IL RE PREGA

I.

Don Diego Spani.

Sulla strada di Napoli alle Calabrie, in mezzo alla catena degli Apennini, a qualche miglio dal passo di Campotenese, trovasi un grosso borgo chiamato Lauria.

Il borgo, addossato alla montagna, ha due piani: Lauria inferiore, nera, immonda, dalle strette viuzze, dai casolari screpolati, si accoccola nella valle. Lauria superiore, più moderna, si attacca quasi alle vette della montagna, là dove passa la strada consolare. Questa parte del borgo è più aristocratica. Le piccole case del popolo grasso, la chiesa, il palazzo del vescovo, le locande, il convento dei cappuccini, la casa municipale giacciono quivi, e tutto ciò è nuovo, gaio, netto, con delle pretese architettoniche. Un sentiero angusto, pericoloso, ai lembi di un precipizio, riunisce le due braccia del villaggio sul dorso della montagna, mediante un piccolo ponte traballante, gettato sul torrente. Giù poi, nella valle, le due Laurie sono congiunte da una strada pietrosa che fa un lungo circuito.

La montagna è nuda e scarna: un agglomeramento di pietre grige e di argilla rossastra dall'aspetto desolato. Non alberi, non terra coltivabile, non giardini. Alcune capre etiche si disputano qua e là i tristi ciuffi di ginestro e le macchie di cipresso. Lontano, altre montagne ugualmente nude o rivestite di pini selvaggi e di frassini, dei precipizi violentemente trambustati, delle gore che divengono torrenti; e più lontano ancora, un'aria azzurrastra e vaporosa: il mar Tirreno.

L'aspetto degli abitanti non è guari più prospero di quello del borgo. Bronzati, squallidi, vestiti di fustagno o panno bruno—filato, tessuto, tinto in casa dalle femmine della famiglia—essi hanno il portamento grave e la solennità dei vecchi mastini.

All'estremità del borgo inferiore, vicino al letto del torrente, sorgeva una casetta isolata, di un sol piano, coverta di tegole rosse pizzicate di muschio. Un muro di pietre senza cemento, coronato di rovi, inquadrava questa povera e nera dimora, e proteggeva un pezzetto di giardino di un paio di jugeri, cui il proprietario aveva disputato al torrente. Qualche alberi fruttiferi, dei cavoli, dei finocchi, delle radici, ed altri legumi spuntano dal suolo accuratamente pettinato. Un sentieruolo coverto da una pergola correva lungo la casa; due vialuzzi dividevano il giardino a croce.

Una porta dell'abituro sporgeva sulla strada; un'altra, di rincontro, sul giardino: ambo si aprivano in una larga sala.

Il fumo aveva annerita questa stanza, la quale serviva nel tempo stesso di tinello, di cucina, di salone, di legnaia, di credenziera, di forno, di tutto—eccetto di camera da letto. Due altre cellucce, alle due estremità della sala, avevano questo ufficio. Due grossi alari di ferro sostenevano i ceppi del focolare dal vasto mantello ed impedivano ai tizzoni di rotolare sulla pignatta che bolliva innanzi al fuoco.

Un maiale terminava il suo pasto della sera in un angolo della sala. Esso brontolava, si avvicinava di tempo in tempo al camino ove andava a scomodare un cane steso tutto di lungo. E questo, così rimescolato da quel figliuolo viziato della casa, se gli slanciava alle orecchie, lo mordeva, e lo rimandava al suo truogolo. Un piccolo gatto grigio e macilento, mezzo cacciato nelle ceneri, sollevava allora la testa per contemplare il cattivo umore di quei signori, e spazzolava col suo zampino i suoi baffi un po' arrostiti. Alcuni polli dormivano di già, accoccolati su degli stecchi al disopra del maiale. Ai neri assiti della sala pendevano ancora qualche brani del predecessore di questo animale petulante, ma esso non vi badava, perocchè, modesto come un seminarista, non levava giammai gli occhi al cielo a mo' de' poeti e dei devoti.

Al mantello del camino restava appeso traversalmente un archibugio a pietra, sur una fila di fusi, rigonfi dal filo di canape, cui la massaia di casa destinava alla confezione delle camice, e dell'altra biancheria della famiglia. Ad un lato del camino, bilicava su tre banche attortigliate un guindolo festonato di matasse a mettere in gomitolo. Dall'altro lato, sopra una tavoletta conficcata nel muro, giacevano un breviario ingrassato e affumicato, e vari volumi, meglio appropriati: Hegel, Machiavello, Orazio, Omero in greco, Goethe, Victor Hugo, il Don Giovanni di Byron, i Conti di Hoffmann, Rabelais….

La porta sulla strada era chiusa; quella sul giardino, aperta. Di dentro, nessuno. I due abitanti della casa erano nel giardino. La porta del giardino, a vetri e cancello in su, rischiarava la sala. Una piccola finestra si apriva sul verziere, a mezza vita, ed inondava di luce il focolare.

La mediocrità al coperto dello stretto bisogno, la parsimonia coraggiosa, l'attenzione febbrile di nasconderla agli sguardi mordaci della gente della provincia, la quale addiziona le patate che mangiate, i bicchieri di vino che bevete, le lenzuola e le camice che possedete… ecco la fisonomia generale dell'abituro. Un osservatore perspicace non avrebbe guarentito che colà vi fosse dell'ordine,—il padre della ricchezza;—ma egli avrebbe constatato un sistema di vita dalle abitudini monastiche, quel tutto a posto, che talvolta è quel disordine in cui i monomani sanno rinvenirsi. L'indifferenza alle comodità traspirava da tutti i dettagli—dalle sedie in legno e del vasellame smussato, dal fumo che si librava constantemente nell'appartamento, dalle fessure delle finestre che fischiavano, dalle fanfare del vento, dai vetri rotti, dal suolo mal mattonato, dagli alari zoppi, dal candeliere di ottone ossidato di glutine verde, dalla promiscuità degli uomini e delle bestie, da tutto infine. Nulla di assolutamente necessario non mancava, tutto aveva l'aria ad un dipresso pulita, ma in tutte le cose si sarebbe potuto correggere qualche difetto che urtava la delicatezza, il comodo, il meglio. Mettete lì dentro un fanciullo che tocca a tutto, e voi avrete una dirotta.

L' ave maria suonava al convento dei cappuccini. Il tempo era grigio, ma si vedeva di lontano, dietro le montagne, quel tuono rosso che indica un buon tramonto sul mare e che promette bel giorno per l'indomani. Delle nuvole vaporose si ammonticchiavano sulla montagna e si stendevano placidamente nel cielo. Un rovaio freddo agitava l'aria, e lacerando qua e là il nugoleto, scopriva la pupilla ammiccante di una stella. Nel giorno aveva piovuto—quella specie di pioggia a metà rappresa, che non è più l'acqua e che non è ancora la neve, cui la gente della contrada addimanda acqua fradicia. I contadini ritornavano dalla campagna bagnati fino all'osso. E' si avviluppavano nei loro mantelli corti e stretti, detti cappuccio, di panno bianco sporco, il beschetto ribattuto sul volto. Portavano sul dorso la zappa e l'accetta ed un ramo di legno, mentre le loro femmine, la gonna rimboccata fino al ginocchio, senza calze, portavano sul capo la culla di un figliuolo o una manata di sterpi. I più ricchi si menavano innanzi un asino magrissimo, carico di legna raccolte alla foresta, che si vende ai borghesi per qualche soldo. I più miserabili si tiravano dietro una nidiata di bimbi e di bimbe sporchissimi, tutti rossi dalla fatica o dal freddo, carreggiando ciascuno il suo piccolo ciocco, le figliolette i piedi nudi, come la madre, i garzoncelli calzati di un pezzo di cuoio, incordato attorno alla gamba, che proteggeva la metà davanti del piede e lasciava a nudo i talloni. Li si chiama scarponi.

Tutte quelle povere genti, passando di presso al muro del giardino, salutavano umilmente il borghese che vi passeggiava, con un: Sia lodato Gesù e Maria! Ma quel borghese, distratto, il mento affondato nel petto, non rispondeva al loro saluto.

Don Diego Spani era un uomo di una quarantina d'anni, forte, alto, trascinando delle grosse scarpe con fibbia di ferro ed una cattiva giubba che gli ballocciava sul ventre. Indossava calze nere, brache di velluto di cotone, al collo un collare di cartone coperto di stoffa azzurra, orlato di bianco, un corpetto a bottoni di ferro imbrunito. La sua giacchetta di panno bleu era stata fabbricata e cucita in casa della lana filata da sua sorella. Tutto ciò era frusto, rattoppato, bruciato da qualche pezzetto di esca caduto dalla sua pipa, lercio del tabacco caduto dal suo naso, sciupato; ma non un bottone che mancasse, non uno squarcio che sbadigliasse.

Don Diego si teneva le mani in tasca e camminava lentamente, ma a passo fermo, come un uomo assorto; si dondolava come qualcuno che non guarda ove cacci il piede. Fumava una pipa di terra rossa, a tubo di canna ricurvo, o piuttosto serrava quell'infetto utensile fra i suoi denti, poichè il caminetto ne era spento.

Egli aveva la testa nuda, la parte culminante del cranio completamente calva, dal fronte all'occipite, mentre le lunghe ciocche di capelli alle tempia spaziavano al vento. Il vaiuolo aveva butterato alquanto il suo largo viso, e gli stigmati onde esso lo aveva forellato riflettevano la luce in un modo più vivo, rialzavano il tuono del colore della faccia. Egli aveva quel bruno che va sul giallo proprio dei temperamenti biliosi, il quale, nella collera, diviene livido o bianco pallore a seconda dell'intensità della passione. I muscoli del suo viso magro disegnavano delle protuberanze e dei solchi, e gli davano l'aria d'un uomo cui delle forti contenzioni dell'anima avevano devastato. Ma non bisogna confondere ciò con le macerazioni della vita ascetica nè con la consunzione della meditazione. Queste due ultime cause smungono altresì una faccia umana, rilevandone i lineamenti; ma esse le danno nel tempo stesso quel certo che di luminoso che emana dall'anima, dall'aspirazione verso l'alto dei santi e degli scienziati.

Sull'aspetto di colui che passeggiava nel giardino si delineavano passioni più umane. Vi si vedeva il riflesso di un fuoco interiore che faceva bollire il cuore prima d'infiammare il cervello. Le rughe irregolari che screpolavano la sua vasta fronte si armonizzavano con quel sembiante abbaruffato, con quelle labbra carnute, ma smorte, con dei denti acuti e giallastri, con un mento sporto in su e un naso fieramente aquilino dalle narici ovali, aperte, irritate, con delle sopracciglia aggrottate, lucenti e nere, tendenti a ravvicinarsi. Queste altere sopracciglia non temperavano punto il bagliore di due pupille piccole e nere, d'altrettanto più petulanti che erano fisse—direi quasi rapprese—sopra due globi, il cui bianco aveva del giallo di avorio con delle piccole serie rosse ed azzurre. Il tuono affoscato dell'orbita augumentava la profondità di quello sguardo di acciaio, immobile e ghiacciato come quello del tigre, una profondità iscandagliabile. L'insieme di questa testa esprimeva la violenza animale contenuta dalla volontà, degli appetiti feroci repressi dalla dignità del pensiero, l'ambizione accasciata sotto il mantello di piombo della rassegnazione—un essere abortito infine a causa degli ostacoli sociali che lo avevano retrospinto in lui stesso.

Non occorreva di vedere i residui del suo abbigliamento per indovinare che Don Diego Spani era prete.

Questo fatale carattere lo aveva afferrato nella sua morsa inesorabile e l'aveva contraffatto o fatto a suo modo.

Ciascuno dei suoi lineamenti portava le tracce di una violenza interna. Egli aveva dovuto ripiegare la larga stoffa che la natura gli aveva donata; egli aveva dovuto fare un gatto del leone. Don Diego era una mina carica a cui si era soppressa la miccia. La natura lo aveva dotato di un'attività potente, dell'ossatura fisica degli uomini di azione; il bisogno ne aveva abborracciato un prete di provincia. La sua mente poteva comprendere ed abbracciar tutto, adattarsi a tutto—perocchè essa sapeva trovar delle ragioni invincibili per giustificar tutti gli atti, anche il delitto. La sua coscienza era abituata a bazzicare le alte regioni del pensiero. In queste regioni, si sopprime Dio,—l'aria dell'anima,—come l'aria respirabile è soppressa nelle alti regioni del cielo. In queste regioni, le azioni umane hanno tutte lo stesso colore, quantunque d'intensità differente; il bene ed il male vi sono assorbiti dalla dottrina della necessità organica, dell'iniziativa umana, dell'identità universale. Questa coscienza non gli parlava più, non gli dettava alcuna regola. Don Diego obbediva unicamente alla legge sociale,—e questa legge non aveva per lui che un significato: parere!

Questa natura eminentemente attiva ed eminentemente assorbente si dibatteva nel vuoto. A quarant'anni egli era ancor puro. Egli non aveva baciato ancora neppure la fronte di sua sorella,—cherubino di diciassett'anni…. che brancolava nelle aiuole del giardino e coglieva l'insalata! Panteista, don Diego conservava tutto il decoro del prete cattolico, dal costume irreprovevole, dalle dottrine ortodosse. Attirato da un magnetismo irresistibile verso la donna, egli l'aveva fuggita, avviluppandosi in un corazza di ghiaccio e di disprezzo. Imperocchè egli sapeva che il giorno in cui avrebbe ceduto a questo celeste demonio, e' sarebbe perduto,—avendo a fare con colleghi altrettanto più rigidi quanto più erano indegni, invidiosi e sciocchi, con un vescovo di altrettanto più severo che Don Diego era senza menda su tutti i punti.

Don Diego aveva dei nemici. Il vescovo da prima, cui egli disprezzava. Poi l'arciprete, a cui aveva un dì disputato il posto e non l'aveva ottenuto a causa di una nota segreta della polizia mandata a monsignor di Policastro, il predecessore del vescovo attuale. Questo arciprete, don Baldassare Sarubi, aveva tentato di corrompere Bambina,—la sorella di don Diego,—alla confessione, per penetrare nei segreti della famiglia. Ma don Diego, nel suo severo silenzio, imponeva a quest'uomo. Senza curarsene, egli controllava le operazioni e la condotta di questo arciprete, il quale non osava nulla per paura d'aver poscia a renderne conto al suo subordinato nelle congreghe del capitolo della parrocchia.

Don Diego aveva inalzata una barriera insormontabile tra i suoi compatriotti e lui. Egli non andava al caffè come gli altri preti. Egli non giocava, perchè povero. Egli non aveva ganza, come tutti gli altri ecclesiastici,—mons. Laudisio non escluso. Egli non faceva mai visite e non riceveva alcuno in casa sua. Egli passeggiava solo, sulla strada di Calabria, lontano, ben lontano dal borgo. Egli non faceva del bene e disdegnava fare del male. Egli disprezzava gli uomini e s'incaricava poco del cielo. Non dimandava nulla, trovando tutto al di sotto della sua capacità, de' suoi desiderii, de' suoi mezzi; non manifestava alcuna ambizione avendole tutte; non lodava il governo, e se taluno de' suoi compatriotti gliene parlava, rispondeva con un sorriso grave di accuse: de deo pauca, de rege nihil! Lo si riputava carbonaro, massone, mazziniano, unitario; egli vagheggiava tout bonnement le dottrine di Saint-Just e di Robespierre, la libertà della dittatura.

Don Diego non comprendeva chiaramente che gli estremi. Era inflessibile. Lo Statuto o la Carta, come la si chiamava allora, l'eclettismo, la grazia, la misericordia, le due Camere, la confessione e l'assoluzione, la provvidenza, la forma ideale, in una parola tutto il giusto mezzo della scienza, della politica, delle belle arti, della teologia, della filosofia, della società civile—era a' suoi occhi un non senso. Tutto o niente! l' aut Cesar aut nihil del figlio di Alessandro VI: ecco la sua divisa. L'astinenza o l'orgia, l'ateismo o un dio-travicello, il rey neto o dei consoli al mese, l'aristocrazia o la plebe, la schiavitù della donna o l'amor libero al di fuori del matrimonio…, tali erano le sue credenze, la sua regola di condotta interna, pur subendo la legge inconseguente del mondo tal quale esiste. Il suo spirito non rinculava in faccia a qualsiasi abisso; la sua persona si curvava sotto il giogo sociale.

Si susurravano sul suo conto, nelle chiacchierate di provincia, le più infami, le più strane, le più assurde calunnie. Lo si credeva alchimista, amante di sua sorella, mago, fabbricatore di monete false, assassino di fanciulli e sacrilego, cospiratore, autore di libelli ingiuriosi, empio, socialista, ateo, santo che faceva dei miracoli per disannoiarsi, dotato della potenza di evocare gli spiriti, possessore di un demone famigliare, nasconditore di briganti, corruttore…. Don Diego subiva la calunnia come egli soffriva la miseria—con impazienza ma senza lamentarsi agl'impotenti, puntando il giorno, l'ora, l'occasione di uscirne, di spogliarsi del suo sordido inviluppo di larva e divenire essere alato. In che modo? quando? Giammai forse! e' si diceva. Ma egli concentrava tutte le forze ardenti della sua anima su questo punto, viveva di quest'ora di sogni.

—Vuoi delle ova? dimandò Bambina, passando a costa di suo fratello nel giardino e ribassando la sopragonna cui aveva riboccata sul capo.

—No, rispose Don Diego, continuando a passeggiare.

Bambina entrò nella sala, accese un candeliere con una miccia intinta nel zolfo,—come usavasi allora,—e cominciò a mondare l'insalata.

Ella pensava a qualcuno, che allora abitava Napoli, e borbottava il suo rosario, querelandosi nel tempo stesso col gatto, col cane e col porco. Quand'ella si ebbe accomodato in un piatto la scarola e la rughetta, guardò se la pignatta bolliva. E come l'acqua cantarellava di già, prese un pizzico di sale nel mortaio, una cucchiaiata di lardo triturato sul tagliere, e gittò il tutto nell'acqua bollente con qualche foglia di prezzemolo. Poi andò a prendere un piatto di farina di granturco e cominciò a versarla a guisa di neve, a piccoli pugni, nella pentola, agitando la mischianza col matterello. Quando pensò di aver messo abbastanza farina e di averla abbastanza rimescolata per frangere i grumi, si allontanò dal fuoco e lasciò che la polenta cuocesse dolcemente.

—Andiamo, su, Marco, diss'ella al maiale aprendo la porta della strada: è tempo di andarti a coricare. Hai mangiato come un vescovo.

Marco non oppose alcuna resistenza. Esso provò solamente di asciugare il suo grifo alla veste della giovinetta, la quale gli allungò un calcio. Bambina lo andò a rinchiudere nel piccolo porcile all'angolo della casa, mettendolo così al sicuro dai festini dei lupi, che si permettevano di tempo in tempo una discesa notturna nel borgo e si regalavano di prosciutto fresco, di piedi tartufati e di un sanguinaccio senza intingoli. Quest'operazione compiuta, Bambina rientrò, chiuse la porta a chiave, avvicinò al fuoco una tavola sulla quale spiegò una tovaglia grossolana e pulita, pose due forchette e due cucchiai di ferro, due piatti, il candeliere, l'orciuolo di creta a becco pieno di vino, un grosso pane nero raffermo di parecchi giorni, e l'insalata. Poi andò a chiamare il fratello.

Don Diego rientrò e venne a sedere al suo posto. Un'ora di notte sonava,—un'ora dopo l' Angelus. Io conto al mo' del mezzodì d'Italia.

—Ho incontrato la signora di Craco oggi, uscendo da vespro, disse Bambina. Ha ricevuto una lettera di Don Tiberio.

—Ah! sclamò Don Diego, affondando la sua forchetta nel piatto dell'insalata.

Il fratello e la sorella mangiavano nello stesso piatto.

—Don Tiberio ha preso il suo diploma in dritto ed entra come aspirante nella carriera diplomatica.

—Tanto meglio.

—Sua madre crede nonpertanto che Don Tiberio farà nel mondo tutt'altro che della diplomazia.

—Tanto peggio.

—Cosa hai dunque, Diego? Tu non mangi e rispondi per monosillabi.

—E tu, figliuola mia, tu parli troppo dei De Craco.

Bambina arrossì.

Don Diego non la guardò.

Ella andò a pigliar la polenta senza rispondere e la versò in un gran piatto.

—Ho un presentimento, continuò Don Diego tuffando il suo cucchiaio nella polenta.

—Di guadagnare un terno alla lotteria? chiese Bambina, sorridendo.

—L'arciprete mi ha dimandato se voleva dare lezione ai suoi nipoti.

—Altri dicono: ai suoi figliuoli, obbiettò Bambina.

—Fanciulla mia, riprese Don Diego, non ripetere giammai ciò che si dice. Io sorrido di una malvagità che s'inventa. Una calunnia che si porta intorno, mi dà nausea.

—Portare intorno è più facile, osservò Bambina.

—Ebbene, rispose Don Diego, le avvenenze piaggiatrici di quell'uomo nascondono una trappola od una disgrazia.

—Perchè no un favore? sclamò Bambina togliendo su il tondo della polenta a cui suo fratello non toccava più, e mettendo sulla tavola qualche cipolla, qualche mela ed un pezzo di caccio di capra che civettava la pietra pomice.

—Un favore? replicò Don Diego sorridendo.

—Perchè no? quelle bestie lì sanno altrettanto bene leccare che mordere.

Il martello della porta scoccò tre colpi. L'orologio della chiesa suonò un'ora e mezzo. Il fratello e la sorella si guardarono negli occhi, come se arrivasse qualche cosa d'insolito e di straordinario.

—A quest'ora! disse Bambina.

Don Diego si alzò ed andò ad aprire.

—Buonasera a vossignoria, don Diego, disse entrando il famigliare della Curia (la cancelleria del vescovo). Vi porto una lettera del segretario di monsignore.

—Date qui, disse Don Diego prendendo la lettera. Vi occorre risposta?

—Non mi han detto nulla.

—Entrate, mastro Prospero, gridò Bambina. Che io vi versi un bicchiere di vino.

—Mille grazie, donna Bambina, rispose il famigliare, cioncando due bicchieri mentre Don Diego leggeva la lettera.

—No, disse questi: non vi è risposta a dare.

—Buona notte alle signorie vostre, disse il famigliare, e partì.

Don Diego richiuse la porta, poi ritornò a sedersi a tavola senza fiatare.

—Che vogliono dunque? chiese Bambina.

—Leggi e capisci se puoi, rispose Don Diego porgendole la lettera.

Bambina prese il foglio episcopale e lesse a voce alta:

«Signore reverendissimo,

«Sua Eccellenza Reverendissima monsignor di Policastro v'invita a passar domani al palazzo episcopale, dopo la messa, a quattordici ore, avendo talune cose a comunicarvi personalmente.

Di V.a S.a Riv. «Umilis. e divot. servitore « Il segr. ALBINIO CASALE.

—Hai tu compreso? dimandò Don Diego.

—Ciò non può essere un disastro, sclamò Bambina. Tu non hai fatto nulla.

—Ciò non può essere un favore, replicò Don Diego. Io non ho domandato nulla ed ho meritato così poco.

—In questo caso, che Dio ci protegga, esclamò Bambina. Io non c'intendo nulla ed ho paura di tutto.

Una lagrima spuntò negli occhi del prete, una lagrima appena comparsa che bruciata. Egli guardò sua sorella e sclamò:

—Ah! se io fossi solo!

—Due valgono ancora meglio! rispose costei ed andò a coricarsi.

Don Diego passeggiò nella camera fino a mezzanotte. Poi preso dal freddo,—il fuoco si era estinto,—andò anch'egli al suo giaciglio mormorando:

—Infine, vedremo.

II.

Come il vescovo di Policastro accudiva il suo ovile.

Monsignore Laudisio era un vescovo secondo il cuore del re. Egli si preoccupava mediocremente di esserlo secondo lo spirito di Dio. Lo si era innalzato a quel posto per dargli una ricompensa. Monsignor Laudisio aveva denunziato parecchie migliaia di carbonari, snidati al confessionale nel tempo delle sue missioni evangeliche, quando era monaco nella congregazione di San Alfonso de Liguori. Lo si era installato come vescovo in una provincia, in una diocesi, le più infette di liberalismo,—il Cilento,—ed egli dominava nel vescovato di Policastro e Lauria.

Egli esercitava le funzioni apparenti di vescovo; le funzioni intime di alto commissario di polizia della provincia. Monsignore Laudisio corrispondeva poco punto col papa e col ministro del culto; quasi tutti i giorni col ministro della polizia. Egli aveva aperto, oltre a ciò, un grande ufficio di collocamento di sudditi fedeli al trono ed all'altare. Si dibatteva il prezzo direttamente con lui, il sant'uomo, perocchè egli era avaro come un prete soppannato di un vescovo, un vescovo foderato di un monaco. Egli non faceva punto mistero di questo traffico; all'occorrenza avrebbe trattato innanzi notaro! Si depositava al Banco, al suo indirizzo, il danaro convenuto qual prezzo del posto, e monsignore andava a pigliarselo quando le convenzioni verbalmente stipulate erano adempite. Egli riceveva molti regali di ogni sorta. Ma una gran parte di questi doni, bisogna pur confessarlo, pigliava la volta di Napoli onde intrattenere le piccole amicizie degl'impiegati e richiamarsi alla memoria dei ministri. Re Ferdinando gli dava del tu e gli baciava la mano. La regina austriaca orlava per lui dei moccichini di seta delle Indie e gli regalava del tabacco da naso. Egli raccontava storielle ai piccoli principi, e le piccole principesse giuocarellavano col suo berrettino e con la sua croce episcopale.

Monsignor Laudisio portava la sua dignità con un'aria di gendarme. Aveva il verbo alto, la voce un poco rauca a causa del suo lungo predicare. Ei declamava, anche dicendo un: come stai, figliuolo mio? Aveva i modi vivi, intermittenti, mostrandosi a volta a volta brusco od insinuante, secondo la convenienza, le disposizioni dell'animo, la natura dell'affare, il carattere e la condotta dell'individuo con cui trattava. Egli piaggiava anche talvolta. Nella collera poi ruggiva, dava calci, pugni, schiaffi;—ma in quest'ultimo caso aveva cura di voltare al di dentro l'amatista del suo anello episcopale, per imprimerla sul viso dell'infelice cui batteva.

Egli mangiava enormemente, grossolanamente, ma beveva con sobrietà. Non si obbliava che a disegno. Monsignor Laudisio camminava sollecito, dritto, capo alto, seminando le sue benedizioni a manate, a chi ne voleva e sopratutto a chi non ne voleva. Il suo aspetto magro e pallido era dotato di una grande mobilità,—ciò che aumentava la sua grande forza di mimo, la quale lo aveva fatto riescire nella sua parte di missionario. Egli spremeva delle gocciole dalla sua glandola lagrimale a volontà, anche dicendo: Il diavolo ti pigli, figliuolo benedetto! Non uno dei suoi capelli grigi era caduto. Aveva non di meno cinquantasei anni e quattro o cinque divote morte…. sul campo del confessionale. La sua giovialità lo lasciava di rado. Non provava alcun rimorso, e non aveva a sperar altro che di succedere al santo ubbriacone Gregorio XVI. Vi pensava? Chi lo sa? Monsignor Laudisio opinava che col danaro si può tutto osare; che con una croce episcopale sul petto, e l'assenza di coscienza nel petto si può tutto sperare,—dal triregno e l'aureola di santo ad un posto nell'alcova della regina. L'espressione della sua fisonomia rassomigliava alquanto a quella del becco, ma addolcita, starei per dire femminizzata dalla pallidezza del suo colorito, dal sorriso schernitore che la rischiarava costantemente. La sua bocca poteva mordere e baciare, bevere e piaggiare.

Monsignor Laudisio gettava il terrore fra i liberali della provincia; ma egli rendeva volontieri servigio agli amici del re e della fede—mediante pecunia. Egli dava ordini ai prefetti, alla gendarmeria, ai presidenti dei tribunali: si sarebbe detto che avesse ministri e re nella scarsella. Sapeva di tutto. Ed in realtà, sapeva molto: lettere e scienze come affari. Nessuno raccontava un aneddoto bernesco o lugubre al pari di lui: egli possedeva la vena della buffoneria al grado supremo. Onde è che bisognava vedere come le religiose dei conventi ammattivano per lui e come le gonne correvano dietro alla sottana violetta.

Con i liberali, con i filosofi, con i liberi pensatori cui non terrorizzava, con coloro che punto nol temevano o non avevan bisogno di lui, egli prendeva un'aria untuosa, melliflua, e dava ad intendere che, se il suo mestiere di vescovo gl'imponeva una certa condotta, il suo cuore era lontano dal giustificarla. Egli mi ha detto un giorno, a me che scrivo queste pagine: «Nessuno fa il carnefice di cuore gaio; io sono più italiano di voi!»

Egli utilizzava tutto. Gli uomini, i fatti, gli avvenimenti, le passioni, divenivano nelle sue mani delle pedine che l'aiutavano a giuocar la sua partita di scacchi. Egli scandagliava un'anima, pesava un uomo con uno sguardo. Guai a chi era più forte di lui, o poteva divenire un ostacolo! Egli si serviva di una calunnia, che poteva partorire una sentenza capitale, come di un agnus dei a dare ad una beghina. Però egli largiva gratis un'assoluzione in articulo mortis alla sua vittima, e si scomodava per andarla a confessare in persona ed accompagnarla al patibolo.

Tale era l'uomo che aveva fatto chiamare Don Diego Spani.

Don Diego si trovò al palazzo vescovile all'ora indicata. Monsignor Laudisio, da uomo che ha dell'ordine ed una buona memoria, era esatto.

E qui due osservazioni indispensabili per i lettori del 1872. Non bisogna paragonare il clero napolitano di quell'epoca col clero attuale e giudicarli come di un sol tipo. La specie è la stessa, differisce il genere. Non bisogna credere inoltre che io m'imbrigo a disegno nel clero e nella polizia per destare orrore. La società delle provincie dell'Italia meridionale di quei tempi sinistri era polizia e clero, o vittima di queste due instituzioni infernali. I Borboni di Napoli non hanno avuto del genio che nella polizia: Canosa, Intondi, Delcarretto, Picchineda, Mazza…. figuratevi il non plusultra del genere! Di qui la rivoluzione del 1848, poi il successo di Garibaldi sans coup férir!

Non appena il cameriere di monsignor Laudisio annunziò Don Diego, monsignore lo fece entrare. E' terminava un dispaccio per il ministro dei lavori pubblici. Perocchè monsignore aveva assunto l'impresa di una strada, alla quale non si lavorava punto, e per la quale il consiglio d'intendenza faceva istanza che fosse terminata. Monsignore rosicava nel tempo stesso una tavoletta di cioccolatte e dava dei colpi di piedi ad una mezza dozzina di gatti che si stropicciavano alle sue calze violette.

Perchè i vescovi amano i gatti?

Monsignor Laudisio stese la sua mano al prete che la baciò, piegando il ginocchio, e lo lasciò in piedi senza dir motto. Don Diego potè contemplare così a suo comodo il grande disordine del gabinetto episcopale.

In una biblioteca, alcuni volumi rovesciati, collocati di traverso con dei segnuoli di carta,—dei libri di teologia,—poi la Storia della Chiesa di Fleury, il Codice del Regno, i Commentari sul Codice, di Tullier, le opere di S. Alfonso di Liguori, l' Orlando Innamorato di Berni, La Scienza e la Fede, giornale dei gesuiti, un volume di Walter Scott…. Dei fasci di carta occupavano le poche sedie del gabinetto; dei fascicoli in carta bollata, dei pezzi di minerali—ferro, marmo, rame—giacevano in ogni angolo. In uno spigolo una coppia di capponi legati ancora dai piedi ed otto di quei caciocavalli di Pollino che i ghiottoni napolitani trovano deliziosi. Li aveva ricevuti in dono proprio allora, e monsignore non aveva pensato di farli torre via prima di ammettere il prete alla sua udienza. Un Cristo in avorio, grassotto e panciuto, pendeva dal muro alle sue spalle, fiancheggiato da un'immagine di San Alfonso all'aria di un doppione in galloria, dall'altra il ritratto del marchese di Sora. A portata della sua mano una sferza. Perchè monsignore infliggeva personalmente la ferula ai seminaristi… per fare della ginnastica! Sur una tavola, una disciplina di missionario, un paio di manette da gendarme, un sacco di libercoli sul Cuore di Gesù. Poi, dei bei ricami per le sue cotte ed i suoi camici, una manata di medaglie del Cuore di Maria, un paio di speroni,—perchè monsignore cavalcava benissimo a traverso le montagne della sua diocesi. Poi ancora, sul suo tavolo, dispacci suggellati pel ministro della polizia. In faccia, i busti in gesso del re e della regina. Sopra uno sgabello a sinistra una tazza di porcellana per dare a bere del latte ai suoi gatti, delle zuccheriere, due zaini di pelle di capretto ripieni di piastre, un oggetto di toiletta,—che io non oso nominare benchè Molière ne parli sovente,—una mezza dozzina di tabacchiere in argento ed in vermiglio e molte cartacce. Il Codice del Contenzioso era aperto innanzi a lui.

Monsignore portava la sottana nera del suo ordine, la croce d'oro gittata dietro le spalle, la berretta piantata di traverso sulle tempie, un collare aperto al collo, lasciando intravedere un collo di camicia di servizio da parecchi giorni.

Quando si ebbe terminato il suo dispaccio, e che l'ebbe suggellato e collocato con gli altri, levò il capo e disse a Don Diego, poggiando i gomiti sul tavolo e congiungendo le mani sotto il suo mento:

—Don Diego, figlio mio, tu vai a confessarti con me.

—Vi domando perdono, monsignore, non sono preparato.

—Ah! fece monsignore Laudisio, un prete che terminò or ora di dir la messa e che non è preparato per confessarsi al suo vescovo?

Don Diego lo guardò raddrizzandosi e piegando le braccia sul petto. Monsignor Laudisio fissò egualmente i suoi occhi schernitori sul prete. Ambi si misurarono dalla testa ai piedi, si compresero.

—Monsignor reverendissimo, dimandò Don Diego, codesta confessione è dessa indispensabile?

—Dubiteresti tu dunque dell'efficacia di un sacramento? sclamò il vescovo.

—Il sacramento può esser buono, monsignore, ma le disposizioni del penitente e del confessore non altrettanto. Il padre Sanchez l'ha detto.

—I gesuiti, figliuolo mio, facci attenzione, non sono sempre finamente ortodossi.

—Vostra Eccellenza appartiene alla compagnia di S. Alfonso.

—Così dunque?

—Sta bene monsignore.

—Allora vatti a raccogliere per qualche minuto nella camera qui presso, mentre io scrivo due parole al procuratore generale di Potenza.

Don Diego obbedì. Però monsignore lo udì a passeggiare nella camera ove ei doveva darsi alla preghiera ed all'esame di coscienza.

—Quest'uomo è pericoloso, mormorò monsignore scrivendo la lettera.

Dieci minuti dopo chiamava Don Diego, che si mise in ginocchio e fece sembiante di confessarsi male o bene. Monsignore non l'interruppe punto ed ascoltò. Quando Don Diego ebbe cessato di parlare, monsignor Laudisio dimandò:

—Hai finito, figliuolo?

—Sì, monsignore.

—Tu non obblii nulla?

—Nulla.

—Tu non commetti dunque che dei peccatuzzi veniali, eh!

—Ve ne occorrono dei mortali, monsignore? osservò Don Diego impertinentemente.

—Va benissimo, figliuolo mio: alzati

—Voi non mi date dunque l'assoluzione, monsignore?

—E' sarebbe uno sciupar le buone cose fuor di proposito. Tu non ne hai bisogno d'altronde.

Don Diego si levò.

—Ho voluto vedere, riprese monsignore cangiando tuono, fin dove si poteva spingere l'audacia del sacrilegio. L'ho visto.

—Prego Vostra Eccellenza Reverendissima di spiegarsi, disse Don Diego con calma, prendendo una sedia e sedendosi, con grande stupore del vescovo che lo aveva lasciato in piedi e l'avrebbe voluto a ginocchio.

—Io non ho che una parola a dirvi, a voi, Don Diego Spani, rispose il vescovo alzandosi: io v'interdico.

Don Diego non si mosse: restò assiso e chiese:

—Potrei pregare Vostra Eccellenza Reverendissima di darmi una ragione della severità di questo gastigo?

—Io non ho ragione a rendere dei miei atti che al re, al papa ed a Dio, rispose il vescovo.

—Nonpertanto, monsignore, quando si batte sì duramente, sì crudelmente, si deve pur dire perchè,—non fosse che per lasciar venire il pentimento.

—Voi non siete uomo da pentirvi, replicò il vescovo.

—Chi sa, monsignore? se io fossi veramente colpevole! Ma voi sapete che per codesta punizione inesplicabile ed illimitata, voi mi rovinate. La messa è il mio pane,—e non solamente il mio, ma quello della mia povera sorella.

—Ah! sclamò il vescovo con un piccolo sorriso che esprimeva un mondo di cose.

Don Diego vide il sorriso, comprese il pensiero del suo superiore, si alzò, si avanzò di un passo verso il prelato e gridò:

—Monsignore, spezzatemi quanto volete: il prete è la cosa del vescovo. Ma non un sorriso di più, simile a quello che venite di smorfiare, non una parola, non un pensiero, non un aspetto… io ve l'ordino in nome del mio cuore, in nome della mia dignità di uomo.

Monsignore squadrò Don Diego impassibilmente poi soggiunse, giocando sulle parole:

—Voi date degli ordini troppo presto, figlio mio: procurate dapprima di esser vescovo.

Don Diego cadde a ginocchio e congiungendo le mani supplicò:

—Ve ne scongiuro, monsignore, ditemi di che mi accusano.

—Voglio soddisfarti, figlio mio, disse il vescovo sedendo di nuovo. Eccolo: 1.° tu sei incredulo; 2.° tu sei carbonaro; 3.° tu hai delle relazioni incestuose con tua sorella.

Don Diego si alzò lentamente, e poggiando la mano sinistra sul lembo della tavola del vescovo, rispose:

—Se sono incredulo, ciò riguarda Iddio. Se sono carbonaro, ciò riguarda il re. Se avessi le relazioni infami che dite voi, ciò riguarderebbe l'onore della mia famiglia, mia sorella e me. Il mondo non ha potuto mai sorprendere alcuno di questi delitti nella persona mia.

—Il mondo, chi sa? Ma Dio?

—Dio mi giudicherà quando la sua volta arriverà, ed io saprò che rispondere. A voi, monsignore, non ho a dire che questo: calunnia, calunnia, calunnia!

Vi era nella voce di don Diego tale solennità, nella sua aria un tal sentimento di fierezza, di verità, di dolore, che il vescovo si sentì come strangolare. E' stette in silenzio per qualche minuto affondando lo sguardo fisso nello sguardo immobile del prete.

—Calunnia! disse egli infine. Voi non siete dunque ateo?

—Monsignore, io sono prete.

—Voi non siete carbonaro?

—Monsignore, io obbedisco alle leggi dello Stato senza mormorare.

—E voi non amate vostra sorella?

—Io l'amo, monsignore. Mio padre era un povero sarto che andava in giornata, monsignore, e morì poco dopo la nascita di mia sorella. Mia madre guadagnava il nostro pane tessendo per la gente della comune. Ella morì di fatica lasciandomi sulle braccia una figliuolina di quattro anni. Mia sorella ha adesso diciassett'anni. Io ne ho quaranta. Io sono stato suo padre, il suo istitutore, la sua madre, la sua amica vera, monsignore,—ciò che le donne non incontrano mai. Io ho lavata, io ho coricata, io ho pettinata questa piccina. Io le ho insegnate le sue preghiere. Noi abbiamo pianto insieme. Noi abbiamo insieme digiunato quando non avevam pane. Io ho fatto la bisogna di casa in suo luogo, per risparmiare questo piccolo e gracile corpo. Io ho soppresso le mie camicie per comperarle una veste. Io ho sofferto la fame per nudrirla a seconda dei suoi bisogni. Io ho avuto il coraggio di sorridere, per non attristarla, quando il dolore e l'oltraggio mettevano a soqquadro l'anima mia. Breve, monsignore, questa figliuola è la mia anima. Il cielo non ha un cherubino più puro e più bello di Bambina.

Monsignor Laudisio aveva appoggiato il suo cubito sul braccio del seggiolone, il suo mento nella mano, ed ascoltava attentamente il prete, esaminando l'espressione illuminata di quella figura. Un'aria sarcastica svolazzava sul volto del vescovo.

—Tutti i preti della mia diocesi, disse infine il vescovo dopo un momento di silenzio, hanno delle ganze. I più onesti ne hanno due,—senza contare le cugine, le cognate, le religiose dei conventi. Io ho fatto tutto ciò che un vescovo, un ministro della polizia, un capitano di gendarmeria, un procuratore reale potevano fare per riformare questi infami costumi. Li ho interdetti. Li ho messi in prigione. Li ho relegati nei conventi a far penitenza. Li ho fatti mandare al bagno. Li ho ingiuriati dall'alto del trono della chiesa. Non sono riescito. Non mi resta che non aver più dei preti, se voglio averli morali. Un solo, in mezzo di questo branco immondo, si è preservato da ogni sozzura: voi!

—È vero, monsignore.

—Voi siete giovane, nondimeno, voi siete robusto. Le occasioni non vi sono mancate. Voi non avete nè cause, nè ragioni apparenti per condurvi differentemente degli altri…. Volete voi spiegarmi l'eccezione?

L'osservazione del vescovo era strana, ma profondamente giusta. Non si fa violenza alla natura quando le si può dare impunemente libero sfogo, quando non si è sotto l'imperio di una legge, di un bisogno; di una volontà superiore all'istinto. Laonde, Don Diego si trovò imbarazzato a rispondere.

—L'eccezione, monsignore, diss'egli infine dopo un istante di riflessione, tiene a delle cause moltiplici,—piccole cause forse, ma che, riunite in fascio, formano un ostacolo insormontabile, come i piccoli rami di vimini allacciati oppongono una diga all'innondamento del fiumi.

—Delle imagini! continuate.

—Ebbene, che so io? la miseria, le cure di casa mia, la mancanza di tutto, l'assenza delle tentazioni, la timidezza, l'assorbimento in altre occupazioni dello spirito, una fibra accasciata dal principio sotto il dominio della volontà, un altro corso dato all'attività della vita, un ideale qualunque che mi ha guidato per i cieli e mi ha fatto trovare la terra orribile e laida, quell'indomani che si sovrappone all'indomani per il compimento di un desiderio o di un disegno, l'isolamento, la stessa astinenza….

—E sopratutto, l'interruppe il vescovo con un sorriso ironico ed incredulo, perchè non si va al mercato a comperar delle pesche punticce quando se ne hanno delle così belle nel proprio verziere.

—Ah! sclamò don Diego d'un tuono freddo, abbassando la testa, incrociando le braccia sul petto.

—Un giorno, continuò il vescovo, un contadino spagnuolo ed un contadino Moro si presentarono all'arcivescovo di Toledo, il quale era altresì principe sovrano. I due villici si disputavano un cavallo, di cui entrambi si dicevano proprietari. Non testimoni da interrogare. Non giudizio di Dio per le armi, da tentare. Non documenti, che stabilissero la proprietà o il possesso, da consultare. Il Moro diceva: il cavallo è a me! Lo spagnuolo assicurava: No, esso è il mio! L'arcivescovo, a fine di spedirli, dette il giuramento sul vangelo ai due litiganti. Ambo giurarono. Se voi foste stato l'arcivescovo di Toledo, a chi avreste consegnato il cavallo?

—Anzi tutto, rispose don Diego io non avrei fatto giurare il Moro sul vangelo, ma sul Corano.

—L'arcivescovo non credeva al Corano; egli credeva al giuramento del cristiano sul vangelo.

—Allora?

—Allora, riprese monsignore con tuono altero e severo, io fo come l'arcivescovo di Toledo: io credo ciò che mi è stato attestato da un prete cattolico, realista, credente, piuttosto che la negativa sofistica di un carbonaro empio, e v'interdico per tutta la vita.

Don Diego restò come fulminato per alcuni minuti. Il viso di monsignor Laudisio, pallido di collera, esprimeva una determinazione irremovibile, i suoi occhi fiammeggiavano. Don Diego disfece allora lentamente il suo collare di prete, lo gettò a terra, vi pose su il piede e gridò:

—Voi lo volete, monsignore? ebbene sia pur così. Io era stato buono, puro, onesto. Io aveva sofferto la miseria con rassegnazione, vagheggiando il meglio, ma non mi movendo per realizzarlo, rispettando ciò che non credevo, subendo tutti i pregiudizi della società senza mormorare, senza violarli…. Voi mi fate sentire che fui un minchione. Voi mi spezzate prete: io mi rialzerò…

—Papa? interruppe monsignore ghignando.

—Monsignore, io conosco tal figliuolo di beccaio, il quale non seppe altro che la sua piccola teologia, ed ancora! Ebbene quel garzone si fe' vescovo. Vostro padre, il beccaio, valeva bene, io mi penso, il mio che era sarto. Ed il figliuolo di quest'ultimo conosce ben altre cose che la teologia, e non rincula più davanti a nulla, nulla! per conquistare il suo posto al sole della vita. Addio, monsignore.

—A rivederci, figliuolo mio, soggiunse il vescovo profondamente ferito dall'allusione del prete, ma sorridendo. Per facilitarvi il cammino, vado di questo punto, a raccomandarvi al ministro della polizia.

—Monsignore, al disopra del ministro vi è il re.

—No, bimbo mio, al disotto, brontolò il vescovo scrollando la testa; il re non governa, prega.

Don Diego salutò ed uscì. Monsignor Laudisio lo fece chiamare. Don Diego ritornò.

—Ascoltate, disse Monsignore, io non voglio spezzare la zattera sotto i piedi un naufrago senza offrirgli una tavola. Codesta tavola, eccola qui. Voi siete stato carbonaro. Voi siete adesso mazziniano ed unitario. Voi sapete molte cose. Voi conoscete gli uomini ed i progetti. Volete rendere servizio al re, alla chiesa, al vostro paese?

—Ed a voi, monsignore!

—Io fo il mio dovere, rispose il vescovo alteramente: io adempio l'articolo 19 del Concordato del 1818 che fa dei vescovi dei guardiani dell'ordine pubblico.

—Monsignore, voi mi dimandate lì il vostro cappello di cardinale. Io ve lo rifiuto. Grazie dell'infame tentazione. Se io dovessi giammai divenire un Giuda, io non farei mai come quel povero calunniato di Galilea cui dicon venduto per trenta denari.

Don Diego, partì senza salutare.

Entrando in casa, egli era stravolto. Cadde affranto sur una sedia, la testa piegata sul petto, le braccia penzoloni. Vedendolo entrare, col sembiante così decomposto, Bambina divenne scialba come raggio di luna. Di uno slancio, ella saltò sulle ginocchia del fratello e cingendo delle sue braccia le testa fulminata del povero prete, se l'attirò sul petto.

—Di', che hai tu dunque, fratello, gridò dessa con voce lacerante.

—Tutto è perduto, povera ragazza mia, rispose Don Diego: il pane e l'onore.

III.

L'esodo dei pellegrini.

Il nome vero di Bambina era qualche cosa come Teresa, Luisa o Cristina, un nome senza colore, che non risvegliava in chi l'udiva alcuna idea, che poteva designare una duchessa come una cuciniera, una santa come una puledra, una cagnola o una damigella. Il nome di Bambina le era restato in seguito dell'abitudine di sua madre e di suo fratello che l'addimandavano così dall'età più tenera, abitudine che Don Diego non aveva dismessa ed a cui gli altri si erano conformati. Il nome, in realtà, esprimeva la cosa.

Quantunque dell'età di diciassette anni, quantunque di una taglia svelta, Bambina aveva l'aria d'una fanciulla. Ella era sì piccina, sì carezzevole sì tenera, sì svegliata! Le fanciulline che han perduta la madre e che sono allevate da uomini che l'amano, se non acquistano assolutamente una tempra forte ed uno stampo virile, diventano doppiamente femmine. Se l'affezione rude e profonda dell'uomo non le sminuisce, essa dà loro forbitezza e calore, come i raggi dei Tropici che, non avendo disseccato un fiore, gli han dato il colorito, il profumo, lo splendore ad un grado supremo. Don Diego, orbo delle delizie e delle leziosaggini del mondo, aveva riportata tutta la sua tenerezza cumulata sulla testa di questa piccola sorella. Aveva avuto per lei l'inesauribile attenzione di una madre, la camerateria di un fratello, l'amore ponderato e previdente di un padre. Questa triade d'amore—o per meglio dire questa triplice faccia dell'amore—sviluppando più precocemente la giovinetta al morale, aveva prolungato la durata dell'impronta infantile delle forme.

Naturalmente pallida—pallida altresì per la crescenza subita e di un sol getto—Bambina mostrava in apparenza la mollezza di una convalescente, piuttosto la neghianza di una giovine religiosa sprofondata nell'ozio. Le sue labbra rosse, pertanto, un po' rilevate agli angoli, un po' carnute davanti e ripiegate di fuori, annunziavano che la non era malaticcia e che non aveva la constituzione ascetica. Le sue grandi palpebre velavano sovente il bagliore delle sue pupille e le davano l'aria di una Vergine. Ma allorquando ella le rialzava, quelle trasparenti e bianche palpebre, i suoi occhi prendevano la petulanza di una baccante.

I suoi grandi occhi grigi, a filetti azzurri, potevano assumere a volontà, secondo l'animazione o la calma interna, il vellutato dell'amore, l'ardore del desiderio, la dolcezza dell'innocenza, il provocamento della cortigiana. Bambina poteva essere, con uno sguardo, un cherubino o una Driade, un giovine collegiale o un paggio corrotto, avere l'impertinenza delle marchese di Boucher o la purità serafica delle madonne di Filippo Lippi. Ella aveva l'ovale allungato delle fisonomie delle madonne di Murillo,—il pittore che abbia meglio compreso ed espresso la donna ideale. Il suo bel mento, bianco come il latte, era diviso da una bella piccola pozzetta, o piuttosto un piccolo solco. Bambina aveva, oltre a ciò, una ricca capigliatura castagno che rilevava il tuono della sua pallidezza ed inquadrava una fronte tagliata fieramente.

L'espressione generale ed ordinaria del viso di Bambina era il dolore, la tenerezza. Si sarebbe detto che questa giovinetta fosse un'edera la quale cercava perpetuamente il suo posto di appoggio, l'albero intorno a cui allacciarsi mollemente. Un certo languore nei suoi movimenti, un certo abbandono nelle sue pose, la nota della sua voce dolce ed allungata, il suo andare in cadenza, la sua testa inclinata, avrebbero dato a credere che in questa fanciulla la volontà fosse assente, agghiadata forse, e ch'ella si lasciasse trascinare dalla corrente della vita, faticandosi di volere, ed anche di pensare. Ma il suo naso un po' all'insù, le sue narici piccole, rosee, eccessivamente mobili, le sue fiere sopracciglia arditamente arcate, quel filo impercettibile di bianca madreperla che separava le due labbra e denunziava dei denti magnifici, quella riga appena visibile che partendo dalla radice del naso si perdeva sull'Olimpo della sua fronte pura, il movimento brusco col quale si raddrizzava in un istante come i fanciulli viziati, manifestavano altresì che sotto quella peluggine di eider si celava una scintilla che all'occorrenza poteva divampare, rischiarare, incendiare, che l'angelo poteva trasformarsi in demonio, la femmina in tigre.

La nullità si distingue di primo sguardo, ad un tratto caratteristico e rilevato; ma sotto quella superficie calma, sotto quell'abito indolente, proprio delle genti nulle, si annicchiano talvolta di quelle individualità strane che si chiamano Santa Caterina da Siena, Charlotte Corday, Imperia. Parvusque videri, sentirique ingens, come dice Marziale.

Bambina sapeva molto, senza dubitarsene. Ciò teneva all'abitudine di suo fratello che pensava e leggeva ad alta voce, non importa che, da una ballata di Hugo, un poema di Byron, un dramma di Shakespeare, un romanzo di Balzac fino alle severe lezioni della storia, della filosofia, della teologia, dell'economia politica, della scienza della natura. Di tutta questa scienza, di tutta questa poesia restava molto nello spirito di Bambina, la quale, non essendo distratta altrove, essendo tenuta a parte dal contatto della gente grossolana del borgo, occupava l'attività della sua intelligenza a queste curiosità. Ed era singolare vedere questa giovinetta, mondando i legumi, filando il lino o ferruzzando una calza in faccia a quella testa austera di Don Diego lavorando a voce alta, interrogarlo, per esempio, cosa era quell'amore misterioso di Manfredi; che avrebbe fatto la duchessa di Maufrigneuse quando avrebbe divorato il suo ultimo amore per D'Artez; come la concezione del me poteva creare Iddio; quale era la teoria vera del valore; e lo chiamava a discutere seco lei la politica di Caterina dei Medici o di Castruccio Castracani; a giustificare Alessandro VI come essendo stato lo più grande dei papi politici; a piangere sulla sorte di Esmeralda; e ridere fino alle lagrime delle fantasticherie di Falstaff. Tutto ciò era reale per la giovinetta; tutto ciò viveva, formava la sua società quotidiana, non aveva nulla di pedante per ciò appunto che le era ingenuo e poco o nulla in ordine. Queste grandi cose servivano di pupattola a questa figlia del povero! Bambina aveva per conseguenza quel marchio serio delle figure di donna in marmo, cui gli architetti dei mezzi tempi schieravano sul frontone delle cattedrali, ed ella covava all'interno una scintilla potente.

Quando Don Diego le ebbe raccontato la sua conversazione col vescovo, la prima impressione di Bambina fu di prorompere in pianto. Ella si sentì tutto ad un tratto presa alla gola dalla più spaventevole miseria. Don Diego la calmò. Poi egli cominciò a riflettere parlando alto secondo il suo costume, a discutere con sè stesso cosa gli restasse a fare. Egli vide, del primo colpo d'occhio, che bisognava uscire di quella vita materiale, indirizzita, nella quale aveva vegetato fino allora, e che bisognava trasportare nella realtà la lotta cui aveva sostenuta nel suo spirito. Non era più con le idee, con le passioni, con l'ambizione che doveva battersi d'oggi innanzi, ma altresì con gli uomini, e disputar loro il boccone di pane della sua tavola.

Ora, in provincia non si lotta.

Su questo piccolo scacchiere, tutti i posti son presi, ciascuno occupa il suo vano e vi si tiene, vi si bastiona, vi si radica, vi si fossilizza: my house is my castle! La morte sola vi fa la breccia.

Don Diego adottò quindi immediatamente la risoluzione energica di trasferirsi a Napoli. In quel vasto teatro egli poteva intraprender tutto. Egli era risoluto a non rinculare innanzi a checchessia. Da due ore in qua, il genere umano si rizzava davanti a lui come un nemico, cui egli odiava e che lo disprezzava.

Quando Don Diego espresse questa idea, Bambina, che lo ascoltava attentamente, fece sembiante di andare in busca di qualche cosa: temeva di mostrare la sua viva commozione.

Don Diego maturò questa risoluzione per parecchi giorni; dimandò consiglio al conte di Craco, il solo individuo ch'egli stimasse, la famiglia del quale Bambina e lui visitassero unicamente. Il conte approvò il progetto di Don Diego. Fu fermo. Ma lo si tenne nascosto.

Per render servigio a questa famiglia fulminata, il conte di Craco le comperò la casa ed il giardino,—a condizione di riscatto fra dieci anni,—e si lasciò fissarne il prezzo dal notaio. Il conte non volle spigolare dietro la sventura. Il notaio stimò largamente l'immobile cinquecento ducati: 2200 franchi. L'era tutta la fortuna degli eredi del sarto, il salario cumulato di trent'anni di lavoro e di parecchi giorni passati senza pane.

Don Diego non si credeva così ricco.

I testimoni che firmarono l'atto di vendita, il ricevitore del registro, propagarono la novella. Tutto il borgo fu istrutto della partenza di Don Diego. Si conobbe allora la sentenza d'interdetto pronunziata dal vescovo.

—Gli sta benissimo! dicevano gli uni,—i preti sopratutto, l'arciprete il primo, e dietro a lui i piccoli borghesi che Don Diego non aveva degnato vedere.

—Benissimo, benissimo, mormoravano gli altri noccolando la testa; gli è indegno, al contrario. Cosa ha egli fatto al postutto codest'uomo? Se i gesuiti vengono a ficcare così il naso nelle nostre case e gli occhi nelle nostre coscienze, malgrado nostro, alcuno non è più sicuro del suo domani. In conclusione chi ha a lamentarsi di quel povero diavolo?

—Gli è vero! rispondevano alcuni,—i liberali.

—Via dunque! un uomo orgoglioso che ci rendeva i suoi saluti e le sue parole come se fossero pan benedetto! che aveva sempre sulle labbra un ghigno di disprezzo per tutti! Lo si sarebbe detto un intendente, un marchese, codesto figlio di mastro Tommaso.

—E' non si tratta di codesto. Trattasi di sapere con qual diritto un vescovo gitta un povero prete sul lastrico a crepare di fame, senza cause reali, senza neppur l'apparenza di un delitto. Perchè, di che lo si accusa insomma?

—Ma! rispondeva l'arciprete, io l'ho detto a monsignore che mi ha fatto l'onore d'interrogarmi sulla condotta di questo ecclesiastico. Sua Eccellenza però ha risposto: Non mi parlate giammai di un uomo empio verso Dio, ribelle verso il re.

—Non vedete voi dunque che v'è della politica lì sotto?

—E monsignore mi ha dato ad intendere, continuava l'arciprete, che v'era altro di ben più grave e più immorale ancora. Egli sembra che in casa Don Diego Spani si passino delle cose…. Capperi! che non si dice di noi altri, i quali nonpertanto non ci nascondiamo di esser uomini e che abbiamo delle amiche a vista e saputa di ognuno?

—Oh! per esempio! sclamò un giovinetto gittando il mozzicone del suo sigaro. Con quella figliuola bella come una madonna?

—Voi non avete giammai visto, don Saverio, i gatti affamati mangiare i loro piccoli? replicò l'arciprete.

Questo fu il colpo di grazia. La reazione che cominciava ad operarsi in favore del condannato, quando la sua condanna aveva un causa politica o teologale, si cangiò in indignazione. La giovinezza, la bellezza di Bambina aumentavano il delitto. Era il sentimento della morale oltraggiata che provocava l'indignazione di quegli uomini? Oibò! Era la gelosia, era l'invidia: che fortunato ribaldo l'amante di quella giovine beltà! Ognuno nondimanco si credette in obbligo di andargli a fare una visita di condoglianza. Quel bellimbusto andava a Napoli. Non si sa che potesse avvenire. Le grandi città sono piene d'imprevisti: vi sono delle opportunità incredibili di fortuna e di favore. Don Diego poteva imbattersi in una di quelle opportunità, e ricordarsi più tardi del malvolere de' suoi compatriotti, vendicarsi, rifiutar loro un servizio.

D'altronde non era desso un dramma curioso a contemplare in che modo quest'uomo sosteneva il colpo che lo schiacciava? Non vi eran mille cose a leggere nello sguardo di Bambina, mille commenti a tirare dal suo viso, dal suo portamento, dalla sua persona, e giudicare di là della verità dell'accusa? Una processione di visite si aperse allora verso la casa dell'ex-prete. La freddezza, il disdegno col quale Don Diego accolse quegli atti vigliacchi ed ipocriti non scoraggiarono. Alcuna delle notabilità del borgo non se ne astenne.

Don Diego non restituì alcuna visita.

Bambina si tenne costantemente nella sua camera e non volle ricevere chicchessia,—ciò che accrebbe i sospetti. Ma il fratello e la sorella disprezzavano troppo quella gente per curarsi della loro opinione.

Infrattanto Bambina preparava i bauli pel viaggio.

Il conte di Craco aveva scritto a Napoli a suo figlio Tiberio, barone di Sanza,—e gli aveva dato incarico di trovare un modesto appartamento per gli emigranti. Questo alloggio fu presto trovato. La contessa aveva regalato a Bambina una veste. Perocchè la povera creatura non si era vestita fin lì che del panno turchino fabbricato da lei, come tutte le altre figlie del popolo. La cameriera della contessa cuciva quella bella gonna di merinos azzurro, la quale per Bambina valeva quasi il velluto. La contessa completò il dono con uno sciallo scozzese, molticolore ma caldo, di cui il popolo minuto del napolitano si copre la testa ed avviluppa il busto, risparmiando così cuffie e cappellini.

Nei bauli,—due triste casse di legno,—il fratello e la sorella rinsaccavano alla rinfusa biancheria, libri, stoviglia di casa non troppo maltrattata dal tempo, gli abiti ancora buoni ad usare in camera, del lardo, del cacio, la coltre, le lenzuola. Essi avvolsero pure i loro due materassi tra due tavole di abete, che appoggiate su due Cavalletti formavano lettiera; i cuscini, la tela dei pagliericci. Quella povera gente cacciava dentro nelle casse tutto ciò che poteva servir loro a ristabilire altrove i penati,—quell' home sì sacro e sì caro agl'inglesi,—e ad economizzar loro qualche scudo.

Quegli apparecchi eran lugubri; si facevano in silenzio. Imperocchè ognuno di quelli oggetti aveva la sua storia dolorosa: essi ricordavano una memoria cara, un cordoglio, una miseria, una gioia, una sofferenza. Essi avevano risparmiato tal boccone di pane, tal bicchiere di vino, tal pezzetto di carne per comperare quella giarra di cristallo, quello specchietto, quella pezzuola di seta, quelle fibbie di acciaro per le scarpe del prete, per la cintura della ragazza. Ecco il ferro a spianare del babbo,—le armi di famiglia! Ah! ecco il filatoio della madre…. ed i suoi orecchini d'argento, ricevuti il dì degli sponsali…. ed il telaio ove ella aveva tessuto per i clienti del villaggio: il Cristo del suo capezzale. Ecco il seggiolone dove il prete sedeva…. il suo calamaio screpolato, i suoi libri del seminario cacciati in un canto, il mazzetto di fiori di carta dipinta che sua madre avevagli regalato il giorno della sua prima messa! Bisognava affagottare, gittare, abbandonare tutto ciò!

Come questa casa sembrava miserabile adesso! Come tutto ciò aveva l'aria di vecchio e povero ora che lo si rimuoveva, che lo si traslocava! Questo disordine, queste ruine li ambasciavano. Tutto era polvere. Si perdeva il ritmo della vita. Confondendo tutti quegli oggetti, si disordinavano tutte le memorie; tutta la loro storia si affondava. Il fratello e la sorella si trovavano nel vacuo, fuori del tempo, nudi di tutto.

La miseria si affeziona ad ogni nonnulla e vi soffia dentro una fibra dell'anima. Tutto è una data per esso, pel povero, perchè tutto gli è costato un lembo della vita. E' si perdevano in questa Pompeia di cenci! Non sapevano a che toccare pel primo. Si confondevano nella scelta. Tutto pareva loro utile e buono, perchè tutto aveva loro servito. Essi avrebbero voluto impacchettare la casa e darle le ali, come la santa casa di Loreto.

—Bambina, figlia mia, non obbliare le mie pantofole. Potrei aver la gotta. Avrò forse a camminar tanto in quella Napoli e rientrerò co' piedi ammalati.

—Fratello, bisogna portar con noi la piletta ad acqua santa, che era al capezzale di nostra madre! è rotta e ricollata.

—Ove hai tu messo quell'involto di carte che io celava sotto il mio materasso?

—Sta tranquillo! susurrò Bambina con un segno d'intelligenza: dorme nel fondo della cassa.

—Gitta questi occhiali lì dentro: un giorno, chi sa! sarò miope.

—Brava! stavo per dimenticare il pacchetto di ferruzzi a calze!

Il cane ed il gatto che vedevano tutto quel garbuglio, sembravano inquieti. Si sarebbe detto che presentissero qualche cosa. Il gatto, per l'innanzi così sonnolente, non si stancava più di fare ru-ru attorno alla gonna di Bambina, di stropicciarsi a lei carezzevolmente, di saltar sulle ginocchia di Don Diego. Il cane seguiva tutti i passi dei padroni, testa giù, dovunque andassero. Il suo occhio, un dì sì dolcemente malinconico, ora era estinto. Non commetteva più guasti, ed assiso sulle lacche, allungava la testa con tristezza sulle ginocchia del fratello e della sorella. Il solo essere ingrato o noncurante della casa, era il maiale. E nonpertanto era desso che era stato il più colmo di attenzioni…. interessate. Se la Bambina negligeva un tantino la dose o la qualità delle sue pietanze, Marco grugniva, brontolava, s'impazientava pure, ed andava a rovesciar la pentola, tirava per la gonna la padroncina e sporcava le calze di lei. Infine, un mattino, un contadino venne, gli legò una corda al piede destro e lo condusse via fra le grida le più strepitose. Bambina si sentì commossa fino alle lagrime. L'aveva preso piccino piccino, ed a forza di cure ne aveva considerevolmente sviluppata la quadratura. Questi dettagli, ridicoli e volgari, formavano tutta un'iliade per i due emigranti: gli era l'addio per sempre al passato ed il baratro tenebroso dell'avvenire.

Infine, quindici giorni dopo la condanna del vescovo, tutto era pronto per la partenza. La vigilia, Don Diego andò all'albergo e fermò due posti d'interiore nella carrozzaccia squinternata che faceva il servizio da Lauria a Salerno. Il cocchiere s'impegnò a somministrargli un veicolo da Salerno a Napoli. Si doveva partire all'indomani, tredici ore.

La sera, il conte Craco mandò una lettera ed un pacchetto per il barone di Sanza, suo figlio, ed un paniere di commestibili per la via ai viaggiatori. Il conte li aveva fatti pregar pure di attendere a dormire in casa sua, lì, nel borgo superiore, vicino all'albergo. Don Diego lo ringraziò. Il fratello e la sorella, vestiti, coricarono sulle foglie di gran turco tolte dai pagliaricci. Che notte di freddo, d'insonnia, di angoscia, per il fratello! che notte di sogni d'iride per la sorella!

Infine, l'alba biancheggiò a traverso i vetri delle finestre senza bandinelle.

Don Diego respirò. Bambina si addormentò. Quando Don Diego entrò nella camera di sua sorella e vide la giovinetta accosciata sur un mucchio di foglie, avviluppata nel mantello, ma la bocca infraperta, le labbra rosse, il respiro leggero, la figura calma in un sorriso abbozzato, la fronte un po' madida, le braccia bellamente curvate sotto la testa, le sue grandi palpebre abbassate…. e' si sentì rimescolare il cuore. Una lagrima cadde sulla sua mano. E' s'inginocchiò e cercò nella sua memoria una preghiera per benedirla. Poi uscì. Accese il fuoco,—l'ultimo che doveva riscaldare quel focolaio che li aveva visti piangere, soffrire, balbettare le loro prime parole, che aveva riunito la povera famiglia per tante lunghe notti d'inverno, cui i due operai avevan passate lavorando. Il camino bruciava male. Don Diego terminò gli apparecchi di viaggio ed i pacchetti.

Il conte di Craco venne a dare loro un addio. I suoi domestici portarono ai pellegrini il cioccolatte dell'asciolvere. Don Diego andò a risvegliare la Bambina. L'ora della partenza avvicinava.

Bambina si acconciò ed uscì. Era gaia. Si sedè vicino il fuoco e si cioncò il cioccolatte, mentre i famigliari del conte portavan via i bauli ed i pacchi alla corriera. Nessuno parlava.

Bambina cercò il gatto per dargli un pezzetto del suo pan burrato. Il gatto era scomparso. Bambina cominciò a perdere il suo contegno calmo. Il cane restava al suo posto. Il conte gli fece passare un collare per condurselo a casa. Bisognò trascinarlo, strangolarlo, prenderlo in braccio per distaccarlo dalla casa. Non mordeva, gemeva come una Maddalena. Ciò scosse Bambina. I suoi occhi si umettarono. Infine bisognò lasciare quella dimora.

Don Diego ne uscì il primo, a passo fermo ma celere. Non osò voltarsi indietro. Era eccessivamente pallido. Le sue mani ed i suoi labbri tremolavano; la sua parola era male articolata. Bambina fece il giro della casa, ne uscì a passi lenti; ma, varcando la soglia, le sue lagrime esplosero, il singhiozzo la soffocò. Si sentì annichilita. Le parve mettere il piede sul vuoto e rotolar nell'abisso. Il conte le prese paternamente la mano, le diede il braccio, e la tolse via da quella porta ove la era caduta a ginocchio. Don Diego era partito e tirava su senza fermarsi. Premeva la mano sul cuore per reprimervi la tempesta. Bambina, annegata nelle lagrime, disse addio al conte e salì in vettura. Don Diego si fermò un istante per susurrare all'orecchio del conte:

—Al capezzale del mio letto, sotto i mattoni, è la cassa dei mille fucili che sapete. Li farete trasportare a Cammarota, al P. Giuseppe da Saponara, che ne conosce già il destino ulteriore o che gli sarà comunicato a suo tempo da Carduccio. Coraggio e costanza!—Dite a Tiberio di esser prudente. Bisogna esporre la vita, ma non isciuparla per nulla.

—Sarà mia cura. Addio.

—A rivederci in tempi più prosperi.

Don Diego salì nel veicolo e si partì.

La carrozza veniva di Calabria. Vi erano nell'interiore un capitano di gendarmeria e la madre di un giovane di Gerace, che era stato condannato a morte per delitto politico. La povera madre andava a dimandare la grazia al re…. mentre un generale lo faceva fucilare in una corte di prigione!

Il capitano era un padre di famiglia che esercitava il suo tristo mestiere per dar del pane ai figliuoli, bravo uomo, compito, avendo un fratello capo di ripartimento al ministero del Culto, disgustato delle sue funzioni, agendo male, pensando bene. Il capitano Taffa si mostrò pieno di attenzioni per le due signore e cordialissimo verso il prete.

Don Diego non aveva mai viaggiato; usciva per la prima volta dalla sua terra. Il tancheggio della vettura dava il mal di mare a Bambina. Ella si covigliò nel suo canticello, pallida come morta, sentendosi morire, e provò di dormire. Si apersero tutti gli sportelli per darle aria. La signora calabrese se la poggiò sul petto maternamente. Alla prima salita sullo stradale si scese di cocchio, e ciò sollevò Bambina quantunque non stesse bene il giorno intero.

Il fratello della dama calabrese, che aveva ceduto il suo posto a Bambina, ed un cappuccino, occupavano la predella del cocchiere che si appollaiava sulle stanche.

Grazie alle spallette del capitano tutto andò a modo. Il cocchiere camminò bene. Negli alberghi si ebbe pronto e pulito servizio. I mendicanti del cammino accompagnarono la vettura per una mezz'ora solamente, pigolando, assassinando i viaggiatori di Eccellenza! di rinfrescate le anime del Purgatorio! di obbligate la S. Vergine! Il prezzo dei desinari fu discreto. Si ottennero lenzuola nette ai letti, una tovaglia senza chiazze a tavola, dei maccheroni cotti al punto. Le serve spinsero la deferenza verso la cocolla e verso l'uniforme fino a mettere una camicia di bucato, quantunque non si fosse che al venerdì e ne avessero già messa una la domenica. I carrettieri ebbero la delicatezza di cedere un po' di posto accanto al fuoco. Lo zoccolante offrì del tabacco da naso a tutti, non escluse le donne, e si ostinò a voler confessare le serve. Io credo ch'e' si lavò perfino le mani prima di mettersi a tavola; perocchè tutti i viaggiatori della stessa vettura desinavano insieme.

La prima sera si fe' alto a Sala. Aveva piovuto quasi tutta la giornata. Si era in marzo. Il cielo carreggiava dei grossi nuvoloni grigi, neri, bianchi, che voltolavano come le onde del mare sotto il soffio di un freddo rovato. La strada era malinconica, senza orizzonte,—eccetto la catena degli Apennini, l'Alpi, il monte Sireno vicino Lagonegro, che ammantellato interamente di neve, sembrava nondimanco come a scorruccio. Se il cappuccino non avesse intonato di tempo in tempo un Dominus vobiscum! con una bella voce di basso, se il cocchiere non avesse di tempo in tempo zufolato e canticchiato una strofa della canzone Graziella, nulla avrebbe sgrinzita la serietà, il lugubre anzi dei viaggiatori. Ciascuno aveva un pensiero, peggio ancora forse, un dolore che lo ripiegava in sè,—tranne il cappuccino che da un lercio convento di Calabria andava a pascolo nel ricco convento di Eboli. Si riparò a letto di buon'ora, appena dopo cena.

Il domani, aprendo le finestre, si poteva credersi sulle sponde dell'Oceano. La nebbia copriva la pianura di Diano, ed il vento l'agitava come i flutti in tempesta. La notte però aveva nevicato.

I viaggiatori, nel secondo giorno, si mostrarono più comunicativi. Si avvicinavano ancora di una tappa alla meta delle loro speranze. Pochi alberi nella campagna. Sulle colline pietose qualche pianta malaticcia di olivo, lacera per vecchiezza.

La dama calabrese raccontò allora perchè si recasse in Napoli, perchè era vestita a lutto, perchè piangesse in silenzio e non schiudesse le labbra, perchè dei singhiozzi profondi la strangolassero anche quando i suoi occhi erano asciutti. La parola di questa povera madre gettò il terrore tra i viaggiatori. Lo stesso francescano si tacque e sporse la sua tabacchiera alla dama. Il capitano arrossì. Don Diego impallidì. Bambina avvinghiò le sue braccia attorno al collo della povera madre, l'abbracciò e pianse con lei.

Al ponte di Campestrino, il capitano, ad un tratto, chiuse di autorità gli sportelli della carrozza per la ragione seguente.

In questo sito, i briganti svaligiavano spessissimamente i viaggiatori. Il governo vi aveva fatto piantare delle palanche, e su queste si erano esposte le teste mozze dei briganti impiccati. Il capitano volle sottrarre alla vista della povera madre quelle teste di condannati. Ei si curò poco di orbare i viaggiatori dello spettacolo di quel ponte monumentale, uno dei più belli d'Europa, che congiunge due colline, anzi due montagne. L'architetto, secondo la leggenda, avendo domandato a re Nasone, che volle visitarlo stando a caccia a Persano, come trovasse l'opera sua, re Ferdinando rispose:

—Eccellente.

—Sire, ne sono incantato.

—Qualche cosa vi manca però, riprese quel re beffardo.

—Che cosa, sire?

—La tua testa.

Il ponte aveva costato tre milioni. Gittandolo un po' più in su, l'architetto avrebbe risparmiato allo Stato tre quarti della somma. Ma egli avrebbe altresì guadagnato di meno. L'osservazione del re, pur troppo giusta, lo spaventò: quindi a poco morì di paura!

A mezzodì il sole comparve e si salì a piedi l'erta a picco dello Scorzo, altrettanto per alleggerire i cavalli che per sdolenzirsi. Faceva freddo. Le montagne di Postiglione erano belle nelle loro bianche drapperie dorate, da raggi ridenti. L'Olborno abbarbagliava. Il Sele travolgeva flutti torbidi e corrucciati. La foresta di Persano, caccia reale, sembrava un'immensa macchia nera nel mezzo del piano, ove degli olivi grossi come querce secolari, screpolati, fessi, attortigliati, mutilati come invalidi, popolano la campagna di Eboli. Ai lembi della pianura, sulle sponde del mare. Pesto. Alla vetta della montagna di Scorzo, i viaggiatori scorsero in lontananza, come un'immensa lamina arancio ed azzurro, il mare e le montagne di Amalfi.

Ad Eboli il cappuccino si fermò. Il capitano si fermò a Salerno. Però egli scrisse, alla matita, due parole a suo fratello per raccomandargli Don Diego. E grazie a lui, il calesse che doveva condurre i viaggiatori a Napoli fu trovato immantinente, ed il cocchiere fu obbligato a mostrarsi ragionevole e cortese.

Vi sono delle circostanze in cui il despotismo si benedice!

Si giunse a Napoli la sera. Il cocchiere depositò le sue vittime in una locanduccia del Pendino.

Un'ora dopo, il barone di Sanza stringeva la mano del suo compaesano.

IV.

Un benvenuto! che non vale neppure un vatti a fare impiccare!

In Francia, un prete interdetto se ne va a Parigi, e quivi egli è ancora un uomo, un cittadino. Al momento in cui scrivo, vi sono in quella capitale più di ottocento cocchieri di fiacre ex-preti, senza parlare di coloro che trafficano alla Borsa, sono impiegati come garzoni nei caffè, domestici nelle case mobigliate, commessi qua e là e segugi di polizia. In Francia, la dignità dell'uomo è sua mercè, sua proprietà: può conservarla, abbassarla, insozzarla, venderla. A Napoli, non era così in sul finire del 1846. L'uomo non si apparteneva: egli era alla polizia, che l'allevava, lo istruiva, lo contaminava, lo spezzava, lo uccideva senza responsabilità, senza render conto dell'opera sua alla società.

Don Diego Spano si era recato a Napoli. Monsignor Laudisio aveva annunziato quest'arrivo al ministro della polizia con un rapporto particolare, il quale si riassumeva in questi termini:

«Uomo pericoloso, ateo, ex-carbonaro, mazziniano, capace di tutto, uno dei capi della Giovane Italia. Da sorvegliare, da comperare se può esser utile, da neutralizzare ad ogni costo. Sa cose che bisognerebbe strappargli; o ridurlo al silenzio con tutti i mezzi.»

Il ministro conservò per lui questa santa denunzia e dette qualche istruzione al Prefetto.

L'appartamento che il barone di Sanza aveva trovato al suo conterraneo, vico Canalone, all'estremità della strada di Forcella, dava sur uno sporco e scuro chiassuolo circoscritto dalle alte mura di due conventi e di una chiesa. Il fitto non era caro; ma non si poteva immaginar nulla di più lugubre di quell'alloggio.

Don Diego occupava il primo piano, il più a buon patto ed il meno ricercato degli altri cinque appartamenti di quella casa, a causa dell'aria e della luce di cui era completamente orbato. Non essendovi portinaio, la corte apparteneva, di giorno come di notte, ai lazzaroni, ai mendicanti, ai musici ambulanti, alle prostitute, agli animali perduti, ai fanciulli scostumati: era il salone del vizio e della miseria. Un materassaio vi veniva a battere il suo crine e cardar la sua lana, perchè gli accomodava così, non curandosi punto se il rumore e la polvere incomodassero gl'inquilini. Una cagnaccia vi veniva a trafficare del suo commercio di frittura all'olio, e tanto peggio se le esalazioni appestassero gli abitanti del luogo. Un ganascione vi veniva a tosare i suoi barboni, a castrare i gatti ed i porcelli. I cialtroni di tutto il quartiere vi davano la caccia ai loro insetti e vi medicavano le loro piaghe come a casa propria.

Del resto, don Gregorio, l'inquilino del sesto, esciva alle sei del mattino e rientrava a mezzanotte, lasciando almanaccar forte i suoi vicini sulla sua persona e sulle sue occupazioni. Al quinto, dimorava un prete di provincia che sorvegliava l'educazione dei suoi due nipoti e li nudriva del prodotto delle due o tre messe al dì ch'egli andava a rappresentare nei rioni i più opposti della città. Una monaca di casa stanziava al quarto, e questa religiosa a domicilio, giovane e bella, ma molto pia, riceveva il suo confessore,—un frate di Santa Maria la Nuova, da un'ora a sei del pomeriggio, e suo cugino, avendo paura dei ladri la notte, dalle nove della sera alle sei del mattino. Un impiegato alla lotteria abitava il terzo piano in compagnia di sua moglie, sei bambocci, qualche coniglio, molti polli e un cacatoes bianco che ripeteva tutta la giornata la famosa interiezione tanto usata dai romani, alla quale Benedetto XIV voleva annettere l'indulgenza plenaria, e cui io non oso scrivere. Il secondo piano era vuoto.

Eccetto Don Gregorio, tutti gl'inquilini fecero visita al nuovo venuto, quattro o cinque giorni dopo il loro arrivo, secondo l'uso napolitano di quei tempi. Otto giorni dopo, Don Diego restituì la visita, e si cessò di vedersi, limitandosi tutti a scambiare un saluto quando s'incontravano per le scale.

L'alloggio di Don Diego componevasi di due camere da letto, un salone, un gabinetto scuro ed una cucina, che serviva altresì di sala da pranzo. Le mura erano state tinte a terra gialla in colla forse vent'anni innanzi. Il suolo era a quadrelli; il soffitto a travi coperti di carta gialla a gigli turchini. Dei piccoli vetri anneriti dalla polvere oscuravano le finestre, ed i ragnateli tenevano luogo di cortine. Tutto ciò aveva l'aria sinistra e gocciolava la tristezza e la solitudine. Un romito vi poteva pregare; un malfattore scannare e fondere moneta falsa.

Al piccolo mobilio portato di provincia, Don Diego aggiunse alcune sedie, un vecchio canapè coperto di tela di crine e borrato di pietre, una tavola, un vecchio stipo, una mensola a mezza luna, verniciata nero, a marmo bianco smussato. Don Tiberio diede il consiglio di allogar su quella mensola i busti in gesso del re e della regina, e di appendere in qualche angolo del salone un gran Cristo, ch'e' gli somministrò. Bisognava mobigliar quella camera per ricevere la polizia ed i messi dell'arcivescovo di Napoli, e, per conseguenza, alla convenienza di costoro. Del resto, non seggioloni, non tende, non tappeti, non specchi, non orologi, non candelabri: in mezzo del salone, al posto della lumiera, una gabbia con un canarino che non cantava più.

Erano degli avanzi che ornavano una tomba!

Bambina si sentiva soffocata; Don Diego, rotto e schiacciato. Egli, l'ho detto, dava alla sua dimora la toiletta appropriata ad ammortire i sospetti della gente officiale che sarebbe venuta a snidarlo.

La toiletta delle persone fu in armonia. Don Diego pigliò un costume mezzo prete e mezzo laico, non senza una certa eleganza: cappello tondo, cravatta e panciotto neri, soprabito bleu lungo, brache di drappo nero, e stivali che salivano fino al ginocchio, alla scudiera. Bambina si vestì da una beghina di religiosa.

Queste spese e quelle di viaggio avevano assorbito una parte della piccola somma portata da Lauria. Restava nondimeno di che vivere un anno per bussare alle porte della fortuna prima di mendicare.

—E quando tutto sarà finito, disse Don Diego a sua sorella, se non saremo riesciti, tu entrerai in un convento, io…. mi brucierò le cervella.

—Bravo! interruppe Bambina, bruciarti le cervella? Tu saresti ridicolo agli occhi dei napolitani. Tu perderesti la loro considerazione se non ti precipitassi da un quinto piano e ti fracassassi il cranio sul lastrico come un semplice vecchio coccio. Speriamo fratello,—soggiunse ella in tuono più serio. Il barone di Sanza ci aiuterà.

—Noi siamo poveri, figliuola, e tocchi dalla disgrazia. Non abbiamo dunque amici. Gli uomini sono come i cani: abbaiano ai mendichi e si gettano addosso ai più deboli. Si divora il ferito, come tra le bestie feroci. Non hai tu osservato come Don Tiberio si è mostrato glaciale verso di noi?

Don Diego non aveva visto sua sorella arrossire ed il barone di Sanza impallidire, al loro primo incontro, all'arrivo. Bambina si guardò di comunicare quest'osservazione a suo fratello e replicò:

—È vero. Ma noi siamo dei provinciali, e lui… un elegante della città, che frequenta di già ambasciatori e ministri.

Il barone di Sanza, in fatti, venne a vedere i suoi amici di Lauria due o tre volte, suggerì qualche consiglio molto utile; ma si addimostrò in generale freddo e riservato, come un uomo che non vuole svegliare speranze, cui non potrebbe poi realizzare. Non dimandò neppure a Don Diego ciò che voleva fare. Don Diego, del rimanente, sarebbe stato forse imbarazzato egli stesso a rispondere a questa dimanda. E' non sapeva che una cosa, come diceva a sua sorella, che egli era un cacciatore esausto, per il quale ogni selvaggiume era buono.

Don Diego ebbe della pena ad orientarsi nella città. Napoli è vecchia. Le sue strade, i suoi edifizi datano da molti secoli, appropriati alle esigenze di quei secoli ed oggimai un incomodo anacronismo. Strade anguste, vicoli sporchi, oscuri, poco o punto lastricati, ingombri di depositi d'immondizie, in cui sguazzano cani, maiali e monelli. Casamenti altissimi, male intonacati, male aerati, affollatissimi di abitanti malpropri, edifizi tortuosi, sovente guerci. Chiese e conventi che occupano ed attristano due quinti della città, o dei palazzi immensi e solitari che tengono tutta una strada. La vecchia Napoli è infetta, malsana, male abitata, piena di sgorbi, storpia in tutte le membra, senza logica. Un fetore orrendo, cui gli abitanti non percepiscono più, l'avviluppa. Don Diego perdeva la sua strada ad ogni passo o faceva dei lunghi giri. La città gli spiacque. E' sentì, dai primi giorni, la nostalgia dell'aer puro, delle foglie verdi, del cielo e dello spazio. La gente, nondimanco, gli parve buona. Egli non fu in contatto da principio che col popolo, il quale a Napoli è caritatevole, sente e si affeziona. È un cane: ha bisogno di amare qualcuno, o qualcosa, obbedire, consacrarsi; abbaierà talvolta per non importa chi e non importa che, ma non morde giammai. La libertà di già lo corrompe. Il borghese poi è altra cosa; del pessimo, pessimo. Ma Don Diego nol conobbe che più tardi.

Aveva appena terminato d'installarsi che, un mattino, un ispettore di polizia gli si presentò in casa. Quell'uomo ruppe quasi il campanello suonando. Entrò, cappello in testa, senza salutare. Si assise senza scovrirsi il capo, senza esservi invitato lasciando Don Diego in piedi. Squadrò insolentemente Bambina. Incrociò le gambe, rimuginò dello sguardo in ogni angolo e dimandò infine, parlando alto ed in tuono corrucciato:

—Sei tu Don Diego Spani?

—Si, signore, rispose Don Diego alquanto stupefatto dei modi del messere.

—Di Lauria?

—Di Lauria.

—Arrivato a Napoli da alcuni giorni?

—Sì, signore. Ma…

—Giù ai ma! cos'è codesto ma?

—Infine, signore, a chi ho l'onore di parlare?

—Sono io che ti parlo, replicò il poliziotto. Io sono l'ispettore di polizia del quartiere.

Don Diego salutò il destino.

—E vengo ad ordinarti, continuò l'ispettore, di presentarti dal commissario signor Campobasso.

—Non mancherò, signore.

—Eh! vorrei ben vedere che tu mancassi. Hai tu ben compreso?

—A mezzodì, signore, replicò Don Diego con molta dignità.

—Quanto paghi tu qui?

—Non caro, signore.

—Lo credo bene. Chi diavolo ha scoperto questo canile?

—Ciascuno si alloggia come può.

—Tu parli come un almanacco. E quel piccolo gioiello lì è tua figlia?

—È mia sorella, signore, rispose Don Diego, facendo segno a Bambina di ritirarsi.

Bambina salutò ed uscì. L'ispettore la seguì degli occhi, poi si alzò.

—E dire che ciò viene di Calabria! sclamò desso. A mezzodì dunque.

Poi dando un ultimo colpo d'occhio alla casa ed all'uomo, partì come era entrato, senza cavare il cappello, senza salutare. Alla porta però si fermò, mise la mano in tasca, ne cavò fuori una piastra e disse a Don Diego che l'aveva pulitamente accompagnato.

—Potete voi darmi della piccola moneta di questo, per pagare il cocchiere?

Don Diego tirò innocentemente di tasca un pugno di piccola moneta in argento e rame, e la presentò all'ispettore onde prendesse il valore della sua piastra. Il poliziotto intascò la moneta di Don Diego e la sua, non disse neppur grazia, chiuse la porta con fracasso e discese le scale borbottando.

Don Diego restò come allampanato e, testa giù e passo lento, ritornò in sala.

A mezzodì meno un quarto, ei saliva la scala del commissariato del quartiere Pendino, al primo piano di una casa sudicia e scura, al fondo di un angiporto. Nella corte gironzavano alcuni di quei birri ostensibili che lo straniero incontrava nelle strade di Toledo e di Chiaja, bardati di uniforme, un coltellaccio ai fianchi. Gli sbirri reali, i veri, i più numerosi, coloro che menavano la bisogna nei quartieri cui lo straniero non visitava giammai, gli sbirri pel popolo infine, formavano quella categoria a parte chiamata i feroci. Essi vestivano un largo calzone di velluto in cotone grigio, largo, una giacchetta ed un corpetto di velluto di cotone nero, stretto alla vita da una fascia di seta rossa, un berretto di pelle di coniglio o di lontra. Questi manigoldi, che si sarebbero detti da Opera Comica, coi loro baffi neri, e le facce bestiali ed atroci, violenti, grossolani, crudeli, ai quali la vigliaccheria delle vittime dava un potere terribile, erano in realtà degli abbietti vigliacchi. Il primo venuto,—straniero ben inteso,—di un man rovescio ne faceva una pecora, malgrado le sacche piene di coltelli e di pistole e le mani armate di anella e di randelli. Questa roba guardava di un'aria truce le persone che entravano, pronta a stender la mano per dimandare una mancia senza pretesto, se colui che veniva in quella bolgia aveva un aspetto di persona comoda.

Don Diego traversò la corte ciottolata di quei ceffi sinistri. Essi si avanzarono e si scovrirono innanzi ad un signore che saliva le scale nel tempo stesso. Questo signore, vedendosi seguito da un uomo dai lineamenti imponenti e malinconici, si fermò sulla soglia e voltandosi l'interpellò.

—Di chi chiedete?

—Del signor commissario, rispose Don Diego.

—Sono io, disse l'altro. Chi siete?

—Don Diego Spani.

—Ah! fece Campobasso. Vieni

Al suo passar dall'anticamera zeppa di gente, tutti si alzarono. Campobasso tirò innanzi senza salutare e si diresse verso il suo gabinetto.

Un ispettore gli parlò a voce bassa.

—Fatela entrare, rispose il commissario.

Si assise e lasciò Don Diego in piedi in un angolo della camera.

Il commissario Campobasso era un uomo di una quarantina di anni, alto, snello, brunissimo, un po' calvo, gli occhi neri fiammeggianti, i lineamenti pronunziati e duri, avendo mustacchi neri, labbra crudeli, naso aquilino, braccia lunghe, mani grasse ed uncinate, la voce forte, la parola breve. Portava un diamante per bottone di camicia, dei cornetti contro la jettatura per breloques. In una parola, una fisonomia petulante, piena di vita, di violenza, di passioni sensuali, prontissima alla collera. Egli era carnefice, tra i carnefici commissari di polizia in Napoli. È restato come una leggenda.

Conservò il suo cappello sul capo.

La camera era dipinta a verde. Sopra due plinti, i busti del re e della regina in gesso; un Cristo in un angolo; un cattivo canapè coperto di tela gialla e qualche sedia.

Una signora entrò. Era vivamente commossa, pallida, tremante.

—Signora! disse Campobasso lasciandola in piedi dinanzi al suo tavolo, voi avete cacciato di casa vostra una giovane serva a cui noi portiamo interesse. Andrete a riprenderla.

—Ma, signor commissario, ella mi rubava.

—Voi non la pagavate abbastanza.

—Ma, signore, ella restava fuori tutto il giorno, Dio sa dove, mi mancava di rispetto, non faceva il suo dovere, mi dava degli ordini….

—E voi, non avete i vostri difetti, voi!

—I miei pensionari se ne lamentavano.

—Ah! Ebbene, essi avevano torto, e voi avete torto. Scegliete. Domani, o la serva rientra in casa vostra, e voi la compenserete di averla licenziata, o darete congedo ai vostri locatari e non affitterete più camere.

—Ma, l'è la mia sola risorsa per vivere, signor commissario.

—È dunque indispensabile che voi viviate? Ho detto. Uscite.

La signora salutò e si ritirò a ritroso.

Gli occhi del commissario si illuminavano.

L'ispettore rientrò. Campobasso fece un segno della testa, e due minuti dopo comparvero due bei giovanotti di una ventina d'anni. Restarono, cappello in mano, nel mezzo della stanza.

—Avvicinatevi, gridò Campobasso, alzandosi.

I due studenti avanzavano. Campobasso ne prese uno per le orecchie, e gli applicò, senza dir verbo, parecchi schiaffi sul viso. Poscia prese l'altro della medesima maniera e gli regalò la stessa correzione.

—Briganti! gridò egli in seguito, perchè non siete voi andati alla congregazione domenica scorsa?

—Mio fratello era ammalato, rispose il più giovane degli studenti, ed io restai a casa per accudirlo.

—Voi mentite, urlò il commissario. Voi siete due empi e mal pensanti. Il priore della congregazione si lamenta di voi. Non confessione, distratti alla messa, poco rispetto verso monsignor Scotti…. E poi, e poi, cosa sono codeste setole che portate sulle labbra?

I due giovanotti non risposero. Campobasso li riprese per le orecchie e, scuotendoli con violenza, strappò loro come potè la neofita lanuggine delle labbra.

—Dei mustacchi dunque? dei segni di libertini? Peste e sangue! noi vedremo codesto. Don Severio!

L'ispettore chiamato comparve.

—Un barbiere, all'istante. Fate radere fino al sangue questi due galuppi e metteteli in segreta, a digiuno. Andate! soggiunse egli poi allungando un calcio alle spalle dei due disgraziati giovanotti, pallidi come due statue d'avorio.

Dopo ciò, come se nulla avesse fatto, Campobasso si fregò le mani, si riassise e disse a Don Diego: Avvicinati.

Don Diego era tutto in iscompiglio. Delle idee di tutti i colori turbinavano nel suo capo. Ciò che aveva udito e veduto lo annientava. Campobasso impiombò i suoi occhi freddi, ironici, pieni di disprezzo, crudeli, su quel sembiante decomposto e disse:

—Sei tu Don Diego Spani di Lauria?

—Sì, signor commissario.

—Interdetto da Sua Eccellenza Reverendissima monsignore di Policastro?

Don Diego abbassò gli occhi senza rispondere.

—Perchè quel santo vescovo di monsignore Laudisio ti ha desso interdetto?

—Egli non m'ha fatto l'onore di dirmelo.

Egli! Egli! tu potresti ben dire Sua Eccellenza Reverendissima, mi pare? Infine, perchè sei tu partito da Lauria, innanzi tutto?

—Perchè non avevo più nulla a fare in quel paese, ed io ho bisogno di fare qualcosa; perchè quel soggiorno non mi era più possibile, dopo la mia disgrazia.

—Insomma, che cosa vieni a fare qui?

—Cercare un posto e del pane. Io sono pronto a tutto. Procurerò di apprendere, se mi chiede cosa che io ignori.

—Quando si sloggia, vendendo tutto ciò che si ha nel paese ove si è nato, si ha uno scopo. Quale è codesto tuo? Rispondi categoricamente.

—Vorrei darmi all'insegnamento.

—Per far ciò, occorre il nostro permesso, che noi non accordiamo, ed il permesso dell'arcivescovo e del presidente della pubblica istruzione, monsignor Apuzzo, che lo rifiutano agli empii.

—Vedrò allora di collocarmi come segretario presso di qualche persona.

—Noi l'impediremo, dando sul tuo conto dei cattivi ragguagli.

—Mi procurerò un impiego come potrò, continuò Don Diego, cominciando a turbarsi.

—Lo Stato non nudrisce i suoi nemici, li schiaccia. Noi respingiamo i carbonari.

—Potrei domandare di scrivere in un giornale, almeno?

—E quale? Non vi sono giornali qui, anzitutto. Se qualcuno ne apparisce, se qualcuno alligna, esso è nostro; e noi ci opporremo. Quali dottrine possono professare gli atei ed i demagoghi? Va poi a fregarti con Scrugli e con Ruffa—due convertiti.

—Ebbene, cercherò di trafficare di una piccola industria.

—Io non ti accordo la patente.

—Procurerò in questo caso di entrare come commesso nel commercio, come prefetto in un liceo, in un seminario….

—Noi noi permetteremmo. Lo Stato e la gente onesta vogliono in codesti posti persone fedeli e non sospette di fellonia contro la Chiesa e lo Stato.

—Ma, signor commissario, se voi mi sbarrate tutte le vie per le quali io potrei utilizzare la mia educazione, e' non mi rimane che divenire commissionario, facchino, ed io sono abbastanza forte….

—Affatto! Ti occorre un autorizzamento che la polizia non è disposta a concederti.

—Signore, e' non mi resta allora che morire di fame quando avrò terminate le mie ultime risorse. Infrattanto, studierò la medicina o altra cosa per espatriarmi di poi.

—Ed il passaporto? Ma hai tu insomma di che vivere qualche tempo!

—Ho di che non morire d'inedia per un anno, signore.

—Tu ti presenterai qui ogni otto giorni. Andrai alla congregazione degli studenti, a S. Domenico Soriano ogni domenica. Ti confesserai a monsignor Scotti. Noi teniamo gli occhi aperti sopra di te. Sovvientene.

Don Diego, fulminato, piegò il capo e partì. Uscita finta, come al teatro. Il commissario lo richiamò.

—Don Diego, nel vostro paese si trovano degli eccellenti formaggi, cui il prefetto gradisce molto, ed io egualmente. Fate venirne un cantaro e mandatemeli. Voi ci direte poi il prezzo.

—Io mi stimo fortunatissimo, signor commissario, di rendervi servigio, rispose l'infelice taglieggiato, ritirandosi.

Nella strada, Don Diego mancò trovarsi male. L'imagine lurida della miseria, l'imagine pura di sua sorella, s'incrociarono nel suo spirito. Egli vide queste due terribili potenze, il clero e la polizia, rizzarsi come due boa innanzi a lui, per assalirlo dovunque e' si volgesse. E' vide le sue facoltà, la sua forza, la sua intelligenza, stritolate, annichilite: la polizia ed il clero gli rubavano tutto ciò che Dio gli aveva prodigamente largito. Gli si lasciava unicamente il diritto di mendicare e di morire.

Rientrò in casa e non disse nulla a Bambina. Delle idee sinistre gli ottenebravano la mente. Ei non poteva neppure sbarazzarsi interamente delle sue spoglie di prete e farsi cantabanco, giocoliere: doveva restare e crepare sotto la corrosiva bardatura.

La sera Don Diego cercò il viglietto di introduzione che il capitano Taffa gli aveva dato per suo fratello, capo di ripartimento, passato pocanzi dalla polizia al culto. Quest'ultima speranza però riluceva appena. Si recò, malgrado ciò, dal barone di Sanza e gli raccontò la sua conversazione col commissario.

—Ma, già! sclamò il giovane, gli è così, ed essi han ragione. Ciascuno per sè. Ebbene gli è giustamente questa rete infame di prete e di sbirro, la quale avvinghia la società, che trattasi di tagliare. Ci pensate voi sempre?

Don Diego sorrise ed uscì.

V.

L'entrata nella vita civile.

Don Domenico Taffa, capo di dipartimento al ministero degli affari ecclesiastici, come dicevamo testè, toccava un mensile di cinquanta ducati—180 lire gravate di ritenute. Egli dimorava al terzo piano di una bella casa alla salita di Magnocavallo, il quartiere elegante della ricca borghesia, e pagava 2500 lire l'anno. L'appartamento, vasto, ben aerato, lindo e gaio, mobigliato con ricercatezza: del palissandro,—allora prezioso ancora,—cortine di seta, tappeti, porcellane, quadri, una bella biblioteca, dei bei cristalli, degli specchi dovunque. Un lacchè in livrea si teneva stecchito nell'anticamera. Una donna confezionava, starei quasi per dire, ricamava la cucina. Una graziosissima cameriera riempiva gli uffici di governante.

All'istante in cui Don Diego si presentò, la tavola non era ancora disservita, ed ei potè intravvedere la bella argenteria, la bella biancheria di Sassonia ed i residui di un ricco dessert.

Don Domenico fiutava e sorbiva il moka nel salone con alcuni amici, e Don Diego rimarcò, quantunque poco conoscitore, il bel servizio di porcellana inglese di Minton e la cristalleria di Boemia. Tutto ciò, mediante 180 lire al mese! Era la ripetizione in permanenza del famoso miracolo dei pani e dei pesci, di cui, a vero dire, gli impiegati di S. M. Siciliana conoscevano tutti il secreto. L'han dessi dimenticato di poi, o non ne han lasciato memoria?

Questa opulenza sembrò quasi regale a Don Diego, ed ei provò una specie di trepidazione involontaria. Ebbe per un momento l'aria goffa ed imbarazzata. Aveva dato il viglietto del capitano Taffa al domestico, ed aveva fatto domandare se lo si poteva ricevere. Cinque minuti dopo, Don Diego era introdotto nel gabinetto di Don Domenico.

Questo personaggio avviluppato in una calda zimarruola, uno steccadenti fra le labbra, entrò quindi a poco e toccò un piccolo campanello per chiamare un domestico che venisse a rimuovere il fuoco del braciere.

Ei navigava fra i cinquant'anni e di già si brizzolava. La sua taglia tendeva all'adipe. Aveva viso aperto, rubicondo, quadrato, minuziosamente raso, da brav'uomo; era lindissimo e si dondolava camminando. Le sue labbra erano carnose, rosse, grosse, i suoi occhi vivaci. Parlava il dialetto napolitano, si fregava le mani ad ogni frase, mirava al concettino, aveva maniere senza ritegno, la voce mingherlina. Egli adorava Pulcinella, al teatro San Carlino, Casaciello, al teatro Nuovo.

La biblioteca era chiusa a chiave, ed alcuno non si avvisava di toccare a quelle opere così bene legate, così bene in ordine dietro i cristalli, come dei mobili appropriati al gabinetto. Il tavolo era coperto di carte, una corrispondenza di larghi dispacci, coi grandi suggelli di cera rossa stemmati. Don Domenico era l'amico ed il confidente di due potenze: il ministro degli affari ecclesiastici, il confessore del Re. Egli provvedeva di vescovi il ministro che s'intendeva col confessore, e costui li faceva approvare da S. M., nel cui nome erano proposti alla Santa Sede.

Ciò spiega l'importanza di Don Domenico e la sorgente della sua fortuna.

Uscito il domestico, chiuse le porte, il provveditore di vescovi che aveva fatto sedere il povero prete accanto a lui, credendolo un cliente, gli dimandò con voce affatto melliflua:

—Vogliate dirmi, signore, qualche parola sulla vostra persona, e che cosa posso fare per voi, perchè mio fratello vi raccomanda a me con interesse.

Don Diego raccontò la sua storia senza nulla omettere, eccetto le sue opinioni politiche e religiose.

Don Domenico cangiò portamento.

—Riconosco ben là mons. Laudisio, diss'egli. Quel diavolo di uomo ci dà più bisogna egli solo che tutto l'episcopato del Regno preso insieme. Gli è un uomo fuori classe quello lì. Doveva essere prefetto di polizia: se n'è fatto un vescovo.

—Il vescovo non ha assorbito il prefetto di polizia, osservò Don Diego.

—Ebbene, figliuolo mio, ripigliò Don Domenico, giuocherellando col curadenti, io non so proprio, io non so assolutamente che fare per voi. Voi siete povero….

—Poverissimo, interruppe Don Diego.

—E ciò che è peggio ancora, soggiunse l'impiegato, voi sembrate aver del merito, della dignità e dell'ambizione.

—Dell'ambizione propriamente, no, rispose Don Diego. Ma io ho bisogno di vivere e di dare a vivere a mia sorella.

—Diavolo! voi siete afflitto ancora di una sorella?

—Sì, sclamò Don Diego: potrei quasi dire di una figlia.

—Che età ha dunque vostra sorella?

—Non ancora diciotto anni.

—È dessa bella?

Don Diego guardò il suo interlocutore di un'aria malcontenta, esitò a rispondere, poi disse, sospirando:

—È bella come la Vergine Maria, e pura come ella.

—Diavolo! diavolo! incalzò Don Domenico; ciò complica la situazione….

—E triplica la spesa, soggiunse Don Diego, ghignando.

—È dessa maritata, vostra sorella?

—No.

Don Domenico restò qualche tempo a riflettere, poi proruppe:

—In fede mia, no: io non posso nulla fare per voi. Di un cattivo prete, toccato dalla Grazia ed inscritto al Gran Libro, si può ancora, a peggio andare, tirare un vescovo, un monsignor romano, un canonico, un abate. Ma voi avete su di voi gli occhi della polizia e siete povero. Accomodate ciò, se potete.

—L'è proprio così, sì: sorvegliato, pitocco, e non un amico.

—Oh! gli amici poi non si scontano al Banco di Napoli, e non se ne trovano che per averli a pranzo o per farsi mettere a male. Il migliore amico di questo mondo, mio caro, è il re….

—Fosse anche un travicello?

—Fosse anche un re a Statuto, purchè impresso alla zecca su delle rotelle di argento e d'oro.

—In questo caso, sclamò Don Diego, io sono sans-culottes.

—Se voi aveste solamente sei poveri mille ducati!

—Una miseria! che!

—Gli è che monsignor Cocle, dappoi che egli ha quella piccola Passaro, diviene un baratro spaventevole. E' non trova mai che basti.

—Un confessore di re? pensate mo! Allora?

—Ebbene, dei sei mila ducati, tre mila a monsignor Cocle, due mila a Sua Eccellenza, il mio ministro, e mille per il vostro umilissimo servitore. Gli è per un boccone di pane! E' mi rubano, quei briganti tonsurati. Almeno se mi lasciassero le mani libere! Se quei maledetti vescovi morissero almeno presto! Ora i miei superiori cominciano perfino a trovare la mia mercanzia un cotal poco punticcia. C'è per dio da disgustarsi del mestiere.

—E se io trovassi codesti sei mila ducati? domandò Don Diego.

—Ah! per tutti i santi! procurate di averli e fate presto. Un'occasione superba, in questo momento. Il vescovo di Teramo è morto d'indigestione, disse egli. Il suo posto è a riempire. Il vescovado rende quattro mila ducati l'anno, forse anco cinque mila, rinfocolando un po' la religione. Potete inventare una madonna che guarda bieco che piange…. Insomma, un poco più della rendita di un anno, e voi sarete patta. Voi vedete! gli è per un mille crazie! per un tozzo!

—Ma! gli è precisamente codesto tozzo che mi manca.

—Tanto peggio per voi allora. Io non posso ribatterne un carlino. La piccola Passaro pretende anch'essa cinquecento ducati per le sue spille, adesso, l'orrida cammella! Fosse bella almeno!

—E voi non pensate a farla saltare, eh?

—Perdio! Se ci penso! Ma con un'altra sarebbe la stessa minestra. A meno che io non metta a quel posto una guidoncella di mia conoscenza che per riconoscenza non mi ricatti.

—L'è giusto.

—Ma quel porco grossolano monaco….

—Qual monaco?

—Monsignor Cocle, perdio! che vede pertanto delle belle dame alla corte e passa al bucato la coscienza del re e della regina…. sissignore! egli si è impaniato in quella moresca butterata…

—Che specie di femmina è dunque codesta piccola Passaro? domandò Don Diego, intrigato perchè colui parlasse di codesto, e così liberamente, con lui, cui punto non conosceva.

—Ma l'è di lei che io parlo. Figuratevi un botticello, cremisino, a grosse labbra di mora, senza vita e senza spirito, con un subbisso di ciccia che sbocca ed inonda dovunque, che s'ubbriaca con Monsignore, che mangia quanto lui, vale a dire come quattro uscieri; un compagnone d'indigestione in gonnella!

—E nient'altro che questo?

—Ma! vi debbe essere altresì qualche altra cosa…. ma poco.

—Ebbene, bisognerebbe presentare a monsignore un partner dei suoi piaceri di un altro stampo.

—Ah! se avessi una sgualdrinella parigina sotto la mano! Lo farei marciare il vecchio maiale, veh! Ma non parliamo più di ciò! Quanto a voi, ve lo ripeto, sono impotente. Pas d'argent, pas de saucisses! soggiunse egli ridendo.

—Lo so. Una chiave d'oro, è la sola chiave che apre tutte le porte qui.

—La sola, no. Una bella donna, un segreto di Stato, un servizio reso alla polizia, l'abilità a manipolare un miracolo… che so ancora? No, vi sono altre risorse nel nostro bel paese, grazie a Dio. Laonde non bisogna disperare. Cercate, sappiate cercare, e troverete.

—In un parola, bisogna essere vile ed infame, osservò Don Diego.

—Ah! sclamò Don Domenico come allocchito, se voi apprendete la lingua nei cattivi dizionari, se voi avete dei principj, aprite una finestra e gettatevi nella corte…. Questo mondo non è per i gaglioffi, soggiunse Don Domenico, con umore, alzandosi.

—Scusate, signore, disse Don Diego, accorgendosi d'aver offeso l'impiegato che da una mezz'ora gli parlava a cuore aperto. Perdono, davvero. Non è dei principj che io proclamo qui; è la mia inesperienza di linguaggio che mi fa chiamar oca un papagallo. Arrivo di provincia. Ma mi formerò….

—Oh sì, mio caro, formatevi e poi venite a vedermi. In questo mondo non si vive mica solamente di vescovadi. Voi potete fare altra cosa.

—Ah! se io non avessi a lottare contro la polizia….

—Corbellerie! La polizia non esiste. Voi non avete a lottare che contro la miseria. Abbiate dei quattrini, e vi si darà il Padre Eterno. D'altronde, voi sarete ricco quando non avrete più pregiudizi. Voi avete una mina….

—Sì, rispose Don Diego sorridendo: la mine d'un homme condamné au suicide.

Don Domenico alzò le spalle come un uomo che si dice: Non ci è nulla da cavare da questo idiota! Ed aprì la porta del suo gabinetto.

Don Diego uscì. Era già nella corte, quando il domestico corse dietro a lui e lo pregò di risalire.

Il suo padrone aveva un'ultima parola a dirgli. Don Diego risalì. Don Domenico l'attendeva sulla soglia della porta del suo gabinetto ove era restato a riflettere.

—Udite, diss'egli, un ultimo consiglio. Mio fratello mi ha pregato d'interessarmi del caso vostro….

—Grazie, signore, rispose Don Diego con dignità.

—Mandate vostra sorella a confessione…. Voi dite ch'ella è bella…

—Signore, interruppe Don Diego, mia sorella è straniera ai miei affari, ed io non vedo perchè….

—Infatti! replicò l'impiegato con disprezzo. Ritornate dunque al vostro villaggio ed andate a zapparvi la terra. Io non so perchè siate venuto a Napoli. Io aveva creduto veder lampeggiare sul vostro sembiante altra cosa. Ma, e' pare che la natura si piace talvolta dare al tacchino la forma dell'avoltoio. Addio, signore.

—Scusatemi ancora una volta, signore, riprese Don Diego. Datemi ad ogni modo il vostro consiglio. Voi siete buono in sostanza. Fate come l'agricoltore che getta la sua semenza e non guarda se qualche granello cade sulla pietra.

—Non si semina sul tufo, in generale, replicò Don Domenico con impazienza. Ad ogni evento, ecco ciò che avevo a consigliarvi. Mandate vostra sorella a confessione dal P. Piombini della Compagnia di Gesù ed aspettate. Addio.

E dicendo ciò. Don Domenico volse le spalle al provinciale e rientrò nel salone dove i suoi amici l'attendevano per giuocare una partita di mediatore —una specie di whist bastardo che si giuoca nel napolitano.

Don Diego andò a passeggiare alla sponda del mare, la testa piena di pensieri, il cuore pieno di dubbi. Quella conversazione cinica apriva innanzi ai suoi occhi un nuovo orizzonte. Rientrò tardi, molto distratto e silenzioso. Egli meditava le proposizioni,—cabalistiche allora per lui,—seimila ducati per esser vescovo! un secreto di Stato! un servizio alla polizia! un confessore per sua sorella! una mina!… Ei levò la testa e scorse in faccia a lui Bambina che lavorava. Ei la contemplò lungamente. La vedeva forse per la prima volta. Poi si alzò di balzo e prese la volta della sua camera senza schiudere le labbra.

—Non mi abbracci dunque questa sera? disse Bambina. Cosa hai dunque? Non mi racconti la tua visita?

—No, rispose Don Diego. Non ti racconto nulla. Questa città è un inferno popolato di vigliacchi e d'infami.

Ed uscì. Bambina sclamò sorridendo:

—Mio caro Seneca, io vorrei che il tuo inferno fosse almeno un poco più caldo, perocchè ti confesso che io agghiado, e ti prevengo che domani bisogna comperar dei carboni.

L'indomani, questa povera famiglia fu risvegliata alle sette del mattino da un birro che veniva ad ordinare a Don Diego di presentarsi di nuovo al commissario di polizia, a mezzodì. E gli estorse due carlini per essersi… scomodato!

—Che mi vogliono ancora? mormorò Don Diego. Non mi sbarazzerò dunque giammai di codesta orrida ribaldaglia.

All'ora indicata, nondimanco, si trovò alla presenza di Campobasso, il quale lo ricevè con un piglio più brutale che mai. Egli intimò alla sua vittima di avere a lasciar Napoli fra quindici giorni, per ordine del prefetto di polizia. Fu un colpo di fulmine per quel disgraziato che aveva appena speso quasi intero il minimo peculio per installarsi su quell'angolo di terra da cui ora lo si espelleva senza pietà e senza pretesto. Se avesse saputo ove andare almeno! se almeno fosse stato solo!

Le lagrime gli rotolavano per gli occhi. Divenne orribilmente pallido. Barcollò. L'atroce commissario si sentì quasi intenerito.

—Gli è per ordine del ministro, disse egli. Non ci è a recedere.

—Ma che ho dunque fatto? domandò Don Diego con una voce soffocata, che ho dunque fatto che mi si tratta peggio dei forzati?

—Ciò che i forzati non fanno, rispose il commissario. Voi vi mischiate degli affari del vostro paese, della sua morale, del suo governo, di libertà, di dignità e di non so che altre fandonie. Ma quando si ha la perversità di cospirare contro lo Stato, si dovrebbe almanco avere abbastanza spirito per scegliere i suoi complici.

—Ma io non cospiro, gridò Don Diego.

—Contatela ad altri, figliuolo, replicò il commissario. Non sono forse i vostri amici che vi hanno denunziato?

—I miei amici! Ma io non ho amici, io.

—I vostri complici, se vi piace meglio, Insomma, coloro che conoscono i vostri fatti ed i vostri pensieri.

Don Diego parve schiacciato.

—Voi non sapete mica dunque, innocente provinciale, continuò Campobasso, che quando voi cospirate, noi altri, noi, siamo sempre un po' della partita. Cercate bene nella vostra memoria, e vi ricorderete chi ha potuto essere il vostro Giuda.

—Io non ne conosco alcuno, replicò Don Diego con semplicità.

Poi soggiunse, per correggere lo sbaglio:

—D'altronde, io non ho giammai cospirato.

—Davvero! sclamò Campobasso, voi mi fate pietà. Voi avete una natura generosa, senza fiele; io m'interesso a voi. Al vostro posto, io mi vendicherei; ma vi hanno di già sobbillato nel quartiere che io sono un tristo. Perciò rassegnatevi, rendete il bene pel male ed abbandonate Napoli avanti che spiri il termine fisso dal ministro.

—Ma, signor commissario, poichè voi dite che le mie disgrazie vi toccano, non potreste voi suggerirmi un mezzo per far rivocare da Sua Eccellenza l'ordine che mi precipita in un abisso di disastri.

—Io non ne conosco che uno: provare a Sua Eccellenza che le persone che vi hanno calunniato sono vostri nemici e che dessi vendono la vostra pelle per salvare la loro.

—Ma io non li conosco codesti nemici, gridò Don Diego in tuono commiserevole.

—Per Dio! non è poi difficile a comprendere, e' mi sembra. Il ministro ha scoverta la cospirazione di cui voi fate parte. Qualcuno dei vostri complici ne ha parlato caricando il delitto sugli altri. Ora, ei bisogna provare al ministro che voi siete innocente, tutto al più un accalappiato, e che gli altri sono i rimestatori.

Don Diego udì il commissario attentamente, riflettè qualche secondo, indovinò infine la trappola e rispose con calma:

—Io non conosco alcuno, non ho fatto giammai parte di alcuna società segreta. Vedo dunque che la mia sventura è senza rimedio e che debbo soccombere.

—Sta bene, ruggì il commissario sconcertato. Fra quindici giorni, a mezzodì, voi avrete lasciato Napoli. Se no, voi avrete a fare con me.

Don Diego uscì. Gli era troppo: si sentì piegare sotto il peso. Gli si dimandava infamie sopra infamie; lo si circondava di trappole grossolane, cui non si degnava neppure dissimulare; gli si proponeva, senza mercè, ogni specie di cose orribili ed odiose: comprate una carica, siate spia, vendete vostra sorella, prostituitela al confessionale di un gesuita, denunziate i vostri amici, infangate la vostra anima, abjurate le vostre credenze morali e politiche; siate Caino o morite di fame! Il cuore di Don Diego si spezzava e si abbronzava.

Adesso, egli vedeva il suo cammino: solamente aveva a scegliere. Gli si dimandava una metempsicosi infernale. E si trattava forse di un semplice problema di psicologia e di fisiologia sociale? No.

Nella scelta che gli si proponeva era implicata l'esistenza di sua sorella come la sua: la quistione morale si complicava di una quistione di vita o di morte. La scelta sarebbe stata libera, se si fosse trattato da lui solo: non l'era più dal momento in cui l'onore, la vita, l'anima, l'avvenire di Bambina vi erano compresi. Gli si domandava, inoltre, un'eccezione unica alla regola, ovvero quell'abbominevole governo gli proibiva di divenire l'esempio solenne di un prete, colpito dal vescovo ed assolto dalla società, condannato a morte dal potere spirituale e salvo dalla società laica? Il governo si credeva nel suo diritto mettendo in atto l'editto dell'interdetto episcopale, quando non poteva vantarsi d'aver fatto grazia ad un amico, ad un fedele, ad un complice, ad uno strumento.

Don Diego si trovò, senza saper come, nella Villa Reale, assiso sul muro che corre sul mare. La sua testa era abbattuta, le gambe penzolavano, le braccia s'incrociavano sul petto: meditava e piangeva. Sentì le sue guance molli a sua insaputa, quando il tramonto lo fece avvedere che era colà da parecchie ore. Si levò allora, passò le mani sul volto, che si addolcì.

Aveva egli risoluto il suo problema?

Bambina fu stupita a veder suo fratello quasi gaio. Mangiò molto, e si divertì a far delle pallottole di mollica di pane, pensando Dio sa che. S'informò di Don Tiberio e scherzò su i suoi vicini. Infine condusse sua sorella ad udire la musica innanzi al palazzo reale e la ricondusse in carrozza dopo averle fatto bere un sorbetto della regina. Bambina gli disse:

—Come dunque? tu mi vizii adesso?

—Ti do una ricompensa prima di dimandarti un sacrifizio.

—Vedete un po'! E qual sacrifizio don Agamennone degna dimandare a donna Ifigenia?

—Domani tu andrai a confessarti.

—Oh! oh! scoppiò Bambina ridendo. A confessarmi!

—Che vuoi, piccina mia? Siamo a Napoli: ciò è alla moda. Bisogna far dunque come tutti fanno.

—Ed ove andrò a confessarmi, di'?

—Dai gesuiti, dal loro confessore in voga, al padre Piombini che spilluzzica le anime di tutte le dame del gran mondo napoletano.

—E cosa occorre dire a quel rigattiere di cenci d'anime?

—Tutto ciò che ti passerà pel capo. Ma trattasi meno di dire che di lasciar parlare ed ascoltare. Resterai dieci minuti sotto l'alito fetido di quel monaco che t'insozzerà il viso. E che Dio ti riconduca così pura da quella gogna di corruzione come vi sarai andata, tesoro mio.

—Ciò ti farà piacere, fratello?

—Ciò è utile.

—Sia. Andrò e mi divertirò forte a giuocare di astuzia con un gesuita. Poi se non dirà che ha confessato la Vergine Maria, io rinunzio ad esser donna. Buona sera.

Mentre Don Diego se n'era andato alla Villa Reale, il commissario Campobasso si era recato dal prefetto, e questi, in seguito, dal ministro per rendergli conto dell'interrogatorio del prete.

—Ebbene? dimandò il marchese di Sora.

—Eccellenza, è sembrato estremamente abbattuto dell'ordine di espulsione.

—Si è desso lamentato?

—Sì, ma non fino alla bassezza.

—Quale ragione avete voi data dell'adozione di questa misura?

—La denunzia di qualcuno dei suoi complici, che l'ha accusato per mettere in salvo la propria testa.

—E non ha nominato alcuno?

—No, Eccellenza. Assicura anzi non aver complici.

—E poi?

—Si è rassegnato a lasciar la capitale.

—Sta bene. Aspettate miei ordini per dar seguito a questo affare.

—Lo lasceremo tranquillo allora?

—Ora, che uno dei nostri agenti travestiti dia questa lettera ad un commissionario per ricapitarla al suo indirizzo.

Il marchese di Sora prese un foglio di carta e vi scrisse qualche parola in cifre. Poi piegò la lettera in un certo modo, la suggellò senza alcuno stemma e la rimise al prefetto.

—Scusi, Eccellenza, e l'indirizzo?

—Ah! sì, sclamò il marchese. Scrivete.

Il prefetto prese la penna, il marchese dettò:

—Al signor Antonio, mercante di tabacco, Piazza della Carità.

—È fatto. Ora Vostra Eccellenza vuole ella il rapporto della giornata?

—Me lo comunicherete stasera nel mio palco a S. Carlo. Nulla di urgente?

—-No, Eccellenza. Il rapporto del n. 7.

—Datemelo codesto. Barcolla sempre il Reverendo Padre?

—Più che giammai. La Compagnia esita. Cattivo segno.

—Credete?

—È arrivato al Gesù Nuovo un corriere di Roma nella notte ed è ripartito la notte stessa.

—Ed il n. 15 non ne fiata?

—Non ha potuto saper nulla. Tutto si è passato nel piccolo consiglio.

—Sta bene. Andate.

L'indomani alle otto del mattino, il barone di Sanza venne da Don Diego, e gli disse:

—Andiamo. Vi presenterò ad un uomo che può esservi utile.

Bambina entrò. Lo sguardo di Tiberio le andò incontro.

VI.

Ove si vede le anime del Purgatorio divenir spie.

Seguiamo dapprima Don Diego.

Verso il principio della strada dei Tribunali si trova una chiesa dedicata alle anime del Purgatorio. La chiesa è bruttissima, piccola, imbianchita alle calce. Degli orridi sgorbi tengon luogo di quadri; uno strato di fango tien luogo di solaio. Nondimeno questa chiesa è la più frequentata dalla plebe napolitana.

Dalle sei del mattino all'una del pomeriggio, i suoi numerosi altari sono occupati, senza un minuto d'intervallo, da preti che dicono messe. Avete fretta? volete udire una messa corta, lesta, vispa, alla buon diavolo? Entrate e troverete il vostro affare bello e pronto. Avete udito o visto altrove una metà, un quarto, un quinto di messa? salite le sporche gradinate di questa chiesa, penetratevi, guardate in faccia, a destra, a sinistra, di dietro, e troverete ad un altare od all'altro il complemento della vostra bisogna. Nulla non langue nell'operazione. Il collega attende sotto i guarnimenti per andare a prendere il posto: non bisogna farlo aspettare. Il pubblico è impaziente di far le sue divozioni; non bisogna rattenerlo: le sue occupazioni lo chiamano altrove.

La chiesa del Purgatorio è la provvidenza del prete ridotto all'estremità. Chiunque voi vi siate, indossate un arnese scuro, tendete un po' i vostri capelli alla sommità del cranio, siate sporco a dovere, radete i vostri baffi ed andate. La prima volta vi occorrerà forse un pastor bonus, di cui non si riguarda sì d'appresso la marca di fabbrica, ovvero qualcuno che garentisca, per dieci soldi, che voi siete prete; poi, non più formalità. Entrate. Nella sacrestia si tien pronto un luccaccio nero, che passa di spalla a spalla, e che nasconde i vostri cenci, i vostri abiti un po' laici, i vostri stivali alla scudiera,—per dir la messa bisogna essere in sottana,—vi tuffate dentro, covrite la saiaccia con altri paramenti sacerdotali, prendete il vostro turno, e via! Appena la messa terminata, vi danno due carlini,—18 soldi,—e che Dio vi accompagni. Se ciò non basta al vostro sostentamento, andate in un altro rione lontano della città e ricominciate la rappresentazione.

—Ma gli è un sacrilegio! dissi io un giorno ad un prete.

—Niente affatto, e' mi rispose. Io non consacro che una volta sola; ed il buon Dio non me ne vorrà se mi aiuto in questa guisa. Posso vivere con 18 soldi al giorno?

Ora, qual'è la sorgente di questi numerosi diciotto soldi? Perocchè si spippolano in questa chiesa qualche cosa come duegento messe al dì.

Eccola.

Il Purgatorio è la più felice invenzione finanziaria della chiesa cattolica. Questa specie di dock delle anime, sospeso tra l'Inferno ed il Paradiso, occupa l' entre-sol incomodissimo della salvazione, un lazzaretto malsano, molto angusto, avente nel medesimo tempo le angoscie dell'inferno e l'ansietà del Paradiso cui s'intravede come Tantalo vedeva l'acqua. Per uscirne bisogna pagare i diritti di magazzinaggio, farsi lindo, soffocare ogni minimo germe di contagio: l'anima s'imbucata essa stessa nel fuoco cortese del luogo.

I sopravviventi nel mondo possono pagare il dritto di passaggio nelle mani di un prete che ne trasmette la ricevuta nel cielo. Questa ricevuta sono la messa o le indulgenze.

Le anime liberate così rendono poi ogni specie di piccolo servigio nel cielo a coloro che hanno cooperato al loro affrancamento, e la partita si salda onestamente. Ora qual'è il figlio così crudele che rifiuterebbe a suo padre, a sua madre un aiuto sì utile per cavarle di smania? Qual'è la madre senza cuore, la sposa senza viscere che vorrebbe lasciare il figlio amato, il marito affettuoso cui potrebbe riconfortare? Da tutto ciò, quelle cotali elemosine per le anime del Purgatorio, inventate nel VI secolo, cui i protestanti attaccano così vivamente.

La plebe e la borghesia napoletana, che non sono eretiche, se ne vanno in solluchero per le anime del purgatorio. Si scrocca, si ruba, prostituisce ognuno ciò che può, si fa tutto il male possibile, tutte le ribalderie…. peccato veniale! Si dà il suo piccolo quattrino alle anime del purgatorio; egli è l'affare di codeste anime di dissozzare questi atti e presentarli al buon Dio come delle azioni meritorie. Ed il buon Dio crede ed assolve, sulla parola di quelle animucce. Nè abbiate a temere negligenza ed oblio. Vi pare e' possibile! quelle care anime non si discreditano per così poco, a rischio di restare più milioni di anni nei tini del raffinamento.

Si tratta adesso di rendere il pagamento di questo tributo facile ai fedeli che amano i loro comodi che non hanno il tempo di andare a gittare il loro obolo anonimo nel cassetto delle limosine delle chiese. Il rimedio è bello e pronto. Il parroco della chiesa delle anime del purgatorio mette l'elemosina in regìa, ed uno speculatore ne prende l'impresa a cottimo, per aggiudicazione.

Il concessionario, questa volta, si chiamava Don Lelio Franco, a cui Don Diego andava ad essere presentato.

Don Lelio aveva divisa la sua commissione fra ventiquattro commissionari, due per ogni quartiere di Napoli, e costoro venivano ogni giorno, tra le tre e le cinque pomeridiane, a pagare la quota quotidiana del loro debito al cassiere dell'intraprenditore generale.

Il cassiere in esercizio era morto. Don Lelio aveva accettato Don Diego Spani per surrogarlo.

—Le vostre funzioni sono semplicissime, disse Don Lelio al suo nuovo impiegato. Non avrete che a riempire il bianco, alla data del giorno, nel libretto del collettore, e riportare sui nostri registri le partite pagate. Ma ciò non è tutto.

—Debbo tenere inoltre un registro di cassa? interruppe Don Diego.

—Sarebbe un lavoro inutile, rispose Don Lelio. Io piglio la consegna della cassa ogni sera, prima che voi partiate, e voi la trovate vuota l'indomani. Il vostro impiego è soppannato di una funzione morale delicatissima e difficilissima. Voi siete un portavoce maggiore, che avete sotto i vostri ordini altri ventiquattro portavoce.

Don Diego spalancò gli occhi ed ascoltò attentamente. Don Lelio continuò:

—Non è collettore delle anime del purgatorio chi vuole. Codest'uomo, dall'aspetto bonario o sorridente, pulitamente vestito ma senza affettazione, una scodellina gialla alla mano a guisa di coppa, dondolandosi gravemente, parlando a voce dolce, è un compare pieno di astuzie, di unzione, di elasticità, eloquente come dieci avvocati, dicendo mille cose con una parola, indovinando il pensiero del pensiero, sceneggiando l'indifferenza, e spandendo nelle città il soffio che fa battere i cuori, i cervelli, le lingue per ventiquattr'ore. Egli sa a chi deve dare a baciare le anime del purgatorio dipinte sul suo scodellino, a chi bisogna dare una presa di tabacco o un numero alla lotteria, a chi conviene raccontare una storia, a chi bisogna soffiare un consiglio. Egli sa come fare espettorare due soldi a chi non ne dà che uno con stento, chi bisogna far ridere di un motto arguto, chi incoraggiare con un sursum corda divoto, come far sorridere una bella figliuola, come piaggiare una buona madre, come celare una gherminella ora della moglie ora del marito che si lamenta, e come si scongiura un sospetto con una piccola menzogna.

—Infatti! osservò Don Diego, gli è molto più facile fare il ministro.

—Aggiungete, disse Don Lelio, il lato politico del personaggio.

—Il lato politico?

—Sissignore! Noi siamo come la linea di congiunzione tra il popolo e la polizia,—la polizia che ci sorveglia e ci fa sorvegliare, il popolo che abborre la polizia, e che talvolta si lascia scappare una parola, talvolta rivela un mondo di dolori e di speranze con un sospiro o con uno sguardo. Leggere il silenzio, gli è forse il lato meno difficile del mestiere. Ebbene, bisogna che quest'uomo gioviale, buono, tutto occupato di Dio comprenda, indovini, formuli tutto ciò scherzando, motteggiando parlando della vita eterna, e che ve ne renda conto di una parola, mentre voi segnate sul suo taccuino, senza far sembianze di nulla udire e di nulla dire, tirando giù un'addizione di grani e di carlini, in presenza dei suoi colleghi che non debbono comprendere nulla. Voi dovete ascoltare ciò, ritenere il motto, spiegarne il senso e farmi ogni sera, prima che ve ne andiate, contando il danaro incassato, il rapporto dello stato delle anime della città. Voi toccate ogni giorno quei ventiquattro polsi di Napoli e ne tirate la diagnosi di cui mi presentate il bullettino.

—Lo farò, disse Don Diego.

—Questo è il lato direi quasi passivo del vostro impiego. Sappiate ora quale è il lato attivo. Voi dovete trasmettere la parola d'ordine dell'indomani a quella gente, nella medesima maniera, col medesimo accorgimento, facendo mostra della stessa indifferenza.

—E chi mi darà codesta parola d'ordine? domandò Don Diego.

—Io, disse Don Lelio.

—E voi, signore, da chi la tenete, voi?

Questa dimanda, forse inattesa perchè audace nella bocca di un subalterno che parla al suo superiore, turbò Don Lelio.

Don Lelio era paglietta. Egli aveva avuto non so che baruffa con la polizia, a causa di un processo di ladri, nel quale egli era risultato un po' manutengolo.

Dopo di allora aveva giurato, diceva egli, un odio a morte al governo dei Borboni, al dispotismo, alla polizia, alla chiesa che aiuta la polizia, alla magistratura che è instrumento docile dell'una e dell'altra. Si era intromesso tra i liberali ed era divenuto una specie di gallo dell'alba, cui alcuno non avrebbe osato sospettare.

Bell'uomo del resto, faceto, generoso, gran mangiatore, gran libertino, forte al bigliardo, ripetitore di bei motti, conoscendo tutti, conosciuto da tutti, non avendo nemici, troppo famigliare, gradasso a parole, paterno all'occorrenza, senza rancore verso i giudici di cui si faceva volentieri l'agente o il depositario delle mance a toccare dai litiganti dopo aver guadagnato il processo. Egli era l'agente corruttore di quell'eterna prostituta che addimandasi magistratura. I clienti s'indirizzavano a lui per arrivare a colpo sicuro al commissario relatore del loro processo o al consigliere influente nella votazione.

Oltracciò, quarant'anni, marito di una moglie brutta, padre di famiglia orrida. Figura aperta, grassona, ben rasa, a doppio mento, bocca sorridente, occhio penetrante, intelligenza svelta, ateo rimpinzato di una messa al dì.

Il suo imbarazzo a rispondere non durò che un attimo. Tutt'altri, meno intelligente di Don Diego, non se ne sarebbe avveduto.

—Io? sclamò Don Lelio, voi mi dimandate ove io attingo le mie inspirazioni? Ditemi anzi tutto, voi, da parte di chi venite qui, che specie di uomini sono coloro che vi hanno raccomandato a me ed introdotto in casa mia?

—Io non ne conosco che uno, rispose Don Diego: il barone di Sanza, mio compaesano.

—Rispondete voi di lui?

—Io arrivo di provincia.

—Egli ha risposto di voi, nondimanco!

—Suo padre, il conte di Craco, che mi conosce dall'infanzia, gli avrà forse scritto di aiutarmi.

—Voi siete dunque ben sospettoso, o, se meglio vi piace, ben prudente, per non osare rispondere apertamente del barone.

—Io non dico ciò, al contrario! sclamò Don Diego allarmato. Ma rispondere di che?

—Di che! ghignò Don Lelio. Ebbene, poichè noi ci conosciamo sotto la guarentigia del barone di Sanza, restiamone lì, e non cercate indovinare il senso e lo scopo di ciò che io vi dirò e cui voi comunicherete ai miei collettori. La nostra posizione è complessa. Una parola imprudente, ed ecco messo su uno svegliarino che non si sa più dove si fermerà. I miei sotto appaltatori non sono tutti dello stesso colore. Se io ne avessi racimolato un mazzetto di giacobini, il prefetto di polizia avrebbe aperto gli occhi e le orecchie molto più che nol fa attualmente.

—Comprendo anche ciò, disse Don Diego.

—Che fortuna! riprese don Lelio celiando. Ora, come noi non sappiamo la rivoluzione che si opera nell'animo di quella gente, ogni giorno, sotto il soffio di tante cause e di tanti agenti diversi, egli è prudente, mi sembra…

—Di tacersi, interruppe Don Diego.

—Un avvocato che si tace? donde diavolo sbucate voi zzi prè! Cesare aveva paura del silenzio di Cassio. Il marchese di Sora, il nostro ammirabile ministro di polizia, non ammette neutri.

—Ma allora….

—Ah! allora gli è mestieri essere accorti. Noi siamo degli uomini di affari qui e non dei missionari che esercitano un apostolato, come dice il nostro grande messia Giuseppe Mazzini. Io traffico elemosine e messe; io sono intermediario tra il cielo e la terra per la pesca delle anime del purgatorio che cacciamo in paradiso. I miei azionisti, che hanno accomanditato questa santa tratta, non capiscono un'acca di costituzione, di unità italiana, di costituenti, del diavolo e di sua moglie. Essi mercanteggiano anime di trapassati, non di cittadini del regno costituzionale delle Due Sicilie. Bisogna restar fedeli al mandato. Servire i nostri amici, ma non solleticare la folgore assopita dei nostri nemici. Davvero! noi saremmo proprio bene avanzati se chiudessero la nostra bottega. Capperoni! e le anime che bollono nel fuoco vendicatore e redentore? Ed i nostri padri, le nostre madri che ci tendono le braccia dal fondo della loro caldaia di zolfo? Ser abbate, vi do quattro carlini al giorno. Se ci f….. in gattabuia, e' non sarà il barone di Sanza che ce ne caverà e che vi darà soltanto tre calli.

—Volete farmi la grazia, signore, disse Don Diego dopo un istante di silenzio, di spiegarmi chiaramente e senza considerazioni indirette, la natura delle mie funzioni morali, oltre il conto materiale del danaro. Io non vi comprendo, perchè ho paura d'indovinar troppo.

Don Lelio appiccò i suoi occhi scrutatori sul viso del suo interlocutore e lo sbirciò lungamente. Don Diego, a sua volta, lo guardò negli occhi intrepidamente. Essi si squadrarono come due persone che vanno a battersi, cercando di pesarsi mutuamente, scandagliarsi, leggere l'uno nel pensiero dell'altro. Infine Don Lelio ruppe il silenzio.

—Siete voi ricco? dimandò egli.

—Sono un ciompo.

—Vi do allora otto giorni per trovarvi un altro posto. Questo qui, è al di sotto del vostro ingegno e della vostra coscienza.

—Voi mi mandate dunque via prima d'avermi messo alla prova?

—Io vivo troppo in mezzo ai preti perchè non mi abbia a sbagliare sul loro carattere. Io li detesto cordialmente, auguro loro tutti i gaudi nel paradiso e la galera in questo mondo. Voi siete prete, in dissidio con la chiesa, in uggia della polizia, fulminato dal vescovo, seguito alla pesta dal commissario del quartiere. Io non vi avrei mai scelto per mio contabile. I vostri amici, miei amici, vi hanno lanciato qui. Non vi respingo, ma non vi accetto per direttore della mia intrapresa. Coloro che hanno il diritto di parlare possono sapere ciò che dicono. Voi non avete che a ripetere come un pappagallo. Ripetete, ripetete, e rinunziate a comprendere. Ecco il vostro dovere. Voi ignorate il valore delle parole. Voi non sapete se, dicendo: viva il re! ciò non significhi bello e buono: giù coi Borboni! Voi non siete del comitato, ch'io mi sappia.

—Io son nulla di nulla.

—Voi siete, in ogni caso, un mangiatore di pane— fruges consumere nati; e con quattro carlini al giorno potete regalarvi altresì di maccheroni. Questo scanno alla taverna della vita non è da schifiltare. Domani voi sarete forse un'altra cosa. Nessuno s'immagina di domandarvi una responsabilità. Io stesso, io, non ne prendo alcuna. Io subisco la legge del più forte, e gli fo le fiche.

—Certo, rispose Don Diego, ma intendiamoci in modo che non vi siano poscia malintesi e che non abbiate a dirmi: vi siete ingannato! mi avete ingannato! Voi appartenete al partito liberale e lavorate sotto gli occhi della polizia.

—Proprio così.

—Ambedue esigono da voi dei servigi. Ambedue vi somministrano il loro contingente di agenti.

—A meraviglia.

—Voi non potete nè contentarli nè ingannarli, meno ancora accordarli tutti e due.

—Non m'incaricherei di codesta bisogna.

—In questo caso, per quale di loro optate voi?

Il colpo era diretto. Don Lelio lo parò.

—Quando si tratta della mia persona unicamente, io opto pel mio partito. Quando si tratta degli interessi della società ch'io rappresento, rifletto.

—Ma, ogni riflessione fatta?

—Che fareste voi, voi?

Don Diego si turbò, esitò, cercò la risposta.

—Certo, sclamò desso infine, non si possono recider così liberamente gl'interessi degli altri.

—Ma se foste obbligato a un dovere simile? Se vi fosse interdetto perfino di consultare codesti interessi, senza compromettervi, senza comprometterli? Se cedendo il vostro posto voi siete una vittima, senza cangiare la vostra situazione,—perocchè un'altro farà ciò che voi rifiutate? Se il diavolo non fosse poi così nero come lo s'immagina? Se i nostri amici fossero dei gnoccoloni o dei troppo scaltri? Se, restando un semplice organo di trasmissione, senza iniziativa, si facesse del bene agli uni senza mettersi in lotta contro gli altri? Se vi restasse dimostrato che il partito democratico è l'ingratitudine stessa?

—Insomma, voi siete gli organi della polizia.

—Voi ci offendete, l'abbate! Noi facciamo il cabotaggio del paradiso e punto di politica. Noi aspettiamo senza comprometterci. Noi fiutiamo su quale fetta di pane il burro è spalmato. Noi diciamo agli uni ed agli altri ciò che intendiamo per rischiararli. Noi suoniamo l'aria che ci puntano sulla nostra lanterna magica,—basti che la non sia l'aria d'una marseillaise troppo accentuata.

—Infine, voi siete… come direi io ciò?… degli osservatori piacevoli.

—Noi diamo del pane a delle migliaia di parasiti unti e bisunti come voi di un olio santo rancido, ser abbate, a delle migliaia di randagi sottrattisi all'aratro ed alla zappa, che si addicono all'utile delizia di pregare per la gente che non ha alcun bisogno delle loro preghiere. Ecco tutto, sere abbate. Ci siamo capiti. Voi avete troppo spirito, per questo semplice posto di cassiere, ch'era stato domandato per voi. Fatevi vescovo o presidente degli Stati-Uniti. Voi deperite qui. Io non voglio dissipare un gran cittadino nelle umili funzioni di un osservatore gradevole.

—Allora, voi mi mandate via senza altro?

—Ma!

—E non mi accordate neppure ventiquattro ore per riflettere?

—Oh! eccovi là, signore abbate. Ci siamo, sclamò Don Lelio con tuono severo, alzandosi da sedere. Quando non si rigetta un'infamia come quella che io vi propongo, con uno slancio d'indignazione, quando si cerca di riflettere, si vuole transigere. Transigere gli è tradire. Addio. Ci siamo compresi. Vi farò grazia di tacere questa conversazione ai nostri amici, perchè siete un disperato. Dite che il salario ch'io vi aveva offerto è troppo smilzo e che avete rifiutato il posto. Non vi smentirò, perchè non so fare il male. Venite a dire delle messe alla nostra chiesa, che abbiate o no il pastor bonus del vostro vescovo. Vi raccomanderò al parroco.

Don Diego uscì di casa Franco la testa giù, l'anima all'agonia, confuso, rimpicciolito ai suoi propri occhi. E' si sentì preso alla trappola da un miserabile che non avendolo potuto reclutare per la polizia, vedendosi smascherato, provava a farlo passare per un uomo pronto a capitolare. Questa evoluzione lo stordiva. Egli toccava con mano la sua inferiorità morale nel male. Quello spione l'aveva richiamato alla probità ed ai principii, accordandogli il suo silenzio come un atto di magnanimità onde assicurarsi del suo silenzio, di lui, Don Diego, verso il barone di Sanza. Egli rientrò col lutto nel cuore.

Bambina era già di ritorno dalla chiesa del Gesù Nuovo.

VII.

Come il P. Piombini confessava le giovinette.

Il Padre Piombini era stato nel mondo il conte Alberico Bonvisi.

La sua famiglia era di una buona nobiltà: aveva avuto dei cardinali, dei grandi uffiziali al servizio della Spagna, parecchi vescovi. Suo padre aveva servito nell'esercito del principe Eugenio, vicerè d'Italia, e lui, Alberico, aveva rappresentato il duca di Modena presso la Corte di Vienna. Una catastrofe aveva provocato la sua ritirata forzata dal mondo e la sua vocazione obbligata di entrare nella Compagnia di Gesù.

Giovanissimo, aveva sposato una damigella più attempata di lui, ma di una bellezza meravigliosa. La madre della giovinetta era una camerista tedesca della duchessa di Modena, ed il padre era, susurravasi, una società anonima di cui Francesco IV passava per gerente responsabile. La fidanzata portò in dote il brevetto che nominava il conte Bonvisi ministro del duca a Vienna.

La civetteria è la compagna indivisibile della bellezza. L'onestà si guizza talvolta nel corteggio di questa regina per diritto divino, ma vi occupa di rado il primo posto. La contessa Bonvisi, partendo per l'Austria, obbliò di farla imbaulare, codesta onestà, nei suoi bagagli. Ond'è che ella ebbe alla Corte e nella città buon numero di avventure, e fece scandalo, anche accosto dell'arciduchessa Sofia.

Per isventura, il conte Alberico amava sua moglie, ed era geloso. Provò di correggerla e di non più amarla. Non riescì.

I successi inebriarono la contessa e la resero audace. Ella disputò all'arciduchessa il duca di Reichstadt ed il barone Jellachich. L'arciduchessa s'irritò e ottenne di non più fare invitare il ministro del duca di Modena al burg. Il cordoglio del Conte Alberico non ebbe più limiti. Cadde ammalato.

Il suo medico era un amico, un olandese, a cui il conte Alberico non celava le sue miserie. Ebbero anzi parecchi colloqui su questo soggetto, non senza profitto. Il conte raddoppiò di poi il suo affetto per la moglie. Egli fu indulgente; ella cessò di cacciare nelle riserve arciducali. L'accordo si stabilì sur un equilibrio di gherminelle permesse al marito e di gherminelle tollerate nella moglie, come una necessità di posizione. E tutto andava pel meglio, quando il rumore si sparse che la contessa Bonvisi era tocca da una malattia di petto complicata da una bronchite. L'amore del conte sembrava più violento che mai. Egli vegliava tutte le notti sulla sua donna, respingendo qualunque aiuto straniero per un così sacro ufficio. L'era commoventissimo. Tutta Vienna ne parlava. La contessa prometteva a suo marito una riforma sincera e riconoscente, se guariva. Ma, una notte, una circostanza la colpì.

Era assopita. Il conte la credette addormentata. Il piccolo rumore di una carticina gualcita le fece aprire gli occhi. La contessa vide suo marito disuggellare una cartellina, versare sulla pezzuola di batista una polvere di cui ella non distinse il colore, avvicinarsi al letto e presentare la pezzuola alla bocca di lei. Respirando ella doveva aspirar naturalmente la polvere stessa sul mocicchino. Era la prima volta che suo marito si addiceva a quella manovra medica? La contessa nol sapeva. Per questa volta, la si contentò di fingere di dormire e di voltarsi dall'altra banda. Ma l'indomani ella scriveva a sua madre: «Vieni, ho paura di essere stata avvelenata.» L'ex-camerista mostrò la lettera di sua figlia al duca. Il duca consultò in termini vaghi il suo medico, il quale, dopo aver preso contezza dei sintomi della malattia, rispose:

—Altezza serenissima, la malattia sulla quale mi fate l'onore di consultarmi può essere naturale e può essere inoculata. Nei due casi, essa è mortale. Le cause della malattia naturale sono numerose; ma Vostra Altezza non mi sembra disposta a subire una lezione di nosologia, e per conseguenza mi astengo dal noverarle. Le cause extranaturali sono dovute tutte all'avvelenamento. Parecchi tossici possono dare la bronchite e la tisi: sostanze gassose, minerali, vegetali. I Malesi ne hanno una terribile, comune, difficile a constatare, di un effetto sicuro. Il pelo corto e nero che avviluppa il nodo del bambù verde produce la corizza cronica, la bronchite o la tisi, secondo che lo si alloga nelle fosse naturali, nei bronchi nei polmoni.

—Sta bene, disse il duca. Silenzio su questo consulto.

Il dì seguente la madre della contessa Bonvisi partì per Vienna. Quindici giorni dopo il suo arrivo, sua figlia era morta.

Il conte Alberico fu richiamato.

Francesco IV era quel famoso duca di Modena che non volle giammai riconoscere Luigi Filippo, col quale aveva cospirato contro l'Austria per essere re costituzionale d'Italia. Egli aveva per consigliere intimo il famoso ministro di polizia napolitano il principe di Canosa, cui la Santa Alleanza e lo stesso re Francesco I di Napoli trovavano troppo energumeno. Francesco IV cospirò per impedire che Carlo Alberto arrivasse al trono di Piemonte. Era una mischianza burlesca di Falstaff, di Shylock, di Don Chisciotte: un bey di Tunisi clericale innestato sur un arciduca austriaco corsaro. Egli ricevè il conte Bonvisi nel suo gabinetto e lo fulminò con queste parole:

—Assassino, perchè hai tu uccisa tua moglie?

Il conte, esterrefatto, restò silenzioso un momento, poi gridò:

—Perchè io l'amava, ero geloso, ed ella mi aveva disonorato.

Il duca riflettè lungamente, poi si levò e disse:

—Dovrei farti impiccare: ma non voglio che quegl'infami carbonari abbiano a dire che il nostro partito formicola di miserabili e di briganti. Scegli dunque: o una galera a perpetuità, o il ritiro in una casa di gesuiti, portando loro in dote tutta la tua fortuna. Ti lascio ventiquattr'ore per riflettere: otto giorni per entrare al bagno o in religione.

Gli occhi di Francesco IV dardeggiavano lampi omicidi. Di un cenno della mano e' scacciò il conte Bonvisi, che si guardò bene rispondere. Si rinchiuse in casa, accorgendosi d'altronde ch'era sorvegliato da presso. Riflettè lungo tempo sulla scelta che il duca gli aveva lasciato, e si decise. Non avrebbe avuto che un varco a fare per uscir dagli Stati del duca di Modena e penetrare in Lombardia, in Toscana, in Piemonte, negli Stati del Papa o nel Parmigiano. Egli poteva facilmente deludere o comperare la sorveglianza della polizia e fuggire. Anzi gli fu proposto; la cecità della polizia era stata perfin mercanteggiata. Il conte Bonvisi rigettò codesto salvamento.

Otto giorni dopo, l'alta e bassa società di Modena ripeteva «che la grazia avendo toccato il cuore del conte Alberico Bonvisi, a causa della morte prematura di sua moglie,» egli andava a farsi gesuita e portava alla società un patrimonio di un milione e trecento mila franchi.

Si può immaginare se i RR. PP. furono contenti di questo acquisto. La fortuna entrava per qualche cosa nella loro gioia. Però il rumore della conversione, la posizione sociale, le funzioni riempite, il carattere dell'uomo, li incantavano anzitutto. Essi non ignoravano i rumori che correvano sull'assassinio della contessa, gli ordini di Francesco IV sì terribilmente motivati. Ma ciò aumentava al contrario l'importanza della presa, «ed il trionfo della religione sull'autore del male.»

Il diavolo, «l'autore del male», era desso veramente vinto? Ahimè! no. Quando la madre del conte Alberico impegnava suo figlio, con le lagrime agli occhi, a fuggire ed andare ad attendere in uno Stato vicino la revoca del decreto ducale.

—No, rispondeva egli. Io non ho ricevuto dagli uomini che del male. Voglio vendicarmi di loro. M'ingaggio fra i gesuiti e vado a lavorare all'opera loro!

Egli non conosceva ancora i RR. PP. e li giudicava come la gente volgare, che se ne fa stolidamente una befana.

Non già ch'ei non avesse qualche pentimento, qualche cordoglio, qualche rimpianto, durante i tre anni che mise a girare intorno al Capo a Tempeste del noviziato, esatto della regola di Sant'Ignazio. La navigazione fu difficile. Ma ciò fu tutto. Una volta trasformato nel P. Piombini, un mondo nuovo si aperse innanzi ai suoi occhi: quel mondo della notte, popolato di fantasmi e di stelle, che addimandasi il dominio delle coscienze, l'ultramontanismo, il partito cattolico, il clericalismo, il gesuitismo, di cui i profani esagerano tutto,—la profondità, l'estensione, la potenza, le tristizie, l'influenza, la capacità, l'azione, la presa sulle anime.

Il segreto della forza e della persistenza maravigliosa del gesuitismo, è semplicissimo: la Società, lungi dal soffocare, lascia lo slancio libero all'esercizio delle capacità. Segue ciascuno la sua vocazione. La Società non dimanda che ciò che ciascuno può dare col minore sforzo e con la maggiore precisione ed efficacia possibile. Ora, d'ordinario, si fa sempre bene ciò che si ama fare, e non se n'è mai stanco. I gesuiti che han tradito la Società sono rari, per la ragione che la Società diede soddisfacimento alle loro inclinazioni.

Il P. Piombini era bel parlatore, conosceva il mondo, aveva bazzicato nelle corti, era nobile, era abile nel maneggio degli uomini e degli affari. La sua parte era dunque bella e tracciata; ei se la tracciava da sè stesso: la predica e la confessione sur un gran teatro. Napoli essendo la città più considerevole d'Italia, il P. Piombini fu installato nella casa di Napoli. La Società non si mostra severa ed esigente che con i mediocri: gli uomini fuori linea vi sono padroni e la loro potenza si puntella e soffulce di tutta la forza passiva dei loro confratelli.

Il P. Piombini non avrebbe violato in nulla l'armonia generale dell'ordine, se non avesse avuto la passione fatale delle femmine. Si limitarono a raccomandargli la prudenza e lo si lasciò libero. Ora, la prudenza era facile in uno stabilimento che occupa un paio d'ettari di suolo nel cuore della città, forato di una dozzina o due di uscite secrete, un quadrato in un'isola fitta di case, in una città di un mezzo milione di abitanti, mal rischiarata la notte, con una polizia compiacente per tutto, tranne pel liberalismo, dai costumi facili e liberi, dallo spirito timorato, senza alcun organo di pubblicità, sottomessa come schiava all'autorità clericale, complice e sostegno dell'autorità reale.

Forse taluno credè riconoscere, sotto un travestimento laico, per una notte silenziosa alle ore avanzate, il padre Piombini, uscendo o entrando nei dintorni del Gesù Nuovo. Ma come assicurarlo? Ond'è che ognun si taceva o si comunicavano il sospetto dall'orecchio all'orecchio.

Quanto il resto, il reverendo padre era irriprovevole. Egli accettava la Società tale quale era. E' non trovava nulla a ringiovanire, a riformare, a rischiarare, a rilevare, a democratizzare, come il suo intimo amico, il padre Buzelin, che rappresentava la Società a Parigi. Egli era conservatore per indifferenza. Lavorava per spandere l'influenza morale della Compagnia, aumentarne la ricchezza, moltiplicarne i membri, soggiogarle la potenza laica. In parecchi negoziati, sopra tutto in occasione della famosa captazione dell'eredità del marchese Mascara e della morte dei tre ultimi eredi di costui in due mesi, il padre Piombini aveva spiegato una capacità meravigliosa. In parecchie contestazioni con la polizia e con la corte, il padre Piombini aveva ridotte le querele al silenzio, sopratutto quando si trattò di togliere ai reverendi padri la censura dei libri, perchè…. troppo liberali!

Quando il padre Piombini predicava, l'immensa chiesa del Gesù Nuovo rigurgitava di tutto ciò che la città contava di più eminente per nascita, ingegno, posizione sociale, ed egli incantava gli spettatori a causa dell'assenza completa di teologia dai suoi sermoni e dell'audacia delle sue vedute sociali. La Società brillava e dominava, mediante lo splendore di quest'uomo. Tutte le forze vive del paese si aggruppavano intorno a lei o mettevan capo in lei, non fosse che per odiarla. I gesuiti che sono i meno gelosi di tutti i monaci, s'inorgoglivano del padre Piombini, il quale, dal canto suo, riconoscente della libertà che gli si accordava, lavorava con amore per la Società, era modesto e famigliare con tutti, misuratissimo verso i capi, non brigava alcuna autorità nell'ordine, non danneggiava alcuno con lo spionaggio mutuo stabilito dalla regola di S. Ignazio, dava il suo consiglio con riserbo, non dimandava giammai spiegazioni, si mostrava pronto a tutto,—anche a credere! e si conformava anche a ciò che la sua educazione laica e filosofica gli presentava come assurdo. Il padre Piombini era hegeliano!

Ecco l'uomo a cui Bambina andava ad aprire le porte della sua coscienza.

Don Diego dissimulò a sua sorella il resultato del suo abboccamento con Don Lelio Franco, poi disse:

—Ebbene, e tu?

Bambina, tristissima, meditava non so che; era distratta e come abbattuta di fatica.

—Per me gli è un altro paio di maniche, sclamò dessa. Io ho confessato il mio confessore.

—Diavolo! leggere nell'anima di un gesuita del calibro del padre Piombini l'è famosa. Raccontami ciò.

—Sarà difficile. Come richiamarmi a memoria le gradazioni infinite di un linguaggio, le cui bianche trasparenze avevano dei baleni sì foschi.

—Di' ad ogni modo, e lascia lì le antitesi.

—Infine, tu comprenderai forse meglio di me: io ho creduto intravvedere un mondo spaventevole.

—Insomma?

—Quando io giunsi, di già, a partir dai due abbaini graticolati, i penitenti si erano schierati intorno al confessionale in due emicicli. Io ho quasi chiuso le due branche e compiuto il mezzo cerchio, che guarniva di un doppio ordine di palafitte il casotto del confessore. Gli uni erano assisi, gli altri a ginocchio o piuttosto accoccolati. Tutti sbadigliavano più o meno, con decenza e contrizione. Vi erano parecchie femmine in toilette splendide, degli abiti neri tempestati di decorazioni, degli uniformi militari, i di cui portatori mi sembravano diabolicamente vogliosi di trovarsi altrove, giovani e vecchi, poche donne vecchie, ed io la più plebea. Gli era un salone di ministri nei giorni di ricevimento, stando a ciò che ricordo aver letto nei romanzi. Io occupava il centro di questa udienza e per conseguenza di prospetto alla porta del confessionale, in faccia al confessore. Ero quindi altresì l'ultima ad essere ricevuta, poichè il confessore alternava le sue udienze da destra a sinistra per ordine di posto. Ognuno chiaccherava più o meno al vicino, e le dame avevan molto da fare onde tener discosti i cani, i quali andavano a fiutare le loro belle vesti con delle intenzioni indiscrete.

—Perchè non avevan messo un cartello con il motto: qui non si fa lordure! sclamò Don Diego.

—Non vi sarebbero dunque che i cani che sappian leggere in questo paese? disse Bambina. Infine, il P. Piombini comparve. Tutti gittarono un sospiro di sollievo. Io spalancai gli occhi quanto largo potei per contemplarlo. Bisogna convenirne: mi attendevo altra cosa. Un gesuita? poh! Ebbene, no. Egli porta la sua grande statura molto dritta, la testa alta e lo sguardo in avanti, quantunque gesuita. Cammina con grazia, malgrado la sua laida sottana. È calvo sulla fronte e rigetta indietro il resto di una capigliatura bionda e soffice. Ha l'occhio grigio vivissimo, alterissimo, arrogantissimo; è pallido, il che rileva la bianchezza dei suoi denti e le rose ardenti delle sue labbra grosse ed umide. Il suo naso dritto s'insorge un cotal po' all'estremità. La sua bella mano carezza perpetuamente un mento un po' puntuto e sostiene la fronte, che s'inchina sotto il peso del pensiero. Breve, egli ha una fisonomia seria, ove il sorriso sembrerebbe straniero, se il fremito delle labbra non lo lasciasse spuntare; dei lineamenti, di cui la gravità non altera la bellezza.

—Ciò spiega una parte del suo prestigio. Tu ne sei rapita…. direbbe taluno.

—Messer taluno s'ingannerebbe. E non pertanto questa è la minore delle sue seduzioni. La sua voce gitta un turbamento indefinibile nell'anima: essa ha la dolcezza insinuante di un timballetto d'oro e l'armonia oleosa, se posso esprimermi così, delle corde del violoncello. Egli fila la sua voce come la seta e ne fa ciò che vuole…

—Siamo intesi! la calugine del velluto, e la corda tessuta di seta e di oro, con cui la regina Giovanna impiccava suo marito, interruppe Don Diego.

—Tu sei più nel vero che non pensi. Io era dunque inginocchiata, affatto rimpetto a lui. Ho potuto esaminarlo a mio agio; perocchè io non pretendo, malgrado la beghina di monaca che trascino, di trascinare altresì il mio sguardo nel fango. Io guardo in faccia uomini e Dio. Che ti direi? noi ci siamo studiati così per tre ore. Imperciocchè, tenendo sempre il suo orecchio incollato al graticcio, di destra o di sinistra, il reverendo Padre non ha cessato un solo istante di squadrarmi. Si sarebbe detta una sfida di fascinazione reciproca! Io sono stata vinta. Ho abbassato gli occhi. Infine, la mia volta è giunta.

—Ah! la comincia bene, sclamò Don Diego. Vediamo.

—Io mi sono avvicinata alla lamina di ottone forata a grattugia. Io mi aspettava che il reverendo padre usasse meco come con gli altri, vale a dire non accostasse al graticcio che l'orecchio; tutto al più, io temeva di sentire il mio viso appestato dall'alito di un frate che digerisce male. Il mio sembiante era inondato di un soffio caldo, sano, giovane, profumato. Le mie idee cominciavano a turbarsi. Io non trovava più nè il teatro nè l'attore sui quali io aveva concepito il mio sistema di attacco e di difesa. L'incognito mi imponeva una nuova strategia. La quale…?

—Sì, la quale?

—Io era venuta decisa a parlare; presi immediatamente la risoluzione di ascoltare. Ciò mi dava il tempo di riflettere. Bisognava però che io aprissi il fuoco. Dopo aver biascicato un non so che, che aveva l'aria di un confiteor, gli dissi:

«Padre reverendo, io vengo qui per obbedire agli ordini di colui che mi vi manda, ma io non so proprio che dirvi.

«Chi è che vi ha ordinato di venire, figliuola mia? domandò il P. Piombini.

«Mio fratello, un prete come voi, che non transige sul compimento dei doveri religiosi.

«Egli ha ben ragione, figliuola. Ma non desolatevi se non siete preparata. Vi confesserò senza ciò. Ed anzi tutto, perchè indossate voi codesta tunica religiosa?

«Perchè la è la livrea meno costosa per le donne povere.

«Non avete dunque alcune vocazione per lo stato claustrale?

«Assolutamente alcuna.

«Non vi fate in questo caso alcuna violenza. Dio non ha creato la donna per la preghiera sterile e per la solitudine disperata. Egli l'ha creata per concorrere con l'uomo alla festa della vita.

—Ah sì! sclamò Don Diego, la bella festa che è la vita! Ma continua.

—Dopo essersi informato del mio nome, e della mia età, del mio paese, della nostra condizione, del nostro stato di fortuna, delle nostre risorse e di altri dettagli, sui quali ho risposto con prudenza, il padre Piombini mi ha domandato:

«Hai tu un amoroso, figlia mia?

«Oh no, per fermo, ho sclamato io vivamente, sentendomi oltraggiata.

«Non vi offendete, figlia mia, ha ripreso il gesuita. L'amante è il principio del marito. E se talvolta egli non può essere il marito, gli è sempre il profumo che Dio dà a quei fiori divini che si chiamano giovinezza e beltà. Ora, figlia mia, negligere o disprezzare i doni di Dio, l'è un peccato. Non avete voi dunque di quegli avvertimenti misteriosi che si addimandano i sogni?

«Sì, ho dei sogni.

«Quali specie di sogni allora?

«Ma veramente non saprei troppo. I sogni? sono così fantastici.

«Qualche volta. Ma il più sovente essi sono lo specchio dell'anima e di Dio: Dio ci avverte; l'anima si rivela. Non bisogna dunque trascurarli. Vediamo. All'età vostra, non si hanno che due aspirazioni: l'amore ed il piacere. Nel sonno, l'immagine carezzata di un giovinetto che le disse una parola soave, che l'ammaliò di un languido sguardo, riviene alla fanciulla e l'agita. Ella prova allora delle sensazioni vaghe, dei desideri misteriosi, se ella è ancora innocente, se ha l'anima così vergine come il corpo. Ella subisce un'attrazione irresistibile, il suo cuore batte, il suo sangue bolle o si agghiaccia, degli spettri luminosi traversano innanzi ai suoi occhi e le danno dei brividi. La donna si risveglia, o nasce in lei, la fanciulla cessa: il bacio invisibile della fecondazione morde le sue labbra. Ella ama di già. Ebbene, figliuola, avete avuto voi di codesti sogni che non sono un peccato, ma una rivelazione?

«Giammai, risposi io arrossendo.

—Tu menti adunque! obiettò Don Diego.

Bambina non rispose all'osservazione insensata di suo fratello e continuò:

«Avete voi amato? amate voi qualcuno, figlia mia? soggiunse il padre Piombini.

«Non ancora, ho io risposto con voce molto commossa.

—Perchè commossa? domandò Don Diego.

—Ma, rispose Bambina esitando, perchè la domanda…. mi sembrò strana. D'altronde non mi era io proposto d'andare a burlarmi di quel frate e di andare a rappresentare la parte di ingenua? Egli insistè:

«All'età vostra, le giovanette han d'ordinario cessato di esser fanciulle. Un cugino, un vicino, un tale che passa, un ballerino, un libro, che so ancora? han loro appreso i misteri della vita e l'uso dei tesori della bellezza di cui Dio le ha dotate. Alcuno dunque, figlia mia, non vi ha detto all'orecchio: Voi siete bella, io vi amo? Alcuna lettura non vi ha rivelato il cómpito della donna nel mondo?

«Sì bene, ho detto io. Ma non vi ho messo più attenzione che alle brezze delle mie montagne che folleggiavano la sera con le anella delle mie trecce. Io sono povera.

«Le donne povere amano pure e si maritano anch'esse, ha osservato il Padre Piombini.

«Gli è possibile, ho osservato io, ma l'amore che batte i denti non vive guari.

«Come, figliuola mia, nella notti d'insonnia voi non avete giammai pensato ad un marito? Sola, nella vostra alcova verginale, non avete voi giammai considerato che, un giorno, un uomo sarà colà, a fianco di voi, amato forse, forse subìto, per…..

—Per! domandò Don Diego a Bambina che si era interrotta.

—Io non ho compreso, diss'ella, diventando purpurea. Egli ha detto tante cose, con una voce sì dolce, sì commossa, sì tenera, che io mi sentiva svenire sotto il soffio di quell'alito che mi bruciava il sembiante a traverso il graticcio.

«Non vi capisco, ho detto io. Io non ho insonnie nè idee di marito.

«Ecco il pericolo, figlia mia, ha ripreso il gesuita. Le giovanette si perdono per l'ignoranza. Ora, il nostro dovere, di noi ministri della Chiesa, egli è di istruirle. È mestieri che veniate a vedermi, a vedermi sovente, figlia mia; è mestieri che io vada a vedervi. Un confessore è un padre, meglio ancora, egli è una madre che può con mano sicura alzare i veli dell'innocenza senza squarciarli. Quando avrete conosciuto il pericolo, voi sarete forte nel combattimento del mondo. Eh, mio Dio, un prete, un gesuita, un santo è un uomo appo tutto, egli conosce la vita e ne prova le pene ed i desiderii. Non vi spaventate della mia severità.

—E che hai tu risposto? chiese Don Diego inquieto.

—Nulla. Egli mi ha interrogato in seguito su altre corbellerie, se io mentiva, se aveva mangiato carne di venerdì, se aveva dell'orgoglio, se…. io teneva le braccia in croce sul petto la notte, se diceva male del prossimo, quali cure igieniche io prendeva della…. mia persona, se io avea… che so infine? poi ha soggiunto:

«Io non vi do l'assoluzione oggi; ritornate fra due giorni. Io mi interesso, non solamente all'anima vostra, ma alla vostra sorte. Se vostro fratello avesse dell'abilità letteraria, io lo raccomanderei ad un canonico che ha una voce magnifica, una memoria stupenda, il gusto del predicare e punto d'ingegno per comporre i suoi sermoni. Egli è ricco altrettanto che vano. Se il vostro fratello potesse scrivere prediche, dei piccoli trattati pii per il canonico, costui sarebbe una miniera per lui. Ed arrogi che il canonico sarà vescovo…. quando sarà un po' più attempato ed avrà sbarbato dal suo cuore un amore sciagurato. Perocchè, figlia mia, noi pure sappiamo amare, al pari dei laici, e di che amore, Dio mio! A dopo domani dunque.

—E tu hai promesso di ritornare?

—Ho promesso. Fratello, gridò poi Bambina con voce disperata, ta avevi ragione. Io non sono più la Bambina di stamane, innanzi la confessione. Dalle letture, io aveva intravisto un mondo d'ombre laide o raggianti che s'incrociavano nel mio cervello come le rondini nel cielo del nostro giardino di Lauria. La parola di questo gesuita ha messo il fuoco ai miei fantasimi e ne ha fatto un rogo. Io ho la febbre. È il paradiso o l'inferno che costui ha aperto innanzi ai miei occhi? Codesto frate mi ha dato venti anni di vita in un'ora. Sono invecchiata.

Don Diego si alzò di soprassalto dalla sedia, e senza baciare sua sorella sulla fronte come di uso, senza dire una parola, andò a coricarsi. Bambina restò a vaneggiare.

Il diman l'altro, ella tornò al Gesù Nuovo!

VIII.

Infrattanto….. il re prega.

Alle otto del mattino Don Diego si presentò in casa di Don Domenico Taffa. Il degno galantuomo terminava di radersi, e per rimettersi della fatica centellava una tazza di cioccolata alla crema, cui la sua bella governante, sufficientemente scollacciata, gli presentava.

—Ebbene! dimandò Don Domenico, quando la sua Ebe in grembiule si fu ritirata.

—Ebbene, io ho seguito il vostro consiglio, disse Don Diego. Ho mandato mia sorella a confessarsi dal P. Piombini.

—Ah! alla buon'ora. Cominciate a divenir ragionevole. Ed allora?

—Codesto gesuita è un miserabile.

—Hum! eccoci li ancora. Un miserabile! Cosa ha egli fatto insomma?

Don Diego raccontò la confessione di Bambina.

—E voi chiamate miserabile un uomo che vi propone una miniera, un canonico da mettere a partito, un uomo cui io farò vescovo quando vorrà darsi l'incomodo di comperare il pastorale? In verità, abate, voi farneticate.

—Ma voi non comprendete dunque qual prezzo dimanda quello scellerato dei suoi benefizii?

—Or neh! che dritto avete voi ai servizi di altrui, dimando io? Chi domine siete voi che esigete ch'altri s'incomodi per nulla onde tornarvi gradito? Ma il mondo vive di scambi, mio brav'uomo! Senza la reciprocità della pena e del piacere non vi sarebbe società, quel sere! Io non scorgo nulla nelle proposizioni del R. P., il quale è dei miei amici, che possa offendervi. Ma, infine, se egli mettesse un prezzo al suo favore… per Giove! io lo trovo naturalissimo. Voi potete accettare o rifiutare; non avete il diritto di lamentarvi e d'insultare. Io non so che diavolo venite a fare in casa mia allora.

—Voi sapevate dunque che cosa quel gesuita voleva proporre, consigliandomi di mandare mia sorella a confessione da lui?

—Non lo sapevo, ma come non ignoro che in questo mondo non si fa nulla per nulla,— ex nihilo nihil fit —io ne sospettava un pochino.

—E voi pensavate….

—Ah! gnocchi! voi mi annoiate, l'abate. Perchè andate voi dal barbiere se non avete voglia di farvi la barba? Ma ella è dunque così bella vostra sorella? Ella è così bella che n'è venuto l'acquolina alla bocca perfino al Reverendo Padre?

Don Diego uscì senza salutare. Don Domenico lo richiamò.

—L'abate, disse egli in tuono serio, non fanciullaggini. Le occasioni sono calve all'occipite, ha detto Rabelais; non le si acchiappano più quando sono passate. Ascoltatemi dunque. Mio fratello mi ha scritto di nuovo da Salerno per chiedermi ciò che avevo fatto per voi, malgrado le vostre stranezze. Io vado a parlar oggi al ministero con qualcuno che potrà forse darvi del lavoro. Andrò a vedervi in casa stasera, prima delle dieci, perchè io pranzo precisamente col canonico a cui sembrami il P. Piombini abbia fatto allusione. Egli dimora, presso di voi…. la notte. Tasterò ancora il terreno da questa banda. Basta che la polizia vi lasci tranquillo.

—Ah! ecco giustamente ove è la pietra d'intoppo.

E qui Don Diego raccontò un poco del suo colloquio con Don Lelio Franco.

—Infatti, infatti! che volete? disse Don Domenico. Don Lelio potrebbe bene essere un poco l'agente del conte d'Altamura… voi sapete? il capo della reazione, l'agente segreto ed onnipotente del re. Vi sarebbe forse qualcosa a fare anche da quel lato lì. Ma voi siete un mulo sì ombroso…. Andate. A stasera.

—Che geenna che è questo paese! sclamò Don Diego andandosene. Non si esce di polizia che per cader nella chiesa, e non si spania dal prete che per imbrodolarsi nel birro! Ah! se io fossi solo! Popolo vigliacco ed infame, va!

Ho bisogno di dire che le ricerche promesse da Don Domenico erano false e che egli aveva inventato questo pretesto per andare a vedere Bambina? In fatti, alle nove della sera e' suonava alla porta di Don Diego.

Che costui sospettasse o no dello scopo della visita, il fatto è che Bambina si trovò nel salone, vicino alla tavola, e che ella aveva spogliata la beghina di monaca di casa. Don Domenico salutò profondamente la giovinetta, si assise sul canapè a fianco al prete e cominciò a versargli la cervogia anestesiaca delle menzogne cui aveva preparate. Tutto andava bene, molte promesse, un avvenire pieno di fiorenti prospettive…. ma nulla per il momento. Infrattanto, il futuro segretario generale del ministero per gli affari ecclesiastici s'inebbriava della contemplazione di Bambina.

Ella era più bella della madonna di Sassoferrato, cui somigliava. I suoi capelli, un po' in disordine, le cadevano sul collo e sul petto, cui un fazzoletto mal fermo lasciava intravedere. La luce del candeliere la rischiarava dal su in giù, di guisa che le linee del suo viso, fortemente bagnate di raggi e di ombre, si staccavano sul fondo scuro della sua veste e sul color chiaro della pezzuola con un rilievo potente. La sua mano, tirando l'ago, sembrava una colomba che folleggiava su bianca nappa. Il respiro un po' ansioso, a causa del visitatore e di ciò che costui raccontava, dava alle labbra un fremito elettrico. Don Domenico non le indirizzò la parola. Ella levò appena gli occhi e li portò appena su di lui. Don Diego ascoltava. Ad un tratto, l'impiegato salutò la giovinetta, tese la mano a Don Diego ed uscì dal salone. Nell'anticamera, Don Domenico sclamò con voce saltabeccante:

—Signore, vostra sorella è dessa fidanzata?

—Non mica.

—Volete maritarla?

—Le giovinette sono al mondo per codesto, io m'immagino. Ma mia sorella non ha dote.

—Insomma volete voi maritarla?

—Non ho alcun partito preso in contrario.

—Buona sera.

Don Diego lo rischiarò fin giù delle scale,—non vi era lampada,—e risalì senza soggiungere motto.

Don Domenico Taffa correva come un uomo che scappa dal fuoco.

Don Diego non ripetè a sua sorella il supplemento di conversazione che aveva avuta col suo visitatore.

Il dì seguente, Bambina ritornò al confessionale del P. Piombini. Suo fratello visitò qualche conterraneo, principalmente un farmacista della strada Foria, il quale gli diede una lettera del marchese Tiberio di Tregle. E quel marchese non era altri che il già dottor Bruto Zungo, di cui avremo a parlare più oltre.

La sera, Don Diego ascoltava con ansietà il racconto della seconda conversazione del gesuita con sua sorella, quando il barone di Sanza arrivò. Bambina impallidì e si tacque di un tratto. Don Diego gli narrò il risultato della sua visita all'intraprenditore delle limosine per le anime del Purgatorio, della sua visita al capo di ripartimento del ministero, la visita che costui gli aveva reso, la gita a confessione di Bambina, tacendogli però parecchie particolarità rilevanti di tutti quei colloqui. Il barone si mostrò più freddo e riservato che mai, si limitò a constatare che Don Lelio era stato a parlargli. La conversazione si spegneva, allorchè il campanello della porta suonò vivamente. Don Diego andò ad aprire. Era l'uomo alla livrea di Don Domenica Taffa che portava una lettera del suo padrone.

—Bisogna una risposta?

—Non so zzi prè. Vedete.

Don Diego rientrò nel salone ove era il lume, lesse e restò come stupido. Bambina e Tiberio lo guardavano con curiosità. Don Diego rilesse la lettera, poi rovistò precipitosamente nelle sue tasche, ne cavò qualche monete bianche, e dandole al lacchè disse:

—Di' al tuo padrone che gli porterò la risposta io stesso.

Cosa era quella lettera? che diceva essa?

Ritorniamo su i nostri passi.

Con suprema stupefazione di Antoniella,—la vispa governante di Don Domenico Taffa,—questi, di ritorno dalla sua visita a Don Diego, invece di coricarsi a mezza notte e dormire come un priore, secondo il consueto, aveva passeggiato nell'appartamento fino alle due del mattino ed aveva passato una notte insonne molto agitata, scattando dei monosillabi diretti a tutti i mobili. Levandosi alle sette all'indomani, si era tagliuzzato radendosi, aveva trovato Antoniella noiosa e seccante, il cioccolatte troppo denso, la camicia male amidata, gli stivali poco lucidi, aveva mandato tutti al diavolo ed era uscito alle nove, in carrozza, gittando per indirizzo al cocchiere:

—A S. Pasquale ad Aram.

Arrivando al convento dei cappuccini aveva chiesto di monsignor Cocle.

—È uscito, rispose il frate portinaio.

—Ha passata la notte qui?

—Sì.

—Al palazzo reale, gridò Don Domenico al cocchiere, risalendo in vettura.

Monsignor Cocle aveva tre domicili. Il domicilio di ostentazione, nel suo convento, a San Pasquale ad Aram a l'Infrascata, perchè egli era zoccolante. Il domicilio utile, alla Corte, perchè egli era confessore del re. Ed il suo Parc-aux cerfs, in casa di Lusetta, perchè egli era uomo e cappuccino. Quando cenava e passava la notte con la sua ganza, egli diceva alla Corte che andava a raccogliersi e meditare al convento, ed al convento, che dormiva alla Corte. La notte precedente però egli aveva realmente dormito nel suo bel nido al monistero, ed il mattino, dalle sette, si era recato a Palazzo.

Ferdinando II di Napoli non poteva far manco di due cose, e perciò le voleva sempre alla portata della sua voce: il boia ed il confessore. E' non usava molto del primo, checchè se ne sia detto. Ma e' faceva un consumo spaventevole del secondo. Doveva presiedere al consiglio? eccolo dapprima ai piedi del confessore. Doveva passare una rivista?—perchè egli era un gran capitano di riviste,—e' vi si preparava colla confessione. Doveva recarsi al teatro? ei domandava dapprima perdono a Dio del peccato necessario cui andava a commettere. Andava a pranzo? ei prendeva un centellino di confessione come vermuth. Voleva abbracciare la regina? si metteva in lena con un atto di contrizione. Si purgava? compieva i doveri sacri della toilette? divideva i profitti delle ladrerie con i suoi ministri? misurava un paio di brache nuove,—ciò che non gli succedeva spesso? scappellottava i bimbi?… la confessione, sempre la confessione, la preghiera, i sette salmi penitenziali, prima o dopo. Il confessore era il suo Spirito-Santo, il suo uomo per ogni bisogna. E' lo alloggiava dunque presso di sè, onde non far languire il regno…. e la regina. La sera però, quando questo confessore aveva rilasciato al re il suo permesso di abbracciare, e' cavava fuori non so che pretesti di divozione per rientrare in convento e guizzarsi in casa di Lusetta.

L'ex cappuccino non capiva gran che intorno ai comodi ed allo splendore di un domicilio. Malgrado ciò, il re albergava realmente il suo spirituale decrotteur, il solo istrumento ch'egli avesse di reale, dopo la mannaia,—lui così spilorcio!

Se avete letto in mastro Rabelais il ritratto di fra Gianni degli Entommeurs,—salvo il coraggio,—voi avrete il ritratto di fra Bartolomeo Cocle, vescovo di Patrasso: «giovane,—quarantacinque anni circa,—galante, fresco, svelto, forte di mano, ardito, avventuroso, deliberato, alto, magro, ben fesso di bocca, ben avvantaggiato in naso, gran disbrigatore di salmi, grande sbarazzatore di messe, bel nettatore di vigilie: per tutto dire sommariamente, vero monaco se unqua ne fu, dopo che il mondo monacante monacò delle monacherie: del resto chierico sino ai denti in materia di breviario.»¹

¹ «Juenne, galant, frisque, dehait, bien à dextré, hardi, adventureux, dèlibérè, hault, maigre, bien fendu de gueule, bien advantagé en nez, beau déspecheur d'heures, beau disbrideur de messes, beau déscroteur de vigiles; pour tout dire sommairement, vrai moine si onques en fut, depuis que le monde moinant moina des moineries; au reste, clerc jusques és dents en matiére de breviaire.» RABELAIS.

Il suo colorito rubicondo, la sua barba nera, i suoi occhi a fior di testa, le sue labbra a cercine, il suo doppio mento, le larghe narici, i bianchi denti, il comodo adipe, il pelame arruffato e nero, indicavano bene che la natura aveva tagliato quest'uomo e lo aveva destinato ab eterno ad essere zoccolante e confessore di re. Appetiti formidabili, scrupoli smilzissimi, desiderii irresistibili, organi poderosi, stoffa da corazziere sciupata in tonaca, tonaca portata da tagliacantone, croce di vescovo a mo' di bandoliera…. ecco mons. Cocle. Con ciò, vernice di corte, potenza di volontà per domare le sue inclinazioni, voce resa dolce dal volere, l'olio episcopale per rendere scorrevoli gli incastri e le ruote di questo ordigno di ferro, ipocrisia rappresentata con maestria.

Questo aspetto marziale ed apostolico aveva sedotto un re marziale e devoto. Monsignor Cocle faceva il ménage della coscienza reale con magnanimità: egli metteva il re sempre a suo comodo con Dio. Ferdinando II non domandava altro. Conosceva egli la pratica del suo confessore con Lusetta? Io penso che sì; ma «passatemi la sena ed io vi passo il rabbarbaro.»

Mons. Cocle terminava il suo asciolvere quando il suo amico ed associato Don Domenico Taffa fu introdotto da lui. Erano della medesima provincia e terra, si conoscevano dacchè il vescovo non era che semplice novizio, ed il capo di dipartimento un povero soprannumero con cinquanta lire l'anno per tutto soldo. Don Domenico piegò il ginocchio innanzi al vescovo e gli baciò la mano. Si principiava sempre così.

—Pigli caffè, don Dumi! domandò monsignore levandosi da tavola ed entrando nel salone.

—Ringrazio V. Ecc. Rev.ma. Ho preso or ora un cioccolatte abbominevole che mi strangola ancora. Il mondo va a tutti i diavoli. Oggidì, non è più possibile di essere ben servito che al monistero.

—L'è naturale, mio Dio, poichè codesti infami liberali proclamano i diritti dell'uomo! Se si avvisassero un giorno di proclamare altresì i diritti del monaco, buona notte! noi saremmo così mal serviti come i borghesi.

—Ciò arriverà, voi lo vedrete. Al passo con cui andiamo?… Ei parlan perfino del diritto al lavoro! Trono di Dio! il lavoro? Se domandassero almanco il diritto di non lavorare!… A proposito di non lavorare, io arrivo da San Pasquale ad Aram. Voi avete dunque dormito al convento la notte scorsa, monsignore?

—Non me ne parlate! Sì, ho dormito al convento.

—Comprendo codesta predilezione, monsignore; vi siete più tranquillo.

—La peste s'abbia la tranquillità! Le campane, il mattutino, i canti, la gente che gironza pei corridoi, che cospetta, che tossisce, che brontola, a mezzo addormita, gli sciocchi che sbagliano la porta, gli ubbriachi che piagnucolano sui rigori dei mariti, i gatti che danno dei cattivi esempi, la puzza del refettorio…. Laus deo! amo meglio altra cosa. Infine, perchè sei tu andato fino al convento?

—Ah! ecco. Si tratta, monsignore, del successore del vescovo di Teramo che ha avuto il buon senso di morire.

—Ebbene, codesto successore si presenta egli?

—Io ho dissotterrato una perla, monsignore. Un sant'Agostino, là!

—E tu chiami ciò una perla, imbecille? Gli era già ben troppo che avessimo dei vescovi birri. Darcene dei santi e dei dotti, adesso? Triplice idiota!

—Prego V. E. Rev.ma di permettermi di spiegarmi.

—Spiega, spiega. Se tu sapessi che bisogna mi danno quei galuppi nel ripartimento dell'anima del mio penitente! Corrispondono con lui direttamente e gli propongono i casi di coscienza dei sudditi assolutamente come se il re fosse il papa, o il ministro della polizia. E' riassumono la confessione di tutta la popolazione della diocesi. Abbozzano dei progetti di miracoli per soffocare la peste del liberalismo e scongiurare l'indifferenza religiosa. E' dimandano soldi per costruire chiese e conventi. Si lamentano che li borghesi insegnino a leggere ai loro figliuoli ed alle loro figliuole. Propongono stragi di carbonari. E' dimandano dei carcami di santi che fanno miracoli…. Che so ancora? E sono io che debbo sbrogliare tutti codesti patatì e patatà.

—Io compiango V. E. Rev.ma di tutto cuore. Nettare una coscienza reale di tutto codesto verminaio è un lavoro eroico. Ma e' non si tratta punto di codesto col mio S. Agostino.

—E di che dunque, allora?

—Egli ha degli scrupoli, delle delicatezze, degli sgomenti di onore, delle virtù, delle sensibilità, ma tutto codesto è mondano: nulla di religioso e politico. Egli puzza, al contrario, il filosofo ed il liberalastro a cento miglia. Ciò è nulla. La cappa violetta del vescovo coprirà tutte quelle screpolature della coscienza e dell'onore. Ma vi sono due altre difficoltà a sormontare; e' non ha quattrini, ed ha una giovine sorella di una bellezza angelica, come voi non avete giammai visto, monsignore, nè nel mondo, nè in pittura, nè vegliando, nè in sogno.

—Oh! Oh! tu l'hai dunque vista, tu? Ne saresti tu dunque innamorato!

—Io l'ho vista ieri sera.

—Ma, non ha quattrini…. ecco lì!

—Si, ecco lì. Io gliel'ho detto. Cosa importa a noi, a noi, la splendida bellezza della figlioccia? Tanto più, che, a quanto sembra, il P. Piombini, confessore della bella madonnina si mette in uzzolo di correr la gualdana. Noi abbiamo, noi, la nostra grassa Lusetta. Laus Deo! Quella roba lì si tocca, almeno; la si palpa, la mangia, cospetta, beve, strepita, conta gli scudi, ci cerca taccoli per darci poscia i gaudi del raccomodamento. La ha della schiena, delle groppe, della ciccia, l'alito forte, le braccia tarchiate e…. il resto.

—Birbo, brigante! Ringrazia Dio che stamane io mi senta di buono umore! senza ciò, ti raccomanderei mo' mo' al marchese di Sora e ti farei rimpedulare il cervello nel bagno come liberale.

—Io dimando mille volte perdono a V. E. Rev.ma. Io non aveva alcuno intendimento di spiacervi. Gli era un paragone involontario con quella tosa di diciotto anni, svelta come una colonna gotica, bianca e diafana come il vapore dell'alba, l'occhio languido dell'amore che si risveglia, la bocca di rose che scoppietta baci, una Venere sotto la pelle d'un cherubino, che dà la vertigine dell'amore anche….. ad un capo di ripartimento!

—Ti veggo venire, il mio libertino. E poi?

—Ma, ecco tutto. Io sono troppo, troppo povero per appropriarmi quel diamante incomparabile. Codesto non può ornare che una corona, una tiara o una mitra.

—Avresti meglio fatto a cominciar dalla mitra, giacchè suo fratello vuole esser vescovo.

—Ma e' non l'è mica ancora, poichè non ha i sei mila ducati, e poichè la sua piccola Vergine Maria non si mette al Monte di Pietà. Allora, ei sarà ciò che sarà. Noi abbiamo la nostra Lusetta propria a tutto, che ci ammalia con i suoi occhi stupefatti, col suo appetito, col suo fiato…. A proposito, fuma dessa, monsignore?

—A fe' di Dio! non lo so mica, urlò monsignor Cocle ridendo. Ad ogni modo, cionca del rhum. Ma che diavolo vuoi? Ho il tempo per cacciar le colombe, io? La vi era, nel tempo in cui la confessavo come semplice monaco, la vi è restata. Ma tu sei il suo nemico, tu, perchè ella ha domandato la sua mancia su i tuoi affari. Ciò è giusto però, e' mi sembra.

—Che V. E. Reverendissima mi scusi. Io non sono il nemico di Lusetta, ma il servitore rispettoso e devoto di monsignor di Patrasso. Ora, poichè il fratello non ha denari e che io non posso fargli alcuna anticipazione sul pegno prezioso che e' possiede….

La porta si aprì. Il re entrò. Don Domenico rinculò fino al fondo del salone. Monsignor Cocle si alzò. Il re andò dritto a lui e gli baciò la mano.

—Io vado a far saggiare qualche cannone, fuso ed apparecchiato a Pietrarsa. Vogliate ascoltarmi in confessione, disse Ferdinando II con l'aria di chi non ha tempo da perdere.

—Avete voi fatto il vostro esame di coscienza, sire?

—No.

—Io vi ho lasciato in istato di grazia ieri sera, a dieci ore. Ma la notte, sire, il diavolo va intorno: i cattivi spiriti scaricano sopra di noi le loro emanazioni pestifere; nel sonno, l'anima non è in guardia; la carne regna; le tenebre maculano…. Vogliate, sire, prepararvi un istante. Infrattanto io riconcilio il mio vecchio penitente ch'è colà, e gli do l'assoluzione.

Il re, obbediente come un fanciullo, andò ad inginocchiarsi ad un inginocchiatoio in un angolo del salone, e Don Domenico Taffa s'inginocchiò ai piedi del vescovo.

—Ascolta, disse monsignor Cocle a voce bassa. Tu sei uno scellerato affezionato, ed io ti parlerò con tutta franchezza, come sempre, poichè tu conosci tutti gli affari miei. Intrattieni la speranza nel fratello e non lasciar cader la sorella fra le unghie del gesuita. Una bellezza di quel calibro è un agente potente cui non bisogna far cadere nelle mani dei nemici. Io rifletterò… ho a riflettere su tante cose.

—Ho paura che non ci prevengano.

—Ecco appunto ciò che bisogna evitare. Io non ti nascondo che sono diabolicamente stufo di Lusetta.

—Lo credo bene.

—Tu non dubiteresti mai che quella cialtrona m'abbia gittato l'altra sera un candeliere alla testa!

—Bah! una testa di vescovo è oliata! il liquido della lampada non vi fa macchia.

—Se il re non fosse lì, io ti darei del mio piede tu sai dove.

—Io riceverei con riconoscenza codesto segno d'amicizia di Vostra Eccellenza Reverendissima.

—Dunque, io sono deciso a romperla con quella figlia di Satana, tanto più che la diviene di una esigenza intollerabile, che la città comincia a cianciare su queste mie pratiche, e che le si vanno a proporre affari, cui ella m'impone sollecitare. Tu vedi dunque, che bisogna ad ogni costo che io la lasci.

—Allora, voi sareste deciso a dare un vescovo alla chiesa di Teramo per nulla ed a compensare i condivisori?

—Parleremo di ciò più tardi. Tu vedi che il re attende.

—Che attenda. Io sono qui al tribunale della penitenza, e non spreco i sacramenti. Dunque voi v'incaricate del fratello. Ma io non ho detto ancora a Vostra Eccellenza Reverendissima che bisognerà pensare altresì ad un altro, forse….

—A chi dunque?

—A ciò che ho potuto capire, vi è sotto cappa un fidanzato. Cosa ammirabile! Un marito? una bandiera che copre la mercanzia!….

—Che diamine è codesto fidanzato che tu metti in scena adesso? Posso farlo mandare in galera?

—Non ne so nulla ancora. Ne ho inteso parlare. Gli è a vedere. Gli è ad intendersi…. Voi comprenderete che un marito non può solamente subire le perdite nell'affare….

—Ma se penso al marito, posso ben dispensarmi di pensare al fratello, e' mi pare! Ora, io preferisco colmare il marito…. capisci!

—Il turba-feste! comprendo a maraviglia. In questo caso, io mi metto in campagna con prudenza e spero….

—Diamo scacco al gesuita. Io trovo quei rettili sotto tutti i miei passi.

—Lasciate che io dia questa prova della mia devozione a Vostra Eccellenza Reverendissima.

Ego te absolvo in nomine patris et filii et spiritus sancti…. borbottò a voce alta monsignore, dando l'assoluzione e squartando dei grandi segni di croce.

Don Domenico si alzò, baciò la mano del vescovo, piegò il ginocchio innanzi al re ed uscì a rinculo.

Il re andò a sua volta a mettersi ai piedi del santo uomo.

Don Domenico si recò al ministero e dette ordine che non lo si turbasse, avendo un lavoro importante a fare per il ministro. E' si mise allora al suo tavolo e cominciò a riflettere ed a scrivere.

Ei minutò e lacerò per lo meno venticinque bozze, alzandosi, passeggiando, affacciandosi al balcone per ispirarsi alla vista del cielo e del mare. Ei si battè la fronte, fiutò il tabacco, fumò una dozzina di sigari, si prosciugò la fronte come un uomo che suda, infine mise alla luce le linee seguenti:

«Gentiliss. e riveritiss. sig. Abate,

«Le persone di spirito sopprimono i preamboli: esse s'intendono di una parola. Io non vi scriverò dunque che questa parola: io sono stato fulmineamente colpito di amore per la signorina vostra sorella. Ve la dimando in matrimonio. Voi conoscete la mia posizione. Il mio ministro, e S. Ecc. Reverendissima, mons. Cocle, assisteranno al contratto. Io non voglio dote. Io m'incarico della felicità della signorina vostra sorella e del corredo di nozze, non che dell'avvenire della famiglia. Accogliete, vi prego, la mia domanda con la semplicità ed il disinteresse con cui io ve la indirizzo, e rendetevi interprete presso vostra sorella di tutti i miei sentimenti devoti ed ardenti. Qualunque sarà la vostra risposta, voi mi permetterete di dirmi sempre

«Napoli, il 2 maggio 1847. «Vostro amico sincerissimo «Domenico Taffa, «Capo di Rip. al ministero del culto.»

Questa lettera gittò Don Diego nello stupore. Egli contemplò sua sorella con un'attenzione ostinata, come se avesse voluto scovrire nei tratti della giovinetta la sorgente di quei miracoli, poi gridò come un uomo stordito, indirizzandosi a sua sorella ed al barone di Sanza:

—Io non posso contenermi. Bisogna che vi legga la lettera.

E la lesse. Bambina si coprì il viso con ambo le mani per nascondere la sua commozione. Tiberio sorrise leggermente senza manifestare il minimo turbamento.

—Che mi consigliate voi, amico mio? dimandò Don Diego.

Il barone si levò, prese il suo cappello e rispose:

—Io conosco quell'uomo. Egli vuol essere consigliere di Stato, segretario generale del suo ministero, forse anche ministro. Bambina è il prezzo di quei posti.

Ei salutò ed uscì, udendo Don Diego che mormorava come atterrato:

—Suicidarmi, divenir spia, prostituire mia sorella: ecco la mia sorte! No: Dio non c'è!

Bambina che accompagnava il barone di Sanza, gli susurrò a voce bassa:

—Avrei da parlarvi.

IX.

La tempesta si addensa.

Bambina restò sotto le armi tutta la giornata seguente; il barone di Sanza non comparve.

Don Diego uscì di buon'ora volendo evitare una spiegazione con sua sorella, e non rientrò che la sera. Egli vide Don Domenico Taffa, lo ringraziò dell'onore che gli aveva compartito, chiedendogli la mano di Bambina; accettò la proposta condizionatamente; dimandò una settimana di tempo per presentarlo a sua sorella, quel tempo essendogli necessario per sciogliere la sua parola col conte di Craco che destinava la giovinetta al barone di Sanza; disse che costui non gli sembrava punto tenero della sua fidanzata: promise che Bambina non andrebbe più a confessarsi…. breve, mischiando vero e falso, accomodò le cose in modo che gli si accordarono di buona grazia alcuni giorni per riflettere. Don Diego voleva penetrare i disegni altrui, dissipare il caos della sua anima e della situazione, scandagliare Bambina, pesare la sua risoluzione.

La serata fu triste e silenziosa. Don Diego trangugiò prestamente la pietanza che, preparate pel desinare, servì di cena. Bambina succhiò qualche ciliegia. Il tempo della miseria rassegnata e lieta della provincia era passato. Essi subivano al presente la miseria preoccupata ed ambiziosa, avvelenata da tentazioni colpevoli e da brame disoneste. Non dissero una parola sul pensiero che li preoccupava, non fecero un'allusione alla lettera della sera precedente: il pensiero del fratello e della sorella nonpertanto non volgeva che su quella. Il filo che metteva in comunicazione questi due esseri era spezzato. E' si ripiegavano in sè stessi, adesso: ciascuno aveva il suo mondo di visioni a contemplare.

Oppressa da quel silenzio. Bambina andò a coricarsi di buon'ora. Don Diego ronzò pel suo alloggio fino ad un'ora del mattino. Che pensava egli? Egli giudicava la società, in mezzo alla quale e' viveva, come Regolo nella sua cassa guarnita di punte di ferro.

Alle sette del mattino, udì picchiare. Era una serva con una lettera del canonico Pappasugna, che lo pregava di passare da casa sua, prima delle undici, essendogli stato raccomandato dal padre Piombino.

Bambina non era ancora alzata. Don Diego si vestì ed uscì senza vederla. Bambina aspettò il barone di Sanza fino a mezzodì. Poi, ruppe in lagrime e, senza riflettere a ciò che facesse, un'ora dopo si trovò inginocchiata innanzi al confessionale del padre Piombini. La chiesa immensa del Gesù Nuovo era deserta.

—Io vi aspettava, disse il gesuita.

Questa parola dette a Bambina la coscienza di sè stessa. Un nuovo accesso di lagrime la prese, il singhiozzo la soffocò. Il gesuita provò di consolarla e, parola per parola, frase per frase, le carpì il racconto della lettera di Don Domenico Taffa, del commento del barone Sanza, della sclamazione desolata e terribile di suo fratello, del ritrovo domandato e non ottenuto del giovane conterraneo a cui essa desiderava indirizzarsi per un consiglio.

Il gesuita intravvide un innamorato nel barone di Sanza, e quindi un terribile ostacolo a demolire.

Il colloquio fu tempestoso, quantunque Bambina distratta ed affannata non rispondesse che per monosillabi. Il padre Piombini, esaltandosi per gradi, obbliandosi, cieco, inconsciente quasi, fece in fine esplosione:

—Io ti amo! disse egli con voce strangolata. Sei tu contenta adesso che mi hai strappata questa terribile parola? Perchè sei tu ritornata? Io godeva della pace da parecchi anni. Io credeva che il mio cuore fosse disseccato. Tu vi hai messo tutte le fiamme dell'inferno. Io non sono stato sempre gesuita. Io era il conte Bonvisi. Io fui marito di una donna amata. Io fui alla corte di Vienna ambasciatore del duca di Modena. Io era ricco di un milione…. Io aveva gittato tutto ciò in una tomba. Tutto ciò può risuscitare. Vuoi tu essere mia? Vuoi tu avere pietà di me?

Bambina si alzò e si slanciò fuori la chiesa come una colomba morsicata da un serpente. Era stata ella colpita?

Il barone di Sanza che si presentò da lei verso le cinque, la trovò ancora tutta sconvolta. Ella si guardò bene dal dirgliene la ragione, e, cosa più grave ancora, ella tacque altresì a suo fratello questa visita fatta al gesuita. La devastazione si operava nella sua anima. Ella aveva tanto desiderato l'abboccamento col suo compagno d'infanzia di Lauria, ella aveva provato un'ansietà malaticcia pel ritardo di lui, ed ora che colui era quivi per ascoltarla ella ne sembrava contrariata. Ahimè! Bambina aveva cessato di essere fanciulla e la sua coscienza non era più vergine. Il confessore aveva violata quell'innocenza come un calabrone profana la corolla della rosa. Ah! se le madri avessero il pudore dell'incredulità e dell'empietà, quante più fanciulle entrerebbero nella stanza nuziale col candore dell'infanzia!

—Scusatemi se ieri non mi sono recato al vostro appello, disse il barone di Sanza. Io sospettai perchè avevate desiderato parlarmi e voleva avere qualche cosa a rispondervi.

Questo tuono cerimonioso e solenne mise il colmo al turbamento di Bambina. Ella, che l'anno scorso ancora chiamava il barone corto corto Tiberio, ed egli che le dava del tu! Quale accidente si era dunque rizzato tra loro e li aveva cangiati così? Bambina portò gli occhi sul giovane onde assicurarsi se era proprio lo stesso, che l'anno scorso, alle vacanze, a Lauria, le aveva susurrate di così dolci parole e che aveva aperta alla sua fantasia la porta dei sogni d'oro.

Sì, mia povera figliuola, gli è bene lo stesso individuo, ma non è più la medesima maschera, non è più la medesima scena, non sono più le medesime circostanze. Lo studente in via di divenir diplomatico, che dalla capitale cade in provincia e che incontra nella casa di suo padre questa perla di bellezza e di purità, si sarebbe creduto disonorato se non le avesse spippolato qualche madrigale,—sopra tutto dopo aver passato i begli anni dell'infanzia insieme a cercar nidi, a giuocare a mosca cieca e dar la caccia alle farfalle il giorno ed alle lucciole la sera. Ma a Napoli, ma essendo uno dei lions della moda, ma penetrato di già nel tempio di Iside della carriera diplomatica, ma in faccia alla poveretta affagottata in un astuccio di monachetta, lui, il barone di Sanza, tu la figlia del sarto…. ah! povera figliuola, di', di' dunque, è questi il medesimo uomo? Se il barone di Sanza non fosse stato un giovane d'onore, egli avrebbe, tutto al più, divisato di far di Bambina un tastullo d'amore. Ma egli rispettava ciò che suo padre stimava: il carattere del fratello, l'innocenza della sorella.

Tiberio aveva ventitrè anni, ma sembrava più attempato. Portava tutta la barba,—quel primo getto della giovinezza, soffice e vellutato, che s'imbeve di sole e corrusca di quel color d'oro tanto caro a Tiziano cui ammiriamo nel ritratto di Carlo V. Aveva occhi verdi, ma vivi, ciò che ne faceva scomparire la fredda ferocia; la pelle bianca lenticchiata, ciò che toglieva alla sua costituzione i sintomi della debolezza. I suoi lineamenti erano belli, somiglianti a quelli di Cesare Borgia. Era alto e ben proporzionato, ciò che aumentava l'eleganza del suo portamento e delle sue maniere. La sua solennità affettata mascherava la lentezza della sua intelligenza, la quale aveva bisogno di riflettere per comprendere. Il suo cuore, anch'esso, si commoveva con calma. La natura lo aveva dotato di un'organizzazione linfatica; ma il barone di Sanza aveva avuto la scaltrezza di farsi un merito di questa opacità e di far passare questa indigenza di vitalità per l'opera della volontà.

La sua istruzione non era estesa, ma era solida. Aveva il giudizio dritto, il sentimento della giustizia, l'amore della libertà, benchè non ripugnasse alla monarchia. I suoi costumi si modellavano su quelli dell'aristocrazia inglese o piuttosto quella parte dell'aristocrazia inglese che si dà alle pubbliche funzioni. Ascoltava bene, conservava il segreto con fedeltà, aveva il coraggio dell'uomo che si stima e che ha la coscienza di fare il suo dovere in tutto ciò che fa. Aveva avuto due duelli con due ufficiali svizzeri, cui aveva feriti. Il mondo lo ricercava. Le giovanette ne almanaccavano come di un buon partito, benchè il barone fosse relativamente povero.

Per isventura, egli non sentiva il bello,—al di là della forma essenzialmente plastica. Avrebbe avuto un'eccellente stoffa di magistrato. Ma gli mancava la penetrazione subita, necessaria, anzi indispensabile al diplomatico. Dava le traveggole però in modo rimarchevole, per la composizione attenta del suo viso ed il riserbo delle sue parole.

Bambina non conosceva questa faccia del suo amico d'infanzia, il quale avrebbe creduto, essendo giovanotto, di derogare se non fosse stato galante. Tanto peggio se Bambina aveva capito altrimenti. Ella si trovava adesso in presenza della disillusione. Ma che importa? lo stupore è l'ostinazione dell'anima.

—Signor barone, disse ella biascicando le parole, vi domando scusa di avervi incomodato. I provinciali hanno una facilità deplorevole ad ingannarsi sulla natura delle convenienze sociali. Io aveva confuso il barone di Sanza di Napoli col Tiberio di Lauria.

Bambina aveva nell'accento un'amarezza che non isfuggì al barone. E' rispose:

—Confondeteli sempre quando l'uno o l'altro possono rendervi qualche servizio. Io sono venuto per questo.

—Grazie. Io non ho più bisogno di nulla. Voi diceste un motto l'altra sera che gettò il terrore nel mio spirito. Volevo dimandarvi qualche spiegazione per guidarmi nella mia decisione. Adesso ho riflettuto ed ho preso un partito da me sola. Non sono forse ben sola?

—Ne ho paura, replicò il barone. Vostro fratello insorge contro il destino e contro l'ordine naturale delle cose. Egli ha delle ambizioni forse precoci. Egli bazzica con persone spregevoli. Egli vi espone a delle dimande in matrimonio che sono un marchio d'infamia per una giovinetta come voi. Bambina. Egli patteggia col male. Don Lelio Franco ha diffidato forse dei suoi principii e l'ha eliminato pulitamente dal suo ufficio. La polizia non insiste più per rinviarlo da Napoli. Egli….

—Basta, gridò Bambina con alterezza, alzandosi. L'è noto: la sventura e la miseria sono criminose. Se questo disperato si strascina sulle mani e su i piedi per salvarsi dall'oltraggio dell'ingiustizia, egli ha torto: si sospettano le sue vedute, si crivellano le sue parole, si anatomizza la sua anima come un cadavere per osservarvi la causa della morte. Che bisognava fare? Egli si annega. Ha desso il diritto di trovar sporca la mano che si sporge per salvarlo, quando le mani bianche e guantate si ritirano per paura di sporcarsi toccando dei cenci? Povero fratello!

E ruppe in lagrime. Il barone volle prenderle la mano. Ella la ritirò.

—Io non voleva affliggervi, disse il barone dopo un istante di silenzio, ma rischiararvi e spiegarvi il mio riserbo e la mia esplosione poco misurata dell'altra sera. Non mi fate l'ingiustizia di credermi indifferente al vostro destino.

—Il mio destino è nelle mani di Dio. E' non mi resta che lui. Un giorno io ebbi forse l'ingenuità di sognare che un altro se ne sarebbe incaricato. Ho abbandonato quel delirio. Noi lottiamo tutti per nostro proprio conto.

—Se è un rimprovero che m'indirizzate, signorina, io temo forte ch'esso non sia ingiusto. Tra i sentimenti che noi proviamo, veri, profondi, santi, ed il soddisfacimento che possiamo dar loro, si frappone il mondo con le sue esigenze, le sue regole e le sue convenienze. Tiberio esiste sempre, ma egli è subordinato al barone di Sanza ed alla società che lo attornia. Ve lo confesso in tutta sincerità: io non ho trovato sul mio cammino della vita alcuna giovinetta più bella, più pura di voi. Nessuna delle fanciulle che ho strette sul mio cuore al ballo, a cui ho indirizzato una parola in società, non m'ha tocco più di voi. Io non amerò forse giammai una donna, poichè non ne incontro alcuna che vi rassomigli. Ma io sarò forse obbligato di rinunziare alla felicità che ha incantati tanti giorni della mia vita.

—Voi mi renderete giustizia, almeno, sclamò Bambina, che io non ho nulla fatto nè per darvi nè per togliervi codesta felicità.

—Io vi rendo questa giustizia. Voi non siete nè civetta nè ambiziosa. La fantasia può esaltarvi; ma voi ignorate il calcolo. Voi non avete dunque nulla a rimproverarvi, e voi non mi rimprovererete nulla, voglio lusingarmi con questa speranza, quando saprete la situazione precaria in cui vivo, in cui parecchi fra noi vivono. Io sono impegnato in una mischia terribile, nella quale giuoco tutto, fortuna, avvenire, vita e felicità. Io non mi appartengo più. Che io esiti solamente e sono disonorato. Qualunque distrazione è un tradimento. Posso io, di' Bambina, Bambina dei giorni raggianti della nostra infanzia, posso io caricarmi dei destini di una donna, nel cratere di questo vulcano? Io non aggiungo altro. Ho forse il torto di averne già troppo detto. Ciò che succederà all'indomani del trionfo o all'indomani della dirotta, Dio solo lo sa. Ma dirotta o trionfo che la sorte ci appresti, un abisso ci separa. Tu non puoi essere nè la moglie di un forzato, nè quella d'un ambasciatore.

—Perchè no, la moglie di un forzato? replicò Bambina.

—Perchè ti offrirebbero la vita, la libertà dì tuo marito in cambio del tuo onore, e che tu l'ameresti troppo per non trovarne il cambio esorbitante.

Seguì un momento di silenzio. Bambina intravide un altro aspetto della vita. Ella non osò quindi domandare: Perchè no la moglie di un ambasciadore, poichè ambasciadore vi è? Rispose invece in tuono umile:

—Io mi rassegno; e non è un merito, avendo mai sempre sperato sì poco. Solamente, ve ne scongiuro, non mi lasciate nel vago. Voi avete accusato mio fratello e l'uomo che domanda sposarmi. Formulate le vostre accuse. Io debbo pigliare un partito.

—Ebbene, non precipitate nulla. Gli avvenimenti incalzano ed essi vi rischiareranno. Quel Don Domenico Taffa è un miserabile senza dubbio. Ma egli vi ha vista; perchè non si sarebbe egli violentemente acceso di voi poichè altri lo furono?

—Infatti! sclamò Bambina sorridendo con amarezza.

—Se il suo amore è vero, egli persisterà, continuò Tiberio, deciso a non comprendere le illusioni di Bambina. D'altronde io lo farò sorvegliare.

—Che tristo mestiere! proruppe Bambina. I birri ci sorvegliano per salvare la società; son dessi meno orridi per ciò?

—Allora, io mi asterrò. Quanto a vostro fratello….

—Ah! fate attenzione….

—Quanto a vostro fratello, si diffida di lui. Il suo pensiero è malato: le sue tendenze non sono buone. Ma alcun atto, fin qui, non è stato allegato contro di lui. Io lo difendo ancora. Il suo carattere fosco, la sua aria incerta, il suo approccio poco simpatico, la sua timidezza, giustificatissima del resto, possono occasionare qualche equivoco. Ciò è di già troppo al suo posto. Tutto ciò, preso insieme, gli nuoce, vi nuoce, m'impone una grande circospezione. Voi vedete allora. Bambina, perchè….

—M'avendo detto l'anno scorso: io ti amo! interruppe Bambina, voi mi dite quest'anno: tu non puoi essere la moglie nè di un forzato nè di un ambasciatore! Il cuore non ha nulla a vedere lì dentro, non è vero? Perchè codesto monello si mette desso ad amare senza consultare l'almanacco di Gotha ed il termometro politico? Correre il rischio di amare la sorella di una spia? orrore! Ebbene, signor barone, davvero, quando voi sarete ministro, bisognerà stabilire un lazzaretto per i cuori nella situazione… del mio. Vi si vedrà chiaro almeno, dopo aver purgata la contumacia. Ma non parliamo più di ciò. La questione è esaurita. Io sono libera.

—Della calma, Bambina, della calma, disse Tiberio alzandosi. Non si gettano gli amici dalla finestra con tanta leggerezza, per un dispetto inopportuno. Mia madre e mio padre vi amano; io vi ho sempre cara più che sorella. Malgrado il vostro risentimento io m'interesserò dunque a voi. In tutte le peripezie della vita, voi non avete che a dire una parola per vedermi presso di voi. Non ci diciamo addio dunque. D'altronde io ho il convincimento che i sospetti che sorgono contro vostro fratello, si dissiperanno.

—Non una parola di più su mio fratello, ve ne supplico. Torturatemi tanto che vi piace, ma non sporcate, neppure col pensiero, questo sventurato che lotta in mezzo al naufragio. Voi non eravate crudele un tempo. Parlategli, spiegatevi con lui, dimandategli ragione della sua vita, della sua anima, scandagliate quel cuore che è un abisso di dolore. Ei non vi nasconderà nulla.

—No, figliuola mia, ciò non si può. Io non sono il suo giudice d'istruzione. Io vi ho riferite, come un fratello a sua sorella, le terribili insinuazioni che corrono sul suo conto. L'avvenire lo giudicherà, ne son certo. Ma io non posso dimandargli ch'ei si difenda. Dovrei cominciare per significargli i suoi accusatori ed i suoi giudici,—ciò che io non posso. Nel nostro partito, noi giudichiamo gli atti. Ebbene, ch'egli cessi di frequentare Don Domenico Taffa e di mandarvi a prostituire l'anima al confessionale di un gesuita.

Quest'ultima parola cadde come il fulmine sul capo di Bambina. Ella divenne cadavericamente pallida, ed articolò appena le parole:

—Addio, Tiberio.

—No, cara piccola sorella, a rivederci. Mia madre piangerebbe dei vostri guai come dei miei.

—Oh! ditele, ditele pure, gridò Bambina piangendo, che io l'abbraccio dal fondo del cuore.

—Io le manderò questo bacio, rispose Tiberio, baciandole castamente la fronte.

Ed uscì. Bambina sentì come qualche cosa che si spezzava in lei. Il cielo radioso della sua infanzia e della sua adolescenza si tinse di nero. Più nulla indietro di lei; innanzi a lei, il fantasma mostruoso dell'infinito. Ella restò parecchie ore in quello stato di ammutolimento, senza pensare, ma provando mille dolori invisibili ed incogniti, come se avesse galleggiato in un'atmosfera in cui ogni molecola è una punta d'ago. Il grido disperato del gesuita e l'addio di Tiberio si precipitarono sopra di lei come due flutti spaventevoli che la faceano roteare a guisa di un granello di sabbia preso in una tromba nel deserto. Ella avrebbe pregato, se glielo avessero insegnato.

Povera fanciulla, il turbine scherza con un bricciolo di lolla!

Don Diego entrò.

X.

L'esplosione.

—Tu vai a spiegarti, non è vero? gridò Bambina gittandosi al collo di suo fratello. Tu mi proverai che ciò è falso, non è vero?

Don Diego si trovava nella situazione di spirito la più dolorosa e la più contrastata. Aveva subìti nuovi affronti e nuovi disinganni.

Dopo aver lavorato tutto un giorno ed aver messo a luce un capolavoro sotto le strette della disperazione, un balordo gli aveva dichiarato che la sua elucubrazione era un'assurdità. Il canonico Pappasugna, a cui il gesuita l'aveva raccomandato, gli aveva dimandato un panegirico sull'Ascensione. La cosa urgeva. Don Diego si era rinchiuso nel gabinetto del canonico ed aveva composto un magnifico pezzo di eloquenza pieno d'imagini nuove e poetiche. Egli aveva seguito di pianeta in pianeta, di stella in stella, d'empireo in empireo, il Cristo ancor uomo che si eleva nei cieli sur uno strano veicolo, perde a poco a poco la vista del suolo, percorre gli spazi infiniti seminati d'astri e scorge infine Dio,—l'immensa armonia,—come il centro di queste armonie… Ma non uno dei luoghi comuni stupidi, consacrato dalla rettorica dei vecchi predicatori, non una parola di teologia, nessuna trivialità.

Il canonico non aveva gustato la novità, riserbandosi nondimeno di apprendere e di recitare il panegirico e di giudicarlo in ultimo appello dall'effetto che produrrebbe sull'uditorio, il 21 maggio prossimo. Ei non aveva pagato il prete di cui si appropriava il lavoro. Ne aveva criticato l'ortodossìa, la lingua, lo stile, le imagini scientifiche e laiche, le ali dell'ode che aveva date al discorso. Vivamente contrariato, Don Diego aveva lasciato il canonico senza salutarlo, ridendogli sul muso con sprezzo e dichiarandogli ch'egli non lavorerebbe mai più per lui, ad alcun prezzo. Nella strada, egli era stato urtato da un birro, che lo aveva poscia inseguito ed apostrofato coprendolo di villanie. Al canto del vicolo una giovane donna in cenci, dimandandogli l'elemosina con ansietà febbrile, gli aveva detto:

—Voi siete felice, soccorrete la miseria!

Tutto ciò aveva portato l'esasperazione di Don Diego al diapason della rabbia. La bordata con cui Bambina l'accolse arrivava male a proposito. Ad ogni modo, non la comprese, poichè dimandò:

—Spiegare che cosa? provare che cosa?

—Ma, bontà di Dio? essi dicono che tu sei un traditore, una spia, che so ancora? e che tu mi vendi.

La misura traboccava. Don Diego si fermò di un tratto, prese sua sorella dalle due spalle, l'inchiodò sul luogo, fissò su di lei due occhi elettrici iniettati di sangue ed urlò:

—Chi? chi dice ciò?

Bambina non aveva giammai visto suo fratello in uno stato simile d'eccitamento. Ella tremò e balbuziò, non volendo tradire il segreto della visita di Tiberio, come gli nascondeva pure la sua visita al gesuita.

—Lo si dice… la città ne parla… una lettera anonima che ho gettata al fuoco… qualcuno che mi ha avvicinata in istrada…, infine, l'è così: ti sospettano.

—Sciocca! tu hai visto il barone di Sanza, rispose Don Diego, lasciando sua sorella che piegava sotto la sua pressura. Non mentire: tu l'hai visto. Ebbene, sia.

—È dunque vero?

—Non lo è ancora, ma lo sarà.

—Oh fratello, fratello! gridò Bambina singhiozzando.

—Silenzio, bimba. Non son io che l'ho voluto; non sei tu che l'hai provocato: l'abisso invoca l'abisso; ebbene cadiamoci.

—Tu mi riempi di terrore.

—Stolidezze! Noi siamo in questa città una eccezione balorda, e vi facciamo scandalo. Ecco perchè, non potendoci accusare, ci sospettano. Che ci accusino allora, e tocchiamo almeno il prezzo dell'infamia, poichè ce ne affusolano la livrea. Ah! io tradisco? ah! io ti vendo? Dio e fulmini! sia. Io tradirò e ti venderò.

—Tu deliri, dunque, Diego?

—No. Io ho delirato fin qui, quando ho creduto che l'onore e la virtù avessero un prezzo presso gli uomini, quando ho pensato che la miseria poteva essere una sventura e non il bersaglio agli oltraggi. Io comincio a ragionare alla fine. Io frango il mio guscio di provincia. Io sputo sulle mie idee barocche di probità e di fedeltà. Io mi burlo del vecchio guazzabuglio della distinzione del bene e del male, che io aveva appreso dai filosofi, nella storia e nella vita. Voi lo volete? ebbene, io sarò come voi: a briganti, brigante e mezzo.

—Ah! Diego, se nostro padre e nostra madre sorgessero dalla fossa e ti udissero!

—E' comprenderebbero perchè sono crepati, l'uno sarto tisico, l'altra tessitrice alla giornata, per rammollimento della midolla spinale. Io, io morrò vescovo; tu, tu morrai grande e ricca dama.

—Ma chi dunque ti ha pervertito così in qualche ore?

—Essi, essi! per Dio! Io non avrei dimandato nulla di meglio che di restar tranquillo e miserabile nel fondo della mia provincia, nella nostra povera casa, vivendo nel mondo ideale dei libri, reprimendo l'ambizione, i desiderii, i bisogni, facendomi oscuro e piccolo, sorvegliando il tuo candore e non sperando null'altro in vita mia che vederti maritata ad un artigiano laborioso come i nostri parenti. Chi è che mi ha sbarbato da quella terra madrigna, da quella casa crollante, dal suo onesto focolaio? Chi è che ci ha trasportati qui? Un vescovo, il quale, col medesimo colpo, mi strappa il pane dalla bocca, l'onore, la pace, il presente per me, l'avvenire per te.

—Ah! gli è pur vero! balbettò Bambina.

—Qui, io avrei ben voluto vivere del mio lavoro, del mio mestiere, fare il mio dovere nell'oscurità, darti il pane, il ricovero, la prosperità, la gioia del cuore, la pace per il momento… Chi è che si è gittato a traverso del mio cammino? La polizia. Tu non dirai la messa; tu non insegnerai; tu resterai perpetuamente sotto i nostri artigli; tu denunzierai; tu prostituirai tua sorella; tu farai getto della tua anima; tu propagherai la corruzione nel popolo; tu spierai i guaiti dell'infortunio e ne formulerai un rapporto per il ministro della polizia… ecco! Voglio io resistere? mi si tende una trappola ove noi cadiamo senza onore, feriti, gualciti, infamati anzi tratto, dileggiati, soli, sotto i piedi di accusatori infami. Voglio io lottare? non ho armi.

—Mio Dio, mio Dio! che abbiam dunque noi fatto a Dio, che ci tratta così?

—Lasciamo Dio e pensiamo agli uomini. Son dessi che fanno il male, ed è ad essi che occorre renderlo.

—No, no: restiamo vittime, sclamò Bambina. Sovvienti, Diego, delle parole di nostra madre, accanto al nostro povero fuoco, quand'ella non poteva più lavorare: Coraggio, figli miei, diceva la povera donna, Dio non paga il sabato.

—Nè la domenica, nè il lunedì, nè alcun giorno della settimana…. Io attendo il mio salario da quarant'anni. Giammai. Il dado è gettato. Io voglio esser vescovo. Io l'ho promesso a mons. Laudisio. Io me lo son giurato. Mi domandano seimila ducati. Non li ho, non li avrò mai a meno che non vada ad arruolarmi come brigante nella banda di Talarico. Se io avessi un segreto di Stato a mettere a partito,—uno di quei segreti che fanno marciare i complici, che s'impongono al re, di cui si traffica come d'un diamante, quando il coltello od il veleno non saldano la reale riconoscenza…—Ah! se io avessi un segreto di questa natura… io forzerei il pastorale a venirsi a collocare fra le mie mani. Ma non vi sono che i ministri ed i grandi confessori che posseggono di cotesti segreti, ed essi ne usano per loro proprio conto. Che mi rimane allora? Te, Bambina, te mia pura, bella, fragile e santa creatura.

—Me! e come? sarebbe dunque possibile? sarebbe dunque vero?

—Ascoltami bene, figlia mia. Io ho capito infine il gioco di quel Don Domenico Taffa che ti domanda in matrimonio. Il barone di Sanza aveva ragione. Egli è un uomo infame, un ambizioso abbietto, e che vuol essere segretario generale o consigliere di Stato e che trafficherebbe di te per il suo unico profitto. Ed io! io resterei gocciolone come prima.

—Avevan dunque ragione?

—Avevan ragione, ma s'ingannavano su questo: poichè bisogna assolutamente che tu sii il prezzo dell'ambizione di qualcuno, tu lo sarai della mia.

—Diego! no, non sei mica tu che parli così.

—Son io, proprio io. Io sono deciso e tu mi salverai, Bambina. Io non so troppo ancora ciò che farò. Io mi aggiro come un cieco in mezzo di quest'orrido mondo, mi smarrisco. Io non conosco ancora la via dell'infamia dorata, vado a tastoni, scandaglio… Ma, sii tranquilla; finirò per orientarmi. Solo, non posso nulla. Poi, un uomo che cade, cade per sempre; la sua perdita è irreparabile; il tempo lo sprofonda sempre più, nulla nè alcuno non lo rilevano. La macchia dell'uomo è incancellabile: la porpora di re o di cardinale, i ciondoli di diamanti, la mozzetta di papa, la livrea di ministro, l'uniforme di generale… nulla vale! l'infame resta infame. Se i contemporanei taccionsi, la posterità grida con tanta più veemenza. Io mi perderei con un profitto minimo e lo spettro del mio delitto m'avvilupperebbe del suo eterno riflesso. Gli stolidi! E' paventano ch'io li tradisca? Ho troppo spirito per non precipitare sì a fondo, per non darmi a mercè per così poco. Io penso, al contrario, impormi loro e soppannarne la mia fortuna.

—Tu mi sollevi di un gran peso, Diego, sclamò Bambina. Rinunzia però al resto.

—No, Bambina, tu non mi abbandonerai nel mio naufragio. Tu sola, tu puoi salvarmi, salvarci. La caduta di una donna non lascia tracce indelebili. Si ha pietà di lei. Si obblia, si perdona, si compatisce, si spiega l'infortunio, lo si circonda di tutte le circostanze attenuanti… Poi, un marito si presenta e tutto s'ingoia in quel baratro che assorbe la donna, che ne cancella perfino il nome. Questa tavola di marmo, allogata sur una cloaca, la cangia in altare.

—E la coscienza?

—Non parlare di ciò che tu ignori, fanciulla. La coscienza non è il pentimento, ma il rimpianto. Ora, tu non hai nulla a rimpiangere. Tu soccombi, tu ti sacrifichi, tu mi salvi…, il tuo cuore, i tuoi sensi, la tua volontà, la tua scelta, il tuo piacimento…, e' non vi sarà nulla del tuo. Che rimpiangeresti tu dunque? Ma una vita nuova ti sorriderebbe. Io lavorerei per te, per costituirti una dote. Io risparmierei. Brillerei. Avrei dello zelo…. Sorella di un vescovo! dotata della tua bellezza! all'età tua! sotto un altro cielo! Bambina, il tuo cuore si aprirà. Tu amerai. Tu potrai pretendere a tutto. Un giorno di lutto e di sacrifizio sarà presto obbliato: il sole dell'avvenire l'assorbirà. La colpa… l'è poi una colpa? si perderà nel silenzio.

—Cessa Diego: tu mi fai orrore! urlò Bambina coprendosi la faccia delle mani.

—Bambina, te ne scongiuro a ginocchio, non lasciarmi solo a portar questa croce. Non sono io che vi ho pensato il primo. Non sono io che ti forzerei se fossi sicuro che potremmo sottrarci a questo destino. E' son tutti congiurati contro noi, contro te. Il tuo barone di Sanza v'intingerebbe il dito. La polizia ci spinge, il vescovo ci spiana la via, Don Domenico Taffa c'invita, il tuo gesuita ti attira e ti prepara alla caduta… fino a monsignor Cocle sarebbe della partita, per quanto mi è sembrato comprendere dal discorso del capo di ripartimento. Possiamo noi sottrarci a questa marea di fango che ci assedia da tutti i lati, che c'inonda e che ci coprirà infallibilmente? Colpevoli e balordi ad un tempo! Ah! no, no, giammai. Io voglio cader nella fogna, ma su i miei piedi, non esservi precipitato la testa in giù.

—Oh madre mia, madre mia, gridò Bambina, non udire tuo figlio a quest'ora di demenza: e' non sa ciò che dice.

—Ahimè! e' non lo sa che troppo. E se tu potessi leggere nel mio cuore, io non ti farei orrore, ma pietà. Come? io ti avrei sorvegliata piccina, ti avrei guardata giovinetta, sarei stato per tanti anni fiero della tua bellezza, della tua innocenza, sarei stato geloso della brezza che folleggiava nei tuoi capegli, avrei fremuto contro il vento che scomponeva le pieghe della tua gonna, avrei spiato il tuo sonno, avrei letto nella tua anima, avrei ascoltato i battiti del tuo cuore per sorprendervi lo sveglio della donna, per circondarti delle mie cure, e tu puoi pensare che io ti consegnerei delle mie proprie mani, senza sentirmi schiacciare sotto il peso del cielo e della terra? Come? tu che mi hai visto impallidire leggendo la istoria del padre di Ifigenia, tu credi che io non morrei di dolore sapendo che tal giorno, alla tale ora…. Bambina, cara figliuola, cara sorella, avvelenami. Io sono un mostro.

—No, fratello: è una terribile ubbriachezza che tu traversi in questo momento. Ritorna in te; calmati. Se tu sapessi quanto io t'amo! se tu sapessi quanto ti compiango….!

—Ma non comprendi tu dunque che ciò ch'io ti domando è inevitabile? Che io mi astenga, e altri commetteranno il delitto egualmente ed a loro profitto esclusivo. Tu non comprendi che l'è decisa? Io mi contorco da due giorni a pensare come sfuggire la rete: e mi trovo impossente. Io mi aspetto ad ogni minuto esser ciuffato dalla polizia, e te… alla loro mercè! Dovunque, l'uomo si appartiene più o meno; qui, in questo infame paese, sotto questo governo, negazione di Dio, l'uomo appartiene alla polizia. Che voglio io insomma? prevenirli. Ah! se potessimo fuggire all'estero! Io mi sento abbattuto, atterrito…

—Mio Dio, mio Dio! ma infine che vuoi tu! dimandò Bambina gittandosi alle ginocchia di suo fratello.

—Io l'ignoro ancora, io stesso, te l'ho detto. Ma vi è una cosa a cui io sono deciso: esser carnefice piuttosto che vittima, avere un prezzo dell'infamia, poichè non posso evitarla. Vescovo! io voglio esser vescovo: bisogna che io mi vendichi.—M'hai tu capito?

Bambina se ne fuggì nella sua camera e vi si chiuse a chiave. Ella pianse e pregò tutta la notte, mentre che suo fratello, spossato dalla sua tensione di spirito sì violenta, sì continua e diversa, cadeva sopra il canapè come un ebbro fradicio e vi si addormiva. Ei passò la notte così.

Quando il giorno imbianchì i vetri del salone, ei si svegliò, e dopo alcuni minuti di stupore, si risovvenne della strana conversazione che aveva avuto la sera con sua sorella. Arrossì e levò gli occhi indegnati contro il cielo. Chi malediceva egli? Era ancora tutto vestito. Tuffò il capo in un secchio di acqua per rinfrescarlo, perchè la sua fronte bruciava di febbre e provò di coordinare le sue idee. La rivelazione era fatta: il più difficile. Egli aveva gettato la goccia d'olio che ora andava a spandersi ed allargarsi da solo. Che bisogno aveva egli d'insistere fino al momento della catastrofe? Ma, altresì, come subire lo sguardo ancora puro della vittima cui aveva colpito a morte la vigilia appena, senza temperamenti, senza ambiguità, senza pietà, leccando di una lingua avvelenata il sangue cui vedeva spuntare? Don Diego si affrettò ad uscire di casa, prima che sua sorella si fosse alzata, onde non arrossire innanzi di lei, non attenuar la portata dei suoi propositi nè tornarvi su.

Bambina l'udì uscire. Erano le otto del mattino, Ella non aveva dormito un sol minuto in tutta la notte. Aveva pianto molto; virilmente riflettuto. La sua risoluzione era presa. La situazione, d'altronde, non ammetteva ritardi. Non aveva nulla a sperare. Se avesse avuto un carattere meno ben temprato, l'era perduta. Imperciocchè, a traverso i soprassalti del lungo perorare di suo fratello ella aveva scorto la persistenza nel suo disegno. Bambina si alzò dunque subitamente ed uscì.

Se il P. Piombini non l'avesse, il dì innanzi, spaventata colla sua dichiarazione disperata, ella sarebbe andata a cadere ai suoi piedi e dimandargli soccorso. Adesso, ritornare a lui, e' sarebbe stato come un gittarsi nelle sue braccia, alla mercè di lui. Chi le restava?

Il barone di Sanza aveva lacerata malabilmente la tela incantata dei suoi sogni delle notti d'inverno, ma egli rimaneva ancora onesto, anche nel suo ridicolo. Poi, Bambina non conosceva alcun altro. Poi, Tiberio, quantunque sì bruscamente estirpato dal suo cuore, vi lasciava ancora le impronte di un passato che mai non si cancella,—la confidente famigliarità dell'infanzia. Bambina si recò da lui, non preoccupandosi neppure se ciò fosse o no convenevole.

Il barone di Sanza occupava un elegante piccolo appartamento nella salita Santo Spirito. Un vecchio cameriere piemontese, per nome Carlo, lo serviva da parecchi anni. Tiberio pranzava al caffè. Carlo conosceva Bambina, avendo accompagnato il suo padrone a Lauria, ed era lui che aveva scoperto il famoso appartamento cui Don Diego occupava in questo momento. Egli annunziò Bambina al suo padrone, che faceva colazione, con un certo mistero e non senza stupore. Tiberio fece entrare Bambina nel salone e corse a lei, dubitandosi che una disgrazia, una grandissima disgrazia, fosse già occorsa.

—Salvatemi! gridò Bambina, vedendolo e correndo al suo incontro senza preoccuparsi della presenza del domestico.

—Salvarvi di che? di chi? sclamò Tiberio.

—Non m'interrogate, ve ne supplico, continuò la giovinetta. Io non posso darvi alcuna spiegazione. Solamente, fate in guisa che qualunque traccia di me sia perduta per qualche tempo.

Tiberio stette qualche minuto a riflettere, poi disse:

—Comprendo tutto. Io aveva ben ragione di temere. Ebbene, siate calma, signorina, e rassicuratevi. Io conosco il ricovero che conviene. Sono sicuro che non vi sarà rifiutato. Solo, e' conviene che io vada a prevenire quella dama del servizio che le domando, o piuttosto che le dimandiamo, perchè io vado all'istante dal marchese di Tregle per condurlo meco.

—Io mi getto nelle vostre braccia come in quelle di mia madre: Dio ve lo renderà.

—Aspettatemi qui, disse il barone, infrattanto Carlo vi servirà da asciolvere. Verremo a prendervi.

—No, rispose Bambina. Bisogna che io ritorni in casa per l'ultima volta, poichè siete sicuro di procurarmi un ricovero. Ho della biancheria da prendere; ho una lettera da scrivere. Poi, ritornerò.

Bambina partì. Il barone uscì, guardando Carlo in certo modo e mettendo l'indice della sua mano a traverso le labbra per significare: Silenzio!

Bambina rientrò. Suo fratello non vi era. Ella fece un piccolo fagotto di biancheria, poi scrisse le linee seguenti:

«Caro fratello, non essere inquieto della mia sorte, nè fare delle ricerche per trovarmi. Io ritornerò quando la bufera sarà calma. Io non ho collera contro di te. Perdonami. Che nostra madre sorvegli dall'alto dei cieli i nostri passi in questo deserto; ch'ella addolcisca i tuoi cordogli e secchi le tue lagrime. Addio… no, a rivederci presto, caro, caro fratello. Perdonami, se per la prima volta in mia vita io ho dubitato di te. Tu sei malato. La vertigine ti porta negli spazi del male. A rivederci;… a bentosto… Bambina.»

Bambina suggellò la lettera e la collocò bene in vista sulla tavola. Ella poggiò le sue labbra sul suggello e la carta sul cuore. Le sue mani tremavano. Le sue gambe barcollavano. I suoi occhi erano ripieni di grosse lagrime che si gonfiavano, si spandevano e non colavano.

Ella entrò nella camera di suo fratello ed abbracciò gli origlieri del suo letto confidenti di tante ansietà, di tante agonie. E la accomodò il letto, i mobili, riempì la brocca, preparò le pantofole, la vecchia giubba che gli serviva di veste da camera, cucì un bottone ad una camicia. Poi fece il giro dell'appartamento. Il suo cuore se ne volava fibra a fibra. Per la seconda volta ella abbandonava quella sacra cosa che chiamasi il focolare domestico. Quell'orribile luogo le sembrava quasi una residenza reale. Tutto le ricordava la presenza di suo fratello, il quale, per lei, era tutto. Al di là di quella soglia l'incognito, la solitudine! Diciotto anni di vita si sbarbicavano dal suo cuore, svellendosi da quella casa. Che diventerà egli, il povero uomo abbandonato! Che diventerà anch'ella, questa povera foglia svelta dalla sua quercia natia? Questa cucina senza fuoco! questa dispensa, vuota! Questo fosco eterno! Questo spazio senza eco! Egli non vivrà più che di pan secco. La polvere lo soffocherà. Nessuno che attenda al suo ritorno e medichi le sue ferite. Che vuoto immenso! Che silenzio solitario ed interminabile!

Ella chiuse la porta della camera da letto per non più guardarvi dentro. Eccola nell'anticamera. Ancora uno sguardo Una lagrima ancora. E la mise al suo posto una sedia, che poteva urtarlo, se rientrava al buio. La sua mano era al lucchetto. Un passo indietro. Un momento d'esitazione suprema. Uno sforzo sublime. La porta si apre. La porta è chiusa. Ella è fuori. Più nulla! Nulla più! Sola! Dove va dessa? Ella si ferma. Rientriamo, sì rientriamo. No. Uno sforzo disperato. Ella discende precipitosamente le scale ed eccola nelle strade.

Un'ora dopo, assisa nell'elegante carrozza del marchese di Tregle, questi a lato di lei, il barone di Sanza in faccia, i cristalli della carrozza chiusi, traversarono la strada di Toledo, il largo Mercatello, la salita degli Studi, l'Infrascata, Tarsia, e si diressero al Vomero alla villa Belvedere.

Che cosa divina il cielo azzurro di quel paese! Che primavera radiante! Che epopea canta la natura sotto i baci dell'amore! Che ville, che fiori, uccelli, insetti iridati, brezze imbalsamate, mare di cobalto! quante memorie solcano quel golfo!…. E l'uomo?

Continuiamo.

XI.

La metempsicosi di Bambina.

Due parole di politica—Due parole soltanto!

Dopo ciò che ho visto in tutto il resto di Europa, avrei torto di esser severo coi miei compatrioti. Mi limito a non trovarli stimabili.

Un despotismo stupido, assiso sopra due istituzioni: la Chiesa e la Polizia, schiacciava Napoli. Napoli cospirava. Quella cospirazione mise capo alla proclamazione d'una costituzione, nel 1820 e nel 1848. Ed occorse che il principe di Metternich mandasse degli eserciti per ristaurare i Borboni in qualità di re assoluti; che il glorioso Piemonte fosse vinto a Custoza ed a Novara; che la Repubblica Francese mandasse un esercito a Roma,—perchè l'assolutismo, da quelle cospirazioni minato, regger potesse.

La cospirazione, comunicatasi a tutta Italia, perseguitata, insanguinata, restò malgrado tutto in permanenza. Ecco ciò che ho scritto altrove¹:

¹ Histoire Diplomatique des Conclaves, Vol. IV, pag. 430.

«Dopo la larga ecatombe del 1821, la forca restò in permanenza. Ho sotto gli occhi i registri della polizia napoletana. Ne riassumo qualche pagina.

«Nel 1823 si scovrì la società segreta repubblicana, detta Nuova riforma di Francia. Dugento diciassette affiliati furono arrestati, vent'uno condannati, di cui quattro appesi e tre mandati ai lavori forzati per non aver denunciata la setta. La società repubblicana degli Edenisti dette quindici vittime,—non novero più gli arrestati,—due impiccati. La setta degli Scamiciati, repubblicana anch'essa, somministrò tre corpi al patibolo, quindici al bagno. Un'altra società, scoverta ad Ischia, mandò un uomo a morire di Capestro. Gli Amici, di Nola, ventisei condanne, tre a morte. I Liberali decisi, nel 1824, produssero sei impiccati, nove al bagno. I Pellegrini bianchi, nel 1823, repubblicani come gli altri, due appesi, quindici all'ergastolo, un tal Catenacci condannato a tre mesi di esercizii spirituali nel convento dei Giovani. La società di San Nicola Arcella, militari: due fucilati, tre esiliati, trentasette relegati in un'isola, altri condannati a pene minori; ai denunciatori, un anno di soldo. I settari della provincia di Bari, che agivano sull'esercito, dettero cinque vittime alle forche, molte al bagno; a Inghingolo, che non aveva denunziato, diciannove anni di lavori forzati; alla spia, 660 ducati. La società degli Egizi dormenti e dei Filantropici: molte vittime al bagno, nel 1826. Nel 1827, molte condanne d'altri affiliati: per quelli dei Beati Paoli, cinquantasei condannati, di cui tre alla ghigliottina; quelli degli Oppressi ma non vinti, tre a morte, una trentina all'ergastolo e parecchi alla prigione ed all'ammenda.

«Nel 1828, gli Eremiti fedeli, due fucilati, una trentina ai lavori forzati ed alla relegazione. I Filadelfi, che fecero la rivoluzione del Cilento, ottocento arrestati di cui, dopo diversi giudizii, cinquantatrè fucilati o impiccati, circa duecento al bagno, gli altri condannati a pene inferiori. Poi, tre villaggi rasi, un gran numero di insorti uccisi sul luogo, all'istante, onde non ingombrare le Corti marziali.

«Nel 1830, la cospirazione dei fratelli Peluso riesce a tre condanne capitali, tre all'ergastolo a vita, ed un gran numero ai lavori forzati. Nel 1833, si scopre un'altra cospirazione, che dà un condannato a morte, un relegato all'isola di Ponza, nove esiliati. Nell'istesso anno, la cospirazione militare di Rossarol: questi e Romano cercano di uccidersi fra loro: Romano resta morto, Rossarol ferito gravemente: tre altri condannati a morte e commutati di pena. Sommossa a Cosenza nel 1837. Di centosettantacinque accusati, sei furono condannati ad essere fucilati, altri—non conto più—all'ergastolo a vita ed ai lavori forzati. A Penne, lo stesso anno, al Vallo, a Napoli, cospirazione militare,—settecentosettantadue accusati: undici fucilati, un grandissimo numero al bagno. Nel 1838, la Giovane Italia dà il suo primo contingente di diciannove vittime alle galere nel distretto di Taranto.

«Nel 1841, saggio di rivoluzione ad Aquila: otto condanne capitali. Nel 1843, una quindicina di ottimati di Napoli, sono cacciati in castel Sant'Elmo; ne uscirono poi, furono più tardi ministri, deputati, sono oggidì martiri, vale a dire alti funzionarii. Nel 1844, altro saggio di rivolta a Cosenza: vent'uno condannati a morte di cui sette fucilati ed un gran numero al bagno. Molti erano periti nella mischia, come ad Aquila. Nell'anno stesso la Giovane Italia dava sei altre vittime, i Bandiera; poi le vittime di Reggio, nel 1846, poi quelle di Siderno e Bianco nel 1847. Dopo il 1848, non si conta più: il sangue soffoca la stessa polizia ed inonda l'esercito.»

Cosa singolare! tre ministri della polizia, a Napoli, sono stati esiliati come troppo liberali: Canosa, Intonti e Delcarretto! I Borboni, l'ho già detto, non hanno avuto del genio che per la polizia!

Dunque si cospirava. Il capo del partito rivoluzionario era il colonnello barone Colini. Il marchese di Tregle, il barone di Sanza, facevano parte del comitato. La controrivoluzione aveva per capo il conte di Altamura, evaso di prigione e residente ora alla Corte sotto il nome di cavaliere Spada. La regina Teresa inspirava questo partito di cui facevano parte monsignor Cocle, monsignor Laudisio, mons. Scotti, Campobasso…. ed il padre Piombini, che si era insinuato nella combriccola per ordine del suo generale, e che si limitava a conoscere ciò che gli altri intraprendevano, sottraendo meticolosamente alla loro conoscenza come a quella dei suoi superiori, ciò che apprendeva al confessionale. Così, tutti spingevano al movimento: gli uni per rovesciare il trono; gli altri per avere un pretesto di sgozzare i liberali.

La sede della controrivoluzione era a Palazzo. Il quartier generale della rivoluzione era alla villa Belvedere, al Vomero, presso di lady Keith.

Lady Elisabeth Keith era irlandese, e perciò più cattolica che il papa e i monarchi di Spagna. Ella era vedova. Suo marito, scozzese, ufficiale superiore nell'esercito della Compagnia, era morto alle Indie. Dopo questo avvenimento, lady Elisabeth aveva stabilito il suo domicilio a Napoli, il cui clima le sorrideva. Ella aveva adesso sessant'anni. Nella sua giovinezza era stata una meraviglia di beltà, in quella stessa Inghilterra ove la bellezza della donna è una meraviglia. Lord Palmerston, si diceva, aveva fatto delle follìe per lei;—ciò che non stupirebbe punto, perchè quel lord, bellissimo egli stesso, ebbe una giovinezza altrettanto tempestosa che quella di lord Castelreagh. Il fatto è che lord Palmerston covrì della sua protezione lady Keith con la più grande energia, in una circostanza che fece strepito nella stampa e nei gabinetti europei.

Re Ferdinando, curiosissimo dei fatti e del pensiero dei suoi sudditi, volle un giorno annasare ciò che si faceva in casa lady Keith. Un ispettore di polizia, trasvestito, guizzò nella casa sotto pretesto di carità. Fu riconosciuto. Lady Keith lo fece randellare formidabilmente dai suoi lacchè e gettare per disopra le mura del giardino alte due metri. Il re ordinò l'espulsione della dama. Sir William Temple, fratello di lord Palmerston, ministro d'Inghilterra a Napoli, chiamò la flotta inglese da Malta e la fece sfilare sotto il palazzo reale, poi dichiarò al ministro degli esteri napoletano, che al primo insulto che si sarebbe fatto a lady Keith, egli avrebbe abbassato gli stemmi e fatto bombardare il palazzo.

Ch'ella avesse o no avuto una fantasia per lord Palmerston, egli è incontestabile che lady Keith amò suo marito. Giudicatene. Lord Keith aveva un gusto particolare per i cani e credeva nella bella dottrina della metempsicosi. Sua moglie, lady Keith, detestava i cani, ma professava i medesimi principii filosofici di lui. Dal momento che lord Keith morì, lady Elisabeth si disse:

—Mio marito amava i cani. Dunque egli era stato cane prima d'esser uomo o doveva divenir cane dopo essere stato uomo. Che la sua anima fosse stata in un cane o che vi abbia poscia emigrato, il cane è un membro della nostra famiglia.

Ciò bastò. Lady Keith riunì nel più bello appartamento del suo palazzo due o trecento cani, i più belli di ogni razza, già s'intende, perchè suo marito era stato un bell'uomo: e li trattava come altrettanti principi delle Asturie. Nè ciò era tutto. Come lord Keith poteva, per un capriccio della sorte, trovarsi alloggiato in un cane rognoso, arrabbiato, vagabondo, tutti i cani che passavano innanzi al cancello della sua villa, erano invitati da un lacchè postato quivi appositamente, ed erano lavati, pettinati, nutriti, accuditi, godendo quell'ospitalità amica fino al momento in cui il padrone non fosse trovato. Il suo veterinario particolare andava in città a portare i soccorsi del suo sapere a tutti i cani per i quali si reclamava l'assistenza della ricchissima e nobile lady. Ogni mattina, ella faceva una toiletta come avesse dovuto recarsi a corte, ed andava a visitare i cani.

Voi potete immaginarvi quale festa rumorosa ella ricevesse. Ogni cane, entrando da lady Keith, prendeva il nome del santo del giorno iscritto al calendario, ed ella ne celebrava la festa, portandogli dei doni: a questo, un collare d'argento, a quello, una pellegrina di velluto, ad un altro, una nicchia in tappezzeria, ai più ghiotti, delle leccornie, agli amorosi un tête-à-tête, in un gabinetto particolare con i più belli o le più belle di una razza collaterale. I più attempati, o i più gravi, erano riuniti in una sala a parte ch'ella chiamava il suo senato. Ella aveva altresì la sua camera dei deputati: i gridatori, i collerici, gli accattabrighe, gli intriganti. Il terribile sovrano di questo piccolo Stato di Monaco era un bull-dog, grosso come un bisonte, cui ella chiamava Ferdinando II dopo che si ebbe brighe con questo principucolo.

Avanti, da perfida albionese, lo chiamava Napoleone. Numerosi domestici sorvegliavano la corte di questa Semiramide. I cani avventurieri avevano alloggiamento a parte. E lady Keith degnava visitarli del pari come l'imperatrice Eugenia andava a visitare i colerosi. Gli è così che colse la rogna di cui il marchese di Tregle la guarì.

Ella chiamò di Tregle, perchè l'ex dottor Bruto era il solo che fosse marchese fra i medici napoletani.

I cani di Terra Nuova, maestosi come un concistoro di cardinali, i cani del nord, meditativi come dei consiglieri di Stato, occupavano delle camere speciali. L'impertinente Lady chiamava i botoli i suoi paggi ed i suoi poeti, e, nella collera, i suoi gazzettieri.

Lady Keith era una donna alta, magra, pallida,—un erpice formidabile di denti capricciosi fra due cascate di ricci di capelli rossi, provenienti da Edinburgo. Poi degli occhi neri e dolci, velati da lunghe ciglia nere come nelle Malesi. Altera e fiera in certe circostanze e con le classi elevate, era la bontà e la carità in persona nelle relazioni comuni della vita. La sua immensa fortuna apparteneva ai poveri. Le sue elemosine passavano per le mani del P. Piombini, suo confessore,…. e non vi restavano.

Ella aveva scelto questo confessore perchè era conte ed era stato ministro plenipotenziario. Naturalmente, il suo banchiere era il barone Rothschild. Se ella avesse vissuto ai giorni nostri avrebbe potuto darsi dei domestici, tutti più o meno commendatori dei SS. Maurizio e Lazzaro… ed anche degli ex-ministri. In tutti i casi, il suo pedicure cumulava gli ordini di san Gregorio Magno e d'Isabella la Cattolica. La voce di lady Elisabetta era infantile e carezzevole come le sue maniere, quando nulla non la turbava. Il fondo della sua natura era affettuoso. La vita non l'aveva inacerbita. Lo spirito ed il cuore non erano vuoti, e per conseguenza turbolenti.

Bambina era stata condotta presso di lei.

Le donne che sono state sempre brutte, detestano la bellezza delle altre. Quelle al contrario che furono belle e cui il tempo solo svaligiò, vi si riguardano come in uno specchio, e si sovvengono con rammarico senza dubbio, ma senza rancore, dei gaudi della loro giovinezza e delle feste inebriate dell'amore. La vista di Bambina, quel viso infantile, quell'occhio profondo velato di tristezza, quelle labbra che imboccavano la rugiada dell'amore, quella tinta lattiginosa, somigliante ad una vernice formata dal trasudamento dell'anima, ricordavano a lady Elisabetta la via lattea della sua giovinezza. Ella si sentì madre.

Senza dubbio, dimandandole la sua protezione per Bambina, il marchese di Tregle le aveva toccato qualche parola dell'istoria della giovinetta. La pietà rinforzava dunque l'attrazione. Lady Keith ebbe la delicatezza di non fare alcuna allusione a questa storia; Bambina, la discrezione di non spiegarsi. Ella passava tutto il giorno con la dama irlandese, asciolveva e desinava con lei, quando lady Elisabetta era sola. Ma la sera Bambina restava nella sua camera: la sua posizione l'esigeva.

Una mezza dozzina di amici venivano ogni sera a pigliare il the con lady Keith ed a giuocare al wisth. Gl'immancabili erano, il colonnello Colini, il marchese di Tregle ed il barone di Sanza. Si parlava liberamente,—intendo dire, senza paura di esser spiati. Del resto, le porte del boudoir erano chiuse e si parlava inglese o francese. Innanzi ai domestici si chiacchierava di teatri. Lady Keith riceveva i giornali inglesi, e la polizia napoletana soffriva questa enormità onde risparmiarsi l'umiliazione che la dama non se li facesse venire all'indirizzo di sir William Temple. Si discuteva dunque molta politica e si preparavano i piani della rivolta che qualche mese più tardi scoppiò nel Cilento e nelle Calabrie.

Per esser veritiero, è mestieri soggiungere che si discuteva molto e si agiva poco, che si correvano enormi rischi per risultati minimi. Ma infine si mostrava al re ed all'Europa che il paese non subiva bestialmente l'abbominevole despotismo della chiesa e della polizia che l'insozzava, e che desso non vi si rassegnava.

Il cristallo sfidava l'urto dell'obice di acciaio!

Un mese passò così. Bambina trovò una tregua ai soprassalti della vita, se non acquistò la pace del cuore e dello spirito. Nulla di malsano giungeva fino a lei; ma si compieva in lei un lavoro psicologico analogo alla fermentazione, la quale passa per la putrefazione prima di divenir creazione. L'aria pura infrattanto, la luce, un nutrimento sano e scelto, la tranquillità, la rivelazione del culto della bellezza, mediante le pratiche igieniche sì meticolose appo le inglesi e sì poco adoperate dalle donne italiane, quell'aureola tutta femminina che la circondava,—lei che aveva fin lì vissuto in un'atmosfera virile,—quelle mille delicatezze della donna, così particolari al bel sesso delle classi elevate, quella rarefazione dell'etere femminino in cui ella repirava, le gentilezze che lady Keith le prodigava, per un tal qual traripamento di tenerezza concentrata in questa donna che aveva avuto un marito troppo grave e non figliuoli:—tutto ciò operò una tale epurazione, una diafanità, un tal cangiamento insomma che Bambina, la quale era di già una bellezza maravigliosa, divenne una bellezza miracolosa. Ella non era quasi più una donna, ma una creazione eterea,—una materia luminosa saturata di spirito.

Lady Elisabetta le aveva fatto spogliare la beghina di monaca di casa e le aveva regalato degli addobbi da donna, da giovinetta modesta ed elegante, dagli scuri colori, come gli esigeva la sua posizione. Di guisa che tutte le perfezioni sculturali del suo corpo di Dea, cui la sua trista sajaccia di pinzocchera imbacuccava, si rivelavano allo sguardo stupito come una apparizione ideale, ed inoculavano il delirio. Una camelia bianca che squarcia il suo inviluppo!

La bianchezza della sua pelle si era rischiarata ed aveva i riflessi della piuma dell' eider. La sua vita si era assottigliata, ed ogni piccolo movimento ne denunciava la flessibilità serpentina che prometteva un eden di voluttà. Il suo collo sembrava forse un po' lungo, ma le linee pure che costituiscono l'ellissi deliziosa dalla base della testa all'inizio delle spalle, senza corde tese, senza penombre, la bianchezza trasparente della pelle, la cui grana fina si saturava di raggi, fermavano lo sguardo incantato e gli sottraevano il difetto. Si vedevano infine i suoi piedi, forse un po' lunghi altresì, ma di una forma squisita e di cui l'istantaneo inarcarsi dava il barbaglio di un piè dei più delicati. La trasformazione, in una parola, era completa.

Questa metempsicosi divina fa interrotta da due avvenimenti che vennero a rannodare il dramma, cui la povera figliuola aveva tentato di scongiurare con la sua fuga.

Una bella mattina del mese di giugno lady Keith era discesa a Napoli per delle compere. Mezzodì avvicinava. Pensando che milady non tarderebbe a venire, Bambina traversava il salone onde andarle incontro nel giardino. Ella aveva però dato appena qualche passo, con aria distratta e guardando ai balconi, che si sentì allacciare alla vita da due braccia vigorose e coprire il sembiante di baci frenetici. Bambina gettò un grido: si trovò in braccio del P. Piombini, che attendeva lady Elisabetta nel salone e che l'aveva riconosciuta.

Nulla può esprimere il terrore della fanciulla sorpresa da quella folata d'uragano. Ella si svincolò dalla stretta. Ma prima di fuggire nella sua camera ella potè udire il P. Piombini che le diceva:

—Prendi la mia vita, prendi la mia anima; io sono pronto a tutto. Io farò l'impossibile. Io non posso più vivere così….

Bambina andò a tuffare il suo viso nell'acqua fredda: credeva essere stata marchiata da un ferro rosso. La freschezza rivenne. Ma il contraccolpo che aveva ricevuto nel cuore vi dimorò. Quelle labbra di uomo trascinate così sul suo sembiante, quell'alito represso che l'aveva avviluppata, come il vapore che scappa via da una caldaia di locomotiva, sibilante e bruciante, quelle braccia che l'avevano stretta alla vita dove il cuore alberga, quel petto di monaco che aveva sfiorato il suo casto seno…. tutto ciò prese le forme vaghe di un incubo che ottenebrò le sue veglie e perseguitò i suoi sogni, mischiando terrori vaghi a sussulti indefinibili. Ella nascose l'avventura a lady Keith, credendosi vituperata dal selvaggio assalto di cui era stata vittima. Il gesuita se lo sapeva bene.

Lo scuotimento di quell'attentato non si era ancora rassettato, allorchè, una settimana dopo, ebbe luogo l'altro avvenimento.

Una mattina, a colazione, lady Keith leggeva il Times, quando, percorrendo la lettera del bravo corrispondente di Napoli, un movimento di sorpresa le scappò. Bambina era presente.

—Ma, il fratel vostro non si chiama egli dunque il signor Diego Spani?

—Per lo appunto, signora, rispose Bambina. Perchè?

Lady Keith si tacque. Poi sclamò, quasi malgrado lei:

—Lo sospettavano dunque al torto!

—In nome del Dio della misericordia, signora; gridò Bambina, di che si tratta? Io muoio di terrore.

—Ebbene, io ne sono felice, riprese lady Keith abbracciando Bambina. La polizia ha fatto una razzìa di dodici liberali accusati di cospirazione e li ha sprofondati nelle segrete di S. Maria Apparente. Vostro fratello è fra coloro.

Bambina gettò un grido e svenne. La misura traboccava.

XII.

Presto tardi, egli arriva sempre, il brigantello.

Don Diego era restato tutto il giorno a contemplare il mare,—secondo il suo costume quando la tempesta infuriava nell'anima,—ed aveva ruminato la terribile conversazione tenuta la sera innanzi con sua sorella. La calma era ritornata nel suo spirito. La luce aveva riscaldato di una fiamma più pura il suo cervello maltrattato. Egli rientrava in casa, gli occhi nuotanti nelle lagrime, col proposito di gettarsi ai piedi di sua sorella e dimandarle perdono e l'obblìo della sua infamia. Egli trovò appiattata, nel medesimo angolo oscuro, la medesima giovane che la vigilia, dimandandogli l'elemosina, gli aveva detto: Voi siete felice! Infatti non era forse egli fortunato di possedere in casa quell'angelo di candore che, col semplice buon senso e la rassegnazione, gl'imponeva la virtù e riaccendeva il suo coraggio? Don Diego fece l'elemosina ed accelerò il passo.

La notte era caduta. Arrivato alla sua porta, suonò. Poi, come si tardava a venire ad aprirgli, cavò di tasca la sua chiave particolare ed aprì. Non lume. Chiamò Bambina. Non risposta.—Ella è uscita per qualche spesuccia, si disse Don Diego; ed accese la candela. Entrando nel salone, gli sguardi caddero sulla lettera di Bambina. E' la sentì, prima di averne vista la scrittura. Egli l'aveva letta, prima di averne rotto il suggello. Esitò a prenderla. La guardò lungamente prima di toccarla, di leggerla. E' girò lo sguardo stupefatto intorno alla camera, cercando negli sfondi delle ombre qualche cosa che si muovesse; tese l'orecchio, bramando uno strepito che lo rianimasse. Quando ebbe letto, il foglio gli cadde dalle mani. Si lasciò cascare su una sedia e la fronte battè al marmo della tavola.

Il cervello, accasciato da pria sotto l'invadimento di un mondo di memorie e di pensieri in insurrezione, rimase insensibile: quell'intensità di luce senza rifrazione creava l'opaco. La sua energia vitale si arrestò di un tratto. Si sentì orrendamente stanco: non avrebbe potuto nè camminare, nè vedere, nè parlare. La sua respirazione si rallentò. Questo stato di annichilimento durò un quarto d'ora. Poi, un riflusso vulcanico di sangue precipitò la febbre e, con la febbre, la coscienza vertiginosa della situazione. Egli passò pel medesimo stadio di passione percorso da sua sorella. Il passato fu implacabile nelle torture che gl'inflisse.

La prosperità non lascia nel cuore degli stigmati così profondi, come il modesto malore e la miseria oltraggiante. Ed ecco perchè le rappresaglie delle rivoluzioni sono giustizia, e quelle delle ristaurazioni vendetta. Gli anni passati con Bambina, nel pungente denudamento dei lari paterni, sfilavano innanzi ai suoi occhi come i cavalieri della gualdana, lo colpivano, lo laceravano. Egli sentì ruinar sulla sua testa l'anatema del terribile vae soli! Andò a frugare nella camera di Bambina senza sapere che si facesse, cosa cercasse, e s'impregnava dell'emanazioni della fanciulla che vi restavano ancora. Ei passeggiò tutta la notte per l'alloggiamento solitario. Il battere delle ore all'orologio di una chiesa l'assassinava.

Abituato, dall'escita del seminario a vedersi circondato di cure, di cui egli neppure sospettava, si trovò eccessivamente misero quando gli occorse preoccuparsi di quei mille dettagli, cui la presenza della donna rende dei nonnulla, e la lontananza, un mondo di privazioni e miserie. Un disgusto supremo di tutto lo invase. Non si nudrì più che di pan secco. Di rado cangiò di biancheria. La polvere lo soffocava. I suoi abiti non ebbero bentosto più bottoni. Ciò che prima aveva l'aria di una povertà industriosa, divenne la nudità in cenci di un mendicante. Entrava tardi. Si coricava senza accendere il lume. Fuggiva dal suo giaciglio appena levatosi, come se una mano invisibile lo avesse cacciato. La sua sporcizia gli faceva orrore, ma e' la lasciava spessire. Egli udiva il lazzarone burliero sclamare sul suo passaggio: ecco un abate arrugginito a punto! Lo scoraggiamento lo sopraffece.

Egli aveva avuto una volta o due l'ispirazione di andare a scandagliare il barone di Sanza ed il gesuita, che sospettava complici della fuga di sua sorella, ma dopo matura riflessione se ne astenne.

Non gli avrebbero nulla appreso e lo avrebbero schernito o maltrattato. Sapevano essi in seguito a quale discussione Bambina lo aveva deserto?

Una sera, ei trovò sotto la sua porta una lettera. Egli ebbe uno stringimento di cuore. La sua pelle divenne madida in un istante.

—È forse di lei! si disse egli, accendendo il lume.

Non era Bambina, ma il canonico Pappasugna che lo chiamava con altissima premura. Non vi andò. La sera seguente, un'altra lettera. Novella speranza. Nuovo disinganno. Era ancora il canonico che lo sollecitava a passare da lui, per un affare importante. Don Diego gualcì e gettò la lettera e non rispose a questo meglio che all'appello precedente. La mattina seguente, alle sette del mattino, e' chiudeva la porta per uscire, quando il canico Pappasugna l'abbordò. Don Diego non l'invitò ad entrare. Questo disdegno, lungi dallo sconcertare, esaltò il canonico.

—Voi non avete dunque ricevute le mie due lettere? dimandò egli, seguendo Don Diego che scendeva le scale.

—Le ho ricevute.

—E perchè non siete venuto a vedermi?

—Perchè non voglio vedervi.

—Io ho dodici ducati a rimettervi pel vostro panegirico dell'Ascensione.

—Potete tenerveli.

—Ma Come? voi non volete lavorare più per me dunque?

—No.

—Ma ciò è impossibile!

—Bisogna pertanto che ciò sia.

—Ma voi non v'immaginate dunque l'effetto prodotto dal panegirico! È un avvenimento. Napoli, da otto giorni, non parla che di ciò. Mi hanno applaudito alla chiesa come la Frezzolini a S. Carlo. Gli era un delirio. Dava la febbre. Il cardinale arcivescovo si teneva a quattro per non gridar come gli altri: bravo! bravo! E' me l'ha detto.

—Io sapeva ciò che facevo, rispose Don Diego.

—Ma ciò non è tutto. Il re m'invita, per autografo, a predicare alla cappella reale per la quaresima. L'arcivescovo desidera che io predichi alla cattedrale. Ho ricevuto trenta proposizioni siffatte. Non so a chi dare la preferenza. Mi attendo da un momento all'altro l'invito del cardinale vicario per andar a predicare a S. Pietro.

—Ebbene, che cosa m'importa tutto codesto?

—Come! che cosa v'importa? Ma, chi dunque farà i miei sermoni? A chi debbo io questa valanga d'inviti? Signor Gesù! ma io conto su di voi, sono perduto.

—Voi volete che io vi nomini vescovo? Ve lo rifiuto.

—Oh! no, no; ciò non si può. Gli è un assassinare un uomo!

—Ne assassinano ben altri, va!

—Imponete le condizioni che vi piacciono, fissate il prezzo che esigete. Accetto tutto da prima e senza discussione.

—Quale guarentegia mi date voi?

—Quella che meglio vi conviene.

—Allora, ascoltate. Voi otterrete dalla polizia che cessi dal vessarmi e dal tenermi sotto la sua mano in un vita senza domani. Io ho bisogno di pace, di sicurezza, di stabilità nell'esistenza onde lavorare senza preoccupazioni. Io sono un cittadino pacifico.

—Ve lo prometto. L'arcivescovo parlerà al ministro della polizia.

—Depositerete presso un notaro seimila ducati ch'e' mi consegnerà contro presentazione di ventiquattro sermoni, cui scriverò prima della fine di settembre.

—Sarà fatto.

—Mi darete la somma che vorrete come regalo, ed io vi offro un panegirico di San Luigi per mille crazie.

—Accompagnatemi fino a casa ed io vi presento una polizza di 200 ducati sul Banco.

—Allora, monsignore, io sono a Vostra Eccellenza Reverendissima.

Il canonico s'irradiava.

Questa ricchezza però, questa prospettiva siderale dell'avvenire, lungi dall'abbarbagliare, schiacciarono Don Diego. Che gli importava oggimai tutto ciò? egli era solo. Si pentì di avere accettato.

Si proponeva di andare il dì seguente a restituire la somma ricevuta e di tagliar corto al contratto. Tanto meglio se gl'insetti lo divorassero. Che la polizia lo cacciasse pur via: egli troverebbe sempre una fogna ove lasciare il suo carcame maledetto. Che bisogno aveva egli di tanto danaro? Pagarsi una diocesi per benedire ed edificare il popolo? Egli detestava il genere umano. Si era sprofondato nel brago: bisognava perirvi. Queste considerazioni, ed altre ancora, lo avevano assalito ed avevano attristato il suo vagabondar della giornata. Egli viveva come chiuso nella camera nera del suo pensiero, e, cosa da considerare, e' cominciava a compiacersi in quel fatalismo dell'annientamento! L'istoria del cattolicismo somministra di questi esempi d'inebbriamento e di voluttà prodotti dall'abbassamento.

Don Diego rientrava la sera in quelle disposizioni di spirito quando la mendica dell'angolo del vicolo l'abbordò. E' non l'udì. Ella lo seguì, accentuando i lai. Don Diego si rivolse. La luce del lampione battè in pieno il viso della poveraccia. La parola dura che fremeva sulle labbra del prete, si addolcì. Egli la squadrò attentamente.

—Ma insomma, mia povera donna, perchè non lavori tu? Tu sei giovane.

—Non trovo da lavorare. Mi respingono. Sono nuda, peggio ancora, sono in cenci.

Don Diego riflettè. Era alla sua porta. La strada era deserta. L'ora avanzata. La casa scura e senza portinaio. Egli aveva del denaro addosso. Doveva restare a casa e scrivere, se non poteva romper gl'impegni….

—Se mi dessi una serva? si disse egli, o piuttosto questa idea traversò innanzi ai suoi occhi.

Un nuovo colpo d'occhio sulla giovane lo decise.

—Seguimi, disse egli. Io potrò forse fare qualche cosa per te.

Volse le spalle e camminò. La mendica esitò. Il suo istinto sollevò in lei non so quale paura vaga come un vapore nero. Ciò durò pochi secondi; poi corse dietro al prete.

Quando Don Diego ebbe accesa la lampada e fu seduto nel salone, la grama tremava, in piedi innanzi a lui. Alcun dei due non parlava: si osservavano l'un l'altro.

—Come ti chiami?

—Concettella.

—Quanti anni hai?

—Ventidue.

Quella parola «ventidue anni» produsse come una specie di fremito nei nervi del prete. Le sue narici si devaricarono. Il suo sguardo prese, malgrado lui, un'altra espressione e divenne più penetrante.

Le nature meridionali sono fosforiche: il contatto stesso dell'aria vi mette il fuoco.

Egli era impossibile di nulla distrigare in quel mucchio di cenci orrendamente sordidi. Il corpo dispariva sotto quell'ombre fetide che lo assorbivano. I lucignoli de' neri capelli le piovevano sul viso ed involavano qualunque espressione dei lineamenti. Non si distinguevano che due immensi occhi bruni dallo sguardo vellutato, che lo rischiaravano. e due fila di denti bianchi, in una grande bocca aperta, come una linea azzurrognola tirata sur un fondo giallo. Poi, una statura media, le membra fine. Che ci può essere sotto codeste ruine? chi poteva dirlo? Che produrrà quello scheletro rivettovagliato di carne? chi avrebbe osato predirlo? La larva sembrava orrida. Don Diego rifletteva. Concettella passava adesso dalla speranza al terrore. Ella temeva di essere oltraggiata ed assassinata.

—Io sono solo, disse infine Don Diego; non ho serva. Vuoi venire ad assettarmi la casa ogni mattina?

Concettella gittò un lungo sospiro e rispose lentamente:

—Signore, voi non avete dunque osservati i miei stracci?

—Li ho osservati. Gli è ciò solo che t'inquieta?

—Mi hanno cacciato di dovunque a causa di ciò. Sarei sì felice di lavorare.

Don Diego andò a rovistare nella camera di Bambina e venne fuori con una bracciata di vecchie camicie, vecchie calze, vecchie gonne portate dalla provincia. E' le mise religiosamente nelle braccia della mendicante e riprese:

—Con questo, pulendoti attentamente, tu non desterai più la ripulsione in coloro che vogliono darti del lavoro. Più tardi, se il tuo servizio mi addà, ti farò qualche anticipazione e ti affusolerai meglio.

Concettella si gettò ai piedi del prete e glieli baciò.

—Hai tu parenti?

—No.

—Sei tu maritata?

Concettella si tacque un momento e poi disse:

—No. Ma non mi appartengo più.

—Non importa. Vieni domani. Ove alloggi?

—Non so. Mi rannicchio dietro la prima porta che trovo aperta e che mi offre un poco di sicurezza.

Don Diego aprì l'uscio e la mendicante uscì invocando su lui tutte le benedizioni del cielo.

Alle otto, il domani, Concettella tornò. Don Diego ebbe della pena a riconoscerla. Ella era andata a fare la sua teletta alla riva del mare, la notte stessa. La speranza di un avvenire più clemente le aveva dato del coraggio. Aveva ammassati i suoi capelli in un lembo di vecchia pezzuola rossa e si era coverta degli addobbi di Bambina. La civetteria,—l'anima della donna,—si risvegliò. Con i sei carlini che Don Diego le aveva regalati, ella aveva comprate delle ciabattelle, del sapone, non so che domine altro; l'acqua aveva fatto il resto.

Mentre Concettella scopava la camera e spolverava i mobili, Don Diego la seguiva di uno sguardo lento e meditabondo.

Quando lo ebbe finito, e' la mandò a comperare qualche cosa per preparare di desinare. Quando ebbero terminato il pranzo, Don Diego replicò la domanda:

—Ma ove andrai tu a coricare ora che sei un tantin più pulita?

—Dio ci penserà. Qualche anima caritatevole mi permetterà forse d'accovacciarmi in un canto. La povera gente di Napoli, signore, è piena di cuore.

Don Diego non uscì ed andò a rimestare nella camera di sua sorella. Egli meditava qualche cos'altro che il panegirico di S. Luigi. Sembrava inquieto, scontento di sè, incerto, in collera. La notte dormì male.

—Che diavolo avevo io bisogno di serva? borbottava. Il mio vecchio carcame merita bene delle blandizie, davvero!

E' si volse nel letto e cercò di dormire. Il sonno tenne il broncio.

—E ciò non è tutto, pensò egli. Dopo avere raccolto questa povera donna, dopo averla raffusolata, e' non è più caritatevole rimandarla a coricare così al sereno….. o peggio ancora. Bisogna pagarle un buco, darle….. che so io? un pagliericcio, una sedia, una coperta….. Diavolo! la non finirà più. No, vale meglio alloggiarla qui….. quando l'avrò meglio conosciuta. Chi è dessa? Mi sembra di buona indole. La sventura….. ah! la sventura ne fa ben delle altre, va!—se ella ha male agito. E perchè no, al postutto? No, io non toccherò nulla in camera della Bambina….. Ebbene le metterà un pagliericcio nella cucina. Ciò accomoda tutto. Io non debbo render conto ad alcuno, al presente.

Don Diego nudriva questo progetto; egli lo carezzava quasi….. due giorni dopo; otto giorni più tardi, aveva paura di vederlo respinto. Malgrado ciò, lo propose. Concettella l'accettò. Don Diego si turbò pentendosi d'aver fatto un'offerta, cui un'ora innanzi era in ansia non fosse rigettata. Nondimeno, disse:

—Allora, dimani comprerai la tela pel pagliericcio.

Quando la tela fu comprata ed il saccone cucito, Don Diego rimise al dì seguente la compera della foglia di grano turco e poi ad un altro giorno quella delle coperte. Egli aggiornava il termine di aver quella giovane sotto il suo tetto. Questa lentezza aumentava la confidenza dell'onesta serva, la quale non ne comprendendo la vera causa, diceva:

—Questo santo ecclesiastico ha paura delle cattive lingue; dunque egli è un galantuomo.

Ed il suo desiderio di avere un ricovero onorevole, sicuro, onesto, cresceva d'intensità. Don Diego risentiva, al contrario, una pungente perturbazione. E' credeva da prima profanare la dimora ove sua sorella aveva vissuto, ove ella indubitabilmente un giorno ritornerebbe.

Poi, quell'uomo, avvegnacchè all'età di quaranta anni, contrariato dalla miseria, ritenuto dal suo dovere di prete, preso nelle catene d'oro delle lucubrazioni mentali, non aveva conosciuto fin qui la femmina che nelle sue funzioni di madre e di sorella. Egli non aveva osato conoscerla altrimenti, sentendo dal brontolamento interiore del suo istinto e del suo organismo, quanto la passione sarebbe in lui imperiosa. Egli aveva evitate le occasioni. Egli aveva distolta la corrente dei sensi e schiacciata la visione, che gli pingeva il fiore siderale dell'amore. Ora, ecco che la tentazione si getta su lui,—su lui disarmato, indebolito, disingannato, rimasto solo, in prospetto di un orizzonte più glorioso, assetato di tenerezza, esaltato dalle provocazioni della vita in una grande capitale; si getta sopra lui, il di cui cuore era tutto amore e la fibra affatto sensuale. L'incognito lo attirava. La passione lo fascinava. Quell'abbisso magico, detto amore, l'assorbiva.

Egli assisteva alla danza dei delirii che spruzzavano sul suo cuore come gl'insetti dai mille colori si slanciano dalle lagune. La verginità è come il ghiaccio dei mari polari, che scricchiola sotto un buffo caldo, e che, frangendosi, rivela i profondi di un mare di smeraldo popolato di maraviglie. Egli non aveva la verginità psicologica, che è pura e sterile, ma quella del corpo, che è offuscata da tutti i desiderii fantastici, eterei, mostruosi, impossibili come l'assurdo, malaticci come l'estasi, stupefacenti come l'ubbriachezza dell'oppio, cui l'asceta costruisce nelle sue notti d'insonnia. Trent'anni di purità forzata si rivoltarono e si scatenavano sopra di lui.

Questo spirito ardito che aveva scandagliate tutte le audacie dell'anima con Fichte, Hegel, Kant, Schelling, che aveva traversato tutti gli empirei della poesia con Schiller, Byron, Victor Hugo, Shakespeare, ignorava la sorgente di tutte le realità della vita: l'amore! si spaventava innanzi la donna,—sacerdotessa del gran mistero di Osiride. Pertanto, si vedeva sul punto di essere traripato. Le forme esterne cui la tentazione prendeva, calevano poco. Che Concettella fosse brutta, egli l'avrebbe appetita egualmente. Il magnetismo della giovinezza che si sprigionava da lei, bastava ad inspirargli una rabbia sorda di mordere al frutto proibito. Il sesso agiva sul sesso. L'immaginazione apriva innanzi a lui il suo scrigno di meraviglie, ove ogni pietra preziosa si animava e pigliava la figura di una fata esaltata come una baccante. D'altronde, egli sentiva vagamente che il primo bacio è come l'albero della scienza vera;—prova gli asceti che sono stati tutti dei vaneggiatori, dei pazzi mali imbastiti, per difetto giustamente, di quel cotal bacio.

Avendo questa gioia negli occhi e nello spirito, il mondo cangiava di aspetto. La natura parlava oggimai un linguaggio che egli comprendeva. La sua potente virilità, che fin qui era stata tenuta a musoliera, in una gabbia di ferro, come il tradimento del cardinale La Bilue, spezzava tutto e s'irradiava. Quella tetra testa di prete e di pensatore diventava raggiante. I lineamenti prendevano un'anima ed esprimevano la parte che ciascuno compieva in questo destino: tutti avevano il proprio accento nel grande inno della vita universale,—in cui ogni individuo è una strofa, una nota, un colore, una parola. La maturità diveniva potenza; l'ansietà, poesia. Il ritardo nell'effettuazione accentuava la esplosione. Una nebbia nera, non pertanto, si levava a certe ore e velava il paesaggio incantato.

—Chi era questa donna che egli stava per introdurre sotto il suo tetto e mischiare alla sua esistenza? Che era stata quella mendica?

Un uomo rotto ai piaceri non si sarebbe arrestato a questa considerazione. Egli avrebbe accettato il fatto compiuto, e se la coppa aveva della feccia al fondo, egli avrebbe gettato la feccia o spezzata la coppa. L'amore è essenzialmente effimero: la natura l'ha voluto così, imponendoci la remora dell'età e presentandocelo come il saldo di conto che paga la giovinezza all'infanzia ed alla vecchiezza. Ma Don Diego abbordava l'amore senza preparazione precedente. Egli non apportava nella sua parte nè disinganni, nè aspettazioni inutili, nè stanchezza, nè sazietà, nè speranza lungamente carezzata. Egli cadeva in piena soluzione, senza avere analizzata la sua tesi. Tutto diveniva dunque grave e si modellava sul suo spirito serio. Il primo amore ha sempre delle proiezioni sull'avvenire. Gli amori che seguono, s'abbanchettano al presente. Don Diego s'inquietava dunque di questo fatto considerevole, che egli stava per installare in casa sua una straniera, di cui egli ignorava la storia, ch'egli apriva forse il suo tesoro d'amor cumulato ad una pezzentella sconosciuta che poteva essere una infame. E se Bambina ritornava?

Prima dunque di aprir tutte le cateratte alla sua passione, prima di lasciar Concettella pigliar possesso del suo alloggio e del suo cuore, la vigilia, la sera, quando la lampada non era ancor accesa, quando la luna non filtrava ancora qualcuno de' suoi raggi furtivi nell'ombre spesse della dimora, egli le disse:

—Infine chi sei tu? che sei stata?

Concettella si attendeva forse un giorno a quest'interrogazione. Forse pure ella non ne vedeva la necessità, ignorando il dramma del pensiero di Don Diego, che aveva varcati tutti gli spazi. Il fatto sta ch'ella si turbò alla dimanda. Perchè aprire la tomba della sua vita a questo curioso che non aveva alcun diritto di rimuginarvi? Egli dava il benificio; ella, il lavoro: la partita era salda. Perchè dimandare questa mancia esorbitante: lo squarcio dei veli del passato, ad una donna il cui passato si compone di sventure e di dolori? Ella esitò dunque a soddisfare la curiosità del prete,—la curiosità! credeva ella. Don Diego insistè, e la sua parola risonò di maniera, la sua esigenza si colorò così vivamente, che Concettella, benchè poco intelligente, concepì il sospetto ella stessa che la intimazione del prete implicasse un interesse più grave, forse un dovere.

L'idea dell'amore di quell'uomo per i suoi stracci non le venne punto. Quel prete aveva forse una missione più elevata che doveva esercitarsi sulla vita di lei. Ella cedè allora, si assise per terra, come fanno le donne del popolo napolitano nelle chiese e raccontò confusamente ciò che noi ci faremo a riassumere, a coordinare ed a completare nei due capitoli seguenti.

XIII.

Come si diviene lazzarone.

Vi è un giorno nell'anno che è un giorno di beatitudine per i trovatelli di Napoli.

Il 25 marzo, li ripuliscono, li vestono, si astengono dal farli morir di fame e dal troppo bistrattarli. Il sorriso, esiliato da queste giovani teste trecentosessantaquattro giorni dell'anno, sboccia sulle loro labbra: è il giorno della speranza dopo tante settimane d'abbattimento. Della gente onesta e povera che non ha figliuoli, dei miseri operai che non trovano una compagna nella società legale, vanno a visitare lo stabilimento dei trovatelli dell' Annunziata, aperto a tutti il 25 marzo: l'uno vi cerca un figlio, l'altro una sposa. I figliuoli della Madonna sono esposti: Dio riparerà l'ingiustizia degli uomini.

Un operaio, maritato da dieci o dodici anni, non aveva figliuoli. I due coniugi ne desideravano uno: diventavano vecchi, e si sentivano soli. Nel 1818 si decisero dunque ad adottare un figliuolo della Madonna.

Fortunella avrebbe voluto una ragazza, Giovanni volle un garzoncello. Ne scelsero uno dell'età di cinque anni chiamato Gabriele.

L'operaio era stato soldato della Repubblica Partenopea. Era stato di coloro che arrestarono la marcia di Championnet su Napoli, che non ha nè forti nè mura per resistere allo straniero, ma parecchie castella per schiacciare le sommosse del popolo. Nel 1820 Giovanni si aggregò naturalmente fra coloro che forzarono re Nasone ad accettare la costituzione.

Al ritorno di quel re, in mezzo all'esercito austriaco, Giovanni fu cacciato in galera e non si udì più parlare di lui.

Restata sola con Gabriele, un monello di circa otto anni, senza risorse, senza risparmi, senza attitudine speciale e senza lavoro,—perchè, onde non incorrere i fulmini della polizia, alcuno non osava dar lavoro alla vedova del condannato giacobino,—Fortunella mendicò. Gabriele si mise a vagabondare sotto pretesto di fare delle commissioni.

A Napoli non si vive positivamente di aria e di maccheroni conditi dall'incomparabile spettacolo del Vesuvio e delle sue eruzioni. I romanzieri, gli autori di opere buffe, certi viaggiatori di appendici han detto ciò; il mio amico Jules Janin ha persino traversato a nuoto la Riviera di Chiaja; ma ciò non è poi così incontestabile come il quadrato dell'ipotenusa. Tuttavia la vita non vi è cara¹; ma altresì i salari sono bassissimi, eccessivamente esili.

¹ Io parlo dell'epoca prima del 1847; il lettore non obblii questa data in tutti i dettagli.

Le limosine che Fortunella raccoglieva non sarebbero bastate a far vivere una donna sola; ella aveva un garzoncello per soprassello. Ciò che questo monello guadagnava, se guadagnava qualche cosa, lo spendeva di nascosto, sia per andare a vedere i pupozzi di Don Gabriele al teatro di Donna Peppa, sia per pagare il vecchio che raccontava sul Molo le avventure di Rinaldo e di Bradamante, sia per comperarsi di quelle stomachevoli leccornie chiamate franfellicchi. Il pane era dunque tutto a carico della povera donna.

La quistione degli abiti non fu mai una quistione per Gabriele. La natura avendolo provvisto di una magnifica capigliatura nera, come gli augelli del cielo sono provveduti di piume, Gabriele non aveva bisogno di coppola. Le belle lave del Vesuvio, che lastricano le strade di Napoli, avendogli indurito l'epidermide dei piedi, come gli animali erranti, egli non sentiva la necessità delle scarpe. Il freddo del clima di Napoli non essendo intenso, un giubbetto non era indispensabile. Egli è vero che il pudor pubblico, checchè ne abbia scritto lady Morgan, non avrebbe tollerato che egli andasse attorno senza camicia e senza calzoni. Ma che quel pantalone non arrivasse che fino al ginocchio, che i suoi squarci a bocca aperta lasciassero vedere ciò che avrebbero dovuto nascondere, che quella camicia fosse un cencio così pittoresco come i deliziosi stracci dei cialtronelli di Murillo, poco importava. La morale pubblica era salva, la società pudica soddisfatta; la coscienza della gente caritatevole restava quindi senza rimorsi. La nettezza poi era affare di Gabriele. Quando la sua biancheria era sporca, egli la gittava al mare. E frattanto ch'egli succhiava delle conchiglie, il sole ed il mare s'incaricavano dell'imbiancatura di sua signoria.

Neppure la quistione dell'alloggio non era stata giammai una per lui. Egli avea fisso il suo domicilio al terzo scaglione della gradinata della chiesa di S. Teresa, a Capodimonte. Il proprietario non gli dimandava mai il pesone, come il popolo napolitano chiama il fitto della casa.

La parola dice la cosa.

Ma l'inverno? domanderete voi. L'inverno? Ebbene, fra tutte le calamità sociali che affliggevano la città di Napoli, la Provvidenza le ne aveva risparmiata una che forse le valeva tutte. A Napoli non vi erano portinai, o piuttosto non ve n'era che uno solo: lo svizzero del re! L'inverno dunque Gabriele si cacciava in un cortile, s'appollaiava dietro una porta, in una rimessa, in una stalla. A giorno, cominciava a battere le strade, se gli restava ancora qualche soldo, ovvero andava a vedere sua madre, nel suo orribile buco al mercato, se aveva fame.

Questa esistenza spensierata e nomade era il suo apprendimento della vita. La famiglia naturale l'avea rigettato, la famiglia adottiva era stata disciolta dal potere politico: orbo di padre e di guida, egli vagava alla mercè del caso, e si dava a lui tutto intiero.

Il caso è l'istinto.

Sua madre un giorno lo sgridò: credo anzi che lo battesse un tantino. La povera donna voleva tirarselo dietro in una chiesa, ed il galuppo preferiva di restar fuori, al sole. Gabriele se la spulezzò, e per due o tre giorni non comparve al tugurio. Però, come Fortunella gli aveva parlato di religione, ei si fece pitturare sul braccio delle belle anime del purgatorio che si voltolano nelle fiamme, e si tenne per aggiustato col cielo.

In questo mentre, il lastrico della città gl'insegnava non poche cose.

In contatto col mondo, messo a limite nelle sue inclinazioni, subendo di già la legge del più forte, alle prese con i bisogni e con le aspirazioni che sorpassano sempre le latitudini della miseria e si slanciano in quelle del lusso, costretto ad osservare, a riflettere, ad attendere, egli studiava la città come il selvaggio studia le savanne.

Egli apprendeva a pensare senza accorgersene. E le lezioni non gli mancavano, perocchè il vizio, quando non è il delitto, e mica ancora la brutalità, diviene un gran maestro di scuola.

Il vizio è la lotta che si stabilisce fra quello che è regola per molti e quello che è ostacolo per taluni. Gabriele non conosceva la regola, perchè alcuno non gli aveva insegnato ciò che sia dovere e ciò che sia diritto; ma egli subiva l'ostacolo ed assottigliava la potenza del suo spirito per demolirlo.

Due fatti colpirono il suo spirito.

Un giorno, passando davanti al convento di Santa Maria Nuova, e' vi vide accalcata una cinquantina di persone, vecchi storpi e cenciosi, e fanciulli di sette od otto anni sparuti e nudi. Tutta questa gente aveva un coccio smussato sotto il braccio. In aspettando, recitava il rosario ed uccideva i pidocchi. I fanciulli acchiappavano le mosche. Quello spettacolo divertì Gabriele: si fermò. Ad un tratto, la porta del convento si aprì, e vide comparir sulla soglia un frate estremamente grasso ed oleoso, il volto acceso ed inzaccherato di tabacco, di brodo e di vino. Due altri fraticelli, egualmente sporchi ma più giovani ed il viso più raffilato, seguivano fra Gaetano. Essi trascinavano un'immensa caldaia, nella quale si erano riuniti a sghimbescio i residui del pranzo di centosettanta monaci, formando così un pappalecco senza nome nel pandemonio culinario, di un colore indeterminato, di una forma indecisa e di un gusto cui la fame sola poteva far trovare tollerabile. Alla vista del pajuolo, i pater e le ave si perdettero in un cospettare sommesso scambiato tra i mendicanti, tarabussandosi a chi passerebbe il primo.

Su questo brontolare assordante, risuonò il vocione di fra Gaetano, che gridò:

—L' anima vostra! volete tenervi la lingua tra i denti?

E ciò dicendo, sollevava il suo scettro,—il lungo e profondo cucchiaio di cui si serviva per distribuir la pietanza.

La vista di quelle scodelle tese, risvegliò l'appetito di Gabriele. Egli vide passare i mendichi l'un dopo l'altro, ed avanzando insensibilmente, a misura che quelli che si allontanavano lasciavano posto, si trovò in faccia di fra Gaetano. Gabriele non aveva scodella; ei non distese la mano. Fra Gaetano lo sbirciò senza cospettare, poi lo sbirciò ancora grattandosi l'epidermide del collo. Ei prese da un paniere due pezzi di pane e di carne, e glieli gettò, dicendo:

—Ritorna domani.

Gabriele trovò il pane eccellente, la carne squisita, il monaco strano; osservò sulle labbra dei due fratocci un sorriso ch'e' si permise di qualificar stupido, e se ne andò facendo capriole.

L'indomani e' si disse:

—Poffar dio! poichè mi si dà un così buon pranzo per nulla e mi s'invita con tanta gentilezza, perchè non accetterei io l'invito di padre Gaetano?

Ed andò al convento.

Appena che fra Gaetano lo scorse, gli fece segno di aspettare e sollecitò a dispensar la brodaglia. Poi, quando Gabriele fu restato l'ultimo, fra Gaetano cavò fuori di sotto la tunica un bel pezzo di pane bianco ed un groppone di cappone non male in carne, e l'offerse all'avidità del garzoncello, carezzandogli paternamente la testa. Poi gli disse:

—A domani, piccolo.

Allettato in questa guisa, accolto di così buona grazia, attirato con tanta premura, carezzato, festeggiato, Gabriele ritornò il terzo dì. Fra Gaetano gli sorrise. Quando tutti furono partiti, anche i due monaconzoli, fra Gaetano mise avanti gli occhi del figliuolo un piccione arrostito ed un pane bianco come l'ostia.

Gabriele entrò nel convento.

Scorse un minuto, e in un baleno lo si vide uscire, gittare ciò che il frate gli aveva regalato e salvarsi a gambe.

Gabriele non mendicò più.

E' si accomodò di un altro mestiere.

Eravi a quell'epoca, in una piccola casa accosto al teatro di san Carlino, un uomo conosciutissimo chiamato llu si' Michele.¹ Questi era intraprenditore di ladrerie, brevettato dalla polizia,—sì, brevettato dalla polizia, pagando patente!

¹ Il sor Michele.

Un prefetto della polizia di molto buon senso si era detto:

—Il furto è il sistema normale del governo napolitano. Eccetto il re che non ruba,—regnava allora Francesco I cui non bisogna confondere con Ferdinando II,—tutti gli altri rubano. In una società, bene o male organizzata, il furto è inevitabile, ed in una grande città come questa, impossibile ad evitare. Il furto è l'anarchia; io vado a governarlo. Il furto è indipendente e perciò degno di forca; io vado a farlo realista, a forzarlo a subir le leggi dello Stato ed a pagargli tributo come ogni altra cosa; la prostituzione, per esempio! Quando il furto sarà legale, sarà morale; quando esso sarà produttivo per il fisco e protetto dal fisco, esso non sarà più giacobino.

Egli tirò allora dal bagno un uomo che passava per aver del genio in questa categoria di delitti, lo fece trasferire a Napoli e gli disse:

—Ascolta. Ti lascio tre mesi per studiare la piazza e scegliere il tuo personale. Dopo questi tre mesi, tu sei responsabile di tutti i furti che si commettono nella città.

—Io?

—Sì, tu. Adesso ecco le condizioni che ti pongo. Io autorizzo il ladroneccio, ma non al di là del numero di furti commessi fin qui. Io ti do giurisdizione piena ed intera per impedire e reprimere le ruberie che non saranno commesse dai tuoi agenti; ma qualunque di cotesti agenti si lascierà sorprendere in flagrante dalla polizia, sarà severamente punito e perderà l'impiego.

—Io accomoderò codesto. Avviserò la polizia che avrà cura di allontanarsi.

—Ascolta il resto. Sul prodotto delle operazioni, sarà prelevato il cinquanta per cento per la nostra amministrazione. Sugli altri cinquanta, venticinque per te, venticinque per l'agente. Se c'inganni, la prima volta che ti prenderemo in frode, sarai impiccato. Ecco le mie condizioni. Accetti?

—Ma chi constaterà la frode? domandò Michele.

—Noi. Accetta o torna in galera.

—Accetto.

Tre mesi dopo, l'uffizio di Michele era istituito, e sei mesi più tardi, la sua amministrazione funzionava a meraviglia. Era l'amministrazione modello negli Stati di S. M. Siciliana. Il prefetto di polizia aveva legalizzato il furto.

Gabriele fu ammesso come soprannumero, da prima nella banda di coloro che vigilavano, poi entrò nel ripartimento dei furti di pezzuole da tasca. Ora, ecco cosa avvenne.

Gli austriaci che avevano occupato Napoli dopo il 1821, erano partiti nel 1827. I mercenari svizzeri li avevano sostituiti. Un giorno, un capitano svizzero passeggiava nella strada Toledo, ove Gabriele era di servizio. Il capitano aveva nella tasca un magnifico fazzoletto di seta delle Indie, a fondo bianco e larghe strisce rosse sui lembi ed una punta di quell'arnese usciva a civettar dalla saccoccia; stuzzicando l'avidità, da agente provocatore. Gabriele lo notò o lo fece notare al suo collaboratore, un giovincello di tredici o quattordici anni come lui. Questi disse a Gabriele:

—Sta in guardia, seguimi, io vado a fare il colpo.

E si slanciò. Gabriele guardava intorno.

Il ladroncello si avvicinò, passò di dietro allo svizzero, ed in un batter d'occhio la pezzuola fu tratta fuori. Ma restò aderente alla tasca dell'uniforme.

Il capitano, a quanto pare, più di una fiata rubato aveva attaccato il moccichino con una spilla all'uniforme. Infatti, dacchè si accorse che se ne andava, allungò la mano e prese pel braccio il piccolo delinquente.

Il capitano gli fece fare un mezzo giro e se lo menò d'incontro. Lo considerò un istante senza parlare, come se lo giudicasse mentalmente, poi piegò il ginocchio sinistro a terra, pose sull'altro ginocchio piegato ad angolo retto il braccio del giovanetto, l'innalzò, l'abbassò con forza sulla rotella. Il braccio del disgraziato era rotto in due come un ramo di legno morto! Il monello gittò un grido e cadde svenuto. Il militare si rialzò tranquillamente, scosse la polvere del suo calzone, guardò con aria soddisfatta le persone che gli avevan fatto capannello attorno, portò la mano allo shakò, salutò tutti e si allontanò in pace. Il popolo si disperse, il cuore stretto, e mutolo. Uno sbirro, che aveva tutto visto come gli altri spettatori, raccolse il fanciullo, lo trasportò alla prefettura di polizia, ove il commissario gli fece infliggere venticinque colpi di frusta, in seguito di che l'infermo fu mandato all'ospedale.

Gabriele, anch'egli, aveva tutto visto, anche i colpi di verga. Egli fece giuramento di non mai più rubare, di guisa che un frate mendicante lo corresse dal vizio della mendicità, un mercenario gli apprese il rispetto della proprietà: due violenze gli indicarono due doveri.

Gabriele aveva sedici anni.

Quando si è lazzarone, e non si ruba e non si mendica, non si ha altra risorsa che il lavoro. Ora, che può fare un lazzarone?

Si è scritto, e lo si ripete ogni dì, che tra il lazzarone ed il lavoro vi è incompatibilità e ripulsione naturale. Ciò non è esatto. Tra il lavoro del lazzarone ed il lazzarone non vi è equilibrio di salario, e per conseguenza il secondo è disgustato del primo. Ciò è molto, ma ciò non è ancora tutto.

Per compiere un lavoro qualunque, occorre che la natura e la società si diano la mano. La natura aveva tutto fatto pel lazzarone. Il lazzarone era forte, intelligente, sobrio, paziente, sopportava tutto, era abile, proprio a tutto, capace di tutto, anche di essere onesto! Col lazzarone non si aveva neppur bisogno di parlare: un segno, un muover d'occhio, ed egli aveva capito. La natura era stata larga per quest'organizzazione primitiva. Ma la società? Madrigna!

Non scuole, non conservatorii, non istruzione, non associazioni, non opifizi, non maestri, non assistenza, non asili d'infanzia, nè casse di risparmio, non istrumento di lavoro, non istruzione professionale…. nulla, nulla per rilevare l'uomo sopra il livello del produttore della forza bruta, la macchina. La società incivilita gli aveva venduto una gerla, ed ecco tutto.

Ora, questa gerla— la sporta —era tutto un mondo pel lazzarone.

Aveva bisogno di portare un fardello? la gerla gli serviva di carrettello. Pioveva? la gerla gli serviva di paracqua. Aveva sonno? la gerla gli teneva luogo di origliere. Voleva sedere come un sibarita? e' si faceva una poltrona della gerla. Vi si coricava dentro, vi dormiva sopra, vi si nascondeva dietro per procurarsi dell'ombra…. L'uomo e la gerla si completavano, s'identificavano talvolta; erano inseparabili.

Vi sono degli uomini, le cui funzioni sociali sono limitate a produrre la ventesimasesta parte di una spilla, od a girare una ruota per tutta la loro vita, e finiscono per diventar bruti. Perchè quest'altro bruto, il lazzarone, che era aggiogato per tutta la sua vita ad un fardello ch'egli doveva portare sulla testa o sulle spalle, perchè diveniva esso filosofo? Imperciocchè, se il lazzarone non sapeva leggere, e' pensava; quando lo si credeva addormentato, meditava; quando lo si credeva indifferente, sentiva. Del resto è presso a poco la legge generale di tutti gli schiavi e di tutti i servi; essi non fanno che recitare la parte dello stolido. Ecco perchè il lazzarone ragionava poco, parlava per imagini, almanaccava molto. La folle du logis era sempre all'erta in quel cervello ben costruito e mal intonacato.

Il lazzarone non esiste più. Domani sarà elettore.

Ma ritorniamo a Gabriele.

I viaggiatori che arrivavano di provincia, mettendo il piede nella capitale, erano innanzi tratto sicuri di avere a sostenere una lotta col lazzarone. Quando la carrozza passava la barriera della gabella, una mezza dozzina di lazzaroni vi si aggrappava attorno come bruchi, sostenendosi ad ogni punto di appoggio che la vettura offrisse loro. Circondata da questa guardia del corpo, la carrozzaccia entrava trionfalmente in città. Il cocchiere andava dritto alla sua locanda e depositava le sue vittime sul lastrico. Ma queste povere vittime, appena sottrattesi all'imperio del cocchiere, cadevano immediatamente sotto il potere del lazzarone.

Il potere del lazzarone sulla sua pratica era così esteso, così irresponsabile come quello dello Czar su i suoi sudditi; non vi era che l'insurrezione che lo limitasse. Con un colpo d'occhio rapido ed intelligente il lazzarone giudicava il suo cliente, lo valutava come se lo avesse conosciuto da vent'anni. Dopo questo apprezzamento e' si disponeva ad agire. La conclusione di questo ragionamento era del resto assai semplice: aver dei danari con o senza accompagnamento di busse.

Le busse non entravano in conto: erano una cosa sì abituale, che col tempo era divenuta natura.

I lazzaroni che avevano accompagnato la vettura si gittavano dunque immediatamente sul bagaglio e si distribuivano i colli. Che l'uno o l'altro pigliasse una pesante valigia, un sacco da notte, un bastone, un porta-capello o una canna di pipa, importava poco. Era una buona o una cattiva fortuna, ecco tutto. Ma colui che si era impossessato del bastone si guardava bene di caricarsi per sopra più del paraacqua. Ciò sarebbe stato un invadere i dritti del compagno, un violare il dritto di proprietà, il dritto al lavoro, il dritto al salario….. ed il lazzarone, che non aveva alcun dritto, li rispettava tutti.

Quanto al viaggiatore, e' non poteva più toccare alle sue cose: lo avrebbero bastonato. Imperciocchè ciò sarebbe stato «un rubare la povera gente la quale non aveva che quello per vivere!» Se il viaggiatore aveva l'aria un po' determinata, gli si faceva la grazia di lasciargli scegliere il suo albergo. Diversamente, il povero provinciale doveva stimarsi felice di correre a tutte gambe dietro ad una mezza dozzina di lazzaroni che, essendosi impadroniti dei suoi bagagli, lo avrebbero condotto in America. Lo conducevano ove volevano—e sempre male.

Arrivati a destino, i lazzaroni, sempre rispettosi fin là, prendevano una cert'aria di dignità. Se erano sei, uno solo entrava nella camera, gli altri restavano alla porta. Il viaggiatore faceva un calcolo più meno giusto e pagava. Ei credeva pagar tutto. Il lazzarone guardava la moneta ricevuta, la voltava e rivoltava nella palma della mano, squadrava la sua pratica dalla testa ai piedi, alzava infine le spalle con disprezzo ed usciva. Il viaggiatore respirava.

Ma ecco che il secondo si presenta.

—Eccellenza…..

—Cosa è?

—Ebbene!, ma io vi ho portato il vostro sacco da notte, io.

—Eh! ma io ho pagato il tuo camerata per tutti. Domandagli la tua parte.

—Che cosa mi riguarda ciò, a me? Conosco io forse il mio camerata, io? Vi aveva io detto di dargli la mia parte, io?

Il viaggiatore pestava, e poi pagava ancora e respirava di nuovo.

—Eccellenza, il povero facchino che ha portato il vostro baule.

—Come, il mio baule? Ma io ho pagato. Ne ho anzi pagato due.

—È impossibile, ma me no, eccellenza.

—Te, te, te ho pagato per tutti. Va al diavolo.

Il lazzarone che aveva cominciato per dar dell' eccellenza al suo paziente, abbassa di un grado i titoli.

—Ma signore, io non posso andare al diavolo prima che non mi abbiate pagato. Io mi sono slogato le ossa per trascinare il vostro miserabile cassettone. Credete che ciò sia per i vostri bei baffi da carbonaro, eh?

—Io non do più un soldo. Fuori di qui!

Tu ti burli di me dunque eh! il calabrese? Io ho gittata la mia anima a carreggiare il tuo lurido cataletto, e tu mi pagherai.

—Io non pagherò più nulla, no, no. Esci all'instante, se no…..

—Ed io ti ripeto che tu mi pagherai o per la Vergine del Carmine, il sangue va a scorrere a lava.

Il viaggiatore cospettava ancora e pagava.

Il quarto si presentava. E là, nuova disputa sul prezzo, mista a bestemmie, a gesticolamenti, a minacce, a lazzi, ad ironie fine ed insolenti dalla parte del lazzarone che è il minchionatore il più fino e il più insolente che io mi conosca. Egli aveva inoltre un disprezzo imperiale per tutte le genti della provincia, cui addimandava di un sol nome: calabresi. Come per gli antichi romani, tutto ciò che non era della loro capitale era barbaro.

In una parola, il viaggiatore doveva pagarli tutti, subire i loro insulti, talvolta le loro busse. Ma egli arrivava altresì qualche volta che il viaggiatore si ribellasse e desse un calcio o uno schiaffo. Allora un combattimento in regola s'impegnava. Egli era insorto troppo tardi! Così, tutti coloro ch'egli credeva partiti ritornavano, ed un tafferuglio cominciava, in cui si rompeva tutto, compreso la testa del viaggiatore.

Ma come fare, mi domanderete, per evitare questo inconveniente?

Il metodo era semplice. Bisognava dare uno schiaffo, senza fiatar sillaba, al primo che toccava al vostro bagaglio prima di ricevere i vostri ordini. Il lazzarone capiva all'istante che egli aveva a fare con un militare, con un pezzo grosso del governo, o con un uomo determinato che conosceva i procedimenti onesti, e diveniva umile come agnello. Egli era sovente anche rubato dal suo cliente.

Gabriele faceva quel mestiere al Ponte della Maddalena, da dove arrivano i Calabresi, gli uomini i più irruenti delle provincie del regno. Gabriele si caricava raramente di un mobile pesante: per conseguenza e' correva più ch'altri il rischio di ricevere un pugno od un calcio, quando si presentava l'ultimo per domandare il prezzo del porto di una frusta o di una bottiglia vuota. Ora, ciò gli arrivò così spesso ch'e' finì per prendere il mestiere in disgusto. Imperocchè, se la polizia non interveniva punto per proteggere il viaggiatore contro l'aggressione dei lazzaroni, essa interveniva meno ancora per proteggere il lazzarone contro le batoste e le scroccherie del viaggiatore. Poi, Gabriele divenne adulto, ed una rivoluzione morale si era operata nel suo carattere.

Egli amava.

XIV.

E come si diviene galeotto.

Ed anzi tutto Gabriele era un bel giovanotto.

Egli aveva nei suoi occhi corvini un non so che di malinconico che correggeva la regolarità severa dei suoi tratti, il fosco del suo colorito, il portamento della testa fieramente accampata sur un collo svelto. I suoi capelli neri irrompevano a ricci da un berrettino color bruno a lembi rossi, che gli accerchiava la fronte in modo grazioso. Portava il petto nudo, il collo nudo, le braccia ed i piedi nudi. Perocchè tutte le sue vesti si riassumevano in una camicia ed in un paio di brache di cotone giallognolo strette alla taglia da una fascia bruna.

Egli amava una povera figliuolina chiamata Concettella, il cui padre era pescatore.

Concettella non era ciò che si dice una bella ragazza. Ma il suo sembiante esprimeva la grazia che cerca sedurre ed una vivacità che si comunicava e rimbalzava immediatamente nel cuore di chiunque l'avvicinava. Poi, ella era civetta.

Gabriele faceva delle canzoni per lei, perchè Gabriele era poeta ed aveva l'istinto dell'armonia.

Chi ode per le vie di Napoli, la notte, le cantilene selvagge, bestiali, disarmoniche, intollerabili del popolo napolitano non sospetterebbe mai che i lazzaroni avessero la loro accademia e le loro corti d'amore, precisamente come Clemenza Isaura. Quei Pelli-Rosse dai guaiti sì discordanti ed offensivi avevano le loro sfide di poesia e di musica, che terminavano non raramente in una sfida al coltello. Si dava un tema. Il primo cominciava e cantava la sua strofa; un altro rispondeva, ed alternando così le strofe come i pastori di Virgilio, si continuava per lungo tempo. Il primo che si arrestava, senza dare la replica, metteva fine alla lizza. Però costui era schernito talvolta battuto, e costretto a spulezzarsela. Non si crederebbe giammai che ricchezza di poesia e di viste ingegnose quei bardi dai piedi nudi prodigassero in quella ginnastica di scienza gaia.

Ogni anno si cantava a Napoli una nuova canzone popolare. Chi ne aveva trovata la melodia? chi ne aveva indicato il concetto e composte le parole? Tutti se l'attribuivano—tutti coloro che sapevano infilare crome e semi-crome, tutti coloro che sapevano far rimare amore e core, bene e pene. Ma l'autore vero, lui, non dubitava neppure d'aver dato vita ad un vero capolavoro che correva le cinque parti del mondo come, per esempio, l'

Io te voglio bene assai E tu nnu pienzi a me.

Ora ecco come avveniva l'istoria di quella canzone.

La notte che precedeva la famosa festa di Piedigrotta, cioè la notte dal 7 all'8 settembre, il popolo poteva entrare e trattenersi nel giardino pubblico,—la Villa Reale. Gli altri giorni, la plebe, in giubba o senza, non vi aveva accesso. In quei viali, a riva del mare di Mergellina, si riunivano i giovanotti, lazzaroni, operai, artigiani, contadini dei dintorni di Napoli, con le ragazze degli stessi ceti. Quindi, tutta quella gioventù se ne andava in gazzarra, cantando e danzando la tarantella, dal lato della grotta di Posilipo.

La grotta è un lungo tunnel del tempo dei Romani che fora la collina di Posilipo. Vi si giungeva tra mezzanotte ed un'ora del mattino, con delle torce accese, avendo ciascuno al suo braccio la sua giovine sposa o l'innamorata, cui non bisogna confondere con la ganza. Lì, si faceva circolo. I trovatori che si portavano candidati alla nuova canzone dell'anno si presentavano. Quelle dugento o trecento persone rinsaccate in quell'intestino si arringavano del loro meglio ed a suffragio universale si nominavano i giudici del concorso. E bisogna soggiungere, che raramente si prendeva sbaglio nella scelta. Nel 1846, Gabriele, cui addimandavano Gabriele Uu pienseruso, era uno dei candidati. Filippo Rotunno, suo rivale, ne era un altro. In tutto erano sei. In un batter di occhio il silenzio si fece. Quattro parrucchieri musici si collocarono nel centro, innanzi ai giudici. Essi suonavano il flauto, il violino, la chitarra ed il mandolino. Il cantante dava il tuono. Tre concorrenti, che non avevano buona voce, si fecero surrogare dai loro allievi.

Noi passiamo oltre quattro di quelle canzoni, quantunque con rincrescimento; perchè ve ne fu una sopratutto, di un gobbo merlettaio, che fu molto bella e che, ritoccata poi, fu ricevuta due anni più tardi,—la canzone del Mastrillo. Ma noi non possiamo omettere quella di Gabriele nè quella di Filippo, che furono il punto di origine di tante sciagure. Entrambi avevano cantato la stessa donna, quella stessa Concettella che era con Gabriele ed aspirava a Filippo. Gabriele era bello; Filippo, ricco. Ora, la donna è inesorabilmente logica. La natura dà la bellezza; l'uomo deve dare gli ornamenti.

Filippo aveva inoltre una tale rimarchevole voce di tenore, che avrebbe valso dei milioni, se Filippo fosse stato cantante in luogo di essere marinaio e padrone di due barche. Gabriele aveva una voce di baritono, armonica ma molto meno bella. Egli era il quinto e cantò:

«Quando eri ammalata, io mi teneva vicino al tuo letto, Concettella. Io udiva il tuo cuore battere con violenza: io ti compresi, mi tacqui, ma ti amai.

«Adesso tu sei guarita, e sono io che da tre giorni sono infermo. Ma quando si è innamorati bisogna passare per questi guai.

«Rinfresca col tuo fiato odoroso, rinfresca la mia febbre; ma non dire, Concettella, oh! non dire che io sono piagnoloso e ti attedio.

«Imperciocchè se vedessi la Vergine che mi ammiccasse per invitarmi a salire al Cielo, io volgerei lo sguardo, per contemplare unicamente il sorriso della tua bocca. Sorridimi, Concettella!

«Ma se nel tuo sorriso si dovesse trovare un lampo di scherno o di compassione, torci il capo, Concettella, torci il capo, come io l'avrei fatto con la Madonna.

«E quando tuo padre sarà di ritorno dalla pesca, dimandagli se il mare è ben profondo dal lato di Miseno e mandavelo a pescare.

«Io sarò quivi, in mezzo ai fiotti schiumanti, come fra le lenzuola del nostro letto nuziale; io sarò quivi, disteso sur uno scoglio, come avrei dovuto esserlo fra le tue braccia.

«Perchè il mare, che ha più cuore di te, fanciulla senza pietà, se tu gli getti un innamorato, esso ti rigetta per lo meno un cadavere».

Quando Gabriele ebbe finita la sua canzone, da me pessimamente proseggiata dal dialetto napoletano, i suoi tratti, sotto l'imperio della commozione, erano splendidamente animati. Ma l'uditorio era anche più commosso di lui. Perocchè la sua melodia, sì tenera e sì triste, aveva un accento che andava all'anima come un dolore.

Il suo avversario Filippo Rotunno divenne estremamente pallido. Egli aveva letto nello sguardo di Concettella che la parola di Gabriele l'agitava ed il suo cuore era lacerato dalla gelosia. Egli aveva impallidito altresì perchè aveva sentito il fremito che la cantilena di Gabriele aveva fatto correre fra gli spettatori. Ed egli apprezzava tutte le bellezze di quella poesia e di quella melodia di una soavità ineffabile. Erasi fatto pallido infine, perchè egli aveva paura e dubitava di sè. Egli sapeva che ciò che avveniva colà avrebbe deciso dell'amore di Concettella. Fece uno sforzo sopra sè stesso e si avanzò. Volgendo lo sguardo agli assistenti, per leggere sul loro sembiante come fossero disposti a suo riguardo, si accorse che essi erano ancora sotto la malìa della canzone di Gabriele. Allora volendo aprire un'altra corrente alla loro emozione, fece suonare la tarantella. Quindi, quando gli sembrò che l'uditorio fosse sotto un'altra impressione, diede il suo tuono alla musica e principiò:

«Vè una piccola giardiniera chiamata Concettella, la quale discende ogni giorno dallo Scutillo per venirmi a stuzzicare.

«Ella possiede un piccolo giardinetto ove fiorisce la rosamarina…. Concettella, ascoltami, non venire a svegliarmi di così buon mattino!

«A vederti con le tue guancie di foglie di rosa, con i tuoi occhi che hai rubati alla notte, io potrei credere che il mio sogno non è bene ancor terminato. Io ti ho visto femmina, e tu sei per me regina… Concettella, ascoltami, non venire a risvegliarmi di così buon mattino!

«Perchè vedendoti entrare nella mia povera cameretta, io credo che vi entri l'aurora; e come apro le pupille alla luce potrei aprire a te le mie braccia… Ed allora ti darei più baci che il cielo non ha stelle… Ascoltami, Concettella, non venire a risvegliarmi di così buon mattino!»

A questa strofa, l'entusiasmo degli spettatori fece esplosione. Due o trecento bocche accompagnarono in coro il bizzarro ritornello della scherzosa canzone. La melodia era adorabile: essa zampillava, scintillava, spingeva le gambe alla danza, a bocca al canto. Non si potè più restar quieti. Giammai hustings inglesi ebbero più acclamazioni tumultuose per un candidato favorito, che quel pubblico di teste calde napolitane e di cuori entusiastici non ne prodigò alla canzone di Filippo.

Essa fu proclamata la canzone dell'anno.

Gabriele era scomparso.

Egli aveva visto Concettella staccarsi poco a poco da lui, inclinare verso il suo rivale, infiammarsi, esaltarsi, cader mortalmente bella e sbocciata nelle braccia di colui. Era fuggito.

Il dì seguente, Gabriele assiso a terra, le gambe incrociate, i gomiti sulle ginocchia, il mento fra le mani, stava ascoltando il vecchio che sul Molo declamava l'Ariosto.

Dopo che aveva preso in uggia il mestiere di facchino delle carrozze, Gabriele aveva principiato il commercio delle frutta. Un mercante gli confidava un cesto pieno di fichi, di pesche o di uva, egli percorreva la città, li vendeva al minuto, guadagnava dieci soldi in qualche ora, e passava una parte del giorno alla riva del mare, a vaneggiare a baloccare. La sera andava ad udire la musica sulla Piazza Reale; nel dopopranzo alternava le ore tra il Filosofo e Rinaldo.

Il Filosofo era un vecchio antidiluviano che insegnava la morale. E' smaltiva le massime e gli apotegmi dei filosofici stoici, li commentava con storielle adatte al soggetto e ne tirava la moralità.

Il governo non aprendo alcuna scuola pel popolo, un mendicante fondava una cattedra di etica. I corsi del Filosofo erano frequentatissimi.

Noi abbiamo visto spessissimo, sullo stesso Molo, da un canto il Filosofo insegnare, dall'altro Rinaldo raccontare le imprese dei Cavalieri, in un angolo Pulcinella e Colombina sbizzarrirsi alle farse le più spiritose, e lì lì da presso un gesuita o un liquorista, salito sur un banco, predicare l'inferno od il giudizio finale. E dobbiamo confessarlo, il circolo meno affollato era proprio quello del predicatore.

Gabriele ascoltava dunque il racconto della lotta di Argante e Tancredi. Il vecchio cantava un poco, ma in generale declamava i versi del Tasso in maniera vivissima e pittoresca, animandosi col gesto, modulando le inflessioni della voce onde far delibare la melodia di quella seducente poesia. Gli spettatori seguivano le peripezie del poema con passione intensa.

Quando la lettura fu terminata, Gabriele mise nella mano del vecchio tutto il suo guadagno della giornata. Egli non aveva sentito il bisogno di mangiare; era stato assorbito in un'idea tutto il dì. Di là, se ne andò a cercare uno dei suoi amici e gli disse:

—Filippo ed io, non possiamo più vivere nella stessa città. Bisogna ch'egli mi uccida o ch'io l'uccida. Va da lui. Egli si batterà meco, o lo assassino. Io non vorrei pertanto assassinarlo! Gli dò la scelta: le pietre, ovvero il coltello.

—Io accetto le une e l'altro, rispose Filippo all'amico di Gabriele. Quando? dove ci batteremo noi?

—Domani, alle otto, dal lato di Porta Nolana.

—Sta bene. Quante pietre?

—Dodici, se tu vuoi. E poi il mollettone (coltello a molle ferma).

—Accetto. Io porterò i coltelli, voi le pietre. A domani.

—Grazie.

Vi era a quell'epoca un prete famoso chiamato don Placido Baker. Costui trafficava in grande l'articolo miracolo. Egli passava le sue notti a tu per tu con la Vergine o con qualche altro santo del Paradiso in viaggio pel nostro pianeta. Quei celesti touristes s'intrattenevano col prete di ogni sorta di bisogna, delle molestie di casa del detto D. Placido o delle virtù domestiche della regina Teresa. Poscia, accomiatandosi, gli davano il permesso di rivelare i secreti della conversazione,—di dir perfino che quel giorno il signor S. Pietro aveva la barba mal pettinata, e messer S. Luigi, il gesuita che non aveva mai guardato in viso sua madre, la marchesa di S. Gonzaga, aveva fatto l'occhiolino a Santa Filomena.

D. Placido rappresentava la sua messa e raccontava queste cianche intime al popolo nella sua chiesa del Gesù Vecchio, due ore prima dell'alba. La chiesa, rischiarata solamente da sei piccole candele sull'altare era suffusa nelle tenebre, e si commettevano lì più turpitudini che i primi cristiani non ne attribuirono mai ai pagani. Il popolino frequentava moltissimo il Gesù Vecchio e si divertiva a scialo di quelle storie pittoresche e straordinarie.

Gabriele, come gli altri napoletani, aveva più superstizione che religione. Tutta la sua pietà si limitava all'impressione delle anime del purgatorio sul braccio, a portare al collo lo scapolare della Madonna, a far magro tre giorni la settimana. Ed ecco tutto. Fanciullo, era ito alla chiesa per rubare le pezzuole: più tardi, per incontrarvi una innamorata ed udirvi della bella musica. Vi andava adesso, per veder Concettella in veste da domenica. Ma sul punto d'intraprendere una lotta mortale, e' volle pregar Dio, onde invocarlo a giudice della buona causa, che ei credeva esser la sua. Entrò dunque nella chiesa del Gesù Vecchio all'alba, e pregò. Pregò senza sapere nè come nè perchè. Dopo, raggiunse l'amico e partirono insieme pel luogo del duello.

Si era conservato su questo affare il più grande secreto. Prima dunque di giungere a Porta Nolana si separarono per non farsi osservare insieme. Si prendevano queste precauzioni onde mettersi al coperto dalle conseguenze del combattimento, nel quale uno per lo meno doveva soccombere. L'amico di Gabriele aveva scelto nel letto del Sebeto ventiquattro pietre della grossezza di un uovo, ben levigate e ben rotonde. Ei ne fece due parti, e lasciò la scelta al padrino di Filippo. Questi aveva portato due coltelli a molla, cui i lazzaroni chiamano crocifissi, a lama fina, lunga, scanalata, acuminata come un ago, tagliente come un rasoio, della lunghezza di circa dieci pollici. Il testimone di Gabriele scelse.

—Comincieremo dalle pietre, disse costui.

—Come vorrete, disse Filippo.

—A cinquanta passi?

—Sia pure.

—Senza fionda?

—Senza fionda.

—È permesso schivarsi?

—Poichè a questa sfida deve succedere quella del coltello, io credo che si possa accordare il diritto di non restare immobile sotto i colpi dell'avversario.

—Sta bene. Giuochiamo a chi tirerà il primo. Si giuoco al tuocco. Gabriele guadagnò.

Il combattimento alle pietre era il combattimento favorito del lazzarone. Aveva luogo d'ordinario per bande di quindici o venti giostratori, ed anche di più. Era una zuffa sovente pericolosa. Del resto, basta rammentare i lazzaroni del 1799, i quali fecero indietreggiare la cavalleria di Campionnet e sostennero a Ponte-Rosso tre ore di lotta, quasi unicamente alle pietre.

Filippo, che aveva un pastranello, lo cavò. I due duellanti si posero alla distanza convenuta in una cotale attitudine ch'ei non presentavano al nemico che il profilo sinistro, avvegnachè avessero la faccia volta l'uno all'altro, onde seguire con fissità ed attentamente i movimenti dell'avversario.

Noi non specificheremo le peripezie di questo combattimento, il quale esigeva l'agilità della scimmia, dei muscoli di acciaio, un colpo d'occhio rapido come il baleno, un'elasticità incredibile delle membra onde saltar d'ogni banda, piegarsi in tutti i sensi, appiattarsi, alzarsi, girellare su di sè stesso, slanciarsi, spiegare in una parola tutte le risorse della ginnastica, usare di tutti i mezzi di cui la natura ha dotati gli animali delle foreste per attaccare e difendersi.

Il lazzarone, non era esso il selvaggio delle latitudini incivilite?

In questo attacco, Gabriele fu colpito tre volte, senza molto male: Filippo due, anche senza pericolo, benchè ricevesse una ferita alla testa. Ma ei si limitò a stagnare il sangue con un pugno di terra, e continuò. Questi preliminari non dovevano servire che ad eccitare la collera dei combattenti. Il duello a morte cominciava.

Il duello al coltello è un'importazione siciliana a Napoli, spagnuola in Sicilia,—il combattimento alla navaja. Ma è altrettanto micidiale a Napoli che a Palermo ed in Ispagna.

I due avversarli si avvicinarono. Dai loro occhi schizzavano scintille feroci. Non vi si vedeva più il bianco: erano due punte di diamante a fiamma fosca e penetrante circondata da un'aureola rossa.

I due testimoni li collocarono di maniera che la luce del sole fosse egualmente divisa.

Filippo e Gabriele si approssimarono ancora, ciascuno d'essi guardando fissamente il nemico per trovargli negli occhi un segno di paura. Non ve n'era. Essi accostarono i loro piedi sinistri di modo che le dita dell'uno toccavano il tallone dell'altro. I loro corpi non offrivano che un sottilissimo profilo, converto dal braccio piegato e ravvicinato al petto, pronto a parare il colpo. La lama del coltello era appoggiata al braccio ed il manico chiuso nella destra come in una morsa. A vederli così, si sarebbe giurato che al primo colpo quelle due lame andrebbero a conficcarsi nei due petti e che si raccoglierebbero quivi due cadaveri.

I due combattenti fecero qualche finta per provare le loro forze. Gabriele si accorse che Filippo era agilissimo, e che se egli avesse voluto limitarsi alla difesa per profittare del di lui primo sbaglio, questi avrebbe potuto prevenirlo ed ucciderlo. Risolse dunque di sconcertare quell'attività inquieta con un attacco che obbligava Filippo a difendersi, e di fargli esaurire così, nella difesa, tutte le sue forze d'iniziativa. Gli era uno stornarlo e perderlo. Passarono pochi minuti in questi finti assalti, senza fiatare, gli occhi dell'uno ribaditi alla lama del coltello dell'altro.

Fu un terribile momento.

Gabriele mirava alla gola, Filippo al ventre. Si vide infine Gabriele proiettare in avanti il suo braccio sinistro, levandolo alto onde allontanare il coltello di Filippo od esserne ferito solo al braccio che gli serviva di scudo. Ma nel medesimo tempo avanzò il suo coltello dritto al cuore del suo rivale. Questi comprese questo colpo terribile, ed anzi che cedere alla tentazione di ferir Gabriele, fece un rapido movimento in avanti, di guisa che il colpo che andava a ferirlo giusto nel mezzo del fianco sinistro non gli traversò che la carne del dorso, scivolando sulle costole.

—Ci sei? disse Gabriele, senza pertanto uscire di guardia.

—Una scalfittura di spilla! rispose l'altro, senza parimenti turbarsi, sapendo che la minima agitazione poteva cagionargli la morte.

Si dice nondimanco, e lo si ripete ad oltranza, che i lazzaroni sono codardi. Giorgio Sand lo ripeteva ancora non è lungo tempo.

Si rimisero in guardia come avanti. A questo secondo assalto Gabriele ebbe il braccio sinistro forato da parte a parte; Filippo, l'alto della spalla sinistra traversato ed il deltoide quasi portato via.

I testimoni volevano far cessare il duello; i combattenti si opposero.

—Non prima della morte! gridò Gabriele.

—Prendi dunque! rispose Filippo.

E ciò dicendo, si precipitò su di lui a corpo perduto, offrendogli il petto, ma mirando nel tempo stesso a conficcargli il coltello nel vacuo delle clavicole.

Gabriele scivolò quasi sotto il braccio levato di Filippo, poi si raddrizzò alle di lui spalle, basso il coltello e gli fendè il braccio dritto dalla spalla alla mano, sì che il coltello cadde dal pugno di Filippo.

Alla mercè di Gabriele, disarmato, pallido come la morte, egli si volse e disse:

—Uccidi!

Gabriele alzò il coltello sulla testa dell'avversario, due volte l'abbassò, due volte lo rilevò con esitazione convulsiva. Alla fine, lo gettò lontano da lui e gridò:

—Quando sarai guarito.

E fuggì a tutte gambe.

Si condusse Filippo allo spedale dei Pellegrini, dicendo che era stato ferito in una rissa, da un incognito con cui si era ubbriacato.

Perchè questi due popolani che avevano guardato la morte in faccia con tanto sangue freddo, e non l'avevano temuta; perchè se un signore avesse dato loro uno schiaffo,—e ciò arrivava ad ogni istante,—questi due uomini avrebbero abbassata la testa senza dir verbo o sarebbero partiti borbottando una bestemmia orrenda?

Gli è che il lazzarone tirava la sua sussistenza dal borghese. Se il borghese diffidava di lui, se non lo trovava assai umile, e' cessava dal fargli fare le sue commissioni, come nel 1848, ed il lazzarone moriva di fame. Ecco perchè quei plebei, che avevano resistito all'esercito francese della Repubblica, si lasciavano battere dal popolo grasso, dominare dalla polizia, mettere a partito da tutti. Un signorino napolitano si sarebbe creduto disonorato se egli avesse trattato un lazzarone come un uomo, se gli avesse dato del voi, se gli avesse parlato altrimenti che con disprezzo, se lo avesse comandato con dolcezza, se fosse stato giusto, se avesse per lo meno sospettato che il lazzarone era suo eguale innanzi a Dio, al mondo ed alla legge, se avesse tollerato un'osservazione, se avesse risposto altrimenti ad un lamento di lui che con un calcio od una ceffata, se lo avesse toccato altrimenti che col bastone, se ne avesse avuto pietà, se lo avesse compreso in fine e l'avesse rispettato nei suoi sentimenti, nel suo onore e nella sua dignità. Il lazzarone era pel borghese un ignobile bruto, impastato di vizi e di laidezze,— res nullius! —e lo è ancora.

Il governo trafficava del borghese, questi del lazzarone. Homo homini lupus! Il borghese però lo respingeva: il re se ne impadronì.

Ma ritorniamo a Gabriele.

Egli fece medicare il suo braccio ed andò a visitare Concettella. Non le disse sillaba di ciò che aveva allora fatto per lei. Ma nella sera, ella ne fu istruita.

Io delineo la situazione di questa giovinetta con una parola: ella sarebbe divenuta con gioia la ganza di Gabriele, se Gabriele glielo avesse domandato: ma ella voleva essere la moglie di Filippo.

Ella amava Gabriele, valutava Filippo.

Ella sentiva troppo per non indovinare qual godimento doveva esservi nell'amore di quel bel giovanotto. Ma ella calcolava altresì che varietà, che durata di piacere doveva esservi nel divenire la moglie di un giovane ricco, cui si accordava dello ingegno, cui si stimava, ed in cui vi era la stoffa di un capo-popolo. Ella non sarebbe stata più chiamata la sì Concettella, ma la majesta, proprio come re Nasone chiamava la formidabile regina Carolina.

Laonde ella non esitò, il dì seguente, a recarsi a visitare Filippo all'Ospedale. Questa visita per l'uno, questo silenzio per l'altro dei due innamorati diceva tutto. Gabriele lo comprese, come egli aveva compreso l'estensione delle inclinazioni di Concettella per lui. Una rivoluzione si produsse nel suo spirito.

—Se io fossi ricco, si disse, Concettella sarebbe a me. I miei cenci sono il mio delitto. Più di cenci dunque. Abbiamo una giacca di velluto, delle scarpe, dell'oro!

L'oro a Napoli è alla portata di chiunque ne vuole. Non si tratta che di aver fortuna: aver qualche ducato ed indovinare tre numeri. L'era semplice. L'era più che semplice, era tentante. La lotteria è il frutto proibito del popolo.

Si era al giovedì. I numeri del lotto si tiravano il sabato.

Vi erano a quell'epoca, e vi sono forse ancora, dei monaci famosi appo il popolo a causa della scienza della divinazione dei numeri del lotto. La polizia accreditava la loro reputazione, perchè questa credenza sviluppava il gusto pel giuoco e quindi i profitti dell'erario. Il più rinomato allora era un fra Giuseppe del convento di San Pascale a Chiaja.

Fra Giuseppe era un diavolaccio tagliato sul tipo di un tamburo maggiore. Uomo di quaranta anni, rosso, forte, gli occhi a fior di fronte, un collo di toro raso, abbastanza sporco, mediocremente astuto, superlativamente ignorante, e dottore nei sette peccati capitali. E' godeva, malgrado ciò, di una moltitudine di dimestichezze assai bizzarre e che riesciranno affatto incredibili ne' paesi protestanti e volteriani. Indico i meno impudichi e ne chieggo scusa ai lettori, cui son costretto guidare per questi cunicoli da cloaca. Egli imponeva le mani nude sul ventre delle donne incinte per facilitare loro il parto. Egli componeva dei filtri abbominevoli per le fanciulle che volevano farsi amare dai giovani farfallini,—filtri di cui lasciamo parlare, con beato dilettamento, i moralisti cattolici, sopratutto i gesuiti Sanchez, Escobar, Benedetti, e cui non citeremo neppure in latino, come Burchard e Martene. Egli cacciava le mani, con un pezzo della tunica di S. Pasquale, nel seno delle donne, di cui il latte non fecondava le glandole deliziose. Egli abbracciava, per mandato del suo patrono, le ragazze che volevano maritarsi nell'anno. Egli benediceva non importa che, dal crocifisso alla pentola della minestra per farla bollire più speditamente. E' dava dei numeri alla lotteria. Ne dava uno, raramente tre. Ora, come e' dava questi numeri in numero progressivo, arrivava sempre che cinque fra i novanta numeri dati, uscissero dall'urna e che cinque persone guadagnassero un numero. Questi magnificavano la scienza cabalistica del frate.

Gabriele andò a trovare fra Giuseppe.

—Padre mio, diss'egli, io sono al colmo della disperazione. Se voi non mi venite in aiuto, io commetterò un malanno.

—Da bravo! susurrò fra Giuseppe, essi sono tutti in quello stato lì quando vengono qui. Vediamo; cosa hai?

—Ebbene, padre mio, ho bisogno di dodici mila ducati, al manco; e voi me li farete trovare.

—Saresti tu matto senz'altro, figliuolo? Come vuoi tu che io ti dia questa piccola bagatella, eh?

—E S. Pasquale? ma io non sono degno di un miracolo. Datemi tre buoni numeri al lotto e i denari per giuocarli.

—Peste santa! come ci va!

—Mi bisognano ad ogni costo.

—Vediamo, figliuolo, ragioniamo. I tre numeri… ciò si puote ancora. Pregherò S. Pasquale d'ispirarmi, e forse, se tu sei bene in istato di grazia, il buon santo non ci rifiuterà questo piccolo servigio. Ma il denaro? Hai tu obbliato che noi siamo mendicanti? Si trattasse, magari! di un pezzo di pane….

—Ma a chi volete voi che m'indirizzi allora per aver dieci piastre e giuocare i vostri numeri? Io non ho un tornese. Non si vorrebbe prestarmi questa somma sulla mia parola, nè sulle mie promesse. Vendendo quanto posseggo, non metto insieme dieci grana. I miei amici sono più miserabili di me… Bisogna dunque ch'io rubi? bisogna dunque ch'io uccida? Vi domando quella piccola somma a mutuo…

—Ascoltami, figliuolo: io non ho tempo da perdere. È mestieri che io vada in chiesa a cantar vespero. Ma uscendo tu incontrerai una donna che ride e forse un asino che raglia. Va dritto loro e ripeti tre volte: Guai a chi non crede!

E ciò dicendo, fra Giuseppe gli volse le spalle. Ma Gabriele correva già più celeremente di una freccia, ruminando nel suo spirito le ultime parole del monaco che contenevano la sua fortuna. Imperocchè l'era così che quei negromanti davano i loro numeri. Gabriele corse dunque da un postiere per consultare la Smorfia,—quel libro di lotteria che marca di un numero ogni parola. Dal piccolo fervorino del frate, ei trasse i numeri dalle parole da noi segnate in corsivo. Giuocò il biglietto a credito. Occorreva adesso adesso dare almeno due piastre—10 lire—perchè il viglietto fosse valido e giuocato—e ciò prima della mezzanotte di quello stesso giorno, venerdì, 23 agosto 1846. Noi rinunciamo a descrivere ciò che fece Gabriele per raccogliere quella somma sì minima in apparenza, e la disperazione d'onde fu dominato non essendo riescito. Quella piccola somma era tutto per lui. E' vi scorgeva la ricchezza, l'amore, l'avvenire, il trionfo sul suo rivale, la felicità: quella somma conteneva il Perù, era un paradiso, la realità ed il vaneggiamento… venti quattro mila ducati di guadagno e Concettella!

E quella somma gli mancava… l'abisso!

Il sangue affluì al suo cervello e lo rese ebbro di desiderii e di progetti, mentre la disperazione traboccava dal suo cuore. La sua immaginazione stravagava: era quasi folle. Le sue tempia battevano con un crepitamento sensibile all'udito. Malgrado ciò era pallidissimo.

E l'ora avanzava.

Gabriele picchiò a tutte le porte. Nessuna si aprì; nessuno venne in suo soccorso. Non sapeva più dove dare del capo. Non gli restava più che la violenza.

Sotto il dominio di questa idea fissa ed unica, l'universo era scomparso dai suoi occhi: anzi, l'universo si rizzava incontro a lui come un ostacolo cui bisognava rovesciare o spezzare. Egli errò simile ad un forsennato, tutta la sera. L'orologio della chiesa di S. Maria a Costantinopoli suonò le dieci. Quei dieci colpi di orologio gli diedero la vertigine.

E' saliva allora quel vicolo che dalla porta di Costantinopoli, conduceva alla piazzetta deserta, ove era il collegio di medicina. In un chiassuolo adiacente vi era un orribile affresco che figurava la Passione. Innanzi a quelle tre figure sconcissime del Cristo e delle tre Marie bruciava una lampada che dava più fumo che luce.

Gabriele s'inginocchiò, senza vedere le immagini senza pregare. Era là, ed attendeva un'idea, l'imprevisto, l'incognito! Non un soffio di aria nel cielo del resto, non un'anima per quei dintorni. Dovunque il silenzio, la solitudine e quel chiaroscuro scialbo delle notti italiane che non è nè le tenebre, nè la luce,— il tiepido del chiarore!

Era assorto e non pensava.

Infine, udì uno strepito dietro a lui. Si volse ratto, si levò. Era un prete di provincia che passava e gli gettava un soldo, rimettendo in tasca qualche pezzo di moneta bianca. La vista di quel danaro dette i brividi a Gabriele. Tutti i suoi istinti si risvegliarono, tutti i suoi desideri lo azzeccarono alla gola e lo strangolarono. Un mondo di luce, un mondo di tenebre, passarono in un attimo innanzi agli occhi suoi. E' corse dietro il prete, si prostrò alle ginocchia di lui e gli disse:

—Datemi quel denaro, padre mio; per pietà! datemi quel denaro.

Il prete, che aveva ceduto al primo impulso di compassione dandogli un grano, non comprese ciò che vi era di disperazione nella voce di quell'uomo, ciò che vi era di misterioso e di terribile in quelle parole sì semplici in apparenza. Credette che il mendicante fosse ubbriaco e lo respinse duramente. Gabriele lo trattenne e reiterò imperiosamente la dimanda. Il prete cominciò a sospettare allora avere a competere con un ladro e gridò. Gabriele si credè perduto.

—Tu mi darai quel danaro, prete maledetto, disse egli. Mi occorre, lo voglio.

Il prete che lottava per tirarsi da quegli artigli, gridò più forte.

Allora, lo spirito di Gabriele si turbò interamente. Con una mano prese il prete alla gola, per sopprimere i suoi guaìti, coll'altra frugò nella tasca per pigliarvi i danari. Il prete cavò il coltello e lo ferì alla coscia. Il dolore della ferita mise il colmo alla follia di Gabriele. E' tolse al prete il coltello e lo colpì al petto. Quindi, coverto com'era di sangue, s'impossessò di un pugno di moneta e fuggì.

L'orologio suonava le undici.

Il possesso della somma che gli bisognava, gli fece obliare per un istante tutto ciò che era avvenuto. Non aveva più nè coscienza nè memoria del suo delitto; non si accorgeva neppure che era inseguito. L'impiegato del posto della lotteria, che vide venire quell'uomo orribilmente pallido ed insanguinato, restò sbalordito. E Gabriele presentava già le sue due piastre maculate di sangue, quando sentì due mani posarsi sulle sue braccia ed abbrancarlo. Allora, in un lampo e' si risovvenne di tutto ciò che aveva fatto, gettò un grido stridente e cadde spossato nelle braccia dei birri.

Qualche ora dopo, si trovò innanzi ad un commissario di polizia.

Gabriele confessò tutto. Non si ebbe mestieri di maltrattarlo per farlo parlare. Egli aveva impietosito il commissario, tanto vi era di onta e di rimorsi nel suo racconto, tanto la sua stessa coscienza aveva avuto poca parte nella perpetrazione del delitto. Era maniaco.

Ma, cosa bizzarra, i cinque numeri giocati da lui, uscirono all'indomani!

Il prete era morto!

Sei mesi dopo, Gabriele era condannato a ventiquattro anni di lavori forzati.

L'indomani dell'arresto, il carceriere in capo delle prigioni della Vicaria venne a cercarlo per condurlo nella sua camera.

Ecco ciò che era avvenuto.

Concettella aveva studiata la condotta di Gabriele dal dì del duello, con una indifferenza apparente. Gabriele non le aveva mai parlato di sè; ma ella aveva compreso tutta la potenza e la delicatezza della passione di lui; aveva saputo tutto ciò che Gabriele aveva fatto per lei. Ella si era persuasa che oggimai il cómpito della vita di quel giovane era di poterle dire un giorno:

—Tieni, tu sei ricca!

Dalla vendita di tutto ciò che la possedeva, ed anche dei doni di Filippo, ella aveva messo insieme un gruzzoletto e si era presentata all'aguzzino in capo della prigione per comperargli la visita che veniva a fare a Gabriele. Il carceriere consentì e le fece attendere Gabriele nella sua camera.

Gabriele entrò.

Concettella, pallidissima, tremava come un giovane pioppo sotto i buffi del vento. Restò un istante indecisa innanzi a Gabriele che sembrava di ghiaccio. Poi d'un tratto, ella si gettò nelle braccia di lui e vi cadde svenuta, gridando in mezzo ai singhiozzi:

—A te, per tutta la vita.

—Per tutta la vita! ripetè Gabriele: sovvientene!

XV.

Le prime stazioni della via crucis.

Concettella tenne parola.

Sbarazzato del suo rivale, Filippo Rotunno cominciò l'assedio. Fallì l'intento. La passione, inasprita dalla resistenza, si fece persecutrice. Essa non riescì neppure. Filippo minacciò, battè, insultò, denunziò tutti coloro che s'interessavano alla giovinetta, la proteggevano, le davano del lavoro; fece loro tutto il male che potè e li scoraggiò. Concettella cadde in una squallidissima miseria. Il poco che guadagnava non le servì per nudrirsi o per vestirsi, ma per pagare un posto in una barca ed andare a visitare Gabriele al bagno di Procida. Questa fedeltà canina mise il colmo al furore di Filippo. Egli abbordò Concettella una sera e, non potendola oltraggiare, le tirò un colpo di coltello che le lacerò la spalla.

Filippo aveva di già, per la sua tracotanza, acquistato il soprannome di Guappo —rodomonte.—La polizia l'arrestò. Otto giorni dopo però lo rimetteva in libertà.

Vedendo in quell'uomo la fibra delle forti passioni, l'audacia e la bravura, il conte d'Altamura che reclutava le sue bande reazionarie dei sanfedisti, l'aveva reclamato ed ottenuto. Qualcuno sospettò della trasformazione, nessuno però potè affermarla. Il fatto è che Filippo— Uu Guappo, come ora lo addimandavano, era oggimai un birro travestito. Per questa ragione, e' dovè temperare i suoi impeti. Ma la sventura di Concettella era di già completa: Filippo l'aveva diffamata. Ella non potè più trovare lavoro. Non restandole più per vivere che la prostituzione o l'elemosina, ella scelse la mendicità.

Poco dopo, quando i patriotti furono cacciati negli ergastoli, tutt'insieme ai forzati per causa di furto o di assassinio, il conte di Altamura vi guizzò dentro Filippo, facendolo trovar complicato,—col suo consentimento,—in un affare di furto. E' doveva sorvegliare i patriotti, e pigliare l'occasione di qualche rissa sollevata a proposito per sbudellare i più determinati. La sua grazia era già anticipatamente firmata dal re: non restava che a mettervi una data.

Filippo s'imbattè in Gabriele, cui chiamavano adesso Uu paglietta —l'avvocato—perchè imparava a leggere ed a scrivere dal cappellano del bagno. L'incontro dei due rivali fu ostile; perocchè Gabriele conosceva di già le persecuzioni inflitte da Filippo a Concettella.

Il primo danaro che costei toccò da Don Diego, lo spese per recarsi a Procida ed andare ad istruire Gabriele della tregua che il destino le presentava.

Gabriele si mostrò inquieto e contento di saperla al ricovero in casa di quel prete, di cui ella le raccontò qualcuno dei guai, da lei appresi o indovinati. Quando, alla seconda visita, Gabriele la vide affusolata da beghina, chiamandosi non più Concettella ma suor Crocifissa, e' non dissimulò i suoi allarmi e si restrinse a dirle:

—Fa attenzione, Concettella! tu mi hai detto: «a te per tutta la vita!» Se divieni infedele, tu od io dobbiamo cessare di vivere.

Gabriele non temeva a torto. L'animo della giovane aveva cangiato come le sue spoglie. Per sopprimere i commenti, che non avrebbero mancato di assalire la giovane e bella vajassa —serva—del prete, Don Diego l'avea mascherata, secondo l'uso, della livrea religiosa, la quale copriva tutte le ganze dei preti— cappelloni —napolitani.

Don Diego non sospirò più il ritorno di sua sorella in casa, avvegnachè s'inquietasse sempre dell'assenza di lei. Sembrava rassicurato sulla sorte di Bambina, o si sforzava di esserlo; ma avrebbe desiderato sapere ove la si trovava e che faceva. Il vago su questa nozione gli cagionava un malessere indefinibile. Laonde, quando ebbe messo un po' di ordine nel suo interiore, quando ebbe cominciato il gran lavoro che il canonico Pappasugna gli aveva comandato, quando e' si potè credere assicurato contro le violenze della polizia, egli intraprese delle investigazioni sulla fuga di Bambina, neglette, fin lì da lui, a detrimento della sua considerazione.

Un cangiamento considerevole erasi operato in lui da otto giorni. L'equilibrio morale, un momento spostato in seguito di tante minacce, di tanti sospetti, di contrarietà, di malori, si era ristabilito. Il suo spirito, rasserenato, si rilevava. Le funzioni fisiche del suo organismo, depresse sotto l'invasione morale, si esercitavano secondo il destino della natura; ciò che raddoppiava l'elatere degli organi del pensiero. Egli era oramai uomo nella pienezza della vita, e perdeva, per conseguenza, tutto ciò che l'ascete ha di acido, di malsano, di velenoso, di fantastico, di antisociale. La scienza acquistata nelle lunghe letture e nelle forti meditazioni si allargava, si coordinava, assumeva un cómpito umano e salutare.

Immerso nella composizione dei suoi sermoni della Quaresima per il canonico Pappasugna, e' poteva a suo comodo considerare la religione dal punto di vista sociale e farne istrumento di civiltà, di progresso, di libertà, lasciando nei labirinti del medio evo la discussione dei dogmi e presentando la religione come consostanziale della morale e della compage sociale, economica e politica dell'umanità. Ond'è ch'egli si levava ad altezze vertiginose nelle sue considerazioni sulla missione del cristianesimo, ed edificava al cattolicismo un altare,—pagano forse o piuttosto filosofico,—ma conforme alla scienza ed all'unisono con lo stato della civiltà moderna,—frutto dell'analisi.

Al coverto dal bisogno, un po' rassicurato sull'avvenire, sbarazzato dalla ritenutezza materiale cui la purità di sua sorella gl'imponeva, il cuore pago, i sensi soddisfatti, quest'uomo, sì fortemente e riccamente dotato, si sviluppava, prendeva possesso di sè stesso. Una grande dignità, basata sulla coscienza della sua forza, si esalava dalla sua persona, a sua insaputa. Il povero prete di provincia si era liquefatto in quella rimanipolazione dell'anima per mezzo della prosperità, della libertà, dell'amore,—questa trinità della forza virile. La sua testa spaziava più alto che la sua statura. Il suo cuore non aveva più gli aneurismi della miseria, della paura, dell'incertezza, della paternità alla quale sua sorella si era volontariamente sottratta. Egli arrossiva forte altresì delle cause che avevano determinato quella figliuola a lasciarlo. La sua anima aveva avuto un'erisipola gangrenosa, di cui egli era guarito al presente, ma la cui memoria lo attristava e l'umiliava.

Sotto l'imperio di queste circostanze e di queste idee e' si decise a visitare il barone di Sanza per rischiarare i suoi sospetti, e Don Domenico Taffa per significargli che non gli accordava la mano di Bambina.

Il barone di Sanza aspettava da lungo tempo il suo compatriota.

Egli aveva dunque accomodati da un pezzo i suoi nieghi. Non si mostrò stupefatto della disparizione di Bambina, ma indifferente. E' significò quindi a Don Diego il suo desiderio di non essere mischiato in quei loro secreti di famiglia, di cui egli deplorava l'amaritudine.

—Mio padre vi ha raccomandato a me, soggiunse egli. Io ho fatto quantunque era in possa mia per aiutarvi. Ma io non ho l'età di essere tutore, e voi avete passata quella di esser minore. Ve ne supplico dunque, non mi favellate più dei vostri interessi.

—Io non vengo a domandarvi nè aiuto nè consiglio, rispose il prete, ma l'assicurazione che mia sorella non corre alcun pericolo. La sua lettera m'ha data la chiave di questo mistero. La sua sicurezza non m'inquieta, sapendo in quali mani ella depositava il suo destino. L'onor di vostro padre è per me una garentia del vostro. Io non voglio strappare Bambina all'asilo che le avete trovato. Ma voglio esser sicuro che foste voi che glielo procuraste e ch'ella vi è rispettata. Ecco l'oggetto della mia visita.

—Io non ho nulla ad apprendervi, rispose freddamente il barone. Voi dovete sapere quali considerazioni han potuto determinare vostra sorella a fuggire la vostra dimora, ed a quali persone ella poteva indirizzarsi.

—Lo so di già, rispose Don Diego. Ma permettetemi di soggiungere, che io diffido dei giovani di ventiquattro anni che si fanno angioli custodi delle giovanette di diciotto. Gli è chiaro così?

—Avete ragione, signore, di esser sospettoso in simile circostanza, quando i fratelli essi stessi sono dei custodi così dubbii. Ma finiamola qui. Voi arrivate di provincia con la rudezza tenace della bramosia, naturale agli uomini che ignorano il mondo reale. Il successo che si viola è sempre un successo deflorato, e perciò sospetto. Fatevi attenzione. Voi appartenete—oso sperarlo ancora—ad un partito geloso, sospettoso, circondato da trappole, il quale vuole restare incontaminato per quanto lo può. Voi sapete tante cose, troppe cose, facili a trafficare, avidamente ricercate. Voi frequentate uomini che ci danno la caccia, cui noi disprezziamo, abili a far chiacchierare gl'ingenui, promettendo molto e tenendo largamente le promesse. Non vi stupite dunque se vi vedete contrariato, e se vostra sorella ha trovato intorno a lei tutto un partito per difenderla, al suo primo grido di allarme. Addio, Don Diego; e permettetemi, poichè voi siete l'amico dell'eccellente mio padre, di augurarvi che il successo vi rifiuti il suo sorriso troppo precoce.

Il barone si alzò. Don Diego restò assiso e disse:

—Grazie degli avvisi, dei consigli, degli augúri di cui mi onorate. In ricambio sappiate questo e procurate di profittarne. Io non fo parte di ciò che voi chiamate vostro partito. Non sono cospiratore, ma pensatore. Ciò che per voi è una combinazione politica, per me è un assioma psicologico. Ciò che voi credete, perchè Mazzini ve lo afferma, è per me una legge eterna della coscienza umana. Voi potete tergiversare, cangiare secondo gli avvenimenti o le soddisfazioni ottenute o rifiutate; io, io non posso disfarmi che per la decomposizione della mia anima, per l'atrofia della mia intelligenza. Voi non sarete mai che degli scolari; io sarò sempre un maestro. Voi potete esser vinti dall'insuccesso, dalla sventura, dal dolore; io non potrei avere tutto al più che degli smarrimenti. Io respingo dunque i vostri avvisi e vi fo grazia dei vostri augúri. Se voi conoscete meglio di me le pratiche della vita, io ne conosco i principii, i quali non cangiano con la moda. Voi conoscete forse gli uomini; io conosco l'uomo. Io non vi domando dunque d'insegnarmi come si tratta con gli uomini e quali uomini si debbono bazzicare o evitare. Io amo l'arditezza nei giovani; ma diffido dell'oltracotanza, che è sempre soppannata di debolezza e d'ignoranza. Voi mi dite addio. Io vi rispondo a rivederci,—a rivederci al giorno della prova. I piccoli sono severi. Credetemi, bisogna esser grande per esser indulgente, veder lontano ed aggiornare il giudizio.

Don Diego salutò pulitamente il barone ed uscì, lasciandolo immerso in una stupefazione profonda. Era il primo uomo che egli incontrava nel suo partito, dopo il colonnello Colini che ne era il capo.

Don Diego si rese in seguito presso l'impiegato del ministero.

Don Domenico Taffa aveva terminato il suo desinare e digeriva dolcemente, fumando un eccellente zigaro e leggendo tale o tal altro giornale francese, cui la censura del ministero sopprimeva agli abbonati per distribuirli a certi impiegati privilegiati. Don Domenico, anch'egli, aspettava il prete da lungo tempo, e non senza impazienza. E' lo ricevè dunque con una soddisfazione marcata, gli offerse sigari, caffè, liquori, cui Don Diego ricusò, ringraziando.

—Io vi doveva una risposta, disse Don Diego sedendosi: ve la porto.

—Mi portate voi la mia felicità? domandò Don Domenico.

—Forse. Perocchè il peso d'una bella donna gli è la più spaventevole delle cure, per tutt'uomo che non ha a sua disposizione gli eunuchi ed il sacco del Sultano, la Banca d'Inghilterra, od il potere illimitato dello Czar.

—Che volete voi dire?

—Questo: che io vi ringrazio dell'onore che mi avete fatto domandandomi la mano di mia sorella, cui io sono nell'impotenza di accordarvi.

—Voi me la rifiutate dunque?

—Precisamente no, nello stato in cui sono le cose. Ma io non posso darvi ciò che non ho più: mia sorella mi è stata rapita, o piuttosto, ella ha disertato dalla casa.

—Signor abate, gli scherzi sono buoni ma quando essi sono opportuni, rispose Don Domenico con amarezza. L'istoria che mi contate per palliare il vostro rifiuto è assurda. A Napoli, le femmine non si perdono come una spilla nella sabbia, o un piccolo cane che ha smarrito il suo padrone.

—Nonpertanto, signore, la cosa è così: la è arrivata due o tre giorni dopo che io ricevei la vostra lettera.

—E venite a darmene avviso solamente oggi?

—Gli è che, prima di mettere la polizia sulle tracce della fuggitiva, io ho voluto riflettere ed assicurarmi ove ella sia, chi l'ha aiutata a mettere in atto questo colpo di testa, e per quale ragione ella aveva preso quel partito disperato.

—Ed ora sapete tutto cotesto?

—Io ignoro ancora ove ella sia. Ma conosco colui che ha protetta la sua fuga, ed ho indovinato perchè la mi abbia abbandonato.

—Ditemi il nome del complice ed in ventiquattro ore vostra sorella vi sarà restituita.

—Nol posso, nè voglio. Mia sorella si è sottratta da casa mia perchè essa mi vedeva favorevole alla vostra domanda. Io lo era allora. Qualcuno ebbe la malignità o l'accortezza di dirle, che voi volevate sposarla per farne il marciapiede della vostra ambizione e forse della mia. In faccia di questo dubbio, penetrato nel suo spirito, posso io esercitare su di lei un ascendente qualunque, morale o fisico? Ve ne lascio giudice.

—Signor abate, io vedo chiaro in tutto codesto, o se volete, vi vedo più chiaro di voi. Il P. Piombini è passato di colà.

—Che intendete voi dire?

—Mi spiego. Il P. Piombini è stato ferito dalla bellezza di vostra sorella. Non è la prima volta d'altronde che quel R. P. si permette di codeste bazzecole. Egli ha fatto brillare innanzi agli occhi vostri non so quali vantaggi che vi han dato le traveggole; e voi non avete visto così vostra sorella evadersi dal focolare domestico. Ecco tutto.

—La vostra supposizione è talmente bassa ed insultante che io non degno rispondervi.

—E fate bene, perchè io non vi crederei. Anzi soggiungo, per essere più chiaro, che io non sono il vostro merlotto, e che non riceverò l'affronto con indifferenza. Voi avete pensato che il P. Piombini era più potente. Vi siete ingannato. Voi non conoscete chi ho dietro a me che s'interessa al mio matrimonio. Voi avete offeso dei personaggi che possono polverizzarvi con un aggrottar di sopracciglio.

—Voi convenite dunque…

—Di che? che io amo vostra sorella e che io ho dei protettori? Ebbene, e poi? Se voi avete lo spirito sì mal temprato per non comprendere il paese, i tempi, la società in mezzo alla quale vivete, che posso io farvi? Voi avete vissuto della morale dei libri, che rende gli uomini stupidi, e non della morale del mondo che li rende felici. Avrei voluto aprirvi gli occhi mediante l'unzione episcopale che vi preparavo. Voi mi respingete e spezzate i miei piani. Vedremo se sarete stato saggio preferendo l'appoggio della Compagnia di Gesù a quello della Corte. Tali offese non restano mica impunite, signor abate.

—Voi mi fate benedire la sorte, signore, che mi ha sottratto ad una grande tristezza e ad una grande vergogna. Perocchè io scorgo adesso con quali intenzioni voi sposavate mia sorella. Io non sono predicatore di morale, perchè, ahimè! la mia non è senza rimproveri. Io ho avuto, ho tuttavia una grande ambizione. Non rinculerei innanzi ad alcun prezzo per soddisfarla, se quel prezzo si cifrasse per centinaia e migliaia di ducati. Il prezzo dell'onore, come lo pagarono Abramo ed Isacco, mi fa orrore. Nè la mia anima, nè la mia carne non sono da vendere, signore; e se voi avete bisogno di ciò, portate altrove i vostri sguardi. Le vostre minaccie non mi scuotono più che le vostre promesse. La luce, un momento offuscata nel mio spirito, ha ripreso il suo splendore.

—Voi mi sfidate dunque, adesso? Voi vi sentite dunque così bene coperto dai vostri protettori?

—Disingannatevi, signore. Io non ho alcun protettore e non ne desidero alcuno, al prezzo cui voi supponete. Ve lo ripeto: io ignoro dove mia sorella si trovi. Ma lo sapessi pure, lungi dal consegnarvela, la coprirei del mio petto e del mio braccio. Io vi diceva or ora che io non poteva accordarvi ciò che io non possedevo più. Vi dico ora, che ve la rifiuto in modo reciso. Traffichiamo di altro che di cuori innocenti e di corpi puri, signore. Capite? Voi mi avete domandato una somma di sei mila ducati per investirmi di una diocesi. Questa somma sarà pronta fra qualche settimane; ma essa è il salario del mio lavoro, non del mio onore. Non posso dirvene altro. Non siate dunque severo. Reprimete la vostra collera senza ragione. Io non giudico i vostri principii; ma rinunziate a farmeli dividere o ad impormeli. Noi abbiamo tutti un idolo nel cuore; il vostro è d'oro, il mio è d'amore.

—Sta bene. Ringuainate codeste frasi risuonanti, io ne ho lo spaccio privilegiato. Vi accordo otto giorni per riflettere, se n'è tempo ancora. Vi hanno ingannato sull'onnipotenza dei gesuiti. Non vi sono a Napoli che due uomini potenti, più potenti che lo stesso re: monsignor Cocle ed il marchese di Sora. Il primo domina il re per la coscienza; l'altro lo tiene per la paura. Questi due personaggi sono miei amici. Essi saranno i vostri protettori quando lo vorrete. Non aggiungo altro. Voi non siete più un fanciullo. In questo paese nulla si dona; tutto si vende—anche il diritto di vivere. Di quale moneta pagate voi il vostro? Tutta la quistione è là. Riflettete.

—L'è già bello e riflettuto, replicò Don Diego, alzandosi. Io non ho nulla ad offrirvi, e sono felice che voi non abbiate più nulla a prendermi. Mia sorella era la mia debolezza; strappandomela dai fianchi, mi hanno reso forte. Addio, signore. Quando avrò i miei sei mila ducati, avrò l'onore di venirvi a rivedere di nuovo.

—Voi non li avrete giammai. Al P. Piombini non resterà l'ultima parola in questo affare, potete contarci.

La sera, Don Domenico Taffa ebbe un abboccamento con monsignore Cocle.

Don Diego rientrò in casa assai inquieto. L'orizzonte di rosa che cominciava a contemplare, offuscavasi di un tratto. Gli spettri dell'avvenire ricominciavano la loro danza macabra. Pensò distrarsi nel lavoro, questa forza divina che tutto santifica. Prevenne il canonico Pappasugna del pericolo che lo minacciava, assicurandolo che la sua opera non sarebbe interrotta, per quanto ciò fosse possibile. Prese delle precauzioni: si mostrò poco; lasciò uscire Concettella il men che poteva. Avrebbe voluto nascondere la sua ansietà; ma Concettella l'indovinò.

Ella entrava nella sfera d'attrazioni dell'ex-prete e si stabiliva tra loro quella specie di compenetrazione magnetica che precede l'amore. Don Diego la dominava già per quell'appropriamento vorace delle nature lungamente contenute e subitamente sbocciate. I sensi spezzano una volontà lungo tempo prima che l'anima sia tocca. Concettella sentiva dunque l'aria carica d'elettricità, ne provava il rovello e ne dimandava le cause. Don Diego non aveva nulla a rispondere. Solamente la rassicurava che gli avvenimenti nol cangerebbero; e le dava una somma per metterla al sicuro dalla mendicità per un anno.

Prima di affrontare nuovi disastri, Concettella, molto costernata dell'incognito, pregò Don Diego di permetterle d'andare a vedere Gabriele. Don Diego avviluppava il suo cuore, ma Gabriele vi era sempre dentro. Il permesso le fu accordato, quantunque con rincrescimento; ma Don Diego sapeva per teoria, che se si vuole uccidere un amore importuno, non bisogna contrariarlo, ma soffocarlo sotto le concessioni soddisfatte.

Concettella partì. Portò seco una delle chiavi della casa, dovendo restare due giorni assente ed ignorando a quale ora sarebbe di ritorno. Non si conta col mare.

Gabriele, che non aveva giammai visto la sua fidanzata così bella, si mostrò dolente, fosco, sospettoso, minaccevole. Concettella si difese mollemente. Era il rimorso o l'indifferenza che cominciava a morderla?

—Sta in guardia, Concettella, le ripetè Gabriele vedendola partire. Tu mi hai detto: a te per tutta la vita! Guai a te, guai alla persona che tu ami, se tu mi tradisci!

Concettella ritornò a Napoli lo spirito smarrito e colpito da mille presentimenti. Sognava, vegliando, bagno, prigione, coltelli, ghigliotina, sangue, aveva un tremore continuo: il brivido circolava nelle sue vene. Arrivò a Napoli a mezzodì e corse a casa per trovare nella conversazione di Don Diego una diversione al suo delirio interno. Don Diego era uscito. L'aspettò con ansietà. La notte giunse. Don Diego non rientrò. Ecco mezzanotte che suona. Ecco un'ora, poi due, poi tre, poi il mattino, poi mezzodì dell'indomani, poi la notte ancora e mezzanotte ed il giorno e la sera del terzo dì; ma Don Diego non compare. Ella s'informa ai vicini. Nessuno sa dargli il minimo ragguaglio. Concettella piangeva come una grondaia in un acquazzone; si strappava i capelli e lacerava il viso ed i panni; ma Don Diego non appariva. A chi domandare aiuto? a chi indirizzarsi per un consiglio? I giorni passano; poi le settimane. Concettella lo credè partito, scomparso, morto. Cominciò a correre la città come una forsennata, gli occhi dappertutto, il naso al vento, le orecchie tese. Non l'ombra di una traccia. La disperazione la guadagnò.

Infine, circa un mese dopo la sparizione del prete, Concettella udì un mattino un vivacissimo tintinnìo all'uscio.

—Gli è lui, gridò ella barcollando di gioia.

Non era Don Diego, ma una giovinetta prodigiosamente bella che fece irruzione nell'appartamento, come un raggio di sole, dalla porta mezzo aperta, gridando:

—Dov'è? dov'è? Egli non è lì? Non è lì? Lo hanno dunque veramente arrestato?

Concettella gettò un grido a quella parola arrestato. Ella seguì Bambina che correva da una stanza all'altra, picchiando le mura ed i mobili, rimuginando ogni cantuccio, rimuovendo tutto, non vedendo neppure la giovane donna che la seguiva e le domandava:

—Ma chi siete voi, signorina?

—Chi sono io? Sono sua sorella. E voi? Chi siete voi? Che fate voi qui? Da quanto tempo siete voi qui? Come ciò è arrivato? Quando l'hanno arrestato? Come? Da chi è stato egli arrestato?

—Cuore di Maria! sua sorella! gridò Concettella. Io non so nulla. Arrivai da Procida: non era più qui.

Bambina cadde affranta sopra una sedia, sul seggiolone di suo fratello. Ella gemè forte, pianse, si fece raccontar tutto ciò che Concettella sapeva, tutto ciò che la poverina congetturava. Infine, senza aggiunger sillaba, Bambina si slanciò correndo, fuor dell'appartamento e scomparve.

Concettella restò pietrificata.

XVI.

Il dado è gettato!

—Sì, vostro fratello è arrestato, disse il barone di Sanza a Bambina, che si era recata a pigliar ragguagli da lui. Gli è circa un mese, la polizia secreta di Palazzo gli mise le mani sopra, in pieno mezzodì, nella strada, e lo condusse a S. Maria Apparente. Più di ottocento persone sono state arrestate di poi a Napoli e nelle Provincie. Si crede che vostro fratello abbia…. parlato.

—Menzogna! gridò Bambina con fermezza. Mio fratello, checchè e' si sia, non è mica un uomo…. che parla!

—Gli è questo pure il mio parere personale, riprese Tiberio; sopra tutto dopo l'ultima conversazione che abbiamo avuto insieme. Ma i partiti sono fatti così: guai a chi per il suo portamento indipendente, figlio di una coscienza pura, dà presa ai sospetti.

—Potete voi fare qualche cosa per lui?

—Assolutamente nulla. Passa per spia. Mi perderei io stesso, manifestandogli il minimo interesse, e conservando con lui, o con i suoi, delle relazioni di amicizia.

—Voi mi date altresì congedo, osservò Bambina con calma. Vogliate scusarmi, signor barone.

—Ma no, ma no….. voi esagerate, Bambina. Io vi ho spiegata la situazione. Per voi, io sarò sempre felice….

—Chi rinnega mio fratello, mi rinnega. Se siete persuaso ch'egli è colpevole, gettategli la vostra pietra come gli altri. Se opinate ch'essi s'ingannano, e che lo calunniano, non abbiate la pusillanimità di tacervi. Le nature superiori non accettano il giudizio delle moltitudini senza abburattarlo.

—Voi parlate da donna che giudica col cuore e noi dobbiamo regolarci da uomini che osservano freddamente e decidono colla mente.

—Un partito ove la parte del cuore è soppressa, è un partito condannato. Io non ho più nulla a soggiungere.

Bambina lasciò Tiberio, che non fece alcuna istanza per ritenerla. La sorella lo aveva umiliato al par del fratello.

Arrivata nella strada, la giovinetta si sentì come tuffata nel vuoto: si trovò sola, assolutamente sola. Ella pensò un momento d'invocare l'intervenzione di lady Keith. Poi vi rinunziò per discrezione.

Lady Keith la copriva della sua protezione: ma, annunziandole l'arresto di Don Diego, ella non le aveva offerto di proteggerlo pure. Ella aveva anzi dato ad intendere che l'avevano instrutta della condotta equivoca del prete. Era dunque imprudente, dalla parte di Bambina, di mischiare lady Keith in questa lotta contro la polizia ed i cospiratori, e di metterla forse a portata di apprendere numero di cose, cui valeva meglio ch'ella ignorasse.

Bambina aveva il colpo d'occhio giusto, il giudizio rapido, la decisione subita. Il suo inviluppo intieramente e squisitamente femminino ed infantile, rinchiudeva un carattere maschio, formato al contatto assiduo di un uomo forte, di un pensatore. Ella non andava a tastone nella scelta dei mezzi. Si cacciava dritto nei più energici e nei più sicuri; perchè, in tutto, la non guardava che il segno. In un fatto così grave, quale l'arresto di suo fratello, nulla le sembrava male; perocchè la conoscenza del bene e del male è un risultato di analisi psicologica, ed ella considerava quella disgrazia unicamente col cuore.

In mezzo a quella solitudine ed a quell'abbandono universale, Bambina scorgeva bene una luce,—la sola, l'ultima che fiammeggiasse ancora all'orizzonte,—ma ella ne torceva lontano lo sguardo. L'aiuto del gesuita le era assicurato; ma il P. Piombini metteva a quell'aiuto un prezzo che le ripugnava di pagare. Nondimanco, malgrado la sua volontà, il suo pensiero ritornava sempre a quell'uomo, il quale l'aveva già sì profondamente impressionata, e che era oggimai la sola áncora di salute nel finale naufragio. La ragione gliela mostrava; il cuore la respingeva. D'altronde, l'ora del giorno era già troppo avanzata per trovare il gesuita al suo confessionale. Ad ogni evento, ella non avrebbe voluto vederlo che colà, ove l'uomo era limitato nelle sue intraprese dal luogo e dal mondo circostante.

Bambina ritornò presso lady Keith, ma meditando. Ella discuteva contro la sua ragione e contro la necessaria forza delle cose. La potenza del mondo morale risiede nel sentimento; ma nessuno dei suoi teoremi resiste alla ragione concentrata e persistente. Bambina subiva questo interno combattimento. Tutto ciò che suo fratello le aveva detto, quella sera in cui egli accampò la sua teoria della necessità dell'infamia, le rivenne alla mente, e ciò che allora le era sembrato mostruoso, le sembrava adesso semplicemente fatale. Il dogma della riabilitazione, sanzionato dalla Chiesa cattolica commerciale, vergognoso un dì per lei e per suo fratello, si presentava in questo momento circondato dell'aureola della carità. Ella resisteva contro la necessità della caduta, ma attestando quella necessità.

Lady Keith le dimandò con un interesse assai freddo, ciò che la avesse appreso a Napoli sull'incarceramento di suo fratello. Bambina rispose con una parola: nulla! Lady Keith non insistè oltre. Bambina ebbe il tatto di non soggiunger altro. Ma quell'indifferenza della sua protettrice pesò sulla discussione che seguiva il suo corso nella sua coscienza. Forse, un motto di tenerezza l'avrebbe rischiarata, mostrandole un sentiero in quel deserto ove ella viaggiava orientandosi sulle stelle.

Lo spirito di Bambina era aggrandito, e quindi ella non dava che un valore assai minimo a quelle convenienze sociali, le quali non avevano per base che dei pregiudizi. Il vizio e la virtù erano divenuti per lei assolutamente sinonimi di bene o di male: non male, non vizio! L'istinto contestava, in parecchie occasioni, questa teoria; il sentimento femminile sopratutto protestava ed allegava numerose eccezioni. Ma in tutti i fatti fisici e psicologici vi sono le circostanze attenuanti e le ragioni determinanti. Ciò turbava Bambina. La quistione d'altronde era terribile. Poteva dessa lasciar suo fratello in un fondo di muda, farlo forse condannare al bagno, a morte, quando un sol bacio sarebbe forse bastato per salvarlo e per ornargli forse anco la testa della mitra episcopale? Tutta la sua logica si svolgeva e si spossava su questo problema.

La notte intera non chiuse palpebra. Laonde, appena l'alba spuntò, la uscì nel giardino, e dall'alto delle mura della villa che dominano la Riviera di Chiaia, contemplò lo spettacolo miracoloso del golfo di Napoli e l'aurora. Il mare le sembrò come un immenso cratere di vulcano, ove la lava rossa e scintillante ribolle,—quale la terra dovette essere quando si distaccò dal sole o da qualche altro pianeta. Un vapor bianco, leggermente tinto di violetto, addolciva quelle fiamme rutilanti. Il Vesuvio, la costa che si stende fino a Sorrento, le isole, le apparivano come dei punti e delle linee bagnate di violetto. Un firmamento di cobalto, trapunto ancora di qualche stella in ritardo, copriva quel mondo ignoto come un oggetto di curiosità sotto una campana di cristallo. Tutto respirava l'infinito. Il susurro lontano della vita che si risveglia aggiungeva una nota all'armonia. La rondine, questa piccola fregata dell'aria, chiamava il mondo alato che si sparpagliava nello spazio, come uno scrigno di gioielli rovesciato. Quello spettacolo, quella presenza, quella vita del mondo della luce calmarono Bambina. I suoi pensieri presero un altro colore. Dei nuovi elementi intervennero, all'appello, in quella disperanza; il mondo esteriore s'impose alla considerazione delle intime passioni.

Bambina vagava così pel giardino, provando un sollievo considerevole, quando il cancello ferrato che dava sulla strada si aprì ed il P. Piombino entrò. Essi si videro reciprocamente. Bambina, per evitarlo, volse il passo verso il boschetto del padiglione. Inutilmente. Il gesuita andò dritto a lei.

Il padre Piombini, che l'aveva attesa per delle settimane, che l'aveva forse cercata con ansietà ineffabile, non era disposto a lasciarla ire ora che l'aveva ritrovata. Avendo fatto sorgere a disegno, il dì innanzi, nella sua conversazione con lady Keith, un incidente che esigeva una risposta il dì seguente, egli veniva a portargliela, e veniva precisamente ad un'ora, in cui la vecchia matrona essendo ancora a letto, e' poteva dimandar di Bambina per fargliela comunicare, e così parlare con lei.

—Perchè mi fuggite? diss'egli. Ho fatto io nulla che possa giustificare la vostra paura? Ho avuto forse torto di rivelarvi la storia sinistra che si svolge nel mio cuore; ma non spetta a voi rimproverarmi la mia sventura con la vostra attitudine. La mia anima sanguina altrettanto che il cuore. Oh! non siate senza pietà per coloro che soffrono! Quando Iddio c'infligge queste miserie, egli ha i suoi fini secreti che concorrono all'opera della sua provvidenza e della sua misericordia. Non insorgete contro Dio.

—Padre mio, rispose Bambina arrossendo, ciò che voi dite è forse esatto; perocchè io discutevo in me stessa, in questo momento, se non andrei a vedervi in giornata. Una grande sventura si abbatte sul mio capo.

—Che sventura, figliuola mia?

—Mio fratello è arrestato.

—L'ho appreso ieri. Lady Keith me ne informò, ed io veniva appunto a portarle una risposta.

—In nome del Dio del cielo, signore, gridò Bambina, ditemi ciò che avete saputo su questa catastrofe.

—Una cosa sola, ma assai grave: vostro fratello è stato arrestato per ordine del conte di Altamura che fa la polizia secreta del re. Allora, il male è irreparabile.

Bambina si lasciò cadere sur un banco di pietra: si sentiva svenire. Il padre Piombini restò in piedi innanzi a lei.

—Abbiate coraggio, figliuola mia, continuò il gesuita. La redenzione arriva sempre quando la perdizione sembra irrimediabile.

—Ma voi dite che il male non ammette riparo, disse Bambina, con voce soffocata nelle lagrime.

—Questa è la risposta che io porto a lady Keith. Alla sorella del condannato io potrei forse, per carità cristiana, fare intravedere qualche speranza. Io non scorgo ancora nulla di chiaro. Non ho avuto ancora il tempo di riflettere a checchè si sia. Non ho potuto interrogare alcuno. Ma la sperienza della vita m'ha insegnato a non disperare giammai. La mia confidenza in Dio m'impone di non dubitare di lui.

—Padre mio, Dio e la polizia non vanno insieme, osservò Bambina. Gli è il conte di Altamura che ha fatto arrestare mio fratello; gli è a lui che mi rivolgerò.

Questa risoluzione turbò il gesuita.

—Figliuola mia, il conte di Altamura porta un altro nome che io non vi ho detto ancora. Gli è più facile di arrivare al re che a quest'uomo, di cui s'ignora la dimora, che è dovunque ed in nessun sito. Una giovinetta come voi non bazzica in quel mondo di banditi e di spie, il cui solo fiato contamina e corrompe. Rinunziate a cotesta idea, irrealizzabile del resto. Quella gente non ha orecchio per la parola dell'innocenza. Essi vi prometterebbero, vedendovi così bella e così ingenua, vi strapperebbero un prezzo inestimabile per una promessa che non terrebbero; voi sareste vituperata ed infelice per nulla, forse anche per accelerare la fine di vostro fratello, il quale potria un giorno divenire un vendicatore.

—Ma che volete che io faccia allora? urlò Bambina alzandosi.

—Lasciatemi riflettere, riprese il gesuita. Venite a vedermi. Io avrò avvisato fra un giorno o due, quando sarò meglio ragguagliato.

Bambina rigettò i suoi capelli dietro la testa, levò la fronte, fissò del suo sguardo gli occhi umidi del padre Piombini, lo prese per la mano con veemenza, e sillabando le parole sclamò:

—Il dado è gittato! Io, io ho avvisato di già. Scegliete: la vostra anima per il mio onore.

Il gesuita ritirò la sua mano dalle mani di Bambina e rinculò. Egli non si attendeva punto ad essere addossato così a questo dilemma del destino. Bambina era trasfigurata: ella si rizzava innanzi a lui come l'angelo della riparazione eterna. E' cercava avvolgerla. Ella spezzava le sue perfide maglie d'un fendente del suo formidabile sentimento del dritto e della giustizia.

—Che volete voi dire, figliuola mia? balbettò il gesuita impallidendo, combattuto tra il desiderio e la paura, tra la speranza e l'impotenza.

Bambina si guardò intorno per assicurarsi se fossero ben soli, se alcuno non li ascoltasse. Le finestre della casa erano quasi tutte chiuse ancora, ed i pochi domestici in piedi si occupavano già dei cani.

—Non è qui che io avrei voluto parlarvi, soggiunse Bambina, ma al vostro confessionale. Però siccome voi avete intavolata questa conversazione terribile, esauriamola, per arrossirne sempre e non ritornarvi mai più.

—Non vi esaltate, mormorò il gesuita. Voi mi fate intravedere il paradiso; non lo velate, ve ne scongiuro a ginocchio, con la caligine del delirio.

—Io rumino questa catastrofe da ieri in qua. Ho tutto considerato. Mi sono piagata il cuore, il corpo, l'anima, a tutti i rovi della situazione. Ciò che vi propongo è la belletta di tutti i miei ragionamenti svaniti. La logica della disperazione ha parlato. Voi mi volete? prendetemi….

—Che?

—Ma io vi voglio; io vi tengo. La posta al giuoco sono la libertà e l'esaltazione di mio fratello. Ei mi diceva un giorno, in un accesso di disperazione, quando un uomo domandava la mia mano per vendermi, che in questo paese infame tutto si traffica e che si traffica di tutto; ma che i valori i più apprezzati erano la coscienza, l'onore, l'oro.

—Vostro fratello aveva ragione.

—La mia coscienza non ha corso in questo affare. La vostra ha un prezzo inestimabile. Non voglio dell'oro vostro per comperare quei miserabili. Ciò che vi domando, ciò che vi abbandono, non si tariffano a ducati. Se io toccassi un valore materiale qualunque, mi disprezzerei, mi ucciderei…. giammai voi non tocchereste la punta di un mio dito. L'onore vuole l'anima: esse si valgono. Io vi dimando la vostra anima.

—Ma che posso io fare insomma?

—Avete voi un secreto di Stato a rivelarmi?—uno di quei secreti, il cui silenzio o la cui rivelazione possono valere a mio fratello la libertà da prima, poi la promessa d'un vescovato?

—Ma voi dimandate più che la mia anima, figliuola mia, voi dimandate la mia vita.

—E voi dunque? Come? voi avete potuto pensare un solo istante che dandomi a voi come il salario di un servigio reso, che uscendo dalle vostre braccia affranta, vituperata, degradata, annientata, io vivrei, io avrei potuto vivere un sol giorno, un'ora sola? Eh! disingannatevi, signore. Il vostro ultimo bacio porterebbe via seco l'ultimo soffio della mia vita.

—Io non potrò dunque sperare giammai d'essere amato da voi?

—Io ho amato, io amo forse ancora un altr'uomo, il quale mi ha rigettata lungi da lui come un'onta, non più tardi che ieri. E' non sarà dunque giammai a me, lo volesse egli un giorno, me ne supplicasse col viso nel fango. Se voi vi foste presentato a me, senza quell'orrida spoglia di monaco, da uomo, da marito, forse il vostro amore mi avrebbe toccato; perchè il vostro accento disperato m'ha commossa. Ma tal che voi siete, nelle condizioni in cui il mercato è posto, voi mi fate orrore. Io mi do a voi, ma come un prezzo. Io ho il dovere di salvar mio fratello, che è stato per me tutto: luce dell'anima e madre! Non mi venite quindi a parlare della vostra vita, della vostra coscienza, del vostro non so che altro. Io vi abbandono tutto; io esigo tutto.

—Ma io non conosco alcuno di quei secreti di Stato di cui voi vi fate un talismano onnipotente.

—Allora, sbarazzate la mia via della vostra persona. Che m'ho io a fare di voi? Servir di origliere alla voluttà di un gesuita? Puah!

—E se io non fossi un gesuita, se io risorgessi il conte Bonvisi? Se facessi di voi la mia consorte? Se vi conducessi lungi di qui, in Francia, in America, in Inghilterra….

—Non cercate d'illuminare le sordide tenebre del presente con gl'irradiamenti dell'avvenire. Aggiornereste voi dunque la ricompensa del vostro servigio?

—Impossibile, gridò il gesuita, impossessandosi delle mani di Bambina e bruciandole del suo contatto. Io vivo di questo amore. Perchè io mi abbia forza di compiere la mia trasformazione, gli è mestieri che io sia sostenuto da questo elisir della vita. Voi non v'immaginereste giammai la devastazione incalcolabile che avete portata in me da sei settimane che vi conosco. Voi avete messo il fuoco al ghiaccio. Io amava quasi il mio stato, benchè me lo avessero imposto. Io ne compievo i doveri. Vi attingevo lo splendore che il mondo mi aveva rifiutato in un'altra sfera. I miei confratelli erano pieni di riguardi, anche per le mie debolezze. Quest'ordine, cui si calunnia tanto, aveva delle tenerezze di madre per i miei stessi smarrimenti. Tutto ciò mi è odioso al presente. Io divengo idiota. Io tradisco il mio ordine, nascondendogli dei fatti, degli attentati che potranno sconvolgere l'Italia, nella speranza che la società di Gesù sia spazzata dall'uragano e che io ritorni alla libertà. Voi avete fatto di me un miserabile. Voi mi domandate l'impossibile, e voi mi parlate ancora di… aggiornamento!

—Allora non mettete in conto l'avvenire e non favellate di amore. Sapete voi solamente cosa sia l'amore?

—Ahimè! nol so che troppo. Ma voi non considerate dunque che, domandandomi un secreto di Stato, a me, gli è un secreto di confessione, forse, che voi mi chiedete?

—Giustamente perchè lo so, v'indirizzo questa dimanda. Voi non siete certo nè ministro nè re. Ma voi siete il depositario di tante indiscrezioni, di tante rivelazioni; voi ascoltate tutti i gridi delle coscienze ulcerate o dubbie; voi sorprendete, senza ch'altri lo immagini, tanti pensieri sprofondati nelle sentine dei cuori; voi analizzate tanti fatti che, dai briccioli di tutti codesti echi, potete costruire l'edifizio di cui ho d'uopo per dar la scalata alla sorte.

—Ma tutti quei secreti sono inviolabili, figlia mia.

—Che? voi domandate l'onore di una giovinetta, e voi trovate che vi sia ancora qualche cos'altro d'inviolabile? Voi siete allora infame a freddo, ipocrita, o stolido. Continuate la vostra via, mio Reverendo, ed impiccatevi se mi amate. Voi non mi avrete giammai.

—Bambina, figliuola mia, riflettete….

—Basta. Questa conversazione mi ha di già prostituita. Io mi fo orrore a me stessa del linguaggio che tengovi, delle questioni che mi pongo da ieri in qua. L'angelo della mia fanciullezza mi ha abbandonata, dopo che io sono a dibattere il modo della mia infamia. Non è dunque abbastanza? Voi gustate dunque la contaminazione della mia anima prima di pascervi del mio corpo; che insistete tanto ancora sul mercato? Partite. Che non vi vegga più giammai. Io riferirò a lady Keith il vostro messaggio, e…. siate maledetto, voi che avete, il primo, deflorata la mia innocenza.

Bambina proruppe in lagrime e si slanciò nel viale per fuggire. Il padre Piombini la tolse nelle sue braccia.

—Tu non sospetti neppure, figliuola, la grandezza del sacrificio che m'imponi.

—Ed il mio dunque? l'interruppe Bambina.

—Io lo valuto, continuò il gesuita, e non esito più. Vieni a vedermi domani. Io avrò riflettuto. Io avrò trovato forse ciò che può condurti al tuo scopo senza cagionare dei disastri incalcolabili. Noi giuochiamo forse i destini d'Italia contro un bacio. Tu vedi ciò che vale codesto bacio. Se non si trattasse che semplicemente della mia vita, la mia coscienza non avrebbe impallidito un sol minuto. Ma… infine, tu ignori tutto codesto, figliuola; tu balocchi con la testa di un pazzo. Non ci pensiamo più. Vieni domani. Noi saremo più calmi.

Egli baciò castamente Bambina sulla fronte e si diresse verso la palazzina per parlare a lady Keith. Le finestre della sua camera da letto erano aperte.

Bambina sembrò atterrata della sua vittoria. Ella ne abbracciava adesso tutta la portata e tutti i doveri. La giornata e la notte che passò furono più agitate che quelle della vigilia. Lo specchio le faceva paura, mostrandole una bellezza di cui ella aveva fatto una mercanzia. Ella sapevasi venduta di già, si considerava come non appartenentesi più. Tanti vezzi, tanta giovinezza, una vita sì immacolata, strangolate così, e perchè? Perchè! come il suo debito verso suo fratello le sembrò piccolo alla fine; quanto la portata del suo dovere era stata esagerata! Don Diego non avrebbe giammai consentito a questo scambio infame. Il termometro del cuore non sale giammai sì alto per il calore dei sentimenti che sotto il soffio delle passioni. Nondimeno, quando l'ora di recarsi al Gesù Nuovo scoccò, Bambina vi si rese, e trovò il padre Piombini installato di già nel suo confessionale e circondato da penitenti.

Bambina aspettò il suo turno, non senza qualche intimo scoraggiamento. Più d'una volta la fu sul punto di fuggire dalla chiesa. Eppure restò. Ah! se avesse ella avuto un poco di amore per sostenerla! Ah se quel balordo del barone di Sanza non l'avesse così stupidamente indispettita! Ma no, ella era sola. In questo vasto mondo, non vi era che una creatura che l'amasse ancora, l'amasse fino al delirio, quantunque sì tristamente esigente. Ella s'inginocchiò al confessionale ed ascoltò il padre Piombini.

Questo disgraziato non si difendeva più. E' non provò neppure di lottare. Egli comunicò a Bambina un secreto, cui teneva da lady Keith, che era conosciuto solamente da un altro uomo: il barone Colini. Poi e' disse alle altre persone che aspettavano per confessarsi ch'egli era indisposto, e lasciò il confessionale.

Bambina non ebbe la forza d'uscire dalla chiesa. La sua catastrofe era compiuta. Ella teneva già in mano il prezzo del suo onore: bisognava pagare adesso. Pagare? Orrore!

XVII.

Ma! se gli ambasciadori pure se ne mischiano!

Non era poi tutto il possedere un secreto di Stato; bisognava sapersene servire. Un congegno di guerra è una forza quando lo si sa adoperare: un cannone d'acciaio a retrocarica, nelle mani di un selvaggio è un imbarazzo.

Bambina si trovò dunque singolarmente imbarazzata quando ella fu in possesso di quell'arma, di cui suo fratello aveva con entusiasmo celebrato l'efficacia.

Per mettere in moto quella batteria occorreva arrivare fino al re stesso; perocchè e' sarebbe stato forse inutile, forse pericoloso, rivolgersi ai ministri.

Il P. Piombini si era sentito male dopo ch'egli ebbe affidato a Bambina quel terribile sésame ouvre-toi, e da due giorni non discendeva più al confessionale. Ella non poteva dunque dimandargli consiglio. Ella non concepì neppure l'idea di consultare lady Keith, la quale avrebbe certo domandato di penetrare più addentro in quel mistero e l'avrebbe probabilmente sventato. Bambina aveva giurato di non più vedere il barone di Sanza. Ella non aveva giammai visto certe altre persone di cui suo fratello le aveva ragionato: il farmacista Don Grazioso, ed i due amici del marchese di Tregle: il barone Colini e Don Gabriele, che vivevano con lui, in casa di lui. La natura della comunicazione che ella aveva a fare l'obbligava a vedere gli uomini della reazione, cui ella aveva in orrore.

Bambina non era una donna politica.

La donna politica è un aborto di uomo, sovente una donna abortita o una virago che si appropria tutto ciò che il sesso forte ha di più lurido: la crapula, il tabacco, l'assisa, gli andamenti scompigliati, le dottrine fantastiche e velenose, gli odi antisociali, gli entusiasmi balordi, i feticismi ridicoli…. La donna è aristocratica per diritto divino. La sua fibra fina e nervosa, suscettibile unicamente di due crisi: l'esaltamento e l'abbiosciamento, la rende propria ad essere signora o schiava, regina o cortigiana. Ella non è tagliata per la libertà, che è l'equilibrio. Nel focolare domestico, la donna è regina; fuori di lì ella è essenzialmente cortigiana. Ove? quando la donna è libera? Ella è dunque per istinto partigiana del despotismo. Per collera, per vanità, per interesse gualcito, per ambizione calcolata, per amore, talvolta pure per educazione scelta, la donna può appassionarsi per le libere forme del governo e per un più savio organamento sociale. Tuttavolta, questo stato fittizio e sovraposto non modifica la sostanza della sua natura, ma la modalità della manifestazione. L'organo della libertà è il cervello, e propriamente i lobi cerebrali, sede dell'intelligenza e della volizione, secondo Flourens. La donna…. ha un altro organo.

Bambina aveva sovente udito parlare di politica da suo fratello, dal conte di Craco, da Tiberio; ma non si era formata una idea precisa della libertà se non quando avea visto il vescovo Laudisio e la polizia interdire a suo fratello il diritto di vivere. Ella avea allora compreso il despotismo come fatto, ma il suo spirito non si era fermato a scandagliare il despotismo come diritto. Di guisa che ella brancolava in un caos ove i principii si urtavano ed ove il compromesso delle idee monarchiche costituzionali le sembrava poco sicuro ed illogico. La sensazione è sempre più logica che la riflessione. Non conoscendo al giusto ciò che i patrioti volessero, ella non si passionava per loro, e non pesava per conseguenza l'atto cui andava a compiere in vista puramente di un interesse di famiglia. Se ella avesse meglio capito, si sarebbe certamente astenuta. No; ella non avrebbe giuocato il suo onore, la sua vita, i destini d'Italia, come le aveva detto il P. Piombini, contro qualche mese, sia pure qualche anno di prigionia di suo fratello. L'ignoto la terrorizzò.

Bisognava nonpertanto agire. Bisognava ad ogni costo giungere fino al re. Ella aveva dapprima pensato di rivolgersi alla regina. Ma aveva udito parlare con tanto risentimento contro la durezza, l'albagìa, la cattiveria di quell'austriaca, sì fatale ai Borboni di Napoli, che Bambina si spaventò di trovarsi alla presenza di lei. Preferì il re, cui dicevano più accessibile, assai pio, plebajuolo. Ma in che modo prendervisi? Ella ignorava come si dimandassero le udienze: in ogni caso prevedeva d'istinto che anche ottenutala, quell'udienza, l'audizione sarebbe stata ritardata. Ed infrattanto suo fratello soffriva e la sua sorte si decideva forse. Una parola, cui colse al volo in una conversazione degli amici di lady Keith, le servì d'ispirazione.

Si parlava di una manifestazione che aveva avuto o doveva aver luogo contro l'ambasciatore d'Austria principe di Schwartzemberg, cui si considerava come l'istigatore principale della reazione e della resistenza del re ai principii più liberali che cominciavano a farsi giorno anche a Roma! Lady Keith odiava il principe austriaco, considerandolo come l'autore dell'ostilità cui la Corte di Napoli mostrava allora a Pio IX—al Pio IX di fantasia che avevamo fabbricato nel 1847 pel bisogno della nostra causa. Ed a causa di ciò l'antipatia di lady Keith pel re erasi aumentata. Si rallegravano dunque dell'insulto che l'inviato del principe di Metternich stava per ricevere. Non era cotesto un indicare a Bambina l'uomo a cui ella doveva rivolgersi per penetrare fino al re! In ogni caso, le sembrò più facile di abbordare il principe di Schwartzemberg che Ferdinando II.

Gli amori di questo principe con una dama napolitana avevano fatto un certo strepito. Lo si diceva uomo grazioso, che lasciavasi facilmente avvicinare, non altiero che con i suoi pari, cavalleresco verso le donne. Forse se ne esageravano i difetti, le qualità, l'importanza. I popoli schiavi portano sempre gli occhi armati di lenti di ingrandimento. Comunque si sia, Bambina si decise a domandarle un'udienza.

Ella si presentò al palazzo dell'ambasciata alle dieci. Le si domandò cosa chiedesse.

—Parlare al signor ambasciatore.

—Sua Eccellenza è uscita a cavallo, rispose il lacchè.

—Aspetterò.

—Se è per affari dell'ambasciata, bisogna rivolgersi alla segreteria, al pian terreno, a sinistra.

—Mi occorre di parlare direttamente e personalmente al principe.

—Avete voi una lettera di ammissione o di raccomandazione?

—Non ho proprio nulla. Ma debbo intrattenerlo di cose, che non possono essere comunicate se non a lui solo.

—Noi conosciamo cotesto. Tutti i mendicanti che vengono ad importunarci per delle limosine hanno a favellare direttamente con Sua Eccellenza.

—Io non vengo a mendicare, signor lacchè. Vi ripeto che ho una comunicazione grave da fare al principe.

—Diavolo! diavolo! borbottò il lacchè, o che le damigelle della borghesia si mischino anch'elle della partita?

—Io non vi comprendo.

—L'è proprio vero? Il principe riceve molte donne. Le une, per….. voi sapete? le altre per affari di Stato. Voi siete una bellissima donzella, è vero. Lavorate voi per…. conto vostro, o per conto dello Stato?

Bambina arrossì e non rispose. Si assise. All'istesso momento si udì uno strepito di cavalli nella corte, poi un rumore di passi nelle scale.

—È Sua Eccellenza, gridò il lacchè: tiratevi da banda.

Bambina, al contrario, si precipitò verso il ballatoio, e gridò:

—Signore ambasciatore, sbarazzatemi, di grazia, dalla petulanza dei vostri domestici. Ho bisogno di parlarvi, all'istante da solo a sola, per interessi considerevoli.

Il principe di Schwartzemberg si fermò di corto e squadrò attentamente la fanciulla, cui l'animazione rendeva più bella. E' fu colpito dalla voce, dal sembiante, dal contegno, dall'accento, dalla voltura della frase, dalla limpidità cristallina dello sguardo, dall'emozione ch'ella manifestava.

—Entrate, signorina, disse egli infine, salutando pulitamente Bambina.

Una doppia siepe di lacchè incipriati e gallonati salutò fino a terra. Il principe precede, aprendo la porta per lasciar passare Bambina. Essi traversarono così parecchie sale e saloni ed arrivarono al gabinetto particolare del principe. Bambina non vide nulla, non guardò a nulla. Si fermarono in quella stanzina, che non aveva altre porte. Bambina, senza esservi invitata, si lasciò cadere sopra un canapè. L'emozione l'aveva spossata.—Il principe di Schwartzemberg si assise a fianco a lei, all'altra estremità del canapè e si scoprì rispettosamente.

Vi era nell'aria di Bambina qualche cosa di così serafico che imponeva. Impossibile di supporre in lei la minima cosa di equivoco e di vergognoso. La trasparenza de' suoi occhi riproduceva le più piccole ondulazioni del suo cuore. Il meno osservatore avrebbe affermato, vedendola, ch'ei non aveva a fare con una avventuriera. Poi Bambina possedeva una di quelle bellezze fulminanti che paralizzano l'anima come la scossa della torpedine: si restava da prima abbarbagliato, poi fascinato. Il principe la contemplava senza interrogarla, per paura di vedere l'apparizione dileguarsi troppo presto, e per rispetto. Bambina dal canto suo, vivamente imbarazzata, tacevasi, attendendo per deferenza che l'ambasciadore le avesse diretta la parola.

—Signorina, disse infine il principe di Schwartzemberg per venirle in aiuto: a chi ho l'onore di parlare?

—Signore ambasciatore, rispose Bambina, il mio nome non vi apprenderebbe nulla quando lo avreste conosciuto. Io sono una povera creatura di provincia, cui non chiamano neppure per il suo nome di battesimo, perchè non mi conoscono che con il soprannome di Bambina.

—Nome delizioso! sclamò il principe.

—Ho insistito per vedervi, signore, continuò Bambina, perchè voi solo potete, senza ritardo, introdurmi appo il re.

—Appo il re?

—Gli è a lui ch'io debbo parlare.

—Ma di che si tratta signorina?

—Signore, vi scongiuro di non interrogarmi. Io ho un'intera confidenza in voi; ma voi non potete ciò che puote il re.

—Evidentemente. Nondimeno, per presentarvi a S. M. bisogna che io mi sappia chi io presento, per quale affare io commetto questa grave infrazione alle regole diplomatiche.

—Ecco appunto ciò che è impossibile, signor principe. Per una conseguenza triste e formidabile, io mi sono trovata in grado di apprendere un secreto terribile che riguarda la sicurezza della corona. Io non posso rivelarlo che al re, al re per il primo in vostra presenza.

—Ma avete voi un altro interesse, signorina, rivelando questo secreto, oltre il dovere di suddita fedele?

—Senza dubbio, signore. Credete voi che io farei tante istanze unicamente per salvare la corona di un re, che io non conosco, e che m'inspira pochissima simpatia?

Il principe di Schwartzemberg sorrise. Poi soggiunse:

—La situazione cangia allora, signorina. Dappoichè voi non siete un'eroina….

—Chi ve lo dice, signore? interruppe Bambina con vivacità. No, io non sono una eroina realista. Ma se voi sapeste ciò che questo secreto mi costerà, voi fremereste ed avreste pietà di me. Voi non ammettete dunque l'eroismo che in una sola sfera?

—Perdono, no, signorina. Ma l'eroismo si rimpicciolisce, se non scompare affatto, quando diviene un oggetto di scambio. Ora, ei mi sembra, se ho ben capito, che voi avete qualche cosa a dimandare al re come prezzo di codesto terribile secreto. E, dapprima, che sapete voi che codesto che voi possedete sia proprio un secreto, e che quel che voi credete tale non fosse da noi conosciuto?

—Voi nol conoscete, voi non sapreste neppur sospettarlo. Se poi io mi inganno, ebbene, me ne rimetto alla vostra coscienza, rigettate le condizioni che io propongo.

—Quali sono almeno codeste condizioni?

—Non posso neppur dirvele. Le apprenderete alla presenza del re. Ma, ve ne supplico, non insistete per istrapparmi ciò che ho il dovere di custodire. Io non domando nulla per me. La grazia che otterrò per un altro è un decreto di morte per me. Lo vedrete! voi potete confidarvi a me.

La proposizione di Bambina aveva qualche cosa di così strano, ma altresì di così ingenuo, di così innocente, di così convinto, che il principe di Schwartzemberg restò perplesso. Aveva egli a fare con una Madonna o con una intrigante, commediante perfetta? Egli osservò Bambina con attenzione più concentrata, ed esitò ancora.

—Ciò che voi domandate, signorina, soggiunse egli, è impossibile. Non si presenta al re dei logogrifi. Ciò che potrebbe, tutto al più, un ministro della polizia, in vista della sicurezza pubblica, non se lo può permettere il rappresentante di una potenza estera. Io ho dunque il rammarico di rifiutarvi il mio concorso.

Bambina si alzò. Ella era divenuta pallida ed i suoi occhi navigarono nelle lagrime. Vedeva le sue speranze naufragate, e non un'altra vela all'orizzonte. Aver tanto osato! aver compromesso tante cose sante! calpestato la sua anima ed il suo pudore per metter capo ad uno scacco! Ella aveva i brividi di avere a ritornare al gesuita, e di fargli delle nuove concessioni.

—Perdonatemi, signore, balbettò Bambina con voce soffocata. Io non sospettava la serietà degli ostacoli che intravedo adesso. Non so che farò. Possiate non rimpiangere di non avermi esaudita.

—Signorina, disse il principe, alzandosi a sua volta, vogliate comprendermi bene. Io non insisto per sapere il vostro secreto nè ciò che vogliate in ricambio domandare al re. Ma infine indicatemi, ve ne prego, con quale formola bisogna che io supplichi S. M. di ricevervi!

—E voi, ambasciatore di una grande potenza, dimandate ad una povera creatura di provincia una formola di corte per compiere un atto di sì alta gravità? sclamò Bambina. Io ho sempre udito, nel mio casale, che il motto: salvezza dello Stato! era magico nella bocca dei ministri. Come noi ignoriamo tutto ciò che si attiene ai nostri padroni!…

—Ahimè! se re Ferdinando fosse un uomo da capire la divina poesia della bellezza, io avrei stuzzicata la sua curiosità dicendogli che se egli non apprendesse nulla di nuovo, egli avrebbe per lo meno visto nella sua vita la forma più ideale del bello muliebre. Ma S. M. non comprende che le celesti bellezze della santa Vergine, passando per la bocca lipposa del suo confessore. In fine, io vado ad intrigarlo col mistero lavandomi le mani e lasciandolo giudice se egli debba o no ricevervi. Volete, signorina, farmi l'onore di ritornare qui domani o di lasciarmi il vostro indirizzo?

—Ritornerò. Io abito in casa di lady Keith, al Vomero. Ma, ve ne scongiuro, non mandatemi a cercare: io vi ricevo un ricovero caritatevole.

—In casa di lady Keith? gridò il principe di Schwartzemberg. Comprendo alla fine. Il re vi riceverà senza fallo. Io ve lo garantisco. Forse vorrà desso vedervi stassera stessa.

—No, stassera. Io non avrei alcuna scusa per allontanarmi dalla villa la notte.

—Un'ultima parola, e ve ne prego vogliatemela perdonare. Vi è in tutto codesto qualche cosa di cui avremmo ad arrossire? Una macchia ad una stella….

Bambina si coprì il viso colle mani ed interruppe il principe con un singhiozzo.

—Io non sono una spia, gridò essa. È un sacrifizio di morte che io perpetro e non un'azione infame. Ma al postutto, io non ne so nulla. Io pago un debito…. Se fo del male a qualcheduno, gli è che io non posso altrimenti scongiurare il pericolo d'un altro…. Siate indulgente, signore. Se voi sapeste il decreto fatale che mi pesa sul capo, voi sareste misericordioso come Gesù. No, non mi disprezzate, no: io non sono nè spia, nè venale.

—Scusatemi, signorina, io non aveva alcuno intento di oltraggiarvi. Sono rassicurato. Credo anzi di avere indovinato.

Il principe non aveva indovinato, poichè supponeva che Bambina avesse sorpreso un secreto in casa di lady Keith, cui si sapeva bazzicata da cospiratori, e che la giovinetta se ne servisse per rendere servigio ad un innamorato. Egli accompagnò Bambina fino all'anticamera e tutto il giorno pensò a lei.

Il re, incuriosito dell'istoria che il principe gli raccontò in modo abile, consentì a vedere Bambina, dopo aver fatto, ben inteso, una certa preghiera, per dimandare l'ispirazione divina. Egli confessò più tardi al principe che la memoria di Carlotta Corday aveva traversato il suo spirito, non ben nudrito di storia pertanto. Fu dunque convenuto che il dì seguente il re si sarebbe recato a Capodimonte e che quivi, incontrando come per caso il principe di Schwartzemberg, questi gli avrebbe presentato la giovinetta. Il principe si astenne bene dal parlare a S. M. della stupenda bellezza della spiona; egli aveva paura di allarmare la pietà di questo sovrano che credeva la bellezza soppannata sempre di uno strato di ovatta diabolica. Il principe fece brillare innanzi agli occhi del re la circostanza della dimora della giovinetta, fin là restata sempre impenetrabile agli agenti della polizia napoletana ed a quelli della diplomazia austriaca.

Il re, dal lato suo, era felice di apprendere qualche cosa, non avesse pure la gravezza che le attribuiva Bambina, un poco per paura della sua personale sicurezza, ma principalmente per umiliare il suo ministro della polizia, il quale si vantava di salvarlo, due volte ogni ventiquattr'ore, e si faceva pagare il salvamento.

Ferdinando II era prodigiosamente avaro.

L'indomani, il principe di Schwartzemberg aspettava Bambina con ansietà; e, per esser veri, e' bisogna aggiungere ch'era la donna anzi che la salvatrice, cui egli sospirava rivedere. Bambina giunse alle dieci. La s'introdusse immediatamente. Il principe gridò, scorgendola:

—Il re vi riceverà a mezzodì, a Capodimonte, signorina. Noi abbiamo quindi un'ora da attendere. Cosa posso io per farvela passare aggradevolmente?

—Se io fossi divota, signor ambasciatore, vi supplicherei di lasciarmi sola in un cantuccio del vostro palazzo per pregare.

—E non essendo divota?

Bambina sorrise dell'interruzione, e ripigliò:

—Ahimè! non essendo divota, oso dimandarvi in grazia di apprendermi come si parla ai re.

—Ai re, è una cosa; a Ferdinando II, è un'altra. Vi dirò dunque in vettura come avrete a comportarvi con quella maestà.

Un'ora dopo, un coupé colle bendinelle abbassate, senza stemmi, col cocchiere senza la livrea del principe, volava lungo la strada di Toledo verso Capodimonte.

A quell'ora stessa, il padre Piombini si recava da lady Keith, per accattare uno sguardo di Bambina e respirare l'aria imbalsamata dal fiato di lei; e Don Diego, il disgraziato Don Diego, passava per le prove più spaventevoli della sua vita.

XVIII.

Diamo un tonfo nell'inferno.

L'ho detto: Don Diego era stato arrestato alla dimanda di monsignor Cocle. Don Domenico Taffa vedendo i suoi progetti rovesciati, aveva dato a credere al confessore patentato di Sua Maestà, che il prete provinciale li aveva corbellati ed aveva gittata sua sorella nelle braccia del padre Piombini.

Monsignor Cocle aveva di già dell'odio cumulato contro il gesuita, cui si proponeva al re come direttore della sua coscienza reale, meno male in fama che l'attual direttore. La regina, che l'aveva conosciuto a Vienna come ministro del duca di Modena, l'aveva di già consultato in due o tre circostanze, sopra secreti di anima o di Stato ch'ella aveva voluto sottrarre alla cognizione del vescovo di Patrasso. L'aristocrazia, la gente di corte, andavano, di preferenza, a lavare la loro coscienza dal gesuita, anzi che da monsignor Cocle, ciò che stupiva il re. Ferdinando II cominciava a prestare l'orecchio alle accuse contro il suo vescovo, ed agli elogi del gesuita. Si susurravano da orecchio ad orecchio le buone fortune del padre Piombini appo le dame del gran mondo; mentre che il vescovo di Patrasso asciolveva, pranzava e cenava del suo grossolano pasto ordinario,—la figlia di un fabbricatore arricchito. Quest'ultimo colpo,—il ratto di Bambina,—metteva il colmo a l'esasperazione di monsignor Cocle. Egli ne disse accortamente due parole al conte di Altamura, dapprima per scoprire la bella donzella scomparsa, poi per castigare il frate insolente che gli aveva tirata la coppa dai labbri.

Nè il conte di Altamura nè il marchese di Sora non poterono annasare ove si celasse Bambina. Essi non avevano l'occhio in casa lady Keith, quand'anche i sospetti si fossero portati verso quelle latitudini; Bambina non aveva lasciata traccia della sua fuga; la dama irlandese l'aveva spoglia immediatamente della nera guaina di monaca. Il fulmine ricadde allora in pieno sopra Don Diego. Gli agenti del conte di Altamura lo arrestarono una sera nella strada, lo gettarono in una vettura e lo condussero dritto a S.a Maria Apparente,—terribile prigione preventiva di polizia,—incarcerandolo sotto l'accusa di cospirazione contro lo Stato.

Don Raffaele, il carceriere in capo, lo cacciò senz'altro nella più orribile segreta.

L'arresto fu significato al ministro della polizia.

Il marchese di Sora era di già gelosissimo e profondamente ulcerato della parte importante che il conte di Altamura si attribuiva nella polizia del regno e sopra tutto della parte indipendente che vi si era tagliata. Il re gli aveva accordato di agire al di fuori dell'autorità ministeriale. Perocchè Ferdinando II, diffidando di tutti, aveva organizzato nell'amministrazione lo spionaggio mutuo, non perchè l'amministrazione funzionasse meglio, ma perchè non lo giuntassero nella parte ch'ei prelevava sulle ladrerie e sulle mance dei funzionari. Tutti i ministri gli presentavano questa parte del profitto del brigantaggio amministrativo sotto il nome di risparmio.

Ferdinando II dava, dalla sua parte, venti soldi per una messa e pregava Iddio per la prosperità del suo regno. Egli sapeva che il suo popolo era divorato «fino all'osso», come diceva Richelieu. Egli avrebbe potuto ripetere come il reggente: «Se io fossi suddito, mi rivolterei.» Egli ripeteva come il suo bisavolo, Carlo III di Spagna, quando volle sbarazzar gli Spagnuoli dei gesuiti: «Essi sono come i fanciulli: piangono quando gli si netta!»

Il marchese di Sora mandò dunque un suo commissario per cominciare l'istruzione e sottomettere Don Diego all'interrogatorio. Egli aveva un gran desiderio di presentare al re, anche una volta, un arresto arbitrario, avventato ed avventurato, forse per ragioni private, su falsi dati. Ma gli era mestieri che Don Diego risultasse innocente, dopo le prove più spaventevoli per le quali si farebbe passare. Se Don Diego soccombeva, tanto peggio per lui. E' non si trattava qui della sua innocenza o della sua colpevolezza, ma dell'onore e dei rancori del ministro. Il commissario Gravelli non pertanto era umano e discreto. Il marchese di Sora lo sapeva e contava su di ciò.

La segreta, ove avevano immerso Don Diego, era a cinque o sei metri al di sotto del livello del suolo, praticata in un gomito che faceva la cloaca collettrice di tutte le sentine dello stabilimento. L'aguzzino ed il prigioniero discendevano, mediante una scala mobile, in un corridoio stretto, che corre lungo le segrete scavate nel muro delle fondamenta ove sono le porte. Un piccolo abbaino a cancello di ferro tagliato sulla porta dava aria alla muda. Di luce, non era proposito: le tenebre eterne vi regnavano come sulla pelle del negro. Il prigioniero non vi poteva restare nè in piedi nè coricato: in piedi, egli avrebbe potuto considerarsi ancora come un uomo: coricato, egli vi avrebbe forse trovato la ridente illusione del sepolcro. Un'infiltrazione perpetua di un liquido nero, glutinoso, che avrebbe asfissiato il faro del Molo, sgocciolava lentamente, colla regolarità di una clepsidra, e cangiava il suolo in un fondo di pozzo melmoso ove brulicavano degl'insetti cui l'entomologia non ha ancora classificati. Nelle condizioni psicologiche della vita ordinaria e normale, non vi si sarebbe potuto vivere ventiquattro ore. Ma nell'eretismo dell'anima,—in cui debbe trovarsi naturalmente un uomo seppellito in quell'inferno,—la vita acquista un'intensità sovrumana.

Don Diego vi restò quaranta giorni.

Gli si portava una libbra di pane al giorno ed una brocca d'acqua. Egli viveva, agginocchiato, la bocca costantemente applicata allo abbaino sulla porta. Un buco aperto, in un lato, centuplicava l'infezione. I suoi abiti erano saturati dell'orribile distillato della vôlta. Aveva freddo,—il peggiore dei freddi, quello che viene di dentro, e perciò dal cuore e dalla midolla allungata, che si agghiadano a spese del cervello. Impossibile di distinguere nulla in quel sotterraneo da maiali. Non pertanto, quando le pupille, a forza di aguzzarsi, si erano dilatate come due rosoni da cattedrale, si scorgevano ancora delle orride piccole lucertole giallastre strisciar lungo le parete. Il silenzio—un silenzio da steppe—lo schiacciava. Egli non udiva più, degli strepiti della vita, che il tintinnio cadenzato delle vene delle tempia, e la gocciola di umidità che cadeva. Non pensava più; ma dei vaneggiamenti indistinti, dei delirii, delle allucinazioni, dei briccioli d'idee, delle reminiscenze confuse, delle aspirazioni strangolate, venivano a rompersi sotto la volta del suo cranio, come le onde del mare sulla sponda. Se egli avesse creduto giammai alla spiritualità dell'anima,—di un'anima come un gioiello in uno scrigno,—ne avrebbe dubitato adesso.

Otto giorni dopo essere stato macerato così, non vedendo il secondino che ogni due giorni per qualche secondo, e' fu infine trascinato innanzi al commissario di polizia, in una vasta sala, il cui mobilio lo spaventò.

Egli vedeva delle corde pendere da anelli confitti alla vôlta, delle catene ribadite alle mura, dei cavalletti, dei fasci di verghe, degli arganelli di cui doveva apprendere l'uso, una specie di letto da campo, tutto un arsenale di ferraglia, di fornelli. E' credette un istante che, sendosi addormentato nel XIX secolo, si risvegliasse in una sala di giustizia del medio evo. La sua vista si turbò. Sembrogli un momento che la sua ragione vacillasse.

Per fortuna, sospettando perchè lo avessero arrestato, egli erasi tracciato un piano di condotta dall'ora prima in cui era stato messo dentro, ed egli aveva per così dire solidificato le risposte invariabili che avesse a dare. Senza questa precauzione, egli avrebbe forse divagato e la polizia avrebbe abusato della sua indeterminazione.

Per condurlo innanzi al suo giudice, gli avevano messe le manette, e le avevano siffattamente chiuse che le mani sembravano nere. Una mezza dozzina di birri, dai visi atroci, lo circondavano. Un cancelliere temperava la sua penna per scrivere. Il giorno che filtrava in quell'immenso antro da due alte finestre asserragliate, era magro e sucido; lo si sarebbe detto una nebbia a mezzo congelata.

L'aspetto del signor Gravelli era tetro, quasi triste, ma non feroce. Egli contemplava le sue mani ornate di gioielli, anzi che il prigioniero. Era pietà, disgusto desiderio di non atterrirlo? Aveva egli comprese le intenzioni del ministro, ovvero il marchese di Sora aveva formulato degli ordini? Nol so. Il fatto è che il signor Gravelli compiè la sua missione formidabile senza brutalità.

Don Diego traballava sulle gambe. Il commissario lo fece sedere e gli disse:

—Rimettetevi.

Don Diego si assise un istante per dare equilibrio alla circolazione del suo sangue, poi si levò di un tratto ed esclamò:

—Mille grazie.

—Voi sapete perchè vi hanno arrestato?

—No, signor commissario. Io non lo sospetto neppure.

—Voi cospirate per rovesciar la dinastia e cangiar la forma di governo.

—I miei accusatori hanno mentito.

—Abbiamo delle prove.

—Vogliate dunque schiacciarmene. Ma io dichiaro innanzi tratto che voi non potete averne, ovvero che codeste prove sono false.

—I giudici della Corte Criminale statuiranno sul loro valore. Quanto a noi, la loro validità ci sembra assoluta. Si tratta solamente adesso di sapere da voi quali sono i vostri complici.

—Non cospirando io stesso non posso avere dei complici.

—Tutta la vostra vita di prete e di suddito, pertanto, è un'accusa. Voi siete stato interdetto dal vostro vescovo; voi siete fuggito dal vostro contado.

—La mia interdizione è stata violenta, arbitraria, iniqua, ma di carattere puramente ecclesiastico. I vescovi non sono infallibili, e monsignor Laudisio vive di denunzie. Io ho lasciato Lauria perchè, dopo un simile colpo di fulmine, non potevo più viverci.

—Tutti i vostri amici, tutte le vostre relazioni sono in ostilità collo Stato. A Lauria, il conte di Craco; qui, suo figlio, il barone di Sanza, il farmacista di Foria, il marchese di Tregle…

—Da prima non ho amici, signor commissario. Il conte di Craco è stato il mio protettore, ha comperato la mia casa ed il mio giardino. Il barone di Sanza è un aspirante alla diplomazia. Il marchese di Tregle fu medico della regina Urraca. Io ho conosciuto, per domandar loro soccorso e lavoro, Don Lelio Franco, Don Domenico Taffa, il canonico Pappasugna. Sono anch'essi nemici del governo, questi signori?

—E gli altri?

—Io non conosco più un'anima viva.

—Voi siete stato in relazione con comitati rivoluzionari.

—Io apprendo da voi, ed odo parlar qui per la prima volta, di codesti comitati.

—Il sistema di niego cui adottate non vi servirà gran fatto. Tutti i prevenuti seguono questo metodo.

—Se voi esigete delle affermazioni ad ogni costo e non la verità, bisogna indirizzarvi altrove. Io non ho mentito giammai in vita mia. Io non comincerei ad imbrattarmi di codesta onta in una circostanza così sinistra.

—Guardatevi intorno, signore, e rimarcate che noi abbiamo i mezzi di far parlare i muti.

—Voi avete i mezzi di far delirare nel dolore. Ma e' non è provato che il grido insanguinato che voi strappate ad un'anima spaventata, ad un corpo rotto, sia la verità. In ogni caso, fate di me ciò che volete: io non posso rispondervi su ciò che ignoro.

—Io passo allora a precisare fatti, parole, circostanze.

—Precisate, signor commissario; ve ne sarò riconoscente. Io sono come la natura dei Peripatetici: abborro il vuoto!

Questa calma imponeva già al signor Gravelli. E' rimase in silenzio per pochi minuti, poi disse:

—Vi hanno spedito da Sapri due casse che voi avete ricevute a Lauria. Quelle casse contenevano armi.

—Il guardiano dei cappuccini di Sapri mi ha mandato due casse contenenti camangiari, limoni, aranci, salagioni, qualche libbra di tabacco da fumare e da fiutare, un po' di tela, altri piccoli doni, zucchero, rosolio, caffè. Io ho scritto pel guardiano qualche predica che egli ha recitate nel suo quaresimale a Policastro, con grande soddisfazione di monsignor Laudisio, innanzi a lui ed al suo seminario. Io aveva rifiutato un compenso in denari da quel povero religioso; e si redense con quei regali. In ogni caso se coloro, che asseriscono adesso che le casse contenevano delle armi, ebbero questo sospetto allora, perchè nol parteciparono alle autorità quando era tempo di sorprendermi? Essi furono colpevoli quando si tacquero o sono infami adesso che inventano. Io non sono un trangugiatore di sciabole e di fucili, come i cerretani da fiera; che avrei fatto di quelle armi?

—Le avete celate.

—Ebbene, fino a che non le si saranno trovate, io ho il diritto di proclamare ciò che la mia coscienza mi detta con alta fierezza: mi calunniano!

—Voi avete detto all'arciprete di Lauria: Monsignor Laudisio è una spia, ma non passerà guari e noi gitteremo fuori del regno codesta ed altre lordure: vescovi, ministri, esercito e re.

—Io aspetto che l'arciprete ripeta ciò in mia presenza, e che egli indichi dove, quando, in quale circostanza, in presenza di chi avrei io eruttato simili parole. Ah! signor commissario, mi credete dunque sì goffo, sì idiota, che avendo codeste idee e sì poderosi secreti, io me ne issi a prendere per confidente il più abbietto dei miei nemici?

—Voi siete scaltro in effetto.

—Ebbene, se voi mi fate l'onore di non credermi un gonzo, perchè prendete voi in considerazione codeste inette iniquità?

—Quando don Lelio Franco vi pose in condizione di dare dei buoni consigli ai suoi agenti, voi preferiste rifiutare l'impiego anzi che rischiarar quella gente sulle buone intenzioni del governo.

—Come io so ch'egli è sempre pericoloso parlar di politica e di governo; come non ignoro che la massima di Stato del nostro paese è: de Deo pauca, de rege nihil; come per questa stessa circostanza io scorgo quanto sia facile snaturare i propositi che si tengono, io dissi a quel messer Franco lì, che io voleva andare da lui come contabile e non come institutore, e che, se egli desiderava un impiegato, il quale cumulasse le funzioni di tenere i libri e di propagare le sue novelle, se ne trovasse un altro, perchè io mi reputava incapace di contentarlo.

—Insomma voi negate tutto?

—Io non nego. Io provo la non esistenza delle accuse stesse.

—Tuttavia voi non oserete dire che non conoscete le persone, le quali bazzicano la palazzina di lady Keith.

—Chi è codesta lady Keith, adesso?

—Ve la richiameremo alla memoria.

Il commissario si volse verso uno degli uomini che attendevano nel fondo della sala e gli disse:

—Il torchio.

Il più sdolcinato del gruppo atroce degli sbirri staccò dal muro uno strumento formato di due branche riunite da una chiavarda a vite, terminate alle estremità da due rotelle di ferro come due pezzi da cinque franchi. Quelle due estremità si applicavano alle tempie, e le due branche attaccate alla chiavarda cingevano la fronte. Una chiave stringeva la vite, la quale, rinserrandosi, comprimeva le tempie.

Lo sbirro adattò il congegno alla testa di Don Diego.

Si fece entrare il medico che si collocò al fianco di lui.

—Quando vi deciderete a parlare, disse il commissario turbato indirizzandosi a Don Diego, si aprirà il torchio.—Chiudi, diss'egli poi, indirizzandosi al birro.

Il medico poggiò le sue dita sulle carotidi del paziente per sentirne e valutarne le pulsazioni. La chiave della vite cominciò a girare, e girò, girò, girò sempre. Il viso, dapprima pallido di Don Diego, principiò a diventar rosso, poi purpureo, poi violetto, poi azzurro, poi color di piombo, poi nero. Dopo aver terribilmente chiusi i denti fino a smussarli, egli aperse la bocca come un antro. I suoi occhi divennero prima lucidi, poi iniettati di sangue, poi opachi, infine uscirono dalle orbite, fuori le arcate sopraccigliari. Le palpebre sparvero; le pupille invasero la cornea. Il collo si gonfiò, il naso si profilò. E' tremò sulle ginocchia e si abbiosciò. Il dolore acuto, intenso, spaventevole che aveva cominciato a sentire, lo oppresse. E' perdè la coscienza della sua esistenza. La notte lo avviluppò.

—L'apoplessia si dichiara, disse il medico. Bisogna ucciderlo?

—Disserra la vite, ordinò il commissario.

Il torchietto fu allargato, ma non tolto. Si misero delle compresse di aceto sulla testa del paziente, gli si levarono le manette, lo si strofinò sulle spalle, gli si cavarono gli stivali e si avvicinò il braciere ai piedi, non tanto per infliggergli un altro supplizio, quanto per ristabilire la circolazione. Venti minuti passarono prima che lo sventurato riprendesse coscienza della vita.

—Persistete voi nel silenzio? domandò il commissario.

—Io non ho nulla a dire, mormorò Don Diego con voce estinta.

—Si ricomincierà; riflettetevi, riprese il commissario.

—Voi potete uccidermi; io non posso parlare di ciò che ignoro.

—Rinserrate il torchio, diede l'ordine Gravelli.

—Ei non può sopportare di nuovo questa prova per oggi, disse il medico. Scegliete altro.

—Il fornello, allora, disse il commissario.

Due bravi coricarono Don Diego sur un letto da campo, attaccando le sue mani ed i suoi piedi con due pezzi di legno, i quali avvitati, gli vietavano ogni sorta di movimento. Gli si aspersero i piedi di olio e si approssimò loro il fornello scintillante di brace ardenti. Un grido terribile risuonò nella sala. L'olio, dirimpetto ai carboni accesi, cominciò a friggere ed i piedi di Don Diego cominciarono a rosolare.

—Parlate, disse il Commissario.

—Non ho nulla a dire, ripigliò Don Diego con una voce spezzata dai singhiozzi.

—Se non volete dargli una gangrena alle estremità, osservò il medico, bisogna per oggi cessare anche questo.

Il commissario domandò al cancelliere se egli aveva tutto scritto. Poi ordinò al medico di stendere un processo verbale dell'operazione e fece segno ai bravi di riportare il prevenuto nella sua bolgia. La sera, il ministro ricevè il rapporto del commissario Gravelli.

—Bisogna esaminarlo con altri mezzi, ordinò il marchese di Sora.

Otto giorni dopo Don Diego fu ricondotto innanzi al commissario. Alle interrogazioni che il signor Gravelli gl'indirizzò l'ex-prete rispose sempre per la negativa.

—Voi volete dunque che io reiteri i mezzi di severità? disse il commissario.

—Codesto non è certo il mio desiderio, rispose Don Diego. Voi potete finirmi, ma io non mentirò, nè posso convenire su di quello di cui mi accusate.

—Andiamo, sclamò il commissario, gettando un sospiro: il dondolo.

Gli sbirri attaccarono una tavola alle corde che pendevano dal soffitto. Poi legarono Don Diego sulla tavola, di guisa che i piedi e la testa avanzassero alle due estremità, e misero in moto l'altalena. La lunghezza della corda permetteva che il dondolo toccasse nel suo doppio movimento le due pareti di rincontro; di modo che Don Diego nel suo volo aereo, urtava volta a volta ora della testa ed ora dei piedi ai due muri opposti. I picchi furono orribili. Ben presto, il cranio, interiormente scosso, si lacerò di fuori ed il sangue fluì; i piedi scricchiolarono nelle loro giunture e fecero scricchiolar le ginocchia. Gli urti cominciarono per strappare degli urli terribili al paziente. Poi il silenzio sopravvenne. Dopo che egli ebbe battuto così quattro o cinque volte alternativamente delle due estremità, il medico intervenne.

—Se non volete fratturargli affatto le ossa delle gambe e della testa e dargli una congestione cerebrale mortale, bisogna cessare.

L'altalena si fermò. Il paziente era svenuto. Ci volle circa un'ora per richiamarlo alla vita.

—Persistete voi in nulla confessare? dimandò il commissario.

—Se io avessi qualche cosa a dire, non mi sarei lasciato assassinare così, mormorò Don Diego.

Il commissario fece un segno.

I birri andarono a gittare quel carcame nella sua pozza.

La sera, il ministro ricevè i rapporti del commissario e del medico.

—Ancora una prova, ordinò il marchese di Sora.

II terzo sperimento fa fatto. S'infiltrarono delle cannucce acuminate tra la cornea e la carne nelle unghie delle dita di Don Diego.

Gli spasimi furono atroci.

Il silenzio di quell'infelice fu eroico. Confessando, lo avrebbero tutto al più condannato al bagno. Infrattanto, i suoi amici e complici dicevano:

—Don Diego Spani, parla; e' ci tradisce. S'incarcerano i nostri amici in seguito alle indicazioni ed alla confessione di quel prete infame! I preti sono sempre e dovunque gli stessi.

Il marchese di Sora dette l'ordine che il prevenuto fosse trasferito all'ospedale della prigione e vi fosse curato. Poi apparecchiò una memoria pel re, annettendovi i rapporti del commissario e del medico come documenti in appoggio.

Il re fu colpito dalla narrazione del ministro. Ei sembrò spaventato che dopo tanti anni di regime di clero e di polizia onnipotenti, spuntassero ancora nel suo regno dei caratteri così temperati.

Madama di Motteville diceva, che, ai tempi suoi, i mercanti stessi erano infetti dell'amore del ben pubblico.

—Ove andiamo noi, gridò re Ferdinando, se anche il prete, e dei tuoi preti, si mette della partita!

—Sire, rispose il marchese di Sora, noi andiamo al despotismo illuminato, che io sostengo nei consigli di Vostra Maestà.

Don Diego, convalescente, fu restituito alla libertà. Egli rientrava nel suo alloggio al punto stesso in cui Bambina si sedeva nel gabinetto del principe di Schwartzemberg.

XIX.

Ove si vede l'ultimo campione dei re d'una volta.

Il principe di Schwartzemberg istruì Bambina, in poche parole, in qual modo ella avesse a presentarsi ed a parlare, al re, ma si astenne, naturalmente, di abbozzarlene il ritratto. Non avrebbe potuto farlo, senza mancar di rispetto a quella maestà.

Tutto ciò che negli altri individui è normalmente vizio o qualità, dono o difetto, Ferdinando II lo aveva in caricatura. Aveva una testa d'imperatore romano, un po' Vespasiano un po' Tiberio. Quella testa però barcollava sur un collo troppo corto, spiccava fuori di un tronco di bastagìo, un tronco dalle spalle alte, dal petto rientrato, dalla spina dorsale equivoca, dall'epa protuberante. Le coscie corte, le gambe lunghe, il braccio forte, l'avambraccio esile, terminavano per dei piedi e delle mani da zoccolante. Gli è vero che un cappuccino si era mischiato un tantino alla fusione di questa statua di eroe, come dicevasi, avanti o poi che la fosse in forma.

Ferdinando II era uno dei tre sovrani epilettici dell'epoca, con l'imperatore di Austria Ferdinando e Pio IX. Di quinci il suo colorito giallastro come la scorza del mangustan, quel non so che di sbalestrato nel suo sguardo non mai vellutato. Gli occhi grigi,—che d'ordinario sono espressivi e senza malandrineria,—avevano in lui l'aria degli occhi di un lupo malinconico. La sua fronte pretuberava. Ma lungi dallo indicare l'intelligenza con i suoi bernoccoli la somigliava ad un cercine di carne gonfiata, qualche cosa come quel giro di capelli intonsi che i francescani si lasciano intorno al cranio per imitare la corona di spine del Cristo. La testa aveva così un cotal che di capitello di una colonna di ordine corintio. I capelli tosati corti si rizzavano ostinatamente in tutti i sensi,—segno di pertinacia senza riflessione.

E' non aveva il famoso naso borbonico, indizio di razza come il famoso labbro austriaco degli Absburgo. Regolare alla punta, quel naso reale si conficcava bruscamente fra le due orbite e lasciava un cavo tra le due sopraciglie. La bocca era larga, semichiusa, arruffata agli angoli come per burlarsi dei melensi baffi che la orlavano,—baffi rari, sparuti, malesci,—segno di ferocia. I peli del suo viso erano altresì rari e duri come i sentimenti che gli spruzzavano dal cuore. La sua faccia grassa cadeva a cascatelle, lasciando dei solchi che non rifrangevano la luce. Di guisa che, quella pinguedine che d'ordinario esprime la bonomia spiritosa o stolida, in Ferdinando II addiveniva lugubre e burlesca come un ubbriaco che piange. Il mento avanzava e civettava di una fossetta; la quale, lungi dall'abbellire il sembiante, rassomigliava ad un buco restato lì da una cicatrice. Quel mento poi si sarebbe detto applicato alla faccia ad opera terminata, quasi come cosa obbliata nella formazione generale e quivi incrostato alla carlona, alla guisa di certi ornamenti dei mobili a buon mercato.

La testa si dondolava sul busto ed aveva un'espressione nel tempo stesso funebre e sinistra, sopra un fondo grottesco. Figuratevi Arlecchino rappresentante la parte di Amleto. Camminando ei si dimenava, o piuttosto le sue carni spongiose tremolavano,—altro segno di natura cattiva, quando questo fenomeno si osserva in un giovane corpo. Il suo occipite cadeva in linea retta e piatto sul collo,—e codesto denunziava la sua assenza di sensibilità e la sua freddezza verso la donna. Aveva orecchie immense, dall'interno della conca bizzarramente accidentate. Tutto ciò, impiastrato insieme, produceva un certo che non brutto, che non era maestoso, che non era simpatico, che non era rispettabile, che prestava a ridere e dava i brividi, cui si guardava come un oggetto curioso, e da cui si aveva cura di tenersi in distanza—nel tempo stesso Saturno e Sileno affetti da idropisia. La sua voce era chioccia, fessa come una vecchia campana, una specie di squittìo di scimmia che singhiozza.

Il morale non era poi meno bizzarro del fisico. Ferdinando II era avaro come tutta una sinagoga. La regina Teresa, sua mogliera, rattoppava i fondi delle sue brache. Ed e' prestava alla settimana al Tesoro, il quale non aveva bisogno di mutui, ma che faceva sembiante di averne onde dar dei profitti a S. M. Il bilancio napoletano era il solo in Europa che si saldasse in equilibrio! In realtà, quel bilancio si saldava con un avanzo considerevole; ma il ministro delle finanze portava quel di più al re come un'economia sulle spese del ministero.

Re Ferdinando si credeva il più grande capitano del secolo, in teoria, aspettando l'ora di spiegare le sue brillanti capacità sur un campo di battaglia. Laonde viveva sempre in mezzo a quel famoso esercito cui egli credeva il pilastro del suo trono e cui suo figlio non trovò più quando volle servirsene seriamente contro la patria.

Questo patriottismo fu addimandato codardia e calunnia ed ingratitudine! Imperocchè, egli è ben che si sappia, la fu una spavalderia dei garibaldeschi quella così detta allora viltà dell'esercito napolitano. I generali realisti, i quali ne sapevano lo spirito nazionale, non l'esposero, l'esercito, a pronunziarsi che in due circostanze, sul Volturno ed a Gaeta, ove fece sembiante di battersi per dare una cotale grandezza alla caduta della dinastia,—sul desiderio forse espresso dal conte di Cavour.

Re Ferdinando passava riviste, quando non pregava. Egli era ostinatissimo in ciò che riguardava come suo diritto. Quindi lo si vide tener testa alla Francia ed all'Inghilterra riunite, nel famoso affare del Cagliari, e sbrancar note singolarmente audaci,—scritte tutte di suo pugno. Egli era il botolo nella razza canis dei sovrani. Non avendo alcuno istinto leale, diffidava di tutti,—al punto che, essendo piissimo, ed avendo un confessore reale titolare, e' si confessava a tre o quattro altri frati o preti, presi a caso, un po' dovunque, ove egli andasse. E' divideva e sperperava così la confessione de' suoi peccati. Di modo che la sua partita con Dio era in regola, ma alcun uomo non lo conosceva tutto intero.

Ferdinando II era inesorabile, ma solamente pei crimini di Stato. Il sangue ed i gemiti del delinquente lo esilaravano, quelli del deliquente ordinario non lo allettavano.

La sua istruzione era singolare per un re. Egli avrebbe potuto insegnare teologia al Collegio Romano; ma ignorava completamente la storia, il diritto pubblico, l'economia sociale. Non un sarto di Lamagna avrebbe tagliato un uniforme come lui; ma e' faceva manovrare le truppe a controsenso. Sapeva il Bollandista a menadito; ma e' non seppe mai perdurare nella lettura di un romanzo, di un poeta, di un filosofo, di un istorico. E' chiamava il signor Thiers un compilatore di almanacchi! Aveva in orrore il teatro. Ond'è che accolse con entusiasmo l'idea della regina Teresa, un dì canonichessa a Vienna, brutta e gelosa, la quale propose di tuffar le ballerine in un paio di brache di percallina cilestre larghissime e di cucirle in un canzou chiuso fino al collo.

Egli diceva ad ogni pie' sospinto, come Luigi XVI disse una volta sola, in una circostanza solenne: «È legale, poichè io lo voglio!» Il sentimento della giustizia e del diritto gli mancava organicamente al par di quello del bello fisico e morale. Non comprendeva che l'utile.

Re Ferdinando fu duro verso suo fratello Carlo e verso l'infelice suo figlio Francesco II, cui aveva avuto da una prima moglie. Verso i suoi altri figli e fratelli fu equo e tollerante. E' scendeva di vettura di cavallo per baciar la mano ad un frate o ad un prete che passava; ma si tenne per offeso quando lo tzar Nicola gli presentò a Napoli il conte Orloff ed il suo bel cane come i soli suoi amici! Egli dava un baiocco ad un povero che incontrava; ma dimandava una piastra al suo cavalier di compagnia per fare quella limosina e teneva per sè il resto.

Offriva un sigaro ad un generale, passando una rivista, ma gli prendeva un grazioso scibuk di schiuma ed ambra. Gustava al pane del soldato onde avere il pretesto di trovare il pane cattivo e far pagare agli appaltatori una forte ammenda, cui intascava. Canzonava volontieri i suoi ministri, ma per soggiungere con più famigliarità: «Padroni miei, voi rubate: fatemi la mia parte.» Affettava una grande semplicità di vita, unicamente perchè le pompe reali, le feste, i balli, i pranzi, le caccie, si pagavano dalla lista civile. Non amò che le sue mogli; dapprima, perchè una ganza era per lui una superfluità, poscia, perchè la gli sarebbe costata denari.

Tutto era reale nel suo regno; i lazzaretti, le fogne, il boia, l'ospedale delle donne pubbliche,—tranne il palazzo reale che fu dichiarato nazionale perchè occorrevano due milioni per ripararlo e mobigliarlo. Il debito pubblico esso pure fu dichiarato nazionale,—avvegnachè contratto interamente per pagare tre ristaurazioni borboniche, gli austriaci, gli svizzeri e mons. di Talleyrand, il quale prese 10 milioni per perorare la causa di re Nasone al Congresso di Vienna. Spirito pieno di taccole carattere falso e basso, tendenze sordide e feroci, sussiego militare da caporale avvinato, divozione interessata,—specie di usura fatta con Dio,—oltracotanza senza pericolo, ostinazione senza discernimento, cupidità senza scelta, assenza di gusto, di tatto, di finezza, di nobiltà di sentimenti delicati, di voluttà squisite, di vizii grandiosi, di virtù utili, di sapere politico, di fiuto dell'opportunità, di coraggio di uomo, di tenerezza cristiana, jattanza di forza fuori proposito, di dritto non contestato…. tali erano i tratti principali del sovrano cui Bambina andava a salvare: Falstaff innestato sopra sant'Ignazio!

Il mattino era splendido. Il cielo aveva i riflessi dell'oro stemperato nell'azzurro. Un vapore dalla tinta violetta avviluppava ed addolciva il paesaggio.

Come era stato convenuto, il principe di Schwartzemberg, dando il braccio a Bambina passeggiava nel parco, vicino l'Eremitaggio. E' parlava poco, provava un sentimento indefinibile all'interno trovandosi in contatto sì intimo con una persona la cui condotta era equivoca, il cui scopo era un mistero. Bambina lo comprese e ritirò dolcemente la sua mano dal braccio dell'ambasciatore, facendo sembiante di cogliere il grande fiore di una coccinea color cupo.

—Qual è il nome di questo bel fiore signor principe? domandò ella.

—Io ne ignoro il nome italiano, rispose l'ambasciatore; ma se la memoria non mi tradisce esso si addimanda qualche cosa come lychnis Haageana hybrida.

—Chi sospetterebbe giammai, ascoltando i nomi stravaganti che danno la tortura alla lingua ed alla memoria e cui la scienza infligge al fiore ed all'uccello, chi sospetterebbe mai, riprese Bambina, ch'e' si tratti dei più meravigliosi splendori della creazione? I nomi con cui la società gualcisce talvolta le persone e le azioni hanno sovente questa medesima bizzarria.

Il principe, la di cui anima mormorava, lui inconsciente, i nomi misteriosi di spia, di denunziatrice, di segugio da bargello, comprese la lezione e si tacque. Ma egli non osò offrire di nuovo il braccio alla giovinetta. Il re, che giunse allora, fumando il suo sigaro, li sorprese zozzando fianco a fianco. Ei fece un segno al principe di seguirlo ed entrò nel palazzino in mezzo al parco.

Ferdinando era solo. Il custode dell'Eremitaggio aprì immediatamente il piccolo salotto ai visitatori. Il re indicò al principe di chiudere la porta e disparve.

—Egli va a pregare in qualche angolo, disse il principe a Bambina. Sovvengavi della piccola lezione che vi ho fatta sui modi della corte.

—Sarà difficile, rispose Bambina: l'emozione mi coglie.

Il re rientrò e restò in piedi vicino ad un tavolo rotondo in mezzo al salotto.

—Principe, diss'egli, indirizzandosi al signor di Schwartzemberg, è costei la donna che desidera parlarmi?

—Sì, sire, rispose l'ambasciadore inchinandosi.

—Che parli allora, sclamò il re.

Bambina restò all'altra estremità del salone, non osando levare lo sguardo. Provò di parlare, ma non una parola si presentò alle sue labbra. Le tenebre invadevano il suo spirito. Il re aspettava. Bambina cadde a ginocchio.

—Parla dunque, disse il re della sua voce rauca esile e nasale.

—Sire, balbettò Bambina, io…. io….

—Rimettetevi, susurrò il principe a bassa voce. Non temete di nulla.

Bambina fece un immenso sforzo sopra sè stessa e tutta tremante soggiunse:

—Sire, mio fratello, Don Diego Spani, un degno prete, è stato incarcerato come cospiratore. Ciò è falso. Non è desso che cospira.

—E chi dunque? dimandò il re, ricordandosi la storia di questo uomo, cui il ministro della polizia gli aveva dettagliata qualche giorno innanzi.

—Io non so, sire, continuò Bambina, rianimandosi a misura che parlava e che l'immagine di suo fratello dominava la sua mente. Io non conosco nè i nomi nè le persone dei cospiratori.

—Ma allora? gridò il re con impazienza.

—Sì, mormorò Bambina ricominciando a turbarsi. Me ne hanno nominato uno.

—Innanzi tutto, dimandò il re comprendendo che bisognava condurre l'interrogatorio da sè stesso e con calma se voleva arrivare ad un risultato,—innanzi tutto chi è la persona che ti ha parlato di codeste cose?

—Ciò non lo dirò giammai, giammai! gridò Bambina levandosi di uno slancio. Io vi porto, sire, un segreto di Stato, non un segreto di donna.

Ferdinando inarcò le sopracciglia e guardò per la prima volta in faccia la giovinetta. Bambina era divenuta rossa, e la collera istintiva che l'agitava faceva brillare il suo sguardo, ravvicinava le sue sopracciglia arcate come la foglia del siry.

—Dite allora l'altro nome, disse il re raddolcito, cessando di darle del tu. Coordinate le vostre idee, signorina.

—Sire, riprese Bambina, la persona che mi ha rivelate queste cose sa tutto. Voi potete crederlo, come credereste il vostro confessore. Egli ha avuto pietà di mio fratello, e, per salvarlo, m'ha messa a portata di render servigio a Vostra Maestà.

—Ma quale è dunque codesto segreto?

—Sire, permettetemi di mettere le mie condizioni….

—Delle condizioni! sclamò Ferdinando rizzandosi sulla persona.

—Sire, senza ciò, continuò ingenuamente Bambina, io non sarei venuta ai piedi di V. M. Io pure ho promesso qualche cosa, io pure, onde ottenere quella rivelazione. Io ho promesso la mia vita. Vostra Maestà mi comprenderà se io esigo una promessa.

—Andiamo. Vediamo codeste condizioni.

—D'altronde, se V. M. trova che il segreto non ha l'importanza cui mi hanno assicurato valesse, V. M. può ritirare la sua promessa.

—Dite dunque, alla fine.

—Sire, voi farete mettere immediatamente in libertà mio fratello, poi, come egli è un santo e dotto prete, lo nominerete vescovo.

Il re guardò il principe di Schwartzemberg, che abbassò gli sguardi sotto il rimprovero degli occhi reali; poi soggiunse di voce sorda:

—Ti hanno fatta una lezione bene audace, quella giovane!

Bambina, che per fortuna non comprendeva nulla alla gradazione degli sguardi, dell'accento, della parola del re, non lasciò presa alla sua dimanda.

—Sire, rispose ella, se V. M. mi rifiuta queste due grazie, io mi taccio. Non ottenendo nulla e non rivelando nulla, io non sono più a nulla tenuta, ed arriverà ciò che la volontà di Dio vorrà. Io vi parlo come a Dio stesso. Io ho detto ad un uomo: l'anima per l'onore! Non usando della sua anima, mi riscatto di mie promesse.

Il re non rispose e si ritirò lentamente nel contiguo gabinetto ove era di già entrato prima.

—Va a pregare di nuovo, brontolò il principe. Io vi comprendo alla fine, signorina, ma le vostre domande sono esagerate.

—Non è egli il re? osservò Bambina. Non vengo io a salvarlo a quel che mi han detto?

Il re rientrò. Infatti, egli era andato ad inginocchiarsi innanzi a non so che immagine, cui si cavava dal petto sotto forma di scapolare, ed aveva invocato l'inspirazione divina.

—Vi accordo la vostra dimanda, disse egli a Bambina, se ciò che state per rivelarmi merita codesta ricompensa.

—Me ne date la vostra parola, sire? insistè Bambina.

—Ve la do, replicò Ferdinando esitando.

—Siate testimone, soggiunse Bambina, volgendosi all'ambasciatore, che S. M. mi dà la sua parola di far mettere in libertà mio fratello, Don Diego Spani, e di nominarlo vescovo.

—Parlate adesso, parlate, chiocciò il re impazientito.

—Sire, mi hanno detto che V. M. non ignora forse che si cospira onde strapparle non so che,—una Carta, una Costituzione.—Ma ciò che V. M. non sa per certo, è il luogo ove i cospiratori si riuniscono ed il capo del complotto.

—Credono?

—Io ripeto ciò che mi han detto. Che M. V. ne giudichi del resto.

—Ebbene?

—Ebbene, il sito ove i cospiratori tengono le loro sedute è la villa abitata da lady Keith, al Vomero, ove abito io stessa da qualche settimana in qua.

—E voi avete visto codesti cospiratori?

—No, sire, io non ho visto nulla, forse perchè non è negli appartamenti di questa eccellente ed innocente dama che essi si radunano, ma in un padiglione nel fondo del giardino.

—Ed il capo?

—Il capo, sire, è il vostro ministro della polizia, egli stesso, il marchese di Sora.

Il re e l'ambasciadore si guardarono reciprocamente: il re con sospetto, quasi avesse voluto dire: Siete voi che tramate questa farsa!—l'ambasciatore, con un'aria di trionfo, come se avesse detto: Non avevo io ragione? Seguì un silenzio di qualche minuto. Il re disparve per la terza volta.

—Ancora! borbottò il principe.

Poi indirizzandosi a Bambina, soggiunse:

—Voi portate un'accusa terribile. Voi, vostro fratello, la persona che vi ha consigliata e cui si scoprirà, voi siete tutti perduti se avete mentito.

—Io non so, replicò Bambina. Ma io credo nell'uomo che mi ha rivelati questi misteri.

Il re ritornò. Era turbatissimo.

—Signorina, diss'egli, vostro fratello sarà libero e vescovo, parola di re, se voi o la persona che v'inspira potete provarmi la verità di questa formidabile accusa. Capite?

—Sire, replicò Bambina, io sono un'eco. Io ho ripetuto ciò che mi hanno comunicato. Ma come V. M. vuole ella che io glielo provi?

—Facendomi vedere.

—Ma io non posso nulla, sire. Io non posso che soggiungere questo semplice dettaglio: Lunedì, 27 settembre, vi sarà un'unione generale dei delegati di provincia nel padiglione di lady Keith, e probabilmente il marchese di Sora vi sarà e vi vedrà qualcuno dei capi.

—Ebbene, io voglio assistere a questa riunione.

—Assistetevi, sire. La mia missione è terminata. Che V. M. adesso tenga la sua parola, cui dicono sacra.

—La terrò per fermo quando avrò veduto io stesso, quando avrò il convincimento che non mi hanno ingannato.

—Ah! sire, di già!…

Bambina non terminò la frase. Il suo singhiozzo fece comprendere al re ch'ella diffidava di lui.

—Rassicuratevi, sclamò Ferdinando. Voi abitate la villa di lady Keith. Voi mi introdurrete…. principe, sarete voi con me?

—Mille grazie di questo grande onore, sire. Io lo sollecito come una grazia.

—Ebbene, signorina, voi c'introdurrete nel padiglione, al momento che i cospiratori delibereranno.

—Ah! sire, nella casa ove questa nobile dama mi accorda un asilo!

—Non temete nulla per alcuno. Verremo soli, travestiti, nessuno soffrirà male. Voglio solo assicurarmi dei miei propri occhi, delle mie proprie orecchie.

—Infine, sclamò Bambina, poichè io debbo morire, espierò per tutti.

—Voi non morrete, osservò Ferdinando. Principe, convenite con codesta signora come questa bella avventura dovrà essere condotta. Vi aspetto domani.

Il re andò a terminare il suo sigaro, pregando ancora una volta perchè alcun malore non lo cogliesse nell'impresa, e l'ambasciadore e Bambina uscirono.

Tutto fu convenuto. Bambina si recò al Gesù Nuovo per vedere il gesuita.

XX.

Eh! ma! per chi li prendevate voi, sire!

Lady Keith, l'ho detto, era ultra-irlandese, ossia ultra-cattolica. Ella provava quindi per Pio IX un sentimento di adorazione da fetiscio ed al centuplo l'entusiasmo che risentì l'Europa intera nel 1846 e 47 per questo papa giacobino,—il quale ieri faceva ghigliottinare Monti e Tognetti. Per la ragione che quel papa era circondato da noi di una aureola liberale, cui non ebbe mai, ma di cui ci tornava utile inghirlandarlo, Ferdinando II, benchè divoto e cattolico fino al cretinismo, non ometteva un'occasione per manifestargli la sua avversione.

Ciò indispettì lady Keith. Malgrado ciò, ella sentì il bisogno di mettere in regola la sua coscienza, consultando il suo confessore e rivelandogli tutti i segreti della cospirazione,—alla quale ella prestava la sua casa sicura come il suolo britannico,—ed indicandogli quali erano i capi cospiratori, il loro scopo, i loro mezzi. E' fu così che il padre Piombini apprese la partecipazione del ministro della polizia alla rivoluzione che covava e lentamente ribolliva. Il P. Piombini non comunicò a Bambina che questo fatto capitale e qualche altro dettaglio, tacendosi sul rimanente che impallidiva innanzi ad una rivelazione di quella importanza.

L'ex conte Bonvisi era liberale,—benchè egli seguisse le istruzioni tutte del suo generale e che compiesse tutte le prescrizioni dell'ordine. Ma perciò appunto che egli apparteneva al partito del Giovine Gesuitismo,—il quale voleva appoggiare la società ed il papato sul popolo e non più sui troni, come il Vecchio Gesuitismo che poi trionfò e trionfa,—perciò appunto, dico, egli tacque al rettore della provincia ed al generale di Roma i segreti cui aveva uditi in confessione. Terribile delitto, di cui vedremo le conseguenze! L'amore era stato più potente che i legami dell'ordine ed il giuramento di socio; perchè l'amore agiva sul cuore mentre che tutti gli altri impegni si riferivano allo spirito. Ed ecco perchè l'educazione dei gesuiti tende precipuamente ad atrofizzare il cuore, il quale permane sempre come un pericolo finchè qualche fibra ne vive ancora e vibra ancora sotto l'umano contatto.

Bambina veniva a raccontargli il risultato della sua conversazione col re, tacendogli però per pudore la circostanza capitale del colloquio: la volontà del re di sorprendere personalmente i cospiratori ed assicurarsi della verità. Ella arrossiva di questa promessa, che la comprometteva direttamente, che l'avviliva e l'abbassava a quel rango di spia e di denunziatrice cui aveva tanto temuto. Ma l'è conseguenza fatale dell'abbiezione: quando si cade in una pozzanghera più vi si dimena più vi si sprofonda. Bambina si sentiva tocca dalla contaminazione, ed ella avea potuto percepirlo dal contegno altero e freddo del principe di Schwartzemberg, il quale, dopo aver preso con lei misure opportune per mettere in atto il desiderio del re, la lasciò alla porta della residenza di Capodimonte, salì in vettura solo e partì senza salutarla. Fin là, Bambina era stata vittima. Ella cominciava adesso a divenire agente. Ma una volta presa in quell'addentellato mortale, ella non poteva più spacciarsene senza lasciarvi dei lembi di sè stessa: corpo ed anima.

Il P. Piombini l'ascoltò senza interrompere; egli era come sotto il fascino terribile degli anestesiaci che calmano i dolori, addormentano ed uccidono. Quando Bambina ebbe finito di parlare e l'odorifera armonia della sua voce ebbe cessato di tintinnare al graticcio del confessionale, il P. Piombini sclamò lentamente:

—Ebbene, angelo mio, io ho tenuta la mia parola.

Bambina fu colpita da quella conclusione. Ella aveva obbliato, nel suo racconto appassionato, la contro-parte del suo obbligo. La parola del gesuita la risvegliava nell'inferno del reale. Ella si tacque un istante, poi rispose:

—Ed io terrò la mia. Ma, non prima che io mi vegga le promesse del re compiute. Accordatemi qualche giorno ancora di vita.

L'accento di Bambina, pronunziando quest'ultima frase, era così commosso, così vero, così profondo, così doloroso, così convinto, che il gesuita si spaventò. Una scintilla glaciale corse lungo la sua spina dorsale e scosse il cervelletto. Comprese i disegni della giovinetta. Ei gridò dunque:

—Ah! Bambina, abbi pietà di me! Io aspetterò tutto il tempo che tu vorrai, e tu sarai sorpresa quando saprai cosa fo per te.

—Grazie, sclamò Bambina. Nella spaventevole solitudine in cui io cammino, io non scorgo ancora che un raggio per guidarmi, che un amico: voi! Il mio cuore si è aperto. Esso è stato passato fuor fuori da tanti colpi diversi, che risente oggimai il più piccolo scuotimento. Fate, di grazia, che io non abbia a considerarvi come il più spietato de' miei carnefici. Io non nego il mio debito. Sono pronta a pagarlo dimani, se lo esigete; ma che vi guadagnereste? Un rimorso che oscurerà la vostra vita tutta intera. Rendetemi leggero il pagamento. Che esso sia il salario della riconoscenza e non il prezzo di una compera sconsigliata.

—Io non vi domando che vedervi ogni dì. È forse troppo?

—Vi consento.

—E cantarvi la cantica del mio amore, soggiunse il padre Piombini.

—Vi ascolterò, rispose Bambina. Ma l'amore che parla, che si esalta, che si querula, non è poi quello che tocca di più.

Bambina ritornò da lady Keith senza andare di nuovo in casa di suo fratello.

Era il giovedì. La riunione dei delegati doveva aver luogo fra quattro giorni. Questi delegati erano sette, fra cui quattro preti! Il che prova che si sarebbe potuto dire del clero dell'Italia meridionale ciò che D'Alembert diceva della Francia: «Essa rassomiglia ad una vipera; tutto è buono, tranne la testa!» Nel clero italiano non vi è di miserabile che l'episcopato, e coloro, fra i preti delle grandi città, che sono più esposti all'azione antipatriottica ed anti-sociale dei vescovi,—lacchè, schiavi di Roma.

Don Diego Spani era il delegato delle provincie di Basilicata e di Cosenza.

Il marchese di Sora ammattiva oramai per questo prete, il quale aveva subite le prove spaventevoli cui raccontammo, senza smuoversi, sapendo tutto e tacendo. Il marchese fece dividere la sua ammirazione a lady Keith ed al colonnello Colini, con i quali soli comunicava, perchè gli altri membri del comitato ignoravano che il ministro della polizia cospirasse con loro.

Don Diego accolse freddamente l'ovazione che gli fecero uscendo di prigione. Egli aveva acquistato il diritto di disprezzare i suoi colleghi. Lo sventurato non sapeva l'abisso che sua sorella scavava sotto i suoi piedi per salvarlo!

I delegati di Sicilia avevano mancato all'appello, per un equivoco di corrispondenza. I membri del comitato, salvo tre, erano radicalmente inetti, e di qui, i ritardi, la confusione, lo scacco in tutte le intraprese. Il presidente del comitato, il colonnello Colini, avrebbe voluto aggiornare la riunione ed aspettare i siciliani. Il marchese di Tregle opinò di passar oltre, d'intendersi, di agire, salvo a riunirsi di nuovo quando i siciliani arriverebbero, per comunicar loro ciò che avevano deciso e ciò che avevano fatto. Questo avviso fu adottato.

Il marchese di Tregle aveva ragione: ciò che fa periclitare tutte le cospirazioni sono l'esitazione, gli aggiornamenti, ed il gran numero di cospiratori. Perchè Orsini mancò appena di riuscire? perchè era solo e non volle rimettere ad un altro giorno l'esecuzione dell'attentato,—il quale se fosse riescito, uccidendo Napoleone III, avrebbe infallibilmente ucciso l'unità italiana.

Io non biasimo Orsini però. I popoli schiavi a cui si rifiuta la spada, la penna, la parola, hanno il diritto al pugnale.

La dottrina del regicidio è complessa, ed ecco perchè i pubblicisti, i padri della Chiesa, i teologi ed i papi essi stessi hanno espresso delle opinioni diverse. Tale forma di governo, tale avvenimento extra-legale, e quindi tal mezzo di difesa e di attacco dalla parte di coloro che sono colpiti.

Ora gli era precisamente il caso cui stavano a discutere i delegati: bisognava uccidere il re?

Il padiglione ove la riunione doveva aver luogo aveva due piani, sopra un sottosuolo. Un corridoio separava le due camere di ogni piano. Le finestre del primo erano a petto di uomo: si potevano scavalcare e discendere nel giardino, dal giardino si poteva vedere ciò che accadeva nelle camere. Un boschetto di lauro-rosa circondava il padiglione e quasi lo celava. Delle spalliere di rose lo fiancheggiavano. La porta aveva due scalini. Stuoie cinesi proteggevano le finestre contro l'afa esterna. Non vi abitava alcuno. Lady Keith vi veniva a leggere ed a scrivere quando i cani facevano troppo strepito sotto le sue finestre. La sua biblioteca era in una stanza al pianterreno. L'altro piano conteneva il suo piccolo museo di oggetti di arte e di oggetti curiosi di storia naturale. Le pareti erano tappezzate di magnifici quadri antichi e moderni. Tutto intorno, nelle quattro stanze, correva un divano basso, largo, soffice in velluto granata, coverto la state di una sopravveste di tela di Persia. Un fitto tappeto copriva l'inverno il bel mosaico del solaio.

Alle otto della sera, il padiglione intero era rischiarato da lampade avviluppate da globi di alabastro.

Alle nove, i delegati cominciarono ad arrivare. Il colonnello Colini, il marchese di Tregle, il barone di Sanza giunsero insieme come tutte le altre sere, nella carrozza del marchese. Gli altri abituati comparvero a loro volta, come al solito, ed entrarono direttamente negli appartamenti abitati dalla padrona della casa, dopo aver fatto la loro visita ai cani,—maniera graziosa di piaggiare lady Keith, la quale aveva sempre delle storie intime da aggiungere alla biografia dei suoi ospiti e dei suoi pensionari. I delegati delle provincie, secondo le istruzioni ricevute, vennero a piedi, uno ad uno, da direzioni diverse, ma senza travestirsi, perchè quei bravi preti portavano tutti il costume quasi laico che abbiam veduto, adottato da Don Diego. Essi chiesero di lady Keith, ed il portinaio li lasciò entrare. Poi fecero un giro pel giardino, disparvero dietro i cespugli di lauro-rosa e di magnolie, e s'introdussero nel padiglione.

Il comitato sedeva al pian terreno. I delegati salirono al secondo. Il Comitato mandò presso di loro il suo commissario, il barone di Sanza, come il potere esecutivo manda i suoi ministri alle Camere. Alle dieci, ciascuno era al suo posto.

Il barone di Sanza lesse un rapporto che, a guisa di messaggio, riassumeva la situazione. I sette delegati, in piedi intorno alla tavola di mezzo, l'ascoltarono senza interrompere. Tiberio espose lo stato delle relazioni del Comitato con gli altri comitati della Penisola, lo stato dell'opinione pubblica in Italia, le disposizioni dei gabinetti europei,—secondo una lettera epica di Mazzini,—il bilancio della cassa sociale, estremamente povera. Poi abbozzò la situazione degli spiriti nel regno, dietro le relazioni degli affiliati del Comitato centrale, e toccò due parole degli armamenti che si avevano potuto fare in quella penuria di quattrini, e delle comunicazioni con lo straniero che il Comitato aveva aperte. Presentò infine le proposizioni del Comitato su ciò che bisognava intraprendere ed osare per operare l'insurrezione simultanea di tutto il regno, al di qua come al di là del Faro. Questo rapporto, tempestato di frasi ampollose, raccolse l'approvazione generale.

I delegati presero in seguito la parola, ciascuno alla volta sua, per sminuzzolare con più precisione gli affari delle provincie cui rappresentavano, e la discussione giunse a riassumersi in queste due proposizioni:

1.° Bisognava uccidere il re, ciò che avrebbe servito di segnale all'insurrezione generale delle Due Sicilie, delle Marche e della Romagna?

2.° Bisognava intraprendere una sommossa simultanea, nei capoluoghi di tutte le provincie, ovvero concentrare le forze rivoluzionarie a Napoli ed a Palermo e cominciare la rivoluzione dalle capitali?

La seconda proposizione, discussa la prima, fu decisa nel senso sciocco, ed assurdo di cominciare la rivoluzione nelle provincie.

Sulla proposizione del regicidio, le opinioni si divisero. Perocchè, mettendola, il commissario del comitato centrale si dichiarò contrario e quattro dei delegati l'oppugnarono risolutamente. Tre preti furono di avviso favorevole.

Don Diego prese a parlare per loro. Ragionò un quarto d'ora, senza enfasi, senza declamazione tribunizia, senza andare in busca di effetti oratori. Egli appoggiò i suoi ragionamenti sulle dottrine teologiche di Mariana, di Bellarmino, di Santarelli, di Vitelleschi, di Suarez, di Becan. Egli citò San Tommaso, S. Agostino, S. Ambrogio, Tertulliano, S. Giustino….. ricordò come parecchi Papi avessero ordinato o approvato il regicidio: Gregorio VII, Innocenzo IV, Gregorio IX, Alessandro VI, Paolo V, Urbano VI, Gregorio XIV….. e terminò la sua allocuzione con delle ragioni politiche che riepilogò in questa massima: il regicidio è un assassinio presso i popoli liberi, come l'Inghilterra, l'America, la Francia; una rappresaglia presso i popoli schiavi come l'Italia, la Russia, l'Austria, la Turchia: là, un delitto; qui un dovere!

I delegati di Foggia e di Reggio ritirarono la loro opinione precedentemente espressa, ed aderirono alle conclusioni di Don Diego. Tiberio protestò a nome del comitato, radicalmente contrario a questa dottrina. Si passò oltre, si stava per procedere alla scelta di colui a cui incomberebbe l'esecuzione del terribile mandato, quando un grido risuonò nella camera, seguito dalla parola: la polizia!

Tiberio e Don Diego riconobbero Bambina.

Bambina li aveva riconosciuti.

Secondo gli accordi presi col principe di Schwartzemberg, Bambina alle dieci della sera, aveva messa una lampada sulla finestra della sua camera per indicare che la riunione aveva luogo. La sua camera sporgeva sulla strada, ove si apriva il gran cancello della villa. Di dietro la persiana chiusa ella aveva visto venire i congiurati, li aveva scorti circolare nel giardino, poi scomparire nel padiglione, ove i membri del comitato, che visitarono lady Keith, li avevano raggiunti. Da lungi, al cancello mal rischiarato nel giardino avvolto interamente, nelle tenebre, ella non aveva potuto distinguere alcuno, nè fra i delegati, nè fra i visitatori della padrona della casa. Ma quell'affluenza straordinaria di persone, la loro attitudine, le avevano confermato che la riunione si assembrava. Il suo cuore battè con violenza!

Da quattro giorni ella discuteva la sua condotta in sè stessa e traversava tutte le fasi del rimorso e della speranza, del male che probabilmente ella faceva a taluni, del bene che per fermo ella operava in pro' di suo fratello. Ella si era dette tutte le ragioni; ella si era rivolti tutti i rimproveri: ella aveva sentito tutte le torture del dubbio e dell'esitazione, del terrore e del trionfo. Questa lotta tra la coscienza ed il dovere, tra le esigenze della fraternità e l'obbrobrio sociale, l'avevano spossata. Si sentiva affranta, impotente a riflettere ulteriormente, a reagire, a resistere: le rapide correnti del destino la trascinavano. Non pensava più. Si risovveniva degl'impegni presi e li compieva meccanicamente. Ella aveva impallidito e dimagrato.

Alle dieci, Bambina aprì la persiana, posò la lampada sul davanzale, si mise a cucire non so che, ed attese. Passò un'ora. Sperò. Essi avevano forse rinunziato al convegno o lo avevano obbliato.

Ahimè! povera fanciulla, no: eccoli che giungono.

Sulla strada, di rimpetto alla finestra, vicino al muro che cinge la villa, nella penombra che produce il lampione a grande distanza, innanzi l'edicola di una madonna di villaggio poveramente rischiarata da una tisica lucerna, due persone si fermano corto e sbirciano intorno. E' sono venuti a piedi han lasciato la carrozza ben lontano, perchè Bambina non ne ha udito lo strepito. Un momento scorre, poi uno dei due uomini cava un zolfanello chimico in cera, l'accende e l'avvicina al suo viso per allumare il sigaro. L'altro cava di tasca una pezzuola bianca e la porta alla sua bocca.

Eran essi: re Ferdinando e l'ambasciatore d'Austria.

Bambina tenta di alzarsi. Non può; le gambe barcollano. Un secondo zolfanello è acceso; per la seconda volta la pezzuola bianca dà il segnale. Bambina fa uno sforzo potente sopra sè stessa e si precipita per le scale.

La villa aveva una piccola porta, dal lato opposto al grande cancello, sul muro che serviva di parapetto e di riparo al giardino, in una stradella fra due proprietà, dalla quale si discendeva dal Vomero a Chiaia per un cammino scorcio. Una piccola scala addossata al muro permetteva di discendere dal giardino nella strada, separati da un'altezza di cinque o sei metri. I domestici che si recavano a Napoli per le commissioni della villa, prendevano tutti questa via ed avevano perciò quasi tutti una chiave della piccola porta. Bambina ne aveva presa una il mattino per recarsi al Gesù Nuovo, e ritornando l'aveva conservata. Gli era per questa porta che ella doveva introdurre il re ed il principe di Schwartzemberg.

Vedendo scomparire Bambina, il re ed il principe fecero il giro della villa e vennero all'incontro di lei alla piccola porta. Li fece entrare.

L'orologio di S. Martino batteva le undici e mezzo.

—Ebbene? dimandò il re.

—Vi tengo parola, sire; mi terrete voi la vostra? replicò Bambina.

—Lasciatemi vedere da prima.

—Sono lì.

Tutti e tre si avvicinarono al padiglione, camminando dolcemente sopra una sabbia fina che attutiva il rumore dei passi. Quando furono innanzi alla porta videro la luce filtrare a traverso le bandinelle abbassate delle finestre ed udirono il suono delle voci.

—Permettete che vi preceda, disse Bambina, per vedere se le porte sono aperte ed in che modo possiate vedere ed udire.

—Va, sclamò il re.

Mentre Bambina entrava,—la porta era socchiusa,—il re ed il principe di Schwartzemberg si rannicchiarono sotto i lauro-rosa e le magnolie, vicino alle finestre del primo piano.

La curiosità li tentò. Essi sollevarono un po' la stuoia e tuffarono lo sguardo nella camera.

Intorno ad un tavolo si tenevano alcuni dei membri del comitato. Assisi sul divano, in fondo della stanza, il marchese di Sora ed il colonnello Colini s'intrattenevano, parlando a voce bassa, col marchese di Tregle in piedi innanzi a loro.

Era la prima volta che il colonnello presentava il marchese di Sora al comitato, avendo ciò richiesto per sua giustifica. Il marchese vi aveva consentito. Essi avevano aggiornata questa presentazione al momento della riunione dei delegati.

Il re non potè nulla udire di ciò che dicevano il marchese di Sora ed il colonnello Colini; ma dai lembi della conversazione degli altri, egli acquistò la convinzione che quivi si cospirava.

Il re e l'ambasciatore erano lì quando udirono il grido disperato di Bambina.

Per un movimento inconsiderato, istintivo, lungi dallo allontanarsi dal padiglione, essi si precipitarono nel corridoio e salirono la scala che conduceva al piano superiore. Bambina passò come un'ombra accanto a loro. Ella fuggiva presa da terrore, avendo distinto fra i cospiratori, ch'ella tradiva, suo fratello e il giovane ch'ella aveva amato. Nè il principe nè il re non pensarono a fermarla. Bambina andò a cadere svenuta sul banco di marmo, alla porta del padiglione. Ferdinando e Schwartzemberg si avvicinarono al contrario alla camera ove i cospiratori deliberavano. La porta era restata aperta. Ora quale non fu la stupefazione del re e del principe in trovando che quelle otto persone, cui essi avevan creduto sorprendere in flagrante delitto di cospirazione contro lo Stato, giuocavano tranquillamente al zecchinetto!

Ecco ciò che era succeduto.

Al grido di Bambina, all'annunzio dell'arrivo della polizia, essi avevano compreso in un lampo che sarebbe stato loro impossibile di fuggire, e che la fuga avrebbe servito al contrario come indizio della colpevolezza della riunione.

—Tutti qui! gridò il delegato di Foggia, sedetevi intorno la tavola.

E' tirò allora di tasca un pugno di moneta ed un mazzo di carte.

Quel prete era un formidabile giuocatore, che portava delle carte piene le scarselle, e le carezzava quando non giuocava persino sull'altare, dicendo la messa. In un baleno il giuoco fu in corso e la tavola coperta di danari.

A quella vista, il re ed il principe rincularono senza entrare e discesero. Nel corridoio, il re si imbattè nel marchese di Sora, uscito insieme agli altri al rumore ed al grido di Bambina. Il re si approssimò al marchese e gli disse all'orecchio:

—Venite.

Il marchese riconobbe la voce del re e si sentì preso al cappio. Nonpertanto e' sorrise e rispose:

—Sono felice d'incontrarvi qui, sire.

Il marchese di Sora, il re ed il principe di Schwartzemberg uscirono. Passando avanti la porta il re riconobbe il corpo di Bambina accasciata sul banco. Egli le si avvicinò e le disse basso all'orecchio:

—Signorina, voi avete tenuta la vostra parola, io terrò la mia. Vostro fratello è vescovo.

Il re, il principe ed il marchese andarono via dal cancello e salirono tutti e tre nella carrozza del ministro che aspettava all'estremità della strada.

—Sire, disse il marchese, V. M. ha potuto assicurarsi alla fine se io manco di zelo e se temo anche il pericolo personale per il servizio del vostro trono.

—Ah! sclamò il re. E che facevate voi dunque in mezzo ai cospiratori?

—Li sorvegliavo. Io m'ero sguizzato in fra loro come complice, onde sorprenderli e conoscere tutti i segreti loro. L'ordine che ho qui prova a V. M. che io stava per farli arrestare tutti stanotte stessa.

Il marchese di Sora presentò un foglio al re, ove l'ordine di arresto del marchese di Tregle, del colonnello Colini, del barone di Sanza era dato alla data stessa di quel dì.

Ciò era convenuto tra il colonnello e lui, essendosi preveduto un tradimento, e quanto prezioso fosse non compromettere il ministro.

—Se sono scoperto, aveva detto il marchese fin da principio, vi consegno al carnefice, ove non possa altrimenti salvarvi.

—Sia pure, aveva risposto il Colini, purchè meniate a fine l'impresa.

Alla vista dell'ordine d'arresto così in regola, il re guardò il principe di Schwartzemberg e conservò il silenzio. Salendo nella propria carrozza, lasciata più lontano, il re disse al marchese:

—Tu sei un fedel servitore, marchese, ma tu giuochi una partita pericolosa. A domani.

E si separarono.

XXI.

Qualche ritocco al ritratto del re che prega.

Quando furono soli nel loro coupé il re si volse verso l'ambasciatore e gli dimandò:

—Principe, qual è il vostro avviso su tutto codesto?

—Sire, io non posso esprimere a V. M. che quale è la mia impressione, rispose Schwartzemberg.

—Ebbene?

—Ebbene, io persisto nell'opinione sovente manifestata a V. M.: il marchese di Sora è un traditore. Le spiegazioni ch'egli ha date a V. M. sono un'antica astuzia di polizia, frusta, logora, lacera dal tempo, di cui alcuni sovrani e alcuni ministri furono creduloni, ma il pubblico mai.

—Nonpertanto…..

—Sire, regola generale: i cospiratori sono sempre meno balordi dei ministri. I cospiratori agiscono per convincimento o per interesse; i ministri, per dovere: prima ragione d'inferiorità. I cospiratori giuocano la loro vita; i ministri si espongono tutto al più a dire una menzogna ai loro sovrani ed a subire qualche rimprovero: seconda ragione d'inferiorità. I cospiratori sono d'ordinario persone di mente e di cuore,—a loro modo, ma incontestabilmente,—sopratutto i capi, uomini scelti; i ministri spuntano al sole del favore della corte, all'azzardo, come Dio li mena, fiore o legume: terza ragione di inferiorità. Passo oltre le più gravi. Io non nego però il merito del marchese di Sora.

—Questo è incontestabile, certo.

—Sire, in questo mondo non vi è di certo che le tasse e la morte. Però qualunque sia il merito del marchese, il colonnello Colini ed il marchese di Tregle non sono mica sì candidi da lasciarsene abbarbagliare e domare. Ora, delle due cose l'una: il colonnello Colini ed il marchese di Tregle sono complici del vostro ministro della polizia e tradiscono il loro partito, o il marchese di Sora è complice del colonnello e tradisce V. M. Il vostro ministro respinge naturalmente quest'ultima imputabilità. Ma siccome io non posso in guisa alcuna dubitare nè dell'intelligenza nè del carattere dei cospiratori, io mantengo la mia accusa: il marchese di Sora è un ministro sleale.

—Ma allora noi siamo perduti! sclamò il re.

—Vi domando scusa, sire. Il pericolo era certamente grave ed immenso quando V. M. riposando con fiducia sul ministro, questi poteva scavarle sotto i piedi l'abisso, dandole a credere che V. M. camminava sulle rose. Ma adesso, che grazie alle rivelazioni interessate della piccola spia, V. M. è stata messa in guardia, il pericolo è scongiurato, io m'immagino.

—Ed in qual modo?

—Ma, in modo semplicissimo. E poichè la Maestà Vostra mi fa l'onore di dimandarmi il mio avviso, eccolo qui. E' bisogna far sembiante di credere senza riserbo alle spiegazioni date dal marchese di Sora, lodarlo, ringraziarlo come un salvatore, ricompensarlo ed assopirlo. Infrattanto è mestieri farlo sorvegliare attentamente e con sagacità, e controminare le sue mine. Poi, quando V. M. possederà tutti i piani della cospirazione, quando V. M. avrà apparecchiate le sue forze, i suoi uomini, i suoi mezzi, piombar come il fulmine sopra quegli infami e schiacciarli tutti, tutti, senza riguardi, senza pietà. All'occorrenza si potrebbe tender loro una trappola, per sbarazzarsene più presto. Le cospirazioni che van per le lunghe sono sempre pericolose: esse ingrandiscono e si consolidano vivendo.

—Pensate voi, principe, che convenga tener parola alla piccola spiona, come voi la chiamate?

—Salvo l'avviso opposto della M. V., io penso che la parola di un sovrano debba esser più infallibile che quella del papa. Questa avventura sarà nota. Vi è lì sotto l'amore di un personaggio misterioso e potente cui bisogna portare in chiaro. Perocchè l'individuo che conosce i più intimi segreti del marchese di Sora non può essere il primo venuto, ed il governo di V. M. sarebbe colpevole di non scandagliarne e d'ignorarne i disegni, lo scopo, il carattere e le opinioni. Ebbene, se la storia delle promesse scambiate tra V. M. e la giovinetta sarà conosciuta, e che si sappia in seguito che la M. V. l'ha giuntata, chi cederà più mai alla tentazione di rivelare di simili segreti e di confidarsi alla parola reale? Bisogna che quel Don Diego Spani sia libero.

—Egli lo è di già. Ed è un terribile uomo, a giudicarlo dal supplizio spaventevole che ha subito senza lasciarsi sfuggire la minima confessione.

—Ragione di più, allora. Bisogna che quell'uomo sia vescovo,—salvo a giudicarlo e vedere se sarà utile servirsene o spezzarlo.

—Gli è precisamente l'avviso mio. Io nominerò il vescovo del diavolo; ma il diavolo non ne godrà.

L'indomani, il re fece chiamare il conte di Altamura nel suo gabinetto.

Il conte Altamura¹ si chiamava adesso il cav. Spada. E' si era evaso dalla prigione della Vicaria, vestito da gendarme, accompagnando un altro prigioniero innanzi la corte,—mediante una ricompensa al carceriere in capo,—in mezzo al silenzio di tutti i suoi compagni di camerata, i quali lo avevano veduto cangiare di assisa. Egli aveva preso in seguito altre spoglie, adulterando il colore dei suoi capelli, della sua pelle, dei suoi baffi, dandosi parrucca ed occhiali, bernoccoli sul naso, una gamba a strascico, un tremolio da barbogio in tutte le membra ed un accento tedesco fiorito di dolcezza e di bonomia, con un leggero difetto di pronunzia dell' r. La sua ganza non l'aveva riconosciuto. Ma e' non si nascondeva ai suoi amici, ai suoi complici nelle nuove intraprese a cui mise mano. In questo frattempo un generale, amico del principe di Schwartzemberg, inspirò al re di organizzare la sua polizia segreta di palazzo onde sorvegliare la polizia generale del regno.

¹ Vedi il Sorbetto della Regina.

La polizia segreta era stata un poco negletta, in mezzo ai vagheggiamenti guerrieri di questo re gran capitano. L'avvenimento di Pio IX al pontificato, il risveglio d'Italia, l'inquietudine della Francia, il carattere del marchese di Sora, fecero sembrare opportuno agli amici del re di vivificare la polizia del gabinetto di S. M. e di farla agire attivamente. Bisognò un capo abile. Il generale Vidal, che conosceva da lunga pezza il conte di Altamura, lo propose, lo stimò e lo garantì.

Il conte venne alla corte.

Si trasfigurò. Si dètte dei peli rossi, un sembiante di gobba sul dorso, delle lentiggini sulla pelle, due pollici di statura di più della sua, una voce chioccia, una glandola lagrimale rossa e gonfia, un dondolìo curioso del corpo, mal portato da due gambe troppo fesse. Ebbe sempre il sigaro o la pipa alla bocca. Si fece passare per tedesco,—della Toscana, impiegato nella segreteria particolare del re a compor cifre diplomatiche per la corte di S. M. siciliana e decomporre le cifre degli ambasciatori. Perocchè S. M. aveva una rabbia irresistibile di conoscere ciò che le sue poste reali portavano ai gabinetti stranieri. Il cavaliere Spada del resto si mostrava poco: era misantropo!

Sotto questa direzione, la polizia segreta del re funzionò, come funzionano tutte le polizie,—non sapendo nulla, cioè mostrando al padrone di tutto sapere, salvandolo due o tre volte per settimana, usando civilmente della sua lista civile, perseguitando la gente dabbene, facendosi dar la berta dai bricconi, non distogliendo alcun complotto, organizzandone uno di tempo in tempo onde regalarsi la soddisfazione di sorprenderlo. Fouché diceva: quando vi sono tre persone che conoscono una cosa, il segreto è impossibile. Ora il segreto della polizia particolare del re era conosciuto da parecchi: il Marchese di Sora non poteva ignorarlo. E' piaggiò nonpertanto il re, mostrandosi di una grande discrezione in proposito, facendogli comprendere nello stesso tempo ch'egli si sapeva sorvegliato.

Il dì seguente, il conte di Altamura fu rudemente maltrattato ed umiliato, quando il re gli apprese il complotto scoverto da lui la notte precedente, al di fuori delle sue due polizie, ed alla loro barba.

Il conte esaltò la perspicacia ed il coraggio di S. M. e disse: che come gli era vietato di avere gli occhi e le mani nelle dimore di certi stranieri, egli non poteva evidentemente indovinare ciò che vi si ordiva, e che perciò egli non era colpevole di aver ignorato ciò che accadeva in casa lady Keith. Il re lo malmenò forte, malgrado ciò, lo minacciò, gli rimproverò il danaro ch'egli sciupava per nulla e conchiuse:

—Ora, bisogna avvisare.

—Vostra Maestà mi faccia la grazia di esprimermi i suoi desiderii, rispose il conte, ed essi saranno compiuti a capello.

—Vi è un uomo straordinario che ha rivelato ad una certa Bambina Spani un segreto del marchese di Sora. Voglio sapere chi è codest'uomo.

—Io posso in questo istesso istante rivelarlo a V. M. Gli è il padre Piombini della società di Gesù.

—Come! egli avrebbe dei segreti che tace ai suoi superiori,—i quali ce li avrebbero certamente comunicati,—e cui rivela ad una sgualdrinella? I gesuiti sarebbero anch'essi contro di noi, per avventura?

—I gesuiti, sire, fanno come l'Inghilterra: accettano tutti i fatti compiuti. Per essi il diritto è a colui che lo esercita. Quanto al padre Piombini, egli ama quella fanciulla di una bellezza incantevole.

—L'ho vista, interruppe il re.

—Allora V. M. può giudicare della potenza del fascino che quella ragazza ha gettato sul suo confessore. In un altro secolo la si sarebbe bruciata viva come stregona. Nel nostro la si giudica come cantoniera, scroccona ed intrigante. Ella si reca ogni dì presso di quel confessore. Il padre Piombini va a vederla in casa lady Keith. Il vostro confessore esso stesso, sire, il santo vescovo di Patrasso, ha corso il pericolo di essere ammaliato da quella sirena. Ma egli ha rifiutato di vederla. Ella ha un fratello che la vende e che cospira contro lo Stato,—in questo momento a Santa Maria Apparente.

—Egli ne è uscito. Ed io debbo adesso nominar vescovo il fratello di quella cortigianella. Lo debbo: ciò avrà luogo stamane stessa.

—Sono io, sire, che lo avevo fatto imprigionare come cospiratore.

—E sono io che, dietro il rapporto del marchese di Sora, l'ho fatto mettere in libertà. Ma non si tratta più di ciò.

Il re si tolse dagli occhi del conte di Altamura ed andò ad inginocchiarsi nel suo gabinetto e pregare. Qualche minuto dopo rientrò e continuò la conversazione.

—Quel Don Diego Spani è un cattivo prete. Egli sarà un abbominevole vescovo. Ora, siccome sono io che introduco nella Chiesa questo lupo pericoloso, debbo esser io a cui incomba preservare l'ovile dalle sue scelleratezze. Ho dato la mia parola di nominarlo: è mestieri ch'egli sia vescovo. Ma io non ho promesso ch'egli godrebbe di un posto cui mi ha fatto estorquere.

—V. M. non ha bisogno di dir altro. Solamente io supplico la M. V. d'inspirarmi ove questa esecuzione della giustizia di Dio debba aver luogo, a Roma, dopo la consacrazione, ovvero a Napoli, dopo il suo ritorno?

Il re si allontanò per pregare, poi ritornò e disse:

—A Napoli, con abilità e mistero, dando alla punizione il marchio dei gastighi di Dio: il terribile e l'inatteso.

—Quelli che spiacciono al re non son essi nemici di Dio? Non mercè di sorte dunque.

—Ma di ciò a suo tempo. Per il momento, concentra ogni tua attenzione sul marchese di Sora. Ho degli ordini speciali a darti su questo soggetto.

Il re fece un segno. Il conte di Altamura s'inginocchiò, baciò la mano del re ed uscì.

La notte precedente, il colonnello Colini, il marchese di Tregle, il barone di Sanza e tre dei delegati delle Provincie erano stati arrestati. Essi lo sapevano. Il colonnello Colini n'era instrutto; perchè, come ho detto, era stato convenuto tra loro che il marchese di Sora, trovandosi in pericolo essendo scoverto per uno di quei casi imprevisti che accompagnano le cospirazioni, farebbe arrestare i suoi complici onde assopire la rivolta e salvarli poscia in un modo o nell'altro.

Il barone Colini aveva altresì contezza del mandato di arresto che il ministro della polizia portava sempre, tutto all'ordine, nel suo portafogli. Egli die' quindi sesto alle sue carte, rientrando dalla villa di lady Keith. Il marchese di Tregle fece altrettanto. Gli altri presero eguali precauzioni. Tutti si coricarono ed aspettarono. Alle tre del mattino essi erano tutti in gabbia, non nelle prigioni della polizia, ma nel castello S. Elmo,—quella magnifica fortezza che corona così pittorescamente il paesaggio di Napoli.

Il ministro spiegò al re perchè egli si fosse comportato in quel modo.

Egli fece un quadro dello stato degli spiriti nel regno, che spaventò re Ferdinando. Poi lo consigliò di esiliare quei prevenuti, anzichè aumentare l'eccitamento dell'opinione pubblica con un processo che avrebbe un eco immenso in Europa. Una scintilla su quella polveriera poteva perder tutto.

Parecchi ambasciatori stranieri parlarono al re nello stesso senso. Ed il principe di Schwartzemberg gli fece inoltre osservare, che non si avrebbero prove, che sir William Temple aveva di già minacciato una tempesta diplomatica sulla violazione del domicilio di un suddito inglese, anche cortese e regale come la si era compiuta.

Il re dimandò tempo a riflettere. Lasciare una preda di quell'importanza! si minchiona dunque?

Don Diego aveva portato seco sua sorella.

Egli non fu arrestato.

Il marchese di Tregle gli mandò don Gabriele per avere delle spiegazioni; perocchè e' fu accertato da lady Keith che Bambina aveva introdotto il re e l'ambasciatore d'Austria nel padiglione. Don Diego aveva tutto appreso da sua sorella. E' negò tutto.

Egli aveva ricevuto la mattina stessa la lettera del ministro del culto, il quale gli partecipava, che il re aveva degnato proporlo vescovo di Noto, in Sicilia, e ch'egli avesse a presentarsi al ministero. Don Gabriele, che apprese codesto dal suo amico Fuina, ne portò tosto la notizia al castello S. Elmo.

Ahimè! essi ignoravano gli ordini che re Ferdinando aveva dato il mattino al conte di Altamura, e la conversazione che S. M. aveva avuto la vigilia col principe di Schwartzemberg!

Una carrozza a due cavalli infrattanto si fermava, tre o quattro giorni dopo, verso mezzodì, alle sponde del mare alla punta di Baia. Le due persone che ne discesero erano: il conte di Altamura, travestito da viaggiatore inglese, ed il commissario di polizia addetto al ministro, Fuina. Una barca condotta da sei rematori li aspettava.

Quel sito è desolato. Il promontorio di tufo giallo, forellato come una spugna, corroso, incrostato di uno strato di sale dall'evaporazione marittima, tigrato qua e là da un ciuffo di erba grigia a filamenti ossei, animato solo da un formicolaio di piccole lucertole color piombo, intaccato da ogni lato, non esprimendo nulla, avendo dei bernoccoli insulsi, dei crepacci ciechi, dei gibbi muti, questo promontorio, dico, non ha nulla di poetico, nulla di bello, nulla di terribile nè di assolutamente lugubre. Esso giace sopra un letto di sabbie grige, che lo contornano di un lembo triste e terminano l'arco del golfo come un braccio mutilato.

Nessuno abita la spiaggia. Alla cima del promontorio, che dal lato di Baia declina a dolce scoscesa, torreggia una ruina, un dì casotto di doganieri, ora (1847) abbandonato e demolito. La si direbbe, questa punta di Baia, un dente cariato spezzato.

Il mare era cattivo. Il cielo losco. Le onde sonore si frangevano con alacrità sulla spiaggia e lasciavano sulla sabbia un collare di schiuma giallastra mista di brandelli di alga. Procida, dall'altro lato del canale, si abbozzava appena sopra un fondo di vapori cenerognoli. L'aria era pesante, densa; punto di vento. I gabbiani e gli smerghi non pigliavano posa. Malgrado però il rumore dei fiotti e l'animazione degli esseri viventi, si sarebbe creduto trovarsi immersi nella solitudine e nel silenzio.

—Il tempo è cattivo, osservò Fuina.

—No, rispose il più anziano dei marinai: e' porta il broncio, forse brontolerà un poco stanotte, ma nulla di serio. Il mare dorme al fondo. Fa un cattivo sogno e l'epidermide si corruga un tanto.

—Possiamo avventurarci alla traversata?

—Senza alcun pericolo. Non isseremo vela e forse arriveremo un poco più tardi: ecco tutto.

—Tutto?

—Tutto. Salite.

Il conte di Altamura dette ordine al suo cocchiere di venirlo ad aspettare allo stesso sito, l'indomani, alle nove, e s'imbarcò.

Il padrone aveva detto vero: le onde grosse, frante, capricciose, dettero loro non poco rovello, ma non si corse alcun pericolo. Nondimanco, le barche dei pescatori rientravano. Il canale di Procida è perfido e nasconde delle situazioni drammatiche imprevedute. Voi ammirate un lago pagliettato di oro? ad un tratto, la superficie dell'acqua si oscura, trema, fa brutto ceffo, si screpola, ringhia, ed il diavoleto comincia. L'è un mare nervoso, soggetto a degl'increspamenti interni. Non rotola desso forse, del resto, sopra un cratere vulcanico?

Bentosto si cominciò a distinguere l'isola. Bentosto si distinse spiccatamente quell'edifizio bianco, un dì castello reale, ora ergastolo. Due ore dopo, sbarcavano.

Fuina conosceva la terra. Ma l'avesse pure ignorata, il caso lo avrebbe servito con compiacenza: incontrò il comandante del forte con cui avevano a fare. Il maggiore Scalese conosceva Fuina. E' l'abbordò.

—Noi veniamo da voi, maggiore, disse Fuina.

Il maggiore squadrò il travestimento all'inglese del conte di Altamura e dimandò:

—Partita di piacere, eh?

—Forse, sclamò Fuina. Andiamo nel vostro alloggio.

—Ripartite voi stasera? Non ve lo consiglio. Il mare è minaccioso.

—Restiamo.

—Allora voi resterete con me. Milord accetta?

—Senza complimenti, rispose il conte con un accento britannico vigoroso.

Il maggiore comperò qualche provvigioni, poi salirono alla fortezza.

—I vostri canarini van bene? domandò Fuina, indicando con quella parola i galeotti.

—Si bezzicano di tanto in tanto. Milord sarebbe per caso uno scienziato che coltiva questa parte dell'istoria naturale?

—Un poco, rispose d'Altamura.

—Milord, non sarebbe per avventura un emissario di lord Palmerston che viene qui per fare un rapporto in segreto?

—E se ciò fosse? mi mettereste alla porta? domandò il conte.

—Per chi mi prendete voi dunque, milord? Venendo col mio amico, il commissario Fuina, voi dovete conoscere i regolamenti della casa. L'è un affare di tariffa un pochino più caro per le mercanzie straniere. Ma altresì, se voi pagate un maggior prezzo, voi vedrete le cose più segrete e curiose, che noi riserbiamo per gli amatori di filantropia stranieri.

Arrivarono, così cicalando, alla porta esterna della fortezza. Una donna la traversava al punto stesso,—una monaca di casa, tutta in lagrime, in disordine, singhiozzando e torcendosi le braccia per disperazione.

Era Concettella, ora suor Crocifissa, al servizio di Don Diego Spani, e sua ganza.

Ecco ciò che era succeduto.

XXII.

Nel bagno di Procida.

Io ho notato già che Filippo Rotunno era stato introdotto nel bagno di Procida come spia,—perchè re Ferdinando aveva fatto gettare in quella bolgia i patrioti insieme coi ladri e gli omicidi. Dotato di un coraggio reale, rialzato da una smargiasseria di apparato che gli aveva procurato il soprannome di Guappo, Filippo aveva subito scalato il potere. Poi con un colpo di camorra, si era impadronito della dittatura in quella repubblica del delitto e della catena, ove tutti i condannati sono eguali, dopo la sentenza della Corte di Assise.

La camorra è una chiesa massonica, ove gli associati non lavorano, e prelevano una decima considerevole e forzosa su coloro che lavorano proteggendoli.

Qualunque traffico, qualunque mestiere, qualunque industria, se voleva prosperare tranquillamente, si metteva sotto la salvaguardia di questa Santa-Wehme, cui nessun governo e nessuna polizia han mai potuto dissolvere. Bisognava, bisogna ancora, pagare la sua quota di assicurazione, sotto pena, per coloro che ricalcitravano contro l'occulta potenza, di essere battuti, insultati, uccisi pur anco, e d'incontrare ogni specie di ostacolo nelle loro intraprese. Solo, contro una società formidabile, il pacifico lavoratore subiva la legge fatale, pagava e paga la decima del signore alla camorra, come paga i balzelli dello Stato. La mano della camorra era dovunque: sulla piazza pubblica, alla chiesa, nel bagno, alla Corte, nelle strade, nell'esercito, al convento, nel carcere, ed illaqueava la società. Re Ferdinando era il gran maestro dell'associazione. Imperocchè egli toccava la sua parte in tutte le operazioni di questa misteriosa potenza. Era mestieri pagare un livello così per ottenere un portafogli da ministro e trafficarne a suo bell'agio, come per vendere zolfanelli per le strade e raccogliere mozziconi di zigari.

Un certo numero di guappi erano i collettori di questa imposta. E quei bravi appartenevano pressochè tutti alla polizia, in qualità di birri o in qualità di spie. I profitti filtravansi al ministero della polizia, donde prendevano il volo ascendente per arrivare fino al re, sotto il nome di risparmi sui fondi segreti, o dei famosi: ed i miei zigari? cui re Ferdinando dimandava in tutti gli affari, agli intraprenditori, alle regie, agli appaltatori, agli aggiudicatarii, ai ministri, ai vescovi, alle fabbricerie.

Al bagno di Procida, la camorra prelevava la sua contribuzione sopra coloro che volevano vivere tranquilli, che avevano qualche fortuna più degli altri, che volevano essere esenti da certi servizi obbligatorii, che volevano godere dell'aria, della loro povera pietanza, del passeggio nella corte, del sonno, andare al parlatorio per vedere la moglie od i figliuoli, in una parola, fruire del dritto di vita cui la sentenza della Corte delle Assise aveva lasciato loro. I più determinati, i più disperati, i più facinorosi si appropriavano questo balzello di assicurazione, facendo, ben inteso, la parte del leone al comandante del bagno, al cappellano, ai carcerieri, al ministro della marina che portava i suoi risparmi a S. M. Laonde non si aveva più il diritto di lamentarsi di checchè sia,—neppure del nutrimento abbominevole e della lurida casacca gialla che gli appaltatori somministravano, gli appaltatori avendo pagato il loro balzello di franchigia ed acquistato il diritto di rubare impunemente quei miserabili.

Filippo llu guappo si era costituito capo della camorra nella sua camerata, in relazione coi capi delle altre sale. Gabriele aveva ricusato di far parte della camorra, ma lo si era esentato da ogni pagamento e da ogni servitù, conoscendolo capace di resistere ad ogni costo. I politici erano ammucchiati in quella camerata. Gabriele li avvicinava. Gli si era appiccato il soprannome di paglietta perchè aveva imparato a leggere ed a scrivere dal capellano del bagno, e perchè, in tutte le contestazioni, lo si consultava e lo si prendeva per arbitro. E' faceva tutto il bene che poteva, e si asteneva dal male cui avrebbe potuto rendere a quelle nature perverse, le quali accattavano brighe con tutti coloro che tentavano rialzarsi.

Ciò che chiamasi il male non è un prodotto sociale, ma un elemento naturale dell'universo,—di cui Iddio sarebbe l'autore ed il gerente responsabile, se Dio fosse al di fuori di questo universo ed altra cosa ch'esso stesso.

Gabriele e Filippo non erano amici al bagno più che non lo fossero stati nel mondo. Ma siccome Gabriele non opponeva ostacolo di sorta all'agente del conte di Altamura, e viveva in un circolo d'idee e di sentimenti al di fuori del bagno, Filippo non lo stuzzicava punto e nol provocava giammai. Più ancora, egli fece qualche sollecitudine per ravvicinarsi all'amante ora preferito di Concettella. Gabriele si tenne sul riserbo e mendicò la compagnia e la confidenza dei politici.

Ma anche in codesto Filippo gli antistava.

Come costui manteneva numerose relazioni al di fuori e si atteggiava a capopopolo, liberale, nemico dei Borboni, sospirando la Carta,—di cui ignorava il significato,—i condannati politici si servivano di lui per mandare i loro messaggi al di fuori e riceverne. Come lo si comprende bene, questi messaggi, all'uscita ed alla entrata, passavano sotto lo sguardo del conte di Altamura. Filippo era ricco e generoso, ed i politici erano quasi tutti poveri. Egli era turbolento e feroce, ed i politici desideravano vivere in pace e non confondersi cogli altri. Filippo li proteggeva. E' divenne per conseguenza ben presto necessario a quest'aristocrazia dell'ergastolo e si fece amare da lei. Egli ecclissò dunque Gabriele anche in codesto.

Un avvenimento decisivo doveva ravvicinarli.

La mattina stessa che il conte di Altamura partiva da Napoli per venire a Procida, i forzati si sollazzavano nella corte, al sole di ottobre,—sì vivificante e salubre nel mezzodì. Gli uni davano la caccia agli insetti nei loro cenci gialli; gli altri passeggiavano; altri, coricati supini, guardavano nel vago infinito: questi parlavano, quelli fumavano, mangiavano, si querelavano. I politici in un lato, formavano un gruppo, intorno al quale Gabriele girava, in mezzo al quale Filippo diceva dei lazzi. Alcune figure sinistre e brutali restavano a parte o abbordavano gli altri con cinismo, sapendosi temuti.

L'espressione generale di quei sembianti era l'indifferenza. E' sapevano tutti che per parecchi anni la terribile quistione del giaciglio e del pane quotidiano era risoluta per loro. La vita nel mondo era stata per costoro più miserabile, il pane più duro ed incerto, il covo più immondo. I legami di famiglia si spezzano innanzi ai cancelli della prigione. Si cangia di mondo. Si trovano in un altro medio, in un'altra atmosfera, in un altro sistema; prendono altre abitudini, altri sentimenti, altro linguaggio: la vita ha un altro scopo. Moglie, figliuoli, cessano di essere un carico, una risponsabilità, un bisogno, un'utilità; il muro della tomba s'innalza tra loro avanti l'ora. Questi oggetti amati un giorno si veggono adesso raramente, forse non si riveggono giammai; non si ode di loro che una voce: il lamento,—lamento cui il prigioniero è impotente a lenire, e che quindi gli giunge come una ferita che lo tortura. Si sentono ristucchi, si soccombe, si diventa insensibili. E tutto ciò, quando si ha fame, quando si ha freddo, quando si è quasi nudi, quando si è battuti di qua, scroccati di là, quando le ore della vita non sono più nelle mani di Dio, ma alla mercè di mille accidenti sinistri, di mille odii, di mille collere!

Coloro che avevano una speranza nel cuore mostravano dei visi più animati o più tristi. Il loro tipo era più individualmente marcato. Ma anche i più giovani avevano quell'aria di caducità, cui la mancanza di cure igieniche, del magnetismo femminino, dell'aere battuto e rinnovellato di lontano, del sentimento della lotta nella società, stempera sulle fisonomie. L'indifferenza è un terribile deprimento fisiologico.

In generale, si parla basso. Rari canti. Si canta talvolta in prigione, ma quando si è soli o si può isolarsi anche in mezzo della folla. Il sorriso era ammalato; e se era fragoroso, gli era un ringhio convulsivo. Non atmosfera per le idee; si ripete stamane ciò che si era borbottato ieri, forse in un tuono più alto o più basso. La parola sembra incolora, malgrado il fitto buio della tinta del gergo. La voce istessa perdeva la sua individualità accentuata e diveniva un'eco monotona del tuono generale del bagno. Si vedevano degli occhi spenti fiammeggiare di un lampo e riestinguersi subitamente come un razzo che cade nell'acqua. Tutti si lamentavano. Nessuno accoglieva il gemito di altrui per addolcirlo, alleviarlo, o consolarlo. La conversazione era stupida come un dizionario. Imperciocchè se qualcuno ha un pensiero vivente, lo nasconde e lo rumina sul suo origliere, o lo susurra all'orecchio di un complice come un secreto. Al bagno non vi hanno amici: non si ha che complici del medesimo sovvenire o della medesima speranza: ieri o dimani! L'uomo che vive all'altra estremità della catena che li lega, è un incubo spaventoso, abborrito, intollerabile; il bagno li fa gemelli della disperazione e dell'odio. Trascinare dietro a sè un altro quando si ha appena un me, gli è il supplizio di Mesenzio che ribadiva i vivi ai cadaveri. Non potere astrarsi, gli è un sentirsi vuotato di anima, espropriato di sè stesso. La vita, impantanata, di già, diventa fetida e mortale. Malgrado l'aria aperta, si respirava male, ed un odore nauseabondo ed indefinibile si sprigionava da dovunque e da chiunque,—dalle mura, dai cenci, dai corpi, dagli sguardi, dagli aliti.

I politici essi stessi subivano questa putrefazione del morale sotto l'abbiosciamento del fisico. Ciascun d'essi era accoppiato con la catena ad un condannato per delitto comune. Di guisa che, e' non potevano neppure più abbandonarsi all'attrazione reciproca: la corrente era franta da questi corpi repellenti. Il loro ascendente di educazione, di fortuna, di nascita, si annientava: essi non aveano alcuna presa sopra quelle nature inaffini. L'uomo addimestica le creature più feroci del deserto, della savanna, delle jungle; egli non addomestica mai il sentimento dello schiavo: l'uno è un istinto; l'altro una volontà.

Il gruppo dei politici, incrostato di quella ganga involontaria, ascoltava i rumori del di fuori, cui Filippo aveva acciuffati alla grata da un parente che era venuto a vederlo. La polizia terrorizzava Napoli. Dei numerosi arresti avevano avuto luogo. L'Austria faceva avanzare un esercito negli Stati del papa. L'Inghilterra brontolava. Il signor Guizot si faceva piccino piccino per scivolare tra le dita dell'Austria. Pio IX tuonava. Carlo Alberto stava in agguato, in aria torva e selvaggia…. e che so ancora. Tutto ciò abilmente frammisto a speranze onde provocare a terrore, onde paralizzare l'azione.

Gabriele si ravvicinò. Filippo parlava alto; non vi era dunque indiscrezione ad udire. I politici commentavano quelle novelle, ciascuno secondo il suo criterio;—ciò che Filippo desiderava anzi tutto. Il bagno era per la polizia il termometro dell'opinione pubblica al di fuori. Tutto ad un tratto, Filippo si rivolse a Gabriele e gli disse:

—Paglietta, io ho ancora qualche novelluccia per te.

—Per me? rispose Gabriele; tu t'inganni. Io non ne attendo alcuna.

—Ed ecco appunto perchè essa viene.

—Di chi dunque? Io non ho padre, io non ho madre, io non ho nè fratelli nè sorelle….

—Ma tu hai una moglie….

—Alto là! gridò Gabriele levando fieramente la testa. Sta attento, Filippo!

—Attento a che? rispose la spia. Se tu non vuoi udire, vattene. Io parlo a questi signori.

—Tu ne hai già dato ad intendere troppo. Bisogna tutto dire adesso, e senza riguardi.

—Io non vorrei pertanto farti della pena.

—Parla, parla. Ti fo grazia della compassione.

—Non vedete voi che triste carattere di uomo! Io non pensava al postutto che ad aprirgli gli occhi, ad evitargli il più grande dei cordogli. Ciò che è grave oggi, potria divenire irreparabile dimani.

—Ti sbellicherai tu, alla fine? urlò Gabriele divenuto pallidissimo.

—In fin dei conti, che mi importa tutto codesto? me ne mischio forse io?

—Ma che dunque? che dunque?

—Ebbene, me lo hanno detto, io lo ripeto. Certo, non l'ho mica visto io di qui, ed io non sono uomo da inventare simili infamie, sopra tutto a proposito di una giovane che un giorno amai.

—Ma, per il sangue di Cristo! che vuoi tu dire di Concettella? Non è a lei che tu fai allusione?

—Ebbene, signorsì. Del resto, l'era previsto, e tu stesso avresti dovuto attendertelo ed impedire il male quando tempo n'era. Comprendete voi, signori? si lascia una giovine, ancora bella, entrare al servizio d'un prete di quarant'anni, tagliato come una statua di fontana pubblica; essi abitano insieme, giorno e notte, solo a sola. La giovane è saggia, io l'ammetto; la giovine ama un altro uomo, ne convengo; ma quest'uomo è lontano, è là donde non si esce a piacere, di dove ei non manda nulla. La giovane ha una piova di stracci addosso, non ha anima che le dia un buon consiglio e la sostenga. Il prete non ha scrupoli. Egli è arso dall'astinenza; subisce le tentazioni. Essi si parlano oggi, poi la sera nel crepuscolo prima che si accenda la candela, poi si conversa dopo cena. Si rivangano i malanni; si confessa una storia d'amore; la testa si riscalda; il cuore si apre; l'immaginazione galoppa; si favella più basso, più basso ancora; s'impallidisce Dio santo! cosa volete? si è infine stanchi di resistere; si ha un momento di obblio; la preoccupazione dello avvenire sopravviene; la fame è immorale; i cenci sul corpo di una bella fanciulla sono una negazione di Dio; non un ricovero pel verno che picchia; non una buca per la notte; mendicare, mendicar sempre; tutte le porte chiuse. La ragione parla, il cuore sanguina, ma insomma la testa pensa; si chiudono gli occhi; si trangugiano le lagrime, ma alla fine….

—Ma alla fine? replicò Gabriele cogli occhi sbarrati, i pugni convulsi, l'alito sospeso, le narici frementi, divaricate…. ma alla fine?

—Ahimè! è l'istoria di tutte le fanciulle. Dopo aver lottato, l'anima si accascia, il corpo soccombe senza avvedersi… e Concettella diviene la ganza di Don Diego Spani.

—Tu menti! gridò Gabriele.

E nel tempo stesso si avventa di uno slancio sopra Filippo e lo percuote al viso.

—Sangue di Dio! urlò Filippo a volta sua, tirando di sotto la giubba un lungo coltello e precipitandosi sopra Gabriele.

Gabriele non si mosse. Gli astanti s'interposero.

—Io beverò il tuo sangue! continuò a gridare Filippo dibattendosi tra le braccia delle persone che lo attorniavano.

—Quando vorrai, rispose Gabriele; ma tu hai mentito. Concettella ha potuto subire delle tentazioni, ma ella è rimasta fedele.

I politici si tenevano a parte ed indifferenti. Gli altri galeotti appoggiavano Filippo, avvegnachè lo odiassero tutti.

—Filippo, gridò di botto Gabriele, per la misericordia di Dio! di' di' che tu hai voluto scherzare, ed uccidermi. Non è vero? no, ti hanno mentito. Tu sei innocente; io ho avuto torto di essere brutale e percuoterti ma confessalo, confessalo dunque, che tu credi che ti hanno ingannato. Concettella….

—È la concubina di quel prete, interruppe Filippo.

—Te ne supplico, per le sette piaghe di Gesù Cristo, Filippo, continuava Gabriele, non torturarmi così. Lasciatelo dunque, voi altri; ch'egli stermini il mio carcame che non sarà più nulla se ho perduto quella donna. No, oh! no; non è vero, Filippo, che la persona che ti ha raccontato questa storia non merita alcuna fede? Tu l'hai amata quella povera figliuola, tu non puoi calunniarla. Vedi, te la cedo; sì, Filippo, lo giuro per tutte le sante reliquie! te l'abbandono, e convieni innanzi a questi signori che tu ti sei ingannato. Che vuoi tu che io divenga dopo codesto! Tu puoi uccidermi, va. Un prete! è ciò possibile, ciò! Ella avrebbe soccombuto ad un prete, ella che ti ha resistito, a te che l'amavi, un così bel giovane, la gloria e l'orgoglio del popolo di Napoli, un uomo che ha fatto le più belle canzoni!…. e credereste voi codesto, signori? Un bel signore che l'avesse compra, abbagliandola con dell'oro…. ciò si è visto, ciò succede ogni giorno…. Ma un prete arrugginito, che l'ha affogata in una vecchia spoglia di religiosa…. ah! Filippo, l'invenzione non è brillante.

—Ma gli è proprio ciò, brigante, gli è proprio codesto, te lo giuro per tutte le statue dei santi del tesoro di San Gennaro. Ella si è data a quel Don Diego Spani, ella è la ganza di quel Don Diego Spani. Come bisogna dirtelo dunque? La persona che mi ha raccontata questa infamia ne fremeva, e si congratulava meco che fossi sfuggito a questo vitupero. Non s'inventano codesti orrori; si ripetono perfino a voce sommessa…. Io voleva trattarti con riserbo….. ma, per la passione di Nostro Signore! tutto il sangue tuo non basta adesso per lavar l'oltraggio che mi hai fatto.

—Io ti darò tutte le soddisfazioni che vorrai; tu mi ucciderai come un cane se ciò ti gradisce…. che m'importa la vita a me? Io viveva per lei…. Se fossi fuori, avrei a vendicarla…. Ma passeranno degli anni, prima che io mi sciolga da questa catena…. Allora, tu lo vedi, tu farai di me ciò che si fa di una carogna. Io non dimando che una cosa.

—Nessuna condizione! gridò Filippo interrompendo.

—Non si tratta di condizioni: te le lascio mettere tutte. Io non voglio che questo: voglio vedere un'ultima volta Concettella. Fammi grazia di questa dilazione. Ella verrà, oh! sì, ella verrà ancora, colpevole o no. Mi diede tanti giuramenti! Ha tanto sofferto! voglio sapere come ha soccombuto; fino a quale fondo d'abisso è rotolata. L'è la passione di Gesù Cristo che quelle cadute! si ha il suo Calvario prima di morire. Io sento che se io fossi al tuo posto, ti accorderei la dilazione cui ti dimando. Ci batteremo poi anche una volta al coltello, tu sai che io non ho paura, e che non può essere per paura che ti dico: Aspetta ancora qualche giorno. Io non ebbi gioia o dolore che per lei. Comprendi tu che giorni d'inferno saranno questi di aspetto per me? Sarà la tua vendetta, questo mio supplizio dei giorni prima che rivegga quella donna. E la vedrei poi…. Orrore! no, no, uccidimi all'istante. Lasciatelo dunque. E' sarebbe troppo soffrire.

—In guardia allora, gridò Filippo, cui gli altri forzati lasciarono libero, mettendosi in parata.

In quello stesso momento, dal fondo del cortile la voce di un carceriere gridò:

—Gabriele Esposito, una donna ti domanda al parlatorio.

—Ohè! Gabriele Esposito! si gridò da tutti i punti.

Gabriele ricevè come un colpo al cuore. Quella donna non poteva essere che Concettella. Dio gliela gittava sotto la mano perchè egli la giudicasse, al momento stesso che la si accusava. Ella era innocente. Ma, innocente o no, egli la rivedrebbe un'altra volta. Ah! sventura a Filippo se egli l'aveva calunniata! Se costui era stato ben ragguagliato e che Concettella fosse veramente rea, a che gli servirebbe la vita, poichè e' non poteva vendicarsi? Trascinare questo martirio nella mente per degli anni! nudrire questo avoltoio dei briccioli del suo cuore! contemplare questo spettacolo, notte e giorno, nel sogno e vegliando, quel prete e quella giovane tanto diletta, allacciati come la Fede e la Carità, traversare la vita come Francesca da Rimini e Paolo traversano l'eternità nel magnifico quadro di Scheffer! Ciò era insopportabile. La morte era l'obblio, la pace. Egli guardò dunque Filippo con aria grave e severa, e, cessando dal supplicare, gli disse:

—Vieni.

Filippo esitò. Un mormorio scoppiò infra i galeotti, e l'un d'essi, un politico, gli disse:

—Se non l'hai calunniata a disegno, bisogna andare. La vittima ha la parola.

Filippo celò il suo coltello sotto la giubba e rispose:

—Io prendo Dio a testimone che io ho ripetuto ciò che mi hanno detto. Ma se la calunnia vi è, io ucciderò il calunniatore, e felice quanto lui dell'innocenza di quella giovane, offrirò a Gabriele la riparazione che esigerà.

Filippo prese il braccio di Gabriele, il cui passo barcollava, e lo trascinò al parlatorio. I galeotti li seguirono in massa.

Si permetteva agli uomini ed ai fanciulli di entrare nelle corsie e nel cortile per vedere i parenti: le donne erano ricevute in una piccola sala, divisa in due da un duplice cancello, separato da venticinque o trenta centimetri d'intervallo. Potevansi vedere, parlarsi, darsi la mano, passare dei piccoli involti, ma ecco tutto. Delle massicce porte corazzate di ferro, armate di gattaruole ove vigilava un aguzzino, erano praticate dai due lati della sala, l'una che si apriva al di fuori, l'altra nel bagno.

Il luogo era vuoto, di guisa che Concettella si trovò sola. Ella attendeva con ansietà.

La porta si aprì. Gabriele, seguito da Filippo e da una frotta di condannati, irruppe nello spazio riserbato ai prigionieri.

Quella vista, quel corteggio inusitato, agghiacciarono di terrore la giovane donna. Ella abbassò il velo di religiosa, cui aveva appena rialzato aspettando Gabriele.

XXIII.

Vi sono dei giudici in galera.

Concettella aveva lasciato Napoli la vigilia.

Don Diego, uscendo dalla prigione in uno stato di convalescenza poco avanzata, aveva ricevuto da Concettella quelle cure intelligenti e devote cui due categorie di donne sanno dare solamente: la madre e l'amante quando ama.

Nella devozione della donna maritata e della sorella, comunque angelica essa sia, si sente il dovere; nella devozione della madre e dell'amica domina l'abnegazione.

In quel frattempo, il conte di Craco gli aveva mandato i pieni poteri di delegato delle due Provincie presso il comitato centrale.

Il conte di Craco, più serio, migliore conoscitore degli uomini che suo figlio Tiberio, non aveva ritirata la sua stima a Don Diego. Egli non lo aveva giudicato sulle apparenze o l'irritamento delle passioni di un momento; non aveva punto diminuito la sua credenza nell'alta nobiltà d'animo di quel prete. Egli aveva quindi scritto a suo figlio di mettere maggior gravità nel giudicare gli uomini.

Quando il marchese di Sora raccontò al colonnello Colini l'ammirabile contegno di Don Diego nei tormenti, l'ammirazione aveva ceduto il posto al dubbio ingiurioso, e Don Diego aveva raddoppiato quel sentimento di rispetto e di fede con la sua modestia, non menando parata di martirio, non esigendo riguardi di sorta, e non ambizionando altra parte che quella cui volevano assegnargli. Egli aveva ricominciato il suo lavoro pel canonico Pappasugna all'Ospedale, e lo conduceva innanzi alacremente. La prova della muda e dell'aculeo l'aveva purificato. I disegni infami che aveva formati sulla sua sorella, in un momento di eccitamento cerebrale, gli rodevano il cuore, annegato nel rimorso. Non carezzava dunque che una speranza, ritrovarla, rassicurarla, restituirla alla sua casa.

Ma qui una nuvola nera si sollevava sovra i suoi sogni color di rosa. Poteva egli far convivere sotto lo stesso tetto Bambina e Concettella, il petalo bianco dell'innocenza e la camelia rossa gualcita?

Egli amava di già Concettella come amano gli ascetici,—i quali, all'età di quarant'anni, incarnano in una donna venticinque anni di visioni edenitiche, dei desideri incomprensibili, delle voluttà divine, una rabbia inscandagliabile dei sensi. I sensi, il cuore, il cervello, il cervelletto, l'anima, la midolla spinale, il giudizio, la immaginazione, tutti gli organi del pensiero e della vita sono presi ad un tempo in questo amore-Sahara: l'incantesimo divino del godimento s'innesta alla malia infernale del delitto. Un amor simile per un prete è un anatema. Come mai si sarebbe egli dunque separato da Concettella? Ma vi era altra cosa ancora.

Concettella era stata amata, aveva amato, aveva patito moltissimo, ma era caduta pura nelle braccia del prete. Ella aveva rotolato a traverso tante avventure, malori, sofferenze, ma il suo candore muliebre non si era incespato all'onta. La sua immaginazione più che il suo cuore si era esaltata nella brama di sposare Filippo, nel suo giuramento di fede eterna a Gabriele. Ella diligeva costui come un fratello violentemente ammirato, ma non come un amante irresistibilmente desiderato. Questa circostanza aumentava la passione di Don Diego. Egli aveva scandagliato il cuore della giovane e vi aveva letto, non ancora l'amore per lui, ma quel turbamento immenso che precede la passione tempestosa, quell'insurrezione della vita che rompe tutte le dighe, invade tutto, trascina tutto colle sue forze oceaniche. Egli spiava ed attendeva lo scoppio.

Ora, ecco che una sera, la sera più solenne della sua esistenza, egli ritrova quella sorella fuggita dal nido, incontra Bambina quasi svenuta sul banco del padiglione di lady Keith. Gettarsi su lei, serrarsela fra le braccia, coprirla di baci frenetici, sovvenirsi in un lampo di tutto il loro passato, di tutti i suoi torti, di tanto affetto, indirizzarle mille domande di una sola parola, colmarla di carezze, slacciarle il busto per darle aria, esprimere mille terrori… fu l'affare di qualche secondo. Vedendola là, e' comprese tutto. Una parola, che il marchese di Sora disse all'orecchio del colonnello Colini, e cui costui ripetè a Don Diego ed agli altri congiurati lo fece tremare. Egli prese sua sorella fra le sue braccia, la trasportò fuori la villa, la portò fin dove potè trovare una carrozza e più non parlò. Aveva paura al presente.

Il re alla villa di lady Keith? tutti arrestati stanotte? Bambina in mezzo a questo diavoleto? ella, che probabilmente aveva introdotto il re, dar poscia l'allarme? che dramma! quali tenebre gittate di nuovo sulla sua condotta! qual delitto compiuto o quale nuova sciagura toccata! Egli rinculava, spaventato, innanzi alle spiegazioni. Ma le spiegazioni non dovevano farsi aspettare.

Bambina comprese il silenzio e l'ansietà, di suo fratello. Il delitto è un'equazione di cui non si afferrano i termini che quando essa è risolta. Allora si scorgono tutti quegli anelli, fin là distaccati, formare catena, di cui si consideravano con terrore il peso, la lunghezza, la solidità. Le membra divengono corpo.

Bambina ebbe un'intuizione completa dell'opera cui aveva compiuta. Ella sentì l'onore di suo fratello compromesso, il proprio perduto. Ella vide la croce episcopale al collo di suo fratello come un anello della gogna; il proprio viso cauterizzato dai baci sacrileghi del gesuita; un abisso! E la scandagliò tutta questa visione infernale, durante il subito silenzio ch'era succeduto allo slancio affettuoso di Don Diego, nel tragitto dal Vomero all'angiporto della via Campanile. Bisogna dirlo? Ella non si spaventò. Una voce intima le susurrava dolcemente, solennemente: tu hai fatto il tuo dovere! l'infamia che ne spruzza ricade sopra coloro che ti han messa in questa necessità, prima, e che ne profittano, dopo. Laonde, quando ella si trovò ancora una volta assisa nel piccolo salone del suo alloggio, in faccia di suo fratello che la squadrava con aria severa, rischiarata appena da una smilza candela, quando la ebbe rimandata fuori con un segno altero della sua testa Concettella tremante, ella disse con voce calma e sorda:

—Diego, tu sei libero e tu sei vescovo!

Don Diego balzò sulla sua sedia come trafitto da mille serpenti, si rizzò di tutta la sua altezza e gridò:

—Vescovo! vescovo! vescovo!

Bambina squadrò a sua volta suo fratello con occhio freddo. L'irradiamento subìto da quell'uomo l'umiliava. Ella comparava la sua grandezza morale a quella di suo fratello, e lo disistimava. Si vide più grande di cento cubiti che quell'uomo cui aveva sempre considerato come un gigante. Un istante ancora, e le lagrime stavano per inondare il suo viso. Bambina si alzò e, senza aggiunger sillaba fuggì nella sua camera e vi si chiuse.

Don Diego non la trattenne. Un tremuoto aveva scosso la sua natura di bronzo. Egli ebbe uno di quei colpi di metempsicosi violenta, che nei conclavi dei papi si chiama Spirito Santo, e che trasforma un porcaro come Sisto V, un lanzichenecco come Odescalchi, un barcarolo come Giulio II, in vicario di Cristo, un frate in re! Una tempesta equatoriale si scatenava in quello spirito: vi furono flutti furiosi, vertigini, scosse spaventevoli, fosforescenze terrificanti, abissi mostruosi, sollevamenti all'altezza delle Andes, distruzioni, creazioni… Don Diego non si potè risolvere ad andarsi a coricare, e restava assiso, a chiamare Bambina o Concettella per rompere la malia del delirio. Passeggiò nella camera tutta la notte, dopo avere spenta la candela per non vedersi, ed aperte le finestre per dare più aria ai suoi polmoni dilatati.

Dal palpitar delle stelle si sarebbe detto che la notte avesse ambascia come lui!

L'indomani, Bambina gli raccontò tutto.

Egli aveva bisogno di parlare liberamente a sua sorella, di rimuginare in tutti i dettagli di questo affare annerito da tante orride peripezie. Vedeva Bambina in disagio. Leggeva nello sguardo della giovinetta, portandosi da Concettella a lui, un rimprovero pieno di dolore. La sentiva offesa, vituperata. Dette a Concettella due giorni di congedo, le parlò basso nella cucina e la mandò a Procida.

Concettella si sentì colpita. Ella si credeva sì ben penetrata in quella famiglia, così identificata a quell'uomo, e la si trovava tutto ad un tratto essere un'intrusa, una straniera! Ruppe in lagrime. Don Diego la consolò. L'amore è comunicativo e leniente. Ella si lamentò. Il prete la calmò. Al suo ritorno, all'indomani, la situazione sarebbe chiarita, regolata, giustificata; Concettella sarebbe ammessa ed accettata, o Bambina sarebbe stata collocata altrove.

Bambina non era più la stessa: ella si era atteggiata a giovane indipendente.

Ahimè! Don Diego non aveva compreso ciò che aveva di grande e di eroico quella nuova attitudine di sua sorella!

Bambina che doveva tenere la sua promessa al gesuita, Bambina che vedeva l'amore di suo fratello per Concettella, non voleva impedire il libero esaltamento di quella passione e non voleva contaminare suo fratello, caricandolo della responsabilità della sua condotta verso il P. Piombini. Lo rendeva felice e lo purificava, riserbando per sè sola tutte quelle macchie che mordevano come ferite, tutti i sacrifizi, tutti i rimorsi e tutti i dolori.

Rassicurata, consolata, Concettella partì per Procida sulla barca a vela che faceva il tragitto giornaliero tra l'isola e Napoli. Ella vedeva ciò non ostante tutto confuso nel suo avvenire. L'amore per Don Diego aveva fatto esplosione in quella crisi; Bambina l'attirava; sentiva una pietà fraterna per Gabriele…. Come accordare tutto ciò? ecco il problema. Ella riflettè a codesto lungo il viaggio, malgrado il mal di mare, la notte nell'albergo di Procida, ove arrivò tardi la sera ed ove il sonno rifiutò visitarla. Ella vedeva nondimeno due speranze brillare in quell'oscurità: Bambina si mariterà, pensò ella; Gabriele non saprà nulla. E quando poscia egli uscirà dal bagno, noi saremo morti o saremo così vecchi, così vecchi…. L'alba la rinfrancò. Concettella si addormì.

Risvegliandosi alle undici, tutta spaventata ancora dei sogni insanguinati che aveva traversati, Concettella mangiò una bocconata e corse all'ergastolo. Il suo cuore batteva a tutto vapore. Un presentimento confuso l'avviluppava di un'atmosfera di terrore e di ansietà. Gli avvenimenti hanno le loro scariche elettriche come gli uragani. Concettella accelerò il passo per uscire il più presto possibile da quel vago incognito e pungente. I secondini la conoscevano: ella aveva inspirata tanta compassione e simpatia a tutti! Il permesso di vedere Gabriele le fu concesso immediatamente.

Ed eccola al cancello.

Alla vista della faccia scompigliata di Gabriele, dell'aspetto satanico di Filippo, del contegno di tutti quei forzati presenti, in modo insolito, al suo convegno col fidanzato, Concettella fa presa da tremore. Cosa significava codesto? che si voleva da lei? che aveva dessa? Arrossì, impallidì sotto il suo velo abbassato; un vapore ghiacciato le saliva dai piedi alla testa. Avrebbe voluto parlare per mostrare sicurezza di sè, avendo pur dei rimorsi; ma la sua lingua era paralizzata, i suoi denti fortemente serrati, il suo cervello inerte. Ella guardava con degli occhi enormemente devaricati e provava di comprendere.

Gabriele anch'egli tacevasi.

Infine Concettella fece uno sforzo, allungò la mano e porse un inviluppo.

Gabriele non si mosse, non lo prese. Concettella lasciollo cadere. Poi si appoggiò al cancello, cascò sur un banco ed i singhiozzi si precipitarono. Gabriele s'intenerì, afferrò il fardellino, lo baciò, stese la mano e gridò:

—No, non è vero. M'inganno io, Concettella? Si porta contro di te una terribile accusa. Quel Filippo lì ha dichiarato innanzi a tutti costoro che tu mi tradisci, che tu hai un damo, che tu sei la concubina di un prete, che chiamasi Don Diego Spani, che tu hai fatto questo, che tu hai fatto quello, e patatì e patatà. No, non è così, Concettella? No, ciò non è vero, hanno mentito, ed io vado a scannare quel Filippo lì che ti ha calunniata.

Concettella non rispose. Il suo singhiozzo raddoppiò.

—Ma parla dunque, riprese Gabriele; getta dunque, in faccia di quell'uomo la tua giustifica. Non si serba il silenzio innanzi ad un'accusa simile, non si sprezzano quelle contaminazioni lì! Tu devi comprendere alla fin fine che tutto codesto mi mette il cuore a brani. Non torturarmi dunque così. Perchè ne ameresti tu un altro? Il mio amore non è forse grande come il mondo? Esso non ti era bastato fin qui; perchè non ti basterebbe ancora? Cos'è dunque codesto prete che ti ammalierebbe adesso? Un prete? bah! codesto prega, ma non ama. D'altronde, non ho io la tua promessa? No, tu non l'hai violata. Quando si ha sofferto ciò che tu hai sofferto; quando si è passato per le prove che tu hai traversate…. non ci è modo di più separarsi: noi siamo incatenati dalla sventura. Di' dunque cotesto a quei signori che aspettano la tua risposta. Hai tu paura di parlare? Non temer nulla: non ti chiameranno una sfrontata; tu ti difendi, tu racconti come le cose sono avvenute. La Santa Vergine anch'ella si difese, quando San Giuseppe l'accusò. Del resto, io non ho bisogno che di una parola sola da te. Non voglio la tua giustifica; io ti credo sur un semplice no che tu pronunzi. Di' dunque, Concettella amatissima mia, di' alla presenza di questi signori che ti hanno calunniata.

Concettella continuò a tacere ed a singhiozzare. Gabriele la guardava istupidito e turbato. Aveva freddo, si dimenava, si afferrava al cancello.

—Ma insomma, ma insomma, riprese lo sventurato, una parola è dunque così difficile a dire? Tu non ti rendi dunque conto che quel silenzio sarà interpretato come una confessione? Una confessione! sangue della madonna del Carmine! una confessione? Ma ancora uno si difende. Vi sono delle circostanze attenuanti; vi sono delle ragioni, delle scuse, delle menzogne, che so io? Si dice a tutto andare una qualche cosa. Tu piangi. Piangi? tu ti penti dunque? tu hai dunque dei rimorsi? Dei rimorsi di che? Ma parla, parla. Tu lo vedi, questo doppio cancello che ci separa: di che temi tu? Esso ti protegge, questo cancello; io non ti ucciderò; io non ho neppure un'arma. Oh! abbi pietà di me! non lasciarmi soffrire così. Uno ragiona seco stesso; quando ha ricevuto il colpo, si rassegna, si uccide, discute, disputa, dice addio o si raccomoda…. che so io? si fa qualche cosa infine, si prende un partito. Ma davanti al dubbio? ma in presenza di quel silenzio?… non vi è che a sbranarsi il cuore, ecco tutto. Vuoi tu parlare, alla fine? vuoi tu spiegarti? Tu finirai col farmi mettere in collera. Tu lo vedi, io sono calmo. Non ho nulla contro di te. Gli è Filippo, che ti ha calunniata, che pagherà tutto. Non ti ha desso calunniata?

—Ebbene, sì, gli è vero, gridò Concettella, cadendo a ginocchio innanzi al cancello e sollevando le sue mani congiunte per implorar misericordia.

Gabriele aggrappò quelle mani ne' suoi artigli a traverso i ferri.

—Gli è vero? tu dici? gli è vero? urlò desso. Comprendi tu dunque ciò che vuoi dire? Gli è vero? tu mi hai dunque tradito? Quel prete è il tuo ganzo? Tu non sei più l'innocente giovane che mi disse nella prigione della Vicaria: a te per tutta la vita! Gli è vero? che irrisione! Si potrebbe ciò? Non vi è dunque più onore, più fede, più virtù nel mondo? Ed un prete ancora! No, no. Tu non hai giammai avuto molta mente; tu non afferri l'importanza di quel: «gli è vero!» Ma insomma come è ciò avvenuto? Io perdo la testa. Tu non mi ami dunque più? Si cangia dunque di cuore così? No, io non posso trovarmi nel medesimo cuore con quel prete, lo mangerei colla mia sola presenza. Se tu sei sua, tu l'ami allora? Ma come hai fatto tu per amarlo? Ma spiegatemi almeno codesto, voi altri. Non vedete che quella donna è idiota?

Egli lasciò le mani di Concettella cui aveva agglomerate, peste, insanguinate.

—Ebbene, ripeti allora che Filippo non ti ha calunniata. Perchè, infine, io ho oltraggiato a torto quell'uomo e bisogna ch'egli mi uccida. È il cuore che ti ha spinta? è la solitudine? è la miseria? è la fame?

—Tutto codesto, balbettò Concettella.

—Tu menti. Gli è don Gabriele del teatro di donna Peppa che ha inventate codeste scuse. Quando si ama, si muore di fame, non si prostituisce. Non ho avuto forse fame, io? non ho io fame, non ho fame ogni giorno, perennemente? Ah! io comprendo le infamie del cuore; ma non crederò giammai alle infamie dello stomaco. Dio mio! chi dunque ti ha corrotta così? Tu credevi nella Vergine Maria pertanto! Perchè quel prete sarebbe egli andato a cercarti, poichè vi sono tante cantoniere a Napoli? Non vi è più dunque carità nel mondo, un pezzo di pane costa sì caro che se ne dimanda per prezzo l'onore di una fanciulla? Perchè dimori tu con lui, insomma!

—Perchè io non aveva tetto ed aveva freddo le notti d'inverno, e perchè i passanti m'insultavano la state, quando mi trovavano accovacciata all'angolo di un muro, rispose Concettella asciugandosi gli occhi. Perchè io ero nuda sotto i miei cenci, e le persone non mi davano più lavoro. Perchè io aveva orrore di mendicare e di udire dei propositi infami. Perchè….

—Tutto codesto non è una ragione, interruppe Gabriele. Tu servi quell'uomo che ti ha offerto un ricovero, il pane, un abito….: perchè gli hai dato tu il tuo onore per soprassello? Una donna non si dà ad un uomo che in due circostanze: quando l'ama, o quando ne subisce la violenza materiale o la violenza morale. Spiegati dunque: l'ami tu?

—Io non lo amava.

—Allora quale violenza ha esso esercitata sopra di te?

—Era sventurato come me, sclamò Concettella: ebbi pietà di lui.

—Ed io dunque? sono io felice, io?

—Il tuo destino è fisso, riprese Concettella: la polizia non può fare più nulla contro di te. Per degli anni e degli anni tu hai del pane, tu hai un tetto, tu hai un qualche cosa che ti copre la persona. Il birro non ti può angariare. Tu non sarai più soldato. La polizia non ti strapperà una sorella od una moglie che ti farà poi trovare vituperata ed infame. Non ti metteranno in prigione e ti daranno i tormenti. Che cosa ancora? Conosco io forse fin dove si estende il terrore della polizia? Si dice che il re egli stesso ne ha paura. Tu sei più del re, allora. Ma egli, quel povero disperato! la polizia gli ha rapita la sorella e gliel'ha restituita spia. La polizia gli ha strappato dalla bocca la bricciola di pane che vi portava ogni qualvolta si provò guadagnarsela. La polizia lo ha sepolto a S. Maria Apparente per delle settimane, nei pozzi della cloaca, e l'ha torturato quanto tutti i martiri del calendario. La polizia l'ha rivomitato infine quando non era più che un mucchio di ossa frante e di piaghe imputridite. Quando mi è ritornato in quello stato…

—Tu l'ami, Concettella, tu l'ami, gridò Gabriele. Io sono perduto; tu sei perduta per me. Ah! sciagurata!

—Non obbligarmi ad interrogare il mio cuore, Gabriele, ripigliò Concettella: io non lo voglio. Che posso io farci? Non si è padroni di dire al proprio cuore: non intenerirti? E poi vi sono tante altre ragioni ancora. Un giorno, io non mi sono più trovata la stessa. Si è operato in me qualche cosa d'incomprensibile e di sorprendente: io ho conosciuto un amore tutt'altro che quello cui avevo provato fino allora, se tuttavia gli è amore quella immenso divampamento che io ho sentito. Non mi scuso, vedi! ho fallito; condannami. Non sono io che l'ho cercato. Non sono io che l'ho voluto. Ciò arrivò come una febbre in piena salute. Io non ho civettato. Mi sono anzi ingiuriata, ho pianto prima di soccombere: ho provato di sostenermi colla ragione. Nulla mi è valso: non ho resistito.

—Oh! sì, il mio male è irreparabile, sclamò Gabriele. Ebbene, io non mi rassegno. Io so che di qui non posso far nulla: ma il cuore vuole una soddisfazione qualunque, oggi di speranza, domani di sangue. Io veggo chiaro in questa situazione: tu sei stata il ferro, colui la calamita; tu hai scivolato, egli ti ha tirata. Tu hai subito la violazione della pietà avanti la violazione dell'amore. È colpa tua se non sei stata più forte? La tua forza era l'amore; tu non mi amavi più. Ecco la tua parte in questa catastrofe. Ora bisogna regolare i conti: tanto per te, tanto per lui.

—Nulla per lui, osservò Concettella. Sono io che ho mancato ad un impegno; sono io che sono stata debole. Io non invoco più alcuna scusa, poichè tu vuoi giudicarmi e non compatirmi. Se tu mi avessi amata per me e non per te, tu avresti pianto sulla mia caduta e mi avresti aiutata a rialzarmi. Poichè la pietà, i riguardi, le considerazioni giuste e generose sulla mia posizione sono messe fuori discussione, resta pure severo ed intero e non occuparti della parte degli altri. Tu non hai a fare che con me. Non ho io ragione, signori? dimandò Concettella alzandosi e rivolgendosi al giurì dei galeotti che li ascoltava.

—Sia, signori, sclamò Gabriele, volgendosi alla sua volta ai suoi compagni di bagno. Poichè essa v'invoca come giudici, giudicate il caso.

Un sordo bisbiglio circolò nel gruppo dei forzati.

Quegli uomini, cui la giustizia aveva colpiti come felloni contro la società, erano incaricati di pronunziarsi sur un fatto che implicava la vita o la morte di quattro individui: Don Diego, Concettella, Filippo e Gabriele. Essi sembravano respingere il mandato.

—In nome della misericordia di Dio, signori, sclamò Gabriele, voi sopratutto che non siete qui nè per omicidio nè per depredazione, signori, siate giudici del nostro fato. Voi sapete di quale grave bisogna e' si tratta; e voi non ignorate cosa debba inevitabilmente seguirne. Mettiamo solamente i termini del fatto nel suo pieno giorno. Quella donna era mia fidanzata; ella si è data ad un altro. Le ragioni, o piuttosto le fatalità che l'hanno trascinata, ha ella detto, sono state: la miseria, la pietà. La miseria e la pietà sono state, ne convengo, i complici; ma chi è il colpevole responsabile in questo delitto?—ella che non aveva il diritto di soccombere, lui, quel prete infame, che non ha respinta la tentazione ed ha abusato della debolezza di quella sciagurata?

Mettere la questione così, dallo stesso interessato, gli era un assolvere anzi tratto Concettella. Forse gli è questo appunto che Gabriele desiderava. E' vi fu un bisbiglio generale nel gruppo dei galeotti. Tutti si favellavano a voce sommessa, l'un l'altro. Gabriele erasi lasciato cadere in un angolo come affranto, aspettando il verdetto paventato. Concettella, afferrata alle barre del graticcio, guardava Gabriele con ansietà. Infine Filippo gridò pel primo, con voce alta e ferma:

—No, non è la donna che è colpevole.

—Sì, gli è il prete che è colpevole, gridarono tutti di una voce sola.

Gabriele si alzò e passeggiò un istante dietro al cancello. Poi disse in tuono solenne:

—Riflettetevi bene, signori; perocchè la è una sentenza di morte che voi pronunziate a quest'ora. Io non so quando, come, da chi, questa sentenza sarà messa in atto; ma certo è che il prete morrà. Filippo, voi tutti, vi siete interessati; senza che, il bagno sarebbe la tomba. Ciò che mi succede, può succedervi. Noi siamo solidali della vendetta, onde significare al mondo che il galeotto è ancora un essere vivo di cui è mestieri inquietarsi.

Un momento di silenzio seguì il secondo appello. Poi tutti replicarono ad una voce:

—Si, noi lo attestiamo innanzi a Dio: gli è il prete che fu colpevole.

Gabriele si concentrò per un momento, poscia volgendosi ai suoi camerati, disse:

—Grazie. Io credo che il vostro giudizio è secondo giustizia…. secondo il cuore.

Rivolgendosi quindi a Concettella, soggiunse:

—Donna, io ti rendo il tuo giuramento: noi non siamo più nulla. Non ritornare più qui; io non ti riceverei altrimenti. Noi siamo oggimai stranieri. Ti perdono il male che mi hai fatto. Rubare al prigioniero il suo raggio di speranza, gli era come un rubare al prete l'ostia consacrata sull'altare: ma t'hanno assolta. Tagliare il filo che attaccava questo sciagurato al mondo; avvelenare il soffio che gli arrivava ancora dalla società; rituffarlo nell'ergastolo dell'ergastolo, gli era un infliggergli la solitudine nelle tenebre; ma ciò ha trovato grazia nella considerazione di questi signori. Io mi associo a loro; io ti assolvo e ti scaccio. Sii felice, se lo puoi. Io te l'auguro. Esci adesso, va via subito, non torcere il capo, non guardare più da questa banda…. e' sarebbe un insultare la sventura.

Concettella scoppiò in un impeto di singhiozzi, e senza osare profferir verbo, fuggì. Gabriele si mise a ginocchio davanti a Filippo, e sclamò:

—Fratello, io ti ho insultato, io ti ho offeso: Vendicati!

Filippo cavò il coltello dalla tasca e guardò intorno—i galeotti dopo Gabriele. I politici si copersero il viso delle mani e picchiarono alla porta per sottrarsi alla vista di quell'assassinio. Gli altri forzati indietreggiarono, lasciando uno spazio libero tra loro ed il galeotto inginocchiato e quello che teneva il coltello levato sul capo della vittima. Filippo sostò un istante, arrossì della sua ferocia. Egli ebbe forse orrore dell'atto cui la collera dello schiaffo ricevuto gl'inspirava. E' piegò dunque il mollettone, lo nascose di nuovo, e rispose:

—Vivi. Io ti perdono, Gabriele. Noi abbiamo adesso una vendetta a pigliare insieme.

Un bravo! prolungato, seguì queste parole. Gabriele si alzò con impeto, e stringendo Filippo fra le sue braccia, gridò:

—A te, per la vita e per la morte: tu sei mio fratello.

In quel momento, il carceriere in capo comparve e disse a Filippo che il direttore lo chiamava. E' lo condusse seco.

Era il conte di Altamura che lo chiamava. Innanzi al conte, Filippo divenne umile come il soldo innanzi al milione.

—Filippo, disse il conte, fra qualche giorni io avrò bisogno di te e di un altro individuo determinato ed energico, cui si possa all'occorrenza condannare alla ghigliottina. Occorre pescarmi ciò in qualche sito.

—Ho il vostro uomo.

—Fuori?

—Qui stesso. Ma egli è condannato.

—Lo si farà evadere. Tu hai sempre la tua grazia.

—A che opera dobbiam noi lavorare?

—Affinchè la sorpresa non paralizzi il vostro braccio quando il momento sarà giunto, io te l'annunzio fin d'ora. Trattasi di sbarazzarmi d'un… di un qualche cosa come un vescovo. Un colpo solo, secco, netto, subito come il fulmine, al cuore, alla nuca…. e dileguarvi come un soffio di vento. Assuefatevi a codesta idea. Non sorpresa nè scrupoli. Un vescovo che spiace al re, che cospira contro lo Stato, è meno che un uomo, gli è un cane arrabbiato. Se la polizia vi acchiappa, tanto peggio per voi. Io non posso proteggervi.

—Sarà fatto secondo il desiderio di V. E., signore. Ma voi ci proteggerete, spero, come premio del servizio che vi renderemo, e del pericolo a cui ci esporremo, in un altro colpetto che ci riguarda personalmente, il mio collega e me.

—Un furto.

—Non mica, un omicidio: un prete da spedire a Dio…. per servir di diacono al vescovo di V. E.

—Un prete non è un uomo, sclamò il conte di Altamura…. egli è…. un prete! Siate quindi pronti al primo appello…. e silenzio. Capisci? silenzio.

Il conte volse le spalle ed uscì. Poi tornò su i suoi passi e soggiunse al galeotto ancora curvo nel suo rispettoso saluto:

—L'essere venuto io stesso qui t'indica di che importanza è la commissione che ti do. Fedeltà, silenzio…. o un cappio spicciativo.

XXIV.

Da Napoli a Roma.

Parecchie circostanze ritardarono la partenza di Don Diego per Roma ove doveva recarsi a ricevere la consacrazione episcopale. Nel regno delle due Sicilie, il re designava e nominava i vescovi, il papa li passava all'olio.

I Borboni avevan tenuto sodo a questa prerogativa reale, perchè per un articolo del concordato del 1819, il vescovo aveva, oltre le sue funzioni spirituali, la missione di vegliare sullo spirito pubblico della diocesi e di riferire alle autorità laiche,—vale a dire, che il vescovo era il luogotenente del ministro della polizia in ogni diocesi. Bisogna dunque aver degli uomini capaci, investiti della fiducia del governo, onde spacciare la bisogna episcopale secondo il cuore del re.

La mancanza di danari e la malattia di Bambina furono le due cause principali del ritardo del viaggio.

Bambina aveva soccombuto a tante scosse e fuvvi un momento in cui la morte aleggiò ben vicino sul capezzale di lei. Concettella l'accudì come una madre. Il padre Piombini, chiamato da Bambina, venne a vederla. E' fu allora che il gesuita e Don Diego ebbero un colloquio di parecchie ore, con grande soddisfazione di quest'ultimo. Che gli disse? Molte cose sullo stato sociale, sullo stato politico di Europa, sulla situazione degli spiriti, sulla rivoluzione che si era operata nella coscienza delle masse, sull'essenza del principato al XIX secolo. Ei gli fece la diagnosi della religione, gli schizzò il carattere del gesuitismo e del papato quali erano, quali avrebbero dovuto essere, come alcuni spiriti intuitivi dell'avvenire e dei riformatori li consideravano. Il P. Piombini non disse che una parola sul conto di Bambina, se viveva, parola che calmò l'inquietudine del fratello.

Don Diego ebbe a volta sua una considerevole conversazione col marchese di Sora, di cui egli conosceva oggimai le vere tendenze. Il marchese ignorava naturalmente le pie intenzioni del re intorno a quel «vescovo del diavolo». Il marchese era libero pensatore o volteriano, come egli diceva.

—Io ho questo vantaggio su di voi, signor marchese, rispose Don Diego: io sono panteista.

—Io non discuto la religione nè come filosofo nè come teologo, osservò il marchese, ma come ministro della polizia. Crediate o non crediate, ciò non mi riguarda punto. Teologi e filosofi han bottega di teorie e di principii; paghino dunque patente al governo e traffichino liberamente di loro derrate. Ma, come strumento di governo, l'atteggiarsi della religione m'incombe, e la deve essere ortodossa a modo mio.

—Ma! ecco dove per l'appunto tutti i governi s'ingannano, rispose Don Diego. Essi credono che il prete sia uno dei congegni dello Stato. Il prete, quale voi l'escogitate, quale lo avevate fatto, è al contrario direttamente ed indirettamente un lievito di rivoluzione. Il popolo soffre, ma esso comprende l'azione della polizia: quello schiacciamento è logico. Però lo spionaggio, la compressione, l'abbrutimento, la violenza, la corruzione, la servitù per mezzo del prete, rivolta il sentimento del popolo: questa missione del prete è anormale. Ecco perchè i governi a marchio clericale, sono i più abborriti ed i più minati dallo spirito rivoluzionario!

—Nonpertanto, interruppe il marchese, il papato, l'Austria, la Spagna, che hanno questa tempra ultramontana e clericale, durano da secoli.

—Gli è che il principio vitale di questi Stati non risiede nella religione. Il papato dura in virtù della coalizione di Europa; l'Austria, per l'antagonismo delle nazionalità rivali dell'impero e l'unità dell'esercito e del centro goverativo: la Spagna, per la corruzione dei costumi, l'atrofia intellettuale, e la sequestrazione dallo spirito nazionale: la Spagna è l'Africa dell'Europa! D'altronde, gli Stati romani, l'Austria, la Spagna sono un anacronismo¹: e' vivono dei secoli passati. La società rinnovellata nel 1789, non vi si è ancora organizzata. Ma guardate la Francia. Napoleone procede al dispotismo interno mediante la ricostruzione previa della chiesa ed il restauramento del papato. Però, quando al momento del supremo pericolo egli fa appello alla nazione, la nazione si è dileguata ed ei si trova solo. Carlo X cercò l'appoggio clericale; fu spazzato via. Guizot carezzò il clero come un elemento ed un istrumento del partito conservativo; egli traballa sulla sua base. Il popolo non vuol sentire altrimenti la mano del clero che per benedire coloro che credono,—per soccorrere la sventura e la miseria. Presentarglielo sotto altra forma, sotto la forma di ceppo al movimento, al pensiero, al progresso, allo sviluppo sociale,—che si addimanda rivoluzione quando scoppia—; fargli vedere il prete come alleato naturale del re, del prefetto di polizia, del gendarme: gli è un farglielo odiare ed un far odiare nel punto stesso il governo che se ne serve; gli è un precipitare la rivoluzione mediante la ruota stessa del freno. Ecco l'azione indiretta della religione sulla rivoluzione. L'azione diretta gli è il dispotismo assoluto, senza controllo, senza appello, del vescovo sul prete, cui ribadiscono i governi che riconoscono la libertà della Chiesa. Tutti i preti, in forza di ciò, sono rivoluzionarii nell'anima. Coloro che non si pronunziano, sono trattenuti dalla paura, dalla vecchiezza, dall'imbastardimento, dall'interesse, dall'imbecillità, perchè temono di compromettere un lucro, ovvero perchè la violenza li schiaccia. Voi avete quindi il prete o nemico, o organo tiepido nel vostro cómpito, o pronto a disertare al primo incontro.

¹ Si ricordi che siamo nel 1847.

—Ma allora a che dovrebbe servire, secondo voi, la religione in uno Stato? dimandò il marchese. Perchè la religione essendo un elemento della forza governativa uno Stato non può negligerla.

—Certo, no, riprese Don Diego. Ebbene, se voi desiderate che la religione sia un elemento di forza e non un elemento deleterio di governo, gli è mestieri lasciarla negli strati del popolo e non mischiarla alla gerarchia amministrativa. Più voi innalzate la religione verso il potere, più ne neutralizzate l'efficacia. Compromessa, essa vi domanda un'indennità, essa si impone a voi, diviene esigente e vi procura degl'imbarazzi, senza rendervi alcun servigio. Lasciata come una funzione puramente sociale, come la medicina, la giurisprudenza, l'agricoltura, la religione diviene un moderatore democratico, il parafulmine del trono. Non più clero, ma il prete. Non più episcopato, ma il vescovo. Non più papato, ma il decano dei vescovi. Non più Chiesa nello Stato e fuori dello Stato, o Chiesa-Stato, ma una dottrina morale che segue o subisce le evoluzioni della civiltà per mezzo della scienza, come la filosofia, la chimica, la fisica, l'astronomia, l'antropologia, la storia naturale. La religione è una faccia postuma della vita generale del mondo. Ecco come io la comprendo, questa religione. Ecco ciò che intendo fare nella mia diocesi, io. Ecco l'attitudine che io prenderò di rimpetto al papa e al re. Io sarò il centro di tutti i raggi di un cerchio; non sarò nè il cerchio nè i raggi. Io sono popolo e resto con lui.

—Codesti sono vaneggiamenti, sclamò ghignando il marchese di Sora. Il clero è la gendarmeria delle coscienze; noi non andremo a scioglierla con cuore leggero ed orbarci di un aiuto. Solamente e' bisogna capovolgerne la missione. La religione fu sin qui un istrumento del dispotismo: bisogna farne un istrumento di libertà.

—Ecco l'illusione eterna della democrazia. Dove è corpo, vi è organismo; ove è organismo, vi è centralità: dove è concentrazione di vita e di forza, vi è dispotismo inevitabile. Voi lasciate l'ente clero? esso sarà mai sempre una ruota della forza governativa, che la fonde in quell'altra ruota più assorbente ancora, la burocrazia. Clero e democrazia, burocrazia e democrazia, corpi costituiti nello Stato e libertà, saranno sempre delle antinomie. Il popolo si governa con altra legge: l'affinità della razza e la coesione sociale degli interessi. I vostri organismi parassiti esterni, alla superficie, saranno sempre un intoppo, una difficoltà, una causa di ritardo al progresso. Perchè le scienze vivono e progrediscono? perchè sono un prodotto individuale al profitto dell'interesse sociale. La religione deve avere la medesima essenza, la medesima natura, il medesimo carattere. Io non ne farò altro.

La conversazione fu interrotta. Il re chiamava il ministro, e Don Diego non potè entrare negli sviluppi pratici delle sue viste.

Re Ferdinando voleva sapere precisamente qual fosse l'opinione del marchese di Sora sul carattere, i principii, i costumi, del nuovo vescovo.

—Sire, disse il marchese, Don Diego Spani è un liberale, un riformatore, ciò che si chiama un rivoluzionario, ma e' non sarà mai un traditore. Gli spiriti limitati, che non hanno nè spedienti, nè vigore nell'anima, nè elaterio nella intelligenza, tradiscono. Le nature potenti, i caratteri riccamente mobigliati, le anime tuffate nel bronzo come quell'uomo lì, sono essenzialmente generose. Essi pigliano corpo a corpo la malattia, non il malato; essi correggono l'amministrazione, non frangono i re e le dinastie; essi fanno della religione un tonico non un veleno. Si può confidare in tali uomini. Essi sono, per la loro intelligenza, più sicuri degli amici, i quali mascherano il loro interesse sotto il nome dello zelo. Sire, io dico altrettanto di Don Diego Spani che di me. Io so che ho la sventura di non goder più la fiducia di V. M. Ma la mia resistenza salva il trono; la servilità stupida degli altri intercetta il giorno agli occhi della M. V., la quale non vede allora nè il male, nè la conseguenza del male.

—Voi andate al di là della questione che io vi ho posta, marchese, crocidò il re. Il vostro avviso dunque è, che noi non commettiamo mica un'imprudenza, confidando la direzione di una diocesi ad un uomo che ha poca fede, poca morale, niuna simpatia pel nostro sistema di governo e niun affetto pel nostro trono?

—Sire, rispose il ministro, questo nuovo vescovo, con cui ebbi or ora un serio colloquio, ha certo poco o nulla di tutto ciò che V. M. ha enumerato. Ma io auguro alla M. V. parecchi vescovi di quella tempra. Non avremo noi allora a preoccuparci nè delle mene dei rivoluzionarii, nè dell'attitudine del papa, nè degl'invadimenti dell'Austria: la rivoluzione non avrebbe base nel Regno, e V. M. potrebbe tenere contro l'Austria e gli altri principi d'Italia la parte che essi provano di tenere contro la M. V.:—essere il più liberale fra loro ed attirarvi le simpatie degl'italiani, che si agglomereranno un giorno o l'altro intorno ad una dinastia italiana. V. M. non sarebbe più allora il re di uno Stato, ma il re di una nazione.

—Voi divenite visionario, marchese, sclamò il re con aria leggera, accendendo un mozzicone di sigaro spento. Io non sono ambizioso. Io non mi trovo male abbottinato di già con nove milioni di sudditi?

—Sire, si tratta di non farseli strappare. V. M. non dice come Luigi XV: «Basta che ciò duri quanto noi!» Ora, non è questione del presente, ma dell'avvenire.

—L'avvenire riguarda Dio, marchese…. ed il nostro esercito.

—Ahimè! sire, sclamò il marchese, io dirò a V. M. come il cavaliere Folard: «Le potenze d'Europa hanno dei ben cattivi occhialini per non vedere l'uragano che le minaccia!»

—Mi consigliereste voi per avventura di sguinzagliare la grande vague, come Necker chiamava gli Stati generali? Voi vorreste che io accordassi una Carta, per esempio!

—Sire, un giorno o l'altro bisognerà bene passar sotto quelle forche, al passo con cui camminano le cose di Europa. Perciò io reputo più saggio prevenire che esservi forzato.

—Giammai! gridò il re. Voi vi obbliate, signore. Uscite.

Il re fece un gesto imperioso ed il ministro uscì. Ferdinando andò ad inginocchiarsi ad un angolo e pregò.

Il marchese sentì la disgrazia pesar sul suo capo, e si rassegnò. Egli non voleva passare per traditore; si era deciso quindi ad essere imprudente.

Quell'attitudine del marchese di Sora precipitò gli avvenimenti.

Io non voglio narrare la storia di quella melensa rivoluzione e biascicare altra politica. Proseguo dunque lo sviluppo del dramma che vi si trova intralciato.

Dopo le indicazioni somministrate da don Domenico Taffa a monsignor Cocle e da costui al conte di Altamura, e' fu facile scovrire la parte che il P. Piombini aveva avuto nell'affare di Bambina, dell'episcopato di suo fratello, e della sorpresa del complotto rivoluzionario per parte del re. Il tradimento del gesuita divenne evidente: tradimento contro il governo del re, a cui egli aveva celato il segreto; tradimento contro il capo del suo ordine,—se tuttavia quel capo non era un traditore egli stesso,—a cui il segreto era stato egualmente involato; tradimento contro la regola dell'istituzione, oltraggiata dall'amore di quel confessore per la giovinetta. Bisognava precisare quel crimine, denunziarlo al generale dell'ordine e querelarsene. Il re scrisse direttamente una lettera privata al Padre Rothaan.

Quella denunzia sì grave, sì dettagliata, venendo di così alto, portata in quel modo intimo, cadde come una granata sulla testa del generale. Egli conosceva meglio del re lo stato delle cose del regno e dell'Europa, e ne prevedeva le conseguenze. Imperciocchè non vi è rivoluzione presso un popolo cattolico che non si abbatta innanzi tutto sulla Società di Gesù. Per la sola circostanza della situazione politica dell'Europa, al mese di novembre 1847, la colpa del P. Piombini pigliava le proporzioni immense di un delitto di leso-ordine. Il padre Rothaan rispose immediatamente al re, che una soddisfazione terribile gli sarebbe data. E' mandò un agente segreto alla casa di Napoli per istruire.

Il carattere del padre Piombini era di già conosciutissimo sul proposito delle sue tendenze verso le donne. Ma il segreto di Stato nascosto al suo capo e confidato ad una ganza, rivelava un'altra faccia di questa figura: egli simpatizzava per la rivoluzione, vezzeggiava la caduta dei Borboni, l'unità italiana, l'abisso della Società di Gesù, e ne violava le regole fondamentali,—la rivelazione assoluta dell'anima al capo di questa Società. Per il padre Piombini una concubina passava dunque innanzi al generale, al re, agl'interessi del papato, alla sicurezza dell'Austria, alla salute dei principi italiani, all'esistenza della Compagnia di Gesù? L'istruzione del processo del padre Piombini fu condotta con prudenza, segreto e riguardi. Ei non ne seppe nulla, ma ne ebbe il sospetto e non ne fece caso. Ciò prese tempo; però si venne a capo della verità.

Quando il generale fu padrone di tutta codesta verità, egli ordinò qualche misura contro il fratello ribelle, ma sempre con calma, moderazione e saggezza. Il padre Piombini aveva portato all'ordine dei milioni ed era uno dei quattro o cinque membri che ne formavano lo splendore. Al primo avvertimento, cui il padre Piombini ricevè dal rettore di Napoli, egli gettò affatto la maschera e tagliò corto alle pratiche. Scrisse al generale e gli significò la sua intenzione di abbandonare la società e di secolarizzarsi. Questo colpo scosse il padre Rothaan. La secolarizzazione portava seco la restituzione della fortuna che il conte Bonvisi aveva legata all'ordine. Un processo forse. Un immenso rumore nel mondo. Della luce. Uno scandalo spaventevole. Il generale riunì la grande congregazione dell'ordine per avvisare.

E avvisarono.

Infrattanto, la dimanda di secolarizzazione del padre Piombini seguiva il suo corso.

In questo intervallo, Don Diego arrivò a Roma. Il colonnello Colini, che era in comunicazione col marchese di Sora, aveva saputo da costui tutti i dettagli dell'impresa di Bambina. La non partecipazione di Don Diego nel tradimento era stata accertata, e forse si era saputo anche ciò che la libertà e la dignità episcopale del fratello costava alla sorella. Si sentì l'ingiustizia di tramutare in delitto pel prete la pietà santa della giovinetta. Don Diego fu dunque bene accolto dagli esiliati napolitani a Roma,—e fra loro, dal colonnello, da Tiberio, e dal marchese di Tregle.

Pio IX era stato istrutto dal nunzio di tutto ciò che concerneva Don Diego. Egli ebbe per conseguenza un momento la velleità di opporsi all'unzione del vescovo. Le osservazioni dell'ambasciatore del re l'addolcirono, forse gli fecero riflettere che non era quello il momento di creare degli ostacoli e delle cattive intelligenze tra il trono e la tiara, tra i principi italiani d'Italia ed il papato. Il re aveva impegnata la sua parola: Don Diego doveva essere vescovo ad ogni costo, salvo a corregger poscia l'errore della ragione di Stato con la severità della giustizia. Il papa conobbe egli l'intero pensiero del re? Vi è luogo di crederlo. Vi è luogo a dubitarne. Ad ogni modo, Pio IX non volle ricevere Don Diego, e la consacrazione fu compiuta dal cardinal vicario o dal decano…. Don Diego non se ne informò neppure.

Don Diego non si preoccupò nemmeno del contegno di Pio IX. Egli aveva contribuito la sua buona parte alla creazione di questo idolo,—il Pio IX rivoluzionario che riscaldò l'immaginazione della democrazia europea nel 1847. Egli conosceva dunque il valore intrinseco del poticke del papato liberale. Si fermò qualche settimana a Roma per visitare le antichità, i musei, le chiese,—dal punto di vista dell'arte,—e s'intrattenne con i numerosi liberali accorsi a Roma da tutti i punti d'Italia e quivi riuniti, chi per adorar ficuli truncus, chi per metterlo a partito, chi per studiarlo, ed altri—gli esiliati—per scandagliarlo. Don Diego vide allora ciò che gl'italiani non han compreso di poi che Roma in quei dì era la loro necropoli e non la loro capitale; che non vi erano più romani ma sudditi del papa, salvo qualche eccezione, e che quella città non potrebbe aver vita, se pur vivesse, che mediante la trasfusione del sangue delle altre città italiane.

Le nuove della salute di Bambina lo rassicuravano; prolungò il suo soggiorno. Egli non vestì la sottana cremisina episcopale onde essere più libero. Vide moltissime persone. Parlò con franchezza; ed avvegnachè spiato, e lo sapesse, non si celò. Egli aveva compreso immediatamente, trovandosi in contatto con la genia curiale romana ch'egli era arrivato a porto, che aveva attinto l'apice a cui potesse sperare, e che qualunque fosse la tesa delle sue ali, eragli interdetto d'innalzarsi più su. Egli era radicalmente incompatibile col mondo romano vaticanesco. Si sentì allora umiliato di aver covato tanta ambizione, d'averla per sì lungo tempo carezzata, per così poco. Egli si ricordava, arrossendo, la notte fantastica che aveva passata quando Bambina gli disse: Tu sei vescovo! povera diletta! promettere il cielo ed ottenere in iscambio uno steccadenti! Fortunatamente che….

Egli ruminava codesto, contemplando in S. Pietro la statua di Giove umiliata a rappresentare il principe degli apostoli. Il rumore di due grucce risuonando sulle lastre di marmo della chiesa gli fece volger la testa. Riconobbe il colonnello Colini, in compagnia di don Gabriele, l'ex-attore dei pupazzi e di un gesuita francese chiamato il P. Buzelin. Parlarono di arte, di religione, di politica. Don Diego sembrava ritenuto dalla presenza di quel gesuita, amico del colonnello, ma cui egli non conosceva. Non dissimulò pertanto il suo giudizio sulla basilica di san Pietro. Egli trovava che il berretto di Michelangelo era troppo grande per covrire il papato per la grazia dei re, quale era escito dal congresso di Vienna,—una Chiesa cattolica sotto la protezione e la sorveglianza della polizia e della gendarmeria dell'Austria. Sembra un vaneggiamento! L'Austria del 1847 fu poscia surrogata dalla Francia. E questa nazione tiene oggi nel mondo morale il posto della Spagna e dei principi italiani di quell'epoca! C'è da ghignare al muso del progresso. A quel tempo, malgrado ciò, non si parlava ancora della Francia. Berryer non aveva ancora strappato dalle canne di Rouher il famoso jamais! che fece palpitar di gioia il cuore cosmopolita della mogliera del vincitore nobilissimo di Solferino. Thiers non aveva ancora dichiarata la guerra in petto all'Italia, recitando innanzi allo specchio la parte di un Goffredo del papato. Don Diego trovava altresì che san Pietro era troppo grande, per ripercuotere per fino gli echi di una assemblea nazionale italiana. Di maniera che quel monumento sorpassava le proporzioni del suo destino presente e futuro.

—Ah! soggiunse poscia il vescovo di Satana, ah! se la Chiesa cattolica divenisse un giorno la chiesa democratica, senza papa ma con dei concili periodici, voce di libertà, elemento di civiltà, forza del progresso, andando di pari passo con la scienza, armonizzando i suoi dogmi con la ragion pura, rigettando tutta la scoria ridicola dei passati secoli, una chiesa cristiana filosofica, insomma non più la Chiesa romana…. oh! allora S. Pietro sarebbe un tempio degno del Dio qualunque che vi si adorerebbe.

—Avete ragione, sclamò il P. Buzelin. Ma ciò non sarà mai. Il trono uccide l'altare, e l'altare rovescia il trono: ecco la legge dell'avvenire. I re che mangiano del papa, come della santa ostia, muoiono arrabbiati; ed i papi che maledicono alla resurrezione dei popoli, al soffio del libero pensiero, crepano idrofobi.

—Tanto meglio allora, gridò Don Diego, perocchè vi è una cosa che mai non muore: il popolo il quale sarà sbarazzato da queste due barriere, Gregorio VII e Carlo Magno….

Si lasciarono. La polizia romana, che sorvegliava tutti i passi di Don Diego, riferiva al ministro di S. M. siciliana i sentimenti sovversivi ed i gusti poco ortodossi del neo-vescovo. Il ministro fece significargli ch'egli avesse a partir di Roma il più presto possibile, poichè la diocesi reclamava la sua presenza. Se Don Diego non avesse contratto dei debiti col canonico Pappasugna, se avesse avuto un po' di fortuna per vivere indipendente, se a Roma stato vi fosse un posto per lui, egli avrebbe certo chiamato Bambina e Concettella appo di sè e non sarebbe più tornato a Napoli. Ma i suoi impegni, la sua povertà lo spronavano. Bisognò decidersi a partire. Ne fissò dunque il giorno e dimandò un'udienza al papa.

Pio IX non potè dispensarsi dal riceverlo, senza gettare della sconsiderazione sopra sè stesso, sconsiderando il vescovo appena consacrato in nome suo. Ma, d'altra banda, volendo evitare lo scandalo, lo ricevè la sera, in privato, a tu per tu. Pio IX, a volta sua, era curioso d'intrattenersi con un vescovo mazziniano, come egli diceva, nominato da un re che gli portava il broncio.

L'aspettativa del papa fu ingannata.

Don Diego si mostrò rispettoso per quel papa-travicello, diceva egli, e severamente discreto. Imperocchè, a certe altezze, l'aria è talmente rarificata che la percezione dei suoni si perde. Ai rimproveri di Pio IX, egli oppose il silenzio. Pio IX non avrebbe compreso la sua giustificazione. Perchè, partigiano della consustanzialità come un papa deve essere, egli non avrebbe ammesso giammai che Don Diego fosse uomo e vescovo nel tempo stesso, ch'egli potesse lasciare libero giuoco ai congegni individuali e compiere le funzioni episcopali con la dignità e la severità cui il rispetto di sè stesso gl'imponeva. Questa dualità nel prete, riconosciuta dai protestanti, respinta dai cattolici, è inerente alla natura umana, e salverà forse il cattolicismo, il giorno in cui essa non sarà più contestata. Don Diego si restrinse a dire partendo:

—Santo Padre, io farò il mio dovere, secondo Gesù Cristo.

La partenza doveva aver luogo il dì seguente. A quell'epoca si viaggiava per la diligenza che faceva il servizio della posta due volte per settimana. Per non compromettere il vescovo in faccia alla corte napolitana, nè il barone di Sanza, nè il colonnello Colini, nè il marchese di Tregle andarono a dirgli addio all'uffizio della diligenza. Gli mandarono i loro complimenti per mezzo di don Gabriele, il quale, avendo accompagnato il marchese di Tregle in qualità di cameriere o d'intendente, aveva ottenuto il permesso di ritornare a Napoli.

Don Gabriele aveva la nostalgia dei suoi pupazzi. Egli aveva provato di far gustare ai romani il suo teatrino ambulante che dava il farnetico ai napoletani, ma non aveva avuto alcun successo. Aveva quindi preso Roma in uggia.

Si caricavano già i bagagli sulle vetture, i viaggiatori erano già riuniti, quando il P. Buzelin arrivò. Egli cercava degli occhi Don Diego. Lo scorse in fatti, ma favellando col segretario dell'ambasciata di Napoli. Ebbe un movimento di viva contrarietà. Don Gabriele che gironzava intorno alle carrozze, sorvegliando il carico del bagaglio del vescovo, riconobbe il gesuita, cui aveva sovente visto in compagnia dei suoi amici. Si avvicinò dunque e gli dimandò:

—Padre riverendissimo, avete bisogno di qualche cosa da Napoli?

—Che? partite anche voi?

—Ah! per bacco, sì! sclamò don Gabriele, e cominciò a zufolare il ritornello di una canzone napolitana in voga: «Napole bello mio!»….

Il gesuita restò pensieroso un momento, poi riprese:

—Vorreste rendermi un servigio?

—Due, tre, e tutta la mezza dozzina, se posso farvi piacere.

—Ascoltate. Io ho una lettera da mandare ad uno dei miei amici del Gesù Nuovo. Non voglio confidarla alla posta. Vorreste voi incaricarvene?

—Datela qui.

—Ma il servizio ch'io vi chiedo è questo qui. Appena metterete il piede sul lastrico di Napoli, voi non andrete a casa vostra, fosse pur vostra moglie, vostra figlia, o vostra madre che vi aspettino. Prenderete una vettura e vi renderete immediatamente alla chiesa del Gesù. Se il padre Piombini è al suo confessionale, voi vi avvicinerete senz'altro a lui e gli darete la lettera dicendogli: «Leggete all'istante, più presto che all'istante!» Se la chiesa è chiusa, andrete al parlatorio e lo farete chiamare dicendo che voi vi nomate Marco Savelli. Egli verrà immediatamente, e voi gli rimetterete la lettera.

—Io compirò punto per punto il vostro desiderio.

—Me lo promettete voi?

—Voi potete contare su di me come su i vostri amici, il colonnello ed il marchese.

Il gesuita si tacque un momento e riflettè se doveva o no soggiungere altra cosa, poi sclamò, gettando un profondo sospiro e dando la lettera:

—È quistione di vita o di morte. Compite esattamente le mie istruzioni.

—Voi stesso non fareste nè meglio nè più presto, rispose don Gabriele.

Si fece l'appello dei viaggiatori. Don Gabriele si arrampicò all'imperiale; il P. Buzelin restò immobile a guardarlo. La vettura si mise in moto. Il gesuita fece un segno a don Gabriele come per dirgli: «Ricordatevene: quistione di vita o di morte!»

Don Gabriele rispose al segno e scomparve.

XXV.

L'appuntamento della mezzanotte.

Il P. Piombini sentiva qualche cosa di fatale pesare sul suo capo.

L'atteggiamento dei suoi superiori e dei suoi confratelli non era punto cangiato in apparenza. Non gli avevano fatto alcun rimprovero. Gli profferivano gli stessi riguardi. Gli si lasciava la stessa libertà. Esercitava le medesime funzioni. Solamente il rettore lo aveva avvertito che la sua condotta era stata segnalata a Roma ed aveva provocato dei reclami. Bisognava quindi circondarsi delle più grandi precauzioni, ritenersi un cotal poco.

Il P. Piombini aveva accolto l'avvertimento con umiltà; aveva risposto che la sua coscienza non provava alcun rimorso, ed aveva formulato la dimanda di uscire dall'ordine, poichè aveva perduto la confidenza e la stima dei suoi superiori.

La calma si ristabilì; ma l'emanazione magnetica delle anime che lo circondavano agiva su di lui e lo penetrava. Un nugoleto nero si abbassava poco a poco, si addensava, si restringeva e lo rinchiudeva in qualche cosa di cieco e senza uscita che gli tagliava il respiro. Egli conosceva la storia segreta della Società. Egli ne conosceva le regole, la procedura, il codice, i mezzi di profferire e di eseguire le sentenze. Egli sapeva che la sua posizione si aggravava a causa della grossa fortuna portata in dote alla compagnia, per ordine del duca di Modena.

Egli sospettava dunque tutto, spiava e studiava tutti gli sguardi, ascoltava tutte le parole bisbigliate, osservava tutti i passi e tutto ciò che lo circondava, dormiva poco, si svegliava a sobbalzo al minimo rumore, mangiava e beveva tremando, parlava di raro, fuggiva il consorzio dei suoi confratelli ed accelerava la sua messa in libertà—la secolarizzazione.

Questo stato di spirito, questa situazione minaccevole, la malattia di Bambina, avevano prodotto una certa diversione al compimento delle gioie del Padre Piombini, ma tutto ciò non aveva di guisa alcuna diminuito il suo amore. Al contrario, questo amore ingrandiva in ragion diretta dello sforzo, del pericolo, delle difficoltà, dei ritegni, dell'aggiornamento, ed avendo cominciato da un semplice appetito dei sensi aveva finito con l'estasi dell'anima.

Il ritorno alla salute di Bambina, la risposta del P. Rothaan che la secolarizzazione sarebbe accordata se il socio persisteva a dimandarla dopo più matura riflessione, avevano precipitata la crisi. Il P. Piombini aveva reiterata la dimanda di lasciar la Compagnia di Gesù, senza fare la minima allusione alla sua fortuna, onde scartare gli ostacoli e le lungaggini, ed era uscito due volte per andare a vedere Bambina.

Quest'ultima circostanza era stata comunicata per corriere espresso a Roma, ed il P. Rothaan aveva consultato il consiglio dell'ordine, se bisognasse per sopire lo scandalo, prevenire il male, evitare un danno alla Società, e, ad majorem Dei gloriam e per l'onore della chiesa, lanciare il fulmine sul capo della maliarda.

La maggioranza del Consiglio aveva opinato, con aggiustatezza, che la morte della giovinetta aumenterebbe ed aggraverebbe il parossismo; che l'amore non muore che di pletora e di sazietà; che, Bambina morta, il P. Piombini odierebbe la Società la quale l'aveva uccisa e cercherebbe farle il massimo male; che il delitto poteva essere provato…. insomma, prevalse l'avviso che bisognava lasciare in vita la ragazza ed il P. Piombini libero, onde guarisse il suo amore con l'amore, salvo a….

Quel salvo a, restato in bianco nella decisione del Consiglio, era la fatalità di due vite.

La partenza di Don Diego, il dolore di Concettella,—divenuta tetra e funebre, sapendo qual sorte si librasse sul capo del suo amante,—immersero Bambina nella solitudine. Le visite del P. Piombini non l'avevano sollevata. Il gesuita aveva svegliato in lei la donna, egli le aveva fatto intravedere dei pianeti incogniti nell'infinito dell'amore, ma non l'aveva sedotta. Bambina sarebbe stata felice di averlo per amico; come amante, lo abborriva.

All'età di Bambina, nello stato verginale del suo corpo, nell'ignoranza dei misteri del piacere, l'amore è ancora un fiore ed un incanto dell'immaginazione. Gli è più tardi ch'esso sconvolge il cuore ed i sensi. Bambina non poteva dunque concepire l'amore sotto la forma, sotto le vesti di un gesuita. D'altronde non aveva essa carezzato il fantasima, sotto l'immagine del barone di Sanza, bello ed elegante giovanotto? Il gesuita non possedeva la lingua immaginosa della passione falsa o superficiale. Il suo amore profondo e vero lo rendeva laconico. Un uomo che ama sinceramente, potentemente, non trova altra cosa a dire che: Io ti amo! Un amore gassoso si spande in frasi, tropi, immagini, eccessi, si inebbria non potendo identificarsi.

Ma il P. Piombini portava in lui una significazione terribile: era una scadenza! La sua presenza ricordava a Bambina il motto spaventevole che aveva pronunziato: La vostra anima per il mio onore! Il gesuita le aveva abbandonato l'anima. Bambina non ignorava ch'egli aveva compromesso ancora più: la sua vita, la sua considerazione, il suo dovere, e che correva formidabili pericoli. Ed ella? aveva ella tenuto la sua promessa? Il delitto, il male, hanno anch'essi il loro onore. Ella mancava all'onore ingannando quell'uomo, che avrebbe potuto esigere un pagamento anticipato,—ed ella avrebbe pagato,—e se n'era rimesso alla lealtà di lei. Abusarne non era dunque infame? Ella aveva presentato la sua mano all'addentellato, la macchina l'aveva acciuffata; era mestieri passarci tutta intera.

Ecco ciò che ruminava Bambina nella sua scura cameretta e sul suo letto della febbre, non osando confidarsi ad alcuno per alleviare il suo cervello oppresso ed irritato, non mangiando, non dormendo che con l'aiuto di una pillola di morfina, cui Concettella andava a cercarle ogni sera. Giammai creatura umana non sospirò tanto la morte per affrancarsi. La morte era una soluzione.

La sua innocenza le celava la gravità della profanazione materiale della sua persona. Ella non scorgeva nel pagamento del suo debito che un'idea vaga, indefinita, incommensurabile pertanto: la deflorazione morale dell'anima! Ciò aggravava la sua catastrofe e la spingeva alla disperazione.

Bambina infine era guarita. Si era alzata. Lo si crederebbe? La prima volta che uscì andò ad inginocchiarsi al confessionale del P. Piombini.

Ella non trovò nulla a dirgli; e non fu anzi che ascoltando la voce profondamente commossa del gesuita, il quale le domandava conto di sua salute, ch'ella si avvide ove fosse. Tremò e pianse. Il P. Piombini non le fece la minima allusione al suo amore. Bambina si limitò a ringraziarlo. Di che? Perchè? Eccoli alla quistione. Il gesuita ringuainò la sua logica e le disse per addio:

—Figliuola mia, attendo oggi o domani il risultato di una pratica gravissima che ho fatto. Domani sera, a mezzanotte, verrò a parteciparvelo. Ciò ci riguarda.

—A mezzanotte! sclamò Bambina. Ma Concettella è là.

—Che importa? rispose il gesuita. Quando si spianano delle montagne,—ed è questo ch'io sto facendo,—non si guardano i piccoli mucchi di terra che le talpe innalzano in un giardino.

—Ma che avete voi a dirmi!

—Nulla, in questo momento; perocchè io non sono sicuro di nulla. Forse una notizia inebbriante domani a sera. Verrò.

E senza aspettare altra risposta dalla giovinetta, il P. Piombini chiuse lo sportellino del graticcio ove era Bambina ed aprì quello del graticcio opposto per udire un'altra confessione.

Le ore che seguirono, fino alla mezzanotte del dì seguente, furono spasmodiche per la giovinetta e pel gesuita,—per la giovinetta sopra tutto. Ella si credeva intimato il pagamento del suo debito. Il momento di confidarsi a Concettella era arrivato.

Bambina raccontò tutto alla concubina di suo fratello, piangendo, desolandosi. Concettella pianse con lei e provò di consolarla. Che poteva ella? indorò il malanno e, per pietà, glielo presentò sotto un aspetto cui Bambina non aveva neppure sospettato. Concettella non riuscì ad ammaliare lo spavento di Bambina, ma ne scongiurò gli spettri fantastici.

—Tutte le donne passano per codeste prove, disse Concettella. Fra mille, non vi è forse che una sola giovinetta che si dia; le altre tutte subiscono la violenza della sorte sotto il nome di marito punto amato o di amante che le circostanze c'impongono. Lo scioglimento del dramma o dell'idillio dell'amore si fa sempre nelle lagrime che colano o che si bevono, raramente sboccia nella gioia. Poi segue la rassegnazione, celando il male, e si spera la liberazione, l'amore-amato, l'amore-amante.

—Giammai, gridò Bambina.

—Che volete che io vi dica, allora? sclamò Concettella. Io vi racconto la mia storia e quella di qualche persona che ho conosciuto. Io sono una ignorante. Vi sono forse delle scappatoie più accettabili e più gradevoli. Non lo ricevete dunque.

—Lo posso io? gridò Bambina con accento lacerante. Non sono io impegnata?

—Allora, ascoltate le sue proposizioni e aggiornate, aggiornate…. chi sa? Bisogna credere ai miracoli poichè la nostra santa madre, la Chiesa, ci crede. Volete voi che io gli parli, a questo innamorato frettoloso?

—No. Non inganni ignobili. Gli parlerò io. Io sarò sola con lui. Io non posso sperare qualche cosa che dalla sua generosità. Se naufrago…. ebbene, io so, dal primo giorno in cui mi promisi, come affrancarmi con una forza maggiore da una forza maggiore. E' mi vuole? egli m'avrà…. se l'osa.

—Ah! se vostro fratello fosse qui….

—Mio fratello? egli è vescovo. È meglio poi che egli sia a Roma che qui. Io vorrei pertanto vederlo ancora una volta!….

Ella ruppe in un dirotto pianto ed andò a rinchiudersi nella sua cameretta.

Bambina non era pia, tuttavia ella pregò, ella sperò.

La notte venne. L'orologio della chiesa vicina cominciò a snocciolare le ore. Ogni colpo di martello batteva al cuore della povera creatura e lo piagava. Infine, mezzanotte suonò pure. Al punto stesso, l'appartamento risuonò di un tocco discreto del campanello.

—Eccolo! gridò Bambina, balzando dal seggiolone, come se fosse stata toccata da un ferro rovente.

—Eccolo! ripetè Concettella. Che bisogna dunque fare?

Bambina riflettè un istante, poi ordinò a Concettella:

—Entra nella mia camera e tienti svegliata. Se grido, accorri.

Concettella si rinchiuse nella stanza di Bambina e questa andò ad aprire.

Era infatti il padre Piombini vestito da laico.

Se egli non avesse detto con una voce penetrantissima: Grazie! oh grazie! Bambina non lo avrebbe riconosciuto. Sembrava bello e giovane. Egli prese la mano madida della giovinetta e la sentì tremare. Egli appoggiò le sue labbra sulla fronte di lei, e la sentì fremere. Bambina lo condusse nel salotto cui aveva illuminato meglio del solito. Il lume raddoppiava il prestigio meraviglioso della sua bellezza. Ella fece sedere il gesuita sul canapè e restò in piedi. Si guardavano entrambi stupefatti. Bambina vedendo il conte Bonvisi, ed il padre Piombini vedendo la donna sotto il riflesso magico che le dà quasi dell'ideale, la luce delle fiaccole. Infine, il gesuita gridò con tuono precipitato, quasi avesse avuto fretta di annunziare le sue belle nuove:

—Figliuola cara, io sono felice. I miei negoziati sono riesciti. Un naviglio da guerra americano è giunto in rada stamane. Uno dei miei penitenti mi aveva di già ottenuto dal ministro americano un ordine d'imbarco. La pratica è stata condotta col più grande segreto, al confessionale, per istornare l'osservazione de' miei confratelli. Il ministro americano mi aspetta in casa sua…. che dico? ci aspetta, dimani sera…. nella notte di domani. La sua carrozza sarà nella strada S. Sebastiano, alla mia porta, ai miei ordini. La sua vettura è inviolabile ed il segretario dell'ambasciata vi si terrà dentro. Costui è pure ai miei ordini. Io uscirò dal Gesù Nuovo alle undici e verrò qui alla porta. Io voglio essere qualche ora con te, essere tutto a te, averti tutta a me…. Poi ti presenterò al ministro americano come mia moglie. Io abiuro. Io mi fo protestante. Ci mariteremo innanzi al console americano. Partiremo per l'America sul naviglio da guerra che è nel porto. Rinnovelleremo il nostro matrimonio solennemente a New York. Ecco ciò che ho potuto fare. Vostro fratello è istrutto delle mie pratiche. Io non ho che questo a dirvi.

Vi era nell'accento del padre Piombini qualche cosa di così penetrante, di così toccante, che Bambina non trovò nulla a rispondere. Ella vedeva quell'uomo sotto una luce nuova, al fisico come al morale. Il gesuita non esisteva più che quasi come una memoria benefattrice. L'ammirazione, il rispetto, la riconoscenza, un fascio di sentimenti femminini nuovi, qualche cosa di incognito e d'indefinito che circolava nelle sue vene ed ossidava il suo sangue, un'aureola iridata e vagabonda che solcava il suo guardo interiore, paralizzavano la sua lingua, precipitandovi motti incoerenti e tumultuosi. Il gesuita interpretò quel silenzio in cattiva parte. Credette comprendere che ciò che aveva fatto non bastasse per la giovinetta e soggiunse:

—Nel mondo, io era un giorno il conte Bonvisi. Se ciò vi sorride meglio che il pastor protestante, noi possiamo fermarci in Inghilterra. Io reclamerò la mia fortuna. Lasciando la Società, la mia fortuna considerevolissima mi ritorna, io farei qualche sacrificio per evitare un litigio. Il padre Rothaan è savio. Egli preferirà conservare alla Società cinque o seicentomila franchi e restituirmi il resto, facendomi passare come partito per la missione della Cina o del Giappone,—là donde non si ritorna mai o si ritorna carcame di martire. Egli sa che può fidarsi di me. È uomo da comprendere una passione. Nondimeno, se l'avidità lo accieca…. ebbene, tanto peggio; lo scandalo ricada sulla Società. Al postutto, io ho ragione.

Bambina taceva sempre ed ascoltava. Il Padre Piombini continuò:

—Voi trovate forse che io non ho fatto abbastanza per voi. Piaccia a Dio non troviate un giorno che ho troppo fatto.

—Come ciò? sclamò Bambina provando come una scossa al cuore.

—Ebbene, sì, che m'importa alla fine quantunque ei si facciano, purchè io mi abbia una settimana, un giorno, un'ora di amore, che io mi sia felice ancora una volta nella vita mia, che io vi lasci felice e ricca? Io vi porterò domani una donazione di tutti i miei beni per assicurare, ad ogni evento, il vostro avvenire. Io li conosco. E' non mi lasceranno godere di ciò che essi addimandano il mio tradimento. I miei giorni sono contati. Ma io non me ne curo. Dovunque noi andremo, ci scopriranno e ci acciufferanno. Io non ho paura che per te. Consentiranno essi che tu viva, sapendoti mia erede? In America, in Inghilterra, in Francia, ai poli, nel fondo delle miniere dell'Altoi…. essi saranno dietro a noi. Il loro braccio è lungo, essi raggiungono tutti, dovunque, infallibilmente. Non sono stato io loro istrumento nell'affare del marchese Mascara? cinque persone di una medesima famiglia sterminate in meno di sei settimane per appropriarsene l'eredità, e la giustizia restò immobile e cieca! Ma io sono rassegnato anzi tratto. Io ti amo. Averti a me, non fosse che per un giorno, e poi morire guardandoti, stringendoti sul mio cuore, santificato dall'alito tuo che sarà come l'aura delle ali degli angeli. Dio mio! se io potessi ascoltar la tua voce che mi dicesse: io ti amo! se io potessi sentir le tue labbra sorbire l'anima mia con l'ultimo mio sospiro!

—E voi avete affrontati simili pericoli per amor mio? mormorò Bambina, quasi parlasse a sè stessa, con voce sommessa e lenta. Voi correte di codesti rischi per amarmi? Ed io che mi credeva eroica!

—Bambina, non farmi soggiungere parole che all'età mia, nella mia persona, nella bocca di un uomo non amato sembrerebbero vaneggiamenti, e che turberebbero la tua anima, se tu mi amassi. Ordina ciò che debbo fare per piacerti. Esprimimi il desiderio più esorbitante cui un altro uomo potesse soddisfare,—fosse anche il re, fosse, più ancora, il generale dei gesuiti…. sarà esaudito: e deduci da ciò la grandezza, e l'immensità dell'amor mio. Il sacrifizio della mia vita non è il sacrificio più grande ch'io ti fo. Tu mi hai dimandata la mia anima? io te l'ho prostrata sotto i piedi. Non sono io apostata? vale a dire, non ho io mancato alla mia parola di prete, al mio onore di gentiluomo! Io non metto in conto la religione cattolica: io ne ho un'altra. Mi forzarono ad entrare nell'ordine, ed io mi ebbi la vigliaccheria di preferire la vita ad una menzogna. Ma la mia lealtà di uomo, la mia parola di gentiluomo sono ora maculate. Io ho tradito la loro confidenza. Ebbene, credi tu, figliuola mia, che il sacrifizio del tuo onore, quando anche me lo avessi tu fatto, sarebbe stato più grande del mio?

—Oh! no, no, gridò Bambina esaltata. Prendimi: eccomi a te.

—Che? sclamò il gesuita, levandosi di soprassalto poi ricadendo. Oh! no: non slanci di entusiasmo. Io non mi vanto di quello che ho potuto fare. La sola gioia della mia vita è di avere avuto qualche sacrifizio a metterti ai piedi. Come ho io riposato tranquillo di poi! come mi sono sentito alleviato! come mi sono trovato autorizzato a dimandarti qualche cosa,—un tesoro, un mondo! l'amore. L'amore? io ne conosco il prezzo. Tu saprai un giorno ciò ch'esso mi ha costato in giovinezza, quando io era uomo del mondo. Fregare il mio zamberluccaccio di frate alla veste serafica della tua verginità…. oh Bambina! io sono il niente.

—Io vi attendo domani sera, susurrò Bambina: voi mi troverete alla vostra altezza.

—Diletta figliuola, diletta figliuola, gridò il gesuita cadendo ai ginocchi della giovinetta e baciandole le mani, le vesti, i piedi: non mi dare il delirio. Che? tu mi amerai un giorno? Che? la mia lugubre sottana non ti ripugna e spaventa? Che? tu consenti a dividere la mia esistenza, la mia gioia, i miei pericoli, le mie speranze? Che! tu vuoi identificarti con me? essere a me tutta intera, senza riserbi, senza apprensioni, senza ritardo, spontanea, del tuo cuore? Oh, mio Dio! grazia. Lasciami vivere un giorno solo nelle sue braccia, e poi disponi del mio corpo e dell'anima mia!

Bambina lo rialzò. Egli l'attirò sulle sue ginocchia e la coperse di baci, diventando fanciullo, sciogliendone le treccie, esaminando le mani di lei, e gli occhi, volgendo il di lei viso per lambirne l'espressione varia secondo i riflessi della luce, chiudendone la vita fra le sue quattro dita, palpando la finitezza dei capelli, sorbendo la soavità dell'alito, l'armonia del profilo, l'attonita, profonda, immensa, limpida espressione dello sguardo, e sclamando ancora:

—Bella, bella, divinamente bella!… E tutti quei tesori sono miei, non è vero, Bambina? a me, a me solo, a me il primo? Il tuo cuore mi ha dunque compreso? esso ti ha dunque parlato? tu non ami più quel meschinello di barone che ti squadrava dall'alto del suo empireo del quarto piano? Domani sera…. no, io verrò alle undici, se posso. Passeranno desse queste ore di agonia? Come sei bella! diletta figliuola; oh! come io ti amo, ti amo, ti amo a morirne. Non lo senti tu che io ti amo? Ma tutti, tutti hanno ciò letto sulla mia fronte, negli occhi miei: è una corona di fiamme.

—Ditemi che non correte alcun periglio; ho bisogno di averne la certezza. Sarei dunque io che vi ucciderei, se coloro vi assassinassero, sarei io? sarebbe a causa di me…. di'?

—Non pensare più a ciò, fanciulla diletta. Io l'ho obliato. Ove tu sei. Dio è, ed io non veggo neppure la mano della morte. Che m'importa di essi oggimai? Che mi pugnalino, che mi avvelenino, che mi strangolino…. cosa è codesto? che mi fa ciò, se io ti ho sentito nelle mie braccia come ti sento ora, se io ho baciato i tuoi occhi, le tue guance, le tue labbra? Morirei mio Dio! ma e' sarà la gioia che mi ucciderà, non coloro.

—Ma insomma, insistè Bambina, preoccupata, non accorgendosi neppure che il suo amante la divorava di baci,—ma insomma, senza me, senza questo amore, voi non correreste alcun rischio? Me sparita, vi lasceranno essi vivere?

—Diletta, diletta figliuola, non pensare più a codesto. Non te l'ho io detto? Essi sono impotenti a colpirmi al cuore se io ti avrò avuta un sol giorno, uno solo, che io avrei passato tenendoti sul mio petto. Ebbene, sì. E' mi assassineranno per conservare la mia fortuna. Ma se io la lascio loro? Saranno forse soddisfatti. Ma che mi uccidano pure: io ti amo, e morrò vicino a te. Io avrò goduto le feste divine del cielo. Il paradiso è amore.

Bambina appoggiò il suo capo sulla spalla del conte Bonvisi e gli bisbigliò all'orecchio:

—Ti aspetto domani.

Il padre Piombini se la strinse sul cuore e sentì le labbra di Bambina palpitar sotto le sue. E' si levò subitamente: la vertigine lo guadagnava.

Un quarto d'ora dopo e' partiva, e Bambina restò immersa nei sogni. Poi, tutto a un tratto, ella si alzò e corse nella sua camera ove Concettella si era addormentata. Bambina la mandò a coricarsi e frugò nei tiratoi del suo stipo donde cavò fuori una scatoletta cui aprì. La scatoletta conteneva una quindicina di pillole di morfina, cui ella aveva fatto comprare per darsi ogni sera un poco di sonno e cui aveva conservate. La scatoletta scomparve nella sua tasca.

Bambina si coricò e dormì.

Ella aveva preso una risoluzione.

Bambina passò la mattina del dì seguente a scrivere a lady Keith, al principe di Schwartzemberg ed a suo fratello. Era quel giorno appunto che la diligenza di Roma arrivava a Napoli ed in cui Don Diego sarebbe giunto se non si fosse fermato a S. Germano per visitare il famoso monastero di Monte Cassino. La lettera a suo fratello era la più corta. Essa spiegava in una parola la crisi che si era operata nel cuore della fanciulla e la di lei grandezza d'animo.

«Caro fratello, diceva quella lettera, Concettella ti dirà tutto ciò che è occorso. Io ho amato, in un secondo; io ho amato per qualche ora. Mi sono data a lui con estasi. Ho voluto renderlo beato; conoscere io stessa l'amore. Ma come, me vivente, i gesuiti lo avrebbero ucciso, io ho cessato di vivere, affinchè lo lascino vivere e gli perdonino. Io non potevo fare meno per lui che per te: a te l'onore, a lui la vita. A dio! in dio!»

La giornata scorse nella massima calma. Bambina mangiò, rise, scherzò, confessò il suo amore pel gesuita a Concettella, parlò di lui, fu sfrontata di curiosità femminile da far arrossire Concettella. Ella voleva piacere, dare in due ore tutto ciò che l'amore può dare in dieci anni, godere, ubbriacare, inebbriarsi ella stessa di quell'incognita che addimandisi voluttà, morire nella febbre, nel delirio nella follia.

La notte giunse. Bambina sollecitava le ore coll'ansietà.

Dalle dieci, si mise alla finestra per vedere arrivare la vettura che lo conduceva a lei. Tutto l'appartamento era vivamente illuminato, ornato di guastade di fiori. Ella si era vestita il meglio che aveva potuto e saputo, quasi che il fiore splendidissimo ed effimero del cactus grandifloris avesse avuto bisogno dei cenci di una cucitrice. Si scollacciò senza modestia, si profumò. Voleva tutto offrire, tutto mostrare, tutto dare, senza riserbo. Non si apparteneva più. E non sapeva tenersi cheta.

Alle undici, come il conte Bonvisi aveva detto che sarebbe forse giunto a quell'ora, Bambina si pose alla finestra, ed una fiamma le salì dai piedi alla testa, le scese dalla testa ai piedi. Il desiderio dell'infinito illuminava la sua serafica bellezza. Alle undici e mezzo il vico era deserto, il silenzio dovunque, i passanti rarissimi nella strada di Forcella, all'estremo dell'angiporto. I dodici colpi di mezzanotte vibrarono. Allora Bambina rientrò e chiuse la finestra. Ella mandò Concettella a coricarsi e ritornò nel salone. Un rumore lontano, una vettura che passava nella strada di Forcella, arrivò a lei. Bambina saltò in piedi, cavò fuori la scatola della sua tasca ed inghiottì una dopo l'altra le quindici o sedici pillole di morfina che conteneva. Ella respirò alla fine.

—Ho quattro o cinque ore di vita a dargli, mormorò essa—poco esperta in tossicologia—tutto a lui, tutto, tutto, tutto. Dio, mio Signore, non turbare la mia gioia con le torture della morte.

Ella si assise, tese l'orecchio ed…. aspettò.

Il Padre Piombini non venne.

XXVI.

Peste sia degli artisti!

Don Gabriele era arrivato alle dieci del mattino, quel giorno stesso che doveva terminare in modo così lugubre per Bambina. La diligenza aveva anzi guadagnato due ore sui suoi arrivi abituali. Mettendo piede sul bel lastricato di Napoli, al Largo del Castello, una cosa colpì l'ex-giocoliere di pupazzi.

Ma, ritorniamo un passo indietro.

Il dottor Bruto, fulminato dalla morte terribile della sua fidanzata nel boudoir della regina Urraca, aveva fatto giuramento di non ammogliarsi. Aveva poi violato quel giuramento per una vecchia di sessant'anni, la marchesa di Tregle. Questa dama, non avendo parenti e sotto il pondo di un confessore gesuita, aveva legato l'immensa sua sostanza ai Reverendi Padri. La morte subita del marchese Mascara ebbe luogo.

Il marchese Mascara, volendo diseredare suo fratello e suo nipote, aveva disposto di una fortuna di cinque milioni di franchi in favore dei gesuiti, ma dopo la morte di sua moglie, molto più giovane di lui e, per conseguenza, avente la probabilità di sopravvivergli. Un mese dopo del testamento, il marchese morì. Tre settimane più tardi, la marchesa lo seguì nel sepolcro. Il fratello del marchese oppugnò il testamento, attaccò la donazione ai gesuiti. In meno di sei settimane, questo fratello, il figlio e la sorella di lui soccombettero¹. Un grido di allarme e di terrore si levò in massa nella società napoletana. Re Ferdinando sopì il rumore, soffiò sul processo, e dette la proprietà dei Mascara ai Reverendi Padri.

¹ Storico, salvo qualche dettaglio che mi è sfuggito di memoria.

Questo esempio terrificò la vecchia marchesa di Tregle. Ella non osò lacerare apertamente il testamento, ma ne distolse il senso. La marchesa soffriva di una malattia disgustosa, di cui il dottor Bruto le aveva alleviate le molestie con molto coraggio e devozione. Si prese di affezione per lui e volle attestargli la sua riconoscenza. Gli propose quindi di sposarla, ma in un modo delicato. Pregò il dottore di fare il giro d'Europa, per tre o quattro anni, lasciando la sua procura al colonnello Colini. Fu dunque il colonnello che sposò la marchesa per procura, mentre il dottor Bruto Zungo, cangiato oggimai in Tiberio,—Bruto era troppo rivoluzionario per un marchese di Tregle,—gustava le delizie del matrimonio nelle braccia di una lorette a Parigi.

La marchesa aveva investito Bruto di tutta la sua sostanza per irrevocabile donazione ed era andata a pregare il re di conferirgli e riconoscergli il titolo di marchese di Tregle. Ciò fu fatto. Il nuovo marchese tornò a Napoli dopo la morte della sua protettrice. Il colonnello Colini e don Gabriele, che abitavano di già la casa del dottore, ebbero le loro camere nel palazzo del marchese ed il loro posto alla sua tavola, come l'avevano nel suo cuore¹.

¹ Vedere su questi personaggi due altri racconti dell'autore, o piuttosto due altri episodi di questo racconto, intitolati: Le notti degli Emigrati a Londra. Il Sorbetto della Regina.

Don Gabriele avrebbe potuto bellamente fare a meno di rappresentare le sue farse con i pupi nelle piazze di Napoli e nel teatro di donna Peppa. E' provò. Il primo giorno gli parve esser felice.

Passeggiò per le strade di Napoli, dopo un eccellente asciolvere, le mani dietro il dorso, un bastone accoccato ad un bottone del suo soprabito,—il brigante si era accordato un soprabito color zucca,—andando a zonzo deliziosamente, gettando degli epigrammi ai passanti, dando la baia ai cocchieri di carrozzelle, entrando nei caffè e facendosi servire fuoco, acqua, ed il Giornale ufficiale gratis.

Il secondo giorno ricominciò la storia, ma sbadigliò forte. Il terzo gli prese il ghiribizzo di andarsene in campagna, e trovò che il sole lo importunava, la polvere lo faceva starnutar molto, il canto delle cicale gli dava la nevralgia, il gorgheggiare degli uccelli era un'insipida invenzione del poeti.

Rientrò la sera stanco, malcontento.

Il quarto giorno si disse: ah! se dormissi? che cosa divina un letto comodo! Si coricò dopo la colazione. Le mosche lo tormentarono; le pulci lo irritarono; le zanzare gli dettero terribile rovello. L'incubo si mise della partita. E si disse: eh! e se mi ammogliassi? Come! animale bruto, all'età tua? Sì, rispose egli stesso. Bah! usciamo. Il mondo gli sembrò stolido. Sbadigliò. Cercò per un'ora nelle sue tasche il moccichino che un monello gli aveva portato via delicatamente. Andò allo spettacolo, ove cominciò per irritarsi contro il suggeritore e finì per addormentarsi. Il quinto giorno si sentì malato, fu di pessimo umore, dichiarò che non digeriva più…. Breve, otto giorni dopo il marchese di Tregle avendo pietà di questo artista rientrato in un borghese, gli disse:

—Don Gabriele, i napolitani vogliono lapidarmi perchè io ti ho portato via dalle strade della città cui riempivi di brio e di gaiezza. Va dunque a divertirli un paio d'ore al giorno.

Ciò fu la liberazione per don Gabriele. Il marchese lo tirava dal limbo come un tempo il Cristo ne aveva tirato il re Davide e compagnia. Don Gabriele credeva compromettere l'onore della casa di Tregle continuando a fare l'istrione. Guarì a vista. I napolitani lo rividero con gaudio far dare le batoste al frate dal marito geloso ed allo sbirro da Pulcinella. Don Gabriele però si dette un allievo, quando cominciò a rappresentare una parte politica. Ma quello allievo, ahimè! non aveva la divina scintilla dell'improvvisazione del maestro, i suoi tratti arguti e vivi, le sue risposte scintillanti. Don Gabriele se ne desolò dicendo:

—Mille miserie! l'arte morrà con me!

Egli accompagnò il marchese a Roma, da fedel Servitore, non da esiliato. Provò d'introdurre le marionette a Roma.

Da prima i romani non compresero le arguzie del gergo napolitano,—ciò che desolava don Gabriele non vedendo il suo spirito gustato,—poi la polizia del papa trovò che doveva esser il monaco a bastonare il marito geloso e metterlo alla porta e non il contrario. Smise il teatrino ambulante. Visitò chiese e taverne. Si mise a fare una corte platonica alle trasteverine ed a dare la berta alla gente del ghetto. Nulla valse. La flirtation alle trasteverine gli attirò busse da un canonico di S. Giovanni. La nostalgia dei pupazzi lo riprese. Il marchese ebbe pietà di lui e lo rimandò a Napoli con una scusa.

Ed eccolo di ritorno.

Don Gabriele si era ripetuto lungo tutta la strada:

—La prima cosa che farò sarà di portare la lettera al P. Piombini. Quell'altro ha detto che si trattava di vita o di morte. Caspita! non bisogna mica pigliarla a gabbo e rimetterla al quinto atto. Poi vado a casa, tiro dal soppalco la mia baracca ed i miei piccoli e vado a fare una burla al mio allievo, installandomi al Molo. «Chi è dunque codesto galuppo, dirà egli, che si mischia di far concorrenza all'allievo unico di don Gabriele? voglio proprio vederlo.» Ed io a ridere ed a dargli la berta, richiamare a me i suoi spettatori, e provargli ch'egli è un fiero animale.

Don Gabriele ruminava ancora questo progetto quando, discendendo di diligenza all'angolo della strada S. Giacomo e del Largo del Castello, si trovò faccia a faccia col teatrino del suo allievo che spippolava ad un magro uditorio non so che scipida cantafera. Don Gabriele corse ad udirlo. Fremè, la bile gli arrossò il naso ed i bernoccoli. Assistè all'anelito estremo dell'arte e disperò. Di un tratto; egli salta dietro il casotto in tela, morde la gamba del suo allievo e grida:

—Discendi, brigante, tu non sei neppur degno di essere priore a S. Maria la Nuova.

Salvatore, l'allievo, gettò un grido, riconoscendo la voce e i modi di don Gabriele, e si precipitò su di lui per abbracciarlo. Don Gabriele lo respinse. Afferrò le marionette, salì sullo sgabello, fece lo zufolo d'uso col suo piccolo fischietto e cominciò ad improvvisare una mattezza a screpolare la pelle dal ridere, sul suo ritorno, sulle sue scene con la polizia romana, su i suoi riboboli in napoletano che i romani avevano capito di traverso, in una parola, un'odissea scompigliata, fantastica, buffa, saltabeccante, libera, che contorse le costole degli spettatori per due ore.

L'estro del vecchio artista faceva esplosione.

Allettato da questo enorme successo, egli corse sul Molo.

Il ritorno di don Gabriele fu un avvenimento. Tutti lo conoscevano. Tutti avevano sentito la sua assenza, tutti lo sospiravano. Il successo fu frenetico. Don Gabriele s'inebbriò. Trottò senza mangiare, senza bere, senza pigliar fiato, al Largo delle Pigne. Gli fecero un'ovazione. Lo avrebbero acclamato presidente della Repubblica, se vi fosse stata ancora una repubblica partenopea. Perchè no? mons. Thiers l'è bene della Reale ed Imperiale Repubblica francese! La sera giunse. Don Gabriele s'installò al teatro di donna Peppa e vi guadagnò il suo Austerlitz. A mezzanotte, egli dava la sua terza rappresentazione della serata. Si sentì sollevato. Trovò sè stesso, perchè i romani avevano cominciato a farlo dubitare di sè. Ed e' fu soltanto allora, ch'egli si accorse di aver fame, sete, sonno. Si pagò una carrozzella e ritornò al palazzo del marchese di Tregle. Spogliandosi per coricarsi, cercando non so che nelle sue tasche, trovò la lettera e si risovvenne che egli non aveva adempita la commissione di cui aveva tolto impegno.

—Animale che sono! gridò don Gabriele dandosi un grande schiaffo. E l'altro che mi aveva raccomandato di portar questa lettera immediatamente! Al postutto, che si possono dire due gesuiti? prega Dio per me, io prego Dio per te, preghiamo Iddio per tutti coloro che ci lasciano la loro fortuna e non ci chieggono nulla della nostra. Andiamo, su! dormiamo adesso. Gli è un ritardo della diligenza, che mo'! un cavallo crepato per via! un postiglione preso da un colpo di apoplessia! un incontro di briganti che so io? Vi è stato malore in viaggio. Io porterò la lettera domani mattina alle nove.

In questo frattempo, il corriere del padre generale Rothaan divorava la via. Egli non era partito il dì seguente, come avea supposto il P. Buzelin, ma due ore dopo la diligenza. Egli prendeva i cambi lasciati da questa. Gli era un piccolo uomo segaligno, giallo, bilioso, che dava doppia mancia per arrivar presto, che non mostrò il suo debile corpo vestito di nero che una sola volta, a Fondi, per trangugiare un paio d'uova e che si impazientava borbottando ma senza parlare. Arrivò a Napoli alle dieci e mezzo e si fermò a Porta Nolana, ove pagò il suo postiglione lasciando la sedia da posta. Salì in seguito in una carrozzella e disse al cocchiere.

—Va.

—Dove?

—Tira sempre dritto innanzi a te.

Alle undici, egli entrava nell'immenso stabilimento del Gesù Nuovo per una porta di cui aveva una chiave,—porta che dava nella retrobottega di un mercante di vino della strada Cisterna dell'Olio, un gesuita in borghese che vendeva il vino della Compagnia.

Il P. Piombini, felice come una fanciulla che ritorna dalla chiesa dopo la benedizione nuziale, confessava: non dubitando di nulla, o piuttosto non vedendo nulla. Il piccolo uomo magro tirò dritto dal P. Pelliccia, che presiedeva la casa di Napoli, e gli presentò il plico del generale. Il P. Pelliccia lesse, o piuttosto spiegò la lettera in cifra e disse:

—Sta bene.

Era mezzodì. Alle 2, il padre Piombini, salì nella sua cellula per rinfrancarsi, e poscia discendere al refettorio per desinare.

I gesuiti si trattano signorilmente:—un'eccellente minestra, quattro piatti, delle leccornie di pasticceria, un copioso e vario dessert, una bottiglia di vino squisito… cucina delicata, pranzo da gentiluomini. Il padre Piombini mangiò con appetito. Tutto era gaio, bello, delizioso per lui: aveva il sole nell'anima. Aspettava le 10 della sera. Aspettava…

Don Gabriele entrò nella chiesa del Gesù Nuovo alle 9, esatto come un petente che va dal ministro. Camminava dondolandosi, di un'aria preziosa, volteriana, sbirciando le donne, guardando i cani e gli uomini, e facendo la smorfia ai padri reverendi che dicevano la messa a parecchi altari.

—Non è codesto, biascicava desso. La parte del mio brav'uomo è quella di confessore. Una bella parte, in fe' di Dio! che io creerei a meraviglia se la polizia mi lasciasse fare. Cagna rognosa, va! Sguinzagliarsi così sull'arte! Rovistiamo dunque i confessionali. Sarà curioso insomma! Si crederà che io vada a dare un bucato alla mia permalosa (coscienza).

E' passò in rivista i confessionali. Erano tutti occupati, ma il padre Piombini non era là.

—Benissimo! tanto meglio! e' non è ancora disceso. Andiamo al parlatorio. Sarà presto spicciata.

Andò a suonare al parlatorio. Un fratello, dall'aria dolce e compitissima, ricevè l'imbasciata, pregò don Gabriele di aspettare e salì. Un quarto d'ora dopo tornò e disse:

—Il reverendo padre Piombini è in chiesa.

—Peste sia dei monaci! gridò don Gabriele. Sono stati inventati a posta per far perder tempo alla gente. Andiamo, torniamo in chiesa. Ah!… a proposito, qual è il confessionale del padre Piombini?

—Il terzo, a destra.

—Ci sono. Grazie z-zì mo' (zio monaco). Che Dio ti mandi la tigna!

Don Gabriele sollecitò il passo e rientrò in chiesa. E' si collocò in faccia al terzo confessionale e vi vide infatti un padre rannicchiato dietro il graticcio, confessando una vecchia.

—Ci son preso, brontolò don Gabriele. Se la vecchia sciacqua la sua anima pulitamente, ella resterà lì un'ora almeno. Ed io che ho fretta. Se il diavolo le regalasse una subita dissenteria! Insomma e' sembra che il per omnia sæcula sæculorum l'intrattiene di cose divertevoli, perchè il birbo non si volta nemmeno da questa banda. Gli farei un segno allora….

Il confessore si volse. Non era il padre Piombini. Don Gabriele lo guardò con un occhio talmente carico di dispetto, che il padre lo rimarcò a volta sua, ed i loro sguardi s'incrociarono. Don Gabriele si fece ardito, ed avvicinandosi con passo precipitoso innanzi al confessionale, dimandò:

—Reverendo, io cerco del padre Piombini. Mi han detto che confessa in questa scatola; ma…

Si fermò. Il gesuita lo squadrò da capo a piedi con occhio calmo ed indifferente, poi rispose placidamente:

—Il reverendo padre Piombini è in sagrestia.

—Grazie, replicò don Gabriele. Vado infine ad acchiapparlo colà.

Nel fondo, don Gabriele era inquieto. Quell'andare e venire che faceva gli tornava alla memoria la parola piena di ansietà del gesuita di Roma, ed e' si rimproverava oramai il ritardo, l'infedeltà che messa aveva nell'esecuzione della commissione. Entrò in sagrestia. Cercò degli occhi qualcuno cui rivolgere la sua domanda. Vi era una quantità di padri che si vestivano e svestivano degli arredi sacerdotali, di ritorno dall'altare o per andarvi; poi un nugolo di frati conversi che li aiutavano. Don Gabriele ne sbirciò uno, il cui viso gli gradiva meglio, lo accostò e gli domandò:

—Fratello… come vi chiamate voi?

—Frate Colella.

—Fra' Colè, vorresti dirmi dove è il padre Piombini?

Questa dimanda provocò una contrazione involontaria sul viso del frate converso. Don Gabriele la rimarcò, ed il suo cuore si chiuse. Dopo un istante di esitazione, frate Colella chiese:

—Che cosa vi occorre dal padre Piombini?

—Ho bisogno di parlargli.

—Chi siete voi? lo conoscete voi?

—È il mio confessore, rispose intrepidamente don Gabriele.

—In questo caso, sclamò frate Colella, pregate per lui.

Nel tempo stesso tirò la maniglia di una porta che immetteva in una cameruzza dietro la sagrestia e mostrò al giocoliere di marionette una bara coperta da una coltre nera, posta sur un soppalco e rischiarata da quattro candelabri. Don Gabriele ebbe un brivido glaciale.

—Come? sclamò egli, il padre Piombini…?

—È morto ieri, alle cinque, di un attacco di apoplessia… sierosa, io credo, ha detto il medico… che si è chiamato all'istante.

Don Gabriele fuggì dalla chiesa a tutte gambe, perseguitato da una voce interna che gli gridava: Assassino! sei tu che lo hai ucciso!

Le parole del padre Buzelin, a Roma, risuonavano al suo orecchio come un'accusa. I pupazzi gli facevano oramai orrore: l'incanto d'ieri si cangiava in rimorso che non si assopirebbe mai più. Ei corse la città senza sapere ove andasse, e senza neppure rammentarsi più della lettera. Mille progetti traversarono il suo spirito, dei quali il più insistente era quello di recarsi dal prefetto di polizia e di denunciare l'omicidio. Questa idea lo fece pensare alla lettera. Egli non sapeva leggere. Ma con sagacità considerò ch'ei non poteva dare a leggere quella missiva al primo venuto e gettare così al vento un segreto di quella importanza. Gli occorreva un uomo sicuro. Rientrò allora in casa e pregò l'intendente del marchese di Tregle, uomo prudente, di leggergli la lettera.

Quell'intendente era un vecchio, antico commesso di notaro di provincia. Aprì la lettera, si pose gli occhiali, e cominciò a sbirciare la scrittura. Poi, principiò a leggere:

—Frère a-us-si tot que vo us… Cosa è codesto? È in turco la lettera. Tu vieni a mistificarmi, mariuolo. Va al diavolo.

—Ma no, don Gennarì, tutto al più la lettera può essere in francese. È un francese che l'ha scritta. Tu non comprendi dunque questa lingua, tu?

—Puff! per chi mi prendi tu dunque, pagliaccio? La lingua di Voltaire e dei giacobini! Vade retro satana! Io sono un pio cattolico e non un empio rivoluzionario come tu.

Don Gennarino gettò la lettera. Don Gabriele la raccolse, costernato. Le difficoltà aumentavano. A chi dare ad interpretare quel foglio? Egli uscì ruminando questo pensiero e cercando fra le sue conoscenze un scienziato discreto, quando un'idea spruzzò come un razzo nel suo spirito.

—Ci sono proprio! sì, diss'egli. Lady Keith è il mio uomo! Il padre Piombini la confessava. Ella è amica del marchese, del colonnello Colini, amici del gesuita di Roma. Ella sarà prudente. Ella mi darà forse un consiglio. Io vado a mandar questa lettera a lord Parmestonne. Ah gli scellerati! gli scellerati!! lo hanno assassinato.

Don Gabriele saltò in un calessino e si fece condurre al Vomero. Era l'una dopo mezzodì. In casa lady Keith egli era conosciuto: don Gabriele vi accompagnava sovente il colonnello ed il marchese. Il portinaio lo lasciò entrare. Don Gabriele dimandò della cameriera di Milady.

—Impossibile di veder madama in questo momento, disse la cameriera.

—Ho pertanto bisogno di parlarle ad ogni costo.

—Davvero, vi dico che è impossibile.

—Arrivo da Roma, insistè don Gabriele. Ho notizie del marchese di Tregle e del colonnello Colini a dare a madama..

—Il momento non è opportuno, rispose la cameriera. Milady ha ricevuto in questo momento una lettera che l'ha gettata nella costernazione. Ella è tutta in lagrime. Non vi riceverà per fermo.

—Ditele ad ogni modo che io ho a parlarle di cose gravi, gravissime, arcigravissime, e che io giungo da Roma.

Cinque minuti dopo, don Gabriele fu introdotto presso la dama inglese. Infatti, ella era coperta di lagrime ed in uno stato di spasmodica agitazione. Una lettera stava aperta innanzi a lei: la lettera di Bambina.

—Che avete a dirmi? venite ad annunziarmi un nuovo disastro?

—Il padre Piombini è morto.

Lady Keith svenne. Don Gabriele chiamò la cameriera. Coricarono la dama sul canapè e la richiamarono a vita con dei sali. Aprendo gli occhi ella vide don Gabriele. Con una scossa interna di volontà ella si rizzò sul divano e gridò:

—E' si è dunque ucciso, anch'egli?

Don Gabriele raccontò allora la storia della lettera, si accusò del ritardo del ricapito, e narrò ciò che aveva fatto e visto il mattino. Lady Keith gli strappò il foglio dalle mani e lesse a voce bassa, ed in francese. I suoi denti battevano, tremava ed ondulava come un giovane pioppo.

—Io non ho capito nulla, sclamò don Gabriele ingenuamente.

Lady Keith rilesse allora in italiano queste poche linee:

«Fratello, appena avrete ricevuto questo viglietto, all'istante stesso, all'istesso minuto in cui lo leggerete, fuggite, foste voi sull'altare al momento della consacrazione. Disparite da questo mondo. Nel consiglio di ieri sera, la vostra sorte è stata decisa. Fu lungamente dibattuto se si dovesse mandarvi alle missioni di Asia o di Africa, là donde non si ritorna giammai. Si pensò che voi avreste rifiutato di obbedire e che avreste colta questa occasione per evadervi ed abbandonar l'Ordine. Allora fu discussa la proposizione di farvi scomparire. Si pensò che in questi tempi di rivoluzione in cui viviamo, le case della Società potrebbero essere visitate o sorprese, che potrebbero trovarvi alla luce od alla libertà, e fare di questo reperto uno scandalo abbominevole. Il pensiero umano fu messo da banda, e foste condannato a morte,—una morte subita, immediata, segreta. Fuggite dunque, salvatevi, sopratutto dileguatevi dalla faccia della terra. Oggi si cifra il dispaccio ai superiori della casa di Napoli ed oggi stesso o dimani uno dei nostri padri del consiglio superiore parte per Napoli, in posta. Distruggete questa lettera, che sarebbe una condanna di morte contro di me se fosse conosciuta, e svanite nel nulla se la vita vi arride ancora.

P. B.»

—Ah miserabile che io sono, gridò don Gabriele strappandosi i capelli; io l'ho assassinato!

Lady Keith lesse in seguito la lettera toccante di Bambina, ove ella le raccontava i suoi torti, ciò che aveva fatto, ciò che sentiva, ciò che farebbe, e perchè si decideva a darsi al Piombini in mezzo agli spasimi della morte……

….. Lady Keith incaricò don Gabriele dei funerali di Bambina.

Don Diego giunse a Napoli sei giorni dopo.

XXVII ED ULTIMO.

Il vescovo del diavolo.

Il suicidio di Bambina passò inavveduto. Non vi era a Napoli, a quell'epoca, medico del municipio della polizia per constatare il decesso, ed il parroco trovava sempre buone, naturali ed opportune le morti ove eranvi dei funerali da celebrare.

Quando Don Diego mise il piede in casa sua, Bambina si decomponeva, dopo quattro giorni in una specie di nicchia, cui lady Keith le aveva comperata, in una cappella di Confraternita al cimitero.

Bambina aveva letto in qualche libro, od aveva udito raccontare da suo fratello, gli effetti dell'avvelenamento per mezzo della morfina, a proposito della singolarità di questo tossico, il quale uccide l'uomo e non uccide il coniglio, neppure ad alte dosi. Il coniglio l'elimina per la secrezione urinaria. Ella aveva calcolato sur una morte relativamente dolce, lenta, senza sofferenze atroci, senza le convulsioni che deformano, dopo aver concesso due o tre ore di delizie e lasciato al suo amante una di quelle memorie, cui nella vita nulla cancella, nulla attenua.

Il P. Piombini non venne.

L'agonia della povera creatura fu atroce. Non pertanto ella non si pentì, non invocò soccorso. Al contrario, spiegando il ritardo del P. Piombini per un disastro sopravvenuto, il suo desiderio di morte aumentò.

All'alba dell'indomani, Concettella entrando nella camera, trovò Bambina morta sul letto di suo fratello, i lineamenti composti, il viso calmo, come se ella si fosse addormentata dopo una insonnia tempestosa. Concettella si spaventò, ma non sospettò neppure del suicidio della fanciulla. Ella si disse:

—Ahimè! ci lamentiamo del dolore? ma no, è la gioia che uccide!

Don Gabriele, non curò cavarla di errore.

Il parroco che intravide forse la verità, si guardò bene dal farne motto. Imperocchè, denunziare la faccenda alla polizia gli era un consegnarle il cadavere; e non più cadavere, non più funerale, non più guadagni. Il santo uomo si tacque.

Bambina disparve come una visione angelica: al risveglio nella realtà della vita! Ella era passata senza strepito, come i nobili e grandi sacrifizi. Forse, quando la sua agonia solitaria cominciò, quando il morsicare del tossico la contorse, ella agognò di avere al suo capezzale una figura amica, degli sguardi in lagrime, delle labbra che con il magnetismo della parola e del bacio l'avessero calmata. Morire prima dei venti anni l'anima assetata dell'incognito infinito dell'amore, in mezzo agli apparecchi della gioia che manca all'appello, morire sola, di sua mano, per distornare la folgore da un capo venerato, sotto le mine di tutti i disinganni, vedendo la felicità, come dal fondo della valle immersa di già nella notte si vedono gli ultimi raggi del sole arroventare i picchi delle montagne, morir così è spaventevole! gli è un morire del corpo, dell'anima, nel passato, nell'avvenire. Bambina sentì forse nel suo interno questo grido della vita che implorava grazia, intravedendo il vago immenso della speranza che si gonfiava e sollevava in lontananza. Ella non cedè, non fece appello alla mano che avrebbe potuto salvarla. Si ripeteva invece con terrore: Me vivente, egli sarebbe a me ed essi l'ucciderebbero! Spirò su questo pensiero, ed il sorriso, all'idea ch'ella lo avesse salvo, fiorì sul suo sembiante.

Don Diego, trovando la sua casa vedova del raggio che la illuminava, si sentì fulminato. Vi sono dei dolori che esasperano, dei dolori che schiacciano, dei dolori che lacerano i nervi e colpiscono il cervello. Don Diego ascoltò il racconto che gli fece Concettella in lagrime, come un uomo le cui facoltà intellettuali sono annientate. Di un pallore livido, gli occhi fissi, le pupille devaricate e senza sguardi come colpite da amaurosi, le sopracciglia arruffate, immobile, insensibile, la bocca semichiusa e senza respiro, l'orecchio teso come qualcuno che crede udire un rumore che pur non risuona, accasciato sur una seggiola, come un cubo di carne disossata, egli lasciò parlare la donna senza interromperla nè con un gesto, nè con un grido, non mostrando alcun interesse, alcuna curiosità, non facendo la minima osservazione, nè manifestando il minimo rimpianto. Un medico che gli avesse tastati i polsi, non li avrebbe sentiti. Concettella gli offrì da mangiare, prodigando le consolazioni. Don Diego mangiò tutto, bevve tutto, senza la più piccola coscienza di ciò ch'e' faceva, non accorgendosi nè del giorno nè della notte, non dormendo, perocchè tutto dentro a lui era agghiacciato. Lo si sarebbe detto la moglie di Lot cangiata in statua di sale!

Questa specie di catalessia durò cinque giorni. Concettella non cessò di parlare, di narrargli i più minuti particolari della catastrofe. Ma Don Diego non aveva udito che un motto: ella è morta! E le ultime parole di sua sorella, la lettera di addio che ella gli aveva lasciato, erano cadute sul suo spirito come la pietra del sepolcro. Concettella che si sentiva tuffata in un mistero, non osava consultare i vicini, nè chiamare un medico, paventando di rischiarare un delitto. Don Gabriele l'aveva atterrita; poi essendo ritornato per visitare Don Diego, le aveva consigliato di tenersi cheta e di lasciare agir la natura.

Occorse però una circostanza in cui Concettella fu costretta a rompere il riserbo. Don Domenico Taffa si presentò per parlare a Don Diego, da parte del ministro dei culti, ed insistè per vederlo, malato o no. Egli portava un ordine al re. Gli era giusto il quinto giorno dopo l'arrivo del vescovo. Concettella istruì allora l'inviato ministeriale della catastrofe che era avvenuta, del gran dolore di questo povero fratello, dello stato in cui era caduto, e lo introdusse con precauzione nel salotto.

Don Domenico restò egli stesso colpito alla vista di quella ruina opaca, che si sarebbe detto il cenotaffio vivente di un'anima. Si sarebbe ritirato, se non avesse avuto un dovere da compiere, un messaggio reale da comunicare. E' non poteva retrocedere. Si avvicinò dunque dolcemente e restò in piedi nel raggio visuale del vescovo.

Don Diego cominciò a guardarlo senza vederlo. Poi le sue pupille, sempre enormemente dilatate, quasi avesse preso della belladonna, si contrassero, si restrinsero, si animarono, s'infiammarono per gradi. L'iride scintillò e dardeggiò l'odio. Don Diego riconobbe il satana, che aveva il primo contaminato sua sorella col pensiero ed aveva ordito progetti infami su di lei. Un rossore subito salì al suo viso. Le labbra scialbe fremettero e si colorarono.

Don Domenico comprese la reazione ch'egli provocava in quell'anima assiderata, e fu sinceramente contento del disgelo che si operava. Per determinarne la rottura completa, e' si tacque e squadrò il vescovo. Infatti questi principiò dal dimenarsi sulla sua sedia con impazienza, poi si alzò come di soprassalto e gridò:

—Che cosa venite voi a fare qui, signore?

Il sortilegio era rotto. Don Domenico s'inclinò dunque con rispetto e s'affrettò a rispondere:

—Vengo a pregare V. E. Rev. dalla parte di S. E. il ministro del culto di presentarsi domani al Palazzo Reale, il re desiderando intrattenersi con lei. S. M. fissa la vostra udienza alle nove del mattino. Uscendo dal colloquio del re, se V. E. Rev. volesse venir pure a parlare col ministro, questi ne sarebbe lietissimo.

Don Diego era divenuto il vescovo.

Il vescovo ecclissò ed annullò con un colpo magico il fratello.

E' si riassise lentamente e rispose:

—Andrò.

Fece poscia un saluto freddissimo all'impiegato e lo congedò con un gesto. Don Domenico non rispose che fra sè stesso e col pensiero:

—Ecco un mariuolo finito che ci ha tutti burlati e battuti! Ci ritroveremo più tardi, non dubiti, e gli faremo espettorare il capitale con gl'interessi composti.

Concettella completò la guarigione.

Il dì seguente, alle otto del mattino, una vettura si fermò alla porta di Don Diego. Alle nove meno un quarto, egli era a Palazzo per la sua udienza.

Alle nove il re lo riceveva.

Una circostanza colpì da prima Don Diego. Re Ferdinando che discendeva di carrozza per baciar la mano al più umile prete e frate cui incontrava per istrada in campagna, non baciò l'anello episcopale del nuovo unto.

—Come? sclamò subito il re con agro umore, è stato mestieri farvi ricordare il vostro dovere di venirmi ad informare, non appena di ritorno da Roma, del colloquio che avete avuto col papa?

—Supplico V. M. di scusarmi, rispose Don Diego con calma e dignità. Mettendo il piede in casa mia, vi ho trovato un disastro che mi ha annientato.

—Che disastro?

—Mia sorella si era suicidata.

Il re ebbe una scossa. Poi susurrò come si parlasse da solo:

—Ella diceva dunque il vero!

Seguì un silenzio di qualche minuto, durante il quale Don Diego credè avvedersi dal movimento delle labbra del re ch'ei recitasse una qualche preghiera. Poscia soggiunse:

—Quale è stata dunque l'ultima conversazione che avete avuto con Sua Santità? Pio IX n'è stato forte offeso e me n'ha fatte presentare delle rimostranze.

Don Diego raccontò la verità nei suoi minimi particolari. Il re ascoltò, contorcendosi sulla sua sedia. Don Diego vedeva spuntare un'esplosione formidabile.

E' s'ingannava.

—Io vedo, sclamò Ferdinando, che se noi fossimo ancora ai tempi del marchese Tanucci e ch'e' bisognasse avere ancora delle lotte di supremazia con la Santa Sede, per la sua superiorità sul Regno, noi potremmo contare su voi. Grazie. Io amo i lottatori.

—Vostra Maestà può contare sulla mia indipendenza, rispose Don Diego con modestia. Io era napolitano ed italiano innanzi essere prete e vescovo.

—Io non gradisco quel gergo, monsignore. Indipendenza! Italiano!…. cosa è codesto? Voi siete suddito: ecco tutto.

—Sire, replicò Don Diego, ecco precisamente ciò che il pontefice mi ha detto: Voi siete suddito del capo della Chiesa avanti tutto: ricordatevi di ciò! Ebbene, come vescovo, io non sono suddito di alcuno. Io non dipendo che dalla mia coscienza.

Il re lo squadrò da capo ai piedi con uno sguardo freddo e scosse la cenere del suo sigaro. Egli aspettava forse un'attenuazione alla professione di fede del vescovo.

Questi si tacque e si restrinse ad ascoltare l'interrogatorio reale. Ferdinando dimandò:

—Avete detto la messa, monsignore?

—No, sire.

—Siete ancora digiuno?

—Maestà, sì.

—Siete preparato?

—Io lo sono sempre, osservò Don Diego contraendo un pochino gli angoli della bocca.

—Voi andrete dunque a celebrare nella mia cappella. Io non ho ancora udita la messa.

—Ai vostri ordini, sire.

Il re diede l'ordine ad un maggiordomo e Don Diego fu condotto nella cappella del Palazzo. Un quarto d'ora dopo, il vescovo del diavolo era all'altare, ed il re, la regina e tutta la loro nidiata erano nella tribuna.

La messa andò per treno express. Quando S. M. si alzò, al vangelo, i suoi sguardi caddero sul conte di Altamura inginocchiato alla porta della tribuna reale. Ferdinando gli fece un piccolo segno cogli occhi.

Altra osservazione di Don Diego. Il re non si comunicò, come faceva ogni giorno.

—Quel don Chisciotte mi odia decisamente, si diceva Don Diego sbrigando la sua bisogna per tornare al più presto in casa sua.

Quando la messa fu finita, il conte di Altamura si tirò da banda per lasciar passare il re. Il re non uscì e lo chiamò.

—Che c'è? dimandò egli.

—Ho degli ordini a prendere da V. M.

—Dopo la messa, rispose il re.

—Ma….

—Ma che? Tu credi dunque che la sia una messa quella che quel vescovo di Satana ha divorata al galoppo?

—Gli è tutto ciò che io voleva dimandare alla M. V., rispose il conte umilmente. Quel bellimbusto è sempre il vescovo del diavolo per V. M.

—Sicuramente, sicuramente…. più che mai, replicò il re.

—Allora?….

—Idiota, triplice idiota! scoppiò il re volgendogli le spalle e rimettendosi in ginocchio.

Il suo cappellano ordinario usciva dalla sacristia per dire la messa ortodossa.

Il conte di Altamura andò ad appostarsi alla porta del palazzo.

Due signori, l'uno, un vegliardo curvato ed affranto, l'altro, un giovane dagli occhiali turchini, gironzavano sulla piazza. Appena queste due persone scôrsero il conte, si avvicinarono noncurantemente al padiglione ove tenevasi il portinaio. Il conte uscì nel tempo stesso che la carrozza di Don Diego. E' fece un segno. Il vecchio ed il giovane sorrisero.

Don Diego si recò dal ministro, il quale credendolo in gran favore presso del re e fortemente appoggiato, si mostrò verso di lui molto carezzevole e quasi ossequioso. La circostanza della messa rappresentata davanti a S. M. confermò il ministro nella sua credenza. Di guisa che, uscendo, S. E. l'accompagnò fino all'anticamera, cosa inaudita!

Per un caso bizzarro, monsignor Laudisio aspettava nel salone l'udienza del ministro. Gli sguardi dei due vescovi s'incrociarono.

Monsignor Laudisio, che conosceva di già la nomina di Don Diego e la designazione spontanea del re, impallidì. Si fece violenza nonpertanto, sorrise, ed andò incontro al suo antico prete scomunicato ed interdetto. Don Diego gli tagliò il passo; lo salutò del cappello e passò oltre dicendo con un sorriso di scherno:

—Grazie, monsignore!

Don Diego non si faceva la minima illusione su i sentimenti ostili del re e sul cangiamento che subirebbero presto quelli del ministro. Ma egli non se ne preoccupava più. Ciò che aveva visto a Roma, ciò che aveva saputo sulla situazione del regno e dell'Italia, ciò che aveva appreso sullo stato d'Europa, gli davano la speranza che la crisi scoppierebbe subito. Allora, nè il ministro nè il re non sarebbero più temibili.

Da lungo tempo egli aveva accomodato il suo avvenire e carezzava il fantasma che aveva costrutto. Egli gitterebbe la sua guaina di prete come lo avevano fatto Sièyes, Fouché, Talleyrand, Chabot e tanti altri in Francia: egli si addirebbe alla politica, tuonerebbe in un giornale ed alla Camera,—perocchè egli aveva penna e parola di fuoco,—egli s'imporrebbe. Il trono episcopale era un gradino. Egli vagheggiava in questa novella vita,—la vita politica,—tutte le voluttà dell'orgoglio soddisfatto, della potenza esercitata. Egli si sentiva la tempera di rompere gli ostacoli,—perfino le reticelle invisibili che tendono i mediocri intorno alle nature superiori. Ritornò dunque in casa, deciso a recarsi nella sua diocesi il più presto possibile, onde esservi libero e sottrarsi alle vessazioni officiali.

La sua grande preoccupazione nondimanco non era nè il ministro nè il re. Che fare di Concettella? Egli l'amava. Egli l'amava tanto più adesso che la disparizione di sua sorella gli lasciava lo scorruccio e la solitudine nel cuore, il rimorso nell'anima, e che Concettella, maturata dall'amore, sviluppata dall'opulenza, illuminata dalla gioia interna, sicura dell'avvenire, elevata in una regione più siderale dello spirito e più accurata del corpo, era divenuta quasi bella ed appetitosa come il peccato. Lasciarla? giammai. Piuttosto rinunziare all'episcopato. Condurla con lui nella sua diocesi? quale scandalo! Quanti reclami di pinzoccheri, di invidiosi, di malcontenti! Eppur bisogna condurla. Maritarla al suo cameriere e prenderla in partibus? lasciarla affatto valeva meglio. E' tagliò le gomene. Abbandonò l'appartamento al vico Campanile, prese a fitto un alloggio a San Giuseppe dei Nudi, svestì Concettella della bernia disgraziata di monaca di casa e la presentò come sua sorella. Fra quindici giorni partirebbero per la Sicilia.

Tutto ciò, con l'aiuto di don Gabriele, fu sbrigato in due giorni. Il dì dopo e' dovevano recarsi ad occupare la nuova dimora, più pulita, più appropriata alla sua dignità. A Roma, egli aveva terminato il suo lavoro per il canonico Pappasugna ed aveva saldato il suo debito.

Quel canonico parve morire di gioia leggendo le splendide prediche che Don Diego aveva composte per lui.

La sera giunse. Concettella folleggiava come un pesce rosso in una vasca d'acqua limpida. La sua veste di seta le dava la vertigine. Essere chiamata donna Concettella! passare per sorella di monsignore! avere le apparenze dell'onestà, la considerazione, il rispetto! rendere felice un uomo amato! essere felice senza sollevar gelosie!…. tutto ciò ed altri mille nonnulla la rendevano quasi folle. Ella abbracciò don Gabriele: avrebbe abbracciato il mendicante del cantone. Obbliava tutto, tutto, persino, cosa strana! la sentenza che l'areopago del bagno aveva pronunziata contro Don Diego! Il bagno era così lontano! Gabriele…. era stato ingiusto verso di lei. In fine si andava ben presto a volgere le spalle a questa Napoli infame ove ella aveva tanto patito, tanto pianto, questa Napoli che l'aveva vista nuda, ove ella non aveva neppure trovato il covo ed un tozzo di pane…. Ma ella amava Don Diego adesso. Quella casa scura, sporca, attristata, fredda, ove ella era arrivata in cenci, che l'aveva veduta umiliata, ove tante lagrime bagnavano ancora il solaio, ove la morte libravasi ancora, questa casa, domani, sarebbe per lei un ricordo orribile, e null'altro che questo.

Concettella faceva dunque i fagotti e sollecitava le ore della notte che dovevano condurle un domani sì raggiante.

Don Diego, al contrario, era ricaduto nella sua nera tristezza, pieno di presentimenti sinistri. Sua sorella regnava più che mai nel suo cuore e riempiva quella desolata dimora. Ogni mattone, ogni angolo, ogni gobba o squarcio del soffitto e della carta, ogni cencio rimosso, dovunque egli arrestava lo sguardo, tutto gli richiamava alla memoria Bambina, angelo dell'abnegazione. Egli non poteva decidersi ad abbandonare quello spazio ove fluivano le fibre dell'anima dell'amata creatura. Egli arrossiva di accoppiare nel suo cuore la memoria di quel cherubino di purezza con l'amore per Concettella. Ne aveva rimorso, e si trovava infame. Laonde e' voleva impregnarsi e saturarsi quel più che poteva di quest'aria ove l'anima di sua sorella aleggiava forse ancora, raccogliersi nella meditazione e nel silenzio, abbeverarsi di lagrime e vegliare quest'ultima notte nella solitudine e nella preghiera. Dio mio! sì, la preghiera. Il dolore è un rimpicciolimento dello spirito: il matematico diviene superstizioso, il chimico spiritualista, il poeta si fa cappuccino o cade nell'idiotismo!

Le nove della sera suonavano alla chiesa dei Mannesi.

Concettella si disponeva ad andare a letto. Don Diego passeggiava nel salotto a passi lenti, evocando nel suo spirito le mille ricordanze degli anni passati a Lauria con sua sorella,—quegli anni di pace, di studio, di miseria e di rassegnazione, quando il campanello gemette sotto due colpi netti e decisi.

—Cosa è ciò! si domandarono al tempo stesso Don Diego e Concettella. A quest'ora. A quest'ora!

Concettella entrò nel salotto e dimandò al suo padrone:

—Bisogna aprire?

Don Diego riflettè un istante, poi rispose:

—Dimanda da prima attraverso la porta. Concettella obbedì.

—Siamo due gendarmi e portiamo un dispaccio premuroso del ministro della polizia,—risposero di fuori.

Don Diego che aveva seguito la sua ganza, udendo la risposta, le fece segno di aprire e si ritirò nel salone.

Due gendarmi, infatti, presentarono a Concettella un grosso plico cui ella portò a Don Diego. Mentre Concettella si allontanava, uno dei gendarmi chiuse la porta e se ne cacciò in tasca la chiave. Poi entrambi entrarono nel salone.

Don Diego leggeva la lettera ministeriale.

Concettella usciva. I due gendarmi la respinsero nell'appartamento. Ella tremò. Sotto l'uniforme e i falsi mustacchi, ella aveva riconosciuto i due uomini. Don Diego stava assiso. Essi vennero a collocarsi l'uno a destra l'altro a stanca della sua seggiola.

—Io sono Filippo Rotunno, disse il gendarme di destra mettendo la sua mano sulla spalla del vescovo. Io amava quella donna che tu hai disonorata. Noi ti abbiamo giudicato: noi ti abbiamo condannato. Tu stai per morire.

—Io sono Gabriele Esposito, disse il gendarme di sinistra poggiando egualmente la sua mano sulla spalla di Don Diego. Io era fidanzato per tutta la vita a quella donna che tu hai corrotta e prostituita. Essi ti hanno giudicato: essi ti hanno condannato. Tu stai per morire.

Concettella cadde faccia a terra, gittò un grido e svenne. Don Diego comprese in un lampo che la sua sorte era decisa, ch'egli non aveva alcun mezzo, alcuna speranza di sfuggir loro. Gridare, provar di resistere, piegar quei carnefici, vincerli, lottare con loro… gli era insensato. E' non rispose nulla. Impallidì un poco e restò assiso.

—Hai nulla a dire in tua difesa, tu! dimandò Gabriele.

Don Diego si tacque.

—Hai tu una preghiera da volgere a Dio? dimandò Filippo.

Don Diego restò impassibile.

I due uomini scambiarono uno sguardo che corse da Don Diego a Concettella e da questa alla porta.

Ciò fu tutto.

Subito come l'assalto di un serpente, Filippo allacciò il vescovo alla vita per impedirgli di muovere le braccia, Gabriele gli passò al collo una corda a nodo scorsoio e la tirò a sè con violenza.

Don Diego traballò e provò di alzarsi. Il nodo si restrinse. Poi, come la vittima si accasciava, Gabriele la trascinò presso di Concettella.

In questo frattempo, Filippo chiudeva a chiave la porta della camera del vescovo e ribadiva due o tre viti alle imposte della finestra onde non la si potesse aprire. Ritornò quindi vicino a Gabriele.

Concettella, tornata in sensi, la faccia sempre contro il solaio, guardando di soppiatto, sentendosi morire a sua volta, brontolava sottovoce:

—Madonna del Carmine! madonna del Carmine! santa vergine dei sette dolori…. pietà di me….

Don Diego non dava più segno di vita. Il suo viso era divenuto colore di piombo: la sua bocca, aperta e schiumosa, lasciava pendere una lingua arida e nera; i suoi occhi, stralunati e spalancati, schizzavano fuori dalle orbite. Filippo mise la mano sul cuore dello strangolato. L'orologio non oscillava più.

Tre quarti d'ora erano passati. Non una parola. Un colpo d'occhio tra i due manigoldi diceva tutto. Quando furono sicuri della morte del prete, lo lasciarono. Filippo si volse allora a Concettella.

—Tu ci hai riconosciuti, tu hai visto come la nostra giustizia procede. Se tu fiati un motto, se tu dai un indizio, se tu fai un semplice segno per denunziarci, tu morrai della stessa morte…. avanti otto giorni!

Concettella sembrava più spezzata, più agghiadata che il cadavere.

—Pietà! susurrò essa volgendosi a Filippo. Filippo ghignò.

—Pietà! sospirò a voce più fioca volgendosi a Gabriele.

Gabriele aggrottò le ciglia.

—Non mi fate almeno soffrire, supplicò la sventurata.

Essi le legarono le mani alla schiena, poi l'attaccarono ad un mobile, lungi dal cadavere che giaceva steso lungo lungo sul suolo, coricato sulle spalle, di guisa che Concettella potesse contemplarne la faccia deformata.

—Sovvengati! disse Filippo.

—Sii maledetta! sclamò Gabriele.

Poi chiusero la porta della camera ed uscirono, chiudendosi dietro tutti gli altri uscì. Concettella dinoccolò sillabando ancora le parole:

—Misericordia di me!

A quell'ora stessa, il re pregava nel suo piccolo oratorio. Il conte d'Altamura aveva detto:

—Questa sera, alle nove precise, il diavolo chiama il suo vescovo appo di sè perchè canti compieta.

E il re recitò un requiem per l'anima del trapassato. Poi cavò di tasca venti soldi, e dandoli al conte disse con voce contrita:

—Fa dire una messa. Se risparmi, portami il resto.

Il re continuò a pregare….

Pochi giorni dopo, scoppiava la rivoluzione a Palermo.

Venti giorni dopo, re Ferdinando accordava al suo amatissimo popolo, in nome della Santissima Trinità, una Costituzione paterna, cui lacerava nel sangue due mesi più tardi….

Qualche anno più tardi, il figlio innocente e la madrigna abbominata di questo Borbone divoto erano cacciati dal regno.

Erudimini reges! Dio obblia e perdona qualche volta. Il popolo…. giammai!

Parigi, aprile 1870.

FINE.