflettendo e parlando a sè stesso.
—Ora, non vi sono che due modi, come vel dicevo testè—continuò il dottore—per ricostruire la vostra salute relativa.
—Quali?
—O noi cominciamo a vannare, ad analizzare uno ad uno i fenomeni, le cause, le idee, le ansietà che vi consumano, e scartiamo questo, addolciamo quello, diamo soddisfazione da un canto, calmiamo dall'altro…
—Ovvero?
—Ovvero… sopprimiamo di un colpo il focolaio dell'insurrezione interna, la quale à ingenerato l'anarchia nelle vostre funzioni fisiologiche, e l'anemia.
—Hum!—fece il principe riflettendo.
—Sopprimere l'anima—continuò il dottore—sopprimere la coscienza, sopprimere i rimorsi, sopprimere gli scrupoli, sopprimere il dubbio, disoppannare la vita, in una parola, della sua parte morale e ridurla ad una semplice funzione fisica…
—Si potrebbe egli?
—Ciò si può. Ed allora la guarigione si ottiene subito e radicale. Il primo mezzo è più lungo e più incerto.
—Ciò si può, dite voi? Si può dunque obliterare il pensiero?
—Sopprimete la causa che produce l'eretismo di questo pensiero, e voi l'avrete ridotto, se non all'impotenza, almeno all'innocuità. Tutto, del resto, dipende da voi, dalla dose di volontà che potrete sviluppare, dai mezzi impiegati al trattamento.
—Potreste voi dilucidare codesta teoria con un esempio, dottore?
—Ma! prendiamo giustamente per esempio quel conte di Perceval, di cui parlavamo or ora. Supponghiamo che egli si sia trovato in presenza di un ordine del generale dei gesuiti che gli abbia detto: Bisogna ricuperare, ad ogni costo, le carte firmate dal Padre Buzelin, sotto il falso nome di marchese di Caboul: l'onore della Società lo esige.
—Ebbene?
—Ebbene, se il conte di Perceval avesse avuto in lui la preponderanza della vita morale, e' sarebbe caduto in un'ansietà che lo avrebbe condotto al sepolcro.
—Perchè ciò?
—Perchè? ma, strappar delle cambiali, pel valore di 150,000 franchi, dalle mani di madamigella Verray, soppannata dal suo amante Sergio di Linsac… avrebbe valso altrettanto che strappare una lacca di montone dagli artigli d'una tigre o di una lionessa. Rubargliele? la coscienza insorge. Truffargliele? l'onore protesta. Sedurre la giovine ballerina? Perceval era troppo vecchio… e d'altronde, non si seducono mai 150,000 franchi. Interessarla, con la virtù, all'onore della Compagnia di Gesù? Ester era ebrea…
—Infatti…
—Ed ecco lì il conte a struggersi, ad ammagrire, esitando tra il dubbio, il rimorso, la coscienza, la lealtà, la divozione, l'amore che la giovane drôlesse gl'inspirava… ed il resto. Che fa desso?
—Che fa? sì, che fa desso?
—In luogo d'intraprendere la sua guarigione mediante il soddisfacimento di tutte queste esigenze della sua anima, egli sopprime la causa. Sopprime l'anima… ed uccide la fanciulla, scientificamente, facendola passare come la si fosse suicidata.
—Ciò è ancora oscuro—sclamò il principe—ma non importa. Noi ritorneremo su di questa teoria medicinale. Ora, ditemi, avete voi visto la principessa?
—Non ancora, stamane.
—Che pensate voi del suo stato?
—Ella può guarire. In lei, l'è pure il morale che invade il fisico. Però, come nell'organizzazione della principessa il fisico è più sviluppato che il morale, dando, dal lato vostro, un po' di soddisfazione a questo, aiutando io il fisico con mezzi terapeutici, l'equilibrio si può ristabilire.
—A maraviglia.
—Io fo costruire adesso un apparecchio, a cui vado a sottomettere la principessa, ed ò grande speranza nel successo. Ma ritorniamo a voi, principe…
—Non vi torniamo più, per oggi—interruppe il principe, uscendo dal viale per rientrare nel castello. Sono stanco. Ò colte le vostre idee e le mediterò.
Il dottore, evidentemente contrariato da questo brusco congedo, si recò agli appartamenti della principessa.
—Questo miserabile mi assicura che io posso guarire, che ella può guarire—pensò il principe passeggiando lentamente nel suo gabinetto. Proviamo allora. Ad ogni modo, ò in mano lo scioglimento.
La sera che seguì, Maud, con uno stupore che lambiva il terrore, vide entrare da lei, senza essere annunziato, il principe Pietro, che le disse:
—Amica mia, volete voi darmi una tazza di the presso di voi? Mi sento meglio stasera e vengo a passare qualche istante con voi.
Maud, senza rispondere, sollecitossi ad avvicinargli un seggio.
Il principe lo respinse e soggiunse:
—Mica qui. Questa stanza è troppo grande: uno vi si perde, non vi si vede l'un l'altro. Venite nel vostro boudoir.
Ed offrendo il braccio a sua moglie, senza aspettare il consentimento di lei, la condusse in un gabinetto attiguo, rischiarato da una semplice lampada di alabastro.
Il boudoir era tappezzato di raso giacinto a fiori bianchi. Il fuoco brillava nel camino. L'aria era tiepida e profumata da guastade di fiori. Là, il piano. Ad un angolo, una tavola a lavoro. Dei pastelli sulle mura. Uno spiro d'innocenza, di pudore, di felicità, di vergine amore in tutta quell'atmosfera di alba.
Dio vi sarebbe venuto a visitare Maria—senza mandarle un messaggiero!
—Sarah, servite il the qui—disse il principe, ed andate ad aspettare madama nella sua camera da letto.
Nulla non potrebbe esprimere lo stupore, il terrore di Maud e di Sarah vedendo i preamboli del principe, il quale aveva l'aria d'imporre, anzi che di dimandare un colloquio.
Sembrava gaio. La sua salute appariva più solida; il suo spirito, più sereno. E' fece perfino dei complimenti a sua moglie, a proposito di un pastello, cui vide sur un cavalletto, e sur un ricamo che giaceva sur un divano. Ma non appena il the fu servito, ed i domestici si furono ritirati, il principe si levò dal posto, cui aveva preso a fianco di sua moglie, sul canapè, e cominciò a passeggiar lentamente per la stanza—ricadendo nel suo silenzio e nelle sue tenebre.
Alla fine, e' s'avvicinò alla principessa e proruppe—scattando come un uomo che si decide di un tratto:
—Maud, io sono stato troppo duro verso di te: perdonami.
Questa sottomissione, questa confessione dalla parte di un uomo come il principe, e nella situazione di lui, stupirono più che non toccarono la giovane inglese.
Ella rimase disorientata, e ne pianse.
Il principe se ne avvide, ma non si scoraggiò.
—Maud—continuò egli—io non ti chiedo ancora nulla. Io so che non isveglio in te se non ripulsione e terrore. Ma, ài tu riflettuto alla mia condotta? Ti sei tu dimandato: Quale è la vita di questo dannato alla porta del paradiso?
—Io mel sono dimandato e mel dimando ogni dì, principe.
—E…?
—E… non vi ò compreso.
—Non mi à compreso!…—gridò il principe coprendosi il viso di ambo le mani. Tu non ài dunque capito il mio supplizio? Tu non ài capito il vuoto dell'anima mia, la solitudine delle mie interminabili giornate, la disperazione delle mie notti senza sonno? Tu non ài capito che il mio sangue, a ventisei anni, bruciava; che la mia ragione smarrivasi nel delirio dei sogni? Tu non ài capito che io poteva amare, che io poteva esser geloso, che io poteva temere, che io poteva essere assetato di te—cui io vedeva passare innanzi ai miei occhi il giorno e traversare i miei sogni la notte come una visione fantastica? Tu non ài compreso che io dimandava a te ciò cui non dimandavo più a Dio: grazia!—grazia per la sventura di cui la fatalità mi aveva colpito? Tu non ài compreso che io ti amava, che lo ti circondava del rispetto di una regina, di una adorazione di angelo, e che giorno e notte io mi trascinava alla tua porta, chiedendoti perdono, mercè? Non ti aveva io detto: Aspetta prima di colpire, ascolta prima di giudicare, respingi le impressioni subite, ed apri il cuore alla pietà?
—Signore mio Dio!—sclamò Maud—mi avreste voi dunque trovata dura?
—Tu sei stata crudele—gridò il principe, cangiando il tuono della sua voce.
—Giammai—replicò Maud con calma.
—Ove eri tu, quando l'angelo del male mi toccava del suo dito?—replicò il principe con forza. Tu eri fuggita! Chi era al mio capezzale, quando io mi attorcigliavo sull'aculeo della vendetta di un Dio sinistro? un servo! Il letto dell'infermo, cui tu avresti dovuto confortare, era vedovo. La camera del paziente era orba di quella consolazione che si chiama la donna. Io non aveva madre, non sorella, non moglie… Che facevi tu, quando io mi dibatteva nell'agonìa?… Io ò udito il rumore dei baci.
—No, no—gridò Maud.
—No? Io l'ò udito, e non sono stato solo ad udirlo… Ed ò vendicato l'insulto.
Maud ruppe in gemiti, e le sue parole si spersero in un singhiozzo di disperazione.
—Io amava mio fratello—continuò il principe sciogliendo in lagrima anch'egli—e l'ò ucciso. Di', ora, di', donna, quale creatura mortale poteva darti prove di un amore più forsennato? E adesso, che io pur mi muoio, io mi trascino ai tuoi piedi e ti dico: oblìo tutto… abbi pietà di me!
—Gli è da Dio, principe, che dovete implorare pietà—replicò Maud di una voce commossa—perchè avete commesso il delitto di Caino.
—Ancora? ancora?—gridò il principe. Maud, non ritornare giammai più su codesto. Io non sarei sempre padrone della mia ragione. Non chiudete l'orecchio a questo ultimo grido dell'anima mia. Io ò bisogno di dimenticare. Io ò la volontà di vivere. A ventisei anni, la terra à ancora delle rose, la donna à ancora dei baci, la testa à ancora delle ambizioni, il mondo offre ancora delle seduzioni, delle soddisfazioni, dei sorrisi… Maud… orsù Maud, viaggiamo. Prestami le tue braccia per riposare la mia testa condannata. Apri il tuo cuore alla voce del mio cuore. Sii donna… sii moglie! Lasciami vaneggiare del cielo sul seno tuo… o lasciamivi nascondere il viso per piangere e per morirvi.
Ed e' cadeva in ginocchio innanzi a lei, innalzando verso lei le sue mani supplichevoli.
Il momento era decisivo.
Dio pronunziava la sentenza.
—Principe—sclamò Maud, vedendo i lineamenti di suo marito alterarsi rapidamente—calmatevi. Non vi fate guadagnare, sopraffare da un'emozione fatale. Voi guarirete. Dio mi ascolterà alla fine: voi guarirete.
Ed alzandosi, ella stese le mani al marito per aiutarlo a rilevarsi. E' la guardò come pietrificato; e levandosi solo, lentamente, solennemente, soggiunse:
—Io sono giudicato. Non temete nulla, signora, dalla mia emozione. Guardatemi… essa è passata. Addio, signora. Non sono riescito; ma non mi pento del passo che ò fatto. Io soffocava sotto il pondo delle cose cui vi ò confessate. Mi sento alleviato, ora che ò acquietato il convincimento che vi àn dei sentimenti invincibili. Io non sapevo che un poco di pietà, un poco di amore, fossero un tesoro sì immenso. Io pensavo di aver fatto qualcosa per meritarlo: io era un vanaglorioso. Bisogna ricominciare. Ricominciare! Ma se sapessi almeno che, dove, come? Credetemi, signora, io non ò più proprio nulla: ò dato tutto—tutto! Ciò non è bastato. Mi ritiro… Addio!
—Principe—gridò Maud—nel nome di Dio onnipotente, calmatevi.
—Su via, forzato—continuò il principe senza più fare attenzione a sua moglie—su via, galeotto, alla tua catena, ai tuoi giorni senza luce, alle tue notti piene di vampe, ai tuoi vaneggiamenti, ai tuoi rimorsi, ai tuoi delirii, alla tua sete di vita, alla tua disperazione. Marcia, corri, va ad accoccolarti sul tuo giaciglio di carboni ardenti, e rumina, che tua moglie à un cuore… ma per altrui! che tu sei Caino! che tu sei solo in mezzo al mondo che ti respinge! che tu sei orrido! che tu sei un lebbroso! che tu sei un dannato! Marcia… bevi il tuo fiele e la tua belletta fino all'imo; consumati, muori come un paria… e silenzio… Silenzio! che alcuno non si avvegga della tua respirazione oppressa, del tuo polso accelerato, dei tuoi occhi infiammati di voglie, dei tuoi labbri assetati di baci… resta mogio, calmo, placati… tu li spaventi… La parola fatale trema sulla loro bocca… guarda… tu li volgi in fuga… e' si turano le orecchie… stornano lo sguardo… orribile! orribile!… non è vero, madama? Ebbene, addio… Vi gradirebbe, madama, che io mi esilii nelle Indie? I fakirs, madama, non avranno la stessa paura, la stessa ripulsione che voi: essi mimeggiano la cosa, essi!
—Principe, principe—gridò la giovinetta—se un giorno sarete assai calmo…
—Oh! certo, madama, certo, se io fossi saggio voi mi fareste dono di un giocatolo, di uno zuccherino… come al vostro Polly che gnignola sì bene il God save the Queen. Ebbene, sì, io sarò calmo un giorno; ma allora, non vi dirò più, madama, come vi dicevo or ora: Io vi amo, io vi voglio, io ò assassinato per voi, io vi ò cavata fuori da un ospizio donde voi sareste uscita una serva, ed ò fatto di voi una delle stelle dell'aristocrazia d'Europa. Io divengo folle per voi, diventerò forse delinquente… no, no, io non vi dirò più codesto, madama, il giorno in cui sarò calmo. Voi non correrete più il rischio, allora, di vedermi epilettico; ma io mi sovverrò e vi dirò: Adultera, tu ami tuo cognato!
Maud si precipitò verso il principe per rattenerlo, per parlargli… E' la respinse sul divano e fuggì.
La crisi aveva raggiunto il suo apogeo.
Maud era vinta.
Ella aveva preso una risoluzione.
Il dì seguente ella fece chiamare Ivan, per sapere se il principe fosse in istato di riceverla.
Ivan la supplicò di non vederlo quel dì. Il principe era ancora spossato dalle emozioni della notte.
Il terzo giorno Maud fece ripetere la dimanda.
Ivan rinnovò la medesima preghiera, e le disse che quando gli sarebbe sembrato che il momento fosse opportuno, sarebbe venuto ad annunziarglielo.
Passarono infatti cinque giorni.
Il mattino del sesto, Ivan andò a dire alla principessa:
—Venite. Oggi è calmo. Egli à parlato lungo tempo col dottore, ed io gli ò rimesso delle lettere. E' può lavorare; potrà dunque intrattenersi con madama la principessa.
Maud traversò immediatamente il gran salone ed andò a picchiare alla porta del gabinetto del principe.
Io dovrei dire del suo laboratorio. Perocchè, le tre o quattro stanze occupate dal principe eran zeppe di libri, di macchine di fisica e di chimica, e di oggetti di storia naturale di ogni specie.
Il dottore di Nubo avevagli fatto comprare le collezioni che da cinquant'anni accumulava uno dei fisiologhi e naturalisti più rinomati di Francia, morto testè.
Il principe, leggendo sempre e disuggellando le sue lettere, senza levare il capo disse:
—Entrate.
E' non scorse Maud.
Ella si trascinò fino a lui.
Di un tratto, ella videlo tremare come un uomo che esce da un bagno ghiacciato, riconoscendo il carattere di una lettera e provando ad aprirla con violenza.
Vi riescì alla fine e lesse.
Poi, levandosi di soprassalto, egli andava a prorompere non so in quale esclamazione, quando vide innanzi a lui Maud, impiedi, gli occhi devaricati da stupore e da terrore.
—Ah!—gridò il principe con una veemenza spaventevole—ah! voi venite per apprendere sue nuove!… Ebbene, infame… eccone.
E ciò dicendo, gittò la lettera sul viso della moglie.
Di più in più attonita, spaventata, Maud raccolse la lettera e lesse, a suo turno, ad alta voce:
Parigi, Hôtel du Rhin, 3 novembre. «Fratello,
«Io non sono morto. Gli è a ricominciare. Io amo sempre Maud.
«ALESSANDRO.»
La lettera cadde dalle mani di lei. Maud fuggì gridando, in inglese:
— Once again! once again! —ancora una volta!
Il principe si accasciò come fulminato sulla sua seggiola e sclamò:
—Ella pure l'ama sempre!… Ebbene, sia; Once again!
VI.
Il grido del sangue.
Il conte Alessandro aveva ricevuto un colpo di spada che gli aveva traversato le costole ed il lobo inferiore del polmone destro, poi aveva lambito il diafragma ed eragli uscito nel dorso. La ferita era due volte mortale.
Eppure, era guarito.
Il suo cocchiere russo ed il suo cameriere francese, che erano sulla briska, lo avevano trasportato al castello, credendolo morto, e si era mandato in cerca di un chirurgo, piuttosto per constatare il decesso, che per medicar la ferita.
In una cittaduzza—a qualche versta dal castello di Lavandall—dimorava il dottore Taddeo Varnetrahler. Questo Tedesco, che aveva sposato una Russa, scienziato profondo, aveva fatto le campagne del 1813, 1814 e 1815 con gli eserciti sassoni e prussiani. Egli era accorso. Aveva fasciato il ferito. Aveva udito attentamente le poche parole cui il conte gli aveva diretto, a voce morente, ed aveva dichiarato che il caso era mortale. In seguito di che, aveva allontanati dalla camera tutt'i domestici del castello, ed erasi installato al capezzale del moribondo, assistito solo dal cameriere francese.
Tre giorni dopo, si era convenevolmente seppellita nella cappella del castello una cassa lunga, ornata di velluto, ripiena di vecchi scartafacci—che erano passati pel cadavere del conte Alessandro.
Quanto a costui, la notte precedente era stato trasportato, sur una barella, al castello del conte Alessio di Rumanzowski, a quattro verste dal castello di Lavandall.
Il giovane amico e sua moglie—una bella polacca—aiutati dal dottore, avean celato e salvato il conte Alessandro, cui tutta la Russia credeva morto. Egli era deciso a ricominciare, se guariva. Non voleva però attirar sul fratello l'imputazione terribile di questo accanimento ad ucciderlo.
Tutto gli era riescito a voglia.
Ed ora, eccolo ad aspettare all'Hôtel du Rhin l'ultimo motto del suo destino.
Era pronto ancora una volta a lasciarsi uccidere…
Il suo cameriere entrò ed annunciò:
—La signora principessa Maud di Lavandall.
Ella si era recata la mattina nell'appartamento di suo marito per dirgli questa parola magica:
—Io t'amo!
Il conte Alessandro si collocava di nuovo tra il principe e lei come un abisso.
Ritornata in camera, dopo la scena cui abbiamo raccontata alla fine del capitolo precedente, ella aveva dato ordine per la sua carrozza, e, d'un tratto, era venuta a Parigi.
Il conte Alessandro, steso per un divano, leggeva il Débats, aspettando Ivan, il principe stesso, i testimoni di lui, perfino il diavolo, anzi che la principessa.
E' non poteva credere agli occhi suoi vedendo in piedi innanzi a lui quella grande e pallida figura—tanto cangiata in sei mesi! Vestita tutta di nero, quasi portasse il lutto alla sua bellezza, alla sua giovinezza, alla sua felicità! E' corse pertanto verso di lei, che era restata sulla soglia, e cadendo a ginocchio le baciò i lembi della veste, coma ad una madonna.
—Conte—disse Maud alla fine—voi siete il cattivo genio della vostra casa. Dio vi perdoni! Perchè rivenite?
—Avreste voi desiderato, madama, che io fossi restato nel sepolcro?
—Conte, voi sapete che io, men ch'altri, non posso avere un tal desiderio. Voi siete stato il mio solo amico, in quella casa ove vostro fratello mi aveva introdotta ed ove e' mi trattava come straniera.
—Ebbene, madama—riprese il conte—io sorgo dalla tomba per venire a proclamare innanzi a Dio, ed innanzi a mio fratello, che vi amo… E poi morire, se posso.
—Conte—rispose Maud, quasi affogata, tendendogli le mani per rilevarlo—se io avessi il diritto di dimandarvi una grazia, io vi direi: Lasciate Parigi oggi stesso, in questo punto, in questo istante stesso… Ogni minuto che passa può contenere una catastrofe… E se una confessione può accelerare codesta partenza, io non esito a farla, a voi, a voi il primo: Io amo mio marito!
Il conte Alessandro vacillò; poi soggiunse con calma:
—Io non invidio a mio fratello questa bontà di Dio. E' non n'à altra!
—Oh! sì, egli è ben sventurato… sclamò Maud… E l'è colpa mia. Io non ò osato. Io non ò saputo vincere il terrore, la repugnanza, che la sua malattia mi cagiona. Io l'ò amato, pertanto, dal primo giorno. La nobiltà del suo carattere, la sua delicatezza, la sua modestia, mi toccarono… Poi, quella sera fatale arrivò. Io ne abbrividisco ancora… Era la notte, in una sala rischiarata unicamente dalla luna. Io sentii le sue braccia avvinghiarsi alla mia vita, stringermi, comprimermi, ribadirsi sulla mia carne e sulle mie ossa come due serpenti… La mia respirazione soffocavasi. I miei occhi schiattavano dalle mie orbite… La voce mi mancava per gridare… Le mie costole scricchiolavano… Un secondo ancora, e la mia spina dorsale era spezzata in due… Egli dovette vedere il mio spavento. E' dovè sentire il male orribile che mi facea. E' dovette accorgersi che andava ad uccidermi nel suo abbracciamento di morte, perchè fece uno sforzo terribile per snodare le sue braccia e rigettarmi lontano, mentre egli cadeva sul tappeto… Io lo vidi allora torcersi nella sua orrida convulsione: io compresi…
—Sventurati!
—E dopo, ogni qualvolta l'ò visto avvicinarsi a me, lo stesso terrore mi à presa. Ei se n'è avvisto. À rispettato il mio spavento, e si è ingannato sulla natura della mia repulsione. Noi siamo restati stranieri. Ma la mia anima gli era unita; tutta la mia vita è un pensiero di lui. Il corpo lo fugge; il cuore lo appella. Ma io sono codarda.
—Perchè, madama, mi fate voi queste confessioni, cui non vi domando?
—Perchè, conte, voi vi siete ingannato quando avete portato su me degli sguardi che mi offendevano. Forse, io fui imprudente. Io mi lamentai, io mostrai, più che vero non era, allontanamento per lo sventurato che si disperava nelle spire della gelosia… Ve ne domando perdono. Io aveva bisogno di sfogo; e nella solitudine, io credeva poter cercare il cuore di un fratello per riposarmi.
—Vi ò io indirizzato mai una parola che abbia smentito il fratello a cui voi v'indirizzaste, Maud?
—No.
—Ebbene, quando si risuscita da una tomba e che si viene per farsi uccidere, si à il dritto di proclamare il Dio cui si adora, la ragione del martirio.
—Ma io vi replico ch'io l'amo—gridò la principessa sporgendo le mani da supplicante. Come sia ciò avvenuto, nol so. La prima impressione è riapparsa. La paura, il disgusto, che solo mi allontanavano da lui, sono stati vinti dalla pietà di una sì grande sventura. Quando ò visto quest'uomo a non chiedermi giammai nulla; non volgermi alcun rimprovero; comprendere la lotta che si compieva in me; rispettare la mia debolezza; non varcar mai la soglia di una porta lasciata sempre aperta; adorarmi in silenzio; soffrire la tortura dei desiderii senza dolersene; rassegnarsi, attendere, circondarmi della sua protezione—cui voi avete dovuto trovare terribile—deperire, ma non uccidermi, credendomi colpevole, come vi aveva ucciso… quando l'ò visto supplicarmi, delirar di passione, attirar sulla sua testa il fulmine del suo male a forza di amarmi, sopraffatto dall'emozione, cui la mia vista cagionavagli sempre… ebbene, fratello, io che l'amavo di già nella profondità del mio cuore; io che non osavo, per timidezza, per rispetto, per sciocchezza, forse, rivelarmi a lui, far eco alla sua passione… io ne sono folle adesso fino all'impudenza. Io non soggiungo più nulla… o piuttosto, io non soggiungo che un motto: Partite, vivete, siate felice! La nostra ora, a noi, è certa. Possiate sovvenirvi di noi senza rimorso e senza rancore.
—Io amava una donna; io adoro un angelo!—sclamò il conte accasciandosi sur una seggiola o nascondendo il capo nelle mani, per piangere.
La principessa lo contemplò, avendo anch'ella gli occhi ottenebrati dalle lagrime. Poi senza rispondere, si ritirò indietreggiando, sollevò la portiera e scomparve.
Discese le scale precipitosamente ed andò a cascare nella sua carrozza, dicendo ai lacchè:
—Al palazzo, e presto!
Ella non rimarcò ch'un altro coupè, egualmente alle armi ed alla livrea di Lavandall, aspettava alla porta, e che due occhi di fuoco spiavano dietro i cristalli.
Quando la principessa fu partita, Ivan si avvicinò allo sportello e dimandò gli ordini del principe.
Il principe era venuto all' Hôtel du Rhin per parlare a suo fratello. Avendo scorto alla porta la carrozza di sua moglie, erasi fermato ed aveva aspettato. Ma, aspettando, aveva cangiato avviso. E' non volle più discendere, non volle veder più suo fratello. E' disse dunque ad Ivan:
—Dal dottore di Nubo.
La distanza della piazza Vendôme alla via di Lille non è lunga. Egli capitò dal dottore in uno stato di frenesia.
Il dottore stava per uscire.
Il principe entrò dritto nel gabinetto di lui, prese un foglio e scrisse:
«Domani, alle 8, alla Porta Maillot. Siatevi solo col vostro medico e le vostre armi. Non padrini.
«PIETRO DI LAVANDALL.»
Il principe si volse in seguito al dottore di Nubo e gli disse:
—Domani, io mi batto in duello. Passerò a prendervi alle 7. Voi sarete il mio secondo ed il mio medico.
—Con chi vi battete voi, principe?—dimandò il dottore, un po' imbarazzato.
—Con mio fratello—rispose il principe. Voi volevate conoscere il veleno segreto che rodeva la mia vita, eccolo: Mio fratello ama mia moglie—che non è stata giammai mia moglie—e che l'ama pure. Io credeva averlo ucciso in Russia. Egli risuscita per venirmi a dire «Io amo Maud. Bisogna ricominciare.» Capite, adesso? Noi ricomincieremo. A domani.
—Ma, principe—balbettò il dottore—non vi sarebbe dunque modo…
Il principe lo fulminò del suo sguardo carico di disdegno, di disprezzo e di alterigia, e replicò:
—A domani. Io vi domando i vostri servigi in caso di disgrazia; non i vostri consigli e la vostra mediazione. Verrete voi?
—Sono ai vostri ordini, principe—sclamò il dottore.
Il principe di Lavandall partì, ripassò per la piazza Vendôme e mandò Ivan a lasciare la lettera alla porta del conte Alessandro, poi rientrò al palazzo tardi.
Maud era a letto. L'emozioni della giornata l'avevano di molto stancata.
Sarah e Tom andarono per nuove. Ivan, al solito, si tacque. Il cocchiere del principe raccontò l'itinerario e dettagliò le stazioni.
Un lampo traversò lo spirito di Maud, udendo che suo marito l'aveva attesa alla porta dell'Hôtel du Rhin; ch'era poi ito dal dottore; e che Ivan aveva portato una lettera al conte Alessandro. Ella fu lì lì per alzarsi e recarsi da suo marito. La timidezza, la paura, il rispetto di sè, la modestia la ritennero.
Sempre la stessa!
—Lo vedrò domani—si disse ella.
Ed invocò il sonno, che non venne.
Domani!
L'indomani, alle 6, il principe ed Ivan erano partiti dal palazzo e galoppavano sulla strada di Parigi.
Alle 7, erano alla porta del dottore di Nubo.
Alle 8, alla Porta Maillot.
Una carrozza, dalla livrea e dalle armi dal conte Alessandro, li aspettava.
—À sete del mio sangue!—mormorò il principe—mi à preceduto.
La vettura si fermò.
Un uomo vestito di nero uscì allora dal coupé del conte Alessandro e venne ad Ivan, il quale era disceso subito dalla predella del cocchiere.
L'uomo a nero mostrò una lettera, ed insieme si presentarono al principe per rimettergliela.
Il principe era profondamente assorto e tristissimo.
Cadeva una acqueruggiola fina, penetrante, fredda, che rendeva il tempo scuro, il cielo insipido. Gli alberi avevan perduto il loro manto e mostravano le loro ossa nere, che tremolavano sotto la fredda brezza. Il luogo era solitario. Tutto ciò stingeva sul carattere di già sì malinconico del principe di Lavandall, e l'affettava.
E' prese la lettera senza guardarla, meccanicamente. Il suo spirito vagava altrove.
L'impressione del freddo, che gli occasionava lo sportello aperto del coupè, lo richiamò alla realtà. Egli avvicinò allora la lettera ai suoi occhi e fece un movimento di sorpresa.
—Chiudi dunque codesto sportello,—gridò egli ad Ivan, tirandolo nel tempo stesso a sè con violenza.
Poi, e' si volse al dottore e soggiunse:
—Cosa è codesto? Egli scrive adesso? E' non è dunque qui.
—È il conte Alessandro che scrive?—dimandò il dottore.
—Egli stesso—rispose il principe, spiegando la lettera e guardandola anco prima di leggerla.
Infine egli lesse a mezza voce, come avrebbe fatto se fosse stato solo:
«Fratello….
—Fratello!—gridò il principe—fratello ancora…!
«Io era sul punto di partire e di rendermi al tuo appello. Ò avuto paura… Ò avuto paura che quando tu mi avessi ucciso, e che tu avessi poscia saputo la verità, ne saresti stato sventurato per tutta la vita.»
—Tutta la vita!—commentò il principe—In quanti mesi, in quanti giorni ciò può consistere, dottore? Egli dice: sventurato! Sarei io dunque felice, dottore, senza avvedermene?
—Tutto codesto non tien che a voi, principe mio—rispose il dottore.
«Tu sai che io non mi spavento alla vista di una spada…»
—Se lo so!—gridò il principe. Crede egli dunque che io non compresi ch'e' poteva uccidermi l'altra volta, e ch'e' fece a posta un movimento per precipitarsi sulla mia spada? La paura non è di casa nostra.
«Ma oggi, io non sono ancor pronto. Delle visioni, dell'emozioni, il sovvenire di nostro padre, le memorie della nostra infanzia sì tenera… Te ne ricordi tu, Pietro? I nostri bei giorni di està, a correre nella foresta… le lunghe nostre notti d'inverno, passate sulle ginocchia del nostro nobile padre, che ci raccontava le battaglie di Napoleone, l'incendio di Kremlin, la campagna di Russia, Waterloo, e mille aneddoti degli tzar Paolo ed Alessandro?… Ebbene, no, oggi è impossibile. Tutto ciò mi assedia nella mia camera. Io non posso uscire…»
Il principe leggeva di una voce soffocata dalle lagrime; i singhiozzi lo strangolavano. Non pertanto, continuò:
«Ti domando un giorno di sosta. Che cosa è un giorno? Tu ài aspettato tanto tempo. Dimani, io sono ai tuoi ordini. Io ti aspetterò ove tu mi aspetti adesso. Tu ài avuto tanti anni di debolezza per me. Viziami un giorno ancora. Cosa è due volte dodici ore? Oh! se io potessi dirti addio!… Ma no: il destino ci spinge. A rivederci domani.
«Tuo fratello
«ALESSANDRO.»
Il principe restò come abbacinato alla lettura di questa lettera. Senza avvedersene, egli la stringeva e la gualciva nella sua mano destra, la foggiava a pallottola, mentre grattavasi dolce dolce la fronte della sinistra.
Infine fece un movimento vivissimo, passò la testa fuori lo sportello e gridò ad Ivan:
—A casa, al galoppo.
Partirono come il vento.
Arrivarono senza schiudere le labbra.
Sarah fermò il dottore al varco, nell'anticamera, e lo chiamò per visitare la sua padrona, la quale, dal mattino passava da sincope in sincope.
Il principe andò a gittarsi sur un canapè nel suo gabinetto, annientato dalle emozioni.
Maud, che aveva letto la prima lettera del conte Alessandro, il dì innanzi, indovinava perchè suo marito fosse uscito e partito per Parigi, alle sei del mattino.
Ella svenne quando questa notizia le fu annunziata, e non ritornò alla vita che per svenire di nuovo. Una carrozza era andata a prendere il dottore di Nubo a Parigi, ed era tornata vuota, con la nuova che il principe era venuto a menarlo via alle sette. Le convulsioni di Maud divennero più intense.
Ella sentì il dottore entrare nella sua camera, e, levandosi di uno slancio su i suoi origlieri, gridò:
—Ebbene! egli l'à ucciso?
—Non vi è alcuno di morto, madama. Rassicuratevi—disse il dottore con un sorriso grazioso. Ed ò la persuasione che non vi sarà più alcuno in questa incomoda situazione.
—Dio vi ascolti, dottore!—sclamò Maud ricadendo su i guanciali.
Il conte di Nubo ordinò dei calmanti, dette speranze, disse qualche motto gaio, ed entrò nel gabinetto del principe.
Questi aveva svolta la lettera di suo fratello, l'aveva riletta, e l'aveva spiegata larga larga innanzi a lui.
Scorgendo il dottore, levossi e dimandò vivamente:
—Ebbene?
—L'è seria—rispose il dottore. I fenomeni si complicano. Al deperimento si aggiungono ora le sincopi. Ma io la guarirò.
Il principe gl'inchiodò addosso i suoi sguardi carichi di odio, lo afferrò pei polsi e susurrò di una voce sorda:
—La deve morire… Io non voglio uccidere mio fratello… no, non lo voglio!
Il dottore conte di Nubo salutò profondamente, e senza replicar verbo uscì.
VII.
Una prescrizione verbale.
Maud non rivide più suo marito.
Troppo debole per alzarsi, ella lo fece chiamare il giorno stesso nella sua camera, poi il dì seguente; poi il quarto giorno.
Il principe non ascoltò quella voce, non obbedì a quell'appello.
Il quinto giorno e' partì per Nizza.
Il dottore di Nubo gli aveva ordinato di andare a prendere dei bagni di sole nelle contrade del mezzodì. Il dottore gli aveva inoltre promesso di andarlo a trovare e di recarsi insieme a lui in Svizzera.
Infrattanto, il principe aveva preparato un ordine di 150,000 franchi sul suo banchiere per il dottore. Ma questi aveva respinto l'ordine, preferendo ricevere quella somma di mano a mano, nel gabinetto.
Honni soit qui mal y pense!
Il principe pagava al medico certi apparecchi che questi aveva fatti costruire da un fabbricante di macchine di fisica, per i quali apparecchi il dottore di Nubo promettevasi di salvare la principessa Maud di Lavandall.
Ciò ci autorizza a pensare che il principe aveva ritirata la sentenza fatale con la quale aveva condannata sua moglie—alla fine del capitolo precedente.
Il conte Alessandro era ritornato in Russia.
Egli aveva ricevuto il giorno stesso un dispaccio del conte di Nesselrode, che lo chiamava, a nome dello Tzar.
Questa partenza aveva forse deciso il principe di Lavandall a lasciar Maud sola oramai nella sua residenza di Saint-Germain.
Noi che sappiamo le cose di una sorgente più autentica, noi diciamo che il conte Alessandro era tornato a Pietroburgo ed il principe Pietro erasi recato a Nizza.
Ma i giornali di Parigi, che san tutto ed un poco di più, e che sono sempre ben ragguagliati, raccontarono la storia in un altro modo.
Il conte Alessandro non era restato a Parigi che tre giorni e non aveva messo il piede fuori dall'Hôtel du Rhin. Ma il Corsaire lo aveva snidato. Questo giornale aveva anzi ricevuto comunicazione della storia sì drammatica dei due fratelli e di Maud, e sollecitavasi a portarla a cognizione dei Parigini—i quali aman tanto le forti emozioni—soggiungendo fedelmente l'episodio del duello fallito; la ragione di questo contrattempo; e come il conte Alessandro, essendo subitamente fuggito per non aumentare la desolazione di sua cognata, che lo amava, il terribile principe lo inseguisse per obbligarlo a battersi.
Tutti i giornali avevano riportato l'aneddoto sinistro di questo Otello russo, e non si sa come, un di quei giornali era caduto nelle mani di Maud, la quale non leggeva mai giornali.
Bisogna credere che quello stordito dottore di Nubo, il quale ne aveva sempre le tasche zeppe e li seminava da pertutto, avesse lasciato cader quel numero del Corsaire nella camera dell'ammalata—cavando una lettera del principe cui aveva ricevuta da Nizza e che voleva leggerle.
Ed in vero, la cosa ne valeva la pena. Imperciocchè il principe dimandava ragguagli sulla salute di sua moglie, con un'immensa tenerezza.
E' scriveva che egli andava sempre più male, perchè quel clima, troppo ossigenato, non convenivagli punto, e chiamava il dottore appo di lui—quando la salute di sua moglie gli permetterebbe di lasciarla senza pericolo, anzi di condurgliela, se le forze di lei le consentissero di viaggiare, ed il cielo d'Italia potesse facilitarne la guarigione.
Questa lettera fece rivivere Maud. Ella rise perfin del Corsaire, quando vi lesse l'istoria del principe che dava la caccia a suo fratello.
Povera donna! ella conservò perfino il giornale per divertirne suo marito, quando la sarebbe a Nizza; perocchè ella proponevasi di andarvi il più presto possibile.
La grande parola, cui ella aveva a dire a suo marito: Io ti amo! la soffocava oggimai.
—La mia malattia è qui—diceva ella picchiandosi il cuore—questa confessione mi opprime. Quando ne sarò scarica, io mi rileverò. Io sarò guarita.
La malattia della principessa—il dottore lo à detto—era una consunzione lenta per appoverimento di forze, una malattia di languore, a cui s'erano congiunte le sincopi. Ma le sincopi erano cessate, e non restava adesso che a rilevare questo organismo spossato.
Il dottore di Nubo aveva sopperito a ciò, e non senza successo. Ma, se mestieri è di confessarlo, la lettera del principe da Nizza aveva avuto la metà più di efficacia che il trattamento medicale.
Quale era questo trattamento?
Semplicissimo.
Il dottore di Nubo aveva sottomessa la principessa all'azione elettro-galvanica. Egli aveva creduto opportuno di servirsi della pila di Volta—nè più, nè meno—con le modifiche ch'essa aveva posteriormente subite e quali erano note verso il 1840.
Il dottore aveva preferito la pila alla vecchia bottiglia di Leyde.
Una circostanza aveva forse contribuito a questa scelta, o avevagli suggerito quell'idea.
Abbiamo già detto che il principe di Lavandall occupavasi di scienze naturali. E' lavorava sopratutto in chimica, e si dava di preferenza alla decomposizione dei metalli.
Quest'uomo non aveva in sua vita che uno scopo—e lo si comprende senza stento:—trovare un rimedio per l'epilessia.
Egli considerava questa malattia come un difetto di equilibrio tra le parti metalliche che entrano nella composizione dei fluidi del nostro corpo. Sotto certe combinazioni, a certi stati, in certe condizioni del magnetismo terrestre, queste parti metalliche del nostro corpo, di già alterate nel loro stato di ossidamento, ricevevano una scossa: ed ecco la convulsione epilettica! Ristabilire dunque l'equilibrio tra questi elementi metallici, onde sottrarli all'azione elettro-magnetica del globo, o metterli in condizione di sostenerne l'influenza; ecco il rimedio contro l'epilessia!
Il principe intendeva quindi alla scomposizione dei metalli, per ridurli direi quasi ad essenza, affinchè la loro miscela alla sève del corpo fosse immediata ed immancabile.
A questo effetto, egli erasi munito di potenti apparecchi elettrici.
Il dottore di Nubo gli aveva fatto costruire una serie di pile voltaiche, la di cui forza variava—da quella di un colpo di pugno a quella del fulmine.
La serie n. 10 uccideva un bue sul fatto, in un secondo.
Il dottore di Nubo aveva poi fatto costruire, per uso della principessa, una serie simile di queste pile—somiglianti per la forma, diverse affatto per la forza. Imperocchè, la serie n. 1 produceva appena un brivido; la seria n. 5, un forte buffetto; la serie n. 10, una viva scossa.
La principessa prendeva un bagno elettrico due volte al dì, per mezzo di un rheoforo—una specia di mezzaluna che metteva in comunicazione i due poli della pila metallica mediante la catena—e toccava il corpo della principessa con le sue due estremità: l'una applicata al cuore, l'altra al cervelletto.
Ogni cinque giorni, ella saliva di una serie.
L'esperimento essendo benissimo riescito, il trattamento era fisso.
Maud si sentiva sollevata per bene.
Le sue forze si rialzavano. La sua vita cominciava a risbocciare più rapidamente.
Ella si levava di letto adesso, ed un raggio di sole rallegrando il giorno, ella si trascinava verso un balcone per andare ad imbeversene.
Il sole è un sì gran rimedio per i convalescenti! Gli è forse perchè la luce è combustione incandescente metallica?
Ella andava a sedersi nel suo boudoir per ricevere le scosse elettriche. Disponeva ella stessa l'apparecchio; teneva ella stessa i rheofori appoggiati al suo petto. Poteva leggere adesso. Cominciava a pigliare un po' di alimenti. Sostenendosi al braccio di Sarah, faceva il giro del suo appartamento, digeriva già un po' di pesce ed un biscotto di arrowroot in qualche goccia di vino delle Canarie.
Ella era nel rapimento. Ed il dottore partiva dal palazzetto, fregandosi le mani dopo ogni visita.
Si era alla scossa della serie n. 8.
La guarigione consideravasi dunque ormai come assicurata, la cura regolata. Il dottore annunziò quindi un mattino alla principessa ch'egli andava a lasciarla, per una settimana o due. E' le mostrò un'altra lettera del principe, nella quale e' manifestava sempre la stessa sollecitudine tenerissima per sua moglie e la speranza di averla al più presto possibile accanto a lui.
Egli pressava il dottore di andarlo a vedere, perchè sentiva sicuramente che l'aria di Nizza non gli era propizia e credeva che quella di Pisa o di Palermo potesse meglio convenirgli.
Parlando di ciò, il dottore che aveva preso l'asciolvere nel Pavillon d'Henri IV ed aveva forse mangiato troppe ostriche, espresso il desiderio di avere una tazza di the—di quel the oro, che veniva loro dritto dalle canove dell'imperatore della Cina.
Sarah si recò immediatamente al tinello per apparecchiarglielo.
Il dottore continuò, infrattanto, a dare alla principessa le sue ultime istruzioni—cui ella doveva seguire durante l'assenza di lui—e le variazioni che poteva portare nel trattamento.
—Quanto alle variazioni, io credo madama, che non dovete pensar guari a farne—eccetto una forse, cui ci è consigliata dal successo stesso del rimedio adoperato.
—Quale, dottore?…—dimandò Maud.
—L'è semplicissimo: aumentare l'azione dei medesimi rimedi per avere un'efficacia più accelerata.
—Infatti. Io comprendo ciò. E che dovrei fare, allora?
—Io credo, però, che prima del mio ritorno voi non potrete tentar nulla di ben potente. Trattasi semplicemente di accrescere la forza del vostro apparecchio elettrico; ed è d'uopo che io sia lì per intendermi, a questo proposito, col costruttore della pila.
—Ma, Dio mio, dottore ciò tirerà troppo per le lunghe. E voi sapete come io brucio di recarmi il più presto possibile presso di mio marito. Io vado perfino a scrivergli una lunga lettera, che vi consegnerò domani, e voi gliela rimetterete. Io mi auguro che gli faccia altrettanto bene che ne fanno, a me, le lettera ch'egli vi scrive.
—Ma, a proposito, principessa—sclamò il dottore come illuminato da un'idea—il nome di vostro marito, cui invocate, fa sovvenirmi di una particolarità cui avevo perduta di vista.
—Vale a dire?—dimandò la principessa con ansietà.
—Ma! voi avete dovuto rimarcarlo voi stessa parecchie volte, m'immagino.
—Che dunque?
—Che vostro marito à nel suo gabinetto un apparecchio di pile voltaiche esattamente come il vostro, tranne che è di un grado di forza più potente.
—Appunto—sclamò la principessa—credo di avere ciò visto.
—Esso l'è certo, perchè il principe ne usa anch'egli, a mio consiglio, avvegnachè con minore beneficio. La forza della scossa essendo calcolata in ragione del sistema nervoso di un uomo, è più considerevole—ed essa è opportunissima alla circostanza ed allo stato in cui voi siete. Voi non avete, dunque, che a far uso dell'apparecchio di vostro marito, come è desso allistato per numero di ordine, e tenervene là, fino al mio ritorno.
—Avete ragione, dottore. Farò prendermi quell'apparecchio.
—Terminate dapprima tutta la serie del vostro. Quando vi sarete servita del vostro n. 10, sostituitelo con la serie, dello stesso numero, dell'apparecchio del principe.
—Sì, grazia: farò ciò.
—Bisogna mettervi codesto per iscritto, onde non l'obliate?
—Obliare!—sclamò la principessa.—State tranquillo, dottore, un'ammalata non oblia nulla, allorchè ella tiene alla vita quanto io vi tengo.
—Sia. Ci siamo bene intesi.
Il dottore abbreviò le istruzioni—sollecito ch'egli era di sorbire il the profumato che Sarah servivagli. E' parlò allora d'altre cose.
—Sapete voi, principessa—diss'egli—che Parigi si occupa di voi?
—Di me!—sclamò Maud con sorpresa.
—Dovrei dire di vostro marito e di vostro cognato.
—E che dice essa, la vostra Parigi, dottore? Ne sa dessa più di voi e più di me?
—E' pare, madama.
—Allora, dottore, io sarei incantata di apprenderlo, a volta mia.
—Ebbene, principessa, non più tardi che ieri, il Corsaire diceva che il principe di Lavandall segue alla pista suo fratello, in Siberia a quest'ora, in via per la Cina forse, prendendo sempre i cavalli che questi vien di lasciare all'ultima tappa.
—L'è desso terribile, ciò, dottore—sclamò Maud sorridendo. L'è del Byron o del Poe.
—E si soggiunse, principessa, per colmo d'informazioni infallibili, che voi morite di dolore e di disperazione, e che io, vostro medico, ò delle grandi inquietudini sullo stato dal vostro spirito.
—Ma ciò l'è infame!—gridò Maud. Dottore, bisognerebbe far smentire codeste stolidezze.
—Voi v'immaginate questo, madama?—rispose il dottore di un'aria attristata. Non ci crederebbero punto. Crederebbero, al contrario, che la novella è verissima, ed i miei colleghi direbbero che io mi fo della réclame!… Ah! la libertà della stampa! che tossico!
—Ma che fare, allora?
—Nulla affatto. Il Corsaire sarà profondamente ridicolo fra due mesi, quando vi vedranno brillare nei saloni di Parigi, appoggiata al braccio di vostro marito. Tutto al più, madama, se ciò vi aggradisce, io schernirò un poco al club il direttore di questo giornale sulle sue storie, e lo consiglierò ad attingere le sue nuove ad una sorgente meglio ragguagliata.
—Fatelo, dottore, perchè e' vogliono renderci dei lions; e voi sapete che noi amiamo traversare il mondo senza rumore.
Il dì seguente, il dottore venne per la sua visita di congedo, e non trovò nulla ad aggiungere, nè a cangiare alle istruzioni della vigilia.
Maud gli dette una lettera per suo marito, cui aveva avuto la forza di scrivere, ed ove ella diceva infine quella parola tanto agognata dal principe, tanto pura nel cuore della giovane donna. Ella confessava di amarlo.
Amarlo! ciò avrebbe potuto sembrare una menzogna, e di già il principe Pietro la reputava un'ipocrita.
Allora Maud gli raccontava tutte le fasi che la sua passione aveva traversate, tutte le crisi che aveva subite, a come, infine, di un tratto, questa passione anonima—o piuttosto che aveva preso tutte la maschere—erasi trovata amore.
L'accento di questa lettera era così semplice, sì vero, sì toccante, ch'e' sarebbe stato impossibile di scorgervi un dissimulamento. Il bagliore era così abbarbagliante, ch'e' sarebbe stato d'uopo esser di macigno per non esserne rischiarato, riscaldato, trasportato.
Il dottore non sospettava guari che macchina infernale e' rinchiudeva nel suo portafogli!¹
¹ Vedere: Diana, seconda serie dei Suicidi di Parigi.
Qualche giorno dopo, e' partì.
Era verso la fine di novembre. La stagione diventava fredda e pluviosa. Non più caldo sole; non più canto di uccelli; non più farfalle e fiori nel giardino il giorno, e stelle nel cielo la notte.
Maud, che abbisognava di tutte queste cose—che sono il sorriso della natura—era triste; e la loro assenza diminuiva altresì l'efficacia dei suoi bagni elettrici. Ella si cacciava nelle stufe per vedervi ancora delle foglie e dei fiori e saturarsi dei loro languidi profumi.
Come tutte le inglesi, ella folleggiava per i profumi.
Il profumo è il bacio, nella creazione.
Ella sosteneva di già la scossa della sua serie n. 10.
Il quinto giorno, Maud si rese nel gabinetto di suo marito e vi cercò l'apparecchio cui il dottore le aveva indicato. Ma era troppo pesante per le sue forze. Chiamò un domestico, segnalò la cassa delle pile alla scritta n. 10, e gli ordinò di trasportarla nel suo boudoir.
Fu obbedita all'istante.
Ella precedè il domestico.
Questi rimpiazzò la serie n. 10 della principessa con quella n. 10 del principe, ed uscì.
La giornata scorse nella tristezza e nel silenzio.
Sarah era andata a Parigi per far delle compere. Ella ritornò la sera, portando un numero del Corsaire, nel quale si raccontava, che il dottor conte di Nubo era partito per la Svizzera e che il dottore Pinel l'aveva rimpiazzato presso della principessa di Lavandall, la di cui ragione dava segni di smarrimento funesto—dopo una lettera ricevuta dalla Russia.
Maud, profondamente abbattuta, gettò il giornale nel fuoco.
Ah! i giornalisti non sanno che colpi terribili e' portano sovente sopra taluni, quando mandan giù certe novelle con indifferenza, per disannoiare tal'altri!
—Ma che ò fatto io dunque a questa gente perversa—sclamò Maud—perchè mi calunnia così?
Povero moscherino!
Ella non sospettava punto qual diabolico ragno tesseva intorno a lei i fili del suo destino!
Il dottore di Nubo, che seminava dovunque gli aneddoti, lasciavane cadere altresì al club senza farvi attenzione forse. Ed il direttore del Corsaire spigolava senza gridargli: guarda!
E gli è così, che la sventurata giovane malata passava nel dominio pubblico, per la noncuranza dell'uno, per la avidità di novelle della high-life dell'altro.
Ma era poi leggierezza, non curanza, quella del dottore conte di Nubo? Eh! eh!
Maud andò a letto, ma non chiuse palpebra per tutta la notte. Ella sollecitava più che mai il momento di volare presso suo marito, onde metter termine a questi odiosi rumori.
L'indomani, per buona ventura, il dì sorse bello, e Maud contemplò la vita al colore dei raggi del sole.
Ella si levò a mezzodì e passò nel suo boudoir.
Era quivi che la prendeva la sua colazione, prima di ricevere la scossa elettrica.
Ella mangiò quel mattino senza appetito, a causa della notte passata nell'insonnia.
Sarah trovolla più pallida, gli occhi velati, le orbite offuscate e più incavate. La non disse nulla, però, per non attristarla.
Maud s'impressionava sempre, apprendendo che l'andava più male. A venti anni! vedere, a venti anni, la morte che si avanza a passo lento, cauto, guardingo, da traditrice!… Maud bevve un uovo fresco, prese una cucchiaiata di gelée ed un boccone di petto di beccaccia. Poi, si allungò sulla dormeuse.
Sarah, impiedi innanzi a lei, attendeva l'ordine di darle le due fila della pila.
Maud si taceva. Si sarebbe detto che l'avesse obliata. Il suo spirito spaziava altrove, batteva i campi, saltava dall'ospizio di Londra al castello di Lavandall, dalla villa di Saint-Germain a Nizza, dal principe Pietro al conte Alessandro. Aveva bisogno di dormire. L'odore dei fiori le faceva male… E poi, di un tratto, ella si vide come se fosse divenuta folle… Gettò un grido. Allora, ella si accorse di Sarah che aspettava.
—Fa presto dunque, my dear,—ella sclamò. Finiamola. O' sonno.
Sarah obbedì.
Maud prese i due fili dei due poli della pila; li riunì nella sua mano all'asta dei rheofori; la scintilla si sprigionò; la scossa ebbe luogo e si comunicò al cervelletto ed al cuore.
Maud gettò un grido, e si arrovesciò fulminata sul tappeto.
Sarah si precipitò verso la sua padrona e la rialzò.
Maud era morta…
Qualche giorno dopo, il Corsaire scriveva: «Noi eravamo ben ragguagliati sulla situazione mentale della giovane principessa di Lavandall. Ella si è suicidata colla macchina elettrica. La si dice vittima di un amore disperato.»
Un mese dopo, il dottore di Nubo ritornava dalla Svizzera, e portava la notizia, che il principe di Lavandall, avendo tentato l'ascensione del Monte Bianco, era caduto in un abisso di ghiaccio, da cui non lo si era potuto cavare. Era un accidente, un suicidio, ovvero…?
Il dottore lo accompagnava!
Il conte Alessandro divenne il principe Alessandro di Lavandall.
FINE DELL'EPISODIO SECONDO.
VITALIANA
EPISODIO TERZO
I.
Una confessione come ve n'àn poche.
Vogliate entrare, se non vi è discaro.
Noi siamo nella cappella del castello, il mattino del mercoledì santo.
Un prete aspettava innanzi l'altare, dalle otto del mattino, per cominciare la messa.
Erano già le nove.
Ingualdrappato da capo a piedi; il viso rivolto al lato della porta; le spalle appoggiate al corno del Vangelo; quel paziente ecclesiastico sembrava abituato alla sua posizione, a que' ritardi, alla vista del luogo.
Egli guardava dunque con indifferenza suprema i marmi, le colonne, le sculture, le dorature, i balaustri, le tribune, gli stucchi, i vetri dipinti, i merletti delle ogive, le nervature, i rosoni della cappella—che si sarebbero detti un oggetto da oreficeria, talmente erano ricchi, eleganti, minutini—di quell'architettura rococò insomma, della seconda metà del XVII secolo, protetta dai gesuiti.
Il prete applicava i suoi occhi senza sguardo sopra una madonna di Alfonso Cano, e sbadigliava. Egli portava poi quelli occhi carichi di noia sopra un martire del Ribera, e cominciava una seconda tappa di sbadigli; e di tappa in tappa, e' trascinava quello sguardo senza lume da una Santa Agnese di Velasquez ad una Santa Lucia di Ribalta, da un santo inquisitore di Zurbaran ad altri santi e ad altre sante del Domenichino, del Caravaggio, del Guido.—E non era neppur rapito da una splendida carola d'angeli dell'Albano.
Il brav'uomo si sarebbe addormentato, se un mozzoncello di paggio, trasformato per la bisogna in chierico, non gli avesse di tanto in tanto pizzicato i polpacci a sottecchi, e non l'avesse fatto di tempo in tempo trasalire.
Allora e' sospirava, e guardava il bel masso d'iride che il sole, filtrando a traverso il rosone a vetri colorati sulla porta, stampava nel mezzo della cappella.
Come la primavera inneggiava al di fuori! Che brezza tiepida in que' bei viali del parco—mentre che egli aggrinzava su quell'altare di marmo ove il buon Dio, egli stesso, doveva trovarsi a disagio! Come gli insetti e gli uccelli erano liberi sotto quella volta di cielo—mentre che egli—unto del Signore e bisunto del mondo—montava la guardia sotto quella volta di stucco e di legno, ed aspettava, e doveva aspettare chi sa ancora per quanto tempo!
La cappella era vuota.
Tranne il prete ed il paggio, una lampada di oro che oscillava, ed una polvere di oro, che formicolava in quel raggio di sole guizzato al di dentro, nulla movevasi, nè dava segno di vita.
Il rumore indietreggiava, pieno di riverenza o di paura.
Un inginocchiatoio, coverto di velluto cremisi, a fiordalisi, indicava che qualcuno doveva venire.
Poi, non una sedia, non una panca per chichessia. Quella cappella era un gabinetto privato, ove il buon Dio si recava per uso di qualche essere privilegiato, esclusivamente.
La porta che conduceva al di fuori era chiusa. Le tendine di seta verde delle tribune erano abbassate. Una portiera in velluto paonazzo, ornata di frange e di nappe d'oro, mascherava una porta laterale.
Il prete volgeva lo sguardo da quel lato con più persistenza ed ansietà, che verso i capolavori d'arte, i quali popolavano il luogo.
Infine, alle nove e mezzo, quella cortina si mosse, una mano, appartenente ad un corpo che si tirava indietro, la sollevò, a lasciò passare il personaggio aspettato.
Questi era un uomo di taglia mezzana, di aspetto insignificante, di uno scialbo fuligginoso, dagli occhi vitrei. Era calvo, tranne alle tempie, ove si rizzava qualche ciocca di capelli rossastri. Non un pelo sul volto. Le labbra rientrate, e la bocca ermeticamente serrata.
In tutti i suoi lineamenti non aveva di saliente che gli zigomi—i quali si arrampicavano verso l'insù della fronte—e le orecchie, che davan giù verso la mascella inferiore, come quelle del cane. Le narici erano feroci—ed eran desse la sola cosa che parlasse in quella figura allampanata.
Portava sul capo un berretto di velluto nero, cui levò entrando in cappella, ed avviluppavasi in un lungo zamberlucco da camera di velluto violetto.
Su questo, brillava l'ordine del Toson d'oro. E con codesto, delle pantofole ai piedi ed una pezzuola bianca attorno al collo¹.
¹ Si direbbe che si dipinga qui Ferdinando VII di Spagna. ( N. dell'Editore ).
Un gesuita, che lo seguiva a due passi in dietro, s'inginocchiò alla sua sinistra, alla medesima distanza, mentre che egli, con la sua aria vecchiotta, s'installava a comodo sull'inginocchiatoio. Ed il prete dell'altare volgeva il dorso e dava principio alla messa.
Il sembiante del gesuita contrastava singolarmente con quello del personaggio del Toson d'oro.
Quel reverendo era pallido anch'egli, ma di quella pallidezza biliosa, cui cagionano lo studio, la reclusione, l'ambizione, le forti passioni tenute a briglia, il sangue che brucia senza ossigeno, mediante il sistema dei fumivori—di quella pallidezza fatale, insomma, la quale è il prodotto del consumo spontaneo, e che inverniciò tanti visi di grandi uomini e di uomini terribili;—la pallidezza di Dante, di Napoleone, di Filippo II, di S. Domenico e di Fouquier Tinville.
Era alto e magro, e di già un poco curvo, quantunque non avesse che circa cinquant'anni. La sua fronte calva si elevava alta. I suoi occhi profondi e neri fiammeggiavano. Il suo naso aquilino respirava le tempeste. Le sue labbra fine e pallide, ornate di un falso sorriso, denunziavano l'astuzia. Dai larghi denti, spaziati, acuti, indicavano istinti poco umani. Contrariamente alle regole del suo ordine, portava la testa alta, e guardava dritto innanzi a sè.
Gli è vero, che nella sua prima gioventù quel padre era stato dragone. E' si chiamava allora il conte di Landrolle. Si chiama adesso il padre d'Ebro.
Aveva disertato da Napoleone a Waterloo, al seguito di Bourmont.
La messa, che scivolava allo spiccio, passava per sopra al suo capo. E' non ne aveva bisogno. Azzeccava invece il suo sguardo sull'uomo dal Toson d'oro, il quale sembrava più attento e più divoto di lui.
Quando il prete si fu comunicato, il gesuita si avvicinò all'inginocchiatoio. L'uomo che l'occupava fe' segno della testa di non aver d'uopo del ministero di lui. Si alzò infatti ed andò a comunicarsi all'altare.
Di ritorno al suo posto, e' parve più fervente. Il gesuita, più inquieto.
Infine, la messa terminò. Il prete rientrò in sacrestia, ed il personaggio in veste da camera si levò. Il gesuita si precipitò per rialzare la portiera dell'uscio, lo lasciò passare e lo seguì.
Il personaggio dal Toson d'oro non manifestò di avvedersi di quegli atti di deferenza. E' camminò dritto, traversando qualche sala ove zonzavano parecchi lacchè, affrettati ad aprire le porte.
Il gesuita seguiva in silenzio.
Arrivati in una galleria dove si aprivano più porte, il padre d'Ebro s'inchinò profondamente dietro il personaggio che lo precedeva, quasi per pigliare commiato da lui. Allora questi si volse e gli fe' segno di continuare a seguirlo.
Il gesuita girò il manubrio della porta. Il personaggio entrò in una camera da letto, la traversò ed andò a sedere in un gabinetto da lavoro o da preghiera.
Quel ricovero, le di cui finestre sporgevano sul giardino, era tappezzato di raso cilestre a gigli d'oro. Sul muro, al fondo, penzolava un grande crocifisso di avorio, ed ai piedi di questo un inginocchiatoio di ebano. Vicino alla finestra, era uno scrittoio con qualche libro di sopra. A lato, un piccolo stipo incrostato di tartaruga. Dietro, un divano molto comodo, in velluto, ed un seggiolone innanzi lo scrittoio, stemmato a corona.
L'uomo dal Toson d'oro andò a sdraiarsi sul divano ed indicò al gesuita di tirare il campanello.
Questi toccò un bottone e restò impiedi.
Due minuti dopo, un lacchè, seguito da due gentiluomini con una chiave d'oro sul dorso, portò sur un vassoio d'oro una tazza di porcellana ripiena di cioccolatte. Il personaggio la prese, e di un gesto ordinò a quella gente di uscire.
Il gesuita restava sempre impiedi, vicino alla porta.
Quando il cioccolatte fu sorbito, il personaggio porse la tazza al gesuita, additandogli di posarla sullo scrittoio, e disse:
—Prendete quel seggio e sedete lì, in faccia a me.
—Mille grazie, sire—mormorò il padre d'Ebro.
Egli era in presenza di sua maestà, re Taddeo IX.
—O' a parlarvi—disse costui, dopo qualche minuto di silenzio.
—Sono sempre agli ordini di vostra maestà.
—Fate attenzione, padre mio, chè vi parlo in confessione.
Il padre d'Ebro si alzò, s'inchinò, e si riassise.
—Voi vi occupate, padre mio, degli affari della mia anima. Ma voi non vi astenete di darmi altresì dei consigli sulla condotta del mio governo.
—Quando V. M. mi fa la grazia di esprimerne il desiderio…
—E sovente pure, senza che io lo desideri e senza ch'io ve lo domandi.
Il gesuita abbassò il capo, astenendosi dal rispondere.
La voce del re sembrava severa.
—Ora—continuò Taddeo IX—io vi consulto sopra un caso grave—grave per la mia coscienza d'uomo, pel mio onore di cavaliere, per il mio dovere di re.
—Vostra maestà può contare sulla mia lealtà senza limiti, e su i miei consigli—quali piacerà al nostro divino Redentore di inspirarmeli.
—Padre d'Ebro, vi siete voi giammai preoccupato della situazione del mio regno?
—Sire, dopo il regno del cielo—di cui mi sforzo appianare la via a V. M., e cui mi arrabatto a conquistare per me—io non ò che un pensiero: la grandezza, la pace, la sicurezza… e la buona direzione del reggimento di V. M. nelle viste del Signore.
—Io sono vedovo, padre mio—sclamò il re sospirando.
—Il signore ha detto nel libro della Sapienza: «Le amarezze dal vedovo parlano al Signore dell'integrità del suo cuore.»
—Non ò figliuoli.
—Vostra maestà à di già professato con Giob: Dominus dedit, Dominus abstulit!
—Ad ogni modo, Egli avrebbe meglio fatto di lasciarmeli—di lasciarli vivere, se veramente dati E' me li aveva. Ma io ò dei dubbi su questi avvenimenti, cui è inutile di mettere in chiaro oggidì.
Il P. d'Ebro abbassò gli occhi e si tacque.
Il re continuò:
—Ora, che avverrà del mio trono, dopo la mia morte? Ecco la mia preoccupazione. È mestieri che io lo lasci a mio fratello—vale a dire, all'uomo che io odio di più in questo mondo.
—Sire—osservò il P. d'Ebro timidamente—il Signore proibisce l'odio, e la Chiesa non ordina di odiare che il peccato.
—Pertanto, bisogna ad ogni costo—dovess'io proclamar la Repubblica—che quell'uomo non mi succeda.
—Sire, le leggi fondamentali della Corona sono inesorabili su questo punto. Esse assicurano la successione a vostro fratello, se V. M. non avrà prole.
—Inezie! Chi à fatto quelle leggi? Gli Stati della nazione ed un altro re, che non era neppure dei miei antenati. Ebbene, che cosa è un re?
—Sire, l' Ecclesiastico à detto: «Dov'è la parola del re, quivi è la potenza. E chi può dirgli: cosa fai tu? Chi tiene il comando non può far male; ed il cuore di un uomo saggio distingue bene il tempo ed il giudizio.» Tale è il re.
—Io abrogherò la legge allora, e farò per il meglio.
—Sire, lo spirito del male non si rassegna giammai al bene, senza procurare di tuffarlo prima nella desolazione. Il principe di Tebe potrebbe cagionar dei malanni.
—Gli è precisamente codesto che sveglia le mie angustie. I popoli sono diventati infami: essi pensano e giudicano!
—Vostra Maestà è ancora giovane—insinuò il P. d'Ebro—e Dio semina l'avvenire. Ma l'uomo crea pure gli avvenimenti… e li corregge.
—Gli è appunto ciò cui penso da qualche settimana.
—Allora, V. M. troverà certamente la soluzione del problema… ed io supplicherò Dio che la rischiari.
—Non vi è mestieri di tanta luce, padre mio. Io non ò che quattro cose a fare. Primo: invertire l'ordine della successione…
—Gli Stati della nazione non lo consentirebbero, forse; ed e' sarebbe pericoloso farne senza.
—Lo veggo anch'io. E perciò, ò messo da parte questa misura. Secondo: decretar la Repubblica, a partire dall'indomani dalla mia morte.
—Sire, non si rispetta sempre la volontà dei re defunti. Poi, la Repubblica, che assassina i re e rovescia gli altari, è abbominevole agli occhi di Dio.
—Ed ecco perchè ò messo da banda anche codesto mezzo. Terzo, allora: fare uccidere mio fratello.
Il gesuita non interloquì.
Il re continuò:
—Infine, riammogliarmi.
—E perchè no, sire? Vostra Maestà non à che cinquant'anni.
—Lo so. Ma cosa è l'età, cui annunzia un almanacco, se l'età, cui Dio infonde nel sangue, avanza del doppio? Io ò cento anni. Tutto è morto in me. Un nuovo matrimonio non migliorerebbe la situazione del mio regno e le condizioni della mia famiglia.
—Sire, voi obliate che Dio fa dei miracoli, o ch'Ei fa fiorire i rami disseccati.
—Io conosco qualcuno che farebbe di codesti miracoli senza ricorrere a Dio—e lo si vede più spesso che la morale nol consentirebbe. No, padre mio, non vi è resurrezione in questa materia. Quando l'olio è consunto, la lampada muore, e nulla la ralluma. Io ò tentato tutto, del resto, ed avrei dato nove decimi del mio regno a chi mi avesse presentato un elixir della vita.
—Sire, non bisogna scoraggiarsi giammai, quando si mette confidenza in Dio. Il signore à detto: «Io sono il forte!»
Re Taddeo conservò un silenzio pensieroso per qualche minuto, poi soggiunse:
—Padre mio, ove la scienza non arriva, ove la fede non basta, non trovate voi, non intravedete voi un altro mezzo?
—Sire—rispose il padre d'Ebro—io non oso nulla intravedere.
—Nondimanco, nella Bibbia, ove si attingono tanti consigli, ove s'incontrano tanti esempi, ove si cercano tanti espedienti e tante consolazioni, la soluzione dei dubbi che uccidono il mio riposo deve pur trovarsi consacrata.
—Sire, tutto è nella Bibbia. Solo occorre saperla interrogare. Che V. M. degni di mettermi sulla traccia, affinchè io le riveli la volontà di Dio.
—Ma, padre mio, gli è chiaro pertanto cosa io mi cerchi! Io voglio un successore al mio trono. Bisogna che n'abbia uno, che me se ne fabbrichi uno…
—Sire, posso osare comprendervi?
—Osate, osate, padre d'Ebro. Io voglio un successore… e la pace della mia coscienza. I pregiudizi degli uomini mi toccano poco, se la voce di Dio mi rassicura. Altri si son pure trovati nella medesima situazione, padre mio.
—Sire, poichè la M. V. mi ordina di aprire i libri santi, io oso leggervi?
—E cosa vi leggete voi?
—Nella Bibbia, sire, l'analogia è una chiave. Si parla di una radice di Jesse e s'intende Gesù. Geremia parla della Regina coeli, e la s'intende Maria. Ebbene…
—Ebbene?
—Sara non aveva figliuoli da Abramo. Ella introdusse nella camera nuziale la schiava Agar. Rachele non aveva prole da Giacobbe. Ella permise alla sua fante Balah di entrare nel suo talamo. Lia, per la medesima ragione, gli presentò la sua schiava Zilpah. E quella stessa Rachele permise alla sua sorella Lia di rivedere suo marito, per qualche ramo di mandragora.
—Basta—sclamò Taddeo IX. Gli è ciò che io voleva sapere. E cosa avvenne dei figli di quelle schiave, padre mio?
—Essi furono servitori di Dio, antenati di Gesù Cristo, patriarchi, capi di tribù—che erano i re d'allora…
—Padre d'Ebro—riprese il re—e se io seguissi l'esempio di quelle madri, di quelle mogli di patriarchi, troverei io grazia agli occhi del Signore? Potrei io dirgli: Io ò agito giusta i consigli di uno dei tuoi preti? La mia coscienza di cristiano può restare calma? Potrei io dirmi: Io ò compiuto il mio dovere di re!… ed andarmi a riposare nel Signore?
—Sire, io vi parlo in nome di Dio. Se egli vi à colpito—per uno dei suoi secreti inscandagliabili—della più crudele delle sue piaghe: la sterilità!… gli è ch'egli esigeva da V. M. la più grave delle espiazioni: quella dell'umiltà! Dio non poteva pensare a castigare i vostri popoli, che sono innocenti. Ora, il principe di Tebe sarebbe un castigo. La repubblica, la guerra civile. Una sostituzione mediante un ramo collaterale… Dio non può permettere codesto. Adorate la sua mano. Dio non adottò egli Saul, e dopo Saul Davide, in pregiudizio della discendenza del suo profeta? E perchè? Perchè gli Anziani del suo popolo dicevano a Samuele: «Guarda dunque! tu sei vecchio ed i tuoi figliuoli non vanno sulla tua strada; dacci un re che ci governi a modo delle altre nazioni.» Samuele fece quanto potè, e disse tutto ciò che seppe immaginare per distoglierli da quella determinazione. Gli Anziani tennero sodo, ed ebbero il loro re. Ora, se Samuele preferì un guardiano di asine, ed in seguito un guardiano di capre ai suoi proprii figliuoli—egli, Samuele, che faceva l'usura, dava mano alla corruzione e pervertiva la giustizia—di quanto un figliuolo di regina, nato dal cuore di V. M. non dovrebbe essere più gradito agli occhi del Signore, che questo successore obbligato, il quale cagionerebbe la ruina della nazione?
—Grazie, padre mio—disse il re. Io ò preso il mio partito. Voi mi avete convinto… e voi ne siete responsabile innanzi a Dio.
Il P. d'Ebro s'inchinò di un'aria piena di umiltà. Il re si levò e gli domandò:
—Padre d'Ebro, voi che leggete tante cose nelle Scritture Sante, vi avete voi giammai incontrato un qualche passo che si rapporti a re, i quali avrebbero ucciso dei profeti infedeli? E' mi sembra che codesto debba esservi pure.
—Sire—sclamò il P. d'Ebro impallidendo—ciò vi è per l'appunto. Ma…
—Padre mio, parleremo del ma un'altra volta. Riflettete al testo, per il momento. La confessione è finita.
Il padre d'Ebro salutò umilmente ed escì.
Il re suonò.
Un ciambellano apparve.
—Il marchese delle Antilles—ordinò il re.
Due settimane dopo, il marchese delle Antilles era mandato in ambasciata straordinaria presso re Claudio III—onde negoziare un trattato di commercio e navigazione con suo cugino, il re Taddeo IX!
II.
Un mandato come… non se ne da sovente.
Il marchese delle Antilles era arrivato nella capitale del re Claudio III, portatore di un dispaccio del ministro degli affari esteri, che lo accreditava qual negoziatore di un trattato di commercio, poi di una lettera del suo padrone pel re.
Questa lettera, quando S. M. Claudio III riescì a decifrarla, lo turbò considerevolmente.
Da prima, essa era di una scrittura che avrebbe dato l'itterizia al più intrepido paleografo. In seguito, essa era lunghissima. Infine le cose che conteneva sembravano singolarmente sorprendenti.
Sua Maestà credette di aver mal compreso e fece chiamare il principe di Celle, suo ministro degli esteri, a cui la comunicò, non senza qualche esitare—quantunque il principe fosse un vecchio e fedel servitore della sua casa.
La conferenza tra il re ed il ministro durò parecchie ore, ma nulla ne traspirò.
La sera, S. M. fece venire nel suo gabinetto sua figlia—la principessa Bianca.
Il dì seguente, il principe di Celle chiamò nel suo il duca di Balbek suo nipote.
Claudio III era un uomo precocemente caduco.
Sempre malescio, sempre uggioso, sempre bisbetico, sorrideva di raro, benchè avesse il sorriso grazioso. Parlava pochissimo. Molto crudele, perchè divoto—divoto, perchè crudele.
Claudio III simulava e dissimulava come un lacchè—tanto e' temeva di cessare di esser padrone!
Sua Maestà amava molto i suoi figli—quantunque e' si avesse tutte le ragioni per dubitare della sua paternità assoluta.
Aveva sempre paura: di sua madre—che aveva provato di avvelenarlo; di suo fratello—che aveva voluto cacciarlo dal trono; del suo popolo—che covava una rivoluzione; di sua moglie—di cui contrariava le inclinazioni; di suo cugino—che ruminava cercargli briga; dei cospiratori—che tramavano contro la sua vita; della malattia—che lo teneva sempre sotto la sua punta. La sua gioia, adunque, era in far dei meschini.
Aveva nondimeno il sembiante dolce, la parola lusinghiera, le maniere graziosamente squisite, un tantin di spirito, ed era mastro nell'arte del tornire in legno¹.
¹ Si direbbe, a questo ritratto, che si tratti di Francesco I di Napoli. ( N. dell'Editore )
—Figlia mia—disse egli alla principessa Bianca la sera, quando la gli ebbe baciato la mano—ò dovuto contrariarti in questi ultimi giorni nel tuo divertimento favorito, perchè tu avevi cagionato dei malanni. I miei imbecilli sudditi capirebbero, senza fiatare, che venti mila di loro perissero in una battaglia. Essi non saprebbero persuadersi che una principessa possa, per sbaglio, uccidere un bracchiere per un cinghiale. Nondimeno, il tuo medico mi à detto stamane che la tua salute esigeva questi esercizi violenti e che il riposo t'impallidiva. Ti accordo dunque di nuovo il permesso di correre i boschi. Solamente, ti azzecco ai fianchi un cavaliere di compagnia, il quale temperi la tua foga.
—Grazie, babbo—rispose la principessa baciando questa volta suo padre sulla fronte. Se codesto cavaliere cui mi cucite alla gonna è un vecchierello, io lo stancherò, lo sfiaterò… lo farò crepare in tre giorni.
—So pur troppo che tu sei una brigantessa—rispose il re. E prevedendo precisamente codesto, io ti ò destinato un Mentore di venticinque anni: il duca di Balbek.
—Alla buon'ora! Lo farò sventrare allora da un cinghiale—sclamò, ridendo, la principessa.
—Sono contento vederti gaia, cara fanciulla—riprese il re. Abbiamo così poco tempo a restare insieme!
—Che dite voi, sire?
—Io mi sento più malato che mai. D'altronde, figlia mia, tu sei in una età da marito, e da un giorno all'altro…
—Io non sono mica impaziente, babbo…
—Sì: ma altri potrebbe ben esserlo. Per bacco! quando si è vedovi, e si àn cinquant'anni e non successione assicurata, si capisce la premura e le precauzioni…
—Voi dite, babbo, cinquant'anni?
—Sì, è una supposizione. Infine, bisogna esser preparati a tutto. Quando si vuole un successore ad ogni costo, è mestieri mettersi in misura: e quando lo si è, dire: io son pronta! In questo caso, non si va a badare se tu abbia o no fretta. È la cosa stessa che urge e indica la precipitazione. Buona sera, Diana cacciatrice. Non essere schifiltosa come la tua santa protettrice. La pruderie era buona per i pagani e per le dee… non per le regine che debbono arrivare al trono con una successione bella ed assicurata… assicurata ad ogni costo! Buona sera.
Se vi è qualcuno che abbia più spirito di Voltaire e di tout le monde, gli è sicuramente una figlietta a maritare—fosse ella pure una principessa. Bianca comprese il latino di suo padre—latino, del resto, che non aveva mica bisogno di dizionario.
Altra fu la conversazione del principe di Celle con suo nipote, il duca di Balbek.
—Riceverai—disse il principe—oggi stesso forse, il brevetto che ti nomina cavaliere di compagnia della principessa Bianca. Sei tu fortunato! gaglioffo!
—Proprio!—sclamò il duca di Balbek. Solamente, io vorrei che si definissero le mie funzioni presso di quella principessa. Perocchè, in realtà, io non ne vedo mica altra che quella di avere un grifo di cinghiale piantato nel ventre, o di vedere le budella di lei appese ai rami di un cervo.
—Avresti tu preferito che ti destinassero ad allacciare il suo busto, od a porgerle l'asciugatoio all'uscita del bagno?
—Io non vedo nulla di disonorevole in codeste funzioni. E se desse fan parte del mio ufficio, io mi vi rassegno senza mormorare.
—Ebbene, no, signor mio monello—replicò il ministro. Tu devi accompagnar Sua Altezza nelle escursioni ch'ella predilige, preservarla dai pericoli, e farle trovare la natura incantevole.
—Ecco ciò che è impossibile. Io, io non amo la natura. Io preferisco una lucerna che fumiga ad uno spuntare di aurora. Io comprendo una cisterna, perfino un cetriuolo, ma non comprendo un paesaggio.
—La comprensione ti verrà. La difficoltà della tua parte è tutta nel cominciare. Sarà d'uopo di un tatto squisito, cui tu non ài. Imperciocchè, non è già nelle guardie del corpo che s'imparano le delicatezze ed i pigolii degli innamorati da boudoir.
—Ma, fate attenzione, zio, voi confondete i generi. Sotto un nome pulito, io non sono in realtà che un bracchiere, il quale riceverà i colpi, i bufoli, i cinghiali, i contadini—che si avvicineranno senza etichetta a S. A.; la rialzerà se cade di cavallo; le indicherà la strada ed i viali nelle foreste; prenderà a suo conto tutti gli sbagli, tutte le disgrazie della caccia—incluse le archibugiate che si smarriscono ed uccidono un villano per un lepre.
—Esattamente. L'è codesta la parte brutta delle tue funzioni. Ora, e' non incombe che a te, se ài spirito, di rilevarla, e di ciò che è un mestiere di domestico fare la delizia di un cavaliere elegante.
—Ma voi obliate, dunque, che io ò per le mani un'Altezza, una figlia di re, una principessa del sangue.
—Tu puoi anche aggiungere la fidanzata di un re. Ma, silenzio! Questo l'è un segreto di Stato cui ti rivelo, conosciuto adesso unicamente da S. M. e da me.
—Eccomi allora più domestico che giammai!
—Comincio ad accorgermi che ebbi torto di indicarti per codesto posto superbo, perchè tu sei un vigliacco o un imbecille.
—Ed io comincio a comprendere che voi non dite tutto ciò che pensate, e che gironzate attorno a qualcosa.
—Io non gironzo, ma cammino dritto. La principessa Bianca è bellissima. Non vi è dunque nulla da stupire che la si dimandi in matrimonio, e che perfino dei pretendenti slombati ed affranti si mettano su i ranghi. Un cavaliere di compagnia che avesse dello spirito potrebbe, in una situazione simile, far molta via. Gli è un gironzare questo?
—L'è peggio che un gironzare: l'è un affondarsi. Ed innanzi tutto, mi parlate voi da zio, in questo momento, o da ministro di S. M. Claudio III?
—Come tu voi. Ma ponghiamo che io ti parli da ministro, non fosse che per obbligarti al secreto: che conclusione ne cavi tu?
—Allora, io prego Vostra Eccellenza di farmi l'onore di darmi delle istruzioni precise; perocchè, che io capisca o no, sono deciso a non capir così subito.
—Meglio vale allora che io faccia rivocare il decreto, e che lo intitoli a qualcuno che abbia intelletto più svelto.
—Prego V. E. di riflettere ch'e' non trattasi qui di una quistione d'intelletto, ma di una consegna. Se io mi determino ad operare per mio proprio conto, vedrò cosa avrò a fare. Se debbo funzionare per conto altrui, ò il diritto, mi penso, che mi si spieghino gli ordini.
—Ai tempi miei, i giovani non facevan mica tante moine par piacere alle belle giovinette. Ed ò anche visto, quando ero in Russia, dei belli e forti garzoni mettersi a subbisso per acchiappare un sorriso della vecchia Tzarina. È vero che noi eravamo allevati allora dai gesuiti, e che oggi sono dei pedanti che vi abbrutiscono in ciò che addimandasi un liceo, un collegio, un'accademia, un'università. Ai miei tempi l'era naturalissimo che un marito di cinquant'anni, che si permetteva una moglie di vent'anni, si desse altresì un coadiutore per la confezione della famiglia. Il posto di cicisbeo, e perfino di abbatino, era allora pesante, ma onorevole ed ambito—ed un padre si sarebbe creduto disonorato se avesse appreso che il suo figliuolo era proprio di lui.
—Ahimè! Eccellenza, l'è una disgrazia. Ma, ai giorni nostri, non si fanno in collaborazione che i vaudevilles per il teatro. I figliuoli in accomandita ed in Compagnia Anonima esistono tuttavia, ma non sono riconosciuti dal Codice Civile—e monna polizia si mischia di quella gentilezza che chiamasi un adulterio.
—Vattene allora, e sii un semplice bracchiere.
—Io non dico codesto. Io desidero solamente che si specifichino le mie attribuzioni, onde non fuorviare. Si può esser colpevoli. Non è permesso di essere stolido o ridicolo, se si sbaglia.
—Tu sei di una probità miracolosa! Vado a farti nominare direttore della Banca. Ma ammettiamo, per ipotesi—per scandagliare i gradi della tua modestia e della tua virtù—che ti si dica: Vi è un marito che vuole un successore ad ogni costo, e che non è sicuro di sè: vuoi tu associarti all'opera sua? Che risponderesti tu a questa proposta filantropica?
—Eccomi qui. Ma ad una condizione, anzi a due.
—Va là!… la donna è bella e giovane…
—Monta poco, fosse ella altresì regina o qualcosa di simile. Se non si trattasse che di una borghese… Ma con dei re? cattera! Essi ànno sempre in tasca una corda per impiccare, ed in bocca una menzogna per sconfessare ciò che non gradiscono.
—Che professore di logica! Gli è vero che non vi è nulla di così concludente che la paura. Vediamo dunque codeste condizioni.
—Da prima, vorrei che V. Eccellenza mi desse la commissione con una lettera ministeriale in buona regola…
Il ministro si lasciò andare ad un grande scoppio d'ilarità, e non rispose. Il duca soggiunse:
—In seguito, che mi si nomini ad un'ambasciata, a Vienna, a Madrid, a Parigi, non importa dove, ma che io possa tenermi lontano dagli Stati del re clemente ed adorato, Claudio III.
—E poi ancora?
—Ecco tutto. Ed io prometto di fare le cose a dovere.
—Veramente, io sono sbalordito di tanta stolidezza ed oltracotanza! Ma tu vivi dunque nel regno della luna, eh!
—Se ciò fosse, non avrei dimandato nulla di nulla, ed avrei regalato, senza farmeli dimandare, dei figliuoli ed anche dei nipoti a chiunque avesse una bella moglie. Ma noi siamo nel regno di S. M. Claudio III—subillo ciò all'orecchio di mio zio—negli Stati di un re, dove il tradimento è una massima di governo; ove l'arbitrio, la ferocia, la bugia, la dissimulazione, la perfidia, sono degli strumenti di regno. Dimani, che per una ragione qualunque la cosa fallisca; che non se n'abbia più d'uopo; che si sappia; che dispiaccia; che riesca altrimenti da ciò che si aspetta… ed eccomi lì compromesso ed afforcato. Non si risparmiano gli uomini cui si caricano di tali secreti e di tali funzioni. Ebbene, io voglio tenermi al coperto di codesti colpi di soppiatto. Io voglio, innanzi tutto, essere lontano di qui; provare, in seguito, se mi si accusa di fellonia, che io obbedii agli ordini che avevo ricevuti. Io separo in ciò la parte dell'uomo da quella del funzionario. Io compirò la prima parte per modo che non vi sieno reclami; eseguirò la seconda nel senso preciso delle istruzioni.
—Ài tu finito, leguleio, casista? Tu non comprendi mica dunque che guazzi nell'assurdo?
—Niente affatto. Vostra Eccellenza non dà ella dunque delle istruzioni minute ai suoi agenti diplomatici? Il viaggiatore che vuole abbordare nei paesi a governo sospettoso non si munisce egli forse di un passaporto? Il mio passaporto è l'ambasciata. Io sono un agente diplomatico di una categoria non peranco classificata, ma le cui funzioni sono delle più delicate. Mi date voi, sì o no, una missione? Se me la date, esigo il mandato. Io non sono mica di coloro cui un ministro o un re si propone sconfessare o spezzare, se la missione volge male. Voi rifiutate la lettera ministeriale? dunque voi meditate un tradimento.
—Tu vuoi dei documenti? dunque tu vuoi trafficarne. Non vedi tu, idiota, che una scritta simile nelle tue mani sarebbe una sentenza di morte contro di te? Non è, no, per fartene un parafulmine che tu cerchi codesto. Chi andrà a dimandarti conto di ciò che avvenne nel fondo di un folto macchione, o nelle serate di un boudoir, se non si desidera di meglio che ciò abbia luogo ed il più presto possibile? Chi t'impedisce di ritirarti, se incontri ostacoli? Chi t'impedisce di pigliar delle precauzioni prima d'impegnarti? Il pericolo sarebbe desso nel successo? Ma, non ti si dà una missione simile per mancarla. Lo scritto che tu dimandi non è dunque per la tua sicurezza.
—Lo è per l'appunto.
—No. Esso sarebbe invece un giorno una tentazione forse per la tua cupidità, per un cattivo pensiero qualunque. Tu non rifletti dunque che si vorrebbe forse un giorno spacciarsi di un uomo che possiede di tali secreti, di tali documenti? Tu avresti una pistola carica e sempre armata, la bocca volta al tuo cuore. Tu saresti sempre in pericolo di morte, o in misura di commettere un'infamia, un tradimento, cui si vorrebbe impedire.
—Io so bene che avrei in poter mio una macchina infernale la quale potrebbe annientarmi ad ogni istante. Però io mi piaccio a lottare contro il pericolo ed a dimesticare il serpente a sonaglio ed il tigre. Io avrei ogni interesse a non mai mercanteggiare di quel documento. Chi potrebbe pagarlo? Contro chi ne trafficherei io? Contro mio figlio, che sarebbe sur un trono? Ma bisognerebbe essere idiota. Io voglio un attestato della mia partecipazione a questa grande opera, non per farmene una spada, ma un origliere. Voglio poter dire: sono padre! Non sarei giammai tanto assurdo per dire: ecco lì un bastardo! mi comprendete voi, Eccellenza?
—Io comprendo che tu sei un indegno furfante, che ti trovi in gambe nel bene o nel male. Ma ti sembra desso possibile che io mi indirizzi al re per domandargli l'autorizzazione di una simile lettera ministeriale? Un'ambasciata, dopo dei servizi di questo genere, resi a due sovrani, si concepisce, si scusa. Si perdona la tracotanza della tua dimanda. Si promette. Si accorda. Posso anzi prendere questo impegno, perchè il posto di Parigi va a vacare quanto prima. Ma le istruzioni scritte?… Tu sei pazzo, tre volte pazzo, goffo, tre volte goffo.
—Non è mestieri, zio, che dimandiate al re l'autorizzazione di darmi le mie istruzioni per iscritto. Ciò entra nelle attribuzioni del ministro. Altri si contenterebbero di averle verbali. Altri, semplicemente indicate nell'ombra dei sotto-intesi, come voi fate al presente. Altri vi afferrerebbero a mezza parola e si lancerebbero all'avventura testa giù, a loro rischio e periglio. Io, io sono leale: voglio che il mio ufficio mi sia formulato in iscritto. Il re vi ci à di già autorizzato, significandovi l'intento ed accettando l'uomo. I dettagli sono l'opera del ministro, come qualunque altro semplice regolamento. Riflettetevi. Io accetto il mandato. Poi, al momento in cui io sarò pronto per metterlo in atto, verrò a reclamarlo, secondo la formula che vi presenterò. Non temete nulla. Ma mettetemi al sicuro. Noi siamo tutti complici. Noi abbiamo dunque lo stesso diritto alla sicurezza e lo stesso dovere del silenzio. Perchè reclamate voi la parte del lione e la facoltà esclusiva di potermi un giorno tradire ed impiccare?
—Va, balordo, gli è di già troppo di chiacchiere per una semplice ipotesi—cui ò proposta per scandagliare il tuo carattere ed il tuo spirito.
—Zio, dite a Sua Eccellenza che la ringrazio; che le farò onore; che sarò fedele e cavaliere; che il documento cui esigo non sarà giammai una lettera di cambio, ma forse, un giorno, una semplice credenziale; e ch'ella può lasciarmela con confidenza. I duchi di Balbek non tradirono mai: voi lo sapete.
—Tu vuoi dunque collocarti a piacere nella gola del lione? Si subisce il pericolo. Ma non se ne fa la sua aria respirabile, il suo pane quotidiano. Va, rifletti a tua volta ed abbi la fortuna di riescire. Dimentica il funzionario e sii il duca di Balbek. Una tanta bellezza! venti anni?… Io andrei a farle la corte nel cratere del Vesuvio.
Due giorni dopo, il barone di Luci portava a re Taddeo IX la risposta autografa di suo cugino, re Claudio III.
E l' hallali risuonava nelle foreste!
L' hallali!
III.
Ove si apprende: che tutto è bene ciò che riesce bene.
La principessa Bianca, dicevano i cortigiani, è una Minerva, come se ne veggono ancora le statue nei Musei. Suo padre l'aveva chiamata Diana. Forse, ei sarebbe restato più nel vero se la si fosse addimandata una Venere contadina!¹
¹ Non vi pare d'intravedere qui la regina Cristina di Spagna? ( N. dell'Editore )
La statura s'innalzava un poco al di sopra della mezzana, ma bene assisa sulle groppe e solidamente costrutta. Nell'insieme, svelta ed armoniosa. Non si appiccava l'epiteto di piccino nè ai suoi piedi, nè alle sue mani; ma le sue mani seducevano, i suoi piedi provocavano.
Io mi sono sempre dimandato perchè dei piedi graziosi, piccoli, inarcati, elastici, provocassero, solleticassero. Che mi si parli delle labbra, io lo comprendo. Delle labbra rosse, leggiermente umide, a pelle fina, a palpitazione soave, a polpa attraente—delle labbra, insomma, come quelle della principessa Bianca—sono un focolaio di amore a getto continuo, che danno i brividi. Que' piccoli denti—che debbono morsicchiare sì bene—sembrano una frangia tagliata in un petalo di magnolia! Quegli occhi neri, grandi, lucenti, che vi avviluppano e vi penetrano; che riverberano l'infinito; che rivelano l'abisso; ove il piacere è re; ove l'amore è tiranno… appiccano l'incendio dovunque si posano, la disperazione dovunque passano, fanno paura se s'inalberano, uccidono se diventano languenti. Le sopracciglia che li coprono scoppiettano scintille se si aggrottano.
La fronte di Bianca non è alta, ma levigata e candida e si perde nelle onde infinite di una capigliatura nera e vellutata—che morde il freno, lo rode ed irrompe—correndo dietro alle carezze della brezza ed ai raggi del sole.
La sua fiera narice è crudele e voluttuosa, altera e provocatrice. Il soffio che l'agita, in passando, è elettrico.
La vita, esuberante, lussuosa, irresistibile, inebriante, impetuosa, esigente, scoppia da tutti i suoi lineamenti. Il color vivo delle sue guance la rivela. Bianca invita al festino degli dei, che inizia alla beatitudine, ma che uccide se vi vi si tuffa con abbandono. Chi non vorrebbe morire su quel petto, la bocca applicata a quel collo serico e bianco—il serpente dell'Eden?
Malgrado la vivacità e l'agilità della principessa, il suo portamento era reale. La sua voce, un po' ruvida, commoveva. Il suo gesto, breve e vivo, era eloquente. Il suo andare seduceva. Assisa, era volgare; in piedi, imponeva; a cavallo, vi trasportava come una fanfara di guerra. Negli addobbi comuni delle donne ella era triviale. Su di lei i gioielli smorfiavano; il fiore appassiva; la gaze si screpolava. Il velluto, la seta la rimpicciolivano. Bisognava vederla nel suo costume virile di amazzone per ammirarla nella sua apoteosi. Ella rivelava l'androgenia dell'anima.
Nulla di più goffo se ella danzava. A ginocchio, un libro alla mano, nella cappella, alla messa, era disperatamente ridicola e meschina. Un bicchiere alla mano, a tavola, ella avrebbe fatto scoppiare Arianna di gelosia.
Non pertanto, ella suonava bene il piano, il quale sotto la sua mano potente scoppiettava come una frusta, scintillava, espettorava dei suoni come colpi di pistola. Laonde ella non suonava mai sempre che arie guerresche, inni spietati, sinfonie tempestose, finali gremiti di antitesi ed orripilanti.
Il piacere che l'ubbriacava era la caccia. Nei castelli reali si trovava un registro zeppo zeppo di più migliaia di pezzi di grosso selvaggiume ucciso dalla principessa Bianca. Si erano bene astenuti però d'iscrivervi altresì che ella aveva morti per sbaglio cinque o sei picchieri e parecchi contadini e guardacaccia. Il sangue, compreso il suo proprio, l'intimidiva poco.
Malgrado ciò, era sensibile alle lagrime, e gli atti generosi la facevano singhiozzare. Un uomo ucciso la colpiva; un fiore appassito l'inteneriva. Leggeva di raro; ma se prendeva un libro, era sempre un poeta: Schiller, Byron, Hugo, Köerner, Zorillas… Sapeva tutte le lingue.
Una principessa non è dessa una piuma, cui il vento deve un giorno trasportare Dio sa su quale riva?
Il moto era per lei la vita; il riposo la spegneva. Aveva l'audacia di un uomo; la volontà di bronzo… di una donna.
Eccola adesso sur un ginetto andaluso nei viali della foresta.
Quindici giorni di reclusione le davano il farnetico del movimento.
Il suo occhio si dilatava, le sue narici si gonfiavano, il suo seno si apriva. I suoi colori, un istante impalliditi, rifluivano trionfanti. La sua testa sfidava il nugoleto che si granulava di fulmine e s'imbeveva di uragano. La sua voce scoppiava e balzava.
I suoi fratelli e gl'invitati a quella caccia erano restati indietro, lontani, spauriti. I bracchieri, sperperati nella macchia, nei mille sentieri della foresta.
Un solo cavaliere, il duca di Balbek, si teneva ai suoi fianchi, attaccato al suo abito, gualcendo sovente la sua amazzone in quella corsa scapigliata. I loro cavalli erano ebbri di demenza. Tutto è fiamma intorno a loro: il pelo dei cavalli, i ferri dei piedi, gli occhi dei padroni, l'aria del cielo… tutto tramanda scintille! Lo spazio è un abisso: assorbe, attira, porta via, trasporta—dove Dio mise dei piedi, esso attacca delle ali.
Ove van dessi? verso il limite illimitato: in niun luogo! Avanti! poi avanti! avanti sempre!
Una frana a picco li ferma infine.
Bianca dà in un pazzo riso.
Il duca cava il suo cappello e saluta.
—Mica male!—sclama la principessa. Per un primo saggio ve la siete tirata bene. Promettete qualcosa.
—Non sono io l'ombra?—rispose il duca. Il corpo mi trasporta nell'orbita sua. Ove è il merito che Vostra Altezza mi fa l'onore di rilevare?
—Ritorniamo. La bufera bufonchia. Se il nuvolo crepa voi andrete a pigliare un cimorro; ne ò paura!
—Altezza, io non mi incatarro che al lume dei doppieri.
—In questo caso non vi accimorrerete mai al mio seguito. Voi non andate dunque mai al ballo, voi? mai allo spettacolo?
—O' bisogno di ben foderarmi di flanelle, se par avventura sono obbligato di andarvi.
Rivennero su i loro passi e traversarono i cedui.
Era la fine di maggio. La natura fremeva ancora del suo immenso andare in amore—ciò che si armonizzava completamente con l'espressione di aspettativa appassionata cui la giovane coppia portava negli sguardi.
Camminavano adesso fianco a fianco, a passo lento, in silenzio. E' cercavano forse un finale spontaneo, che perdesse quell'impronta per ordine, cui l'una aveva compreso nelle parole di suo padre, l'altro in quelle di suo zio. Il corpo era stanco della corsa sfrenata; l'anima dominava. All'agitazione tumultuosa succedeva il meditare ondulante. Galleggiavano nel vago.
La natura cantava sotto gli abbracciari del sole che divenivano più incalzanti. La cervia, sbalordita dal rumore cui la caccia spandeva lontano, si ritirava nei suoi folti appartati. Il caprioletto saltellava intorno ai cavalli. Il daino bramiva.
La caccia del giorno era ai lepri, ai conigli, agli uccelli, di cui si compiè un'abbattagione.
La volpe, cauta e curiosa, si teneva in distanza, l'occhio al fucile che pendeva dall'arcione di Bianca ed alla carabina che riposava sulla coscia del duca. Su i picchi delle roccie lontane, il lupo, assiso sulle sue lacche, faceva sentinella, inquieto ma grave, portando le sue orecchie puntute verso tutte le direzioni delle brezze che stuzzicavano l'aere sonnolento. Nel profondo dei boschi si udiva il grugnare sordo del quarteruolo e del vecchio solitario, che meditavano un'irruzione subdola, ma non osavano rischiarla.
Che gaiezza poi nei rami! Che cinguettìo, che garrito, che gorgheggi, che saltellare, che strepito di ali, che beccheggiare, che lascivia! Che negghianza negli uni, che inquietudini per la casa negli altri! Che spanto di pietre preziose negli occhi, nelle ali, nelle goliere, nei ciuffetti, nei pennacchi! Quei fiori dell'aria si abbandonavano ad un baccanale sfrenato. Quei piccoli bellimbusti tormentavano la quercia grave e screpolata dal fulmine, l'acero che protesta, l'elce che si stecchisce, l'olmo che cede, l'abete che si dondola realmente, il pino che se ne burla, l'agrifoglio che dà la berta, il biancospino che ride in mancanza di meglio, il ginepro, il cipresso, il larice, il tasso, che vanno in bestia. Quegli audacelli pigiavano sopra tutti; facevan peggio che salivare sulla faccia di quegli esseri secolari e serii, i quali, incappellati come i Grandi di Spagna innanzi al re, portavano il capo alto innanzi agli aquiloni.
Un olezzo indefinito si spandeva nell'aria e la saturava. Esso si esalava di dovunque: dalle thuye, che si schieravano in battaglia intorno ai grandi alberi; dai budleya ai grappoli di fiori azzurri; dalle piccole deutzie al loro nevigato di fiori di argento; dagl'indigoferi che sparpagliavano i loro getti di porpora, dai rhus che lasciavan folleggiare i venti lascivi nella loro bionde capigliature inanellate; dai vitex che innalzavano le loro lunghe spighe di fiori cilestri. Che irradiamento animato! Che invasione di vita! I viali ombreggiati, cui la principessa Bianca ed il suo cavaliere traversavano, sembravano degli squarci in un mare di smeraldo. La foresta era una sirena.
La natura fondeva i colori, i profumi, le voci, le scintille, i sentimenti ed i gradi.
Si aspettava Bianca ed il duca per asciolvere e tornare al castello.
Si era ucciso una montagna di lepri, di conigli, di palombi, di merli, qualche riccio, qualche istrice, qualche scoiattolo, molti fagiani. Si era ucciso per uccidere. Imperciocchè tutto ciò, in quella stagione, non valeva nulla. Non era la caccia, era l'assassinio. Quanti amori interrotti? Quanti orfani condannati a perire?
Bianca non aveva scaricato il suo fucile. Ella non era venuta per dar mano a quel massacro, ma per bagnarsi nell'aria aperta, dopo una settimana di città e di castello. Le sue guance, del resto, rifiorivano: la si vedeva di nuovo vivace e splendida.
L'indomani ella ricominciò. L'aveva ordinato il medico—e la principessa rispettava la scienza! Poi, il giorno dopo, e poi i giorni seguenti.
Il duca di Balbek l'accompagnava sempre.
Ed io mi penso che l'uomo cominciava a soppiantare il funzionario.
Gli staffieri ed i bracchieri, che li seguivano in distanza, li smarrivano talvolta nel laberinto dei folti e nei sentieri della foresta, cui gli stessi guardacaccia visitavano di raro.
La coppia fortunata cominciava per un galoppo vertiginoso, e quando si trovava immersa, sola, nella solitudine discreta, nei siti ove la natura libera si lasciava andare alla sua deboscia di creazione, rallentava il passo e scambiava qualche proposito.
La parola era misurata: lo sguardo indiscreto.
Poi, tutto di un tratto, Bianca partiva come un lampo, o faceva inalberare il suo cavallo sul suo compagno, e rideva; o si lanciava nelle terre paludose per inzaccherare il suo cavaliere—il quale si spaventava se la vedeva affondare.
E quanti accidenti in quelle scappatucce!
Ieri, l'era l'amazzone—che, appiccata ad un arbusto, aveva scoverto una gamba ammirabile! Oggi, l'è una bigonia che la spettina e le scioglie le trecce, cui bisogna dar opera a rannodare. Talvolta, era una robinia che le strappava la frusta dei suoi artigli rosati. Tal'altra, una betulla che le solcava il viso, e bisognava rinfrescarlo con una pezzuola intrisa nell'acqua.
—Che punto di vista magnifico. Voi non lo ammirate, voi?
—Altezza, io trovo che la natura è sciocca in tutte le sue manifestazioni, eccetto…
—Eccetto?
—La donna.
—Voglio arrampicarmi su quelle roccie, ove potrò trovare un nido di sparviero. Aiutatemi a smontare.
Ed il duca la riceveva sul suo petto.
—Aiutatemi adesso a rimontare a cavallo.
Ed il duca la prendeva nelle sue braccia, adagiava il di lei piede nella staffa, aggiustava, o disordinava l'amazzone.
—Oh! come quella glycina bleu è bella ed olezza bene! Andate a cogliermela.
Ed il duca correva, e le cacciava poi dentro al busto il grappolo del fiore colto.
—To'! quel filo di ruscelletto mi dà sete.
Ed il duca le prestava la sua spalla per saltar di cavallo. Ed ella toglieva i guanti, si stendeva lunga lunga alla ripa del rivolo, attingeva l'acqua nel cavo delle sue palme, beveva, si refrigerava il sembiante e…
—Bravo! ò perduto la mia pezzuola. Prestatemi la vostra, duca.
E poi a galoppare di nuovo. E dei motti interrotti: e degli impallidimenti subiti; e dei brividi indiscreti ad un tatto accidentale; ed un respirare oppresso e bruciante, quando si era di troppo vicini; e dei languori traditori, delle risposte vaghe, degli sguardi petulanti, delle reticenze eloquenti!!!
Una settimana sorvolò così.
Quanto cammino compiuto, ma quanta distanza ancora!
Non pertanto, il vaso si empiva, l'acqua saliva sempre e sempre, ad ogni passeggiata, ad ogni costa, in tutti gli angiporti della foresta ove si scambiava una occhiata, una parola. L'acqua saliva e saliva—ma gocciola a gocciola.
Una gocciola ancora!
Tuttavia, non mai un motto galante, non mai un'allusione. La parola sarebbe stato un delitto di lesa maestà, poichè la situazione era sì augusta.
L'amore non è parlamentare.
Gli antenati di S. M. Claudio III erano stati cacciatori.
La loro capitale era circondata di residenze di caccia l'una più bella dell'altra. Ve n'era una dozzina, tutte ricche di cacciagioni, pittoresche, confortevoli, deliziose. Era la sola cosa che fosse reale nella dinastia e nel regno!
Oltre quelle foreste, quei parchi, quei palazzi di caccia vicino alla città, ve n'erano poi altri più lontani, altri al centro stesso della contrada. Vi si facevano dei viaggi, e vi si restava delle settimane.
Un mattino, la principessa Bianca fu presa da un desiderio imprevisto di andare a cacciare i piccioni in quella bella residenza di Lacerta, che è la Versailles di re Claudio.
Bianca ed il suo cavaliere salirono in sedia di posta e vi arrivarono alle nove.
Due ore di viaggio, l'uno in faccia all'altra!
Si parlò poco.
L'occhio sembrava carico di procella. Chi sa se oggi non si darà battaglia!
Ma presto, in sella. Il sole carica: i suoi raggi sferzano; maggio spira. In via. Si servirà l'asciolvere nello châlet, ove re Zebulone IV cucinava i suoi salmis, confezionava le sue appetitose gibelottes. Che si attenda quivi. Avanti… avanti!
Ed il galoppo furibondo e scarmigliato cominciava.
Chi potrebbe seguire Bianca, che sembra pigliare le ali!
Ella s'ingolfa nel macchione; traversa le chiarelle, ove il duca la rivede, e galoppa al suo seguito. Volge a sinistra; sale sur un poggio e si ferma in una crocevia che rassomiglia alla rosa dei venti. Il duca la raggiunge. Ella s'immette in un sentiero coverto e sbocca in una specie di valle magica.
L'ombra di un pino, come un obelisco, segnava mezzodì sur una roccia.
In mezzo a quel guazzabuglio di pini, di cedri, di abeti, di criptomerie che si rizzano svelte e spigliate come colonne, si sarebbe creduto trovarsi nella moschea di Cordova—di cui si è fatta una cattedrale! Il sole, a traverso i rami, zebbrava il suolo di rabeschi fantastici. La mandevillea, dai grossi mazzi di fiori bianchi che olezzano il gelsomino, invadeva quelle colonne. La phylophora, dai pampani lucenti, circondava le loro basi e si slanciava in pergole. La maurandia, dai fiori purpurei, ed il phoseolus, dai fiori rosei carichi di profumo, spiegavano le loro cortine. Un ruscello accompagnava della sua sordina i gorgheggi dei rosignuoli, le improvvisazioni alla diavola di una folla di piccoli uccelli che si apparecchiavano a fare la loro siesta. Il suolo era tappezzato di una giovane felce tenera e fresca.
—Quest'alfana mi à stanca—sclamò Bianca.—Vorrei riposarmi un istante e dar la caccia alle farfalle, alle sponde di quell'acqua.
Il duca le porse il braccio. Ella si lasciò cadere in braccia a lui—tanto sembrava affaticata! Si assise sur un cespo di erbe, ed il duca legò i cavalli ad un albero.
Il silenzio della voce umana era completo. Il brulichìo indistinto della natura era un narcotico. Sul loro capo, le tortorelle, poco pudiche e poco intimorite, ricambiavano dei lunghi, lunghi baci. La freschezza soave ed imbalsamata insinuava il languore.
Il duca si assise a fianco di Bianca.
Ella impallidì.
La sua respirazione divenne a balzi. Le sue labbra si scolorarono. Le sue narici si dilatarono. I suoi occhi si velarono come il cielo negli istanti che precedono la bufera. Sembrava accasciarsi. Il sonno la guadagnava. Avrebbe voluto levarsi; ma quello sforzo la ravvicinò al duca, che si era collocato ad una certa distanza, discreto.
—Il mio ducato per un tappeto!—sclamò costui di una voce velata.
Bianca sorrise.
La di lei testa s'inchinò sulla spalla di Balbek, che si abbassò.
Gli aliti si confusero. Gli occhi si chiusero. I capelli dell'una sfioravano il viso dell'altro….
Come ciò avvenne? Per quale contorsione di collo ebbe ciò luogo? Nol so. Ma la bocca dell'uno si trovò contro la bocca dell'altra.
Bianca dormiva.
Le loro labbra tremolarono. Un rumore sordo, come una foglia di rosa che si squarci, ne seguì. Quelle due bocche restarono così a ricamare, per tutto il tempo che l'assopimento di Bianca durò.
Infine, ella si svegliò in sussulto e gridò:
—Guarda! io ò dunque dormito?
—Altezza, sì—e profondissimamente ancora!
—Fa sì caldo! si sogna in piedi. Ed io credo di aver sognato…
—Delle cose spaventevoli, Altezza?
—Non so. Siete voi poeta, duca?
—Che! vi sarebbero ancora dei poeti, dopo che non vi sono più delle Margherite di Scozia?
—Come! Vi sarebbero ancora degli Alain Chartier, che meritino di essere baciati sulla bocca dalle principesse… attempatelle?
—Io credo, Altezza, che qualunque uomo che dica ad una donna: Io t'amo! sia più poeta di messer Dante e di lord Byron, e meriti questa ricompensa. Del resto, ogni poesia non è che un ribiascico di questa strofa divina.
—L'avete voi mai cantata codesta strofa, duca!
—Io non l'aveva cantata ancora.
La principessa si alzò di un lancio e risalì a cavallo, appoggiandosi appena al braccio del duca.
Ella tirò un colpo di fucile e partì al galoppo.
Arrivata al crocicchio, Bianca tirò un altro colpo ed ordinò a Balbek di fare altrettanto. Poco dopo uno dei bracchieri comparve all'estremità di un viale.
La principessa entrò in un sentiero, al passo, ed il bracchiere la raggiunse.
Si seguì quella via.
Il silenzio era completo.
Bianca sembrava offesa; il duca affranto. E camminava dietro, apostrofando il suo cavallo.
Quella parte della foresta era scura e bassa. Delle roccie bianche, seminate qua e là, le davano l'aria di un carnaio di giganti, che avrebbero lasciato quivi delle ossa senza espressione. Il suolo era dell'ocra rossa. Dei serpenti solcavano le sabbie del sentiero. Delle gazzere davan la berta ai cavalieri e cominciavano una chiacchierata poco animata con uno stuolo di cornacchie in sentinella all'apice di un masso. Un pugno di piche si cacciò nella partita ed ingarbugliò la conversazione.
—Mastro Alain Chartier in prosa, capite voi ciò che quelli amabili piumiferi ci vogliono dire?
—Altezza, io m'immagino che quelle bestie irriverenti si burlino un poco del prossimo.
—Davvero! E che dicon esse dunque?
—Semplicemente questo: Oh! come il duca è brutto! oh! come la principessa è sirena!
—E voi non mandate loro una carica di piombo?
—Magari no! Quelle spiritose bestie ànno ragione.
Si volse a sinistra, ed un quadro maraviglioso si presentò ai loro sguardi.
Il viale metteva capo al lembo di un burrone. Di fronte, si rizzava altissimo uno scoglio rossastro a foggia di mitra, sormontato da un picco, come il corno dei dogi di Venezia. Un torrente scendeva ad infrangersi contro quel corno, e l'acqua, così respinta, si gettava in due nappi, a destra ed a sinistra, formando due cascate, che ricadevano da una altezza di cento piedi in una valle, e si riunivano. La parabola che descrivevano quelle due cascate formava come due archi che fiancheggiavano la roccia, e le due tese d'acqua rassomigliavano a due anse di un'anfora—un'anfora alla forma di una mitra episcopale. Un vapore di polvere di diamanti la covriva. Il sole l'animava e ne faceva un nembo d'iride.
Il Cristo, sul Tabor, ebbe a trasfigurarsi così.
—Oh! come è bello!—sclamò il duca, guardando il viso di Bianca, e per conseguenza volgendo le spalle alle cascate.
Bianca partì in uno scroscio di riso e disse:
—Piede a terra, allora, mastro Alain.
Lo staffiere prese i cavalli. La principessa si appoggiò al braccio del duca, e cominciò a discendere il burrone.
—Aprite dunque il vostro paracqua—diss'ella;—noi andiamo…
—A traversare il mar Rosso a piede secco, ma al capo innondato—soggiunse il duca.
Passarono infatti sotto la parabola della cascata, a destra, avendo sulla testa quella vôlta di cristallo soffusa di luce. Salirono qualche scaglione tagliato nella roccia, poi entrarono sotto una specie di galleria che forava il masso di lungo a lungo.
Quando furono al centro, si trovarono in una camera pellicciata di quercia. Un ovale, chiuso da un doppio cristallo, sporgendo sur una piccola piattaforma, rischiarava il luogo. L'ovale aprivasi in fronte alla roccia e dominava tutta la vallea percorsa dal torrente—il quale ricadeva in piccola cascata fino all'immenso bacino del parco, innanzi al castello. Dalle due porte aperte, a destra ed a manca, vedevansi le cortine di acqua delle due cascate.
Il sole del pomeriggio rischiarava la stanza. Il rumore della caduta d'acqua era ammortito. I giuochi di luce, di faccia e di lato, producevano dei bagliori magici, in mezzo alle cannas indicas dalle larghe foglie, dai fiori gialli e scarlatti che ostruivano un poco l'entrata della vôlta, e le cobee e le campanule che sbocciavano intorno all'ovale.
—Signor duca di Balbek—parlò la principessa Bianca, con una dignità tragica, che faceva fremere la deliziosa pelugine del suo labbro superiore;—io v'invito a colazione dopo domani, qui, con me; una colazione di due uova, che voi porterete nelle vostre saccocce, e di quattro biscotti, che io caccerò nelle mie.
—Mille grazie, Altezza. E che il buon Dio sia assai clemente e grazioso per mandarci del dessert dalla sua tavola.
—Voi siete un ghiottoncello, signor duca!…
La colazione ebbe luogo.
E due settimane dopo, fu celebrato il matrimonio della principessa Bianca con sua maestà Taddeo IX—rappresentato dal marchese delle Antilles.
IV.
Ove si vede che chi comanda non suda.
Cinque anni sono scorsi dall'asciolvere della principessa Bianca col duca di Balbek nella galleria delle due cascate.
Grandi avvenimenti sono occorsi.
Claudio III è morto.
Il duca di Balbek è ambasciatore di suo figlio, re Comodo V, presso la Corte delle Tuileries¹.
¹ Scommettiamo che qui si tratta di Ferdinando II di Napoli, fratello di Cristina. ( Nota dell'Editore )
La principessa Bianca à sposato re Taddeo IX, il cui regno à subito gravi prove.
Il principe Alessandro di Lavandall è sempre incaricato dall'imperatore Nicola di quelle funzioni misteriose che toccavano al mondo dei saloni di Parigi, alla polizia politica ed all'alto intrigo diplomatico. E' scriveva sempre allo czar di quei ghiotti spacci, cui Federico II, Caterina II, Luigi XVIII gustavano con tanto appetito—la petite presse all'uso delle teste coronate!
Un mattino dell'anno…. non mi ricordo bene la data. Ma M. Guizot era ministro, ovvero M. Thiers—uno, insomma, dei due grandi piloti che condussero la dinastia di Orléans al di là della Manica! Un mattino, dunque, di questo ricordevole anno, il principe di Lavandall passeggiava nella sua sala d'armi.
Erano le nove del mattino.
Egli aveva fatto due ore di ginnastica alla spada col suo maestro d'armi, ed in quel momento percorreva in lungo ed in largo la sala, per dare l'ultimo acume a quell'appetito della colazione sì ben preparato dalla scherma. Un monte di giornali, più o meno sberleffatti da una matita rossa, giacevano sur un divano, e due o tre altri sur una seggiola, marcati all'inchiostro nero e postillati.
Il principe era avvolto in una vesta da camera di cachemire grigio, e si baloccava colla cordella turchina che l'azzeccava alla vita. Era distratto e camminava a gran passi, borbottando qualche cosa. Poi tuffava le mani nelle sue grandi tasche e ne tirava fuori, per la terza volta, un dispaccio, cui leggeva facendo dei musoni singolari, sclamando con dispetto:
—Sì, sì, vi ci vorrei ben vedere, voi signor conte di Nesselrode! Gli è facile dar degli ordini, i piedi stesi sugli alari del camino…
E soggiungeva altra roba, forse meno riverente pel suo ministro, cui perciò appunto non articolava chiaro, e che restava in istato di ringhio indistinto.
In quel momento, un domestico annunziò il signor conte Sergio di Linsac.
Il principe fece un segno della testa, ed il signor di Linsac entrò.
Non era avariato di molto, dopo l'assassinio di Regina. Sarebbe forse perchè il rimorso non è ruggine che rode alla superficie, ma trivella che fora in dentro?
Vi sono dei dolori che sono una maschera; altri che sono un'anima.
Per espiare il sospetto—di cui aveva vituperata Regina—il signor di Linsac si era forse imposto il bazzicare intorno al principe di Lavandall. Il principe, dal lato suo, onde risarcirlo in qualche modo, gli aveva procurato una sovvenzione annua di 30,000 franchi dalla Russia, per il suo giornale Les Deux Europes: perocchè vi sono dei rimorsi gentiluomini.
Il fatto è, che il demone dell'ambizione aveva acciuffato M. di Linsac, e che egli voleva arrivare ad ogni costo, arrivare a tutto.
La fortuna del signor Thiers lo aveva abbarbagliato. Voleva dunque esser deputato, pari, ministro, ambasciatore, tutto ciò che la sua ardente immaginazione di romanziere gli pingeva come una sorgente di ricchezza e di piaceri. Si era gittato perciò a corpo perduto nel giornalismo conservatore.
Il signor Guizot lo pagava e sprezzava largamente. Si serviva dello stile pomposo e vuoto, della coscienza senza fede, del cuore senza principii di questa spugna politica, per coltivare la parte più ignominiosa della sua politica secreta. Era però pronto sempre a spezzarlo, se la necessità lo imponeva, dicendogli: Vi ò pagato per codesto!
Come il principe di Lavandall, il signor di Linsac è adesso un po' calvo sul vertice della fronte, cui le rughe delle cure, delle brame, dell'ambizione, dei disinganni invadevano. Come il principe, egli à preso quel certo impinguare, cui danno l'età, il comodo, un poco di pigrizia, la vita molle, le amiche rinnovellate a punto—da tenere il desiderio in piedi senza la pena degli stimolanti, cui la calma dei sensi e la saturazione dei piaceri spiegano. Come il principe, egli aveva acquistato quella pallidezza che segue al serio del pensiero—quella pallidezza sana che indica il lavoro dell'anima, non quella pallidezza mordace che ne indica la combustione e la rovina. Come il principe, egli aveva l'occhio spento, il labbro inferiore un po' abbattuto, qualche grinza intorno agli occhi, la barba rasa—tranne i baffi—i movimenti gravi.
L'uno e l'altro portavano la testa alta, guardavan dritto innanzi a loro, ascoltavano bene, stavano in guardia, parlando. Come il principe, il signor di Linsac scherza col sorriso—quello spasimo che implica nelle sue pieghe Dio e Satana—le due metà, o piuttosto le due facce del Tutto.
Entrambi sono graziosi e falsi, seducenti e perfidi, pensan nero e dicon rosa—ciò che non li impedisce di esser generosi, sempre gentiluomini—anche nel vizio—sempre eleganti. Entrambi infine odiano profondamente, squisitamente—ed odian forse lo stesso uomo: l'assassino vero di Regina! Ed entrambi dissimulano quell'odio con la precauzione sinistra di una donna di trent'anni, cui si derubò del suo amore.
Per gl'Iddii! pazienza, mio principe; pazienza, mio Proteo! il dottor di Nubo non à forse neppure sessant'anni!
A quest'ora il signor di Linsac veniva a dimandare la sua parola d'ordine, per non so quale polemica cui aveva impegnata in favore della Gallizia e di Cracovia.
—Arrivate a proposito, signor di Linsac—disse il principe. O' qualche cosa a chiedervi. So che posso contare sulla vostra discrezione.
—Lo potete, principe mio. Ma voi sapete altresì che io amo poco le confidenze, le quali sono come le macchie di olio: si spandono e si tradiscono sempre da sè sole!
—Non temete nulla. Non è mica una confidenza che io vi fo; è un consulto che vi dimando. Non siete voi ancora romanziere, fra linea e linea, bordeggiando fra il diplomatico dell'avvenire ed il pubblicista di oggidì? Ma, da prima, prendete quei due giornali su quella sedia. Leggerete ciò che è segnato all'inchiostro. Vi risponderete, aggiungendo: che, quantunque dato dal Journal Français de Francfort e dalla Gazzetta d'Augsbourg, voi avreste della pena a credere a quelle notizie, se, trattandosi di una perfidia, la mano del principe di Metternich non vi fosse mischiata.
—Quel caro principe! m'à fatto rispondere al mio ultimo articolo dal signor di Gentz: che per lo innanzi, la Russia aveva dei giornalisti assassini—i quali uccidevano una reputazione—e che adesso la assolda dei facchini—i quali marciano pesanti nella melma ed inzaccherano le genti.
—E voi avete risposto?
—Che non s'inzacchera l'oro. E tutte le Corti d'Europa sanno che il principe di Metternich non è che un luigi di oro!
—Alessandro ne sapeva qualcosa. Napoleone ed il re di Napoli essi pure. Vada! Voi passerete in seguito dal mio segretario, il quale vi darà un embrione di articolo, cui ricamerete in guisa da non vedervisi che scintille; in sostanza, nè cane nè lupo. Debbo dirvi, a questo proposito, che si è contenti di voi, e che lo Czar legge i vostri articoli. La vostra pensione sarà aumentata.
Il signor di Linsac s'inchinò.
Il principe continuò:
—Vi associo ora alla soluzione di un problema, cui il conte di Nesselrode mi propone, o, meglio, cui il nostro ambasciatore a Roma à posto.
—Diavolo! Ed io che sono così smilzo matematico!—sclamò Sergio, sorridendo.
—Ed io dunque?—riprese il principe. Ma insomma, il problema dato, bisogna pure risolverlo. Ecco di che si tratta. L'ambasciatore d'Austria a Roma possiede, non so come, tre documenti, di un valore incalcolabile, cui la Corte di Torino vorrebbe avere. E' sembra si riferiscano al modo con cui Carlo Alberto arrivò al trono, a detrimento del duca di Modena. L'ambasciadore di Sardegna a Pietroburgo à interessato lo Czar all'acquisto di quelle carte, e Sua Maestà Imperiale ne à incaricato il suo ambasciadore a Roma. Voi vedete chiara la cosa, n'è vero?
—Perfettamente.
—Bene. Ora, come vi condurreste voi per ottenere quei documenti? Per alcuna considerazione al mondo, l'ambasciadore d'Austria non vorrebbe disfarsene.
—Ma! se egli non vuole darli, io non veggo che un mezzo: pigliarglieli.
—Alto là, signore!—sclamò il principe aggrottando. Cedesti procedimenti sono buoni per quei governi di mascalzoni che voi chiamate parlamentari, e per quei ministri saltimbanchi che vanno a farsi assolvere delle loro stoltezze e delle loro infamie da quella masnada d'idioti cui voi addimandate una maggioranza. Maggioranza! Poffardio! come se in questo mondo la scienza, la probità, l'onore fossero la dote del più gran numero, e l'imbecillità una anomalia minima! I piedi valgono dunque meglio della testa, perchè son due, mentre la testa è sola?
—Cosa volete, principe mio,—sclamò Linsac sorridendo,—quei gnoccoloni di Inglesi ci ànno importato ciò… con la scienza abbominevole del confortable, il libero cambio, la vita a buon patto, ed il beefsteak saignant.
—Voi avete mal capito l'Inghilterra. Colà, la maggioranza non è, in sostanza, che la minoranza. Vi à dunque tanta gente che possa spendere 250,000 franchi per cavarsi il solletico di andare a gridare per sei mesi, durante cinque anni—se non arrivano accidenti—in un bazar di coscienze? Ma infine, se appo di voi involar delle carte può essere scusato da ciò che voi chiamate ragione di Stato, in quella Corte autocratica, che i vostri giornali dell'opposizione calunniano ogni mattino, da quel despota di tutte le Russie, di cui i vostri mariuoli a penna di acciaio fanno un tiranno da tragedia, un atto simile sarebbe ricompensato dello knout e dei lavori forzati nelle miniere dell'Ural. Scartate dunque codesto mezzo.
—Allora, principe mio, è mestieri comprar quelle carte a quell'ambasciadore.
—Per lui, valgono dei milioni.
—Se non si tratta che di codesto, la soluzione è bella e trovata.
—In che modo?
—Ma! l'è una legge economica semplicissima che vi indica il vostro metodo.
—Spiegatevi.
—Ecco qui. Ora, voi avete bisogno di comprare e l'ambasciatore non vuol vendere. Egli mantiene, per conseguenza, il prezzo alto. Bisogna dunque creare un insieme di circostanze, mediante le quali voi mettete l'ambasciatore nella necessità di vendere. È chiaro.
—Per bacco! l'è vero codesto. L'uovo di Colombo rappresenterà sempre la sua parte!
—Eh! mio Dio, sì, principe. E…
La conversazione fu interrotta dall'entrata precipitosa di un domestico che rimise al principe una carta di visita.
—All'istante—sclamò il principe. M. di Linsac ò bisogno di parlarvi. Vogliate aspettarmi o ritornare fra due ore.
—Ritornerò, principe—disse Sergio, salutando ed uscendo.
Il principe di Lavandall entrò nella sua camera per indossare una redingote, poi si recò al salone.
Aveva letto sulla carta di visita: Le prince de Thébes!¹.
¹ Non si tratterebbe desso di D. Carlos, fratello di Ferdinando VII? ( N. dell'Editore )
Era dunque il fratello di S. M. Taddeo IX che lo aspettava.
Il principe di Tebe aveva una figura atroce—ciò che non significa assolutamente una figura laida. Era verde come un pappagallo; ne aveva l'aria maliziosa. I suoi occhi erano grandi; ma il suo sguardo feroce. Le sue labbra erano rosse; ma desse svelavano gli istinti degli animali carnivori. La sua bocca era piccola, bella, voluttuosa; ma se ne paventava il morsicare più che il bacio. I suoi capelli erano neri; ma si rizzavano come stecchi da per tutto e sfidavano le leggi del pettine. Le sue mani erano piccoline; ma si aggrinzavano in uno stato di agitazione perenne: lo si sarebbe detto un cavaliere d'industria! La sua taglia era pieghevole e fina; ma teneva meno dell'ondulazione graziosa della donna, che dello slancio della pantera. La sua fronte era alta; ma poi indietreggiava bruscamente come quella degli animali della razza felina. La sua statura era piccola; ma il suo portamento era così altero che ne imponeva come un gigante.
Guai a chi si fidava alla dolcezza della sua voce, alle carezze della sua parola, all'eleganza de' suoi gesti, alla gentilezza delle sue maniere, all'assicuranza del suo attaccamento, alle melodie del suo amore e della sua amicizia! Il principe di Tebe era Tartufe soppannato da Cartouche—un duca d'Alba azzimato in Wilberforce! Lo si poteva paragonare a quei bei guanti cui faceva preparare Caterina dei Medici: mortali per chi li metteva! o a quelle lettere di amore che inviavano certe patrizie italiane del XVI secolo: che avvelenavano gli sgraziati che le aprivano!
Quante storie non si raccontavano sugli amori del principe di Tebe, tutti terminati con l'assassinio?
Gli è vero, però, che erano i gesuiti i quali mettevano in circolazione tutto codesto.
Il principe di Tebe, steso sur un canapè, contemplava, la voluttà negli occhi, un martirio di S. Sebastiano di Annibale Caracci, quando il principe di Lavandall gli si avvicinò e gli disse:
—Dimando mille scuse a Vostra Altezza Reale se ò avuta la sfortuna di farla aspettare. Mi trovavo nella mia sala d'armi…
—Non importa—interruppe il principe di Tebe.
—Perchè Vostra Altezza, d'altronde, non mi à fatto l'onore di chiamarmi presso di sè?
—Perchè io sono in un albergo,—e la camere d'albergo ànno tutte delle orecchie. Ora, io ò a parlare con voi di cose che, anche in questo vasto salone, esito a comunicarvi.
—Vostra Altezza può favellare senza tema. Nonpertanto, se Vostra Altezza desidera intrattenersi meco in un gabinetto più solitario ed appartato, avrò l'onore di mostrarle il cammino.
—Sì: credo che ciò sia meglio. Quando si vuol essere un po' sicuri del silenzio, meglio vale veder le parole palpitare sulle labbra anzi che udirle.
Il principe di Lavandall si alzò e condusse il fratello del re Taddeo in un gabinetto che sporgeva sul giardino, vicino al suo gabinetto di lavoro—ove egli si ritirava per redigere i suoi dispacci particolari allo Czar.
L'era una stanzuccia ottagona, tappezzata di lampasso verde, guarnita di una biblioteca, con un divano comodissimo per meditare, due seggioloni e quattro quadri: i ritratti di Nicola e della czarina a mezzo busto, un' Anima di Scheffer, ed un clown impiedi innanzi ad un piccolo cadavere, di quell'Hamlet della pittura che chiamasi Delacroix.
Il principe di Tebe si allungò sul divano, fece segno al signor di Lavandall di sedersi rimpetto a lui e disse, dopo qualche minuto di silenzio:
—Arrivo dalla Russia.
—Lo so, monsignore, io vi aspettava.
—Il conte di Nesselrode vi à scritto, allora, di che si tratta.
—O' ricevuta la lettera del Gran Cancelliere questa mattina stessa.
—Sì. Gli avevo detto che mi sarei trattenuto qualche giorno a Vienna. Ma, dopo un abboccamento col signor di Metternich, l'impazienza mi à soverchiato, e sono partito la notte stessa.
—Il Cancelliere austriaco parteciperebbe anch'egli ai segreti di Vostra Altezza?
—Oh! no. Egli li avrebbe venduti.
—Sono ai vostri ordini, monsignore. Ma non nascondo a V. A. che l'intrapresa è arduissima.
—Lo so anch'io.
—Tanto più che non si è neppur sicuri che quelle carte esistano ancora.
—Ciò è certo: esse esistono.
—Sarei indiscreto se domandassi a V. A. come ella ne ebbe la rivelazione!
—Per il mezzo lo più sicuro: dal padre d'Ebro, confessore di mio fratello.
—Possibile?
—L'è così. Io vado a raccontarvi tutto; ma procediamo con ordine.
V.
Il seguito della colazione di Bianca e di Balbek.
—Io pass'oltre a tutto ciò che i gazzettieri àn raccontato di questa storia nei libelli e nei giornali—favellò Tebe. Voi avete dovuto leggere tutto codesto.
—L'ò letto, Altezza.
—Allora voi saprete che tra mio fratello e me fuvvi mai sempre la più cattiva intelligenza. Sarebbe perchè mia madre, quando era incinta di mio fratello, si annoiava dei sermoni di un gesuita, e quando era incinta di me, si divertiva con un ciambellano saltimbanco? Dio lo sa. Il fatto è, che mio fratello non à saputo mai tollerarmi.
—Tutti i gabinetti di Europa non ignorano codesto.
—Bene. A ciò si aggiunsero le insinuazioni dei confessori e dei cortigiani. Sua Maestà si lamentava di un'indigestione? io l'aveva avvelenata! Sua Maestà aveva mal dormito? gli è ch'ella aveva creduto vedere l'ombra mia tra il muro e le cortine del letto! Le truppe di S. M. erano state battute? io aveva comunicato i piani strategici al nemico! I sudditi di S. M. si querelavano del suo malgoverno? ero io che li ammutinava. I figli di S. M. erano morti? era io che aveva dovuto soffiare su di loro il germe della morte! Infine, se S. M. non poteva più avere dei figliuoli, l'era io che lo aveva fatto sfinire da una ganza al mio servizio. Breve: io era il dio Siva del regno e del re Taddeo. Io metteva paura alla gente in cocolla e in livrea, che mi aveva tanto oltraggiato—e sapeva che io mi sovveniva e che non avrei mai perdonato. Bisognava dunque cacciarmi da parte ad ogni costo. E s'inspirò al re l'idea di un nuovo matrimonio.
—Ma, se Sua Maestà non aveva più prole!
—Sì, e perciò appunto si decisero a quelle nuove nozze. Ma la gente che commetteva questo misfatto non era mica di quella che si ferma a mezzo cammino. Da quando in poi, del resto, è stato necessario di fare i suoi propri bimbi? Una sola cosa sembrò urgente in questa circostanza: Trovare un suocero condiscendente ed una moglie complice. Si avevano le due cose sotto la mano, al di là di ogni desiderio. Il padre d'Ebro compose, S. M. Taddeo copiò una lettera per re Claudio III.
—Vostra Altezza l'à dunque letta?
—Ne ò avuto la copia in poter mio, dalla mano stessa del P. d'Ebro. Essa suonava così:
« Caro cugino,
«Io scrivo a V. M. un'altra lettera per mezzo dei miei ministri. Con questa, io mi indirizzo direttamente al figlio del fratello di mio padre. Gli è dire, che io desidero che il mio grido di uomo trovi un'eco nel cuore del parente, o che vi resti sepolto.
«Io sono in presenza della crisi la più spinosa del mio regno, sì pieno di accidenti. Io traverso il ponte dell'avvenire: affronto la questione della successione, in presenza dalla quale la Provvidenza divina à voluto collocarmi per provarmi—ripigliandosi i figliuoli che impartiti mi aveva. Se avessi avuto, per compenso, in questo immenso disastro, l'affetto di mio fratello, mi sarei forse consolato di un dolore che uccide perfino i più forti. Ma l'Europa intiera, sgraziatamente, sa come la mano del Signore à posato gravemente sulla mia casa, anche da questo lato, ed à appreso i pericoli che ò corsi. Non ò avuto prove materiali sufficienti. O' però la certezza morale, che quel fratello snaturato à attentato parecchie volte alla mia vita. E sono convinto, che la mia vita non cesserà di essere in pericolo contro quelle aggressioni, se non il giorno in cui io mi avrò una successione legittima diretta.
«Ecco quali considerazioni—oltre quelle dei miei popoli, della pace o della gloria della religione—mi ànno deciso ad implorare l'aiuto del Signore per un secondo matrimonio. Io tento Iddio. Imperocchè, quantunque la mia età di 54 anni non sia eccessiva, per l'opera satanica del principe di Tebe io posso considerarmi come estinto alla vita. Un matrimonio, sì, può consolare le tenerezze dei miei ultimi anni; ma, ohimè! esso non farà riverdire il ceppo fulminato della mia dinastia.
«Ora, l'è codesto che io voglio—a qualunque prezzo—ed è per codesto che io mi indirizzo a Vostra Maestà.
«Voi padre, non vorrete forse comprendermi; voi, fratello, esiterete forse. Aiutatemi come amico, come re, come uomo che va al soccorso di un uomo minacciato. Fate vostra la mia causa, il mio desiderio, la mia speranza, ed aggiungerei quasi la vendetta della natura e della morale oltraggiata. Vi dimando in matrimonio la vostra figlia maggiore, la principessa Bianca.
«Il suo carattere virile sarà opportuno alla lotta, dopo la mia morte. Il suo spirito elevato braverà il sacrifizio, innanzi al quale, io lo so, una donna volgare rinculerebbe, ma che pertanto è indispensabile onde dare come erede del mio trono il figliuolo di mia moglie.
«Ora, chi peserà queste ragioni di Stato? chi indovinerà questi sentimenti di un uomo curvato sotto il peso del suo dovere? chi distinguerà, in mezzo alle apparenze equivoche, la voce della coscienza che ispira i martiri, e chi farà gradire i miei voti alla principessa, se non voi che, re, conoscete i doveri cui impone la corona; che, padre, valuterete il trono sul quale vostra figlia verrà a sedere? Come parente, voi vi affliggerete del mio scorruccio e dei miei malanni domestici; come amico, vi addirete a portar soccorso alla mia miseria. Sì: mi occorre un erede a qualunque costo—ed è per questo che, malgrado le infermità dalla mia persona, vi dimando vostra figlia. A voi, che non mi siete straniero, nè per sangue nè per cuore, ò bisogno soggiunger altro?
«Al momento in cui tutto sarà pronto ed assicurato—se consentite a venirmi in aiuto per cavarmi fuori di questa crisi—non avrete che ad ordinare al marchese delle Antilles di aprire il dispaccio suggellato di cui l'ò munito, ed ei farà la dimanda ufficiale della mano della principessa Bianca. Se mi negate il vostro soccorso, non ne rimango mica meno l'amico di V. M., del di cui spirito e saggezza ò una così grande considerazione.
«Voglia Iddio ispirarvi, cugino mio, e farvi comprendere il vostro dovere di padre, con la medesima amplitudine ed il medesimo disinteresse che io comprendo quello di re, di uomo e di amico.»
—Che abbominevole guazzabuglio!—sclamò il principe di Lavandall. Se Vostra Altezza non me l'avesse detto, lo avrei indovinato che quella scritta usciva da un'officina clericale, ed era stata mandata da un sovrano.
—Ebbene, quest'infame lettera ebbe il suo effetto. Si dètte alla donzella il duca di Balbek per cavaliere di compagnia, ed il re Claudio rispose per un'epistola sul medesimo tono e stile.
—Vostra Altezza non à la copia della risposta?
—Sì, e della medesima mano del padre d'Ebro. Ma non me la ricordo mica così bene che l'altra. Diceva, in sostanza: che S. M. Taddeo poteva contare che l'appello alla sua affezione non resterebbe senza effetto, poichè trattavasi non solamente di consolare e rassicurare un parente, ma di punire uno scellerato—lo scellerato ero io—e di salvare una dinastia; che S. M. Claudio III accomoderebbe le cose di maniera che tutto fosse salvo: l'onore, la dignità, gl'interessi della successione, il segreto, il rispetto alla morale ed alla religione, l'augusta serenità del padre e dello sposo; che S. M. Taddeo, per la sua condotta disinteressata e piena di nobiltà, onorava la corona—la quale diveniva doppiamente divina, e per la benedizione di Dio, e per il sacrificio e l'umiltà dell'uomo, che s'inchinava innanzi al gastigo della Provvidenza, da cui si apparecchiava il rimedio nel tempo stesso che apriva la piaga…
E così, per quattro pagine zeppe zeppe.
—Quale di quelle due lettere è più vigliacca, e chi di quel padre o di quello sposo è più infame agli occhi di Vostra Altezza?
—Si valgono: la scelta sarebbe impossibile. Ma il risultato di tutto ciò non si fece attendere. Il duca di Balbek però, innanzi di mettersi all'opera seriamente, esigette, per iscritto, il mandato di cooperare ad assicurare la successione del re Taddeo. Suo zio, ministro del re Claudio, gli rilasciò questo attestato—come pure la copia autentica della lettera di re Taddeo e della risposta di re Claudio. E gli è precisamente questo documento essenziale dell'affare, cui non ò, e che mi occorre. Le lettere dei due re, copiate da un gesuita disgraziato, non ànno alcun valore morale: possono essere falsificate. Però, queste medesime, scritte, copiate da un ministro degli affari stranieri, e munite dei suggelli dello Stato, quella lettera ministeriale che autorizza l'impresa del duca di Balbek… ecco ciò che è capitale.
—Ma in che modo Vostra Altezza à avuto cognizione e comunicazione di questi documenti?
—Vado a dirvelo. Il matrimonio fu dunque manipolato e precipitato. Sei settimane dopo la sua partenza, il marchese delle Antilles, ritornando alla Corte del suo padrone, gli annunziava, e conduceva la sposa ed il successore. Mio fratello si recò, incognito, alla frontiera dei suoi Stati, all'incontro della regina. La bellezza di costei lo abbarbagliò—disse egli.—Egli pretestò dunque che la giovane donna dovesse essere stanca del viaggio; ordinò che si facesse sosta, e, contrariamente alla severa etichetta della nostra Corte, il matrimonio fu consacrato e consumato nel luogo stesso. Il domani, l'ispezione della camera nuziale ebbe luogo secondo l'uso: tutto era in regola! Il processo verbale, cui gli ufficiali speciali del regno redassero, è depositato negli archivi dello Stato. Capite? tutto era in regola! Dopo questo tratto di genio della giovane regina, non era più mestieri di disperare di nulla. Se si fosse esatto l'intervenzione dello Spirito Santo nella faccenda, ella lo avrebbe esibito, a suo carico e discarico, come operatore.
—Il duca di Balbek era sempre della partita?
—Non ne avevano più bisogno. Per il momento, il re bastava. Laonde, quando, qualche mese dopo, la gravidanza della regina fu ufficialmente annunciata, alcuno non ne sembrò stupito. Quella donna era così bella! E poi, sì modesta, sì casta, così pia, così riserbata…! Ella fuggiva le feste; non visitava che ospizi e spedali, le chiese, sopratutto i conventi di donne ed i santuari miracolosi. Passava una grande parte del suo tempo fuori della capitale, nelle residenze reali di caccia e di riposo. I sudditi felici di S. M. Taddeo IX sapevano appena che si avessero una regina.
—Che abilità sovrana!
—Ascoltate ancora. Infrattanto i mesi passavano, l'ora dello snodamento avvicinava. Quell'uomo, quella donna, per re e regina che si fossero, non potevano aggiungere un secondo al tempo, nè rinculare di un minuto il giorno dello sgravo. Bisognava, non pertanto, rubare al tempo tre settimane o un mese. Non bastava poi al re di aver un erede. Gli occorreva, per giunta, un figlio maschio. Per forzare la mano di Dio in questa opera, dal primo giorno in cui un sospetto di gravidanza puntò, la regina cominciò a bazzicar le immagini miracolose che s'incaricano della bisogna. Ella corse tutti i romitaggi. Ma restava ancora lo più insigne. Lo si serbò per l'ultimo—tanto più che era il più lontano. Nelle montagne, lì, presso alla frontiera, vi è un convento di religiose di Sant'Orsola, annidato in un vecchio castello a cui si è addossato una chiesa. Il re è badessa di nascita di quelle religiose, ed à un appartamento nel convento. Nella chiesa, una madonna della Scala fa miracoli, e, a seconda della dimanda, gratifica garzoncelli, e li sostituisce alle ragazze, dall'alto dei cieli.
—Ecco lì una vergine che non à mica considerazioni pel suo sesso!—sclamò Lavandall.
—Ella se ne permette ben altro, eh! A sei chilometri di distanza, si trova un parco reale, con una foresta che si prolunga fin sotto le mura del giardino delle religiose—le quali ànno diritto di caccia nel bosco reale. Era il settimo mese dopo l'arrivo della regina nel regno. Ella si recò allora al Torrente dei Pini—ove ella cacciava negl'intervalli delle sue preghiere alla madonna della Scala. Al principio dell'ottavo mese, il re si rese anch'egli in quella residenza per cercarvi la regina, benedetta a dovere, e ricondurla nella capitale, dove ella avea il dovere di fare il suo parto—in presenza della Corte, dei corpi dello Stato, e della diplomazia.
—Che opulenza di sguardi per una giovine donna, in quella situazione delicata!
—Ebbene, la fatalità opinò esattamente come voi, forse, caro principe: perocchè essa volle evitare quella deboscia di occhi alla bella e giovane regina. Il fatto fu che, mentre un giorno ella cacciava quasi sola—lasciandosi dietro e ben lontano il suo seguito, secondo la sua consuetudine—il suo cavallo si abbattè a qualche centinaio di passi dal verziere delle religiose. La regina si trovò coricata per terra, ed il suo cavallo si allontanò al galoppo. Alla vista del destriero della regina corrente solo, gli staffieri ed i grooms di S. M., che l'avevano perduta di vista nei viali della boscaglia, si spaventarono. Si precipitarono tutti verso il luogo ove ella era scomparsa. E si finì per scoprirla, per terra, svenuta, pallidissima, ed un cotal poco sgraffiata qua e là.
—Che donna di genio! à conquistato la corona.
—Ne sareste voi innamorato, principe?
—Ne sareste voi geloso, monsignore?
—Quasi. La paura fu grande nel servidorame. Si raccolse la regina, cui si trasportò immediatamente nel convento, e si corse ad avvertire il re della disgrazia successa. S. M. sembrò fulminata. Credette tutto perduto. Si mandò a cercare il medico del villaggio vicino—il quale non potè giungere che molto tardi il dì seguente. La notte però la regina fu presa dalle doglie di un parto accelerato dalla caduta. L'è un aborto, dicevan tutti—senza escluderne la vecchia cameriera, anche un po' levatrice—cui la regina aveva condotta dal suo paese—e compreso il medico, il quale in tutto codesto non vide che i pranzi ed i scudi reali. Il re si desolava,—dicevasi. Il neonato non sarebbe vitale. La regina correva grossi rischi. Gli empi! Essi contavano per nulla l'intervento della Vergine della Scala in quel malore! Non era stata ella, probabilmente, che aveva aiutato la regina a discendere di cavallo, quando alcuno non la vedeva? Non era stata forse ella che aveva scudisciato il ginnetto, il quale era partito al galoppo? Non era stata forse ella che aveva fregate le gengive della regina, e del sangue che ne aveva estratto le aveva maculato le mani ed il sembiante? Non era dessa che le aveva consigliato di ritenere il respiro, per diventar pallida, e tutto il resto di quell'opera miracolosa che si compiè col parto felice della sua reale divota? Andate dunque, in una disgrazia simile, a preoccuparvi dell'etichetta, e del corpo diplomatico, e dei corpi dello Stato, i quali dovevano essere le levatrici del successore del re Taddeo! La commedia era finita. Viva la regina!
—Poffardio! che pezzo di attrice!
—Ora, voi sapete il resto, che è storia: rivoluzione, guerra civile, Costituzione, esigenze del Parlamento, incameramento dei beni ecclesiastici, espulsione dei gesuiti… tutto per assicurare ad un bimbo intruso¹ la successione della corona che mi era dovuta. Questo guazzabuglio, come di ragione, à stomacato papa Gregorio XVI; à messo in forte collera i Reverendi Padri. Di quivi, Sua Santità à autorizzato il P. di Ebro a parlare, a rivelare gli stessi segreti della confessione—trattandosi del bene della religione. Ed ecco come io ò ricevuto a Roma, al Gesù, comunicazione di questi documenti e conoscenza dei fatti e degli atti.
¹ Non sarebbe piuttosto ad una bimba intrusa —Isabella? ( Nota dell'Editore )
—Nulla mi stupisce adesso. E con codesti ausiliari io non dispero di nulla…
—Voi avete ben ragione. Però, bisogna che sappiate che i RR. PP. ànno di già fatto delle ricerche inutili. I documenti in questione non sono, e' sembra, presso il duca di Balbek. Si è rimuginato dovunque in casa sua, si pensa—dovunque, almeno, l'occhio di un lacchè e la mano di un ladro possono giungere. Le ricerche sono state infruttuose. Al palazzo dell'ambasciata non vi è nulla. Ora, come non è probabile che quelle carte fossero state distrutte; come il duca di Balbek non è un sere a disfarsene per nulla; come non le gli si strapperanno che dopo una resistenza disperata… la partita cui impegniamo diventa terribile. Nondimeno, dovessimo noi mettere il fuoco ai quattro cantoni di Parigi, quelle carte mi occorrono. Bisogna che io le depositi nella cancelleria russa a Pietroburgo, dove tutta la diplomazia straniera potrà consultarne e verificarne l'autenticità, prima che io dia la battaglia suprema a mio fratello ed al successore cui à fabbricato per frustrarmi del trono. Cosa pensate voi fare, principe?
—Altezza, non ne so ancora nulla.
—Io parto per l'Inghilterra. Se avrò del danaro, ve ne manderò.
—Ve ne sarà forse bisogno. Noi abbiamo a fare con un nemico formidabile—il duca di Balbek, soppannato da un compare terribile, il dottore di Nubo. La battaglia cui andiamo a presentare a quelle volpi-tigri sarà rude. Piaccia a Dio che, se vi debba esser del sangue, non vi siano almeno delitti.
—Principe—disse il sire di Tebe levandosi—sangue e delitto sono parole che non ànno un significato assoluto, e non ispaventano che gli spiriti piccoli e le coscienze di già punticce. Il delitto e l'assassinio, alla fin fine, non ricadono su coloro che se ne macchiano, ma su coloro che li provocano. La giustizia umana borbotta come barbogia.
—E strangola come brigante, Altezza—in Francia almeno, dove si è inventata quell'assurda infamia che addimandasi eguaglianza. Ma noi non ne siamo ancora lì. Noi vaneggiamo, in lontananza, dei grandi drammi e delle grandi peripezie, per arrivar forse ad una soluzione che può esser delle più semplici. Lasciatemi dapprima ispezionare il campo di battaglia e scandagliare le forze del nemico. Poi, farsa o tragedia, ci si troverà pronti a tutto.
—Punto di scrupoli, principe! Con galeotti, gallonati o coronati, tutto è permesso. L'infamia è una necessità, e talvolta un dovere.
Il principe di Tebe uscì. Il suo aspetto era addivenuto orrido pronunziando le ultime parole.
Il principe Lavandall lo accompagnò in silenzio, gli occhi bassi—sotto quello sguardo che distillava sangue.
Quando ritornò nel suo gabinetto, vi trovò Sergio di Linsac che lo aspettava.
—Ebbene?—sclamò il principe, esprimendo con tutta la sua persona una pressante interrogazione.
Sergio di Linsac sorrise e si fregò le mani di un'aria soddisfatta.
VI.
Un po' delle cose del duca di Balbek.
Il duca di Landolles, emigrato rientrato e rallegato a Bonaparte imperatore, aveva maritato le sue due figlie con due generali: l'una al conte di Saint-Alleux—morto da una granata a Waterloo; l'altra al conte di Muge—riavvicinato ai Borboni ed ucciso in Africa da Abdel-Kader.
Il duca di Landolles, avendo mangiato ai giuochi di Frascati ciò che gli restava della sua fortuna, non aveva dato in dote alle figliuole che la loro bellezza.
I due generali, non avendo avuto l'opportunità di raccogliere un po' di dovizie, non avevano legato alle loro vedove che la pensione di diritto per vivere, e l'intrigo per prosperare.
Il conte d'Alleux aveva lasciato un figliuolo, raccomandandolo alla protezione di suo fratello, vescovo allora, ed in seguito arcivescovo e cardinale.
Il conte di Muge aveva lasciato una ragazza, raccomandandola alle cure di sua sorella, superiora al Sacré-Coeur.
I due militari avevano un'assai mediocre stima del carattere delle loro mogli.
Il piccolo conte d'Alleux si chiamava Adriano.
La piccola contessa di Muge si chiamava Vitaliana.
I due fanciulli erano belli. Le due madri sapevano per esperienza che la bellezza è un capitale, di cui il numero di zeri che segue l'unità è indeterminato. Quella due donne accorte sapevano anche di più: sapevano che la bellezza è la locomotiva del mondo—mi scusi l'oro, che se ne crede il re! I due fanciulli erano dunque per le loro madri due cambiali tirate sulla società, cui elleno si promettevano scontare abilmente.
Bisognava però attender per codesto. Imperciocchè non si colloca una figliuola prima di sedici anni; non si fa regalo di un'ereditiera ad un bel giovanotto, il quale non abbia almeno raggiunto i suoi diciannove o venti anni.
Lo zio e la zia complicavano la situazione. Perocchè il cardinale si metteva in misura di tagliare un abate nel figlio di suo fratello, per perfezionarlo in seguito e cavarne un vescovo. La superiora del Sacré-Coeur voleva tenersi sua nipote al convento, onde innalzarla poi fin non so dove—al suo posto forse, quando ella morrebbe, o a quello d'una santa del paradiso. Per conseguenza, Adriano era allevato al seminario di Saint-Sulpice, e Vitaliana nello splendido stabilimento della strada di Varenne.
Le loro madri li visitavano durante tutto l'anno. Ma i due cugini non si vedevano altrimenti che nel tempo delle vacanze.
Si videro così, per quattro o cinque anni, quasi tutti i giorni, nelle sei settimane che passavano presso le loro madri—Adriano smorfiando la messa; Vitaliana la maestra della classe—regalandosi copia d'immagini; raccontandosi parecchi tratti e propositi e parecchie storie di famiglia dei loro compagni reciproci; rivedendosi con gaudio; separandosi con tristezza; promettendosi di scriversi, ed aggiornando altri spassi all'anno venturo.
Adriano toccò così i diciotto anni.
Vitaliana i sedici.
Essi si avevano scambiato fin là dei baci senza importanza, come avevano cambiati i loro volanti, i loro palloni, i loro giuocatoli, le immagini benedette, i piccoli libri pii, i libri da messa legati in rosso e dorati ai tagli. Ma quando si separarono quest'anno, quando si abbracciarono par dirsi: a rivederci! Vitaliana imporporì fino al bianco degli occhi, Adriano impallidì fino alle labbra—quelle ciliege inalterabili. Poi, e' si guardarono ancora, rivolgendosi, ed entrambi asciugarono una lagrima in silenzio.
Adriano ritornò al seminario.
Vitaliana restò in casa di sua madre, perchè la zia del Sacré-Coeur era morta, e la contessa di Muge si curava poco di fare di sua figlia una maestrina o una beata.
La contessa di Muge non essendo ricca, non si prodigava per feste che esigevano un lusso esorbitante ed una immensa varietà di toilette. Quest'abile donna si mostrava unicamente ai balli delle Tuileries ed a quelli dell'ambasciate d'Inghilterra, di Russia e di Austria—cinque o sei sere nell'anno.
Ella metteva questa parsimonia sul conto della sua fierezza e del suo disdegno pel piccolo mondo alla maschera aristocratica. In quei balli, d'altronde, ella incontrava ciò che ella voleva. Come ella poi si spacciava per malata—e perciò non avendo tempo a perdere—si decise a presentare quest'anno Vitaliana nel mondo.
Vitaliana era troppo giovane d'anni; ma l'adolescente aveva di già le forme della donna—quantunque tutta magrolina ancora e scolorata dallo spossamento della crescenza.
Madama di Muge non ebbe certo a lagnarsi dell'effetto che produsse Vitaliana alle Tuileries, ove ella l'esibì per la prima volta. Tutti gli occhi, tutte le lenti si diressero sulla giovinetta, e ciascuno dimandò al vicino:
—Conoscete voi, signore, il nome di quella fanciulla?
Pochi la conoscevano. E coloro che sapevano chi ella fosse, non ignoravano probabilmente pure il carattere della madre, lo stato della possidenza e la loro posizione sociale. Di guisa che, quell'anno, non svolazzarono intorno alla bella figliuola che dei ballerini e degli stranieri.
Un solo uomo considerevole invitò Vitaliana a ballare e cicalò con lei qualche istante dell'opera del Conte d'Ory e della Favorita. Costui fu il duca di Balbek, uno dei lions del mondo parigino. Vitaliana rispose—arrossendo un po' della sua ignoranza—che ella non era ancora stata nè agl' Italiani, nè all' Opera.
L'anno passò così.
Era il secondo anno dell'ambasciata del duca di Balbek a Parigi, ove egli teneva già il bordone della fashion e sguazzava nella più alte regioni dell'ebrietà dei suoi successi.
—La campagna è stata cattiva! sì—disse la contessa di Muge, ritirandosi nella sua terra a primavera. Nonpertanto ò provato le armi. Esse sono buone.
Ed ella contemplava sua figlia con gli occhi di un mercante di schiavi in Oriente.
L'aria delle montagne dei Vosges, ove si trovava il piccolo castello della contessa—ella lo addimandava così—fu di un effetto prodigioso per Vitaliana. Il suo sviluppo si compiè: l'abbozzo divenne opera. Non una delle promesse aveva fallito. Nessuna dalle speranze di una madre ambiziosa era stata tradita. Non una delle opulenze annunziate, che non si fosse lussuosamente realizzata. Non un gioiello che non divenisse un tesoro. Quando la contessa di Alleux e suo figlio vennero al castello di Muge, essi restarono abbarbagliati dallo splendore che Vitaliana aveva acquistato in sei mesi.
La contessa di Alleux se ne compiacque.
Adriano ne pianse di furto.
Questa volta i due cugini si trattarono infinitamente con più riserbo. Non si abbracciarono più.
Vitaliana raccontò ad Adriano tutto ciò che ella aveva visto nel mondo l'inverno scorso; il numero di volte che aveva ballato; il nome de' suoi cavalieri: i propositi che le avevano susurrato all'orecchio—ma ciò con molte reticenze—in uno, quella grande festa della vita che si presenta ad ogni fanciulla come un incanto di fate, e che, qualche anno più tardi, termina talvolta così lugubremente.
Durante quei racconti alle piume d'oro, ai profumi stupefacenti, Adriano si taceva, ed i colori si alternavano sul suo viso. Non osò questa volta dar la replica con le sue storie di seminario e con i suoi vagheggiamenti di—non più lontano che l'anno scorso!—sciorinarla da vescovo in una messa pontificale! Egli massacrava invece Vitaliana di mazzetti, cui andava a frugacchiare sotto i cespugli della montagna, di farfalle, cui dava la caccia nelle praterie, e di ogni specie d'insetti ai colori brillanti, cui acchiappava al volo come un'allodola.
Aveva cura però di ripigliare tutt'i fiori cui Vitaliana aveva appassiti, sia nei suoi capelli, sia nel suo busto; d'impossessarsi di quanto Vitaliana avesse toccato; di bere di nascosto nel bicchiere di lei; di raccogliere le briciole di fettuccia, gli stracci, i fogli di carta scritti, tutto ciò che Vitaliana aveva sfiorato e che svolazzava sotto la finestra della camera da letto di lei—spiando perfino il capello cui la brezza le involava quand'ella si pettinava.
Poi, egli faceva sul piano dei prodigi, per ricordarsi, per inventare, se occorreva, per suonare tale aria, tale sinfonia, tal duetto cui Vitaliana preferiva. Se la sua mano, se il suo piede toccavano la veste stessa di sua cugina, Adriano allibiva, aveva i brividi. Egli smagriva, scoloriva. Non dormiva più la notte. Mangiava appena. Insomma, era proprio tempo che il mese di novembre arrivasse e mettesse termine alle vacanze.
Quando i due cugini si abbracciarono per dirsi addio—Addio! disse Adriano, mentre Vitaliana diceva: All'anno venturo!—Quando le labbra di Adriano toccarono le guance di Vitaliana, questa si sentì scorrere lungo la spina dorsale un fluido incognito, il quale le rivelò che ella era donna, e dette una forma ai sogni nebulosi che agitavano talvolta le sue notti.
Adriano le aveva inoculato quella scintilla negli occhi, quel languore nella parola, quel formicolare nelle labbra, quella elettricità divina del bacio, quell'irradiamento della respirazione, quel flusso e riflusso del sangue luccicante di pagliette di oro, quel brivido inebbriante, quel delirio stellato che chiamasi amore, voluttà—e che Dante riassume in una parola: indiare!
Poi non si rividero più. E forse in quel cuore, ove aveva regnato Adriano, restò una ferita, ed in quello, ove aveva regnato Vitaliana, una cicatrice.
L'inverno giunse.
I balli cominciarono.
Vitaliana rientrò nel mondo al primo ballo delle Tuileries.
L'effetto che vi produsse fu immenso. Ella ecclissò tutto ciò che l'Inghilterra, la Polonia, la Francia avevano riunito di quei fiori di stufa, il cui splendore appanna le stelle.
Questa volta non furono più i giovanotti che ronzarono intorno a lei. Erano gli uomini, dallo sguardo concentrato e stupefatto, che le si avvicinarono tremando. Gli era il blasé che risuscitava; il milionario che sperava; il potente che dimandava grazie; la forza che si trovava impotente; il desiderio che si sentiva delirio; la vita seria che vagava atterrita intorno a quel filtro dei cieli—il quale si presentava con l'innocenza dell'olezzo di una rosa, il bagliore grave di una perla, la soavità di un'alba di primavera, la neghiazza divina della verginità—quel candore che ignora sè stesso, cui si scorge nell'angelo del Cimabue e nelle madonne dell'Angelico.
All'istante in cui il duca di Balbek la distinse, di un varco fu a lei.
Egli infieriva di orgoglio per aver scoverto, indovinato, profetizzato Vitaliana nel superbo embrione dell'anno precedente. Questa vanità sola sarebbe bastata per infiammarlo.
E' s'impossessò della giovinetta per tutta la sera.
Vitaliana non ne sembrò punto tòcca.
Ma sua madre vedeva tutto, s'informava, calcolava.
Il generale di Hauteville presentò il duca alla contessa di Muge.
Questa lo accolse con una grazia squisita, ma dall'alto. Si parlò di frascherie. Il duca di Balbek aveva uno spirito triviale—reso brutto dalla fatuità e sformato dallo sforzo cui faceva per metterlo in evidenza.
Non si à mai così poco spirito che quando si piglia a partito di mostrarne dovizia. Questo fiore spontaneo, sì delicato, diviene scialbo o eteroclito, come tutti quei prodotti scipiti di cui il giardiniere sollecita lo sboccio.
La contessa non commise lo sbaglio di mostrarsi al secondo ballo della Corte ed a quello dell'ambasciata di Russia.
Ella non apparve, che come baleno, al ballo dell'ambasciata d'Austria. Ma si mostrò in tutto il suo splendore in quello dell'ambasciata d'Inghilterra—perchè ebbe l'accorgimento d'impegnare tutt'i suoi parenti, della più alta aristocrazia del Faubourg, a non mancarvi—e trovò per Vitaliana una toilette d'una semplicità e d'un'eleganza che trasformava quella fanciulla in cherubino.
Il colpo che ella voleva portare ferì di punta.
Il duca di Balbek dimandò alla contessa l'onore di presentarsi a lei.
Due mesi dopo, Vitaliana era duchessa di Balbek.
Ella entrava nella vita con un'immagine negli occhi; un rêve nel cuore; un sentimento profondo del suo dovere; una stima che lambiva l'idolatria per la persona, pel carattere, per la dignità, per la virtù di suo marito. Ella non lo amava, ma lo venerava.
Egli la desiderava più che qualunque altra cosa.
A capo di un anno, ella fu madre.
Ella era madre a diciotto anni. Ma niuna vergine aveva più di serenità nello sguardo, più freschezza nelle labbra. La sua innocenza in tutte le emanazioni dell'anima, il suo pudore in tutto il portamento della persona, facevano di lei una madonna.
Ecco la sua aureola, ed ecco il suo torto.
Si sarebbe dimandato, malgrado ciò, se ella era felice o noncurante; se era insensibile o ipocrita. Imperciocchè, in generale, quelle quietudini profonde sono raramente sincere, se non ànno l'idiotismo per base.
Un giorno suo marito le dimandò, folleggiando con i capelli di lei:
—Vitaliana, che diresti se ti raccontassero, per esempio… che io ò… perdonami la parola… una ganza?
—Non so troppo—rispose la giovane. Ma io credo che sarei affatto sorpresa che tu non ne avessi che una.
—Come sorpresa?—sclamò il duca. Tu non mi ami dunque? Tu non sei mica gelosa?
—Io ò sempre pensato, amico mio, che la gelosia fosse una rivolta di amor proprio, anzichè un'esplosione di amore. Otello era un negro egoista.
Un altro giorno il duca le disse:
—Tu ti devi annoiare sovente di codesta vita un po' solitaria, a cui la mia posizione nel mondo ed il ritiro di tua madre col figliuolo alla campagna ti condannano.
—Tu sai che il tuo mondo non mi seduce enormemente—rispose Vitaliana—e che i saloni mi attirano mediocrissimamente. Io non ò spirito quanto occorre per regnare. E, d'altronde, sono restata, in fondo in fondo, la pensionaria del Sacré-Coeur.
—L'è vero.
—E poi, credi tu, caro, che i più spiritosi dei nostri poeti, Victor Hugo, Musset, Dumas, che so io, Balzac, egli stesso, potrebbero dirmi altra cosa che me ne dicono il mio specchio od i miei fiori? L'uno mi piaggia così compiacentemente; gli altri m'incantano. Se tu sapessi come cantano quei piccoli birboncelli lì, quando mi veggono zonzar per la stufa!
Tre o quattro giorni dopo il colloquio del principe di Tebe con il principe di Lavandall, a colazione, il duca le disse:
—A proposito, sai tu, piccina mia, chi ò intraveduto ieri sera?
—No.
—Tuo cugino, il conte d'Alleux.
—Povero Adriano! deve essere ben triste dopo la morte di sua madre.
—In fede mia, mica troppo!
—Oh sì! egli l'amava tanto!
—È possibile. Ciò però non impedisce che io lo abbia veduto per qualche minuto in un palco ai Français contar fronzoli ad una giovane bellezza, quasi sola.
—Come! una prefazione di abate nel palco di una bella ai Français?
—Gli è che e' non è più l'abate cui vedemmo piangere ai funerali di sua madre, nei mesi scorsi. La larva è scoppiata, ed à sprigionato uno zerbino dei più graziosi e dei più eleganti. O' pensato un istante d'ingannarmi. Ma egli mi à salutato della testa, sbirciandomi. Era ben desso.
—E' non sarà dunque più vescovo, allora?
La conversazione fu interrotta dall'arrivo di una lettera. Il duca la prese, dimandò a sua moglie il permesso di aprirla e lesse:
« Caro duca,
«Devo presentare nel mondo una mia giovane parente di una eclatante bellezza. Ora, come voi siete il lion dei nostri lioncini parigini della moda, vi dimando quale giorno sarete libero per venire al mio ballo, onde io lo assegni, e lo indichi in seguito agli ambasciatori di Russia, di Spagna e di Turchia, ed ai nostri signori del Faubourg. Fatemi la grazia di una parola di risposta, ecc., ecc…
«AUGUSTA THIBAULT.»
—Chi à portata questa lettera?—dimandò il duca al lacchè.
—Una specie di messere, che aspetta la risposta.
—Fatelo aspettare.
E Pradau non dimandava di meglio che aspettare.
VII.
L'estetica della livrea insegnata nell'anticamera.
Egli aveva bello chiamarsi Pradau, come si era chiamato di cento altri nomi in Russia, in Polonia, in Austria, in Turchia, in Italia. Egli aveva bello azzeccarsi delle basette troppo scure, dei capelli neri con una cresta a mo' di Luigi Filippo, a bellettarsi come il famoso duca di Brunswick… Egli non si sottrarrà ai nostri sguardi come a quelli della polizia. Egli sarà per noi ciò che è: il babbo Tob, il capo degli zingari. Egli non è meno adesso, che quando si chiamava babbo Timoteo, l'intendente di madama Augusta Thibault.
Egli non à perfezionato il suo carattere, e non à aumentato nella nostra stima, in proporzione che à aumentato la sua fortuna, i suoi talenti, le sue relazioni sociali.
Aspettando la risposta dell'ambasciadore, e' chiese di dir buongiorno a M. Claret, l'intendente del duca di Balbek, cui egli aveva incontrato nel mondo.
E' chiacchiera adesso con quel degno uomo. Di che?
Ascoltatelo, se vi piace. Messer Tob è sempre istruttivo come i libercoli pii dei RR. PP. dalla Società di Gesù.
Passiamo i complimenti e le informazioni piene d'interesse sulla salute di M.^me* Claret.
—Io ve lo affermo, M. Claret, voi dovete cambiare il cameriere del vostro padrone, per l'onore della casa e per rispetto di voi stesso.
—Ma, signore, il duca è contento del suo cameriere.
—Ciò si può—io anzi lo comprendo. Ma noi, noi non ne siamo mica contenti. Egli abbassa la nostra classe.
—Che mi dite voi dunque, père Pradau?
—Mio Dio, sì: nè più, nè meno! Quando io mi sono deciso—io, cittadino libero del bel regno di Francia e di Navarra, ad entrare nell'ordine sociale detto—molto impertinentemente e molto impropriamente—dei domestici, io ò studiato la legge fondamentale e costituzionale di questa classe—i nostri principii dell'89, a noi, che!
—Spiegatevi un poco più chiaro, père Pradau.
—E voi state attento M. Claret. I nostri antenati ci avevano legato delle tradizioni eccellenti, cui la monarchia borghese ci à fatto perdere. Perocchè la legittimità dei lacchè à naufragato nelle giornate di luglio con la monarchia legittima del ramo primogenito.
—Ciò potrebbe ben essere, père Pradau.
—Ciò è, M. Claret. Un grande spirito del secolo scorso, un gentiluomo, il signor di Montesquieu à detto in qualche parte¹: «Questo corpo dei lacchè è più rispettabile in Francia che altrove: egli è un semenzaio di grandi signori; ricolma i vuoti degli altri stati. Queglino che lo compongono, prendono il posto dei Grandi sgraziati, dei magistrati ruinati, dei gentiluomini uccisi nei furori della guerra, e quando non possono supplire da sè stessi, rilevano tutte le grandi case per mezzo delle loro figlie, le quali sono come una specie di fumiere che ingrassa le terre montagnose ed aride.»
¹ Lettres Persanes.
—Catteri! catteri! che l'è bello!—sclamò M. Claret.
—Non è vero?—riprese lo zio Pradau. Ma non deploriamo più codesto—avvegnachè avessimo a rassegnarci, con rammarico, a non più battere le scolte di notte; a non più bastonare il borghese; a non far comunella con lo studente, ed a fare, in virtù d'un principio passato in consuetudine, i figliuoli dei nostri padroni.
—Eh eh! mica sovente, père Pradau.
—Di chi la colpa? Una cosa non pertanto era restata in piedi in questa ruina delle istituzioni dei nostri padri: che il domestico avrebbe servito il meno possibile il suo padrone e si sarebbe fatto il più possibile servire da lui. Un articolo essenziale della nostra Carta non era stato mai violato—ed i nostri confratelli dell'altro lato dalla Manica, quei perfidi Albionesi, vi tengon sodo—quello, che interdice d'invadere sulle funzioni del suo collega. Consultate a questo proposito la storia. Io leggeva, non à guari, in un vecchio libro, che un re di Spagna—un Filippo o un Ferdinando, non mi ricordo più quale—assiso vicino al camino, dimandò un giorno ad un duca di Lermes di mettere un ceppo nel focolaio.
—Un ceppo nel focolaio!
—Sissignore. Il duca di Lermes obbedisce. Il ceppo si infiamma. Il re à troppo caldo alle sue gambe e chiede al duca di scostare la sua seggiola.—Mi scusi, sire, risponde il duca di Lermes, gli è il conte di Lemos che à il diritto di toccare la seggiola di Vostra Maestà. Si cerca il conte di Lemos. Egli è alla caccia. Il re si abbrustola infrattanto, ma non osa più ordinare al duca di Lermes di allontanarlo dal camino. Il duca non osa invadere le funzioni del conte di Lemos. Sì bene che, quando questi ritornò dalla caccia, le gambe del re erano rosolate come una costoletta—e ne morì. Ecco come si conducevano i nostri padri; ecco l'esempio dei nostri antenati!¹
¹ Père Pradau ignorava che negli Stati Uniti questi rispettabili funzionari non si chiamano neppure più servi, ma helps —ajuto, ajutante.
—Come è nobile codesto, birbo ch'io sono!
—Ebbene, io ò visto—visto dei miei occhi, dei miei propri occhi, M. Claret—io ò visto mastro Robert, alla porta dell'Opera, in presenza di noi tutti, aprir lo sportello del coupé del duca, bassare la staffa, raccoglier per terra non so che cosa, e gridare al cocchiere: A casa! Nome di un conte! se codestui à l'anima di un lacchè, che indossi la livrea.
—Voi avete ragione, zio Pradau—scoppiò M. Claret, indignato.
—Se ò ragione! ma dimani quel birbo consentirà a rimpiazzarvi come intendente, M. Claret, come maestro di casa, se il padrone gliel'ordina.
—Oh ve'! Io vi prometto che vado a lavargli il capo per bene.
—Bisogna mandarlo via corto corto, e senz'altro, M. Claret. Io m'incarico di trovargli del pane. Ma io ò bisogno del suo posto, io: quel posto mi fa d'uopo.
—Come! voi dite…
—Che quel posto mi fa d'uopo.
—Oh! per esempio! Non vi basta dunque quello che avete?
— Maitre d'hôtel di madama Thibault! Pouah! Gli è buono per guadagnar danari, codesto.
—Catterone! Ma io credo che il re è alle Tuileries per la stessa ragione.
—Sì: danari della sua intelligenza, non un salario.
—Quanto vi rende il vostro posto?
—Sei mila franchi l'anno, compresi i regali—ma i benefizi sugli affari, in più.
—Corna di un bue! e voi sollecitate il posto di cameriere, che vi darebbe due cento franchi al mese?
—E per ciò appunto io li rifiuto. Voi mi farete l'onore, M. Claret, di comprare ogni mese con i miei onorari un abito alle vostre figliuole o a madama Claret.
—Ma voi fabbricate dunque dei vaudevilles, père Pradau?
—Io fabbrico castelli, M. Claret. Statemi ad udire. Io sono ambizioso. Io ò di già dieci mila lire di rendita, e me ne occorrono ventiquattro.
—Nè più, nè meno?
—Meglio ancora. Io voglio comprare nel Berri un castello, vicino a quello del conte di Vixelles—che mi ricusò un giorno un posto di domestico in casa sua. Voglio vederlo a cacciare sulle mie terre costui, a desinare alla mia tavola con la sua moglie e la sua progenie, e venire, cappello in mano, a sollecitare il mio voto nelle elezioni.
—Il tutto mediante…?
—Ventiquattro o trenta mila lire di rendita, cui io avrò, cui noi avremo, M. Claret.
—Voi dite noi, père Pradau?
—Come! credevate voi dunque che io fossi così egoista di mangiar solo e di lasciare i miei amici razzolar nelle ossa?
—Per esempio! no: ma…
—Ascoltatemi bene, M. Claret, e comprendetemi bene. Che cosa sono io adesso? L'intendente di una donna che è il tratto di unione tra le belle donzelle ed i ricchi signori. Noi facciamo eccellenti affari, fuori dubbio. Ultimamente ancora, abbiamo trasferito Fernandina a Raizet pascià.
—Cosa è Fernandina, père Pradau, una giumenta?
—Ma donde cascate voi, M. Claret, che non avete udito parlare, o visto, la più bella figliuola di Parigi? quattro cavalli a un landau giallo e nero, come quello dell'ambasciatore d'Austria; due lacchè a parrucca incipriata e bastone in mano; e cocchiere inglese, di dugento cinquanta chilogrammi in predella; piccolo hôtel nella rue des Vignes; palco all'Opera; pranzi di gala due volte la settimana; e… feste di notte a tutto bordone.
—Capisco!
—Me ne congratulo! Bene, codesto ci à profittato ottanta mila franchi. Tutte le mie spese ed anticipazioni rimborsate, abbiamo avuto un beneficio netto di trenta mila franchi—ventisei per madama Thibault, quattro per me—oltre il cinque per cento sulle somministrazioni, ecc., ecc., totale 10,000 franchi di parte mia.
—Ed ambizionate un posto di 200 franchi al mese?
—Appunto! Noi abbiamo avuto questo affare col Turco l'està passata. Ne annaspiamo uno con la Russia in questo momento, ed ecco perchè io sono qui con un invito pel vostro duca, il quale è Sultano in quei paraggi. Ma quanto tempo mi bisognerà desso, senza parlare del sacrifizio dalla mia considerazione, per mettere insieme la somma che costituisce la mia rendita? Ebbene, io posso guadagnar codesto in un anno.
—Voi dite, père Pradau!
—Conoscete voi quel bell'edifizio circondato da colonne nella strada Vivienne?
—Voi intendete parlare della Borsa, mi immagino?
—Sissignore, M. Claret. Orbene, la mia rendita e la vostra sono in quel palazzo dei miracoli.
—Hum! père Pradau, io ò udito delle storie su quel luogo lì…
—Bazzecole! Tutto dipende dal colore delle mani che vi si portano. Ma infine, ecco il mio affare. Io lascio in deposito al mio agente di cambio un capitale di…—mettiamo 100. Egli mi lascia fare delle operazioni, tutto al più per 150 o 200. Perchè? Perchè io lo conosco, e perchè egli sa non esser io che un piccolo funzionario in casa di una dama la quale à un bazar dove à luogo qualcosa che si chiama: una sauterie, un pranzo in piccolo comitato, un raout, un ballo, infine, per i grandi colpi, come nell'occasione attuale. Benissimo. Mettete ora che, invece di essermi un così piccolo sere, io mi appartenga alla diplomazia. L'orizzonte si allarga di cinquecento leghe. Io giuoco ciò che voglio. Non mi si dimanderà neppure la copertura. Debbo io confessarlo? Si crederà che io giuochi per conto del padrone. Ciò si è visto. Ad ogni modo, si crederà che io metta a partito i secreti del padrone. Infatti, ci vuol proprio del genio, eh! per dire, senza posarvi su, annodando la cravatta od ungendo di pomata il ciuffo del signor duca: To'! la Borsa à bassato ieri; essa basserà ancora oggi, scommetto!—Tu credi, imbecille?—risponde il duca.—L'è fatta. Giuoco al rialzo.
—L'è curioso davvero ciò che voi dite mo', zio Pradau! Io non ci aveva giammai pensato.
—Credete voi, M. Claret, che gli uomini di genio s'incontrino così per le vie come i poliziotti, eh? Ebbene, quando io ò estorto una parola, quando io ò annasato un tantino nei dispacci, e colto una frase alle porte, io vi dico: M. Claret, oggi vi sarà rialzo. Io rischio cinquantamila franchi; volete rischiarne dieci, voi—voi che siete padre di famiglia? Noi giuochiamo, e la pecunia viene.
—O se ne va.
—Qualche volta. Ma noi paghiamo. Ciò allecca il mio amico agente di cambio. Io piagnucolo presso il duca, a proposito della perdita che ò subita. Egli s'intenerisce, mi regala del triplo imbecille, e si lascia sfuggire un motto che sembra senza conseguenza. Io l'acciuffo a volo. Giuoco questa volta cento mila franchi, voi trenta mila. La messa è finita. Viva il duca!
—Babbo Pradau, voi avete la mia stima!
—Voglio il posto, M. Claret, la vostra confidenza e la vostra amicizia: ecco tutto. Mi avete voi capito? Io non ò secreti per voi. Voi avete delle ragazze a maritare o a mettere al Conservatorio, e dei biricchini a ficcar nel collegio. Noi siamo cristiani al postutto, che diavolo! Ebbene, si va più spiccio della sorte che con i rosicchi sui conti e gli sconti dei fornitori. E rileviamo, per l'intelligenza, la dignità del lacchè, come dicono i gonzi. Sappiatelo, M. Claret, io medito di scrivere un libro, nel mio castello del Berri, Sui doveri dei padroni ed i diritti dei servitori —nel quale io proverò: che noi siamo dei funzionari pubblici, e che abbiamo diritto ad una pensione di ritiro—a pigliare da una tassa speciale pei domestici, pagata dai padroni—ciò che costituirà un fondo a parte al Gran Libro, destinato alle pensioni. Vedrete, vedrete, M. Claret. Ma per condurre a termine tutto codesto, è mestieri che lo pigli il mio rango nella diplomazia.
—Oh! io comprendo perfettamente ciò.
—Bisogna moralizzare i padroni, mio caro, se vogliamo costituire la nostra indipendenza. Essi ci danno del tu, per l'epa del diavolo! Ci chiamano col nostro nome di battesimo, e qualche volta animale! Essi dimenticano perfino talvolta di dire: se vi piace! Oh! eh! I nostri padri àn dunque presa la Bastiglia per nulla? E la livrea, ah! Noi siamo in un carnevale perpetuo, noi altri, noi siamo degli arlecchini all'anno.
—Come a dire?
—La nostra livrea è la nostra gogna. E la parrucca, poi? E con questo, una parrucca di stoppa, bianca della farina che il vento ci caccia negli occhi e ci accieca, e nel naso e ci fa starnutire dodici ore al giorno! Mi pare che basti che ci accimorrino con li scarpini, le calze di seta e le brache corte. Essi non ànno nemmeno pietà se un famigliare à le gambe arcate, con quei mezzicalzoni di peluscio rosso o giallo canario! Se fossero almeno colori seri! Vi si azzima in pappagallo! Basti così, cospettaccio! D'oggi innanzi, noi esigiamo degli uniformi di lanciere. Eh! che ne dite, M. Claret, di lanciere o di ussaro?
—Io inchino forte alla veste da camera. Essa è più comoda. Io ò saggiato l'uniforme alla guardia nazionale—e non mi sorride una maledetta. Ma, infine, vada pure per il lanciere. Io amo la Polonia… a digiuno.
—Allora, caro M. Claret, l'è un affare inteso. Ma, del resto, dopo dimani sera io verrò a pigliarvi con la vostra signora e le signorine, ed andremo alla Porte Saint-Martin. Avrò un palco. E chiacchiereremo di nuovo. Ve lo ripeto: lascio il salario per le spese di toilette delle vostre piccole, e v'invito a partecipare alle mie operazioni, quando vorrete e nelle proporzioni che vi piacerà.
—Sì, sì, père Pradau, io ò afferrato tutte le vostre combinazioni e le trovo ammirabili. Ma lasciatemi preparare un pretesto che mi giustifichi agli occhi del duca, se mando via Roberto e vi sostituisco a lui.
—Ciò è giusto. Ciò è, anzi, convenevole. Bisogna rispettarci, se vogliamo farci rispettare dai padroni. Anche io non voglio perdere la commissione che mi riviene sul collocamento che madama Augusta medita probabilmente.
—Ma cosa l'è insomma codesta agenzia, zio Pradau?
—Ma! avete voi udito a parlar mai dell'agenzia di M. Foy?
—Oh! sì: ò letto ciò spessissimo negli annunzi dei giornali¹.
¹ Agenzia di matrimoni.
—Ebbene l'è la casa Foy, il matrimonio in meno—alla chiesa e al Municipio. Ecco tutto. Noi diamo una festa, secondo l'importanza della cosa. Tutto ciò che vi è di ricco e di nobile viene ad approvvigionarsi da noi. Noi prendiamo iscrizione delle damigelle che vogliono o principiare o divenir assennate; ne scrutiniamo bene la morale; esaminiamo le loro bellezze, la loro istruzione, la loro educazione. Perocchè noi non presentiamo in mercato che fior di roba, con garentia e stampo di fabbrica.
—Ma, l'è da fior di galantuomini, codesto!
—Le persone s'incontrano, si parlano, si esaminano; si consulta la scritta del prezzo nell' album sulla tavola, per ordine alfabetico e ritratto. Si vede la lista delle spese, poi… E poi si getta il moccichino. Una parola detta all'orecchio di madama Augusta basta. Nulla di più leale in commercio. Mercanzia per ogni gusto. Nulla al disotto di 36,000 franchi di onorario l'anno—oltre i regali che sono volontari, ed una somma per l'installamento primo. Non un motto che non sia decente. Alle Tuileries si è meno permalosi. E che eleganza! che tatto squisito! che spirito in ogni concetto, in ogni sguardo! che gusto! che di aristocrazia nelle maniere! Oh! se gli ambasciatori e le duchesse potessero venire ad istruirsi da noi! Insomma, l'è la parrocchia dei baci—ma un vescovo crederebbe trovarsi nel pensionato delle suore di Picpus!
—In fede mia! codesto è proprio superbo.
—Lo credo bene. E perciò ci si scrive dalle cinque parti del mondo per essere inscritta e presentata, e ci si manda il ritratto, guarentito rassomigliante per atto di notaro. Che collezione! Qualche volta noi facciamo delle anticipazioni, per dei soggetti il di cui successo è infallibile. Si può consultar gratis i nostri registri ed il nostro album. Nulla di sospetto e di meschino. Il signore che non giustifichi di avere un titolo e di posseder per lo meno 150,000 franchi a ruminare in un anno, non è ammesso nelle nostre riunioni. L'età cui preferiamo per i candidati è al di là dei trent'anni. Chi ne à meno di venticinque è escluso dalla morale, non vi pare?
—Ma un'istituzione simile meriterebbe un incoraggiamento del governo, io vi dico.
—Pouah! questo governo taccagno! Ah! parlatemi dunque degli altri!¹
¹ Il conte di Chambord e gli antenati.
La conversazione fu interrotta precisamente da M. Robert, il quale portava la risposta del duca.
Altra derogazione agli occhi dello zio Tob, il quale non rifletteva che egli stesso aveva derogato peggio ancora.
—Allora è convenuto, M. Claret, non è vero?—disse Tob alzandosi.
—Che diamine! noi siamo degli uomini, zio Pradau.
—A dopo domani. Se non posso spicciarmi alle sette e mezzo, manderò il viglietto del palco nella giornata, ed andrò a porgere i miei ossequi alle signore nella serata.
—Saranno desse contente, perdinci!
—Me lo immagino. Frederik rappresenta Don Cèsar de-Bazan.
—Superbo!
—I miei complimenti alla famiglia, ed a rivederci.
—Mille grazie, ed a rivedervi, père Pradau.
Come quella dimora aveva l'aspetto calmo! Come tutto vi sembrava regolare, in ordine, puro, felice! Come le passioni vi erano umane, i desiderii sereni, l'andamento normale, i sentimenti sociali!
M. Claret andava ad introdurvi l'ex capo degli zingari!
Il duca di Balbek aveva accettato, e fissato il ballo di Augusta al 29 novembre.
VIII.
Il ballo del 29 novembre e la prefazione.
La sera del 29 novembre giunse.
Alle nove della sera, un piccolo coupé si fermò innanzi ad una porta nella via Blanche. Un signore ne scese, salì al terzo piano, suonò. Una ragazza aprì, ed annunziò:
—L'è il signore.
Sergio di Linsac—era desso—entrò, cappello in testa, dritto dritto nella camera da letto.
La cameriera, che gli aveva aperto, lo seguì, per continuare a prestare la sua assistenza alla padrona, la quale era in via di terminare la sua toilette.
Era di già pettinata, e Luisa le infilava le calze.
—Non ti aspettavo—disse Morella, la padrona della dimora. Vieni tu per qualcosa?
—Lo credo bene. Vengo a passare in rivista l'esercito, ispezionare le armi ed aggiungervi questo cannone alla Paixant.
E, ciò dicendo, le presentava un ferretto di diamanti a foggia di stella.
—L'è proprio bello—sclamò Morella. E vado a collocarlo, all'istante, nel suo empireo.
—La tua fronte l'ecclissa, Morella—rispose Sergio, baciandola.
—Tanto meglio se l'è così. Ne saresti tu già ai concettini, con me?
—Come? tu dici ciò all'uomo che ti à presentato il tuo bastone di maresciallo?
—Di meglio: che mi à cacciato nella mischia per guadagnare la battaglia. Come trovi tu questa veste?
—Giammai demonio non prese meglio le penne di cherubino.
—Lasciami in pace con le tue inezie di demoni e di cherubini. Sono io bella?
—Ahimè!
—L'insieme è armonioso!
—Irresistibile.
—Se indicassi l'ombra appena di un neo, qui, in giù della guancia… per fare osservare come essa si arrotonda soavemente sulla mascella inferiore?
—Non aggiungere nulla di nulla. Vattene, Luisa. L'è finita. L'è perfetta. Dio sarebbe geloso, o innamorato, dell'opera sua—se fosse la sua!
—Insomma?—chiese Morella, quando la cameriera fu uscita.
—Morella, io non tenterò più di piegarti.
—E fai bene. Ti dicono, pertanto, uomo di spirito! Scrivi dei libri che pretendono rivelare il cuore umano! Esci dunque dall'assurdo. Io non ò che diciannove anni. Non ò, per conseguenza, che undici anni innanzi a me, per occuparmi di altro che di amore. Ritorna quando avrò trent'anni. Vedremo allora. Ma inocularmi adesso quella melanconia! grazie: la sbiada il colorito.
—Tu menti in questo momento. Io so, e ciò ti basti, che tu ami altrove.
—In ogni modo, ciò sarebbe per conto mio proprio. Ma non ritorniamo su queste tristezze. Puoi tu spendere dugento mila franchi l'anno per me? No. Vattene allora! Tutto è detto. Io ammagrisco al regime di 2000 franchi al mese. Tu mi ài fatto un ospizio, con codesto, e non un altare. Ora, la natura non mi à regalati questi occhi qui, questa bocca, questa testa, questo collo, questo seno, questa vita, tutto questo splendore, in una parola, per metterlo milensamente a codesta pietanza da invalido. Io non intendo che due cose: o degli stivaletti squarciati trascinati nel fango, o una costellazione. Gli stivaletti squarciati sono una sventura; un terzo piano nella strada Blanche è una dappocaggine. Parliamo dunque d'altro.
—Allora, l'è un addio per sempre?
—T'inganni, Sergio. Io non dimenticherò giammai che tu mi prendesti piccola contadina d'Arles, e che mi ài fatta ciò che sono. Io ti debbo tutto: gusto, parlantina, ambizione, istruzione, scienza della bellezza, aspirazione, poesia, conoscenza del mondo. Io era forse una perla; tu ne ài fatto un gioiello, un monile. Io resto tua amica, tua obbligata. Lasciami adesso collocare a modo mio il capitale che Dio mi à dato: la bellezza e l'amore! ed il capitale che tu vi ài aggiunto: l'arte! Io conosco il valore di ciò che posseggo, ora.
—Non far dell'usura, almeno.
—Tu dici codesto, tu? Come! Si danno 2000 franchi ogni sera alla Grisi, per una cabaletta, senza menar scalpori, e si trova enorme se io domando la metà di quel prezzo? Ma cosa è dunque un gorgheggio in paragone di un bacio di queste labbra, vedi! di queste labbra, il cui soffio è come la parola di Gesù a Lazzaro: vivi! In verità, gli uomini sono idioti!
—Morella—osservò Sergio, dopo un momento di riflessivo silenzio—io sono felice della scelta che ò fatto e dell'ispirazione che ò avuta. Tu mi farai onore; ed io non dubito del successo. Terrai il tuo posto con bravura. Io ti rimpiangerò sempre, ma meno se sei fortunata.
—Parliamo d'affari allora, e formola le istruzioni che vieni a darmi. Tu ài detto che io entrava nella carriera della diplomazia?
—Vi sei di già.
—Che io era al servizio di un'Altezza, da cui il sotto ambasciadore di Russia teneva il suo mandato?
—Te lo confermo.
—Che io doveva ammaliare un bel giovane?
—Egli è anzi troppo bello—ed io ò paura che tu ne diventi amorosa e che ci tradisca.
—Decisamente, tu ài una cattiva opinione di me. Rassicurati, allora: io amo di già. Non se ne amano due alla volta.
—Tu l'ami dunque davvero?
—Al punto, che io non mi lamenterei degli stivaletti rotti per andarlo a vedere.
—Lo compiango: tu ne farai un idiota.
—Ciò mi riguarda. Io pretendo farne un angelo del paradiso. Ma dimmi il nome della vittima che gittate nei miei artigli.
—È il duca di Balbek.
—Lo conosco… e l'odio.
—Come ciò?
—Un quindici giorni fa, io era sola—sola in un palco agl' Italiani. Quasi rimpetto a me, quel duca aveva passato la sera con una giovane e bella fanciulla—che debbe essere probabilmente sua moglie. Egli mi aveva sbirciato tutto quel tempo, quantunque io torcessi sempre il capo con dispetto. Scendendo la scala, per azzardo, mi trovai innanzi a loro. La giovane mise il piede sulla mia veste. Io mi volsi. Ella mi disse graziosamente: Mille scuse, signora! Allora quel facchino di duca le mormorò all'orecchio—ma non sì basso che io non l'udissi: Non tanta cortesia con quelle creature! La giovane indietreggiò, quasi si avesse toccato un colubro. Io li squadrai entrambi con insolenza, e dimandai al vicino: Chi conosce qui questo pezzo di tanghero?
—Zitto! fe' qualcuno: gli è il duca di Balbek, ambasciadore di un re non so dove! Essi erano passati; ma avevano dovuto udire il mio motto.
—Questo precedente è spiacevole.
—Dite, propizio. Allora?
—Ebbene, figlietta mia, vendicati in questo caso. Te lo abbandoniamo, corpo ed anima. Impadronisciti di lui, fatti amare, e… divoralo!
—Egli sarà dunque al ballo?
—Si dà il ballo per farvi incontrare. Il principe di Lavandall ti farà la corte per isvegliare l'emulazione di quello sciocco. Tu farai trionfare il duca sul principe.
—Ed in seguito?
—In seguito, tu sarai riserbata, ma non respingerai le proposizioni.
—Le farà desso codeste proposizioni?
—Il tuo specchio non ti dice dunque ch'ei non sarà mica il solo a fartene? Però, egli deve essere l'eletto—vedessi tu ai tuoi piedi il duca di Orléans od il barone di Rothschild.
—Sta bene. Quale è poi la mia missione?
—Amor mio, tu sei un graffio che noi gettiamo su quell'uomo. Noi non abbiamo che uno scopo: ridurlo alla miseria. I mezzi ti riguardano. Dugento mila franchi di premio per te, se riesci. Noi ti lanciamo su di lui come Dio sguinzagliò Satana sopra Giobbe.
—E poi?
—Poi… io non ne so mica più di te.
—Che fortuna può egli avere?
—Oh! e' non è ricco. Se tu gli estrarrai cinquecento mila franchi in oro dal cuore, e' sarà lì per depositare le armi.
—Non tregua?
—Neppur di un secondo. Tu sei una macchina che lo à preso nel suo addentellato, e da cui Dio stesso non lo potria più distrigare. Pompa, pompa, pompa sempre.
—E quando sarà tapino come un tapino irlandese?
—Ti comunicherò gli ordini che mi si impartiranno. Ricordati solo, che tu non sei mica una volontà, ma una fatalità.
—Che parte debbo io assumere?
—Osserva le manie dell'uomo, e decidi. Ma non mi sembra avere colui dei gusti che olezzino l'ideale. Tu sarai baccante. E ciò lo trasporterà.
—Riserbo ciò per colpo di grazia, quando vedrò il sangue schiumar sulle sue labbra. Andiam per gradi. L'è detto. Ecco tutto. Le undici e mezzo. Me ne vado.
—Non importa! io ò dei rimorsi. Io so che in queste trame sataniche i pesci cani si aprono sempre una via e che l'è sempre la povera mosca—la donna! che soccombe. Dio ti sia in aiuto, Morella. Io ti amo.
—Va a metter ciò in versi: l'è grazioso. Ma non esser inquieto per me, no: io sono di acciaio—mi si può torcere, ma non spezzare.
—Io mi sovvengo di un'altra vittima. Addio.
Il ballo di madama Thibault si componeva di due categorie di persone: gli attori e gli spettatori.
Gli attori erano una ventina di giovani dei due sessi, cui alcuno non conosceva ed alcuno non curava conoscere—i ballerini. Le damigelle erano state scelte di una bruttezza sufficiente per non far macchia e servire di rilievo alle vere bellezze.
Questo coro della festa era vestito di bianco, senza gioielli, con qualche fiore nei capelli, ed ecco tutto.
Non vi era da sbagliarci sul suo ufficio.
La categoria degli spettatori era altra cosa. Lo zio Pradau li aveva dipinti con esattezza.
Madama Thibault abitava adesso un padiglione in fondo ad una corte, nel Faubourg St. Honorè. Al padiglione si annetteva un piccolo giardino. E tutto ciò era ricco e civettuolo.
I saloni, o piuttosto la Borsa, eran già stivati di gente, quando Morella arrivò.
La stessa parola spruzzò, nel medesimo tempo, da tutte le labbra: Ecco la regina!
Infatti, Morella era alta abbastanza per spiegare l'eleganza squisita della sua taglia, ma non troppo per imporre, come una Semiramide di Opéra. Il suo colorito aveva quella pallidezza bianca ed abbagliante, piena di salute, che indica l'armonia delle funzioni della vita, la perfezione degli organi. Una pelle vellutata e fina, simigliante all'alito di una bambina che dorme. Il suo lungo sguardo nero era impregnato di languore, ma si animava per raggi, e dava delle scosse come una macchina elettrica. Nulla poteva eguagliare la freschezza, la grazia, la soavità della sua bocca, ove la voluttà sorgeva come Venere dalla schiuma del mare. La sua fronte, alta, levigata, bianca come l'Olimpo di Omero, sarebbe stata davvero il trono di un'anima—se Morella ne avesse avuta una. Il suo sorriso un po' lento penetrava come l'odore della magnolia. Il suo collo, il suo petto, le sue braccia nude allumavano gli sguardi e scoloravano i sembianti. Satana vi scoppiettava con la sua muta furibonda di desiderii.
Morella era una provocazione. Ove ella poggiava lo sguardo, feriva; ove ella fermava la sua volontà, prostrava.
Come contrasto a quella provocazione—che sembrava emanar da lei involontariamente—le sue maniere erano dolci, molli, gravi: la cimbalina di Dio si rivelava in sibarita!
La sua voce era armoniosa, ma si lasciava dietro le vibrazioni che seguono una corda che si spezza.
In una parola, Morella sarebbesi detta una cattiva azione della provvidenza. Era un calappio, come la datura strammonio —il di lui fiore incanta lo sguardo ed uccide.
Si danzava già in un salone.
In un gabinetto, taluni, fra cui il dottore di Nubo, giocavano al baccarat a tutto vapore.
Sotto il pretesto del caldo e della folla, una mezza dozzina di odalische—le men belle, tariffate al di sopra dei 60,000 franchi l'anno—si erano ritirate in un altro salone che dava sul giardino. Una dozzina di uomini—i quali avevano quasi tutti passato il capo fatale dei quarant'anni—folleggiavano intorno a quelle bellezze—alle quali madama Thibault li aveva presentati.
Il duca di Balbek trascinava uno sguardo noncurante su quello splendido mazzetto, meditando un attacco sopra una magnifica Polacca, la quale, a sua volta, lo avviluppava del suo sorriso. Il principe di Lavandall stuzzicava i lunghi ricci neri di una giovine miss irlandese, che aveva l'aria innocente di Eva nel paradiso.
In quel momento si udì nei due saloni una specie di brulichìo? paragonabile a quello della brezza nelle foglie della foresta.
Tutti gli sguardi si volsero verso la porta.
Era Morella che entrava, e madama Thibault che si precipitava al suo incontro.
L'effetto, l'ò detto, fu completo.
Il primo che sollecitò a dimandare di essere presentato, fu il principe di Lavandall. Il duca di Balbek, che l'aveva riconosciuta, e si rammentava la scena agl' Italiani, arrossì.
Morella fece vista di non scorgerlo.
—Ahimè! madamigella—le susurrò il principe—ora che vi vedo, rimpiango di non essere la fortunata vittima che i vostri sguardi debbono immolare.
—Che ciò non vi arresti, mio principe—disse Morella ridendo; io sono di forza da farne due delle vittime.
—Non si potrebbe trovare un modo di transazione, madamigella?
—Oh! no, caro principe. Non v'è che i piccoli bancarottieri che transigano. Io, io fo saltar la banca, netto, o pago a cassa aperta.
La padrona della casa presentò il duca di Balbek.
—Madamigella—disse costui—v'ànno salutato, entrando, del nome di regina. Permettete ad uno dei vostri umili sudditi di mettere ai vostri piedi la sua sincera divozione.
—Vedi mo'! e' sembra che il signor duca abbia un dizionario secondo le latitudini parigine: la creatura dei Bouffes è regina qui! Cosa sarei nel mio palazzetto, signor duca?
—Permettetemi che vada a dirvelo, ed a farvi le mie scuse.
—E perchè no qui? Il signor di Lavandall è buon giudice.
—Io sono troppo vecchio, madamigella, per entrare in questa mischia. Non si corre più quando si à la podagra. Siete voi fortunato, signor duca!
—Adagio, signore, adagio, non cercate svignarvela. Io sono pigra, io: amo la podagra.
E dicendo ciò, Morella salutò leggiermente il duca di Balbek—il quale restò pietrificato—e condusse il principe nel giardino. Ma cinque minuti dopo, rientrarono, e M. di Lavandall le presentò il conte di Kormoff suo amico.
Morella si assise sur un canapè, con il conte, vicin vicino al duca di Balbek, cui volse il dorso.
—Parola d'onore, madamigella—disse il conte rispondendo ad una dimanda della giovane donna—il freddo di Siberia è un pregiudizio europeo. In ogni caso, io m'impegno a percorrerla, senza pelliccia, in toilette da ballo, in pien gennaio, se voi siete a fianco a me.
—E si dice che i Cosacchi sono dei barbari! ma essi fan quasi quasi dei madrigali. Gli è vero che il signor conte non è ambasciatore di un re, per avere il diritto di essere insolente—soggiunse Morella a voce alta.
Il signor di Balbek si contorceva e taceva.
Morella riprese il braccio del principe di Lavandall, per fare un giro nella sala di danza.
Il duca si alzò anch'egli e la seguì lentamente, di lontano.
L'ambasciatore di Spagna, che si trovava a fianco a lui con la Polacca, gli disse sorridendo:
—Caro duca, il Russo vi dà scacco e matto: lasciate la partita.
—Non l'ò impegnata: non posso dunque lasciarla.
—Allora, non impegnatela. Le donne ammattiscono per le mine dell'Oural.
—Voi avete ragione forse, marchese. Ma ben sovente, elleno si servono delle mine per comprarsi degli aranci.
Morella, che trovavasi innanzi a lui, l'udì e domandò al principe di Lavandall:
—Principe, se vi dessero a scegliere tra un orso ed un pappagallo, quale dei due scegliereste voi?
—Se io fossi donna, il pappagallo.
E dicendo ciò, le presentò lord Warland—al braccio di cui la confidò—essendo stato chiamato dall'ambasciatore di Turchia, che volle presentargli Fernandina—un'altra regina del ballo che faceva il suo ingresso.
Ora lord Warland non parlava il francese e Morella non capiva l'inglese. Lord Warland era parecchie volte milionario ed aveva la rabbia di parlare alle belle donne—egli che poteva vantarsi di essere uno degli uomini i più brutti di Europa!—di cui era fiero, del resto. Infatti disse:
— Mademoiselle, all the ladies fly away from me. You are the first one, this evening, who consents to take my arm. I was wrong not to come here wrapped in a mantle of banknotes.
Morella l'ascoltava a grandi occhi aperti.
Il duca di Balbek, che le era vicino, sorrise. Morella lo vide, gli si volse e gli chiese:
—Il signore vorrebbe farmi l'onore, se comprende l'inglese, di tradurmi codesto?
—Milord à detto, madamigella—rispose il duca salutando—che tutte le dame lo fuggono, e che voi siete la prima che abbiate consentito ad accettare il suo braccio. E milord aggiunse: che egli à avuto torto di non venire qui avviluppato in un mantello di banconote.
—Milord, voi avete fatto benissimo, al contrario—rimbeccò Morella—avreste potuto correre il pericolo di pigliar fuoco.
Milord guardò il duca, a sua volta, per pregarlo di tradurre la risposta—e rise a scoppiare quando il duca gli disse:
—You have done well, because you could have taken fire.
Lord Warland si allontanò fregandosi le mani e ridendo sempre.
Il duca di Balbek offerse allora il suo braccio a Morella.
Ella non l'accettò ed andò a sedere sur un divano. Il duca le si mise a lato.
—Voi siete dunque inesorabile, madamigella?
—Per i delitti no, signor duca; per le sciocchezze, sempre. Un delitto può avere della grandezza; la sciocchezza è infallibilmente meschina.
—Io ò potuto aver ben torto, madamigella e non mi scuso. Ma, in tutti i casi, voi ne conservate un rancore côrso. Vi siete burlata di me tutta la sera.
—I piccoli ànno anch'essi il loro giorno, signor ambasciatore. Però, al postutto, che v'importa il mio risentimento?… Sono io… l'imperatrice delle Russie, io?
—La Russia vi apparisce sotto tutte le forme, madamigella. Vi siete voi stata?
—No: ma essa mi colpisce. La Francia, l'Alemagna, l'Inghilterra, l'Italia, la Spagna si rassomigliano più o meno. La Russia è la Russia. Essa vi aspira come l'immensità del mistero. Ed i Russi, signore, sono tutto ciò che vorrete—eccetto meschini! Il profilo del loro paese si imprime forse nello sguardo loro dalla nascita, e vi lascia l'immagine del vago e del colosso.
—È da molto che conoscete il principe di Lavandall?
—L'ò visto stasera per la prima volta. Ma e' mi sembra che noi fossimo amici da dieci anni. Egli è il solo uomo che io mi abbia distinto qui.
—Davvero?
—Sì: e convenitene pur voi. Il signor di Lavandall ed il signor Kormoff sono qualcuno qui: noi siamo il genere umano—chiunque! Si sente che sono di già partiti. Essi àn lasciato qui un vuoto.
—Voi siete così invaghita dei Cosacchi, madamigella, che io sento dover rinunziare a piacervi.
—Rinunziare, signore, implica qualche cosa che significa cominciare. Ebbene, non cominciate. I Cosacchi danno forse lo knout ad una donna. Non la chiamano cantoniera!
—Ancora?
—Ma! voi non esistete ancora per me che sotto questo aspetto. Ah! ecco lì l'Inglese. Bisogna che io lo bisticci un tantino.
—In inglese?
—E poi? Vedete! gli è adesso un'ora dopo la mezzanotte. Ad un'ora e venticinque minuti, prima che io me ne vada, il mio inglese parlerà francese come Victor Hugo. Quell'uomo mi garba.
—A causa del suo mantello?
—E perchè no? Non à quel suo mantello chi vuole, signor duca. Ma la sua bruttezza mi fascina. Eh sì! la bellezza? ne ò pieni gli occhi: l'è tutto specchi in casa mia! La mediocrità? pouah! Il mio proprietario à domandato di sposarmi, presentandomi il suo ultimo ricevo del fitto. Fare dei figliuoli e rosicchiare 30,000 franchi l'anno con lui, per quarant'anni! Piuttosto la Senna! Se il volgare mi avesse sedotto, signore, sarei restata a confezionar cappellini ad Arles.
—Ah! voi siete di Arles?
—La donna non è di alcun paese. Ella è bella o brutta—del cielo o dell'inferno. Allora, fra otto giorni, tutta Parigi conoscerà il mio Inglese. Che se ne vada; ognuno sclamerà: guarda! l'inglese è partito dunque? Che noi ce ne andassimo, alcuno non se ne accorgerà.
Il dottor Nubo entrò allora nel salone e venne a salutare il duca. Egli squadrò fisamente Morella e disse:
—Che tigre reale! Gli è per questo che io sentiva l'odore di carne fresca. Attento a voi, caro duca.
—Io non sono una scienziata in storia naturale—rimbeccò Morella, con un sorriso grazioso, ma che aveva gli artigli di acciaio. Vedendovi, però, signore, io m'immagino contemplare uno di quei vecchi vasi di Faenza degli speziali di una volta—quei vasi il di cui smalto abbarbagliava, i di cui geroglifici intrigavano, e che contenevano delle droghe velenose, talvolta della vipere.
—Benissimo, benissimo, piccina. Tu ài la stoffa per divenire una duchessa.
—Voi siete terribile, madamigella—osservò Balbek. Vi si punge e voi ferite a morte.
—Oh! si à dunque la vita così tenera qui?
—Addio, madamigella. Io non oso neppure pregarvi di cessare la guerra contro un vinto.
—Davvero, signor duca? Bah! Il principe di Lavandall, lui, mi avrebbe forse abbracciata o strangolata.
Il duca uscì come un lampo dal salone, trasportando nel cuore quest'ultima freccia avvelenata.
L'indomani, Morella aspettava il duca, alle due.
La sua previsione era giusta.
All'una e mezzo egli sonava alla sua porta.
Il destino lo spingeva.
IX.
Vitaliana.
Che idillio! che primavera intorno a Vitaliana!
Ella ignorava tutto—forse perchè non si curava di nulla.
Il matrimonio era stato per lei un mandato impostole da sua madre, cui ella compieva. Il suo cuore era restato estraneo a quel mercato.
Ella non portava nella ragion sociale del duca di Balbek che la sua bellezza, la sua virtù, ed un centinaio di mille franchi, alla morte di sua madre. Ella non doveva dunque nulla al di là—oltre l'adempimento del suo dovere. Ridotta a questo còmpito, ella vi si era assiepata bravamente, la calma negli occhi, il sorriso sulle labbra. Ella non era risponsabile innanzi al mondo dalla sua vita inferma—e forse delle lagrime del suo cuore! Che importava, del resto, al mondo che vi fosse in quel seno una festa o un lutto! Basta che, scollacciato con arte e splendido—vale dire quasi nudo—esso abbagliasse gli sguardi nei balli, e che alcun uomo, il duca tranne, non potesse dire: Io l'ò sfiorato delle mie labbra!
Vitaliana si era formata un'idea esagerata del carattere, della dignità, dell'onore, della posizione sociale, delle funzioni di suo marito. Ed aveva proporzionato a quest'idea il sentimento del suo dovere.
Le donne, d'ordinario, misurano la loro colpa alla loro propria dignità. Forse che, se il carattere del marito fosse preso per campione, l'adulterio sarebbe più raro—per la semplice ragione che nel marito non vi è solamente l'uomo, ma il cittadino.
Vitaliana comprendeva così la virtù coniugale.
D'altra banda, ella avrebbe creduto mancare alla probità del contratto conducendosi diversamente. Imperciocchè ella considerava suo marito come l'incarnazione la più elevata dell'onore.
Appena se ella s'informava di ciò che il duca di Balbek era stato nel suo paese.
Ella non s'inquietava punto di ciò ch'egli faceva a Parigi.
E' le sembrava naturalissimo che re Claudio III avesse investito dell'ambasciata di Francia un così bel cavaliere.
E' le sembrava impossibile che un gentiluomo, incaricato di quelle funzioni, non ne avesse calcolato l'alta responsabilità, e che non fosse stimato e rispettato. Perchè allora interrogar delle bocche, le quali, in questa circostanza, non risponderebbero invariabilmente che con la piaggieria od il denigramento?
Vitaliana non leggeva giornali, d'altronde. E quando la si mostrava, raramente ancora, nel mondo, ella spandeva intorno a lei tal profumo di purità, raggiava di tanta bellezza, che non si scorgeva quel piccolo duca—più che non si scorge una mosca sulla cornice, quando si contempla il quadro della Trasfigurazione.
Librata dunque sopra tutte quelle nuvole, la serenità di Vitaliana era eterna come quella del firmamento.
Vitaliana era una creatura diafana.
Se fossimo a Firenze, io vi direi: Andate a visitare al palazzo Pitti la vergine di Murillo, a fianco alla Madonna della Seggiola di Raffaello: ecco Vitaliana!
Ella incarnava quella concezione divina del pittore spagnolo.
S'incontra qualcuna di quelle figure sotto il cielo brumoso dell'Inghilterra—e vi credete, per un istante, su i minareti di Stambul, in una notte di luna piena. Quelle nature sono inaffiate di raggi di stelle: vi si vede circolar l'anima!
I grandi occhi cinerei di Vitaliana, allo sguardo sì lontano, sì profondo, sì serico, sì dolce e cristallino—se venivan fuori dal vago infinito in cui sembravano immersi, dovunque si fissavano, facevan nascere dei gigli—come racconta la leggenda degli occhi di Gesù. Si sarebbe detto che v'inondassero di foglie di rosa. Il desiderio prendeva le ali della preghiera! La sua fronte si distaccava, come la mezzaluna nel cielo, tra le sue sopracciglia scure ed i suoi capelli d'oro, che la coronavano come una regina.
Tutto era armonia in quel viso—non di quella armonia della bellezza greca che è della geometria—ma di quella melodia del canti italiani, che sono un fiore dell'aria. Quell'espressione eterea si comunicava persino alla sua bocca—le cui labbra delicate e rosee riflettevano la voluttà della stamina pel pistillo. Si sentiva che era mestieri un serafino per coglierle un bacio senza appannarla.
La sua statura era media. Le sue forme, delicate. La sua vita poteva essere chiusa fra due mani di donna. Il suo collo, un po' lungo, sosteneva una testa alta, senza fierezza, e la faceva sembrare più grande che in effetto non era. Quando mostrava il suo piede, sì infantile, sì petulante, si provava il desiderio irresistibile di baciarlo.
Vitaliana era una di quelle creature, cui Dio si lascia talvolta scappare per ricompensare, per incoraggiare coloro che credono ad un'anima al di fuori della materia; per consolare coloro che credono alla perfettibilità della materia—qui fango, là raggio; qui ventre, là pensiero: Tiberio e Capri, Gesù al Taborre!
Nel palazzo dell'ambasciata, nella strada dell'Università ella si era riserbata due stanze: una camera da letto piccolina, ed un grande boudoir, sporgenti entrambi sur una immensa terrazza, di cui aveva fatto una stufa.
Ecco il suo mondo! il ritiro ove ella s'isolava.
La camera coniugale era altrove.
Nella sua, ella ridiventava vergine, si apparteneva, era sè stessa, era Vitaliana. Negli altri appartamenti, alloggiava la duchessa, ove il duca e la società la reclamavano.
La tappezzeria di quelle due camere era ricca e semplice. La stanza da letto era in raso rosa pallida, a nappe di seta bianca. Il boudoir, in damasco bleu, a nappe di nero ed oro. Il suo letto, in legno di radice di lauro, con dei medaglioni in lapislazzuli, era steso sotto una tenda che lo celava chiudendosi. Una riduzione del S. Agostino e della Francesca da Rimini di Scheffer, erano i soli quadri della stanza da letto.
Nel boudoir, oltre gli altri mobili in legno giallastro, vi era un piano; e sulle mura il ritratto di suo padre e due pastelli di Angelica Kauffman.
Poi, dei fiori dovunque.
Vitaliana non era musicienne —vale a dire, uno di quei generali dottissimi in strategica che perdono tutte le battaglie. Ella interpetrava un pezzo di musica, se non lo leggeva sempre correntemente.
Adorava i fiori. Tra i fiori e lei eravi comunicazione d'anima ed anima. Ella entrava nella sua stufa come la mano dell'abbate Listz poggia sul piano: per risvegliarvi la vita. Sarebbesi detto che i fiori la sentissero, la conoscessero.
Questo scambio di magnetismo tra una bella giovane donna ed un bel fresco fiore non è stato ancora sottomesso alle osservazioni dinamiche e microscopiche, e notato—ma esiste. Fu presentito da Van Swieten—un grande medico olandese del secolo passato. Aspetta il suo Darwin.
Vitaliana era per i fiori un raggio di sole o la rugiada. Que' che appassivano, trovavano ancora abbastanza di alito per dirle: addio! I rigogliosi cantavano; i bottoni sboccianti, folleggiavano: l'odore addiventava profumo, il colore, spanto! Vitaliana aveva sempre un motto a dire, un consiglio o una carezza a dare a ciascuno di loro. Il suo sorriso era un'evocazione. Tutte quelle stelle fiammeggiavano al suo riflesso.
—Benissimo, benissimo!—diceva ella sorridendo ad un hyocroma, il cui fiore a tubo scarlatto e bleu sbocciava pien di salute. Si vede bene che fai buona compagnia col tuo vicino, la cui foglia verde argentea riposa lo sguardo! Vedete mo', come queste povere lavatere si annoiano! La loro rosa impallidisce troppo: ingialliscono. Sareste voi tristi perchè questi cestrums ai petali d'oro se ne vanno? Non affliggetevi giammai se i grandi passano: essi ebbero i loro dì di splendore… Alla buon'ora! mie piccole svensonie! Voi gorgheggiate delle vostre testoline bianche, rose e porpuree! Svegliatemi dunque un tantino codesti conoclynii, il cui azzurro si spessisce; codeste bigonie, i cui tubi scarlatti ed i fiori soffocano la coccarda lilà del loro corsaletto…
Poi ella inaffiava le stewie e le vinee, dal fiore bianco e rosa; faceva la belloccia con quella varietà di lantane, delle boule de neige; si ricreava come una pazzerella con la sua bella collezione di vervine e di veroniche: volteggiava come una farfalla in mezzo alle iridi ed ai phlox, che avevano saccheggiato l'arco baleno. Ella camminava, correva, rideva, devastava, s'imboscava contro gl'insetti malfattori, rimuoveva la terra dalle sue mani—mani che avrebbero fatto impallidir di gelosia perfino Caterina dei Medici—tanto erano belle! S'impazientava contro i giardinieri; prendeva una piccola roncola per mondare gli arbusti; legava un ramo ribelle; raccoglieva le foglie morte.
Un mattino verso la fine del mese di dicembre, Vitaliana veniva dal terminare l'ispezione della sua stufa, quando Maria, la sua cameriera, entrò ad annunziare la visita del conte Alleux.
Ella fece un movimento di sorpresa, ed il sangue rifluì al di lei viso. Si rimise però subito e disse:
—Introducilo lì, nel mio boudoir.
Adriano di Alleux era l'ingrandimento di Vitaliana di Muge.
Avevano ambedue preso dalle loro madri. Il medesimo colorito della pelle; il medesimo druidico degli occhi; il garbo medesimo della bocca; il medesimo portamento elegante e svelto; la medesima vita elastica; la stessa elevazione della testa. Solamente, in Adriano, tutto codesto era più fosco, più accentuato, meglio consistente, più robusto, più virile. Ciò che era bellezza in Vitaliana, diveniva grazia in Adriano; ciò che era soavità nella donna, si chiamava forza nel giovane. L'espressione verginale di Vitaliana prendeva l'aria d'indifferenza o di voluttà in suo cugino.
Il suo naso era un po' più grosso, ma per la sue leggiera curvatura dava al di lui viso un certo che di fierezza. Non portava barba, eccetto due baffetti fini, rilevati a punta, e così lunghi che piaciuto era loro di crescere.
Lo si trovava un po' stecchito. Ma ciò proveniva dalla ritenuta cui s'imponeva—per tenersi dritto e rompere così l'abitudine, contratta al seminario, di portare la testa in giù. La sua voce era melodiosa come quella di Vitaliana. Il suo sorriso, quando era vero—perchè abusava del riso sarcastico—irraggiava come quello della cugina. Era alto ed elegantissimo, ma senza affettazione.
Una viva commozione si pinse sul suo sembiante quando vide Vitaliana impiedi, sulla soglia del balcone che si apriva nella stufa.
La cugina aveva arrossito udendo il nomo di lui; il cugino impallidì alla di lei vista. Alcuno dei due non favellò. Si contemplarono reciprocamente: Adriano, con fascino; Vitaliana, con stupore.
Per uscir d'imbarazzo, e nascondere il suo turbamento, questa sclamò di un accento gioioso:
—Ebbene, signore abate, vi siete dunque fermato a mezza via del vostro vescovato? Che disgrazia! promettevate un così santo vescovo! Il nostro caro zio, il cardinale, ne sarebbe immagrito di un quarto di tonnellata per gelosia.
—Può smagrire di una tonnellata tutta intera, senza nulla perdere nella considerazione della cristianità!—rise Adriano. Ma veggo con contento che tu sei gaia… perdono, che madama la duchessa è gaia. Io mi aspettavo a tutt'altro.
—Ah! voi venite dunque per vedermi piangere!
—No: per consolarvi.
—Consolarmi di che? della perdita della battaglia di Waterloo?
—Tu sei dunque felice, Vitaliana?—riprese Adriano dopo un istante di silenzio, ed offrendole il braccio per passeggiarla nella stufa.
—Ma chi à potuto ispirarti l'idea che io nol fossi? L'avresti tu letto nella Gazette de France —che mi manda, dicono, ogni domenica, alla messa di S. Tommaso d'Aquino, dove io non ò mai messo il piede? Tu non rispondi?
—Non una nuvola in casa tua, dunque? tuo marito ti ama…?
—To'! tu mi rammenti che sono quasi otto giorni che non l'ò visto. Quel povero Carlo è così occupato! Negozia, da circa un mese, un trattato di commercio con l'ambasciatore d'Inghilterra, che à la gotta ed abita ancora Chantilly. E' pare che codesti ambasciatori lavorino come dei fabbricatori. I governi ed i popoli sono così esigenti!
—Proprio.
—L'è pur così. Ma con codesto, voi non mi dite mica, signorino, perchè avete rinunziato a quel delizioso mestiere di vescovo, cui, in un accesso di divotamento alle miserie dell'umanità, avevate scelto. Ti ricordi tu quanto mi spaventavi parlando di andarti a fare rosolare un po' le costole, per atteggiarti a martire! Come ti avrei io bene adorato sur un altare, con un coperchio di casseruola sul capo ed un piumaccio, millantantesi palma, nella mano!
—Vitaliana, tuo marito ti ama? ami tu tuo marito?
—Che razza di questioni stupide mi indirizzi tu là, Adriano… no, signor conte di Alleux? Voi v'immaginate dunque che io andrei a dirvi: Signore, io non amo mio marito!… signore, mio marito è infedele… quando anche ciò fosse?
—Gli è, Vitaliana, perchè tua madre è assente, tu sei sola, ed io sono in questo momento il capo della nostra famiglia—e perciò il tuo sostegno nella sventura. Avresti tu preferito che, in questa circostanza, io mi fossi tenuto in disparte… perchè… infine, io ò creduto che il mio dovere…
—Ma tu vaneggi dunque? Che circostanza? Di che intendi tu parlare? Di qual sostegno sogni tu? Il mio sostegno è mio marito. Se vi è un dovere per qualcuno, qui, gli è per me, che debbo rispettare il nome che porto, e l'uomo che me lo à dato—come egli lo rispetta e come egli lo porta, altamente, con dignità e con onore. Tu parli d'amore. È desso indispensabile alla felicità di una famiglia? Si è mai definito cosa sia l'amare un marito? Io leggo tante cose su codesto, che vi perdo il mio istinto. Io non so se ami o no mio marito. Lo rispetto, e ciò val meglio. Siete voi soddisfatto adesso, signor abate d'Alleux?
—Ora mettiamo—solamente per ipotesi—che tuo marito fosse un uomo indegno…
—Alto là! Io vi vieto, signor conte, di spingere più in là vostra ipotesi, antitesi, parentesi, e tutto ciò che vorrete. Io non mi curo di fabbricare castelli in Ispagna. Li troverò un giorno forse belli ed impiedi. Sarà tempo allora di pensarvi. Ed io non esiterei lungamente a pigliare il mio partito—siatene sicuro. Io non comprendo il dovere senza il correttivo, o l'equilibrio, del diritto. Io non mi rassegno alla teoria del sagrifizio per la donna e la libertà per l'uomo. Ma, insomma, cosa ài tu, Adriano? Perchè sei tu venuto a vedermi qui, dopo tre anni di separazione? Perchè non sei tu venuto innanzi—quando ài barattato la guarnacca del seminarista con la livrea del mondo? Tu non ài dunque nulla a dirmi? Tu non eri, pertanto, mica troppo goffo da abate. Quei mustacchi ti danno l'aria di un caporale in gazzurra.
—Dio mio, che vuoi tu? Son venuto perchè ò sognato che tuo marito era infedele; che aveva una ganza adorabilmente bella, abbominevolmente perversa; che tu lo sapevi; che tu eri infelice; che tu avevi forse bisogno di consiglio, di protezione, di vendicatore… E che so io, Vitaliana? Tu non ài che una parola a dire… Veggo che è un sogno, ma desso mi perseguita… L'è forse l'abitudine… L'è quella inqualificabile educazione di seminarista, in cui non si presenta agli occhi di quei tapini che delle immagini di donne—S. Ginevrina, S. Filomena, S. Tecla, S. Pantofola, la Vergine Immacolata, la Vergine col Bambino, la Vergine col vecchio marito… e sempre delle donne e delle vergini! A sedici anni, si sogna, si sogna di tutta quella roba. La s'incarna meglio che le stupide immagini del libro di divozioni; vi si mette su la tale fanciulla, la giovane sorella, la giovane cugina che si è vista alle vacanze, che si è incontrata al passeggio… ed alla grazia di Dio! Oh, sì, Vitaliana, io ti ò ben messa in discordie con la Vergine Maria, vah! Io non l'ò adorata e pregata giammai che sotto le tue forme. Io non so se ella debba esserne lusingata o uggiata… Ed ecco perchè… Ma di che parlavamo noi dunque? Ch'era bello—n'è vero, Vitaliana?—quel tempo di nostra infanzia! Quanti progetti! quante tenerezze! quale avvenire di porpora e di oro ai lembi dell'orizzonte…! Così, dunque, tu sei proprio felice?
—Orsù, Adriano, non farmi mica dire ciò che io non ò detto! Io sono tranquilla. Io ò presa l'assisa del duca di Balbek, e la rispetto, e la fo rispettare. Il padrone non l'indossa degnamente anch'egli? Sarebbe una cattiva azione maculargli la veste d'armellino ch'egli porta così fieramente. Allora, a che pro i rimpianti, i desiderii, le allucinazioni di quel guanciale—sul quale si poggia la testa facendosene un Taborre, e cui si lascia bagnato di lagrime? L'adolescenza non conta: l'è un fiore strano e qualche volta ridicolo, che stuona nel mazzo dei fiori della vita. La si abbevera di Santo Padre, di padre Lacordaire, di abate Lammenais, di Sacro-Cuore, di S. Luigi di Gonzaga, di S. Questi, di S. Codesto… Fortunatamente che quella roba è bruttissima, orridissima, a che vi si può sostituire ciò che si è visto in casa di sua madre, ciò che si vede talvolta di qua e di là. Sii sicuro, Adriano, che vi à mica male di uomini nel mondo che debbon essere forse in collera contro il Sacré-Coeur. Ma dove mette capo tutto ciò? Ad un marito!! Il marito è il diamante nel monile delle donne. Io conosco pertanto delle gonze che preferiscono il fiore.
—E cosa l'è il fiore, nel monile, nell'addobbo di una donna?
—L'è il sogno che non si realizzerà giammai—perchè l'è il vitupero. Ora, togliete ad una donna il rispetto, e voi avrete tolta l'aureola a Dio. L'immagino diviene statua o quadro. Ma io ritorno al tuo saione di chierico, monsignor d'Alleux. Perchè l'ài tu gettato alla fiumana?
—Io riprendo la mia ipotesi. E se il tuo zibellino fosse contaminato? Se tu t'imponessi una idolatria che è una ciurmeria? Se l'idolo cui tu credi di alabastro, fosse di mota? Se il ricovero, che tu reputi una chiesa, fosse una taverna? Se altri non venerasse l'alleanza, il nome, il contratto, il dovere che tu veneri? Se tu fossi la Vestale di un satiro!… Vediamo… l'è un'ipotesi, bada…
—Tu ài avuto torto, Adriano, di non restare abate! Tu insinui il veleno nel cuore con tanta unzione…! Che vescovo saresti tu riescito!… Ebbene, io sono la mia propria Vestale. Io mi sono formato un empireo che à forse altresì dei nugoli; ma io chiudo gli occhi per non seguirli nel loro saltabeccare fantastico. Che il mio idolo sia d'oro o di selice, io non consumo il suo altare—e per fortuna e' non mi fatica esigendo le mie preghiere. Tu vieni a vedermi, dopo due o tre anni di ecclissi—seminarista trasformato in zerbino—per propormi un logogrifo che gocciola la perfidia… In fede mia! io avrei preferito conservare quel sovvenire d'infanzia che mi ti rappresentava come un monello di sacristia. Io vedo così poco mio marito, così di raro il mondo… Credete voi, signor conte d'Alleux, che non vi sia altra cosa da dire ad una donna che si cretinizza nella solitudine?
—Tu dici, Vitaliana?
—Non confondere: cretina non vuol mica dire infelice. Per traduzione libera, posso permetterti, vaneggiatrice. Quando si vive in mezzo a quel mondo—soggiunse Vitaliana indicando i suoi fiori—se si ànno altre aspirazioni, sono forse delle follie. In ogni caso, gli è imprudente di andare a cacciare degl'iddii broglioni nella cappella di un credente.
—Io so tutto codesto, Vitaliana—rispose Adriano con calma—perocchè da dieci anni io m'inebriò della tua felicità; da un anno, io la sorveglio con la gelosia della disperazione. Tu non m'ài visto; ma io era là, sempre là, alla tua porta, dietro ai tuoi passi, riguardando il cielo della notte cui tu guardavi; avendo in uggia la luce del giorno che t'inondava dei suoi raggi immodesti. Io restava lì, al mio posto, sentinella di Dio, quivi ribadito dal cuore, dicendomi: Forse ella avrà bisogno di me! Non à più padre, non à fratelli; non à che me. Tu non m'ài visto finora. Se vengo oggidì, gli è che… io mi son creduto affrancato dalla catena di quel culto immacolato che mi ero prefisso; gli è che il circolo magico è stato rotto; gli è che io non mi credo più obbligato di restare all'uscio di una chiesa, di cui si fa una bisca; gli è che io mi son detto: ella è sola, ella piange, ma non osa implorare sua madre; Ella non ardisce gettare un grido, ma ella à bisogno di me. Ed eccomi qua….
—Ed ecco là la porta, signor conte di Alleux; perocchè voi avete presa la mia per quella del manicomio di Charenton. Addio.
—Ancora una parola allora, Vitaliana. Sappiate tutto, poichè non dobbiamo più rivederci… Sì, io sono pazzo. Io ò rappresentato una piccola commedia per assicurarmi che tu eri felice. Ora, io lo so. Io lo vedo. Come l'è bello qui! come l'è dolce! Vi si corrige perfino la volontà di Dio, che manda la pioggia ed il sole, che ordina a quelle foglie di cadere l'inverno, ed a quei fiori di sbocciare a primavera. Non mancano che quei piccoli uccellini dei Tropici, azzimati dall'iride, sotto questi Tropici al carbon fossile che tu ài creato qui. Come si deve dormir con delizia in questa gabbia d'oro! Come si deve impinguare con beatitudine in questo nido del silenzio! Vi si diviene devoto per fermo! Come dunque non adorare la mano di Dio che manda il sorriso e le lagrime, quando si è circondati da tante belle opere della sua mano? Come si deve ben digerire andando a zonzo per questa valle di lagrime! Si esce di qui come un vasetto di pomata ai mille fiori! Si debbe aver voglia di abbracciar il suo portinaio, per dare sfogo ai sentimenti filantropici ed umanitari, cui questo Sahara della pace, ben nutrita e ben fiorita, debbe infiltrare nel cuore…
—Adriano, termina codeste buffonerie, e conchiudi.
—A proposito, ma io vorrei stringere la mano al duca, prima che me ne vada.
—Vado a fargli annunciare che tu sei qui—se egli è nei suoi appartamenti.
—Allora, siamo intesi. Tutto è santo qui; tu sei felice; tu non ài bisogno di me; tu ti culli sur una pelugine di bianche nuvole: rispetto all'armellino! Addio!
Vitaliana restava immobile, gli occhi fissi alla porta del suo boudoir, donde ella vedeva suo marito venire alla loro volta.
Maria lo precedeva.
Il duca parve un poco confuso alla vista di Adriano, cui egli aveva talvolta incontrato nel mondo, ma giammai presso di sua moglie. Cambiò con lui qualche complimento, mentre la cameriera susurrava a Vitaliana:
—Il signor duca dimanda i diamanti di madama.
—Perchè vuoi tu quei diamanti, Carlo?
—Ah! mia cara, il 31 di questo mese l'ambasciatore d'Austria comincierà i balli della stagione. Ora, e' non è conveniente che ti veggano quest'anno con i medesimi gioielli dell'anno scorso e dell'anno precedente. Quelle dame si burlerebbero di te e di me. Non potendo cangiarli, ò parlato con Froment Maurice, onde ne varii la montatura. Sarà splendida. Io vado da quella parte. Gli porto quelle gioie onde dargli il tempo di comporre dei capi d'opera.
Adriano aveva udito quelle spiegazioni, gli occhi sbarrati, diventando ora di porpora ed ora pallido.
—Ma egli non à ancora restituito i due monili di perle e di smeraldi, cui e' doveva montar pure sur un altro modello—osservò Vitaliana.
—Perchè aspetta i diamanti per armonizzare tutte le gioie—rispose il duca.
—Prendili dunque. Tu lo sai bene, io lascio di gran cuore alle Inglesi ed alle Russe questa esibizione di gioielleria su i loro seni e nei capelli. Io preferisco i fiori.
—Lo so. Venite a vederci più spesso, cugino—soggiunse il duca stringendo la mano di Adriano ed uscendo seguito da Maria.
Adriano s'inclinò assai leggiermente, senza nulla rispondere, poi azzeccò i suoi occhi brillanti sulla cugina, che sembrava inquieta, e fece due o tre passi per allontanarsi in silenzio.
D'un tratto, però, egli si rivolse; si avvicinò vivamente a Vitaliana; prese le mani, cui bruciò del suo contatto, e gridò:
—Vitaliana, posso dirtelo adesso: Io ti amo!
E senza attendere risposta veruna, applicò le sue labbra sulle labbra della cugina, vi depose un bacio—che alla giovane donna sembrò un morso—ed uscì precipitosamente, senza voltarsi.
Vitaliana restò come annientata.
Il duca correva sul lastrico di Parigi, portando via i diamanti di sua moglie.
X.
Il duca di Balbek.
Il duca di Balbek era guardia del corpo.
Un servizio reso a due sovrani ne aveva fatto un diplomatico.
La condiscendenza di un ministro, suo parente, si era prestata a far destinare questo diplomatico all'ambasciata di Parigi.
Il favore e la compiacenza avevan potuto conferire la funzione, ma non crear l'uomo.
A quell'epoca, re Comodo era in delicatezza con la Rivoluzione di luglio.
Di tutti i principi, quegli che meno conosceva la Francia era quel re. Quegli che la conosceva peggio, era il suo ministro—il quale l'aveva vista ai più bei tempi della luna di mele di madama de Cayla.
Re e ministro s'immaginavano una Francia, in cui le Maintenon e le Pompadour menavano ancora gli affari, il governo, il re; bistrattavano i suoi consiglieri e davano del tu alla politica.
Essi facevano questo sorite mirobolante: a Parigi, la donna è regina; quale che siasi la sua condizione, però, ella à un signore. Ammesso l'aforismo che: foemina quid quid est propter uterum est, il padrone che mena la donna mena per conseguenza la Francia. Se mandiamo dunque colà un bel giovane, suddito di S. M. Comodo V, che s'impadronisca dello spirito di quelle regine che regnano e governano, S. M. Comodo V sarà di fatto re di Francia.
Esaltati da questa logica, re Comodo V ed il principe di Celle videro nella nomina del duca di Balbek all'ambasciata di Parigi, non solo il prezzo di un servizio reso, ma un atto di eccellente politica.
Il duca di Balbek si recò dunque alla Corte delle Tuileries con la missione di fare della diplomazia di alcova; di preoccuparsi poco dei ministri, molto delle loro ganze, delle ganze-padroni, e delle padronesse dei padroni. Tutta la sua abilità doveva consistere nella scelta, ed, al peggio andare, in salvar la capra ed i cavoli: divenire il favorito di tutte senza offenderne alcuna!
Munito di queste istruzioni ad aures, il duca di Balbek giunse a Parigi.
L'altitudine delle sue funzioni lo inebriava.
Gli si avrebbe potuto augurare un poco più di penetrazione, uno spirito più pronto e più fino, un'istruzione più sostanziale, delle maniere più scelte, un'aria da più gran-signore. Ma, a parte ciò, e' non poteva negarsi che il duca non fosse bravamente attagliato alla sua parte.
Lo si addimandava, nei saloni: l'Antinoo! È vero che si soggiungeva: dell'Auvergne! Ma che importa! dell'Auvergne o della Bauce, un bell'uomo è sempre un bell'uomo.
Il duca era il meglio pettinato di tutti quei signori del corpo diplomatico. Alcuno non portava come lui un abito assestato alla vita. Aveva inventato un taglio di collarini che aveva messo in frega il jockey-club. Il nodo della sua cravatta era l'avvenimento di tutti i giorni—e formava la disperazione dello stesso M. de Talleyrand, che viveva ancora, ed aveva sempre, come si sa, delle grandi pretensioni su questo arnese. Si occupava con assiduità della riforma del cappello—ed uno de' suoi attachés andava giornalmente alla biblioteca Richelieu per consultare, al proposito, i classici greci e romani.
I suoi mustacchi lunghi e folti, sur una faccia pallida, gli meritavano la più profonda considerazione dei segretari e degli attachés di ambasciate in massa: un segreto doveva nicchiare in fra quei peli! Che vi pare?
Di più, il duca di Balbek era poeta. I gesuiti gli avevano insegnato a manipolare un epigramma latino ed un acrostico greco—per fino una barcarola. Meglio ancora, egli sapeva far della cucina, come danzava la gavotte —ed il fu nostro illustre amico, Dumas padre, gli doveva la ricetta della sua famosa insalata ai trentasette ingredienti.
Possedeva, oltre a ciò, copia di piccole abilità di società per divertire le dame alla campagna. Tagliava nella carta degli arabeschi deliziosi; immaginava delle sciarade in azione; inventava dei piccoli giuochi; guidava il cotillon, introducendovi mille graziosi scherzi; eseguiva una moltitudine d'ingegnosi tours con le carte, e faceva delle audacissime manipolazioni con esse—perchè le sue mani erano più svelte ohe il suo cervello.
Come non lo si sarebbe adorato?
Al turf e' non restava indietro ad alcuno.
Giuocava poi con audacia, e mangiava come un vescovo.
Per un'ex guardia del corpo, egli era forse un po' mal pratico di armi e del maneggiarle. Ma egli sapeva dissimulare questo difetto nella sua corazza, usando mediocrissimamente del suo spirito, poco aguzzato, e mostrandosi, a proposito, poco versato nella comprensione delle malizie della lingua francese.
Del resto, aveva grande cura della dignità della sua persona; nascondeva i suoi colpetti con abilità; usava della più delicata discrezione; portava benissimo la testa alta nelle circostanze segnalate; onorava il suo nome e la sua buona nascita; rispettava le convenienze e le apparenze; non usciva mai dal medio dei suoi eguali; non perdeva giammai la calma; e sapeva forse darsi, come Enrico IV, il sangue freddo nel pericolo.
Il duca di Balbek fece sensazione al suo apparire nei saloni di Parigi. Non conoscendo ancora il suo teatro, seppe dissimulare. La sua mal pratica passò per riserbo; i suoi difetti per originalità.
Eccetto quel lampo della regina Bianca—che era passata innanzi agli occhi suoi come una visione—egli aveva bazzicato fin qui delle bellezze da caserma. Le dame del suo paese gli avevano mostrato il sesso, ma non gli avevano rivelato la donna. Restò dunque abbagliato, quasi stupidito, quando nei saloni di Parigi, si trovò faccia a faccia con quell'irradiamento formidabile. I suoi vantaggi fisici gli appianavano la via: il fiore tendeva il collo al giardiniere per essere colto!
La sua avvenenza era di quella che stupiscono l'anima e turbano il sangue. La giovinetta vaneggiava; la giovane donna ammirava; la donna tra i trenta e quarant'anni bruciava: raggio pel cuore; torcia per la carne.
Il duca non potè però scegliere.
Doveva amare secondo gli spacci in cifre che riceveva dal suo ministro degli affari stranieri—a cui egli pingeva la galleria di quelle sultane. Gli toccarono dunque due donne mature, che passavano per onnipotenti alla Corte e nella massoneria diplomatica.
Ma con ciò, quelle tigri affamate di carne fresca erano gelose.
Per respirare un profumo di giovinezza, Balbek volle ammogliarsi.
Quelle pieuvres gli gittarono fra le braccia una vergine!
Esse sapevano ciò che facevano.
Un chiaro di luna, a quell'uomo che aveva sete del sole dei Tropici!
L'innocenza di Vitaliana non fu dunque per lui un'antitesi, ma una deluizione. Psiche faceva comprendere Medea. Ebe sottolineava Arianna.
Questa politica di femmina riescì. Il signor di Balbek amò sua moglie come una giovane sorella, e la trovò scipita. Si limitò allora a rispettarla moltissimo, a venerarla quasi—talmente la ingenua ignoranza di lei glie ne imponeva!
In quella specie di crepuscolo dal cuore e di spossamento forzato dei sensi, senza piacere, senza incanto, senza visione, Morella si presentò.
Se il duca non era stomacato delle sue ganze di quarant'anni, ne era per lo meno sopraffatto. Il suo palato, dalla forte tempera, poteva gustare quelle dapi pimentate; ma quel pimento solo, quel pimento sempre, aveva finito per attutirlo—tanto più che quelle Saffi politiche lo avevano compromesso, e, lungi dall'aiutarlo nel far gli affari del suo sovrano, si erano servite di lui per avanzar quelli del cardinale Lambruschini.
Un riposo s'imponeva fatalmente.
Vitaliana non aveva imparato—come quasi tutte le donne della serafica legione—che ella doveva essere non la moglie ma l' innamorata di suo marito.
La politica interna per la gaiezza dei lari domestici l'è in codesto. E, codesto è tutta la scienza del cuore, quantunque non ne abbia le specie.
In quello stato di nausea morale e fisica, il possesso di Morella sembrò al duca una resurrezione. Usciva dalla tomba delle sue cortigiane da stufa, alla pelle rinzaffata, cui era mestieri osservare ad una luce sapientemente moderata, e menar ventre a terra, senza contare le tappe.
Qui la parte cangiava.
Il duca amava.
Fin là, lo avevano amato e carezzato.
E' si ritrovava uomo adesso, giovane, al suo posto. L'amore aveva delle angosce e delle delizie vere, delle esigenze spontanee: il fiore dava il suo olezzo e non andava a cercare una gocciola di essenze agli alberelli del profumiere.
Morella rilevava da lui.
E poi, che di giovinezza, che di freschezza! Come quelle labbra dovevano rimbalzare! Come quei denti dovevano mordere ed infiltrar nella piaga della scintilla degli iddii! Come quegli occhi insolenti provocavano, tramandavano un effluvio di voluttà, si spegnevano dolcemente nel languore dell'amore, scoppiettavano una bufera insensata! Quale féerie quella maga andava dessa a svolgere?
Qui l'antitesi esisteva.
Morella resisteva.
Ella sapeva ciò che portava in quella comunione d'incanti.
Bisognava conquistarla, perchè la non si dava: la s'insorgeva. Ella poteva scegliere. Il principe di Lavandall non era forse ai suoi piedi?
Per Morella, Balbek entrava poi nei misteri di quella vita parigina, di cui aveva letto tante cose nei romanzi, udito tanti racconti mostruosi di grandezza e d'infamia. Quel precipizio del mondo opaco parigino à delle vertigini di angelo, delle stigmate di demonio, ove il malescio soccombe, il forte si ritempera e dice, rialzandosi: ò vissuto!
L'avvenire resta solcato di questi fulmini. L'anima à fissato i suoi vaneggiamenti. Per Morella, Balbek—quel guardia del corpo smarrito—riceveva il suo battesimo del mondo. Faceva le sue prove per divenir rosacroce. Entrava nella fossa ai lioni.
Morella si apriva innanzi a lui come un abisso che l'assorbiva. Era il soffio del ciclone che lo menava via, o l'attrazione magica dell'amore che l'incendiava del suo alito?
D'altronde, tutto era stato preparato con squisita scienza: l'incontro, l'attitudine di Morella, il desiderio acuminato dell'emulazione, il dispetto spronato dal disdegno, la gelosia distillata prima dell'amore. Quel cavaliere, che sembrava tutto armato d'acciaio e si credeva corazzato, si sentiva d'incontro ad una spada che forava le sue ferraglie come un corpetto di velluto.
Molte volte egli aveva, per lo innanzi, abbrividito—sospettando di essere stato preso in una rete infernale di amore—ma aveva poscia guizzato infra le maghe.
Eccolo adesso nella rete agli anelli di ferro di Vulcano, dalla quale Marte istesso non si spastoia.
Riassumiamo.
Quel diplomatico d'avventura giungeva a Parigi ingenuo; con delle idee ingenue; disarmato; al disotto del suo ufficio; il capo zeppo di illusioni. Delle donne spossate si erano servite di lui per attingerne una trasfusione di sangue giovane ed ossigenato, e lo avevano svaligiato dei suoi sensi. Dopo questa prova, e' si trovava: il corpo assopito, l'anima esaltata, la devastazione nello spirito, il vuoto nel cuore, adorando sua moglie come una madonna, a ginocchio innanzi ad una cortigiana che lo acciuffava della mano glaciale della fatalità.
Il duca di Balbek fece a Morella tre visite. Ebbe con lei tre lunghi colloqui—ove la sua esaltazione, un po' teatrale da prima, aveva finito per pigliar le proporzioni della demenza.
Morella non l'incoraggiò, ma lo disperò—facendogli leggere i biglietti che il principe di Lavandall le scriveva, tre volte al dì, dichiarandole che l'amava… a credito illimitato!
Alla fine, essa capitolò e disse:
—Voi lo volete, signor duca? sia pure. Ma ascoltatemi e ricordatevi questo qui.
—Se me ne ricorderò!
—Io ò dei bisogni di regina. Amore, piacere, ambizione, aspirazioni, lusso, follia… io sento tutto, do tutto, impongo tutto, esigo tutto senza limiti. Chi vuol di me, deve essere tutto a me—che io lo inabissi nel baratri o che lo innalzi nel cielo. Avete voi delle ali, signore? Io mi chiamo vertigine. Io non conto col tempo. Di tutte la cose, io addiziono l'intensità.
—Tu ài ragione.
—Voi dovrete conoscere la storia di quel banchiere tedesco, che—avendo ricevuto Carlo V in casa sua—allumò il fuoco della camera imperiale con le lettere di cambio firmate da S. M. e ne intrattenne le fiamme con legno di cannella. Io farnetico di Carlo V. Gusto forte il banchiere. Se vi spaventate, gli è ancor tempo di ritirarvi.
—Tu credi, bella mia?
—Ciò vi riguarda. M'àn narrato che la nobiltà del vostro paese vive tutto un anno di un uovo—e si nutrisce di eccellenza! Io, io arrabbio per un beefsteak, il quale sanguini una miniera di Siberia. Ed al dessert, se l'è d'uopo… l'aspide di Cleopatra in un piatto di fichi di Corinto! Dite, siete voi pronto a tutto, signor duca? Nella coppa che io allestisco vi saran forse delle perle fuse… ma chi la cionca, si sente dio di poi. Dio per un'ora! Vi par desso corto e troppo caro?
—Morella—rispose il duca con una voce resa solenne dalla disperazione o dall'estasi—mi dimandassi tu i capelli di mia moglie, io glieli taglierei per farne un cuscino ai tuoi piedi.
Morella, di un colpo di mano, sciolse le sue treccie, ed inondò il duca di una capigliatura che avrebbe meritato di essere allogata fra gli astri—come la chioma di Berenice. Il contatto, il profumo, l'elettricità di quelle ciocche febbrili fecero abbrividire il duca—che le baciò e vi si soffuse.
—Guarda, se io ò bisogno dei capelli di tua moglie—disse ella. D'altronde, essi non son mica dello stesso colore che i miei—soggiunse Morella ghignando—per farmene delle false trecce.
—Tu ài messo le tue condizioni, Morella—rispose il duca. Io le accetto. Ascolta le mie, adesso. Esse si riassumono in tre parole; io sono geloso! Tu mi divorerai, senza dubbio; ma forse pure io ti ucciderò.
Morella saltò impiedi e si strinse la testa del duca sul petto.
—Tu sei un uomo!—gridò dessa. Io ti amerò.
Il duca impallidì, e si alzò a sua volta, attirandosi Morella nelle braccia.
Ella si svincolò, facendo un salto indietro, e disse con solennità:
—Qui… no. Io non sono mica un'adultera! Tutto quanto tu vedi in casa mia appartiene ad un altro. Metteresti tu una livrea cui io ò gittata ai cenci vecchi?
—Un altro?—domandò Balbek, aggrottando le sopracciglia. Chi dunque?
—Signor duca,—rispose Morella, sedendo,—sappiatevelo, fin dal bel prima. In casa mia, due cose sono incognite: il passato ed il padrone. Non vi volgete indietro per cercar dei fantasimi, liquefatti, fusi nello spazio. Guardate innanzi a voi, procurate di ricamare un avvenire per quanto potrete più luminoso, ed obbedite. D'altronde, se io vi fo la parte che taglio a me stessa; se v'incateno al mio proprio destino—che sia un trono di astri o un desinare di arsenico—di che vi lamentate voi dunque?
—Di che?
—Sì: di che? Voi venite. Io non vi chiamo, per Dio! Ma bandite le nuvole dalla vostra fronte: voi entrate in un cuore nuovo. Gli uomini che lascian ruine sono pochi; che devastano, son rari…. Ed io non ne ò quasi conosciuto. Tutto al più, se ne intraveggo uno dopo il ballo dei giorni scorsi.
Il duca, comprendendo l'allusione, uscì precipitosamente.
Egli era di già preso nell'addentellato, e portava via la freccia nella ferita.
Morella respirò e ricadde sul canapè come affranta di fatica. La sua parte eccedeva. Poco dopo, ella si assise ad una tavola, e scrisse a M. di Linsac:
«Cher ami, lo tengo. Che volete che ne faccia? Un misero? lo è di già. Un disgraziato? gli è impossibile—poichè debbo lasciargli pigliare l'amore di cui paga il prezzo. Egli è sciocco, ma giovane, bello e confidente.
«Fate attenzione!
«Ciò potrebbe disarmarmi—ed avendo cominciato dal giocare le vostre carte, potrei finire per giocare le mie.
«Gli è dunque indispensabile che io sappia dove andiamo, non fosse che per accorciare la via. Ove volete voi arrivare? Condurlo all'inferno per la strada del paradiso—ciò che io dovrei fare—mi sembra una ispirazione di troppo degni briganti. Voi non potete voler codesto. Che volete voi dunque? Che debbo io fare?
«Io sloggio. Ti lascio qui i tuoi ninnoli ed il tuo legname per la tua nuova pensionaria.
«MORELLA».
Il giorno stesso, il duca di Balbek si mise a correr Parigi per trovare una nicchia a Morella.
Fece dei miracoli di attività—e lo si capisce del resto.
Comprò a nome della contessa Morella di Miraflores una palazzina nel rione di Beaujon—civettuola come un'ingenua e quasi nascosta nei boschetti d'alberi; in una strada che si chiamò più tardi dal nome di quel sovrano dei romanzieri di tutti i tempi e di tutti i paesi: Balzac! Il mistero gli conveniva; perocchè la cattiva azione cui commetteva lo fascinava ma gli pesava.
Il giorno seguente, uno dei primi tappezzieri di Parigi mobiliò la palazzina con eleganza e ricchezza, e v'installò una fante ed un'eccellente cuoca del Perigord.
Il duca, dal canto suo, comprò un piccolo coupè ed un pony irlandese—i due formando un veicolo simile ad una rondine—e di cui un bel cocchiere inglese incipriato moderava l'ardore.
Il duca non aveva quella sessantina di mille franchi cui spendeva in ventiquattro ore. Il suo feudo di Balbek, come il nome lo indica, era in partibus infidelium: una sovvenenza anzi che una rendita. Gli onorarii di ambasciatore, oberati di spese, non oltrepassavano i 100,000 franchi. Egli spendeva molto usando senza limite del credito parigino—uno dei più allocchi crediti europei.
Il dottor di Nubo venne in suo soccorso in questa lotta titanica del desiderio contro l'ostacolo di una cassa vuota, e la riempì del danaro degli usurai.
Madama Augusta Thibault fu il banchiere misterioso del dottore, il quale, prestando il suo nome, toccò un doppio sconto.
Questo sforzo di volontà, sostenuto da un concorso amichevole, ebbe un pieno successo.
Alle quattro, tutto era pronto per ricevere la fata del luogo. Di guisa che, alle cinque, lo zio Pradau—insediato di già a cameriere del duca—potè portare alla contessa Morella di Miraflores la lettera seguente—scritta dal suo padrone, ma ispirata probabilmente dal dottore. Imperciocchè, quelle delicatezze non erano nè nello spirito nazionale, nè nel carattere, nè nell'educazione, nè nella tempera dell'anima del giovane diplomatico.
«Madama la contessa, il vostro notaro, maitre Tressard—via di Provenza, 54—mi à favorito or ora l'indirizzo del vostro hôtel, e mi apprende che voi vi pranzerete stasera. Volete voi, madama, farmi l'onore di serbarmi un posto alla vostra tavola? Avrei gran piacere di baciarvi la mano—ed è la sola ora della sera di cui posso disporre. Tolgo ad imprestito il vostro coupé per andarvi a pigliare.
«Ai vostri piedi, madama.
«CARLO DE BALBEK.»
Leggendo questa lettera, un sorriso raggiante illuminò il sembiante di Morella. Quell' ouate di acciaio sembrava tocca!
Era forse l'interesse? Mai no. Era l'artista che godeva del suo trionfo. Era l'amor proprio che cantava nel suo cuore.
Divinità terribile! delle vittime umane s'immolano sul tuo altare.
In quell'istesso istante, la cameriera entrò e le rimise una lettera di Sergio di Linsac—imprudente per un aspirante diplomatico—in cui egli rispondeva con queste due parole sinistre:
«Continua. Sempre innanzi, e non guardar indietro a te. Ecco tutto.»
—Sempre innanzi!—mormorò Morella lentamente. Fino al bagno o alla pistola del suicidio? Sia. Bah! Non è desso un assioma convenuto che noi altre siamo delle infami?
XI.
In cui si vede come si abborracciano i paradisi.
Il secondo mese del connubio del duca di Balbek con Morella toccava a fine.
I teatri e le passeggiate di Parigi avevan visto di tempo in tempo Morella apparire e passar come una cometa, ma alcuno non aveva saputo quale dio o quale demonio trascinasse ella nell'orbita sua, o le desse impulso.
Il duca di Balbek era restato nell'ombra—che si preoccupasse del suo nome, della dignità di sua moglie, o del riserbo impostogli dal suo ufficio di diplomatico, poco monta.
Il signor di Linsac aveva custodito Morella per circa due anni in una specie di gabbia incantata, cui egli indorava del suo spirito non potendo indorarla dei suoi luigi: madama di Maintenon che serviva un aneddoto per rimpiazzare un arrosto!
Morella vi si era formata—osservando il mondo per spiragli, che lo rivelavano molto e le facevano indovinare molto più ancora. Ella arrivava dunque quasi sconosciuta e si levava sull'orizzonte della vita elegante di Parigi come una girandola in una festa. Fissava gli sguardi; spronava le brame.
Non vi fu che una voce: Chi è dessa? a cui è dessa?
E tutti ad invidiare il fortunato sultano che accendeva quel sole nelle notti del suo harem.
Era egli felice quel sultano?
Forse sì.
La morte per congelazione non à dessa le sue voluttà? La forca non à anche dessa le sue delizie? La felicità è dessa altra cosa che lo stordimento?
Dante à scritto sulla porta del suo inferno: «Lasciate ogni speranza.»
Avrebbe dovuto scrivere sulla porta del paradiso: Lasciate ogni memoria, o voi che entrate! La gioia è l'oblio.
Il duca di Balbek, come i gaudenti romani che depositavano sulla soglia del triclinium le nere preoccupazioni, atræ curæ, traversava le procelle, e, dominando le regioni delle nuvole, si trovava in presenza di Morella—l'azzurro vertiginoso di cui s'inebriava!
Se egli fosse stato un'anima nel mondo, soffrendo qui, arrossendo colà, sopraffatto da angosce nel suo palazzo, alle prese col destino dovunque, ricevendolo nella sua camera, Morella, questa Circe, ne avrebbe fatto un senso.
Il primo che inventò l'anima aveva dovuto essere supremamente infelice, onde avere poi quella divina intuizione!
In realtà, quale era la situazione del duca?
Il principe di Lavandall riceveva sulla sua vittima, quasi ogni giorno, due rapporti: l'uno da madama Thibault, proveniente da Pradau; l'altro, dal signor di Linsac, scritto da Morella.
—Timoteo—diceva Augusta a Tob, o Pradau—tu mi annaspi là un brogliamini, ove io non veggo nè testa, nè coda. Bisogna pertanto bene che io mi vi raccapezzi.
—Non temete nulla, madama. Altri possono smarrirsi; voi vi troverete sempre. Voi avete la tavola pitagorica nel sangue.
—Imbecille! non è mica di tavola o di stipi che è questione, ma delle tue storie.
—Voi volete dire della mia conversazione? Per esempio! voi sareste la prima che non ne gustereste il profumo. Il duca, lui, ne fa le sue feste. Egli mi consulta. La finezza del mio spirito lo penetra. Io mi aspetto ch'e' mi dimandi un giorno che io gli detti i suoi dispacci! Io gli ò fatto rimarcare che l'ambasciadore d'Inghilterra à la vista cortissima e che quello di Prussia è sordo. Quando io lo tengo dal naso, radendogli la barba, e' sente la mia superiorità morale. Il naso, madama? Ma desso è l'indice—di cui il cervello è la sfera. Impugno l'indice, l'ora si ferma.
—Ài tu finito, animale?
—O' letto in uno zibaldone che un poeta italiano à chiamato la donna animale grazioso e benigno. E' sognava di voi, madama! Il duca mi rispetta. Io gli spiego il listino della Borsa, scolpendo il nodo della sua cravatta. Ah! se egli mi ascoltasse, come io lo ascolto, e calpestasse le mie pedate! Io ò guadagnato trentadue mila franchi. Egli à cento cinquanta mila franchi di debito.
—Tu esageri.
—Madama, voi ignorate l'ottica dell'anticamera. Sappiate, che si addiziona nell'anticamera, mentre si moltiplica o si sottrae nella camera da letto. Noi abbiamo dunque decomposto il duca in cifre, ed abbiamo ottenuto i resultati seguenti. Al signor Claret, il maestro di casa, 80,000 franchi—per due mesi e mezzo di spese che egli à avanzate; a diversi fornitori del signore e della signora—per fatture non pagate—10000 franchi. Ora io, io aggiungo—dallo estratto delle carte del duca che ò percorse: 40,000 franchi, al dottore di Nubo—per danari prestati; 30,000 franchi gioielli di madama, messi al Monte di Pietà; 10,000 franchi, dovuti a gioiellieri—per gioie somministrate, e che non son mica venute al palazzo dell'ambasciata; 25,000 franchi, reclamati con un viglietto compitissimo da M. De Lionne, agente di cambio—per non so quale operazione… ed altre somme dovute qua e là. Eh! snocciolate la coronella e conchiudete con un gloria patri.
—Il duca deve dunque tutte codeste somme?
—Egli deve tutte quelle somme; che perciò? Il debito, madama, è la considerazione dell'uomo. Un uomo senza debiti, è un Dio senza altare: chi crede in lui? E quindi, bisogna vedere le udienze che noi diamo ogni mattino! Un mercante porta desso la sua nota? M. Claret lo chiama un bottegaro, e minaccia di pagarlo e ritirargli le somministrazioni. Un sarto viene a reclamare il suo avere? Io gli ordino una mezza dozzina di brache e due o tre soprabiti, per farlo aspettare. L'orefice manda il suo conto? Il duca lo sferza della sua migliore prosa, e dimanda un monile, un braccialetto, un anello—ciò che ispira confidenza al negoziante. Bisogna vederli, eh! Quei segugi—che dan la caccia ad un piccolo debitore fino alla morgue, fino alla fossa nel cimitero—restano come allocchiti alla porta dell'ambasciata. Ma, c'est egal! noi passiamo dei terribili quarti d'ora.
—Come a dire?
—Eh! giuochiamo il whist al club con fortuna—ciò che ci permette di azzittire le voci le più stridenti. Ma la fortuna si stanca talvolta: e questa mattina avevamo per tutto tesoro al palazzo 13 franchi e 45 centesimi. E su codesto gli è arrivato un vaso di fiori per madama la duchessa, che costava 97 franchi! È stato d'uopo che Maria, la cameriera, rovistasse nei peduli delle sue calze per pagare.
—La cameriera?
—Sissignora! Io non so come ciò avvenga, ma quella ragazza à sempre dei quattrini, quando trattasi di pagare qualche cosa per madama. Non pertanto, l'è una ragazza savia—eccetto che va ogni domenica a messa, ove resta talvolta tre o quattro ore. Io non conosco di pievano così lungo in la bisogna.
—Alla messa! alla messa?—obbiettò madama Thibault. E la duchessa?
—La duchessa? Vedete! il nostro hôtel è una strana residenza, in fede mia! Mentre che in un appartamento gli aquiloni infuriano e fischiano, in un altro il sole e l'azzurro non si velano giammai di nuvole. Appo il duca, l'ansietà terribile dell'uomo alle prese con i bisogni, con i creditori, con le passioni; dell'uomo obbligato a mentire ad ogni istante per non pagare i debiti; che si ruina, che si disonora, che subisce tutto le torture, tutti gli affronti dal mercante—balbuziando ogni specie di scusa; che nasconde la lepre della sua anima sotto i suoi crachats; che si vede eternamente innanzi lo spettro della giustizia—la quale l'obbliga a pagare—e di bisogni infiniti, i quali l'obbligano a contrattar nuovi debiti. Appo la duchessa, tutto è serenità e candore. Ella ignora tutto ciò che à luogo in casa sua. Non si avvede di nulla—neppure che, da due mesi, ella non à visto suo marito tre volte!
—Il duca non l'ama dunque?
—Ecco ciò che io non sono giunto ancora a sbrogliare. Quando gli affari di Stato mi daranno un po' di tregua, intraprenderò questo subietto. Ma come volete che io mi prodighi adesso ad interrogarlo su queste minuzie, quando io ò il tempo appena di estorquergli i tradimenti di quel botolo di Metternich, i segreti di quel mastro di astuzie di Nesselrode, e di farlo pronunciare sulle intraprese del signor Thiers e del signor Guizot? Dietro questi informi, io mi reco alla Borsa e vi fo l'alto e basso. Mi vi mettono a partito—ve lo giuro! Io li forvio e smarrisco con delicatezza. Ma dò ordini a proposito, ed il père Claret mi adora come un dio. Il duca à perduto grosso ieri. L'ò visto rientrare un momento in casa, alle cinque, e mi aveva l'aria di un impiccato. Però l'è colpa sua.
—Come ciò?
—Il mattino egli era di cattivo umore, di cattiva grazia. È sempre così quando capita in visita il dottore di Nubo. Io aveva bisogno di farlo chiacchierare, perocchè io meditava un colpo di hausse alla Borsa. Io gli fo dunque, vestendolo, un nodo di cravatta mostruoso, con una punta che gli solleticava il naso e lo faceva starnutire. Guardandosi nello specchio, egli grida: Che diavolo ài tu affazzonato qui, idiota? Io rispondo: Mille scuse, eccellenza; oggi io non ò il capo a me. Mi lasciai tentare ieri sera, e diedi l'ordine al mio agente di cambio di comperarmi tre mila franchi, al rialzo.
—Non desolarti tanto, imbecille, perchè la tua sciocchezza potrebbe forse riescirti come tutte le sciocchezze.
—Era vero ciò ch'egli diceva?
—No. Ma io sollecitai a spicciarmi di lui per correre alla Borsa. Arrivai alle 2. Cerco il mio agente di cambio per dargli l'ordine, lo spio, ascolto, m'informo, interrogo… Che è, che non è? in cinque minuti i fondi avevan bassato di 3 franchi, in seguito ad un dispaccio ricevuto dal signor Rothschild sugli affari di Spagna! Il duca, come il dottore, avevano probabilmente giuocato al rialzo. Perocchè, per lo innanzi, il dottore veniva ad annasare le notizie e giuocava solo, ora giuocano insieme.
—Questa perdita sarebbe quindi ad aggiunger al debito di 150,000 franchi. Ma, a proposito: ài tu guardato per le carte cui avevo detto di scovrire?
—Pena perduta, madama. Io, ò frugato dappertutto ove ò potuto—anche nel suo scrittoio particolare. Non ò avuto il tempo di leggere tutte quelle cartacce—di cui una parte è anche in cifra. Ma il colpo d'occhio che vi ò gettato non mi à nulla fatto scovrire che si riferisca al matrimonio del re Taddeo IX. Tutti quelli scritti sono zeppi di maldicenza contro la Corte, il governo, i ministri della Francia; di esecrazione contro la stampa libera, e di diatribe contro i rivoluzionari di Parigi e di Londra—i quali, sia detto in passando, si spiano a chi meglio meglio, reciprocamente. Ecco tutto.
—Credi tu avere rimuginato dovunque?
—Sì—eccetto un piccolo mobile che è a capo del suo letto, che à una toppa a secreto, conosciuto dalla duchessa sola forse, ed ove il duca chiude i suoi crachats, i suoi danari, e tutto ciò che à di prezioso. In passato, le gioie della duchessa erano anche conservate lì; poi, ella le confidò a Maria e le conserva nel suo appartamento…
Augusta riassumeva queste conversazioni col suo ex-intendente e le comunicava al principe di Lavandall.
Dal lato suo, Morella scriveva a Sergio di Linsac dei vigliettini come questi qui:
«Avvisate se volete: il mio malato à la vita dura. «M.»—Martedì.
«Giovedì.—Una goliera di 7000 fr. Il duca era raggiante donandomela. Eran dunque delle fibre della sua anima ch'egli mi dava. Ne ebbi pietà.
«M.»
«Sabato.—Dieci mila franchi per le spese di casa. Lasciandoli sul mio caminetto, la sua mano tremava. Io lo guardava nello specchio. Poi, dei baci frenetici che ànno decorticato le mie labbra. Si inebria. Io non resisto più: voi lo volete. Io tappezzo la strada del suo suicidio di foglie di rosa e di incantesimo.
«M.»
«Lunedì.—Ebbrezza folle… ed uno scheggiale di diamanti. L'ò trovato bello, ed ò abbracciato il donatore. Se mi avessi un cuore di ricambio, glielo confiderei. Mi fa pietà. La pietà è la grande porta dell'amore. Poi, delle lunghe, lunghe distrazioni, e dei pallori sùbiti. La lettura del giornale della sera lo à fatto abbrividire. Non à guardato che il listino della Borsa.
«M.»
«Venerdì.—Un cashmire di 6000 fr., che io ò scelto al Persan. Entriamo nella regione del credito, m'immagino. Si fa mandare le note all'ambasciata, e compera a nome di sua moglie. Sera e notte di soprassalti. Mi à servito dei calembours, perlati di lagrime! Il delirio dei suoi abbracci è convulsivo. Che agonia—sopra un motivo di valzer!
«M.»
«Domenica.—Primo rifiuto. Avevo domandato une rivière. Ò tenuto il broncio fino all'una del mattino. Disperazione lacerante. Ò avuto pietà, all'alba. Egli è pazzo.
«M.»
«Giovedì.—Ò la rivière di diamanti. L'è forse l'ultima goccia di sangue del suo cuore. Cangiate di carnefice. Positivamente, io non terrei più. Egli non à più un gioiello sopra di lui. Io fiuto la miseria. La sua anima è una ruina, un precipizio. Che à dunque egli fatto che lo soffochiate con questa catena di serpenti a sonaglio—cullandolo fra le carezze?
«M.»
«Domenica.—Altro rifiuto. Avevo domandato una casa di campagna, che è a vendere nel parco di Madrid. Aveva l'agonia nella voce; Gesù dimandava da bere. Ò tenuto sodo nel mio broncio. È partito alle 8 del mattino. La sua calma mi à spaventato. L'ò richiamato e baciato. Una lagrima è caduta sulle mie guance. È la prima volta che lo mi lasci vedere. La miseria è estrema. Date il colpo di grazia, o io metto giù le armi. Io mi credeva altra. Ahimè! ò il vizio spavaldo.
«M.»
«Martedì.—Un terzo rifiuto. Finiamola. Ieri sera, egli non aveva che cinque franchi nella borsa. Partì alle dieci per rendersi al club, e non è ritornato nella notte. Non ride più; non parla più. Si tuffa nel mio amore come se si inabissasse nel fondo del mare per perirvi. Clarence, annegato in una botte di malvagìa! Finiamola! Finiamola! Voglio uccidere, ma non leccare il sangue dell'assassinio.
«M.»
I voti di Morella restavano senz'eco. Le si ingiungeva, al contrario, di raddoppiare le sue imposizioni, le sue esigenze, e sopratutto le sue carezze.
Lo scopo degli agenti del principe di Tebe era di ridurre il duca di Balbek al limite dell'indigenza, accollarlo al disonore. Allora il principe di Lavandall, munito di pieni poteri dal principe di Tebe ed autorizzato dal conte di Nesselrode, si presenterebbe a lui e negozierebbe la vendita delle carte tanto sospirate.
Questo piano infernale doveva avere uno scioglimento imprevisto.
Ma s'insistè; e si raddoppiò anzi di accanimento. Qualche giorno dopo l'ultimo viglietto di Morella, questa ricevè la lettera seguente del principe di Lavandall:
« Signora contessa,
«Son proprio desolato del malanno, cui ieri ò mancato poco di commettere, al Bois de Boulogne. Ve ne dimando mille scuse. Ò cacciato via il cocchiere. Ma, d'altra banda, è desso possibile che un astro come voi si nicchi in un veicolo il quale non si distingue da un fiacre endimanché che per la livrea ridicola di cui il cocchiere è azzimato? Per riparare a quella stupida malavvertenza non oso, madama, offrirvi una calèche a due cavalli inglesi ed un cocchiere a cipria, un hôtel ai Champs Elysées, 120,000 franchi l'anno per intrattenere tutto codesto. Vogliate degnare, madama la contessa, d'incoraggiarmi, e voi farete di me il più felice dei vostri sudditi.
«Principe ALESS. DI LAVANDALL.»
Questa lettera arrivava a proposito del calesse del principe, che aveva addentato un tantino il coupé di Morella al Bois de Boulogne —si dava a credere. La galanteria del Russo si spiegava naturalmente.
Morella fece trovare questa lettera sul poggio del caminetto. Il duca, che conosceva la scrittura e le armi del principe, di cui era geloso, afferrò la lettera in un lancio, mentre Morella si dibatteva per riprendergliela.
Balbek divenne eccessivamente pallido, gualcì convulsivamente la lettera. Nel tempo stesso, le sue unghie allividivano i polsi della sua amante.
—Che ài tu risposto?—dimandò egli infine, tremando di tutta la persona, lasciandosi andare, malgrado suo, sur un seggiolo e tirando a sè Morella, che cadde a ginocchio.
—Non ò risposto ancora—ella balbutì.
—Che risponderai tu?—riprese il duca di una voce che somigliava ad un singhiozzo.
Morella, forte commossa, esitò. Non sapeva se dovesse gittarsi al collo di quel meschino, confessargli tutto, abbracciarlo, ovvero se dovesse dargli il colpo di grazia.
Il duca ebbe la dappocaggine di ripetere la domanda non un accento di collera.
Allora Morella sillabò lentamente:
—Risponderò che accetto.
Il duca si alzò, rilevando Morella ancora ai suoi piedi, e gettolla sul seggiolone. E' passeggiò in silenzio per qualche minuto nella camera, infine sclamò, come parlando a sè stesso:
—Al postutto, perchè non accetterebbe dessa? Un rifiuto, darebbe a supporre un cuore; e costei non è che un baratro. A che titolo potrei io pretendere d'imporle una simile perdita? Perchè io l'amo? Io la amo per me: dunque l'è un balzello per lei: dunque occorre un'indennità; dunque…
—Che vi piaccia di ferneticare, io non posso impedirlo—osservò Morella. Ma che mi insultiate così… voi non avete, io non ve ne dò il diritto.
—Morella, una grazia—mormorò il duca fermandosi innanzi a lei.
—Voi siete assurdo.
—Ti domando una settimana di respiro.
—Per che fare?
—Fra quattro giorni vi sarà ballo dal principe di Lavandall. È venuto di persona a pregare la duchessa di assistervi. Ella vuole andarvi. Credi tu che io non debba almanco questo a quella povera abbandonata? Ò bisogno di esser tranquillo per questi quattro giorni. Ò le mie ragioni per questo. Dopo, tu deciderai del mio destino—forse del mio onore e della mia vita.
—Accettato!—e non più una parola su codesto—gridò Morella di una voce soffocata, gettando la lettera del principe nel fuoco.
Il duca non fiatò motto in tutta la sera. Borbottava delle interiezioni fra sè. Si sarebbe detto che ruminasse una grande risoluzione.
Alle 10, partì ed andò a terminare la serata con Vitaliana—la quale non capiva nulla alla tenerezza infinita che le mostrava suo marito.
Era il rimorso del ritorno o il dilaceramento dell'addio?
Il duca trattò Vitaliana come Morella.
Vitaliana, confusa, fuori di sè, abbagliata, colpita, intravide degli orizzonti d'amore sconosciuti, e réva —vaneggiò!
L'indomani, alle 9, il dottore di Nubo si presentò.
Il duca di Balbek si trovò rigettato nella realtà del suo disastro.
—Ebbene?—domandò il duca abbordandolo con un'ansietà terribile.
—Tutto precipita—rispose il dottore. Dio à scatenato Satana sopra Giobbe, ed egli suona l' hallali.
—Da banda le metafore e la Storia Sacra. Mi portate voi danaro?
—Vi porto, al contrario, dei rifiuti e degli intimi a pagamento.
Il duca sorrise a far fremere.
—I vostri ebrei—egli urlò—chiudon dunque la cassa?
—E ne gettano la chiave alla fiumana. Non un centesimo di più, ad alcun prezzo. Shylok non accetta neppur più la libbra di carne dalla parte del cuore.
—À ragione. È la sola carne che io non mi abbia più.
—Voi sarete felice, quando codesta millanteria sarà una verità.
—L'agente di cambio accord'egli la dilazione dimandata?
—Se dinanzi, a mezzodì, non è pagato, ci traduce innanzi ai tribunali.
—L'è una minaccia?
—No, perocchè vi potrebbe essere qualcuno dei vostri colleghi che gli salda il nostro debito a questa condizione.
—Ed il conte di Muys? L'avete visto! Consent'egli ad aspettare?
—Egli dice—io vengo adesso di casa sua—che i debiti di giuoco si pagano sul tavolo o si saldano con la spada. Chi attende, deroga; e che egli è di vecchia razza. Per conseguenza, se non riceve in giornata, o domani, i quindici mila franchi che gli dovete, egli vi schiaffeggerà al club, in presenza di tutti. Bisogna vederlo! Si è sempre più ruvidi con gl'intermediari che col soggetto principale.
—Io mi annego!—sclamò il duca alzandosi.
—Ne ò ben paura—proseguì il dottore con calma. Al club, si à l'aria di sospettare che la nostra buona fortuna al giuoco non è sempre di buona lega. Ci sorvegliano. Anche questa risorsa si dissecca per qualche tempo. Occorre, anzi, perdere e pagare.
—Insomma, ditelo di un motto solo; voi mi portate una corda per impiccarmi!
—In ogni caso c'impiccheremo insieme; perocchè voi mi avete attirato nel vostro abisso. Ma—rimarcò di Nubo, voi non avete altro scampo, altra possibilità di salute?
—A meno che voi non mi consigliaste di svaligiare i viandanti o di trafficare di mia moglie.
—Non mi avete voi parlato un giorno, per allettarmi a venirvi in aiuto, di non so che carte cui possedevate, che valevano milioni?
—Io non vi ò mentito. Io possedo quel tesoro. Ma, giustamente perchè quelle carte valgono milioni, non bisogna sciuparle per dei soldi.
—Caspita! Dugento mila franchi di debito non sono poi così mica soldi che voi vi piacciate a ribassarli. Ma infine, se quelle carte ànno nel grembo dei milioni, perchè non le obblighereste voi ad espettorarli?
—Perchè chi deve espettorarli—poichè espettorazione vi à—non è in misura di ciò fare. Quelle carte interessano la regina Bianca e suo cognato, il principe di Tebe. La regina non può nulla in questo momento. Il principe è più povero di noi. La regina non può al presente comperar quelle carte. Il principe ne darebbe un boccon di pane—perchè gli è tutto ciò ch'e' possiede. Fra un anno o due, quei documenti saranno una miniera. I gallioni arrivano alla morte di Taddeo IX.
—Allora, bisogna liquidare ed aspettare.
—Si liquida pagando. Avete voi un mezzo per pagare?
—No. A meno che…
—A meno che?—obiettò il duca.
Il dottore si alzò per partire borbottando:
—No: voi nol fareste. Ciò sarebbe assurdo.
—Ma infine, che cosa—dimandò il duca.
—Che cosa?—ripetè il dottore lentamente, camminando verso l'uscio.
—Dite dunque?
—Ebbene,—sclamò il dottore, volgendo il bottone della porta…
Tob, che aveva ascoltato questa conversazione alla toppa, dovè allontanarsi e non udì le ultime parole.
Vide partire il dottore, ed il suo padrone, restato sulla soglia come pietrificato, accompagnarlo d'uno sguardo senza vista, gli occhi sbarrati o smarriti.
Quando il duca ebbe richiusa la porta, Tob ritornò al suo osservatorio. Tenne il suo occhio incollato al buco della toppa un'ora al meno. Poi rinculò come sbigottito, allampanato. Si fregò gli occhi, dubitando quasi di avere ben visto. Ritornò al posto, guardò ancora, sembrò turbatissimo… e corse fuggendo da madama Thibault.
Qualche minuto dopo, questa mandava il suo lacchè di sala al principe di Lavandall con una lettera urgentissima.
Leggendo quella lettera, il principe trasalì sulla sedia. Un lampo strano traversò la sua figura. Si riassise. Appoggiò la sua fronte alle sue mani per riflettere con più comodo.
Qualche minuto di poi, e' parve aver presa una decisione, perchè scrisse due lettere a due suoi amici, il conte di Kormoff ed il principe di Storkine.
Forse pure li invitava alla sua festa—e niente altro che questo!
Alle dieci della sera, Vitaliana era di già pronta. Sembrava felice—bianca, bella come un angelo che presenta a Dio un'anima cui à salvata! Pensava ella forse che a quella festa rivedrebbe Adriano, il quale, dopo la sua confessione ed il suo bacio, non aveva più dato segno di vita?
Il duca di Balbek, lui, era orribilmente pallido e sembrava annientato, come uomo che marcia al patibolo.
La sua ora era suonata. Egli l'aveva udita suonare come i rintocchi di funerale.
XII.
Il colpo di grazia.
Le feste del principe di Lavandall erano le più ricercate di Parigi, a causa della scelta squisita dei suoi invitati, la ricchezza e sopratutto l'eleganza che vi regnavano. I balli delle Tuileries erano deserti, se coincidevano con quelli del principe. L'aristocrazia del Faubourg, che non andava dal re, si pigiava nei saloni del diplomatico russo. Se si parlava di una bella dama, questa quistione inevitabile era posta:
—È dessa una delle fate dell' hôtel di Lavandall?
Un artista, un autore, che vi era invitato, mostrava la lettera del principe come un poeta mostra una lettera di Victor Hugo. Era un diploma che dava delle ali. Essere stato al ballo del principe, costituiva una patente di nobiltà. Si era sicuri incontrare in quel salone tutto quanto Parigi possedeva di legittimamente illustre. Si contavano le intrusioni come una verruca sul viso di una ballerina.
Questa spia di grande nobiltà ecclissava il re!
Quando Vitaliana vi giunse, le sale ridondavano di gente.
Il principe le andò incontro e le offerse il braccio per condurla nel salone principale.
Il dottore di Nubo era probabilmente all'agguato del duca di Balbek, perchè, vedendolo, lo seguì lentamente fino a che non l'ebbe ridotto nel vano di un balcone.
E' gli disse un motto in italiano.
Il duca rispose con un segno di testa e sguizzò in mezzo ai capannelli risplendenti di diamanti, di cordoni e di crachats.
Vitaliana proiettò il suo sguardo comprensivo nelle sale ch'ella traversò, ed infine, in mezzo ad un gruppo di attachés e di altri giovani gentiluomini alla moda, scorse il conte di Alleux.
Adriano arrossì.
Vitaliana impallidì.
Ma dessa continuò il suo andare, quasi avesse percorso la via sacra dei trionfatori.
Adriano non si mosse, avvegnachè si volgesse per nascondere l'itto di quello sguardo, che andava ad impiantarsi nel suo cuore.
Il nugolo di quei giovanotti si sciolse, e presero tutti a svolazzare intorno a Vitaliana, chi per salutarla, chi per invitarla a danzare.
L'era un bagliore, alla lettera, quell'insieme di bellezze, di fiori, di pietre preziose. Si vedevano dei flotti di gaze e di luccicamenti ondulare come i flutti ad ogni movimento, traversare come un vapore, scintillare come il mare, in quelle notti di luna piena quando questa si culla, la state, nel golfo addormentato di Bengala.
Vi si respirava due profumi divini: quello della donna e quello della giovinezza. Ogni salone era un mazzetto che rideva e cantava in mille spanti.
Vitaliana si staccava su quella bianchezza, iridata di tutti i fuochi dell'opala, come un fiocco di bianca nuvola sopra un cielo imporporato dagli ultimi baci del sole.
Pertanto, ella non aveva che una toilette di donzella: dei festoni di gaze grigio perla, rilevati da ciuffi di brughiera bianca, e dei fiori nei capelli. Ella non aveva neppur udito suo marito—il quale accusava Froment Maurice di mancar di parola per la nuova montatura dei suoi diamanti!
Quel seno nudo, quel collo senza ornamenti, quella fronte alta e pura scintillavano sotto quegli sguardi assetati. Si sarebbe detto che quel petto e quel collo si fossero impregnati delle perle e dei diamanti assenti.
Ella avanzava come un cigno sur un lago, e lo stormo dei giovanotti farfallava intorno a lei.
Il più sollecito a farsi presentare dal principe di Lavandall fu lord Warland. Egli le disse immediatamente:
— Dare I beg the favour, madame, to dance the first waltzer with you?
— With great pleasure, milord —rispose Vitaliana con un sorriso.
Lord Warland sembrò straordinariamente rapito di trovare quell'incantevole duchessa che gli rispondeva nella sola lingua conosciuta da lui, o, piuttosto, che egli osasse parlare. Si lanciò allora a tutto galoppo nella conversazione, cui milord ci permetterà di tradurre in italiano—in italiano, così infelice per la conversazione!
—Scusatemi, signora, se l'è una indiscrezione. Siete voi nata in Francia o in Inghilterra?
—In Francia, milord, a Parigi stessa, a tre numeri da questo hôtel.
—Allora, madama, o io sono forzato a credere alla metempsicosi, ovvero voi avete smarrita la via venendo dal cielo.
—Come ciò, milord?
—Eh! Dio vi aveva inviata dall'altro lato della Manica, Il raggio di sole che vi portava vi trasbordò sul suolo di Francia.
—Come io non posso supporvi capace di commettere dei concettini, debbo protestare, milord, contro il vostro invadimento britannico. Guardate dunque intorno a voi.
—Sì: l'è pieno di bellezze europee. Voi… voi siete una transfuga dal cielo—o dal mio paese.
—Voi credete dunque, milord, che le bellezze europee sono una mercanzia di scarto, cui Dio lascia cadere sul continente, riserbando per l'Isola la prima scelta—assolutamente come voi fate per i vostri prodotti dell'India?
—Sensate, madama. Io aveva sempre creduto che il fiore valesse meno del diamante. Voi venite stassera a confondere i diamanti e li umiliate col fiore. Ecco ciò che è la mercanzia di scarto e di prima scelta!
—Decisamente, milord, voi nascondete un poeta sotto la pelle di un gran signore… Bisogna disdoppiarvi: il cumulo è interdetto.
—Io non domanderei nulla di meglio, se potessi acchiappar nel vestiario una maschera più confortevole.
—Ah! gli è forse vero. Nella fretta, milord, voi vi siete azzimato di una figura un zinzino a l'azzardo. Ma, supponete che io mi sia una fata che potessi sbrogliarvi: quale sarebbe la maschera che voi preferireste fra questi cascantelli che ci circondano?
—Vorrei potar dire: quella che voi scegliereste, madama! Ma, come la vostra scelta è fatta, io vi do il campione del mio desio. Gli è quel giovanotto femminino e pensieroso, che vi contemplava di sotto quell'arco di porta incontro a noi.
—Come! quella fanciulla mancata, che à dei mustacchelli a crocco? Ve lo accordo, milord. Gli è il conte di Alleux, mio cugino… e non vi felicito del vostro gusto.
—Perchè mo', madama?
—Perchè se un uomo, per isventura, è destinato ad essere… come dire ciò?
—Ad essere un aborto, per esempio.
—Milord, voi siete troppo duro per voi stesso.
—Continuate, madama.
—Ebbene, allora val meglio essere un aborto maschio che femmina.
In quel momento, Adriano, vedendosi sotto lo sguardo di sua cugina e del suo cavaliere, si avvicinò per salutare Vitaliana. Questa fece un leggiero saluto con molta gravità, senza rispondere; ma le labbra di lei tremarono come sotto il brivido di un bacio invisibile.
Lord Warland l'osservava, e disse:
—Non importa, madama, io preferisco l'aborto femminile che voi disdegnate.
—Davvero, milord, voi siete poco ambizioso—rispose Vitaliana sollecitamente, volgendo le spalle a suo cugino, che s'allontanò lento lento, senza aggiungere sillaba.
Il waltzer ricominciò. Lord Warland e Vitaliana scomparvero nel turbine.
—Il waltzer fa comprendere ciò che è la donna—disse milord: esso fa della vertigine un piacere di dei.
—Anche quando quella donna pesa una tonnellata e mezzo, come madamigella di Paray, che balla con mio cugino? Quel povero Adriano respira come una foca.
—Siete voi ben sicura che egli ansi, madama? Io credo ch'egli nasconda un sospiro sotto un anelito—ciò che arriva sempre quando si valsa all'intenzione di un'altra.
Vitaliana non rispose. Si rimisero a valsare.
Quando si fermarono per riposare, lord Warland dimandò:
—Andrete voi al ballo dell'ambasciatore d'Inghilterra, martedì prossimo, duchessa?
—Non credete voi dunque, milord—rispose Vitaliana ridendo—ch'ei sarebbe una imprudenza per una transfuga?
—Oh! perdono, madama: vi si celebrerebbe, al contrario, il ritorno della figliuola smarrita.
—Io penso, milord, che non ò, per il momento, alcuna voglia di ritornare.
—State in guardia, duchessa. Se lord Palmerston vi vede mai, egli sarebbe capace di dichiarare la guerra alla Francia.
—Bravo! non abbiamo noi M. Guizot, milord, che sarebbe capace di pagarvi delle indennità?
—Le indennità ànno del buono, madama, ed alcuno non fa loro il muso. E voi vedrete, madama, che vostro cugino, dopo avere volteggiato con una balena, vorrà volare con un'allodola, e verrà ad invitarvi. Indennità!
—Il conte di Alleux non è poi tanto Inglese in fatto d'indennità, milord—rispose Vitaliana slanciandosi di nuovo.
Quando lord Warland l'ebbe ricondotta ad un canapè, un gruppo di giovanotti si avvicinò a Vitaliana per invitarla.
Adriano non lasciò il suo posto. Sembrava anzi che avesse scelto un alto, fra due giri di walzer, per andare a salutare sua cugina, onde compiere un dovere verso di lei agli occhi del mondo, ma evitare le spieghe.
Ciò non impedì che Vitaliana si lasciasse fascinare da tutte le provocazioni della festa.
Tutto ciò che vi era di più elegante per nascita, distinzione, grazia, svolazzò intorno a lei. Le donne, esse stesse, si sentivano disarmate in presenza di quella figura, la quale aveva tutte le seduzioni dell'adolescenza e non uno dei provocamenti della donna che à morsicato al frutto della vita.
Vitaliana, che aveva di ordinario poco spirito, si elettrizzava in mezzo a quel battibecco scintillante di sguardi bramosi, di motti squisiti ed aguzzati a punta d'oro, di lumi, di profumi, di bagliori, di gioie; in quella mischia di spalle nude, di petti alitanti, di occhi avidi, di gazes fiammeggianti—che nel turbinio della danza sembrano ali—; di quella musica che scoppiettava come lo champagne e dava le stesse prismatiche ebbrezze. Ella ballò un po' per sè stessa, molto per gli altri.
Imperocchè si è implacabili, in un ballo, per le belle signorine. Bisogna ch'elleno espiino la divinità della bellezza, e che, la pelle madida, la respirazione fiaccata, i piedi ammaccati, le loro penne di angelo gualcite, le facciano infine invidiare l'abbandono della fanciulla brutta e scartata.
Quel folleggiamento durò fino alle due del mattino, quando il principe di Lavandall venne a rilevare Vitaliana—dandole il braccio per passeggiare nei saloni, nella stufa illuminata di tratto in tratto con fuochi elettrici. Il principe la introdusse in seguito, per farla respirare un po' in disparte, in un piccolo boudoir, la di cui porta era chiusa, e dove quattro persone giuocavano.
Il duca di Balbek non ballava quasi più, eccetto il quadrille offiziale, a cui non poteva sottrarsi. Non essendo parlatore, essendo confinato, per ragione di Stato, alla tratta delle bellezze mature della diplomazia e della Corte, non gli restava altra risorsa nelle serate, ove le convenienze lo chiamavano, che quella del giuoco.
Il giuoco, del resto, lo attirava; perocchè egli era costruito per le forti emozioni anzi che per le delicate.
Da qualche tempo, d'altronde, il giuoco era divenuto uno degli articoli del suo bilancio di reddito, e, malgrado le variazioni inevitabili, era ancora molto produttivo. In ogni caso, avesse egli avuto ripugnanza per le carte, il conte di Nubo, suo medico, si sarebbe addato a vincerla. Perocchè, non appena il duca compariva in un casino od in un salone, il dottore sollecitava a metter su una tavola da whist, e peggio ancora.
Infatti, abbiamo visto che di Nubo lo attendeva.
L'ambasciatore d'Inghilterra e l'ambasciatore di Prussia—che gustavano anche essi considerevolmente una partita di whist —non dimandavano meglio che cedere all'invito del principe di Lavandall, il quale, per divertire i suoi ospiti, andava incontro alle loro inclinazioni.
Ora, come lord Westmoreland era miopissimo, ed il conte di Tonningen era soggetto a distrazioni, il principe Lavandall fece preparare il loro tavolo verde in un salottino particolare, ove, la porta chiusa, i giuocatori non sarebbero stati distolti dai curiosi che fan di ordinario galleria intorno alle tavole a whist.
Eccoli dunque istallati, il duca di Balbek giuocando con l'ambasciatore di Prussia, ed il dottore avendo per partener quello d'Inghilterra.
Il duca ed il dottore giuocavano così in certi saloni, perchè, alla fine della serata, liquidavano tra loro benefizi e perdite. Al club, al contrario, erano sempre partener.
La sorte si era mostrata neutra. Le partite si erano succedute e moltiplicate, ma con poca differenza dalle due parti. Le perdite si equilibravano quasi.
—Gli assalti di sala d'armi son belli—diceva il dottore forbendo i suoi occhiali—ma, è d'uopo convenirne, gli occhi si stancano a seguire quelle punte di fioretto che cercano inesorabilmente il vostro petto.
—Gli è vero!—sclamò lord Westmoreland, nettando a sua volta le sue lenti.
—Se respirassimo un istante dopo questa partita—riprese il dottore, con quella famigliarità comoda che i medici pigliano dovunque naturalmente.
—Possiamo cessare, dottore, se siete stanco—interloquì Balbek.
—Si riposa pure—replicò il dottore—cangiando di occupazione. Un giro di pharaon ci rinfrancherebbe altrettanto. Che ne dite voi, milord? Ciò vi va, signor conte?
—Perfettamente—risposero i due ambasciadori.
—E voi, signor duca, gradite voi la proposta?
Or, come la proposta era di già stata gradita tre giorni innanzi, il duca di Balbek non l'oppugnò.
In fatti si andava a cangiar di giuoco, quando il principe di Lavandall entrò. E, poco dopo, il conte di Kormoff ed il principe di Storkine venivano a prendere da lui commiato, partendo entrambi il dì seguente per le Russie.
—Non potreste voi, signori, aspettare ancora un quarto d'ora? Avrei una piccola commissione a darvi per madama di Nesselrode. Ma bisogna che io comunichi innanzi tutto a milord Westmoreland ed al signor conte di Tonningen un dispaccio che mi àn rimesso or ora, dalla parte di M. Guizot. Come voi lo troverete probabilmente pure in rientrando, mi sollecito a comunicarvelo qui.
—Sì, sì—dissero i due ambasciadori.
—Son desolato, signor duca e signor dottore, d'interrompere la vostra partita per cinque minuti. Ma, se voi il permettete, signori, spero che M. di Kormoff ed il signor principe di Storkine vorranno farmi il piacere di tener le carte per cinque minuti.
—Io prego anzi uno di quei signori di occupare il mio posto definitivamente—disse lord Westmoreland. Io mi ritiro, dopo.
—Ed io pure—soggiunse il conte prussiano. E sarei grato a quegli di quei signori che vorrà rimpiazzarmi.
—Con piacere—risposero i due signori russi.
I tre diplomatici uscirono.
—Solo—continuò il conte Kormoff con un certo imbarazzo—io sono un detestabile giuocatore di whist, ed imporrò una rude pazienza al mio partener.
—Ma, in questo caso—osservò il dottore—noi potremmo giuocare il giuoco che vi piacerà più, signori. Non siamo già condannati al whist forzato, che io sappia. Che ne dite voi, signor duca?
—Sono agli ordini del signor conte di Kormoff e del suo amico.
—Il principe di Storkine—fece il conte, presentando il suo compatriotta.
Si salutarono e si assidero.
—Giuochiamo allora un giuoco che anche le donne ed i fanciulli conoscono e non disdegnano: il baccarat. La proposizione vi disgrada, signori?—proseguì il dottore sorridendo.
—Niente affatto—risposero i tre altri signori, sorridendo del pari.
Il dottore allungò la mano ad una tavola e vi prese 10 mazzi di carte, cui aprì ed ammonticchiò sulla tavola.
Il giuoco cominciò.
Si era al più vivo delle poste quando la porta del gabinetto si aprì dolcemente ed il principe di Lavandall v'introdusse Vitaliana, onde sottrarla agli inviti che la avevano di già stanca.
Il principe, appoggiando al suo braccio la giovane donna, si collocò dietro al duca di Balbek, il quale non si accorse forse neppure della presenza di sua moglie—talmente il demonio del giuoco lo trasportava in quel momento.
D'altronde, il suo giro di pigliar la mano arrivava. La fortuna gli aveva di già sorriso, perchè aveva innanzi a sè un mucchietto assai spesso di marche, d'oro e di polizze da banco.
Prese le carte.
—Si dice, signori, che, al club di Mosca sopratutto, si giuoca molto al lanzichenecco—chiese il dottore ai due Russi. È vero?
Mentre il principe ed il conte rispondevano volgendosi verso il dottore, il duca di Balbek prendeva le carte—soffiandosi previamente il naso.
Vitaliana, però, che aveva gli occhi sopra di suo marito—al pari del principe di Lavandall, probabilmente—rimarcò qualche cosa cui non comprese. Perocchè, volgendosi al principe, le dimandò a voce bassa:
—Che fa egli dunque?
Il principe di Lavandall scostò Vitaliana, rinculando verso la porta del gabinetto. Lo aprì, uscì, lo chiuse a chiave dietro a lui, e trascinò Vitaliana in una stanza appartata.
—Voi avete dimandato, duchessa—mormorò il principe a voce bassa: che fa egli dunque?
—Sì—rispose Vitaliana, commossa dell'aria che prendeva il diplomatico russo.
—Ebbene, duchessa, vostro marito ruba.
—Signore!—gridò Vitaliana, tremando di tutte le sue membra come se fosse entrata in un bagno gelato.
—Vostro marito ruba al giuoco—replicò il principe con delle lagrime nella voce. Ma abbiate calma, madama, silenzio! Partite. Io vado ad impedire uno scandalo ed un clamore forse.
Vitaliana fuggì verso la porta, tremando di più in più, trascinando il principe. Questi fece chiamare la carrozza del duca di Balbek ed accompagnò la duchessa fino allo sportello, susurrandole all'orecchio:
—Per l'amor di Dio, signora duchessa, silenzio con chiunque—sopra tutto con vostro marito. Io accomoderò la cosa ed avrò l'onore di presentarmi da voi domani, per comunicarvi il resto.
Vitaliana fuggì, ringraziando il principe, degli occhi bruciati—perchè vi sono delle lagrime che rientrano ed appiccano il fuoco al cuore.
Ella andò a cercare asilo nel suo appartamento, chiudendosi a chiave.
Il principe di Lavandall ritornò al piccolo salone, giusto al momento in cui una scena delle più tragiche cominciava.
Il duca aveva una fortuna insolente. Aveva passato dieci o dodici volte, ed un monticello considerevole di luigi, di viglietti di banca, di gettoni, denunziava il suo successo. La vena continuava. Il vento gonfiava tutte le vele del suo naviglio conquistatore. Non restava più un soldo nè avanti nè in tasca dei suoi avversari.
Di un tratto, la mano del conte di Kormoff, a destra, e quella del principe di Storkine, a sinistra, afferrarono i due polsi del duca di Balbek e, levandosi, i due personaggi gridarono di una medesima voce:
—Signore, voi rubate!
Il duca di Balbek restò pietrificato. I suoi polsi non battevano più. La sua voce si estinse. Solo, il suo labbro inferiore tremolò.
—Noi abbiamo cominciato con dieci giuochi di carte. Ora andremo a contare quanti ve ne sono colà, poi a frugarvi. Se ci siamo ingannati, noi siamo a vostra disposizione per dimandarvi scusa o darvi soddisfazione dell'insulto.
Il duca di Balbek tacevasi sempre.
Lo sguardo del principe di Lavandall pietrificava a sua volta il dottore di Nubo, e gl'impediva di far un segno, un gesto, un moto che potesse salvare il suo complice, o piuttosto la sua vittima.
Imperciocchè era desso che aveva consigliato quell'infamia al duca di Balbek, e Tob, che aveva visto costui preparare la carte, aveva poscia dato l'allarme.
Il principe di Storkine andava a procedere alla verifica delle carte, quando il duca, ritrovando infine la parola, balbutì di una voce estinta:
—L'è inutile, signori. Che mi volete voi?
—Come!—gridò il conte di Kormoff.
Il principe di Lavandall s'interpose, interrompendolo, e disse:
—Adagio. Il più insultato qui, sono io. Mi occorre una riparazione eclatante. Scegliete, signore,—aggiunse egli, indirizzandosi a Balbek con piglio altero: O io apro questa porta e convoco tutti qui, per constatare che l'ambasciatore di Commodo V ruba al giuoco, o fo chiamare la polizia e vi consegno alla giustizia; o voi andrete a scrivere qui—e noi la firmeremo tutti—una dichiarazione, che voi avete rubato al giuoco in casa mia.
Un momento di silenzio seguì questa sentenza omicida.
Tutti gli sguardi s'inchiodarono sul viso cadaverico del disgraziato, cui i due pugni di ferro dei signori Russi tenevano ribadito sulla sua sedia.
E' disse, in fine, di una voce cavernosa:
—Se scrivo, che uso farete della mia dichiarazione?
—La conserverò, per restituirvela forse, quando sarete corretto.
E dicendo ciò, il principe metteva innanzi al duca un foglio di carta ed un calamaio; ed i due Russi lasciavano le sue mani libere.
Il duca conservò ancora il silenzio per qualche istante, poi ghermì una penna e di una voce ferma sclamò:
—Dettate.
—Vi è là una pistola, signore, se preferite bruciarvi le cervella nel giardino, innanzi a noi.
—Dettate dunque!—gridò il duca con collera.
Lavandall dettò, Balbek scrisse:
«Io dichiaro, in presenza dei sottoscritti, di aver rubato al giuoco in casa del principe di Lavandall, oggi,» ecc., ecc.
—Firmate.
—L'è fatto.
—Firmiamo a nostra volta.
Tutti firmarono.
Lavandall prese la scritta ed uscì con i suoi amici.
Il dottore restò, impiedi, all'altra estremità della tavola, silenzioso, freddo, calmo, increspando quasi il suo sembiante di una smorfia che somigliava ad un sorriso.
Il duca pareva inchiodato alla sua sedia, gli occhi devaricati, accoccati a quella somma di 50 o 60 mila franchi innanzi a lui, senza vederla.
Di botto poi, come se si svegliasse di soprassalto, ei balzò in piedi, e volle fuggire, senza toccar nulla.
—E Morella!—sclamò il dottore.
Ciò fu come una parola magica. Il duca si precipitò sul danaro, lo tuffò nelle sue tasche e fuggì correndo.
Egli errò tutta la notte, a piedi, nelle strade di Parigi. Alle otto del mattino, si trovò innanzi l'uscio di Morella.
Il duca portava la mano al bottone del campanello, quando il dottore di Nubo, uscendo dalla carrozza, gli si avvicinò e gli disse:
—Entriamo.
XIII.
Una fine di capitolo, cui le signorine… leggeranno di soppiatto.
Il dì dopo, a mezzogiorno, il conte di Nubo si presentò al palazzo di Lavandall, e parlò a lungo col principe.
Uscendo di là, il dottore se ne andò di galoppo dall'agente di cambio.
Il principe si presentò al palazzo del duca di Balbek, e prese motto della duchessa.
Il fine del principe era restato lo stesso; ma aveva cangiato il piano di attacco.
Voleva ad ogni costo ottenere le carte del duca di Balbek.
Lo aveva gittato nella trappola di Morella per obbligarlo a vendere, e vendere a prezzo più mite.
L'avea ruinato per mezzo dell'amore. E si approntava già a mettergli l'asta alla gola per la vendita, quando Tob udì la conversazione del duca e del dottore—il quale pingeva lo stato miserabile dei fatti loro.
Tob intravide lo spediente infame cui andava a sperimentarsi. Osservò il duca, dopo la partenza del dottore, e lo vide accomodare due giuochi di carte, poi esercitarsi a cacciarseli in tasca e cavarneli fuori, come un giuocatore di bossoli.
Questa rivelazione fu per il principe di Lavandall uno spiracolo di luce.
Preparò il tranello in casa: ed i due signori russi furono suoi complici.
Aveva ricevuto la mattina stessa un dispaccio del principe di Tebe—di cui parleremo più tardi—e fu questo stesso dispaccio, cui innanzi al duca ed al dottore e' disse d'aver ricevuto dal Guizot, e cui comunicò ai due diplomatici.
La dichiarazione del duca, cui possedeva adesso, gli consigliava un'altra tattica.
Con un uomo che aveva preferito di addossarsi una patente di ladro, anzichè mandarsi le cervella alle nuvole, non era più a far capitale di strappargli le scritte concernenti la successione di re Taddeo, per modi facili. Avrebbe rimbeccato, resistito, tenuto duro fino all'ultimo estremo.
Quando in un gentiluomo la voce dell'onore è divenuta muta, quando egli à indietreggiato dal duello e dal suicidio, non si à altra presa su di lui—tranne che mediante il Codice penale.
Il Lavandall non rinunziava di servirsi della dichiarazione del duca direttamente con lui, per tutti i modi. Egli voleva però mettere a partito, anzi tratto, un successo che gli sembrava più probabile, e meno rude a cogliere: il terrore della duchessa.
Vitaliana lo aspettava.
Ella non aveva chiuso occhio in tutta la notte.
I suoi occhi, tutti rossi, cerchiati di livido, attestavano ch'ella aveva pianto lunghe e lunghe ore. La sua pallidezza, rilevata ancora da un vestimento a nero come per un giorno di funerale, denunziava l'agone interno sostenuto. Ma la calma, di presente, delle sue palpebre e della sua fronte, la contrazione delle sue labbra indicavano nel tempo stesso agli osservatori, che ella aveva preso una risoluzione.
All'opposto della credenza comune, le nature deboli sono quelle che si decidono più pronte e che prendono risolvimenti più radicali. I caratteri forti alternano le fortune della lotta, dell'astuzia, dell'ardire, dell'abilità, del coraggio. Essi resistono, calcolano, danno un passo innanzi per poi retrocedere; indietreggiano per risaltare di un lancio tutti gli ostacoli; dubitano, tasteggiano, provano di transigere—in una parola, esitano ed aggiornano la decisione. Le nature deboli, non possedendo alcuna di queste risorse di resistenza, non veggono di un colpo che i partiti estremi: cedere o perire. Si bilica, si pencola un istante tra questi due termini della fatalità, poi vi si immerge capo giù, e tutto è detto.
Ora, Vitaliana era una natura debole.
Ella trovavasi nel suo boudoir. Leggeva una lettera di sua madre, cui il fattorino aveva rimesso testè—e che acchiudeva qualche capelli del suo bimbo—quando il principe di Lavandall si fece annunziare.
Un sole glorioso attaccava la neve caduta abbondantemente la notte precedente.
Lo splendore era dunque doppio.
La porta del balcone, che sporgeva sulla stufa, era aperta.
I raggi, traversando qualcuno dei vetri colorati, aggiungevano le vivide tinte di questi ai bagliori animali dei fiori e degli arbusti—in foga di vegetazione in quel clima di Senegal. Scintillio di colori, di luce, di profumo, di forme squisite e strane, di quegli uccelli vegetali della stufa; tutto ciò, di unita ad un sentimento di delizie voluttuoso e misterioso, faceva irruzione nel salottino di Vitaliana ed incarnava un inno a Dio.
Tutto quivi respirava la felicità. Tutto pareva dire alla fata di quel nido di angelo: Godi! Dio ti sorride!
Stesa sopra una dormeuse, la lettera di sua madre sul seno, la noccolina di capelli sulle labbra, Vitaliana aveva gli occhi a tutto… e non nulla scorgeva! Ella si sentiva penetrata di un sentimento vago, composto di tutti i dolori e di tutti i terrori cui aveva traversato da dodici ore in qua, e di quella calma catalettica che infonde la disperazione.
Il principe entrò.
Ella si sollevò.
Il signor di Lavandall le baciò le punte delle dita e si tacque.
La si sarebbe detta una visita di condoglianza.
—Signore—sclamò infine Vitaliana, voi venite ad annunziarmi che il disastro è completo?
—Dio mi è testimone, madama—balbettò il principe commosso, o sceneggiando la commozione—che, a prezzo della mia vita, io vorrei sparmiarvi quello orribile dolore.
Nel tempo stesso, egli presentava a Vitaliana la dichiarazione di suo marito e dei testimoni.
Vitaliana la lesse, gli occhi enormemente dilatati e fissi. Poi, la carta le cadde dalle mani, e, malgrado lei, malgrado tutto, dei singhiozzi le lacerarono il petto.
Il principe si ripostò la scritta in tasca, e prese le mani di Vitaliana fra le sue, senza soggiunger verbo.
La procella durò cinque minuti; poi si appaciò di un tratto, come le bufere dei Tropici.
Allora, Vitaliana, divenendo estremamente calma, riprese:
—Signore, vengo dal ricevere una lettera di mia madre; ecco i capelli del mio figliuolo. Essi sono felici. Signor di Lavandall, siete voi padre?
Il principe comprese il significato di quell'appello e rispose:
—Signora, sì. Ma, per sventura, io non sono mica solamente padre, e vostro marito non è mica un gentiluomo ordinario. Egli è qui ambasciatore di un re, ed io rappresento un imperatore. Gli è dirvi, madama, che io non sono punto libero delle mie azioni; che io debbo riferire quest'avvenimento all'imperatore—il palazzo del di cui ministro è stato vituperato—e che debbo aspettare gli ordini da Pietroburgo.
—Vi sarebbe egli permesso di presentire quegli ordini, signor principe?
—No, madama. Però, io non oserei incoraggiarvi ad alcuna speranza.
—Se mio padre vivesse, se io mi avessi un fratello, signore, non avrei bisogno di supplicarvi. Essi saprebbero il loro dovere: essi ucciderebbero il padre per non infamare il figliuolo! Io sono sola nel mondo; sono vedova, signor principe… Grazia, grazia pel mio figliuolo! bruciate quella carta.
—Impossibile, madama. Voi dimandate il mio onore, la mia sentenza, la posizione della mia famiglia, per salvar l'onore di un… di vostro marito, madama—il quale non comprenderebbe forse neppure la magnitudine del sacrifizio che io farei.
—Voi avete ragione—rispose Vitaliana dopo qualche istante di zittire. Un'ultima parola, allora. Principe, credete voi al pentimento?
—Io non lo nego.
—Credete voi che il duca di Balbek possa riabilitarsi unque mai di un atto, che fu senza dubbio un accesso di follia?
—Un accesso di follia!—mormorò il principe.
—Voi non ammettete la follia. Voi credete alla premeditazione. Siete voi dunque convinto che quell'anima è perduta?
—Madama…
—Principe, vi dimando il vostro parere, non mica la vostra pietà. Se mia madre fosse qui, ella mi consiglierebbe forse. Scriverle? non si confidano di codeste cose alla carta, la quale, presto o tardi, tradisce sempre. Io medito un piano di condotta, una determinazione… che so io? E sono sola!… Siate mio padre.
Il principe di Lavandall ebbe l'aria di riflettere. La risposta? no. Egli considerava che Vitaliana invocava una scusa, invocava le circostanze attenuanti, se non per assolvere suo marito, per attenuarne almeno il delitto. Ella andava quindi a sfuggirgli di mano. Ei non poteva allora contare sull'aiuto di lei. E' si trovava dunque di nuovo solo d'incontro al duca.
Ora, occorreva, ad ogni costo, assicurarsi il concorso di Vitaliana. Laonde e rispose:
—I dolori reiterati uccidono; i grandi colpi ci mettono a prova. E' non sarebbe mica dunque pietà sparmiarvi, duchessa—ora che siete sulla breccia della sventura. Ebbene, volete voi sapere ove va il danaro cui il duca ruba al giuoco?
—Se lo voglio! l'esigo anzi, principe—o, piuttosto, ve ne supplico.
—Avreste voi il coraggio di vederlo, voi stessa, degli occhi vostri?
—Io non so se ne avrò il coraggio; ma ne ò, certo, la volontà.
—Allora, domani sera, o dopo domani sera, o fra tre giorni—io non posso nulla precisare in questo momento—ma vi domando il permesso di scrivervi per indicarvi il giorno in cui, tra le undici e la mezzanotte, verrò a prendervi. Andremo… e vedrete.
—Posso condurre qualcuno con me?
—Se aveste vostro padre, vostra madre, vostro fratello, io vi direi: sicuro! Ma uno straniero ciancia, qualunque sia la sua fedeltà, se non un giorno, un altro. Ora, nel posto che occupa vostro marito, lo scandalo è sempre funesto. Del resto, voi siete libera.
—Voi avete ragione, principe; Dio ve lo renda. Io sarò pronta.
Il principe partì.
Vitaliana restò a meditare tutto il giorno.
Nè quel giorno nè il seguente ella non rivide suo marito.
Il duca era rientrato all'ambasciata per spicciare gli affari, e si era informato intorno a sua moglie. Ma, la prima fiata, Maria gli rispose che la duchessa era nel bagno e non poteva riceverlo; e la seconda, ch'ella era in sullo scrivere a sua madre, e non voleva essere disturbata.
Per sorte, il duca non chiedeva mica meglio che non contrariarla.
Il terzo giorno, però, ella lo ricevè.
Vitaliana pensò che la non poteva schermirsi da quella visita, senza risvegliar sospetti; tanto più che aveva giusto allora letto un viglietto del signor di Lavandall, il quale le significava questo semplice motto:
«A stasera, madama!»
Non mai il duca di Balbek si era mostrato a sua moglie più gaudioso. Aveva quasi dello spirito! La sua eleganza respirava la felicità. Portava nelle pupille un'immagine a dimora fissa, sotto la forma di sorriso, che folleggiava nel suo sguardo e gli dava l'aria intraprendente.
Vitaliana n'ebbe paura, ed invocò subito alla riscossa un acciacco.
Non v'è che lo coscienze perverse che abbiano un sembiante sì festoso. Un manigoldo non retrocede innanzi all'idillio, se lo trova di suo pro. Il carmina proveniunt animo deducta sereno è una baggianata volgare.
Vitaliana, dagli occhi divaricati, cercò l'infamia sulla faccia di suo marito—come Otello cercava il bacio sulla labbra di Desdemona. Non vi scorse che l'ebbrezza della pace, e l'impronta del sentimento che il mondo non aveva per lui che delle rose!
La visita non durò che tre minuti.
—Si è sempre certi di trovare sua moglie, ahimè!—dicevasi il duca. Le Morelle sono, invece, come i giorni di sole nell'inverno dell'Inghilterra.
Il cervello di quella bella creatura, d'altra banda, avea, la vigilia, partorito di un'idea bizzarra. Vitaliana era dunque anch'ella felice.
Il dottore di Nubo si era guizzato col duca nella palazzina di Morella—il dì dopo della festa—per dargli calma, ed avvisare con lui al mezzo di scongiurare il pericolo. Però egli aveva, principalmente, voluto vederlo prima della ganza, onde impedirgli che affogasse in quel baratro tutto il prodotto della sua infamia.
Il dottore desiderava prelevar della somma un qual cosa per dare un pizzico di scudi ad ogni creditore, ed insinuar loro così la virtù della pazienza.
Riuscì.
Il duca udì ragione.
E' prese 5,000 franchi per lui, ne lasciò 20,000 sul davanzale del caminetto di Morella, e rimise il resto al suo Mentore.
Orbene, Morella parve così tôcca di questa gentilezza del suo amante, che gli acconciò la sorpresa di una festa—oltre le sue previe terribili carezze.
Forse il principe di Lavandall avrebbe potuto reclamare la sua quota in questa sùbita inspirazione di Morella; ma non è mo il momento d'imbarazzarci in questa investigazione.
Guardate là, invece!
E che vi è desso di straordinario alla fin fine?
Sei persone pranzano.
Noi abbiamo di già intravisti i convitati di Morella. L'è Fernandina, che à menato seco il grave ambasciatore del Sultano. L'è la Polacca, della festa di madama Augusta, che vi à condotto il suo cagnolino; il marchese delle Antilles. Poi, Morella e Balbek.
Tutto è bello, gaio, fresco, giovane—perfino il marchese!—il quale s'immerge nella quarantina, maturata anticipatamente, precocemente almen d'altri dieci anni, da una marchesa bisbetica come la moglie di Socrate.
L'età di un uomo è nelle mani della donna che lo governa.
Un pranzo di sei arcivescovi non sarebbe stato più decente e solenne.
Tre pensionarie del Sacré-Coeur non avrebbero avuto il verbo più innocente.
Si sbrigarono vivande squisite, chiacchierando filantropia, e mettendo in grave dubbio la fame del proletario—il quale maschera le sue rivoluzioni con quella malannata parola di: pane!
Lo scintillio di que' cristalli, di quelle porcellane, di quelle argenterie, di quei fiori, era forse melenso in paragone delle sei pupille di quelle tre donne—che pur nondimeno le spegnevano sotto il languore.
Conoscete voi occhi più micidiali di quelli che sono sì dolci quando si muovono?
Le tre donzelle erano scollacciate. Però, misero dell'acqua nel vino—sintomo terribile! Nulla che non appartenesse loro—tranne il portamento! Nulla che non fosse vero—tranne il sorriso!
Il Turco, gli è vero, si provò, una volta o due alla barzelletta. Ma incontrò, in uno sguardo di Fernandina e nell'intenzione di un sorriso del marchese delle Antilles, un cotal correttivo, che lo si sarebbe detto di poi un novizio dei gesuiti.
—Parola d'onore, Morella—sclamò il duca di Balbek alla fine—si pranza da te come alla tavola del re. Il tuo champagne piagnucola. I tuoi intingoli sentono la predica della quaresima. I tuoi vini sono accimorrati. Facci dunque versare un fiaschetto di vieux gaiezza.
—Voi ne avete pieno il nappo—rispose Morella. Voi non la scorgete dunque che quando la si spande sulla nappa?
—Mio caro duca—sclamò il marchese sorridendo—voi siete intraprendente.
—E l'è fortuna—osservò la Polacca—senza che, Morella ci darebbe la berta a mo' di una Bastille imprendibile.
—Il più difficile—obbiettò il Turco—non è prendere, ma tenere.
—Voi parlate male il francese—ripostò Fernandina. Io v'insegnerò la parola propria, che è nel tempo stesso il segreto di quel tenere lì.
Morella interruppe la conversazione, che pigliava mala piega.
—Pascià—diss'ella—avete voi udito il padre Lacordaire, il nostro eloquente predicatore?
—Sì—rispose il Turco con gravità—nel Don Pasquale!
—E non vi à convertito?
—E' non à gli argomenti di Fernandina.
—Bisogna che io vi presti allora un libro di M. de Lammennais.
—Non ci mancherebbe che codesto—scoppiò Fernandina. Appena se noi abbiamo il tempo di studiare la quistione di Oriente nel Cocu di Paul de Koch. Che dite voi dei miei dispacci, eh?
—Uhm!—fece il Turco. Mi ci vuole una ballerina per metterci l'ortografia.
—Lasciamo la politica—disse il marchese di un tono grave.
—Ne fate voi qualche volta, marchese?—dimandò Morella.
—Uff!—s'intromise la Polonese. Non fate arrossire i segreti di gabinetto.
—A proposito—dimandò Morella—sapete voi la gherminella abbominevole che lord Warland à praticata ad Ines della Porte Saint-Martin?
—Che dunque?—chiese Balbek. L'avrebbe egli chiamata onesta?
—Quel lord incontrò l'attrice ad un thè, in casa di Maddalena Borel… voi sapete? la Lionese a cui il banchiere Dehal e Comp. fa una pensione di 200,000 fr. l'anno….
—Non v'è che le donne a barba che si abbiano di quelle fortune lì—osservò Fernandina.
—Or bene, milord si avvicinò alla piccola Ines e le sussurrò all'orecchio: «Mademoiselle, que fere moá per fere emer moà par vù.» Se un uomo mi avesse indirizzato un simile proposito—continuò Morella—io gli avrei risposto: «Bisogna, signore, provarmi codesto amore, e non parlarmene mai; non dimandarmi mai nulla; non lasciarmi mai nulla desiderare; prevenire tutte le mie volontà…
—Io—interruppe Fernandina—io avrei risposto: «Partite per l'India, e mandatemi vostre nuove assicurate, per mezzo della Banca di Francia.»
—Ed io—sclamò la Polacca—io gli avrei sciorinato: «Siate per lo meno lord Palmerston. Io non amo che i grandi uomini di Stato, come Talleyrand, Metternich… ed il marchese delle Antilles!»
—Bembè—riprese Morella.—Ma la piccola Ines, che ignorava quanto quell'Inglese pesava, gli rispose storditamente: «In primis, milord, bisognerebbe cangiar di maschera». « Very well, disse l'Inglese, what mask vò emer moà ». «Ah! riprese Ines, non importa qual forma vi appropriate, milord, voi non potrete che guadagnarci.»
L'Inglese non rispose sillaba e si allontanò.
—Manca di spirito quel milionario lì—osservò Balbek. Io avrei risposto: «L'è fatta, carina. Io sono un cronometro che segna sulla sfera: mille franchi all'ora! Ne volete, cuor mio?»
—Stando a Parigi—disse il Turco—io le avrei mandato un laccio sotto forma di un filo di perle, e le avrei scritto: «Vieni a strangolarti, drolesse!»
—E voi, signor marchese, che avreste voi fatto?—dimandò Morella al marchese delle Antilles, che si taceva.
—Un giorno una ballerina del mio paese m'imberciò un'arguzia presso a poco su quel garbo—rispose il marchese. Io me la feci condurre a casa e la feci ricevere da' miei palafrenieri.
—E che diss'ella, la vostra ballerina?—dimandarono le tre donne di una voce.
—L'era una piccola sciocca. Rispose: «Che io la trattava poi troppo come la marchesa!»
—Ebbene—continuò Morella—lord Warland è stato più eteroclito di voi tutti. L'indomani, due commissionari si presentarono ad Ines e le rimisero una larga cassa da parte di uno straniero, all'albergo Meurice. Voi comprenderete che non si rifiuta una cassa sì autenticamente listata. Ines sollecitò a farla aprire, e che vi trovò?
—Ma! milord in cioccolatte—sclamò Fernandina.
—Un maiale! disse Morella.
—Vivo.
—Pelato come un uovo, in camicia da notte, porgente un viglietto profumato da una zampa, nel quale milord aveva scritto: «Eccomi qui, sotto una forma che deve piacervi. Amatemi, mio cuoricino. Arturo.»
—E che fece Ines?—sclamarono le due donzelle ad un tempo.
—Che? la fece venire schietto schietto un salsicciaio, gli vendè la bestia per 200 franchi, e rispose: «Sì, milord, io vi adoro sotto questa forma. Prendete un poco più di lardo e venite ogni giorno.» Milord non vi tornò più.
—Perchè Ines andò da lui—osservò il Turco.
—Sotto quale forma?—dimandò il marchese.
—Dell'innocenza, perdinci!—replicò Morella.
Il pranzo terminato, Morella alzossi e disse:
—Adesso, signori, io sono la sultana qui, e cesso di essere l'anfitrione. Lasciatevi manipolare senza obbiezione, ed obbedite.
Ella tirò allora una corda di campanello, e nel medesimo tempo una fanfara invisibile scoppiò.
Accompagnò quindi i tre gentiluomini verso un uscio, e li fece entrar di quivi—mentre ella e le altre donne si dirigevano verso una porta di rincontro.
Un'ora trascorse.
La fanfara, che fin qui era stata briosa, cangiò di carattere, e divenne una melodia dolcissima di violini e violoncelli.
Le porte del salone si apersero.
Quattro immensi specchi riflettevano e moltiplicavano gli oggetti di quella stanza. Dei quadri, che avrebbero fatto trovar pudico quello della Venere di Tiziano, pendevano alle pareti, nell'intervallo degli specchi. Un folto tappeto di Smirne copriva il pavimento. Tutto intorno cuscini e divani di damasco rosso. Ai quattro angoli, dei vasi, da cui sbocciavan fuori dei narghileh, dai quali si poteva aspirare a volontà il latakie o lo hatchich. Fiori, dovunque era posto. In mezzo, un buffet coperto di liquori, di sorbetti, di vini deliziosi, di confetture aromatiche.
Una luce viva animava tutto e dava una scintilla ad ogni oggetto.
Delle cassollette invisibili aggiungevano un profumo penetrante a quello dei fiori. L'aria aveva, nel tutto suo insieme, irradiamento, armonia, olezzo, ripercussione di oggetti: una ubbriachezza irresistibile penetrava da tutti i pori. Tutto diceva: «Qui si ama fino a morirne!»
Aprendosi, la porta di mezzo dette ingresso a sei giovinette vestite da baiadere.
La porta di sinistra lasciò passare i tre gentiluomini—panneggiati in un'ampia tunica di cashmiere bianco, coronati, a modo degli antichi Romani, di fresche rose, e profumati come una corolla di magnolia.
Dalla porta di destra, entrarono le tre giovani donne—galleggianti in una nuvola di gaze, trasparente come il vapore dell'alba in Oriente.
Un grido scattò da tutte le bocche. Una percossa mise in fiamma tutti gli occhi. Fu un precipitarsi all'incontro gli uni delle altre.
Le braccia si aprirono… Il salone risuonò di uno strepito simile alla crepitazione della fiamma dei sarmenti.
Le sei baiadere, che avevano in mano vassoi e coppe di cristallo, versarono dei sorbetti. Poi, cominciarono una specie di danza, anzi di pantomima, dagli atteggiamenti molli e strani—compresi di uno sguardo, sentiti come un rimescolamento, e cui alcuna parola non potria pingere.
I sei principali personaggi di questo racconto si trovarono presi in un circolo che realizzava tutte le tentazioni di S. Antonio. Non si distingueva più dove il velo finiva, dove il nudo cominciava.
Gli occhi, striati di lampi, scoppiettavano. Il sorriso provocava. La respirazione soffocava la parola.
Morella servì ai suoi ospiti un liquore di oro, il quale sembrò, quando lo si ebbe cioncato, un fiotto di lava incanalato nelle vene.
Un'altra carola delle baiadere, più strana ancora, rigettò i tre ambasciatori e le loro dame verso i divani, verso i bocchini di ambra dei vasi, ove il tabacco e lo hatchich bruciavano.
Alla musica nascosta e soffice che non cessava di suonare, si aggiunse adesso una voce vellutata ed artisticamente velata, che respirava piuttosto che non cantava una strofa di Anacreonte, tradotta da Alfredo di Musset.
Quella strofa imprudente esprimeva, in parola, i voti dei tre uomini. Le braccia delle baiadere e delle tre giovani donne si allacciano attorno ai tre pascià, per i quali Morella realizzava un delirio delle Mille ed una notte.
Di un tratto la musica, fin lì così tenera, sì riservata, scoppiò come una bordata di cannoni. Essa mise fuoco alle polveri!
Tutti non fecero più ch'uno.
Fra la mezzanotte e l'una del mattino, la porta di mezzo nel salone si aprì a due imposte, e sulla soglia si fermarono il principe di Lavandall e Vitaliana.
Di un solo ammiccare, questa vide tutto. Di un solo urto al cuore, ella comprese tutto altresì.
Vitaliana aveva appreso e sentito in un baleno ciò che una donna del mondo, a trentasei anni, più non ignora!
L'ebbrietà aleggiava sull'intero quadro, e faceva di quella gioventù, or ora piena di vita, come dodici corpi inerti.
Era poi lo hatchich?
Il duca di Balbek appoggiava la sua testa sul seno di Morella—rovesciata sur un monte di cuscini. A traverso a lui, giaceva una baiadera. I tre eran pallidi, in disordine, fuor di sensi: li si sarebbe detti avvelenati da un anestasiatico.
—Principe, fate tirare quell'uomo di colà—disse infine Vitaliana, indicando a Lavandall suo marito.
Il principe diede un ordine.
I due suoi valletti d'anticamera tolsero via il duca, lo avvilupparono in un mantello e lo portarono nel calesse.
Il principe e Vitaliana seguirono.
—Il duca può entrare in palazzo senza esser visto, duchessa?—domandò Lavandall.
—No.
—Allora?… In quello stato… Dimani, i domestici… tutta Parigi…
—Comprendo. Fate depositare codesta roba in casa del signor d'Alleux, mio cugino, stradale Santa Maria, e riconducetemi all'ambasciata, principe.
Parigi, vista a quell'ora, a piedi, à un aspetto singolare.
Il principe dette degli ordini.
Vitaliana si sentiva sì serena oggimai, che la sembrava felice.
Marciavano in silenzio, in grembo ad un vaneggiamento. D'un tratto, Vitaliana, si fermò e sclamò:
—Le dietro-scene della vita àn dunque di quegli Eden, principe?
Il signor di Lavandall s'inchinò e tacque.
XIV.
L'artiglieria entra in battaglia.
Qualche ora dopo, verso mezzodì, Vitaliana usciva appena dal suo letto d'insonnia, quando la sua cameriera entrò e le annunziò che il principe di Lavandall aspettava in salone, e dimandava con istanza di essere ricevuto per un momento.
Vitaliana non sembrò stupita di quella visita premurosa.
Maria rotolò i capelli della duchessa in una reticella di chenille amaranto, l'avvolse in una saute-du-lit di cashmire bianco, soppannata di raso cilestre, ed andò a pregare il principe di passar nel boudoir.
Il principe di Lavandall non era certo l'uomo a mancare il quarto d'ora che, in tutte le situazioni della vita, danno la vittoria.
Egli aveva osservato Vitaliana la notte precedente ed aveva constatato che una rivoluzione radicale, completa, si era operata in lei.
La duchessa e la donna non erano più le stesse. L'orgoglio aveva parlato; la natura si era svegliata. L'inviluppo che proteggeva ancora la giovane donna e la teneva in istato di fanciulla, s'era squarciato. La farfalla pigliava vento.
Il principe aveva constatato, all'ultima parola che era sfuggita dal seno della duchessa—malgrado lei—quel grido della vita che nasce! Il dramma occulto, cui ogni donna porta nel cuore, arrivava al suo snodamento nel cuore di Vitaliana.
L'era dunque l'ora in cui tutte le porte dell'anima sono aperte. Era l'ora in cui i giovani desiderii provano le loro ali. Era l'ora in cui si ascolta tutto; si comprende tutto; in cui si è generosi. Gli era quindi il momento di portar su la piazza di assalto.
—Vi supplico, madama, di volermi perdonare se mi presento ancora a voi, e se ò insistito per avere l'onore di parlarvi. Gli è che la cosa è di una estrema gravezza. Degnate leggere questo dispaccio.
Era il dispaccio del principe di Tebe, cui aveva letto agli ambasciadori di Prussia e d'Inghilterra, salvo l'ultima frase.
Vitaliana lesse:
«Parto questa notte. Fra quindici giorni re Taddeo IX sarà morto—ciò è infallibile.—E la successione al suo trono si apre. Io non tradirò il mio destino. Fate di ottenere ad ogni costo le carte del duca di Balbek.» ecc., ecc.
—Principe, io non comprendo nulla a codesto, tranne che un re muore oggi o domani, e che il duca di Balbek à delle carte. Di carte ne à tante!
—Io vi spiego tutto di una frase, madama. Il re Taddeo muore domani, a giorno fisso! La sua successione sarà disputata, perchè la legittimità del suo successore è contestata. La regina Bianca passa per adultera: perocchè si è in misura di provare che re Taddeo non poteva essere il padre del figlio della regina. Ora, e' pare che il duca di Balbek abbia dei documenti che possono decidere la quistione. Il principe di Tebe li desidera. La regina Bianca debbe desiderargli egualmente. Vengo di apprendere che vostro marito li traffica. Egli si appresta a far getto dell'onore di una donna e di una regina; a mettere il fuoco della guerra civile in un regno, se non gli sborsa la somma enorme cui dimanda di quelle carte.
—Ciò è infame, infame!—gridò Vitaliana, alzandosi.
—Sì, madama, l'è orribile, infatti—riprese il principe. Bisogna dunque impedire questo delitto, madama. Noi non sappiamo se la regina Bianca è colpevole o no. Ma ella è donna, ella è madre: e ciò basta. Bisogna proteggere il suo onore. Signora duchessa, voi siete pure donna e madre.
—Che posso io fare, principe? Io sono pronta a tutto.
—Dei documenti come quelli cui possiede il duca di Balbek—continuò il principe—non possono restare fra le mani di un particolare, soprattutto nelle sue. Perchè, madama, bisogna che voi sappiate tutto. Si assicura che il duca fu il complice di quella regina, cui medita di disonorare adesso; che quel figliuolo contestato è il suo; e che la di lui ambascieria qui è il prezzo di quella complicità. Capite voi, madama, un uomo che consegna la donna che si diede a lui e che lo rese padre? Capite voi, madama, un uomo che, per una somma di danaro, mercanteggia l'onore della donna che l'amò ed il destino del figliuolo che la gli diede?
—Dite, principe, dite: che bisogna fare?—gridò Vitaliana, ora pallida, ora rossa.
—Ebbene, duchessa, quelle carte non possono essere in sicurtà che in mani reali. Io vi lascio la dichiarazione di vostro marito contro quelle carte, cui manderò all'imperatore. Lo czar Nicola, padre e cavaliere, sovrano prudente e giusto, saprà meglio di chicchessia che uso farne, e che valore esse abbiano.
—Io comprendo tutto—disse Vitaliana dopo un momento di riflessione—forse anco la catastrofe che mi avvolge. Dovessi io mettere il fuoco al palazzo, voi avrete, principe, i documenti che chiedete. Ma bisogna che io li trovi io stessa—e vi sono tanti cartoni e filze nella cancelleria e nel gabinetto del duca…
—Madama, delle carte come quelle lì non si lasciano esposte nella segreteria e neppure nel gabinetto. Quelle carte sono personali del duca. Esse non possono dunque rinvenirsi che fra le sue carte particolari. Rovistate là dove egli conserva ciò che à di più caro e prezioso. Io fo voto che sia tempo ancora onde risparmiare un disastro ad una nazione, il vitupero ad una donna, la degradazione ad una regina, e l'infamia alla vostra famiglia, duchessa. Ve l'ò detto: documenti per documenti. Potrò allora scrivere all'imperatore: ò barattato questo per quelle… e mi farò perdonare.
—Comincerò le ricerche oggi stesso, principe, e spero che Dio avrà pietà di me. Che ò fatto io per essere messa a queste prove!—gridò Vitaliana, mentre le lagrime nuotavanle negli occhi.
—Addio, duchessa—disse Lavandall, alzandosi.—Io sono ai vostri ordini.
La coppa travasava.
Vitaliana restò un'ora immersa nell'annientamento. Un sospetto aveva sfiorato il suo spirito sulle intenzioni del principe di Lavandall. Ma ella aveva creduto tutto ciò che colui aveva detto contro suo marito.
Si crede anche l'impossibile, anche l'assurdo delle persone che si amano, disprezzano od odiano.
Da tutto quel riflettere pertanto risultava questo: carte per carte! Ora, quelle carte salvavano l'onore di due fanciulli. La madre poteva essere colpevole; il padre poteva essere infame. Dove era la colpa del figliuolo di Bianca e del suo proprio figliuolo? Figlio di un ladro! Oh! una madre metterebbe il fuoco al paradiso per cancellar questa vergogna, impedirla.
Dimandò a vestirsi.
Due ore dopo, il suo lacchè suonava alla porta del conte di Alleux.
Adriano sapeva di già tutto.
Maria lo teneva al corrente, da un anno in qua, di tutto ciò che concerneva la sua padrona.
—Annunziate al signor conte sua cugina, la signora duchessa di Balbek—disse il lacchè al domestico di Adriano.
Vitaliana entrò e si trovò in un largo corridoio, ove si aprivano quattro porte e cominciava la scala che guidava al piano superiore.
Il domestico, interdetto, non sapeva ove introdurre Vitaliana.
Questa, non volendo aspettare in un corridoio, e vedendo da una porta socchiusa alla sua destra, qualche cosa come un salone, vi si cacciò dentro di un tratto.
Era infatti il salone, in cui Adriano aveva fatto l' atelier dei suoi talenti vari. Imperciocchè vi si vedevano accoccate al muro delle panoplie di armi, dei quadri e del briccioli di statue; sur una piccola scrivania dei versi incompiuti, dei libri sfogliati qua e là, e dei giornali; sopra due cavalletti due poveri schizzi di paesaggio; e sur un bel pianoforte a coda, della musica di Mozart.
Vitaliana abbracciò tutto codesto di un solo sguardo, e l'odore del tabacco le denunzò in qualche parte delle pipe cui la non vedeva.
Il divano, anch'esso, era occupato da un altro oggetto delle numerose capacità di suo cugino—cui Vitaliana non avrebbe mai sospettato in casa di un ex-apprendista all'episcopato!
Sul divano si allungava una bella creatura, in veste da camera, come in sua propria casa, coricata sul dorso. I piedi un po' in aria, ed una sigaretta alla bocca—contemplante con estasi i piccoli nugoli bianchi che ella inviava al cielo come baci della sua bocca rosea.
Al fruscio della veste di Vitaliana, l'odalisca del luogo volse gli occhi, e gli sguardi stupefatti di Vitaliana e di Morella s'incrociarono.
Si riconobbero.
La percossa fu immediata, diretta, a bruciapelo.
Vitaliana restò come immobile, gli occhi devaricati. Morella saltò in piedi.
Ella aveva visto Vitaliana nella carrozza di suo marito, al Bois de Boulogne.
Vitaliana aveva riportato nei suoi occhi l'immagine dei soggetti della festa della notte precedente.
—Or be'!—sclamò Morella, facendosi innanzi, mentre che la duchessa rinculava dolcemente verso la porta.
—Scusi—interruppe Vitaliana. Credevo essere in casa del conte di Alleux.
—Il conte d'Alleux à un'appendice che non ammette intrusioni, madama la duchessa. Che voi venghiate in casa mia, la notte, a reclamar vostro marito, io ve ne so grado. Voi mi affrancate. Ma che vanghiate a farmi concorrenza qui… alto là!
—Madama, andate ad annunziare al conte di Alleux la duchessa di Balbek, sua cugina—disse Vitaliana, fermandosi, di un tono pulito e glaciale.
—Codesta taccola è vecchiottella, madama. Se n'è tanto fatto abuso nei romanzi e nelle commedie! D'altronde, voi siete tutti cugini nel Faubourg.
—Madama, io attendo da cinque minuti, e non ò il tempo di aspettare. Vogliate chiamar mio cugino: ò bisogno di parlargli ed a lui solo!
—Volete che vi accompagni nel suo appartamento, di su, madama la duchessa? Starete colà più confortevolmente. Vi troverete perfino una delle mie saute-du-lit.
Vitaliana, a questa proposizione, divenne pallida e rossa nel tempo stesso. Si sentiva soffocare. Era stata vilipesa come dama, gualcita come donna. Ella volse di botto le spalla a Morella, e si allontanò.
Al punto stesso, Adriano entrò e si trovò viso a viso con le due donne.
Di un colpo d'occhio si accorse che una scena veniva di aver luogo. La sua apparizione subita l'aveva interrotta, ma la bruciava ancora nelle pupille scintillanti di Morella, negli occhi velati di Vitaliana.
Egli portava lo snodamento.
La posizione di Adriano era perigliosa.
La presenza di sua cugina in casa sua, dopo la dichiarazione senza equivoco del suo amore, cui le aveva deposta sulle labbra, indicava ch'egli era forse più complice che colpevole. In ogni caso, la speranza intonava nel suo cuore un inno di trionfo.
La presenza di Morella, in quell'addobbo famigliare, poteva uccidere questa speranza gloriosa, provando a Vitaliana che il suo amore non era, almeno, uno di quelli che si desolano.
La gelosia di Morella poteva ruinar tutto. La gelosia di Vitaliana, se lo amava un sinsino, poteva tutto salvare.
E' doveva ad ogni modo scegliere e sacrificare una di quelle due donne, per il momento.
Ma le donne come Morella ànno la vita dura e sono armate da capo a piedi! Le donne come Vitaliana perdonano raramente ciò che esse chiamano un simile oltraggio!
—Adriano—gridò Morella, ringhiando. Tu dovevi per lo meno dirmi che ricevevi delle duchesse! Avrei fatto un tocchino di toilette.
—Signora—rispose Adriano di un tono calmo, freddo, ma severo—la duchessa è mia cugina, ed è la prima volta che mi fa l'onore di mettere il piede qui. Ella à probabilmente una ragione straordinariamente grave di parlarmi. Noi dobbiamo esser soli.
In questo mentre, Vitaliana si era ritirata in disparte, e guardava l'abbozzo di una capra sur un cavalletto.
—Tu mi scacci dunque?—gridò Morella impallidendo.
—Vi riconduco, signora—riprese Adriano. Dappoichè la mia casa è stata santificata da quella nobile donna, alcun'altra non vi metterà più il piede oggimai. Ve lo prometto.
—Adriano!—sclamò Morella di una voce soffocata. Io non sono mica in vena di centellar madrigali. Codesta facezia mi disgrada. Mi avevan gittato sotto i piedi il marito di quella donna, senza che io me l'avessi cercato. Ella lo à ripescato. Mille grazie. Che se ne vada. Qui, tu lo sai, non vi è posto per gli angeli. Io ti amo. Ti amo per me, per conto mio. Non ti detti mai un lecco di motivo per lamentarti. Tu sei stato la gioia che à addolcito per un anno il mio dovere o la mia fatalità… Non si manda a bricioli in un istante codesto, senza ragione, solo perchè piace ad una duchessa venire da te. Le duchesse non vanno, d'usanza, in casa dei giovanotti. I cugini non sono così galanti verso cugine cui non amano. Io resto. Io mi difenderò.
—Vogliate perdonarmi, Vitaliana, questo incontro disgraziato. Poteva io prevedere…?
Vitaliana fece un movimento di disgusto e si diresse verso la porta. Adriano le si parò dinanzi e soggiunse:
—Ve ne supplico in nome di mia madre: restate. Io conosco già la ragione che vi conduce qui. Io sono il vostro solo parente, il vostro solo appoggio. Non verrò meno al vostro appello. Se quella donna non ci lascia soli, io suono…
—Come?—gridò Morella.
—Signora—sclamò Adriano—rispettate almeno le ruine cui avete cagionate. Partite.
—Me ne vado—rispose Morella di una voce sorda. Ma ripetimi che tu mi ami, come mel dicevi testè ancora; dimmelo innanzi a quella donna, alla quale, se tu non sei che cugino, non debbe guari importare che tu mi ami e che io ti ami. Io sono gelosa. So che quella donna è virtuosa. Ma io non ò paura che della virtù, io. Il vizio mi rispetta. La virtù è audace, intraprendente, e scava degli abissi alla cheta. La tua cugina è bella, ma ella non ti ama come ti amo io. Ella à dei riguardi a conservare, delle convenienze a rispettare; ella à l'ignoranza del candore. Io ò aperte tutte le mie cateratte; ti amo come una lupa, e non cederò che quando tutta Parigi sarà contro di me, per ella e per te. Salta al mio collo; di', dimmi che mi ami. Io sono ancora bella: guarda! Non ò che ventidue anni; non avrò oggimai che te solo… Ma parla, parla dunque, ma dimmi….
E Morella apriva le sue braccia, e voleva gittarsi al collo dei giovane conte.
Vitaliana si coverse il viso delle mani. Chi sa? Ella tremava d'esser vista!—di esser vinta!
Adriano indietreggiò, e, senza dir motto, indicò la porta a Morella.
—Tu mi cacci via, dunque? tu mi cacci davvero?—gridò Morella.
—Addio, signora—rispose Adriano, aprendo la porta.
—Una parola ancora—sclamò Morella, appiccandosi al braccio di Adriano. Tu non ignori che io so conservare un secreto. Dimmi che tu l'ami. Io so che agli occhi di certi uomini l'amore, nella donna, è una incompatibilità radicale. Bisogna che una donna vi divori il cuore par segnarvi la sua impronta. Io ti ò fatto lastrico del mio cuore. Mi sono precipitata sopra di te tutta intera, anima e corpo, senza riserbo, senza domani… Non ò più nulla a darti, nulla ad apprenderti… Di', confessa che tu l'ami, ed io parto. Saprò che ò naufragato come le altre, e mi rassegnerò. Ciò consola talvolta. Non si visitano le tombe per addolcire il dolore della morte? Io non mi getterò mica a traverso di quell'amore. Gli è un goffo modo quello d'incocciarsi innanzi ad un cuore agghiacciato. Io cedo; ma voglio sapere il vero. Tu me lo devi. Tu non mi ài poi comprata, per crederti così in diritto d'agir verso di me come verso di una ganza qualunque. Il mio amore mi à innalzata fino a te, al tuo livello, alla tua taglia. Parla dunque; confessa: Ami tu quella donna?
—Ebbene, sì, da dieci anni—gridò Adriano con collera. Poichè gli è mestieri mandarti via per questa parola, io la pronunzio.
Morella non rispose più verbo. Ella si raddrizzò, e la sua statura parve ingrandita. Ella trascinò il suo sguardo dall'uomo alla donna e dalla donna all'uomo; fece un gesto per ordinare al conte di sgomberarle il passo, ed uscì, la testa alta, lentamente, fiera come regina.
Adriano si sentì meschino.
Vitaliana, alla confessione dell'amore di suo cugino, era caduta accasciata sopra un tabouret.
Essi restarono in quell'attitudine, ed in silenzio, per cinque minuti. Poi, Vitaliana, rialzandosi, come spinta da una molla, gridò:
—Usciamo di qui.
Adriano la condusse nella sala di rimpetto, che era la sala da pranzo, le offerse una sedia vicina al caminetto, e restò in piedi.
—La disgrazia si è abbattuta sopra di me—disse infine Vitaliana. Voi siete il solo membro superstite di mia famiglia. Benchè imperdonabili siano i torti che vi abbiate verso di me, vengo a consultarvi.
—Io so tutto di già—rispose Adriano umilmente.
—Voi non potete saper tutto. Perocchè vi è, inoltre, la premeditazione di un delitto cui vengo di apprendere non sono appena due ore.
—E quale?
—Il signor di Balbek à delle carte che riguardano la successione del re Taddeo IX, il quale muore dimani. Egli à sotto la mira la regina Bianca, con quella carte, e le dice: la borsa o l'onore! Capite voi?
—Ma! e' bisogna impedire codesto infame mercato—gridò Adriano.
—E come? Mi si offre bene di restituirmi la dichiarazione abbominevole che egli scrisse in casa del principe di Lavandall.
—Quale dichiarazione?—domandò Adriano?
—Allora non sapete proprio nulla!—sclamò Vitaliana.
E gli raccontò la scena del giuoco.
Quindi continuò:
—Ora mi si dice: carte per carte! Ma dove sono le carte del duca di Balbek? Ecco la cosa.
—Nonpertanto bisogna bene ch'esse esistano in qualche sito, dappoichè esistono sì bene ch'egli vuol venderle.
—Sì, esistono, ed io sospetto perfino dove esse siano.
—Ma allora…
—Non ne sono mica sicura, però.
—Insomma?
—Ascolta. Gli era nei primi giorni dei nostri sponsali. Un mattino, io entrai nella sua camera mentre egli si fregiava delle sue decorazioni per andare ad assistere a non so qual matrimonio o cerimonia alle Tuileries. Il piccolo mobile in ebano, incrostato in oro, che è al suo capezzale, era aperto. Mi avvicinai e scorsi, sotto un compartimento semi-aperto, un quadrante in ismalto, ove sono segnate tutte le lettere dell'alfabeto. Andavo a toccarlo, quando il duca si precipitò su di me e mi allontanò con terrore. Io domandai, naturalmente, la ragione di quella grande paura. Allora, egli prese il suo bastone, e dalla borchia toccò una lettera nel quadrante. All'istante, una mezza dozzina di lame d'acciaio, acute come aghi, fine come corde di piano, sprizzarono dal quadrante ed aggraffarono il bastone con una forza da trapassarlo.—Tu vedi!—mi diss'egli. Quei serpentelli avrebbero morsicato al tuo braccio e ti avrebbero inchiodata lì.—Ma allora e' debbe esservi un segreto di dentro—sclamai io.—Sì—rispose egli, toccando un punto che fece rientrare immediatamente le sei lingue di vipera che avevano ghermito il bastone.—Quel quadrante è una toppa. Per aprirla, bisogna toccare le lettere che formano un nome.—Quale? domandai io.—Quello di Bianca—rispose egli esitando. Io mi accostai allo stipetto, toccai le lettere che componevano il nome, ed una tavoletta rientrò, lasciando in vista un tiratoio. Il duca conservava quivi i suoi crachats, i suoi gioielli, i suoi danari, delle cedole di Banca. Un sacchetto in velluto violetto attirò i miei sguardi. Lo presi. Egli me lo strappò di mano, dicendo:—Sono quivi delle carte di mia madre. E lo rigettò nello stipetto, cui chiuse affatto. Ora, quelle carte di sua madre non sarebbero desse quelle piuttosto di cui egli ora traffica?
—Gli è evidente.
—Ma il mobile, oltre la toppa a segreto, à una chiave che lo chiude di fuori. Io non ò quella chiave, cui il duca porta sempre nelle sue tasche.
Adriano riflette qualche poco, poi disse:
—Vitaliana, io veggo in tutto codesto un viluppo di fatti, di circostanze, di voglie, di non so che, insomma, cui non afferro bene. Egli è impossibile di pigliare una risoluzione istantanea. Bisogna considerare le cose ponderatamente. Il duca è infame e capace di tutto. Ma gli altri non valgono guari meglio. Vi è forse qui dei gonzi e dei gabbatori. I colpevoli sono forse delle vittime. Calma, dunque. Lascia che io mi trovi in mezzo a questo garbuglio di dubbi. Lasciami scandagliare questo abisso, ove non vedo chiaro, per il momento, che una sola naufraga: voi, duchessa; te, Vitaliana.
Adriano provò di pigliar la mano di sua cugina. Ella la ritirò vivamente e si alzò.
—Allora—diss'ella—che pensate voi? Che occorre fare?
—Lasciatemi riflettere, questa notte…
Le labbra di Vitaliana si crisparono. Adriano, che se ne avvide, non distinse se fosse un sorriso o uno spasimo.
La notte!
Che di cose la notte non doveva dessa rammentare a questa donna, sia ch'ella fosse amorosa o gelosa, sia che l'avesse semplicemente osservato la bellezza di Morella e la sua intimità con suo cugino!!
Questi riprese:
—Mi permettete voi, madama, di presentarmi in casa vostra, domani?
Vitaliana riflettè, poi disse:
—Al postutto! perchè io sono venuta qui?
—Grazie!—gridò Adriano raggiante. Io vi porterò domani il resultato delle mie riflessioni, un piano di condotta fermo, e… il mio pentimento, se…
Vitaliana squadrò suo cugino di uno sguardo freddo, severo, disdegnoso, e disse:
—Fate chiamare la mia gente.
—Vitaliana…—sclamò Adriano, cadendo in ginocchio.
—Conte d'Alleux, siete aspettato lì su—osservò la duchessa, ed uscì.
Il suo lacchè l'attendeva nel corridoio.
XV.
Una spiega che finisce in una dichiarazione di guerra.
Adriano si presentò in casa di sua cugina alle otto del mattino.
E' non ignorava punto che l'ora era indebita, e che Vitaliana non poteva riceverlo immediatamente. Ma egli sapeva che la duchessa lo avrebbe pregato di aspettare, e che il signor di Balbek aveva passata la notte a voltolarsi ai piedi di Morella, che lo scacciava. Ora gli era codesto appunto cui Adriano desiderava. Laonde rispose a Maria:
—Ma, attenderò tanto che ella vorrà! Non si solleciti ad alzarsi ed a vestirsi. In tutto rigore, d'altronde, posso ritornare fra una coppia di ore.
—Mille scuse. Madama prega il signor conte di aspettare. Ella sarà pronta in mezz'ora. Era di già sveglia—se tuttavia ella dormì. Perocchè madama, adesso, non dorme più!
—Sta bene. Resto. Ma non nel salone, ove si potrebbe stupirsi di vedermi di così mattino. Passo dal duca.
—Il duca non è rientrato.
—Attenderò, in ogni modo, nella sua camera, ove posso leggere i giornali e fumare.
—Per lo appunto, signore—rispose Maria.
E precedè il conte alla camera da letto del duca.
Tob gli portò i giornali.
Adriano non vide in quella camera che il piccolo mobile cui gli aveva indicato Vitaliana.
Accese un sigaro, aprì il Debats, e, in leggendo e fumando, cominciò a passeggiare.
Si fermava di tratto in tratto per udire i rumori che giungevano fino a lui.
Qualche minuto scorse.
Adriano si accostò allora allo stipetto e ne considerò la toppa esterna. Si cacciò poscia le mani in tasca e ne cavò fuori due o tre mazzi di chiavi, di ogni sorta, cui aveva imprestato dal suo magnano. Ne scelse una e la provò nel buco della toppa.
Il buco era troppo piccolo.
Ne prese un'altra, poi una terza, poi una quarta. La quinta infine girò, ed il coverchio del mobile si aperse.
Il cuore di Adriano battè con violenza.
Ascoltò di nuovo gli strepiti della casa.
Nulla di allarmante!
Scartò allora la tavoletta che copriva il quadrante, e vide le lettere azzurre sullo smalto bianco sorridere alla sua bramosia. Toccò le lettere, componendo il nome di Bianca.
Lo stipetto si aprì, e mostrò il taccuino di velluto violetto.
La mano di Adriano trema. Lo prende. Ascolta ancora. L'apre. Ascolta novellamente… Ecco le carte! Ne spiega una… e gitta un grosso sospiro.
Alla prima parola, indovina che à i documenti tanto desiderati!
Si caccia il taccuino in tasca. Chiude la tavoletta del quadrante. Aggiusta quello che lo nasconde. Chiude il coverchio del mobile… e pallido, pallidissimo, va a ricadere sur un seggiolone, abbrividito, affranto, gli occhi stravolti.
Aveva rubato—e lo sapeva!
Tutta questa scena si era compiuta in tre minuti.
Adriano pensava che l'avesse durato un'ora.
Restò assiso lì per qualche istante.
La vista di quella camera però lo turbava. Tutto gli rimproverava il suo delitto. Gli sembrava che il piccolo mobile lo guardasse corrucciato, come una vergine insultata, e gli gridasse: ladro! ladro!
Adriano non resse più, e se ne fuggì nel boudoir, poi nella stufa di Vitaliana.
Respirò!
Nevicava di fuori. Faceva scuro, scuro. Il rovaio fischiava agitando vivamente le nervature di ferro della stufa.
Di dentro, gli uccelli-mosca svolazzavano; le farfalle multicolori zonzavano; i fiori dei tropici sbocciavano: ma si poteva leggere nel loro aspetto il bruno che portavano ad un sole per tanto tempo assente.
Adriano si sentì rinfrancato.
Alla fin fine, che aveva egli fatto?
Aveva sottratto dei documenti al duca di Balbek. Ma quell'atto indegno aveva uno scopo che era santo.
La morale astratta è assurda!
In mezzo alla gente che si aggirava intorno a Vitaliana, non uno sembrava puro al conte di Alleux.
Egli indovinava ciò che non sapeva. Sospettava di quelle cortigiane, di quegli ambasciadori, di quei re, di quella regina, di quel principe reale, di quei valletti, di quella plebe diplomatica ed aristocratica… egli li sospettava tutti più o meno punticci e scapitati!
Una sola creatura rimaneva ancora immacolata su quel letamaio: Vitaliana. E le si dimandava di rubare le carte segrete di suo marito, e di consegnarle ai suoi nemici!
Ella si apparecchiava a commettere quell'atto abbominevole per salvar l'onore di suo figlio, innanzi tutto; poi quello di una regina; poi la corona di un figliuolo adulterino; poi un popolo dalla guerra civile; poi il nome di suo marito—esso stesso, ed il nome cui ella portava. Ciò era grave. Ciò tentava quel nobile cuore. Ma il suo atto sarebbe desso stato meno un furto per questo?
Ecco la cosa.
Il furto macchierebbe desso quell'anima?
Ecco la quistione.
Adriano ebbe pietà di lei.
—Ella! È mestieri ch'ella arrivi pura nelle mie braccia—si disse egli. L'amore purifica sempre, quando è disinteressato di ogni altro obietto che l'amore stesso. L'amore non macchia giammai. Nelle mie braccia ella non sarà contaminata. Ma se dessa ruba?… Non mai. Se codesta necessità è inesorabile… ebbene io la assumerò. Ma quella colomba? No: io le risparmierò questa contaminazione.
Ed Adriano rubò le carte.
Il fatto gli pesava… Era inevitabile!
Non si commettono però simili intraprese col cuore calmo e gaio. La ragione pertanto zittiva l'istinto.
Infine, per distrarlo, Vitaliana sopraggiunse.
Ella lo condusse, senza dir motto, dritto dritto nella camera di suo marito, e gli mostrò lo stipetto di ebano ed oro.
Adriano osservò, non senza balbutire, che il mobile era chiuso, che bisognava una chiave… E, tirandosi di tasca un po' di cera, modellò il buco della toppa, e ricondusse sua cugina nel boudoir.
—O' ben meditato—disse egli.—Tutto codesto è losco, e bisogna procedere lentamente. Andrò a vedere il principe di Lavandall in nome tuo, come tuo cugino, e cercherò di tirare questo affare in chiaro. Calmati. Riposa sopra di me. Il tuo onore e la tua felicità sono miei. Proverò di aggiustar tutto senza troppe infamie. E se, in ultimo, sarà assolutamente d'uopo di consegnar quelle carte maledette per quell'altra satanica carta, io avrò una chiave domani, le prenderò e compierò il baratto. Ma per l'amore di Dio, Vitaliana, per l'amore di tuo figlio, non intrigarti più in questo brago. Lascia che mi vi tuffi io, e mi vi sprofondi; ma tu… resta pura!
Vitaliana sembrava tôcca ed andava a rispondere, quando Maria venne a dimandare se madama poteva ricevere il duca, che aveva a parlarle.
Vitaliana interrogò degli occhi suo cugino—il quale, per tutta risposta, si alzò ed uscì.
Non era stato difficile al duca di Balbek di apprendere il nome del mago che lo aveva fatto svegliare in casa del conte di Alleux, quando si rammentava con delizia su qual guanciale si era addormentato. Gli bastò interrogare Lisa, la cameriera di Morella, la quale, descrivendogli le due persone che erano venute a cercarlo, ed il colore della livrea dei domestici, gli rivelava e spiegava tutto.
Egli non sospettava però punto che sua moglie sapesse altro che quello.
E' non si dissimulava la gravezza di questo fatto agli occhi della duchessa; ma aveva la confidenza di farselo perdonare. Laonde si presentava a lei di un'aria non punto accasciata.
Egli abbordò anzi le spiegazioni di un tono così alto, che la duchessa, negligentemente stesa sul suo canapè, e facendo vista di baloccare colle nappe della cordelliera della sua veste da camera, aggrottò le sopracciglia.
—Madama, non ò d'uopo di annunziarvi di che io mi venga a parlarvi. Se ò procrastinato di un giorno questo colloquio, gli è che ò voluto lasciarvi il tempo di riflettere. Domando risposte categoriche.
—Vi ò abituato a darvene d'altre, signore?—rispose Vitaliana.
—No: ne convengo. Fino a ieri non ebbi mai un sol rimprovero ad indirizzarvi. Voi avete rispettato il nome che portate…
—Quello di mio padre, signore—l'interruppe Vitaliana.
—Anch'esso. Questo doppio rispetto avrebbe dunque dovuto imporvi una condotta più riserbata, ed insegnarvi che la gelosia, essa stessa—la quale è una follia—à dei limiti.
—La gelosia?—obbiettò Vitaliana.
—Io non saprei nè riconoscere nè ammettere altro movente. Ma la gravità della cosa è forse meno nell'atto esso stesso, che nel luogo, nell'ora e nel compagno che sceglieste per compierlo. Esigo dei dettagli precisi su tutto codesto, madama.
— Su tutto codesto … che cosa, signore? Perocchè, e' mi sembra, che voi favelliate da un quarto d'ora, senza mettere il soggetto della conversazione.
Il duca, che fin qui era restato in piedi, si assise e disse:
—Voi mi sembrate disposta alla bernìa, signora… ed io nol sono punto. Vi domando, allora, innanzi tutto, che specie di relazioni coltivate voi col principe di Lavandall?
—Sareste voi disposto a credere, per avventura, ch'egli sia mio amante?
—Io non mi spingo fin là. Ma io penso che se n'è ben vicino, quando una donna ed un uomo si lasciano andar di conserto alle scappate che intraprendeste la notte scorsa.
—Vi sono delle distanze—anche della spessezza di un solo capello—che sono un abisso—replicò Vitaliana con disdegno. Io conosceva il principe di Lavandall molto prima di conoscervi: la principessa è una amica di mia madre e la mia.
—Ciò non dice nulla. Io vi domando questo: Chi vi à detto ove io mi era? Come, e perchè il principe di Lavandall si trovava desso con voi?
—Non rispondo alla prima questione. Rispondo alla seconda; che ò fatto pregare io il principe di accompagnarmi. Avreste voi preferito che andassi tutta sola?
—Sarebbe meglio valso che non foste venuta del tutto. Vi sono dei luoghi ove le donne debbono a sè stesse di non mettere il piede. Se io mi avessi saputo come la serata doveva terminare, non avrei accettato l'invito dell'ambasciadore di Turchia.
—Gli è dunque quel pagano che vi à indotto in peccato, eh? Avrei dovuto sospettarlo. Voi eravate dunque presso di lui?
—Eravamo nel suo presso di lui extra-officiale.
—Davvero, signore? Quella Morella, la quale, fra parentesi, è la ganza del conte di Alleux…
—Cosa dite voi, signora?—gridò il duca in sussulto.
—Io l'ò incontrata in casa di lui, in veste da camera, nel suo studio, ieri, andando ad informarmi se vi eravate rimesso dell'… emozioni della notte precedente.
Il duca non rispose più. I suoi occhi fiammeggiavano.
—Quella Morella—riprese Vitaliana facendo mostra di non avvedersi di nulla—è dunque la ganza di quel Turco?
—Sì—urlò il duca.
—Guardate mo' come Parigi è cattiva! Si dice, signore, che voi incontraste quella donna in un bazar, cui si addimanda un ballo in casa di madama Thibault o Thibald… io non so chi; che voi avete comprata quella donna—la quale à abbandonato per voi il conte di Linsac che la pagava male; che avete messo al Monte di Pietà le mie gioie—gioie che mi venivano in grande parte da mia madre; e che avete contratto per 200 mila franchi di debiti.
—Mentono!—gridò il duca, impallidendo.
—Mente, chi? O' fatto verificare che i miei diamanti non sono, nè furono mai da Fromant Meurice. O' fatto constatare che sono al Monte di Pietà. Volete i numeri delle cartelle?
—O' avuto bisogno di danari per delle spese straordinarie cui ò avanzato al mio governo. Ma io non mi so render conto, madama, dell'inquisizione audace che avete intrapresa sulla mia condotta. Quale è il vostro scopo?
—Lo scopo? Ve' mo'… gli è vero! io non ci aveva pensato. Ebbene, se ne volete pur uno, eccolo: la curiosità. Eravate sì bello nel vostro costume di console romano!
—Madama, vi ripeto che l'era una giovialità imprevista. Rappresentavamo una charade in azione. Poi, quel monello di pascià ci aveva fatto fumare dello hatchich, per dare una festa alla foggia del suo harem… che so io? Il marchese delle Antilles ed io ci siamo trovati impegolati in quella mascherata. Ma il mio torto—se n'ò uno—non spiega il vostro, e voi girate attorno alle mie domande senza rispondere.
—Lasciatemi far codesto giro, signore; non mi addossate ad una risposta di due parole cui potrei gittarvi alla faccia…
—Voi mi fate trasecolare, madama! Io trovo in bocca vostra una lingua che è tutta una rivelazione. Una donna senza macchia non favella così. Sono quindi forzato d'insistere—non fosse altro che per cessar di dubitare.
—Ebbene, signore, la mia risposta è questa qui: voi mentite.
—Come! Voi osate…
—Morella è la vostra ganza. L'è dessa che à data la festa, ove sono intervenuti gli altri due per divertirvi. Non è nè ad una charade nè ad una mascherata cui voi partecipavate, ma ad un'orgia. Non era di hatchich che voi eravate ubbriaco, nè lo hatchich che vi aveva messo in quello stato di annientamento, ma…
Vitaliana si coprì delle due mani la faccia, divenuta di un tratto infiammata.
—Basta!—gridò il duca. Vi ànno pervertita. L'è un'immaginazione disordinata che erutta tutte quelle immonde supposizioni… Ed il mio cuore sanguina, che voi travestiate di una maniera sì inqualificabile un'imprudenza cui io non scuso. Non si domanda ad una festa turca il non mi toccare di educandelle del Sacré-Coeur. La gelosia vi fuorvia. Alcuno non m'insegnerà ciò ch'io mi debba…
—E ciò che mi dovete, e ciò che voi dovete a vostro figlio, signore.
—Io non ammetto la lezione, madama. Ciò che vi compromette, ciò che compromette il nome del vostro figliuolo sono le vostre scappate, di notte, col principe, in una casa dove l'uno non era invitato e dove l'altra avrebbe dovuto astenersi di entrare. Ora, io debbo vegliare al mio onore, madama. Il mondo è indulgente per le colpe degli uomini; implacabile per quelle delle donne.
—Quali sono le colpe che il mondo vi permette, signore? Tradir la consorte, darsi una sgualdrina, far dei debiti, giocare, dar i gioielli di sua moglie ad una cortigiana… e poi ancora?
—Ebbene, per Dio! tutti fan dei debiti, giocano, ingannano le mogli, si accordano più o meno un'amante. Avete voi veduto mai vituperare un uomo per codesto? Supponete che io mi abbia fatto come gli altri; che io abbia morsicato al frutto proibito; che una donna mi abbia stregato e mi abbia fatto commettere qualche storditezza; supponete ciò… Era codesta una ragione per farvi correr Parigi, e cacciarvi in casa di una donna leggiera, la notte, in compagnia di uno straniero che à fama di corruttore di donne? Ecco, ecco, madama, ove è la colpa vera e la gravezza, cui io mi risolverò con pena ad obliare.
Vitaliana saltò dal suo canapè, gli occhi quasi stralunati, il viso rosso, i lineamenti contratti. La sua voce, tutte le sue membra tremavano.
Il duca indietreggiò di un passo.
—Ah!—balbutì Vitaliana—ecco la colpa, dite voi? ecco la colpa cui voi non perdonerete che esitando! Ebbene, sappiate che v'ànno altre colpe—dei delitti anzi, cui io non perdonerò giammai—ed io vo' ad apprenderveli perchè la vostra imprudenza mi riduce allo stremo.
—Madama, madama…
—Voi siete un ladro, signore. Voi avete rubato 60 mila franchi alle carte, in casa del principe di Lavandall, ed io vi ò visto, dei miei proprii occhi visto. Voi siete un vigliacco, signore, un vigliacco! Vi ànno proposto di bruciarvi le cervella nel giardino, e voi avete rifiutato…
—Vitaliana!… gridò Balbek interrompendo.
—Voi siete autore della vostra indegnità con premeditazione—continuò Vitaliana—perchè voi avete scritto e firmato una dichiarazione di ladro, cui io ò letta. Ma, al disopra di tutto ciò, signore, voi siete infame, perchè vi proponete di trafficare di non so quali documenti, che si riferiscono ad una successione reale, minacciando di contaminare una regina che forse è vostra complice; di ruinare un fanciullo che forse è vostro figlio; di gettare una nazione nella guerra civile—se non vi affogano di oro! Ecco chi voi siete, signore, ciò che voi volete, ed i delitti cui nè il mondo, nè io vi perdoneremo giammai. Se mio padre fosse vivo, egli vi avrebbe fatto saltare quel cervello cui tenete tanto. Che posso io, io? Pregare che non si disonori un nome, cui mio figlio ed io portiamo; proporre una transazione. Ove sono codeste carte, signore? Ci si dice: onore per onore, carte per carte… Ove sono desse? Voi volete farne quattrini, e lasciare il nome di vostro figlio infamato!
Il duca era caduto coma fulminato.
Trovando sua moglie così ben ragguagliata sopra tutti i suoi atti, egli intravide una correlazione, che traversò il suo spirito come un baleno. E' si sapeva infame; cominciava a sospettare s'egli non fosse altresì il trastullo di qualcuno!
Pertanto, l'accento, l'attitudine, il viso trasfigurato di sua moglie, le accuse terribili cui pronunziava, lo sopraffacevano. Era confuso, quel diplomatico! La sfrontatezza lo abbandonava. La scusa stessa spirava sulle sue labbra.
Ei rimarcò, tuttavia, che si esagerava la portata dei documenti, cui il destino aveva messo nelle sue mani, e che mentivano attribuendogli il disegno di mercanteggiarli.
—Io ò visto di questi occhi—soggiunse Vitaliana—uno spaccio del principe di Tebe, che ordina di comprare quelle carte ad ogni costo, perchè li re Taddeo è morto ieri o deve morire oggi. Lo assassinano forse.
—Ma, allora, chi è che vuole quelle carte? che vogliono farne?—gridò il duca in un accesso di terrore.
—Le si vogliono bruciare—in uno alla dichiarazione cui avete firmata. Vi si vuol mettere nell'impossibilità di fare il male. Si vuol salvare l'onore del nome cui porta mio figlio…
—E se rifiuto?
—Che so io! Per togliere ogni credito alle vostre scritte, v'infameranno—depositando al club il documento firmato da voi, dal dottore di Nubo, dal principe di Lavandall e da due signori russi. Lo pubblicheranno nei giornali. Vi schiaffeggeranno. Vi cacceranno di dovunque… Oh! padre mio! perchè siete voi morto! Ma suicidatevi dunque, suicidatevi, infame… non assassinate così vostro figlio!
Il duca rimase per qualche tempo la fronte nelle mani, la testa appoggiata al dorso di una poltrona, senza neppur osar respirare.
Che dramma tempestava nel suo cuore? impossibile sbrogliarlo! Fluttuava nel caos. Passioni e dubbi, risoluzioni estreme e scoraggiamenti, rimorsi ed odii si allacciavano, si contorcevano. Infine, egli uscì lentamente, senza sapere che si facesse, sempre assorto.
Entrò nella sua camera; si diresse verso il mobile ove erano le carte; l'aprì; scostò la tavoletta; fece scattare le molle della toppa secreta; cercò il taccuino violetto; rimestò… ancora; si fregò gli occhi; rimosse tutti gli oggetti; visitò tutti gli spigoli; portò le mani alla sua testa; vacillò… e cadde sopra una sedia.
Poi si rilevò di un salto, e corse alla duchessa—la quale, la testa cacciata fra i cuscini del divano, piangeva.
Il duca la guardò, la contemplò.
Quell'attitudine di annientamento cangiò il diapason della sua voce ed il filo delle sue idee—disperse forse i suoi sospetti. Borbottò dunque di una voce sorda:
—Ma l'ànno rubate!
—Che?
—Quelle carte. E pertanto, una sola persona al mondo conosceva il segreto della toppa: voi, madama!
—Ah! ciò eccede il possibile!—gridò Vitaliana, uscendo con veemenza. Voi siete infame fino all'estremo. Ebbene, che l'abisso si apra per tutti.
Vestirsi, uscire, salir in un fiacre, correre da suo cugino, fare irruzione nel suo atelier … non fu che uno slancio. In meno di un'ora, ella si trovò in faccia del conte di Alleux, e gli gridò:
—Adriano, io ti amo. Eccomi a te!
Adriano gettò un grido ed aprì le braccia.
—No, giammai—gridò di nuovo Vitaliana—rinculando, giammai qui!
E con la stessa esaltazione e la medesima precipitazione che aveva messo a venirsi a dare a suo cugino, fuggì di colà e ritornò a piangere in casa sua.
Adriano non ebbe nemmanco il tempo di gridarle dietro:
—Io ti amo, Vitaliana!
Egli ricadde sul suo seggio, e, come un uomo che parla in meditando, si disse:
—Ed il marito?… Ah!… Ebbene… ella è vedova!
XVI.
Le dighe si rompono.
Nelle situazioni estreme, o si diviene idioti o si acquista una lucidità ed una prontezza straordinarie delle facoltà.
Il duca di Balbek, avendo il senso morale obliterato, non divenne ebete. Perocchè d'ordinario questo stato di spirito è il risultato dell'eretismo della coscienza—quando non v'è lesione organica materiale che lo determina.
Il duca riconobbe dunque immediatamente la mano che aveva potuto sottrarre il suo portafogli violetto dal suo stipetto. Ei ve lo aveva visto due giorni innanzi. Le carte erano dunque state prese in sua casa, negli ultimi due dì.
I domestici non erano in causa. Essi avrebbero, tutto al più, aperto il mobile, ma non avrebbero potuto far agire la molla del nascondiglio.
L'artista che aveva inventato quella piccola macchina era a seicento leghe da Parigi—perchè quel mobile gli era stato inviato dalla regina Bianca. Il duca non aveva comunicato questo segreto che a sua moglie—e se n'era immediatamente pentito. La violazione del segreto proveniva dunque da lei. La cameriera forse glielo aveva carpito; forse i complici di Vitaliana glielo avevano strappato.
Il duca non sospettò un solo istante sua moglie. Ma per i dettagli così esatti ch'ella gli aveva ricordato delle azioni di lui, egli non poteva più dubitare che sua moglie fosse l'organo di un concerto segreto, che la metteva in movimento.
S'informò delle persone venute al palazzo i due ultimi giorni.
Il suo cameriere gli narrò che il conte di Alleux era venuto a parlare alla signora, alle otto del mattino; che l'avevano fatto aspettare—e che aveva infatti aspettato in camera del duca, fumando e leggendo.
—L'è ben questa!—gridò il duca.
Vitaliana rientrò dopo il suo colpo di testa.
Passò per parossismi opposti, di onta, di amore, di gelosia, di pentimento, di risoluzione: un uragano solcato di pianto, di slanci, di progetti, di dispetti! Poi aveva scritto a suo cugino tutto ciò che era occorso fra suo marito e lei, l'interrogatorio a cui il duca aveva sommesso i domestici, ed il motto che gli era sfuggito.
Vitaliana attribuiva questa attitudine ultima del duca alla gelosia. Ella aveva di già interamente obliato le carte ed il resto!
La sua vita nuova datava dalla confessione del suo amore, che aveva fatta a suo cugino—ed in quello si riassumeva.
Adriano fu più chiaroveggente.
—Tanto meglio!—sclamò desso. Sarà più presto finita. Se potessi soltanto sparmiarmi di ucciderlo!
Si apparecchiava a dare qualche ordine, attendendo da un momento all'altro la visita del duca o un messaggio dalla parte di lui, quando il conte Sergio di Linsac entrò.
Il signor di Linsac era un pochino zio di Adriano.
—Tu arrivi a proposito, zio—esclamò Adriano. Io ti confisco.
—Io mi pensava che la Charte vérité avesse abolito quella villana cosa che addimandasi la confisca.
—Sì—con la medesima verità ch'essa è statuto! Ebbene, che ti à risposto il signor di Lavandall?
—Ti aspetta alle cinque, stassera, se non ài che semplicemente a parlargli; alle due, se ài qualchecosa a rimettergli, dalla parte di qualcuno. Cosa dunque macchini tu con quell'alta spia? Ti vorresti tu incanagliare nella polizia russa?
—Sta tranquillo, e non domandarmi nulla adesso. Più tardi, ti dirò forse tutto. Infrattanto, tu non mi lascerai punto per oggi; mi seconderai e mi darai la replica, se qualcosa arriva che mi obblighi a rappresentare la commedia.
—Ma io ò bisogno di andare al mio giornale, petit.
—Ta! ta! ta! Vado lì lì a scarabocchiarti il tuo premier-Paris, mentre tu fumi i miei avana, e lo manderò all'ufficio. Sei tu contento, brontolone?
—Che vescovo à perduto con te la Chiesa, monello! Saresti stato papa.
L'asciolvere terminava, quando il domestico annunziò il duca di Balbek.
—Ah! come arrivate a proposito, cugino—sclamò Adriano, andandogli incontro senza però dargli la mano. Andrete ad esser giudice di una scommessa che ò fatto con questo mio signor zio—il più difficile degli zii che lasciano nulla, morendo, ai nipoti!
—T'inganni, figliuolo—l'interruppe Linsac: ti lascerò i miei debiti e le mie pipe.
—Signor Adriano, avrei a parlarvi—rispose il duca di un tono grave.
—L'è un affare di quindici minuti, non più. Usciamo nel giardino, ove tutto è pronto. O' scommesso cinquecento franchi con mio zio, che sparerò ventiquattro colpi di pistola ed abbatterò, per lo meno, ventidue statuette. Ora, come il signor Sergio è cavilloso, siate voi giudice dei colpi.
La proposizione del conte di Alleux occasionò probabilmente una certa emozione nel duca di Balbek, poichè il suo labbro inferiore fremè e la sua fisionomia espresse un doloroso stupore. Ciò malgrado, accettò la funzione di giudice cui gli si proponeva, e fu il primo a dirigersi verso il giardino.
Il signor di Linsac guardava Adriano di una ciera significativa.
Adriano aveva nel suo giardino un tiro con un bersaglio e dei pupattoli sempre allestiti. Prese dunque la sua scatola a pistole e cominciò la sperienza.
I ventiquattro colpi furono tirati.
Adriano aveva promesso ventidue mouches: ne fece ventiquattro.
L'emozione del duca raddoppiò.
—Ti propongo una rivincita—disse infine Adriano a suo zio. Andremo di questo passo in una sala d'armi. Farò dieci assalti col maestro. Se egli è Grisier, scommetto i cinquecento franchi che mi devi, che lo toccherò cinque volte. Se è con tutt'altro maestro di sala, lo bottonerò sette volte.
—Accetto—disse Sergio. Duca, volete voi tenere la scommessa con me?
—Se sono giudice—rispose costui lentamente—non posso esser parte.
—L'è giusto—sclamò Linsac.
—Ebbene—riprese Adriano—andremo a chiacchierare un istante, il duca ed io, perchè egli à a parlarmi; poi ci recheremo ove vorrai, zio.
—Andiamo al momento—interruppe il duca. Parleremo di poi, con più agio. Il mio coupé è alla porta. D'altronde, non voglio far ritardare il cronometro della politica europea—soggiunse quindi, stendendo la mano al signor Linsac.
Questi s'inchinò.
—Ahimè! mio caro duca—rispose Sergio—io posso aspettare; imperciocchè oggidì non sono più i cronometri che regolano la politica, ma le vecchie pendole.
Mezz'ora dopo erano da Grisier.
Un'ora dopo, la scommessa era stata guadagnata.
Adriano aveva toccato il gran maestro sei volte, e parato a meraviglia.
Adriano lasciò una cedola di 200 franchi sul caminetto del maestro, e, volgendosi a Linsac, gli disse:
—Andrò a prendervi alle cinque, e pranzeremo insieme. Ora, cugino, son tutto vostro. Volete parlare in vettura, andare a casa vostra, o ritornare alla mia?
—Da voi—rispose il duca.
Quando furono soli, il contegno di Adriano cangiò.
Il suo viso, sì dolce e trasparente, assunse un'aria dura, altera e supremamente disdegnosa.
Il duca pareva completamente abbattuto.
—Io vi aspettava—disse Adriano, sedendo—ed avete potuto vedere che sono preparato.
—Perchè mi aspettavate voi?—domandò il duca. Voi avete dunque dei rimorsi?
—Io mi metto di raro nel caso di averne—replicò Adriano.
—Nel caso!—mormorò il duca.—Con gli altri gentiluomini si sa anzi tratto quali sono codesti casi. Con noi altri, allevati al seminario o dai padri gesuiti, codesti casi sono indefiniti e sfuggevoli.
—Voi credete?
—Ditemi, a tutto azzardo, se voi opinate che introdursi in casa di qualcuno che è assente, aprire i mobili, pigliarvi un portafogli con delle carte, non sia il caso di aver dei rimorsi e di offrire delle spieghe.
—Gli è inutile l'andar per circuiti—gridò Adriano con impazienza. Precisate i fatti.
—Precisare! Ma e' mi sembra che io mi abbia messo il proposito assai chiaramente. Gli è vero, sì o no, che voi siete venuto ieri mattina, alle otto, in casa mia?
—Sì. E poi?
—Gli è vero, sì o no, che vi si è fatto attendere nella mia camera da letto, a richiesta vostra, per fumare liberamente, avete voi detto?
—Sì. Continuate.
—Continuo, certo, perocchè non vi è che voi che siate entrato in quella camera. Ora: siete voi che avete aperto uno stipetto a capo del mio letto, e che ne avete tolto un taccuino di velluto violetto, con delle carte di Stato?
—Sissignore!—gridò Adriano, levandosi. Conchiudete.
—Ah! voi lo confessate dunque?—borbottò il duca, tremando di collera. Siete voi dunque che avete rubate le mie carte!
—Olà!—urlò Adriano. Rubare è una parola che non squarcia mica la bocca a voi—a voi che siete abituato alla cosa! Ma non osate articolarla più in mia presenza, se volete evitarmi il disgusto di schiaffeggiarvi.
—Che cosa è codesto modo di favellare?—osservò il duca atterrito.
—Il modo con cui gli uomini di onore parlano alla gente della vostra specie e del vostro calibro. Sì, le conosco tutte le vostre gesta: ciò che è occorso la notte del ballo presso il principe di Lavandall; ciò che è occorso la notte dell'orgia in casa Morella; i vostri debiti; le vostre scroccherie; il furto dei gioielli, che avete commesso in pregiudizio di vostra moglie; l'uso cui vi apprestavate a fare dei documenti che vi ò presi. Mia cugina andava a soccombere alla tentazione di restituir quelle carte contro l'autografo glorioso cui avete scritto presso il principe di Lavandall. Carpirvi quel portafogli sarebbe forse stata una cattiva azione per vostra moglie. Gli era un dovere per me d'impedirle di contaminarsi. Gli è un dovere per me d'impedirvi di aggiungere altra infamia all'onta cui avete di già sparsa sul capo di vostra moglie e del vostro figliuolo.
—E chi vi à delegato codesto doppio dovere, signore?—dimandò il duca.
—Il sangue che mi corre nelle vene. Ma ciò non è tutto ancora. Vi ò dato delle spieghe. Ascoltate adesso i miei ordini.
Balbek trasalì.
—I vostri ordini?—borbottò egli sillabando, le labbra tremanti.
—Cui eseguirete come quelli del vostro re. Vi do, per compierli, un mese—a partire da questo momento, le 3 e 25 minuti del 7 marzo, fino alle 3 a 25 minuti del 7 aprile.
—Vi ascolto—biascicò il duca, più bianco che la sua camicia—e sono soprafatto dallo stupore.
—Io non so che uso farò di quelle carte cui vi tolsi. Al contatto di quell'immondizia: diplomatici, spie e pretendenti a cui vo' a fregarmi, il sentimento del giusto e del vero si perverte. Io non so se giungerò a strappare dagli artigli del Russo la dichiarazione firmata da voi. Ma l'è questa l'ultima delle mie preoccupazioni. Vostra moglie è vedova, da ieri in qua. Vostro figlio sarà, a partir da domani, non più il duca di Balbek, ma il conte di Meuge. Che il vostro nome resti o no contaminato innanzi al pubblico, ci cale men di nulla. Perchè, per noi, non è il mondo che determina il delitto: gli è il delitto stesso che ci fa orrore. Che la vostra infamia resti nascosta, voi non siete meno, agli occhi nostri, un codardo, un ladro, uno scroccone, un brigante che si mette in agguato armato di scritte delicate, e grida ad una regina: la borsa o il trono! Noi vi disprezziamo. La vostra presenza ci è divenuta intollerabile, ci fa nausea. Capite voi questo?
—No. Ma terminate.
—Ebbene, voi avete un mese di tempo per dimandare ed ottenere dal vostro governo la vostra rimozione da Parigi. Se, a capo di questo tempo, voi non siete scomparso da questa città, solo, senza moglie e senza figliuolo, io vi schiaffeggio la sera e vi uccido l'indomani. Voi venivate a domandarmi probabilmente un duello. Voi avete visto che vi accordo un mese d'esistenza—perchè non voglio imbrattarmi le mani di un simile sangue. Ecco.
Il duca, che era stato assiso durante questa scena, si alzò e disse:
—Una parola ancora, per mio governo, signore. Gli è la virtù sdegnata sola che vi detta quei propositi?
Adriano si fermò di botto. Era stato colpito in mezzo del petto. Esitò un istante a rispondere; poi, senza nulla dire, indicò del dito la porta al duca e si assise.
Il signor di Balbek soggiunse:
—Io non rilevo i vostri insulti, signor di Alleux. Voi parlate con lo stesso senza scrupoli con cui agite. Noi siamo entrambi allievi della Chiesa: ci intendiamo dunque. Io smentisco le indegne supposizioni cui avete costrutte sulle mie intenzioni—di trafficare, cioè, delle carte cui mi avete involate. Io non iscuso le mie colpe—di cui voi avete goduto i frutti nelle braccia della mia ganza. Vedrò, quando l'ora sarà opportuna, se conviene di battermi con voi o di premunirmi. Voi capite? Poichè voi chiamate impedire di contaminarsi ciò che il mondo chiamerebbe rubare, io mi permetterò di addimandare premunirmi ciò che gli ingenui addimanderebbero assassinare.
Il conte sorrise.
Il duca continuò:
—Mia moglie e mio figlio mi riguardano… ed all'uopo vi son perfino dei tribunali…
—Vostra moglie è vedova—gridò Adriano andando verso il duca. E se voi non vi rassegnate alla vedovanza sociale, cui le avete fatto, io m'incarico di far eseguire da Dio la sentenza del mondo. I forzati perdono i diritti civili.
E ciò dicendo chiudeva l'uscio del suo salone in faccia al duca.
Alle cinque, Adriano entrava nel gabinetto del principe di Lavandall.
—Signor conte—disse il principe di Lavandall—voi siete cugino della duchessa di Balbek. Venite altresì in nome di lei?
—No, signore. Io vengo nel nome mio proprio. La duchessa però mi à narrato le proposizioni cui le avete fatto, gli accomodamenti che avete stabiliti. So tutto, insomma.
—Ne sono lietissimo. Amo meglio trattar con un uomo—continuò il principe. Si esce sempre battuti di un negoziato con una donna. Se il diplomatico trionfa, l' uomo perde; se il cavaliere si allegra del suo successo, il negoziatore ne piglia il bruno. Gli è impossibile intendersi, quando non è lecito chiamar le cose del loro nome; quando è mestieri far delle perifrasi per spiegarsi, ed astenersi dalle proposizioni chiare, brutali: se no, no! Preferisco dunque intendermi con voi. Che venite a dirmi?
—Son compiaciuto trovarvi del mio avviso, principe. La duchessa non poteva intingere il dito, senza insozzarsi, in questa immonda bisogna. Le ò sparmiato questo compito, a sua insaputa. Ecco dunque che vengo a dirvi. Voi avevate proposto un baratto: carte per carte! Io vi porto, al contrario, quest'offerta: silenzio per silenzio!
—Come ciò?—sclamò il principe.
—Dapprima, signore, è una cosa, che antistà a tutte, a dichiararvi: che, cioè, l'onore del signor duca di Balbek non ci riguarda più. Esso è a voi: potete sparmiarlo o distruggerlo a vostro talento. Madama di Balbek ritorna contessa di Meuge. Suo figlio prende il nome dell'avolo. Cosicchè, che voi conserviate, pubblichiate o bruciate la dichiarazione del duca, cui possedete, torna per noi completamente lo stesso. Noi lo abbiamo cancellato dalla nostra famiglia. Egli potrà essere per il mondo puro o riabilitato; per noi, egli sarà mai sempre infame.
—E la signora di Balbek consente a codesto?
—Ella lo esige per la prima.
Il principe azzeccò il suo sguardo dritto e profondo sul conte e replicò:
—Ne siete voi ben sicuro, signor conte?
—Signore, io non ò l'abitudine di parlare alla ventura. Ciò posto, venghiamo agli altri documenti.
—Ebbene?
—Io li ò. Io li ò presi, per impedire che la duchessa li prendesse. Conosco il valore di quelle scritte, e l'uso che se ne potrebbe cavare…
—Allora?
—Allora, io li conservo—come se mi fossi un sepolcro!
—Ma non è codesto che era stato convenuto con la duchessa.
—Lo so. Ma altresì, io non agisco d'appo i suoi ordini. Ecco il mio avviso, signore. Il vostro governo è avverso alla regina Bianca, favorevole a quell'abbominevole principe di Tebe—di cui l'elemento vitale è il delitto e l'abbrutimento dei popoli per mezzo del clero e dalle fraterie. Questi documenti, nelle vostre mani, potrebbero servire ad un compito più fatale di quello del duca di Balbek. Egli vuole quattrini; voi volete confiscare la libertà di un popolo. Quegli mira alla lista civile della regina; voi al trono di lei. Un uomo di onore non può dar mano ad alcuna di codeste manovre. Io ò quelle indegne carte. Le conservo, le sotterro—se tuttavia non le brucio.
—Ma, signore, le avete lette voi, quelle scritte?
—Sì.
—Allora, voi vi fate complice di una estorsione, di un adulterio, di una sostituzione, di un furto, di una prostituzione… che so ancora? voi tenete il sacco a coloro che rubano.
—Signore, i due re ed i loro ministri sono stati infami; il duca di Balbek—forse il meno colpevole—è stato infame anche egli. La morale si vela la faccia in mezzo a quella gente. Io non mi preoccupo ove sia la giustizia. Io non calcolo che questo: la regina Bianca è un vituperio; il principe di Tebe un flagello. Il vituperio ricade sur una regina; il flagello si abbatte sur una nazione. Dei due disastri, scelgo il minore. Qual re al mondo, d'altronde, può affermare: questo figliuolo è mio? Gli altri lo sospettano; Taddeo IX lo sapeva.
—Conchiudete, signore, se vi aggrada—disse il principe freddamente, ma umiliato del suo scacco fino al fondo dell'anima.
—Termino, principe. Ecco dunque l'ultima mia parola: silenzio per silenzio—se volete essere generoso. Se no, fate l'uso che vi piace dell'autografo del duca. Io fo scomparire le carte di Balbek.
—Signore, avreste voi per avventura un terreno meno assoluto sul quale potessimo impegnare un negoziato più logico?
—Signore, io non sono mica diplomatico, e perciò non negozio. Vi dovevo una risposta dalla parte di mia cugina, ed una spiegazione da parte mia. Ve le porto. Esse contrariano forse il diplomatico; ma io porto nella mia coscienza il convincimento che il padre, il marito, il gentiluomo, che sono in voi, non mi sconfesseranno. Me ne appello al vostro cuore ed al vostro onore, principe.
Il signor di Lavandall si alzò, senza rispondere, salutò e ricondusse il conte di Alleux fino alla porta del suo gabinetto.
La sera, Adriano andò a raccontare a sua cugina tutto ciò che si era passato fra lui ed il duca, e fra lui ed il principe.
Vitaliana approvò…
La duchessa si dileguò.
La donna si mostrò allora in tutta la sua potenza.
E la lotta cominciò.
Il fantasma di Morella andava a costare ad Adriano più di cure, che non gli era costato di tempo e di pena la conquista di lei.
—Vitaliana—disse infine Adriano partendo—che debbo io sperare?
—Mio povero amico—rispose la duchessa di un accento triste e scoraggiato—di' piuttosto: che debbo io temere?
—Io metto tutto nella mia posta—riprese Adriano.
—Me lo immagino bene—replicò Vitaliana. Perocchè io vi metto tutto, e, più che tutto, me stessa ed il figlio mio!
Adriano partì, il paradiso negli occhi, lo sgomento nel cuore.
Prevedeva egli?
XVII.
Corbezzoli! Fidatevi dunque dei fiori!
Due settimane sono scorse.
Una mattina, a mezzodì, il duca si presentò in casa del dottore di Nubo.
Il duca non aveva ancora trent'anni.
Ieri ancora, egli sembrava sì giovane, sì felice! Alcuni giorni di quella zona torrida della sventura lo avevano maturato subitamente!
Par di quarant'anni adesso.
Vari capelli bianchi si fan passo sulle sue tempie. È fosco. È affranto. Il suo sguardo, capovolto indentro, è velato e tetro. I suoi abiti non dinotano la negligenza, ma la gravezza delle preoccupazioni dello spirito.
E davvero, gli era impossibile di cumular più disastri sur un capo di uomo, in minor tempo e con altrettanto rigore!
Era marito invidiato, padre contento, circondato di una considerazione relativa, onorato. Aveva un'amante che gli apriva olimpi incogniti. Possedeva un parafulmine che lo metteva al sicuro dalle disgrazie della sua corte e dalla ingratitudine della regina Bianca. Poteva innalzare ancora la fronte con orgoglio: sua moglie era pura; la sua casa casta; la sua fortuna al livello dei suoi bisogni e del suo grado…. Tutto codesto si è sprofondato come una valanga! Un bacio di donna à creato più ruine che il ciclone nei mari del Sud ed il simoun nel deserto!
—Io sono un misero!—sclamò egli infine, essendosi assiso, dopo qualche istante di tacere, cui il dottore non interruppe perchè gli scandagliava il cranio ed il petto del suo occhio scrutinatore.
—Bah! bah! io sono abituato a quelle frasi—rispose il dottore di un tono gaio. Tutti coloro che vengono a consultarmi cominciano per quel motto. Come la lingua francese è povera, e lo spirito umano poco elastico!
—Il dolore è un grido e non una lingua, dottore—osservò il duca. Voi lo ignorate; tanto meglio!
—Che vi càpita, dunque? Io credeva, al contrario, che la calma vi ritornasse.
—Io sono agli estremi. Mi affliggono a questi tre abissi: uccidermi, lasciarmi uccidere, o assassinare!
Il dottore, forte pensoso, si grattò la fronte, e dimandò lentamente:
—E voi avete scelto?
—Ve lo chieggo a volta mia.
—Insomma, spiegatevi.
—Voi non mi comprendete, dunque? Avete voi mai assaporato la gelosia dell'odio?
—Ignoro quella dell'amore—figuratevi! Allora?
—Scandagliate. Voi conoscete una parte dei miei disastri.
—Sopra una parola anticipata della morte del re Taddeo—cui il signor di Lavandall si lasciò scappare a disegno—ò guadagnato alla Borsa cento mila franchi. I nostri debiti comuni, e quelli di cui aveva risposto, addossando le vostre cambiali, sono pagati.
—Non è il danaro che cagiona le mie sventure.
—Morella dunque?
—Morella parte dopo domani per la Turchia, a traverso la Russia, in compagnia di parecchi signori. Lord Warland guadagna l' handicap. Ella finirà per recarsi in Italia, e sposarvi un marchese, un ministro, un duca, o che so io.
—Voi non l'amate dunque più?
—Non ne so nulla. Galleggio nella nebbia.
—In questo caso, venite a vedermi quando sarete sboccato nel chiaro.
—Voi non vedete dunque altro nel mondo, voi, che la pecunia e la ganza?
—Vi trovate voi altra cosa?
—Io era padre. Mi si viene a dire: voi siete disonorato; il vostro figliuolo non porterà più il vostro nome! Ero marito. Mi si dice: voi siete infame; vostra moglie è vedova!
—La sentenza è feroce.
—Ora, io amo il mio bambino. Senza proprio amarla, tengo a mia moglie. Protesto. Mi si risponde: lascerete Parigi fra un mese, solo, ovvero io vi sforzo a battervi in duello e vi uccido.
—Battetevi allora.
—Non mai. Io sono vile. Spiegate ciò. Se mi trovassi alla testa di uno squadrone, io mi slancerei il primo sur un quadrato di fanteria, sur una batteria. Svenirei, se vedessi una pistola puntata su di me, o una puntata di spada volteggiare attorno al mio petto. Io sono affatto l'opposto dei nostri Siciliani, i quali ànno il terribile coraggio di battersi al duello del coltello, e levano il piede sul campo di battaglia, al primo colpo di cannone.
—Sarebbe egli il conte di Alleux che vi accocca quell'intimazione?
—Egli stesso.
—Egli ama dunque vostra moglie?
—Si amano.
—Ne siete voi ben certo, di parte della duchessa?
—La cameriera—che fin qui fu al soldo del conte di Alleux per riferirgli tutto ciò che Vitaliana faceva—è passata al soldo mio, adesso che il conte viene due volte al giorno ad informarsene da Vitaliana ella stessa. Questa cameriera dunque me lo assevera.
—Allora, partite.
—Impossibile. Osservatemi come sono cangiato. La mia vita è un letto di aculeo. Dovunque io mi giri, gli è tenebre. Dovunque io mi proponga abbordare, gli è l'onta, il delitto o la morte. Non oso più escire, ed ò paura di restare a casa. Se veggo un fanciullo nelle vie, il singhiozzo, il soffoco mi prendono. Se incontro una coppia felice, le lagrime inondano gli occhi miei. Io trovo uno scherno in tutti gli accenti. Ogni parola mi sembra un'allusione. Si direbbe che una mano invisibile scriva le mie colpe sulla mia fronte, e che ciascuno ve le legga. I miei colleghi mi squadrano singolarmente. Morella non mi discaccia neppur più; io non esisto più per lei! Sono andato al teatro, pensando distrarmi; ò creduto riconoscere che mi avevano messo in iscena. Sono andato al ballo della mezza-quaresima; una maschera si è avvicinata e mi à detto: «Ai tu incontrato tua moglie?» Evitano al club di giocare con me. Io trascino nelle feste un piglio che mette le donne in fuga, gli uomini in guardia. All'ultimo ballo delle Tuileries, la regina non mi à parlato. E dietro a me, un militare chiedeva ad un altro, facendo certo allusione ai casi miei: «Come vanno le vostre colombe?»
—Non ne avete dunque mica abbastanza di guai reali, che ve ne create tanti con l'immaginazione?—dimandò il dottore.
—L'immaginazione non alloggia in casa mia. Gli è il fatto materiale che mi schiaccia. Avevo una posizione: me ne cacciano! Avevo una casa: me ne esiliano! Avevo credito: è distrutto! Avevo dei documenti che mi potevano permettere di forzare le porte del favore e scongiurare la disgrazia: me li ànno rubati! Avevo un'amante: me l'ànno sedotta, e se ne vola con l'ultimo mio scudo! Avevo una moglie: si mette al suo capezzale una pistola, ed una spada per interdirmene l'approccio. I miei famigliari sono spie. La mia casa un Calvario… E, malgrado ciò, bisogna che fra due settimane io la lasci!
—Cazzica! se v'incomodate qualcuno!
—Oh! che notti sono le mie, dottore! Vagabondo per Parigi, tanto che io non mi caggia spossato. Io cionco senza potermi ubbriacare ed obliare! Ritorno a casa inzaccherato, lasso, infetto. Credo che quel letto, il quale, ieri ancora mi offriva il sonno, mi tenda le braccia: la disperazione vi si apposta, l'insonnia vi sibila di tutti i suoi serpenti! Le tenebre sono implacabili: non vi è fantasma che non vi sputi le sue furie. Io mi alzo scacciato dall'incubo delle visioni, dei desideri, dei delirii, dei rimorsi, della gelosia… tutto il mondo dell'inferno si rizza sulla mia fronte! Ed io vo, corro, urto a tutti gli angoli, investo tutti i mobili, mi rotolo sul tappeto, striscio, mi trascino fino alla porta di lei… Dessa è chiusa! Ella è rinchiusa! Ma io odo quella respirazione dolce, calma, eguale, talvolta un piccolo gemito… La pace è colà!… forse anco un'anima che pronunziò la sua finale sentenza—e trova il riposo nella risoluzione estrema. Guardo attraverso il buco della serratura quel nido rischiarato da una luce d'ambra… Ecco le sue vesti; ecco la psiche che la rifletteva or ora, facendosi bella per un altro; ecco le sue calze, le sue pantofole… Ella sogna… delle parole le sfuggono dal cuore… Io brucio ed i miei piedi sono nudi, il mio petto è nudo, appena se sono coverto… Vado a picchiare? vado a chiamare? vado a torcermi alle sue ginocchia e gridare: grazia!?… Oh! giammai! Tre parole implacabili sono nella sua bocca: codardo, ladro, infame! Me ne fuggo e ritorno nella mia camera per vegliare, inabissarmi e riflettere… riflettere che, qualche ora innanzi, quella medesima bocca, che à per me propositi sì feroci, diceva ad un altro: io ti amo! Ed ecco i miei giorni, ecco le mie notti. E malgrado ciò, lo ripeto, notti e giorni sono contati.
—Siete voi deciso a partire?
—No. Li ucciderò.
—Riflettete. Val meglio battervi. Avere una probabilità…
—Alcuna. L'ò visto all'opera.
—Un assassinio, anche nel caso di flagrante delitto, provocherà discussioni. La giustizia cava come l'acqua che cade. Essa rimuoverà tutto, rimuginerà dovunque, interrogherà tutti: e d'indagine in indagine, d'induzione in induzione, si arriverà al gabinetto di Lavandall, al salone di Morella. Siete allora perduto senza remissione. Ascoltatemi: battetevi o rassegnatevi.
—Io non posso rinunziare a Vitaliana—riprese Balbek dopo un minuto di riflessione… Perocchè, l'ò capito, ecco ciò che mi vogliono. Si dice: Ci amiamo da dieci anni, ed abbiamo rispettato il vostro onore, perchè voi stesso lo rispettavate. L'avete contaminato; ci stimiamo affrancati. Nulla c'impegna oggimai a preoccuparcene più che voi non ve ne preoccupate. Voi non amate Vitaliana. Ella non vi ama. L'avete oltraggiata… Via, dunque, via! Il vostro posto non è più allato di lei.
—I colpevoli son sempre logici—osservò il dottore di Nubo.
—Ma io non posso staccarmi da lei. Ella è il mio complemento. Il delitto nell'educazione dei gesuiti, presso i quali venni educato, è precisamente in questo: ch'essi producono degli uomini che non bastano a sè stessi e che ànno il loro complemento altrove. Qui la mano, là la lingua; qui il cervello ed il cuore collettivo, là la persona singola!
—Questa è la base e la forza dell'educazione cattolica.
—Orbene, Vitaliana finisce e completa la mia personalità: ella è quella, metà del me che colma il vuoto. M'intendete? Io mi disonorava fuori; ed avevo l'onore in casa mia! Io ballonzava le vecchie baldracche politiche per ragione di Stato, nelle regioni superiori; e venivo a prendere un bagno di giovinezza e di purità nella mia alcova! Lottavo di menzogne e d'intrighi nel mondo officiale; al mio focolaio, trovavo la lingua casta e sincera, il sorriso morale! Mi attossicavo di amore adulterato e fatturato presso le dame e le cortigiane; la mia ingenua mi disinfettava! Vedevo dovunque il culto del diamante; in casa mia, trovavo la religione del fiore! La febbre dappertutto; in quel salottino, poco bazzicato, la calma! Nel mondo, l'artificio, il belletto, la posa; nei miei lari, la semplicità ignorante! Io mi ritemprava qui, per lottare colà; mi temperavo là, per piacer qui. Io repugnava al vizio, ma non adoravo la virtù. Il delitto mi trovava inabile; l'onore improprio: ero incompleto dovunque. Le ganze erano mia moglie; mia moglie, il mio rimorso.
—Trista parte per una donna!—sclamò il dottore.
—Ond'è, che le donne se ne stancano. Or bene, io, il quale non sono che un istinto stroppiato da casuisti; io aveva trovato la mia direzione: perchè mia moglie, essendo il candore stesso, era una luce. Questa luce è estinta. Vitaliana non mi seduceva…
—Perchè la bianchezza non è un colore—ed i mariti sono tutti come gli Indiani: amano il tatuaggio.
—Io ò corso dietro al tatuaggio come gli altri. Però, in mezzo a quel diavolìo di forme, di spezie, e di colori, io sentiva che, se Vitaliana non era un'esca, era un riposo. Il riposo è l'aria vitale della nature incomplete: me l'ànno involata! Voi sapete come sono stato abbattuto dappertutto; in casa Lavandall, in casa Morella, in casa mia. Che volete voi che io mi divenga in questa situazione? Ricostruite col pensiero il vostro cuore a trent'anni, provate d'intendermi, e venite in mio soccorso.
—In che modo?
—Non importa come. Accetto tutto. Funzionario disonorato, padre senza figlio, marito senza sposa, signore povero… Che ò fatto io dunque perchè tante sventure si precipitino ad una volta sopra di me?
—Che avete voi fatto?—disse di Nubo sogghignando. Ma!… Avete avuto l'inaccortezza di trovarvi lì quando la valanga s'è scardinata.
—Non risaliamo più alle cause. Io non veggo oramai che questi quattro spettri: battermi, uccidermi, assassinare, bandirmi—abbandonando mia moglie nelle braccia di un amante. Fin ad ora ella è pura ancora. Fra tre giorni, nol sarà più.
—Chi vi dice codesto?
—La sua cameriera. Gli è dopo dimani l'anniversario dei nostri sponsali. La vedova si rimarita—là, nella casa mia stessa, in quel nido di rifugio ch'ella s'era costrutto, quando, nelle mie braccia, ella sognava dei suoi giorni di vergine! Ora io non ò nè il coraggio di battermi, nè quello di uccidermi; non voglio a prezzo alcuno lasciarli entrare in quel paradiso. Li ucciderò.
—E poi?
—Poi, poi… Dio crea l'avvenire ed il diavolo lo cavalca. Io soffoco. Il pensiero mi rode; il cuore mi divora. Prometeo era un Sibarita, paragonato a me. Oh sì! li assassinerò… l'è la mia calma, è il sonno che essi ànno estinto negli occhi miei.
—Ascoltatemi un po'. Se venite a me perchè sentite il bisogno di esser salassato, io son chirurgo e sono pronto. Se venite per intrattenermi dei vostri delirii, voi avete mal preso il vostro tempo. Io ò fretta. Il mio editore mi intima di consegnargli un certo trattato sui Fiori, cui gli ò venduto.
—Avete ragione, signore, io sono uno zotico a venire ad appestare l'atmosfera innocente e soave che vi circonda. Il fiore! mille scuse. Io non sospettava d'infettare codesta innocenza del mio alito di omicida.
—Ebbene, caro duca, non vi abbiate di rimorsi a causa di ciò. Imperocchè, ve lo assicuro, io non conosco nulla nella natura che sia così assassino che il fiore.
—Scherzate, scherzate…
—No, punto. Dimandatelo alla duchessa, che li conosce i fiori. Quella cara dama li ama dessa sempre?
—Sempre.
—Allora dimandatele che cosa è il fiore. Io comprendo che Luigi XIV, sì profondamente tenero di sua persona, non li amasse un'acca. Io comprendo che quella giovinetta, di cui parla Filippo Salmuth, preferisse loro l'odore dei vecchi libri; e quel giureconsulto, perfin quello dello stabio! Io comprendo che il famoso medico Paolo Zacchia detestasse la rosa; e che quella dama, di cui parla Samuele Lede', cadesse in sincope alla vista di una rosa rossa. La natura produce certi istinti indicatori, come dessa dota di un grifo il compagno di S. Antonio, per scovrire i tartufi. Respirate il salano, lo strammonio, il giusquiamo, il papavero, la noce, il sambuco… e voi vi addormite. Valmont di Bomare dice che chi sradica la betonia diventa ebbro. Il dottore Berton, pingendo dalla natura il puthos fetido ( draconium foetidum ) contrasse un'oftalmia. Areteo di Cappadocia parla di certi fiori che provocano l'accesso dell'epilessia. La Gazette de la Santé narra di certi operai che, essendosi addormentati in un granaio dove si erano sparse delle radici di giusquiamo per bandirne i topi, si svegliarono attinti da stupore e cefalgia. E Martino Grunewald assicura che due individui furono colpiti da alienazione mentale per aver respirato, in una farmacia a Dresda, il fumo dei granelli di questa pianta che vi si bruciavano. Barton afferma che il fiore della magnolia glauca occasiona la febbre ed accelera i parossismi della gotta. Le emanazioni della lobelia grandiflora cagionano, secondo Jacquin, dei soffocamenti. In Creta, l'odore dell' anagyris dà la febbre. Il fiore del lauro rosa ( nerium oleander ) uccide, se si dorma nella camera ove è rinchiuso.
—Uccide? sclamò il duca raddrizzandosi.
—Uccide—continuò il dottore—come le emanazioni del manzanillo di Surinam e della camoeladia dentata di San Domingo. Triller, che à scritto un trattato: De morte ex violarum usu, racconta di una fanciulla trovata morta in un letto da lei cosparso di viole. Nel 1779 occorse lo stesso accidente ad una dama che si era coricata in una camera profumata da mazzi di rose. Le rose uccisero la figlia di Nicola I di Salin; e, secondo Kramer, anche un vescovo di Polonia. Attesta Mattioli, che un fiore avvelenato uccide chi lo respira. Voi sapete come Giovanna d'Albret fu avvelenata con dei guanti profumati… Clemente VII fu morto con una torcia cui gli si portava dinanzi e che bruciava dell'arsenico. Il famoso Dippel si suicidò di questa fatta… E che so ancora! Vedete, dunque, duca, se, scrivendo sui fiori, io sguazzo in quell'empireo di azzurro, cui voi credete aver contaminato dei vostri delirii di omicida.
Il duca rimase silenzioso, la fronte celata nelle mani. Soffriva visibilmente. Si sarebbe detto che lottasse contro il destino.
Infine, si alzò e sclamò con tristezza:
—Voi siete felice! voi raccontate degli aneddoti.
—Be'! egli chiama aneddoti la scienza! Voi credete dunque i nostri autori di scienze naturali un branco di romanzieri?…
—Poco divertenti—interruppe il duca. E si vorrebbe darci a credere che si vorrebbe sostituire, per suicidarsi, un vaso di fiori al carbone tradizionale?
—Esattamente… E voi potete domandarlo alla duchessa.
La connessione di queste due parole, suicidio e duchessa, fece abbrividire il duca. Quantunque pallido di già, impallidì ancora, e balbuziò:
—Mistificatore, va!
Ed uscì.
Il dottore lo accompagnò del suo sguardo fisso e penetrante, e mormorò a sua volta:
—Assassino!
Il duca di Balbek ritornò al palazzo, e parlò alla cameriera. Poi uscì di nuovo, e passò il rimanente del giorno a visitare le stufe di tutti i fiorai di Parigi.
XVIII.
La via del cielo… dopo una sosta.
Il duca di Balbek aveva sulla morale dalle idee incerte, un carattere avvizzito, uno spirito sconcio dall'educazione dei gesuiti: più dispetto che angoscia; più gelosia d'amor proprio che di amore. Non poteva, per conseguenza, sentir fortemente.
L'abbiam visto infatti stemperarsi in un dolore multiforme, melodrammatico, senza coscienza di sè stesso. In quella situazione di spirito, egli era capace di tutto: cadere ai piedi di sua moglie, arrovesciarla nelle braccia dell'amante ed andarsi a distrarre altrove—così bene che di uccider l'una e fare assassinar l'altro. Zimbello degli uomini e degli eventi, il duca trattava gli eventi e gli uomini come delle fole. La sua posizione miserabile, che avrebbe dovuto inspirare una compassione simpatica, non ispirava dunque che disprezzo.
Egli divagava.
Tutt'altra però era la situazione morale di Vitaliana.
La sua educazione, al Sacré-Coeur, non era stata più sana e corroborante di quella di sua marito presso i RR. PP. Ma la giovine donna si rilevava per tre forze divine: la purezza dell'anima, la severità del costume, l'amore! Il suo carattere era più fermo perchè aveva per base un cuore. Le sue risoluzioni erano nette, perchè un abisso separava la condotta di suo marito dalla sua.
I decreti delle coscienze semplici sono irrevocabili: gli è il vaso poroso di Orazio che conserva sempre l'odore di cui una volta s'imbevve— quae semel imbuta recens servabit odorem testa diu!
Sposando quello straniero, cui non amava, Vitaliana gli aveva impartito quanto era in poter suo. Il cuore, no.
Il cuore non è in potere di chicchessia. È maggiore di già, nascendo, e dispone di sè stesso alla ventura.
Sì, alla ventura: un'allodola passa ed il cuore vola con lei!
Ora, l'allodola era passata, ed il cuore di Vitaliana se n'era ito, senza ch'ella se n'avvedesse.
Il dovere, pur nondimeno, la conservò pura.
Ma quando la catastrofe dell'onore di suo marito sopravvenne, ella si sorprese a chiedersi: Perchè mi asterrei io, ora che tutto è perduto?
Adriano l'aspettava.
Nel suo impeto subitaneo, Vitaliana non obliò ch'un dettaglio. Ella andava a macchiarsi delle medesime zacchere che la rendevano così severa all'incontro di suo marito: l'oltraggio all'onore, l'onta rovesciata sul nome di cui suo figlio doveva ereditare!
Ella spense forse ogni rimorso dicendosi: io l'amo! Ma chi sa se la non si disse altresì, più sommesso: sposerò un giorno Adriano!—ovvero: morrò per espiare!
Il fatto è che la si tuffò corpo ed anima in quell'amore.
L'ombra che l'offuscò nei primi giorni fu la sovvenenza di Morella.
Adriano ebbe a lottare lungamente, aspramente, prima che Vitaliana gli perdonasse—o che avesse ciera di perdonargli. Egli lottava ancora, al periodo a cui è giunta questa storia.
Adriano spiegava ogni mattino la sua scala di Giacobbe; poi, quando pensava vedere il suo angelo salire e discenderne, gli era il fantasma di Morella che in cima si accoccolava!
La riotta però agonizzava.
La resistenza si affiacchiva sotto il peso di un attacco che raddoppiava di vigore.
Vitaliana subiva il fascino e si accasciava.
D'altra banda, ciò che ella aveva intravisto ed infrasentito nel salone di Morella, le dava l'insonnia. Ella si sorprendeva perfino a vaneggiare, tutta soffusa di vergogna, questo concetto: Perchè mai non si attillerebbe l'amore delle medesime feste di cui il vizio si satolla?
Adriano passava con lei parte del giorno e tutta la sera.
Sempre pronto, sempre armato moralmente, egli era in sentinella per difenderla contro le intraprese di suo marito, cercando col moccolo un pretesto per servirsi delle armi—cui il mondo gli accordava—onde cavarsi quell'ostacolo dai piedi. Egli s'imbattè più di una fiata nel duca, recandosi dalla duchessa. E non gli volge che queste parole sinistre:
—Ricordatevene! otto giorni… quindici giorni, sono scorsi!… non ve ne restano più che tanti e tanti….
Il duca osservava e passava in silenzio.
Vitaliana, dal lato suo, l'evitava.
La notte, ella si sbarrava a chiave.
Suo marito le faceva orrore.
Il duca provò due volte l'assalto. Vitaliana l'umiliò con motti crudelmente implacabili, senza rovello, senza collera, di un accento freddo che stillava l'ironia ed il disprezzo.
Il duca si astenne per qualche giorno. Però, il dì che seguì la visita del dottore di Nubo, e' gli sembrò che una spiega tra sua moglie e lui fosse divenuta inevitabile.
Alle dieci, si recò da lei, nella di lei piccola camera da letto.
Vitaliana veniva di alzarsi in quel punto.
Era avvolta ancora nel suo peignoir. I piedi allungati agli alari del caminetto, sfogliando qualche giornale, cioncando una tazza di cioccolatte—mentre Maria annodava alla presto le di lei magnifiche trecce arruffate dall'origliere.
Il duca accostò un puff al camino, e fece un segno di uscire a Maria, dicendo nel tempo stesso:
—Quando suonerò, fatemi portar qui una tazza di cioccolatte.
Egli contemplava sua moglie.
Non l'aveva giammai vista così bella!
L'amore, del resto, l'aveva sbocciata.
La scintilla della pupilla di lei era divenuta più audace. Le sue labbra, irrigate dalla rugiada dei baci, sembravano più sode e più rosse. La sua fronte s'innalzava più alta, più limpida. La pelle si era imbevuta di tutto lo splendore cui dà quel fiammeggiamento che addimandasi amore. Le sue narici rosse respiravano la voluttà. Sembrava ingrandita. La sua eleganza aveva un accento; le sue maniere una volontà. Tutto indicava che di quella bella cosa l'amore aveva di già fatto qualcuno!
Da tutta quella persona si sprigionava un fluido che inebbriava.
Il duca provava dei fremiti.
La moglie non era ella di già divenuta un'amante?
Il duca girò intorno lo sguardo per quella camera, come per dimandarle la prima parola della conversazione.
Ed infatti, ebbe come un tremito guardando il letto.
Vitaliana non fe' sembiante di accorgersi di lui.
Il signor di Balbek sclamò infine, quasi suo malgrado, di una voce sorda e commossa:
—Grazia, Vitaliana, grazia!
La giovane sollevò lentamente la fronte dall'Appendice di Alessandro Dumas, e, conficcando come una spada il suo sguardo glaciale nell'uomo che l'implorava testa giù e visibilmente turbato—rispose:
—Sono il re, io? Ed il re, egli stesso, che può accordare la vita, può egli ridare l'onore? Di un ladro, il re può fare un ministro; di un vigliacco, un generale, e' può covrir del Toson d'oro un cuore disonorato; ma egli non sopprimerà giammai, giammai! il disonore. Ecco.
—Io ebbi dei giorni di follia—continuò il duca. Passerò tutta la mia vita per farli obliare, per farmeli perdonare.
—Perdonare? giammai!—rispose Vitaliana. L'oblio, l'avete di già. Aspetto mia madre per abbandonar questa casa.
—Te ne supplico, Vitaliana, non sprezzarmi affatto, affatto! Non perderti irrevocabilmente. Io non tento di attenuare le mie colpe. Ma tu non esagerarle per farne un pretesto alle tue. Non ài tu pure bisogno d'indulgenza?
—In ogni caso, io non la dimando—replicò Vitaliana. E non riconosco oggimai che mia madre, la quale abbia il diritto di farmi delle rimostranze.
—Vitaliana, tu ami tuo cugino.
—Da dieci anni.
—Tuo cugino ti ama.
—Da dodici anni.
—Tu lo confessi? Ma non sai tu, o tu oblii, che io posso sfracellar quell'amore?
—In che modo? Da gentiluomo? Tu non ti batti. Da marito, per mezzo dei tribunali? Tu non sai che il principe di Lavandall mi à mandato il tuo autografo graziosamente, e che io l'ò dato a conservare ad Adriano?
—Mio Dio! tu sei dunque di già sì pervertita!—sclamò Balbek.
Vitaliana rispose con un gesto di sprezzo.
—Grazia! continuò il duca. Lasciami sperare ancora, lasciati piegare…
—Insomma, che volete voi?—interruppe Vitaliana con alterigia. Il tempo delle capitolazioni è passato.
—Difatti—osservò il duca levandosi—io me ne avveggo. Vi era al piè di questo letto una culla. L'ài fatta sparire. Sei di già adultera nell'anima. La culla del nostro bambino ti gridava: grazia!—come me. Tu l'ài rotta e gettata al rivendugliolo o nel soffitto.
A quest'appello, la duchessa tremò di tutto il corpo ed impallidì. Si tacque un istante, poi mise un grido:
—Il mondo mi giudicherà.
—Vitaliana—continuò il duca—imponimi l'espiamento che tu vorrai; ma tirami dall'abisso, e non vi precipitare tu stessa. Se tu vuoi che io mi batta con tuo cugino, mi batterò e mi lascerò uccidere. Se vuoi che lasciassimo Parigi, partiremo nella settimana.
—Partite allora.
—Solo?
—Che! ma voi credete ancora che vi possa essere al fianco mio un posto per voi? Voi non concepite dunque che, se Dio stesso mi condannasse a sentire il soffio del vostro alito sul mio sembiante, io lo laverei con quelle braci?…
—Lo scorgo bene, madama—biascicò il duca lentamente—se io non avessi commesso quelle colpe, voi le avreste inventato per arrivarne a codesto.
—Codesto! che?
—Ponvi mente, Vitaliana, sono forse le ultime parole cui t'indirizzo; il singhiozzo di agonia di una coscienza e di un cuore! Io ti amo…
Vitaliana portò ambe le mani al suo viso.
—Se non avessimo un figliuolo, ti lascerei libera. Io so che in questo rinnovamento continuo di resurrezione nell'universo, la sola cosa che non rivive mai, è l'amore. Ma quel figliuolo lì!… Io l'ò di già troppo vilipeso con le mie follie: non permetterò mai, no, giammai, intendi tu? ch'egli abbia a subire altresì l'obbrobrio di sua madre.
—Signore—rispose Vitaliana levandosi anch'ella, di una voce calma ma decisa—voi non avete che tre modi per impedirlo: uccidervi, lasciarvi uccidere, ucciderci. Scegliete, ed addio. Io dico addio, signore!
Il duca dette un salto ed avvinghiò le mani al collo di sua moglie.
Vitaliana neppure trasalì.
Balbek indietreggiò, tutto ontoso, ed uscì dicendo:
—Mille scuse, madama.
Il dado era tratto?
No, non ancora.
Il duca rivenne su i suoi passi, ed avvicinandosi a sua moglie le dimandò:
—Tu mi ài richiamato, Vitaliana?
Questa riapparizione produsse sulla duchessa un tale senso di disprezzo e di nausea, che il suo viso ne divenne brutto sotto la contrazione dei muscoli. Cercò la risposta cui doveva fare, cercò forse le parole; ma, dopo qualche esitamento, ella non seppe che trovar questo:
—Dite ai miei famigliari che esco all'una.
Il duca fece vista di non capire l'insulto. Aveva quasi delle lagrime agli occhi, e mormorò di una voce lenta e soffocata:
—Ma tu non ti accorgi dunque che io sono geloso? Tu non comprendi dunque che, condannandomi senza pietà io posso usare del mio diritto di marito oltraggiato ed uccidervi là, a fianco l'un dell'altra, di un colpo di pistola—e agghiadar sulle vostre labbra i vostri baci, pel giudice d'istruzione? Tu non comprendi dunque che lo scandalo, di cui mi minacciate, vi coglie? Tu non comprendi dunque che, avendo le mie ragioni per non accettare un duello, io posso impunemente divenire assassino? Tu non comprendi dunque che io sono in casa mia, qui; che io sono il tuo signore, se voglio; che posso sorprenderti in flagrante, schiacciarti come una mosca, e che, poichè voi cospirate alla mia rovina, io posso ingoiarvi tutti con me? Rifletti. Vitaliana! Tu mi scacci; egli mi provoca; voi siete tutti armati contro me; mi rovesciate nella solitudine e nelle tenebre; assassinate il mio avvenire; mi orbate di tutto; mi avete tutto preso; mi mettete petto a petto con la disperazione—là ove io aveva l'abitudine di vedere mia moglie cui amo! voi mi rubate il mio figliuolo; mi fate vedovo della peggiore delle vedovanze inframettendo fra mia moglie e me, non una tomba, ma un amante! Ponete mente! voi mi tentate troppo, ah! troppo! mi accollate forzosamente al delitto. E sei tu, Vitaliana, che sei ferocemente la più accanita! Oh! no, no… per pietà, no! Gli è impossibile che tu—che ieri ancora eri così immacolata e così timida—tu sii divenuta così atrocemente inflessibile e senza onta. Gli è impossibile che tu—che ieri ancora non osavi mettere un fiore nei tuoi capelli senza consultarmi—abbi adesso quel verbo che m'irride, quella volontà che mi dispera, quella decisione inesorabile che mi uccide. No, non è possibile un cangiamento sì subito e radicale! È mestieri che tu mediti qualcosa di terribile contro te stessa, per essere sì insensibile contro il tuo proprio figliuolo. Bisogna che la tua calma ed il tuo decreto senza appello abbiano per fondo una disperazione muta o un progetto sinistro…. Parla, parla, Vitaliana…
Vitaliana, per tutta risposta, interruppe il duca e suonò.
Maria apparve.
Vitaliana le disse:
—Il duca vi dice di fargli servire il cioccolatte nel suo gabinetto. E venite a vestirmi.
Balbek uscì, la testa affondata nel petto.
L'ultima parola era stata detta.
Il duca aveva forse indovinato.
La sfrontatezza sùbita, la resoluzione irremovibile di Vitaliana erano la conseguenza di una decisione suprema presa da lei.
Ella non ne soffiò motto ad alcuno, però. Si seppe il suo pensiero più tardi, da una bozza di lettera cui si proponeva indirizzare a sua madre, e cui non le indirizzò.
Ella si suicidava, ed uccideva Adriano con lei!
«Un ravvicinamento con mio marito—scriveva ella—mi sembra, più che impossibile, inverosimile. Io non mi sento la forza di resistere all'attrazione di mio cugino. Ma non so neppure perdonargli Morella—di cui colgo i baci caldi ancora, sulle labbra febbrili di Adriano. Non so rassegnarmi a morir sola, perchè soffocherei di gelosia fin nella mia tomba. D'altronde, ò infravisto, in un paradiso d'amore, il frutto proibito, cui voglio mordere di bell'appetito, prima di morire—e morir dopo, madre mia, par lavare l'onta di cui imbratto il capo di mio figlio.
«Le rimostranze di oggi del fu mio marito mi ànno confermata nella mia risoluzione.
«In una parola, madre, voglio morire nelle braccia di Adriano, con lui, sfogliando petalo a petalo l'estasi della colpa—se amare n'è una agli occhi di Dio…»
Ora, a quell'armellino non venne neppure nel pensiero di suicidarsi col véggio al carbone delia crestaina, con la pistola del violento, con il tossico della disperazione, col pugnale della premeditazione fredda ed eroica.
Ella meditava di una morte che fosse, più che una festa, un'aureola; meglio che un inebbriamento, un poema! Si sarebbe annegata in una stella, se lo avesse potuto!
Ella vagheggiava dunque di già quella morte deliziosa—cui il dottore di Nubo, con una scaltrezza perfida, segnalava al duca come un assassinio che non lasciava traccia e che avrebbe potuto passare sotto l'insegna giuridica del suicidio.
Ella non tenne però alcun proposito di codesto a suo cugino.
Il duca non concepì neppur l'ombra di un sospetto sulle intenzioni di lei.
Vitaliana si uccideva mentre suo marito l'assassinava—e tutto ciò con un'inconseguenza, con una leggierezza, con una irriflessione, con una frivolezza, cui io mi travaglio forse invano di dipingere onde dare un'idea dei caratteri che i clericali formano con la loro educazione religiosa.
Il giorno seguente, anniversario del suo matrimonio, Vitaliana si alzò alle otto.
Ella aveva la febbre che scoppiettava dappertutto: nei suoi occhi, sulle sue guance, dalle sue labbra.
Entrò nella sua stufa, e tagliò tutte quelle ali che volavano verso di lei, sbocciando—tutta la luminosa famiglia dei liliaci: tuberose, iridi di Firenze, gigli, gionchiglie, ginestre, quegli onagri che olezzano solo la notte, mughetti, prugnoli, resede, tigli, gelsomini, vaniglie…. tutte quelle anime!
Perocchè, il grande Boherave ne dà una al fiore, e la chiama lo spirito rettore.
Vitaliana ne colse una bracciata e rientrò con essa nella sua camera.
Si fece vestire di una toilette gaia; diede i suoi ordini a Maria, ed uscì alle undici.
Ove andava ella?
Ella andava ad asciolvere con suo cugino—in casa del quale metteva il piede per la prima volta dopo che gli aveva confessato il suo amore.
La colazione fu stordita di gaiezza.
Ella tirò alla pistola e tinse di nero i baffetti biondi di Adriano.
Essi uscirono in seguito, e corsero Parigi ed i dintorni, spassandosi come fanciulli e scolari.
Alle sette della sera, pranzarono ai Provençaux, in un gabinetto particolare. Poi entrarono in una baignoire, al teatro del Palais Royal.
Tra le undici e mezzanotte, Vitaliana rientrò sola al palazzo.
La giornata del duca di Balbek fu lungi dall'essere così divertita—quantunque i due innamorati immaginassero ch'ei si ubbriacasse dell'ultima coppa dell'elixir di Morella.
Il duca aveva mandato via Tob, cui aveva sorpreso, qualche giorno innanzi, nel suo gabinetto, assiso nel suo seggiolone, a frugare nei dispacci, per scontare i segreti di Stato alla Borsa. E' restò dunque in casa, nelle sue stanze, ove Maria si guizzava di tratto in tratto furtivamente, onde gittargli un motto su ciò che Vitaliana faceva.
Quando questa fu sortita, il duca se ne andò a ronzare per la stufa, a volta sua.
Vedendo il giardiniere contristato dalla messe distruttrice che Vitaliana vi aveva compiuta, e' lo mandò a comprare dei vasi di fiori da un orticoltore.
Andò in seguito, quatto quatto, ad ispezionare il balcone che metteva in comunicazione la cameretta da letto di sua moglie con la stufa.
Le persiane erano borrate, per interdire alla luce, all'aria, al garrito degli uccelli, di arrivare al nido della duchessa, che cominciava a dormire quando l'aurora si risvegliava.
Fu la bisogna di alcuni secondi che di forare, giù nelle imposte, un bucherellino con un succhiello, là dove le imposte si connettono, affin d'impedire, col mezzo d'una vite, che le si aprissero di dentro—se lo si fosse tentato. Poscia riaprì immediatamente il balcone ed uscì.
Da un'ora a tre, e' fu un viavai di commissionari che portavano alla duchessa, in nome del conte di Alleux, dei magnifici vasi del Giappone, riempiti di fiori rari—di cui la stagione, il cielo ed il clima di Parigi ebbero forte a stupire.
Si scorse il duca all' Hôtel des Capucines —ove andò a comunicare al ministro degli affari stranieri non so che nota verbale del suo Governo. Lo si rimarcò in seguito al club—ove pranzò e giocò gaiamente.
Morella gli fece i suoi addii alle dieci.
Alle undici, egli rientrò all'ambasciata, per la porta secreta del giardino e la scaletta a chiocciola che metteva capo alla terrazza della stufa, poi per il balcone del boudoir di Vitaliana s'intromise in camera sua.
Ma, prima di chiudersi colà, volle cacciare gli occhi nella camera di sua moglie.
Si sarebbe creduto al Ceylan, dove, al dire del visconte di Valenza, si respirano i profumi a nove leghe di distanza.
Il duca veniva appena di ritirarsi quando Vitaliana arrivò.
Ella restò abbarbagliata—talmente l'intelligente cameriera sua l'aveva compresa e servita a voglia.
La sua camera sembrava un mazzo di fiori rischiarato dalla luna. Perocchè, alle tre o quattro lampade che l'illuminavano, ella aveva fatto adattare dei globi di cristallo color cedro. Il balcone era chiuso e le cortine abbassate. Sur un guéridon erano delle leccornie ed una bottiglia di vin delle Canarie.
Il letto rassomigliava ad un cigno addormentato, il capo nicchiato sotto le ali. La gaze che temperava il luccicare del raso color di rosa, di cui le mura erano tappezzate, sembrava animata. Perocchè ogni movimento le imprimeva quella vermicolazione che si osserva sul seno di una giovinetta che dorme—e sogna del suo primo bacio! Le porcellane, i cristalli riflettevano la luce argentea delle lampade—alla guisa del sorriso del fanciullo—gioia spontanea anzi che gaiezza consciente—che rifrange la trasparenza dell'anima. Dove è luce e profumo, anima è.
I fiori, essi stessi, smorzavano il loro splendore sfrontato, per non disaccordare, in quel medio soave, melodioso, casto, inebbriante come quelle notti di luna piena di Delo o di Smirne—ove si crederebbe dondolarsi in grembo ad una costellazione.
Maria aveva disposta quella cameretta come Alfonso Karr compone un mazzo di fiori.
Vitaliana ne fu rapita.
Ma ella non aveva il tempo di esprimerle la sua ammirazione e la sua approvazione.
Si fece svestire alla presto, si avvolse nella sua douillette, e la mandò a coricarsi.
—Madama la duchessa si corica sola?
—Sola.
—Madama la duchessa à bisogno di qualcos'altra?
—Di nulla.
Maria salutò ed uscì.
Ascoltò un istante alla porta, sorrise, passò alla camera del duca—cui trovò chiusa… e si ritirò.
XIX.
Fiat lux
La duchessa si lasciò cadere sulla dormeuse.
La sua immaginazione prese in un istante le ali degli angeli e la condusse, in pochi secondi, a traverso i suoi anni di giovinetta, poi di giovane donna, poi di giovane madre. Il suo passato le formava intorno un pianeta. Passava per la via lattea della sua innocenza e si elevava verso le altitudini cui i primi raggi dell'aurora invermigliano.
Quei fuochi eran quelli del salone di Morella!
Questa memoria imporporò le guance di Vitaliana.
La sua testa bruciava di già. Il suo sangue bolliva ed aveva una tanta violenza di flusso e riflusso, che si udivano i battiti del cuore. I suoi occhi avevano delle fiamme come quelle dei punch, piuttosto come quelle di quegli angeli che i primi amarono le figlie dell'uomo. Il seno di Vitaliana si gonfiava come il mare sotto le carezze della luna; la sua respirazione ardeva.
Psiche era animata!
Sembrava più alta.
Ella poteva dire dell'amore ciò che Ovidio aveva detto dell'ispirazione: un Dio è in noi; al suo soffio bruciamo— est deus in nobis, flavente calescimus illo!
A questo zenit del parossismo del vaneggiamento, o piuttosto dell'introspezione, ella ebbe come una scossa e saltò impiedi.
Adriano entrava.
La porta del balcone del suo boudoir, di dove il duca era passato, era stata lasciata aperta dal padrone della casa.
In un baleno, Vitaliana si precipitò alla porta della sua camera e la chiuse.
Un quarto d'ora dopo, si sarebbe potuto veder nelle tenebre un fantasma alle pupille del tigre, avanzar dolcemente, ritenendo il fiato, ammortendo il fruscio del suo strisciare.
Quando il duca—era desso—fu alla porta della camera di sua moglie, e' si raddrizzò e spinse il lucchetto esterno.
Con la stessa precauzione, passò nella stufa. Si avvicinò al balcone di quella camera fatale, cavò una piccola lanterna cieca—di cui proiettò il lume sul buchino che vi aveva praticato la mattina—e vi colò dentro una vite cui girò e serrò.
Quindi ritornò alla porta della camera.
Aveva alla mano una pistola, e nello sparato del suo panciotto un lungo stile.
La porta era stata chiusa a chiave precipitosamente da Vitaliana. Ond'è, ch'egli non poteva veder nulla a traverso il buco della toppa.
Ma udiva tutto.
Accollò quindi il suo orecchio a quel buco della serratura… E le sue unghie, come dei graffi di leone, lacerarono la carne del suo petto.
Dio mio! che cosa è la morte, all'indomani di quella notte in cui Romeo si attardò fino al canto dell'allodola dell'alba, nella stanza di Giulietta! La vita à dessa ancor dei misteri, dei raggi, dei poemi, dopo che la bocca di Giulietta à rivelato l'armonia della danza degli astri?
Il duca sapeva che quella camera nuziale dell'amore era una tomba… e nonpertanto egli invidiava le sue vittime!
E la sue unghie si conficcavano più dentro e più dentro nelle sue costole, e sembravano farsi strada verso il cuore, per impedirgli di sobbalzare.
Quanto tempo quel dannato rimase egli a quella porta del paradiso?
Egli uscì precipitosamente di nuovo, per la porta segreta donde era entrato alle undici, poscia, alle tre del mattino, rientrò per la grande porta esterna del palazzo.
Andò dritto alla sua camera, rifiutando il servizio dei suoi famigliari.
Il duca ritornò alla porta della camera di sua moglie.
Poco dopo, tutti dormivano nella magione—tranne lui ed Adriano forse!
No, Vitaliana anch'ella vegliava.
Non udite voi quella parole interrotte, quei sospiri che, come bianchi cherubini, volano verso Dio; quella solfa profumata, che è un inno alle penne d'oro?
Ed il duca lacera e lacera sempre il suo petto che sanguina!
Se lo si avesse potuto mirare, egli avrebbe fatto orrore!…
Che! l'assassino ride?
Quella maschera di carnivoro si crispa.
Egli ode un piccolo grido. Egli ode un rumore, una mano che gira la chiave della porta, chiusa al lucchetto di fuori… Egli ode che si va al balcone, inchiodato allo zoccolo… Si scuote l'una e l'altro…
Ch'è? una voce… Vieni, Adriano, vieni! Ancora, ancora, vieni… Adriano… ò sonno, vieni… ancora, ancora, ancora!…
E le unghie del duca squarciano sempre, fino all'osso, il suo petto messo a brani!…
Poi silenzio!…
No, no… un bacio che si accascia… Silenzio!
Silenzio! come nel vacuo!
L'alba spunta.
Il duca va a ritirare la vite dalla porta del balcone, cava il lucchetto dalla porta della camera, e va ad appostarsi, la pistola alla mano, alla porta della sua camera, dopo aver scomposto il letto come vi si fosse coricato.
Le ore scorrono…
Le nove! le dieci…!
Suona il campanello.
Gli si serve una tazza di cioccolatte.
Il valletto guarda il padrone di un'aria strana.
Il duca si mira nello specchio e rincula spaventato!…
Una parte dei suoi capelli erano brizzolati di bianco… I muscoli del suo viso erano turgidi e stesi.
Le undici suonarono. Poi mezzodì!
Un sorriso rallentò la tensione dei suoi tratti.
Andò alla scrivania e cominciò un dispaccio!
Maria entrò.
Batteva il tocco.
—Signor duca, madama non à ancora suonato. Giammai ella è restata a letto a quest'ora.
—Entrate in camera.
—La porta è chiusa per di dentro.
—Bussate.
—O' bussato. Madama non à risposto.
—Andate a bussar di nuovo, più forte e più forte.
—Io temo di qualche disgrazia.
—Voi temete sempre, voi. Ella si è addormentata tardi, leggendo qualche romanzo… e dorme ancora. Ecco tutto.
Alle due, gli è il duca egli stesso che si allarma e forza la porta della camera di sua moglie.
La porta cede.
Egli entra: entra il primo; apre il balcone… e rincula—gittando un grido che fece accorrere i domestici.
Maria rinchiude la porta.
La cameriera à più pudore del padrone, del marito!
Vitaliana ed Adriano erano morti, bocca a bocca, nelle braccia l'uno dell'altra.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qualche giorno di poi si chiacchierava nei saloni di Parigi. L'uno diceva:
—Non sapete dunque? La duchessa di Balbek e suo cugino, il conte di Alleux, si sono asfissiati con dei fiori, per disperazione di amore.
—Disperazione!… con dei fiori!
—Alla lettera.
—Ed il duca?
—A' lasciato Parigi. Lo àn trascinato nel suo paese. Si è dovuto stentar molto per impedirgli di uccidersi.
—Che disgrazia!—sclamò la contessina di Muys. Il signor di Alleux mi aveva invitata pel primo walzer, al ballo dell'ambasciata di Prussia, lunedì prossimo!
E ciò fu tutto.
Adriano e Vitaliana si erano suicidati!!