BIBLIOTECA NUOVA PUBBLICATA DA G. DAELLI

IL RE DEI RE

Stabil. tip. già Bonlotti, diretto da F. Gareffi.

IL RE DEI RE CONVOGLIO DIRETTO NELL'XI SECOLO

PER F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA

VOL. IV.

MILANO G. Daelli e C. Editori.

1864.

LIBRO SETTIMO IL MESSAGGIO.

I.

Alla nostra città non fe' paura Arrigo già con tutta la sua possa Quando i confini avea presso alle mura.

Machiavelli — L'asino d'oro.

Sicuro Enrico di lasciar ben curate le sue cose di Germania a Federico di Staufen, senza mettere indugi prese le mosse per alla volta d'Italia. Il considerevole esercito seguivano assai tra vescovi, principi, duchi e signori di ogni grado, e per dovunque passava con le voci di plauso raccoglieva attestati di divozione e di omaggio. Segnatamente gl'Italiani, ahi pur troppo! che dalla venuta del re speravano messe di gloria e concessioni di libertà. Le schiere dei combattenti correvano a folla sotto le sue bandiere. Ogni Comune mandava le sue milizie cittadine. Ogni barone conduceva i suoi uomini d'armi e cavalcava al campo. Sicchè Enrico, giunto a Verona ove celebrò la Pasqua, si trovò a capo di esercito poderoso, il quale niente meglio desiderava che pugna, che vendetta dell'astioso pontefice. Dall'altro lato la contessa Matilde aveva messe insieme le sue bande e comandato ai suoi vassalli che, chiunque possedesse una spada ed un cavallo fosse atto a servirsene, la seguissero nella spedizione contra il re. Ed ella stessa, lasciate da banda le mollezze femminili, che veramente non conobbe mai troppo, lasciate da banda le discettazioni teologiche e le pratiche beate della divozione, vestì lorica e celata ed al campo di Mantova trasse.

Le sue genti sovra i giachi di maglia e le corazze portavano corta tonica bianca divisata di croce nera, ed a foggia di croce l'elsa degli stocchi. Nei loro accampamenti non gironzavano cantoniere, giullari, istrioni, buffoni d'ogni maniera, e merciaiuoli. Invece, frati d'ogni colore a tutti i crocicchi alzavano panche, e fatto un po' di crocchio predicavano irate parole contro Enrico il Madianita, che veniva a contristare Israele, e seminare le discordie nelle terre di Canaan. E quei soldati severi nelle fisonomie e nella condotta, lungi dal rompersi a crapole su per bische e lupanari, e ad orgie ubbriache nelle osterie, nelle parole parchi, negli atti misurati, raccolti, a capo giuso, rassegnati, si ragunavano la mattina nel grande spianato del campo, dove il vescovo Anselmo di Lucca, uomo sulla taglia di Gregorio, celebrava la messa e trinciava loro benedizioni a iosa. Ed al tramonto cantavano in uno l'angelus prima di dispensarsi alle guardie dei valli e delle trincee. Matilde si teneva sempre in mezzo di loro, ne parlava il linguaggio, la più assidua nei lavori del campo, la più sagace nelle deliberazioni dei capitani, dei disagi improvvida, delle fatiche non schiva. Al conspetto di altrui, nelle assemblee, percorrendo a cavallo le tende, il suo volto era sereno perchè aveva posto confidenza in Dio. Ma la notte, ma nel silenzio ella non sapeva siffattamente imporre al suo cuore di posare tranquillo sul pensiero, che le sue truppe erano pochissime e mal proprie contro l'esercito di Enrico, precaria la sua posizione, pericolosa quella del papa, terribile quella del paese a lei soggetto, e che era odiatissima. E quell'odio, cosa strana, ha sopravvissuto al tempo. Anche oggidì, il contado la crede tristissima donna; inesorabile coi vassalli; imbertonnata dal papa con cui ebbe tresche lubriche nel tempo del suo marito Goffredo il gobbo; in commercio con i diavoli che le fabbricarono in una notte quaranta castelli; che facesse costruire torri e campanili per ordine del confessore, onde purgarsi di sue peccata; e che, infine, scoppiasse a Bianello, sull'altare, nel momento proprio in cui celebrava la messa, di cui papa Gregorio le aveva impartita facoltà. Le leggende su Donna Matilde brulicano nell'Emilia, gremita dai ruderi dei suoi castelli—e non una carezzevole, per questa donna sì carezzata dai papi, per questa donna che segnava, Mathilda gratia Dei, si quid est! Alle conseguenze di quest'odio vivissimo allora, si arrogeva che l'imperatore non le avrebbe punto perdonato la resistenza, ed il ritardo alla sua corsa vittoriosa sopra Roma. Nondimanco niuna debolezza tradì mai nè la condotta nè il carattere di lei. E forse non la si vide giammai più tranquilla che quando seppe Enrico in Italia, ed acquartierato a poche miglia dal suo Campo. Ella doveva resistere al primo urto del nemico.

Matilde non era più nel fior della sua giovinezza. Ma l'età non aveva avuto che leggera presa sulla sua persona, perchè in lei, se i sensi favellarono talvolta, il cuore aveva sempre assolutamente taciuto. Ora ogni ruga sulla fronte, ogni lampo ottenebrato nello splendore degli occhi, ogni pallor sull'incarnato delle labbra, non sono che una fotografia degli spasimi del cuore. L'amore è una demolizione in permanenza. Laonde, al vederla, Matilde sembrava ancor una vergine a venti anni, come quelle madonne della scuola di Giotto che non hanno età perchè non hanno anima. Una serenità sovrumana splendeva sul suo sembiante, ma fissa, ma monotona come l'azzurro del cielo di oriente, ove un'aura non mormora, ove la vita sembra cristallizzata. Solamente quella serenità non era la purezza, non era l'innocenza, non era l'incoscienza del dramma della esistenza, era la fatalità rassegnata. La sua grande persona portava lo stigmata dell'inflessibilità dello spirito. Era rigida, era quasi petrificata.

Nulla parlava in lei. Quella bocca, supremamente bella, che avrebbe attirati i baci degli angioli se fosse stata soave, viva, se il sangue vi avesse palpitato, non sembrava propria ad altro che a biascicare un ave maris stella o una condanna di morte, con eguale indifferenza. Quegli occhi che avrebbero avuto la profondità infinita dei cobalti del cielo d'Italia se la fiamma divina dell'amore li avesse fatti corruscare, erano ora stupidamente inespressivi, quasi fossero stati di cristallo. Quella fronte che sarebbe sembrata l'olimpo del pensiero e degli affetti, se Matilde fosse stata una donna, era levigata e pura come una lamina di ghiaccio, era muta come una sfinge. L'insieme di quella donna, che sarebbe stata la demenza della voluttà per l'armonia delle forme, era una maschera, era una larva, era un prodigio d'insensibilità, era un miracolo d'amore mancato. Iddio aveva obliato di mettervi una scintilla. Nulla in lei rivelava l'innocenza, quella che unicamente rende sì seducenti le madonne di Raffaello. La sua purezza significava ad ogni analisi che la era una negazione di sensibilità e di sentimento. L'aria beata che la circondava della sua aureola non era luminosa, non era come quelle brezze della sera delle coste della baia napoletana, che vi seducono, vi commuovono, vi elevano a Dio di cui sembrano il respiro. Tutto in Matilde tradiva la divota, l'ascetismo spinto al fanatismo. Però non il disprezzo della terra per elevarsi alla compenetrazione con Dio—con l'infinito—ma l'oblio della creatura—cioè l'oblio di tutto quanto soffre, pensa, ama, piange.

Matilde teneva alla terra per la punta d'una spada, di cui aveva messa l'elsa in mano al pontefice—cioè per l'ambizione, per il dominio, per servirsi della creatura come il villano si serve dell'ingrasso per far germogliare le spighe nei campi, i fiori nel colto.

Lenta a pensare, a muoversi; flemmatica nelle risoluzioni, quasi le scolpisse in un blocco di bronzo e perciò irremovibili; fisa con uno sguardo catalettico nello scopo, non comprendendo lo spasimo della carne e dell'anima; contando le miserie dell'esistenza come una elevazione verso Dio, e perciò, quando anco le comprendeva, rinculava dall'addolcirle; dando a tutti i sintomi del rigoglio della vita un significato di colpa e di degradazione—un eco del peccato o un peccato—considerando l'autorità come un'emanazione da Dio, e perciò incarnata nel papa, e perciò imperdonabile ribellione contro Dio quella contro il papa; Matilde fu nel suo secolo, fu pel suo popolo, era per i suoi vassalli in quell'ora come una lama di Toledo, che non brilla, non si spezza, non si riscalda onde percuotere, non resta mai curva, che è sottile, fina, fredda, elegante, graziosa, aristocratica, inesorabile, anche un vezzo od un ornamento se occorre, che non ha che la punta, e che dovunque tocca lascia uno stigmata, spicca il sangue, porta la morte—strumento sempre di castigo e di dolore.

Matilde si era gittata innanzi ai passi di Enrico. Questi non si fece attendere e le mosse contro. Ella copriva Mantova e si preparava a resistere. I cittadini di Mantova le fecero dire dal loro vescovo ch'e' non volevano sottoporsi agli stenti dell'assedio, ma meglio sussidiarla di un corpo di truppa; altrimenti avrebbero mandate le chiavi della città al re, ed aperte le porte. Matilde si sentì costretta, sotto i baluardi della piazza, attaccare la battaglia.

Allo spuntare dell'alba dunque ella uscì dalle mura alla testa del suo esercito. I Mantovani sorpresero il presidio, chiusero le porte, ed alzarono i ponti. Per lo che, la gente della contessa si vide nel partito di riscattare la vita con la vittoria o morire.

Sull'ora di nona, con un tempo bellissimo, apparvero gli sfolgoranti stendardi del re, e la sua cavalleria coperta di ricche vesti. I soldati di Matilde rassegnati come un drappello di vittime, immobile, taciturno, col pensiero raccolto in Dio, stretti fra loro, li aspettarono. I cittadini di Mantova dall'alto delle torri e dai merli delle mura, assistevano all'affronto come da un anfiteatro ad una giostra. Il nemico arriva. Ma Enrico, sia che avesse pietà di quella mano di prodi con tanta tranquillità devoluti alla morte, sia che avesse paventato la loro disperazione, manda Baccelardo a parlamentare. Matilde, udito il messaggio del re che l'invitava alla piena dedizione, facendo lor salva la persona, la vita e la libertà, risponde:

—Dite al nostro bel cugino che noi ringraziamo la sua cortesia di proporci la pace a queste condizioni. Noi non abbiamo di modo alcuno forfatto all'impero, prendendo la spada contro chi viene ad opprimere il pontefice nostro signore, e la nostra libera religione. Se poi davvero gli prende pietà di noi e vuole esserci amico, che sgomberi tosto dai nostri Stati, che deponga gli sdegni ingiusti contro del papa, che ci offra una pace onorevole ed una guarentigia di mantenerla, e sa Iddio se noi desideriamo meglio, e se in segno di sudditanza non gli verremo perfino a far da mozzo al cavallo.

—Madonna, soggiunge Baccelardo, vostra bellezza mi perdoni se oso rammentarvi che non istà a voi proporre patti al vostro sovrano.

—E voi perdonatemi, ser cavaliere, se vi ricordo che non istà a chicchesia proporre condizioni da vinti, prima di aver guadagnata la vittoria.

—Ella è dunque la pugna che voi desiderate, madonna?

—Sa la regina degli angioli, ser cavaliere, se noi daremmo tutto per evitarla, meno che l'onore.

—Il ciel vi aiuti dunque, bella contessa, perchè dagli uomini poco vi resta a sperare.

—Amen, ser cavaliere.

E si dicendo Baccelardo le baciava la mano e partiva.

La pugna si attaccò. Non fu lunga. Fu sanguinosa, fu disperata, fu feroce come guerra di religione; la vita fu disputata accanitamente. Ma il numero prevalse. Enrico vinse. I pochissimi che avanzarono delle truppe di Matilde, fuggirono con lei.

Allora i cittadini di Mantova mandano il loro vescovo ad Enrico onde proporgli la scelta, o di togliere la città per assedio, ovvero entrarvi con consentimento loro dopo aver giurato rispettare gli edifici e le fortificazioni alla città, gli averi, la libertà, la vita ai cittadini. Enrico accetta questi patti, e trionfante entra dentro Mantova in un nembo di fiori. Due giorni dopo, il re si recava a Padova ed a Cremona, città che non si volevano arrendere che a lui, ed a lui solo aprir le porte. Ed entrato Enrico da trionfatore, accolto con lo medesimo entusiasmo, concedeva loro privilegi e franchigie ed il favore del carroccio, che, in onor dell'imperatrice, i Padovani chiamarono Berta, i Cremonesi Bertacciola. Indi mosse per Firenze, distaccando dalle sue truppe dei manipoli onde andare ad occupare or questo or quello dei castelli e delle terre della contessa. Ma questa gli disputava l'invasione del suo territorio palmo per palmo, e ad ogni mutar di passo gli presentava contro ora una borgata cinta di mura, ora una rocca, ora un villaggio, costringendo il re a combattere ad ogni fermata. L'animosa donna vendeva poscia tutti i suoi gioielli, prendeva gran parte delle sue rendite e le mandava a Roma a papa Gregorio onde munir la città, assoldar gente, comprare i faziosi.

Ella era restata povera—ella, l'erede di quel marchese Bonifazio che, avendo Enrico III lamentato di non trovare buon aceto a Piacenza, gliene aveva mandato in venti barili e su carretto di argento. Le sue possessioni devastate, rase le fortezze, smantellate le mura delle sue città, bruciati o presi i castelli, i suoi vassalli deserti. Del suo florido dominio insomma, così bello, così vasto, non restava che cadente scheltro. La fame minacciava il suo popolo; la moria lo decimava. E con tante sciagure, con un nemico ostinato di faccia, con tanto maligno volger di cose, la sua costanza non crollava, non mutava nei propositi, non tradiva neppure con un fastidio o una velleità la generosa causa che aveva sposata—avvilire l'imperatore, esaltare il pontefice! Chi le negherebbe il distintivo d'eroina dei tempi di mezzo?

Quando seppe però che Firenze, dopo un mese di assedio, affamata e rovinata si rendeva; quando Lucca discacciava il suo vescovo, ne creava un novello ed invitava nella città Enrico; quando Montebello, Carpinete, Bibianello—Bibianello sì forte, sì popolato allora, oggi spelonca abitata solo da pulci—quando queste formidabili castella cedevano al vigore dell'oste avversa, essa raccolse i residui delle sue truppe e delle sue ricchezze, e trasse a Roma, risoluta difendere fino all'estremo la città eterna o morirvi.

E la vigilia di Pentecoste Enrico, con l'arcivescovo di Ravenna, compariva sotto le mura di Roma ed accampava nei prati di Nerone, dirimpetto a Castel San Pietro.

II.

Il senato vi chiama. Un tremendo esercito, condotto da Gaio Marzio, alleato con Aufidio, manomette il nostro territorio. Tutto è ormai consumato: schiava è fatta omai una metà della popolazione.

Shakespeare — Coriolano.

Come Ildebrando udì del concilio di Brixen, che lui aveva deposto ed esaltato Guiberto, e della morte di Rodolfo, e del disegno di Enrico di volgere in Italia, si spaventò. Sono quei movimenti involontarii che sfuggono alla natura umana a dispetto della violenza che si adopera con essa. Ma quando lo seppe già in Italia, e che gl'Italiani, del suo giogo intolleranti, accorrevano a torme alle bandiere di lui; quando sentì i rovesci della sua fazione, e le miserie in che i sopravvissuti esulanti languivano; quando, trionfatore di tante vittorie, dall'alto delle rocche lo vide sotto i baluardi di Roma, e' dominò ogni debolezza, bandì ogni paura, e tranquillo provvide ai mezzi di resistere. Perchè, se come cristiano aveva piegato la testa innanzi agli arcani voleri di Dio, come principe avea debito proteggere i suoi vassalli, tutelare la sua città. Però il suo carattere era cangiato.

Non che e' si fosse rammollito su ciò ch'egli chiamava suoi principii; non che avesse perdonati Enrico e Guiberto, no! Ma egli aveva spogliata ogni alterigia di maniere, ogni intolleranza. Non era più aspro coi caduti, non più severo coi colpevoli, non inesorabile con chi si arrendeva, non iracondo e corrivo, non petulante nel pretendere e violento nel togliere per forza. I suoi modi si erano addolciti. Aveva cominciato a sentire la fralezza della carne e compatire, la sventura gli andava insinuando nel cuore quel gran motore del cristianesimo, la carità! E più blando, più docile, più famigliare, quegli che nel 1077 era un vecchio terribile, oggi poteva addimandarsi un rispettabile vecchio. L'istesso suo volto, per lo innanzi sempre accigliato ed aggrinzito dalle rughe cui un'interna irritazione solcava indefessamente, ora sembrava calmo e sereno. Compreso che l'ora della sua gloria e del suo potere era scorsa, che doveva discendere dagli alti pinacoli toccati, che l'Europa, da lui contristata di guerre e di dissenzioni, l'odiava, dalla coscienza infine avvisato del male per lui seminato sulla terra, avea tolta questa sventura come un richiamo di Dio, e non ne avea mormorato. Fino allora insomma egli era stato più principe che pontefice, più uomo che cristiano; oggi che le cose si erano mutate, si era mutato ancor esso. Però non avea cambiato d'indole, nè appresa ancora, come abbiam detto, la virtù del perdonare. Ei provocava in Lamagna l'elezione del conte Ermanno di Lussemburgo ad imperatore.

Enrico, dall'altra parte, trincerava il suo campo di profondo vallo, lo ricingeva di torri di legno, metteva all'opera soldati ed artefici a construire arieti, gatti, battifredi e torri per dar la scalata. Indi tentava l'assalto. I Romani da su le mura gli opponevano gagliarda resistenza con mangani e baliste.

Egli però aveva fermo di espugnare la città e punire il pontefice. Prese i forti vicini, donde le sue guarnigioni molestavano i Romani, si fece ascrivere all'ordine del loro convento dai monaci della badia di Farfa, secondo antica consuetudine. Poi venute le caldure dell'estate, e cominciata a viziarsi l'aria per le maligne esalazioni delle paludi pontine, ritornò coi Tedeschi in Lombardia. Le truppe di cerna italiana restarono su pei poggi, circonstanti a Roma, dove le acque correnti rompevano l'aria e la tornavano men greve. Guiberto capitan generale dei regi rimase a Tivoli. Egli bloccava sempre Roma, catturando carriaggi di viveri che fornivano la città, predava e guastava il paese.

Intanto venne il gennaio del 1083. Enrico di armati e di macchine meglio fornito tornò all'assedio. Prima però di dar l'assalto volle fare tentativo di pace e mandò Baccelardo e Goffredo di Buglione parlamentari ai Romani.

Questi raccolsero il popolo nel Foro e, dirigendosi al prefetto della città ed al vescovo di Porto, mandato da Gregorio, dissero esser mente del re perdonare la fellonia ad un popolo che aveva chiuse le porte in faccia al suo signore, risparmiare la città, la vita, gli averi dei cittadini, dove si arrendessero a discrezione. Il vescovo di Porto interrompendo gli oratori rispose brutalmente:

—Ringraziate la vostra qualità di parlamentari se non vi facciamo tagliare a pezzi e vi gittiamo nella fossa della città. Ritornate all'eretico Enrico di Germania e ditegli, che egli non metterà giammai il piede in questa Roma santa, dove non ci venisse col volto strisciando nel fango, come a Canossa.

Ma il prefetto, che meglio conosceva lo stato a cui i cittadini eran ridotti, e la disposizione dell'animo loro, diede sulla voce al fiero prelato, e parlò:

—Tacetevi, uomo di sangue! I padroni della città siamo noi, ed a noi è diretta la nobile ambasceria. Sicchè, signori, noi rispondiamo all'imperatore Enrico, che noi non siamo mica rei di fellonia, perchè egli non è stato ancora unto imperadore dei Romani; che egli non si è presentato alle porte come patrizio di Roma, ma alla testa di un esercito come nemico; che egli, prima d'ora, non aveva palesata alcuna disposizione di pace. Per lo che manderemo adesso l'abate di Cluny ad intercedere Gregorio di togliere al re l'interdetto, e noi consulteremo come si debba riceverlo.

Inviarono infatti l'abate al pontefice. Gregorio però, udito come i Romani lo scongiurassero, rispose con modo freddo e secco, sì che impedì all'abate di replicare le instanze.

—Che Enrico si sottometta e l'assolverò.

Udita la risposta, i Romani si levarono a tumulto e molti sclamarono:

—Bruciamo dunque vivo questo brutale pontefice, e facciamo entrare il re.

Ma i nobili romani, che volevano innanzi patteggiare con Enrico, gli rimandarono i parlamentari, dichiarando, voler guarentigia che avrebbe salvo il pontefice, i privilegi della città, la vita e le possidenze ai nobili, le chiese dal sacco, e non sarebbe penetrato dentro ch'egli solo.

Alle quali parole, irritato Enrico, allora stesso fa dar nelle chiarine e dirige l'assalto. La città è investita da tutto il lato che guarda Toscana, chiamato città leonina. Le truppe della contessa Matilde, che l'occupavano, sono cacciate dalle mura, scalate malgrado la loro resistenza, volte in fuga ed uccise. Impadronitosi così dell'intiero sobborgo, Enrico vi rizza doppia trincea, construisce su monte Palazzo un torrione dal quale danneggiava grandemente i Romani, e si appresta a rinnovare l'attacco.

Spaventato allora Gregorio dal vedere che il nemico aveva già un piede dentro Roma, e che i cittadini tumultuavano, maledicendo il suo nome, attribuendogli la penuria, il guasto de' campi e della città, si ritira nel Castel Sant'Angelo, ed abbandona il popolo alle sue difese.

III.

Piegarono al primo assalto. Entra egli tra l'armi, para chi fugge: sgrida gli alfieri che i soldati romani voltino le spalle a canaglia. Pien di ferite, perduto un occhio, a viso innanzi si avventa tra le punte.

Tacito — Ann., 9.

Una mattina il capitano di castel Sant'Angelo si presenta a papa Gregorio, che dall'alto d'una torre guardava Roma. Il conte Oddo da Nemoli era stato allogato a quel posto dall'imperatore Enrico III, allorchè nel 1046 era sceso in Italia per cavar di scisma Roma e da Clemente II fu coronato. Oddo era un uomo sulla gloriosa taglia di Catone; semplice e libero nei modi e nella favella, severo ed incolpato nei costumi, di probità senza pari. Caldo della libera causa di Roma, avvegnachè qualche pontefice, Gregorio non escluso, lo avessero avuto in uggia, il municipal reggimento della città lo sostenne sempre alla custodia del castello. Gregorio mal lo soffriva perchè lo aveva scorto recarsi di pessima voglia ai suoi partiti. Non l'odiava però, nè lo disprezzava; perocchè infine Gregorio comprendeva assai bene ì nobili e generosi sentimenti. Anzi, ne' parecchi mesi che a Castel Sant'Angelo dimorò, gli pose affetto, considerando quanto quel povero conte si facesse violenza onde dimostrargli veneranza, in barba del suo carattere soldatesco, che pure soventi volte in lui riappariva. Oddo venne dunque a trovarlo in cima alla torre, ed avvicinandosi a lui, prima si fregò le mani alquanto, indi soffiando un cotal poco nella palma sinistra, se la fece strisciare lungo la faccia per d'innanzi il naso e la bocca, e levandola in aria, sclamò:

—Signor papa, consummatum est! Questa mattina ci batteremo il ventre come un tamburo di Saraceni.

—Vale a dire, ser castellano?

—Ah! parmi che io non parli latino! Ebbene, signor papa, in tutto il castello non ci è manco una chicca da dare a mangiare ad un bambino. Avete capito adesso?

—Questo è tutto, messere? E sia pure: staremo digiuni.

—Neh! fa il castellano facendo vivo sforzo per contenersi. Sappiate dunque, signor pontefice, che se voi ieri vi avete beccato quel residuo di ben di Dio che si trovava dentro, la guarnigione, i prigionieri ed io ci abbiamo rosicchiate le unghie al sole.

—Avete fatto malissimo, ser castellano, di mettere eccezione per me, lo riprende di voce seria Gregorio corrugando la fronte, rilevando altero lo sguardo e la testa. Avete fatto malissimo. L'ultimo pane che si rinveniva nella rocca dovevano mangiarlo i suoi difensori.

—E così pensava pur io, messer pontefice; ma poi... ma poi... Via! noi siamo più usi a queste carezze del nemico; ma voi, bravo vecchio...

—E quando mai mi avete saputo permaloso, ser castellano?

—Gli è vero, per la messa! ma che volete? ci è un bel tratto al postutto tra un pontefice ed un mariuolo di soldato, che quando fa orgia mangia per quattro dì, e sa ancora per quattro dì stare a stecchetto negli assedii. Non se ne parli più dunque. Consultiamo invece il quid agendum adesso.

—Non vi è d'uopo di consulte, risponde Gregorio riprendendo la sua grande calma. Quanti uomini di guarnigione sono nel castello?

—Cento cinquanta, oltre i cinquanta del presidio consueto. E posso accertarvi che valgono dugento demonii. Sono avanzo dei soldati di Leone IX.

—Quanti prigionieri?

—Due vescovi, tre diaconi ed una donna. Ildebrando gitta un sospiro. Poi dimanda:

—E niun'altro fuor di noi due?

—Niuno, compreso il carceriere.

—Sta bene. In sul meriggio dunque, mi farete trovar sotto le armi, giù nella corte, codesto manipolo di soldati con il loro capitano e voi con essi, messer conte, a capo del presidio.

—Ma che! intendereste forse di fare una sortita, beato padre?

—Saprete le mie intenzioni laggiù: contentatevi adesso d'obbedirmi.

—Uhm! d'obbedirvi? vedremo.

—Inoltre, mi farete trovare ancora colà i prigionieri, ed il custode.

—Per costoro la bisogna è più facile, perchè non dipendono che da noi. Pei soldati però v'è quello stizzoso di capitano....

—Il quale non oserà disobbedirmi, l'interruppe Gregorio componendo il volto a piglio severo, intendete, messer conte?

—Va bene, risponde Oddo, questo non è affar mio. Ma non vorrebbe la vostra beatitudine dirmi alcuna cosa intorno alla faccenda delle provigioni?

—Vi dirò tutto laggiù, messer conte. Per ora lasciatemi solo. Ho d'uopo raccogliermi in Dio. Andate: vi benedico.

Oddo si stringe nelle spalle e parte. Nella sala trovò il capitano della guarnigione, che consultava tra gli altri capi, e gli comunicò gli ordini di Gregorio. E quegli, che ad instanza di lui era stato quivi messo dal senato e dal console romano per rinforzo, e che egualmente teneva il castello pel popolo, fastidito risponde:

—Ma pel santo battesimo, state dunque a vedere un po' che questo birbo di prete si avrà ficcato anche in mente che noi fossimo ai suoi comandi! Ci siamo ingabbiati qui come barbagianni, e per guardargli salda la pelle abbiam danzato un bel tratto alla musica delle baliste: adesso, per Dio! parmi che fosse ora di metter fine allo scherzo.

—Non prendete il galoppo, ser Ugoccione. Stiamo a vedere cosa intenda fare da sezzo; poi vi consiglierete dalle circostanze.

—Staremo a vedere sì, messer conte: ma il mio partito è già preso. Invece di morirci qui di fame, come lebbrosi all'ospedale, intendo meglio che andiamo a menare le mani là fuori con l'aiuto di Dio, e morire, come a soldati si addice, dove ora soldati sono e soldati si battono. Gli abbiamo finalmente cavato il ruzzo di fare il bravo a codesto garbato messere. Ma quando siamo giunti all'articolo penuria, io non trovo scritto in nessuna cronaca, dall'assedio di Troia in poi, che alcun capitano abbia fatto lo schifiltoso a non dimandare accordi e cedere alla fortuna della guerra.

—Io non sono del vostro avviso, messer Ugoccione. Del resto ciascuno ha un cervello per regolare il fatto suo: io me ne spicco di mezzo. Vi pregherei solo a non esser corrivo ai partiti estremi ed attendere anche un giorno. Chi sa, per me bisogna proprio dire che questo caparbio vecchio mi abbia stregato.

E sì dicendo, lasciava il capitano e si dirigeva alle prigioni.

Cercò da prima il carceriere, il quale, come ebbe udito l'ordine suo, gli presentò il mazzo delle chiavi. Oddo col pugnale ruppe il cordone che le univa, e sceltane una, dette le altre a Gano, conchiudendo:

—Sicchè hai capito? Mi stai così minchione minchione a guardare quasi io fossi piovuto dal terzo cielo come s. Paolo. Farai uscire i cattivi allo scoccare della campana di mezzodì, e li condurrai nella corte.

Gano si gratta il naso con un fare stufo e balordo, poi risponde:

—Ho capito sì, messer castellano: ma vi tengo per avvertito, che se si tratta di mangiarli, io mi protesto che non intendo aver la mia parte di quel tisicuzzo del vescovo di Biella, perchè certamente mi farebbe venir la lebbra. Se l'udiste a bestemmiare, messer castellano....

—Il diavolo ti porti! ma chi ti ha detto che ce li dovessimo mangiare perchè fai di codeste proteste?

—Mille perdoni allora, messer conte. Si tratta dunque di appenderli ai merli onde riparare le torri dalle tratte dei mangani; ed in questo caso io protesto che andrò a tagliare le corde del vescovo di Potenza—dovessi pure andarlo a sostituire io medesimo. Se lo vedeste a far miracoli, ser castellano....

—Ma che ti afferri il gavocciolo, bestione! chi ti ha detto dunque che quei poveri disgraziati si dovessero appendere alle mura?

—Allora, mille perdoni un'altra volta, messer Oddo. Si tratterà di farne una comoda appiccagione per risicare alimenti. Ed in questo caso, mi protesto che voglio essere io proprio colui che ha da rendere tanto pietoso officio al diacono Sizzo; perchè l'altro ieri mi applicò alle mascelle un tal sorgozzone, per un vezzo innocente che volli fargli, da mandarmi al diavolo l'ultimo dente che mi restava.

—Mai che domine vai tu dunque almanaccando, baciocio! Tu non devi che menarli nella corte e lì finisce il tuo debito. Hai capito?

—Mille perdoni un'altra volta, ser castellano. Allora sarà... ma protesto...

Oddo non l'udiva più, perchè scompariva sotto un androne, nel cui fondo oscuro metteva capo una scala. Gano resta fiso e ritto ad ascoltare il debole rumore delle pedate, e guardare nel punto dove si era dileguato il conte, poi scuote la testa corrucciato e fra sè stesso brontola:

—Cane di un vecchio! vah! ed eccolo che se la guizza da lei. Gano solo non può, nè deve neppure protestare per cosa che gli dia fastidio. Ma avrà un bel dire, anche quell'altro arabico vecchio di pontefice: il diacono Corrado se l'ha da filar netto—non dovessi che farlo scappare pel buco della toppa. E' mi ha promesso sposare quella mia figlioccia di Guaidalmira... se già quel tristo impiccato di Laidulfo non l'ha messa in bocca al diavolo. E la sposerà veh! perchè mi protesto contro queste nuove diavolerie che va mettendo su mastro Gregorio. Sissignore! un povero figliuolo che serve a tutto il mondo; che dei sette benedetti giorni della settimana ne passa cinque digiuno; che riceve batoste da questi perchè gli è padrone, da quegli perchè è più forte, da quell'altro perchè è milite, da quell'altro ancora perchè coi suoi soldi può cavarsi la voglia di bastonare ed uccidere chi meglio gli garba... sissignore! un povero figliuolo non deve condur moglie, perchè mastro Ildebrando ha detto diaconorum sposarum non prendebuntur. La vedremo oh! la vedremo, mastro Ildebrando! Tu pensi a cinque, io miro ad asso. Mastro Corrado sposerà Guaidalmira, e mi protesto veh! messer castellano, che vi andate così bel bello a rifocillare da quella sguaiata madonna. L'affogherei per quella sua rassegnata verecondia che mi puzza di santo le cento miglia!

Però, malgrado le proteste di Gano, il castellano era sceso nella prigione.

Un raggio di fievole luce, che filtrava da alto abbaino graticciato di ferro, illuminava quella topaia. La quale, mantenuta netta ed accomodata da un po' di ordinato mobile, sembrava più orrida ancora, come grinza e laida vecchia che si affusola dei panni da sposa. Ad uno sgabellaccio presso al letto sedeva una donna sui quarant'anni, pallidissima in viso ed abbandonata, come l'infermo che si leva da lunga e mortal malattia. Un avanzo di antica bellezza si scorgeva ancora in lei, ed era il testimonio innanzi a Dio che non la mano del tempo ma quella dell'uomo l'aveva cancellata a metà. Lo sguardo però scintillava ancora di una forza vitale potente, quasi che quivi tutta l'energia dell'anima si fosse accumulata. Il destino dell'uomo sta nello sguardo: esso compendia le pulsazioni dell'anima, le rivela altrui, inspira interesse, impone. E la prigioniera aveva di quegli occhi indiani profondi e vellutati che appena si muovono ed esprimono ciò che si agita nel fondo del cuore. La spigliata persona avvolgeva in tunica nera, sulla quale vestiva un gamurrino con cappuccio ed ampie maniche, anch'esso di drappo oscuro. Al dito portava preziosa gemma. Come sentì dischiuder la porta, ella si volge, e conoscendo Oddo, sclama:

—Dio vi prosperi, messer castellano; credeva vi fosse venuto male, perchè da otto giorni non vi vedeva più, e Gano sapete se è prodigo a dare schiarimenti ai prigionieri.

—Che? madonna, vi avrebbe egli forse usate scortesie?

—Mai no, messer castellano. Povero Gano, fa quel che può a dominare la sua antipatia per me; e non fosse che a vostro riguardo, mi profonde amorevolezze. Ma se per avventura gli muovo parola di questi o di quegli, Gano mi anguilla, e non mi cava mai di smania.

—Quel disutilaccio è un fantastico uomo: però ha buono il cuore, bisogna convenirne.

—Propriamente. E poi con voi, messer Oddo, si potrebbe egli esser cattivo?

—Ah! voi mi lusingate, madonna. Ma l'uomo non può esser nè più buono nè più tristo di ciò che Iddio lo ha fatto; ecco tutto.

—Ditemi dunque, se il ciel vi aiuta, messere, ond'è che per otto giorni non vi ho veduto? Ho patita una smania ed uno stringer di cuore!... Già sapete che voi siete l'ultimo angelo della mia vita.

—Gli è, madonna, perchè ne sono accadute delle grosse, ma delle grosse assai, veh!

—Non m'ingannava io dunque! Perciò quella specie d'indistinto rumore che penetrava fino quaggiù, e che per su la corrente del Tevere mi giungeva! Han dovuto fare dei ben grandi gridori questi pazienti Romani.

—Gridori? peste! dite diavolerie, madonna, dite baldorie matte. Chè dalli e poi dalli, è sgrillato alfine questo disgraziato popolo, e si è scorrucciato il buono ed il meglio.

—Han fatto dunque sommosse?

—Sommosse no, ma presso a poco. Perchè quel galuppo del re Enrico, domenica mo, il dì delle palme, perdette la pazienza, e senza brigarsi che fosse o no quel giorno solenne, schiera i suoi soldati sotto le mura... A vederlo pareva s. Giorgio! Ebbene si lancia a percorrere le file e dice: neh, figliuoli, a che giuoco giuochiamo dunque? Credete, pel santo sepolcro! che non avessimo altro a fare che starci qui, fuori le porte, come mendicanti a dimandar la limosina e morirci di peste come villani che han mangiato il loglio? Andiamo su, sacramento! mano alle scale ed alle piccozze; e se oggi non entriamo ancora noi in Roma, come Cristo entrò in Gerusalemme, impiccherò alle porte il primo che dà indietro. Venite appresso a me. Voi, messer Baccelardo, fate giuocare gli arieti: voi, sire di Cosheim, tempestate coi mangani: voi, monsignor di Ravenna, accostate i battifredi e spazzate le mura dai difensori: e voi, sire di Buglione, venite con me alla porta Toscana. Perchè fo voto di quattro candelabri d'oro a Nostradonna di Goslar, e di due calici preziosi a Nostradonna di Edessa, se oggi penetreremo in questa matta città, che vuol fare con noi la curiosa. Andiamo, suonate le trombe ed all'assalto.

—Anche Guiberto da Ravenna v'era dunque?

—Se v'era! ve lo avrei voluto fare un po' vedere da su le torri come quel fistolo menava le mani! Dava busse da scantonare il Coliseo.

—E sì?

—E sì, detto fatto, quei demonii, incoraggiati dalle parole del re e meglio dall'esempio, perchè al primo piuolo delle scale vedevano sempre lui o quel di Buglione, si rovesciano sulle mura con tanta rabbia che ne rintronò tutta la città.

—E quei di dentro?

—Peggio che peggio. Accolto il popolo, ed il senato, ed i vescovi, ed il console, e tutto il mondo, là nel Foro, strepitavano a sganghera gole, e chi proponeva un matto di partito, chi un altro: ma partiti da far venir la pelle d'oca! Si trattava quanto meno di bruciare il papa, cacciare i signori, metter fuoco ai castelli, aprire le mura... Cane di popolo! anche con me l'avevano, che custodiva Gregorio qui dentro, sicuro come in un guscio di ferro.

—Povero messer Oddo! sclama la cattiva stendendogli la mano, cui il castellano baciava. E continuava:

—Sissignora, anche contro di me grugnavano quei cialtroni. Ma il senato ed i signori consultavano; ed i capitani della contessa Matilde a gridare: state sodi per Dio! fate animo; la benedizione di Gregorio ci difende; Gesù Cristo combatte per noi! E que' scomunicati a fischiare, a strepitare: che benedizioni e benedizioni, un bischero! siamo digiuni, siamo affamati, le pietre ci rovinano le case; che Gesù Cristo, e Gesù Cristo! se codesto combatte per noi, si dia dunque il fastidio di mutar quei macigni in berlingozzi; aprite le porte; bruciate il papa. Ed ecco che in mezzo a questo parapiglia si sente gridare di verso porta Toscana che gl'imperiali sono dentro, e che la bandiera di Enrico sventola sui baluardi.

—Ed era vero?

—Altro! credete che Enrico avesse fatto da burla quando votò alle sue Madonne non so quante libbre d'oro, purchè avesse potuto penetrare penetrare là dentro? Il principe Baccelardo da un lato apre la breccia; dall'altro quel demonio dell'arcivescovo di Ravenna sfonda i barbacani, spinge il battifredo alle mura, e saltato su con i suoi bravi Lombardi... ira di Dio! spazzava gente come si spazza la polvere con la granata, e la rotolava a colmare i fossi. Infine si fissa sulle mura, e corre verso il punto dove il re dava la scalata: e che vede?

—Che vede dunque?

—Per la messa! prima di lui, prima di tutti, Goffredo di Buglione aveva afferrati i merli ed aveva piantato lo stendardo di Lamagna sui baluardi della porta Toscana. Ma il vescovo Giovanni di Porto, che ha in corpo più legioni di diavoli lui solo che non ne ebbero tutti gli ossessi del leggendario, coglie il duca in quell'atto e lo ferisce con la spada alla testa. Goffredo non rotola giù, perchè immediatamente dopo di lui saliva il re. Questi afferra il vescovo alla gola, e strozzatolo, lo precipita nella città sulla testa dei soldati fuggitivi. Allora giunge anche l'arcivescovo di Ravenna...

—Non era stato ferito Guiberto, non è vero?

—No, che io mi sappia! Ma chi imbecille gli si voleva accostare con la tempesta con cui faceva correre le percosse? Da sulle mura, il re da un lato comandava ai suoi di avanzar dentro per la breccia aperta da Baccelardo, e dall'altro, coperto di ampio pavese, ingiungeva ai Romani di arrendersi. Questi però fuggivano a collo rotto verso il Foro onde recare la spaventevole notizia ai primati che consultavano. Il popolo, il quale non si augurava di meglio, alza un prolungato grido di giubilo, dicendo: Viva il re! muoia Gregorio! E corre per essere primo a profferire obbedienza ad Enrico. Ma il console Cencio, che mutolo aveva lasciato fino allora accapigliarsi il senato, i patrizi ed i prelati, scoppia e dice: Vi affoghi la peste, poltroni, giacchè non valete altro che a dir minchionerie, lasciate fare a chi sa fare. Il nemico è dentro. Si è fatto quanto si è potuto per difendere, con tanti guai e tanto danno, questo testardo papa, se lo porti il diavolo! Volete che siamo sgozzati per lui tutti, la città sia data al sacco ed al fuoco dai Tedeschi? Restate pure ad eruttar sciocchezze costì, che io so bene quel che debbasi fare in questo momento. Voi monsignor di Arezzo, e voi monsignor di Modena, venite meco.

—E che fecero? Io comincio a tremare.

—Eccolo. Fecer da sezzo ciò che avrebber dovuto fare da principio. Si presentarono al re, il quale aveva fatta sfondare porta Toscana, e si avanzava nella città alla testa delle truppe schierate in ordinanza. Sopra un bacino di argento egli, Cencio, portava le chiavi d'oro di Roma. Lo precedevano due araldi ed un bandieraio con bianco pennone. Come Enrico li vide, fermò il cavallo; ed essi, piegando a terra il ginocchio, mormorarono: Piacciavi, o sire, di accettare le chiavi di Roma, e come i nostri forti antenati entrarvi da signore e da trionfatore. Il re sorride e risponde: Bel sere, voi ci offrite cosa che non è più in vostro potere; non pertanto, mercè. Sire di Cosheim, risparmiate la città. E sì dicendo dava di sprone al cavallo, ed avendo alla destra l'arcivescovo di Ravenna, ed alla sinistra Baccelardo, per la via sacra, come Cesare, si reca al Vaticano. Le sue truppe intanto, giusta l'ordine del re al sire di Cosheim, senza rompersi a niuna maniera di libidine, come fra i soldati si suole con le città vinte, condotte dai capitani occupano in bello ordine dal Laterano al Vaticano, e tutti gli altri castelli più forti, e vi si mettono a presidio...

—Il duca di Buglione era dunque morto?

—Mai no. Gravemente ferito alla testa dall'azza del vescovo, riscuotendosi fe' voto di andar a combattere in Terrasanta. E non passò guari che per miracolo si sentì quasi sano.

—Sicchè dunque il padrone di Roma è adesso l'imperatore?

—Proprio lui. Perocchè, il giorno di poi, l'arcivescovo di Ravenna fu esaltato alla sede romana dai cardinali. E se aveste veduto che funzioni, madonna! Egli si presentò ad essere adorato a San Giovanni a Laterano sopra un cavallo morello che pareva volesse inghiottire il Campidoglio, con il suo bravo giaco di maglia addosso, cosciali e schinieri e bracciali e manopole, quasi si presentasse alla pugna, ed in testa l'elmo d'oro massiccio con l'aquila al cimiero, dono del re, coprendo la spada ed il pugnale che cingeva del manto ponteficio, il quale era proprio uno spanto a guardare. Che sì, che egli lo aveva conquistato il ponteficato! Il dì 24 marzo infine fu consacrato nella chiesa di San Pietro dagli arcivescovi di Arezzo e di Modena.

—Guiberto è dunque vero papa, sclama la cattiva, arroventando nel volto che levava verso il cielo.

—Papa, arci-papa, continua il castellano, ma noi fummo qui bloccati a non lasciarci passare neppure l'aria pel respiro. E bisogna dire che questi birboni di Romani non intendano mica affatto saperne di noi; perchè se li aveste veduti a far baldoria il dì di Pasqua, quando il re Enrico con Berta sua sposa entrò solennemente in San Pietro, vi avreste fatta la croce. Io credo che nemmanco i cani ne vogliano più di questo povero vecchio pontefice, che in altri tempi adoravano della faccia nella polvere.

—La sventura è la stessa per tutti, dice la donna sospirando.

—Deve essere infatti così, continua Oddo, poichè tutti insieme, col senato e col console Cencio, accompagnarono il re, che da San Pietro si recò trionfante al Vaticano onde aver cinta la corona imperiale da Clemente III—tal nome si è imposto a Guiberto—ed allora tutti a gridare: Evviva l'imperatore! evviva l'imperatore! alleluia! alleluia! Poi si recarono al Campidoglio, donde i fanti tedeschi sbrattarono un residuo di gente papale, e quivi il senato ed il console confirmarono Enrico patrizio di Roma, tra l'entusiasmo del popolo che non aveva freno. Plebe sgualdrina! Non avrebbe ribrezzo domani di lapidare quest'altro suo idolo!

—Sicchè dunque a papa Gregorio non resta più alcuno di tanti fedeli?

—Eh! madonna, quando la fedeltà non viene dal cuore e non si accompagna con l'amore, non dura mai troppo. L'ultimo baluardo di questo povero vecchio era la contessa Matilde, che si cacciò tra i guai di lui fino al collo. Ma dalli e dalli, poteva essa sola far fronte a tutta Europa, con cui mastro Ildebrando aveva attaccate brighe, e che gli gridava il crucifige? È stata rotta in parecchie avvisaglie la fedele castellana dai trecento castelli; le han portati via tutti i forti dei suoi Stati; ha sprecate le sue ricchezze in queste sterili lutte; ed ora anch'essa, la sventurata! va profuga e raminga pei suoi deserti dominii onde non cadere in mano dei nemici, invisa agl'Italiani, abborrita dai Tedeschi, proclamata santa ed eroina solamente da un branco di fanatici faziosi. Sia come si vuole però, bisogna dire che come Matilde, con la vostra sopportazione, madonna, nascano ben poche donne.

—Ed i miei Normanni di Puglia, messer Oddo?

—Ma! Il principe di Capua, Giordano, fa lo gnorri: il conte Ruggiero pettina i Saraceni di Sicilia: Roberto Guiscardo bada ai suoi malanni domestici in Grecia: e perchè i Tedeschi non gli avessero a far trovare occupato il proprio focolaio, come nell'anno passato, ha novellamente mandato qui a patteggiare alleanza col re quel capestro del vescovo di Bovino, e quel bravo figliuolo di Boemondo.

—Boemondo è dunque in Roma, messere? grida la donna in un tremito di gioia.

—Almeno vi era, madonna, il dì della coronazione—salvo poi non sia tornato di bel nuovo da suo padre.

—Ah! messer Oddo, sclama Alberada cadendogli ai piedi, che Iddio vi consoli di tutte le gioie, che la pace degli angioli vi renda serena la morte, ed il compenso del paradiso...! Messer Oddo, ve ne supplico con la faccia per terra, fate che io veda questo giovane, fate che abbracci mio figlio.

Il castellano si stringe nelle spalle e gratta il capo, poi dice:

—Uhm! uhm! Ciò è più facile a domandare ed a promettere che a tenere. Ad ogni modo, vi prometto, madonna, che se Boemondo si trova ancora in Roma voi lo vedrete, e dovessi precipitarmi dall'alto delle torri per uscire dal castello. Ora venite meco. Dovete aver fame, povera figliuola! perchè ieri ancor voi siete stata digiuna. Già non avrò che darvi neppure lassù. Ma una determinazione bisogna bene che papa Gregorio la prenda, non fosse che a cavarsela con una burla o con un miracolo. Vedremo: questo stato di cose non può durar lungamente.

—Non badate a me, messer Oddo. Che mi giovano alcuni giorni di vita di più? Curate la vostra persona, curate gli anni vostri, che spendete a bene degl'infelici.

—Andiamo, andiamo, madonna. Ve l'ho già detto le mille volte che io non voglio di codesti vezzi che mi farebbero saltare in boria, se io avessi conosciuta mai questa bestial passione. Gran chè che io faccia un tantino di bene a creature buone come voi, quando lo possa. Ma come si fa a strapazzarle, io dimando? Che cosa è? Sento un suono quasi di campane; sarà mezzo dì. Andiamo, figliuola mia, non facciamo noi aspettare mastro Gregorio che per nulla salta in bestia come una cavalla viziata.

E sì dicendo dava il braccio ad Alberada che lo seguiva a passo mal fermo, e si trovavano nella corte, al punto stesso che il capitano della guarnigione si metteva alla testa dei suoi. Gano spuntava da una parte con gli altri cinque prigionieri, e Gregorio da un'altra, con le braccia conserte sul petto, sereno nel viso, sodo nell'andare.

Egli si trasse avanti le linee dei soldati, e dopo alquanto di silenzio, durante il quale quella gente rozza e niente affatto doppia pendeva dal tranquillo suo volto, come da quello di un santo da cui si aspetta miracolo, parlò:

—Figliuoli, voi vi siete condotti da uomini valorosi e fedeli. Io rendo testimonianza dell'opere vostre innanzi al mondo ed innanzi a Dio, e ve ne ringrazio; e vi ricolmo di tutti i tesori celesti che con la santità del mio ministero posso prodigare. Il cielo vi avrebbe destinati per le sante corone dei martiri; ma io non sarò quel temerario che affretterà i decreti della provvidenza. Avete fatto il vostro dovere; avete combattuto da bravi; tenuta la rocca salda a fronte di migliaia di nemici. Gloria a voi, gloria all'Eterno che per mezzo vostro volle confondere i Madianiti! Ora però siamo giunti ad un punto in faccia a cui gli è mestieri recedere. Il nemico ci ha affamati. Si è servito dell'arma dei codardi perchè l'arma dei forti gli fu spezzata in pugno da Dio. Io resterò qui.

—Voi? sclamano ad una voce Oddo ed Uguccione.

—Io resto qui, continua Gregorio. Quando il Signore mi elesse a custode dei suoi figliuoli mi diede a divisa: Persevera, e sii saldo come le fondamenta del Libano. Debbo compiere il mandato sino alla morte. Voi uscirete ed andrete nella pace del Signore; perchè mi piace lusingarmi che i Filistei non vorranno essere vigliacchi al segno di farvi vitupero. Voi rivedrete le vostre spose, i vostri figliuoli, e recherete loro le mie benedizioni. Io avrò memoria dei travagli che patiste per me. E se deserto da tutti, e ridotto a morirmi di stento, nulla posso concedervi ora, fidate in quel Dio che provvede di penne gli augelli, il prato di fiori. Andate: spiegate bianco pennone in segno di resa. Ma prima, se qualcuno ha nulla da dolersi di me, che mi perdoni come vorrà esser perdonato nell'ultim'ora sua: la carne è inferma.

—Benediteci, santo padre, benediteci, sclamano tutti ad una voce, cadendo in ginocchio. E Gregorio alza la sua terribile mano e continua:

—Capitano, a voi ancora le mie grazie per la vostra prode difesa, a voi ancora le mie benedizioni. Precedete i vostri. A voi poi, messer castellano, nulla dico, perchè ogni parola malamente vi esprimerebbe l'ammirazione, e la riconoscenza che vi debbo. Siete uno di quei pochi uomini che nella mia difficile carriera ho trovati più probi e di sentimenti più nobili. Con vero dolore mi accommiato da voi. Fate aprire le porte del castello ed uscite alla testa della guarnigione; perchè non istà bene che la fame abbia a privare la terra di così eletto modello di uomini. Io penserò a richiudervi dietro le porte.

Oddo fa un movimento di dispetto, alza le spalle e volge altrove la testa. Gregorio continua:

—E voi ancora, sacerdoti di Dio, dice volgendosi ai prigionieri, andate in pace. Se mi chiamaste severo perchè volli ritrarvi, anche vostro malgrado, dalla via dell'iniquità, e rammentarvi l'augusto vostro dovere, verrà il dì che mi renderete giustizia; e guai a voi se fino a quell'ora non vi sarete ravveduti. Andate, andate tutti. In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo vi benedico.

E sì parlando, alzava di nuovo quella destra tremenda che avea scossi i sogli d'Europa, e benediceva quella gente, che, sciolta in lagrime e caduta in ginocchio, protestava altamente voler morire con lui. Ma Gregorio non accetta il generoso sacrifizio, e per quei suoi modi incisivi e quella parola autorevole a cui niuno aveva forza resistere, reitera l'ordine al castellano di aprire le porte.

Il conte Oddo non replica verbo. Si avanza ad una porta di soccorso e, fattesi recare le chiavi, comanda si togliessero le spranghe ed alzassero le cataratte, ed apre. Allora quei soldati, mesti in viso e nel cuore addolorati, preceduti dalla bandiera e dal capitano, sgomberano la piazza e si costituiscono prigioni del re. Oddo rimane immobile presso la porta che avea fatta schiudere. E come ebbe veduti uscire l'un dopo l'altro tutti queglino della guarnigione di rinforzo e con essi i prigionieri, onde il nemico non avesse profittato del caso e si fosse cacciato dentro, richiude subitamente e dà le catene, ordinando al suo vecchio presidio, che era restato fermo al suo posto:

—Ritornate alle mura, voi. Mi porti il diavolo se dovrete voi correre sorte diversa da quella del vostro vecchio capitano.

E quei soldati voltano le spalle e partono. Gregorio li guarda fare senza dir motto. Appena però che si furono trovati soli, fissa gli occhi fatti lucidi dalla commozione addosso a quell'uomo, e dimanda:

—E voi, ser castellano?

—Io? borbotta Oddo. Beatissimo padre, io non ho risposta parola agli elogi che vi siete brigato di farmi, perchè andava considerando che un uomo come voi, un vecchio prete ridotto a questi estremi, non dovesse avere gran fatto la frega di andar burlando la gente. Ma a questo novello insulto, per la messa, non so starmi dal dirvi che siete veramente curioso d'umore. Io? dimandate: avreste dunque voluto che avessi accettato il vostro bel partito d'andar via così, come un ladro dal verziere, ed abbandonare il mio posto da codardo? Per la croce! qui mi ha collocato l'immortale memoria di Enrico III, col consentimento ed elezione del senato e del popolo romano. E sapete voi quel che mi disse colui quando del castello m'investì? «Bada bene, messer conte, che questa rocca, in tempi migliori, era un sepolcro, e che una volta penetrato qui dentro, niuno ne andò mai fuori se non cadavere. Tu dunque allora cederai questa piazza a chiunque si presenterà alle sue porte da nemico, e fossimo noi medesimi, quando cenere te ne verranno a cavare.» Avete udito? Io lo giurai. Ed il conte Oddo da Nemoli non ha mancato mai nè alle sue parole, nè ai suoi giuramenti. Sappiatelo.

Gregorio non risponde, ma facendogli un passo incontro, se lo stringe nelle braccia come fratello, e con voce commossa, sclama:

—Morremo insieme.

Allora la donna, ch'era restata in dietro durante tutta quella scena, si tragge avanti e dice:

—Santo padre, non favellate di morte: vi è ancora una speranza.

—Alberada, grida Ildebrando retrocedendo di un passo, e perchè con gli altri non siete uscita ancor voi?

—Perchè, santo padre, io, sventurata in tutta la mia vita, non so separarmi dagli sventurati. Nei giorni della vostra fortuna, forse beneficata da voi, vi avrei abbandonato. Ma nell'ora delle vostre miserie, da voi cotanto aspramente trattata, non ho saputo dipartirmi prima di avervi detto che vi perdonava, onde, andando a render conto a Dio delle opere vostre, possiate ripararvi di questo scudo.

Gregorio, con la fronte annuvolata e bassi gli occhi, medita lungo tratto pria di rispondere, poi soggiunge:

—E veramente tu mi perdoni, Alberada?

—Di poca fede! lo rimprovera colei. Cristo non perdonò egli forse i suoi nemici? In altri tempi mi sarei mostrata inesorabile. Ora che conosco le triste vicende della sorte e le amaritudini della vita, ora che sento avvicinarsi il periodo del rendiconto, voglio inebriarmi del soave diletto del perdonare. E l'Eterno possa usare misericordia ancora alle mie peccata.

—Pia donna, che Iddio ti esaudisca e ti prepari giorni migliori! Sento che io non posso per te far altro che ammirarti, ed impetrare dal cielo le gioie che, per inesorabile destino, ti ho tolte.

—No, santo padre, voi potete ancora qualche altra cosa. Promettetemi di non arrendervi se prima non mi rivedrete venire in questo castello a correre una sorte con voi. Io andrò fuori, ed Iddio forse benedirà i miei passi, come benedisse quelli di Giacobbe e di Giuseppe. Cercate accordi all'imperatore, procrastinate la resa fino a che io non ritorni. Ho un presentimento.... Basta, non mi rifiutate questo grazia.

—Ma che mediteresti tu di fare, Alberada?

—Ciò che io solamente posso, se Iddio vorrà secondare le mie speranze, come secondò quelle di Giuditta.

Ildebrando la fissa in volto attentamente, poi dimanda:

—Tenteresti forse anche tu, Alberada, l'opera santa della Betuliese?

—Io non sono destinata ad opere di sangue, Ildebrando, quella risponde, la mia missione è di pace e di carità. Astenetevi, ve ne supplico, dall'interrogarmi. Le inspirazioni celesti non sottoponete allo squittinio degli umani giudizi. I vostri dubbii mi potrebbero sconfortar dall'impresa: ed io avrei un giorno a rimproverarmi del male che vi potrebbe avvenire. Mi promettete voi di non cedere, se pria non avrete novella di me?

—Te lo prometto, Alberada. Acconsentirò a tutti i patti del Filisteo: ma di qui non uscirò se pria o tu non verrai a cavarmi d'ogni speranza, colui, nell'ebbrezza dei suoi trionfi, come a Canossa, non si umilia ai piedi miei. Va, l'angelo di Tobia ti sia per compagno.

E sì dicendo, Alberada s'inginocchia e Gregorio la benedice. Il castellano, che senza muover ciglio e tutto commosso nel cuore aveva udito il colloquio, l'abbraccia e la bacia sulla fronte; poi apre la postierla e fa uscirla. Indi rinchiude ed a passo lento, unitamente al pontefice, ambedue taciturni, rientrano nel castello.

Dopo un'ora, dall'alto delle torri, un verrettone con una pergamena tra le penne cadeva in mezzo ai soldati di Enrico che assediavano il castello.

IV.

Irons-nous de l'histoire arrachant les trophées?

Casimir Delavigne.

Ci giova sperare che il lettore non abbia dimenticato un personaggio di questa cronaca che abbiamo dovuto necessariamente lasciare indietro. Per colpa nostra avrebbe obliato uno dei più interessanti uomini dei tempi di mezzo. Parliamo di Roberto Guiscardo. E perchè questi deve di nuovo così gloriosamente ricomparire sulla scena, accenneremo volando volando delle sue cose dopo la presa di Salerno.

Ravvicinatosi con Riccardo di Capua, invasero le Marche d'Ancona e vi fecero gran conquisto di paese. Gregorio irritato dell'affronto, e volendo arrestare l'audacia dei conquistatori, nel concilio di Roma pronunziò contro di loro scomunica e li privò degli Stati. Ma perchè gli anatemi non affettavano uomini di ferro, i quali non conoscevano altra legge che la spada, altro dominio che la forza, mandò loro contro le truppe del marchese di Toscana e li strinse ad abbandonare le terre occupate. Roberto, che aveva invasa la campagna di Roma solamente per far sentire l'energia del suo potere all'arrogante pontefice, si ritirò decorosamente, ed il principe di Capua mandò all'assedio di Napoli. Egli accampò sotto le mura di Benevento.

Questa città, dopo la morte di Landolfo VI, era ricaduta alla Chiesa. Roberto voleva impadronirsene. Ma papa Gregorio, con le solite scomuniche, mandò tali rinforzi di scorte e di truppe che Roberto, fastidito dalle lungherie dell'assedio, lascia un manipolo di soldati al blocco e si reca in Calabria. Morto Riccardo, suo figlio Giordano libera dall'assedio Benevento. Roberto riviene in Puglia, prende Ascoli, Montevico, Ariano, e sul fiume Sarno va a presentare battaglia a Giordano. Desiderio, abate di Montecassino, si interpone, li rappacia. Roberto sottomette ancora Monticulo, Carbonara, Pietrapalumbo, Monteverde, Genzano e Spinazzola, e nulla curando più Benevento, lascia che restasse in potere del pontefice e si contenta di signoreggiare quanto oggi forma il reame di Napoli, meno il piccolo ducato di Napoli, il principato di Capua ed il ducato di Gaeta, dominati da Giordano. E' sarebbe stato lieto, e fortunati i suoi popoli, perchè gran mente aveva nel reggimento civile, ma domestiche sciagure lo chiamarono altrove.

Egli aveva sposata la sua figliuola Elena a Costantino figlio dell'imperatore di Costantinopoli Michele Ducas. Niceforo Botoniate, avendo discacciato Michele dall'impero d'Oriente, lo aveva fatto tosare, confinare in un monistero e castrare Costantino. La miseria della sua figliuola e l'oltraggio penetrano il cuore di Roberto che giura pigliarne terribile vendetta.

Provvede al governo dei suoi Stati d'Italia, poi con la duchessa Sigelgaita, Boemondo, e bell'esercito s'imbarca ad Otranto. Giunti nel 1081 a Corfù, l'invade. Alessio Comneno, succeduto a Botoniate, gli manda tosto incontro formidabile armata; ma in più battaglie rotta, non giunge ad ostacolare il duca, sì che non espugnasse Durazzo, padroneggiasse l'isola, e spingesse le truppe vittoriose fino in Bulgaria. Ridottosi infine a svernare a Durazzo, nel novembre del 1083, ed instruito che Alessio con molti ricchi donativi e larghe promesse andava proponendo all'imperatore Enrico perchè invadesse Puglia e Calabria, mandò a costui in Roma il vescovo di Bovino e l'astuto Boemondo. E questi, facondo dicitore, abbindola Enrico e lo fa chiaro, che dopo lui non eravi chi più travagliasse il cuore di Gregorio fuor di Roberto, e Roberto niun peggio tollerar di Gregorio. Enrico gli pone fede, e si pattuiscono onorevoli convenzioni il dì 30 marzo 1084, il giorno avanti della Pasqua in che Enrico fu coronato.

Ed una sera Roberto, che nulla ancora degli accordi sapeva e di saperli smaniava, dai veroni del castello di Durazzo vede spuntare in alto mare una galea, cui forte vento gonfiava le vele latine ed alla città dirigeva; e dopo non molto ne scorge una seconda che studiava tenerle dietro. Egli manda subitamente al porto per ricever novelle de' suoi Stati, se pur di colà quei vascelli fosser partiti.

V.

Perzho non dei amor ocaisonar Tam cum los oilliz et cor ama parvenza, Car li oill sin dragoman del cor, E ill oill van vezer Zo col cor plaz retener.

Emblanchacet.

Roberto non s'ingannava. La sua bandiera sventolava su la galea che a vele gonfie entrava nel porto di Durazzo, ed era su quella il suo flgliuol Boemondo. Nell'altra un legato dell'arcivescovo di Ravenna con seguito brillante di cavalieri e di ecclesiastici, e misto a staffieri, paggi e chierici un romeo, che a forza di prieghi aveva ottenuto esser quivi traghettato per poscia condursi in Terra Santa. Quella gente tirò dritto all'albergo del duca, il quale, udito del messo, nobilmente lo accolse. Questi era Rolando da Siena, quell'ardito chierico che in mezzo al concilio di Roma aveva osato intimare a papa Gregorio gli ordini dell'imperatore Enrico. Roberto lo festeggiò di ogni onorevole e lieto accoglimento, imperciocchè, oltre della divisa di oratore, altamente aveva Rolando lasciato dire di sè e nelle guerre di Germania ed in quelle d'Italia, e da sezzo nello assedio di Roma, ove tra i più distinti e valorosi cavalieri si era allogato.

La sera si trascorse a novellare di guerre e di prodi fatti di parecchi cavalieri, che Rolando aveva conosciuti, e di cui Roberto onorevolmente aveva udito favellare. Alla dimane però, come questi si recava nella gran sala per dargli udienza, ed ascoltare del messaggio di papa Clemente, l'araldo d'armi gli annunzia ancora un legato di papa Gregorio che dimandava medesimamente essere a lui presentato. Roberto maravigliato e nel tempo stesso lusingato del doppio messaggio, comanda che, esaminati i brevi di credenza dell'oratore di Gregorio, lo si facesse entrare.

In effetti, perchè tutto a punto si trovò, nel mentre di un uscio spuntava Rolando con seguito numeroso, di un altro, solo e modesto appariva il romeo. Rolando si ferma a due passi dal soglio, coperto da baldacchino, sul quale sedea Roberto involuto nel ducal paludamento, in testa la corona. Ma il romeo procede fino ai gradini di quel soglio, e presa la mano di Roberto per baciargliela, solleva di alcun poco il capperuccio, e con voce sommessa e commossa sclama:

—Messer duca, in nome di Dio! arrendetevi alle parole che sto per dirvi.

A quell'aspetto, a quell'accento, Roberto trasalisce. Mutato di colore, per isfuggire lo sguardo penetrante di Sigelgaita che attenta lo fissava, stringe la mano del romeo, e quasi del troppo ossequio di lui peritasse, risponde:

—Mercè, santo pellegrino! tocca a noi poveri peccatori tributarvi questi segni di veneranza.

Il romeo si alza e trattosi indietro attende che giungesse il suo momento di favellare. Rolando intanto per uno sguardo che aveva qualcosa di schernevole e di curioso lo sta a considerare un tratto, poi voltosi al duca favella:

—Monsignore, il santo padre Clemente v'invia salute ed apostolica benedizione. Penetrato della divozione che avete dimostrato alla Chiesa, malgrado gli oltraggi dell'antipapa Gregorio, non ha voluto soffrire che più lungamente sì nobile guerriero giacesse nell'interdetto. Mastro Ildebrando vi fece gravi torti. Papa Clemente, che da lunga stagione vi conosce ed ammira, mi manda a voi per togliervi la scomunica indebitamente fulminata.

—Gran mercè, ser. Rolando, al papa ed a voi che ci gratificate di questi attestati di amore. Gli è ben vero che Gregorio agì con noi ostilmente. Ei credette poter aggravare la mano, postaci sul collo da Niccolò II, e si allucinò. Doveva rammentare che i tempi non eran più quelli, e che noi non eravamo davvero vassalli della Chiesa, conciossiacchè tali ci fossimo profferiti un dì che la fede dei popoli, da noi conquistati, ci parve vacillare. Spero in Dio però che a quest'ora e' si sia ricreduto; dappoichè, ad onta delle reiterate scomuniche, ci ha sempre secondato sorte avventurosa. Pace dunque allo sventurato; ed abbiate la cortesia, messer Rolando, di esporci cosa mai la santità di Clemente III righiegga, in compenso della benedizione che ci manda.

—Nulla di più, monsignore, di quello che per gli altri pontefici avete fatto. Egli vi accorda investitura degli Stati finora da voi conquistati in Italia, e di quelli che in Grecia saprete conquistare: egli vi richiama nel grembo della Chiesa, e, come figliuolo della Chiesa, vi benedice. Non richiede perciò da voi, monsignore, se non che, come cristiano e come vassallo della sede di Roma, gli giuriate fedeltà e prestiate omaggio.

—Se il mio nobile padre volesse degnarsi di concedermi la parola, sorse a dire Boemondo, io risponderei....

—Cosa risponderesti? domanda Roberto un po' accigliato.

—Io risponderei a costoro, che noi non abbiam conquistato le terre d'Italia per servire ad alcuno: che quelle terre noi affrancammo dal dispotico giogo dei Greci, o sottraemmo all'insolente dominio degl'imperadori di Occidente: che questi soli dovrebbero domandar segno di ossequio da noi, ove noi volessimo accordarne a gente che ben sapremmo ridurre a ragione con la spada. Ma al vescovo di Roma che briga poteri per niuna maniera dovutigli, e ricorre alle armi spirituali da Dio non concesse per profanarle in usi sacrileghi, risponderei....

—Figliuolo, Roberto lo rampogna, il vostro senno si farà maturo cogli anni, ed allora vi chiameremo a darci consigli. Per ora piacciavi di ascoltarci e di apprendere con quale temperanza si governino i popoli.

Sigelgaita, che odiava Boemondo perchè figlio di Alberada, approva della testa. Roberto continua:

—Voi dunque, messer Rolando, risponderete all'arcivescovo di Ravenna, o, se meglio vi piace, a Clemente III, che noi non siamo per verun modo alieni dal profferirgli quei segni di veneranza che ci piacque profferire ai suoi antecessori. Però papa Gregorio vive ancora, nè ancora è decaduto dalla sedia di Pietro. Che perciò noi, fedeli alla Chiesa ed addolorati del suo scisma, ci asterremo dal dar prove di rispetto al novello pontefice per tema che il nostro esempio non seduca altrui. Ma faccia che il consentimento di tutti i prelati d'Europa lo proclami vero pontefice, ed allora noi gli giureremo obbedienza, e torremo qualunque fede ad Ildebrando.

—No, monsignore, lo interrompe il romeo, questo voi non farete, perchè vi condurreste da disleal cavaliere. Lasciate da banda il debito di fedeltà che vi stringe a Gregorio. Rammentatevi solo che, innanzi di esser vassallo della Chiesa, foste cavaliere; e come cavaliere vi urge il dovere di proteggere l'innocente e di soccorrere il caduto. Gregorio VII è assediato nella mole di Adriano. A quest'uomo, monsignore, che, giorni sono, camminava sulle teste dei re, manca il pane per alimento. E voi che siete il più grande di questo secolo, vi stareste come una femminuccia dal soccorrerlo, sol perchè alcuni anni indietro corse briga fra di voi? No, monsignore, voi imiterete il suo esempio e lo gioverete, perchè egli si è volto a voi come al più generoso de' suoi nemici.

—Ah! ah! si ricorda di noi adesso, perchè l'incendio che ha destato in tutta la cristianità è per divorarlo? sclama Roberto. Ma quando favellava di noi in tutti i concilii come di un corsaro, ci scomunicava, con suggestione ci ribellava i vassalli, e ci osteggiava con le armi della contessa Matilde, allora noi non eravamo generosi, nè si parlava di quei fratelli Maccabei tanto predicati. Allora noi eravamo Madianiti, scellerati, schiuma d'inferno; allora non sognava neppure che questo giorno avrebbe potuto venire, che la spada tentata spezzare avrebbe potuto armargli il braccio. Non lo avrebbe pensato allora? Ebbene, che sorba adesso fino all'imo la tazza della sventura, perchè non saremo già noi che gliela verremo ad addolcire.

—Con la vostra licenza, monsignore, il vostro consiglio non è nè cristiano nè nobile, riprende il romeo. Se Gregorio VII vi avesse ricolmo di favori, e voi lo aveste soccorso nelle disgrazie, non avreste che compiuto un dovere. Or vi dimando io, monsignore, che diranno i popoli di voi, se vilipeso, perseguitato indebitamente e messo a bersaglio di ogni maniera di danni da Gregorio, vi levate contro i suoi nemici e dite: ritraetevi, per Dio, quest'uomo difendo io!

—Dicano ciò che lor piace, risponde Roberto alzando le spalle. Noi non corriamo più dietro alla nominanza. E se pure questo solletico ci stimolasse ancora, crediamo aver fatto qualcosa per esserne paghi.

—Certamente, monsignore, continua il romeo, certamente l'avvenire vi ammirerà perchè, disceso in Italia solo e povero, la schiavina di pellegrino addosso, il bordone nelle mani, vi siete levato a tanto alto potere e fatto padrone di sì vasto e bel paese, resistendo in cento battaglie a due imperatori, molti pontefici, e tutti vincendo. Vi ammirerà perchè con tanta sapienza governate e prosperate i vostri popoli, vi rendete loro caro, e temuto ai nemici. Ma i tempi antichi vantano altresì uomini che vi somigliano. Però se violentate il vostro cuore, soffocate la vendetta, e prestate aita al vostro nemico, una voce si leverà allora per li due imperi che vi proclamerà unico e generoso.

—Queste le son vampe da mandare in succhio un guerrier nuovo, ser romeo; me non solleticano.

—Sibbene, monsignore: ma riflettete che l'Italia, la Germania, la Francia, Europa tutta, ha fornito il suo contingente di truppa contro questo ardito pontefice per abbassarlo, e che se voi solo sorgete contro tanta massa di popoli e li sconfiggerete, la vostra gloria non avrà limiti. Il vostro nome suonerà prodigioso dovunque è venerato il nome di prode. In guisa che, se anche per disavventura la vittoria vi fallisse, oltre le benedizioni del cielo e del pontefice ed il soddisfacimento della propria coscienza, ognuno sarebbe sforzato a confessare avervi oppresso il numero, non il valore.

—E questo è quello che noi non vogliamo, ser romeo. Ci darebbero dello stolto, dell'improvvido; ed un fatto solo distruggerebbe l'opera di tanti anni. Noi non siam tali, quel sere, da mettere sui dadi la nostra fortuna. Gregorio suscitò il vespaio: il malanno se l'abbia lui.

—Con la vostra permissione, mio nobile padre, sclama Boemendo, vorrei manifestare il mio avviso.

Roberto lo riguarda fittamente quasi volesse scandagliarlo nell'anima, poi dice:

—Favella pure.

Boemondo riprende:

—Vi dimando perdono, signore, se la mia poca sperienza mi allontana dal vostro consiglio. Il guerriero non numera i nemici che deve combattere, come l'ebreo i pezzi d'oro che presta. L'opera del calcolo non è più l'opera del valore. Il valore sta dove il periglio è maggiore, dove si frappongono gli ostacoli; e fatto di cavaliere non è sicuro coi cento rompere i dieci. Ma se noi soli, noi, figli di una nazione che ha soggiogata l'Europa, andremo in piccolo e risoluto drappello ad urtare l'enorme massa di combattenti accalcata su papa Gregorio, allora il nostro nome sarà distinto nei volumi delle cronache, ed i trecento delle Termopili non saranno più soli.

—Nobile giovane! sclama il romeo di voce commossa e diversa affatto da quella con cui aveva favellato sino allora.

E faceva già un passo verso di lui per abbracciarlo, allorchè vede Sigelgaita, la quale fino a quel momento lo aveva considerato con un'attenzione come se avesse voluto divorarlo, la vide quasi all'insaputa sua sollevarsi dal seggio. E' si arresta. E Sigelgaita, dopo alquanto di silenzio, osserva ghignando:

—Chi direbbe che tanto entusiasmo si annicchiasse in un romeo che mi ha l'aspetto e la voce di una femmina?

—Perdono, madonna, la voce e l'aspetto lo dà Iddio: che può fare l'uomo se ha la disgrazia di altrui dispiacere?

—Proprio così, bel santo! E non è già Iddio che s'incolpa se l'uomo, per ostentare venustà femminile, si taglia i peli del volto, e la donna, per correr libere venture, assume abito virile.

Il romeo resta colpito dalle parole di Sigelgaita, e fisando il suo occhio sereno sovra di lei, che torva ed irata lo contemplava, soggiunge:

—Mi avveggo, madonna, che ho avuta la sfortuna di esserle malgradito. Mi lusinga però la persuasione che ciò non sia per effetto del mio messaggio; perchè chi non sa quanto la duchessa Sigelgaita agogni perigli di guerra ed azioni generose, in cui raccoglie sempre la corona dei forti? Ardisco perciò supplicare ancor lei, che voglia persuadere il suo nobile sposo recarsi a soccorso del pontefice.

—Che ti affoghi la peste, mariuolo di pellegrino! scoppia Rolando che or rosso, or verde nel sembiante si era a mala pena contenuto fino a quel punto. Che domine affastelli tu, con codesti guaiti da sgualdrina, di pontefice e di Gregorio? Per la santa luce di Dio! il pontefice è Clemente, e mi sento prurito di strozzare chiunque voglia venirmi a cantare altra solfa. M'intendi? Ed a dire che ho raccolto con me nella galea quel bel mobile di un tisico!

—Messer legato, voi mi fate ingiuria indebitamente, ed io affido a Dio la cura di dimandarvene conto. Voi avete esposto il messaggio del vostro padrone, ed io mi sono taciuto, perchè ciò mi conveniva. Non so perchè però voi sorgiate ad insultarmi quando io prego di porgere ascolto alle instanze dello sventurato Gregorio. Se non il riguardo di me, messere, perchè pei vinti non v'han riguardi, dovevate rattenervi per quella nobile dama, e per questo giovane, che è nell'età di apprendere azioni civili e generose.

Rolando stava lì per rispondere, ma Roberto gli taglia la parola, tanto più che ferocemente vedeva accigliare il suo figliuol Boemondo, e soggiunge:

—Signori, abbiamo udito le proposte di ambo i pontefici, ed in che modo essi intendano valersi dell'opera nostra. Prima di darvi risposta e' ci è d'uopo riflettere alle condizioni in cui ci troviamo, e ciò che a noi convenga di fare. Udremo ancora i nostri fedeli, e domani sì voi, ser romeo, che voi, messer Rolando, saprete il partito a cui saremo per appigliarci.

—Voi farete il vostro piacimento, monsignore, risponde Rolando, e vi atterrete a quel consiglio che stimerete il migliore. Però gli è bene che abbiate presente, la parte di Clemente esser quella di tutta Europa, e che i scarsi e mal sofferti proseliti di Gregorio tornano esosi ad ognuno come il loro capo. Vi rammenterete inoltre che l'obbedienza cui giurerete a Clemente è garante delle grazie che troverete presso di Enrico, e delle quali, se mal non mi avviso, avete pur d'uopo; imperciocchè questi è in Italia ed alla testa di armata potente, e voi, mentre battagliate in paesi stranieri, lasciaste sguarniti e poco difesi gli stati di Puglia e di Calabria. Voi siete prudente ed avveduto, monsignore; le troppe parole tornano inutili.

—Mercè dunque della pena che vi prendete di dirle, messer legato, risponde Roberto crollando il capo bruscamente. Le considerazioni che dovremo fare ben sappiamo. Voi tentate d'intimidirci con codesto prospetto, ma perciò appunto c'indurreste a correre dal lato opposto, perocchè noi amiamo andar mai sempre contro l'opinione e l'aspettativa d'altrui. Nondimeno, a domani, messer legato.

—Ed io, monsignore, soggiunge il romeo, mi rassegno innanzi al voto che sarete per profferire. Alla perfine, se tutti gli uomini abbandoneranno lo sventurato sacerdote, lo proteggerà Iddio che suol farsi compagno degli oppressi. Tra le sue disgrazie avrà sofferta ancora l'onta del rifiuto, ed il disinganno di aver pensato generoso il nemico. Temistocle non avrà trovato il suo Serse.

—Ser pellegrino, lo rabbuffa Roberto, Gregorio VII, creatura orgogliosa che giammai avventurò nè parole nè opere, sapeva meglio di voi a qual uomo si dirigeva. Andate, ed a domani.

E sì dicendo si alzava, ed i messi, inchinandolo, uscivano.

Dopo un poco di silenzio, Sigelgaita fissa gli sguardi su Roberto e dimanda:

—Messer duca, non conoscereste voi per avventura quel romeo?

Roberto resta sorpreso della dimanda, ed a sua volta considera la faccia di sua moglie fatta pallida. Poi, freddo freddo, risponde:

—No.

Sigelgaita piega gli occhi, e senza dir motto, esce.

VI.

Ben ai omais qeu sospir, e qeu plaigna Qab parc lo cor non part, qan me recort Del bel solaz, del ioi e del deport.

Periol D'alvernia.

La notte era inoltrata, tutti nel castello dormivano. Solo il romeo percorreva a lento passo la sua camera, soffermandosi di tratto in tratto avanti la finestra per contemplare il tacito corso della luna, ed il luccicare della marina. Egli aveva gittato il capperuccio dietro le spalle e piegate le braccia sul petto. La luna gli rischiarava il sembiante che, contornato dal nero abito, appariva più pallido ancora. Gli occhi scintillavano, avvegnachè in quel placido meditare della notte languidi e velati dovessero mostrarsi. Egli attendeva qualcuno perchè ogni più tenue susurro la scuoteva di un sussulto, perchè non distoglieva gli sguardi dal cielo se non per guardare all'uscio che si aprisse. In effetti non passò guari ed udì lieve rumore, e la porta si schiuse. Egli corre verso l'uomo ravviluppato nella bianca cappa, il quale lento alla sua volta andava, e tendendogli le braccia al collo sdama:

—Boemondo!

Colui si svolge dal manto, e gittandoselo dietro ai reni in una col berretto, risponde:

—Non è desso, Alberada.

—Monsignore! grida questa, perchè il romeo era appunto Alberada: e tirandosi un passo dietro soggiunge: Monsignore, che cercate qui, a quest'ora? Io aspettava mio figlio.

—Egli verrà pure, Alberada, risponde Roberto lentamente, ma deh! non ti rincresca che anch'io goda un'altra volta la delizia di parlarti liberamente, e dimandarti perdono dell'onta che ti feci.

—Voi non avete bisogno di dimandar perdono, sclama Alberada commossa nella voce, io non vi ho mai odiato, nè mai chiesi vendetta. Iddio mi aveva destinata a percorrere una via di triboli; la sua volontà si è compiuta. Cessate dunque dal dimandarmi mercè. La colpa non è vostra.

—Io fui un forsennato, Alberada, prosegue Roberto, la gelosia mi tolse la ragione. Io ti aveva amata come niuna donna ho saputo di poi amare di più. Andava sicuro che il tuo cuore non avesse mai palpitato per altr'uomo che per tuo padre e per me, che il tuo pensiero non si fosse rivolto che a Dio ed allo sposo. Sapere invece che diverso affetto ti riscaldava, udirlo d'altrui quasi per celia, così, come si racconta di Ginevra e di Lancillotto nelle veglie d'inverno, udir che invita ti recasti al mio talamo, e che era passione per incognito abbietto che ti stendeva nel sembiante quel velo di mestizia e ti faceva trascorrere lugubri giorni! Ah! Alberada, se mai non ti avessi amata, o debolmente, avrei allora posto a scrutinio il fatale racconto dell'abate di Cluny, meditato sulla tua condotta, e non ti avrei vituperata di un ripudio. Ma io bruciava del tuo amore; io faceva eco a tutti i baroni che si dicevano: niuno è lieto di più bella e virtuosa consorte come il Guiscardo! Mi credetti tradito, e preso da impeto insano, nel punto stesso mandai per altra sposa, seguii il messo, aggiustai le nozze, e travagliato da disperazione, da ansietà infernale, da amore, da gelosia, da tutte le passioni che possono far misero un uomo, escogitai la vendetta, ti feci preparare le feste per la novella sposa, e nell'ebrietà del convito ti gittai sul volto il ripudio.... Dio mi ha punito, Alberada, Dio mi ha severamente punito. Perdonami e compiangimi tu pure, o se nol puoi, almeno non disprezzarmi.

—Disprezzarti, Roberto, prorompe Alberada, e due lagrime lucide e lente le solcano le gote, ed hai potuto pensarlo mai! Io non ti ho apposto a colpa che tu m'abbi allontanata da te, perchè vado convinta, in terra non muoversi stelo che a Dio non piaccia. Compresi fin da prima che un'allucinazione ti aveva turbata la mente, e desiderai questo momento di colloquio per giustificarmi teco. Ora tu mi dici che sei sicuro di mia innocenza; ed io ti ringrazio che mi abbi così tornati tranquilli i poveri e vedovi dì che mi restano a vivere. La mia missione quaggiù fu di abnegazione. Mi sono rassegnata da lungo tempo alla parte che Iddio mi ha destinata. Solo che ti sappi felice appieno nel tuo domestico focolaio...! Ma a pochi, o Roberto, è stata concessa la santa facoltà di amare; e questi predestinati sono infelici.

—Sì, Alberada, a pochi fu concessa la virtù di amare con quella pienezza che mi hai amato tu. Ma quei giorni sono svaniti coi sogni della giovinezza. Se sapessi però che cosa ti potrebbe rendere contenta la vita per l'avvenire....

—Il mio avvenire, Roberto, è scritto da lungo tempo. Quando mi discacciasti da te a Melfi io mi ricovrai in un monistero di benedettine a Grotta Minarda, e di là mi sottrasse con violenza Guiberto, sì che fui costretta a tormelo sposo. Egli mi amò sinceramente, ed anche io per riconoscenza l'amai; ma di quell'amore che sfiora il cuore, come fa la brezza della sera passando sugli aranceti da cui lambisce uno sprazzo di odori; di quella passione calma e rassegnata che sa di stanchezza, che cerca tranquillità e riposo. E lo confesso ben essermi violentata a riamarlo meglio per corrispondere a quella specie di frenesia con che egli mi amava. Ma nol potei, perchè una volta sola si ama nella vita, ed un uomo—e fuori di quello ogni nuovo affetto è languido falso. A lui mi tolse il fratel suo Ildebrando, che mi tenne chiusa tanti anni nel fondo della mole di Adriano per divellermi da ogni tenerezza di questa terra, e rivolgermi interamente a Dio.

—Scellerato! sclama Roberto.

—No, allucinato, risponde Alberada. Ho consumata dunque tutta l'ostica tazza che aveva avuta a sorbire! Ora la mia posizione è terribile. Quegli che adesso è mio marito si arma contro il fratel suo che è l'inimico mio, colui che Iddio ci comanda di perdonare e di amare. Io ho perdonato a Gregorio VII. Io mi sono intenerita alla sua sorte da tanta altezza precipitato. Ho veduto il fiero vecchio deciso a morire di stento, ma saldo e altieramente nobile, con quella grandezza di convinzione che Iddio suol concedere solamente ai suoi eletti. Gli ho promesso che sarei venuta ad implorare il tuo aiuto, Roberto. Io non voglio che tu opprima l'uno per l'altro, che ti dichiari contro uno dei due fratelli; mai no. Sarei ingrata, sarei vituperevole. Voglio che ti rechi a Roma ad udire le ragioni di entrambi, e metta pace fra loro. È opera di carità che chieggo da te più che opera di valore. Mi appello in te più al cristiano ed al cavaliere che al guerriero. Non negarmi la grazia di questa tua temuta mediazione. Tu solo puoi stabilire l'equilibrio nelle cose dell'Impero e della Chiesa, e portare la pace in questa desolata Italia. Indi cercherò un chiostro dove morire dimenticata, e spero nella misericordia di Nostradonna dei sette dolori che lungamente non mi voglia lasciare allo spasimo di questa vita. Mi sento stanca, ho bisogno di riposo.

—Alberada! e non speri tu dunque giorni migliori?

—No, Roberto, perchè io non potrei più godere senza far misero altrui; perchè i giorni dell'illusione sono sepolti con quelli della giovinezza. Sol che sappia avventurosi te e Guiberto; sol che sappia felice il mio figliuolo Boemondo, la gemma dei miei pensieri! io non desidero di più. Il mondo mi ha maltrattata; perchè ambire rimanerci più lungamente? E poi, o Roberto, col lungo soffrire tutto acquista una tinta squallida, come l'itterico vede giallo ogni oggetto. Consolami dunque di quest'ultima gioia; fa che ritorni la pace tra i due fratelli, tra i quali mi ha gittato fatale destino a cui presento dover soggiacere; e poi che io muoia, perchè sento di restare inutile ed arida sulla terra.

—Io verrò a Roma, Alberada, ed il tuo volere sarà pago. Tu però non andrai incontro alla sconfortata solitudine che ti minacci. Vi è ancora sulla terra qualcuno che ti ama col delirio dei venti anni, che non trascorre giorno senza consacrarti un pensiero, talvolta una lagrima, cui Iddio accetterà in iscomputo della sua colpa. Tu hai ancora un figlio, un generoso e prode giovane cui sovente ho veduto lagrimare di furto dove occorse favellare di te. Tu hai amici ancora, hai il novello tuo sposo Clemente III, che perciò solamente mi sentirei inclinato a favorire. E costui, e noi tutti che non faremmo per te? Tu devi essere assolutamente una santa, Alberada, che non covi odio contro Ildebrando, e vuoi a lui tornare angelo di conforto e di speranza! Iddio non ti lascerà sconsolata. Tu non andrai a seppellirti in un chiostro a finirvi oscura e solitaria una vita sì nobilmente spesa!

—La mia sorte è decisa, Roberto. Se io fossi stata destinata alla gioia, Iddio non me l'avrebbe interrotta nel più bel punto che la teneva. Le mie condizioni peggiorano ogni giorno; mettiamoci un ostacolo. Soffrirò un supplizio di cuore, ma i fatti crudeli di coloro che per vincoli santi di amore a me si attengono non giungeranno fino alla mia solitudine. Tiriamo quindi un velo sul passato, e diamoci addio qui.

—Alberada, non distruggermi ogni illusione dell'avvenire, sclama Roberto con entusiasmo, prendendole le mani. Io gemo sotto terribile giogo: io non conosco più un'ora di sonno tranquillo: la mia vita è un martirio di cui tu non puoi avere idea. Iddio creò la donna perchè fosse all'uomo angelo di conforto e di pace; ed io.... ah! no, Alberada, non rompermi il fascino incantato che mi fa vivere e palpitare nel futuro.

E sì favellando Roberto si stringerà sul cuore le mani di Alberada, allorchè questa, ad un rumore verso l'uscio, vi volge gli occhi, e sotto l'arco di quello, al debole chiarore della luna, vede come una fantasima nera, che, alta, ritta, immobile contemplava, e da lungo tempo forse! quel gruppo che inconsiderato discorreva di altri tempi, immemore del presente e delle rispettive loro condizioni. Alberada gitta un grido, e Roberto, drizzato anch'egli lo sguardo a quella parte e scorta la fredda figura che non faceva atto di muoversi o di parlare, le va incontro e dimanda:

—Chi sei tu dunque, che osi ribaldamente avvicinarti a queste stanze, a quest'ora?

La fantasima si svolge lentamente dal manto che la circondava, si alza la tocca che le calava sulla fronte, e senza dir parola si fa conoscere. Roberto si ritrae in dietro di un passo, e, non sapendo che si facesse, porta la mano al fianco per cercarvi il pugnale, e pieno di stizza grida:

—Alla croce di Cristo, madonna! chi ti ha dunque fatta tanto ardita di spiare i passi del tuo consorte?

La duchessa Sigelgaita, che ella stessa era il fantasima, non risponde, e raccogliendosi lentamente il mantello attorno la persona, e tirandosi di nuovo la tocca sulla fronte, sta un istante a considerare di occhio freddo ed immobile come quello dell'estatico la coppia infelice, poi piega a terra lo sguardo, volge loro le spalle e parte.

Lungo silenzio successe alla sparizione della duchessa. Alberada tremava tutta di spavento, Roberto di rabbia. Infine Alberada balbetta:

—Guai, Roberto, ella ha udito tutto! Quale terribile donna abbiamo offesa.

E sì dicendo mezzo svenuta si lascia cadere sur una sedia. Roberto non risponde, ed affidatala a Boemondo, che entrava in quel punto, esce dalla stanza.

Lungo, tenero, straziante fu il colloquio della madre e del figlio. Si dissero cento cose, si fecero cento promesse; e d'allora forse il carattere di Boemondo acquistò quell'aria di fredda durezza e quella sterilità di cuore che dimostrò di poi, come condottiero nella prima crociata e come principe di Antiochia. L'alba li divise.... per sempre; che due strade opposte dovevano percorrere gli sventurati.

Al domani, i due legati si presentarono a Roberto nel salone dove soleva tener corte, e quivi fu loro fatto sapere che ei si sarebbe recato a Roma per decidere la questione dei due pontefici. Rolando comprese subito, dall'aria contegnosa del duca, che questi pendeva per Gregorio e che verso Roma muoveva a danno di Clemente. Onde, assumendo modi e parole che al suo carattere di soldato, di legato e di uomo franco ed ardimentoso addicevansi, intíma la guerra a Roberto e parte. Nell'uscire, la duchessa Sigelgaita, che la sua ardita intimazione aveva udita, gli si fa incontro e gli susurra:

—Messer legato, raccomandatemi alle benedizioni di papa Clemente.

Rolando la stette a guardare attento per comprender netto il significato di quelle parole, poi si accosta alla duchessa e le mormora all'orecchio alcune frasi. La duchessa l'ode, poi risponde:

—A Roma dunque, messer Rolando.

Alberada, imbarcata sopra una galea del Guiscardo, partì anch'essa, confortata di speranze per Gregorio, per Roberto trepidante. Vedremo.

VII.

Ya sabeis, vasallos mios que habrá dos meses y medio que el Turco puso à Viena con sus tropas el asedio, y que para resistirle unimos nuestros denuedos. Ben conozco que la falta del necesario alimento ha sido tal que rendido de la hambre à los esfuerzos, hemos comido ratones, sapos, y sucios insectos.

Moratin — El cafè.

L'arcivescovo di Ravenna, perchè noi seguiremo a chiamarlo così malgrado la sua sacra pontificia, l'arcivescovo ebbe a darsi a tutti i diavoli quando udì che Roberto Guiscardo, lungi dal giurargli divozione, mandava pel suo legato Rolando ad intimargli la guerra. L'imperatore Enrico era in Lombardia, ma il nerbo dell'esercito stanziava a Roma e nel paese circonstante. Con tutta fretta dunque Guiberto fortifica la città, ripara il guasto delle mura e delle torri, e di blocco più fitto stringe castel Sant'Angelo. Egli imbizzarriva, come ridotta allo stremo di tutto, non per anco quella rocca si fosse resa. Ed in vero il senato ed il console, per aderirgli, avevano fatto intimare al loro castellano Oddo che sgombrasse la fortezza e si constituisse prigione. Però, in segreto, ei lo sollecitavano a mantenersi fedele, a tenersi fermo di dentro, perchè le cose non ancora essendosi ben consolidate, Castel Sant'Angelo e' consideravano quale estremo rifugio pel patriziato e per coloro che rappresentavano il reggimento civile di Roma—vale a dire console, tribuni e capitani della milizia cittadina. Oddo li ubbidì.

Non appena uscita Alberada dal castello, Oddo aveva fatto cadere un verrettone con pergamena tra le penne in mezzo ai soldati dell'imperatore. In quella pergamena e' scriveva, che un mese ancora il pontefice dimandava fosse rispettato il castello, e fornito ciascun giorno di scorte; il qual termine elasso, prometteva uscirne, rinunziare alla sede di Pietro, Enrico assolvere dalle censure, Clemente III riconoscere, perdonar tutti, ed andare a rinserrarsi nel suo prediletto soggiorno del monistero di Cluny. Veramente non gli si prestò ampia fiducia. Però vedendo l'impossibilità di togliere così presto d'assedio la piazza, e volendo sempre più giustificare la nobiltà di sua condotta innanzi al popolo romano, cui ambiva tornarsi divoto affatto, firmò i patti posti dal pontefice e partì.

Il suo luogotenente Guiberto non seguì a puntino gli articoli del trattato. Scarsamente ogni tre dì faceva, col ministero di una corda, arrivar provigioni agli assediati, e, quasi per burla, due volte fece simulacro di scalar la fortezza. Ma quei di dentro, sempre all'erta, precipitarono dalle scale gli assalitori. Infrattanto lo spirare del mese approssimava e di Alberada nulla si sapeva.

Terminò infine, e novella alcuna non se ne ebbe. Allora Guiberto mandò parlamentario alla rocca perchè mantenessero il trattato. Erano stretti dalla parola e dalle circostanze; ma Oddo sperava ancora. Rispose perciò: il pontefice infermare gravemente; nulla ei per sè poter decidere; quegli non trovarsi in istato di essere consultato; dimandare ancora dieci giorni di tempo, compiuti i quali immancabilmente avrebbero sgombrato il castello. L'arcivescovo strabiliò. Concesse però gli altri dieci giorni, e significò loro che, non avendo gl'infermi d'uopo di cibo, si sarebbe astenuto fornirne. Bloccò intanto più strettamente il forte; nè restò dal tentar mezzi per sorprenderlo.

I governatori di Roma, e meglio ch'essi Gisulfo, il quale, riconciliato col papa, dentro Roma incognito e povero aveva vissuto un resto di anni vituperati, subornarono le sentinelle, e provvidero il castello per alquanti dì. Ma in fine una notte Gisulfo fu sorpreso da Rolando, e trascinato nel fondo di cieca muda disfatto miseramente. Per alcune sere si vide ancora un lume di segnale sui baluardi; poi una mattina bianco vessillo vi sventolò.

Si rendevano.

Ildebrando, Oddo, il presidio erano restati due giorni digiuni compiutamente, ma nè l'uno nè l'altro aveva proferito verbo; i soldati non avean mosso lamento. Il conte nel suo cuore impietosiva del vecchio pontefice, questi del fedel castellano. Nullameno niuno dei due parlava di arrendersi. Gregorio, perchè sapeva di qual tempra fosse Oddo, il quale cento volte si sarebbe prima lasciato morir di fame anzi che cedere la piazza; Oddo, perchè immaginava qual crudele sorte avrebbe incontrato il pontefice se si rendesse. Con terrore però ciascuno mirava sul volto dell'altro i segni spaventevoli della fame. Non erano uomini da lagrimare, ma visibile si leggevano scambievolmente sul sembiante la commozione, pensando a qual fine di gran passo tutti procedessero. Nessuno dei due si sovveniva neppure del presidio! Eran vassalli: dunque, carne a dolore, carne a morte. Una mattina infine Oddo tolse dal suo scudo le guigge di cuoio, e dopo averle fatte bollire lungamente, sopra un tagliere di legno andò a presentarle con una divina semplicità a Gregorio. Egli non proferì parola: Gregorio gli fissò sul volto gli occhi lucidi per una lagrima che vi si stese, e dopo averlo un tratto contemplato, si alza da sedere e gli stringe la mano tremante. Tutti e due stettero un pezzo avvinti così, poi Oddo, ritirando la sua ed asciugandosi una lagrima che placida gli solcava lo smunto volto:

—Mi porti il diavolo! proruppe, se aveva mai pianto in vita mia dal dì che andarono a seppellire quella povera vecchia di mia madre, che il cielo abbia in gloria!

Gregorio si torna a sedere lentamente, poi mormora:

—Ella non torna più!

—Che il diavolo si porti ancor lei, scoppia il ruvido castellano. Già è una femmina; e noi fummo ben due pazzi che le prestammo tanta fiducia. E quel gramo di Gisulfo?

—Ma! l'avranno scoperto nell'ufficio pietoso di soccorrerci, e l'avran fatto freddo. Iddio abbia pietà dell'anima sua!

—Amen, risponde il castellano. Sarebbe però meglio se avesse pietà di noi, perchè già.... ma mangiatevi almeno codesti correggiuoli. Non è un lauto desinare, lo comprendo ancor io; però il diavolo mi soffochi...! perdono, santo padre, sa! è la cattiva abitudine. Sicchè io vi diceva che con queste liste di cuoio potrete almeno sostenervi qualche altro dì: poi si vedrà.

—Mangiateli voi, Oddo, se codesta roba è ancora buona a qualche cosa, insiste Gregorio; fateli mangiare a questi poveri disgraziati di soldati. Io mi sento tuttavia in forze. Ed infine, gli è meglio che vi sosteniate voi per difender la rocca, perchè già per me non giova più.

—Noi, noi...! che dobbiamo fare della vita noi? Abbiam pure da pensare ad un mondo noi? Abbiam pure una cristianità sulle spalle noi, una cristianità a cui bisogna conservarsi, e mostrarsi saldo onde non farvi penetrar l'eresia, l'ateismo, l'arianismo e che so io? Andiamo, mangiate in nome del diavolo! chè per noi siamo avvezzi a codeste carezze del nemico. E poi, se la fame ci tira pei capelli, daremo di mano ai sandali, ci tranguggeremo un pezzo del giacco di bufalo; rosicchieremo un pezzo di teniere di balestra o un pezzo di mattone.... pensate a voi. Credete che domani vi riuscirà poi facile mandar giù questa diavoleria! Lo stomaco si chiude, e buon viaggio a chi parte. Io so come vanno queste faccende.

—Ma no, vi dico, mangiateli voi. Io medito sopra un passo del Vangelo: l'uomo non vive solamente di pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio.

Oddo si gratta il capo, e dopo un momento di silenzio, soggiunge:

—Sentite a me, pontefice, farete poi il commento a codesto bel passo; ma per ora contentatevi di mangiare queste guigge di cuoio comunque esse siano. Vi ripeto che domani nol potreste più. Se vi vedeste nel volto!... Io non voglio con ciò farvi paura, nè voi siete quel tale che ne avrete mai. Ma udite un mio consiglio. Voi avete bisogno di sostentamento perchè siete più vecchio di noi, e meno uso a questi regali delle guerre. Mi ricordo che al blocco di Pavia quei cani di Milanesi ci fecero stare... non so più quanti giorni digiuni. Figuratevi! Io aveva allora venti anni, ed era ridotto che il peso del pugnale mi gravava. Sa Dio poi cosa ebbero a fare per ristorare quei che sopravanzarono alla resa, chè già parecchi se l'erano colta per l'altro mondo. Dunque...

—Ma infine, Oddo, l'affare non può durare così, sclama Gregorio crollando la testa. Io son deciso: domani mi arrenderò.

—Avete detto, beato padre?...

—Che domani mi arrenderò. Già io non parlo di voi, che anzi metterò per patto alla mia dedizione che voi veniate rispettati e provveduti di viveri, finchè il pieno volere del popolo e del senato romano non vi ordini davvero di sbrattare il castello. Son sicuro che non vorranno fare difficoltà, perchè una volta che mi abbiano avuto nelle mani tutto cangia. Sa Iddio se non mi sarei volentieri lasciato morire di fame qui... Ma trascinarvi alla perdizione con me!... Qual colpa avete voi, uomini generosi, che dobbiate soffrir tanto? Eppure se avessimo potuto reggere ancora una settimana o due, chi sa? Io spero ancora in Alberada. Forse avrò torto, ma...

—Uhm! santo padre, voi non conoscete mica l'umor delle femmine. Sono come quel famoso corvo dell'arca di monsignor Noè. Figuratevi mo che ella voglia pensar più a due poveri vecchi papari, dei quali alla fin dei conti non ha poi tanto a lodarsi, e pensarvi quando, dopo non so quanti anni di prigionia, si trova libera, vicino ad un figlio e ad una mezza dozzina di mariti, con la volontà e la potenza di vendicarsi, senza forse saper che fare o poter nulla fare per giovarci... Bah! Il mondo dovrebbe esser cambiato d'assai, ed il diavolo dovrebbe fare ogni mattina la comunione, perchè colei si curasse ancora di noi. Ed io che le aveva posto amore come a figlia! Ma alla fin fine, ella ha altri doveri che la stringono più da presso, e non può tradir l'antipapa, che l'è marito, per noi che le siamo prossimo, e cattivo prossimo.

—È vero, mormora Gregorio dopo avere alquanto riflettuto. Perciò appunto domani mi arrenderò. D'altronde, io non so poi da chi possa aspettar sussidii. D'oltremonti no; perchè i Lombardi e gl'imperiali guardano le chiuse: d'oltremare potrebbe soccorrermi Guglielmo il Conquistatore dall'Inghilterra; ma colui si è spiegato chiaro che non vuol saperne delle cose della Chiesa, perchè ama meglio consolidare il fatto suo. Vi sarebbe il Guiscardo da Grecia; ma anch'egli ha colà i suoi guai—e poi col Guiscardo siamo a tali termini che, a quest'ora, già contro di noi avrà patteggiato con Enrico, e forse verrà sopra Roma a danno nostro. Sicchè non saprei come Alberada possa fare per porgerci aiuti—a meno che non volesse ricordare l'esempio di Stefania, la moglie di quello sventurato Crescenzio che ha lasciato il suo immortale nome a questa fortezza. Convinciamoci dunque, messer conte, che noi siamo ben folli a sperare, come tutti coloro che sperano altrove fuori di Dio; e rassegniamoci al nostro destino. Domani alzeremo bandiera bianca.

—Siete un famoso uomo se in questo stato di cose, beato padre, conservate ancora la voglia di scherzare, dice Oddo incrociando le mani sul petto e componendo la ciera ad alcun che di ironico.. Resa! resa? Se voi favellate da senno, bisogna dire che la fame vi abbia indebolito il giudizio. Voi lo avete detto che io non posso rendermi, perchè tengo il forte pel popolo e pel senato romano, ed ancora da costoro non mi è venuto ordine di dedizione. Voi poi, quanto a voi non dovreste neppure sognarlo per ombra, perchè, mi porti il diavolo! se quei bravi figliuoli di laggiù non vi taglieranno a ghiado appena vi terranno nelle mani. Così che parmi che valga meglio morire nobilmente qui, e morire martiri, anzi che andarsi a ficcare in mano a quei demonii come un becco che s'incammina al macello.

—Ho resistito quanto ho potuto, Oddo, risponde Gregorio gittando un sospiro: sono giustificato innanzi al mondo. Ora debbo pensare a Dio, e Dio proibisce l'omicidio—cosa che io farei se, restando più lungamente qui, rimorchiassi anche voi altri nella mia ruina. Dio proibisce il suicidio. Mi uccidano essi.

—Ed avete dunque deciso?

—Domani di darmi a discrezione.

Oddo si siede con un moto di disgusto e mirando in volto Gregorio, e tentennando il capo, brontola:

—Udite me, pontefice, perchè la ragione non mi vacilla ancora. Il partito a cui volete appigliarvi è estremo, e comprendo anch'io che un giorno l'altro io stesso debba fare questa pazzia; non già per me, vedete, perchè per me non curo la vita meglio di un'asta spezzata. Ma vedervi languire così... A buoni conti forse dovremo venire al punto di tentare la fortuna della resa. Ma fino allora ci vuole ancora alcun che.

—E di che si vive? l'interrompe Gregorio.

—Di che? sclama Oddo. Abbiamo qui alcune cuoia da rosicchiare, ed io so per esperienza che con questi negozii, se non si fa stravizzo, si campa la vita. Atteniamoci dunque a questo pasto per quanti altri dì potremo, e vediamo come si mettono le cose. Abbiamo sempre tempo di arrenderci, e non giungerà mai tardi. Ma ora... per tutti i diavoli! non fosse che per decoro! Dovranno dire quei poltroni di laggiù: trista canaglia, ghiotti marrani, avevano ancora i sandali da ingoiarsi e non so quanti vecchi giacchi di bufalo; ed hanno alzata bandiera bianca? Vigliacchi del diavolo! precipitiamoli giù nelle fosse. E questo e' direbbero quei furfanti d'imperiali, mio bel papa, se noi cedessimo adesso. E qual frutto ne caveremmo poi? Saremmo svillaneggiati per avere alquanti dì più presto un capestro alla gola, e penzolare ai merli delle torri. Mai no.

—Credete voi dunque ch'essi oserebbero?... dimanda Gregorio.

—D'impiccarvi e d'impiccarci? Magari! l'interrompe Oddo. Due volte piuttosto che una. Or bene; udite me: mangiate questi correggiuoli, e figuratevi proprio ch'e' fossero asparagi. Già tutto è immaginazione. Son sicuro che quel benedetto abate di Cluny si astrarrebbe nelle nuvole di Aristotile e mangerebbe un pezzo di calcinaccio per formaggio. Fate dunque altrettanto voi. Poi si penserà alla resa. Comprendo che voi lo vorreste solo per me. Ma mi porti il diavolo! se io non lo farò per nuda considerazione di voi, quando il tempo a ciò sarà giunto. Che preme al vecchio Oddo se muore anzi di fame, come un lupo caduto in una fossa, che per un ferro di lancia nel petto, o appeso a queste nere mura come un nibbio alla porta di un castello! L'è tutt'uno: si muore sempre. Andiamo dunque, vediamo se codesti bianchi denti sanno fare ancora il loro ufficio.

—Ma a che pro? dimando io; in chi speri tu dunque, messere?

—In chi? mai nel diavolo, in Dio, nella forza degli eventi, nella gocciola d'acqua che fa straboccare il vaso, nel caso; insomma io spero in tutto, in tutti, e non spero più in alcuno. Solo per onor del mestiere non credo giunta ancora l'ora della resa. Ecco tutto. E poi davvero dunque gli uomini sono affatto birbi! E chi sa, quella povera figliuola di Alberada!... Mi dice il pensiero che poco fa noi la calunniavamo. Era così buona, così rassegnata.. no: non si dimenticherà così senza rincrescimento del suo vecchio Oddo, non fosse altro! Partì piena di una fiducia che sembrava inspirata da Dio. Mi si stringe proprio il cuore quando vi penso. Se non mi danzassero sessant'anni sul capo, direi che ne sono innamorato fradicio. Oh! sentite a me; mangiate: ella tornerà.

—Il mio partito è preso, Oddo. Domani mi vado a dare in braccio all'arcivescovo di Ravenna. Non sai tu che colui mi è fratello, messer conte?

—Lo so: me lo ha detto più di una volta Alberada.

—Ebbene, Guiberto è generoso—almeno lo era. Mi getterò in braccio a lui, ed onta sia a questo infame popolo romano che abbandona il suo padrone, onta a tutti i codardi re della terra, che sopportano l'umiliazione di colui che rappresenta il re dei re; e che è loro signor suzzerrino.

—Ma davvero dunque voi volete commettere questa minchioneria?

—Chiamala come vuoi, Oddo, sono in dovere di farla. Dovrei dar conto a Dio se altrimenti mi conducessi. Hai capito? dovrei darne conto a Dio che ha detto: Conserva te stesso—e cadrà sul vostro capo tutto il sangue del giusto che sarà versato sulla terra.

—Giacchè dunque in questo affare vi è entrato di mezzo Iddio, bisogna pensare come cavarcene. Per tutti i diavoli! Chi avrebbe pensato che Dio potesse venire a ficcare il naso in una scodella di cuoio bollito, ed in una rocca assediata! Ma giacchè la cosa sta così, si farà come voi dite. Però dovete lasciarvi regolare da me che m'intendo meglio di queste cose, e mi prometto di non farvi fare bestialità e codardie. La faccenda si condurrà con decoro e prudenza. Restiamo dunque fermi su ciò, e ci penseremo domani.

Ed in effetti, avendo Oddo il domani trovato risoluto Gregorio nel proposito di uscir dal castello, alza pennone bianco, e salito sulle mura dei baluardi dimanda a parlamentare. Ben presto si presenta un araldo dell'arcivescovo. Al quale fatto intendere che e' voleva andare ad abboccarsi con lui onde rendere la fortezza, l'araldo si reca al palazzo di Laterano, e torna subito con la risposta, che papa Clemente III dava sicurtà sulla sua parola per la vita e la libertà del parlamentario, ed al palazzo lo aspettava.

Oddo dimanda che queste promesse Guiberto mettesse in iscritto, e che per lui guarantissero, con la propria firma, anche Ulrico da Cosheim, Baccelardo e Goffredo di Buglione. Al che avendo assentito tutti, l'araldo riviene con la pergamena così foggiata, cui Oddo, da star dalle torri; tira su per una cordicella, e porge a leggere a Gregorio. E perchè ogni cosa andava in regola, il castellano esce, facendogli chiudere alle spalle la postierla, ed al palazzo di Laterano si conduce.

Una folla immensa di popolo e di soldati si strinse a far ressa intorno al castellano, curiosi di vedere da vicino un sì famoso uomo, che solo, con una mano di vecchi balestrieri, aveva saputo tener fronte a tanta truppa, e solo non cedere, mentre tutta Roma soggiaceva all'oste tedesca. E davvero che ognuno maravigliava, segnatamente la marmaglia, perocchè corto, smilzo e laido era il castellano. Così che gliene dicevano attorno delle belle e delle curiose. Ma Oddo non curava nè punto nè assai il cincischiare che gli facevano addosso, perchè in quel momento tutt'altro gli girava pel capo. La folla però cresceva anche peggio presso la dimora dell'arcivescovo. E non vale il dire se i soldati usassero i poderosi argomenti dei calci delle lance per tenerla addietro. Ma la serra aumentava, volendo ognuno guardarlo in viso e dir la sua; chè tra le plebaglie curiose per sè, le più curiose e facete son quelle di Napoli e di Roma. E più di tutti nella calca si addentrava un romeo, il quale, malgrado le punzonate ed i gomiti ne' fianchi che più di una volta gli mandarono manco il respiro, giunse fin presso al castellano, sì che potè zufolargli all'orecchio: Resistete!

E gli cacciò in mano una cartuccia ripiegata.

À quella voce il castellano si volge incontanente, facendo un salto: ma perchè stava per metter piede nella corte, una mano di soldati respinge il popolo a furia di percosse, ed ei si trova divelto dalla persona cui voleva riconoscere. La voce però era la sua; la carta chiudeva già in grembo; ed il consiglio di mantenersi fermo giungeva opportuno e gradito. Oddo cangia di un tratto il suo ultimatum.

Non è a dirsi se l'arcivescovo di Ravenna ed i caporioni dell'esercito di Enrico lo stessero ad attendere. Fu ricevuto per ogni attestato d'onore e di riverenza, come a tant'uomo convenivasi, e come coloro, prodi e generosi anch'essi, solevano verso chi la loro stima meritava. Oddo non si perdette in molte parole. Li ringraziò delle accoglienze cortesi e disse come egli non venisse già per cedere il castello, che avea avuto in consegna pel senato e pel popolo romano e che a costoro soli dovea rendere quando a lui, conte Oddo da Nemoli, sarebbe sembrata ora convenevole; ma per patteggiare la dedizione di papa Gregorio. Un lampo di gioia sfolgora nel volto a Guiberto. Di ogni passata ingiuria e di ogni durezza di Ildebrando e' si sentiva di già soddisfare. Risponde quindi che cedeva a tutte le condizioni onorevoli, col suo grado e con le rispettive posizioni conciliabili, e che ne rimetteva la proposta a lui stesso, conte Oddo da Nemoli, come colui che meglio d'ogni altro sapeva quali fossero i debiti di cavaliere e di soldato. Questo tratto di cortesia e di confidenza imbarazza Oddo. Uomo d'onore, egli conosceva fin dove le sue pretensioni potevansi estendere senza aver taccia di impudente o di sciocco. Dimanda perciò, prima di tutto, che, quanto si sarebbe convenuto rimetteva all'approvazione di Gregorio stesso—anche per aver modo di far leggere quel benedetto scritto datogli da Alberada. Poi chiese: 1. o al papa risparmiata vita e libertà egualmente che a tutti i suoi proseliti; 2. o la causa dei due pontefici è dell'imperatore discussa da venti vescovi e da venti baroni, scelti quindici dall'imperatore Enrico, quindici da lui, Gregorio, e dieci da Guglielmo il conquistatore d'Inghilterra, come re neutrale; 3. o infine, la città di Roma, fino alla decisione finale del giudizio dei commissari, stabilito a Torino pel dì dell'assunzione della Vergine di quell'anno, sgombrata da ambo i partiti e lasciata al governo libero del senato e dei patrizii romani.

I due primi patti furono accettati incontanente; l'ultimo, siccome riguardava ancora l'imperatore che avea occupato la città, e l'imperatore non vi era, ributtato. Del che, essendosi contentato Oddo, che già bruciava leggere la scritta di Alberada, e che sentiva ancora risonarsi l'orecchio di quel resistete, si stese protocollo, firmato dall'arcivescovo e dai capitani di Enrico, ed Oddo al castello ritorna per ottenere l'assenso di Gregorio.

VIII.

Tal fean de' Persi strage: e via maggiore La fea dei Franchi il re di Sarmacante, Ch'ove il ferro volgeva o il corridore Uccidea, abbattea cavallo o fante.

Gerus. Liber.

«Beatissimo padre, diversi pericoli del viaggio mi hanno ostato giungere molti giorni prima, e confortare il vostro coraggio. Roberto Guiscardo assedia Aversa con esercito, di trentamila fantaccini e settemila cavalli, perchè il principe di Capua, Giordano, gli ha messi ostacoli al passaggio. E' sarebbe capitato qui otto giorni più presto, se non avesse dovuto ridurre a soggezione Oria, e distruggere Canne, ribellate. Arriverà sicuro domani o diman l'altro, perchè lascerà manipolo di truppa per l'assedio di Aversa, se innanzi non si renda. Tenetevi saldo. Molte altre cose vi dirò a voce, dove che al conte Oddo riesca questa notte aprirmi la postierla del castello, e la vigilanza delle scolte non me lo impacci. Mi presenterò alla porta sulla mezzanotte varcata, e farò segnale di tre colpi: indi darò voce. Dio mi faciliti il modo di farvi pervenire questi avvisi. Benedite Alberada».

Non appena Oddo ebbe udita leggere questa scritta che cominciò a saltare come ragazzo per la gioia. Gregorio restò mutolo, nè segno alcuno di commozione dal suo volto trasparì.

—Lo diceva io, gridava il castellano fregandosi le mani gaudioso, lo diceva io che quella brava figliuola non poteva mancare? Mi porti il diavolo se non è dessa la più santa delle figlie d'Eva! Recarsi fino in Grecia! Andare a supplicare quel birbone che la ripudiò come la donna di un bovaro! Rinunziare a tutto! Affrontare Dio sa quanti guai per due... vale a dire, il tristo siete stato voi, padre beato, che le ne avete date a sorbir delle belle. Io ho fatto quanto ho potuto per addolcirne il destino. Ebbene, mi affoghi l'inferno, se da ora innanzi non la tratterò come una regina. Povera creatura! povera creatura! Ecco, maestro mio, se non è vero che il mondo è storpio per due terzi, e che le cose camminano a sproposito.

—Non lo avrei mai creduto! sclama infine Gregorio già fuori di sè da un pezzo. Due che ebbero più ingiustamente mali da me? Non lo avrei mai creduto.

—Mi porti il diavolo, se non penso anch'io così. Ma la cosa è proprio come ella la dice... però se non avete dimenticato di leggere. Per me già non mi è potuto mai entrar nella memoria quell'affare di sillabe e di lettere. Che affare, dannato! Ho domati cavalli, ho addestrati falconi, ho difese piazze e castella, ho affrontati nemici, Dio sa quanti! e quattro birbe di lettere ebbero a farmi perdere il cervello e la pazienza. Mai più, mai più. Andiamo adesso: che dobbiamo rispondere a quei bell'imbusti di laggiù? Perchè qualche cosa di sicuro dobbiamo rispondere—non fosse che per mostrarci venerati cavalieri.

—Ecco, riprese Gregorio, con tuon fermo, rilevando la testa, componendo il sembiante ad aria severa ed altera: farete loro sapere che sbrattino la città; che l'infame antipapa si constituisca nostro prigioniero nel palazzo di Vaticano; che ci diano ostaggi di sicurtà; e che gl'invasori di Roma si obblighino di aspettare il nostro lodo sulla penitenza che vorremo dare loro per aver osato avvicinarsi a mano armata alla sede di Pietro. A questi, e non altri patti, noi usciremo di qui. Andate, e fate saper loro i nostri voleri.

Oddo lo guarda in volto di una maniera significativa e curiosa, poi, crollando il capo e mettendosi le mani alla cintura, soggiunge:

—Sentite, messer papa, siamo stati alcuni mesi insieme e mi dispiace che non mi abbiate ancora conosciuto. Codesta è risposta di un poltrone e di un traditore... non corrugate il ciglio, perchè con me già non caverete nulla, e bisogna che la cosa io ve la spippoli come la mi frulla pel capo. Quella risposta dunque io non posso dare, perchè io sono onorato cavaliere, e non mi piace pescarmi giusto alla vecchiaia il caro epiteto di vituperato e di folle. Uditemi bene dunque: o cangiate proposito, ed io recherò a quei valenti baroni la ragionevole vostra intenzione, ovvero, e farete meglio, salite voi lassù dei merli e dite loro scomuniche, perchè io me ne lavo le mani come il conte Pilato.

Gregorio fulmina di terribile occhiata l'ardito castellano, e senza aggiunger altro sale sulla torre, strappa il bianco vessillo, ed avvicinatosi al merlato lo precipita giù nella fossa lacerandolo, a vista degli araldi dell'oste che aspettavano risposta dal conte Oddo. Un grido di furore scoppia fra tutta la gente, che, guardando al castello, intorno adunavasi, ansiosa vedere una volta terminata una lite che di sì aspro governo travagliava la città. Gli araldi corrono al palazzo Laterano onde tenerne conto papa Clemente ed il consiglio dei baroni. Ma quivi e' trovano le cose già mutate. Imperciocchè un corriere del principe di Capua, giunto in quel punto, veniva a prevenire dell'imminente arrivo del Guiscardo. Quindi nulla più si badava alle spavalderie del cattivo Ildebrando.

Roberto era aspettato, e dal dì che giunse Rolando già considerevoli apparecchi per debitamente riceverlo approntavansi. Non si pensava però ch'e' sarebbe venuto così tosto, nè che il principe Giordano gli avesse opposta così corta resistenza. Roberto calcolò meglio le sue mosse, e marciò sopra Roma anche più presto di quel che Alberada aveva promesso al pontefice.

I baroni, partigiani dell'imperatore e dell'arcivescovo di Ravenna, tennero consiglio. Si riassunse la somma delle cose, si fe' censo delle truppe, e si stabilì un piano di difesa, giusta i consigli del Buglione, non per anco in istato di vestire le armi. La città si pose in punto d'armi, chiuse le porte, guarnite le mura ed i forti, e si attese l'oste del Guiscardo.

Il senato ed il popolo romano dall'altro lato, imbestialiti contro Gregorio che chiamava loro addosso novello guaio, dopo averli involuti in quattordici anni di sventure e di mine, risolsero ad ogni modo non volerne più di lui, e difendersi contro il duca di Puglia. Così aggiustate le cose, con minor tumulto di quel si sarebbe paventato in simile caso, si distribuirono pei rioni e sui baluardi.

In tutta la giornata non comparve alcuno, nè alcuna cosa si seppe dell'inimico. Sul far della sera però capitarono spie a spron battuto ed annunziarono, il Guiscardo avere alzati i padiglioni verso Velletri, sicchè non prima del meriggio del domani avrebbe potuto presentarsi sotto Roma. Malgrado la notizia, Guiberto ordinò alle truppe veglia d'armi sulle mura, dove accesero moltiplici fuochi, sia per iscorgere se novità accadesse laggiù nel piano, sia per dissipare la virulenta mofeta che con le tenebre si stendeva qual fitto nebbione sulla città. Sano consiglio ed accorto. Imperciocchè Roberto aveva solamente simulato di passare la notte a Velletri, ma, come le tenebre occuparono intiero il paese, egli aveva comandato togliersi il campo e cavalcar sopra Roma. Ed in effetti vi voleva ancora un tantino per l'alba, quando quei che vigilavano sugli spaldi s'avvidero di lui, e chiamarono alle armi.

Allo spuntare del sole già il Guiscardo spiegava la sua truppa verso porta Latina.

Noi non descriveremo per minuto i fatti di questo vigoroso assalto ed ostinata resistenza, per tema di fastidir quelli dei nostri lettori che non troppo bene se la dicono con la storia, e perchè ne abbiamo abbozzate veramente a sufficienza di battaglie e di opere di guerra. Basti dire, che Roberto Guiscardo, Sigelgaita coi Saraceni di Lucera cui aveva tolti a condurre, e Ruggiero, e Ben Hamed da un lato; e dall'altro Rolando, Ulrico di Cosheim, Guiberto, Baccelardo, e quanti abbiam veduti caldeggiare per Enrico, fecero miracoli di valore. Anzi Baccelardo e Guiberto, non paghi del travaglio che davano al nemico da star sulle mura, apersero porta Asinaria, oggi Lateranense, ed uscirono, per forte caricare i Saraceni ed i cavalli condotti da Ruggiero, altro figliuolo di Guiscardo. Quel fatto pose la gioia nel cuore di Roberto, che ormai vedeva i suoi vacillare; il Buglione sgomentò.

Roberto ordinò ai baroni calabresi ed ai cavalieri normanni serrarsi ad ordini spessi, perchè allora la cavalleria non formava mai più di una fila sola e rarissimamente due, non volendo, come signori, alcun combattere dietro l'altro; e si avanzò per pigliare la pugna. Il Buglione mandò più volte a scongiurare Baccelardo e l'arcivescovo che con lenta e combattuta ritirata rientrassero nella città. Ma questi, impegnati in caldo attacco, non potettero secondarlo. Goffredo cangiò piano di combattimento. E' spiccò Rolando coi cavalieri romani a rinforzarli; ma previde già che il nemico sarebbe penetrato nella piazza. Questo squadrone testeggiò i cavalieri di Roberto, ed impedì per allora che si girassero negli ordini dei soldati di Guiberto e di Baccelardo e sussidiassero i mezzo rotti Saraceni. Ulrico di Cosheim intanto coi mangani e con le frecce spazzava i Pugliesi che, accalcati a porta San Lorenzo, tentavano sfondarla; e sì maledettamente li trattò, che sbrancati corsero a cercare asilo dove più calda ferveva la mischia. All'arrivo di costoro, la cosa non bilicò più. Roberto caricò di più vigore. I soldati di Rolando piegarono, e rinculando sempre, cercarono ricovero nella città. Il duca vi si cacciò con essi.

Dall'altra banda, Ruggiero fu tratto da cavallo mezzo morto per mano dell'arcivescovo. Questi, fatto segno di Ben Hamed e di Sigelgaita, indietreggiò, opponendo sempre la fronte e tempestando colpi, sino a che dai suoi non fu trascinato dentro. Baccelardo, costretto a retrocedere, perchè gli avevan spaccato l'elmo sulla testa, spezzata la spada, morto il cavallo, e portato via lo scudo, rottesene le guigge dando col punteruolo di mezzo sul capo ad un Saraceno che lo travagliava col pugnale. Per lo che, entrati dentro Roma, confusi assalitori ed assaliti, più feroci badalucchi principiarono. Non crocicchio, non strada, non piazza mancava di zuffa. Nelle corti stesse, nei chiostri, nelle chiese, e duelli a corpo a corpo e mischie in molti inferocivano. E nè i Romani cedevano, nè quei del duca stancavansi, avvegnachè considerevolmente menomati; tal che forse in Roma avrebbero trovata la tomba se più a lungo fosse durato il giorno.

Ben Hamed però, vedendo che non si sarebbe venuto mai a capo di domare gli ostinati Romani, immaginò distoglierli dalla difesa, e comandò ai Saraceni d'incendiar la città. Non appena l'emiro aveva profferito l'ordine, che questi distribuironsi a piccoli gruppi, inondarono i quartieri, e coadiuvati dai Calabresi e dai Pugliesi, già rotti al saccheggio, appiccarono fuoco a più punti di Roma, e segnatamente a San Giovanni a Laterano. Il vento, mosso da poco, aumentò le fiamme e le propagò. Sicchè, in brev'ora, quanto ergevasi dal Laterano al Coliseo è tutto ridotto in cenere. I Romani allora, per salvarsi dal fuoco e spegnerlo, lasciano di osteggiare la truppa del Guiscardo, e quei soldati, non avendo più a difendersi, si sciolgono ad ogni maniera di rapine e di sacrilegii, non rispettando tempii, non chiostri, non l'onore delle donne, non l'innocenza dei fanciulli, non la canizie dei vecchi. Roma mutasi in sentina di ogni delitto e di ogni oltraggio al pudore ed alla religione.

Gregorio intanto, come Nerone, dall'alto delle torri di Castel Sant'Angelo contemplava l'esizio e la mina della sua città.

Ritto fra due merli di una torre, immobile come fosse pietrificato, l'occhio fisso, le braccia tese ed irrigidite, il capo scoverto, perchè un buffo di vento gli aveva portato via il berretto, i capelli delle tempie rizzati come fili di argento, la lunga barba arruffata ed inturbinata dalla brezza, e' sembrava quivi non un uomo ma il ministro di quelle divinità egizie ed indiane il di cui sguardo è incendio, il di cui alito è peste, il di cui gesto è sterminio. La sua potenza visuale era ampliata. Egli vedeva tutti i singoli particolari di quel terribile dramma; vedeva dove l'aquila non avrebbe più nulla distinto. L'anima esuberava. La sua tonica bianca si gonfiava e s'agitava sotto il soffio della tramontana, che aveva cominciato auretta e si era ingagliardita a turbina. Dorato, e calmo all'alba, il cielo si era andato a poco a, poco; caricando di rosso, si che sarebbesi detto un'aurora boreale. Tutti i comignoli di Roma, a quel riverbero, sembrano fiaccole immense che illuminano una città involta in un bianco sudario di nebbia come uno spettro che vien fuori da una tomba. Quella nebbia però si era a poco a poco anch'essa sminuzzolata a fiocchi, a sprazzi, a lembi che assumevano sotto l'azione del vento mille forme fantastiche, che grondavano sangue, così indorati come erano dal sole, e che cozzavano in cielo come gli uomini cozzavano sulla terra. L'aere rimbombava di un rumore indistinto, incalzante, vertiginoso come l'ululato di un mostro che agonizza.

Però Gregorio non badava al cielo, non badava alla natura. La terra lo attirava magneticamente, E' non diceva parola. La sua fronte si alzava serena; il suo volto per niuna commozione turbavasi, Oddo intanto correva su e giù lo spianato gridando: Miseri cittadini! Quale giorno doveva io vedere prima di morire! Nè meno costernata di costui mostravasi Alberada, la notte precedente ammessa dentro. Ella neppure parlava, solo si torceva le mani, genuflessa, gli occhi ora rivolti al cielo, ora alla desolata città. Un rivolo di lacrime tacite le solcavano le guance. E così questi miravano, al riverbero delle fiamme, Roma struggentesi in un nuvolo nero fumo che l'avvolgeva a volta a volta, e che più spesso, spazzato dal vento il torbido velo, si mostrava nel suo pieno squallore col sole che infine, verso sera, placido e bello tramontava, indorando le cupole delle chiese. Quand'ecco che Alberada gitta un grido da spezzare il cuore, si alza sollecita, seco trascina Oddo malgrado di lui, e viene giù alla porta del castello.

IX.

Piacemi, cavalier, che Dio temendo Porta lo nobil suo ordine bello, E piacemi dibonare donzello Lo cui destino è sol pugnar servendo.

Guittone d'Arezzo.

Due cavalieri, Roberto e Sigelgaita, cavalcavano verso il ponte San Pietro per isboccare alla porta di castel Sant'Angelo. Tutto ad un tratto odono alle spalle uno scalpito di due altri guerrieri che, a briglia sciolta, galoppavano. Immantinente Roberto, che andava dietro, volge la testa, per guardare chi fossero, e vedendo che l'altro gli accennava della mano di sostare, gira il cavallo e subitamente si trovano di fronte.

—Io sono Baccelardo, grida il cavaliero alzandosi con una mano la visiera dell'elmo. Roberto Guiscardo, fanciullo, nelle sale di Melfi, ti detti un guanto e ti consigliai a conservarlo perchè sarei venuto a ridomandartelo uomo. Ora tel ridomando; e qui, perchè il tempo è venuto, perchè lungamente ho ritardato, mi renderai ragione dell'infame vitupero che facesti alla tua donna Alberada.

Baccelardo, dopo essere stato così pesto e disarmato, rigettato dentro dall'onda dei suoi che vi cercavano tardo scampo, aveva fatti novelli sforzi, e con cento opere di valore tentato cacciarne l'oste normanna. Ma avendo infine compreso che vanamente si arrabattava a tal uopo, che irreparabilmente Roma era perduta, risolse attaccare il suo destino a quello della signora del mondo, e fare scoccare l'ora della sua vendetta. Rientrò quindi nel suo alloggiamento onde provvedersi di armi e di destriero.

Non appena egli vi pose piede, che il suo paggio Corrado, dominato fino allora da mortale ansietà percorrendo la stanza a lunghi passi, gli si gitta addosso e mille domande gli volge se fosse ferito. Baccelardo risponde alle amorevoli carezze di questo bel giovanetto per un tristo bacio sulla fronte. Poi muta il suo giaco, squarciato in più luoghi, prende nuova rotella, nuova spada e lancia, e si fa allacciare le correggie dell'elmo. E tutto senza dir parola, con una solennità ed una freddezza, che agghiacciava il cuore del sollecito damigello. Però come il suo armamento fu compiuto, Baccelardo ordina ad uno scudiero d'andargli a preparare il suo destriere Licht, il quale, perchè troppo vecchio, aveva risparmiato la mattina, ben prevedendo avrebbe avuto bisogno di cavallo più leggero e più vigoroso. In quel momento decisivo della sua sorte, e' non volse scompagnarsi dal più fedele amico che unicamente lo aveva amato e tanto... prima che il cielo gli avesse messo a fianco il tenero damigello. Questi, durante quegli apparecchi, divorato da ineffabile smania, non aveva profferita parola. Ma come vide che Baccelardo, dopo avergli gittato uno sguardo—uno sguardo che racchiudeva tutta una storia di passione—si allontanava senza neppure confortarlo del consueto bacio sulla fronte, gli corre dietro frettoloso e cadendogli ai piedi grida:

—Vuoi farmi dunque morire?

Baccelardo lo solleva dal suolo, e stringendoselo al petto con una ineffabile tenerezza, con una voluttà disperata e baciandogli replicate volte il sembiante, suo malgrado una lagrima gli cade, ed il pallido volto del contristato giovane bagna.

—Dove vai dunque? questi dimanda. Ti ho veduto tante e tante volte andare a combattere e mai il cuore mi si è stretto così aspramente; mai tu mi hai lasciato con quell'aria mesta e funerea. Di', Baccelardo, in nome di Dio! dove dunque vai tu?

—Vado incontro al mio destino, Guaidalmira. Non mi hai veduto mai correre alla pugna di questa ciera abbattuta, perchè mai a simili pugne sono andato. Ora si deve decidere. Egli è qui, egli mi deve un conto; vado a trovarlo, vado a cercarglielo.

Guaidalmira, perchè dessa era il paggio Corrado il quale aveva seguito Baccelardo fra tante sventure e pericoli; Guaidalmira, che conosceva tutta la storia di lui, non fa più motto. Solo dopo un minuto di silenzio risponde:

—Ebbene, va pure. Però non puoi negarmi ch'io t'accompagni.

—A che pro, Guaidalmira?

—Noi so io stessa. A nessun pro per certo. Ma voglio accompagnarti; e tu non puoi rifiutarmelo.

—Ma sai che s'io ti vedessi, se io ti vedessi impallidire e tremare, perderei ogni equilibrio di mente, e forse...

—Tu non mi vedrai. Mi metterò un morione con la buffa inchiodata. Ma voglio accompagnarti; voglio essere presente allo scontro terribile; il tuo destino ti porta... alla vittoria. Voglio, debbo perciò esserci anch'io. Ricordati che a Canossa accomunammo il nostro avvenire; accomunammo la nostra sorte. Non possiamo più, o almeno non è questo il tempo di separarci.

—E impossibile, dopo alquanto di silenzio soggiunge Baccelardo. Tu devi restare qui, per te, per me lo devi. In qualunque altro instante, non avrei esitato a condurti meco; ma in questo...

—Ebbene, giacchè vuoi che io resti qui, va pure... va. Ma diamoci almeno un addio. Dà un addio alla tua Guaidalmira che tanto, che te solo ha amato. Non la vedrai più. Essa morrà qui, te lo giuro.

Baccelardo la guarda attentamente, e vedendo che ella era risoluta a non so qual partito estremo, con un sospiro balbetta:

—Vieni dunque: era deciso così! Se vi è un Dio però, se vi è un Dio che pesa e guarda i fatti degli uomini, sa a cui dare la vittoria in questo momento.

Guaidalmira sorride amaramente. Poi, presagli la mano come per ringraziarlo dell'accordatole favore e baciatagliela, l'esamina attentamente, e una lagrima vi lascia sopra cadere. Baccelardo l'abbraccia un'altra volta, ed in un baleno, messi a termine gli apparecchi della partenza, escono per Roma onde imbattersi nel Guiscardo.

Ed eccoli l'uno a fronte dell'altro, vicino al ponte San Pietro, di rincontro a Castel Sant'Angelo, sotto gli occhi di quell'Alberada per cui Baccelardo dimanda l'abbattimento.

All'aspetto di quest'uomo, a quella protesta, Guiscardo si scuote. Sigelgaita ritorce anch'essa il cavallo, e come se non fosse più cosa animata, immobile resta a guardare, vicino ad un pilastro del ponte. Il turbamento di Roberto non dura molto. Egli porta la mano al suo fianco, e dal cinturino della spada spicca un guanto che a Baccelardo presenta.

—Baccelardo, ecco il tuo guanto, egli dice. Gli è però mestieri che sappi io non battermi più per una causa di cui Iddio mi ha fatto conoscere l'ingiustizia. Va dunque in nome dei santi, perchè mi dorrebbe farti male.

—Ti credo, risponde Baccelardo; ebbene, giacchè confessi che indegnamente facesti vitupero alla contessa Alberada, io ti apprezzo per quel nobile cavaliero che sei. Battiti quindi meco per gli Stati del padre mio, che infamemente usurpasti ed infamemente ritieni.

E così favellando gli toglieva dalle mani il guanto, cui dava a custodire a Guaidalmira, si calava la visiera, e ritraendosi metteva in resta la lancia per dar principio al combattimento.

Fu allora che Alberada, dall'alto della torre li vide, e riconosciutili dalle divise, trascinandosi furiosa il conte Oddo alla porta, lo costrinse ad aprire, e si fece metter fuori.

Sventurata! quale fatalità la trascinava!

Non appena ella fu alla testa del ponte, all'altra banda del quale quei due furibondi battagliavano, che di voce affannata si pose a gridare:

—Arrestatevi, arrestatevi, in nome di Gesù Cristo!

A quella voce Sigelgaita si volge, Sigelgaita che fredda, impassibile, taciturna come le statue che si mettono sopra i sepolcri, vedeva affrontare suo marito e suo nipote, ed impegnare una pugna dalla quale uno solo o nessuno doveva tirarsi vivo. In un baleno Sigelgaita si gitta allora da cavallo come una furia. Corre ad Abelarda, l'abbraccia per un amplesso da soffocarla, da cacciarle nei reni le dita delle manopole di ferro, la trascina, la gualcisce, la contorce, la difforma, le fa scricchiolare tutte le membra, l'arruffa come un cencio—e tutto in un attimo, di un solo moto—si accosta ai balaustri del ponte, appoggia sul petto di lei il suo mento, la spezza in due nella spina, e la precipita nel Tevere. E tutto ciò, in meno di tempo che non mettiamo a narrarlo. Alberada gitta un grido di morte, e sotto le acque dispare. Sigelgaita l'aveva veduta a mano a mano coprirsi nel volto di pallore mortale, l'aveva udita mettere quel gemito terribile, l'aveva veduta precipitare dall'alto, la vide tuffare nell'onde, e non si era scomposta nel viso, e dai parapetti del ponte non si era allontanata. Tutto ad un tratto quella sfortunata ricompare a galla ed un palo della diga l'accrocca della tunica e di faccia verso il cielo la capovolge.

—Non sei ancor morta? grida a quella vista Sigelgaita come una tigre; e cercando attorno, non scorge anima viva, non vede oggetto da poterle lanciare sul capo, non trova pietre, non trova nulla, null'altro che un cadavere innanti ai piedi di un cavallo, un cadavere coperto di ferro e di sangue che fumava ancora. Ella lo trascina fino al ponte; poi, piegandosi sopra di lui, lo afferra di ambo le mani, lo solleva, e pigliata la misura, lo lascia cadere sul capo d'Alberada, ritenuta sempre dal lembo delle vesti ad un pinolo di palizzata. Il cadavere non era giunto ancora giù, che di sopra il suo capo Sigelgaita sente passare un cavallo di slancio, il quale egualmente nel fiume si precipita.

Quel cadavere era Baccelardo: quel cavallo Licht.

Un altro cavaliere, cui ella non aveva scorto dapprima perchè caduto brancoloni sotto una scala del ponte, vi si appressa allora per avventarsi ancor egli al medesimo salto. Sigelgaita lo rattiene. Era Guaidalmira.

E Gregorio tutto contemplava dall'alto delle torri, e sul suo volto segno di commozione non appariva. Ritornava il padrone di Roma!

Disgraziato! Godi pure, le tue gioie son numerate.

La notte intanto era compiutamente caduta. La notte di Roma, di allora in poi, divenne più tenebrosa. Saccheggiata e spogliata di tutte le sue ricchezze, vituperata nell'onore, bruciata negli edifizii, decimata dal ferro di cittadini, desolata di tempii, vedovata dal bando dei migliori suoi uomini, dopo quel giorno, l'antica città restò pressochè deserta, e la popolazione si trasferì tutta intiera al di là del Campidoglio—in quello spazio che altra volta formava il Campo di Marte.

Quella sera stessa la duchessa Sigelgaita riceveva a segreto colloquio, nella sua camera da letto, Rolando da Siena.

LIBRO OTTAVO TRAMONTO

I.

Sedea quel superbissimo signore Sovra un trofeo di strali, e l'empia morte Gli stava al fianco, e la contraria sorte E 'l sospiro e 'l lamento appo il dolore.

Io mesto vi fui tratto e prigioniero; Ma quegli allor, che in me le luci affisse, Mise uno strido di dispetto, e fiero,

E poscia aprì l'enfiate labbra e disse: Provi il rigor costui del nostro impero.

Redi.

Appena l'arcivescovo di Ravenna comprese che Roma era irrevocabilmente perduta per gl'imperiali, si raccolse intorno quel residuo di Alemanni e di Italiani che nel badalucco potè raggranellare, e stretti ed armati, a stendardo sventolante, uscirono per porta Toscana. Una parte dei senatori e dei patrizii romani col favor della notte si rifugiò in Castel Sant'Angelo. Ne cacciarono via Gregorio. Provvidero, per quanto potè tornar loro, scorte ed armi. Ed aspettarono sicuri che il furor prima degl'invasori fosse ammansito. Questo furore però e questa libidine d'oro e di sangue nella truppa del duca non si spense così tosto; nè desso per due dì fu veduto. Colpito nel cuore dalla doppia morte della contessa Alberada e di Baccelardo, dal rimorso travagliato, da incognito, segregato e romito visse nel monistero di San Paolo. Però al terzo giorno comparve, e recatosi al Vaticano trovò Gregorio, nel mezzo dei suoi capitani, intento a proscrizioni ed a scomuniche. Vanamente Gregorio aveva provato destare il suo partito. Non cardinale, non vescovo, non prete, non nobile, non cittadino attorno a lui volle recarsi. Tutti lo accagionavano di tanto danno; tutti lui incolpavano se all'ebbrietà del vincitore non si metteva freno. Sicchè più del Guiscardo, più del saraceno stesso, lui abborrivano e come traditore del suo paese dannavano a morte.

Al terzo giorno di quell'orgia di sangue però il popolo si scosse. Cencio, il duca di Cosheim, che dentro Roma con un manipolo di soldati tedeschi si era fortificato nel septifolium, alcuni patrizii ed Oddo s'accorsero dell'ammutinamento, ed uscirono dalla mole di Adriano. Indi stuzzicando i più timidi, infiammando i più audaci, allestirono conventicole, raccolsero, aizzarono, armarono il popolo, ed uniti in grossi drappelli piombarono addosso alla truppa del duca di Puglia.

La colsero alla spicciolata, avvinazzata, stanca, scarsamente armata, indebolita dalle veglie e dalle libidini su per lupanari e per chiese. E ne fecero così grave macello, che Roberto dal suo torpore si destò. Il conte Oddo infrattanto con un pugno di arditi transteverini, ed il duca Ulrico di Cosheim con i Tedeschi, avevano sbrattato palazzo Vaticano della guarnigione calabrese, e vi assediavano il papa. Guiberto, avvisato, con rinforzi era per rientrare nella città. Voci altissime per chiassi e per piazze levavansi.—Morte a Ildebrando, morte a Guiscardo! I Saraceni ed i Normanni, venuti alle prese nel Foro con certe bande comandate da Cencio, fuggivano. Un subbuglio, un imprecare, un romor d'armi, un sonar di campane a martello, un assassinio continuato, senza riguardi di luoghi, di sesso e di età.

Guiscardo comprende di un lampo a qual pericolo si trovasse, ed a qual repentaglio stesse per mettere vittoria, vita ed esercito. Ordina quindi a quei capitani suoi, che gli venne fatto poter accozzare di subitamente richiamare i soldati alle bandiere e di suonare a raccolta. Ed ei si reca dal pontefice alla testa dei fedeli Normanni, meno degli altri sbrancati alla rotta. Essi non ebbero a far poco per aprirsi il cammino. Spazzano Vaticano dagli ordini fitti che lo assediano e già ammaniscono tormenti da breccia e scale per penetrar dentro ed impossessarsi del pontefice. Combattono contro i soldati dei Cosheim e di Oddo; penetrano nel palazzo.

Gregorio non si era per nulla turbato, forse non si era neppure di nulla avveduto, e scriveva lettere a tutti i legati suoi, sparsi per l'orbe cristiano, onde annunziare il trionfo del Signore. E' non curava l'insurrezione del popolo, non il pericolo che correva l'esercito liberatore, non il massacro di tante vite. Godeva del trionfo; godeva dello sterminio dei nemici suoi. E non era sazio, non stanco di additare novelle vittime al supplizio ed alla proscrizione. La vittoria lo aveva ubbriacato. Viveva in un'atmosfera che tutto, umanità, religione, carattere gli faceva obbliare. Giunge a tempo Roberto per destarlo da quel sogno, o meglio da quel deliramento di sangue.

—Santo padre, prende a dire il Guiscardo, è ora finalmente di far desistere da tanto eccidio, e partire.

—Così presto! sclama Gregorio sorpreso e scontento.

—Non è già presto, santo padre, risponde Roberto, gli è anzi tardi, forse troppo tardi perchè ci resti ancora scampo a fuggire. Non è momento di lusinghe adesso.

—Fuggire, mormora Gregorio rizzandosi ed aggrottando le ciglia. Temereste voi forse questa sgualdrina di plebe codarda e venale, messer duca? Egli è impossibile!

—Io non sono un testardo che ha perduta la ragione, santo padre, per dire che non temo nè gli uomini, nè Iddio, continua Guiscardo senza occuparsi dell'atteggiamento del pontefice. Io ho senso abbastanza per comprendere che, se resto a Roma solamente alcune altre ore, mi sarà tagliata la ritirata, ed il mio esercito ed io corriamo pericolo di essere passati a fil di spada. Ecco tutto. Il popolo è ammutinato; è corso alle armi. La disperazione muta in eroi anche i poltroni. È ora di partire.

—Voi pensereste dunque?...

—L'ho detto, di uscire di Roma senza indugio. Ho comandato ai miei capitani di raggranellare la truppa sparpagliata. Ridotta agli ordini, voglio andar via da me, con volontaria e decorosa ritirata, prima che sia costretto a fuggire come cacciato e come vinto.

—E così poco doveva dunque durare il trionfo d'Israello? mormora Gregorio alzando gli occhi al cielo.

E Guiscardo:

—Io non so, santo padre, se Israello abbia trionfato per poco; so che del trionfo ha abusato. E da lunga sperienza conosco, come la vada sempre così, dove menomamente si rallenti la briglia al soldato. Noi non ci riconcilieremo mai più questo popolo.

—Vorreste dunque lasciarmi in mano ad una plebe rivoltata, corriva al sangue ed alla vendetta, messer duca?

—Io no. Io penso invece che vi condurreste saviamente, santo padre, a venir meco, e dare eterno addio a questa città: perchè voi, anche per lo innanti non ben gradito, ve ne avete distolto l'amore per sempre.

—È impossibile!

—Udite per poco come essi gridano, morte a voi ed a me, santo padre. Qui comincia a far caldo seriamente. Voi siete uomo di giudizio per comprendere ciò che vi convenga di fare. Io vi protesto chiaro che, fra due ore, sarò fuori le mura di Roma; perocchè io ho ancora da dar conto della vita dei miei soldati, ed essi riposano sul mio senno e sul mio onore. Partirò.

—E dovrei dunque esiliarmi, o meglio, mi esilieranno da Roma i miei vassalli, nel punto proprio che io li aveva sottomessi?

—Questo è l'errore, beato padre. Essi non sono sottomessi di niuna maniera; e ne sia prova i battaglioni che si vanno armando e rinforzando per pagarci a misura di picche e di pugnale del gastigo che abbiamo loro inflitto a misura d'azze e di lancie. Io doveva, li aveva anzi promesso ai miei valorosi soldati, questi giorni di stravizzo e di libero dominio sopra un popolo conquistato. L'ora è passata. Questo bestial popolo, che non sa nè comandare nè servire, si è riscosso. Andiamo in nome di Dio, se non vogliamo lasciarci la vita. Udite a me, beato padre; non vi restate in bocca ad un lupo affamato, irritato, con le mascelle armate di denti, e di niente meglio avido che stritolar la sua preda. Dell'esizio di Roma più che i Saraceni, i soldati e me, incolpano voi. Che sperate di più? chi vi difende?

—Andiamo dunque, risponde Gregorio, ed in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, io maledico questo scellerato popolo, che insorge contro il giusto e contro l'unto del Signore, che oltraggia il suo donno, e si ribella contro il padrone. Andiamo, io scuoto la polvere dai miei sandali, e lo lascio a bersaglio dell'ira di Dio.

E sì imprecando, Gregorio usciva col Guiscardo. Il quale nelle sale del palazzo trova Roberto di Loritello, venuto a farlo conto di aver raccozzato buon terzo della truppa nelle vicinanze del Foro, che Ben Hamed si studiava raccogliere i suoi, e che egli con una mano di cinquecento cavalli poteva guidarlo sicuro al Foro, d'onde, alla testa dell'esercito, uscire.

In effetti, quattro giorni dopo il suo ingresso a Roma, Roberto, a suono di trombe ed a bandiera spiegata, ne partiva, recandosi nel centro il pontefice Gregorio VII, tra le contumelie ed il corruccio del popolo che lo tagliava alle spalle, lo grandinava di frecce, e gli scagliava dalle finestre rottami di tegole ed altri corpi da ferire ed uccidere. Per modo che, soventi volte la retroguardia fu costretta far alto, tanto da tener testa alla plebe petulante che si avventava loro addosso furiosa e burliera.

E così Ildebrando esulava da Roma, cui per trentacinque anni aveva contristata di sue innovazioni, di sue pretensioni, col dispotismo, col renderla scopo dello sdegno di tanti nemici, coll'istrapparle il residuo di libero governo che ancora le rimaneva, con farla devastare e bruciare da eserciti stranieri, e spogliarla di ricchezze, di onore, di virtù, di brio e di valore, con imporle infine il teocratico giogo, cui da lui in poi, per sforzi che avesse fatti e molti e generosi, non ha saputo mai più togliersi. Egli ne usci corrucciato, fiero nel volto e nei pensieri, disprezzandola, maledicendola, disegnando in sua mente tornarvi, quando che fosse, come il Guiscardo vi era venuto, e punirla della ribalda fellonia. Ne usciva esecrato, schernito, vilipeso per porta Lateranense—nel punto stesso che il fratel suo, tanto perseguitato ed odiato, l'antipapa Clemente, festeggiato e tra le ovazioni del popolo vi entrava per porta Toscana.

Roberto, alla testa del suo esercito, precedeva il pontefice. Al suo fianco cavalcava la duchessa Sigelgaita, cui teneva dietro il suo novello scudiere e favorito, Rolando da Siena.

II.

Queste colte sull'Emo, Queste colte in Tessaglia erbe omicide Pieghin colui che del mio mal si ride.

Redi.

Sigelgaita procedeva a fianco del suo consorte cupa e distratta. Rispondeva a monosillabi, o non rispondeva niente affatto alle domande che questi le indirizzava—e molto meno a quelle del pontefice che, dopo aversi lasciata Roma alle spalle, dal corpo dell'esercito era passato alla fronte. Solamente di tanto in tanto Sigelgaita si volgeva al suo scudiero per dirgli ora una cosa, ora un'altra, e chiedergli conto di alcun oggetto o di alcuna persona. Il pontefice guardò in cagnesco Rolando, da lui fulminato di scomunica, ma non fece mostra conoscerlo nè rammentarsi di lui. Egli lo scorgeva in tanto favore della duchessa, altera e dispotica e comprendeva che vanamente avrebbe porte rimostranze. Nè Roberto se ne incaricò di vantaggio; consapevole dei modi di Sigelgaita. Che anzi, fino ad un certo segno si piacque aver tirato dalla sua uomo tanto ardito e tanto prode. Così che, mossero da prima per Montecassino, dove l'abate Desiderio di ogni bello accoglimento li festeggiò, e subito dopo per Salerno—allora la padrona dei mari.

Una sera il medico Guarimponto venne introdotto dalla duchessa Sigelgaita.

Da due giorni ella infermava; nè i consigli, nè la dottrina del celebre Costantino d'Africa, cancelliere del duca e dotto medico, avevano potuto convincerla che di assai poco momento quel suo malessere fosse.

Guarimponto era anch'esso uomo di grande fama e bell'ornamento della scuola salernitana, allora e poi sì rinomata. Poteva contare settant'anni. Alto della persona, cui nemmeno l'età e l'abitudine allo studio avevano incurvata, portava capelli corti e barba assai lunga, avendo conservato il costume longobardo, longobardo esso stesso e fiero da non aver voluto mai piegarsi nè agli usi, nè al dispotismo normanno, nuovi padroni di Salerno. La sua bianca barba gli scendeva profusa sul petto e con assai maestà spiccava sulla di lui tunica chermisina. Egli ostentava gravità, o meglio malinconia. Perocchè si compiaceva assicurare di non aver giammai riso, dal dì che il suo allievo Gisulfo fu costretto esulare dalla dimora e dagli Stati del padre suo. Un paio di occhi grigi però, vivaci ed irrequieti, che scintillavano nelle orbite incavernate, sopra le quali irte, folte, e nere tuttavia, sporgevano le ciglia, indicavano, egualmente che il naso volto della punta all'insù, che assai lungi della tristezza e più vicino alla tristizia egli fosse. La sciatica—ed e' vantava le più brillanti guarigioni di questa malattia, ed i più sicuri lattovari—la sciatica gli aveva rattratta una gamba; così che la strascicava dritta ed inflessibile come stecco, e, camminando, sembrava ad ogni passo fare una riverenza. Cosa che assai gli toglieva di serietà, maggiormente perchè, fingendo il divagato, lasciava strisciar nella polvere il lungo suo manto scarlatto, sopra del quale i monelli delle piazze, quando ei passava, sedevano e si compiacevano farsi da lui saporitamente rimorchiare.

Guarimponto si presentò alla duchessa, cui aveva conosciuta fanciulla ed addestrata alla musica ed alla gramatica. Giunto sotto l'arco della porta, si ferma per contemplarla. Poi, dopo essere stato alcuni instanti in quella postura, tira innanzi così angaione, e giunto al letto dell'inferma gitta un sospiro e sclama:

Fugit irreparabile tempus! Gli antichi simularono il tempo sotto la figura di Saturno che divorava i suoi figli, e furono sciocchi. Conciofossecosachè ciò che si divora si smaltisce; ciò che si smaltisce muta di forma, ciò che muta di forma non si riconosce più, ciò che non si riconosce più si obblia, e noi—noi mastro Guarimponto ricordiamo di voi, vi abbiamo ricordata sempre, leggiadra duchessa Sigelgaita, degna di migliore ventura!

—Mastro Guarimponto, l'interrompe Sigelgaita, abbiamo bisogno di te e della tua dottrina, non del tuo compatimento. Noi stiamo male.

—La dottrina è una grazia che Iddio concede ai suoi eletti come il sole, perchè illumini tutti e tutti se ne possano giovare. Per la qual cosa, nostra bella duchessa, noi non ci rifiuteremo mai ai vostri bisogni; ed eccoci qui per iscacciare, con la spada di Azzaele, l'angelo della malattia che vorrebbe stendere la mano sulla vostra persona. Dite dunque, dov'è che avete male, duchessa? Datemi qui il vostro polso, perchè la sfigmica è come la vôlta cristallina dell'empireo, sopra la quale si chiodano le stelle, ed in essa il medico, che ha l'occhio della scienza, legge il principio di malignità che s'insinua nella fibra della macchina umana. Dite dunque, bella duchessa, dov'è che avete male?

Sigelgaita provava irresistibile tentazione di far gittare dalle finestre mastro Guarimponto; non pertanto si contenne ancora e rispose:

—Male al cuore.

—In fatti, bella duchessa, deve esser così! E se la luce di quella finestra non fosse stata attenuata tanto, e le tenebre non cominciassero ad involvere la terra ed il mare, io ve lo avrei detto dal bel principio, perchè si legge già dal palloris vultus, anxietatis, membrorum tremoris, difficilis respirationis, oculorum languoris, ed altro che Avicenna soggiunge, trattarsi de cordis affectione. Ed Aetio, nel secondo de' Tetrabibli, ha giudicato che celerrima pernicie instat corde affecto.

Sigelgaita sentiva scoppiarsi. Si solleva dunque sul letto ed ordina alle sue damigelle:

—Uscite.

Poi voltasi a Rolando, che dall'altro lato del letto, con le braccia conserte, guardava il famoso Guarimponto, gli ordina:

—Chiudete l'uscio. Quindi rizzatasi affatto sulla metà della persona, grida:

—Che la peste ti soffochi, pezzo di birbo, tocco d'asino. Dove vedi tu dunque tutte codeste corbellerie che ci hai spacciate, e codesta pernicie nel nostro male, se noi stiamo meglio di te, meglio di una sposa che va a nozze, meglio del diavolo che ti porti?

Euge serve bone et fidelis! sclama Guarimponto senza scomporsi, dopo aver udita fino alla fine la collerica diatriba della duchessa. Sempre la stessa, sempre quel brio, sempre quella vita e quell'ardimento! Noi credevamo che vi foste mutata, e perciò appunto abbiamo voluto stuzzicare la vostra pazienza, come l'alcali stuzzica lo starnuto—che, se nol sapete, è diaphragmatis contractio come lo ha definito Egineta. Ma no, bella duchessa, summa cum animi lætitia noi vi troviamo sempre la stessa, sempre la Semiramide del nostro secolo.

—Per le sante ossa di Caino quest'uomo ci farà perdere la pazienza, mormora Sigelgaita rivolta a Rolando.

Rolando non le risponde. Ma girando dall'altro lato del letto, si appressa al medico, e mettendogli una mano sulla spalla, con una grazia che il povero medico si senti quasi slogar la clavicola e si piegò, gli dice:

—Senti, compare. Che abbi voluto celiare fin qui, chè anche noi abbiamo fatto da burla, te lo perdono. Ma adesso, poni mente a ciò che madonna sarà per dirti, e ponci mente veh! perchè se niente niente mi avveggo che ti torna la frega delle parole latine e di dir cose che noi non comprendiamo, netto e sollecito ti gitto dalla finestra. Mi hai capito?

—Voi vi spiegate con una facondia che incanta, messere! balbetta Guarimponto, grattandosi la spalla intormentita. Andiamo dunque in nome di Dio! Giacchè nulla vi bisogna dalla nostra scienza, e badate bene che la medicina è scienza, avvegnachè quel guastamestieri d'Ippocrate la dica ars longa... perdono! avete detto che non volete latino. Dunque cosa ci avete a richiedere, se nulla dalla nostra sapienza vi occorre?

—Ecco qui, mastro Guarimponto. Noi sappiamo da lungo tempo come tu sii famoso nel cavar dall'altro mondo i morti e mandarci i vivi di questo...

—Voi dite la verità, bella duchessa.

—Non c'interrompere. Sappiamo pure che niuno meglio di te conosce le virtù secrete delle piante e delle pietre, non che degli animali...

—Che vivono nei quattro elementi; dappoichè noi siamo di avviso che anche nel fuoco vi debbano essere bestie...

—Ma pel vero Iddio, Guarimponto, abbiam detto che non vogliamo essere interrotta, comprendi?

Parce mihi... scusate, dimentichiamo sempre che quel galantuomo abborre dal latino, come natura haborret a vacuo... scusate, scusate. Questo maledetto latino ci piove in bocca come la manna nel deserto. Sicchè non v'interromperemo più. Favellate, bella duchessa.

—Ebbene, maestro Guarimponto, saresti tu al caso di distillarci un qualche succo, o darci qualche polvere che sapesse insinuare nelle vene di un uomo morte lenta ed inevitabile?

—Non altro che questo?

—Saresti tu dunque capace?

—Ih!! Ma volete voi avvelenare mezzo il genere umano? Maestro Guarimponto vi darà tal filtro da non farlo vivere due ore.

S. Pier Damiano chiamava quest'uomo vir videlicet honestissimus. Ah! come i santi s'ingannano sovente!

—Noi non chiediamo più di quel che ti abbiam detto, Guarimponto, riprende la duchessa. In questa borsa son cento monete d'oro per comprare il tuo veleno ed il tuo silenzio. Quell'uomo ha un pugnale per guarirti della malattia di rivelare i segreti.

—Lasciamo stare i pugnali, bella duchessa. Noi non conosciamo ancora, benchè tutto noi conoscessimo, un contraveleno per la pianta pugnale. Non vogliamo perciò assoggettarci a quell'esperimento, perchè la nostra grande opera il Passionarius non è compiuta ancora. E voi vedete qual grave danno verrebbe alla scienza ed al mondo se questo lavoro restasse non finito! Sicchè dunque, bella duchessa, accettiamo invece gli schifati, che graziosamente ci offrite, onde potessimo continuare le nostre sperienze, e dimonstrare, come per un dente cavato ad un filosofo dell' isola di Delfo e' fosse morto, essendo che la midolla del dente, avendo nel cerebro principato, al crepare del dente discese nel pulmone e l'uccise ( lib. 1, c. 17, p. 44. ).

—Un momento. Quanto tempo per operare vorreste dare a codesto vostro specifico?

—Quanto ve ne piace, bella duchessa, risponde il dottore. L'ordinaria sua incubazione è di un anno... Se vorreste che gliene accordassimo meno...

—Sì: qualche mese ancora di meno.

—Ebbene il vostro piacimento sarà fatto.

—Bada però ch'e' non possa essere neutralizzato da altro antidoto.

—Questo è difficile, madonna, sclama Guarimponto sospirando. Perchè vi ha un uomo, un demonio dovremmo dire, Costantino d'Africa, il quale, al pari di noi, conosce i segreti della natura. Egli potrebbe... ma all'uopo, se ciò accadesse, noi vi provvederemo di altro lattovaro che accelerarebbe la catastrofe e che neppure il prezioso sangue della fenice avrebbe virtù di annullare—e sì che tutte le potenze malefiche il sangue della fenice annulla! come ha detto Averroe.

—Va dunque, Guarimponto, e ricordati che hai promesso al mondo ed alla scienza di terminare la tua famosa opera del Passionarius.

Alcuni giorni dopo, Roberto Guiscardo era sorpreso da indefinibile malessere, sì che il suo cancelliero, Costantino d'Africa, vanamente ogni sapienza adoperò. Perocchè al bravo uomo non andava mai la testa ai lavori del suo degno collega Guarimponto, e si ostinava a credere quell'infermità prodotto dell'aria infetta di Roma. Roberto ritornò in Grecia, dove aveva lasciato il figliuolo Boemondo a proseguire i suoi conquisti. E questo valoroso principe, nel tempo stesso che il padre sbaragliava a Roma l'esercito dell'imperatore d'Occidente, fugava in Bulgaria l'imperatore d'Oriente. Roberto pose in armi grosse flottiglie, ed incontrato il navile greco unito al veneziano, fra l'isola di Corfù e di Cefalonia, lo ruppe, mandò a fondo molte galee, fece 2500 prigionieri, ed i rimanenti fugò. L'eroe di questa vittoria fu Boemondo. Guiscardo disegnava lasciargli il ducato di Puglia e di Calabria, in luogo di Ruggiero.

Sigelgaita comprese il pensiero di lui. Ella amava a dismisura questo suo figliuolo. Eppure non disse motto. Solamente alcuni dì dopo, Boemondo infermava gravemente, a tal che fu obbligato passare in Italia, dove, ch'il crederebbe? per forte somma di oro Guarimponto lo guarì, ed assai facilmente, ed in molto poco tempo.

Roberto intanto di sua infermità non riavevasi—e bene tutte le mattine sorbiva disgustosa cervogia che a quest'uopo gli preparava la dotta ed amorosa duchessa! Infine, mentre intendeva tutto a ridurre Cefalonia ribellata, e ne conduceva l'assedio col suo figliuolo Ruggiero, una mattina fu sorpreso da più grave malore. Per curarsene, si fece trasportare a Casopoli, piccolo castello sul promontorio di Corfù, e la duchessa andò con lui per assisterlo. Il male non cedè punto. Ed il dì 6 di luglio il suo medico lo aveva abbandonato, il suo confessore gli aveva resi gli ultimi uffici di cristiano. Vestito dell'abito di frate, i capelli e la barba coperti di cenere, Guiscardo agonizzava. Vicino al suo letto non erano che due persone. Uscì in fine da lungo accesso di letargia, e dimandò da bere. Una di quelle persone gliene porge.

—È fuoco che mi avete apprestato! egli sclama.

Uno scroscio di riso è la risposta che gli si dà. Allora Roberto apre gli occhi, e vede Sigelgaita innanzi al suo letto. Questa lo sta a considerare un instante cogli occhi divaricati, poi si accosta più da presso e gli mormora:

—Monsignore, adesso che andate gloriosamente all'inferno, ricordate di salutarci la vostra bella e virtuosa Alberada.

Roberto le fissa addosso gli occhi incristalliti, poi gitta un sospiro e si volge dall'altro lato. Dall'altro lato gli si presenta Rolando da Siena che ghignava diabolicamente. Allora terribile pensiero gli corre alla mente, e forse tutto il nefando ed il laido di quella storia comprende. Fa uno sforzo onde sollevarsi sui guanciali un momento; le pupille acquistano un baleno di fulgore vitale, e la mano alza, quasi avesse voluto fulminarli di una maledizione. Poi cambia d'aspetto incontanente. Le guance tornano pallide, le braccia accoglie a croce sul petto, gli sguardi dirige al cielo, dice con voce chiara: Dio vi perdoni! Chiude gli occhi e ricade supino sul letto.

Quei due gli si accostano per contemplarlo ancora. Era morto! Si dettero un bacio ed uscirono.

Questo fu il compianto che l'ultimo sospiro di Roberto Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria, accompagnava. Questa la fine di un uomo che aveva vissuti settant'anni di gloria, fondato un regno ed una dinastia, non mai conosciuta la sconfitta, e che il più grande, il più prode, il più generoso dei tempi suoi fu pure, malgrado le sue colpe, malgrado i suoi difetti.

Le ossa attendono il finale giudizio del Signore nella cattedrale di Venosa; abbiano requie, se vistosa tomba non hanno.

Gregorio VII lo aveva anteceduto di qualche mese.

III.

Vi lascia, e mesto e solo, Senza più speme e con la morte in faccia Va in altra parte di un sepolcro in traccia

Croneck.

Appena Gregorio toccò la terra dell'esilio sembrò avesse perduta tutta quella sua potente energia. Mandò suo legato in Lamagna Ottone vescovo di Ostia, in cui trasfuse i suoi principii ed i suoi poteri, e stette. Stette come torre sublime che sfida i secoli, e sfida gli uragani. Era stanco. Aveva fatto troppo sciupo delle sue forze morali; voleva riposarsi. Nè il desiderio gli mancò di riposarsi in Dio! Non già che intieramente non guardasse il presente. Novelle spiacevoli gli giungevano sempre da ogni verso, ed ei rifuggiva ormai da dolori, a cui non sapeva prestar rimedio—nemmeno quello della pazienza e della rassegnazione. Le cose attuali andavano male. I suoi grandi sforzi erano stati inutili; i suoi principii non prevalsi, e le sue parole non aveano fruttificato. Si compiaceva perciò contemplar meglio il passato; il passato che sì forte e sì glorioso era stato per lui! I due suoi più odiati nemici trionfavano. Enrico trionfava in Lamagna, Guiberto in Roma; nè alcuno rammentava più di lui, se non come un oggetto di spavento e di abbominio, che, dopo aver prodotti tanti mali, codardamente si era ritirato senza aver compiuta l'opera, senza aver combattuto sino alla fine. Ciò lo contristava; ciò aumentava quella cascaggine di membra che i dolori dello spirito avevano destata in lui e l'infievolivano ogni dì peggio. Ma egli comprendeva, per quella vasta mente che avea sì vasto disegno concepito, egli comprendeva che i tempi non lo propiziavano più, e che bastava aver ardito di seminare le sue dottrine, perchè altri secoli ed altri uomini le avrebbero maturate, avrebbero mietuti i frutti.

Inoltre chi non sa che il vigore dell'anima si accompagna sempre col vigore del corpo? E la fibra d'Ildebrando era usata con le pratiche di penitenza, a cui fin da fanciullo nei rigori del chiostro aveva dovuto piegarsi; usata dal lungo viaggiare per tutte le contrade di Europa; usata da quella malvagia passione che chiamasi studio—e lunghe e penose veglie egli aveva sopportate per addottrinarsi nella difficile scienza dei padri—e lenta una tisi o corporale o mentale con le notturne lucubrazioni nella macchina si insinua! Usata infine per le protratte tensioni dello spirito, per i dissapori che senza conto aveva sorbiti, per le gioie inaspettate, per gigantescamente concepire e vegliare che il disegno s'incarni, per le passioni indomite, selvaggie, ferrigne che si disputavano il suo cuore, per l'amara necessità di reprimere gl'impeti di un temperamento di bronzo, sì che Pietro Damiano lo chiamava il clavigero apostolo, per il tarlo inesorabile della coscienza che alcune sue azioni non sante gli riproduceva incessante, per il martirio infine dell'esilio che è il più crudele dei martirii. Ond'è che in sul finire di aprile del 1085 la lassezza era giunta a tale che non gli permise più levarsi da letto. Ebbe bene Costantino Africano, mandatogli da Roberto, a mettere in uso tutta la sua perizia. Il languore camminava a gran passi, e col languore la morte. Il suo principio vitale era consunto: la sua lampada brillava di luce vacillante.

Intorno a lui, senza mai darsi tregua nè mai per giorno o per notte pigliar riposo, si affaccendava un giovane paggio lasciatogli da Sigelgaita, che cure di figlio gli profondeva. Questo paggio, innanzi al mondo si chiamava Corrado ed era quegli appunto di Baccelardo, ma innanzi ad Ildebrando quel paggio era Guaidalmira—e tutta la misera storia di lei egli già conosceva! Ma che può fare l'amore quando il dito di Dio ha l'ora fatale designata, che può fare se non addolcirla e spargerla di fiori e di speranze!

Sul cominciare di maggio, Gregorio si sentiva ancora più male. Si convocò intorno quei pochi vescovi che ancora gli rimanevano fedeli, e che con lui dividevano il pane dell'esilio. E come costernati ed afflitti li vedeva a fargli corona, dal suo paggio e dal cardinale Ugo Candido, il quale aveva cercato riconciliarsi con lui sapendolo non lontano dal morire, si fe' sollevare alquanto sui guanciali, e per voce indebolita e lenta, col volto estenuato e cadaverico, con gli occhi incavernati, ma sempre lucidi e fieri, parlò:

—Diletti fratelli! L'ora mia è arrivata. Poco bene ho fatto quaggiù; ma in questo momento di morte mi consola il testimonio della coscienza, giammai avere agito contro il dettame di essa, ed il poter dire: Ho amata la giustizia, ho odiata l'iniquità.

—Ah! santo padre, in quali tempi difficili ed in quali triboli ci lasciate, dando in un dirotto pianto l'arcivescovo di Salerno sclamò.

—Confortatevi, fratelli, risponde Gregorio, fra breve sarò d'innanzi all'Eterno, e raccomanderò a lui i miei figli e la mia Chiesa. Confortatevi come i discepoli di Gesù si confortarono della sua morte. Avete detto che i tempi son difficili, e ben diceste. Perciò appunto rivestitevi della costanza degli apostoli, e brandendo la spada di Paolo, con la carità e con la forza spargete sulla terra le mie parole: perocchè, in vero vi dico, che le saranno messe di grandezza per la Chiesa e per i suoi sacerdoti, e di gloria sì per loro che pel Dio d'Israello.

—Oh! santo padre, chi ci reggerà dei suoi consigli, chi ci illuminerà con la sua sapienza dopo che voi sarete ritornato nelle gioie del Signore?

—Figliuoli miei, il mio testamento è di coraggio e di pazienza, continua Gregorio. Io ho dato cominciamento ad un'opera che richiede costanza, santità di costume, fiducia in Dio, vigore di mente e di braccio, e l'inflessibilità di non ismarrirsi per rovescio, non istancarsi per lavoro. Chi si sente forte e santo abbastanza pel cimento, concorra alla terribile dignità dell'apostolato. Io credo idonei già e maturi a tanto ministero, Ugo vescovo di Lione, Ottone vescovo di Ostia, e Desiderio abate di Montecassino.

—E noi no? l'interruppe Ugo Candido.

Gregorio finge non udirlo e prosegue:

—Iddio illuminerà coloro che tal capo dovranno eleggersi. Ora, figliuoli miei, andate. Io vi ho chiamati per darvi la mia estrema benedizione, e per chiedervi perdono se mai opera o parola mia vi avesse offesi e scandalizzati. Non occorre che voi perdiate maggior tempo intorno ad un vecchio, che nulla più può fare alla vigna del Signore e che picchia dei piedi la fossa. Andate, spargetevi per la terra, e soccorrete il debole, rialzate il caduto, ristorate il vacillante, edificate l'incredulo, e punite gli ostinati. Ma sopra tutto, i figli d'Italia persuadete che si leghino fra loro, e giogo di despoti e vituperio straniero non sopportino. Voi non avete più che farmi. Vi ringrazio delle cure che mi prodigaste; ma più che me, ora la Chiesa ha bisogno di voi. Andate, figliuoli, ed in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo vi benedico.

Tutti quei circostanti, caduti in ginocchio, gli baciano la mano, e bagnati da molte lagrime, ed oppressi da sincero dolore partono.

Non partì già Ugo Candido, non Guaidalmira.

Era il dì 25 maggio. Il languore di Gregorio toccava gli estremi, ed uno stravaso di linfa al petto ne rendeva difficile la respirazione, gli impossibilitava restare nel letto. Lo avevano perciò adagiato sovra gran seggiolone e collocato presso ad una finestra, perchè desiderava vedere l'ultima volta il sole che tramontava nella placida ed azzurra marina. La finestra gli gittava un'onda di luce dal petto alle gambe, ed imporporava la bianca tunica che lo covriva. Ma un rosone a vetri colorati, praticato sulla finestra stessa, dando passaggio ai raggi del sole, gli circondava la testa e la bianca barba di luce così viva e così varia, che, al contemplarlo da lontano, sembrava nuotasse in una conca d'iride, e scintillasse del fulgore celeste dei cherubini. Ai suoi piedi era genuflessa Guaidalmira, che, la fronte piegata nelle mani ed appoggiata allo sgabello dei piedi di lui, pregava, straziata da dolor muto. Da un lato del seggiolone, delle braccia conserte sul petto, in piedi ed immobile si vedeva il cardinale Ugo. Dall'altro lato un frate benedettino, cui, come e' disse, gli aveva mandato l'abate Desiderio per confessarlo. Questi teneva il cappuccio abbassato, sicchè la fronte e metà del volto covrivagli e stava del pari in piedi. Gregorio con una mano cercava la testa di Guaidalmira, con l'altra stringeva quella del frate. Già più non ci vedeva.

—Santo padre, voi dunque togliete la scomunica al re di Francia? dimandava il frate per voce soffocata forse dal dolore.

—Gliela tolgo, rispondeva Gregorio.

—Santo padre, togliete la scomunica al re di Dalmazia? proseguiva il frate.

—Gliela tolgo, diceva Gregorio.

—Ed al re di Polonia, santo padre?

—È morto, ma gliela tolgo.

—Ed al re d'Ungheria.

—Gliela tolgo pure.

—Ed ai vescovi e baroni che vi deposero nei concilii di Worms e di Pavia?

—L'avevo tolta ad alcuni; la tolgo a tutti.

—Ed a Cencio, che tentò assassinarvi nella notte di Natale?

—Gli sia pur tolta.

Qui la voce del frate si arresta di un istante, poi, più cupa, dimanda:

—Ed a vostro fratello Guiberto?

A questa parola il moribondo gli sottrae la mano, e, facendo atto di volersi sollevare, sclama, di lieve rossore animando le gote:

—No, no, lo maledico. Escluso lui che usurpa la mia sede di Roma, escluso Enrico che dicono re, esclusi i maligni che per consigli e per opere favoriscono l'empietà d'ambedue, io stendo il perdono e la benedizione di Dio su tutti gli uomini che credono fermamente e confessano che io sono vero erede e vicario degli apostoli s. Pietro e s. Paolo.

Il frate serba il silenzio alcun poco e cerca riprendere la mano del moribondo vecchio, il quale tremava tutto come una foglia, poi mormora:

—Ma, santo padre, egli vi è fratello! egli ha tentato tante volte di riconciliarsi con voi, dimandarvi perdono...

—Ed io lo maledico, risponde Ildebrando convulso sempre.

—Egli è pentito delle offese che vi ha fatte; egli vi dimanda perdono dei dolori che vi ha dati...

—Ed io lo maledico.

—Ma, santo padre, Gesù Cristo ha perdonato, morendo, i suoi nemici; Gesù Cristo vi comanda di assolverlo, perchè Guiberto nell'errore vi fece onta, ma poi ha pianto la sua colpa, e non vuol vivere, non vuole morire prima di essersi riconciliato con voi, ed essere stato da voi perdonato.

—Ed io lo maledico, lo maledico, lo condanno al fuoco eterno nell'altra vita, ed al supplizio ed alla miseria in questa—e meno lui e l'imperatore Enrico che scomunico, benedico tutto il genere umano.

A tali austere parole, il frate ritira la mano con che aveva presa quella del pontefice, si gitta alle spalle il capperuccio e furibondo grida:

—Ed io maledico te, inesorabile vecchio, io, Clemente III, sovrano pontefice, e tuo fratello, io ti maledico come Adamo maledisse Caino, e come Cristo maledisse Giuda. Io ti maledico come parricida, come stregone, come adultero; io ti maledico, ed il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo ti maledicano con me.

Gregorio alza gli occhi al cielo, poi mormora le dolenti parole di Cristo:

Domine, transeat a me calix iste!

Il cardinale Ugo Candido, che mutolo era restato fino allora al fianco dell'agonizzante, gli si accosta più d'appresso, e ridendo sorriso terribile:

—Non uditelo, santo padre, diceva: alla sua maledizione, avanti all'Eterno voi potete opporre... oh! tutte le opere della vostra vita...

—Per esempio, soggiungeva Guiberto, chè il frate era egli stesso, per esempio, lo scandalo destato nella cristianità e la guerra civile in Lamagna?

—Dio mi ha perdonato, rispondeva il moribondo.

—La corruttela che ha messa nel clero col proibire lecite nozze, ripigliava il cardinale; l'eccidio di Roma; la disperazione e la dannazione di tante migliaia di uomini morti nelle scomuniche da lui profuse per appagare intenti mondani; lo sdegno civile fomentato in Italia, e le guerre di che l'ha desolata?

—Dio mi ha perdonato, borbottava ancora il pontefice.

—Gli amori impudici con la contessa Matilde, per lui vituperata avanti al mondo, e gli amori della contessa Alberada, che ha condotta a morire misera e disperata? soggiungeva Guiberto.

Ed il pontefice:

—Dio mi ha perdonato.

—I sudditi ribellati contro i sovrani, proseguiva il cardinale, il suo orgoglio che ha fatto infellonire contro la Chiesa milioni di cristiani; i tradimenti comandati; gli omicidii fatti eseguire; gli avvelenamenti dei suoi nemici onde buccinarli puniti da Dio per subita morte; i regni tolti e donati a ribaldi che gli si giuravano ligi; la Spagna preferita restasse in mano de' Mori, anzi che in dominio di cristiani, i quali non volevano fargli omaggio; la Sassonia desolata, perchè rifiutò conoscersi vassalla di San Pietro; la Francia levata a tumulto per esigere tributo che giammai Carlomagno sognò di promettergli; la Sardegna minacciata dare a conquistatori feroci se non pagava il danaro di San Pietro; il regno d'Ungheria messo ad incanto fra due re a chi più gli offerisse maggior donazione e sudditanza; la Dalmazia gittata nella guerra civile per averle voluto dare un re di suo capriccio, mentre un altro già vi regnava; la scomunica infine, per non dir più, del re Boleslao II di Polonia, che ridusse al bando dei suoi Stati e fece morire miserabile e disperato? Ecco, santo padre, ciò che potrete dire a Dio, perchè non ascolti la maledizione di vostro fratello!

—Iddio mi ha perdonato, mi ha assoluto, con voce che appena s'intendeva, sclama il pontefice; e perchè amai la giustizia ed odiai l'iniquità, muoio in esilio.

—In esilio! prorompe il cardinale Ugo Candido, ridendo satanicamente; ma non sei tu il vicario di Cristo che ti diede in retaggio i suoi popoli, ed alla sua giurisdizione segnò per termine i confini del mondo?

Ildebrando a quest'ironia non risponde: piega la testa sul petto e ve la lascia cadere abbattuta. Guiberto ed il cardinale si accostano, Guaidalmira alza gli occhi per guardarlo: era morto!

Guaidalmira gitta un grido acuto e straziante e stramazza distesa sul suolo.

Così ai 25 di maggio 1085, dopo dodici anni, un mese e tre giorni di regno, moriva Gregorio VII, il più ardito dei pontefici.

Grandi vizii, grandi virtù lo distinsero. Ed a gloria del vero i vizii furono del secolo, le virtù dell'uomo. Imperciocchè, in un secolo di dubbiezze, che ondeggiava ancora fra la barbarie del X secolo e la luce incipiente del XII; in un secolo in cui la passione di municipio ed il parteggiare destavasi per dar vita ai Comuni; in un secolo di scisma, dove la feudalità tendeva al dispotismo ed il popolo ad affrancarsi; in un secolo in cui non vi era ragione fuor di quella delle armi, non virtù fuori del valore e del coraggio, non religione perchè la più corrotta parte di quella società rappresentavano gli ecclesiastici, e la superstizione dei secoli passati infiacchiva senza meglio stabilirsi lo spirito del Vangelo; in un secolo in cui la bellezza non aveva culto, la verecondia non era merito, non avea ostracismo l'oltraggio ai diritti delle nazioni, degl'individui, della pietà; in un secolo infine nel quale tutto era disquilibrio, dubbio, decadimento, i vincoli di una società usata cadevano per vetustà nè ancora la novella società si aggruppava; io dimando, se uomo, a tanta altezza collocato, poteva mostrarsi più forte e più santo di che Gregorio si mostrò? Egli vedeva che tutti i pinacoli sociali del suo tempo tendevano alla monarchia, ed avvisando che l'Evangelo fosse esso stesso codice monarchico, dispotismo teocratico bandì, e non lasciò mezzo intentato, buono o malvagio che fosse, impuro o santo, per rassodarlo.

Uno fu il principio che informò la sua vita e le sue opere: l'indipendenza dell'Italia e della Chiesa cattolica! L'idea era magnanima, era giusta; ma i tempi per promuoverla e mandarla ad effetto non ancora maturi. La società fermentava, e niente si era consolidato, nè il principato nè la repubblica, nè l'ateismo, nè la religione: e libertà individuale ed ostinazione feudale battagliavano nel caldo. Per intrudere quindi le sue dottrine vi fu d'uopo di violenza. E perchè queste interessavano più i principi che i popoli, la quistione si prolungò, e, lentamente cangiando di forma, ne rivestì impure e sacrileghe; perchè ai venerandi diritti delle nazioni col velame divino si attentò. L'idea di Gregorio fu generosa, perchè in quel collegarsi di potenti per tutto ridurre a pura e forte monarchia, il popolo restava escluso, indifeso, vittima, nè aveva a cui lamentarsi dei torti; perocchè patto di sangue sulla totale schiavitù si era stretto. Egli, il pontificato volle elevare a giudice supremo tra il popolo ed il re. Reagirono perchè brusco ed inconsiderato fu l'urto, nuova la legge. La reazione lo indispettì. E perchè aveva sortita fibra robusta ed altera, trasandò il pudore, ed addivenne violento, ostinato, incompassionevole, nulla rispettò di quanto culto si era per lo avanti. Rispose delle armi con cui lo provocavano. Ciò gli alienò i principi, gli alienò il clero ed il popolo, e fu addimandato inesorato e tiranno. Nonostante sembrò un momento di trionfare. Nel trionfo mostrossi intemperante, e le tre giornate di Canossa prepararono la presa di Roma.

Ora egli muore! Dopo tanti anni di lutta muore senza aver vinto, senza esser compianto da altri che da oscura donzella, senza essere amato da alcuno, lasciando al mondo tre legati funesti—la quistione delle investiture, la rivalità dei papi e dei re, e la folle e fatale impresa delle crociate! Egli però, allucinato come fosse, agì sempre sotto l'ispirazione della convinzione e di una lucida e decisa coscienza. E ciò basti per lavarlo d'ogni peccato, mondarlo da tutti i mali che originò.

Egli muore! Dopo una vita di combattimento sperava morire tranquillo e sereno come il giorno che vedeva declinare sull'immensa marina; ma l'ultima sua ora fu travagliata dalle idee del passato, dallo sdegno inesorato degli uomini. Muore, e l'ultima idea ad abbandonare quel capo che si era levato il più alto su tutta la terra, l'ultima idea che funestò quell'anima, la quale aveva abbracciato la rigenerazione dell'universo, è che i suoi nemici trionfano, che Guiberto ed Enrico sopravvivono padroni del campo, ed egli non si è vendicato.

Il re dei re è un'attestazione, non un fatto.

Requie, o grand'uomo, i tuoi nemici non saranno meglio avventurati di te!

Alcune settimane dopo, una giovane faceva chiamarsi la badessa delle benedettine di Roma, e dopo lungo colloquire, era ammessa a vestir l'abito in quel chiostro. Vi visse due anni di penitenza e di rassegnazione, poi vi morì di languore, per sfinimento d'animo, in concetto di santa. Era Guaidalmira.

Guiberto ritornò a Roma donde or cacciato, ora ammesso, da molte città e popoli riconosciuto vero pontefice, da molti altri scismatico, sempre tribolando i papi, per grossa somma di danaro vendè ad Urbano II la libertà di castel Sant'Angelo e palazzo Laterano, che ancora per lui tenevansi con forte presidio, e nel 1100, assediato dalle truppe di Pasquale II in un castello vicino Alba, dove erasi rifugiato, morì repentinamente, non senza sospetto di veleno; sempre fermo, sempre generoso e più soldato e brillante principe che sacerdote.

La sua condotta, la sua vita, i suoi gusti oggi rattristano e sgomentano ogni cuore virtuoso e delicato. Allora, come cosa fra gli ecclesiastici consueta, avevansi per temperati ed allo Stato principesco non sconvenevoli. Quel che però nè i contemporanei, nè noi avremmo saputo mai perdonargli, se dell'indole degli uomini volubili e delle passioni entusiaste ed ardenti troppo non conoscessimo, gli è l'aver arso di sì forte e subita fiamma per Alberada, e poscia averla dimenticata compiutamente, malgrado le spavalde proteste fatte a Guiscardo a Salerno di vendicarla, malgrado che la riconoscenza di averne avuta protetta la vita glielo avessero imposto. La potenza di altri guai e di altre panie che lo avvolsero, la sua natura mutabile, gli valgano per iscusa; se scusa pure la sua spensieratezza appo le donne potrà trovare. Fu mandato a seppellire a Ravenna. Ma sei anni più tardi, il feroce Pasquale II—questa iena di cadaveri—lo fece dissotterrare, e le sue ossa e le sue ceneri furono gittate nel fiume.

Enrico IV gli sopravvisse di poco.

IV.

Je t'ai fait voir tes camarades Ou mort, ou mourants, ou malades; Allons, víeillard, et sans replique, Il n'importe à la republique Que tu fasses ton testament.

La Fontaine.

Non racconteremo per minuto il rimanente dei fatti di questo gran principe. Dopo aver veduto perire il suo nemico Gregorio, altri non men terribili ed ostinati ne ebbe a combattere in Vittore III, Urbano II e Pasquale II, favoriti al solito dalla contessa Matilde, la quale la causa della Chiesa aveva sposata a spada tratta; in Ermanno di Luxembourg, che, dopo la morte di Rodolfo, i ribelli Sassoni avevano eletto a re; nei figli di Ottone di Nordheim, morto nel 1083; nel marchese Ecbert, e per ultimo nel suo figlio Corrado, che Urbano II aveva prevaricato ed indotto a ribellione contro suo padre. Questo scellerato principe, applaudito con gioia feroce dalla corte di Roma, pubblicò infami calunnie contro suo padre, pensando così oltraggiare la gloria di lui, sè difendere. Riconosciuto dai papi per re d'Italia, cinse la corona di ferro a Monza. Ma, dopo otto anni di guerra civile morì disprezzato da coloro stessi che alla rivolta lo avevano spinto e che ne avevano profittato. Enrico si ritirò in Germania.

Diremo le ultime cose di lui con le parole del Sismondi, il quale le ha tolte al Sigonio e questi ad Ottone frisingense, ed a Sigeberto gemblacense.

Dopo la sua ritirata, Enrico non ebbe altra cura che restituire la pace alla Chiesa ed all'impero. Quantunque perseguitato dalle scomuniche dei papi, e' non sembrò punto occuparsi a farne cessare gli oltraggi. Aveva anzi pensato di abdicare la corona in favore dell'altro suo figlio Enrico V, con la speranza che il ravvicinamento tornerebbe più facile fra due antagonisti, l'amor proprio dei quali non fosse stato inasprito ancora da lunga discordia. Questo progetto, che Enrico non mandò a termine, infiammò l'ambizione del giovane principe. Il papa Pasquale II, il di cui odio religioso mai si placava, per mezzo dei suoi emissarii infervorò un figlio, cui sete colpevole di regno allucinava già. Gli rappresentò il delitto che meditava come azione santa e gloriosa, ed alla rivolta lo determinò.

Una dieta erasi convocata a Magonza pel giorno di Natale. I partigiani del giovane Enrico eranvi convenuti in folla: niuna assemblea nazionale da lungo tempo non erasi mostrata così numerosa. Il giovane Enrico consigliò al re suo padre di punto non avventurarsi fra gente, la di cui fedeltà si appalesava, se non altro, dubbiosa. L'imperatore si tenne all'avviso di suo figlio, di cui non sospettava ancora tutta la fellonia, e si ritirò al castello di Ingelheim. Come egli quivi faceva dimora, gli arcivescovi di Magonza, di Colonia e di Worms, inviati della dieta, si presentarono a lui, e gl'imposero a nome di quella rimettere loro gli ornamenti imperiali—vale a dire corona, anello e porpora, perchè e' ne rivestissero suo figlio.

—Ma perchè dunque i principi ed i vescovi della dieta ci hanno eglino deposto? domanda Enrico.

—Perchè? risponde l'arcivescovo di Magonza, perchè da lunghi anni tu hai straziata la Chiesa di Dio per cause odievoli, perchè tu hai venduti i vescovadi, le abbazie e le dignità ecclesiastiche, perchè tu non hai giammai osservati i canoni nell'elezione dei vescovi, e fieramente al papa ti sei ribellato. Per tutti questi motivi è piaciuto al sovrano pontefice ed ai principi di Lamagna di respingerti non solamente dalla comunione dei fedeli, ma cavarti ancora dal possedimento del trono.

—Ma voi, riprende l'imperatore, voi arcivescovi di Magonza e di Colonia, voi che ci accusate di aver vendute le dignità ecclesiastiche, voi, vescovo di Worms, diteci almeno quale è stato il prezzo che abbiamo ricavato da voi, quando v'investimmo delle chiese più opulenti e più possenti del nostro impero? Dite, parlate dunque, ripetete qui al nostro cospetto, al cospetto del vostro sovrano e del vostro benefattore, ripetete le calunnie che avete vomitate nella dieta, fateci arrossire, per Dio; e noi diremo che giusto è il decreto dei principi, dovuta la deposizione. Ebbene, voi tacete? ecco, ecco che cosa sono le vostre accuse, vituperati! Ma se vi è forza convenire e confessare che da voi nulla abbiamo dimandato, dite, per Dio, dite perchè voi vi siete accoppiati ai nostri detrattori, mentre la vostra coscienza vi rammentava che, verso di voi almeno, noi ci eravamo conformati ai nostri doveri? Perchè vi siete voi congiunti a coloro che hanno forfatto alla loro fede, ed al giuramento al loro principe? Perchè vi mettete voi alla loro testa?

Alcuno di quei prelati, non rispondendo, e vedendoli Enrico col capo chino, arrossire e confondersi, continuò:

—Fate bene a tacere, vi salverete almeno così dall'onta dell'impudenza. Ma pazientate ancora qualche giorno, attendete il termine naturale della nostra vita, perchè la nostra età e le nostre pene indicano troppo non dover esser lontano. Ovvero, se vi piace e vi torna levarci il regno, fissate almeno il giorno nel quale, con le nostre proprie mani, caveremo della nostra testa canuta la corona e ne orneremo quella di nostro figlio.

—Enrico, scoppia infine l'arcivescovo di Magonza, noi non siamo venuti qui per teco garrir di parole, nè altra ne diremo con uno scomunicato, con un principe che ha desolato il paese da Dio commessogli a governare. Se di tuo piacimento non ti presti a darci gli ornamenti imperiali, noi te li strapperemo per forza, dovessimo con essi strapparti la pelle e la vita; perchè di quest'ordine siamo stati incaricati.

A questo duro favellare, Enrico guarda in fronte con un misto di sdegno e di disprezzo l'altero prelato, poi sclama:

—Codardo!

E senza aggiunger altro, esce dalla sala. Avendo però preso consiglio dal piccolo numero d'amici che gli rimanevano ancora vicino, e vedendo che lo circondavano uomini d'armi molti e risoluti, e che per allora ogni atto di resistenza riusciva impossibile, si fece apportare gli ornamenti ed il mantello reale, poi salì sul trono, e comandò si chiamassero i prelati.

—Eccole, egli disse, queste divise di dignità reale che la volontà unanime dei principi dello Stato e la bontà del re dei secoli ci avevano concesse. Noi non impiegheremo la forza per difenderle: perocchè non avevamo mai preveduto tradimento domestico, nè contro di esso ci eravamo messi in guardia. Mercè al cielo che ci accordò il favore di non mai sospettare tanto furore presso i nostri amici, tanta empietà nei nostri figli! Nondimeno, con l'aiuto di Dio, il vostro pudore difenderà forse ancora la nostra corona. Ma se voi, al contrario, siete insensibili al timore di Dio che protegge i re, ed alla perdita del vostro onore, noi sopporteremo dalle vostre mani una violenza che punto non abbiamo mezzi di respingere.

A questo discorso i deputati esitano. Ma l'arcivescovo di Magonza, vedendo che i suoi colleghi s'infievolivano, e davano adito a più nobili sentimenti e forse a pietà, grida come forsennato:

—Perchè bilanciate voi? Non siamo noi forse coloro a cui si appartiene consacrare i re ed onorarli della porpora? Ebbene, se per cattiva scelta un dì ne abbiamo rivestito costui, oggi, ravveduti, a noi si conviene spogliarnelo.

E sì dicendo si gitta addosso al vecchio monarca, gli svelle dalla testa la corona, lo forza a discender dal trono, e lo spoglia del mantello di porpora e degli ornamenti reali. Enrico frattanto, alzando terribile la voce, grida:

—Dio! vedi la condotta di costoro. Tu ci fai sopportare la pena dei peccati della giovinezza; tu ci sottometti ad ignominia che giammai re non patì innanti di noi. Ma costoro che hanno violato il sacramento che a noi li legava, costoro non isfuggiranno all'ira tua, tu li punirai—tu li punirai come punisti l'apostolo che tradì il suo maestro.

Gli arcivescovi disprezzarono le minaccie, e ritornarono al figlio di lui per consacrarlo. Il vecchio Enrico frattanto si rinchiuse in Lovanio. Bentosto i suoi amici in folla gli si raccolsero intorno, e gli promisero il loro aiuto per ricuperare la svillaneggiata autorità. Formarono ancora poderoso esercito; il padre ed il figlio marciarono l'uno contro l'altro, e nel primo scontro il figlio fu battuto e volto in fuga. Ma avendo questi, il giovane Enrico, raccozzate le sue truppe, le riconduce al combattimento. In questa seconda puntaglia il vecchio è vinto. Caduto in potere dei suoi nemici, egli è tradotto al cospetto di suo figlio.

In una lettera ch'egli dirige a Filippo, re di Francia, intorno a quell'epoca 1106, si esprime così:

«Appena lo vidi, toccato fino al fondo del cuore di dolore altrettanto che di paterna affezione, io mi gittai ai piedi di lui, lo supplicai, lo scongiurai in nome di Dio, della sua fede, della salute della sua anima, che anche quando i miei peccati avessero meritato che io fossi punito dalla mano di Dio, si astenesse egli almeno di macchiare, facendomi vilipendio, la sua anima, il suo onore ed il suo nome: imperciocchè giammai alcuna sanzione, alcuna legge divina eresse i figli vendicatori delle colpe dei padri!»

Nondimanco Enrico fu tenuto prigione e gli furono fatti oltraggi e contumelie da destare orrore. In quella lettera a Filippo egli ne annovera alcuni e soggiunge:

«Per non dir niente degli obbrobrii, delle ingiurie, delle minacce, dei pugnali drizzati sulla mia testa dove io non facessi quanto mi veniva imposto, della fame e della sete che io soffriva pel ministero di gente che mi tornava ingiurioso vedere ed intendere; per non dire, ciò che era più doloroso ancora, che io altra volta era stato felice!»

Pure, ridotto qual si vedeva a tale grado di miserie, gli venne fatto fuggire. Si rifugiò a Spira—nel tempio che egli sontuoso aveva fatto fabbricare alla Vergine, e dimandò al vescovo della città di accordargli di che vivere. Il vescovo si ricusò. Enrico soggiunse, che era ancor proprio a riempire l'officio di chierico, perchè sapeva leggere e servire il coro. Ma come anche quest'umile domanda gli respinsero, egli allora si volge agli assistenti e parla:

—Ma voi almeno, miei amici, abbiate pietà di me. Vedete che la mano del Signore mi ha colpito.

Nessuno risponde da prima, poi si ode un murmure sordo che egli era evaso di prigione e che bisognava rifarlo cattivo. A tale minaccia, malato, estenuato di fame e di sete, il misero monarca fugge e va a procurarsi rifugio a Liegi. Ma neppur quivi rimane tranquillo. Allora scrive a suo figlio:

«Ma lasciatemi, per amore di Dio, vivere a Liegi, se non da imperatore almeno da uomo che vi ha cercato ricovero. Che non sia giammai detto, ad onta mia o piuttosto ad onta comune, che il figlio dei Cesari sia stato obbligato ad errar senza asilo nel tempo di Pasqua!»

Suo figlio si rifiutò. Ed il sovrano che aveva dato sessantasei battaglie, creati due antipapa, ai sette degli idi di agosto 1106 muore col cuore straziato di afflizione profonda, coverto di laceri panni, tribolato dalla fame, senza tetto per ricovrarlo, senza mano amica per soccorrerlo, di notte, avanti la porta di un vescovo da lui beneficato.

Per cinque anni, il suo corpo restò senza sepoltura in una cellula della chiesa di Liegi, perchè il papa aveva vietato fosse deposto in terra santa. Ma infine, il terribile Pasquale II, tradito, perseguitato, fatto prigione, rinchiuso nella fortezza di Tribucco da quel principe stesso di cui aveva eccitata la rivolta, dal figlio snaturato del vecchio imperatore, umiliato dalla Chiesa a pro della quale aveva combattuto il re defunto, fu costretto, per ricoverare la libertà, consentire che fosse seppellito da cristiano. E così fecero i fedeli alla memoria di lui lagrimando un principe che fu il più grande della razza di Franconia, ed uno dei più generosi, magnanimi e prodi degli imperadori di Lamagna.

Ed ecco come miseramente finiva la prosapia di quei forti uomini, che sì terribile e sì combattuto fecero il secolo XI!!!

FINE DEL QUARTO ED ULTIMO VOLUME.

INDICE

LIBRO SETTIMO—Il Messaggio Pag.5

LIBRO OTTAVO—Il Tramonto115