PROLOGO

Silenzio. Oh! spettatori, che ciccalar è questo? Di grazia, lasciate un po' questi vostri ragionamenti e ricordatevi che questo luogo non è Banchi ove si tiene el mercato delle usure e simonie e distupri e adultèri. E voi altri lasciate, di grazia, el mottegiare e 'l burlare altrui. Bastive l'avere ragionato un pezzo e aver vaghezzato a vostro modo. E credo bene che chi vi cercassi ai piedi vi trovarebbe forsi altro che sputo. Questi pedanti me intendono meglio ch'io non lo so dire. Che spegner è quello che si fa colá sú? Olá! Io dico bene a te, sí, della… Uhu! Vedi ch'io ti chiamarò a nome. Che bisogna che tu ti cacci cosí drieto a colui? Orsú! Di grazia, assettatevi el meglio che voi possete, se non che se spegneranno i lumi e poi farete le comedie alla muta. Odi, odi quel vizioso che dice con quell'altro diavolo:—Fa' che li spenghino, ché me vorria mettere intorno a queste donne e levargli quelle gioie e quei pendenti.—Ma tu non sai che vi potresti lasciar i tuoi? E se tu non sei savio, tu sarai balzato peggio che non è quel buffon da bastonate dell'asino. Odi quell'altro che dice:—Costui è un gran bravo.—Son bravo per certo, quando bisogna, com'ora. E non guardate ch'io sia giovane; ché ne ho date molte piú di punte, come piú pericolosi colpi degli altri, che non n'ho rillevate. E forsi che qualcuno ch'è qui ne può essere buon testimonio: ch'io non fo come fan molti che portono la spada per fare el crudele coi servitori e con le donne e stan sulle brusche cere, sul tagliar dei mostacci e brusciar delle porte e 'l far de' Trentuni. Ma dove diavolo mi sono io lasciato trasportar dalla còlera? Perdonatemi. Colui ne è stato cagione. Di che ragionavo io? Ah sí!… pregavo questi giovani, e cosí vi priego voi che desiderio avete de odire e intendere le cose del nostro Belo, che state cheti e che allargate e aprite bene el buco degli orecchi acciò che vi entri el senso de questa nostra comedia: ché, sí come voi sète capaci e buoni retentori delle altre materie, che non vi si abbi ad imputare a pecoragine el non aver tenuto bene a mente questa e massime non vi si facendo, per ora, altro argumento; ben che mi rendo certo che voi non farete vergogna né a voi né al vostro precettore, avendovi egli, sí come è il dover, fatt'una buona memoria locale. Questi piú attempati so che non bisogna ch'io li avvertisca; ché, sí come persone ripiene e di senno e di discrezione, benché si dica ch'ella è morta, taceranno. Quest'altre donne son certo che, per esser savie e avendo sentito riprender voi, si achetaranno, di sorte che pareranno mutole: ancor che elle, in simili luoghi, el piú delle fiate, parlino piú coi gesti che con la boca e fanno intendere a cenni tale che non ha né occhi né lingua. Ma, pur che voi non parliate, i' non mi curo del resto. Pur io vi veggio, mercé della vostra buona natura, tutte modeste e savie; e son certo che starete in ordine con vostro sommo piacere, aprendoci ben sú l'occhio per ricevere el nerbo o il verbo substenziale, per dire meglio, dei nostri ragionamenti. Ma avvertite, di grazia, di non pigliar a riverso el cotale, cioè il parlar nostro, come solete far qualche volta, per giuoco, con chi par a voi: ché io me nne adirarei; benché voi non sète sole, ch'oltr'ai giovani, buona parte di questi attempati vi tengono compagnia e piú quegli che nelle infelice corti, refugio di affamati e ricetto d'ignoranti, si allevono. La comedia è nova… Ecco ch'io sento giá sollevati i murmuratori che non possono star piú cheti. Diavolo, crepagli! Che avete? che vi manca? di che borbottate? Perché ho detto «nova», eh? Che volévivo forsi ch'io vi dicessi «vecchia»? Dio me nne guardi ch'io presenti alle Signorie Vostre cose che vi facessino stomacare! O non sapete voi che le cose vecchie vengono in fastidio e sanno di vieto? E, che sia el vero, adimandatene a questi giovani che, come se lle dice «l'è una vecchia», l'abborriscono e vi sputano su come che se avessino preso l'assenzio: oltra che le fugono, le biasmano, le vituperano e chiamanole streghe, maliarde, ruffiane, dispettose, ammazzapulce, rempiture del mondo e simile altre novelle. E, secondo me, non dicono la bugia. El medesmo fanno quest'altre giovane delicate che, come se li parla de qualche vecchio, tu le vedi quasi venir meno dall'angoscia; e tanto piú quanto se imbattono in certi aguzzi, saputi, inferruzzati, con le barbe e' capegli coloriti, che gli par loro di esser el gallo della contrada e non si accorgeno che pute loro el fiato o che han gli occhi guasti e di continuo gli colano e, quando sputono, fan certe gongole che verrebbono a schifo ai frati e sempre hanno uno starnuto e una corregia in ordine. Ed elle son savie a fugirli: altretanto ne farei io. Sí che, per questo, ve ho ditto ch'ella è nova, per ciò che tutte le cose nove piacciono e dilettono ad ognuno. State, adunque, cheti; e avvertite a non far cosa per la qual io ne abbi da far chiavare qualcuno di voi, a mal modo, in una pregione. La comedia si chiama El pedante, quale è persona che, con le lettere in mano, defenderá le ragioni sue. Né avete da pigliarve fastidio perché ella sia volgare, essendosi fatto a buon fine e per compiacer ai piú. Ma, se l'auttore avessi pensato che, per farla latina, vi fosse stata piú accetta, egli si sarebbe ingegnato, se non in tutto, almeno in parte, di contentarvi; e, se pur egli a ciò non fossi stato buono, si arebbe fatto aitare dal suo pedante. E, se i latini non fossino stati tali quali le Signorie Vostre avessino meritato, sarebbero stati almeno come sonno quelli de questi affumati procuratori che parlono peggio de un todesco quando si sforza de parlar italiano: ché 'l maggior piacere che potessino avere sarebbe che si abrusciassi e Diomede e Prisciano co' quali di continuo stanno in briga; e, pur che li venghi ben fatto, non si tengono a conscienzia, sotto le paci e le pigierie, rompergli el capo e farli el peggio che possono. Questa cittá è Roma. So che tutti la cognoscete. E, perché questi recitanti han ditto a questi musici che sonnino, io me nne andarò. E voi state cheti.

ATTO I

SCENA I

CURZIO amante, RUFINO servo.

CURZIO. Ell'è pur vero el proverbio che i despiaceri e i piaceri non sogliano mai venir soli. E, che ciò sia, in me misero e infelice veder si puote: ch'allevatomi al servizio del mio signore, dal quale giustamente gran premio delle mie lunghe fatighe aspettavo in guidardone di mei mal spesi anni, mi ha contra mia voglia dato moglie. Che sia maledetta tanta ingratitudine che oggidí si vede in questi nostri signori regnare! che, non sí tosto dai miseri servitori el servizio han ricevuto, che l'han posto in oblio. Tristo a chiunque si fida di loro! ché, insino ch'elli hanno necessitá del fatto tuo, t'empromettono, ti giurano, vogliano teco partire el Stato e darti le migliaia de scudi d'intrata e fannoti mille scritture, mille patenti, mille oblighi, ch'in ogni altra persona ch'ad onorato vivere attende vituperevole cosa sarebbe; per ciò che, come non hanno piú di bisogno di te, ti stracciono quanti contratti, quante scritture te hanno fatte e quello che giá fu tuo donano ad un altro e, se tu ti lamenti, cercono di farti uccidere e pensono che 'l mancar di fede sia loro molto onorevole e, se pur voglino mostrare de favorirti, ti dánno moglie sí come a me el mio signore ha fatto. Che tal contentezze veggia in lui qual egli ave data a me che, contra mia voglia, me l'ha fatta sposare! E sonno oggimai passati dui anni che, da che seco celebrai le nozze, me partii e vagando per il mondo a guisa di un desperato, ramaricandomi di me stesso che troppo alle lusinghevole sue parole ho creduto, ne sono andato: non perché io non mi aveggia ch'ella non sia nobile, savia e da bene; ma per ciò ch'io cognosco che questi signori, come ti hanno dato moglie, par loro di averti ristorato d'ogni tua fatica e, il piú delle fiate, te lla dánno a pruova. Oltr'a ciò, non fui sí tosto giunto qui in Roma ch'io arsi e ardo nell'amore di una belissima giovane e sí fattamente ch'altro che l'amata vista di suoi begli occhi sereni, che 'l sole di splendore avanzano, veder non desidero. E giá mi trovo tanto innanzi nel sfrenato appetito trascorso e seco venuto a tale (per esser povera) che spero in breve venir a capo di qualche mio buon disegno. Voglio andar, prima che sia piú tardi, sino in Banchi. Parte vederò se mi fossino ancor venuti danari da casa. O Rufino!

RUFINO. Signore, che volete?

CURZIO. Vien fuori e piglia la cappa; e spácciati. Che cosa fai?

RUFINO. Andiamo. Io sono in ordine.

CURZIO. Dimmi un poco, or che me ricordo: parlasti tu mai con la serva di Iulia?

RUFINO. Io vel dissi pur iersera; ma voi non me ci desti orecchie.

CURZIO. Io avevo altro in capo, a dirti el vero. Ma pur, che ti disse?

RUFINO. Ella è mezza contenta; e spero… Basta.

CURZIO. Come mezza contenta? Fa' ch'io te intenda.

RUFINO. Volete altro, che si contentará di fare quanto vorrete voi?

CURZIO. Dio lo voglia, ch'io, per me, non lo credo.

RUFINO. Sará cosí certo. Ma…

CURZIO. Ma che? Ché non parli? Che vòi dire?

RUFINO. Voglio dire che ci è peggio, se Dio non vi aiuta.

CURZIO. Come peggio?

RUFINO. Peggio, signor sí: ch'ella ha un altro innamorato.

CURZIO. Un altro innamorato? Va', ch'io non tel credo.

RUFINO. Non è articolo di fede; ma ve ricordo ch'a tal otta lo potrestivo credere, che vi rincresceria.

CURZIO. Come che me rincresceria? Parlame chiaro.

RUFINO. La chiarezza è questa: che ci è chi la vole per moglie.

CURZIO. E chi è questo prosuntuoso?

RUFINO. È un pedante poltrone.

CURZIO. Io so chi vòi dire, adesso. I' non ne ho paura di costui. Ma che certezze ne hai tu di questo?

RUFINO. Hamelo detto Filippa ch'io vel dica. E io dubito che non vi sturbi.

CURZIO. Sturbar lui mene?

RUFINO. Signor sí. È perché non sapete che le donne sempre se attacano al peggio.

CURZIO. Guardise pur ch'io non gl'impari a far le concordanzie a suo mal grado. Lui non mi deve cognoscere anco, ah?

RUFINO. Voi avete el torto, ché le cose belle piacciono a ognuno.

CURZIO. Tel concedo, questo. Ma non cognosce lui che quella non è farina da' suoi denti?

RUFINO. Anzi, lui si pensa che, per aver quattro letteruzze affumate, che tutte le donne di questa cittá siano obligate a volergli bene.

CURZIO. Non ne parliam piú. Caminamo: ch'io voglio che tu vadi poi insino a casa di Filippa e che concludi el tutto. E promettegli ciò ch'ella vuole.

RUFINO. Se io gli prometto ciò ch'ella vole, noi stiam conci!

CURZIO. E perché?

RUFINO. Per ciò che non gli basteria un papato.

CURZIO. Se intende ch'ella abbi a chiedere cose possibili e non quelle che non si ponno. Si sa bene ch'io non sono bastante a dargli delle stelle del cielo.

SCENA II

LUZIO e MINIO scolari, CECA serva.

LUZIO. Lassame caminare, ché 'l mastro non me dia un cavallo; ché me par sia troppo tardi e sai che sempre me fa sdelacciare le calze e me alza la camisa e me dá, qualche volta, con una scuriata cosí grossa cotta nell'aceto. Io ho robbato un pezzo de legno in casa per scaldarme, adesso che fa freddo. E sai che lo mastro vole che oggi incominci li latini per li passivi e poi me vole leggere la Boccolica. Ma, alla fé, poi ch'io sono qua, voglio chiamare Minio e vedere se vole venire con esso meco alla scola: ben che lui non impara se non la santa croce. Tic, toc.

CECA. Chi è lá?

LUZIO. Ècci Minio, in casa?

CECA. Sí, è. Che ne vòi fare?

LUZIO. Ditegli se vol venir alla scola.

CECA. Sí, sí. Aspetta.

LUZIO. Cosí farò. Oh! cagna! come l'è fresco, stamattina! Alla fé, ch'io mi sono levato troppo a buon'ora. E me sono scordato de fare collazione, ch'è peggio: benché madonna me ha dato un quatrino ché me ne cómpari una ciambella.

MINIO. Oh! bon dí, Luzio.

LUZIO. Buon dí e buon anno. Vòi venire?

MINIO. Sí, voglio. Andiamo.

LUZIO. E dove è lo legno che tu porti?

MINIO. Eccolo, e è piú grosso che non è lo tuo.

LUZIO. Non è vero. Attenta un po' come pesa lo mio.

MINIO. Gran mercé, ché lo tuo è piú bagnato! Per ciò…

LUZIO. E lo mio è piú meglio. Ma dimme un po': chi era quella ch'era alla finestra?

MINIO. Era la fantesca.

LUZIO. Me credevo che fussi tua madre.

MINIO. No. È piú bella madonna mia. Ma non sai, Luzio, ch'io ho una sorella che lo mastro li vole bene? E per ciò non me dá delli cavalli come fa a te.

LUZIO. Ed essa vuole bene a lui?

MINIO. Credo de sí, io. E lo mastro me ha promesso delli quatrini, veh!

LUZIO. Io non lo sapevo, questo.

MINIO. Manco lo sa madonna.

LUZIO. Alla fé, ch'io gli voglio dire se se vole innamorare de sòrema ancora ma che non voglio mi dia delli cavalli.

MINIO. Caminamo, ché non ci veda fermati: ché non dicessi che facemo le tristizie.

SCENA III

FULVIA donna, RITA serva, CECA serva.

FULVIA. Non bisogna, Rita mia, ch'al primo né al secondo assalto della Fortuna ci sbigottiamo: ch'ancor che questa buona donna, madre de questa giovane della quale sí sconciamente el mio consorte, sí come saputo avemo, è invaghito, mostri non contentarsi ch'io, misera! in cambio della figliuola con esso lui mi giaccia (sí come saria el dovere, ch'elli è pur mio marito, del quale ora la mia sciagura e la mia disgrazia, senza colpa o cagione, privata me ne hanno), spero che la ragione che mi assecura a chiedergli le cose giuste e oneste la fará condiscendere ai voti mei.

RITA. Grande errore fue, per certo, a farvi sposare, se ei non se ne contentava; e voi, perdonatemi, poco savia fosti a prenderlo.

FULVIA. E che ci potevo fare io? Homelo forsi tolto da me? Certo che non; e tu lo sai.

RITA. Orsú! Poi che avete questa fantasia, quanto piú presto possete cacciatevela; ché le cose che indugiano pigliano vizio.

FULVIA. Io ho caro, Rita, che tu sia sempre stata meco in compagnia: ché della vita e fede mia verso di lui ne potrai far buona testimonianza; ch'io so ch'elli avea gran fede in te.

RITA. Madonna, el luogo ove che noi ci troviamo e la buona e onorevole pratica delle sante donne ove voi state saranno cagione di rendervi chiara senz'altri testimoni apresso di lui.

FULVIA. Ecco la casa. Idio ci aiuti, ché costei ci dia buona risposta.

RITA. La dará bene, sí. Aspettate, ch'io pichiarò. Tic, toc.

CECA. Chi è lá? che adimandate voi?

RITA. Ècci la vostra patrona?

CECA. Sí, è. Perché?

RITA. Per bene. Madonna Fulvia mia patrona gli vorria parlare.

CECA. Aspettate, che or ora li farò l'imbasciata.

RITA. Tornate presto, di grazia.

FULVIA. Accòstate in qua, Rita, acciò che non paia ch'io stia sola; ché tu sai ch'alle male lingue non mancaria che dire.

RITA. Costei si sará forsi rotto el collo, ché bada tanto a darci la risposta.

FULVIA. Qualche cosa deve aver a far, lei. Lassala pur stare.

RITA. Volete ch'io ripichi?

FULVIA. No, no; ché non dicessino pur cosí che noi avemo del fastidioso.

CECA. Oh! Madonna, perdonateme se io sono stata troppo a ritornare, ché sono corsa drieto alla carne che si portava la gatta… volsi dire, la gatta si portava la carne.

FULVIA. Ben, che dice la tua patrona?

CECA. Che, madonna sí, che venghiate di sopra.

SCENA IV

PRUDENZIO mastro, MALFATTO servo.

PRUDENZIO.

Omnia vincit amor et nos cedamus amori.

Certamente pare, al giudizio dei periti, che totiens quotiens un uomo esce delli anni adolescentuli, verbi gratia un par nostro, non deceat sibi l'amare queste puellule tenere; benché dicitur che a fele, senio confetto, se lli convenga un mure tenero. Oh terque quaterque infelice Prudenzio! a cui poco le virtú e le lunghe lucubrazioni e i quotidiani studi prosunt. E ciò solo avviene ché li uomini sono inimicissimi delle virtú e delle Muse del castalio e pegaseo fonte; e, come li arieti o li irconi, con li corii aurati viveno, ché «sine doctrina vita est quasi mortis imago»; ed hanno sí la virtú conculcata che solo alle crapule attendono e incumbunt a rubare, a soppeditare el prossimo con mille versuzie e doli. Benché, noi non li stimiamo; quia, «cum recte vivis, non cures verba malorum». E cosí i miseri non se accorgeno che sono tanquam boves et oves et super pecora campi. E, se alcuno vole captare benevolenzia appresso di loro, bisogna che sia un testis iniquus, un garulo inquieto, un furcifer, un capestrunculo, un cinedulo calamistrato, un tonditore di monete, un lenone, uno inrumatore, un caupone tabernario inimico del politico vivere; e di quanti maggiori vizi è decorato tanto magis è accetto, quia «omne simile appetit sui simile». Ma solamente mihi tedet de non essere in grazia di questa radiante stella alla quale la famosa dea della pulcritudine non gli sarebbe ottima pedissequa et est lascivior hedo. E saria plus quam contentus s'io potessi coniugnerla nosco in coppula e vinculo matrimoniale. Né curarei di fargli fondo dotale di una nostra domo laterizia quale avemo empta in questa cittá, nella quale avemo consumpte molte pecunie in resarcirla. Ho decreto de mandargli un'apocha, una pagina, un epistolio in laude sua. Voglio andare al fòro per emere alcuna cosetta per prendere la corporale refezione e resarcire, cibando, el ieiuno ventre. O Malfatto!

MALFATTO. Che volete?

PRUDENZIO. Vieni fuora. Non odi? a chi dico io?

MALFATTO. Che ve piace, ehu?

PRUDENZIO. Non hai verecundia a responder al precettore cosí temerariamente? Guarda pur, ch'io non ti dia un cavallo.

MALFATTO. Sí! Sempre me volete dare li cavali, voi; e sempre me fate andare a piedi con le scarpe mezze rotte e mezze straziate.

PRUDENZIO. Non piú parole; e fa' che tu stii cheto; e fa' che sempre non te abbiamo a fare uno epilogo sopra el vivere tuo. Háime inteso? perché non respondi? che guardi? a chi dico io?

MALFATTO. Uhu! uhu! uhu!

PRUDENZIO. Che parlar, che gesticoli de asino son questi?

MALFATTO. Uhu! uhu! uhu!

PRUDENZIO. Che sí ch'io ti farò parlare!

MALFATTO. Perché volete che parli, se prima me dite ch'io stia cheto?

PRUDENZIO. Io te ho detto che tu lassi parlare prima al mastro e che poi respondi. Dove sei andato, Malfatto? non odi?

MALFATTO. Missere! missere!

PRUDENZIO. Malanno che Dio te dia! Dico che venghi nosco.

MALFATTO. E quando?

PRUDENZIO. Extemplo; illico; che venghi statim.

MALFATTO. Messer non. Non sono stato in nessun loco.

PRUDENZIO. Malan che Dio ti dia! Certe tu es insanus.

MALFATTO. Misser sí che son sano. Sonno le scarpe che sonno rotte. Ecole: vedete.

PRUDENZIO. Che sí che, s'io torno in scola, te darò una spogliatura!

MALFATTO. Ed io me ne andarò a letto, se me spogliarete.

PRUDENZIO. Fa' ch'io non te l'abbia a ripilogare un'altra volta. Vieni meco.

MALFATTO. E dove volete ch'io venga, adesso che vuol piovere?

PRUDENZIO. E tu lassa piovere.

MALFATTO. Be', sí, voi lo dite perché avete le scarpe sane: ma ché non me prestate le vostre, voi, a me e pigliateve le mie?

PRUDENZIO. Tu vai optando ch'io non comperi l'altre nove.

MALFATTO. Io non ne voglio se non doi, e non nove; ché non ho tanti piedi, io. Ma quando me le comparerete?

PRUDENZIO. Domani omnino, idest per ogni modo.

MALFATTO. O dateme le vostre oggi a me e pigliateve per voi quelle che me volete comparare domane.

PRUDENZIO. Ego te supplico, per Deum immortalem.

MALFATTO. Misser, volete lo pistello ancora?

PRUDENZIO. Dove ambuli? dove vai?

MALFATTO. Per lo mortale che me avete detto.

PRUDENZIO. Odi qui ciò ch'io ti voglio dire.

MALFATTO. Dite pur.

PRUDENZIO. Ch'io, totis viribus…,

MALFATTO. Misser sí.

PRUDENZIO. … farò cosa che tu sarai sodisfatto.

MALFATTO. E lui ancora?

PRUDENZIO. Quisnam? Chi lui?

MALFATTO. Che ne so io?

PRUDENZIO. Me par bene che non sai che te parli.

MALFATTO. Ben. Patrone, io non voglio venire se non me date le scarpe.

PRUDENZIO. Vieni; ch'io t'imprometto de dartele come noi tornamo.

MALFATTO. Sí! come tornamo! Voi me ci volete cogliere come le altre volte. Non avete un quatrino.

PRUDENZIO. Tira alle forche, temerario poltrone! Che sai tu se io ho nummi o no? Fa' che stii cheto e non amplius loqui. E basta.

SCENA V

CECA serva.

Io, per me, farò ogni cosa pur che lo trovi. Va bene. Vuole ch'io vada sino a casa d'una certa Filippa che abita in Treio e ch'io veggia di parlar al servo di misser Curzio el quale è innamorato della figliuola. E hami imposto ch'io gli dica ch'ella è contenta e che, stanotte, ne venga su le tre ore, pur che del prezzo che molte fiate li ha mandato a offerire non gli venghi meno. Io mi maraviglio e nol posso credere, se nol vego, ch'ella si lassi in tanto errore trascorrere. E quella giovane, che molte fiate gli è venut'a parlare, credo che sia una cattiva pratica, la sua; e son certa che lei è quella che la conduce, a scavezzarsi el collo. Ma starai a vedere che questa mi sará una tale occasione ch'io potrò piú scopertamente accommodarmi a qualche mio piacere. E sai che molte fiate me ne ha parlato quel suo servitore di questa cosa, cioè de l'onor mio, con promissione de volermi sposare se io gli fo qualche piacere. Ma, alla fede, ch'io voglio che prima mi sposi; ch'io ne ho cotta la bocca e me delibero che non me ci coglia piú persona, s'io posso. I' vi son stata còlta dell'altre fiate su queste promesse; e si vuol dire che chi viene dal morto sa che cosa è piangere. El bello è che poi se ne vanno avantando come se gli fosse un grande onore. Alla fé, che i gatti ci averanno aperti gli occhi, a questo tratto. Ma será forsi meglio ch'io volti giú per questa strada qui che mi par piú corta assai.

ATTO II

SCENA I

CURZIO amante, MALFATTO servo, TRAPPOLINO regazzo.

CURZIO. Da ch'io mi levai per insino a quest'ora sono stato ad aspettar el patrone del banco ove mi sogliono venire i dinari da casa; né, possendo piú aspettarlo, punto dalla cieca passione, in qua ne son venuto. Ho lasciato Rufino che gli parli e che poi se ne vada sino a casa de Filippa. E, se la sorte mia buona vorrá ch'io giunga, sí come spero, a perfetto fine di questo mio amore, non che felice, ma con la istessa felicitá non cangiarei el stato e 'l grado mio. Solo un pensiero è quello che m'afflige: ch'ho inteso, aimè! che quel porco, poltrone, ignorantaccio di quel pedante suo vicino la vole per moglie e senza dote. Io l'ho incontrato poco è; e dogliomi de non gli aver parlato e fattogli intendere ch'ad altro attenda. Pur, s'el me si rintoppa innanzi, vo' sturargli gli orecchi di buona maniera. Ma, se io bene raffiguro, costui che viene di qua giú, alle fattezze e al vestire, l'è il servo suo. E' non può essere che costui non ne sappia qualche cosa di questo parentado. Me delibero de demandargnene.

MALFATTO. Vedi ch'io non ci voglio venire e che piú presto me ne voglio andare a spasso per farte despetto.

CURZIO. Oh quel giovane!

MALFATTO. Vederemo chi sará piú poltrone, o lui o esso.

CURZIO. Olá! Non odi?

MALFATTO. Me chiamate io, voi?

CURZIO. Sí, chiamo. Vien qua, ché ti voglio parlare.

MALFATTO. O venite qua voi, ché te aspettarò.

CURZIO. Ascolta solamente doi parole.

MALFATTO. Voglio andare in Campo de fiore.

CURZIO. Con chi stai tu?

MALFATTO. Mò, mò; vedete: volete forsi niente?

CURZIO. Oh! Tu me respondi a proposito!

MALFATTO. Orsú! Basta. Son vostro serviziale.

CURZIO. Costui deve esser matto. E' non sará quello che dico io. Anzi, l'è pur esso. Olá!

MALFATTO. Missere, che vòi?

CURZIO. Fatti un po' qui, di grazia. Con chi stai tu? chi è el tuo patrone?

MALFATTO. L'è un mastro. Lo conoscete bene voi, sí. Ed è innamorato, che possa crepare!

CURZIO. Sí, l'uno e l'altro.

MALFATTO. Propriamente, esso e voi.

CURZIO. Io dico lui e tu, bestia!

MALFATTO. Dico bene cosí io ancora.

CURZIO. Che diavolo di nova foggia de abito e di uomo è questa di costui?

MALFATTO. Sapete come me chiamo io? oh quello! Me chiamo… Oh! oh! non te lo voglio dire.

CURZIO. Se nol vòi dire, statti.

MALFATTO. Che non te lo indovini de un quatrino. Me chiamo Malfatto, veh!

CURZIO. So che non ti mentisce el nome. Ma dimmi un po': de chi è innamorato el tuo maestro?

MALFATTO. D'una moglie.

CURZIO. Che halla presa per moglie, forsi?

MALFATTO. No, madonna, no. È che lui la vorria pigliar esso per moglie e vorria ch'essa stessi con lui e io con esso.

CURZIO. Che diavolo parli? che hai? che dici?

MALFATTO. Dico ch'ogni sempre lui vorria far… sapete?

CURZIO. Che cosa vorria far? Che guardi? che tocchi?

MALFATTO. Tocco che voi avete certe belle scarpe, pelose, nere. Volete cangiare con le mie?

CURZIO. Son contento. Sta' fitto. Che farai?

MALFATTO. Ve lle volevo cacciare e metterve queste mie che sono piú sane.

CURZIO. Un'altra volta, poi; non adesso.

MALFATTO. Ed io me ne voglio andare.

CURZIO. Odi; ascolta. Non ti partire.

MALFATTO. Sí; ma prestame tre quatrini.

CURZIO. Son contento. Vieni con me, ch'io te lli voglio dare.

MALFATTO. E dove volete ch'io venga?

CURZIO. A casa mia.

MALFATTO. Fit! mahu! cagna! Non me cci coglierete, no.

CURZIO. E perché? di chi hai paura?

MALFATTO. E che? Me voresti fare le male cose come fa lo mastro alli scolari, eh?

CURZIO. So ch'el confessa senza tratto di corda.

MALFATTO. Ché non me li date qua, se volete?

CURZIO. Non ho dinari appresso. Vieni, su la fede mia.

MALFATTO. Andiamo, sú! Volete che venga dinanzi o drieto?

CURZIO. Vieni come vòi tu. Oh che dolce spasso è questo di costui! Ma starai a vedere che, pian piano, gli cavarò di bocca ogni cosa.

MALFATTO. Son stracco. Io non posso piú caminare.

CURZIO. Camina, camina, ché giá semo arrivati.

MALFATTO. Sí! arrivati! E dove è la casa, che non la veggo?

CURZIO. Eccola qui. Bussa un poco.

MALFATTO. Tic, toc. Non ci è nessuno?

TRAPPOLINO. Chi è lá?

MALFATTO. È questo compagno.

TRAPPOLINO. Che compagno? che compagno? gaglioffo che tu sei!

MALFATTO. Olá! Parla con voi, vedete.

CURZIO. Ché non vieni aprire, sciagurato?

TRAPPOLINO. Oh patrone! Perdonateme; adesso vengo.

MALFATTO. Sta con voi quello che dite?

CURZIO. Sí che sta con meco. Perché?

MALFATTO. E con chi dorme? con voi?

CURZIO. Non. Dorme con un altro compagno.

MALFATTO. Io dormo molto ben con lo mastro.

CURZIO. Nel letto suo proprio?

MALFATTO. Misser no. In camera; in un altro letto; in terra.

TRAPPOLINO. Entrate.

CURZIO. Vieni dentro, Malfatto.

SCENA II

FULVIA donna, IULIA donna, RITA serva.

FULVIA. Non venite piú innanzi. Di grazia, tornatevi dentro.

IULIA. Orsú! Andate in pace. Voi me avete intesa.

FULVIA. Madonna sí.

IULIA. Me avete ben fatto despiacere a non vi restare a desinare con esso meco.

FULVIA. Sempre desino con esso voi. Di grazia, tornatevi di sopra.

IULIA. Orsú! Buon giorno.

FULVIA. Buon giorno e buon anno. Che dici tu, Rita, adesso? Molto stai sí cheta.

RITA. Che volete ch'io dica?

FULVIA. Che ne credi tu di questo mio pensiero?

RITA. Io penso che Iddio ve adiutará; e che, quando egli saprá che voi l'abbiate seguito d'allora in qua che, senza legitima causa, vi lasciò, penso che se umiliará e che vi abbracciará e faravi carezze. E sonne certa, per ciò che cosí farei ancor io.

FULVIA. Iddio, secondo el nostro bisogno, ci adiuti e ci consoli.

RITA. Buono è di sperare in lui. È meglio che nel favore delli uomini, che sonno fallaci e buggiardi.

FULVIA. Hai tu veduto quanto si è fatta pregare questa buona donna prima che si sia contentata?

RITA. Be', madonna, non è da maravigliarsene: ché voi vedete ch'ella è povera; e ogni poco di bisbiglio che si levassi contro di lei sarebbe sufficiente a tôrgli ogni ventura.

FULVIA. Tu dici el vero. Ma che te ne pare di Curzio?

RITA. Circa a che cosa?

FULVIA. Circa l'essersi innamorato.

RITA. Io ve dirò el vero. Me par ch'abbi fatto bene.

FULVIA. Bene, eh? Non ti cuoce a te: però parli a questo modo.

RITA. Eh! madonna, vorrei che voi mi potessevo vedere el cuore; ché forsi mi terrestivo piú cara che non mi tenete.

FULVIA. El veggio, pur troppo, quando tu dici ch'egli ha fatto bene.

RITA. Io vi ho risposto a quel modo per ciò ch'ella è una galante giovane e degna d'essere amata (perdonateme voi) da maggior uomo che lui. Ed io, per me, se, come son donna, fossi un uomo e potesse, faria le pazzie.

FULVIA. Tu sei molto furiosa da poco tempo in qua.

RITA. Madonna, pregamo pur Iddio che la Ceca…

FULVIA. Chi Ceca?

RITA. …la serva sua, facci qualche cosa di buono.

FULVIA. Oh! Ben fará, sí: ch'ella è savia e lui ne ha voglia. Ma cominciamo, ch'ell'è tardo. E leviamoci di questa strada presto, acciò non c'intopassimo in lui: ch'io non vo' che sappia ch'io sia in Roma insino a tanto ch'io non l'ho in luogo ove che non mi possa fuggire.

RITA. Voltate di qua, se vi piace, ché l'è piú corta.

SCENA III

MALFATTO servo, CECA serva.

MALFATTO. Per santo Niente-benedetto, per la croce de Dio, che voglio andar adesso adesso, mò mò, a trovar l'oste che fa la taverna e darli questi quatrini e fare che me dia un quinto de vino e un pezzo de trippa prima che torni lo mastro: che so che gridará, ma ch'adesso che me ne ricordo, non ce voglio piú stare con lui; ché me voglio conciare con questo bono uomo che me ha dati li quatrini, che dice che vole ch'io li sia compagno. Ed holli raccusato lo patrone che fa l'innamorato con una qua a basso. Cancaro! Ecco, alla fé, quella che dice che me vole per marito. Alla fé, la voglio aspettare.

CECA. Io ho trovato a punto el servo di Curzio e hogli fatto l'imbasciata. M'ha ditto ch'in casa di Filippa mi renderà la risposta.

MALFATTO. Io voglio andare a trovarla, a fé. Bona sera.

CECA. Oh! addio. Bona sera e 'l buon anno. Dove vai?

MALFATTO. Venivo a ti. Come sto io?

CECA. E che vòi tu ch'i' ne sappia come stai? Guarda ch'adimande da sciocco!

MALFATTO. Io volevo dire come stai tu.

CECA. Tieni le mani a te. Che farai?

MALFATTO. Volevo toccare un po' qua dentro.

CECA. Non se tocca qua dentro, se non se piange.

MALFATTO. O aspetta un poco. Non te so' moglie io a te?

CECA. Sta' da lunga, quando tu parli. Non ti accostar tanto, ché tu m'amorbi. Ché non te lavi, che puti com'una carogna?

MALFATTO. Non ho la rogna, no. Vedi? Son bianco. Guarda un po'. Te voglio bene io a te, veh!

CECA. Ed io a te. Siamo d'accordo.

MALFATTO. O lassamete, adunque, montare adosso.

CECA. Come adosso, bestia?

MALFATTO. Sí, a cavallo; a questo modo.

CECA. Fatt'in lá, poltrone!

MALFATTO. Oh! Ceca mia, quando me vòi far far un figliolo?

CECA. Taci, balordo! E dove trovi tu che gli omini faccino figlioli?

MALFATTO. O fallo tu, adunque; e io te cci voglio aiutare.

CECA. Ne arei ben voglia.

MALFATTO. Che dici? Non sei contenta, Ceca mia bella?

CECA. Sí, sí. Dimme un po': el tuo patrone compone piú versi?

MALFATTO. Sí. È andato verso qua giú. Poco stará a tornare. Eh! non ti partire cosí presto, ché io ti darò questi quatrini.

CECA. Damile, sú!

MALFATTO. Eccoli. Vedi quanti sono!

CECA. Gran mercé a te. Addio.

MALFATTO. No, no. Cagna! Non ce voglio fare. Rendemeli.

CECA. Come! Non me lli hai tu dati?

MALFATTO. Sí; ma non voglio che tu te nne vada.

CECA. Che vòi tu ch'io faccia qui fuori? Non hai tu vergogna de star nella strada a parlare con le femine?

MALFATTO. Be'; rendime li mei quatrini, adunque.

CECA. Non te lli voglio rendere. Non me lli hai dati?

MALFATTO. Misser no, che non te lli ho dati. Rendime li mei quatrini; rendime li mei quatrini.

CECA. Vedi come piange el gaglioffo!

MALFATTO. Rendime li mei quatrini, dico.

CECA. To', vatti con Dio.

MALFATTO. E dove vòi tu ch'io vada?

CECA. Va' dove vòi.

MALFATTO. Odi. Andiamo insiemi a bevere un'ostaria alla foglietta de greco.

CECA. Non posso, adesso. Recomandame al tuo mastro, sai?

MALFATTO. Vòi ch'io li dica altro?

CECA. Digli che se ne perda el seme d'un sí tristo corpo.

MALFATTO. Basta. Gli dirò che tu voresti che te mettesse el seme in corpo.

CECA. El malanno che Dio ti dia, bestia!

MALFATTO. Te nne vai, eh? Voglio venire ancora io.

CECA. E vatti con diavolo! Tu vorrai che te vega madonna e che gridi molto bene.

MALFATTO. Orsú! Bona sera. Io me ne voglio andare in casa.

CECA. Va' con diavolo!

SCENA IV

RUFINO solo.

Io ho incontrata, poco è, la serva de Livia e hame ditto che la cosa è in ordine, pur che vi sieno i danari della dote che se gli è promessa, e ch'ella tornerá a riparlarmi in casa di Filippa. Io, per me, non so dove se gli caverá costui questi denari: ché non ha un quatrino né meno è per averne per qualche giorno; ch'il banco non ha avuto ancora aviso da casa. Certo deve essere ritornato, poi che la porta è aperta. Lásciamegli rendere la risposta d'ogni cosa speditamente acciò proveda a' casi sua.

SCENA V

PRUDENZIO pedante, MALFATTO servo.

PRUDENZIO. Non me sono accorto di questo giottonciculo del famulo ch'inel mezzo del fòro, in nel conspetto di molti egregi ed eccellentissimi uomini, me ha derelicto mentre eravamo in circulo a discutere alcuni dubi delle peculiali virtú nostre. Ma testor Deum ch'io li voglio dare ad minus cento verberature. Certum est ch'io non fo bene a tenerlo, ché quanti báiuli, quanti inepti villichi sono in questa inclita e alma cittá tutti lo cognoscono, se li congratulano; e non si acconviene a me esser veduto con esso lui perché non si dica, appresso delli insipidi ideoti garuli e rinoceronti, che lo eximio maestro Prudenzio, eletto e approbato da Sua Santitá censore e maestro regionario con stipendio congruo e condecente ad un paro nostro, meni apud se un tal famulo. Sed «necessitas non habet legem», la necessitá, l'uopo non ha lege, qui a multum interest a noi el suo magisterio circa le cose veneree, stimulandone molto la concupiscenzia carnale. Et ipse è molto cognosciuto apresso della genitrice della mia unica, lepida, blandula, melliflua e morigerosa Livia, vero speculo di pulcritudine e di exemplare vertú: che, totiens quotiens me immemoro quei membricoli e' flavi capegli e li ocelli glauci co' supercilii leni biforcati, col pettusculo niveo, vera cassula et arcula ove ch'el nostro còrculo si latita e lo anellito de quella boccula roscicula che fiata un'aura, una fragranzia, uno odore manneo che tutto me letifica, e che io contemplo quella fenestrula, statim divengo un metamorfoseo. E, per quanto posso comprendere, gli piace molto ch'un par nostro l'ami. E «certum est quod natura dat»: non si può negare ch'essendo la maestá sua di sottile, acuto e peregrino ingegno, per consequenti è amica de' periti, savi e dotti uomini, quia melius est nomen bonum che non sono le richezze. Ma ecco el nostro insipido famulo ch'esce del ludo litterario.

MALFATTO. Diavolo! Non passará mai piú nessuno delle ciambelle? ché vorria spendere questi quatrini.

PRUDENZIO. Ah scelesto! Non curare: te castigarò bene, sí.

MALFATTO. Oh mastro! Bon dí e bon anno. Ve sono venuto aspettare a casa e me sono stati donati questi.

PRUDENZIO. E chi te lli ha dati? Ché non parli? Quis est ille che…

MALFATTO. Che nascio sino pelle di te quello mastro.

PRUDENZIO. Io dico questi. Chi te lli ha dati?

MALFATTO. Uno che m'ha ditto che voi site un poltrone e che lo fuoco ve possa abrusciare.

PRUDENZIO. E chi è questo?

MALFATTO. E che voi sèti un certo che fa alli scolari…

PRUDENZIO. Taci, famulo, carnifice.

MALFATTO. E dove è la carne? Ve sognate, neh vero?

PRUDENZIO. Quid latras?

MALFATTO. Misser no, che non son latro. Non li ho robbati, alla fé.

PRUDENZIO. Non curar, giotto, uso al lupanaro. T'imparerò de avermi derelicto mentre ero con quelli uomini eruditi nel foro.

MALFATTO. Oh! adesso adesso sono uscito fuori.

PRUDENZIO. Non respondes ad propositum.

MALFATTO. Prosopito des los bondi.

PRUDENZIO. Taci, temerario, poltrone, inepto! Dimi un po': perché te nne sei tornato a casa?

MALFATTO. Perché me è piaciuto.

PRUDENZIO. Cosí me rispondi? Adunque, io te devo dare da resarcire el ventre e farte le calighe e i diploidi e i pilei, e devi fare a tuo modo? Ma guarda pur ch'io non ti dia qualche alapa che non ti metti quattro denti nel gutture!

MALFATTO. Per Dio! Patrone, missere, odite, per questa croce.

PRUDENZIO. Che vòi ch'io oda? Vederai ch'io farò che, quando tu verrai meco, non te parterai dal latere nostro. Dimmi un po': chi te ha dato quelli quadranti?

MALFATTO. Che quadranti?

PRUDENZIO. Questi; questi nummi.

MALFATTO. Son quatrini, son quatrini. Voi non ci vedete lume. Che me lli ha dati esso quello.

PRUDENZIO. Quale?

MALFATTO. Quello che dice che voi site un poltrone.

PRUDENZIO. E cognoscelo tu?

MALFATTO. Misser sí, che ve cognosce.

PRUDENZIO. Io dico se tu lo cognosci; intendi bene.

MALFATTO. Vedete se me cognosce, ché m'ha dati li quatrini.

PRUDENZIO. È questo possibile, che tu non mi respondi a quello ch'io te interrogo? Io te ho detto se tu lo saperai ricognoscere, sí o no. Che dici tu?

MALFATTO. Sí e no.

PRUDENZIO. Iuro per deum Herculem che…

MALFATTO. Non se chiamava Ercole, messer no.

PRUDENZIO. Se io fosse cerciorato vendundarme la toga, voglio cognoscerlo e fargli dar molte vulnere da questi sicari famuli di questi magnifici eccellentissimi signori principi mei patroni sempre observantissimi e fargli cavar el cuor del corpore.

MALFATTO. Oh! Mastro, ha ditto ancora che voi site un somaro.

PRUDENZIO. Un asino, eh?

MALFATTO. Misser no: un somaro.

PRUDENZIO. E quo casu lui?

MALFATTO. Non ho comparato caso, messer no. Avete fame, neh vero?

PRUDENZIO. Io arei per manco de darte un equo, se tu non taci, che disputare. Gran cosa che questa inclita cittá magnanima sia cosí sterile del consorzio de' viri probi e sia fertile delli invidiosi inimici delle sacrosante, buone e megliori e optime vertú! E sono come l'ortiche che pultano a chiunque le tagne; e sono inepti a tutte le cose.

MALFATTO. O misser, sapete? Ho trovata a quella… Oh! non me se recorda. Ah! ah! sí; la patrona de madonna Iulia.

PRUDENZIO. Che patrona hai trovata? Ché non lo dici?

MALFATTO. Quella che va fuori, che parla sempre con io.

PRUDENZIO. E che ti ha detto?

MALFATTO. Me ssi aricomanda e me ha ditto che me vol bene.

PRUDENZIO. Andiamo all'ospizio, idest in domo; ch'io voglio che tu ci vadia per ogni modo quando averemo epulato. Camina.

MALFATTO. Ecco, io vengo.

ATTO III

SCENA I

RITA, MALFATTO, CECA.

RITA. Idio sia quello che ci aiuti. La mia patrona è sí frettolosa che non può aspettare che costoro gli mandino a dire ciò ch'han fatto ma vol che ci vada io a solecitarla. In veritá, che li ho compassione, e grande; che, cosí giovane, la poverina si veggia, senza alcuna cagione, abandonata dal marito. Non so come Idio gli possa sostenere al mondo simili uomini e come non gli mandi un flagello adosso di sorte che sieno essempio a tutti gli altri sciagurati che pigliono le mogli e poi le lasciono nella malora. E quanti ve ne sonno ancora di quei ribaldi, che non stanno troppo lontani di qui, che tengono le mogli e la concubina! E quanti di quegli che fanno dormire e' fanciulli in mezzo a lui e alla moglie per saziare la loro corrotta e disonesta vita! E altri ch'in quante cittá sono andati in tante hanno sposata una donna e si pregiano di avere piú mogli a l'usanza turchesca. E de ciò quella ragione si tiene che si vuole di quelle cose che non sono nel mondo. Poi questi uomini si hanno prescritta una certa temeritá, una prosonzione, una ingiustissima legge, che li par loro che 'l tradire le mogli non sia peccato e che, per questo, non sieno degni di punizione e che sia vergogna l'innamorarsi della moglie e che, se elle fanno un minimo errore, subito debino essere punite e uccise. E, il piú delle fiate, loro stessi dei vitupèri ed errori delle mogli ne sono cagione: per ciò che, o per la ingordigia del danaio o degli uffici o per empirse el ventre e andar ben vestiti, gli menono in casa gli amici e fan poi vista di non lo sapere; e, come poi hanno piene le borse e che sono richi e che pensono salir a qualche grado, per parer valenti e che stimino l'onore, le uccidono, che sieno uccisi loro! Oimè! ch'io ne so tante de queste cose e ne cognosco tanti di questi tali, per quel poco ch'io ci sono stata in questa terra, ch'io potrei, mentre che vo per la strada, aditargli e mostrar cosí:—Ello n'è l'uno; ed ella l'altro, colá.—E chi piú di questo sciagurato del mio patrone meritaria che la moglie gli facessi vergogna? Cosí, tra me stessa parlando in còlera, com'è costume di noi altre vecchie, son giunta a casa de madonna Iulia. Tic, toc. Costoro non ci deveno essere. Tic. Ogni volta ch'io vengo qui me fo prima sentir a tutto el vicinato che me respondino.

MALFATTO. Chi bussa? che vòi da la porta nostra?

RITA. Chi è quello? ove sei tu?

MALFATTO. Son qua. Non ci vedi lume? No, no. Da quest'altra banda.

RITA. Adesso sí che ti vego. Che dici tu?

MALFATTO. Dico: perché bussi all'uscio mio?

RITA. Io credo che tu ti sogni, pecorone!

MALFATTO. Alla fé, che me credevo che fosse lui. Orsú! Basta.

RITA. Dimmi un poco, olá! Me sai dire se e' cci sono costoro?

MALFATTO. Non ce sta nessuno che se chiami Costoro in quella casa.

RITA. Dico se c'è la patrona.

MALFATTO. Se non si è partita, io credo de sí, io. Ma bussate, bussate forte, ché ben ve responderanno.

RITA. Vedine nessuno tu?

MALFATTO. Sí: veggo la gatta. Volete che la chiami? Mis! mis! Non ce vole venire.

RITA. Oh bestia balorda! Io pichiarò tanto che qualcuno si affacciará.

MALFATTO. Bona notte. M'aricomando.

RITA. Addio, addio. Tic, toc.

MALFATTO. Oh! me ssi era scordato. Volete beverare de qua con noi, che iersera remissemo una cantina d'aqua fresca? Non respondete? Vostro danno!

RITA. Costui, certo, deve essere qualche pazzo. Diavolo che costoro mi respondino! Tic.

MALFATTO. M'aricomando, sapete? E' son vostro. E recomandateme alla Ceca.

RITA. Va', non dubitare.

MALFATTO. Me nne sto a voi, vedete.

RITA. Sí, in nome de Dio.

MALFATTO. E quando me nne renderete la sopposta? Missere, che volete? Ecco, vengo. Addio, addio. Olá! M'ha chiamato lo patrone.

RITA. Va', che te rompi el collo! Guarda scemonito, che risponde sentendo pichiar la porta del vicino! Io vo' pur ripichiar tanto che qualcuno mi risponda. Tic, tic.

CECA. Chi è la?

RITA. Amici. Rengraziato sia Dio che voi me avite sentita!

CECA. Perdonateci. Ci era fugita una gallina su pel tetto e a fatica l'avemo possuta repigliare. Che volete?

RITA. Vorrei parlare con madonna.

CECA. Aspettate, ch'io vi verrò a aprire.

RITA. Sí, di grazia. Non mi posso consolar da quel scempio che…

MALFATTO. Olá! Non ve hanno voluto aprire, eh?

RITA. Odi che l'è tornato!

MALFATTO. Che dite? O quella madonna!

RITA. Sí, sí: apriranno adesso.

MALFATTO. Diteme un poco: avete moglie voi? Perché non me respondete? Ve voglio bene io, sí, alla fede: demandatene un poco allo mastro. E vorrei dormire con teco, sempre, sempre. Te sono innamorato, sí, per Dio.

RITA. Diavolo che venga mai piú!

MALFATTO. Vòi che venga abasso e che te basi un poco?

RITA. Eh, sciagurato, tristo!

MALFATTO. O che sei vecchia e brutta? Fio. Cancaro te venga! Fio.

RITA. Che non ci possi invecchiare!

CECA. Oh Rita! Entrate.

RITA. Non te curar, poltrone!

CECA. Con chi l'avete?

RITA. Con uno sciagurato ch'è a quella finestra.

MALFATTO. Addio, Ceca mia. Vòi bene a io tu.

RITA. Basta. Non te curar, gaglioffo tristo!

CECA. Lassatelo dire, ché l'è una bestia. Venite qua. Ch'è della patrona vostra?

RITA. Ne è bene.

MALFATTO. Quando volemo fare quella cosa, Ceca? Te nne andate, eh? E io ancora.

SCENA II

LUZIO, PRUDENZIO, MALFATTO, MINIO.

LUZIO. Oimè! Mastro mio, perdonateme, ché io non lo farò mai piú.

PRUDENZIO. Pigliate, pigliate quel capestrunculo.

LUZIO. Eh! mastro mio, non me ammazetis.

PRUDENZIO. Giotto! cinedulo! A questo modo si fuge dal gimnasio, eh? Latruncolo! inimico del romano eloquio!

LUZIO. Eh! mastro mio bonus, perdonateme.

PRUDENZIO. No, no. Io te voglio dare mille vapulature acciò che tu essemplifichi gli altri condiscipuli tuoi. Olá! o Minio!

MINIO. Che ve piace?

PRUDENZIO. Postulame Malfatto.

MINIO. Misser sí.

LUZIO. Oimè, mastro! oimè!

PRUDENZIO. «Qui parcit virge odit filium». Tacci, giottonciculo! ché chi non riprende con degne castigazioni el figliuolo l'ha in odio e non lo dilige.

LUZIO. Eh! non me datis in vias, de grazia.

PRUDENZIO. Immo, in via publica te volemo vapulare.

MINIO. Ecco Malfatto, mastro.

PRUDENZIO. Veni, accede, ambula.

MALFATTO. Sí, sí, lo farò; misser sí.

LUZIO. Oimè! oimè! oimè!

PRUDENZIO. Malfatto, non odi, no? Vien qui.

MALFATTO. Oh! parlate, parlate, ché non ve adormirete.

PRUDENZIO. Camina, dico.

LUZIO. Oh mamma mia!

MALFATTO. Che volete adesso?

PRUDENZIO. Piglia costui a cavallo.

LUZIO. Oh Dio! oh Dio!

PRUDENZIO. Sdelacciali prima le callighe.

LUZIO. Eh! per lo amor de Dio! Io me ve aricomando.

PRUDENZIO. Ché non gli sdelacci le calze, igniavio, insultissimo?

MALFATTO. Non vole, vedete.

LUZIO. Eh! mastro mio, audiatis una parola.

PRUDENZIO. Quid vis? che vòi?

LUZIO. Non me sdelacciate le calze, di grazia, c'ho cacato nella camisa.

PRUDENZIO. Alzalo dunque a quel modo, ché volo ut tu discas che totiens quotiens…

MALFATTO. Non ce vole venire, vedete.

PRUDENZIO. Alla fé, che, quando te do a fare i latini, voglio che tu li facci meglio che se fussino in vernacula lingua.

LUZIO. Oimè! oimè! oimè! oimè!

MALFATTO. Non me date a io, che ve venga lo cancaro!

LUZIO. Oimè! oimè! Dio mio!

MALFATTO. Oh potta del diavolo!

PRUDENZIO. Molto l'hai lassato.

MALFATTO. Perché m'ha mozzicato li denti co la rechia.

PRUDENZIO. A questo modo, eh? tristo, venefico!

LUZIO. Eh! mastro, vel prometto che 'l farò bene alla fedis.

MALFATTO. Guarda scrizi da cani!

PRUDENZIO. E quando?

LUZIO. Quando voletis voi.

MALFATTO. So c'ha fatto piú male a me ch'a io. Mastro, guardate.

PRUDENZIO. Non vòi obmutescere, publico lupanare? E tu com'è possibile, uomo nefario, ch'in tanti cotidiani lustri non abbi imparato a latinare un cosí dotto et elegante epilogo ch'un bubalo se ne sarebbe giá fatto ampiamente capace?

MALFATTO. Mastro, date un po' la frusta a esso e io alzarò voi e lui ve dará un cavallo e poi tutti doi me cacciarete lo naso.

PRUDENZIO. Poltrone ribaldo!

MALFATTO. Non me agiognerete, no.

PRUDENZIO. In nomine Domini, et tu fac istud tema. E avvertisci ch'io non ritorni nella pristina còlera, ché non sunt in potestate nostra primi motus.

MALFATTO. Le prime mete, sí, sono in potestate vostra.

PRUDENZIO. Alla fé, che te farò trepidare innanzi a noi.

MALFATTO. Cancaro! Guarda li piedi!

PRUDENZIO. E tu, Luzio, fa' che te ricordi ch'è verecundia alli optimi discipuli ignorare le cose del preceptore che disce e doce le buone educazioni. Fa' questo latino: «Mentre che lo mastro me dá li cavalli io tiro le corregge».

LUZIO. « Inter… inter mastrum… ».

PRUDENZIO. Di' un'altra volta.

LUZIO. Hem! hem!

MALFATTO. Quelli con che si magna lo pane.

PRUDENZIO. Lassalo dire. Attendi a te.

LUZIO. « Inter magistrum me dat caballos cum nerbo… ».

MALFATTO. Quando andarasti al monte e quando.

PRUDENZIO. Non vòi tacere, arcula de ignoranzia, latibulo di sporcizie, cloaca di fecce? Ma non curare, che tu non ascenderai mai alla catedra di Minerva.

MALFATTO. Merda pur a te.

PRUDENZIO. S'io vengo lí…

MALFATTO. Ché non ci venite? Fateve conto ch'io non saperò andar in un altro luoco!

PRUDENZIO. Vade ad furcas.

MALFATTO. Te venga pur a voi. Ha' visto che bella cosa, che non vol ch'i' canti?

LUZIO. Come se declinano le coregge, mastro?

PRUDENZIO. Hoc: crepidum, crepidi.

LUZIO. « … ego tiro crepida ».

MALFATTO. Che diavolo descrezione è la vostra? Tutto oggi volete parlare voi.

PRUDENZIO. S'io piglio un lapide, te farò… E tu fa' ch'un'altra volta non me meni tanto el capite.

MALFATTO. Volete ch'io ve llo meni io, mastro?

PRUDENZIO. Audi, Luti. Io te prometto quod, si bene facies, de non te dare equo un anno e farte, questo Santo Nicola, signore.

MALFATTO. Ed io ancora voglio essere.

PRUDENZIO. Tu non tanti facis mihi e…

MALFATTO. Aspettate pur un poco, ché voglio andare per un'altra frusta ancor io.

PRUDENZIO. Luzio, vatene dentro e incumbi alla lezione; ché statim te lla verrò a repetere.

LUZIO. Misser sí.

PRUDENZIO. Vien qui, tu altro. Credi ch'io te voglia dar un buon cavallo, se non sarai ubidiente?

MINIO. Eh! mastro, perdonateme. Che volete ch'io faccia?

PRUDENZIO. Io ti prometto de non ti dar mai cavallo se me farai un piacere. Altrimenti, pènsati che quolibet die io te nne darò uno.

MINIO. Eh! non me date, ch'io ve voglio portar una buona cosa.

PRUDENZIO. Io voglio che tu parli a tua sororia da parte nostra.

MINIO. Oh! sapete, mastro…

PRUDENZIO. Sta' cheto; lassa parlare al preceptore; non lo interrompere. E reportame la risposta.

MINIO. Lo voglio fare, misser sí.

PRUDENZIO. E noi te vorremo bene.

MINIO. E sapete ch'ella è bella? ché, quando va al letto, ogni sempre dorme con meco ed è bianca e roscia.

PRUDENZIO. Orsú! non piú. Torniamo dentro.

SCENA III

RITA, CECA.

RITA. Caminamo, de grazia, Ceca, sorella, ch'ell'è tardo; e so che si lamentará di me c'ho temporeggiato troppo al ritornare.

CECA. E che si lamenti. E poi è ella sí frettolosa che vogli esser servita sí presto?

RITA. Io gli ho discrezione alla poverina per ciò che sta sola.

CECA. Come sola? Non ha ella sí gran compagnia di monache?

RITA. Gli è vero. Ma assai li par di esser sola quando non vi sono io.

CECA. Questo si è tanto piú quanto si trova in questa terra ove persona non ci cognosce. Ma ditemi un poco, madonna Rita: avete marito voi?

RITA. Io non so quello che me abbia, a dirti el vero.

CECA. Come che non lo sapete?

RITA. Dirotelo. Io mi maritai, son giá parecchi anni, e il signore nostro lo mandò in non so che sua bisogna forsi un mese doppo ch'io el tolsi; e, d'allora in qua, mai piú non l'ho veduto e temo ch'il sia piú tosto morto che no. Questo è el premio, sorella, che si acquista in servire i signori.

CECA. De grazia, non ne ragioniam piú; ché non sta bene a noi, che siam femine, parlare de' fatti loro.

RITA. Anzi, a noi sta bene, ché diremo el vero e saremo scusate per pazze.

CECA. Non fate cosí, che ci potrebbono fare qualche cattivo scherzo.

RITA. E che ci potreben mai fare?

CECA. Che, eh? Dio ce nne guardi! Qualche trent'uno.

RITA. Non ci faccino peggio che questo.

CECA. O farci sfregiare, o una cosa simile, ché non mancano loro, no, i sviati e i ribaldi, ché, Dio grazia, ne hanno le case ripiene; ch'i buoni non vi vogliano stare per ciò che sono inimici del vizio.

RITA. Ragionamo de altro, adunque.

CECA. Voltiamo questo canto qui, ché scortaremo un pezzo di strada.

RITA. Sí, de grazia, ch'io non vo' che me veda colui ch'esce di quella casa.

CECA. E perché? chi è?

RITA. Non vedete ch'ell'è Curzio, el mio patrone?

CECA. Dite el vero. Leviamoci presto de qui.

SCENA IV

CURZIO, RUFINO, TRAPPOLINO, PRUDENZIO, MALFATTO.

CURZIO. Quanta gioia, quanto piacere io sento, pietoso Amore, nol posso dire: ché, di me non obliandoti, nel mezzo di cotante miserie, di me sei stato ricordevole; di sorte che la mia donna, mossa a pietá, con darmi speranza di futuro bene, adolcisce l'amare mie angosce. E, per questo, i' sono sforzato d'impegnarmi e gli amici e quanti cognosco per compir alla promessa della dote ch'io gli ho fatto; insino a tanto che l'infelice mia consorte mi mandi qualche danaio da casa. Cosí mi levarò pur di sospetto di quel pedantaccio ignorante: ché non mi maraviglio se non di chi gli crede a tali uomini che sono piú tosto l'infamia del mondo che no. E forsi che questi che fanno el gentiluomo non se gli cacciano in casa? Ma non curare, che gli trattono bene! ché, non che li figliuoli e le figliuole, ma le mogli ancora li vituperano; e, ancor che non sia el vero, se ne vantono, ch'è il peggio. Ma, se questo sciagurato me ssi rintoppa innanzi, gli vo' dir quattro parole a mio modo e avvertirlo che si rimanga di andargli, ogni notte, a cantar all'uscio, se non vole ch'io li armi le schiene di bosco. O Rufino! Non odi?

RUFINO. Signore, che volete?

CURZIO. Chiama qui fuori Trappolino. Spedisciti, ch'ell'è tardo. Idio, aiutami in tanta necessitá in quanta ora me trovo.

RUFINO. Ecco Trappolino, patrone.

CURZIO. Fa' che tu non eschi di casa e, se venissi persona a dimandarmi, fatti lasciare l'imbasciata. Háime inteso?

TRAPPOLINO. Signor sí.

CURZIO. Vieni con esso meco, Rufino, ch'io voglio ch'andiamo a vedere se potessimo trovare qualche danaio in presto da chi sia.

RUFINO. Io dubito che noi perderemo i passi, se andamo a speranza de altri.

CURZIO. Come! Perché?

RUFINO. Perché, oggidí, non si trova amico se non finto e a pena ve lli prestaranno sul pegno, non ch'altro.

CURZIO. Tu dici el vero; ma la necessitá mi sforza de andar alla mercé loro. Ma dimmi un poco: dove dici tu che ti aspettará colei?

RUFINO. Ve l'ho pur detto: in casa di Filippa.

CURZIO. Orsú! Si vole che, come io sia in Banchi, tu te ne vadi fino a casa sua e che gli dichi ch'io non mancarò di andarvi per ogni modo stanotte e portarogli e' dinari.

RUFINO. Cosí farò. Ah! ah! ah!

CURZIO Che hai? di che te ridi?

RUFINO. Rido, ché voi gli volete dare quelle cose che sète incerto di avere.

CURZIO. Come ch'io ne sono incerto? Anzi, el contrario.

RUFINO. Bastaria che voi li avessevo in cassa.

CURZIO. Per mia fé, che, se io fossi certo d'andargli accatando, son per trovargli. Vadi el mondo come vole, che me delibero de non gli mancare.

RUFINO. Sí, se potrete. Andate pur lá.

CURZIO. Io poterò per certo. Non sai tu che Amore fa i seguaci suoi ingeniosi e scaltriti? Ma maledetto sia el signore ch'è cagione d'ogni mio danno!

RUFINO. Patrone, è pazzia a dolersene; per ciò che di continuo ci sono nove materie da dire sui fatti loro e non trovo persona che se ne lodi.

CURZIO. Non dire cosí, ché ve nne sonno pur assai de quegli che della loro servitú godeno. E, fra gli altri, el Belo, a cui la mercé del signore Francesco Orsino de Aragona abate de Farfa gli ha donato possessione e campi: di sorte ch'egli, per quello ch'io ne intendo, l'ha fatto ritornare ai studi da' quali, per essere poco pregiati appresso dei piú, allontanato se n'era.

RUFINO. Ed io l'ho inteso molto da molti lodare; ma un fiore non fa primavera.

CURZIO. Che val dir quel menar di capo e quel maravigliarsi che tu fai? A che pensi?

RUFINO. Penso ch'io v'ho voluto dire una cosa parecchie volte e sempre mi è uscita di mente.

CURZIO. Qualche bugia deve essere, però.

RUFINO. O bugia o veritá, io vel vo' dire. Io mi sono giá imbattuto doi volte in una giovane che tutta a madonna Fulvia vostra si rassomeglia.

CURZIO. E dove l'hai tu incontrata?

RUFINO. Qua giú, che usciva de un certo monestero, e parvemi ch'ella avessi la Rita con esso lei.

CURZIO. In che luogo sta quel monestero? come se chiama?

RUFINO. Questo sí ch'io non so.

CURZIO. Sai perché ch'io tel dico? Per ciò ch'io ancora mi sono giá parecchie volte imbattuto in una che tutta alla Rita se assomiglia; e, ogni volta che l'ho incontrata, me ssi è fugita dinanzi. Ma sai che si vuol fare? che, come te ssi rimbatte piú innanzi, tu gli va di dietro; ch'io me delibero di sapere s'ell'è dessa o no.

PRUDENZIO. Impulsant campanicule.

RUFINO. Patrone, ecco il vostro rivale.

CURZIO. Guarda cera de furfante! Andiamogli incontro.

PRUDENZIO. Bonum est quod ego, bono è ch'io vada sino alla Eccellenzia della Magnificenzia del reverendo illustrissimo mio unico perpetuo domino colendissimo del Monsignor mio; e partim andarò sino al barbitonsore. Non odi, villico, stabulatio, Malfatto?

CURZIO. Stiamo a udire che dice.

PRUDENZIO. Famulo, non odi? Vien qui, ché te voglio parlare.

MALFATTO. Che volete?

PRUDENZIO. Vieni con noi sino all'emporio, ché mercaremo doi o tre oboli idest baiocchi de fercule per prandio.

CURZIO. Addio, maestro.

PRUDENZIO. Oh! Bona dies, magnifici mei patronissimi. Quomodo se habent, come stanno le Signorie Vostre?

MALFATTO. Oh mastro! Questo è quello che me dette li quatrini: neh vero, quell'uomo?

PRUDENZIO. Taci, se non che tu me farai convertire la ultrapelia in ira.

MALFATTO. E me disse ancora che voi sète un poltrone.

PRUDENZIO. Vade ad furcas, prosuntuoso.

CURZIO. Oh che piacer è questo!

PRUDENZIO. Io multum miror che la Eccellenzia Vostra abbi machinato contro di noi alcune parole ingiuriose come un seminario di mali.

CURZIO. Io non so che cosa ve abbiate.

PRUDENZIO. Dico che non convenit ad uno experto viro laniare el prossimo.

CURZIO. Voi mi parete un pazzo. Che dite?

PRUDENZIO. Benché, noi non le stimiamo; perché «esto forti animo cum sis damnatus inique».

CURZIO. Voi fate un gran sgranellare di latini, oggi!

MALFATTO. O quello! Dame un altro quatrino: vòi?

PRUDENZIO. Basta. Non è questo el rigore de l'onestá.

MALFATTO. Vo' melo dare, che te raccusarò lo mastro?

PRUDENZIO. Metue magistrum tu et fac ut sis sermone modestus.

MALFATTO. Parlate, parlate con lui che ve responderá.

PRUDENZIO. Non se fa cosí, bone vir.

CURZIO. Io credo che ve sognate. Con chi l'avete?

PRUDENZIO. Questo nostro famulo ne ha referto che voi avete detto contro a l'onor nostro molta ingiuria. Ma ambula cum bonis et cetera.

CURZIO. Che ambula? che ambula? Non ve vergognate, voi, che fate el savio, el grave, e andate tutta notte cantando, facendo le mattinate, come se fossivo un giovane de venti anni?

MALFATTO. È vero, sí, e ce porta lo…

PRUDENZIO. Non lo credi, no, che te farò cedere locum maiori?

MALFATTO. Misser no, che non lo credo.

PRUDENZIO. Bone vir, io credo che la Magnificenzia Vostra in tutto e per tutto e al tutto…

RUFINO. State a udire.

PRUDENZIO. … sia da bene, savia e morigerosa e che la Spettabilitá Sua non cogitet ch'un paro nostro, disciplinato nelle liberale arti, incumba a simile vanitá: quia «vanitas vanitatum et omnia vanitas»; ché sapete bene che, nocturno tempore, vanno li vespertilioni.

CURZIO. Ve possino venire a voi queste biasteme!

MALFATTO. Ámenne. El cancaro ancora!

PRUDENZIO. Odite. «Nulli tacuisse nocet, nocet esse locutum».

CURZIO. Oh! che bestia è questa?

PRUDENZIO. E sí ve dico che «litem ferre cave».

CURZIO. Che volete che cavi? che volete che cavi?

MALFATTO. Dice lo vero. Non ce è da cavare qua.

CURZIO. Sapete che dico a voi? che, se non sète savio, ve farò vedere che voi non sapete la santa croce.

MALFATTO. Non è vero, misser. La sa; e me ha imparato a me sino al «be a ba, be e be».

CURZIO. Voi non respondete? Molto state sí cheto.

PRUDENZIO. Non rispondo quia «contra verbosus noli contendere verbis». Ma non crediate ch'io sia tanto aspernato o reietto perché portamo la toga, ché me resolvo che non me farete fuori del debito della iustizia e di quanto comandano le municipali leggi sacrosante iustiniane imperatorie per ciò che siamo in una delle inclite cittá del mondo.

CURZIO. Voi fate un gran bravare.

PRUDENZIO. Et in casu necessitatis me ne andarò ad osculare i piedi al clavigero portitore cellicolo, idest del beatissimo pontifex maximus, in nel suo proprio solio, quando pur me farete fuori del debito; bench'io non multi facio le parole vostre degne di reprensione.

MALFATTO. O quello! Addio. Fit!

PRUDENZIO. Ché noi non siamo per comportarci alcun dedeco, idest mancamento.

MALFATTO. Mastro, volete far alle pugna con lui, che ve terrò la cappa? Voi me guardate? Dico da vero, alla fé.

CURZIO. De grazia, mastro, avertite ai casi vostri.

PRUDENZIO. Non bisogna minarci per essere catrafatto con l'ense ferreo e col pugione e col famulo satellito. Ma voi non sapete ancora quanto conato abino le umane lettere appresso i buoni discipuli concivi e munifici che sono copiosi di famuli e di gladiatori.

CURZIO. Questa pecora gridará tutt'oggi.

MALFATTO. O quello delli quatrini! che fai?

PRUDENZIO. Testor Deum ch'io voglio andare nunc nunc al tribunale della Reverenzia dil Monsignor Governatore e dechiarargli pedetentim tutte le superfluitá che se fanno in questa terra alli omini del Gimnasio romano.

RUFINO. Leviamocelli dinanzi, patrone.

MALFATTO. Olá! Ve ne andate? non volete che venga, eh?

CURZIO. Sí: ché non camini?

PRUDENZIO. Per corpum meum…

MALFATTO. Ché non dite a misser che me lassi venire?

PRUDENZIO. Ah lingue viperee, defloratore de l'onor nostro!

CURZIO. Non li respondere. Lassalo gridare.

PRUDENZIO. Vien qua tu, sciagurato, insolentissimo. Vattene un poco dereto a coloro e vedi ove entrano e viennimelo subito a referire e guarda che tu non gli sperda.

MALFATTO. Non me sperderò, no. Ma dove dite che vanno?

PRUDENZIO. Lá giú per quel trivio.

MALFATTO. Non erano se non doi, recordatevene bene, e non tre.

PRUDENZIO. L'è vero. O camina, adunque; e torna tosto.

MALFATTO. Quanto tosto volete ch'io venga? com'un sasso?

PRUDENZIO. E camina, poltronee! ch'in questo mezzo voglio andare ad informandum curiam.

MALFATTO. Oh mastro! oh mastro! Io non li veggio.

PRUDENZIO. Va' correndo giú per quella via.

MALFATTO. Per quale? per questa?

PRUDENZIO. Per quella, sí.

MALFATTO. Be', io voglio andar da quest'altra, io.

PRUDENZIO. S'io vengo lá, te farò… Aspetta!

MALFATTO. Ecco ch'io vo, sú.

PRUDENZIO. Corri, che te rompi el collo!

MALFATTO. Olá! Aspettateme, ché lo mastro vole che ve venga dereto. Mastro, caminano troppo forte. Io non li posso agiognere.

PRUDENZIO. E va', sciagurato! E io partim andarò al bibliotecario ancora a riscuotere un chirografo, idest un libellulo scritto de nostra mano repleto d'ingeniosi e acuti e morali detti.

SCENA V

MINIO, REPETITORE, LUZIO.

MINIO. Valete.

REPETITORE. Andate savi.

LUZIO. Valete.

REPETITORE. Non fate stultizie.

LUZIO. Alla fé, che lo mastro m'ha fatto molto male.

MINIO. E che vo' dire che non me ha dato a mi?

LUZIO. Non te ha dato: che ne so io?

MINIO. Te vorria dir una cosa; ma non vorria che me raccusassi.

LUZIO. Non te raccuso, alla fé.

MINIO. Sí! sí! Non te lo credo.

LUZIO. E dimmelo, de grazia: vòi?

MINIO. O giurame prima, per la croce de Dio benedetta, de non me raccusare.

LUZIO. Vedi, per questa croce, che non dirò niente.

MINIO. Sai che me ha ditto lo mastro? che dica a mia sorella che lui li vole essere marito.

LUZIO. E halla vista sòreta, esso?

MINIO. Sí, che l'ha vista. E che li vol dare certe cose bone, ch'esso ce vorria venir a dormire stanotte.

LUZIO. E tu vo' gnelo dire?

MINIO. Ma se gnello voglio dire? Lo credo! ché m'ha promesso de non me dar delli cavalli, se io gnello dico, veh!

LUZIO. Ed è bella sòreta?

MINIO. Sí, ch'è bella; e tutta notte ioca con meco.

LUZIO. E a che iocate?

MINIO. Iocamo alle sculacciate. E madonna grida.

LUZIO. Quanto vòi stare a tornare alla scola, tu?

MINIO. Come averò pranzato. Non me vòi venir a chiamare?

LUZIO. Sí, voglio. Aspettame, sai?

MINIO. Son contento. Addio.

LUZIO. Addio. Bon dí.

ATTO IV

SCENA I

MASTRO ANTONIO, REPETITORE.

MASTRO ANTONIO. Mi non ghe posso catare ancuo negun che me chiami acciò che mi ghe faza una maitina; e no ghe ho invidia a persona del mondo per saver fare una romanesca, una pavana. Alle guagnelle de san Zacaria, che voio andare a casa de sto mistro di scola che m'ha pregao che me ghe vaga a veerlo, ché vol che ghe faga no so che servizio. Questa e' xe la porta. Voio battere. Tic, tac. E' non responde ninguno. Tic, toc.

REPETITORE. Quis est ille?

MASTRO ANTONIO. Bon dí, bon dí, misier.

REPETITORE. Bene veniat, bene veniat.

MASTRO ANTONIO. A son mastro Antonio. Trin, trin.

REPETITORE. Quid postulatis?

MASTRO ANTONIO. Misier sí, a son vegnuo a posta.

REPETITORE. Che volete?

MASTRO ANTONIO. Viegno da spasso da San Roco.

REPETITORE. Tu recto tramite rispondi.

MASTRO ANTONIO. Sí, sí, misier sí. Che se n'è fatto de quel vostro mistro?

REPETITORE. Non est in domi.

MASTRO ANTONIO. Che desi? Non ghe sè in Roma?

REPETITORE. Dico domi, domi.

MASTRO ANTONIO. Missier sí. E' me l'ha be' ditto che ghe vegna.

REPETITORE. Oh che pulchra festa ch'è questa!

MASTRO ANTONIO. De grazia, vegnite un pochetin abasso, ché voio parlar con Vostra Magnificenzia.

REPETITORE. Aspettate, ché nunc venio.

MASTRO ANTONIO. El voio aspettar a ogne modo. Trin, trin, trin.

REPETITORE. Bona dies, Dominatio Sua.

MASTRO ANTONIO. A no sudo, no; a so' be' stracco. Che xe del mistro?

REPETITORE. È andato a negoziare.

MASTRO ANTONIO. Ello me disse che mi vegnesse a zercarlo.

REPETITORE. Se volete venire in casa, fate voi.

MASTRO ANTONIO. Sí, de grazia: ve nne priego.

SCENA II

PRUDENZIO, MALFATTO.

PRUDENZIO. Promitto, per Deum vivum, che, non tam cito me vide la eccellentissima e reverendissima Signoria del monsignore illustrissimo signor governatore della ortodoxa fede e militante, phano episcopus e gastigatissimo censore e defensore acerrimo della iustizia, quod Deus conservet incolumen, col quale avemo contratta gran familiaritá, che statim me chiamò a sé e postulòmi ch'andassi negoziando. Io gli exposi la temeritá dell'inconsiderato uomo e il flagizio perpetrato contro di noi come se fossimo qualche incognito viro. Io voglio formarli un libello de ingiuria, certo che la Sua Signoria mutuo amore me ssi è offerto. Ma pare che hodie sia certo un lustro intercalare per noi; ché lo infido bibliotecario non ha manco compita l'opera per la quale gli ho saluti inanzi venti quadranti. Sed ecce a punto Malfatto che torna. O Malfatto!

MALFATTO. Me par sentir… Oh! è lo mastro. A fé, site lo ben venuto.

PRUDENZIO. Et tu quoque.

MALFATTO. E dove è lo coco, patrone? Io non lo vego.

PRUDENZIO. Io dico, tu ancora.

MALFATTO. Basta: tant'è. E voi dove sète stato, patrone?

PRUDENZIO. Fui al bibliotecario e al loco gerente del Monarca, idest Governatore, ch'è nostro alumno.

MALFATTO. Sono uomini questi che dite o sono bestie?

PRUDENZIO. Sei bestia insolentissima tu, bubone!

MALFATTO. Che ne so io? Me par che voi non parlate come li altri, però.

PRUDENZIO. Che altri? che altri? ché tutti li altri insiemi non sanno la decima parte de quello che sanno le mie crepide. Ma dimmi: andasti tu dietro a coloro?

MALFATTO. A chi coloro?

PRUDENZIO. Com'a chi? A quelli ch'io te dissi.

MALFATTO. Non me avete ditto niente, ch'io me ricordi.

PRUDENZIO. Come! Non te dissi che tu andassi dietro a quelli che ti avevano dati quelli nummi?

MALFATTO. Io non so che vi vogliate dire.

PRUDENZIO. Ah furcifer! demente! stolido!

MALFATTO. Aspettate, ché me cci voglio un po' pensare.

PRUDENZIO. Videbis che tu te serai posto a ludere in qualche fòro o in qualche latere con le alee; ed io, cerciorandomene, te scoriarò vapulandote con la scutica, ché me delibero che tu non ludi se non col troco.

MALFATTO. Patrone, voi sète errato, ch'io non me nne ricordo.

PRUDENZIO. Dic parumper: non te aricordi tu?

MALFATTO. Ben sapete che misser sí.

PRUDENZIO. Cur non desinis? perché non me lassi parlare?

MALFATTO. Perché io so quello che volete dire, però.

PRUDENZIO. Ché non lo dici, adunque?

MALFATTO. Che volete che dica?

PRUDENZIO. Se sei andato dereto a coloro.

MALFATTO. A chi coloro? a quali? Fate che ve intenda.

PRUDENZIO. Guarda viro impudente, latibulo di spurcizia! Dime un poco: chi te dette quelli quatrini?

MALFATTO. Quello che ve disse poltrone.

PRUDENZIO. Andastegli tu dietro?

MALFATTO. Misser sí.

PRUDENZIO. Hai tu saputo chi sono?

MALFATTO. Misser sí: sono doi omini.

PRUDENZIO. Ben sai che non sono doi equi. Vedi risposta de insipido! Non vedesti tu almeno dove entrorno?

MALFATTO. Misser sí: in una casa, che ha una porta, quando si vole entrare dentro; e desopra ha poi le finestre e lo tetto ancora con li focolari.

PRUDENZIO. Oh insulsissimo Cerbero ignorante! Povera Cerere e Bacco, a chi lascieno epulare sí infelicemente i frutti loro! Ecco che noi locuti sumus con monsignore, col vertice, col culmine della sacrosanta iustizia: e non arò fatto nihil; e terrammi Sua Signoria un mendace a posta di questo bubalo!

MALFATTO. Fu! Perdonateli, ché è scapato da esso, da questo rotto straciato.

PRUDENZIO. Ah temerario! Non sai tu che «non sis ventosus si vis bonus esse videri»? Et stringe os et crepitum.

MALFATTO. Però l'ho fatto: per non crepare.

PRUDENZIO. Taci, inconsiderato adolescente! È possibile che non ti aricordi ove stia quella casa dove che sono entrati coloro?

MALFATTO. Chi ve l'ha detto?

PRUDENZIO. Dicemolo noi.

MALFATTO. Be', lassateli dire, ché non dicono lo vero.

PRUDENZIO. Se non guardassimo che tu sei un demente, te imparariamo a rispondere ai maggiori tuoi piú cautamente che non fai.

MALFATTO. Voi avete torto a dir villania a lui. Ma sapete dove sta quella casa, mò che me ricordo?

PRUDENZIO. Dove? ché non parli?

MALFATTO. Sta de qua. Vedete; guardate bene.

PRUDENZIO. Di' pur via; séguita.

MALFATTO. No, no: io ho sbagliato. Sta da quest'altra banda; e poi se volta cosí, e cosí, e se agionge poi lá, e vassi poi in qua. E cosí la trovate.

PRUDENZIO. Questo sarebbe uno enucleare.

MALFATTO. Oh! tengo ben a ment'io, sí.

PRUDENZIO. Tanto magnassi mai tu! Ma so che tutte le opere mie me succedono oggi extra votum.

MALFATTO. Patrone, bon dí. Io voglio andar a micto.

PRUDENZIO. Va', che te fragni le crure! Chi demone me ha posta questa bestiola dinanzi? ché nihil prodest, idest che non giova el monirlo né di gastigarlo; immo, de male in peius. Ma suo danno, quia sibi luditur.

SCENA III

CECA, MINIO, IULIA, LIVIA.

CECA. Oh che l'è da bene! oh che l'è la buona giovane, quella madonna Fulvia! Per certo che, ora ch'io ho inteso el tutto, li ho quella compassione che alle povere bisognose e vedove aver si deve. Grande infelicitá l'è certo la sua, ché né vedova né maritata se gli può dire; ma molto… Domino! Esce di casa piangendo Minio; e madonna è sulla porta.

MINIO. Eh! mamma mia, perdonateme.

IULIA. Vien qui, giottoncello! Piglialo, Ceca.

CECA. Che cosa hai tu fatto?

MINIO. Eh Dio! aiutame, Ceca mia.

IULIA. Menalo qui da me; piglialo pei capegli.

MINIO. Eh Dio mio!

CECA. Vieni; non dubitare: ché non ti fará male, no.

IULIA. Giottone, ti credevi fugire, eh? E dove volevi andare, ch'io non ti trovassi?

MINIO. Oimè! perdonatemi, mamma mia.

CECA. Madonna, non piú, di grazia. Vanne dentro tu.

MINIO. Oimè! Oimè!

IULIA. Aspetta pur, ché queste non son nulla a rispetto di quelle che io ti darò. Vanne pur lá.

CECA. Che cosa ve ha egli fatto?

IULIA. Ma non si curi, quel pedante tristo, sciagurato!…

CECA. E chi, madonna? el maestro?

IULIA. El maestro, sí.

CECA. E per che cosa?

IULIA. Come per che cosa? El mando alla scola perché gl'impari le vertú, e quello mel fa un ribaldo!

CECA. Madonna, oggidí non si può la persona fidar di nessuno; e i maestri propri son quegli che gli fanno viziosi e cattivi, che meritarebbono el fuoco, la maggior parte.

IULIA. El poltrone l'ha mandato perché gli scusi ruffiano.

CECA. E con chi?

IULIA. Con la sorella, con Livia. Forsi che con meco?

CECA. A pena el posso credere.

IULIA. L'è pur cosí. Ma non si curi!… Basta. S'io non ne lli impago, laméntise di me. Gli darò una tal moglie che forsi gli rencrescerá. Bastaria ch'io non ci stessi per nulla in casa.

CECA. E che gli ha mandato a dire, se Idio vi guardi?

IULIA. Io non l'ho possuto troppo bene intendere, ché gli parlava all'orechio; ma io me delibero che me dica ogni cosa a suon di frustate.

CECA. Madonna, quanto piú presto ve lla levate de casa è meglio per voi.

IULIA. Non piú: basta. Qualche cosa será.

LIVIA. Madonna, Minio non vol star cheto.

IULIA. Digli che, se io vengo di sopra, ch'io gli romperò el capo.

LIVIA. A punto piglia lo bastone per darme, vedete?

IULIA. Andiamo dentro.

CECA. Fuggi, Minio, ch'ecco madonna. Livia, ditegli che fugga, ché madonna nol trovi.

LIVIA. Di' quanto vòi, che nol credo. Che sí, fraschetta, tristarello!…

SCENA IV

MALFATTO, PRUDENZIO, MASTRO ANTONIO.

MALFATTO. Sí, sí, domane! Aspettate pur. Sempre me mandano fuori e io prometto di servirli come meritano. Me nne voglio andar a spasso tutto oggi e non ce voglio tornare per un pezzo. E, se vole delli patroni da comandare, che se lli trovi. Guarda compagni de merda! Vole ch'io vada a chiamare un certo scolaro che vole che venga adesso. Sí, sí! È bello e venuto.

PRUDENZIO. Adhuc sei lí, eh? Non odi, insolente famulo, no?

MALFATTO. Oh! crepa, crepa, ché non te voglio respondere.

PRUDENZIO. A chi parlo io? Olá!

MALFATTO. Sí, sí! oh qua!

PRUDENZIO. Malfatto, vòltate, che te volti el carnifice! O Malfatto! o poltrone!

MALFATTO. Che volete?

PRUDENZIO. Dilli che venghi statim, ché l'aspettamo a prandio.

MALFATTO. Sí; misser sí.

PRUDENZIO. E che verrá tempestive.

MALFATTO. Ve possa cader sul capo la tempesta!

PRUDENZIO. Vade cito et rede.

MALFATTO. Me voglio metter a correre acciò che non me veda.

PRUDENZIO. Non odi, no? El poltrone, agricola, foditore, rustico ha passato el domo e non l'ha postulato. Certo ch'in qualcun altro suo negozio se andará ad occupare. Ma…

MASTRO ANTONIO. Volemo andare a disnare, misiere? ché sè ora.

PRUDENZIO. No, no. Aspettiamo un poco questo puerculo nostro discipulo, nunzio di certe nostre imbasciate.

MASTRO ANTONIO. E sè molto lontano?

PRUDENZIO. In capite a questa via deambulatoria. E ho necessitá di parlar con lui sotto un brieve epilogo prima che saturi el ventre; ché non posso contrastar alla petulanzia carnale e cagion è che vadia con la barba squalida e faccia con li oculi un profluvio di lacrime.

MASTRO ANTONIO. Questa sè una mala trama.

PRUDENZIO. Io el so, ché contremisco totiens quotiens cogito nelli estuanti desiri per li quali son leso che me fanno come un viro furente. Pur, nihilominus, speramo che, mediante el buon naturale discorso che ci troviamo e la sua buona e larga natura educata di continuo nei laboriosi studi, posser ridurla in uxoria fede, quia est viro potens. E cosí, refrigerando e sanando le vulnere ch'ho nel corculo e nello èpate, in rubeo si divertirá el colore busseo.

MASTRO ANTONIO. Non bisogna battere, ché sè averta la porta.

PRUDENZIO. Non posso stare ad exemplificarvi, al presente. Andate, ch'io ne verrò statim.

MASTRO ANTONIO. Stasí pur quanto che ve piase.

PRUDENZIO. Costui se cogita d'essere un vafro uomo et è un ideota che non degerisce le parole nostre. Io temo che quello insolente iactabundo del servo, poco obsequente ai nostri precepti, non incumba a qualch'altro spurcissimo negozio e il nostro, per ingiusta oblivione, non interlassi.

SCENA V

CURZIO, RUFINO, TRAPPOLINO.

CURZIO. Se io avessi guadagnati oggi mille scudi non mi sarebbono stati sí cari, ancor ch'io ne abbia di bisogno, come mi è stato caro lo aver provato costui: ch'ogni volta che m'incontrava, e tu lo sai, sempre voleva ch'io lo affannassi; e ora, che de picol summa di dinari l'ho richiesto, tu l'hai sentito quello che m'ha risposto e con quanti preambuli e paroline si è scusato.

RUFINO. Patrone, io ve ricordo che, se piú ne avessivo rechiesti, piú ne arestivo trovati ch'el medesmo vi arebbono detto.

CURZIO. Vedi che 'l nostro banchieri ne ha aiutato inel bisogno con una sola polizza delle nostre senza altri contratti o cavillazioni.

RUFINO. Io me ne sono maravigliato, ché sogliano questi mercanti essere sufistichi, schizzinosi, ch'a pena si fidono di loro stessi nel conto del danaio.

CURZIO. Acceleramo i passi; andiamone in casa, acciò ch'io me possa mettere in ordine per ritrovarmi stanotte con la mia Livia.

RUFINO. Eh! patrone, perdonatemi. Se voi ve fossete guidato per mio conseglio, buon per voi!

CURZIO. Come! Che buon per me? che aresti fatto?

RUFINO. Avria mandato per madonna Fulvia.

CURZIO. E pur lá ritorni.

RUFINO. Ci torno, signor sí; e ritornaròvi sempre, ché voi non avete però causa di volergli male.

CURZIO. Io, per me, non gli vo' male. Tu hai torto.

RUFINO. Assai mal me pare che li vogliate, quando la tenete lontana da voi. Ma ricordatevi che lei è donna ed è bella e giovane; e, se voi che sète uomo non possete contrastare ai stimoli della carne, che fará lei ch'è di piú fragile e di piú debole complessione?

CURZIO. Rufino, tu vedi ch'io volentieri ascolto i consegli tuoi. Ma ti priego che, per adesso, non ne parliamo. Lasciamo passare un po' qualche giorno ancora; e poi qualche cosa sará.

RUFINO. Eimè, che non ne farete altro! per ciò che, se nne avessivo voglia, lo farestivo senza aspettare che vi uscissino questi danari delle mani, che sono perduti per voi. E non so che vi conoschiate piú in costei ch'in vostra moglie; ché, per mia fé, val piú un'ogna del piede suo che non tutta lei insieme.

CURZIO. Tu non la vedi come la vedo io: però parli cosí. Poi io non me la piglio per moglie.

RUFINO. E' si dice ben cosí; ma…

CURZIO. Ma che?

RUFINO. Voglio dire ch'ell'è peggio: ché le moglie patiscono di quelle cose che non patiscono le concubine. Oltre che vi pelano e vi tirano sino al sangue. Ed èvvi vergogna e danno all'anima e alla borsa.

CURZIO. Non posso io desordinare una volta?

RUFINO. Fate voi. Vi priego che non l'aviate per male, ché l'amore ch'io vi porto mel fa dire e la pace ch'io vorrei vedere in casa vostra.

CURZIO. Credolo. Ma vattene innanzi e fa' oprire.

RUFINO. Signor sí.

CURZIO. Certo, gran sorte è stata la mia a trovar, in tanto bisogno, questi denari.

RUFINO. Tic, tic. Costui deve essere in cantina.

CURZIO. Non ci deve essere in casa, neh vero?

RUFINO. Io non vel so dire. Tic, tac.

CURZIO. Ripichia, ripichia meglio.

RUFINO. Che volete pichiare? Questo è un perder di tempo. Tic.

CURZIO. Fatti conto ch'el deve dormire.

RUFINO. Piú presto deve esser morto.

CURZIO. Di questo ne sei cagione tu.

RUFINO. E perché io?

CURZIO. Perché, se tu lo gastigassi qualche volta, sarebbe piú avertito alle cose mie che non è. Ma non piú. Va' e ripichia un'altra volta; e, se non risponde, gitta giú la porta, ch'io voglio entrare per ogni modo.

RUFINO. Cosí farò. Tic, tac, toc.

TRAPPOLINO. Chi è lá? chi è lá? chi è lá?

RUFINO. Malan che Dio ti dia!

TRAPPOLINO. Te dia el malanno e la mala pasqua a te. Oh patrone! Perdonateme.

CURZIO. Non ti curar, forca! Vieni, vieni a oprire.

TRAPPOLINO. Adesso.

CURZIO. Che domino poteva far costui?

RUFINO. Fatevi conto ch'el dove a merendare.

CURZIO. Fa' che tu gne llo ricordi la prima volta ch'erra, se tu me vòi esser amico.

TRAPPOLINO. Buon dí. Entrate.

CURZIO. Non curar, giotton, forfantello!

SCENA VI

MALFATTO, CECA, IULIA.

MALFATTO. Vedi mò che non ho voluto fare a modo del patrone, che li venga el cancaro a lui e a chi lo vede adesso! Ma, alla fé, che li voglio stracciare tutti li libri. Ben li trovarò io, sí; ché non li giovará de averli nascosti sotto lo letto. Oh! Adesso sé che voglio achiamar quello che lui me disse che sta qua dentro. Tic, tac.

CECA. Chi è la?

MALFATTO. Oh! Simo noi. Tic.

CECA. Chi è? non odi?

MALFATTO. Te l'ho pur detto. Tic, tac.

CECA. Perché pichi? non odi, no?

MALFATTO. Perché me piace. Toc, tac.

CECA. Che sí che ti trarò d'un sasso nel capo!

MALFATTO. Voglio bussar per dispetto tuo, adesso. Tic.

CECA. Non l'odi, poltrone, no?

MALFATTO. Sí, sí. Tic. So ch'io voglio bussare.

CECA. Tu non me credi, Malfatto, neh vero?

MALFATTO. Che vòi? che hai? Oh Ceca mia bella!

CECA. Che vòi? che adimandi?

MALFATTO. Volevo stare con meco abracciato.

CECA. Tira alle forche! Lèvate de lí, dico! Aspetta pur ch'io venghi giú con un bastone, ché ti farò fugir piú che di passo.

MALFATTO. Oh diavolo! Non fare, ché te voglio bene, io; e poi me cci ha mandato lo mastro.

CECA. E che vole? Ché non lo dici?

MALFATTO. Vole quel cotale che sta qua.

CECA. Come se chiama?

MALFATTO. Lo mastro lo sa.

CECA. O va' e fattelo redire.

MALFATTO. Non voglio, ché lui me ha ditto ch'io venga qua a pichiare. Tic, tac, toc.

CECA. L'è la festa del pichiare, questa. Tu non lo credi, eh?

MALFATTO. E che hai paura? che spezzi l'uscio? la porta?

CECA. Aspetta, aspetta el bastone.

MALFATTO. Eh! non far. Odi, odi. Oh Ceca!

CECA. Che vòi?

MALFATTO. Eh! non fare, de grazia, ché lo mastro me cci ha mandato.

CECA. Malan che Dio te dia, a te e a lui!

MALFATTO. Ascolta un poco. Oh madonna quella! Chiama un po', de grazia, quel cotale.

CECA. Che cotale? Perché non parli?

MALFATTO. Vorria che tu me chiamassi quello che mena.

CECA. Tu devi esser imbriacco.

MALFATTO. Per questa croce, che non ho ancora beuto. Odi, odi; non te spartire. Oh cancaro! S'io torno al mastro e dico che non me hanno voluto aprire, me dará delle staffilate. Io so che voglio bussare. Tic, toc, tac.

CECA. Tu non lo credi, neh vero?

MALFATTO. Che vòi ch'io creda?

CECA. Che te farò andare a pichiare altrove.

MALFATTO. Oh! non sono stato io.

CECA. E chi è stato?

MALFATTO. Uno ch'è andato lá giú adesso. Ma, de grazia, chiamame un poco quello che mena, ché lo vole lo mastro.

CECA. Tu vòi forsi Minio.

MALFATTO. Sí, cancaro li venga!

CECA. Venga pur a te. Aspetta, ch'ora lo chiamo.

MALFATTO. Vedi che pur me ssi è ricordato lo nome. Oh che poco cervello! Gran cosa ch'io non tengo troppo bene a mente! e sono cosí grande!

CECA. Dove sei? non odi? Oh poco-in-testa!

MALFATTO. Che volete?

CECA. Adesso viene abasso.

MALFATTO. Sí, sí, venga pur, ché lo mastro l'aspetta ed è un pezzo che sta in ordine.

IULIA. Chi è quello che vole Minio?

MALFATTO. Simo noi, ché lo vole lo mastro.

IULIA. Dilli, al tuo maestro, che l'è un gran sciagurato.

MALFATTO. È ben vero, sí.

IULIA. E è un tristo e un gaglioffo; e che, se non è savio, gli farò romper el capo.

MALFATTO. Sí, che non possa sedere. Oh! che l'è gran poltrone, alla fé.

IULIA. Basta. Digli pure ch'io non voglio che mio figliuolo vadia piú alla scola sua; ché non vo' che mel faccia un ruffiano.

MALFATTO. È ben ruffiano, sí.

IULIA. Chi?

MALFATTO. Minio, quello vostro.

IULIA. El malanno che ti venga! Io dico el maestro tuo.

MALFATTO. Dico ben cosí io ancora. Ma diteme un poco, o madonna: perché non me date moglie?

IULIA. E che ne vòi far della moglie, bestia?

MALFATTO. La voglio abracciare nello letto, cosí, vedete.

IULIA. Fatti in lá, poltrone! se non hai voglia ch'io ti dia d'una pianella inel mostaccio.

MALFATTO. Perdonateme; ch'alla fé, io ve llo vorria fare per bene. E chi dorme con voi, la sera, quando è notte?

IULIA. Vedi adimanda scioca! Per certo, che questa di costui è una dolce pazzia. Non ci dorme nessuno. Perché?

MALFATTO. Perché sí. Non avete paura delli lenconi, voi, quando state sola?

IULIA. Hai tu altro che dire?

MALFATTO. Madonna sí; un'altra cosa. Ma io non vorria che voi me dessivo delle pugna.

IULIA. Pènsati che, si tu non parli saviamente, ch'io te lle darò; e saranno buone.

MALFATTO. Be', io non ve la voglio dire. Cagna! Voi sète troppo crudela.

IULIA. Orsú! Vatti con Dio, va'; e di' al tuo maestro che, se non è savio, io gli farò fare uno scherzo che se pentirá d'avermi mai cognosciuta.

MALFATTO. Orsú! Basta: bon dí. Io li farò l'imbasciata e diroli che quello che mena lo volete per voi.

IULIA. Dilli quello che ti pare.

MALFATTO. Me aricomando alla Vostra madonna Signoria. Alla fé, per questa croce, se non che me venga mò mò lo cancaro, se non sono giá innamorato de essa. Oh! che l'è bella, diavolo! Oh! quasi che vorria che me mandassi spesso, lo mastro. Ma vorria che me facessi dormire con essa; ché so che me vole bene, ché, quando me parlava, me guardava e rideva. E chi sa? Forsi che ancora me pigliará per moglie; e essa me sará marito; e faremo delli figliuoli; e essi poi me chiamaranno tata, missere; e io compararò uno asino per andare a cavallo a spasso; e montarò in groppa a essa; e faremo a dormire tutti doi l'uno sopra l'altro. Oh cagna! Me pare d'averla giá in braccio e de basarla e de mozzicarla e de voltarme con essa, cosí, per lo letto e tirare delle corregge, cosí. Fu. Oh che possa venire lo male francioso allo patrone! Mò che me sse ricorda, se aranno magnato ogni cosa. Oimè! oimè! la parte mia! Oimè! che non me averanno lassato manco della menestra.

ATTO V

SCENA I

MALFATTO, PRUDENZIO, REPETITORE.

MALFATTO. Non ce voglio andare. Andatece voi, che ve venga el cancaro! Non site boni se non a farme caminare. Che diavolo de furfanti! che mai non me lassano star un'ora in pace. O aspettate, che adesso vengo. Vederá ch'io sarò piú matto che pazzo a non ce andare.

REPETITORE. Iam vesperascit, domine. Chi è lá giú? Olá!

MALFATTO. Sí, sí! grida pure!

REPETITORE. Chi è al nostro hostio? Olá! Non odi, no? Come hai nome?

MALFATTO. Non te lo voglio dire.

REPETITORE. Sei Malfatto nostro?

MALFATTO. Sono el malanno che Dio te dia!

REPETITORE. Domine, el vostro insolente pincerna si è prostato in terra come un cadavero.

MALFATTO. Hai veduto che sempre «va' via, va' via»?

REPETITORE. Oh Malfatto! Fuggi, ch'ecco el maestro.

MALFATTO. Alla fé, ch'io ho deliberato trovarme un altro garzone, ché non voglio stare piú con lui.

PRUDENZIO. Ove è questo abominevole mostro prosontuoso? Non odi, no?

MALFATTO. Che volete?

PRUDENZIO. Perché non vai dove t'ho detto?

MALFATTO. Perché non me piace.

PRUDENZIO. Adunque devi stare con noi e devemoti stipendiare e hai da fare a modo tuo, eh? No, no, no!

MALFATTO. Sí, sí, sí! Hai visto che festa è questa?

PRUDENZIO. Malfatto, vien qua. Audi duo verba.

MALFATTO. Non voglio verberare io, ché sono scorrociato.

PRUDENZIO. Tu hai torto. Audi parumper che…

MALFATTO. Sí! Sempre me date la baia.

PRUDENZIO. E quando mai te avemo data la baia noi?

MALFATTO. Ogni sempre mai che parlate, ché non ve intendo.

PRUDENZIO. Audi. Testor Deum omnipotentem…

MALFATTO. Ve possa venire a voi!

PRUDENZIO. Taci: lassame parlare.

MALFATTO. Sí; ma non biastemate.

PRUDENZIO. È il diavolo, a parlare con simili ignoranti che non comprendono i sensi delle litterali parole. Ma vacci, se Dio te guardi la grazia nostra; e dilli che venga subito, ché avemo da parlarli de cosa importante.

MALFATTO. Volete che venga solo o accompagnato?

PRUDENZIO. Come piacerá a lui.

MALFATTO. E che volete? che dorma con voi?

PRUDENZIO. E va', che tu sei una bestia! Ma odi. Guarda qui.

MALFATTO. Non voglio piú guardare. Ma, come torno, voglio far un altro patto con voi e, se non ce vorrete stare, ve nne andarete con Dio.

PRUDENZIO. Vien presto, sai?

MALFATTO. Verrò quando parerá a me.

SCENA II

FULVIA, RITA, MINIO, CECA.

FULVIA. Caminiamo, Rita, ché l'è notte.

RITA. Vostro danno! Perché non siamo andate piú a bon'otta?

FULVIA. Non te ll'ho io detto? per non m'imbattere in Curzio, ch'io non volevo che me cci vedessi entrare.

RITA. Madonna, ecco la porta. Aspettate, ch'io pichiarò.

FULVIA. Sí, de grazia.

RITA. Idio ci aiuti. Tic, toc.

MINIO. Chi è lá?

RITA. Amici. Simo noi.

MINIO. E chi sète voi?

RITA. Siamo quelle donne. Ècci madonna Iulia in casa?

MINIO. Si, è. Aspettate, ch'io la chiamarò.

RITA. Orsú! Va' presto e spácciati.

FULVIA. Che te ha detto?

RITA. Ho parlato col figliuolo. Adesso fará l'imbasciata.

FULVIA. Acòstameti qui, ché non paia ch'io stia sola.

CECA. Chi è quella che vole madonna?

RITA. Siamo noi. Oh Ceca!

CECA. Perché non entrate, che l'è aperto?

FULVIA. E che ne sapemo noi?

CECA. Dio vel perdoni. Che bisogna che voi pichiate, che sète patrona de ogni cosa?

FULVIA. Per grazia de madonna Iulia, non perché noi lo meritiamo.

RITA. Andate lá sú e pregamo Dio che ce la mandi buona.

SCENA III

PRUDENZIO, REPETITORE.

PRUDENZIO. De grazia, propter amorem Dei, fate che veniat cito.

REPETITORE. Lassate pur far a me.

PRUDENZIO. E racomandateme all'amita sua.

REPETITORE. Lassate pur fare l'excusatorie a me.

PRUDENZIO. Caminate, ché iam est multum sero.

REPETITORE. Non ve conturbamini. Tornate pur dentro.

PRUDENZIO. Audiatis, domine. Oh missere!

REPETITORE. Che piace alla Magnificenzia Vostra?

PRUDENZIO. Potrete dirli, se pur nol volessino lassar venire, che voi lo soziarete incolumen e senza lesione alcuna.

REPETITORE. Io ve ho inteso. State sano e vivete in tripudio, ch'io ve llo condurrò omnino e portarovi risposta sodisfattoria.

PRUDENZIO. M'aricomando alla loquacitá vostra.

REPETITORE. Gran cosa che li uomini discreti e periti nelle lettere, e che hanno il cerebro ripieno di lucubrazioni e di prischi exempli, e nelli anni adolescentuli sieno stati discordanti alle blandizie e faci veneree e alle lascivie e crapule, in nella senectu fiunt bis pueri! Ma tedet mihi che 'l mio precettore urisca inelle viscere come arida stipula. Ma será buono ch'io volti giú per questa viècula acciò che piú presto me espedisca da questo negozio.

SCENA IV

CURZIO, RUFINO, CECA.

CURZIO. Sollécitati, esci qui fuori. Giá son presso che tre ore e non será se non buono ch'io me invii pian piano in lá. Oh Amore! Guidami, non mi lasciar perire in sí profundo pelago de incomparabile leticia; per ciò che, senza l'aiuto tuo, sono come fragile barca vicin'al porto da contrari venti combattuta. Per certo, ch'al desiderio ch'io al presente me trovo, non pur una brevissima notte come fia questa ch'in somma felicitá trapassar aspetto, ma quella che Ercole produsse, o se ella fosse piú lunga che l'anno, una minima parte de l'ardor mio potrebbe estinguere. Costui tarda pur assai a venire. Oh Rufino!

RUFINO. Eccomi, signore.

CURZIO. Vieni presto, ché l'è tardo.

RUFINO. Or ora sarò da voi.

CURZIO. Deh! camina; non tardar piú, de grazia.

RUFINO. Eccome. Andiamo.

CURZIO. Hai tu avertito colui che stanghi bene la porta?

RUFINO. Signor sí. Ma io saria de parere che voi me lassassivo ritornare, ché non sta bene la casa sola.

CURZIO. Sta ben pur troppo, ché non stiamo in terra de ladri.

RUFINO. Non è questo: ma la commoditá suol fare li uomini e le donne cattive.

CURZIO. Be', io non voglio restar di notte fuori di casa senza te; e tanto piú in simili luoghi. E che so io se mi bisognassi cosa alcuna?

RUFINO. E che volete che vi bisogni?

CURZIO. E che ne so io? Solo Idio sa el secreto dei cuori umani.

RUFINO. Fate adunque come vi pare, ch'io, a dirve il vero, ho caro di trovarmi sempre appresso di voi; ch'accadendo, vi possa mostrare l'affezione ch'io vi porto.

CURZIO. Io ne sono chiaro pur troppo, Rufino; e, dallo esserti io patrone in poi, tutto el resto è commune fra te e me: e tu lo sai. Ma dimmi, or che me ricordo: porti tu i danari?

RUFINO. Signor sí: eccoli.

CURZIO. Avertisci che non ti caschino.

RUFINO. Non dubitate. Ma, da qui a un poco, potrete ben dire che vi sieno caduti.

CURZIO. Anzi, farò conto de avergli alogati in buona parte. E dicoti che, se io avessi meglio el modo che non ho, che non mi pensarei mai di spendere el mio danaio bene se non quando io lo dessi a qualche donna: ché certamente le sono l'onor del mondo per le quali l'uomo, argumentando, a perfetta cognizione delle bellezze del cielo suol venire. E quale è quel cuore sí efferato, sí inumano che, drizzando gli occhi in un bel volto, che, ad un'otta, non perda l'ardire e l'orgoglio e riverente non se gli inchini e voluntario pregione non se gli renda? Io, certo, le amo, le adoro, le reverisco, per ciò che sono degne d'essere sopra tutti li altri uomini essaltate e reverite mediante i buoni effetti che da loro ne segueno.

RUFINO. Patrone, voi lodate quello che molti biasmano.

CURZIO. Questi sono simie, che paiono e non sono uomini; e, per la spurcizia dei vizi ch'egli hanno, inei quai cercano di sotrarre altrui per aver piú compagni acciò piú licito gli sia el peccare, maliziosamente parlano. Ma questo non è maraviglia, ché dicono male de Idio, ben lo possino ancor dire di esse. Non ti niego che non ve nne siano delle cattive; ma in tanto numero ch'è!… Ma par che voglia el destino che de quella sola ribalda che è al mondo cento scrittori ne parlino come se loro mancassi altra materia da scrivere. Ma non se dice però de tanti uomini infami e vituperosi che si scriveno; e, se di questi che oggidí viveno se nne facessi istoria, si legerebbono altre che Pasifae e che Medee! Poi non si accorgeno questi tali maledici che, biasmando le donne, biasmano loro stessi, essendo la donna, come vogliano i savi, la metá di noi. Ma vattene innanzi; e pichia e fa' oprire. E questi tali dichino tanto che crepino.

RUFINO. Ámenne. Aspettate qui, se vi pare.

CURZIO. Odi. Oh Rufino!

RUFINO. Che vi piace?

CURZIO. A che modo gli dirai, che non se nne accorghino li vicini?

RUFINO. Giá mi ha detto Filippa ch'io dica che sono el fratello della Ceca.

CURZIO. Or vanne, adunque. Odi un'altra cosa.

RUFINO. Dite: che volete?

CURZIO. Tu sai che avemo inteso che quel pedante poltrone, ogni notte, gli viene a cantare a l'uscio non so che canzoni. Vorrei che tu gli rompessi el capo in qualche bel modo, che non si accorgessi chi fussi stato, se pur ci viene stanotte.

RUFINO. State de bona voglia, che vi prometto di servirve.

CURZIO. Va'! Pichia, adunque.

RUFINO. Io so certo che costoro ci deveno aspettare. Tic.

CECA. Chi è la giú?

RUFINO. Sono el fratello della Ceca vostra.

CECA. Chi sei? Antonio?

RUFINO. Madonna sí.

CECA. Tu sia el ben venuto. Aspetta, ch'io ti vengo a oprire.

RUFINO. Zi! Patrone, acostatevi.

CURZIO. O Dio, aiutame.

RUFINO. Acostatevi piú alla porta.

CURZIO. Che te hanno detto?

RUFINO. Adesso vengono a oprire.

CECA. Entrate, olá! Non fate rumore.

SCENA V

LUZIO, MALFATTO, TRAPPOLINO, PRUDENZIO.

LUZIO. Guarda pur che tu non me dichi le bugie, che il mastro me voglia e poi non sia lo vero.

MALFATTO. Alla fé, non dico bugie io. E me llo ave ditto ancora quell'altro che stava con quello, con esso.

LUZIO. Ché diavolo non parli che sii inteso?

MALFATTO. Orsú! Andamo, che te llo dirò poi domattina, fraschetta!

LUZIO. Oh! tu me dice villania, sciagurato!

MALFATTO. Me ciancio con teco. Ma andiamo un poco qua, ché voglio parlare a un mio compagno.

LUZIO. Come ha nome?

MALFATTO. Non te llo voglio dire. Ecco la casa. Aspettateme voi, Luzio, ché voglio bussare.

LUZIO. Sí; ma spácciate.

MALFATTO. Tic, toc. Oh de casa! oh nesciuno! oh quello! Tic. Non ci deve essere, neh vero?

LUZIO. No, che non ci deve essere. Andiamo con Dio.

MALFATTO. Lassame bussare tre altre volte, prima. Tic. E una.

TRAPPOLINO. Chi è lá? Olá!

MALFATTO. Amici. Simo io.

TRAPPOLINO. El cancaro che te venga! Che vòi?

MALFATTO. Ché non respondi tu, adesso?

TRAPPOLINO. Respondi pur tu, ché parlo con teco.

LUZIO. Che dici tu? Olá!

MALFATTO. Che vòi che dica, o Luzio?

LUZIO. Dilli quello che ti pare. Che me fa a me?

TRAPPOLINO. Chi sei tu che hai bussato?

MALFATTO. Sono un certo omo da bene.

TRAPPOLINO. Tu devi avere cattivi vicini, neh vero?

MALFATTO. Sí, sí, sto qua vicino; e vorria parlare a colui che sta qua dentro.

TRAPPOLINO. Chi è? come ha nome?

MALFATTO. Non me ssi aricorda a me. O Luzio, come se chiama quello ch'io te dissi ch'io cercavo?

LUZIO. E che ne so io? A me lo dimandi? Tu non hai buon cervello.

MALFATTO. Dove sei andato? Olá! Tic.

TRAPPOLINO. Che te manca? non me vedi?

MALFATTO. Sai? lo vorria, adesso che me aricordo, quello delli quatrini.

TRAPPOLINO. Se non me dici altro, tu starai di fuori.

MALFATTO. Non cognosci tu quell'uomo grande cosí, che me parlava ieri?

TRAPPOLINO. Tu devi essere qualche pazzo.

LUZIO. Tu l'hai a punto indovinato.

MALFATTO. Sí, sono la merda!

TRAPPOLINO. O va' magna, va'. Bona sera.

MALFATTO. Te nne vai, eh? Odi, di grazia; ascolta un'altra volta.

TRAPPOLINO. Che vòi, prosontuoso?

LUZIO. Ché non li gitti qualche pitale nel capo, si lo hai? E levatello dinanzi.

MALFATTO. Eh! non far, de grazia, fratello: vòi?

TRAPPOLINO. Son contento. Ma dimme: chi adimandi?

MALFATTO. Adimando che vorria parlare di portante a lui.

TRAPPOLINO. Chi diavolo sei tu?

MALFATTO. So' quello. Eh! de grazia, non me buttare la testa nello pitale.

LUZIO. Se tu non vieni, te lassarò Malfatto, veh!

MALFATTO. Aspetta un altro poco. Oh quello! E tu come te chiami?

TRAPPOLINO. E che ne vòi tu sapere, bestia?

MALFATTO. Lo vorria sapere perché, quando te trovassi, te vorria dire «bon dí».

TRAPPOLINO. Te llo dirò poi, un altro giorno di questa stimana.

MALFATTO. Che sta male lo patrone tuo, eh?

TRAPPOLINO. E va' alle forche, sciagurato!

MALFATTO. Orsú! Basta. Adunque recomandami a esso e dilli ch'a lui sempre sempre…

LUZIO. E camina, se vòi! Non vedi tu che parli col vento, ché colui s'è partito?

MALFATTO. Be', io volevo che facessi l'imbasciata a quel compagno.

LUZIO. Tutti te lli fai compagni. Non te vergogni? Ma va' bussa, va'.

MALFATTO. O aspetta un poco. Tic, toc.

PRUDENZIO. Chi impulsa l'hostio?

LUZIO. Ego sum, domine.

PRUDENZIO. Bene veniat. Oh! Magnifico misser Antonio, fate introire il nostro discipulo.

MALFATTO. Vedi mò che t'ho ditto lo vero?

LUZIO. Oh! tu sei el buon figliolo! Ma sta' cheto, de grazia.

MALFATTO. Voglio parlare per dispetto tuo, voglio parlare; misser sí, che voglio parlare. Vedi mò!

SCENA VI

REPETITORE.

Non credo ch'un equo con tanta velocitá avessi itinerato al domo del condiscipulo come sono andato io per gratularmi al precettore. E non l'ho trovato: ché me hanno referto i domestici suoi di casa ch'ipse e una col famulo nostro illico s'era partito e che andavano per questa strada vicino allo emporio. Non so dove mel possa reperire e maravigliomi che, s'ell'è cosí, de non lo avere obviato. Pur temo che quello insolente non l'abbia condutto in qualche cauponaria e che non emino per i quadranti qualche vasculo de mulso, per il che se ebriaranno. Ed è un peccato, ché quel Luzio è di bona indole e di capacissimo ingenio; ma quel furcifer è bene uno inepto ai litterali costumi e facilmente potrá conducerlo a qualche precipizio. Ho deliberato, benché mi sia laborioso, prima che torni a casa, andare sin qui a questo caupone e concernere con ocello de línceo se ivi stanziassino, per ciò che Malfatto con ipso ha molta intrinseca familiaritá.

SCENA VII

PRUDENZIO, MASTRO ANTONIO, LUZIO, MALFATTO, RUFINO.

PRUDENZIO. Non avete ancora accordato quel vostro instrumento?

MASTRO ANTONIO. Misier sí. Andemo pur lá.

PRUDENZIO. Dove domino è questo nostro discipulo? A chi dico io? Oh Malfatto!

MALFATTO. Che volete?

PRUDENZIO. Vieni qua e fa' che animadverti.

MALFATTO. La berta me la date voi, alla fé.

PRUDENZIO. Taci. Va' e chiama quel pincerna.

MALFATTO. Che pincio volete?

PRUDENZIO. Luzio, Luzio. Dove è?

MALFATTO. È qua dentro.

PRUDENZIO. Be', dilli che venga qua de fuori.

MASTRO ANTONIO. Questo sè un bel fante per la Vostra Signoria!

MALFATTO. Mastro, io credo che lui non ce vorrá venire.

PRUDENZIO. Fa' quello ch'io ti dico e non voler indovinare.

MALFATTO. Io non indovino; ma voi vederete che lui non ce verrá.

PRUDENZIO. E pur lí torni, temerario insolente!

MALFATTO. Orsú! Vederete che sará come ho ditto noi.

MASTRO ANTONIO. Oh che gran piegora sè questa!

PRUDENZIO. Iuro, per Deum, ch'io non voglio piú che me stanzi in casa, ché l'è un morbo quotidiano.

LUZIO. Bona sera, magister.

MALFATTO. E io ancora bona sera.

PRUDENZIO. Tórnate dentro, tu; e fa' che non eschi di quello agniporto, se non vòi ch'io te…

MALFATTO. Non me bravate almanco.

PRUDENZIO. Tu nol credi che ti farò respondere con minor rigore che non fai? Spidisciti. Vanne de sopra.

MALFATTO. De sopra a chi volete ch'io vada? a voi o a questo compagno?

LUZIO. A me pur no.

PRUDENZIO. Va'; e serra quella porta, dico.

MALFATTO. Cosí?

PRUDENZIO. Va' prima dentro tu.

MALFATTO. Orsú! Basta. Non volete che venga con voi, ma io me nne voglio andare alla finestra.

MASTRO ANTONIO. Oh! cosí, fradello; va' presto.

PRUDENZIO. Questo insolente par che se burli di ciò che gli dicemo.

MASTRO ANTONIO. Andemo, mistro, ché sè tardo.

PRUDENZIO. Non avemo de andar piú innanzi. Sonate un poco el vostro liuto.

MASTRO ANTONIO. Sí, sí; lassate el cargo a mi. Trin, trin.

PRUDENZIO. Oh bono! oh bono! Cantate alquanto.

MALFATTO. So' ben qua, sí. Ve vego bene, sí.

MASTRO ANTONIO. Questo canto non sè troppo bono.

MALFATTO. Sto alla finestra. Oh Luzio! Non me senti, eh?

MASTRO ANTONIO. A dirò ben una canzona, s'el ve piase.

PRUDENZIO. Ve restarò con vinculo perpetuo de obligazione astretto.

MALFATTO. Voi non respondete? So' ben io, sí.

MASTRO ANTONIO.

Mi sé tanto innamorao in sta donna mia vicina, che me dá gran disciplina, che me vedo desperao. Gnao, gno, gao, gnao. Mi sè tanto innamorao.

MALFATTO. Voglio cantar io ancora. Gao, gnao, gao, gao, misser sí.

MASTRO ANTONIO. Oh! fa' si che tasa quel zotarello.

PRUDENZIO. S'io vengo lá sú…

MALFATTO. E come ce verrete, che la porta è serrata?

PRUDENZIO. Tu vederai se noi la apriremo poi.

MALFATTO. O provateci un poco.

PRUDENZIO. Per lo amor de Dio, sta' cheto.

MALFATTO. Son contento, sú!

MASTRO ANTONIO. Volete che canti piú?

PRUDENZIO. Non piú voi, per adesso, no; lassate canere a questo nostro discipulo. Di' sú, tu: spácciati.

MALFATTO. I' non posso stare cheto. Io voglio parlare. Che cosa fate? Olá!

LUZIO.

O quam puellarum pulcherrima tempore certe. Sis nostro liceat mi sequerere mei, heu.

MALFATTO. Oh! te dia Dio!

LUZIO.

Heu miurum miserum nihil mea carmina curas. Me mori cogis nempe profecto quidem.

MASTRO ANTONIO. Ancora sè piú? Oh! vo' siu piú doto d'Orlando.

LUZIO.

Parcere subiectis, quod cadunt alba ligustra: amen dico tibi certa rede coco.

MASTRO ANTONIO. Oh bono! oh bono! Hali composti la Magnificenzia Vostra questi strambotti?

PRUDENZIO. Al commando della Signoria Vostra.

MASTRO ANTONIO. Voi site lo primo omo del mondo.

PRUDENZIO. Per grazia vostra, non che lo meritiamo.

MALFATTO. So' stato a cacare, veh, Luzio! Adesso so' revenuto.

PRUDENZIO. Sonate, ché volemo cantare ancor noi.

MASTRO ANTONIO. Volete questa? Trin, trin, trin.

MALFATTO. Non me vòi respondere, eh, Luzio? Basta.

LUZIO. E sta' cheto, se vòi.

MALFATTO. Voglio cantare io ancora.

Afatte alla finestra dello muro e mostrame lo pertuso dello…

PRUDENZIO. Tristo sciagurato! S'io trovo un lapide….

RUFINO. Che sí che ve farò andar a cantare altrove?

MASTRO ANTONIO. Cancaro! Che tira i sassi?

MALFATTO. Ah! ah! Fate alle sassate, eh?

PRUDENZIO. Quid est? che cosa è questo?

MASTRO ANTONIO. Vedete che ne tragono.

RUFINO. Diavolo coglili!

PRUDENZIO. Fateve in qua, come dice el barbato Catone: «Rumores fuge».

MASTRO ANTONIO. Pel corpo mio, che m'ha sfracassao el liuto.

PRUDENZIO. Oh! tedet mihi. A questo modo se trattano li omini nelle vie publiche che stanno a pernoctare in gaudio, eh, latroni insolenti?

RUFINO. Aspettate un poco.

PRUDENZIO. Ah cane villatico! Latri da longa con li lapidi, eh? Trucidatore publico! pusillanimo!

MASTRO ANTONIO. Vo' tornarme indrio aziò non me daga qualche botta nel cavo.

MALFATTO. Vedete mò che starete de fora.

PRUDENZIO. Ah ribaldo! Vieni a oprire.

MALFATTO. Non ce voglio venir, adesso.

RUFINO. Domino che non ne coglia qualcuno!

PRUDENZIO. Oimè! oimè! Vieni a opri, sciagurato!

MALFATTO. Non ce voglio venire perché non dite da vero.

PRUDENZIO. Sí, dico, alla fede.

MALFATTO. E io dico de no; ché me date la baia.

PRUDENZIO. Alla fé, che, se tu non vieni a oprire, ch'io te farò el piú tristo uomo di Roma.

MALFATTO. Ecco, sú: ma sto incorato de non ci venire.

MASTRO ANTONIO. Mistro, pagheme el liuto, ché me lo avete fatto rompere.

PRUDENZIO. Non ne voglio se non quanto me dannará el rigore della inviolabile iustizia.

MASTRO ANTONIO. Mi no ghe so tante cose. Dico che me lo paghé, ché sè el dovere. E no guardé che mi sia vecchio, ché me farò ammazzare per el mio.

PRUDENZIO. De grazia, non ce bravate.

MASTRO ANTONIO. Tant'è: mi digo che son vegnuo a dar piasere a Vostra Magnificenzia e no vorria me ne vegnissi danno.

PRUDENZIO. Tu hai el torto.

MASTRO ANTONIO. No sè questa la via de pagarmelo.

MALFATTO. Ché non entrate? Adesso non avete prescia, eh?

MASTRO ANTONIO. Per la fé mia, che prima me darí el pegno.

MALFATTO. Dice el vero. Dateli un pugno.

PRUDENZIO. Audi, fili mi e fratello cordiale.

MASTRO ANTONIO. Mi no voio tante feste, digo.

PRUDENZIO. Non me andate, de grazia, tentando de pazienzia; ché, se ci revoltaremo, vi parerá che non è necessario de stare a vociferare qui come un demente.

MASTRO ANTONIO. Mentite pur vu; e, se no me paghé, farò…

PRUDENZIO. Odite. Non entriamo in su le parole altercatorie. Parlate equamente, e basta.

MALFATTO. Sta' a vedere che faremo alle pugna.

MASTRO ANTONIO. Vegní qua, digo: ché, se me guardi Dio, no fuziré in casa.

PRUDENZIO. Aspetta parumper. Luzio, va' correndo; e portame la scuriata, ch'i par nostri non sono per intrare in palestra con li baiuli.

MASTRO ANTONIO. Che balestre, che balestre, vecchio pazzo!

MALFATTO. Oh! cosí fate! Mò ve voglio bene, io.

PRUDENZIO. A questo modo, mastro Antonio? che ve ho amato da patre!

MALFATTO. Mastro, strappateli la barba.

PRUDENZIO. Aiuta qua, Malfatto.

MASTRO ANTONIO. I' no posso piú.

MALFATTO. Sí! Non me aiutate, quando fo alle pugna io.

MASTRO ANTONIO. A son fatigao troppo. Ove domino e' sè la bretta?

MALFATTO. Tirateve sú le brache, mastro.

PRUDENZIO. Nunquam, mai, edepol, me aria imaginato questo. Ma vanne dentro, tu; e portame quello ense.

MALFATTO. Dove?

PRUDENZIO. Per la machera.

MALFATTO. Misser sí, farete molto bene.

PRUDENZIO. E portame el clipeo ancora. Oh Luzio!

LUZIO. Che volete?

PRUDENZIO. Portame el clipeo e la machera nostra.

LUZIO. Misser sí!

MASTRO ANTONIO. Lagame andar con Dio.

PRUDENZIO. Te nne vai, eh? vecchio insano, pedicatore, mentuloso, inrumatore pieno di marisce! A questo modo alli uomini stipendiati dal Gimnasio romano, eh? Non curare, predone, depopulatore e turbatore della quiete nostra!

MALFATTO. Se nne è fugito, mastro, ché ha avuto paura. Ma avete relevato voi.

PRUDENZIO. Questa è la retribuzione che ci rendi, eh? adultero, mèco!

MALFATTO. Alla fé, mastro, che avete cantato molto bene, questa sera.

LUZIO. Ecco qua: tenete.

PRUDENZIO. Ah scevo uomo! latrina fetida! Te farò vedere se un par tuo, inquilino, agricola, incola et accola, transfuga della patria sua, uso andare famulando e rusticando per li tuguri alieni resarcendo el ventre fetido e exausto, debbia un par nostro, òrto nella cittá romulea, soppeditare, inmemore delli suffragi ricevuti nella nostra mansione.

MALFATTO. Ché non pigliate quella spada e correteli dereto? ch'io ve cci voglio lassar andare.

LUZIO. Se nne è andato. Non ce è, no, mastro.

PRUDENZIO. Non si curi! So bene che non ospitará piú in casa nostra.

MALFATTO. Meglio andamo a dormire, ché se cce passará questa stizza.

PRUDENZIO. Non me romper la testa.

MALFATTO. Che so io? Lo dico perché potrete cantare ancora domani a sera.

PRUDENZIO. Taci, se non vòi ch'io ti trasverberi con quell'ense.

SCENA VIII

REPETITORE, RUFINO, PRUDENZIO, MALFATTO.

REPETITORE. In fine, non est ordo ch'io possa trovar el famulo acciò che, per letificazione del maestro, potessi conclamare dinanzi la casa della dignissima sua Livia. E, perché è giá la seconda vigilia, non voglio andare perdendo piú el tempo in cercarlo quia pavesco de non me incontrare in qualche furone e che conatamente non mi spolii sino alla interulla, non che del palio: benché abbi, poco fa, obviati i berruari che vanno facendo le excubie nocturne purgando la cittá di cattivi commerzi. Ma chi è questo ch'esce de casa della nostra vicina? Será buono ch'io mi nasconda insino a tanto che se va con Dio.

RUFINO. Oh insperata, oh buona nuova! oh buono incontro! E chi pensato aría mai questo? Oh savio e prudente conseglio di donna!

REPETITORE. Io voglio avicinarmegli alquanto.

RUFINO. Va' tu e di' poi che le donne han poco cervello! E forsi che 'l patrone non si credeva godere con la figliuola di madonna Iulia?

REPETITORE. Che domino sará?

RUFINO. E chi pensato aría mai che la moglie del mio patrone… Ché son oggi mai piú di doi anni che la sposò contro a sua voglia per sodisfare ai prieghi del signore, che a un povero servitore son comandamenti…,

REPETITORE. Oh salata parabola!

RUFINO. … ed avevala lasciata ed erasene venuto a Roma…

REPETITORE. Caput mundi.

RUFINO. … per non la vedere, solo per far dispetto a chi ne era stato cagione ch'egli l'avessi sposata. Ma la buona moglie, sí come la necessitá suol fare astuti e scaltriti li uomini…,

REPETITORE. Cosí è, per Dio.

RUFINO. … venutagli dietro in Roma, in un monasterio di sante donne per insino al giorno de oggi è dimorata; indi tanto e' modi e 'l vivere del marito investigando è andata che, dello amor suo accortasi, ha saputo sí fare che sconosciutamente si è colcata con esso lui in casa de questa buona donna.

REPETITORE. Bonum! Prosit.

RUFINO. E, nel mezzo delli assalti d'amore, io, che dinanzi all'uscio della camera stavo a giacere, sentei un derotto pianto; e il patrone, con preghiere, con lusinghe, con sconiuri, sentivo che la cagione di ciò li adimandava. Ed eccoti, in questo, venire madonna Iulia con la sua serva e con el lume in mano; e, chiamatomi, mi dice:—Sta' sú, ch'io voglio che tu veghi stanotte cosa che te piacerá.—

REPETITORE. Non piacerá giá al precettore.

RUFINO. Cosí, vestitomi, entrai seco in camera: ove ella, chiamato per nome el patrone, gli disse ch'ella era per contentarlo di molto piú che lui non li avea saputo adimandare.

REPETITORE. Costui è molto loquace persona.

RUFINO. Cosí la giovane, ch'insino allora avea tenuta seco nel letto e per buona pezza sollazzatosi con esso lei, si era levata e, gittatosi sopra della camiscia un camorrino, comparí dinanzi a lui ch'a parlare con madonna Iulia posto si era. Ma non sí tosto egli la vide che, tutto smarrito, gridò:—Oh consorte mia!—

REPETITORE. El resto potemo pensare le Signorie Nostre.

RUFINO. Ed ella, gittatasegli ai piedi con un coltello in mano, pregavalo che piú tosto che della assenzia sua della vita privar la volessi.

REPETITORE. Buona nova deveno avere costoro.

RUFINO. Quivi sopragiunse la serva. E, ricominciato a pregare da capo, tanto ferno ch'il patrone, ch'immobile stava e a pena gli occhi pregni di lacrime da dosso levar gli poteva, quasi di se stesso vergognandosi, cominciò a commemorare le cose passate e, aducendo me per testimonio, l'abracciava e baciava…,

REPETITORE. Alla barba nostra!

RUFINO. … giurando e promettendogli che, si come ella per fede e per amore guadagnato se llo aveva, cosí voler sempre apresso di lei vivere. E cosí, revestitosi, dopo lungo ragionamento che hanno avuto insiemi con madonna Iulia, me hanno imposto ch'io venghi a chiamare questo maestro vicino loro. Credo li vorranno far sposare quella giovane, che 'l mal prode li faccia! Ma io non so se lo trovarò svegliato. Pur credo che sí. Non può essere che di quanti sassi che gli ho tirati non gne nne abbi còlto qualcuno. I' vo' pichiare, insomma. Tic, tac.

REPETITORE. Non so che me fare, se io interrogo a costui che cosa vole.

RUFINO, Certo saranno adormiti. Tic, toc, tac.

MALFATTO. Chi è lá abasso?

RUFINO. Respondesti pur, quando non potesti fare altro.

MALFATTO. Misser no. Non ce è altri qua che lui, esso e io.

RUFINO. Con chi l'hai? a chi respondi?

MALFATTO. Orsú! Bona sera.

RUFINO. Malanno che Idio te dia! Tic, tac.

MALFATTO. Che vòi? che hai?

RUFINO. Ècci el tuo patrone in casa?

MALFATTO. Che patrone? che patrone? Io non ho se non un compagno che sta qua dentro che se chiama lo mastro.

RUFINO. Va'; e digli che venga un poco abasso.

MALFATTO. Sí, sí: ce so' bello e andato.

REPETITORE. Io me lli voglio scoprire. Ch'adimandate voi?

RUFINO. Voglio questo mastro di scola che sta qui. Perché?

MALFATTO. Site doi adesso. E' ve veggo bene, sí.

REPETITORE. Volete forsi parlare con lui?

RUFINO. Sí, voglio.

REPETITORE. Aspetta, adunque. Oh Malfatto! Tic, tac.

MALFATTO. Che te manca a ti altro?

REPETITORE. Opri questo hostio.

MALFATTO. Non ce è oste qua. Sta piú lá abasso la taverna.

REPETITORE. E vieni a oprire!

MALFATTO. Aspetta, ch'io vengo adesso. Ah! ah! ah! ah! Te llo credevi, eh?

REPETITORE. Oh! tu sei el bello apro!

MALFATTO. Misser no, che non voglio aprire. Vòi che te llo dica meglio?

REPETITORE. S'io vengo de sopra, te farò un servizio che sarai memor di me.

MALFATTO. Fu! Alla faccia tua e del compagno ancora.

RUFINO. Oh poltrone, tristo, sciagurato! Vien qua giú! vien giú!

MALFATTO. Vien sú! vien sú, tu!

RUFINO. Apri la porta e vederai se io ci verrò.

MALFATTO. Son contento. Ma dimmi: hai naso freddo tu?

RUFINO. Diavolo ch'io trovi un sasso, stanotte!

REPETITORE. Eh! non fate, omo da bene. Eh! non fate, per amor nostro; ché l'è uno stolto e vi sarebbe detrimento a vapularlo.

RUFINO. Per lo corpo… Uh! Uhu!

MALFATTO. Non bisogna bravare, no, ch'io non ho paura, adesso che sto alla finestra.

REPETITORE. Io te accusarò bene, sí.

MALFATTO. O va' a fiume, va'; ch'io voglio ir al letto, io.

RUFINO. Va', che non te nne rizzi mai piú!

REPETITORE. Aspettate, ch'io pichiarò di sorte che me farò intendere allo maestro. Toc, tac, tic.

PRUDENZIO. Chi impulsa la porta? Olá!

REPETITORE. Ego sum, sono io.

PRUDENZIO. Sei forsi el nostro substituto del ludo litterario?

REPETITORE. Domine, ita.

RUFINO. De corpo a tutti doi!

PRUDENZIO. Chi è colui ch'è in vostro consorzio?

REPETITORE. L'è uno che vole…

RUFINO. Ve ho da parlare de cosa importante.

PRUDENZIO. E da parte de chi?

RUFINO. Venite a basso, se volete, che ve llo dirò.

PRUDENZIO. Adesso vengo.

REPETITORE. Che bona nova è questa?

RUFINO. Come lui viene abasso, lo saperete.

REPETITORE. Sono forsi cose d'amore?

RUFINO. De grazia, non me llo adimandate; ch'io non vel voglio dire, se non ci è lui.

MALFATTO. E io starò alla finestra a despetto tuo, sí.

PRUDENZIO. Bene veneritis. Che dite, magnifico?

RUFINO. Che me guadagno della buona nova?

PRUDENZIO. Voglio che ve lucrate, per amor nostro, un paro de chiroteche bene olenti.

RUFINO. Che cosa sono queste che me volete dare? Fate ch'io ve intenda.

REPETITORE. Un paro de guanti.

RUFINO. Che guanti! che guanti! Io mi maraveglio de voi.

PRUDENZIO. Dite pur, ché ve promettemo una bona bibalia.

REPETITORE. Cioè, una buona mancia.

RUFINO. Orsú! Date qua la mano. Livia, questa vostra vicina…,

MALFATTO. Olá! Levateve de sotto, ch'io voglio pisciare.

PRUDENZIO. Non vòi stare, no, ignaro, insolente?

RUFINO. … è vostra moglie.

PRUDENZIO. Oh fratello! Io te voglio essere servus servorum et osculartene le mani.

MALFATTO. Guardate ch'io tiro un sasso.

REPETITORE. Oh! tu sei el bel tristo!

PRUDENZIO. E quando sará questo, patrone mio?

RUFINO. Come quando? Adesso; or ora.

MALFATTO. Ecco lo sasso. Sentite? olá!

RUFINO. Fate stare cheto colui.

PRUDENZIO. Taci, tu. Ma che avete a far la Signoria Vostra con lei?

RUFINO. Son servitore de un suo parente el quale ora è in casa con esso lei e me ha mandato a chiamarvi; ché la madre e lui sono contenti che voi la sposiate stanotte per ogni modo. E, se voi sète savio, non vi ci pensarete per ciò che, se aspettate a domatina, ve nne potrestivo pentire; ché c'è altri che voi che la vole.

PRUDENZIO. Non, per lo amor de Dio. Fate che non si dia a nessuno, ché la voglio io.

MALFATTO. Oh de sotto! Volete che tiri?

REPETITORE. E va' in mal'ora, poltrone!

MALFATTO. Son piú omo da bene che non simo noi.

PRUDENZIO. Lèvate de lí.

MALFATTO. Non me nne voglio levare.

RUFINO. Orsú! Se volite venire, speditevi; se non, me nne voglio andare, ché l'è tardo.

PRUDENZIO. Odite, omo da bene. Noi ve ringraziamo: e certamente ch'un po' di suspetto è quello che mi tiene cosí ambiguo del venire; perciò che non è molto che simo stati assaltati qui nella strada da un certo maestro Antonio.

RUFINO. Venite, non dubitate; ch'io vi prometto de farvi far domatina la pace per ogni modo con esso lui.

PRUDENZIO. Io verrò, adunque. O sustituto nostro!

REPETITORE. Che ve piace?

PRUDENZIO. Portateme un poco quella toga rubea nuptiale.

REPETITORE. Ecco. Adesso.

MALFATTO. Cagna! Lassame fugire sotto el letto.

RUFINO. Be', dove è la mancia che me volete dare?

PRUDENZIO. Io vi prometto… com'è el nome vostro?…

RUFINO. Rufino.

PRUDENZIO. … eccellentissimo patrone mio singularissimo misser Rufino, voler componer in laude vostra uno epigramma.

RUFINO. Che volete che faccia de vostra composizione, io? c'ho piú caro un carlino che non quanti scartabelli si trovano, ch'io appena li so leggere.

PRUDENZIO. Un'altra cosa. Come voi farete figlioli, voglio che li mandate alla nostra scuola senza mercede.

RUFINO. E come volete ch'io li abbia, se non ho moglie?

PRUDENZIO. Be', quando la pigliarete poi.

RUFINO. Voi me avete bello e chiarito.

PRUDENZIO. State de buona voglia, ché non mancaremo de fare el debitoribus nostris.

RUFINO. Volete venire o no? Ve dirò el vero: voi me parete un altro. Bona notte.

PRUDENZIO. Eh! non partite, de grazia. Olá! Spacciateve.

REPETITORE. Ecco. Voltateve, ch'io ve llo metterò.

PRUDENZIO. Gratias ago. Non volete venire ancor voi?

REPETITORE. Signor sí.

PRUDENZIO. Me par mill'anni d'essere coram quel soavio, blandulo e niveo corpusculo.

MALFATTO. So' ben qua, sí. Non me avete trovato, no.

RUFINO. Caminate innanzi.

MALFATTO. Voglio venire io ancora, olá!

PRUDENZIO. Fa' che non ti parta da quel lime.

MALFATTO. Lima a vostra posta.

REPETITORE. Rèstate, ché adesso adesso retornaremo.

MALFATTO. No, no: io non voglio venire. Aspettateme pure.

RUFINO. Entratevene lá dentro e spacciatevi acciò possiate dar ordine stanotte alle nozze de domani. Io, in questo mezzo, voglio tornar a chiamare Malfatto, ch'io voglio menarlo per ogni modo con esso noi.

PRUDENZIO. Odite. Io ho pensato che, avendosi a far le nuptie, voi siate nostro architriclino.

REPETITORE. Come piace alla Spectabilitá Vostra. Ma speditevi; entrate dentro.

PRUDENZIO. Andate prima voi e fate intendere che noi venimo.

REPETITORE. Cosí farò.

PRUDENZIO. Or vederò pure quel rutilante e coruscante ocello e prenderò alquanti basioli da quella boccula ch'è un fonte scaturiente di nettare e palpitarò le eburnee e nivee manule fabricate, create, plasmate, cresciute et aucte et educate nel clustro sidereo dallo opifero Iove.

RUFINO. Camina, camina pure: non dubitare.

MALFATTO. E dove vòi ch'io camini?

RUFINO. A trovar lo mastro tuo che ha pigliato moglie.

MALFATTO. E tu come te chiami?

RUFINO. Me chiamo Rufino. E camina, se vòi, ché l'è tardo!

MALFATTO. Oh Ruffiano! Aspetta un poco.

RUFINO. Non posso, ché ho da fare.

MALFATTO. Va' pur, adunque, ch'io verrò bene, sí. Oh venga el cancaro! M'è uscito un piè della scarpa e non lo posso trovare. Alla fé, che voglio buttare via quest'altra ancora per dispetto. E, voi altri, bona notte e bon anno, eh? perché è corsa la festa, è fatto lo palio. Scuppiate tutti li piedi e le mani per allegrezza. Addio, addio.

NOTA

AVVERTENZE GENERALI

Per tutte le illustrazioni relative alle commedie che si raccolgono in questo e in altri successivi volumi rimando alla parte giá pubblicata della mia storia della Commedia italiana (Milano, Vallardi, 1911). Qui occorre solo avvertire che furono esclusi dalla presente raccolta tutti quegli scrittori (ad es. l'Ariosto e il Machiavelli) di cui dovranno ristamparsi le opere complete e quegli altri scrittori (ad es. il Cecchi e il Della Porta) la cui operositá drammatica fu cosí vasta e complessa da esigere una nuova edizione di tutto il loro teatro. La mia scelta si restringe a quei commediografi (o notissimi, come il cardinal da Bibbiena, o del tutto ignoti, come Niccolò Secchi) che non avrebbero potuto entrare per altra via, mentre di entrarvi avevano pur essi diritto, nella grande collezione degli Scrittori d'Italia. E, in tale scelta, mi sono attenuto a un doppio ordine di criteri: storici ed estetici. Ho badato, cioè, non solo all'intima bellezza delle commedie, ma anche a certe loro speciali caratteristiche o ai loro stretti rapporti con la vita e i costumi del Cinquecento o alla varietá delle tendenze che, pur senza uscire dalla tradizione classicheggiante, si manifestano in esse. Dalla Calandria del Bibbiena, composta in sugli inizi del secolo XVI, alla Donna costante del Borghini, venuta in luce al declinar del secolo stesso, v'è gran differenza di spiriti, se non di forme: ridanciana, quella, e giocosa, spensierata e cinica; questa, invece, seria, accigliata, lugubre, quasi preannunziatrice dei molto posteriori drames larmoyants. Per ciò, a rappresentare, in qualche modo, lo svolgimento storico del nostro teatro comico cinquecentesco, ho disposto le commedie che qui si pubblicano in ordine approssimativamente cronologico: solo approssimativamente, pur troppo, giacché di molte fra esse ignoriamo, fin ora, il preciso anno della composizione.

La punteggiatura, quanto mai arbitraria ed irrazionale nelle stampe del Cinquecento, ho rinnovato interamente. Del sistema ortografico nulla ho da dire perché è quel medesimo che fu adottato per tutti i volumi degli Scrittori. Piuttosto è necessario che io renda conto del come mi son comportato rispetto alle parti spagnuole o dialettali che si trovano assai di frequente nelle nostre commedie. Per questo lato (mi limito a discorrere dello spagnuolo, intendendosi che tutto ciò che dico di esso valga, benché in minor proporzione, anche per i vari dialetti italici), le stampe del Cinquecento ci offrono lo spettacolo di una scapigliata anarchia. Troviamo « io » e « yo »; « estoi » e « estoy »; « ablar » e « hablar »; « che » e « que »; « debaxo » e « debascio » e « debajo »; « magnana » e « mañana »; « engannar » e « engagnar » e « engañar »; « acer » e « hacer » e « azer » e « hazer » e « fazer »; « vieio » e « viejo »; « mui » e « muy »; « nocce » e « noche »; « allá » e « agliá »; « a » e « á »; « á chi » e « á qui » e « a qui » e « aqui » e « aquí »; « por que » e « porque »; « tan bien » e « tambien »; e cosí via discorrendo. Di fronte a tale moltiplicitá di espressioni grafiche che cosa dovevo fare? Dovevo ridurle tutte ad un'espressione unica e corretta e scrivere, per es., in tutti i casi, « yo », « hablar », « que », « mañana », « hacer », « muy », « noche », « allá »? oppure dovevo mantenere questo strano ma pur significativo disordine? Mi parve, in principio, che fosse miglior partito attenersi al primo sistema; poi, dopo avere assai dubitato e riflettuto, ho finito coll'appigliarmi al secondo. E le ragioni son queste. Innanzi tutto, le molte incertezze ortografiche possono esser proprie non tanto del tipografo quanto dello stesso autore e indicare la sua maggiore o minor conoscenza e la sua piú o meno esatta pronunzia dello spagnuolo; né è male, anzi è bene, che di questa sua conoscenza e pronunzia restino, anche nella nostra edizione, le tracce. In secondo luogo, può ben darsi che l'autore abbia inteso di usare promiscuamente parole italiane (per es. «io», «engannar») e parole spagnuole (per es. « yo », « engagnar » o « engañar »): sicché, quando si adoperasse una sola grafia, potremmo correre il rischio di allontanarci involontariamente dal suo stesso pensiero. Il Piccolomini, infatti, dichiara nelle sue Annotazioni alla Poetica d'Aristotele di avere «interposto», nell' Amor costante e nell' Alessandro, «qualche scena in lingua spagnuola italianata, accioché manco paresse straniera»[1]. Il quale italianizzamento dello spagnuolo, oltre che giovare a render piú intelligibile il discorso, era anche naturalmente suggerito dalla realtá; come possiam rilevare dalla seguente preziosa testimonianza del Bandello: «E queste parole ella disse mezze spagnuole e mezze italiane, parlando come costumano gli oltramontani quando vogliono parlar italiano»[2]. Ciò spiega, non pur le oscillazioni ortografiche di cui ho discorso fin ora, ma anche la presenza di scorrette forme grammaticali; che sarebbe, evidentemente, errore il voler correggere. Insomma, per questa parte, io ho creduto di dovere essere, quanto piú mi fosse possibile, conservatore: conservatore, dico, dell'anarchia.

1. Annotazioni di M. Alessandro Piccolomini, nel Libro della Poetica d'Aristotele; con la traduttione del medesimo Libro, in Lingua Volgare. Con privilegio. In Vinegia, presso Giovanni Guarisco, e Compagni [in fine l'anno: M.D.LXXV], p. 29.

2. Le novelle a cura di G. BROGNOLIGO, I (Bari, Laterza, 1910), 242 (nov. I, .16)

Ciò non di meno, qualche modificazione o correzione è stata pur necessaria. Non potevano, per es., nella scena 3 dell'atto II degl' Ingannati rimanere un « lamas hermosas mozas » e un « ellacca ob alcatieta » che sono stati rispettivamente ridotti a « la mas hermosa moza » e « vellacca alcahueta ». E cosí, nell'uso degli accenti e del « h » iniziale, se ho rispettato di regola le antiche stampe da me poste a fondamento di questa nuova edizione, e se ho scritto indifferentemente « á » e « a », « hacer » e « acer » ecc., me ne son però allontanato ogni qual volta la mancanza dell'accento o del « h » potesse ingenerare confusioni ed equivoci. Per es., un « alla » o un « alli », che sembrano preposizioni articolate italiane mentre sono avverbi spagnuoli, ho creduto bene di accentarli (« allá, allí »); un « resucitare » o un « andare » o un « ire », che possono prendersi per infiniti mentre non sono che la prima persona singolare del futuro, li ho pure accentati (« resucitaré, andaré, iré »); e ho fatto precedere dal « h » un « e » che, invece d'essere la nostra congiunzione copulativa, sia la prima persona singolare del presente indicativo del verbo spagnuolo « haber » (« he »); e altre simili modificazioni ho introdotte quando mi sia parso opportuno. Ma ciò non infirma punto il general criterio di conservazione al quale, come piú sopra dissi, mi sono, nel maggior numero dei casi, rigorosamente attenuto.

IL PEDANTE

Due edizioni ne registra il Mazzuchelli, entrambe fatte in Roma dai fratelli Dorico nel 1529 e nel 1538[3]; e la diligenza del Mazzuchelli era, di solito, cosí grande che difficilmente si può negar fede alla sua testimonianza[4]. Ma quella del 1529 né trovò il Salza, che alla commedia del Belo dedicò uno studio speciale[5], né sono riuscito a trovare io medesimo. Riproduco, dunque, la stampa del 1538 che ha questo titolo: El Pedan-| te Comedia de Fran- | cesco Belo romano[in fine: Stampata in Roma per Valerio Dorico & Loygi | fratelli Bresciani in Campo di Fiore | nel'Anno del nostro Signore. | M.D.XXXVIII ]. Delle ovvie correzioni di errori tipografici non rendo conto, come non ne rendo conto per le altre commedie. Ma sí noto alcuni pochi emendamenti congetturali che potrebbero anche non esser giusti e che, per ciò, devono essere sottoposti al giudizio dei lettori insieme con la lezione originale. A. II, sc. 3: «voglio andar… a trovar l'oste… e fare che me dia un quinto de vino e un pezzo de trippa» (ediz.: «… un quello de vino…»).—A. IV, sc. 1: «no ghe ho invidia a persona del mondo per saver fare una romanesca, una pavana» (ediz.: «… una romansecha una pauana»; e «romansecha» potrebbe anche stare per «romanza»).—A. V, sc. 6: «Ho deliberato… andare sin qui a questo caupone e concernere con ocello de linceo se ivi stanziassino» (ediz.: «… se uui stantissino»).—Non ho saputo, invece, emendare queste parole di Malfatto nell'a. II, sc. 5: «Che [veramente, l'ediz. ha, come altrove, «Ch'»] nascio si no pelle di te quello mastro». Il «Che nascio» parrebbe richiamarci a un interrogativo «Che ne so?»; e il «di te» potrebbe essere un «dite» («dite, quello mastro»): ma le parole mediane «si no pelle» non vedo proprio come possan correggersi. Per ciò riporto tutta intera la frase cosí come si trova nell'edizione.—E anche riproduco tali quali, persino nella punteggiatura, i tre distici latini cantati da Luzio nell'a. V, sc. 7. Non dánno noia, in essi, gli strafalcioni perché tali strafalcioni potrebbero essere stati voluti a bella posta dall'autore per canzonare la ridicola buaggine del pedante. Nessuna difficoltá ad ammettere che il « parcere » abbia qui funzione d'imperativo; e che il « rede » sia usato invece di « redi »; e, persino, che le due parole « mi sequerere » possano fondersi in un'unica parola « misequerere », grottesca deformazione di « miserere ». Ma il male è che, anche ammettendo ciò, non si riesce a cavar dal primo e dal terzo distico nessun chiaro significato. Vedano, dunque, i lettori di esercitare il loro acume critico e di risolvere per se medesimi quelle difficoltá che a me sono rimaste insolubili.

3. Gli scrittori d'Italia, II^2, 714.

4. La quale è indirettamente confermata da un errore dell'ALLACCI, Drammaturgia; che, alla col. 615, registra una sola edizione di Roma, Dorico, 1629: dove il 1629 sta, certo, per il 1529.

5. Una commedia pedantesca del Cinquecento in Miscellanea di studi critici edita in onore di Arturo Graf, Bergamo, Istit. ital. d'arti graf., 1903, p. 431 sgg.