RACCONTI.
F. DALL'ONGARO
RACCONTI
La Donna bianca dei Collalto.
I complimenti di Ceppo. — I due castelli in aria.
Il Diritto e il Torto. — Il berretto di pel di lupo. — La valle di Resia.
Istoria di una casa. — La giardiniera delle male erbe. — La fidanzata del Montenegro.
Gentilina. — Fanny. — Il palazzo de' Diavoli. — Un viaggetto nuziale.
L'ora degli Spiriti.
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FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
1869.
INDICE
A CHI LEGGE.
Signori e Signore
I Racconti che vedete qui riuniti sono fratelli carnali delle Novelle vecchie e nuove che mandai per il mondo, anni fa. Anche tra questi ve n'ha di vecchi e di nuovi: c'è il primo che scrissi, i Complimenti di Ceppo, e l'ultimo, che fantasticai su' due piedi, dinanzi alla porta della mia casa in una delle ultime notti stellate.
I Complimenti di Ceppo, come la maggior parte de' suoi fratelli e sorelle, sono autentici e veri quanto può esserlo ogni altra storia e novella che corre per le stampe e per le bocche degli uomini. Ma perchè fu il mio primogenito, ed ha l'età della ragione, vi dirò come ei nacque e perchè.
Io viveva in diebus illis nella bella città di Trieste, e vi stampavo un giornale col titolo modesto di Favilla, e colla epigrafe ambiziosa:
Poca favilla gran fiamma seconda.
I miei abbonati, sparsi per tutta l'Italia, divenivano a vicenda i miei collaboratori gratuiti. I giornali, in quel tempo, non erano organi del governo o di un partito contro il governo: erano un ricambio d'affetti e d'idee, un amo gittato a caso per pescare, dovunque fosse, un amico del buono e del bello.
Una volta l'amo venne su carico di una grave censura ad uno dei più gentili poeti viventi; censura acerba ma vera, sottoscritta da un nome di donna. Il poeta rispose; la donna replicò col vigore e col senno di un critico provetto. Invitata ad onorare de' suoi scritti il giornale, mandava un altro scritto in cui rivedeva le bucce all'Ariosto, a proposito d'una sua versione o imitazione elegante ma poco esatta di Catullo o di Virgilio, sempre colla medesima firma. Credetti, sulle prime, che quel nome di donna coprisse quello di un letterato barbogio, il quale per rendersi accetto al pubblico usurpasse il nome di una gentil damigella.
Ma fatta un'inchiesta, venni a sapere che l'autore di quelle critiche argute era veramente una donna, e che il nome di Caterina Percoto, ond'erano sottoscritte, apparteneva davvero al libro d'oro della nobiltà friulana.
Ringraziando la mia incognita collaboratrice de' suoi eruditi articoli di critica letteraria, osai pregarla a mutar qualche volta registro; e poichè aveva l'onore di appartenere al sesso gentile, volesse mandarci qualche scritto da donna.
Tre mesi di silenzio punirono l'indiscreto consiglio. Poi, sollecitata a rispondere, mi fece significare che non sapeva indovinare che cosa io intendessi per uno scritto da donna.
Invece di scriverle una dissertazione, scrissi e le mandai stampato il racconto sovraccennato, dicendole, nel miglior modo ch'io seppi, ch'io le davo in mano l'orditura di una tela ch'ella saprebbe tessere e ricamare meglio di me. Nata contessa, e vivendo alla buona cogli abitanti della sua terra, avrebbe potuto meglio d'ogni altro descrivere i mille aspetti della natura, i costumi, le tradizioni, le vicende, gli affetti di quei campagnuoli.
Dopo un silenzio più lungo, la contessa Caterina Percoto mi mandò il manoscritto della sua prima novella Lis Cidulis. Ella aveva non solo compresa, non solo giustificata, ma superata la mia aspettazione.
Il mio raccontino era stato la cote di cui parla Orazio, che affila il ferro, inetta per se stessa a tagliare.
E questo vi spieghi perchè i Complimenti di Ceppo mi sono cari, e perchè mi applaudo segretamente di averli scritti e stampati. Senz'essi forse la contessa Caterina Percoto avrebbe continuato a scrivere le sue elucubrazioni erudite, e l'Italia aspetterebbe ancora la sua gentile e simpatica novellista.
La cote d'Orazio, affilando l'altrui stile, affilò pure il mio. Noi scrivemmo a prova racconti e novelle, dipingendo ciascuno le proprie impressioni, e commentando i fatti cotidiani di cui eravamo testimoni, o che ci arrivavano, comunque fosse, all'orecchio. Io ritraeva più spesso la città co' suoi vizj; essa la campagna e le sue modeste virtù. Poco ella prese da me: io molto da lei, massime i colori che resero accetta la mia Rosa dell'Alpi, ristampata da ultimo di là dell'Atlantico, e data come testo di lettura italiana ai concittadini dell'illustre Longfellow.
Ecco come nacque il mio primo racconto, e come fu seguìto dagli altri. Fate loro buon viso, o lettori, se non foss'altro, perchè furono stimolo ed occasione a cose migliori.
L'Autore.
Firenze, 20 luglio 1869.
LA DONNA BIANCA DEI COLLALTO.
I.
Gli uomini più saputi e più accorti del nostro tempo, udendo parlare di leggende, di tradizioni, d'apparizioni, si contentano di sorridere, e danno dei semplici, per non dir altro, ai nostri nonni che vi prestavano tanta fede. I filosofi, gli storici, i poeti fecero fino a' nostri giorni altrettanto, o al più al più, questi ultimi ne traggono qualche visione o qualche ballata per loro divertimento, quando hanno vuotato il sacco delle loro liriche appassionate o disperate, e delle lor querimonie contro il secolo positivo. La gente semplice, grossa, ignorante, benchè per un certo pudore sorrida anch'essa della propria credulità, pur si compiace ancor troppo di tali racconti, per credere che ne rida di buona fede.
Non so in quale di queste classi vorranno mettermi i miei lettori, nè in quale dovrò metter loro. Per ciò che mi concerne, dirò candidamente che non ebbi mai paura di streghe nè di folletti: aggiungerò che i miei sonni infantili non furono mai nè dall'aia, e molto meno dalla madre blanditi con queste favole. E pure, essendomi trovato sovente in luoghi e fra persone assai diverse, avendo l'abitudine di studiare i vari caratteri della gente che mi circonda, non ho saputo astenermi dall'esaminare questi fatti dello spirito umano. Dico fatti, perchè ogni opinione, ogni superstizione, ogni credenza, per falsa che sia, è un fatto, in quanto esiste nella mente del vulgo. Esaminando alcune di queste leggende, ci ho quasi sempre trovato sotto una ragione, e spesso tutt'altro che frivola. Credete pure, miei buoni lettori, che una favola destituita d'ogni senso non si trasmette di bocca in bocca, e non dura per secoli. Dico questo non per celia, ma di tutto il mio senno, e se ho raccolto di quando in quando alcuni di questi fatti e ho procurato di raccontarli alla meglio in prosa od in versi, non ho inteso di contar pure favole, o almeno, ho scelto fra queste le poche che mi parevano celare alcun che di morale e di significativo.
Questi pensieri mi giravano per la mente l'altr'ieri, recandomi da Conegliano a Collalto per visitare il teatro di una di codeste leggende. — Come! direte: tu facesti un viaggio per recarti costà? o che forse t'aspettavi di vederti apparire la Donna Bianca? A chi vuoi far creder codesto? — Io non ebbi mai il vezzo di voler far credere checchessia; meno a voi, miei lettori, che siete gente fina e aliena da ogni credulità. E il viaggio ch'io dissi, per quanto vi paia strano e ridicolo, non è per questo men vero; e aggiungo che, senz'esso viaggio, io non avrei oggi l'onore d'intertenermi con voi.
Or dunque, lasciata Conegliano alle spalle, sur un leggero calesse io m'indirizzavo verso Collalto. Aveva il sole di fronte, il quale precipitava al tramonto. A sinistra l'immensa pianura della Marca, a destra i bellissimi colli che dolcemente s'innalzano, verdi, pampinosi, festanti, curvandosi in mille forme, digradando e sfumandosi nel lontano azzurro del cielo. I colli di Conegliano non hanno invidia a quelli della Toscana, ai Berici, nè ai Lombardi. Un pittore, sia pure d'immaginazione la più ricca e feconda, non potrebbe nulla aggiungere e nulla togliere al vero, per figurare in tela l'ideale dell'Eden. E chi crede ch'io esageri, non ha che a fare il riscontro.
Spiccato in nero dalle roscide tinte del tramonto, mi sorgeva di rimpetto il castello di San Salvatore. Quando dico castello, intendo un paese; chè questa non è punto una delle solite ruine che piacciono ai paesisti. Il castello di cui parlo è ancora in perfettissimo stato, e più abitabile e abitato che mai. La principesca famiglia da cui si nomina ci viene a passare l'inverno in numerosa comitiva, e vi fa operare continui ristauri, che se non giovano all'arte, giovano al comodo. Un ampio terrazzo s'innalza dai circostanti edifici, come il tubo di un'immensa locomotiva. Verso la sommità si allarga per l'aggetto d'un'ampia cornice, sopra la quale, costrutta in età più recente, si curva la pina a modo di tulipano gigantesco. Perdonate la meschina similitudine; non saprei con qual altra immagine porvi sott'occhio codesto comignolo esagono ch'espande le curve merlature nell'aria, proprio come i petali di quel fiore.
Giace alle radici del colle l'ameno villaggio di Susegana, e di là dolcemente salendo la strada, ti conduce fino allo spazzo dove sorgeva la prima torre a saracinesca. Questa ed altre parecchie di queste torri furono atterrate, atterrate non poche altre costruzioni massiccie che difendevano il castello dalla parte di tramontana. In tempi pacifici, si sa bene che tutti codesti ripari sono più un lusso che altro; pure non può fare che non ci spiaccia la perdita infruttuosa di questi monumenti d'un'altra età. Ma io non intendo di fare il piagnone, tanto più ch'io vengo in traccia di tradizioni e non di ruine.
Feci sostare il cavallo, e salii pedestre fino alla casa d'un uomo, che è quasi lo spirito famigliare, il cronista, lo storico vivente della casa Collalto. Intendo dire il Franceschi, del quale avevo letto parecchie memorie scritte con sobria e sensata erudizione. Io lo conosceva poco più che di nome: ma la gente che scrive ha il suo passaporto con sè; e poi come pensare che in quelle amene colline, presso a quel bel castello, non istesse proprio di casa la cortesia? Chiesi del Franceschi, e mi guidarono a lui.
Dopo le oneste e liete accoglienze, inteso che la prima cagione del mio viaggio era un punto di erudizione, l'ottimo cancelliere di casa Collalto non tardò un istante a mettere agli ordini miei tutti i vecchi manoscritti che rovistava, i cronisti della Marca che avea raccolti, e nei quali era solito vagliar l'oro dalla scoria delle adulazioni e degli odii municipali. — Libri, pergamene, tutto è agli ordini vostri, diss'egli; e se le lunghe letture vi possono abbreviar la fatica, disponete della mia amicizia come del mio buon cuore.
— Che sapete voi della Donna Bianca?
Egli mi squadrò con uno certo sorriso tra il sorpreso e l'ironico. — Donna Bianca? Voi scherzate, non è vero?
— Non ischerzo punto, mio caro Franceschi. Io vi ringrazio infinitamente di tutte le vostre cronache, di tutti i vostri manoscritti, di tutte le vostre memorie storiche, genealogiche ed erudite. Vi domando solo che ne sapete di Donna Bianca?
— Intendo! riprese egli. Dopo aver manomesso il campo della storia, volete fare man bassa anche sulle povere leggende del popolo.
— Per l'appunto, risposi. E dipenderà da voi e dalla gentilezza vostra che io non cominci da quella di Donna Bianca.
— E dàgli con Donna Bianca! Non sapete voi che codesta è una vecchia storia, una storia che deve risalire al duecento!
— Tanto meglio. Le leggende più antiche sono le più belle. Raccontatemi dunque che se ne dice, giacchè, per dirvela, io so poco più del nome.
— Andiamo intanto a cena, chè mia moglie non brontoli. Sono cose da contarsi dopo aver provveduto allo stomaco. E mia moglie, forse, che è nata in questo castello, ne saprà più di me di cotesta filastrocca.
La proposizione era bella, ed aveva il merito poco comune dell'opportunità. Sicchè non è da dire se fu accettata con tutto il buon garbo che meritava.
II.
« Bianca, prese a dire la gentil Caterina, dopo le picciole ritrosie, senza le quali è impossibile che una donna cominci un racconto; Bianca, per quanto intesi a dire dall'avola, era il nome d'una orfanella ch'era stata raccolta in casa Collalto, quando la famiglia risiedeva ancora nel castello di questo nome, poche miglia lontano da qui. Qualcheduno sostiene che questo non fosse altrimenti il suo nome di battesimo, ma una specie di soprannome venutole dalla singolare bianchezza della carnagione e dal candore dell'animo. Checchè ne fosse, ella era, secondo l'opinione comune, una graziosa fanciulla, forse raccolta dalla madre del conte Tolberto, o nata costì da qualche affezionato maggiordomo della famiglia. Pareva dovesse condurre nella pace e nell'oscurità la sua vita, e divenire più tardi la moglie di qualche scudiere o paggio prediletto ai signori, e il suo nome sarebbe ora confuso con quello di tante che non si saprà che vivessero, se non quando risorgeremo insieme nella gran valle di Giosafatte. Meglio così per la povera Bianca! Ma la sua trista sorte doveva farla troppo famosa.
»Il conte Tolberto di Collalto, unico figlio di un barbone nominato Schinella, e di una contessa tedesca di cui non resta nè il nome nè il ritratto nel vecchio castello, avea menata a moglie la contessa Aica Da Camino, una famiglia nobilissima della Marca, che anche in tempi posteriori ebbe molto a che fare coi Collalto, a quanto mi viene raccontando il mio signor marito, quando mi crede degna di tanto onore.» — Disse queste parole, fissando il Franceschi con certa aria furbesca ed amabile, che il signor Franceschi dovette farle un inchino.
«Questa Aica, a sentir lui, non si trova ne' suoi alberi genealogici, anzi studiò quindici giorni e più per sapere qual altro nome potesse avere la nobile sposa del conte Tolberto. Quello che è certo si è che Aica è un brutto nome, molto antipatico, e che stava assai bene alla contessa Da Camino che s'imparentò coi Collalto. Corre voce che fosse fantastica, sofistica, brutta e gelosa come, come....»
— Come non siete voi — mi credetti in obbligo di soggiugnere, per toglierla dall'imbarazzo di trovare quel paragone.
La gentil narratrice guardò il marito, sorrise e ripigliò la parola arrossendo.
«La madre del conte Tolberto assegnò la povera Bianca come damigella d'onore alla nobile nuora, il giorno che ella venne ad abitare il castello. Le vantò la sua docilità, i suoi costumi semplici e ingenui, e la grazia con cui sapeva prestarsi ad ogni servigio che spettasse alla sua condizione. Aica la squadrò con aria dispettosa da capo ai piedi, e quel primo sguardo decise forse della sorte d'entrambe. Ringraziò con cerimonia del suo dono la suocera, e s'incamminò nelle sue stanze ordinando alla fanciulla che la seguisse. L'appartamento assegnato agli sposi era, com'è naturale, il più splendido del castello. La camera nuziale metteva in un'altra stanza destinata alla damigella, perchè potesse accorrere ad ogni cenno della signora. Questa stanza esiste ancora nella torre del castello, immediatamente sopra la carcere, ma non fu mai abitata dal tempo che si venne a conoscere l'orribile fatto di cui fu scena.
»Il matrimonio del conte di Collalto colla Caminese era stato, come suole avvenire tra' signori, più un affar diplomatico che un legame di simpatia. Quelle due famiglie ricorrevano spesso alle nozze, quando sentivano il bisogno di collegarsi insieme più strettamente, o contro i conti di Gorizia, o contro le altre città della Marca, che in quel tempo facevano tanto strepito, quanto adesso non ne menano i principi più potenti. Ma il cuore se la intende assai poche volte colla politica, dice il mio signor marito; onde avvenne che i due nobili sposi s'accorsero in breve che non erano fatti l'uno per l'altra. Il carattere del conte Tolberto era mansueto, indulgente, amorevole, tutto l'opposto di quello di Aica, la quale aveva tutti i cattivi numeri della famiglia da cui discendeva. In due mesi la nuora e la suocera non si guardavano più, se non nelle grandi cerimonie sacre o profane; e il povero conte Tolberto aveva adoperati inutilmente tutti i suoi mezzi per riconciliarle fra loro. Vedendo alfine che non poteva piegare a niun modo l'indole intrattabile della moglie, e che, se più rimaneva al castello, ne sarebbe seguita qualche rottura, pensò di cogliere il primo partito che gli venisse offerto per allontanarsi di là, e recarsi alla guerra. Egli preferiva i pericoli e le fatiche dell'armi a quegli astii familiari e incessanti che gli toglievano la sua cara tranquillità. A quei tempi le occasioni di menar le mani non si facevano attendere lungamente. Uno di quei signori, credo il conte di Gorizia, devastava il Friuli: il Conte s'unì in lega co' suoi vicini, e si disponeva a partire per combattere il nemico comune.
»La mattina della partenza, vestito di splendide armi, picchiò alla porta della consorte per prender commiato da lei. La Contessa stava assisa dinanzi ad uno specchio, mentre la Bianca, con pazienza instancabile, le accomodava i capelli. La gentil Bianca non le era stata concessa a quell'umile ufficio; ma l'altiera signora, quasi mettesse la sua gloria a far pesare il suo giogo sulla modesta orfanella, le prescriveva a bello studio i servigi più bassi; tanto più dal giorno che il conte Tolberto s'era avvisato di rimproverarle colla sua consueta dolcezza quei modi superbi ed indebiti. Aica s'era così contentata di chiedergli se la damigella fosse stata assegnata a lei sola od a lui? Or dunque, Bianca era lì architettando, secondo i capricci della dispettosa dama, gl'indocili crini che la natura le aveva dato, come emblema del suo carattere.
»— Si parte? domandò la Contessa senza guardarlo.
»— Il dovere di cavaliere me lo comanda, rispose il conte. Ma voglio esser certo che noi ci lasciamo senza rancore, mia nobile Aica. Mi sarà conforto alla lontananza, che mi troverò in compagnia de' vostri congiunti, e potrò combattere al loro fianco. Anche lontano da voi, il vostro pensiero mi seguirà. — Così la squisita cortesia del conte Tolberto procurava di velare agli occhi della dispettosa consorte il vero motivo della partenza. Ma costei non era tale da lasciarsi prendere a quelle dolci parole; e benchè le fosse tutt'uno che il conte se ne andasse o rimanesse al castello, non mancò di esacerbare per quanto era in lei quel congedo.
»— Desidero, disse, che la mia memoria si dilegui al più presto dalla vostra mente: già non potrebbe che darvi noia. Andate, signore, e dite a' miei nobili fratelli ch'io sono felice! — Un accento d'amara ironia trapelava da queste parole ch'ella declinò l'una dopo l'altra senza alcuna emozione e senza rivolger lo sguardo dallo specchio che le stava dinanzi. Tutt'ad un tratto parve colpita da alcun che di strano e d'inaspettato. Il suo volto, naturalmente pallido, allibì più che mai; stette immobile riguardando lo specchio, come quella piastra esercitasse sopra il suo spirito un orribile fascino. Ella vedeva sorgere sopra il suo il viso candido ed amoroso di Bianca: vide i suoi begli occhi inturgidirsi e circondarsi d'un dilicato rossore: una lagrima invano repressa velò la nera pupilla, e rigò quelle guance come una stilla di rugiada sopra il candido marmo d'una statua. Bianca non pensò a nasconderla nè ad asciugarla. Forse non sapeva nè pure di spargerla, certo non s'accorse che altri stava guardandola, e nel suo cuore gliene faceva un delitto mortale. Aica non alitava dinanzi allo specchio rivelatore: ella voleva saperne di più, e seppe infatti più che non avrebbe voluto.
»Il conte aveva esitato se dovesse rispondere all'acre rimprovero della moglie; poi con un gesto della mano che dimostrava il suo risentimento, s'era incamminato verso la porta. Sul punto di oltrepassare la soglia, s'era rivolto verso le due donne. Aica non fece motto; ma gli sguardi lagrimosi di Bianca si scontrarono con quelli del conte: un lampo d'amorosa intelligenza li unì. Fu un lampo: che il conte era già sparito, e l'orfanella avea ripreso il lavoro per un momento interrotto. Fu un lampo, ma bastò a illuminare di sinistra luce tutto un passato, foriero della folgore che ne scoppiò. Partito il conte, Aica mandò fuori con un forte sospiro l'alito lungamente trattenuto; le sue guance, che s'erano fatte a grado a grado violette, ritornarono livide; s'alzò ritta rovesciando la pettiniera; fissò con occhio di vipera la giovanetta che non poteva indovinare l'origine di quell'ira, ma pure ne fu sgomenta per un secreto terrore che l'investì. Dopo alcuni momenti di silenzio terribile, la contessa ruppe in questa domanda: — Tu piangi? Perchè quelle lagrime? Rispondi, sciagurata, o questo è l'ultimo istante della tua vita. —
»Bianca si sentì soffocare da un sentimento fino allora a lei sconosciuto. Era paura, rimorso, indignazione? Non è facile a dirsi. Forse erano tutte e tre queste cose ad un tratto. Ella chinò il capo come il colpevole colto in fallo.
»— Dimmi tutto, o sei morta, — replicò la contessa. La povera giovane si lasciò cadere sulle ginocchia quasi svenuta. Aica l'afferrò per un braccio e la strascinò semiviva nella camera attigua ch'era, come sapete, la sua. Vi si chiuse con essa, e dopo una lunga ora n'uscì, chiudendola a chiave. Il suo volto era raggiante d'una gioia feroce. Ella avea saputo ciò che temeva, e pur desiderava d'intendere.
Ripassando dinanzi allo specchio, tornò ad affacciarvisi, come per un istinto, non saprei dire se di gratitudine o di terrore. Abbrancò colle mani le chiome scomposte, e le torse intorno alla testa come per dissimularne il disordine. Ma il suo viso aveva un'espressione così sinistra, che ne parve ella medesima inorridita. Ripassando la palma della mano sopra i capegli inegualmente spartiti, e asciugando il sudor freddo che le bagnava la fronte livida e corrugata, — S'amavano, s'amavano, mormorava la contessa fra' denti. Egli l'amava!....
»Si fermò come ascoltando il suono di questa parola; poi, tutto ad un tratto, mise alla bocca un fischietto, e ne trasse un sibilo acuto. Accorse un vecchio maggiordomo, e si fermò sulla porta in aspettazione del suo comando.
»— È partito il conte? — gli domandò la contessa.
»— Partito, Eccellenza: ma non può essere che all'ultima porta.
»— Richiamatelo... no... non monta. Andate. — Affacciandosi al veroncello, ella vide difatti calarsi la saracinesca dell'ultima torre alle spalle del conte Tolberto. Alla testa di cento cavalieri egli seguiva il tortuoso sentiero che mette alla valle. A poco a poco scomparve fra il folto degli alberi, e più non apparivano che a tratto a tratto gli ondeggianti cimieri e gli elmi lucenti, come l'acqua del vicino torrente percossa dal sole. Si staccò dalla finestra, ritornò dinanzi allo specchio, e mormorò di nuovo: Si amavano! In questa parola e nell'accento con cui veniva da lei proferita, più che l'amarezza d'un amore tradito, si sarebbe sentita l'onta dell'offeso orgoglio e la gioia atroce della vendetta. Infatti essa non amava Tolberto, e poco importavale che egli conservasse ad altri un amore che non sapeva apprezzare; ma l'idea che un'orfana oscura e plebea, una persona vile, di cui faceva assai meno conto che del proprio falcone, avesse osato alzare pur il pensiero ad occupare il posto che s'aspettava a lei per diritto di nascita e per patto nuziale, quest'idea le era insopportabile, e non potendo distruggerla in altra forma, pensò di annientar la persona a cui si legava. Bianca era morta nel suo pensiero, nè le restava a determinare che il modo di spegnerla.
»Povera Bianca! forse ella non era colpevole che di un moto inavvertito del proprio cuore. Nata nel castello, come vi dissi, o raccoltavi fin da' primi anni, non avea conosciuto altri oggetti degni di riverenza e d'amore che i suoi padroni. Il conte Tolberto l'avea veduta crescere sotto i suoi occhi in età, in bellezza ed in senno. L'avea spesse volte tenuta sulle ginocchia, palleggiata sulle robuste braccia, accarezzato colle mani avvezze alla lancia i neri e lunghi capelli dell'orfanella; ma tutto questo, come avrebbe fatto ad un bello e prediletto levriere, al generoso destriere che solea cavalcare ne' torneamenti. I suoi principii erano assai diversi da quelli de' suoi coetanei; le sue abitudini, mansuete ma non molli, lo portavano a qualche cosa di più virile che non sarebbe stato un amoretto con una povera fanciulla che risguardava come sorella, e avrebbe difesa contro chiunque avesse osato oltraggiarla. L'orfanella dal canto suo, giovanetta ancora di sedici anni, non avrebbe saputo nutrir pel suo signore altro sentimento che una specie di culto, un rispetto misto d'infantil tenerezza, come di figlia. Solamente quando Tolberto menò a moglie la Caminese, sentì quel sentimento farsi più profondo e più malinconico. Forse confessò a se medesima un affetto, che non avrebbe confidato nè pure all'aria, e men che a tutti, a colui che, senza saperlo, n'era l'oggetto. Gli aspri costumi della sua signora le avean fatto pensare alcuna volta all'ingiustizia della fortuna. Ne' suoi sogni verginali avrà detto talora: Oh! s'io fossi in lei, di quanto amore vorrei circondare un cavaliere così buono e così compìto! E ricadeva, così pensando, in una cupa tristezza, finchè il cenno dell'astiosa signora la scuoteva dal suo vaneggiamento, per ricondurla alla trista realtà della vita. I duri trattamenti che sosteneva, le parevano alcuna volta una giusta espiazione del torto che involontariamente le recava pur nel pensiero; e poi l'amore infinito che l'anima sua sentiva per il conte, si tramutava in una specie di riverenza per tutte le persone, per tutte le cose che appartenevano a lui. Quindi Aica medesima le era, se non cara, almeno rispettabile, e si sarebbe guardata dal torcerle pur un capello, come se il conte dovesse risentirne il dolore. Povera Bianca! allevata come figlia dalla vecchia contessa, ella aveva educato il cuore a sentimenti così squisiti, di cui nessuno avrebbe in lei sognato nè pur l'esistenza: il suo cuore, nello svolgersi de' suoi sentimenti, l'aveva innalzata tant'alto, che, mancando d'un legittimo scopo, doveva di necessità trovare il suo giornaliero martirio nella sua stessa virtù. Forse il conte l'aveva indovinata, e forse no: Aica non l'avrebbe potuto senza la sua confessione. Ed ecco ciò che la povera Bianca avea confessato: avea confessato d'amare il proprio signore; che quella lagrima, era una lagrima che la partenza di lui le avea strappato dal cuore; e non disse, e forse nol sapeva, come più che d'amore, era una lagrima d'indignazione per le villane parole con cui la superba sposa avea risposto alla officiosa cortesia del marito! Ma questo era bastato ad Aica: da questi indizi leggeri e incolpabili ella avea fabbricato nella sua mente la colpa. Finse a se stessa un amore che non avea per Tolberto, pure per rendere più legittima la punizione che serbava ad entrambi.
»Voi sapete in qual modo l'orribile donna si vendicasse. La giovinetta disparve agli occhi di tutti quel giorno medesimo. Nessuno ne parlò. Il conte, ritornato al castello dopo due mesi, seppe ch'ella era morta, e non chiese più là.
»Dopo due secoli, ristaurando la camera della torre contigua all'appartamento, si trovò murato nella parete lo scheletro d'una fanciulla.»
III.
Terminata questa tetra istoria, narrata dall'ospite mia, con meno pretensione drammatica ma con più verità, chè tutte le sue parole uscivano vestite di quell'accento che solo può dare l'intima persuasione del vero, primo il Franceschi, e poi ciascuno della brigata si provò a dare alla conversazione un colore più gaio. Ma per quanto ognuno si sforzasse a celiare sulle antiche leggende, e non si risparmiassero le più lepide allusioni, non ci fu verso di rallegrare i nostri spiriti, tanto erano rimasti sopraffatti da quel racconto.
Intanto l'ora s'era fatta assai tarda, e m'accorsi che gli ospiti miei non erano abituati alle nostre veglie cittadinesche; onde mi credetti in obbligo di gittare una parola sull'ora tarda e sulla mia propria stanchezza. Il Franceschi alzandosi senza più, si scusò di non mi poter alloggiare convenientemente in sua casa, e disse che m'aveva fatto apprestare una camera nel castello. — Già voi, soggiunse, non m'avete faccia da spaventarvi, se pure la Donna Bianca si pensasse di farvi una visita!
— Pensate! risposi, non sarei poeta! —
Così dicendo, presi congedo dall'ospitale famiglia, e preceduto da un servo, m'incamminai verso il vicino castello.
Alzavasi fra l'ombre della notte l'immensa mole bruna, misteriosa, terribile. Il gigantesco torrione pareva una scolta che vegliasse sopra il resto dell'edificio, le cui forme mal distinte lasciavano libera la fantasia di foggiarsele sotto le più strane e mostruose figure! Entrai per una postierla che metteva per un basso ed umido corridoio alle stanze più interne. Sempre preceduto dal servo, i cui passi suonavano nel vuoto del deserto castello, passai per un numero di stanze che non presi pensiero di numerare, ma che non finivano mai. Una sala ornata dai bruni ritratti della famiglia, metteva ad un gabinetto, questo a una dozzina di camere, variamente addobbate; poi altri gabinetti, altre sale, altre camere; e il famiglio domandavami scusa di sì lunghi andirivieni, annunziandomi sempre vicina la stanza assegnatami, la quale mi sfuggiva pur sempre dinanzi. In altri tempi avrei potuto tenermi per ispacciato; ma prima che questo pensiero m'entrasse nella mente, come a Dio piacque, la mia guida fermossi, ed accese due candele in una piccola ma gentil cameretta, prescelta, ei mi disse, da non so quale dei conti attuali, più letterato degli altri, come la più silenziosa e più confacente a' suoi studi. Un letto di ferro, avviluppato da un candido padiglione, n'occupava un buon terzo, i mobili erano d'ebano, una sola finestra s'apriva a mezzodì scavata, per così dire, nella muraglia, la cui spessezza poteva ben essere di due metri.
Terminata questa rassegna, il servo si credette in obbligo di avvertirmi che appena fuori della mia stanza c'era la sua, che a caso non mi credessi solo in quell'enorme edificio. Egli pronunciò questo benevolo avviso con una cert'aria significativa, quasi con bel garbo volesse dirmi: non abbiate paura. Come io mostrai d'intenderlo, e gli risposi, sorridendo, che nulla m'occorrerebbe, egli si scusò dicendo che questa era l'abitudine del signor conte, il quale, benchè abituato al castello, pure non avrebbe osato dormirci solo. Anche un professore di Padova, soggiunse, che fu qui non ha molto per tenere a battesimo il bambino del padrone, confessò una mattina che non avea potuto pigliar sonno in tutta la notte che vi dormì. — Egli diceva, soggiunse, che l'immaginazione alcune volte suol fare di brutti scherzi. Onde, signore, ho creduto mio dovere di dirglielo. Perdoni.
Lo ringraziai, congedandolo, e mi chiusi nella mia cameretta. Rimasto solo, non potei trattenermi dal sorridere, pensando al professore ch'io conoscevo per uomo scevro di pregiudizi, cinico anzi che no, e di spiriti assai positivi. Non lo avrei detto, ma lo pensai, che alcune volte le apparenze sono smentite dai fatti, e m'apparecchiai, io suo scolaro e in odor di poeta, m'apparecchiai, dico, a far arrossire col mio fermo contegno il freddo filologo, e l'uomo, come suol dirsi, di mondo. Gli vo' domandare, dissi fra me, come prima io lo vegga, che faccia avesse la Donna Bianca, quando gli comparve al castello di San Salvadore. D'idea in idea, nel breve intervallo che dovetti passare prima di addormentarmi, venni fino a desiderarmi l'apparizione, almeno in sogno, di quell'ospite misteriosa di cui s'era tanto parlato. Così saprei s'era bianca o bruna, diss'io, e le domanderei la ragione di queste sue visite. Così dicendo, o meglio, così fantasticando fra me, mi voltai sull'altro lato, e un placido sonno sospese il corso de' miei pensieri.
— Scommetto che questo è il posto d'un sogno, dirà qualcuno de' miei lettori. Nè più nè meno; e lascerò credere a chi lo vuole che sia uno di quelli che i poeti ritrovano sì spesso e sì a tempo nel fondo del lor calamaio. Il fatto sta, che il sogno ch'io vi annunzio fu sognato davvero; ed ho mestieri di crederlo sogno, o lettori, perchè altrimenti dovrei prestar fede alle apparizioni favolose, e non potrei più ridere alle spalle del mio professore d'Università. Lascio poi la pena ai fisiologi di chiarire da quali elementi sorgesse, se dal luogo dov'io mi trovava, da quella camera solitaria, dai discorsi avuti o dalle memorie risguardanti la famiglia Collalto che avevo leggicchiato prima d'addormentarmi, e che avranno dato probabilmente una tal direzione alle idee. Checchè ne fosse, ecco il sogno.
Erano, sulle prime, figure indistinte che procedevano a coppia a coppia, non saprei dir di qual sesso. Mi parevano come persone che, nelle fitte e nebbiose notti, ci passano inavvertite da canto, e appena ce n'accorgiamo al fruscìo della veste e al batter de' passi. Ma queste apparizioni sfumavano lievi senz'arrestarsi un momento, tanto ch'io potessi raffigurare le loro sembianze. Però la processione continuava, e, come se l'atmosfera si andasse un po' diradando, le immagini mi si facevano più distinte. Erano bei vecchi dalla barba candida o grigia, vestiti di lucide armature, ciascuno accompagnato da una grave matrona, riccamente abbigliata, con baveri inamidati o bei merletti di Fiandra rimboccati dal collo. Io discerneva già bene il lor volto, ma non mi parea di conoscerli. Quando, tutto ad un tratto, ne vidi uno, la cui fisonomia m'era nota.
Era il conte Tolberto. Ecco la sua dolce guardatura, la sua aria amorevole e trista! L'antipatica dama che gli sta a fianco, e par che sdegni porgergli il braccio, non è punto da dubitarne, è Aica da Camino. Mi sembra ch'io volessi rivolger loro qualche parola, ma, come segue ne' sogni, la voce non rispondeva alla volontà. Intanto anche questa coppia era sparita, e tutto era rientrato nell'oscurità. Ma se gli occhi più non discernevano alcuna cosa nell'ombra, l'orecchio era percosso da un sordo gemito che partiva come da una tomba.
Raddoppiai l'acume della pupilla, come cercando da qual parte uscisse quel doloroso guaìto. Ma non discernevo altra cosa che una parete bianchissima, ch'io potevo scambiare con quella della mia camera. Tutt'ad un tratto la calce parea sollevarsi in un canto, e presentare alcune ineguaglianze, alcune prominenze che offerivano i contorni d'una figura umana scolpita in bassorilievo. A poco a poco però le membra tondeggiavano, si spiccavano dal fondo e si campavano nell'aria. La statua non era più statua, ma sibbene un simulacro di donna avvolta in candida veste, pallida in volto e impressa i lineamenti d'un dolore ineffabile. Si chinò sul mio letto lievemente, e stette fisandomi d'uno sguardo tristo, prolungato e profondo.
— Oh! Bianca, parvemi ch'io le dicessi, povera Bianca! Quanto ho desiderato vederti e intendere le tue parole! Qual destino lega ancora la tua presenza in questi luoghi che ti dovrebbero essere così funesti? —
Ella crollò mestamente il capo, e il sentimento che mi parve dipingersi sul suo volto, era più d'amore che di odio.
— Che amore dovette essere il tuo, povera Bianca, se l'atroce supplicio a cui ti condannò la superba consorte, non te lo svelse dal cuore!
Ella chinò il capo quasi vergognando, e una lagrima parve rigarle il pallido volto: — Ah! una lagrima simile a quella ti tradì, sventurata, quel giorno fatale! — A queste parole che mi pareva d'indirizzarle, e ch'ella certo mi leggeva nell'animo, mandò un lamento così doloroso, che non mi ricordo d'averne udito alcuno di somigliante nel mondo. E come non potesse resistere alla penosa reminiscenza ch'io le avevo richiamata, la vidi allontanarsi da me, dileguarsi lentamente nell'aria, e addentrarsi di nuovo nell'opposta parete.
Addio speranze di udir la sua voce! Maledissi nel mio interno alla mia indiscrezione, rivolto pur sempre a quel punto della muraglia da cui l'avevo veduta svanire, quasi coll'intendimento di evocarla di nuovo per secreta attrazione magnetica. Tutto fu invano. L'aere s'era abbuiato, e mi si dipingeva tratto tratto in quelle fosche iridi che si veggono ad occhi chiusi la notte, e non hanno nome, cred'io, nella nostra favella. Ma quelle iridi, quelle sfere verdastre, azzurrognole, sparse di punti luminosi e vibranti, portavano scritto nel centro vari nomi che s'alternavano l'un dopo l'altro. Il primo ch'io potei leggere fu
SCHINELLA,[1]
e non appena l'ebbi letto, svanì col circolo raggiante dov'era scritto a lettere giallastre e fosforescenti. Non so quanti RAMBALDI e TOLBERTI lo seguitassero al modo stesso, finchè in una sfera di color rosato e cilestro, a lettere cangianti come l'opala, vidi apparirmi il nome di
GEMMA.
E poi una serie d'altri nomi che m'uscirono dalla mente, finchè in una ruota purpurea e come rabescata, lessi, il nome di
COLLALTINO.
Ma già il bruno campo nel quale agitavansi questi lucidi globi, si faceva ad ora ad ora più grigio, ed essi globi succedevano d'una tinta più languida e men distinta. A mano a mano che si confondevano nelle tinte del campo, anche le immagini della mia fantasia venivano perdendo d'intensità e di chiarezza. Vi fu un momento ch'io stetti come dimentico e inconscio di me medesimo: io passava evidentemente dal campo de' sogni a quello della realtà. Apersi gli occhi e m'avvidi che la luce del giorno avea già attenuato l'oscurità della stanza; balzai dal letto come trasecolato dalle visioni avute, delle quali ricordavo ancora e rannodavo alla meglio questi dispersi frammenti. Spinsi l'imposta quasi per finir di svegliarmi, e mi si aperse allo sguardo una scena che nessun pennello oserebbe dipingere.
Era una immensa pianura, la pianura della Marca Trivigiana, alla quale era termine l'Adriatico. Una tenue nebbiuzza la copriva a fior di terra, ammollendo i contorni delle piante sorgenti dal suolo, le quali apparivano come piccole macchie, anzi pur come punti dispersi nella vastità dello spazio soggetto. La Piave dappresso, più lontano il Sile, come un nastro d'argento volgeva i suoi lucidi meandri tra i regolari comparti dei seminati. Un rombo infinito, indistinto mi giungeva all'orecchio, e partiva dalle mille campane che dagli sparsi villaggi inneggiavano al sole nascente. Era la prima domenica di agosto. Sublime spettacolo! Questo suono era come la vita che animava la scena: come la voce della moltitudine, che da quelle mille villette destavasi a un'ora medesima, commossa da un sentimento comune.
Non ci voleva meno di questa scena così naturale, e pure così grandiosa e poetica, per tormi all'influenza de' sogni; poichè io sono così fatto, che basta un sogno talora a colorire d'una tinta conforme tutti i pensieri della giornata. Mi vestii frettoloso, e non senza fatica per quell'intricato labirinto di camere, trovai la via di uscir dal castello e recarmi alla casa dell'ospite mio.
IV.
Un'ora dopo un leggero calesse ci traeva entrambi all'antico castello dei conti. Parmi aver già detto, o lettori, come San Salvatore non era nè la sola nè la più antica sede della illustre famiglia. A sei miglia circa da questo castello ne sorge un altro, edificato forse verso il decimo secolo, men comodo ad abitarsi, ma pur magnifico per quel tempo e ragguardevole per la sua costruzione. La tragica morte di Bianca era seguìta in quest'ultimo, ed è naturale ch'io volessi vedere cogli occhi propri e toccare con mano quel poco che ancor rimaneva a testimonio del fatto. Il Franceschi non esitò ad appagarmi, e mi si offerì per compagno, benchè non era cosa lieve per lui l'affrontare l'afa d'una giornata d'agosto. Ma c'entrava di mezzo l'amicizia, l'archeologia e l'interesse che aveva per tutto ciò che riguardava i Collalto, onde si sarebbe gittato nel fuoco, non che altro, per non mancare, com'ei diceva, all'obbligo suo.
La via che percorrevamo è tra le più amene e poetiche che si possano immaginare. Da un lato la pianura verde coltivata, irrigata, sparsa di case, popolata di gente che accorreva, vestita a festa, a' rispettivi villaggi. Dall'altro la collina molle, cespugliosa, vitifera; più lungi le montagne azzurre, ombrate ancora dalla lieve nebbia del mattino. La strada or saliva dolcemente, or scendeva con facil declivio, fiancheggiata a destra da spinose ed eleganti robinie, a sinistra da qualche pioppo cipressino interrotte da folti e vellutati avellani. La verzura dell'Asia e quella dell'Italia spandevano le loro braccia e intrecciavano le loro ombre tremolanti sul nostro capo. Ma già la scena cambiava: ai terreni seminati da molto succedevano le terre ghiaiose, desolate dalle più recenti alluvioni del vorticoso Anasso, come lo chiama il Carrer; e quelle sono le antiche roveri del Montello che ricorrono sì spesso nelle sue lettere della Stampa. Vedi come il bosco seconda il sorgere e l'avvallar del terreno!
Già noi lasciamo il piano, per rivolgerci al monte. Ecco apparire da lunge le merlate sommità di Collalto: questo, un tempo, era un romitaggio abitato non so da qual ordine di claustrali; ora non è che un maniere, come un tempo dicevano; una casa attenente al castello, ed abitata dal custode di quello. Non vi so dire che effetto mi facessero que' corridoi, serbanti ancora le traccie dell'antica destinazione, ed ora volti ad altr'uso. Certo è che il luogo è posto sul pendìo del colle con sì felice accorgimento, che doveva essere un'amenità l'abitarvi. Forse il Bembo ed il Casa, che ne parlano ne' loro scritti, vi avranno attinta quella grave e dolce malinconia che alcune volte riscalda i lor versi, e li rende sì amabili. Di qui si domina oltre al torrente la Badia di Narvesa, appartenente anch'essa ai Collalto, e più lungi verso ponente, fra le mille sinuosità de' monti, vedi biancheggiare le colonne del tempio onde il Canova consecrò il povero villaggio dov'ebbe la culla.
Perdonate s'io non posso percorrere questi luoghi senza comunicarvi le grate impressioni che mi lasciarono. Ecco Collalto. Anche qui più d'una torre ne proteggeva l'ingresso. Peccato che l'istinto livellatore del secolo, il quale s'appiglia anche ai più lontani dal centro, abbia anche qui portati i suoi guasti: anche qui una scorciatoia, un rettilineo ha costato la vita a qualche massiccia costruzione monumentale. I mangiatori di pietre sono penetrati fin qui. Ma il corpo principale dell'antico castello rimane pur sempre: ecco il torrione, men gigantesco, meno elegante dell'altro che vi descrissi, ma più originale, più medio-evico. Una scala esterna mette al primo piano dell'edificio, il quale, benchè serbi qua e là le traccie del tempo in cui sorse, fu però rinnovato e ristaurato più volte. Passammo guidati da una vecchierella cortese per una lunga fila di camere, dove la varia tappezzeria accennava alle varie età e ai vari gusti dei signori che v'abitarono. Tutto però sembra abbandonato da molto, e infatti i Collalto preferiscono il castello di San Salvatore o le loro signorie nella Moravia.
Tuttociò non m'importava gran fatto; io era impaziente di vedere la stanza della povera Bianca, e non altro. Quando fummo sul limitare di quella, la buona vecchierella quasi involontariamente diede indietro segnandosi: cosicchè v'entrai solo in compagnia del Franceschi.
La stanza era più mal concia delle altre; ruinato il pavimento, sfondato il soffitto. È tradizione che, ritrovato nella parete il miserando scheletro, si smettesse il ristauro già incominciato, e la stanza rimanesse a un di presso come si vede. Certo è che non fu più abitata. I signori fecero dare onorata sepoltura alle infelici reliquie nella cappella medesima dove si vedono ancora le tombe de' lor famigliari: e lì su quella parete medesima, quasi in espiazione del fatto, fecero dipingere un Ecce Homo. Questo affresco fu poi intonacato di calce; e sopra l'intonaco fu incorniciata una tela con un crocifisso dipinto. Ora il quadro fu tolto, e scrostato qua e là l'intonaco, lascia vedere qualche vestigio della prima pittura. Ecco in quale stato ritrovai quella stanza che non solo Italiani, ma Francesi ed Inglesi non lasciano di visitare. Inspirato da questa vista, il poeta Roger consecrò nel suo intinerario poetico questo pietoso racconto, e non è questo il primo caso, nè sarà l'ultimo che gli stranieri, specialmente gl'Inglesi, più degli altri riverenti all'Italia, sappiano discernere ed illustrare le nostre poetiche tradizioni. Egli inventa a capriccio il nome della infelice vittima, forse per servire alle leggi della sua prosodia: del resto egli dovette attingere la tradizione alle medesime fonti da cui la traggo.[2]
I cronisti della Marca, e quelli che più specialmente si occuparono della famiglia Collalto, non ne fanno, ch'io sappia, menzione: ma la voce del popolo è lì per supplire alla storia, la voce del popolo che procede di padre in figlio, e può susurrare all'orecchio nei colloqui confidenziali i fatti pericolosi a narrarsi dagli scrittori o parziali, o timidi, o mercenari. Potessimo interrogar questa voce nei luoghi ove non è affatto spenta, molti avvenimenti, già consegnati alle storie, si vedrebbero mutar faccia, e apparirebbero le picciole cause che minarono sordamente la base delle umane sommità. Ma codesto non si può fare nel proprio gabinetto: bisogna recarsi sul luogo, mescolarsi col volgo, meritar la confidenza dell'umile donnicciuola. Una parola sfuggita a caso, potrebbe appurare una data e rivelare un evento, dipingere una persona. Ma questa sarebbe una scienza nuova. Gli eruditi pongono ancora la loro gloria nell'ammucchiar date su date, nomi su nomi: con ciò ne danno spesso il cadavere della storia; ma chi vi spira per entro il soffio della vita?
La vecchierella ci avea aspettati nell'anticamera. Le domandai, guardandomi bene da lasciarle trapelare il mio scetticismo, se la Donna Bianca le fosse mai apparsa.
— No, signore, risposemi. Io non sono stata degna di tanto: nè io, nè mia madre; ma la nonna la vide all'occasione della nascita del padron vecchio, e fu gran festa in paese. La povera nonna morì in concetto di santa.
— E chi è stato l'ultimo a vederla? Si potrebbe parlargli?
— L'ultimo è stato Lorenzoni, soggiunse seriamente la vecchia. Or saranno circa trent'anni. Da quel tempo nessuno meritò questa grazia, o forse mancò l'occasione.
— Qual occasione? diss'io.
— Si sa bene, signore. Domandi qui al signor Franceschi. La Donna Bianca comparisce tre giorni prima che i padroni si trovino in allegrezza o in gramezza. Vuol dire che in questi trent'anni non successe niente nè di buono nè di cattivo.
— Può essere, risposi. Chi sa che non tocchi a voi, buona donna, l'onor della prima visita.
— Oh! signore! Se fosse per bene de' nostri padroni, sarei ben contenta....
— Voi già non ne avete paura.
— Di che? La Donna Bianca non ha fatto mai male ad alcuno. È una grazia che fa l'avvertirci del bene e del male prima che seguano. Così possiamo prepararci.
— Dite bene, buona madre, diss'io. E, infatti, io non avrei trovata una ragione sì dilicata, e dirò anche, così filosofica. Ci congedammo dalla cortese vecchierella, la prima che sentissi a parlar di visioni con tanto buon senso. È certo che codeste apparizioni, e la causa di esse, erano per lei verità incontrastabili. Io posso riferir le parole, ma tenterei invano communicare ai lettori quell'accento di persuasione, quella specie di fede che mi fece notabile questo dialogo. — Andiamo via di qua, dissi celiando al Franceschi. Queste parole, questi luoghi, e un sogno ch'ebbi stanotte, per poco ch'io resti, mi faranno credere alla visione, come ci è forza credere al fatto che vi diede origine. Non mi maraviglio più che una tal tradizione si propaghi e si tenga per certa. Quasi quasi m'aspetto di vederla la Donna Bianca, prima di lasciar questi luoghi ch'ella ha fatto sì celebri!
V.
È vero. Sono stirpe violenta questi Collalto! Si narrano storie di sangue accadute ne' loro castelli. Un'ombra raminga di donna comparisce a quando a quando tra i verdi, e ricorda un'antica atrocità degli antenati del conte. Murata viva! che orrore! Ne avrei uditi tutta notte i lamenti.
Carrer. Lettere di Gaspara Stampa.
Non farò carico al Carrer di questa asserzione posta in bocca d'una donna gelosa che era stata amata e tradita da un conte Collalto. Quest'accusa, tuttochè falsa, come quasi tutte le accuse generali, chi non vorrà perdonarla alla povera Stampa? Ad onore del vero però, il fatto di Donna Bianca, per atroce che sia, non vuol imputarsi ai Collalto: nè i Collalto appaiono dalle cronache essere stati una stirpe violenta. Questo delitto era stato commesso da una Caminese, e i Collalto che forse non l'aveano potuto impedire, quando vennero a risaperlo, non omisero di espiarlo, per quanto fu loro concesso. Certo la tradizione che corre non è oltraggiosa a questa famiglia. L'apparizione di quest'ombra non è, come segue per ordinario, un simbolo di vendetta: Donna Bianca non odia i Collalto, anzi li ama, si prende parte alle loro vicende liete o triste che siano e ne dà loro l'annunzio tre dì prima che seguano. L'ombra stessa non è paurosa a quelli a cui comparisce: anzi non la vedeva che qualche antico servo o altra persona affezionata alla Casa; e se ne teneva, e ne traeva argomento d'orgoglio, come si dice del Lorenzoni, uomo del resto non punto superstizioso e di un coraggio che teneva della braveria, giacchè era solito a porsi col capo in giù fuori della feritoia della torre, sull'orlo d'un precipizio che metterebbe le vertigini agli animi più sicuri.
Questi ragionamenti ci fecero parer più breve il ritorno al castello di San Salvatore. Il Franceschi medesimo che, udendo la cagione della mia gita, era stato lì lì per beffarsene, cominciava a considerar questo fatto sotto un aspetto diverso. Passando in rassegna i principali avvenimenti della illustre famiglia, si meravigliava di trovarli congiunti alle apparizioni tradizionali della Donna Bianca. Egli mi raccontava dei fatti, io non potevo che narrargli dei sogni su questo proposito, e al più suggerirgli qualche induzione alla quale ei dava più o men peso, siccome quello che è più cronista per indole che poeta.
Ricorderò brevemente due di codeste apparizioni che si collegano a qualche nome accennato nel corso del mio racconto. La prima di queste si connette ad un avvenimento che fornirà forse argomento ad un dramma.
Correva il principio del secolo decimoquarto. Le due famiglie vicine e rivali, dei Collalto e dei Caminesi, erano allora rappresentate, quella dal conte Rambaldo, questa da Rizzardo da Camino, celebri entrambi nelle storie del tempo. Quest'ultimo, figlio di quel Gerardo che l'Alighieri pone tra' buoni, era molto degenere dal padre per valore e per senno. Era il don Giovanni dell'età sua: e le città e i villaggi eran pieni de' suoi soprusi e delle sue avventure galanti. Ei pose gli occhi, fra le altre, a una figlia del conte Rambaldo, di nome Gemma, bellissima giovinetta se alcuna ve n'ebbe a quei tempi. Il vecchio conte Collalto avrebbe volentieri condisceso a tal maritaggio, nè era il primo che le due famiglie avessero contratto fra loro. Ma dopo il delitto di Aica, gli amori fra i Caminesi e i Collalto doveano avere un augurio sinistro. La povera Gemma non era destinata a risplendere, come sposa legittima, nell'albero genealogico dei da Camino! —
È fama che l'ombra di Donna Bianca, e fu questa una delle prime apparizioni, si facesse vedere alla vecchia nutrice di Gemma. Questa l'ebbe per buon segno, e lo interpretò come un annunzio di prossime nozze. Ahimè, dopo tre giorni il traditore Rizzardo abbandonava la innamorata donzella, per dar la sua fede ad un'altra. La povera Gemma ne morì di vergogna e di dolore, e fu vendicata! Da lì a poco tempo Rizzardo da Camino moriva percosso dalla falce di un contadino chiamato pazzo. Ma il conte Rambaldo e i suoi vassalli guelfi non furono netti dell'assassinio.[3]
Due secoli dopo, Collaltino di Collalto dava anch'esso la mano di sposo alla marchesa Giulia Torella di Montechiarugolo, dopo di aver amoreggiato e tratto agli estremi la illustre poetessa Gaspara Stampa. Questa volta la Donna Bianca apparve alla giovane sposa, quasi volesse spaventarla da queste nozze. Ma la marchesana era uno spirito forte per quell'età, e sapendo gli amori di Collaltino con Gaspara, avrà pensato che l'opposizione fosse una gherminella della tradita poetessa, o un'ubbìa della sua riscaldata immaginazione. Le nozze si fecero, e la morte della Stampa fu auspice alle feste, al rito solenne. La marchesa Giulia Torella passò poco dopo a seconde nozze col conte Antonio Collalto, parente di Collaltino. Anche tu fosti vendicata, povera Saffo!....
Mi limito a questi due fatti che presentano una certa analogia colla storia di Bianca. Ma non sarebbe senza interesse poter notare tutte le apparizioni che il popolo ricorda di quella infelice. In tutte quelle che intesi narrare, Donna Bianca è sempre benevola alla casa Collalto, anche quando tentò inutilmente impedire qualche delitto o qualche sventura imminente. Oh! ella dovette bene amarlo, il conte Tolberto, la poverina, se murata nel suo castello, e condannata ad errare in quei luoghi memori dell'infelice sua fiamma, non si fa ministra d'una vendetta che potrebbe parer meritata, ma invece sembra proteggere i discendenti di quella stirpe!
Il giorno appresso, pieno ancora di questi fatti e di queste fantasie, io lasciava, non senza pena, il superbo castello di San Salvatore e l'ospitale famiglia a cui devo la maggior parte di queste notizie, e due giorni tra i più cari della mia vita.
NOTE.[1] Schinella dei Collalto si diede alla Repubblica di Venezia nel principio del secolo XIV.[2] Traduco dall'originale inglese il canto del Roger, perchè si vegga la conformità dei fatti, e perchè non manca di una certa originalità. Secondo lui il Conte sarebbe stato chiamato da lettere pressanti a Venezia; ma nel tempo che seguì il fatto che diede origine alla tradizione, i Collalto non s'erano ancora dati alla Repubblica, come appare alla nota precedente. Di qualche altra variante più o meno inesatta non faremo gran caso, giacchè sarebbe a desiderarsi che tutti i novellieri avessero altrettanto amore alla verità e rispetto all'Italia, quanta n'ebbe codesto poeta straniero. Ecco i versi:
COLL'ALTO.
Da questo speglio (la massiccia teca,
In cui gareggian le materie e l'arte,
Mostra che molte s'affacciaro in lui
Nobili dame del vetusto ceppo),
Da questo speglio, ora negletto, un giorno
Cosa apparì che ad un delitto atroce
Ed a lunghi dolori origin dette.
Da quel dì vi svolazza il vipistrello,
E se taluno al suo nemico impreca:
Sia la tua casa desolata, esclama,
Come Coll'Alto. —
I grigi merli infranti
Erge il castello sul pendìo d'un monte
Siccome un nido d'aquile, e prospetta
La tarvisina sottoposta Marca.
Il maggiordomo mi guidò nell'erma
Camera della dama ove dei prischi
Addobbi rimanea splendido avanzo
Qualche tappeto istorïato e i casi
Di Lancillotto e di Ginevra in mezzo
Alle selvette dei trapunti arazzi.
Argenteo arnese al mulïebre sacro
Mattutin culto v'ammirai pur anco
Di cesel fiorentino opra vetusta,
Ove putti e delfini, e frutti e fiori
Mescea forse Ghiberti e Benvenuto.
Dal soffitto pendeva aurata gabbia,
Dove loquace peregrino augello
L'ale agitando di smeraldo, al cenno
Della padrona modulava il canto
Che a lei
piacesse.
—
Il maggiordomo, i radi
Grigi crini scotendo, i fasti antichi
Mi narrava e i mirabili portenti
Propagati nel vulgo. Il sol cadente
Io mirava frattanto, ed ei seguìa.
Avea, gran tempo è corso, una leggiadra
Damigella a lei cara, e cara a tutti
Per l'alma ingenua e come giglio pura.
Eran cresciute insieme, e alcun mirando
La giovinetta e i suoi modi soavi,
Mormorava tra sè: non è costei
Nata in sì basso ed umil loco. Un vago
Amor di solitudine, un istinto
Di peregrine fantasie nel folto
De' bruni boschi la traea sovente.
Onde chi la vedeva errar solinga
Nell'ora istessa, candida la veste,
Candido il viso, la chiamò col nome
Di Donna Bianca.... ma che vado io mai
Novellando, o signor? Già cade il giorno. —
Su quella sedia assisa era la dama,
Su quella sedia stessa, e dietro a lei
La vaga ancella le annodava in molli
Trecce la chioma. — Da quell'uscio il Conte
Apparì d'improvviso, e da pressanti
Lettere d'Adria alla ducal cittade
Pur mo' chiamato, a congedarsi prese
Dalla nobile sposa.
Ahi! ma non era
Per la sposa lo sguardo ed il sorriso,
Segno di mutua intelligenza arcana
Che alla gelosa dama in quel momento
Lo speglio rivelò! — Chi sa? Fu forse
Un demone crudel che si frappose
Fra il lucido cristallo, e gli occhi suoi.
Un demone crudel che si diletta
Volgere in fiel le brevi gioie umane!
Vide, o veder credette — ed all'offesa
Rapida, atroce, in quella notte istessa
Susseguì la vendetta. Anco la luna
Dal monte Calvo non sorgea, nè 'l lupo
Cominciava a ulular sotto la torre,
Che la infelice giovanetta a forza
Era tratta a morir!
Stilla di sangue
Non fu versata, nè veleno od altro
Mortifero strumento indizio diede
Dell'orrendo supplicio a cui soggiacque.
Non un capello le fu torto: fresca
Siccome un fior, piena di vita, calda
Del primo foco giovanil, murata, —
Murata fu nella parete, ed orma
Pur non rimase dell'orribil tomba
Che viva e palpitante la rinchiuse,
Rifatta a piombo e a squadra!... Or se vi aggrada
Visitar la funerea cappella,
Di grado in grado scenderem.
La notte
Nella marmorea nicchia immota e bianca,
Qual se le pietre innanzi a lei sien tolte,
Ricomparisce in atto di preghiera
E lieve lieve.... voi ridete? Oh! fosse
Pur una fola l'apparir di lei! —
Lieve dal marmo si distacca e fugge
A traverso le selve e le montagne
Come spirto ramingo. Il cacciatore
Che il dì precede, o il boscaiuol che all'opra
S'affretta, spesso la sorprende e grida,
Segnandola da lungi: È Donna Bianca!
Roger Italy.
[3] Vedi il Muratori e il Verci: Storia della Marca Trivigiana.
I COMPLIMENTI DI CEPPO.
Chi non abbia vissuto alcun tempo in una piccola città di provincia, non può dire di avere conosciuto intimamente nè il mondo nè l'uomo. Nelle città capitali si conosce la società, si conoscono gli uomini affatturati e mascherati dalle sue convenienze; ma è ben raro che si vegga a modo ciò che sentono e ciò che pensano: essi hanno tutti un contegno uniforme e convenzionale che li rende quasi uguali e senza alcun tratto risentito e caratteristico nella loro morale fisonomia. Quindi il poeta, il pittore, il novellista, uopo è che cerchino i loro tipi in provincia, dove si è conservato tutto ciò che v'era di poetico e pittoresco negli antichi nostri costumi.
Io cominciavo appena la mia carriera letteraria, quando la professione d'istitutore conducevami in una piccola città degli Euganei, dove ho fatto le prime esperienze su quella società in miniatura che non ha ancora bastantemente appreso l'arte di mascherarsi. Al primo entrare in una delle principali famiglie, fra i consigli o, a meglio dire, fra gli ordini che il capo di casa aveva creduto necessario di darmi, ci fu quello di non frequentare la casa dei signori R***. Stupii sulle prime, perchè sapevo che i signori R*** erano stretti di parentela colla famiglia dell'ospite mio. Io non avevo ancora pensato che le avversioni più ostinate e più irragionevoli sono appunto fra quelli che sono congiunti di sangue o d'affinità. Rara inter fratres concordia, dice il Poeta; e questa fu la prima occasione in cui ebbi a conoscere la verità di quell'emistichio che passa oggimai per proverbio.
Venni a sapere più tardi il perchè di codesta avversione tra le due famiglie. Le cagioni non erano state che un puntiglio, una gara di nobiltà, uno di que' nonnulla che ai nostri buoni nonni parevano una causa abbastanza grave per venire alle mani, per cominciare un'iliade di famigliari controversie e di domestici guai. Quelli che più ne soffrirono furono, come sempre, due buoni giovani, cugini in terzo grado, i quali si amavano cordialmente e sognavano da gran tempo una dispensa per annodare una più stretta parentela fra loro. Appunto nel concertare i preliminari di questa unione, l'amor proprio assai suscettivo dei due vecchi era stato punto, e quando si sperava che ogni ostacolo fosse tolto, le due parrucche scompigliate nella contesa giurarono di non mettere più piede nelle reciproche loro abitazioni, e fu proibito severamente ai due giovani di più pensare a codeste nozze, di più vedersi e di più parlarsi nè in pubblico nè in segreto. Vi lascio pensare le ciarle del paese, le recriminazioni vicendevoli dei due vecchi, gli scherni e gli epigrammi, i commenti delle brigate; e quello che più monta, le lagrime e il dispetto della giovane e del cugino.
Codesta pubblicità, effetto inevitabile d'una rottura fra due famiglie nobili e principali d'una piccola città di provincia, accrebbe gli ostacoli a qualunque transazione pacifica; mentre sì l'uno che l'altro, oltre alla difficoltà di far tacere il grido dell'offeso amor proprio, non poteva a meno di non consultare fra sè che ne avrebbero detto nel mondo? Tra una ragione e l'altra, la scissura, benchè nata da lievi cagioni, s'andava rendendo di giorno in giorno sempre più irreparabile. Tutte le azioni anche più semplici e naturali, interpretate dagli animi male prevenuti, divenivano appicco a nuovi e cotidiani disgusti: i due vecchi non si guardavano più, ed erano divenuti l'uno all'altro stranieri, anzi più che stranieri, nemici. Quanti di quegli odii intestini ed ereditarii che tennero sì scandalosamente divise tante famiglie italiane, nacquero forse da cause non più importanti di queste!... Quando due animi si sono posti in sospetto, ogni giorno porta un'esca alla fiamma, e l'incendio diventa tale che non è più possibile spegnerlo.
Tuttavolta non è a dire che i due vecchi parenti godessero nell'animo di tal disunione. Da lunghi anni stazionarii in quella piccola città, avevano contratte certe comuni consuetudini, che alla loro età non era più possibile abbandonare senza gran dispiacere.
Il padre della fanciulla, il conte Filippo di M*** teneva, come si dice, la migliore, anzi l'unica conversazione della città. Ogni sera, mentre i più giovani parlavano di caccia o di quei nonnulla che bastano ad intrattenere la gioventù, egli col suo parente e con altri due rispettabili vecchi del paese celebrava il cotidiano tressette, il quale, a dispetto dell'adagio che lo vuole inventato da quattro mutoli, è sempre il campo di molte contese, massime quando i giuocatori pretendono di saperne di più. Il tressette di casa M*** era cosa importante: certe singolari fortune, certe ostinate disdette fornivano materia a gravi diverbi, e divenivano memorabili come la battaglia di Marengo o di Waterloo. Ora, dal giorno che le due famiglie s'erano disunite, mancò un campione alla classica partita, e non si trovò chi potesse supplirlo. Il conte Filippo passeggiava gravemente buona pezza della sera nella camera da giuoco, e s'annoiava mortalmente, perchè la sua senile attività mancava dell'ordinario stimolo. Voleva attaccare discorso colla figliuola, che silenziosa e pallida badava a' suoi ricami pensando all'amante; ma essa gli rispondeva col cuore raggruppato, e spesso prorompeva in lacrime, delle quali non voleva raccontare al padre la causa a lui ben nota. Allora il vecchio non aveva altro partito che il cane, e si poneva a scherzare con lui, e mormorava di tutto, e malediva il tempo, e il cuoco, e la mala annata, e l'imposta. Povero vecchio! e' si ostinava a non voler riconoscere la vera sorgente di tanti disgusti, e della vita misantropa ch'era costretto a menare.
Una vita poco diversa conduceva il marchese Nicolò di R***, l'altra parrucca di cui vi parlavo. S'era provato a leggere, ma i suoi occhi non reggevano più ad una lunga lettura al lume della lucerna; andava al caffè, dove in mezz'ora sono esauriti tutti i discorsi, fino tutte le mormorazioni possibili. Allora si parlava d'araldica o di politica; si libravano le sorti dei Russi e dei Polacchi; e il Parlamento inglese e la Camera francese tremavano sotto a' giudizi ed ai tremendi scrutinii dei lettori della gazzetta privilegiata. Anche il marchese Nicolò si annoiava; ma come pensare al rimedio? avrebbe egli dovuto fare i primi passi ad una riconciliazione? non era egli forse l'offeso? Piuttosto morire! Un occhio perspicace e profondo avrebbe però potuto discernere sotto queste noie e questi proponimenti di sdegno eterno un mal dissimulato desiderio di pace.
Se tale era la disposizione dei vecchi, pensate quella dei due poveri innamorati! Dover tutto ad un tratto rinunciare ad un matrimonio lungamente vagheggiato, ritenuto come sicuro, consentito tacitamente dagli stessi genitori che ora per un puntiglio d'etichetta, che non osavano neppur confessare, avevano mandato a monte! Dopo una consuetudine di più anni, dopo un amore nato ne' primi scherzi infantili, e nutrito da cotidiani colloqui, trovarsi disgiunti, ridotti a non parlarsi più, quasi a non più vedersi, se non in chiesa alla festa! povero Adolfo! povera Amalia!
Egli aveva messo in opera tutti i mezzi possibili per rappattumare le cose; ma invano. Tentò di concertare qualche intelligenza con la fanciulla, ma ella era vegliata da un Argo; tentò di scriverle, e la lettera fu intercettata; si diede alla caccia, al biliardo, al vino, allo studio; niente giovò. Propose al padre di fare un viaggio, e il padre non era lontano dall'accordarglielo, giacchè vedeva ei pure che era un supplizio di Tantalo per esso il vivere costì; ma quando Amalia lo venne a sapere, cadde malata, e non si parlò più di viaggio.
Appena ella potè riaversi, ebbe un breve colloquio col giovine in casa d'una discreta e benevola zia. Sieno benedette le zie! Vorrei riportarvi i loro discorsi, i loro lamenti, le loro proteste reciproche; ma voi già le sapete, miei buoni lettori, le sapete meglio di me. Quante cose la povera Amalia aveva a dirgli, quanti rimproveri a fargli, quanti progetti inutili a confidargli! Ma fra tutte codeste cose ce ne fu una di buono, e fu quella che entrambi i giovani vennero ad accertarsi della propensione dei due vecchi a rappacificarsi, ove si fosse trovato un qualche mezzo termine che salvasse i riguardi e i diritti di tutti e due. Promisero di tentare ogni argomento, e stabilito un mezzo di pronta e sicura comunicazione fra loro, presero commiato non senza che la buona parente gli avesse più volte avvertiti che l'ora era già troppo tarda e pericoloso l'indugio.
Quella rottura fatale era successa nel maggio, ed eravamo già alla metà di dicembre che i due vecchi non s'erano mai parlati. Si avvicinavano le sante feste natalizie, giorni solenni in provincia, giorni principalissimi di tutto l'anno. Noi nelle grandi città a malapena ce ne accorgiamo, e se non fosse la sera di Santo Stefano, così importante per il Teatro, il Natale passerebbe come ogni altra festa dell'anno.
Ma in provincia, dove le vecchie consuetudini si conservano ancora immutabili, in provincia le feste di Natale sono un avvenimento. Chi di noi non ricorda il ceppo enorme posto a bruciare sul focolare? Chi non ricorda i lauti pranzi della vigilia, i buoni augurii reciproci di famiglia a famiglia, la messa della mezzanotte, ec., ec.?
Nella città dov'io mi trovavo, le feste di Natale erano più solenni ancora che non potreste pensare. Non so se vi è nota l'origine della parola complimento, parola ch'è già sulle bocche di tutti, ora in buono, ora in mal senso, secondo i casi. Quando papa Gregorio regolò i bisestili, espunse dal computo degli anni i giorni che sopravanzavano al calcolo, e questi giorni si chiamarono giorni di complemento. Siccome non appartenevano nè ad un anno nè all'altro, così tutto il mondo cattolico diede tregua agli affari e non pensò che a divertirsi in quel fortunato intervallo di tempo, che a dire il vero non ne meritava neppure il nome. Codesti giorni si passarono in visite, in augurii, in colloqui amichevoli, in cerimonie; cosicchè tutte quelle piacevoli occupazioni ebbero il nome di complimenti perchè avvenivano ne' giorni di complemento. Voi forse non avevate mai pensato a codesta etimologia; ma se foste vissuti in quella città l'avreste trovata probabilissima, mentre la settimana che scorre tra Natale e il Capo d'anno, vi si passa in continui e reciproci complimenti.
Or ecco come i due giovani amanti cercarono di trar partito dalla consuetudine del paese, e ciascuno dal canto suo prese a persuadere al proprio genitore essere sconveniente il continuare codesta ruggine in quelle sante giornate. L'Amalia forte della educazione religiosa che aveva ricevuta, forte dell'amor suo e dell'ascendente che dopo la morte della madre aveva acquistato sull'animo paterno, diede il primo crollo alle ostili risoluzioni del conte Filippo. La mattina della vigilia di Natale volle portare essa stessa il cioccolatte inevitabile al vecchio che non era per anco uscito dalla sua stanza, molestato a que' giorni da un sintomo di podagra. Mentre ei centellava con compiacenza la bevanda rituale osservava sottecchi la figliuola che se ne stava ritta dinanzi a lui colle mani congiunte e appoggiate sullo scrittoio.
Amalia era una bella e graziosa fanciulla; piuttosto grandetta della persona, nobile e dignitosa nel portamento. Dopo la sciagurata contesa che le aveva per la prima volta fatto sentire che cos'è dolore, il bell'incarnato delle sue guancie se n'era ito, e un pallore trasparente come di cera, le dava l'aspetto d'una clorotica. I suoi belli e lunghi capelli neri avevano cessato d'essere disposti colla cura di prima, e arrovesciati e annodati dietro la nuca in due grosse treccie annunciavano la negligenza d'una donna che ha rinunciato alla naturale civetteria della gioventù e dell'amore.
Ma quella mattina il padre la vedeva alquanto mutata: il moto delle scale, l'apprestamento del cioccolatte, e più ancora l'interna agitazione per l'arringa che preparavasi a fare, le avevano suffuso il volto di un lieve rossore come suol avvenire ai convalescenti. — I capelli avevano presa la prima foggia, e lasciati per la maggior parte all'indietro, sicchè il contorno della bellissima fronte apparisse netto e regolare; due ciocche le scendevano dalle tempie, e girando in due morbide spire le ricadevano lungo il collo e sul petto. Tale era l'acconciatura ch'era solita usare per il passato, e forse senza pensarlo, l'avea ripresa quel giorno per richiamare alla mente del padre le antiche reminiscenze, e risvegliargliene il desiderio.
Il padre la guardava in silenzio, e pensò difatti che ciò non doveva essere avvenuto senza un perchè. Egli conosceva sua figlia, e sapeva che niente faceva a caso; ma la prossima festa gli parve una ragione sufficiente di quel cambiamento, e poi ripetè a se medesimo il proverbio de' vecchi: — lascia fare al tempo: la mia figliuola avrà fatto senno, e avrà pensato a piacere a qualcun altro. — Ma l'Amalia pensava invece al suo Adolfo, e non ad altro uomo, e non sapeva come intavolarne il discorso col burbero padre. Fortunatamente egli fu il primo a parlare.
— Tu mi se' ringiovanita, figliuola mia. Così va bene! Tu cominci a conoscere che nè l'amore nè il dolore hanno ad essere eterni.
— Ah, padre mio, voi dite il vero! il dolore non può essere eterno: a lungo andare egli ne ucciderebbe; ed io confido molto nel vostro buon cuore che me ne vorrà abbreviare la durata.
— Che vuoi tu dire, figlia mia? — riprese il vecchio cominciando già a sospettare l'intenzione della fanciulla.
— Mio caro babbo, — diss'ella con tuono di voce timido e carezzevole: — non è vero che voi amate molto la vostra Amalia?
— Sì certo, e credo avertelo provato abbastanza.
— Babbo mio, io spero che vorrete darmene un'altra prova più grande e più significante di tutte.
— Sarebbe a dire?...
— Caro babbo, non v'adirate: io non posso vivere senza Adolfo. Perchè dovrebbe portar la pena delle follie e della ostinazione del padre suo? Perchè vorrete voi, babbo mio, che ci vada di mezzo la mia tranquillità, la mia vita? Babbo, ve lo dichiaro: la vostra Amalia sarà morta fra pochi mesi se voi non la consolate.
— Eh! via, ragazza; non rimettere in campo i tuoi soliti piagnistei. Fra pochi mesi tu ti sarai consolata da te. Il tempo è un gran medico: credilo al tuo babbo che ha settantaquattr'anni di esperienza.
— Babbo mio caro, il tempo non ha avuto nessuna forza nè anche per voi. Oh! non veggo io forse che voi soffrite assai per quello sciagurato accidente! Quanto siete diverso da quello d'anno! Voi vi annojate mortalmente, vi siete fatto pallido e quasi giallo. Babbo mio, se non ripigliate le vostre interrotte consuetudini, voi darete il più grande di tutti i dolori alla vostra figliuola!
— Ma che, ma che? dovrei io forse essere il primo a muovermi per andare a trovare il pregiatissimo signor cugino?
— Oh! il primo no certamente.... ma.... egli non osa forse di presentarsi....
— Ed ha ragione!...
— Caro babbo, oggi è la vigilia di Natale: è un giorno santo, un giorno solenne per tutti. Noi andremo a fare la solita visita....
— A chi?
— Alla mia buona zia Vittoria! Forse vi troveremo là il marchese vostro cugino con Adolfo, voi non ricuserete di entrare e la pace sarà fatta, non è vero?
— Eh! signorina, non ve la credete sì facile!... —
Non daremo il resto del dialogo; Amalia e i nostri lettori s'accorsero già dalle parole del vecchio che l'animo suo non era alieno da por termine a quello stato di guerra in cui si trovava. Egli stesso aveva dovuto riflettere sulla poca importanza dei fatti dai quali era nata una tal disunione; perchè invitato più volte a manifestarli, biascicava le parole e non trovava espressioni abbastanza chiare per ispiegarsi. Terminava col dire: — Insomma, io ho le mie buone ragioni, e non opero senza un perchè... — Parole che sono, come tutti sanno, la salvaguardia solita di chi vuol nascondere i veri motivi d'una risoluzione già presa, o non li trova sufficienti a giustificarla.
Dal canto suo Adolfo aveva posto dinanzi agli occhi del padre tutte le ragioni che dovevano persuaderlo a rappattumarsi, anche a costo di dover muovere il primo passo. — Se lasciate passare — diceva egli — questa occasione delle feste, aggiugnete un'esca di più all'avversione del conte Filippo, e la riconciliazione diverrà più difficile, anzi impossibile. Andiamo oggi come il solito a visitarlo; andiamo colla solita compagnia degli anni passati; v'assicuro ch'egli non ci farà nessuno sgarbo; vi bacerete, e tutto sarà terminato. D'altronde vi prego a riflettere: voi non troverete mai un più bel partito di matrimonio per me, ed io non consentirò a sposare mai nessun'altra donna che l'Amalia. Rinuncierete voi alla compiacenza di stringervi fra le braccia un figlio de' vostri figli? Padre mio, ve ne scongiuro: lasciatevi una volta guidare dal vostro Adolfo, il quale non vorrebbe certo esporvi a nessuna mortificazione. Togliamo una volta questo scandalo che ha dato occasione a tante ciance maligne e ci ha resi la favola del paese. —
Il marchese Nicolò ascoltava senza interrompere il discorso del figlio, e comprendeva bene, ancorchè non volesse confessarlo, tutta la solidità di queste ragioni, e la convenienza di un tal passo verso il conte Filippo.
Potrebbe forse taluno meravigliarsi di codesta improvvisa arrendevolezza de' due nemici parenti, ma cesserà la sua maraviglia se vorrà por mente alle circostanze in cui si trovavano. Lasciamo stare l'amore che portavano a' propri figli sì l'uno che l'altro; lasciamo stare la forza delle ragioni onde aveano cercato di vincere una tale ritrosìa. Vi sono alcuni astii, alcune inimicizie che nascono dai motivi più frivoli, e terminerebbero tosto se venisse una buona occasione di potersi parlare di nuovo senza sacrificio dell'orgoglio e del puntiglioso amor proprio. A questo solo giovano talora i complimenti che i giorni onomastici e natalizii, le principali feste, e il rinnovarsi dell'anno comandano per lunga consuetudine agli uomini, offerendo un appicco per rompere, come si dice, il ghiaccio, e rannodare le interrotte amicizie. In queste occasioni una parola che si può proferire senza compromettersi, è più eloquente di un formale trattato di riconciliazione; gli è come un tempo di tregua fra le potenze belligeranti, durante il quale, massime a' tempi antichi, i due campi nemici potevano accomunarsi e bevere alla salute gli uni degli altri.
Dall'altra parte, nel caso nostro, v'era la qualità del giorno, che perorava di molto a pro della pace e dell'amore. Mi appello anche per questo ai villaggi e alle città di provincia. Quell'allegro scampanìo delle vigilie, quel suonare a distesa la mattina del dì festivo, quel veder tutto il popolo, vestito di nuovo e de' migliori suoi abiti, abbandonar le faccende per riposare un poco dalla fatica, e per concorrere alla parrocchia a udire la voce del buon pievano; la stessa infrequenza di codesti riti solenni li rende più cari e più venerabili. Una sola parola, un solo pensiero li accorda e li anima tutti. Le memorie degli anni andati si riannodano a queste principali solennità, e allora si formano i presagi della futura prosperità dell'annata. Vedete i proverbi rurali: partono tutti da un santo e da una festa primaria. Le feste di Natale poi, che sono poste come una specie di ponte fra l'anno che va e l'altro che sta per venire, il pranzo rituale della vigilia, gl'inviti che raccolgono tutti gli individui ad una sola mensa comune; tutto ciò concorre mirabilmente a porre gli animi in una certa armonia di pensieri e di sentimenti, la quale è parte principalissima della religione: giacchè la religione è appunto un vincolo di fratellanza fra gli uomini e l'accordo de' loro animi in grande unità.
Quando fu presso il mezzogiorno, il conte Filippo, ancorchè non fosse molto contento della propria salute, uscì colla figlia per visitare la zia Vittoria. Ivi doveva trovarsi il Marchese, ed era stabilito ch'ei fosse il primo a porger la mano, lasciando al caso la cura del resto. I due giovani poi s'arrogavano il diritto di dirigere il caso.
Ma il caso questa volta non si lasciò comandare dai giovani. Il conte e la figliuola rimasero lungamente presso la zia, nè il marchese si vedeva mai comparire. Vi lascio pensare l'impazienza e l'inquietudine della povera Amalia la quale non sapeva a che attribuire tale contrattempo. Ella era tutta occhi alle finestre che guardavano sulla via, tutta orecchi al più piccolo rumore che potesse parere quello di persona che si avvinasse: rispondeva a balzi ora sbadata, alla buona parente, ora affettuosa per prolungare la visita, e affettava avere qualche cosa a comunicarle. Il conte era un po' rannuvolato perchè gli pareva d'essere stato un'altra volta leso nella sua dignità. Dieci volte s'era levato per partire, e alla fine, essendo già corsa un'ora che si trovavano lì, disse severamente alla figlia: — O venite, o vado! —
Alla poveretta bisognò rassegnarsi e partire, benchè le paresse sfuggirle di pugno, partendo, il buon esito del suo progetto. Cominciò a scendere lentamente la scala, e finse d'aver dimenticato il fazzoletto, tanto per indugiarsi un momento di più. Raggiunto il padre che pestava i piedi, sperava pure che gli avrebbero trovati nell'andito. Nes-suno. Almeno si fossero incontrati per via! v'era ancora mezzo di salvare le convenienze. Nessuno, nè anche per via. Giunsero a casa senza che il padre le rivolgesse una parola, senza che rispondesse pure alle sue molte domande; ambidue col cuore raggruppato, l'uno dalla bile, l'altra da un misto di dolore e di stizza ch'era lì lì per prorompere in pianto.
Ma nel salire in fretta le scale della propria abitazione, le parve di sentire gente nella stanza da ricevimento: una nuova speranza, come per una intuizione dell'anima, le sorrise al pensiero; la cameriera dall'alto della scala le s'affacciò imbarazzata e premurosa per avvertirla di una strana visita che si trovava da mezz'ora là sopra.... Era il marchese Nicolò con Adolfo, i quali avevano creduto più opportuno andar direttamente dal Conte che sapevano indisposto, e segnare col nome di Dio la loro transazione colà piuttosto che in casa d'un terzo. La figlia tornò indietro a precipizio; raggiunse il padre ch'era restato in cucina a dare i suoi ordini al cuoco; e con poche parole lo persuase a salire informandolo dell'accaduto, e presentandogli nel miglior aspetto codesta prévenance de' due visitatori.
— Da mezz'ora v'aspettano, caro babbo, e vogliono augurarvi felici le sante feste! —
I due vecchi, apparentemente freddi, ma pure frenando a fatica la commozione dell'animo s'incontrarono nell'anticamera, si strinsero la mano e a più riprese ricambiarono i loro augurii: — per molti anni, caro cugino! per molti anni! e voglia il Cielo che possiamo passargli in buona armonia! — La povera Amalia ch'era stata fino allora perplessa fra la speranza e il timore, al vedere i due vecchi stringersi a più riprese la destra con tutta l'apparenza d'una vera riconciliazione diede in un pianto dirotto e si gettò nelle braccia d'Adolfo che aveva pure gli occhi rossi, e poco mancava non la imitasse. Sopraggiunsero altri visitatori, e fu bene, perchè liberarono tutti dall'imbarazzo di venire a spiegazioni e proteste che avrebbero forse recato più danno che altro. I cuori avevano parlato e bastava. I due giovani videro bene che la pace non si sarebbe fatta a metà.
Quel giorno fu consumato in discorsi; chè potete ben pensare quante cose avevano a dirsi i due parenti riconciliati. Giunse l'ora del pranzo, anzi pur della cena, e il marchese e il figlio dovettero rimanersene lì, perchè l'Amalia, sbadatamente, avea fatto preparare due posate di più. Un buon bicchiere di vino stravecchio suggellò la pace perfettamente, e questo caso fece smentire in parte il proverbio, minestra riscaldata e amicizia rinnovata..... con quel che segue.
Ed ecco intanto le visite della sera: ecco portarsi i lumi, stendersi i tavolieri, trar fuori le carte e gli altri giuochi consueti della giornata. In una vasta sala si piantò una dolce partita di tombola, mentre quattro persone mature e assennate, fra le quali i nostri due campioni, si posero a rinnovare il classico e troppo a lungo interrotto tressette. Di mano in mano che la varia fortuna agitava gli animi fra l'intervallo delle partite, ricorrevano nella mente de' giuocatori i casi memorandi ed incredibili della passata carriera, e il marchese Nicolò fece onore alla sua memoria ricordando un cappotto dato due anni prima, e indicando l'ordine con cui s'erano giuocate le carte, e gli artifici finamente e coscienziosamente adoperati da una parte e dall'altra. Per buona sorte non ci furono sproporzionate vittorie nè di qua nè di là; sicchè gli animi rimasero in pace, e tutti celebrarono, prendendo il caffè, la restaurazione della sublime partita.
Dei casi della tombola non parlerò: dirò solamente che Adolfo ed Amalia furono sfortunatissimi. Mai non accadde che vincessero nè punto nè poco: anzi non saprei dire perchè i loro numeri non venivano coperti mai. O l'uno o l'altro gridava tombola, ed essi non avevano ancora fatto quintina.
Ma erano però tanto contenti dell'ambo!
I DUE CASTELLI IN ARIA.
I. La Camelia.
Matilde, quando io la vidi la prima volta, poteva avere tutt'al più sedici anni. Ella era l'unica figlia del conte Rinaldo di Susans, una delle più ricche e nobili case della provincia. Venuta alla luce assai tardi, quando il padre e la madre aveano già perduto la speranza d'aver un frutto della loro unione, fu circondata fin dalle fasce di tutte le cure che la tenerezza materna e l'orgoglio patrizio possono suggerire. Padre e madre erano fino allora vissuti per se medesimi; ora rivolsero entrambi il loro diviso egoismo in lei sola, e non vissero che per lei. Se creatura al mondo potesse essere un modello di perfezione e centro di tutte le umane felicità, questa creatura pareva dovesse esser Matilde. Lei ricca, lei bella, lei nobile, lei fornita di naturale ingegno e di tutti i mezzi più validi a svilupparlo. Il padre e la madre vagheggiavano codesto idolo, fabbricavano nella loro immaginazione il suo avvenire; la vedevano amata, ammirata, fatta segno d'una specie di culto a tutto il paese. Oh! se avessero potuto fabbricarle anche un compagno degno di lei! Questa sola idea, questo solo dubbio intorbidava le loro serene fantasie, e interrompeva il corso de' loro amorevoli sogni.
Appena Matilde cominciò a muovere i primi passi, appena la sua lingua balbettò le prime parole, si pensò al genere di educazione che si sarebbe adottato per questa privilegiata creatura. Il conte e la contessa erano stati educati come usava al lor tempo, in quel tempo in cui si diceva: — Tu sei nobile, tu sei ricco, che bisogno hai tu di studiare? Il povero che non ha terre al sole, studii e si affatichi per te. — Aveano imparato, una il ballo in convento, l'altro la scherma in un collegio di Gesuiti: sapevano scrivere, essa un viglietto d'invito, egli una rimostranza al fattore: quella avea letto la Clarissa di Richardson per tenersi in guardia dai Lovelace, questi il Candido di Voltaire per imparare a prendere il mondo con una certa superiorità: del resto avevano ubbidito ai consigli tradizionali ch'io dissi, senza pensare più là: anzi quando sentivano parlare di nuovi metodi educatorj, di nuovi istituti e di una farragine di libri che s'andavano stampando a tal uopo, ridevano cordialmente e chiamavano col titolo di novatori e di filosofi moderni tutta quella buona gente, veri don Desiderj disperati per eccesso di buon cuore.
Ma quando ebbero questa figlia si trovarono non so come cambiati. Le nuove idee erano loro entrate nel sangue senza che se ne avvedessero, anzi malgrado loro. Molte cose, che si sogliono biasimare finchè si considerano così in astratto, fuori del caso di metterle in pratica, si mostrano poi sotto un aspetto diverso quando l'adottarle o il respingerle può in qualche modo influire sul nostro ben essere. Ciò avvenne appunto ai genitori di Matilde. Cominciarono a dirsi fra loro: — Che fosse vero? Che abbiano ragione costoro? Che una migliore educazione possa proprio concorrere alla maggior felicità di Matilde? Bisogna provare: non foss'altro perchè il mondo non abbia a dire che si è trascurata alcuna cosa per lei. — Persuasione o vanità che fosse, fu stabilito fino da quel momento che la bambina sarebbe educata secondo i metodi, non dirò migliori, ma più moderni. E forse il conte e la contessa, facendo un esame di coscienza un po' più scrupoloso del solito, si saranno stimati per quello ch'erano, non per ciò che si sforzavano d'apparire. — Ella dev'essere più colta e più felice di noi! — si dissero i due conjugi, concludendo un diverbio in cui s'erano immersi un bel dopo pranzo, il giorno che la loro bambina era tornata da balia.
Povera bambina, da quel momento la tua sentenza fu irrevocabile. Tu dovevi riuscire perfetta e felice a lor modo!
Il metodo di educazione adottato dal conte e dalla contessa divideva l'educanda in tre parti: corpo, spirito e cuore; il corpo doveva riuscire sano ed elegante; lo spirito ornato di tutte le cognizioni che piacciono nella donna; il cuore poi bisognava preservarlo da tutte le forti emozioni di qualunque genere fossero — perchè — diceva il conte — le nostre passioni devono servire ai veri interessi della famiglia, — e perchè — aggiungeva la contessa — chi ha un cuore troppo sensibile, è alla fine infelice, ed io lo so per prova. — I due nobili conjugi si guardarono in volto, parvero voler dirsi non so che altro, ma poi si tacquero per prudenza. Il conte si contentò di grattarsi la tempia col dito mignolo, la contessa si morse un pochino il labbro inferiore e s'accostò alla finestra per pigliar aria.
La grand'opera intanto fu cominciata. Un medico amico di casa, esaminata la fisica costituzione della bambina, gracile anzi che no, ordinò che si dovesse guardarla dalle infreddature, coprirla bene, esporla all'aria meno che si potesse, trattarla, in una parola, come una pianta esotica che si fa vegetare nel calidario. Ogni giorno c'era qualcosa da fare, qualcosa da prendere; ora il calomelano pei vermini, ora l'ipecacuana pei denti, or la manna, or la magnesia caustica per altri malori infantili. Povero fiorellino! a cui si voleva dar tutto, fuori che il latte materno, l'aria, la luce e la libertà!
Quanto allo spirito ci si pensò subito. Si fece venire un'aja svizzera per insegnarle la lingua francese e la tedesca. — Già l'italiana — diceva il conte — s'impara da sè; — e poi — soggiungeva la contessa — l'italiano non potrebbe servirle a nulla nel bel mondo dov'è chiamata a brillare; tutt'al più a cantare un'arietta o una romanza quando se ne presenti l'occasione. — Allo studio delle lingue straniere tenne dietro il disegno, il ricamo e l'inevitabile pianoforte. Bisognava dai primi anni educare le dita alla flessibilità che domanda quell'istrumento. Più tardi poi si svolgerà l'organo della voce, si passerà dal suono al canto, com'è costume. Ogni giorno era diviso in piccoli frammenti: ogni giorno aveva la sua lezione di lingua, di disegno, di ricamo, di danza, di musica. Povero spirito! se non riuscivi un modello di perfezione, certo non era per difetto di cure.
Resta il cuore. Che cosa è il cuore? — s'era domandato il conte. Il cuore è un muscolo, un organo, un pezzo di carne e nulla più. Ma la contessa l'avea fatto tacere, citando madama di Genlis e non so quali altre chiarissime chiacchierone francesi che non hanno altra cosa in bocca se non il cuore. — Il cuore è tutto; e chi non ne ha, non ne parli. — Il conte tornò a grattarsi la tempia e abbandonò alla contessa e al suo venerabile direttore l'educazione di questa parte della sua diletta unigenita. Il venerabile direttore insegnò alla fanciullina di sett'anni il catechismo, le spiegò il libro dell'Imitazione, le inculcò l'obbedienza, l'umiltà, la rassegnazione, la veracità, la pietà e tutte le altre virtù. Questi insegnamenti erano utili e santi, ma la poverina li trovava spesso contradetti dalle massime che le venivano inculcando il padre, la madre, l'aja e le altre buone e savie persone che le facevan corona. — Questo è bene in sè — dicevano — ma non conviene al tuo grado. Fare la carità è cosa santa, ma non bisogna farla a persone sfaccendate e viziose. Questo è un dovere dinanzi a Dio, ma ti esporrebbe alle beffe dinanzi al mondo. Il decoro, il decoro, figliuola mia! Tutto sta nel distinguere. Altro è la teoria, altro la pratica. Da ciò si vede che il conte, non contento della triplice divisione, avrebbe voluto suddividere la educazione del cuore in due parti: il bene e il conveniente, la virtù e il decoro, la coscienza e il bon ton. — S'io sapessi scrivere — diss'egli — la vorrei inculcare a tutti questa necessaria distinzione. Ne parlerò al direttore. Io gli darò le idee, egli le metterà in carta, e porteremo la nostra pietra al grande edifizio della educazione sociale. —
Povero cuore! e che colpa ne avrai tu, se pel conflitto del dovere e della moda ti lascerai trasportare dalla corrente? —
Ospite, per un accidente che non importa narrare, in casa del conte, fui invitato ad ammirare i miracoletti dell'unigenita, che aveva, come vi dissi già, sedici anni. Vidi immersa in un soffice seggiolone una biondina pallida, magra, tutta occhi, che al mio entrare fece le viste di alzarsi, e ricadde a un cenno della madre sull'elastico suo cuscino. Aveva una cuffietta annodata sotto al mento da un nastrino celeste, un elegante accappatojo le avvolgeva le gracili forme, i piedini erano mezzo vestiti d'una pantofola ricamata. Doppie impannate impedivano all'aria di penetrare in quel santuario: e la luce del sole giugneva attraverso i ricchi cortinaggi che l'attenuavano e raddolcivano all'occhio. Molli tappeti coprivano il pavimento, serici arazzi le pareti, tutto era fatto per allontanare dalla delicata personcina le impressioni troppo vive che potessero ferirne i sensi. Il mondo fisico e il mondo morale non dovevano giugnere a lei se non modificati dall'arte.
Mentre il conte, la contessa e la bonne mi mostravano a gara chi un ricamo, chi un acquerello, chi un tema diligentemente ricopiato, chi l'albo pieno dei più smaccati elogi, la giovinetta si sforzava di sorridere con una gentile smorfietta, non saprei dire se di modestia o d'orgoglio, secondo il sistema anfibologico della educazione paterna. Ma la sua fronte cerea apparve solcata da una ruga obliqua tra i sopraccigli, e gli angoli della bocca presentavano una linea d'una espressione indefinibile d'amarezza e di pena. Era una malattia fisica o morale che si manifestava in quel sintomo? Non saprei dire. Forse l'una e l'altra insieme.
Uscendo da quella camera mi disse il conte: — Oh! mia figlia, quando sarà lanciata nel mondo, farà onore all'educazione che ha ricevuta. Un bel nome, dugentomila scudi di dote, e un'educazione così compìta! Che cosa le manca per essere perfetta e felice!
II. La Rosa.
Alcuni mesi prima che venisse alla luce l'amabile e privilegiata creatura che descrissi alla meglio, in un villaggio tre leghe discosto dalla città, nasceva un'altra bambina che doveva dividere con essa il latte materno. Nasceva senza aspettazioni, senza complimenti, quasi quasi senza levatrice; fu battezzata col nome di Maria, e il padre e la madre, buoni mezzajuoli del conte di Susans, vedendola vegeta e tarchiatella si dissero fra loro: — In pochi anni ci aiuterà al campo, e si farà il corredo filando. — Fu spoppata di sei mesi, perchè metteva già i denti ed appetiva altro cibo, e la Margherita s'offerse per balia alla bambina della propria padrona nata a quei giorni. Questa approfittò dell'occasione, dimenticò i libri che raccomandano alle madri questo primo dovere d'allattare i propri figli, consultò il medico di casa, il quale, interrogati prima gli occhi di lei, dichiarò che la sua salute non permetteva l'allattamento, e quietata così la coscienza, si mandò la figliuola a balia dalla Margherita. Chi vedeva quelle due bambine non poteva trattenersi dal paragonarle fra loro. Quella era vera figlia del campo, piena di vigore e di sangue, un bel boccino di primavera; questa era languida, sparutella; somigliava ad una di quelle roselline tardive che nascono alla seconda vegetazione d'autunno, e sentono già il verno imminente. Non avevano di comune che il latte della villana, e anche questo per puro accidente.
Questo accidente non fu però inutile alla Maria. La madre, dal punto che fu assunta all'onore d'allattare la figlia della contessa padrona, divenne oggetto di mille attenzioni. Le fu dato agio di ben nutrirsi, perchè il latte scorresse più salubre e sostanzioso nelle vene aristocratiche della bambina; le furono ripetuti e dalla dama e dal medico non so quanti avvertimenti d'igiene, dei quali la buona donna non aveva mai udito parlare al villaggio, ma che pure le parvero comodi e buoni a seguire. Conosciuta l'utilità di queste norme, le usò del pari per la propria figliuola che per l'altrui, e dei buoni brodi che le venivano amministrati godeva più la figlia naturale che l'adottiva, o almeno giovavano più alla prima che alla seconda. Tratto tratto la contessa faceva una corsa al villaggio e non dissimulava l'invidia che quella disparità le svegliava nell'animo. Anzi talora le spuntò il rimprovero, quasi che Margherita trascurasse la bambina a lei confidata per badare alla propria. Poi si racconsolava dicendo: — Si vede bene che codesto è sangue villano, mentre nei delicati lineamenti di mia figlia traspare la nobiltà del lignaggio! — Così, dato un bacio alla propria, e un pizzicotto all'altrui figliuola, rimontava in carrozza, e accompagnata dai suoi staffieri e dal medico, se ne tornava in città.
Mentre i due nobili parenti almanaccavano sulla educazione da darsi al proprio sangue, i due genitori del contado pensavano a Maria un po' meno che ai bachi da seta di cui solevano tenere una bella partita a metà. Ella veniva su come la mal'erba nell'orto, senza l'opera della vanga nè della zappa. Ma l'aria aperta, il sole, gli alimenti semplici e sani, svolgevano mirabilmente la sua buona natura, e fino da quei teneri anni si poteva augurare assai bene della futura rosa del contado.
Era davvero un bel bottoncino di rosa; paffutella, vermiglia, begli occhi neri, capelli folti, vispa come una anguilla, voce intonata e vibrante; correva, sguizzava fra le anitre e le galline, senza cuffia e quasi senza abiti, al sole e alla pioggia, senza timore d'infreddature, senza bisogno di magnesia nè d'altro.
Certo non sapea nè la Bibbia nè il Kempis. La madre le aveva insegnato l'orazione domenicale e l' Ave Maria, non senza qualche storpiatura inevitabile di pronuncia. Di tre anni fu mandata all'Asilo che proprio in quell'anno era stato aperto nel villaggio, secondo il metodo dell'Aporti. Quivi imparò a leggere, a filare, a cantare, mentre il padre e la madre badavano alle loro faccende, e si tenevano felici d'esser dispensati da quel pensiero. Quando la sera la rivedevano pulita, compostina, e più sveglia di prima, si sogguardavano fra loro con tacita compiacenza e benedivano la carità del buon fondatore. — Se avessimo avuto questa fortuna a' dì nostri! — dicevano — adesso non avremmo bisogno di ricorrere ad altri per una lettera e per un conto! — Quella buona gente riconosceva con queste parole la bontà dell'istituzione che fino dal suo nascere ebbe tante calunnie e tante opposizioni dagli illuminati del secolo e della Chiesa.
All'età di sette anni cambiò i denti e mutò d'occupazione. Andò ai campi, falciò l'erba, aiutò la madre in molte faccenduole domestiche, e così snodò le membra e divenne svelta ed aitante della persona. La sua musica si limitava al cantare la preghiera domenicale e l' Ave Maria colla semplice cantilena che aveva imparata all'Asilo; ma quando si trovava nei prati, o girava l'arcolaio dinanzi alla porta della casa, canterellava i patrii stornelli senza bisogno di maestro e senza cercarne l'intonazione sul pianoforte. Il ballo lo avrebbe imparato più tardi senz'altro insegnamento che l'esempio delle compagne: il disegno poi.... il disegno lo lasciava ai pittori, ed il dono delle lingue agli apostoli.
Questa è l'educazione fisica, spirituale e morale della Maria. Felice lei se non avesse pensato più in là, se la sua vita come quella di sua madre, fosse potuta scorrere fra l'angusta sfera delle idee d'una contadina!
Ciò sarebbe forse avvenuto senza l'accidente che pose per alcun tempo a contatto la figliuola del povero con quella del ricco. La contessa, anche dopo aver ritirato la sua bambina, ebbe più volte la degnazione di visitare la donna che aveva adempite presso di quella le funzioni di madre; fosse per bontà di cuore, o perchè quella specie di trasfusione di un sangue nell'altro avesse innalzato a' suoi occhi l'umile Margherita. E questa, piena di riconoscenza per tali atti di bontà, ed incoraggiata dall'affetto quasi materno che aveva concepito per la sua figlia di latte, recavasi qualche volta al palazzo colla sua bimba, e vedeva con gioia e con orgoglio assai perdonabile, quel resto di dimestichezza che regnava ancora fra quelle due creature destinate più tardi ad una vita così differente. Queste visite continuarono, benchè più rare, anche in seguito: cosicchè le due fanciulline ebbero agio di parlare insieme, di comunicarsi senza saperlo una parte delle loro idee, dei loro istinti e delle loro abitudini. Matilde mostrava alla villanella i suoi balocchi, le sue stampe, i suoi libri, tutti quei nonnulla di cui la circondavano i suoi genitori e gli amici di casa, nel Capo d'anno, nel Natalizio e nel giorno onomastico. La Rosa apriva tanto d'occhi, lodava questo, toccava quello, s'acconciava per celia e per contentare la padroncina gli smanigli e le altre cianfrusaglie di cui aveva piena la stanza: avrebbe voluto ella pure far pompa di qualche cosa, ma, poverina! che poteva mostrare di suo alla ricca damigella, se non qualche fiore cresciuto nell'orto, qualche volgare garofano, qualche mammola primaticcia. Questi erano i suoi tesori, e non mancava di recare alla sorellina di latte i più bei fiori che sbocciavano inaffiati dalle sue mani e destinati a quell'uso. Era appunto in queste occasioni ch'ella pregava la madre a volerla condurre dalla Matilde, la quale faceva buon viso al dono ed alla donatrice, sebbene che cosa erano quei fiori per lei che possedeva nei sontuosi stanzoni le piante più rare che l'industria del giardiniere aveva raccolto in più climi per essa? — Un giorno, non so se per orgoglio o per leggerezza, Matilde condusse la contadinella là dentro, tenendo ancora in mano il volgar mazzolino di mammole che aveva colto per lei frugando e rifrugando tutte le siepi del vicinato.
Quando Rosa vide quei fiori mirabili di forme e di tinte così peregrine, rimase mortificata del suo dono ed era lì lì per piangere. Matilde non si accorse di ciò, e quand'anche se ne fosse accorta, poteva essa indovinare la causa di quelle lagrime?
Avrei io forse fatto torto al suo cuore con questa supposizione? Avrei io, senza volerlo, data la preferenza alla figlia dei campi per istrazio dell'altra? Questa non era la mia intenzione. Entrambe avevano avuto qualche cosa più di comune che il primo alimento. S'amavano le due fanciulle quanto possono amarsi due esseri appartenenti alle due opposte estremità della scala sociale. Questo contatto fortuito aveva aumentato il capitale delle loro idee e delle loro affezioni. Se la villanella avesse potuto comunicare all'altra il semplice gusto per la campagna e non più, avrebbe contribuito alla educazione del suo cuore: così se la damina si fosse accontentata d'ispirare alla forosetta il sentimento della dignità e del decoro, e non altro, avrebbe avuto un diritto alla sua gratitudine. Ma non vediamo i beni altrui senza che in un modo o nell'altro non nasca nel nostro cuore, se non l'invidia, almeno un inutile desiderio di quelli. Di qui le due fanciulle cominciarono a fabbricare ciascuna nel suo segreto i loro castelli in aria. Gentili lettrici, uditeli entrambi, e poi mi saprete dire qual è il più bello.
III. Se io fossi villanella!
Io non so se Matilde abbia mai formulato così nettamente il suo desiderio; ma educata com'era fra le mura della sua camera, schiava delle convenienze, e più ancora di quella tenerezza guardinga dei genitori, che può essere anch'essa una specie di tirannia, trovando sempre un limite determinato ai movimenti del suo corpo, del suo spirito, del suo cuore, si può facilmente comprendere come dovesse aspirare ad una vita più libera, qualunque ella fosse. Il medico aveva un bel dire ch'ella si dovesse guardare dall'aria, dagli odori troppo forti, dalla soverchia luce del sole, dall'umidità della notte. Queste prescrizioni le acuivano il desiderio di ciò che le veniva interdetto: e mancandole il coraggio di protestare, si contentava d'invidiar la sorte di quelle che potevano a loro bell'agio mirare le stelle, dar la caccia alle fuggenti farfalle, abbandonare al venticello di primavera la lieve capellatura, e aspirare il profumo della tuberosa e della cardenia senza temere una nevralgia.
— S'io fossi villanella! — Se così non cantava il suo labbro, quando, assisa dinanzi al suo piano, addestrava la voce ai difficili gorgheggi che le venivano prescritti dal metodo, certo così avrà mormorato il suo cuore, quando dalle socchiuse persiane vedeva gli alberi e i campi, quando pensava alla sua sorella di latte, alla Rosa, che, a parer suo, doveva essere la più felice creatura del mondo. — S'io fossi villanella! —
— Di grazia, se foste villanella, che cosa fareste voi, signorina? — Oh, s'io lo fossi! Vorrei alzarmi prima dell'alba, vorrei visitare le mucche quando allattano i vitellini a cui spuntano appena appena le corna: vorrei cogliere i fiori del campo stillanti ancora della rugiada notturna, adornarmene il seno e la fronte, farne un mazzetto de' più belli per regalarli alla mamma e a tutti quelli che mi vogliono bene.
— Che fa a me la musica di Liszt con quei salti sterminati che mi rompono le dita? E quando son giunta in sei giorni a suonarne una pagina, non n'ho acquistato che un'emicrania? E quella di Thalberg e di Moscheles che, a dire del maestro medesimo, non ha sugo se non è suonata con quella perfezione alla quale, dic'egli, io non giugnerò mai? E perchè mi dovrò annojare mesi e mesi sul pianoforte, se non c'è speranza ch'io possa riuscire a tanto? Per me mi sembra che i trilli dell'usignuolo, che ascolto talvolta dalla finestra, fra i carpini del giardino, valgano bene le stravaganze del re de' pianisti; e le cicale che s'accordano fra loro la state, hanno anch'esse il loro merito, e quasi quasi, giacchè il maestro non mi sente, vorrei dire che mi piacciono più del trillo di Döhler.
— Dover consumarmi gli occhi per disegnare e ricamare qui questi fiori che non hanno nè odore nè eleganza nè senso comune, mentre laggiù ve ne sono tanti che crescono senza coltura nei prati, e così belli che il pittore più bravo del mondo non potrebbe imitarli? Non parlo di quelli che crescono e sbocciano a tutte le stagioni nelle conserve del babbo. Che stravaganza! Aver lì tutte le meraviglie del regno vegetabile, sempre pronte a' miei comandi, e dover logorarmi la vista qui per fare degli sgorbi per l'onomastico del tale, e per il giorno natalizio di un altro! Non sarebbe meglio darglieli questi fiori belli e freschi come sono in natura? Oh! io per me, quando sarà la festa del signor Antonio, penso che gli farò un bel mazzo di fiori freschi piuttosto che obbligarlo a lodare i miei scarabocchi. Il signor Antonio, che ha tanta buona grazia, mi saprà grado del cambio! —
Il signor Antonio era un giovane medico che aveva appena terminati i suoi studj, ed era stato presentato al castello da una vecchia zia che voleva lanciarlo, com'ella diceva, nel gran mondo, perchè avesse a meritare la ricca eredità che alla sua morte gli spetterebbe. Fra tutte le persone che Matilde aveva veduto, il giovine dottore le era parso il men lontano da quel tipo ideale che ne' suoi sogni la fantasia verginale le dipingeva. Egli l'avea guarita di un'emicrania con certe pasticche soavi, ben diverse dai beveraggi che gli altri medici la obbligavano ad ingollare. E poi egli non era stato così severo ad interdirle l'accesso negli stanzoni: insomma il dottorino le avea fatto una impressione se non profonda almeno gradita. Non ch'ella andasse più là! Sapeva bene che la vanità de' suoi genitori e le convenienze di famiglia non le avrebbero mai permesso d'amarlo. Sì davvero! il nobile stemma di Susans inquartarsi colla laurea dottorale del signor Antonio! Sarebbe stato un orrore!
Ma tra il sonno e la veglia, quando codeste idee di convenienza e di gentilizio decoro si presentano all'immaginazione attenuate dall'istinto involontario della natura, allora Matilde faceva il più bell'appartamento del suo castello in aria a proposito del dottore. — S'io fossi villanella! — tornava a cantare fra sè. — Egli m'ha detto l'altra sera che, ad onta della volontà della zia, pensa di lasciar la capitale e di accettare una condotta in un povero villaggio. Che nobili sentimenti! Egli non intende d'essere a carico di nessuno, nè anche della sua parente di cui dev'esser erede! Egli vuole farsi un'esistenza da sè, bastare, in una parola, a se stesso! Sapessi almeno il villaggio dov'egli intende di confinarsi! Mi sembra già di vederlo recarsi volontario, nella cruda notte, alla capanna del povero, restituire quasi per miracolo i perduti colori alla figlia del campo. Io la invidio! Credo che vorrei sopportare di buon grado qualche lieve incomodo per dargli il piacere e il trionfo di liberarmene! Che compiacenza essere a lui debitrice della salute! Che dolce ricambio di affetto nascerebbe nell'animo nostro! E chi sa! forse egli potrebbe amare la villanella che avesse salvata da morte, e legata a se stesso col saldo vincolo della gratitudine. Ed io gli direi cogli occhi, perchè non oserei colle labbra: Io sarò la vostra compagna per tutta la vita. —
Ma qui i suoi pensieri, i bei sogni pastorali di Matilde prendevano un'altra via. Ella tornava nella realtà del suo stato, e diceva a sè stessa: — Pure, questa dichiarazione, che non compromette, potrei fargliela addirittura! Una buona dote non guasta. Ma e' saprei allora se egli accettasse la mia proposta per riguardo a me o non piuttosto per amor delle mie ricchezze! La povera villanella sarebbe certa che l'amor solo lo indurrebbe a darle la mano: mentre io sono qui fatta segno alle smancerie di quattro o cinque aspiranti, che, ne son certa, fanno la corte a' miei denari e non altro. —
E restava pensando alla sua posizione, e cercando pure di acquetarsi alla grande infelicità d'aver una dote di dugentomila scudi. — Io li ho, tutti questi denari, io li ho certo: tutti me lo dicono con invidia. Ma intanto io non posso servirmi della più lieve somma senza passare per una trafila di domande e risposte che mi fanno rinunciare a una moltitudine di piccoli bisogni e di piccoli desiderj. Almeno la povera villanella che ha vegliato alcune notti torcendo il fuso, è padrona assoluta delle poche lire che busca, e può servirsene a suo talento! Ella è più ricca di me che passo per milionaria, e non posso comperarmi uno spillo senza dire il perchè. — Ella va al mercato, sceglie un corsettino aggiustato alla persona come quello della Rosa, e la domenica alla chiesa o alla festa di ballo tutti gli occhi sono rivolti a lei, e tutti l'ammirano. E se l'è fatto co' suoi guadagni!
Io invece non vado mai al ballo: hanno paura ch'io pigli un reumatismo. Oh! vorrei sapere perchè m'hanno fatto dare tante lezioni di ballo da quel brutto monsieur Moulin! Veramente un bel gusto a ballare il valzer e la polka con quello stupido scimmiotto! Ecco la Rosa che balla meglio di me, e non ha mai preso lezione di sorta. Davvero ch'io la invidio, la Rosa! Voglio assolutamente andarmene a stare un mese con lei, al villaggio. Oh sì! Coglierò il momento che il babbo è di buon umore; gli salterò al collo e gli dirò: Babbo mio, se non volete vedermi morire, lasciatemi andare due settimane in compagnia della Rosa. E piangerò tanto che me lo dovranno permettere perch'io non ammali davvero. Quando sarò colla Rosa, mi comprerò un gonnellino corto come il suo, m'aggiusterò un corsetto verde con bei nastri color di rosa, e farò conto d'esser una villanella.... Oh, se il signor Antonio venisse a far il medico in quel villaggio! Che bella improvvisata gli vorrei fare! —
— Madamigella Matilde, sapete voi quante sciocchezze avete pensato in questo quarto d'ora? Se foste villanella! E sapete voi, signorina, che cosa significhi vegliar più notti di seguito torcendo il fuso? Sapete voi che fa la povera filatrice delle poche lire che busca? Sapete voi?... Voi non sapete nulla, Matilde. Entro il vostro splendido appartamento voi vedete il mondo esteriore come a traverso d'un prisma che ve lo dipinge di tinte brillanti che esistono forse, ma non si scernono ad occhio nudo. Voi sognate un mondo ben diverso dal vero: e se il caso avverasse i vostri desiderj, pochi momenti basterebbero a trarvi d'inganno. Io non dirò che siate molto felice nel vostro stato; ma so che non reggereste ne' panni della povera Rosa.
IV. S'io fossi damigella!
Rosa girando l'arcolaio dinanzi all'uscio della sua modesta casetta vedeva tramontar il sole di là dai pioppi che ombreggiavano il cortiletto, e cantava questa canzone senza temere il critico che le rimproverasse le rime assonanti, nè la madre che la trattasse di pazzerella.
S'io fossi damigella
Signora d'un castel,
Vorrei montare in sella
A un nobile destrier.
Vorrei vestir un manto
Stellato come il ciel,
Ed un cappel piumato
Al par d'un cavalier.
Caracollando intorno
Per ville e per città,
Farei stupir il mondo
Di tanta nobiltà.
Vorrei, dovunque andassi,
Gettar argento ed ôr —
La gente su' miei passi
Seminerebbe i fior....
Ella cantava questi versi in parte improvvisati, in parte tolti da un'antica ballata, con una cadenza malinconica conveniente più all'ora del giorno e allo stato del suo cuore che al senso delle parole. Dissi allo stato del suo cuore, perchè la giovanetta non era punto allegra come avrebbe creduto Matilde, ma dal timbro della sua voce, dal pallore del suo viso, e più dai suoi sguardi trapelava una secreta tristezza. Ella cantava nondimeno perchè il canto è per il popolo uno sfogo alla passione, al dolore, e fino alla collera. Tutto ad un tratto ella interruppe la sua ballata, o perchè non rammentasse più avanti, o perchè i pensieri le si facessero d'altra specie e troppo dissonanti dal tenore delle sue strofe. Ma cessando dal canto, nella fantasia seguì a costruire il suo castello in aria, d'un'architettura assai diversa da quello della sorella di latte. Gli è forse che si desidera al mondo ciò che ci manca; o piuttosto, afflitti dai dolori inseparabili d'ogni stato, invece di pensare che ogni condizione ha i suoi proprj, si pensa che la felicità stia di casa molto lontano e sia il retaggio degli altri che si trovano o più alto o più basso di noi. Per questo Matilde, sui ricchi arazzi della sua camera, desiderava lo smalto de' prati, e Rosa pensava con invidia agli agi e alle mille superfluità della sua nobile amica. Chi mi sa dire se i pochi mesi passati insieme non avevano influito a codesto? Chi sa se l'amor della natura non era entrato nel sangue a Matilde col latte della villana, e se l'ambizione della ricchezza non era stata alla Rosa inoculata per gli occhi quando entrava nei ricchi appartamenti della padrona?
Checchè ne sia, Rosa fabbricava anche essa il suo castello in aria, ed era davvero un castello. Sognava cocchi volanti per le vie popolose, ricchi addobbi, splendide vesti, e tutto ciò che il lusso e la ricchezza può dare.
— S'io fossi damigella — pensava fra sè — vorrei ben vedere io se mi terrebbero in catene come tengono la padroncina! Povero il mio arcolajo, fa' pur conto che io non vorrei toccarti nè pure per giuoco. È un mese che ti giro e non sono ancora giunta a mettere insieme tanto da farmi una gonnella nuova. Sempre c'è qualcosa che mia madre mi fa toccar con mano come più necessaria. Trista condizione del contadino! lottare continuamente contro i bisogni, e mai poter mettere da parte una sommerella che basti a soddisfare un capriccio! Ecco: quel povero Marcello dovrà marciare per la Germania, e abbandonare la sua famiglia fra pochi giorni. Mille lire basterebbero a trovargli un cambio, ed egli potrebbe restare al paese, lavorare i suoi campi, e mantenere la sua parola!.... —
Qui la Rosa restava sopra pensiero, e una lagrima grossa le rigava il pallido viso senza ch'ella pensasse ad asciugarla. Ad un tratto diede una spinta più rapida all'arcolaio, il quale girò, girò, portando seco nelle sue rabbiose giravolte il sogno della fanciulla. Voi v'immaginate già, mie care leggitrici, che codesto Marcello non era straniero alla povera Rosa. Ella lo amava nel secreto del suo cuore, assai più che Matilde non avrà amato il giovane medico: ed anche Marcello, passandole vicino o con un pretesto o con l'altro, le aveva fatto intendere più per cenni che per parole che le voleva tutto il suo bene. Al villaggio non si parla per ordinario d'amore se non c'è la possibilità di santificarlo col matrimonio. Ivi si conoscono molto meno quelle dichiarazioni vaghe che non compromettono, e intanto aprono l'adito a sì spiacevoli disinganni. Marcello non aveva al mondo che le sue braccia, e la Rosa nulla di più; ma le braccia sono una buona dote per un contadino, e il giovanotto non avrebbe esitato un momento a fare la sua domanda in regola, se non avesse avuto il pensiero della coscrizione che lo perseguitava siccome un incubo. Avrebbe egli impegnato la sua fede colla giovane, senza esser certo di poter accasarsi con lei?... Infatti il pericolo ch'ei temeva s'era avverato a que' giorni. Egli tirò a sorte un numero che non oltrepassava il contingente richiesto. Sano e robusto com'era e non soggetto ad alcuna eccezione, dovette rassegnarsi a passare i più begli anni della sua vita in una caserma, sa il cielo in qual clima. La Venezia in quel tempo era ancora governata dai caporali di Vienna. Il giorno che, ritenuto per buono, ritornava per l'ultima volta a dormire a casa, colse uno de' soliti pretesti per passare dinanzi al cortile della Rosa. Questa, come lo vide un po' stralunato, capì subito di che si trattava, e non osò aprir bocca per accertarsene. Egli avvicinandosi timidamente alla villanella, le prese per la prima volta la mano, e sforzandosi a sorridere mestamente, come se avesse seco lei un'antica famigliarità: — Rosa, — disse — a rivederci fra ott'anni, se saremo vivi. — La fanciulla rivolse gli occhi gonfi di lagrime, e non rispose. — Se non era questa disgrazia — soggiunse l'altro — forse io vi avrei parlato d'un mio progetto.... ma io non ero degno di questa fortuna. Perdonate, Rosa, state sana, e ricordatevi qualche volta di chi vi vuol bene. — Rosa seguitava a tacere, perchè sentiva stringersi il cuore ognor più; raccolse una bianca pratellina che vide poco lungi fra l'erba, e la porse al coscritto per tutta risposta. E ambedue si lasciarono frettolosi, quasi per vincere colla violenza un sentimento che involontariamente s'impadroniva dei loro cuori. Il pallore e la tristezza che abbiamo notato nella giovane poco fa, derivavano da questa causa.
Chi mi domandasse qual risoluzione prendesse nel suo cuore la giovinetta, risponderò che una sola risoluzione le era possibile: quella di aspettare. Rosa aspettava, la poverina, aspettava che passassero quegli otto anni, che le sarebbero parsi sì lunghi, che potevano essere così pieni d'avvenimenti, ogni giorno de' quali poteva distruggere quel tenue filo che legava oggimai la sua vita a quella del giovine soldato. Questa era la risoluzione seria: del resto la fantasia vivace della fanciulla trascorreva talvolta in sogni chimerici, architettava le più assurde combinazioni che avrebbero potuto abbreviare quella lunga separazione. — Ecco che cosa è l'esser poveri! — diceva la Rosa. — S'io fossi ricca, venderei tutte le mie gemme, tutti i miei poderi per rendere al povero Marcello la sua libertà. Mille lire! M'hanno detto che questo basterebbe a mettere un cambio. Che cosa sono alfine mille lire? — diceva la Rosa che non n'aveva vedute mai più di venti ad un tratto. Ma ella era in questo diversa dalla gente della sua condizione, per la quale mille lire sarebbero una somma favolosa, un non plus ultra. Rosa aveva l'istinto della ricchezza, e tutto era niente per lei, quando la sua immaginazione pigliava il volo per gli spazi aerei ch'era abituata a trascorrere.
In questi sogni d'oro ella pensava sempre a Matilde, e diceva: — S'io fossi in lei! — Povera Rosa! E chi ti assicura che colle ricchezze non ti fosse saltato addosso anche l'egoismo che per lo più le accompagna! Chi ti assicura che l'adempimento di tutti i tuoi desiderj non t'avesse ad inaridire quei nobili impulsi del cuore? A sentir lei, avrebbe fatto felice tutto il villaggio. Tutti i bambini e le bambine avrebbero imparato a leggere e a scrivere, tutte le fanciulle avrebbero avuto un po' di dote per facilitare il lor matrimonio. A quella vedova che abitava laggiù in un casolare aperto alle intemperie, ella avrebbe fatto trovare un buon letto in luogo dell'umido canile dove passava gli ultimi giorni della sua vita. Quella famiglia di coloni, ch'era stata licenziata da un podere che teneva a fitto, perchè i bachi erano iti a male, e non aveva potuto pagare puntualmente la rata, avrebbe trovato nella madia, o in un cantuccio della casa, la somma che non aveva potuto raggranellare e che l'avrebbe consolata. Ella assisteva dal buco della chiave alla sorpresa di quella buona gente, ne vedeva la gioja, e gustava un piacere più grande ancora del loro. E Marcello! Essa gli avrebbe pagato il cambio senza ch'ei lo sapesse, e all'indomani, recandosi al Distretto, gli sarebbe risposto che il numero era saldato, e ch'egli poteva tornarsene al suo villaggio. Immaginava la sua meraviglia, la sua allegrezza, e con qual animo sarebbe venuto a ritrovarla e a raccontarle la sua fortuna, ignorando che la gli venisse da lei. Ella gli dava la mano, si rinnovavano le promesse, e si stabiliva d'accordo il dì delle nozze: — S'io fossi damigella! — diceva la Rosa.
— E se foste damigella, mia buona Rosa, conservereste voi per Marcello quel cordiale affetto che gli portate? Non aspirereste voi a qualche partito più splendido? Non sognereste voi un cavaliere, con un bel pennacchio sull'elmo, o qualcheduno di quei signorini che stancano i loro cavalli inglesi nei viali, o passano lungo il corso nei loro cocchi lucenti?
V. Confidenze.
Non erano passati due mesi dacchè le due fanciulle aveano fabbricato ciascuna il proprio castello, quando un bel giorno la Rosa sentì lo scalpito di due cavalli, e alzando gli occhi dall'arcolajo vide arrivare Matilde in abito d'amazzone assisa sopra un bel ginetto a scorza di castagna, accompagnata da un suo cugino che aveva assunto l'incarico d'insegnarle l'arte del cavalcare. Poco dopo giunsero in carrozza i suoi genitori, i quali le furono tosto d'attorno inquieti per la cara sua vita. Avevano dovuto arrendersi al capriccio di lei, ed anche alle istanze del suo maestro sul quale m'avverrà in seguito di far qualche parola: ma vi potete figurare con quante restrizioni, con quanti consigli, con quanti timori! La fanciulla alla fine l'aveva vinta, o piuttosto essi avevano dovuto cedere al suo desiderio, per paura che il contrastarvi a lungo non recasse più danno alla sua salute che una cavalcata di poche miglia.
Matilde spiccò un salto dal suo palafreno, e lesta come una gazzella, senza depor lo scudiscio, s'accostò alla sua sorella di latte e l'abbracciò con insolita effusione di tenerezza. La Rosa attonita lasciava l'aspo e l'accoglieva con un misto d'imbarazzo, d'affetto e di meraviglia.
Le mie lettrici potrebbero qui domandarmi s'io volessi addirittura por mano alla doppia trasmigrazione di quelle due anime. — Che sì — diranno — che fra poco vedremo la Rosa inurbarsi a cavallo, e la Matilde, novella Erminia, travestirsi da villanella e girar l'arcolajo in luogo d'affaticare gli abbandonati suoi tasti? — No, signorine; io non ho l'intenzione di soddisfarvi. Dal detto al fatto c'è un gran tratto. V'ho già detto sul principio di questo capitolo che erano corsi due mesi d'intervallo, e voi vi dareste a credere che codesti edifizj reggano tanto? Oibò! La Matilde s'era fatta una ragione; avea già considerato la differenza delle due condizioni, e benchè non potesse convenire della propria felicità, pure aveva smesso il singolar desiderio di farsi villana. Anzi, come vedrete fra poco, avea cambiati altri desiderj annessi a quel primo: avea rinunciato, in una parola, a quel sogno pastorale, accontentandosi di far quella gita. Ora però abbracciando la semplice villanella, le era rifluito nel cuore un resto di quel capriccio, e si ricordò del suo sogno, quanto la Rosa del proprio. Anzi, a dire il vero, quest'ultima, anima più schietta e più affettuosa, da quella insolita visita avea preso argomento a non diffidare interamente de' suoi progetti.
Le due fanciulle ebbero un lungo colloquio a quattr'occhi, mentre il conte, la contessa, il cugino e due staffieri sopraintendevano ad ammannire un pranzo campestre in compagnia della madre di Rosa. Non è bisogno ch'io dica che avevano trasportato in carrozza un'intera dispensa. Lascio lì questi preparativi gastronomici, e mi nascondo dietro una vite per assistere non veduto al dialogo delle due cervelline.
— Sai tu — diceva Matilde — sai tu ch'io invidio la tua condizione?
— Oh! che dice mai?... Contessina!
— Sì davvero. Se tu sapessi, cara sorella, quante noje nel nostro palazzo, quante cerimonie, quanti riguardi che opprimono l'anima e c'impediscono quasi di respirare. Qui tu sei felice, non ti manca nulla; se vuoi, lavori e ti pigli di bei quattrini: se non vuoi lavorare, corri pei campi senza cappello, e senza timore che si trovi a ridire sul fatto tuo. Parli con chi ti piace, fai all'amore con chi ti va a genio: insomma più ci penso, e più mi confermo che la vera felicità sta di casa fra i boschi e fra le capanne.
— Ma.... lei certo vuol scherzare, signorina....
— Come, io voglio scherzare?... Non ne sei tu persuasa?
— Io veramente non mi lagno del mio stato, ma nondimeno, veda, ci corre assai dal quadro che me ne fa.... Per esempio, ella dice ch'io busco di bei denari, e invece il lavoro ci manca assai di frequente, e si guadagna sempre meno di quel che bisogna. Ho fatto un conto che per guadagnare la somma di mille lire che mi sarebbe necessaria, dovrei lavorare dodici anni.... anche vegliando la metà della notte.
— Mille lire! Ma che vuoi tu fare di mille lire?
— Ma, non dico per me.... — e qui senza ch'io lo ripeta per filo, la Rosa mezzo arrossendo, mezzo interrompendosi, con certe sue originali parafrasi, raccontò alla ricca damigella l'affare del cambio, e come qualmente ella avrebbe voluto fare una grata sorpresa al povero vignajuolo.
Matilde si ricordò allora del dottore, ma non credette punto necessario di farne la confidenza alla Rosa. Questo episodio della sua storia ideale avea già dato luogo ad altri episodii. Onde tra per evitare quella coincidenza, tra per l'affezione che portava alla villanella, volle sapere lo stato preciso della faccenda. Il coscritto si trovava già al capoluogo aspettando il momento d'indossar l'uniforme, e cominciare i primi elementi del tirocinio militare.
— Signora — seguiva la Rosa — incoraggiata dalla sollecitudine che mostravale la damina, io ho fatto proprio un castello in aria contrario al suo. S'io fossi in lei, diceva fra me, in lei ch'è così ricca, che ha tanti aderenti, che può comandare a bacchetta, vorrei farmi sentire! E quando avessi trovati inutili gli altri mezzi per ottenerne l'esenzione, avrei fatto un fascio dei miei giojelli, e n'avrei impiegato l'importo a mettergli un cambio senza ch'ei sapesse da qual parte fosse venuta la libertà....
— Senza ch'ei lo sapesse! — pensò Matilde. — Ecco una bella idea, cara Rosa. Questo si chiama aver della generosità e della delicatezza....
— Oh! che dice mai! È naturale. Sarebbe lo stesso che volersi comprare l'amor suo a contanti!
— Benissimo, cara Rosa. Questo tuo sentimento val più di mille lire, vale più di tutte le gemme del mondo! — E l'ammirazione della damigella era vera e cordiale; ma pure non l'era ancora balenato in mente ch'ella poteva avverare quel sogno senza suo incomodo. Il conte avea bene speso oltre a tremila lire per comperarle il suo cavallo inglese. Il terzo di quella somma sarebbe bastato a redimere un uomo, e il pensiero di codesta azione generosa avrebbe fruttato a Matilde una serie di compiacenze molto più profonde che non facesse il possesso del suo cavallo. — Ma pure questa idea così facile non le poteva entrare in mente. La Rosa che formulando quel suo desiderio l'avea battezzato per sogno, guardava timidamente la damigella, la vedeva con gioja secreta infervorarsi; ma poi accorgendosi che non s'andava più là, abbassava gli occhi vergognosa o d'aver detto troppo o d'aver troppo sperato.
A questo punto del loro colloquio sopraggiunse una parte della comitiva che già cominciava ad inquietarsi dell'assenza di Matilde. Rosa si levò tutta rossa, e si recò presso alla madre per dar mano agli ultimi preparativi del pranzo. Matilde presa in mezzo dal cugino e dal padre la seguì lentamente senza più pensare al dialogo di poc'anzi.
Mezz'ora dopo sotto il porticato dinanzi alla povera casa colonica, sedettero a mensa i quattro ospiti illustri. I due staffieri in livrea stavano ritti dietro alle seggiole provvedendo al servizio del pranzo improvvisato alla meglio; Rosa e sua madre tutte rosse e trafelate per la insolita faccenda portavano fuori le vivande nella signorile majolica che non s'era mancato di trasportare dalla città.
La ricca damigella, seduta come una principessina sulla povera scranna (le scranne non s'era pensato a portarle), s'affisò una volta nel viso rubicondo e mesto ad un tempo della sua sorella di latte, ridotta allora all'umile ufficio di serva. Non vo' dire che si passasse nell'animo suo. Forse un sentimento d'orgoglio di trovarsi collocata a tanta distanza da quella a cui poco prima avea degnato parlare come a sua pari, forse anche un po' di gratitudine al vederla così affaccendata per farle piacere. Quello ch'io vi so dire, lettrici mie care, si è che in quel momento la contessina non avrebbe canterellato fra' denti: — S'io fossi villanella! — E pure quante circostanze più gravi, più dolorose, più umilianti di questa dovevano contrassegnare la vita di Rosa!
Certo in quel momento non era codesto che spargeva di tanta amarezza i lineamenti di Rosa. La povera fanciulla era stata crudelmente disingannata sul conto della nobile sua sorella. Nella sua poetica semplicità ella s'imaginava che Matilde all'intendere la storia di Marcello non avrebbe esitato un momento a dire: — Ecco un giojello del valore di mille lire: va' dal giojelliere e libera il tuo promesso dalla trista necessità che lo attende. — Vedremo però che la Rosa non s'era tanto ingannata sull'animo di Matilde, quanto sul potere che le attribuiva di disporre a suo talento dei propri giojelli. La colpa di Matilde era quella di non avere inteso di lancio il bene che poteva fare, e che la villanella osava sperare da lei. Ciò prova che, ornando il suo spirito, non s'era pensato a svolgere le nobili facoltà del suo cuore. È vero che al cuore basta sovente l'istinto; ma se l'educazione nostra è fatta appunto per ammorzare gl'istinti e per sostituirvi i calcoli dell'interesse e dell'egoismo?
Ma in che razza di riflessioni mi vado io perdendo? Ecco il pranzo al suo termine: ecco gli staffieri in moto per allestire i cavalli e la carrozza. Si disputa una mezz'ora se Matilde sarebbe ritornata a cavallo o nel cocchio. Ma il suo giovane maestro fece avvertire che la sera era fresca, che la bestia era tranquilla e fatta a bella posta per una damigella che voglia addestrarsi all'equitazione; onde fu risoluto che la carrozza seguirebbe l'ambio delle due cavalcature, per esser pronta a un bisogno.
Giunta l'ora della partenza, Matilde chiamò la Rosa per salutarla. Questa le si accostò; ma men lieta e men confidente del solito. Invece del cordiale abbracciamento che era solita ricambiare, le fece un umile inchino, e le cadde una lagrima. Matilde volle chiederle la cagione di tal cambiamento, ma il suo ginetto raspava per desiderio d'aver sul dorso sì nobile peso. Le due sorelle si separarono senza più, e chi sa con qual animo si rivedranno!
VI. Conclusione.
Mentre Matilde cavalcava a bell'agio verso la città, il lento e monotono passo, l'ora del vespro, e sa Iddio quali altre circostanze, influivano per modo sull'animo suo, che si mostrava più mesta che mai. Alle galanti rimostranze del cugino che le cavalcava da presso, o non dava risposta, o le risposte eran tali che gli toglievano il desiderio di replicare. Matilde aveva sempre dinanzi agli occhi quella lagrima sfuggita alla Rosa, ripensava al colloquio avuto con essa, e cerca, cerca, finalmente le parve di scoprire la vera causa della subitanea freddezza che era in lei succeduta alla ingenua espansione della mattina. Dico le parve, perchè in Matilde non era più che un sospetto. — S'io verificassi il suo sogno — diss'ella fra sè — S'io le consegnassi questi braccialetti da vendere? A mio padre dirò d'averli perduti, che mi sono stati rubati, che so io? Una scusa la troverò. Anzi vo' dirgli la verità; gli chiederò le mille lire per mettere il cambio allo sposo della mia sorella di latte: mio padre non mi negherà di fare una buona azione. Egli ne ha spesi ben più per comperarmi il cavallo. — Ella diceva così perchè la cosa infatti non avrebbe dovuto parer differente nè pure al conte: ma egli avea talora certe ragioni inaspettate per opporsi ai desiderj della figliuola, che questa non era senza inquietudine intorno all'adesione di lui nel caso presente. Ci pensò alquanto, poi conchiuse fra sè: — E s'egli mi negherà queste mille lire, io ricuserò di dar la mano a costui!...
Questo costui era poco lontano da lei: era il cugino che le aveva posto in capo il grillo di cavalcare. Noi non entreremo nelle ragioni di famiglia che potevano indurre il conte di Susans a preferire a tutti gli altri questo partito. Forse sarà stato il nobile desiderio di condensare in una sola famiglia la dote della figliuola e il ricco patrimonio di lui. Dico nobile nel senso stretto della parola. E forse la ragione che lo induceva era un'altra. Il conte s'era avveduto dell'inclinazione nascente della Matilde per il giovane medico. Ho detto ch'egli s'era assentato dalla città per farsi uno stato da sè: ma io dubito invece che le mene secrete del conte ci avessero alcuna parte. Checchè ne sia, non giova diffondersi, giacchè ho preso l'obbligo di conchiudere. Dirò solo che la Matilde ne fu ammalata per alcuni giorni, poi cominciò a pigliar aria, a rasserenarsi, a dimenticare. Già fin dal primo momento quel partito le era parso impossibile secondo le idee gentilizie della famiglia. Onde s'acquetò, transigendo col padre e con se medesima con questa restrizione mentale: — S'io non posso maritarmi a voglia mia, almeno non isperi maritarmi alla sua. — Questa risoluzione era troppo recente perchè non pensasse a metterla in atto nell'occasione che le si offerse pochi dì appresso. Il conte le parlò alla lontana del cugino, delle sue amabili maniere, delle sue ricchezze, delle sue aderenze, ecc., ecc. Matilde intese, e finse dapprima di non intendere; ma poi, dichiarata la cosa, trovò il coraggio di rispondere al conte: — Padre mio, voi non vorrete, spero, sacrificarmi: io non amo il cugino, e non sarò sua sposa in eterno. — Capite che nel piano educativo del signor conte padre dovea essere ammessa o almeno tollerata la lettura di qualche dramma o romanzo di bella stampa. Non era un mese che quella parola sacramentale in eterno era stata proferita da Matilde, e già l'eternità cominciava ad accorciarsi contro l'avviso dei metafisici. Almeno in questo caso il capriccio che eccitava Matilde a venir a patti col tempo e colla sua parola, era un capriccio di buon genere. — Io sposerò — diss'ella — un uomo che non amo, ma almeno avrò contribuito alla felicità della Rosa. — Quell'apparenza d'eroismo che c'era in questa proposizione sedusse l'animo cavalleresco della fanciulla; spronò il ginetto, e in preda all'entusiasmo di questo progetto non si fermò che nel cortile del suo palazzo, rubiconda le guancie e animata gli sguardi d'una nuova e gentile alterezza. Porse graziosamente la mano al cugino ch'era smontato prima di lei, ed entrò balzelloni nell'appartamento che, sia detto fra noi, le parve più bello e agiato della capanna di Rosa.
Non erano passati alcuni giorni da questa memorabile cavalcata, che Rosa si vide comparire dinanzi Marcello. Povera Rosa, fu per trasecolare quando seppe da lui che aveva potuto sottrarsi alla coscrizione e mettere un cambio. Ma come? In qual modo? Come aveva trovata la somma enorme che si chiedeva? Questa somma oggimai pareva enorme alla Rosa, perchè il recente suo disinganno le aveva mostrato che c'è quasi altrettanta difficoltà ad averla in dono dai ricchi, quanto a raggranellarla col cotidiano lavoro. Marcello le raccontò come un maggiordomo incognito fosse venuto a trovarlo nella caserma, gli avesse consegnata la somma necessaria ad un cambio, e l'assenso della Commissione di leva a rilasciarlo in libertà, tosto che avesse presentato persona che lo rappresentasse nel numero. Il maggiordomo aveva fatto entrare un soldato che aveva pochi dì prima terminata la sua capitolazione, e il quale, per la somma proposta era pronto a riprendere l'uniforme. — Io credevo di sognare — soggiunse Marcello — ed ebbi appena il tempo di chiedere da chi mi veniva l'inaspettata beneficenza. Il maggiordomo sorrise, e mi disse che veniva da voi; e prima che mi riavessi dalla sorpresa era già sparito, lasciandomi nelle mani il denaro e la prova della mia libertà. Ora mi direte voi la parola di questo mistero. —
La Rosa non la sapeva questa parola, ma non tardò a immaginarsela. Ella riconobbe l'opera di Matilde, e quest'opera le parve tanto più nobile e generosa, che era stata eseguita prima che promessa, prima che chiesta; anzi oggimai fuori di ogni aspettazione e d'ogni speranza. Raccontarono alla famiglia l'avvenuto, e come si può credere, si stabilirono su due piedi le nozze.
Di lì a pochi giorni i due sposi, seguiti dalla madre di Rosa, giunsero al castello per ringraziare la loro benefattrice. Ella stava soscrivendo il contratto nuziale che la doveva legare al cugino, e ne pareva contenta. Certamente, se il merito d'una buona azione può influire sulla nostra felicità, Matilde non avrà a pentirsi di ciò che ha fatto. — Ma i castelli in aria?
E se erano fabbricati in aria, mie buone lettrici, dovevano presto o tardi dileguarsi in seno d'un elemento così mutabile ed incostante. Ma tutto almeno non isvanì. Rosa vide avverarsi la parte più essenziale del suo bel sogno, senza cavalcare all'amazzone per le ville e per le città; e Matilde si riconciliò colla sua ricchezza che se, inoperosa, le aveva dato più noia che altro, le aveva procurata la più gran compiacenza della sua vita quando aveva cominciato ad usarne.
IL DIRITTO E IL TORTO.
PROEMIO.
Questi due nomi, o meglio le due idee, i due giudicii che esprimono, si alternano, si intrecciano, si confondono nel mondo morale, come il filo bianco e il nero in que' tessuti misti che sono il più volgare indumento degli uomini che vestono panni.
Il diritto non è mai solo nè assoluto in questa bassa valle di lagrime, di soprusi, d'interessi reciproci, di passioni accanite. Quando vi si pianta arrogante dinanzi, guardategli subito intorno, e vedrete far capolino una figura storta e gobba che è l'antitesi del diritto; lo segue passo a passo, gli attraversa il cammino, gli dà il gambetto, lo prende a mezzo il corpo, lotta con lui, e gli si avvinghia alle gambe e alle braccia sì strettamente, che gli amici della pace si affaticano invano a dirimerli e a porli d'accordo.
Sia nel campo politico che nel sociale, diritto e torto non vanno mai scompagnati. Vi sono uomini rigidi e puritani che assumono l'ufficio di giudici, e sono sempre lì per sentenziare: codesto è il diritto. Ce ne sono altri di natura benevola, che continuano le allucinazioni di Don Chisciotte, e si affannano a raddrizzare i torti. Ce ne sono finalmente di quelli che a forza di veder confuse quelle due idee, e l'una pigliar lo aspetto dell'altra, sono divenuti scettici e indifferenti, e chiamati a decidere chi abbia ragione fra l'assassino e la vittima, fra il giudice e l'accusato, si stringono nelle spalle e rispondono: — chi lo sa? —
Voi mi domanderete, lettori, a quale di queste tre classi appartenga lo scrittore di queste righe. La domanda è imbarazzante e forse indiscreta: onde io penso di schermirmene come si suole, rispondendo nè all'una nè all'altra. Io riconosco e adoro il diritto nelle serene e inaccessibili sfere della ragion pura. In questo basso e limaccioso fondo non intendo spaccarla da puritano. Homo sum: humani nihil a me alienum puto. Pigliate il motto di Terenzio in questo volgare significato che non è il vero. Cito il poeta latino, come la più parte dei predicatori la Bibbia. Vo' dire che l'uso del mondo e degli uomini mi ha fatto piuttosto cauto a proferire il giudicio del diritto e del torto; cauto, dico, non indifferente nè scettico. Ciò del resto sarà chiarito nell'indole stessa del racconto che sottopongo alla vostra benigna considerazione.
Qualche curioso vorrà qui sapere se il fatto ch'io prendo a narrare sia vero o falso. È sempre la stessa storia. Il vero e il falso s'intrecciano anch'essi come il diritto e il torto. Leggete e guardate da voi. Io lo racconto come lo trovo in certe mie note raccolte nel tempo ch'io dimoravo a Trieste.
Avrei potuto, per quella facoltà che hanno tutti i romanzieri, trasportare in altro luogo i fatti e le persone; ma dal tempo che mi avvenne di raccogliere questi appunti, corse un intervallo abbastanza lungo perchè non sia necessario ricorrere a questo palliativo. Lasciamo dunque le cose e le persone al loro posto: e i miei lettori si dieno la pena di prendere un passaporto per quella città che va demeritando ogni giorno l'antico titolo di fedelissima, e viene accostandosi al resto d'Italia, non so bene se per forza di repulsione dall'Austria, o di attrazione per noi. Forse sarà anche qui l'uno o l'altro. Lasciamo il giudizio agli avvenimenti. Se non è il partito più coraggioso, è il più cauto.
Parlando di Trieste io lascio da parte la popolazione avventizia o cosmopolitica, che è la schiuma delle città commerciali. I miei eroi appartengono alla classe indigena, alla città vecchia, alla moltitudine anonima che vegeta come la gramigna sul nudo terreno.
Cominciamo dal basso, se non fosse altro per farla in barba all'antico adagio: ab Jove principium. Del resto barba Giove sta nell'alto e nel mezzo, cioè da per tutto. Abbiate indulgenza e carità per le povere creature che sto per mettervi innanzi.
I. Il Magazzino.
Il magazzino è la più splendida parte delle cose di Trieste; è per così dire l'appartamento di prima necessità; gli altri piani sono men vasti, meno apprezzati, men cari, e s'intende il perchè. Il magazzino è come a dire il fondamento morale dell'edifizio; là si vagliano, si ammassano, si conservano le merci d'ogni clima e di ogni maniera che a tempo vendute, a tempo cambiate, faranno circolare nella città commerciale quello spirito di vita che la sostiene e l'anima. Questo in generale: l'attento osservatore però, solo che passi dinanzi a codesti fondachi, riconoscerà a colpo d'occhio quanto l'uno sia diverso dall'altro, e serbi per così dire il carattere della merce che contiene, dell'attività del padrone, della pulitezza degl'inservienti maggiori o minori. C'è fra questi ultimi una specie di gerarchia; il direttore del magazzino, o semplicemente magazziniere, è un uomo di grande importanza, riceve una grossa paga e risponde per lo più della giornaliera amministrazione. Dopo di lui vengono gli scrivani; poi il capo facchino co' suoi nerboruti compagni; in ultimo luogo le donne che sono di giorno in giorno chiamate secondo il bisogno a mondare la merce, a sceverare la prima qualità dalle meno perfette, a prestare in una parola quell'opera diligente e tediosa a cui sembrano più adatte degli uomini. Seggono in due o più file, chine sopra la merce che tengono in grembo, e dalla mattina alla sera ripetono l'atto medesimo qualche volta ciarlando tra loro, assai di rado cantando per non scemare la tenue mercede che riceveranno alla fine della giornata. Queste donne, dall'arnese che adoperano, si chiamano sessolotte o sessole,[4] nome che le pareggia ad uno strumento affatto materiale e positivo, e mostra quanto poco conto si faccia della loro speciale abilità. Infatti tutte le altre arti, gli altri mestieri si apprendono per ammaestramento o almeno per esercizio: una tal quale attitudine è necessaria anche per cucinare, per pulire una scranna, per ordinare una stanza; quindi si può fare sì gran differenza fra cuoca e cuoca, fra serva e serva. Ma per l'opera della sessolotta non si domanda che occhio e pazienza: è un'arte nella quale si può farsi eccellente in un'ora; quindi, s'intende, è l'infima condizione in cui devono necessariamente trovarsi siffatte femmine: si pigliano, si adoprano, si rimandano senza scelta, senza domandare nè nome, nè età, nè condizione, nè altro. Si vuole una macchina semovente, dotata d'occhi e di mani, e basta così. La professione di cui parliamo è dunque l'ultima fra le industrie che si confessano senza rossore e senza giri di frase: è l'operaia ridotta a' suoi minimi termini che dà tanta parte del suo tempo per tanti soldi, senza che si domandi se ha fatto meglio o peggio delle altre.
Non crediate però che il loro guadagno sia tanto misero, o la condizione sì universalmente abbietta, come potrebbero credere quelli che hanno visitato gli opifici della Francia, della Germania e dell'Inghilterra. A Trieste, grazie alla sua posizione, a' suoi privilegi, ad una certa liberalità degli indigeni, qualunque presti un'opera ha una mercede che basta a vivere: semprechè l'opera si colleghi a quella vasta macchina che domandiamo commercio. Queste povere donne traggono dunque un profitto che, se fosse durevole, e in certo modo assicurato per tutti i giorni dell'anno, potrebbe rendere la loro condizione invidiabile alle stesse modiste e alle sarte che sono così altiere dell'arte loro, e se ne fanno una specie di vanto. Una lira o due, che è l'ordinaria giornata che guadagnano, nelle mani di una donna economa e buona massaia, basta a provvederla sufficientemente perchè non accatti, e non ricorra ad altre fonti di sudicio lucro. Intesi dire che le femmine che si dànno a simile industria non sono tutte spregevoli; che c'è fra loro qualche madre di famiglia la quale con quella tenue mercede saggiamente usata potè nutrire più figlie, farle ammaestrare in altre arti e onestamente accasarle: prova che non c'è stato sì povero dove sia impossibile l'esercizio dei primi sociali doveri.
In uno di questi fondachi sedevano una ventina o più di queste operaie, occupate a mondare non so bene se gomma o caffè: sedevano come dissi, in due file, sopra sgabelli assai bassi, intente all'opera senza parlare, senza guardarsi, rivolte verso l'ingresso del magazzino per ricevere da quell'unica apertura quanto di luce bastasse al lavoro. Erano tutte di Trieste, tranne due sole, madre e figlia, le quali all'aria del volto, al bruno pallor delle carni si sarebbero dette di un altro clima. Erano infatti dell'Italia di là, non dirò di qual paese, ma la cadenza prolungata della parola le mostrava nate sul mare. La più attempata guardava spesso la figlia, sedutale allato, in aria di compassione e d'affettuoso rimprovero e punzecchiavala tratto tratto col gomito, quando alcuno dei sorveglianti le passava da presso, perchè la giovine dimenticava talvolta il lavoro, e restavasi sopra pensiero colle dita conserte in attitudine dolorosa. Una lagrima di cui la poverina non si accorgeva, le rigava di quando in quando la guancia pallida, e cadevale sulla merce che doveva sceverare dalla mondiglia. Scossa dalle parole o dal gesto della sua vigilante vicina riprendeva l'opera, si affrettava come volesse riparare all'indugio, o togliersi col moto accelerato ai crucciosi pensieri che l'occupavano. Ma questi riacquistavano tosto il primo dominio, onde la misera obbediva senza avvedersene a due forze diverse: tutta l'anima sua era volta ad altra parte, e le mani compiendo meccanicamente il lavoro a cui s'erano abituate, per difetto di attenzione rigettavano il grano, e tenevano in serbo le bucce. La madre che non la perdeva d'occhio, se ne avvedeva, ma dissimulava, e rimediava ella stessa al disordine, tanto che gli scrivani o il magazziniere non avessero ad escludere la figliuola nei dì seguenti.
Il sole intanto, tramontando sereno, tingeva il fondaco ed il viso delle operaie di quella rosea tinta del nostro vivace crepuscolo: poi la luce a poco a poco veniva meno: ai giovani del magazzino pareva mille anni di poter uscire di catena, e andare a zonzo per le contrade: stromenti e merci si riponevano per l'indomani, e le donne, ricevuta la loro paga, tutte quelle che non erano in caso di lasciarla ammassata per la domenica, sfilarono a due a due, a tre a tre dalla porta, e s'incamminarono ai loro tugurii verso la barriera vecchia, quartiere che le ricovera a più tenue prezzo che non potrebbero altrove.
II. Madre e figlia.
— Marta, — diceva la più attempata delle due donne — Marta, tu vuoi che finalmente ti tolgano quest'ultimo pane che ci resta. Ho paura che il capo facchino si sia accorto della tua sbadataggine. Sai che a loro poco importa la persona: una o l'altra è lo stesso.
— Magari domani! così andrò a vivere con lui! — Queste parole uscirono rapidamente e come un singhiozzo dalla bocca della ragazza che avrebbe voluto richiamarle, sapendo bene quale ne sarebbe stata la conseguenza. La madre non rappiccò il discorso per tutta la via. Passarono lungo il Corso tutte e due taciturne, e cogli occhi abbassati, proseguirono il loro cammino sin presso la barriera, e ad un punto volsero a dritta, e salirono la contrada che mette al castello. A metà del pendìo, entrarono in uno di quei vicoli senza nome e si chiusero nella loro povera stanza.
Non vi farò una lunga descrizione di questa. Immaginate una topaia, mal difesa dal vento, colla porta sconnessa sui gangheri, uno di quegli asili della miseria, che la miseria sola conosce, e che gli uomini bennati non hanno mai veduto, se non nel più stretto incognito, e per fini da tacersi: noti al più a qualche dilettante di filantropia o all'agente del proprietario che vi bussa due o quattro volte all'anno per esigervi la pigione. Un odore tutto suo, che questi soli conoscono, ti nauseava appena entrato, ad onta che la finestra fosse stata aperta dalla mattina. Un pajo di seggiole, un rozzo tavolino, un lettuccio, povero ma pulito, erano tutte le masserizie; sopra il letto pendeva un'immagine della Madonna di Loreto, e accanto a quella due candele di cera già state accese, come mostrava il lucignolo, e là serbate si vedrà più tardi a qual uso.
Marta avrebbe voluto che la madre fosse la prima a rappiccare il discorso: sentiva la necessità di spiegare in un senso men tristo le parole che le erano sfuggite per via, ma non sapeva da qual parte entrare in proposito. La vecchia taceva, o perchè volesse rimproverarle alla figlia col suo silenzio, o perchè l'avessero tocca troppo aspramente. Dopo alcuni minuti di silenzio, la giovine le si gettò al collo piangendo, e le chiese perdono. Il perdono, come si può credere, le fu prima accordato che chiesto: la povera madre sapeva bene che il desiderio espresso in quelle parole non era desiderio di abbandonarla, sapeva bene che al punto di effettuarlo, il cuor di sua figlia vi avrebbe repugnato invincibilmente. Andrò a stare con lui. Son poche sillabe che udite in quel momento, proferite con quel gemito doloroso, bastarono a rilevare tutta una storia di amore, di rimorso, di rassegnazione!
Chi però non amasse di vagare ne' campi dell'induzione, sappia da questo momento che lui era la persona più cara alla giovine, dopo la madre; sappia ch'egli non era uno di quei signorini che s'impadroniscono a buon mercato del corpo, dell'anima e dei pensieri d'una credula giovanetta, della quale dopo un mese sono annoiati. La persona che Marta indicava con quel pronome, era un giovine che le s'era profferto a marito; ma entrambi poveri e sprovveduti di uno stato, se aveano ceduto al primo impulso del cuore per amarsi e per dirselo, avevano dovuto arrendersi al consiglio della prudenza che dissuadeva tali nozze immature, finchè il giovine non avesse tra mani un mestiere che bastasse alla sussistenza d'entrambi. Marta non aveva al mondo che la sua tenera madre; Federico, così chiamavasi lui, non aveva più genitori: era nipote di un barbiere che non gli aveva lasciato in eredità che una mezza dozzina di rasoi, altrettanti asciugatoi rattoppati, due testiere da parrucca, e la scienza molto superficiale di radere i peli del mento senza intaccare la pelle. Sono gl'istrumenti materiali di un Figaro, ma senza l'altro corredo accessorio che è indispensabile ad un barbiere di qualità, si può ben pensare che il povero Federico non avrebbe potuto campare a Trieste. Le due donne gli fecero coi loro risparmi una modesta scorta, ed egli aveva cercato fortuna in una piccola terra lungo il littorale dell'Istria. Prima di partire egli aveva dovuto giurare alla giovine di sposarla appena egli potesse dirsi fondato nell'arte sua e solidamente collocato in qualche luogo. Le due candele erano state accese in quella occasione dinanzi alla Madonna, giacchè madre e figlia aveano creduto così render più solenne la promessa, e inviolabile il giuramento. Proferito questo, in quella cameretta medesima, Marta e Federico si riguardarono come congiunti da indissolubile nodo, come fidanzati dinanzi a Dio. Federico, fatto un fardello delle sue robe, si era accomiatato piangendo dalla fanciulla, la quale dovea rimaner colla madre finchè fosse giunto il giorno desiderato nel quale avessero potuto ricongiungersi tutti e tre.
Intanto ch'io vi spiego alla buona il senso di quel misterioso monosillabo lui, le due donne strettamente abbracciate in un dolce empito di amor filiale e materno, s'erano dette assai cose che non si potrebbero significare a parole. Quelle due donne, l'una vedova da gran tempo, l'altra priva del padre che non aveva potuto conoscere, aveano concentrato in questo solo affetto tutta la potenza del loro cuore. Le comuni disgrazie, le comuni angustie, il lavoro assiduo e monotono al quale doveano darsi, le aveva fatte per così dire necessarie l'una all'altra; e il nuovo amore che da qualche tempo si venìa radicando nell'anima della fanciulla, pareva alla madre, e forse anche alla figlia, una specie di usurpazione sull'antico indiviso affetto di entrambe. Quindi il rimorso di Marta per aver profferito quelle parole, e la rassegnata tristezza della povera madre. Ma, come dissi, in pochi istanti i due cuori s'erano ravvicinati, e s'amavano più di prima.
— Abbandonarvi per lui! — disse Marta — per lui che da quattro lunghi mesi non mi ha dato segno di vita! — e si tergeva una lagrima, che non avea saputo reprimere.
— Quante volte non te l'ho io detto che alla fine.... Già gli uomini sono fatti tutti ad un modo.
— E dire che Federico pareva tanto diverso dagli altri! Pareva davvero un buon figliuolo, gentile con voi più ancora che con me, si sarebbe detto non avesse volontà diversa dalla vostra. Ma la lontananza! Io non ho mai potuto approvarla questa idea. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Se fosse restato a Trieste, la città è grande, ci sarebbe stato pane anche per lui....
— Intanto Dio sa dove saranno andati i cento cinquanta fiorini ch'io aveva messi da parte per la tua dote?
— Povera madre, a forza di stenti e di lavori continui!... Ma questi almeno non saranno perduti: abbiamo la sua lettera che ce li garantisce abbastanza.
— La lettera! Un pezzo di carta! Se l'obbligazione non è più scritta nel suo cuore, io fo giusto conto di averli perduti.
— Oh madre mia! Questo poi non posso crederlo! Li avrebbe rubati a voi stessa! Credetemi non posso supporlo così scellerato.
— E già tu l'hai sempre nel cuore.... sempre sei lì per difenderlo! —
Marta taceva chinando la testa sul petto in attitudine dolorosa. La madre pentita alla sua volta d'averla tocca troppo sul vivo, modificò in tal guisa le sue parole:
— Via, non facciamo giudizi temerari. Aspettiamo ancora questi pochi giorni; le prossime feste poi faremo una scappatina fin laggiù! Si potrebbe intanto scrivere....
— Oh! scrivere.... s'io sapessi scrivere! ma quel dover fidarsi ad un terzo, e poi.... Ci vuol altro che una lettera! Sì, madre mia, voi dite bene: anderemo a trovarlo la prossima Pentecoste: voglio vederlo in faccia: oh! io me ne accorgerò bene se mi ha dimenticata.
— Due paroline ti avranno già bella e persuasa....
— Oh! non sarò più così facile. Lo guarderò negli occhi, lo guarderò: vedremo se saprà darmi ad intendere ciò che non è!
— Ma non sarebbe meglio avvisarlo?
— No, dobbiamo fargli una sorpresa. Tanto meglio se giungeremo improvvise: così sapremo tutto per lungo e per largo.
— Ebbene: ma intanto datti pace: perchè vuoi angustiarti come stasera? Credi tu che quelle altre là non t'abbiano veduta piangere? Le buone lingue che sono! A quest'ora si saranno al certo sussurrate all'orecchio che egli ti ha piantata, che sposa un'altra, e chi sa quante simili fandonie!...
— Oh madre mia, che dite voi? Se sapeste! Questa idea mi è passata propriamente per la testa tutta stasera. Se fosse un presentimento! Guai, Federico, guai, vedi! Un'altra!... Non te ne lascerò il tempo! — E qui il viso di Marta, fino a quel punto pallido e rassegnato, prendeva un'espressione d'ira e di gelosia: le sue labbra malinconiche si affilarono e si contrassero, gli occhi le brillarono d'insolita luce. Era un altro lato del suo carattere che i lettori conosceranno meglio nel seguito del racconto.
III. Di chi la colpa?
I giudizi del mondo sulle colpe e sui meriti umani sono il più delle volte falsi e crudeli. La nobiltà dei natali, il grado elevato, lo splendore delle ricchezze abbagliano per così dire i nostri occhi e ci rendono indulgenti per tutto ciò che commettono i grandi di male, mentre le minime loro virtù, i minimi pregi, strombazzati dalle facili bocche dei cortigiani, vengono decantati come meraviglie, come portenti. Le azioni dei poveri invece, se sono buone, non trovano un'eco, sono cose ordinarie, è il loro dovere: se sono triste, son degne di forca. Nè si bada se non sieno spesse volte imputabili alla miseria, alla fame, all'ignoranza, alle vessazioni che soffrono, all'occasione che spesso tira l'uomo pei capelli e lo conduce ove da sè non andrebbe, massime se fin da fanciullo fosse educato all'onore, alla onestà, a quella religione ch'è maestra del bene, e possente preservatrice dal male. Non si bada alle diverse condizioni delle persone, ai mestieri che diffondono tanto spesso il contagio, e, mentre sono inseparabili dalla società, qual è costituita finora, imprimono ciò non ostante una specie d'infamia al misero che li esercita, e lo pongono senza sua colpa sotto il peso di una sinistra e invincibile prevenzione. Andate a dire alla gente del mondo, che la tale cameriera è onesta al pari che bella; che il tal parrucchiere che va di casa in casa non s'occupa più in là dei capelli; che la crestaia non dà retta ad alcuno di quegli zerbini che le ronzano intorno! La gente del mondo si crederà tosto in diritto, e quasi quasi in dovere di ridervi in faccia, e vi accuserà per lo meno d'innocenza e di dabbenaggine.
Premisi quest'esordio perchè non si cerchi più oltre la ragione del titolo Di chi la colpa? Io vorrei che il benigno lettore tenesse un po' conto dell'onestà di quelle due donne, e vorrei dall'altra parte che imputasse all'arte che esercitava Federico una buona porzione de' suoi difetti.
Federico, com'ho detto, era barbiere, non per volontaria scelta, nè per vocazione, ma perchè nipote di un Figaro, ed erede de' suoi strumenti. Fin da bambino non avea veduto far altro, non avea appreso che a far la saponata e a menar il rasoio: cosa gli restava di meglio che succedere nel mestiere al suo defunto parente? Sventuratamente coll'arte materiale s'era tinto senza saperlo delle consuetudini di suo zio, e ciarlava di tutto e credeva il peggio delle novelle che alla sua bottega spacciavansi, e non vedeva l'ora di essere iniziato in quei misteri che gli parevano cosa non punto pericolosa, ma lepida e lucrativa. In una parola, in poco tempo ei fu tale da giustificare la volgar prevenzione, e quando conobbe Marta, era già mariuolo matricolato e perfettissimo Figaro. Povera donna!
Non voglio dire con questo che fin da principio egli si proponesse d'usarne a mal fine, nè che l'amor suo per la giovane fosse tutto finzione. Non voglio calunniare alcuna condizione, per abbietta che sia, nè intendo che i barbieri debbano avere sul cuore il pelo che radono dalle gote. Il barbierino l'amava: Marta era una bella ragazza, di forme piuttosto quadre, pallida ma non sparuta, colla testa incoronata dalla più bella capellatura che Figaro avesse mai trafficata alla sua bottega. Essa lo amava, e amor chiama amore. Se il matrimonio si fosse conchiuso al momento, se i due sposi avessero potuto accasarsi e vivere insieme, la sarebbe stata una famiglia di più, nè più nè meno felice di tante altre. Ma il letto, la dote, la previdenza materna, gl'indugi imprevisti, la speranza di un terno al lotto o di un'altra eredità, l'eldorado che sognano gli innamorati per l'indomani, tutto ciò aveva fatto differire le nozze, e persuaso il giovane a fare il suo tirocinio in una città dove avesse un minor numero di rivali e di concorrenti. Intanto il diavolo ebbe tutta la comodità di mettere la sua coda fra i due fidanzati come furono un dieci miglia distanti l'uno dall'altro. Federico portò in una piccola città dell'Istria le idee di Trieste: volle fin da principio abbagliare colla ricchezza degli addobbi, e cattivarsi un buon numero d'avventori. Prese a pigione una vasta bottega che volle nominare Stabilimento, parola magica, ma per ordinario di poca stabilità. Fece venire da Trieste quattro capaci poltrone, due foderate di marrocchino, due di stoffa rabescata e superba, per le pratiche più distinte. Le pareti sfolgoravano di vasti specchi, a ciascun lato dei quali sporgevano doppieri di bronzo dorato. Dal soffitto pendea una lumiera a tre becchi, elegante di forme, e sospesa per modo che poteva girarsi e illuminare il più ritroso pelo che fosse sfuggito al rasoio. Tra gli specchi figuravano parecchie litografie colorate, per dar materia a parlare e a pensare a quelli che, secondo i suoi calcoli, avrebbero dovuto annoiarsi aspettando che si spedissero i primi venuti. Prese un paio di garzoni al suo servizio, li volle ben vestiti e ben disposti della persona, perchè nulla d'inelegante avesse a ferir l'occhio in un tempio destinato alla moda e alla gentilezza. Non mancavano sugli stipi intarsiati nè i giornali di Parigi, nè gli indispensabili figurini che prescrivessero la foggia e quasi il color dei capelli. Non conosceva a dir vero l'arte di architettare un frontino, una parrucca che ingannasse l'occhio, e potesse dileguare il sospetto di prematura calvizie: ma s'avvisò di fare una scorreria nei dintorni per comperare a buon mercato dalle povere villane la spontanea ricchezza delle loro trecce, le quali con minor fatica accomodate e pulite, potevano riparare ai danni del tempo o della toilette nelle attempate matrone di quella città. Una ricca suppellettile di rasoi, di pettini, di variopinte pomate, d'olii odoriferi e portentosi completavano questa officina che sarebbe stata meraviglia a Trieste; figuratevi poi che spicco dovesse fare in provincia!
Ma chiederete voi, dove trovò Federico il danaro per tutte codeste masserizie, per tutti codesti addobbi? Voi ricorderete che egli aveva ricevuto dalla sua futura suocera centocinquanta fiorini; ricorderete ch'egli era conosciuto a Trieste, dove si può indebitarsi per sei mesi con molta facilità, massime chi vuol piantare stabilimenti, e ha una dose sufficiente di ciarlataneria e di fiducia in se stesso. — In sei mesi — diceva egli — io avrò pagato i miei mobili, la mia pigione, i miei garzoni, e potrò restituire alla Marta i suoi danari.... e forse la sua promessa. — Io non so se dicesse quest'ultimo, ma lo pensava. Le sue speranze gli avevano piena la testa d'albagia. — Marta forse mi converrebbe oggidì, ma fra sei mesi, quando mi farò chiamare monsieur, quando sarò padrone di uno stabilimento, quando non potrò bastare al numero crescente dei miei avventori! Ci penseremo. A buon conto, il matrimonio non è celebrato, e se mi verrà fuori un miglior partito costì fra quei Vandali, io non sono già schiavo d'una parola senza conseguenza. — Così pensava Federico, fondato su quella fragile e incerta base che voi sapete; base che doveva in poco tempo mancargli sotto e lasciarlo cadere nel precipizio con tutte le sue folli speranze.
Le grandi città, specialmente se commerciali, aprendo un libero varco alla concorrenza, nè avendo il tempo per discernere l'oro dall'orpello, possono talora avverare questi calcoli, e favorire chi sa più destramente abbagliarle coll'apparenza. Ma la bisogna non va così nelle piccole. In queste la gente è meno occupata de' proprii fatti, e quindi bada più a quelli degli altri: l'occhio linceo del provinciale penetra i più secreti misteri delle famiglie, vede per entro alle muraglie, entro agli scrigni, come se fossero di cristallo, e se non c'è una realtà che giustifichi l'apparenza, il ciarlatano è sbertato in due settimane, e non c'è più chi lo salvi dalle beffe e dal danno. Nelle grandi città il segreto di guadagnare molto è quello di saper perdere a tempo: nelle piccole la più stretta economia è necessaria ad ammassare, quattrino per quattrino, un povero capitaluccio che basti appena per non soccombere ai casi emergenti. Per venire al concreto, Federico avrebbe potuto redimere se stesso a Trieste, dove la barba si rade ogni giorno, e i capelli dei giovani eleganti si scompigliano così spesso: ma nell'Istria la cosa è diversa. Quivi non c'è penuria di quelli che si radon da sè, e pochi son quelli che pagano il barbiere a moneta sonante; e le donne hanno gran cura dei loro capelli, e non li affiderebbero per tutto l'oro del mondo alle mani di un parrucchiere. Le sue trecce comperate a contanti non passarono mica, come ei si credeva, dalla nuca delle villane alla fronte delle matrone, ma rimasero ad ornare le vetrine del suo negozio, invecchiando senza profitto. In una parola, bastarono due mesi ad esaurire i capitali e le speranze di Federico. La sua bottega non potè mai divenire un fondaco di grandi guadagni: divenne un convegno di gente sfaccendata che trovava meglio il suo conto ad oziare costì le lunghe sere su quelle soffici poltrone, che ad acculattare le sedie di un caffè, dove l'urbana ospitalità del garzone non avrebbe tardato molto a porre a contribuzione la borsa. A farla breve, nella bottega di Federico si tagliavano più panni che non si radessero peli, si vendevano più scandali che parrucche, si spacciavano più avventure che pomate odorose. E il padrone? Ei lucrava talvolta il titolo di faceto, la lode di smaliziato, ma non ricattava le spese della sua splendida illuminazione.
In capo a due mesi i suoi poveri fondi furono al verde: provò a indebitarsi anche là, ma non trovò quel credito che s'aspettava: le scadenze cominciarono a parergli più prossime, più irreparabili, più ruinose; ai centocinquanta fiorini di Marta appena volgeva un pensiero: la giovine, la promessa, il matrimonio gli sembravano cose assurde. Voleva scriverle, ma che mai? Perchè versare in quel cuore, che lo amava sì caldamente, quel principio di disperazione che già lo rodeva? E poi.... E poi.... forza è dirlo. Egli aveva già mancato a que' giuramenti: un'altra donna s'era impadronita dell'amor suo, e avea contribuito per la sua parte a sciupargli quel po' di scorta. Se si fosse conservato fedele alle sue promesse, avrebbe forse trovata la forza di domandar consiglio alla vecchia che dovea fargli da madre, i cui consigli avrebbero forse, se non impedita, almeno resa meno fatale la sua rovina. Ma egli non poteva gittar tutta la colpa sulla fortuna; sentiva quanta parte glie ne toccasse e quando questi pensieri venivano a molestarlo, li affogava nel vino.
IV. Delusione.
Abbiamo lasciato il nostro Figaro ad annegar nel vino il pensiero delle imminenti scadenze, e quel resto di amore e di gratitudine che ancor lo legava alla povera Marta. Lo sciagurato non era solo; un'altra donna gli sedeva accanto nella remota taverna, dove sciupava la sera gli scarsi guadagni della giornata. Non siate sì presti a giudicarne sinistramente. Era una giovane di 25 anni, fantesca, cuoca, cameriera, governante e padrona, come vi piace meglio, di un ricco possidente di quella terra: una donna onesta, come ella diceva ad ogni dieci parole, che amava il vantaggio del suo padrone come suo proprio, che lo aiutava a vestirsi la mattina, a spogliarsi la sera, perchè era vecchio e gottoso, gli ammanniva i bocconi più ghiotti, gli augurava cent'anni di vita.... nell'altro mondo, semprechè morendo si ricordasse di lei e dei lunghi e vari servigi che gli aveva reso con una delicatezza e un disinteresse impareggiabile e degno del più generoso compenso. Sono parole sue. A quell'ora (erano trascorse le dieci) dopo aver messo a letto il suo caro padrone, e spento il fuoco nella cucina, e uditolo russare nel suo letto tranquillamente, a un cenno di Federico era uscita di casa pian piano, e andata con lui a esilararsi un po' dopo le fatiche del giorno; e questo, già s'intende, senza che nessuno avesse a dir nulla sul fatto suo. Essa era libera; egli era libero (s'era ben guardato di dirle quanto innanzi fossero andate le sue relazioni con Marta); potevano un giorno divenire marito e moglie, solo che quel vecchio rantoloso del suo amato padrone s'imbarcasse un bel mattino per l'altro mondo. Intanto era giusto che si trovassero un poco assieme per conoscere reciprocamente il loro carattere, e non contrarre certi legami colla testa nel sacco, come si suol dire fra la gente giudiziosa. Questi erano i loro discorsi, quando dovevano respingere o preoccupare qualche indiscreta supposizione.
Tal è la facile morale delle sue pari; e qui ancora siamo costretti a ripetere: Di chi la colpa?
Sedevano ad un piccolo desco l'uno rimpetto l'altra, guardandosi tratto tratto in aria carezzevole, e scambiandosi fra loro alcuna di quelle frasi onde la gente volgare suole significarsi il reciproco attaccamento. Dico attaccamento e non amore. Federico e Giustina erano più attaccati l'uno all'altra che amanti. Egli vagheggiava in lei gli orecchini d'oro, la collana, i buoni scudi che aveva messo da parte, e più di tutto l'influenza che esercitava sul suo padrone, tra i più facoltosi della città.
Ma dopo aver sacrificato i più begli anni al servizio di un vecchio celibatario, sfidando da una parte le noie, le fatiche, le veglie, dall'altra le maldicenze e i giudicii temerari del mondo, avea bisogno di riposare il pensiero nell'idea di un marito che un giorno potesse riabilitarla ai proprii occhi e far tacere le male lingue. I debiti e un interesse pecuniario tenevano le veci d'amore in Federico: un interesse morale, men turpe dell'altro, aveva fatto gradire a Giustina le galanterie del barbiere. Chi avesse letto nei loro cuori questa miserabile pagina, avrebbe riso alle calde proteste d'amore, alle improvvisate espansioni dei due innamorati. Ma che vado io applicando al caso nostro questa ipotesi trista e divenuta già sì comune? Nel nostro c'erano due ragioni che scusavano una tale dubbiezza: i debiti da una parte, e il bisogno di migliorare la propria riputazione dall'altra. Checchè ne fosse, i due amanti erano ancora nella felice illusione, ignoravano il secondo fine che dettava quelle parole e quelle carezze, e forse anche non avevano confessato a se medesimi la propria frode. Aveano ancora più buona fede che non suol trovarsi in persone più alte in simili casi. Ma era giunto il momento della grande rivelazione.
— Giustina, — disse Federico alla sua compagna, dopo aver biascicato la parola per un buon tratto, e sperimentato nella sua mente almen dieci maniere per entrarle in materia — Giustina, voi mi andate assicurando che mi volete bene. Da due mesi che ci conosciamo me l'avete detto più di cento volte, ed io.... io ve l'ho sempre creduto sulla parola.
— Ebbene che cosa vorreste dire? Che non ho detto la verità? Voi piuttosto....
— Mi guardi il Cielo di farvi questo rimprovero. Anzi io sono tanto sicuro dell'amor vostro che questa sera sono risoluto di metterlo alla prova.
— Oh! questo poi!... interruppe la donna con quella dose di ritrosia che era conveniente alla sua posizione. Questo poi!...
— Un po' di pazienza; non date una sinistra interpretazione alle mie parole. Voi sapete quante spese ho dovuto incontrare per metter su il mio stabilimento con quel decoro e con quel lusso che sapete. Io speravo che gli affari avessero a prosperare fin dai primi momenti. Se ne sono vedute tante delle fortune! Ma tutti i paesi non sono uguali, e debbo confessarvi che finora il fatto non ha giustificato i miei calcoli. —
Giustina lo ascoltava con una cert'aria tra la perplessità e l'impazienza. Non sapeva ben vedere a che parasse questo bel ragionamento di Federico; ma la sua naturale accortezza le fece intravedere che l'esordio non doveva condurre nè ad un regalo nè ad altra cosa di buono per lei. Tuttavia dissimulò e lasciò che l'amico tirasse innanzi.
— Voi m'intendete — soggiunse Federico.
— Intendo, — rispose Giustina sbadatamente; come quella che non aveva inteso nulla, o non voleva intendere più in là.
— Dunque, ho contratto degli impegni. Per non mostrare, come si dice, il lato debole, bisogna che fra pochi giorni io sia in istato di pagare il semestre a quel satiro del padrone, e dare almeno un acconto a quello di Trieste, che mi ha venduto le mobiglie.
— Sicuro — soggiunse Giustina.
— Dunque, — conchiudeva sempre l'amico, — se io non trovo alcuno che mi dia la mano in questa circostanza, dovrò sfigurare.
— Eh certo!
— Mi consolo che voi stessa ne convenite, mia buona Giustina, e non dubito che....
Giustina restava immobile e alquanto imbarazzata a questa interpellazione fatta direttamente a lei.
— Già — seguiva Federico — presto o tardi noi dobbiamo fare una casa sola.... Se è vero che siate disposta a darmi la mano di sposa, i vostri interessi sono fino da questo momento una cosa comune....
— Eh! ma.... bisogna vedere....
— Che cosa?
— Perchè.... come volete ch'io possa?... Sapete pure che sono una povera serva....
— Se poi mi cambiate parola....
— Io no, ma alfine....
— Voi mi avete detto d'aver messo da parte qualche cosa, e che alfine non vi sposerei senza dote.
— Quando saremo al momento.... Dirò.... io non ho messo da parte nulla.... ma il padrone m'ha promesso che quando mi fossi maritata, quando avessi trovato un buon partito, un giovine solido, come egli dice, non mi avrebbe abbandonata.
— Ebbene il vostro padrone sa che noi ci vogliamo bene....
— Che dite voi? Meschina me se lo sapesse! M'avrebbe già scacciata dalla sua casa.
— Giustina, voi mi scambiate le carte in mano. Non sono quindici giorni che voi mi assicuraste di averne fatto parola al vecchio.
— Io? Ah sì! Adesso me ne ricordo.... ma così all'aria senza dire nè chi nè quando. Gli ho detto che ogni anno passa un anno, e ch'era tempo ch'io mi accasassi. Che v'era un tale....
— Ebbene?
— Ma non gli ho mica detto il nome, sapete! Povera a me! E ora tanto peggio: perchè egli vuole un uomo solido, che abbia qualche cosa. Vedete bene....
— Io veggo bene, — soggiunse Federico senza perdersi di coraggio — veggo bene che voi cercate pretesti per mancare al vostro impegno. Veggo bene Giustina che voi non mi amate punto.
— Io? anzi vi ho sempre voluto bene.
— A parole, ma ora che siamo venuti al fatto vi tirate un passo indietro, e fate quel conto di me che fareste di un estranio. Sia come non detto.
— Ma no, Federico, credetemi, s'io potessi....
— Potete benissimo, ma vi manca la volontà, vi manca l'amore. Conosco un'altra persona che nel caso vostro non avrebbe aspettata la domanda per darmi aiuto, e quasi quasi sento rimorso di averla trattata....
— Eh già! Voi parlate di quella di Trieste, della vostra prima fiamma. Andate da lei dunque; perchè mi venite a seccar me?
— Perchè io sono un pazzo a prestarvi fede; perchè sono stato ingannato dalle vostre belle parole. Niente, niente. Sia per non detto. Domani saprò che cosa devo fare....
— Ma sentite, Federico, fidatevi ancora. Ditemi almeno quanto vi occorrerebbe....
— Una miseria.... con duecento fiorini io potrei fare una buona figura e tirar innanzi altri sei mesi....
— Duecento fiorini! — gridò Giustina spaventata. — Duecento fiorini! Sapete che fanno seicento svanziche? Se mi vendo tutta coi miei abiti e col mio oro non tiro tanto.... Voi siete dunque rovinato?
— Rovinato per questa bagattella? Questa somma io conosco molti che la guadagnano in quindici giorni. Se io avessi ascoltata la Marta, e fossi restato colà in qualità di primo giovine, a quest'ora li avrei guadagnati in tante mancie.
— Ma se la cosa è in questo modo, non so che dire....
— Se voi ne parlaste al vostro padrone? Mi dite che vi ama tanto.... Si coglie un buon momento: una carezza di più, e il colpo è fatto.
— Sì, sì, altro che carezze! Duecento fiorini! Voi non lo conoscete il mio padrone. Sentite questa. Una sera faceva i pediluvj per guarire dal suo solito reuma. Colgo il momento, e gli propongo di comprarmi questi orecchini d'oro — non mica di regalarmeli, vedete, ma perchè la Margherita che me li ha venduti, aveva bisogno di denari, ed io non ne aveva. Mi pensai di domandare dieci fiorini a prestito al mio caro padrone. Volete credere? Al sentire nominare dieci fiorini, si dimenticò del bagno, e saltò in piedi con tanta furia che rovesciò la conca, e l'acqua allagò tutto il tappeto....
— E allora...?
— Allora io corsi fuori di camera e lo lasciai strillare a sua voglia per più d'un'ora. Eh! se lo conosceste!...
— Ma poi ha dovuto comprarveli....
— Credo!
— Dunque.... un'altra strillata e....
— Un'altra strillata, volete dire, e poi fuori di casa per sempre.... Duecento fiorini! se si trattasse di dieci o dodici....
— Dieci o dodici non bastano neanche a pagare il merciaio per quell'abito....
— Avete fatto un debito per quell'abito?...
— Sicuro! che serve? Volevo mostrarvi col fatto che vi amavo....
— Male, malissimo! Chi ve l'ha domandato? Tanto peggio per voi! Io non avevo bisogno dei vostri regali. Domani ve lo restituisco.
— Ah voi m'intendete così? Voi mi ringraziate in questa maniera?
— Se siete pazzo!...
— Sì, io sono un pazzo, e voi un'ingrata. Addio, addio per sempre. Non mi aspettavo che la nostra relazione avesse a terminare in questa maniera....
— Oh! questo poi non potevo immaginarmelo nemmeno io!
— Meglio tardi che mai! —
Dicendo queste parole Federico pagò il conto, condusse la donna sino alla porta della sua casa, e tornò all'osteria a smaltire il dispetto di tanta resistenza. Ma questo dispetto era tale da non potersi smaltire così facilmente. Fino dal primo momento che l'improvvido Federico avea pensato a' suoi debiti, e quasi nel tempo stesso avea disperato di poterli mai soddisfare per le vie ordinarie, tormentato da questa inquietudine cercava di riposarsi nel pensiero di Giustina, e nel soccorso che avrebbe potuto porgergli all'uopo co' suoi risparmi. E per tenue che fosse il filo a cui raccomandava la sua speranza, siccome era il solo che avesse, così gli venne ogni dì sembrando più solido e sicuro. Operava in lui la trista abitudine già contratta. Guai a coloro che si sono accostumati a trovar sempre pronta l'altrui beneficenza nelle angustie in cui cadono! Guai a coloro che sprovveduti di mezzi proprii, e disperando poter bastare a se stessi col lavoro e colla cotidiana fatica, sperano nelle impreviste fortune dell'oscuro domani! Essi sono continuamente lusingati dalle non probabili contingenze, e al mancare di queste, non sanno più dove rivolgersi, e disperano di se stessi e d'altrui. Il volgo degli accattoni, e tutta quella schiera di scioperati che si credono in diritto degli altrui benefizi, si sono venuti formando in tal modo, passando dalla speranza improvvida al disinganno, e da questo a quella abituale indolenza che non ha più rimedio.
Federico non sapeva più dove battere il capo. Avea fatti, a suo dire, tanti sacrifizi per raggiungere la sua mèta e per nutrire quella speranza, e trovarsi così ad un tratto deluso! Il pensiero di Marta e della sua spontanea generosità gli si presentava ora più cruccioso che mai. Averla dimenticata, aver mancato alle sue promesse, a' suoi giuramenti, aver simulato con una serva un amore che non sentiva, solo per trarla nella rete, e farsene una scala alla propria ambizione, e vedersi tolta ogni speranza di ricevere il premio della sua infedeltà, della sua doppiezza, della sua infamia! E fosse la verità che gli parlasse dal fondo dei vuotati bicchieri, fosse il rimorso che venisse, come giusta punizione, a pungerlo più fieramente, e il confronto della donna amata e tradita con quest'altra nè amante, nè amata, e non di meno preferita alla prima; o fosse finalmente che i sentimenti della morale mandassero ancora qualche tenue bagliore all'anima sua, codesto sciagurato non esitava in quel momento a chiamarsi coi nomi più umilianti. Egli era un tristo e sentiva di esserlo, sentiva che l'abusare delle esterne sembianze dell'amore per fine d'interesse era un ignobile mercato, era una vera infamia. Ma dopo aver pensato alcuni minuti a levarsi di dosso quella macchia, non trovando alcun espediente che fosse agevole ed efficace, bevette l'ultimo bicchiere di vino, e s'addormentò.
Dopo alcuni giorni lo stato delle sue cose, già subodorato anche prima dai più curiosi, non fu più un mistero per la città. Il proprietario della sua bottega che gli aveva creduto sulla parola, lo chiamò a sè, e dichiarò di voler essere pagato all'istante. Federico balbettò qualche scusa, promise per l'indomani, senza pensare che l'indomani verrebbe presto, e non gli porterebbe una signoria. Volle sofisticare sul conto, ripigliare la sua burbanza, ma non potè far altro che dare a conoscere più chiaramente al locatore ch'ei non lo avrebbe potuto pagare. Questi fece il giorno stesso i suoi passi alla pretura, e pochi dì appresso un usciere si recò co' suoi uomini di bel mezzogiorno alla bottega di Federico, e pose sotto sequestro i mobili e gli arnesi tutti di qualche valore per conto del proprietario.
Federico non aveva potuto inghiottire uno smacco sì grande, e vedendosi sulle bocche di tutti, e assediato da una torma di piccoli creditori che s'erano desti all'esempio e che non poteva pagare, chiuse il negozio e sparì dal paese.
Una bella sera, Marta e la madre se lo videro comparire dinanzi nella modesta loro cameretta a Trieste.
V. Vecchia e Giovane.
Era quella medesima cameretta dove sei mesi prima, innanzi ad un'immagine della Madonna di Loreto, Federico e Marta s'erano giurati una fede eterna, chiamando il cielo in testimonio della promessa e vindice dell'infrazione. Ardevano innanzi al pio simulacro le due candele benedette, che sospese là sopra il letto, attestavano ancora quel rito, invalido al cospetto delle leggi, ma nel cuore delle due donne venerabile e sacro, siccome quelle che nulla sapevano di codice, poco di religione, e credevano il giuramento per sè più potente d'ogni altra legale formalità. Federico vi s'era prestato senza malizia, senza determinata volontà di mancare, ma non curante dell'avvenire e non animato da quel sentimento di fede che nelle due femmine teneva luogo di culto. Quella stanzuccia era ancora nel medesimo stato. Marta e sua madre sedevano lì sulle povere scranne agucchiando al fioco lume d'un lanternino. Soltanto la prima più pallida assai di quel giorno e solcata la fronte da una tenue ruga che annunciava la pertinacia d'un pensiero cruccioso, d'un amaro presentimento. La madre la guardava tratto tratto accuorata e crollava il capo dolorosamente.
Udirono bussare alla porta, e mentre la madre andava fantasticando chi potesse venire a quell'ora, Marta, quasi avvertita da una voce interiore, era balzata in piedi, avea gettato il lavoro, e aperto rapidamente il chiavistello si era precipitata nelle braccia di Federico con un grido ineffabile di sorpresa e di gioja. Federico non s'aspettava quell'impeto d'un vero affetto, egli che non n'avea conosciuta la forza; e pur tenendosi fra le braccia la giovane tutta in lagrime, se ne stava come trasecolato senza trovar nè una carezza, nè una parola.
— Voi qui, Federico? Voi a Trieste? — chiese la vecchia. — Non vi s'aspettava sì presto: ma tanto meglio! — E movevagli incontro verso la porta dove egli era restato perplesso ed immobile.
— Tanto meglio! — mormorò egli a cui l'amore non avea potuto sospendere la memoria della triste sua condizione: ma per non dir tutto così d'un tratto, trasse la Marta presso la scranna e ve l'adagiò, volgendosi nello stesso tempo alla madre, e stringendole la mano con dolorosa espressione.
— Come state, Federico? — diss'ella.
— Eh! così così: la salute non va male.
— Sia ringraziato Dio! Almeno questa! Ora starà meglio anche la mia povera figliuola.
— È stata ammalata? — domandò Federico, guardandola sbadatamente: — mi pare in fatti più sparuta del solito. La febbre, neh?
— La febbre? no grazie al Cielo; ma potete ben credere, sei lunghi mesi senza ricevere vostre nuove! Scusate Federico, potevate ben scrivermi una riga, o mandarci a dire qualche cosa.
— Che cosa potevo mandarti a dire?...
— Che cosa? — domandò Marta fissandolo tra lo sdegno e la meraviglia. — Non avevi tu niente da dirmi?...
Federico non intese il senso di queste parole, e rispose materialmente: — affeddeddio non avevo niente di buono da scrivervi: tutte le disgrazie mi sono piombate addosso: io son rovinato. Ecco tutto, se lo volete sapere. — A queste parole le due donne provarono una fitta nel cuore, ma per due diverse punture. La vecchia presentì perduti i suoi poveri cencinquanta fiorini, la giovane si confermò nel suo presentimento che non era più amata. Ella chinò il capo, come se queste parole l'avessero pienamente avverato.
— E la vostra bottega — chiese la madre della fanciulla — a chi l'avete voi confidata?
— A nessuno: l'ho chiusa.
— Chiusa!
— Nè più nè meno: e Dio sa quando potrò riaprirla. Ci han posto i suggelli. Io sono un uomo rovinato.
— Ah! disgraziato, che dite voi? — gridò la vecchia spaventata balzando in piedi e lanciandosi contro di lui. — E i miei denari, che cosa avete fatto dei miei denari?...
— In fumo, come gli altri — rispose Federico, facendo scorrere un soffio sulla palma aperta della sua mano.
La vecchia rimase interdetta per la rabbia che soffocò la parola nelle sue fauci.
— Che cosa volete che faccia io? — insistè lo stordito. — Se tutto ha congiurato contro di me! Anch'io sono stato tradito, si vede che non ho fortuna....
— Se non hai fortuna — interruppe la vecchia — dovevi avere prudenza, dovevi avere onestà. Ma io mi farò sentire, sciagurato: ho lì la tua carta, mi faranno giustizia.
Federico si strinse nelle spalle come volesse dire: — Che cosa possono farmi? Non si trae sangue da una rapa, — ma ritenne queste parole che stavano lì lì per uscirgli di bocca.
— Ma ditemi — l'altra insistette — ditemi tutto: tutti i vostri bei mobili, quella pazza spesa che avete fatto....
— Spesa? No veramente, perchè non sono pagati, e il mercante li vuole indietro....
— E voi dateglieli. —
Federico rispose anche qui con un goffo sorriso che voleva dire: — non è più tempo: gabbato anche lui; — ma non proferì la parola.
— Vendiamoli — disse la vecchia; — se uno deve perdere, sia piuttosto il mercante che è ricco....
— Ma non capite, che sono sotto sequestro? che il padron di casa li ritiene per conto dell'affitto che non ho potuto pagare?... Ve l'ho pur detto, mi pare. —
Un nuovo eccesso di collera tolse la voce alla povera vecchia, che vide impossibile anche il disonesto partito che proponeva. Ella tremava tutta come colta da subitanea paralisi, e non sapeva persuadersi di tanta disgrazia. — Povere noi! — proruppe finalmente cacciandosi le mani nei grigi capelli — in sei mesi hai sciupati i risparmi di quindici anni. Scellerato! ti domando il mio sangue, la dote della mia povera figlia.... Sai tu che ognuno di quei fiorini mi è costato una settimana di sudore e di stenti?
— Oh, sapete ch'io non so che dirvi! — rispose l'altro alterato. — Pigliatevela colla sorte, pigliatevela!...
— Ma io....
— Fate pure i vostri passi, già ve l'ho detto!... Vi saluto, e me ne lavo le mani.
— Magari non ci foste mai venuto qua dentro! E tu? che fai lì come una marmotta? — soggiunse rivolta alla figlia.
Marta durante questo dialogo era rimasta taciturna, come se si trattasse di cosa pertinente a tutt'altri che a lei. Non era la questione de' fiorini che l'agitasse, era l'uso che colui ne poteva aver fatto. Le donne che amano hanno un sesto senso che da' più lievi indizi le fa indovinare le cose lontane, le cose segrete, e quelle che non sono seguite per anco. Onde per tutto quel tempo avea tenuta china la testa, senza guardarli, senza sentirli, come se interrogasse il suo spirito su qualche più importante rivelazione. Quando le parole a lei rivolte dalla madre la scossero, levò la fronte come si svegliasse da un leggero assopimento, e la guardò trasognata. Poi, vedendo Federico che s'accostava all'uscio, calcandosi il cappello sugli occhi, si slanciò verso di lui colla elasticità d'una tigre, e afferrandolo per un braccio: — Dove andate, Federico? — gli domandò con un tuono di voce pieno di vivacità e di fermezza.
— Non vedete? Esco di qua per non accapigliarmi con quella donna che non intende ragione....
— Senti, veh! Federico, rispetta mia madre, sai, perch'ella ha ragione da vendere, e non sei degno di alzare gli occhi dinanzi a lei!
— Gli è per questo ch'io me ne vado....
— Per questo? venite qua, Federico, rispondetemi con sincerità. —
— Non v'ho io detto abbastanza?...
— Voi non m'avete detto nulla, o almeno io non ho inteso nulla di quanto diceste. Uditemi, e giurate di dire il vero....
Federico non sapeva che fare, e rimaneva lì balordo e irresoluto. Marta con voce ferma, come quella di un giudice che vuol leggere nel cuore del malfattore, gli disse: — Sono sei mesi che tu sei lontano da me: non ho ricevuto nè nuova, nè ambasciata. Avrei potuto informarmene; ho un'amica costì la quale, s'io l'avessi fatta pregare, avrebbe contato i tuoi passi senza che tu lo sapessi, e m'avrebbe tenuta in giorno di tutto. Ma io.... io ho preferito fidarmene; onde io non so che cosa tu abbia fatto nè con chi sei vissuto finora. Ora rispondimi chiaro: mi ami tu come prima?
— Potete voi dubitarne? — domandò Federico.
— Mi ami tu come prima?
— Sì, mia cara Marta, credetemelo....
— Guardami bene negli occhi. Hai tu parlato con altre donne in quel paese?
— Scusatemi: anche voi avrete parlato con altri uomini, io credo.
— Non andarmi di sbieco, ti prego. Hai tu sprecato i denari di mia madre con altre donne?...
— Chi v'ha detto?... chi v'ha contato queste falsità!...
— Nessuno m'ha detto niente. Mi conosci così poco? Mi credi tu capace di manifestare ad un altro un simile dubbio? Da te voglio saperlo: rispondimi! — e così dicendo lo fissava con due occhi da inquisitore, lucidi, freddi, che parevano scendergli nel profondo dell'anima.
Federico non potè sostenere quello sguardo. Benchè avvezzo a mentire (e non era l'ultimo de' suoi difetti), sentì corrersi un brivido per le vene, abbassò il capo e mormorò un no che avrebbe bastato a chiarirlo colpevole anche innanzi ad un'altra meno accorta e meno prevenuta di Marta. Essa comprese tutto, lasciò la mano di lui che teneva stretta tra le sue, rimase muta, come se quel monosillabo proferito a quel modo l'avesse tolta d'ogni speranza.
— No? No? — riprese dopo un momento di pausa. — Giuralo, giuralo dinanzi a quella immagine che accolse le nostre promesse solenni sei mesi fa....
— Lo giuro — rispose Federico, che s'era rimesso, e chiamato a ripetere quella sacra formula, così abusata nel mondo, non dubitò di pronunciarla con quella fermezza che non avea trovata poc'anzi per rispondere un semplice no.
Marta lo fissò nuovamente, e rimase sopraffatta da quella faccia tosta. Ella era superstiziosa, e non poteva manco immaginare che uno potesse giurare il falso in quel modo senza che la terra s'aprisse sotto a' suoi piedi per ingoiarlo. Ella certo, quanto a lei, avrebbe commesso qualunque delitto piuttosto che spergiurare. Onde la sua perspicacia cedette a' suoi pregiudizi, ed aprì nuovamente l'animo alla speranza. — Basta così — soggiuns'ella — se tu m'ami ancora, se non hai parlato d'amore con altra donna, io non cambierò sentimento verso di te.
— Come? — prese qui a dire la vecchia: — egli ha mangiato il nostro.
— Zitta, madre mia. Le disgrazie non guardano in faccia ad alcuno. Il cuore val più di tutto l'oro del mondo. Non ti perder d'animo, Federico; se hai avuto delle disgrazie, a tutto c'è rimedio. Il Signore ci provvedrà. Siedi qui con noi, contaci tutto. — Così dicendo, lo fe' sedere tra sè e la madre, facendo mille carezze a quest'ultima, perchè temperasse la sua collera e il suo rancore. Federico che forse avrebbe desiderato svignarsela, e lavarsi, come avea detto, le mani, non ebbe il coraggio di resistere a quell'improvvisa riconciliazione, e infilzò un centinaio di disgrazie una più bella dell'altra, tanto che le due donne non solamente gli prestarono fede, ma lo compiansero e sentirono un dolore vero pegli improvvisati contrattempi del mariuolo. Si terminò coll'intavolare qualche progetto che riparasse a' disordini. Federico dichiarò d'essere disposto a rimanere a Trieste, a porsi come giovine presso un dei primi parrucchieri della città, e vivendo alla meglio, metter da parte il salario che ne trarrebbe per riscattare se stesso, i suoi mobili, e porsi nuovamente in istato di aprir bottega da sè. Stabilite fra loro queste cose, ei prese congedo da quelle due donne, un po' riconciliato con se medesimo, e veramente disposto a mettere ad esecuzione quel nuovo disegno.
La madre, all'istanza di Marta, si mise all'indomani colle mani e co' piedi; interpose la mediazione del suo padrone presso uno de' barbieri che erano più in voga a que' giorni, e ottenne che Federico si acconciasse con lui in qualità di primo giovane con discreto salario. La povera Marta respirò, ma per poco. Federico non era degno di lei.
VI. Fisiologia.
Federico, io diceva, non era degno di tanto affetto: non era degno di Marta. Frivolo, incerto in ogni azione, schiavo dell'ultimo impulso che riceveva dall'ambiente in cui si trovava, non poteva corrispondere a quell'amore, perchè non poteva sentirlo nè immaginarselo. Egli era una di quelle macchine umane che abbondano in ogni luogo, che non hanno volontà propria, buone senza entusiasmo, triste senza scusa, perplesse tra il sì e il no, come il pendolo tra le pile voltaiche, capaci di far tutto mediocremente, e nulla di perfetto, o che si accosti alla perfezione. Prendono la vita alla leggiera, o la vendono al minuto, senza curar l'indomani. Questi caratteri hanno una grande facilità ad assumere tutti gli aspetti, a fingere tutti i sentimenti, appunto perchè sprovveduti del proprio; e quindi per alcun tratto ingannano gl'inesperti, e possono passare per uomini di squisito sentire, di forte ingegno, d'indole generosa. In amore sono per lo più preferiti, perchè non dimenticano alcuna di quelle piccole cure di cui si nutre la vanità femminile. Guai però se viene il momento che un cuore profondamente appassionato dimandi da loro un ricambio d'affetto, uno di quei sacrifici che sono lo scandaglio dell'anima! Allora codesti uomini restano lì sbalorditi, e svelano dinanzi gli occhi della delusa amante la propria nullità e la propria indifferenza, senza sentirne rimorso. Tal era il nostro povero Federico, e meglio per lui se fosse stato conosciuto fin da principio per quello ch'egli era!
Marta invece era uno di que' caratteri fermi che abbracciata un'idea, e presa una risoluzione, la tengono dinanzi siccome bussola, e a quella riferiscono ogni azione della vita, ogni sentimento dell'anima. Siffatti caratteri, più rari a trovarsi, possono, a chi ne sfiora solo la superficie, sembrar insipidi o freddi; perchè pieni di quell'idea che li occupa, vivono come stranieri a tutto ciò che a quella non s'appartiene: simili agli amatori entusiastici della botanica, dell'archeologia o di qualche altra specialità, i quali darebbero il mondo per quella pianta rara, per quel pezzo di lapide, per un bulbo di dalia azzurra, se mai l'industria de' giardinieri giungerà ad ottenerla. Di questa pasta si formano i genii ed i pazzi, i martiri della virtù e della verità, e i grandi scellerati, che avendo proposto a se medesimi un fine a cui non possono pervenire per la diretta via, vogliono ad ogni costo raggiungerlo per l'obliqua, dovessero lasciarvi la pelle, o insanguinarsi le mani.
Uno sbaglio di vocazione, un primo errore che non si potè prevedere nè riparare, un sopruso patito, una giustizia negata bastano sovente a determinare al male più che al bene un uomo o una donna di tal indole; e fatto il primo passo, posta o gittata la maschera, non v'è più mezzo a ritrarsene; una serie di casi fortuiti, e per se stessi agevoli a vincere, pigliano l'aspetto di una sinistra fatalità che c'incalza alle spalle e ci spinge nel precipizio. A questo male, se l'educazione non sa prevenirlo, non v'ha rimedio più tardi: l'errore non è più nel dominio della libera volontà; ha invaso l'intelletto, ha pervertito il cuore, è divenuto una vera pazzia, che l'ospitale non cura, e la carcere non reprime. Si rise di quelli che si sono posti a raccogliere e ad educare di preferenza i più mariuoli tra i figli del povero che ingombravano il trivio: ma quei filantropi avevano ragione. Le cure più grandi e più assidue si devono consacrare a costoro, sì perchè non vada perduto quel tesoro di forza morale onde sono dotate le indoli più riottose, sì perchè, trascurate sul bel principio, per difetto di un conveniente esercizio non si volgano al peggio, sprecando l'esuberante vigore fuor del diritto cammino. Se ognuno avesse fin da' primi anni libera la scelta della professione o dell'arte, se i primi impeti dell'affetto non fossero delusi o traditi, ci sarebbe più copia d'uomini fermi ed intieri, e non vi sarebbe luogo a chiedere: di chi è la colpa? al frequente ricorrere dei delitti e dei dolori che ci funestano. Una di queste nature era Marta.
Ognun vede che quei due cuori, venuti un tempo a contatto l'un dell'altro, avrebbero corsa la sorte dei due vasi della favola, l'uno di ferro, l'altro di creta, che sbattuti fortemente insieme diedero tosto a conoscere la materia differente ond'erano fatti. Quello di creta rimase infranto.
VII. Da Scilla a Cariddi.
Sul principio le cose si presentavano nel più prospero aspetto. Federico, collocato presso uno de' più accreditati barbieri, pratico dell'arte sua, e piacevole delle maniere, della persona, giunse a cattivarsi il favore di tutti, fu preferito a' suoi pari e ricompensato più largamente. Memore di dovere alle due donne questa picciola fortuna, e uscito appunto dalle angustie che lo stringevano, tra per gratitudine, tra per amore, passava presso di Marta le poche ore di libertà che gli erano date, e rispondeva colle più tenere dimostrazioni allo schietto e profondo amore della fanciulla. Qualche volta sulla sera, terminate le giornaliere occupazioni d'entrambi e rassettati alla meglio, si trovavano insieme, e in compagnia della madre, o soli, che già risguardavansi come sposi, s'incamminavano verso il Boschetto, o alcun altro dei passeggi suburbani, contenti l'un dell'altro, senza bisticciarsi, e terminavano all'osteria, nella quale Federico beveva per due, e Marta lo stava guardando, mal contenta di quell'abitudine e di quello spendio, ma ben lontana da lasciar trasparire il suo malumore. — Col tempo, — diceva ella a se stessa — col tempo egli lascerà questi vizi, e troverà nella sua casa, vicino a me, qualche cosa che lo farà più felice. — Qual è quella donna che ami veramente, e non s'abbandoni a siffatta illusione? Ella misura l'anima dell'amante col proprio modulo, e crede tanto più facili quei sacrifizi, quanto sarebbe disposta a farne di simili e di maggiori, senza difficoltà e senza venirne richiesta, pur che fossero accetti.
Era una di queste sere. I due promessi s'avviavano verso la barriera vecchia, intertenendosi quietamente dei loro progetti avvenire. Fabbricavano la loro casa, l'addobbavano con quel modesto lusso che convenisse alla loro condizione, e ci vivevano in dolce armonia, colla madre, e coi loro figli nascituri, a cui la Provvidenza si sarebbe incaricata di fornire il pan cotidiano, mercè le loro comuni fatiche. Marta che in questi piacevoli sogni poneva più fiducia, e se li dipingeva al pensiero con più verità, mostrava sul viso l'interna compiacenza ond'era compresa. I suoi occhi raggiavano, il suo pallido volto tingevasi allora di un lieve color di rosa, che la rendeva più bella che mai. Camminava al fianco di Federico appoggiata mollemente al braccio di lui, con quella gentil superbia d'una fanciulla che si mostra la prima volta al mondo sostenuta da quello che può dir suo, contenta d'esser veduta dagli altri, e nel medesimo tempo non di altro occupata che dell'uomo che le sta presso.
Io credo che poche situazioni concorrano più di questa a imprimere sui lineamenti di una giovane donna quella ineffabile armonia che è la bellezza dell'anima propagata al di fuori.
In questi momenti ella fu occhiata dal signor B., uno dei ricchi avventori di Federico, il quale per aver agio a contemplare la ragazza, si degnò, con una discretezza da grande, dirigere un saluto al suo parrucchiere e dargli non so qual commissione per l'indomani. Egli parlava a Federico, ma nel medesimo tempo fissò la fanciulla con tale un'occhiata che le fece abbassar le pupille tra imbarazzata e vergognosa dell'altrui inverecondia.
Il signor B. era un destro ed assiduo cacciatore di quella selvaggina umana, che va per le vie vestita in gonnella, e sembra men curante dell'altra di schermirsi dalle insidie e dai lacciuoli de' dilettanti. Vi sono uomini che vivono di siffatta caccia, e profondono in essa più denari e più tempo che gli antichi castellani non solevano in altre. Hanno i loro falchi, i loro veltri, che cercano la preda desiderata nelle tane e nei covi più secreti, e sanno snidarnela o in un modo o nell'altro, quand'anche fosse custodita dall'argo più vigilante e da' Cerberi più susurroni che esistano al mondo.
Il signor B. non si fidava però tanto a codesta genìa, che non tentasse qualche colpo felice da sè medesimo; anzi in questo ei metteva più interesse e più gusto, tanto più se l'animale fosse ritroso, e recalcitrasse alle lusinghe e alle promesse dell'amatore. Già m'intendete. È una razza privilegiata che non venne mai meno nel mondo; e se alcuno osasse diriger loro qualche rimostranza, hanno una risposta che val per tutte: — per qualche cosa si è ricchi! — Infatti essi credono far del bene all'umanità, gettando per un piacere frivolo e passeggiero i loro fiorini. È un lusso come tutti gli altri, è un contratto di compra e vendita, dei più nobili e più disinteressati che mai. E se alcuno avverte come il mercato è simoniaco, e' dicono che l'anima è un accessorio, una regalìa affatto incalcolabile nell'affare. Su di che, vi prego o lettori, qual dubbio vorreste muovere? Se avete qualche cosa a soggiungere, rivolgetevi al sullodato signor B. e fate voi.
La mattina susseguente Federico, all'ora assegnata, non mancò di trovarsi al convegno. Introdotto nella camera del suo ricco avventore, si pose col miglior garbo del mondo a raderlo, a pettinarlo e trasformarlo in Adone, intertenendolo intanto delle novelle più recenti che correvano per la città. Il signor B. le ascoltava per compiacenza, mostrando coll'aria del viso d'esserne già informato, e che sapeva la cosa meglio di Figaro. Pareva che volesse cantargli il falsetto: Un viglietto? Eccolo qua!
Quando gli parve tempo di poter arrischiare la domanda senza compromettersi, interpellò Federico sulla sua compagna della sera antecedente.
— È un'istriana? — disse con un tuono tra il negativo e l'affermativo.
— No, signore. È una forestiera.... che dimora a Trieste da qualche tempo.
— Vuoi darmela ad intendere, buffone che sei?...
— Dio mi guardi, signore. Le pare? Ella può informarsi....
— Oh! che importa a me di lei e di te, e di tutti i tuoi pari?
— Grazie.
— Però devo confessare che non sei di pessimo gusto. La sposi neh?
— Ma signore, sposarla, veramente.... a questi tempi i guadagni sono sì scarsi....
— Che non ti pago io forse? indiscreto!
— Oh! se tutti somigliassero a lei.... ma sono rari, rari i signori che distinguono il merito.... cioè.... non so spiegarmi come vorrei.
— Bel merito in fatti! — soggiunse il signore ironicamente. — Bel merito! Ma bisogna sposarla quella ragazza: io amo la gente di buona morale. M'intendi? bisogna sposarla.
— Eh! signore, — replicò Federico — io non desidero altro, e anche la fanciulla; anzi ci siamo promessi....
— E volevi infingerti? mariuolo che sei. Io ho buon naso, vedi, e non si può nascondermi nulla. Scommetto che siete un poco più che promessi.
— Oh per questo poi mi fa torto....
— Ti fo torto eh! innocentino.... fammi ridere.
— Non dico a me, veda, ma alla ragazza che è una vera perla nel suo genere, una schifiltosa che non si lascerebbe toccare un dito. Romana, e tanto basta.
— Già, già s'intende. Tutte così!... E di dove l'hai tirata fuori questa fenice?
— È la figlia d'una vecchia sessolotta che va spesso a giornata nel magazzino del signor N. N.
— In compagnia della figliuola?
— Sissignore; ma se io la sposo, non farà più quel mestiere.
— Già, se tu la sposi farà la dama.... Ti porterà una dote di cento mila fiorini.... E tu diventerai principe o cavaliere.... non è vero?
— Ella scherza, signore. Noi siamo povera gente, ma i nostri buoni padroni ci ajuteranno. E poi la ragazza non ha capricci, è buona massaja e non mi sarà di gran peso, se non vengono figli.
— Se fosse veramente tale come me la descrivi, io non mi scorderò di te nel giorno delle tue nozze. Ma vorrei conoscerla prima. Io ho buon naso, e saprò se merita la tua mano e i miei benefizii. —
Così il signor B. gittò i fondamenti della sua avventura. Federico, che conosceva l'uomo, capì bene le secrete intenzioni del suo protettore, ma dissimulò da uomo prudente, e lasciò correre la cosa senza darsi fastidio del come sarebbe andata a finire. Egli era uno di quelli che dicono: — vengano danari, e al resto ci pensi chi ci ha da pensare. —
Marta intanto avea dimenticato quello sguardo, e tutta chiusa nella sua secreta felicità, non pensava alle insidie che l'attendevano, perchè non le credeva possibili, o perchè, forte dell'amor suo, si credeva capace di resistere ad ogni tentazione d'infedeltà. Due giorni dopo però nel tornarsene a casa in compagnia della madre s'incontrò nel signor B., e per un movimento d'involontario ribrezzo, si volse da un'altra parte e finse di non vederlo. Ma egli la seguì da lontano, notò la sua casa, e ritirossi contento d'aver avviato l'affare senza il soccorso d'alcuno. Egli credeva d'esser giunto in porto, solo per aver scoperto il covo della sua preda. Ma ben presto s'accorse che non era sì innanzi come credeva: alle prime parole che s'arrischiò di rivolgere alla ragazza ebbe una di quelle risposte ferme e perentorie che lo infervorarono più che mai nella impresa. Poichè codesti signori somigliano ai cacciatori anche in questo: una facile preda non li lusinga: vogliono la difficoltà, amano l'ostacolo: per far illusione a se stessi, per aver la misera gloria di vincere, di conquistare, di rivendicare la potenza dei loro fiorini. Respinto in persona, tentò la vanità e l'avarizia di Marta per mezzo d'uno de' più accorti mediatori che corrano frugando il paese. Ma il veltro non trovò miglior trattamento del suo padrone, fu cacciato di casa come un ladro, e se non se la dava a gambe, avrebbe avuto una senseria che non s'aspettava. Tornò al signor B., dicendo che le due donne erano intrattabili come due fiere selvaggie, che egli disperava di poter trarle alla ragione, e per rendere al suo mandante men dolorosa quella sconfitta, non mancò di soggiugnere che non c'era prezzo dell'opera, e che l'oggetto non meritava l'onore che voleva farle.
Ma, come è da credere, il dilettante non s'acchetò a queste scuse: anzi pigliò fuoco ognor più, e scacciò da sè l'imbecille con un pagamento poco diverso da quello che avea ricevuto dalle due donne. Il signor B. pensò di servirsi del medesimo Federico, e rimproverò se medesimo d'aver quasi guasto l'affare per troppa fretta.
Chiamatolo a sè nuovamente, lo interrogò con molta benignità sul suo matrimonio, e volle sapere il suo stato, e a qual segno erano le sue trattative con Marta. Il Figaro che non voleva altro, si fece dal principio, e sciorinò tutta la storia del suo negozio, dei cencinquanta fiorini truffati alle due donne, (del qual tiro il signor B. fece un suo cotal risolino d'approvazione) narrò delle sue speranze tradite, dell'indiscrezione de' suoi creditori, della ingiustizia del tribunale, ecc., come i miei lettori possono figurarsi. Quanto al presente, egli avea messo da parte qualche fiorino, le due donne avrebbero dati i loro recenti risparmi, ma tuttociò non bastava nè anche a redimere i suoi mobili sequestrati, e si reputava perduto, se non trovava qualche benefattore che volesse ajutarlo, e far cauzione per lui al mercante che glieli avea venduti e al proprietario della bottega. Aggiunse che veramente ei non potea lagnarsi del suo collocamento presente, ma avvezzo ad esser padrone, era da pensare che non potea darsi pace d'esser dipendente da un altro che ne sapeva meno di lui, e lo trattava come un garzone: onde, trovato questo sussidio e questa garanzia, sarebbe tornato in Istria, avrebbe sposata la Marta, e insieme avrebbero benedetto il loro protettore e fatto ogni sforzo per ricompensare la sua bontà. Il signor B. mostrò d'esser commosso da questa eloquente perorazione, e parve non lontano dal secondare la domanda di Federico: solo avvertì che non voleva gittare i suoi danari così alla cieca, e mostrò desiderio di voler conoscere personalmente la sua futura clientela. — Mandamela qui, — soggiunse egli — mandamela qui domattina. Io le parlerò, e se la troverò meritevole del sacrificio che ho l'intenzione di fare, la incaricherò di risponderti definitivamente in proposito. — Federico gli baciò reverentemente le mani, piangendo quasi di contentezza e di gratitudine, e la sera corse dalle due donne, narrò l'accaduto, e raccomandò loro di recarsi nell'ora assegnata a fare la visita richiesta al loro benefattore.
La vecchia non sospettò di nulla; ma un secreto presentimento avvertì Marta del suo pericolo. Fece mille domande a Federico intorno a quell'uomo filantropo; e vedendo avverati i suoi sospetti, negò assolutamente di voler accettare que' benefizii, nè tampoco recarsi da lui. La madre restò sorpresa di tale dichiarazione, ma nel cuor suo l'approvò. Federico invece die' nelle furie, e non volle credere una parola di quanto gli diceva la Marta. Ella era una visionaria: il signore non era tale da far il bene con sinistre intenzioni: egli lo conosceva, era un fiore di galantuomo, una persona per bene che non si degna di far all'amore colla povera gente: ch'ella sbagliava per certo, e che doveva andare ad ogni modo, altrimenti egli si sarebbe separato per sempre da lei. Marta si lasciò sedurre da queste parole e più da questa minaccia, e, dall'altra parte sicura del fatto suo, e ferma nella sua risoluzione, promise d'andarvi, e si diedero la buona notte rappacificati del tutto.
La mattina seguente ella e sua madre si trovarono in camera del signor B., il quale si mostrò sorpreso di riconoscerle per quelle stesse da cui era stato sì male accolto pochi dì prima. Poi fece il benevolo, prese la sua solita aria di protezione, disse che aveva sentito con piacere il suo matrimonio, ed era ben lieto di averla trovata virtuosa e degna della sua stima. In una parola la volpe vecchia le lasciò edificate e sorprese della sua bontà e della sua cortesia. La gente del popolo è così facile a credere alle buone intenzioni dei ricchi! Il signor B. le assicurò di voler darsi pensiero del matrimonio e pel reintegramento di Federico nella sua bottega nell'Istria. Si mostrò pronto a garantire per esso lui presso il negoziante di mobili, e ad aggiungere quanto denaro fosse necessario per pagare il fitto arretrato al proprietario della casa presa a pigione costì — purchè, — aggiunse egli quasi sbadatamente — purchè voi rispondiate a me di questa somma...
— Noi, eccellenza, — rispose la vecchia — noi siamo povere donne, su cosa possiamo guarentire?
— Sulla vostra onestà, — soggiunse l'ipocrita. — Io vi conosco, sono bene informato de' fatti vostri, e mi fido alla vostra parola. Andate, mandatemi il giovane, e dentro la giornata tutto sarà disposto per la sua partenza.
— Per la sua partenza? — domandò Marta.
— Sì, — rispose il protettore — Federico si recherà costà per quindici giorni per riaprire il suo stabilimento, e poi celebreremo lo nozze...
— Scusi, eccellenza, non si potrebbero far prima queste nozze? — disse la madre.
— E partirsene insieme — soggiunse Marta arrossendo.
— Come volete: ma sarebbe meglio dispor prima gli affari; e poi bisogna che seguano le pubblicazioni...
— Vossignoria pensa bene, — disse la vecchia inchinandosi; e Marta non trovò parola di replicare.
Onde il cortese signor B. le congedò con tutta la dolcezza, soddisfattissimo d'aver ordito con tanta sapienza quella tela d'infamia che preparavasi a tessere nell'assenza di Federico.
VIII. Nuovi indugi.
Lasciamo la povera Marta, vedova un'altra volta, a Trieste. Federico era ito nell'Istria a riaprire il suo stabilimento. Corsero presto i quindici giorni dopo i quali dovea ritornarsene per celebrare le nozze; ma dai quindici s'andò presto ai venti, ai trenta, a due mesi, a tre, nè mai cessavano gli indugi e i pretesti che tendevano a giustificarli. La ragazza crucciavasi, la madre borbottava fra' denti le solite querele, i vecchi sospetti, e ne martoriava la figlia, com'ella fosse colpevole, non già vittima, della mala condotta di Federico. — Ma qui non istava tutta la disgrazia.
Per aver novelle di Federico le due donne dovevano spesso rivolgersi al signor B., giacchè questi s'era in certo modo costituito tutore di entrambi. Questi serbò per qualche tempo la maschera che aveva preso; ma la prima volta che si trovò a quattro occhi colla sua pupilla, così avea incominciato a chiamarla, passò dall'affettato contegno alle più lusinghevoli smancerie; volle entrare con Marta in certi particolari della sua relazione con Federico, che fecero arrossire e allarmarono la ragazza, già insospettita delle intenzioni di lui. Allora il protettore prese a guardarla con occhio di compassione, fece le viste di compiangerla sulla cattiva scelta che avea fatto. Quegli che avea fino allora fatto l'elogio di Federico, cominciò ad accusarlo alla sua fidanzata: le disse con quelle pessime reticenze che sono l'arme più terribile della calunnia, perchè la elaborano senza compromettere l'accusatore, le disse che Federico era uno scapestrato, un uomo senza carattere, un donnaiuolo di prima classe, che a quest'ora doveva esserle stato le cento volte infedele.... ch'egli sapeva.... cioè gli era stato raccontato per vero di una certa tresca con una ricca vedova di costì, e via via di tal passo, aggiungendo ciarla a ciarla, alternando le accuse alle scuse, e sempre in aria di paterna protezione verso la povera fanciulla. Questa sulle prime non volle creder nulla, poi cominciò a dubitare, e finì coll'essere persuasa e convinta che codesto lungo soggiorno nell'Istria non doveva essere senza un perchè.
Il perchè c'era bene, ma la causa principale di sì lungo indugio non era nell'Istria: era a Trieste. Il signor B. avea contato su questa lontananza, e sui dissapori che ne sarebbero insorti. Perciò non avea mancato di frapporre ostacoli al ritorno di Federico; l'avea consigliato a rimanersene lì finchè le sue cose si fossero alquanto avviate al meglio: che già del matrimonio non c'era fretta; che Marta non se ne dava gran pena, ed anzi era bene provarla, era bene avvezzarla a sottomettersi a quelle prudenti disposizioni che alfine erano dirette al suo maggior bene. — C'è sempre tempo di rompersi il collo — scriveva il signor B. che usurpava quel detto proverbiale a proposito di matrimonio e di pagare i suoi debiti. E il signor B. ottenne più che non aspirava, ottenne che Federico s'ingolfasse nuovamente ne' suoi vecchi legami colla Giustina, e dimenticasse un'altra volta sè stesso, i suoi giuramenti, e il suo amore per Marta.
Tutte queste manovre erano riuscite a dividere per sempre quei due cuori che stavano per unirsi, ma non per questo il signor B. si trovava a miglior partito. Egli fremeva d'essersi adoperato sì a lungo senza profitto, fremeva d'aver gittato inutilmente le sue parole, il suo denaro, il suo tempo. Codesta resistenza di Marta a' suoi tentativi, egli non poteva ad altro attribuirla che ad un amore sincero per Federico, e alla ferma speranza di un matrimonio. Perchè il signor B. non credeva alla fermezza d'una fanciulla del popolo, non credeva alla sua onestà, e persistendo nella presa risoluzione tanto più ostinato quanto era maggiore l'ostacolo, ingannavasi sempre sulla vera natura di questo, ed assaliva la fortezza dal lato ov'era meglio agguerrita.
Un bel giorno pensò di finirla. Comunicò alle due donne che Federico non pensava più ad esse, che ritraevasi da' suoi impegni, che anzi le sue circostanze presenti gli consigliavano un altro legame costì. Vi lascio pensare lo sdegno e le lacrime delle meschine. Sul principio non volevano prestar fede, ma il signor B. mostrò di prendere siffatta parte alle loro disgrazie, che terminò di convincerle. Egli nominò la persona, trasse fuori una lettera di Federico ed altre prove della verità dell'asserto. La vecchia soffocata dalla collera si teneva in silenzio: ma la Marta, levandosi ritta, colla destra alzata in atto minaccioso, pallida e scarmigliata: — E bene, — disse — se è vero ciò che mi dite, guai a Federico! O io o nessuna! Le leggi ci saranno anche per me: le leggi mi faranno giustizia! —
Il signor B. si strinse nelle spalle.
— Ah! no? voi non lo credete? — ripigliò Marta. — Son dunque un nulla le promesse, i giuramenti degli uomini? Egli ha giurato di sposarmi dinanzi alla Madonna di Loreto: sono lì ancora nella mia camera le due candele che ardevano dinanzi all'immagine della Beata. Guai a lui, guai a lui se mi manca! —
Il signor B. sempre seduto sul suo seggiolone, seguitava a guardarla con occhi di compassione. — Le leggi! le leggi! — diceva. — Le leggi, o ragazza, hanno ben altro a fare che a proteggere gl'innamorati. Che cosa sa il giudice di que' giuramenti? Federico risponderà che non ne sa nulla, che non t'ha mai conosciuta, che non ha alcun impegno con te, e basta così.
— Basta così? Oh! signore, non basta. Ve lo dico io, che non basta. E poi... non v'ho detto tutto...
— Ditemi dunque...
— Io non sono solamente la sua promessa... io sono sua moglie!... Madre mia, perdonatemi! — Così dicendo la povera Marta gettavasi quasi svenuta nelle braccia dell'attonita vecchia. Il signor B. guardava quella scena dolorosa senza intenderla o senza commuoversi. Egli scuoteva con leggeri colpi dell'indice gli atomi di polvere che s'erano posati sulla sua vestaglia rabescata.
Passarono così alcuni momenti, senza che nessuno dei tre proferisse parola. Alfine la madre, raccogliendo le sue idee, e lontana dall'immaginare quanta parte quel bel signore avesse avuto in tal contrattempo, credette ben fatto di rivolgersi a lui, e pregarlo a interporsi perchè Federico tornasse a' suoi doveri colle buone, senza portare dinanzi alla giustizia una tale querela. Il signore esitò, disse alcuni se, alcuni ma, alcuni forse che non conchiudevano nulla, e le congedò promettendo se ne darebbe pensiero... vedrebbe... se fosse ancora tempo di rimediare. Ma la povera Marta riavutasi da quella specie di stordimento, e indovinando qualche parte di quella trama, si volse a sua madre, e: — Tacete, le disse, tacete, madre mia; non incomodate il signore più oltre. Ci siamo fidate anche troppo.
— Che vorreste dire? — interruppe il signor B. secco, secco.
— Che voglio dire? Che la vostra, signore, è stata una carità pelosa: che Federico m'avrebbe sposata definitivamente, se non erano i vostri consigli. Voi gli avete posto in capo di tornare colà a sciupare quei pochi quattrini che gli restavano.
— Quei quattrini! Non sono forse miei quei denari? Così presto avete dimenticato i miei benefizi?
— No, signore, non dimentico i vostri benefizii nè le vostre parole, nè tuttociò che avete fatto per indurmi a mal fare. Ah! mi credete una grulla? So tutto, signore. Basta così. Andiamo, madre mia: andiamo noi stesse a trovare quel disgraziato. Egli non avrà cuore di abbandonarmi quando vedrà il mio stato, quando saprà ch'io sono sua, sua per sempre!... che non è più tempo di retrocedere. —
Così dicendo le due donne uscirono da quella casa dove non avrebbero dovuto entrar mai. Ma che colpa ne avevano esse? Chi le aveva tratte costì?
Il signor B. restò seduto sulla sua poltrona mezzo interdetto dal tuono di quelle parole, mezzo confuso per vedersi sfuggire, forse per sempre, la preda desiderata, il frutto delle sue gloriose fatiche.
IX. Crisi.
La sciagura, il disinganno di Marta erano giunti all'estremo. Benchè avesse in sospetto le asserzioni dell'ipocrita suo protettore, una voce interna, un funesto presentimento le veniva dicendo che tutto era vero. Tutte le azioni di Federico, tutte le sue parole, la doppiezza del suo carattere, quella eterna perplessità che prova più che altro il difetto di forza e di sentimento, tuttociò la confermava nella dolorosa certezza ch'ella era tradita, che tutte le sue speranze erano ite al vento, che la sua sventura non avea più rimedio. Il suo piccolo tesoro, frutto dei materni risparmi, irreparabilmente perduto non dava a lei tanto cruccio quanto alla vecchia; ma la tormentava l'ingratitudine di quell'uomo, l'abuso che ne doveva aver fatto, l'idea della propria credulità, della propria confidenza così indegnamente delusa.
Quanto al suo amore per Federico, esso avea dato luogo alla indifferenza, al disinganno, al rimorso. Comprese in quel momento ch'egli non l'avea amata giammai, comprese ch'ella avea sprecato i tesori del suo cuore ad un uomo che non era fatto per lei. Vide crollare tutt'ad un tratto quel bell'edifizio di rosei sogni, di chimerica felicità che nel secreto dell'anima avea fabbricato. Il sentimento che la comprese in quel punto, era un amaro disprezzo della vita. Avrebbe voluto rifarsi da capo, e ammaestrata della propria esperienza, vivere solitaria e senza amore, piuttostochè incorrere in sì funesti inganni.
Ma non era più tempo di annullare il passato; non era più tempo di retrocedere. Questa parola che le era sfuggita dinanzi al suo tentatore in un momento d'angoscia e di collera, era un'orribile verità. I suoi legami con Federico avevano la sanzione della maternità. Era questo un mistero per tutti fuor che per lei. La madre, Federico medesimo non n'aveano che un lontano sentore. Ella avea ceduto ad un momento di debolezza, avea ceduto alle istanze, alle preghiere, alle minaccie del suo promesso. Forse avea creduto di suggellare così quei legami non ancora consecrati dalla legge, e di renderli indissolubili. Chi può dir nulla di quel conflitto tra il dovere e la natura, tra la verecondia e la passione? Chi può analizzar quei momenti nei quali i sensi offuscano l'intelletto, e la misera donna lotta contro due forze una esterna, l'altra interna che concorrono a perderla? E Marta s'era davvero perduta.
Ritornata alla sua cameretta, lo sguardo materno la interrogò sul senso di quella parola che le era sfuggita, e lo sguardo della povera fanciulla avea rivelato il mistero. Poche ore prima ella avrebbe temuto i rimproveri della madre severa, ora ella avea a temere qualche cosa di più grave e di più irreparabile. La vecchia medesima non trovò parola per inveire contro di lei, per biasimarla dell'accaduto. Tutte e due si trovarono abbracciate e piansero amaramente. Tutte e due sentirono la gravezza del male, e non videro come porvi riparo. Si coricarono senza parlare, aspettando dalla luce del giorno un più sereno consiglio.
Ma la giovane non chiuse occhio. Ella passò la notte chiamando l'uno dopo l'altro ad esame i più estremi partiti. — E se fosse un'invenzione di costui? — si sforzò la misera di pensare: ma non fu lungamente blandita da questa speranza. Immaginò di ricorrere ai tribunali, di palesare il suo stato, di citare il tristo a mantenere la promessa: ma oltrechè poco potea consolarla una riparazione avuta per quella via, ella sapeva abbastanza di mondo, e conosceva parecchie storie di povere vittime colle quali s'era trovata a contatto, per non lusingarsi d'ottenere quella riparazione ch'ella voleva, o quella vendetta che le pareva giusta.
Dissi non a caso vendetta. Giunta a questo punto delle sue riflessioni, sentì l'amore deluso cambiarsi in odio. La vita disonorata che l'attendeva l'era venuta in orrore: se in quel momento avesse potuto sprofondarsi sotterra e spegnere l'anima e la memoria, l'avrebbe fatto. L'avvenire, che in altro tempo le si presentava roseo e sereno, era adesso tutto tenebre e tutto guai. La madre stessa, il suo affetto tenero ed efficace non rischiarava quell'orizzonte: ricordava quel suo sguardo severo, quel rimprovero muto che le sarebbe stato eternamente dinanzi e al quale non avrebbe trovata risposta. La madre! E non aveva ella perduto i poveri frutti di tante fatiche per colpa sua? E la miseria che sovrastava a' suoi vecchi giorni, non doveva imputarsi a lei? Tutte queste riflessioni erano esagerate, più tetre forse che non doveano; ma non pertanto erano men tormentose e meno reali alla inferma immaginazione dell'infelice. E il loro peso fu insopportabile alla sua mente: il suo povero intelletto fu pervertito in quell'ore tremende: allora seguì la crisi che la doveva portare al delitto. Il giorno, anzichè recare un po' di calma in quella cupa tempesta, non fece che raffermare una risoluzione che le era sembrata inevitabile, necessaria.
— Madre mia, — diss'ella con accento risoluto e solenne — madre mia, ho pensato tutta la notte: ho avuta una ispirazione alla quale devo obbedire. Lasciatemi andare: io voglio vederlo, voglio saper di che morte s'ha da morire. — La madre le mosse qualche dubbio, tentò stornarla da quel viaggio, ma fu vinta dalle istanze di lei. Volle però accompagnarla. Benchè da queste parole non avesse potuto indovinare il disegno della figliuola, non era prudenza lasciarla andar così sola ad affrontare forse una ripulsa, un insulto, e la fatale certezza della sua disgrazia. Marta fece un fardello d'alcune sue robe, e tutte e due s'avviarono verso l'Istria.
X. Le due candele.
Cammin facendo poche volte ruppero il silenzio per cambiare fra loro qualche parola. Marta precedeva sempre di due passi la madre, non già perchè quest'ultima fosse dall'età ritardata; ma non era stimolata come la figlia da un interno pungolo che le faceva divorare la via. Quel po' di speranza, o meglio, quel po' d'incertezza che le restava sulla sua sorte, anzichè mitigarle l'angoscia, gliela rendeva più tormentosa. Avrebbe voluto sapere tutto ad un tratto che non le rimaneva nulla a sperare. Questa certezza, per dura che fosse, le sarebbe stata meno insopportabile della presente inquietudine; come il condannato che non può chiuder occhio la notte che precede la sua sentenza, e suole dormire tranquillo la vigilia del suo supplizio. La infelice giovane anelava a codesto termine qualunque fosse, del dubbio presente, e camminava spedita su per le frequenti salite, come andasse alla festa. Dopo alcune ore di viaggio giunsero al luogo fissato, e si fermarono ad un'osteria suburbana, per far colazione e concertarsi fra loro. Marta a questo momento avea perduta la fretta, onde non s'oppose all'indugio, benchè pensasse a tutt'altro che a prender cibo. Una fante della taverna recò loro del pane, del cacio, e una mezzina di vino. Mentre la vecchia mangiava, Marta accostava macchinalmente alle labbra qualche minuzzolo, ma si vedeva chiaramente che lo faceva per compiacenza e per non farsi scorgere alla fantesca. Le venne intanto il pensiero di chieder conto a quest'ultima di Federico; e le domandò senza più se conoscesse un giovane parrucchiere venuto di recente a stabilirsi costì.
— Il signor Federico? — chiese la fante — quello di Trieste che si fa sposo?
— Che si fa sposo? — ridomandò tutta pallida la povera Marta.
— Appunto, — rispose l'interrogata.
— Con chi?
— Non lo sapete? siete forestiere voi altre. Si fa sposo colla Giustina, una governante del signor S... ma del resto un buon matrimonio. È una donna ancora fresca, benchè non aspetti più i trenta, e il padrone, capperi! le ha fatto del bene, come era suo debito.
— Siete voi ben sicura di questo? — domandò la madre di Marta.
— Capperi! sicurissima. Lo sa tutto il paese. È una vecchia tresca del barbierino... perchè non è già la prima volta che viene in questa città; c'è stato ancora, ma in quel tempo era sempre vivo il padrone della Giustina, ed ha trovato pan per focaccia. Ora poi il vecchio è morto, e non vi sono più impedimenti. —
Marta ascoltava sbadatamente, come pensasse a tutt'altro, scherzava col coltello appuntato che la fante aveva recato col cacio, e affettava il pane che le stava dinanzi. Tutt'ad un tratto si volse alla fantesca con un pajo d'occhi da spiritata e le disse: — Basta, basta, non vogliamo saper più in là! — La fante, così ricisamente interrotta, fece una smorfia e se n'andò pe' fatti suoi.
Rimaste sole, la madre a cui non era sfuggito il turbamento della figliuola, procurò di calmarla, e le propose di ritornarsene a casa.
— Ritornare a casa? Povera mamma! ritornare a casa prima di conoscere la sposa, prima di offrire a Federico le nostre felicitazioni! Mai no. Senti, madre mia. Ho portato con me le due candele benedette che sai. Andiamo alla chiesa. Pregherò il sacrestano che le accenda dinanzi alla Madonna. La Beata Vergine sa il mio stato, e non vorrà permettere ch'io muoja così....
— Ma che dici tu di morire? — soggiunse spaventata la madre, che non aveva mai sentita la figlia a formular quella idea.
— Mia cara mamma, — soggiunse Marta con un tuono di malinconica tenerezza insolita in lei. — Mia cara mamma! Che cosa s'ha da fare a questo mondo, e fra gente così malvagia? meglio finirla una volta, credetemi. Io ci ho già pensato. Iddio abbia compassione di me!
— Tu sei fur di te medesima, Marta! Tu non parli certo da senno! Alla fine poi tutto questo può essere una ciancia, una favola inventata dalle male lingue.
— Oh! no, mamma. Era destino, vedete. Voi stessa ne siete persuasa nel vostro interno. Oh! sono stata ben pazza a non prestar fede alle vostre parole, quando mi poneste in guardia sul carattere di Federico. Ora lo conosco assai bene! Da quell'uomo là non poteva venirmi che male. Andiamo, andiamo in chiesa. Pregate per me, madre mia! pregate per la vostra povera Marta! — Così dicendo la sventurata diede in un pianto dirotto, e non proferì più parola.
La vecchia voleva chiamar la fante per pagare il suo conto; poi pensò meglio di non darle occasione di ciarle, e si recò ella medesima al banco, dicendo alla figliuola che l'attendesse costì. Marta, come si vide sola, si scosse, asciugò le lagrime, bevette un bicchiere di vino quasi volesse reagire contro la sua debolezza, e nascose destramente il coltello entro la manica del vestito. A qual fine precisamente, nol so; forse non lo sapeva in quel punto ella stessa.
Quando tornò la madre, ella era già sulla porta, e tutte e due s'avviarono frettolose alla chiesa.
Quivi preso a parte il vecchio sacrestano, la povera Marta trasse fuori le due candele, e gli ordinò di collocarle dinanzi all'altare della Madonna. Vi aggiunse un rotolo di denaro per una messa da celebrarsi all'istante, secondo la sua intenzione. Il sacrestano prese le candele e il denaro e se ne andò senza aggiungere parola. Le due donne s'inginocchiarono dinanzi all'altare indicato, e stettero lungamente aspettando. Uscì finalmente il prete e cominciò a celebrare la messa. Marta stette tutto quel tempo immobile, cogli occhi fissi all'altare, come trasognata ed estatica. Il suo pallido volto era suffuso d'un rossore febbrile, e chi l'avesse attentamente considerata, avrebbe letto ne' suoi lineamenti le traccie di un gran dolore che tormentava quell'anima profondamente.
Levatesi finalmente di là, s'incamminarono per uscire. Incontrato sulla porta della chiesa il sagrestano, la giovane gli si accostò e gli chiese l'abitazione di quel parrucchiere triestino che dovea ammogliarsi tra breve. Il vecchio gliela insegnò. — E quando seguiranno le nozze? — domandò Marta, come per semplice curiosità.
— Credo domenica, — rispose l'altro. — Le pubblicazioni sono già fatte. Sareste voi sorella di quel buon giovane? Che sì che indovino? Andate, andate, gli farete una grata sorpresa. La sua bottega è già aperta.
— Grazie — disse Marta, dissimulando profondamente la sua emozione. — A rivederci fra poco. Badate che le due candele devono ardere fin che ce n'è. Gli è voto.
— Non dubitate, buona ragazza. Andate con Dio. —
Così dicendo egli rientrò nella Chiesa, e le due donne si mossero difilate verso la bottega del parrucchiere. Per via, la madre maravigliata del nuovo contegno della fanciulla, le domandò che cosa intendesse di fare.
— Non lo so, madre mia: ma il Signore m'inspirerà. Intanto io voglio vederlo: voglio vedere che cosa saprà rispondermi. Oh certo! il sagrestano dice bene: gli dobbiamo fare una grata sorpresa.
— Ma tu farai qualche scandalo: tu ti lasci trasportare dalla passione. Abbi riguardo. Non ci facciamo scorgere in questo paese. Già non si guadagna nulla a codesto.
— Oh! io credo che guadagneremo, mamma! Lasciate fare a me! — Così dicendo le due donne entrarono nella bottega di Federico. Egli stava accomodando i capelli a se stesso per non perdere il tempo, finchè capitasse alcun avventore. Viste le due donne, restò sbalordito. Egli non s'aspettava per certo codesta visita importuna. Passarono alcuni istanti senza che nessuno dei tre pronunciasse parola. Il primo a rimettersi fu il barbiere, e fissando gli occhi sul volto di Marta, le domandò brutalmente: — A che venite voi qui? — Ma non appena ebbe proferita codesta frase, s'arrestò spaventato e abbassò gli occhi, non potendo sostenere lo sguardo di lei.
Successe un altro momento di silenzio, finchè la giovane simulando una grande tranquillità ed un tuono di voce amorevole, rivolse all'attonito barbiere queste parole: — Federico, tu mi dimandi che vengo a far qui? Io non saprei risponderti bene. Io non lo so. Ma tu devi dirmi se sono vere le voci che corrono. M'hanno fatto credere che tu ti mariti presto, che sono già fatte le pubblicazioni, e che la sposa si chiama Giustina, non Marta; ch'ella è stata finora la serva o altro d'un signore di questa città, non l'onesta operaja che viveva a fianco della sua vecchia madre a Trieste. Sono vere, Federico, queste novelle?
— Io non devo render conto ad alcuno de' fatti miei....
— T'inganni. Tu devi render conto ad una persona che non intende rinunciare ai propri diritti. Sappi ch'io sono venuta per questo.
— Tutto è finito fra voi e me: non ve l'ha già detto il signor B.?
— Il signor B.? Io non ho a fare nulla col signor B. Io voglio sapere dalle tue labbra medesime se tu hai dimenticato, non dico i tuoi doveri verso la mia povera madre, ma i tuoi giuramenti verso di me. Ah! tu credi ch'io sia per soffrire che un'altra donna si chiami tua moglie? No! Federico. La tua moglie son io.
— Voi? In qual chiesa vi ho dato la mano? — chiese lo sfrontato parrucchiere con ironia.
— Tu mi chiedi in qual chiesa? Iddio ha forse bisogno di chiese per ascoltare le promesse e i giuramenti delle sue creature? Io sono tua moglie, Federico, io porto meco un documento irrefragabile de' nostri legami: io son madre! — Ella proferì quest'ultima frase con voce bassa e soffocata. Federico impallidì nell'ascoltarla, ma si ricompose tosto, e si sforzò di fare un cotal riso beffardo e bestiale che mostrò tutta l'abbiettezza dell'anima sua. — Madre? — egli disse. — Me ne consolo assai! Così non vi mancherà un appoggio nel padre del vostro figliuolo, qualunque egli sia.... Il signor B. v'aiuterà a ritrovarlo. —
Le due donne inorridirono. Marta non potè parlare, chè la rabbia e l'angoscia le soffocò la parola. Ma la vecchia che avea taciuto fin allora, s'avventò come una furia sul barbiere, e lo fece indietreggiare verso un angolo della stanza. — Infame — gridò. — Ricorreresti tu alla calunnia? Chi ci ha fatto conoscere, dì, quel tuo signor B. degno complice delle tue scelleraggini?
— Se ve l'ho fatto conoscere, non v'ho mica ordinato che vostra figlia dovesse frequentar la sua casa. Però io non voglio ora farvene carico. Ognuno è padrone di fare ciò che gli aggrada. Vuol dire che voi ci avrete trovato il tornaconto.
— Taci, vile calunniatore! — saltò su Marta che s'era riavuta. — Taci! Non inventare dei torti che rendano meno infame la tua condotta. Tu sai bene che menti! tu sai bene che non sei degno di guardarmi in faccia!
— Ebbene! sì! So che non son degno di voi, e per questo ho pensato di lasciarvi in libertà e di dar la mano ad un'altra. Andate via ve ne prego. Può essere ch'ella capiti qui, e capite bene.... siamo in un paese piccolo. Io non ho bisogno di scandali. Andate colle buone....
— E s'io non me ne vo' colle buone?...
— Ci anderete per forza. Orsù...
— Guarda qual conto io fo delle tue parole! Così dicendo s'adagiò sopra uno dei seggioloni che occupavano il mezzo della bottega. — Ella verrà qui, tu dici? Tanto meglio! Io voglio vederla in viso questa perla, questa rivale che tu mi dài. Sedete, madre mia, sedete anche voi. Sarete stanca, povera mamma, approfittate dell'ospitalità di vostro genero. —
Federico fremeva di rabbia. Non potendo sostenere l'aspetto di Marta, tornò ad inveire contro la vecchia, facendosi verso la porta, sia per evadere, sia per chiamare man forte. Ma la vecchia robusta lo afferrò per un braccio e lo scagliò nuovamente verso il fondo della bottega. In quel momento una donna di circa trent'anni, s'affacciò alla porta. Era Giustina. Il sagrestano l'aveva avvertita di due parenti di Federico venute espressamente per visitarlo, onde s'affrettò a farsi riconoscere per la futura sposa di lui. Un suo cugino e futuro compare dell'anello l'accompagnava. Visto il parapiglia, s'arrestarono un poco, poi tra per curiosità, tra per difendere il barbiere che pareva avesse la peggio, entrarono e chiesero la ragione della contesa.
— La ragione? — gridò la vecchia inferocita dalla violenza dell'atto: — la ragione? —
— Non le credete nulla! ella è una pazza, una ubriaca, — sclamò Federico riavuto dal suo sbalordimento.
— A chi dici tu pazza? — gridò Marta rizzandosi in piedi. — Rispetta mia madre, Federico, rispetta mia madre, che potrebbe farti cacciare in prigione con una sola parola. — Poi volgendosi alla Giustina; — ah! — disse con un sorriso pieno d'ironia, voi sarete la sua sposa?... io vi faccio sapere, buona donna, che costui non può prender impegni con altri. Egli è mio marito.
— Giustina, non prestate fede alle loro parole. Andate via di qua, pregate qualcheduno che venga a liberarci da queste pazze.
— Se vai via di qua, sarà meglio per te — disse Marta alla sua sbigottita rivale. — Va via di qua, e non tornarci mai più, proverai che cosa può fare una pazza! — Così dicendo mosse due passi verso di lei con piglio minaccioso, e risoluta di venire alle vie di fatto. Giustina non se lo fece dire due volte, e se ne andò strascinando con sè il suo compagno. Federico rimase nuovamente solo colle due prime venute. Tanta era la violenza della passione in tutti e tre, che una lunga pausa successe a questa scena bizzarra e terribile.
Marta si ricordò in quel momento dell'arme che avea portata seco nella manica del vestito: se ne ricordò quando concepì il disegno di venire alle mani colla rivale. Una specie di vertigine occupò la sua mente. Tutto ciò che v'era stato di più provocante nel dialogo corso tra lei e Federico le passò dinanzi al pensiero come un'orrenda visione. Ella perdette la coscienza di se medesima, e divenne come sonnambula. Immaginò che tutte le autorità del paese, convocate da costei, sopravvenissero là, e la traessero a forza lungi da quel luogo. Immaginò di vedersi condotta come una pazza per le contrade di quella città fra le grida e gli scherni del popolaccio. Non potè sostenere quest'idea, ed anzichè prevenir questo fatto, pensò a vendicare l'oltraggio che le parea inevitabile. Abbracciò strettamente la madre senza piangere, senza parlare, come uscita di senno. Poi spiccatasi da lei si volse tutta mansuetudine a Federico — Non aver paura, — gli disse — non aver paura di me, Federico. Se la sorte ha destinato che tu sposi un'altra, sposala pure. Ti domando perdono delle mie furie di poco fa. Separiamoci in pace, Federico, separiamoci in pace, prima che venga gente. Oh! non vorrai tu darmi nemmeno un abbraccio prima ch'io ti lasci per sempre? — E così dicendo accostavasi a lui che non sapeva rendersi ragione di un tal cambiamento, e se ne stava perplesso e balordo in fondo alla stanza.
Marta avvicinandosi a lui, senza far motto gli gettò le braccia al collo, e lo strinse fortemente come convulsa. In quel momento sentì accorrer gente alla porta della bottega. La madre che era stata fino allora attonita aspettando l'esito di quella scena, la chiamò a nome. Fu come un lampo. Senza ritirar le braccia incrocicchiate dietro al collo di Federico, Marta aveva brandito il coltello nascosto, come dissi, entro la manica sinistra dell'abito, e gridando: — traditore! — con un movimento improvviso l'avea cacciato nel cuore del suo promesso, che gettò uno strido e cadde rovescio. Era morto. Marta senza più curarsi di lui, e brandendo ancora il pugnale insanguinato, si volse alla gente che affollavasi all'uscio e cercò qualcheduno cogli occhi stralunati e furenti. La vecchia mezza morta dallo spavento afferrava invano il braccio della figliuola: questa non vi poneva mente, non la vedeva. Pallida, le gote tremanti, chiamava un'altra donna che non era presente, chiamava Giustina. — È spenta, è spenta, — gridava — una delle due candele che ardeva innanzi a Maria... una è spenta! vedo il lucignolo che fuma ancora!.. L'altra... l'altra arde ancora, ma per poco. Dove sei, scellerata donna? Oh! tu hai paura, non è vero? Non aver paura, no! Non è già la tua vita che dipende da quella candela, è la mia!.. Ella muore. — Così dicendo rivolse contro il suo petto il coltello, e due o tre volte tentò di trafiggersi: ma la stecca del corsetto deviò la punta micidiale e le impedì di finirsi. Sentendo che non riusciva nel suo disegno e vedendosi circondata, cambiò improvvisamente pensiero, e alzando il pugnale contro i più vicini si fece largo fra la folla e uscì furibonda nella contrada. Il popolo le schiamazzava dietro: — ferma, ferma, — ed ella tanto più accelerava il passo lungo la via, senza guardarsi mai dietro. La contrada metteva al mare. Un piccolo molo per uso de' pescatori stendevasi alquanto fra l'acqua. Ella l'occupò prima che alcuno potesse impedirglielo, e pigliando la rincorsa si lanciò nel mare gridando: — è spenta anche l'altra! —
Un vecchio pescatore che rattoppava le reti nella sua tartana, levandosi al tumulto e al tonfo che avea sentito nell'acqua non lontano da lui, si gettò prestamente a nuoto, e riuscì ad afferrare la veste della sciagurata giovane, la trasse a riva affatto priva di sensi, e solo dopo alcune ore, ebbero effetto i pronti soccorsi che le furono prestati. Ella si risentì vicino alla madre, nella camera stessa del pescatore che l'aveva salvata, ma non pareva serbasse alcuna memoria dell'accaduto. Vedendo sul proprio seno l'apparecchio che il chirurgo aveva applicato alle due non mortali ferite che s'era fatte, ne chiese conto alla madre, accusando un dolore a quel luogo, e credendo d'esser precipitata giù da una scala. Corsero alquanti giorni prima che riacquistasse davvero la coscienza del suo delitto....
Delitto?
Certo che fu delitto dinanzi al Codice. L'equità umana però che distribuisce con altra legge il diritto ed il torto, farà più mite giudicio di quella misera.
Il Tribunale di Trieste riconobbe anch'esso molte circostanze attenuanti, e la povera Marta non fu condannata che a qualche anno di carcere, abbreviato anch'esso da una grazia sovrana.
Credo che ai lettori basterà questo. Gli altri personaggi di questa istoria non sono tali da ispirare nessun interesse, e nessuna curiosità.
NOTE.[4] Sessola nel dialetto triestino e veneto significa una specie di pala ricurva di cui si servivano i droghieri e i fornai per tramutare lo zucchero, la farina, i grani da un recipiente all'altro, simile al bozzolo de' mugnai, e alla gottazza dei barcaiuoli.
IL BERRETTO DI PEL DI LUPO.
I.
Il mare che varia in cento guise la costa occidentale dell'Istria, ora lambendone le sponde selvose, ora addentrandosi con seni profondi: qui largo e diffuso, là frastagliato da isolette e da scogli verdi d'ulivi e di mirti, a poche miglia dalla rada di Trieste circonda Capo d'Istria come di due braccia amorose, e ne farebbe un'isola se la mano degli uomini non l'avesse qua e là congiunta alla terra. Quel braccio che la limita a mezzodì è tagliato da un sentiero che conduce all'oratorio della Madonna di Semitella, forse diminutivo del nome latino semita.
La terza domenica dopo Pasqua ha luogo la solennità di quella chiesetta; e quando la stagione il permette, gl'Istriani delle terre vicine vi concorrono in folla, e non pochi cittadini della stessa Trieste vi prendono parte. Alcuni anni sono, il vapore gettava l'àncora alle nove del mattino in mezzo alla rada, e scaricava nella lieta città oltre a cento allegri pellegrini che andavano al Santuario a sciogliere un voto, preparandosi intanto divotamente chi in qualche casa ospitale, chi nelle affaccendate osterie.
Fra questi una brigatella d'amici, della quale io facevo parte, appena il calor del meriggio ebbe dato luogo alla fresca temperatura del vespro, s'incamminava per quella viuzza al luogo della Sagra, frequente ancora dei mandriani e dei villici dei contorni, mezzo brilli di vino, di amore e di danza. Sopra il dolce ed erboso declivio della collina, distinti alquanto, ma non separati, dalla folla baccante si spiegò la tovaglia, e si celebrò la festa a mo' del paese, facendo onore alle abbondanti provvigioni che avevamo recate con noi. Bello il vedere da quella eminenza la rosea mandriana contornata il viso dal candido e ricamato mesero ascoltare con cedente riserbo le proteste dell'innamorato Paulano. Così chiamansi colà i terrazzani, stirpe tra italiana ed illirica, che veste ancora le brache larghe, sciolte al ginocchio, e il fulvo berretto di pel di lupo, parte integrante dell'abbigliamento nazionale, quando non cuoprono il capo coll'immenso cappello di feltro, che è la divisa solenne.
Terminato il pasto rituale, frenato dall'imbrunir della notte il divagamento degli occhi, i motti e i discorsi piacevoli cominciarono ad intrecciarsi con vena inesauribile. Si parlò di tutti e di tutto, non omettendo i baffi e la barba, che cominciava allora a ricrescere sul mento dei giovani aspiranti alla gloria di gagliardi e di liberali. — Il più erudito fra noi, benchè per la dignità del carattere non avesse ancora lasciato crescere il folto onore del mento, cominciò a tessere la cronologia delle barbe, e riscontrò una coincidenza curiosa tra le barbe lunghe e il culto alla musa di Dante. — Quando gli uomini, ei disse — ebbero il mento vestito di barba, amarono sempre e coltivarono la Divina Commedia. All'epoca invece dei menti rasi e della cipria, voi sapete che Dante era tenuto per barbaro, e appena si chiamava poeta. —
Questa peregrina erudizione fece un po' sorridere le nostre donne, le quali non furono mal paghe di poter giustificare coll'esempio di Dante le loro simpatie per la barba. Peccato che Dante non la portasse lunga quanto Pietro Bembo e Leonardo da Vinci! Tutto considerato, le nostre gioviali compagne non avevano torto a prediligere quell'ornamento virile. Non può negarsi che la barba lunga non doni alla fisonomia dell'uomo un'aria maschia ed austera, che piace e piacerà sempre alla donna. Quelle che si compiacciono di certi tisicuzzi sbarbatelli, credete pure che nel loro interno se ne fanno beffe, o li amano come si ama un cagnolino, un gattino, un pappagallo. La donna non ama davvero se non l'uomo che può difenderla: l'ama robusto, ardito, terribile. La donna non vuol guardare dall'alto al basso il suo eroe. S'inganna talora, perchè sotto l'aspetto del lione può celarsi anche l'asino, e il coraggio non abita sempre nelle membra più vaste. Volete udire una storiella a questo proposito?
— Si tratta sempre di barbe?
— Non precisamente di barbe, ma sibbene di pelo. È l'origine di quel berretto di pel di lupo che vedete portare a quasi tutti gli abitanti dell'Istria.
— Sarà una delle tue.
— Anzi è un fatto che dev'essere conosciuto in paese, e forse alcuno l'avrà udito raccontare altre volte. Quest'oggi, signora mia, mentre voi mi credevate smarrito in qualche giardino d'Armida, io andava invece a caccia d'anticaglie, e m'ingegnavo di raccapezzare dalla bocca di questa brava gente le tradizioni più singolari della popolazione istriana. Ed ecco quanto mi venne fatto d'intendere da un vecchio pescatore intorno a quel berretto tradizionale.
II.
— Codesto berretto — continuai, — sia esso veramente formato colla pelle d'un lupo, o con quella d'altri animali che gli somiglino, non divenne già sì comune per semplice volontà della moda, come alcuna di voi, belle donne, potrebbe credere. Esso è una specie di trofeo, nè più nè meno com'è stata per Ercole la pelle del lione Nemèo. Vi fu un tempo, m'ha detto il mio pescatore, che nessun Istriano avrebbe potuto ornarsi di quel berretto, senza essersene procacciata la pelle col proprio valore, purgando la penisola istriana d'alcuna di quelle belve. Sapete che i lupi sono ancora abbastanza frequenti nell'Istria, e udii raccontare di certe caccie solenni e strepitose, a cui prendevano parte tutti i cacciatori di queste terre: i quali cominciavano a battere il paese dalla radice del monte maggiore, avanzandosi grado a grado verso il mezzodì come in linea di battaglia non interrotta, finchè, ricacciati codesti voraci animali all'estremità del capo promontore, ne facevano una vera carneficina. Fino a memoria del mio vecchio istorico, l'aver ammazzato un lupo, vuoi con una palla di moschetto ben aggiustato, vuoi con un colpo di randello, era una specie di vanto patriottico fra' pastori, e chi non avesse avuto intorno alla fronte codesta spoglia, testimonio irrefragabile del proprio coraggio, non poteva nè anche sperar fortuna in amore. In quell'epoca, o gentili donne, il coraggio era ancora un requisito necessario per ottenere i vostri favori. Il Morlacco non era reputato degno della sua sposa se non la rapiva dalla casa paterna: e nelle cerimonie nuziali di quella stirpe c'è ancora un simulacro di battaglia che ricorda quell'uso.
Ivo Milovich era un antico proavo della famiglia del pescatore sopra lodato. Egli non m'ha detto l'epoca in cui fiorì: ma da certi miei dati, mi azzardo a conchiudere che saranno presso a poco due secoli. Del resto mi riservo ad accertare la data ogni qual volta fosse per sorgerne un dubbio. Figlio unico di donna veneziana, avea ricevuto nascendo l'indole dolce e timida della madre, la quale educata a Venezia, al solo nome d'un lupo, tremava tutta come se n'avesse avuto il morso alla gola. Siccome da bambino egli era un po' troppo vispo e bizzarro, la madre non avea miglior mezzo a farlo star cheto che minacciarlo del lupo: di che il giovanetto, come suole accadere, n'ebbe a ricevere una impressione sì forte nella tenera fantasia, che impallidiva ogni qual volta sentisse parlare di lupi. I suoi compagni, senza pietà per questi involontari movimenti dell'immaginazione, si divertivano alle sue spalle e lo spaventavano spesso, appostandosi la notte dov'ei doveva passare, e urlandogli dietro come sogliono i lupi. Il povero Ivo era un vero tribolatello: ei non capitava mai un po' mal disposto della salute in una brigata d'amici che alcuno, e spesso per maggiore strazio una donna, non gli chiedesse: — Che hai, Ivo, che mi sei sì basito? Hai visto il lupo? — E a queste parole si levava un riso a cui non c'era risposta.
III.
Tra i beffatori del povero Ivo il più implacabile era un suo cugino chiamato Stiepo, giovinaccio atticciato e robusto, il quale era andato a caccia fino da fanciullino, condottovi dal proprio padre, e di tredici anni avea già guadagnato il berretto. Il qual berretto stava pur bene alla fronte maschia e alla bieca fisonomia di quel ragazzone dalle folte basette fulve e dai fulvi capelli che cadevangli in due arruffate treccie, a mo' de' Morlacchi, sopra le spalle.
Questi due cugini avevano già il seme d'una cordiale antipatia fra di loro, e non ci voleva più che una rivalità d'amore per renderli nemici davvero l'uno dell'altro. E l'occasione, come potete credere, non tardò.
Era venuta ad abitar Capo d'Istria una fanciulla chiamata Matilde, figlia del capo-caccia de' conti di Pisino, natagli nel castello e lì allevata quasi signorilmente colle damigelle della contessa. Avvezza al piglio soldatesco del padre, vecchio cacciatore, e degli amici di casa, era più inclinata a ridere della timidezza d'Ivo, che a prenderlo in affezione. Ma dall'altra parte nè anche il carattere rozzo e bestiale di Stiepo poteva far breccia nell'animo suo: poichè l'educazione, o meglio la consuetudine del castello l'avea resa un po' delicata, e non amava i costumi selvaggi del giovane bieco, benchè si accordasse di sovente con esso nel farsi beffe dell'altro.
Rimasta orfana da poco, viveva come padrona presso una vecchia parente. Il conte di Pisino in benemerenza de' paterni servigi le aveva assegnata una modesta pensione a titolo di dote, sicchè ell'era un partito assai desiderabile per la gioventù del paese.
— Stiepo, — disse una sera Matilde, — bisogna avere un po' di compassione al povero Ivo. Egli ha forse paura dei lupi perchè non si è mai trovato al cimento. Conducetelo fuori a caccia con voi: addestratemelo un po' quel caro ragazzo. — Ivo era presente e arrossì fino agli occhi.
— Matilde, — diss'egli, — comandate ch'io esponga la mia vita in vostra difesa, e vedrete se il coraggio mi mancherà.
— Bel difensore che avrebbe trovato! — soggiunse Stiepo: — un giovane di ventidue anni che non si è ancora procurato un berretto. Comperategliene uno, — diss'egli a Matilde, — comperategliene uno voi che avete denari. Oppure senti, Ivo, cugino mio. Io ho veduto un bel gatto che ruzzava ier sera qui dattorno. Cacciagli una palla ne' fianchi quando ei si sarà accovacciato. Diremo ch'è stato il lupo, e non porterai più quel vigliacco berrettino di lana. —
La fanciulla cervellina si mise a ridere sguaiatamente, poi tornò sulla prima idea, e persuase colle buone i due cugini ad andarsene insieme alla caccia del lupo che si progettava a quei giorni.
Ivo non mancava veramente di qualche coraggio, nè accresceva coll'immaginazione, come sogliono i paurosi, la realtà del pericolo. Più volte l'avea affrontato con sufficiente calma e n'era uscito sano e salvo. Ciò che mancavagli era quel sangue freddo che non si lascia sopraffare da un accidente improvviso, quella dote che non è sempre coraggio, che non dipende dalla forza del volere, ma è dono libero della natura, o conseguenza delle prime impressioni infantili: quel colpo d'occhio sicuro che vede in un attimo ciò che è da farsi e lo fa. Questa facoltà preziosa ei non l'avea mai potuta acquistare per quanto cercasse d'abituarcisi. Un colpo di fucile, un tuono non preceduto dal lampo, un cane che gli corresse tra' piedi, lo facea trasalire. Bisognava avvisarlo di tenersi all'erta; allora egli diveniva un uomo. Quindi consentì di prender parte alla caccia, preparò il fucile, le munizioni, ed era apparecchiato ad affrontarsi non solo co' lupi, ma co' leoni, se fosse stato mestieri.
Se non che il suo rivale aveva risoluto di farne strazio, d'esporlo a nuove risate, di perderlo affatto nell'animo di Matilde. Fatto il suo progetto, gli si pose a' fianchi, volle visitare la carica coll'intenzione di sottrarvi le palle: ma l'altro se n'avvide e ricaricò. Di lì a non molto, al primo braccare de' cani, Stiepo si diede a gridare: — Al lupo! — e cominciò a ridere vedendo il cugino impallidire, e spianare il fucile prima di scorgere cosa alcuna. Più tardi i lupi si mostrarono davvero: tutti scaricarono l'arma: ma non restò ferito che un cane, un bel bracco della Matilde, memoria del padre suo. Era difficile a dire chi l'avesse colpito: ma come ben potete pensare la colpa fu addossata ad Ivo, il quale costretto a dissimulare, sentì versarsi nell'anima quanto aveva di fiele. Accorse al povero Lampo ferito, e si pose a medicarlo. Intanto ch'egli si occupava di questo, un altro lupo snidato dalla sua tana veniva a lui difilato. Egli balzò in piedi, ma non fu a tempo d'imbracciare il fucile. — All'erta! — gridò Stiepo — occhio alle spalle! — e mentre Ivo volgevasi dalla parte che gli era indicata, Stiepo gli aveva colpito il lupo sui piedi. Il feroce animale rotolò due volte sul terreno. Immaginate la confusione del giovane. Egli rimase impietrito, mentre gli altri cacciatori furono tutti sopra la belva, e stavano per finirla. Stiepo vedendo che aveva solo le gambe infrante, gli gettò un laccio scorsoio e risolvette di condursela a casa vivente — ognuno può immaginarsi a qual fine.
Ritornando dalla caccia, i due rivali si trovarono insieme non lontani dalla barella dove con gli altri arnesi da caccia stava il cane ferito, e il lupo colla musoliera alla bocca. Ei metteva sovente un urlo represso di dolore e di rabbia che nel silenzio della notte poteva metter paura anche a' men timidi.
— Ivo, — prese a dire il suo instancabile beffatore: — tu sei stato assai poco fortunato alla caccia: la Matilde sarà adirata con te che le hai ferito il suo Lampo. Affè, era meglio assai risparmiare la polvere.
— Stiepo, — rispose quegli seriamente. — Io non ho ferito il cane. Non dirò chi l'abbia fatto.... perchè.... ma voi dovete sapere meglio d'ogni altro ch'io non lo feci.
— Io? Non so niente, io! Ad ogni modo ei guarirà forse della ferita. Senti, Ivo, giacchè ti deve importare la vita del bracco, dovresti montar tu pure sulla barella perchè il lupo non rompa a caso la musoliera. Senti, senti come freme! Povero Lampo, s'ei mette i denti in libertà. —
La pazienza del giovane toccava gli estremi, ma pure dissimulò finchè giunsero a Capo d'Istria. Qui ei trasse Stiepo in disparte, e guardandolo con freddo e risoluto piglio: — Cugino — gli disse — io ti prego di non permetterti un solo motteggio sulla caccia di ieri. Ricordati che se alcuno riderà alle mie spalle, tutti non rideranno ugualmente.
— Come sarebbe a dire? pretendi tu minacciarmi?
— Io non minaccio alcuno: ti prego a porre un limite alle tue beffe.
— E s'io non volessi ascoltar la preghiera?
— Stiepo, ella non è altrimenti preghiera: è un comando. Tu non dirai nè anco una parola sul conto mio! — E così dicendo lo fissava con quel guardo che annunzia una ferma risoluzione e la forza morale per porla ad effetto. Stiepo ne fu involontariamente un po' sconcertato, e volle sottrarsi all'influenza che quello sguardo esercitava per la prima volta sopra di lui. Cambiò discorso, e soggiunse: — Tu non avrai la Matilde. Ella è figliuola d'un bravo cacciatore, e sceglierà uno sposo degno di lei.
— Non si tratta ora nè di Matilde, nè della sua scelta. Si tratta della tua vita! —
Stiepo voleva ridere, ma l'occhio fiso ed immobile del suo cugino gliene tolse la voglia. Ei gli voltò le spalle e andò a collocare il suo lupo in una stalla deserta in fondo al cortile della sua casa. Là gli trasse destramente la musoliera senza slegarlo però dal laccio che lo teneva assicurato a un grosso anello di ferro fitto nel muro.
IV.
Matilde intanto, come seppe del cane, cominciò a strillare e domandava il nome del feritore. Non so quale de' cacciatori si lasciò sfuggire il nome del disgraziato giovane. — Già doveva esser lui! — gridò la fanciulla irritata. — È stato Ivo veramente? — domandò essa a Stiepo che soprarrivò in quell'istante.
— Ma! — rispose egli imbarazzato. Tutti lo dicono. — Matilde si prese in braccio il suo Lampo, e cominciò ad accarezzarlo e a compiangerlo senza ripigliare il discorso.
Stiepo gioì nel suo interno, perchè credette perduto il suo rivale nel cuore di lei. — Io vi ho condotto un bel lupo vivo in iscambio, — seguiva egli. — Non ha che una gamba rotta; del resto è un bell'animale. Verrete voi a vederlo, Matilde? Voi non siete già donna da pigliarne spavento. Aspetteremo il cugino che se l'è lasciato venire addosso così goffamente. Se il mio fucile fosse stato men pronto, guai alle sue gambe! Ivo sarebbe ora in cura come il povero Lampo. Ma voi me l'avevate raccomandato, ed io non l'ho perduto d'occhio un momento.
— Lo credo, — disse Matilde ironica. Ella conosceva già l'umore dell'uomo feroce. Troppo buona per farsene complice, non era che spensierata, e rideva spesso senza pensare che quelle risa amareggiavano troppo profondamente chi n'era l'oggetto. — Sì, sì, — soggiunse: — aspettiamo Ivo, e andremo a fare una visita al lupo. Già sarà ben legato, eh? che alcuno non abbia a spaventarsene un'altra volta. —
In questo mezzo sopraggiunse Ivo serio serio: salutò Matilde e contenne nuovamente il cugino collo sguardo incisivo di poco prima. Matilde, senza far mostra d'accorgersene, lo comprese. — Voi mi avete ferito il cane — gli disse con aria dubbiosa fra la stizza e il rimprovero.
— No, Matilde, — rispose: — vi giuro ch'io non l'ho ferito. Qui Stiepo può assicurarvene, — e lo interrogò cogli occhi.
Stiepo non rispose parola.
— Chi tace conferma, — disse Matilde. — Orsù io spero che la ferita non sarà grave. Andiamo a vedere il lupo del nostro amico. Voglio provare s'egli ha faccia da spaventarmi, quel brutto animale. — Detto questo, passò il suo braccio sotto quello d'Ivo, e mossero tutti insieme verso la casa di Stiepo contigua a quella di lei. Si fermarono dinanzi al forte cancello che chiudeva la stalla dove la irritata belva stava fremendo. Quando ella vide appressarsi la gente, urlò più forte, e si slanciò verso l'uscio con occhi di bragia. Quivi s'accosciò perchè le gambe ferite non la reggevano, ma mostrava i denti e arruffava il pelo del collo in modo da metter paura.
La figlia del cacciatore tremava tutta, ma volle fare la coraggiosa, e cominciò a stuzzicarlo agitando il grembiale, di che l'animale urlava e guatava più torvo che mai. Stiepo si trasse il suo berretto: — Forse e' conoscerà il pelo del suo fratello — diss'egli, e l'accostava allo steccato. Matilde sbadatamente prese il berretto e lo sporse verso la bestia. Il lupo diede un salto e l'addentò. Matilde fu per caderne svenuta.
— Imprudente! — gridò Ivo.
— Il mio berretto! — disse Stiepo, e si volse per cercare qualche istrumento per riacquistarlo.
— Ah! tu se' in pensiero per il berretto, cugino mio! — Così dicendo una felice idea balenò alla mente d'Ivo: guardò Matilde quasi volesse attingere nel suo sguardo il coraggio necessario all'impresa, pose la sinistra sulla traversa delle sbarre, e saltò dentro col coltello sguainato nell'altra mano. In un lampo fu sopra il lupo, il quale, lasciato il berretto che teneva ancora fra' denti, si slanciò al petto del giovane, ma questi lo afferrò al collo colla mano manca, e gli cacciò nel cuore due volte lo stile. La belva cadde riverso. Ivo afferrò il berretto, se lo calcò sulla fronte, e col petto sanguinoso pel morso del lupo, balzò fra gli attoniti spettatori d'un altro salto.
Tutto ciò fu l'affare di due minuti.
Matilde avea gittato un grido che mostrava chiaro la secreta disposizione dell'animo suo verso il giovane. Appena lo vide salvo, gli s'appiccò al braccio insanguinato con ansia affannosa. Stiepo taceva pallido ed umiliato.
— Cugino Stiepo, — gli disse Ivo con calma. — Spero che non vorrai contendermi il berretto che ho conquistato senza bisogno d'uncino. Hai là una pelle di lupo che ti regalo per fartene un altro. —
Il giovane Ivo era sublime in quell'atto. C'era sul suo volto l'alterezza d'una nobile vendetta: le sue labbra sottili s'agitavano sotto l'ombra dei baffi nascenti. Nessuna donna avrebbe dubitato allora a quale dei due cugini dovesse dare il proprio affetto; e Matilde prese fin da quel momento la ferma risoluzione di darsi a lui. —
V.
A questo punto della narrazione, uno de' miei barbuti uditori uscì a domandarmi come il feroce Stiepo avesse tollerato l'affronto. — Io, nel suo caso — aggiunse egli — avrei menato del randello sul capo del mio rivale, e così avrei riguadagnato il berretto, e il cuor di Matilde.
— La prima delle due sarà probabilmente avvenuta, io risposi. Anzi il pronipote d'Ivo Milovich non mi dissimulò che il suo proavo fu segno di molte violenze. Lo irritato cugino tentò più volte strappargli di fronte il bene usurpato trofeo: più volte lo assalì a mano armata, e tentò la riscossa. Ma l'altro era uomo avvisato, e come suol dirsi, mezzo armato: e la metà della forza che per avventura mancavagli, gl'infondeva l'amor di Matilde la quale oggimai sospirava il momento che il conte di Pisino suo protettore consentisse al suo matrimonio con lui. Con ciò ella seguiva l'istinto della donna, e dava la preferenza al più coraggioso dell'animo. Tra la forza morale e la fisica a lungo andare non v'è chi non s'affidi meglio alla prima. Il coraggio materiale di Stiepo avea ceduto all'ostacolo; la forza vera, la tenacità del proposito, la instancabile volontà è onnipotente nel mondo. Ivo era comparso agli occhi di Matilde un eroe e avea saputo mantenerla in quest'opinione. Ella lo amò tanto quanto prima s'era divertita a beffarlo: perchè s'accorse che lo scherno era ingiusto, e voleva giustificare se stessa e compensarlo a prezzo d'affetto.
Il vecchio pescatore di Capo d'Istria conserva ancora il berretto del suo fortunato trisavolo: quel berretto che fu per più generazioni argomento d'uno di quegli odii morlacchi che si propagano di padre in figlio. Oggimai della stirpe di Stiepo non resta più che una donna, e questa è appunto la moglie del mio cronista.
Sulla fine del racconto, Semitella era già deserta: tutta la gente era ritornata alle proprie dimore: e da lungi il mare rifletteva il chiaror de' fanali che precedevano a Capo d'Istria le ultime brigatelle d'amici, i quali probabilmente avranno meglio impiegato il loro tempo.
LA VALLE DI RESIA.
I. Un pazzo.
Io rivedeva la mia diletta penisola dopo dieci anni di vario pellegrinaggio. Ad ognuno che abbia cuore credo inutile il dire s'io la ritrovassi più bella. A quelli che non hanno patria, a quelli che amano tutto ciò ch'è straniero, per ciò solamente ch'è straniero; a quelli che s'attaccano senza discernimento all'ultima cosa che veggono, solamente perchè è l'ultima; a tutti gli uomini, dico, che appartengono a codeste tre classi, io non dirigo per ora le mie parole.
Salutata dunque la terra natale, vi cercai gli amici della mia gioventù, e fra questi Antonio M., valente pittore, e veramente artista dell'anima, il quale m'aveva cinque anni prima lasciato a Parigi, e del quale non m'era giunta alcuna notizia in appresso.
Il primo a cui ne chiesi conto, fu il marchese del Rio, nostro comune amico, e mecenate d'un tempo. Egli mi guardava ed esitava a rispondermi come chi avesse a dare una trista notizia.
— Buon Dio! — sclamai — sarebbe morto?
— Morto dell'intelletto — rispose. — Da quattro anni egli è pazzo.
— Pazzo...! Oh! egli non doveva mai rivederla. Perchè non ascoltò i miei consigli? perchè non rimase con me? Oh! povero amico! — Così dicendo proruppi in lagrime; dimenticai il marchese; non gli chiesi i particolari di questa sciagura, ed egli ebbe la discrezione di andarsene senza congedo.
Dirò perchè questa trista novella non mi sembrasse punto inverosimile.
Antonio M. era nato per essere artista, benchè le circostanze in cui si trovò nell'infanzia non fossero le più favorevoli all'arte. Egli era figlio di un fortunato negoziante, e secondo tutte le apparenze doveva ereditarne uno stato agiato e tranquillo. Gli agi e le ricchezze sogliono giovare a tutt'altro fuorchè all'educazione di un artista. Egli fu accarezzato, lusingato, applaudito da' suoi precettori, ogni suo scarabocchio aveva l'impronta del genio: egli era senza più un Raffaele risorto. — Buon per lui che la provvida mano della sventura venne in tempo a soccorrerlo. Le speculazioni del padre corsero il loro stadio; decaddero; ruinarono. Egli dovette fallire a molti suoi creditori. Antonio rimase a vent'anni ricco di molte speranze, di molta presunzione, di molte abitudini molli e delicate, povero di tutt'altro: ma egli era artista, cercò nell'arte un sollievo contro l'avversità, e di meschino dilettante che era, si mise sulla via per divenire pittore. E lo divenne. Gli dolse certo dover abbandonare le consuetudini fra cui era stato allevato: gli dolse sentir mutate in biasimi le prime lodi che riceveva; ma gli giovò la sua naturale noncuranza, e d'altra parte i proprii disinganni non arrivarono a farlo sconfidare di se medesimo. A ventidue anni egli dipingeva passabilmente la figura, coloriva un ritratto con molto garbo, e viveva modestamente del suo.
Ma il cuore non è impunemente poetico. Antonio doveva amare, amare passionatamente, infelicemente, come suole accadere agli artisti: egli doveva imbattersi in una donna che non era fatta per lui; ed amarla, idoleggiarla, adorarla quanto meno ella mostrava comprendere questa poetica idolatria, da cui si trovava perseguitata.
La contessa Sofia di V. era del bel numero una di quelle fredde creature, in cui le arti e le consuetudini sociali distruggono molte doti ingenue della natura, surrogandovi l'affettazione di tutte. Ella aveva imparato la virtù dalle opere di M a. de Genlis, la grazia dal maestro di ballo, il contegno dalla sua governante, lo spirito dalle conversazioni e dai dizionari, le lingue, non so quante fossero, da' suoi precettori, la musica dalle note. E tutto questo sapeva passabilmente e brillava fra tutte, perchè era ricca, nobile e bella: tre splendide prerogative che non hanno sempre lo stesso valore prese separatamente, ma in cumulo non possono mancare di un successo nel mondo.
Antonio M. non nobile per natali, non d'altro ricco se non della sua onestà e della sua tavolozza, la vide al teatro, l'ammirò ad una veglia, le parlò ad una pubblica esposizione di belle arti dinanzi ad un proprio quadro che ella e tutti lodavano. In quel momento parvegli di poter innalzarsi fino a lei e sperò di ottenerla. Prima che fosse chiusa la pubblica mostra, egli espose sotto le forme della Speranza un ritratto parlante di Sofia, opera improvvisata sotto l'influenza di un amore vulcanico. Il padre di lei comperò questo quadro, ed ebbe l'imprudenza di dar per maestro di pittura alla figlia il mio povero artista. Dico povero, ed egli ringraziava la fortuna come avesse tocco il cielo col dito.
Non racconterò la storia del suo amore. Progredì come doveva in lui, vero, ardente, indomabile; in lei dapprima civetteria, poi vanità, poi niente. Egli osò domandarne la mano. Gli si rise in faccia. La fanciulla ebbe l'ordine di non più vederlo; fece un po' l'afflitta, lo fu anche; ma obbedì da buona figliuola, e accettò con gioia i doni e le carezze paterne, premio della sua figliale docilità. Antonio ammalò, ebbe un lungo delirio assai prossimo alla pazzia. Risanato partiva da quel luogo al mio fianco, inconsolabile sempre, ma però rinsavito. Tutto questo racconto era necessario, o lettore, acciocchè intendessi come all'annunzio ch'egli era impazzato, io mostrassi più dolore che maraviglia. Egli era stato quattro anni in mia compagnia senza dar segno di smarrimento, ma un carattere come il suo, per natura bollente, quando ha sofferto ne' suoi primi anni una scossa terribile come questa che ho raccontato, ne resta con una tinta di tristezza per tutta la vita. Volsi subito il pensiero ad informarmi di tutte le particolarità di tale ricaduta, per vedere se l'amicizia potesse un'altra volta porvi rimedio.
II. Fatti e parole.
Ma dove si trovava questo povero amico, e di qual genere era la sua nuova pazzia? Queste domande io avevo dovuto rivolgere al terzo ed al quarto per desumere, se fosse possibile, il vero dalla opinione dei più.
Mi fu risposto ch'egli trovavasi nella valle di Resia, un paese, a quanto mi dicevano, abbastanza salubre; ma inameno e inospitale, circondato da monti sterili e altissimi, ove non si poteva penetrare che per difficili e scabrosi sentieri; abitato da un'orda di barbari, d'origine, a quanto dicevasi, slava; luoghi e genti, in una parola, che solo un pazzo poteva scegliere per dimorarvi. Non avevo per anco veduta la valle di Resia, e non potevo trovare molto improbabile la pittura che me ne facevano.
Quanto al mio povero amico, egli era ritornato nella sua patria oppresso da una specie di nostalgia; sia che il solo amore del suo paese ve lo richiamasse, o un resto della sua infelice passione. Egli ritornava in Italia ricco di un bel nome e di non mediocre peculio. Quando corremmo in compagnia la Germania, l'Inghilterra e la Francia egli s'accorse non meno di me qual fosse il genere dominante in quelle nazioni, e pensò bene di trarne profitto. La pittura storica era caduta in dispregio perchè pochi oggimai la trattavano con quella coscienza e quella dignità che domanda. D'altronde non si tratta già più di ornare vaste gallerie e magnifiche sale: le ambizioni dell'età nostra sono di raccogliere molte cose in poco spazio: vogliamo più verità che poesia, e una verità più fisica che morale: quadri di genere, prospettive, paesaggi, ritratti. Antonio M. sapeva bene che la poesia della pittura non si trovava in queste fedeli rappresentazioni della realtà. Sapeva bene che le prove fotografiche non sono quadri, e che l'artista deve, per così dire, fondere nel suo cuore gli elementi del vero che la natura gli somministra prima di riprodurli potentemente sulla tela. Ma vedendo gli uomini per lo più incapaci di tale discernimento, anteporre un magro paesaggio ed una prospettiva a quei quadri ch'ei s'ingegnava di trar dalla storia e di animare col soffio creatore dell'arte, sdegnoso per natura, e non abbastanza artista per comandare al suo secolo, venne ad una non nobile, ma utile transazione col gusto dei più, e dipinse prospettive, paesaggi, alberi e case, nevi e rupi, e specchi d'acque e torrenti, e marine e burrasche, e tutto ciò che la natura gli offeriva non dirò di più bello, ma di più singolare, cercando non già l'espressione e la vita, ma i contrasti i più saglienti e più inverosimili.
In tre anni egli collocò in tutte le gallerie, in tutti gli album, in tutti i gabinetti alcuni di questi quadri che egli schizzava a vapore e ricopiava secondo che gli venivano commessi da questo e da quello. Le sue maniere nobili e disinvolte, quell' à plomb, ossia quella tinta d'impertinenza che il primo suo stato gli aveva lasciate, lo facevano accetto nelle brillanti conversazioni. Le commissioni e i quattrini fioccarono per lungo tempo, e se l'avesse desiderato, avrebbe potuto far pompa d'una medaglia, d'un titolo, o d'un nastro all'occhiello del suo vestito.
Ricco e celebre egli mi significò il desiderio di ritornarsi in Italia, per cercarvi, mi disse, nuove ispirazioni, e per dipingere secondo il suo gusto, dopo avere adulato l'altrui. Ci accomiatammo a Parigi, e partì. Giunto alla terra natale, cominciarono le sue stravaganze e le sue pazzie, le quali, per quanto ho potuto raccogliere, si riducevano a tre principali. Una mattina egli ricevette la visita dell'avv. B., il quale gli comunicò come il padre suo nell'ultimo fallimento avesse voluto provvedere all'onesta sussistenza di lui, sottraendo cautamente agli avidi creditori un capitale di 150,000 lire. Egli aveva creduto bene non confidarlo alla sua giovane età e a quei principii di morale poetica di cui lo sapeva invaso, l'aveva quindi depositato in mani prudenti e sicure; ed ora ritornato dai suoi viaggi egli poteva prevalersene senza suscitare sospetto alcuno, e senza concitare contro di sè le insaziabili pretensioni di mille arpie che non avrebbero mancato di porre in campo diritti sopra diritti. Antonio M. accettò il portafoglio dove erano raccolti i titoli della sua nuova ricchezza; compensò l'avv. B. del servigio fedele che aveva prestato, e la mattina appresso fece convocare i creditori del padre, perchè avessero ad essere soddisfatti, per quanto bastasse la somma sopraccennata, e quella di che l'avevano arricchito i propri lavori ch'ei voleva pure consacrare a quest'uso.
Alcuni giorni prima di questo avvenimento egli aveva trovato, rientrando, una carta da visita dal conte di V. È facile a immaginare quanto ei dovesse meravigliarsene. Seppe che la bella Sofia rimaneva ancora nubile nella casa paterna, avendo o essa o i parenti suoi rifiutati parecchi partiti di matrimonio, che non erano sembrati abbastanza convenienti alla vanità degli uni, o alla capricciosa ambizione dell'altra. Ei non mancò di restituire la visita al conte, rivide la sua pericolosa allieva in tutta la pompa della sua bellezza, s'accorse in breve che cinque anni di più, la sua fama e le sue ricchezze, avevano modificato le disposizioni del padre e della figliuola, e subodorò la facile adesione che una sua nuova domanda avrebbe ottenuto. Ma egli vedeva con altra lente quella superba bellezza d'un tempo, e prima di cedere alla tentazione, volle sottoporla ad una dura esperienza.
Entrò in trattative direttamente col conte, e le condizioni ch'ei voleva porre ad un contratto matrimoniale furono tali che il padre ricusò sempre di palesarle apertamente contentandosi di chiamarle non solo stravaganti ma pazze. Pochi giorni dopo si seppe la nobile risoluzione di Antonio, e il conte si lodò di averla scappata bella niegando nuovamente la sua creatura a quel mentecatto.
Intanto la transazione co' creditori era avvenuta. Antonio si gloriava di non conservare altra ricchezza che il suo pennello, e noiato di vivere in mezzo a uomini che parlando o tacendo lo battezzavano per imbecille, determinò di fare un giro pe' contorni, e giunto nella valle di Resia, comperatovi un poderetto colle modeste reliquie de' suoi tesori, vi si accasò.
Nessuno l'avea più veduto da ben quattr'anni. Si diceva bene ch'egli s'era lasciata crescere la barba, che vestiva alla foggia di que' valligiani, che aveva sposata una ragazza di Resia già madre d'un figlio e vedova prima che moglie; che eccitato da' suoi amici a ripigliare la sua tavolozza, l'avea sempre negato, sdegnando di dipingere quelle stesse prospettive che aveva d'intorno e che gli sarebbero state largamente pagate da' committenti.
Quanto al conte di V. e a madamigella Sofia, il primo ne parlava sempre con affettata compassione; l'altra osservava sul conto di lui un ostinato silenzio. Le trattative ch'erano corse ultimamente fra loro rimanevano un mistero e davano argomento a molte e diverse congetture; nelle quali se il nostro pazzo faceva una triste figura, madamigella non ne faceva una migliore. Per dicifrare questo arcano mi determinai di farle una visita dalla quale speravo i necessari schiarimenti, giacchè io pensavo pur sempre che la strana risoluzione di Antonio o in un modo o nell'altro doveva ripetere l'origine da quella donna.
III. Un colloquio ad un ballo.
Presa questa risoluzione non mancai di porla ad effetto, e mi feci annunziare al conte e alla contessa di V. M'intrattenni lungamente con essi de' miei viaggi, e di que' nonnulla che ognuno può figurarsi. M'informai della salute di madamigella Sofia, e mi fu detto che, tranne un po' di malinconia, ella era perfettamente felice. Nessuno mi fece parola di Antonio, ed io non doveva parlarne con esso loro; cosicchè dovetti congedarmi senza aver potuto incarnare il mio disegno. Alcuni giorni dopo ricevetti un viglietto d'invito ad una soirée dansante ch'erano soliti bandire di tratto in tratto per farvi brillare la fanciulla, e v'andai colla speranza di cogliere questa volta un momento opportuno per favellarle.
Ella comparve infatti in tutta la pompa di una disinvolta civetteria; raccolse i complimenti, i baci, le strette di mano dalle amiche invitate, raggiante di vanità soddisfatta. Le fui presentato, e sulle prime non fece attenzione al mio nome e mi balbettò le solite frasi insignificanti. Io disperava di lei. Quando nel riposo di un vals ebbi il destro di nominarle la valle di Resia, ella mi guardò fiso, ed io lei. Impallidì e senza rispondere una parola cercò cogli occhi una sedia per adagiarvisi. Io la condussi a un divano segregato dalla folla, e le sedetti accanto.
Sofia non ignorava l'antica amicizia che mi legava all'infelice Antonio, e capì bene ch'io non aveva proferito a caso il nome del luogo dov'egli s'era ricoverato. La pregai di rinunciare alla prossima quadriglia e di concedermi quel quarto d'ora di colloquio ch'io non avrei saputo come ottenere in altra occasione. Assentì.
— Voi sola, — le dissi — voi sola potete spiegarmi le ragioni che indussero l'infelice mio amico a quella strana risoluzione. Ho sentito raccontare mille stravaganze da lui commesse, le quali potrebbero non essere tutte pazzie. Ma quanto al nuovo congedo ch'egli ebbe dalla vostra famiglia, madamigella, non ho inteso parlarne in modo soddisfacente. Oh! egli è bene infelice se l'amor lungo che vi portò, i sagrifici, i miracoli che fece per sollevarsi fin presso a voi non valsero ad ottenergli un qualche ricambio di affetto....
— Signore, — ella m'interruppe — voi mi conoscete assai poco, se credete ch'io non fossi disposta a riamarlo. Ma io sono figlia, e mio padre è inflessibile ne' suoi voleri. D'altronde poteva egli vedere la sua unica figlia congiunta ad un miserabile?
— Ad un miserabile? che dite mai? madamigella: Antonio era ricco: aveva fatto immensi guadagni coll'arte sua. Voi avreste trovati in casa dell'artista tutti gli agi della casa paterna.
— Voi dunque ignorate le condizioni ch'ei proponeva al contratto matrimoniale?
— Quali condizioni?
— Ch'io avrei consentito a seguirlo immediatamente nella Resia dov'egli aveva stabilito di dimorare. Quanto alle sue ricchezze, egli le aveva tutte disposte a pagare i debiti paterni, contro i consigli di tutti gli uomini di senno, e di mio padre medesimo che non credevano punto necessario quel passo. Egli rimaneva colla sua tavolozza, e con l'incerta speranza che la fortuna avesse seguitato a favorirlo. La mia dote avrebbe potuto guarentirci dalla miseria, ma egli la ricusava: egli voleva trarmi lungi dalla mia famiglia, lungi dall'Italia, e le sue maniere erano tali che pareano giustificare le voci che s'erano sparse ch'egli avesse ancora il cervello disordinato. Io non vi dirò se, abbandonata a me stessa, sarei stata capace di accettare la sorte ch'ei mi offeriva; ma voi potete ben pensare che mio padre non l'avrebbe permesso giammai. Quando ricevette la nostra dichiarazione, diede nelle più pazze escandescenze contro mio padre e contro di me. Chiamò lui avaro, e me vana. Disse che l'amor vero non si trova più che fra le selve, e fra i barbari, e ch'egli sarebbe andato a cercarlo colà. Così dicendo scosse la polvere da' suoi piedi, e dichiarò ch'ei non avrebbe mai più riveduta la nostra casa. Qualche mese dopo ci fu riferito ch'egli si trovava nella valle di Resia, dove avea dato la mano alla vedova di un bandito, e commesse mille altre pazzie.
— Ma il vostro cuore? madamigella...
— Oh! non insultate al mio cuore, signore!... Io l'amavo quell'infelice, e sa Iddio a quali sagrifici saprei sottopormi per renderlo alla società.
— Io voglio credervi perchè siete donna alfine e non potete essere estrania a una giusta e nobile compassione. Io confidavo, madamigella, nel vostro cuore: speravo che voi m'avreste dato mano a restituire al mio povero Antonio il senno smarrito.
— Oh fosse pure! ma non è più tempo s'egli è vero ch'egli sia legato ad un'altra donna.
— Forse potrebbe non esserlo. Io me ne chiarirò ben presto. Forse egli non v'ha per anco dimenticata. Un primo amore non si dimentica mai. Promettetemi, madamigella, che voi coopererete con me.
— Ma come?
— Io parto domani per la valle di Resia; vi rivedrò al mio ritorno: datemi la vostra parola che vi presterete alla sua guarigione.
— Io sono certa che voi non vorrete compromettermi. Vi do la mia parola. —
Così dicendo per dissimulare la verità, ossia la qualità del discorso che ci aveva occupati, entrammo nel ballo e girammo a tondo cogli altri finchè la danza venne a finire. Allora io le strinsi la mano quasi per rammentarle la sua promessa, e lasciai la casa del conte di V. contento della buona piega che la cosa pareva prendere.
IV. La nomina del Cameraro.
L'indomani io mi posi in viaggio tutto solo per la valle di Resia.
Questa convalle che s'apre circa venticinque miglia da Udine, e si stende per una buona lega circondata da montagne altissime come da forti antimurali, segna il confine dell'Italia al nord-est. Quirico Viviani l'avea fatta argomento d'una poetica descrizione in un romanzetto che pubblicò, intitolato: Gli ospiti di Resia. La lettura di questo libretto può forse aver indotto il mio povero amico a cercare un asilo in quella valle segregata dall'Italia, e pure rinchiusa fra la sua cinta, e fra quella popolazione semplice e più presto slava che italica. L'arte che professava, il suo amore per il paesaggio potevano avervi contribuito. Io era sul punto di vederlo e Dio sa in quale stato! Perciò mi avviavo con animo perplesso e pure ansioso a quella volta, come chi teme un pericolo e pure s'affretta ad affrontarlo perchè inevitabile.
Giunto al luogo dove la Fella sgorga vorticosa dalle gole de' monti e si scarica nel Tagliamento, lasciai a sinistra la via da me più volte percorsa, che conduce nel centro della Carnia, e mi volsi a destra seguendo i tortuosi meandri della montagna.
Avevo a sinistra il torrente assai povero d'acqua, ma le diffuse ghiaie e gli sterpi sparsi qua e là, i massi dirupati dall'alte cime, attestavano il suo furore, come un campo di battaglia, cessata la mischia, serba le prove del miserando conflitto. Le spalle dei monti che sorgevano quasi a perpendicolo da ogni parte dove mi volgessi, erano affatto infeconde. Benchè sul principio dell'estate, le più alte cime erano coperte ancora di neve, e i più bassi declivi mostravano poche traccie di vegetazione, macchie ed eriche di fredda ed inamena verzura. Non pareva già quello il vestibolo d'un Eden, ed io cominciavo a credere che fosse stata una vera follia abbandonare i colli del Friuli per cercare questi orrori selvaggi non desiderabili ad altri per avventura che ai banditi, o a coloro che vi fossero nati e cresciuti.
Di mano in mano però che mi venivo accostando a Resiutta, penultima porta d'Italia verso Pontebba, il pendìo della montagna andava animandosi di più forte e rigogliosa vegetazione; si alternavano gli abeti ed i faggi, le macchie nerastre si facevano più larghe e più morbide e l'occhio poteva arrestarsi senza spavento sulle alte mura di granito che fiancheggiavano quella via.
A Resiutta intesi che poche miglia mi separavano dal villaggio principale della Resia, e lasciato il calesse m'avviai a quella volta, che già il sole precipitava all'occidente.
In poco d'ora la meravigliosa convalle mi si aperse dinanzi come una scena teatrale quando si leva il sipario. Non era già una vallata della Svizzera; non era nemmanco una delle più belle ed amene della Carnia e della Carintia. Da per tutto appariva la mano del cataclisma ch'era passata, sa il cielo in qual'epoca, su quel paese. Sporgevano qua e là vasti ed enormi macigni, forse franati dai monti, forse lasciati scoperti ed ignudi dalle acque che rapirono nel loro corso la vegetabile terra. Ma ciò non ostante una molle e delicata verzura appariva qua e là. I meli fiorivano, l'immaturo frumento s'alternava ai macchioni di pini e di larici, la mano del coltivatore lottava colla natura e vinceva. Il mite clima, l'aere trasparente, la qualità delle piante, tutto annunziava l'Italia, ma l'ultimo suo confine. A levante s'elevava il monte Canino per ben 8000 piedi sul mare, nuda roccia e bianca d'eterna neve. A tramontana avresti potuto notare il rapido passaggio onde la natura compiacquesi segregare la terra italiana dalla germanica. Di qua le case sono costrutte di pietra, coi tetti mollemente inchinati: dieci passi più lungi non odi più parola italiana, non vedi più vestigio di vegetazione, le case elevano i loro tetti acuminati come nelle terre settentrionali. Vi sono luoghi dove potresti toccare colla destra l'Italia, e la Germania colla sinistra.
Io ero penetrato fino al principale villaggio. Avrei voluto abbattermi in alcuno di que' valligiani e chiedergli conto del mio povero amico: ma le capanne e le case erano tutte deserte o abbandonate alla guardia di piccoli fanciulletti dai quali non potevo sperarne alcuna informazione sicura. Il sole cadeva in mezzo a larghi flutti di nuvole porporine; e dirimpetto le campane di Resia sonavano a distesa come intendessero salutarlo. M'avviai alla chiesa della valle dove tutto il popolo doveva essere raccolto per qualche solennità. Mi sovvenni ch'era appunto il giorno dedicato a san Marco, e mi passarono rapidamente nella memoria altri tempi ed altre feste; e per un momento m'illusi, pensando che questa valle potesse essere stata preservata dai terribili avvenimenti che segnalarono la fine dell'ultimo secolo e il principio del nostro.
Giunto dinanzi alla chiesa assistetti ad uno spettacolo inaspettato. Tutta la popolazione, composta di duemila tra uomini e donne, stavano schierati dinanzi alla porta. Il vecchio parroco sostenuto a destra e a sinistra da due giovani sacerdoti s'avanzò fino alla gradinata esterna della chiesa, e in una lingua non molto dissimile dalla slava arringò i circostanti, poi bevendo un sorso da una gran coppa che gli fu presentata, la porse ai notabili della valle che gli stavano più d'appresso gridando nel suo linguaggio: — Viva il vecchio Cameraro! — Tutto il popolo ad una voce rispose a quel viva. Codesto Cameraro uscì allora dalla folla, si presentò alla popolazione acclamante, e la ringraziò con brevissimo complimento dopo avere bevuto dalla medesima coppa che girava di mano in mano. Il parroco dichiarò com'egli avesse presentato la sua resa di conti annuale, e fosse stato riconosciuto irreprensibile per ogni rispetto. Il popolo tornava alle acclamazioni.
In questo venne presentata al venerando pastore una scheda, e compresi ch'essa doveva portare il nome del candidato, cioè del nuovo Cameraro che si doveva eleggere. Il parroco spiegò gravemente la scheda e declinò al popolo ansioso e perplesso il nome di Antonio M.
Lascio pensare ai lettori che cosa si passasse nell'animo mio quando mi venne inteso quel nome. Non ero ancora riavuto dal mio sbalordimento ch'io vidi il mio amico vestito colla casacca resiana avanzarsi a lenti passi alla volta del parroco. Una salva di applausi risonarono da ogni parte; a cui mi fu forza aggiungere un grido non saprei dire se di sorpresa o di gioia.
Intanto l'antico Cameraro traeva una grande tabacchiera d'argento, e la consegnava rispettosamente nelle mani del suo successore, come fosse l'emblema della sua dignità. E questi con pari rispetto la riceveva prostrato in ginocchi e ricambiava un bacio di pace col parroco, e coll'antecessore già decaduto.
Fatto questo, si fece girare nuovamente la coppa, e tutti libavano, e il popolo rispondeva sonoramente con applausi sempre crescenti. — Quand'ecco il nuovo dignitario domandò la parola e con molta unzione e con elegante maniera dichiarò agli astanti che accettava l'incarico che gli veniva conferito; che, quanto era in lui, non avrebbe mancato di adempierlo con zelo e con fedeltà, che implorava l'assistenza del Cielo e la sua benedizione sopra se stesso e sulla intiera popolazione. Proferì questa breve arringa nella lingua del paese, con tanta franchezza e disinvoltura come se l'avesse appresa dalla nutrice; e mi pareva di vedere Lord Byron quando sulla tomba di M. Bozzari fu ammesso alla greca cittadinanza, ed accettò il comando del suo reggimento. Compiuta la cerimonia io volevo lanciarmi al collo dell'amico mio, ma egli non m'aveva punto riconosciuto, e s'era dileguato alla clamorosa gioia de' circostanti che non cessavano di festeggiarlo.
Intesi allora da uno di quegli abitanti qual fosse l'ufficio del Cameraro. Il Cameraro non era gran fatto molto diverso del nostro amministratore dei beni ecclesiastici, o fabbriciere. Ma nella valle di Resia ad un simile officio andava aggiunta una specie di protettorato che il Cameraro accordava alla chiesa. La tabacchiera, insegna della sua dignità, era il gazofilacio ove venivano deposte le volontarie oblazioni dei devoti a pro' del culto divino. Di tali oblazioni il Cameraro dovea rendere un conto assai rigoroso allo spirare dell'anno, e non meno degli usi a cui erano state adoperate. Siccome però cotal dignità non veniva conferita se non a quelli che godevano la stima di tutti, così il Cameraro esercitava una grande e benefica autorità per tutto il tempo del suo reggimento, il quale cominciava e finiva colla descritta solennità.
Io ne trassi una conseguenza, che Antonio non doveva essere sì pazzo quanto mi si voleva far credere. Io non do fede mica alla infallibilità delle popolari elezioni, ma pure come si poteva pensare che un tale incarico fosse a pieni voti confidato ad un mentecatto? Così rallegrato da una buona speranza, m'avviai alla casa del parroco per abbracciare l'amico mio.
V. È pazzo?
A pochi passi dalla canonica m'imbattei in uno di que' giovani preti che avevo veduti al fianco del parroco, il quale veniva appunto a nome di esso e del Cameraro ad invitarmi ad una piccola refezione. Trovai sulla porta quest'ultimo, che mi si gettò al collo, e mi abbracciò con una straordinaria effusione di allegrezza. — Io t'avevo ben riconosciuto, — mi diss'egli — ma non ho voluto interrompere una pubblica solennità per lasciare libero corso all'espansioni dell'amicizia. Ed ho voluto provarti anche un po'! — Provarmi? — Perdonami. Ho osservato alcuni venuti per curiosità a vedere codesta funzione, riderne fra loro come d'una pazzia. Imbecilli che non sanno vedere altro che la corteccia delle cose! Ti confesso che se ti fossi trovato fra costoro, io.... avrei avuto minor desiderio di rivederti! Ora entriamo che siamo aspettati. —
Entrammo insieme, e presi parte al banchetto rituale, ordinaria appendice d'ogni solennità, massimamente fra i popoli d'origine slava. Alcune ore dopo il mio amico ed io fummo accompagnati alla modesta sua casa. Io non potevo a quando a quando non domandare a me stesso: è pazzo? Non voglio aggiungere per ora la risposta. I miei lettori saranno in istato di darla liberamente per se medesimi.
Risposi in brevi parole alle interrogazioni dell'amico mio sulle vicende che avevo corse dopo la sua partenza dalla Francia, sulle ragioni del mio ritorno, ecc., ecc., cose tutte che interessavano a lui, ma che non si legano al mio racconto. Soddisfatto ch'io l'ebbi, mostrai desiderio di sapere dalla sua bocca medesima quanto m'era stato svisato dalle pubbliche ciarle.
— Hai veduto, cominciò egli, madamigella Sofia di V.? — Mi fece questa domanda con aria sì tranquilla e indifferente che non dubitai di rispondere il vero. — Ringrazio il Cielo — egli soggiunse — di non averla obbligata ad essere la moglie del Cameraro di Resia. Ella ne sarebbe restata molto mortificata stasera! e forse si sarebbe beffata del fatto mio, come la figlia di Saul quando vide il suo sposo Davidde ballare ed arpeggiare dinanzi all'arca.
— N'hai tu così trista opinione?
— La scuserei: perchè coll'educazione che ha ricevuto, ella non sa distinguere il bene dal male, se non dietro la pubblica opinione. T'è noto ciò che costituisce la riputazione d'un uomo secondo lei e secondo i suoi pari. Saper sottrarsi al ridicolo. Io invece ripongo qualche volta la grandezza nel saperlo affrontare.
— Mi consolo che tu la giudichi con tanta severità e nel tempo stesso con tanta indulgenza. Da ciò m'accorgo che t'è perfettamente uscita dal cuore.
— Mio buon amico, a trarmela affatto dal cuore non sarebbe bastato il conoscerla. Io m'ero accorto già che non mi avrebbe mai fatto pienamente felice; e pure l'amavo: l'amavo per abitudine, per necessità, per puntiglio. Le donne del suo carattere, le donne fredde e civette, sono terribili, amico mio. Possono maltrattarci un mese, usarci ogni sgarbo, mancarci di fede, farsi gioco di ciò che v'ha di più santo... e poi farci dimenticar tutto con uno sguardo, con un sorriso! Ti ripeto ch'io la conosceva già quando partii per la Russia, e contuttociò tu sai perchè lavorassi, perchè ammucchiassi i denari, perchè ambissi una decorazione ed un titolo. Io ritornai in Italia tutto pieno di lei, e fui sul punto di sagrificare l'onor mio, la riputazione di mio padre, i miei gusti, la mia vita..... ad una che non mi amava, ad una che non avrebbe fatto il più piccolo sagrifizio per me.
— Ma ora non saresti forse troppo severo?
— No, mio caro amico; io l'ho messa alla prova. La sua casa mi fu aperta quando si seppe ch'io era stato insignito di un ordine, ch'io tornava ricco d'oro e di gloria, e che il mio patrimonio si poteva sottrarre dalle mani de' creditori di mio padre. Allora non c'erano carezze ch'ella non mi prodigasse; non c'era esitazione; il suo cuore era mio, era sempre stato mio; ella non aveva aspettato che me! Ma quando seppe ch'io doveva rinunziare al mio titolo, ch'io voleva rinunziare alle mie ricchezze, ch'io non poteva offrirle che il cuore e la vita errante e venturosa dell'artista, ella si fece scudo del dissenso paterno; e forte una seconda volta della sua sommissione, si ritirò nelle sue stanze, e fui congedato per sempre da quella casa. Allora apersi gli occhi, ascoltai il comando dell'onore e del dovere; mi chiusi nella mia onesta povertà, giurando di non ammogliarmi finchè non avessi trovato una donna che avesse pregiato nel povero artista le ricchezze del pensiero e del sentimento... una donna com'io l'ho trovata!
— Trovata! Nella valle di Resia?
— Nella valle di Resia.
— E da qual tempo data la tua fortuna? — chiesi, non dissimulando una certa aria di dubbio e d'incredulità.
— Io sono padre da un mese, soggiunse tranquillamente Antonio. Or ora vedrai la mia sposa. — Così dicendo rientrammo nella casa, dalla quale ci eravamo allontanati durante questo colloquio, passeggiando all'incerto lume del crepuscolo che si protraeva vivace e fantastico dietro i monti, indorati sull'orlo da' suoi ultimi raggi. Ci venne incontro sul limitare della modesta dimora una bella e svelta figura di donna, portante fra le braccia un bamboletto. Come ci vide ci salutò abbassando leggermente il capo, o piuttosto gli occhi sotto le nere e lunghe ciglia che li segnavano, e silenziosa si trasse in disparte, senza ch'apparisse però alcun indizio di imbarazzo sopra i tranquilli e severi lineamenti della sua faccia. Portava intorno alla testa ed al collo un fazzoletto non molto dissimile dal costume lombardo, e il restante del suo abbigliamento non s'allontanava dall'usanza resiana se non nel colore. Una gonna scendente fino alla noce del piede, una tunica più corta e senza maniche, che la moda si compiace di raccomandare sotto altro nome alle nostre dame, e un giubbettino abbottonato dinanzi fino alla cintura, e assettato al collo e alle braccia fino ai polsi. Tale è il costume universale delle donne resiane, le quali però non l'usano se non bruno, mentre la moglie di Antonio l'indossava di color bianco.
Una fiammicella brillante ardeva sul largo focolare e ci consigliava a sederci d'appresso, poichè il nostro colloquio a cielo aperto non ci aveva permesso d'avvertire l'irrigidire dell'aria dopo il tramonto. Antonio mi fe' portare il vispo mammoletto il quale diede in improvviso pianto al vedere una faccia straniera, per cui la madre fu pronta a raccorselo al seno, e si ritrasse altrove per calmarne gli incessanti vagiti. Restati soli, Antonio così ripigliò il suo racconto:
— Io mi partivo dalla città noiato, stomacato delle ciarle che correvano sul mio conto, e degli stolti giudicii onde erano state interpretate le mie risoluzioni. Il conte di V. e la sua società avevano dipinto coi più lepidi colori la mia condotta. Credi tu ch'io non sappia d'essere stato battezzato per pazzo? Pazzo sarei stato, signori, se avessi rinunciato a questa tranquillità pei vostri fumi, e per le vostre nobili consuetudini!
Io non visitava la Resia se non per osservarne i costumi, per trarne qualche quadro di paesaggio, per togliermi alla beffarda compassione ch'io leggeva sul volto di chi mi incontrava per via, per essere solo. Le case di questa vallata bastano appena alla numerosa tribù, ed io ebbi albergo in una di esse che da pochi giorni era restata senza padrone. Egli era perito in una gola delle vicine montagne, e avea lasciato un vecchio padre e una giovane vedova sprovveduta d'ogni soccorso. Quest'ultima tu la conosci. Il vecchio non sopravvisse molto a suo figlio, e morì pochi giorni dopo di avermi offerta l'ospitalità ed ottenuti i miei vani conforti. Al suo letto di morte egli mi raccomandò caldamente la desolata nuora, e passò.
Ullania soffrì queste due sventure con un dolor muto e profondo che sarebbe stato preso per indifferenza nelle nostre città dove le apparenze son tutto, e dove un vestito bruno dispensa da ogni altro officio di condoglianza. Ella non pianse; solamente le sue palpebre si tinsero di vermiglio, e non proferì parola. Io mi provai ad usare con essa le solite formule e a ripeterle le ordinarie consolazioni. Ella mi ascoltava con un mesto e doloroso sorriso che qualche volta mi fe' sospettare ch'ella pensasse ad una fiera risoluzione. Seppi dappoi ch'io non m'era ingannato, e che ella pensava veramente a gittarsi da un altissimo picco, per troncare una esistenza sì miserabile. I consigli del confessore, o altro che fosse, mitigarono a lungo andare la sua tristezza, ed ascoltò più volentieri le mie parole. Io le parlavo talora in italiano, talora in russo (avrai osservato che il dialetto di questa tribù slava ha molta somiglianza col russo): ma ciò che le rese più intelligibili le mie parole fu un principio di simpatia che andava di giorno in giorno ravvicinando le anime nostre. Una circostanza la rinforzò. Ella era rimasta, come t'ho detto, priva di tutto. Morto il vecchio, non restava alla povera donna che la sua casa e il breve orticello che la circonda. Com'io m'accorsi delle strette in cui si trovava, volli largheggiare nel fitto ch'io non aveva pattuito, e la invitai a dividere la mia mensa.
Ella stette lungamente sul niego, e un giorno mi dichiarò non esservi che un mezzo solo che potesse indurla ad accettare i miei benefizi: acquistarne il diritto. Da lì ad un mese il parroco benedì il nostro matrimonio: ella mi portò in dote la sua casa, il suo orticello, il suo cuore e tutto l'amor suo. Io non ti farò l'elogio di Ullania, nè ti dirò quanto sia felice con essa. Un paio di giorni che tu passi in nostra compagnia, basteranno a convincertene.
— Non dubito punto di quanto mi dici, e tutto ciò andrà bene fino a che tu rimarrai nella Resia. Ma come si troverà la tua bella sposa, quando sarà fuori dal suo elemento? La società non potrà mai perdonarti questa scelta.
— Oh! quanto alla società, io farò di bei quadri per essa. Mia moglie l'ho sposata per me non per gli altri.
— S'intende.
— D'altronde mia moglie non temerebbe già il confronto delle tue belle contesse. Anzi non vi ha luogo ad alcun paragone. Ella sa l'arte difficile di tacere quando non importa che parli, e chiamata a rispondere, possiede un dono che la più fina educazione non può sempre insegnare: il buon senso.
— Pure tu non vorresti esporla a' sarcasmi delle nostre pietose damine. Gli hai provati tu stesso se pungono. Credimi, mio buon amico, il mondo ti avrebbe lodato se l'avessi tenuta come modella, ma non ti perdonerà mai d'averla presa per moglie.
— Pur troppo: ma che cosa ha più a fare il mondo con me? Ecco il mio mondo; ecco il mio universo: ecco la mia famiglia. Io n'ho abbastanza di tutto il resto. Voglio vedere se io posso verificare una pagina de' nostri romanzi: voglio comporre un'egloga di tutta la vita che mi rimane.
— Avrai tu il coraggio di rinunciare agli onori che potresti procacciarti coll'arte tua?
— L'arte mia mi procaccerà qualche cosa di più nobile e di più piacevole ancora. Io la coltiverò d'ora innanzi secondo il mio gusto, non secondo la moda. Le mie pitture saranno una manifestazione della vita intima. Io vo' dipingere la mia felicità; e quelli che vedranno i miei quadri, si risolveranno forse ad imitare l'esempio mio, a rischio di passare per pazzi. —
Il nostro dialogo fu interrotto dall'amabile Ullania che venne ad invitarci alla cena. Sedemmo a un deschetto parcamente imbandito d'erbaggi, di cacio e di burro, e qui fui presentato per nome alla padrona di casa che ne faceva schiettamente gli onori. Ella mi ringraziò di non aver dimenticato l'amico. — Egli m'ha più volte parlato di voi — soggiungeva: — ma diffidava di rivedervi, giacchè voi eravate così lontano, e mio marito non pensa ad abbandonare la sua nuova patria.
— Non lo condanno più — le risposi — dacchè conosco le ragioni che ve lo legano. —
Così terminata la cena, mi ritrassi in una graziosa cameretta che mi era stata assegnata, e mi coricai domandandomi: è pazzo?
VI. Un quadro.
— E dove sono i tuoi nuovi dipinti? ho gran desiderio di vederli — diss'io la mattina seguente ad Antonio. — Questa vallata è magnifica! mi dà il prurito di por mano alla tavolozza. Che paesaggi! che frondeggi! che montagne! Tutto qui deve ispirare il pittore.
— Hai ragione; — risposemi — ma tu non ti figuri l'effetto che mi produssero questi grandiosi prospetti.
— E quale?
— Mi persuasi a poco a poco che il paesaggio è più difficile che ogni altro genere di pittura, che queste scene magnifiche non ponno restringersi a una breve cornice senza perdere la loro espressione, e che un quadro senza espressione manca di quell'elemento che è la prima condizione dell'arte.
— Ma tu condanni dunque tutto il nostro secolo che va pazzo per il paesaggio?
— Ben detto: va pazzo. Ma non però condanno coloro che amano il paesaggio: li compiango piuttosto. Coloro che vivono nelle capitali, che non escono dalla loro casa, che vogliono trovarci tutti gli agi della vita, tutto il mondo rinchiuso fra quattro mura, questi hanno ragione d'amare il paesaggio. È sì spontaneo nell'uomo il desiderio di respirare l'aria aperta de' cieli, e di vivere in seno della natura, che non può rinunciarvi senza averne sotto gli occhi una immagine che lo illuda un momento e lo inganni. Il paesaggio è per i cittadini: ma per noi, per me che veggo le grandi scene della natura in tutta la loro pompa, che cosa è mai una tela impiastricciata di verde? Oh! io amo l'aria che respiro, l'acqua che si muove, gli alberi agitati dal vento, e i monti praticabili da' miei piedi!
— Addio dunque pennelli e colori.
— Al contrario. Mi sentii qui rinascere il mio primo gusto per la pittura storica. L'uomo e la donna possono ancora somministrar materia al pittore, e sempre più lo potranno, quanto la nostra vita andrà perdendo della sua primitiva e spontanea poesia. Abbiamo a dipingere gli affetti umani, per quelli che gli vanno dimenticando: abbiamo a dipingere la vita intima, la vita domestica, perchè questa sola non cesse a quelle maniere convenzionali che hanno già tolto ogni fisonomia all'uomo dinanzi agli altri uomini. Le arti devono una volta intendere la loro missione, devono ammaestrare, non esser paghe del solo diletto, del solo sterile diletto degli occhi. Sali meco alcuni scalini e vedrai il mio piccolo studio. —
Il quadro ch'io mi vidi dinanzi rappresentava un combattimento fra un contrabbandiere e tre doganieri nella gola di un monte. Il pover'uomo aveva forse voluto schermirsene, ed era caduto sotto ai loro colpi. Una donna bellissima nel suo fiero dolore si era posta fra il corpo dello sposo, ed eccitava gli assalitori a finirla insieme con lui. Com'era potente l'espressione di questa figura! Ella stringeva una pistola della quale aveva disarmato il consorte, e la gettava sdegnosamente a' loro piedi. Non era già una delle solite aggressioni di assassini, le quali non sono per ordinario che una rappresentazione inutile d'un orribile fatto. Qui un'idea morale ti parlava altamente, e compiangevi l'avidità di quel misero il quale per desiderio d'un lucro illegale, aveva esposto la propria vita non solo, ma quella di una donna amante, d'una moglie, forse di una madre.
— La conosco questa donna — diss'io.
— Povera Ullania! — rispose Antonio: — dopo di essersi lungamente opposta alla spedizione del marito (nè lo aveva sposato se non a condizione che lasciasse il periglioso mestiere), dopo di avere adoperato invano le minaccie, le preghiere, le lagrime per distornelo, ella aveva voluto accompagnarlo. Pareva che un funesto presentimento l'avesse avvertita della sventura che l'attendeva. Quando furono sorpresi dai doganieri, ella s'inginocchiò dinanzi al marito che si preparava a difendersi, e lo volle obbligare alla fuga. Non era più tempo. Allora ella si collocò dinanzi a lui come per essergli scudo, e fu sfiorata dalla stessa palla che ferì lui mortalmente. Stavano per ammanettarla e condurla in prigione; ma mentre se ne schermiva, ed essi esitavano dinanzi ad un dolore ed una ferocia sì disperata, sopravvenne alcuno e i doganieri avevano pigliato il più prudente partito fuggendo. Ella restò lì accoccolata senza parola, finchè dovette accompagnare alla sepoltura il cadavere dell'estinto consorte.
— Ha ella veduto questo quadro?
— L'ha veduto, e fu dinanzi a questa tela ch'ella pianse dirottamente per la prima volta, e il suo cuore sentì sollevarsi dal peso che l'avrebbe forse condotta a qualche terribile fatto. Ora ella lo vede talora con una mesta tenerezza, e mi perdonò d'averlo dipinto, perchè esso può servire d'esempio a coloro che antepongono quella vita avventurosa alla pacifica cultura de' campi.
— Certo è una buona lezione.
— E non è la sola ch'io m'affatico di dare a questi arditi valligiani. Ho comperato a vilissimo prezzo alcuni ritagli di terreno che rimanevano incolti e selvaggi qua e là nella valle. Li ho fatti sgomberare da' macigni ond'erano sparsi: li ho seminati di gelsi, di viti, e d'altre piante fruttifere. N'ho confidata la cura ai più poveri abitanti della vallata, e me li coltiveranno a metà finchè colla loro diligenza si rendano degni di possederli per intiero. Alcuni cominciano già a fare altrettanto per se medesimi, perchè con questa povera gente più vale l'esempio che le parole, onde ho speranza che tutti distingueranno a poco a poco i propri vantaggi. Vedrai fra poco le belle viti che in un anno han rampicato su pei macigni che servono loro di appoggio. E i mori, questa fonte novella di prosperità per le vicine provincie, vestiranno in breve tutto il pendìo meridionale di questo vallone. Io n'ho fatti già dispensare oltre a diecimila a tutti quelli che me gli hanno chiesti. —
Io guardava il mio amico con meraviglia e non potei restarmi dall'esclamare: — E questo è l'uomo che si battezza per pazzo! —
— Oh! — rispose egli — il nome di pazzo non fa male a nessuna riputazione. Da gran tempo il mondo si ostina a darlo a tutti quelli che ripongono il loro piacere nel far bene al prossimo, e sacrificano un godimento personale alla pubblica utilità. Ma questi pazzi, pour le bonheur du genre humain, come dice un poeta francese, questi pazzi continueranno ancora ad esistere finchè la vera virtù non sia sbandita affatto dal mondo. Perdonami queste altere parole, e piuttosto l'applicazione ch'io ti sembrerò farne a me stesso: perdonale all'amicizia. Perchè, per quanto sia vero che il bene dee farsi per sè, tuttavia ci è forte eccitamento l'approvazione di quelli che ci amano. Finora io non avevo che un cuore che mi intendesse, quello d'Ullania: ora ne avrò due finchè tu resterai nella Resia.
— Ne avrai mille perchè mi farò banditore....
— Di che? Lascia lascia che ignorino questi fatti coloro che non farebbero che beffarsene, o almeno sarebbero convinti ch'io non sono condotto che dall'ambizione o dall'interesse. Guai chi aspira all'approvazione universale! —
Egli terminava queste parole quando Ullania compariva sulla porta dello studio tenendosi fra le braccia il bambino. Ricambiato un semplice ed affettuoso saluto, io feci avvertire ad Antonio come codesto quadro abbisognasse di un riscontro, ed io, soggiunsi, ne propongo l'argomento. Dipingerei te stesso nell'atto di piantare un gelso monumentale destinato a ricordare la nascita del tuo figlio. Il gelso per quanto cresca in poco tempo, non potrà che in capo a molti anni spandere un'ombra abbastanza larga, e significherà che l'agricoltore è ancora quello che pensa a quelli che verranno, che prepara ai suoi figli uno stabile domicilio, e una povera, ma placida vita e operosa. Una donna ti starà d'accanto e annaffierà la pianticella....
— E questa donna sarà vestita alla resiana senza dubbio.
— Cosa insolita per un pittore, ch'ei possa conservare il costume ad un quadro contemporaneo senza offendere l'arte.
— E se vuoi dipingere me stesso, non mi dipingere, te ne prego, vestito alla francese, che farei ridere gli spettatori, ma prestami una delle tue giubbe che sono più comode e più ragionevoli....
— Ma intanto, signori, — soggiunse Ullania — si potrebbe anche far colazione! Mi spiace interrompere le vostre ispirazioni.
— Oh! no, ripres'io. Una buona colazione in quest'aria benedetta, non è cosa profana come sarebbe altrove.
— E poi dov'è l'amicizia e l'amore e la virtù, la ispirazione non manca mai!
ISTORIA DI UNA CASA.
DAL GIORNALE DI UN MEDICO.
UN PO' DI PROEMIO.
Io non corro la città in una superba carrozza magnificando ai nobili malati e alle isteriche dame i misteri della omeopatia, o consigliando loro le terme degli Euganei, le acque di Recoaro o di Biarriz. Avendomi una sincera esperienza insegnato a confidare nella virtù di pochi e volgari rimedi, i farmacisti non m'hanno voluto creare un'alta riputazione e sono sempre restato medico della povera gente. La cosa che più mi grava dacchè divenni vecchio, è salir nei soffitti a pericolo sempre di rompermi le gambe, o la testa, a trovarvi ammalati squallidi, e senza quattrini, a cui la ricetta migliore sarebbe un cibo più sano e più sostanzioso.
Jer l'altro, 13 ottobre, fui pregato da una povera donna a visitare una sua buona amica che giaceva gravemente ammalata. Non esitai punto e mi rassegnai a salire ben cento e venti scalini, finchè in un quinto piano, sopra un miserabile cuccio vidi le sparute sembianze d'una vecchia settuagenaria alla quale si poteva applicare quel verso di Byron:
Guancia di pergamena, occhio di pietra.
Ella si sforzava a parlare e a spiegarmi i sintomi della sua malattia, ma dopo poche parole la prese una tosse ostinata, sì ch'io l'ho consigliata a tacere. Assiso accanto a lei, procurai di congetturare la qualità del suo male dai fenomeni che si alternavano sulla sua faccia. Ho potuto saperne abbastanza quanto alla malattia; ma avvezzo a cercar qualche cosa di più, mi parve di ravvisare su quelle sembianze le traccie d'un'antica bellezza e tutti i sintomi d'una vita avventurosa, o come direbbero i moderni, drammatica. Quel giorno non era cosa prudente interrogarla; ma l'indomani, essendosi calmata la tosse, e un po' eccitate le forze vitali, gittai sbadatamente una domanda sulla passata sua condizione, e le domandai da quanto tempo trovavasi in quella casa.
— Vi nacqui — rispose — e da settant'anni non ne sono uscita mai. — Potete credere s'io rimasi balordo trovandomi ingannato a tal segno nelle mie congetture; e fui per mandare al diavolo Lavater e Gall, e la lunga mia pratica a indovinare dai lineamenti esterni, le interne rughe dell'animo.
— Nata e vissuta in questa soffitta? — ripresi.
— No signore, — sospirò la vecchia — nacqui nel pian terreno, sotto una scala, e non venni a morire quassù, se non passando per una serie di sventure e di guai. Tal quale mi vedete ho avuto anch'io la mia storia, e s'io potessi narrarvela, la credereste un romanzo. —
Udendo queste parole restituii nel mio pensiero al fisionomo e al frenologo la loro reputazione; e giacchè non aveva alcun'altra visita che mi premesse, e le mie gambe sentivano il bisogno di riposarsi, la pregai volesse mettermi a parte di queste strane avventure, aggiungendo, per celare d'una maschera filosofica la mia curiosità, che forse la conoscenza della sua vita mi gioverebbe a fare una diagnosi più giusta della sua malattia.
CAPITOLO I. Pian terreno.
— Quell'oscuro ricettacolo ove abita il portinajo, e vi tiene la sua bottega di ciabattino, e vi mangia e vi dorme tranquillo finchè gl'inquilini più girandoloni vengano a risvegliarlo, quello mi vide nascere, signor mio, e fu il teatro della mia giovinezza. Perdetti di cinque anni la madre, buona donna, di cui conservo un'oscura reminiscenza, e che per bene della sua figlia avrebbe dovuto morire qualche anno più tardi. Restai dunque sotto la custodia del mio povero padre, che avea bisogno di ubriacarsi tutti i giorni, e sotto quella di tutti i servitori degli appartamenti superiori che andavano e venivano per quell'andito. Vivace, petulante e facile ad appassionarmi di tutto, a ridere e a piangere in un minuto, io stuzzicava l'uno, teneva broncio all'altro, danzava sulle ginocchia del maggiordomo, e mi avvinghiava colle braccia carezzevoli intorno al suo collo.
Giunta ai dodici anni m'accorsi che tutti mi portavano un certo affetto; e guardandomi d'attorno io medesima, mi vergognai per la prima volta dei luridi cenci che mi vestivano. Io non avea una madre che mi assettasse i capelli e andasse superba di pormi addosso una gonnella nuova ed un nastro intorno alla vita. E vedeva tutti i giorni andar su e giù le fanti e le cameriere delle dame che albergavano nel palazzo tutte linde, tutte eleganti da non invidiare le loro padrone. Ne provai una indicibile gelosia e posi in opera tutti i mezzi per migliorare il mio abbigliamento. Pregai per un fazzoletto, diedi un bacio per un vestito, sparsi una lagrima per un grembiule: ma senza pensare che i vezzi di una donna possono formare il suo capitale.
Così passai il terzo lustro della mia vita, divenuta l'oggetto di vivaci persecuzioni ai lacchè, di rapida maraviglia ai passeggieri, di frivola compiacenza a mio padre, e di sterile compassione alle vecchie dame che mi vedevano sulla porta del loro palazzo, e prevedevano la mia perdizione senza darsi pensiero di prevenirla.
Mio padre cedè al soverchio uso del vino, divenne imbecille e morì. Io non avevo pensato mai ch'ei dovesse mancare; e quando lo vidi freddo e inanimato sopra il suo letto, potevo appena credere alla realtà della mia disgrazia. Quando poi ne fui certa, diedi in dirotte lagrime e avrei sinceramente desiderato di seguirlo nel suo sepolcro. Povero padre mio. Solamente allora conobbi d'aver avuto in te l'unico sostegno della mia vita! Solo allora sentii d'amarti, e forse le lagrime che versai, furono il primo tributo della mia tenerezza, che ricevesti quando tu non potevi più goderne.
Viveva al primo piano una vecchia signora mezzo cieca la quale aveva bisogno d'una fanciulla che l'accompagnasse alla chiesa. Credette di fare un atto di beneficenza verso di me che non le fosse infruttuoso del tutto, e m'offerse di prendermi seco. Così di quindici anni io abbandonai il mio giaciglio sotto la scala, e posi piede in un agiato appartamento, abitato dalla mia benefattrice e da un nipote erede futuro delle sue ricchezze. Ecco il primo passo che la mia disgrazia, o la mia fortuna, come vorrete chiamarla, mi fece fare. Io appresi un po' a leggere, a scrivere un vigliettino d'amore: ebbi migliori alimenti, migliori vestiti, e fui salva dall'impertinenze dei venti o trenta servitori che albergavano nei cinque piani di questa casa.
CAPITOLO II. Primo piano.
Ernesto, così chiamavasi il nipote della mia benefattrice, era un bel giovane biondo, di una salute fievole e delicata, alla quale non avea recato alcun giovamento la vita metodica del collegio. La buona zia l'avea richiamato presso di sè, e lo circondava di tante cure che il povero giovine non avrebbe potuto dimenticare neppure un momento la sua infermità. Quando io gli ministrava lo sciloppo di lichene, o il suo bicchiere di latte d'asina, egli fisava sopra di me quei suoi grandi languidi occhi azzurri come aspettasse la sua salute piuttosto dalla mia vista, che dalla medicina ch'io gli apprestava. Era impossibile che non sorgesse negli animi nostri una reciproca simpatia. Non vi dirò già ch'io l'amassi com'ei mi amava: credo anzi che la compassione, l'interesse, la consuetudine più che l'amor vero m'inducesse a sofferire pazientemente le sue carezze e i suoi giovanili attentati.
Non si maravigli, signor mio, s'io mi servo di questa parola: sofferire. Trasportata da quel misero bugigattolo in un ricco appartamento, io aveva assunto involontariamente quel contegno circospetto e schifiltoso ch'io vedeva prendere alle damigelle di qualità: contegno che non mi fu difficile conservare, giacchè, come dissi, il mio cuore non era tocco. A questo modo io martoriava senza saperlo o senza pensarci il povero Ernesto, il quale vittima de' miei capricci passava dall'eliso all'abisso in poco volger d'ore, ora credendosi amato, ora accorgendosi della mia indifferenza per tornar ad illudersi quando mi fosse piaciuto di lusingarlo con uno sguardo o con una dolce parola. Io era ben trista, non è vero?.. Ne sono stata severamente punita più tardi, come le dirò, se le piacerà d'ascoltarmi.
Questa specie di altalena alla quale i miei capricci e la mia civetteria condannavano il povero Ernesto, dovette influire sinistramente sulla debole sua salute, cosicchè dopo alcuni mesi ei fu costretto dai medici a mettersi in letto, dal quale non doveva uscire che per passare al sepolcro. Egli abbandonava il languido capo sul suo cuscino, e le sue guancie pallide si soffondevano tratto tratto di quella porpora che annuncia già prossimo lo stadio fatale. La sua zia pregava assiduamente perchè egli potesse sopravviverle, ereditare i suoi beni, trasmettere il suo nome ad altre generazioni. Povera signora! Le sue preghiere non dovevano essere esaudite.
Quanto ad Ernesto, egli non conosceva, come accade, il suo stato; anzi sperava sempre nell'indomani, e perseverando sempre ad amarmi, gli pareva che s'io l'avessi riamato, avrebbe in un momento ripigliato le forze e la sanità. Un giorno comunicò alla zia l'amore che mi portava, e il progetto di unirsi meco in matrimonio. La vecchia trattò sulle prime questa dichiarazione come uno di quei vaghi e mutabili desiderii che assalgono i tisici, e temporeggiò. Questa misura accrebbe i tormenti del giovine e spinse agli estremi la sua malattia: cosicchè la vecchia, quando non fu più tempo, vinta dai suoi scrupoli e dalla forte affezione che gli portava, condiscese ch'io fossi dichiarata sua sposa; ed egli mi pose l'anello nuziale alla sponda di quel medesimo letto, sul quale due giorni dopo giaceva freddo cadavere.
Eccomi dunque vedova prima che moglie, ed obbligata a vestire il lutto per la morte del marito, prima che la ghirlanda nuziale avesse incoronato il mio capo.
Non le dirò di non aver sentita nell'animo mio questa perdita. A sedici anni, non può fare che un fondo di bontà non tenga il luogo dell'amore nell'animo di una fanciulla. Io piansi anche, ma non tanto che le lagrime nuocessero alla freschezza de' miei colori. Mi trovai fatta segno a mille discorsi; e questa specie di celebrità mi giovò a progredire nella mia carriera, finchè mi trovai, di là a pochi mesi, nel piano superiore fidanzata al vecchio marchese di Roccabruna.
CAPITOLO III. Secondo piano.
— Ella è forestiero, signor dottore, e mi conviene raccontarle un po' per le lunghe alcune circostanze della mia vita che per un tratto di tempo misero in faccenda tutte le lingue della nostra città. Io vestiva ancora a bruno per la mia singolare vedovanza, quando ricevetti la visita del marchese Alfredo di Roccabruna, nobile siciliano, che avea da un anno preso a pigione l'appartamento più ricco di questa casa. Quando io dovetti restituire la visita rimasi abbagliata dal lusso che vi regnava, dai lucidi mobili di bois de rose, dai tappeti di Persia onde erano coperti i pavimenti di quelle stanze. Il vecchio furbo, il quale conosceva la vanità femminile ed aveva imparato qual sia la porta per cui diamo accesso all'amore, non mancò di far pompa di tutti quei ricchi e seducenti apparati. Alle corte: egli mi offerì la sua mano. Io chiusi gli occhi alle grinze che lo coprivano, alle sue narici corrose, diceva, da' suoi viaggi di mare, e tenendoli volti a quei candelabri, a quegli arazzi, a quel lusso delicato ed elegante, strinsi quella mano che m'offeriva, e condiscesi ad esser sua moglie, quando il tempo che le convenienze prescrivono al lutto, fosse passato. D'altronde egli pure doveva aspettar certi documenti dal suo governo, senza i quali non potevano aver luogo le nunziali formalità.
Intanto egli mi presentò alla società col titolo di sua sposa, mi trovai fatta segno di onori, di adorazione: non c'era festa a cui non fossi invitata: tutte le barriere aristocratiche cederono all'onnipossente forza dell'oro. Le assicuro che quando il mio cocchio scorreva strepitando nell'atrio della mia casa, io sentiva in me stessa un certo che di strano e d'indefinibile che non è agevole a imaginare. In pochi anni la ruota della fortuna m'aveva trasportata dal posto più infimo al più sublime. Io avrei voluto allontanarmi da quel luogo che mi ricordava la bassa mia origine: ma parea che il destino mi condannasse ad averlo sempre presente! Me felice se avessi saputo approfittarne.
Dalla loggia più nobile io assisteva sovente ai pubblici spettacoli, e all'opera più volentieri: sia che mi allettasse la novità, sia perchè l'opera è quel genere di rappresentazione che esige minor coltura ad essere gustato. Ed io, comecchè sostenuta da un po' di spirito naturale, era pur sempre la figlia del calzolaio. Cantava negli Orazi di Cimarosa il basso Ferrari. M'innamorai pazzamente del suo fare, della sua voce, forse delle sue vesti. Colsi il momento che il marchese s'era allontanato dalla città, e rientrai una sera in compagnia dell'amante.
Entrando fragorosamente nell'atrio, una ruota del cocchio urtò nell'angolo della baracca dov'ero nata. Un gelido presentimento m'entrò nel cuore, ma una carezza d'Orazio rassicurommi, e sostenuta dal suo braccio salii volando le scale, e i piedi d'un cantante calcarono i tappeti del mio nobile sposo.
Egli lo seppe. Volle rimproverarmene: non era più tempo. Io era invasata, impazzita, innamorata. Il terzo piano di quella casa medesima era appigionabile: io superai altri dieci scalini, e mi parve di toccar il cielo col dito, quando libera da ogni riguardo, ho potuto abbandonarmi in braccio alla mia passione. —
Qui sopraggiunse alla vecchia avventuriera un forte accesso di tosse che minacciò di distruggere ogni miglioramento. Io non le permisi di seguitare il suo racconto, e ne fu rimessa la fine al domani.
CAPITOLO IV. Terzo piano.
La notte avea calmato il dolor fisico che aggravava il petto alla mia singolare ammalata: ma il racconto delle sue avventure incominciato il giorno innanzi, benchè non era probabile ch'io ne fossi il primo depositario, le avea lasciato sul volto le tracce d'un profondo abbattimento morale. Ella mi espose il suo stato e come avesse passato la notte, ma pareva disposta a lasciarmi partire senza riprendere il filo del suo discorso. Nè io certamente l'avrei forzata a seguire, non volendo per tutto l'oro del mondo ritentare la piaga che non sembrava ancora cicatrizzata. Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nelle miserie.... se pure poteva dirsi felice quel tempo che ella s'era vista trabalzare dalla fortuna in sì rapida vicenda di condizioni.
Quando fui per congedarmi, e prendevo il cappello e la mazza in un angolo di quell'oscura soffitta, ella mi seguì collo sguardo, e quasi se ne fosse ricordata in quel punto: — Non volete — disse — udire il seguito della mia storia?
— Io credeva d'esser troppo indiscreto a domandarvene, buona donna. D'altronde non mancherà tempo.
— No, no, riprese, io voglio dirvi tutto, e se ne provassi qualche acerba trafittura, la risguarderò come una salutare espiazione delle mie follie, e de' miei traviamenti. —
Io mi sedetti, e senza aggiunger parola mi posi ad ascoltare.
— Quel tristo presagio che mi colpì ritornando dal teatro, s'avverò nella maniera la più crudele.
La morte del povero Ernesto che forse era stata affrettata da' miei capricci voleva una vendetta, ed io la provai condannata ad amare, alla mia volta, con tutta la forza dell'anima, con la piena certezza di profondere i tesori della mia tenerezza ad un uomo che non sapeva, e forse non poteva apprezzarla. Io aveva sacrificato al nuovo mio amante un ricco e splendido collocamento: egli non dovea pagarmi ben presto che della più nera ingratitudine. Io vissi con esso lui più mesi bevendo nei suoi occhi l'amore e inebriandomi degli applausi che il pubblico tributava al suo canto: non avrei cangiato la mia sorte con chicchessia. Mi avvenne allora di fare la conoscenza della celebre Catalani, la quale nella prima aurora della sua gloria, divideva i trionfi del mio tiranno. Io aveva sortito dalla natura una buona voce. Sedotta dal clamoroso successo che la musica cominciava a ottenere, lusingata dalla speranza di parteciparne i trionfi, incoraggiata dalla medesima Catalani, forzata da colui, la cui volontà m'era divenuta comando, io presi alquante lezioni di canto, ed apersi una soirée settimanale nelle mie stanze, nella quale doveva dar saggio delle mie forze e della mia virtù musicale.
Alcuni ricchi inglesi dilettanti di canto e splendidi donatori vennero a tributare alla mia voce e più forse alla mia bellezza i loro omaggi. In pochi mesi io mi trovai ricca quanto bastava a poter condurre tranquillamente il resto della mia vita con lui. Ma non era già questo il suo pensiero. Egli voleva ch'io battessi assolutamente il teatro; m'indusse a realizzare tutto quello ch'io possedeva in virtù del primo mio matrimonio, ed io mi lasciai indurre ad affrontare il giudizio d'un pubblico, il quale era già reso difficile dal merito eminente della Catalani. Quel mostro al quale m'abbandonavo colla più spensierata fiducia, dovea certamente aver preveduto l'obbrobrio a cui i suoi consigli m'avevano esposta. Io non fui risparmiata dal pubblico; ho raccolto fin dalla prima sera una larga mèsse di fischi, ben dovuti alla mia presunzione. Chiusa nella carrozza io me ne ritornava al mio terzo piano, e aveva bisogno di nascondere il mio capo avvilito in seno dell'amicizia e dell'amore. Delusa! L'appartamento era stato improvvisamente spogliato dei più ricchi ornamenti; le mie gemme, i miei tesori, tutto m'era stato rapito. Voi v'immaginate da chi. Una nave che stava alla vela trasportava per l'alto mare tutte le mie ricchezze, tutte le mie speranze, l'ultimo filo che mi legava ancora alla vita, e che avrebbe forse potuto condurmi a salvamento.
Non mi fu possibile aver più contezza di quell'infame. L'avvilimento e l'obbrobrio mi circondavano; il punto favorevole della mia fortuna era passato per non tornar più. Mi gittai di là a pochi giorni sul letto deserto dove una lunga malattia distrusse le reliquie della mia bellezza, e quel poco di denaro che lo scellerato non aveva avuto il tempo di portar seco. Convalescente ancora dovetti sloggiare da quell'appartamento ed ebbi un ricovero presso una vedova che viveva con due figliuole nel quarto piano di questa medesima casa: qui sotto, signor mio, sotto questo miserabile granaio che mi aspettava nell'ultimo stadio della mia vita.
CAPITOLO V. Quarto piano.
Il mio soggiorno nel primo, nel secondo e nel terzo piano di questa casa, non può chiamarsi che un rapido passaggio; e queste splendide reminiscenze passano nella mia immaginazione come una veloce fantasmagoria. Il quarto piano doveva offerirmi un asilo più modesto e più lungo, tanto che rispondesse ai primi quindici anni d'innocenza e di noncuranza; quando avevo un padre, un padre come ve lo descrissi, ma pure un padre. Oh! ve l'assicuro, signor dottore, io darei tutta la mia vita, comprese quell'epoche più venturose, per un solo di quei giorni, tutte le gioie inebrianti dell'amore e dell'ambizione, per una di quelle carezze infantili; tutte le gemme che circondarono le mie braccia e la mia fronte per uno di quei nastri ch'io ricevevo senza rimorso! Nel quarto piano mi trovai inopinatamente madre di quelle due sfortunate le quali perdettero da lì a poco tempo la propria. Vi lascio immaginare quali tristi esperienze del mondo e della società io doveva comunicare alle due sorelle le quali avendo esercitato il mestiere di crestaie, erano pur troppo disposte a trarne profitto.... Non si stanchi la vostra pazienza d'ascoltare lo stadio più compassionevole della mia carriera, la storia dei vent'anni ch'io passai con esse e poi.... resterà libero al vostro cuore di concedermi una lagrima di pietà o l'ultima esecrazione che aggraverà la mia vita. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quando io fui a questo punto del giornale manoscritto che per caso m'era capitato alle mani, e cominciavo a provare un vivo interesse, voltai carta, desideroso di conoscere la fine di questa storia o romanzo che fosse. Ma il foglio susseguente era stracciato, e misi invano sossopra tutto quello scartafaccio, e tutto lo scrittoio del buon dottore per rinvenirlo. Dovetti starmi contento a formare le mie supposizioni, e a completare colla fantasia la lunga lacuna. Ma siccome io posso aver fatto qualche giudizio temerario, non vorrei rendermene responsabile presso i miei lettori, e lascio all'immaginazione di ciascheduno la libertà d'indovinare ciò che manca.
Il giornale ripigliava con queste parole ch'io pongo religiosamente come le ritrovai. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . c'ingiunse di lasciar libere quelle stanze ch'egli aveva intenzione di purgar da ogni mal odore, affittandole a un povero ritrattista che sarebbe venuto ad abitarvi fra otto giorni in compagnia della sua onesta e virtuosa famiglia.
— E così — soggiunsi io — voi saliste ancora alquanti gradini e veniste ad abitare il soffitto di questa casa.
— Appunto signore, — rispose la vecchia — e qui dimoro fin da quel tempo, guadagnando il pane colle mie mani, un pane scarso ed incerto, bagnato dai miei sudori e dalle mie lagrime, le quali se basteranno mai ad espiar le mie colpe, non potranno così facilmente eguagliar la gravezza delle mie miserie. Io ho l'ufficio di spazzar tutti i giorni quei cento e venti scalini che voi aveste la bontà di salire per recarmi i vostri conforti, e che per quanto gravi vi siano parsi, non potrebbero mai suscitarvi la centesima parte dell'amarezza che risvegliano nell'anima della povera Margherita.
— Consolatevi — io dissi: — meglio un pane guadagnato colle proprie fatiche, che una ricca fortuna da doversi scontare co' rimorsi. Finalmente questa casa non ha alcun piano superiore che vi resti a salire.
— Tranne il cielo — rispose piangendo la vecchia con una tal aria di compunzione che poteva renderla degna di questa novissima delle umane speranze.
POSCRITTO.
C'era nel giornale una data assai posteriore che suonava così: Margherita B. nata nel 1712 in una baracca posta al pian terreno d'una casa di questa città, passata successivamente al primo, al secondo, al terzo ed al quarto piano della medesima, cessava di vivere nel 1770 per una lenta febbre cagionata non tanto dalle assidue fatiche, quanto da una condizione morale che si può desumere dalla sua storia. Le mie cure e i soccorsi d'una mano benefica sconosciuta poterono protrarre d'alcuni anni la sua vita che veniva meno ogni giorno, finchè chiuse gli occhi più tranquillamente che forse non avrebbe potuto sperare. Era stata vittima di un vivace carattere, lasciata in balìa dei suoi capricci, senza alcuna educazione, e senza la tutela d'una madre che potesse supplirvi colle virtù dell'esempio e dell'affetto. Un amore corrisposto per civetteria, un altro tradito per egoismo furono i due fatti che la sospinsero nell'abisso. La mano della sventura e la voce dei rimorsi aggravarono gli ultimi anni della sua vita, restituendole però quella placida rassegnazione che la rese meno infelice. Le sue strane vicende ebbero teatro, e si legano per modo ai varii appartamenti ch'ella abitò, che la sua storia può chiamarsi senza stranezza: la storia d'una casa.
LA GIARDINIERA DELLE MALE ERBE.
I.
Chi di voi, cari amici, non è stato testimonio d'alcuno di quegli atti di spensierata crudeltà onde i fanciulli sogliono aggravar la disgrazia di un loro compagno maltrattato dalla sorte o dalla natura?
Non sono molti anni mi accadde di trovarmi presente ad una di queste scene. Un povero nanino contraffatto della persona, mentre passava per la via frettoloso, s'imbattè in uno stormo di scolarucci che, come uccelli fuggiti di gabbia, scorrazzavano per la via. Urtato non so se a caso o per beffa da alcuno di quegli storditi, si lasciò cadere di mano un boccettino ch'era ito a cercare alla farmacia. Il dolore e la collera che ne provò si manifestarono con modi così grotteschi, che i monelli, anzichè prenderne compassione, cominciarono a riderne e a motteggiarlo. Non era la prima volta che si divertivano alle sue spalle, poichè alcuno di que' tristarelli lo interpellò come una vecchia sua conoscenza. — Che hai, Squasimo'? — disse questi, storpiando per ischerno il nome del gobbino, che, come seppi, era Cosimo. — Gran disgrazia per guaire sì alto! O che c'era nell'orcio? — Nulla, nulla: — soggiunse un altro — t'aiuteremo a raccogliere i cocci: — e così dicendo, l'urtava e gittava a terra.
— La mia medicina! — strillava il misero — la mia medicina!
— Ci vuole altro che una medicina per raddrizzarti le reni! — E qui uno scroscio di risa generali, quasi a nessuno potesse venire in mente il vero motivo di quella disperazione.
— Consolati, Cosimodo! Tanto e tanto morresti gobbo. —
Il povero tribolatello, avvezzo senza dubbio a quegli scherni, guardava immobile, trasognato la boccia infranta senza badare alle beffe crescenti di quegli sgarbati. Ma tutt'ad un tratto perdè la pazienza, e mutando attitudine ed espressione: — Bene! — esclamò: — l'avete rotta: affè di Dio, la pagherete. Fuori tutti i quattrini che avete in tasca! Voi siete ricchi, voi. Datemi il denaro per prenderne un'altra, e presto; se no, vi mostrerò che le mie mani son sane. —
L'improvviso mutamento e la strana pretesa del nano furono accolti, come è da credere, con nuove risa.
— Piglia, Cosimo. Quanto vuoi? — disse il più mariuolo, e sporgendogli il pugno chiuso come per dargli alcun che, gli assestò un sorgozzone di sotto al mento. Fu il segno di una mischia inuguale fra cinque o sei de' più scapestrati, e il povero Cosimo che, tra per la perdita fatta, tra per l'ingiustizia di quegli oltraggi, era venuto una furia.
Un pittore ch'era con me, dilettante di quelle scene m'aveva trattenuto dall'intervenire a tempo fra que' monelli. Qui però l'istinto la vinse, e mi mossi in aiuto del povero gobbino mal capitato.
Era troppo tardi. Egli aveva già trovato una difesa più pronta e migliore in un'amabile giovanetta che passava di là in quel momento. Rapida come un lampo, si era staccata da una vecchia dama che l'accompagnava, e slanciata fra la mischia. D'un colpo d'occhio il suo cuore aveva giudicato da qual parte stava la ragione, da quale il torto. Prendendo la mano del meschinello, e coprendolo fieramente della sua persona, colla sola attitudine e colla nobile espressione del volto impose silenzio a que' mariuoli, e li volse in fuga. Il mio amico pittore se avesse il dono di percepir l'ideale della bellezza, come ha quello di cogliere la brutta realtà, avrebbe avuto costì l'argomento di un magnifico quadro. Ma egli tirava a far denari e adulava il gusto corrente.
Quella giovanetta poteva avere tutt'al più quindici anni. I capelli biondi, gli occhi azzurri, e più l'espressione morale della fisionomia la faceva somigliante ad un angelo: ad uno di quegli angeli costodi che i pittori toscani immaginarono così divini.
Il povero Cosimo, tutto stupefatto di questo ajuto, dovette prenderla anch'egli per una apparizione celeste, poichè si lasciò cadere in ginocchio, e pallido ancora per le diverse emozioni che aveva provato, la fissava cogli occhi brillanti di lagrime, con un sentimento ineffabile di adorazione e di gratitudine.
La vecchia signora richiamava a sè la fanciulla con aria severa, e volgendosi a' circostanti, pareva volesse scusare l'atto indecoroso a cui s'era lasciata indurre dal suo buon cuore. Ma la giovinetta non badava nè al crocchio che s'era fatto d'intorno a lei, nè ai rimproveri della zia. Fatto alzare il suo protetto, gli asciugava la fronte col suo fazzoletto ricamato, e gli domandava la causa della contesa. Il garzoncello le additò la boccetta infranta, e le spiegò tutto, dicendo che conteneva una medicina per sua madre ammalata, nè aveva più denaro per riparare alla perdita. C'era nella sua voce e nel gesto un dolore sì vero che nessuno, nè anche il mio amico pittore, potè pensare al pretesto. Più di uno pose la mano in tasca, ma anche in questo la giovanetta fu più pronta di noi lasciando in mano al poveretto il suo borsellino.
Intanto la vecchia dama, sempre più malcontenta del contegno della fanciulla a lei confidata, era riuscita ad afferrarla per un braccio e a strascinarsela via borbottando.
— Un'altra delle tue! — le diceva. — Quante volte te l'ho a ripetere! Codeste cose si lasciano fare agli uomini. —
La giovanetta intanto aveva ripreso il suo contegno mansueto, e si scusava arrossendo dell'atto generoso, come altri si scuserebbe di un'azione imprudente e degna di biasimo.
Il suo cuore però le diceva che aveva compiuto un dovere.
II.
Angela, così chiamavasi la giovanetta, era una di quelle nature piene di bontà e di giustizia che farebbero credere alle incarnazioni platoniche degli spiriti puri. Figlia unica, amata fin troppo, come accade, da' suoi genitori, aveva potuto abbandonarsi a tutta la ingenuità del suo istinto. Ma questa libertà, che in altri caratteri suole aprir l'adito a tante cattive abitudini, non avea fatto che svolgere in lei la ricchezza esuberante di un'anima generosa e gentile.
A sett'anni avea perduto la madre. La vecchia dama che abbiam veduto con lei, era una sorella del padre suo, buona donna nel fondo, ma d'un'indole assai diversa dalla nipote, ch'ella avea preso ad istruire in quei doveri e in quei modi che una damigella ricca e ben nata non può impunemente trascurare nella società de' suoi pari.
La giovanetta era docile e attenta, tanto ai consigli paterni, quanto alle ammonizioni troppo frequenti dell'amorevole zia, tutte le volte che questi consigli e queste ammonizioni non le parevano contraddire agl'invincibili istinti dell'animo suo.
Codesta inclinazione, codesto istinto che era la base del suo carattere, la chiave di tutte le sue azioni, di tutti i suoi sentimenti, la induceva a sposare la parte del debole e dell'oppresso in qualunque ordine d'esseri si trovasse. Il fatto di cui fummo testimoni non era punto nuovo nè straordinario per lei. Non poteva uscire una volta senza farsi l'avvocata e la tutrice di qualche animale maltrattato, di qualche povero respinto con troppa durezza, di qualche creatura insomma men favorita dalla nascita o dalla sorte. Angela era nata suora di carità, elemosiniera universale, raddrizzatrice dei torti di tutti i suoi simili. Era stata una fortuna per lei nascere ricca abbastanza per asciugar qualche lagrima, ed esaudire qualche preghiera. Ma guai se il padre e la zia non mettevano freno a questa tendenza, e non le misuravano il denaro di cui poteva disporre. Ella avrebbe dato fondo in un anno, nonchè alla sua dote, a tutto il patrimonio paterno.
Qui però non v'è nulla che possa fare gran meraviglia. Su dieci giovani abbandonati al loro istinto naturale, nove almeno si mostrano generosi e compassionevoli verso gli altri. Pochi sono i caratteri naturalmente avari e impassibili alle altrui sofferenze: ma bene spesso la loro bontà si direbbe frutto d'orgoglio, e le loro largizioni non hanno altro scopo che di sottrarsi all'aspetto della miseria presente.
Angela operava per un sentimento più puro e profondo. Permettetemi di scendere a qualche particolare che ho potuto osservare e studiare più da vicino.
Nata nell'agiatezza, sana ed aitante della persona, circondata fin da bambina di tutte le cure, di tutto l'affetto, il suo cuore s'era aperto alla felicità, come i suoi occhi alla luce. La vita era per lei sì dolce, sì lieta, sì facile, che ogni suo desiderio, prima quasi che nato, era pago. Ella non conobbe per lungo tempo il dolore, nè fisico, nè morale. Allontanata per cura de' suoi da tutto ciò che potesse dargliene l'impressione e l'idea, ella credeva che tutti i viventi, tutta la natura uscita dalle mani di Dio non potesse essere e non fosse che un concerto di lodi e di benedizioni al Creatore, immensamente giusto, misericordioso e benefico.
La perdita della madre, morta nel dare alla luce un bambino che non potè sopravviverle, fece uscire dal suo sogno beato la giovanetta. Come! Nel momento ch'ella si aspettava di avere un fratello, un altro oggetto dell'amor suo, la poverina s'era veduta innanzi due spoglie inanimate, due tristi trofei della morte! La morte! Ella non aveva ancora saputo che fosse morire! Quali severe lezioni ricevette la poverina ad un tratto! Aveva appreso che tutto non era nel mondo gioja, vita ed amore. Avea veduto soffrire e morire!
Questa dura esperienza non alterò punto l'indole sua, ma diede una nuova piega al suo cuore, e vi fe' nascere un sentimento di pietà che ancora non conosceva.
Più tardi le occasioni di esercitar quest'affetto si fecero più frequenti. Affidata a mani straniere, benchè amorevoli, uscita da quell'atmosfera di luce e d'amore in cui era cresciuta fino allora, venne a conoscere che il mondo è tutt'altro che una terra promessa, che gli uomini sono tutt'altro che fratelli tra loro, che il concerto che si levava d'intorno a lei non era punto un inno di lode e di benedizione all'Eterno.
Non dirò per quali fatti e per quali successive esperienze ella facesse un'altra dolorosa scoperta. Vide, o le parve vedere, che la lotta e la guerra sono da per tutto; che il mondo è diviso in due campi: umili e prepotenti, oppressori ed oppressi, felici e sventurati. Perchè questa sì gran differenza, perchè questo eterno conflitto d'interessi, di desiderij, d'idee? Ella non poteva formulare, nè risolvere quest'ardua questione; ma il suo cuore la sentiva e ne serbò l'impressione la più dolorosa.
Evvi un momento nella vita in cui il cuore s'apre ad una rivelazione interiore; in cui un pensiero si leva nella notte profonda dell'anima, come un sole che illumina il mondo, e le dà l'intelligenza di tutto ciò che prima era passato dinanzi a noi, come i colori dinanzi ad un cieco, e i mille suoni della natura ad un sordo.
Una volta che la bambina ebbe l'intuizione di questa lotta tra i deboli e i forti, tra i felici ed i miseri, guardò e la vide ripetersi ad ogni momento, dovunque volgesse lo sguardo. Chiese un giorno a sua zia perchè distruggesse i bruchi che rodevano le foglie degli alberi; domandò al giardiniere perchè strappasse con tanta ferocia le piante che sorgevano spontanee fra i suoi garofani. Non hanno essi quei bruchi tanto diritto di vivere quanto gli uccelli dell'aria? E che colpa hanno codeste povere piante per esser chiamate male erbe e sterminate dal suolo, dove la mano di Dio le avea seminate?
Questo sentimento, per difetto di una risposta soddisfacente, diveniva a poco a poco un tormento per l'animo della strana fanciulla. E nella sua bizzarria credeva compiere un atto di giustizia prendendo sotto la sua special protezione i bruchi più ispidi, i ragni più mostruosi, i cardi e le ortiche del suo giardino.
Non già ch'ella non sapesse apprezzar la bellezza. I bei fiori, le variopinte farfalle, i bei cavalli che correvano per la via, tutto ciò che vedea di leggiadro, di nobile, di luminoso, la empiva di gioja e d'entusiasmo: ma quando vedeva tutti gli omaggi, tutte le ammirazioni piover su questi, e gli altri oggetti fatti segno, senza lor colpa, d'odio e disprezzo, il suo cuore si ribellava contro siffatti giudicj, e diveniva ingiusta verso le cose belle, a forza di pietà per le brutte. Quindi il padre, la zia, e le persone che frequentavano la sua casa, le avevano dato per celia il nome di giardiniera delle male erbe.
— Ogni simile ama il suo simile, — le diceva talora la zia. — Tu devi crescere come un'ortica, e innamorarti di un ragno. —
Ma la nostra amica non si adontava di questi motteggi. Rispondeva alla zia con altri proverbj, la eccitava a non disputare dei gusti, e a rispettare i bruchi per amor delle farfalle. Quanto alle male erbe, voleva persuaderla che, vedute colla lente, erano cento volte più belle delle camelie e dei rododendri che costavano tante cure e tanti quattrini.
Tutto questo vi spiegherà facilmente com'essa accorresse con tanta alacrità in difesa del povero Cosimo. La zia, come potete credere, non mancò di raccontar l'avventura, ed eccoci alle solite celie sulle sue singolari predilezioni. Angela sulle prime non vi badò, poi si mise a difendere quel poveretto con tanto fuoco, che le burle cessarono.
Ma le cose non dovevano finir lì. Un medico amico di casa, che s'era trovato presente alla mischia, recò la novella, pochi dì dopo, che la madre del povero nano era morta. Angela impallidì come si trattasse di una persona cognita e cara. Si accusò di non essere accorsa al letto dell'inferma per assisterla e consolarla. Tutta quella sera fu malinconica: la notte non potè chiudere occhio, finchè non ebbe proposto a se stessa di cercar notizie dell'orfano. — Chi sa — pensava — che la Provvidenza non me l'abbia fatto capitare sott'occhio perchè non manchi di un appoggio e di una difesa. Il dottore — soggiunse — m'ajuterà a rintracciarlo, e poi, se il Signore m'ha destinata ad essere l'istrumento della sua bontà, e' saprà bene condurmelo innanzi! —
Fatto con se stessa questo proponimento, la buona Angela potè prender sonno, e dormì tranquillamente sino a giorno.
III.
Il sole di una bella mattina di giugno la risvegliò. Benchè si fosse addormentata più tardi del solito, e avesse dormito un sonno agitato da mille sogni fantastici, non mancò di fare una visita assai sollecita al suo giardino particolare.
Il giardino del sig. B., senz'essere un vasto parco di quelli che sogliono chiamarsi all'inglese, adunava in breve spazio tutte le delizie che una ricca natura e una fertile immaginazione possono dare. Lo Iapelli[5] vi avea fatto prova del suo buon gusto e della sua splendida fantasia. Un lungo calidario rinserrava le più belle piante de' tropici. Una collina, un laghetto, alcune macchie d'alberi rigogliosi e di varia verdura s'alternavano a vaghi compartimenti seminati di piante vivaci d'ogni maniera. Più lontano si stendeva un verziere ricco di alberi fruttiferi e di squisiti legumi. Tutto questo era sparso con vago disordine, sì che ad ogni svolta dei sentieri puliti, l'occhio si trovava dinanzi una prospettiva tanto più amena quanto meno aspettata.
L'angolo più disadorno di questo gentil paradiso rispondeva alla via vicinale, e metteva nei campi per un cancello di ferro. Una capannuccia di paglia con un tavolino e due scranne d'orno piegate a graziosi arabeschi sorgeva accanto al cancello. Era dapprima un canile dove s'accovacciava incatenato un robusto molosso che avea terminato la sua ringhiosa carriera senza lasciar successori nè eredi. Angela aveva ottenuto dal padre che quella casuccia fosse disposta per lei, e le fosse dato il pezzo di terreno inculto che giaceva d'attorno in assoluta e special proprietà. Voi v'immaginerete che la graziosa giovanetta vi coltivasse i fiori più peregrini, e vi spiegasse quel buon gusto e quella eleganza, che al solo vederla si sarebbero dette a lei famigliari. Nulla di tutto questo. Quello spazio di terreno rimase abbandonato a se stesso, anzi si sarebbe detto che fosse stato ingombro a bello studio delle piante più vulgari e più disprezzate dai botanici e dai giardinieri. Le ortiche, i tarassaci, ed altre consimili piante, che gli orticultori battezzano col nome generico di male erbe, si erano date convegno e vegetavano in quel cantuccio in piena tranquillità. Il giardiniere di casa e gli altri famigli lo chiamavano talora l'orto della signorina, e talora il vivaio delle male erbe. Di che Angela non si reputava punto offesa, anzi finì col designarlo anch'essa ora con uno di quei nomi, ora coll'altro.
Per solito era a questo che riserbava l'ultima visita, ma questa visita era più lunga e più affettuosa delle altre. Indossato un semplice accappatoio, e postosi sulla bionda testa un largo cappello di Firenze, scendeva dalle sue stanze in giardino, che appena l'ortolano cominciava le sue cotidiane faccende. Entrava nella serra, s'inebriava di quelle fragranze meridionali, dimandava il nome e la patria di questa o di quella pianta, ne ammirava le forme e i colori, ma per lo più conchiudeva: — Poverina! quanto saresti più vegeta e più contenta ne' tuoi paesi! —
Il giardiniere scuoteva il capo, quasi offeso da tale esclamazione. Sosteneva che la pianta in istato selvaggio non sarebbe sì bella, e che doveva alle sue cure intelligenti lo splendor de' colori e la ricchezza della corolla. Forse era vero: ma la signorina non pareva sempre disposta a concederlo. Ella aveva un culto particolare per la natura semplice e primitiva. Di più, come ho già accennato, quei fiori rigogliosi e superbi le parevano un'aristocrazia prepotente che usurpava l'aria, la terra, le cure e gli omaggi alle altre produzioni più umili, ma non meno perfette. Quindi, pur ammirando quei morbidi gigli, quelle superbe ipomèe, quelle fantastiche parassite dei tropici, i cui fiori bizzarri somigliano a strani insetti, a peregrine farfalle, vi passava sovente dinanzi con una specie d'indignazione, e credeva compiere un atto di giustizia accordando la sua preferenza all'erbe più modeste e ai fiori più negletti da' dilettanti. Allora si ritirava nella sua capannuccia, e s'intrecciava un mazzolino cogli occhi di bue e colle volgari pratelline, che crescevano a dovizia nel suo vivajo delle male erbe.
Quella mattina era proprio di tale umore. I pensieri e i sogni della notte ve l'avevano predisposta. Ma quale non fu la sua sorpresa quando, cogliendo certi fiorellini di parietaria che coprivano i pilastri del cancello, vide accovacciato al di fuori il povero nano. Gittò un grido di maraviglia, che il miserello reputò di paura, tanto che s'affrettò di chiederle scusa.
Come era egli costì? Era caso o pretesto? Ella non isperava di rivederlo sì tosto, benchè sì vivamente lo desiderasse. Pensò senz'altro che la provvidenza gliel'avesse mandato.
Cosimo però non v'era venuto a caso. Gli era riuscito sapere il nome e l'abitazione della sua protettrice, e avendo una commissione per lei, s'era avvisato di attenderla a quel cancello, non osando picchiare alla porta del suo palazzo.
— Povero Cosimo! — disse Angela. — Ho saputo la tua disgrazia. M'immagino, sai, quanto debba dolertene. Anch'io ho perduto mia madre! —
Il garzoncello, serio e commosso, voleva rispondere e non sapeva. Trasse di sotto alla veste il borsellino di Angela, avvolto diligentemente in un foglio, e glielo porse senza parlare attraverso il cancello.
— Che è ciò? — disse Angela. — Rifiuteresti il mio dono?
— Oh! — rispose il fanciullo — che dice mai! La povera mamma, poco prima di spirare, sapendo la sua carità, vi ha posto dentro una carta molto importante e l'anello che teneva in dito, e mi ordinò di portarglielo, appena fosse passata in vita migliore. Io non ardivo presentarmi al suo palazzo, e da due giorni l'aspetto qui. —
Angela aprì frettolosa il borsellino, lesse un foglio che era una promessa di matrimonio scritta e firmata dieci anni innanzi, e dentro al foglio trovò un cerchiellino d'oro che non esitò punto a mettersi in dito. Quanto alla carta, ignorandone l'importanza, la ripose nel borsellino, aspettando un altro momento a chiarirsene.
— Il suo dono — riprese Cosimo — mi bastò a prestarle gli estremi soccorsi, a farle dire una messa di requie e a collocare una croce sulla sua fossa. Mi resta una moneta che starà sempre sospesa intorno al mio collo in memoria della sua bontà... e della povera madre mia. Addio, madamigella! Iddio le dia tutto il bene che merita. —
E in così dire si allontanò per andarsene.
— Fermati — gridò Angela. — Dove vai ora, povero orfano? —
Il fanciullo s'arrestò perplesso, ma non rispose.
— Tu hai però il babbo, n'è vero? —
Cosimo chinò il capo e negò.
— Un fratello, un parente?
— Nessuno, signora.
— E come vivrai? Chi avrà cura di te? —
Il fanciullo girò gli occhi al cielo quasi dicesse: Dio c'è per tutti. Procurerò di guadagnarmi il pane.
— La mamma mi mandava all'asilo, e vi ho imparato a leggere e a scrivere... ma un mestiere... alfine ce n'è tanti dei mestieri. Farò il cenciajuolo.
— Il cenciajuolo?
— O quello o un altro: tanto ch'io viva... e se non potessi riuscire... laggiù dove sta ora mia madre, c'è luogo anche per me. Perdonate, signora, se vi attristo con queste idee.
— Vuoi tu venire da noi? Abbiamo tanta gente per casa. Uno più, uno meno... dirò al babbo che ti prenda.
— Io non saprò far nulla.
— Sì, sì, ajuterai il giardiniere ad annaffiare le piante. Aspettami, ch'io ritorno. —
Angela, come potete pensarlo, andò difilata dal padre che stava appunto vestendosi, gli raccontò la cosa e ottenne senza fatica la grazia. Senza aggiunger parola, cercò le chiavi del cancello, corse giuliva ad aprirlo, ed introdusse il povero Cosimo che, come trasognato, obbediva macchinalmente alla sua salvatrice.
IV.
— Mancava questo coso al vivaio di mia nipote! — disse la zia tra la beffa e la stizza.
Tutti i famigli, massime le serve, fecero eco con una risata all'osservazione della signora, riservandosi a lodare la carità della padroncina quando l'occasione fosse venuta di poterlo fare senza dar torto alla dama.
Angela intanto era ita in traccia del giardiniere che armeggiava tra i vasi delle sue serre. Cominciò dal lodargli alcune delle piante più nuove e più peregrine; poi gli fece rimprovero di non averle preparato il solito mazzetto odoroso che accettava da lui. Giacinto si scusò secco secco, colle molte faccende, colla stagione che non andava a suo genio, colla pioggia che tardava a venire, ec., ec. E cominciò tuttavia a raccogliere qualche violetta di Parma, qualche eliotropia, qualche verbena per risponder col fatto al rimprovero della padroncina.
— Ebbene, per ringraziarvi del vostro mazzolino, e per mostrarvi che non sono la vostra nemica, vi ho procurato un allievo, un garzonetto che vi darà una mano nelle cose più facili, vi scriverà correttamente i titoli delle piante, e vi aiuterà ad annaffiarle. Siete contento?
— Come! Un altro giardiniere! Oibò, signorina. Un giardiniere deve esser solo. Noi abbiamo i nostri segreti, e non vogliamo cedere ad altri il frutto delle nostre esperienze.
— Via, via. Questo poveretto non vi ruberà certo il mestiere — soggiunse Angela sorridendo. — È un povero gobbino, un orfanello che ho preso sotto la mia protezione. Riguardatelo come uno di quei fusti quasi secchi per cui raddoppiate le vostre cure. Ve ne sarò grata, e visiterò più spesso le vostre orchidee. Siamo intesi! Or ora ve lo conduco. —
Il giardiniere in sostanza non era malcontento di avere una persona che lo aiutasse nelle faccende che gli andavano crescendo sotto le mani. Ma quando vide quel meschinello pensò che non avrebbe potuto fare gran conto dell'opera sua. Tuttavia la padroncina l'aveva sì rabbonito, che non trovò nulla a ridire, e gli diede subito a ripulir certi arbusti dalle foglie gialle di cui li aveva screziati l'inverno.
La natura avea voluto dare un esempio di giustizia distributiva compensando le forme disgraziate del giovanetto con una intelligenza pronta ed una rara felicità di memoria.
Il dolore avea maturato assai per tempo quel povero fanciullo, tanto che a dieci anni aveva i caratteri d'un adulto. Il suo pallore e l'espressione indefinibile delle sue labbra dicevano già la sua storia e rivelavano l'anima sua. La sua fronte ampia e prominente gli attirava l'attenzione e la benevolenza di tutti quelli che l'osservavano.
Egli menava la sua vita nel giardino e negli stanzoni delle piante. Mostravasi di un'attività e di una docilità a tutte prove col giardiniere, non tanto per cattivarsene l'animo, quanto per corrispondere all'intenzione della sua benefattrice. Chi ha un po' di pratica del giardinaggio, sa che quest'arte non lascia un momento disoccupato. Ma sia che Giacinto non si fidasse della di lui abilità, o non volesse arrischiargli qualche operazione un po' delicata, Cosimo aveva qualche ora di libertà. Prendeva allora in mano i cataloghi e i manuali di botanica e d'orticoltura che Angela gli avea confidato, e in pochi mesi, raffrontando i titoli ai soggetti, s'era impadronito di tutta quella strana e ridicola nomenclatura. Giacinto trasecolava di tanta memoria, e cominciò a guardarlo con gelosia: tanto più ch'egli era uomo di pratica più che di scienza, e spesso gli avveniva di storpiare quei nomi in modo da far ridere fino la sua padroncina.
Guardate ingiustizia della fortuna! Il povero Cosimo che si era fatto perdonare la sua forma sgraziata, trovava ora nei proprj meriti un'altra sorgente di tribolazione. S'egli non avesse saputo leggere o non avesse avuto alcun desiderio d'apprendere, il giardiniere non avrebbe pensato a perseguitarlo: ora invece non lasciava passare occasione per rendergli più amara la vita. I titoli ch'egli scriveva erano mal fatti, perchè erano scritti come voleva il catalogo, non come il giardiniere li pronunciava! E quando Cosimo gli metteva sotto gli occhi il libro per convincerlo del suo errore, il giardiniere tutto ingrognato borbottava: — Novità, novità! Non sanno creare piante nuove e si dilettano di mutare i nomi. Gran sapienti del cavolo! — E quest'ironia cadeva non tanto sugli autori dei libri, quanto sul capo innocente del nostro tribolatello.
Egli non avrebbe però pensato a richiamarsene. Era già avvezzo a rassegnarsi a strapazzi più forti. Ma un giorno Angela si trovò presente ad uno di questi litigi, e non si potè astenere da prender le parti del suo protetto. Il giardiniere si ostinò nel torto, e nel suo stolto orgoglio chiese la sua licenza, adducendo che già non c'era bisogno di lui, dacchè v'era in casa quel sapientone.
Angela non volle prender la cosa sul serio, ma dichiarò al giardiniere che da quel giorno Cosimo era addetto al suo servigio particolare.
— Egli lascerà le vostre serre, e non si occuperà che del mio compartimento.
— Tanto meglio! — replicò il giardiniere. — Così saprà arricchire il catalogo di nuovi tesori! —
Angela, che non avea tollerato l'insulto fatto a Cosimo, tollerò colla solita sua bontà le sciocche parole dirette a lei stessa. — Appunto, appunto, — soggiunse. — Hai inteso, Cosimo. Vieni meco laggiù. Noi faremo il catalogo delle male erbe, e t'insegnerò a disegnarle e a classificarle! —
Detto, fatto. Cosimo seguì la sua protettrice in quell'angolo remoto del parco ch'essa prediligeva, dove egli, s'era appostato ad attenderla. La bizzarra fanciulla non l'aveva ancora messo a parte della vera cagione che l'avea mossa a quella singolare coltura. Non andò molto però che il suo discepolo indovinò l'istinto della sua protettrice.
— Bada bene, Cosimo, — gli avea detto — non vorrei che tu avessi imparato dal giardiniere l'arte di distruggere le piante meno privilegiate. Queste, figliuolo mio, sono tutte male erbe, secondo lui: anche quell' occhio di Venere, anche quella callistegia, anche quel grazioso lupino, tutte male erbe! E ciò perchè crescono spontanee e senza coltura, perchè nascono in ogni luogo, e s'arrampicano su tutte le vecchie muraglie! Male erbe! Quanto a me, vedi, ho un gusto affatto diverso, e trovo che quel fioretto di malva, quella parietaria, quel licopodio sono mille volte più belli de' suoi tulipani e delle sue maravigliose gloxinie! E poi ti dirò: tu m'intenderai, spero. Che diritto abbiam noi di strappar dalla terra che le vide nascere e le produsse, quelle povere pianticelle? Se si trattasse di sgombrare un terreno incolto per seminarvi il frumento e l'orzo necessari alla vita dell'uomo, non parlerei: ma cacciare in esilio queste creature indigene per cuoprir la terra di ghiaja, o per surrogarvi altre piante di lusso che non hanno spesso altro merito che la rarità, capisci bene che è una vera usurpazione, una specie di tirannia. Gli Spagnuoli e gli Inglesi che sterminarono i primi abitatori dell'America per trapiantarvi i coloni europei, o gli schiavi dell'Africa, partivano dallo stesso principio, e commettevano la medesima iniquità! Tu non puoi comprendere ancora tutto il mio pensiero: ma un giorno m'intenderai meglio. Intanto si va d'accordo nel fatto. Tu devi rispettare tutte le piante che vedi qui. Io le ho ricoverate in quest'angolo, perchè possano vegetare e fiorire tranquille. Tutti dicono ch'è una pazzia: non importa. È una pazzia innocente, n'è vero, Cosimo? Vedo che tu hai più buon senso degli altri! —
Non so quanto il fanciullo avesse compreso di questo grazioso paradosso della sua padrona: ma certo non lo trovò tanto strano nè tanto ridicolo quanto gli altri. Riflettendo, quando fu solo, alle parole della damigella, gli balenò nella mente una singolare analogia, alla quale forse Angela non avea fatto allusione. — Anch'io — pensò Cosimo, — sono una mala erba, ed è forse a questo titolo ch'ella m'ha raccolto presso di sè e mi tratta con tanta bontà! —
Questa riflessione servì a svolgere sempre più il sentimento e l'ingegno del giovanetto. In poco tempo aveva annaffiate e ripulite le ajuole del giardinuccio a lui confidato. Di giorno in giorno vedeva sbocciar qualche negletto fiorellino, che guardato d'appresso giustificava la predilezione della fanciulla. Egli cercò tanto nel suo trattato di botanica finchè pervenne a ordinare la maggior parte di quelle piante inedite pe' giardinieri; e giovandosi dei disegni ch'erano sparsi qua e là nel volume, cominciò a delinearne le foglie ed i fiori. A poco a poco rettificò quei disegni col confronto del vero che aveva sott'occhio, e un bel giorno fece vedere ad Angela il primo saggio dell'opera sua. La giovanetta arrossì di piacere e si applaudì della disposizione che mostrava il suo alunno ad imitare la grazia del vero. Gli diede allora pennelli e colori, ed un album dove potesse scarabocchiare a sua posta.
Cosimo aveva davvero l'istinto, come dicono, del colore, e la percezione rapida e giusta della bellezza. In pochi mesi fece meraviglie, e il giorno natalizio della sua benefattrice le presentò la collezione completa delle piante del suo giardino particolare. Egli l'aveva lavorato in segreto, e fu una sorpresa non solo per la famiglia, ma per Angela stessa. Tutti fecero le meraviglie, e il padre che era uomo d'ingegno e di gusto squisito non mancò di notare quello che vi era di veramente singolare e pregevole in quegli abbozzi.
C'era infatti di che stupire vedendo come il semplice istinto e l'osservazione del vero potessero aver fatto cotanto. Gli uomini così detti dell'arte, i pittori d'accademia avrebbero certamente trovato molto a ridire, ma il padre di Angela giudicava coi propri occhi e non colle regole della scuola.
Cosimo non si era limitato alle piante ed ai fiori. Aveva imitato anche gli insetti che vedeva sovente d'intorno a quelli. Nell'ultimo foglio dell'album, sotto alcune foglie di parietaria, il giovane pittore s'era divertito a dipingere un ragno de' giardini, e gli era riuscito sì vero che la zia diede in un grido vedendolo, e retrocedè spaventata.
Fu un vero trionfo per Cosimo, che con bel garbo chiese perdono alla dama della paura che le avea fatta.
Tutti risero di cuore dell'accidente, anche la zia quando si fu un poco rimessa dello spavento, non senza insinuare che c'erano tante belle farfalle da dipingere senza sprecare il tempo e i colori a raffigurare un sì brutto e schifoso animale qual era il ragno.
Cosimo si scusò un'altra volta dicendo che quello era il luogo della soscrizione, e che nessuno avrebbe ravvisato in una farfalla il simbolo del suo nome.
Il garbo che traluceva in queste parole e la modesta allusione alla propria deformità, terminò di guadagnare al giovanetto l'animo del padre di Angela, che da quel momento pensò seriamente a coltivare un ingegno che si manifestava con sintomi sì felici.
V.
Il ragno!
Che fatalità inesplicabile pesa su questo povero insetto! Tutti lo fuggono, tutti lo abborrono, tutti lo schiacciano. Al solo suo nome le labbra più gentili e benevole si torcono ad un atto di ribrezzo e di odio. Un ragno! Si direbbe che il Creatore l'abbia maledetto nell'ira sua in compagnia del serpente, ponendo un'eterna ed implacabile inimicizia fra esso e la donna! Eppure il ragno non ha, ch'io sappia, tentato nè la madre Eva, nè alcuna delle sue figlie. La mitologia ha ben raccontato la storia della superba ricamatrice mutata in ragno da Pallade: ma certo l'avversione che ispira generalmente quel povero tessitore, non potrebbe derivare dalla vendetta ingenerosa della gran Dea.
È egli più brutto e più malefico degli altri animali? Il ragno è tutt'altro che brutto, o almeno non tutti i ragni son brutti. Quello de' giardini, per esempio, è distinto di colori vivissimi, e ingrandito colla lente spiega una simmetria di disegni e un'eleganza di tinte che noi raccomanderemmo alle nostre lettrici. Quanto alla sua natura velenosa e malefica, non vi è un fatto, cred'io, che la provi. La stessa tarantola, sul morso della quale si scrissero libri e trattati, è ora dichiarata pressochè inoffensiva. L'opinione comune è dunque affatto gratuita: è un'ingiustizia, una calunnia sociale. Fosse anche brutto, fosse anche venefico veramente, non è certo la bruttezza nè la malignità che lo costituisce come il paria del regno animale.
Sarebbe forse perchè vive d'insidia, perchè tende le sue reti, perchè vi accalappia la preda di che nutre se stesso e la innumerabile sua famiglia?
La ragione onorerebbe il sentimento della mia pietosa interlocutrice, ma non mi sembra calzante. Ogni animale nasce Nemrod nella sua sfera particolare.
Tal quaggiù dell'altrui vita si pasce,
Altre a nutrirne condannata l'egra
Vita mortal che il ciel parco dispensa!
Nè voi, gentil damigella, sarete punto disposta a difendere la mosca che spesso incappa tra quelle reti insidiose, benchè la mosca sia molto più bella del ragno, e nella scala degli esseri forse più perfetta di lui. Non vi è dunque alcuna buona ragione che giustifichi o scusi l'odio generale che pesa sul ragno, e il bando che si vorrebbe infliggere a questo infelice insetto dal vasto regno della natura.
Angela, voi lo indovinate, non subiva nè anche in questo il giogo della comune opinione. Il ragno era per essa un animale industrioso e paziente, e l'amava anche prima che Vittor Ugo avesse scritto nelle sue Contemplazioni:
J'aime l'araignée et l'ortie
Parce qu'on les hait.
Ella si guardava bene dal lacerar la sua tela, che si poteva ammirare in tutta la sua integrità e simmetria in quell'angolo del giardino dove l'ortica medesima aveva ottenuto un asilo. L'ortica poi, giacchè il poeta francese l'ha messa insieme col ragno e la onora dell'amor suo, la nostra eroina la favoriva anch'essa per due ragioni che sfuggirono al poeta de' paradossi: la prima perchè nutre colle sue foglie una delle più belle farfalle che volino per l'aria, la piccola pavonia, che spiega nelle ali leggiere tutta la magnificenza dell'uccello caro a Giunone: la seconda, perchè aveva osservato che l'ortica cessa di pungere quando mette fuori i suoi fiorellini e s'appresta a celebrar le sue nozze.
Tutto questo però parlava alla ragione più che all'istinto. L'istinto di Angela è mirabilmente riassunto in quei due versetti. Ella amava le creature di Dio in ragione dell'odio ingiusto onde le vedeva aggravate.
Queste idee sorte naturalmente l'una dall'altra aveano formato il fondo della conversazione che animò i pochi amici raccolti la sera del giorno stesso presso il padre di Angela.
Ella compiva in quel giorno diciassette anni, e la zia, legislatrice suprema negli affari di convenienza, aveva autorizzato quella sera qualche invito speciale per celebrare l'ammissione della nipote alle feste della pubertà. Oggimai Angela sarebbe condotta ai balli, ai teatri, ai passeggi dove si legano le relazioni sociali, e si ordiscono quelle tele di ragno che accalappiano non moscherini o farfalle, ma uomini e donne coi loro titoli rispettivi e colle lor doti.
Immaginate un elegante salotto non già microscopico come nei paesi settentrionali, dove si economizza lo spazio per economizzare la materia da riscaldarlo: ma un salotto ampio ed arioso alla veneziana, con un bel fuoco acceso nel camminetto frankliniano incrostato di porcellana, tutto quadri e stampe appese in bell'ordine alle pareti, e qualche pianta fiorita e odorifera sui massicci armadi degli angoli. Non mancava da un canto l'inevitabile Piano di Erhart, ma quella sera, grazie al cielo non venne ad imporre un silenzio forzato alla briosa conversazione che occupò la piacevole radunanza.
Dovrei ora descrivere ad una ad una e classificare le dieci o dodici persone che vi ebbero parte, e vi porrei con questo dinanzi agli occhi un bel quadro fiammingo. Ma io non amo i quadri fiamminghi dove si pretende dipingere tutto e tutti. Mi contenterò dunque di esporre che la brigata era composta d'uomini e donne: il signor Lanzoni, che s'intende, vo' dire, il padrone di casa: l'angelo della festa, la zia, il medico che ho accennato altre volte, l'istitutore della fanciulla, ex-abate che non avea ritenuto delle antiche abitudini se non l'abito scuro ed una indomabile inclinazione per le discussioni teologiche: uomo probo del resto e d'animo liberale, che insegnava alla giovanetta la lingua latina e la geometria, per contentare il di lei genio bizzarro.
Le signore erano parenti più o meno lontane della famiglia, tranne la contessa d'Andria che vi era venuta quella sera per presentarvi il contino suo figlio reduce a que' giorni da un lungo viaggio, che dicevasi d'istruzione, nei vari paesi d'Europa. Era un bell'uomo di circa trent'anni, degno rappresentante di quella vegeta e gioconda razza lombarda, che quando è un po' navigata ha pochi rivali nel mondo per l'accordo delle qualità fisiche e delle morali.
Il conte Alberto era stato navigato un po' troppo. La madre, per sottrarlo al contagio delle idee politiche che reputava troppo compromettenti, e alle conseguenze di qualche scappatella di gioventù, l'avea mandato a viaggiar la Germania, l'Inghilterra e la Francia. Aveva quindi appreso tre lingue, una farragine di cose e d'idee, senza perdere nè la salute, nè il tempo, nè l'allegria. Tutt'al più avea fatti certi larghi salassi alle rendite avite, specialmente nelle stagioni de' bagni. La madre non avea mancato di fargliene le dovute rimostranze, ma alfine pensava che una buona dote avrebbe rimesso in ordine le partite. Chi sa che quella brava e provvida signora non venisse a tendere la sua rete quella sera medesima! Angela, come ho già detto, era figlia unica e possedeva una fortuna assai ragguardevole, anche per un conte d'Andria che si fosse mezzo rovinato ai giuochi di Spa.
Ho detto che la conversazione s'era lungamente aggirata sui ragni, insetti ed uomini, che tendono le loro reti nel mondo. Cosimo, col suo disegno sempre là presente sulla tavola rotonda, aveva dato, senza saperlo e senza volerlo, un tale indirizzo alle idee. Egli, come potete credere, non assisteva alla conversazione se non nell'emblema che aveva adottato quel giorno, ma non per questo era rimasto estraneo a quanto si disse dagli uni e dagli altri.
Angela avea fatto ammirare la bizzarria del suo spirito ampliando la tesi del suo protetto e istituendo i più graziosi e piccanti confronti fra vari animali e varie piante e certi caratteri e certe fisonomie sociali. Il soggetto non era nuovo, ma le applicazioni erano improntate di una finezza e di una grazia singolare. La buona giovanetta rispondeva con questo indirettamente a quelli che avevano accolto con un sorriso troppo crudele l'analogia del ragno di Cosimo.
— Tu confondi due cose molto diverse — disse la zia. — Voglio concedere che il signor maestro somigli ad un formicone, e il contino Alberto alla rondine viaggiatrice, e tu all'ortica che è più celebre per le sue punte che per la bellezza de' fiori. Il tuo protetto però non somiglia ad un ragno per le sue qualità naturali, ma per la fatalità che lo ha fatto nascere gibboso e deforme. —
L'osservazione era vera, ma poco cortese e poco caritatevole. Ella volle forse dar sulla voce alla nipotina, e mettere un freno a quello spirito un po' troppo franco e disinvolto per una giovane che fa il suo primo ingresso nel mondo. Angela capì la lezione, e un po' mortificata, si pose a squadernare il suo album, senza più prender parte al discorso.
La conversazione prese allora un'altra piega. Il conte Alberto, avendo inteso che si trattava di un povero gobbo che interessava sì vivamente la famiglia per le sue buone qualità d'intelletto e di cuore, si mise a narrar maraviglie di un istituto ortopedico che avea visitato a Parigi, e che dava risultati mirabili.
— Nulla è più impossibile alla scienza — disse il nostro viaggiatore. — Il dottore di casa, e l'abate, che soleva leggere le riviste scientifiche del tempo, appoggiarono entrambi le parole del conte, tanto che il signor Lanzoni lasciò intravedere la sua intenzione di confidare il povero trovatello ad uno di quegli Stabilimenti.
Il padre di Angela aveva un cuore che teneva molto di quello della figliuola. Potendo fare il bene, non lo faceva a metà. Fu stabilito che il conte avrebbe esaminato il fanciullo, e ne avrebbe scritto al direttore dell'istituto che avea visitato, per sapere se la qualità del difetto e l'età dell'infermo lasciassero qualche speranza di guarigione.
VI.
Angela aveva inteso con visibile emozione il progetto di sottoporre il suo allievo ad una cura ortopedica: ma non avea preso parte al discorso, ignorando affatto l'esistenza e l'efficacia di questo metodo. Ella non avea mai considerata come curabile la strana conformazione di Cosimo, nè vi pensava che per deplorare la crudel bizzarria della sorte che l'avea così condannato ad essere il ludibrio delle altrui beffe o dell'altrui compassione. Ora le sue idee presero naturalmente una nuova piega, e poichè l'arte umana poteva liberare da quello stato infelice il povero infermo, si diede tutta a sollecitarne l'effetto.
La mattina susseguente sorprese Cosimo affaccendato nelle sue consuete occupazioni, e dopo averlo ringraziato con affetto de' suoi disegni, lo informò del progetto che si era intavolato sul conto suo.
Cosimo l'ascoltò come trasognato senza comprender bene di che parlasse. Anch'egli, al pari di lei, avea risguardato sempre la propria deformità come un male senza rimedio, e si era rassegnato a sopportarlo per tutta la vita. Non diremo che non sentisse con qualche amarezza le sconce risa che suonavano intorno a lui, e le celie poco decenti che gli fioccavano addosso, ma vi si era già accostumato per modo che non ne faceva più caso. Cercava di prevenirle e di evitarle quando poteva, rendendosi caro ed utile a tutti colle sue buone parole e coi mille piccoli servigi che procurava di rendere a quanti potesse. E quando pensava che, senza quel difetto, non avrebbe forse mai conosciuta la sua benefattrice, era quasi tentato di ringraziar la natura e la fortuna di averlo concio a quel modo. Ora vedendo la possibilità di riguadagnare il suo posto nel numero degli esseri regolari e ben naturati, restava perplesso, come quegli che si trova dinanzi una prospettiva che non si aspettava nè immaginava vedere. Una folla di idee e di desiderii nuovi gli si affacciavano alla mente e gli agitavano il cuore: ma l'abito del dolore e il suo naturale buon senso lo ritennero dall'abbandonarsi a troppo lusinghiere speranze.
D'altronde gli corse subito al pensiero che, a voler tentare siffatta cura, bisognava lasciar Milano, bisognava abbandonar quella casa e quelle persone così affettuose e così care, quell'angelo che aveva dinanzi agli occhi, e che non osava di riguardare. Non più vederla, non più udir la soave sua voce, ciò gli pareva gran sacrifizio, anche se avessegli a fruttare la felice metamorfosi che gli era promessa.
Queste riflessioni traversarono come lampo l'anima sua, ma non osò palesarle alla sua protettrice per una ragione più facile a immaginare che a dire. Si contentò dunque di crollare il capo in aria d'incredulità, e rispose con mesto sorriso: — Perchè il ragno si lagnerà egli della sua figura, specialmente quando voi ne prendete le difese, come avete fatto jer sera? —
Angela arrossì alla sua volta senza ben sapere il perchè: ma, ricomponendosi tosto, seppe trovare tante buone ragioni, che Cosimo non potè più insistere nella sua negativa, e si mostrò pronto a fare la volontà dei suoi benefattori e padroni.
Il signor Lanzoni non pose tempo in mezzo a procurarsi le notizie più necessarie intorno agli istituti ortopedici di Parigi. Il medico di casa e il conte Alberto d'Andria, prima origine del progetto, l'avevano coadjuvato. Tutti erano lieti di poter ridonare la sua sanità e dirittura delle membra ad un giovanetto che mostravasi così sano dello spirito e così dritto d'ingegno. I più contenti parvero il giardiniere e la zia, pei quali quell'individuo così contraffatto era uno spino negli occhi: all'uno perchè era troppo sapiente, all'altra perchè aveva un'invincibile avversione per gli uomini malfatti, e li abborriva come segnati da Dio.
Angela, dal canto suo, si pose senz'altro a mettere insieme gli abiti e la biancheria necessaria per un sì lungo viaggio, e per un'assenza che poteva durare più mesi e più anni. In quest'occasione si vede più che mai che non lo considerava come un servo, ma, quasi direi come un figlio. Non era ella successa alla madre? non ne aveva ella fatte le veci? non ne aveva adempiuti i doveri? Senza di lei il povero nano avrebbe continuato ad essere lo zimbello de' suoi compagni, forse sarebbe morto di miseria e di crepacuore, certo poi non si sarebbe levato a sì nobili sensi, e non avrebbe aperto l'intelletto e l'animo a quelle idee e a quelle attitudini che gli meritavano la benevolenza di tutti.
Prese dunque le informazioni, e fatti i necessari preparativi, si dispose a partire per Parigi, raccomandato dal padre di Angela e dal conte d'Andria al direttore del primo istituto ortopedico di quella città. La cura che intraprendeva non doveva distorlo dagli studi che avea incominciato. Angela l'aveva fornito a dovizia di disegni, di colori, di trattati di botanica e delle flore più ricche e complete che avesse trovato nella paterna biblioteca e nelle librerie di Milano. A Parigi poi avrebbe visitato il Giardino delle piante, ove ammirerebbe per la prima volta la splendida vegetazione de' tropici, le collezioni più complete di storia naturale, tanto da farsi un'idea complessiva delle varie produzioni dei due emisferi. Il padre la vedeva fare e sorrideva compiacendosi di quell'affetto quasi materno che mostrava per quell'infelice.
Il momento della partenza raddoppiò l'emozione. Cosimo impallidì e fu sul punto di cadere in deliquio. Nessuno comprese la vera cagione di quel turbamento, nemmeno Angela ch'era presente, nemmeno egli stesso. Era un presentimento di qualche sventura, era il terrore di affrontare nuovi pericoli? Noi non sapremmo ben dirlo. Il cuore umano, anche quello di un povero paria della natura e della società, cela misteri profondi che è malagevole scrutinare. Se fosse stato solo, forse avrebbe prorotto in lagrime, e nello sfogo avrebbe sollevato il suo cuore. In presenza di Angela, del padre di lei, e di una parte della famiglia, avea voluto comprimere la sua emozione, e riuscì a farla più manifesta malgrado suo. Ma il calesse era pronto, e vi montò precipitosamente prima che le forze gli venissero meno del tutto.
VII.
Quest'affare di Cosimo avea dato occasione al conte d'Andria di venire più d'una volta in casa Lanzoni, ora per communicare una risposta ricevuta da Parigi, ora per esaminare il soggetto, come si dice in istile dell'arte, e riferirne al direttore dell'istituto ortopedico.
Si sarebbe detto a prima vista che il conte prendeva il più vivo interesse per quel disgraziato, ma un occhio più sagace avrebbe di leggieri scoperto, sotto questa singolare benevolenza, un altro fine secreto che non era carità del prossimo. Il conte aveva gittato gli occhi sull'avvenente fanciulla, ne aveva conosciute le simpatie, e parendogli un partito non disprezzabile, avea fatto così su due piedi il suo piano di battaglia. La sua sagace tattica avea sortito l'effetto: egli avea parlato più volte alla giovane, le avea dato prova della bontà dell'animo suo, avea contribuito al benessere del suo protetto, s'era aperto una via ad intertenersi con lei ogni qual volta l'avesse desiderato.
Angela, semplice e buona com'era, non aveva pensato a secondi fini. Fu grata alla cooperazione dell'interessato vicino per ciò che credeva poter esser utile al giovanetto, ma non andò più oltre nè pur col pensiero. Il suo cuore non s'era per anco aperto all'amore. Se il conte l'avesse amata davvero, un pari sentimento sarebbe sorto spontaneamente nell'animo suo: i cuori s'indovinano e si rispondono. Ma ciò non avvenne. Ella prese le premure del conte Alberto come semplici atti di cortesia, e rispose con altrettanti. Il conte d'Andria non aveva l'onore d'essere una mala erba per provocare sull'istante le sue simpatie. S'era presentato in casa di lei colla franca disinvoltura che suole ispirare un'idea esagerata del proprio merito personale e la memoria dei molti trionfi ottenuti. L'aver veduto il bel mondo di quasi tutta l'Europa non contribuiva per poco a codesto. Ma senza ciò, il conte era grande della persona, d'aspetto avvenente, occhi neri, capelli neri, tinta bruno-vermiglia: un vero modello per rappresentar l'italiano in una galleria etnografico-pittoresca. Angela l'aveva ammirato come si ammira una bella statua, come ammirava i più bei fiori delle serre paterne, ma il suo cuore era restato chiuso ad ogni sentimento più tenero. Egli, dal canto suo, non aveva nessun interesse a concludere. Era avvezzo, in fatto d'amore, a lasciar correre l'acqua alla china. Forse è il partito migliore quando non si tratti di sorprendere ex abrupto un assenso, e prendere, come si dice, la piazza d'assalto. D'altronde Angela era ancora sì giovane d'anni e di spirito!
Dopo la partenza di Cosimo, ella s'era trovata sola e derelitta. La casa, il giardino, le parevano vuoti e deserti. Le più belle camelie la trovavano indifferente: il suo recinto particolare si risentiva delle prime brine, e più ancora della lontananza del suo cultore. Il novembre aveva disseccato metà delle piante. Le altre si restringevano in sè stesse per tener fronte alla rigida stagione, e prepararsi al riposo invernale. Ella guardava malinconicamente quell'erbe e quei fiori, divagando col pensiero ad altre idee, ad altri mondi.
Specialmente quando era sola la sera, e agucchiava presso la zia, o squadernava distratta qualche volume, due immagini le stavano innanzi, due immagini ben diverse. Cosimo colla sua faccia pallida e malinconica, il povero Cosimo infermo, contraffatto, schernito da tutti, e il conte Alberto d'Andria in tutta la pompa della sua bellezza virile, forte e robusto della persona, amato o invidiato da tutti. Ci affrettiamo a dirlo per non indurre i nostri lettori a impronti e falsi giudizi. Angela non amava d'amore nè l'uno nè l'altro. Ho già detto che non era ancora sonata per essa quell'ora che cambia e trasforma ad un tratto l'essere d'una donna. Dinanzi all'amore nessun confronto sarebbe stato possibile fra quei due. Il povero Cosimo poteva eccitare la pietà più sincera e più viva, ma non quel sentimento che domina tutta la vita. La bizzarra fantasia della giovane si compiaceva di paragonarli sott'altro aspetto. Angela era uno di quegli spiriti che domandano il perchè d'ogni cosa. Perchè dunque Alberto sì grande e sì bello, e Cosimo così sformato e ridicolo? Se il corpo non è che l'organo dell'anima, perchè quella di Cosimo non era pervenuta a formarsi un corpo più perfetto ed armonico? Questioni insolubili che tormentavano la sua intelligenza, e la facevano divagare sovente nel mondo delle chimere. Ella non s'era già lasciata abbagliare dalle lusinghiere apparenze d'Alberto: il suo giudizio s'era già formato sopra le qualità morali dell'uomo. Giammai, posto nelle condizioni di Cosimo, ei sarebbe giunto a educare se stesso e a sollevarsi ai graziosi concetti dell'arte. Pensava dunque all'ingiustizia della fortuna, a un poter capriccioso, che agli uni prodiga tutto, grazia, ricchezza, avvenenza, vantaggi sociali; agli altri tutto ricusa, e li condanna a servire come d'ombra o di contrasto ai loro fratelli privilegiati.
Era sempre lo stesso tema, sempre la stessa curiosità che le presentava il morale sotto questo punto di vista, e la spingeva a cercare una soluzione soddisfacente: ma i termini del suo confronto, che fino allora erano stati vaghi ed incerti, ora si venivano incarnando in quei due. Il conte d'Andria era per lei l'usurpatore, il tiranno, l'enfant gâté della natura; Cosimo, il paria, l'oppresso, il ludibrio d'un iniquo destino. Non occorre aggiungere che in questi momenti, e sotto il martello di queste riflessioni, ella sentiva una segreta avversione per il bel cavaliere, e parteggiava per il suo antagonista. Fino i due nomi partecipavano a questa lotta. Alberto d'Andria, uno dei più bei nomi di Lombardia, e Cosimo, che aveva udito la prima volta alterato per beffa crudele, quando i monelli ne facevano Quasimodo!
— Alberto d'Andria! Eppure io ho veduto o inteso questo nome altre volte, — diceva a se stessa la giovane. — Alberto d'Andria! Certo la zia me ne deve aver detto qualche cosa per il passato, per cui m'è restato nella memoria senza ch'io me ne rammenti nè il come nè il quando! —
E così dicendo cercava pure di richiamarsi alla mente dove avesse letto quel nome, e perchè si unisse sempre nel suo pensiero con quello di Cosimo. Tutto ad un tratto, quasi rischiarata da una subita luce, corre allo stipo dove avea riposto il borsellino che Cosimo le aveva restituito: si ricordò della carta che le era stata affidata, l'aperse e la lesse. Era, come accennammo, una promessa di matrimonio, una promessa formale sottoscritta in tutte lettere:
Alberto d'Andria.
Angela restò come stupida, colla carta spiegata dinanzi agli occhi, e non credeva a se stessa, non sapeva se vedesse il vero, o se fosse qualche strana allucinazione. Alberto d'Andria! Una promessa di matrimonio alla... madre di Cosimo! Questa scoperta le parve così importante, e il mistero che intravedeva, sì tenebroso, che non osò decifrarlo, e non volle nemmeno affrettarsi a farne parte agli altri della famiglia. Ripose la carta nel borsellino, e lo rinchiuse nell'angolo più riposto del suo stipetto. Prima che ad altri il cuore le diceva di doverlo comunicare a quello che aveva un maggiore interesse a saperlo. Risolse di scriverne a Cosimo, ma non si affrettò temendo che l'emozione che ne proverebbe non avesse a compromettere la cura che intraprendeva, e sulla quale aveva fondato tanta speranza.
Aspettò dunque consiglio dal tempo, e chiuse in sè medesima il suo segreto.
VIII.
Il nostro Cosimo fece il suo viaggio fino a Parigi in una di quell'enormi macchine, che, prima dell'invenzione delle ferrovie, servivano al trasporto ordinario d'uomini e cose, e si chiamavano, per eufonia o ironia, diligenze, velociferi, corriere, ec. Da venti a ventiquattro esseri umani venivano insaccati in una vettura da due, da tre, da quattro piani o compartimenti, dal posto privilegiato al più economico, chiamato per la stessa metafora, il paradiso. Uomini e donne, preti e frati con tutte le loro attinenze erano posti alla rinfusa, dove fortuna li balestrava, o piuttosto il conduttore per sue buone ragioni li collocava. O per fortuna o per altra provvidenza che vi lascio immaginare, Cosimo si trovò agli avamposti, assiso comodamente accanto al conduttore del popolato veicolo. E fu bene per lui, giacchè se si fosse trovato nel corpo della carrozza in mezzo a dieci o dodici annoiati, vi so dire che la sua singolare configurazione sarebbe stata il tema delle inevitabili beffe, onde l'uno o l'altro della brigata l'avrebbe fatto segno per passatempo.
Cosa singolare! Egli non aveva mai pensato alla propria infermità se non da quindici giorni, dall'epoca appunto che aveva veduto il conte Alberto, e gli era stata svegliata nell'anima la lusinga di raddrizzarsi le reni. Una disgrazia irreparabile si sopporta senza pensarvi. Si sa che il condannato a morte suol riposare la notte che precede il supplizio: ma se tutto ad un tratto gli fosse fatta sperare la grazia, non chiuderebbe più gli occhi sotto il pungolo delle nuove speranze.
Quanto fu lungo il viaggio, e fu di tre giorni e due notti, non pensò ad altro che alla propria deformità, e per via di contrasto gli sorgeva incessantemente dinanzi la svelta e maestosa figura del conte d'Andria. Quel nome e quell'aspetto non gli parevano nuovi, ma non potè rammentarsi dove e quando ne avesse avuto contezza. Da una o da un'altra ragione che fosse mosso, il gentiluomo si era mostrato verso il povero nano di un'amorevolezza e d'una bontà singolare. A lui doveva i nuovi tratti di beneficenza che riceveva dal signor Lanzoni e da Angela; a lui la speranza di poter trasformarsi come il bruco nella farfalla, ed essere classificato in altra categoria della storia naturale che non fosse quella de' ragni. Eppure egli era ben lontano dal provar per il conte quella tenera gratitudine che avea sempre sentito per la sua protettrice e per il padre di lei. Il sentimento che nutriva per lui, se non era avversione, era almeno sospetto, era un'antipatia misteriosa che non sapeva spiegare, e della quale sentiva vergogna e quasi rimorso.
Avvezzo ad analizzare le proprie impressioni, come sogliono gli animi riflessivi e gli ingegni osservatori com'era il suo, si domandò se codesta contrarietà che provava per quel tipo di bellezza virile, non avesse per avventura il suo fondamento in una inescusabile gelosia, in quella livida invidia che ci fa risguardare sovente come nemici quelli che sono stati dalla natura o dalla sorte privilegiati su tutti gli altri.
Ma Cosimo era troppo umile e troppo nobile per avere quel brutto difetto. Tale qual era, egli amava le belle cose e i begli uomini. Era poeta. La bellezza, l'armonia delle forme, sotto qualunque aspetto si offerisse ai suoi occhi, gli pareva un lampo della divinità, un raggio dell'eterno bello. Aveva udito l'abate Arnaldo, il maestro di Angela, rimproverare al Foscolo d'aver ordinato, in non so quale delle sue opere, i beni della vita per modo che prima veniva la bellezza, poi la ricchezza, per ultimo la virtù. Pensandoci sopra, Cosimo si era pronunciato in favor del poeta. — La ricchezza e la virtù, pensava egli, si possono acquistare per forza d'ingegno e per costanza di volontà, ma la bellezza è un dono gratuito di Dio, è il sigillo onde il Creatore contrassegna i suoi prediletti. — Vero è che allora Cosimo non pensava che ad Angela, la quale alla bellezza veramente angelica, univa la bontà e la ricchezza di cui sapeva fare un uso sì degno. In tutte queste riflessioni che gli venivano sovente al pensiero, ei non aveva mai risguardato a se stesso. Si considerava come semplice spettatore della bellezza altrui, abbastanza fortunato per saperla distinguere ed apprezzare.
Ma ora per la prima volta non poteva pensare al conte Alberto senza confrontarlo con sè: e un tale ravvicinamento lo umiliava, lo mortificava, lo irritava malgrado suo....
Il moto monotono della diligenza che saliva lenta lenta le oblique svolte dell'alpe favoriva questa specie di sonnambulismo nel nostro Cosimo. Il conduttore sonnecchiava abbandonando alle guide sperimentate e ai postiglioni il governo del suo piccolo mondo. Alcuni viandanti erano scesi per superare a piedi una parte dell'erta. Cosimo s'era dimenticato nel suo angolo, perduto nelle sue fantasie, passando dalla veglia a quel sonno leggiero e pieno di visioni che ci sorprende alcuna volta in viaggio.
Ebbe un sogno assai strano, che doveva lasciare una traccia profonda nella sua immaginazione. Gli pareva di assistere alla creazione del mondo. Un vecchio venerando, come sogliono rappresentare nelle Bibbie illustrate, il Dio di Mosè, plasmava colle sue dita medesime il primo uomo, il quale di mano in mano che prendeva forma e figura, assumeva un aspetto che gli parea di conoscere. Quando il Signore, compiuta l'opera sua, gli soffiò lo spirito vitale, e quella statua meravigliosa aprì gli occhi e la bocca, Cosimo ravvisò le dignitose e leggiadre sembianze del conte d'Andria. Per naturale associazione d'idee, codesto nuovo Adamo mangiava il suo pomo e peccava. E Cosimo udì una voce gridare al colpevole: «Poichè non obbedisti a' miei comandi e abusasti delle tue facoltà contro gli ordini miei, io ti punirò ne' tuoi discendenti. Quelli che nasceranno da te non porteranno più l'impronta delle mie mani, ma obbediranno al fortuito accozzamento della materia.» Il colpevole restava perplesso al suono di queste parole, ma si riaveva ben tosto; e come per isfidare l'Altissimo, raccolta la creta che era rimasta, si provò a formare colle proprie mani un altro uomo a immagine sua. Ma l'argilla molle e stemperata non rispondea all'idea. La statua non sorgeva dritta e disinvolta come quella ch'era stata plasmata da Dio. La faccia avea bene qualche vestigio della prima creazione, ma il basso era sconcio e contorto in misero modo. Ne naque infatti un aborto, quest'essere deforme prendeva anch'esso una faccia non nuova. Il poveretto ravvisava in quel mostro informe se stesso!
Fu preso da tale spavento che si svegliò.
La carrozza era giunta sulla sommità del Cenisio. La brezza del mattino svegliò i viaggiatori ch'erano rimasti al loro posto. Gli altri giungevano trafelati dai sentieri laterali che avevano preso. Il moto, le grida, la magnifica prospettiva che si apriva allo sguardo, tutto ciò venne opportunamente a interrompere le tristi allucinazioni del giovanetto.
Il sole vestiva d'una luce rosea le vette de' monti circostanti. Cosimo salutò quella luce consolatrice, e veduto in un seno della montagna una selvetta di rododendri, ne colse un ramoscello fiorito per offerirlo in dono al suo angelo tutelare. Era tanto preoccupato dei suoi pensieri e delle sue fantasie, che avea dimenticato di trovarsi a tanta distanza da lei, e in procinto di abbandonare l'Italia. Gli cadde di mano quel ramo e risalì tutto accorato in vettura.
IX.
Lasciamo per un momento la parola ai nostri due amici. Ci spiace solo non aver ritrovato la prima lettera che Cosimo scrisse, appena giunto a Parigi, rendendo conto delle accoglienze che ricevette all'Istituto ortopedico, e delle buone speranze che il direttore gli aveva date. Queste notizie avevano rallegrata tutta la famiglia Lanzoni, ed Angela s'era assunta l'incarico di rispondere a Cosimo. Ecco la sua lettera tale e quale:
«Milano, 15 settembre 185...
»Fratello mio,
»Il babbo mi fece leggere la tua bella lettera, e mi lasciò il piacere di risponderti. Siamo tutti in festa per le buone accoglienze che ti furono fatte dal direttore dell'Istituto che mi sembra già di vedere, e che io amo da questo momento per la cura che prende di te. Dio voglia, mio caro Cosimo, che le nostre speranze non abbiano a restare deluse, e che tu possa uscire al più presto da cotesta casa più forte e più diritto della persona. Quanto al cuore e alla mente, ci basta che tu conservi la natural rettitudine che mostri fin qui!
»Questa è la risposta ufficiale ch'io ti fo, come segretaria della famiglia, ed anche, vedi onore! del signor conte d'Andria, che continua a prendere il più vivo interesse per la tua guarigione. Sul conto di questo signore avrei anzi a communicarti qualche altra cosa che ti risguarda più da vicino, ma preferisco parlartene a voce più tardi.
»Ora bisogna ch'io ti dica un po' delle cose nostre, del nostro giardino, delle nostre povere piante che sono ora immerse in quello stato di sonno e d'inerzia a cui le condanna l'inverno. Hai tu pensato, Cosimo, tu che cerchi sempre il perchè delle cose, hai tu ben pensato a questo periodo della vita vegetativa, e ai vari fenomeni che lo distinguono? Si suol dire che codesta è la stagione morta. Forse è morta per noi, che siamo privi del gradito spettacolo che presenta la natura nella pienezza della sua efflorescenza. Ma per le piante, a mio credere, è tutt'altro che morta. È un riposo apparente e necessario ai grandi misteri della germinazione e della trasformazione degli esseri. Come si può chiamar sonno e letargo quello del germe che dentro al suo duro guscio e alle sue molte membrane supera l'abisso che divide la semplice cristallizzazione dalla vita organica, e quello del bruco che nella oscura tomba in cui si è sepolto, fabbrica lentamente le sue ali, e le screzia di sì vivi colori per passare dalla vita di rettile a quella più nobile di farfalla? Tu che sei solito applicare all'uomo tutte le fasi della vita delle piante e degli animali, quale analogia trovi tu fra il sonno degli alberi e il nostro, fra la lunga letargia del verme che si prepara alla seconda sua vita, e le vicissitudini a cui ci condanna l'età? Qual è il nostro inverno, quale la nostra primavera? Perchè la pianta si rinnova e si ringiovanisce ogni anno, e noi non siamo giovani che una volta? Ho un bel domandare al maestro la ragione di queste cose. Egli non fa che rispondermi: misteri, misteri! Il dottore, che non vede altro che materia nel mondo, non ha una risposta più chiara da darmi. Vorrei ben sapere che cosa ne pensi tu. Quante volte non abbiamo noi trovato una spiegazione che gli altri non avevano saputo indicarci! Pensaci su nelle lunghe ore d'ozio e d'immobilità a cui ti condanna la cura intrapresa, e dimmi il tuo pensiero che s'incontrerà probabilmente col mio. Intanto eccoti le notizie che chiedi.
»Giacinto ha già ritirato ne' suoi stanzoni tutte le sue piante. È tutto intento ad esaminare il termometro, e a misurar loro il grado di calore che chieggono, a ventilarle, ad annaffiarle, a muoverle di sito perchè abbiano la luce e l'esposizione più conveniente a ciascuna. Povero Giacinto! Io non lo condanno. Egli cerca di render men trista la deportazione e l'esiglio a quelle povere vite avvezze ad espandersi sotto lo splendido cielo de' tropici, tra le folte foreste primitive del Messico, nelle acquidose convalli dell'Orenoco e del Gange. Mi sono proprio riconciliata con lui dacchè penso che quelle povere raminghe non viverebbero senza le sue cure, senza le sue stufe, senza l'aria tiepida che tratto tratto fa penetrare nelle serre più calde. Comprendo ora che egli pure alla sua maniera si presta ad un'opera di carità verso questi esseri innocenti e sfortunati, a questi re dell'Asia in esiglio. S'egli ammalasse, o se lo prendesse un'altra volta l'estro di andarsene, bisognerebbe pure ch'io ripigliassi l'opera sua, e sa il cielo se io saprei conoscere la natura e i bisogni di tutte queste piante così diverse. Rendiamogli dunque giustizia e facciamo pace con lui.
»Quanto al nostro giardino, esso è in vero molto mutato, e non presenta il gaio aspetto di prima. Non ha più fiori d'alcuna specie e d'alcun colore. Solo la parietaria, prima di perdere le sue foglie, le colora, come la vite, delle più belle tinte di porpora e d'oro che mai si vedessero in pianta. È l'ultimo addio che dà alla natura, è l'ultima bellezza che sfoggia prima di spandere i suoi granellini e prepararsi con essi una vita novella.
»Le altre piante abbandonano le loro foglie inutili che serviranno a preparare un soffice letto e il primo alimento alla giovane generazione. Ma non hanno bisogno nè di stufa, nè d'acqua, nè d'altro aiuto dell'arte. Sopportano la rigidezza del clima, la neve, la bruma, e il gelo stesso senza pericolo. Si direbbe che si stringano l'una contro l'altra, e si scaldino fraternamente a vicenda. Deggio pensarlo, poichè tutto il resto del giardino è coperto di neve come di un funebre drappo; quell'angolo solo è verde, e la neve si è dovuta squagliare per lasciare il respiro alle nostre povere pianticelle. Io credo che ciascheduna a parte non sarebbe bastata a vincere quello strato di ghiaccio: ma tutte insieme, cooperando bravamente, vinsero la neve e si procurarono la vista del cielo. Osservo che le piante indigene solamente, le così dette male erbe, hanno il coraggio e la forza di lottare contro il rigore della stagione. Quelle piante forestiere a cui demmo un asilo, sono già ite, e non è ben certo se le vedremo ripullulare più tardi. Così è, caro Cosimo. Ogni terra ha il suo germe particolare, e, benchè si presti sovente a nutrire figli non suoi, tuttavia conserva la sua predilezione pei proprii. Ti ricorda di quel rosajo del Bengala, che Giacinto, per farci una burla, aveva innestato al piede di una rosa canina? Il rovo ha fatto la burla a lui. Il nobile straniero seccò, e dal ceppo sorsero due o tre polle selvatiche che daran presto delle belle rosacce semplici, ma gentili più delle sue.
»L'altr'ieri recandomi a salutare quel luogo che verdeggiava solo come un'oasi in mezzo al deserto, ho trovato la nostra capanna abitata. Indovina da chi? Te lo do in cento.
»Tu non hai certo dimenticato quella povera gatta magra, spelata, tutta piaghe, che hai salvata dalle mani di quei tristanzuoli che la tormentavano, e veniva poi a ruzzarci d'intorno come per gratitudine? Ebbene, mio caro amico, l'altr'ieri, guardando nella capanna, vidi due occhi gialli che splendevano nell'angolo più remoto, e udii un miagolìo che mi fece riconoscere la nostra vecchia cliente. Appena mi vide, mi venne incontro circondata da tre gattini vispi e scherzosi. Dapprima pareva in sospetto; ma poi, come mi ebbe ravvisata, si rabbonì, e mi permise di accarezzare i suoi figliuolini. Essa è ancora lì, e vi si è accasata comodamente. Vado tratto tratto a vederla e le porto qualche vivanda per la sua famigliuola. Lo faccio non tanto per amore di questi nuovi ospiti che cercarono un asilo presso di noi, quanto perchè non vorrei che la necessità la spingesse a dar la caccia a due poveri pettirossi che svolazzano sul tetto della casuccia, e sembrano disposti a collocarvi il loro nido.
»Quanto agl'insetti che un tempo popolavano il nostro compartimento, non li veggo più. Certamente hanno cercato un ricovero sotto la terra o nei crepacci della muraglia. Negli angoli interni ci sono più di cento crisalidi che aspettano i primi tepori di primavera per rompere la loro prigione e spiegare il volo. Un istinto secreto deve avvertirle che l'aria è ancor troppo rigida, e che le piante hanno perduto i lor fiori.
»Addio, caro Cosimo. Vorrei ora parlarti degli uomini, ma che potrei dirti di nuovo? Noi non abbiamo nè trasformazioni, nè mutamenti sensibili. Si ciarla, si giuoca, si danza, si cerca di prolungare il giorno, e d'ingannar la stagione in mille maniere. Ma tutto questo non ha alcuna influenza sulla natura esteriore. Tutt'al più arriviamo ad illuderci e a crearci nell'appartamento uno stato fittizio, una primavera esotica a forza di studio e di spesa. Con qual frutto? Non oso dirlo. Quanto a me, mi diverto qualche volta a sfidare il freddo e la neve per aver la mia parte d'inverno e sentire più tardi tutta la voluttà della bella stagione....»
X.
Cosimo ad Angela.
«La vostra lettera, angelo della mia vita, mi ha fatto rivivere in un mondo migliore. Voi mi parlate del rigor dell'inverno, di quel riposo fecondo della natura, di quella lotta delle piante, riunite per vincere lo strato di neve che ricopre la terra, e riuscire a respirare l'aria, a rivedere la luce del cielo. Veggo dal mio letto di dolore la povera micia ricoverata colla sua famigliuola nella capannuccia del cancello. Voi avete provveduto senza saperlo ai bisogni di una madre, come io, senza saperlo, l'ho conservata alla nuova generazione che doveva nascer da lei. Tutte le volte che obbediamo a un impulso di benevolenza verso quelli che soffrono, secondiamo una legge misteriosa in virtù della quale tutti i fatti e tutti gli accidenti si collegano con reciproca dipendenza.
»Vorrei potervi descrivere uno spettacolo altrettanto gradevole, ma io sono in un istituto speciale dove si raccolgono e si curano gli esseri più maltrattati dalla natura.
»Non so s'io dica bene accusando la natura di quello che forse è colpa dell'uomo e della società dove nasce. La natura, abbandonata a se stessa, non suol produrre nè storpi, nè gobbi, nè mostri. Codeste anomalie sono rarissime fra gli animali selvaggi, divengono men rare fra' domestici, e sono frequenti fra gli uomini, massime nelle grandi città dove fermentano i vizii che la miseria produce e alimenta. Ho letto questa osservazione nel libro del Leopardi che mi avete dato partendo. È un libro malinconico, ma pieno di sapienza. Quell'uomo doveva avere l'anima bella, quanto il corpo imperfetto e deforme, come si legge nella sua vita.
»Perdonate il disordine delle mie idee. Voi mi conoscete. Quando un pensiero mi pullula nella mente ne tira mille, ed io non riesco a raccapezzarne più il filo. Che cosa voleva io dirvi? Ora mi rammento. Faceva il confronto tra lo spettacolo che voi mi dipingete e quello ch'io devo descrivervi per obbedire al vostro comando. Se sarà tristo e malinconico, non è mia colpa. D'altronde voi non fuggite le sensazioni dolorose, anzi ne andate in traccia per bontà d'animo e per desiderio di mitigarle in altrui. Ah! quanti dolori avreste a consolar qui, quanti disinganni a raddolcire, quanti animi a raddrizzare!
»Il direttore di questo Istituto, è un uomo di un carattere aperto e benevolo. Non ha più di cinquant'anni, ma la sua bella ed ampia fronte è già calva, e tutti i capelli canuti anzi tempo. Sarebbe un bel modello per un profeta o per un apostolo co' suoi occhi profondi, col suo sguardo affascinatore, colla dolcezza severa de' suoi lineamenti. Ei mi sembra intimamente convinto dell'arte sua, e pieno di fede nei miracoli che ne attende.
»L'Ospizio dove alloggiamo ha due compartimenti, l'uno destinato alle donne, l'altro a noi uomini. Ciascun compartimento ha parecchie stanze distinte per quelli che, per la qualità della cura, preferiscono l'isolamento, ed una clinica comune per gli altri che sono sottoposti ad un regime analogo. Nel compartimento dove io mi trovo, siamo in quattordici. Ignoro quante sieno le fanciulle che aspirano nell'altro a riacquistare il dono della bellezza e di una forma migliore.
»Nella sala comune vi sono dieci letti, ed otto soltanto sono occupati. Siamo otto infelici: una galleria di sciancati, di rachitici che espiamo probabilmente non so qual peccato d'origine, e aspiriamo a correggere le ossa deviate dalla loro natural direzione, e a rendere la simmetria perduta ai muscoli del nostro corpo. Ci riusciremo noi? Non sono ancora in grado di affermarlo nè di negarlo. Il direttore ci va consolando con esempi di guarigioni meravigliose: ma per lo più si tratta di fanciulli presi a curare fin dall'infanzia, mentre io e la maggior parte de' miei compagni abbiamo tra quattordici e sedici anni. Le ossa sono dunque alquanto più dure, e la mala conformazione già inveterata. Ci vorrebbe proprio un miracolo a rifarci un corpo valido e sano.
»Quanto a me, voi sapete che venni per obbedire alla vostra volontà, e per non essere ingrato al nuovo tratto di benevolenza del padre vostro. Mi sottometto pazientemente alla cura lunga e dolorosa che mi è prescritta, non tanto perch'io speri approfittarne in me stesso, quanto perchè l'esperienza, buona o trista che sia, torni utile all'arte e profittevole agli altri.
»Figuratevi come io debbo trovarmi, avvezzo com'era alla vita attiva e varia della vostra casa, disteso, per lunghi tratti di cinque o sei ore, sopra un letto, che è un vero letto di Procuste, senza poter muovermi nè a dritta nè a manca. Sono precisamente nello stato di quelle povere piante che Giacinto sforza per mezzo di pali e di vinchi a prendere una forma per cui non son nate. Oggi mi si permette l'uso libero delle braccia, onde posso consacrare una parte della giornata a scrivere e a disegnare. È dunque un giorno di vita attiva: mentre i dì scorsi non vivevo se non col pensiero, e mi nutriva di non so quali strane fantasie, che a voler dirvele tutte vi farebbero ridere e piangere. Sapete che tante volte io m'immergo così profondamente in una idea, che mi par di vedere e di toccare la cosa che immagino! Temo qualche volta di divenire un visionario ed un pazzo! Non vi mettete però in apprensione. Ho il mio talismano sicuro e infallibile contro le divagazioni del mio cervello. Basta ch'io pensi a voi, e mi richiami il vostro bel nome. Così continuate ad essere l'angelo della mia mente, anche a tanta distanza. La vostra graziosa immagine sorride a miei pensieri, come la candida stella polare al navigante smarrito nelle immense solitudini dell'oceano. A voi devo la vita dell'intelletto, a voi quelle serene fantasie che mi trasportano in un mondo migliore! Mia madre mi ha dato un corpo imperfetto e deforme; voi mi avete spirato un'anima giovane e forte, e lieta e magnifica nelle sue idee. Il mondo dove ella vive e si spazia è altrettanto bello e perfetto, quanto la società degli uomini che vivono sulla terra è ingrata ed amara. Grazie a voi che mi svegliaste alla vita del pensiero! Quind'innanzi non vi chiamerò più sorella come mi avete comandato di fare. Voglio chiamarvi madre. Sorella non esprime che l'affetto reciproco. Ho bisogno di un nome che indichi meglio i nostri veri rapporti. Voi siete la madre dell'anima mia.
»Non mi domandate dunque quali progressi abbia fatto la cura, e di quanti pollici si sia raddrizzata la mia persona. Parliamo d'altro. Parliamo dello spirito che ha meno ostacoli a superare. In questi quattro mesi mi sono un po' esercitato nella lingua francese. A forza di sentirla parlare, m'ingegno di spiegarmi alla meglio tanto che già cominciano a intendermi. Finora ho sempre letto il Leopardi sul quale ho fatto un mondo di riflessioni, che mi riservo a comunicarvi a voce. Ora assisto alla lettura di qualche libro francese che il direttore medesimo o un assistente ci vien facendo per occupare e divertire il nostro spirito durante l'inerzia forzata e l'attitudine disagevole del nostro corpo.
»Da otto giorni ci vien letto un libro nuovo scritto da un sansimonista chiamato Giovanni Reynaud. È un libro nuovo davvero, almeno per me, e credo anche per voi. Il suo titolo è: Terre et ciel; e, contro il vezzo moderno che impone alle opere i titoli più stravaganti, quest'opera parla davvero del cielo e della terra, ma sotto un punto di vista affatto straordinario. Non posso dire d'intender tutto, perchè il libro è molto scientifico, ed è scritto in uno stile molto sublime: ma quello che non intendo, a forza di pensarci, riesco a intravederlo e a indovinarlo da me medesimo nel silenzio della notte.
»Questo libro mi dà la chiave di molti dubbi che hanno finora tormentato e affaticato il mio spirito; e mi pone in grado di soddisfare assai meglio ai nostri perchè. Non ardisco ancora entrare nell'argomento, perchè tante idee nuove e meravigliose mi fanno come nuotare in un'atmosfera insolita e sconosciuta. Sono come abbagliato da una luce più forte che gli occhi non valgono a sopportare. Ma appena mi sarò avvezzato a questo nuovo elemento, vi scriverò una lunga lettera che vi aprirà un nuovo mondo.
»Per oggi restiamo ancora nel vecchio, che la vostra bontà mi renderà sempre più caro d'ogni altro.»
XI.
Il giorno che questa lettera fu ricevuta in casa Lanzoni, fu giorno di festa per Angela.
Quel tenero nome di madre, che il povero nano avea trovato nel fondo del suo cuore per esprimere l'immenso affetto di gratitudine che sentiva per lei, la commosse e inorgoglì al tempo stesso. Quel nome rivelò a lei medesima la natura del sentimento che provava per esso. E benchè pochi anni corressero fra l'età sua e quella del suo pupillo, ed ei sapesse sovente trovare col suo naturale ingegno e col suo istinto meditabondo certe ragioni ch'erano sfuggite a lei stessa e al suo precettore, pure si sentì degna di questo titolo, perchè aveva realmente esercitato l'ufficio di madre verso il povero trovatello diseredato dal mondo e dalla natura.
Quella bizzarra predilezione per ciò che gli altri disprezzano a torto, quell'amore per le creature meno privilegiate, trovò la sua più nobile espressione nell'affetto che sentiva per Cosimo. Da questo momento tutte le cure che soleva prodigare ai varj vegetabili ed animali men favoriti, si concentrarono in uno. Ella divenne tutto ad un tratto più seria, passò dalla puerizia all'adolescenza del cuore, assunse una gravità che, senza nulla togliere alle sue grazie native, le dava la dolce maestà della donna sollevata al grado di sposa e di madre.
La sera, quella lettera dovette essere letta nel picciolo crocchio d'amici che frequentavano casa Lanzoni. Il conte v'era presente e non mancò di congratularsi con Angela del buon esito delle sue cure verso il povero orfano.
La conversazione s'aggirò, com'è da pensarlo, sul contrasto tra un sì bello e sì pronto ingegno e una conformazione sì difettosa, sulle cause probabili del male e sull'efficacia dei mezzi adoperati alla guarigione. Il dottore non isperava molto dalla cura ortopedica a cui Cosimo si era assoggettato sì tardi. Il conte raccontava casi mirabili e stravaganti di guarigioni ottenute anche in una età più provetta. Angela stava in fra due, ma non osava abbandonarsi a troppe speranze. Del resto, ella lo avea preso a proteggere così malconcio, e pensava che se le fosse comparso dinanzi trasfigurato, certo ne avrebbe goduto, ma non le sarebbe parso più quello. Il suo ufficio di madre avrebbe fatto luogo ad altri rapporti ch'ella non potea prevedere. Nè la sua immaginazione, nè il suo cuore poteva dunque imaginarselo differente.
Le diverse opinioni che si esprimevano sul suo conto, l'interesse che tutti mostravano avere per lui, lo sviluppo precoce della sua intelligenza, la lettera singolare di cui si era fatta lettura, tutto ciò avea concentrato l'attenzione sul povero nano assente, e il conte d'Andria non potè a meno di chiedere ad Angela il tempo e il modo onde lo sfortunato avea chiesto e ottenuto asilo e protezione presso di lei.
Angela rispose senza pensare: — Orfano, abbandonato da sua madre per morte, da suo padre per colpevole incuria, bisognava bene che alcuno s'incaricasse di lui. Il Signore, diss'ella, provvede ai pulcini della rondine: ma non sempre agli orfani della razza d'Adamo. —
Il conte sorrise all'arguta e vivace risposta della fanciulla, e le augurò la forza e la costanza di adempiere a questo magnanimo ufficio. — E come probabilmente — soggiunse — il numero degli orfani sarà sempre più grande del numero dei tutori, vi prego a volermi associare all'opera degna. —
Egli non pensava, dicendo queste parole, che a farle uno de' soliti complimenti: ma Angela le prese sul serio, e si propose di mettere alla prova a suo tempo le buone disposizioni del vicino.
Questi però apparteneva al numero di quegli uomini che, larghi a parole, sono difficili a confermarle co' fatti, e trovano sempre una ragione o un pretesto per trarsi d'impaccio. Egli aveva adottato un'ammirabile scappatoja per ischermirsi dall'incommodo d'esser coerente a se stesso: la morale. Guardate dove andava a cacciarsi l'ipocrisia! Un tempo fa, un uomo che avesse viaggiato l'Europa si piccava d'aver lasciato qua e là i pregiudizi nativi. Ora i viaggi sogliono dare un'altra piega allo spirito. L'uso del mondo, il conversare con ogni genere di persone, la necessità di non cozzare con le opinioni divergenti del prossimo sparge le parole del viaggiatore d'una tinta di pedanteria che innamora. A forza d'approvar tutto e tutti, ei perde la propria opinione individuale, e dissimula questo pratico scetticismo con una vernice di moralità che serve di condimento ad ogni genere di discorsi. Il conte d'Andria lasciò l'Italia stordito, e vi tornò moralista. Ei s'era posto nella categoria di quelli che si professano i salvatori della morale, della religione, della famiglia. Non vo' dire che fosse profondamente corrotto e pensatamente ipocrita come i creatori di questa formula; ma la ripeteva così per bon-ton, e la trovava assai comoda per darsi un'aria d'importanza e di singolarità fra' suoi concittadini. Era una specie di diplomazia sociale, divenuta alla moda fra i nobili, un argot delle persone distinte.
Dopo aver data dunque un'approvazione la più cordiale alle generose parole di Angela, trovò il modo, parlando agli altri, di versare un po' d'acqua sul fuoco e di elevarsi di un grado, spacciando le solite topiche sulla miseria crescente, sulla cancrena che divorava la società, sulla corruzione de' costumi presenti, sulla immoralità che corre le vie e si predica su' teatri, ec., ec. — Se si volesse — diss'egli — prendere sotto la propria tutela tutte le femmine di mal affare e tutti i trovatelli della città, quale posto rimarrebbe ai poveri virtuosi ed onesti? Quanto più si studia la società — conchiuse il nostro filosofo — tanto più si divien fatalista. Bisogna avere il coraggio di applicare alle miserie umane il famoso adagio degli economisti: lasciar correre, lasciar fare. Chi muore a vent'anni e chi nasce colla spina dorsale fuor d'equilibrio, certamente aveva ad espiare qualche peccato d'origine. Io dico che, in massima, gli uomini di senno hanno a pensare ai sani e agli onesti, lasciando alle anime eroiche, ai cuori angelici, come il vostro, madamigella, la virtù evangelica di correr dietro all'agnella errante, e di raddrizzare le gambe ai cani. —
Angela non era donna da lasciarsi allucinare dalle forme più o meno garbate di questo ragionamento. Ella sentì come per istinto l'egoismo che si copriva sotto questo mantello d'ipocrisia, e non mancò di replicare al signor moralista: — Ma quando la miseria e l'infermità non dipendono da vizio originale, ma da vizio effettivo di qualche padre, dimentico dei propri doveri e della propria parola? —
Il conte era ben lontano dall'immaginare che questa fosse un'allusione a lui stesso. Rispose dunque senza esitare, che in questo caso chi era l'autore del male dovea ripararvi. E qui giù un altro squarcio di morale sulla responsabilità personale e sulla santità del dovere. Questo però non distolse la giovanetta dal suo proposito, e tornato il discorso sul povero Cosimo, trovò modo di dire al conte che il nome della madre era Teresa: una povera guantaja morta probabilmente d'inedia e di crepacuore pochi anni prima.
Il conte arrossì, ma si ricompose all'istante. I viaggi sono eccellenti per dare una certa disinvoltura nei casi difficili. E la contessa d'Andria, che fino allora avea badato all'arazzo che trapungeva, venne in soccorso del figlio, chiamando Angela a sè per consultare il suo gusto sopra una tinta delle sue lane.
Così destramente fu rimessa ad altro momento una rivelazione di cui Angela sola avea il segreto, e che un oscuro presentimento la persuase a rimettere a migliore occasione.
Intanto passavano i giorni ed i mesi, senza che nulla venisse a portare la luce in questo mistero. Le lettere che Angela inviava al prigioniero dell'istituto ortopedico erano sempre affettuose, lettere di sorella e di madre ad un tempo. Ci duole non poter offerire alle nostre lettrici tutta questa corrispondenza come fu scritta. Ciò prolungherebbe di troppo il nostro racconto, e ne muterebbe il carattere. Non resistiamo però alla tentazione di riportare due lunghi frammenti del giornale di Cosimo, che servono mirabilmente a indicare lo sviluppo della sua intelligenza, e per quali gradazioni insensibili la sua fantasia lo traeva a dare al problema della sua esistenza una soluzione che ognuno apprezzerà colla indulgenza che merita un organismo imperfetto e lottante contro una dura fatalità.
XII.
Cosimo ad Angela.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Giorni sono una famiglia inglese venne a visitare lo stabilimento, non per semplice curiosità, come sogliono, ma per esaminare la realtà di certe cure maravigliose.
»La famiglia era composta di un vecchio gentiluomo, di un giovanetto vispo e ben disposto, e di due giovani misses alte e snelle della persona, come la gentile levriera che le seguiva legata al guinzaglio.
»Una di esse, che parea la più giovane, portava il viso scoperto, uno di quei visi britannici che somigliano alle camelie. L'altra copriva la faccia di un denso velo azzurro che ne celava interamente le forme. Mi corse tosto al pensiero che quella bella damina celasse sotto il suo velo qualche deformità, e non andò guari ch'io potei sincerarmene. Passando vicino al mio letto di Procuste, quella bella e nobile giovanetta si fermò per guardarmi, e parve prendere il più vivo interesse alla mia posizione. Mi chiese di qual paese fossi, e inteso ch'io era italiano, mi domandò con puro accento toscano, e con un tuono di voce soavissimo, da quanto tempo io fossi sottoposto a quella cura, se provassi molto disagio a quella postura, e se ne sperassi un buon risultato. Risposi che la cura era men dolorosa che non paresse, poichè l'attitudine forzata in cui mi vedeva non durava molto, ed anche in questo intervallo, la lettura e il pensare temperava la noja di quella dura immobilità. Quanto all'esito, non lo sperava molto felice, nè me ne preoccupavo gran fatto. Dissi che mi trovavo lì più per altrui volere che per il mio, e che non credevo di tanta importanza la forma del corpo, da doverle sacrificare a lungo l'attività dello spirito e l'aria libera della campagna.
»La mia visitatrice chinò il capo a queste parole, e mi parve che sospirasse sotto il suo velo. Dopo qualche istante di silenzio e di esitazione, prese il partito di scoprirsi il volto, e compresi la ragione di quel sospiro. La povera signorina avea deturpata la guancia sinistra d'un enorme macchia bruna che avea portata nascendo. — Siamo stati — mi disse — assai maltrattati entrambi dalla natura. Non so quale de' due sia più da compiangere. Tu almeno puoi lusingarti, di risanare, ed hai libera da ogni deformità quella parte dell'uomo dove l'anima ha impresso il suo sigillo divino: io non potrò mai guardare alcuno, ed esser veduta, senza eccitare il riso o la pietà. Tutti i medici di Londra e di Parigi mi dichiararono essere affatto impossibile levare dal volto questa macchia originale che mi deforma. —
»Io la guardava fisso, senza poter trovarmi una parola di consolazione che credessi efficace. Ella riprese: — Addio, mio caro compagno d'infortunio: intendo che cosa vuoi tu dirmi con quella lacrima che brilla ne' tuoi occhi. Mi ricorderò sempre di quanto m'hai detto intorno all'efficacia del pensiero e della lettura. Sarà una consolazione nella mia solitudine.
»Detto questo calò rapidamente il suo velo, mi strinse forte la mano ch'io le porsi, e raggiunse la sua famiglia che intrattenevasi col direttore all'altra estremità della sala.
»La vista di quella sfortunata giovane, e le sue meste parole mi lasciarono nell'anima una grande tristezza. Ho sempre dinanzi agli occhi l'espressione malinconica del suo sguardo; mi sembra d'udire la sua voce affettuosa e la grazia ineffabile delle sue parole.
»Intesi dire ch'ella era venuta a Parigi per consultare i più celebri medici della Francia intorno alla possibilità di una cura; e che, nel caso probabile di una risposta negativa, si proponeva di farsi cattolica e prendere il velo in un monastero. Il padre e la sorella n'erano desolati, ma la risoluzione della sfortunata parea irrevocabile. Compresi allora che cosa aveva inteso di dirmi accennandomi la consolazione della solitudine, e ne fui più che mai rattristato. Non è la solitudine e il perpetuo riflettere sopra se stessa che potrà consolarla: ma la vita attiva e l'esercizio di qualche arte che le sollevi il pensiero, e lo storni dalla propria infermità.
»Ora intendo, mia cara amica, il pregio della bellezza, massime in una donna. Povera giovane! Ella dovette provare ben duro lo scherno, e ben crudele la compassione del mondo! Troverà ella un'anima angelica, come la vostra, per offerirle quelle consolazioni che partono dal cuore, e scendono ad esso?
»Dacchè vidi quella povera damina, mi torna in mente quella celebre questione agitata fra il dottore e l'abate, intorno al passo di Foscolo che, classificando i beni della terra, attribuiva alla bellezza il primato sopra la virtù e le ricchezze. La virtù infatti dipende da noi, la ricchezza non è sempre necessaria per esser felici, e ad ogni modo la fortuna può essere il frutto della perseveranza: ma la bellezza è un dono gratuito di Dio che possiamo perdere ed abusare, ma non potremmo mai procurarci con tutti i tesori di Creso e tutti gli sforzi dell'ingegno e dell'arte. La bellezza è proprio un raggio della divinità. Io me ne accorsi quando vi vidi, o madre mia; quando quel vostro divino sentimento di compassione e d'affetto era così bene espresso e significato dalla soavità delle vostre sembianze!
»Ringraziate Dio, madre mia, di quella perfetta corrispondenza che passa tra le doti del vostro spirito e le forme del vostro corpo. Non veggo perchè gli uomini e le donne ne vadano tanto orgogliose. È un dono gratuito della natura, al quale non ebbero alcuna parte, come non hanno colpa i deformi dei difetti che hanno portato nascendo....
»Povera miss! qual colpa d'origine, o qual dura fatalità la condannava, prima che nascesse, a portare quella stimmata obbrobriosa! Ecco un altro di quei perchè che ci tormentano senza pro! Ho letto qualche libro per sapere la causa di queste macchie mostruose, ma le mille ragioni che ne danno non mi sembrano concludenti.
»È caso, dicono i medici: ma questo non è rispondere. La mente umana insiste a voler trovare la causa di ogni effetto e il fine d'ogni cosa. E dove la ragione e l'esperienza non danno una soluzione plausibile, è lecito domandarla alla tradizione, alla fantasia, e creare un'ipotesi.
»Sarebbe ella condannata quella povera inglese ad espiare una colpa de' suoi genitori? Qual colpa? E che giustizia è codesta che punisce i figli per la colpa de' padri?
»Il libro che vanno leggendoci, e di cui vi ho parlato altre volte, ha una risposta soddisfacente, ammessa che sia la sua dottrina della trasmigrazione. L'autore di Terre et Ciel pretende che la vita de' nostri maggiori si riproduca in noi stessi, e che le anime umane passino per differenti corpi, modificate dai meriti e dai demeriti della vita anteriore. Non so se si possa ammettere questa ipotesi in buona coscienza: ma quanto al caso presente, si dee confessare che si avrebbe una base per conciliarla colla provvidenza e colla giustizia suprema.
»Il male che uno sopporta non sarebbe da considerarsi come un vero male, ma come un'occasione e uno stimolo al bene. Per esempio, la giovane di cui parlo, potrebbe espiare in questa vita la colpa della vanità e dell'orgoglio a cui l'anima sua sarà soggiaciuta nelle fasi precedenti, per cui passò. La espia imparando a sue spese, come le altrui sventure e gli altrui difetti si devono compatire, non dileggiare. Questo sentimento di pietà che prima le mancava, perfeziona ora l'anima sua e la rende degna di riprendere, dopo questo periodo di prova e di educazione, la bellezza di prima, resa più pregevole per la nobiltà de' pensieri e la bontà degli affetti.
»Compiango il Leopardi di non aver considerato le miserie umane sotto questo aspetto, certo più consolante, e forse più vero. Se vi è un Dio, non può essere certamente autore del male. Infinitamente giusto e infinitamente buono, non potrebbe permettere il male nè pur come pena dei tristi, se questa pena non tende e non giova a farli migliori. Il male dunque non è che un ostacolo al bene ed uno stimolo a conseguirlo, un appoggio a procedere innanzi nella via della perfezione. È come l'acqua che resiste più o meno alla barca che la va solcando: ma senza la resistenza che oppone, il remo non avrebbe appoggio, nè la barca medesima l'equilibrio. Io considero il male come un'inerzia. Bisogna vincerla: e per questo è necessario di agire, di muoversi, di combattere e svolgere nella lotta continua, le nostre facoltà naturali che, senza questo esercizio, languirebbero inerti.
»Mi spiace che non potrò più rivedere quella bella giovane. Vorrei farle parte di queste riflessioni e persuaderla a levare il suo velo, ad affrontare arditamente lo scherno del mondo, a porgere consolazione e soccorso a tutti quelli che sono più disgraziati di lei, a farsi un'anima bella e perfetta per l'abito della carità, onde rivivere in seguito felice di doppio merito e di doppia virtù!» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
XIII.
Cosimo ad Angela.
«Voi esigete ch'io vi scriva, e intanto mi raccomandate di non abbandonarmi alle mie visioni, alle mie fantasie, alle mie stravaganze. Ma come posso io fare altrimenti? Io non ho qui un giardino a mia disposizione, nè un gabinetto di storia naturale, nè un piccolo pezzetto di terra di mia proprietà per dare un asilo alle male erbe che gli altri calpestano! M'è d'uopo adunque di rivolgere la mia attenzione su questo intricato gineprajo de' miei pensieri, e coltivare e classificare le male erbe che germogliano nel mio spirito. Voi deste asilo e conforto alla parte di me materiale e deforme: siate altrettanto indulgente alle allucinazioni strane che formano la mia vita interiore. Buone o triste che siano, non sono esse alfine la parte più nobile di me stesso? Che cosa è il mio corpo se non l'organo spesse volte inetto ad esprimerle? Voi che amate il profumo, qualunque, dei fiori che dite esser l'anima loro, e vi affaticate a interpretare il canto degli uccelli e i suoni inarticolati degli animali, non disprezzate, vi prego, o madre mia, questi vaghi sogni incoerenti che possono essere il primo balbettare di un'anima infante in cerca della verità e della giustizia. Vorreste ch'io mi limitassi a darvi conto del mio stato di salute e dei progressi che va facendo la cura? Il medico è molto soddisfatto, e mi assicura che in qualche anno di letto di Procuste io mi farò dritto e bello come un Apollo! Quanto a me, malgrado la sentenza di Foscolo che considera la bellezza come il primo de' doni e la più invidiabile prerogativa dell'uomo, non posso persuadermi che tale vantaggio meriti di essere conquistato a sì caro prezzo. Io ho le mie idee su questo argomento, e se non temessi che aveste a darmi sulla voce un'altra volta, sarei tentato a comunicarvele. Ebbene! perdonatemi, e ascoltatemi. Sarà l'ultima volta ch'io vi trascino a queste indagini stravaganti e temerarie.
»Io credo, madre mia, che non riacquisterò mai nè la forza nè l'avvenenza. La mia infermità non è effetto d'un accidente: è un vizio di conformazione che ho portato nascendo. L'anima mia non ha saputo o non ha voluto fabbricarsi un corpo più sano e più bello. Ciò non può essere un effetto del caso, nè il decreto d'una cieca fatalità. Una legge giusta, universale, severa deve presiedere a questi fenomeni. L'anima nostra sceglie forzatamente gli elementi del suo corpo, e li sigilla della propria impronta, li configura ad imagine e similitudine sua, non secondo il capriccio del caso, ma secondo un istinto di giustizia che la ritiene in quelle condizioni che ha meritato nella vita anteriore, e che potranno meglio servirla a progredire nel bene.
»Poniamo il caso. L'uomo che mi ha generato era dominato da una smisurata vanità, da un orgoglio colpevole de' suoi vantaggi personali unito a un disprezzo ingiusto delle altrui infermità sì fisiche che morali. Egli riprodusse se stesso trasmettendo il fiore dell'anima propria ad un figlio. Questa parte di lui che si stacca dal cespo, improntata di questa viziosa abitudine, si assimila e si costruisce un corpo in armonia de' suoi proprj appetiti. Il padre è punito nel figlio in quella parte di lui che soppravvive al sepolcro.
»Se la punizione fosse sterile e dettata dalla vendetta, sarebbe ingiusta. Ma quest'anima, dotata d'un istinto progressivo, ha la facoltà di migliorare le sue propensioni, espia i trascorsi paterni che sono i suoi proprj trascorsi, e impara a sue spese la pietà delle altrui sventure, meritando così di essere assunta in una condizione migliore in un'altra fase della vita individua, legata alle misteriose evoluzioni della specie umana.
»In questa ipotesi, io non sarei dunque che un abbozzo destinato a perire o a riprodursi con altri organi, e con un corpo migliore, quando lo avrò meritato colla mia rassegnazione, colla mia pietà, colla mia carità verso gli altri.
»Non so se questa opinione sia ortodossa. Sottoponetela al senno teologico di don Arnaldo, il quale troverà nelle Scritture o nei Santi Padri, o almeno nei libri degli antichi filosofi qualche traccia di queste mie fantasie. Voi sapete ch'io sono docile a' suoi responsi, e mi sottometto volentieri a' suoi buoni consigli. Nel caso ch'egli trovi che la mia opinione sia conciliabile colla dottrina cristiana, o almeno con quella di Pitagora e di Platone, vi prego a comunicarmelo per mio conforto. Questa mia ipotesi mi sembra molto consolante per quegli infelici che sono costretti a portar la pena di colpe che in apparenza non hanno commesse.
»Tornando a me stesso, io mi considero dunque come un abbozzo, come uno sgorbio del mio spirito che, per virtù de' contrasti, e per propria dolorosa esperienza, s'addestra e si affatica a rendersi degno di scegliere e scolpirsi in avvenire un corpo migliore. Lasciatemi dunque subir la mia sorte. Questo periodo della mia esistenza sarà forse destinato a compiersi in pochi anni, forse in pochi mesi, e si compierà forse tanto più presto, quanto più avrò perfezionato me stesso, e meritato di rinascere sotto forme migliori.
»Mi torna involontariamente al pensiero la povera giovane inglese che ho veduto pochi dì sono. Vi scrissi nell'altra mia ch'io non reputava la solitudine di un chiostro il miglior partito a cui potesse appigliarsi. Altre considerazioni più mature mi fanno mutar pensiero.
»Mi sono domandato: E s'ella, vivendo nel mondo e trovandosi a contatto colla società, s'innamorasse di qualche giovane, che non apprezzasse le sue qualità morali, e rifuggisse dall'idea di corrispondere all'amor suo? Se avesse una rivale più avvenente di lei, o almeno non condannata a portar sulla fronte quella specie di stigma, oggetto di compassione e di riso? Se, nel conflitto di questi eventi ella venisse a disperare di se medesima e de' suoi fratelli, e l'anima sua, invece di prendere argomento dal suo difetto ad affrettarne il riscatto, si lasciasse trascinare a passioni irose, a colpevoli invidie, ad amare e sterili recriminazioni? Forse quella buona miss avrà misurato nel suo pensiero tutta la profondità di questo abisso, e diffidando delle sue forze per lottare nel mondo contro questi pericoli, avrà preferito di passare nella solitudine questa fase effimera di una esistenza immortale, che sa per istinto dover essere riservata ad assumere forme migliori.
»Mi astengo dunque dal condannare la sua risoluzione, almeno finchè non ne conosca i motivi. Deh! perchè non potete voi conoscerla, parlarle, consolarla, consigliarla? Forse a voi confiderebbe il secreto dell'anima sua, vi confiderebbe le sue illusioni, i suoi disinganni. Domanderò al direttore il suo nome e il suo domicilio. Chi sa? Il nostro incontro medesimo potrebbe non esser fortuito. Noi forse ci ritroveremo, e potremo consolarci e consigliarci a vicenda o in questa vita o nell'altra!
»Iddio le perdoni la terribile prova di amare senza essere amata! Meglio chiudere sterilmente questa esistenza interinale, e liberarsi da un corpo che non serve ai bisogni e agli istinti dell'anima nostra, lasciarlo dissolvere, e passare, nell'ora stabilita dalla provvidenza, ad informare un'argilla migliore.
»Non fate leggere, vi prego, questi miei sogni d'infermo al vostro circolo. Leggeteli solo al maestro, che non riderà delle mie fantasie. E se credete ch'egli ne rida, non comunicatele nemmeno a lui. Leggetele da sola e sul serio. Per ridicole che possano parere, vi assicuro che non le ho meditate ridendo. Non so perchè: ma dopo la visita di quella inglese, i miei pensieri, che si svolgevano senza pena nell'animo mio, e, non riferendosi che a voi, erano impressi di quella serenità che voi portate sulla fronte e nel cuore, ora invece pigliano una tinta più scura e più dolorosa.
»Non avevo mai pensato all'amore. Ora ci penso, a proposito di quella bella e sfortunata creatura, che forse è destinata a sentirlo senza poter ispirarlo. Che dura fatalità! Ma non vo' rattristarvi di più con queste supposizioni, e fo punto per oggi.
»P.S. Il direttore ignora il nome e l'abitazione di quella giovane. Onde forse non ci vedremo più, nè voi potrete conoscerla. Vivrà e morrà ignorata in qualche convento cattolico, aspettando la sua metamorfosi. Non ci pensiamo più. La sua visita e il breve colloquio avuto con lei mi avrà almeno servito a considerare più a fondo questa pagina della vita umana, e a mettermi forse sulla via di sciogliere un problema che resta ancora insoluto. Leggete, Angela, il libro che vi spedisco. Esso vi mostrerà l'origine di queste mie fantasie, ed aprirà forse un nuovo orizzonte anche al vostro pensiero.»
XIV.
Angela a Cosimo.
«Mio caro Cosimo,
»Entra, ti prego, nel mondo reale, nel mondo presente per leggere questa lettera, e per darmi chiara e netta la tua opinione intorno ai fatti e ai disegni che ti comunico.
»Non si tratta del mio giardino, nè delle mie piante, nè del piccolo mondo che nasce, cresce e si trasforma con esse. Si tratta di me stessa, si tratta di te e di un'altra persona che fu finora quasi straniera a noi due, e che può divenire o un vincolo di unione più intima, o una causa di guai per entrambi.
»Tu non t'imagini ch'io parli del conte Alberto. — Che ha egli di comune con noi? chiederai tu. Egli ebbe qualche parte, e fu occasione della mia venuta a Parigi e della cura a cui mi son sottoposto; ma non veggo che altri vincoli mi leghino a lui! —
»Sì, mio caro Cosimo, tu hai con esso rapporti strettissimi: rapporti che ignori, che forse sarebbe meglio per te l'ignorare, ma che le circostanze mi fanno un dovere di rivelarti. Volevo aspettare a manifestarti a voce un mistero che deve avere una grande influenza sulla tua vita: ma il maestro che ho consultato mi consiglia a scrivertene senza indugio, e, dopo matura riflessione, mi ci sono risolta.
»Ricorderai di avermi consegnato da parte della tua povera madre un cerchiellino d'oro che ho sempre portato in dito, ed un foglio piegato diligentemente nel mio borsellino che mi rendesti al cancello del parco. Non so se tu sappia che foglio è codesto. Tu eri troppo giovane quando rimanesti orfano, e forse tua madre, la tua prima madre, non ha creduto doverti palesare fin d'allora il secreto della tua origine. Ora sappi che quel foglio contiene una promessa di matrimonio e il riconoscimento anticipato di un figlio. Quel figlio probabilmente sei tu: il nome segnato a tutte lettere appiè di quest'atto, è quello del conte Alberto d'Andria.
»Io non vi ho fatto attenzione al momento che gittai gli occhi la prima volta su quella carta, nè potevo imaginare con qual disegno la povera moribonda mi avesse confidato quel documento. La contessa d'Andria veniva qualche rara volta a visitare mia zia, ma io sapevo appena ch'ella avesse un figlio che viaggiava da molti anni in lontani paesi. Più tardi, dopo la tua partenza, quel nome mi colpì, cercai nella mia mente dove l'avessi inteso o veduto, e mi risovvenne del foglio che mi avevi affidato. Compresi confusamente di che si trattasse, e ne feci parola a don Arnaldo, che rischiarò i miei dubbj e mi persuase allora a tacere, aspettando consiglio dal tempo e dalle circostanze.
»Ora il tempo e le circostanze m'impongono di dirti ogni cosa. Il conte d'Andria mi ha domandata in isposa. Mio padre non ha ancora risposto affermativamente, dicendo di volermi lasciar libera nella scelta: ma la zia trova convenientissimo questo partito, e fra lei e la contessa mi circondano di un vero assedio perch'io mi decida pel sì.
»Io non ho pensato mai fino ad ora al matrimonio. Le mie piante, i miei studj, le mie fantasie, l'amore che ho per mio padre e dirò ancora per te, riempirono finora il mio cuore, e non mi lasciarono nè tempo nè spazio per pensare a scegliere, come dicono, uno stato. Sono stata fino a quest'oggi felice: chi mi assicura se lo sarò in avvenire?
»Quanto al conte Alberto, pur convenendo de' suoi pregi personali e della sua varia cultura, non ebbi da prima alcuna propensione per lui. Esso è troppo facile a burlarsi di tutto e di tutti, troppo lontano dalle mie abitudini per andarmi a genio. Imaginandomi ch'egli avesse per me quella stessa indifferenza ch'io aveva per lui, ero lontana le mille miglia dal credere che le frequenti sue visite in casa nostra, e l'interesse che mostrava per te, tendessero a preparare il mio cuore a questo disegno. Dal momento ch'io seppi ch'egli aveva conosciuto ed amato la donna a cui tu devi la vita, la mia indifferenza fece luogo ad un altro sentimento ch'io non so ben definire. Talora mi sembra odiarlo come quello che potè abbandonare nella miseria la povera donna che ti fu madre: talora cerco nel mio cuore mille ragioni e mille scuse per attenuare la responsabilità di un tal fatto: l'età inesperta, l'orgoglio materno, mille altre circostanze più o meno probabili, e mi sembra ch'io potrei perdonargli ed amarlo ad una condizione che tu facilmente comprenderai.
»Sa egli che tu sei figlio della donna che amò, sa egli d'essere autore de' giorni tuoi? E in questo caso, è egli disposto a mantenere la sua parola e a riconoscerti per figliuolo? Il documento ch'io tengo in deposito non avrebbe gran forza, giacchè essendo fatto in età minore, il maestro sostiene che non sarebbe considerato come valido innanzi alla legge. Ma innanzi all'onore, innanzi alla coscienza, innanzi alla croce che cuopre il sepolcro della povera derelitta? Dinanzi a te finalmente, che con quel foglio in mano potresti chiedergli un nome, uno stato, una posizione nel mondo?
»Mio caro Cosimo, eccoti informato di tutto. Tu sei ora in grado di riflettere su questo fatto, ed è perciò che mi sono determinata a mandarti il documento che è divenuto un prezioso retaggio per te. Pensaci seriamente, e fammi sapere il partito che pensi di prendere.
»Io avrò la forza di resistere al doppio assedio che mi hanno posto d'attorno e domanderò tempo a risolvere. Terrò in guardia il mio cuore contro ogni avversione ed ogni affetto, finchè non sappia che cosa tu abbia risolto di fare. Senza il consiglio del maestro, alla cui prudenza ho creduto dover conformarmi, saprei a quest'ora che cosa pensare del conte Alberto. Gli avrei mostrato quel foglio, e gli avrei letto in volto, se il suo cuore è onesto e degno d'amarmi. Una sera che la conversazione era caduta sulla misera sorte di certe persone, egli si lasciò andare ad un giudizio, che mi parve troppo duro e crudele verso le donne. Presa da un sentimento d'indignazione, io pronunciai il nome di tua madre, e gli chiesi che opinione avesse di lei. Egli impallidì e rimase un poco perplesso. Ma si rimise ben tosto e mutò discorso. Sua madre, che se n'era avveduta, colse il momento opportuno e si alzò per andarsene. Le cose restarono lì. Ma non rimarrò certo a lungo con questo dubbio sul cuore. Non aspetto che la tua risposta per domandargli una spiegazione sul tuo conto, e saprò allora qual giudizio potrò formare di quei sentimenti di probità che ha sempre sul labbro.
»Quante novità, caro Cosimo! Tu puoi diventare fra pochi giorni il figlio, ed io la moglie del conte d'Andria. Quel dolce nome di madre che tu sei solito a darmi, ti sarebbe egli stato ispirato da un sentimento profetico dell'avvenire? Non ti pare che in tutto questo risplenda la mano della provvidenza? Non basterebbero questi fatti per convincer d'errore il nostro medico che attribuisce quasi tutti gli avvenimenti al caso e ad una cieca fatalità? — M'incontro fortuitamente in un povero bimbo maltrattato da' suoi compagni: mi pongo in sua difesa, gli do i mezzi per soccorrere la sua povera madre ammalata. Questa muore, e mi fa depositaria del povero orfano e del documento che ne attesta l'origine. Il babbo ti riceve in casa, tu cresci con me, ed una singolar simpatia ci rende l'uno all'altro sì cari. Più tardi tuo padre, guidato da un intento che lascio ad altri l'incarico di qualificare, ci capita in casa, ti vede, e senza chieder conto di te, senza saper chi tu sia, contribuisce forse a renderti la salute, e certo a svolgere la tua intelligenza in codesto istituto. Un progetto di matrimonio sta per legare per sempre i nostri destini: e tutto ciò dipende da te, da una tua parola, dal modo onde sarà ricevuta! Ci sarebbe da perdere la ragione, se non vedessimo in questo concorso di circostanze una mano invisibile che conduce gli umani destini, e li subordina ad un fine benefico.
»Ad ogni modo, qualunque sia per essere la soluzione di questo nodo, vi è una cosa che resterà: l'affetto ch'io ho per te, e il conforto di aver obbedito all'istinto che mi parlò in tuo favore.
»Tu mi hai dato il nome di madre, e tua madre io sarò, quand'anche il sentimento di padre mancasse in colui che te lo deve per obbligo di natura. Sì, Cosimo mio, tu mi sarai fratello, amico e figliuolo, come vorrai, sotto qualunque nome ti piacerà di chiamarmi.
»Prendi dunque la tua risoluzione senza preoccuparti del tuo avvenire. Sia che tu risani, sia che resti nella situazione di prima, io ti ho posto nel numero degli esseri sfortunati ai quali ho consacrato le mie più tenere cure; e questo solo titolo, ancorchè altri tu non ne avessi, mi ti farà sempre caro sopra gli uomini più ricchi e più accarezzati dal mondo.»
XV.
Non è difficile imaginare l'impressione che questa lettera ebbe a fare sull'animo mobile e sui nervi delicati di Cosimo. Le rivelazioni ch'essa conteneva erano tali da scuotere fortemente anche il carattere più tetragono. L'orfano, il trovatello ritrovava impensatamente l'autor de' suoi giorni: il povero paria si risvegliava figlio di un uomo ricco, nobile, ragguardevole. Dinanzi alla natura, se non dinanzi alla legge, egli era Cosimo d'Andria!
Una fiamma d'orgoglio e di gioia balenò ne' suoi occhi, e suffuse d'improvviso rossore le sue guance e la fronte. Steso sul suo letto di clinica, si trovò tutto bagnato di sudore, e così fuor di sè che non sentiva e non ricordava nè manco la steccatura e la posizione forzata e violenta in cui era.
Rilesse più volte la lettera del suo angelo tutelare, e il documento importante che vi era unito. Ad ogni lettura nuovi lumi sprizzavano e nuove idee germogliavano nel suo cervello. Tutto ad un tratto, chi fosse stato presente, avrebbe veduto quel vivo colore far luogo ad una subita e mortal pallidezza. Alla gioia di aver trovato un padre, succedeva il timore che quest'uomo potesse ricusare di riconoscerlo. Non aveva egli abbandonata la madre, non l'aveva lasciata morire d'inedia e di vergogna sul suo letto di dolore? Non s'era egli forse allontanato dal paese per isfuggire alle conseguenze di questo legame? Ora qual probabilità che, reduce da sì lunghi viaggi, e seccatoglisi il cuore fra tante avventure e fra lo spettacolo de' vizj umani, fosse per venire a migliori sentimenti, e volesse abbracciar come figlio in faccia alla società un povero gobbo, ludibrio della natura e della fortuna?
E tuttavia ei non poteva metter in dubbio nè pur un istante d'essergli figlio. Tutto ad un tratto gli tornavano in mente certe tronche parole udite di tempo in tempo dalla sua povera madre. Quando l'aveva mandato all'asilo perchè imparasse a leggere, gli aveva detto che a suo tempo gli avrebbe fatto conoscere una scritta da cui poteva dipendere il suo destino. Evidentemente la carta di cui la povera donna intendeva parlare era quella che gli stava allora dinanzi agli occhi. E non gliel'aveva mostrata prima, poichè all'età in cui trovavasi quando morì, non aveva notizia alcuna del conte, e non lo credeva ancora maturo per comprenderne l'importanza. La buona donna, consegnandola ad Angela, era stata ispirata da un istinto quasi divino.
Un animo portato a risalire sempre alle cause misteriose dei più piccoli fatti, non poteva non ravvisare in questa catena di eventi l'azione d'una provvidenza suprema. — Mi farò ben riconoscere, — gridò egli — mi farò ben riconoscere! Egli troverà, se non nelle mie fattezze, certo nell'anima mia la traccia di un'origine non volgare. —
Ma qui un'altra serie di pensieri si avvicendava nella sua mente. Ricordava sua madre ridotta alla miseria, alla solitudine, obbligata a sopportare l'insulto della gente onesta per aver creduto alla lealtà di un alto personaggio, per averlo amato, per essere divenuta la madre del figlio di lui! E il suo viso cominciò a rinfiammarsi, ma questa volta di collera e d'indignazione. — Io lo condurrò — diss'egli — sulla fossa dove riposa la benedetta spoglia della madre mia, ve lo farò inginocchiare, l'obbligherò a domandarle perdono e a dichiarare su quella croce d'averla sposata dinanzi a Dio. E vi scriverò sopra una pietra: «Qui giace la contessa Teresa d'Andria, morta di dolore sul fior dell'età!» —
Poi tornava alla lettera d'Angela, la rileggeva e cercava d'indovinare quello che non v'era espresso abbastanza chiaro: cioè la maniera con cui considerava quest'uomo. — L'amava ella? Poteva ella amarlo e dargli amnistia del passato, quand'anche egli avesse voluto e potuto mitigarne le conseguenze? Ma egli era sì grande e sì bello! Aveva un'aria di dignità e di bontà che comandava il rispetto e l'amore. Egli è fatto, pensava Cosimo, per non temere, per non trovare rivali nel mondo. —
Ma qui un sentimento ancora più amaro, un sentimento ch'egli provava per la prima volta, s'impadroniva di tutto lui. Era un sentimento che teneva dell'avversione, dell'odio, un sentimento d'invidia e di gelosia. Non ch'egli potesse qualificarlo per tale, non che fosse in grado di confessarlo nè pure a se stesso. No. Il povero Cosimo non aveva ancora coscienza di aver per Angela altro affetto che quello di fratello e di figlio. Or come avrebbe potuto riconoscere e odiare un rivale nell'uomo che tutto ad un tratto gli si presentava qual padre? Tuttavia, chi volesse dare un nome a quel misto di sospetto e di ripulsione che sentiva nell'animo e turbava la sua imaginazione, non potrebbe chiamarlo altrimenti che gelosia. L'unione possibile di suo padre con quella che nominava con sì soave espressione d'affetto la madre dell'anima sua, doveva parergli il sommo della sua felicità, la suprema delle sue speranze: eppure questa combinazione non gli era mai venuta alla mente. Egli odiava l'uomo che stava per usurpare nell'animo di Angela un affetto al quale s'era abituato per modo da considerarlo come un suo dritto. Quel vago sentimento di simpatia che aveva risentito per quella bella straniera che gli era apparsa, trovava ora il suo compimento. L'imagine di quella giovanetta e quella di Angela si confondevano in uno come il profumo di due fiori diversi in una sola fragranza. Gli è che tutta la sua natura si era risentita a questa subita rivelazione, e tutti gli affetti, fino allora confusi e come nuotanti in un'atmosfera ideale, aveano acquistato nome e realtà. Egli usciva dal mondo dei sogni per urtarsi contro le scabrosità della vita effettiva: era come un ente fantastico che prendesse ad un tratto consistenza e figura, moto e passione.
Questa trasformazione di Cosimo, preparata lentamente dalle sue letture, dalle sue riflessioni, dal progresso medesimo dell'età, doveva compiersi e manifestarsi alla lettura di quei fogli, come al tocco d'un magico talismano. Egli era, un'ora prima, fanciullo: ora si sentiva già uomo. Domandò che gli fossero tolte le fasciature: balzò dal letto, gli parve d'essere cresciuto d'un palmo, d'esser forte e robusto, e capace di difendere i suoi diritti e le sue ragioni. I suoi compagni di clinica furono tutti maravigliati di codesta insolita vivacità che mostrava. Lo credettero sulle prime in preda al delirio, perchè parlava ad alta voce, in italiano, come avesse presente qualche persona. Il sorvegliante della sala ne avvisò il direttore che accorse e gli chiese perchè avesse abbandonato il letto più presto del solito. Cosimo rientrò allora in se stesso e rispose con calma che certe notizie che aveva ricevute d'Italia l'avevano commosso e turbato, sì che avea sentito il bisogno di levarsi e di muoversi.
Si pose allora alla sua scrivania per rispondere alla lettera d'Angela. Ma credendo di ravviare il filo de' suoi pensieri, la febbre sopita si ravvivò. Non fu possibile che trovasse parola da mettere in carta. Si levò da sedere, si pose a misurare a gran passi la camera, e tutto ad un tratto, come avesse preso una risoluzione, esclamò: — Bisogna andare! Che scrivere? che scrivere? Bisogna andare. —
XVI.
Questa irruzione di pensieri, di affetti, di sentimenti diversi ed insoliti, non venne meno un istante nell'animo di Cosimo, finchè non fu giunto a Milano.
Nel primo viaggio che fece, due anni innanzi, fanciullo ancora, inconscio, per dir così, di se stesso, passava dolcemente dalle realtà della veglia alle tranquille allucinazioni de' sogni: ora ei tentò inutilmente di prender sonno. Allora egli era come sospeso nel vago, come lanciato nell'azzurra libertà de' cieli senza alcun legame di sangue che lo tenesse avvinto alla terra: ora egli sapeva di avervi radice, ora conosceva suo padre, l'autore de' giorni suoi, dal quale però non potea prevedere come sarebbe accolto fra poco.
Come gli parvero lunghi quei due giorni e quelle due notti che spese in viaggio! Quanto maledì la catena delle Alpi e le altre circostanze che aveano ritardato all'Italia il vantaggio delle strade di ferro! L'anima sua avrebbe voluto isolarsi dagli organi materiali e volare, come l'elettrico in un istante lungo le fila metalliche, alla sua mèta! Passate le Alpi, passate le pianure subalpine, ei vide il Po, rivide il Ticino! Attraversò sull'imperiale della tardigrada diligenza i verdi ed irrigui prati lombardi. Ma invano cercava cogli occhi Milano, invano sperava discernere fra la densa atmosfera gli aerei pinnacoli del poetico Duomo!
Alla fine, dopo averlo cercato da lungi, se lo trovò dappresso. Milano non è, come alcune città d'Italia, fabbricato sopra un piano eminente. Ti sorge improvviso dinanzi agli occhi, come un'oasi dell'arte e della civiltà. Ecco Milano! Ecco Milano! fu il grido unanime di tutti i Lombardi che si trovavano nei varj scompartimenti della vettura. Chi si soffregò gli occhi, chi rassettò i suoi vestiti, chi cercò il suo cappello, chi raccolse il bagaglio per non perdere un minuto all'arrivo: tutti ravvivarono, rasserenarono il viso, come segue dopo un lungo e nojoso viaggio, quando ci avviciniamo al luogo desiderato.
Cosimo divise cogli altri per un momento l'ansietà della gioja. Ma tutto ad un tratto si rabbrunì. Dove andrebbe egli? Dove dirigerebbe i suoi passi? A qual porta picchierebbe a quell'ora così d'improvviso? Egli non aveva annunziato il suo ritorno ad alcuno, nè pure ad Angela. Non era probabile che il direttore dell'istituto ortopedico si fosse affrettato a darne conto alla famiglia Lanzoni: nè, se pure l'avesse fatto, la lettera sarebbe potuta giungere prima di lui. L'idea fissa che l'avea dominato era quella di andar difilato a suo padre, di farglisi conoscere, di abbracciarlo con infinito amore, o giudicarlo con tutta la severità di un orfano a cui si ricusa il diritto più sacro. Ora, al momento di presentarsi al conte d'Andria, al momento di squadernargli dinanzi agli occhi quel documento che stringeva nelle mani convulse, l'animo, prima così risoluto, esitò. La diligenza si arrestò nel vasto cortile della stazione: tutti erano discesi, e s'avviavano in direzioni diverse: egli restava ancora incerto e come trasecolato al suo posto. Riscosso alla voce del conduttore, discese, e domandò se la famiglia Lanzoni dimorasse molto lontano. Nessuno gliene seppe dare contezza. Lasciò il suo fardello nell'officio del corriere, ed uscì alla ventura. Raccapezzando le vecchie reminiscenze, riuscì ad orientarsi: dico vecchie reminiscenze, poichè nei due anni che stette assente, egli erasi fatto più adulto di sei: tanto i sentimenti e le idee s'erano svolte e mutate in quella sua rapida pubescenza. Alla risoluzione che avea presa d'indirizzarsi alla casa del conte, era succeduta, immediatamente la volontà istintiva di bussare a quella casa, dov'era già stato accolto qual figlio. Quasi senza saperlo, seguendo una guida interiore, si trovò dinanzi al cancello delle male erbe. Sperava vedervi il suo angelo, ma trovò il loco deserto. Stette alcun tempo come smemorato guardando, senza vedere alcuno, senza udire alcuna voce, nè alcun rumore. Era infatti troppo tardi, perchè alcuno si ritrovasse in giardino senza un motivo. Girò allora a sinistra, e riuscì alla porta anteriore della casa. La portinaja durò fatica a ravvisarlo, ma com'egli l'ebbe chiamata per nome, conobbe la voce, e gittò un grido di meraviglia. Salite precipitosamente le scale, la porta dell'appartamento si spalancò, e il povero orfano si trovò quasi svenuto nelle braccia di Angela, che, a caso, o per un presentimento secreto, era venuta ad aprire.
Egli non arrivava inatteso. Il direttore avea scritto e la lettera era giunta fin dal mattino. Angela non si era punto maravigliata del partito che aveva preso, e fu contenta di saperlo a tempo per prevenire il padre e la zia della causa vera di quel repentino ritorno. Il padre si fece serio, e rimproverò la fanciulla di avergli celata fino allora una circostanza sì grave. La zia andò sulle furie, volle negare o porre in dubbio la realtà di quel documento. Poco dopo era uscita di casa, per interpellare il conte e la contessa sopra questo imbroglio che veniva improvvisamente ad attraversare i suoi fini, o almeno a complicare la situazione. Checchè ne fosse, dopo una mezz'ora appena, ecco giugnere la contessa in casa Lanzoni, e poco appresso il conte Alberto medesimo. Il padre e la zia di Angela volevano tener celato il ritorno di Cosimo, tanto per tastare il terreno, e vedere qual fosse il consiglio migliore. Ma Angela insistette presso il padre, perchè si venisse in chiaro senza indugio della verità della cosa, e si sapesse a dirittura la risoluzione del conte. Codesta era, diceva ella, la pietra del paragone alla quale voleva sottometterlo prima di dichiararsi per il sì o per il no. Il signor Lanzoni non volle però accondiscendere a tanta precipitazione. Egli conosceva un po' meglio le cose del mondo, e nell'interesse stesso di Cosimo riserbò a se medesimo la cura di trattar quest'affare a quel tempo e a quel modo che avrebbe giudicato migliore. Cosimo dunque dovette rassegnarsi, ed Angela, dopo di essersi lungamente intertenuta con lui, anzichè prender parte, come soleva, alla conversazione, si ritirò nella sua stanza, meditò qualche istante, e si pose a scrivere al conte la lettera seguente:
«Signor conte,
»Ho promesso a mio padre di non trovarmi presente alle spiegazioni che questa sera probabilmente vi sarebbero chieste intorno al povero giovanetto che vi deve la vita. Se non mi aveste fatto l'onore di domandarmi in isposa, mi rimarrei forse straniera a questa dilicata questione. Ma non avendo risposto con un rifiuto, e non avendo ancora preso un partito definitivo intorno alla proposizione che mi faceste, crederei mancar di franchezza lasciando ad altri la cura di palesarvi l'animo mio.
»Io credo, signor conte, alla provvidenza. Credo ad una legge suprema che collega fra loro i casi e le azioni che pajono più fortuite. Il secreto dunque che venni a conoscere, i sentimenti di affezione che mi stringono a questo infelice che mi fu confidato, l'essermi da una parte trovata sua protettrice e sua madre, mentre voi mi proponevate, forse senza saperlo, di unire i vostri destini co' miei, tutto ciò mi sembra condotto dalla mano di Dio, e preparato ad un fine ch'io rispetto prima ancor di conoscerlo pienamente.
»Da quattr'anni e più io porto in dito un anello, povera e dolorosa eredità che mi venne da una donna che amaste, e che certo vi amò. Con questo anello, che dovette essere pegno e sacramento d'affetto, io ebbi in mia mano un foglio sottoscritto da voi in un'epoca, nella quale la prudenza mondana non aveva soffocato gl'impeti generosi del cuore. Questa carta e il secreto che cela, furono un mistero anche per me fino a questi ultimi giorni, in cui, per una strana associazione d'idee, il vostro nome mi balenò alla memoria, e mi trovai depositaria di un documento che vi risguarda sì davvicino.
»Non so qual sia la forza legale di questa promessa, nè credo che Cosimo, il mio figlio adottivo, sia disposto a prevalersene dinanzi alla legge. La sua prima idea, com'egli stesso mi ha detto, era quella di presentarsi a voi senz'altro contrassegno che il nome della sua povera madre. Poco gl'importa di acquistar un nome nel mondo, ed uno stato più comodo e indipendente. Quello che gl'importa, quello che è condizione di vita per l'anima sua, gli è d'aver trovato il cuore e l'affetto d'un padre, e di poter abbracciare senza vergogna e senza rancore l'autor de' suoi giorni. Io credo, conte Alberto, ch'egli non s'inganni nella sua aspettazione. Io medesima ne sono così certa, che non credo necessario d'aggiungere le mie preghiere, nè di porre il pronto riconoscimento di questo povero sfortunato come condizione ad un vincolo, dal quale voi dite dipendere la vostra felicità.
»Aggiungo solo che non potrei mai riporre la mia nel legarmi ad un uomo che potesse esitare un istante a compiere un dovere sì sacrosanto.
»Qualunque sia la piega che avrà preso o sarà per prendere il colloquio di questa sera, io non volli attenderne l'esito, prima di aprirvi tutto intiero l'animo mio. Iddio voglia ch'io non abbia a pentirmi di aver secondato un primo istinto dell'animo. Ora aspetterò con calma la vostra risposta.
» Angela Lanzoni. »
XVII.
Il signor Lanzoni era uno di quegli uomini buoni che riserbano la loro energia alle circostanze un po' gravi della vita, diversi in questo da certi faccendieri che, a sentirli, sono tutti fuoco e tutti cordialità; ma ne usano e abusano tanto nelle occasioni più frivole, che ne mancano poi sul più bello. Codesto è fuoco di paglia che poco dura e poco riscalda; mentre l'altro è la fiamma viva e durevole di un ceppo verde, che è un po' lento ad accendersi, ma poi ti consola a lungo e ti giova.
Non appena vide entrare il conte Alberto, se gli accostò con aria franca e severa, e lo pregò di passare nel suo gabinetto dove aveva a intertenerlo di cosa importante.
Il conte rispose con un semplice inchino contegnoso ed affabile, e passarono entrambi in uno stanzino appartato, dove il padre di Angela soleva rinchiudersi pe' suoi studj ed affari. Il conte non ignorava nè il ritorno di Cosimo, nè i sospetti che pesavano sopra di sè: sapeva che presto o tardi una spiegazione diveniva necessaria. Era dunque preparato alla lotta, e piuttosto che rimetterla ad altro tempo, accettò volentieri il colloquio che doveva risolverla. Aspettò dunque la prima parola del suo interlocutore senza inquietudine e senza curiosità.
Questi entrò senza esitazione nell'argomento. Rifece in poche parole la storia del povero orfano, per qual accidente, orfano e sconosciuto, l'aveva accolto in sua casa, educato e curato fino allora a sue spese. — Voi stesso — disse — vi avete contribuito coi vostri consigli, colle vostre commendatizie a Parigi. L'interesse, l'affetto che mostraste per un incognito, per un trovatello, non verrà meno, io spero, quando saprete che questo giovanetto vanta qualche attinenza più intima con voi.... —
Il conte Alberto affettò una certa sorpresa, e fissò gli occhi in aria d'interrogazione nel signor Lanzoni.
— Il giovanetto — continuò questi — avea perduto la madre in quei giorni medesimi ch'io lo raccolsi. Questa disgraziata si chiamava Teresa, una guantaja che voi non avrete certamente dimenticata. Essa lasciò per solo testamento e retaggio all'infelice fanciullo un cerchiellino d'oro, e un documento sottoscritto Alberto d'Andria... una promessa di matrimonio quando aveste raggiunta l'età maggiore... —
Il conte non potè impedire che il sangue gli colorasse di subito rossore la fronte: ma nel medesimo tempo si strinse nelle spalle, e sorridendo nell'imbarazzo visibile della sua posizione: — Mio caro suocero, — rispose — voi siete un uomo di mondo: foste giovane voi stesso ed esposto a tutte le seduzioni, a tutti i pericoli della gioventù. Non crederei che voleste dare più d'importanza, che non ne merita, ad una scapataggine da fanciullo. D'altronde, quella povera donna è morta da oltre a quattr'anni, e non veggo a che si volesse o potesse invocare una lettera scritta in un momento di passione e....
— Conosco il mondo — riprese il signor Lanzoni — e sono stato giovane anch'io, come dite. Ho imparato pur troppo, non per mia propria esperienza, grazie a Dio! ho imparato che le povere donne hanno torto a fidarsi alle parole e alle promesse dei loro amanti, massime se minorenni. Ma questo non giustifica e non iscusa l'abuso che si fa della loro credulità. Se la povera Teresa conservò con tanta cura quel foglio, e lo lasciava con tanta solennità all'infelice orfanello, certo ella avea preso sul serio una tale scrittura, e voi non gliel'avrete rilasciata senza un perchè.
— Ma in fine.... non veggo bene a che tendono le vostre parole, mio caro signor Lanzoni....
— Dite davvero? — ripigliò questi. — Io sperava invece che mi avreste compreso senza attendere più lunghi discorsi. Speravo che il cuore vi avrebbe posto sul labbro una parola affettuosa e onorevole.... speravo che mi avreste domandato di vedere quello sfortunato, che l'avreste stretto al seno come figliuolo, riparando, comecchè tardi, con questo riconoscimento, l'incomprensibile abbandono in cui lasciaste la madre sua!... Se mi sono ingannato... ditelo... Io non intendo farmi il procuratore legale di questo infelice, e cesso all'istante da ogni ingerenza in un affare che non m'appartiene. Perdonate l'imbarazzo e il fastidio che vi recai, se non alla qualità di suocero che mi avete prematuramente attribuita, almeno all'affetto quasi paterno che questo povero orfano mi aveva ispirato, prima di saperlo vostro figliuolo....
— Mio figliuolo! Questa è una supposizione che manca affatto di fondamento. La madre sola, se fosse in grado di parlare, potrebbe avere un qualche titolo ad attestarlo. Non veggo ch'egli abbia gran somiglianza con me, nè il sangue si fece sentire, ch'io sappia, nè in me nè in lui, quando ci siamo incontrati la prima volta qui in questa casa medesima... quando non voleste interpretare in questo senso l'interesse affatto gratuito che ho mostrato per esso. Buon Dio! Non vorrei farmi accusatore d'una donna che potè per qualche momento ottenere la mia affezione.... ma alfine, io non vantavo alcun diritto all'esclusivo amor suo... e altri padri potrebbero forse reclamare con egual titolo....
— Basta — interruppe il sig. Lanzoni; — veggo ch'io mi sono ingannato sulle vostre disposizioni e sul vostro carattere. Io non conobbi la madre del mio pupillo: ma non mi dà l'animo di sentirne insultata la memoria dall'uomo che si dichiarava pronto a farla sua sposa appena le leggi glielo avessero consentito!...
— Voi siete ingiusto, signor Lanzoni. Voi spingete le cose agli estremi. Vediamo. Vi sono legami che possono parer naturali e indispensabili in certi momenti della vita, ma che un po' di esperienza e di riflessione ci dimostra impossibili. Dareste voi la vostra Angela al primo pezzente che si presentasse alla vostra porta, a quello, per esempio, che mi vorreste appioppare per figlio? Codeste sono utopie. Mi guardi però il Cielo dal voler affatto abbandonare questo infelice. Sono pronto a dividere con voi l'ufficio e la spesa della sua educazione. Gli troveremo un ricovero....
— Un'educazione, un ricovero egli lo ha già trovato senza di voi. Ma egli vuole un nome, vuole un padre, vuole riabilitare la dubbia riputazione che il vostro abbandono ha fatto a sua madre!... Egli ha lasciato Parigi per questo, voleva correre a casa vostra con quel documento alla mano, e gettarsi nelle vostre braccia, nella fiducia di trovare in voi l'affetto e il cuore di un padre. Io non volli permetterlo: ho voluto prima parlarvene. Ora conosco che ho fatto bene: ho evitato uno scandalo, e salvato quel povero visionario dalle dolorose conseguenze di un subito disinganno. Andate pure, signor conte. Tutto è rotto fra noi.
— No, signor Lanzoni. I nostri rapporti, i nostri disegni non ponno rompersi per questo incidente. Vedremo qual forza daranno i tribunali a quel documento. Io son pronto a rassegnarmi alla legge: se pure, riflettendo più maturamente alla cosa, non vedrete voi stesso la convenienza ch'io provvegga in altro modo alla sorte di questo infelice, senza pregiudicare alla prole legittima ch'io speravo e spero ancora ottenere da vostra figlia.
— Mia figlia! Non v'illudete, signore. Quand'anche io potessi transigere su questo punto, voi la conoscete ben poco, se v'imaginate di trovarla più condiscendente di me. D'altronde, io l'ho lasciata libera di se stessa. Non disporrò mai nè del suo cuore nè della sua mano senza consultare la sua volontà. Ma io la conosco più di voi. S'ella fosse stata presente, come voleva, al nostro colloquio, sapreste a quest'ora la sua risoluzione.
— Ma insomma, vorrebbe ella mai consentire a ricevere in casa come figliuolo quel povero contraffatto?
— Ella gli fu madre finora di fatto. Essa medesima era depositaria di quella lettera di cui mi fece un mistero sin qui. Ella la rimise giorni sono a Cosimo senza consultarmi. La sua intenzione non può dunque esser dubbia ad alcuno....
— È dunque un rifiuto mascherato?...
— Forse non è che una prova a cui volle sottomettere il vostro cuore. Il vostro cuore ha parlato.
— No, signor Lanzoni. Non è il mio cuore che ha parlato finora. È la ragione, la fredda ragione. Lasciatemi riflettere; riflettete voi pure alle conseguenze di questo fatto. Vedremo domani. —
Il padre di Angela crollò il capo, ma non volle chiudere ogni adito ad una miglior conclusione di questa vertenza. Entrarono ambedue nella sala dove le due vecchie signore stavano intertenendosi sul soggetto medesimo, mentre il dottore e don Arnaldo giuocavano in disparte agli scacchi.
Rimasero un quarto d'ora prendendo il tè, senza aprirsi nè da una parte nè dall'altra, e senza trovare un altro soggetto alla conversazione. La contessa fissava ora il signor Lanzoni, ora il conte Alberto per indovinare il risultato del loro colloquio: ma non essendo riuscita ad appagare la sua curiosità, domandò il cappello e lo scialle, e invocò il solito pretesto dell'emicrania per ritirarsi prima del tempo.
Il conte le diede il braccio e partirono.
XVIII.
Mentre da una parte e dall'altra si tentava di preparare una soluzione soddisfacente all'intricato viluppo, Cosimo, che n'era divenuto il protagonista, non poteva perdonare a se stesso di aver affidato ad altri la cura di troncare il difficile nodo.
Chiuso nella sua stanza, con quel documento prezioso spiegato dinanzi a sè, non poteva risolversi a coricarsi, non isperava di prender sonno, non potea riposare il pensiero in un'idea, in un partito qualunque. Sapeva che in quel momento medesimo si trattava del suo destino, che una parola del conte Alberto stava per decidere, o aveva forse deciso una questione che oggimai era divenuta vitale per lui.
Misurando a gran passi la camera, tentava di richiamarsi le oscure rimembranze dell'infanzia, evocava nella sua immaginazione le sembianze, le parole, gli atti dell'infelice sua madre. Vi fu un momento che questa evocazione divenne per esso quasi reale: vedeva sul suo letticciuolo la povera donna estenuata e morente; udiva le sue raccomandazioni, i suoi consigli supremi! Tutto ciò gli avea fatto in quell'epoca un'impressione abbastanza profonda: ma non aveva allora che dieci anni, e la vita del pensiero era appena per lui un leggiero barlume. La natura risparmia all'età prima dell'uomo l'intensità dei dolori morali che soverchierebbero le sue forze. A poco a poco quell'impressione s'era attenuata nell'animo suo. Entrato nella casa di Angela, la vista delle nuove cose, lo studio, le occupazioni svariate aprirono alla sua mente un orizzonte più vasto. L'immagine della madre gli si presentava bensì tratto tratto, ma senza distorlo dalle sue solite cure. Ora, nello stato febrile in cui si trovava, in quella forzata solitudine, con quella lettera fatale dinanzi agli occhi, l'illusione fu sì completa, che superò l'effetto che aveva un dì risentito dalla realtà. Inginocchiato alla sponda del letto, si coperse colle palme gli occhi e restò lungamente immerso in una specie di assopimento: si riscosse inondato di lagrime, in uno stato di esaltazione difficile a descriversi. Fra i singhiozzi che scuotevano profondamente il suo petto, proferiva tronche parole di doloroso affetto. Si sarebbe detto che avesse perduto la madre in quel momento medesimo, o che almeno in quel momento sentisse per la prima volta la grandezza della perdita fatta.
Tutto ad un tratto si alzò, si asciugò gli occhi, mutò pensiero, come si vergognasse della debolezza che l'avea sopraffatto. — Piangere? — sclamò, — piangere? Mia madre è morta: le mie lagrime non potrebbero già richiamarla alla vita. D'altronde, io ho un padre, ho un padre da qualche giorno. Io lo conosco, io voglio darmi a conoscere a lui come figlio. Perchè mi sono lasciato persuadere a commettere ad altri questa prima rivelazione di due cuori? Questa non può essere materia di trattative, non può essere argomento di transazioni legali. Questa lettera! Ah! se i miei diritti non avessero altro fondamento che questo, se i miei rapporti coll'autor de' miei giorni non fossero che un diritto dinanzi alla legge, che m'importerebbe oggimai? O il cuore parlerà al cuore, e la voce della natura si farà sentire in entrambi, o noi resteremo stranieri, ed io morrò orfano come vissi, e non tarderò molto a raggiungere la sventurata che mi portò nel suo seno. — Andiamo.... — E si levò per uscire dalla sua stanza. Ma nell'aprire la porta s'accorse che la lucerna ardeva ancora, e ch'egli avea passato la notte senza coricarsi. Aprì la finestra. Era l'alba. Spense allora il lume e stette a guardare i primi albori dell'orizzonte. Il parco avvolto ancora di una nebbia trasparente si spiegava dinanzi al suo sguardo. Riconobbe e salutò ogni albero, ogni macchia, ogni cespo di rose. Una lieve brezza, che gli spirava nel volto, rinfrescò le sue guance e la fronte accesa dal bollor della febbre. Quella calma ineffabile della natura si propagò a poco a poco nell'animo suo. La fantasia diede luogo alla riflessione, e s'accorse che bisognava attendere qualche ora prima di potersi recare alla casa del conte. Si gettò adunque così vestito sul suo letticciuolo, e gustò un'ora di un sonno leggiero e balsamico che ristorò le sue forze e calmò l'eccitamento febrile che l'avea scosso.
Svegliatosi a giorno chiaro, non attese il parere nè il consiglio degli ospiti suoi, temette non ponessero ostacoli impreveduti alla sua determinazione, uscì, s'avviò senza più a casa d'Andria. Bussò, gli fu aperto, salì le scale, chiese del conte Alberto. Gli fu risposto essere ancora nel suo appartamento: tornasse più tardi se volesse alcuna cosa da lui. Chiese d'attendere, dicendo che aveva una cosa importante a communicargli, quanto prima il potesse. Il domestico non aveva, a quanto pare, alcuna istruzione in contrario; onde gli fu permesso di rimanere e di attendere nel vestibolo interno della casa. Mezz'ora dopo fu chiamato e introdotto nell'appartamento del conte Alberto che l'aspettava, preparato più o meno alla scena che non poteva evitare.
Il conte se ne stava seduto in veste da camera dinanzi a un leggìo. La sua faccia era o pareva tranquilla come d'uomo che avesse preso già il suo partito. Cosimo gettò per istinto un rapido sguardo sopra quel volto, e sentì come una mano fredda stringergli il cuore. Il suo primo movimento era stato quello di gettarsi alle ginocchia, tra le braccia di colui che sperava poter nominare col più sacro dei nomi: ma il suo aspetto freddo e impassibile lo arrestò. Pallido, perplesso, tremante, trovò appena la forza di balbettare il nome di padre, e cadde semivivo sulle ginocchia. Il conte non avea preveduto questo esordio: il suo cuore ne fu scosso suo malgrado, si alzò, si avanzò verso Cosimo, e lo sollevò da terra visibilmente commosso. La natura avea parlato e sconcertati inopinatamente i calcoli dell'egoismo. Il giovanetto, aprendo gli occhi, s'incontrò con quelli del padre suo, e diede in un pianto dirotto che compì l'opera e fu per decidere del suo destino.
Ma improvvisamente la contessa, avvertita senza dubbio di questa visita, entrò nella stanza. Arrossì di collera e di dispetto vedendo l'attitudine e indovinando le disposizioni del conte. — E voi — prese a dire — e voi, figlio mio, vi lasciate sorprendere dagli intrighi di codesto visionario? Davvero che non metteva conto di viaggiare per tanti anni l'Europa, per prestarsi con tanta bonarietà ad una tale commedia. Non abbiamo noi fatto abbastanza per questo povero aborto? —
Cosimo si levò impetuosamente a queste parole e stava per rispondere alla nobile donna: ma Alberto non gliene lasciò il tempo. Pregò la madre a lasciarli soli un istante, e l'assicurò che nulla avrebbe fatto o risolto senza dipender da lei. La contessa non osò insistere, e gettando su Cosimo uno sguardo minaccioso e sprezzante, si ritirò nella stanza vicina, lasciando socchiusa la porta.
Cosimo s'accorse dell'impressione sfavorevole che questo incidente aveva lasciato nel conte Alberto; ma non si perdette d'animo, e tratta di tasca la lettera sottoscritta dal conte: — In nome di mia madre — sclamò, permettetemi di chiamarvi padre; chiamatemi figlio una volta, e tutto sarà dimenticato. Mia madre vi perdonerà dal cielo, ed io vi adorerò sulla terra senza esigere, senza chiedere, senza desiderare altra cosa.
— Calmatevi, — rispose il conte. — Io son disposto a fare per voi le parti di padre. Non ho aspettato la presentazione di quel documento per darvi qualche prova dell'interesse che sento per voi. Quel documento non potrebbe conferirvi alcun titolo nuovo alla mia benevolenza. Io ho conosciuto la sfortunata che vi ha dato alla luce; non vo' negare di aver avuto per essa un attaccamento che mi potè indurre ad un passo irriflessivo... a promettere una cosa che non dipendeva da me il mantenere. Vi hanno forse fatto credere che la legge avrebbe riconosciuta la validità di quella promessa...
— No, no — interruppe Cosimo. — Nessuno mi ha fatto credere questo. S'io non ho alcun diritto sul vostro cuore, non ne spero, non ne imploro altri. Prendete, signore: ecco il testamento della povera madre mia: ecco la lettera che mi ha fatto conoscer mio padre. Che voi mi riconosciate o no come figlio, i miei sentimenti non possono esser diversi da quel che sono. Credetemi, padre mio, non vengo a chieder da voi nè titoli, nè fortuna. Fossero anche scritti nel modo più valido e più legale su questo foglio i diritti più sacri e più incontrastabili, ecco il conto che ne farei. — Così dicendo lo lacerò in cento pezzi e lo gettò dall'aperta finestra. — Ora non vi è più — riprese — nessun indizio, nessuna prova della mia nascita, dei nostri rapporti. Per questo io sono venuto nella vostra presenza, eludendo la vigilanza e opponendomi forse alla volontà de' miei protettori. Ho lasciato parlare il mio cuore. Mi appello al vostro, e aspetto ai vostri piedi, qualunque sia per essere, la parola che farà di me o un figlio felice o un orfano sventurato. —
Il conte non resistette alla toccante eloquenza di quest'atto e di queste parole. Sollevò un'altra volta da terra il povero Cosimo, lo strinse carezzevolmente fra le braccia, e le sue labbra mormorarono involontariamente il nome di figlio.
La contessa era stata spettatrice di questa scena dalla porta socchiusa. Ella aveva veduto con gioja fatto a brani quel foglio ch'ella avrebbe comperato a prezzo d'oro. Oggimai le pareva d'esser sicura da ogni pericolo, da ogni scandalo, da ogni processo. Non pensò dunque ad intervenire un'altra volta in quel colloquio che credeva senza conseguenza.
Ma ella s'ingannava di tutto punto. Cosimo, obbedendo a un impulso del cuore, ad un istinto di generosità naturale, avea tocco sul vivo l'animo impreparato del conte. Questi si era munito di tutte le ragioni e di tutti i cavilli per ribattere una domanda legale: ma non avea saputo resistere al grido della natura, alla voce arcana del sangue, a quella prima fonte di bontà che l'amor di Teresa gli avea aperto nel cuore. Tornò per un momento giovane, affettuoso, immemore della vanità e delle fredde convenienze sociali. Trovò nella fronte, negli occhi, nel nobile atteggiamento di Cosimo una reminiscenza toccante della donna che aveva amato, e un lampo di somiglianza con se medesimo. Non pensò, non s'accorse che aveva dinanzi, che stringeva fra le braccia un povero contraffatto che la cura ortopedica avea reso poco diverso da quel di prima. In una parola il ghiaccio era rotto: Cosimo avea vinto.
— Vanne — gli disse il conte, — ritorna a' tuoi protettori. Di' loro come t'ho accolto. Oggi verrò a trovarti colà, e c'intenderemo d'accordo sul partito da prendersi per l'avvenire. —
XIX.
Reduce a casa Lanzoni, Cosimo, fuor di sè per la gioja, domandò di Angela. Era nel suo giardino, nel giardino delle male erbe. Corse a lei difilato, e tutto acceso in volto e raggiante per l'ottenuto trionfo, le gridò da lungi, appena la vide: — Madre mia, madre mia! Ho un padre; ho ritrovato mio padre! —
Entrarono entrambi nella capannuccia di paglia che sorgeva presso al cancello di ferro e sedettero. Egli ne avea ben mestieri. La novità e la grandezza delle emozioni aveano soverchiato le sue deboli forze. Stette un buon quarto d'ora senza poter raccontar chiaramente alla sua madre adottiva ciò che aveva ottenuto. Quando narrò del documento lacerato e gittato dalla finestra, Angela lasciò cadere due grosse lagrime, ed abbracciò il povero e generoso suo allievo con tutta l'energia dell'affetto. Egli l'avea indovinata, avea giustificato le sue speranze, le sue previsioni; era degno di lei!
Quel bacio, quell'amplesso, quella tenera e viva espansione della bella giovanetta posero al colmo, raddoppiarono la gioja, la felicità dell'orfano fino allora diseredato, e che ora tutt'ad un tratto toccava l'apice dei suoi desiderii. Questa nuova febbre di giubilo che commosse l'anima sua, insueta a tali emozioni, si dipinse negli sguardi, nella fronte, in tutti i lineamenti del viso, sì che in quel momento ei brillò di una bellezza morale, di un'espressione così ineffabile, che sorprese la sua protettrice medesima, avvezza pure a considerarlo attraverso il prisma della sua materna benevolenza. Ah! l'umana natura ha bisogno della felicità per manifestarsi nella sua vera sembianza!
Cosimo taceva guardando la sua giardiniera, quella che l'avea coltivato, con una tale espressione di tenerezza, che tutti gli affetti più dolci di figlio, di fratello, di amante vi apparivano e splendevano insieme.
Fu il punto culminante della sua vita. Vi è nel successivo sviluppo di un fiore un istante brevissimo in cui le sue foglie, i suoi stami, il suo profumo prendono un'armonia di forme, un'intensità di vita ineffabile. Un momento dopo tutta quella grazia, quella freschezza, quella espansione declinano. Quel fiore ha vissuto. Lo stesso avvenne di Cosimo.
Giacinto venne a interrompere questa breve felicità recando alla padroncina una lettera che era stata portata poc'anzi.
Era una lettera, come ognuno facilmente indovina, del conte Alberto.
È facile presupporre che la lettera di Angela non era stata straniera all'accoglienza che Cosimo aveva ottenuto quella mattina. Ma, pur lasciando alla natura il merito principale di quel risultato, il conte non era tale da lasciarsi sfuggire una buona occasione per farsi un merito presso alla desiderata fanciulla. Le scriveva dunque che il foglio che avea trovato rientrando la sera antecedente avea mutate le disposizioni in cui l'aveva lasciato il colloquio avuto col padre di lei. Come non riconoscer per figlio un essere qualunque ch'ella avea risguardato ed amato per tale? Chiedeva dunque il permesso di considerare quel giovanetto come un vincolo comune, come un'arra della sua adesione all'adempimento dei suoi più vivi desiderii. Nella giornata egli si proponeva venire per prendere, d'accordo col signor Lanzoni, le necessarie misure intorno al formale riconoscimento di Cosimo; gradisse intanto l'omaggio che a lei ne faceva, e l'espressione rispettosa de' suoi sentimenti. La lettera era garbata e piena di quella eleganza di forme che l'uso della società sa trovare; pure, in quel momento non poteva che far discendere dal loro cielo quei due cuori poetici. Ella fece ad Angela l'effetto che farebbe su noi una polizza da pagare dopo un breve ed effimero godimento.
Angela parve rassegnarsi alle conseguenze che prevedeva, e cercare negli occhi di Cosimo e nella espressione della sua felicità la ricompensa di un sacrificio che prevedeva inevitabile in un tempo più o meno lontano.
Ma gli occhi di Cosimo dimostravano in quel momento una ben diversa emozione. Un'idea che fino allora non si era formulata nella sua mente, un'idea che le speranze e i timori di quei giorni avevano soffocata nell'animo suo, brillò allora come un lampo sinistro alla sua fantasia. Egli non osò pronunciare una sola parola: ma il mortal pallore che coprì le sue gote, il sudor freddo che bagnò la sua fronte spaventarono la povera Angela che, senza vedere il fondo della cosa, ne intese abbastanza per sentirne ella stessa un brivido involontario per tutte l'ossa.
Tutte queste emozioni così diverse, così straordinarie avrebbero sopraffatto una più forte natura che non era quella di Cosimo. Ei soccombette. Angela, spaventata, dovette richiamare Giacinto che lavorava poco lontano, e tutti e due sorressero Cosimo, e lo condussero nella sua stanza in uno stato di crisi nervosa che durò lungo tempo prima di permettergli l'uso de' sensi. Il signor Lanzoni ne fu avvertito, e informato della visita che avea fatta e delle conseguenze felici che ne aveva ottenute, attribuì quel deliquio alla gioia improvvisa, allo sforzo fatto, alla notte vegliata. Obbligò il giovanetto a coricarsi, a prender riposo, e riporre in calma i suoi spiriti. Permise ad Angela di rimanere presso all'infermo, finchè avesse mostrata disposizione a dormire, e, senza dirlo, mandò a chiamare il dottore.
Non andò molto che Cosimo si assopì, ma non fu già questo quel sonno benefico che ristaura e risana. Fu un nuovo periodo, una nuova fase della crisi che l'avea colto. Angela, che per un momento lo credette addormentato davvero, si dispose sulla punta de' piedi a lasciare la stanza. Ma un gemito sordo e straziante partì dal petto profondo dell'ammalato. — Non partire, non lasciarmi, Angela della mia vita. Pochi momenti mi restano a vivere sotto queste forme disgraziate e già prossime a sciogliersi. Rimani! Tu sola mi potresti comprendere! Tu sola attenuare la pena del mio passaggio a una nuova esistenza.... —
Angela si fermò come fosse sotto l'influenza di un comando magnetico. Si assise accanto al letto di Cosimo senza parlare, e pose la sua mano fresca e lieve sulla fronte di lui secca e ardente per febbre. A poco a poco i lineamenti dell'ammalato si ricomposero in una calma serena. La pelle sotto la mano di Angela si coprì di un dolce madore. Quella specie di catalessi divenne sonno, ma il viso e la bocca continuarono ad atteggiarsi a varia espressione, come uno specchio dinanzi al quale passassero varie e diverse prospettive, ora amene e ridenti, ora selvagge ed ingrate.
Cosimo continuò a parlare come sognando, ma senza dirigere il discorso alla sua suora di carità. Ei vedeva certamente nei suoi sogni la bella inglese della quale avea tenuto parola in una delle sue lettere, e parea l'esortasse alla solitudine. — No, Evelina, — diceva — voi non potreste mai esser riamata dell'amore che meritate. Quella macchia originale lo impedirà. Rassegnatevi a passare la fase presente del viver vostro senza le divine consolazioni di un amor corrisposto. Che fa? Se avrete espiato con opere degne il peccato materno, rivivrete presto più bella ed immacolata un nuovo periodo vitale: avrete uno sposo che v'ami, e figli sani e leggiadri ad imagine vostra. Vivere senza amore.... non è vivere.... ma amare senza poter esser riamato è un inferno. Dio vi guardi dalla disperazione!... — Qui ci fu un'altra pausa durante la quale il sonnambulismo di Cosimo s'interruppe, o almeno non si manifestò con modi e con parole sì lucide.
Angela assisteva con un profondo accoramento a queste involontarie rivelazioni di una passione, che in istato di veglia il povero Cosimo non avrebbe mai palesata. Credette che il contatto della sua mano fosse causa di quella specie di allucinazione, e si provò a ritirarla. Ma i lineamenti dell'infermo si contrassero tosto dolorosamente, onde la buona giovanetta non osò insistere, e tornò alla prima attitudine. Da lì a un istante i primi fenomeni di calma si riprodussero, e il sonniloquo rivolse a lei la parola quasi vegliando, ma senza aprir le palpebre, e senza aver coscienza del proprio stato. — Ascoltatemi — disse — ascoltatemi bene. Vi racconterò una storia meravigliosa. Avete voi conosciuto mia madre? La chiamavano nella contrada la bella Teresa. Era guantaja di professione, ma meritava di essere una regina. Tutti quelli che la vedevano n'erano presi d'ammirazione e d'amore. Fra questi.... un giorno.... una domenica la vide il contino. Erano fatti l'uno per l'altra: giovani e belli ambidue. Il conte diceva nel suo cuore: Oh! se tu fossi nata nobile e ricca! La Teresa diceva dal canto suo: Oh! se tu fossi un buono ed onesto operajo! Ebbene: il conte divenne operajo e la sposò. Ma non potè cambiare l'animo suo. L'animo rimase sempre orgoglioso, e si vergognò ben presto di aver potuto amare e sposare una povera guantaja! Egli era tutto pieno di sè, e superbo sopra tutto della propria bellezza. Un giorno che il suo animo era più che mai compreso da un ingiusto disprezzo verso l'umanità.... gli nacque un figliuolo, che fu il figliuolo del suo disprezzo, e lo animò del suo spirito impregnato di questa mala e perversa abitudine. Ne nacque una mala erba, una euforbia velenosa, uno sterpo infecondo nel quale i succhi vitali circolavano a stento, e il germe imbozzacchito non poteva svolgersi nè in fiore nè in frutto. Il conte arrossì dell'opera sua, e si vergognò della donna che senza saperlo gli avea dato mano a compirla.... La donna morì, il figlio morì.... Sì, ve lo giuro, morì! Che poteva egli fare sulla terra? Egli non poteva nè amare, nè essere amato. Le sue labbra non avrebbero mai potuto proferire la parola amore.... —
Dicendo queste parole gli occhi del povero delirante s'impregnarono di lagrime: nè queste lagrime furono sole. Angela pianse anch'essa silenziosamente, guardando con soave espressione d'amore l'essere straordinario che avea da canto.
Noi non oseremo commentare nè quello sguardo, nè quelle lagrime. La compassione d'un'anima delicata e gentile è così vicina all'amore! Ma se nello stato di tensione magnetica, le anime si comunicano mutuamente i lor sentimenti, Cosimo dovette aver avuto in quel momento, se non la certezza, almeno una consolante speranza d'essere amato. Checchè ne fosse, la posizione di Angela cominciava ad essere imbarazzante. Non ci avea pensato fino a quel punto, ma dopo i singolari vaneggiamenti del giovanetto, il natural pudore della buona fanciulla cominciava a colorar le sue gote e a renderla più perplessa che mai.
Fortunatamente il dottore sopraggiunse, accompagnato dal signor Lanzoni e dal conte Alberto. Cosimo, benchè assopito, se ne accorse, prima ancora che Angela udisse i lor passi sopra le scale. Entrati che furono nella stanza, chiesero ad Angela come avesse riposato l'infermo. — Da oltre un'ora — rispose — è assopito a quel modo. Ma non è un sonno tranquillo. Delira sovente e parla fra sè. —
Il medico lo guardò attentamente, gli sentì la fronte, gli tastò il polso, senza che l'infermo aprisse gli occhi o facesse il più piccolo movimento. Era una vera catalessi. Senza essere soverchiamente credulo alle meraviglie del magnetismo animale, il dottore aveva avuto sovente occasione di esaminarne i fenomeni, e li avea creduti degni di studio coscienzioso e profondo. Era stato informato dal conte Alberto dello stato di esaltazione in cui l'avea posto il colloquio della mattina: e benchè ignorasse i particolari del fatto, non durò fatica a farsi una diagnosi esatta della condizione dell'ammalato. Gli fece respirare dell'etere, e ben presto lo scosse da quel morboso assopimento in cui lo vedeva.
Risentitosi il poveretto girò intorno gli occhi spaventati come colui che fino allora non aveva avuta coscienza di sè, nè del luogo dove giaceva, nè delle persone che avea dattorno. Domandò che ora fosse, e veduto il sole alto, ebbe un'idea di aver dormito e sognato fino dalla sera antecedente. Ma la presenza del conte Alberto lo rassicurò. Gli tese la mano, che quegli strinse affettuosamente nella sua. Ma entrato nella realtà della vita, sentì più forte il suo male, e i sintomi della febbre cerebrale si mostrarono sì manifesti, che il medico ordinò tosto un'emissione di sangue.
Cosimo si prestò a questo e agli altri trattamenti energici a cui fu sottoposto con una rassegnazione affatto indolente e passiva. Si sarebbe detto, ch'ei fosse già preparato a soccombere al morbo improvviso che l'avea colto.
XX.
Abbrevieremo più che si possa questa parte dolorosa del nostro racconto. Che giova insistere sui particolari di un'agonia di cui tutti oggimai possono prevedere lo scioglimento!
Il nostro povero amico rappresenta in se stesso la lotta di quei due principj che continueremo a nominare lo spirito e la materia. Questa misteriosa antinomìa che si manifesta più o meno in tutti gli esseri senzienti, era giunta in lui al massimo grado di tensione e di violenza.
Seguendo a chiamare le cose coi nomi che tutti intendono, la battaglia dell'anima e del corpo era in esso una trista ed ereditaria fatalità. Svolgete in un organismo difettoso e viziato la forza morale: questa, non potendo giugnere a crearsi organi nuovi, o frangerà il suo vaso d'argilla, o imprigionata, suo malgrado, ritorcerà la sua energia sopra se stessa, esagererà il suo principio, e proromperà in delirio e in pazzia.
Se quella fatal lettera non fosse mai caduta nelle mani di Angela, e Cosimo avesse continuato ad ignorar la sua nascita, egli sarebbe rimasto contento nell'umile sua condizione, o forse, a forza d'ingegno, di studio e d'amore, sarebbe giunto a crearsi un'esistenza poetica in cui la stessa singolarità avrebbe avuto le sue gioje e le sue secrete consolazioni.
La sua sventura, quella che fece più duro e fatale il conflitto, fu di trovare nel proprio padre un rivale, un rivale che non potea confessare, e contro cui non poteva e non voleva combattere. Si rassegnò dunque a cedere il luogo, e a morire.
Angela era troppo inesperta della vita, troppo semplice e buona per prevedere le conseguenze di questa lotta. Sentì coll'istinto del cuore di che si trattava, e più volte fu sul punto di dire al povero nano: — Consolati, io t'amo, io sarò quello che tu vorrai, madre, sorella, moglie, amica, la compagna in una parola della tua vita, l'angelo ispiratore de' tuoi pensieri e de' tuoi sentimenti. — Ma l'arrestava il timore che una tale rivelazione avesse a creare nel povero infermo speranze ed affetti impossibili. Suo padre, sua zia avrebbero essi mai consentito a questa unione stravagante e contraria ad ogni convenienza sociale? D'altronde, ella aveva implicitamente offerta la sua mano al conte Alberto, come condizione, come premio al riconoscimento di Cosimo; riconoscimento ch'ella credeva fino allora l'unico desiderio del suo allievo, l'unico bisogno dell'anima sua. La sua malattia, i fenomeni bizzarri che l'accompagnarono, le scoprirono un altro dolore, un altro ostacolo alla felicità di Cosimo, nè a questi sapeva trovare rimedio efficace, nemmeno col sacrificio di tutta se stessa.
Esitò a lungo se dovesse astenersi da ogni espansione affettuosa, o se fosse più utile far conoscere a quello sventurato che il di lei cuore avea indovinata la sua passione, e non era lontano dal corrispondervi. Così passarono i primi giorni senza ch'ella potesse risolversi a nulla, e la malattia, malgrado tutte le cure de' medici, s'aggravò per modo che si disperava oggimai di poter combatterla e vincerla.
Il conte Alberto era assiduo al letto dell'ammalato come un padre verso l'unico e ben amato figliuolo. L'affetto di Angela era stato d'esempio e di stimolo al suo. Essi lo amavano come fosse davvero un frutto del loro amore reciproco. Cosimo accettava con eguali dimostrazioni di gratitudine le cure di entrambi: ma l'occhio di Angela non avea tardato a scoprire una involontaria amarezza nello sguardo e nell'accento di Cosimo, quando il conte accostavasi a lei e le parlava dell'avvenire che li attendeva.
Questa scoperta la determinò ad aprire a Cosimo tutto l'animo suo. Un giorno ch'era sola con lui, e lo vedeva meno abbattuto del solito, gli entrò a parlare del progetto di matrimonio che pareva così sorridere al conte, gli disse che questa unione le pareva accettabile solo perchè avrebbe continuato ad essergli madre, e a prestargli tutte le cure di cui abbisognava il suo stato.
Cosimo sospirò, e non rispose.
— Perchè non rispondi? — soggiunse Angela. — Tu sai bene ch'io mi son consecrata tutta intera alla tua felicità: tu sai bene che il conte Alberto non sarebbe mai divenuto mio sposo, se non a patto di accettarti qual figlio. E se un altro nome, che quel di madre, ti fosse sembrato più desiderabile, il mio cuore non avrebbe avuto alcuna ripulsa, alcuna ripugnanza a dartene un altro. Tu sai, Cosimo, che le anime nostre si sono intese fino dal primo momento, e che nessun desiderio potrebbe sorgere nella tua, che non avesse un'eco nell'anima mia. Io sono perfettamente libera, o Cosimo, e non consentirò ad alcun legame, se non a patto ch'esso possa contribuire alla tua felicità. —
Cosimo fissò i suoi grandi occhi malinconici sopra Angela, aspirò con tutti i sensi queste parole che rivelavano ad un tempo il suo segreto, e realizzavano il più vivo de' suoi desiderii. — Angela, è egli vero ciò che mi dici? Non lusinghi tu forse con queste parole le ultime e assurde aspirazioni di un moribondo? Amarti, sapermi amato da te! . . . . . . . . . Come hai tu saputo indovinare questo secreto, ch'io sarei morto mille volte piuttosto di lasciartelo intravedere?
— Io lo so perchè amo non meno di te . . .
— Ah! taci, taci per carità . . . che nessuno lo sappia, che nessuno lo immagini mai! I miei voti sono soddisfatti, io ho raggiunto il fine della mia vita! . . . È troppo tardi, è troppo tardi! . . . — E qui si abbandonò ad un pianto dirotto che non lasciò più luogo alla voce, ed egli non potè più articolare parola.
Dopo un lungo intervallo, raccogliendo con supremo sforzo i proprj pensieri, e prendendo un tuono grave e solenne: — Angela — soggiunse — tu dài ora l'ultima prova alla nuova dottrina dell'immortalità di cui ti ho scritto e parlato sovente. Io son vicino più che non credi a toccare le soglie di quel mondo sconosciuto che rischiarerà una nuova fase della nostra esistenza. Posto fra il confine d'una vita che mi sfugge, e di un'altra che m'attende, io non posso più dubitare d'una giustizia futura che completerà la presente. La terra è un purgatorio, ove noi scontiamo le colpe passate, e ci affiniamo per meritare un migliore destino. Vi sono vite che compiono armonicamente la loro carriera, quando l'anima e i suoi organi esterni si corrispondono mutuamente. Sono quei germi ben naturati che fioriscono e fruttificano secondo la loro specie crescendo d'anno in anno in forza e in bellezza. Ma ve ne sono altri che, per mancanza d'opportuno alimento, e per cause che l'occhio umano non può discernere, abbozzano e muojono prima di avere il loro completo sviluppo. Io sono uno di questi ultimi. L'uomo è un germe che ha la coscienza di se medesimo, che ha un principio libero e attivo di cui deve render conto a se stesso e al supremo ordinatore della natura. Tu hai elevato l'anima mia a tanta nobiltà di sentimenti, di pensieri e d'affetti, che non potevano più svilupparsi negli organi difettosi che ho sortito nascendo. Qualunque sia la legge misteriosa che mi condanna ad una morte immatura, io non me ne lagno e non accuso l'ingiustizia della fortuna. Sento che io non posso morir tutto intero. Una parte di me, la parte migliore, sopravviverà alla presente esistenza, e si creerà un corpo più acconcio ad elevarsi e progredire nell'immensa scala degli esseri umani. Questa fu per me fino ad ora un'ipotesi consolante: ora è divenuta una fede. Il tuo amore mi mancava a persuadermi di quest'alta e universale giustizia: tu me lo accordi.... ebbene! io muoio contento e sicuro di rinascere migliore! —
Non era la prima volta che Angela udiva ragionare di questa palingenesi umana. Ella vi prestava attenzione come ad una graziosa e soave ipotesi, come ad una spiegazione razionale del dogma della vita avvenire. Ma giammai fino allora Cosimo aveva fatta una professione così esplicita della sua fede. Ella la udì col rispetto che si deve alle parole supreme d'un essere amato che sta per trovarsi al cospetto del misterioso avvenire. Si contentò di consigliare a Cosimo di non abbandonarsi più che non convenisse a queste divinazioni dell'infinito che stancano la mente e tolgono al cuore il necessario riposo. Non pensasse ad abbreviare la presente esistenza prima del tempo...
— No, no — riprese Cosimo. — Vedi, io sono oggimai tranquillissimo. Aspetterò senza dolore e senza impazienza la legge del tempo. Dammi quella pozione amara che ho ricusato finora di prendere. Ora non ne sentirò più l'amarezza. Vo' prolungare quanto potrò questa fase della mia vita che tu hai sparso di tanta dolcezza e di tanti conforti! —
Malgrado questa calma apparente, il medico sopravvenuto più tardi trovò cresciuta la febbre, e indebolita la fibra dell'ammalato. Egli non lo diceva ancora, ma era facile leggere ne' suoi sguardi accigliati che poca speranza oggimai più restava di guarigione.
Così passarono ancora parecchi giorni. Cosimo aveva ottenuto di lasciare il letto, e di coricarsi sopra di un seggiolone che faceva collocare dinanzi alla finestra del giardino, per vedere le cime degli alberi e gli uccelli svolazzare di frasca in frasca pieni di quella vita che a lui veniva insensibilmente mancando.
Una sera, mentre il sole tramontava sereno, e colorava dei caldi suoi raggi le bianche e leggiere nuvolette che vagavano sull'orizzonte, Cosimo chiese di vedere il conte Alberto. Egli venne in compagnia del padre di Angela. Prendendo allora la mano di questa che oggimai non l'abbandonava che per brevissimi istanti: — Mia madre — disse — mi vi ha lasciato in eredità. Io non sono stato un tesoro per voi, ma voi siete stata un tesoro inapprezzabile per me. Io me ne vado consolato dalle vostre cure, dal vostro affetto. Ma mi resta ancora a compiere una parte della mia missione su questa terra. — Così dicendo pose la mano di Angela che stringeva in quella del padre suo. — Ecco — egli disse — il testamento del povero Cosimo. Amatevi, e come mi foste madre e padre finora o d'affetto o di sangue, conservate entrambi questo carattere anche dopo la mia partenza. Chi sa? Io rinascerò sulla terra per completare la mia esistenza. Forse rinascerò vostro figlio, e il primo frutto della vostra unione sarà forse una riproduzione della mia vita sotto auspicj e con elementi migliori. Chiamatelo Cosimo in memoria di quello che oggi vi lascia. A rivederci! —
Angela piangeva dirottamente. Il conte Alberto e il signor Lanzoni avevano anch'essi umidi gli occhi di pianto. Le due mani che il moribondo aveva congiunte rimasero strette, ed egli spirò di lì a poco contemplando quell'unione come un pegno delle nuove speranze che la morte vicina facea germinare nell'anima sua!
NOTE.[5] Iapelli, celebre architetto padovano, autore del caffè Pedrocchi, e ordinatore di parecchi giardini all'inglese, che si ammirano ancora nel Veneto.
LA FIDANZATA DEL MONTENEGRO.
I. Il Vladica.
Ho conosciuto, non sono molti anni, a Trieste questo singolar personaggio. Principe e vescovo della montagna nera, riuniva in sè i due poteri, spirituale e civile della repubblica; e com'era il miglior tiratore del paese, e viaggiava armato come un aiduco, si potrebbe dire senza esagerazione che cumulava cogli altri il poter militare. Giammai capo d'uno Stato fu più assoluto e più compiuto di lui.
Aggiungasi che la natura pareva l'avesse fatto a bella posta per ciò. Ei superava di tutto il capo i begli uomini che l'attorniavano: qualità ragguardevolissima in dritto principesco, poichè la Storia Santa ci dice di Saule ch'ei dovette a cotale procerità della persona d'esser eletto re d'Israele. Egli era un asinajo della tribù di Beniamino in quell'epoca che il popolo di Dio, volendo, come le rane d'Esopo, esser retto da un re, scelse, d'accordo con Samuele, il più grande e più robusto uomo della tribù.
Ignoro se la cosa si passasse a quel modo, quando la repubblica del Montenegro si mutò in principato, e cominciò la dinastia dei Petrovich. Dirò solo che il Vladica ch'io conobbi, era ad un tempo il Saule e il Samuele di quei paesi, e univa a' due caratteri sopraddetti alcun'altra qualità che forse mancava al primo re d'Israele, poichè egli era oratore e poeta egregio, e parlava il più puro illirico della costa. Inoltre, siccome nelle sue frequenti escursioni in Europa aveva esperimentato i vantaggi della civiltà moderna, gli era nata in mente la singolare idea di farne partecipi coloro di cui governava l'anima e il corpo.
L'impresa non era delle più facili: ma pure, se dobbiam credere a lui, ci riuscì mettendo in opera certi argomenti ch'io non vo' giudicare. Prima di tutto ei pensò a circondarsi di un senato che lo aiutasse nell'opera. Poi, vedendo i paesi nostri riboccar di giornali e di libri, che governavano l'opinion pubblica, ei comperò una stamperia e la installò nel suo palazzo medesimo. Quivi si fe' giornalista e editor responsabile d'un giornale politico e letterario destinato a spandere pel paese i fiumi dell'eloquenza e i lumi della civilizzazione. Credo che fosse il primo libro stampato in quei paraggi. Il Vladica credeva aver raggiunto il suo scopo, ma non tardò ad avvedersi che mancava una cosa: mancava cioè nei montenegrini il potere e la volontà di approfittarne. Pochissimi di essi sapevano leggere.
Che poteva egli fare il povero Vladica? Trovar maestri che volessero recarsi costà per fondarvi un collegio, costava troppo per le sue finanze. Onde cambiò d'idea. Pregò i principi suoi mecenati, l'imperator delle Russie, l'imperatore d'Austria e il re di Baviera a voler ammettere qualche dozzina di giovani montenegrini ne' lor collegi di Vienna, di Monaco, di Pietroburgo. Credo infatti che ne ottenesse alcun che, e forse questi giovani missionarj indigeni avranno portato nella montagna nera gli elementi della letteratura e della filosofia cosacca e tedesca. Per disgrazia il Vladica non campò tanto da raccogliere il frutto dell'opera sua.
Ma non fu questo il solo espediente a cui ricorresse mentre fu in vita. Egli avea riconosciuto la grande utilità dei viaggi: e come non poteva far viaggiare tutto il suo popolo in persona, si limitò a farlo viaggiare in figura. Voglio dire che viaggiò egli stesso per sè e per altri. Ogni anno a Trieste, ogni due anni a Vienna, ogni tre a Pietroburgo. Riuscì per tal modo a far conoscere in quelle tre capitali i pregi e i difetti del suo principato, sul quale correvano e corrono ancora idee così storte. Quanto a lui, convien dire che ne traesse profitto. Egli ritornava sempre più gentile e aggraziato; mercè alle dame di quei paesi che s'erano incaricate di educare il suo cuore a' più nobili affetti.
Io lo conobbi al teatro una sera che madamigella Fitz-James ballò la Gisella. Il principe vescovo andò in visibilio e compose in onor della silfide parigina un grazioso ditirambo ch'io tradussi subito in versi italiani, e pubblicai ne' giornali, ciò che mi valse l'amicizia e la stima dell'illustre poeta. Credo che m'avrebbe decorato d'un ordine, ma non ce n'era alcuno nel principato. Poco male per esso e per me. Io mi ricorderò sempre della sua affabilità, del suo brio, della sua nobile alterezza, e del piacer che provava a parlarmi del suo paese e de' suoi disegni filantropici. — Voglio — ei diceva — che la montagna nera divenga uno Stato modello.
— Come farete voi, monsignore — diss'io. — Voi siete solo, e non avete a' vostri ordini tutti i mezzi di cui dispongono gli altri sovrani.
— Farò ciò che posso — rispose. — Tirerò al segno colla mia gente, beverò con essi, mi farò un poco simile a loro, per piegarli alla mia volontà, e impadronirmi del loro spirito. Così ho fatto finora, e così son pervenuto ad ammansare i più fieri. Se insorgeranno difficoltà troppo gravi, farò un viaggio, e piglierò nuova forza per continuar nell'impresa. —
Devo a questi colloqui col Vladica quel poco ch'io so sulla natura e sui costumi del Montenegro. Noi siamo così uniformi e fatti a stampo in Europa, che c'è molto da guadagnare a conoscere certe razze primitive e selvagge; se non altro per variare i nostri racconti, e uscire dalla consueta monotonia. Noi siamo come le medaglie e le monete, che a forza di passare di mano in mano e di tasca in tasca, hanno perduta l'impronta. Di qui nasce che ci annojamo, e diventiam nojosi ognor più. Un giorno ch'io deplorava questa disgrazia e declamava con maggior fuoco contro la monotonia della vita prosaica, il buon prelato ghignò sotto i baffi piacevolmente e promise di darmi un saggio di quella poesia primitiva e un po' selvaggia di che gli parevo sì vago.
Ed ecco l'origine del racconto arcivero ed arcimontenegrino che ho l'onore di sottomettere alla cortese attenzione dei lettori.
II. La camicia insanguinata.
Il Vladica non era punto socialista.
C'era però un'eredità che avrebbe volentieri abolita fra la sua gente. Vo' dire l'eredità del sangue. Mi spiego. Presso alcune tribù slave, ed anche in qualche isola italiana, come la Corsica e la Sardegna, l'antica legge del taglione si considera tuttavia come giusta. Mano per mano, piede per piede, testa per testa. È la giustizia del popolo ebreo. Se non che Mosè sottopose la costumanza a certe regole, e in ogni modo c'era un tribunale, un'assemblea, un sinedrio più o men numeroso che l'applicava.
Presso i Morlacchi, gli Albanesi e altre tribù semibarbare si fa poco conto di questa formalità. Supposto che vi sia tagliata la testa, tocca al vostro fratello, a vostro figlio, a un vostro parente qualunque, l'obbligo di vendicarvi applicando la legge del taglione, e pigliandosi, quando glie ne venga il destro, il capo del vostro avversario. Così si risparmia la spesa del processo e la custodia del prigioniero.
Capirete che il Vladica dopo aver percorsa l'Europa civilizzata non poteva più tollerare questo stato di cose. Egli si adoperò dunque a tutt'uomo per sopprimere una giustizia sì spicciativa, e porre un po' di norma ne' giudizj e nelle pene. Non so quanto vi sia riuscito; poichè certi pregiudizj e certe tradizioni secolari sono difficili a sradicare, non solamente sulla montagna nera, ma nelle pianure più fertili e più fiorenti del mondo.
Che ne sappiamo noi, popoli civili e morali, dell'effetto che può produrre sugli animi la vista di una camicia insanguinata, sospesa come una reliquia nella nostra sala, nella nostra camera, nel luogo più intimo della casa? Quella camicia tinta del sangue di nostro padre, di un nostro fratello, di un figlio, esposta dì e notte dinanzi a' nostri occhi, come avviene fra quelle tribù primitive, avrebbe la virtù di scuotere e d'irritare le indoli più miti e i caratteri più temperati del nostro secolo e del nostro paese medesimo.
Il Vladica volse dunque il pensiero a raccogliere quei sanguinosi trofei, e ne fece un auto-da-fé, più cristiano e più meritorio degli altri. Fu un colpo di Stato, al quale si può accordare una pienissima approvazione.
Non vo' dire con questo che l'atto del Vladica fosse approvato da tutti. Si gridò, come sempre, alla novità, al sacrilegio, alla violazione dei diritti acquisiti e dei costumi degli avi. Tolta la camicia, non fu tolta la cosa. Il giuramento fu osservato e posto ad esecuzione come per lo innanzi: ma il primo passo era fatto, e la superstizione avea perduto il suo idolo.
In una capanna posta sull'estrema frontiera del Montenegro, non lungi da Cattaro, le guardie incaricate di raccogliere le camicie insanguinate, ebbero molto da fare prima di strapparne una dalle mani di due povere donne. Esse la riguardavano come una santa reliquia, come un talismano prezioso.
— È di mio marito — diceva la vecchia.
— È di mio padre — soggiungeva la più giovane singhiozzando.
— Me l'hanno ucciso al di là della frontiera, e gli hanno tagliata la testa.
— È la nostra sola eredità, e guai a quello che la toccherà, prima che l'omicidio sia vendicato, e il colpevole abbia pagato colla sua testa quella del padre mio. —
Era una scena tragica. I due militi esitavano dinanzi al dolore di quelle due sventurate, prive d'ogni sostegno, e inasprite dalla miseria.
— Voi non potreste vendicare il vostr'uomo, — dicevano. — Lasciate questa cura alla giustizia. Ci sono giudici e tribunali al di là del confine. Il Vladica si farà sentire, e il reo pagherà le pene del suo delitto.
— No: — gridava la vedova. — Non è già al di là dal confine ch'ei deve pagarmi la testa di mio marito. Qui, qui, ci faremo giustizia noi stesse.
— Come? Voi non avete parenti, voi siete due povere donne!
— Non mancheremo per questo d'un vendicatore — soggiunse la vecchia implacabile. — Io non darò la mano della mia Yella se non a quello che mi porterà il capo di Stenovich.
— Io non ho fratelli di sangue, — disse la giovane — ma ho un fratel d'amore che compirà tal dovere. Ei me l'ha promesso. Portate pur via la camicia, non per questo mio padre resterà senza vendetta. —
La madre fece un nuovo sforzo per impedir la confisca del suo retaggio: si appellò alla religione dei due esecutori. — Voi siete Montenegrini, — diss'ella — voi sapete che cosa voglia dire una testa recisa a tradimento, e data in pascolo ai corvi. Che fareste voi, se vi trovaste nel mio caso? —
I due militi non sapevano che rispondere a siffatta interpellanza. Essi avevano comune la patria con quelle infelici. Ma gli ordini erano precisi e assoluti, e li eseguirono ad ogni costo.
Solamente il più giovane dei due s'avvicinò alla ragazza, e le disse. — Se il tuo fratel d'amore mancasse alla sua promessa, ricorri a me. Io mi chiamo Gregorio. Domanda di me a Cettigne, ed io vendicherò tuo padre. Ciò basta. Ora lasciaci eseguire gli ordini del nostro capo. Qua la camicia: voi avete la mia parola! —
III. I fratelli d'anima.
Ho dimenticato d'informarmi chi fosse l'infelice montenegrino che si volea vendicare, e qual fosse stata la causa della sua morte: ma Yella era una bella e degna figlia della montagna, dai lunghi capelli d'ebano, dai grandi occhi neri, dalle forme svelte e robuste. Ella portava altieramente il suo berretto rosso, ornamento particolare della vergine slava, fino al dì delle nozze. L'abbigliamento della montenegrina è ricco e sfarzoso; tutto ricamato a musaico, fin la camicia e le calze. La sua dalmatica, aperta ai due lati, è tessuta a mille colori, e coi più bizzarri arabeschi. Le opanche intrecciate di sottili liste di cuojo, somigliano ai sandali antichi; e cinti e collane, e un arsenale intero di ninnoli di stagno e d'argento la cuoprono quasi tutta. Il suo berretto rosso è guernito di zecchini d'oro, infilzati e applicati all'intorno. Il patrimonio della ragazza si trova così esposto agli occhi di tutti, e ognuno sa la donna e la dote che sposa.
Yella aveva le vesti assai belle ed ornate, ma gli zecchini del suo berretto non erano molti. Suo padre non aveva avuto il tempo necessario per compiere la sua corona; quindi gli sposi non si facevano innanzi, e la giovanetta correva risico di conservare il suo berretto rosso più a lungo che non avrebbe desiderato.
Non crediate però che non ispirasse qualche simpatia nel paese. Ella aveva un fratello d'anima, un pobratimo, come lo chiamano in lingua slava. Noi civilizzati non sappiamo punto che specie di parentela sia questa. Non abbiamo nè pobratimi, nè posestrime, cioè a dire sorelle d'anima, sorelle adottive.
Questo che accenno è un costume ancora vigente fra' dalmati, fra i morlacchi, fra i serbi. Due giovanotti, due fanciulle, e spesso ancora un giovane ed una giovane contraggono questa specie d'unione fraterna che il prete benedice all'altare, e consacra dinanzi a Dio, come un vero matrimonio dell'anima. È un patto d'affetto e di difesa reciproca in caso di pericolo e di bisogno. L'amore non ha che fare in codesti legami. È raro che un pobratimo richiegga d'amore la sua posestrima: sarebbe una fellonia, un sacrilegio, un abuso di confidenza indegno di perdono e di scusa. Il fratello si consacra alla sorella per la vita e per la morte, la protegge, la difende contro le male lingue, contro i pericoli che potrebbero minacciarla. Le porterà, se fia d'uopo, la testa di quello che le ha fatto oltraggio, e dividerà con essa l'ultimo pane. La sorella alcuna volta rinuncia ad ogni altro affetto, e si consacra per tutta la vita al suo fratello d'amore.
C'è in codesto matrimonio delle anime un profumo di poesia primitiva che si crederebbe perduto, se le tribù dell'Illirio non ce ne conservassero qualche esempio.
Yella, dopo la morte del padre, avea scelto il suo pobratimo. Fra parecchi giovani della parrocchia che aspiravano a quest'onore, Vlado l'era sembrato il più degno e il più valoroso. Era troppo giovane ancora, e troppo povero per pensare ad accasarsi; e poi correva fra Yella e lui un grado di parentela, non molto prossimo, ma che sarebbe stato un impedimento canonico in quei paesi ortodossi. Furono dunque fratello e sorella, e la povera orfana potè asciugare le lagrime e affrontar più sicura i pericoli del suo stato.
Ahimè! I bei giorni passarono presto. Vlado non fu degno a lungo della sua confidenza. Il Vladica era molto mortificato di dovermelo confessare. Egli avrebbe voluto citarmi un miglior esempio dei costumi montenegrini, e provarmi col fatto che l'antica fraterna amicizia di Niso e d'Eurialo, d'Oreste e di Pilade, non era spenta nel mondo, e che sussisteva ancora nel Montenegro, anche tra fratello e sorella adottiva.
Io partecipo al dolore del buon prelato e vorrei poter sopprimere questa pagina della mia storia: ma la verità ha i suoi diritti, ed io intendo di rispettarli, per quanto mi costi. Del rimanente: non tutti i pobratimi somigliano a Vlado, e l'eccezione non distrugge la regola.
Vlado dimenticò dunque assai presto che la sua posestrima doveva essere tanto sacra ed inviolabile per lui, quanto una sorella carnale. Ella era giovane, bella, confidente fin troppo. Il vincolo contratto permetteva loro di vedersi, di parlarsi sovente, e in casa, e fuori in mezzo ai boschi ed ai campi impregnati delle vive fragranze di quelle valli. Questa dolce consuetudine prese a poco a poco un altro carattere. Si amarono non come fratelli, ma come fidanzati, e come sposi prima d'aver consultato e i parenti, e il sacerdote. — Non fu già la bianca colomba — disse il Vladica, — che palesò i loro amori; fu il nero corvo dalle male nuove che ne die' l'annunzio al villaggio. —
Sulle prime non si prestò piena fede alla dicerìa. Yella era sì buona e sì modesta che avrebbero sospettato di tutt'altri che di lei. Ma l'invidia e la gelosia hanno gli occhi aguzzi, e, non che scoprire l'altrui difetto, se lo figurano dove non è. Una ragazza del paese men bella delle altre, e forse anche meno pudica, fu lieta di poter confermare la voce corsa, e denunciò la povera Yella alla indignazione e alla vendetta delle altre. — Udrete un uso crudele che vige ancora fra noi — disse il Vladica. — Io vorrei poterlo abolire, come quello della camicia di sangue; ma la cosa è d'un'indole più dilicata, e temo far peggio! —
IV. Il berretto rosso.
Parlo di quello che le vergini slave sogliono portare fino al dì delle nozze.
Questo berretto, guernito di monete d'oro, non è per esse un semplice ornamento. È un distintivo d'onore, ad un tempo, e una dote. Chi vuol trovare gli ultimi zecchini di San Marco, non ha che a recarsi nel Montenegro, e li vedrà ancora infilzati intorno al collo, o intorno al berretto rosso delle giovani da marito.
La Montenegrina è altera del suo berretto, e lo considera come sacro. Guai a quella che continuasse a portarlo, quando ne ha perduto il diritto! Sarebbe un'usurpazione, un sacrilegio.
Yella era pur troppo in questo caso. Quel berretto le pesava sulla fronte, e avrebbe voluto deporlo, quando i maligni sorrisi delle compagne l'avvertirono, come avvenne alla Margherita del Faust, che il corvo avea fatto sentire il suo grido sinistro, e che il suo fallo non era più un secreto per il paese.
Povera Yella! Ella non osava gittare uno sguardo nel suo avvenire. Amava Vlado: ma una voce secreta le aveva già detto che non era riamata con pari affetto. Dopo quel giorno in cui gli avea dato l'ultima prova dell'amor suo, ella non lo vedeva già più come innanzi. Sulle prime ei cercava una ragione, un pretesto per giustificare l'indugio. Ora non si dava più pensiero di questo: e le settimane e i mesi passavano, e la sventurata sentiva avvicinarsi la fatale epoca in cui le sorde voci che circolavano non si potrebbero più smentire, in cui la sua povera madre avrebbe conosciuto il suo fallo e la sua vergogna.
La vecchia Montenegrina non ne sapeva ancor nulla. Era una donna dei vecchi tempi: carattere duro ed austero, inasprito viepiù dalla solitudine e dai disastri. Amava l'unica sua figlia, come l'orso della montagna il suo parto: ma l'avrebbe piuttosto veduta morire, che macchiarsi di un fallo.
Yella, dal canto suo, avrebbe anch'essa anteposta la morte ad una rivelazione che pure diveniva ogni dì più irreparabile e più vicina. Intanto ella conservava il suo berretto virginale, preferendo mentire a se stessa ed al mondo, anzichè portare l'ultimo colpo alla sua povera madre. Così passavano i giorni senza prendere un partito, senza cercare un rimedio, senza rendersi conto dell'indomani. Vlado poteva e doveva riparare il suo fallo: ma debole e irresoluto temporeggiava egli ancora, e aspettava l'acqua alla gola, senza fare un passo per prevenire il pericolo.
Povera Yella! Ella aveva scelto assai male il suo fratello d'anima e il compagno de' giorni suoi. Aveva sperato un protettore, e non avea trovato che un uomo da nulla, incapace di sacrificio.
Il Vladica lo designò nella sua lingua con una parola più energica che non sapremmo tradurre.
Intanto, una nuova umiliazione pendeva sul capo di Yella. Le sue compagne, più di lei vereconde e guardinghe, soffrivano a malincuore ch'ella osasse comparire alla chiesa col distintivo delle fanciulle. Vige ancora nel Montenegro, e presso le tribù slave circonvicine una tradizione antichissima, secondo la quale le vergini di una parrocchia s'arrogano il diritto di strappare il berretto rosso dalla fronte di quella che avesse notoriamente mancato alle leggi della verecondia. Una specie di tribunale si aduna in secreto, e proferisce la sua sentenza. Fatto ciò, le giovani più virtuose del paese aspettano sulla porta della chiesa la povera vittima, e quivi la spogliano a forza dell'ornamento virginale che più non merita. Questa terribile cerimonia era già quasi dimenticata in quei luoghi. Yella non vi aveva posto pensiero, e forse non ne aveva contezza. Ma le disgrazie non vengono mai sole, e la poverina, già abbastanza punita del fallo, era destinata a vederselo rinfacciare pubblicamente in un modo sì atroce.
Era la domenica delle Palme. La chiesa era gremita di gente. Yella non avea potuto trovare un pretesto per non venirci. Ella ci venne infatti col suo berretto rosso in compagnia della madre, e si pose in un angolo della chiesa, quasi avesse un presentimento della prova che l'attendeva. Ella pregava e piangeva in silenzio, colla faccia nascosta fra le palme, umiliata dinanzi a Dio e dinanzi al mondo più implacabile ancora per certe colpe pur degne più di pietà che di pena.
— Il Salvatore non era lì — disse il Vladica — per dire a quelle disgraziate: Chi di voi non è senza colpa, non getti la pietra alla sorella caduta! — Esse uscirono dalla chiesa, e si adunarono sulla porta in aspettazione della povera Yella. Questa uscì l'ultima cogli occhi bassi e col rosario tra le mani. Fu arrestata, fu presa per le braccia, mentre la più brutta e robusta del crocchio le tolse il berretto dal capo, e gittatolo a terra, lo calpestò con feroce dispetto.
Yella si sentì mancare, e per la prima volta della sua vita cadde priva di sensi. La povera madre impallidì per la collera, volle gittarsi sulla esecutrice della fiera sentenza: ma la trista verità brillò come un lampo sinistro dinanzi alla sua mente, e le tolse il coraggio e le forze. Le spietate fanciulle non perdonarono all'infelice madre i rimbrotti e gli oltraggi. — Voi avreste dovuto averne più cura — le dissero. — Riconducetela a casa: ella ha avuto il trattamento che meritava. —
Yella aprì gli occhi e li volse lentamente d'intorno. Ella cercava alcuno nella folla, ma invano. Vlado non era presente. Forse, se fosse stato testimonio dell'orribile punizione, o l'avrebbe impedita, o si sarebbe presentato come sposo della tradita. — Sarebbe stato il suo dovere — soggiunse il Vladica — e mal per lui so non l'avesse compiuto. Vi hanno vigliaccherie che non si commettono impunemente nelle nostre montagne. Yella avrebbe trovato un vendicatore nel tempo stesso che avea subìta la sua condanna. Ma Vlado non era lì, e la poverina non osò nominarlo! —
V. Di là dal confine.
— Noi pure abbiamo una frontiera ad ogni piè sospinto — diceva il Vladica. — Qui la Turchia, là la Servia, costì l'Austria. Una volta c'era San Marco, antico nostro alleato. Abbiamo avuto molti secoli di gloria al tempo de' Veneziani. Il Turco non osava imbizzarrire, perchè sapeva che toccare il Montenegro, era tirarsi addosso le galere della repubblica. I Dalmati erano allora nostri fratelli, correvano gli stessi rischi ed avevano gli stessi privilegi con noi.
Ora le cose sono alquanto mutate. I Dalmati sono ancora fratelli nostri, ma non obbediscono alle stesse leggi e alla stessa politica. Noi siamo ancora fratelli, ma c'è un cordone di doganieri che ci divide e ci rende stranieri gli uni agli altri. —
Ricordino i lettori che queste cose si dicevano un tempo fa, che non prendessero il mio racconto per una pagina di storia contemporanea. Del resto, se le cose restano ancora qua e là nello stato medesimo, non è mia colpa.
La famiglia che doveva ragione a Yella del sangue versato, viveva al di là del confine: al di là di quel cordone doganale che dava tanta noja al buon Vladica. Era una famiglia ricca e potente per quei paesi. Il capo di casa, autore dell'omicidio, se ne viveva tranquillo, e si faceva beffe della camicia insanguinata che era stata strappata dal corpo della sua vittima, come pegno ed arra di una prossima rappresaglia. Egli era riuscito ad assopire l'affare, e non aveva avuto molestie col proprio governo. Quanto a' parenti dell'ucciso, non se ne dava pensiero. Egli non pensava a superare il confine, e nel caso che alcuno di essi l'avesse a passare, aveva preso le opportune intelligenze co' doganieri, amici suoi, per averne a tempo l'avviso. D'altronde, le due donne erano sole, e senza parenti assai prossimi che avessero interesse a sposare i loro rancori, almeno finchè la fanciulla non andasse a marito.
Noi sappiamo ora a che ne fosse il matrimonio di Yella. Vlado l'avea promesso, l'avea giurato; ma come aveva tradito il suo giuramento di pobratimo, poteva tradire anche l'altro da cui dipendeva oggimai l'onore e la vita della sua fidanzata.
Quando egli venne a vederla, dopo lo scandalo del berretto rosso, ebbe luogo una scena straziante più facile a immaginare che a descrivere. Yella era ancora ammalata, onde il giovinastro fu accolto dalla madre che l'attendeva in un'attitudine piena di rimprovero e di minaccia. Ella gli narrò ciò ch'era seguìto, e prima ancora di rinfacciargli la sua mala fede, gli domandò dov'egli era quel giorno, e perchè, dopo aver esposta la sua sorella d'anima a tanta vergogna, non si fosse trovato sul luogo per prenderne le difese. Egli solo poteva prenderla fra le braccia, rialzarla da terra, e dichiarare innanzi al popolo ch'essa era la sua fidanzata e la sua sposa.
Vlado ascoltò queste parole in cupo silenzio. Egli ignorava l'accaduto, e l'aspetto di quella povera madre di cui aveva tradita la confidenza, non poteva non destare nell'animo suo, per freddo che fosse, un senso di pietà e di rimorso.
Egli tacque, perchè non poteva rispondere alla domanda che gli era fatta, se non rivelando un'altra viltà. Egli era stato al di là della frontiera, presso alla famiglia dell'uccisore, non per compiere un atto di giustizia, ma per ordirvi una nuova infamia.
Eravi in quella casa un'altra fanciulla, una bionda avvenente ed accorta, che avea saputo attirare nella sua rete il fidanzato di Yella, e farselo amante. Mariska ignorava il delitto di suo padre e i disegni di vendetta che Vlado poteva aver concepito. Ma il padre di lei ne aveva sospetto, e prima di respingere la forza colla forza, s'era provato a scongiurare il pericolo per altra via. Egli accolse il giovane montenegrino con affettata benevolenza, e lo fece sedere alla propria mensa. Era il modo più ovvio di conciliarsi l'animo suo, e di fargli cadere l'armi di mano. — Noi non ammazziamo mai — diceva il Vladica — un uomo che ha diviso il pane ed il sale con noi. —
Vlado si lasciò accalappiare assai facilmente, siccome quegli che non aveva una grande disposizione per le imprese arrischiate, e preferiva amoreggiare colla figliuola, anzichè attentare alla vita del padre.
Incalzato dunque dalla vecchia implacabile, e atterrito dal grido della coscienza, Vlado non seppe rispondere che una menzogna. — Era lontano — rispose — fuor di paese, al di là del confine... Voi sapete bene... se cerco sempre una buona occasione per soddisfare al mio impegno, e meritarmi la mano di vostra figlia. —
Lo sguardo acuto e terribile della vecchia si fissò sopra Vlado per sapere quanto vi era di vero in quest'asserzione. — Or bene — diss'ella — hai tu soddisfatto al tuo impegno? Hai tu meritato di dare il tuo nome alla figlia di Dragonich? Dov'è la testa del suo assassino?
— Non l'ho ancora colto — balbettò Vlado — ma la coglierò, ve lo giuro.
— Tu hai giurato troppe volte, e promesso troppe cose, perch'io possa fidarmi alla tua parola. Tu sei un traditore, tu hai abusato della mia fiducia, hai tradito la tua posestrima, e l'hai abbandonata all'obbrobrio e alla disperazione. Tu non la vedrai, finchè non abbi vendicato davvero il sangue di mio marito, e datomi un pegno della tua fede! —
Vlado si disponeva a partire per evitare nuove domande: quando tutt'ad un tratto Yella, che dalla stanza vicina aveva inteso questo colloquio, si strascinò pallida e quasi morente dinanzi a lui, e gl'impedì di partire. — Madre mia — gridò essa con voce soffocata — voi domandate la morte di un altro, e non vedete che sto per morire io medesima! — La povera fanciulla diceva pur troppo il vero: poichè, proferite appena queste parole, si lasciò cadere ai piedi di Vlado, che non osò raccoglierla tra le sue braccia.
— Ecco l'opera tua — gridò la madre. — Ecco ciò che hai fatto della tua sorella d'anima. Perchè non finisci una volta di ucciderla? Compisci l'opera tua; avrai forse il coraggio di toglierle il resto di vita che le rimane, giacchè non ne avesti abbastanza per vendicarla!
— Voi non mi conoscete — esclamò Vlado irritato da queste parole, e dal tuono sprezzante con cui la vecchia le avea proferite... — Lasciatemi andare. Voi avrete fra poco nuove di me. — E svincolandosi dalle mani di Yella che si era aggrappata alle sue ginocchia, prese la porta, e abbandonò quella casa che non doveva più rivedere.
La madre di Yella riportò sul suo letto la figlia, e si assise dappresso a lei: tutte e due si guardavano in silenzio, senza trovare nè una parola, nè una lagrima, tanto il dolore e la disperazione le avea sopraffatte.
VI. Marco e Madonna.
Vlado abitava non lungi dalla frontiera, e bazzicando co' trafficanti che andavano da un paese all'altro pei loro affari, avea perduto la primitiva impronta montenegrina, senza migliorare nè i suoi costumi, nè i suoi sentimenti. Era una natura perplessa, arrendevole alle prime impressioni che riceveva, senza darsi pensiero delle conseguenze che ne verrebbero. Il caso era la sua ragione e la sua provvidenza.
Uscendo dalla casa di Yella, irritato dalle parole della suocera, e commosso dallo stato in cui sapeva di aver posto la sua fidanzata, prese il cammino del suo villaggio, entrò nella sua casuccia, si armò delle pistole e del cangiaro, e valicò a gran passi quella specie di landa, irta di cespugli e di roveti che separa il Montenegro dal territorio soggetto all'Austria.
Dove andava costui?
Era chiaro che si dirigeva verso la casa maladetta: ma difficile a prevedere con quali intenzioni vi andasse. La sua mente era più confusa e più incerta che mai. Abitava quella casa un uomo ch'egli avea giurato di uccidere; e una bella fanciulla che ve lo attirava colle sue pericolose lusinghe. Non era già questa la lotta consueta fra il bene e il male: era una lotta fra due impulsi, fra due ordini d'idee che mettevano da un lato e dall'altro a un'azione colpevole. Poichè se l'omicidio era un delitto, l'abbandono di Yella e i suoi amori coll'altra non erano una virtù.
Ei s'assise sopra un tronco d'albero rovesciato dall'uragano, alla vista di quella casa, a cui lo spingevano due cause così diverse.
Egli era stanco non tanto del lungo cammino, quanto della lotta interna che scuoteva la sua coscienza. Dopo un lungo ruminare ed almanaccare così fra sè, trasse di tasca una picciola moneta di rame già fuor di corso, e ch'egli serbava evidentemente ad altr'uso che a quello di spenderla. Era un quattrinello dei tempi della repubblica, che allora denominavasi un marcolino, per il leone di San Marco che portava rozzamente impresso da una faccia, mentre dall'altra mostrava l'immagine di Nostra Donna: Marco e Madonna, come sta scritto in fronte a questo capitolo. I monelli, e spesse volte anche gli adulti, se ne servivano per un giuoco che prese il nome da quelle due impronte. Era una variante de' dadi antichi e moderni: uno dei mille modi d'interrogare e tentar la fortuna.
Ma Vlado era solo. Ei guardava con occhio torvo quella moneta; la scuoteva fra le due palme sovrapposte l'una all'altra prima di lanciarla in aria e spiare l'impronta che avrebbe mostrato ricadendo sulla sua palma aperta a riceverla.
Il disgraziato stava per giuocare a Marco e Madonna la vita d'un uomo e l'onor d'una povera giovane che l'amava. Egli non aveva trovato un mezzo migliore per illuminare la sua coscienza. — Se verrà Marco — diceva — egli sarà la morte: il leone non perdona. Se sarà la Santa Vergine, allora sarà tutt'altro. Ella non vuol la morte del peccatore: io sposerò Mariska, e tutto sarà finito. Yella non potrà pigliarsela che colla Provvidenza, che avrà deciso della sua sorte. —
Ma parve che la Provvidenza non volesse prestarsi a simile prova. La moneta lanciata in aria cadde a terra e si smarrì in una profonda fenditura del suolo. Vlado avrebbe potuto ricercarla, o rinnovare il giuoco con altra moneta: ma egli era superstizioso, e prese l'accidente per un avviso del Cielo che non volea farsi complice di una simile alternativa.
— Tanto peggio! — sclamò Vlado alzandosi. — Me ne andrò difilato alla casa: la prima persona che incontrerò farà piegar la bilancia. Se sarà il vecchio, l'ucciderò; se sarà la ragazza, l'abbraccerò, e quello che farò sarà fatto. —
Presa questa risoluzione, si mosse, e senza guardare nè a dritta nè a sinistra giunse alla porta. Bussò: Mariska venne ad aprire, e accolse il giovanotto colle solite moine.
— Il Cielo ha parlato — pensò quel tristo. — Questa bella ragazza sarà mia moglie. —
VII. La terza pubblicazione.
Parecchi giorni eran già passati dacchè Vlado avea lasciato la capanna di Yella. Ognuno può immaginarsi lo stato della povera derelitta. Che era avvenuto di lui? Dove indugiavasi? Perchè non tornava a mantenere la sua parola?
Il modo ond'era partito poteva lasciar luogo ad ogni sorte di congetture. Aveva egli tentato il colpo? Era riuscito nell'attentato, o era caduto egli stesso vittima del suo forte avversario? Era questa l'idea che tormentava la povera giovane, inchiodata pur sempre sul suo lettuccio. Si può ben pensare che la scena che abbiam raccontato non avea contribuito a renderle la salute.
Sua madre non l'abbandonava giammai: ma che poteva ella dirle per mettere in calma l'anima sua? Essa medesima avea posto quello sciagurato nella terribile alternativa colle sue dure parole e co' suoi rimproveri. Ella tacevasi dunque, ed aspettava in cupo silenzio la volontà del destino.
Ma Yella non durò lungamente in quello stato di perplessità e d'incertezza. Colse il momento che sua madre era assente, e così debole com'era, e non ancor libera dalla febbre, prese la via de' campi. La febbre più che altro la sostenne, e le die' l'energia necessaria a compiere il suo disegno.
Volle domandare alla gente che incontrava per via se sapessero nulla di Vlado: ma non osò proferire quel nome, e tirò diritto senza aprir bocca. Evitando le strade battute, andò, andò, dove il suo destino la sospingeva, senza arrestarsi, senza guardarsi intorno, fino al momento in cui la capanna di Vlado si scoprì innanzi a lei. Ella non v'era stata se non un'altra volta — quel giorno fatale che, presa da una strana vertigine, s'era abbandonata fra le braccia del suo fratello d'anima, e avea consentito ad esser la sua sposa dinanzi a Dio.
Ella bussò a quella porta, ma nessuno rispose. I vicini le dissero che Vlado era assente da molti giorni, e che probabilmente non vi sarebbe tornato che dopo celebrate le nozze. — Le nozze? — La povera Yella impallidì a quella risposta. Quali nozze eran queste di cui si parlava? Ella non poteva indovinarlo. — Sarà un pretesto — pensò la disgraziata. — Sarà per certo un rumore ch'egli stesso avrà fatto correre per celare il vero scopo del suo viaggio. Dovrò attenderlo qui, o ritornerò senza costrutto al paese? No: è necessario ch'io lo vegga: è necessario ch'io sappia che accade di lui. Andrò io stessa di là dal confine, dove forse si trattiene aspettando il momento opportuno per soddisfare all'obbligo suo, e mettersi in grazia di mia madre. Per certo l'accuso a torto: a torto sospetto di lui. Egli non osa tornare senza aver eseguita la condizione che gli fu imposta. Egli non pensa che a me, e corre i più gravi pericoli per cagion mia. —
Ella s'ingannava, la poverina, e si nutriva di nuove illusioni. Se non che quelle nozze venivano pur sempre a turbarla, come una parola di sinistro augurio, come un oscuro presagio di nuovi guai. Ella si rimise in cammino inconscia del dove dirigersi: e non so come, si ritrovò per l'appunto sulla linea di frontiera tra le provincie illiriche e il Montenegro. Ella non aveva mai passato quei limiti, ed esitò lungamente prima d'avventurarsi su quella terra infausta che le parea rosseggiare del sangue paterno.
Al momento di oltrepassar la dogana ella s'imbattè in uno de' suoi compaesani che avea veduto altre volte. Era quel milite venuto tempo fa da parte del principe a confiscare la camicia insanguinata e che, sul punto di congedarsi, le si era profferto in così strana maniera. — Conta su di me — le avea detto — se avrai bisogno d'un amico o d'un fratello. — Il milite ebbe qualche difficoltà a ravvisarla, tanto era mutata per la malattia sofferta, e per le angustie terribili ond'era oppressa. Ma appena riconosciutala, si rammentò la promessa fatta, e s'accostò per sapere ove andasse.
— Questo paese non è sicuro per te — le disse.
— Non importa — rispose Yella. — Io devo passare. Ho un affare pressante di là dal confine.
— Lo so bene — replicò l'altro — lo so bene. Ma tanto e tanto faresti meglio a ritornartene a casa. Segui il consiglio d'un amico.
— Grazie, — diss'ella — grazie de' vostri buoni consigli. Ma io devo sapere ad ogni costo dov'è il mio promesso.
— Il tuo promesso, ragazza mia? —
Ella chinò la testa, ed arrossì fino agli occhi.
— Il tuo promesso è un traditore — riprese il milite. — Cattivo fratello, e pessimo compagno per te. Indietro, indietro, non cercar di vederlo: e caccialo dal tuo pensiero, se puoi.
— Egli è morto! — mormorò Yella. — Egli è morto nella intrapresa che s'è addossato. L'assassino di mio padre ha trionfato un'altra volta di noi. Ditelo chiaro. La sua morte sarà la mia morte, ma pure mi sarà meno amara di un tradimento da parte sua. —
— Povera donna — disse il rozzo e buon montanaro. — Mi è duro dovertelo dire: ma il male non ha rimedio, e nulla gioverebbe nasconderlo. Già presto o tardi dovresti saperlo. Su via! ragazza: coraggio, sorella mia. È d'uopo prendere il tuo partito. Vlado si è seduto alla mensa dell'assassino, ha diviso il pane e il sale con lui, e invece di vendicare il sangue di tuo padre e riscattare l'onore della tua famiglia, egli ti sacrificò da vigliacco, accettando la mano d'una sua figlia.
— Voi mentite...: È impossibile! — gridò Yella.
— Io non mento punto, ragazza. Io ti dico la verità per quanto mi sia grave doverti affliggere colla trista novella. Tu hai collocato assai male il tuo amore e la tua fiducia. —
Yella, bianca come un cadavare cadde al suolo priva di sensi. Il rozzo cacciatore che le avea dato, senza apparecchiarvela, un annuncio così crudele, la prese nelle sue braccia e cercò di richiamarla alla vita. — No, non è vero, non può essere — diceva la misera rinvenendo. — È un sogno, è un sogno orribile, ma finirà presto. Non è vero che è un sogno? —
Il cacciatore, spaventato dall'impressione che le sue parole avevano prodotto sulla povera donna, non sapea che rispondere. Egli si tacque, guardandola con un'espressione di pietà affatto nuova per lui.
— Perchè, ingannarmi? — gli diss'ella. — Voi sapete bene che Vlado non può sposare un'altra donna. Sono io la sua sposa dinanzi a Dio. Ogni altro matrimonio è impossibile.
— Va dunque — replicò il cacciatore. — Forse è tempo ancora, perchè tu faccia valere i tuoi diritti. Va a presentarti al curato del paese, e metti impedimento a questo matrimonio. Tutte le pubblicazioni non sono ancor fatte. —
Questa volta, Yella prese la cosa sul serio. — Mostratemi il cammino — diss'ella.
— Segui questo sentiero — rispose il cacciatore. — Tu vedrai presto comparire il villaggio. Domanda di vedere il curato. Domani è domenica. Egli sarà per certo alla parrocchia. Checchè ti avvenga, vieni a raggiungermi. Io non mi muovo di qua, e se posso ajutarti, sai che ti ho dato la mia parola, ed io non mancherò. —
Yella partì come una freccia dall'arco senza pur ringraziarlo della sua offerta. Passò il confine, seguì il sentiero che le era stato indicato, e in capo ad un'ora vide sorgere all'orizzonte il campanile del paesuccio a cui s'avviava.
Il sole era già tramontato; onde, malgrado il vivo suo desiderio, la povera giovane non osò picchiare ad ora sì tarda alla porta del parroco. Chiese ospitalità alla prima casa che vide aperta, e fu accolta amorevolmente senza subire alcuna domanda indiscreta. L'ospitalità è una delle virtù tradizionali dei popoli slavi.
Ella avrebbe voluto informarsi del fatto ed uscire addirittura d'ogni dubbio, ma non osò dire una sola parola. All'indomani, giorno di festa, si recò cogli altri alla chiesa per ascoltare la messa.
Dopo l'evangelio, il curato, rivolto ai fedeli, proclamò per la terza volta il matrimonio di Vlado e di Mariska.
Un grido acuto coprì queste parole.
Tutti si rivolsero al canto della chiesa da cui s'era levato quel grido.
Non è necessario ch'io dica chi l'aveva gittato.
La certezza della sua sventura avea colpito come folgore la povera Yella. Ella non morì sul colpo — ma perdè la luce della ragione!
VIII. Un difensore insperato.
Il cacciatore che aveva annunciato a Yella la dolorosa notizia, non vedendola ritornare, avea preso la via del villaggio e la stava aspettando fuor della chiesa.
L'onesto Gregorio era ben lungi dall'immaginarsi una sì trista conseguenza. Era un uomo di cuore, come vedremo, ma d'una tempra troppo rozza per poter prevedere gli effetti di una tale rivelazione sull'animo di una donna. Vi lascio dunque pensare come restasse quando la vide uscir dalla chiesa, accompagnata e quasi portata dalla ospitale famiglia che l'aveva ricoverata. Attonito e fremente s'unì senza dir nulla al tristo corteo, e datosi a conoscere al capo di casa, s'incaricò di ricondurre presso alla madre la disgraziata fanciulla. Era il partito migliore, l'unico partito che rimanesse.
Yella si lasciò condur via senza opporre la minima resistenza, e senza pronunciare una sola parola. Gregorio si teneva anch'egli in silenzio, credendo inutili i suoi conforti. Egli vedeva bene che nello stato in cui si trovava, la povera Yella non poteva più mettere ad esecuzione il disegno che le avea suggerito. Ricondusse intanto alla vecchia madre la sua figliuola, raccontò nella miglior maniera che seppe ciò che era avvenuto, e se ne andò pe' fatti suoi.
Ma il rozzo montanaro non era uomo da dimenticare la sua promessa. Ei non aveva parole ma fatti. L'aspetto di quella misera, lo stato deplorabile in che l'aveva lasciata, l'ingiustizia e il tradimento di che era vittima, tutto ciò l'aveva profondamente indignato e commosso. Da quel momento egli considerò la povera abbandonata come fosse sua sorella o sua figlia, e giurò seco stesso, che se non poteva rimediare a tanta disgrazia, almeno avrebbe vendicato l'oltraggio da lei indegnamente sofferto.
Presa ch'egli ebbe una tale risoluzione, la chiuse in se stesso, aspettando il tempo e il luogo di metterla ad effetto. Tuttavia non volle lasciar intentato ogni mezzo legale, e senza ben rendersi conto del suo progetto, s'avviò un'altra volta al villaggio ch'era stato teatro del tristo avvenimento.
Ei si recò difilato dal parroco, e dopo avergli esposto in poche parole la dolorosa storia, dichiarò che il nuovo matrimonio era impossibile e nullo, e ch'egli veniva appunto per mettere l'impedimento.
Il parroco lo ascoltò senza punto sconciarsi. Disgraziatamente non era uomo di molto ingegno. Pusillanime e mal compreso della santità e dei doveri del suo ministero, si contentò di domandare a Gregorio con qual diritto, e in virtù di qual titolo si presentasse per impedire un tal matrimonio. Era egli il fratello, il cugino, un congiunto qualunque della ragazza? — Le cose non si fanno punto a questo modo nella mia parrocchia, — soggiunse il curato. — Vlado è libero: non esiste alcun matrimonio anteriore contratto dinanzi alla Chiesa: le tre pubblicazioni sono state fatte regolarmente come prescrive la legge civile e canonica. Voi vedete dunque che la vostra opposizione è affatto intempestiva, illegale. I due sposi sono gente per bene e timorata di Dio: sembrano fatti proprio l'uno per l'altro. La ragazza è non solo mia parrocchiana, ma mia figlioccia. Ha una dote assai ragguardevole, e voi v'ingannereste a partito se pretendeste mandare a monte una unione sì bene assortita.
— Ma l'altra, — rispose Gregorio — l'altra disgraziata che è già sua sposa dinanzi a Dio, e che sarà perduta senza rimedio, s'egli manca alla sua promessa, e dà la mano a questa donna?
— Deploro la sua disgrazia — soggiunse il parroco, — deploro la sua disgrazia, ma non so che fare per lei. Alfine è una forastiera che non è nemmeno cattolica, e che non posso considerare come una mia pecorella. Del resto se si tratterà di una qualche indennità, la famiglia è assai ricca, e non vorrà negarle qualche soccorso, se ne ha bisogno. M'incarico io stesso di presentare la sua domanda, e sarò lieto di terminar quest'affare alla buona, senza scandali inutili e senza ricorrere ai tribunali. —
Queste parole fecero sorgere un'altra idea nel cervello del nostro Gregorio. Egli pensò al Commissario, e vedendo che non poteva ottener nulla di buono da questa parte, si dispose a fare una visita a un avvocato di sua conoscenza per consultarlo su questa faccenda.
L'avvocato, com'era facile a prevedersi, s'informò immediatamente se vi fosse nulla di scritto dalla parte di Vlado. Gregorio non ne sapeva nulla, ma non si usa molto scrivere in quei paesi, e Vlado poteva ben essere illetterato del tutto.
— In tal caso — disse l'avvocato — non c'è molto da fare nè da sperare. Il Commissario non suol ammettere facilmente la prova verbale: non giudica che sui documenti scritti e firmati. Vi consiglio a risparmiarvi il disturbo e la spesa.
— Dunque non c'è più giustizia al mondo? — sclamò Gregorio. — Si può dunque tradire e abbandonare impunemente una poverina che s'è fidata sulla parola? Pazziavira! Le cose non passano a questo modo fra noi! —
Egli proferì questa interiezione tradizionale con tale accento, che l'avvocato n'ebbe paura. — Dio vi salvi, avvocato mio — disse Gregorio, ricomponendosi a stento. — Dio vi salvi! Avrete nuove di me! — Così dicendo rimise in testa il suo colpacco e partì maledicendo al tempo e alle parole perdute senza costrutto.
Senza mettere tempo in mezzo se ne andò difilato alla casa della sposa. Chiese del padre di lei, dicendo d'aver a parlargli di cosa importante.
Ei non poteva scegliere un momento migliore. Il futuro suocero stava ancora seduto a mensa col nuovo sposo. Avevano desinato insieme, e fumavano tranquillamente la loro pipa della digestione. La vecchia madre, e la vispa Mariska erano occupate a sparecchiare. Le donne non si mettono a tavola fra gli Slavi di que' paesi, soprattutto quando ci sono ospiti in casa.
Gregorio non era conosciuto, ma secondo il costume del luogo, gli fu recato un bicchiere e una lunga pipa di gelsomino. Egli non volle toccare nè l'uno nè l'altra. Permettetemi — disse — che prima di accettare il bicchiere dell'ospitalità, io vi esponga l'oggetto della mia visita.
— Parla — disse seccamente il capo di casa.
— Io sono Gregorio Marcovich di Cettigne, cacciatore di professione, e proprietario di parecchi campi e di una casa. Vengo a domandarvi la vostra figliuola in matrimonio.
— Non ho altre figliuole che quella — rispose il padre di Mariska. — Mi spiace che tu venga troppo tardi. Ella è già maritata, ed ecco il suo sposo.
— Maritata? — chiese con tuono di sorpresa Gregorio.
— Le gride sono fatte, e non manca più che la cerimonia.
— Manca dunque qualche cosa — osservò Gregorio. — La cerimonia non si può fare, perchè il vostro genero ha un'altra moglie.
— Un'altra moglie? — domandarono nel medesimo tempo quattro voci meravigliate.
— Sì, un'altra moglie — replicò con voce ferma Gregorio. — Mio cugino Vlado, che vedete qui, ha un'altra moglie al Montenegro. Non so se il matrimonio sia stato celebrato dinanzi al prete, ma so di certo che è sacro ed inviolabile dinanzi a Dio.
— Come si chiama questa moglie? — domandò Mariska con una cert'aria d'incredulità e di malizia.
— Si chiama Yella — disse Gregorio. — Domandalo al tuo promesso, che la conosce meglio di me.
— Con qual diritto t'impicci tu de' fatti miei — saltò su Vlado. — Tu faresti meglio, cugino Gregorio, a levarti di là.
— Non parlo con te — replicò Gregorio. — Vengo a domandare la mano di questa ragazza che mi piace; e siccome son libero d'ogni impegno anteriore, ho qualche speranza d'essere preferito. Ad ogni modo non tocca a te di rispondere. Tocca alla giovane qui presente, e a' suoi genitori.
— Codesto è uno scherzo indecente — disse il padre di Mariska. — Se c'è impedimento legale, dirigetevi al signor curato. Il sant'uomo vedrà nella sua saggezza che sia da fare. Quanto a me, io mantengo la mia promessa, e non muto parere. Io non so chi sia questa donna di cui mi parli, e se non hai altra cosa a soggiungere, quella è la porta.
— Possibile! — disse Gregorio — levandosi dalla scranna. — Possibile, che tu non conosca codesta donna: ma certamente devi avere conosciuto il padre di lei! Mio cugino Vlado potrà informartene meglio.
— Tu vieni in casa mia per provocarmi — disse il vecchio, alzandosi anch'egli, e gittando fiamme dagli occhi.
Tutti si alzarono, e qualche cosa di serio stava per iscoppiare: ma le due donne s'interposero, e Mariska ch'era la vera padrona di casa, riuscì colle sue moine a calmare la collera del padre e a rimetterlo sulla scranna. — Non veggo la ragione di tanto strepito — disse la civettuola senza cuore e senza carattere. — Ecco un nuovo partito che si presenta. Sia il benvenuto come gli altri. Noi non siamo Montenegrini, ma non per questo abbiamo dimenticato il costume de' nostri antichi. È permesso di disputarsi la mano di una donzella fino al dì delle nozze. Chi non la sa conquistare sui suoi rivali, non è degno di lei. Io accetto dunque questo giovane nel numero di quelli che aspirano alla mia mano, e si vedrà al paragone s'egli n'è degno. In ogni caso egli siederà al convito nuziale, e fino a quel giorno, vada con Dio.
— Grazie, ragazza — disse Gregorio con voce ferma. — A rivederci, cugino. Il destino deciderà. —
Dicendo queste parole, salutò gravemente, ed uscì.
IX. Il torneo nuziale.
— Bisogna ch'io vi spieghi, mio caro, — mi disse il Vladica — che cosa intendesse la bionda Mariska, quando ammise Gregorio alla prova del paragone.
Fra i popoli slavi che non hanno adottato i vostri costumi, i due avvenimenti più notabili della vita sono le nozze e i funerali. Le une e gli altri si festeggiano con banchetti omerici che durano parecchi giorni, e ai quali prende parte quasi tutto il comune: perchè tutti qual più qual meno, sono congiunti di sangue o d'affinità, quando si tratta di far baldoria.
Passo sotto silenzio le cerimonie funebri che qui non cadono, ma vi dirò in due parole come sono celebrate le nozze. È una usanza assai pittoresca. Voi che dovete conoscere la vostra letteratura classica, vi riscontrerete con piacere qualche traccia della storia di Piritoo fra' Centuari. Il giorno del matrimonio, lo sposo ne' suoi abiti da festa, armato di tutto punto, si presenta alla casa della sua fidanzata. Egli è montato sopra un cavallo bizzarro, e accompagnato da tutto il parentado, e da quanti amici e compagni possa trovare. Questi prendono dalla circostanza il nome di Svati, che significa compare, testimonio, padrino. Gli antichi dicevano paraninfo.
La sposa dal canto suo è circondata anch'essa dai suoi Diveri; parola slava che ha lo stesso significato. I Diveri sono i suoi parenti, fratelli, cugini, ec., corteggio assai numeroso, e non meno solenne. La domanda è fatta, o rinnovata in gran ceremonia dinanzi alla porta della casa. Il padre o il capo della famiglia fa qualche opposizione, o in un senso o nell'altro. Ora la giovane è troppo selvaggia, ora è poco laboriosa, or non ancora matura pel matrimonio. Tutti questi ostacoli non ritengono lo sposo, che dichiara volerla sposare malgrado ciò. Allora il capo di casa finge di rassegnarsi, e si ritira: ma il corteggio dei Diveri si avanza e fa mostra di volersi opporre alla sua volta, non già colle parole, ma colla forza aperta. Lo sposo si ritira fra' suoi Svati; si consulta con essi, e ritorna all'assalto. Ne sorge una specie di lotta, un torneo per lo più inoffensivo, a colpi di pistola o di moschetto carichi a polvere. La lotta ha la fine che è facile a prevedere. Lo sposo riman padrone del campo, si piglia la fanciulla, rimonta a cavallo con essa, e si slancia a tutta corsa per la campagna. Svati e Diveri fanno la pace e batton le mani, e seggono insieme allo stesso convito. Mi son trovato parecchie volte a simili feste nell'Erzegovina.
— Voi comprendete ora — riprese il Vladica — le parole di Mariska, e indovinate il progetto di Gregorio. Vedrete fra poco se la storditella ebbe a lodarsi del fatto suo.
Il matrimonio era stato rimesso alla seguente domenica. Era una bellissima giornata di giugno. Il cielo era chiaro e sereno: la campagna ubertosa e olezzante di tutte le fragranze estive. Le spiagge e le isole di que' paraggi sono stipate di maggiorana e di mirti, come le isole dell'Arcipelago. Non occorre dirvi che le giovinette greche tessevano di codeste piante la lor corona nuziale alle feste di Afrodite.
Le spose del nostro tempo, benchè cristiane, conservano tuttavia qualche traccia del vecchio culto. Solamente l'abbigliamento è meno semplice e meno elegante. Mariska aveva aggiunto alla tunica tradizionale del suo paese, un mondo di ninnoli e di cianfrusaglie comperate a Trieste nei viaggi che vi aveva fatto. Il suo berretto rosso era lucente di molte filze di monete d'oro. Un gran velo bianco la copriva da capo a piedi. L'avresti detta una Madonna di Loreto, ornata per la sua festa. I suoi lunghi capelli biondi e la sua carnagione delicata, qualità straordinarie fra i Dalmati, le davano un'aria peregrina e cittadinesca che attirava tutti gli sguardi.
Vlado n'era sì affascinato che non fece caso della visita e delle parole sinistre del cugino Gregorio. Egli credevasi aver toccato il cielo col dito. — Avrà voluto farmi paura, — pensava — ma ora vedrà che non gli tornerebbe di trescare con noi. — Quanto a Yella, egli non ci pensava nemmeno. Era divenuta pazza: tanto peggio per lei!
Vlado era un giovanotto aitante e forte della persona. Era codesto il solo pregio che avesse, e a questo non ad altro doveva la mano di Mariska. Procurò quindi di comparirle dinanzi il dì delle nozze nel miglior arnese possibile. Aveva armi lucenti e bellissime alla cintura, e cavalcava un brioso cavallo che caracollava e sbuffava a meraviglia. Vestiva il costume dalmatico che par fatto a posta per mettere in evidenza la forza e la leggiadria delle membra: calzoni di panno bianco stretti alla gamba, una specie di giubbetto o caftan, ornato di mille ghirigori di stagno argentato, un cangiaro col manico cesellato, una carabina ad armacollo, che sapeva maneggiare con molta destrezza. I suoi lunghi capelli neri intrecciati dietro la nuca gli pendevano fino alla sella, e una picciola calotta azzurra, ornata di parecchie penne di pavone, gli copriva appena la sommità della testa. Tale era fino agli ultimi anni la moda dei Montenegrini e dei Dalmati.
Il suo parentado non era molto numeroso, perchè il matrimonio seguiva al di là del confine, dove molti de' suoi parenti non avevano osato seguirlo per loro ragioni particolari. Dieci o dodici Svati formavano tutto il corteggio. Mariska aveva una comitiva più numerosa del doppio. Suo padre era il più ricco dei contorni, e aveva parenti ed amici quanti volesse: di che la ragazza menava più vanto che non convenisse.
Lo scoppio delle pistole e de' moschetti si fece udir da lontano. Il corteggio della sposa fece una risposta ancor più clamorosa. Il suo cuore balzava di gioja e d'orgoglio all'avvicinarsi del suo fidanzato: poichè essa lo amava alla sua maniera, in ragione degli ostacoli che avea sormontati per rapirlo alla sua rivale.
Vlado entrò nel cortile col suo magro accompagnamento, dove stavano già disposte le tavole del banchetto. Le accoglienze usuali si scambiavano da una parte e dall'altra quando tutt'ad un tratto si udirono altri colpi echeggiare per l'aria. — Saranno altri Svati che sopraggiungono — dissero fra loro i pochi compagni di Vlado. — Ma questi sapeva di non poter attendere alcuno fuorchè il cugino Gregorio. — Eh! bene — diss'egli fra sè, colla sua spensieratezza ordinaria. — Se viene da amico, troverà un posto preparato per lui: se viene da rivale, troverà pane per i suoi denti. — Era proprio Gregorio. Aveva indossato anch'egli il suo vestito delle feste: ma di un colore più cupo; e appena entrato nel cortile, si diresse alla volta di Vlado, e gli domandò se volesse servirgli di paraninfo.
— Ciò tocca a te — disse Vlado. — Tu giugni opportuno per accrescere il numero de' miei Svati: quanto a me, non sono il paraninfo d'alcuno: io sono lo sposo, e guai a quello che si mettesse in capo di intorbidare la festa.
— Che hai tu fatto di Yella? — chiese Gregorio.
— Tu non hai dunque finito di gettarmi in faccia il nome di quella donna? Se ti sta tanto a cuore perchè non la sposi? Io non ti metterò impedimento: puoi star sicuro!
— Tu sei un vigliacco, un falso fratello, un traditore che non merita d'aver alcun rapporto colla nostra famiglia!
— Ah! tu cerchi briga con me? — disse Vlado, — e traendo senz'altro una pistola dalla cintura, l'appuntò al petto di Gregorio. Ma questi, rapido come un lampo, si slanciò sull'assalitore, lo afferrò per la treccia, e rovesciandolo sulla groppa del suo cavallo, gli segò netto il collo col filo del suo cangiaro. Ciò fu eseguito in meno tempo ch'io non lo dico. Tutti gli astanti rimasero immobili e istupiditi. Mariska cadde svenuta nelle braccia della madre. I compagni di Vlado, e una parte del corteggio della sposa si slanciarono sull'uccisore: ma questi era già rimontato a cavallo, ed era scomparso dietro le siepi e i cespugli che facevano ingombro al cammino.
X. Gradisca.
Il Vladica interruppe qui il suo racconto e mi sogguardò con un'aria di tranquilla ironia. — Voi non vi aspettavate un simile scioglimento — diss'egli.
— Confesso, Monsignore, che mi sembra un po' brusco — risposi.
— Eppure è il più ragionevole che si potesse sperare in codesta atmosfera morale, sopraccarica di pregiudizi secolari, e di passioni tremende. Vlado era senza dubbio alcuno il più colpevole di tutti, e pure sarebbe sfuggito al poter della legge. Gregorio si fece giudice ed esecutore ad un tempo. Non dico che facesse bene e che ne avesse il diritto. La vita dell'uomo non appartiene che a Dio che può dargliela: ma finchè vi saranno popoli, presso i quali la giustizia è lasciata all'arbitrio dell'individuo, bisognerà subirne tutte le conseguenze.
— E che avvenne di Gregorio, Monsignore?
— Il disgraziato Gregorio non potè raggiugnere la frontiera. Il suo cavallo non era nè il più robusto nè il più agile di quelli che lo seguivano. Il padre di Mariska guadagnò presto terreno sopra il fuggiasco, e giunse a tagliargli il passaggio al momento medesimo in cui toccava il confine. I doganieri austriaci erano all'erta, e Gregorio dovette soccombere al numero, malgrado il suo coraggio e il suo ammirabile sangue freddo. Ei non potè negare il suo delitto. Dovette quindi costituirsi prigioniero, e subire l'applicazione delle leggi locali che sono assai severe, e dirò pure, assai giuste.
— Condannato a morte?
— Non precisamente a morte: ma a vent'anni di lavori forzati. Io ho perduto un eccellente soggetto per colpa sua, e per un eccesso di buona volontà mal compresa. Vi ho già detto che s'era prestato, comecchè a malincuore, all'esecuzione degli ordini miei per il sequestro delle camicie insanguinate. Ed eccolo caduto egli stesso nel delitto che aveva contribuito a sopprimere nel principato. È una vera disgrazia! Ma alfine non si possono sradicare in un giorno nè in un mese gli antichi e inveterati pregiudicj di un popolo. Ciò ch'è possibile si fa; ciò che è impossibile si farà!
— Voi avete letto Macchiavello, Monsignore. Non si deve mai disperare dell'avvenire. E perchè non interporreste la vostra grande influenza per abbreviare la pena del vostro suddito?
— L'ho fatto, ed ho qualche speranza di riuscirvi. Vorreste vederlo? Mi propongo appunto di fargli domani una visita a Gradisca, per sincerarmi delle sue intenzioni. Venite con me: voi mi aiuterete nelle mie indagini. —
L'offerta era troppo cortese per non accettarla con gioia. Ci siamo dunque recati nel dì susseguente all'antico castello dei Conti di Gradisca, che fu trasformato in ergastolo. Il direttore aveva senza dubbio ricevuto le sue istruzioni in proposito, poichè ci aprì senza veruna opposizione le porte della prigione. Voi mi dispenserete volentieri dal farvi una descrizione che non avrebbe alcun carattere originale. Tutte le prigioni si rassomigliano. Sono tutte, qual più qual meno, una riproduzione dell' Inferno di Dante, sulla porta del quale, stanno scritte le nere parole: Lasciate ogni speranza! Fosse almeno un purgatorio! Sarebbe più cristiano e più umano!
Ci fecero venire Gregorio. Egli aveva già subìto due anni di reclusione, e l'illustre prelato ebbe qualche difficoltà a riconoscerlo nell'orribile costume di galeotto che portava. Il Montenegrino arrossì alla vista del suo principe e vescovo, e s'inchinò profondamente senza aprir bocca.
— Gregorio, figlio mio — disse il Vladica: — ho voluto farti una visita per mostrarti che non dimentico i miei confratelli nella loro disgrazia, e per vedere se potessi far qualche cosa in tuo favore. Tu sei fuori della mia giurisdizione, e non posso nulla per me medesimo. Ma Sua Maestà l'imperatore ha qualche bontà per me, e sarà forse disposto ad ascoltare le mie preghiere.
— Vorrei che poteste ottenermi una grazia, mio principe!
— Qual grazia — chiese Monsignore.
— La grazia di essere fucilato al mio paese, piuttosto che vivere nella condizione in cui mi vedete. — Egli disse queste parole senz'enfasi e con l'aria più tranquilla e più sincera del mondo. Ciò s'intende assai facilmente. Il Montenegrino non è gran fatto dissimile dal Beduino: vive essenzialmente d'aria, di luce, di libertà. Egli non ama il lavoro nè anche a casa sua, e per proprio profitto. Si può pensare come gli sia insopportabile il lavoro forzato, improduttivo, eseguito a ore determinate, co' ceppi ai piedi, in luogo angusto e in compagnia della peggior feccia che esista. La morte doveva parergli men dura, sopra tutto dopo aver salutato la sua patria, e aver respirato, a pien polmone, l'aria viva e frizzante della sua cara montagna.
— Vorrei ben ottenerti la grazia che chiedi — rispose il Vladica — non già per farti fucilare a casa tua, ma per offerirti una miglior occasione di espiar la tua colpa. Si domanda perciò che tu mostri di pentirti del fatto, e prometta di non più cadere nel peccato d'omicidio volontario....
— Sempre la stessa canzone — disse Gregorio con un movimento di amaro dispetto che la presenza del Vladica non potè raffrenare. — Io ho fatto male forse, secondo il codice austriaco: ma dinanzi a Dio, Monsignore, non credo aver commesso un delitto sì grave. Vlado avea bene meritato la morte. Or come posso io pentirmi di avergli fatto buona e pronta giustizia?
— Voi lo vedete — mi disse il Vladica in lingua francese, per non esser capito dal suo interlocutore. — L'abitudine è una seconda natura. Bisogna dare il tempo alla coscienza di rifare se stessa! — Poi rivolgendosi a Gregorio: — Tu hai torto, fratello — gli disse. — Tocca a Dio a giudicare. Tu hai voluto punire il tuo simile, ed eccoti punito per averlo fatto senz'ordine della legge. Non giudicate se non volete esser giudicato, dice il Signore. — Tu dunque hai fatto il male, e quindi è giusto che te ne penta. —
Gregorio chinò la testa e tacque.
Il Vladica gli dette la sua benedizione e promise d'interessarsi per lui. — Io vado a Vienna; — gli disse — ne parlerò all'Imperatore, e gli domanderò che ti rimetta nelle mie mani. Intanto armati di pazienza, e domanda perdono a Dio del sangue versato. —
Il Vladica era divenuto un vero vescovo pronunciando queste parole. Egli lasciò il prigioniero sotto l'impressione favorevole che aveva prodotto, e uscì con noi da quel tristo albergo del delitto e della disperazione.
XI. La Pazza.
— Vi ringrazio, per parte mia, Monsignore, delle consolanti parole che avete trovato per quell'infelice. Non dubito punto che riuscirete a salvarlo da quell'inferno, e a farlo rientrare nel suo paese.
— Sarebbe pericoloso — mi disse. — I parenti di Vlado potrebbero usare sopra di lui le solite rappresaglie. Il padre di Mariska è anch'egli irritato oltremodo contro di lui, perchè l'affare s'è divulgato, e divennero esso ed il suo figliuolo, oggetti di disprezzo e di abbominio. Seppi che ha dovuto abbandonare il paese dove aveva il suo podere, perchè non trovava più colono che volesse lavorare per lui, come sua figlia non aveva più trovato un galantuomo che consentisse a sposarla.
— E la povera Yella, che n'è di lei?
— Se noi fossimo padroni degli avvenimenti, e liberi di scegliere una soluzione al doloroso dramma, vi confesso che lo finirei con un buon matrimonio fra essa e il suo terribile difensore.
— Ella è madre oggimai — disse il Vladica — e pazza, ma d'una pazzia tranquilla, innocente, che non lascia temere di alcun sinistro.
— È una singolare follia quella in cui cadde la sventurata. Figuratevi! Ella non vuol credere alla morte del suo fidanzato, e sorride d'incredulità tutte le volte che gliene parlano per richiamarla alla coscienza di sè stessa e del mondo reale. Aspetta sempre il suo fratello d'anima, il suo sposo, il suo solo ed unico amore. — M'era stato detto che mi tradiva per una forestiera bellissima e ricca che l'aveva preso nelle sue reti. È una menzogna! È una calunnia! Il mio Vlado non mi ha mai tradita nè abbandonata un istante. —
— Voi vedete bene — soggiunse il Vladica — codesta follia non può dirsi una disgrazia per quella infelice. È forse un sollievo, un conforto che le manda il Signore per raddolcire la sua sventura!
— Se verrete a trovarmi nel mio paese, come mi avete promesso — aggiunse egli — vi farò vedere la povera pazza, come vi ho mostrato il suo vendicatore a Gradisca. È ancora una bella donna, un po' selvatica e strana, per effetto della sua allucinazione, ma un vero tipo della Montenegrina: occhi neri, chiome nere, carnagione abbronzata dal sole, snella e spigliata della persona come una figlia delle foreste.
Yella dimora in compagnia della madre che vive ancora, e che fu messa in istato di provvedere alle prime necessità della vita.
Yella non ha punto a soffrire per altri riguardi. L'intolleranza delle compagne ha dato luogo ad un miglior sentimento. Yella è ora considerata come la vedova di Vlado, e la sua disgrazia, più grande ancora della sua colpa, non ispira che la compassione e l'affetto. —
GENTILINA.
I.
I colli Euganei, che sono un vero paradiso della Venezia, ritornano sovente alla mia memoria coll'amara dolcezza di un frutto vietato, di un Eden conteso ai miei passi. Chi sa per quanto dovrò contentarmi di vederli e percorrerli colla fantasia, che mi dipinge i luoghi ameni, le persone vedute ed amate: i primi forse devastati dal soldato straniero, le altre disperse, proscritte, o cadute sotto la falce della morte o il flagello della sventura!
Che è avvenuto di te, Gentilina, che da oltre a trent'anni non ho veduta, e forse non vedrò più sulla terra?.... Non so se tu sia viva o morta, se hai creduto tu pure alle sinistre fatalità che accerchiarono la tua vita: o se, vittoriosa degli altri e di te stessa, sei giunta a godere un'esistenza, se non lieta, almeno rassegnata e tranquilla!
Rifrugando in questi giorni le mie vecchie carte ho trovato alcuni appunti che mi ricordano le traversìe della tua gioventù, e cedo alla tentazione di ritessere quelle varie fila per diletto mio proprio e dei pochi che gitteranno uno sguardo su queste pagine.
Commetterò io un peccato d'indiscrezione? Se fosse, te ne chiedo anticipatamente perdono. Ma penso che il tempo ha già dovuto stendere su quei fatti un velo pietoso, sì che gli scabri contorni saranno addolciti, e ciò che rimane prenderà il carattere d'una novella da potersi leggere con piacere, anche da quelli che ne fornirono l'argomento.
Figuratevi dunque, o lettori, una città degli Euganei; una di quelle graziose città che abbelliscono le pendici di tanto vaghe colline: città popolate e gaie, almeno in quel tempo che è divenuto quasi antico per me, perchè gli avvenimenti che si successero dal 1830 a' dì nostri, hanno accelerato, per così dire, il corso degli anni, e fatte maturare più presto le generazioni che s'incalzarono.
Molte di quelle città si somigliano, nè io dirò il nome di quella che fu teatro al dramma domestico che verrò raccontando. Avrei voluto dissimulare anche i nomi delle persone, ma non posso trovarne uno di più bello e di più caratteristico per la mia protagonista. Gentilina esprime non tanto le forme della persona, quanto il carattere e l'indole dell'animo suo. Fosse questo il nome impostole al sacro fonte, fosse un soprannome che le venisse dato per le sue qualità, ella chiamavasi da tutti così, e come io la conobbi sotto il nome di Gentilina, desidero pure che i miei lettori la chiamino nella stessa maniera.
Gentilina dunque era un'abitatrice dei colli Euganei, una giovane d'onesta nascita, di agiate abitudini, che sapeva scriver bene una lettera nella sua lingua, conosceva un poco la storia e la patria letteratura, ma senza darsene vanto, e senza cercar l'occasione di averne lode. Non sapeva il francese, nè strimpellava il piano, ma quando era sola cantava una delle dolci cantilene del luogo, o qualche romanza delle opere più conosciute che avea sentite ripetere per le vie. Tutt'al più, come la sua casa era ricca di un vasto giardino, vi coltivava una numerosa famiglia di fiori d'ogni stagione, dei quali conosceva il nome, l'indole e le qualità peregrine.
Erano tre sorelle. Le due maggiori maritate fuor del paese, la madre morta. Gentilina era rimasta sola col padre già vecchio; e benchè non avesse ancora venti anni, pensava talvolta, di rinunciare alle nozze, e consecrarsi alle cure che il buon vecchio non poteva oggimai sperare se non da lei.
La sua casa era sempre stata il convegno della parte più eletta de' cittadini. I giovani ci venivano per conversare, per parlare di caccia e dei fatti del giorno: i vecchi a fare il tressette, come dicevano, col padrone di casa, e sorseggiare con voluttuosa lentezza l'eccellente caffè che la Gentilina preparava e dispensava colle sue mani.
Tra gli ospiti della sera c'era Gregorio, figlio d'un ricco proprietario del paese, e Leopoldo giovane avvocato forestiero che da due anni viveva in quella città. Questi due, come potete credere, facevano un poco la corte alla damigella di casa, mossi da medesima inclinazione. Del resto Gregorio era di un carattere subitaneo, manesco, insofferente d'ogni ostacolo, altiero di possedere, come suol dirsi, la sua fortuna al sole, bello e forte della persona, e sprezzatore di tutti gli altri o men ricchi o men forti di lui. L'avvocato lo vinceva di cultura e di quella educazione sociale che consiste nello attemperare destramente le proprie maniere secondo l'indole delle persone a cui v'importa di andare a versi. Aveva compiuti i suoi studi legali e presa la laurea da parecchi anni, conosceva il francese e il tedesco, era ben veduto da tutti perchè sapeva guardarsi dall'urtare di fronte le molteplici suscettività del paese. Garbato, officioso, amorevole, avrebbe trascurato una buona ventura per non uscire di casa la sera coi calzoni che portava abitualmente all'ufficio, e gli avrebbe poi sciupati senza esitare per raccogliere cavallerescamente il ventaglio della padrona di casa. Era nato di buona famiglia, godeva la simpatia de' suoi capi, e non poteva mancargli una brillante carriera nella linea ascendente degli impieghi.
Di questi due giovani, pretendenti così alla lontana alla mano della bella padroncina di casa, non durerete fatica a persuadervi che il primo andava a genio della Gentilina, il secondo invece a suo padre. Ancora non vi era stata alcuna trattativa, anzi nè pure alcuna dichiarazione formale. Parlavano gli occhi, parlavano i cuori in mille occasioni, ma non era per anco uscito il primo: io t'amo nè da una bocca nè dall'altra.
Nelle lunghe sere d'inverno, l'avvocato sedevasi al tavolino, e faceva con una pazienza ed una compitezza esemplare la sua partita col vecchio. Gregorio stancavasi dopo la prima mezz'ora, e parlava invece di agricoltura, di caccia, di cavalli cogli altri che non giocavano. Quando era solo passeggiava su e giù per la stanza, educava, cioè tormentava il suo bel cane da ferma, e tratto tratto arrestandosi dinanzi alla Gentilina che attendeva a cucire o a ricamare, le fisava negli occhi i suoi occhi eloquenti, senza trarne però nessuna risposta che gli sembrasse soddisfacente. Più tardi, quando al tavoliere del padre s'annunziavano i due ultimi giri, ella si levava, accostavasi alle finestre ornate dai fioriti suoi vasi, e sceglieva un mazzolino da regalare a quelli degli ospiti che le parevano amici dei fiori. Consegnando il mazzetto, ella indicava il nome delle piante, e li condiva talora di qualche piccante o gentile allusione. Una sera, non importa ch'io vi dica la data, ella aveva composto due graziosi bouquets, e quando la compagnia cominciò a congedarsi, porse a Leopoldo il suo, composto di mughetti e di primule, accompagnando il dono con alcune parole, che parvero a Gregorio un po' troppo significative. Per cui, quando venne la sua volta, e la gentile botanica gli porse il mazzettino di eriche fiorite e di mammole, egli tra lo sdegnato e l'ironico — voi siete troppo amante dei fiori — le disse — per restarvene senza: se vi date tanto pensiero di noi tutti, è giusto ch'io vi rinunzi questa sera il mazzetto. — Come vi piace — rispose Gentilina senza mostrare la minima alterazione, e si ripose i fiori da un lato della cintura che le annodava leggiadramente la vita. — S'accommiatò con gentilezza imparziale da entrambi, come non avesse avvertito l'affronto, o come vi fosse affatto insensibile. Non era però nè l'uno nè l'altro: ella aveva intesa l'ironia, e l'avea perdonata. Non crediate che fosse dissimulatrice: ma come un'acqua chiara e profonda, rare volte lasciava vedere l'interno dell'anima. Non era più l'ingenua giovanetta di tre lustri: contava ventiquattr'anni, e aveva già provate le prime amarezze della vita.
II.
Questo vuol dire che aveva amato: nè voglio farvi mistero di una circostanza che avea profondamente influito sul suo carattere. Gentilina avea accarezzato fin dai primi anni una secreta speranza di unirsi in matrimonio ad un altro giovane del paese che le pareva fatto per la propria felicità. Dal canto suo Gustavo non avea per lei minor affezione; anzi i loro cuori s'erano intesi in quel primo crepuscolo del sentimento, quando le anime non hanno mestieri della parola per aprirsi alla vita d'amore. Pari d'età, di condizione, di nascita, sembrava non vi dovesse essere ostacolo alla loro unione: ma un importuno litigio avea messa tanta ruggine nell'animo dei loro vecchi parenti, che improvvisamente fu troncata qualunque relazione fra le due famiglie, e ingiunto ai due sventurati giovani di non vedersi e di non parlarsi mai più sotto pena della paterna maledizione. Vi lascio pensare le lagrime, le preghiere, la disperazione dei due disgraziati, che mai non avevano creduto di amarsi tanto, come allora che l'amarsi diveniva quasi un delitto. Dall'una parte e dall'altra non furono risparmiati i mezzi più validi per riconciliare i due vecchi irritati: il parroco, le persone più autorevoli del luogo aveano esaurito invano i loro consigli: non si vedeva più nessuna possibilità di rappacificarli, tanto più che non mancarono i soliti mali uffici indiretti, le solite lagnanze riferite perfidamente dai maligni che godono del male altrui, mentre sembrano intenti a predicare la pace. Ogni giorno portava nuova esca all'avversione, all'odio reciproco. Le cose giunsero a tale che gli amici più non osavano proferire il nome d'una famiglia in presenza d'alcuno individuo dell'altra. Gustavo tempestava, sciupava denari, stancava i cavalli dalla mattina alla sera quasi cercando di sfogare in questa guisa il proprio mal umore. Gentilina tanto più profondamente addolorata quanto meno lo lasciava trasparire al di fuori, pregava Iddio e la Vergine la volessero esaudire, ed era divenuta più assidua, più tenera, più affettuosa, quasi sperasse di ottenere colla dolcezza quello che Gustavo si lusingava di estorcere di mal grado. Ma l'uno e l'altra non riuscirono a nulla.
Il padre del giovane, vedendo che non c'era via di guarirlo della sua ostinata passione, gli proponeva senza frutto i più ricchi partiti di matrimonio, senza ottenere nessun'altra risposta che questa: — o Gentilina, o nessun'altra donna fino ch'io vivo. — Allora il vecchio ricorse ad altri espedienti: propose al figlio di fare un viaggio nella Svizzera, nell'Alemagna, dove aveva imprese, forse a quest'uopo, alcune speculazioni. Gustavo partì, che già poco gli giovava restare: passò più di due anni lontano dalla sua terra nativa: ma la lontananza che mette in calma lo spirito, in lui non aveva fatto che aggiugnere fuoco a fuoco. Gentilina gli era oggimai necessaria, avrebbe aspettato quattro, cinque, dieci anni, finchè fosse vinto ogni ostacolo. Che cosa sono dieci anni e più d'intervallo a chi ama davvero, a chi ama per la prima volta? La vita sembra allora composta di due momenti, quello in cui fu accolta la nostra prima parola d'amore, e quello in cui speriamo di vederla, quando che sia, soddisfatta.
Io vorrei passare sotto silenzio l'ultimo espediente che fu adoperato per vincere al suo ritorno l'ostinata passione del giovane: ma cada la vergogna su quelli che vi ricorsero! Fu calunniata la virtù della povera Gentilina, si contraffece la sua scrittura, si provò la sua infedeltà, le fu tolto ogni mezzo di potersi giustificare. Gustavo cadde nell'agguato ordito con quella perfida finezza che suol porsi ne' piccoli paesi in simili intrighi: credette inutile ogni discolpa della fanciulla, e non la cercò. Tra per vendetta e per istanchezza obbedì al comando de' suoi, si legò in matrimonio ad una donna ch'ei non amava, e credette aver dimenticata Gentilina. Ma un primo amore deluso e tradito si cambia in odio: egli covava nell'animo suo tutta l'indignazione che la supposta infedeltà di Gentilina gli aveva destato.
Ed ella? — Ella aveva saputo troppo tardi l'insidia: avea cercato di giustificarsi, quando le sue discolpe parevano interessate: oltracciò le sue lettere erano intercette tanto più facilmente, quanto le due famiglie nemiche convenivano sulla necessità di rompere quei legami.
Oh! vecchi! vecchi! Di quanti mali è sovente colpevole ciò che voi chiamate prudenza! Voi credete poter adoperare ogni mezzo impunemente per isradicare un affetto dal cuore dei vostri figli, e non badate che spesso, sradicandone uno di bello e generoso, gettate il seme d'un altro tristo e infelice! Voi non pensate che al futuro benessere de' vostri figli, e non sapete che il futuro si fabbrica sul presente, e non si fa più rivivere un cuore quando vi si spegne un affetto che gli dava per così dire la vita!
Io mi dilungo un po' troppo in questi antefatti, perchè il mio racconto comincia in un'epoca posteriore di ben quattro anni. Ma l'animo di Gentilina non s'era punto cangiato per sì lungo intervallo: ella non avea più veduto Gustavo dopo il suo matrimonio di dispetto. Questo l'aveva in parte guarita, l'aveva resa, non tranquilla, non lieta, ma più rassegnata; e se amava forse egualmente il suo primo amante, certo lo stimava assai meno. Ella, nella situazione di lui, avrebbe, o almeno le pareva, conosciuto l'inganno; avrebbe trovato nell'amor suo il coraggio necessario a resistere ad ogni umana potenza, a trionfar d'ogni ostacolo. L'uomo che avea saputo dubitare di lei non l'amava abbastanza per farla felice; l'uomo che s'era lasciato vincere suo malgrado dall'altrui volontà, non corrispondeva più a quel tipo ideale di forza e di costanza a cui ella intendeva donarsi. Dotata di tanta energia, ella voleva un marito più energico ancora, voleva poter riconoscere la superiorità morale dell'uomo suo. — Tal era il carattere, tale la situazione di Gentilina, quando si trovava costretta ad ascoltare le parole appassionate dei due nuovi suoi pretendenti. Nè l'uno nè l'altro era tale da poter riempiere il vuoto che l'era restato nel cuore: nessuno dei due poteva farle dimenticare Gustavo, ancorchè tanto scaduto nell'opinione di lei. Gregorio, impetuoso, iracondo, geloso, intollerante non le sembrava sprovveduto di quella energia ch'ella vagheggiava, ma egli era sovente rozzo, incoerente, brutale. L'altro ella soleva paragonarlo ad una rosa del Bengala: di maniere e di forme eleganti, ma senza odore. Avrebbe voluto congiungere in un solo individuo quelle due nature incomplete: ma vedeva bene essere cosa impossibile il farlo. Perciò, non osando congedarli, temporeggiava, come fanno le donne, e si lasciava amare senza prevedere le conseguenze di questa innocente e passiva civetteria.
Quanto ai due giovani che s'erano chiariti rivali nella sera del mazzolino, le loro disposizioni d'animo erano molto diverse. Nell'amor di Leopoldo c'entrava per più di un terzo di vanità: la Gentilina era la più bella fanciulla del paese, era sulle bocche di tutti per le sue passate sventure, e ciò che le scemava pregio agli occhi di Gregorio, gliene accresceva per lui. Egli avea gustato la vita della capitale, guardava l'amore come un trionfo, non vedeva il matrimonio che ad una grande distanza, nè domandava conto a se stesso quali ostacoli avrebbe incontrati per via, e come gli sarebbe stato possibile superarli. — Gregorio non avea pensieri così raffinati: egli non amava per pura galanteria: s'era preso della fanciulla pe' suoi pregi personali; avrebbe voluto averla trovata ancora libera da ogni altra inclinazione, perchè il passato medesimo era una specie di rivale per lui, e mille volte al giorno faceva proponimento di torsela dal pensiero: ma poi vi tornava per abitudine, la trovava sì pura, sì tranquilla, sì bella, che le perdonava la prima passione, e credeva d'essere abbastanza felice, se fosse giunto a conquistare un affetto provato a tale cimento.
Ma ora, oltre al rivale passato, se ne vedeva a fianco un altro, un rivale presente, al quale nel suo fòro interno non poteva negare una certa eleganza di modi, una certa superiorità di cultura. Gli passò per la mente che Gentilina, così gentile e garbata come era, poteva bene dare la preferenza al profumato vagheggino della capitale. Avvampò di sdegno a questa sola idea: sentì la sua forza, unico punto di vantaggio ch'egli avea sopra l'altro, affrettò il passo per raggiungerlo: lo raggiunse che andava zufolando a passo spedito come l'uomo contento di se medesimo: ebbe la tentazione di strappargli il mazzetto dall'occhiello, e di dargli una stretta di mano all'inglese che lo facesse allibire: ma fortunatamente l'avvocato s'avvenne nel Podestà del paese che pigliandolo a braccio l'avea sottratto all'insulto imminente ch'era ben lontano dall'aspettarsi.
III.
In uno stato di alterazione che si può facilmente immaginare da chi s'è formato un'idea del suo carattere vulcanico, Gregorio si mise a battere, come si dice, la luna, misurando tutte le contrade della città a passi concitati, senza scopo e senza disegno, come se desse la caccia al proprio dispetto. Sentì sonare due tocchi all'orologio di piazza, e risentendosi improvvisamente domandò a se medesimo che cosa avesse fatto per ben quattr'ore. Si ritirò a casa e volle dormire, ma non potè soffocare l'acre pensiero che l'avea inseguito: onde passò la notte voltandosi come febbricitante or sopra un fianco, or sull'altro, facendo ad ogni girata un progetto di vendetta, e una risoluzione che abbandonava ben tosto. Si alzò col sole, senz'aver chiuso occhio: si pose a scrivere alla Gentilina dieci lettere, che lacerò senza finirle: pensò di spedire invece un biglietto insolente al suo rivale, poi si pentì ripigliando se stesso di pusillanimità. A quattr'occhi, a quattr'occhi, pensava, ci troveremo e.... ci parleremo. Bisogna dire che una tale risoluzione gli sembrasse per ogni riguardo preferibile all'altra, giacchè quando fu la mattina un po' avanzata, prese il cappello e n'andò difilato alla casa di Gentilina. Ella era in giardino che visitava le sue piante, e vedeva con piacere spuntare qualche gemma ai primi influssi della nascente primavera. Egli non era mai penetrato in giardino a quell'ora: pure non esitò. Gentilina era sola, lo accolse con un movimento involontario di meraviglia, ma tosto si ricompose prima ch'egli potesse avvertirlo.
— Vedete — diss'ella — come il verno ha rispettato le mie piante! Ne sono veramente contenta.
— Senza dubbio pensando alla contentezza di quelli che riceveranno i vostri mazzetti.
— Perchè no? — diss'ella con aria fina ed ingenua — vorrei sperare che non saranno sempre rifiutati come iersera. —
Gregorio avvampò di collera e proruppe con impeto. — Prego Iddio a voler versare tutta la sua gragnuola su' vostri fiori! Prego Iddio a sterminare.... — Uno sguardo tranquillo e severo di Gentilina lo arrestò d'improvviso, e rimasero alcuni minuti in silenzio. — Gentilina! — riprese egli al fine — voi non sapete il male che m'avete fatto ieri sera: voi non sapete a qual pericolo avete esposta la vita del vostro caro!... — Che dite mai? — rispose ella infingendosi. — L'odore troppo forte dei mughetti gli avrebbe forse procurata l'emicrania? Mi dispiacerebbe, povero Leopoldo! Procureremo di dargli dei fiori meno odorosi. Voi foste più cauto di lui lasciandomi il mio bouquet. Vedete, io l'ho ancora qui, e lo conservo in memoria della vostra.... compitezza.
— Gentilina, bisogna dichiararsi. Io non sono uomo da soffrire che quel Monsù mi pesti sui piedi. Voi lo preferite già apertamente a tutti gli altri che sospirano alla vostra mano. Non è giusto lusingare troppe speranze ad un tratto: ditemi il vostro pensiero: siate sincera e franca una volta.
— Il mio pensiero? Ho bisogno di dirvelo? — chiese Gentilina con tuono ambiguo quasi volendo schermirsene. — Ve l'ho detto ieri sera, e ve lo ripeto, se occorre, questa mattina perchè mi crediate sincera. Io trovo assai compìto quel giovane, e se voi dite il vero ch'ei sospiri alla mia mano, avrebbe torto a dubitare d'un rifiuto. Che ne dite voi, che dovete intendervene? Che mi consigliereste di fare? —
Gregorio rimase interdetto e non comprese la secreta ironia di queste parole. Gentilina infatti pensava a tutt'altro che ad accettare Leopoldo per marito; ma voleva vendicarsi da donna dello sgarbo ricevuto la sera prima, e dare una lezione di pazienza e di gentilezza al geloso suo pretendente. Il giovane prese la risposta alla lettera, e soggiunse: — Giacchè lo volete, pigliatevelo: io non porrò più piede sulla soglia della vostra casa. — Gentilina lo guardò e non dubitò di rispondergli seccamente: — siete padrone.
— Ma egli non mi sfuggirà sempre! Non godrà lungamente del suo trionfo!
— Io credo che saprà difendere la sua vita — diss'ella sorridendo — quando saprà ch'io ne faccio così gran conto.
— Gentilina!
— Signor Gregorio!
— Badate!
— Vi prego di lasciarmi ai miei fiori: essi m'intendono meglio di voi. —
Gregorio non aggiunse parola, e dopo essere restato come balordo per alcuni momenti, col cuore aggruppato, se ne partì mulinando nella sua mente non so quali pazzi disegni. Gentilina gli guardò dietro, e le dispiacque che avesse preso la cosa così a rovescio: pure non fece un cenno per arrestarlo. — Non mancherà tempo — diss'ella tra sè — e continuò a recidere i rami inariditi delle sue piante, col pensiero rivolto ad altro. Ella non si sarebbe giammai figurata quali serie conseguenze dovevano derivare da quel capriccio di donna, ai due gelosi rivali, e a lei stessa.
Gregorio mantenne la sua malaccorta parola. Egli era rozzo, collerico, orgoglioso, e si pose subito sopra una via falsa che doveva trarlo di passo in passo più sempre lontano dalla sua mèta. Egli aveva fraintesi i sentimenti di Gentilina, e invece di pensare a chiarirsene meglio, cominciò a sparlarne a questo e a codesto: asserì ch'ella era una lusinghiera, una civettuola; che Gustavo aveva fatto bene a trarsela dal pensiero e sposarne un'altra; che le voci che l'avevano indotto ad abbandonarla non doveano essere punto calunnie, ma verità e così via via, facendogli eco tutti coloro che trovavano il tornaconto a dar ragione a lui presente, piuttosto che a prendere le difese di Gentilina lontana. Le donne specialmente erano tutte del suo parere.
Leopoldo intanto era tronfio e vano del suo supposto trionfo. Raddoppiò le sue attenzioni alla fanciulla ed al padre di lei: e non mancava mai di mostrare a Gregorio quando lo incontrava per via qualche fiore appiccicato al vestito, foss'egli o no un presente della Gentilina e un contrassegno della riportata vittoria sul cuore di lei. Una volta, uscendo ad ora più tarda del solito da quella casa, vide il suo sfortunato rivale rimpetto alla porta. Si fermò vedendolo avanzare alla sua volta, immaginandosi tutt'altro che un incontro apertamente ostile. Gregorio lo agguantò senza cerimonie per una spalla, e gli disse con voce soffocata dall'ira: — Ebbene! v'ha fatto ella felice stasera? — Che diritto ha lei di farmi una tale domanda? — rispose Leopoldo ritraendosi d'un passo, pallido per la sorpresa e forse per altro. — Diritto o no — soggiunse Gregorio — voi mi risponderete, spero. Dove l'avete lasciata a quest'ora? — Io credo nella sua stanza.... o in giardino, — rispose Leopoldo esitando forse coll'intenzione secreta di far credere all'altro qualche cosa che fosse delicatezza il nascondere. — Voi siete discreto — disse Gregorio — e meritate una ricompensa: accettate da un leale amico il consiglio di non porre mai più il piede in quella casa.
— Ella scherza! — disse l'altro impaurito dal tuono serio e perentorio di queste parole.
— Io non ischerzo punto, — soggiunse Gregorio — m'apposterò tutte le sere in quel luogo medesimo; e la prima volta ch'io vedrò uscire di là una persona che vi somigli, vi giuro per la.... gli trarrò di corpo per sempre la voglia di ritornarvi. Badate che nel nostro paese questo non si suol dire due volte! — Dopo queste parole s'allontanò senza curare l'effetto che avrebbero prodotto nell'altro. Questi restò immobile per un tratto, poi si strinse nelle spalle, e, provandosi a zufolare la sua solita arietta, si ritirò a casa sua tutto sconcertato, confortandosi però che v'erano mezzi per far tener d'occhio il suo rivale e per sottrarre se stesso ad ogni pericolo.
Contuttociò per le tre sere che susseguirono a questa minaccia Leopoldo pensò di rientrare nella sua stanza per tempo ostentando d'aver qualche affare d'ufficio che lo pressasse. Gregorio non mancò di recarsi a notte fitta dinanzi alla casa di Gentilina per vedere l'effetto dei suoi consigli, e cominciava a congratularsi nel suo interno del proprio trionfo. Non sapeva però render ragione a se stesso di una persona o due che lo seguivano a qualche distanza nel buio. Una sera non potè resistere alla propria curiosità, e mosse loro incontro. Un uomo ben conosciuto, ma al quale ei non aveva mai parlato, gli domandò che facesse costì. — Fo all'amore colla luna — rispose Gregorio — avete qualche cosa a dire in contrario? — Potrebbe darsi, — ripigliò l'incognito. — Uomo avvisato!... Ella m'intende! — e senza aspettare risposta finse d'andarsene. — Gregorio però non si mosse di là, persuaso che ciò non doveva essere avvenuto senza un perchè. Infatti da lì a mezz'ora la porta della casa di Gentilina s'aprì. Un uomo avvolto in un mantello n'usciva, dopo d'aver scambiato qualche parola con alcuno che l'aveva accompagnato fin là. Era l'avvocato. Gregorio riconoscendolo, sbucò dal suo nascondiglio, e s'avventò contro il malarrivato. Questi si guardò intorno e volle gridare: ma Gregorio gli pose una mano alla bocca, e senza dargli tempo nè a difendersi nè a fuggire, lo gittò a terra, gli piantò nel cuore uno stiletto che trasse dalla ferita, e in un lampo s'allontanò. Di lì a pochi minuti tutta la famiglia di Gentilina, e la persona che aveva poco prima parlato a Gregorio s'erano raccolti intorno a Leopoldo che nuotava nel proprio sangue.
IV.
Gentilina per uno di quegli istinti di donna che non s'ingannano mai, aveva indovinato il tutto, e tocca da questo presentimento come da un fulmine, era caduta fra le braccia d'uno dei circostanti. Si parlò di portare il ferito al suo domicilio, ma era lontano, e si poteva ragionevolmente temere che vi fosse pericolo sì nell'indugio che nel trasporto. Le farmacie erano tutte chiuse, chiuse tutte le botteghe e le case vicine, la notte fosca e la città tutta in calma. Il padre di Gentilina accorso sul luogo, offerse la propria casa per prestargli i primi soccorsi, e il corpo immobile dell'avvocato fu posto nella prima camera a cui metteva la scala. Era la camera di Gentilina. Mentre alcuni accorrevano a risvegliare un chirurgo, la coraggiosa giovane, riavuta dal suo svenimento, scoprì la ferita aperta sul petto, e s'ingegnò d'arrestarne il sangue co' pannilini. Di lì a poco Leopoldo aperse gli occhi gravi e smarriti, e parve riconoscere quelli che lo circondavano. Fissò la Gentilina con un sentimento di gratitudine, ma tosto il suo sguardo si rannuvolò e si volse tristamente altrove. Egli non proferse una sola parola. Venne il medico, esaminò la ferita, crollò il capo in segno di tristo presagio, consigliò le fasciature e le cure che credette opportune, e rimise all'indomani il decidere sulla gravità del caso. Vi lascio pensare qual notte passò la fanciulla riconoscendo in se stessa la causa di tale avvenimento e prevedendo le gravi conseguenze che ne potevano sorgere. Persuasa, pregata a voler ritirarsi dal triste spettacolo, non volle mai abbandonare quel letto; spiava ogni sintomo favorevole nel giacente, ma non osava interrogarlo: avrebbe data la metà del suo sangue perchè la ferita fosse leggiera e sanabile: ma chi potrebbe scendere nel suo cuore e discernervi tutti i motivi di un tal desiderio e di un tale spavento? Ella medesima non avrebbe potuto renderne conto a se stessa; del resto le cure ch'ella prodigava al ferito, le avrebbe prestate ad uno straniero, ad un povero per solo istinto di umanità. Ma in questo caso la sola pietà naturale non l'animava; un mortal pallore ricopriva il suo volto, e un secreto rimorso pingevasi nei suoi sguardi smarriti.
Intanto Gregorio, riposto lo stiletto con apparente tranquillità, con fermi e sonanti passi aveva continuato per la sua via. Ma a mano mano che s'avanzava alla volta della sua abitazione, tutta la sua persona agitavasi, il passo si accelerava, oltrepassò la sua casa senza avvedersene, uscì dal circuito delle mura e si trovò nell'aperta campagna quasi in aspetto di fuggitivo. Infatti egli poteva ben essere inseguìto: ma non pensava a codesto, e pure fuggiva senza riflettere a quanto avea fatto, fuggiva dal rimorso che assale subito l'omicida. Le cagioni che l'aveano indotto a bagnarsi le mani nel sangue del suo rivale erano così frivole, che il fatto stesso parevagli un sogno. Vi fu un momento che si volse indietro quasi per accertarsene, quasi per revocare colla volontà il corso dell'avvenuto. Ma quando fu per rientrare nella città e nasceva già l'alba e le case cominciavano ad aprirsi qua e là, la coscienza del suo delitto lo assalì chiara e terribile: sentì il pericolo che gli soprastava, corse a casa, sellò un cavallo e via prima che si potessero dare gli ordini per arrestarlo. Due giorni dopo Leopoldo, sempre in pericolo di vita, avea svelato il nome dell'omicida, e Gregorio, arrestato in un suo podere, avea subìto un primo esame, niegando il fatto e ingegnandosi di schermirsi coll' alibi: ma troppo certi indizii stavano contro di lui, perchè potesse sperare di uscirne per mancanza di prove.
V.
Mentre Leopoldo era in lotta colla morte, e l'altro colla giustizia, Gentilina trovavasi affranta sotto il peso del proprio rimorso. Ella non era colpevole dell'avvenuto: perchè chi mai, anche conoscendo il carattere focoso di Gregorio, chi mai poteva prevedere codesto eccesso? Pure quell'anima onesta e delicata non sapeva perdonare a se stessa d'aver suscitata spensieratamente quella fatal gelosia. Nel paese la povera giovane per poco non si trovò sotto il peso della pubblica esecrazione. Chi non conosce la carità delle brigate in simili circostanze? Il mondo è lì sempre per compiangere i morti, per assolvere gli accusati, per calunniare i meno colpevoli. Le stesse cure affettuose ch'ella prestava al malato, le sue istanze perchè non venisse tolto dalla sua casa le furono attribuite a colpa. — Ella è innamorata di lui — dicevano alcuni — le preme di risanarsi un marito e vincolarselo colle sue premure. — Ella è presa di Gregorio — dicevano gli altri — e vorrebbe salvo il ferito, per la salvezza dell'uccisore. — Così la sua stessa pietà veniva tacciata d'interesse, di doppiezza, d'ipocrisia. Queste maligne supposizioni non tardarono a giungere a lei: il padre medesimo gliene parlò per indurla a lasciar trasportare altrove il ferito, or che si poteva farlo senza aumentare il pericolo: ma la generosa giovane non si lasciò smuovere dal suo proposito. — È forse la prima volta — disse ella — che sono segno delle altrui maldicenze? Mi ci sono assuefatta: non è più tempo di evitarle, bisogna vincerle, bisogna affrontarle. Questo sventurato deve risanare per le mie cure, o morire fra le mia braccia. —
Leopoldo dal canto suo non avea potuto resistere a tante attenzioni più che materne che Gentilina gli andava usando di giorno e di notte. Quell'amore che prima non era forse che vanità, si andava cambiando nell'animo suo in un affetto vero e profondo. Benchè non avesse fondate speranze di risanare, chè quelli dell'arte non osavano dargliene, vi furono momenti che l'abbandonare la vita gli sembrava più doloroso per doversi staccare da lei, per non poter condurre tutti i suoi giorni in sua compagnia. Gentilina sentì queste proteste arrossendo e facendosi pallida tutt'ad un tratto: ella non l'amava, ella ne amava un altro, ella amava l'uccisore medesimo. Benchè colpevole, benchè delinquente, accusato, forse condannato al patibolo, essa lo amava! Tra l'uno che avea perduto la vita per lei, e l'altro che le avea sagrificato la propria innocenza, il suo cuore rimaneva attaccato al secondo. Io non l'accuso e non la condanno: voglio rispettare, senza esaminarli, i secreti di quell'anima singolare. Dirò solo che non le sofferse l'animo di seguitare a mentire. Interrogata dal giovane di cui s'era fatta infermiera se veramente l'amasse, ella dopo aver tentato sottrarsi alla necessità di rispondere, presa alle strette, gli dichiarò che ella non amava alcuno; che essendo stata la vittima di tante fatalità, sarebbe andata a chiudersi in un convento per espiare nella solitudine tutta la colpa ch'ella potesse averne dinanzi a Dio. Dicendo queste parole ella forse illudevasi, forse mentiva a se stessa e ad altrui per rendere meno amara la negativa all'infermo. Questi intanto peggiorava di giorno in giorno visibilmente: la ferita avea fatto sacco, e promossa una suppurazione che assorbita nel sangue, spegneva lentamente la vita dell'infelice. Il suo stato non avea pur anco permesso che fosse sottoposto a un processo verbale da cui doveva dipendere la sorte dell'imputato. Tutte le volte che il nome di lui veniva proferito alla sua presenza, egli fissava Gentilina e la vedeva impallidire e tremare. Egli s'appose al vero: lesse nell'animo della giovane con più di chiarezza forse di lei medesima; vide ch'ella era presa di Gregorio, e al momento in cui una tale scoperta gli balenò nella mente, strinse i denti e li odiò tutti e due.
Li odiò: ma per poco. Il naturale del giovane non era malvagio. Egli alfine sapeva di aver provocato quel colpo a cui soccombeva. D'altronde poteva egli odiare quella donna che da due mesi lo curava, lo vegliava, andava sensibilmente deperendo sotto il peso di quelle cure e di quelle circostanze che funestavano l'anima sua anche nel pietoso esercizio? — Gentilina — egli disse — non seguitate ad infingervi: voi amate Gregorio, ed io.... io son sul punto di trarlo meco nell'eternità per un cammino forse più doloroso del mio! Se l'avessi preveduto, il suo nome non sarebbe uscito dalle mie labbra, ed ora sarebbe già lasciato in libertà per insufficienza di prove. Gentilina io ve lo perdono: anzi mi è doppiamente duro il morire, perchè la mia morte porrà in grave pericolo la sua testa. Pensai com'io potessi diminuire questo pericolo, e voglio consecrare a quest'opera di pietà, e forse di giustizia le poche forze che mi rimangono. Badate che non entri nessuno: prendete un foglio, scrivete ciò ch'io vi detto. — Gentilina, confusa e tremante, senza sapere che cosa avrebbe scritto nè quali conseguenze ne potrebbero derivare, sentì dettarsi queste parole:
— «Dichiaro di aver io medesimo provocato il mio uccisore: dichiaro di averlo insultato più volte, di averlo ingannato infiammando in mille guise la sua gelosia. Dichiaro di averlo percosso, e che solo in difesa della propria vita mi portò il colpo mortale al quale soccombo. Sul punto di presentarmi a quel Giudice che vede tutto, rilascio spontaneamente questa protesta, la quale il tribunale prenderà in considerazione, per non prender contro l'accusato misure troppo severe e contrarie alle norme della giustizia.» Ora, o Gentilina, datemi quel foglio ch'io mi sforzerò di apporvi il mio nome. — Gentilina piangendo e singhiozzando presentogli il foglio e la penna, e cadde in ginocchio alla sponda del letto, sfogando con larghe lagrime la piena dei mille affetti che le gonfiavano il cuore. Leopoldo era sublime in quel momento. Segnò con mano tremante il suo nome sotto quelle parole, e porgendo a Gentilina la carta: — prendete — disse — ringrazio Iddio che mi è concesso ancora poter rimeritare le vostre cure, e riparare in parte al male che ho fatto.
Dopo due ore egli non era più.
VI.
Lasciamo il letto dove giace il corpo esanime dell'avvocato per visitare entro la sua carcere l'uccisore di lui. Egli avea lungamente negato, perchè gli amici e i parenti lo consigliavano a questo. Ma il giudice un giorno, dopo aver indarno esauriti tutti i soliti artifizi per istrappare la sua confessione, s'era avvisato di tentare una corda non ancor tocca. — Il giovane — disse — che rimase ferito sulla porta della famiglia M. v'accusò distintamente d'avergli dato la morte. Non potendo moversi dal suo letto, che non potrà certamente cambiare se non col sepolcro, domandò che gli siate condotto dinanzi. Domani vedremo con quanta impudenza saprete sostenere la vostra negativa in presenza della vostra vittima, in presenza di quella famiglia che, come ben sapete, non è straniera agli antecedenti che vi portarono a quell'eccesso! Andatevene: domattina alle nove tenetevi pronto al cimento. — Gregorio impallidì. Egli non era preparato a questa proposizione. L'idea sola di trovarsi dinanzi al suo nemico nella camera di Gentilina, in presenza di lei, gli fu insopportabile. Domandò la parola e confessò a parte a parte l'accaduto, senza pensare a scusarsi, senza aggiungere nessuna di quelle circostanze che dovevano attenuare la sua colpa e mitigare la sua condanna.
Gregorio sarebbe morto piuttosto che rivedere Gentilina, non aveano mancato i caritatevoli amici d'informarlo delle sue cure per Leopoldo, delle sue istanze per ritenerlo presso di sè, delle buone ragioni che il mondo le attribuiva. Nella persuasione in cui si trovava d'essergli stato posposto, non durò fatica a credere tutto questo e ancor più. Provò per qualche momento una feroce compiacenza di aver ferito due cuori con un sol colpo, d'essersi vendicato in un solo momento di tutti e due! Egli non pensava alla condanna che l'attendeva: non pensava che alla sua gelosia e al truce sentimento che assorbiva per così dire tutto il suo essere. Un giorno gli furono introdotte nell'angusta e lurida stanza dove si trovava, due persone non aspettate: un vecchio e una giovane donna coperta da un fitto velo. Il carceriere, appena accompagnati costoro, si ritrasse. Gregorio che sonnacchiava tra' sanguinosi fantasmi di vendetta, diede una specie di ruggito vedendo innanzi a sè il padre di Gentilina, e una donna che non durò fatica a riconoscere. La sorpresa da una parte e la compassione dall'altra tolse a tutti e tre l'uso della parola per pochi momenti. Gregorio fu il primo a rompere il silenzio dirigendosi alla donna, ma senza guardarla. — Vi siete ricordata di me! Segno che l'altro non è più vivo! — Gentilina si sentì gli occhi pieni di lagrime a questa crudele interpellanza, ma pure le divorò, e rispose con calma e con dignità. — Sì, Gregorio, il vostro rivale è passato a vita migliore: è morto perdonandovi, e mi comandò di annunziarvi colla mia bocca gli ultimi suoi sentimenti. — Ha scelto davvero un'interprete molto opportuna! Quando sarà proferita la mia sentenza (ora già non c'è più via di evitarla), il tribunale farà bene a farmela annunciare per mezzo vostro. — Gentilina abbassò gli occhi e fece uno sforzo per vincersi, poi traendosi dal seno un foglio piegato: — eccovi — disse — eccovi infatti la sentenza ch'io vi presento. Leggete. — Gregorio lesse la generosa dichiarazione del suo rivale, e stette per alcun tempo immobile ed avvilito. Il vecchio, che aveva taciuto fino allora, gli fece avvertire l'importanza di quel documento; narrò quante difficoltà la Gentilina doveva aver superate prima di possederlo, prima di farglielo pervenire. — No, no — interruppe la Gentilina — nessuna difficoltà ad ottenerlo: non me n'era nemmeno venuto il pensiero. Fu un'ispirazione spontanea di quel cuore che era assai migliore che.... non si credeva.
Gregorio riarse di sdegno al sentire le lodi del suo rivale sulla bocca di lei, e non potè trattenersi dal dire: — Voi avrete le vostre ragioni per lodarvi di lui! Quanto a me.... piuttosto di dovere la mia vita e la mia liberazione alla sua generosità, al suo perdono.... voglio abbandonarmi al corso naturale della giustizia. Riprendete il vostro foglio, e lasciatemi! —
Gentilina non s'aspettava una risposta così brutale: sentì che Gregorio non era capace di un sentimento generoso perchè non sapeva apprezzarlo in altrui: sentì che quell'uomo non l'amava, nè l'amerebbe mai: arrossì di se stessa e di lui, riprese il foglio, e passando dignitosamente il suo braccio sotto a quello del padre suo, calò coll'altro il suo velo, ed uscì.
Il suo cuore fu cambiato fin da quel momento. L'idea di legar la sua fede ad un uomo tale le parve assurda, e avendo perduta l'ultima illusione della sua vita, l'unico premio che sperava ai suoi sacrificii, si sentì vedova e desolata nel mondo. Il padre suo non mancò di accrescere lo stato d'abbattimento in cui si trovava, dicendole ch'egli l'aveva già preveduto, ch'ella avrebbe dovuto arrendersi anche prima alla sua esperienza, ch'era tempo di levarsi dal pensiero e il morto ed il vivo, il quale già meritava la sorte che l'attendeva.
Gentilina però non era donna da questo. Qualunque fossero i suoi sentimenti verso Gregorio, ella non poteva abbandonarlo alla inflessibilità della legge umana. Quel documento doveva dunque rimanersene ozioso ed inutile? Era dunque invano che sul momento di possederlo, ella si stimava di stringere tra le sue mani la vita e la salute d'un uomo? Leopoldo conosceva la legge: non gliel'avrebbe dato con tanta solennità, se doveva essere una cosa infruttuosa e illusoria. Ella prese dunque una coraggiosa risoluzione, e senza consigliarsi con alcuno, senza domandare l'assenso del padre, si mise in viaggio per Verona dove appunto in quei giorni doveva decidersi la sorte dello sciagurato Gregorio.
Giunta in quella città, cercò tutti i mezzi per aver l'accesso al consigliere che avea tra le mani la causa di lui, e gli presentò la dichiarazione del moribondo Leopoldo. Non farò molte parole. Il documento fu letto dal criminalista con un certo sorriso d'incredula intelligenza: lo restituì alla bella supplicante, dicendole che il soccorso era già troppo tardi: che la condanna era sancita dal Senato, e che d'altronde una simile soscrizione non riconosciuta da nessuna autorità, non attestata dai necessari testimoni, era affatto inutile e inattendibile. — Dunque egli morrà? — chiese la poveretta fissando due occhi spaventati sulla impassibile faccia dell'impiegato. — Fra venti giorni, mia signorina, a meno che Sua Maestà non gli commuti graziosamente la pena di morte in venti anni di carcere. — Gentilina non insistette più a lungo, si congedò senza più, e prese un posto nella diligenza che partiva fra due ore per Vienna.
Tutto questo si dice in due versi. Ma per comprendere tutta la difficoltà e l'importanza del passo, bisogna riportarsi coll'immaginazione a quel tempo e a quei luoghi.
Il 1848 non era ancora venuto a spalancare un abisso tra l'Austria e l'Italia. Ma con tutto ciò gl'Italiani, e specialmente i Veneti, non ricorrevano volentieri alla Corte di Vienna per averne privilegi o favori. Regnava ancora l'imperatore Ferdinando che le circostanze non avevano esacerbato; e l'imperatrice, italiana di nascita, contribuiva più che altro a temperare quello stato di ostilità permanente che sussisteva pur sempre tra i dominatori stranieri e la Venezia.
Ora pensate di quanto coraggio avesse bisogno una giovane vissuta casalinga fino allora, ignara della lingua e degli usi della città e della Corte dove intendeva recarsi per ottenere la grazia d'un omicida, al cui delitto ella non era stata affatto straniera. Tuttavia la coraggiosa giovane non esitò. Chiese una lettera per una vecchia dama che doveva presentarla all'imperatrice. — Ella è italiana — pensava Gentilina — ella è donna, e benchè imperatrice avrà forse provato che cosa sia la sventura. Mi crederà innamorata di lui.... mi farà arrossire chiedendomi conto della mia famiglia e come io mi mettessi in viaggio senza domandarne l'assenso.... Non importa! Si tratta della vita d'un uomo: si tratta di riparare ad un fatto che non sarebbe accaduto se io fossi stata più schietta o più previdente!
Ciò diceva mentre la diligenza la traeva con sè, tutta chiusa nel suo velo, e assorta ne' suoi pensieri. Abbrevierò il racconto. Ella giunse a Vienna, fu presentata all'imperatrice, e riuscì ad ottenere la sua intercessione presso il sovrano, che solo aveva il potere di salvar quella vita.
La grazia fu domandata e concessa.
Quel giorno medesimo un rescritto di S.M. partì per Verona, e commutò la pena di Gregorio in pochi anni di carcere.
Noi dobbiamo passare di volo questo tempo che per Gregorio e per Gentilina non dovette scorrere così presto. Quando si seppe nella città la risoluzione della brava giovane, i sentimenti del paese mutarono. I maldicenti erano stati costretti al silenzio da un fatto abbastanza singolare per imporre alla società. La Gentilina cessò d'essere il soggetto delle maligne supposizioni de' tristi: ella era divenuta un personaggio da romanzo, una vera eroina, e quella lode che era stata negata alle sue private virtù, veniva spontaneamente profusa ad un'azione così brillante e così coraggiosa. — Ella se l'è ben meritato! — dicevano. — E quello scapestrato di Gregorio non sarà degno di nessuna compassione e di nessuna stima, se farà un torto manco col pensiero a quella che gli ha salvata la vita e l'onore. —
Quanto a Gregorio non si deve pensare che non sentisse la grandezza del benefizio. Egli sfidava la morte quando la credeva le mille miglia lontana: ma ricorre anche qui l'antico proverbio: altro è parlar di morte, altro è morire. Quando gli fu intimata la sentenza fatale, cadde in un abbattimento da non potersi descrivere. Allora per la prima volta gli corse al pensiero il documento di cui aveva ricusato servirsi, allora si pentì d'aver trattata così duramente la povera giovane che gli aveva presentato quell'àncora di salvezza. Ora immaginate che cosa dovette pensare, quando gli fu annunziata l'inaspettata grazia, quando seppe da chi e in qual modo ei l'avea ottenuta! Domandò di vedere la sua salvatrice, voleva caderle ai piedi e pregarla ad accettare in dono tutta quell'esistenza che a lei sola doveva oggimai, dopo Dio. Ma Gentilina non avea voluto mai presentarsi al suo carcere. Ella dissimulava i suoi sentimenti, e nessun occhio poteva leggerle in volto ciò che nascondeva nell'interno dell'animo.
Passarono intanto i due anni della condanna, e Gregorio scarno e molto cangiato da quel di prima, ma più bello forse per quell'aria mansueta che aveva assunto, e che faceva un singolare contrasto col suo piglio risoluto ed altiero, Gregorio diresse, come si può credere, i suoi primi passi alla casa di Gentilina. Ella lo accolse con calma, e si sottrasse ai vivi ringraziamenti di cui la colmava. — Io non sono degno di voi, — disse Gregorio prostrandosi quasi a' suoi piedi — io v'ho offesa, v'ho calunniata, v'ho respinta quando veniste a salvarmi. Ma voi non mi avete solamente liberato, voi m'avete cambiato il cuore, voi m'avete reso meno immeritevole della vostra mano. L'offrirvi la mia non è già un compenso a quanto avete fatto per me, è un bisogno per l'anima mia, è una grazia novella che imploro da voi. — Gentilina arrossì un poco ed esitò a rispondergli. — Gregorio — gli disse finalmente — la risposta che sarei per darvi tornerebbe forse inopportuna in questo momento. Godiamo insieme senza alcuna mistura di assenzio, la dolcezza di questi momenti. Nessuno certamente è più contento di me di aver cooperato alla vostra liberazione. Ringraziatene Iddio, e andate a consolare la vostra famiglia. Domani saprete la mia risoluzione sul matrimonio che mi proponete. —
L'indomani Gregorio ricevette una lettera così concepita:
«Caro Gregorio,
»Da lungo tempo noi dovevamo esser persuasi di non esser fatti l'uno per l'altro. Le cose che successero dipoi possono aver cangiati i nostri sentimenti, ma non quanto basta per essere in quella perfetta armonia che sola può rendere desiderabile lo stato matrimoniale. Se voi m'aveste amata, se m'aveste accordata la vostra stima, non avreste sacrificato un uomo innocente alla vostra gelosia, e non vi sareste esposto alle tristi conseguenze di un omicidio. Ringraziamo Iddio che non furono così funeste quanto potevano. Quello che ho fatto, io lo doveva per debito. Non pretendo dissimulare i miei torti. Ebbi torto certamente a lasciarvi travedere un amore ch'io poteva forse sentire per voi in altro tempo, ed ora non più! D'altronde io sono già troppo vecchia: voi troverete una sposa che saprà intendervi e farvi felice. Io fui sventurata nell'unico affetto che poteva consolar la mia vita: voi lo sapete. Il mondo parlò già troppo di me, e potrà parlare ancora. Ma qualunque sia il giudicio che faranno in breve di me, son certa che avrò in voi un difensore. Addio, Gregorio: non andate in collera colla vostra amica e sorella.
Gentilina. »
Non so se la chiusa di questo racconto piacerà ai miei lettori; ma io narro una storia vera, e non mi è lecito inventare una più piacevole conclusione.
Gentilina fu irremovibile nel suo proposito.
FANNY.
OGNI MALE NON VIEN PER NUOCERE.
Or son vent'anni, viveva in una città d'Italia una bella ragazza chiamata Francesca, o piuttosto com'ella voleva, Fanny. Il nome di Francesca le pareva così prosaico, così lungo, così insignificante! Ebbe vaghezza di mutargli terminazione e si fe' chiamare Fanny. Nulla è impossibile ad una bella fanciulla, nè pure cambiarsi il nome. Ella era modista, e aveva sperimentato quanto cresce di prezzo una stoffa nostrale quando si fa passar per francese od inglese. Volle vedere se lo stesso accadesse d'un nome: si chiamò Fanny, e le parve d'essere nobilitata, e di valer per lo meno il doppio di prima.
Bisogna aggiugnere ch'ella era bella davvero: una mingherlina bionda di quindici anni con due begli occhi color del lapislazzuli, con una carnagione di latte segnata di delicatissime vene azzurre: una di quelle figure che passano per le vie e fanno girare le teste di tutti quelli che incontrano. Aveva un difetto, chè troppo sapea d'esser bella: ma quante sono le donne che non pretendano a questo titolo a dritto o a torto?
Mi domanderete se fosse anche amabile. — Sarei molto imbarazzato a rispondervi. La bellezza ha una certa amabilità per se stessa: ma per lo più, quando s'accoppia alla vanità non conserva più quel carattere. La nostra Fanny era da questo lato un po' vanesia e impertinente. Squadrava d'alto in basso le sue compagne, le compiangeva de' loro difetti, ma con quella superba compassione che non mitiga nessuna ferita. Non c'era macchia nel sole ch'ella non discernesse e non criticasse; e dove non c'era macchia reale, la sospettava. Ella calunniava il sole: non assolveva che se medesima reputandosi un modello di virtù, di bellezza, di cortesia. Di che le sue compagne l'odiavano tanto più cordialmente, quanto erano costrette a convenire de' suoi pregi esteriori. Cogli uomini poi, vi lascio pensarlo! Ora civetta, ora villana. Riuniva e alternava queste due qualità con una originalità tutta sua. Pareva ch'ella avesse proposto a se stessa di guarir coll'una l'eccesso dell'altra. Voleva innamorare gli uomini tutti, e darsi finalmente a quell'uno che si fosse mostrato degno di lei. Figuratevi qual uomo doveva esser colui! Per lo meno un re di corona. L'imaginazione d'una ragazza di quel carattere non ha limiti, rompe tutte le barriere, conquista il suo amante in seno alla gloria, lo strappa dalle braccia della regina di Golconda!
Il ritratto ch'io vi fo di Francesca, cioè di Fanny, non è lusinghiero: ma io carico forse un po' troppo le tinte per un'antica antipatia che conservo per questo brutto difetto della civetteria. Del resto Fanny non era nè senza cuore nè senza ingegno. Con una buona educazione sarebbe divenuta un angelo: abbandonata a se stessa e alla sua vanità poteva divenire tutt'altro. Apprese in poco tempo quanto le occorreva per l'arte sua, e non avea pensato più là. Leggere, scrivere, far di conto, esser dolce, compiacente, cortese non reputava necessario per nulla. Un valzer, una quadriglia sapeva ballarla. Se il portamento de' suoi piedi non era nè grazioso nè regolare, che le importava? Non bastava il suo volto, i suoi occhi, i suoi capelli a prometterle i primi onori d'un ballo?
A diciott'anni più d'uno se n'era invaghito: più d'uno avea sentito per lei una di quelle passioni nutrite e ingigantite dall'ostacolo d'una negata corrispondenza: passioni effimere ma terribili che occupano intera la fantasia e traggono spesso l'incauto che vi si abbandona, ai più deplorabili eccessi. Ella non era priva di colpa: perchè codeste passioni, se non eccitate, le aveva almen lusingate a pro della sua vanità. Una donna non suole farsi alcuno scrupolo di qualche ingannevole compiacenza, della quale nel suo stato d'indifferenza non può prevedere gli effetti. Ma non sempre resta impunita codesta civetteria, e la punizione più grande che incolga la lusinghiera è quella di rimaner vittima alfine delle altrui seduzioni. Contratta una volta la sua infelice abitudine, ella non sa più distinguere l'affetto vero dalla lusinga: ella trascura l'uomo che l'avrebbe amata tutta la vita, per darsi in braccio ad un vagheggino che sarà infastidito di lei non appena avrà espugnata la sua ritrosia.
Un giovane farmacista di buona famiglia, venuto colà per fare i suoi anni di pratica, d'un carattere dolce e tranquillo, ma che sotto un'apparenza un po' fredda copriva una forza di sentimento tanto più grande quanto meno patente; uno di quelli che non fanno all'amore, ma amano, la vedeva passare dinanzi a sè tutti i giorni ad un'ora medesima. Senza avvedersene cominciò ad aspettare quest'ora; e terminò col non pensare che a quella per tutte le ventitrè che correvano fra l'uno e l'altro momento in cui poteva veder la Fanny. Egli non le avea parlato e l'amava. Ella se n'era accorta sino da' primi giorni, e non mancò d'aggiugnerlo nella sua mente al numero di quelli che spasimavano del fatto suo: ed ora con uno sguardo soave, ora con uno sgarbo, ora con un sorriso a fior di labbra, ora con una affettata severità non mancò di tener vivo nel giovane Filippo il fuoco nascosto che ben presto dovea divampare.
Divampò: ma invano. Il giovane s'accorse che la civettuola non sentiva per lui più che non sentisse per dieci altri o più, che la vagheggiavano senza amarla. Cauto e riflessivo, dopo aver parlato due volte con lei, la conobbe; e se non potè disamarla del tutto, certo lasciò la speranza di guadagnarne l'affetto. Uomini tali non sono fatti per le passioni d'un giorno. Fece uno sforzo e si persuase di averla scordata.
Una donna del carattere di Fanny in simile congiuntura non manca per ordinario di riguadagnare con nuove lusinghe il terreno perduto; e spesso ella sente alla sua volta l'amore che l'altro non sente più. Ma era serbata ad un castigo ancora più duro. Ella dovea perdere ad un tratto quella bellezza alla quale avea sacrificato la pace di tanti. Fu colta dal vajuolo e rimase deforme.
Il giovane farmacista lo seppe dal medico che la curava e gliene prese una compassione così profonda e sincera come se ancora l'amasse. Volle vederla; e non gli mancò il mezzo di recarsi a quel letto in compagnia del medico amico suo. La povera Fanny provò uno di quei dolori che la parola non può descrivere, e Filippo s'avvide d'aver commesso un atto crudele senza saperlo. Procurò consolarla, ma i suoi conforti produssero un effetto affatto contrario. Oh! se avesse potuto trovar tra' suoi farmachi alcuno che le restituisse la perduta bellezza! Egli sarebbe stato l'uomo più felice che fosse mai! Ma le cicatrici erano troppo profonde, nè l'arte umana poteva rimarginarle. Ella era condannata a rimanere un oggetto di compassione per tutta la vita! Se non fosse stata lusingata da una secreta speranza di risanare, io credo che, vana come era, avrebbe preferita la morte ad una esistenza che oggimai non sembrava dover prometterle alcun trionfo.
Il medico aveva ordinato che le fosse tolto ogni specchio, e dissimulava alla giovane disgraziata la gravezza del male, almeno fino a tanto che, rimessa in forze, potesse lottare contro il dispiacere d'aver perduto per sempre l'attributo della bellezza. Ella risanò. Le sordide scaglie abbandonarono la sua pelle, gli occhi s'aprirono, rivide la luce, si sentì rivivere alla natura: ma un tremendo sospetto la tormentava, un sospetto più insopportabile della certezza. Contro il divieto del medico, ella ebbe tra le mani uno specchio: vi si guardò, e sentì mancarsi!
La disperazione e l'abbattimento in cui cadde la povera giovane quando si vide spogliata di quella bellezza ch'era suo unico vanto, non mancò di aggravare la sua malattia, e render più incerta e più tarda la guarigione. Ella s'era chiusa in abituale silenzio, che interrompeva soltanto quando era sola prorompendo in dirotte lagrime. Ai conforti del medico, ai gioviali colloquii delle compagne, che pur talora venivano a visitarla, mai non fu vista sorridere. Riprese a poco a poco i suoi lavori, e li eseguiva indefessa quasi coll'opera assidua volesse assopire il doloroso pensiero che la pungeva. Ella non era più bella! Nessuno l'avrebbe più guardata se non per compiangerla! Condannata ad essere spettatrice dei trionfi delle amiche sue, già tanto inferiori a lei per bellezza! — Ogni donna comprenderà facilmente più ch'io non dico, la qualità del suo cruccio.
Ma qui non doveva limitarsi la sua sventura. Richiamandosi alla mente i passati trionfi, l'imagine del giovane Filippo le si presentava sempre più cara: comprese la differenza che correva tra l'affetto di lui e quello che gli altri le dimostravano: le parve ch'egli solo l'avesse amata davvero, e a poco a poco si pentì di averlo sprezzato, e l'amò! L'amò in un momento in cui reputava impossibile averne ricambio. Avrebbe desiderato vederlo, e nello stesso tempo paventava l'effetto che le sue fattezze alterate doveano produrre sopra di lui. Egli dal canto suo non osava ritornare da lei, perchè non sapeva trovar parole valevoli a consolarla. D'altronde che cosa avrebbe più amato in quella donna, che avea perduto il solo pregio che possedesse? Ma la onesta cortesia ch'ei non cessava di usarle aumentava intanto l'amore e il martirio della sventurata Fanny. Ella perdeva lunghe ore dinanzi allo specchio tentando tutti i mezzi per riparare coll'arte ai guasti che il suo volto delicato aveva sofferti, e illudevasi, la meschina, e sperava! Spesso per ore ed ore ella accomodava i suoi capelli, unico tesoro che le fosse restato pressochè illeso; e disponendoli quando ad un modo quando ad un altro, tormentava se stessa e la sua immaginazione, finchè malcontenta dell'esito e indispettita, vi cacciava dentro le mani, scompigliava l'opera lunga, e dava in lagrime di sconforto e di vera disperazione.
Erano passati due mesi dacchè il medico le avea concesso d'uscire, ed ella non s'era mai risolta ad affrontare la vista degli uomini. Alfine dopo una lunga lotta parve superasse la sua avversione. Si ornò nella più squisita maniera che seppe. Due folte ciocche di biondi ricci cadenti dissimulavano in modo elegante metà della guancia. Un denso velo gittato sopra il grazioso cappello adombrava i suoi lineamenti. Consultò per oltre a mezz'ora lo specchio, si pentì dieci volte della sua risoluzione, poi facendo un ultimo sforzo, uscì di casa per recarsi alla chiesa, e quindi al suo negozio di mode.
Passò, come ognuno può credere, dinanzi alla farmacia. Vide Filippo senza ch'egli mostrasse vederla. Egli non l'avea di fatti riconosciuta; ma come persuadere alla poverina ch'egli non l'avesse fatto a bello studio per toglierle ogni speranza? Seguitò la sua via frettolosa con l'inferno nell'animo: giunse al negozio, ricevette le accoglienze ambigue e crudelmente gentili delle compagne, le quali si vendicarono in cinque minuti dei cinque anni anteriori durante i quali ella le avea tenute, per dir così, sotto a' piedi. Fece tutti i suoi sforzi per conservare un contegno apparentemente tranquillo, ma le pareva mille anni di trovarsi sola nella sua stanza fuori di quegli sguardi perfidamente pietosi. Giunta a casa, respirò nella solitudine; pianse, si gettò in ginocchio, pregò il Cielo a darle la forza di vincersi e ad ispirarle il partito migliore.
Ella aveva una vecchia zia in un convento vicino, alla quale, per dire il vero, non avea pensato a' giorni della sua gloria: ma nella presente umiliazione la buona parente e la solitudine in cui viveva si associarono alle tristi sue idee, e per la prima volta la vita secreta e monotona d'un chiostro le parve cosa invidiabile. Pensò di scrivere alla zia, poichè non s'attentava a farle una visita così improvvisa: ma come scriverle? chi scegliere per confidente di questa nuova risoluzione? Nessuno meglio di Filippo. Lo fece pregare a voler recarsi da lei ad un'ora determinata e l'aspettò — non senza aver prima quasi per consuetudine, ed ora per necessità, curato la sua toilette. Non già ch'ella avesse alcuna seconda intenzione. L'anima sua s'era già rassegnata; se pure nello sceglierlo a depositario de' suoi progetti era stata mossa da un secreto pensiero, non era che il desiderio di vedere quale impressione avrebbe egli ricevuto dal passo ch'ella intendeva di fare.
Egli venne premuroso, e procurò co' suoi modi affettuosi darle quella consolazione che parevagli più delicata: ma ella rimase fredda e severa. Gli spiegò la ragione perchè avea desiderato vederlo; notò, non senza piacere, la meraviglia ch'ei ne mostrò. — Caro amico — diss'ella — il mondo non è più per me: questa malattia mi fece veder le cose sotto un aspetto molto diverso: io non potrei più sperare un collocamento..... no, non m'illudo, Filippo..... io non potrei far più felice un compagno. Voglio ritirarmi colla mia buona parente. In quella solitudine imparerò a leggere, a scrivere, a disegnare, a sopportare pazientemente la mia disgrazia. Scrivete ciò che credete opportuno; voi non avete bisogno d'altre parole. — Filippo le scrisse la lettera. Egli volea sulle prime stornarla dal suo proposito: ma soddisfatto a ciò che riteneva fosse obbligo di cortesia, lasciò correre. Pensò anch'egli che una tale risoluzione poteva tornar utile per ogni conto alla disgraziata fanciulla, e risparmiarle molte amarezze che non le sarebbero risparmiate nel mondo. Sicchè Fanny rimase nella prima incertezza; anzi ne trasse la conseguenza che nella gentilezza del giovane non entrasse oggimai più nulla del primo affetto. Lo ringraziò del servigio prestato, e si congedò con brevi e secche parole da lui. Ah! la poveretta avea perduto un'ultima secreta speranza che avea conservata nel cuore!
Dopo otto giorni venne a cercarla una vecchia pinzochera da parte della zia, e le disse in nome di lei ch'ella era molto contenta della sua risoluzione, che l'aspettava al convento dove le avrebbe tenuta compagnia e cominciato subito il suo noviziato. Aggiunse che ella stessa l'avrebbe accompagnata, perchè non s'indugiasse aspettando una buona occasione. La fanciulla non fu troppo sodisfatta di un così pronto adempimento alla sua domanda. Avrebbe voluto guadagnar tempo.... ma non l'osò. Presa alle strette fece uno sforzo per far tacere tutti i suoi dubbi; e il giorno dopo partì colla vecchia. Quando vide la città che fuggiva, una tetra malinconia s'impadronì del suo cuore. I bei giorni passati le ricorrevano alla memoria; i castelli in aria sfumati come la nebbia al vento; gli amori offerti, provocati, respinti. Le pareva che ogni svolta della strada allontanandola dal campo delle sue glorie e delle sue speranze, l'allontanasse da tutto ciò che la vita aveva di più desiderabile e caro. Il guardar fuori dallo sportello le divenne insopportabile angoscia. Si chiuse il viso fra i lembi dello scialle, e mentre la sua compagna girava fra le dita i grani del suo rosario, ella piangeva tacitamente, in tale amaro alternarsi di pensieri e di imagini che lasceremo indovinare a quelli che si sono fatti un'idea del suo carattere e della situazione in cui si trovava il cuore di Fanny.
Nei primi giorni il convento le parve veramente un luogo d'asilo contro le amarezze paventate nel mondo. Accolta dalla buona parente con non infinta pietà, faceva nella sua mente il confronto tra quest'accoglienza e quella che avea ricevuta dalle compagne. Quivi almeno non v'era chi l'avesse veduta prima della sua malattia. I lavori, i discorsi, le pratiche religiose che si tenevano là dentro, impedivano al suo pensiero di fisarsi sopra il suo stato. Passava la sua giornata in compagnia di suor Angela, ed insegnava alcuni punti, alcuni ricami a parecchie fanciullette educande, le quali cominciarono ad amarla teneramente, sentendosi amate da lei. Depose i suoi vestiti galanti, e ne prese uno semplice e modesto; onde perdute le abitudini antiche, si venne facendo di giorno in giorno men trista.
Non pensate però che anche qui non avesse qualche momento amaro. Doveva udire di tratto in tratto i consigli della zia e di qualche altra religiosa, le quali s'erano fitte in pensiero di compiere, come dicevano, la sua conversione, e ritenerla definitivamente là dentro. Volevano persuaderle, le pie monache, come ella dovesse ringraziare il Signore d'averla tolta dalla strada della vanità e della perdizione. — Che cosa è la bellezza del corpo, dicevano, appetto alla bellezza dell'anima? Questa dovesse apprezzare, questa accrescere più che potesse. Con quella poteva piacere agli uomini: con questa avrebbe piaciuto a Dio. V'erano state molte sante che s'erano svisate a bella posta per togliersi ad ogni pericolo: perciò le religiose facevano il sacrificio de' loro capelli; sacrificio ch'ella stessa avrebbe dovuto fare. — Erano buoni e santi consigli, ma ancora intempestivi per la giovane crestaia. Ella non n'era punto capacitata nel suo interno, benchè si guardasse bene dall'opporvisi apertamente. Quanto a' suoi capelli li avrebbe recisi quando fosse appieno sicura di restar lì. E la priora ch'era donna erudita, osservando l'ingegno pronto della novizia, prese ad ammaestrarla nelle lettere, nelle quali fece progressi sì rapidi da trasecolar quelle religiose donne, che cominciarono a trovar pascolo alla loro innocente vanità nell'insegnare a Fanny tutti quei lavori e quelle galanterie da convento che fanno ammirar la pazienza di chi le fa. La giovane che avea l'istinto della grazia e del buon gusto in poco tempo superava le maestre, e cominciò ad imitar colla seta e colle carte i più bei fiori che raccogliesse nell'orto. Quelle occupazioni, quegli studii spandevano una quiete ineffabile nel suo cuore. Le parole delle buone suore facevano maggior presa nell'animo preparato. Cominciava a pregare con maggior raccoglimento. Quella vita operosa e monotona cominciava a piacerle. Le monache non dubitavano più ch'ella avesse a proferire i suoi voti. Ma la buona parente, già vecchia e infermiccia, trascorsi appena dieci mesi dalla venuta di lei, passava a vita migliore, lasciando la povera giovane orfana e straniera in quel luogo. Chiamatala al suo letto di morte, le replicò i consigli che cento volte le aveva dati, e si fece dar parola dinanzi ad alcuna di quelle madri, che non avrebbe pensato ad abbandonare il convento. La povera Fanny versando larghe lagrime promise tutto, e la vecchia benedicendola spirò consolata.
La nipote però non tardò molto a pentirsi della promessa, o per dir meglio, non si tenne più obbligata ad adempierla. La zia sentiva per essa un affetto vero, e sapeva cogliere il momento opportuno per far breccia co' suoi consigli nell'animo suo. Codesta discrezione, codesto discernimento mancava alle altre, e pressandola ad ogni ora, le fecero venir in uggia uno stato, che a poco a poco avrebbe forse abbracciato spontaneamente. Cominciò a indispettirsi di quel fervore. Cominciò a dubitare del disinteresse di quelle donne; e convivendo con esse, vide anche là molti interessi e molte cure mondane. Educata in questi mesi di ritiro, imaginò un metodo di vita ch'ella poteva condurre anche al secolo, senza essere men virtuosa e meno tranquilla. Gli scherni delle compagne, la noncuranza del mondo le facevano meno paura. — Io mi renderò amabile, diceva fra sè, colla coltura del mio spirito, colle mie maniere, con mille modi indipendenti dalla bellezza. — Questi pensieri e i consigli importuni che riceveva, non mancarono di produrre il loro effetto. La giovane, quando manco se l'aspettavano, dichiarò alle monache e al padre direttore ch'ella non si sentiva alcuna vocazione per lo stato monastico; e che pensava di ritornarsene al secolo. Potete imaginare che ne seguisse! I consigli raddoppiarono, e men dolci di prima. La vita del convento fin allora indifferente, e sulle prime piacevole, le divenne un'orribile prigionia. Contava i giorni e l'ore che terminasse l'anno di prova, e appena terminato, fece il suo fardello ed uscì.
Il padre direttore, uomo di rara discrezione che s'era adoperato perchè non fosse fatta violenza alcuna a' suoi desiderii, le trovò una buona occasione per tornare alla patria, e la raccomandò ad un'ottima donna che l'avrebbe ricevuta in sua casa. Fanny baciò, piangendo, la mano al buon sacerdote, e l'indomani, dopo un anno d'assenza rivide la città che le parve più bella che mai e sorridente quasi d'amore. Quell'anno di reclusione, le non poche letture fatte, l'educazione interna che meditando s'era in lei compiuta, tuttociò le aveva aperto gli occhi ed ampliata l'immaginazione. La vista del mare non mai l'era parsa così bella, così imponente. Lo salutò come imagine della sua libertà, e questo momento fu il primo di vera gioia ch'ella provasse dopo la sua guarigione: perchè non era nata per quelle ascetiche e solitarie aspirazioni del chiostro. Ella era nata per amar qualcheduno nel mondo.
E finchè visse la sua buona parente, l'amava di cuore, e questo affetto bastava all'animo suo. E se avesse potuto sperare pur un ricambio di sentimenti da Filippo, se avesse portato nel convento la persuasione d'esserne amata, io credo che quella solitudine le sarebbe parsa men dura. Amare non basta per una donna. Bisogna ch'ella creda, o almeno s'illuda d'essere amata: bisogna ch'ella abbia provato almeno un momento nell'animo quello stato d'intima soddisfazione che vien da un affetto reciproco. Questo secreto, indistinto desiderio ora la riconduceva nel mondo, la riconduceva a soffrire.
Quella prima battaglia, la battaglia della vanità e dell'orgoglio mortificato, non la spaventava più. Oggimai aveva rinunciato al titolo di bella per sempre: aveva imparato a scherzare con grazia sulle sue fisiche imperfezioni. Ella non lasciava tempo agli altri di dirigerle un frizzo: si canzonava da sè, senza affettazione, e senza il secreto desiderio d'essere smentita dagli altri: sciocca abitudine di molte donne di fare certi atti di umiltà per provocare un alimento alla celata superbia che le divora. Fanny non diceva d'essere brutta, perchè l'altrui gentilezza dicesse il contrario: ma tutte le volte che ella era posta ad un confronto pericoloso, sapeva con un tratto di spirito richiamar l'attenzione di chi era presente a qualche cosa di più nobile della materiale bellezza. Così lasciando alle sue rivali gli effimeri trionfi di quella, si facea perdonare il vantaggio ch'ella aveva sopra di loro.
Per alcun tratto di tempo le cose procedettero bene. Rassegnata, dolce, insinuante, destra in ogni genere di lavori, ornata lo spirito di non poche cognizioni che le sue letture le procuravano, era giunta a guadagnare da un lato quella superiorità che avea perduto dall'altro. Ma non le bastava. Tutte le volte che era testimonio alle facili adorazioni che i giovani profondono alla più bella, tutte le volte che alcuna delle compagne le teneva discorso de' propri amori, uno sconforto amaro, una secreta e invincibile invidia la sorprendeva. Buona com'era, non avrebbe già tolto alle compagne l'ambita felicità: ma non le pareva giustizia che mentre era a tutte sì facile amare ed essere amate, non ci fosse un cuor solo che battesse per lei, un cuor solo che sapesse comprendere il suo! Talora gli uomini le parevano portenti di stoltezza e di crudeltà. Prodigavano le loro idolatrie alla materia incapace d'intenderli, e lei lasciavano sola, negletta, come un paria, come un essere degradato e privo di sentimento e di affetto. Eppure, con quali tesori d'affezione, con quai liberi sacrifizi la povera Fanny avrebbe ricompensato uno sguardo cortese, un cordiale saluto, una stretta di mano! Nessuno forse ha letto questa pagina degli umani dolori, questa continua violenza per reprimere dentro al cuore le ricchezze d'un affetto che non ha una metà a cui consacrarsi! Per queste anime desolate non c'è che la fede nella vita futura: ma se non riescono sante, c'è molta probabilità che convertano in odio quell'amore che non fu da nessuno curato.
Ma Fanny non era destinata a bere fino al fondo questo calice amaro. Ella non si credeva amata dal giovane farmacista: ma e' l'amava davvero. E reduce a que' giorni dall'Università, dove era stato matricolato, non mancò di chieder conto di lei, e seppe con sorpresa e con vero piacere il suo ritorno.
Era una bella sera di maggio. Egli l'aspettò nell'ora in cui usciva dal suo negozio, e le propose di accompagnarla fino a casa. Ella conosceva sì bene i costumi del giovane, aveva tanto desiderato di rivederlo, che senza alcuna opposizione passò il suo braccio sotto quello di lui, e tutti e due poco parlando, ma dolcemente commossi, s'incamminarono verso l'abitazione della fanciulla; e lì dovevano separarsi. Ma troppe cose lor rimanevano a dire, e il desiderio d'espandersi reciprocamente si faceva maggiore ad ogni momento. Onde una buona mezz'ora restarono appoggiati agli stipiti della porta, colle mani congiunte, perduti in uno di quei colloquii deliziosi che sono una felicità per tutti — e che si può pensare se erano una beatitudine per Fanny. Povera fanciulla! Ella aveva per anni ed anni desiderato un momento simile a quello, e quando meno se l'aspettava, Iddio glielo aveva concesso! Senza dirselo, senza pensarlo, invece di salire le scale, essi staccaronsi dalla porta e ripresero il sentiero della collina. E su, e su, senza guardarsi d'attorno, senz'accorgersi dell'andare, senza far attenzione alle magnifiche scene del cielo stellato, del mare immenso che lo rifletteva da lungi, degli alberi che spandevano in seno alla notte i loro divini profumi. Forse il loro cuore sentiva queste armonie della natura; forse nell'estasi loro, negli affettuosi colloquii c'entrava tutto codesto: ma erano troppo profondamente commossi per avvertirlo e per dirselo.
Quando furono ad una svolta del sentiero che taglia a sghembo il declivio della collina, sedettero sotto una quercia, e stettero muti sempre colle mani strette a vicenda. Molte cose s'erano dette, ma più assai che la parola non può definire, spiegava quel delicato e cordiale contatto. E nessuno avea fino allora parlato d'amore; nessuno di matrimonio. Filippo fu il primo a dare una tale direzione alle idee, e confidò alla fanciulla come a Padova gli era stato offerto un partito assai vantaggioso: una giovane avvenente, che aveva mostrata una decisa inclinazione per lui. Aggiunse ch'egli avea pigliato tempo a risolvere, ma ora....
— Ma ora.... che volete voi dire? — domandava Fanny.
— Ora — diss'egli — sarei meno che prima disposto ad accettare l'offerta. Voi sapete da quanto tempo ho consecrato i miei affetti ad un'altra persona. Molte cose sono avvenute dappoi....
— Oh sì molte cose! — rispose rapidamente Fanny. — Per carità, Filippo, non pigliate sopra di me la crudele vendetta di lusingarmi! Voi ricordate un tempo molto diverso: una persona che è già tanto mutata! Uditemi: uno dei miei più vivi desiderii era quello di rivedervi, era quello.... di udire dalla vostra bocca che voi sentite per me qualche cosa più che una sterile compassione. Ora io sono contenta.... voi potreste offerirmi la vostra mano: io mi sentirei, Filippo, il coraggio di rinunciarvi.
— Ma perchè? Mi sarei io dunque nuovamente ingannato?
— Non c'illudiamo, Filippo! La vostra amica non potrebbe sempre avere a' suoi comandi quest'ora tenebrosa e le dolci emozioni di questo momento.... no! Io non m'esporrò mai a farvi pesare come un sacrificio il dono che potreste farmi della vostra mano. Pensate, amico mio, ch'io sono gelosa; ch'io so d'aver perduta quella infelice bellezza di cui ero troppo superba: vedrei una rivale in ogni femmina che vi si appressasse.
— Avresti torto, Fanny; poche donne certamente potrebbero gareggiare con te di sentimenti sì nobili e delicati. Oh! mi stimi tu così stolto da credere la bellezza il pregio più importante della donna ch'io volessi far mia compagna per tutta la vita? La bellezza è così effimera e passeggera — tu stessa l'hai sperimentato — ma quali doti più intime, quali grazie più apprezzabili non hai tu saputo acquistare! Oh Fanny! questo non è nè il tempo nè il luogo più conveniente per farti una proposizione sì seria quale è quella di unire i nostri destini. Potresti credere ch'io volessi approfittare d'un momento d'ebbrezza. Scendiamo, mia buona amica: ripiglieremo questo discorso a miglior occasione. —
La povera Fanny era rapita in un'estasi deliziosa. Le parea di sognare ancora queste parole, come più volte le avea sognate senza sperare che s'avverassero mai! Scese a braccio di lui tutto il pendìo senza sentir sotto a' piedi la terra. Le acacie mosse dal vento spargevano di bianchi e odorosi fiori la via. Giunti sul limitare della sua casa, si strinsero più strettamente la mano. Le labbra ardenti del giovane sfiorarono le chiome di lei dalla notturna rugiada inumidite e disciolte. Stettero alcuni momenti in quella affettuosa attitudine, e si separarono.
La fanciulla, oppressa dal peso della sua stessa felicità, non tardò a coricarsi; ma non dormì, come ognuno si può figurare. I suoi pensieri erano una preghiera, un ringraziamento, un dubbio consolato dalla certezza, un trionfo dell'anima che poteva finalmente aspirare alle più sublimi gioie della vita. — Ma la mattina seguente pensandovi a mente più riposata tornò seriamente al primo proposito; e presa la penna cominciò a scrivere al buon Filippo una lettera in cui gli veniva esponendo i suoi dubbi, e la sua risoluzione di non legarsi con lui. «D'una cosa — diceva ella — io poveretta avevo bisogno per non darmi alla disperazione: di sapermi non disprezzata, amata un poco da voi! Senza di questo la mia vita mi sarebbe parsa una notte perpetua, e non avrei saputo affrontarla. Ora che voi avete detto d'amarmi.... io sono contenta.... La vostra mano riposò nella mia, il mio cuore ha sentito il battito del vostro cuore: io posso ringraziare il Signore di un tal benefizio. Questo pensiero mi sarà sempre presente: questa rimembranza mi basterà. — Andate, caro Filippo, andate a Padova, date la vostra mano a quella d'una donna che unisca ai pregi dell'animo, quelli ancora del corpo. Dio vi guardi dallo stringere un vincolo di cui abbiate a pentirvi! Io ho pensato a questo nel monastero dove stetti un anno rinchiusa, e vi parlo per esperienza. Andate, Filippo, e se è possibile, senza ch'io vi rivegga. Ora io posso ancora darvi questo consiglio: più tardi forse non lo potrei. — Se sarete felice, pensate che una vostra parola bastò a far conoscere anche al mio cuore la felicità. Se sarete sventurato, ricordatevi che avete un'amica nella vostra — Francesca.»
Quando Filippo ricevette questa lettera, ne aveva già scritta un'altra al padre della fanciulla che gli era stata proposta — colla qual lettera, nella miglior maniera che seppe, procurò di svincolarsi da ogni trattativa ulteriore. Impostata questa, corse dalla Francesca, e le disse abbracciandola che il suo foglio gli era giunto un po' troppo tardi: che l'affare di Padova era già sciolto; ch'ella sola doveva essere la sua sposa. Aveva già fatto alcuni passi per avere un posto di direttore nella farmacia dove aveva fatto la pratica. Intanto pensava di recarsi a visitare la sua famiglia per ottenere l'assenso al suo matrimonio. Fra due mesi sarebbe di ritorno.
Lascio qui la mia storia.... perchè mi mancano i documenti necessarii a continuarla. Ma tutti quelli che s'interessano alla felicità della buona Francesca possono dormir tranquilli sul conto suo, ch'ella non si lagna più del vaiuolo che, alterando la purità de' suoi lineamenti, l'avea preservata da molti inganni e le aveva insegnato che v'è qualche cosa di più durabile e di più possente della bellezza esteriore nei pregi dello spirito e nei delicati sentimenti del cuore.
IL PALAZZO DE' DIAVOLI.
I.
Sopra una delle porte di Siena sta scolpita questa bella iscrizione:
COR MAGIS TIBI SENA PANDIT
ch'io tradurrei a chi non sa di latino:
Più largo t'apre il cor l'ospite Siena.
L'invito, come ognun vede, era seducente: ma, a pochi passi di là, avevo letto un'altra iscrizione, che tentava ancor più la mia fantasia di poeta:
PALATIUM TURCARUM.
Io vado pazzo per le iscrizioni, massime per quelle che non intendo: onde lasciai da parte la prima, che non presentava alcun problema alla mia immaginazione, e fui preso da una indomabile curiosità d'investigare l'origine della seconda: Palazzo de' Turchi! I Turchi alle porte di Siena, città della Vergine! Civitas Virginis, come sta scritto sulle antiche monete della città ghibellina!
Mentre ruminava nella mia mente una plausibile soluzione a questo quesito, fui sopraggiunto, da un carbonaio, che guidava le sue mule cariche di carbone verso la porta ospitale. — Amico carbonaio — diss'io col miglior garbo che seppi. Parlavo a un terrazzano del più garbato paese del mondo. — Amico carbonaio, sapreste dirmi a chi appartenga questo palazzo?
— Codesto è il palazzo de' Diavoli, signore.
— De' Diavoli?
— Gnorsì, ed ora ci sta un canonico.
— Scusatemi, ma costì veggo scritto: Palazzo de' Turchi, Palatium Turcarum.
— Sarà benissimo come dice vossignoria. Io non so di lettera, e mi rimetto. Già Turchi e Diavoli fa lo stesso!
— E canonici — diss'io sottovoce.
Il carbonaio rispose con un certo sorriso senese, che voleva dir tutto e nulla.
— Il canonico, signore, ci sta per convertire i Turchi e per esorcizzare i diavoli. Gli è la più buona pasta d'uomo che si conosca. Vede quella torre? Era mezzo ruinata, non so se da' Turchi o dai diavoli, ed è lui che l'ha fatta ristaurare a sue spese, sì che par nuova di getto. Ci dee avere speso di be' quattrini!
— E come bene spesi! — diss'io, dissimulando pure il mio pensiero su tutti i restauri in genere, e su codesto in ispecie.
La mia cara amica, Leopoldina Zanetti Barzino, ha disegnato per uso mio, e vorrei per vostro, o lettori, una parte del palazzo anzidetto e la torricciuola che il buon calonaco avea fatto tappare e intonacare di nuovo. Badate che la valente disegnatrice ha indovinato l'antico sotto il belletto canonicale, di che tutti gli amici dell'arte le saranno tenuti.
Ma queste non erano osservazioni da farsi al buon carbonaio. Onde ringraziandolo della sua cortesia, lo lasciai proseguire colle sue mule. Rimasto solo, ricominciai a guardare l'iscrizione, il palazzo, la torre rimpiastricciata, e andava almanaccando fra me per raccapezzare un legame, un rapporto qualunque fra l'epigrafe, la tradizione ed il fatto. Mentre io me ne stavo così col mento all'aria, mi venne veduta la faccia rubizza e benevola del canonico ristauratore. Vedendomi così assorto, gli venne, credo, l'idea ch'io fossi edificato dell'opera sua, e mi fece un cotal sorriso che equivaleva a un invito. Risposi io pure sorridendo e accettando.
Il canonico mandò la fante ad aprirmi la porta, e quasi senza pensarci, mi trovai nel suo salotto dinanzi a lui.
II.
Il canonico era di fatti il più dabbene e garbato uomo del mondo. Ancorchè avesse commesso quel malaugurato ristauro, e se ne vantasse colla maggior buona fede come d'un'opera meritoria, era, come venni a conoscere, un diligente raccoglitore delle cronache patrie e di tutte le monete etrusche, com'ei diceva, che i contadini dissotterravano nei dintorni.
Fra le quali monete etrusche mi fece vedere egli stesso la monetina senese colla leggenda: Sena vetus civitas Virginis, posteriore di certo alla battaglia di Mont'aperto, giacchè la città di Siena si diede appunto alla Vergine in quell'occasione. Il reverendo, facendomi osservare quella iscrizione, mi accennò la maligna interpretazione che ne spacciavano i libertini, traducendo:
Siena vuota di citte. . . . .
— Non so — egli disse — se sant'Orsola ci potesse ora reclutare la sua legione di undicimila: ma profanare a questo modo le cose sante, per calunniare la virtù del bel sesso senese, questa è cosa che fa poco onore all'intelligenza e alla moralità degli interpreti! —
Io scrollai il capo con santa indignazione, e disapprovai, com'era di dovere, l'invereconda e maligna supposizione.
— Le donne di Siena, signore — riprese il canonico — furono sempre decantate per la loro bellezza e per la loro singolare modestia. — E qui mi sciorinò non so quante citazioni e storie e leggende, che a volerle ripetere sarei troppo lungo, e porterei come dicevano i Greci, civette in Atene.
Fra i nomi che il galante calonaco mi citò, vi fu quello della rossa Marsigli, che, rapita da' Turchi, e divenuta sultana, serbò la sua fede e la sua virtù fino fra i boschetti profumati del Bosforo e fra le mura dipinte dell'aremme imperiale.
— La rossa Marsigli! — diss'io. — Non intesi mai questo nome, e vi sarei ben tenuto se vi piacesse informarmi de' fatti suoi. — Il cronacofilo si mostrò lieto della domanda, e superbo di poterla soddisfare all'istante. Corse ad uno scaffale della sua libreria, e ne trasse un codice in pergamena, dove il suo occhio esercitato trovò in un attimo il nome della eroina e un commentario assai diffuso delle sue strane avventure. — Il libro nol dice — soggiunse il calonaco, — ma io credo poter affermare che la rossa Marsigli non dovette essere straniera a questo palazzo, e gli è fin d'allora che il vulgo mutò il nome de' Turchi in quello de' Diavoli.
In questo la fante, che aveva anch'essa i capelli di un biondo ardente, forse in commemorazione della Marsigli, venne ad annunziare al padrone che la cena era lesta.
— Spero che vorrete dividerla meco, per modesta che sia, — diss'egli rivolgendosi a me con quella franca cortesia che non lascia luogo a rifiuto.
Accettai la cena per desiderio della leggenda. Ci siam divisi una dozzina d'allodole egregiamente arrostite, primizia del paretaio canonicale, e le seppellimmo cristianamente, inaffiandole con abbondanti libazioni di squisitissimo vino di Chianti.
— Codesto — diss'egli — non viene dalla cantina del governatore generale della Toscana, barone Bettino Ricasoli, miglior enologo che politico — aggiunse argutamente il calonaco: — ma benchè rosso, non arrossisce per la vergogna. Assaggiatelo e pronunciate. —
Io riunii le dita sul labbro, e manifestai con un bacio la mia opinione sul vino, senza pronunciarmi sulla politica del fiero castellano di Brolio.
III.
Vuotato il fiasco, si venne alla storia della rossa Marsigli. La fantesca faceva capolino tratto tratto dall'uscio, sospettando forse da quell'epiteto che si parlasse di lei: ma forse era una semplice curiosità femminina, molto scusabile in lei, se io che non ho i capelli rossi e non vesto gonnella, avevo pur mostrato tanta vaghezza di saper quella storia.
Il canonico si asterse le labbra e la faccia rubiconda, e prese a parlare.
— Che i Turchi nemici acerrimi del nome cristiano, fossero a poche miglia di qua, nei secoli andati, non credo necessario di rammentarlo ad un uomo erudito, come è senza dubbio la Signoria Vostra. —
Io chinai la testa, col doppio intendimento di mostrarmi informato delle incursioni ottomane, e ringraziare il canonico del complimento.
— Se Siena — riprese egli — fu illesa da quella pestifera irruzione, lo deve senz'altro ad una grazia speciale della sua divina patrona, che la coperse una seconda volta del suo virginale paludamento. Senza questo, la malevola interpretazione data dai libertini senesi alla moneta etrusca che vi ho mostrato testè, sarebbe stata pur troppo una verità. Non sarebbe stata la prima volta che gl'infedeli ottomani levassero quell'osceno tributo dai paesi infestati dalla loro impura presenza.
Viveva in quel tempo nella città di Siena una famiglia Marsigli, della quale era decoro grandissimo una fanciulla conosciuta nella città e ne' dintorni col soprannome di rossa. Era un colore di capelli assai pregiato in quel tempo, come apparisce nei quadri dell'epoca, ove ricorre assai di frequente. Il Pinturicchio ha di molte rosse ne' suoi dipinti, e noi abbiamo nella scuola senese molti angeli e molte immagini di Nostra Donna colla capigliatura più fulva che bionda.
La rossa Marsigli era dunque divenuta assai celebre per questa e per le terre vicine, tanto che la fama ne giunse all'esercito dei Turchi, accampato nelle Maremme.
A Siena non fu mai penuria di uomini vani e maliziosi, che postergano la dignità della patria ai loro particolari interessi e all'avidità di guadagno. La giovanetta Marsigli fu persuasa da cotestoro a girne a diporto una sera per questa via. La bella giovane vi andò, senza pensare al pericolo che le soprastava: quando giunta che fu a questo luogo, fu circondata da alcuni uomini mascherati, ch'ella prese per diavoli, e fu rapita e data in mano ai Saracini. Quando i capitani dell'esercito turco videro tanta bellezza, vennero alle mani fra loro per disputarsela, e molti di essi restarono vittime de' loro malnati desiderii. La giovanetta assisteva più morta che viva a quelle contese, e pregava la Vergine di Siena che la volesse salvare dalle loro mani e restituire alla sua famiglia.
Ma il Signore la serbava ad altri destini. Un vecchio turco, credo fosse un sacerdote del falso profeta Maometto, sentenziò che una così divina bellezza doveva esser riserbata al serraglio dell'imperatore di Costantinopoli, che si chiamava Solimano II. Tale essere la volontà del profeta, e nessuno osasse torcer un capello a quella donzella.
Benchè ella non comprendesse il linguaggio del vecchio musulmano, pure vedendo che i suoi rapitori si ritiravano riverenti alle parole di lui, si sentì rincorare da una voce interiore, e come da un secreto presentimento di ciò che il Signore le riserbava negl'imperscrutabili suoi disegni.
Ella fu condotta sana e salva a Costantinopoli, e presentata al Sultano, che s'invaghì subitamente di lei, e le fece aprire il più splendido appartamento del suo serraglio.
È fama che l'imperatore Solimano II, benchè infedele, fosse dotato d'animo gentile e di costumi assai temperanti. La bella senese non tardò molto a cattivarsi l'animo di quel principe, sia colla bellezza straordinaria del volto e della persona, sia colle grazie dell'ingegno e della loquela. Ella gli parlava sovente della sua patria e delle splendide chiese ond'era superba; e un giorno che il Sultano si mostrava più del solito benigno verso di lei, e la eccitava a domandare qualunque dono o favore le talentasse, la sagace fanciulla lo prese in parola, e lo indusse a far costruire una chiesa cristiana, sul modello della cattedrale di Siena. In quella chiesa soltanto essa consentirebbe a dargli la mano di sposa, poichè le sarebbe sembrato di essere in patria e di legarsi in matrimonio con alcun principe della sua fede.
Il Sultano, o fosse benignità dell'animo suo, o il grande amore che portava alla giovanetta, o fosse tocco da un impulso secreto della grazia santificante, condiscese alla domanda della sagace donzella, e fece costruire in mezzo a Costantinopoli un magnifico tempio dedicato alla Madre del gran profeta de' Cristiani.
Ivi il Sultano consentì a legarsi in matrimonio colla fulva senese, non secondo il facile rito de' Turchi, ma secondo il rito della santa Chiesa cattolica, promettendo di rispettare la fede della sua legittima sposa, e proteggere i Cristiani che volessero adorare il Signore in quel tempio secondo il loro culto e le consuetudini de' maggiori.
Questa fu la prima Sultana di Costantinopoli che fosse e rimanesse cristiana, e se altre fossero state virtuose e prudenti al pari di lei, forse a quest'ora in cui siamo, molte contaminazioni e molte stragi sarebbero state risparmiate, e la principale moschea di Bisanzio sarebbe ancora la chiesa di Santa Sofia.
Qui finisce la storia della nobile donzella senese, conosciuta sotto il nome della rossa Marsigli, e questo valga a mostrare al mondo quanta sia la virtù e la prudenza di che sono capaci le donne di Siena, quando sono ispirate alla grazia divina....
— E dotate di una bella capigliatura rossa — conchiusi io.
Il mio narratore stette alquanto sospeso se doveva offendersi della mia celia: ma vedendomi quasi contrito d'averlo interrotto a quel modo, si contentò di riderne meco, bevendo alla salute del bel sesso senese, di qualunque colore egli sia. Io bevetti con esso del miglior cuore del mondo, facendo onorevole ammenda della mia improntitudine, e ci stringemmo la mano da buoni amici e da buoni cristiani.
IV.
— Ma voi non mi lascerete a quest'ora — disse il buon canonico della Torre de' Diavoli. — Ho ancora molte cose a mostrarvi, che sono degne della vostra attenzione. —
Io accennai la notte ch'era già scura, e aggiunsi non so quali ragioni per andarmene a casa.
— A casa? — diss'egli: — è già molto tardi. Malgrado la scritta incisa colà sul frontone, Siena non apre a quest'ora nè le porte nè il cuore.
— Dite il vero — soggiunse con una cert'aria di beffa — voi non avete fegato che vi basti per passare la notte nel palazzo de' Diavoli.
— Voi mi sfidate — diss'io.
— Vi sfido — rispose col miglior garbo del mondo. — Mostratemi col fatto che siete quello spirito forte che vi vantate. C'è una cameruccia per voi appunto nella torricciuola che ho ristaurato. L'avevo destinata alla mia nipote che avete veduta: ma non ci fu caso che volesse dormire costì tutta sola. Tocca a voi romper l'incanto, e mostrare alla scioccherella che non c'è Turchi nè diavoli a' tempi nostri.
— E se vi fossero? — diss'io sorridendo.
— Allora, non ve ne saranno più domattina, perchè voi li avrete ridotti al dovere o gittati dalla finestra. —
Che avresti risposto, o lettore? — Io accettai di passare la notte dove avevo trovata una sì lepida cena.
La bionda fantesca, che il reverendo m'avea designata per sua nipote, a un cenno di lui si assentò, e dopo poco ricomparve con una lucerna a tre becchi offerendosi d'indicarmi la camera a me destinata.
Io strinsi la mano al mio ospite, e la seguii.
V.
Ella posò la lucerna a tre becchi sullo sgabello di noce intagliato, che stava accanto a un pulito e candido letticciuolo. E auguratami appena la buona notte, uscì rapidamente, come avesse avuto paura di qualche apparizione diabolica.... o d'altra cosa che fosse.
Le lenzuola erano di bucato, e mandavano un delizioso odore di rosa e di spigo. Sullo sgabello stava un rituale colle antiche formule cattoliche per esorcizzare gli spiriti. Dalla parete pendeva un acquasantino di Luca della Robbia, colla sua frasca indispensabile d'ulivo benedetto.
Spinsi l'imposta della finestra rotonda. Era uno stellato magnifico. Gli astri scintillavano sopra una volta di fitto azzurro, tanto che la lor luce bastava, anche senza la luna, a illuminare di un misterioso bagliore la circostante natura. Sorgeva a levante la snella e fantastica torre del palazzo di città. Nessuna voce, nessun rumore turbava quel profondo silenzio, tranne il modulato singulto dell'assiolo. Se v'era notte in cui la fantasia d'un poeta potesse evocare gli abitatori d'un mondo diverso dal nostro, certo era quella.
Ma il vino di Chianti m'aveva infuso più volontà di dormire che ispirazione per una ballata alla Goethe. Quindi richiusi la finestrina, e mi coricai senza pensare nè ai Turchi, nè ai diavoli, nè alla rossa Marsigli, sultana cattolica di Costantinopoli e legittima sposa di Solimano II. Solamente, per l'abitudine letterata che mi persegue, presi in mano il rituale, e lessi la formula degli esorcismi. La lessi a metà, poichè il sonno mi sorprese, e passai dal mondo reale a quello stato d'oblìo ch'è un'altra pagina misteriosa della nostra esistenza.
Soddisfatto al bisogno de' sensi con alcune ore di sonno tranquillo e profondo, la fantasia cominciò a risvegliarsi, ricomponendo nel mio cervello le varie idee e le varie imagini che vi avevano lasciata una più viva impressione.
La prima apparizione ch'io vedessi sorgermi innanzi, fu la gentile fantesca che mi aveva augurata la buona notte. Io la vedeva come l'avessi presente, co' suoi occhi grigi e co' suoi capegli d'un biondo acceso, graziosamente rilevati sopra la fronte. Poi la nipote del calonaco ospitale mutava d'aspetto, e pur conservando il colore degli occhi e de' capelli, prendeva l'aspetto d'una donzella d'alto lignaggio, assisa su' suoi talloni secondo il costume orientale, in un chiosco elegante, rinfrescato da uno zampillo d'acqua sorgente, che ricadea mormorando in una vasca d'alabastro purissimo. L'odalisca raccoglieva le lunghe trecce de' suoi capelli fulvi entro una reticella azzurra tempestata di brillanti e di stellucce d'oro. Ella cantava, accompagnandosi con un liuto d'antica foggia, alcuni brevi ed arguti stornellini senesi.
Quando, tutt'ad un tratto, le porte del gineceo si spalancano. Alcuni paggi sfarzosamente vestiti si accostano alla gentil trovatrice e l'invitano a recarsi alla vicina moschea. Un magnifico personaggio, vestito di ermellino e ornato il capo d'un turbante di finissimo casimiro, la stava attendendo colle braccia aperte, porgendole un anello di squisito lavoro. Due altri personaggi stavano in piedi, l'uno a destra del Sultano e l'altro a sinistra. L'uno era il gran Muftì, primo interprete del Corano, l'altro il Patriarca di Costantinopoli. Il Muftì prese la mano del principe, il primate della Chiesa orientale prese quella della fanciulla, e tutti e due pronunciarono le parole sacramentali, l'uno invocando sui due sposi la pace di Allah, l'altro tutte le benedizioni del Dio d'Israele.
Ma alcuni uomini mascherati da diavoli se ne stavano in piedi dinanzi alla porta della moschea. Appena il Sultano ebbe passata la soglia, porgendo signorilmente la mano alla sua giovane sposa, quei manigoldi si gettarono sopra di lui e lo stesero morto sul suolo. Poi afferrando brutalmente la donna svenuta per lo spavento, la trassero al porto vicino, e l'imbarcarono sopra una nave pronta a salpare per l'Occidente.
Il mio sogno qui s'interruppe. Evidentemente la mia fantasia non aveva voluto imbarcarsi colla fanciulla per quel lungo viaggio di mare. Ma passato un certo intervallo, ch'io non ho dati per misurare, ecco di nuovo apparire dinanzi a me la rossa Marsigli. Il buon canonico la riceveva dalle mani de' suoi rapitori umiliati e confusi, e la riconduceva fra le braccia de' suoi genitori, che la piangevano da molti anni come perduta.
Io assistetti agli abbracciamenti, ai baci, alle lagrime di gioia che versavano i due vecchi e la giovane. Il sogno era così vero e parlante, ch'io ne provai una commozione reale, e risvegliandomi a un tratto, mi trovai gli occhi molli di pianto.
Il fatto sta ch'era giorno. Il canonico, avvezzo a levarsi coll'alba per andare al paretaio, era venuto a sincerarsi che i diavoli avevano rispettato le leggi dell'ospitalità.
Gli raccontai il mio sogno, tale quale mi fu dato raccapezzarlo, facendo a lui le mie scuse per non aver saputo connettere in miglior modo le fila della leggenda ch'ei m'avea raccontato la sera.
Lo stesso faccio con voi miei cortesi lettori, e con te specialmente, gentile giovanetta dalle fulve chiome, che meritavi d'ispirare sogni migliori e fantasie più leggiadre che non sono le mie.
— Del resto, monsignore, questo è in parte l'opera vostra. Perchè farmi trovare costì accanto al letto il vostro rituale degli esorcismi? Lo esorcismo chiama il diavolo, più che nol cacci, e questa è la ragione dell'episodio incoerente e ridicolo che guastò la fine della mia storia.
— Il bello sta appunto nel fine — disse il canonico. — È molto più morale l'aver ricondotto a casa e in terra cristiana la nostra eroina, che lasciarla costì nel serraglio in mezzo agl'infedeli e agli eunuchi.
— Ma quei diavoli che intervengono così a sproposito?
— Il diavolo mette sempre la sua coda dove gli piace. E se fa de' brutti tiri nel nostro mondo, può farne alcuno di buono nel mondo de' sogni e delle chimere. E badate, che forse non eran diavoli veri. Voi stesso mi dite ch'erano maschere. Lasciamo dunque la cosa come sta, e se alcuno la vuole più bella, se la rifaccia.
UN VIAGGETTO NUZIALE.
I. Il mare e la terra.
— S'io fossi in voi, mia cara Claudina, vorrei proprio abbandonarne il pensiero....
— Oibò, signorino! Ponetevi in mente una cosa: io non cambio punto la mia risoluzione una volta presa. Appena sposati, in vapore, e via subito, lasciando la terra a chi l'ama.
— Loda il mare e tienti al lido....
— Proverbio da conigli: io non mi lascio allucinare da codeste ciance de' nostri bisnonni.
— Ma, Claudina mia cara, lasciatemi dire: non mancherà tempo: ma subito, appena sposati, affrontare i turbini, le tempeste, l'ira di Nettuno e di Teti.... Io per me crederei preferibile una buona camera, un soffice letto, un sonno tranquillo, e.... e....
— Perdonatemi, caro Giorgio, voi siete alquanto.... anzi troppo amico del riposo. Mi sono molto ingannata sul vostro carattere. Io speravo che un genovese, figlio di un marinaio, dovesse essere un po' più animoso, un po' più portato alla vita venturosa del navigante. Ma vi farete, vi farete!
— Mi farò, mi farò, ma un poco alla volta, colla pazienza. Cominciamo dal fare una visita ai vostri laghi, andremo all'Isola Bella....
— Che laghi, che laghi! Non mi fate arrabbiare.
— Alfine poi che differenza ci corre tra un lago e il mare?
— Che differenza! Ah! non mi fate dire....
— Dite quel che vi pare, ma già io potrò sempre rispondervi che voi parlate senza cognizione di causa. Voi non l'avete mai veduto il mare.
— Che importa questo? Appunto per ciò desidero di vederlo. Sarebbe bella che non si dovesse desiderare se non ciò che si conosce! Desiderate pure anche voi di veder Roma e Firenze che non conoscete che di nome!
— Gli è ben differente....
— Punto, punto, vi dico. Io il mare, vedete, non l'ho mai veduto, ma l'amo: sento che deve essere il mio elemento. I miei sogni sono tutti marini.... venti, tempeste, uragani, pirati.... Benedetto il Balzac! Egli l'ha detto in una delle sue opere: tre sono le belle cose: una nave a golfo lanciato, un cavallo alla carriera, una donna alla danza.... lasciatemi dire! voi siete sempre lì per interrompermi. Io sono affatto d'accordo col signor di Balzac. Non già ch'io ponga quelle tre cose nella stessa categoria. Si vede che il Balzac non ha scritto romanzi marinareschi. Cooper e Maryat non avrebbero messe a mazzo quelle tre cose. Oh! una nave a piene vele, una nave a tre ponti.... sublime spettacolo!
— Tutto ciò sarà vero: ma io vorrei che mi permetteste un racconto: è una storia di cui sono stato testimonio oculare.
— Sentiamo.
— Si andava appunto in uno de' nostri piroscafi fino alla Spezia: una gita di piacere e non altro, costeggiando la bella riviera. Una vera delizia finchè il mare fu piano e tranquillo. Si passeggiava sulla tolda a braccetto, cianciando, canterellando a due a due, a tre a tre senza pensare al futuro. Era fra noi una coppia d'innamorati, proprio nella luna di miele, a quel che pareva. Nel loro egoismo collettivo, non ponevano attenzione a cosa veruna, non pensavano forse che all'aria del Bellini: vieni cerchiam pe' mari, al nostro amore un porto.... con quel che segue. Come colombe dal desìo portate, pareva non dovessero mai disunirsi, e passar la vita nella più stretta comunione delle gioje e de' guai....
— Ebbene! mi sembra che la storia sia favorevole alla mia causa.
— Sin qui sì: ma adesso viene il bello.... cioè il brutto. Soffiò un po' di vento da scilocco: non mica grande da metterci in pericolo di naufragio, ma quanto bastò per torci la voglia di passeggiare sulla coperta. I più coraggiosi tennero duro, ma cominciarono a camminare a zig zag, come si dipingono le saette: le ciere diventarono pallide pallide: il capo girava a tutti, lo stomaco si disponeva a fare la sua resa di conti col mare. — Io cercavo cogli occhi i due teneri ed amorosi colombi. Che cosa credete voi che facessero?
— Oh bella! si saranno soccorsi scambievolmente....
— Voi lo credete, voi Claudina, che avete una forza di spirito e una tenerezza di cuore veramente esemplare. Ma invece que' due inseparabili s'erano separati: uno chinavasi a destra, l'altro a sinistra. Straniere mani cercavano di apprestar loro un qualche ajuto: ma essi erano divenuti affatto stranieri l'un all'altro.
— Voi siete bravissimo da inventare storielle: io non ho mai posta in dubbio la vostra facoltà poetica: ma non per questo recedo dal mio caro e vagheggiato disegno.
— Ah! Claudina, se tutt'ad un tratto voi doveste ritirarvi da un canto ed io da un altro; proprio la notte de' nostri sponsali, proprio nella nostra desiderata luna del miele, io ne sarei disperato, Claudina, e voi potreste pentirvi ma troppo tardi di non aver dato retta alle mie parole. —
Giorgio finì così la sua eloquente perorazione: guardò la sua amabile fidanzata spiando se apparisse ne' suoi sguardi un raggio di speranza: ma invano. Ella fu irremovibile. Le nozze dovevano seguire fra tre giorni, di buon mattino: una carrozza doveva aspettarli alla porta della chiesa: la sera a Genova senza indugio per imbarcarsi sopra il vapore.
II. Claudina e Giorgio.
Da questo dialogo voi sapete presso a poco quali erano i miei personaggi.
Claudina era una ricca ereditiera milanese, orfana di padre e di madre, vissuta sotto la tutela e la sorveglianza d'una discreta parente. Giovane colta come s'accostuma a' dì nostri, sapeva sonare un po' il cembalo, ballava con grazia, cinguettava il francese, lavorava poco, e leggeva molto. Leggeva, voi già l'immaginate, tutti i nuovi romanzi che la feconda Parigi di mese in mese, di giorno in giorno, originali o tradotti, manda fuori dai suoi torchi e abbandona ai capricci della volubile moda. Milano già su questo conto della letteratura è ancora dipartimento francese, anzi ci scommetto che ci sono in Francia parecchie provincie dove le novità letterarie della capitale giungono più tardi assai che a Milano, e vi sono accolte con minor entusiasmo. Claudina dunque era tra le più appassionate divoratrici di nuovi romanzi; e in quel tempo, parecchi anni sono, i romanzi marittimi aveano preso il sopravvento grazie a' viaggi del capitano Maryat, e alle sue fantastiche scene marinaresche. La fanciulla, dotata di vivacissima immaginazione errava col romanziere sulla vasta superficie de' mari, affrontava nembi e naufragi standosi coricata sopra il suo letto, o sdraiata sopra i suoi morbidi seggioloni. Chiamava la vita di Milano una vita stagnante e monotona, aspirava al mare e si sentiva capace di dare al mondo l'esempio d'una marinaja ardita ed intrepida quanto i celebrati corsari di Cooper e di Eugenio Sue. Più volte avea pregato la vecchia zia a volerla condurre a Venezia od a Genova, non per ammirare la piazza di S. Marco, o il palazzo dei Doria, ma per vedere il mare in tempesta lanciare com'ella diceva, i suoi flutti spumanti fino alle stelle. Ma la tutrice compiacentissima in tutto il resto; non avea mai voluto appagare lo strano desiderio della nipote: al più, al più l'aveva condotta a vedere il lago di Como e s'era per la prima volta arrischiata a passarlo. Ma per disgrazia della Claudina il lago quel giorno era placido e terso come uno specchio. Non v'ebbe nulla che scuotesse la fantasia burrascosa della pazzerella; sicchè ritornata a Milano s'indispettiva col bel tempo e colla sua cattiva stella che non avea voluto procurarle il piacere di vedersi vicina al naufragio.
La ragazza era fertile di trovati. — Se questa benedetta vecchia — diceva — non mi vuol condur seco in qualche porto, io accetterò il primo marito che mi venga offerto a condizione che faccia meco un viaggio di mare. La sorte le fu questa volta propizia. Un giovane genovese, assai gentile poeta, avea pubblicato un'ode alle tempeste, e tradotto per la decima volta, come usa di fare a' dì nostri, il primo canto del Corsaro di Byron. Chiese di lui e venne a sapere ch'egli era figlio d'un capitano di nave, unico figlio, e rimasto orfano da parecchi anni per un naufragio che gli avea tolto il padre sulle rive del Baltico. Claudina non dubitò che il figlio di un marinajo non dovesse aver ereditato il genio paterno: tanto più che i primi versi che avea mandati alla luce erano versi marinareschi. Fattosi il romanzo nella immaginazione, scrisse una lettera piena d'entusiasmo al poeta, e gittò con questo le prime fondamenta d'un buon matrimonio. Giorgio Fioccardi ricevette codesta lettera colla compiacenza che è naturale ad un giovane autore; fece un viaggetto fino a Milano apparentemente per trattare d'una ristampa coll'Ubicini, ma nel fatto per conoscere la sua musa futura, e dirle a voce quelle mille e una cose che il suo lusingato amor proprio gli avrebbe dettate.
Sulle prime il contegno di Giorgio non ismentì l'opinione che la Claudina ne avea concepita; o a parlare con più precisione, ei si piegò volontieri alle idee della giovane per quell'istinto di assentazione che è naturale in un amante e in un poeta. Ma l'indole sua non era nel fatto quale appariva. Avea cantato il mare così per capriccio, con quella coscienza da umanista che oggi loda l'inverno e domani l'estate, tanto per fare de' versi: ammirabile docilità che i nostri maestri di rettorica giungono ad insegnarci a furia di temi non sentiti da chi li dà, nè tampoco da chi li tratta per obbligo di diligente discepolo. Oh bei tempi! Giorgio, scusate la digressione, era proprio uno di codesti versicolai, ma recitava con garbo, cacciava a tempo le mani ne' capelli, a tempo stralunava gli occhi da spiritato, voglio dir da ispirato, onde Claudina, senza che si possa tacciare di leggerezza, lo giudicò differente da quello ch'egli era. Ed essa medesima, chi mi sa dire se fosse quella coraggiosa giovane che voleva parere? — Lasceremo parlare la storia.
Intanto io dirò solamente che Giorgio amava la terra, adorava la calma, benediva la quiete de' campi, la luna argentea, l'ozio, il ritiro, la felicità dell'idillio, le otto beatitudini dell'Arcadia. Piacevagli la Claudina, ma non già ne' momenti d'entusiasmo quando lanciavasi come cometa fuor della sfera ch'egli credeva segnata alle affettuose e calme consuetudini della donna: piacevagli perchè la sentiva appassionata della poesia, perchè era la prima incarnazione della sua giovanile e poetica idea, perchè sperava poterla dire un giorno sua sposa e dominare i suoi capriccetti. Figuratevi qual albergo egli architettava nella sua mente per se stesso e per lei! Una palazzina sul pendìo de' monti, mezzo nascosta tra gli ulivi e gli aranci, fresca la state, tiepida nell'inverno, adorna di tutti gli agi che il proprio patrimonio, e la ricca dote di lei rendevano agevoli ad ottenere: una serie di giorni tranquilli, uno copiato dall'altro, tutti sereni, tutti abbelliti dalla poesia e dall'amore. Ma era destino che non dovessero intendersi che troppo tardi, come accade il più delle volte nel mondo; e il matrimonio era già stabilito, già prefisso il dì delle nozze, quando il dialogo da cui comincia il racconto venne a rivelar l'uno all'altro i due diversi caratteri.
III. Il romanzo dimenticato.
Io non son punto amico di quell'indiscreto tripudio onde in altri tempi si profanava il santo giorno del matrimonio. Quel banchetto nuziale, quelle cerimonie di parenti e d'amici, quelle allusioni aperte o semiaperte ad un fatto che la veneranda antichità copriva di tanto mistero, quei balli protratti alla sera, quei brindisi e quei canti epitalamici che la sposa doveva sentirsi recitare coronata della sua ghirlanda di fior d'arancio, col pensiero e col cuore volti naturalmente a qualche altra cosa. Tutto ciò mi è parso sempre un controsenso e un assurdo, non dirò tanto grande quanto il convito che si faceva subire alla giovane monaca nella vigilia della sua vestizione, ma poco meno. Il vincolo conjugale è cosa troppo seria per esser fatta segno di tante frivolezze il dì che ci stringe per sempre; e le prime emozioni di due cuori innamorati, nel punto che vengono consecrate dalla società e dalla religione, sono troppo elette e troppo intime per essere esposte alle ciancie degli invitati, ed ai madrigali de' begli spiriti.
Ma, ammesse senza esame queste buone ragioni, ammessa la necessità di divezzare il mondo da' banchetti nuziali, e i poeti da' sonetti epitalamici, si deve egli credere che il miglior espediente sia quello di correr le poste appena proferita la parola sacramentale? — Io ne dubito molto, ancorchè tra l'uno e l'altro costume non si possa esitar nella preferenza. Claudina e Giorgio sposati la mattina in albis, e stretta la mano ai pochi amici e congiunti che ne furono fatti consapevoli, si misero in una carrozza da posta, e presero la via di Genova. Il postiglione forse saprà i dolci colloqui coi quali s'aperse la loro luna di miele: io non posso riferirveli, e quand'anche potessi immaginarmeli per l'appunto, non li direi per quelle ragioni medesime che m'indussero a disapprovare l'antico baccano in cui seppellivasi per tanto tempo il primo dì delle nozze. Vi dirò solo che non fu dimenticato un libro da leggersi in compagnia, quando il brandire della carrozza l'avesse permesso, e quando i due nuovi sposi non avessero avuto qualche cosa di più interessante a comunicarsi. Questo libro era un romanzo, un romanzo come potete credere, marinaresco, Le vaisseau fantôme del capitano Maryat. Quanto leggessero quel giorno non saprei dirvi, massime pensando a quel verso di Dante:
Quel giorno più non vi leggemmo avante.
Ma certo la Claudina ne avea scorso tanta parte da sentirsene tutta entusiastata. Giorgio benchè letterato e amico de' libri quanto un letterato può esserlo, n'avea spesse volte mossa querela durante il giorno. Non mi date così presto un rivale, mia cara — diceva egli celiando. — Potreste temerne, se si trattasse non del libro ma dell'autore — rispose Claudina. — Chi scrisse questo libro è certo un uomo di mare, un vero pirata che potrebbe far la conquista d'una corvetta....
— E anche d'un cuore — interruppe Giorgio ridendo: ma in questo videro svolgersi dinanzi indorato dal crepuscolo della sera l'imponente spettacolo del Mediterraneo. Claudina volle lasciar la carrozza, salire la vetta d'un colle e salutare co' primi versi del Corsaro di Byron l'azzurra immensa superficie del mare. Giorgio partecipò all'entusiasmo, perchè quel giorno Claudina aveva speciali diritti alla sua compiacenza, perchè quei versi da lei proferiti erano stati da lui tradotti, perchè spesse volte, anche indipendentemente da sì forti motivi, la natura ci sembra più bella veduta attraverso il prisma dell'altrui entusiasmo. Infatti Giorgio che era nato sul mare, ch'era figlio, come dissi, d'un marinaio, ch'era alla sua maniera poeta, non avea mai prima d'allora sentita tutta la magnificenza di quella vista. Claudina non mancò di approfittare di quel trionfo per vincere con una sola parola le ultime ritrosie del marito circa al viaggio da intraprendersi quella notte medesima sul battello a vapore. Non ci fu tempo da perdere. Appena reficiato lo stomaco e disposto il bagaglio opportuno alla gita, montarono sullo schifo, e in un attimo furono sulla tolda del Carlomagno, vapor francese che fa per ordinario il tragitto da Genova a Livorno. Salpava quella sera anche il Dante, altro vapor genovese, ma Claudina aveva prescelto l'altro come più capace e più imperatorio. Stavano per levar l'àncora quando la giovane entusiasta che fino allora era restata attonita e fuor di se stessa ammirando la notte stellata riflettuta nel bruno specchio dell'acque, discesa nella sua camera e guardando le sue robe, s'accorse che mancavale il romanzo prediletto che avea lasciato all'albergo, e che doveva occuparla piacevolmente nell'ore più solitarie. Diede in un accesso di stizza che teneva della disperazione. Il marito accorse per saper la cagione di tanto scalpore, e come la seppe, aggiunse freddamente che l'avrebbe letto al ritorno. — Che importa a me del ritorno! — gridò indispettita Claudina. — Fareste meglio, giacchè ne abbiamo il tempo, di andarmelo a prendere. Giorgio voleva replicare, ma temette una scena drammatica, e chiesto al capitano quanto rimanesse prima di levar l'àncora, ritornò correndo all'albergo. Cerca in un luogo, cerca nell'altro, il libro non si trovò. Corse ad acquistarne un altro esemplare dal primo librajo in cui s'abbattè e appena l'ebbe tra le mani, si pose la via tra le gambe, e corse al molo. Appena giunto udì da lungi il fischio della partenza. Il vapore era già lontano. Appena scoccata l'ora, con una scortese puntualità, malgrado le preghiere della desolata Claudina, il capitano salpò per non essere prevenuto dal Dante, suo formidabile rivale.
Giorgio rimase sul molo agitando il suo fazzoletto per l'aria: nè gli rimase miglior partito che quello di tener dietro al Carlomagno imbarcandosi sull'emulo suo.
IV. Altro è parlar di morte, altro è morire.
Che ne dite voi, cortesi lettori, di quei poeti i quali trovano tanto piacere a contemplare il mare in burrasca standosi alle finestre del loro palazzo, o almeno in un angolo ben difeso della sicura spiaggia? Io per me li tenni sempre per egoisti, e non ho mai simpatizzato con essi. Non sono molti giorni che se ne parlava tra una brigatella d'amici, i quali ammiravano invece una di quelle calme serene che infondono nell'animo di chi le mira una tranquilla voluttà, un interno riposo non turbato da alcun sinistro pensiero. Il mare era limpido come uno specchio, rifletteva capovolta la selva di navi che popola il nostro porto, e da lungi le barchette de' pescatori, che tenevano spiegata la dipinta vela non altro che per accogliere i lievi zeffiri della sera che vagano senza increspare la cheta superficie dell'onda. Da lontano le montagne del Friuli e della Carnia mostravano spiccato nell'orizzonte il variato contorno delle lor cime e gli ineguali piani de' loro declivi, là tinti d'un bell'azzurro, costà bianchi per la neve caduta, dove illuminati dagli ultimi raggi del crepuscolo, dove oscuri per lo sbattimento dell'ombre. Era veramente una scena da contemplarsi in silenzio, e da benedirne l'autore della natura. Bel piacere invero quello d'immaginare il pericolo altrui, congratulandosi seco di non esservi esposto! Io non ricuso a chi l'ama il godimento d'una sublime tempesta, purchè egli l'affronti cogli altri.
Claudina era tra questi, o almeno credeva di esserlo, finchè non avea veduto burrasca se non sulle pagine de' suoi romanzi marittimi. Ella voleva davvero provar qualche cosa di vero, voleva temprare la sua anima, come diceva, tra le scosse della paura. Era forse un desiderio da pazzerella, ma non da egoista, e per questa considerazione supplico i lettori a menarglielo buono. —
Noi l'abbiamo lasciata sulla coperta del Carlomagno, sola tra gente straniera, la prima volta che assaggiava il mare, vedova il primo dì delle nozze per quel capriccio del romanzo dimenticato. Vedeva o le pareva vedere sventolare da lungi il fazzoletto del suo Giorgio; udiva o le sembrava d'udire la sua voce chiamare indietro l'inesorato piroscafo. Il capitano che avea resistito alle sue preghiere, l'andava gentilmente racconsolando, dicendole che il signore sarebbe di certo partito coll'altro legno, e che la mattina seguente, permettendolo il tempo, si sarebbero riveduti a Livorno. Intanto si ritirasse nella sua cabina, non s'abbandonasse a inutili escandescenze che la predisporrebbero troppo a sentire il disagio del mare; non v'essere alcuna cosa a temere, ancorchè il viaggio non avesse l'apparenza d'essere così tranquillo: si coricasse, e stesse cheta ed immobile. La Claudina a questi consigli del capitano che avrebbero messo paura ad un altro, sentì risvegliarsi la sua suscettibilità di coraggio: rispose tra la stizza e l'alterezza che badasse a lui, e non se ne prendesse pensiero. Il capitano pensò che le sgarbate frasi provenissero dal contrattempo di trovarsi così derelitta, e non proferì più parola, perchè non aveva altro a soggiugnere. La Claudina avvolta nel suo mantello montò sul cassero, si collocò vicino al piloto, e stava osservando l'oscillazione dell'ago magnetico. Importunava il buon uomo con mille domande alle quali egli rispondeva sbadatamente, rozzo com'era, e intento a ben governare il timone. La donna si consolò presto dell'accidente seguitole, dimenticò il romanzo di Maryat e si rassegnò alla breve vedovanza d'una notte, giacchè poteva consecrarla allo studio pratico dell'arte nautica. Solamente dolevasi che il mare rimanesse tranquillo, che il viaggiar colla forza del fuoco fosse troppo sicuro, e invocava un po' di burrasca!
La burrasca invocata non si mostrò scortese alla voce della coraggiosa Claudina: anzi il destino preparava più forti godimenti alla sua fantasia.
Dopo due ore di tranquilla navigazione un vento di tramontana si diede a soffiare con forza sempre crescente, sicchè il vapore cominciò a declinar dalla linea e ad essere dal vento e dalla corrente respinto in alto. I passeggeri che prima andavano a diporto sulla tolda si trassero sotto, e Claudina dopo aver tenuto duro un buon quarto d'ora, dovette imitarli. Il suo volto s'era improvvisamente fatto pallido, le mani e i piedi le s'irrigidivano come sciolti nelle giunture, e un nuovo intronamento dallo stomaco le andava salendo alla testa, e di là rifluiva sopra lo stomaco rimescolandolo e travagliandolo sempre più. Claudina si ricordò allora il discorso di Giorgio e ringraziò quasi il cielo ch'egli non fosse presente, tanto ne paventava i rimproveri, e le sarebbe parso grave giustificare col fatto le previsioni di lui. Coll'ajuto del cameriere discese nella sua cameretta, si gittò sdrajata sopra il lettuccio, e non pensò più nè a romanzi marittimi, nè a simili cose. Una dramma di realtà l'avea guarita delle sue fantasie. Non insisto a descrivere il suo stato, perchè i miei lettori qual più qual meno avranno provato codesto disagio, e chi non l'ha provato, ringrazi Dio, chè nel fatto è una brutta faccenda, massime la prima volta che se ne fa l'esperienza.
Il tramontano durò tutta la notte, e scemò di forza solamente sull'alba. Ma il vapore era già molto lungi dalla sua mèta: la macchina non avea potuto resistere contro all'onde grosse e irritate: spesso una sola ruota lo sospingeva, e il governarlo era cosa incerta e difficile. Sicchè quando il sole salutò de' primi suoi raggi l'azzurra superficie del mare, nè il porto di Livorno, nè alcun'altra terra si poteva scorgere ad occhio nudo. Claudina non fu l'ultima a risentirsi da quella specie di torpore ch'era succeduto al travaglio; ricompose in fretta le scompigliate vesti e i capelli, e salì sulla tolda. Bello e maestoso spettacolo! Quello spazio senza limite e senza riva; quel cielo sottoposto come a specchio dell'altro; di sopra l'unico sole che rischiarava l'immensità, di sotto quel fragile legno, come un punto impercettibile, come un atomo perduto tra l'aria e l'onda! Claudina ritrovò a quella vista tutta la sua forza, tutta la sua poesia: si vergognò d'essersi lasciata così sopraffare durante la notte, ma poi consolossi alquanto ricordando aver letto che Napoleone medesimo per ben quattro giorni fu travagliato dal mare quando s'avviava sulla fregata inglese a S. Elena. — Il capitano avea fatto intanto i suoi calcoli, il piloto avea dirizzata la prua verso il N.O. e si sperava tra cinque o sei ore raggiugnere la Toscana. Già la bassa cresta degli Appennini appariva sul limite estremo dell'orizzonte.
V. Il contrattempo.
Ma qui non era finita la storia. Non andò molto che apparve a vista d'occhio un punto nero che tosto si riconobbe per un altro battello a vapore alla sottile colonna di fumo che s'alzava dal centro di esso. Si pensò tosto che potesse essere il Dante, il quale dal furore dell'uragano, fosse stato gittato più al largo. Ma il capitano si disingannò presto, com'ebbe rivolto a quella volta il suo cannocchiale. Era un altro vapor francese, il quale lo chiamava a bordo e coi segnali spiegati sull'albero, e col cannone che da lì a non molto si sentì rimbombare da lungi. Claudina avea sperato che fosse il Dante, avea sperato riabbracciare in esso il marito; che le pareva un'ora mille anni di fare con esso la pace, e domandargli perdono de' proprj capricci. Quando intese che non era altrimenti il legno che si credeva, sentì una stretta al cuore, e per la prima volta pensò al pericolo in cui Giorgio s'era trovato per lei; pensò che forse, non sorretto dalla forza di spirito di cui si teneva fornita, avrebbe sofferto una notte d'inferno. Ed ora sopravveniva questo nuovo ritardo, e sa Iddio che ne doveva seguire!
Intanto i due vapori si raccostavano, il Carlomagno con molta alacrità, l'altro assai lentamente, cosicchè non ci volle molto a indovinare che doveva far acqua, o aver guasta la macchina e la manovra difficile. Era l' Hirondelle che due giorni prima salpava da Marsiglia per la nuova colonia francese, incaricata di pressanti dispacci del suo governo per l'Algeria. Ma volendo di troppo affrettare il viaggio, e non ben misurando la forza delle sue macchine, avea dovuto desistere dall'usar la sinistra, e procedeva zoppicando più a forza di vele che di fuoco verso la mèta. Il forte tramontano della notte l'avea pur molestata, e il capitano prevedendo che il suo viaggio sarebbe stato men sicuro e men pronto che i suoi ordini non portavano, aspettava il momento d'abbattersi in qualche piroscafo della sua bandiera per imporgli a nome dell'Imperatore d'incaricarsi de' suoi mandati, e recarli in Algeri senza ritardo in luogo di lui. Al Carlomagno toccò la sorte. Venuti a parlamento i due capitani, si concertarono fra loro sui modi di una tale misura: l' Hirondelle prenderebbe a bordo i passeggeri del Carlomagno e li recherebbe come potesse meglio a Livorno, mentre questi coll'incaricato d'affari e coi rispettivi dispacci, avuto dall'altro quel di più che gli potesse occorrere di munizioni, dovrebbe immantinenti virare per l'Africa. Potete credere se i passeggeri del Carlomagno non reclamassero contro tal contrattempo! Tutti erano già annojati della burrasca notturna; or come doveano rinunciare al loro diritto, per montare sopra un legno malconcio, affrontare certo un novello indugio, e forse anche nuovi pericoli, e tutto ciò per far piacere ad uno straniero, e per deferenza ad un governo cui non erano astretti da nessun obbligo? Sopratutto la Claudina n'era dolente e sfoderando tutto il francese che sapeva si mise a gridare contro all'arbitrio e all'inaudita angheria. Ma e' fu un predicare a' porri. I marinai senza badare a ciance travasavano a bordo del Carlomagno il carbone e le vittuaglie dell'altro vapore, e aspettavano i passeggieri per tragittarli nell' Hirondelle. Quando si vide che erano vani i reclami, si fece tra loro una breve consulta, e quasi tutti ricusarono andarvi. Erano pronti piuttosto a fare il viaggio d'Algeri sopra un legno sicuro, che esporsi all'eventualità di nuovi pericoli sulla Rondinella, che e' non potevano sapere in quanto fosse stata danneggiata dal fuoco e dal mare. Tranne alcuni negozianti cui troppo importava esser presto a Livorno, tutti gli altri, come dissi, accompagnarono in Africa l'inviato. Fra questi Claudina, la quale da questo accidente fu presa in fra due contrari affetti. Rincuorata dalla novità della cosa, ella lasciava vagar volontieri la sua fantasia fra i rischi e le avventure probabili del protratto viaggio, dall'altra non sapeva darsi pace del dispiacere che Giorgio n'avrebbe provato. Ma a questo era facile recar sollievo con una lettera ch'ella scrisse in un attimo e consegnò al comandante dell' Hirondelle, il quale galantemente incaricossi di farla pervenire a bordo del Dante, come prima avesse toccato terra. Questa lettera diceva:
«Caro il mio Giorgio. Non ho che due minuti per domandarvi perdono del mio capriccio di donna che ci ha così disuniti. Saprete dagli altri per quali accidenti io devo recarmi nell'Africa. Non so quanto dovrò rimanere in Algeri, aspettando un imbarco per Livorno o per Genova. Fareste meglio a venirmi a trovar là, e così vedremo assieme quella fertile costa stata già nido de' barbareschi, e così celebre nelle storie marittime. Da bravo, giacchè siamo in ballo, balliamo. Dolentissima per vedermi disgiunta da voi, non posso non adorare la provvidenza che per vie così strane volle favorire la mia vocazione. Io v'attendo a Costantina.... e non già sotto la tenda d'Abd-el-Cader.
«La vostra Claudia.»
VI. A gatta cieca.
Il Dante aveva anch'egli provato la forza del vento, ma governato da comandante più esperto di que' mari, più acconciamente costrutto per superare la traversia, o, come sosteneva Giorgio, protetto dal nome e dalla influenza del primo poeta italiano, avea meglio serbata la linea, nè se n'era dipartito quanto il suo borioso rivale. A mezzogiorno del dì seguente avea già guadagnato il porto e salutata Livorno mentre non s'era ancora saputa novella nè del Carlomagno nè d'altro. Giorgio cominciò ad inquietarsene, come potete ben figurarvelo. Spostato com'era dalle sue tranquille abitudini, in un paese straniero per lui, giacchè ad un giovane dell'indole sua poco tratto di mare dovea sembrare un intervallo grandissimo, con pochi denari in tasca, chè il corpo del capitale disposto per quella gita era restato a bordo del Carlomagno, senza conoscenti, senza lettera di raccomandazione e di credito, senza la sposa, che con tutti i suoi capricci era, come di dovere, il più prezioso de' suoi tesori, travagliato dal burrascoso viaggio, inquieto della sorte di lei, vi lascio pensare in quale stato ei passeggiasse lungo il molo di Livorno, aspettando l'arrivo del sospirato vapore. Ma aspetta, aspetta, quella benedetta colonna di fumo non si vedeva mai comparire nell'orizzonte. Interrogava tutti i bastimenti che di tratto in tratto prendevano terra, ma invano. Finalmente sul far del vespro s'ebbe notizia che un vapor francese era in vista, ma pareva malconcio, nè sarebbe giunto in tempo per aver pratica quella sera. Egli non dubitò più che fosse quello ov'era imbarcata Claudina; ma stanco com'era, e rassegnato a non vederla prima della mattina vegnente, se ne andò a letto. Non vi dico se vegliò, se dormì, se sognò burrasche, naufragi e pirati. Salto a piè pari la notte, e lo accompagno sul molo. Qui viene ad intendere che il vapor francese non è altrimenti il Carlomagno, ma l' Hirondelle. Impensierito del cambio, andò pur difilato a bordo colla speranza di ritrovarci la sua capricciosa metà. Trovò invece una lettera — quella lettera che leggeste, molto concisa, la quale lo invitava in Africa, come se l'Africa fosse ad un miglio di distanza, come se si trattasse di una giterella lungo la sua riviera. In Africa, eterni Dei! in Algeri, dove sono i pirati, dove l'insurrezione de' beduini tiene in continuo allarme le truppe francesi! Immaginare la sua Claudina in mezzo a tanti rischi, a tanta lontananza da' suoi, era una cosa da darne il capo nelle muraglie. Il povero Giorgio non sapeva a qual partito appigliarsi. Per un momento pensò, tanto il timore ci rende talora egoisti, pensò, dico, fino ad abbandonare la capricciosa fanciulla, fino a lasciarla viaggiare a sua posta in cerca di nuovi mondi, e tornarsene a casa a scrivere un romanzo storico sulla curiosa avventura di quella gita. Ma poi il suo carattere onorato lo punse: l'amor di Claudina gli si risvegliò più vivo che mai: pensò che il suo illustre concittadino Colombo aveva scoperta l'America senza avere uno scopo così sentimentale, nè una via così definita; — s'arrese al più generoso consiglio d'imbarcarsi sul primo legno che salpasse per l'Africa, e andare a consumare il suo matrimonio in un oasi del deserto di Sahara.
Salpava quel giorno appunto un legno mercantile austriaco per l'Africa, e tirando ancora il vento da maestro, prometteva in cinque o sei giorni di felice navigazione raggiungere il porto d'Algeri. Non era la rapidità d'un vapore, ma l'occasione era buona, il capitano amico al padre di Giorgio, sicchè il nostro tribolato raccomandandosi alla glauca Anfitrite, pose il piede sulla Concordia, così chiamavasi quella nave, che non avendo trovato da caricare a Livorno, andava a cercar fortuna in Algeri. Ma anche la Concordia avea fatto male i suoi conti. Dopo due giorni di prospera navigazione, quando si trovò ne' paraggi delle Baleari e della Sardegna, il vento improvvisamente cambiò, e tirò uno scilocco così ostinato e indomabile che il capitano dovette declinare a S.O., e prendere il porto di Valenza con un tempo che teneva del fortunale. Giorgio che ne' due primi giorni s'era riconciliato coi venti del Nord, questa volta sarebbe stato tentato di fare una invettiva poetica contro gli Australi, se travagliato continuamente dal mal di mare avesse potuto raccapezzare pur una rima. Al più, al più, in qualche lucido intervallo borbottava i versi di Orazio dove il terribile Africo si trova fatto segno di paure o di preci.
Questo fatto venne attestato dal capitano d'un brik, che veleggiava in que' giorni dalle coste di Spagna per la Sicilia. Dopo questo nè i Giornali del Lloyd, nè alcun'altra gazzetta commerciale parlarono più della Concordia per il corso d'oltre a otto mesi. Questo si sa di certo che in tutto questo tempo non s'era mai veduta in Algeri.
VII. Il Convegno.
Nel punto in cui siamo, il povero narratore di questa veridica storia deve domandar perdono a' benigni lettori della lunga lacuna che è costretto a lasciare. Se si trattasse di un romanzo, ei potrebbe assai facilmente inventare naufragi, tempeste, accidenti a sua posta, e riempiere di fantastiche scene tutto questo lungo intervallo. Ma come non si tratta già d'un romanzo, ma d'una storia, egli non vuole esporsi al pericolo d'essere smentito dalle notizie documentate che potrebbero in seguito pervenirci su questa singolare Odissea de' due fidanzati. Egli si limita dunque a dire ciò che ne sa, ed anche quel poco lo dà come cosa probabile, non come cosa perfettamente verificata. Si tratta d'avvenimenti quasi contemporanei; e troppi esempi, assai vicini, dimostrano, quanto si deve andar cauti nell'ammettere certe voci che corrono senza provarle al crogiuolo dell'esperienza.
Un nostro corrispondente, un triestino che da poco trovavasi per affari commerciali in Algeri, ci scrive d'una bella milanese che avea fatto parlare tutti que' crocchi del suo spirito, del suo coraggio, e del viaggio involontario che avea dovuto affrontare la prima notte de' suoi sponsali. Questa non può essere che Claudina. Ma ciò non era più che un poscritto della sua lettera, e per lungo tempo ignorammo che ne seguisse. Pregato da noi a darci qualche notizia più circostanziata su quella giovane, egli non ci seppe dir altro se non che stette costì più d'un mese aspettando sempre il marito, che mai non veniva. È ben vero che i venti soffiarono lungamente contrarj: ma qui, soggiunse egli, si tiene per certo che la signora non abbia punto marito, ma sia venuta a cercarselo nella colonia francese, sa il cielo con quali disegni. Non avendolo trovato, era partita per Genova sul legno: Les deux frères.
Il discreto lettore sa bene che il nostro corrispondente calunnia qui la Claudina senza saperlo.
Temevamo dover restarcene qui: ma ci pervenne a questi giorni un giornale inglese il quale in data di Malta reca il seguente costituto sanitario:
«Jer l'altro, alle 4 e mezzo pomeridiane un Brik francese denominato Les deux frères appariva in questi paraggi colla bandiera sanitaria e convogliato da un nostro Scooner al più prossimo lazzaretto. Parlamentò con una nave a palo austriaca, la Concordia, ad istanza d'un passeggero che v'era a bordo. Furono osservate tutte le norme prescritte dai nostri regolamenti: ma sulla fine di un lungo colloquio che seguì tra il passeggiero suddetto, e una signora che viaggiava sul legno infetto, ebbe luogo un ricambio di carte scagliate reciprocamente da un bordo all'altro, senza che i guardiani potessero impedirnelo a tempo. Il comandante dello Scooner credette quindi dover imporre anche alla Concordia di raggiugnere il lazzaretto, e vi compiono entrambe la quarantina legale.»
I nostri lettori indovineranno senza fatica come i due passeggeri non erano altri che Giorgio e Claudina, i quali dopo un anno di vicende s'erano alfine scontrati vicino a Malta, ma senza poter abbracciarsi. Per l'infrazione sovraccennata delle regole sanitarie dovettero rimaner sequestrati nel lazzaretto dove si saranno consolati reciprocamente del loro viaggetto nuziale. Le carte ricambiate erano le loro memorie, che varrebbero tant'oro per noi, e ci darebbero di che riempire la lunga lacuna lasciata nel nostro racconto. — Ma questo còmpito è confidato a mani migliori. Claudina, essendosi persuasa che lo scrivere un romanzo marittimo, è assai più piacevole ch'esserne l'eroina, si occupa presentemente di mettere in ordine quelle note e quelle impressioni, e non andrà molto che l'Italia potrà vantare un racconto di un genere nuovo, che ancora ci manca.
L'ORA DEGLI SPIRITI.
FANTASIE NOTTURNE.
I. La chiave di casa.
Aveva un bel frugarmi in tutte le tasche: la mia chiave non c'era. O l'avevo lasciata a casa, o l'avevo perduta per via.
Era la mezzanotte. Mi trovavo dinanzi a un forte cancello di ferro, a guardia del quale non c'era nè cane nè portinaio. Nei tre piani della casa tutto taceva. Nessun lume appariva dalle finestre. Io conosceva per esperienza le abitudini de' casigliani. Avrei potuto picchiare e suonare per un'ora, senza riuscire a farmi sentire, o senza indurre quelle donne a lasciare le coltrici. I monelli del quartiere che si divertono spesso a suonare per celia, le avevano rese incredule ed impassibili a chi facesse appello per vera urgenza al loro buon cuore.
Dunque io restava escluso per tutta la notte dalla mia camera e dal mio letto.
Aveva due espedienti dinanzi a me: o passeggiare le vie di Firenze per altre sei o sette ore, o cercar ricovero in un albergo. Nè l'una cosa nè l'altra mi garbava gran fatto. Passeggiavo da due ore, e non sono più nell'età che la posizione verticale della persona mi sembri la più naturale.
Cercare un albergo.... avendo casa a Firenze, mi pareva un espediente da riservarsi per ultimo, quando avessi perduta ogni speranza di stendere le mie membra sul proprio letto. Ora ogni speranza non era del tutto perduta. Ogni zio possiede qualche nipote più o meno randagio: ed io ne ho uno che sento per ordinario salir le scale dopo di me. In quel momento desiderai ch'egli fosse ancora a qualche veglia, o al caffè, moltiplicando le partite di biliardo o di dominò. La sua finestra era ancora aperta, nè vi si scorgeva alcun lume. Era dunque fuori, e presto o tardi sarebbe tornato colle sue chiavi. Mi rassegnai ad aspettarlo a piè fermo, facendo la sentinella sulla mia porta.
Il tempo, dissi fra me, non sarà lungo, e ad ogni modo troverò maniera di abbreviarlo, osservando l'eterne stelle ed evocando gli spiriti che dalla mezzanotte fino al tocco hanno facoltà di rispondere alla chiamata de' vivi.
II. La scena.
La parte di Firenze ch'io aveva dinanzi, era una cantonata nel sesto di San Miniato al monte.
Il quartiere, in quell'ora, era perfettamente silenzioso e deserto. Gli spiriti avrebbero potuto apparire senza timore di testimoni indiscreti. Le mie vicine avean chiuso ermeticamente le finestre. Le due tessitore così indefesse al telaio, non facevano più andare la spola, che comincia la mattina alle quattro il suo monotono via vai. Anche le due fioraine, dopo aver messi in istrettoio i loro riccioli, aveano detto addio al mondo esterno, che guardano dall'alto al basso aspettando di vederlo più da vicino.
Non erano ancora quindici minuti che una frotta di giovanotti avevano fatta la loro ronda, camminando col piè di feltro, per non turbare un concerto di chitarra e di armonica, ai quali si alternava uno stornello paesano cantato da una voce argentina, a cui gli altri tenevano bordone a labbri chiusi, perchè la voce sola salisse in alto e andasse al suo indirizzo coi suoi intendimenti. Quella serenata era passata due volte, senza che alcuna finestra si aprisse come per rispondere: grazie.
Dopo la poesia, la prosa. Due guardie di città perticavano gravemente la via, alias fondaccio. Codesti vigili del municipio non mancano mai quando non c'è bisogno di loro. Mi guardarono con occhio discreto, senza darsi pensiero d'indovinare perch'io mi restassi ritto dinanzi a quella porta inflessibile. Avrei potuto essere un ladro, senza essere molestato, come segue il più delle volte.
Dopo le guardie municipali, passò l'ispettore dei fanali. Non passò già per accendere quelli che si trovassero spenti, ma per ispegnere quelli che a suo credere brillavano inutilmente. Io ne abbracciava prima collo sguardo otto o dieci: dopo la visita dell'ispettore, dovetti contentarmi di due.
Tanto meglio, dissi fra me. Ora verranno gli spiriti che amano l'ombra e il mistero.
Ma la prosa continuava. Un passo si avvicinava lentamente alla mia destra. Si avvicinava monotono e regolare, come il passo di una sentinella tedesca. Giunto a trenta metri da me, mise la chiave nella toppa d'una porta, e sparì.
Fortunato te! esclamai fra me stesso. Tu almeno non hai dimenticato la chiave. Non so chi fosse, nè se in quella casa avesse il suo domicilio legale. Capite bene che non me ne sono curato, per non parere più indiscreto degli altri.
Di quando in quando un altro passo si udiva avvicinarsi or da una parte or dall'altra. Erano operai che avevano protratto il loro lavoro, o ne avevano scialato il guadagno al caffè. Di altre cause dell'indugio non vo' parlare, perchè quella sera, trovandomi in una posizione che poteva parere equivoca, non era disposto a commettere giudizii temerarii sul conto del prossimo. Anche questi ultimi sintomi della vita e del lavoro umano diventavano sempre più radi, e finalmente cessarono.
E mio nipote non ritornava. Dove trovavasi egli mai a quell'ora? Se avessi potuto immaginare da qual parte venisse, gli sarei mosso incontro. Ma la fortuna e i nipoti girovaghi non si sa da qual parte ci vengano.
Rimasi solo.... aspettando. Non mai mi ricorse al pensiero con più dispetto il proverbio veneziano:
Aspetar e no vegnir
Xe una cossa da morir.
III. Gli spiriti delle tenebre.
Chi non ha avuto alcuna volta la curiosità di trovarsi a contatto del mondo secreto? Io l'ebbi questo desiderio più o meno peccaminoso. Ma per quanti libri di magìa bianca e negra mi avvenisse di scorrere, per quante tavole facessi girare, per quante invocazioni facessi, non dirò al diavolo in persona, ma agli dei pagani che dovrebbero essere un quid simile, non mi avvenne mai di vederne nè coda nè corno. Anzi la mia stimabile amica Aretusa avendo evocato per me con tutta l'intensità della fede lo spirito di Felice Orsini, si udì rispondere ch'io non era degno ancora di entrare in communicazione colle anime sciolte dal corpo. E la causa è chiara per sè: io non ho fede che basti per forzar la natura.
Ma questa sera, chi sa? Fosse il dispetto del mondo visibile, fosse quello stato di stanchezza e di sonnolenza in cui mi trovavo, ebbi un lampo, se non di fede, almeno di speranza. Non feci soffumigi di zolfo, non segnai sul terreno il magico segno di Salomone. Codeste sono cose da ciarlatani. Raccolsi tutta la forza della mia volontà, e comandai mentalmente: venite! venite! venite!
Guardai intorno: tesi l'orecchie. Nessuno strepito, nessun fenomeno che mi avvisasse d'essere stato obbedito. Che è che non è, veggo uscire da un'apertura a fior di terra, ch'io non avevo punto avvertita, un non so che di semovente, nero nero, che allungando silenziosamente il passo e quasi strisciando se ne veniva alla mia volta. Aveva due occhi fiammanti che lucevano nell'ombra come due topazi fosforici. Quei due occhi si affisavano nei miei, quasi volessero magnetizzarmi. Non era un cane, non era un gatto, o almeno mi pareva d'una struttura diversa. Era lungo, magro, smilzo come una donnola, ma quattro volte più grande di quelle che mai vedessi. Si avvicinava cauto, incerto, come tentasse il terreno, come volesse assicurarsi ch'io l'avessi veramente chiamato.
Fosse anche quella la forma di una gatto, pensai fra me, il diavolo non ha corpo, e per darmi prova della sua condiscendenza dee pur prendere la sembianza di un animale. E aspettai di piè fermo, benchè a dir vero mi sentissi scorrere per le vene un involontario ribrezzo.
E lo spirito si appressava, prendendo ad ora ad ora una figura più simile a quella di un gatto, ma di un gatto straordinario, stravagante, infernale. Ci siamo! dissi fra me. E feci uno sforzo sopra me stesso per presentare allo spirito un contegno fermo e degno di un uomo.
Tutto ad un tratto dai tegoli della casa di rimpetto si fece udire un miagolìo di vero gatto: al quale rispose un altro miagolìo più acuto, che pareva uscir dalla gola di un animale della medesima razza, ma di sesso diverso. I due miagolii s'incontrarono come due sospiri d'amor felino e felice, e si alternavano e crescevano a grado a grado, come due squilli di corde, come un cànone di musica classica e sacra.
Mi rivolsi istintivamente al luogo donde scendeva quel mirabile duetto: ma non appena ebbi stornato lo sguardo dagli occhi della mia misteriosa visione, questa immediatamente disparve e si rimpiattò sotto terra.
Ebbi un bell'evocarla di nuovo: non venne più. Forse l'accordo udito dall'alto la spaventò: forse temette il paragone del vero: forse volle punirmi perchè m'ero lasciato distrarre da quell'incidente d'ordine naturale e mondano. Il fatto sta che anche in quest'occasione lo spirito evitò il contatto dei corpi, e mi lasciò smagato e più diffidente ch'io non fossi prima, di potere mai entrare in communicazione cogli spiriti elementari.
IV. Le nozze sui tegoli.
La coppia innamorata continuava intanto il suo classico duetto sui tegoli. All'andante era succeduta la stretta, e la melodia si spezzava in certi suoni imitativi da mandare in visibilio il Wagner, e tutti i musicaroli della scuola.
I suoni separati da intervalli sempre più lunghi, a poco a poco si perdettero in un silenzio espressivo, e l'assiuolo della sovrastante collina intuonò il peana di nozze con quella sua voce fluida, che sembra un gemito misterioso d'amore. Virgilio intendeva certo di questo gemito, quando disse nel suo latino: et ulularunt summo de vertice nymphæ.
Ulularunt non è la parola: ma si sa bene che la lingua di Virgilio non è obbligata ad esprimere per lo appunto quella qualità di suono che manda l'assiuolo toscano, nelle placide notti d'estate. Chiu! chiu! Quasi voglia dire: basta così: sat prata biberunt!
Intanto io mi era staccato dalla soglia di casa, e mi accostava istintivamente a quella parte da cui pareva venire quel gemito amoroso e felice. L'avete voi mai veduto l'assiuolo? Io no certamente, e dubito molto che nessuno l'abbia mai sorpreso nell'esercizio delle sue funzioni. Tuttavia ne farò domanda al mio amico Antinori, il più sapiente ornitologo dell'Europa, dell'Asia e dell'Affrica.
Io non conosco dell'assiuolo che la voce, la quale non s'inalza che al chiaro della luna e nel più alto silenzio della notte, specialmente lungo la salita di Poggio imperiale, ovvero dagli ombrosi declivi di pian de' Giullari.
Vi sono di quelli che lo confondono col rauco grido della civetta e del barbagianni. Tanto varrebbe confondere il flauto col clarino. Vi sono a questo mondo organizzazioni così infelici, che sono condannate a preferire lo squittire del pappagallo ai melodiosi accordi dell'usignuolo.
Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
Ed io infatti passavo, passavo innanzi. Quando tutt'ad un tratto mi trovai circondato da un'atmosfera di fragranze indistinte e soavi, come quelle che annunziavano ai poeti antichi la presenza di un nume.
Era un odore di olea fragrans. Pensai a Minerva o a Venere Urania; e queste soavi fragranze e le fantasie greche che mi svegliarono nella mente, mi allontanarono come per incanto delle tetre visioni de' negromanti, e mi levarono gli occhi e il pensiero agli spazi sereni del cielo.
V. Le stelle.
Non c'è che dire. Quando la notte errando per le vie di Firenze, tu ti trovi in mezzo ad una di codeste nuvole olezzanti, dimentichi le memorie e le impressioni diverse e sgradite, per salutarla regina dei fiori. E quando inalzi lo sguardo e lo affisi sul suo cielo azzurro e sereno, riconosci la patria di Galileo, e ti rendi ragione delle meravigliose scoperte ch'ei fece nei campi dell'aria.
Compresi allora quanto io fossi male avvisato, pensando di evocare gli spiriti dal fondo della terra.
Essi devono essersi ricoverati nel centro di qualche stella o di qualche pianeta, inaccessibili all'umana curiosità.
Una volta entrato in questo pensiero, compresi ch'io dovevo rivolgermi all'alto. D'altronde nella mia qualità di poeta, si sa ch'io devo esser più abituato a guardare le stelle del cielo, che quelle della terra. Quel verso d'Ovidio: Os homini sublime dedit, cœlumque tueri Jussit, mi sta sempre impresso nella memoria; e quando non ho a far meglio, guardo il cielo e mi gratto il capo col dito mignolo.
Le stelle brillavano al loro posto, sopra un bel cielo turchino, tanto più lontano da noi quanto era più pura l'atmosfera.
Come tutti i poeti, ho anch'io la mia stella. Non so come si chiami nella lingua moderna. Gli antichi la chiamavano stella mira variabilis; perchè varia meravigliosamente di grandezza e di aspetto. Ora è rossa come Marte, ora bianca come Venere, ora verdognola come Sirio. Non so se il padre Secchi l'abbia ancora sottoposta al suo prisma. Poco m'importa di quali elementi chimici consti la sua sostanza. Preferisco chiamarla la stella d'Italia, o la stella di Beatrice, perchè alterna ai nostri occhi quei tre colori che tanto amiamo, e ci costano tanto.
Chiunque tu sia, bella stella tricolore, io ti professo un culto particolare, e quando non posso salutarti prima di chiuder l'imposta, mi sembra che mi manchi qualche cosa, come in quel tempo che non poteva dormire senza aver ricevuto il bacio materno.
Mi sono innamorato d'una stella!...
So bene che questo verso d'uno de' miei stornelli ricevette una diversa interpretazione per piegarsi alla natura beffarda dei benigni lettori: ma posso assicurarvi, così a quattr'occhi, che quando io feci quel verso, guardava dalla finestra la mia stella mira variabilis.
Il poeta Ponsard dovette avere qualche ubbia del mio genere quando pose quest'aspirazione in bocca alla figlia di Galileo:
«Cerchiamo un cheto asilo
In quelle sfere luminose ed alte
Dove l'occhio di Sirio
Splende d'azzurra luce, dove suona
La lira d'oro, dove nuota il bianco
Cigno sull'onde della Lattea via.
Di quei lucidi mondi ospiti arcani,
Accoglieteci amici in mezzo a voi!
Quante cose mirabili vedremo
Che appena in sogno intraveder c'è dato.
Anelli di rubino
Cerchiano i nostri lucidi orizzonti,
Cantano nuovi augei sui vostri monti.
Un'aura fresca nelle notti estive
Scote i cespugli ombrosi,
Albergo delle fate. Ivi la luna
Sempre piena e rotonda
Rischiara ed inargenta
Sui laghi azzurri il palpitar dell'onda.
Scende dai dolci clivi
Un effluvio soave e dilettoso,
E il silenzio notturno ha mille suoni
Che pajono sospiri
D'anime erranti pegli eterei giri.»
Non so se questi versi sieno drammatici, e non so come saranno accolti dalla nostra platea e dalle eleganti capinere dei nostri palchetti. Il soffitto dei nostri teatri ci toglie la vista del cielo, e ci rende insensibili a certe idee. Ma se il Galileo fosse mai recitato a ciel sereno, chi sa che codesta escursione pei campi del cielo trovasse miglior accoglienza, come certo dovea trovarla l'apostrofe al sole di Fedra nella tragedia di Euripide, nel teatro aperto d'Atene.
Mentre assorto in questi pensieri aveva dimenticato la stanchezza, il letto e la chiave, sentii suonar il tocco dal torrione del Palazzo Vecchio.
Addio spiriti, dissi! Addio spiriti dell'abisso e del cielo! Minerva e Venere Urania, stella mira e variabile, degna di rappresentare l'Italia!
Un passo regolare e affrettato mi venne nel medesimo tempo agli orecchi ad una certa distanza. Il passo si accostava ognor più, e suonava più distinto e più forte negli aprichi silenzii della notte.
Mi avviai dal mio lato verso la porta, mentre l'altra persona si avvicinava dal lato opposto alla medesima direzione.
Era il mio caro nipote, al quale, come potete ben credere, non feci rimprovero alcuno di non essere tornato a casa prima di me.
— Che v'è di nuovo? — gli chiesi.
— I fondi italiani si sono alzati di un punto e 17 centesimi.
— Oh! vero figlio del secolo — gli dissi! — Vieni ch'io ti abbracci! Anzi da questo momento, dacchè ti mostri così bene informato della nostra situazione economica e finanziaria, scambiamo nome ed officio.
Tu sarai lo zio: studierai il listino della borsa, provvederai ai bisogni della famiglia, mentre io potrò dedicarmi a guardare le stelle, e ad evocare i ridenti spiriti che aleggiano intorno!
FINE.
INDICE DEL VOLUME.
A chi legge Pag. I
La Donna bianca dei Collalto 1
I complimenti di Ceppo 33
I due castelli in aria 48
Il Diritto e il Torto 80
Il berretto di pel di lupo 143
La valle di Resia 157
Istoria di una casa 185
La giardiniera delle male erbe 200
La fidanzata del Montenegro 300
Gentilina 340
Fanny 368
Il palazzo de' Diavoli 386
Un viaggetto nuziale 399
L'ora degli Spiriti 421
endline
NOTE DI TRASCRIZIONE:
- Ovvi errori di punteggiatura sono stati riparati;
- Sono mantenute entrambe le forme per la voce «bon ton» e «bon-ton»;
- Sono state conservate le voci «communicazione» e «comunicazione» oltre ai termini da essi composti e derivati;
- Sono mantenute entrambe le forme per la voce «danno» e «dànno»;
- Sono mantenute entrambe le forme per la voce «inseguito» ed «inseguìto»;
- Sono mantenute entrambe le forme per la voce «ritrosia» e «ritrosìa»;
- È mantenuto l'uso pratico editoriale del pronome «sè» senza l'accento quando seguito da stesso/a/i/e o da medesimo/a/i/e in molti dei casi;
- La nota a piè di pagina di pag. 19 è stata rimossa essendo semplicemente un rimando alle note di chiusura presenti al termine del racconto «La Donna bianca dei Collalto»;
- L'errore di stampa «UN' PO» nel titolo di sezione di pag. 185 del racconto «Istoria di una casa» è stato corretto;
- Pag. 29, l'errore di stampa «Secondolui» è stato corretto (Secondo lui);
- Pag. 30, l'errore di stampa «piacessse» è stato corretto (piacesse);
- Pag. 44, il nome «Amelia» è stato cambiato con quello di «Amalia» indicato per il personaggio del racconto negli altri casi riscontrati;
- Pag. 58, l'errore di stampa «villannella» è stato corretto (villanella);
- Pag. 62, l'errore di stampa «Ma e saprei» è stato corretto con l'aggiunta dell'apostrofo al pronome alla prima persona «eo» (Ma e' saprei allora se egli accettasse);
- Pag. 88, l'errore di stampa «che che» è stato corretto con il pronome relativo «che» (era nipote di un barbiere che non gli aveva lasciato);
- Pag. 93, l'errore di stampa «gia» è stato corretto (già);
- Pag. 116, l'unico caso di pronome interrogativo con utilizzo dell'elisione «Qual'è» è stato corretto (Qual è quella donna che ami);
- Pag. 121, l'errore di stampa «da se» è stato corretto tenendo conto dell'uso dell'accento grave uniforme (scacciò da sè l'imbecille);
- Pag. 138, la grafia «dì» per l'imperativo del verbo «dire» è stata conservata (Chi ci ha fatto conoscere, dì, quel tuo Signor B.);
- Pag. 164, l'errore di stampa «al conte a alla contessa» è stato corretto con la congiunzione «e» (al conte e alla contessa);
- Pag. 172, l'errore di stampa «nella lingua nel paese» è stato corretto con la preposizione «del» (nella lingua del paese);
- Pag. 178, l'errore di stampa «campagnia» è stato corretto (Un paio di giorni che tu passi in nostra compagnia, basteranno a convincertene);
- Pag. 180, l'errore di stampa «mi da il prurito» è stato corretto (mi dà il prurito di por mano alla tavolozza);
- Pag. 217, l'errore di stampa «le ajuole dei giardinuccio» è stato corretto con la preposizione «del» (ripulite le ajuole del giardinuccio);
- Pag. 235, la voce «naque» è stata conservata (Ne naque infatti un aborto);
- Pag. 237, la congiunzione «e» erroneamente ripetuta nell'originale è stata cancellata (dentro al suo duro guscio e alle sue molte membrane);
- Pag. 242, la congiunzione «e» è stata aggiunta nel rispetto dello stile dell'autore (in un istituto speciale dove si raccolgono e si curano gli esseri più maltrattati);
- Pag. 253, i puntini di sospensione sono adeguati numericamente nel rispetto dello stile del racconto (3 puntini oltre al punto finale);
- Pag. 304, il termine «auto-da-fe» è stato accentato (auto-da-fé);
- Pag. 317, il termine incompleto nel finale di riga «atti-*» è completato con la voce del verbo «attirare» (e una bella fanciulla che ve lo attirava colle sue pericolose lusinghe);
- Pag. 322, la voce «cadavare» è stata conservata (Yella, bianca come un cadavare cadde al suolo);
- Pag. 324, l'errore di stampa «ricondurre presse» è stato corretto (s'incaricò di ricondurre presso alla madre la disgraziata fanciulla);
- Pag. 378, il termine arcaico «imaginò» viene conservato (Educata in questi mesi di ritiro, imaginò un metodo di vita);
- Pag. 381, l'aggettivo interrogativo arcaico «quai» è stato mantenuto (Eppure, con quali tesori d'affezione, con quai liberi sacrifizi la povera Fanny avrebbe ricompensato uno sguardo cortese);
- Pag. 381, il termine «meta» è stato accentato (per reprimere dentro al cuore le ricchezze d'un affetto che non ha una metà a cui consacrarsi);
- Pag. 398, l'articolo «lo» davanti a vocale è stato mantenuto senza l'uso dell'elisione (Lo esorcismo chiama il diavolo);
- Pag. 398, l'errore di stampa «stà» è stato corretto (Lasciamo dunque la cosa come sta);
- Pag. 411, in correzione si è aggiunto l'accento alla voce del verbo «cominciare» (sicchè il vapore cominciò a declinar dalla linea);
- Pag. 421, l'errore di stampa «Fireuze» è stato corretto (Firenze);
- Pag. 423, il termine «pie» seguito da apostrofo è stato corretto ad indicare troncamento (camminando col piè di feltro).
- Le rimanenti note sono indicate dalle linee puntinate sotto le correzioni. Scorri il mouse sopra la parola ed il testo originale apparirà.