DANTE
E GLI EBREI

STUDIO DI FLAMINIO SERVI

[stemma Giovanni Pane]

CASALE TIPOGRAFIA GIOVANNI PANE 1893

PER LE NOZZE FELICI del Giovine egregio RAG. ERNESTO ARTOM Colla distinta Signorina MARIETTA PAVIA

QUESTO BREVE STUDIO SOPRA DANTE E GLI EBREI

L'AUTORE OGNI BENE AUSPICANDO O. D. C.

XVII AGOSTO 1893

DUE PAROLE AL LETTORE

Un sonettuccio, un'epigrafe, due versi qualunque, in occasione di nozze, son cose omai di niun pregio che si leggon per divertimento tra un bicchiere e l'altro e che lascian quasi sempre il tempo che trovano.

Io ho voluto — o almeno creduto — fare qualche cosa di più duraturo nella gioia di due famiglie che sono tra le più illustri di questa Comunità israelitica, ripubblicando con molte aggiunte e correzioni alcune idee che videro la luce in un periodico letterario di Roma[1] e un'appendice sopra una mia conghiettura che prova, seppur ce ne fosse bisogno, come l'Immanuele frequentasse la casa di Dante... per qualche cosa di meglio che non fosse l'Inferno, e riportando i due famosi sonetti scritti per la morte del divino poeta, il primo da Bosone da Gubbio e l'altro colle stesse rime di risposta che fece il nostro Immanuele.

I letterati giudicheranno del mio lavoruccio che ha, se non altro, il pregio dell'attualità, perchè l'amicizia sincera di un ingegno sovrano come Dante con un ebreo nel medio evo — amicizia su cui non cade più il minimo dubbio — è prova del cuor nobile di lui e della malvagità di quanti odiano o disprezzano gl'israeliti senza una ragione al mondo.

Ma l'Italia fu sempre la terra de' forti propositi e delle magnanime imprese e l'Italia che venera l'Alighieri come il sommo tra i suoi poeti, ha imparato da lui ad inspirarsi ai dettami della fratellanza e dell'amore. E gliene va data somma lode.

Ad ogni modo il nostro studio non tornerà discaro a quanti vogliono l'affetto tra i professanti le varie religioni, nè spiacerà ai cultori delle belle lettere che in ogni accenno al poema dantesco trovan materia gradita di studii severi e di serie riflessioni.

Casale, 17 Agosto 1893.

[1] L' Istruzione — anno III, num. 10, 11, 12, e IV, num. 4.

DANTE E GLI EBREI

Vagliami il lungo studio e 'l grande amore.

I.

È più di un quarto di secolo — e non canzono — che scrissi in varii periodici sull'amicizia di Dante col poeta ebreo Immanuele Romano, e quelle note e quelle, dirò così, rivelazioni hanno avuto non è guari una debole eco nelle parole che il Del Balzo ha pubblicato a pag. 309, 315, 316[2] del suo bel lavoro sul sommo poeta di cui gli amanti della letteratura italiana, specie i puri dantofili, debbono serbargli gratitudine.

Quelle note che in un libro di tant'importanza accennano ai miei lavori di circa sei lustri fa, — chi lo direbbe? — hanno risvegliato in me, non più giovine, e assorto in mille e diverse occupazioni che dalla italiana letteratura mi distolgono con grande mio rincrescimento, hanno risvegliato in me (i toscani a queste ripetizioni ci son avvezzi) il prurito di trattare diffusamente di questa benedetta amicizia tra due grandi poeti, di religione diversa, che vivevano sei secoli fa e che possono dare una bella e meritata lezione a quegli antisemiti da strapazzo che crescono come i funghi, lontani per fortuna dalla nostra cara Italia.

Dell'amicizia di Dante coll'Immanuele, di quanto il divino Poeta attinse dalla Bibbia, della stima ch'avea degli ebrei e dei punti di contatto che hanno i due poemi (l' Inferno e il Paradiso dell'Immanuele e la Divina Commedia di Dante) eccomi pertanto in questa pubblicazione a favellare il più brevemente che possibile mi sia. Per fare lavoro completo ci vorrebbe un grosso volume. Ma oggi si vuol tutto in fretta e furia. E le cose lunghe diventan serpi. Sbrighiamoci dunque, . . . e voi lettori carissimi abbiate un po' di pazienza, che vedremo di non annoiarvi di soverchio.

II.

Chi era Immanuele Romano? E quando nacque?

Ecco due domande a cui la risposta pare facilissima — dopo tutto quanto se n'è scritto — e che è, per chi va coi piedi di piombo (ed ogni buona critica dovrebbe andarci), tutt'altro che facile.

Immanuele Romano, figlio di Salomone, della famiglia Sironea o Sifronite (piccola differenza di filologia genealogica) che poi è lo stesso, sortì da natura ingegno svegliato, bizzarro, fantastico come tutti i poeti. Nelle sue composizioni poetiche intitolate Mechabbèrod non volle freno. Scrisse collo stile satirico, fu erotico al massimo grado, adoperò la sferza con sarcasmi e frivolezze, fu lirico, epico, drammatico senza esser volgare.

Per dipingerlo in una pennellata ci vorrebbe un Raffaello, e noi perciò non ci pensiamo nemmeno; lo vedremo un po' per volta e ne faremo la conoscenza secondo il caso si presenterà.

Ei nacque in Roma secondo i più nel 1265, proprio l'anno in cui nacque Dante. Altri, non sappiamo con quale fondamento, lo voglion nato chi nel 1262, chi nel 1272[3].

Questo però a noi poco importa, e si bisticcino a loro piacere i critici; per avere una certezza non ci son che i registri della Com. isr. di Roma; seppure di quei tempi, tanto bersagliati, si son conservati registri[4].

Quello che ci preme rilevare è l'amicizia vera, indiscutibile, ammessa omai da tutti gli scrittori — da Cino da Pistoia al Carducci nostro — che legava i due poeti, amicizia che ebbe luogo, secondo la pensiamo noi, in questo modo.

III.

Dante, chi dice verso il 300, e chi nel 302, fu mandato dalla Signoria di Firenze ambasciatore in Roma per indurre il Pontefice Bonifacio VIII alla concordia. Ma non fu compreso, e non trovando che trame insidiose e dai dolori dei partiti politici accasciato, il suo miglior tempo passava coi letterati e fra questi il nostro Immanuel che per le sue bizzarrie non meno che per l'ingegno svegliato aveva in Roma la nomea di poeta originale.

Conosciutisi, strinsero amicizia e ne' colloqui frequenti il poeta ebreo andava frammischiando voci ebraiche e delle bibliche idee lo innamorava.

Poeti ambedue, ambedue desiderosi di flagellare i vizii del secolo, i turbolenti moti politici, le gare di partito, che travagliavano allora — più che oggi assai — l'Italia nostra, andavano l'un l'altro consigliandosi come innalzare l'animo dei contemporanei alla ricerca del vero e del bello, come indirizzare le menti ad uscire da « quella selva selvaggia ed aspra e forte ».

E vennero ambedue a questa determinazione: flagellare il vizio, esaltare la virtù, col descrivere le pene dell'inferno, i premii e le gioie del paradiso, ed ecco Dante immaginare[5] la Divina Commedia, e Immanuele le Mecaberod, raccolta di poesie ebraiche che hanno come Appendice una lunga e stupenda descrizione dell'Inferno e del Paradiso.

IV.

Chi abbia suggerito la prima idea dell'opera immortale in tanta lontananza e oscurità di tempi non è molto agevole rintracciare.

Il D.r Paur scrittore critico tedesco[6] si diffonde lungamente sulla questione e conclude che senza essere plagiario Immanuel nella descrizione dell'Inferno ha imitato Dante.

Ma questo non appare affatto alla lettura dell'opera del poeta ebreo[7]. E noi fermamente crediamo che all'Alighieri il concetto di una gita ai regni bui e le fiere che rappresentano popoli e nazioni e cento altre immagini disseminate nella Divina Commedia siano state ispirate, consigliate, diremmo quasi dettate dall'amico suo Immanuel prima nelle intime e fraterne conversazioni, poscia per corrispondenza epistolare.

V.

Se dovessimo dire tutto quanto nella Divina Commedia è attinto dalla Bibbia non la finiremmo così presto.

Il primo verso allude al concetto de' Salmi, che l'umana vita è in media di anni 70 (Salmi XC, v. 10) e già nel suo Convito, come osserva giustamente il Camerini « Dante stabilisce che il mezzo della vita degli uomini perfettamente maturati è nel trentacinquesimo anno. Di tale mezza età dee qui intendersi ed egli deve averla scelta per questo viaggio, allusivamente alle parole del Re Ezechia » (Isaia 38 v. 10).

L'immagine delle tre fiere, anima e vita del primo Canto dell' Inferno, è completamente biblica.

Stando al De Benedetti[8], l'Alighieri avrebbe attinto da Geremia. « Dante, egli scrive a pag. 22, è arrestato in suo cammino da tre fiere, una lonza, un leone ed una lupa nelle quali gl'interpreti videro nel senso morale, lussuria (altri invidia), superbia e avarizia, impedimenti a virtù, e nel politico Fiorenza guelfa, Francia, la Curia romana. Or quelle fiere sono indicate da Geremia (cap. V, v. 6) quali strumenti del gastigo divino, contro i grandi che avevano rotto il giogo ».

Più fedele dipintura trovasi, secondo noi, in Daniele, cap. 7, in Daniele che come Dante, raffigurò in tre fiere tre nazioni diverse. Perfino nei particolari l'orsa e la lupa di Dante è copiata dal profeta ebreo il quale la dipinge con tre costole in bocca fra i denti e che le venisse gridato (v. 5): « Sorgi e mangia molta carne ». E Dante: « Che mai non empie la bramosa voglia E dopo il pasto ha più fame che pria ».

Le tre fiere rappresentanti tre nazioni trovano dunque perfetto riscontro nelle sacre carte e da esse — non altrove — attinse Dante il suo concetto allegorico. Il poeta finse una visione veramente profetica, sovrannaturale, una visione al tutto biblica: « Tanto era pien di sonno in su quel punto » egli scrive in sul principio, proprio come i profeti della Bibbia che al momento del vaticinio erano presi da sonno profondo, poi le tre fiere di cui dicemmo, poi l'apparizione di Virgilio come a Daniele stesso e ad altri profeti si presentò ora un uomo d'altissimo ingegno, ora un essere immortale a squarciare i veli del futuro.

In tutte parti impera e quivi regge,

Quivi è la sua cittade e l'alto seggio

o felice colui cui ivi elegge!

sono frasi de' Salmi (103 v. 19; 65 v. 5).

Come persona che per forza è desta è in Zaccaria cap. 4, v. 1; il colà dove si puote ciò che si vuole è pure nei Salmi (115 v. 4); il sette volte cerchiato d'alte mura è imitazione delle mura di Gerico e via dicendo.

E come mai non ravvisare la conoscenza di qualche frase ebraica nel famoso verso composto tutto di parole ebraiche:

Pape Satan, pape Satan aleppe?

פה פה שטן פה פה שטן אלוף

Il Paggi lo traduce e con ragione così: « Qui qui Satan, qui qui Satan è principe » nè altra cosa voglion significar quelle parole leggendole con qualche lieve alterazione. Pluto con tale esclamazione volea vietare ai poeti il passar oltre senza il permesso superiore di messer Satanasso.

Ora è egli possibile che Dante sapesse tanto dell'ebraica lingua (ed altri esempii daremo tra breve) senza che l'amico Immanuel glie l'avesse suggerito? Può egli immaginarsi che Immanuel abbia imitato Dante o non diremo piuttosto che le cose sian procedute tutto al contrario? Questa gloria al poeta ebreo (di Dante tanto amico che Bosone da Gubbio nel sonetto (V. Appendice II): « Due lumi son di nuovo spenti al mondo » scriveva annunciando all'Immanuel la morte dell'Alighieri « Et pianga dunque Manuel Giudeo ») niuno glie la potrà mai contrastare e non è entusiasmo che ci fa velo all'intelletto[9], ma secondo noi conghiettura critica che tra le mille può tenere suo posto.

VI.

E non è solo ne' numerosi esempii che si potrebbero alla Divina Commedia attingere che ben chiara si manifesta l'influenza de' confronti biblici e talmudici fatti coll'Immanuel dal nostro sommo italiano[10], ma perfino dirò così, nello aver in molti punti modificate le proprie opinioni e accostatosi ad un alto grado di stima verso gli ebrei che per quei tempi sarebbe davvero incredibile, ove non si ammettesse l'ascendente che esercitava sull'animo suo l'amico carissimo ch'era ebreo e d'esser tale ovunque e sempre si vantava.

Così mentre il cristianesimo inesorabile rifiuta il Paradiso a chi non è battezzato, credenza che riporta anche Dante ( Inferno c. IV, v. 35), nel Paradiso (canto XIX, v. 70-78) torna direbbesi a resipiscenza e fa capire (con molt'arte sì, ma lo fa capire) che non c'è colpa quando non si crede, stupenda professione di libertà di coscienza per chi viveva nel medio evo. Ma il genio s'impone anche nei tempi più barbari e s'inspira a giustizia e divina il futuro. Riportiamo quelle belle parole:

. . . . Un uom nasce alla riva

Dell'Indo, e quivi non è chi ragioni

Di Cristo, nè chi legga, nè chi scriva,

E tutti i suoi voleri e atti, buoni

Sono quanto ragione umana vede,

Senza peccato in vita od in sermoni.

Muore non battezzato, e senza fede;

Ov'è questa giustizia che 'l condanna

Ov'è la colpa sua sed'ei non crede?

Del potere temporale dei Papi, si sa qual concetto avesse l'Alighieri, ma non a tutti è nota la fonte a cui attinse ed è la Bibbia. Leggasi al canto XVI del Purgatorio i versi

Ed or discerno perchè dal retaggio

Li figli di Levì furono esenti.

I Leviti infatti, lo dice chiaramente il Pentateuco in più luoghi (V. Num. XVIII, v. 20; Deut. X, 9), dovendo occuparsi esclusivamente del servizio del culto, non potevano possedere e nella distribuzione della terra promessa non ebbero infatti parte alcuna.

Il canto XXVI del Paradiso è pieno d'immagini non solo, ma di cognizioni bibliche e giudaiche. Basterà il verso 134 che va letto

J. s'appellava in terra il sommo bene.

Afferma il Lampredi (V. il Comento del Costa), secondo un codice da lui veduto in Napoli « che Dante con quell'J. volle significare il nome ebraico Jehovah con cui era invocato il nome di Dio, e fece uso della sola iniziale J. per denotare che la predetta sacrosanta parola non si poteva scrivere interamente non che proferire dai profani ». Proprio come si legge nella Misnà e nel Talmud.

Ora come si può concepire che senza l'aiuto d'Immanuel, Dante conoscesse certe cose? E come spiegare il tanto bistrattato verso

Rafèl mai amech zabi almi

che trovasi nell' Inferno canto XXXI, se non si ricorre all'ebraica lingua o meglio alla talmudica, ch'è un misto di ebraico e caldaico, come adoperò spesso anche l'Immanuele nelle Mechaberod? E quello che è più interessante — lo diremo alla moderna — è l'osservare come il poeta cristiano pur volendo adoprar parole suggeritegli di certo dal poeta ebreo, poco pratico com'era nel trascriverle, si trovò come un pesce fuor d'acqua e ne storpiò più d'una, siccome fatto avea nel Pape Satan.

Leggete infatti come volete il verso « Rafèl mai amech zabi almi » e ci troverete sempre una sillaba di meno. Ma non ce la troverete più se lo leggete come vuole l'ebraico: Refa el mai amech zebai almi, e che vale — come giustamente osserva l'amico nostro Jona — « Lascia o Dio! Perchè annientare la mia potenza nel mio mondo? » esclamazione di Nembrotte il superbo, accasciato in veder la sua potestà ridotta ad un bel nulla.

In questo modesto studio non facciamo (e il lettore deve averlo capito) un commento filologico, nè possiamo quindi dar tutte le ragioni che militano in favor nostro, ragioni che stringeremo in una sola, anzi in due: È egli possibile che Dante abbia messo insieme quelle parole, come vogliono molti, per non dir niente? O è possibile che siano siriache od arabiche, mentre Nembrotte — e tanto meno Dante — non conoscean quelle lingue, e l'ebraico, Nembrotte certo conosceva e coll'aiuto d'Immanuele potea conoscer un tantino anche Dante?[11].

VII.

E qui vorremmo sfiorare appena il soggetto sulle idee che il divino poeta nutriva intorno agli ebrei. Se non che la tela è lunga nè basta un opuscoletto a svolgerla anche in tutta fretta.

Che concetto avesse Dante degli antichi israeliti non è facil cosa il provare, perchè taluni mette a cielo, altri piomba nell'inferno. E — siamo logici — ben a ragione. Quelli che mal oprarono doveano essere puniti, ebrei o cristiani non importa; quelli che fecero bene dovean pur avere il premio meritato.

Vediamo quindi Beatrice, la sua diletta Beatrice, sedersi coll' antica Rachele ( Inferno, canto II, v. 102); vediamo starsi fra i beati Adamo, Abele, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe co' figli, Moisè, Davide ed altri molti, come dice nel canto IV, v. 55-61; e ci vediamo perfino Raab

Perch'ella favorò la prima gloria

Di Josuè in sulla terra santa.

(Canto IX).

Ci troviamo al canto XII il profeta Natan, e ci troviamo (canto XVIII) Giosuè e l'alto Maccabeo.

Parlando di Salomone (canto X), egli dice colla stessa frase della Bibbia (Re I, cap. 3, v. 12):

Entro v'è l'alta luce, u' sì profondo

Saver fu messo che, se 'l vero è vero

A veder tanto non surse il secondo.

Nè si scorda il nostro gentile poeta delle donne bibliche. Otre Rachele, come detto abbiamo, pone il poeta nel più alto seggio in Paradiso (canto XXXII, v. 10-11) Sara, Rebecca, Judith e colei

Che fu bisava al cantar che per doglia

Del fallo disse: Miserere mei

cioè Ruth bisavola di Davide, autore del salmo LI che incomincia Miserere.

Nè voglio andar oltre in citazioni che seccherebbero il lettore, solo mi permetto domandare: C'è in tutta la Divina Commedia — come qualche spirito partigiano potrebbe supporre — una sola frase, una sola parola che suoni disprezzo, odio agli ebrei? No, e no. Dante amava troppo il suo Immanuele per potere — cristiano convinto com'era — sfogare la bile che allora nutrivano le teste piccine — e ce ne son purtroppo anche adesso — contro di essi. Egli non espresse mai un concetto che potesse in qualsivoglia modo ferirne la suscettibilità. Dante — lo si può dire altamente — amava gli ebrei, nè di odiarli aveva ragione alcuna.

Ci si vorrà chiuder la bocca col verso ( Paradiso, XXXII, v. 132) in cui li chiama:

La gente ingrata, mobile e ritrosa?

Ma qui, come osserva a proposito l'Andreoli, Dante non fa che ripetere i rimproveri dello stesso Dio ai tempi di Mosè

Quel duca sotto cui visse di manna

il popolo ebreo.

Qui Dante narra, non giudica.

O ci si verrà fuori colla terzina famosa

Se mala cupidigia altro vi grida

Uomini siate e non pecore matte

Sì che il Giudeo tra voi, di voi non rida?

( Parad. c. V, v. 79-81 ).

Davvero che si cascherebbe dalle nuvole. O qual maggior lode volete per gli ebrei? Sono dessi che riderebbero — secondo afferma il poeta — ove la mala cupidigia spingesse i cristiani ad opere men che oneste. E chi ride è segno che opera rettamente, avvegnachè non può beffarsi d'altrui chi è macchiato della stessa pece.

E qui, voglio avventurare un'ipotesi — badate, non dico altro che ipotesi — nuova, originale certo. Che Dante nel Giudeo abbia voluto indicare non già gli ebrei in generale, — come credono tutti — ma solo l'amico suo Immanuele, che appunto con quel nome era chiamato, siccome ne fa fede il già citato Bosone da Gubbio nel suo celebre sonetto ove scrive: « Et pianga dunque Manoel Giudeo? »

Non è, ci pare, tra le cose impossibili. Immanuele, spirito sarcastico e bizzarro[12] viveva volentieri tra gli amici suoi cristiani e non conosceva cupidigia. Anzi — e lo nota fra gli altri il Tedesco[13] — per la sua generosità e buona fede, da condizione agiata divenne povero, e perseguitato dai nemici della sua fama dovette esulare dalla sua patria e andare ramingo per le itale contrade.

A lui appunto Dante avrà pensato, a lui forse per antonomasia riferì il verso: Sì che 'l Giudeo tra voi di voi non rida.

Ma sia da riferirsi al solo Immanuele, sia agli ebrei in generale, maggior lode ad essi non poteva uscire dalla bocca di Dante che voleva i costumi de' cristiani irreprensibili, che avea per mira in tutti gli scritti suoi — ed in ispecie nell'immortale poema — l'umano perfezionamento, la civiltà nel più alto significato di questa parola di cui tanto ora si abusa e che tanto è in mille modi bistrattata.

VIII.

Vogliamo ora dare un'idea dell' Inferno e Paradiso dell'Immanuel: il quale finge di aver avuto per guida nel suo viaggio simbolico un dottissimo amico suo ch'ei chiama Daniele. I critici sono quasi tutti d'accordo (e diciamo quasi perchè proprio tutti sarebbe un miracolo e la critica non ci avrebbe allora più nulla a che fare) nello affermare che questo Daniele lodato da Immanuele sia Dante e nessun altro[14], e che non l'abbia voluto chiaramente nominare per evitare gli strali dei più scrupolosi che non avrebbero potuto credere al grande onore fatto dal poeta ebreo ad uno d'altra fede quantunque esimio. Ed oltre tutte le ragioni addotte, ve n'ha una dirò così filologica che non fu, per quanto sappiamo, avvertita fin qui. Dani-el in ebraico può valere: Il mio Dan (Dante) è divino, o più precisamente: il mio divino Dante, il divino poeta a me carissimo[15].

Ma fosse o no Dante la sua guida all'inferno o al Paradiso, certo che lui mette tra i beati là dove scrive:

Nel quinto trono di maggior ricchezza

Siede un poeta che non ha rivali;

Ebbe d'opre magnanime vaghezza

Infelice chi punse co' suoi strali

E beato colui cui fu cortese;

Chi nella polve e chi fra gl'immortali.

Per lui d'amor fur le donzelle accese,

E la potenza de' suoi franchi detti

Talor sul trono i re tremanti rese[16].

Chi non vede in questa pittura — diremo col Tedesco — il ritratto del fiero Ghibellino?

L'inferno dell'Immanuele è uno scheletro, dirò così, di quello di Dante nella Divina Commedia, e questa è prova novella che la prima idea fosse gettata dal poeta ebreo, idea che venne poi allargata, rimpolpata, compiuta.

Finge Immanuel trovarsi in uno stato d'angoscia da non dirsi.

Con pianti e con sospir pien di spavento

rivolge le luci al cielo ed ecco — come a Dante si appare Virgilio — a lui appare un uomo avvolto in fulgente ammanto che gli dice:

. . . .L'affanno del cuor sgombra

Perchè muto ristai? Perchè sì vano

E funesto timor il sen t'ingombra?

Quindi soavemente la sua mano

Alla mia pose, e aggiunsemi: Per trarti

Io venni in loco eterno, dall'umano.

E così questo Daniel[17] — che come abbiam detto per la maggiore parte de' critici non è che Dante trasfigurato — accompagna il poeta ebreo

. . . . . . . . nei sereni

Eterni campi e negli eterni fochi

soggiungendo:

Vuolsi così nel ciel: sarò tua scorta

Nei maledetti e ne' beati lochi;

O nell'abisso ove ogni luce è morta

O nella sfera più soave e lieta

Ove ai beati eterna gioia è pôrta.

L'inferno dell'Immanuele non ha tanti cerchi, nè tante bolge, nè tanti mostri, come quello di Dante, ma non mancano certo nuovi tormenti e nuovi tormentati, non manca

. . . . di diavoli una schiera

Che nell'abisso i peccator spingea . . . .

E pruni e sterpi sparsi in ogni dove

Erano accesi per doppiar le pene

Con vive fiamme e con faville nuove.

Gl'increduli, i lussuriosi, gli avari, gl'iracondi, gl'ipocriti, tutti i viziosi trovano loco in questo baratro così stupendamente descritto, e vi sono satire così pungenti e flagelli così tremendi per certuni che furono dell'Autore nemici, da uguagliar, se non sorpassare, le sferzate di Dante ai suoi contemporanei avversarii.

L'Alighieri fece un poema; l'Immanuele un canto o meglio diremo due; ma nell' Inferno del poeta ebreo c'è in miniatura, in embrione quello che c'è nei 34 canti della prima cantica, ma dall'inferno passando a riveder le stelle, ci troviamo subito al Paradiso, perchè gli dice il sommo duce:

Lasciar tu devi la città del pianto

Ed in luogo salir dove vedrai

I fior del cielo, e udrai dei giusti il canto.

IX.

E perchè no il Purgatorio? potrebbe domandare il lettore. Perchè l'Immanuele, fedele ai principii della fede in cui nacque e morì, non ammetteva il Purgatorio, come ammetteva, giusta la massima di fratellanza ch'è scritta nel Talmud, che tutti i buoni, di qualunque religione siano, posson godere i beni celestiali[18]. I contemporanei di Dante, in pieno medio-evo, non potevano non ammirare la tolleranza del giudeo — come essi lo chiamavano — e trovò infatti a Fermo un mecenate nella casa del quale visse tranquillo gli ultimi anni della vita, come Dante avea trovato rifugio presso lo Scaligero di Verona.

Tornando al Paradiso dell'Immanuele — molto più semplice di quello dell'Alighieri quantunque non meno delizioso — ci troviamo i profeti che lodano l'autore pe' suoi Commentarii siccome Dante (gonfii gli amici entrambi d'amor proprio) in più luoghi si loda da sè, ad es.: Lo bello stile che m'ha fatto onore Ed io fui sesto fra cotanto senno, per darne due soli esempii. E ci troviamo i dotti d'ogni nazione, i generosi, i martiri per la fede, concetti larghi, pensieri elevati, senza ambagi, senza timori.

Certo che bisognerebbe esser vissuto ai tempi dell'autore per comprender tutte le allusioni del suo bel poema. Nè qui vogliamo addentrarci più oltre nella questione della priorità diremo così o dell'imitazione fra le cantiche de' due poeti. Quello che ripeter non ci sazieremo egli è che fino dai tempi di Dante quest'amicizia parve un miracolo, una cosa strana e i nemici del divino poeta non sapendo come castigarlo, anche dopo morto lo misero nell'inferno col suo Immanuele[19]! Meno male che vivendo insieme, indivisibili anche oltre tomba, i due poeti non avranno trovato tempo d'annoiarsi nemmeno all'inferno. Tutt'altro!

X.

Scherzi a parte; Dante e Immanuele hanno varcato i secoli e la lor fama dura e durerà davvero quanto il mondo lontana. L'Alighieri colla amicizia che portava al poeta ebreo fece conoscere l'animo suo nobilissimo scevro d'ogni pregiudizio, siccome l'Immanuele, contraccambiandolo di pari affetto, addimostrò quanto sian sciocchi coloro che voglion dividere gli spiriti grandi, i quali sanno ognora sorvolare sulle basse meschinità di questa terra per innalzarsi a più spirabil aere.

Il nostro assunto finisce qui, per quanto riguarda questo lavoruccio. Di molte altre cose allargamento in qualche modo attinenti, diremo altrove con maggior agio.

Note.

[2] Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri raccolte ed ordinate cronologicamente con note storiche, bibliografiche e biografiche da Carlo Del Balzo. (Vol. I, Roma, Forzani e C. tip. del Senato, editori, Palazzo Madama 1889).[3] Lo Sholman dà per data di nascita il 1262; lo Steinschneider il 1272. Con quali prove? La data invece del 1265 è in tutte le biografie dell'Immanuel e il Wilheimer, e il Tedesco che a lungo ne scrissero in questi ultimi anni fissano quella come certa. E certa dev'essere, perchè dovevano avere la stessa età due persone che si comprendevano così perfettamente in tutto e per tutto, non ostante la differenza di religione, che in quei tempi era quasi ostacolo insormontabile.[4] Qualche anno fa le nostre ricerche riuscirono infruttuose. La Com. isr. di Roma non ha ne' suoi archivi che memorie di pochi secoli addietro.[5] Si badi che noi diciamo immaginare, perchè sappiamo che tanto la Divina Commedia quanto la gita all'Inferno e al Paradiso dell'Immanuel furono poste in iscritto più tardi.[6] Jahrbuch der Deutschen Dante Gesellschaft, III Band, 1871, pagine 423-462 . . . D. Theodor Paur.[7] Lo proveremo più avanti facendo un confronto dei due Inferni.[8] L'antico testamento e la letteratura italiana. Discorso letto da Salvatore De-Benedetti professore di lingua ebraica per la inaugurazione degli studii alla R. Università di Pisa; Tip. Nistri e C. 1885.[9] Il Del Balzo scrive (op. cit. pag. 315 316): « E la forma enfatica, quasi iperbolica, adoperata per parlare di lui (Immanuel) a tanta distanza di tempo, dà un'idea dell'entusiasmo che desta la lettura delle sue poesie tra i cultori delle lingue orientali ». E in nota: Il Servi dà ad Immanuel la gloria di aver suggerito a Dante l'idea della Divina Commedia.[10] Ne daremo alcuni in questa nota per non dilungarci di troppo. Nel canto IV del Paradiso parlando di Mosè e Samuele, traduce il detto talmudico Dibberà torà chilscion benè adam nella terzina: Per questo la scrittura condescende

A vostra facultate, e piede e mano

Attribuisce a Dio, ed altro intende.

Al canto XXV commenta egregiamente il profeta Isaia secondo gli espositori ebrei colle parole:

« Dice Isaia che ciascuna vestita

Nella sua terra fia di doppia vesta

E la sua terra è questa dolce vita ». Nell' Inferno (canto XI, v. 106-109) addimostra conoscere non che le leggi della natura, ma della divina Provvidenza e de' commentatori della Bibbia (V. Genesi 3, 19; 1, 28) con questa stupenda terzina

Da queste due, se tu ti rechi a mente

La genesi dal principio conviene

Prender sua vita; ed avanzar la gente.

[11] Anche l'Ab. Lanci e il Munk credono che Dante siasi valso dell'amico suo per molte frasi della Divina Commedia. Il Prof. Filippo Mercuri di Roma in una memoria da lui letta nell'Accademia dei Quiriti il 21 aprile 1853 così si esprime parlando dell'Immanuele: « Amico di Dante e di Bosone, noto a Cino e uom di lettere, doveva avere in sua età moltissima rinomanza e forse (questo forse dice molto nella sua dubbiezza) il nostro poeta (Dante) se ne giovò a rifiorir qua e là la Cantica dei testi e delle voci orientali che v'inveniamo ».[12] La sua lingua, scrive il Wilheimer, emesse fiamme di fuoco . . . . . . egli s'innalza specialmente nell'ironia e nelle beffe. Quantunque nella sua bocca stia sempre lo scherzo e la satira ecc. (Carlo Del Balzo. Op. citata, p. 307). Quindi ben si capisce come a Dante stesse a cuore che i suoi fratelli di fede non avessero a provare le sferzate dell'amico ebreo. Le sapeva appioppare così giuste![13] Id. pag. 310.[14] Così dicono il Geiger, il Wilheimer, il Tedesco, il Lattes, il Paur.[15] Anche oggi tra gli israeliti di Toscana e di Roma molti che in ebraico hanno il nome di Dan (uno de' figli di Giacobbe) lo traducono con Dante, e con esso si fanno chiamare.[16] Traduzione dell' Inferno e Paradiso d'Immanuele di S. Seppilli. (Dalle poesie di mille autori intorno a Dante raccolte.... da Carlo Del Balzo. Vol. II, pag 52, Tip. Forzani e C. Roma 1890).[17] Dante morì nel 1321; Immanuele nel 1330. Dopo la morte del primo, il poeta ebreo non poteva dargli più solenne testimonianza di affetto che facendosi accompagnare da lui in quel viaggio simbolico.[18] Ecco la traduzione del Seppilli: Or sappi che costor sebben non nati

Devoti al nostro culto, coll'ingegno

Videro il vero, scritto in molti lati.

Onde ciascuno di salir fu degno

Dispregiator del rito suo natio

All'eterno piacer di questo regno,

Ed adorò debitamente un Dio

Dei rei terror, consolator dei buoni

Pronto a pietade ed al furor restio.

[19] Un sonetto che il Dal Balzo (vol. II, p. 56) dice giustamente apocrifo e attribuito a Cino da Pistoia, così incomincia: Messer Boson, lo vostro Manuello,

Seguitando l'error de la sua legge

Passato è nell'inferno e prova quello

Martir ch'è dato a chi non si corregge . . . .

Non è con tutta la comune gregge

Ma con Dante si sta . . . .

APPENDICE I.

Imanuele e la sua amante.

Qual'era l'amante d'Imanuele Romano, amico di Dante? Ecco una domanda indiscreta anzichè no. Perchè indiscreta? Prima di tutto perchè ne aveva più d'una — come tutti i poeti — poi perchè a tanta distanza di tempo è impossibile raccappezzarcisi. Ma le induzioni sono permesse.

In una delle sue smaglianti poesie, la sesta delle Mechaberod, parla degli occhi di Gemma:

הראית עיני יימ״ה?

ששון ליבי המה

Chi era questa Gemma? Noi propendiamo a credere fosse la moglie stessa di Dante, la quale trascurata dal marito, faceva la galante coll'amico Imanuele che frequentava la sua casa. E' una mera supposizione, lo sappiamo, ma nella critica letteraria se non si osa gettare una idea che possa suscitare qualche discussione, non si arriva mai a scoprire la verità. Ne siete convinti?

Questo scrivevamo nel Vessillo Israelitico, Anno 1890. pag. 342.

Quella nostra, diremo così ardita induzione, piacque molto ai critici, fra i quali il dottissimo Modona — sotto bibliotecario a Parma — che su Dante e Imanuele ha studiato non poco. Anzi fu lui che prima d'ogni altro pubblicò nel Vessillo stesso (anno 1885, fascicolo XII) il Bisbiglio attribuito a Manuello, tolto dal ms. n. 1289 della Biblioteca dell'Università di Bologna e poi ripubblicato nel 1887 dal prof. Mazzoni, dal ms. d. 5 della Casanatense di Roma per nozze Carducci-Gnaccarini.

E poichè abbiamo nominato il Modona aggiungiamo che egli intorno all'amicizia contratta fra i due poeti opina che l'incontro e la dimestichezza di Dante coll'Imanuele siano piuttosto avvenuti a Verona dove certo il primo fu due volte e dove pare assicurato che fosse anche il secondo lungamente, regnante Can Grande della Scala, come risulta dal Bisbiglio dedicato alla Magnificenza del successore del Gran Lombardo.

APPENDICE II.

SONETTI DUE

Messer Bosone a Manoello Giudeo essendo morto Dante. I.

Due lumi son di nuovi spenti al mondo[20]

In cui virtù e bellezza si vedea:

Pianga la mente tua[21] che già ridea

Di quel che di saper toccava il fondo.

Pianga la tua del bel viso giocondo

Di cui tua lingua tanto ben dicea,

O me dolente che pianger dovea

Ogni uomo che sta dentro a questo tondo.

Et pianga dunque Manuel giudeo

E prima pianga il suo proprio danno

Poi pianga 'l mal di questo mondo reo.

Che sotto 'l sol non fu mai peggior anno:

Ma mi conforta ch'io credo che Deo

Dante abbia posto in glorioso scanno.

[20] Alcuni codici hanno: Sparti al mondo.[21] Altri codici: Piange la mente mia.

Risposta di Manoello a Messer Bosone. II.

Io che trassi le lagrime dal fondo

De l'abisso del cor, che 'n su le invea

Piango che 'l foco del duolo m'ardea

Se non fosser le lagrime 'n che abbondo.

Chè la lor piova ammorta lo profondo[22]

Ardor che del mio mal fuor mi trahea:

Per non morir, per tener alta vea

A percoter sto forte e non affondo[23].

E ben può pianger Christiano e Giudeo,

E ciaschedun seder in tristo scanno:

Pianto perpetual m'è fatto reo.

Perch'io m'accorgo che quel fu 'l mal anno,

Sconfortami ben ch'io veggio che Deo

Per invidia del ben fece quel danno.

[22] Altre edizioni: a mortal profondo.[23] Altre edizioni: el no ha fonda.