IL RE DEI RE

Stabil. tip. già Boniotti, diretto da F. Gareffi.

IL RE DEI RE CONVOGLIO DIRETTO NELL'XI SECOLO

PER F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA

VOL. II.

MILANO G. Daelli e C. Editori.

1864.

LIBRO TERZO LA NOTTE DI NATALE.

I.

Scosse Roma a' sacri allori, Tenne l'orbe setto i piè, E di un branco di pastori Fece un popolo di re.

Celesia.

Il 22 marzo 1073 papa Alessandro II si moriva, e tre giorni dopo, l'unanime consenso del popolo romano, solito per lo innanzi a tumultuare nei comizi dei pontefici, Ildebrando esaltava, col nome di Gregorio VII.

Prima che di quest'uomo singolare parlassimo, e' sarebbe mestieri accennare volando la posizione dell'Europa, della Chiesa, dei costumi e della società dell'XI secolo, e vedere in quale stato ed in quai tempi e' raccogliesse la tiara. Imperciocchè non altrimenti si puote giudicare un uomo, cui la storia non ha per anco ben definito. Ma chi di queste gravi cose si preoccupa non verrà a studiarle in un libro, che arieggia di romanzo, ed in un quadro abbozzato a volo di rondine. Le storie d'Italia, di Lamagna, della Chiesa riboccano di fatti e documenti che questo stato sociale narrano, analizzano, condannano o commentano. Chi poi queste pagine legge per puro sollazzo e dal dramma fiuta, per induzione, l'epoca e gli uomini che facciam loro passare dinanzi, quantunque sentisse di più minuta e seria scienza storica, i dettagli, le date, il complemento degli avvenimenti del secolo, tedierebbe. E' passerebbe oltre. Ora, se questi lettori sfuggono la noia di sapere, perchè mi darei io quella d'insegnare? Riassumo dunque in due linee.

La società era costituita sul tipo feudale. La Chiesa si modellava su questo, ed il vescovo calcava le pedate del conte, il papa quelle dell'imperatore. La società laica e borghese, la città, il contado, cominciavano a scrutinare il dritto della Chiesa e dell'Impero, ed a negarlo. La libertà apriva gli occhi all'alba. Il libero esame del dritto e dei doveri s'installava nel dominio della ragione. Cinque secoli di dolori, di miserie, di vituperii, d'urto di parti, di reciproca negazione di jus, di vicendevole trionfo e vicendevole sconfitta, lo spettacolo di papi nefandissimi e d'imperatori prepotenti, aveano risvegliato la coscienza pubblica. Il dubbio entrava nell'imperio dell'anima. Non che la vertigine fosse nell'ordine materiale. Era il morale, al contrario, che insorgeva e reagiva. Materialmente, almeno in teoria, nelle costituzioni e nelle leggi, tutto era stato allogato al suo posto. Si eran stabilite le dipendenze, i dritti ed i doveri di ognuno eransi fissi; alla società si apriva cammino più spazioso per avanzare senza sregolatezze e senza trambusti. Imperciocchè le rivolture parziali di taluni Stati non interessavano la nazione tutta intera. La società sembrava assisa—sur uno sgabello di ferro rovente o sur un seggio di velluto poco importa—ma sembrava adagiata, costituita, normale, vitale. Un uomo sorse allora.

E' dette uno sguardo all'Italia, e la vide dipendere dall'ingordo dispotismo d'Alemagna, divisa, suddita a padrone a lei straniero d'indole, di lingua, di pensamento. E' dette uno sguardo allo Stato ecclesiastico, e lo vide imbrodolato nella laida e feroce ignoranza dei laici, addetto ad uffici contrari ai canoni ed alla santità del sacerdozio—perchè gli ecclesiastici ambivano il possesso di feudi ed agli obblighi di questi doveansi assoggettare. E' dette uno sguardo alle cagioni che tante miserie producevano; e lungi dal trovarle nell'ambizione dei sacerdoti, i quali non solo non sapevano rifiutare, ma sollecitavano dignità che solamente ai laici addicevansi, le trovò nelle investiture che questi ne davano—vale a dire nella forma non nella cosa in sè stessa. Infine e' guardò la catena delle subordinazioni sociali, e vide che la tiara dipendeva dalla corona, la Chiesa dall'Impero, l'Italia dalla Germania. Tale andamento nelle costituzioni del mondo a quest'uomo non talentò.

E quest'uomo era Ildebrando.

Egli trovava nella Società qualche cosa di abnorme. Vedeva che la forza dominava la ragione, la carne lo spirito. Sentiva un germe di corruzione minare le fondamenta di ogni legge morale e civile. Comprendeva bene questo veleno disorganizzante partire dal pontefice; ma non voleva persuadersi ciò dipendere dal falsar questi i principii del suo ministero; dall'attribuirsi dritti che cozzavano con la santità della carica; commettere opere ed attentati sacrileghi; ambire a poteri illeciti e non consentiti da tutti gli ordini sociali. Non voleva persuadersene Ildebrando, per sostenere che la dipendenza dall'Impero trascinava il pontefice all'enormità dei delitti; che le investiture dei feudi corrompevano gli ecclesiastici. Lungi dunque dal vietare a costoro di accettare più feudi, chè non l'avrebbero obbedito, lungi dal ritornare il papa ai primitivi doveri di sacerdote, senza competenza nelle bisogne secolaresche, concepì il progetto ardimentoso di crollare l'intiero sistema sociale, le costituzioni dell'impero, le leggi dei feudi, e creare un nuovo mondo tutto subordinato ad un potere teocratico, sollevare l'altare sul trono, il pastorale sullo scettro, l'Italia a Lamagna sottrarre, il papa trasformare in monarca.

Ildebrando si accinse all'opera.

Dotato di un animo smisurato per aspirare come Catilina sempre a cose eccedenti, incredibili e troppo sublimi, il suo spirito aveva rinvigorito nel silenzio dei chiostri. E lo aveva rinvigorito col concentrarsi in sè stesso; con l'isolarsi dalle umane passioni, che son pure le umane debolezze; con lo studio ostinato che la mente riscalda come l'attrito riscalda il ferro; con la meditazione che esalta l'intelletto e dà energia alla volontà; con le mortificazioni che addestrano al dominio dei sensi, ed inaspriscono la fibra, nel tempo stesso che sterilizzano il cuore e soffocano la sensibilità. Nel ritiro, nello studio, nella penitenza, il carattere d'Ildebrando erasi fatto cupo, arbitrario, indomabile. Perchè il ritiro gli proibiva qualunque comunicazione con i suoi simili, cui come nemici doveva considerare. Lo studio lo elevava al disopra delle regioni della terra, e gliene inspirava disprezzo, mentre gli dava coscienza della sua superiorità e del suo nobile destino. La penitenza l'inselvaggiva, indurandolo prima contra sè stesso. Inoltre, ruminando sempre sopra un'idea, questa gli si era presentata lucida come chi vede nelle tenebre lungamente permanendovi, gli si era assimilata, l'aveva presente a tutti gli atti della mente e della volontà. Facendo scopo della sua vita sempre un oggetto, non gli sfuggi mai parola o respiro che a quello non fosse diretto; non si mosse che per avvicinarsi a quello, a quel centro attirare gli sguardi di quanti gli stavano a contatto. Non regolandosi che sotto il dominio di un principio, addivenne ostinato nel rimuoversene, violento nel difenderlo, furioso nel vederselo contrastato. Quindi un'eccezione nell'opinione universale, un perno di disquilibri e di guerre. « Quel lusinghiero tiranno » scrive di lui s. Pier Damiano, amico fedele, satellite cieco, strumento divoto di tutte le volontà di lui, « quel lusinghiero tiranno che mi compassiona con cuor di Nerone, che mi liscia a schiaffi, mi carezza con artigli d'avoltoio, il mio santo Satana, e non esagero! è il solo fra quanti confratelli caritatevolmente mi usano compassione e gemono sui mali miei, è il solo a cui torno oggetto di riso ». ( Ep., I, 2.)

Ildebrando entrò nella società come il toro entra nel circo. Ogni cosa gli dava molestia, ogni cosa l'offendeva, perchè egli si aveva creato un mondo morale, come Platone si aveva creata una repubblica. Non che egli avesse torto, perchè veramente i costumi ed i sentimenti di quei tempi erano orribili, e chiunque aveva un principio di giustizia e di religione se ne spaventava. Però i più tristi erano gli ecclesiastici. « Essi conducono vita da giudei » scrive s. Pier Damiano ( Ep., IV, 9.) « non arrossiscono dell'incontinenza, degli scandali, delle più sozze e laide brutture, non hanno orrore dei sacrilegi e delle rapine de' santuari, di delitti e scelleratezze che gridano vendetta al cielo, perchè da gran tempo sono avvezzi a vergognarsi delle virtù cristiane. Nei loro circoli si odono arguzie a migliaia, bisticci, motti profani, freddure del mondo, e tutti i vezzi del vivere cortigianesco della città, da parerne meglio vanarelli, zanzieri e buffoni che ministri di Cristo. I loro discorsi non si aggirano che sulle adultere pratiche di questo o di quel lussurioso, non si odono che rise sconce, facezie sporche e disoneste, o il rumore diabolico dei dadi. In una parola, ed i vescovi sovra tutti, non curano che acconciarsi il crine a modo di edifizio, coprirsi a pelli di peregrini animali, portar sotto il mento preziose pellicce di martora, che al percuoter dei raggi sfolgoreggiano, ornare a stracarico di squame di oro le bardature dei cavalli, cavalcare robusti destrieri, tirarsi dietro stuolo numeroso di soldati e trabanti; sicchè negli arnesi da svenevoli, nelle amorose smancerie, nel muover degli occhi, nel gesto e nelle parole e' rassembrano compiutamente a istrioni. »

Tanta improba rilasciatezza doveva colpire Ildebrando nel fondo del cuore, perchè egli comprendeva come, per rendere potenti ed autorevoli gli ecclesiastici, bisognasse renderli prima rispettabili. Egli aveva trovata in sè la forza di reprimere le altere richieste dei sensi, di resistere all'andazzo dei tempi. Pretendeva che anche gli altri rinvenissero tanto coraggio, ed in questa austerità di principii si consolidassero. Perchè, una volta rimondati da ogni lezzo profano, potevano bene stendere ardita la mano al potere, ed impossessarsi del governale del mondo. In una parola, egli vide che il secolo aveva tre bisogni: un centro a cui si potessero rannodare le nazioni, da cui sperare giustizia, pace e difesa; un principio di credenze non contaminato da sozzi ministri; una libertà cittadina, che non fosse nè precaria, nè all'arbitrio dei despoti e degli stranieri. Ed egli entrò nella società, dalla rigida vita dei chiostri, con tre propositi: riformare il sacerdozio; sottrarlo dalla subordinazione laicale; constituire il papa re d'Italia, re dei re, protettore dell'universo, onde tutte le nazioni, tutte le città, tutti gli oppressi in lui riguardassero un giudice supremo, al suo tribunale si appellassero. Egli intendeva fare del papa quegli che prima i re poteva giudicare, deporre ed annullare, poi castigare i popoli.

Fornito di un carattere vivo, ostinato, coraggioso, prudente nella condotta e nell'attendere, sagace nel concepire e nel penetrare, pronto nel dedurre le conseguenze delle opere e nel prevenirle, audace nel tentare, duro nel resistere, ardimentoso nel pretendere, altero e vigoroso nel contrastare, attivo nell'agire, scaltro nel simulare e fino ipocrita, Ildebrando comparve sulla scena del mondo. Da prima e' si trovò fuori la sfera, perchè altrimenti l'aveva concepito. Ma, essendo egli una di quelle organizzazioni compiute ed elette nelle quali la natura spiega tutto l'opulento lusso dei suoi poteri, una di quelle tempre che la natura fonde intere e tali da elevare la specie umana onde servir di gradino intermedio tra Dio e l'uomo; mano mano quel mondo conoscendo, adattandovisi, sperando nel lavoro del tempo, cominciò l'opera fatale, che unico l'avrebbe reso nella storia—se un altro uomo del destino, nell'ultimo secolo, non fosse comparso per disputargli la gloria e superarlo di gran lunga.

Alla morte di Damaso II, 1049, Bruno vescovo di Toul, parente e consigliero carissimo di Enrico III, fu eletto papa nel sinodo di Worms. Bruno, recandosi a Roma, passa per Cluny, il giorno di natale, vestito degli abiti ponteficii. Quivi s'incontra nel priore Ildebrando, il quale di tali cose sa dirgli e siffattamente persuaderlo, che Bruno, semplice e credulo, depone le insegne ponteficali, ed in abito di pellegrino si reca a Roma, onde farsi rieleggere dal clero e dal popolo. Ildebrando lo seguì per manodurlo. E' gli fece attraversare a piedi nudi tutta la città, lo condusse dove il popolo ed il clero già trovavasi adunato a cantare il Te Deum, e Bruno, procedendo in mezzo dell'assemblea, parlò:

« Popolo e clero di Roma, noi, per volere dell'imperatore Enrico, nel sinodo di Worms fummo eletti a pontefice: ma, innanzi ai decreti di ogni altra autorità, noi stimiamo l'elezione del popolo e del clero romano, e protestiamo esser pronti a ritornar nella patria, se dai vostri suffragi quella scelta non sarà confirmata. »

Indi favella Ildebrando a pro di lui; ed a suo consiglio, il popolo ed il clero lo riconosce, chiamandolo Leone IX. Ildebrando fu allora creato cardinale suddiacono della Chiesa e proposto del monistero di San Paolo. Di qui ei comincia ad influire negli affari ecclesiastici, e su tutto quanto fa questo pontefice. L'elezione di Vittore II, successore di Damaso, e quella di Stefano IX, che a Vittore tenne dietro, non fu che opera d'Ildebrando, ed a sua insinuazione ogni atto di loro.

Alla morte di Stefano, il conte di Tuscolo briga pel vescovo di Velletri, uomo bestiale e caparbio e delle sacerdotali discipline ignorantissimo, e lo fa ungere col nome di Benedetto X. Ma Ildebrando si reca tosto in Germania, e l'imperatore Enrico, a consiglio di lui, sceglie Niccolò II.

Questo pontefice fu la mano con la quale Ildebrando gittò le prime fondamenta del suo gran sistema, che poscia si elevò a norma di dritto pubblico e di constituzione teocratica. Niccolò II agiva ciecamente e fiducioso sotto i dettami di lui. Infatti Ildebrando l'indusse nel concilio di Laterano a mandare fuori quel famoso decreto che stabilì il modo da tenersi nell'elezione dei nuovi pontefici, conferendone il potere esclusivamente ai cardinali vescovi, la confirma ai cardinali chierici, l'approvazione al clero ed al popolo romano; togliendo così all'imperatore non solamente la facoltà di scegliere, ma il dritto altresì di confirmare l'elezione. Ed Ildebrando lo trascinò a rompersi con Roberto Guiscardo, a scomunicarlo per l'usurpazione di Troia, sognata proprietà dei pontefici, ed infine accordargli l'investitura del ducato di Puglia, di Calabria e di Sicilia—allorchè l'avrebbe conquistata sui Saraceni—con l'obbligo di dodici soldi di Pavia per ogni paio di bovi che arassero nel territorio investito. Scomunica arbitraria, investitura ridicola, perchè si arrogava padronato su paese conquistato ai due imperi, ma che tanto Roberto quanto i pontefici seppero far valere, secondando gl'interessi di entrambi. Niccolò richiese, qual signore diretto del feudo, giuramento di fedeltà, e Roberto giurò di essere ligio alla chiesa romana ed al papa suo signore; di non minacciarne la vita, e non tenerlo cattivo; di aiutare di tutte le sue forze la santa sede per conservare, acquistare, o ricuperare il patrimonio di San Pietro, promettendogli assistenza nel sostenere la dignità di pontefice e governare il principato e le terre dell'apostolo; di non bandir oste contro di chicchessia senza il piacere di lui; di rimettergli nelle mani le chiese dei suoi dominii coi beni e dritti annessivi e difenderli; infine di vegliare alla sicurezza nei comizi dei nuovi pontefici. E sulle basi di questo giuramento, i papi pretesero da poi sempre alla signoria del regno di Napoli!! Ma nel 1061, dopo avere Niccolò II sottratto all'imperatore la facoltà di eleggere il papa e dato alla Chiesa, con l'investitura a Roberto, un esercito ed un capitano per farne eseguire i decreti, si morì. Ildebrando, ragunati i nobili romani ed i cardinali, proclama Alessandro II—mettendo così senza indugi in pratica il decreto del concilio di Laterano emanato da papa Niccolò.

Molti dei nobili, e segnatamente il conte di Tuscolo e quel di Galeria, con grande parte di popolo e di clero, mal sentirono questa elezione senza assenso dell'imperatore. Gli mandarono ambasceria perciò, con una corona d'oro ed il titolo di patrizio di Roma, pregandolo di dar loro un pontefice. In Basilea si accolse concilio numeroso, che dichiarò erronei, ed abolì i canoni di Niccolò II, come contrari alle constituzioni dell'impero teutonico ed ai decreti del concilio di Laterano di Leone VIII, ed elesse Cadolo, vescovo di Parma, col nome di Onorio II. Ildebrando, cui Niccolò aveva elevato ad arcidiacono della Chiesa ed Alessandro a cancelliere, con facoltà di fare quanto mai gli fosse piaciuto, per modo che s. Pier Damiano gli scriveva:

Papam rite colo, sed te prostratus adoro: Tu facis hunc dominum, te fecit ille Deum—

Ildebrando manda subito un legato ad Enrico con lettere del conclave. Ma il messo non è ricevuto, e vilipeso ritorna a Roma. Anzi, nella primavera, Onorio II, ricco di tesori molti e forte di truppa sì italiana che tedesca, si avvia alla volta di Roma e si accampa a Sutri. Poi, udendo che anche Alessandro faceva preparativi di guerra, leva il campo, ed al 14 aprile si presenta alle porte della città.

Quasi tutto il popolo romano ed i nobili caldeggiavano per Onorio. Alessandro andò ad attaccarlo nei di lui alloggiamenti. Alle falde del monte Oro, i due eserciti, capitanati dai due pontefici, vennero alle prese ferocemente, e quei d'Alessandro, rotti dall'ostinata puntaglia dei nemici, sbaragliaronsi. Se non che, mentre questi godevano della vittoria, sorpresi dalla contessa Matilde e da Goffredo di Toscana con truppa fresca, sono investiti da tutti i lati, e travolti in fuga. Onorio II si ricovera a Parma; ed Alessandro, minacciato dai suoi nemici di Roma, recasi a Lucca. Enrico convoca allora due concili ne' quali Onorio non comparve; ed Alessandro ed Ildebrando seppero dire di tali umili e peritose ragioni, che Alessandro fu riconosciuto.

Questo pontefice si abbandonò interamente ad Ildebrando. E questi lavorò sempre di alacre attività onde dar vita al suo sistema, nell'opinione dei popoli radicarlo, metterlo in opera per fatti. E perciò si avventurò fino a citare l'imperatore Enrico a dar conto di sua condotta innanzi al tribunale di San Pietro. Infine nel 22 marzo 1073 Alessandro si muore.

Il tempo era giunto. Ildebrando aveva gittate le basi della sua politica, nell'età era maturo. Morto appena il pontefice, col darne novella al popolo, intima digiuno di tre dì e preci pubbliche onde invocare lo Spirito Santo. Spirati i tre giorni, cardinali, prelati e clero processionalmente si recano al Vaticano, dove il popolo si ragunava già pei funerali del papa. D'improvviso, alquanti amici di lui, nel religioso silenzio della turba, gridano: Ildebrando è l'eletto di s. Pietro, il designato vicario di Cristo! E salito al pergamo il cardinale Ugo Candido, allora suo amicissimo, ne spippola lussureggiante panegirico. Il popolo risponde ad eco ai partigiani d'Ildebrando. Immediatamente gli addossano la porpora, gli porgono fra gl'inni e gl'incensi il camauro, e nella chiesa di San Pietro celebrano i riti dell'esaltazione. Compiuta la cerimonia, i sacri araldi gridano:

—I diaconi, i vescovi ed i cardinali elessero l'arcidiacono Ildebrando in pontefice, gl'imposero nome di Gregorio VII, e vogliono ch'egli sia supremo signore di Roma, padre e giudice della cristianità. Collaudate, o Romani, l'elezione dei cardinali? »

Il popolo grida: Collaudiamo!

I vescovi di Lombardia e di Lamagna, che per le simonie, i baratti, il concubinato e le sregolatezze d'ogni maniera contro i sacri canoni, avevano a temere del carattere rigido ed inesorabile d'Ildebrando, si recano allora all'imperatore Enrico e lo supplicano che annullasse un'elezione fatta in onta dei diritti imperiali e delle costituzioni, e che non patisse l'insolenza dei Romani, i quali si volevano sottrarre al suo padronato. Enrico, anch'esso irritato, manda infatti a Roma Eberardo di Nellenburg, perchè interrogasse il popolo ed i cardinali dell'insubordinazione ai dritti dell'Impero, e, rilevata l'irregolarità dei comizi, scacciasse Gregorio, ed eleggesse altro pontefice. Giunto a Roma Eberardo, Ildebrando raccoglie il clero ed i deputati del popolo. E dinanzi a quelli per tal modo s'infinge e si scusa, che sue rispettose parole da Eberardo riportate all'imperatore, Enrico, che cuore generoso e pieghevole aveva, si chiama soddisfatto della sommessione di Ildebrando, ed ordina al vescovo di Vercelli, cancelliero dell'Impero in Italia, che celebrasse la cerimonia dell'esaltazione. Per lo che nel 1074, il dì della Purificazione, Ildebrando è prima ordinato sacerdote, indi eletto pontefice.

Una sera, dopo aver Gregorio passata la giornata a spiccar legati per tutto l'orbe cristiano, a scrivere di quelle sue lettere piene di semplicità e di schiettezza le quali fanno mirabilmente a calci con la sua storia violenta, appoggiato ad un verone del palazzo Laterano contemplava il cielo, pel quale si andavano sfioccando bianche nuvole come falde di neve. Egli, infermo da tre settimane, non aveva potuto intendere ad affari, nè i suoi amici avevano permesso che alcuno gli si avvicinasse onde non intristirlo con isconfortevoli novelle. Ora, compiutamente riavutosi, ripigliava le redini dell'universo, e ad ascoltarne i casi e le vicende si apprestava. Un camerario gli annunzia il cardinale Ugo Candido, legato nelle Spagne, che, reduce, cercava rendergli conto della missione.

Ildebrando fa cenno della testa che entrasse, ed in piedi come stava, le braccia incrociate sul petto, l'accoglie. Il cardinale entra, e dice:

—Santo padre, il conte Evoli di Roucy, il guerriero della Spagna, ha accettato di conquistare alla Chiesa le terre d'Iberia sopra i Mori, e si è fatto investire del paese come feudo ponteficio, promettendo pagarne i tributi. Ma gli altri signori spagnuoli, a cui ho fatto mostra del vostro breve, sono restati orrendamente scandalizzati dalle parole di questo, che voi, in forza dell'autorità dell'apostolo, proibivate loro di combattere i Mori, se alle condizioni del conte di Roucy non si sottomettessero ( Ep., VII, 1). Essi han perciò risposto: che pugnano e pugneranno mai sempre, finchè si tratta di liberare la penisola dagl'infedeli; ma che intendono ciò fare per loro solo utile, gloria ed interesse: che la Chiesa non può vantar dritto sulla conquista, perchè mai la Chiesa non ha mandato nè un soldo, nè un fante per combattere i Mori: e che, infine, gli è sogno di ebbro o di matto il dritto della santa sede alla sovranità della Spagna. Dappoichè nel 701, nel concilio di Toledo, il re Witiza dichiarò sè ed il popolo spagnuolo indipendente dalla santa sede, e con decreto proibì a tutti gli abitanti delle Spagne qualunque segno di ossequio alla chiesa di Roma.

Gregorio stette ad udire l'ardita risposta degli Spagnuoli, per gli storici giustissima, per lui sediziosa, e dopo alquanto di silenzio dimandò:

—E voi, cosa avete risposto voi a quei ribelli, messer cardinale?

—Io mi son taciuto « disse il cardinale », dappoichè, santo padre, quivi non si trattava ribattere parole con parole, ma distruggere fatti. Ora e' dà segno di stoltezza chi contro l'evidenza dei fatti osa pugnare.

—Sta bene « risponde Gregorio severamente »; ritiratevi dunque, ser cardinale, poichè m'avvedo che voi v'intendete meglio di donne che di canoni.

Il cardinale Ugo Candido, uomo dottissimo ma ecclesiastico come tutti quelli d'allora, vale a dire punticcio in fatto di donneare, ed inoltre superbo e violento, guarda il pontefice di maniera corrucciata, poi facendo un passo indietro ed un gesto di disdegno, soggiunge:

—Mi ritiro, santo padre: ma vi ricordo che Ildebrando non mi parlò così il giorno che mi sedusse, e lo feci mutare in Gregorio VII.

E Gregorio perdette un altro amico.

Il camerario fa noto poscia al pontefice che Costantino, arcivescovo di Torres, legato nella Sardegna, dimandava anch'esso inchinarlo. Gregorio ordinò che entrasse.

—Santo padre « dice l'arcivescovo », ho recate le vostre parole e le vostre lettere ai Giudici della Sardegna, i quali meglio se ne chiamerebbero i re. Le mie persuasioni ho aggiunte per piegarli a riconoscere la loro isola quale immediato dominio della santa sede e feudo antico della Chiesa. Ma essi mi hanno dato sulla voce, han gridato all'insidia, e mi han cacciato dal paese, covrendomi di vituperi.

Gregorio resta ancora un momento a considerare, poi risponde freddamente e secco, senza di alcun modo spiegare il suo pensamento:

—Ritiratevi.

Il camerario annunzia Umberto, vescovo di Lione, commissario ponteficio nella Francia.

—Santo padre « parla il vescovo », ricevuta la vostra lettera e la bolla pei vescovi della Francia, mi son condotto a quelli di Reims, di Sens, di Bourges e di Chartres onde partecipar loro le minacce di vostra beatitudine, ed esortarli a lasciare gl'impuri traffichi ed i baratti illeciti, e vivere da sacerdoti anzi che da soldati e cacciatori nelle crapule e nelle orgie. Essi però, santo padre, mi han risposto: ch'e' si sarebbero tolti dalla simonia e dal concubinato quando tutti gli altri ecclesiastici del mondo cristiano avessero fatto altrettanto. Poi sono andato a Macon per persuadere l'arcidiacono Landri che, essendo stato eletto vescovo di quella chiesa dal clero e dal popolo, non poteva il re Filippo pretendere pagamenti d'investitura, ed impedire la consacrazione. Per lo che, esigendo l'onore della Chiesa ch'ei fosse vescovo di Macon, si lasciasse consacrare senza paura, se non volesse esservi costretto dal rigore dei canoni. Landri infatti si persuase. Ma essendo entrati nella basilica per cominciare le funzioni, i balestrieri del re ce lo inibirono; e non lo avrebbero permesso mai, se Landri non avesse pagata la somma richiesta. Landri però è stato unto vescovo.

La pallida faccia di Gregorio si arroventa. Convulso nelle labbra, accennava già a violento scoppio, e qualche cosa in fatti fra sè medesimo mormora; poi, tutto ad un tratto si calma, e dice anche al vescovo, come aveva detto ai due precedenti:

—Ritiratevi.

Allora il camerario annunzia Sigofredo arcivescovo di Magonza, il quale veniva di Lamagna onde riferirgli di gravi cose. All'udir di costui, Ildebrando, come se stimasse doversi far trovare in attitudine più autorevole di quello starsi addossato ad una finestra, si asside avanti ad un tavolo gremito di pergamene e codici di Santi Padri, ed ordina che fosse introdotto. Sigofredo si reca a baciargli la mano, indi parla:

—Padre beatissimo, unitamente ai vostri legati presentammo a Nurimberg all'imperatore Enrico i decreti del concilio che vostra santità tenne a Roma. L'imperatore li riconobbe, benchè di mala voglia, e solamente per condiscendere a sua madre Agnese, che con noi lo veniva a supplicare. Allora gli richiedemmo che lasciasse convocare nelle terre dell'impero un sinodo, onde, a nome di vostra beatitudine, deporre i prelati contaminati di simonia e di lussurie. Col monarca erano i vescovi di Strasburgo, di Spira, di Bamberga, di Augusta, di Wurzburg, di Brema e di Costanza—che sono appunto i più grossi baroni di Germania ed i principi più potenti dell'Impero. Alla dimanda, questi cominciarono a mormorare, ed a reclamare ad Enrico; ed egli per cavarsi d'impacci, ordinò a Liemaro di Brema di risponderci. Allora questi schiettamente favella: « Il dritto di convocare concilio nelle dipendenze della Germania appartiene esclusivamente all'arcivescovo di Magonza. I legati pretendono cose contrarie alle constituzioni ed ai canoni, non si debbono dunque ascoltare ».

Noi allora interdicemmo a lui il ministero di vescovo; e quello di Bamberga, convinto già di aver compera l'investitura, sottoponemmo alla pena della deposizione, se non si fosse provato innocente avanti al tribunale di Roma. Pubblicati i decreti del concilio, tutto il clero di Lamagna si leva a rumore, per ogni chiesa nascon tumulti. Noi allora indicammo un sinodo ad Erfurt, dove, essendo convenuti moltissimi, esponemmo gli ordini della santità vostra. Allorchè l'empio vescovo Ottone di Costanza, sorgendo come forsennato, si espresse in queste sentenze:

« Gregorio VII è un insensato! Gregorio VII è un ignorante, il quale non sa quel che si chieda; sono assurdi i suoi decreti. Sta scritto nel Vangelo: abbandona padre e madre, ma la tua donna non abbandonare: il secondo degli ottantaquattro canoni degli apostoli ordina: vescovo, prete, o diacono non discacci la moglie sua col pretesto di religione: ed il 39. o non usurpate la roba del vescovo, avendo egli moglie, figli, cognati e servi. Innocenzo I inoltre, nell'epistola 17, rimprovera i vescovi perchè promovessero al vescovado mariti di vedove: il capo 22 del concilio di Nicea esorta, non essere conveniente agli ecclesiastici lo scacciar la moglie; e s. Paolo nelle lettere a Timoteo comanda: che bisogna il vescovo fosse irreprensibile, marito di una sola donna, pudico, buon massaio di casa, e che avesse figli ben subordinati e casti; ed i diaconi, mariti di una donna sola, buoni custodi dai loro figli e delle loro case. Cosa dunque pretende codesto eresiarca di Roma? S. Paolo stesso ha altresì ordinato che: chi non può contenersi si ammogli, perchè val meglio ammogliarsi che ardere; tutti gli antichi Padri della Chiesa per tal modo si condussero. Che perciò, se Gregorio VII si ha fitto in pensiero di volere che fragili mortali vivessero da angeli, arrestando il corso ordinario della natura, Gregorio VII di sua mano vuole aprire la strada alla fornicazione, e sostituire alla santità delle nozze la nefandità di una libidine randagia e senza vergogna. Gregorio VII è dunque un uomo senza pudore e senza criterio morale. Noi quindi amiamo meglio rinunziare al sacerdozio che al matrimonio, vogliam piuttosto incorrere nell'interdetto che abbandonare le donne. Il papa perciò cerchi pure dei cherubini per guidare il gregge di Cristo se di noi è malcontento, imperciocchè tutti, per bocca mia, qui vi giurano, Sigofredo da Magonza, che giammai recederemo dai venerandi usi dei nostri antenati per secondare le voglie impure e tumultuose di lui ».

« Alle quali parole, santo padre, tutti levatisi a rumore gridarono:

—Vogliamo le mogli, vogliamo le mogli: Sigofredo ha meritata la morte; uccidiamolo, onde serva di esempio ad ogni altro che, col pretesto di religione, venisse a diffamare gli ecclesiastici e le donne loro ».

« E dalle parole passando ai fatti, ebbimo appena campo di ripararci ad Heiligenstadt e fulminare interdetto contro i perturbatori del sinodo.

—E poi? « dimandò Gregorio » cosa avete fatto di poi, messer arcivescovo?

Sigofredo lo guardò in volto onde comprendere chiaro che mai volesse dire, indi soggiunse:

—Nulla, santo padre, se non che partirci per venirvi a render conto dell'esito della nostra legazione. E siamo qui da due settimane.

—Arcivescovo di Magonza « severamente risponde Gregorio alzandosi da sedere » tu hai delusa l'aspettazione di s. Pietro, e ti sei mostrato tutt'altro di quello che il pontefice ti aveva creduto. Ritirati, e non lusingarti di trovar più fiducia in noi. Anzi, pensa alla giustizia del sinodo che sarà congregato per giudicarti; perchè troppo dalle tue parole e dalla tua codarda condotta abbiamo compreso parteggiare anche tu pei ribelli.

Sigofredo di Magonza, in cuor suo non tranquillo, abbassa il capo, ed uscito, in quell'istante istesso riparte per l'Alemagna.

Il camerario annunzia in seguito il principe Baccelardo.

—Santo padre « sclama Baccelardo entrando » santo padre, Salerno è presa dai Normanni.

A questa notizia Gregorio percuote del pugno la tavola e grida:

—E tu, neghittoso, tu vieni a portarcene vergognosa novella?

Baccelardo fa un balzo come percosso d'improvvisa contumelia e fissa il papa di sguardo superbo e collerico. Poi dopo un minuto di silenzio:

—Sì, ser papa « animosamente risponde » io posso bene portarvene la nuova, dopo aver combattuto come guerriero, ferito Guiscardo, e ceduto al numero. Disdicetevi dunque di codesta parola di neghittoso che mal mi si adatta; e se il cuore vi punge la sorte della misera nazione longobarda e di me, provvedete, e sollecitamente, energicamente provvedete.

—Sta bene « sclama Ildebrando » ritírati.

All'uscire di Baccelardo, senza essere chiamati, l'abate di Cluny ed Alberada si presentano. Alla loro vista Gregorio spalanca gli occhi, e dopo averli squadrati un momento, senza aspettare che parlassero, corrugando la fronte in modo accigliato, dimanda:

—Ed il priore?

—Il priore è fuggito « risponde Alberada con fermezza. » Ed io—io Alberada moglie di lui, rammentando il giuramento di Ildebrando nel castello di Cariati—io gli detti questo consiglio.

—Ah! « sclama Gregorio mordendosi le labbra e convellendosi nella persona per reprimersi » tu dunque gliene davi il consiglio? Ben facesti, Alberada, concubina del priore di Lacedonia, ben facesti. Appartatevi dunque; e tu abate di Cluny, fa perchè si rechi qui il castellano della Mole d'Adriano.

I due legati escono, ed il camerario introduce Gisulfo principe di Salerno. Gregorio lo riconosce, e cangiando voce e sembiante ad un tratto gli parla:

—Confortatevi, messer principe. Iddio che fa la piaga la medica. Sappiamo di vostre sventure: l'oro si prova col fuoco, gli eletti con le tribolazioni. Confortatevi, che noi provvederemo. Potete intanto ritirarvi.

Gisulfo a tanto freddo ed insultante conforto arde di dispetto e negli occhi scintilla, indi amaramente soggiunge:

—Sì, santo padre, mi ritiro—e mi ritiro dopo aver conosciuto appieno il valore dei soccorsi della Chiesa. Gli è bene però che sappiate ancora voi, sire papa, che Roberto Guiscardo non solamente ha tolti gli Stati a noi, ma in questo momento, in questo momento proprio invade il patrimonio di San Pietro, occupa gran parte delle Marche, e cinge d'assedio le mura di Benevento. Addio—conforto per conforto!

E sì dicendo, senza fargli cenno alcuno di veneranza, parte. Gregorio gli manda dietro uno sguardo lento e ghiacciato, poi mormora:

—Imbecille! occupa le Marche! assedia Benevento! Ah! questo ladrone normanno è dunque ben fermo a non lasciarsi mettere il giogo dai pontefici? E la vedremo, bel duca, la vedremo, per dio! chi di noi giuocherà posta più soda, e se tu ti stancherai prima di ribellarti, noi di metterti il piede sul collo.—La vedremo!!

Il camerario entra allora novellamente e consegna a Gregorio una lettera capitata in quel punto di Lamagna, riferendogli nel tempo stesso che il castellano della Mole di Adriano stava fuori. Gregorio rompe il nastro della lettera e legge

« Fratel caro, perchè mi è noto che le mie fortune ti recano gioia smisurata, quanto l'amore che mi porti, ti partecipo che la munificenza di Enrico IV mi ha eletto arcivescovo di Ravenna. Egli rise assai, allorchè mi gli presentai a Goslar, e gli raccontai della caritatevole trappola, cui mi avevi tesa con quel fedel duca di Puglia e quel bietolone di abate di Cluny. E ne rise tanto, che, per tener lieto ancora te, ed addolcire il dispiacere di non avermi avuto vicino, ha, per vezzo, tramutata la mia povera prebenda di priore in quella di arcivescovo—a cui voglio farti vedere come saprò fare onore; ed ora mi metto in viaggio per alla volta di Roma, onde tu possa fraternamente abbracciare il tuo amorevole e rispettoso fratello.

Guiberto— olim Priore di Lacedonia, nunc Episcopus Ravennatis ».

A questa lettura Ildebrando rimane come stordito. Per un pezzo guarda il suolo fitto fitto e convulso calca sul tavolo le polpastrella delle dita, poi tutto ad un tratto lo percuote del pugno, si leva in piedi e grida:

—Sire Cristo! gitterò le tue chiavi nel Tevere se non mi lasci punire questi ribaldi che si prendono giuoco di me. Dovessi soccomberci, dovessi perire, dovessi rinnegare la fede e dare l'anima mia a Satanno, gl'imperadori di Lamagna non investiranno più vescovadi ad alcuno; di Guiberto e di Enrico mi vendicherò.

E sì dicendo dava un passo per uscire, allorchè vede il camerario, quel Giovanni che fu poscia vescovo di Porto e tanto temerario e feroce, aspettare ancora gli ordini suoi. Ildebrando si ricorda del suo comando, si rimette, e dice:

—Fate entrare il castellano.

II.

Esso comune saggio Mi fece suo messaggio All'alto re di Spagna Ch'era re d'Alemagna.

Ser Brunetto Latini — Tesor. 2.

Il domattino gli araldi invitavano quanti cardinali, vescovi ed abati si trovassero dentro Roma per assistere ad un sinodo che il pontefice riuniva nel Vaticano.

Intanto Ildebrando aveva lavorato tutta la notte, ed ordinato a molti legati tenersi pronti a partire, sull'istante medesimo che quello sarebbe terminato, onde propagare nell'orbe cattolico i suoi voleri. Le notizie della sera antecedente lo avevano riscosso un momento. Poi si era ricalmato, e con una lucidezza di mente, che partiva da intima convinzione del suo dovere e dell'altezza del suo ministero, a tutto avea posto pensiero di provvedere. Doveva aprire l'uscita a novella vita nei secoli; doveva annullare gli ultimi avanzi degli usi e delle costituzioni dei vecchi tempi; al mondo far sentire la forza d'un nuovo codice, il quale primamente tutti gli arbitrii e tutti i poteri del dominio laicale rovesciava, indi ai cittadini restituiva un simulacro di libertà. Il pensiero era generoso, grande, originale: e perciò appunto senza violenza non potevasi manifestare. Segnatamente, che il carattere dell'uomo il quale l'aveva concepito era tenace, e si cacciava nell'aringo sicuro della pienezza delle sue forze, convinto della giustizia della causa, non ignaro dei tempi e degli uomini con cui scendeva a misurarsi, ed in Dio confidente. Perchè Ildebrando, se fu stimolato da ambizione, e fortemente lo fu perchè uomo e potenti sentiva le passioni, nel fondo del cuore caldeggiava di fede smisurata, e le vie di Dio giammai perdeva dello sguardo.

Il concilio si tenne—uno dei più forti e più fatali concili.

Però, come fu terminato, e sanciti que' canoni che gli uomini della Chiesa liberavano da qualunque subordinazione laicale ed alla purità dei primi sacerdoti li richiamavano, sciame immenso di legati e d'inquisitori traboccò per tutta Europa onde ad ogni città, ogni borgata, ogni vescovo, ogni pievano, ogni suddito fossero manifesti i concepimenti di Gregorio; lo stato delle chiese dell'orbe cattolico riconosciuto ed a lui rapportato. Essi dovevano inquirere sulla condotta dei preti ed a vita novella avviarli; sospendere i tribunali e le loro pendenze appena arrivati nei paesi, ed e' giudicare; ogni autorità piegare alla venerazione del pontefice; lo stato, il pensiero, i desideri, i bisogni, le querele, le gioie, la fortuna di ogni cristiano a lui significare ed a lui sottomettere; le città ed i castellani d'Italia chiamare a collegarsi per rompere qualsiasi vincolo di dipendenza dall'impero, ed il papa riconoscere capo della federazione, a danno di tutti i poteri. In una parola, gl'inquisitori che per tutte le terre d'Europa Gregorio spandeva dovevano spargere le sue dottrine; tenerlo istruito dei progressi del suo sistema; multiplicarlo; farne sentire il potere e la presenza; e quindi metterlo a caso di sapere quai passi potesse dare ancora, dove ammonire, dove fulminare.

Baccelardo era stato spedito nella Germania all'imperatore che allora teneva corte a Worms.

Sul cader di una sera, egli viaggiava stanco di aspra giornata ed affamato, mentre andava considerando le diverse vicende di sua vita. Il cavallo, colle redini allentate sul collo, gli teneva dietro, mansueto, affaticato non meno del padrone. Il nobile animale toccava di tanto in tanto le spalle di Baccelardo quasi avesse voluto dirgli: Monta su dunque, non divenir lasso maggiormente! E col fiato lo andava riscaldando, perchè spirava rovaio tagliente, e qualche raro fiocco di neve, come mosca bianca, aliava per l'aria e cadeva. Baccelardo però, o che volesse rispettare il generoso corridore coverto di bardatura di ferro e di cuoio, o che per il freddo gli tornasse utile il camminare a piedi, non rispondeva alle carezze del cavallo che con uno zufolare un'aria di caccia, o tutto al più con un: Animo Licht! due passi ancora, ed uno buono strame ed una grossa misura di biada tutto accomoda.

Indi considerava tra sè:

—Povera creatura! è stata sfortunata anche essa! I suoi antenati a servire i signori d'Altavilla ed i loro potenti figli; ed essa ad accompagnarsi meco di tutto diseredato, anche di amici, ad essermi compagna in tanto peregrinare, in tanti perigli, sovente anche digiuna. Ma andiamo, Licht, le cose forse cambieranno. Questo pontefice, che è tanto potente in parole, non ha saputo far niente per noi, perchè i pontefici apprezzano meglio un chierico, il quale biascichi due parole latine, che un nobile animale come te. Staremo a vedere che saprà fare questo matto d'imperadore. Veramente i saluti che gli porto non sono mica i meglio graditi. Ma la Dio mercè ho capito che oggi, in questo guazzabuglio d'interessi, bisogna che ciascuno pensi a sè. Io non sono assoldato con Ildebrando. Quando avrò compiuta fedelmente la commissione di lui, nessuno m'impedisce che non mi raccomandi un tantino ad Enrico. A lui piacciono coloro che menano le mani con l'aiuto di Dio, ed io mi son pane pei denti suoi. Del resto io mi trovo anche bene agli scialacqui della sua corte; perchè, dopo tanti stenti, un po' di crapole non mi dovrebbero mandare all'inferno. Iddio è tanto misericordioso! Ad ogni modo, mio bravo Licht, spero bene che per stasera non ci abbia a mancare un osso a rosicchiare ed un fiasco da spartirci fraternamente. Eh! arricci il muso? sei ghiotto di carne come un abate. Sta queto dunque che non te ne mancherà, vah! non ci fosse altro che da tagliare le lacche all'ostiere.

E così, parte discorrendo, parte pensando, si avvicinava ad un villaggio ai pie' del San Gottardo; allorchè, da dietro alcune casipole dirupate, vide uscire un gruppo di giovanette stranamente vestite, tutte scollacciate, e prodighe di vezzi e di daddoli avviarsi alla sua volta. Le quali, appena gli furono presso, si aprono, e mettendoselo in mezzo e prendendolo chi dalle braccia, chi dai panni, con gazzarra alta, cortese, e mista a sorrisi, gli diceano:

—Venite, bel signore, venite alla festa, venite all'allegria.

Baccelardo, stupefatto di quell'apparizione e da quell'invito, par fuor del secolo, nulla comprende. È però a tempo a gridare al suo cavallo: Quieto Licht! Perchè questo, vedutosi pigliar dalla briglia, già sbruffando schiuma ed arroventando gli occhi, si alzava sulle zampe di dietro per cacciarsi sotto quelle briose creature. Alla voce del padrone il cavallo si assoda, e quelle fanciulle, che dalla paura si erano sbrancate, si arrotano novellamente a lui, ed azzeccandosegli alla persona, ripetono:

—Ma non sareste voi per avventura un buffone, o signore?

—Il diavolo che vi porti, quelle pettegole!

—Non sareste voi per sorte un suonator di ribeba, un suonator di cornamusa, un istrione, un menestriere?

—Io non son niente di tutto codesto. Apritemi il varco ed andate all'inferno.

—Allora venite, venite chiunque voi siate. Racconterete i vostri viaggi, una storia di paladini o di maghi, una storia dell'orco e delle streghe di Benevento: venite a rallegrar monsignore—venite, damigello.

—Io non so nulla di codeste storie, le mie donnine! Che streghe, che paladini? Io sono un povero cavaliero, ed ecco tutto.

—Da bravo—venite dunque, bel cavaliere, venite alla cena di monsignore.

—Ma al nome di Dio! « sclama Baccelardo » non sareste voi per avventura delle fate che vorreste condurmi in un castello incantato, o spiriti maligni che, contraffatti in sembianze tanto venuste, ambireste tirarmi in trappole infernali per caparrarvi l'anima mia?

Quelle ragazze, ad uno scongiuro così peritoso, scoppiano in iscroscio di riso più pazzo ancora, e facendogli in certo modo violenza, se lo menano gridando:

—Non temete, bel cavaliere, noi siamo donne, pronte a darvi anche un bacio per convincervene, a farci la croce, a nominare Gesù e Maria. Venite con noi. Monsignore non sa cenare solo perchè si annoia, e ci ha messe alla posta per condurgli degli ospiti. Venite dunque, bel cavaliere, venite, se Iddio vi aiuta! a bearvi della presenza di monsignore.

Baccelardo, che dal viaggio si sentiva affranto e dal digiuno stimolato, al lusinghevole invito non sa resistere, tanto più che già toccava le porte di quel barone.

Segue quindi le donzelle, ed esse si dileguano cantando:

Il cavalier dall'armadura nera Prode in gualdane, od in levar falcon, Sa alle dame slegar la giarrettiera, Sa cantar la sirvente ad un veron. Calate il ponte, in su la saracina, Ch'egli viene a veder la sua regina.

La meschinità del villaggio non aveva fatta trovare ai forieri che precedevano il viaggio di quel magnate casa degna di sua signoria. Luride, nere, affumigate, senza vetri alle finestre, i tetti di legno, le porte sdruscite; che potevano promettere di buono fuori di un ricovero per vassalli, da Dio destinati al sudore della fronte onde far vivere lauti e sfoggiati i potenti della terra ed e' morirsi di stento? Avevano perciò drizzato bel numero di ricche tende intorno al ricchissimo e vasto padiglione del padrone, sì che il tutto sembrava un accampamento più grosso del villaggio stesso. Una folla di palafrenieri intendeva al governo dei cavalli; canettieri e falconieri curavano alimento e ricetto di quelle bestie strepitose; guatteri, cucinieri, damigelli, servidori di ogni maniera ivano e tornavano portando scorte, acqua, carne, vino, legne e mettevano tutto a rumore, tutto empivano di strida; scudieri, paggi, uomini d'armi che cercavano quartiere e provvisioni; mulattieri che cospettavano non trovando pronte le stalle per animali affatigati dal carico e dal cammino; borghesi che pensavano a barattare roba d'ogni genere e d'ogni verso, e piativano pagamenti da soldati tedeschi che non intendevano o fingevano non intendere l'italiano; tutta la gente del borgo accorsa per dare aiuto e per rubar qualche cosa, per curiosità e per guadagno; poveri, lebbrosi, zingari, buffoni che stuzzicavano quell'accozzaglia e speculavano per la folla; donne d'ogni età, pessimamente e bene acconce, laide e bellissime, vereconde e sfrontate, che tentavano chierici e frati in gran numero mescolati fra genía tanto misticcia, e li sollecitavano di benedizioni e di vezzi; cantarini che spippolavano la cantilena d'Orlando, e ballate piene d'insolenti buffonerie; istrioni che si contorcevano in quante contraffazioni possa esser capace la mobilità dei muscoli della faccia umana; musicanti che ripassavano le arie favorite, e tutto insieme un rumore così bizzarro ed assordante che eravi da perder la testa. La massima parte di quella gente, molto sopra il migliaio, stava a servigio di monsignore, ben messa, pulita, con eleganza e con gusto: altri molti si trovavan quivi, essendovi fiera a causa della festa del santo protettore del villaggio.

Le maestre di cerimonie presentarono l'ospite ghermito al maestro di palazzo di quel barone, il qual maestro di palazzo sedeva appositamente avanti la porta della tenda onde dar provvidenze e comandi, assegnar posti, distribuir danaro ai sott'uffiziali della casa, affinchè niuno rimanesse dimenticato. Il maestro di palazzo accolse di assai gentil garbo Baccelardo, raccomandò il cavallo ai palafrenieri del signore, e lo introdusse nel padiglione perchè potesse gustare dei primi ristori.

Baccelardo si trovò in uno spazio quadrato di trenta piedi, nel cui mezzo già avevano imbandita la mensa coverta di coppe e di vasoi d'oro e d'argento. Attorno attorno credenze magnifiche cariche di vasellame e di vivande. Ad un angolo, un camino con fuoco acceso vicino a cui novellavano parecchi signori sì ecclesiastici che secolari. Il maestro di palazzo presentò quel cavaliere, come aveva presentato altri ospiti, senza domandargli il nome, sendo ciò contrario alle regole dalla cortesia d'allora, equivalendo in certa guisa alla misura del favore con che bisognava accoglierlo. I signori quivi radunati salutarono officiosamente Baccelardo, sulla di cui fronte maestosa e negli occhi arditi si poteva leggere la nobiltà del legnaggio ed il valore, e gli fecero posto al fuoco di cui il viaggiatore non avea men bisogno che del cibo. Allora il maestro delle cucine venne ad annunziare al maggiordomo delle credenze che tutto era all'ordine sicchè potevasi cornar l'acqua. E questi, che fino allora si era tenuto impiedi al capo della tavola per far tutto disporre, dopo aver lento lento girato intorno e veduto che ogni cosa andava appuntino, pone mano allo zufoletto di avorio appeso al collo e suona. I valletti dispersi nel padiglione per ordinare il bisognevole dell'alloggiamento accorrono subito e si attelano ai lati della tavola. E come si furono disposti, il maggiordomo suona lo zufoletto di nuovo, e due araldi, sollevando una cortina di velluto a stemmi, che faceva da portiera, gridano:

—Castellani, leudi e baroni, fate riverenza a monsignor arcivescovo di Ravenna.

Ed i cavalieri e gli ecclesiastici, schierati in due file, lo salutano profondamente. Indi i valletti tolgono le brocche ed i bacini d'argento dalle credenze e danno l'acqua alle mani. Dopo ciò, ciascuno si siede al suo posto. Ora, quale non fu la sorpresa di Baccelardo quando, al lume sfolgoreggiante degli odorati doppieri, in quel possente principe riconosce Guiberto, il priore di Nostradonna di Lacedonia? Stette lì lì per darsi a conoscere. E forse l'avrebbe fatto, se non si fosse avveduto che Guiberto, sedendogli di fronte, aveva dovuto già ravvisarlo.

Intanto si comincia il lauto banchetto. Io non lo descriverò per minuto, perchè fastidioso ai miei leggitori potrebbe tornare altrettanto che ai commensali dell'arcivescovo tornava saporito. Ricche, squisite, profuse furono le dapi, stupendi i liquori. Pesci che nuotavano in brode come se fossero vivi e nel loro primitivo elemento: cacciaggione servita con tutte le penne, le quali, al primo tocco dello scalco, cadevano di dosso ed ammirabilmente cotta rinvenivasi: pasticci a foggia di rôcca, con barbacani e baluardi, ciascuna torre rimpinzata d'intingoli diversi, i fossati ricolmi di liquori e salse; la quale rôcca Saraceni, vestiti di fulgide vesti, assediavano, difendevano cavalieri armati di ferro: un cinghialetto irsuto del pelume, sì che sembrava vivo, e che, all'aprirsi, rovesciò il cuoio e mise fuori pesciolini, pasticcetti, camangiari, torte, tartufi ed altre di quelle leccornie che tanto ambivano i prelati-baroni d'allora, stracarichi di ricchezze e di volontà di ben vivere, e che tanto scandalizzano quel bizzarro ed iracondo uomo di s. Pier Damiano, da cui attingiamo molti dei costumi di quei tempi. Nulla dico poi dei preziosi vini, e delle bacchiche canzoni dei canterini, e delle musiche dei suonatori, e delle smorfie ridicole degli istrioni, e dei bei motti dei buffoni i quali sovente, per far ridere monsignore, delle vivande imbrattavano il volto ad uno scemo pievano chiamato San Gaudioso, gli mettevano in capo una testa d'asino, lo solleticavano all'orecchio con un ferruzzo rovente, gli tingevano il viso, e facendolo ubbriacare, lo pungevano di mille arguzie. Nulla vi dico neppure delle voluttuose danze che un coro di baccanti, non men belle delle maestre di cerimonie che trappolarono Baccelardo, tutte allo stipendio ed ai comodi di monsignore, carolavano intorno alla tavola.

Infine il pavone si servì.

Guiberto allora si alza, e prendendo un calice d'oro traboccante di borgogna, dice:

—Alla salute dei nuovi nostri ospiti, ed al pieno compimento delle vostre speranze, principe Baccelardo.

Baccelardo, così particolarmente distinto, si alza anch'esso, e risponde:

—Mille mercè, monsignore; ed alla vostra maggiore grandezza!

Allora tutti gli altri signori della corte, si rizzano, inchinano l'arcivescovo e bevono alla salute di lui. Solamente San Gaudioso resta seduto. Un buffone, che dall'estremo angolo della tenda lo puntava, gli si approssima mogio mogio e gli dà forte di uno scappellotto sulla chierica. A questa correzione, San Gaudioso si alza anch'esso di botto come preso da sussulto, poi sì volge, rumorosamente starnuta, spruzza di cibo e di vino il viso del buffone che lo aveva provocato, poi dice:

—Alla tua salute, fratello arcivescovo, e San Gaudioso ti farà cardinale il dì che lo eleggeranno pontefice in luogo di mastro Ildebrando.

A questo brindisi i commensali si rialzano, e vuotando le coppe, sclamano:

—Alla confusione del mago Ildebrando.

Ma l'arcivescovo fa cenno a quei signori di sedersi ed impone:

—Alto, baroni, non violiamo il santo rispetto all'ospitalità, perché qui vi ha taluno che senz'altro caldeggia per l'antipapa Gregorio.

A quella intima, mentre per consueto negli altri pranzi non si suscitava discorso più favorito che tornare in ridicolo i decreti, le opere, le lettere d'Ildebrando, non vi fu più alcuno che proferisse motto. E qualcuno notò, che Guiberto, per ordinario cinguettatore e bevone anzi che no, quella sera parlava e beveva pochissimo. San Gaudioso se ne avvide egli pure, e temendo che l'orgia non si fosse prolungata come di consueto nella profusione e nel brio, per rinfocolar l'energia, con la voce la più scordata e la più slegata possibile, biascicando ancora alcun poco le parole, intuonò la vecchia canzone

Voglio bermi sei botti di vino, Vo' crepare alla barba del mondo: Io mi sento girar tondo tondo, Eligetta, sostienimi un po'. Te lo giuro, mia vecchia sgualdrina, Te Io giuro per San Sigismondo! Che te penso da notte a mattino, Per te brucio, te sola amerò; Io mi sento girar tondo tondo, Eligetta, sostienimi un po'.

Un urlo prolungato di fischi e di applausi, un diluvio di scappellotti e di pezzi dì pane e di frantumi di ossa piovono sul capo spelato dello sciagurato pievano. Ma egli non ne cura più che tanto; imperciocchè a quel baccano l'arcivescovo si riscuote, e, come si svegliasse da sonno profondo, sì passa la mano tra i lucidi capelli acconciati a guisa di torre, ed un denso sprazzo di profumi ne sorvola. Indi si volge ad alcuni di quegli ingordi giullari che del viso bisunto e la bocca ripiena a metà di cibi si rimbeccavano insolenze e scurrilità, ed ordina:

—Andiamo: una Tenzone.

E subitamente escono dal crocchio due di quella genia. L'un d'essi aveva il destro lato della persona un buon quarto più corto del sinistro, sì che sembrava piegato a mezzo cerchio; l'altro non aveva quasi mento, e la fronte così schiacciata che dal vertice della testa alla punta del naso formava un piano inclinato come il dorso di una montagna; ond'è che per vezzo lo chiamavano Pietro dal naso corto. Essi fecero da prima stridere alcun poco le ribebe, poi, tutto contorcendosi e digrignando, uno dimandò per canto mezzo declamato, mezzo modulato:

Pietro dal naso corto, or dimmi un poco, Tu che sei d'ignoranza un precipizio, E solamente in trappolare al gioco Mostri talvolta un lecco dì giudizio; Perché si abbrucia chi si accosta al foco? Perché fiutansi i cani a quel servizio? E le vecchie han più fregolo di amore? E la carne sull'ossa ha più sapore?

A queste burlevoli dimande, Pietro non sta lungamente a considerare. Gli rimanda prima della ribeca suono più fragoroso, indi, contorcendosi delle più sguaiate smancerie e facendo lazzi, risponde:

Come dritto hai del corpo il frontispizio Dell'intelletto hai. Godo, anche il vedere: Chiedi onde il foco dia crudo supplizio, E non sai che la neve ha egual potere? Ricorda, tu che hai fatto da novizio, Perché i cani si fiutino al sedere; Nelle vecchie la frega è rimembranza. Son le ossa, a chi ha fame, anche esultanza.

Di poi si trassero avanti altri due giullari ed aprirono Tenzone più invereconda e di spirito più acerbo e plebeo. Noi la risparmiamo alle nostre leggitrici, parendoci già anche troppo di una, accennata per far noto un cotal poco di quai passatempi e di quai lazzi i nostri maggiori rallegrassero le ore di tedio. Gli è vero che baccellieri più culti e tonsurati più dotti usavano altresì Tenzoni che avevano anche ad obbietto quistioni di alta dialettica e di buia e stramba teologia. Talvolta però in queste poetiche pugne discutevansi pensieri di morale o fatti e leggi d'amore. Dappoichè i menestrieri cominciavano già a dettare ed a promulgare gli statuti di galanteria, e quel codice che regolar dovea un po' più tardi il vivere civile dei cavalieri e delle dame.

Queste Tenzoni però non rischiararono niente più lo spirito di monsignore. Preoccupato e' mangiava, e scarsa parte prendeva al diletto di altrui. Per lo che il tripudio dello stravizzo illanguidì, malgrado gli apotegmi spropositati degli istrioni, i canti dei buffoni, le carole delle damigelle, e le goffaggini di San Gaudioso. Infine la cena terminò. L'arcivescovo saluta allora la brigata per ritirarsi, e fa cenno a Baccelardo di seguirlo.

Entrarono in uno scompartimento della tenda, destinato al letto dell'arcivescovo. Vi avevano rizzato un padiglione di damaschi a nappe d'oro, che covriva una specie di ottomana. Due paggi di quattordici anni, inanellati e svenevoli, e due fanciulle bellissime e scollacciate, erano quivi al servizio dell'arcivescovo. Questi però, entrando, fa loro cenno di uscire, poscia voltosi a Baccelardo dimanda:

—E così, bel cavaliere, voi movete per l'Alemagna sicuramente.

—Monsignor sì « risponde Baccelardo ». Vi reco i decreti del concilio di Roma, e le lettere di Gregorio all'imperatore ed ai magnati della sua corte.

—Il concilio di Roma! « maravigliato sclama Guiberto che nulla sapeva di quel sinodo, egualmente che nulla se ne conosceva in Germania. « E quando mastro Ildebrando ha congregato codesto concilio?

—Non sono otto giorni, monsignore « dice Baccelardo. »

—Uhm! « mormora l'arcivescovo » il santo padre si sente dunque stimolare forte al guidalesco, che accoglie partigiani?—Già non ci vuol molto poi a capire di che si sia trattato in quella riunione.

—Sicuramente, monsignore. Papa Gregorio non batte che a ribadire un chiodo: riformare gli ecclesiastici: la Chiesa sollevar sull'Impero: Italia sottrarre a Lamagna.

—E ne ha colto proprio il tempo, ora che quel povero giovane d'Enrico sta sui prunai della guerra coi Sassoni, ed è sì fresco d'età, sì inesperto di reggimento! Ah! se fosse vivente la gloriosa memoria di suo padre! Papa Gregorio allora non sarebbe sbucato su fiero di tanto bruciore di santità e di ardimento; chè Enrico III ballottava i papi come i dadi, e li faceva e sfaceva come il nostro cuciniere fa le torte.

—Pur troppo è vero, monsignore « riprende peritoso Baccelardo » ma prego vostra mercede a volersi ricordare che io sono messo di papa Gregorio.

—Sicuro, Baccelardo, avete ragione; voi siete bravo cavaliere. Ma, diteci un poco, quali altri provvedimenti ha presi codesto concilio?

—Ecco qui: gli Spagnuoli che volevano fare i bell'umori sono stati esortati, con lettere severe, a riconoscersi vassalli della Chiesa, se non vogliono essere scomunicati.

—Bravo! gli Spagnuoli paventano delle scomuniche ed e' sariano capaci far qualche sacrifizio per non andare a casa del diavolo, che l'è popolata di canaglia. Ma se quei baroni gloriosi si ficcano nella memoria che il santo padre voglia smungerli a danari, e che è un eretico; essi, che trattano a tu per tu con monsignore el Rey e con monsignor Dios, saranno tali da scomunicar lui, e di venirgli a dire bona dia dentro Roma.

—E siano i ben venuti per parte mia! Al re di Francia poi è stata scritta una lettera piena di rimproveri, e tanti e cotali, che mantenga Iddio quel re non vada in bestia. È stato caricato di nomi di cui i minori sono tiranno, zingaro, ladrone di strada, turco, assassino, barattiero, e che so io. Una consimile ne è stata mandata pure ai vescovi della Francia, con il perentorio di un anno al pentimento ed alla riforma.

—Eh! eh! con Filippo messer Ildebrando non farà poi troppo il capotico. Filippo lo lascierà dire, ma vi assicuriamo noi, che seguiterà a vendere l'investitura delle abazie e dei vescovadi, se questo gli torna. Perchè alla fin fine saranno feudi ecclesiastici, ma son pur sempre feudi, di cui egli è signore, e di cui può disporre a suo talento.

—Voi dite benissimo, monsignore, e così pare anche a me. Sta a vedere però se papa Gregorio sia del medesimo avviso. Egli guarda le cose da un altro lato.

—E papa Gregorio farà conti falliti. E per la Germania quali misure ha prese il concilio?

—Per la Germania, monsignore, con la vostra sopportazione, non posso accennarvi nulla, perchè gli è questo il mio incarico. Posso però dirvi altresì, che all'Inghilterra ed alla Sardegna è stato imposto ancora di reputarsi feudi subordinati alla Chiesa, in virtù di non so quali vecchi scartabelli che questo benedetto pontefice va cavando dalle tignuole: che a Salomone il santo, re di Ungheria, è stato ordinato mettersi dell'animo in pace a cantar mattutini in un convento e cedere il suo regno all'usurpatore Geiza; perocchè questi si è dichiarato suddito della Chiesa.

—Che santo padre generoso! E' dà e toglie i regni come i ragazzi usano coi berlingozzi. E poi?

—E poi, i vescovi di Pavia, di Torino e di Piacenza sono stati tolti di grado per peccato di simonia—e voi altresì, monsignore, degradato per broglio ed indegnità della carica, e scomunicato.

—Che amoroso, che modesto pontefice! Ed inoltre?

—Ed inoltre, il vescovo di Liegi è stato esortato a smettere l'abitudine della carnalità; quello di Basilea a lasciare la moglie.

—E dalli con le femmine! Bisogna proprio credere che queste povere creature siano peggio del diavolo che fanno ai santi tanta paura.

—Monsignor sì, perchè le femmine hanno il torto di prestar piuttosto l'orecchio ai diavoli che ai santi. È stata di più abolita l'investitura di un feudo da un profano ad un uomo di chiesa—anche la cerimonia di darsi l'anello ed il bastone dal feudatario, sotto pena di scomunica ad ambedue. E su di questo segnatamente se ne sono dette delle tante, e dati ordini, e minacciati castighi che io non saprei ben bene esprimervi, quasi che dall'investiture dipendesse il finimondo. Per ultimo, nel bel mezzo del concilio, con ispaventevoli formalità è stato scomunicato Roberto Guiscardo, inibendo ai suoi sudditi di riconoscerlo ulteriormente come signore e come cristiano.

—È stato scomunicato quel demonio di Guiscardo?

—Sì, monsignore, e con tale solennità, con tanto apparato che ha incusso a tutti terrore. E non solamente lo ha scomunicato, ma gli ha mandato contro esercito poderoso, parte tolto dagli Stati di San Pietro, parte fornito dalla contessa Matilde, onde riconquistare le città delle Marche ed astringerlo a sgomberare di assedio Benevento dove adesso si sta.

—Proprio così, santo padre! « grida Guiberto » ma non l'incuterai a Roberto il terrore! Sta bene, Ildebrando, sta bene. Tirasti il giavellotto giusto allo scudo che te lo rimanderà sulla fronte. E sì dicendo, si fregava le belle mani, con indicibile gioia si dimenava sul suo seggio e sorrideva. Poi, volgendosi a Baccelardo, soggiunge:

—Non vogliamo saper altro, bel cavaliere. Però in compenso delle grate notizie che ci avete date, usateci la cortesia di accettar questa catena d'oro che a noi fu donata dall'imperatrice Berta. Non vi facciamo grandi promesse: vi preghiamo solo di accordarci talvolta il favore di potervi essere utile in qualche cosa. Vi diciamo intanto con rammarico che avete accettata una commissione che vi tornerà a grave danno.

—Sarà quel che vorrà Iddio, monsignore. Se pertanto potessimo rendervi servizio in Germania...

—Gran mercè, bel cavaliere! Ricordateci all'imperatore.

Baccelardo si congedò, e Guiberto chiamò l'abate di Modena. Era questi il segretario, il confidente, la coscienza, l'anima dannata dell'arcivescovo. Guiberto gli dice:

—Ser abate, gli è mestieri che in questo punto, seguíto da cinque uomini, montiate a cavallo, e che senza prender riposo nè dì nè notte vi rechiate sotto le mura di Benevento onde dare a Roberto Guiscardo il foglio che scriveremo. Intendete? nè dì nè notte farete sosta altro che quando e voi ed i cavalli prendiate cibo. Ci raggiungerete a Roma, al castello di Cencio. Ite dunque ad allestirvi.

Intanto l'arcivescovo scriveva:

« Monsignor Roberto, l'imperatore Enrico vuole che fra noi sia tolta ogni uggia; e di nostra parte più non ne abbiamo. Siamo stati eletti ad arcivescovo di Ravenna e segretario di Cesare in Italia, ed abbiamo di gravi cose a comunicarvi. Quindi o verrete voi a raggiungerci a Roma, nascostamente bene inteso, o ci manderete il nostro caro fratello monsignor di Bovino, con piena facoltà dal canto vostro di far trattati e con noi e con l'imperatore. Il resto a voce. Questo occorre che sappiate da noi. »

« Guiberto arcivescovo di Ravenna. »

Indi chiude il foglio, lo lega con un nastro, lo suggella del suo anello stemmato—e la lettera parte all'istante.

III.

Rex sum, si ego illum hodie hominem ad me allexero.

Plauto — Penulo.

L'arcivescovo di Ravenna giunse a Roma, ma non sì presto com'egli se lo aveva immaginato; perocchè gli fu d'uopo permanere alquanti dì nella sua vasta diocesi per darvi sesto agli affari. Se ne sbarazzò però quanto più presto e quanto meglio potè, ed i primi che avanzaronsi a salutarlo a Roma al suo arrivarvi furono il vescovo di Bovino e Cencio figlio di Stefano, prefetto della città. Cencio tornava anch'esso da Benevento—messo segreto a Guiscardo di parecchi baroni romani.

Guiberto arditamente, per mezzo del cardinale Ugo Candido, già col papa sgustato a cagione delle acerbe parole dettegli al ritorno della legazione di Spagna, mandò a significare a Gregorio che gli venisse a far riverenza, come a segretario dell'impero. Ildebrando nulla rispose all'audace dimanda. Ma fu tale il rimproccio di che fulminò il cardinale, il quale voleva così umiliarlo, che questi si alienò da lui compiutamente, e divenne il suo più tenace nemico. Ed il partito poderoso che osteggiava il papa dell'acquisto si rallegrò.

Intanto Gregorio si arrovellava del non poter pigliare misura alcuna contro Guiberto. Gregorio era potente, ma di forza morale, ma con la parola; la quale in quel secolo paventavano e riverivano tutti, meno gl'Italiani. Imperciocchè, se la lontananza nei popoli settentrionali rozzi e superstiziosi tornava il pontefice eguale a Dio, verun riguardo ne tenevano coloro che gli stavano più d'appresso, e ne sentivano troppo il peso e le passioni di uomo. Per modo che, non avendo egli altra forza temporale che quella dei baroni del patrimonio di San Pietro, e questi in maggior parte per sua severità voltiglisi contro o spiattellatamente o di nascosto, non avendo altra truppa che quella della divota contessa Matilde, ora occupata parte contro Guiscardo, parte nelle sue terre contro i vassalli dell'arcivescovo di Ravenna (perchè Guiberto comprese subito essere necessario un centro di rivulsione, e non perdette istante a levare in armi i numerosi suoi baroni), non potendo contare sui Romani, gente mutabile, indocile di chiericale dominio, orgogliosa, ed al suo prefetto obbediente, alla nobiltà divota; Gregorio si trovava sprovveduto di qualunque forza, tranne le scomuniche, cui temeva generalmente il mondo cristiano, ma deridevano ancora molti. E fra questi ardimentosi potevansi annoverare i Normanni ed il lor duca Roberto, i Francesi, l'arcivescovo di Ravenna, i Romani, e tolti in massa gl'Italiani tutti. Si arrogeva di più che per Guiberto favoreggiavano altresì i partigiani di Cencio.

Non bisogna veramente prestare intiera fiducia al canonico Paolo Bernriedens, scrittore della vita di Gregorio, ed al frate Lamberto Schafnaburgense, autore di cronache, perchè entrambi nemici petulanti di Enrico, e perciò appunto devotissimi a Gregorio. Questi due storici dipingono Cencio discolo uomo, perduto, facinoroso, un pendaglio da forca, di ogni scelleratezza vaghissimo, di ogni bruttura maestro, caporione di quanti ribaldi numerasse la città. Cencio aveva favoreggiato per l'antipapa Onorio II; alzata una torre a cima del ponte San Pietro, per riscuoter pedaggio da chiunque di quivi passasse, e perciò tenuto prigione alquanto tempo da Cinzio prefetto della città di allora. Ecco i torti di questo ardito giovane il quale, a vero dire, non vivendo nè meglio nè peggio degli altri baroni e gentiluomini di quei secoli, sapeva condursi con giudizio per sè, nel corrotto e nell'anarchia dei tempi. Di prosapia vetusta e nobilissima, di carattere robusto ed avventaticcio, si era messo a capo dei nemici d'Ildebrando; e perciò a costui esoso, e due volte scomunicato. I nobili romani, avversi al papa, lo avevano mandato a Guiscardo onde patteggiare aiuti, risoluti com'erano di sgabellarsene ad ogni modo. E Guiscardo, astuto altrettanto che temerario, aveva accennato accostarsi dal loro canto, dove che l'imperatore li secondasse. Aveva perciò rimandato Cencio indeciso di sua condotta futura, ed al vescovo di Bovino, invitato dal Ravennate, aveva date istruzioni segrete ma positive, ad ogni costo temperanti, conciossiachè già delle scomuniche fulminategli nel concilio di Roma e dell'esercito che si mandava ad osteggiarlo sapesse.

Cencio possedeva parecchi castelli dentro Roma. In uno di questi ospitò Guiberto, e quivi si aperse officina di progetti e di attentati contro Gregorio. Ripulso la prima volta, Guiberto aveva fatti novelli tentativi per avvicinarsi ad Ildebrando. Perocchè egli non era vesano al segno da non comprendere che un giorno o l'altro il pontefice avrebbe trionfato. E se corrotti dal donneare e dalla frega dei dissidi aveva i costumi, nell'anima nudriva sempre sentimenti generosi e blandi. Che perciò, malgrado dure fossero state le risposte di Gregorio e talora anche proterve, egli non rifiniva di inculcare ai suoi moderati partiti, e misure piuttosto adatte a piegare il pontefice e ritorcerlo da quel suo fatale sistema di riforma e di dominio. L'arcivescovo però malamente conosceva la tempra dei nemici d'Ildebrando; e' s'illudeva nel potere degli uomini e del tempo onde rimuover costui dai suoi propositi. Il vescovo di Bovino, Cencio, ed il cardinale Ugo Candido si unirono a consiglio una sera e si appigliarono al partito che non passerà guari e vedremo svilupparsi.

La mattina 24 dicembre 1076 una specie di belva faceva petulanti instanze nelle anticamere del palazzo di Laterano volendo essere ammesso a Gregorio, adducendo dovergli comunicare di gravi cose.

Se le nostre leggitrici si ricordano di Laidulfo lo Zanni, che loro abbiamo presentato nelle atletiche pruove dentro le mura di Salerno, lo riconosceranno a primo sguardo, perocchè egli appunto si ostinava a domandare di abboccarsi col papa. E per vero seppe tanto minacciare e richiedere, che a Gregorio fu menato innanzi.

Ildebrando sedeva a magnifico seggio dorato negli intagli, sopra cuscini di velluto porporino. Era vestito di bianca tonica di lana di Cipro, con la stola ricamata di croci d'oro bellamente sul collo ripiegata, addosso negligentemente gittata rossa cappa, in testa il berretto di velluto di Costantinopoli, porporino anch'esso, i piedi in papuccie bianche con sopravi ricamate in oro l'ostia e la croce. Aveva la mano cacciata nella profusa e lunga barba, il gomito appoggiato ad un tavolo, lo sguardo severo perduto nell'avvenire, la fronte annuvolata come una notte di gennaio. Aspettò quest'uomo singolare. Laidulfo, appena intromesso, fa cenno a tutti di tirarsi fuori, avendo a favellare di cose al papa solamente da rivelarsi. I cortigiani di Gregorio stettero dubbiosi nell'obbedire perchè nulla di rassicurante aveva lo Zanni nella persona: ma Gregorio, che in Dio fidava e di paure femminili andava immune, comanda a tutti di uscire. Allora Laidulfo toglie un seggio e si asside anch'esso. Ildebrando stupefatto di tanto inconsueto ardimento, curioso lo guarda fare, poi dimanda:

—E così, figliuolo, in che mai ti possiamo noi esser giovevole?

—A me in nulla « risponde Laidulfo sfrontatamente » io vengo per tuo vantaggio, Gregorio.

—Innanzi tutto, quell'uomo, dicci chi sei?

—Mi chiamano Laidulfo lo Zanni. Fo il mestiere di sicario, di buffone, di spia, di corriere—tutti i mestieri per camparmi con la mia figliuola. Mi battezzarono quando era bambino. I giudei mi circoncisero, perchè ho dovuto vivere in mezzo di loro. Gli zingari mi hanno insegnato a rubare. Ho percorsa tutta Italia e mezza Europa, visitando fiere e santuarii, vendendo specifici, lattovari e veleni. Servo chi mi paga, per quantunque accetto una paga, se mi calza. Amo il sole, la vita orizzontale, le belle femmine, le belle feste, i boccali spumanti di lacryma Christi, i bei colpi di lancia, i bei tumulti di popolo, le belle cacce... Eccoti in due parole chi sono oggi. Un giorno io era Giordano figlio di Landolfo principe di Capua spogliato dai Normanni.

—Tu sei dunque quel figliuolo che lo sfortunato Landolfo perdè senza mai più udirne novella?

—Io appunto; ti dà forse maraviglia, pontefice?

—Ed ai Normanni, che il tuo patrimonio usurparono, hai tu perdonato?

—No; perchè sta scritto: al tuo nemico non perdonerai in eterno. Ma poichè la biada non si falcia che matura, aspetto.

—E se muori?

—Il prefetto di Roma, Crescenzio, del tradimento di Enrico II fu vendicato da sua moglie. Io nudro una fanciulla, più bella della Rachele del beato Abramo e della Sulamite di Salomone. I giudei sono maestri in fabbricare medicine contro tutti i mali, eccetto la lebbra che è castigo del Signore; ma e' sanno meglio fabbricare veleni sottili e possenti, cui neppure il volere di Dio annulla. Guaidalmira li conosce tutti.

—E pensi?

—Che t'importa saperlo?

—Cosa dunque sei venuto a chiedere qui?

—Ecco. Mi hai dimandato che fossi, chi fossi, ed hai fatto bene. Ora, dimmi, non ti sembro io nato tagliato per farne un vescovo?

—Scellerato! grida il pontefice rizzandosi sulla persona e puntando il pugno alla tavola, chi ti ha dunque mandato qui per venirci a contristare di codeste infami parole?

—Nessuno; perchè io non obbedisco a chicchesiasi, fuori di me.

—Va via di qui, via subito, se non vuoi che ti facciamo frustare fino al sangue.

—Acquetati, ser papa, chè io non mi spavento di nulla; e stammi ad udire. Il vescovado di Oria è vacante; io sono stanco di una vita randagia e stentata: fammi dunque vescovo d'Oria.

—Ancora?

—Ancora—e devi rendermi mercè che così temperato io mi sia nelle voglie. Se ti avessi dimandata la tua temuta tiara, se ti avessi domandato le tue due famose chiavi, se ti avessi richiesto del cranio degli apostoli, tu avresti dovuto prender tutto e darmelo, ed ancora in debito mi saresti restato.

—Ma in nome di Dio! cosa è dunque che tu vuoi dire?

—Ah! non hai ancora capito? Voglio essere vescovo d'Oria, di Parma, dell'inferno insomma, di dovunque; ed in compenso ti svelerò una coppia di segreti, che tu dovresti dare tutto quanto il tuo ponteficato e due terzi dell'anima per saperli.

—Ah! non si tratta che di questo?

—Se non t'importa saperli, io ti reputo un semplicione, avvegnachè tu sappia tanto dentro nel latino e nei santi Padri, ti saluto e vado via.

—E codesti segreti che riguardano?

—Eh! eh! mastro Ildebrando, mi hai dunque in conto di tanto gonzo che io ti dica così degli affari miei? Se fo lo scimunito, gli è perchè mi ricordo della storia di un certo monsignor Bruto, così mi pare che si chiamasse, il quale faceva da cappellano in casa del vescovo di Roma san Tarquinio. Ebbene, diceva il mio maestro che costui un giorno...

—Sappiamo il resto.

—Meglio per te, perchè il resto veramente io l'aveva già dimenticato. Dunque se tu vuoi sapere i fatti miei, devi darti adesso la fretta di venirmi a consacrar vescovo, e ti dirò tutto fil filo; altrimenti...

—Altrimenti puoi andar via, s'interrompe Gregorio pacatamente, perchè dei tuoi segreti non curiamo nemmanco una buccia di porro.

—Dici da senno?

—Galantuomo! ricordati con chi parli perchè l'hai di già troppo spesso dimenticato.

—Ed io aveva costui in concetto di grand'uomo! sclama fra sè Laidulfo grattandosi lentamente il cocuzzolo. È la prima volta che debbo confessare che sono davvero un imbecille, come tutti mi dicono.

—Non hai dunque inteso? I tuoi segreti non vogliamo sapere. Se essi riguardano la nostra persona, non potrà per fermo accaderci più o meno di quello che vuole Iddio: se toccano le opere nostre o d'altrui, noi confidiamo nelle nostre forze, nella giustizia nella provvidenza del tempo. L'uomo semina gli eventi, Dio li matura. Va via.

—Ascolta; tu rispondi così perchè ti figuri che io voglia vantaggiare per me: vivi in errore. Quando avrai saputo di che si tratta mi dirai: Laidulfo, tu sei l'uomo più modesto di questa terra. Se io dimando mercede al servigio, gli è perchè ciascuno deve vivere del suo ingegno, e perchè la mercede ho trovata già. Del resto, io sono uomo di coscienza: agisco sempre così, e mi metto sempre sulla misura del premio e del servizio. Io non cangio sistema. Non hai voluto sapere dei miei segreti? Peggio per te. In questo mondo si vende tutto, dall'anima alla corona, dall'onore ai vecchi cenci; troverò chi li compri, e chi sappia profittarne. Ricordati solamente, papa Gregorio, che ti ho profferti i miei uffizii.

—Sta bene: ritirati.

—Dimmi solo se sei fermo nel tuo proposito di rifiuto.

—Fermo.

—Ed è l'ultimo tuo pensiero?

—L'ultimo: ed esci.

—Bisogna dire, o che sei un grand'uomo o uno scemo. Io aveva della simpatia per te, perchè ti sapevo ostinato e temerario nelle ambizioni, voleva farti del bene. Hai ricusato? Sarà dunque questo il volere di Dio, e non ci è che fare. Buon giorno, Ildebrando: Iddio ti protegga.

E sì dicendo Laidulfo si alza ed avviasi per partire. Gregorio lo richiama.

—Ah! ah! « sclama Laidulfo » ti sei rammollito? Già, l'umana natura se la cacci dalla porta rientra per la finestra! L'uomo non sa essere che codardo.

—Rispondi qui: non vorresti tu mutare la condizione del premio? Se ti dessimo oro, se ti facessimo valvassore di qualche terra, non riveleresti i tuoi segreti? Ben inteso però che essi siano interessanti come li spacci?

—No, ser papa. Se accettassi altro compenso, anche maggiore, si direbbe che Gregorio, testardo contro di cui niun uomo è mai tornato vittorioso, Gregorio capotico, ha vinto anche Laidulfo, di cui non si diede mai nè uomo nè mulo più caparbio. Signor no. O Laidulfo espugna Gregorio ed è fatto sull'istante vescovo d'Oria, o nulla: ed il segreto rimane con me.

—Il vescovo è un ministro di Dio, ed il ministero di Dio non si vende nè si dona per fini umani. Non vogliamo saper nulla.—Va via.

—Eh!! hai deciso?

—Sì.

—Possa non pentirtene un giorno.

Laidulfo parte. Gregorio resta lungamente mutolo, assorto a considerare, poi sclama:

In manus tua, Domine, comendo spiritum meum —e si rassegna.

Laidulfo intanto riparava a casa, nel tempo stesso che vi rientrava Guaidalmira.

—E così? dimanda Laidulfo.

—Benissimo « risponde la giovinetta ».

—Benissimo, che cosa?

—Ma! Indovinava la sorte a numerosi palafrenieri di una corte, allorchè un enorme abate è venuto giù per condurmi innanzi a monsignore che mi aveva guardata dalle finestre.

—Codesti birbi passano la loro vita a sbirciar cantoniere.

—Birbo o no, ei mi va... Un bell'uomo! rosso, robusto, vivo, occhi turchini, il sorriso sulle labbra, una bella barba rossigna, una fronte d'imperatore... un bell'uomo davvero! alto, maestoso, ed una mano che giammai a dama di castello ne ho veduta più bella, più bianca, più eloquente. Io esaminai quella mano che parlava proprio, provocava come gli occhi suoi scintillanti, e senza stento, tutta sorpresa ed abbagliata sclamai: Monsignore, voi sarete papa!

—Già! costoro vogliono essere tutti papa: la s'intende. E poi?

—Quel barone sorride di tutto cuore e mi bacia sulla fronte e sulle guance.

—Ma quante volte debbo dirti che ti guardi di codesti baci? « grida Laidulfo » Il bacio di un uomo brucia la faccia delle fanciulle.

—Sì babbo: ma che poteva io farci? Quegli d'altronde fe' darmi dieci bei bizantini e mi comandò che andassi a trovarlo tutti i dì.

—Come si chiama costui?

—Che so—lo dicevano l'arcivescovo di Ravenna.

—Lui? « sclama Laidulfo sorpreso e resta un istante mutulo: poi soggiunge » Guaidalmira tu non ci andrai—decisamente, no, non ci andrai.

—Sì babbo « risponde la giovinetta ».

Ed intanto cacciava di sotto il gamurino una soffoggiatella, ed imbandiva sulla tavola alcune croste di pasticcio, della carne arrosto ed altri frusti di desinare comprati alla trecca.

Allora si udì picchiare all'uscio.

—Entrate « disse Laidulfo, sedendosi ad uno scanno per dar cominciamento al pranzo ».

Erano due persone imbacuccate fitte fitte nel mantello, una che portava in mano preziosa fiala di nanfa ed odorava, come fosse costretto respirare aria palustre, l'altra che restò alla finestra del corridoio a guardar nella corte.

La casa che abitava Laidulfo era una topaia in vasto, nero e sdrucito edifizio. Vi si saliva per lunghissima e tortuosa scala che metteva capo in un corridoio, alla cima del quale era una finestra ed una porta. La porta introduceva al bugigattolo di Laidulfo; la finestra dava sulla corte.

La persona che vi era restata, guardava tutto attento una processione; perchè di rincontro a lui, ad un angolo della corte, si vedeva aperta una cappella o chiesetta.

Precedeva la croce, seguivano dei preti vestiti solamente di cotta e di stola nera, altri di piviali e dalmatiche anche nere: poi due becchini o monatti con una barella sul dorso, e dietro il popolo. Ma qual popolo? Gente vestita a metà di sacco nero; parte della quale aveva la pelle brizzolata come quella della tigre, a chiazze gialle o rosse sparse per tutta la persona, larghe e spesse; parte coverta di macchie annerite già, duro il cuoio come quello dell'elefante, gonfio il naso, le sopracciglie cadute. Altri di maggior numero, avevano queste impronte coperte di squama bianca, come il ventre del luccio. Altri infine carichi di ulcere sordide, la fronte tubercolata a porri violacei, il naso gonfio, cadute le unghie ed i capelli, varii punti della persona ingangreniti, gli occhi vitrei ed immobili. Atterrito e stomacato dall'aspetto di quegli esseri, i quali della classe umana non avevano ormai che la coscienza di loro degradazione ed i dolori atroci che non li lasciavano posar mai, quel signore, quasi per riposar lo sguardo, lo volse alla barella dei monatti, credendolo volgere ad un cadavere. Ma il raccapriccio aumentò. Perocchè i monatti, giunti avanti l'altare, poggiano a terra la bara, ed un residuo d'uomo vi si rizza sopra a metà.

Non aveva capelli, la testa coperta d'ulceri sordide, il volto turgefatto e difforme in guisa d'aver perduto l'aspetto umano per pigliar le somiglianze del lione, con i medesimi grossi tratti, le medesime sporgenze degli zigomi, il resto del corpo ammagrito, vizzo, labefatto, coperto solamente di cuoio squamoso, nerastro, ulcerato, le estremità ingrossate e fatte torpide ed inflessibili. Questo disgraziato, spogliato de' suoi panni, mentre i preti cantavano il De profundis fu vestito di nero sacco e bagnato d'acqua lustrale. Poi lo tornarono a stendere come morto sulla bara, onde avvertirlo: che il mondo si separava da lui; che non poteva entrare in altra chiesa fuori di quella, non in mulino, non in forno pubblico e tremolasse pure di freddo nel fitto gennaio; non lavarsi le mani in fontane o ruscello; non toccare oggetti o derrate che con l'estremità di una bacchetta armata di tre tabellette di legno per far rumore; infine non togliersi più di dosso il nero cencio, che all'esecrazione pubblica lo designava, neppure per discendere nella fossa. Quegli insomma era un lebbroso. L'edifizio in cui dimorava Laidulfo e la sua figlioccia un lebbrosaio.

La terribile malattia della lebbra sparsero in Europa i palmieri reduci di Terra Santa, dove questo morbo era indigeno; ed in Europa si mantenne lungamente, malgrado i lazzaretti che la pietà dei cristiani alzò fuori le porte della città, dotò di ricchi lasciti, ed affidò alla condotta di pietosi sacerdoti.

Quel signore dunque inorridito a tanta stomachevole vista entra precipitoso nella camera di Laidulfo ed ode il suo compagno che dicevagli:

—Dunque stai fermo?

—Sì, monsignore, risponde Laidulfo; basta che mi paghiate.

—Innanzi?

—Questo è il mio sistema, monsignore: ciascuno regola casa sua come gli torna.

—La bisogna deve mandarsi ad effetto stanotte.

—Anche adesso per parte mia. Ora sono tranquillo di coscienza.

—Eccoti dunque i cento danari patteggiati. Ma guardati di trufferie e di tradimenti, perchè sarebbero gli ultimi di vita tua.

—Salvo che morte anteriore non m'impedisca, non temete di nulla. Voi trafficate con un uomo onesto che vuole acquistar pratiche.

—Sta bene. Al palazzo di messer Cencio.

—Non vi occorre altro? andate in pace, se tuttavia non volete partecipare al nostro povero desinare.

Quei signori partirono.

La notte tutte le campane di Roma suonavano per la messa di Natale, allorchè il cardinale Ugo Candido, il vescovo di Bovino e Cencio, levandosi di botto dalla tavola dell'arcivescovo di Ravenna, da lui si accommiatano. Guiberto resta maravigliato del loro allontanarsi dall'orgia così presto; ma il vescovo di Bovino gli si accosta all'orecchio e pianamente gli susurra:

—Tranquillatevi, monsignore, ritorneremo subito. Andiamo ad uccidere papa Gregorio nella chiesa di Santa Maria Maggiore, e saremo qui.—Tranquillatevi.

IV.

Sangue sitisti, ed io di sangue t'empio.

Purg. XII.

Come Laidulfo si fu allontanato da Ildebrando, per tutto il dì questi restò in una specie di assorbimento di spirito, che non era meditazione, ma vago raggranellare di fatti, di pensieri, di fisonomie, di memorie che per interna visione gli passavano davanti come quadri senza nesso e senza principii, da cui non sapeva cavare construtto. Ed egli si abbandonava al pendío di quelle idee senza menomamente sollecitare la volontà per dare loro ordine o scopo. Era una stanchezza della continuata tenzione delle potenze dell'intelletto, una rivolta dei pensieri sempre dominati e diretti ad un fine. Ildebrando non si fece violenza per uscire da quel semi letargo contristato da sogni indefiniti. Si compiacque anzi tuffarsi in quel voluttuoso e trascurato deliramento. Solamente rivedeva con pena le sembianze del padre suo, come le aveva vedute negli ultimi momenti della vita di lui, e sentiva l'eco intima di quella voce che gli diceva: Guiberto ha miglior cuore del tuo, Ildebrando; riconciliati con lui, che io vi benedirò dal cielo! Quelle parole lo molestavano. Perchè nulla mai di amichevole gli era derivato da quel suo fratello, il quale, bizzarro, corrivo, temerario, e nell'ira crudele, come il suo cattivo genio, se lo aveva trovato allato in tutti i punti i più dolorosi della vita. E maggiormente e' ne sentiva il tormento, perchè quello che il padre loro, il bravo Bonizone, chiamava dolce cuore, egli definiva per ipocrita ironia, per istinto satanico di far il male. Ildebrando, fuso tutto d'una tempra, con un armonico lusso d'interna organizzazione, non sapeva comprendere, e mal si persuadeva della stravaganza di certe nature che incedono in perenne opposizione nei voleri e nei fatti della vita. Egli in certo modo, benchè lo predicasse tanto, non ammetteva nei suoi severi principii il pentimento, e lo dileggiava. Perocchè l'uomo che si è cacciato una volta per cammino qualunque, quello deve percorrere con perseveranza fino alla cima, ed o risultare vincitore o perire. La sua vita si condusse su questo modello.

Sul fare della sera però prese le briglie del suo pensiero in quelle corse vagabonde, e, come se uscisse dal sonno, si rimise ed orizzontò. Allora tutte le facoltà della mente si allucidirono. E' si ricordò della scena con Laidulfo, e si maravigliò con sè stesso di quella specie di affatturamento che quell'uomo sovra di lui aveva gittato, e come e' si fosse stato ad udirlo. E si rammentò pure con rammarico che, per conoscere quei due formidabili segreti, si era condotto fino ad offrirgli non sapeva più qual premio, ma un premio sicuramente, e tollerare da lui franchezze che puzzavano d'insolenza e di sopruso.

—Mio Dio, perdonami, egli pregò; in un momento di debolezza ho potuto dubitare che l'uomo alcuna cosa influisca sul corso dei destini da te stabiliti. Stolto! Quis contra Deus? Tu l'hai detto e la tua parola è infallibile. Io cammino sulle tue vie, o Signore. Ho commosso il mondo facendogli sentire il vigore delle tue leggi, perchè il mondo viveva sotto il dominio di Satana; perchè il mondo adorava idolo falso; perchè riconosceva e venerava altro potere fuori di quello del tuo luogotenente; perchè altri davano leggi fuori di costui, e davano leggi che giungevano ad insultarlo, a pigliarsi gabbo di lui. Signore, non far trionfare i tuoi nemici. La mia carne, la mia ragione si conturberebbero. Potrei dire nel dolore: non est Deus! I miei principii sono i tuoi; le mie glorie saranno le tue. Se io soccombo, l'amaritudine mi ucciderà, ma tu soccomberai con me; ed i popoli correranno senza legge e senza lume. Sorgi, Signore, ed i tuoi nemici più non saranno. Io mi sono rassegnato, mi sono rassegnato a tutto, ma non mi acqueterò mai, o Signore, finchè non mi sarò vendicato ed avrò stritolati come cenere i tre perversi che contro me e contro te hanno sollevata la cervice. Io li commetto all'ira tua—ramméntati, Signore, di Roberto Guiscardo, di Enrico di Germania e di Guiberto. Distruggiamoli. Sottragghiamo Italia al dispotismo straniero. Il sire d'Italia siamo noi.

Indi e' tolse alcun cibo, e si mise a scrivere di quelle potenti sue lettere, sia per edificare qualche fedele, sia per atterrire qualche ribelle, sia per consolare qualche popolo, o per esortare i vacillanti—lettere esuberanti di apostolica carità, di severo sdegno contro il vizio, di dolcezza e di mansuetudine, lettere che lusingano tutte le vanità dei potenti, che li richiamano a dovere, che la superiorità della Chiesa sull'universo portano impressa ad ogni linea; ma nelle quali non si trova nè l'Ildebrando della storia, nè il Gregorio. Ed era intento a questi studii, quando ode le campane di Roma che invitavano alla chiesa i fedeli per la celebrazione delle funzioni del Natale. Allora Ildebrando mette tutto da parte ed avviluppatosi in bianco mantello, alla chiesa di Santa Maria Maggiore si avvia accompagnato dai prelati della sua corte.

Era una notte orribile. La grandine, il vento, i lampi, atterrivano; le strade erano ghiacciate; mettevano i passaggieri in pericolo di sdrucciolo. Un buio fitto e denso, un muggito sordo e lontano di tuono; ed in mezzo a tutto quel corruccio della natura, la squilla prolungata della campana, più argentina, più malinconica. Pochissima gente però si era avvisata di lasciare i riscaldati ricoveri, e recarsi a laudare il Signore che nasceva. Massimamente perchè, in quel parteggiare di cittadini ed accanire di fazioni, non mancava mai alcun tumulto, delle battacchiate sovente, sovente delle uccisioni. Così che parte pei ghiacciori, parte pel buio, parte infine pel tumultuare dei violenti, si tennero a casa sicuri, ed i tempii lasciarono deserti. Ma di gente non mancava a Santa Maria Maggiore, dove sapevasi che il papa si sarebbe condotto ad uffiziare. Infatti Gregorio, che non temeva nè il broncio degli uomini nè quello della natura, anzi provava solletico a bravarli, dalla porta della chiesa profusamente illuminata intravide molta gente già dentro, molt'altra affollarvisi. Avvenne però che in quella calca, sul mettere il piede alla soglia, una giovinetta gli si facesse avanti, e cacciatasi ardimentosa fin presso la sua persona:

—Papa Gregorio, supplicò, tornate indietro, in nome di Dio!

—Dio ti benedica, figliuola, risponde Gregorio, terribile con i forti, mansueto coi poveri: non ti occorre altro da noi?

—Papa Gregorio, tornate indietro, insiste la giovinetta, uditemi, io non sono degna di favellarvi, ma uditemi.

—Ma perchè, figliuola mia?

—Santo pontefice, non posso dirvi di più. Tornate addietro; siete ancora a tempo: potete ancora andarvene incolume.

—Chi recede dalla via del Signore, risponde Gregorio rivolgendosi al suo seguito, pecca contro la provvidenza e la misericordia di lui. Sii benedetta, figliuola, lasciaci il passo.

E sì parlando entra nel tempio.

Guaidalmira, chè dessa appunto aveva tenuta la porta al pontefice, resta fredda ed attonita; poi si stringe nelle spalle e sclama:

—La volontà del Signore sia fatta!

E si accuccia in un angolo della chiesa per udirvi la messa

Il pontefice comincia la celebrazione. Tutto era tranquillo nella chiesa; tutto inspirava severa solennità—l'istesso canto dei cori, fuori del quale nè altra voce, nè altro rumore si udiva. Gregorio, dopo l'evangelo, parla al popolo la parola di Dio; poi si comunica, e comincia a comunicare gli astanti. Quand'ecco precipitoso entrar nella chiesa un uomo tutto ravviluppato nel mantello, col cappuccio di esso tirato sul capo, ed i becchetti ripiegati sul volto. Egli gira intorno sguardo inquieto, poi si presenta all'altare onde anch'egli comunicarsi. Il papa, assorto nella santità del ministero, non si avvede di nulla. E' profferisce le parole consuete, ed accosta l'ostia allo strano divoto. Ma questi sul punto di assumerla, mormora:

—Sálvati, Ildebrando, gli assassini sono qui.

Quella voce fa dare un sussulto a Gregorio. E' si ritrae indietro inorridito; il corpo di Cristo gli cade dalle mani. Non ode ciò che dice colui: conosce solamente la voce e grida:

—Indietro, scellerato, indietro, sacrilego profanatore delle sante cose; indietro, Satana, indietro; chè le mura del tempio si scrollano, il Dio di Isdraello ruggisce—indietro, indietro, indietro.

—Ma sálvati, per Dio, ripiglia l'altro, sálvati, Ildebrando!

—Allontánati, empio! prosegue Gregorio con le mani levate al cielo, minaccioso, acceso nel volto e nello sguardo, la voce tonante, terribile, inspirata, radiante di fiamma elettrica come le onde del mare nella tempesta; esci dalla casa del Signore che hai polluta come postribolo, hai venduta come schiava. La misericordia di Dio è stanca, è impotente a redimerti, t'abbandona, ti condanna. E tu, popolo di Dio, uccidi, sbrana, dissipa i suoi nemici.

A questa selvaggia apostrofe il penitente resta pietrefatto. Egli alza gli occhi sul volto del pontefice e lo vede corruscare negli sguardi di fosforica luce, tremante ancora di raccapriccio e di sdegno. Volge la testa al popolo, e l'ode mormorare e lo vede commuoversi. Tanto basta. Egli si alza come forsennato, salta sull'altare sì che fosse a vista di tutti, di un colpo di mano manda indietro il cappuccio e mette un fischio acuto. I congiurati, che nella chiesa appostavano ed attendevano che Gregorio avesse consumato il corpo ed il sangue di Cristo—perchè il corpo non l'anima di lui volevano morire—prendendo quel sibilo per segno, si scagliano sul popolo ed incominciano a cacciarlo via a colpi di spada. Laidulfo intanto da un lato, Cencio dall'altro si avventano al pontefice, ancora in sull'atteggiamento d'inspirato, e Cencio lo prende alla nuca, Laidulfo gli scarica sulla testa un colpo di daga. L'arma vola in pezzi sul cranio dell'unto. Al colpo, il pontefice si appoggia all'altare. Il sangue imbrattagli il volto, la pisside cade. Lo stile di Cencio gli passa il braccio credendo passargli il fianco. Ildebrando però non profferisce lamento, nè si trasforma in volto. Segno di commozione, di paura, di sdegno in lui non appare. Solamente, quando Cencio gli dà del pugnale mormora le sublimi parole di Cristo:

—Signore, perdonali; ignorano quel che fanno.

Il vescovo di Bovino intanto si unisce ancora a quei due. Rovesciano a terra Gregorio, ed in mezzo ad un popolo sbalordito e volto in fuga, tra sacerdoti atterriti e moribondi, lo trascinano via dalla chiesa.

L'arcivescovo di Ravenna era restato in piedi sopra l'altare, freddo, impassibile, con le braccia incrociate sul petto, girando attorno lo sguardo immobile e distratto—come la statua del silenzio—come la statua della stupidità—come Amicla—come Niobe—come la moglie di Lot, lo sguardo, la mente perduti nel vago.

V.

Se il tuo fratello pecca contro di te sgridalo, e se si pente, perdonalo.

S. Luca, 17.

Appena Guiberto ebbe udito che andavano ad attentare alla vita di Ildebrando, appena ebbesi veduti dileguare d'innanzi i tre antesignani della congiura, anch'egli si leva da cenare e nelle sue stanze si ritira. Cento pensieri lo assalgono ad un tempo. Prima i pensamenti dell'arcivescovo, il quale vedeva finalmente rimossa la pietra angolare che i passi alla sua ambizione attraversava. Egli vedeva scrollati gli alti disegni di quel severo pontefice, che alzatosi in mezzo al secolo, e, saldo come roccia colossale, aveva detto a tutte le leggi, a tutti i principii, a tutti i costumi che contro lui andavano a infrangersi: volgete il corso! Egli vedeva il suo più ostinato nemico abbattuto, dinoccolato nella polvere; e seco, tutte le ambiziose riforme, gli arditi concetti, e le rigidezze insensibili. Egli sentiva i popoli italiani respirare dal giogo novello, che aspra teocrazia gli preparava—non il giogo soave del Vangelo, non la legge di carità di Cristo, ma smisurata libidine di dominio che mai non avrebbe avuto nè confine, nè sazietà. Egli vedeva gioire gli ecclesiastici, sbalorditi da gli alteri comandi del nuovo unto, violentati nelle opere loro, richiamati da una vita lusingata da facili amori, avvaghita da glorie guerresche, da poteri sproporzionati, da dignità che trovavano a comprare senza stento, e dorata da nobile libertà cui niuno si piccava disputar loro. Egli vedeva l'imperatore Enrico e l'Alemagna tripudiare, sentendosi liberi da guerra feroce che li minacciava, da un uomo il quale stendeva la gigantesca sua mano alla corona, agli statuti dell'impero, ai dritti del popolo per scrollarli, capovolgerli, annichilirli, contaminarli di onta non redimibile mai. Egli vedeva infine emancipati tutti i re della terra e tutti i popoli che avevano cominciato ad udire voce novella, che si sentivano di botto mutati a vassalli di un uomo senza esercito, senza città, senza regno, senz'altra forza che una magica parola, senz'altro dritto che la debolezza di qualche bigotto scellerato, il quale, per redimersi delle peccata, aveva osato donare ciò che non è d'alcuno, ciò a cui senza sacrilegio non si può mettere mano, ciò a cui non si mette giammai mano impunemente—la libertà dei popoli! E questi e cento altri pensieri dell'uomo di Stato, dell'uomo civile, del magnate della Chiesa si spandevano per la mente dell'arcivescovo. Guiberto poi meditava da quale umile condizione a quale altezza si fosse collocato quell'uomo fatale; quale carriera avesse percorsa. E mano mano, considerando sè stesso, risalendo dall'arcivescovo di Ravenna al priore di Lacedonia, dal priore al paggio della contessa Beatrice di Toscana, dal paggio al figlio di Bonizone l'artigiano; e Gregorio VII dal papa all'arcidiacono Ildebrando, dall'arcidiacono al priore di Cluny, e dal priore discendendo fino alla bassa origine di lui, giungeva ad un punto dove le due esistenze combaciavano, dove le due carriere si congiungevano, s'immedesimavano; dove i due fratelli, non nemici implacabili come adesso, pargoleggiavano nel povero abituro del falegname di Soano. E qui il pensiero s'inebriava dei placidi trastulli dell'infanzia con tanta voluttà gioiti nel tetto paterno, della patria che mai più tanto lusinghiera non si sente se non quando si è lontani, ed in mezzo alle lutte dell'età adulta. Quindi si risovveniva di suo padre, che, pio e povero, per sudori della fronte somministrava loro il pane, che tanto savii consigli loro dava, e che la sera se li toglieva sulle ginocchia e loro insegnava a mormorare una preghiera per la madre, che più non viveva, loro additava le leggi di Dio, la pietà pei poveri, il rispetto pei padroni, e dopo scarsa cena, ringraziando il Signore del dì trascorso, loro raccomandava di amarsi sempre, ed andavano a dormire sonni sereni, innocenti—di quei sonni che non gustarono mai più, quando, cacciati nel turbine sociale, ad affetti e pensieri dovettero mettere condizione e misura. E queste ed altre memorie soavissime, impadronendosi del cuore di Guiberto, lo lacerano, lo commuovono, lo vincono. Guiberto domina l'arcivescovo; il fratello prende la mano sul nemico. Laonde perdendo di vista il pontefice per ricordarsi d'Ildebrando il figliuolo di Bonizone, si gitta addosso un mantello velocemente ed alla chiesa di Santa Maria Maggiore corre.

Ah! perchè Gregorio non si compunse alla voce del fratello, che generoso lo andava a salvare dagli assassini! Ma Gregorio non mutava di propositi. Gregorio aveva sterile l'anima, il cuore freddo, il carattere orgoglioso e caparbio; Gregorio vituperava le blandizie delle umane passioni. Il suo ghiaccio rivoltò Guiberto; la sua durezza inviperì l'arcivescovo.

I congiurati si trascinavano dunque Ildebrando, ed egli, dopo un tratto di sbalordimento, a passi lenti li seguiva.

Ma ecco che la voce per Roma si sparge dell'assassinio e del ratto del pontefice. Ecco che i partigiani di Gregorio si destano; che tutti i cuori si spetrano; che tutte le voci si sciolgono. Ecco che le opere ed i disegni di Gregorio si cominciano a commentare. Si mettono a luce le sue generose azioni, la sua carità verso i poveri, il suo disinteresse, la sua pura morale. Ecco che gli stessi nemici cominciano a magnificare la sua persona, strano misto di vizii e virtù opposte, a paragonarlo ai vituperevoli pontefici trascorsi, lerciati di ogni laidezza, a sentire la nobiltà dell'idea di riscattare gli oppressi, di tornar Roma regina dell'universo. Ed un rumor crescente si sparge per Roma. Si svegliano i neghittosi; si suonano a stormo le campane; e si dimanda del Santo. E si corre alla torre di Cencio dove si dice imprigionato o sepolto.

L'alba rompeva. Un'alba buia, brizzolata di nebbia che il freddo cangiava in ghiacciuoli. Non sole, non risveglio di quella vita del mattino che tutto penetra, uomini e natura. Roma pareva in scorruccio. Infrattanto, una moltitudine concitata di gente, che alla torre di Cencio aveva tratto, vi stormeggiava intorno, e levava vasto ululato chiedendo il suo pastore.

Per le feritoie e per le petriere, con forte scarica di frecciate e di sassi, e con la voce è loro intimato di allontanarsi. Il corruccio del popolo dirompe. Tutti quei curiosi, o neghittosi, o pietosi ed anche divoti, si cangiano in partigiani. Essi accostano alla torre un battifredo, protetti dai pavesi, ed intendono a travagliare le mura, forare la torre. Poi, di quella breccia il torrente trabocca dentro.

—Il papa! il papa! gridavano taluni.

—Che papa e papa! rispondevano altri, non ne vogliamo altri che il papa dei pazzi.

—Uccidete quanti son dentro, sclamavano di un lato.

—Risparmiate almeno le bestie, facevano eco da un altro.

—Mai no, mai no, perchè allora dovreste tutti salvarli. Uccidete, bruciate—e lasciate le femmine, onde ristorare lo spirito all'allibito pontefice.

—Date a me che possa sfamarmi di codesto Cencio.

—Ohe! udite Stefano che vuole sfamarsi!

—Farai magro pasto, Stefano; chè tu sei un lupo e Cencio un mingherlino non più grosso di una corda da liuto.

—Ti mangi la rabbia! mi hai rotte due costole coi gomiti.

—Largo, largo, io porto il fuoco per incendiare la torre: preme a me delle tue costole dunque?

—Tanto meglio, chè ce li beccheremo arrosti costoro.

—No no; perchè, se brucerete, cosa prenderemo noi?

—Che prendere! ci cuculia costui! Il papa vogliamo, il papa.

—Che papa e papa! se l'han mandato all'altro mondo giù del Tevere! Pensate a portare alcuna cosa a casa vostra, dico io.

—Demonii! mandarlo all'inferno per via d'acqua! Che giudizio!

—Il papa, il papa—morte a Cencio, morte a tutti.

—Che morte ci conti, un bischero? Peliamoli anche con un riscatto.

Il pontefice intanto era stato trascinato nella stanza più riposta del castello.

All'irrompere del popolo nel primo cortile, Cencio ed il vescovo di Bovino lo minacciano di freddarlo del tutto se non si affacciava alle finestre per allontanare la plebe. Ma alle minacce Gregorio sta sodo, e non risponde parola, non dà a vedere segno di commozione o di codardia.

Come però Cencio si avvide che principiavano a lavorare anche alla porta con asce ed azze, e che i gangheri pericolavano di cedere, supplica il pontefice per umili modi che volesse allontanare la canaglia, la quale rotto eccidio minaccia. Alle maniere sommesse Gregorio si piega. Approssimasi al balcone, quindi benedice quella gente aggruppata nella corte, le ordina di ritirarsi ed ai capi che venissero a lui, perchè si sarebbero aperte le porte. Ma quei di giù, prendendo i cenni per inanimamento, si avventano di più rabbia alle porte. Appoggiano scale alle mura per isfondar le finestre; appiccano il fuoco alle stalle. Cencio allora sgomentato si gitta ai piedi del pontefice e supplicandolo di perdono:

—Mercè! santo padre, sclama novellamente, mercè se ho oltraggiata la vostra tremenda persona.

—Non avete oltraggiato noi, Cencio, risponde Ildebrando, perchè noi siamo l'ultimo servo dei servi. Voi avete vilipesa la terribile maestà di Dio; ed a lui volgetevi per dimandargli perdono.

—Se mi perdonerete voi, pontefice, mi perdonerà ancora Iddio che giudica la terra col vostro consiglio.

—E siete voi pentito davvero, Cencio, oppure temete la giustizia degli uomini, che è qui per dimandarvi ragione del sacrilegio?

—No, pontefice. Nella cecità della mente io vi avevo mal giudicato. Io vi apponeva sentimenti che in voi non trovo adesso. Lasciatemi pure allo sdegno degli uomini, se volete, ma voi perdonatemi, e restituitemi la vostra stima; perchè io porterò mai sempre cordoglio di aver vituperato un nobile e santo uomo.

—Ma non sarebbe codesta ipocrisia, Cencio, ed un proponimento di voltarsi a vita migliore, come tante altre volte nelle angustie avete fatto, e poi, uscitone, ricominciare peggio d'assai?

—No, pontefice. Io sono veramente addolorato di avervi offeso. I vostri nemici vi avevano calunniato. Le opere vostre erano torte e forviate. Io non vi aveva mai conosciuto sì da vicino e sì grande. Io mi condussi a vendicarmi di torti che credetti aver da voi ricevuti per sola malignità o per gelosia di potere, e per gusto che avevate di altrui mal fare. Ma adesso....

—Ebbene, Cencio, noi vi perdoniamo, l'interrompe Gregorio. Solamente, in pena del macchiato santuario, andrete in pellegrinaggio a Gerusalemme. E con voi perdoniamo tutti i vostri compagni.

Intanto la plebe aveva gittate le porte, allagata la casa, e penetrava nella camera del pontefice, e i ferri alzava sulla testa di Cencio, del vescovo di Bovino e di Laidulfo. Ma Gregorio arresta loro le braccia e dice:

—Alto, figliuoli; non potrete percuotere l'uomo pentito senza peccare. Cencio ed i complici suoi sono stati perdonati da Dio e da noi; perdonateli voi ancora.

E sì dicendo faceva loro riparo della sua persona, ed allontanava il popolo, ringraziandolo dell'attestato di affetto che avevagli dato.

Eglino intanto se lo toglievano sulle braccia, ed acclamandolo, giubilosi se lo recavano in trionfo per le contrade di Roma.

Cencio sfuggì. Ma i suoi servi furono morti, sperperate le sue masserizie, bruciate le case, e messo a spada chiunque dei suoi si trovò; saccheggiate ed arse le case dei complici. Il vescovo di Bovino ebbe appena ventura di ripararsi novellamente a Roberto—dopo già aver ferme parole di alleanza con Guiberto tra l'imperatore Enrico ed il duca di Puglia, Calabria e Sicilia.

Fuggì pure Laidulfo.

Il pontefice tra le ovazioni del popolo era stato ricondotto a Santa Maria Maggiore. E benchè gravemente ferito sulla fronte e nel braccio, con tranquillità imperturbata di spirito, con solenne maestà, che cento tanti lo faceva comparire più grande del consueto, perdona i suoi nemici, canta il Te Deum per render grazie a Dio di sua liberazione, ringrazia il popolo di commoventi e soavi parole, e finisce di celebrare le tre messe. Rientrava in fine al suo palazzo di Laterno, allorchè gli si fa incontro Baccelardo che, reduce di Germania, sulla via della quale noi lo lasciammo, recava pressanti notizie. Egli si presenta a Gregorio e gli dice:

—Sire papa, venite al vostro gabinetto ed udrete. Io trascuro di spazzolarmi la polvere, trascuro confortarmi di cibo; la mano di Dio vuol provarvi.

LIBRO QUARTO IL CONCILIO DI ROMA

I.

Canc mais tant nom plac iovenz Ni pretz, ni cavalaria, Ni dompnets, ni druderia.

Folchetto da Marsiglia.

Gli è tempo ormai di vedere un po' più da presso Enrico IV, di cui qualcosa abbiamo accennato innanzi, e di cui più spesso dovremo favellare in seguito.

Pochi principi al pari di lui han suscitati più sdegni e spirito di parte, lasciando dir tanto e tanto diversamente di sè. Su di costui hanno pesato i più severi ed i più amari giudizii, le calunnie più infami, i soprusi più codardi; nel tempo stesso che elogi molti gli si fecero per nobiltà di maniere, per generoso sentire, per prodezza in guerra, magnanimità e fasto principesco. Una storia senza passione di Enrico ancora non avvi, perchè a lui si annette grande lite, ed il mutamento che subì la constituzione civile del mondo. E questo mutamento è tale, che le odiosità, anche adesso, non sono ancora cessate, sebbene i tempi e per gl'imperatori di Lamagna, e pei pontefici non fossero più gli stessi. Noi esporremo i fatti, ed i nostri lettori giudicheranno secondo l'indole loro. È storia questa che narriamo, e senza collera, senza affetto, senza passione veruna la narriamo— Io parlo per ver dire. Chi con la storia conserva broncio, salti questo capitolo.

Enrico IV, alla morte del padre Enrico III il Nero era restato fanciullo di cinque anni, sotto la tutela della madre Agnese, e la direzione dei vescovi. L'imperatrice si abbandonò tutta al vescovo Enrico di Augusta. Ella gli abbandonò il governo, e taluni dissero anche la persona. Sia come vuolsi, il favorito stomacò i principi di Lamagna per la sua strabocchevole ambizione e tirannia, e questi, unitisi a consiglio, primi gli arcivescovi Annone di Colonia e Sigofredo da Magonza, trassero dalla loro molti altri e decisero di sottrarre Enrico alla tutela della madre e del cortigiano. Con ingegnoso trovato, che per poco al giovane imperatore non riuscì fatale, l'arcivescovo di Colonia lo tenne nelle sue mani. Ed avvegnachè libero lasciassero le briglie alle passioni di lui, tumultuose, ardenti; pure, perchè severo uomo talvolta quel di Colonia sapeva mostrarsi, venne a fastidio ad Enrico, per tutto sdilinquire a favore di Adalberto arcivescovo di Brema, lo più stravagante ed originale uomo di Germania. Questi, curioso impasto di virtù e di vizii, di grandezze e di buffonerie, lasciava disgocciolare l'imperatore nelle libidini ed in ogni maniera di brutali passioni, onde rassodarsi nel favore di lui e le cariche tornar venderecce, le provincie mettere a ruba, gli onori per sè tutti carpire, i poteri in sè tutti concentrare.

La nazione intanto si sgruppava dalla soggezione con la quale Enrico III l'aveva avvinta; ed apponendo ogni odio di opere alla corruzione del giovane sovrano, si disuniva per levarsi a tumulto. Segnatamente perchè le finanze dell'impero impoverivano sensibilmente, tra per lo scialacquo di Enrico, che non aveva misura nel donare alle chiese e prodigare pei suoi piaceri, tra perchè l'arcivescovo voleva aprirsi agio ad empire in colmo i suoi progetti di signoria. I maggiorenti dell'impero allora si avvicinarono e fecero intimare ad Enrico il decreto di comparire alla dieta universale di Tribur, onde deliberare o di rinunciare allo scettro imperiale, o di levarsi di dosso la mala peste dell'arcivescovo di Brema—con quello stesso decreto posto a bando dell'impero. L'imperatore comparve alla dieta. L'arcivescovo fu cacciato dalla corte tra gli scalpori insolenti della plebe, ed il governo della Germania ripassò nelle mani dei vescovi.

Nel 1067, dell'età di diciassette anni, Enrico sposò Berta figliuola di Ottone, margravio di Susa, fanciulla d'intendimenti soavi, di bellezza incantevole. Queste nozze nel 1056 aveva aggiustate Enrico III, passando per Zurigo. Ma il suo figliuolo vi si era recato mal volentieri, obbligatoci da' principi di Germania, fosse perchè e' gradisse meglio la vita di scapolo in libidini vaghe, fosse perchè davvero, come confessarono entrambi quando dimandarono divorzio, ripugnanza invincibile li straniasse, al segno che insieme giammai non giacquero. Sia come si voglia, questo divorzio suscitò guai e querele molte, ma non mai fu legittimato nè dalle diete dello impero, nè dal pontefice.

I tempi intanto correvano per la Germania forti e calamitosi. In tutto quanto concerneva l'impero, o una parte di quello, tutto ciò che si riferiva ai principi, ai signori, agli Stati generali del regno, quanto aveva rapporto alle constituzioni, alle leggi, ai trattati di pace e di guerra, era stato sempre costume tenerne consiglio coi principi ed i deputati delle province cui più importasse l'esito della deliberazione. E dietro i loro suffragi ed il consenso dei popoli, emanavasi il decreto. Concorreva così, con la volontà dell'imperatore, il voto dell'intiera nazione. E siccome i re, giudici supremi di questa, amministravano la giustizia di per sè, e' non avevano residenza stabile, viaggiando di città in città, e convocandovi le diete generali, alle quali ogni nobile dell'impero aveva obbligo intervenire. Enrico, benchè non si scostasse da tali consuetudini, soffriva male l'annullamento o la temperanza del suo consiglio, conciossiachè poi dall'avviso delle diete giammai disconsentisse. Non pertanto i torbidi sorsero. I Turingi in prima, per non pagare indebita decima all'arcivescovo di Magonza Sigofredo; i Sassoni in seguito, perchè Enrico aveva eretti a cavaliere sui cocuzzoli delle loro montagne innumeri castella, dalle quali, come da ladronaie, calavan giù masnade di soldati a dar lo sperpero e disertare colti e borgate; gli Svevi per ultimo, anch'essi scorrucciati per non pagare insolito tributo, ed altre gravezze di usure e di balzelli.

La rottura di Enrico coll'arciduca di Baviera Ottone II di Sassonia della casa Boimenburg-Nordheim, le male intelligenze con Rodolfo duca di Svevia, e Bertoldo Zahringer che accennavano volersi quando che fosse levare a capi delle rivolture; il trattato con Sveno III di Danimarca, mediante il quale questi si obbligava a sussidiarlo nelle guerre coi Sassoni, egli stracciare dalle frontiere di Germania quel paese che affronta i confini di Danimarca e cederglielo; l'occupazione infine del castello di Luneburg, accelerarono lo scoppio della guerra civile.

Nel 1073, per la prossima festa di San Pietro e Paolo, Enrico aveva invitati a Goslar i grandi di Sassonia ad una dieta onde consultare di affari del regno. Però come i conti, i duchi, i vescovi, gli arcivescovi, gli abati si erano accolti nel palazzo imperiale all'ora prescritta, fu detto loro di attendere un momento ancora, perchè il re giuocava agli scacchi! Quei signori frementi aspettarono fino al tramonto. Allora un sergente del re comparve ed impose all'assemblea di sciogliersi, perchè Enrico già cavalcava parecchie miglia lontano di Goslar. A tanto affronto, i nobili sassoni non si sarebbero rattenuti dallo scoppiare, se la prudenza del margravio Dedi non li avesse acquetati. Ma la notte si accolsero a clandestino congresso in una chiesa, e quivi, rammentando gli oltraggi inflitti ai nobili, le miserie dei borghigiani, il guasto del paese, l'attentata libertà della patria, ruminando cosa volesse significare la guerra bandita già contro Polonia, stabilirono per loro editto convocare in Nockmeslau il popolo, convenirvi essi stessi, e quivi decidere della fortuna delle provincie.

Nel dì prefisso, folla immensa di nobili e di plebe vi trasse. Il duca Ottone di Nordheim, che si era allogato a presidente dell'assemblea, salito sur un poggio, pronunciò gravi parole con le quali le miserie del paese descrisse e degli arbitrii stravaganti di Cesare si querelò.

A quelle franche e magnanime parole si destano altri baroni ed ecclesiastici per accusarlo di più gravi e violenti attentati, e si risolve, o con le armi alla mano perire tutti, o francheggiare la Sassonia di ogni sopruso, e ricusarsi per la spedizione di Polonia. Si toglie quindi uno spicchio di tre di quei gravi senatori della provincia ed a Cesare si manda in oratori a Goslar.

Il resto dei signori di Germania caldeggiava per Enrico. All'arrivo dei legati dei baroni, egli li riunisce a consiglio nella reale corte, ed il sire di Nordheim parla:

—Nobilissimo re, il popolo di Sassonia, non ultimo fra le nazioni dell'impero per la gloria e per la fede, vi supplica a rendergli l'antica libertà del paese, gli antichi privilegii. Uomini stranieri, toltisi dalla bruzzaglia per imbratto di perfide pratiche, la fanno da signori a casa nostra, ed i beni, le persone, la libertà, l'onore trattano come roba da rubello. Monsignore, se voi ci lasciate la integrità delle antiche costumanze e l'onore, saremo il popolo più fedele e divoto delle vostre provincie. Sempre in punto d'armi contro le orde de' Luitici che tribolano le nostre frontiere, vogliamo essere dispensati dalla guerra di Polonia. Vogliamo inoltre tornati a libertà i principi sassoni tenuti prigioni per non giudicata colpa di fellonia. Vogliamo demoliti i castelli dalle vette dei monti nel cuore del paese e sbrattate le guarnigioni; giudicati dalla dieta i principi spogliati arbitrariamente di dominii, e rifatti de' danni gl'innocenti. Vogliamo ancora, monsignore, che anche voi portiate la vostra residenza in alcun'altra delle vostre provincie, perchè la Sassonia vi ha fatte le spese fin da fanciullo: che bandiate dall'impero i cortigiani venali e traditori, i quali pericolano la pubblica salute: che l'amministrazione delle cose dell'impero si affidi ai principi del regno, perchè l'erario non si sperperi, non si corrompano i giudizii: che la corte fosse purgata da concubine, richiamata l'imperatrice, il vostro mal costume, omai maturo di anni, mutato. Di questo vi supplicano i Sassoni, sire, e per quell'eterno Iddio che confessate, vi scongiurano di esaudirli. Imperciocchè se voi incaponito userete della spada contro di loro, essi ancora sanno trattarla, e morire per la libertà e la salute del paese. La nazione vi ha giurato fedeltà, perchè anche voi giuraste reggere i popoli nella giustizia; conservare le leggi ed i costumi degli antenati; proteggere a ciascuno i dritti, la dignità, i beni. Se voi violate il sacramento, in noi cessa l'obbligo di obbedirvi, e subentra il dovere di farvi guerra. E sì faremo, sire, sì faremo, finchè sarà vigore nelle nostre braccia, finchè non vedremo la libertà della patria restituita.

Questo franco ed ardito dire—ahi! troppo ignoto adesso—eccita la collera di Enrico, di temperamento vivo ed avventaticcio. Nondimeno si contiene e con un cotal suo beffardo ghigno risponde:

—Se alla nostra giustizia vi appellate con ragione, vedrete che la nostra giustizia giammai fu appellata invano. Se per la tranquillità dell'impero; l'impero è tranquillo, ed è perciò che noi puniamo i ribaldi ed i rivoltosi, e punimmo i Sassoni i quali di ogni debito di sudditanza credettero francarsi, perchè il vigoroso braccio di Enrico III era ghiadato nel sepolcro. Se poi il popolo che vi ha mandato pretende altra cosa da noi, convocheremo a parlamento i grandi dell'impero, e la sentenza della dieta terrà luogo al giudizio delle armi.

Udita la risposta, i Sassoni, consigliati da Ottone di Nordheim, si reputano vilipesi. E' si levano ad armi, ed in sessantamila muovono alla volta di Goslar, piantando campo intorno le mura. Il vescovo Burcardo di Alberstadt li tiene di assaltare la piazza. Enrico che vi era dentro, spaventato si fugge al castello di Harzburg con la sua corte: ed i Sassoni, tolto il campo di Goslar, sotto le mura di Harzburg vanno a metter le tende. L'imperatore manda Bertoldo di Carinzia, già insieme nei disgusti temperati, onde parlamentare coi nemici, e proporre loro, che la lite avrebbe discussa una dieta dell'impero ove avessero deposte le armi. Ma eglino insistono nel dimandar smantellati i castelli dai monti di Sassonia, aperti e sbertescati i varchi, ristabiliti i privilegii, l'onte pagate, e nulla voler udire di altri principi di Germania, mica sì ferocemente trattati come essi, e perciò a favore dell'imperatore pieghevoli.

In questo frequentare di messaggi e continuar d'avvisaglie infrattanto l'imperatore una notte si fugge dal castello assediato con la corte, i tesori e le insegne imperiali. Egli trae ad Hersfeld, ove i manipoli dei suoi guerrieri ed i suoi nobili si accoglievano. Nel tempo stesso, i Sassoni stringevano alleanza coi Turingi e gli Svevi. Allora si propone novello parlamento a Gerstungen. È accettato. E gl'insorti per tal modo sanno esporre di loro miserie, che i medesimi commissari imperiali si scuotono, dalla loro piegano, e convengono in deporre Enrico ed eleggere imperatore Rodolfo, di stirpe imperiale anch'esso, duca di Svevia e di Borgogna al di qua del Jura, con insegne e nome reale ad Arles, corte sovrana in Zurigo, prode nelle battaglie, savio nei consigli, liberale e gentile nel trattare, al re cognato. Questo però fu concordato segreto, e solamente si pubblicò che i Sassoni avrebbero soddisfatto Enrico pel delitto di fellonia, ed e' i torti contro Sassonia riparati, amnistia concessa.

Gregorio VII allora scrisse lettere ai principi alemanni, ai sassoni particolarmente, e cercò richiamare al suo tribunale la lite dell'impero.

Egli credette preparata da Dio l'opportunità di quell'ora onde iscrollare la vetusta autorità imperiale, e le sue dottrine proclamare. Imperciocchè, se giungeva a misurarsi con la Germania ed al suo sistema la sottometteva, il rimanente di Europa, o non avrebbe affatto o avrebbe assai debolmente resistito.

Poi, tutto sembrava favorirlo.

In Lamagna regnava sovrano di età e di consiglio giovanissimo, guasto dagli ecclesiastici che lo avevano tenuto alle falde, volubile, corrivo all'ira, nell'arte di governo non pratico. Lo attorniavano ministri ladri ed ignoranti, che il paese disertavano di balzelli, le constituzioni dell'impero attentavano. La fede dei principi traballava. Feroce odio metteva in combustione le provincie, di spiriti sempre opportune, la guerra civile accesa, consumata, e a disvantaggio del re vinta. Sicchè dunque Gregorio poteva lavorare: e passassero pure inavvertite le sue opere pel momento, egli avrebbe poi fatto giungere il giorno da cavarne profitto, come aveva praticato coi canoni di Niccolò II.

Ma Ildebrando faceva conti falliti. Imperciocchè alcuno non curò del suo intervento nelle bisogne dello Stato: nè uopo ve n'era. I Sassoni avevano già a Gerstungen strappato ad Enrico, che vedeva tentennare la fede dei suoi, trattato vergognoso, in virtù del quale le fortezze levate in Sassonia erano rase, sgombri i presidii, perdonati i ribelli ed i fautori. I Cesariani però, che per costoro tenevano, stomacano di tanta ostinazione nel non volere nè rimetter le armi, nè dagli articoli da loro proposti per la pace recedere. Passan quindi dalla parte del re novellamente, ed i Sassoni abbandonano. Così che, mentre Ildebrando credeva Enrico prostrato, le fortune di lui ristauravansi.

Egli manda bando per tutto l'impero che agli 8 di luglio 1075 ogni principe di Germania, ecclesiastico e laico, con quanti avessero vassalli e sudditi atti alle armi si trovassero al campo di Breitungen; perdona tutti gli altri nobili ribelli che dalla parte avversa tornassero alla sua. Tanto apparato sbalordisce i Sassoni. Essi fanno arrivare replicate legazioni a Cesare ed ai suoi principi, spediscono oratori alla dieta di Goslar, ed a Magonza, con scritte e con parole dimandando pace, rassegnandosi ad ogni legge di Enrico. Ma questi, oltraggiato nell'onore col trattato di Gerstungen eseguito appuntino, non vuole udire, non vuole veder mai legati di Sassonia, ai suoi nobili e vassalli impone giuramento di troncar coi ribelli qualunque pratica. Così che questi, tirati a capelli dalla disperazione, fanno voto generoso, morir tutti per la patria e per onorata libertà. Si bandisce poscia un digiuno, vestono di scorruccio, e, processionando scalzi e con la fronte affitta al terreno, traggono alla casa del Dio degli eserciti onde implorare grazia e vittoria da lui. Indi corre bando che, tolti seimila da restare a guardia delle fortezze, gli altri che portavano armi le vestissero, e coi viveri per sè si recassero al piano di Lutnitz, il dì che Cesare avrebbe messo campo a Breitungen.

Infatti, al dì prefisso, Enrico con grosse tolte di gente e forti apparecchi si trovava al campo. Ve lo raggiunsero il duca Guelfo coi Bavari, Rodolfo con una condotta di Svevi, Gozzelone coi Lorenesi, Teodorico duca dell'alta Lorena con uno squadrone di cavalieri, i capitani dei Franchi Ripuari con le forti loro schiere, Bertoldo da Carinzia con un corpo d'arcadori, parte montato parte a piedi, un esercito intero di ausiliari boemi capitanati dal figlio del re Wratislao, ed un distaccamento della sua guardia, comandata da suo genero Wiprecht. E poi dei vescovi, conti e marchesi, dei dignitari della corona, di tutti che avevano giurisdizione ecclesiastica o secolare, nessuno mancò. Perchè a nessuno si concesse restare a casa, tranne pochi vescovi svevi impossibilitati, l'arcivescovo di Colonia ad Enrico niente grazioso—perchè nel campo dei Sassoni combattevano il vescovo di Magdeburg suo fratello e quello di Alberstadt suo cugino—ed il vescovo di Liegi in fin di morte. Ma costoro ebbero a mandare le loro condotte con un vicario. L'istesso abate di Fulda, rattratto e perduto dei piedi, che andava con le grucce, dovette cavalcare all'esercito. L'imperatore quindi manda un araldo ai Sassoni per annunziar loro che il domani intendeva attaccare battaglia. A consiglio del duca Rodolfo muove perciò il campo da Breitungen ed il primo dì lo ripone in su quello di Elu, e al domani nei dintorni di Eisenach, poco stante dai quartieri dell'oste. Enrico si era messo a giacere per far la siesta, quando, in sul velar l'occhio, il duca Rodolfo lo sorprende e gli dice:

—Sire, i Sassoni alloggiano poco lungi dalla vanguardia, ed improvvidi del nemico pasteggiano, e fanno combibbie. Ordinate perciò che squilli la regia tromba, ed attacchiamo battaglia, perchè la notte starà ancor molto a calare.

Enrico l'ascolta.

Era giorno di grande caldura. Il terreno polverulento e frastagliato di dumi, incapace di capire tutto un esercito collocato di fronte. Fu partito quindi in cinque ordini; il primo del quale assegnato a Rodolfo con gli Svevi, il quale, per antico privilegio della nazione, avevan dritto formare l'antiguardo ed assaggiare l'inimico; a tergo asserrati gli altri baroni per la riscossa; ai lati Guelfo coi Bavari; per ultimo Enrico con gli eletti. Così serrati si accostavano infatti ad Hohenburg; allorchè nel campo sassone giunge contemporaneamente l'araldo di Enrico—ritardato dalla perversità dei cammini che intimava battaglia—ed il grido delle vedette, che avvisava il nemico gremire già il piano.

II.

Orribili corpi affatturati! uomini-lupi, donne-dragoni . . . . Quale spaventevole fracasso!

Goethe. — La prima notte di Walpurgis.

Abbiam lasciato Baccelardo, ha un bel tratto, ai piedi del San Gottardo. Cortesia vuole che non dimenticassimo alcuno della famiglia in mezzo della quale ci siamo collocati come istoriografi—non pagati e perciò veritieri.—E lo ritroviamo a Zurigo, il giorno di San Martino.

Se un uomo del nostro secolo fosse capitato in quella città a tale giorno, egli avrebbe giurato esser cascato dei piedi dritto in uno spedale da matti, o il carnovale esser venuto colà più precoce di due mesi. Eppure non era così. Celebravasi la Festa dei Becchi.

Noi la descriveremo tal quale usavasi allora, temperando le scurrilità empie e le lordure di che s'interpolava. I concili ed i SS. Padri, per quattro secoli, la fulminarono di scomuniche e proibizioni ma invano. Solamente avvantaggiata civiltà la bandì. Noi l'accenneremo, onde veggano un poco i nostri lettori di che i padri deliziavansi, e quale dose di religione essi avessero. Non ci diano perciò dell'empio. E se qualche tanghero di prete della fabbrica dell' Armonia voglia scandalizzarsi, legga innanzi il Du Cange, il Gioia, il Signorelli, ed altri cento che di tali cose favellano, e si persuada che la storia, e quanto dalla storia procede, non può essere cancellato da Dio, non può essere stuprato dai papi.

In tutt'altra circostanza, questi bravi Svizzeri, i quali allora erano svevi, sarebbero stati curiosi sapere più o meno alcun poco di un cavaliero che entrava nella città loro, a piedi, seguíto da cavallo zoppo e trafelato. Ma in quel dì e' non ci badarono; perchè avevano per le mani faccende ben altre e più serie.

Baccelardo si trovò dunque in mezzo di un popolo trasformato della più stramba guisa. Femmine travestite da canonici; frati in gonne da donna; chi si era mutato in orso, chi in porco, molti da caproni e da buoi, moltissimi da asini. Avevan messi a contribuzione tutt'i vecchi cenci dei rigattieri, le costumanze disusate, ed i colori dell'arco baleno onde sfigurarsi il sembiante. Ed a fianco ad Arabi, che dispensavano benedizioni a foggia di pugni, andavano vescovi, che si solleticavano il naso con la barba di una penna per starnutire. Vicino a matrone, che vendevano ceci arrosto e tortine con noci, camminavano notari che distribuivano agli per agnusdei. E poi giudei che leccavano un pezzo di lardo e ne bisungevano le barbe ai monaci che incontravano. Poi giullari che con enfasi nasale ed ingoiando le parole appiccate ed impiastricciate l'une con l'altre, predicavano il giudizio finale. Poi damigelle scollacciate che con le tuniche inverecondamente rimboccate fino sopra del ginocchio, vendevano salsicciotti di Westfalia. Poi baroni che dimandavano l'elemosina per s. Andrea. Poi poveri che si avevano applicate ulcere per tutte le regioni del corpo e ne offrivano cortesemente parte ai benefattori. E poi tutti i travisamenti possibili di volto, di panni, e di condizioni sociali. E quanti non avevano potuto aggiustarsi strambi vestimenti o sgorbi sulla persona, avevano indossati i panni a rovescio, cacciati i gheroni della camicia, imbrattato il viso di farina, o, avvolti in un lenzuolo, rappresentavano Catone in Utica, l'ombra di Nino, e l'arcangelo Michele, che si asciuga il sudore dopo aver mandato Satanno a tutt'i diavoli. Le maggiori contraffazioni però erano del genere religioso. E vedevasi un bettoliere, grasso ed ubbriaco, rappresentar la Vergine Maria in istato di parto, a cui accorrevano buoi ed asini a far corte in compagnia di angioli e cherubini. I quali cherubini rastiavano placidamente dei denti vicino a brustolita crosta di pasticcio, e che la Madre di Dio mandava a barbariveggoli il più cortesemente possibile. Qui poi un palafreniero che si aveva cucita addosso di rovescio una pelle di cavallo morto e figurava s. Bartolommeo scorticato. Là una cantoniera che sguaiatamente maravigliava di sua tarda pregnanza, e rappresentava s. Elisabetta. In una parola, secolari e laici, plebe ed aristocrazia, uomini e femmine, interamente difformati, avevan gareggiato a comparire nelle guise più strane.

Intanto le campane suonavano a distesa, trombe, ribebe, naccare, tamburetti baschi, mandole, ciannamelle, ghironde, quanti sapevano strimpellavano alla peggio. Ed una confusione, una calca, una pressa, un gridare, un pestarsi, un rimorchiare i passaggieri, un bagordo insomma assordante, confuso, una frenesia di gioia, senza limite di pudore e di riguardi. Trascinato dalla folla, Baccelardo si trova al castello del duca Rodolfo, che a Zurigo aveva corte sovrana.

Vicino alla porta di questo sire però inferociva più lo stringersi, ed un pigiarsi da mandar rotto il respiro, perocchè tutti volevano entrare, ed assistere all'elezione del duca Rodolfo al cardinalato. Ma la beatissima Vergine si era lasciata andare di traverso sull'uscio, e non permetteva penetrare a chicchesia, impacciata da un lembo della sua tunica paonazza accroccata ad un gancio sul portone, dove appiccavansi i nibbi.

—Andiamo dunque per tutti i demonii, madonna Maria, gridava un bestiale s. Pietro che voleva ficcarsi dentro ad ogni costo; ti sei messa là di sbieco come la quaresima nell'anno, ed i bravi figliuoli guardano i profondi abissi del tuo sedere. Levati dunque, o ti accoppo con le mie chiavi.

—Senti, sguaiato rinnegato di s. Pietro, replicava la Sine labe, se capiti un giorno alla taverna, quando mi danza pel capo un gotto di quel di Borgogna, ti voglio torcere il collo come un cappone. Intendi? brutto ceffo di maniscalco.

—Ecco la più male educata Vergine Maria che io mi abbia veduta in mia vita! tutto peritoso e maravigliato sclamava Carlomagno. Ma insomma che si fa?

—Si fa, si fa, che se non mi liberate le falde di questi cenci, cui mi avete cuciti addosso, io ve lo lascio cader qui nel fango il vostro Gesù bambino, e ve lo prenderete inzaccherato come un monello. Già mi manca il respiro. E ti assicuro, per tutti i martiri, che val meglio fare il mestiere di vinaiuolo che della beatissima Vergine.

—Largo, largo a monsignore il vescovo che si ha adattate una coppia di orecchie men lunghe delle sue.

—Monsignore s'intende meglio in adattar corna che orecchie. Vedete là i suoi palafrenieri come li ha tutti conci da buoi!

—Fate riverenza al pievano di Sant'Udda, che ha più cervello negli usatti che nella testa, come ha dimostrato nell'ultima sua omelia sul peccato della gola.

—Magnifica omelia, commentata dal più pingue asciolvere che abbia mai fatto crepar d'indigestione un abate!

—Non è vero, ser pievano?

—Olà, canaglia, indietro, e attenti a me: Io sono Marco Tullio Cicerone! Estraggo i denti; taglio l'unghie ai piè; Ed abolisco i ricchi e la ragione: Ma perchè non vi manchino i flagelli, Vi do i preti, le pulci ed i bargelli.

—Bravo monsignor Virgilio! Ma io avrei più caro che voi mi deste la corona di agli che vi circonda il capo, e quel mazzo di porri, che mi andrei a friggere col lardo.

—Indietro, indietro che arrivano i legati del Papa dei Becchi. Fate largo alla riverente pancia del canonico Ifiglo.

—Ed in fatto di pancia, il canonico, a grande edificazione dei suoi confratelli, ne acconcia sempre una somigliante alle sue penitenti.

—Ma ti prenda il gavocciolo, s. Andrea! Vuoi dunque che io ti applichi due calci nel servizio che mi vai sempre tra i piedi?

—Ora, udite questo buffone di Giulio Cesare come è divenuto insolente, da che un bel damigello di monsignor Rodolfo gli ha insegnato a fecondare i terreni di Monna Egelina!

—Pace, pagani! io sono s. Paolo e chiedo che mi lasciate entrare.

—Tu ti aduli, il mio s. Paolo. Tu sei ancora Saulo—e lo so io che all'esazione degli ultimi livelli mi tosasti fino al cuoio.

—Largo, largo al cavalier Vulcano. Egli è forastiere, ed ha la ciera della fame e di s. Giorgio. Fatelo entrare.

—Gli colga la peste! mi ha lasciato andare di un sorgozzone sul capo, che mi ha sciupato il più bel travestimento d'asino! Ora chi porterà la vergine Maria e suo figlio in Egitto?

—Ma! l'abate di Zug, risponde s. Lorenzo.

—All'abate di Zug, di vergine non confiderei neppure la maga di Endor, replicava l'asino malandato di Baccelardo.

—Per asini ed asini poi vi è il reverendo capitolo tutto intero. Lascino fare a me.

—Ecco i commissarii del Papa, largo, fateli passare. Scostatevi, bestie e buffoni. Passate, molto ubbriachi messeri, passate.

Due vicari del Papa dei Becchi entrarono in fatti dietro a Baccelardo; e vi si sarebbe precipitata appresso tutta la folla che intendeva ad allagare il castello, se coi calci dell'aste le barbute del duca non l'avessero mandata indietro. I vicarii però vennero nella sala dove il duca, vestito degli abiti reali, sedeva sur un trono attorniato da conti e da baroni, e gli presentarono una pergamena, perfettamente insudiciata di untume. Il priore Liemaro, cancelliere di Rodolfo, la prese e lesse:

« Ingolfo, Papa Cornardorum et Incornardorum di qualunque nazione e generazione siano o saranno, al diletto nostro figliuolo naturale ed illegittimo Rodolfo, duca di Svevia e sire di Arles e di Zurigo, salute con benedizione della mano sinistra.

« La tua tal quale vita e santa riputazione di buoni servigii nel commentare il mandato del Signore crescete et multiplicate, e per ciò che abbiam fiducia che farai, secondo l'indole della giovinezza e sapienza tua, negli atti dei becchi, ci hanno indotto a conferirti la prolifica dignità di nostro cardinale, onde sappia il mondo che noi siamo Pietro e che su questa pietra posa la felicità e la dovizia dei mariti tolleranti e dei buoni figliuoli. Per lo che comandiamo a nostri amici, inimici e benefattori, i quali di questa vita passeranno o dovranno passare, che ti abbiano a riconoscere come operoso cardinale di nostra chiesa, e ti abbiano ad allogare, stabilire, installare ed investire con cori, corni, cetere, organi e cembali scordati e bene sonanti nel pieno possedimento dei dritti e delle dignità alla tua carica connesse, e farti rallegrare e godere di quante libertà e franchigie ai nostri rassegnati e gaudiosi sudditi accordammo.

« Nel nostro territorio di Zurigo, sub annulo peccatoris, anno pontificatus nostri secundo. Pridie idi decembris, hora vero noctis 17, more cornardorum computando ».

Il duca Rodolfo, in segno di ringraziamento, fece ai legati profondo inchino, voltando loro le spalle, tra uno scoppio di alleluia e di risa universali; indi si ammanta dell'ampio paludamento chermisino, tutto divisato a corna di oro, che gli presentarono i legati. Di poi scende nella corte, monta a cavallo, e si dirige alla chiesa, dove il Papa celebrava già gli uffizi santi. Al vederlo, la folla rompe in prolungate grida di plauso, i buoi muggiscono, ragghiano gli asini, brontolano gli orsi—e tutti ad una voce sclamano:

—Ricordatevi, monsignore, di dar la preferenza alle damigelle di vostra corte nell'esercizio dei vostri nuovi e santi doveri.

Intanto se lo tolgono in mezzo e si recano alla chiesa.

Baccelardo, che aveva fatto rinchiudere il cavallo nelle scuderie e lo aveva provveduto del bisognevole, sparecchia ancor egli lauta colezione, e raggiunge la folla alla chiesa. Allora vi arrivava altresì Rodolfo col popolo.

Le porte erano chiuse. Il vescovo della diocesi si tragge innanzi e bussa. Vulcano affaccia il capo, e dopo a lui Cerbero, e dimandano che domine chiedessero da loro.

Il vescovo risponde:

—Schiudeteci le porte, perchè noi veniamo dal paradiso, con credenziali dell'imperatore Carlo Magno, a causa d'impreveduta e provvisoria indisposizione dell'Eterno Padre.

Allora Vulcano grida. Accorrono tutti i canonici ed i chierici nascosti dentro, vuotano molte bottiglie di vino, in segno di bene arrivati, ed entrano.

Gli uffizii compiuti, l'ora di terza arrivata, tutto era in pronto per la processione. Sopra un asino installano una delle più belle fanciulle di Zurigo, e le cacciano in braccio un puttino di cenci, che figurava il bambino Gesù. Al suo fianco si arrabbattava un vecchio zoppicando, con una mazza in mano, la faccia sporca di carbone; e questi, come sapete, era s. Giuseppe. Però egli si tirava a stento dietro all'asino ed andava borbottando:

—Tanti guai per un scimiotto di putto che mi è piovuto in casa senza saper donde! Però io protesto veh! monna Maria, che se per l'avvenire mi viene ancora tra i piedi codesto tuo arcangelo Gabriello, che fa di tai giuochi ai mariti dell'età mia, io gli rompo le ossa senza complimenti, e poi lo accuso di adulterio allo scabino. Mi hai capito?

—Zitto là, scimunito! chè volta e gira tu sei sempre quell'attacca barruffe di maniscalco che tutti sanno. Guardati però che non ti spezzino l'altro stinco.

—Silenzio, cialtroni, gli sgrida il Papa che andava loro dietro, e pensate a rispondere al coro.

Innanzi a tutti procedeva la croce; poi i gentili; poi i profeti, con grossi torchi in mano; poi i canonici ed i ceroferarii, con la testa avviluppata in bianchi guanciali; poi quattro cardinali, con ciascuno due damigelli che sollevavano le ale del loro piviale; poi il pallio, sostenuto dai magnati del comune, e sotto il pallio la vergine Maria a cavallo dell'asino, con s. Giuseppe, come abbiamo detto; e dietro a tutti il Papa, sotto il baldacchino, ed il popolo. Quattro canonici alzavano i lembi della gualdrappa dell'asino. E come tutto fu disposto in ordine nel chiostro, donde la processione doveva partire, un araldo uscì e gridò tre volte agli spettatori o divoti, facendo prima tre volte il raglio dell'asino:

—Da parte di monsignore il Papa e suoi cardinali vi facciamo sapere, che tutti lo seguano dovunque e' voglia andare, sotto pena di aver tagliata la parte anteriore delle vesti.

Ed il popolo rispose anche esso prima con tre ragli, poi soggiunse:

—Andiamo—noi siamo agli ordini di monsignore.

Allora il coro intuona l'inno.

Hez, Sir Asnes, car chantez, Belle bouche rechignez, Vous aurez du foin assez, Et de l'avoine a planter.

Il popolo risponde con il medesimo ritornello e si parte. Intanto i canonici cantavano della voce più aspra e scordata possibile:

Dalle parti d'oriente Venne un asino eccellente; Era forte ed era bello Ed attissimo al fardello!

Ed il popolo ripeteva:

Hez, sir asino, cantate, Il bel muso accartocciate, E tal copia di biada e fieno avrete, Che piantarne, per Cristo, ancor potrete.

Ed i canonici novellamente:

Era pigro nel cammino, Ma poi l'ebbe un cervellino, E col pungolo e il flagello Fe' volarlo come augello; Giunse fino a Betlemme: Visitò Gerusalemme!

Ed il coro ed il popolo proseguivano col solito ritornello—i canonici col rimanente dell'inno.

Sia che carro tragga al corso, Sia che porti soma in dorso, Le mandibole dimena Come Santa Maddalena. Mangia l'orzo con la pula, Dai cardoni non rincula, E in la trebbia, pel villano, Dalla paglia scarta il grano: Oh! vedetelo s'è bello Questo eletto d'Israello! Mirra, incenso, e pingue dose D'oro, e pietre preziose.... Alla chiesa tutto ha dato L'asinesco apostolato. Oh! vedetelo s'è bello Questo eletto d'Isdraello! Amen dunque di', o somiero, Amen canta un giorno intiero; E satollo di gramigna, Mangia, peta, ragghia e grigna; Chè alla chiesa tutto ha dato Il tuo santo apostolato. Hez va! canta hez va! hez va! Chè il tuo canto al cuor mi va: Delle orecchie, di pigrizia, Niun ti avanza di malizia; Hez va! canta, hez va! hez va! Chè il tuo canto al cuor mi va.

In questo mentre si ritorna alla chiesa.

In mezzo di essa avevano preparata una fornace, con stoppe e pannilini vecchi, vicino a cui la processione si ferma. Il papa dei becchi, i cardinali ed il vescovo della diocesi si assidono ai loro stalli nel coro, l'asino con la Vergine Maria a cavallo e s. Giuseppe si collocano presso l'altare dal corno del vangelo, e tutto il clero e i componenti della processione si dispongono in due file, dalla porta maggiore della chiesa all'altare, chiudendosi in mezzo la fornace. Poi attorno attorno il popolo, svisato nel voto e nei panni come l'abbiamo descritto. Accanto la fornace, da un lato schieravansi sei gentili, dall'altro sei giudei.

Allora gli araldi, o vocatores, come chiamavansi, si volsero prima ai gentili e dissero:

O gentili, per cui fatto S'è il negozio del riscatto:

poi ai Giudei:

O giude', per cui sciupato Ha il Signor parole e fiato, Come attestano i rabini, I notari e gli scabini! Storpi, dritti, grassi e secchi Cantiam gloria al re del becchi.

A questa intima, i giudei pieni di malumore fanno un atto d'impazienza, e gittandosi un lembo della gialla tunica addosso, si sdraiano per terra presso al fuoco, si grattano il posteriore e le barbe, e sclamano:

Ma insomma qui facciam sempre da gioco! Vi abbiam mandato un Dio, e ancora è poco?

E gli araldi.

O vos gentes non credentes, Qui venite confitentes; E a quei porci cenciosi Galilei La creanza insegnate e il verbum Dei.

E i gentili.

Vero Dio! re dei re!! Che lo creda chi ci ha fe'. Ma il nostro Olimpo più non si avviluppi, Chè troppi già ne abbiam di quei galuppi.

Allora il papa si alza e grida tutto corrucciato:

Ite dunque all'inferno, o miscredenti, E monsignor Mosè che si presenti.

Gli araldi, a quest'ordine, si appressano alla sacrestia e chiamano: Tu Moyses Legislator!

E Mosè, vestito di tonaca e cappa bianca insudiciata, lunga la barba, in volto accigliato, sonnolento, due enormi corna in fronte, la verga da una mano e le tavole della legge dall'altra, esce ansante e frettoloso, inchina il papa dei becchi, e dice:

Ch'altri poi vengano dopo di me, Per dio! qual dubbio, signor, qui vi è? Ma s'esto è tutto ch'io debbo dire, Andate al diavolo ch'io vo a dormire.

Coro Iste coetus psallat lætus!

Papa —Questa bestia parla schietto, Ha criterio ed ha intelletto; Ma le sue profezie si porta il vento, Ch'ha vecchia moglie, e terminò l'argento

Gli araldi conducono quindi Mosè brontolando dall'altra parte della fornace, poi tornano alla sacrestia e chiamano:

Vieni avanti, Isaia, ma facciam patto Di parlar chiaro e di non dir bugie: Se profeta, da furbo, ti sei fatto, Noi non vogliamo udir castronerie; Chè ci han bastantemente trappolati, Con i tuoi logogrifi, e preti e frati.

Isaia esce a sua volta. Egli aveva gli occhi strambi e fisi al suolo, i capelli bianchi, rari ed irti, la barba scomposta come la tunica cenerina. Rossa stola gli cingeva la fronte, pallidissimo aveva il colore. Egli arriva innanzi al papa dei becchi, sta un momento a pensare, poi batte del piede la terra, e sclama: Est necesse virga Iessæ!

Il papa, indispettito che, malgrado le proteste, Isaia era stato, giusta il consueto, anche adesso oscuro, strabilia, e voltosi alle sue genti grida:

—Cacciatemi via codesto buffone, e venga subito Abacucco.

Gli araldi si accostano dunque alla porta della sacrestia e gridano:

Isaia che ha ben pranzato Da briaco ha profetato: Ma Abacucco spiegherà Questa storia come va.

E subitamente dalla sacrestia veniva fuori un vecchio sciancato, vestito di dalmatica gialla, con le tasche piene di ravanelli, cui divora ansiosamente, ed in mano una frusta per percuotere i ragazzi Misac, Sidrac e... non ricordo l'altro, che gli andavano appiccando dietro una coda di volpe. Giunto in mezzo al coro, Abacucco fa uno starnuto e parla:

Che spiegar vi debbo, un corno! Se ho pensato notte e giorno, E trovato ho appena appena Che siam matti da catena? Ci vuol la virga Iessæ? e così sia: Basta che abbia misura e vigoria!

E sì dicendo, Abacucco dà un calcio al deretano dei ragazzi, e dondolandosi, e zoppicando si ritrae sollecito all'altro lato della fornace, ed offre una coppia di ravanelli ad Isaia. Il papa lo segue degli occhi, torvo ed accigliato, poi sclama:

Questo vecchio scapestrato Parla proprio da dannato! O profeta per pazzia, O è villana profezia. Entriam dunque in altro buco; Venga Balaam col ciuco.

Allora avanzano dal coro due messi del re Balec, che uniti ai vocatores, all'uscio della sacrestia gridano:

Veni Balaam et fac!

E subito si presenta un uomo di grossezza spropositata, a cavallo ad un asino a cui avevan mozze le orecchie e raso il pelo col rasoio. Balaam, del volume del ventre toccava quasi la testa del somaro, mentre le gambe corte e grosse, armati i piedi di formidabili sproni, penzolavano come due salsicciotti. Egli tirava le redini alla bestia, e la frustava e spronava con un'enfasi da strabuzzare gli occhi, e mutare in piombino il rubicondo del volto. Però la restia cavalcatura si avviava alfine, allorchè si presenta un giovanotto armato di spada, che, afferrandola della briglia, la rattiene. Balaam, non volendo udire ragione, diluvia ancora frustate sull'asino, e lo scavezza, e lo sventra per gli sproni; quando questo sgrilla infine e dice:

Ma caparbio, viva dio! Vuoi che sgangheri ancor io? Non lo vedi che impacciato M'ha una bestia di soldato? Non capisci che sei indegno Di alcun regno—sopra me; Perchè a forza di dieta Son profeta—al par di te?

Balaam a così eloquente filippica del suo ciuco resta percosso e attonito, con la bocca aperta, e si guarda intorno. Quando ecco due angioli che gli danno parecchi forti scappellotti all'occipite. Balaam si rivolge e quelli gli dicono:

—Balaam, non obbedire al re Balec che si diverte a mangiare un profeta arrosto tutte le mattine.

Balaam, allampanato, guarda questi nuovi venuti, e grattandosi dolcemente la nuca risponde:

—Sta bene, miei signori: ma vi prego, un'altra volta, non mi battete così forte al cucuzzolo perchè io patisco di emicrania.

E ciò detto, si va a riunire agli altri compagni. Gli araldi chiamano poscia Elisabetta. Questa, che era vecchia, sorda, esce fuori tutta frettolosa, vestita di bianco, e gonfia come in procinto di partorire, e voltasi ai coristi dimanda:

Quid est rei, quid me mei? L'è una chiesa di casa del diavolo qui, signori miei! Non si può stare neppure comodamente a dire una litania! Insomma, sappiatevi che io ho fame, e che se rimango qui un altro poco mi cadono giù le soffoggiate che mi avete applicate sul ventre, e buona notte al vostro s. Giovanni Battista. Io vi fo una riverenza, monsignori, e vado a casa, perchè io non sono stata mai troppo soda di corpo, ed ora, con le suste e controsuste, e con le compressioni... con vostra licenza, e serva di vostra scioperatezza, sir papa.

Alle parole di s. Elisabetta, il papa dei becchi monta in bestia e grida:

—Vadano tutti all'inferno: ne abbiamo assai di questa laida canaglia di santi e di ebrei. Vediamo un po' se i gentili siano più puliti. Chiamate Virgilio.

Gli araldi gridano all'uscio:

Vieni, Maron, poeta dei pagani, E insegna il catechismo ai cristiani.

E Virgilio, coronato di cavoli, in figura giovanile, con bella toga ornata di ricami in carta gialla, avanza, e, facendo dignitoso saluto al duca di Svevia, sclama:

Ecce polo dimissa solo.

E senza aspettare ulteriori domande, nè rischiarare la sua risposta, volge le spalle e si ritira vicino la fornace. Il papa fa un moto d'impazienza e dice:

—Ho capito, l'è epidemia! Vediamo dunque se la Sibilla sia più ciarliera. Ma, scommetto, che neppure codesta pettegola saprà cavarsene nette le mani, e sarà parca di parole. Andiamo, via in nome di Dio! chiamateci su quella sgualdrina.

E gli araldi gridano alla porta:

Tu Sybilla, vates illa.

Una viragine dagli occhi scintillanti, pallide le guance, i capelli rossi scarmigliati e sciupata tutta nei panni, viene fuori furibonda. Ella batte forte dei piedi al suolo, si contorce, digrigna, poi con voce ammezzata e sorda, evocata dal fondo del petto come dall'imo di caverna, pronunzia:

Quando le rocce grondan sudore Viene il giudizio, viene il Signore: Ma infallibile segno poi sarà Costanza in donna e in frate castità.

—Almeno costei ha detto qualche cosa, sclama il papa dei becchi dietro alla Sibilla che si ritirava cogli altri. A quanto pare dunque codesto giudizio è ancora assai lontano, se i suoi segni sono infallibili. Conchiudiamo la storia e venga Nabuccodonosor.

Nabuccodonosor si presenta. Vestiva da re, con guazzeroni di damasco porporino orlati di orpelli e sopraccarico di nappe e fimbrie come un buffone, una corona di cartone in testa, lo scettro in mano, e barba lunga lunga di pelle di capra. Lo accompagnavano otto scudieri armati di partigiane di legno, e due ministri in cotta d'armi, che portavano, dentro un piatto, un grosso salomone incuffiato, il quale rappresentava l'idolo. Poi un gruppo di soldati, che si recavano in mezzo i tre fanciulli. Giunti presso la fornace, i ministri si volgon a costoro e dicono:

Huic sacro simulacro!

Quei tre monelli scoppiano a ridere, e dando la berta al sacro simulacro che loro si voleva fare adorare ed ai ministri, spalancando e contorcendo la bocca, rispondono:

—Un bischero! quei seri; deo soli digno coli.

—Furfantelli, sdegnato sclama Nabuccodonosor, che Dio solo mi contate voi: dovete adorare anche me, altrimenti vi squarto in due come lepori e vi mangio a fricassea.

Ma i ragazzi s'incocciano; e Nabuccodonosor, perdendo le staffe affatto, ordina che si caccino nella fornace come lacche di damme. La fornace di stoppa è accesa. Fitta cinta di persone si fa attorno; ed e', cantando Benedictus es Domine Deus, scivolano fra le gambe della gente, e, quasi entrassero in quel rogo, dispaiono. Nabuccodonosor si gratta il naso e dice:

Vedi un po' quei bricconcelli Come pigliano a trastullo Un negozio, che i capelli Fa rizzare anche ad un brullo! Andar tanto allegramente Ai diavoli? è imponente! E perciò si straggan fuora E che vadano a malora.

E sì dicendo si ritira. I fanciulli escono dall'altro lato della fornace tutti festosi, e la messa comincia.

Al Gloria, al Kirie ed al Credo, prima il sacerdote ragghia tre volte, poi canta. Ed il popolo risponde, cominciando anch'esso dai tre ragghi. Negli incensieri si mettono correggiuoli, pezzi di suole vecchie, e sterco di capra. S'incensa prima il popolo e l'altare di questa roba puzzolente, indi estraggono un grosso mazzo di salsicciotti e fanno atto d'incensarli con quello. Sull'altare frattanto si canta il credo, i profeti ed i pagani giuocano al lanzichenecco, e mangiano una frittata con agli, facendo toast e combibbie sazie e laute. Infine il sacerdote ragghia ancora tre volte e canta: Ite missa est! Ed il popolo, anche tre ragghi, e risponde Deo gratias! Allora il cappellano del papa dei becchi grida:

Silete, silete, silentium habete.

Il papa benedice tutti con la mano sinistra; ed il cappellano proclama:

—Monsignore, bravi borghesi, vi dà indulgenza plenaria di tutti i peccati che avete fatti ed avete buona intenzione di fare, e con essa vi dia il cielo trenta giorni di male al fegato, venti cofani pieni di male di denti, otto ore di colica, una moglie riottosa, ritenzione d'orina e la gloria eterna del paradiso—e così sia.

Quindi si dispongono a processione novellamente, ed il papa dei becchi, vestito degli abiti pontificali, con pastorale, camauro e cappa rossa, a cavallo ad una vacca, è portato al castello di Rodolfo, nella sala del tinello, dove, sedutosi alla più grande finestra, benedice il popolo di nuovo e comincia a mangiare marzapani.

Allora si presentano al duca Rodolfo due araldi, dei quali uno annunzia:

—Monsignore Goffredo di Buglione, oratore del re Enrico.

L'altro:

—Monsignor Baccelardo, oratore di papa Gregorio.

Rodolfo fa inchino al papa dei becchi ed alla corte di lui, e va a ricevere i nuovi suoi ospiti.

III.

Promet. Io mi rifiuto: Dite loro in breve io non lo voglio.

Goethe.

—Monsignore, dice Baccelardo facendosi incontro a Rodolfo che entrava nel salone dove i due personaggi attendevano, io sono Baccelardo duca di Puglia. Mi reco in Germania dall'imperatore Enrico, cui porto lettere di papa Gregorio. All'ascensione del San Gottardo il mio cavallo si è azzoppato. Mi sono fermato alquanti dì ad Altorf onde farlo riposare, sendomi desso prezioso come amico. Malgrado ciò, vedo che gli è impossibile proseguire il viaggio. Prego perciò vostra mercede accordarmi ospitalità fino a che il mio corridore non si rimetta.

—Noi vi rendiamo grazie, bel cavaliere, dell'onore che vi piace farci, dimorando nel nostro castello. E non solamente vi concediamo l'ospitalità che ci dimandate, ma vi preghiamo prolungarla per quanto sarà compatibile coi vostri doveri, e di usare della nostra corte in tutto quello che possa tornarvi a diletto.

—Molte mercè, monsignore, soggiunge Baccelardo. La fama che tanto nobilmente suona di vostra cortesia mi rendeva sicuro del generoso accoglimento che mi fate.

Allora si trae innanzi Goffredo di Buglione e parla:

—Duca di Svevia, il re Enrico si querela con voi che non abbiate tenuti gli accordi posti ad Eschenweg. Il 22 ottobre è passato. Al campo di Gerstungen son convenuti tutti i baroni ed i castellani di Lamagna—meno vostra grandezza, Guelfo di Baviera e Bertoldo il carintio.

—Monsignor di Buglione, risponde Rodolfo, l'imperatore Enrico non ha ragione di dolersi di noi. Come suo cognato e come principe dell'impero, noi abbiamo oltrepassati i nostri doveri per secondare i suoi divisamenti. Ora basta. La ragione e la coscienza c'impongono certi limiti, al di là dei quali più non ci faremo trascinare, perocchè quaggiù dobbiam guardarci l'onore; oltre la tomba, l'anima.

—Sta bene, messer duca, soggiunge Goffredo, ma per codesta medesima legge di dovere e di onore dovevate trovarvi dove il vostro sovrano vi chiamava, dove i principi dell'impero erano tutti convenuti, e dove ancor voi avevate fatto promessa di essere.

—Sire di Buglione, noi intendiamo diversamente la forza dei vincoli che ci uniscono al re, e quelli che ci uniscono alla nazione. I nostri principii sono ben altri. Perchè noi, innanzi tutto, mettiamo la giustizia di Dio; poi l'appello della patria; ed ultima la volontà del re.

—Ma noi non vediamo, monsignore, replica il Buglione inchinandosi, per che modo la patria e Dio vi avessero potuto ritenere nelle vostre castella, quando il re ed i baroni dell'impero si ragunavano al campo di Gerstungen!

—Lo vediamo ben noi, sire di Buglione, risponde Rodolfo con accento pacato e convinto. Quando l'imperatore Enrico ci aveva dipinti i Sassoni come gente ribelle e d'ogni freno intollerante, e d'ogni subordinazione schiva, noi abbiam pigliate le armi, e la battaglia di Hohenburg lo ha vendicato. Dovrebbe essere soddisfatto. Dovrebbe essere sazio. Dovrebbe essere pentito anzi, perchè quel sangue civile, sparso così scioperatamente, dimanda al cielo riparazione, e l'avrà. Ah! sire di Buglione, perchè non vi siete trovato voi a quella giornata, chè ora, invece di addurci recriminazioni da parte del re ed accusarci forse nel vostro cuore, ci direste: duca di Svevia, voi vi siete condotto da cavaliere e da cristiano.

—So che fu terribile vittoria quella di Hohenburg, e che non costò meno al vincitore che ai vinti.

—Per lo appunto, monsignore, fatalissima ad entrambi. Appena le vedette annunziarono ai Sassoni che noi gremivamo il piano, l'allarme e lo scompiglio si mette fra loro, ed intronati e confusi si sbrancano. Ma i più bravi allacciano tosto gli usberghi e pigliano la pugna. Il loro primo urto sfonda le squadre di Svevia, e dopo un'ora di strage, le sbaraglia. Seguono i Bavari; le truppe sveve si ricuciono, e torniamo alla carica. Ma fummo di nuovo rovesciati.

—Malgrado i prodigi di valore di vostra grandezza, che nel folto della mischia come lione pugnava! sclama il Buglione.

—Noi facemmo il nostro dovere, sire di Buglione; mercè dunque della memoria che vi piace serbare delle opere nostre. Però Ottone di Nordheim, tra i Sassoni, ci superava tutti; e dovunque più urgeva l'urto nemico, dove più spessa l'oste minacciava, e' compariva per dar la vittoria ai suoi. E forse la giornata si sarebbe decisa per loro, se Gozzelone di Lorena non pigliava la battaglia coi suoi valorosi cavalli, e con truppa fresca d'ogni lato investendoli, ristorava la fortuna inchinata degli imperiali.

—Ed è egli vero che lo stesso re si avventò fra i nemici e fece miracoli non mai più veduti di valore? dimanda Goffredo.

—Gli è verissimo, monsignore, risponde Rodolfo, e perciò i Sassoni indietreggiarono. Ottone di Nordheim si adoperò a restituire le ordinanze, e venire alla riscossa. Ma, respinto con grave danno dei suoi, è trascinato dalla piena dei fuggitivi. Allora la rotta fu generale. Gli sventurati Sassoni, sparpagliati per la campagna davano nelle lance dei Lorenesi, e ruzzolando sotto le zampe dei cavalli perivano di sconcia morte. Li cacciavano gli stessi custodi dei bagagli. Con l'addensarsi della notte però il sacco ed il macello cessa. Il campo di Enrico si trasferisce in quello dei Sassoni ben ricco e ben provveduto, ed i morti sono contati a ventimila. Ciò doveva bastare. Ma il re volle condurre le truppe vittoriose pel paese turingio e sassone a dare il guasto. E campi e castella incendiò, uccise uomini, donne vituperò; di lutto, di vergogne e di miserie coperse le contrade, che pure erano provincie del suo impero. Ad Eschenweg però fu costretto licenziare la truppa, perchè essendo egli bruciato a danari e non correndo a tempo le paghe, nè essendovi più nulla a disertare, essa accennava tumultuare. Allora richiese da noi solenne promessa che, ai 22 ottobre, ci saremmo trovati al campo di Gerstungen con doppie condotte. Questa promessa noi non abbiamo stimato di mantenere.

—E perchè, se Dio vi guarda, monsignore?

—Perchè i Sassoni, pentiti, hanno dimandata mercede con ogni atto d'umiltà, e promesse quante soddisfazioni al re piacesse esigere da loro. Perchè noi abbiam digiunato quaranta dì, onde far penitenza di aver combattuto contra cittadini innocenti, e votato a piè dell'altare di non mai più combattere contro quei disgraziati. Perchè infine, sire di Buglione, noi ancora dormiamo le notti sul nudo pavimento, e ci laceriamo il fianco per aspro cilizio onde Iddio misericordioso si degni perdonarci il sangue dei fratelli ingiustamente sciupato.

—E cosa dunque, monsignore, dobbiam rispondere al re di parte di vostra grandezza?

—Gli risponderete, sire di Buglione, che perdoni i Sassoni ed i Turingi, e tolga da essi quelle riparazioni che una dieta generale di Alemagna saprà proporgli.

—Bene sta, messer duca, dice Goffredo; il re saprà la vostra risposta, e piaccia a Dio che non voglia dimandarvene ragione.

—Egli avrebbe torto se ciò facesse, risponde Rodolfo mestamente. Ad ogni modo, noi siamo a tutto rassegnati, e cada su chi lo provoca lo spargimento del sangue civile. Onorateci intanto, sir di Buglione, accettare ospitalità da noi, così come possiamo offrirla a tanto nobile e prode cavaliere, ed insieme alcuna memoria della visita che ci avete fatta nel nostro real castello di Zurigo.

—Mille mercè, monsignore. Resterò tanto che possa far riverenza alla duchessa, e togliere conforto di cibo. Indi muoverò per Gerstungen, dove il re mi attende impaziente di vostra risposta.

—Il vostro piacere sarà fatto.

Alla risposta di Rodolfo, che fu concorde a quella di Guelfo il bavaro e Bertoldo il carintio, Enrico strabiliò, e cento disegni di vendetta imaginò da prima. Poi si acquetò, e rammollito per la defezione di costoro, simulò cedere agli scongiuri dei Sassoni e si arrese. Mandò perciò nel loro campo gli arcivescovi di Salisburgo e di Magonza, i vescovi di Augusta e di Wurzburg, e Gozzelone duca di Lorena onde trattar dell'accordo. I commissarii imperiali con gravi e solenni parole esposero lo stato miserabile del sassone paese, ed il seme di discordia che per tal loro condursi si spargeva nelle province germaniche. Li consigliavano quindi a rendersi a mercede sull'istante, stando essi medesimi col proprio onore garanti, che i deditizii avrebbero salvo persona, sostanze e libertà. Fu lungo e tumultuoso il discutere di questo partito fra gl'insorti; infine e' piegarono all'imponente andazzo dei tempi, e cedettero.

Venne quindi rizzato in mezzo alla vasta pianura, lungo la destra dell'Ebra, suntuoso padiglione col trono ornato delle insegne imperiali. Ivi, il dì seguente, Enrico IV circondato dei suoi principi in gran pompa si assise. Tutto l'esercito sotto le armi si schierò a due fila, fra le quali dovevano passare tanti prodi ad umiliarsi. Al cenno del re, i deditizii furono fra le armi accompagnati ai piedi del soglio. Precedevano i principi sassoni e turingi, l'arcivescovo di Magdeburg, il valoroso vescovo di Alberstadt, Ottone di Nordheim, Magno duca di Sassonia, il conte Ermanno, Federico palatino, Teodorico conte di Cantelenburg, Adalberto langravio di Turingia, i conti Rudiger, Sizzo, Bern e Berengario. Seguivano baroni, nobili, e quanti eranvi gentiluomini, valvassori, valvassini, e paggi non per anco armati cavalieri, in una parola chiunque aveva nome, stato e ricchezze fra i ribellati. Enrico li accolse maestosamente. Poi, mal consigliato, li diede a custodire ai suoi, finchè non avesse pronunziato sulla loro sorte. E la loro sorte fu questa: che, dimentico della parola dei suoi commissari, li confinò in fortezze lontane e malignate da paludi, e loro confiscò i beni che tra i suoi guerrieri ripartì.

In quel punto giunsero i legati del papa, i quali, avendo tenuto altri sentieri e non essendo stati impacciati da mali di vetture, arrivarono alquanti dì prima di Baccelardo. Ora udiremo da costui quale accoglimento e' ricevessero, perchè, di ritorno, egli è già, dove noi lo lasciammo, alla presenza di papa Gregorio che anela interrogarlo.

IV.

Un cri part, et soudain voila que dans la plaine Et l'homme et le cheval, emporté hors d'haleine, Sur les sables mouvants, Seuls emplissant de bruit un tourbillon de poudre Pareil au noir nuage où serpente la foudre, Volent avec les vents.

Hugo — Orientales.

Infatti Ildebrando non curò neppure torsi dal viso le gromme del sangue, e dritto menatosi seco Baccelardo nel suo gabinetto, di lui non meno ansioso, dimanda:

—Ebbene, bel cavaliero?

—Santo padre, risponde Baccelardo, il cuore di Enrico è ostinato, e non vi ha potere che dal suo tenace proposito lo rimuova.

—Non vi ha potere! tentennando della testa ed accennando il volto a sorriso, sclama Ildebrando. Continuate. Raccontateci tutto fil filo.

—Santo padre, io non posso raccontarvi che poco, risponde Baccelardo, i vostri legati, che di non molto antecedo, v'informeranno meglio di tutto.

—Dite pure quel che sapete, impaziente scoppia Gregorio, e ditelo presto, in nome di Dio!

—Eccomi. Vostra beatitudine volle spedirmi in Germania prima dei legati onde in certo modo io preparassi loro la strada, e men bruschi facessi arrivare i decreti del concilio del Vaticano. Pur non avvenne così: io giunsi otto giorni dopo di loro.

—Otto giorni! sclama Gregorio! bisogna dire, ser cavaliere, che voi siate ben neghittoso, o traditore della santa Sede.

—Nè l'uno nè l'altro, signore. Il mio cavallo si azzoppì nelle montagne dell'Elvezia, e dovetti restare quindici giorni per farlo guarire. Ecco tutto.

—Pel nome santo di Dio! e voi curate più un tristo di ronzino, che l'adempimento dei nostri ordini, messere?

—Ser papa, uditemi. Io non sono per alcun modo vassallo della Chiesa, che per me nulla ha fatto nè ha saputo fare finora. M'incaricai delle vostre commissioni per cortesia, e le compii con quella solerzia che meglio mi convenne. In ordine al ronzino poi, come vi piace addimandarlo, gli è bene che vostra beatitudine sappia, io averlo caro più della persona mia stessa. È il solo fedele che io mi abbia. Mi son trovato in mezzo alle zuffe accerchiato da densa selva di aste, minacciato da cento nemici; e non ho veduto papa Gregorio aprirmi il varco periglioso, ma il mio cavallo. Mi son trovato fra gli aguati dei miei persecutori, inseguito come belva, messo a segno di cento arcadori, in un nuvolo di giavellotti e di chiaverine; e non è stato papa Gregorio che dall'insidie e dalla morte mi ha campato, ma la velocità del mio cavallo. Ho dovuto arrampicarmi per greppi dirupati, sospeso fra il cielo e l'abisso, senza segno di calle, dove il camoscio non si sarebbe avventurato; ho dovuto valicare lagune melmose affondando fino alla gola; ho dovuto guadar fiumi terribili; e non ho trovato papa Gregorio che il pericolo e la fatica mi temperasse, ma questo fedel mio cavallo. Per qual titolo dunque papa Gregorio pretendeva da me che io avessi abbandonato il compagno che Iddio ha messo alla deserta mia vita per obbedir lui, che finora non mi ha data neppure una parola di conforto o di speranza?

—Tu non hai fede, cavaliere, sclama Gregorio con gravità, non volendo rispondere per le rime e romper con Baccelardo per allora; e dove manca la fede, l'interesse mondano precede a tutte le considerazioni di anima e di Dio. I tempi non sono ancora maturi, la Chiesa milita ancora. Ma i dì della grazia son prossimi, ed allora vedrai se papa Gregorio saprà darti più del conforto, più della speranza.

—Sì, santo padre, quel che mi avete dato pel servigio che vi resi a Montecassino, insultando il neghittoso papa Alessandro! I tempi che sperate però mi sembrano ancora lontani, se vero è pure ciò che ho udito della sorte dei vostri legati.

—Della sorte dei nostri legati! grida Gregorio stupefatto. E che sarebbe loro avvenuto di sinistro, cavaliere? Parlate su, dite chiaro, e dite presto quel che sapete. Il vostro narrare lento e misterioso ci stucca.

—Ne apprenderete fra breve anche troppo, signore. Essi si presentarono al re, nel momento ch'e' finiva di umiliare i Sassoni. Enrico aveva sentore del vostro parteggiare per costoro e delle prevaricazioni che i vostri legati andavan spargendo pel campo, onde subitamente levarli a rumore. A rompervi le vie, diede sul fatto libertà ad Ottone di Nordheim e lo constituì vicario imperiale di Sassonia. Poscia, dopo discussi gli altri affari dell'impero, fe' comparire i legati. Io non saprei dirvi qual corruccio destasse fra quei numerosi principi il canone che li spoglia del dritto d'investir feudi agli ecclesiastici, e di riscuotere i livelli annessi ad essi, nè quanto maggiore fosse lo sdegno al divieto delle mogli ai sacerdoti. Per poco quella adunanza di gente nobile ed assennata non iscoppiò in tumulti. Si rise però quando udissi della scomunica fulminata contro l'arcivescovo di Brema, contro quel di Strasburgo, contro i vescovi di Bamberga e di Spira, ed altri uffiziali della corte e primati dell'impero, se pel mese di giugno non si fossero presentati in abito di penitenti alla soglia del Vaticano onde essere giudicati da voi.

—Si rise! sclama Gregorio ghignando. E poi? Ed i legati?

—Oh! quanto ai legati essi non si scomposero nè per ire nè per beffe. Chè anzi allora presentarono la vostra lettera ad Enrico. Questi, borioso per aver domata Sassonia, la lesse, e ad alta voce alcuni pezzi ne recitò, tra i cachinni dell'assemblea.

—E non sapreste per avventura, bel cavaliere, quali fossero codesti pezzi?

—Se ne parla per tutta Germania, santo padre, e maraviglia ognuno di vostra temerità. Quell'indirizzo per esempio: Al re Enrico salute ed apostolica benedizione, se alla sede apostolica presterà l'obbedienza dovutale da chiunque è cristiano: quell'imporgli di sfrattare dalla reggia gli scomunicati da voi, ed impetrare con idonea penitenza il perdono; quel rimproverargli che da nemico, da ribelle, da traditore, col più insolente disprezzo oppugna la sempiterna autorità della Chiesa—testimoni i vescovadi di Firmano, di Ravenna, di Spoleto e di Milano conferiti a sue creature, quasi che le chiese fossero ad arbitrio di un laico, e date a governare ai re: quel consigliarlo a non mormorare dei vostri decreti e recarsi volentieroso come giumento a fare ciò che voi ordinavate: quel comandargli che non solo egli ma tutti i re della terra con riverenza profonda debbano osservare i vostri decreti: quel mettergli perentorio in fine, perchè senza lungamento di tempo ritornasse alle loro sedi gli ecclesiastici sassoni esuli o imprigionati che fossero, restituisse le chiese ed i beneficii usurpati, si sottomettessero tutti ai canoni di un concilio presieduto da voi, se pure, contumaci al vostro decreto, dalla spada di s. Pietro non volessero essere sterminati dal grembo della Chiesa. ( Ep., III, 10).

—Basta, comprendo, l'interruppe Gregorio, E poi?

—Eh! beato padre, e poi l'imperatore lacerò in più pezzi il foglio, e sul volto dei legati lo gittò fra un pieno grido di gioia di tutta la dieta. E per dar prova più solenne in qual conto e' tenesse vostre minacce e vostri desideri, fe' trarsi avanti i chierici ed i laici di Colonia, venuti a supplicarlo di eleggere il successore di Annone, e li costrinse o ad accettare per arcivescovo un tale Idolfo, uomo di bassa lega, ovvero a star senza pastore finchè loro ne salisse la noia. Idolfo fu accettato.

—Ed i legati? dimanda Gregorio furibondo.

—I legati intimarono allora all'imperatore la citazione di comparire ad un concilio a Roma onde purgarsi delle colpe che gli apponeva tutta Germania, sotto pena di essere pronunciato ribelle, scomunicato, e decaduto dai dritti di re. A quest'intíma la collera di Enrico trabocca. Ei fa cacciar via vituperosamente gli audaci legati, tra le contumelie di tutta l'assemblea, e dai suoi Stati di Germania li bandisce, rattenuto dall'arcivescovo Sigofredo da Magonza che non li facesse frustare. Indi spedì corrieri per ogni provincia di Lamagna, onde convocare a Worms un concilio, ed egli stesso vi si recò.

—Ed il concilio si tenne?

—Per certo, e vi accorse numero immenso di abati, diaconi, vescovi, metropoliti e duchi, conti e baroni senza fine. Congregatisi tutti, il cardinal Bennone sorse a leggere una storia di voi, santo padre, nella quale tutti i fatti di vostra vita dettagliavansi ed esaminavansi con severità. Indi produsse terribili accuse contro la vostra modestia, le sue parole confirmando per lettere di parecchi vescovi, cardinali, ecclesiastici e nobili d'Italia, non che del popolo e del senato romano. Delle quali multiplici imputazioni ricordo solamente, che....

—Tacetevi: non vogliamo udirle, l'interruppe Gregorio. Il nostro giudice è in cielo, ed a colui solamente dobbiamo dar conto. I giudici ed i potenti della terra abbiamo sotto le suole dei nostri sandali, e li schiacciamo a guisa di fango.

—Come vi piace, santo padre. Mentre dunque quelle incolpazioni si discettavano, giunsi io. Gli araldi che guardavano le porte mi annunziano all'imperatore per oratore del papa. A questo titolo mi si vieta l'ingresso. Ma avendo insistito esser io cavaliere, ed avere lettera di Gregorio VII da presentare nelle proprie mani del re, m'intromettono alla presenza dell'augusto concilio. Superbamente un segretario dell'imperatore toglie la lettera per ordine di lui, e ad alta voce comincia a recitarla. Alle corrucciate ed amare parole della santità vostra, lo sdegno di Enrico traripa. Egli mette in obblìo le sacre prerogative degli ambasciadori, e comanda che mi gittassero nel fondo di una torre del castello di Worms. Allora io protestai avanti a tutta quella adunanza dell'onta che si faceva alla mia persona, e dichiarai che, quando che fosse, ne avrei dimandata ragione, se non come oratore come cavaliere.

—E ben faceste.

—Udite adesso ciò che accadde. Appena uscito dall'aula del concilio, otto uomini della guardia imperiale mi aggrattigliano, mi tolgono ogni maniera d'armi, e mi traggono alla prigione. Allora dimandai per favore vedere un'estrema volta il mio cavallo, e licenziarmi dal fedele animale. E sì dicendo sentii le lagrime navigarmi per gli occhi. Messer Ulrico di Cosheim, favorito dell'imperatore e suo intimo confidente, notò la mia richiesta, e fece soddisfarmi. Venne anch'egli a vedere il superbo corridore, ed assai maravigliò della fortezza, della venustà, dell'eleganza del nobile animale. Io gli carezzai il collo, gli carezzai la testa, e raccomandai al sire di Cosheim che, se quel disgraziato palafreno avesse dovuto cangiar di padrone, gliene avessero dato almeno uno altrettanto generoso e distinto che la sua genealogia meritava. Ulrico mi promise che lo avrebbe tenuto per sè, se la mia sfortuna così avesse portato, o ne avrebbe fatto dono al re. In ogni modo, ei s'incaricava di custodirmelo e riguardarlo come il cavallo di un bravo si riguarda. Confortato di questa fidanza, più contento mi recai alla muda.

—Proprio alla muda vi avevano condannato? domanda Gregorio.

—Alla muda proprio, risponde Baccelardo, quasi io mi fossi un malfattore. Però non ebbi poscia a dolermene. Perocchè avvenne che a messer Ulrico di Cosheim, invaghito della bellezza del destriero, prendesse talento cavalcarlo. Glielo apprestarono. Ora io non saprei dirvi, santo padre, quanto quel gentile animale s'imbestialisse vedendo quel nuovo signore. Fu tanta la selvaggia sua retrosia, e tanto il mordere e sparar di calci, che molti tra quei palafrenieri e scudieri accorsi ne restarono malamente conci. Messer Ulrico, che è maestro in cavalleria e vigoroso della persona e destro, s'incoccia a vincere la partita. Gli si accosta quindi di nuovo, e con maniere parte aspre parte carezzevoli cerca domarlo. Messer Ulrico però aveva malamente avvisato, perocchè ne tolse di tale percossa dalle zampe d'avanti, ch'ei fu trasportato via per estinto. Nessuno più allora sentì voglia aver che fare con quella belva, sapendo come tutti il sire di Cosheim superasse per maestria di equitare. Fu intanto riferito ad Enrico della grave ferita del suo favorito e del croio corridore. Anche al re salta il ticchio vincere la puntaglia; chè il re valeva ancor meglio del duca di Cosheim nel maneggio de' cavalli. Fu quindi il mio povero Licht novellamente bardato, e tratto nella cavallerizza. I cortigiani di Enrico vollero distoglierlo da quella prova, ma perciò appunto ve lo decidono più. Sicchè fa condurre quivi altri cavalli, fa circondare il mio da scudieri e mozzi, e quasi tendendogli aguati cerca di cavalcarlo. Dio lo perdoni! perchè due di quei disgraziati ebbero a morirne, ed egli si salvò da qualche sconcio per la sola leggerezza del tirarsi da canto.

—È un demonio dunque codesto vostro cavallo, ser cavaliere? dimandò Ildebrando.

—Mai no, santo padre—esso è di quegli esseri che la specie umana conobbe pochi per egual fedeltà. Ma, per farla breve, l'imperatore sospettando che vi fosse alcun segreto nel modo di cavalcarlo, ed innamorato della sua leggiadria volle impararlo a montare da me. Fui perciò ritratto di prigione, e tradotto alla cavallerizza, presente lui. Udii del suo desiderio e mi balzò il cuore per allegrezza.

—Comprendo anch'io, disse Gregorio. Tirate avanti.

—Vostra beatitudine vedrà se avevo ragione di amarlo. Dimandai dunque innanzi tratto che mi restituissero le armi. E dopo che me le ebbi tutte vestite, feci menarmi sul mastio. Quivi era uno spianato, da un lato circondato da mura, dall'altro da una specie di parapetto, sotto il quale, alla profondità di un quindici piedi scavavasi fossa profonda altrettanto, ripiena di acqua. Oltre di questa, aprivasi vasta campagna. Quivi condotto dunque cominciai a palpare il mio fedele Licht; cominciai ad aggiustargli le cinghie, e gli pizzicai un cotal poco le orecchie. Ed esso a farmi festa a non finirla. L'imperatore, l'imperatrice, tutti i grossi baroni della corte e dame e donzelli e scudieri stavano presenti. Io li obbligai a tirarsi da canto e salii a cavallo. Allora detti un fischio, come lo squittire della volpe; e mentre essi tutti si aspettavano che io lo avessi fatto un cotal poco corvettare e saltabeccare nell'angusto spianato, io lo volto netto al parapetto della fossa e dissi:

» Sire, tu contro il sacramento delle genti mi hai fatto cattivo; io, contro la santità della parola di cavaliere ti dico che ti sei condotto da sleale, e via me ne vado.

—Bravo! sclama Gregorio stendendo la sua mano a Baccelardo, che la strinse ma non la baciò. E continuò:

—Io detti allora forte di sprone, ed il cavallo salta giù, coverti entrambi di pesanti armadure come eravamo. Da prima affondammo fino all'imo ambedue ed alcun poco vi rimanemmo. Ma poscia toccando di sprone novellamente, Licht si dimena, e risaliti in un baleno, e guadata la fossa, che dall'altra sponda era piena di acqua a fior di terra, fuggimmo per la vasta pianura. I balestrieri dell'imperatore avrebbero voluto tirarci su; egli nol permise. Solo ci sciolse dietro molti suoi uomini d'armi per righermirci. Infatti mentre noi correvamo così alla perduta ed avevamo quei bracchi alla coda, ecco spuntarci di fronte, al gomito della strada, uno squadrone di cavalieri del duca di Lorena. Sicchè chiusi in mezzo per tal modo dovemmo arrenderci. Quei cavalieri però ci trattarono co' maggiori riguardi, e ci condussero alla presenza del re. Egli, al vedermi, si alza da sedere. Fa anche di più, mi viene incontro e mi stende la mano cui io piegando a terra il ginocchio baciai. Ed e' mi disse:

—Messer Baccelardo, voi siete bravo ed animoso cavaliere. Le vostre ardite parole e la vostra audace opera ci son piaciute moltissimo, e perciò vi diamo licenza di ritornare ad Ildebrando, con nostre lettere, libero ed onorato. Togliete intanto questa catena di oro, questa spada, e questo pugnale in nostra memoria, ed abbiatevi la imperiale nostra parola che, come avremo aggiustate le cose dell'Alemagna, penseremo altresì ai vostri negozi col duca Guiscardo, che a noi non negherà di obbedire.

—Mercè, sire, risposi io, codesta è cortesia che supera ogni mia speranza.

—Noi vi rendiamo giustizia, cavaliere, riprende egli magnanimamente. E perchè abbiate maggior prova del come noi sappiamo far conto dei bravi, vi proponiamo a stanza la nostra corte imperiale, finchè non sarete restituito negli Stati del padre vostro—se ciò vi permettono gli anteriori accordi fra voi ed Ildebrando.

E sì dicendo si mise a dettare la lettera che vi presento, santo padre; e di cui, se per avventura avrete dispiacere, non dovete accusarne che voi.

Gregorio prese la lettera di Enrico e ad alta voce lesse:

« Enrico per la grazia di Dio re dei Romani ad Ildebrando.

« Tale saluto hai tu meritato colla tua mala condotta, tu che in quanti nella gerarchia ecclesiastica occupasti gradi infimi od alti hai teco recato sovversione di ogni ordine, e scandalo e maledizione di Dio. E per non dir che delle cose più gravi, oltraggiasti i ministri del tempio, umiliasti gli arcivescovi, i vescovi, i preti e gli unti del Signore quali vili mancipi, i quali non sappiano ciò che si faccia il padrone, li affliggesti e conculcasti coi piedi. Tu eri tiranno e noi tacemmo per non turbare la pace e menomare la maestà della fede: ma la nostra pazienza, giudicando timore, ti sei sollevato contro la stessa dignità di sovrano che a noi fu data da Dio. Hai minacciato per mezzo di arroganti legati; hai voluto rapirci il potere quasi che noi lo tenessimo da te e non da Cristo, e che regno ed impero stessero nella mano dell'uomo; mentre il Signore dei cieli ha chiamato il servo Enrico all'impero non il nemico Ildebrando alla sede. Tu vi salisti per la scala che dicesi frode ed è maledetta da Dio. Per danaro sei pervenuto al favore, pel favore ad una potenza di ferro, per la potenza alla sede di Pietro, e dalla sede della pace hai cacciato in bando la pace con l'armare i sudditi contro i sovrani, con l'insegnare a vilipendere i vescovi chiamati da Cristo, quasi non da Cristo chiamati. Nè pago del tiranneggiare i tuoi sudditi, hai gravemente oltraggiato anche noi, che, indegni sì, ma pur siamo fra gli unti, unto non al tempio ma al trono; mentre è dottrina dei santi Padri che Dio solo ci può giudicare.

« S. Leone emulator dell'apostolo ha detto: temete il Signore, onorate il re. Ma perchè tu non temi il Signore, credi di non onorar noi che siamo re. Tu pertanto che fosti maledetto e condannato dal concilio tenuto qui a Worms, discendi, abbandona una sede usurpata. Farem salire codesta cattedra da un altro, il quale non veli la prepotenza, l'orgoglio e l'ambizione col manto di religione, ed insegni la vera dottrina di carità dell'evangelo, non quella di Satanno.

« Noi Enrico per la grazia di Dio, re di Germania e di Roma questo vogliamo che tu sappi, Ildebrando simoniaco e falso pastore[1] ».

Come Gregorio ebbe letta questa lettera, che Paolo Bernried, pecudino fautore di lui chiama di ogni ingiuria disonesta e di falsità ripiena, e sir Rogero Greiffey il sunto più esatto della storia e condotta di Gregorio, il colore del volto di lui si fece rovente come bragia. Senza dimandare più motto, licenzia Baccelardo, e tutto quel dì e la notte susseguente lo si vide percorrere le stanze cupo, taciturno, agitato da interna inquietudine, e da quella specie di smania che tormenta la donna vicina a partorire.

E presso a poco, guardata dal lato morale, identica era la situazione di Gregorio.

Egli ruminava il più vasto colpo che per undici secoli avessero mai concepito i successori di san Pietro. E' doveva dare alla terra un esempio di rigore e di smisurato arbitrio di potere, che i secoli venturi funestò di mali infiniti, di guerre, d'irreligioneria senza limiti. I suoi progetti erano alfine giunti a pienezza onde venire alla luce, senza più veli, senza più orpelli. La sua autorità aveva messa radice solida. I popoli avevano udito maravigliati la novità dei suoi disegni, e speravano fare un passo ancora al riscatto, affrancarsi dalla potenza della spada, vigilando sbarazzarsi poi anche di quella della parola. I potenti, colpiti nell'ebbrezza dell'orgoglio e dei dritti, fremevano parte, parte ridevano. Tutta la terra, in una parola, quest'uomo fatale aveva messa a combustione; ed ora saliva i pinacoli per gittarle il più grande dei suoi pensieri, per farle udire il più terribile suo verbo.

Al domani fu intimato un altro concilio per Roma.

V.

Descendors, les ordres divins Veulent que ce bonheur, ces clartés sans mélange Passent rapidement.

Reboul di Nimes.

Centodieci vescovi e prelati convennero a Roma pel novello sinodo intimato da Gregorio, alcuni cardinali, e parecchi dei feudatari che dominavano Italia—tra i quali quella celebre contessa Matilde, che sì giovane, sì bella, attenevasi al papa per tal divota sommessione da lasciar poi parlare di stregonecci e di amori. Vi assistevano il prefetto ed i tribuni di Roma, per la sicurezza e tranquillità dei padri, e quelli dei nobili che per Gregorio tenevano, onde tornare più solenne e maestosa l'adunata.

In spaziosa sala del palazzo Laterano, a foggia di semicerchio, si allogarono i seggi. Primi sedevano i cardinali, allora non più di sette, nè vestiti di porpora ma di paonazzo. Dopo gli arcivescovi, cui sotto i bianchi manti seminati di croci nere trasparivano ricche dalmatiche, aperte ai fianchi. Indi i vescovi e gli abati dalle lunghe barbe che loro scendevano sul petto. Ai due lati di questo semicerchio, nella parte interna, sedevano i signori laici e gli oratori delle corti straniere. Nel centro, sotto l'elevato seggio del papa, quattro segretari; ed il pontefice di rimpetto a tutti, nel mezzo, con due prelati dietro per trasmettere i suoi comandi. L'abate Ugone di Cluny riceveva alla porta i brevi di credenza di coloro che si presentavano al concilio. Egli poi li affidava agli araldi sacri onde condurli ai posti che loro spettavano. Infine si tenevano fuori quattro centurioni, con un manipolo di soldati, per arginare esterni tumulti, mettere a segno i riottosi del sinodo.

All'ora di sesta, radunati tutti, comparve la contessa Matilde. Ella aveva già trent'anni, conciossiachè di meno assai ne dimostrasse. I suoi lineamenti puri e severi erano bellissimi, di quella bellezza senza menda, ma senza poesia, senza inspirazione, che osservasi nelle opere di Canova. Le si leggeva sul volto un'aria di pensiero che la faceva sembrare alcun poco accigliata a primo aspetto. Però la soave trasparenza dell'occhio ceruleo, e la serenità della fronte maestosa ogni nube dissipavano, e quella specie di rigido contegno rivelavano bene per quel che era in sè stesso, un'abitudine cioè di ascetiche meditazioni, cui mai intieramente abbandonava e che le davano quell'alcun che di vago nello sguardo, e l'abitudine delle cure virili che dalla tenera età l'avevano occupata. Nell'insieme però bellissima la sua greca fisonomia riusciva, se non piacevole altrettanto. Vestiva tunica di bianchissima lana di Cipro, orlata d'aurei ricami contesti a seta cilestre, ed aperta un cotal poco sul petto per far luce ad una camescia di seta d'India, egualmente bianca. Stringevale i fianchi cordone d'oro che, terminato in due ghiande di pietre preziose, venivale giù fino ai piedi, chiusi in eleganti pantofole di broccato. Dalle spalle pendevale manto di velluto di Venezia chermisino, foderato di vaio, orlato del pari di trena d'oro, e fermato da scheggiale di zaffiro, di un pezzo solo, a forma d'aquila. Il manto aveva il tassello calato; poichè, dovendo sedere al concilio della testa scoverta, aveva dimesso il solito berretto a corno che si osserva nei suoi ritratti, aveva intessuto fra le trecce dei capelli d'oro, bianco velo ricamato a pagliuzze di argento, e mantenuto da ghiera d'oro che le cingeva la fronte, senza ecclissarla di splendore—solo e tenue distintivo del suo nobile grado.

Ella precedette di poco il pontefice che, per favore speciale ai servigi da lei resi alla santa sede, le aveva accordato assistere al sinedrio. Maestosa avanzò nell'aula Matilde, seguita da bianco levriere mentre due paggi le sostenevano i lembi della clamide, ed andò a sedere al seggio che, assai più basso, presso a quello di Gregorio, le avevano rizzato. Indi a poco comparve anche costui.

Al suo apparire tutti si alzarono. Egli li benedisse in prima, poi li ringraziò per brevi e gravi parole della sollecitudine che avevano mostrata nel venire a consolidare del loro voto i decreti di Dio. E scoverti della testa com'erano, intuonò la preghiera per invocare lo Spirito Santo. Poi, come tutti gli atti preparativi furono compiuti e steso il processo verbale per l'apertura della seduta, Ildebrando fece cenno della mano per richiamare l'attenzione e parlò:

—Figliuoli, sta scritto che sarebbero venuti i tempi pericolosi in cui i nemici di Cristo sarebbero sorti. Questi tempi sono arrivati. Credevamo alfine che dopo lungo battagliare avesse la Chiesa potuto assaporare giorni di pace. Ma questa pace è stata addentata da due sacrileghi; è stata violata da due infami. Questa pace han contaminata Enrico di Germania, e colui che oggi si chiama arcivescovo di Ravenna—il più sozzo, il più malvagio di quanti reprobi avessero mai conquinata la terra. Imaginate voi un delitto il più nuovo, il più gigantesco possibile che questi due non abbian commesso. Imaginate gli attentati più empi, le opere più terribili, i vituperi più nefari; questi due li han commessi tutti. O essi stessi son l'Anticristo, o ne sono i precursori. All'erta dunque, soldati di Cristo; all'opera, padri della chiesa. Siate prudenti come i serpenti, allacciatevi i sandali, cingete la spada, perchè l'epoca di una messe di sangue è matura, perchè i leoni di Giuda ruggirono. La divisa del sacerdote è la dolcezza. Però quando gli altari di Dio sono concussi; quando i santuari sono profanati e messi a vendita e a ruba; quando le persone dei sacerdoti sono prostituite, svillaneggiate, ed esposte al mercato come schiavi da gleba; quando tutte le credenze che i popoli adorano riverenti sono manomesse dai reprobi; allora ricordiamoci, fratelli, che siamo sacerdoti del Dio dei fulmini e delle vendette, del Dio che percuoteva Faraone, del Dio che sterminava Sanneccheribbo e gli Amaleciti; e sorgiamo terribili ed esclamiamo: Exurgat Deus et dissipentur inimici ejus ».

Dopo questa selvaggia diatriba si alza quel camerario Giovanni che abbiam veduto innanzi, e che Gregorio aveva elevato a vescovo di Porto, e messo molto addentro nelle sue grazie, dopo la diserzione del cardinale Ugo Candido. Giovanni di Porto era veramente un uomo terribile. Violento nelle passioni, spicciativo, manesco egli era, e come pressochè tutti i buoni ecclesiastici di allora, soldato in ogni suo affetto, in ogni suo uso. Giovanni, in poche parole descrisse della Chiesa il quadro più luttuoso, e dopo averne accennate le brutture e le miserie, continuò:

—Ma chi l'ha travolta in tanta geenna di vituperi? L'apostata Enrico di Germania; quel mostro dell'arcivescovo di Ravenna, Guiberto. Vuol bene questo santo padre Gregorio, il più grande di quanti pontefici ha avuti finora la Chiesa, vuol bene interdire mogli e concubine agli ecclesiastici, vuol bene condannare le leziosaggini e le morbidezze del vestire, il donneare, l'impazzir dietro cacce e banchetti, il frequentar meglio le orgie che gli altari, l'usar nelle corti, il cavalcare alle guerre; vuol bene sottrarre i sacerdoti alle investiture dei laici, al loro dominio, ai loro capricci, alle loro servitù; il santo padre non affrancherà giammai intieramente la Chiesa, non eleverà giammai il calice sulla spada, la tiara sulla corona, la nobile Italia sull'Alemagna, finchè vi resterà ancora per la terra codesto Enrico, il quale estolle l'empia cervice contro la sublime maestà del pontefice, e dice anch'esso: io sono! Finchè ci resterà Guiberto, che tutte le infamie e tutte le scelleratezze in sè porta incarnate, la Chiesa è disonorata. Questi due sono il nucleo a cui si aggruppano tutti i malcontenti; essi sono il loglio che contamina il buon grano; essi sono il braccio che fulcisce i rivoltosi; essi hanno alzata la bandiera a cui concorrono le schiere dei perduti; essi sono il principio che fomenta i ribelli, la peste che corrompe, il consiglio che diserta; e finchè essi saranno, pace e salute la Chiesa non avrà mai. La Chiesa però non solamente ha le chiavi ma la spada; non solamente ha la carità ma i fulmini; non solo i sacerdoti ma i soldati. Distruggiamoli dunque. Il ferro ed il fuoco, il pugnale ed il veleno, la guerra ed il tradimento, ogni mezzo si adoperi per cavar tale imbratto alla Chiesa; perchè sta scritto nel libro della Sapienza: Horrende et cito apparebit vobis, judicium durissimum his qui præsunt, fiet.

A questa terribile sentenza la contessa Matilde si alza, e voltasi al pontefice:

—Santo padre, supplica, se è lecito impetrar grazia pel nostro cugino Enrico, noi siam quella che lo facciamo, se pur pregio ebbero mai dinanzi agli occhi vostri le poche opere nostre a pro della Chiesa. Enrico è giovane, corrotto da perfidi consiglieri, ma l'anima ha gentile e da generosi pensieri non aliena. Usategli dolcezza ancora, non lo inasprite per dure maniere, chè bene può emendarsi. E noi, noi stesse promettiamo a questo santo sinedrio ed a voi, beato padre, di recarci in Lamagna e comporlo con la Chiesa, e ritrarlo dal precipizio.

—Madonna, voi non sapete quel che chiedete, con un tal qual piglio rispose Ildebrando. Noi abbiamo usata misericordia ad Enrico lungamente, avvegnachè, come diretti padroni di Germania, lo avessimo dovuto punire fin da principio per non indurarlo nel male. Ma egli si è fatto di dì in dì sempre più malvagio, egli ha costretti Iddio e noi ad abbandonarlo. E per chi è abbandonato da Dio e da noi, chi osa interporsi ad intercedergli grazia?

—Noi, riprende Matilde arditamente credendo aver pure alcun merito di qualche servigio renduto alla sede ponteficia.

—Voi, madonna, ne avete perduto ogni prezzo col vantarvene, severo l'interrompe Ildebrando. La Chiesa non ha bisogno di alcuno, perchè ci siam noi ed il braccio di Dio che la difendiamo. E se talvolta imponiamo ai laici di coadiuvarci, gli è più per prestar loro occasione di guadagnarsi il regno de' cieli, che per bisogno cui noi ne sentissimo.

—Ed io attesto, sorge a dire Baccelardo, che quanto ha detto il vescovo di Porto è tutto falso e calunnioso. L'imperadore Enrico di Germania è magnanimo, valoroso, d'intendimenti nobili e cristiani, che rispetta gli altrui dritti ed i suoi vuol venerati, che ha come sante le constituzioni di Lamagna a cui si vuole attentare, che non soffrirà mai che il suo impero venga tenuto come feudo della Chiesa, mentre egli è invece imperadore dei Romani, patrizio di Roma. Si disdica quindi il vescovo Giovanni di Porto, perchè male sta in un pastore di Cristo malignare i possenti.

Il vescovo si leva per rispondere, ma gli araldi sacri annunziano Rolando da Parma, commissario dell'imperadore di Alemagna. Costui era arrivato due giorni prima, nè a chicchessia aveva rivelato il motivo di sua venuta. L'istesso arcivescovo di Ravenna alcuna cosa non seppe fino alla mattina nella quale il concilio si aprì. Allora Rolando gli consegnò lettere di Enrico, e Guiberto, nel momento istesso, mosse la sua corte di Roma e partì. Rolando si recò al concilio, e dopo aver presentati i brevi di credenza alla porta entrò nella sala.

Non aveva ancora trent'anni; colossale e robusto della persona, ardito ed imperioso nell'aspetto, Rolando constringeva i più audaci ad abbassare gli sguardi, fulminati dal suo scintillante e lucido occhio nero. A lievi distintivi potevasi discernere esser egli prete. Del rimanente, vestito affatto da uomo di guerra, nell'inflessione dell'alta e sonora voce, nella speditezza del gesto, nella franchezza delle maniere, chiaro appariva che del sacerdozio egli non aveva saputo mai che farsene, e che per sola petulanza o capriccio ne adottava ancora alcun segno. Senza nudarsi la testa menomamente, a passo solenne si avanzò fino al seggio di Matilde per profferirle lieve riverenza, baciandole la mano, essendo Rolando nato suo suddito. Poscia si trasse avanti al soglio di Gregorio, che accigliato ne seguiva ogni atto ed ogni movimento, e disse:

—Mastro Ildebrando, il re mio signore e tutti i vescovi d'oltremonte e d'Italia t'intimano questo comando: Scendi dalla sede di Pietro usurpata con arti malvage. Deponi il governo della Chiesa cristiana. Abbandona la soglia del tempio, perchè niuno può levarsi a maestro di fedeli, non eletto dai vescovi, nè confirmato dal patrizio di Roma. E voi, sudditi di Enrico, sappiate che il giorno di Pentecoste dovete presentarvi al sovrano onde ricevere dalle sue mani un pontefice, perchè costui, giudicato dal concilio di Worms, di cui vi presento gli atti, non fu trovato tale, ma lupo rapace e tiranno.

E sì dicendo, al papa presentava la lettera dell'imperatore, ai segretari i decreti del sinodo di Worms. Ma a quelle parole, l'ardente vescovo di Porto balza in piedi e grida:

—Per il manto di Dio! imprigionate lo scismatico.

Ed alle parole giungendo l'esempio, si avventa sopra Rolando, traendo di sotto le vesti pugnale per assassinarlo. Costui però non dà segni di sgomento. Egli aspetta il vescovo, e mentre questi lo aveva di già ghermito dal petto e gli alzava sul capo lo stile, non saprei se per intimorirlo o per ucciderlo, Rolando lo abbranca dalla nuca, e, quasi avesse allontanata da sè importuna cianfrusaglia, lo manda a battere di testa ai seggi dei prelati, vicino la porta. Al novello tratto di ardimento, il prefetto, i tribuni ed i soldati di Roma sguainano le spade, e levati in massa gli si rovesciano sopra per morirlo ai piedi del papa. Se non che questi di lancio si precipita dal trono, ed allogatosi avanti al petto di Rolando, ai furibondi grida:

—Indietro, signori: rispettate il dritto delle genti che fa sacri gli oratori, e la tremenda maestà del concilio. Noi non dobbiamo odiar nessuno, ma tollerare gl'insani che si affaticano violare le leggi eterne di Dio. Vi dissi che l'ora della persecuzione era per giungere; è giunta. Risparmiate il sangue e siate pronti a resistere con fermezza, perchè lo spirito di prudenza e di mansuetudine è spirito di sapienza e di fortezza.

Indi, aperta la lettera di Enrico, con tranquilla voce e serenità di sembiante legge:

« Enrico, non per usurpazione ma per volere di Dio re di Germania, ad Ildebrando non papa ma falso monaco.

« Sebbene noi avessimo sperato finora da te ciò che da padre prudente può sperare figliuolo amoroso, e sebbene a dispetto dei nostri vassalli fossimo stati riverenti al tuo cenno, ciò nullamanco ti abbiamo provato per tale quale appena avrebbe saputo mostrarsi il più pernizioso nemico dell'impero germanico. Ci hai scemato il nostro ereditario potere; ci hai negato l'onore che dal vescovo di Roma è dovuto al re dei Romani. Con maligna arte hai sedotti i vassalli italiani a rinnegare la sovranità dell'impero. Nè contento dall'avere offeso il tuo re, hai posta mano pesante addosso ai vescovi lombardi e tedeschi, li hai gravati contro ogni dritto, vilipesi in faccia alle genti, condannati alle pene più atroci, solo perchè i generosi mantenevano salda lor fede, ed ai capricci di uomo orgoglioso resistevano. E poichè la nostra longanimità pazientava, hai presa la sofferenza benigna per languore di sovrano indolente, hai osato minacciare il tuo re, bandire il regicidio dal pergamo, e con parola nefanda giurato, che o saresti morto tu stesso, o fra poco tolto di seggio e di vita il monarca. A rintuzzare l'inaudita insolenza non credemmo valer più le parole, ma fatti volersi e castighi. Per lo che, cedendo alle preghiere dei principi, congregammo il concilio di Worms, ove i vescovi quanto sinora per timore o per rispetto avevan taciuto, svelarono; e sulle prove parlanti, che nelle lettere di ciascuno leggerai, giudicarono essere nocevole all'orbe cristiano che tu governi la Chiesa. Dietro la quale sentenza emanata dal santo concilio, secondo i canoni ed i santi Padri e giusta al conspetto di Dio, noi re di Germania ti pronunciamo decaduto dai dritti di papa usurpati, e ti comandiamo discendere dalla sede di quella città della quale i liberi suffragi del popolo ci han creato patrizio e sovrano.

« Questo comanda Enrico re di Germania ad Ildebrando usurpatore del ponteficato e falso pastore di Roma »[2].

Dopo di ciò, un segretario del concilio lesse la lettera al popolo e senato romano. Ma e' non potè tutta compierne la lettura, perchè gli scalpori ed il gridare dei componenti del sinodo si levarono altissimi. Per modo che al messo imperiale fu gran fatto novellamente campare la vita, difeso dalla generosa prudenza di Gregorio. Giovanni di Porto però, prendendo la parola a nome di tutta l'assemblea, scongiurò il papa che sguainasse la spada di Pietro e scomunicasse un monarca scellerato e ribelle, giurandogli a nome di tutti fedeltà ed obbedienza, decisi com'erano di correre una sorte con lui—fosse stato pure il martirio!

Allora Ildebrando sorge fra le acclamazioni del sinodo e con voce solenne e maestosa, con volto sereno parla:

—S. Pietro! tu principe degli apostoli e vicario di Cristo porgi orecchio all'imponente scongiuro, ed ascolta. Te attesto, e la madre di Dio, e Paolo tuo fratello di grazia che questo soglio non ho usurpato per ambizion di comando. Mercè tua, è piaciuto al popolo confidato a te che obbedisca al tuo servo Gregorio, e che in lui risieda il potere di sciogliere e legare quaggiù ciò che tu sciogli e leghi nei cieli. Fermo in questa fiducia, io legittimo papa e vero luogotenente di Dio, scomunico in nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo Enrico re di Germania, figlio di Enrico imperator dei Romani, empio che con feroce superbia perseguita ed oppugna la Chiesa, gl'interdico le insegne reali, ed il governo del regno tedesco e d'Italia, sciolgo tutti i cristiani dal giuramento che gli han dato e daranno, vieto a tutti ed a ciascuno che d'ora innanzi obbediscano a lui come a re; ed in nome dei santi apostoli e di Cristo lo lego col vincolo di un tremendo anatema; affinchè tutti i popoli sappiano tremando che io sono erede e successore di Pietro, e che su questa pietra il figliuolo di Dio edificò la sua Chiesa, contro di cui le porte infernali non potranno mai prevalere. »

Dopo le quali tremende parole Gregorio scomunica altra volta i vescovi di Lamagna ed i consiglieri del re; scomunica Guiberto, Ugo Candido e Guiscardo; intima ai vescovi del concilio di Worms di comparire al suo tribunale, per essere giudicati; dichiara ribelle e scismatico il clero lombardo, ne scomunica quasi tutti i vescovi, egualmente che molti vescovi francesi e molti conti, e presenta al concilio quel celebre Dettato del papa per sanzionarlo.

In fatti si stabilì quell'improbo regolamento di dritto ecclesiastico, che servì di norma a Gregorio ed ai pontefici a lui somiglianti, e che compendia a maraviglia quei tempi di sanguinose lutte, la politica dei pontefici, ed i passi che dettero nella loro onnipotenza dei secoli di mezzo per consolidare la sovranità della croce sulla spada. Si stabilì fra le altre sentenze: « all'arbitrio ed alle mani del papa stare le insegne imperiali—al papa doversi baciare i piedi da tutti i monarchi—non essere al mondo che un nome, il nome tremendo del papa—essere del papa il giudicare i monarchi—nessun mortale abrogarne le sentenze, nè alcuno fuori di lui poterle rivocare, il papa essendo sovrano ad ogni giurisdizione di uomo—la stessa elezione canonica constituirlo santo—autorizzati dal papa potere i sudditi accusare i sovrani—il papa poter sciogliere dal giuramento i sudditi dei monarchi ». Ed altri principii presso a poco consimili, di ogni ordine, di ogni pudore sovversi.

Dopo di che si chiude il sinodo, e Gregorio detta lettera e per i feudatari e pei vassalli dell'impero teutonico, e le dà a portare allo stesso Rolando, in unione dei suoi legati. I quali si recarono incontanente in Germania e pubblicarono i decreti del concilio di Roma, e la condanna di Enrico[3].

VI.

Tali modi facevano vivere i sudditi pieni d'indignazione veggendo la maestà dello Stato ruinata, gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni onesto vivere corrotto, ogni civile modestia spenta.

Machiavelli.

Terribile fu la sensazione che le misure di Gregorio produssero in Lamagna. I più timidi paventarono, i più forti arsero di nobile sdegno, maravigliarono tutti dell'arbitrario ed insolente condursi del concilio. Imperciocchè nuova affatto riusciva la scomunica d'un imperatore, ed origine a miserie infinite. Qualche fanatico ha voluto giustificare l'inverecondo fatto del papa per logica inferma: ma scrittori più probi ed imparziali, dei quali basti citare Fleury e l'immenso Bossuet, l'han condannato altamente come atto, non solamente indegno, ma non canonico ed iniquo. Enrico istesso ne intimorì. Non per l'anatema in sè stesso, che pure seco trascinava seguenza di sventure assai, ma per la disposizione degli spiriti nell'impero.

In un secolo superstizioso ed ignorante, in cui le idee religiose accompagnavansi di una specie di indefinito arcano terrore e di misteriosa solennità, le censure riputavansi quanto di più spaventevole potesse l'uomo colpire. E sì che quella gente di ferro nulla temeva, usofatta alle guerre, alle cacce, agli sdegni municipali, alle durezze d'ogni maniera! Ma quelle parole latine, profferite dai vescovi o dal papa col più lugubre apparato, li riempivano di paura. Maggiormente poi se eglino abitavano di là delle Alpi e del mare, e se la scomunica partiva dal pontefice, guardato come essere divino, avvolto in nube terrena. Perchè la sentenza di Tacito maxima a longinquo riverentia è stata vera in tutti i tempi e sopra tutto per i papi.

Allo scomunicato negavansi i sacramenti. Se moriva, il suo corpo mangiavano i cani sulle pubbliche strade. Qualunque aveva facoltà di ucciderlo per guadagnare la salute dell'anima. Gli dovevano rifiutare il tetto da ricovrare la inferma persona, il pane per isfamarlo, un gocciolo per torgli la rabbia della sete. Chi con lui favellava cadeva medesimamente nelle censure. I figli, la moglie, la madre, i parenti tutti, gli amici, avevano a sconoscerlo; niuno soccorrerlo se lo vedeva cader di lassezza, colpito di febbre e di lebbra. Egli doveva errar come il lupo, esser solo come la notte, maledetto come Caino. La terra stessa non prestarsi a dargli appoggio, il sole a dargli luce. E se era principe o signore, decadeva sul fatto del grado, ne perdeva il nome ed i titoli, le insegne e l'autorità; i vassalli levavangli ogni fede e riverenza, non l'obbedivano, lo vilipendevano, lo uccidevano ancora, se tanto avesse loro ordinato chi fulminava le censure. Ecco quindi ogni vincolo di sangue e di società civile rotto per una parola; ecco un popolo immerso nei tumulti ribelli, e nelle guerre; ogni constituzione di regno o d'impero violata.

Quest'arma, che i popoli stessi avevano data ai pontefici, finchè questi furono santi e protettori dei popoli, fu maneggiata con giustizia. E la tiranna prepotenza dei principi raffrenò; i dritti delle nazioni e dei soggetti protesse. Ma quando i pontefici diventarono altresì signori e ricchi, quando il ticchio lor prese di ambizione, e dalla pura santità del ministero sacerdotale si allontanarono per vezzeggiare principati, ed ai principi tornar superiori; quest'arma sacra, questo lábaro di libertà e di custodia degli oppressi, quest'arca di salute, questa spada che rovesciava le tirannie, si prostituì ad usi profani e scellerati. Fino a tanto che infiacchì, e si rese non temuta e ridicola.

Nel secolo XI però la scomunica vigeva ancora di massimo rigoglio, sopra tutto presso i popoli del nord.

Ed in effetti, come i numerosi legati che Gregorio diffuse in Germania vi pubblicarono l'anatema dell'imperatore e dei suoi cortigiani, tutti vestirono scorruccio, prevedendo i guai che avrebbero travagliata la patria. Maggiormente perchè i legati non si arrestavano nel manifestare i decreti del concilio di Roma, ma principi e vassalli prevaricavano a nome di Gregorio, e ad Enrico li ribellavano—i più saldi lusingando di promesse, i più timidi spaventando per minacce e per i quadri luttuosi dello sdegno di Dio e del pontefice. In modo che, i legami dell'impero teutonico si discioglievano. I sacramenti di obbedienza da ogni lato rompevansi. L'ordine sociale si sfracellava. Lo spirito pubblico correva al tumulto ed alle vendette. Un fomite di dissoluzione, di rivolta, di guerra, cominciava a prender fuoco in tutti i punti. Imperciocchè, se già i popoli inchinavano a francarsi, i principi a torsi di soggezione dall'imperatore, e qualcuno ad arrivare esso stesso all'impero, li ratteneva il giuramento prestato ad Enrico, giuramento cui come santo rispettavano. Essi non ardivano alzare baldanzosi la voce della ribellione e contristare il placido andare della nazione, difesa dai suoi dritti e dalle sue costituzioni. Ora, Gregorio avea tagliato quel sacramento; liberati tutti dalla divozione; attaccate le antiche e sacre leggi di Germania; tornato irriverito quel monarca a cui tutti mettevano fede, svillaneggiato, oppresso, rovesciato dal soglio; chi manteneva salda la fedeltà dei vassalli spogliato d'ogni riverenza, d'ogni santità, d'ogni decoro e grandezza. Questo esempio fatale corruppe i principi alemanni, i quali oramai givano accattando taccoli per rompersi in rivolture.

E primi i Sassoni ed i Turingi non del tutto da Enrico prostrati o malamente domati dalle ultime vittorie. Poi i principi di Sassonia, liberati dalle fortezze ove per ordine del re custodivansi onde mantener ligio e tranquillo il popolo scemato di capi. La lega infine, fomentata dal papa, tra Rodolfo di Svevia, Bertoldo di Carintia e Guelfo duca dei Bavari, allettati dall'imagine dell'impero che ad uno dei tre sarebbe toccato, come i più potenti principi di Germania, caduto Enrico. Le quali cose appena questi ebbe saputo, intimò al castello di Worms dieta, sia per iscandagliare l'animo dei nobili, sia per pigliare le debite misure sulle cose dell'impero. Ma alla dieta di Worms niuno dei grossi baroni comparve, intenti a collegarsi fra loro. Talchè fu mestieri trasferirla a Magonza. Nè quivi alcuno si mostrò pure, sendosi già pattuita alleanza tra Lorena, Franconia, Baviera, Svevia e Sassonia; avendo i principi ricevuta risposta da Gregorio, a cui si erano volti a consiglio, che se Enrico non si riconosceva vassallo di lui e della Chiesa « scuotessero sulla sua porta la polvere dei loro calzari e richiamassero al governo del regno un principe, il quale giurasse e fornisse cauzione di mantenersi sempre obbediente alla santa sede, e compierne fedelmente i decreti. Onde gli facessero conoscere costumi, sentimenti e condizione del principe cui miravano sostituire ad Enrico, per confirmarne l'elezione e renderla santa in faccia alla terra; se non credevano meglio d'intieramente affidarsi in lui, che aveva in mente consigliarli e dirigere in quella necessaria scelta del novello sovrano ». ( Ep. 3, lib. IV). Si unirono quindi nel castello di Ulm, Rodolfo, Guelfo, Bertoldo ed i vescovi di Worms, di Metz e di Würzburg, e dopo una lunga deliberazione decisero, che, pei 15 di ottobre di quell'anno 1086, i principi che avevano cara la salute dell'impero si sarebbero accolti nel palazzo municipale di Tribur, e quivi pigliate le più sane misure. Ed il giorno stesso corrieri di quei signori cavalcavano per gli altri principi di Germania.

Il dì per la dieta di Tribur arrivò. Vi si recarono quanti castellani tenessero feudi nella Svevia e nella Sassonia, alla testa di grosse squadre di cavalli. Vi trassero i Bavari condotti da Guelfo, i Sassoni in numerose torme guidate da Ottone di Nordheim, e quasi tutti i signori dell'impero, coi rispettivi arimanni, fossero essi stati laici o ecclesiastici. Legati del papa vennero, Ugone di Cluny, Siccardo patriarca d'Aquilea ed Altamanno arcivescovo di Padova, Come l'assemblea si fu radunata, Ugone pigliò la parola primiero e disse:

—Baroni, derivando le dottrine politiche dalla dottrina fisica dell'apostolo Aristotile, il re è il cuore della nazione, i principi le sensazioni che nel cuore han fondamento. Ora le sole parti similari hanno idoneità di sentire, e ciò per due motivi: primo perchè i sensi dipendono dagli elementi ed il semplice miscuglio di questi non forma gli organi parti dissimilari, ma le sole similari e semplici; secondo perchè la sensazione non è nè energia nè facoltà di per sè attiva, ma puramente passiva, ossia mutazione comunicata. Quindi, essendo prerogativa degli organi ogni attività spontanea, la sensazione si effettua nelle parti simili, e perciò nel cuore, sede delle sensazioni, perchè composto di parti simili...

Il patriarca d'Aquilea che vide l'abate imbarcato, senza timone, negli oceani aristotelici, e che i membri della dieta si guardavano in volto l'un l'altro, indecisi tra il riso ed il corruccio, interrompe Ugone, che resta degli occhi fissamente incollati alla parete. Il patriarca allora, e senza lunghi preamboli, dichiara in nome di Gregorio che Enrico IV era stato scomunicato e deposto dal regno per le gravi sue colpe. Che perciò il pontefice, come supremo signore del feudo consentiva all'elezione del sire novello, e della sua autorità la convalidava. Qui sorsero altri principi ad accusare il re chi di uno, chi di altro delitto. Lo accagionarono di tutte le miserie di Lamagna, lo dissero origine di quelle guerre che essi invece movevano, lo chiamarono tiranno, crudele, scapestrato, e di ogni guisa di vituperii lo coprirono, onde giustificare la perfidia di loro condotta, e la gioia che sentivano di rimbeccare al figliuolo le offese del padre, e riscattarsi della dipendenza sommessa in che Enrico III li aveva gittati.

Allora giunsero messi di Enrico. Ulrico di Cosheim spose magnanime cose pel re e smentì le impudenti accuse dei principi e dei legati. Promise ancora molto per Enrico ed innanzi ai loro occhi ritrasse senza velo, come per la loro ribelle condotta la dignità dell'impero si contaminasse, sottoponendola al vescovo di Roma vassallo di Lamagna, e come le constituzioni se ne violassero scelleratamente. Coloro risposero non fidarsi della mansuetudine del re ora che, dato giù, deserto si vedeva; che essi conoscevano fino a qual punto si dovessero altrui sottomettere; che le constituzioni della Germania non manomettevano, avendo deliberatamente avanti giudicato Enrico cui, scomunicato dalla Chiesa, per non incorrere anch'essi nelle censure, abbandonavano, ed eran quivi ragunati ad eleggere sire novello. Alle quali parole altre il duca Ulrico soggiungeva. Poi, capito che vanamente maneggiava pratiche, di nobile fierezza si protesta, aver ordine del suo signore dichiarare loro, che al dì vegnente avrebbe accolti nel castello di Oppenheim i suoi uomini d'armi e presentata battaglia.

Gli oratori di Enrico lasciavano la dieta costernata. I principi comprendevano a qual repentaglio li esponesse la disperazione del re. Fatta perciò deputazione di nobili sassoni e svevi gliela mandarono con alla testa Ottone di Nordheim. Questi si presentò al castello di Oppenheim, ed incontanente introdotto alla presenza di Enrico, così parlò:

—Sire, la dieta di Tribur non vuole esservi ostile, nè adoperar con voi fuori i dettami della legge e della giustizia. Gravi colpe i principi dell'impero han quivi portate contro di voi; e conciossiachè la dieta avesse il dritto di giudicarvi, onde per avventura alcuno non secondasse particolari risentimenti di offese ricevute, vi rimette alla condanna ovvero all'assoluzione del pontefice.

—Messer conte, dimanda alteramente il re, dove e voi e la dieta avete appreso mai che i vassalli possano giudicare i padroni, ed un nemico l'altro?

—Sire, risponde Ottone, gli è pur vero che Gregorio ostilmente si è con voi condotto, ma colui non sarà vostro giudice, ciò non soffrendo nè la giustizia, nè il decoro dell'impero.

—Lode a Dio, che aveste almeno tanto pudore! sclama il re con una specie di rabbia repressa.

—Sire, continua il Nordheim, il pontefice verrà solamente invitato ad una dieta di principi tedeschi ad Augusta, dove, udite le ragioni da tutte le parti, si profferirà sentenza finale. Qualora però, termine un anno, quivi non vi foste pienamente giustificato, nè vi fossero stati tolti gli anatemi; noi ci protestiamo di avervi come decaduto dal trono, e non più signore di Germania. Intanto, sire, per arra della vostra buona fede sottoscriverete i capitoli che la dieta vi propone, e giurerete di osservarli.

—E quali sono codesti capitoli, se Dio vi aiuta, bel conte? con un tal quale beffardo sorriso dimanda il re.

Ed Ottone di Nordheim, cavandosi dal petto una pergamena, con voce tranquilla e solenne legge—saltando su i preliminari:

« Il quale Enrico promette e giura d'incontanente restituire alla chiesa di Worms il suo vescovo Adalberto di Rheinfeld ».

—Perchè il povero vescovo ha smagrita bene la collottola nelle mude dei castelli del re, e gli è bene che per nostra carità torni alla vita gaudiosa delle bische e dei lupanari! Avanti.

—Giura vuotare la città da lui resa una piazza d'armi, un covo di masnadieri; confessare per iscritto aver fatta ingiustizia al popolo sassone e svevo, imprimere questa lettera del suggello reale in presenza di tutti i baroni, farla circolare per Italia e Lamagna, e finalmente recarsi a Roma per impetrare perdono dal papa, ed in tutto e per tutto compiere il volere del santo padre.

—Anche se quel prezioso santo lo obbligasse a cedere la corona a qualcuno di voi, nobili baroni, o in tutti i casi a investir voi, conte di Nordheim, del principato di tutta Sassonia, lui congratulare del fedel regno d'Italia! Non è vero, modesto sire di Nordheim? dovrebbonsi aggiungere queste parole.

Ed il conte, senza nulla rispondere all'ironico ghigno, chinava il capo e proseguiva:

—Giura inoltre purgare la sua corte del mal imbratto di femmine infami, libertini e scomunicati.

—Ancora? nel quale caso dovrei restar romito come la luna nei cieli, perchè non conosco alcuno dei bei seri di Germania, che non risenta un tantino il puzzo di questi tristi peccatacci. E dove andrebbero le vostre consorti, bel sere?

Ed il Nordheim continuava:

—Licenziare l'esercito, ritirarsi a far vita privata in compagnia del vescovo di Verdun e di altri ecclesiastici, non visitare nè le chiese, nè i luoghi santi di quella città, non immischiarsi negli affari del regno, nè portare insegne reali finchè non venga assoluto da un sinodo.

—Da bravi!, sclama Enrico, nulla fu obliato, tutto fu preveduto per umiliarci, ed i principi nostri padroni che cosa promettono dal loro canto—se essi si son degnati prometterci alcuna cosa, e se voi vi benignate di dircelo, bel conte?

—I principi promettono, risponde il Nordheim, fornirvi armata brillante pel vostro viaggio in Italia, ed intercedervi grazia dalla santa sede, offerendo invece a Gregorio, primamente di sbarazzarlo da quel perduto arcivescovo di Ravenna, che gli avete messo alle calcagne per non farlo mai più posare tranquillo; poi di cacciare di Puglia e di Calabria i Normanni, i quali hanno invaso il territorio romano, e dedicar quel paese alla sovranità di s. Pietro, come caldamente desidera il pontefice. Infine di farvi cingere dal papa la corona imperiale.

—Sta bene. E se noi non accettassimo codesti patti?

—Allora, i principi si terrebbero sciolti da qual si voglia giuramento di fedeltà, e senza più lungamente attendere procederebbero all'elezione di un altro re.

—Ah! sclama Enrico.—Nè dice altro per un pezzo, restando degli occhi immobili e la fronte corrugata. Poi si cangia totalmente in viso, e come se tutto ad un tratto si fosse deciso, toglie i capitoli di mano al Nordheim, li firma sollecitamente, li suggella e restituendoli soggiunge:

—Sire di Nordheim, voi siete un vituperato sono infami i nostri baroni. Non pertanto, siate voi testimone della violenza che ci fa il nostro popolo ed abbiate per fermo che, se Dio è Dio, le paga. Noi giuriamo di mantenere i patti di questi capitoli. Ci duole solo che essi ci siano pervenuti da voi, cui avevamo in conto di amico e di fedele, e che tal disinganno ci abbiano dato altresì Rodolfo, Bertoldo e Guelfo. Ora, potete partire.

—Sire, soggiunge Ottone, ricordatevi che avete giurato, e che avete soscritte le condizioni di pace che vi ha proposte la dieta. In quanto a noi poi, con la vostra sopportazione, sire, dovreste ancora ricordarvi che, prima di essere vostri amici, eravamo cittadini; prima di essere vostri fedeli, eravamo principi dell'impero; e per ciò appunto custodi della sua pace, delle sue leggi, delle sue consuetudini. Le nazioni non appartengono ai re. Che vostra grandezza quindi ritorni ad essere il padre di questi popoli, non attenti alla libertà di loro, non ne violi le constituzioni, rimetta l'impero nella grandezza e nel fulgore in che glielo lasciò la gloriosa e temuta memoria del padre suo, Enrico il nero, ed allora ci troverà tutti sudditi devoti e fedeli.

—Bene sta, sire di Nordheim, Avete compiuto il vostro mandato, ritiratevi.

Ottone partì, e ritornò alla dieta in Tribur per consegnare ai principi i capitoli firmati e giurati da Enrico. Viva fu la gioia di coloro, per la maggior parte o sconfitti alla battaglia di Hohenburg, o umiliati alla dedizione del campo di Gerstungen e tenuti cattivi nei castelli dell'impero per la durata e sicurezza della tranquillità. Smisurato fu il gaudio dei legati. Segnatamente allorchè si udì che Enrico, per dar pruova di voler mantenere i patti, aveva accolti a consiglio nel castello di Oppenheim i suoi, e dopo commovente discorso, licenziati dalla corte i vescovi di Bamberga, Colonia, Strasburgo, Basilea, Spira, Losanna, Zeitz, il duca Ulrico di Cosheim, i conti Eberardo ed Artmanno, i quali erano partiti con le lagrime agli occhi. Imperciocchè quelli amavano Enrico teneramente, come colui che dimostravasi magnanimo come re, valoroso come guerriero, senza fasto e compagnevole come soldato, liberale, franco, grande rimuneratore ed ammiratore delle opere prodi, di alti e nobili intendimenti. Così che meritamente forse nella storia spregiudicata s'ebbe appellativo di grande—appellativo che le calunnie non mai specificate da fatti, cui numerose gli addossarono i sediziosi ed i proseliti di Gregorio, non potranno giammai cancellare. Dopo il qual tenero addio, riconfortandosi per tempi migliori, Enrico mandò ordine al comandante di Worms restituire al vescovo la sede, le rendite e l'autorità vescovile, spianare le torri, vuotare la città da' presidii ed arnesi da guerra, licenziare le truppe. Si accommiatò in fine dai baroni che aveva con sè, e ritirossi nel castello di Spira senz'altra compagnia che l'imperatrice Berta, con cui erasi riconciliato, ed il suo figliuolo Corrado.

I legati intanto, ed il conte Mangoldo di Verigen ed Udone di Treviri ambasciadori della dieta di Tribur mossero per Roma. Papa Gregorio, che combattuto in mille affetti, sospeso all'orlo di abisso profondo, in agonia di pensiero, come quegli che sopra un dado aveva giocato tutto—grandezza, fortune, ambizione, progetti, il passato e l'avvenire, tutte le opere ed i concepimenti di una vita, tutto un potere strabocchevole, tutta la magica e paventata signoria di una parola, aspettava; ed aspettava senza velar gli occhi di sonno, senza sentir bisogno di cibo, smanioso, ansante, bruciato da impaziente inquietudine.

VII.

E' par che voi veggiate, se ben odo, D'innanzi quel che il tempo seco adduce E nel presente tenete altro modo. Noi veggiam come quei ch'ha mala luce Le cose, disse, che ne son lontane.

Inf., XIII.

La legazione della dieta di Tribur pose addosso ad Ildebrando tripudio che non sapeva contenere. Aveva trionfato. L'imperatore era avvilito; egli si levava alla cima della gerarchia sociale. Re, principi, signori, tutta la gerarchia ecclesiastica e secolare accosciavasi ai suoi piedi. Sulla terra non si riconosceva potere al suo superiore; non uomo di lui maggiore; non dignità più riverita e temuta, potenza più illimitata ed a scrutinio non soggetta, nè capace d'essere rovesciata. L'Italia infine non si atteneva più all'Alemagna. Ed egli poteva darle legge, darle freno. Il suo sistema di universale teocrazia era prevalso; le autorità della terra stringeva nel suo pugno. Re dei re, egli poteva eleggere e rovesciare i re e gl'imperatori. Dopo Iddio a niuno andava secondo. Ed il suo gaudio cresceva dal saper che, forzati e tratti da seguito arcano di fatalità, i secolari recavansi a tanta subordinazione, che avevano combattuto, che si erano ribellati, che addentavano avviliti il morso cui aveva lor posto. Poi comparava Enrico IV, da lui spogliato di dignità e da qualsiasi dritto di principe e d'uomo, ad Enrico III, che deponeva i pontefici e li creava, che metteva leggi alla Chiesa e l'aveva vassalla. Tutti i popoli adesso, tutti i paesi erano feudali alla Chiesa. Roma, un'altra volta, sorgeva padrona del mondo, senza colpo ferire, senza soldati, per sola virtù di ostinata volontà, di gigantesco concepimento. Aveva ragione il prigioniero di Sant'Elena di dire, che se e' non fosse stato Napoleone avrebbe voluto essere Gregorio VII!

Per quindi maggiormente godere del suo trionfo, Gregorio accettò l'invito della dieta, e si dispose a partire per Augusta.

La dieta di Augusta si apriva ai 22 di febbraio.

L'inverno si mostrava rigido, copiose cadevano le nevi, gonfiavano i fiumi, imperversavano i venti. Ma che perciò? La tensione del pensiero ogni altro bisogno o debolezza in Gregorio attutiva. Fiso della mente nel sublime momento in che avrebbe profferita la sentenza del suo nemico, e' valicava tempo, perversità di stagione, malvagità di cammini, e nulla curava, e ad Augusta correva, dove già il suo spirito tanta vaghezza di lusinghe e di ambizioni soddisfatte andava assaporando.

Sulla metà di dicembre quindi Gregorio partì da Roma. Lo accompagnava la contessa Matilde, sopra borioso stallone isabella, virilmente vestita, e grosso seguito di baroni che le componevano intorno brillante cintura. Lo seguiva poderosa scorta di soldati toscani, sudditi della contessa.

Gregorio cavalcava bianca chinea, coperta di ricca gualdrappa di velluto porporino ricamata a croci d'oro. Avvenente anzi che no della persona, quantunque piccolo di statura, i suoi grandi occhi scintillavano di luce vivissima; la sua fronte alta e calva si spianava dalla letizia; dal naso aquilino fiutava orgoglioso la pura aura di un'atmosfera, che tutta del suo nome e della sua potenza riempiva. Il peso del mondo non ottenebrava il suo volto; la sua mente intendeva ad ogni cosa, senza soccombere, senza gualcire di precoce vecchiezza il corpo che animava.

Vestito di bianca lana, ravvolto a metà entro mantello di panno cremisino, su cui suffusa e lunga cadevagli la barba argentina, Gregorio si compiaceva dell'impaziente alterigia del suo corridore, che andava caracollando, e graziose parole diceva alla contessa che gli cavalcava alla destra. Ed ora dava provvedimenti al vescovo di Porto, che gli teneva dietro per i bisogni e la sicurezza del viaggio; ora benediceva il popolo, il quale gremiva le strade, vago e motteggiatore dello spettacolo di quella cavalcata.

Come però furono giunti in sulle porte, tra mezzo a gruppo di soldati, Gregorio vide una giovinetta a cantare la cantilena di Rolando, l'aspetto della quale lo colpì. Si raccolse un istante nella mente, e ricordossi infatti di quella fanciulla che, nella sanguinosa notte di Natale, lo aveva arrestato alla porta di Santa Maria Maggiore e scongiurato di tornare indietro. E si risovvenne altresì che, impaniato tra le gravi cure della Chiesa, di niun modo aveva poscia pensato a sdebitarsi con lei, e pigliar conto di sua fortuna e condizione. Per lo che, avviato adesso sopra dubbia carriera ed in volta per viaggio periglioso, onde non avesse novellamente dimenticato di mostrarsele grato, fa sosta alquanto e manda il vescovo di Porto per menargliela avanti.

Guaidalmira, considerata, diciam così, alla spicciolata, non era bella in ciascuna delle sue membra, tolto la taglia della persona alta, svelta e tornita. Però nello insieme talmente quelle membra armonizzavano, che ne usciva una delle più piacevoli e piccanti fisonomie, segnatamente per quei suoi grandi occhi neri che brillavano come due gocciole di neri diamanti. Quel sembiante quindi aveva un'attrazione, a cui non si resisteva di leggieri, ed una tale aperta franchezza che tutte le sensazioni dell'anima vi si pennellavano. Il suo sorriso, che metteva in mostra i più bei denti, era un incanto. Ella, non riccamente ma pulitamente vestita, all'invito del vescovo si apre strada tra i capannelli dei soldati ed al pontefice si presenta. Gregorio la stette a considerare fisamente un bel tratto, quasi di quell'aquilino suo sguardo avesse voluto affascinarla. Però non essendosi Guaidalmira per nulla scossa, ed avendo con fermezza sostenuto quella specie di compenetrazione mentale, Gregorio le dimandò:

—Non saresti tu per avventura, giovanetta, colei che, la notte di Natale, alla porta di Santa Maria Maggiore, ci avvisò di un pericolo cui andavamo ad incontrare!

—Io per l'appunto, risponde Guaidalmira.

—E come dunque sapevi tu degli assassini che ci minacciavano la vita, figliuola?

—Con la mia scienza, pontefice, franca soggiunge la giovinetta.

—Ah! non avresti miglior risposta da darci, bella fanciulla? riprende Gregorio.

—No.

—Eppure ti gioverebbe moltissimo confidarti a noi, e dirci il vero.

—Io non vi ho dimandato nulla, sir papa. Perchè dunque mi tentate voi con promesse che non mi seducono più del canto del cuculo? Vi ho detto che io lo sapeva col ministero della mia scienza; gli è giusto così. Vi basti.

—Bene sta. Noi ti dobbiamo mercede, e, forse ci avrai dato del poco generoso per averlo dimenticato finora.

—No, santo padre: anzi ve ne dispenso, perchè io non ho bisogno di nulla.

—No? quale è dunque il tuo mestiere?

—Voi lo vedete: dico canzoni pel popolo; predico l'avvenire.

—Predici l'avvenire? ma non sai tu, fanciulla che l'avvenire è in mano di Dio?

—Che perciò? nelle sue mani, io l'indovino. Anzi, se pur siete disposto a darmi mercede alcuna, permettetemi che osservi la vostra mano e che vi dica la sorte.

Gregorio resta un momento a considerare quella giovinetta, per leggerle nell'anima se ella favellasse di buona fede e per interna convinzione, ovveramente tentasse abbindolare anche lui. E forse della sincerità di colei dovette persuadersi, dappoichè, sollecitato altresì da un languido sorriso della contessa Matilde, egli tira tosto la mano di sotto il mantello, si cava il guanto e gliela porge. Guaidalmira piega il ginocchio a terra, la bacia, la guarda attentamente, ne esamina le linee, ne studia le pieghe; ed il suo volto si copre di rossore. Poi, rialzandosi, dice malinconicamente:

—Fatalità! io non credo più alla mia scienza.

—Ah! e perchè dunque, fanciulla? domanda Gregorio.

—Perchè? risponde Guaidalmira, perchè? Essa detta la medesima sorte a me povera monelluccia di strada ed a voi sovrano pontefice, terrore dell'universo. La stolta! Quale disinganno!!

—Vero? sclama Gregorio accennando il volto a gaiezza.

—Sì, riprende Guaidalmira con un sospiro, divenendo di un subito pallida, mentre una lagrima le navigava per gli occhi. Sì. La mia fede ha perdute le ali per sollevarsi al cielo, i miei occhi han perduta la luce per leggere nell'avvenire. La medesima sorte! stolta!

—Ed è ben scura codesta sorte che tanto vi addolora, o figliuola? domanda Gregorio.

—Chi lo sa? mormora Guaidalmira. Sprazzi di sole in fiotti di uragano. Lugubre certo è la mia. Nondimanco però, sia vera, sia falsa la mia scienza, non posso, santo padre, restarmi dal rivelarvi che essa della vostra persona mi detta che...

—Che cosa! parlate pur liberamente, dice Gregorio.

—Sì, pontefice, sclama la donzella: vivrete Cesare, morrete Mario!

E sì parlando, senza aspettare ulteriori domande, volge le spalle a Gregorio e parte. Questi resta colpito alle parole della giovinetta, la segue un istante col guardo, poi gitta un sospiro e si rimette in cammino.

La contessa Matilde aveva tirato il capperuccio sulle gote per celarne il pallore.

Giunto in Lombardia, i nobili ed il clero che ancora gli restavano divoti, lo accolsero della più suntuosa magnificenza. E' si fermò alquanti giorni nelle terre lombarde, e di là mosse per Vercelli, seguíto da splendido corteo.

Il vescovo di Vercelli era altresì cancelliere dell'impero nel regno d'Italia. Gregorio si aspettava che costui gli fosse venuto incontro sulle porte della città onde fargli riverenza ed offrirgli ospitalità. Ma per tal guisa non avvenne. Poichè, non solamente il vescovo non gli andò innanzi nè si recò al palazzo municipale per salutarlo, ma, invitato due volte di presentarsi al pontefice, si rifiutò. Grave sospetto prese allora a travagliare l'animo di Gregorio, che alla contessa Matilde confidò. Infatti poco di poi giunsero novelle che l'arcivescovo di Ravenna aveva accolto un esercito ne' suoi Stati ed un sinodo a Pavia. Gregorio insiste per vedere il vescovo di Vercelli. Questi infine, dopo tanto strepitare ed urgere, si presenta. Ildebrando lo accoglie con piglio minaccioso ed altiero, ma colui, senza neppur tanto curare il broncio del papa, gli va davanti e dice:

—Pontefice, come cancelliero dell'impero vi comando di uscire da questa città, la quale, fedele ad Enrico, non può nè vuole ricettare nelle sue mura un nemico dell'imperatore e della Germania.

—Ser vescovo, risponde con calma altiera Gregorio, ed io ti comando di deporre le insegne vescovili, di lasciare la carica, di prostrarti della faccia nella polvere alla nostra presenza, di constituirti cattivo, e sperare nella nostra misericordia del quando e del come sapremo farti giustizia.

—Gran mercè della vostra buona intenzione, pontefice! sclama il vescovo. Solamente io vi chiamo a considerare che, ad obbedire alle vostre proposte, io non sono mica disposto ancora, nè per qualche tempo sarò. Invece, per far sì che voi obbediate ai miei comandi, gli è ben che sappiate aver io ai miei ordini tal numero di gente da non udire nè scrupoli, nè forza per costringervi.

—Vescovo di Vercelli, furibondo riprende allora Gregorio, tu sei uno scellerato che verrai punito da tutti i fulmini della Chiesa e dalla forza laicale. Enrico intanto, alla dieta di Augusta, udrà da noi della tua infame condotta.

—Se questo è il vostro pensiero, ser Ildebrando, risponde il vescovo, non andrete fino ad Augusta per denunziarci. Enrico è in Italia.

—Enrico è in Italia! grida il pontefice alzandosi da sedere percosso dalla novella. E direste voi il vero, monsignor di Vercelli?

—In Italia, continua il vescovo con fermezza, ed alla testa di formidabil esercito, il quale altro non cerca che vendicare le offese del suo signore.

—Sire Iddio! grida Gregorio levando al cielo le mani e l'occhio corruscante di sdegno, o che io muoio e ti rinnego come Pietro, o che infine strapperò affatto codesto Enrico dal soglio di Germania e d'Italia.

FINE DEL SECONDO VOLUME

INDICE

LIBRO TERZO.—La notte di Natale. Pag.5

LIBRO QUARTO.—Il Concilio di Roma. »93

Note

1: Vedi VOIGT, Storia di Gregorio VII.

2: VOIGT, Storia di Gregorio VII.

3: Tutto in questo capitolo è storico, uomini, documenti, atti e parole.