APOLOGIA DELLA VITA POLITICA
DI F. D. GUERRAZZI

F. D. Guerrazzi — Da un ritratto in Fotografia — Luglio 1851. APOLOGIA

DELLA

VITA POLITICA

DI F.-D. GUERRAZZI

SCRITTA DA LUI MEDESIMO.

FIRENZE. FELICE LE MONNIER. — 1851.

INDICE

AVVERTENZA.

Le agitazioni popolari trasmodando in Italia nel 1848, siccome avviene in tutti i movimenti politici, tenevano inquieti gli animi delle classi più agiate, tanto più insofferenti di tumulti quanto meno abituate alla vita politica degli Stati liberi.

La Toscana, agitata anch'essa, sperò maggior quiete nel Ministero del 26 ottobre; e comunque il desiderio si spingesse oltre il possibile, tuttavia la parte più intelligente e spassionata riconobbe singolarmente in F.-D. Guerrazzi l'uomo che il ristabilimento dell'ordine voleva e si adoprava per conseguirlo.

Penetrato dei suoi doveri di Ministro Costituzionale, egli pose rara solerzia nel conciliare lo elemento democratico con il Principato Rappresentativo, al quale ebbe l'ossequio e l'affetto che quei doveri e la sua coscienza gl'imponevano.

Penetrato del bisogno di dare alla Italia la sua Nazionalità, secondò con ogni sforzo in questo fine santissimo i chiari voleri del Principe, e si adoprò ad un ingrandimento dei singoli Stati entro i limiti del possibile.

Lasciati varii Stati, ed il nostro fra questi, a loro stessi nel 1849, in un momento nel quale sarebbe stato forse più che in altri tempi necessario ogni sforzo dei Poteri costituiti a risparmiare disastri, tutti gli uomini intelligenti e spassionati si congratularono che vi fosse al Governo cotesto Uomo, il quale, lottando vivamente con le irrompenti moltitudini, e gl'impeti furiosissimi degli estremi Partiti, impedisse i gravissimi danni che minacciavano.

Ad esso, al suo non comune coraggio, alla non comune intelligenza sua nelle cose politiche, si attribuiva la salvezza del Paese.

Ed invero, riavutosi dallo stupore del non aspettato abbandono del Principe, egli non risparmiò nè fatiche nè vigilie, nè schivò pericoli, per salvare il Paese dalla guerra civile e dall'anarchia, nelle quali cotesto avvenimento fu per gettarlo.

Venne restaurato l'antico Governo, e la Commissione Municipale sembrò che per un momento riconoscesse i benefizii da lui resi al Paese e allo stesso Governo ch'essa restaurava: se non che, fatto di poco più stabile l'antico ordine politico, i benefizii andarono dimenticati, anzi furono compensati con un Carcere di Stato, e poi con una accusa di Perduellione!

Alla voce della coscienza pubblica fu anteposta la querela di certo officiale di polizia, oscuro e peggio (ora processato per falsità, e dichiarato di perdutissima fama[1] ), il quale divenne l'attivo agente nella compilazione di un Processo giunto ormai alla mostruosa mole di dieci grosse filze e varie migliaia di pagine.

Così l'Uomo di chiara fama letteraria, e del quale Italia, non che Toscana, si onora; l'Uomo che con esporre vita e salute riuscì a salvare il suo Paese, era costretto a difendersi ed a lottare nella fangosa arena dei Processi Criminali; conflitto diseguale, sostenuto per una parte dall'Accusato chiuso in strettissimo carcere con la smarrita o confusa memoria dei molti fatti che in mezzo al trambusto popolare erano avvenuti nell'Amministrazione Governativa, costretto a rendere conto dei mezzi esaminati singolarmente, senza che gli venisse apprezzato il fine raggiunto; dall'altra, dal tristo Accusatore libero, e forte di mille braccia che facevano a gara per sovvenirlo.

Venuti a fine, dopo ben 25 mesi, la immane mole del Processo ed i lavori dell'Accusa, fu il tempo del difendersi. Comunque lo intiero Processo dovesse compilarsi per gli ordini del Senato, era almeno a sperarsi che, se ciò non era stato osservato, almeno il giudizio dovesse rinviarsi a quella suprema Magistratura. Ma non fu così: fin qui i veri Giudici sono stati negati, e conviene rispondere ad atto di Autorità incompetente. Primo elemento della Difesa dovevano essere i Documenti degli Archivii Ministeriali, dai quali agevolmente si sarebbe conosciuto come il Prevenuto si fosse comportato nella sua amministrazione. Conveniva esaminarli e fare, siccome l'Accusa aveva fatto, la scelta degli utili allo assunto. Quei Documenti sono stati fino a qui negati: speriamo non lo saranno in avvenire, se pure le armi dovranno essere pari tra l'Accusa e la Difesa.

Intanto l'Accusa non potendo dissimulare a sè stessa qual fosse la generale opinione in questo Processo, pubblicava il frutto delle sue peregrinazioni agli Archivii ed alle case dell'Imputato, in un grosso Volume a stampa. Fin qui non era avvenuto in Toscana che si rendessero di pubblica ragione Atti dei Processi Criminali prima della Sentenza; nè trovo che altrove cotesto sistema costumasse. Convenne quindi contrapporre alcun lavoro che stesse a distruggere le idee inesatte che il confuso Volume potesse far nascere.

E questo parve al Prevenuto diritto e debito fare da sè stesso in rispetto della Patria, degli amici, e di sè: ond'egli dette mano al presente lavoro, aiutato dai Documenti medesimi dell'Accusa e da altri pochi raccolti.

Comunque io vada persuaso che questa Memoria soverchi all'uopo di ribattere l'Accusa, tuttavia io credo per obbligo di ufficio dovere apprestare sollecitamente altri lavori sui deposti testimoniali, e preparare poi nuove prove (e tra queste i Documenti degli Archivii che ci verranno concessi) per il pubblico dibattimento, affinchè l'alta Magistratura, sola legittima a giudicare di questo Processo, possa con maggior sicurezza, se non riparare i danni di una carcerazione spinta ormai al ventinovesimo mese, rendere almeno allo Accusato quel compenso di lode, al quale la rettitudine delle sue intenzioni, i sacrifizii e le pene consumate pel pubblico bene, la evidenza dei fatti e delle prove che li accertano, gli danno inoppugnabile diritto.

Settembre 1851.

Avv. Tommaso Corsi

INTRODUZIONE.

E chi oserà rispondere NO alla ribellione nei primi momenti di furore, fra i saturnali della non isperata onnipotenza?

Byron. La Isola, § V. Me accusano di tradimento: e tale apposero accusa anche a Focione; e condottolo a bere la cicuta, i suoi nemici non riputarono averne vittoria intera, finchè non fecero decretare, che il suo corpo fosse gittato fuori dei confini dell'Attica, e nessuno Ateniese si attentasse a somministrare fuoco pei suoi funerali. Per la quale cosa non vi fu alcuno dei suoi amici che ardisse di pur toccare il cadavere infelice: solo un certo Conopione, uomo plebeo, notte tempo, recatoselo sulle spalle, lo trasportò al disopra di Eleusina, e tolto il fuoco dal territorio di Megara, abbruciollo. Una donna megarese, assistendo ai funerali, formò un tumulo vuoto, e versovvi sopra i libamenti, e postesi le ossa in seno portossele a casa, e le seppellì accanto del focolare, dicendo: « O lari amici, io depongo appo voi queste reliquie di un uomo dabbene. Voi restituitele poscia ai sepolcri dei di lui antenati, quando gli Ateniesi fatto abbiano senno.» Per verità, non andò guari che le loro faccende medesime fecero conoscere agli Ateniesi quale sopraintendente, e custode della temperanza e della giustizia avessero perduto, e gl'innalzarono una statua di rame, e ne seppellirono le ossa a pubbliche spese.[2]

In due cose soltanto io presumo paragonarmi a Focione: nello amore della temperanza e della giustizia, e nei patimenti di persecuzione acerbissima; anzi, se bene io considero, nei patimenti, parmi superarlo di assai, imperciocchè la morte sia termine di tutta angoscia, e rivendicazione di vera libertà; ma io sento da oltre due anni il sepolcro, e nonostante vivo. Vivo per vedere le miserie della patria dolcissima; vivo per udire il lamento dei travagliati, che mi percote fin qua; vivo per considerare la mia famiglia dispersa come foglie di un arbore maledetto, e i miei nepoti orfani per la seconda volta, senza consiglio e senza guida nel più arduo periodo della vita, lontani dalla patria e da me; vivo per sentirmi consumare viscere e cervello da una lima, che lenta e continua sperpera la mia esistenza in minutissime particole come limatura di ferro. — Orribile strazio d'intelligenza non nata a intisichire nel carcere! Io quando mi volto a dietro per considerare lo spazio di tempo percorso durante la mia prigionia, mi spavento meno della sua lunghezza, che della inerzia alla quale ebbe ad accostumarsi la mia anima per sopportarla.

Nè questo è tutto: comunque sepolto, io ho udito convenire sopra la lapide, che mi hanno messo sul capo, gente di ogni maniera a scagliarmi anatemi di calunnie atroci e codarde. Quanto le fazioni raccolgono di più frenetico, la ignoranza di più insensato, la perfidia di più velenoso, il truce furore di parte ha fatto bollire nella empia caldaia delle streghe di Machbetto per consumarmi non pure la vita del corpo, ma eziandio la fama, ch'è la vita dell'anima. Oh! certo colui che primo impiegava il ferro a fabbricare le penne ebbe il tristo presagio che farebbero obliare un giorno gli stessi pugnali; ed io l'ho provato! Veramente nella rabbia della persecuzione i bravi della penna avventando colpi vennero a percotersi di mutue ferite; ma chi ha rilevato i turpi assurdi, o le sanguinose contradizioni? Nessuno. Nuovo esempio del come gli uomini si mostrino troppo più operosi nel male che nel bene. Però, assai meglio dello iloto ubriaco a persuadere nel fanciullo spartano lo amore della temperanza, gli odierni saturnali delle fazioni varranno a confermare nei nostri figliuoli lo abborrimento della calunnia codarda. Se così avverrà, come spero, non mi dorrò, che il mio capo sia stato segno di scellerate imprecazioni, quasi vittima espiatoria consacrata agli Dei infernali.

Se le furie politiche, dopo avermi strascinato nel tempio della Giustizia, si fermeranno sopra la soglia, io entrerò pieno di speranza, e toccherò l'altare, e l'altare mi proteggerà: se all'opposto, e Dio disperda lo augurio, invadendo esse occupassero il seggio dello Accusatore e dei Giudici, io sarei perduto, è vero, ma andrebbe meco perduto il sociale consorzio, imperciocchè quando la procella delle passioni sconvolge anche i Tribunali, un secondo diluvio allagherebbe la terra; — e per questa volta senz'arca di Noè.

Vi furono giorni sopra la terra, nei quali il più forte ascoltò per non credere, e il debole parlò per non persuadere.... Ma in quei giorni la Giustizia nel vedersi percossa dai suoi sacerdoti si velò la faccia, e cadde ai piedi del simulacro della Vendetta!

Leggo nei libri triste sentenze, che dicono, come sopra la porta dei processi politici, del pari che su quella dello Inferno, stia scritta la minaccia: uscite di speranza, voi che entrate. Gravi scrittori ammoniscono, i giudizii politici proporsi a scopo non già la investigazione del vero, ma la condanna del prevenuto. Non mancano persone, che visitandomi nel carcere si studiarono persuadermi essere ogni difesa vana, ormai il mio destino fissato; dovermi rassegnare ad ottenere giustizia dopo la morte. La storia di Giobbe mi ha accostumato a sopportare in pace siffatta ragione di confortatori. — Io non li credo: costoro oltraggiano la natura umana: gli uomini commossi dallo spettacolo di molte iniquità hanno talora espresso una sentenza generale, ma cotesto fu impeto di passione, non discorso della mente. La ira di Dio non può tanto essersi accesa contro di noi, da toglierci ogni anima onesta, ed amica di virtù. In qualche orecchio si fa sentire ancora il divino precetto: diligite justitiam qui judicatis terram. Che io poi creda così, lo provo con lo accingermi, malgrado i vani terrori, a dettare con animo tranquillo questa mia difesa.

La Legge, o il costume forense, indulgendo alla umana debolezza, consentono al condannato da una sentenza di maladirla tre giorni. Questo privilegio dato dalla pietà al dolore, comecchè ingiusto, è misera cosa, ed io lo disprezzo. Intendo a scopo più nobile, ed uso del diritto di agitare la mia causa davanti al tribunale della pubblica opinione. Nessuno, per potente che sia, o si estimi tale, può opporre la declinatoria a questa suprema magistratura: nessuno può mandare satelliti a chiuderne le sale, però che essa tenga le sue sedute nella coscienza degli uomini; non abbia uscieri, nè cancellieri, nè soprastanti, ma commetta lo adempimento dei suoi decreti nelle mani della Provvidenza; e questa, lenta talora, inevitabile sempre, gli manda ad esecuzione.

CONSIDERAZIONI GENERALI.

I. Metodo adoperato dall'Accusa.

Con maraviglia pari al dolore io vidi praticato dal Decreto della Camera di Consiglio del 10 giugno 1850 un metodo apertamente nemico agli acquisti della civiltà, agli insegnamenti della scienza, e ai dettati di pubblicisti gravissimi. Mi confortarono a meglio sperare in giudici più esperti, ed io sperai; ma il Decreto della Camera delle Accuse del 7 gennaio 1851, per ammenda ai falli commessi, aggiunse dottrine ricavate dalle leggi imperiali, quando la tirannide, spenta la libertà, sospettò dei cenni, convertì in delitto i sospiri, e, credendo gittare eterne le fondamenta alla mala signoria, scavò la fossa alla virtù latina, e apparecchiò la strada al trionfo dei Barbari. Il Decreto cita autori del secolo di oro dei carnefici, che salutavano la tortura regina delle prove; allega voti di tempi per ispietata ira di parte maledetti nei quali (orribile a dirsi!) qui.... in Toscana furono visti cannibali usciti dallo Inferno lacerare umane carni, arrostirle, e divorarle!! Io per me ho fede che se i gentili Toscani hanno letto cotesto Decreto, devono essere corsi sbigottiti al lunario, per consultare se nel 1851 dalla nascita di Cristo noi fossimo, o in quale altro secolo ci trovassimo stornati.

L'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851 per ammenda ha raccolto le briciole cadute al Decreto del 7 gennaio, quando mi spartiva il pane dell'amarezza, e me le ha riposte sopra la mensa. Insomma, io vedo a prova, che questo solco quanto più si produce più si fa dolente. E poichè le mie parole, trattandosi di causa propria, non si concilierebbero autorità, e come dettate da passione, non da ragione, andrebbero screditate, così a me giovi mettere il metodo tenuto in cotesti documenti a confronto delle dottrine di tale uomo, che la Europa stima, ed è rigido cultore del governo costituzionale stretto.

I Decreti e l'Atto di Accusa tessono una storia di fatti generali (quanto veri essi sieno ed esatti, qui non importa discorrere), e composta così la cornice v'incastrano dentro uomini diversi, anzi contrarii, e perfino sconosciuti fra loro, e opere disparate, independenti l'una dall'altra, e cospiranti a fini profondamente disuguali. Poi scendono a fatti speciali, senza però abbandonare i generali, imperciocchè i primi si dichiarino più culminanti, lasciandone incerti da cui ti debba guardare, da cui no. Così la Difesa procede incerta, non sapendo da quale parte pararsi; e mentre adopera le sue forze in un punto, corre pericolo di trovarsi assalita al fianco e alle spalle. Arti di duellista paiono coteste, non di giudice.

II. Giudizio del Guizot sul metodo adoperato dall'Accusa.

«Questo sistema, scrive il Guizot,[3] fu adoperato nel 1678, e fino di allora venne meritamente aborrito, nella Inghilterra contro i cattolici dietro le denunzie di Tito Oates di cui parla a lungo lo storico Hume.» Hume poi discorrendo di cotesti tempi così racconta: «Proseguirono i processi ai pretesi colpevoli, e le Corti di Giustizia, luoghi che dovrebbero andare scevri da ingiustizia più che le stesse assemblee nazionali, si fecero conoscere elleno pure contaminate dalla rabbia dello spirito di parte, e da prevenzioni.»[4]

«E sono accuse fabbricate sopra fatti generali quelle che comprendono ora lo stato di un paese, e il cumulo delle pubbliche disposizioni in certi tempi, e ora una serie determinata di casi che spaventarono il potere, o svelarono un pericolo urgente: qui si trattengono sul contegno e sui fini di un partito, altrove su la tendenza di tale o tale altra opinione, che conta maggiore o minore copia di amici e difensori. In Inghilterra sotto Carlo II erano fatti generali i partiti repubblicano e cattolico, la paura del popolo pel papismo del duca di York, gli sforzi della opposizione parlamentaria; in Francia sotto Enrico IV le diffidenze della Lega e del protestantismo, e lo agitarsi dei gesuiti.» Fatti generali sono da noi le cospirazioni manifeste o palesi del partito repubblicano per ridurre a forma repubblicana la massima parte della Europa, e tutta potendo; le mene bene altramente minacciose di sovvertire lo intero ordine sociale. «Non è giustizia (sempre il Guizot favella), ma persecuzione politica, quella che immagina una congiura indipendentemente da ciò che si referisce agli accusati, che prova con una moltitudine di fatti ai quali gl'imputati sono estranei del tutto, di cui non hanno cognizione, e in cui essi non si trovarono. Non è giustizia, ma politica persecuzione, la raccolta dei fatti fuori dell'accusa speciale intesa a costruirne uno edifizio capace di percuotere la immaginazione, e mostrare fra mezzo un dedalo di confusione e di oscurità il delitto sprovveduto di forme individuali e precise, e poi dire: ecco, il fatto è certo, congiura vi fu; adesso predico, che questi uomini se ne resero colpevoli. — Ecco come la tirannide (parla sempre il Guizot) adopera i fatti generali, quando non potendo trovare il delitto negli uomini va a cercarlo da ogni lato per metterveli dentro. — Questa pratica equivale al gettare lunga rete, e a strascinarla per largo tratto di mare pescando tutti i mezzi per nuocere. In questa guisa tutte le tristi passioni, tutte le vecchie diffidenze dei partiti, tutti i ciechi errori sono evocati, e diretti contro un punto solo. Ed è arte iniqua prendere uomini onorati, e di chiara fama, e metterli a canto di uomini perduti nella pubblica estimazione, quasi per fare riflettere sopra loro la luce sinistra che emana da questi ultimi. Pervertimento deplorabile, conciossiachè avvenga per lo appunto il contrario, che i buoni non iscemino di reputazione, e i cattivi al confronto dei buoni vengano ad acquistare una importanza, che non avrebbero mai posseduto, nè dovrebbero possedere.»

Presago forse che i suoi precetti poco sarebbero attesi, e per avventura nemmeno letti, con più gravi parole insiste il pubblicista della Monarchia Costituzionale, «che fra tutte le pesti di cui la empia virtù contamina la giustizia quella dei fatti generali è la più pericolosa: per lei considerazioni vaghe vengono sostituite ai motivi legali; per lei la condizione dei prevenuti è snaturata così, che si trovano immersi dentro una atmosfera oscura e dubbia, indizio certo della invasione della politica sopra la giustizia, della presenza del dispotismo, e dello approssimarsi delle rivoluzioni. — Fra tutti i sentieri, per mezzo dei quali la giustizia entra nella via della iniquità, i fatti generali sono il più largo e il più fatale, però che esso si chiuda irrevocabilmente dietro a coloro che l'hanno passato.»

Pellegrino Rossi dettando il suo Trattato del Diritto Penale ammaestra, che l'Accusa incolpando di tradimento i Ministri può fondarsi sopra fatti generali, a differenza dei privati, pei quali forza è che adduca fatti speciali. Ma, considerato quanto sia dura la condizione del Ministro in simile caso, aggiunge ch'egli ne trova compensamento nelle maggiori garanzie offertegli dalle forme dell'accusa e del giudizio, e dal tribunale eccezionale e politico dei Pari. Pei privati, il giudizio è più legale che politico; pei Ministri, più politico che legale.

Ora, mercè i miei Giudici, non si concede il mio Tribunale naturale ch'è il Senato, e si costruisce l'accusa di fatti generali. Ministro sono pel modo della incolpazione; per quello del giudizio, privato. La offesa è politica, la difesa deve procedere dentro le angustie delle prove forensi. Lo Accusatore per sè usurpa la Tribuna dei Parlamenti, me poi costringe a rispondere dallo sgabello dei comuni imputati: per sè egli reclama le licenze della fantasia, me condanna al rigore dell'abbaco. No, questa non è giustizia: accusa politica mi apponeste, datemi ancora il mio Tribunale politico, — il Senato. —

III. Esposizione dei fatti generali composta dall'Accusa.

I documenti dell'Accusa ben possono andare contenti Di questa digression, che a lor non tocca!...

Onde non cadesse dubbio intorno al modo, ecco che il Decreto del 7 gennaio 1851 apertamente intitola la sua rete lunga strascinata per largo spazio di mare Esposizione del fatto in genere (p. 2). e poi passa agli Addebiti speciali (p. 19). E, perchè il fatto risponda alle parole, così racconta: «La Toscana non andò del tutto esente dalle commozioni che negli anni 1820, 1821, 1832 agitarono alcune provincie italiane, ma dalle riforme introdotte negli Stati Romani dopo l'assunzione al pontificato di Pio Nono, molti Toscani presero argomento per desiderare che si convenisse in diritto il fatto delle libertà toscane. Il Principe, mosso da considerazioni generali e speciali, largiva al paese la rappresentanza nazionale; ma la rivoluzione francese del 24 febbraio 1848 suscitò smoderate voglie in coloro che reputavano impossibile conseguire la indipendenza nazionale senza accettare la forma repubblicana; le quali voglie sempre più si accesero dopo lo infortunio delle armi italiane, e allora si dette opera a congreghe politiche per superare ogni ostacolo che alla instituzione della Repubblica si opponesse. I maggiori sforzi in Toscana si manifestarono nel 1848; giunsero al sommo dopo la sconfitta di Novara. Però fino sul cadere del 1848 una grave e profonda agitazione fra noi turbò la pace e la floridezza toscane, e ne condusse sotto il dominio di fazione cospirante contro la Monarchia; e la plebe spinta dalla fazione irrompeva allora ogni momento nelle piazze, resisteva alle leggi, disprezzava le Autorità. I circoli si facevano centri di violenze e disordini. La stampa, tranne poche eccezioni, travolgeva i più santi principii dell'onesto vivere civile. Il ministero Capponi, per ricondurre in calma la sconvolta Livorno, vi mandava governatore Montanelli, reputato in cotesti tempi uomo di fede candida, e conciliatore; se non che Montanelli, obliando il mandato, cresceva legna al fuoco col pubblicare la Costituente italiana. Il ministero Capponi ebbe a dimettersi, e incaricato il Montanelli di formare un nuovo ministero, mentre protestava devozione alla Monarchia Costituzionale, e prometteva tenere lontano dal governo il Guerrazzi ( creduto autore principale dei moti livornesi ), propose tosto a suo collega quel Guerrazzi di cui poco addietro aveva consigliato lo arresto per fatti delittuosi, che asseriva a lui noti, e che aveva schernito e vilipeso nei suoi scritti. La fazione esulta del nuovo ministero appellato democratico. Animata principalmente dal Programma ministeriale del 28 ottobre 1848, che dichiarava preferire al silenzio per paura il trasmodamento per licenza, l'anarchia si fa sempre più temuta e irresistibile, come ne somministrano testimonianza la violenta occupazione dei forti di Portoferraio; la barbara orgia di Livorno per la strage del conte Rossi, assistente il Governatore; le violenze elettorali; le offese contro alcuni giornalisti e deputati avversi, o tali creduti, al Ministero; la invasione del palazzo dello Arcivescovo di Firenze costretto a esulare; le furie di una stampa empia e sovvertitrice. — In tanto sconvolgimento, il Governo, o complice, o impotente, se non rimaneva affatto inoperoso, restringeva la sua azione a parole e provvidenze ingannevoli; quindi il presagio della prossima rovina della Monarchia e dello Statuto appena se ne fosse presentata la occasione. La Costituente proclamata dal Montanelli dava la pinta, perigliosa com'era pel suo indefinito concetto alle Monarchie italiane, sicchè la demagogia della Penisola l'accolse esultando e mescendo l'acclamazione della Costituente alla strage del Rossi, e alle violenze esercitate contro il Pontefice costretto ad abbandonare i suoi Stati. Al quale successo deplorabile non rimase estraneo il Ministero democratico, e particolarmente Montanelli, il quale favorì esecrabili articoli sul Papato, mentre domandava affettuoso la benedizione dal Papa, e spediva La Cecilia a Roma per tenere accordi con parte repubblicana, e sovvertire la pontificale monarchia. I faziosi, udita la notizia della romana Costituente, si commuovono e si agitano perchè il Ministero ne ricavi argomento per chiedere, ed ottenere dal Principe l'approvazione al progetto di legge della Costituente. Invero, nel 21 gennaio 1849 il Circolo fiorentino sotto le Logge dell'Orgagna proclama la necessità della Costituente instituita mercè il suffragio universale; e tumultuante trae alla Cattedrale, e al Palazzo Arcivescovile, dove, dolenti i buoni, inerte il Governo, accaddero le violenze esaltate a cielo dai giornali del tempo; nel successivo giorno lo stesso Circolo presentava al Consiglio indirizzo col quale chiedevasi minacciosamente, che per via di suffragio universale i deputati alla Costituente italiana sollecitamente si eleggessero; e ad arte si sparsero per la città rumori, che il Consiglio avrebbe patito violenza se la proposta del Circolo non fosse stata senza porre tempo di mezzo discussa ed accolta. Così disposte le cose, alcuni ministri si condussero presso il Principe, e adducendo (arte del tempo) il pericolo d'imminenti subbugli, e dopo molte ore di combattimento, ottennero l'assenso sovrano per la presentazione della legge del 22 gennaio 1849; nè però lo assenso fu dato assoluto, sibbene con riserva circa allo esercizio del veto, come si ricava dalla lettera del Principe scritta in Siena il 7 febbraio 1849, dove dice, che egli manifestò il dubbio del pericolo della censura, la quale sarebbe dipesa principalmente dal mandato da conferirsi ai deputati della Costituente. La legge fu presentata per urgenza: la Commissione proponeva l'ammenda — che le attribuzioni dei deputati alla Costituente italiana, e il luogo, e il tempo della convocazione dovessero determinarsi per via di una legge successiva, — ammenda che se fosse stata accettata salvava i dubbii dal Principe manifestati ai Ministri, ma conflittata gagliardamente dal Montanelli, sostenuto dal tumulto delle tribune, che quasi soffocarono la discussione, riuscì ad ottenere il mandato illimitato sopra le cose e le persone. La Camera dei Senatori approva anch'essa la legge. Il Granduca partiva per Siena, dove la sua famiglia reale godeva ospizio affettuoso e fedele, e quivi egli avrebbe potuto esercitare la regia prerogativa, se i faziosi non ne avessero turbata la quiete, mal sofferendo le accoglienze e i plausi fatti al Principe, non disgiunti da gridi contro la Costituente. In quei giorni la demagogia macchinava la distruzione del Principato, come si ricava da certa lettera del Mordini, la quale dichiara: avrebbe provocata la dimissione del Ministero toscano tra il primo e il cinque febbraio, proclamato la dittatura nelle persone di Montanelli, Mazzini, e Guerrazzi, e inviatili a Roma per domandare la immediata unificazione di fatto fra gli Stati Romani, Veneziani, e Toscani; e quindi i Faziosi e i Partigiani della rivoluzione per mezzo dei loro giornali, non escluso il Monitore, presero a prorompere in obbrobrii e minaccie contro la fedele città: il Circolo di Grosseto denunzia le dimostranze di affetto dei Senesi al Granduca come mene aristocratiche, e chiede l'abolizione dell'Articolo 70 dello Statuto: quello di Arezzo dice deplorabili i casi di Siena, impreca la vendetta del cielo contro il partito degli Aristocratici, propone sostenere armata mano i liberali di cotesta città: l'altro di Firenze per le notizie di Siena si dichiara in permanenza, nomina Commissarii per opporsi alle mene dei Retrogradi, scrive al Circolo di Siena chiedente soccorso; stesse di buono animo, recarsi costà Montanelli, Marmocchi, e Niccolini, i quali avrebbero posto il capo a partito ai malvagi e agli stolti; e Montanelli infatti partiva in compagnia degli altri mentovati, recando seco lire 1400, e Siena per la infausta presenza loro, improvvisamente mutata, tumultuava, sicchè il Principe temendo gravi calamità dall'approvazione della Legge, e diffidando in tanta esaltazione del libero esercizio del veto nella Capitale e in Siena, si allontana da questo luogo cercando altrove un asilo contro alle violenze, protestando però di non volere abbandonare il suo diletto paese, come apparisce dalle sue lettere ai ministri. Niccolini torna frettoloso a Firenze a recare notizia del caso al Guerrazzi, e seco lui si rimane gran parte della notte; poco dopo sopraggiunge Montanelli lieto in vista, e, convocati i Ministri, deliberano adunare per urgenza il Consiglio generale, e rassegnare lo ufficio; nè i soli Ministri convennero nella notte del 7 all'8 febbraio in Palazzo Vecchio, ma, invitati, ancora, Mordini, Dragomanni, e i fratelli Mori, che usciti di là col Niccolini si conducono al convento di Santa Trinita, e adunano il Circolo, il quale in preferenza delle Camere riceveva primo le partecipazioni ministeriali; agli adunati i Faziosi palesano la partenza del Principe, e lo vituperano; invitano il popolo, promettendo pagamento, a intervenire pel giorno successivo a pubblica adunanza sotto le Logge dell'Orgagna. A tutte queste operazioni non dovè rimanere estraneo il Ministero, o almeno alcuni di coloro i quali lo componevano, sì perchè lo allontanamento del Principe da Siena, qualificato abbandono, presentava opportunità a operare la rivoluzione per cupide o ambiziose voglie meditata da tempo remoto; sì perchè Niccolini disse a Montazio, intenzione di Montanelli e Mazzoni essere che il Circolo prendesse la iniziativa per la formazione del Governo provvisorio; sì perchè il Mazzoni dichiarò, che la riunione dei Circoli venne provocata dal Governo; sì perchè gli agitatori del Circolo furono dal Governo confessati suoi commessi, e pagati, secondo che si ricava dal biglietto del Mazzoni dell'8 febbraio 1849. — Gli Agitatori per mandare a compimento i disegni macchinati nella notte, traggono tumultuanti sotto le Logge dell'Orgagna; Mordini apre la seduta con apparato di bandiere e di cartelli, in mezzo a curiosi e tristi pagati poi coi danari dello Stato; quivi notificano la partenza del Principe, la sua condotta calunniano, il suo nome vituperano, la sua decadenza decretano, il Governo provvisorio proclamano, una mano di plebe è spinta contro l'Assemblea per imporle la sua volontà. In questa i Deputati si adunavano per udire le comunicazioni del Ministero. Invano il Presidente Vanni, avvertito poche ore innanzi, prevedendo saviamente i pericoli della seduta, propose la riunione del Comitato segreto; Guerrazzi si oppone, dicendo volere seduta pubblica; non temesse il Presidente, perchè le disposizioni erano prese per tutelare la libertà della discussione; invano alcuni Deputati la proposta del Vanni rinnuovano; invano il Presidente torna ad invitare il Ministero a condursi nella sala delle Conferenze per tenere tranquillamente una discussione preparatoria; Guerrazzi e Montanelli vi si ricusano pertinaci. Si apre alfine la seduta pubblica. Montanelli salito in tribuna annunzia la partenza del Principe da Siena, e legge le granducali lettere. Non era terminata la lettura, quando il Popolo da un lato irrompe minaccioso e fremente nelle tribune, dall'altro 13 o 20 forsennati invadono l'emiciclo, preceduti da un cartello, dove a grandi caratteri stava scritto: Governo provvisorio — Guerrazzi — Mazzoni — Montanelli. Niccolini antesignano degl'invasori presa la parola bandisce: decaduto il Principe, le Camere sciolte, il Governo provvisorio deliberato dal popolo padrone; l'Assemblea vi aggiunga per formalità il suo voto: altramente guai! — Il Presidente alla strana intimazione risponde: vietata la parola ai non Deputati; se il popolo ha petizioni da presentare, le depositi, la Camera si ritirerebbe, e le prenderebbe in considerazione; al che fieramente Niccolini soggiunge: non essere quella petizione, ma comando del popolo al quale la Camera deve obbedire. Plaudono i tristi con minaccie e con urli; il Presidente seguito da alcuni Deputati si ritira nella sala delle Conferenze; il tumulto continua; Niccolini salito in tribuna legge il decreto del Circolo intorno alla decadenza del Principe. Guerrazzi invitato per la terza volta a recarsi nella sala delle Conferenze risponde: « Io non mi muovo di qui perchè non ho paura del Popolo.» Montanelli pregato dal Tabarrini a sedare il tumulto replica: «non è più in mia mano farlo.» Si sentono minaccie di morte ai Deputati che si assentassero. Vanni ritorna nella pubblica sala cedendo al timore, incussogli dal Montanelli, di guerra civile e di strage. — Riapertasi la seduta, Guerrazzi legge il Processo verbale dettato nella notte dai Ministri, concludendo deporre il potere per lasciare il paese a sè stesso. Incomincia un simulacro di discussione alla presenza degl'Invasori e dei Tumultuanti, dopo la quale, sotto la coazione evidente della forza maggiore, la Camera delibera un Governo provvisorio, senza determinarne lo scopo nè le attribuzioni, nominando a comporlo le persone indicate dagli agitatori che lo avevano imposto, e finalmente si scioglie al grido del Montanelli: «Se Leopoldo di Austria ci ha abbandonato, Dio non ci abbandonerà!» I Faziosi, conseguito lo intento, conducono gli eletti sotto le Logge dell'Orgagna, dove, per attestare fiducia al popolo, e confermarlo nella presa deliberazione, arringando dicono: — fuggito il Principe, — falso pretesto lo scrupolo di coscienza allegato, — motivo vero il desiderio di dare luogo all'anarchia e alla guerra civile.... — rammentasse il Popolo i suoi diritti.... Dio avere scritto sotto i merli del ballatoio di Palazzo Vecchio la parola Libertas, perchè il Popolo dopo tanti secoli vi rientrasse padrone. Ciò fatto, i Triumviri salgono in palazzo, il Circolo si ritira a Santa Trinita imprecando a Leopoldo secondo, e acclamando la repubblica. Il Governo, per mostrarsi grato ai suoi partigiani, invita per mezzo del Guerrazzi il Circolo a tenere la sua adunanza nel salone del Palazzo Vecchio nella sera del 9 febbraio, come di fatto avvenne, e a spese dello Erario vi fu festeggiata la partenza del Principe, vilipeso il nome, applaudito il Governo provvisorio, preparata la instituzione della Repubblica; nè qui si ristette, chè, ricompensando coloro che avevano violentato il Consiglio generale, promosse Mordini a ministro degli Esteri, Ciofi gestatore del cartello nell'emiciclo mandato a Siena, Dragomanni cancelliere della legazione toscana a Costantinopoli; Niccolini ricompensato con danari (da Guerrazzi ebbe dieci scudi!). Da questi fatti emergono fino di ora bastanti argomenti a convincere, che il Governo dell'8 febbraio ed i suoi principali aderenti avevano artificiosamente preparata, o per lo meno accettata coi suoi criminosi caratteri la rivoluzione, considerando abolito lo Statuto da essi giurato, e reputandosi commessi non già a mantenere il potere conferito alla persona del Principe secondo il diritto universale in casi analoghi, ma sì a consolidare le basi della Rivoluzione.» —

Per ora basti fin qui, chè il rimanente sarà tema doloroso della speciale Difesa.

IV. Confronto del metodo praticato dall'Accusa con le dottrine del Guizot.

Questo metodo presenta i caratteri indicati dal Guizot? Furono accumulati fatti a me estranei? Fui immerso dentro una atmosfera vaga e indefinita dove non si trova la strada per uscirne? Si espose la storia, o piuttosto la novella dello stato del paese, e delle pubbliche disposizioni, per appuntarmela al petto? Fuori dei fatti dell'accusa speciale non fu egli costruito uno edifizio per rovesciarmelo sul capo? Ebrei con Sammaritani mescolaronsi o no? La Chimera favolosa non si doveva vedere ridotta a verità nei Documenti della Accusa? La lunga rete non si strascinava per tratto largo di mare onde pescare di tutto un po' ai miei danni; fatti estranei, induzioni, rumori plebei, calunnie, rabbia di partiti, sofismi, per invilupparmici dentro? Non si è prima tentato di stabilire una cospirazione diretta a distruggere la Monarchia Costituzionale, e poi si è detto: ecco il colpevole?

È stato fatto anche più; dopo avere con faticosa solerzia raccolto un cumulo di pietre destinate a lapidarmi, ad un tratto me lo hanno mostrato, e incominciando a gittarmele contro la persona soggiunsero: difendetevi! — Al punto stesso però mi negarono gli atti della mia Amministrazione[5] capaci a chiarire le condizioni toscane in cotesti tempi quali erano, e gli sforzi supremi da me adoperati per mantenere i popoli alla devozione della Monarchia Costituzionale, che l'Accusa pretende da me insidiata mai sempre, e la ragione, anzi pure la necessità, delle opere incriminate. — Difendetevi! — Ma in mezzo alla bufera rivoluzionaria, fra tremende perplessità, e incessanti terrori, che da un punto all'altro subbissasse la società, per ispossatezza, e per vigilia febbricitante, avevo io modo di notare i singoli casi? Quando si apre una via all'acqua nel corpo della nave, bada egli il pilota quale delle sartie le schianti la tempesta? — Come rammentarsi di tutti i successi, che varii, moltiplici, infiniti, si tenevano dietro con ispaventevole rapidità? Chi conosce a nome le migliaia delle persone che mi passavano davanti, in ispecie se si consideri che da tempo breve io avevo stanza a Firenze? E conoscendole ancora, come ricordarmene dopo spazio sì lungo di tempo? Perchè non concedermi le conferenze co' segretarii miei, e con le persone che mi circondavano, onde potere instituire ricerche a difesa, come l'Accusa le instituiva laboriosamente e per anni ben lunghi ad offesa? — Difendetevi! — Ma se mi legate le mani, se mi chiudete la bocca, se da due anni e più mi tenete iniquissimamente in carcere segreta, come ho a fare per difendermi io? — Difendetevi! — Ma se le testimonianze avverse al concetto, che vi tramandate dall'uno all'altro stereotipato, non curate; se, giudicando della mia amministrazione, gli archivj della mia amministrazione a voi e ad altrui chiudete; se invece di dissetarvi a cotesta fonte viva, correte dietro a rigagnoli di acqua fangosa; se i documenti e i riscontri non leggete; se le deduzioni rigorose di logica aborrite, a che e come mi difenderei io davanti a voi? Invece di distinguere confondete, vero a falso mescolate, la progressione dei tempi invertite; gli stessi errori, le medesime enormezze, anzi pure le stesse parole da un Decreto all'altro (funesto augurio di non possibile difesa) trasportate; e con quale cuore poi voi mi dite: — Difendetevi? —

Invocherò il diritto, che m'insegna il Guizot nella opera citata, ma nessuno mi ascolterà. Questo diritto consiste «nel pretendere, che la mia colpa sia cercata là dove io mi trovo, e fabbricata con le mie proprie azioni; si esaminino i fatti che a me si referiscono, e nei quali sostengo una parte.»

Il Pubblico Ministero con l'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, come di già notava, seguitò lo esempio dei Decreti che lo hanno preceduto, anzi intristiva quello che già appariva tristissimo, e sarà dimostrato. Anche al Ministero Pubblico, anzi a lui principalmente, rivolgendo il Guizot la sua grave parola, scriveva nella opera citata: «ma che il Ministero Pubblico a cagione di un uomo o di un fatto stabilisca la presenza di una fazione, ve lo inviluppi dentro, declami contro i tristi, e i desiderii, e i disegni loro; che in appoggio di accusa speciale svolga tutte le considerazioni generali, che possono addursi in favore di una misura del Governo....... questo è sovvertimento di giustizia, è introdurre le procelle della tribuna nel Santuario della Legge.» L'Atto di Accusa del 27 gennaio 1851 non ha fatto altro che questo. — Oh! Il Ministero Pubblico pensando unicamente sostenere l'interesse dell'Accusa, s'inganna intorno alla nobiltà del suo ufficio: non sono, no, i soli interessi dell'Accusa quelli che vengono confidati nelle sue mani, ma eziandio quelli più santi della innocenza perseguitata, della morale pubblica, della intera civiltà. —

Chi cerca lo errore confonde, chi indaga il vero distingue. Ora a me pare che, volendo instituire diritta indagine intorno alle ragioni della mia vita politica, debbansi nella seguente maniera determinare le ricerche:

1º Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori di Toscana, e in casa.

2º Lo Incolpato, prima e durante il suo Ministero, fu aiutatore, complice, o docile arnese di questa forza rivoluzionaria?

3º Come agisse questa forza, e a quale intento. Condizione dello Imputato di contro alla forza rivoluzionaria.

4º Come vi si opponesse lo Imputato, e in che cosa riuscisse; in che no.

5º Come lo Imputato provvedesse alla società minacciata; — primario scopo del mandato ricevuto dalle Camere, dal Popolo, dalla sua Coscienza, da Dio.

6º Come lo Imputato intendesse alla restaurazione della forma politica; — secondario scopo del mandato medesimo.

7º Se sia vero, che lo Imputato si opponesse alla Restaurazione.

Io entro nella difesa a mani ignude, come lo schiavo romano gittato nel circo alle belve: non ho esaminato il processo; ignoro il deposto dei testimoni; non ho conferito con persone che portino alla mia travagliata memoria il soccorso delle loro reminiscenze; non parlerò di Diritto, e nonostante confido disarmare l'Accusa. Esporrò una serie di fatti e di raziocinii, non perchè i primi sieno tutti, e molto più stringenti non possano argomentarsi i secondi; ma perchè mi è parso, che in causa propria io dovessi, parlando, somministrare alcuna guida alla Difesa, e tema al Pubblico, onde se dico il vero, e la mia causa gli sembri giusta, egli mi approvi, e mi ami; se invece trova la mia lingua dolosa, e la mia causa ingiusta, allora si chiuda le orecchie e il cuore, e mi scagli la pietra.

V. Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori e in casa.

La Storia male si accomoda sempre con le Accuse; e forse, anche ad uomini che accusatori per indole e per instituto non sieno, riesce, per non dire impossibile, male agevole assai dettare storie contemporanee, chè la passione guida la mano a chi tiene la penna, e versa nel calamaio i suoi colori, e troppo spesso la rabbia: — comunque sia favellerò, per quanto possa, imparziale. — Varii sono i sistemi immaginati intorno alle origini della Società; ma o tu vogli credere (ed è questa la più dannata ipotesi) che un violento avendo legato per forza o per inganno i suoi simili abbia detto loro: io non vi sciorrò se prima non promettete servirmi; o si reputi più dirittamente, che gli uomini convenendo in sociale consorzio abbiano pattuito cedere tanta parte di naturale libertà quanta era necessaria al vivere civile: fatto sta, che torna nell'uomo irrevocabile il desiderio di rivendicare la sua alienata libertà, o perchè la Società gliel'abbia sottratta tutta, o perchè, come sembra più consentaneo al vero, gliene abbia tolta troppa. Carissima è poi la libertà nella estimazione di coloro che la dispensano, e di quelli che la ricevono, conciossiachè i primi sogliono concederla o per cuore magnanimo, o per molta paura, e i secondi l'accolgono con allegrezza, che talora è delirio. Invano la libertà viene duramente respinta, perseguitata, e sepolta; essa vive anche nei sepolcri, e, quando vengono i tempi, rompe la lapide, e torna a chiedere la sua giustizia. Lord Brougham l'ha paragonata alla Sibilla di Tarquinio, la quale quante volte era ributtata, altrettante tornava offrendo numero di libri più scarso, prezzo maggiore. La libertà gira perpetuamente pel mondo: poserà ella mai? Questo non so: solo io conosco, che dove ella non trovi la compagnia della religione, dei costumi onesti, del temperato vivere, e della concordia fraterna, passa senza fermarsi, o breve soggiorna. La libertà poi non arriva come ladro notturno, ma invia davanti a sè nunzii precursori a prepararle la stanza per potersi presentare pacata col saluto su i labbri: la pace sia con voi; ma la gente che l'odia, invece di accogliere i nunzii festosamente, mostra loro il viso dell'arme, li perseguita come liberali, — più tardi come demagoghi, — più tardi ancora come rossi, e gli uccide, o gl'imprigiona. Intanto la libertà sopraggiunge, e non trovando albergo apparecchiato ad ospitarla, si ferma dove si trova, e prende più che non bisogna, donde poi nascono disordini, e perturbamenti grandissimi attribuiti alla sua presenza, mentre da un lato hassene ad incolpare la incauta trascuraggine dei suoi avversarii, e dall'altro le giunterie dei trecconi e degli zingani, che in difetto dei veri e buoni rappresentanti della libertà, cacciati in prigione, ne usurpano il titolo di gestori di negozii. Giuseppe II e Leopoldo I, imperatori (ai tempi che corrono lasciati mordere poco meno che per eretici), furono prudenti reggitori dei popoli, e gli avrebbero condotti, a prova di arte, a lido amico di libertà duratura, se la Francia non era. Sia detto senza ira come senza disprezzo, la Libertà di questa nobilissima nazione, che si vanta battistrada dei Popoli, troppo spesso porta in mano una torcia che incendia, invece di fiaccola che illumini il cammino; precipitando negli orrori del 93, spaventò Principi, sbigottì Popoli; sè stessa spossò nei delirii di sangue, e rifinita cadde fra le braccia di Napoleone che la uccise con uno amplesso da soldato. Napoleone barattò alla Francia la sua libertà in tanta moneta falsa di gloria bugiarda; però, che egli imprendesse la perpetua guerra in benefizio della umanità, poco è da credersi; la monarchia universale di Carlo Magno, di Carlo V, e di Filippo II, nella vasta mente mulinava, o piuttosto il sospetto che i Francesi quietando, la libertà smarrita cominciassero a desiderare. Intanto i Popoli, distinguendo a prova i vizii degli uomini dalla bontà della dottrina, tornarono ad amare i benefizii della onesta libertà, e ad infastidire il superbo giogo del soldato imperiale. I Principi vennero fomentando con sommo studio siffatti umori dei Popoli, e gli adoperarono come leva potentissima a sovvertire la buonapartiana onnipotenza; nè la tirannide di Napoleone, nè la libertà dei Popoli essi amavano; però la prima allora maggiormente temevano. Sortito il fine desiderato, le promesse fatte ricusarono mantenere. Di qui, e unicamente di qui, la lotta talora violenta, più spesso di parola, eterna di desiderio, fra governanti e governati. I Governi si logorarono nella contesa, e l'aborrita pianta stancava le braccia a tagliare piuttosto che ella si stancasse a mettere fronde; e sradicarsi non si poteva, nè si può. La passione, compagna infallibile di principii perseguitati, sorgeva a fare più veemente il cordoglio. Da per tutto alla fine straripò torrente, che mena in volta sassi e fango; rovina dei luoghi coltivali.

Nè il ciclo infelice di questo avvicendarsi di successi sembra completo fin qui, mercè i consigli di una gente improvvida, che non comprende, come la fede mancata assai più nuoccia alla causa delle Monarchie, che le grida insensate pel socialismo. «Quando la buona fede fosse bandita da tutta la terra, dovrebbe ricoverarsi nel cuore dei Re,» il senno antico ammaestrò; la quale sentenza io non so bene se più corrisponda co' precetti della morale, o con quelli della politica (seppure questa distinzione può farsi), comecchè sappia, che con entrambi necessariamente la lealtà si mantenga.

VI. Agitazione in Toscana.

Ma inopportuno ragionamento sarebbe qui discorrere le vicende di Europa; mi ristringo in più modesto confine; parlo di Toscana.

La lunga amministrazione precedente al Ministero Ridolfi aveva, da una parte, aumentato fra noi universale disgusto: delle cause non tratto, nè mi gioverebbe trattarle: accenno un fatto, che male può revocarsi in dubbio: dall'altra, si disfacevano nel disprezzo e nell'odio gli agenti dell'autorità, utili in Istato che goda la pubblica opinione, necessarii negli Stati che dalla pubblica opinione si scompagnano, perchè, se essi difettano di credito e di forza, chi gli sosterrà? Certo la forza poco dura; ma finchè dura, costringe. Così il Popolo, un giorno commosso dal medesimo impulso (e a torto si affaticano qui a rintracciare instigazioni di sètte), prese a imprigionare e a manomettere tutti gli ufficiali superiori e subalterni della Polizia. Io non assumo di certo la difesa della vecchia Polizia: troppo bene conosco che i Governi la nutrivano e l'accarezzavano allora, come si sopportano i gatti in casa, per prendere i topi: oggi poi, mi dicono, che non è più così; amen! — ma nel giorno che il Popolo incomincia a fare da sè, mi sembra che pel Governo sia finita, là dove egli non sappia adoperare i mezzi acconci pel restauro della smarrita autorità. Nè si obietti, che in Inghilterra costrinsero Giovanni Senza-terra a segnare la magna carta, e nonostante la Monarchia si resse; conciossiachè non il Popolo, ma i baroni gli usarono violenza, pei quali, quanto importava circoscrivere l'autorità regia per estendere il proprio dominio, altrettanto poi premeva conservarla in piede, come quella che era fondamento dell'ordine feudale. E di vero, indi a poco, qui fra noi, ebbero a cansarsi tutte o la massima parte delle Autorità governative partecipi della medesima animavversione. Allora corse un plauso generale, ed io udii battere le palme con gli altri a Magistrati gravissimi, che mi avevano garbo del folle che menava trionfo nel contemplare lo incendio di casa sua. Il Governo non osò difendere (e nemmeno lo avrebbe potuto) la Polizia, e la lasciò, come la mignatta, morire dentro al sangue ch'ella aveva succhiato. Così rimase in un subito disarmato di forza per farsi rispettare, e soli avanzarono i partiti di sapienza e di conciliante composizione, i quali si reputarono allora, e tuttavia dovrebbero reputarsi, meglio alla toscana civiltà convenevoli. Però che la mente che considera quanto sia arduo revocare gli uomini dalla naturale ferocia alla mansuetudine, e quanto, per lo contrario, facile farli trascorrere ai bestiali istinti, trema ogni volta che vede gittare a piene mani la semenza dell'odio nei cuori che Cristo destinava ad amarsi.

Dalla parte del Vaticano soffiava un vento, che non pure in Toscana, ma in Italia, in Europa, anzi, per tutto il mondo, alzava le menti a incredibile aspettativa. Allora uomini, che io voglio credere inspirati da puro amore di patria, allo scopo di condurre Toscana a migliore governo, e alle riforme troppo ritardate, impresero a far circolare per le vene del Popolo stampe clandestine eccitatrici a desiderarle, ed a chiederle.

La Legge sopra la stampa si promulgava: egli è evidente, che il Popolo minuto, il quale poco legge o punto, non poteva poi fare le stimate per cosiffatta Legge: nonostante invitato ad applaudire, si rese allo invito, ed applause. Coloro, che primi lo invitarono, per certo a fine di bene, non avvertirono come sia più agevole sprigionare i venti dall'otre di Ulisse, che ricacciarveli dentro, e come, appellato il Popolo una volta in piazza ad approvare, bisognava sopportarlo quando spontaneo avrebbe disapprovato più tardi. Fu in quel tempo, che considerando io come il Popolo ricevuto cotesto impulso non si sarebbe rimasto soddisfatto alla Legge della stampa, ma avrebbe richiesto cose maggiori mano a mano che gliene fosse venuto il desiderio; nè essere senza grandissimo pericolo per l'Autorità esporsi a lasciarsi svellere ora questa concessione, ora quell'altra, imperciocchè, così operando, il potere non acquista il merito del pronto concedere, e il Popolo si educa a crescere più intemperante nelle domande; fu, dico, in quel tempo ed in questo concetto, che dettai il libro Del Principe e del Popolo, il quale prima di stampare sottoposi allo esame di Magistrato per altezza di mente distinto, e fu tenuto allora non indegno dei casi consigliere discreto di quelli ai quali m'indirizzavo, presago poi delle sopravvenute vicende. Era mio conforto al Governo ritirarsi indietro dallo immediato contatto del Popolo minuto, concedendo subito quanto reputava prudente, riacquistare credito, e temprato per nuova opinione, prendere tempo a ricostruire gli arnesi necessarii di Governo. Questo non volle fare il Ministero; lasciò che gli eventi lo strascinassero legato dietro il carro. Di qui gratitudine poca, esitanza a concedere crescente, su le labbra concordia, in cuore sospetto.

Gli agitatori, i quali dapprima non furono i demagoghi, chè questi vennero in fondo, ma sì uomini chiari per fama, e per condizione cospicui, ottennero le riforme da loro reputate sufficienti. Giusta il costume antico di quelli che commuovono le moltitudini, pretesero allora, ch'esse posassero; contenti loro, contenti tutti. Il Popolo minuto, poco soddisfatto della Legge sopra la stampa perchè non legge, nè della Guardia Civica perchè n'era escluso, continuò ad agitarsi per conto proprio.

Giuseppe Mazzoni deputato, con molta verità accennava a questo con le parole profferite nella Seduta del Consiglio Generale toscano del 16 ottobre 1848: «Però le agitazioni anteriori al settembre dell'anno passato, le quali non si disapprovavano nemmeno da certi alti personaggi, furono generalmente riguardate come politiche necessità; e s'esse non erano, l'antica Babele della Polizia non sarebbe espugnata, e le libertà dello Statuto, che tutti stimiamo carissime, sarebbero tuttora un sogno.»[6]

Io però non dubito punto affermare, che i Toscani di natura contentabile, acquistate le libertà costituzionali, sarebbonsi tenuti soddisfatti, se anche sopra di loro non fosse passato il vento che sconvolse l'Europa intera dal Mediterraneo al Baltico, dall'Atlantico al Mar Nero, e minacciò portar via, come la polvere di una strada maestra, i troni di Vienna, di Berlino, di Roma, di gran parte della Germania, e d'Italia, nella guisa stessa che disperse quello di Francia; ed in ispecie poi il prossimo incendio di Sicilia, di Milano, e di Venezia, la guerra della Indipendenza prima, poi i disastri della guerra.

Per la rivoluzione di Francia si diffuse la idea della Repubblica, e parecchi fra noi presero a coltivarla, non perchè ve ne fosse bisogno, ma per fare qualche cosa; e poi corre sciaguratamente nelle contrade nostre antico il vezzo di ricavare dalla Francia pensieri e voglie, e begli e fatti i vestiti. Le moltitudini rimasero un cotal poco spruzzate di comunismo e di socialismo, di cui però non conobbero le dottrine, e giova che le ignorino. Imprudenti, a mio parere, suonarono le parole del Lamartine nel suo Manifesto alla Europa, affermando essere la Repubblica il punto estremo dove giunge la civiltà di un Popolo per mezzo di reggimenti costituzionali, imperciocchè somministrassero a molti motivo di non posare, finchè non avessero toccato il vertice, e nei Principi mettessero sospetto di confidarsi intieri sopra una via sdrucciolevole; nè lo avere raccomandato, com'egli fece, ai Popoli i quali non fossero peranche giunti alla maturità dei Francesi, rimanessero indietro ad ammaestrarsi, assicurava punto, avvegnadio facesse comprendere ai Principi, che potevano sperare tregua, pace non mai. E come imprudenti, se male non mi appongo, furono coteste parole non vere, però che nella Inghilterra le libertà costituzionali durino dal 19 giugno 1214 in poi, nè mostrino per ora di volere cessare, e la Repubblica v'ebbe vita brevissima dal 1649 al 1660; per la quale cosa evidentemente apparisce, come nella formula costituzionale i destini dei popoli possano quietarsi, almeno per tempo lunghissimo.[7] Nè danno minore, io penso, ci ridondò dal proclamare che fece il Lamartine, non avrebbe sofferto in pace la Francia, che alcuna Potenza si fosse mossa contro i Popoli rivendicantisi in libertà; imperciocchè questa sicurezza rese baldanzose a insorgere nazioni, le quali forse diversamente ci avrebbero pensato due volte. So bene, che non si ha sperare che un Popolo metta in avventura la propria libertà per sovvenire all'altrui; ma mi sembra, ed è disonesto, spingere i creduli nel pericolo con promesse, che non si vogliono mantenere. Quante volte accadde rivoluzione in Francia, tante i Francesi eccitarono a sollevarsi Popoli confinanti per metterli come sentinelle perdute fra loro e le Potenze settentrionali di Europa; passata poi la burrasca, con ingenerosa politica dichiararono non potere sopportare, che i Popoli insorti si facciano gagliardi, onde i negozii politici non si complichino, i commerci loro non iscemino, l'autorità non diminuisca, ed abbiano a dividere con molti quella potenza, che gli Stati, quantunque liberissimi, attendono possedere in pochi. Questo vedemmo praticare dalla Monarchia Costituzionale di Francia del 1830, questo aspettavamo vedere dalla Repubblica, e lo vedemmo. Lamartine stesso, autore del Manifesto alla Europa, nella sua Storia della Rivoluzione del 1848 ci ammonisce essere cosa contraria agl'interessi di Francia acconsentire che qui in Italia si componga uno Stato potente. Politica di Enrico IV e del successore Richelieu, fu mantenere Italia e Germania deboli, epperò divise. Da Richelieu in poi, sembra agli uomini di Stato francesi, che nè sia mutato nulla, nè nulla sia da mutarsi, e poi si vantano non pure amanti, ma promotori del progresso. Da questo tengansi avvertiti i corrivi ad abbandonarsi alle lusinghe francesi. Di Lamartine ho parlato; mi sono taciuto degli altri, perchè temeva che lo inchiostro nero mi diventasse sopra la carta rosso per la vergogna. Intanto in Germania di Francia non curano, e in Italia così bene si adopera, che essa vi perde ogni giorno autorità, vi acquista odio. Molti mali ci vennero dalla Monarchia francese, ma spettava alla Repubblica, dopo avere sospinte le voglie dei Popoli oltre ai confini del giusto, affaticarsi ardentemente a spengere anche i sospiri della libertà. Qui vi è progresso d'iniquità, e nessuno può impugnarlo. Ma questo non è tema da svolgersi qui; a me basti avere indicato, che la rivoluzione francese fu causa di commovimento in Toscana.

Le rivoluzioni lombarda e veneta nei petti già infiammati raddoppiarono l'ardore della guerra. Fra tutte le nobili imprese nobilissima, fra le sante santissima, la guerra della Indipendenza. I Germani, discendenti generosi dello antico Ermano, certo non condannano in altrui i sensi che gli han resi nelle pagine della storia immortali. Seme di guerra perpetua è dominio di Popolo sopra un altro Popolo: allora la necessità rende il dominatore ingiusto, il soggetto violento; la pace, togliendo, si perde: la storia è lì con le sue tavole di bronzo per insegnare come le conquiste costino troppo più del guadagno che procacciano, e all'ultimo si perdono: una sola maniera ci presenta la storia capace di occupare permanentemente il paese vinto, ed è la conquista normanna. I vincitori si fermano nella Inghilterra, e a mano a mano distruggendo gli Anglo-sassoni, si sostituiscono al Popolo disperso. In altro modo non pare che si possa; però che neppure i Romani durassero a tenere la rapina del mondo, nè i Longobardi la Italia, nè i Saraceni la Spagna, nè i Greci l'Asia, e degli altri popoli conquistatori chi vivrà loderà il fine. Nonostante, se come Italiani a noi riusciva impossibile rifuggire dalla guerra, come Toscani ci appariva piena di eventi dubbiosi. Vincendo Austria, era da aspettarci la sorte che ci è capitata addosso: vincendo Piemonte, poteva forse credersi che saremmo stati assorbiti.

A compimento di rovina sopraggiunsero i disastri della guerra italiana. Nella sventura l'uomo diventa maligno. I Lombardi, e con essi parecchi Italiani, dubitarono della fede di Carlo Alberto; di tradimento sospettarono; inaspriti pensarono non aversi a riporre speranza nel Principato. Napoli, mormoravano, ritirare i soldati dal campo, Toscana procedere con fiacchi provvedimenti, Torino farsi rompere in battaglia a disegno. Mostruosa opinione era questa ultima, eppure propagata, e creduta nei ciechi impeti di passione smaniosa. Allora ottenne seguito nell'universale il disegno d'invertire il concetto politico: invece di giungere per mezzo della guerra allo assetto federativo della Italia, vollero con la istituzione dell'unica Repubblica arrivare al conseguimento della Indipendenza.

Qui pertanto in Toscana convennero infiniti Lombardi, e li premeva cocente la cura di ricuperare la patria diletta; cagione legittima ad ogni più arrisicato consiglio. Nè si creda, che facinorosi essi fossero: all'opposto erano uomini distinti per dottrina, per natali, e per ricchezze, benvoluti come fratelli, come infelici compianti, da per tutto ammirati a modo di magnanimi propugnatori delle patrie libertà. La Emigrazione lombarda dimorava in Firenze come corpo organizzato sotto il governo di un Consiglio dirigente;[8] possedeva pubblicisti, ingegneri, e ufficiali superiori del Genio; fondò un Giornale La Costituente, e lo pubblicava, come si diceva, a scapito; divenne padrona di parecchi altri, che indirizzava al medesimo fine; acquistò aderenze, partigiani, ed amici; finalmente propose armare ed armò compagnie di Bersaglieri.[9] E' fu forza accettare la offerta concepita in termini dittatoriali, e accomodarsi a comprare un padrone, secondo ch'è fama gridasse Diogene, esposto in vendita sul mercato; per l'appunto come al Ministero Capponi fu mestieri arruolare 720 prodi componenti la legione della Indipendenza Italiana, e più se ne venivano;[10] e, trapassando a cose maggiori, come fu mestieri a Carlo Alberto condurre generali a modo altrui, rompere lo armistizio inopportunamente, e combattere battaglia intempestiva.

Alla Emigrazione lombarda aggiungi parecchi uomini calati giù dalla vicina Romagna, gente manesca, arrisicata molto, alle baruffe avvezza, ed al sangue, Siciliani, Napoletani, Polacchi, ed altri cultori ardentissimi di sconfinata libertà; privi di patria, cupidi di ricuperarla.

VII. Tumulti quando incominciassero.

Contro al vero manifesto è supposto dal Decreto, che l'agitazione apparisse sul declinare del 1848. Ufficio solenne di ogni storico è scrivere la verità, massime poi s'egli ordisca storie per gli effetti criminali. L'agitazione precede lo Statuto; crebbe dopo per le ragioni già discorse; finalmente diventò irresistibile quando il Principe partendo le lasciava libero il campo. Chi mi sa dire in qual giorno preciso fu rotta la guerra contro l'Austria? Se io non erro, incominciava, non declinava con l'anno 1848. — Crede egli il Decreto, che il Principe nostro adoperasse spontaneo il diritto che gli appartiene per l'Articolo 13 dello Statuto di dichiarare la guerra? No, egli nol crede. Taccio dei titoli dimessi, facile sacrifizio; ma non si renunziano spontaneamente gli affetti della propria famiglia, non le si muove nemico mentre ella versa nel massimo pericolo, non le si porge la spada per ferirla invece della mano per soccorrerla, non si distrugge un appoggio sicuro per andare in traccia di fortune minaccievoli, o per lo meno dubbiose. Prova ella è questa di agitazione veementissima contro la quale consiglio non vale; prova di forza, che strascinava, ineluttabile, conosciuta da quanti vivono al mondo: forza, che travolse antichi reami, e re, e Popoli come paglie davanti al turbine; alla quale, si pretende, che io solo potessi, dovessi, e in tutto, resistere, e sempre. Ora questa guerra, sopra ogni altra causa, fu motivo di sconvolgimento nel Popolo, così che fra i tumulti guerreschi, la confusione degli apparecchi, e gli animi concitati a tremenda febbre, tacevano le leggi, sbigottivano i Magistrati, disfacevasi lo Stato.

Io troppo bene mi accorgo che sorriderà la gente di questo mio affaticarmi a portare acqua al mare; ma poichè l'Accusa, contro la verità, nel fine riposto di sostenere che l'agitazione sorse nel declivo del 1848, per potermene dichiarare benignamente fomentatore, dissimula i fatti, importa restituirli alla genuina loro cronologia.

Nell'ottobre 1847 fu distrutta la Polizia. Il Municipio fiorentino, con la Notificazione del 28 ottobre 1847, deplora il fatto del giorno innanzi, suscitato dalla brutalità dello sbirro Paolini, e dichiara che il Popolo mutò un nobile sentimento di compassione in atti violenti.

Tumulto in Firenze per la occupazione e atroci atti commessi a Fivizzano. Popolo vuol correre in massa in Lunigiana. Il Ministro Ridolfi, coartato a scendere in piazza, promette che il Governo si farebbe rendere conto delle commesse iniquità. La Patria dell'11 novembre 1847, per questa volta anch'essa trova « che cotesti fatti atroci avevano commosso tutte le anime oneste

Il Governo, costretto dalla volontà del Popolo, manda gente a Pietrasanta per cagione di Fivizzano. Compagnia di Granatieri, accolta dal Popolo ai cancelli della Fortezza, è scortata dal Popolo fuori di Porta. La Patria nobilita il Popolo accorso, «quella parte di Popolo, che certuni male chiamano minuta, mentre è parte operaia, nè grossa o minuta come ogni altra parte di Popolo, il quale nome comprende tutti quanti, eccetto il Principe; la parte operaia del Popolo spontaneamente empì le vie della Fortezza: altra gente pure accorse spontanea.» Patria, 15 novembre 1847.

Nel novembre del 1847, per la strage di un caporale, il Popolo a Livorno tumultua; vuole in sue mani lo uccisore per istracciarlo; il Delegato Zannetti è bistrattato; più tardi percosso, spinto in carcere, e cacciato via.

Sommosse popolari a Livorno nel mese di decembre successivo, di cui terrò altrove ragionamento.

La Patria nel 18 gennaio 1848 annunzia: «che una forte agitazione, e potente e irresistibile commuove tutta la Italia.» E nel 23 dello stesso mese, alla ricisa bandisce: « Toscana tutta quanta ha bisogno di essere riordinata incominciando dal Governo

Sul declinare del febbraio 1848 la Patria ricorda le riunioni tumultuarie in Firenze, pei fitti delle case. Nel 20 aprile 1848 predica il Giornale stesso: «il pericolo della Repubblica imminente però non potersi evitare adulando i Principi, e con atti arbitrarii e dittatorii di Ministri adulatori.... le forze politiche stanno ormai nelle mani al popolo

Nel 26 maggio 1848 i Fiorentini ardono la carrozza del napoletano Statella, donde la Patria ricava argomento di ammonire i buoni e il Governo, che i tempi si fanno grossi.

Turbolenze lesive la proprietà. In Empoli si fa violenza al mercato per acquistare grano a prezzo basso; lo stesso accade a Fucecchio, lo stesso a Pistoia, a San Piero in Bagno, a Siena. I possidenti se ne commuovono; la Patria del 14 luglio 1848 solleva desolate grida esclamando: «è necessario provvedere subito e fortemente per reprimere e impedire questi disordini. Non vi è contagio peggiore di questo.» Lo incubo del comunismo già appuntella le ginocchia sul petto dei possidenti!

Nel luglio del 1848, alle adunanze pubbliche del Consiglio Generale dolevansi di mene austro-gesuitiche turbatrici dello Stato, e il Ministro dello Interno parlandone come di cosa vecchia, rispondeva, pur troppo non ignorarle il Governo, ed importare che riescano indarno. «Il Governo fa quanto può, ma per riuscire completamente, converrebbe ch'ei non fosse disarmato, e da questo lato, bisogna pur dirlo, gli manca la forza. Fu distrutta la Polizia, e non fu ancora ristabilita. In questo stato di cose è facile vedere che molte volte mancò il mezzo per fare eseguire le misure governative, altre per provvedere. Manca la forza necessaria al potere esecutivo

Nonostante, l'Accusa me solo incolpa per non avere voluto, o saputo Ministro prevenire e reprimere i tumulti; mi chiama impotente per vizio di origine, o forse anche complice!

Nel 30 luglio, grande sorse il tumulto in Firenze: la forza fu respinta, il Popolo scese ad agitarsi con insoliti indizii.

Sopra la stessa Piazza Granducale, a piè del Palazzo Vecchio erano scritti e letti Decreti pei quali la decadenza del Principe dichiaravasi, un governo provvisorio instituivasi. Di ciò fanno prova il processo compilato in quel tempo, e il proclama del Governo comparso il 31 luglio seguente: «La tranquillità pubblica fu gravemente compromessa in Firenze per opera di perturbatori, che in gran parte non appartengono nemmeno a questa città, e che manifestavano la intenzione di rovesciare l'attuale ordinamento politico del paese, e avvolgerlo nei disastri, che sono sempre la conseguenza delle commozioni violente.[11] » In molti cagione, in altri pretesto del tumulto i disastri della guerra italiana, e il sospetto dei sottili provvedimenti fatti dal Ministero. La Guardia Civica, chiamata più volte, si aduna scarsa e repugnante a sostenere un Ministero caduto nell'odio universale. I soliti agitatori declamano, ed eccitano i Popoli su pei canti delle strade. Alle ore sette comparve un proclama firmato Ridolfi, col quale si promettevano per domani la legge per muovere la Guardia Civica, ed altri apparecchi di guerra. Così con queste ed altre più efficaci parole raccontava i successi della giornata la Patria del 31 luglio 1848. Onde a ragione potè esclamare il Ministro Ridolfi, vedendo la Patria fra i suoi avversarii: « Saul anche esso è tra i profeti[12]

Tumulti gravissimi nei pressi di Massa Ducale, con collisione di contadini e soldati, non senza morti e feriti.[13]

Tumulti contemporanei succedono a Lucca, a Pisa, a Livorno, e si temono a Firenze.[14]

Tumulti di contraria indole a Laterina, dove in mezzo a scariche di fucile gridasi dai campagnuoli: Viva i Tedeschi! Morte alla Guardia Civica.[15]

Conflitto sanguinoso, e aperta rivolta a Livorno nel 2 settembre 1848. Fortezze assalite dal Popolo, capitolano col Generale Torres. Si tratta di eleggere un governo provvisorio. Il Governo perde ogni autorità sul paese.[16]

E mentre, come sarà in breve chiarito, io mi conduco a Livorno per salvare, quasi malgrado il Ministero, cotesta mia Patria dall'anarchia, e ricondurla, già già tracollante nella Repubblica, sotto la obbedienza del Principe Costituzionale, la Patria in data del 22 settembre 1848 narra, che a Lucca, a Pistoia, a Prato (e a Firenze non mancano) gli agitatori indefessamente travagliansi; nel 28 settembre afferma, che uno spirito di vertigine ha suscitato agitatori da per tutto; e già fino dal 7 settembre cotesto Giornale, i fini, le occasioni, e i motivi del tremendo agitare adduceva nelle seguenti parole: «Il partito repubblicano in Italia non ha dimenticato il suo disegno dopo il fatale armistizio. Esso allegando, che i Principi Costituzionali d'Italia non potessero più sostenere la causa della Indipendenza con una guerra ordinata, ha detto non esservi altro scampo che una guerra insurrezionale dei Popoli, e per muovere i Popoli ha creduto espediente di prendere, e creare tutte le occasioni di agitare lo interno degli Stati, a fine di potere in queste commozioni sostituire la Repubblica al Principato Costituzionale, e allora con tutte le eccitazioni possibili alzare le moltitudini, e precipitarle furiose e infierite contro gli eserciti austriaci.» E quanto diceva era vero.

Tumulti in Firenze nei giorni 3 e 4 di ottobre, tendenti a offendere la pubblica tranquillità, e la personale sicurezza.[17]

Tumulti a Pisa il 7 ottobre, qualificati perfidi tentativi di anarchisti.[18]

Tumulti a Livorno nel 19 ottobre 1848, per quanto avverte la Gazzetta di Firenze del giorno 20.

Il Consiglio Generale ebbe a sospendere la seduta del 23 settembre 1848 come nell'8 febbraio 1849. Il Presidente in quel giorno si cuopriva, e si allontanava; dopo un'ora riapriva la seduta appunto come nell'8 febbraio 1849.[19]

La Guardia Civica lucchese, per sottrarre il conte De Laugier alle ingiurie della plebe ammutinata, ebbe a tenerlo custodito nella caserma nello agosto 1848.[20]

La milizia, già sul cadere del luglio 1848, dava lo esempio pessimo di cacciare via gli Ufficiali.[21]

E con più infame delitto le palle avanzate dalla guerra lombarda sparava nel collo al Capitano, uccidendolo a Pecorile nel 9 agosto 1848.[22] Gregarii eccitati all'odio dei superiori; superiori disprezzanti i gregarii: ogni vincolo infranto, milizia diventata ormai terrore non difesa. Questi erano i soldati, che si ha coraggio sostenere corrotti da me! Di ciò pure sarà ragionato altrove. —

La mancanza delle carte necessarie non mi concede di tessere racconto più esatto dei tumulti che agitarono la Toscana dal 1846 in poi; ma basterà tanto per dire apertamente, ch'è falso si manifestasse l'agitazione fra noi sul declinare del 1848 soltanto: da più lontana origine essa muove; più antichi di quello che i Giudici dissimulano, sono gli attentati per rovesciare la forma governativa dello Stato; più vecchio che i Giudici non fingono, il disfacimento di ogni mezzo governativo per prevenire, e per reprimere; prima assai del febbraio 1849 il Popolo aveva imparato a turbare le sedute del Consiglio Generale. Chi per vaghezza, o per obbligo si accinge a raccontare fatti, o dopo lungo studio giunse a conoscerli, oppure non vi giunse: nel primo caso gli esponga ingenuo; nell'altro taccia verecondo. Qualunque poi o per fatuo, o per servile, o per altro più pravo consiglio opera diversamente, non compone storie, ma commette infamie: e quale seminò, tale raccoglie. —

Le quali cose condurranno a confessare, che non inutile fu la mia chiamata al Ministero. Me posero a lottare, non a governare; io fui la barriera ultima intorno allo abisso; e se i miei concittadini andranno persuasi di questo, che se io non era, deplorabili giorni avrebbe veduto la Toscana, terrò siffatta persuasione per conforto del mio indegno patire. Perchè poi ne vadano meglio convinti, esporrò in quali stremi fosse ridotto il paese.

Ho riportato qui sopra le parole gravissime del Ministro Ridolfi. Se esaminiamo gli atti dell'autorità, i discorsi pronunziati nelle Camere legislative, e le confessioni degli stessi Ministri, troveremo sempre il medesimo lamento. Nella seduta del Consiglio Generale del 16 ottobre 1848 il deputato Mazzoni domanda «se sia o no vero, che dal settembre del decorso anno la Toscana sia stata senza Polizia, e a confessione dello stesso Governo senza forza?» Odaldi deputato, risponde distinguendo l'azione della Polizia sul senso morale e sul senso politico, ma di leggieri concede, la Toscana essere rimasta da lungo tempo priva di forze governative.

Replicando io al collegio onorandissimo dei Negozianti livornesi, che mi compartiva lode (dolce al mio cuore) «di avere ricomposto l'ordine, e data tranquillità al paese, indispensabili per la prosperità del Commercio e della Industria,» diceva: «il Governo della Toscana è ben lontano da possedere i mezzi governativi, che assicurando e confermando ogni maniera di onesto vivere civile comprimano i conati delittuosi di gente che ardisce profanare il nome di libertà per procedere poi impunemente da infame........ Ma se la Toscana non possiede ancora mezzi permanenti e duraturi necessarii a governare gagliardamente, supplisce adesso il Ministero con operosità straordinaria, con l'autorità personale, con le aderenze d'individuo, con lo entusiasta consenso di voi, e di quanti appartengono al Popolo buono[23] E con parole supreme ammoniva per via telegrafica il Governatore di Livorno il 16 novembre 1848: « energia, Governatore, energia, o fra un mese Toscana diventa un mucchio di cenere

Il Prefetto di Firenze volgendosi al corpo dei Veliti, Pompieri, e Portieri, così favellava: «È vero, che i tempi e gli eventi produssero un pregiudicevole indebolimento alla forza che assicura la esecuzione della legge; ma se voi volete, potrete con la opera vostra e col vostro zelo rilevare le forze indebolite, ed ottenere plauso dal Governo.»[24]

Ne porge eziandio splendida testimonianza il mio Rapporto al Principe per la instituzione della Guardia Municipale; io confido che i buoni, a cui mi volgo, vorranno ritornare col pensiero sopra quel documento uscito da me, e che ebbe lode nei tempi.

Il Senatore Corsini, per cagione della violenza usata contro l'Arcivescovo di Firenze interpellando il Ministero intorno ai mezzi di cui il Governo intendeva servirsi per impedire che i disordini si rinnovassero, tale si ebbe risposta dal Ministro Mazzoni: «Il Governo si propone usare la maggiore vigilanza che gli è dato adoperare; porrà in opera tutti i mezzi possibili per prevenire disordini, ma avendo ricevuto dagli antecedenti Ministri la somma del Governo toscano nello stato più deplorabile, non è da aspettarsi da lui più di quello che umanamente sia abilitato a fare secondo LE FORZE, che vengono accumulandosegli intorno. »

E nella stessa tornata, non dissentendo nessuno, egli aggiungeva: « Pur troppo al Governo si è fatto carico delle circostanze in cui si trova; ma, oso dirlo senza superbia, se noi non fossimo stati, più gravi — gravissimi inconvenienti avrebbero funestato la patria nostra

Le parole del Mazzoni, quantunque sieno testimonianza di cose conosciute universalmente, e pronunziate davanti a Collegio dove molti dei Ministri precedenti sedevano, oggi, come di uomo esule ed incolpato, non si vorrebbero attendere. Ma si oda in grazia quale ricevessero immediatamente conferma dalla bocca del Senatore Capponi, poco anzi Presidente del Consiglio dei Ministri: «Intorno alle parole dell'onorevole Ministro di Grazia e Giustizia, che concernono il passato Ministero cui ebbi l'onore di partecipare, intorno a queste io sono fortunato di non potere altro che usare lo stesso linguaggio, che intorno alle interpellazioni ha usato l'onorevole Ministro. Le condizioni dei tempi, il pubblico stato delle cose, il movimento degli animi produssero tali cose, che quella medesima insufficienza, che ha trovato nel reprimere ogni atto in sè biasimevole, quella stessa insufficienza fu da noi sperimentata.»[25]

Nel Programma ministeriale del 19 agosto 1848, il Ministero Capponi aveva dichiarato espressamente: «correre tempi difficili abbastanza da sgomentare i più esperti

Il Senatore Baldasseroni in cotesta seduta dava al Ministero molto solenni insegnamenti: voleva che le cause del disordine investigassimo, voleva che il Governo combattendo per l'ordine perisse. Se la infermità non mi avesse impedito di assistere a cotesta seduta, io gli avrei risposto: — assolutismo improvidamente antico, e libertà impetuosamente nuova, sono cagioni del male; in quanto a perire per la salvezza comune, non lo togliete di grazia per rinfacciamento, ma io mi vi sono esposto, quando mi gittai fra l'onda infuriata del Popolo per salvarvi il figliuolo.....

E, se non è grave, odasi un poco come in proposito favellassi io all'Adunanza del 29 gennaio 1849: «Le parole del vostro Indirizzo in risposta al Discorso della Corona accennano ai disastri e ai tumulti passati, e indicano speranza di repressione pei futuri. In questa maniera voi non dite del presente, e non favellando del presente venite implicitamente a dichiarare, come nulla sia stato operato adesso per riparare a questi tumulti che voi deplorate, e che avete ben ragione di deplorare. Ciò può sembrare al Ministero un rimprovero: egli non crede averlo meritato: imperciocchè, o Signori, voi rammenterete come abbiamo noi ricevuto lo Stato. Noi lo abbiamo ricevuto, perdonatemi la immagine, come si consegna una casa incendiata in mano ai Pompieri. Voi lo avete veduto, la finanza era esanime: in quali lacrimevoli condizioni fosse l'esercito, voi lo sapete. Vi parlerò di quello che spetta più specialmente al mio Ministero. Qui niuno ordinamento; i vecchi istrumenti non si potevano adoperare, i nuovi sono tuttavia un desiderio. Gli ufficiali mancavano affatto di vigore; non restava che un simulacro di forza, il quale non corrispondeva alla chiamata. O Signori, quando ebbi l'onore di essere assunto al Governo dello Stato, io cercai se o poche o molte vi fossero le forze per potere governare. I passati Ministri si sono allontanati dal Governo, com'essi dicevano, di faccia alla pubblica disapprovazione: essi così affermarono, ed io non ho verun motivo per dubitare di questa loro asserzione: ma devo dirvi eziandio che a me parve non solo il Governo abbandonasse il Ministero per virtù della opinione, ma assai più perchè era impossibile il governare. Io dissi a me stesso: qui lo Stato fu consegnato a noi, come un cadavere in mano ai preti per seppellirlo e cantargli l'esequie. Ma no, io non ho creduto mai nè credo che uno Stato possa perire. Credo che, per malignità dei tempi, e per pessima amministrazione di uomini, forse uno Stato possa cadere in morte apparente, in asfissia; ma la vita resulterà, quando un uomo voglia veramente trovarla, e liberare lo Stato dalla misera condizione in cui egli è stato condotto. Privo di forze, privo di ordini governativi, privo perfino del mezzo di sapere in che cosa le piaghe dello Stato consistessero, io non trovai nessuno dei miei antecessori che m'indicasse in quali condizioni era lo Stato, e in che cosa le sue forze consistessero. — Ordinai a tutti i Prefetti, Sotto-Prefetti e Gonfalonieri delle diverse Comunità, che immediatamente, o nel più breve spazio di tempo possibile, mandassero rapporti intorno allo stato politico, economico e morale delle provincie e delle città che reggevano. Vennero questi rapporti, quali più presto, quali più tardi, e furono elementi già ordinati, ma non sufficienti ancora per formarmi uno esatto concetto dello stato in cui attualmente si trova il nostro Paese. Tuttavolta ho ordinato e in parte effettuato questo lavoro. Egli è bene lontano dall'essere peranche perfetto, nè lo sarà mai, perchè tutti i giorni devono succedere casi che valgano a modificarlo, e speriamo in meglio, ma io lo lascerò sul banco del Ministero dello Interno come un Breviario, affinchè quelli che mi succederanno, con senno migliore, e con migliore fortuna forse, ma non con maggiore fede di certo, al Governo dello Stato, lo abbiano sempre dinanzi agli occhi, e per regolarsi con cognizione di causa. Mentre pertanto il Ministero vostro, per rendersi degno del Popolo e di Voi, suoi rappresentanti, si accingeva a conseguire precisa cognizione dello stato del Paese; mentr'egli si accingeva a conoscere la sua malattia per applicargli quei rimedii che reputava migliori; mentre il Governo sta preparandovi le leggi, che nel senno vostro esaminerete e delibererete, per portare rimedii alle malattie che accennava; pensate, o Signori, come cadesse fra mezzo uno stato di transizione per noi deplorabile. Questo stato, che come una via di fuoco sarebbe bene che noi potessimo percorrere correndo, non è passato ancora, quantunque a me tardi che cessi, e il Paese rimanga guarito di questa ferita di dolore. — Ma, frattanto, il Governo non si è trovato e non si trova in mezzo all'enormezze di due partiti? Io non voglio definire quale dei due sia o no progressivo. In tutti gli Stati, e specialmente in quelli ove, come nel nostro, la vita politica si è iniziata, due partiti devono agitarsi, e non è male, come ho sentito deplorare in questa Assemblea, ma invece è un bene che si agitino; perchè dal cozzo dei partiti nasce quella cognizione esatta delle cose che unica giova a ben condurre lo Stato. Però, a tutti i partiti onorevoli e plausibili, purchè nascano da convinzioni, non mancano coloro che suscitano mille voglie, mille cupidigie tutto altro che plausibili; e i Capi dei diversi partiti si trovano sovente a vergognare di quelli che fanno bandiera dei loro nomi onorati a queste intemperanze ed a queste enormezze. A cosiffatti disordini accennavano le parole della Commissione nel compilare lo Indirizzo al Principe. Ora, che cosa ha fatto il Ministero vostro nell'assenza di mezzi, e nella mancanza delle persone? I Ministri hanno sentito, come altro non potessero fare che dare allo Stato una cura indefessa, sottrarre le ore al sonno, dimenticare, non dirò ogni diletto, ma perfino ogni sollievo della vita....» Così io orava al cospetto di quattro Ministri che mi avevano preceduto; nè alcuno sorgeva a confutarmi. Dopo alquante parole, io conchiudeva domandando una dichiarazione di fiducia.

E il Consiglio, — non obliando la miserabile condizione nella quale, per effetto dei mutamenti politici, era caduta la Toscana, — deliberava unanime questa dichiarazione di fiducia, formulandola così: « Siamo grati agli espedienti che il Governo si affrettò di adottare.» — Non era anche venuta l'ora della ingratitudine!

Nè meglio potrei dimostrare qual fosse Toscana quanto allegando una parte del mio Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848 mandato al Governatore di Livorno, più che ad altro somiglievole ad un grido di allarme: «Energia, Governatore, energia, o fra un mese Toscana diventa un mucchio di cenere

In questo modo si confessava da ogni maniera di gente, così negli atti pubblici come nei privati, ed era vero, lo Stato ridotto agli estremi. Io lo trovai incapace a resistere a qualunque tenuissimo urto, pure lo sostenni in guisa, che i tumulti decrebbero, la fiducia pubblica incominciò a ridestarsi, e se il fatalissimo 8 febbraio non era, da quanti mali, da quanto lutto non mi sarebbe stato concesso preservare il paese!

Forze governative pertanto affatto disperse, Polizia investigatrice distrutta, m'ingegnai fra gli antichi ufficiali scegliere alquanti che aveva sperimentato onesti e capaci; ma per quante istanze e raccomandazioni facessi loro, non vollero saperne: mi si mostravano invincibilmente repugnanti, perchè nell'ora del pericolo il Governo gli avesse lasciati in balía dell'ira popolare.[26] I Veliti, come si ricava dal mio Rapporto della Guardia municipale al Granduca, ormai chiamati ad altro destino, odiavano, e a ragione, il servizio di Polizia. La milizia, da quei medesimi che la capitanavano, era chiamata infamia, non tutela del paese. La Guardia Municipale non ancora composta.[27] Il Senatore Capponi, lo abbiamo non ha guari veduto, dichiarava in Senato la condizione del suo Ministero essere identica a quella del mio. Confesso di leggieri, che nè anch'egli sedeva sopra letto di rose; ma con sua pace, il divario appariva grandissimo fra il suo Ministero ed il nostro, però ch'egli possedesse la forza dei Carabinieri intera, e a me la consegnasse odiatrice ed odiata, percuotente e percossa. Sventura lacrimevole, che poteva essere risparmiata! No, le condizioni non apparivano uguali; tra il mio Ministero e il suo correva la guerra civile rotta, una sconfitta toccata dall'Autorità, un Popolo reso audacissimo per miserabile vittoria.

Noi a mani giunte imploravamo lo aiuto di tutti, anche degli emuli nostri, per isvellere fino dalle radici la mala pianta del disordine; — gli supplicavamo a uscire dalle case loro, a scendere con noi fra la moltitudine per ammaestrarla, e ammonirla.[28] — Le preghiere nostre secondarono? Il soccorso supplicato compartirono? — Ah! no; secondo l'usanza pessima ed antica, a parole protestavano volerci aiutare, ma in fatto nè brogli, nè conventicole, nè qualunque argomento preterivano nello intento di rovesciare il nostro Ministero. Taluno, ponendosi la mano sul petto, sentirà che io dico il vero. In quanto a me, sappiate che conosco assai più cose di quelle che dico: potrei citare nomi, e disegni a me noti, e da me per longanimità lasciati inavvertiti; — ma la prudenza, che mai deve scompagnarsi da chi tenne officio supremo, desidera che alle provocazioni dell'Accusa io mi taccia.

Tanto può la cieca ira di parte, che gl'incauti si affaccendavano ad abbattere il dicco estremo, che sosteneva la piena minacciante di sommergerli tutti. Queste cose sa il Principe, che deplorandone gl'imprudenti conati interpose l'autorità sua, perchè cessassero e forse glielo promisero; io però ebbi a provare che non lo attennero troppo.

In questa parte concludendo, è lecito dire, che i Giudici, e l'Accusa non affermarono il vero, anzi esposero il falso, quando narrarono l'agitazione essersi manifestata sul declinare del 1848 soltanto. Nè ciò si creda che entrambi facessero senza consiglio, imperciocchè lo studio loro intenda, come ho avvertito, a mostrare che una forza rivoluzionaria fosse eccitata da me, crescesse, crescesse irresistibile fino all'8 febbraio 1849; nell'8 febbraio poi cessasse ad un tratto per ripigliare più tardi: così i fatti altrui fino all'8 febbraio s'imputano a me, perchè da me costretti; i fatti posteriori all'8 febbraio s'imputano parimente a me, perchè in me spontanei. A senso dell'Accusa, le forze rivoluzionarie stavano in potestà mia, come le cannelle dell'acqua fredda e dell'acqua calda quando entro nel bagno. Io però fui complice, o impotente per vizio di origine; nato in peccato mortale, non basta a salvarmi agli occhi dei miei Accusatori il battesimo della scelta sovrana; però importa osservare come i Ministeri precedenti, usciti al mondo immacolati, o immersi del bel Giordano nelle chiare acque, non riuscissero meglio a vincere la forza rivoluzionaria fino dai primordii. Eglino stessi lo confessarono, e ne addussero cause plausibili. La confessione, lo avvertano i miei Accusatori, è cosa che merita reverenza grandissima, perchè innalzata anch'essa alla santità di sacramento. Ora considerino, di grazia, se in tempi più grossi mi venisse fatto di adoperarmi con qualche vantaggio in benefizio del Paese.

Quando mi giunse a notizia, come l'autore del Decreto della decadenza del Principe, scritto e proclamato sopra la Piazza Granducale il 30 luglio 1848 sotto il Ministero Ridolfi, continuasse la sua dimora in Firenze, irremissibilmente lo esiliai.[29] Preti, seminatori di scandali, pervertenti lo spirito dei campagnuoli, insinuanti che il Granduca costretto aveva consentito allo Statuto, non già di cuore e spontaneo, chiamai, ammonii, e corressi.[30] Torres, espugnatore delle Fortezze livornesi sotto il Ministero Capponi, ardito uomo, fu da me parimente bandito, e ritornato con manifesto spreto dell'Autorità, ordinai lo arrestassero e lo conducessero ai confini.[31] Alle censure acerbissime della stampa, per questo fatto, risposi: «Renda conto il Torres della sua passata condotta a Livorno, giustifichi il suo ritorno a Firenze, allora apparirà se la misura presa a suo riguardo fu arbitraria e vessatoria, o piuttosto opportuna e giusta.»[32]

E qui giovi notare, di scancio, contro alla benevola insinuazione gittata là dal Decreto in mezzo a parentesi (Guerrazzi creduto autore principale dei moti livornesi), che se io fossi stato tale, non lo avrebbe ignorato il Torres; e alla mia invereconda provocazione non avrebbe egli risposto col verso di Clitennestra:

«Chi mi vi ha spinto or mi rimorde il fallo?»

Livorno ridussi in potere del Principe, quantunque, come attestava il Presidente Capponi, stesse in procinto di eleggere il governo provvisorio.[33] A moderare il passo continuo di gente nemica naturalmente di pace, il chiarissimo Mariano D'Ayala ed io osammo proporre al Principe il Decreto del 27 novembre 1848, dove si ordinava, che tutti quelli i quali presentandosi alle frontiere non si arruolassero soldati fossero respinti. Preposto a scrivere il Rapporto del Decreto, adoperai parole audaci,[34] che m'inimicarono coteste turbe, dove a poco bene s'incontrava mescolato parecchio male: però che i Popoli creduli reputassero profeti tutti quelli che paltoneggiando pel mondo si facevano le spese a nome della patria; e guai a colui che avesse ardito con parole o con fatti torcere pure un capello di quelle teste reputate sante. E solo osai ancora di più: gl'ingenerosi insulti (tollerati dai precedenti Ministri) contro i nemici repressi; tanto ebbi a schifo qualunque cosa, che magnanima veramente non fosse, tanto studiai di sollevare il cuore del Popolo ad alti concetti. Le parole che io dissi sul terminare del 1848, quando gli Austriaci erano lontani, posso ripetere adesso che sono in casa: «Non così (scriveva al Prefetto di Firenze), non così si educa un Popolo, nè se ne ritempra il carattere. Nè m'incresce meno considerare come si espongano al pubblico dileggio i nostri nemici. I nemici vanno vinti, Signor Prefetto, e non oltraggiati, imperciocchè lo insulto, prima della vittoria, sia stolta jattanza; dopo, bassezza codarda. E un altro male fanno eziandio simili scede, che inducendo il Popolo in falso concetto sopra la potenza del nemico, dorme sicuro poterlo vincere agevolmente, mentre avrebbe mestieri di supremi conati per superarlo.»[35] Ah! non era io quegli, che lusingando assicurava il Popolo potersi vincere il nemico co' bastoni e co' sassi..... non io..... non io promisi andargli incontro co' figli; ma quando strinse il bisogno, mandai semplice soldato quell'unico, che mi tiene luogo di figlio!

Ma l'Accusa, dissimulando la condizione dello Stato, e come se incominciasse sotto il mio Ministero l'agitazione in Toscana, va a raccogliere i fatti successi per gittarmeli in faccia; essa rammenta: 1º Lo assembramento in Livorno nel 29 e 30 ottobre 1848 per bruciare la Patria, e l'uscita delle milizie a dimesticarsi col Popolo. 2º La occupazione violenta delle Fortezze di Portoferraio. 3º Le minacce contro i proprietarii della sega a vapore a Livorno. 4º Le violenze alla tenuta di Limone dei fratelli Bartolomei. 5º La esultanza in Livorno per lo assassinio del Conte Rossi, assistente il Governatore. 6º La opposizione al richiamo in Firenze del Capitano Roberti. 7º Le violenze elettorali, quantunque l'Autorità avesse avuto il tempo e i mezzi per prevenirle. 8º Le violenze contro il giornale La Vespa, onde ridurlo a tacersi, comecchè avesse avuto coraggio di farsi opponente al Ministero. 9º I disordini in piazza, e al Palazzo dell'Arcivescovo, per cui il venerando Prelato ebbe a cercare sicurezza fuori di Firenze. 10º L'esorbitanze della stampa ec. E fatta questa raccolta conclude, che il Ministero restringeva i provvedimenti ad apparenze di preparativi, a frasi di disapprovazione, al rinvio degli avvenimenti più scandalosi all'ordinarie vie di giustizia![36]

Davvero, per poco non mi cade l'animo sconfortato, però che i fatti che in parte io stesso allegava in testimonio di riordinato reggimento, mi si ritorcono contro, o come eccitati da me, o come da me reo di peccato originale non potuti reprimere. Esaminiamo in qual modo io adoperassi contro i fatti dall'Accusa allegati, avuto sempre riguardo alle condizioni del paese e dei tempi. — Pervenuta al Ministero la notizia dell'arsione in Livorno del Nº 120 della Patria, e del come non volesse il Popolo consentire alla consegna di cotesto Giornale, ecco quello che feci stampare nel N. 270 della Gazzetta di Firenze: «Il Governo, fermo nel suo intendimento di mantenere il suo Programma, comunicò al Direttore della Posta di Livorno, per mezzo del Ministro dello Interno, le istruzioni che noi riproduciamo. — Illº. Sig. Il sottoscritto Ministro dello Interno, in unione dei suoi Colleghi, intende e vuole che sia pubblicato secondo l'ordinario il Giornale detto La Patria. Libertà di parole a tutti. Questo principio professerebbe sempre lo attuale Ministero in altrui; molto più lo deve, trattandosi di sè. Dove i miei concittadini nel proponimento loro persistessero, gli avverta che scapiterebbero assai nell'onorato concetto che il mondo si è formato di loro, e che a tutti noi apporterebbero grandissimo cordoglio. Il proverbio antico diceva, che nè anche Giove piace a tutti; come possiamo pretendere piacere a tutti noi, che per certo Giove non siamo

Ancora nel giorno 29 ottobre 1848, a ore 9, mi mandavano il seguente Dispaccio telegrafico: « Questa sera a ore 11 fu bruciato lo infame e tristo Giornale La Patria. Il medesimo urtava il nuovo Ministero, e quindi la intera popolazione livornese. Fu condannato ad essere bruciato in mezzo di Piazza; poscia il Popolo ha proibito al Direttore della Posta, pena la morte, di farlo introdurre in questa valorosa città di Livorno. A scanso d'inconvenienze rimetto a lei giudicare chi ha torto o ragione.» Ed io subito, dopo men di due ore, rispondeva per la medesima via al Consigliere Isolani: «Male, male. La Patria è ostile a noi. Motivo di più per rispettarla. Se la pubblica opinione ci sostiene, perchè mai violenze? Scriva la Patria; quanto più scrive, più mostra la bassa invidia a cui manca perfino la decenza. Questo dispaccio si parte dal Guerrazzi, e non dal ministro Guerrazzi.»

Così io raccomandava un Giornale piuttosto mio persecutore che avverso; Giornale, che non aveva aborrito di rovesciare sopra di me la calunnia, quando oppresso e imprigionato non poteva rispondere, ed ogni sua parola pesava nella bilancia della Giustizia a mio danno; Giornale, che più di ogni altro si affaticò a spargere le triste voci, che adesso raccoglie diligentemente l'Accusa per tessermene una corona di spine; — Giornale, che dettato, per non dire altro, da chi una volta fu amico, doveva per pudore tacere; però che, secondo la greca sentenza, l'amicizia cessata sia un Tempio di cui, remosso il Dio, voglionsi venerare le pareti mai sempre in memoria della Divinità. E la raccomandazione bastava, sicchè il Giornale poteva essere distribuito liberamente di poi. Peccati veniali erano quelli pei tempi che correvano, nè avrei potuto finalmente volere, che agl'incendiatori di un foglio fosse applicata la pena del taglione! Siccome non fui vile, perseguitato; non conobbi vendetta, potente. — A sedare i tumulti di Portoferraio, di concerto di S. A. e del Ministro D'Ayala, presi le determinazioni opportune illico et immediate; nelle stanze stesse del Granduca, lui presente, dettai la commissione; mandammo pel Sig. Giorgio Manganaro, e senza perdita di tempo, lo spedimmo subito subito alla Isola dell'Elba.[37] Andò, sedò, arrestò i supposti autori, e li tradusse davanti ai Tribunali ordinarii. I Tribunali assolverono.[38] È mia la colpa, dite, se i Tribunali allora erano facili a scusare, come adesso lo sono a punire? È mia la colpa, se gli uomini, diventati barometri, ad ogni lieve impressione di caldo e di freddo abbassano od alzano il loro mercurio? È mia colpa se, istrioni sopra la scena del mondo, talora essi sostengono la parte di Tito, tal altra quella di Dracone? Volete sapere come scriveva all'ottimo Giorgio Manganaro a schiarimento di certi suoi quesiti? «Signore Giorgio Manganaro. Firenze 21 novembre 1848. Io odio le vie eccezionali: sono da deboli. Il Granduca ha fatta l'amnistia: vedasi se G...... vi sia compreso; ciò spetta ai Tribunali. Dove non sia compreso, procedasi con rigore apertamente, e giustamente. In ogni caso, da qui innanzi chi rompe paga senza paura. Addio.» Io dunque al mio dovere adempiva; perchè non lo adempirono tutti?

Il tripudio per la morte del Rossi non fu opera del Governatore; pure lo appuntai di essersi presentato al Popolo; barbara cosa lo reputammo, ed era; fin da quel momento desiderai occasione di rimuovere il Pigli da Livorno, e quando capitò senza timore di resistenze tumultuarie, lo rimossi. Ma in questo modo parlando di Carlo Pigli, io non posso astenermi, nè devo, da aggiungere che non cuore malvagio, il quale anzi io gli conobbi compassionevole e buono, ma difetto di sufficiente costanza a resistere alle improntitudini altrui lo indusse a dire parole di cui egli ebbe a pentirsi amaramente poi.[39]

Io so come un visconte D'Arlincourt abbia scritto, che il conte Mamiani, il principe di Canino, Sterbini ed io deliberammo a Livorno la strage del Rossi. Pare che questa prima deliberazione non bastasse, perchè, secondo lo egregio Visconte, lo atroce omicidio fu messo di nuovo a partito a Firenze in Via Santa Apollina (com'egli dice), e fu tratto a sorte chi dovesse fare il colpo fra Montanelli, Sterbini, Galletti e Canino; e la sorte ad arte si operò che cadesse su l'ultimo di loro. Ma nè anche queste deliberazioni bastarono; perchè il negozio succedesse col mistero necessario alle opere di sangue, decisione uguale fu presa a Genova nell'Albergo Feder, e a Torino nel Circolo Gioberti ( Italia rossa, pag. 82). — Tali e siffatti gesti per me si operarono, finchè, secondo che ci ammaestra il pro' Visconte, il Popolo tornava a sventolare l' antica bandiera toscana turchina e rossa invece della tricolore ( Ivi, pag. 87). Io deploro col profondo del cuore, che altri siasi reputato offeso da cotesto sciaurato; e troppo più deploro, che per le costui ribalderie nobile sangue italiano sia stato in procinto di versarsi. Lasciate andare; cotesto è fango, e del peggiore, che schizza mentre passa a rompicollo la treggia della reazione. — Oh! antica nobiltà di Francia quanto basso caduta.....

Se le violenze elettorali non furono potute prevenire, furono però represse in Firenze dalla mia stessa presenza, recandomi di persona ad ogni Collegio Elettorale in compagnia del Sig. Baldini maggiore della Guardia Civica, nè mi ritrassi, finchè non rimasi sicuro che ogni cosa andasse in ordine.[40] Passando da Pisa, per una parola che profferii, venni sottoposto a processo! — E la parola fu questa. Antonio Dell'Hoste, uomo egregio, aspettatomi alla Stazione della Strada Ferrata, mi diceva: «Grande essere in Pisa il perturbamento per l'elezioni; dolergli nel profondo che avessero tolto il nome suo a pretesto di sommossa; avere dichiarato invano non potere accettare ufficio di Deputato; provvedessi, perchè forte temeva che in cotesto giorno avrebbero rotto o urne, o teste.» Io gli rispondeva, mancare di autorità per provvedere; ciò spettare ai Magistrati locali, che avrebbero fatto buono ufficio ricorrendo alla Guardia Civica; e siccome egli sembrava dubitare della energia di quelli, della efficacia di questa, io replicava: «E allora, o come pensi che potrei provvedere io? Ho forse meco uno esercito? Confido che non avverrà cosa da deplorarsi; in ogni evento, meglio sarà che rompano le urne, che le teste.» E questo favellai nel senso proverbiale di chi dovendo scegliere fra due partiti tristi accetta il men peggio. Meglio è cascare dalle scale che dalla finestra, costuma dire il Popolo; nè per questo si pensa, che uomo desideri rotolare le scale; e nonostante fui accusato! Vedi se incominciò a soffiare rigido il vento davvero! Manco male, che mi posero fuori di accusa senz'altro danno; altrimenti avrei imparato quanto sia pericoloso discorrere per proverbii. — Nei Paesi Costituzionali, anche in tempi ordinarii, il periodo delle elezioni non passa senza disturbi più o meno gravi;[41] e quello che merita considerazione fra noi si è, che, nonostante lo agitarsi della gente, poterono essere eletti quelli che intendeva escludere, e l'elezioni furono lasciate libere per modo, che uno Scrittore ebbe a dire, che il nostro Ministero contava nel Consiglio Generale tre voti soltanto;[42] avesse almeno detto sei, manco male! Sei eravamo Ministri, e tutti deputati; e che avessimo a fare come Licurgo, il quale piantando la vite si tagliò le gambe, non è poi da credersi, nonostante la pesa autorità dello Scrittore allegato. Ad ogni modo, l'elezioni allora e poi furono liberissime per la parte del Ministero; nessuno ardì rimproverarlo di brogli o di arti consuete pur troppo ad usarsi dal Potere per procacciarsi la maggiorità. Intorno alla insinuazione benevola, che tempo avessi e modo di prevenire, accennerò, che dei giorni elettorali, uno e mezzo, cioè quello preciso in cui avvenne la rottura delle urne a Firenze, passai in viaggio e a Livorno per esercitare lo ufficio di elettore, donde a gran fretta venni richiamato per ovviare al rinnuovarsi del tumulto; e che avendo voluto libere sempre l'elezioni, e vigilato di persona perchè uscissero libere siccome veramente elle uscirono, se avessi potuto immaginare che per un momento fossero state disturbate, avrei fino dal primo giorno provveduto, come feci il terzo.[43]

E qui mi gode l'animo di riportare una parte di lettera che scrissi nel 27 novembre 1848 al signore Andrea Padovani gentiluomo livornese, in risposta di certa sua nella quale tenevami proposito di Ridolfo Castinelli, non voluto da un partito deputato a Pisa, e non pertanto eletto a Pisa e a Castelfranco, patria dei miei padri, per opera in ispecie dei miei parenti ed amici: «Il Ministero è deciso a fare rispettare la Legge, e ha preso le sue disposizioni in proposito: spera che non sarà condotto ad estremità; se lo fosse, con meno jattanza di altri, ma più costanza assai, dichiara, che saprà morire al suo posto. Però supplica che i prudenti non accrescano difficoltà alle già tante che lo tengono oppresso: prudenza dunque e gravità. Tutti si uniscano a noi per creare un governo, una amministrazione, una qualche cosa che difenda e assicuri, e poi ci mandino al diavolo. Se altri ha mezza voglia di mandarci, noi l'abbiamo intera per tornarcene a casa. Per me mi sento sbigottito dalla fatica e dalle rinascenti difficoltà. Questa lettera potrà sembrarti severa, ma ti dimostrerà parimente che io ti stimo e che sono degno della tua amicizia. Addio.»

Confido, che quanti leggeranno questa Apologia, con voglie pronte si affretteranno a mandarmi le lettere che posseggono di mio, le quali valgano ad allontanare da me le turpi imputazioni dell'Accusa. — Certo non mancherà essa di persistere che le mie parole sono astuzie di chi doppio ha il cuore per mostrarsi alla occasione o topo o uccello, come il vipistrello del Padre Moneti. — Facile è insultare l'uomo oppresso e in carcere.... e se verecondia e giustizia non fanno inciampo a questa facile a un punto ed infelice potenza, davvero non posso farcelo io. Tra i miei Giudici e me giudichi il Paese.

Le violenze voglionsi sempre prevenire, e, quando non si può, almeno reprimere; però biasimati come meritano coloro che oltraggiarono gli scrittori della Vespa, è forza che io apra l'animo mio intero intorno alle parole dell'Accusa: essa loda cotesto Giornale come quello che aveva avuto il coraggio di farsi oppositore al Ministero. Calunnia perfida, insinuazioni iniquissime, vituperii senza fine erano le arti della Vespa, e l'Accusa trova parole di lode per lei! — Quando ogni altro riscontro mancasse per dimostrare con quale e quanta stemperatezza proceda l'Accusa, basterebbe questo uno. Dunque animosi erano tutti i calunniatori del Ministero? Egregi uomini quanti lo vituperavano? L'Accusa, nello infinito odio contro il mio Ministero, non è contenta di averlo maledetto,

Nella ira del Signore ingenerato,

Figliuolo della morte e del peccato;

non le basta, che pesi su lui la condanna di Caino, però che alla fin fine Dio vietò che uccidessero il fratricida: adesso ella mi mette a pari del lupo, e sembra avere desiderato che dessero la taglia dei dieci scudi a chi portava la testa mozza di questo Ministero licantropo. Il torto non è di coloro che mi correvano addosso: egli è evidente; il torto era tutto mio, per non essermi rassegnato di buona grazia a farmi lacerare. Cecità di partiti! Vogliono ricostruire l'Autorità, e commendano coloro che l'Autorità distruggevano! Nè vale opporre: ma voi ci eravate esosi; — non importa; — se consentanei a voi stessi, noi eravamo Autorità, e tanto bastava perchè ci aveste dovuto rispettare, e difendere. Vedete David: egli odiava Saul; grande era il comodo che risentiva dalla sua morte; e nonostante, in venerazione dell'Autorità, ordina sia tolto di vita lo Amalechita che mise la mano su l'unto del Signore. Certo capitano Côrso, che io ho conosciuto, dopo essersi arricchito seguendo le fortune della prima rivoluzione di Francia, professavasi adesso sviscerato dell'Autorità. Nel 1830 i suoi figli travagliandosi nei nuovi sconvolgimenti, toccarono da lui un fiero rabbuffo: e siccome essi per iscusarsi gli rammentavano le sue geste operate nella rivoluzione, egli rispose: Tacete! cotesta rivoluzione era giusta perchè c'era io! — Così l'Accusa a me: Tacete! cotesta non era Autorità perchè ci eravate voi. — Le stesse premesse di passione conducono alle medesime conseguenze di errore. Un Giornale onesto, non parziale del Ministero, amico dello Statuto, ecco come qualificava allora a viso aperto i libelli che all'Accusa basta il cuore adesso salutare col nome di generosi oppositori al Ministero.

«Quello che oggi è accaduto in Firenze potrebbe però dalla sola malevolenza attribuirsi al Popolo, o anche ad un Partito. Un attruppamento di forse 20 persone si è recato alla tipografia Passigli, si è impadronito delle forme del giornale la Vespa ec... Noi non troviamo parole sufficienti per flagellare certi VITUPEROSI giornali di tutti i colori, che mercano oro bruttando di fango quanti sono loro avversarii, e che alla discussione calorosa, ma urbana e ragionata, sostituiscono la CONTUMELIA VILLANA E LA CALUNNIA. Questi DEPRAVATORI della Morale pubblica, questi BASTARDI PARASITI della libertà della stampa, dovrebbero trovare degna punizione nel disprezzo e nell'abbandono delle oneste persone, se molti cui piace ridere delle ferite fatte altrui, tenerissimi poi della propria pelle, non gettassero, a nutrire tanta bruttura, un soldo per comprare un minuto di stupido passatempo, per non dir peggio. E sì, per Dio! che son tempi questi da ridere e da scherzare leggiadramente, e da cercare sollazzo frugando nel santuario delle pareti domestiche, o alzando il velo che cuopre i segreti, che dovrebbero essere inviolabili, della vita privata! Un bel Popolo degno di libertà veramente saremmo noi se dovessimo essere giudicati dalle sozzure che si vanno stampando e affiggendo pei canti della città! La cosa non va per questo modo, la Dio mercè; ma neppure dev'essere lecito in un Popolo ordinato civilmente, che ha leggi e Governo, ai primi venuti d'andare a farsi di proprio moto vendicatori della Morale pubblica.» — ( Nazionale, 3 gen. 1849.)

I vituperosi, i villani, i calunniatori, i sozzi depravatori, i contennendi da quante sono oneste persone nel 1849, nel 1851 diventano generosi oppositori per l'Accusa! In verità, siffatte considerazioni talora mi spingono in volto il rosso della vergogna di essere nato uomo, e nell'anima uno sgomento, che poco più è morte. — O Patria mia!

Fra le quotidiane calunnie, la Vespa diffuse quella, che io avessi ordinato il Palazzo del Marchese Ridolfi si manomettesse, e, fedele poi al mio programma, gli avessi fatto pagare il guasto!!

Per chiunque intende gentilezza che sia, il mio ufficio m'imponeva tutelare tutti, particolarmente poi il signor Cosimo Ridolfi, che mi era proceduto infesto senza ragione. Si rimproverava un fatto falso, e mi pareva che costituisse vera calunnia. Chiamai il Magistrato, e gli dissi adoperasse per noi la difesa che avrebbe usata a favore di ogni altro cittadino: nella repressione dei delitti rammentasse che il Governo non proteggeva la Magistratura, ma all'opposto la Magistratura il Governo. Esaminasse, e vedesse quello che in sua coscienza era da farsi.[44] Il Magistrato esaminò e referì: non correre tempi propizii per questa sorta accuse; la difesa avrebbe saputo togliere di mezzo ogni ombra d'imputabilità: non persuadergli la coscienza d'instituire processo. Davanti alla coscienza del Magistrato tacqui: però con profondo sconforto notai, che il tempo governava cose che non avrebbero dovuto governare ragioni di tempo. A Lucca parimente non omisi provocare l'azione dei Magistrati contro i delitti della stampa, ma il Prefetto avvisava: «Il Pubblico Ministero non crede incriminabili gli articoli della Riforma, e così l'Autorità Governativa non può agire contro essa!» — Heu Hector quantum mutatus ab illo! A reprimere le sfrenatezze della stampa, occorrevano due mezzi legali, e vennero praticati: i Tribunali; e assolverono, trovando i tempi poco favorevoli a simili accuse: il richiamo dei Direttori dei Giornali; e dissero avere vinta la mano dagli scrittori. Io, e il Processo lo attesta, esortai qualche Direttore a smettere la veemente polemica, offerendomi pronto a fargli toccare con mano come il suo Giornale proseguisse uno scopo ad ottenersi impossibile. Il Prefetto di Firenze ai Direttori di Giornali di varia opinione raccomandava reciproca cortesia e temperanza.[45] Ad ogni evento vi erano leggi repressive; eranvi Magistrati a posta per invigilare; nè l'Autorità governativa può, nè deve, senza sconvolgere ogni diritto ordine di reggimento, mescersi da per tutto: in siffatte faccende il Governo attende soccorso dalla Magistratura, non glielo partecipa. Avvertasi per ultimo se complice o impotente repressore di violenze fossi io! — Arrestati alcuni prevenuti di guasti alle campagne dei signori Bartolomei, così ordinava col Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848: «Bene, benissimo: adesso procedura immediata: si sospenda ogni altro negozio al Tribunale: pena la indignazione sovrana se i Magistrati, nel più breve tempo possibile, non terminano questo negozio: impieghino giorno e notte; si dia pubblicità alla discussione: prenda parola il Procuratore Regio; energia, o fra un mese la Toscana diventa un mucchio di cenere.» Grave fatto fu quello dello Arcivescovado; ma simili successi, come inopinati e improvvisi, male possonsi prevenire. Bene si possono, anzi si devono castigare. È colpa mia, se gli Ufficiali non sapevano, o aborrivano dal proprio dovere? Le inquisizioni furono ordinate; perchè non proseguite? Il Governo ha da fare tutto? Può provvedere a tutto? Di tutte le paure, di tutte l'esitanze, di tutte le negligenze ha da essere becco emissario il mio Ministero? — Il Monitore del 23 gennaio 1849 così manifestava l'animo suo vituperando il fatto: «Pochi facinorosi e un branco di ragazzi tentarono violare la santità dello asilo (dello Arcivescovo), con generale reprobazione di tutti i buoni Fiorentini, dei quali non pochi si adoperarono onde desistessero dallo spingere più oltre le violenze. Il Governo non può nè deve tollerare qualunque trascorso che tenda a turbare la pubblica tranquillità o infrangere l'autorità delle leggi. Sono già state prese le misure opportune, e la Giustizia sta in traccia dei colpevoli, che saranno puniti con tutto il rigore[46] L'Accusa poteva rammentarsi che mercè le mie premurose istanze l'Arcivescovo fu richiamato in Firenze, che egli a me si affidò, e che io, con sommo studio, correndo pericolo grande, attesa la malvagità dei tempi, lo assicurai nello esercizio liberissimo delle sue funzioni ecclesiastiche. La opposizione del Roberti a presentarsi a Firenze, era ella cosa da rammentarsi nemmeno? Dat veniam corvis, vexat censura columbas! E nonostante, col Dispaccio telegrafico del 13 novembre 1848, ore 6, fu mandato: «Se Roberti (Giorgio) vuole dimettersi, accettisi la dimissione.» E nel 18 detto: «Roberti obbedisca e venga a Firenze; se disobbedisce, si cassi dai ruoli.» Roberti obbedì. Le violenze contro i signori Bartolomei ed Henderson furono con alacre operosità represse. «Sono state prese le opportune disposizioni perchè non si rinnuovino violenze a carico dei proprietarii della sega a vapore.» (Dispaccio telegrafico dell'8 novembre.) — «Ma avvertasi, che nulla accadde di violento; vi furono solo minaccie.» (Dispaccio telegrafico Isolani del 7 novembre.) — Rispettivamente ai sigg. Bartolomei, ecco come io ordinava a ore 4, min. 55, del giorno 11 novembre col telegrafo: «Si proteggano ancora i Bartolomei. Appunto perchè mi hanno fatto male, debbono essere protetti. Se fosse diversamente, ridonderebbe in infamia per noi.» — Alle ore 6, min. 43, del medesimo giorno, mi rispondeva il telegrafo: «La dimostrazione contro i Bartolomei era incominciata col suono di un tamburo; l'ottimo Petracchi l'ha dissipata.» — Perchè mi appone l'Accusa disordini che furono prevenuti? Nel giorno 13 novembre, a ore 6 pom., per via telegrafica comando al Governatore di Livorno: «Si proceda subito allo arresto dei violatori delle proprietà Bartolomei; subito, fossero anche miei fratelli.» Perchè mi appone l'Accusa disordini che così acremente repressi? — Più benigni a me dell'Accusa i pretesi ingiuriati, della ottima mente loro mi dettero poi prove tali, che a me duole non poterle riportare in questo Scritto, però che onorino la umana natura e riposino l'animo stanco dalla vista di tante iniquità.[47]

Non so se io debba continuare nella storia delle sommosse accadute durante il mio Ministero e degli sforzi operati per sedarle, perchè io vedo con paura che tutto mi si ritorce contro. L'Accusa, intorno ai fatti riportati fin qui, mi dichiara complice, o impotente per vizio di origine; riguardo ad altri fatti che mi riusciva impedire, l'Accusa ne trae argomento a ragionare nella seguente maniera: poichè l'Accusato potè impedire molte intemperanze, segno è certo che alle altre che accaddero egli non volle. Così non salva tenere nè lasciare; così perde ugualmente fermarmi e fuggire. Se non riesco resistere, sono complice; se riesco, sono reo per non essere riuscito di più. Un cammello può portare il carico di mille libbre; ma perchè non ne portava due mila, sia condannato a morte. Tale è la legge dell'Accusa: — fiera legge invero!

Ma la Storia non giudica così, e tale registra splendido elogio del Lafayette, a cui pure non venne fatto riparare tutto quello ch'ei volle: «Lafayette adoravano le milizie, quantunque il vincolo della vittoria non le legasse a lui; pacato uomo egli era, e ricco di partiti in mezzo ai furori popolari; — però, malgrado la sua operosa vigilanza, non sempre giunse a capo di vincere i tumulti delle moltitudini, imperciocchè, per quanto sia spedita la forza, non può trovarsi presente da per tutto contro un Popolo da per tutto sollevato: — spesso lottava contro le fazioni senza fiducia, ma con la costanza del cittadino, il quale non deve disertare mai la cosa pubblica, quando anche disperi di poterla salvare!»[48]

Una frase scoperta dal Decreto del 10 giugno 1850 viene accolta con amore e accarezzata dal Decreto del 7 gennaio 1851: il Ministero fu complice, o impotente. Ora come in suprema accusa possono queste due parole congiungersi in virtù dell'alternativa? Immenso è lo spazio che passa dall'uno stato all'altro. Nella misura della imputazione, alla impotenza corrisponde venia e favore; alla complicità, odio e castigo.

O Ministri, che adesso reggete le sorti toscane, e che, credendo in me l'uomo soltanto flagellato, di me non curate; attendete e avvertite, che con l'uomo va a stracci la prerogativa ministeriale. La via di Palazzo Vecchio per me insegna, che può diventare quella del Calvario, e di ora innanzi metterà ribrezzo percorrerla, perchè se un Tribunale potrà intorno al Ministro caduto aggrappare non solo i proprii fatti, ma anche gli altrui, e di tutti chiedere al medesimo ragione, e, nulla intendendo delle necessità politiche, lo porrà nelle consuete condizioni della vita di uomo che può volere e disvolere a suo senno: — se di pratiche dilicate, condotte con opportuno mistero, egli pretenderà prove luminosissime e chiarissime; — se il concetto di atti operati con la discretezza imposta dai tempi, ed anche con dissimulazione, presumerà dimostrato con riscontri, e dirò quasi con istrumenti e chirografi univoci e non equivoci; — se di più, questo Tribunale andrà a pescare gli elementi dell'Accusa nelle parole della Tribuna, e nei Giornali, che ne sono l'eco; — se l'ora della lotta penserà che sia l'ora della Giustizia, e le furie dei Partiti pacate consigliere del giudicare, quale Ministro mai, quale Ministero si salverà?

L'Accusa me incolpa, per essermi limitato a rinviare gli avvenimenti più scandalosi alle ordinarie vie di giustizia. Io temo comprendere troppo, o troppo poco. O dove aveva a rinviarli io? Forse come Mario reduce a Roma, col negare o col rendere il saluto, dovevo indicare ai satelliti i cittadini da trucidarsi? Agendo come l'Accusa rimprovera, io adempiva al mio dovere; lo hanno tutti ugualmente adempito? O piuttosto talora con pusillanime oscitanza, tal altra con quello zelo serotino e importuno ( che fu il terrore del Talleyrand ) non abbandonarono o imbarazzarono il Governo?[49]

Ma sia che vuolsi, io continuerò nella narrativa di quanto mi fu dato, come Ministro, operare in benefizio del Paese, onde il Paese giudichi me e i miei Giudici, e veda se io mi merito lo insulto (e non è il solo) che essi mi gettano in faccia: « va, tu fosti un complice tristo, o uno imbecille impotente

La Plebe Castagnetana insorge con moti comunisti. È repressa energicamente con lo invio di Commissione speciale.[50] Attentati contro le foreste dello Stato repressi, nonostante il pericolo di sloggiare gli scarpatori armati di pianta in pianta.[51] Guasti di palazzi, attentati d'incendii prevenuti, o repressi. Aggressioni e latrocinii prevenuti parimente o repressi.[52] Plebe Pratese tumultua e minaccia ardere le fabbriche dei cappelli di paglia; con pronti rimedii è frenata.[53] Plebe di Campi irrompente contro le proprietà dei cittadini tenuta in rispetto.[54] Campagnuoli infestanti le vie maestre e i pubblici passeggi, estorcenti danari ai passeggeri, sorpresi e arrestati.[55] Contadini e Plebe Fiorentina invadono il negozio Peratoner sotto pretesto di cambiare i Buoni del Tesoro, e minaccianti pel medesimo motivo la banca Fenzi, repressi, nella deficienza di pronta forza, con la mia stessa persona.[56] Plebe e contadini di Firenze, nella notte del 27 gennaio 1849, percorrono la città, gridando: «Morte ai codini, fuoco alle case;» insultano Veliti e Guardia Civica; invadono i corpi di guardia delle Delegazioni, infrangono porte, e minacciano di morte il Delegato Carli. Cresce il tumulto in Borgo degli Albizzi e in Via Calzaioli. Eduardo Ricci muore di coltello. Un Campigiano è arrestato; gli altri fuggono. Cotesta fu notte in cui più di uno tremò nel suo letto, e le pattuglie esitavano di mettersi a sbaraglio in mezzo al tumulto. Io era per le strade improvvido di me, attendendo al dovere di tutelare la pubblica sicurezza. Sì certo, il mio dovere; ma è pur forza dirlo, egli è più facile assai dare il consiglio, che lo esempio di avventurare la vita per mantenere l'ordine della città: e la città fu quieta; i facinorosi posti in mano alla Giustizia.

I Giornali della Opposizione sbigottivano pei nuovi mostri; il Governo deprecavano a tentare i supremi sforzi per ritrarre il Paese dal fatale sentiero dove precipitava; avvertivano come il Ministro dello Interno nella risposta allo Indirizzo della Corona, prendendo le parti della Commissione, intendesse che lo inciso relativo ai disordini si conservasse, e ciò feci non solo perchè fosse richiamo costante alle cure mie, quanto perchè durasse ammonimento ai Deputati, che male l'ordine si consiglia, e peggio si spera conseguire, se i facili consiglieri non sovvengono con pronte voglie la opera governativa. — Infine, a fronte scoperta annunziavano comparire sintomi quotidiani di potente reazione, e gente perversa che, sotto sembianza di difendere la libertà, per via di tumulti e di scandali cospirava ad opprimerla.[57]

Troppo fastidiosa opera sarebbe ricordare tutti i casi di simile natura, successi durante il mio Ministero: bastino gli esposti per chiarire, come la plebe cittadina si rimescolasse con la rustica; e come, peggiorata la indole, cotesti moti incominciassero a manifestarsi attentatorii alla vita e alla sostanza dei cittadini.

Io vegliava quando la città si dava in balía del sonno; e con l'animo sospeso tendeva l'orecchio se alcun rumore sorgesse, per correre sul luogo del pericolo. Al difetto di ordinamenti e di forze, suppliva con operosità, che mi ridusse in breve a comparire l'ombra di me stesso.[58] In quei giorni pochi erano i labbri di ogni maniera di gente, che non pronunziassero lode al mio nome. — L'ora della ingratitudine non era peranche arrivata!

E fermamente credo, che dove ogni barriera non si fosse, per così dire, abbassata spontanea davanti allo impeto della fazione politica e dei tumultuanti, a fine ancora più pravo, non senza lotta forse, ma certissimamente con buon successo, sariasi potuto resistere, ed ordinare lo Stato. — Lasciando alla coscienza pubblica decidere se dirittamente e cristianamente operassero i Giudici, quando mi gittarono in faccia il vituperio di complice, o impotente frenatore di turbolenze, io penso potere concludere con queste proposizioni. 1º Forza rivoluzionaria sorse in Toscana fino dal 1847. 2º Ordini governativi furono fino da quel tempo manomessi da prepotente impeto di forza rivoluzionaria. 3º Nel settembre del 1848, rimasero affatto distrutti. 4º Stato alla mia chiamata al Ministero era stremo di qualunque difesa. 5º Non ignavo, non codardo, non infedele custode della pubblica sicurezza fui io.

VIII. Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a chiarire le sofferte ingiurie per la parte della Polizia.

All' Atto di Accusa bastò l'animo toccare la storia delle disoneste persecuzioni da me sofferte nei tempi trascorsi. Poco tempo addietro non s'incontrava anima viva, che volesse accettare la trista eredità del Potere Economico; la ricusavano tutti, anzi aborrivanla; però che a così fare persuadessero alcuni pudore, altri la usanza. Adesso, sembra che si pentano della improvvida renunzia, e mettono innanzi non so quali restituzioni in integrum, come pei pupilli si costuma fare! Io mi era astenuto favellarne; parevami decoroso per la fama della nostra civiltà non ridestare memorie, che a tutti noi dovrebbe essere grato lasciare nell'oblio: ed io, a cui avrebbe dovuto tornare più ardua la dimenticanza, dimenticava mosso da patria carità. Pensava, che evocare coteste memorie deplorabili si uguagliasse allo agitare che fece Marcantonio, davanti agli occhi del Popolo, la camicia insanguinata di Cesare! Quantunque io considerassi qual tesoro di pietà mi schiuderebbe appo l'universale la esposizione dei patiti dolori, io non ardiva discorrerne, — mi vergognava..... in verità mi vergognava....! Temeva mi si dicesse: tu vuoi commuovere le nostre menti con gli affetti per mancanza di ragioni. Adesso, mercè l'Atto di Accusa, mi è fatta abilità di favellarne, e di ciò grazie gli sieno, imperciocchè io deva credere, ch'egli in bel modo mi abbia voluto porgere occasione di rivelare anche in questa parte le vicende della mia vita. Ecco pertanto le parole dell'Atto di Accusa. «Questo imputato ha interessato altre volte, e sempre per cause politiche, ora l'Autorità Governativa, ora la Giustizia, ora la Grazia.[59] » Cinque sono le piaghe di cui porto le stimate, ed è questa la sesta.

Nel 1821, fanciullo di quattordici anni, attendevo agli studii forensi nella Università Pisana. Cotesto anno andò famoso per rivoluzioni italiane, specialmente di Napoli. Da cotesto Regno erano mandate Gazzette, le quali, oltre al racconto dei casi, che alla giornata vi succedevano, referivano i discorsi tenuti nel Parlamento da personaggi per chiarezza di fama prestantissimi. La lettura delle Gazzette si permetteva nei Caffè, ed è facile immaginare se la curiosità od altro più nobile affetto le menti giovanili invogliassero a sapere di cotesti successi e di coteste orazioni. Non bastando però una sola copia a soddisfare la impazienza degli scolari, fu stabilito che a turno uno di noi salisse sopra luogo eminente e leggesse. A me toccò la mia volta come agli altri, e voglio confessare più spesso che agli altri, forse perchè avessi o migliore voce, o migliore garbo nel leggere. — Questo fatto mi fruttò la perdita di un anno accademico per Risoluzione Economica del Buon Governo. — Se cotesta era colpa, perchè consentire che le Gazzette si esponessero alla lettura nei Caffè? Non pareva insidia tesa a inesperti fanciulli? E se non era colpa, perchè punirci? E chiunque pensi che coteste pene cadevano sopra famiglie numerose, la più parte scarse di averi, e come a molti giovani venissero ad essere rotti per sempre gli studii, ad altri con inestimabile danno ritardati, non dubiterà affermare, che potevano reputarsi veri omicidii intellettuali. Ho narrato altrove[60] come, venuto a Firenze, reclamassi della ingiustizia presso il Presidente del Buon Governo, il quale mi disse: A lui non appartenere la facoltà di graziare; egli non potere fare altro che punire. Alla quale proposta risposi: Io vi compiango, Signore, se occupando un posto dove anche senza volere fate del male, e al mal fatto non potete riparare nè anche volendo, la vostra coscienza vi consente rimanervi. — Come si chiama questa Grazia o Giustizia? Lo dica l' Atto di Accusa, chè per me io me ne lavo le mani.

Ci era una volta..... e forse vi è ancora, in Livorno un'Accademia dall'antico Ercole Labrone appellata Labronica. Me vollero ascritto alla medesima, e, quantunque non mi sentissi troppo tagliato a diventare Accademico, per non comparire scortese mi lasciai fare. Tenevano allora in cotesto collegio il primato uomini antichi e presuntuosi, usi a convocare una o due volte l'anno i cittadini, perchè ascoltassero i vieti sospiri in rima di qualche pastorello di sessant'anni suonati. Pazze cose invero, ma innocenti fin qui. — Certa sera, ch'era caduta copia di neve, mi chiamavano a consulta per urgenza; andai, e trovai che mandavano a voti certo partito per fissare se di ora in avanti il candidato accademico dovesse proporsi da dodici o piuttosto da tredici Accademici. Aspettai udire cose di maggiore importanza e rimasi deluso, imperciocchè col voto del partito ogni negozio cessasse. Allora io mi attentai avvertire modestamente, ma francamente, che sarebbe stato bene indirizzare l'Accademia a più utile scopo, come a modo di esempio, allo studio della patria amatissima, sia per provvedere alla educazione del Popolo affatto abbandonata, sia per promuovere i commerci e le comodità capaci ad ampliare la floridezza del nostro emporio. — Risposero acerbi, si tennero per ingiuriati, e in brevi accenti dissero, avere fin lì durato in quel modo, ed aborrire da ogni novità. Deliberai congedarmi dall'Accademia; e lo faceva senza porre tempo fra mezzo, se Giuseppe Vivoli, adesso per meriti diuturni eletto Cavaliere, non mi avesse invitato caldamente a dettare lo Elogio di Cosimo Del Fante, valoroso soldato livornese, e a leggerlo nell'Adunanza solenne solita a tenersi nel 19 marzo di ogni anno. Studiosissimo di tutto quanto può ridondare a decoro della patria comune, il signor Vivoli mi conduceva a vedere i vecchi genitori di Cosimo, i quali a cagione della morte dell'unico figliuolo traevano desolati gli estremi giorni verso il sepolcro. Piangeva il padre mostrandomi i documenti delle rapide promozioni del figlio, le insegne e il ritratto; non piangeva la madre, perchè la sventura le aveva offeso il bene dello intelletto. Composi lo Elogio e lo lessi, plaudenti i cittadini benevoli, alla presenza dello stesso Governatore Venturi. I Regolamenti dell'Accademia ordinavano, il manoscritto della composizione letta nelle mani del Segretario si depositasse, ed io trasgredii a questa disciplina, conciossiachè, essendo determinato a licenziarmi, non mi paresse essere più tenuto ad osservarla: e qui fu il danno. Tre Accademici, il nome dei quali taccio, però che uno sia morto e due vivano acciaccati dalle infermità e dagli anni, presi, dirò, da tentazione del Demonio, mandarono scritto al Presidente del Buon Governo, com'io recitando lo Elogio di Cosimo del Fante ne avessi tolto pretesto a predicare massime sovversive al trono e all'altare (allora correva la usanza di coteste parole); a tanto ardire farmi audace lo affetto, che con bontà grande, ma prudenza poca, mi aveva mostrato il Governatore Venturi. Dal Presidente vennero istruzioni per informare segretamente della cosa; e subietto della indagine fu ancora il contegno del Governatore, il quale avendolo subodorato ne sentì inestimabile cordoglio. Egli primieramente, col mezzo del signor Direttore Pistolesi, mi richiese del manoscritto, che subito gli consegnai, e riscontratolo prima, lo inviava a Firenze, affinchè esaminassero la verità, e della calunnia si persuadessero. Tanto poteva bastare; ma sopportando acerbamente la ingiuria che gli pareva avere ricevuta, il Marchese Venturi scrisse lettere minatorie al Presidente, non ostante il mio consiglio a rimanersene, però che le minaccie destituite di effetto, anzichè tutelare dalle ingiurie, le provochino; e gli presagiva ancora, che la burrasca, passando di sopra ai suoi poderi, sarebbe scoppiata sul campicello mio. E fui profeta. Trascorsi parecchi mesi, allo improvviso, senza essere udito nè citato, senza che fatto alcuno mi contestassero, ecco giungere dalla Presidenza ordine al Governatore stesso, che m'intimasse la relegazione per sei mesi a Montepulciano. Mio era il danno, la umiliazione del Marchese. Giovane allora e del futuro improvvidissimo, manifestai volontà di ridurmi in Inghilterra; ma il Governatore, baciandomi con molte lacrime e profferendomi quanti desiderassi danari, mi scongiurò ad obbedire; lasciassi a lui la cura del resto; essersi prevalsi dell'assenza del Principe, allora recatosi a Dresda, per dargli quel colpo; dove abbisognasse, si sarebbe deciso corrergli dietro fino a cotesta città per chiarirlo del fatto; stessi di buono animo, chè tutto questo aveva a ridondare in mio maggiore benefizio. Comecchè dubitassi forte dello esito presagito alla trista ventura, pure andai a Montepulciano, repugnando rincrescere all'ottimo vecchio, che mi si era mostrato tanto benevolo. Egli poi non istette saldo nel suo proponimento, e a me toccò consumare i sei mesi nella relegazione di Montepulciano. Il Vicario di cotesta città, se non isbaglio chiamato Marini, mi veniva persuadendo a fare istanza onde la relegazione cessasse; si assumeva egli indirizzarla e raccomandarla, mi assicurava il fine felice: fui grato al buon volere, non accettai il consiglio, e dopo sei mesi tornai a Livorno.[61]

Prima che passi ad altro, mi giovi ricordare come arrivato in patria mi s'ingiungesse di non partirmi senza licenza; così nel giro di sei mesi io era cacciato prima, poi confinato in Livorno! — Ora è da sapersi come i promotori del mio infortunio non rifinissero da sussurrare, che il manoscritto da me consegnato fosse tutt'altra cosa da quello letto; ma il tempo ha chiarita la menzogna, imperciocchè da prima fosse stampato a mia insaputa a Marsilia, poi liberissimamente in Toscana mentre durava la Censura preventiva; le quali due edizioni, dove si collazionino col manoscritto, che so trovarsi negli Archivii della cessata Presidenza, si conoscerà essere uguali per l'appuntino. Uno dei miei segreti denunziatori prima di morire commise al Cavaliere Vivoli d'impetrargli perdono da me, ed io lo concessi di cuore; pregato inoltre a dettargli lo epitaffio, lo feci senza adulazione, perchè invero egli era stato uomo di molta scienza e benemerito della mia città nella moría del 1804. Un altro non aspettò cotesto estremo punto per acquietare la sua coscienza, ma venne cristianamente per mercede, e cristianamente fu accolto; e ci baciammo in bocca, dannando all'oblio la ingiuria fatta e patita. Il terzo, un giorno pretese giustificarsi appo me, profferendo mostrarmi lettere donde resultava la pressura fattagli di unirsi agli altri due. Fosse vero o no il suo dire, cotesta era ignobile ricerca: la ricusai, invitandolo a dare al fuoco le carte, come io avevo dato alla dimenticanza il caso. — «Bruciate cotesti fogli, raccomandavagli istantemente, onde i nostri figliuoli non li trovino e si vergognino di noi.» — Durante il Governo Provvisorio, il Presidente del Buon Governo, che di questi e di altri travagli aveva contristato la mia giovanezza, fu il primo che a scadenza di mese mandò la ricevuta per riscuotere la paga. I miei orecchi sono stati saziati di encomii, e non gli ho avvertiti; ma questa fiducia posta nell'animo mio mi toccò nel profondo: grande era dunque la opinione della mia generosità! I miei compatriotti giudichino se io l'abbia meritata.

Che cosa fosse questa o Grazia o Giustizia, lo dica l'Accusa, perchè io mi professo incapace a chiarirlo. —

E passo alla terza piaga. Talvolta, non sempre, per sollevare l'animo e il corpo stanchi dalle continue fatiche, mi recava per qualche ora la notte in certa compagnevole brigata dove cenavamo, fumavamo e novellavamo a nostro agio. Convenivano quivi giovani appartenenti alle principali famiglie della città, ora uomini che il Governo annovera meritamente tra i fidatissimi suoi. Un bel giorno siamo chiamati davanti il Commissario di Polizia io e Domenico Orsini, persona dimostratasi sempre amica di quiete, onorata d'impieghi, tenuta anch'essa in conto di devota alla Monarchia Costituzionale; e ad ambedue noi il Commissario di Polizia fece motto di cospirazioni, di sètte e di simili altre fatuità. Rovello della Polizia a quei tempi era volere da per tutto cercare congiure: sentii dire, che gliele pagassero quando le aveva trovate, sicchè i bracchi tenevano sempre il muso a terra, e, non volendo tornarsi mesti ed anelanti a casa, quando non levavano congiure abbaiavano per far credere ch'elle fossero nel macchione. Fummo ritenuti due mesi in carcere: per questa volta vidi un Decreto, ma invano cercai il motivo della condanna; se ben ricordo, la breve scrittura conteneva una frase equivalente al causis nobis cognitis. — E se vuolsi aver saggio del caso che a quei tempi facevasi della libertà dell'uomo, si sappia come mio fratello Temistocle venisse a visitarci quasi quotidianamente. Certo giorno, su l'andarsene, il soprastante alle carceri gli diceva che bisognava si trattenesse là dentro; e il mio fratello rispondeva: rimarrei volentieri, ma i miei negozii mi chiamano altrove; — e l'altro: ho ricevuto poco anzi l'ordine di non lasciarla partire. — Oh! allora è differente la cosa. — Insomma anche il fratello un mese in prigione per colpa di visitare il fratello. Male incoglieva a quei tempi praticare le opere di misericordia corporale! —

Ho udito raccontare come nei tempi antichi corresse usanza di allevare al fianco di regio alunno un fanciullo di piccolo stato, onde quante volte il primo cadesse in colpa, tante potessero bussare il secondo, onde quegli con la sola vista della pena si emendasse, e questi il dolore (ch'è retaggio plebeo) sofferisse. La Polizia, sospettosa del consorzio innocentissimo degli spettabili giovani, io penso che percuotesse sopra di me, come persona di minore importanza, per incutere negli altri salutare terrore. — Intanto un senso di molestia per tutta la Toscana diffondevasi; in ogni classe di cittadini era ansietà affannosa, sgomento crescente, e un domandare quando cotesti incomportabili arbitrii avrebbero fine, e uno instare continuo affinchè il mostruoso instituto cessasse. Fu reputato colpa dell'uomo quello che era vizio del maestrato, e il primo dimisero, il secondo conservarono. Noi uscimmo di carcere punto lieti della caduta del Presidente, poichè si manteneva in piedi la Presidenza.[62]

Se questa fosse Grazia o Giustizia, l'Accusa avrebbe potuto informarsene da qualcheduno di quelli che porsero grazie pubbliche al Principe di avere affrancata la Toscana dal turpe giogo della Potestà Economica.

Eccomi alla quarta piaga. La Polizia non aveva punto deposto lo antico sospetto, dacchè ella appartenesse a quella maniera di bestie, delle quali si dice che perdono il pelo, il vizio mai. Erano suoi fantasimi le sètte segrete. La svegliatezza degl'ingegni, la pratica degli umani negozii, la indole espansiva, non meno che certo costume antichissimo, ormai fra noi diventato natura, di aprire l'animo nostro a libera indagine intorno agli atti governativi, hanno impedito sempre che siffatte congiure allignassero in questa terra;[63] nè altrove abbiamo potuto intendere di che cosa sieno state capaci. Eranvi in Francia sètte segrete nel 1830, ma senza le ordinanze di Carlo X nulla avrebbero potuto operare; eranvi anche nel 1848, ma se Luigi Filippo consentiva ad alcuna modificazione su la Legge Elettorale, o più tempestivamente rassegnava il potere a favore del nipote, le sètte rimanevano impotenti. Le sètte, e la esperienza lo ha chiarito, non sono mai da tanto di rivoluzionare gli Stati. — Le rivoluzioni nascono dagli errori dei Governi, dallo scontento dei Popoli, e dal cumulo di molte cause che troppo lungo sarebbe discorrere. Fiorenza non si muove, se tutta non si duole, dicevano i nostri antichi, e con ciò vollero significare che il Popolo non è portato, ma porta, nè corre dietro alle voglie o alle passioni altrui, ma per le proprie unicamente si agita; e dissero bene. Le sètte, nello scompiglio universale, possedendo il vantaggio di un tal quale organamento, s'impadroniscono, su quel subito, delle faccende pubbliche; ma scemata la improvvisa caldezza, non corrispondendo quasi mai ai desiderii comuni, forza è che cadano come, senza andare tanto oltre, osservammo espressamente in Francia nel 1848. Se ai Governi importa, pei loro fini, mostrarsi atterriti di queste congiure, sì il facciano; ma che uomini politici se ne preoccupino, davvero non è cosa facile darsi ad intendere a chi conosce queste arti. Io di segrete congiure non ebbi mai paura, però temei moltissimo l'universale accoramento[64] del Popolo. Insomma, per me le sètte sono la jena che seguita da lontano le traccie, ma non precede mai il leone della rivoluzione. — Però la Polizia toscana non guardava tanto pel sottile; e perlustrando ogni cosa col microscopio alla mano, le venne fatto di scuoprire una sètta. Davvero, senza microscopio la non si sarebbe potuta vedere; andava composta di poche persone di stato piuttosto misero che mediocre, senza reputazione, senza seguito, prive d'ingegno, destituite di aderenze; la Polizia riputò che elle fossero comparse, e i veri attori stessero dietro le scene. Senza porre tempo fra mezzo, stese le immani braccia, e fatto fascio di gente, la gittò in carcere; tutta lieta di avere trovato il bandolo, già si augurava dipanare la matassa; e che così fosse, si manifesta dalla confusione delle persone arrestate. Infatti all'Elba fummo mandati il Conte Agostini, l'Avvocato Angiolini, Carlo Bini, io, e Carlo Guitera. Incominciate le procedure, alla prima scossa di vaglio e' fu mestieri scevrare gli Ebrei dai Sammaritani. Guitera rinvenuto colpevole con altri di sètta segreta, presto ricondotto in terraferma, subì giudizio, e fu condannato con altri parecchi. A noi rimasti, per la parte della Presidenza, dichiaravano: non essersi trovato fatto capace di appuntarci; però, reputarsi minacciato il Governo, ed ogni Governo minacciato avere diritto di provvedere alla propria sicurezza; noi poi conoscere uomini di mente a lui avversa, e tanto bastargli perchè in tempi difficili dovesse assicurarsi delle nostre persone: nonostante stessimo di buona voglia, chè appena cessati i torbidi, saremmo rimandati alle nostre case.

Credete voi novella quanto io vi dico? Dei molti, che ebbi a compagni in cotesto infortunio, mi basti rammentare uno solo, l'Avvocato Generale di Cassazione, Venturi; egli non è capace di mentire, ed egli vi chiarirà se io abbia detto il vero. —

Eccomi alla quinta piaga. — Quantunque scrittori consapevoli del pericolo in cui io verso del diuturno carcere, e della colpa appostami, abbiano profferite deliberatamente a mio danno parole peggiori delle siche romane; quantunque vaghi della opera e della infamia del vile Maramaldo, essi non abbiano aborrito da ammazzare un uomo morto; quantunque io mi trovi inseguito da oscena caccia, che a cane arrabbiato non si farebbe più atroce; quantunque tremendi diritti mi desse la difesa, e sentissi anima da gittarvi nella faccia il mio sangue innocente onde fosse di maledizione nuova ed aperta a voi, ai vostri figli e ai figli dei vostri figli, pure mi rimango, e desidero tôrre ogni amarezza al mio Scritto, onde alle tante miserie della patria non si aggiunga quella suprema di presentare lo spettacolo turpe di morti che non sanno posare in pace neanche dentro il sepolcro! — Io parlo al mio Paese come davanti un Tribunale di Giurati; io non recuso a giudicarmi nessuno, nè anche i miei nemici, purchè non codardi nè venduti, nè ciechi per la smania di avvantaggiare uno Stato italiano a cui nuocciono pur troppo; questi io gli ho provati senza coscienza, come senza pietà. I generosi, comunque nemici; si rendono giustizia, ed anche questi ho provato. Nella esposizione di questa quinta piaga mi studierò non offendere persona: comprendo sarebbe stato meglio tacere; e che così credessi, lo provi avere taciuto fin qui; ma adesso il silenzio non giova più, dacchè l'Accusa pubblicava la storia da me scritta dei casi dell'8 gennaio 1848, e da me per amore di patria lasciata inedita. L'Accusa non ha voluto rispettare nemmeno il sacrifizio del mio silenzio! Uscito dal carcere di Portoferraio (il quale duole a taluno dei benevoli scrittori ricordati qui sopra che non fosse più lungo), attesi allo esercizio della mia professione con assiduità maggiore di quello che avessi fatto fino a quel punto, inducendomi a prendere questo partito lo abbandono degli amici, l'amara povertà, e poco dopo il retaggio dei miei orfani nepoti. Dio eterno! Parevami questo esercizio di virtù; e nonostante a coro sento attribuirmelo a vizio di cupidigia, di avarizia, e ad altro peggiore. E bene m'incolse essermi armato di provvidenza, perchè una angosciosa infermità mi sorprese, tenendomi travagliato, ora più, ora meno, per bene tre anni. Schivo di compagnia, chiuso, ai miei studii tutto, pervenni al 1847. In cotesto anno principiarono le Riforme, e i moti delle Riforme; vedeva i successi, e tacito considerava; non era cercato, e mi stava da parte. Allo improvviso gli emuli miei (e poi furono nemici), che fin lì avevano posto una tal quale ostentazione ad obliarmi, ecco cercarmi premurosi, e volere anzi costringermi che seco loro mi accompagnassi. Biasimo o laude che ne ridondi, questo s'intenda bene, e si riponga in mente, che altri, non io, anzi me inconsapevole e repugnante, prese ad agitare il Popolo livornese; e le prove abbondano più che non si crede, e le direi se una cosa sola non si opponesse, ed è l'alto, invincibile aborrimento che sente in sè ogni anima, che non sia fango affatto, di adoperare anche a necessaria difesa le arti usate dagli emuli miei per offesa spontanea. — Che cosa gli muovesse, e perchè? Poco importa indagarlo; il fatto sta che vennero in casa mia, mi obbligarono a vestirmi, mi presero per le braccia e pel petto, e a forza mi trassero ad arringare il Popolo nella Piazza di Arme, a forza mi trassero a Pisa. Passate le prime effervescenze, pensai, e scrissi quello di cui tenni proposito nella pagina 21 di questa Apologia. Intanto fu chiesta la Guardia Civica a Firenze, e Guardia Civica si volle immediatamente a Livorno. Mi sia permesso dirlo: il modo col quale essa venne composta in Livorno seminò la discordia nel Popolo, e fu origine di tutti i mali. Alcuni individui, certamente rispettabili, ma allora per inesperienza più che non conviene in simili congiunture imperiosi, stesero una nota di loro amici, o aderenti, disegnarono i gradi, distribuirono gli ufficii; poi recatisi al Governatore Don Neri Corsini, la fecero firmare; il Gonfaloniere Conte de Larderel costrinsero (secondo ch'egli stesso mi referì) a sottoscriverla senza pur leggerla. Di qui nacque che la Guardia Civica in Livorno sorse opera non dirò di un Partito, ma piuttosto di una consorteria, ed anzichè istrumento di concordia fosse motivo d'ingiuria da un lato, di offesa dall'altro, di litigio per tutti. Chiunque più tardi (non ora che la rabbia di parte non lo consente) si farà a dettare storie meritevoli della dignità del nome, troverà come il modo della istituzione della Guardia Civica in Livorno partorisse guai, che altri va stortamente attribuendo a cause diverse. — Ora avvenne che il Popolo escluso dalla Guardia concepisse maraviglioso rammarico, e togliendo pretesto dalla guerra imminente si facesse a domandare armi. Qui è da sapersi come parecchi cittadini, e della Guardia Civica la massima parte, opinassero dovesse il Popolo contentarsi delle ottenute Riforme, e della guerra avesse a deporre il pensiero; opinione, che, a quanto sembra, seguitò poi il conte Pellegrino Rossi, e come ottima viene in questi ultimi tempi sostenuta dal Cousin: altri all'opposto dichiaravano insufficienti le Riforme, inevitabile la guerra; e consigliare prudenza che le prime si estendessero con animo spontaneo fin dove pareva convenevole, ovviando al pericolo che il Popolo si spingesse a quel termine, e nell'impeto sregolato lo trapassasse, e alla seconda si facessero per tempo gli opportuni apparecchi. Devo per verità confessare come taluno dei Civici che procedeva allora schivo d'ingaggiare la guerra, fosse poi dei meglio animosi a combatterla, e per sagrificii di ogni maniera sofferti, e pel valore singolare dimostrato su i campi di battaglia, non si mostrasse a nessuno dei commilitoni toscani secondo. Al Governo si paravano davanti due strade: la prima consisteva nel negare le armi risolutamente, dicendo: «Le armi si domandano e si danno per due motivi, per la difesa interna od esterna dello Stato. In quanto allo interno non ci minaccia alcuno; moti contrarii alle Riforme non sono a temersi; coazioni al Governo, oltrechè non si sopporterebbero, non sarebbero giuste, come quello che volentieri è disposto di compiacere ai diritti desiderii dei Popoli. In quanto alla difesa esterna, non ci potrebbe offendere che Austria; ma avendo essa dichiarato astenersi da prendere parte nelle faccenda altrui, possiamo starcene in pace: dove poi s'intendesse dichiararle la guerra, il Governo al tutto si opporrebbe per questi motivi: — sono i soldati nostri pochi, non bene addestrati negli esercizii militari, della disciplina impazienti; i Popoli miti, repugnanti dalla guerra; e mentre di lieve momento sarebbe il soccorso nostro, troppo grande avventureremmo la posta nel giuoco periglioso, conciossiachè vincendo guadagneremmo nulla o poco, restando vinti perderemmo del tutto indipendenza e libertà.» — Io però confesso di leggieri che in tanta esaltazione di animi, cotesto partito sarebbe stato a praticarsi impossibile. Ma il Governo, procedendo nell'opposto concetto della guerra, a liberarsi da ogni improntitudine poteva dire: «Volete guerra, e guerra sia; e Dio protegga la causa migliore. Però voi tutti, che chiedete armi, nè soldati siete, nè volete diventarlo; ora, le armi sono sempre arnesi di costo grande, oggi poi pel bisogno preziose, per l'uso sante; noi sì le daremo, ma a chiunque voglia adoperarle davvero in benefizio della patria, non già a pompa vana, o ad altro uso più reo. Pertanto chi intende essere armato e vestito soldato per la Indipendenza, venga, e si arruoli per tutto il tempo che durerà la guerra. Gli arruolati saranno spediti senza indugio ai campi disegnati, onde si addestrino negli esercizii, alla soldatesca vita si accostumino, e così portino negli scontri che si apparecchiano, non solo lo ardore che fa i martiri, ma ancora la disciplina che fa i vittoriosi.» Per questo modo i millantatori avrebbero cagliato, i generosi rinvenuto la via a soddisfare gli spiriti bollenti, ai tumulti tolto il pretesto. Il Governo non seppe abbracciare speditamente alcuno di questi partiti; più tardi disse non avere potuto riporre fiducia nei toscani uomini, e ben per loro; però che la molta civiltà acquistata gli rendesse inetti al combattere;[65] parole, che fecero parere bella la stessa barbarie, avvegnadio, che cosa possa essere un Popolo incapace a rivendicare la propria independenza non sappiamo vedere, dove non sia il somaro che porta, lo schiavo che diletta, il buffone che percosso ringrazia per fare ridere il suo signore: tra i flagelli di Dio bisognerebbe allora annoverare la civiltà.

Intanto i provvedimenti del Governo parevano scarsi ed erano; la fiducia del Ministero nella vittoria, giovanile jattanza; la sfida di guerreggiare una Potenza famosa in armi, e pertinace nei propositi, con sassi e bastoni, fanciullesco vanto. Le armi promettevansi prima senza prefiggimento di tempo, poi a giorno designato e le promesse riuscivano invano; sicchè alla impazienza si aggiungeva il sospetto, al sospetto il furore, e rendevano procellosi tempi già abbastanza turbati. Sopra la fede di commissioni date e di solleciti arrivi, il Generale Sproni livornese, governatore provvisorio di Livorno, e Celso Marzucchi, assessore, promisero le armi a posta fissa più volte, e più volte, loro malgrado, mancarono. Il Popolo notte tempo circonda il Palazzo del Governo, e prorompe in contumelie bruttissime, e in minaccie: tentano ogni via per placarlo, ma il furore vince ogni riguardo; già molto era cotesto, e si temeva peggio: fatto sta, che il Popolo, occupate le porte, impediva la uscita. In tale estremo, o interrogato o spontaneo, chè io non so questo, il Popolo domanda una Commissione di cittadini, affinchè esamini se le incette delle armi sieno vere, ed essendo, ne solleciti lo invio; il conte Larderel, me, ed altri parecchi nominano membri di cotesta Commissione; se il Governo locale assentisse in quel punto ignoro, — chè io stavo giacente in letto per abituale infermità intestinale, inaspritasi, come suole, nella rigida stagione; — quello che so, è, che il Popolo impetuoso mosse in traccia del conte e di me. Percossa duramente la porta, e referitomi quello che da me si volesse, sorgo tosto in piedi, mi getto addosso una pelle, e mi sottraggo per le scale segrete; il Popolo ricusando fede ai servi, che mi dicevano assente, invade la casa, e fruga camere e sale; parte del Popolo stanziava giù nel cortile, sicchè a me era preclusa la via di uscire, nè la condizione delle vesti lo consentiva. Vedendo che il Popolo non se ne andava, e incominciando a travagliarmi il freddo, deliberai tornare in casa, dove arrivato domandai che cosa volessero da me; e uditolo, significai ai circostanti apertamente: la mia salute inferma non concedermi poterli soddisfare; e schivo di subugli, non volere che il mio nome fosse tolto per segno di opposizione al Governo. Allora essi risposero essere appunto il Governo quello che mandava per me, perchè bloccato in Palazzo non rinveniva la via di uscirne. «Se così è, soggiunsi, il Governo scriva, o invii qualche ufficiale, e potendo mi renderò alla chiamata.» Infatti, non andò guari che lo Aiutante Baldanzi venne a invitarmi per parte del Governatore di condurmi al Palazzo, ed io andai. Quivi erano il Governatore, Marzucchi assessore, Bernardi colonnello, ed altri moltissimi, i quali, se io non erro, mi parvero più che mediocremente pensosi di cotesta tempesta popolare. Salutato il Governatore, lo richiesi di quello che da me desiderasse, ed egli non senza qualche commozione rispose: «Io nulla; il Popolo è quello che la vuole.» — «Non è così, risposi; io mi mossi, dacchè ebbi il suo invito, e venni per farle piacere; stando diversamente la faccenda, permetta che io mi ritiri.» Allora egli ed altri con modi cordiali mi esposero la condizione in cui si trovavano, riusciti vuoti di effetto i tentativi per allontanare le turbe tumultuanti; e poichè sembrava che in me ponessero fiducia, mi adoperassi a sovvenirli in quel duro frangente. E con tutto il cuore lo feci. Infermo, curante il freddo che m'inacerbisce i nervi, nel mezzo di una notte d'inverno, forte soffiando il rovaio, vado sul terrazzo, e parlo in questa sentenza: «Il Popolo avere ragione delle armi tante volte promesse, e non mai consegnate, ma non avere ragione di trascorrere a vilipendii, se il mare e i venti contrarii tenevano il naviglio vettore lontano dal porto. Dio dominare gli elementi; non gli uomini. Tutto il momento della lite consistere a verificare se gli ordini per comprare fossero stati dati ed eseguiti. Questo affermare il Governo, e di questo non potersi dubitare; nonostante, la Commissione riscontrerebbe, profferendo il Governo ogni schiarimento desiderabile, e darebbe fedele ragguaglio il giorno prossimo. Per ora non rimanere altro che ritirarci nelle nostre case, obliando gli avvenimenti deplorabili della serata.»

Il giorno veniente mi condussi, per tempo, appo il Generale Sproni, al quale mi legavano vincoli di cittadinanza e di benevolenza (e come i primi non si possono, così confido che neanche i secondi siasi voluto sciogliere in questa procella), e con parole aperte gli favellai: la sera innanzi essermi mosso unicamente per aiutarlo a tôrsi dalla difficoltà nella quale versava; la mia salute, le condizioni di famiglia, il desiderio, e il bisogno di vita pacata dissuadermi da prender parte in cotesti ravvolgimenti. Ma il Governatore, a grande istanza, mi pregava a non ritirarmi dalla Commissione: stessi sicuro; del mio buon volere informerebbe il Governo; lo aiutassi a ricomporre in quiete l'agitata città. Sopraggiunse il Venturi assessore, e mi animava con simili conforti a rimanermi con loro; ogni dubbio deponessi dall'animo: «Ed io, egli dicevami, mi pregio di onestà, e tu da molti anni mi conosci; sicchè non vorrei nè potrei indurti a cosa che ti scemasse reputazione o ti arrecasse danno.» Persuaso a non dimettermi, esposi loro i miei pensieri per trovare modo che la città posasse; e prima di tutto si voleva mettere a parte della Commissione certe persone, che, da qualche tempo, procedevansi piuttosto che poco amorevoli, avverse; e così togliere a un punto le gozzaie tra spettabili cittadini, e lo esempio al Popolo della discordia.[66] — Inoltre, ad impedire il rinnuovarsi dei tumulti, appellati dimostrazioni, che precidendo ogni nervo allo Stato facevano il governo impossibile, la Commissione i desiderii del Popolo ascoltasse, e ne riferisse al Governo in forma di supplica o di petizione. Il Popolo poi avrei desiderato che non si presentasse tumultuante alla Commissione, ma col mezzo di deputati eletti a conferire. Sembravami questa medicina acconcia al male, perchè considerava come il Popolo avesse preso il costume di assembrarsi in moltitudine, ed una volta raunato, gli agitatori ci soffiavano dentro, commuovendolo a modo di venti contrarii, per cui ne usciva un domandare discorde, spesso assurdo, sempre violento. Deviare cotesta tribolazione dal Governo per attirarla addosso a noi, non sarebbe stato rimedio plausibile; lo importante stava in sopprimere affatto il subuglio. Insinuando, come io suggeriva, al Popolo di radunarsi nelle chiese per discorrere delle loro faccende, si toglieva di piazza, e questo era primieramente un bene grande; poi l'assembramento diventava minore per la capacità del luogo, lo univoco impulso era remosso, lo equilibrio di varii centri stabilito. Inoltre, la santità della chiesa avrebbe raffrenato la violenza degli atti e le disoneste parole. Molte esigenze popolari sottoposte a discussione sarebbero comparse assurde. Uomini probi in adunanza di simile sorta, avrebbero adoperati a fine lodevole l'autorità del nome, il credito della condizione, la efficacia delle parole. Gl'impronti agitatori non si sarebbero mostrati, conciossiachè sia facile a comprendersi quanta differenza corra tra aizzare il Popolo passionato e inesperto durante la notte, e sostenere una opinione alla luce del giorno con bontà di discorso. — Quando si possa chiamare la gente in parte dove sia costretta a vergognarsi delle sue enormezze, ella, se eccettui pochi perdutissimi, tace. La Commissione ancora avrebbe avuto a trattare con uomini dabbene, padri di famiglia, conduttori di negozii, per indole e per interesse amanti di riposato vivere; nè intemperanze dalla parte loro erano da temersi; in ogni caso agevole adoperare con essi gli argomenti medesimi ch'eglino avrebbero impiegato con gli altri. Insomma, intendeva convertire il tumulto in sistema regolare di petizione. Le carte perquisite fecero fede di cotesto mio concetto; il quale forse sarà stato intempestivo, ma non disacconcio; ed anzi, neppure intempestivo, dove si avverta, che contro il Popolo non si voleva, nè si sarebbe potuto, senza pericolo, ricorrere alla forza.[67] Dei due partiti, reprimere o concedere, bisogna pure valerci di uno nelle perturbazioni politiche; peggio di tutto è la inerzia, che, come non ti sottrae ai danni di chi combatte, neanche ti acquista la benignità solita praticarsi verso chi cede a tempo. In ogni caso ell'erano proposte le quali potevano accettarsi o ricusarsi, non già leggi che per me si volessero imporre. All'Autorità locale parve avessero a sospendersi, e rimasero senza effetto. — A me non giova suscitare adesso tristi memorie, nè, adoperando io quello che in altrui massimamente detesto, staccherò serpi dal capo della Discordia, per gittarli a turbare la comunanza solenne della sventura. A me basti dire, che fui vilmente calunniato, che (stupendo a narrarsi!) Livorno intero mi suscitarono contro con l'accusa di macchinati incendii, di rapine e di stragi! Ben quattromila cittadini armati vennero ad arrestare e a incatenare la bestia feroce. Predicazioni acerbissime, stampe infami, governative insanie cospirarono ad alienarmi in un punto tutta la mia patria che ho amato sempre come la pupilla degli occhi, per cui mi piacque la fama, offerendo a lei, in tributo filiale, quel poco di onore che mi veniva procurando con i miei scritti! Allora, come adesso, perfide parole mi filtravano dall'alto del carcere sopra il corpo e sull'anima come stille di pece infiammata. Allora, come adesso, smarrito ogni senso di morale, di religione e di pudore, uomini (che se ne pentiranno amaramente un giorno) si fecero cagne studiose e conte per latrare e per mordere. E adesso, come allora, la mia maladizione saprà perdonarvi.

Lo egregio uomo Scipione Bargagli, venuto Governatore a Livorno, presto si accôrse della oscena persecuzione: i miei concittadini, pieni d'inestimabile rammarico, per essersi lasciati così stupidamente ingarbugliare, domandavano ammenda della commessa ingiustizia. Alla Catilinaria era mancato il Catilina; nè Marco Tullio aveva potuto ripetere il verso famoso:

O fortunata nata, me consule, Roma!

I Giornali erano rientrati nell'otre di Ulisse. I Municipii, che simili ai montoni di Panurgo furono uditi uno dopo l'altro belare Indirizzi di congratulazioni, per la patria liberata dagli Unni, tacevano; solo si dibatteva il Partito a me avverso, e agitato da molte passioni, cresceva di violenza. Questo Partito, che aveva proceduto ardentissimo contro la Commissione, la quale si era proposta di secondare il Governo, col pretesto che creava uno Stato dentro lo Stato, adesso sorgeva tra il Governo e me; e al Governo diceva: «Guai se egli si attentasse a farmi tornare!» Da me ardiva pretendere un atto di contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di un atto di fede, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la mia futura condotta; altrimenti minacciava mi avrebbe fatto durare fino a dieci anni in carcere. Artificiosa era cotesta improntitudine del pari che temeraria; però che il Partito intendesse strapparmi uno scritto qualunque, che poi, interpretato con la solita carità, gli servisse a dimostrare che non senza motivo si era mosso ai miei danni. Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole riparazione; e il Principe nel 22 marzo 1848 dichiarava, che gli atti a me obiettati si riducevano ad una preordinazione per ispingere possibilmente verso una meta, cui le sopravvenute mutazioni politiche in Italia hanno a noi permesso di pervenire senza pericolo del nostro Popolo; aggiungendo che la loro illegalità era sparita dopo che lo Statuto ne aveva assicurato il conseguimento con letizia comune del Governo e dei governati. Onoratissime parole, almeno in cotesti tempi, ma non meritate affatto, imperciocchè, come ho avvertito, le mie erano proposte da accettarsi o da ricusarsi, non già leggi da imporsi; pure tacqui, avendo promesso non suscitare imbarazzi al Governo con importuni reclami.

Forse per questo il Partito quietavasi? No. Persone non vili andavano dal Governatore Bargagli, e lo ammonivano che della quiete di Livorno non gli rispondevano, se io vi fossi comparso; e siccome il Bargagli, ormai infastidito, disse loro: «che gli ringraziava dei consigli, e che io sarei tornato ad ogni modo,» poco dopo egli si vide comparire davanti una persona vile, che minacciò mi avrebbero ucciso a furore di Popolo, se avessi posto piede a terra. Queste cose confidò poi lo egregio conte Bargagli a me e a Giovanni Bertani, ed io le riporto con la maggiore discretezza che posso, e per necessità di difesa; onde io spero ch'egli, gentilissimo com'è, non solo vorrà compatirmi, ma deplorare lo estremo in cui mi trovo di doverle rendere palesi. Alla fine il Governo spediva il piroscafo Giglio a riprendermi con onore, e venivano con esso taluni autori od esecutori del mio non degno arresto. Io gli accolsi come se mai mi avessero fatto oltraggio: arrivammo di notte; il Comandante del Porto attendevami per accompagnarmi a casa; io gli chiesi in grazia di accompagnare lui, e mi ridussi solo alla mia stanza. Gli autori del mio arresto, in parte si erano allontanati; in parte, dubitando della loro sicurezza, si tenevano nascosti; nei loro cervelli balzani già già le proscrizioni sillane attendevano. — Io fui Ministro, e non volli leggere cotesto Processo per non avere motivo di concepire rancore contro coloro che per avventura avessero deposto a mio pregiudizio. Io ebbi il potere, e lo adoperai a difendere, a beneficare, e perfino impiegare quelli che avevano cospirato a mio danno. Se motivo alcuno di ambizione mi fece desiderare il potere, fu questo: trovarmi in parte ove io avessi facoltà di mostrare quanto fossi diverso da quello che gli emuli per vizio di parte mi avevano calunniato.[68] — Prima di usare parole di obbrobrio contro di me, perchè non gittava l'Accusa uno sguardo sopra cotesto Processo? Essa avrebbe veduto che non fu grazia il Decreto del 22 marzo 1848 in quanto a me, ma benigno risguardo all'onore di un uomo atrocemente, quanto indegnamente, offeso. Essa avrebbe appreso, che non fu esatta quando le piacque designarmi come: individuo, che altre volte ha INTERESSATO la Grazia... e le Accuse quando posseggono tanta copia di carte, e di occhi, che le leggono, e di bocche, che referiscono, avrebbero l'obbligo di essere esatte.

Se l'Accusa avesse udito gli scorticatori di San Bartolommeo muovere querela contro il povero Santo per averlo scorticato, che cos'avrebb'ella detto? In verità, a me sentendo rimproverarmi le sofferte piaghe, parve essere San Bartolommeo accusato di crimenlese per non avere più pelle.....

IX. Esame dei §§ VI, VII, VIII dell'Atto di Accusa, e Comento alle parole del Decreto del 7 gennaio 1851: «che con mezzi riprovevoli ero giunto a impossessarmi del potere.»

Investigando con intenzione nemica la passata mia vita, l'Accusa mi porge occasione ad esporta, fondandomi sopra Documenti e sopra la testimonianza dei miei concittadini. Reduce a Livorno, io trassi vita più solinga che prima non aveva fatto, non cruccioso, ma mesto della ingiuria patita; chè la nuova benevolenza non toglieva l'amarezza dello strazio passato: Piaga per allentar d'arco non sana.

Gli emuli miei, vedendo tanta mansuetudine, la reputarono viltà, e tornarono più baldanzosi che mai a procedermi avversi nelle prossime elezioni, continuando nelle calunnie, che vorrei dire infami, se non fossero state ridicole.[69] Per la quale cosa schivando diventare argomento di litigio, e maledicendo in cuor mio lo infame seme della discordia, che mai non quieta nei petti umani, deliberai di un tratto abbandonare la città e ricovrarmi in qualche appartato asilo.[70] E rallegrato dall'amicizia, splendido delle bellezze della Natura e dell'Arte, io mi ebbi queto asilo nella villa di Scornio. Colà io riposava all'ombra delle antichissime piante, e leniva con gli affetti domestici, le cortesie dell'amico e i cari studii, l'animo offeso, quando lo egregio Niccolò Puccini mi avvisava come la banda cittadina avesse deliberato venire a farmi festa, e come la banda del Borgo non sembrasse disposta a patirla, correndo fra loro emulazione grande, e quasi nemica. Conobbi invidiarmi la fortuna anche cotesto ricovero, onde senza por tempo fra mezzo io mi partii, pauroso sempre che il mio nome diventasse soggetto di contesa, e mi condussi a Firenze. — Intanto accaddero le elezioni in Livorno, e quantunque sommando i voti dei quattro Collegi io ottenessi numero di gran lunga superiore a quello degli altri candidati, pure singolarmente in ogni Collegio lo ebbi minore, e non rimasi eletto. — La operosità non contrariata degli emuli conseguiva un fine per loro desideratissimo, e poichè vedevo che tanto gli soddisfaceva, anche io ne godevo. Adesso la Curia Fiorentina mi scriveva su l'Albo dei suoi Avvocati; e questa larghezza non mi ha ritolto finora, almeno credo. Più tardi l'Accademia della Crusca mi creò Accademico; ma altri pensando forse che in me si avesse a rinnuovare lo esempio di Nabuccodonosor, voglio dire che cadendo di seggio diventassi bestia, mi ha radiato dal ruolo degli Accademici. Deus dedit, Deus abstulit, fiat voluntas Dei! Intanto tre Collegi, San Frediano in Firenze, Dicomano e Rosignano, mi elessero Deputato: estratto a sorte rimasi di Rosignano; nè dal maggio in poi misi più piede in Livorno. Fra la mia patria e me, rimaneva non dirò rancore, ma un cotal poco di ruggine a cagione dei fatti del gennaio; e partendo, io la lasciava in balía degli emuli, i quali la dominavano intera con la Guardia Civica, di cui erano principali e caporioni. Correva il 22 agosto 1848, quando i destini condussero a bordo del Piroscafo l' Achille il Padre Gavazzi a Livorno. Altre volte soggiornò in Toscana. Uomo di spiriti accesissimi era egli, per professione del sacerdozio, per impeto di eloquio e per vasta corporatura potente sopra le turbe, molesto ospite al Ministero nostro. Il Ministero, che si perdeva dietro ai bruscoli e non avvertiva le travi, dapprima volle impedire lo sbarco al Barnabita tribuno; quando il Popolo lo volle in terra, gli concesse e sbarco e transito traverso Toscana per Firenze. La mattina del 23 agosto giungeva col mezzo del telegrafo cotesto Dispaccio a Livorno, e in quella mattina stessa a mezzogiorno il Padre partiva alla volta indicata. Dodici Livornesi lo accompagnavano per fargli onore. Arrivati a Signa, trovarono apparato di Guardia Civica e di Carabinieri commessi a non permettergli il passo per Firenze: andasse a Pistoia, quinci a Bologna. Con la milizia venivano ancora contadini armati. Non sembra che succedessero accoglienze oneste nè liete, conciossiachè vi fossero ingiurie e percosse ricambiate; si disse ancora di una bandiera tricolore arsa; degli accompagnatori, dieci andarono a Firenze, due proseguirono il viaggio per a Bologna col Frate. Il Popolo per queste notizie montò su le furie, ruppe il telegrafo, corse ad armarsi; il Governatore L. Guinigi relegò in Fortezza Nuova, i Dispacci governativi sorprese. Artatamente o a caso, si sparse rumore una mano di soldati muovere contro Livorno; a crescere il tumulto, le sentinelle avanzate scaricano gli schioppi; allora presero a suonare le campane a stormo, il Popolo corse ad armarsi, la Civica occupò le porte; gli Artiglieri disposero in battaglia tre pezzi di artiglieria; ma il Governatore mandava ordine nessun corpo armato s'inoltrasse contro la città, la bandiera supposta arsa tornava sventolante a Livorno, deputati spediti al Principe ne riportavano parole benigne: «Rincrescergli si dubitasse della sua fede e del suo affetto verso Livorno, del quale aveva dato sempre prove non dubbie; non avere mai avuto pensiero di mandare forze contro la città.» Pegni certi di restaurata pace erano quelli: se non che quando ormai pareva sicura, come il destino volle, ecco prorompere più tremendo motivo di guerra. Cadde in alcuni il pensiero malaugurato di dispensare fucili alla Guardia Civica attiva in Porta Murata; il Popolo minuto, che avea sempre sopportato a malincuore trovarsi escluso dalla Guardia, accorre e pretende le armi pur egli. — Una sezione di Civici muove a comporre il subuglio, e vi riusciva, quando il comandante della sezione ordinava facessero fuoco; lo fecero, e tre rimasero morti, quattro feriti, di cui uno dopo poche ore spirava. Il Popolo adesso inferocisce a mille doppii più terribile di prima; i Civici tutti correvano pericolo presentissimo di vita, se molti di loro non si nascondevano, e se l'esortazioni di sacerdoti e di spettabili cittadini non avessero placato gl'incrudeliti animi, persuadendoli a deporre ogni proponimento di privata vendetta, e aspettare il fine del processo, che ormai s'iniziava contro i colpevoli di cotesta immanità. Fu in quella occasione, che me, assente e inconsapevole, posero a formare parte di una Commissione intenta a mansuefare il Popolo e a condurlo a miti consigli,[71] e furono anche spediti uomini a posta in Firenze per far prova di menarmi a Livorno; alla quale istanza io mi ricusai, sì perchè temei la calunnia di provocare coteste turbolenze a danno del Governo, sì perchè seppi formare parte della Commissione uomini i quali io reputava largamente bastevoli di provvedere al bene della patria comune.[72] Mentre però ricusava andare, confidando nell'antica amicizia del Presidente Capponi, seco lui mi restringeva, scongiurandolo a palesarmi quali deliberazioni intendesse prendere riguardo alla mia patria; ed egli dicevami, avrebbe mandato Leone Cipriani Commissario straordinario; alla quale notizia io mi turbai e risposi: Leone Cipriani essermi amicissimo, conoscerlo uomo risoluto, capace d'immaginare od eseguire forti proponimenti, ma appunto per queste sue ottime qualità disacconcio alle parti di conciliatore. Leone Cipriani non dissimula nè sopporta uno insulto, e siccome prevedo probabilissimo che qualche oltraggio gli facciano, così riesce agevole del pari il presagio, che simile negozio non possa sortire lieto fine. — Queste cose ho voluto dire, perchè so che a Leone Cipriani furono riportate diversamente; dal 1848 in poi noi non ci siamo più visti: egli andando in California, io rimanendo prigione, forse in questo mondo noi non ci rivedremo: ma desidero che di me conservi quel buon concetto, che io (tranne la sua infelice commissione livornese) serberò, vada certo, finchè io viva, di lui. — Altre pratiche feci presso il Presidente Capponi e i suoi Colleghi per impedire la sciagura imminente; sopraggiunse S. A., ed io mi allontanai con la promessa, che se taluna delle mie proposte avessero accettato, me ne avrebbero porto avviso prima del mezzogiorno a casa. — Venne mezzogiorno; aspettai fino al tocco; allora uscii disperato di ogni buono esito delle mie premure. Incontrando il signor avvocato Menichelli, mi domandava perchè non assistessi alla Tornata straordinaria del Consiglio Generale tenuta in cotesta mattina per discutere intorno ai poteri eccezionali da conferirsi al Ministero per ridurre a partito la città di Livorno: accorsi sollecito alle Camere, ma trovai discussi e votati due Articoli della Legge del 27 agosto 1848; allora discutevasi il terzo, e se non erro, orava il Trinci.[73] Mi ritirai col cuore chiuso da funesti presentimenti. Mi sia permesso trapassare correndo sopra i casi del 2 settembre. Sangue fraterno versavasi e da mani fraterne! Dopo la scellerata battaglia, ecco come rimaneva una città floridissima, emporio unico del commercio toscano: Autorità fuggite, uffizii vuoti, Municipio disperso, cittadini trepidanti, milizie incerte del proprio destino, Fortezze rese, avventurieri audacissimi a capo del Popolo; plebe insanguinata, e orribilmente sospinta agli estremi delitti. Orribili detti si udivano, ma peggiori fatti si temevano; da per tutto affanno e paura; gl'incendii, le rapine e le stragi immaginate nel gennaio, adesso paventavano davvero. In tanto stremo, la Camera di Commercio mandava J. Moore, O. Lloyd, P. Pate e G. Nesi, a scongiurare il Ministero inviasse a Livorno Don Neri Corsini e me, per impedire la rovina della città.[74] Il Ministero rispose acerbamente, non accogliendo la istanza. Allora si volsero a Don Neri Corsini. Io non ricordo bene se questo signore non reperissero, ossiovvero si recusasse; però se lo rinvennero, ed ei rifiutò, io non lo biasimo: disperata impresa era quella di andare a gettarsi nella fossa dei leoni, e per di più, col Governo non bene disposto.[75] Finalmente, smaniosi si fecero alla mia dimora, e grandi e reiterati furono gli scongiuri perchè non consentissi che la mia patria, il luogo della mia nascita, sobbissasse; la Provvidenza apprestarmi prodigiosa occasione di potere salvarla da quei danni medesimi, che indegnissimamente l'odio di parte mi aveva imputato; afferrassi la occasione, la benevolenza degli amici mi confermassi, quella degli avversarii conquistassi, benemeritassi della Patria e della Umanità. Cotesti scongiuri bastavano, anzi erano troppi, non però vincevano le difficoltà che andavo loro esponendo: — temere grandemente ch'essi esagerassero il mio credito sul Popolo di Livorno; ignota la plebe a me, io alla plebe, e, se ricordavano, averla io provata più di una volta contraria: non sapere come venire a capo di superare gli avventurieri armati, che soffiavano in cotesto incendio: pericoloso sempre darsi in balía del Popolo commosso, insania adesso, ch'era montato in delirio. Dall'altra parte, non isperimentare il Governo benevolo, e la opera mia non pure egli non seconderebbe, ma l'avrebbe forse aborrita. — In questa condizione di cose prevedere la perdita della fama certa; forse della vita, e benefizio nessuno per la patria. — Ma per queste ragioni non si ristavano, e tanto meno consentivano lasciarmi andare, in quanto me tenevano suprema tavola nel naufragio, onde fervorosamente incalzavano: «non essere sagrifizio quello che calcola così sottile; vederlo pur troppo, covarmi riposto nell'anima il rancore contro la patria per la memoria dell'antica offesa; bene altro concetto avere essi formato di me; adesso a prova trovarmi non generoso, non magnanimo siccome mi avevano tenuto.» Non vi ha cosa al mondo che tanto mi ponga paura, quanto il sospetto che altri mi abbia a trovare inferiore alla estimazione che mi onora; non so se a caso o ad arte coteste parole adoperassero, ma certo elleno erano tali a cui non poteva e non potrò mai resistere io; però, tronco a mezzo ogni ragionamento, uscii in questo discorso, il quale sarà sempre, io non ne dubito, presente a quei Signori: — A Dio non piaccia, che io non abbia a meritarmi la vostra stima: verrò, come volete; e se mi accadrà sventura, farete testimonianza che non fui cieco nè imprudente, ma che prevedendola io mi vi sottoposi, perchè voi reputaste che per me si potesse avvantaggiare la patria. — E partimmo; fra Pisa e Livorno rovesciò la carrozza e andammo sottosopra dentro una fossa: quale più quale meno, rimanemmo ammaccati tutti. Mentre versavamo in cotesto pencolo io dissi: — questa è la prima, non la più grave delle disgrazie che mi attendono. — Venuti alla meglio in prossimità di Livorno, trovammo sentinelle avanzate che ne circondarono, e per un laberinto di barricate dopo lunga ora ci fecero pervenire nel centro della città. Sporsi il capo dallo sportello della carrozza, e vidi con apprensione non piccola, come moltissimi degli armati camminassero senza scarpe e in capelli; eravamo arrivati in fondo davvero! La mattina per tempo, consigliai uno dei due Priori rimasti a mandare inviti al Clero, ai Collegi Legale e Medico, alla Camera di Commercio, alla Guardia Civica, alla Milizia di linea, ai Possidenti e a parecchi del Popolo minuto, perchè intervenissero ad una adunanza nella sala terrena del Municipio; intanto io facevo opera perchè i buoni cittadini gli smarriti spiriti ricuperassero; mostrassero buon viso alla fortuna; si aiutassero insomma se volevano che Dio gli aiutasse;[76] pubblicai proclami, adoperando parole di lode verso il Principe per deliberato consiglio.[77] Io mi era accorto presto che la grandissima maggiorità del Paese, affezionata al Principe Costituzionale, da una parte deplorava la inettezza del Ministero che l'aveva condotta a questo estremo; dall'altra stava paurosa della plebe armata, indigente, infellonita, e dei capi che si era messi alla testa. Invero non era affare di lieve momento cotesto. Torres, che si chiamava Generale, uomo rotto ad imprese arditissime, il quale mescendosi fra il Popolo, fino dal 3 settembre si era fatto dichiarare Comandante della forza armata di Livorno, aveva costretto la Commissione di sicurezza a dimettersi; capitolò per la resa del Forte di Porta Murata;[78] seguíto da una turba di gente sinistra svillaneggiava, minacciava, incuteva terrore. A questa gente non tornava conto la pace; usa a pescare nel torbido, voleva permanente la tempesta e la provocava. — Due cose erano da farsi, e presto: dare animo alle menti sbigottite di manifestare voto solenne di volere stare congiunte alla famiglia toscana e rifuggire da ogni mutamento politico; togliere al Torres la male usurpata autorità: così veniva a spuntarsi la speranza alla turba del Torres di sopraffare la maggioranza dei cittadini con violenti partiti. Aperta la seduta, io incominciai, e lo ricordano tutti, proclamando essere intenzione universale, starci uniti alla Toscana e al Principe Costituzionale, imperciocchè volere diversamente sarebbe stato non pure empio, ma assurdo. Unanime consenso approvò la proposta, e i pochissimi che sentivano diversamente ebbero a tacere. Poi trapassando a discutere intorno alle cose necessarie per ricondurre stabilmente la pace nella città, furono con buone ragioni respinte le intemperanti richieste e ridotte a queste quattro: 1º Oblio per tutti, e di tutto. 2º Cambiamento dello Stato-maggiore e dei primi Capitani della Civica. 3º Organizzazione e armamento della Riserva. 4º Revoca dei poteri eccezionali. E finalmente fu deliberato una Deputazione di 20 Cittadini si recasse a Firenze a esporre le domande dei Livornesi al Ministero; un'altra di 12 governasse provvisoriamente la città: il comando della forza armata si confidasse all'ufficiale Ghilardi giunto in Livorno in quella stessa mattina.

Prima di proseguire nella narrativa, giovi trattenermi un momento su quelle operazioni. I due fini erano conseguíti; impedire sommosse repubblicane e violenze, remuovere il comando delle armi dal Torres. — E qui importa sapere, che il Ghilardi, come soldato agli stipendii toscani, e spedito dal Ministero Ridolfi con una colonna dei nostri alla guerra lombarda, inspirava fiducia. Le domande dei Livornesi non parevano esorbitanti, considerati i tempi, e paragonate con quelle di cui si fecero portatori nei giorni decorsi, in meno difficili congiunture, il Deputato Malenchini e il Prete Zacchi, e che pure il Ministero aveva promesso esaudire.[79] L'organizzazione e l'armamento della Riserva fu concertato per questo motivo: impossibile appariva levare le armi al Popolo; tanto era strappare i denti al leone! E le armi indisciplinate atterrivano; col partito proposto incominciava ad operarsi lo scevramento fra Popolo e plebe, piaga vergognosa di ordinata città; e amicato il primo, poteva ricorrersi alla forza per disarmare la seconda; le armi composte in mano al Popolo cessavano apparire pericolose; nei regolamenti erami avviso determinare per pena ai falli di disciplina la perdita temporaria o perpetua delle armi; pel quale ordinamento ne veniva di due cose l'una: o il Popolo si disciplinava, e meglio che mai; o non si disciplinava, e perdeva le armi. Nè mi sembrava impossibile riuscire a questo, perchè costringere la universalità a rispettare il comando, massime in tempi torbidi, è arduo, ma agire partitamente sopra i singoli diventa agevole. L'Atto di Accusa, nel § VI, riporta certe espressioni di un Manifesto che nel 25 settembre m'indirizzarono i cittadini: «È incontrastabile, che voi avete diritto alla riconoscenza dei Livornesi, ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento; compite dunque l'opera, e fate deporre le armi.» Ahimè! In mano dell'Accusa le fronde di alloro diventano cipresso; non dubitate, no, che cotesto elogio ella saprà bene convertire in ronciglio, e ne trarrà la benevola conseguenza, che a senso dei miei stessi concittadini potendo io dirigere a mia posta ogni moto del Popolo, segno è certo che tutto quanto successe di reprensibile fu da me provocato, o da me non impedito; e stringendo in brevi termini, fui complice o impotente, però adesso non per peccato originale, ma per volontà![80] — O miei concittadini, il fato vuole che voi mi abbiate a nuocere e quando mi lodate e quando mi redarguite! E sì che l'Accusa doveva sapere che lo elogio non corrisponde quasi mai alla vera verità; che difficile è sempre potere ciò che si vuole, e che la fortuna del favore popolare

è color d'erba,

Che viene e va, e quei la discolora

Per cui ell'esce della terra acerba.

Ad ogni modo, in quanto alle armi, io aveva provvisto prudentemente e con partito possibile; se questo non avvenne, l'Accusa ne incolpi il Ministero, che ad ogni punto che io cuciva per rammendare i suoi strappi, mi cresceva la mercede di avversione. Necessaria mi pareva la rassegna dei poteri eccezionali, perchè essendo stati provati e riusciti male, ormai bisognava ricorrere alle provvisioni conciliatorie; e così essendo, a che convocare Popoli di Toscana a Pisa come i Sette incontro a Tebe? Perchè, desiderando che il tumulto cessasse, le cause del tumulto mantenevansi? Era, non dirò savio, ma cristiano, educare figli della famiglia medesima ad odiarsi fra loro? Lo so che fu detto, tale non essere il fine dell'adunata, e voglio crederlo: ma intanto appariva così, e le apparenze bastavano perchè effetti pessimi partorissero. — Ora proseguo la storia.

Difficile cosa era che i partiti deliberati non si disfacessero per opera degli agitatori; e la fortuna ne porse loro terribile occasione. Ad un tratto corre voce di agguati tesi ai cittadini per le campagne adiacenti, di vie solcate di polvere, di mine, di feriti, di morti. Ribollono le ire, i persuasi rompono i patti, gli agitatori si scatenano. Accorsi su la ringhiera del Palazzo Municipale, e vidi un mare di capi in tempesta, e la mia voce appunto si udiva come se io l'avessi alzata su la costiera quando vi si rompono i frangenti. Alle ore cinque circa, alcuni barrocci sboccando dalla Via Ferdinanda lenti lenti, traversano diagonalmente la Piazza di Arme piegando all'ospedale; le ruote segnavano traccia sanguinosa sopra il terreno.... portavano undici feriti nella esplosione delle polveri al Calambrone.[81] — Sorse un grido immenso: tradimento! tradimento! E gli agitatori prevalendosi del caso, con feroce consiglio, aggiungevano: anch'egli è traditore.... e mi segnavano a dito, e qui vidi numero grande di archibugi prendere la mira alla ringhiera dove io mi stava in compagnia di Ufficiali e cittadini: chiusi gli occhi, feci delle braccia croce raccomandandomi a Dio. Poco dopo mi avventurai a riguardare, e conobbi come i migliori cittadini con mani e con bastoni stornassero i fucili gridando: non fate.... non fate! — Accanto a me notai un solo Ufficiale rimasto, il maggiore Ghilardi, pallido in faccia; come io mi apparissi non so: veramente fu un tristo quarto d'ora cotesto. Tememmo in quel tempo che gente nemica questi successi apparecchiasse, onde il Popolo rompendo le deliberazioni prese, ella potesse del continuato tumulto raccogliere il mal frutto;[82] forse non era vero, e si ha a credere piuttosto che si prevalesse della occasione. Immensi sforzi usarono i buoni cittadini a placare il nuovo furore: ad ogni patto intendevano le genti prorompere fuori delle porte, e portarsi al Calambrone; si acquietavano appena su la promessa del Maggiore Ghilardi gli avrebbe egli medesimo condotti all'alba del giorno venturo. La mia opera diventava più ardua assai; tuttavolta esposi con le parole che seppi più acconce, le deliberazioni fermate la mattina, e scongiurai il Popolo ad accettarle; ma le migliaia della gente raccolta tentennavano; di tratto in tratto scoppiavano urli di rabbia: allora infervorandomi nel dire, mostrai la empietà della separazione di Livorno dalla Toscana, ricordai la fiorentina origine del Popolo livornese, il mutuo affetto di Firenze con Livorno, il motto fides dato per impresa dalla Signoria fiorentina alla mia patria in mercede della costanza e della fedeltà sue; separai la causa del Principe umanissimo da quella del Ministero; invocai la religione e lo esempio di Cristo per perdonare, e comporsi in fratellevole concordia col Governo e con la rimanente Toscana; conclusi dicendo: «porteremo le proposte vostre al Governo; dov'ei le rigettasse ritorneremo fra voi, e voi farete quello che la vostra coscienza v'ispirerà.»[83] Le mie parole toccarono il cuore degli adunati, e dichiararono contentarsene; di più promisero, sotto parola di onore della città, fino al nostro ritorno avrebbero obbedito alla Commissione governativa, posando da qualunque tumulto. Però cotesta vittoria non mi assicurava; io aveva notato fremere parecchia gente, e temeva non prorompesse; gran parte della notte spesi a blandire cuori esacerbati, a raumiliarli con parole affettuose; alla fine, estenuato, mi ridussi a casa per riposarmi qualche ora. La partenza della Commissione era appuntata alle 4 del mattino.

Appena posato il capo sul guanciale, domandano alcuni Ufficiali, a grande istanza, favellarmi: introdotti nella mia stanza da letto, conosco il Colonnello Costa Reghini, in compagnia di due Tenenti. Il Colonnello, commosso, mi diceva: «per le passate vicende, e per quelle che prevedeva imminenti, dubitare della sua vita: avere contemplata sul campo di battaglia la morte e non averla temuta, nè temerla adesso; solo stringergli il cuore un'angoscia insopportabile pei figli suoi, che paventava vittime, e soprattutto per la madre loro che giacente inferma non si dava pace, e travagliata da convulsioni lo scongiurava a sottrarre i cari capi alle furie del Popolo; invitarmi pertanto in nome della umanità a dargli un foglio di lascia passare alle porte, che certo lo avrebbero rispettato.» Inoltre aggiungeva: «Io vi propongo di mandare con essi loro uno di questi Ufficiali travestito, con lettere pel Generale Ferrari, ammonendolo, che non inoltri milizie verso Livorno, per ovviare qualunque scontro che sarebbe fatale.» Io rispondeva dichiarandomi pronto a sollevare le sue paterne ansietà, e quelle della povera madre; lodai la proposta delle lettere al Generale Ferrari; ma gli faceva osservare che la mia autorità non era tanta quanta egli immaginava; pendere attaccata ad un capello, e averlo veduto poche ore prima; per paura di un male rimoto e incerto ci guardassimo da incappare in male prossimo e sicuro. Intanto, chi dice a lui che sarà conosciuta la mia firma? Ed ancorchè la conoscano, se ravvisano i suoi figliuoli, se il generoso Ufficiale,[84] se frugandolo gli trovassero la lettera addosso, chi sa che cosa mai fantasticherebbero quei cervelli sospettosi? Se mai venissero a dubitare di tradimento.... guai a tutti noi! In mezzo a così fiera concitazione non bastarmi la mente, su quel subito, a considerare qual fosse il partito migliore; mi lasciassero un'ora tranquillo; più riposato, in breve, avrei pensato a dargli risposta. — Il Colonnello profferiva ritirarsi ad aspettare nelle prossime stanze; ma io, per fortuna, insisteva perchè partisse di casa, non mi parendo essere libero col pensiero se qualcheduno aspettava. Dieci minuti dopo la sua partenza, le porte risuonano di colpi: aperte dal servo, invade le stanze una torma di gente invelenita, e circondatomi il letto, me chiama a morte come traditore, con baionette spianate e sciabole brandite. Balzai a sedere sul letto, e domandai risoluto chi fossero — e che volessero. Nega, gridavano, che sono venuti qui poco anzi Ufficiali di linea; che cosa ci sono venuti a fare? — Voi lo sapete. — No, non lo sappiamo. — Come no? Voi lo dovete sapere, perchè dite che io sono traditore; e se temevate che fossi tale, perchè mi avete mandato a chiamare? Voi siete peggio del vento; ora vi fidate troppo, ed ora diffidate di tutto. Volete sapere che cosa sono venuti a fare cotesti Ufficiali da me? Ve lo dirò, ascoltatemi. — E qui a parte a parte narrava loro il colloquio tenuto col Colonnello Reghini.[85] — Si ritirarono confusi domandando perdono. — Da questo apprenda l'Accusa quanto sia facile il Popolo a sospettare, e come vigili inquieto anche coloro nei quali sembra riporre sconfinata fiducia.

Giunse la Deputazione a Firenze, e tenne due consulte col Ministero. Fino dal principio insorse ostacolo impreveduto, e mi sia lecito aggiungere strano, per la parte del Governo: pareva a lui indecoroso inviare le Autorità in paese sconvolto; a me all'opposto pareva, lasciamo da parte il decoro, dovere del Governo cogliere ogni occasione per impedire che il disordine aumentasse, e una floridissima città si perdesse; nè sapevo comprendere come l'ordine in paese abbandonato a sè medesimo potesse ristabilirsi. Da questo fatto erano da aspettarsi due conseguenze: o la confusione aumentava, e troppo biasimo ne veniva al Governo non avendola, come poteva, impedita con mandarvi Autorità acconcie all'uopo; o si riordinava mercè Collegio o persona extra-legale con provvedimenti di compenso, e si correva rischio che il fatto riuscisse difficile, e forse impossibile a disfarsi. Per quanto i Deputati si affaticassero a chiarire cotesto errore manifesto, non ne vennero a capo; il Ministero proponeva reggesse il Municipio, ma i due Priori municipali osservarono essere il Municipio disperso, non trovarsi in numero da deliberare secondo i regolamenti, nè sentirsi capaci da tanto. Allora il Ministero propose ne assumesse lo incarico la Camera di Commercio! ma i Deputati della Camera dimostrarono non avere attitudine, nè autorità per farlo. Dopo molti dibattiti, nei quali alternativamente fu offerto lo incarico di eleggere una Commissione governativa al Municipio, e alla Camera di Commercio, venne alla perfine stabilito che si cercasse raccogliere il Municipio onde eleggesse una Commissione per governare in assenza delle Autorità; e la sera del 6 settembre 1848 rimasero approvate le seguenti Convenzioni fra il Ministero e i 20 Deputati livornesi:

1º Oblio di tutto a tutti, militari, forestieri e cittadini.

2º Il Municipio elegga la Commissione la quale governi nell'assenza delle ordinarie Autorità, allo scopo di ricondurre la quiete, e riorganizzare la Civica provvisoria, che rimane sciolta per Decreto del Principe.

3º Sta bene, che, rientrato l'ordine, la Costituzione riprenda il suo vigore normale.[86]

Il Ministero inoltre invitava i Deputati a condursi nella notte alla Stazione della strada ferrata, dove avrebbero trovato i Dispacci convenuti, e treno speciale per tornare a Livorno; e così fu. Aperto il Dispaccio, non mi parve corrispondere con le cose stabilite, imperciocchè mi sembra che vi fosse scritto, governerebbe il Municipio autorizzato ad aggiungersi quel numero di cittadini che meglio credesse; ma i Deputati mi osservarono, che non faceva differenza. Il 7 settembre era dato ragguaglio del trattato a cinque e più mila persone, stipate sotto la ringhiera del Palazzo Municipale; la Commissione governativa era acclamata dal Popolo, a patto che la sanzionasse il Municipio, nelle persone del conte Larderel, del popolano Petracchi, e di me; ma in mezzo alle acclamazioni, sorgeva mal represso il grido di vendetta, che chiamava a morte Cipriani e Cappellini, ed io rispondeva: — vendetta essere urlo da lupi, giustizia da uomini. — E instando quella parte cui doleva la pace a gridare vendetta, replicava: — «Le famiglie degli uccisi intenteranno processo, e avranno restauro a norma delle leggi.» Non per questo la turba lasciava presa, e accennava più specialmente al Cappellini, di cui sono prossime le case alla Piazza, pruno quasi posto su gli occhi per sospingere il Popolo agli eccessi. Allora gittava questa parola audace per riabilitare il Cappellini, e confortare la milizia: «Egli è soldato, ed adempiendo gli ordini ha fatto il suo dovere.» Ma questo era troppo, e di fatti la gente incominciò a fremere, onde riputai convenevole aggiungere: — «Ebbene, se anch'egli è colpevole i Tribunali provvederanno.»[87]

Prima però che per me si esponga quello che in Livorno operai, mi giovi rammentare le difficoltà che mi circondavano. Le più gravi mi vennero dalla parte del Governo. Geloso egli che esercitassi autorità a pro del Principato Costituzionale, incomincia a bisticciare intorno alla origine e allo esercizio di cotesta autorità; nè solo rimansi a bisticciare, ma con isfrontatezza di cui le pagine più ignobili della storia parlamentaria non somministrano esempio alla ricisa le cose pattuite negò. Cotesta curiosa Accusa, che volle ficcare le mani dove non importava, e dove importava non le ha ficcate, fra le mie carte trovò l'originale della Dichiarazione emessa nel 19 settembre 1848 da ben quattordici testimoni presenti alle convenzioni, e poichè essa la stampò a pag. 52 dei suoi Documenti, anche io la stampo.

Nota di Convenzioni approvate tra il Ministero e la Deputazione Livornese.

«1. — Oblio di tutto a tutti, militari, forestieri e cittadini.

«2. — Il Municipio elegga la Commissione la quale governi nell'assenza delle ordinarie autorità allo scopo di ricondurre la quiete, e riorganizzare la Civica provvisoria, che rimane sciolta per Decreto del Principe. — La Civica riorganizzata sarà sottoposta alla sanzione del Principe.

«3. — Sta bene che rientrato l'ordine la Costituzione riprenderà il suo vigore normale.

«Noi sottoscritti Deputati della città di Livorno dichiariamo come quanto sta scritto di sopra è l'appunto di quello che rimase stabilito tra noi e il Ministero Toscano la sera del 6 settembre 1848, e si trova registrato in un foglio preso sopra la tavola del Ministero che porta in margine la intitolazione: R. Segreteria di Finanze. Il Signor Ministro Marzucchi ne fece copia di sua mano. La facoltà di eleggere la Commissione Governativa voleva dal Ministero darsi alla Camera di Commercio di Livorno, ma dietro le osservazioni del signor Benedetto Errera venne trasferita nel Municipio, e fummo licenziati con promessa che avremmo trovato il Dispaccio analogo allo appuntamento preso alla Stazione della Strada Ferrata; — ove veramente trovammo un Dispaccio chiuso diretto al Municipio di Livorno.

«Questa è la verità, null'altro che la verità.

« Livorno, 19 settembre 1848.

«Primicerio Can. Angiolo Del Sere, Sacerdote.

«Dott. Raffaello Marubini Varnacci, Presidente della Camera di Disciplina.

«Dott. Guglielmo Pensa, — Dott. G. Gavazzeni, Medici.

«Antonio Venzi, — Andrea Sgarallino, Ufficiali della Guardia Civica.

«Benedetto Errera. — Francesco Contessini, Negozianti.

«Gaetano Terrieri, — Cesare Castelli, Del Municipio.

«Felice Cordiviola, — Luigi Secchi, — Lorenzo Bargellini, — Filippo Salucci, — F. D. Guerrazzi, Cittadini

Secondo le leggi, e la pellegrina sapienza del Ministero, non doveva reggere il Municipio mercè la Commissione, ma egli stesso in suo nome; come se il Municipio, che il Ministero consentiva, fosse Autorità più costituzionale della Commissione eletta dal Municipio; come se il Ministero costituzionale potesse di proprio arbitrio, secondo ch'ei proponeva, conferire potestà governativa ad una Camera di Commercio; e finalmente, come se quando ti brucia la casa, sia tempo di tribolare chi ti porta acqua da spegnere. — Il Ministero, stretto alla Camera dei Senatori, negò la convenzione sopra trascritta, e non usò rettitudine; e tanto peggio fece, in quanto che anche l'unico Documento da lui approvato non gli giovava; imperciocchè sia vero che, rovesciate le Autorità costituite, il Municipio abbia a provvedere alla comune salvezza; ma non vero che il Ministero costituzionale, rifiutando i Magistrati alla città che li chiede, autorizzi, anzi costringa il Municipio a governare. Il Ministero poteva addurre la legge della necessità, e questa giustificava il governo tanto del Municipio quanto della Commissione eletta da lui, o non giustificava nessuno. Inoltre, il silenzio ostinato mantenuto alle mie domande, nè punto meglio instruito o consigliato il Municipio; rade anche a questo le lettere, e sempre imbarazzanti; sicchè riusciva difficile a indovinare se il riordinamento della città piacesse al Ministero o piuttosto lo turbasse. Volle la Commissione governativa abolita, e il Municipio la soppresse.[88] Il Municipio mi eleggeva Priore, aggiungendomi al Collegio; il Ministero ordinò che mi cassassero, ed io non fui neanche Priore![89] E' pare proprio che io sia destinato a non essere nulla, nè Accademico nè Priore. Allora a scanso di disgusti mossi istanza al Municipio, che con sua Deliberazione determinasse i limiti entro i quali avrei dovuto esercitare la mia autorità; ma nè anche questa fu dal geloso Ministero rispettata.[90] — L'adunata dei Civici a Pisa, la quale ormai sembrava non avere altro scopo che quello d'irritare gli animi, non volle omettere. La nuova organizzazione della Civica contrariò, comecchè instituita provvisoriamente, e da sottoporsi sempre alla sanzione del Principe.[91] La strada ferrata tardi ristabilita.[92] Gli ufficiali di Polizia, anche subalterni, negati. Con le Dogane ed altre amministrazioni, corrispondenza continua; e s'impennava perfino se dallo Uffizio della Sanità richiedevamo notizie intorno alla salute pubblica, per assicurare gli animi dei cittadini. Nel maggiore uopo nessuna somma stanziata per le spese; dalla Camera di Commercio ebbi da principio lire settemila, che portai al Municipio.[93] Io, che pure attendevo alla polizia della città, non disposi neppure di un danaro. Commissioni per provvedere all'annona, ai lavori, alla sicurezza pubblica, alle armi, soppresse. — Che più? Continue l'angustie e le sofisticherie per la Guardia Municipale, che pure era stata approvata. Le stesse provvidenze di Polizia sotto pretesto d'illegalità riprendevansi, e per ismania di biasimare il Ministro o non curava o dissimulava sapere le leggi.[94] Le leggi tacevano; dei Magistrati la più parte lontani; alcuni però, aborrito cotesto esempio, magnanimamente al posto loro; fra i quali a causa di onore ricordo Francesco Billi presidente del Tribunale di Prima Istanza. Popolo vivente alla giornata, povero e instigato a guardare con cupidi occhi la roba altrui. Eccitamenti alla repubblica dentro e fuori, che le notizie delle rivoluzioni ora di Ungheria, ora di Vienna, ora di altri paesi germanici, una dietro l'altra si succedevano come colpi di ariete ad atterrare un muro già crollato. La notizia di occupazione dei Piemontesi aspreggiava gli animi, dubbiosi più che mai, che le assicurazioni di pace fossero tranelli per coglierli alla sprovvista. Questi, ed altri molti, furono i travagli che mi circondavano, ai quali ripensando forza è che confessi, come senza lo aiuto di Dio non sarei potuto uscire a bene da cotesto inviluppo.

Intanto le barricate si disfacevano; ogni traccia di perturbamento remossa; Commissioni di lavori, di beneficenza, di annona, di armi, di sicurezza instituivansi; prestanti cittadini, messi da parte i proprii negozii, notte e giorno alacremente attendevano a prevenire delitti; preghiere pubbliche bandivansi; feste per distrarre il Popolo si provocavano, distribuzioni di 30,000 e di 50,000 libbre di pane al giorno sì facevano; i lavori interrotti proseguivansi, nuovi ordinavansi, si attendeva ad organizzare le Guardie Civica e Municipale; l'esplosione delle armi, i canti sediziosi, i giuochi perfino, peste della gioventù, si vietavano; i cittadini guardavano i cittadini, e (stupendo a dirsi) la delazione fin lì reputata infame, poichè spontanea adesso, e aperta, e in pro del bene comune, si faceva come pubblico ufficio; ai sospetti rinascenti io provvedeva accogliendoli tutti, e profferendomi così di notte come di giorno pronto a verificarli da me stesso: ora temevano di polveri e di armi alla bruna sottratte di Porta Murata per via marina; ora di assalti improvvisi; erano perfidi soffii su fuoco latente onde tornassero a divampare le fiamme. Di quieto in piccola compagnia andavo a perlustrare, e sempre tornavamo con la prova, che a fine iniquo abusavano della popolare credulità; liti domestiche componevamo, e negozii contenziosi e vecchie discordie; in un mese la città sciolta da ogni freno, o piuttosto da sè stessa frenata, contò cinque ferimenti e ventun furto, pel valore cumulato di lire 1112, numero di gran lunga inferiore a quello di ogni altro mese antecedente; le carceri rimasero parecchi giorni vuote.[95] La stampa, finchè io stetti a Livorno, reverente al Principe; in ogni occasione lodato e raccomandato allo amore del Popolo.[96] E dello stesso Presidente Capponi discorso con ossequio.[97] Città insomma non pure ordinata a riposato vivere civile, ma disposta a ricevere le Autorità governative, che richiedeva fiduciarie del Governo e di sè. — Lascio della stampa della Capitale a me avversa: se raggranellata una masnada di grassatori, avessi a capo di quella rotte le strade, io penso che non si sarebbe avvisata vituperarmi con obbrobrii sì spessi, nè sì abbominevoli. La opera mia era compita, nè il provvisorio poteva prolungarsi senza danno dello Stato, della città e mio; nel 28 settembre, piegando finalmente alle domande giustissime del Gonfaloniere, e per soddisfare le premure di alcuni cittadini livornesi,[98] il Governo mandava a Livorno il sig. cav. Ferdinando Tartini. Il Gonfaloniere e i Cittadini aggiunti al Municipio avevano fatto stampare un Manifesto, per disporre il Popolo a riceverlo gratamente, quando vennero avvertiti che il Manifesto sarebbe sfregiato; non essere persona di fiducia del Popolo il cav. Tartini. La repugnanza del Popolo persuase il Gonfaloniere e il primo Priore a muovere per Firenze onde trattenere il Governatore eletto; ma essendo occorsi in lui alla Stazione della strada ferrata di Livorno, gli esponevano che la sua presenza avrebbe cagionato tumulto. Mandarono per me, ed io, per verità, confermai lo esposto dai prelodati signori Gonfaloniere e Priore; ma aggiunsi cosa, che il sig. cav. Tartini dimenticò forse scrivendo il Rapporto dell'avvenimento, e fu, che io mi proffersi accompagnarlo, e difenderlo con la mia stessa persona.[99] Rinviati il Gonfaloniere e il primo Priore in città ad assicurarsi meglio dello spirito pubblico, rimasi col sig. cav. Tartini: dopo lunga ora tornarono il Gonfaloniere e il Priore, e nuovamente gli dichiararono inevitabile la sommossa, dov'egli si fosse inoltrato. — Per questo successo le cose si facevano più torbide che mai; le relazioni officiali con Firenze si dichiaravano interrotte. — In questa Giuseppe Montanelli tornava d'Inspruck: appena messo piede nel Parlamento, propose un ordine del giorno universalmente approvato, col quale si persuadeva al Governo di sopire i dissidii livornesi, restituendo le Autorità governative al travagliato paese; nel tempo stesso egli mi scriveva lettera con la quale confortavami a governare Livorno: di questo facessero istanza il Municipio e la Camera di Commercio; egli avrebbe appoggiato la domanda.[100] Il Municipio e la Camera partivano per Firenze, ma non ottenevano lo intento;[101] invece il Ministero proponeva loro Montanelli per Governatore; ed essi accettavanlo.[102] Allora egli scrivevami di nuovo adducendo le ragioni per le quali non aveva potuto ricusare.[103] Appena io ebbi udito questo, malgrado che il Municipio e la Camera di Commercio instassero fervorosamente a rimanermi, non lo aspettai; ma pubblicato un Manifesto,[104] col quale invitava i miei concittadini a ricevere con lieto animo il Governatore inviato dal Ministero Toscano, mi partiva, ritornando a Firenze, sazio dei passati travagli, senza disegno, come senza voglia di uscire più mai dai riposi della vita privata.

Io partiva, privo perfino del conforto di una parola amica per la parte del Governo; e sì che avevo corso pericoli presentissimi di vita, durato fatiche inestimabili, ricondotta alla devozione della Monarchia Costituzionale una città agitata da violenti passioni e istigazioni perverse, inferocita per fresca strage, commossa dallo sfracellarsi della massima parte degli Stati di Europa, flagellata da un lato dalle furie dell'anarchia, dall'altra tratta pei capelli dai partigiani della repubblica. Non importa; mi bastò allora, e mi basterà sempre la benevolenza degli amici, e la stima degli stessi emuli. — Sorga adesso pertanto la religione dei miei concittadini tutti, così amici come emuli, ed anche nemici, se io pur ne ho nella dolce terra che mi diè vita, e dica se composi o sconvolsi la patria mia, e mi salvi dalla disonesta persecuzione dell'Accusa!

Ma che dico io, sorga? Ella sorse, ed in cotesti tempi Municipio, Collegio dei Curiali e Camera di Commercio grazie amplissime mi profferivano; e privati cittadini, per farmi scolpire marmorea immagine in pubblica testimonianza di onore, si collettavano.[105] Non sembra ella strana cosa all'Accusa, che i livornesi uomini per siffatto modo gratificassero colui che ne turbava la quiete, ne ingiuriava i commerci, di scandali empiva la patria terra e di sangue? Qual consiglio, o qual coscienza persuade l'Accusa a desumere le sue infelici imputazioni dalle calunnie di sciagurati e dalle voci sparse da lingue appassionate e dolose? I cittadini miei, che convivendo meco, vigilandomi al fianco, le opere mie di ora in ora contemplavano e soccorrevano, non par egli al senno e anche al pudore dell'Accusa che dovessero, come testimoni più degni di fede, preferirsi a tutti altri? — E sì, e sì che anche l'Accusa, fra i suoi Documenti, raccolse una carta da lei intitolata: Indirizzo dei Livornesi a Guerrazzi, nella quale si leggono le seguenti parole:

«Signore. È incontrastabile che voi avete diritto alla riconoscenza di tutta Livorno; ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento. Compite dunque l'opera, e fate deporre le armi. Lo Stato nostro è unico, ed il Popolo armato vuol dire ribellione permanente; ciò non è naturale che deva durare, perchè il firmamento stesso, se non fosse ordinato, si disfarebbe. La parte essenziale della popolazione non rientra di certo fino al compimento di questo voto universale, ed è un voto di fiducia in voi, che tutti oggi ammiriamo ed amiamo, pregandovi caldamente ec. — Livorno. — Signor Avv. F. D. Guerrazzi aggiunto al Municipio di Livorno. — I Livornesi, che aveste amici sempre, e quei pure che lo sono, e lo saranno da ora in poi per sempre.»[106]

All'Accusa, e in altri parte l'ho avvertito, bastò il cuore per convertire questo voto, che forma una delle poche consolazioni dei miei non degni martirii, in offesa nemica, e disse: Vedete, per confessione dei vostri stessi concittadini, voi volgevate e rivolgevate a senno vostro Livorno; dunque tutto quanto successe e' fu per colpa vostra.... — Siffatti argomenti vincono qualunque pazienza, — il pensiero sbigottisce. — cascano le braccia....

E l'Accusa eziandio riporta la minuta di lettera da me indirizzata al Municipio, che bene a ragione io qualifico sfogo. Certo, quando basta la coscienza per insultare con turpe oltraggio un uomo come doppio di cuore a pravo intento, quando si nega pudore, probità, gentilezza, tutto infine si nega, e la mano non trema nel mettere me — a stregua di un vile paltoniere, che visse, se pure può dirsi visse, 51 anno addietro.... queste dimostrazioni di animo non solo non si credono, ma si scherniscono. Diversamente poi giudica la coscienza pubblica, ed a questa volgendomi domando se, perturbatore io dei moti di Livorno, avrei potuto, senza fasciarmi la sfrontata faccia di bronzo, scrivere e mandare le seguenti parole al Magistrato della mia città, compagno, testimone e aiutatore delle opere mie, per ridurla da tutto sconvolta per cittadina battaglia, in comportabile assetto!

«Signori ed amici onorandissimi,

«Voi sapete, che quattro volte chiamato dalla Commissione, dal Municipio e dalla Camera di Commercio, mi astenni dal venire in Livorno, parendomi che la città nostra contenesse copia di ottimi cittadini capaci di condurla traverso ogni più duro caso. Non potei resistere alla ultima, imperciocchè avrei dimostrato ostinazione somma e poco affetto a chi mi ama.

«Pertanto io venni e feci il mio dovere; null'altro più che il mio dovere. Esaminando lo stato della città, mi parve che la sua commozione derivasse da un subito esasperamento per ingiuria che il Popolo reputava aver patita. Mi persuasi di due cose importantissime: la prima che durava perenne l'amore per il Principe costituzionale; la seconda che di Comunismo e Socialismo il Popolo non sapeva nè anche il nome. Ciò posto, e l'evento dimostrò che non mi ingannai, mi parve facile ridurre Livorno in quiete, e Dio aiutando, e gli egregi cittadini suoi, vi fu ridotto.

«Ma Livorno non ha mestiero soltanto di quiete, ha ben bisogno di sollecito e vigoroso riordinamento. La prima cosa derivava da credito e da mutua benevolenza, e presto venne conseguita. La seconda poi ha da emanare dall'azione governativa energica, unisona, libera, secondo la gravità dei casi, in tutti i suoi moti.

«Mancava una guardia di Polizia, e fu creata.

«Mancavano Magistrati di sicurezza, e furono istituiti.

«Mancavano opere pei braccianti, e procurammo che una Commissione le apparecchiasse.

«Mancavano denari al Municipio, e pensammo a una Commissione che li provvedesse.

«Insomma, onde io non vi trattenga in troppo lunghe parole, fu provveduto a tutto, per quanto un volere fermo a procurare il pubblico bene può suggerire.

«Ma al Governo molte cose increbbero, e bisognò disfarle: così perdemmo il benefizio delle nuove istituzioni, e delle vecchie non ci potemmo valere, perchè guasti gli ordini, gli impiegati assenti, manchevoli i denari.

«Se il Governo aveva per iscopo renderci impotenti, egli lo ha conseguito; se intendeva che noi riordinassimo la città, non ha adoprato gli argomenti necessarii.

«Ora questo stato di cose non può durare, perchè il disordine diverrebbe malattia cronica, e la mia coscienza non mi permette autorizzare con la persona un sistema che reputo rovina dello Stato.

«Inoltre io comprendo essere inviso al Ministero, e non è possibile che procedano vigorosamente insieme uomini tra i quali il sospetto si e insinuato. Io da più parti ho notizia piena, che il Ministero mi reputa autore dei casi di Livorno: quanto sia giusta questa supposizione lascio considerarlo a Voi; ma nonostante egli nutre simile sentimento, e mi parrebbe vergogna scendere a giustificazioni.

«Aggiungete ancora che il mio congedo dalla Camera domani o domani l'altro spira. A me tarda andare alle Camere e render conto alla Nazione del mio operato. Vedremo se mi condannerà o mi approverà.

«Io però nè posso nè devo lasciarvi all'improvviso: sarebbe un tradire la benevolenza vostra, e la fiducia che avete in me riposta, ma lo faccio per avvertirvi che o V. S. poniate l'occhio in persona che possa surrogarmi nel posto che adesso occupo, o avvisiate il Governo che mandi l'Autorità con capacità e attribuzioni di governare. I tempi si apparecchiano neri, perchè io temo la minaccia del Cholera, la fame prossima che è qualche cosa peggio di minaccia, le finanze esauste, il malcontento dello imprestito coatto, le armi straniere, sieno pure piemontesi, introdotte in Toscana, e soprattutto temo ogni autorità caduta, ogni vincolo sciolto, perpetuato il disordine, e il tremendo ribollire dei bassi fondi della società.

«Io vorrei essere falso profeta, ma vi ripeto che dolorose vicende si accostano. Non che io mi reputi da tanto da riparare al flagello di Dio; ma richiesto da voi, mi era offerto a fare quanto è possibile all'uomo pel bene del proprio paese: lascio la ingiuria, lo insulto e lo avvilimento, — queste cose non mi toccano; — ma il sospetto in cui sono tenuto mi toglie adito a imprendere qualunque provvedimento.

«Considerate questa lettera come uno sfogo, perchè il mio cuore trabocca, e in ogni evento, per quel poco che valgo, tenetemi per amico, fratello, o quale altra cosa più caramente a Voi congiunta vi piaccia. Addio.»

E il Municipio nell'8 ottobre 1848 mi rispondeva:

«Comunità di Livorno.

« Dal Palazzo Pubblico, li 8 ottobre 1848.

«Illustrissimo Signore,

«La Civica Magistratura di Livorno riconoscente delle molte cose, che V. S. Ill. ha operato isolatamente, ed in unione della medesima per il riordinamento di questa Città, nella sua seduta del dì 6 corrente ha deliberato un Voto di ringraziamento, e mi ha conferito l'onorevole incarico di parteciparglielo, siccome faccio con il presente foglio, protestando i puri sentimenti di riconoscenza, non tanto per la detta efficace cooperazione, quanto per la saggia instituzione della Guardia Municipale, di cui la Città tutta è alla S. V. Illustrissima intieramente obbligata.

«Profitto di questa fortunata occasione per professarle la mia alta stima e rispetto, dichiarandomi

«Di V. S. Illustr.

«Dev. Servo « Avv. Luigi Fabbri Gonf

La città universa qualche giorno prima mi compartiva i lieti onori, che l'Accusa ha saputo tornare in tristi lutti.

«Al nostro concittadino F.-D. Guerrazzi, Deputato al Consiglio Generale Toscano.

«Concittadino!

«Vostra mercè Livorno, questa città, che è vivace per giovinezza di età, lo che è un pregio, non irrequieta, e turbulenta per effetto di malo costume, ha sostenuto dignitosamente durissime prove.

«Vostra mercè il Popolo illuminato sulla giustizia del chiedere, ha con inalterabile fermezza tranquillamente aspettato ciò ch'era giustizia concedergli.

«Vostra mercè infine, utili quanto opportune disposizioni governative hanno mantenuto fra noi come supremi e insperati vantaggi l'ordine interno, la sicurezza pubblica, la libertà delle industrie, la prosperità dei commerci.

«E tuttociò in un tempo in cui il Governo superiore, passionatamente reagendo, credeva che anarchici fossimo e ostinatamente e disordinatamente ribelli. Onde finiva coll'abbandonarci a noi stessi... Fatalissimo errore!!!

«Dopo aver compiuto l'altissimo ufficio, ecco che già tornaste là dove la vostra voce come rappresentante del Popolo è organo de' suoi diritti, è oracolo delle sue libertà. Tale modesto contegno, come vale meglio di ogni altro argomento a uccidere la calunnia o l'invidia, quando percuotervi osassero, svela sempre meglio la grandezza dell'animo vostro. Voi col fatto approvate quel detto di Catone, il più grande degli antichi Romani, quando condolendosi alcuno con esso lui perchè i suoi concittadini non gli avessero posto una statua nel Campidoglio, rispose: essere meglio meritare un onore che conseguirlo, meruisse satis.

«Ciò però non toglie a noi Livornesi un debito sacro, ch'è quello di offrirvi pubblico e solenne attestato di patria riconoscenza. Accoglietelo, illustre Concittadino, come parola di ringraziamento, come pegno di confidenza non peritura in noi per voi, come senso di sincera stima e perenne affezione.

« Livorno, 5 ottobre 1848.

« I Vostri Concittadini.»

Il Collegio amplissimo dei Negozianti livornesi, poco uso a lasciarsi andare dietro le immagini false delle cose; per indole e per costume studioso a ben calcolare i fatti e i detti; quasi per me vinta la natura, mi mandava splendida testimonianza di affetto:

«Cittadino Ministro.

«A Voi piacque mostrarvi grato insieme agli onorandissimi Colleghi vostri, verso i Negozianti di questa Piazza, per quanto essi hanno fatto a pro del Governo, e non fecero se non quello che era debito di ogni leale cittadino. A loro posta i Negozianti di Livorno vogliono mostrarsi grati verso di voi, e ben più a ragione.

«Il modo come già sapeste ricomporre l'ordine, e donare la tranquillità al nostro paese indispensabili pella prosperità del commercio e delle industrie, l'alacrità vostra istancabile, il senno col quale scioglieste animoso complicati problemi della Politica contemporanea, e finalmente il sagrifizio per cui non risparmiate veglie, patimenti, e disagi a pro nostro, vi hanno ormai collocato fra gli uomini i più benemeriti della Patria, e la riconoscenza delle popolazioni, poste sotto il vostro Governo, è divenuta per tutti un debito sacro. Noi sottoscritti ci affrettiamo a dimostrarvela intiera, e queste nostre espressioni saranno in ogni occorrenza confermate dai fatti, perchè convinti che Voi al Ministero formerete e consoliderete la felicità della Toscana Famiglia.» — ( Monitore Toscano del 15 dicembre.)

Nè, come per sè stesso poco è vago di parole il Commercio, così egli si era rimasto a dimostrarmi la sua benevolenza con vuoto suono di favella, chè mi aveva profferto largamente qualunque somma pei bisogni della patria avessi riputata necessaria; ed anzi, miracolo nuovo del secolo avaro, ricusavano ostinati lo interesse del sei per cento sul danaro, chiamandosi del solo quattro contentissimi.

«Carissimo Amico

«T'includo lettera Zocchi: prendi nota, e raccomandalo. La lettera sta per giustificazione.

«Il Commercio soddisfatto di noi mi fa sapere mediante alcuni miei amici che se vogliamo 50 o 60 mila lire ce le darà.

«Altra buona nuova: i sovventori delle 30 o 40 mila lire, ricusano il sei e vogliono il quattro. Coraggio dunque e avanti. Partecipa queste buone notizie alle E. LL.; io le farò mettere nel Giornale. Fa fare la deliberazione per emettere pagherò, e mandamene uno di lire 15 mila, sei mesi data, che ti porterò in giornata il danaro. Attivate lavori; la città sia in festa, e chi ci vuole male, male si abbia. Addio.

« 27 settembre 1848.

«Firmato: F. D. Guerrazzi.

«P. S. Firma e manda le accluse.

«All'Ill mo. sig. Avv. Luigi Fabbri Gonfaloniere di Livorno.»

E la Curia Livornese, che sempre mi tornerà nella mente grata ed onorata memoria, all'antico confratello si compiacque tributare alcuna parola di lode, che gli tempera di alcun poco il fiele di cui adesso lo abbevera l'Accusa.

«Cittadino Ministro,

«Interpreti dei sentimenti della Curia e della Camera di Disciplina di Livorno, noi vi rechiamo le congratulazioni loro per lo inalzamento vostro al Ministero. E l'una e l'altra, orgogliose di avervi avuto nel proprio seno, hanno sentito con gioia che il Principe ha reso giustizia ai vostri meriti e li ha ricompensati con la sua fiducia. In questo avvenimento, esse hanno considerato, non il vantaggio Vostro, non il lustro che proviene dalla carica, ma sì il vantaggio della Patria, il bisogno che ella ha di Voi e la gloria che saprete guadagnare in servirla. Epperò, come di un avvenimento felice, hanno creduto loro debito di rallegrarsene con Voi, come se ne erano prime rallegrate seco stesse.

«E certe che il mezzo onde più degnamente onorarvi e meglio incontrare il Vostro gradimento quello è di porgervi nuova occasione a ben meritare della Patria, esse hanno voluto che vi fosse fatto manifesto e subordinato e raccomandato un loro desiderio, sorto al seguito delle nobili parole proferite nella mattina del dì undici stante dal Regio Procuratore di Livorno, ed inspirato loro dall'amore ardentissimo che nutrono verso la terra natale e la scienza.»

L'Accusa (parmi sentirla) considerate tutte queste carte esclamerà: «Le sono giunterie di chi ha perfido il cuore per andare a' versi di chi tiene il timone dello Stato e buscarsi un po' di croce o una pensione...., o piuttosto schifezze di gente sprofondata nella sozzura della servitù.... non furono uditi gli schiavi salutare Claudio, quando andavano a sgozzarsi, per tenerlo un po' sollevato? — Ed anche, chi sa, che tutti i lodatori non fossero stati, di presente sieno, e saranno di generazione in generazione perfidi quanto il lodato!»

O dignitosa Accusa, sii, ti scongiuro, cortese a notare, come la ode e i danari i concittadini miei mi profferissero assai più mentre io stava lontano dal Ministero e dalle sue speranze, che dopo; nè l'abiezione è naturale peccato nella città che mi diè viti.

Motivi dello studio da me posto nello evitare il Montanelli erano due; il primo, per un tal quale risentimento che nutriva contro di lui, essendomisi scoperto anch'egli contrario nei casi del trascorso gennaio, sopportando che stampassero gravi cose a mio carico nel suo Giornale La Italia; il secondo, perchè ognuno portasse il merito delle opere sue, e quando mai egli fosse riuscito a male, non si dicesse, che per libidine del medesimo officio io lo avessi attraversato.

Venne il Governatore Montanelli, e il primo atto del suo maestrato fu proclamare solennemente la Costituente italiana. Lo incolpa l'Accusa avere tradito il mandato così operando. Io non devo assumere la difesa del signor Montanelli: pure, per un senso di convenienza e di giustizia, forza è che dichiari parermi questa imputazione assurda. Montanelli giungeva in Livorno il giorno 7 ottobre, e il giorno 8 manifestava al Pubblico il suo disegno; ora non è verosimile che col primo suo atto, poche ore dopo la sua elezione, volesse così apertamente contrariare il Ministero che lo aveva creato. Inoltre il Ministero non lo disapprovò mai ora nè poi; ancora egli rimase, come prima, amico del Capponi, e il Capponi di lui, e queste siffatte paionmi gherminelle da guastare ogni più salda amicizia. Finalmente nella seduta del Consiglio Generale del 31 gennaio 1849,[107] egli con risentite parole si esprimeva così: «Fu detto che io proclamando la Costituente a Livorno tradiva il mandato che mi era stato affidato dal Ministero. Quando le accuse cadono su persona privata io le disprezzo...; ma quando cadono su persona pubblica è dovere smentirle. Ora, Signori, io dirò, che prima di andare a Livorno manifestai qual era il mio programma. Il capo del Ministero, il venerabile Gino Capponi può rendere testimonianza di questa mia schiettezza. Io gli diceva come credessi la Costituente solo rimedio alla divisione degli animi, bandiera sola di nazionalità. Io diceva, che se fossi andato a Livorno ove mi richiamava l'acclamazione del Popolo, non avrei potuto non manifestare questo mio programma; ed il Presidente del Consiglio al quale faceva queste dichiarazioni, mi rispondeva: andassi, facessi quello che la coscienza m'inspirava. Qui sono persone che possono testimoniarlo. Così rispondo a queste indegne accuse che mi pesano sul cuore.»

A sostenere queste cose in modo siffatto, in occasione tanto solenne, quando non fossero vere, si vorrebbe avere faccia di granito nero; nè la impudentissima audacia gli avrebbe bastato, avvegnachè alle sue parole si trovassero presenti tre Ministri, i signori Mazzei, Samminiatelli e Marzucchi, i quali lo avrebbero certamente (se bugiardo) smentito; e supposto ancora ch'eglino avessero per peritanza su quel subito taciuto, soccorreva la stampa liberissima per protestare contro la calunnia.

Adesso poi protestare contro allo esule sarebbe non pur facile, ma meritorio; e nonostante si tacciono....

Finalmente l'Accusa, a pagina 899 dei Documenti, riporta questa risposta di Giuseppe Montanelli al signor Massari. «È menzogna che io, nominato Governatore a Livorno, ritorcessi il mandato contro chi me lo aveva dato. La mia condotta fu conforme alle spiegazioni avute col Ministero e col Granduca. Quando avrò fatto conoscere i precedenti di quella nomina, si vedrà la delicatezza estrema con la quale procedei prima di accettare quel difficile incarico, di cui previdi e dimostrai tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate.» Ma io che conosco a prova come le Accuse tutte in generale, e la mia in particolare, troppo meglio del popolo ebreo meritino il titolo di dura cervice, neanche a ciò mi rimango, e per chiarire l'Accusa che bisogna andare adagio ai ma' passi, le dirò, che io possiedo nelle mie mani, e gliela porrò negli atti del processo, proprio la minuta del Proclama del signor Montanelli ai Livornesi, letto ai signori Capponi, Giorgini e Samminiatelli prima ch'ei partisse per Livorno, emendato, a dettatura di uno di loro, nella frase: «Le condizioni che proponeste alla vostra riconciliazione col Potere;» cui con evidente convenienza surrogò quest'altra: «i desiderii che esponeste al Potere.» Donde, per conseguenza inesorata, deriva che tutte le altre espressioni di quel Programma, su le quali l'Accusa perfidia con malevola sofisticheria, come quello che furono lasciate stare, o non contengano tutta la nicotina che immagina, o, se venefiche sono, ne abbia a chiedere conto principalmente a coloro ai quali incombeva l'alto ufficio di sopprimerle, e non le soppressero. — Però io metto l'alternativa, così per guisa di discorso, che so troppo bene essere parole innocentissime coteste, e so eziandio, che, ora che io gliel'ho detto, l'Accusa anch'essa quasi le reputa tali.

A me rincresce supporre che il Ministero scegliesse piuttosto dannarsi col Montanelli che salvarsi con me:[108] almeno per quanto concerne Gino Capponi, che un giorno fu amico! Io credo che questo personaggio, speculatore arguto delle vicende politiche, e per genio studioso non solo delle passate storie, ma eziandio di quanto accade alla giornata, avesse considerato, come dal corso impetuoso che precipitava la più parte di Europa alle forme repubblicane, lo Stato nostro, per le sue condizioni altra volta discorse, sarebbesi trovato stravolto nel turbinío prodigioso a modo di una foglia secca; e però la Costituente montanelliana accettasse, come quella che gli dava comodo a soffermarsi sul pendío, e stare a vedere dove le mondiali sorti piegassero, onde preservare il paese da moti ciechi e irreparabili. Queste speculazioni poi o non sa fare l'Accusa, e dimostra la incapacità sua a giudicare dei negozii politici; o sapendole fare non le ha fatte, e dimostra la stemperatezza con la quale procede a immaginare colpe là dove i tempi grossi persuadevano provvedimenti straordinarii.

Comunque sia, io mi chiamo estraneo al bando della Costituente. Il Ministero Capponi si dimetteva, e doveva costituzionalmente dimettersi, perchè la sua Legge intorno alle adunanze politiche gli era stata mutata affatto dalla Commissione. Altre cause concorsero senza dubbio, come suole avvenire in qualsivoglia altra rassegna ministeriale, ma la causa parlamentaria fu quella. In Inghilterra, a modo di esempio, è regola di Parlamento, che il Ministero non si dimetta mai dall'ufficio apparentemente per motivi di politica esterna, e non pertanto questi motivi determinano spesso la sua renunzia. Allora si promuove qualche incidente di politica interna, e da quello si ricava argomento per rassegnare i portafogli. Questa pratica, c'insegnano i pubblicisti, è dovuta all'orgoglio inglese, che non consente confessare che le faccende altrui possano avere virtù di sconcertare le proprie. Narra l'Accusa, ed è vero, che in varie città della Toscana (essa rammenta Livorno, Arezzo e Lucca) avvennero manifestazioni, affinchè S. A., Montanelli e me chiamasse al Ministero. S. A. però, secondo che ne corse fama, commetteva lo incarico di comporre il Ministero al barone Bettino Ricasoli, il quale dopo varii tentativi rassegnò al Principe il mandato. Però ella è cosa sopra modo notabile, e dall'Accusa punto avvertita, come i Toscani prendessero a commuoversi fieramente allora soltanto che corse pubblica la fama avere S. A. incumbensato il Barone Bettino Ricasoli a comporre un Ministero. Ora predicava la gente, e voglio credere a torto, il Barone zelasse caldissimo per le parti di Carlo Alberto; nel quale concetto veniva per avventura confermata dal piemonteggiare, che pareva allora soverchio, del giornale La Patria, mantenuto a sue spese; e dalla presenza di 3, o 4000 (che io non bene ricordo il numero) soldati sardi in Toscana. Nel falso immaginare, il Popolo temeva che il Principe non desse dentro in qualche tranello, e il suo commuoversi non mirò già a comporgli un Ministero, sibbene a salvarlo da quello che reputava rovina. Di questo l'Accusa, se avesse voluto, poteva raccogliere copia di prove: a me non è lecito farlo: solo mi basti dimostrare che in Livorno il Popolo si acquietò, quando seppe non anche composto il Ministero: «Atteso una lettera che assicura non essere ancora composto il nuovo Ministero, e in seguito di un discorso analogo del Governatore, il Popolo ha riaperto le porte, e se ne andò nell'aspettativa che i suoi voti sieno adempiti.»[109]

Fallito il disegno del Ministero Ricasoli, si chiamava il Governatore di Livorno a Firenze. Il signor Montanelli, giunto alla Capitale, nè venne a cercarmi, nè si concertò meco, ed invano si sforzerebbe provarlo l'Accusa, e non lo tenta nemmeno. Una Deputazione della Guardia Civica si presentò al Principe per supplicarlo a incaricare il signor Montanelli per la formazione del Ministero. Grande fu la mia maraviglia quando leggeva il Dispaccio telegrafico del 22 ottobre 1848, del signor Montanelli, annunziatore della mia partecipazione al Ministero; e maggiore quando egli improvviso, per la prima volta dopo il suo ritorno da Inspruck, circondato da numerosa e onorevole comitiva, mi si presentava davanti per confermarmelo a voce.

Qui importa notare come l'Accusa ritenga con molta persistenza una cosa, quasi tornasse a sommo disdoro del signor Montanelli e mio, ed è: che quantunque egli assicurasse una Deputazione di cittadini di tenermi lontano dal Potere, — malgrado lo scherno prodigatomi con i suoi detti e nei suoi scritti, e il consigliato arresto per delitti a lui noti, egli mi proponesse al Principe per Ministro.

Lascio per ora della pretesa promessa di tenermi lontano dal Potere perchè a me ignota; dirò delle parole profferite dal signor Montanelli appena mi vide, e furono queste: «Confessare essere stato indotto in errore per le altrui calunnie sul conto mio; chiedermene scusa alla presenza di quei rispettabili cittadini; non egli avere dettato gli articoli a me ingiuriosi, pure meritare rimprovero per non averli reietti dal suo Giornale;[110] dovermi una splendida riparazione; averlo sentito nell'anima, e intendere farmela adesso con lo invitarmi ad essergli compagno nel Ministero.» Così mi favellava persona da me lungamente riverita ed amata; tornava dalla guerra italiana dove aveva sparso il suo sangue; era soffrente per la ricevuta ferita; una mano teneva fasciata al collo; sporgeva la sana in traccia della mia per pegno di pace.... Mi era parso fin qui che l'oblio delle ingiurie fosse insegnamento di Cristo; adesso al precetto di religione si aggiungeva carità di Patria.... io lo abbracciai con tenerezza, e lo baciai. Ora poi imparo dall'Accusa, che in questo modo procedendo Montanelli ed io, commettevamo infamie. — Anche questa mi toccava a sentire in Paese cristiano!

Le politiche emulazioni forte commovendo gli spiriti, avviene che questi nello ardore del contrasto sovente trascorrano fin dove non vorrebbero andare, e fu veduto una volta gli odii di parte perpetuarsi feroci. I Partiti, pur troppo, non serbano modo nelle accuse perchè contendono per avere ad ogni costo ragione, e questo so e provo. La parola scocca come saetta dalle labbra adoperate a modo di arco, e lo stesso furore agita tutte le guerre, sieno di armi, di scritti o di discorso; nè finchè bolle la zuffa, alla ragione delle offese si abbada; anzi più piacciono quanto meglio mortali, come quelle che affidano di sollecita vittoria. Nella Inghilterra, paese nella pratica della libertà antichissimo, i convizii parlamentari giungono a tale, che nessuno, per quanto si senta tremare ii cuore in corpo, può sopportare, ed io ne lessi di quelli avventati da O'Connell contro lord Brougham, che mi cacciavano i brividi addosso. Ora anche mettendo la religione a parte, che raccomanda il perdono della ingiuria, come debito principalissimo del Cristiano, la prudenza umana persuadeva, che là dove i motivi della ingiuria moltiplicavansi, quivi si apparecchiasse eziandio copia proporzionata di placamenti. Però in Inghilterra, quando due Deputati accesi d'ira si avvicendano ingiurie che a gentiluomo non è dato dissimulare, officiosi amici interponendosi operano in guisa, che comunque suoni la sconcia favella, purchè dichiarino, che non intesero denigrare la buona estimazione scambievole, ciò si ritiene per soddisfazione sufficiente ed onorata. Ora il sig. Montanelli mi profferiva scuse non già di avere scritto, ma di avere patito che altri stampasse nella Italia gli articoli che mi avevano offeso, e me ne domandava perdono. Doveva rifiutarglielo io? Pare che l'Accusa creda che abbia ad essere qualche grave scandalo conoscere il proprio torto, confessarlo ingenuo, con parole oneste raumiliare l'animo inacerbito, e dall'odio, che pesa così grave al cuore dell'uomo, ritornare benigni a quella pace per cui

. . . . . . . quaggiù si gode,

E la strada del ciel si trova aperta.

Intanto il Montanelli protesta: essere menzogna, che nel gennaio del 1848 contribuisse al mio arresto, ed afferma averne dissuaso il Ridolfi, predicendogli che da uno arresto fatto senza elementi di vera colpabilità ne sarebbe avvenuto quello che realmente avvenne.[111] So che Monsignore Buoninsegni assicura, il signor Montanelli avere parlato ben diverse parole in cotesta occasione; ma vorrà, in grazia, Monsignore Buoninsegni essermi cortese di non sapermi mal grado se io credo più che a lui al signor Montanelli quantunque Monsignore non sia? Rispetto poi al signor Massari ed alla sua trista opinione, io mi permetterò domandargli se si rammenta quando egli, e per sè e mandato dal sig. Gioberti, venne a invitarmi a casa per conferire col Filosofo italiano?[112] E se ricorda quando il Ministro Gioberti con lettera pressantissima m'invitava a consiglio diplomatico a Torino? Certo io non ebbi la fortuna di trovarmi d'accordo col suo Maestro; conosco l'attaccamento ch'egli ha per lui, e di questo lo lodo; so ancora come il signor Massari sia amico di coloro che non sono amici miei; ma tutto questo ed altro ancora, non mi pare che gli dia abilità a dire che il sig. Montanelli fece molto per la rovina d'Italia, quando mi scelse collega nel Ministero: io vorrei provargli per filo e per segno tutto il contrario: ma il sig. Massari, che imploro non meno cortese di Monsignor Buoninsegni, persuadendosi che il carcere ov'io giaccio, appena vivo, non è il luogo più acconcio per sostenere simile controversia, senta vergogna di avere provocato chi non gli può rispondere, senta vergogna di avere vergato sconsigliatamente carte che meritarono essere raccolte dall'Accusa a danno nostro; — nè peggiore pena, potendo, io vorrei dargli di questa.

Ma in quanto alla offerta del Montanelli per formar secolui parte del Ministero, mi schermiva adducendo di varia sorta ragioni, imperciocchè tanto più mi sembrasse dovermi ostinare nel rifiuto, in quanto che riputava il suo disegno esorbitante. Però egli e gli altri mi stavano attorno con preghiere, e con parole che stringono più veementi delle preghiere, intendo dire il dubbio della sincerità della riconciliazione, se a ricusargli il mio consenso persistessi: tuttavolta nemmeno per queste fervorose istanze accettai; mi riservai dare risposta dopo avere conferito col Principe, che mi fu detto aspettarmi.[113]

Infatti S. A. mi aspettava. Di questo colloquio basti adesso riferire, che innanzi tutto supplicai il Principe a dichiararmi s'egli intendeva eleggermi Ministro di sua piena ed assoluta volontà; alla quale richiesta sotto la sua fede mi assicurava eleggermi di sua piena e liberissima volontà alla carica di Ministro. In altra occasione, pregandolo io ad essermi più largo della sua fiducia, il Principe in suono di mite rimprovero: «E non le detti prova di fiducia, rispose, quando l'assunsi all'alto grado che occupa?» E penso non ingannarmi affermando, che S. A. mi dicesse eziandio il marchese Gino Capponi essere stato mio promotore presso di lui, e Lord Giorgio Hamilton avere proposto con istanza, che a me la presidenza del Consiglio affidasse, la quale cosa mi venne confermata più tardi dallo stesso onorevole Lord.

Ora come può sostenersi, non dico criminalmente ma onestamente, che io pervenissi al Potere con mezzi riprovevoli, e più ancora che il Principe mi eleggesse sforzato dal timore della guerra civile? L'Accusa dunque intende smentire la parola del Granduca? Chi di noi due è il temerario? Io, che su la fede data dal Principe mi appoggio, o l'Accusa che questa fede disprezza? — E poniamo pur vere le manifestazioni a mio favore di Livorno, di Arezzo e di Lucca; forse non accade sovente nei liberi paesi acclamare o disapprovare il Ministero, e tale chiedere che sia innalzato, e tale altro dimesso? Intanto si prova come le dimostrazioni livornesi, che per certo dovevano apprendersi come le più stringenti, fossero esposte al Principe dentro i limiti costituzionali di semplici espressioni di desiderio;[114] quelle poi di Lucca e di Arezzo tanto avevano virtù di muovere gli animi a Firenze, quanto la nebbia dell'anno passato: e stando all'Accusa, la Deputazione fiorentina non pure non instò per avermi Ministro, all'opposto pose quasi per patto al Montanelli, che da me più che da viperino sangue aborrisse. Dunque come io arrivassi con mezzi riprovevoli al Potere, se l'Accusa non ce lo spiega, riuscirà davvero malagevole intendere; — finalmente il Principe, anzichè patire violenza, avrebbe potuto e saputo allontanarsi[115].... Ma io mi vergogno andare in cerca di argomenti là dove la fede del Principe mi assicura. Anche una volta lo intenda l'Accusa, dalle labbra reali uscì la parola, che mi diceva eletto con grato e libero volere; questa parola rispetti. E se l'Accusa non mi fosse proceduta così acerbamente nemica, forse poteva conoscere, che se io alla fine accettai, e' fu per salvare chi incauto troppo si avventurava a perigliose fortune! — Altra parte importantissima del mio colloquio con S. A. riferirò più tardi.

Avendo acconsentito a formare parte del Ministero Montanelli, considerando la ragione dei tempi e gli umori dei Popoli, conobbi come noi fossimo eletti quasi argine estremo allo irrompente precipitare della Europa verso la Repubblica. Disposto a combattere pel Principato Costituzionale come quello che sapevo essere unico desiderio della massima parte del Popolo toscano, m'ingegnai formare un Ministero capace a sostenere la tempesta, raccogliendo gli uomini meglio cospicui del Partito Costituzionale. A questo scopo con buoni argomenti, che menerebbe troppo in lungo esporre, persuasi il Sig. Montanelli a offrire la presidenza del Consiglio al marchese Gino Capponi; nè la pratica si rimase sterile consiglio, chè egli andò a farne ufficio presso il Marchese; se non che riuscite vane le premure, Montanelli tornava riportando a me, e a parecchi onorevoli cittadini, che con non mediocre ansietà attendevamo: «con grato animo avere accolto il Sig. Capponi questa dimostrazione di stima per lui; doversi però astenere dallo accettare per cagione di salute; promettere ad ogni modo il suo appoggio al nuovo Ministero;» e questa promessa veramente mantenne.

Del marchese Ridolfi per essere assente, e per altri rispetti, non era a parlare. Il barone Ricasoli aveva poco anzi fallito nella composizione di un Ministero, nè ci procedeva favorevole; con tristo presagio mi convenne deporre il pensiero di guadagnarci persona la quale rappresentasse a un punto la nobiltà fiorentina e la parte più conservatrice della Camera. Tentammo il Professore Eliseo Regny per la Finanza, ma anch'egli allegando la incerta salute ricusava. D'Ayala, onoratissimo personaggio e di virtù antica, era ed è illustre in Italia per fama di dottrina, e per moderati consigli. Franchini, gentiluomo di buone lettere, zelante della patria, probo, e mite. Mazzoni, piuttosto rigido osservatore della onestà che ordinariamente onesto. Adami, dal braccio traboccante dell'Accusa fu misurato, e rinvenuto giusto di misura! E credo che cotesto egregio uomo, anche in questo momento,

Uscito fuor del pelago alla riva

Si volga all'acqua perigliosa, e guati.

Egli, compiacendo ai miei desiderii, sagrificava alla patria non poco, lasciando i negozii floridissimi della sua Banca, reputata meritamente sostegno del Commercio livornese. Ed ecco come fu composto il Ministero contro il quale la dignitosa Accusa e schietta avventa il torchio di cera gialla acceso in fuoco di maladizione gridando: anathema sit![116] Pertanto io penso potere con sicurezza concludere, che legittimamente ascesi al Potere al pari di ogni altro Ministro venuto al mondo con la grazia di Dio, essendovi stato chiamato in virtù dello esercizio liberissimo della prerogativa reale.[117]

X. Costituente.

Parliamo della Costituente. Innanzi tutto fa di mestieri sapere come nella prima conferenza che ebbi con S. A. io le domandassi quali dovevano essere le condizioni del Ministero. Il Granduca rispondeva interrogando: «E non gliele ha esposte il sig. Montanelli?» — «Sì certo, replicai, me le ha esposte; ma io desidero udirle confermare dalla bocca dell'A. V.» Allora il Granduca stesso, con le sue labbra, mi dichiarò, programma del nuovo Ministero sarebbe stata la Costituente del sig. Montanelli, — e questo mi disse senza ambagi, assoluto, non parlando punto di condizioni, o di riserve. — Rimasi percosso; e mi ricordo avere soggiunto: «Altezza, io soprattutto mi studio essere onesto.» E il Granduca: «Ed io pure sono tale.» — «Non vi ha dubbio, ripresi, e quindi non devo astenermi dal cerziorarla che l'A. V. può correre eventualmente il risico di perdere la corona con la Costituente del sig. Montanelli; ora mi permetta, Altezza, che io le domandi se ella ha bene pensato a queste accidentalità.» — «Io ci ho pensato, replicò S. A., e quantunque io fossi parato anche a questo per benefizio del mio Popolo, pure, a parlare schietto, non lo temo, perchè la mia famiglia ha bene meritato della Toscana, ed io penso, ai meriti paterni avere aggiunto qualche cosa di mio; laonde il Popolo consultato non vorrà scambiarmi per un altro, e credo che voterà pel Principato Costituzionale e per me.» — «Lo credo ancora io, ripresi; ma era mio dovere avvertirla;» e ammirando la fiducia del Principe, e volendo come per me si poteva corrispondervi in quel punto stesso, continuai: «Non era da aspettarsi meno dal suo cuore; ma se (e qui con l'atto della mano accompagnai le parole), ma se per mutate vicende V. A. avesse a pentirsi della consentita Costituente, ora per allora la prego a volermelo confidare, chè io le prometto industriarmi in maniera, che spero V. A. potrà dimettere il nuovo Ministero piuttosto con aumento che con iscapito della sua reputazione. »

Qui l'Accusa, secondo il suo stile, aggruppa insieme varie circostanze a me estranee, per lo intento (secondo la egregia espressione del Guizot) d'immergermi dentro una atmosfera di preordinazione criminosa.

Parla primieramente d'invio ordinato da Giuseppe Montanelli di Giovanni La Cecilia a Roma, dopo la partenza del Pontefice da cotesta città, allo scopo di procurare che il dominio temporale cessasse, una Costituente si bandisse, Leopoldo Secondo a presidente si eleggesse, la unione di Toscana con gli Stati Romani si operasse, senza fare per allora quistione di dinastia o di repubblica. Inoltre, l'Accusa espone, come, proclamata la Costituente a Roma, il Montanelli scrivendo al Ministro Bargagli la combattesse, come quella che imponeva limite ai poteri dei Deputati, e rispettava la personalità e le condizioni organiche dei singoli Stati italiani.

Intorno a questo particolare rispondo, che di rado il signore Montanelli mi partecipava gli atti del suo Ministero, ed io immaginando che li concertasse col Principe, taceva; ond'ebbi a maravigliarmi non poco certo giorno, che S. A. mi domandava, che cosa vi fosse di nuovo. Alla quale domanda risposi: «Chi meglio informato di V. A., che avrà ricevuto in giornata le partecipazioni del Ministro degli Esteri?» Ed egli a me: «Io non so nulla; mi si fanno mancare le necessarie notizie.» Mi permisi rispettosamente osservargli, che di me non poteva lamentarsi, perchè non mancavo di giorno in giorno tenerlo informato di tutto, anzi pure di ora in ora così di giorno come di notte, quando ce n'era il bisogno; in quanto agli altri Ministri avrei provveduto; ed infatti tornato allo Uffizio, mi dolsi col sig. Montanelli, che tanta poca diligenza ponesse a compire non pure un riguardo verso persona tanto autorevole, ma un dovere costituzionale verso il Capo dello Stato. Queste lettere, questi trattati a cui accenna l'Accusa, io non conosco; non mi furono esibiti; ignoro qual carattere rivestano; non sono chiamato a rispondere di loro.

Con questa riserva esaminandoli, osservo che egli spediva lo Incaricato segreto quando già il Papa si era allontanato, e quando le cose romane versavano manifestamente alla Repubblica, onde impedire che questa fiamma in paese confinante si accendesse e su noi si avventasse, procurare che aderisse a Governo ordinato, promuovere, in qualunque vicenda (e tutte erano temibili o sperabili allora), gl'interessi del Principe nostro colà; frattanto nè di principato, nè di repubblica si favellasse. Se io non isbaglio, mi sembra che il Montanelli in questo modo operando, mettesse in pratica lo ammaestramento del sommo Politico, che nelle improvvise e non riparabili fortune, il meglio è, potendo, aspettare: da cosa nasce cosa, e tempo la governa. Ed anche acconsentendo che il Montanelli si affaticasse in prevenzione a volgere a pro del suo paese lo esito probabile di cotesti tramutamenti, io non so come e in che lo si voglia incolpare.

Nel volume dei Documenti, a pag. 543, trovo lettera particolare del sig. Montanelli al conte Bargagli Ministro Toscano a Roma: « Se Roma convoca immediatamente la Costituente, e vota la Presidenza di Leopoldo, noi avremo ottenuto un doppio effetto: 1º Fusione dei due Stati dell'Italia Centrale. 2º Centro italiano, al quale il Piemonte e certo anche Napoli dovranno concorrere. » (28 novembre 1848.) — Più sotto, a pag. 544: «Colla Costituente sarebbe tutto rimediato (ogni padre ama i suoi figliuoli).... I Repubblicani non farebbero colpi di mano. Gli Albertiani sarebbero temperati nelle loro ambizioni dinastiche ecc. » (Senza data.) — « Tocca agli Stati a decidere se convenga meglio Deputati con mandato senza limiti o con limiti. » (pag. 545). — « Sebbene, qual è stata proclamata, la Costituente romana non sia d'accordo con quella proposta in Toscana, pur non ostante è sentita la necessità di astenerci da tutto ciò che può essere causa di discordia, e l'adesione Toscana, alla Costituente non mancherà. » (Senza data.) — «Sterbini...... assentì molto volentieri, che la Costituente fosse proclamata a Roma sotto la Presidenza di Leopoldo Secondo.» (Rapporto di La Cecilia del 30 novembre 1848, pag. 547.) — Di qui scendono le conseguenze: 1º Che Montanelli trattava comporre uno Stato della Italia Centrale, che servisse nelle prevedibili eventualità di equilibrio fra Napoli e Torino. 2º Che si adoperava a prevenire la Repubblica. 3º Che s'ingegnava di comporlo a benefizio di Leopoldo II. Io comprendo ottimamente che al Governo Pontificio questo possa e debba riuscire amarissimo; ma in che, e come possa essere argomento di crimenlese di faccia alla Toscana, io non veggo. E neppure mi persuado in che guisa questi trattati offendano la pietà cristiana del signor Montanelli. — Carlo V imperatore teneva imprigionato il papa Clemente VII in Castel S. Angiolo, e faceva nei suoi Stati esporre il SS. per lui; di più, egli fu persecutore acerrimo della Riforma Luterana, e morì santamente da frate nel convento di S. Giusto. Nè tacciarono il Bossuet di empietà per avere composto nel 1682 gli articoli della Libertà della Chiesa gallicana sotto Luigi XIV; nè empio chiamarono Napoleone quando elesse suo figlio Re di Roma. Chi conosce le conferenze dei trattati di Vienna, sa come i sovrani più religiosi e cattolici stessero per tôrre al Pontefice lo Stato, il quale gli fu salvo mercè la destrezza del cardinale Consalvi, e l'appoggio della Inghilterra, ma non sì che in qualche parte non gli venisse tarpato.

La premura del sig. Montanelli per impedire la limitazione del mandato dei Deputati alla Costituente, sia intorno alle cose, sia intorno alle persone, era conseguenza del suo Programma accettato dalla Corona come condizione del Ministero; ma non si opponeva che gli altri Stati conferissero mandato limitato; nè ricusava aderire alla Costituente comunque fosse. Qui non vi è delitto; o se vi fosse, sarebbe delitto da essere accusato dalla Camera dei Deputati, giudicato dai Senatori; ma nè Deputati accuserebbero, nè Senatori giudicherebbero, però che essi alla unanimità votassero la Legge della Costituente. Strano suona poi lo addebito al Montanelli di avere difeso energicamente il suo progetto, avvegnadio pei Ministri Costituzionali questo è dovere, come quello delle Camere, se non piace, disapprovarlo con le orazioni, rigettarlo co' voti, e costringere il Ministero a ritirarsi; nè gioverebbe punto la violenza (comodo arnese in mano dell'Accusa, la quale per iscusare i fatti altrui, lo ha sempre in pronto; per iscusare i miei, o non lo crede, o lo pretende provato luminosamente ), dacchè vedremo in breve i Deputati stessi attestare averla votata spontanei, e i Senatori poi non venissero neppure disturbati dagli schiamazzi delle tribune.

Secondariamente, l'Accusa s'ingegna cercare un nesso relativo fra le dimostrazioni del Circolo e la presentazione della Legge della Costituente; ma insinuazioni siffatte cadono, quante volte tu consideri, che la Costituente formando la sostanza del Programma ministeriale, il Montanelli, senza mestiero pretesti e senza sollecitazioni, doveva proporla, difenderla, vincere, o ritirarsi.[118]

Aggruppare intorno al Ministero le intemperanze, e di straforo perfino le stragi, condirle di benevole insinuazioni d' inerzia, o di complicità, e allacciarle con i suoi atti, come se tutto cotesto turpe, stolto, e insidioso mosaico fosse fattura ministeriale, non è ufficio da Giudici. L'Accusa intemperantissima, penetrando con le sue supposizioni fin dentro le secrete stanze dei Consigli del Principe, mi costringe a rivelare le consulte. Se davanti le Camere fossi stato interpellato intorno a siffatte materie, io, seguitando le tradizioni costituzionali, mi sarei schermito da rispondere senza previa facoltà della Corona: ma qui si tratta di Accusa, qui si tratta di Accusatore che mi muove incontro co' ferri arroventati; egli è pel diritto chiamato moderamen inculpatæ tutelæ, che mi devo difendere; ed io potrei consentire tacendo alla offesa della persona, ma a quella della fama non mai.[119]

Da parecchi giorni il signor Montanelli aveva presentato il Decreto della Costituente alla firma del Principe, e questi andava differendo a restituirglielo. La trattativa di questo negozio, come di cosa a lui spettante, aveva assunto sopra di sè il sig. Presidente; solo ci dichiarava la sua dimissione sicura, là dove il Principe non gli avesse firmato il progetto. Certo giorno, il Presidente si recò per questo motivo al regio palazzo, ma anche allora egli ebbe a partirsi sconclusionato, chè il Principe lo rimandò ordinandogli gl'inviasse il Ministro dello Interno; io pure per negozii del mio ufficio ero andato a Pitti, e il Principe si restrinse immediatamente meco a consulta. — Ecco le considerazioni, che sottoposi al giudizio della Corona: «Piemonte è in guerra con Austria; nè deve supporsi che lo armistizio si converta in pace, perchè a romperlo lo persuaderanno il dolore della sconfitta, il cruciare della vendetta, l'antica cupidità dello acquisto, tanto più intensa adesso in quanto per un momento appagata, il desiderio di gloria, la irresistibile violenza delle cose; e questa forza avrebbe strascinato anche noi, quantunque, discorrendo strettamente degl'interessi della Toscana, questi ci consigliassero a posare; poco il nostro soccorso a vincere, e troppo per provocare lo sdegno del nemico; pericolosa forse la vittoria piemontese, esiziale certamente la perdita. Due essere naturali vicende della impresa contro Austria, vincere o perdere. Vincendo Piemonte, venivamo ad acquistare per confinante uno Stato di 10 milioni di uomini all'incirca, orgoglioso per vittoria, e intento sempre a dilatarsi; noi piccoli, deboli e senza frontiere difendibili dalla parte del Piemonte. Ora non era da supporsi, che Piemonte, in mezzo alla petulanza compagna ordinaria della buona fortuna, si mostrasse più temperato verso di noi di quello che fosse prima di vincere. Invero, avemmo a provare dalla parte di cotesto Regno una lotta difficile, per cagione dei confini; voleva tôrci l'Avenza, la quale perduta, era forza le tenesse dietro Carrara; e se ottenemmo che i Lavenzini tutti votassero per Toscana, ciò devesi agli sforzi supremi da me stesso operati: nè qui si rimase; chè continuava a bisticciarci per Panicale, Mulazzo, Calice e Parana, come altrove sarà con più lungo ragionamento dimostrato. Il Governo Sardo, mentre da un lato esigeva ogni maniera di sagrifizii da noi per impresa dove raccoglieva principalissimo vantaggio vincendo, perchè riuniva sotto di sè Lombardia, Venezia, Modena e Parma, e correva minore pericolo perdendo, perchè la Francia non avrebbe sofferto mai la invasione austriaca in provincia confinante; dall'altro si mostrava per modo tenace, che io, scrivendo lettere confidenziali al Ministro Gioberti, ebbi ad usare le seguenti espressioni: «Con quale coraggio potremo noi consigliare la Corona a persistere nel proponimento di correre le vostre fortune, se voi vi mostrate sì fervidi a contenderci frammenti di terra più che ad altro somiglievoli a pezzi di pan secco co' quali si fa la zuppa ai cani?» Si scusavano con lo incolpare di coteste improntitudini lo zelo importuno dei Sarzanesi. Certo di che cosa sia capace lo zelo importuno, conosco ancora io, ed ho provato, e provo; ma però non cessarono punto i lamentati maneggi. Vinta pertanto dal Piemonte la guerra, ponendo ancora che lo acquisto della Toscana non lo tentasse, noi dovevamo aspettarci ad essere ridotti in istato di assoluta subiezione. Infatti la Toscana, se lasciata durare, diventava provincia piemontese: ogni posta ci avrebbe portato ordini da eseguire: la Corona Toscana avrebbe dovuto scadere alla ignobile parte di vassalla tremante della Corona Sarda, e stenderle supplichevole la mano quotidianamente, — anzi di ora in ora, — anzi di minuto in minuto, per limosinare il misero vanto di parer padrona, — ludibrio a un punto, e agonia di Sovranità! A questo evento, che cosa avrebbe opposto uno Stato di un milione e mezzo, contro Stato di dieci milioni? Armi non avevamo o poche, e in guerra nazionale non si sarebbe voluto nè potuto adoperarle. La protezione delle Potenze estere forse? Ma di che cosa sappiano queste estere protezioni conosce il mondo; il cavallo, che cercò l'uomo per combattere il cervo, è favola antica di applicazione sempre moderna; nè la durata della Toscana avrebbe formato mai quistione di equilibrio europeo. Arrogi a questo, che le trasformazioni minacciate dai tempi portentosi non avrebbero permesso alle Potenze di badare tanto pel sottile, se in condizioni tranquille noi le avevamo vedute accomodarsi con la paziente dottrina dei fatti compiti. Bisognava pertanto cercare un freno da imporgli, e questo freno a me pareva vedere nella Costituente italiana; la quale, a senso mio, avrebbe dovuto consistere in un Congresso di Stati Italiani, dove si determinassero i diritti, gli obblighi e le guarentigie del patto federativo, non meno che le riforme, per quanto era possibile uguali, da estendersi alla universa Italia. Annullate le condizioni e le sicurezze dei Trattati del 1815, era pur forza crearne nuove. La necessità di riordinare uno equilibrio italiano tanto più stringeva, in quanto diventava maggiore il disequilibrio dello Stato convicino. In qual parte trovare un freno immediato ed efficace di opinione a un punto e di forza, se la Costituente italiana non lo somministrava?

«Nè il Piemonte dissentiva punto da aderirvi: a condurre le trattative veniva mandato da Torino, negoziatore straordinario, il Deputato Ferdinando Rosellini, uomo di mente sveglia e di arguti consigli. Sola obiezione mossa da lui era il mandato che egli pretendeva limitato non solo ai Commissarii piemontesi, ma bene anche ai toscani; questa limitazione poi consisteva in due cose: 1º nel tenere per accetto il Regno della Italia Superiore composto di Piemonte, Lombardia, Venezia, Modena e Parma, e casa di Savoia sovrana; 2º nel conservare Pontefice, Granduca, Re di Napoli in Italia. Per questo modo il limite del mandato, in quanto concerneva Carlo Alberto, riguardava due scopi, il reame e il regnante; rispetto agli altri Principi accennava alle persone soltanto; per gli Stati poi non dissentiva che potessero eventualmente stringersi od allargarsi. Breve, non voleva mettere in compromesso quanto si augurava conquistare, anzi prima della conquista esigeva la ratifica degli altri Stati Italiani. Il sig. Montanelli, fermo nel suo sistema, procedeva onninamente contrario; mandato illimitato pretendeva, e per tutti i Deputati e per tutto, così per le cose come per le persone. Conciliando io, nella impossibilità di far cedere il sig. Montanelli sul punto del mandato illimitato, lo richiamava a considerare quanto esorbitante fosse la pretensione d'imporre per parte sua le norme del mandato agli altri Principi italiani; come questi non avrebbero mai consentito la Costituente, se vi avessero ravvisato minaccia o pericolo; e per siffatto modo chiudere egli la porta alla possibilità di vedere attuata quella Costituente, che pure era stata bandita da lui; correrci anzi tutto il dovere di essere coerenti al programma, il quale aveva promesso che la Costituente non sarebbe stata causa di lite, ma sì all'opposto di concordia fra gli Stati Italiani: gli bastasse il mandato illimitato pei nostri Commissarii; questo egli avere promesso; questo solo avere potuto promettere, però che gli altri non dipendessero da lui: il suo onore essere salvo, e doversene stare pienamente tranquillo. Dall'altra parte richiamavo il Negoziatore sardo ad avvertire che, com'egli trovava strano che Montanelli presumesse dettare le condizioni del mandato ai Commissarii piemontesi, così al Montanelli dovesse sembrare nuovo ch'egli ai nostri le assegnasse; il sig. Montanelli persistere a credere il suo onore impegnato in questa promessione, nè rinvenire modo di recederne, se non dimettendosi dal suo Ministero, avvenimento che il Negoziatore stesso non pareva desiderare; ora le cose del mondo, quando e' non si possono fare come si vorrebbe, si hanno a fare come le si possono; ed io mi sarei ingegnato a piegare il Montanelli a questo, che mantenendo il mandato libero ai Commissarii toscani si contentasse che agli altri fosse conferito limitato. Inoltre, io mi legava per fede a dare istruzione ai Commissarii nostri, che al partito della maggiorità senza obietto alcuno immediatamente aderissero. Così, aggiungeva io, si concilia ogni differenza; il sig. Montanelli mantiene la promessa, e i Commissarii riuniti esibendo prima di tutto i mandati, circoscrivono i limiti e pongono le basi sopra le quali hanno ad aggirarsi le trattative. Un'altra considerazione mi muoveva a consigliare così, ed era, che quantunque andassi persuaso, che il mandato illimitato non fosse mai per nuocere all'A. S., ma piuttosto giovarle, pure questa mia persuasione studiava assicurare con quelle guarentigie che mi era dato conseguire maggiori.

«Lo Inviato sardo parve penetrarsi di queste mie considerazioni, e dichiarò scriverne al suo Governo. Io ho motivo di credere che ci saremmo trovati d'accordo, sebbene rimanesse a spianare la difficoltà relativa al Regno della Italia Superiore, la quale avevo lasciato sospesa onde sembrasse che in qualche punto cedessimo, ma disposto a consentirlo per due ragioni, una migliore dell'altra; la prima, perchè al contatto di due Potenze principali era necessario per la indipendenza d'Italia porre uno Stato forte; la seconda, perchè quando Carlo Alberto se lo fosse acquistato, chi sarebbe stato quegli che glielo avrebbe potuto contrastare? Certamente non noi.

«Considerando la seconda ipotesi della vittoria austriaca, la quale si è verificata, nemmeno mi pareva inutile nel futuro interesse del Trono Costituzionale toscano il merito di avere proclamato primo la Costituente italiana. Se la vita umana è breve, brevissima è la ministeriale; quindi non parrà cosa strana nè forte che i Ministri, secondo le facoltà dello ingegno loro, si addentrino nei tempi che verranno, e su gli eventi probabili discorrano.

«Vincendo Austria, era a credersi che i Trattati del 1815 sarebbono stati mantenuti in Italia, se pure se ne contentava. Ma pensando così diceva: le durerà eterna la buona fortuna? Dopo la vittoria rimarranno spente le cagioni della guerra in Italia? Non credo; anzi sorgeranno maggiori: mutabilissime sempre le vicende umane; le battaglie sono un giuoco di zara dove invece di dadi gittiamo anime umane, e il chiodo alla ruota della Fortuna nè uomo nè Popolo hanno posto fin qui. A noi, che vedemmo il tremendo tramutare delle sorti da Napoleone in poi, e non siamo vecchi, nessuno venga a sostenere immortale la opera degli uomini. Propone l'uomo, Dio dispone. — Pongasi Austria trionfante delle angustie nelle quali adesso si trova, e delle guerre italica ed ungherese; poserà forse tranquilla? È da dubitarsi. I Magiari parteggiarono in prima per lo Impero a danno dei Popoli slavi; se ne divisero quando alla superbia loro volle imporsi un freno; allora, côlto il destro, gli Slavi sostennero lo Impero vacillante, per odio della preponderanza magiara, e per amore di libertà: gli uni e gli altri a vicenda presero la bandiera dello Impero per ingagliardirsi agli scambievoli danni. Gli Slavi vittoriosi, estimandosi salvatori, non diventeranno più importuni e più difficili a contentarsi dei vinti? L'aiuto russo non riuscirà più tardi molesto, però che la memoria del male presto passi e il fastidio della subiezione duri? Concesso ancora che per la parte dei Russi non si operi cosa che valga a fomentare negli Slavi sentimenti di origine, di religione e di lingua comune,[120] per cui desiderino un giorno collegarsi in una sola famiglia, non è da credersi che questi sentimenti si svilupperanno spontanei? Gli stessi Stati ereditarii non sono travagliati da umori socialisti troppo più pericolosi dei repubblicani? Questo contagio non si estende nella intera Germania? Non dura e si prolunga, tela penelopea della alemanna politica, l'assettamento della Germania? Cesserà l'antagonismo fra Austria e Prussia? Il bisogno di tenere in piedi eserciti enormi per guardare Ungheria, Italia, Boemia, Germania, non sopravviverà alla vittoria, seme nuovo di guerra? Le sue finanze non sono disastrate, i Popoli non si esauriscono anch'essi? E posto ancora che la buona fortuna e il senno dei Ministri austriaci vincano prodigiosamente queste ed altre difficoltà, forse tutte le cose nostre non hanno la morte? Non si spengono i reami come gl'individui? È questa una verità, che nè anche la superbia potrebbe smentire:

Cadono le città, cadono i regni....

Per le quali considerazioni mi parve consiglio buono mettere il nostro Stato in vantaggiosa condizione per qualsivoglia eventualità. — Se mai vorrà il destino che Austria debba un giorno abbandonare la Italia, allora avrebbe potuto valere alla Toscana riprodurre la Costituente italica, per nuovi eventi celata sotto il moggio, onde tornare più tardi a splendere sul candelabro.

«Per quello poi che riguardava il tempo attuale, la Costituente ci salvava dallo impeto repubblicano, come ho scritto di sopra discorrendo dei motivi probabili che persuasero il Presidente Capponi a consentirne il bando al signor Montanelli.» —

Il Principe, ascoltate le mie riflessioni attentissimamente, si degnò favellare queste parole: «In quanto dice vi è del vero, ma Lord Hamilton sente in modo contrario.» — «Lord Hamilton, risposi, è uomo peritissimo nelle faccende politiche; mi permette l'A. V. che io lo consulti su questo proposito?» — «Ella può farlo, il Principe soggiunse; anzi lo può fare immediatamente, perchè è qui in Palazzo.» — «Altezza, dove?» — «In salotto giallo.» — «Mi concede l'A. V. che io vada?» — «Sì, volentieri.» Nel luogo indicato, rinvenni Sir Carlo Hamilton, fratello dell'onorevole signore Ministro che adesso deploriamo defunto, col quale tenni lungo e grave colloquio, di cui conclusione fu cadere insieme intorno alla convenienza di presentare il progetto di Legge della Costituente alle Camere nel modo indicato da me. Tornai nelle stanze di S. A., e le detti ragguaglio dell'esito della conferenza; parve maravigliarsene, e desiderò udirlo confermare dal prelodato Sir Carlo; la quale cosa fece, lasciando me solo nella sua stanza: dopo lunga ora tornò, e firmando il progetto, a me lo consegnava piuttosto premuroso, che repugnante, affinchè il Ministero lo sostenesse alle Camere.

Io mi sarei vergognato adoperare parole capaci a diminuire nel Principe il libero esercizio della regia prerogativa; nè la dignità di S. A. lo avrebbe sofferto; e lascio poi considerare se di questa maniera argomenti avrebbero sortito effetto con un Ministro di tale Potenza quale Inghilterra si è. Chi vorrà, con alquanto meno disprezzo di quello che l'Accusa sapientissima si faccia, avvertire il modo col quale io sostenni la discussione della Costituente, penserà che le ragioni, trovate plausibili dalla Corona e da Sir Carlo Hamilton, non dovessero presentare poi tutte quelle stupidezze che l'Accusa si compiace immaginare. Se questo fosse caso di dannazione, bisognerebbe dire che mi sarei dannato in ottima compagnia!

E se non ho perduto il bene dello intelletto, il Documento donde l'Accusa ricava indizio di violenza usata alla Corona, la esclude del tutto. Questo Documento è il Dispaccio telegrafico del 22 gennaio 1849 al Governatore di Livorno: «Dopo molte ore di combattimento, avemmo il Decreto Regio per la Costituente italiana.» Qui, innanzi tratto, è chiaro come la parola combattimento fosse scambiata con l'altra più acconcia di dibattimento; ma via, lasciamo combattimento, chè la contesa di raziocinii si risolverà in dibattimento pur sempre. Ora io dico, che chi la violenza sostituisce alla ragione non ha mestieri di formule prolisse; il ragionare che giova? Porgete il collo alla dura necessità. La impressione del meto è cosa breve per colui che l'adopera e per quello che la subisce: non si discute mica la paura; e il dibattimento di molte ore non può referirsi alle conseguenze di un subito moto dell'animo, sibbene alle avvisate e lente operazioni del pensiero. — La quale intelligenza anche più si manifesta leggendo il rimanente Dispaccio: « bisognerebbe mostrarci grati al Principe con una grandissima dimostrazione.» Se avessi usata forza alla volontà di S. A., queste parole sarebbero a un punto vituperevole scherno per lui, immane atrocità per me..... Se non che all'Accusa costa tanto poco pensare atrocità, che scarso frutto questi argomenti ponno fare con lei!

L'Accusa, che andò a rifrustare mostruosi motivi d'insinuazioni pessime, perchè non considerò il voto unanime della Camera dei Deputati? Perchè non pose mente alle parole pronunziate dal Deputato signor Socci, nell'adunanza del Consiglio Generale del 25 gennaio 1849? «Questa immensa fiducia gliel'ha dimostrata anche la Camera, quando alla unanimità approvava la Legge sulla Costituente italiana, e credo che tutti la votassero di gran cuore[121]

Ma all'Accusa non basta la testimonianza del Socci, che nell'ardua sua virtù ella forse come cagnotto del Potere disprezza; onde, la mano sempre sul petto,

Da quella parte ove il cuore ha la gente,

e gli occhi al cielo, l'Accusa attesta andare nei precordii della sua coscienza convinta, che soffocata quasi la discussione della Camera, in virtù del tumulto delle tribune, riuscisse al Montanelli di ottenere il mandato illimitato[122] — Deh! abbassa, o coscienziosa Accusa, cotesta mano, e quegli occhi, e prendi il Monitore, e leggi ciò che arringando dichiarava Ridolfo Castinelli, uomo per fermezza di carattere, ai tempi che corrono, piuttosto singolare che raro; e bada, Accusa, ch'egli è quel desso che i libertini più accesi pretendevano escluso dalla deputazione pisana: e avverso al Ministero reputavasi, e certo egli professava dottrine conservatrici, e sopra i banchi dell'Opposizione sedeva; — e avverti ancora (dacchè tutte le Accuse sogliano talvolta disgradare nella memoria Magliabechi, e tal altra, quando lor torna, superare in ismemoraggine Messala), che il sig. Castinelli queste parole profferiva il 25 gennaio 1849, discutendo la Legge su i Buoni del Tesoro, e però spontaneo così e liberissimo, che neanche l'argomento del discorso, o lo impeto della improvvisa orazione gli facesse violenza.

«.... E ciò prova che è veramente insussistente l'accusa, pure pronunciata in questa Assemblea, che il Ministero abbia a combattere una Opposizione sistematica. — Il voto unanime che il Consiglio Generale dei Deputati diede alla Legge di convocazione della Costituente Italiana, non prova luminosamente ciò che ho affermato? — Se alcuni onorevoli nostri Colleghi amarono sentire dalla bocca stessa dei Ministri, quanto era spontaneo il desiderio del Principe che lo portava a sottoscrivere l'atto d'inaugurazione per il Popolo Toscano alla vita rappresentativa italiana, non resultava dalla discussione e dallo sviluppamento degl'intimi moventi dei Ministri, se fosse bello e rifulgente il serto col quale tutti concordi incoronammo questo grande Atto

Forse, chi sa, potrebbe darsi che alcun poco dolesse all'Accusa di trovarsi perpetuamente in tutto quanto ella afferma smentita; ma considerando dall'altro canto, che il renunziare a questa parte della truce novella sconcerebbe l'architettura della fabbrica, delibererà nella sua coscienza dovere persistere a ritenere e dare ad intendere violentata la Camera dei Deputati nel voto della Legge intorno alla Costituente. — Rispetto a ciò, confesso non sapere che cosa rispondere; ed auguro all'Accusa su le piume della coscienza un sonno d'oro. Che se non le talenta la Camera dei Deputati, almeno tenga in pregio il Senato, corpo creato dal Principe e conservatore per eccellenza. Tenga in pregio lo scrutinio segreto, dove ognuno poteva deporre nell'urna, senza sospetto, il voto riprovatore. Tenga in pregio le parole dello illustre senatore Bufalini: «Non avrei altre considerazioni a soggiungere in questo proposito, sopra il quale non mi pare sia occorsa divergenza di opinione. Dirò solo che, come il Senato fu sempre penetrato della grande importanza di riacquistare la nazionale Indipendenza, e fu sempre sollecito altresì, per quanto era in lui, di provvedere a tutto ciò che potesse meglio conferire allo acquisto di quella; così se dall'adozione della proposta Legge avesse egli potuto temere nocumento per lo acquisto della Indipendenza nazionale, certo che il Senato avrebbe avuto il coraggio, inspirato dal dovere, di palesare francamente non essere ancora venuta la opportunità di approvare una Legge, che invece di partorire i benefici frutti che si desiderano, avrebbe anzi attirato sopra la Italia le calamità che più si vogliono fuggire. Così non temendo il Senato questi mali, si conduceva più facilmente a servire al principio che lo aveva condotto alla unanime persuasione di dovere adottare la Legge proposta; e quando la Commissione esprimeva al Senato questo pensiero, esprimeva appunto il pensiero che unanimemente le Sezioni avevano accolto

Ma il voto unanime non giova, il voto segreto neppure, molto meno la mancanza di qualsivoglia obietto nel seno delle Sezioni; non giova il silenzio delle tribune assistenti alla discussione del Senato, non giova la solenne dichiarazione, che i Senatori avrebbero avuto il coraggio di rigettare la Legge dove l'avessero reputata dannosa: l'Accusa li pretende ad ogni modo costretti a votarla sotto la impressione del terrore; e se essi lo impugnano, l'Accusa predicherà, che non sanno quello che dicono, e che ella lo sa per loro, e meglio di loro, ed anche contro a loro, perchè così le fa comodo di sapere; e badino a stare cheti, che nel Senato han favellato assai. O Accusa!.... Accusa!.... Accusa!....

L'Accusa, non ci ha rimedio, è ferocissimamente incaponita a pretendere violati i Senatori, come a volere me non tocco, negli atti co' quali, e nei quali venne a consumarsi la perduellione.

Io per volere del Principe dettai il Programma ministeriale e il Discorso della Corona. In questi Documenti, afferrato il concetto avventuroso della Costituente, badai a renderlo benefico con le dichiarazioni solenni: «La Costituente ha da essere pegno di amicizia, non offesa ai Popoli amici, molto meno impedimento a conseguire la suprema delle necessità nostre, la Indipendenza Italiana. Quindi preparandola noi, non vogliamo togliere che venga convocata in città più inclita della nostra, comecchè nobilissima ella sia; e neppure vogliamo proseguirla in guisa, che non riesca per poca autorità del nostro Stato, o turbi le relazioni fraterne co' Popoli vicini.» — (§ 12 del Programma ministeriale.)

Prima gettai il principio che la Costituente avesse ad essere motivo di unione con gli altri Stati; la quale cosa importava che non si dovesse turbare la Italia con proposte importune di mutamenti politici: quindi, per ovviare ad acerbe censure, posi la suprema necessità della concordia per la guerra della Indipendenza: più tardi, persuasi che le quistioni governative si aggiornassero: infine, che la Costituente avesse a presentare due stadii; il primo di difesa, il secondo di forme; nè si muovesse parola intorno al secondo finchè non fosse conseguito il grande scopo della Indipendenza italiana; e, quantunque non senza molta difficoltà, indussi il Presidente del Consiglio ad abbracciare questo partito, conforme apparisce dalla Circolare ai Rappresentanti del Governo toscano presso i Governi italiani del dì 8 novembre 1848.[123]

L'Accusa, che si mostra così curiosa a ricercare sui Giornali cose che valgano a danneggiarmi, o perchè non lesse le acerbe polemiche dirette principalmente contro me, rimproverando la falsata indole della Costituente, la fede pessima di attenuarla, e ridurla in fumo?[124] In quanto a me, suonavano coteste accuse ingiuste, imperciocchè io avessi bene aderito alla Costituente, ma a patto che non fruttasse seme di discordia fra gli Stati Italiani.

Intanto si ritenga che mercè gli sforzi miei, cui aderì la maggioranza del Consiglio ministeriale, la Costituente doveva presentare due stadii: 1º la guerra; 2º gli ordinamenti interni aggiornati dopo lo acquisto della Indipendenza. — Domando in grazia di bene avvertire questo fatto a cagione della importanza delle conseguenze che ne scaturiscono.

Rimaneva a discorrere del tempo, del luogo, delle condizioni del mandato.

Tutto questo rimase indeterminato, e non senza consiglio. La stampa chiedeva il luogo fosse Roma, il tempo il 5 febbraio, giorno della convocazione della Costituente romana, il mandato illimitato; dei due stadii non si voleva sentire parlare, — perchè, nei concetti del Partito repubblicano, senza ordinamenti nuovi non si poteva acquistare la forza necessaria per combattere la guerra della Indipendenza.

Riguardo al luogo, io m'ingegnavo non impegnarmi per iscegliere il più conveniente, e di Roma (se non vado errato) sempre si astenne favellare il Ministero. Procurai rimanesse incerto il tempo, per evitare la coincidenza del 5 febbraio richiesta dalle pretensioni popolari; e a questo preciso scopo nella seduta del 22 gennaio 1849 mi sforzai a fare discutere la Legge sul Bilancio del 1849 prima della Costituente, richiamando l'attenzione della Camera sopra la prima Legge, e confortandola a deliberare con pacato consiglio. Ecco le mie parole: «Crede il Ministro dello Interno fare atto di coraggio, quando profferisce parole che sieno argomento a temperare la bella, ma soverchia, voglia del Popolo. Sta al Popolo concepire le nobili passioni, ma sta al Ministero il grave carico di attuarle e renderle possibili. Ora dunque desidererei che l'ordine presentatovi dal meritissimo Presidente fosse mantenuto, imperciocchè non solamente è vero, nella guerra, quello che diceva il Maresciallo Montecuccoli, cioè, che ci vogliono: danari, danari, danari, — ma anche in ogni altro ramo di pubblica amministrazione. Ora pregovi considerare che forse la Costituente aumenterà i bisogni della guerra; quindi io vorrei che innanzi tutto si discutesse quella Legge che somministrasse i mezzi pei quali questa Costituente non riuscisse parola morta. Concludo perchè piaccia alla Camera tenere fermo l'ordine del giorno proposto dal nostro Presidente.» — (Seduta del Consiglio Generale del 22 gennaio 1849.)

Io pertanto proponevo che l'ordine del giorno si estendesse non pure alla lettura, ma ancora alla discussione della Legge sul Bilancio; la Camera non comprese la mia proposta, nè il motivo che la dettava.

Alla inchiesta che fosse discussa immediatamente la Legge intorno alla Costituente io opponeva: «Riguardo alla proposizione, che domani deve essere discussa la Legge intorno alla Costituente italiana, a me, come Deputato, siffatta coartazione non piace, e l'Assemblea non la deve per niente subire. La Legge della Costituente è d'importanza così grave e solenne, così ella può mettere il paese in condizione perigliosissima, ch'è bene che tutti i Deputati ci portino quella maggiore considerazione che si desidera e che la importanza della cosa vuole.» — (Seduta medesima.)

L'Assemblea, malgrado la dilazione da me insinuata e la causa grave per motivarla, non attese gli avvertimenti del Ministero, anzi li contrariò, e volle nel giorno successivo discutere e votare la Legge nello insieme e nei suoi articoli.[125] Nè si dica che la Camera patisse violenza; imperciocchè io stesso, e lo ricordano tutti, io stesso la confortai ad usare animosamente dei suoi diritti, e infastidito a un punto dello schiamazzare delle tribune e della pazienza del Presidente, uscii in queste avventate parole: «Poichè, per le regole parlamentarie, a me non è lecito in questo recinto favellare al Popolo, prego il signor Presidente indirizzargli una parola formulata così: « Dichiaro traditore della Patria chiunque con intempestiva e indegna perturbazione fa sì che in questo momento la discussione non proceda solenne e liberissima.» — (Detta Seduta.) Veda dunque l'Accusa, che per me si fece anche troppo per mantenere la libertà e la dignità della Camera; ragione le porsi e modo di aggiornare a tempo ben lungo la Costituente, dacchè la discussione del Bilancio suole occupare parecchie Sedute. L'Accusa dirà: e' sono parole; — ma coteste parole corrispondono a' fatti, e si persuada che non era piccolo cimento profferirle allora.... oh! riesce molto più facile dissimularle adesso.

Ancora: per evitare il domandato invio dei Deputati alla Costituente romana il giorno 5 febbraio, dava spazio lo adempimento dello articolo 6 della Legge. Poco mancò che anche questo benefizio andasse perduto, per la proposta di un Deputato diretta a invitare il Ministero «a presentare il Regolamento per l'elezioni entro tre giorni da quello in cui la presente Legge avrà ricevuto la finale sanzione.» — (Detta Seduta.)

Un'altra considerazione. La petizione del Circolo intendeva che la Costituente italiana subito, a tutti i fini, sia ordinamento interno, sia apparecchio di guerra, si stabilisse a Roma, allegando la promessa del Ministero, che l'avrebbe convocata tostochè vi aderissero due Stati d'Italia. — (Detta Seduta.)

I petizionarii erravano, perocchè il Ministero avesse promesso unicamente: «Che la Costituente comincerebbe le sue operazioni appena due Stati si fossero intesi ad iniziarla, ma al solo ed unico scopo di provvedere alla guerra della Indipendenza, ch'è quanto dire al primo stadio: rispetto al secondo, non potersene parlare finchè non concorresse il voto di tutto il Popolo italiano, gran parte del quale non potrà eleggere i suoi rappresentanti finchè geme nel dolore della straniera servitù.» — (Circolare dell'8 novembre 1848, Art. 12.)

Così ho inteso dimostrare: 1º quali fossero i motivi pei quali a me importava rimanessero incerti il tempo e il luogo della Costituente; 2º come la petizione del Circolo non s'accordasse col progetto ministeriale pel tempo, nè per il luogo, nè per lo scopo che la Costituente si proponeva; e questo serva a confutare il nesso che l'Accusa (con intento trucidatore del vero) pensa discernere tra la petizione del Circolo e la presentazione della Legge: anzi, dicasi senza ambage, il concertato di me Ministro col Circolo.... — Faccia pure l'estreme prove l'Accusa, ella non giungerà mai a conseguire il sospirato disegno di trovarmi cospiratore contro la fede di Ministro del Principe.

Adesso favellerò del mandato e dei motivi che me lo fecero lasciare indefinito. Quali discussioni sostenessi col signor Montanelli su questo proposito, in parte esposi. Ai ragionamenti riferiti aggiungeva: — «supposto che Carlo Alberto esca vittorioso dalla guerra italiana, egli è verosimile che voglia deporre la sua Corona davanti ai Commissarii della Costituente, rassegnandosi a portarla quando essi glielo avranno concesso? E quando, per vano simulacro, adoperasse così, chi avrebbe osato disdire a lui trionfante e gagliardo su le armi? Il Re di Napoli gli pareva egli uomo da cacciarsi a chiusi occhi in questi ginepraj? Voglionsi le cose o le immagini delle cose?» — Montanelli andava pensoso, ma diceva assai avere sofferto sbocconcellato il suo progetto; nè potere senza scapito di reputazione consentirlo più oltre; e poichè gli riusciva difficile sostenere il suo programma politico, probità di uomo e dovere di Ministro consigliarlo a dimettersi. Il signor Montanelli propose alla Corona espressamente, esplicitamente, la sua dimissione, e per dimostrare la parzialità sua pel Ministero, accettava la rappresentanza toscana presso la Corte di Torino.

Alla Corona piacque farmi l'onore di consultarmi su questo negozio, ed io le osservai: «Vuolsi o no conservare il signor Montanelli al Ministero? Se no, accettisi la dimissione; in quanto a me, riduco volentieri la Costituente in termini più limitati. Se sì, egli non può moralmente nè politicamente tirarsi indietro.» Ho motivo di credere che il Ministro d'Inghilterra consigliasse accettarsi la dimissione del Montanelli. Alla Corona non parve prudente accettare, almeno per ora, il congedo del Presidente del Consiglio, nè inviarlo a Torino; in quanto a me, è agevole sentire per quali motivi di convenienza dovessi rimanermi da insistere. Invitato dal Principe a ricondurgli il Montanelli, lo feci, e fu accolto con modi più che cortesi, affettuosissimi.

Adesso pertanto bisognava mettere d'accordo il progetto del sig. Montanelli con l'esitanze della Corona, ed anche co' dettami di buona politica.

Proposi si lasciasse nella Legge indefinito il mandato, e le ragioni, per così fare, furono queste. La Costituente deve validare la concordia degli Stati Italiani; ora la maggiorità di questi, se avessero inviato (come era da aspettarci) Commissarii con mandato diverso da quello dei nostri, dovevamo noi porre questi al duro passo di partire dal Congresso, con danno e scandalo del Paese? La Costituente non rigettava verun progredimento razionale e possibile; questo aveva proclamato il Ministero nel programma, la Corona nel discorso di apertura; dovevamo noi ostinarci adesso a volere Cesare o nulla? Il Popolo non pure poteva, ma doveva dare mandato generico, imperciocchè sia chiaro che egli in anticipazione non avrebbe saputo nè come, nè quando, nè su che cosa sarebbesi adoperato, specialmente nel possibile progresso verso lo scopo della Costituente. La cognizione di tutto ciò apparteneva al Potere Esecutivo; e a questo solo spettava per necessità (essendo egli ottimamente informato delle condizioni mutabilissime dei tempi) ampliare o restringere il mandato adattandolo alle contingenze. — Intanto fino d'ora, come istruzione fondamentale, si doveva annunziare che i Commissarii nella preliminare verificazione dei poteri si uniformassero alle condizioni del mandato della maggiorità.

Per questo modo il suffragio universale eleggeva i Commissarii con mandato generico; ma il Potere Esecutivo ne formulava le condizioni a norma del suo discernimento per darne conto a suo tempo alla Rappresentanza del Paese.

Questo non fu avvertito dall'Accusa, anzi dissimulato affatto: non importa; basta che bene lo avvertano coloro cui piace lo studio della verità.

Ora io sostengo, che questa facoltà posta in mano del Potere Esecutivo, oltre all'essere razionale per le ragioni discorse, riusciva favorevole alla sicurezza della Corona, e al conseguimento dei suoi giusti desiderii, più di qualunque mandato, comunque strettamente formulato.

Infatti, applicabile così a tutti i casi contingibili, avrebbe il Potere Esecutivo avvertito, che il mandato non riuscisse mai inane; — commesso al suo discreto giudizio, il Potere Esecutivo n'era assoluto moderatore ed arbitro, onde nè ai danni proprii nè agli altrui si traducesse.[126]

Intanto, e giova ripeterlo, per le dichiarazioni esposte, il Potere Esecutivo doveva ordinare preliminarmente il mandato generico a questi tre fini: 1º Le trattative di ordinamento interno fino a guerra vinta si sospendano; 2º i Commissarii si occupino ad assicurare la Indipendenza italiana; 3º trascorso questo periodo, i Commissarii toscani per riordinare la Italia, aderiscano a trattare dentro i limiti prescritti dalla maggiorità dei mandati dei Commissarii italiani. La Costituente Montanelli veniva per questo modo ridotta dentro confini possibili, e giusti: la quistione dello interno ordinamento prorogata a tale termine, dove ricorrere alla Costituente sarebbe stato rifugio desiderabile e accettissimo: — quantunque dubito se efficace, pure l'estremo, che avrebbero concesso le contingenze future di fronte alle cupide voglie di un Regno forte su le armi, baldanzoso per fresca vittoria.

La diversità dei pareri e i faticosi dibattimenti col Presidente dei Ministri di tanto non poterono celarsi, che traspirati nel pubblico non si qualificassero come dissentimenti profondi fra i Membri del Consiglio,[127] per cui il Monitore del 25 gennaio 1849 ebbe ad avvertire: «Siamo autorizzati a dichiarare per la seconda volta, che le voci di men che perfetta concordia fra i membri componenti il Ministero, sono senza fondamento.»

I Giornali avversi al Ministero, intesi a screditarlo per ogni via, e gli altri di parte esaltata, me denunziavano al Pubblico come ligio alla Corte[128] e nemico alla Costituente. Di qui ebbe origine la diffidenza dei Repubblicani, e il sospettoso sorvegliarmi più tardi.

Prove dello assunto fino ad ora discorso si ricavano evidenti negli atti pubblici. Si ponderino le espressioni della Circolare del 12 decembre dettata in questo spirito: «La limitazione proposta dal Ministero romano, non è in alcun modo necessaria quanto al primo stadio della Costituente. Trattandosi in questo d'indirizzare tutte le forze armate italiane alla cacciata dello straniero, la Costituente assume il vero e proprio carattere di Federazione militare, con un centro unico di direzione; e nessuno degli Stati Confederati può temere, che la propria esistenza sia posta neppure in problema. Quanto poi al secondo stadio, la limitazione riesce affatto superflua per altra ragione. L'opinione nazionale italiana, resultante dalla contemperanza di tutti i pareri e di tutti gl'interessi, sarà quella che farà legge, qualunque sia il limite col quale oggi si presuma signoreggiarla. Ora dal nuovo rimescolamento di tutte le forze italiane agitate nella guerra della Indipendenza, o questa opinione uscirà favorevole alla unità federale, o alla unità assoluta. Se alla unità federale, sarà superfluo avere imposta questa forma alla Costituente, come la sola possibile, essendochè proromperà dal libero voto della stessa Nazione solennemente interrogata. Se alla unità assoluta, le restrizioni attuali non potranno impedire di acquistarla alla Nazione che la vorrà.»

Da queste parole si ricava come eventuale riuscirebbe e lontanassimo trattare degli ordinamenti interni, e come ogni pensiero dovesse volgersi adesso alla guerra; da queste altre si dedurrà, che, venuto ancora il tempo di provvedere alle forme governative, il Ministero toscano annunziava rimettersi al volere dei più. «Gelosi della Costituente autonoma, noi ci guarderemo dal fare di essa una bandiera di scisma. E poichè qualunque passo sì faccia verso la Unità lo riguardiamo come un progresso, se il voto di altri poderosi Governi si manifesti per la limitazione che noi respingiamo, ci uniremo a loro, contenti del non imporla ai rappresentanti inviati da noi.» — (Circolare suddetta.)

Così lo stesso signor Montanelli esprimeva il concetto della maggiorità del Ministero, comecchè non consentanea affatto al primitivo suo.

Invero, confrontato il Programma della Costituente pubblicato dal signor Montanelli a Livorno, consentito dal Ministero Capponi, troveremo come il concetto della Costituente ministeriale fosse non pure diverso, ma contrario, dal suo. La Costituente del Montanelli proclamata a Livorno esclude i due stadii, nega che l'ordinamento governativo deva posporsi alla guerra; all'opposto intende che la preceda, poichè per esso egli crede che la guerra potrà condursi gagliardamente: «Ma questo gran fatto di un Governo nazionale dovrà precedere o seguitare la conquista della Indipendenza italiana? Noi abbiamo creduto che avesse a susseguire alla espulsione dello straniero, e questo fu il nostro errore fatale!!! — Ma che cosa mancò alle forze insorte per compiere l'opera della Indipendenza? Mancò l'unità della direzione. Quindi il non avere un Governo nazionale, il combattere come Piemontesi, come Toscani, come Napoletani, come Romani, e non come Italiani, fu la causa prima per cui questa grande impresa mancava. La fondazione dunque di un Governo nazionale è necessaria per effettuare la stessa impresa della Indipendenza italiana.» — (Vedi Corriere Livornese del 9 ottobre 1848.)

Mi sembra, che la dimostrazione non possa essere più evidente.

Il Conte Mamiani alla lettura di cotesta Circolare ebbe a dire che l'apprendeva come adesione alla Costituente romana, e la annunziò alla Camera dei Deputati romani.[129] D'altronde io aveva promesso secondarlo nella conferenza ch'ebbi seco nel novembre a Livorno,[130] e mantenevo la promessa.

Ma sopra tutto, di simili discrepanze, di tali compromessi, e cautele, appariscono traccie nella Seduta del 23 gennaio 1849. Noi vediamo uscirne quattro opinioni. Una, che per sospetto del poco intende sia specificato immediatamente il mandato; un'altra, che per paura del troppo vuole sia determinato in seguito da una Legge; una terza, che sostiene il Progetto abbia a lasciarsi incerto, nel modo col quale fu proposto, sperando ogni sconfinata conseguenza; la quarta, che lo pretende preciso perchè lo teme.

Il signor Montanelli modificando, in virtù di più maturo consiglio, la sua dottrina, sostiene la necessità dei due stadii; dichiara il principio della Nazionalità non doversi discutere se non intervengono due condizioni di fatto: la prima, che tutta la Nazione Italiana possa essere rappresentata; la seconda, che da ogni parte a lei accorrano gli eletti dal suffragio universale. (Seduta della Camera dei Deputati, 23 gennaio 1849.) — Per ora dovere accordarci per combattere non come Piemontesi, Toscani, Romani o Napoletani, ma come Italiani. — Non parla di luogo, ed esprime il desiderio, che la Costituente potesse tenere la sua prima seduta sotto la tenda nelle pianure lombarde. — Non potere essere il mandato limitato nel secondo stadio della Costituente, perchè davanti il voto della universa Nazione non era dato imporre limiti; se però i Deputati delle altre parti d'Italia avranno un limite, essi renderanno impossibile l'applicazione del principio.

A me parvero assurde le proposte, 1º di specificare adesso il mandato; 2º di aspettare a specificarlo poi con Legge. Adesso, non si poteva sapere come rimarrebbe la Italia, compita fortunatamente la guerra della Indipendenza; e il mandato avrebbe potuto non essere applicabile allora. Questo caso successo, una Legge che avesse anche in seguito determinato tassativamente il modo del trattare, avrebbe potuto rendere vani o difficili i negoziati. — Essendo commessa al Potere Esecutivo la facoltà di formulare il mandato, rimaneva in suo arbitrio adoperarlo nel modo il più utile alla Patria comune. E in me era convincimento assoluto, che fosse benefizio della Patria mantenere il Governo Costituzionale di Leopoldo II.

Quindi più volte arringando, io mi sforzava di bene inculcare:[131]

§ 1º Come la Costituente si dividesse in due stadii: «il primo, di concorrere con tutti i Potentati italiani alla guerra della Indipendenza; il secondo, di determinare le forme della nostra Nazionalità.

§ 2. Come ai fini della Costituente da me sostenuta, bastasse questo solo primo scopo: «Se i Rappresentanti degli altri Stati italiani non vorranno subire questa larga formula, e se consentiranno all'Assemblea Costituente al solo scopo di proseguire la guerra per la Indipendenza, vorremo noi imitare lo improvvido padre di famiglia, che ricusa porzione di pagamento perchè non gli saldano il debito intero? No, noi accetteremo.»

E successivamente: «Nella verificazione dei poteri vedranno quanti sono Deputati dal mandato limitato, quanti dal mandato illimitato; e là dove il numero dei primi soverchiasse il numero dei secondi, egli è certo che determinata allora la periferia delle trattative, rimarrebbe impedita agli altri perfino l'aperizione della bocca sopra materie le quali oltrepassassero il termine stabilito.» E poco dopo: «I Deputati nostri mossi da spirito di concordia, e da carità patria, lo restringano, se così il bene della Italia desidera, unicamente allo scopo di conseguire la sua Indipendenza.» Ancora: «Se fin qui non vogliono giungere gli altri Stati Italiani, in ogni caso diremo sempre ai Deputati: non tornate, ma fermatevi, e concertatevi con tutti, a patto che la Italia sia libera. Agli altri fini provvederanno il tempo e la buona fortuna.» Finalmente: «E però stando a conferire ( il mandato ) al Popolo ai termini della Legge, non può definirsene lo esercizio, dovendoci prima mettere in conveniente relazione con gli altri Stati Italiani, affinchè la nostra Costituente non sia motivo di discordia, ma di unione e di forza

Insomma, mercè i miei sforzi in Consiglio e fuori, l'avventurosa Costituente montanelliana corrispondeva sostanzialmente alla proposta mossa nel 14 agosto 1848 alla Romana Assemblea:

«Preghisi il Ministero a scrivere a tutti i Governi italiani, invitandoli ed esortandoli, uditi ciascuno i suoi Parlamenti, a spedire subito in Roma dei Deputati per discutere e deliberare in comune e sotto l'alto patrocinio di Pio IX, intorno al modo migliore di difendere la Italia e assicurare la sua Indipendenza.»[132]

§ 3. Come questo mandato avesse a esercitarsi conforme alle istruzioni, le quali sarebbero date dal Potere Esecutivo al momento della partenza dei Deputati: « In questo concetto i Deputati ricevono il mandato AL MOMENTO DELLA ELEZIONE, e la NORMA DI ESERCITARLO AL MOMENTO DELLA PARTENZA. » — E in altra parte: « il Potere esecutivo ha da indicare le istruzioni per eseguire il mandato un momento prima della partenza. »

§ 4. Come allorquando il signor Montanelli, stretto dalla Opposizione, emetteva proposizioni conformi al suo concetto primitivo pubblicato in Livorno, e discordi dal mio, pronto accorressi a fare palese che la Costituente non doveva fare ingiuria al Principe, che il mandato non poteva neppure in pensiero credersi esteso alla sua esclusione, e finalmente che l'ora della Repubblica non era suonata in Italia: « Quando un Principe generoso e magnanimo, come mi gode l'animo dichiarare Leopoldo II, non ha aborrito sottoporsi al Consesso universale d'Italia, il Ministero ha fermamente creduto che il Popolo si mantenga, come sempre fu, grato e leale; ha sentito che il Popolo avrebbe pagato di generosità la generosità di Leopoldo II; il Ministero ha sentito ed è persuaso che l'ora della Repubblica in italia non è suonata; il Ministero ha sentito ed ha creduto che Italia voglia e debba conservare la forma della Monarchia Costituzionale, e verun altro Principe meritasse più di Leopoldo II la corona dal libero consentimento del Popolo. Il Ministero pertanto, quando ha proposto a Leopoldo II questa Legge, ha creduto, crede, e crederà sempre avergli persuaso un atto di gloria e di benevolenza capace a procacciargli l'amore e la eterna riconoscenza di tutta la Italia.»[133] — (Applausi vivissimi e prolungati, con evviva a Leopoldo II.)

Pareva a me che in questo modo adoperando avessi bene meritato della Patria e del Principe, conciossiachè il principio avventuroso della Costituente montanelliana per le mie cure ridotto a plausibile disciplina ponesse la Corona in grado di scegliere quattro vie, per una piena di dubbiezze ch'ella medesima mi aveva imposta.

Prima via. La Corona poteva accettare la dimissione del signor Presidente, inviarlo ministro a Torino, e modificare, secondo che io consentiva, il progetto della Costituente.

Seconda via. La Corona poteva, della Legge intorno alla Costituente, accettare quella parte che si referiva al primo stadio; negando per ora formulare il mandato e dare istruzioni circa al secondo.

Terza via. La Corona poteva accettare, in genere, tutto il progetto della Costituente per valersene poi a tempo opportuno e secondo la contingenza dei casi, o come difesa contro le cupidità di potente vicino, o come istrumento per fondare la Confederazione Italiana, giovando alle stesse condizioni del Pontefice (il quale è da credersi che meglio informato non l'avrebbe reietta), o come mezzo di allargare lo Stato, se tale era la mente della Provvidenza, suprema ordinatrice delle cose.

Quarta via. La Corona, se tutto questo non le andava a grado, poteva chiamarmi e dirmi: «Mantenete la promessa di potervi licenziare senza scapito della mia reputazione, perchè la Costituente mi è diventata incresciosa.» Ed io avrei, con gli espedienti che mi sarebbero parsi più acconci, mantenuta la fede.

La Costituente promossa dal Ministero toscano poteva, anzi doveva, restringersi allo acquisto della italiana Indipendenza. E se questo proponimento nobilissimo, con tanto fervore, con tanta necessità di conato, con tanta immortale agonia dell'anima, e perfino con pericolo della propria persona promosso da famosi Pontefici, meritava la scomunica del Papa, io non so più vedere che cosa avrebbe meritato la sua benedizione!...[134]

L'Atto di Accusa afferma che se fosse stata accolta l'ammenda proposta dalla Commissione, si sarebbero forse salvati o rispettati almeno i dubbii e le riserve del Principe, note allora al Ministero. — Esaminando con rispetto le parole della Corona che mi oppone l'Accusa, avvertirò come quella non affermi punto di avere dichiarato al Ministero le sue riserve, bensì essere consiglio riposto nell'animo suo il riservarsi ad osservare lo andamento della discussione. La Corona parla di dubbio manifestato ad alcuni dei Ministri, non al Ministero: in quanto a me, non mi sembra avere udito di questi dubbii mai: dove gli avessi conosciuti, mi sarei ingegnato come poteva meglio chiarirli. E confido, che io glieli avrei molto agevolmente chiariti con queste proposizioni che trovano largo comento nelle cose discorse nel presente Capitolo. — I mandatarii non possono informare il mandato ai mandanti. — Importa e giova lasciare indeterminato il mandato, perchè, discutendolo, potrebbero uscirne norme rigorose, cagione di gravissime difficoltà alla Corona. — Basti avere proclamato alla faccia della Toscana, della Italia e della Europa: 1º questa Costituente tendere a due scopi; 2º non doversi trattare del secondo che ad epoca eventuale e lontana;[135] 3º adesso restringersi a promuovere la guerra per la Indipendenza italiana; 4º non potere cospirare mai a danno altrui; 5º proporsi la comune concordia; 6º quantunque il mandato indeterminato, stare in potestà della Corona e del suo Consiglio determinarlo prudentemente a norma della contingenza dei casi; 7º fin d'ora essere stato annunziato, che al parere della maggioranza degli Stati Italiani avremmo, senza pure aprire bocca, aderito; 8º finalmente avere io (discorde in questo dal Presidente) espresso che intendevo impiegare la Costituente in benefizio del mio Paese e del mio Principe e del Principato Costituzionale in Italia.[136]

Poichè l'Accusa crede discreto allegare il regio scritto, voglia non fargli dire quello che non dice: questo non è decente nè giusto. Ora l'ammenda proposta dalla Commissione suonava così: «I poteri dei Deputati, le forme della elezione, e la epoca della convocazione dei Collegi elettorali dovranno stabilirsi da Legge a parte.» Ciò posto, io non dubito dichiarare come la osservazione dell'Accusa apparisca evidentemente erronea. Immaginiamo accolta la ammenda, quale effetto avrebbe ella partorito? Forse lo scioglimento della quistione? No per certo; sibbene lo aggiornamento accompagnato co' pericoli dell'ansietà delusa, e dal sospetto di fede mancata. È manifesto errore supporre che l'Assemblea legislativa possa conferire mandato alla Costituente nominata dal Paese. Questa dottrina leggemmo professata in questo punto stesso dal signor Moulin negli Ufficii dell'Assemblea di Francia, in proposito della discrepanza insorta intorno a convocare la nuova Costituente, per rivedere tutta o parte la Costituzione, e vediamo oggi avere prevalso negli Ufficii, che a maggiorità di voti si pronunziarono per la revisione totale, o piuttosto per la necessità del non imporre alcun mandato. La ragione per tutti, ma specialmente pei giurisperiti, apparisce chiarissima. Le Camere, o Assemblee, rappresentano la parte di mandatarie; ora quando, per gravità di casi sopravvenuti, è forza ricorrere al mandante, con quale diritto può il primo imporre al secondo l'obbligo di formulare, pel seguito, il mandato nella guisa che meglio desidera? E, come di diritto, egli manca di autorità e di forza. Assurda cosa pertanto. Però sento obiettarmi: E se il Popolo, a cui si aveva ricorso col suffragio universale, avesse conferito mandato illimitato, come avreste saputo limitarlo voi? Per necessità, rispondo, della natura e dello esercizio di questo mandato. Per necessità della natura del mandato illimitato, che appunto, perchè generico, ha bisogno di norme e istruzioni successive; e se queste non prescriveva la Corona, non si conosce chi altri avesse potuto indicarle, ponendo mente che l'azione del suffragio universale versava unicamente sul voto elettorale, e quindi cessava; — per necessità dello esercizio, essendo il mandato nostro di natura complessa, e tale che senza consenso e concorso degli altri Stati rimaneva inane. E supposto eziandio che le istruzioni del Ministero per esercitare il mandato fossero parse a taluno, o a molti degli Elettori, diverse dal suo concetto, egli avrebbe chiesto e agevolmente ottenuto la conferma dell'operato, o, come si dice con parole inglesi, un bill d'indennità; conciossiachè costretto dal voto maggiore di Stati più potenti del nostro, non avesse potuto estenderlo agli scopi desiderati; e averlo speso nella opera della Indipendenza italiana lealmente ed efficacemente, non sarebbe stato piccolo merito. Il Montanelli avrebbe dovuto, dopo pochi giorni, presentare nuova Legge alla Corona intorno al mandato dei Commissarii ch'egli avrebbe richiesto illimitato, a norma della sua dottrina. La Corona avrebbe concessa o negata la discussione della Legge; se negata, il Presidente si dimetteva, e tanto era accettare la sua dimissione pochi giorni prima che pochi giorni dopo; anzi, meglio prima, perchè allora spontanea, e con promessa di sostenere la politica del Ministero riformato; se conceduta, la Camera naturalmente votava o rigettava la Legge: rigettavala, ed ecco ritornare la necessità della ritirata del Ministero, e in questo modo con clamore e scandalo, mentre poteva congedarsi di quieto; la votava, ed allora per tortuoso avviluppamento si replicavano le condizioni medesime del voto della Costituente. Nonostante, piacemi di esaminare le fortune probabili della Legge sul mandato. Se s'intendeva formulare come quello del Piemonte, voglio dire la persona e gli Stati della A. S. si rispettassero, e in quanto agli altri Principi italiani la conservazione unicamente delle persone loro in grado principesco qui in Italia si raccomandasse, è certo che a questa maniera di mandato non avrebbero acconsentito il Papa nè il Re di Napoli; il primo, perchè fuori dei suoi Stati, e poco davvero gli sarebbe premuto restarsi principe di Pontecorvo o di Benevento; il secondo, perchè in quel punto privo di Sicilia. Se invece fosse stato espresso nel mandato, che il Papa e Ferdinando di Napoli avessero ad essere restituiti nelle provincie perdute, e queste allora avrebbero repugnato da una guerra, di cui il fine sarebbe stato costringerle a sottostare nello antico dominio; quindi, invece di concordia per combattere la guerra straniera, avrebbe la Costituente partorito la guerra civile. Di qui veda l'Accusa quanto sia avventata la sua considerazione, messa fuori solo per ismania molta e senno poco di trovare ottimo quanto avversava il Ministero. Nel mare politico del 1849, pieno di súbite procelle e di non prevedibili fortune, era mestieri avventurarci fidando nella propria rettitudine e nello aiuto di Dio; e il mandato indefinito, anzichè nuocere a verun disegno, stava apparecchiato come vela buona ad ogni vento. Se ne persuada l'Accusa; la politica contiene tante latébre così profondamente misteriose, così portentosamente improvvise, che il suo risoluto sentenziare non sembra cosa umana, ma piuttosto divina;[137] però che presagire il futuro e penetrare nei cuori si è di Dio.

E finalmente, se io avessi consigliato la Costituente (mentre all'opposto, già concertata fra la Corona e il Presidente del Consiglio, a me fu imposta come una croce da portare), se io l'avessi, ripeto, consigliata, ed avessi commesso errore, con quanta giustizia l'Accusa vorrebbe oggi incolparmene? — Odasi un po' quello che scrive David Hume nel Cap. 64 della sua Storia della Inghilterra, intorno al processo di Lord Clarendon, ministro sagrificato da Carlo II alla rabbia dei suoi nemici, i quali non paghi della caduta del Cancelliere ne vollero la totale rovina.... — «Molti degli articoli dell'Accusa erano frivoli o falsi.... — Lo avere consigliato la vendita di Dunkerque sembra l'articolo di accusa più importante e più vero; ma sarebbe dura cosa dar colpa ad un Ministro di uno sbaglio di giudizio (se pure fu tale), ove non apparisca segno di corruttela, o di cattiva intenzione.»

Comprendo che adesso, per questa esposizione, io dovrò sperimentare avverse due maniere di gente che già ho provato duramente moleste, voglio dire, i partigiani del Piemonte, e quelli della Repubblica: a entrambi questi (comecchè invano) risponderò breve: « Ministro costituzionale di Leopoldo II, io doveva curare la sicurezza e la grandezza del mio Paese, e del Principe

XI. Di una proposizione contenuta nel § IX del Decreto della Camera delle Accuse.

Il Decreto della Camera delle Accuse, nel membro 5º del § IX, contiene questa proposizione: «La fazione.... si mostrò..... più ardita nei suoi piani sovversivi e criminosi, incoraggiata dal Programma ministeriale del dì 28, il quale preferiva al silenzio per paura il trasmodamento per licenza.» Confrontisi la citazione del Decreto col § del Programma: «Zelatori della libertà di stampa, noi non ismentiremo i nostri principii mai. Fra i due mali, che essa trasmodi per licenza, o taccia per paura, noi scerremo il primo, persuasi che le tristi parole, se calunniose, non reggono, e fidenti ancora nella civiltà del Popolo toscano, presso cui ogni maniera d'intemperanza è febbre effimera, non condizione normale di vita

Così il Programma non esprime sentenza generale, ma unicamente relativa alla stampa; tanto la licenza, quanto il silenzio per paura, dichiara mali; confida che le parole calunniose non reggano, e il Popolo sappia guarire di cotesta infermità.

E sapete voi a che cosa accennasse il Programma con coteste parole? Alle calunnie che i Giornali avversi al Ministero si sbracciavano profferire contro di lui. E sapete voi che cosa avessi in mente io quando dettava cotesto periodo? Le calunnie che emuli ingenerosi (non conosceva ancora le giudiciali) non cessavano avventarmi; e mi studiavo con l'altezza dell'animo richiamarli a un senso di pudore gentile. Le mie vecchie e nuove ingiurie rimettevo, e non le altrui; però che in quel momento mi corresse al pensiero Socrate santissimo, levato in piedi nel teatro di Atene, vincere, con la virtù della mansuetudine, il perfido motteggiare di Aristofane.

Invero, nelle precedenti pagine ho narrato e provato come il libero spaccio della Patria, giornale al Ministero infestissimo, io assicurassi;[138] ho rammentato come S. A. si compiacesse interporre l'alto suo ufficio presso taluno, affinchè la febbre maligna del suo Giornale alcun poco curasse. Il Conciliatore, il Nazionale e gli altri tutti Giornali di Opposizione ministeriale non ebbero a lamentare offesa; anzi qui, nella stamperia di questo carcere delle Murate, consenziente il Ministero, rimborsate le semplici spese, imprimevasi, ostile a lui, un Giornale, e fu lungamente sofferto, — perchè instituito a benefizio di Venezia. Credeva essere magnanimo, e mi trovo ad avere commesso misfatto!.... Almeno così redarguisce l'Accusa.

Però, stupendo a dirsi! mentre l'Accusa ascrive a delitto il parlare di taluni Giornali, appunta come colpa il tacere di tali altri; e pei cipressi dell'Arno durerà famoso il suono delle flebili Elegie dell'Accusa per la figlia della sua predilezione, la Vespa, propugnatrice generosa dell'ordine. — E di più osa: perchè, che cosa non ardiscono le Accuse? Osa tuffare ambe le mani nei vituperii giornalistici, nelle enormezze dell'odio invelenito, nelle bave dell'astio deluso, e spruzzarmi addosso l'empio liquore come una benedizione di acido di vetriolo. — Sta bene.

Ma donando le mie ingiurie, nè donavo, nè potevo donare le altrui. L'adito dei Tribunali era aperto a chiunque si sentiva leso: solo correva rischio, che gli dicessero: non correre tempi propizii per siffatti negozii.

Donando le mie ingiurie, non potevo con una frase di Programma dettare nuove leggi, le quali, impari l'Accusa, nei Governi Rappresentativi si fanno col consenso dei tre Poteri dello Stato.

Donando le mie ingiurie, non intendevo, nè potevo intendere, che le Leggi vigenti non si eseguissero; solo che non avrei proposto Leggi nuove repressive della stampa. La esecuzione della Legge promulgata appartiene ai Magistrati, non ai Ministri. «In questo il Magistrato non riceve forza dal Governo, ma al Governo la partecipa.»[139] Forse ordinai io ai Magistrati che lo ufficio loro non esercitassero? Certo che no; anzi io, vedendo o credendo vedere rilassatezza straordinaria, gli richiamai alla più esatta osservanza del dovere loro; ma correvano allora tempi di sprone, e non bastava; come adesso correrebbero tempi di freno, e chi sa se bastassero! Omnia tempus habent! dice il Predicatore, e ce lo dimostra l'Accusa.

Pare egli ai miei Giudici, che se lo parole del Programma fossero state pregnanti della figliuolanza bruttissima immaginata da loro, la Corona, la quale riposatamente lo considerò, di propria mano lo corresse, e mi fece l'onore di meco discuterlo a parte a parte, arrendendomi io alle savie osservazioni di quella; — pare, dico, ai miei Giudici, che la dignità del Principe avrebbe lasciato inaugurare il suo Ministero con turpitudini siffatte?

La infedeltà delle citazioni, il modo col quale vengono trasportate a cose diverse da quelle che esse contemplano, le induzioni malevole che se ne deducono, non danno opinione che nella presente procedura siasi voluto fin qui trovare la verità, ma un uomo da sagrificare.

XII. Notte del 7 all'8 Febbraio 1849.

Il Granduca lasciava improvvisamente Firenze per Siena, e il Ministero ne aveva notizia dal signor Adami, il quale conferendo nella notte con S. A. lo apprese dalla sua propria bocca. Alcuni dei colleghi maravigliarono di cotesto annunzio casuale, ma io facevo notare come il Granduca ci aspettasse verosimilmente al Circolo, che in cotesta sera correva, e non doveva punto stupirci, se, essendo per mala sorte mancati tutti, ne avesse avvertito quell'unico Ministro che gli era occorso vedere: d'altronde, non doversi guardare tanto pel sottile, dacchè non eravamo mica in Inghilterra, dove la Corona non può uscire nè entrare in città senza certi riti convenuti. Si acquietarono, ma indi a breve presero a correre voci sinistre: il Principe essersi partito per non tornare più; licenziati i servi; questi andarlo propalando pubblicamente. Feci verificare la cosa, e pur troppo trovai che di questa sorta discorsi erano stati tenuti dai regii servitori per le botteghe della via Guicciardini.[140] Avvertasi, che il Partito desideroso del vecchio sistema non rifiniva sussurrare dentro città e fuori: il Principe tenuto prigioniero in Palazzo, a forza costretto di firmare le Leggi; gli andrebbero a genio tutti coloro che alle nuove Leggi non obbedissero, il Ministero avversassero; — ed altri cotali discorsi, che le ultime fibre del Governo tagliando, lo facevano impossibile. Forse erano anch'essi generosi propugnatori dell'ordine? Io non lo dirò, lo dica l'Accusa. Allora fu che scrivemmo a S. A., essere urgente la sua tornata in Firenze; e dove le piacesse prolungare il suo soggiorno a Siena, noi, come inabilitati a reggere il Ministero, lo pregavamo a degnarsi accettare la nostra dimissione. Promise sollecito ritorno: e a me particolarmente mandava gli tenessi tranquillo il paese. Differendo la tornata, parve ai colleghi non dovere trattenersi più oltre a inviare la dimissione: nel presagio di agitazioni, ne avvisai gli egregi uomini Generale della Civica Corradino Chigi, e Gonfaloniere del Municipio fiorentino Ubaldino Peruzzi; i quali partecipando le mie apprensioni, non dubitarono mettersi in viaggio nella malvagia stagione, conducendo seco il Priore Luigi Cantagalli per supplicare S. A. a restituirsi alla Capitale. Andarono; e tornati referirono il Principe trovarsi veramente infermo, sarebbe venuto appena la salute glielo concedesse; sentire anch'egli la sconvenienza della separazione della Corona dal Ministero; desiderare che almeno qualcheduno dei Ministri andasse a Siena. Voleva partire io stesso; ma offerendosi il Presidente dei Ministri, io m'ebbi a restare; in data del 5 febbraio, S. A. mi mandava il Decreto col quale al Ministero dello Interno riuniva provvisoriamente quello degli Esteri. — Partiva il signor Montanelli il 5 febbraio; giungeva a Siena il 6: tornava a Firenze il 7.

L'Accusa aveva sostenuto prima, più sommessamente ha insistito poi, che Siena era tranquilla, e quivi il Principe in pace avrebbe potuto esercitare la regia prerogativa del veto, se il riposato vivere di cotesta città, se le oneste e liete accoglienze non fossero state sconvolte dalla presenza dei signori Montanelli, Marmocchi e compagni. Questo fatto non è vero, nè può esserlo, imperciocchè appaia fuori della ragione delle cose, che da un punto all'altro un Popolo cangi genio e costume; e in altra parte di questo Scritto mi sarà forza tornare intorno a simile argomento. Ora importa rilevare, che la mancata sicurezza in Siena, dovuta, come si dice, alla presenza dei mentovati individui, non sembra essere stato il motivo dello allontanamento del Principe. Non fu timore di sicurezza perduta, ma timore di reazioni ostili che lo persuase a fare così: «Ed abbandono anche Siena, onde non sia detto che per mia causa questa città fu campo di ostili reazioni.»[141] — (Lettera di S. A. del 7 febbraio 1849.) — E queste frasi, se io non vado errato, significano: «Siccome un Partito fa del mio nome bandiera, e siccome io non vo' che si dica avere fomentato conflitti sanguinosi, così cedo al tempo, e mi conduco altrove.» Questa illustrazione poi ho creduto dover fare, perchè è vera, e perchè è onorevole al Principe.

Dicono, che il romano Niccolini precedesse il sig. Montanelli nel portarmi notizia della partenza di S. A. da Siena; e questo sarà. Montanelli è certo che venne più tardi al Consiglio. Le tremende e moltiplici commozioni di cotesta notte, e del giorno successivo, non mi lasciarono distintissima la memoria dei casi, ma io mi ricordo che alla malaugurata notizia io rimasi tutto sbigottito.

Niccolini con accese parole instava dicendo: doversi ormai proclamare la Repubblica e la decadenza del Principe; me avrebbe fatto eleggere Dittatore e Capo; di qui non potersi uscire. E siccome, recandomi coteste proposte incomportabile gravezza, io proruppi in acerbi rimproveri contra di lui; egli diventato a un tratto, di carezzevole, minaccioso e protervo, gridò: noi ti costringeremo!

Questo fatto, che avrebbe forse schernito l'Accusa se riposasse sopra la mia semplice affermativa, come alla Provvidenza piacque, viene provato largamente in processo dagli stessi testimoni ricercati da lei.

Rimasi sbigottito, pensando alle condizioni del Paese e alle mie. Lo Stato derelitto come cadavere sopra la strada pubblica; ogni ordine sciolto; cessata tutta autorità; nessun mezzo da fare riparo... nessuno; su la forza materiale, inferma e poca, non era da contare; la forza morale aveva dato vinto il campo. Nei politici sconvolgimenti, abbiamo veduto sempre afferrare il Potere quel Partito che dura un po' meno disorganizzato; e quantunque più tardi, come già notai, se non si accorda al voto universale, forza è che cada, nonostante in quella prima confusione vince, e domina. Il Partito repubblicano, composto per la massima parte di gente non toscana (chè per essere italiana io non m'indurrò mai a chiamare straniera), appariva poderoso fra noi di armi, di danaro, di uomini prestanti, ed osservava gli ordini di un Consiglio dirigente. Questo Partito, era facile a prevedersi, avrebbe sospinto subito, con estremi conati, la Toscana alla Repubblica e alla Unione con Roma, che già da parecchio tempo con ardentissime voglie provocava. Nè i pericoli di questo avvenimento, comunque gravi, erano i gravissimi; bene altramente mi spaventava vedere dietro ai Repubblicani le turbe inferocite, sferzate dal bisogno e dalla cupida brutalità, che in breve, soperchiati i Repubblicani, avrebbero allagato il Paese come fiume di fuoco. Io per vaghezza di frasi, o per arte di difesa, non annerisco le tinte: i furti cresciuti a dismisura; certe industrie diminuite, altre cessate;[142] e la pertinacia di non volersi ingegnare per altra via; la elemosina pretesa con incussione di paura allo stesso passeggio delle Cascine; i guasti tentati ed anche eseguiti a qualche palazzo, altri minacciati; lavoro improntamente richiesto, più che per altro, a colore di esigere non meritata mercede; miseria così veramente profonda, che poco più poteva esagerarla la menzogna; operaj pretendenti aumento di salario, proletarii in città, pigionali in campagna; Campi, Prato, ed altri paesi tumultuanti non per libertà, ma per fame, — mi empivano di dolorosa ansietà. Nel breve Ministero, non indulgendo a fatica, e quotidianamente interrogando centinaia di persone, avevo tastato la piaga, e rinvenuta troppo più profonda che io non temevo. Questa piaga dura tuttavia, e forse diventa maggiore; vi badi a cui spetta. — Ecco in quali condizioni mi trovava alla presenza di questa gente diventata padrona. Non già, come piace all'Accusa, per tardo pentimento dovuto alle sorti mutate della guerra, od ai consigli altrui, ma per instituto antico mi ero mostrato avverso alla Repubblica; e me falsatore della Costituente incolpavano; il mio nome a segno di amare invettive ponevano; me quotidiane lettere anonime, come traditore, di mala morte minacciavano; persone altra volta benevole mi fuggivano, anzi con ostentazione fingevano non ravvisarmi per via; uomo ligio affatto agl'interessi del Principe predicavano, e non mancava gente usa in Corte che lo affermasse; di ciò andavano attorno le novelle; ciò nei Giornali stampavasi: onde io più volte in quella notte, e dopo, ebbi spesso a prorompere: «Ah! perchè fui gettato come uno schiavo alle bestie del circo?»

Queste, e bene altre cose pensai: ore di passione sono quelle; pure deliberai, potendo, provvedere. I Documenti dell'Accusa, pare che reputino colpa la rassegna dei poteri; ma sembra che essa non abbia avuto tempo o voglia d'informarsi, come, secondo le forme costituzionali, la partenza della Corona, senza lasciare luogotenente che la rappresenti, senza indicare il luogo della sua dimora temporaria o permanente, rompa la macchina governativa. Decreti senza firma del Principe non valgono; le Leggi senza la sua sanzione nemmeno; gli atti governativi, quantunque per la finzione costituzionale non si attribuiscano alla Corona, e ne rispondano i Ministri, pure è forza concertarli con lei: mancata la Corona, mancano il principio e la origine donde i Ministri ricavano autorità: i Ministri, cessata o interrotta la corrispondenza col Capo del Potere Esecutivo, sono morti; mandatarii del Principe per la specialità del mandato ministeriale, si vieta loro esercitarlo nella sua assenza; e tutto questo è ovvio: ora come continuava ad essere Ministro io, con la Corona lontana, in isconosciuta dimora, e per di più disapprovato col veto apposto alla legge della Costituente? — La dimissione per questi motivi era cosa inutile, perchè accaduta, per così dire, ipso jure, appena verificato il fatto in discorso; anzi, conosciute le lettere della Corona, veniva a mancarmi perfino la facoltà di prendere qualunque provvedimento; e se in me cessavano questo diritto ed obbligo, come vorrebbe incolparmi l'Accusa per non averlo preso?

Però non mancai al dovere di cittadino, comecchè potesse essermi venuta meno la facoltà di Ministro. Ne porga testimonianza il Proclama del Gonfaloniere di Firenze: «Concittadini! Nella gravità delle circostanze, dalle quali può dipendere la sorte della nostra Patria, il Municipio si affretta a confortarvi, assicurandovi, che le Autorità e le Assemblee provvedono ai bisogni dello Stato, mentre alla brava Guardia Civica ed alla vostra saviezza, è affidata la pubblica tranquillità in questi supremi momenti più che mai necessaria.» Il Cavaliere Peruzzi, che mi stette al fianco in cotesta notte, può attestare meglio di ogni altro, quali cose lo confortassero ad assicurare così apertamente la città.

Lo stesso dicasi delle Camere. Elleno cessavano di pieno diritto, imperciocchè essendo inviate ad esercitare il mandato dentro ai termini dello Statuto, e di concerto con gli altri Poteri dello Stato, il mandato cadeva mancando taluna delle condizioni necessarie allo esercizio di quello; tra le quali, la presenza della Corona appariva suprema. La volontà annunziata dalla Corona di rimanersi in Toscana, non è affatto capace di screditare la bontà del ragionamento discorso, avvegnachè o abbandonarla affatto, o ridarsi in parte ignota, per gli effetti di tôrre ai Ministri il potere, alle Camere l'autorità, torna il medesimo. Breve; a cagione di questo accidente, il Paese, lasciato a sè stesso, era dominato dalla necessità di provvedere alla sua salute, come gli sarebbe riuscito più acconcio. Nè giova all'Accusa obiettare, che la latitanza della Corona avrebbe durato brevissima, perchè alle Rivoluzioni basta un'ora, e il Governo cessava sciaguratamente nel punto, in cui urgeva più veemente lo sforzo dei Repubblicani per conquistare il fine agognato, più paurosa la minaccia delle moltitudini contro la pubblica sicurezza.

La Difesa forense addurrà copia di Scrittori di Diritto costituzionale, che confermino questo assunto: a me basti l'autorità del Senatore Capponi, cui tributano lode i Documenti dell'Accusa. Egli, dopo la semplice lettura delle lettere granducali, fatta dal signor Montanelli, nella tornata del Senato dell'8 febbraio, arringando favellava così: « In quanto a me dichiaro essere questo mio voto dato con pieno convincimento, e con sicurezza di coscienza. Il Decreto che viene a noi proposto è una stretta necessità, quando ci manca ogni mezzo di comunicazione col Potere Esecutivo: al quale difetto è d'uopo surrogare quei Poteri costituiti, che tuttavia rimangono.»

Io poi crederei fare ingiuria ad uomo tanto reputato, se dopo la solenne protesta di favellare con pieno convincimento e sicurezza di coscienza, mi affaticassi a prevenire il dubbio altrui che egli così orasse per paura, nè la lingua corrispondesse al sentimento riposto del cuore, adoperando come quei perfidi di cui è arte apparecchiarsi ad ogni evento per gittarsi al Partito che trionfa. Cose vili sono queste, e non possono supporsi che da uomini vili.

Ma qui odo obiettarmi: e se presumevate venuto meno il mandato nei Rappresentanti della Nazione, se sciolte le Camere, se cessati i poteri dei Ministri, a quale scopo convocaste voi le Camere? Perchè le chiamaste a spenderlo in cosa alla quale non poteva essere esteso, nè per la indole sua, nè per la intenzione dei mandanti? Perchè voleste che la Legislativa diventasse Costituente? Perchè deponeste nel seno della Camera dei Deputati un Potere del quale vi credevate già privo?

Io feci questo, e meco uomini spettabilissimi si accordarono a farlo, appunto perchè la fazione repubblicana, prevalendosi di tale deplorabile stato, e instando sopra la cessazione di qualsivoglia Governo, non si arrogasse prepotente il diritto di creare a tumulto quello che meglio le talentasse; — perchè le Provincie agitate dai Partiti municipali, non avessero motivo di repugnare;[143] — perchè le deliberazioni prese, se difettose di legalità, presentassero carattere del maggiore consenso in quel momento possibile; — perchè un simulacro di autorità costituita rimanesse; — perchè nel naufragio quanto si poteva di ordine si conservasse; — perchè il Popolo non riducesse in atto il vantato diritto di essere padrone di ogni cosa; — perchè la fazione non precipitasse irrevocabilmente il Paese al passo al quale con tutti i nervi tendeva; — perchè uscisse un Governo, che di tutelare dall'imminente pericolo vite e sostanze assicurasse; — perchè il Paese per delitti infami, o per guerre civili non s'insanguinasse; — perchè i Partiti alle ingiurie estreme non irrompessero, — perchè voi stessi, cui basta il cuore accusarmi, foste dalla procella imminente protetti.... — Quali potessero essere le azioni della plebe e dei contendenti Partiti, ignoravasi; temevansi tristissime.

Nonostante il mio affaticarmi a far credere le Camere tuttavia costituite, vedremo come i Repubblicani, e parecchi Deputati dichiarassero omai cessato nelle medesime il deposito della Rappresentanza Nazionale, la Sovranità del Paese ricaduta nel Popolo.

Chiamai i signori Generale della Civica e Gonfaloniere, e tutta notte circondato da frequente avvicendarsi di persone, conferii ad alta voce provvedendo alla pubblica sicurezza. Come supporre che mentre da un lato, con persone dabbene e principali, prendevansi misure di ordine, dall'altro con facinorosi plebei apparecchiassi il disordine? E avvertite, che io non mi mossi mai dalla stanza. La nequizia immaginata dall'Accusa supera ogni segno, e arriva alla follia. Difficilmente si cercherebbe nella storia personaggio più perfettamente grottesco, di quello che mi fanno sostenere i miei Giudici: bisognerebbe andarlo a cercare in qualche goffa Atellana, — delizia di fiera. Certamente previdi, facile presagio davvero, che nello abbandono del Governo costituito, avrebbero eletto un Governo Provvisorio. Così imponeva la necessità.

Il Decreto della Camera di Accuse afferma che Niccolini rimase con me gran parte della notte (§ 18). Questo non possono avere detto i testimoni, e d'altronde gli osterebbe il fatto, avvegnachè, durante la intera notte, io stessi circondato da moltissime persone che lo attesteranno. Niccolini si sarà per avventura aggirato nel Palazzo, come sovente usava, frugando ora quella, ora quell'altra stanza; ma, che si restringesse meco gran parte della notte, è impossibile materialmente, e per discorso di ragione. Taluno osservò, sarebbe stato salutare consiglio avere a noi i Capi dei Circoli, esortarli a restarsi tranquilli, e contenti a quello che il Parlamento avrebbe deliberato in pro della Patria travagliata; non rendessero disperata con tumulti intempestivi una condizione di cose già di per sè stessa gravissima. Mi parve savio partito, e tale sarebbe apparso, io credo, a chiunque abbia fiore di senno. Non conoscevano il domicilio di Antonio Mordini: dicono che io commettessi a Emilio Torelli di chiamare Francesco Dragomanni: io non lo ricordo, ma sarà; e se ciò è vero, devo averlo fatto richiesto da coloro che vollero adunati i Capi dei Circoli, e perchè egli indicasse, se lo sapeva, il domicilio del Mordini. Vennero eglino, i chiamati, o no? L'Accusa dice che vennero; però vuolsi notare, e credo che dal Processo si ricavi, che io non conosceva i chiamati, se togli Dragomanni, nè li vidi, nè loro parlai: altri conferiva con essi, e dovei ritenere che l'esortazioni fatte ai medesimi fossero conformi al convenuto. Insisto ad affermare, che io rimasi sempre nella mia stanza, circondato dai signori Gonfaloniere di Firenze, Generale Chigi, e, se io non erro, dal R. Delegato Beverinotti, dal Prefetto Buoninsegni, dall'Avvocato Dell'Hoste, con altri moltissimi, che io non rammento, che prego per amore della santa verità, ricordarselo per me, — e spero che lo rammenteranno.

Io già discorsi di questi fatti, perchè il Decreto del 10 giugno 1850, quantunque non mi accusasse, pure diceva, che non vi fu estraneo il Ministero, o taluno dei componenti il medesimo. Strano linguaggio sempre; nelle cose criminali, dove la vita e l'onore degli incolpati pericolano, peggio che strano, avvegnachè fra tutti e qualcheduno la differenza appaia grandissima; nello spazio che passa tra l'una e l'altra frase, cape la innocenza; e trovarci tutti accatastati, presunti colpevoli e presunti innocenti, come legna da ardere in un medesimo falò, non sembra precisamente quella che gli uomini solevano un giorno salutare col nome di Giustizia. I lettori giudichino. Il Decreto del 7 gennaio pareva avermi escluso (§ 59) dalla partecipazione dei fatti, qualunque eglino sieno stati, della notte del 7 all'8 febbraio; ma l'Accusa, paurosa che per questo strappo uscisse lo improvvido tonno dalla rete, eccola pronta a raccattare la maglia, e nel § 83 dichiara, che ebbi parte, e non secondaria, mentre era Ministro e Deputato, nelle conferenze tenute nella notte dal 7 all'8 febbraio, con i Capi del Circolo ed altri agitatori.

Di qui si fa manifesto il bisogno, che i Decreti e le Accuse specifichino esattamente gli addebiti pei quali deve lo imputato rispondere, perchè la Difesa, in diversa guisa, non sa da che parte badare, e mentre attende di faccia, si sente alla sprovvista presa alle spalle. Cotesti sono agguati buoni in guerra, ma io non ho inteso mai dire che i Magistrati abbiano ad apprendere il gravissimo ufficio dell'accusa negli Strattagemmi di Polieno...

Volete vedere come io di lunga mano col Partito repubblicano cospirassi? Come io scavassi la fossa per precipitarvi dentro il Trono Costituzionale? Come io macchinassi cacciare il Principe di Toscana? — Costretto dal rimorso, allegherò per ora alcuni brevi Documenti che daranno, senz'altra ricerca, vinta la causa all'Accusa.

Desideroso di ravvivare con la presenza lo affetto, che pur conosceva portare il Popolo livornese al suo Principe, con queste espressioni io consultava il Consigliere Isolani: «La città è tranquilla così, che si possa presentare a S. A. come una famiglia concorde ed unita ad un padre?» — (Dispaccio telegrafico, 1 novembre 1848.) — E fu risposto:.

Promuovendo Carlo Massei amico mio, e non della ventura, in modo confidenziale nel 9 novembre io gli scriveva:

«A. C.

«Sei Prefetto di Grosseto. Vieni per istruzioni; mando costà Buoninsegni egregio amico mio, e persona degnissima. Gli saranno Consiglieri Corsini e Raff. Dal Poggetto. Non jattanze, non millanterie: assumete dignità pari alla imponenza dei casi, e al concetto che ho dei Democratici lucchesi. Non inasprite gli emuli, fate loro desiderare di tornarvi amici. Fate festa. Consolate il Principe che vive sempre alquanto abbattuto

E tuttavia nel desiderio di procacciare amore al Sovrano, che mi aveva assunto ai suoi consigli, mandava al Governatore di Livorno, con Dispaccio telegrafico del 19 novembre 1848: «Adoperati a mantenere la quiete; o se volete esultare, fatelo per la generosa amnistia concessa dal Principe

Allo scopo di rendere vane le voci, che si spargevano ad arte di prorogata apertura del Parlamento toscano, a motivo di dissidii intervenuti fra il Principe e il Ministero, nel Monitore dell'8 gennaio 1849 così annunziava: «Possiamo assicurare, che tra Principe e Ministero è pieno lo accordo; che fermo sta il giorno per l'apertura del Parlamento toscano, e che se apparenza alcuna d'incertezza vi è stata per alcun ritardo, notato nelle disposizioni necessarie innanzi a questa patria solennità, non nel dissenso del Principe, ma nella lontananza del medesimo dalla Capitale, se ne deve trovar la cagione. Del resto, noi bene ci augureremmo se in tutti gli Stati Costituzionali, Principato e Governo si accordassero così mirabilmente, come tra noi ne veggiamo lo esempio

A Gio. Battista Alberti, alla persona del Granduca attaccatissimo, in guisa riservata mandava: «A. C. Probabilissimamente S. A. verrà solo in Arezzo per ismentire con la sua presenza le triste insinuazioni sul conto suo, e nostro. Io ti raccomando, che le Deputazioni, le quali si presenteranno certamente da lui, lo tengano sollevato, e lo persuadano che la quiete in Toscana non può durare che continuando nel sistema governativo iniziato.[144] »

Nel giorno ultimo di gennaio 1849, avvertito del prossimo sbarco di Giuseppe Mazzini, mandavo al Governatore di Livorno il seguente Dispaccio telegrafico:

«Sento che verrà Mazzini. Il Governo avverte il Governatore ad usare ogni possibile prudenza. Il Granduca è lontano dalla Capitale. Un moto in senso repubblicano basterebbe a non farlo tornare, e questo sarebbe il peggiore dei mali. Qui non si vuole affatto la Repubblica da tutti

Avvisato che Mazzini sarebbe andato a Civitavecchia sotto mentito nome, senza toccare Livorno, rispondo: Sta bene.

Allo annunzio delle voci sparse di fuga del Principe, io ammonisco, con Dispaccio telegrafico del 4 febbraio 1849, il Governatore di Livorno: «S. A. è a Siena, ove cadde ammalato. Firenze è tranquillissima; noi pure lo siamo, e continuiamo a stare in perfetta relazione col Principe. Diffidi dei rumori sparsi dai speculatori di torbidi

Nel 5 febbraio, onde tôrre via il sinistro effetto delle insinuazioni di scissura fra la Corona e il Ministero, pei casi successi a Siena, annunzio nel Monitore: «Cessi ogni trepidazione; la città si rassicuri; la stretta armonia fra il Principe e il suo Ministero, anzichè soffrire alterazione, ogni dì più si conferma

Per isbaldanzire i maneggi dei Repubblicani, e levare loro ogni male concepita speranza, che il Governo potesse sopportarli pazientemente, io componeva e faceva stampare nel Giornale Officiale il seguente articoletto in forma di lettera, che immaginava pervenuta da Roma il 7 febbraio 1849. «I buoni Italiani convenuti qui in Roma, pare che abbiano deposto il pensiero di proclamare la Repubblica. Tutti i frutti, in ispecie i politici, quando sono immaturi, guastano la salute. Piemonte si chiuderebbe in politica isolata, seppure non irrompesse manifestamente ostile. Toscana, noi lo sappiamo, vuole il Principato democratico e repugna dalla Repubblica; — non parlo già del Governo, che io non conosco, ma del Popolo nella sua maggiorità. Così invece di stringerci per la guerra della Indipendenza, avremmo la guerra civile, madre infelicissima di servitù interna ed esterna. A questo pensino tutti quelli che si dicono amanti della Patria. Se vuolsi avvantaggiare la veneranda madre Italia, è un conto; se pescare nel torbido, incendiare un pagliaio per riscaldarsi le mani, è un altro. Ma siccome io reputo coloro che professano concetti repubblicani, uomini di ottima fede, almeno la massima parte, così richiamino la mente alla grave considerazione degli elementi che ci stanno sotto mano, e giudichino nella rettitudine del cuore. Gli uomini sono uomini, e si dispongono con le persuasioni e col tempo; con l'esorbitanze si rovesciano, e inferociscono.[145] »

Ma l'Accusa, che sospetta sempre in me trattato doppio, insorge, e dice: tutte queste sono « lustre, finte, e mostre per parere;» voi tenevate due corde al vostro arco; voi siete l'uomo vafer, atque callidissimus, dei Latini; nella composizione del vostro corpo, per tre quarti almeno, ci entra carne di volpe. Bene! Grazie! La fortuna, fra tante acerbità, mi fu cortese di amici, fra i quali dilettissimo e venerato il signor Giovanni Bertani, che, intrinseco già del padre mio, me lo rappresenta adesso per affetto, per cura, per ogni altra cosa più dolce; e la Istruzione lo sa. Ora può credersi sincero, almeno quello che confidavo a lui: non era destinato a sapersi; dovevano rimanere le mie espressioni riposte nello animo suo. E quando io gli facevo la confidenza dei miei pensieri? Poche ore prima che Niccolini mi annunziasse il successo di Siena, e mi aprisse il disegno di proclamare la Repubblica, e me volere a forza Dittatore. — E come? — Oh! non dubiti l'Accusa: in guisa, che i suoi stessi sospetti rimarranno placati: con lettera, che porta il doppio marchio delle Poste di Firenze e di Livorno. — E che dic'ella cotesta lettera? — Giovanni Bertani, con lettera del 6 febbraio, mi ragguagliava come la città andasse turbata nelle decorse notti con le grida di — Viva la Repubblica! e giorni innanzi un certo tale avere tenuto parlamento al Popolo dalla terrazza della Comunità, in senso repubblicano e comunista. Io così gli rispondeva la sera del 7 febbraio 1849: «Tutto andrà pel meglio, purchè costà non avvengano disordini. Screditate questi mestieranti torbidi e sviscerati della Repubblica per aver pane dal Principato. S... va fischiato. Lo stesso sacramento in bocca sua diventa sacrilegio: vergogna al Popolo che sopporta simili Apostolati.»[146]

Ma l'Accusa (per adoperare il suo linguaggio) dirà: non sono questi atti univoci, non prove limpidissime; gli è forza che vi scolpiate luminosamente, splendidamente; bisognerebbe conoscere proprio quello che ruminavate tra voi altri Ministri, quello che tenevate giù dentro al profondo del cuore. — Ahimè!

Facilis descensus Averni.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Sed revocare gradum, superasque evadere ad auras,

Hoc opus, hic labor est.

Ebbene, voi lo volete sapere? Ve lo dirò. Quando il Presidente del Consiglio partiva per Siena, io gli spediva dietro una lettera in data del 6 febbraio 1849, nella quale, dopo avere dettato al Segretario le notizie pervenute in giornata, di mia mano aggiungevo per poscritto: «P. S. Con Marmocchi e CC. bisogna dare prova sensibile a S. A., che la sua sicurezza impone ch'egli e la sua famiglia tornino subito a Firenze. Bisogna salvarlo anche suo malgrado

L'Accusa ringhia, ma non lascia presa, e pretende la prova della mia incolpabilità avere ad essere sfolgorante come la faccia di Giove quando comparve a Semele. Cotesto fu mal consiglio; troppo volle costei, e diventò cenere... pur va, Accusa, e cenere diventa. — Avvisato dalla signora Laura Parra, che nella notte del 7 febbraio od ella sarebbe andata, o avrebbe mandato (chè ciò non bene ricordo), a Siena, le confidava, breve ora e forse pochi momenti innanzi che giungesse lo annunzio della partenza del Granduca, la lettera qui oltre impressa. Depositata presso persona di fiducia del presente Governo, mi viene ora restituita, affinchè me ne valga a confondere la impronta Accusa, che arreca ribrezzo e accoramento a quei medesimi, i quali nella mia vita politica mi procederono più avversi. — Pubblicando questa lettera dichiaro, che il giudizio quivi espresso da me intorno alcuni individui, come formato sopra notizie altrui, non già sopra osservazioni proprie, è erroneo, ed ebbi a doverlo riformare più tardi. —

«A. C.

« Modena. — Non si verifica, nè si conferma la notizia.

« Civica. — Bisognerebbe ricorrere alle Camere per Legge speciale. Concerto con D'Ayala se può farsi altrimenti; ingaggierei Volontarii per un anno. Stasera conferiremo. I Circoli si offrono pronti a secondarmi.

« Mordini. — Anche per le notizie della signora Laura è un cupo ambizioso che ci mina sotto. Credi potertene servire con sicurezza, o vuoi rovesciarlo nella polvere? Pensaci: dimmelo, e fa come vuoi.

« Andreozzi. — Rimandatemelo subito: ora è necessario a me: nulla giova a voi.

« Roma. — Non hanno proclamato la Repubblica; ed è bene.

« Torino. — Gioberti prevale adesso; ma vuole accostarsi: per me, sempre nei limiti omai stabiliti, accolgo qualunque comunicazione.

« Saracini. — Pensate a sostituire persona democratica, energica, cittadina sanese: se no, vedremo se va Del Medico; ma lo credo difficile. Tenta Dell'Hoste. Io pure lo tenterò.

« Marmocchi. — Avrà quanto chiede: forse no la montura; per domani certamente sì.

« Se non crepo, reggerò ogni cosa. Retrogradi e Rossi mi tengono in subuglio il Paese: bisogna dare una zampata ad ambedue.

«Saluta il Granduca, e digli da mia parte che oggi non gli scrivo, perchè proprio non posso. Non mi muovo più di Palazzo. Abbia coraggio e fede in noi, come noi ne abbiamo in Lui. Cacci via da sè gente che non sa altro che atterrirlo e lasciarlo indifeso; e siccome io non ho mezze misure, — se credi, leggigli anche questo periodo, ed anche tutta la lettera. — Quando può, torni con la famiglia, conquisti e si mantenga i cuori. Diavolo! Vuol egli acquistare fiducia mostrando sospetto? — Alla Granduchessa soprattutto insinua questo; — si ricordi del proverbio: Il Diavolo non è brutto come si dipinge; — e noi non siamo orsi. La mostra (e sei tu) val meglio della balla (che sono io), e questo succede sempre; ma non si offrono angioli per campioni di demonii.

«Saluti a Marmocchi; riguardati; addio.

«Firenze, 7 febbraio 1849.

«Am. o Guerrazzi.»

Adesso che cosa dirà l'Accusa? L'Accusa dice, ch'è evidente come di lunga mano, avanti il 7 febbraio e nel 7, cospirassi a instituire la Repubblica, e a rovesciare il Principato Costituzionale, e a cacciare via il Principe dalla Toscana; — e tale sia dell'Accusa!

XIII. Mio concetto intorno alla Repubblica.

L'Accusa nel § 85 dichiara non importare nulla indagare se io riputassi sempre od in massima la Repubblica forma buona ed accettabile per la Toscana, quando si sa[147] che fui elemento disorganizzatore. — A me pare all'opposto che importi moltissimo, imperciocchè nelle criminali disquisizioni, se io male non appresi nelle scuole, hassi principalmente a ricercare lo affetto che lo imputato può avere avuto a commettere la colpa; ed invero quando non occorra veruna delle cause che i legisti chiamano di delinquere, ed anzi ne occorrano contrarie, viene la coscienza dei Giudici facilmente condotta ad escludere il dolo dall'azione incriminata. L'Accusa da sè stessa discorda, dacchè nel § 83 la vediamo registrare la notizia «che ho interessato altre volte, e sempre per cause politiche, or la Giustizia, or la Grazia;» quasi per dedurre l'abito vecchio a questa maniera di falli; e ciò sta bene, perchè nel suo concetto cotesta sciagurata memoria poteva nuocere. Nel § 85 poi quale sia stata la mia professione politica non importa conoscere; e sta bene, perchè può giovare. E questa ricerca gioverà ad un'altra cosa, voglio dire, a mostrare quale potesse essere il motivo pel quale i Repubblicani me volessero piuttosto Mancipio, che Capo, in potestà di loro.

La insipienza non cessa ingiuriare la Repubblica, come se non fosse e non fosse stata forma governativa di Popoli incliti nella Storia, ma sì piuttosto modo di vivere di gente usa alle rapine ed al sangue. Da parte siffatte stupidezze; e giovi ripetere col signor Guizot: «La Repubblica è in sè forma nobilissima di governo: suscita inclite virtù, ha presieduto al destino e alla gloria di Popoli grandi.»[148] Chiunque dia opera allo studio delle umane lettere facilmente della Repubblica s'innamora, però che i precipui scrittori così greci come latini appartengano al periodo repubblicano; i capitani famosi, le geste sublimi per eccellenza si vedano apparire ed imprendere nelle Repubbliche antiche; nè le Repubbliche del medio evo aggradiscono meno per la vita feconda che le commuove; piacciono le vittorie contro la barbarie; piacciono gli uomini che vi si agitano dentro, i quali, portentosi per certa loro salvatica grandezza, dominano il pensiero. Ancora: filosofi, per istituto di vita o per virtù di fantasia appartatisi dalle condizioni effettuali degli uomini, si dettero a speculare intorno al migliore governo della società, e astrattamente parlando immaginarono ottimo essere quello dove le fortune fossero pari o comuni, uguali le persone nelle prerogative, nei diritti e nei doveri; non doversi fare inciampo alla volontà liberissima col vincolo ingiurioso delle Leggi, conciossiachè lo spirito umano, memore della sua origine divina, avrebbe inteso, senza posa, spontaneo,

Al decente, al gentile, al buono e al bello.

Saturnia regna! — In cosiffatte Repubbliche Tommaso Moro propone che la pena capitale abbia a consistere nello appiccare un cerchio di oro, io non ricordo bene se al naso o in quale altra parte del delinquente. Sogni di Angioli sono cotesti, e Dio faccia tristo colui che desta i sognatori! Ma gli uomini non dormono tutti, nè sempre; la massima parte di loro uscendo dalle astrattezze forza è che si travagli per la dura esperienza della vita. I poeti non hanno a tenere la mano al timone, ma dalla prua del naviglio contemplare lo emisfero interminato, dove è fede che troverà pace l'ansia irrequieta che affatica i petti mortali.

Meditando su le Storie, conosciamo come le Repubbliche abbiano durato fra procelle, e poco; lo esercizio smodato delle virtù che pure le alimentano, averle condotte in rovina; la uguaglianza immaginata, fine a conseguirsi impossibile; se tace la smania di superarsi in ricchezze, subentra più intensa l'agonia di vincersi con le ambizioni, co' brogli ed anche con lo splendore di gesti famosi; per cui Aristide un giorno dirà agli Ateniesi, che, se desiderano pace, lui e l'emulo Temistocle gittino giù nello Apotete. Ella cammina così la bisogna; se togliete via le passioni, e l'uomo è fatto pietra; ma voi non le volete, nè potete tôrre, e allora nelle società corrotte esse partoriranno turpi gare di viltà, e di delitti; nelle sane, emulazioni di studii, ed anche di gloria; nobilissime invero, e non pertanto seme immortale di disuguaglianza fra gli uomini, nè meno delle altre dannose alla Repubblica. Considerate le Storie, vediamo che virtù fa forza, forza superbia, superbia corruttela; e l'ambita grandezza consuma i popoli come macina molare; non mancano però uomini di peregrino intelletto, i quali ostinati in certe loro immaginazioni si voltano alle Storie, e le contemplano non come elleno sono, ma come loro talenta. Io non gli maledico; mestiere plebeo è questo; ma gli assomiglio a quel Don Pietro di Portogallo, che, acceso di amore per la morta moglie, la vestiva di vesti magnifiche, le poneva in testa corona, al collo e agli orecchi monili e gioie, e delirando la volea pur viva. — Essi vi diranno presentare le Storie due periodi, quello dell' autorità e quello della personalità, per mettere capo al terzo, che è il Messia, quello della fratellanza; ma la faccenda procede altrimenti, e troviamo bene spesso, troppo spesso, Stati che invece di progredire verso il periodo ultimo, stornano verso l'autorità; anzi, verso la barbarie; anzi, verso lo assoluto potere della spada. Intendono volere distrutte le disuguaglianze degli averi, della prestanza personale e perfino degli intelletti, e predicano questo quando le disparità appaiono più disperate. Nel secolo che vide Napoleone, Cuvier, Berzelius, e Goethe, e Byron, e Alfieri, andate a parlare di uguaglianza d'ingegni! E quando si arrivasse alla divisione degli averi, io vorrei un po' sapere quanto ella avrebbe a durare, e come farebbero a impedire che nascesse il prodigo e l'avaro, il cupido e il trascurato, lo industrioso e lo infingardo. La società umana non può nè vuole uscire da uno stato che conosce, e che spera migliorare mercè progressive riforme, per precipitarsi dentro un abisso che non conosce, e che teme: omne ignotum terribile. E almeno gli arditi riformatori andassero d'accordo fra loro! Ma no; quegli vuole moneta e proprietà soppresse, questi risparmia la moneta; uno pretende la donna libera, un altro chiusa; chi lascia stare il matrimonio, chi lo abolisce; vi ha chi reputa il suffragio universale ingiuria alla proprietà; non manca chi sostiene la libertà di commercio tirannide commerciale; vi ha perfino chi immagina pagare il debito pubblico della Inghilterra con le uova.[149] Mentre però procurano rovesciare Dio, religione, matrimonio, famiglia, eredità, proprietà, potenza individuale, tutto quanto insomma fin qui venerammo e rispettammo, non sanno dove andremo a cascare. Qualche esperimento hanno fatto, e capitò male: nonostante si ostinano, e forse può darsi, ma non lo credo, che a sciogliere la società pervengano; a riordinarla non mai.

Non ragioniamo di siffatte dottrine che, con molta imprudenza e senno poco, vedo formare perpetuo argomento di qualche Giornale fra noi; certo per imitazione francese, come se noi avessimo comuni con Francia travagli e dolori. Torniamo a favellare delle forme del Governo.

I dottori della Repubblica di leggieri concedono vera la sentenza del Montesquieu, che la Repubblica democratica si fondi sopra la virtù; ma aggiungono subito, ch'egli ha confuso la causa con lo effetto; la virtù dovere essere figlia, non madre di libertà; e questo diceva anche Alfieri: — però aspettare, per vendicarci in libertà, ad avere fatto procaccio, durante il servaggio, delle virtù necessarie per mantenerci liberi, torna lo stesso che condannarci a catena perpetua. Nè siffatto ragionamento è destituito di verità, se non che, invece di giovare alla conseguenza che ne deducono, le nuoce. Di vero, invece di precipitare la umanità a corsa, dove non le basteranno le piante, vediamo un po' se ci fosse verso d'incamminarla mano a mano verso il meglio: se fu cieca e brancolò per tenebre, perchè volere che duri cieca a brancolare per non sopportabile luce? Quando lo schiavo rompe la catena, la sua libertà appare vendetta e delirio;[150] l'adopera in usi pessimi, finalmente si spossa, e allora di leggieri è restituito al pristino stato.

I governi costituzionali pertanto, purchè sinceri (e qui, secondo me, è dove giace nocco), si adattano meravigliosamente alle attuali condizioni della società, nè virtuose tutte, nè corrotte tutte, e piuttosto penzolanti di qua che di là; eglino somministrano forme abbastanza late, dove si può, senza scosse, camminare al meglio; impresa non superiore alle nostre spalle, e però non disperata; sistema nel quale capendo democrazia, aristocrazia e monarchia, l'azione popolare nel progredire vi si afforza con la pratica dei negozj pubblici, con le virtù, e soprattutto col diminuire l'amore per sè, ed estendere l'amore per la patria. In questo modo si evitano le cadute, più dure che non è soave il salire; quello che si acquista si mantiene; delle riforme sociali si promuove quel tanto che i costumi sono apparecchiati a ricevere. La umanità è corpo grave, disacconcia a moti repentini; e quando tu la costringi a saltare, corre rischio che si rompa le gambe o che affranta si accasci. Che qualcheduno la preceda con la torcia accesa a schiarirle il cammino, bene sta; ma non le vada tanto innanzi, che, fissa in quel lume lontanissimo, non veda i pericoli che le si parano sotto i piedi.

Essendo pertanto avvenuto, che uomini, i quali speculativamente si mostrarono parziali a forme di governo latissime, fossero assunti al Potere, nè si trovassero abilitati a ridurre in pratica le teorie manifestate, si ebbero, senz'altro, rimprovero di mutata fede, e di peggio. Accusa, a mio parere, ingiusta; imperciocchè a comporre un trattato e a scrivere un libro basti poca carta e inchiostro e il proprio cervello, ma per condurre un Popolo sia forza consultare i suoi desiderii, i suoi bisogni e la sua potenza. Nè si deve, senza le solite stemperatezze dei Partiti, biasimare chi, vedendo che tutto non si può nè ad un tratto, e forse alcune cose mai, con lealtà di cuore e fede intemerata si mette a raccogliere le possibili. Così non si biasimava Platone, se, avendo scritto il Trattato della Repubblica, si conduceva a Siracusa per mansuefare lo efferato animo del tiranno Dionigi; nè Tommaso Moro, il quale, comecchè dettasse il Libro della Utopia, consentiva a tenere ufficio di Gran-Cancelliere d'Inghilterra sotto Enrico VIII; nè il Moro perciò vendeva la sua coscienza a cotesto re, e lo mostrò con la morte. — E Cocceio Nerva compiacque piuttosto al suo fiero talento, che al bene della umanità, quando, pria che vivere sotto Tiberio, sostenne morire, conciossiachè è da credersi che con l'autorità, la quale esercitava grandissima, e l'amicizia che l'Imperatore gli professava, avrebbe potuto, per avventura, temperare la truce indole di quello.

Migliaia e migliaia di persone, tinte in chermisi fino alla radice dei capelli, presero a impallidire da un lato dopo la battaglia di Novara, e di tanto progredirono, che, svanito anche il verde, dopo il 12 aprile si trovarono perfettamente partiti di rosso e di bianco. Cotesti esempj non fanno per me: prima che la dignità umana abbia a ricevere offesa per mia viltà, prego Dio a ritirarmi la vita. Io non aspettai questo infortunio a chiarire come pensassi della Repubblica, e mi mostrai avverso alla medesima prima dello Statuto, dopo lo Statuto, semplice Deputato, e Deputato e Ministro, libero, e prigioniero. Pei tempi che corrono, o non pare ella all'Accusa siffatta costanza mostruosa quasi?

Nel 19 novembre 1847 ragionando per lettera col marchese Gino Capponi (che in quel tempo erami amico, e potrebbe essermi ancora, se fosse rimasto sempre solo coll'anima sua) intorno ai miei concetti politici, gli scriveva in questa sentenza: «Io vedo, e vedo certo, disordine e impossibilità di scopo a cui tendiamo, per difetto di razionale organismo. Per me la questione è semplice: il Governo cerca forza; hanno a dargliela i cittadini? Se il Governo si mantiene assoluto, no; — se modifica il suo principio convenientemente,. Io, perdurante la mia vita, ho combattuto il primo, e certo non posso nè devo sovvenire che al secondo. Nonostante, se questo mio fosse errore, se dovesse contristare i migliori e più sicuri amici miei, io non rinunzierò alla mia opinione, ma la chiuderò nel mio seno, e romperò la penna, — pregando Dio che voglia abbreviare il termine prefisso alla mia vita.»[151]

Nel decembre del 1847, scrivendo certe mie Memorie, m'indirizzava a Giuseppe Mazzini con queste parole: «Molta terra e molto mare ci dividono adesso: corrono anni ben lunghi che noi non ci mandiamo neppure un saluto: le opinioni diverse ci separarono. Tu inebriato di amore, e confidando troppo nella umana natura, nella casta ed ardente fantasia immaginavi non possibili destini ai tuoi fratelli, e li volevi ad un tratto felici e vendicati dal servaggio che è offesa a Dio ed onta alla dignità dell'uomo. Io, più provato alla dolorosa esperienza, quel tuo soverchio volere non consentiva; e pretendere fuori di misura, mi pareva tornasse il medesimo che non profittar nulla. Ed in questo ancora differivamo, che il bene divisavi imporre ai popoli repugnanti e ignoranti; io poi, forse di soverchio studioso dell'altrui libera volontà, ricusava costringerla anche a quello che per avventura era ottimo[152] E favellando, a pagine 25, delle varie tirannidi che contristano la terra, dichiarava: «Ho provato nella vita occorrere di molte generazioni di tirannidi; nè sempre cingono corona di oro, ma bene spesso berretto frigio; nè sempre muovono dai potenti, ma bene spesso dalla miseria importuna, dalla querula presunzione e dalla cieca ignoranza

Così nei tempi in cui potevasi non solo impunemente confessare, ma anzi tôrre argomento di popolarità dalla confessione di avere promosso o partecipato a sètte politiche, io volli manifestare come avessi mai sempre rifuggito da quelle, e ne dissi il perchè; chiarii dividermi da Mazzini antica e profonda diversità di opinione; lamentai la sua corrispondenza da moltissimi anni interrotta; la tirannide del berretto rosso stimatizzai. Nel medesimo anno pubblicai il libro Al Principe e al Popolo, di cui ho favellato altrove.

Della libertà così vi ragiono: «Della libertà che per esercitarsi offende la Legge, non è da godere: la libertà non iscambiamo con la licenza: quella è vita, questa è morte dei Popoli. — «Di più ragioni io conosco libertà, diceva il Parini: libertà vanitosa, libertà soverchiatrice, libertà ciarliera, con tante altre specie ch'è più onesto tacere: amo la libertà anche io, ma non la libertà fescennina.» — Ed io consento con quel santissimo petto.»[153]

Avvertiva i pericoli dello essere andati prima troppo tardi, e dello andare adesso troppo presto: «Sventura grande nelle società umane è quella, che il tempo non procede mai equabilmente; prima noi camminavamo un'ora dentro un anno: adesso in un'ora precipitiamo un secolo: però, quello che parve ottimo ieri, apparisce disadatto oggi, forse pessimo domani: una grandissima vertigine ci offusca tutti, ed io non maraviglio se alcuno perde la bussola.»[154]

Ma soverchio sarebbe allegare citazioni; solo io prego i lettori esaminare come a pagine 42 prevedessi i moti toscani, ne indicassi le cause, e secondo il mio corto intelletto ne proponessi i rimedj, fra i quali mi pareva efficace quello che il Governo precorresse le voglie del Popolo discretissime allora, riprendesse forza ed autorità, inspirasse fiducia co' fatti, la meritasse, e concedendo anche più di quello che portavano i desiderii presenti, togliesse motivo al nascere dei futuri.[155] Scendendo alle specialità, persuadevo una Rappresentanza di uomini eletti e pagati dalle città, i quali cooperassero alla formazione della Legge.[156] E la forma della consigliata Rappresentanza desiderava non fosse inglese, o francese, o spagnuola, ma italiana, confacente alla indole, ai costumi e alle condizioni nostre, ed in modo che alcuno dei Potentati di Europa potesse con la forza sì, ma non col diritto perseguitare.[157] Non intendevo pertanto che al Principe s'imponessero leggi intorno alla forma della Rappresentanza, pago di quello che suggeriva egregiamente il signor marchese Daniele Zappi in certo suo libro intorno alle condizioni della Toscana: «Se non che tanto ci avanzammo nella carriera politica, che non più risponderebbe alla presente situazione delle cose lo appello fatto ai provveditori delle Camere, e a pochi altri: in quella vece si rende ora indispensabile, che dalle provincie toscane, e in modo alquanto più largo della Romana Deputazione, sieno convocati probi e savii cittadini, che a riformare le Comuni si adoperino col Governo, e che innanzi di disciogliersi sappiano ottenere dalla clemenza sovrana una forma di nazionale Deputazione, come istituzione dello Stato, la quale concorra a coadiuvare il Governo, e valga a sostenere gl'interessi del Popolo, vera ed unica base di nuovo ordinamento politico dello Stato.»

Questa Rappresentanza, come al prelodato Marchese, sembrava anco a me capace di salvare il Ministero dal popolare commovimento, ponendosi fra Governo e Popolo: essa raccoglierebbe le speculazioni degli scrittori politici, e dopo averle ponderate le presenterebbe al Governo; riterrebbe il Popolo da seguitare dottrine diverse, e varii capi, potendo riposare nei suoi Deputati; e finalmente, tra gli eccellentissimi, ottimo il vantaggio che partorirebbe questa istituzione: «guarentendo stabilmente il Popolo dagli abusi del potere; non si potendo godere il bene della giustizia, se assicurata non sia per lo avvenire: e come gli uomini, per buoni che sieno, mutabili e mortali sono, così la continuata e salda guarentigia della opera governativa non può venire dalle persone, ma deve essenzialmente risiedere nelle instituzioni dello Stato.»[158]

Parole poi piene di reverenza adoperavo verso il Principe, e di preghiera,[159] e finalmente concludevo col dire, che: «principio unico e fondamento vero di riforma, consisteva nella rappresentanza popolare cooperatrice alla formazione della legge.»[160]

Ho detto come, chiuso in carcere a Portoferraio, io stendessi una scrittura, che lasciai inedita; perquisita dall'Accusa, si legge adesso, con mio rammarico (però che dei fatti del gennaio 1848 avrei voluto non rimanesse memoria, per onore di quelli che vi parteciparono), nel Volume dei Documenti a pag. 60. Quivi nella parte finale, indirizzandomi al Popolo, lo ammonisco: «Terminerò col darti uno avvertimento, non inopportuno ai tempi che corrono. Le cose di Francia non t'illudano; gli Stati non vivono d'imitazione. Ogni Popolo ha le sue età. Non bene riscosso dal lungo letargo, male imprenderesti a correre. Sta queto. Fortificati. Sviluppa il tuo ingegno con lo studio del reggimento degli Stati. La forma costituzionale presenta campo abbastanza per questi...» E continuo col concetto, e quasi con le parole che stampai nello aprile, e che si leggono qui oltre.

Nello aprile del 1848, dopo cotesta prigionia essendo già pubblicato lo Statuto, dichiarando i principii di varii reggimenti, e cercando quello che, giusta la opinione mia, meglio si confacesse al Paese scriveva:

Corriere livornese, 6 aprile 1848: «Dopo lui (Luigi Filippo), sembrò il Governo costituzionale, menzogna: ma si confortino i diffidenti: il vizio fu dell'uomo, non già dell'istituto; e ricercando per le Storie, non mancano esempj di Principi e di Popoli, osservatori religiosi degli scambievoli doveri. — La lode di Agesilao, dice Senofonte, non può andare separata da quella della patria, conciossiachè Lacedemone fedele ai suoi Re, non imprese mai a spogliarli della loro potestà, e i Re non desiderarono mai poteri più estesi di quelli che dalle leggi venissero loro consentiti.»

Nel N o dell'8 aprile, trattando della Repubblica, termino: «Ora sono eglino in noi animo e costume capaci a conseguire la Repubblica, e, conseguita, a mantenerla? Noi ne dubitiamo grandemente, ed esporremo le cagioni del dubbio.» E nei N. 13 e 19 di aprile espongo i motivi, pei quali non reputo la Repubblica governo adattato al nostro Paese.

Nel Nº del 15 aprile, dico: «La monarchia costituzionale offrirci palestra bastevole a istruirci nella scienza dei Governi.»

Capitale poi apparisce la dichiarazione diretta agli elettori, stampata nel Nº 2 maggio del medesimo Giornale: «Qualunque sieno i pensieri individuali, verun cittadino può imporre a forza la sua opinione al Popolo, arbitro supremo del modo col quale intende reggersi. La tirannide non porta sempre corona di oro; qualche volta la vidi col berretto frigio: la sfidai sotto il primo sembiante; saprò combatterla, alla occasione, sotto il secondo. Per me, il migliore Stato è il meglio governato secondo i desiderii, i bisogni, e le condizioni attuali del Popolo. Però, ove il Popolo si accomodi al governo costituzionale, e prosegua di affetto il suo Principe benemerente, a me non repugna, mandatario fedele, sostenere la Monarchia, purchè Costituzionale davvero.»

Eletto Deputato, fra le infinite allegazioni basti una sola, quella raccolta dalla medesima Istruzione, allegata dalla stessa Accusa, la quale prescelgo per la data, che appartiene al tempo in cui tornava da avere composto la scompigliata Livorno, e per la dimostrazione dei principii politici, che me legavano allora allo scrivente; ed è la lettera direttami nell' 11 ottobre dal Deputato Pigli. «Assisti con attenzione al gran dramma; e quando sarai chiamato, sii presente. Noi vogliamo la Costituzione sincera, e la strada di ogni civile progresso, sgombra da ogni impaccio di vile egoismo. — Se occorre, scrivimi. — Io ti assicuro di tutto ciò che uomo virtuoso può desiderare, e non già per me te ne faccio fede, ma pel Paese mio.»

Vedasi in quella la non sospetta manifestazione degl'intimi sensi di tale, che mi sedeva al fianco nella Camera dei Deputati, e militava allora con me sotto la medesima bandiera, e si comprenda se io fossi lealmente, interamente partigiano della Monarchia Costituzionale. Tale era il mio domma politico; io vi ho persistito sempre, e fu nella fiducia che anche Carlo Pigli vi persistesse che lo proposi al Governo di Livorno,

Assunto al Ministero, tanto più mi approfondai in quello, in quanto che per copia maggiore di fatti venni confermato nella osservazione, che la massima parte dei Toscani fosse alla Monarchia Costituzionale attaccatissima. Invero, primo mio studio come Ministro fu provocare da tutte le Autorità governative, e da tutti i Gonfalonieri del Granducato, rapporti quanto meglio potessero esatti, intorno lo stato politico, economico e morale delle Provincie e Città che reggevano. Commisi, tutti questi rapporti riducessero in quadro sinottico (come proverò in seguito), e dal libro che mostrai a S. A., e rimasto forse allo Ufficio del Ministero, venne a risultare in modo esatto la verità della osservazione intorno ai desiderii del Popolo toscano. Io per me ho sempre inteso, che per governare quanto meglio si può, bisogna porre accuratamente studio a ricercare i fatti. I Governanti, che ai fatti non guardano, o non li curano, o li dispettano, si rassomigliano ai fanciulli, che corrono a nascondere il viso nel cantone, credendo non essere veduti. — Però questo mio sistema mi ha fruttato taccia d'ignorante e di gretto, dal Partito repubblicano.[161] Io posso abbandonare intera alla censura altrui la mia mente, mi salvino il cuore; ma davvero con idee preconcepite, e discordi dal voto universale, io non comprendo a che cosa si riesca, tranne a sobbissare i paesi per soverchia presunzione di sè.

Però nella Circolare del 12 novembre 1848, indirizzata ai Prefetti, dopo avere parlato del periodo procelloso che percorrevamo, dichiaro: «I principii monarchico e democratico possono vivere in pace fra loro, a patto però, che il primo si mantenga leale, il secondo proceda temperato. I re durarono nella Repubblica di Sparta, e progenie inclita di Ercole eroe furono Codro, Agide e Agesilao, onore della umanità. Se il presente Ministero fosse andato persuaso, che Principe e Popolo camminino contrarii disperatamente, non sarebbe salito ai Consigli del Capo Supremo dello Stato

Più oltre: «Alle persone senza consiglio stemperate, dite che noi siamo antichi amici della Libertà, che la nostra fede non può tornare sospetta, che ci ascoltino come fratelli, e sappiano essere più onorato del desiderare nuove libertà, mostrarci capaci di adoperare dirittamente quelle che abbiamo ricevuto

E nella seduta della Camera dei Deputati, come di sopra ho avvertito, bandii solennemente non esser suonata l'ora della Repubblica in Italia; e la generosità del Principe e i suoi meriti presso il Popolo, e l'obbligo di questo a mostrarsi grato, per lo insigne beneficio ricevuto.[162]

Al quale cumulo di fatti vogliansi di grazia aggiungere gli altri riferiti in altra parte di questa Memoria, e si vedrà come io mi fossi pronunziato apertamente contrario alla Repubblica, per calcolo rigoroso di giudizio, e per probità politica; e come esatti manifestassi i principii, guida costante del mio operato, secondo che sarà chiarito in appresso.

Io non posso concludere questa parte del mio ragionamento senza difendermi da un'accusa... ma per questa volta è repubblicana! — Comprendo benissimo, che difenderci di dietro e davanti ella è impossibile cosa; nonostante non consente l'animo, quantunque presago della difesa disperata, abbassare vinto le mani. Come nell'Appendice sarà manifesto, uno scrittore di setta repubblicana con molta querimonia mi appunta che nei destini della Italia io non avessi fede, nè nella virtù dello entusiasmo; freddo calcolatore essere io, e nel respingere il concetto repubblicano mi consigliassi con le dottrine del Machiavello e del Guicciardino. Aborrente, come ogni onesto dev'essere, a giudicare le intenzioni altrui, io raccomando al signor Rusconi leggere e meditare queste parole di Ugo Foscolo, che per certo non fu cuore freddo, nè tepido amatore della Patria e di quanto potesse ridondare in augumento di lei, ond'egli giudichi se in parte potesse farne ragione pei suoi amici, o per sè:

«Quando il Popolo torna a precipitare nella corruzione, allora ad alcuni bennati le teorie sono stimolo a nobile vita, a sublimi speculazioni, a generosissime imprese; ma alla universalità de' cittadini necessitano rimedj desunti dalla esperienza, e consentiti dalla natura dell'uomo. Catone fu d'onore a sè; ma di che pro alla Repubblica? La sua virtù pareva ostentazione, e fu alle volte derisa; però infruttuosa: non doveva piegare i costumi, bensì lo ingegno, alla condizione de' tempi; e se non fosse temerità giudicare di tanto uomo, direi ch'egli era più filosofo che cittadino romano; perchè s'ei non avesse inteso a procurare alla Patria il bene assoluto, avrebbe per avventura, col valersi dello stato d'allora, potuto procurarle quel più di bene che si poteva[163]

Che se il sig. Rusconi e gli amici suoi mi vorranno essere benigni di proseguire nella lettura del libro, che cotesto austero intelletto scriveva proprio per noi, troveranno, spero, argomento di spiegare la mia mente, senza attribuirmi le brutte intenzioni che lo infelicissimo non dirò amore, bensì furore di parte, gli mette in pensiero.

«Ma io adorando la sapienza e la onnipotenza di Dio, e senza arrogarmi di giudicarla, o di bilanciare il meglio ed il peggio di quanto poteva fare o non fare, nè interpretare i suoi fini, mi rassegno ai fatti, benchè discordino dai miei desiderii, e m'ingegno di osservare le prove perpetue, che le cose e gli uomini, come stanno, mi somministrano; e con l'unico lume della esperienza, dirigo fra tante tenebre le mie opinioni a quel poco che io posso in utilità della Patria[164]

E che io poi non meriti anatema, per essermi mostrato difensore e custode del Principato Costituzionale, avverso a scapigliata, debole, e non possibile Repubblica, mi giovi per ultimo citare un'altra volta Ugo Foscolo, che la Italia nostra con le armi difese, con gli scritti onorò, e che morì esule mandando l'ultimo sospiro, lo estremo suo desiderio a lei, e per lei.

«Alcuni esaltando principii di perfezione politica ardono le menti; ma gli animi sono corrotti; quindi ogni tentativo verso lo impossibile, prorompe a corruzione maggiore: testimonio la Rivoluzione di Francia. Non tutti i Popoli, nè tutti i tempi possono tutto: l'esempio degli Stati Uniti di America, popolo nuovo, suscitò il desiderio di libertà nei Francesi, che avevano inveterata depravazione; lo esempio della Inghilterra, che tanti anni addietro aveva per più di un secolo patito le stesse carnificine, dovea limitare i loro desiderii ad ottenere un Monarca, ed una Costituzione....»[165]

E tanto basti per ora.

XIV. Concetto dei Repubblicani.

L'Accusa lo sa, — quando allega la petizione del Circolo fiorentino del 21 gennaio 1849, che domanda i Deputati Toscani sieno presenti a Roma il 5 febbraio per la Costituente italiana: lo sa, — quando riporta la lettera, che afferma emanata dal Presidente del Circolo fiorentino: lo sa, — quando allega il Decreto deliberato nell'8 febbraio sotto le Logge dell'Orgagna, che proclamava la decadenza del Principe: lo sa, — quando narra che il Niccolini in nome del Popolo gridava nella sala del Consiglio Generale decaduto il Granduca dal trono, e sciolte le Camere: lo sa, — quando accenna alla stampa quotidiana, di cui insistente, perpetuo, fu grido fino dal 9 febbraio 1849:

( Alba dal Nº 453 al Nº 456, e dal 463 al 470; — 15 febbraio — 4 marzo 1849.)

«Unione con Roma! Unione con Roma!

«Domani forse sarebbe troppo tardi. Una nota diplomatica potrebbe barricarci il cammino, distruggere con un tratto di penna i nostri voti, i voti di Roma, e le comuni speranze.

«Unione con Roma! Unione con Roma!

«Domani forse lo annunzio della invasione nemica potrebbe chiamarci tutti alla frontiera, potrebbe impedirci di convocare la nostra Costituente, e così obbligarci a rimettere la Unione ad epoca indefinita.

«Un Governo solo di Roma e Toscana; uno scopo solo a quel Governo: la guerra; — una patria sola ai governanti e ai governati: l'Italia.»

Dal Nº 473 al Nº 500 (7 marzo — 3 aprile 1849) diventò più acre.

«Fino a tanto che la Toscana non sia unita in uno Stato solo con Roma; fino a tanto, che il Popolo non sappia su quale principio si fonda il Governo voluto da lui, ed a quel Popolo non si dieno armi, non s'ispiri fiducia; fino a che si lasci sbollire lo entusiasmo, nascondersi infruttuoso il danaro, e gli elementi di esso; insomma fino a tanto che si edifichi sul passato, senza prevedere l'avvenire, — la rivoluzione di Toscana sarà un'amara ironia.»

E ciò in quanto a concetto; in quanto a persone, il Partito piuttosto demagogico che repubblicano, nel timore di non avermi favorevole, nè di potermi dominare con la forza, già da gran tempo s'industriava a scalzarmi sotto, me affermando incapace a rappresentare il vero governo democratico, e a tenermi come un mezzo, come un gradino, e niente più.[166] Qui si accennava chiaramente ad una rivoluzione, e si predicava volerla fare in onta mia. Perchè non proteggevano i Magistrati, non dirò me o il Ministero, ma lo Stato? E sì che in simili faccende « il Governo ricava forza dalla Magistratura, non gliene partecipa! » Nè il Ministro poteva assumere, senza ingiuria della giustizia, le parti di offeso, di accusatore e di giudice.

E il Giornale La Costituente non era qui in Firenze fondato a posta perchè la Toscana con Roma in reggimento repubblicano si congiungesse? E gli alberi della libertà piantati per tutta Toscana, invito il Governo, che cosa volevano dire? E le petizioni dei Circoli, e le deliberazioni dei Municipii, dal febbraio fino allo aprile, che cosa domandavano esse? Non furono compilati perfino processi pei petizionarii della proclamazione della Repubblica, e della Unione immediata con Roma? — A questo modo predicavano cittadini, e stranieri, e Municipii, e Circoli, su per le piazze, e pei convegni. Chi meno era repubblicano più si fingeva; e il nastro rosso crebbe di prezzo due cotanti il braccio pel gran consumo che ne facevano: chi poi fossero quelli che più lo adoperavano, io non lo voglio dire.[167] Dov'erano allora gli sviscerati pel Principe, e pel Principato? — Quali voci d'improbazione si udirono? — Una sola! — e questa voce fu la mia.[168]

XV. Motivo dei Repubblicani nel nominarmi membro del Governo Provvisorio.

È chiarito pertanto per prove manifeste, come io esperto del voto della massima parte dei Toscani, e reverente a quello, mi fossi dichiarato contrario alla Repubblica. Questo sapevano da tempo remoto i nemici del Principato; e non potevano ignorare neppure come questo mio concetto scendesse da esame diligente di fatti, non da mutata voglia, compiacendo a cupidità di potere o a comodo privato. La voce pubblica, come già avvertiva, diceva con particolare benevolenza proseguirmi il Principe, nè mancavano persone intime in Corte, che siffatta voce confermassero. Non vedevano i partigiani cosa che potesse farmi vago di mutamenti; all'opposto ne vedevano moltissime che me dovevano rendere affezionato al Governo Costituzionale. Considerando tutto questo, pensarono, che, lasciatomi andare libero, prima di tutto non piccolo discredito avrebbero toccato i loro disegni; e poi temerono che i Costituzionali facilmente si sarebbero riuniti intorno a me come a centro, ed io, rilevando lo smarrito coraggio di questi, disciplinassi la Opposizione, e quanto macchinavano rendessi impossibile, o almeno pieno di ostacoli. Io non voglio dire che si apponessero al vero nello attribuirmi tanto credito nel Paese; imperciocchè le passioni riscaldino i cerebri, e, secondo il consueto, vedano gli oggetti troppo più grossi di quello che veramente essi sieno; nonostante non andavano errati del tutto: ed invero, il sentimento universale, impressionato da serie continua di dichiarazioni, me reputò sempre amico del Governo Costituzionale. Malgrado le perfide arti di lunga mano apparecchiate per farmi venire in odio alla gente,[169] e malgrado gli atti estorti da prepotenza ineluttabile di uomini e di casi, vedremo i buoni Cittadini riporre in me fino negli ultimi tempi piena fiducia, che reprimendo ogni eccesso, preservando da eventi luttuosi il Paese, senza sangue, senza vergogna, senza scosse violente l'antico ordinamento restaurassi.[170] Il Partito repubblicano, diretto non mica da gente grossa, ma sì invece acuta e arrisichevole, non consentì mai, che le uscissi di mano, disegnò ridurmi in sua potestà per adoprarmi a modo suo, separarmi da tutti, circondarmi, sorvegliarmi, spingermi a suo senno, coartarmi... Dove io fuorviassi... guai a me!

Io non mi sento abbastanza Visconte per usurparmi il privilegio di assassinare senza coscienza come senza pudore la fama altrui. Guardimi il cielo da pensare, che i Capi di parte repubblicana macchinassero disegni di sangue. No. Ma ogni fazione ha la sua morchia, e da questo fondaccio si è visto sorgere sempre qualche uomo perverso; e le minacce suonavano feroci; e le parole ardenti accendono gli spiriti a cose immani, e le passioni politiche pervertono ogni sentimento morale. Il fato di Pellegrino Rossi stava lì a spaventare i più arditi.

Il partito preso dai Repubblicani a mio riguardo apparisce dal volermi Capo o Membro del Governo Provvisorio, non pure inconsulto, ma repugnante e contendente. Niccolini, che fu gran parte delle deliberazioni del Circolo nella notte dell'8 febbraio, può egli supporsi che non abbia informato i convenuti del mio aborrimento dalle macchinazioni loro? Può credersi che loro tacesse i miei rimproveri e l'acerba repulsa? Certo non è da credersi; e allora egli deve avere proposto lo espediente che a me medesimo, con fronte aperta, manifestò, di costringermi a viva forza. D'altronde la violenza ormai era sistema del Circolo, e vedremo più tardi come le fosse lasciata per regola di condotta. — Se, falsando i fatti, si voglia sostenere che me ne andassi volenteroso a concionare il Popolo in piazza, certamente queste verità non si potranno conoscere; ma se si ritenga, come è vero, che il Popolo invadente le Camere, il Popolo giù per le vie me solo chiedeva, a me imperiosamente di mostrarmi ordinava, ed avvisato che ricusava obbedire, e dell'audace risposta — io sto nell'Assemblea, mandava per la seconda volta una turba molto, più numerosa della prima a rinnuovare il comando con tanto furore, che il Vice-Presidente Zannetti,

Pensoso più d'altrui che di sè stesso,

prorompeva negli accenti: «Il Popolo non si frena; andate e predicate rispetto alla vita, rispetto alle proprietà;» se si ritenga, dico, che mi trovai portato di peso giù in piazza, sbattuto e abbattuto; se si ritenga, che sospettosi inquisitori mi si cinsero alla vita, e che furibondi ordinatori mi tennero in perpetua pressura, allora si comprenderà che i Repubblicani mi portarono al Campidoglio sì, ma per precipitarmi dalla Rupe Tarpea.

Chiunque sia, comecchè mediocremente versato nella storia delle commozioni popolari, conosce che i Partiti, allora quando scelgono un Capo, nol fanno già per darsi padrone, ma sì per avere un servo;[171] e dove niente niente e' baleni ad eseguire i comandamenti loro, lo spezzano. Di qui avviene che uomini reputati onnipotenti, inciampando in un filo di paglia, stramazzino: ora, siccome di casi siffatti non fu penuria ai dì nostri, non importa addurre esempj. L'Accusa non ha cercato, e non gl'importava trovare, cosa che io conosco, ed è: che se il 12 aprile non sopraggiungeva, una cospirazione, che si chiamava repubblicana, si era formata per rovesciarmi e per trucidarmi.[172] Da questa parte io mi guardava, ma la rovina venne dall'altra parte dalla quale non mi badava, o nella quale riponeva fiducia di conforto e di aiuto. E di ciò, a suo tempo, saranno addotti i motivi.

XVI. Giorno 8 Febbraio 1849.

L'Accusa insiste, che per bene tre volte, invitato dal Presidente Vanni, io ricusassi restringermi a segreta conferenza. Di questo triplicato invito nè so, nè ricordo, nè mi venne contestato. — So, e ricordo, che alcuni Deputati mi confortavano uscire di sala pubblica, e condurmi a quella delle Conferenze. — Nel Decreto del 10 giugno 1850, il signor Montanelli, che andò a pregare i Deputati onde tornassero nella pubblica sala, è incolpato di averli esposti alla violenza del Popolo; e me, che non volli andare, accusano del medesimo disegno. Sicchè, sia che si andasse, sia che si stesse fermi, al cospetto dell'Accusa, che mi scuoia e mi squatra, non ci è via di salvazione.

Se io pongo mente al tempo e alla cagione delle parole, ricordo che quei tali onorevoli colleghi mi animassero a procurare il ritorno dei Deputati partiti, e che io rispondessi: «È andato Montanelli; basta.» Riprova di questa verità occorre nel considerare, che i colleghi conferenti meco, trascurato lo esempio altrui, restavano fermi nella sala, nè facevano sembiante di volersene andare, la quale cosa dimostra come la Seduta fosse incominciata, e come di conferenze segrete non fosse più a parlare.

L'Accusa non sembra che fra i suoi studii si dilettasse molto di quello dello Statuto; o se le piacque un tempo, poco se lo rammenta adesso; imperciocchè, se fosse altramente, saprebbe che l'Articolo 44 dello Statuto dichiara: «Le adunanze delle Assemblee avere ad essere pubbliche; soltanto su la domanda di cinque Membri potersi il Consiglio costituire in adunanza segreta.» — Il verbale dell'Assemblea non dice che questo rito fosse praticato, e veramente nol fu; e nemmeno dice il verbale che i Ministri ricevessero lo invito di cui parla l'Articolo 61 dello Statuto medesimo. Per altra parte, l'Assemblea quale ha mestieri di consenso ministeriale per costituirsi in conferenza segreta? Di quali informazioni abbisognava per parte dei Ministri? Forse non erano istruiti del successo e del tenore delle granducali lettere il Presidente e parecchi Deputati? Sì certo lo erano, e il Signor Vanni era stato chiamato in Palazzo appunto per questo: oggimai dello infausto evento correva pubblico il grido. E se le Camere non abbisognano del consenso dei Ministri per costituirsi in conferenza segreta, molto meno hanno d'uopo della presenza loro per deliberare i partiti. Il Ministero non costituisce per niente membro necessario del Parlamento; — or fanno pochi giorni l'Assemblea di Francia, non ostante l'assenza del Ministro del Commercio, discusse e votò la proposta su le tariffe commerciali, instando Thiers; — e fu nella Camera nostra dichiarato, in occasione della Legge su l'arruolamento, discussa in parte e deliberata assente il Ministro della Guerra, nella Seduta de 17 agosto 1848. Io ben ricordo avere in cotesta Tornata fatto osservare se non la necessità, almeno la dicevolezza, ed anche il vantaggio della presenza del Ministro per attingerne opportuni schiarimenti; se non che il Deputato Salvagnoli tanto seppe dire intorno alle facoltà della Camera di discutere, e votare senza bisogno di Ministri, che non fu tenuta in conto alcuno la mia osservazione. Non invito legale pertanto, ma consiglio semplice fu dato di conferire in segreto, nè dal mio non seguirlo era tolto alla Camera di prendere quel partito, che le fosse parso più profittevole.

Me poi a non seguitare cotesto consiglio persuadeva copia di ottime ragioni. In prima, la commissione del Principe, il quale con lettera del 7 febbraio ordinava: «Prego il Ministero a dare pubblicità a tutta la presente dichiarazione, onde sia manifesto a tutti come e perchè fu mossa la negativa che io do alla sanzione della Legge per la elezione dei Rappresentanti toscani alla Costituente italiana; che se tale pubblicazione non fosse fatta nella sua integrità e con sollecitudine, mi troverò costretto a farla io stesso dal luogo ove la Provvidenza vorrà che io mi trasferisca.» Da questo il bisogno della urgenza e della pubblicità della Seduta. Inoltre, nella agitazione certissima del Popolo in quei momenti supremi, in affare di tanta importanza, ogni ombra di mistero avrebbe accresciuto le ansietà e inacerbito i sospetti: ogni uomo che abbia senno, di leggieri andrà persuaso che la conferenza segreta, invece di diminuire, avrebbe a mille doppj accresciuto i pericoli del frangente. Ancora, io vorrei che l'Accusa, in cortesia, m'istruisse in che e come la sala privata avesse, meglio della pubblica, difeso l'Assemblea dal Popolo irrompente. Forse la sala privata ha in sè virtù repulsiva, od è munita di ridotti e cinta da bastioni? Forse il mago Atlante vi pose sotto la soglia le incantate olle come al Castello di Carena?[173] Se la sicurezza poteva consistere nella diversità delle stanze sotto un medesimo tetto, l'Accusa avrà ragione; ma finchè non venga dimostrato in che la camera delle conferenze avesse maggior virtù della sala pubblica, egli è certo che i Deputati sarebbero stati esposti ugualmente nell'uno come nell'altro locale. Ed anzi peggio, perchè le angustie del luogo avrebbero, ad ogni evento, impedito l'uscire, aumentati i pericoli. Finalmente, a tutelare l'Assemblea erano state prese le provvidenze necessarie. Il Decreto del 10 giugno 1850 argomentava il reo disegno dal trascurato invio di ordini al Capitano della Guardia Civica stanziata alla porta di sotto, per opporsi allo ingresso della moltitudine tumultuante; ma in qual punto avrei dovuto trasmettergli io ordini siffatti? Prima o dopo l'apertura della Seduta? Se prima, ordini speciali per cosa che s'ignora non se ne possono dare; inoltre il Capitano non riceve ordini dal Ministro, ma dal suo Superiore; e poi il Capitano posto a guardia ha ordine generale di difendere la sicurezza dell'Assemblea; nella quale generalità, naturalmente, rimane compresa la specialità di operare quanto reputa convenevole per adempire il fine della consegna. Lo intento della moltitudine non poteva essere dubbio se, come narra l'Accusa, infuriava tumultuante e schiamazzante, con cartelloni che dicevano, a lettere da speziali, quello che volesse fare. Che cosa altro si domanda per conoscere che l'Assemblea sta per essere violata? Che più si aspetta per sapere venuto il momento della difesa? Se le Guardie, spesso collocate a distanza grande dai Superiori, avessero ad aspettare, via via che la occasione si presenta, ordine speciale per agire, verrebbero a portare sempre il soccorso di Pisa. Ora, nel caso in discorso, io non poteva conoscere quello che si faceva per di sotto, stando nell'Assemblea; e sarebbe riuscito festoso che per me si mandassero ordini per impedire lo ingresso della moltitudine tumultuante, quando la vedeva già entrata! Non so di cose guerresche; ma parmi evidente, che se la Guardia si fosse disposta su per gli scaglioni con le armi abbassate, la posizione sarebbe stata insuperabile.

Però io ho detto tutto questo per tenere dietro alle aberrazioni dell'Accusa; ma ella, che poco sapere le Istituzioni Costituzionali, o ricordare si cura, importa che avverta come il comando della forza armata di guardia all'Assemblea dipenda unicamente dal Presidente di questa. I Ministri, usurpando simile prerogativa, non solo commetterebbero sconvenienza massima, ma colpa. Infatti, nella Seduta del 30 marzo 1849, mentre una mano di Popolo con urli e minacce assai più veementi che quelle dell'8 febbraio intendeva violentare l'Assemblea a proclamare la Repubblica, io mi trovai, o credei trovarmi, forte abbastanza per indirizzare al Presidente queste parole: «Come Capo del Potere Esecutivo, in cui il Popolo intero ha riposto la sua fiducia, io credo dovergli rispondere con atto di coraggio. Se il signor Presidente domanda gente per disperdere gl'iniqui e perfidi perturbatori, io stesso monterò a cavallo.» — E nella Seduta, non meno procellosa, del 2 aprile, il Ministro dello Interno interrogava il Presidente dell'Assemblea dicendo: «Io le ho mandato 180 uomini; che ne fa ella?» E il Presidente rispondeva: «Io ho trasmesso gli ordini opportuni al Capitano del distaccamento della Guardia Nazionale che in questo momento forma il presidio dell'Assemblea.»[174]

Se il Ministro della Guerra raccolse i Comandanti dei Corpi militari per provvedere più particolarmente alla città di Firenze; e fu messo all'Ordine del Giorno, che tutte le milizie starebbero consegnate nelle rispettive caserme; e stabilito, che le milizie, stanziali e cittadine, avrebbero agito promiscuamente dietro ordini firmati dal Comandante di Piazza e dal Prefetto (Atto di Accusa § 53); si persuaderà di leggieri la gente, che alle provvidenze fu pensato.

Ma l'Accusa, che prima aveva rimproverato la omissione delle misure, ora che le trova prese, ci sofistica sopra, e dice, che le milizie dovevano agire soltanto in caso di vera e propria sommossa popolare, e critica quel dovere agire dietro ordine di due autorità dissociate; non si contenta che la Civica fosse mandata alle Camere con numero, mezzi, e istruzioni consuete; bisticcia perchè non avesse posto le baionette in asta, come se tutte queste cose dipendessero da me; gavilla perchè la Stato-Maggiore, e il Generale in Palazzo Vecchio stanziassero, come se potessero stare in migliore luogo per difendere il Senato che sedeva in quel medesimo Palazzo, e il Consiglio Generale che sedeva nella fabbrica accanto!!

Il Ministro D'Ayala fu sempre di parere, che i soldati non si avessero a mescolare nelle popolari sommosse: per queste doveva bastare la Guardia Civica. Se la Guardia Civica non mantiene l'ordine interno, o che cosa ci sta a fare? La milizia stanziale combatte le guerre della patria. Di tale suo concetto espose buone ragioni alle Camere; per questo motivo non fu piccola impresa ottenere i suoi soldati nel supremo accidente; e la doppia firma ha da essere stata regolare, e necessaria secondo la sua superiore esperienza.[175] Che cosa si voglia inferire dalla firma simultanea delle due Autorità dissociate, io non so comprendere; molto più, che per non essere parola italiana l'aggettivo dissociato, non capisco per l'appuntino che cosa significhi; ma indovinando che corrisponda a disgregato, o che forse, domando io, una dimorava in Firenze, e l'altra al Capo di Buona-Speranza? Sentiamo un po': che grande ostacolo faceva questo, o in che le operazioni necessarie avrebbero incontrato impedimento o ritardo? Il Comando di Piazza stanzia in Palazzo Vecchio; il Prefetto come Deputato sedeva alla Camera: distavano dunque forse trenta passi, e tre scale! Che insinuazioni cavillose, che sofisticherie sono elleno queste? E crede l'Accusa, che il Generale Chigi, personaggio chiaro per valore e per ingegno, si sarebbe prestato docilmente a lasciarsi aggirare come un gaglioffo? Riprenda l'Accusa gli aggiunti di vera e propria, che ce li mette di suo, — e fa ufficio di barbaro, gittando nella bilancia iniqui pesi, — e lasci unicamente la sommossa popolare,[176] e veda se fosse venuto tempo di agire (se è vero quello che dice il Decreto del 10 giugno 1850), alloraquando gli agitatori deliberavano, sotto la Loggia dell'Orgagna, imporre un Governo Provvisorio alle Camere, e (se è vero l'altro che referisce il Decreto del 7 gennaio 1851) quando vi si conducevano tumultuanti. Se non presenta carattere di sommossa una turba tumultuante che delibera in pubblico d' imporre un Governo nuovo al Paese, davvero che cosa sia sommossa io non saprei vedere. In quanto alle baionette non messe in asta, le Guardie ce le avevano a mettere; e credo che non le avessero lontane, perchè, se non isbaglio, se le tenevano al fianco. Se anche questo sembra all'Accusa un crimenlese, non ha fare altro ch'estendere la requisitoria, e mettervi dentro anche le Guardie. Sarebbe per avventura anche questa una disassociazione pregna di maligni disegni? Or via; i provvedimenti furono presi, e se rimasero inadempiti, non è mia la colpa. I Circoli invitati a stare fermi, si vollero muovere; le milizie invitate a muoversi, scelsero di stare ferme; ma che, per avventura, devo io portare il peso dei falli di tutto il genere umano?

Nè qui si fermano le insinuazioni; e si trova a ridire perchè fossero chiamati i Capi dei Circoli, e non il Presidente Vanni; perchè nella notte fossero avvertiti i Circoli, e non le Camere. Trattandosi d'impedire turbolenze, era razionale convocare chi potesse reprimerle, e chi provocarle; i primi, perchè alla occasione si mostrassero, i secondi, perchè dal dare questa occasione si astenessero; ed ordinando, o pregando, che i Capi dei Circoli stessero tranquilli, ne veniva per necessità che fosse loro partecipato il motivo della chiamata e dell'ordine. Forse si volle tenere celato il successo della partenza del Principe? Ma non erano il cavaliere Peruzzi Capo del Municipio, e il cav. Chigi Generale della Guardia Civica e Senatore, che ne furono primamente instruiti? Perchè malignare se non fu chiamato il Presidente della Camera? Da questa parte non poteva venire danno davvero, e soccorso materiale nemmeno. Fintantochè non ci dica l'Accusa quale rovina irreparabile abbia cagionato chiamare il Presidente della Camera la mattina per tempo, qual soccorso di forza ci avrebbe apportato l'ottimo e mansueto Cosimo Vanni, che Dio nella sua misericordia dallo aspetto delle odierne miserie in buon punto ha salvato, sarà difficile che la gente trovi, come l'Accusa fa, criminoso un lieve ritardo del tutto fortuito ed innocuo.

Rifinito dalla fatica, agitato da commozione profonda, e da presentimenti tristissimi, dopo avere vegliato tutta la notte, io mi conduco alla Camera deliberato a rassegnare la carica appena il signor Montanelli avesse letto il suo Rapporto. Questa intenzione aveva manifestato ai miei familiari, e a parecchie persone che mi circondavano; sicchè prima di uscire dalle stanze di Ufficio fatto fascio di corrispondenze, e di altre carte private, gittandole sul fuoco, esclamai: «poichè non tornerò più qui, non vo' che alcuno legga i miei negozii!» Mi sentiva preso da sazievolezza, e di salute infievolito non poco; rivolgendomi nell'Assemblea al Popolo sorvegnente, diceva loro: «Rammentatevi, cittadini, che abbiamo vegliato tutta notte: — per conseguenza state tranquilli.[177] »

Il signor Montanelli, appena letti i documenti di S. A., viene interrotto da turba di Popolo guidata dal Niccolini, il quale si annunzia latore di ordini popolari; e poi aggiunge: che il Popolo abbandonato dal Sovrano, il quale è fuggito vilmente, mancando alla sua fede e al suo onore, è rientrato nei suoi diritti.[178]

Sorge fiero tumulto. Il Presidente si è coperto il capo, ha dichiarata sciolta la Seduta, e si è ritirato seguito da molti Deputati.[179]

Di faccia alla rivoluzione che irrompeva, deh! senza ingiuria di alcuno, mi sia concesso dichiarare, che non mi parve quello contegno di bene avvisati Deputati. Chi lascia il campo, si dichiara vinto. Padroni della sala e del Governo già già diventavano il Niccolini e la plebe; — sì, lo avvertano bene tutti coloro che fanno le viste di obbliarlo adesso, — plebe, e quella dessa, che dopo avere innalzato gli alberi della libertà, in onta mia, per estorcere danari, gli abbatteva più tardi per estorcere danari; plebe, che minacciosamente proterva domandava elemosina alla foggia del povero del Gilblas, e ruppe strade, e incendiò case, e manomise le persone, e gli averi; plebe, che anelava gli ultimi orrori; plebe, che, implorando lo aiuto dello stesso Circolo armato, fu forza contenere perchè non isbranasse gli arrestati nella notte del 22 febbraio; Ciompi senza Michele Lando.

Bene altra cura stringeva adesso, che di forme politiche: si trattava salvare la società,... la vita di quelli che ora il beneficio ricevuto disprezzano, — anzi pure vituperano, e rampognano, o accusano!

Si legge il terrore sopra i volti dei circostanti, e i prudenti comprendono a prova il fallo commesso dal Presidente, per avere disertato il seggio. Non così Boissy-D'Anglas e Thibaudeau presiedevano all'Assemblea di Francia in giorni bene altramente terribili! Tacevano tutti. Fra gli schiamazzi del Niccolini, che dall'audacia fortunata reso audacissimo bandisce decaduto il Principe, sciolte le Camere, e il Governo Provvisorio, ed ostenta il mio nome scritto di rosso, che cosa faccio io? Gli ammicco forse degli occhi, gli sorrido facile? Con la voce e co' cenni gli applaudo? Lo abbraccio, lo bacio? Mando al Popolo i baciamani? — Queste cose si costumano fare fra gente indettata nella esultanza dei conseguiti disegni. Ah! io sentii pur troppo in cotesto punto la insidia della fazione repubblicana per tenermi stretto nelle sue tanaglie. Io solo salgo alla tribuna, rilevo la dignità avvilita dei Deputati, ed esclamo: «non potere vedere, che essi sieno stati cacciati così a vergogna. — Qualunque sia la opinione che ci divide fra noi in questa sala, noi siamo tutti fermi e uniti a tutelare con l'ultima stilla del nostro sangue la patria minacciata dai nemici interni ed esterni. Io pertanto mentre rimprovero al Popolo le sue esorbitanze, non posso astenermi di rimproverare anche i Deputati che hanno disertato i loro scanni[180]..... Figli di una stessa famiglia, pensiamo a prendere provvedimenti valevoli e salutari nel supremo pericolo dell'amatissima patria.»

Tutto questo, assai più che con le parole, col gesto concitato, e col guardo torvo, era diretto contro il Niccolini, che si smarriva, rimettendo alquanto della consueta petulanza, e, mal per rabbia sapendo quello che si facesse, si mise a sedere su la pedana del banco ministeriale. Ora, Dio eterno, si può egli supporre, che un uomo il quale avesse eccitato queste enormezze in segreto, ardisse rinfacciarle così aspramente in palese? E si può egli credere, che o Niccolini, o tale altro della Congiura si fosse tolto in pace vituperio siffatto? La mia sfrontatezza avrebbe toccato il termine della insania; la pazienza altrui quello della stupidità.

Intanto Niccolini, ripreso animo, a cagione degl'imperiosi messaggi che il Popolo mandava per invitarmi (e voleva dire ordinarmi) a scendere in piazza, per le apprensioni del Vice-Presidente, pei clamori delle tribune, ed anche per certa imprudente proposta mossa da un Deputato rivolto a me, che tenevo sempre la tribuna, grida: «chiedere la parola in nome del Popolo; avere il Popolo riassunto i suoi diritti, dopo che si era radunato in piazza, ed aveva dichiarato decaduto il Potere; avere di più nominato tre persone per reggere la Toscana, e con Decreto sciolti gli altri poteri.» Quindi cruccioso conclude: — «O voi accettate, e non esiste altro Potere che il vostro conferitovi dal Popolo; o non accettate, e il Popolo penserà a quello che deve fare....[181] »

La turba applaudiva frenetica: difficilmente può significarsi per parole l'amarezza con la quale il Niccolini urlava: «Il Popolo penserà a quello che deve fare.» Per coteste minaccie gli animi degli astanti sbigottivano.

Ed a ragione sbigottivano; perchè, sapete voi che cosa voleva dire « Il Popolo farà da sè?» Voleva dire: il Principe decaduto, le sue case saccheggiate, i servitori manomessi. Voleva dire: chiese espilate, cittadini multati, pubbliche casse vuotate. Voleva dire: leggi dei sospetti, tribunali rivoluzionarii, sentenze scritte col fiele della vendetta e col sangue del furore. Voleva dire: antichi impiegati condotti alla miseria (forse a peggiori destini), e famiglie disperse. Voleva dire tutto quello che una plebe arrabbiata sa fare quando la sferzano le furie della necessità, della cupidigia, e della paura, ed uomini perversi la inebbriano di odio. — Se questa poi sia esagerazione o verità, vedremo tra poco.

Io avevo impegnato un duello col Niccolini, che pure l'Accusa designa audacissimo, ed è vero; pur troppo mi accôrsi che mi poteva tornare fatale; nonostante sperando, che di valido aiuto i miei colleghi mi sovvenissero, me gli rivolgo incontra da capo, ingegnandomi blandire il Popolo, e separarlo per questa via dal suo Condottiere; e così lo interpello: «Perchè pretende egli esclusa dallo aderire alle deliberazioni la parte del Popolo elettissima, che siede in questa sala? Le Provincie non devono essere rappresentate? Non importare ch'elle stieno unite? Se mai le persone indicate accettassero, perchè vorrebbe togliere loro il voto, e l'adozione dei colleghi, per conforto a procedere in una via da ora in poi piena di supremi pericoli, e forse di morte sicura?[182] »

Questo era impedire la dissoluzione del Paese, e dirò quasi un porgere una cima di canapo alla Camera affinchè l'afferrasse, e, diventata padrona della occasione, ardire pari agli eventi mostrasse. Alcuni più ragionevoli del Popolo si lasciano persuadere, e favellano miti parole. Allo improvviso si ascolta nuovo Popolo accorrente con immenso fragore: la sala intronata, pareva che sobbissasse: per questa volta mi sentii cadere il coraggio: temei della mia, ma più assai della vita altrui. In quel momento mi appiglio (ogni altra difesa mancando) alla parte del Popolo, che, prima venuta, si era mostrata proclive alla persuasione, e dirò quasi mansuefatta; la invoco a supremo riparo, e supplicando grido: « Il Popolo guardi il Popolo: non venga introdotta persona.[183] »

Ma il Popolo prorompe furibondo, ed intima con altissimi urli che scendiamo in piazza. Allora fu, che sempre combattendo, e riparando alle parole promettitrici del Vice-Presidente, in atto ortatorio dissi: «Prego ad ascoltare la lettura del Rapporto, e lasciare che l'Assemblea sul medesimo deliberi.»

Niccolini inquieto, avvertendo che il Popolo alla lettura di cotesto Rapporto si calmava, teme la seconda disfatta, onde mi taglia le parole in bocca, e proclama lo scioglimento delle Camere.

Ora qui, da chiunque goda del bene dello intelletto, o per istudio infelice di parte non chiuda gli orecchi alla coscienza, o per turpe consiglio, o per altra qualunque più malnata passione non rinneghi il vero, sarà agevolmente concesso, che se Niccolini ed io andavamo d'accordo non ci potevamo intendere di peggio, conciossiachè Niccolini pretendesse la Camera sciolta; io mi sforzassi a tenerla unita: Niccolini il Principe decaduto proclamasse; io cotesto plebiscito deludessi: Niccolini sovrani i Decreti del Popolo in piazza a sostenere si ostinasse; io a dire che nessuno, tranne la Camera, avesse diritto di proclamare leggi persistessi: per lui decadenza del Principe, e reggimento mutato fossero fatti compíti, e non vi fosse più luogo a deliberare: per me tutto da farsi, e l'Assemblea a risolvere liberissima: il Popolo di scendere in piazza m'imponesse; io dichiarassi non mi volere muovere dall'Assemblea.

Credo che non mi rifiuteranno fede gli onesti, quando dico che, ordinariamente di salute mal fermo, adesso per la veglia durata e le angoscie dell'animo, io mi sentissi prossimo a mancare; pure non volli rimanermi da profferire parole le quali indicassero come per me veruna cosa fosse ancora decisa, e tutto rimanesse a deliberare, vituperassero i tristi, minacciassero gli audaci.

«Da questo momento i Ministri cessano essere Ministri di Leopoldo II, e divengono semplici cittadini. L'Assemblea e il Popolo deliberino il resto. Frattanto abbiamo spedito in tutte le parti della Toscana; abbiamo preso provvedimenti necessarii affinchè un Governo immediato, pronto e vigoroso, possa erigersi per reprimere i disordini che potessero insorgere così per le fazioni infami dei retrogradi, come per le fazioni non meno infami degli anarchici.[184] »

Queste ultime parole erano per quattro quinti dirette alle persone che mi stavano davanti. Errano le carte dell'Accusa (e vorrei credere per inavvertenza) quando affermano che Niccolini intimasse alla Camera di aderire alla nomina del Popolo, però che egli mai disse questo. Il suo concetto era troppo bene disegnato diversamente: egli pretendeva decaduto il Principe a cagione della sua partenza, il Popolo padrone di disporre di sè, ed in fatti disporre sciogliendo tutti i poteri costituiti, e nominando un Governo Provvisorio. Niccolini, latore degli ordini popolari, non poteva fare contro al mandato contenuto nel Decreto del Popolo, che l'Accusa male finge ignorare.

Quando per le mie parole Niccolini tacque, incominciò veramente la discussione. La stessa Accusa dichiara, ed io mi maraviglio come questa confessione le sia caduta dalla bocca, che io solo riuscii a far tacere il Niccolini (§ 77).

Io ho sostenuto, che i Deputati potevano uscire, e usciti non tornare, perchè invero molti uscirono, e parecchi non tornarono, e perchè Niccolini latore degli ordini popolari intimava sciolte le Camere. Dicono che vi furono alcune minaccie di morte, e vi saranno state, ma scarse, e rade così che io non le udii; comunque sia ciò, non toglie efficacia alla mia osservazione, confermata dal fatto dei molti Deputati usciti incolumi dalla sala, e dallo essere andati immuni da offesa tutti coloro cui non piacque tornare. Il Decreto del 10 giugno parlava sempre dell'assenza del Presidente, taceva quella dei molti Deputati. Se il Presidente tornava, lo faceva coartato dalla minaccia della guerra civile, ed anche qui dei Deputati persistenti a rimanere lontani non si profferiva parola, e ciò a bella posta, perchè non si voleva credere che la minaccia della guerra civile non fu coartazione, ma presagio al quale rimasero indifferenti tutti coloro che vollero, e che i pertinaci a stare fuora non corsero danno o pericolo di sorta alcuna.

Invano si nega; se violenza avvenne, e' fu per cacciar via i Deputati, non già per ritenerli.

Dopo che, ridotto al silenzio il Niccolini, s'incominciò la discussione, Cosimo Vanni Presidente con molto grave sentenza impegnava il nazionale orgoglio, affinchè la turba raccolta tacesse, e lasciasse «tranquilli in cotesto luogo i Rappresentanti del Popolo a deliberare quello che deva farsi in così grave e solenne circostanza.»

Il Monitore, il processo verbale della Seduta, non notano che d'ora in poi il Popolo interrompesse. La storia della Seduta raccolta dagli stenografi, e compilata dai segretarii presenti, deve preferirsi a reminiscenze talora inesatte, qualche volta sleali.

Questi Documenti diranno come il Popolo due sole volte disapprovasse il signor Viviani, Deputato di molto seguito, e tutti gli oratori, compreso il signor Corsini, applaudisse. Io non apersi più bocca; assai e troppo l'avevo aperta per mettere in compromesso la mia sicurezza; e quando avessi voluto, non lo avrei potuto, tanto mi sentiva rifinito di forze.

Il Deputato Socci fa la proposta che venga eletto un Governo Provvisorio, nel modo che domanda il Popolo di Firenze. Il Deputato Trinci censura il Popolo per avere preoccupato il voto della Camera venendo a proclamare il Governo Provvisorio, ma conforta a rispettarlo: ambedue questi Deputati dichiarano il Paese senza Governo, la necessità di crearlo, l'ordine pubblico gravemente minacciato. Il Deputato Corsini conviene della gravissima condizione del Paese, e della necessità di supplire al suo Governo con un Governo Provvisorio; aderisce con intero e libero suffragio alla elezione degli uomini distinti che si vorrebbero nominare, solo desidera aggiungervi il Gonfaloniere di Firenze, e Ferdinando Zannetti. Trinci replica che gli eletti potranno aggiungersi coloro che meglio penseranno, non volendo imbarazzare con nomi la libertà che intendeva lasciare pienissima, come pienissima era la sua fiducia, ai tre membri del Governo Provvisorio. Il Deputato Cioni rigidamente pone la quistione che si voleva lasciare velata: Ai termini delle Leggi costituzionali, mancato un Potere, gli altri cessano. Noi non siamo rappresentanti, ma potremo votare come semplici cittadini. Un Governo di 3 o di 5 è cosa indifferente, purchè questo Governo assuma sopra di sè il Governo di tutto il Paese, e pensi a convocare i Comizj, affinchè un'Assemblea nazionale provvegga a' destini del Paese. Viviani combatte il Cioni, e sostiene la mia opinione, che i Deputati rappresentano tutta Toscana, non il solo Popolo di Firenze, il quale non può presumere di rappresentare Toscana intera; però conviene che, mancato un Potere, cessino gli altri; solo restringe la rappresentanza dei Deputati alla facoltà d'istituire un Governo Provvisorio. Insiste su la necessità che i Deputati concorrano col voto a confermare il Governo Provvisorio, affinchè le Provincie lo accettino, e non rimproverino i loro Deputati, reduci a casa senza avervi cooperato. «Non dire questo (egli professava) per amore alla Deputazione perpetua, ma perchè ognuno deve, con freddo coraggio, eseguire il mandato del Paese, e non disertarne la causa, anche sotto lo impero della forza. Quando il Governo sarà consolidato col voto indipendente di tutti noi, io sono il primo a dire che la Camera è sciolta, e che ognuno deve tornare alla vita privata.»

Chi pone fine alla discussione? forse il Popolo? No: il Monitore non lo dice; dice, all'opposto, che la proposizione di troncarla venne dal Trinci, il quale, per amore del Popolo e per la imponenza dei casi, vuole si scenda a deliberare. «Il Governo Provvisorio scioglierà la Camera, se lo reputerà convenevole, e allora lo scioglimento sarà legale; non s'imbarazzino le sue attribuzioni; la Camera ha dato ai tre individui, che vogliamo al Governo Provvisorio, segni non dubbii di fiducia: riposiamoci nelle loro braccia

Zannetti aderisce a Trinci, e invoca solleciti provvedimenti. « Urge, egli dice, una circostanza che non bisogna nasconderci. Il Popolo, in piazza, attende vedere i membri del Governo Provvisorio. Il Popolo non si frena; però questi tre componenti il Governo Provvisorio, approvati dalla Camera, discendano a mostrarsi al Popolo, e gli dicano: Popolo, unione, rispetto alla proprietà, rispetto agli uomini

Tre Deputati insistono per la immediata votazione. Il Corsini aderisce anch'egli. Allora soltanto, il Popolo, plaudente, grida: ai voti, ai voti. — Però quattro Deputati energicamente insistono a dichiarare che ogni Potere è sciolto, che non sono più rappresentanti, e tali diventeranno quando eletti dal Suffragio Universale; — tre votano come cittadini, uno ricusò votare. Segue la votazione; nessun voto è contrario. Io taccio sempre, e, prima di accorgermene, vengo preso, aggirato, passato di braccia in braccia, fino in piazza, rovesciato a terra, e in pericolo di essere calpestato dalla folla delirante, se molti, con furia di spinte e di gomiti, non mi salvavano. Il Monitore dell'8 febbraio, narrando il fatto, dice che fummo portati, e dichiara la verità.

Ora, può egli ritenersi in coscienza che io col Niccolini e co' suoi compagni mi fossi indettato? È egli vero o no che la Seduta dell'8 febbraio ebbe due periodi, procellosissimo il primo, per mia virtù composto, il secondo tranquillo? I miei conati furono diretti a esporre i miei Colleghi alla violenza, o non piuttosto a confortarli e metterli in condizione di opporsi alla furia irrompente del Popolo? Alla discussione pose termine il tumulto, o veramente il consiglio gravissimo di non lasciare il Popolo senza freno, ed il timore, ch'egli, riputandosi sciolto da qualunque governo, non precipitasse in enormezze contro le proprietà e le vite dei cittadini? Chi dirà che i Deputati furono costretti a votare, se molti ebbero facoltà di uscire, dei quali taluno tornava e tale altro no? Chi dirà i Deputati costretti a votare, se la volontà del Popolo era che non votassero, e dalla sala partissero? Chi dirà i Deputati costretti, se alcuni protestarono votare come semplici cittadini, e tali altri si astennero? Chi si assume il tristo diritto di deturpare, alla faccia del mondo, nomi chiarissimi e strascinarli nel fango come di uomini senza fede, sostenendo che mentirono quando ultronei dichiararono di dare il voto con intero e libero suffragio, e non volere disertare la causa pubblica neanche sotto lo impero della forza, e intendere far prova di freddo coraggio? Come può con pudore affermarsi che le attribuzioni del Governo Provvisorio dall'Assemblea s'intendessero limitate, quando non si volle appunto con limiti importuni imbarazzarlo, quando gli concessero libertà pienissima, quando di riporsi affatto nelle sue braccia protestarono? Come, che non gli si commettesse di consultare il Paese col suffragio universale, quando si legge che politicamente fu eletto appunto per questo? — Quanti foste presenti allora, benevoli o malevoli, venite e attestate con la mano sul cuore, se, il Paese stava o no in procinto di sobbissare: attestate s'era pericolo raccattare il Potere caduto in piazza, e se fu merito contenere le turbe furibonde! Attestate se pochi cenciosi fanciulli vi spaventarono, oppure moltitudini imperversanti e diverse! Dite, onesti colleghi: è vero o no, che temendo la ultima ora venuta della società, mi prendeste a mezza vita e mi gettaste in piazza dicendomi: «salvaci o muori?»

Havvi tale che suppone tutti i miei sforzi tendessero a circondare la violenza popolana con sembianze di legalità. Questa supposizione, comecchè ispirata da sensi a me punto benigni, è vera. Il Popolo era padrone quel giorno; ora, se da lui solo muoveva la elezione del Governo Provvisorio, questo avrebbe dovuto, per necessità, eseguire in tutto e per tutto il plebiscito decretato sotto le Loggie dell'Orgagna, e la rivoluzione si compiva. All'opposto, il Governo Provvisorio, appoggiandosi ad altra origine, e sopra un altro mandato fondandosi, non ristretto al Popolo fiorentino, ma esteso a tutta Toscana, rappresentata dai suoi Deputati, creava lo impedimento giuridico di sottostare al plebiscito. Più tardi vedremo i pubblicisti della rivoluzione sostenere acremente questo tema, e il Governo, opponendogli sempre la doppia origine e il mandato della Rappresentanza Nazionale, dichiarare che niente dovesse innovarsi senza il consenso di tutto il Paese. — La Costituente salvò la Toscana dalla Repubblica, o, a meglio dire, dalla Demagogia.

Ogni altro concetto a chiara prova è assurdo, e dimostra stupido e bieco ingegno tanto in cui lo esprime quanto in chi lo crede, o piuttosto finge di crederlo. Invero, dove non fosse stato pel fine poi oltre avvertito, da quando in qua la rivoluzione, che consiste nel sovvertimento delle forme legali, implora il battesimo della legalità? La rivoluzione nasce dalla forza, e in quella si appoggia. Se la forza si mantiene per essa, dura, e si costituisce una legalità nuova; o la forza l'abbandona, e allora, che le giovano non solo le forme più o meno legali di cui seppe circondarsi, ma le promesse eziandio, le convenzioni e i trattati? La rivoluzione dal conservare tutte o parte le istituzioni che ha osteggiato, tutti o parte gli ufficiali del Governo caduto, non ricava forza; all'opposto debolezza, e questo è facile ad intendersi.

Il Decreto del 10 giugno 1850 affermava che io mi condussi ad arringare: osservai, ch'egli era il bel sollazzo davvero buttarsi là, per le angustie di scale lunghissime, in mezzo alla folla imperversata, la quale, se nemica, ti opprime per odio; se amica, ti soffoca per tenerezza. Il nuovo Decreto e l'Atto di Accusa si compiacquero introdurre nella storia una lieve variante: non mi condussi, ma vi fui condotto. Ma perchè non dire a dirittura il vero, che vi fui portato? O che fa tanta paura il vero ai Giudici miei? Perchè non rammentare, che intimato a scendere in piazza recusai apertamente? Tanto sagaci i Giudici, perchè non avvertirono che il Popolo a me solo appellava? Nè anche notarono, che una seconda mano di Popolo, troppo più numerosa della prima, venne per istrascinarmi in piazza? Perchè sfuggì loro, come alla forza fisica si aggiungesse la forza morale dei Colleghi, e segnatamente quella del Vice-Presidente Zannetti, che acceso, come sempre, di amore pel pubblico bene, con fervorose parole scongiurava andassi, e alla pericolante società con ogni supremo sforzo sovvenissi?

Esposta la storia della Seduta come resulta dal Monitore, e com'è vera, a che montano le inesattezze, gli artificii e le insinuazioni nemiche dell'Accusa? — Quello che avevamo a pubblicare a tutti non potevamo comunicare segretamente. Con noi, in qualità di Ministri, non v'erano misure da prendere, perchè, pel fatto dell'assenza del Principe, cessavamo dal Ministero. Più ancora: il Parlamento, se si sentiva capace a provvedere, non aveva mestieri affatto del Ministero nè giuridicamente nè materialmente. Il segreto, impossibile e forse fatale. Popolo, ora composto di ragazzi, di cenciosi e di poca plebaglia; ora minaccioso, fremente, operante irresistibile violenza; ma prima composto e poco; poi nelle Camere si estende e costringe; la quale contradizione grossolana è così apparecchiata a modo di fantasmagoria con fine sinistro, ed è questo: le milizie non si mossero a reprimere, perchè, ordinate contro la vera e propria sommossa, non ravvisarono siffatto carattere nella scarsa, cenciosa e ben composta plebaglia che si condusse a deliberare il suo plebiscito sotto le Logge dell'Orgagna; ma quel medesimo Popolo come uscito fuori del sacco del prestigiatore giganteggia dentro la Camera per giustificare la violenza fatta ai Deputati: però vi era da calafatare un'altra fessura, e per questa trapela l'acqua nella barca storica dell'Accusa, così che minaccia passare per occhio; invero, se poca, di ragazzi e cenciosa era la turba, tanto doveva riuscire più agevole alla Guardia Civica repulsarla dalla Camera. Le pretese minaccie di morte a cui fra i Deputati si assentasse, non impedirono che molti partissero incolumi, e taluno non ritornasse. La discussione vi fu, e obiettiva, non terminata da violenza popolare, ma per volontà dei Deputati pensosi non tanto del Popolo presente, quanto del Popolo rimasto senza freno a imperversare per la città. Al Governo Provvisorio furono date amplissime le facoltà di provvedere alla salute della Patria, e per convocare i comizii, onde il Paese sopra le sue sorti si consultasse. Se in quel giorno, e nei successivi, e sempre, il partito d'interpellare il consenso universale alla prepotente violenza della fazione non si opponeva, io vorrei che mi dicesse l'Accusa che cosa mai avrebbe saputo ella opporre? Il mio detto, che non temevo del Popolo, riportato con tanta ostentazione, che cosa poteva significare se non che fiducia che il Popolo non trascorresse a iniqui fatti; fiducia, che, onorandolo, giovasse a confortarlo e a persuaderlo di frenarsi? Forse egli importa che l'atteggiamento del Popolo non fosse pauroso, o forse, che sempre uguali si mantenessero le condizioni dell'animo mio? Riguardo allo avere accettato favellerò fra poco.

Intanto giovi riportare la opinione di un Giornale a me infestissimo, organo del Partito avverso al mio Ministero, la quale varrà a chiarire come i Deputati, senza la spinta del Popolo, avrebbero eletto un Governo Provvisorio:

«La fuga del Capo dello Stato e la dimissione del suo Ministero, alteravano sostanzialmente la economia del Governo Costituzionale, e imponevano la necessità alle Assemblee legislative di provvedere per qualche modo straordinario ed eccezionale al reggimento dello Stato. Questa necessità era nella mente di tutti; e dove il Circolo politico non avesse invasa l'Assemblea ed imposto il suo voto, il Consiglio avrebbe deliberato un Governo Provvisorio.[185] »

Ma via, sopra tutto questo diamo di spugna; — frego, e da capo. Immagini l'Accusa di essere a sua volta tradotta davanti un Tribunale (e non deve riuscirle a immaginarlo difficile, imperciocchè al cospetto della coscienza pubblica ella stia quanto me, e forse più di me), e risponda. Se l'uomo che ora è segno a scellerata ingratitudine, nel giorno ottavo di febbraio 1849 non aveva cuore per voi altri tutti, che cosa sarebbe accaduto della Toscana? — Dirà ella, che la parte repubblicana, la fazione demagogica e le plebi cupide e feroci avrebbero quietato? Da quando in poi i leoni posano prima della preda? E chi avrebbe tutte queste forze contenuto? Per propria loro deliberazione sarebbono per avventura quietate? Questo, io penso, comecchè ne abbia dette delle marchiane davvero, non voglia affermare l'Accusa. Dunque: i Deputati? Ma se l'Accusa ce li dipinge sbigottiti disertare il campo! Noi Ministri? Ma se l'Accusa c'incolpa per non essere fuggiti ancora noi! La Corona? Ma se in quel giorno errava incerta del luogo dove l'avrebbe condotta la Provvidenza! La Guardia Civica? Ma se l'Accusa ci racconta, ch'ella riponeva la baionetta nel fodero! La Milizia stanziale? Ma se senza ordini non si muove; e chi glieli potesse dare mancava, per non dirne altro! I Cittadini di parte avversa? Ma se il Governo nel 22 febbraio non gli salvava dal furore della moltitudine, questa gli avrebbe sbranati! — Chi dunque ha impedito che nel giorno ottavo di febbraio la rivoluzione allagasse tutte le terre della Toscana nella pienezza del suo trionfo?

O Giudici, con quella mano stessa con la quale ora vi basta l'animo scrivere accuse contro la mia costanza, quali non avreste vergato improperii al mio nome, se per viltà fuggendo vi avessi lasciato in balía alle furie rivoluzionarie? O Giudici, ditemi, la mano con la quale tracciate le accuse disoneste, non è quella dessa che scrisse per me uno dei trentamila e più voti, co' quali il Compartimento Fiorentino volle onorare i miei travagli sofferti in pro del pubblico ordine? Ah! voi sfondate gli ombrelli adesso ch'è passata la pioggia? Come padri di famiglia, io vi tenea più provvidi.

Stupendo a dirsi, quanto a considerarsi angoscioso! Giustizia mi viene donde io non l'aspettava. Nel Giornale intitolato La Civiltà Cattolica, fascicolo 27, a pag. 366 leggo: «Dal 12 aprile 1849, che il Guerrazzi venne arrestato nel Palazzo Vecchio, e chiuso poi nel Forte di Belvedere, ha passato i suoi giorni prima nella Casa di Forza di Volterra; quindi nel Carcere penitenziario delle Murate di Firenze, ed ivi tuttora si trova.

Grande sarà la curiosità pubblica di questi dibattimenti. È forza però convenire, che a lui ed alla sua stessa ambizione,» (se ambizione di far del bene, forse non crederò mi disconvenga la parola), « non che alla penetrazione dello ingegno, dovè la Toscana non essere caduta allo estremo dei disordini e delle rovine demagogiche. Ed egli ben lo sa; anzi è fama avere detto, nell'atto che fu preso: — Se i Fiorentini avessero due dita di cervello, e mezza oncia di gratitudine, mi dovrebbero alzare una statua.» (Questo già non dissi, ma nulla in sè contiene, che con alquanto più di modestia non senta avere potuto dire io.)

Per siffatto modo i Gesuiti rendono a me quella giustizia, che Magistrati Toscani mi hanno acerbissimamente negata fin qui. E sì che i primi, davvero, non mi vanno debitori di nulla, mentre i secondi, io penso, mi dovrebbero pure qualche cosa! Io quante volte ho posto l'articolo dei Reverendi Padri a confronto con gli atti dell'Accusa, non senza riso mesto ho ricordato quel detto romano che andò su per le bocche degli uomini, quando Urbano VIII dei Barberini spogliava del metallo corintio la vôlta della Basilica di Agrippa rispettata dagli Unni e dai Goti:

Quod non fecerunt Barbari fecere Barberini!

Dopo questa storia di fatti, desunta dai Documenti autentici, diventa più chiara la quistione, imperciocchè ella deva formularsi così: fui io provocatore o complice delle macchinazioni della parte repubblicana precedenti il giorno 8 febbraio? Il Giurì della pubblica coscienza, io confido, dirà: no. Allora ne scende per necessità questa deduzione: che se non fui complice, ne fui oppositore a un punto e bersaglio.

XVII. Mia situazione in Piazza.

Vi rammentate di Mazzeppa legato sul dorso del cavallo indomito? Tale io era fatto, per opera dei faziosi, di faccia al Popolo, ed anche per gli scongiuri della stessa Camera dei Deputati. La rivoluzione mi stava davanti con le sue mille teste, con le sue mille braccia, palpitante e smaniosa. Quanto possano il sospetto e la paura sopra le moltitudini agitate ogni uomo che legge storia conosce. Plaudivano adesso le genti, ma da un punto all'altro disposte a diventarmi prima carnefici che giudici. Intanto inquisitori, a modo dei Veneziani, mi si stringevano al fianco. Dirò cosa non credibile e vera, che, avendo retto il Popolo di Livorno e quello di Firenze, mi è sembrato il primo, quando imperversa, a trattarsi più agevole del secondo; della quale cosa ricercando sottilmente la ragione, mi parve trovarla in questo: che il Popolo di Livorno, per natura impetuoso, trascorre in escandescenza per motivi lievissimi e con molta facilità; ma o tu lo lasci sfuriare, e quel fuoco per difetto di alimento si estingue subito; o ti riesce gittarvi dentro una parola di senno autorevole, e, non altrimenti che per acqua, si spegne del pari: il Popolo fiorentino, all'opposto, è mite d'indole, arduo a muoversi, però causa grande ed eccitamento potentissimo si richiedono a spingerlo; ma spinto che sia, la difficoltà di acchetarlo sta in proporzione della difficoltà di agitarlo: le parole non bastano; procede concentrato e feroce. Considerai la insidia dei Repubblicani che mi si tenevano come vincitori davanti, quasi volessero dirmi: «ti faremo noi Repubblicano per forza.» Niccolini allora comandava onnipotente; una sua accusa poteva perdermi; ed io lo aveva, in pubblico, mortificato e costretto a tacere. L'accusa veniva spontanea; chè a colorarla bastavano, e ce ne avanzava, le circostanze dell'essermi io sempre mostrato avverso alla Repubblica, parzialissimo del Principato Costituzionale; le voci sparse della benevolenza singolare del Principe; i perfidi sospetti, non senza frutto, insinuati tanto a Livorno che qui; finalmente il contrasto pertinace opposto ai voleri del Popolo nella Seduta della Camera. Reputano i miei Giudici subdolo trovato di difesa, se, mentre tanti e poi tanti appena curati, o non curati affatto, addussero a giustificazione dell'operato, e loro valse, il pensiero di provvedere alla propria sicurezza, affermo che ancora io badai un poco a me, io che mi ero posto a duro cimento e mi vedevo circondato da gente nemica e da Popolo sospettoso. Io aveva detto: «Chi si sente capace di operare in guisa diversa, sorga e mi accusi.» I Giudici sono sorti e mi hanno accusato: io devo confessare che ammiro il più che spartano coraggio di loro. In quanto a me, sono uomo, nè cose sopra natura so fare: non temo la morte, imperciocchè tosto o tardi, e tutti, e in breve, dobbiamo morire; pure, da morte sanguinosa e senza onore repugno; nè per leggere che io abbia fatto storie mi venne fin qui incontrato uomo cui dilettasse cadere sotto ignobile ferro. Io ero solo. Il Municipio, rappresentato dall'egregio Gonfaloniere, pregavami a non abbandonare in quel pericolo la Patria, e prometteva valido aiuto. Così pregava eziandio la Guardia Civica per l'organo del suo degno Generale, che si affrettò, in Senato, di aderire al voto del Popolo. Il personaggio tenuto come Capo della Commissione governativa del 12 aprile, nell'8 febbraio pronunziava parole gravissime per giustificare quello che il Popolo esigeva. — Io non incolpo nessuno; solo vorrei che quello che bastò ad altri o non costretti, o poco, potesse bastare a me, sottoposto a ineluttabile pressura.

Nè si trattava di me solo, ma, nell'universale sbigottimento, meco dovevano salvarsi i miei compatriotti tutti, la pericolante società.

Qui cade in acconcio favellare dell'accusa appostami nel § 52 del Decreto del 7 gennaio 1851, e ripetuta in seguito, di non avere abbandonato la posizione che poteva strascinarmi o farmi perseverare nella via del delitto.

Non vi era luogo a renunzia: non si offeriva lo ufficio come cosa che potesse rifiutarsi o accettarsi. La moltitudine imponeva, e fu dimostrato. Guardia Civica, Municipio, Deputati instavano a salvare la vita e le sostanze dei cittadini. Quando il naufrago chiede soccorso, possiamo ricusarlo per debito di coscienza? Se curando il mio proprio interesse avessi duramente respinta la preghiera, e se questa durezza avesse partorito i mali che pur si temevano, e che sarebbero stati inevitabili, in qual parte di mondo potrei sollevare io adesso la faccia svergognata? — Dove sarebbero andati i familiari del Principe, ai quali, con Decreto del 10 febbraio 1849, d'accordo con P. A. Adami, riuscii a mantenere le pensioni? Dove gl'impiegati? dove voi stessi, o Giudici che mi accusate? Ma lascio della ingratitudine atroce: e in qual modo potevo sottrarmi io? E non avete saputo che nè notte nè giorno mi abbandonavano? Che, pieni di sospetto, specialmente nei primi tempi, mi seguitavano come ombra? Voi lo avete saputo, ma lo dissimulate. E dove fuggire? A Livorno forse? Sì certo, perchè, come traditore, mi ponessero a morte! A Roma...? In tempi di rivoluzione, difficile e piena di pericoli è la fuga, anche apparecchiata da lunga mano. Il Decreto dovrebbe sapere qual maniera di gente stanziasse allora in Firenze; Romagnoli e Romani, che a rinnuovare la strage di un supposto Rossi avrebbero reputato ottenerne merito presso gli uomini e presso Dio: e senza uscire di Toscana, il Frisiani, caduto in sospetto, quale acerbissimo fine non ebbe egli a patire!

Egli è impossibile giudicare di cose politiche, senza lo studio o la pratica degli avvenimenti politici. Un uomo, comecchè mediocremente versato nelle storie, consapevole del come il Popolo commosso proceda inesorabile nella sua vigilanza, non avrebbe domandato: Perchè non fuggiste? E molto meno poi della omessa fuga avrebbe fatto accusa. Questo uomo si sarebbe sovvenuto, che non riuscì la fuga a Carlo I, nè a Giacomo II, nè a Luigi XVI. Carlo II si salvò per miracolo nascosto nella quercia reale: delle regie, e pontificali fughe dei più recenti tempi a me non importa discorrere; basti rammentare che non vennero operate senza difficoltà, e precauzioni grandissime. Nella prima rivoluzione di Francia (e correva sempre l'anno 1789), il barone de Bechman, maggiore del reggimento Guardie svizzere, era strascinato alla Comune solo perchè la sua carrozza, scendendo il Ponte Reale, volse a sinistra dalla parte di Versaglia. Bonseval dal Municipio di Villenasso è sostenuto prigione; Cazalès, fuggendo l'Assemblea nazionale, si trova arrestato a Caussade; l'abate Maury, quantunque travestito, viene fermato a Peronna; all'Aura di Grazia traducono in carcere il duca de la Vauguyon e il suo giovine figliuolo, che pure mentivano abito, professione e nome. Delle fughe tentate e capitate male più tardi, basti accennare appena: Roland costretto a trapassarsi il cuore con la propria spada, e Condorcet a prendere il veleno; dei profughi Girondini ve ne furono perfino taluni divorati dai lupi; al solo Louvet riuscì lo scampo mercè le cure portentose di amantissima donna. Ecco come si riesce a fuggire dalle rivoluzioni. Veramente, se i Giudici pensano che per me si potesse abbandonare lo ufficio con la medesima comodità con la quale, giunti gli ozii autunnali, mandasi pel fattore onde ne aspetti col calesse alla Stazione della strada ferrata, e ci conduca in villa a far vendemmia, hanno ragione di appuntarmi per la mia permanenza: ma la cosa non è così; e la storia ammaestra come nè anche ai Principi, potenti di danari e di aderenze, sia riuscito talvolta fuggire; sempre poi con pericolo. Il cittadino privato, in cosiffatte fughe, perde o la vita o la fama, e sovente ambedue.

Pietro Augusto Adami dal Decreto del 10 giugno 1850 venne a ragione scusato della sua permanenza in ufficio per le mie insinuazioni, che lo impressionavano di vedere ridotta a mal partito la casa e famiglia sue per l'enormezze dei faziosi: ora questi timori non partecipava io, e bene altramente gravi per me? Forse si dirà (e così mi bisogna procedere, perchè quale vituperosa supposizione ha risparmiato l'Accusa a mio danno?) che senza sentirle simulava io coteste paure per inspirarle in altrui? Or come, anche all'amico, anche all'uomo che conviveva meco? E quantunque io glielo indicassi, non aveva egli senno, non aveva occhi ed orecchi per conoscere se io gli dicessi il vero? Queste insidie noi, la Dio grazia, non siamo usi a concepire nemmeno, e tanta pravità supererebbe perfino la immaginazione infelice di chi per mestiere maligna su la natura umana; nè il Decreto la suppone nemmeno. Dunque si ha da ritenere, che siffatte apprensioni palesate fra amici, nella intimità delle domestiche mura, dovessero essere troppo bene sentite, e pur troppo vere. Ed io non avevo casa allora, non avevo famiglia allora (ahimè! adesso mi sono state spietatamente rovinate, e disperse), non ho cuore io come l'Adami? La mia forza è ella come la forza delle pietre? la mia carne è ella di rame?[186] — Oh! non è questo il solo punto dove con inestimabile amarezza ho veduto che i medesimi Giudici adoperano due pesi e due misure. Pietro Augusto Adami è scolpato per essere rimasto in ufficio, dietro le istanze che gli muovevano spettabili persone, timorose che la Finanza cadesse in mani pessime. E me non pregarono? No? Me la cittadinanza àncora ultima di speranza chiamava; a me i servitori stessi di S. A. come a rifugio estremo ricorrevano; me impiegati principalissimi, mantenuti tuttavia in carica, scongiuravano a non disertare lo ufficio con rovina sicura del Paese e di loro; nè questo già mi dicevano in faccia per piaggeria, ma nelle private lettere lo predicavano ai lontani, ma nei penetrali della famiglia, ma nei fidati colloquii con gli amici non rifinivano ripetere; e quando più tardi, indignato degl'improperii di parte repubblicana, dichiarai volermi dimettere, la grande maggiorità dell'Assemblea per lunghissima ora non supplicò, che io non volessi mancare nel maggiore uopo al bisogno della Patria?[187] — Del Municipio, della Guardia Civica e dei Deputati, ho detto qui sopra. Oh! chi sa, che quelle mani... — ma che dico io, chi sa? — quelle mani stesse, che vergarono la ingrata Accusa, scrissero il voto di fiducia a mio favore, volendo allora tributarmi l'onorevole approvazione pel mio operato! — Ma ahimè! il sentimento della gratitudine s'inaridisce più presto della lacrima dell'erede... Io, invitato ad usare le mie scarse facoltà in benefizio del mio Paese, non ho mai rifuggito, comecchè con mio carico grande; e se nel 12 aprile io non lasciai Firenze, e' fu perchè mi pregarono interpormi, onde Livorno aderisse di quieto alla restaurazione del Principato Costituzionale: poi si scoperse essere un tranello cotesto; ma il mondo dirà da qual parte stia la vergogna, se dalla parte dei venerabili personaggi che dello amore di Patria fecero insidia, o dalla mia, che mi lasciai prendere a quell'amo!

I Giudici commendano Adami per avere conservato gl'impiegati: ma io feci di più; un segretario antico e benemerito del Ministero dello Interno, Ambrogio Piovacari, me istante, fu promosso a Consigliere di Stato, e nel suo ufficio posi la persona ch'egli stesso mi designava. Frequenti lettere anonime mi confortavano, ed anche minacciavano, a dimettere un altro Segretario, il Signore Allegretti. Io gli mostrai le lettere, gli dissi reputarlo, qual è, onesto, e, per quanto stesse in me, volerlo conservare in ufficio. Altra lettera anonima mi notiziava agitarsi ai miei danni Ferdinando Fortini; io gli mandai per suo governo il foglio accusatore, certificandolo della mia perenne amicizia.

E la mia lettera suonava in questa sentenza: «Amico. Se io credessi vero quanto nell'acclusa lettera si legge, io non te la manderei. Da quella vedrai come in questi tempi infelici la calunnia non risparmia te nè la tua famiglia. Se puoi argomentare da quale mano nemica muove cotesto foglio, badati. In quanto a me è inutile dirti che simili infamie non valgono a farmi mutare opinione intorno ai probi uomini, fra i quali novero meritamente te. Fammi grazia salutare il Sig. Duchoqué, il quale ebbi l'onore di conoscere in circostanza non troppo piacevole, ma non per cagione sua. Addio.

«Firenze, 20 ottobre, 1848.

«Aff. Guerrazzi.

« Al Sig. Avv. Ferdinando Fortini Regio Procuratore Firenze.[188] »

A certo altro facevano guerra (Stefano Stefanini Commissario degli Ospedali di Livorno) e n'era pretesto l'affezione al Governo passato, gli onori ricevuti da quello; motivo vero la cupidità della sua carica onoratissimamente esercitata. L'egregio uomo tra le angoscie della iniqua persecuzione smarriva l'animo, e a me per aiuto scriveva. Ecco come io lo confortava: «Amico carissimo. — A questa ora avrai pace, lo spero, e poi lo voglio. Ed ho potuto, e voluto, quando ero nulla; pensa se adesso! — La mia amministrazione sarà breve o lunga, poco importa, ma sarà di giustizia. Dunque rispondimi se ti lasciano tranquillo. — Eccoti una supplica. Se merita, ti offro modo di fare un bene, e conciliarti favore; — se non merita, — nulla: Addio.»

Dirò altrove del giovane Boiti per sospetto degli Arrabbiati dovuto allontanare, e poi da me restituito in ufficio.

A tutti i servitori del Principe curai si mantenessero gli stipendii, e fu già detto, col Decreto del 10 febbraio 1849.

I sussidii alle molte famiglie povere elargiti dalla Corte di S. A. ordinai si continuassero.[189] Finalmente provvidi affinchè in modo stabile le sorti degl'impiegati della Corte si determinassero.[190]

Membro del Governo Provvisorio, impiegai perfino Pretore al Porto Santo Stefano chi venne ad arrestarmi un anno avanti! — E basti..... perchè è pure ignobile, Dio mio! — è pure infelice la condizione ove la necessità della difesa mi costringe a spogliare il benefizio del suo divino pudore.[191]

Lodano i Giudici meritamente Emilio Torelli, il quale per lungo tempo mi servì con zelo come guardia del corpo aspettandomi spesso nelle tarde ore di notte, per iscortarmi a casa; lo lodano, dico, per essersi adoperato a salvare dalle mani dei faziosi oggetti di regia proprietà, e non sanno compartire merito alcuno a me, che rientrato appena in Palazzo, sbigottito della mente, e indolenzito della persona, firmai tre Decreti, e primo fra questi, quello che instituisce la Commissione dei Signori Generale Chigi, Gonfaloniere Peruzzi, Deputato Fabbri, e Professore Emilio Cipriani per prendere in consegna immediatamente tutti i palazzi regii, e oggetti di qualunque natura nei medesimi esistenti,[192] onde salvarli dalla dispersione.

I Giudici e l'Accusa non hanno avuto occhi per leggere la risposta, che di mia commissione mandava il Segretario del Governo Chiarini al sig. Poggi, custode del Palazzo della Crocetta, il quale mi avvisava come una mano d'individui, nel 23 marzo 1849, minacciasse convertire cotesto Palazzo in Quartieri, e lo annesso giardino ridurre a orto, per seminarvi carote, cavoli e patate ad uso delle milizie.

«Sig. Poggi. Sono incaricato dal Governo Esecutivo di rispondere alla sua del 23 spirante. Avanti tutto le faccio sapere che le di lei osservazioni, in essa manifestate, sono ritrovate non giuste, ma giustissime. Nel tempo stesso rendo a sua piena cognizione, che il Governo mai ebbe in animo di ridurre il Palazzo della Crocetta ad uso di Quartieri, nè per ora soggetto a nessuna innovazione. Il Governo conosce benissimo le convenienze, e molto più sa rispettare le opere di Arte: mai è stato vandalo. Si rassicuri, caro sig. Poggi; usi il solito attaccamento alle cose affidatele, e vada persuaso che comunque girino gli eventi, i galantuomini sono sempre rispettati, e riveriti.» (Così allora credevo.) « Se il Governo non ha potuto in tutto e per tutto ostare alle esorbitanze e agli arbitrii dei molti intemperanti, non è stato suo volere, ma sola mancanza di cooperazione, e di forza. Dove non è ordine, non è legge. Però mai sotto il suo Governo (cioè del Guerrazzi) saranno compiti atti di violenza, nè contro le cose, nè contro le persone, di qualunque condizione si sieno.[193] »

A me da tempo remotissimo era noto il signor Poggi, che fu amico di mio padre, e sovente me lo era venuto ricordando con affetto, sicchè quando lo rividi, lo accolsi come conoscenza antica: però questa lettera, oltre lo scopo pel quale adesso è citata, giova maravigliosamente a provare quante esorbitanze avessi a subire, e a quante, con mio sommo dolore, non mi trovai capace di riparare per difetto di forza e di sussidio!

I Giudici non trovano parola di lode alla discretezza mia di fare apporre sigilli al gabinetto particolare di S. A., onde le sue carte non andassero rovistate; nessuna pel Proclama scritto da me nella notte dell'8 al 9, e pubblicato nel Monitore del 9 con la data dell'8, dove s'incontrano le parole: «Custodi per volere del Popolo della civiltà, della probità, della giustizia, noi siamo determinati a reprimere acerbamente le inique mene dei violenti e dei retrogradi;» nessuna alla perigliosa minaccia da me diretta al Niccolini e alla turba seguace, che intendeva irrompere nel Palazzo Corsini, e trambustarlo da cima in fondo, per trarne un supposto tesoro appartenente a S. A., di che eglino erano (come asserivano) informati da un servo di casa. I Giudici lodano il Prefetto Guidi Rontani, per avere fatto abbattere gli alberi nella corte del Liceo Imperiale; e me, che davanti le moltitudini affollate ostai al piantare dell'albero sopra la piazza, non ricordano nemmeno. Che più! quello che in altrui dai Giudici si scusa, in me s'incolpa: così si approva il medesimo Prefetto per avere fatto remuovere i granducali stemmi a scanso di oltraggi plebei; io poi che condotto dagli stessi motivi trasmettevo ordini uguali, al parere dei Giudici commettevo delitto. Dovevo io sopportare che si rinnuovasse la turpitudine di vederli da Fiesole strascinati a Firenze?[194]

XVIII. Cause di delinquere.

Toccai sopra di quanta importanza sia investigare le cause per le quali l'uomo può essersi diretto ad agire, imperciocchè ogni atto che si parte da mente supposta sana, se manchi di causa proporzionata e razionale, deve per necessità ritenersi involontario o costretto; i Giuristi dicono: non informato da dolo. Qui vuolsi considerare come due motivi soli potessero persuadermi a cospirare per la rivoluzione; o personali od opinativi. Personali sono, cupidigia di averi e di onorificenze. Quanto io fossi vago di pecunia lo mostrai, quando abbandonati floridissimi negozii, consentii a tenere tale carica di cui l'onorario bastava alla metà sola delle spese del dignitoso vivere di mia famiglia, e mio. Scrittori no, ma arpie, di cui instituto è contaminare tutto quello che toccano, non mancarono appormi cupido ingegno, anzi avaro. I libri della mia domestica economia ricercati, dimostrarono quanto sia poca cosa la mia sostanza, quali le vie per acquistarla, quali le spese, e i motivi delle spese. Se coloro che scrivono facessero studio di onestà come e' professano, porrebbero cura a bene informarsi prima di asserire cosa che leda la estimazione altrui; nè a sfuggire la taccia bruttissima di calunniosi, può loro giovare punto la protesta di ritrattarsi subito che venga dimostrato lo errore in cui sono caduti, avvegnadio non si comprenda con quale autorità essi citino al proprio tribunale uomini dabbene, per colpe che mai non furono, tranne nella loro matta fantasia; tribunale per di più spregevole, come quello che già si mostrò o leggiero o maligno; — e finalmente domando io che cosa si penserebbe di un uomo il quale ti dicesse: lascia che io ti ferisca, nè richiamarti che io ti faccia torto, perchè tengo in pronto balsamo e fila per medicarti la piaga? Tali sono quei moderati scrittori, che dopo averti calunniato si protestano dispostissimi a ritrattarsi. Ipocriti! Il vostro dovere è quello di bene esaminare prima di gittare la pietra; e di coteste ipocrisie oggimai logoro è il conio.[195]

In quanto a vaghezza di onori, io prego prima di tutto di non attribuire a immodestia quanto sono per dire. Io veramente non credo che ad acquistarmi un po' di fama nel mio paese, mi abbisognasse la carica ministeriale; nè per uomo travagliato da libidine di ambizione può bastare il Ministero Toscano, di cui la fatica è pari a qualunque Ministero del mondo, superiori le ansietà perchè ogni acqua ci bagna, e ogni vento ci muove; infinitamente minore la fama. — Ma via, posto che questa febbre ambiziosa mi fosse caduta addosso, o non doveva essere sazia con la promozione alla carica di Ministro, e forse, in breve, a quella di Presidente del Consiglio? Lo intento che aveva potuto proporsi il mio cuore era già conseguito, e consisteva nel fare palese, col perdono, con la tutela, col beneficio di coloro che non pure mi erano proceduti avversi, ma nemici, quanto io fossi diverso da quello che mi avevano dipinto. E se dico questo, non faccio per rimbrottarlo, no, — o per suscitare memorie oggimai date all'oblio; io lo faccio costretto a difendermi, perchè la mia vita non è stata altro che affanno; — compatitemi, e non rimettete della vostra benevolenza che mi ridonaste. Continuiamo amici, dacchè siamo miseri assai. Intanto corse un grido che diceva: «Chiunque vuole aver bene dal Guerrazzi, bisogna che gli faccia del male.» Esagerava questo, ma la esagerazione stessa prova la verità delle cose. Possano dunque le ambizioni altrui proporsi sempre uno scopo non diverso dal mio!

Forse, avvertirà l'Accusa sottilissima, v'increbbe il Governo Costituzionale, perchè vedeste durarvi instabili i Ministeri. Certo, i Ministeri vi sono instabili e pericolosi, ma nelle Repubbliche appaiono instabilissimi e pericolosissimi; sicchè il sospetto non ha luogo. Ma l'Accusa insisterà dicendo: Forse vi prese cupidità di più alto seggio. — Vennero da Roma, una volta, deputazione di uomini distinti per natali e per condizione, ed un'altra, di messi speciali nelle ore più tarde della notte, a offerirmi carica suprema, ed io la rifiutai; e prova di quanto affermo occorre nel Decreto proposto dal Principe C. G. Bonaparte all'Assemblea della Repubblica Romana, che suona così:

«Visto che il Popolo tanto della Toscana quanto della Repubblica Romana, hanno più che bastantemente dimostrato che vogliono la unificazione sotto un regime repubblicano; l'Assemblea sovrana della Repubblica Romana:

«1º Invita i 120 Deputati, componenti la Costituente Toscana, a venire a sedere fra noi per formare la Costituente della Repubblica della Italia Centrale.

«2º Offre al Guerrazzi un seggio nel Triumvirato della Repubblica complessiva ec.»[196]

Dunque nè anche la supposta cupidità mi mosse. — Intorno ai fini opinativi è chiarito come io, dall'incominciare delle Riforme, speculando sul genio del Paese, mi scoprissi contrario alla Repubblica. Se per me si fosse voluta, nell'8 febbraio sarebbe stata proclamata in Toscana, come si vedrà più largamente in seguito; se con giudizio o no, se per durare o passare a modo di spettro, se a sostegno o a rovina del Paese, è diversa ricerca: nessuno si opponeva; i dissidenti vi erano, ma non avevano coraggio di fiatare; anzi si spenzolavano, smaniosi più degli altri, a proclamare la Repubblica; mani e piedi pestavano per volerla, e subito: per poco me non accusavano di traditore opponendomi ai legittimi voti del Popolo, al desiderio eterno riposto nell'intimo del loro cuore repubblicano. Io contemplava la nuova viltà, e sorrideva. Udite un po' come si esprimeva il Conciliatore del 28 febbraio 1849: «Che cosa possiamo sperare da coloro che s'inchinano a tutti i poteri, che stancarono le anticamere delle Corti e dei Ministeri, e che oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica? O Libertà.... quando il tuo culto era proscritto, tu conoscevi a nome i tuoi addetti; oggi, che hai altari su le piazze e su i trivii, anche i tuoi più crudeli ed antichi nemici ti portano pubbliche offerte fra le acclamazioni delle immemori turbe.» Non ti pare quasi sentire un lamento del Conciliatore che altri gli abbia vinta la mano, e possa essere reputato più amante della Repubblica di lui? Bassa voglia poi sarebbe indicare chi questi svisceratissimi della Repubblica si fossero: la morale pubblica ne scapiterebbe; e poi picchiandosi il petto, essi si confessarono pentiti e dichiararono di non peccare mai più.... fino alla prima occasione. Io non mi prevalsi nè della ebbrezza, nè del furore, nè della pazienza, nè della viltà. Eletto tutore del Popolo, e consapevole dei suoi veri desiderii, mi sarebbe parso fare opera di ladro, che carpisce la firma ad una cambiale dall'uomo preso dal vino, sospingendolo al Partito della Repubblica. I Repubblicani in questo fanno appunto consistere la mia colpa; io la mia probità. A me piace proporre al Popolo, dopo pranzo, le risoluzioni ch'egli confermerà anche la mattina a digiuno: perfida mi è parsa sempre la dottrina di mettere a repentaglio così moltitudini, come individui: più tardi, risensati, lacerano lo ingannatore, ne maledicono la fama. Io di altri Popoli nè so, nè parlo; ma affermo, che non ostante la ebbrezza e il furore di molti, gli eccitamenti interni ed esterni, la viltà e la pazienza, — la grande maggioranza dei Toscani, finchè vissi nel mondo politico, non era repubblicana; il Partito compariva, più che non bisognava, gagliardo a violentare e a distruggere, ma per creare cosa durevole, non sarebbe bastato. Questa gente, infervorata nella sua idea, non vuole comprendere come con uomini, che al vedere bandiere, udire tamburi, gridi e simili altre diavolerie, guardano trasognati, poi si ritirano in casa chiudendo le finestre, non si può creare Repubbliche. La grandissima maggioranza delle persone educate in Toscana, stando al Ministero e prima, conobbi appassionata delle vere libertà costituzionali, e non delle bugiarde che si gittano alle genti come un osso da rodere, e poi non si vogliono o non si possono mantenere; agli altri, in ispecie ai campagnuoli, bisognava dare ad intendere la Libertà come la dottrina cristiana. Io certa volta dissi alla Corona, che il Governo doveva essere educatore di libertà in Toscana, e mi parve dire bene; se i tempi sono mutati dopo due e più anni di carcere, non so, nè m'importa conoscere; ma allora era così. Intanto i Repubblicani mi regalano il titolo di stolto, e sarò; mi basta quello di onesto: ma quello che parrà più strano a credersi, si è che mentre i miei Giudici mi tengono in prigione per avere cospirato contro il Principato, e promossa la Repubblica, i Repubblicani protestano che mi ci avrebbero messo eglino medesimi, per averla attraversata: «La Repubblica Romana era divenuta per esso come uno spino, e quello spino vie più gli era infesto, allorchè gli si parlava di Unione.»[197] E poco oltre, a pagina 174, così si esprime il signor Rusconi: «Una Commissione fu istituita, che disse governare in nome del Principe, e gli amici del Principato toscano cominciarono dal retribuire Guerrazzi dei servigi fatti loro, con quella carcere che da tutti altri che da essi avrebbe dovuto meritare

Sicchè, a quanto pare, non ci è rimedio; io nacqui proprio nel mondo sotto la costellazione della prigione!!! — Pericula in mare, pericula in terra, — diceva S. Paolo.

Sembra pertanto che io non avessi motivo alcuno a sovvertire il Principato Costituzionale; all'opposto lo avessi grandissimo a mantenerlo.

XIX. Della contradizione notata dai Documenti dell'Accusa fra la potenza e la impotenza di resistere alle pretensioni del Partito repubblicano.

Or come, dice l'Accusa, potete voi sostenere a un punto la potenza e la impotenza a reprimere? Questo suona contradittorio: anzi, deve dirsi, che siccome a parecchie enormità opponendovi le impediste, così a tutte le altre successe voi non vi opponeste, nè le voleste impedire. (Decreti del 10 giugno 1850 § 54, e del 7 gennaio 1851 § 53.)

Due erano, come ho detto, i fini che io pensai essermi affidati, e mi affidarono certo gli onesti cittadini e il Parlamento: la salute della società, e questo principalissimo; l'altro di preservare il Paese da avventurosi esperimenti; o, se si vuole più chiaro, di consultare con pacatezza i Toscani intorno al modo col quale intendevano essere governati. Al primo scopo provvidi, e corrisposi, confido almeno, alla aspettativa universale; ma in questa parte ebbi a compagni anche gli onesti Repubblicani, i quali pure aborrivano dalle violenze, dalle rapine, e dal sangue; la coscienza pubblica mi sovvenne con la sua grande voce; e una tal quale esitanza provavano ancora quelli che procedevano più rotti, sicchè, comunque aspra lotta durassi, pure, Dio aiutando, mi venne fatto conservare illesa, anche in mezzo ai trambusti, l'antica fama di civiltà, di cui, meritamente, godeva, e dovrebbe continuare a godere il nostro Paese. Ma se a tutto non avessi potuto riparare, come sarebbe giusto imputarmelo? Se portai le mille libbre e non potei le due mila, i miei Giudici non solo mi negheranno la mercede per le mille libbre portate, ma pretenderanno multarmi per le mille che non ho potuto portare? Egli è invano, che i miei Giudici rigetterebbero questo paragone e questa conseguenza; i loro argomenti procedono sempre così. In quanto poi al secondo scopo che mi era proposto, ecco come riuscii a salvare la somma delle cose. Vuolsi principalmente avvertire, come principio emesso dai Repubblicani, in ispecie quando si agitò la questione se la Lombardia dovesse unificarsi al Piemonte, fu consultare il voto universale, imperciocchè, abolita ogni idea di diritto divino, reputino il Popolo origine di tutta sovranità. Il quale principio oggi non pure è dei Repubblicani, ma vi si accostano eziandio quelli che si mostrano caldi promotori delle regie prerogative. «Io credo che la sovranità, secondo la teoria costituzionale, risieda esclusivamente nel Popolo, il quale delega a questo il potere legislativo, a quell'altro il potere esecutivo;» diceva il Montalembert (il quale, credo che non importi avvertire che non è Repubblicano) nell'Assemblea di Francia il 10 febbraio 1851. Il Governatore di Livorno con Dispaccio dell'8 febbraio avvisava, come Giuseppe Mazzini arrivato (al mal fagli male), su l'alba di quello stesso giorno, a bordo dell' Ellesponto, arringando al Popolo avesse concluso: «che la Toscana doveva aspettare le determinazioni della Costituente — e di Roma.»[198] E sue precise parole furono: «La nazione, per mezzo dei rappresentanti del Popolo, eletti col suffragio universale e con libero mandato, farà conoscere le sue volontà, e noi c'inchineremo al sovrano[199]

Questo stava bene in teoria; ma in pratica non istava più bene; anzi, secondo le contingenze, aveva ad esser tutto a rovescio. Là dove il Popolo propende alla Repubblica, si consulti col voto universale; dove no, cotesto diventa fastidioso puritanismo, e bastano le petizioni dei Circoli, gl'indirizzi dei Municipii (che oggimai noi conosciamo a prova di che cosa essi sappiano), e i clamori di piazza. Logica è questa di ogni Partito di cui lo scopo consiste nel riuscire a qualsivoglia costo. — In Toscana il Popolo, non ostante la vertigine che lo agitava, consultato a cose quiete, non avrebbe risposto nella maggioranza alla Repubblica: questo aveva subodorato Giuseppe Mazzini, ed invero, informando l'Assemblea romana su le condizioni della Toscana, spiega chiaro: «che le tendenze della parte più energica, più importante della popolazione, sono altamente unificatrici, e dicendo unificatrici intendo escludere il dubbio vocabolo di unione. Tutti i Giornali sono unanimi in questa espressione.... tutti i Circoli, — molti Municipii, — parecchi Comandi della Guardia Nazionale, dichiararono nella penultima domenica del mese scorso, con una manifestazione solenne seguita da altre adesioni nei giorni seguenti, che il voto della Toscana era la forma repubblicana e la unificazione con Roma.»[200] Le quali parole lasciano pur troppo intendere, che la parte più energica era per la Repubblica, ma lo stesso non poteva dirsi della più numerosa. Però Mazzini intende, ma non approva più che sia consultato il Popolo.... «perchè l'unica legalità nelle rivoluzioni sta nello interrogare.... nello indovinare il volere del Popolo, e nello attuarlo.»[201] Tra interrogare e indovinare passa divario grande, quasi quanto tra il complice e lo impotente, o tra tutti e taluno dell'Accusa. Ma egli è così: là dove lo spirito di parte detta i giudizii, si affacciano sempre le medesime formule di sofisma. Fatto sta, che si voleva commuovere, rimescolare il Popolo, e, s'era ebbro d'acqua arzente, dargli a bere olio di vetriolo. Così s'incendiano gli Stati, non si costituiscono, ed io non ho voluto rovine. E poi neanche poteva conseguirsi quello a cui tendeva, perchè ai deliranti non faceva mestieri aumentare delirio, e pei repugnanti ogni argomento tornava inutile, per la ragione dichiarata poco anzi dello starsi a vedere e poi chiudere le finestre. — Abbiamo veduto altrove Popoli interi muoversi e insorgere al nome di Repubblica: ma io credo che vadano grandemente errati coloro che immaginano le moltitudini si muovessero unicamente per forma di governo, che neppure intendevano; parte si mossero per fame, parte per ingiurie patite, parte per odio di feudali istituti, parte per amore di libertà: altri per altre cose. La formula delle rivoluzioni somministrano gl'intelligenti, le passioni, il Popolo: donde avviene che tutte le tendenze unite a distruggere, disaccordino poi sul modo di fabbricare. La ragione, per la quale i Partiti compaiono a prova prodigiosamente deboli a governare, si è questa, che il fascio, stretto durante la battaglia, si scioglie dopo la vittoria. Or qui in Toscana mancavano (e prego Dio che abbiano sempre a mancare) ingiurie sanguinose a vendicare, odii antichi a sbramarsi; solo in molti, ma non nei più, Toscani, era vaghezza di forme repubblicane; molti ancora, non può negarsi, si agitavano per cupidigie o per bisogni, e, non frenati, stavano per partorire deplorabili lutti; piantatrice e spiantatrice degli alberi della Libertà, per la massima parte, era di questa sorta gente, che ama le baruffe e le provoca solo per pescare nel torbido; taccio di quelli che non erano di qui. Ma per amore della Repubblica, per quante ne sapessero fare, non si muovevano davvero i mezzaioli in campagna, nè i borghesi in città, i proprietarii grandi, la nobiltà, il clero. — Agitate, agitate, perchè le minorità vincono le maggiorità; — le vincono, è vero, o piuttosto le stupefanno, ma per durare ci vogliono gli annegamenti nella Loira, le mitraglie di Lione; e questi estremi rendono spaventevole la Libertà, e la fanno precipitare alla tirannide soldatesca. Tuttavolta, questo volevasi, intendetelo bene, signori Giudici, e questo sarebbesi fatto: e poichè la vostra coscienza non ve lo ha saputo dire, vi dica il Paese intero, cui mi giova sperare non ingrato, chi impedì questo, e a qual prezzo. — Agitate, agitate, e troveremo cannoni, armi ed armati; — ahimè! la esperienza ha dimostrato non succedere così; e senza un buon nervo di esercito disciplinato, i volontarii o fuggono, come i Francesi a Grand Pré, o muoiono, come i Toscani a Montanara — gloriosamente, sì, ma non vincono....

Finchè pertanto i Repubblicani si stavano ai ragionamenti, che erano: inutile consultare il Popolo, dacchè per le petizioni dei Circoli, dei Municipii, della Guardia Civica, e per le acclamazioni delle genti, il voto si dimostrava patente; io rispondeva: tanto meglio: s'è vero come supponete, apparirà solennemente manifesta la propensione dell'universale per la Repubblica; ma non falsiamo il principio del suffragio da voi stessi predicato: guardate a non comparire apostoli bugiardi: parmi, ed è indegno di uomini che si vantano creatori di nuovo ordine di cose, incominciare con la menzogna, ch'è vizio della viltà. Così non ho mai veduto incominciare i reggimenti gagliardi. Romolo inizia il suo regno con un atto di ferocia, ma non di bassezza. Ora con quale fronte vorrete adoperare voi le medesime arti, che più diceste aborrire negli avversarii vostri? Voi sostiene la opinione di lealtà; di amici sinceri del Popolo, voi diventate sopraffattori e tiranni. Voi, Mazzini, avversaste Vincenzo Gioberti, quando, prima che la vittoria decidesse le fortune italiane, voleva che Lombardia si aggiungesse al Piemonte, e dicevate non essere quello il momento di sturbare con importune trattative il pensiero dei Popoli, che unico doveva concentrarsi nella guerra della Indipendenza; ed io vi detti ragione.[202] Ed ora quello ch'era buono per Lombardia e Piemonte, non è più vero per Toscana e per Roma? Ma lasciamo questo da parte: come potete pretendere onestamente proclamata la Repubblica a tumulto, mentre l'aria dura commossa dalla vibrazione della vostra voce, che diceva: «che la nazione deve dichiarare la sua volontà per mezzo dei rappresentanti eletti col suffragio universale?...» E fino dal 16 febbraio a Mazzini opponeva Mazzini, gittandogli in volto le sue dichiarazioni predicate a Livorno; «ecco le parole piene di fede, e di senno, che Mazzini rispondeva al Popolo di Livorno, che saputa la fuga del Granduca domandava ad alte grida la Repubblica: — Io repubblicano per tutta la mia vita, vi esorto ad attenderne la iniziativa da Roma; sono là i veri rappresentanti del Popolo, e noi dobbiamo inchinarci a quel potere sovrano.»[203] — L'Accusa io qui l'ascolto esultare dicendo: dunque, vedi, anche tu accennavi aderire all'Assemblea Costituente di Roma, — ed io le rispondo: tu non capisci niente; — allora importava non irrompesse la Repubblica a furia, e non era a guardarsi la natura del rimedio, purchè salvasse dal male presente: poi cosa fa cosa, e tempo la governa. Mazzini pertanto, ed i seguaci suoi non potevano replicarmi in viso senza inverecondia, imperciocchè adoperava a combatterli le loro stesse parole. Allora furono tentate altre vie.

Imitate, dicevano i Repubblicani, il Governo Provvisorio di Francia; ordinate provvisoriamente la Repubblica, salva la sanzione del Popolo, come fece Lamartine. Per questo modo, proseguivano essi giovandosi degli argomenti di lui, farete cosa a un punto rivoluzionaria, e conservatrice; imperciocchè da un lato lo sperimento della Repubblica, durante certo spazio più o meno lungo di tempo, sarà sempre tanto guadagno fatto pei governi liberali, e pei vantaggi del Popolo; dall'altro, dove anche più tardi l'Assemblea disfacesse la Repubblica, partorirà adesso entusiasmo nel Popolo, soddisfazione agli animi agitati, maraviglia alla Europa, impulso e forza per traversare lo abisso senza fine cupo della rivoluzione.[204]

E questo era intoppo duro davvero. Se non che, ripreso animo, io rispondeva: di grazia, ascoltatemi; voi altri sapete come il Cormenin, favellando del Lamartine, abbia detto che un castaldo avvezzo alle faccende di villa mostrerebbe facilmente a prova, anche in quelle della politica, più giudizio del Lamartine; ed io del Lamartine, del Cormenin, e degli altri uomini di Stato francesi non ripeterò, chè non sarebbe giusto, quello che già scrisse il Machiavelli di loro, cioè, che i mali orditi del cervello sanno rinforzare con le mani; e nè anche quello che ei disse al Cardinale di Ambosa: «di Stato, voi altri Francesi, non intendete niente;» ma è certo, che tutti quelli i quali in Francia fanno professione di politica, non intendono troppo. Però posto questo da parte, e stringendoci a ragionare del Lamartine, vi pare egli discorso cotesto suo di mettere in cimento la Repubblica, come si farebbe, a modo di esempio, nelle scuole, di un calcolo, o di una dimostrazione geometrica? A questo ufficio bastano una lavagna e un pezzo di pietra da sarto; e se il calcolo non riesce, si strofina col ruotolo della cimosa, e da capo. Volendo sperimentare la Repubblica, se ti attieni al metterne fuori unicamente il nome, converti il Governo in bersaglio, onde tutti i Partiti contrarii gli tirino addosso di punto in bianco; ma al nome solo non puoi attenerti, nè devi; quindi per durare anche una settimana ti trovi condotto a imprimere nel Governo e nel Popolo un moto corrispondente al fine proposto, accomodarvi i provvedimenti e le leggi, scansare gli uomini disadatti o contrarii, altri sostituirne amorevoli e acconci, distruggere antichi interessi, altri crearne,... e tutto questo per prova? E tutto questo, incerti se la Repubblica possa sostenersi? Bel giudizio davvero, moltiplicare le cause di perturbazioni e di contrasti, allorchè vi proponete ricomporre l'ordine sociale sconvolto! Poi, Francia è Francia, e Toscana è Toscana: la Repubblica in Francia può dare argomento di maraviglia alla Europa; in Toscana, di riso: costà fra 36 milioni di uomini, qualche milione può sorgere a sostenere con le armi la opinione del Governo, e propria; ma qui fra noi conviene starci contenti alle migliaia, ed anche poche. Nè mi parlate di Roma, di Sicilia e di Venezia: queste ultime due, male si reggono in vita; e invece di trasmettere altrui, chiedono forza per loro. Roma e Toscana, sommate insieme fanno una debolezza, perchè non possiedono armi, nè pecunia, nè eserciti addestrati, i quali da un punto all'altro non si arriva a formare. Ancora: Francia, per lunghi anni educata nella vita politica, per avventura potè credersi giunta al grado convenevole di maturità per adattarsi alla nuova forma di Governo, quantunque voi sappiate come grave sia il subuglio dei Partiti colà, perfidiandosi intorno alla libera scelta della Repubblica, con danno inestimabile alla reputazione di questa: ma Toscana si leva adesso, e non ha ben desti gli occhi; gli animi vi sono rimessi, inerti a molti gli spiriti, i partiti estremi impossibili; speculatori arguti sono per la più parte i Toscani, e più facili a fare per consiglio della mente che per subitezza del cuore; anzi quel continuo rombo di parole superlative, e di concetti esorbitanti, gl'inquieta come api che fuggono dai bugni, se odano rumore di lebeti percossi; e sopra tutto vi raccomando a considerare, che la Toscana delle libertà costituzionali si chiamava non ha guari soddisfatta; nè ella operò rivoluzione alcuna; nè credo che la voglia operare: lo scettro è in mano al Popolo, non perchè ei volesse strapparlo, o lo strappasse, ma perchè gli fu lasciato. Questo abisso di mandare in perdizione la Società, noi da vicino non minaccia; di comunismo per ora, se spruzzate, non paionmi contaminate le moltitudini; la Repubblica, anzichè diminuire le perturbazioni, avrebbe virtù di aumentarle, e rendere forse disperato un male di per sè stesso gravissimo. Ad ogni modo, che il Popolo universo a decidere delle sue sorti consentisse, questo prometteste, questo promisi, e questo hassi a mantenere: leali vi chiamaste, e leali perdurate, chè bene v'incorrà della conservata rettitudine. — E alle ragioni, che procrastinando si sfiduciavano gli animi, i malfermi alienavansi, sfocavansi gli ardenti, e si dava luogo a insinuare che il Governo procedesse avverso alla Repubblica, io replicava: questo non essere da temersi, imperciocchè il Governo fino dai suoi primordii aveva dichiarato, che per pronunziare la decadenza del Principe e la Repubblica, dovesse aspettarsi che lo universo Popolo toscano emettesse liberissimo il voto. La requisitoria del Pubblico Ministero Regio dichiara francamente, che tutto il mio sforzo si ridusse a persuadere, ed agire in qualche contingenza, perchè non venisse la Repubblica attuata troppo sollecitamente: la requisitoria del Pubblico Ministero Repubblicano, rappresentato dal sig. Carlo Rusconi, mi accusa: «Che giunto al Potere, ebbi modo di fare proclamare la Repubblica, e non volli. — Che quando mi fu dato unificare due provincie assecondando i voti del Popolo, comecchè unitario ed entusiasta del Popolo mi fossi detto, bramai persistere in una disunione insensata. — Il dottore Maestri inviato da Roma instava perchè — il desiderio di unificazione, che nel Popolo si manifestava, fosse appagato. Lottando quotidianamente col toscano Triumviro, a cui tutti quegli argomenti adduceva che sogliono far forza in chi non ha preconcetta opinione ec.» Chi ci era, racconta che quotidiane erano le istanze, (e istanze di gente arrabbiata, fanatica, e forte su le armi, si sa che cosa vogliano dire); chi non ci era sostiene che furono rade; chi ci era mi accusa che procrastinando rovinai il concetto repubblicano, chi non ci era, sprezza cotesta opera come di piccolo momento. I Repubblicani, i quali di rivoluzioni s'intendono più assai del Regio Procuratore Generale (e spero che questi non me lo vorrà contrastare) dicono, che occasione passata è occasione perduta; ed hanno ragione: la Repubblica poteva instituirsi in Toscana, ma nel modo che nelle antecedenti carte ho avvertito; ed io ripeto, fui tutore del Paese, non capo delirante di fazione. Anche quando fosse vero, come non è, che il mio sforzo tendesse unicamente a procrastinare, l'Accusa dovrebbe sapere che ciò sarebbe più che non bisogna nelle rivoluzioni. Una notte di pensiero cangia le tendenze dell'animo, il quale senza impulso veemente ed attuale schiva, almeno nei più, precipitare a partiti disperati.

Devo confessare come fra le infinite umiliazioni con le quali fu saziato il mio cuore, nessuna tanto profondamente mi tocca quanto quella del trovarmi condotto a esporre la mia ragione a tale, che le verità volgarissime della Storia s'infinge ignorare; e dico s'infinge, conciossiachè riesca duro a credere, che abbia animo per giudicare di politica chi di politica si senta siffattamente inesperto. Il sig. De Barante, uomo di senno antico, e per pratica di negozii pubblici rinomato assai, dettando il suo libro della Storia della Convenzione di Francia, assicura che tutto il male della Rivoluzione venne dal non trovarsi persona capace a resistere allo impeto dei primi moti, onde si componesse una opinione giusta delle cose, una bandiera sorgesse dove i cittadini sbigottiti si assembrassero; — all'opposto, persuasi fino dai primi giorni che ogni Governo era cessato, si trovarono in balía di tutte le autorità imposte di mano in mano dalla violenza, le quali comandavano in virtù del meccanismo delle sètte, mentre l'ordine nella Società era venuto meno. — Tutto il mio sforzo si ridusse ad agire perchè la Repubblica non venisse attuata troppo sollecitamente! — Fatto sta, che la non venne proclamata mai; pur sia come vuole lo Accusatore: ma sa egli, che cosa importi un giorno, una notte nelle rivoluzioni? Lo vuole egli sapere? Se di una notte sola avesse potuto ottenere indugio il virtuoso Malesherbes, per presentare le sue osservazioni sul modo di contare i voti, la vita di Luigi XVI era salva; e certamente poi, se nella giornata del 19 gennaio fosse stato vinto il partito dello aggiornamento alla esecuzione della sentenza: «car (nota Thiers) un délai était pour Louis XVI la vie mème.[205] » Vuol egli sapere, che cosa giovi un'ora? La mattina dell' 8 termidoro cadde reciso il gentil capo di Andrea Chènier, a cui, poveretto! doleva morire così giovane, e con tanta potenza di poesia nell'anima... Un poco più tardi, nel sangue che aveva fatto versare, affoga Robespierre, e seco va disperso il regno del terrore.[206]

Infatti il Regio Procuratore Repubblicano afferma, che non mi mancavano gli avvertimenti: «come nulla vi fosse di peggio in politica, specialmente in tempi di rivoluzione, che il non far nulla, e lo aspettare gli avvenimenti con la stolta lusinga di dominarli.»[207]

Ma i condottieri della fazione repubblicana erano oltre ogni credere tenacissimi, e vedendo che le parole non bastavano, fecero prova di operare una nuova rivoluzione nel giorno 18 febbraio. Nel giorno 18 febbraio una immensa moltitudine conveniva in Piazza; nel 18 febbraio Niccolini arringando diceva con parole aperte: «Il Popolo ingannarsi sul conto mio, avversare io la Repubblica, intendermela col Granduca; entrasse il Popolo in palazzo, mi costringesse a proclamare la Repubblica: se assentissi, bene; se no, giù dai balconi!»

Questa minaccia fu ripetuta più volte: si aizzava il Popolo a trucidarmi. Quanti tremavano allora per la mia vita, che ora non dirò lieti, ma in parte certo profondamente indifferenti, del mio non degno infortunio! Ma allora ero una trincera dietro la quale riparavano sbigottiti; adesso sono diventato documento increscioso d'ingratitudine. Però fu detto dei nostri vecchi: mala bestia è quella, che dà di calcio al vaglio dopo avere mangiato la biada...

Poco dopo, il fatto tenne dietro alla minaccia. Il Popolo allagò imperante e furioso. Che cosa fare? A qual Santo votarmi? In mezzo al tumulto era difficile farmi intendere, e folle il parlare quello che sentivo; ridotto allo estremo, dicevo: «Ora via, Cittadini, dacchè volete la Repubblica ad ogni costo, e Repubblica sia; a patto però, che mi mostriate domani duemila giovani fiorentini armati, e disposti a combattere per la Repubblica.» Risposero urlando: «trentamila ne condurremo!» Ed io di nuovo: «Bastano duemila.» Era cotesto un ripiego che il mio buon genio mi suggeriva per ischermirmi dalla tremenda violenza che faceva una moltitudine capace d'ingombrare sale, scale e piazza; e al punto stesso era prova, con la quale intendevo certificare il Partito repubblicano della vanità dei suoi conati a strascinare il Popolo intero. Firenze non ebbe i duemila soldati per la Repubblica, mentre gli aveva avuti, e generosissimi, per la guerra della Indipendenza italiana, bandita dal Principe Costituzionale. Così preservai in quello accidente il Paese, la opinione del Partito repubblicano fu indebolita, e cresciuta a dismisura la sua rabbia contro di me. Questo io operava con pericolo mio contro la moltitudine arrabbiata il 18 febbraio, non già dopo la disfatta di Novara, come con offesa manifesta del vero non aborrisce affermare l'Accusa.[208]

Nè per questo i Repubblicani si davano punto per vinti: mediante il Ministro romano sig. Maestri presentano una Nota contenente diversi articoli per approvarsi subito dal Governo toscano. Se le cose richieste fossero state ammesse, non lasciavano più il Paese in potestà di deliberare. Io mi professai incapace a discernere la importanza della proposta, e dissi, il mio dovere impormi mandarla al Consiglio di Stato; sperare che il Consiglio l'accoglierebbe; lo avrei sollecitato a rimettermi il suo parere. — Nello inviarla al Consiglio, gli commisi scevrasse nelle cose richieste quelle che avrebbero pregiudicato la libera votazione, dalle altre che la lasciavano illesa. Così fece il Consiglio: grandissimi si elevarono i clamori per questo, e tuttavia durano. Io giunsi appena a sedarli, facendo notare, che la imminente votazione dell'Assemblea avrebbe reso inutile qualunque restrizione.[209]

Ecco in qual modo pervenni a impedire le urgenti molestie per la proclamazione della Repubblica, e gli attentati contro la sicurezza dei cittadini. Le altre improntitudini, per la loro natura non somministravano uguali rimedii; non pativano dimora; erano cose da farsi su l'atto; non potevo dei loro stessi principii comporre un freno per ritenerle; e non avevo meco la opinione pubblica, che mi sorreggesse: tacevano, tremavano i dabbene cittadini, e si contentavano a pregare Dio che mi desse forza a resistere. Riguardo a destrezze, nè sempre giovano, nè sempre si affacciano alla mente nella subitaneità dei casi che succedono. —

Ora, senza distinguere il modo della resistenza, e confondendo la ragione delle cose, ricavare dai conati riusciti a bene argomento per accusare dei fatti che non poterono ripararsi l'uomo che si sagrificò alla salvezza comune, parmi tanto crudelmente assurdo, quanto iniquamente ingrato.

XX. Forza.

L'Accusa confessa questa forza; ma ammettendola facilissimamente a benefizio altrui, per me poi mostra il viso dell'uomo di arme. L'antico Pirrone e San Tommaso, a petto suo, sono credenzoni. Così anche in questa parte, nell'Accusa, si osserva da un lato rilassatezza, dallo altro incredibile rigore; da una parte miscredenza, dall'altra superstizione.[210] Nel volume degli Scritti varii recai in volgare certo canto illirico,[211] il quale dice di un Bano di Croazia, che era cieco da un occhio; e sordo da un orecchio; e con l'occhio cieco guardava le miserie dei derelitti; con l'orecchio sordo intendeva il pianto dei disperati. Ora non vi par egli, che l'Accusa legga con l'occhio cieco del Bano di Croazia le carte che mi discolpano, e ascolti con l'orecchio sordo di quello le testimonianze a me favorevoli? Altrove addussi ragioni di questa diversità manifesta: la violenza patita dagli altri mi accusa; la violenza, non patita da me, mi condanna; ma poichè io credo avere dimostrato abbastanza, che di cotesta forza non fui provocatore nè complice, bisogna, per necessità, concedere che io sopra gli altri fui esposto a subirne l'azione.

Il Decreto del 10 giugno 1850, da capo in fondo, è pieno di questa prova di forza che domanda da me; così nello Attesochè 3º racconta: «che sul finire del 1848 sorse una fazione» (io ho provato che vi era anche innanzi) «cospirante contro la Monarchia, eccitatrice di plebe a incomposti disordini, recalcitrante alle Leggi, sprezzante di ogni autorità, forte d'improntitudini e di audacia per il pervertimento dei Circoli e lo imperversare della stampa:» — nello Attesochè 8º, in conferma della opinione emessa, rammenta i Forti occupati di Portoferraio; gli Ufficiali prigioni; il plauso feroce allo assassinio del Rossi; le violenze elettorali, ai giornalisti, al domicilio dell'Arcivescovo; la stampa repubblicana: — nello Attesochè 9º con parole, che invano c'ingegneremmo trovare più truci, infama «cotesto sconvolgimento, come quello che elevava il furore a virtù, la moderazione a delitto, segni certissimi di prossima rovina per la parte dei faziosi della Monarchia e dello Statuto, i quali aspettavano la opportunità, e la ebbero nello allontanamento del Granduca da Siena:» — nello Attesochè 11º parla dello assembramento all'Arcivescovado, che commise violenze deplorate dai buoni, dai pessimi giornali celebrate: — nel 12º rammenta lo Indirizzo minaccioso mandato alle Camere, affinchè, per via del suffragio universale, si eleggessero sollecitamente i Deputati alla Costituente italiana, onde pel 5 febbraio potessero assistere alla prima seduta di Roma. — nel 16º e 17º dichiara Siena turbata pel cruccio e per lo arti della Demagogia, che si augurava prossimo il rovesciamento del Principato; la rivoluzione imminente per colpa della stampa, senza limite licenziosa, e del concorso dei Circoli diventati, nel pervertimento, fratelli; l'anarchia provocata in Siena, la città sconvolta dopo l'arrivo di Montanelli, Marmocchi e Niccolini: — nel 18º afferma, per violenza, avere il Principe abbandonata Siena; per violenza le Camere avere eletto il Governo Provvisorio: — nel 21º espone: «l'audacia di pochi tristi prevalsa sopra la moltitudine illusa, sconfortata, indifferente, i quali, vituperato in ogni maniera l'augusto Principe, proclamarono la sua decadenza dal Trono, e il Governo Provvisorio:» — nel 25º certifica il Presidente Vanni tornato a presiedere l'Assemblea per concepito timore di guerra civile e di sangue: — nell'84º racconta dei faziosi esigenti a forza lo abbassamento delle armi: — nel 32º palesa «come i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, si dierono a presentare petizioni per la cacciata dello stesso Principe toscano:» — nell'88º nota gli sforzi per instituire la Repubblica e inalzare l'albero della Libertà il 18 febbraio, e le pubbliche ardentissime arringhe di rovesciare tutte le monarchie italiane: — nel 94º ci fa conoscere che una fazione, fuori del Governo, proseguente un fine suo proprio, esercitava solertissima sorveglianza: — nel 104º insegna quali e quanti fossero gli sforzi a spingere i Popoli alla Repubblica in provincia, non meno gagliardi di quelli che si facevano in Firenze, e gli eccitamenti della stampa per armare il Popolo a sostenere la rivoluzione, la Repubblica, e a cacciare il Principe da Santo Stefano: — finalmente nello Attesochè 32º dichiara la sorpresa, le violenze adoperate, e le furiose declamazioni della stampa, capaci a imporre il Potere alla Toscana.

Accorda col Decreto del 10 giugno del 1850 il secondo Decreto del 7 gennaio 1851 ai § 5, 7, 8, 10. L'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, ampliando il quadro nei § 4 e 5, dalla rivoluzione siciliana precedente, e dalla milanese susseguente lo Statuto, dalla Repubblica proclamata in Francia, dalla guerra lombarda, dai suoi infortunii ricava argomento, ed è vero, per mostrarci una maniera di gente, mal paga delle riforme costituzionali, aspirare alla Repubblica, e scuotere profondamente nelle viscere la Italia.

E l'Accusa poteva aggiungere la rivoluzione di Vienna, la ungherese, la badese, le zuffe sanguinosissime di Berlino, tutta la Germania avvolta in giro dal turbine rivoluzionario; — la prossima Roma: proximus ardet Ucalegon.... Europa tutta in fiamme!

L'Accusa poi, dando saggio delle opere di questa fazione, rammenta le declamazioni per le piazze e pei Circoli, e la licenza della stampa; — rammenta l'ardire del nizzardo Trucchi di decretare, nel 30 luglio, sotto Palazzo Vecchio, la decadenza della Monarchia, lo scioglimento delle Camere, e la istallazione di un Governo Provvisorio, di cui chiamava a far parte Guerrazzi e Pigli (ma non rammenta che con noi erano indicati Gino Capponi, Neri Corsini, e Giuseppe Giusti;[212] e molto meno rammenta che, lasciato stare liberissimamente dai Ministri precedenti, fu, da me assunto al Potere, e per quel fatto, esiliato di Toscana il signor Trucchi ); non tace dello incendio della carrozza del Generale Statella; e i fatti livornesi del 25 agosto, e la orribile sventura del 2 settembre.

XXI. Conseguenze della Forza ammessa dai Documenti dall'Accusa.

Se l'Accusa presta fede alle proposizioni che dai suoi Documenti medesimi ha desunto fin qui (ed io devo ritenere ch'ella ci creda), e allora come domandano i miei Giudici a me la prova di quello che eglino stessi hanno provato? Infatti, come si può sostenere «che la violenza coattiva, sia all'individuo, sia al collegio, non è provata, anzi esclusa, dai primi atti co' quali e nei quali venne a consumarsi il delitto» (Atto di Accusa § 85), quando mi confessate agitarsi da lungo tempo fra noi una fazione capace a imporre al Paese intero? Se questa fazione insorse, voi dite, fino dal declinare del 1848, mentre durava la Monarchia Costituzionale, e con essa si mantenevano gli ordinamenti, comecchè indeboliti per tutelarla; o come pensate che si fosse rimasta inerte ad un tratto? Come di audace diventata paurosa; di sprezzante ogni freno di autorità, umilmente arrendevole; di cospirante alla distruzione della Monarchia, facile ascoltatrice dei miei sermoni? Anfione e Orfeo, che a suono di lira ammansirono belve, e trassero a seguitarli le pietre, sono racconti da storia in paragone della potenza favolosa che da me pretende l'Accusa.

Se plausero gli arrabbiati ferocemente alla strage del Rossi, perchè non mi concedono i Giudici che potessi andare pensoso pel mio stesso destino? Se Dionisio Pinelli chiamavano traditore, e il fato infelicissimo di cotest'uomo gli minacciavano, perchè di simili minaccie non dovevo far senno ancora io?[213] Se cittadini e deputati temerono della propria vita, perchè non dovei temerne io, esposto al terribile sospettare dei faziosi, quotidianamente minacciato, e delle loro accesissime voglie oppositore importuno? E badi l'Accusa, che per venire in fama di traditore non importa fare tanto; basta solo sostare; così ammonisce lo infortunato Silvano Bailly nelle sue Memorie, là dove favellando di Mounier, e di Malouet, i quali apprensioniti dalla piega che prendevano le cose pubbliche in Francia nel 1790 vollero scansarsi, racconta:[214] «allora corse l'accusa solita a percuotere chiunque si ferma in mezzo a un Popolo che cammina: la tremenda parola di tradimento fu pronunziata.» In tempi di rivoluzione l'accusa di traditore è quasi un saluto ordinario su le bocche dei venduti e dei fanatici. Se violarono lo Arcivescovo difeso dalla reverenza della religione, perchè pensano che volessero trattenersi da violentare me non difeso? Se, durante tempi che in paragone dei posteriori all'8 febbraio potevano dirsi ordinati, la furia del Popolo assalta ed occupa Fortezze, imprigiona Ufficiali, perchè negano fede i miei Giudici che la mia stanza invadessero, e, armati, minacciassero? Se dichiarano altri percosso dal pensiero della guerra civile, della tremenda anarchia, e della strage imminente, e perchè non doveva io pure spaventarmene? Qui si vorrà forse rinfacciarmi che io dissi talora non temere il Popolo? Certo avrei fatto bella prova a mostrarmi codardo! Nè quello che si dice in una occasione vale per un'altra; e spesso, come notai, si lusinga il Popolo perchè o si trattenga dal male, od operi il bene; artifizii sono questi che la stessa morale non disapprova. E se la forza di cui parlate valse, a parere vostro, a violentare Principe e Camere e collegi e individui e terre e città e Popoli interi, perchè volete poi reputarla insufficiente a violentare me per piegarmi ai suoi comandi? Se i faziosi pretendevano violentemente che gli stemmi granducali si abbassassero, perchè imputarmi l'ordine trasmesso di remuoverli per preservarli da oltraggio? Se il Principe proclamarono decaduto, o come pensare che me non coartassero a scrivere i Dispacci relativi alle Spedizioni Elbana, di Porto Santo Stefano e Laugeriana? Quando voi stessi raccontate che i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, si diedero a presentare petizioni per la cacciata dello stesso Principe dal suolo toscano, con quale coscienza sostenete poi, e, lasciando la coscienza, con qual fronte, con quanto senno, con qual pudore, che la violenza è esclusa dai primi atti con i quali e nei quali venne a consumarsi il delitto? Forse le petizioni della moltitudine, coadiuvata dai Circoli e dalle furiose declamazioni della stampa, reputate piccola pressura per me? Ma voi, voi stessi, queste petizioni reputaste sufficienti a costringere la Camera dei Deputati quando decretarono la Legge sopra la Costituente! Non sono questi due pesi, non sono due misure? E presumereste paragonare la condizione del 21 gennaio con quella dell'8 febbraio 1849? Una fazione che si era proposta il rovesciamento di tutte le monarchie italiane, è da supporsi che si rimanesse da usare ogni partito estremo per conseguire il suo fine, precisamente sul punto di cogliere il frutto dei lunghi e travagliosi conati? Gente, che eleva il furore a virtù, si pretende credere che, con mansuetudine pastorale, le istanze per le mentovate spedizioni mi presentasse, o non piuttosto con tal garbo che non dava campo alla scelta? Se i Giudici sanno che il Popolo irrompente il 18 febbraio in Piazza, malgrado che io, secondo le mie forze, mi opponessi, e nonostante le mie dimostranze, quasi in onta di me, volle inalzarmi sotto gli occhi l' albero della Libertà, perchè ricusano fede alla mia impotenza a resistere a tutto? Perchè non vi curaste, non dirò nello imparziale animo librare le parole dirette all'egregio uomo signor Poggi amico del padre mio: « Se il Governo non ha potuto in tutto e per tutto ostare alle esorbitanze ed agli arbitrii dei molti intemperanti, non è stato suo volere, ma solo la mancanza di cooperazione e di forza,» ma almeno leggerle? Perchè mi chiedete ragione se il vento mi ha portato via qualche vela; tronco qualche albero, e non mi tenete conto del corpo della nave che, Dio aiutando, vi ho preservato dal naufragio? Voi mi siete, Signori, scarsi e crudeli. E badate, comecchè le mie parole adesso sieno argomento di scherno appo voi, che tra i più brutti vizii che offendano il Signore io ho sentito come principalissimo annoverare sempre quello della ingratitudine: anzi in certo solenne Maestro di divinità ricordo aver letto una volta: « la ingratitudine essere vento crescente, che dissecca la fonte della pietà, e la rugiada della misericordia.» E queste fonti dovrebbero mantenersi del continuo aperte a dissetare i cuori spasimanti di rabbia, e queste rugiade divine implorarsi perenni a temperare le fronti riarse dal furore.

Oltre a dichiarare non provato quello che eglino stessi si sono affaticati a provare, i Giudici esprimono due altre proposizioni, e sono: I. Il Decreto del 7 gennaio 1851, § 53, intorno alla violenza dedotta dice, che i fatti allegati non gli paiono d'importanza tale da stabilire la violenza irresistibile e continuata; e qui importa notare, che e' sono della medesima natura, e di molto maggiore intensità di quelli che il Decreto medesimo e gli Accusatori tutti hanno ritenuto valevoli a coartare Principe e Camere! — II. L'Atto di Accusa poi, a § 85, non solo non vuole provata la violenza, ma la esclude: qui la contradizione mi sembra palese, perchè il primo non nega i fatti ma non gli apprezza, il secondo del tutto gli nega. Il Decreto del 7 gennaio continua che, in ogni caso, cotesti fatti di violenza non varrebbero a scolparmi, perchè dal Processo resulta l'autorità che io aveva su le turbe tumultuanti, la mia protesta di non temerle, e la frequente riuscita a contenerle per vantaggio di privati cittadini! Di questo modo di argomentare ho ragionato abbastanza; ma il cuore degli onesti tornerà a sollevarsi per me a cagione di questi implacabili sofismi.

Ed è pur qui che l'Atto di Accusa, § 85, dopo avere ammessa la forza, anzi dopo averne accennato le origini, ampliato il quadro dell'azione, ad un tratto la fa cessare; e quando? Nel giorno 8 di febbraio. E perchè? Per accusare come liberissimi gli atti pei quali venne a consumarsi il delitto. Poi, egli stesso, di leggieri confessa che insistenze, esigenze, improntitudini vi furono; ma invano; ormai il fatto era consumato, nè esse potevano giustificare il delitto già completo.... Se questo sia vero e verosimile, chiunque ha fior di senno a colpo di occhio il conosce;.... ma che favello io di vero e di verosimile, quando neppure l'Accusa crede a quello che dice! — La Fazione, ella dice, per rovesciare Monarchia e Statuto attendeva occasione opportuna, e la ebbe, nello allontanamento del Granduca da Siena. Dunque non istettero con le mani alla cintola i Faziosi nell'8 febbraio. Essi operarono la rivoluzione in quel giorno, ed è l'Accusa che un po' lo confessa, e un po' lo nega; che modo di ragionare è mai questo suo? E svarioni siffatti, che in una scuola di Logica basterebbero a mettere a pane e acqua il tristo scolare che gli scrisse, hanno potuto avere in Toscana la virtù di logorarmi in carcere ventotto mesi di vita? Le febbri delle fazioni non sono intermittenti, ma continue; e questo andare, fermarsi, rimettersi in cammino, bene sta deplorabilmente nella fantasia dell'Accusa, non già nella natura umana. Motus in fine velocior. E dico deplorabilmente, imperciocchè se il Pubblico Ministero penserà che alla sua religione non sieno «confidati gl'interessi della verità, della innocenza, della civiltà, della coscienza pubblica e della giustizia, ma unicamente quelli della pena,» che cosa diventerebbe mai il Pubblico Ministero?... Tutto è qui: fui complice, o no, con la fazione, che attendeva occasione opportuna a proclamare la Repubblica, la decadenza del Principe, e la Unione con Roma, e la ebbe nell'8 febbraio? Se fui, le sue colpe sono le mie; se non fui, perchè mi disfate anima e corpo prolungando la iniquissima prigionia?

Il sistema di violenza era dai Circoli degenerati abbracciato e praticato come regolamento organico. Nel principiare del novembre 1848, nella solenne Adunanza del Circolo Fiorentino, tenuta nel teatro Goldoni, trovo che fu proposto di sospingere il Ministero; ma questo parve poco, chè sorse Oratore di maraviglioso seguito in quel tempo, il quale espressamente dichiarò: «essere di opinione che non solamente si avesse a sospingere il Ministero, ma violentarlo se fosse necessario, e portarlo più lontano.... Se il Popolo conosce la necessità di agire prontamente, io ripeto, che non solamente deve spingere il Ministero, ma violentarlo, quando vi sia, ciò facendo, la convinzione del bene d'Italia, quando vi sia la convinzione di un fatto di urgenza ec.»

È vero che l'Oratore protesta, che le violenze intende abbiano ad essere morali; ma, scendendo agli esempj, suggerisce le dimostrazioni pubbliche e gli eccitamenti del Popolo in massa, sicchè quanto sapessero di morale cotesti partiti ognuno sel vede. Quasi poi che il detto fosse poco, insisteva l'Oratore affermando: «Oggi mi pare che la Italia sia in una alternativa co' suoi Reggitori; nell'alternativa cioè di rovesciarli, o di strascinarli. Non ci è via di mezzo; una delle due.»[215] Cotesti erudimenti facevano effetto di zolfo su carboni accesi, e già troppo bene gli avevano posti in pratica senza conforti; ora poi che vi si trovavano eccitati, non è da dirsi se volessero fare a risparmio, e se (come l'Accusa immagina contrariamente a quello che narra il Decreto del 10 giugno) se ne rimanessero proprio nel punto in cui per assicurare i loro disegni ne avevano maggiormente bisogno. Intanto l'Accusa, se avesse amato conoscere come i Repubblicani fossero contenti, poteva leggere la requisitoria repubblicana del signor Rusconi, il quale narra che il Partito minacciava irrompere da un punto all'altro contro di me; e poteva anche informarsi come una congiura repubblicana si andasse preparando per rovesciarmi. Se per difendere me dovessi offendere altrui, è naturale che il mio debito sarebbe di restare indifeso, ma le cose a cui accenno sono note a tutti, e resultano da atti pubblici.

In breve somministrerò prove più speciali ancora della violenza subíta; adesso giovi ricercare qui, se a questa procella avesse potuto resistersi. Io penso di sì quante volte il Principe non avesse abbandonato il Governo. Bene altramente gravi, così per gli uomini come per le cose, erano le circostanze che accompagnarono in Inghilterra la rivoluzione del 1688; nonostante tra quelle che davvantaggio la favorirono, Hallam pone la fuga di Giacomo II;[216] ed Hume, narrando come il Re dopo avere inviato la Regina e il figlio in Francia, egli pure, secretamente, si muovesse verso la foce del Tamigi dove l'aspettava un vascello, considera che questo passo ebbe a riuscire grato ai suoi nemici più di ogni altro suo procedimento. Questo storico gravissimo espone, come gli emissarii di Francia, fra i quali l'ambasciatore Barillon, erano affaccendati attorno al Re suggerendogli, male a proposito, nessuna cosa potere operare più acconcia a sconvolgere il paese quanto la sua partenza. E che così opinassi ancora io pel nostro Paese ne porgono testimonianza il Dispaccio diretto al Governatore di Livorno, dove dichiaro che lo allontanamento del Principe sarebbe il peggiore dei mali; e gli altri al Presidente del Consiglio, dove gli raccomando a fare ogni prova per ricondurre il Principe e la sua famiglia a Firenze, e di salvarlo anche suo malgrado. Prevalsero altri consigli, dei quali ebbi prima dolore e pericolo, ed ora ho il danno.

Giacomo II, abbandonando il Governo, non destinava persona a reggere durante la sua assenza, per lo che grande fu in Londra la sorpresa dello evento, e «ognuno vide le redini del Governo abbandonate ad un tratto da chi le teneva, senza che nessuno apparisse il quale potesse avere il diritto, e neppure la pretensione d'impadronirsene. — Allora avvenne a Londra che nella temporaria dissoluzione del Governo, alla plebe fu sciolto il freno; nè vi fu disordine, che in tanto scompiglio non si potesse temere: insorse tumultuante, ed atterrò tutte le cappelle dove si celebrava messa: assalì e pose a ruba le case dello Inviato di Firenze e dello Ambasciatore di Spagna, ove molti cattolici avevano riposte le loro più preziose suppellettili. Il Cancelliere Jefferies, che si era travestito per fuggire, caduto nelle mani della plebe, ne rimase talmente malconcio, che poco dopo morì. Temevasi che lo esercito contribuisse ad accrescere il tumulto. I Vescovi e i Pari, in tanto stremo, si riuniscono per provvedere alla comune salvezza; al gonfaloniere e agli aldermani danno ordini convenienti per reprimere l'anarchia; mandano comandi alla armata, allo esercito, e ai presidii; finalmente s'indirizzano al Principe di Orange. Giacomo II non era partito d'Inghilterra, anzi fu ricondotto a Londra, e ricevuto con grida di acclamazione dalla plebe, seguendo la sua natura versatile; invano però, chè la rivoluzione per quel breve abbandono del Governo era stata operata. Orange, genero al re, e la figlia Maria, avevano supplantato il suocero e il padre.»[217]

Così fra noi, abbandonato il Governo, trionfa il Partito repubblicano; e fu mestieri provvedere innanzi tratto a salvare la società; poi a ricondurre il Paese nelle condizioni politiche che gli erano naturali, traverso il travaglio rivoluzionario, e senza sangue....

XXII. Atti Speciali.

§ 1. Fatti di Siena.

Siena sopra ogni altra città toscana presenta se non antiche le cagioni del tumulto, almeno gli spiriti pronti a trascendere in contenzioni di parti. Io ho sentito dire come ad un Santo riuscisse persuadere, che ai coltelli surrogassero sassi nelle pugne, costumate dalla gioventù per vaghezza nelle novene natalizie: e gli parve avere fatto un bel guadagno! Simili gare di origine vecchia si perpetuarono in cotesta città per futili motivi, e s'invelenirono per dissidii politici.

Io, davvero, vorrei tacere per affetto alla nobilissima terra; ma considerando la causa che mi fa parlare, non dubito che torrà in pace se io ricordo le contese per la morte del Petronici, il pericolo dei Carabinieri, e Giovanni Manganaro costretto a salvarsi notte tempo con la fuga. Non senza mistura politica furono i tumulti a cagione dei grani, per quanto almeno me ne assicurava la Deputazione, che venne a intercedere a pro dei colpevoli, i quali tutti ottennero amplissima remissione di pena dalla clemenza sovrana.

Però studiando comporre in pace la travagliata città, proposi, accettandolo il Principe con lieta fronte, a Prefetto di Siena il signore A. Saracini. Considerando lo inclito lignaggio, l'onore acquistato combattendo per la Indipendenza Italiana, la indole egregia e la mitezza dei modi, pensai essere questo personaggio acconcissimo per ridurre i partiti a concordia.[218]

Il Proclama del sig. Saracini, che si legge stampato nel Monitore del 10 decembre 1848, chiarisce come le maledette parti già tenessero Siena divisa, e quanto premurose fossero le cure del Governo di pur comporle in pace. — Ah! che per somma sventura di noi, troppo più agevole riesce predicare pace, che conseguirla! —

A mano a mano che io m'inoltro in questa Procedura, la mia maraviglia diventa maggiore; imperciocchè l'Accusa invece di ricorrere ai Rapporti ufficiali del Governo, se veramente voleva formarsi giusto concetto dei casi di Siena, vada raccogliendo articoli di Giornali, e corrispondenze dei Circoli, e carte altre cotali meno adatte all'uopo. E tuttavolta anche con gli elementi che scelse mettersi fra mano, no, non si poteva, senza ingiuria manifesta del vero, tessere storia uguale a quella dell'Accusa.

Cotesta mala peste delle parti sembra essersi ingenerata fino dall'agosto dell'anno 1848, quando i reduci dalla guerra lombarda trovarono in Patria ai patimenti e al dolore un rimerito di scherno.[219] I quali umori pessimi, inacerbiti dai fatti del 24 ottobre 1848,[220] crebbero così, che una deplorabil divisione di opinioni politiche radicata nelle menti dei Cittadini, rendeva la guerra civile inevitabile;[221] onde nel 24 novembre 1848 per opera di cittadini dabbene, fra i quali il colonnello Saracini e il professore Corbani primeggiavano, fu fatta pace fra i capi di parte con universale allegrezza. Quantunque non tutte le cose in cotesta occasione avvenute meritassero pari lode, pure per confermare la pace che sperava durevole, e per premiare la dichiarazione concorde che in Toscana volevasi la libertà costituzionale, la conservazione di Leopoldo, e i plausi fatti alla libertà, al Principe e alla sua reale Famiglia, io reputai prudente non istarmi tanto sul sottile, e concedere il perdono ai condannati pei tumulti del grano nell'anno precedente, secondo me ne fece ressa la Deputazione mossa da Siena.[222]

Nel giorno 30 gennaio 1849, il Granduca giunge a Siena nelle ore vespertine. Fattasi notte, la Banda, preceduta da bandiera bianca e rossa e seguíta da molto Popolo, si recò suonando sotto il palazzo regio; quivi s'inalzano gridi di: Abbasso la Costituente! Morte agli Scolari! Viva il Regno di Napoli! Chi leva diverso grido, come: viva la Costituente! viva il Ministero! è battuto, e inseguito. Il Principe, per ben due volte costretto di affacciarsi al balcone, ringrazia i Sanesi dell'accoglienza fatta a lui e alla famiglia.

Il giorno seguente, 31 gennaio, su pei cantoni si lessero appiccati cedoloni, che dicevano:

« Avviso salutare ai Sanesi. La Costituente italiana è una invenzione del Montanelli toscano, la quale spinge il Popolo ignorante al macello della guerra ed alla miseria. O Popolo, non cedere alla violenza dei pochi tristi, o pazzi, che te la lodano. Roma non la vuole; il Piemonte non l'approva; tu solo vuoi rimanere ingannato? Lo Stato è in miseria, e questa crescerà per la guerra, perchè il ricco dovrà alimentarla con quel danaro, che serviva a darti lavoro, e tu dovrai sostenerla con gli stenti e i pericoli della vita.»[223]

A mezzogiorno gli Scolari si radunarono, e deliberarono abbandonare Siena riducendosi a studio nella Università di Pisa.

I Documenti dell'Accusa narrano, come si tenesse per certo che il Granduca, per tôrre via ogni pretesto di scissura, si fosse determinato a ricondurre la sua famiglia alla Capitale, e come di cotesti avvenimenti gravissimi andassero incolpati — i ricchi di Siena, superbi e ignoranti, che temono dovere sborsare qualche soldo di più per la guerra della Indipendenza, e gridano morte ai liberali chiamandoli Repubblicani al solito. Il male è cominciato dallo agosto passato.

Gli animi si accalorano, e già nel 3 febbraio taluno narrando i casi del giorno antecedente, ammonisce: «Il Partito liberale si è risvegliato, credimi, per Dio, che si è svegliato, e lavora energicamente, e le prime lezioni sono state date.» E nel 2 febbraio questo Partito, fatto per provocazione furioso,[224] si aduna sul prato della Lizza, e manda pel Prefetto onde spieghi al Popolo, Costituente che sia; e il Prefetto, come vollero, fece: richiesto inoltre persuadere a S. A. di concionare alla moltitudine, promette adoperarvisi, e lo invita a convenire nell'ora prefissa in piazza. Intanto da una parte si grida: Viva Leopoldo solo; e basta; — dall'altra: Viva Leopoldo e Viva la Costituente;[225] — e per allora dividonsi; la sera si trovano puntuali al convegno. «Venne l'ora» (io cito i Documenti dell'Accusa) «in cui si muta la guardia; ed ecco, che la canaglia pagata, tutti armati, si mettono davanti a noi e incominciano a gridare: Viva Leopoldo secondo solo! e noi: Viva la Costituente! e quelli: no; — e noi: sì! — Si affaccia il Granduca, ringrazia e si ritira; si ripetè: — Viva Leopoldo! viva la Costituente! — e quelli di nuovo: — Viva Leopoldo solo! e chi ha coraggio venga avanti. — Allora cominciò la zuffa, ma durò poco, e vi furono soltanto tre feriti dalla parte dei retrogradi.»

I giorni seguenti temevasi peggio; bande di gente armata vagano per la città pronte alle offese. Quei dessi, che provocando avevano suscitata la tempesta, ora ne rimangono atterriti. Da un punto all'altro un conflitto sanguinoso aspettavasi, e i provocati dichiaravano: «Noi siamo preparati, e non si avrà più misericordia per nessuno d'ora in avanti.»[226]

Intanto per le terre toscane correva un grido, cresciuto, come suole, dalla fama, che sacrilega guerra si combatteva in Siena; sangue cittadino, e da cittadine mani versato, correre le strade: «Che più manca a voi, Guelfi e Ghibellini? Alla riscossa, Bianchi e Neri....» si esclamava dintorno. — E fiere minaccie si indirizzavano al Ministero, ora perchè non avesse provveduto, ora perchè non avesse seguíto il Granduca a Siena, ora perchè non ne procurasse il ritorno;[227] tale altra perchè, nonostante gli avvisi, favorisse il Governatore amico e sostegno dei nobili, nobilissimo anch'esso; finalmente tennero dietro le proteste degli Scolari, che di consenso dei Professori, si erano rifugiati alle loro case; e i rimproveri di facile, sofferente le perfide trame, sollecitandolo a procedere severamente contro gli svergognati promotori della dimostrazione del 30 gennaio.[228]

Questi miserabili casi, pei quali la mente travagliata considera come dopo cinque secoli duri fra noi la maladizione, che costrinse la grande anima dell'Alighieri a lamentare:

«Ed ora in te non stanno senza guerra

«Li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode

«Di quei che un muro, ed una fossa serra;»

non hanno virtù alcuna per commuovere le ardue viscere dell'Accusa. A noi il pianto nasconde la dolentissima storia.... ed anche all'Accusa questi fatti nasconde.... il pianto no.... ch'ella non piange mai, — ma il fiero talento di nuocere a torto, in onta al vero, e con angoscia della innocenza; — che cosa dunque rappresenta fra noi questa Accusa?

I Rapporti governativi depositati negli Archivii del Ministero, fin qui non concessi, mi davano abilità di fare stampare quanto segue nel Monitore del 5 febbraio 1849: «S. A. il Granduca si condusse, secondo il solito, a Siena per visitare la Reale Famiglia che sverna costà. Un Partito di pochi, e, piuttostochè tristi, stupidi retrogradi, si valse della presenza dell' Ottimo Principe per fare una dimostrazione avversa alla Costituente, coonestando lo stolto intento con acclamazioni al suo Nome, le quali non potevano essere se non che universali. — Di qui avvenne la reazione; e i retrogradi ebbero la peggio, rilevando alcuni di loro parecchie ferite. La Giustizia informa: molti arresti sono stati operati; alcuni arrestati confessarono, a un tratto, essere stati pagati: a vero dire, sottilmente pagati, perchè i retrogradi hanno copia di generosità come d'intelletto. — Intanto il Principe, per queste angustie dell'animo e per disposizione di corpo, è caduto infermo. Sebbene obbligato a tenersi giacente, non ha febbre, ma sonnolenza e gravezza, dolore di capo, e gli altri segni tutti di forte reuma. Il Consiglio dei Ministri, ieri sera, aveva deliberato mandargli qualche Ministro per circondarlo della responsabilità ministeriale, e il Presidente Montanelli si chiamò pronto a partire. Nella notte sono arrivate notizie da Siena, le quali istruiscono che il Principe desidera e chiama intorno a sè parte del Ministero, o per lo meno un Ministro. Così il pensiero ministeriale si è trovato d'accordo co' desiderii del Principe. Il Presidente Montanelli è partito in compagnia del Segretario Marmocchi di patria sanese. Queste notizie, della verità delle quali non è dato dubitare, abbiamo voluto rendere palesi, affinchè ogni trepidazione cessi, e la città si rassicuri. La stretta armonia tra il Principe e il suo Ministero, anzichè soffrire alterazione, ogni dì più si conferma

Ora, comecchè coteste cose non mi tocchino, tuttavolta in omaggio del vero, esaminiamo se il Granduca statuisse la partenza da Siena prima o dopo l'arrivo del signor Montanelli. Già fu avvertito che il Presidente lasciava Firenze il 5 febbraio, ed arrivava il 6 a Siena nella mattinata. Ora, dai Documenti pubblicati dal Ministero degli Affari Esteri Inglese, intorno ai casi d'Italia, per essere presentati alle Camere del Parlamento, s'impara come Lord Hamilton avverta il Visconte Palmerston, nel 7 febbraio, che il Granduca desiderava uno dei vapori inglesi stanziati in Livorno per imbarcarsi il giorno 8 a Porto Santo Stefano.[229] — Dunque, se si calcola il tempo che un messaggio impiegava allora, per difetto di strada ferrata, da Siena a Firenze, il tempo per mandare a Livorno e ottenere risposta dai Comandante Inglese, il tempo per riscontrare S. A., il tempo finalmente perchè il piroscafo giungesse nel prefisso giorno a San Stefano per imbarcare S. A., non sarà indiscreto supporre che, o nella notte del 5 febbraio, o almeno nelle prossime ore matutine del giorno 6 pervenisse al Ministro Inglese la richiesta di S. A. per imbarcarsi il giorno 8 a Porto Santo Stefano. — Però ci persuaderemo che la risoluzione presa di partirsi da noi, precedeva, non susseguiva, l'arrivo del signor Montanelli a Siena: e ci persuaderemo eziandio, che infausti consiglieri di quella furono i successi accaduti dal 30 gennaio al 5 febbraio, non già la presenza del Montanelli e dei seguaci suoi.

I Documenti dell'Accusa si sbracciano a volere trovare un concertato fra i disegni dei Repubblicani, le agitazioni di Siena e la presenza dei signori Montanelli e Marmocchi in cotesta città: in prova di ciò allegano certa lettera di Antonio Mordini a Lorenzo Corsi ingegnere di Arezzo; ma è di evidenza intuitiva che il concetto di quella non accorda per nulla con quanto avvenne, nè con quanto il Ministero operò. Infatti la lettera si basa sul caso possibile della dimissione del Ministero toscano che il Partito provocherà fra il 1 o e il 5 febbraio. Ora questa dimissione non solo non avvenne, ma in quel medesimo giorno 5 il Monitore annunziava, per mia diligenza, che l'armonia fra il Principe e il suo Ministero, invece di soffrire alterazione, ogni dì più si confermava. — E chi, Dio mio, non lo avrebbe creduto al pari di me? Da Siena, lettere confidenziali di persona intima all'A. S. me ne assicuravano sollecito il ritorno; delle notizie, pervenutemi per via particolare e colà trasmesse, mi ringraziavano; di usare solerte opera onde la città rimanesse tranquilla mi raccomandavano. Lusinghiere, amorevoli erano coteste lettere, ed io mi vi affidavo intero. Nè andava di tanta benignità immeritevole la mia fede, perchè ogni mio riposto consiglio manifestava al Principe, e perfino la mia corrispondenza privata. —

E non avvenne la Dittatura immaginata dal Mordini, nè il nostro invio a Roma; e gli sforzi miei erano diretti a conseguire il ritorno del Granduca, la sua partenza non già, e fatti e scritti il dimostrano; nè la unificazione con gli Stati Romani, Toscani e Veneti, nè alcuna delle cose quivi indicate successero. Io non so pertanto che consiglio sia questo di andare a trovare un nesso tra il fatto mio e le infinite fantasie uscite dagli accesi cervelli di quei tempi; molto più quando fra loro appariscono siffattamente disformi.

Il Decreto del 7 gennaio 1851, nel § 16, dice espresso, che Montanelli andò a Siena seguíto da Marmocchi, e più tardi da Niccolini: l'Accusa del 29 gennaio 1851 ostenta ignorare se eglino con Montanelli andassero, o innanzi o dopo esso. Nè questa esitanza si creda priva della sua buona ragione, imperciocchè tutti i Documenti vorrebbero trovare che il subuglio in Siena avvenisse dopo, non prima la giunta loro a Siena. Ma no; anche il Lunario è inesorabile: il gennaio nell'ordine dei mesi viene innanzi al febbraio, e nel processo dei numeri il 5 tiene dietro al 4. Molte cose possono fare e molte ne hanno fatte i Giudici, ma porre febbraio prima di gennaio, e il 4 dopo il 5, non possono: però, se non lo possono fare, lo possono dire; e lo dicono, e certamente non si risparmiano da scriverlo. Il Decreto del 7, § 17, imperturbato afferma che i movimenti anarchici accaddero dopo il 5 febbraio, pei quali cessò la sicurezza della reale famiglia; l'Accusa, § 54, anch'essa sostiene, che Siena, bastantemente tranquilla.... fino ai primi di febbraio, cambiò tosto aspetto e trascese alla rivolta. Il Lunario dice che i moti anarchici avvennero dal 30 gennaio 1849 al 5 febbraio 1849. Il Lunario dice che la deliberazione presa di abbandonare Siena, e imbarcarsi l'8 a Santo Stefano, ebbe a precedere, per necessità, l'arrivo del Montanelli; ed il Lunario intende avere ragione, ed il Lunario l'ha, perchè per mostrare che il torto è del Lunario questo non si tribola, e non può tribolarsi col carcere. Felice Lunario! Leggendo attentamente l'Atto d'Accusa, § 45, non trovo che dopo lo arrivo del Montanelli altro abbia saputo raccogliere che conferenze con pretesi demagoghi, dimostrazioni apprestate, voce di danaro sparso, opinioni di mutate condizioni della città; ma gli assembramenti, le grida in senso opposto, le percosse, le ferite, il Granduca costretto a presentarsi alle moltitudini, le minaccie: «uccisi prima i Repubblicani, daremo addosso ai Signori;»[230] gli Scolari deliberati ad abbandonare Siena, e il fatto dello abbandono; le bande armate per la città; il proponimento di non usare d'ora innanzi misericordia; il Lunario inesorabile dice che successero dal 31 gennaio al 5 febbraio, e non dopo il 5 febbraio 1849; anzi dall'agosto del 1848, quando vi fu chi ebbe cuore d'irridere i reduci dalla infelice guerra lombarda!

I Documenti dell'Accusa talvolta capiscono troppo, e talora troppo poco: se volessero leggere meco i Rapporti di polizia, troverebbero questi fatti semplicissimi che loro racconto. Due Partiti da molto tempo travagliavano Siena: uno smanioso del Principato assoluto, nemico naturalmente di guerra, avverso alle dubbie fortune, il quale alla patria, alla gloria, alla voce stessa del Principe, che pur ci chiamava ad impresa ch'era e che fu detta santa, la tenace conservazione, e lo ignavo godimento del paterno censo anteponeva; l'altro, promotore del Principato Costituzionale, della Costituente, e di quanto altro in quei tempi antichi andava per le bocche (chè per i cuori mal saprei dire davvero) dello universale; conciossiachè vuolsi notare da cui fa studio della verità, come dalle stesse carte dell'Accusa non ricavo che in Siena si acclamasse la Repubblica nè prima, nè quando giunse il signor Montanelli. Il primo provocò il secondo, questi raccolse le forze, e andò a combatterlo; quindi scontri deplorabili e timore di peggio. — L'Accusa sembra che lealissimi, degni di onore, amici veri del Principato reputi quelli che acclamavano: — al Principe solo, e basta; — che urlavano: — Morte agli scolari! — che spiegavan bandiera bianca e rossa; che imprecavano alla guerra della Indipendenza, che insultavano la gente, che in piazza si presentavano armati, e a cui non gridava come loro davano di buone coltellate pel mezzo della faccia: — demagoghi (dacchè oggi di questa parola è gran consumo nelle scritture, specialmente nelle curiali), e meritevoli di perpetua infamia gli altri che spiegavano bandiera tricolore, e alla Costituente applaudivano. Ma la guerra della Indipendenza avevano bandita i Ministeri tutti, il Parlamento, e il Principe stesso; ma la bandiera tricolore era stata dichiarata bandiera nazionale; e tutti, badate bene, tutti, o di seta al cappello, o di smalto fra i ciondoli dell'orologio, ne portavano il segnale; ma tricolore fu dato il nastro ai Deputati donde pendeva la medaglia, tricolore la sciarpa che ricingeva il collo ai Senatori, tricolore il nastro della medaglia che, mostrando la effigie del Principe, consolava i suoi sudditi dell'angoscia per la guerra dove li tradì la fortuna, non l'animò; tricolori le bandiere giurate, tricolori le bandiere agitate dalla sovrana destra dai balconi della regale dimora; ma i padri mandavano i figliuoli a studio in Siena, perchè vi venissero istruiti e non ammazzati; ma la Costituente proposta alle Camere con Decreto del Principe e votata dal Parlamento, finchè non era reietta col veto, doveva rispettarsi.

Ai fatti narrati io vedo opporre la testimonianza di alquante persone, intorno al deposto delle quali una cosa sola dirò: che nè anche l'Onnipotente può fare che il fatto non sia. A che questi testimoni di cose che l'Accusa stessa, co' suoi Documenti, smentisce? Perchè ricorrere a così torbida sorgente? Non tali auxilio.... doveva esclamare l'Accusa, come Ecuba quando vide Priamo barcollante sotto il peso delle armi; ma l'Accusa accolse Priamo e mi ha preso anche Tancredi. Purchè mordano, l'Accusa accetterebbe gli orsi, non che gli eroi dei poemi epici! O non vi sono dentro gli Archivii i Dispacci del Prefetto, i Rapporti dei Delegati, le informazioni del Provveditore della Università di Siena, le Procedure incominciate o concluse? E mentre l'Accusa tiene queste lucerne sotto il moggio, o come fa ella a mettere sul candelabro un Misuri copista, un Baldassini tappezziere, un Fedeli sarto, un Corsi falegname, e un Tancredi (senza avvertirci se sia diverso dallo amante di Clorinda), i quali vi dichiarano (e l'Accusa par che lo creda) che Siena era tranquilla, ma che venuto il Montanelli venne il diavolo?... L'Accusa non dice se qui il testimone si sia fatto il segno della santa croce. — È notabile una lettera confidenziale di Niccolini al Circolo di Firenze, dove gli si dà ragguaglio di quanto egli operò a Siena il 6 febbraio 1849: in quella egli non ispaccia il nome del Governo, nè se ne dice incombensato, nè propone, o fa cose che gli si possano riprendere.[231]

Io per me, quando considero i Documenti dell'Accusa e li confronto con quello che so, ed è vero, e si trova nelle carte officiali del Governo, non posso impedire alla mia mente di meditare sopra la tremenda sentenza del signor Thiers: «Nei tempi in cui si agita la discordia civile, si vedono quei vergognosi processi dove il più forte ascolta per non credere, il debole parla per non persuadere.»[232]

§ 2. Invito al Circolo Fiorentino di tenere le sedute in Palazzo Vecchio.

I Documenti dell'Accusa ritengono che io invitassi il Circolo fiorentino a tenere una orgia rivoluzionaria nella Sala di Palazzo Vecchio, che per mio ordine fu illuminata a festa, dopo avere rimproverato il signor Lanari, perchè non concedesse il suo Teatro per celebrare cotesta solennità di Popolo.

Ora io dichiaro siffatto invito apertamente falso. Nel giorno 8 febbraio, tra le altre pretensioni del Popolo, dei Repubblicani, dei Demagoghi (chiamateli come meglio vi piace, ma di quella gente insomma a cui nessuno di quanti mi accusano avrebbe saputo dire di no in nulla, — assolutamente in nulla ), vi fu quella di volere tenere Circolo nella Sala di Palazzo Vecchio. Tanto poco io lo invitai, che il Circolo volle la Sala quasi in sussidio per non essere stato accolto nel Teatro Nuovo. Tanto poco io lo invitai, che scrissi parole acerbe al signor Lanari per rimproverargli il suo rifiuto, nello scopo appunto, che cotesta vicinanza molestissima non venisse ad annidarsi in Palazzo Vecchio; e se adoperai la espressione di solennità popolare, ciò feci perchè, come costumava a quei tempi, ebbi a scrivere il biglietto sotto gli occhi dei petizionarii. Comecchè io primo confessi che sarebbe stato un impossibile, tuttavolta, immaginiamo che l'onorevole Magistrato, che sostiene adesso le parti di Regio Procuratore, nell'8 febbraio si fosse trovato nei miei piedi, ed avesse creduto per lo meno reo consiglio scrivere il biglietto al signor Lanari onde allontanare il Circolo da Palazzo Vecchio, e di questo biglietto avesse dovuto fare portatori i petizionarii; io mi attenterei domandargli, così per mia istruzione, se avrebbe scritto sotto ai loro occhi: vi raccomando accomodare questa geldra di ribaldi degna di corda, del vostro Teatro, per certa orgia rivoluzionaria con la quale intende deturparvelo materialmente, e moralmente....? Ecco, io sono uno di quelli, che credo che l'onorevole Magistrato non avrebbe scritto precisamente così; e mi ha da essere cortese, che tra scrivere queste parole il giorno 8 febbraio 1849, sotto gli occhi dei rappresentanti il Circolo fiorentino, e scriverle nel 29 gennaio 1851, nel § 73 della sua Requisitoria, un qualche divario vi potrebbe pur correre![233] Andate a vuoto le preghiere, le offerte di pagamento, ed anche le minaccie, se così si vuole, per allontanare il Circolo, onnipotente in quei giorni, i suoi rappresentanti tornarono più imperiosi che mai a volere il salone di Palazzo Vecchio; e questa verità di per sè si comprende, imperciocchè, se avessi inteso invitare il Circolo nel salone, non avrei adoperato tutte le vie perchè non ci entrasse. Ricordo come, per ischermirmi, osservassi non convenire che una sala deturpata con le pitture rappresentanti il Trionfo di Cosimo I sopra città innocentissima, udisse la eloquenza di uomini liberi: ma non mi valse, perchè risposero che il Savonarola l'aveva fatta fabbricare a posta per favellarvi di libertà, e che il Popolo voleva usare liberamente degli edifizii fabbricati da lui, nè più nè meno come disse il Circolo sanese quando volle occupare il salone delle Alabarde; per lo che lascio considerare a chi legge, se tanto pretendeva nel 30 gennaio del 1849 a Siena il Circolo sanese, che cosa dovesse pretendere l'8 febbraio il Circolo fiorentino a Firenze![234] — Con simile ripiego mi riuscì, più tardi, salvare la campana del Bargello, venerabile monumento di patria antichità, minacciata anch'essa della fusione: tanta era la smania del fondere a quei tempi! Allora posi loro sott'occhio la spesa della illuminazione, grave sempre, adesso gravissima pei bisogni della guerra: non la potei spuntare: ridotto a piè del muro, non nego avere detto al signor Giuseppe Nardi: bisogna contentarli; — ma tardi, verso sera, tornato invano ogni schermo, ogni pratica venuta meno per mandare il Circolo altrove; ed anzi parmi ricordare avergli detto, com'era vero, « lo vogliono;» ma se io male non appresi la mia lingua, mi sembra che il termine bisognare corrisponda ad essere di necessità; ed è scrivendo o parlando il più usitato, quantunque, per vaghezza di variare, si muti talora con la frase — è forza, tal altra con quella — fa di mestieri, e simili. Però, se fui costretto codesta sera a cedere, mi adoperai, facendo tenerne proposito a parecchi caporioni del Circolo, perchè andassero altrove a piantare i loro tabernacoli, principalmente insistendo sopra la improvvida spesa. Voglio aggiungere un altro fatto, ed è, che se avessi invitato il Circolo, non mi sarei mostrato di tanto scortese a non accoglierlo di persona, o almeno, per breve ora, visitarlo: ma no, io non lo accolsi, neanche per un istante mi vi affacciai. Questi fatti bene poteva attestare il signor Nardi archivista del Ministero dello Interno, e poteva attestare altresì se io, repugnante, come quello che patisce forza, o volenteroso, come chi invita, lasciassi entrare il Circolo nel Palazzo Vecchio. Se il signor Giuseppe Nardi (la quale cosa non credo, però che egli mi parve onestissimo uomo, e mi dorrebbe più per lui che per me se dovessi persuadermi adesso di essermi ingannato) per peritanza che spesso, e a torto, sente uno impiegato a deporre in favore del caduto in disgrazia, non avesse somministrato testimonianza del vero, non mancano testimoni che sappiano e vogliano attestarne, conciossiachè lo espediente a cui mi appresi, per sottrarmi, si sparse per la città, dando luogo, siccome avviene, a novelle. Intanto l'Accusa si acquieti di questo, che, per quanto cercare ella faccia, ella non troverà che prima e dopo l'8 febbraio il Circolo fiorentino procedesse d'accordo con me; io con lui.[235]

§ 3. Impieghi dati in ricompensa a Mordini, a Ciofi, a Dragomanni; danari a Niccolini.

Antonio Mordini erami, come ho detto altrove, e qui confermo, non pure non legato in amicizia, ma[236] perfino ignoto di persona. Giuseppe Montanelli lo mise in sua vece al Ministero degli Esteri, ed io non poteva contrastare. Da prima furono le mie relazioni poche con esso, se non che nell'udirlo ragionare parendomi, come veramente egli è, uomo d'ingegno non ordinario, incominciai di mano in mano ad aprirmi seco, e di leggieri, ponendogli sott'occhio le ricerche coscienziose, ed i fatti dai quali resultava evidente la repugnanza del Popolo toscano dalla Repubblica, lo ebbi persuaso della necessità della restaurazione del Governo Costituzionale. Di questo egli somministrò non dubbie prove, e lo vedremo più tardi nell'Assemblea della Costituente combattere i suoi antichi amici politici. Dalla parte repubblicana sono stato acerbamente ripreso di avere assiderato i cuori delle persone che mi stavano attorno; e fu posto in dileggio quello che chiamano positivismo.[237] Non è così: io non ho assiderato come non ho inebriato nessuno: ho pregato di bene esaminare i documenti raccolti, e decidere con coscienza, posto da parte qualunque privato desiderio. Quando si tratta delle cose di questo mondo, mi sembra che dare loro una occhiata non sia poi irragionevole affatto, nè scandaloso tanto quanto il Regio Procuratore della Repubblica sig. Rusconi presume; però che spesso mi tornasse alla memoria quel filosofo, che per fissare sempre le stelle cadde nel pozzo. Ora, in quanto al signor Mordini concludo, che non lo conoscendo non lo avrei impiegato, come invero io non lo impiegai; ma dopo averlo conosciuto io lo avrei impiegato, perchè di mente giusta, capacissimo a tenere uno officio, e di vuote astrattezze troppo meno vago, che altri non immagina.

Consentii che il signore Demetrio Ciofi, anzi ebbi caro che ad ogni modo si allontanasse da Firenze. Le carte del Processo attestano com'egli fosse persona di moltissimo seguito nel Popolo minuto, capo del Circolo di San Niccolò, parlatore facondo e potente a tirarsi dietro la moltitudine devota. Siccome per ordinario le provincie prendono norma dalla Capitale, così rimuovere da Firenze le persone che forse avrebbero mantenuta accesa l'agitazione, mi parve diritto consiglio; altri propose, ed io approvai, quantunque a vero dire non vi fosse luogo a repulsa; e certo non è senza riso questa accusa, imperciocchè conoscendo l'autorità grandissima in quei giorni del Ciofi e dei compagni suoi, vuolsi maravigliare, che di sì lieve ufficio si contentasse, e ad assentarsi da Firenze acconsentisse, e non piuttosto rovesciato il Governo in luogo suo si surrogasse; il quale avvenimento quanto potesse essere desiderato da quei medesimi che adesso m'incolpano, lascio a loro considerare.

Dragomanni poi proposi io stesso: egli non era temibile affatto; mal destro a discorrere; di poco credito in guisa, che mai gli riuscì farsi eleggere Deputato: o di fortuna poco bene in arnese. Quando mi capitò il destro di mandarlo lontano, io lo afferrai, e così adoperando intesi dare sussistenza ad uomo di chiara stirpe, cultore delle lettere, e mostratomisi parziale fino da quando egli, Presidente dell'Accademia della Valle Tiberina, me immeritevole e non chiedente, anzi repugnante, volle ascritto nell'albo dei socii della medesima.[238] L'Accusa da prima sospettò, che cotesto impiego fosse mercede della opera prestata nell'8 febbraio; io feci avvertire che soltanto nel 10 aprile egli era promosso: ricompensa un po' troppo remota; — allora gavillando l'Accusa ha trovato che si volesse allontanare perchè, più che di vantaggio, fatto impedimento; e nè anche questo è vero. Il signor Lemmi era stato eletto Segretario allo Incaricato di affari a Costantinopoli: ricusando egli, gli subentrava il sig. Dragomanni quasi fortuitamente.[239] Quantunque, come il proverbio dice, l'asino non valga la cavezza, chè materia di piccolo momento ella è questa, pure anche qui mi piace ripigliarti senza rancore, o Accusa, e condurti a toccare con mano che non ne imberci una. Fammiti qui appresso, e vediamo un po' se mettendo tutto il nostro in comune (poichè di comunità oggi corre la usanza), ci riuscisse fabbricare qualche cosa che avesse garbo di ragionamento. A che miravo io? Su, dillo, via. — L'Accusa, che teme esporre il suo a compromesso, mi sbircia alla trista, e tiene i labbri stretti. Lo dirò io per te; io non risico nulla: tanto in prigione ci sto. Miravo forse alla restaurazione del Principato Costituzionale? L'Accusa, scattando il capo, si tocca col mento la manca e la diritta spalla. No, eh! Ma potevi fare più adagio a negare, che per poco non hai preso una storta nel collo. Mulinando contro il Principato Costituzionale, un Repubblicano (e accordo, di lieve importanza) doveva pure tornarmi più vantaggioso a Firenze che a Costantinopoli; perchè anche tu, o Accusa, devi andare persuasa che indurre il Sultano a mandare Turchi in soccorso della Repubblica toscana, neanche al Dragomanni sarebbe potuto riuscire. Bisognerebbe credere che io mirassi al provvisorio eterno. Come provvisorio eterno? Non ci è rimedio: a considerare questa ipotesi io mi sento tratto pei capelli proprio da te, o Accusa mia; avendo tra i gratissimi testimoni a carico del Romanelli accettato quello che depone avergli udito dire: — Viva il Governo Provvisorio eterno, — e' pare che anche tu abbi fede nella eternità provvisoria. Lasciamo, chè di questo avrai a rendere conto a Dio, perchè gli è un peccato grosso. Come non devo credere io così, quando di queste antitesi, o come le si abbiano a chiamare, io ti vedo innamorata? Difatti, con mio non mediocre insegnamento venni notando l' uno o taluno, il complice o impotente, e fino dalle prime carte la mia scienza del veleno nascosto che si nascondeva nella montanelliana Costituente, con altre più taccherelle che si tacciono per lo migliore, come di Guccio Imbratta diceva Messer Giovanni Boccaccio. Ma dacchè provvisorio eterno, o eterno provvisorio, anche a rifarsi di capo al mondo non si trova se non su i labbri del tuo testimone, così mi sia lecito passare questo punto sotto silenzio. Avanza pertanto una cosa sola; la Repubblica. Ora come, quando si agita di Repubblica, cacciansi via i Repubblicani? La vigilia di vendemmia si licenziano eglino gli operaj della vigna, o piuttosto, in qualunque ora del giorno si presentino, si fermano e mettono alle faccende? E se mi si oppone che ancora io confesso che piccolo frutto poteva cavarsi dal Dragomanni, rispondo che è vero, ma che ogni pruno fa siepe, ed al bisogno da ogni legno schiappa si cava; sicchè convien dire che l'Accusa, gittando la rete al motivo della spedizione del Dragomanni presso il Gran Turco, non è giunta a pescarlo. — Certo, Dragomanni visitava spesso la mia casa, ma non per questo godeva davvero la mia confidenza: al contrario, nel cospetto di tutti, si manifestava di principii opposti ai miei, ed io sovente lo riprendeva alla presenza di familiari ed amici con parole acerbe della sua irrequietezza, e delle pratiche che teneva con persone troppo diverse da lui, per educazione e per nascita. Ancora: dalle sue parole profferite nel calore della disputa ricavava lume per conoscere i disegni del Circolo e degli apparecchi repubblicani, per cui talvolta mi fu data abilità di prevenirli. S. A. un giorno ebbe la bontà d'interrogarmi su questa pratica; io le ne dissi la origine e il motivo, ed essa mi parve approvarla.[240]

D'altronde, prudenza così ammaestra operare. Gli uomini diventati o pericolosi o potenti negli Stati bisogna opprimere, o amicarseli; il primo partito è dei tempi del Borgia, la religione lo riprova, non lo consente la indole toscana; molto meno la mia; importava dunque li gratificando allontanarli. In questa guisa pertanto operai Ministro, e palesandone le ragioni alla Corona, ella mi parve andarne persuasa. Finchè il Governo starà nelle mani di gente esclusiva, agirà e sarà odiato come fazione. — È intendimento elementare dei Governi Costituzionali, accogliere negl'impieghi persone di varii Partiti, onde l'uno all'altro non prevalga, e l'Autorità della Corona regga entrambi equilibrandoli. Maestro di cosiffatto equilibrio fu Luigi XVIII, e morì re. Carlo X e Luigi Filippo l'obbliarono, e morirono esuli. La storia rammenta come egregia arte di regno la promozione che fece Napoleone, ad ufficj supremi, degli stessi Convenzionali. Però, e l'Accusa lo prova, pochi furono dal Governo conferiti impieghi a cui parve procedere infesto al Principato, e con qual mira, e da quale necessità costretto, già esposi; e che il disegno non fallisse dimostrò il successo, dacchè tolto dal Circolo il Mordini, e dei più capaci alcuni amicati al Governo, altri espulsi, andò di giorno in giorno declinando, agitandosi alfine con rabbiosi, ma disperati conati. In breve vedremo come i Demagoghi contro me si sbracciassero, perchè alla mensa degl'impieghi non convitassi i puri Repubblicani; ed anche in questa parte mi trovo fra incudine e martello.

L'Accusa afferma avere goduto il Niccolini la mia confidenza, e avergli io pagato nel 13 febbraio dieci monete. Si è veduto se Niccolini potesse essermi amico: egli mi fu soverchiatore, esploratore, e nemico, ora coperto, ora palese. Quando potei lo bandii, nè egli si richiamò della offesa, come altrove esporrò con larghezza maggiore. In quanto alle dieci monete che ordinai pagassersi al Niccolini, e' fu appunto per non serbare obblighi seco, il quale per insinuarsi nell'animo del mio giovane nepote, o per altra causa che il muovesse, volle donargli una carabina, e questi vago di armi accettò. Io come prima lo vidi, instai a che, o si riprendesse la carabina, o ne accettasse il prezzo: dopo averlo rifiutato, egli alla fine accettollo; ed io, che non avevo la moneta addosso, gliela feci pagare in dieci francesconi dallo Adami, perchè convivendo meco egli mi andava debitore della sua quota di spese di casa. — La carabina deve essere stata rinvenuta nella stanza di Palazzo Vecchio abitata dal giovane. I conti col signore Adami nè anche adesso sono fatti, nè si fecero mai, onde io non potei accorgermi se mi avesse portato a debito, come doveva, le L. 66. 13. 4.

A confermare questa spiegazione agevole e piana, concorrono il modo confidenziale del biglietto: — Adami. Paga dieci scudi a Niccolini. Guerrazzi; — che dimostra come io m'indirizzassi all'amico, non al Ministro, e la omessa indicazione dello uso della moneta, il quale è costume specificare quando si tratta di pubbliche spese; e finalmente io credo, che non sieno mancate testimonianze validissime intorno alla verità del fatto: nonostante l'Accusa tiene in tutto e per tutto le pugna strette, quasi paurosa che schiudendole un poco si volino via le raccolte incolpazioni. Dieci scudi? E in questa somma l'Accusa presume vedere la giusta mercede di una rivoluzione? — Per amore del cielo, non faccia credere queste cose l'Accusa, imperciocchè se le rivoluzioni fossero a tanto buon mercato, correremmo pericolo pei tempi che volgono che se ne aumentasse prodigiosamente il numero dei consumatori!

§ 4. Lettera al Sig. Giovan-Batista Alberti Prefetto di Arezzo.

Questa lettera è riportata nel § 25 del Decreto del 7 gennaio 1851; e dice così: «Il Granduca è fuggito da Siena: ignorasi dove si sia ridotto. Prima di partire ha dichiarato annullare la Legge intorno alla Costituente. Il Ministero convoca le Camere e dà la sua dimissione. Sarà instituito necessariamente un Governo Provvisorio. Si circondi dei Patriotti più caldi dello amore del Paese. Prenda i provvedimenti che in simili casi straordinarii persuade la necessità. Se avvengono reazioni, si comprimano ad ogni costo, sotto la sua personale responsabilità. Crei una Commissione di salute pubblica; energia, e vigore; viva la Patria. I Principi se ne vanno, ma i Popoli restano ec. — Firenze, 8 febbraio 1849, — 5 di mattina.»

Il Decreto afferma che per questa lettera si dichiara come per me si reputasse ormai la Monarchia cessata in Toscana. A me pare che questa lettera non dimostri altro, tranne la mia ansietà e la mia diligenza che in tanto sconvolgimento la Patria non s'infamasse con azioni scellerate. In che e come nuoce cotesta lettera? Forse, perchè porgevo avviso al Prefetto dell'operato della Corona? Ma la stessa Corona voleva si rendesse palese, e presto. Forse perchè presagivo la elezione del Governo Provvisorio? Ma questa ormai era diventata politica necessità; e il Giornale dei Conservatori Costituzionali annunziava essere nella mente di tutti. Forse per la notizia dello allontanamento della Corona? Ma se si era allontanata! Forse perchè non indicavo il luogo dove si era ridotto il Principe? Ma nè il Principe lo diceva, nè sembrava egli stesso saperlo. Forse per la raccomandazione di circondarsi di Patriotti caldi dello amore del Paese? O di chi doveva circondarsi? Di quelli che gli volevano male? E ci erano. Forse per le pressanti istanze onde i moti reazionarii non avvenissero, o avvenuti si comprimessero? — Qui giova fermarci alquanto, e chiarire per bene questa materia.

I Documenti dell'Accusa, noi lo vedemmo, ritengono il Ministero nostro come uno di quei parti mostruosi a cui le balie devono lasciare sciolto il bellíco: egli ebbe prima il torto di vivere; poi subito quello di non farsi ammazzare di buona grazia, persuaso, come doveva essere, di nascere in peccato originale: però anche allora, agli occhi dell'Accusa, fu colpa opporsi ai moti reazionarii; bisognava non impedirli, anzi dar loro comodo di operare con sicurezza piena. Se l'Accusa così pensa di me mentre fui Ministro, immaginate un po' voi che cosa pensi quando mi vollero parte del Governo Provvisorio! Ed io apertamente dico all'Accusa, che pessimo argomentare è cotesto suo. — Non si dissimulino le cose, ch'è vano e non plausibile conato: la verità si ricerchi, e si dica. Il Principe parte da Siena, aborrendo reazioni e sanguinosi conflitti; e l'Accusa invece non vuole che le reazioni, i conflitti sanguinosi, nè la guerra civile s'impediscano; e perchè? Perchè crede che tutte queste cose la causa del Principato favorissero. Dio ci liberi dalle offese, — ma ed anche dalle difese dell'Accusa!

Dunque il Principe, a mente dell'Accusa, sta con la reazione? La Corona (e lo dovrebbero sapere i Magistrati) non istà con i reazionarii, nè con i Repubblicani; sta con la Costituzione. Ma i Giudici sanno eglino reazione che sia? Sanno eglino come proceda? La reazione è ripristinamento dell'odioso dispotismo, e del suo tristo corteggio, co' modi che la umanità aborrisce, e la morale condanna. Ora in Toscana, per la Dio grazia, non erano soltanto due Partiti estremi, ma prevaleva, mentre io vivea nel mondo, il terzo Partito degli amici delle Libertà Costituzionali più o meno largamente intese. Ricordano i Giudici come la reazione operasse nell'Aretino nei tempi passati? Forse lo hanno dimenticato; mi concedano che lo richiami loro alla memoria.

«Nella vigilia dei santi Apostoli Pietro e Paolo (28 giugno 1799), allo incessante rimbombo dei colpi da fuoco e dei Viva Maria, il Popolo sanese accorre in folla; e si unisce co' suoi vendicatori aretini; nei suoi primi slanci si scaglia contro coloro che stimava non semplicemente avversi alla religione cattolica, ma occulti cospiratori per abbatterla, quali sono i giudei; pone quindi a sacco qualche bottega, e qualche casa di essa; alcuni ne uccide e gli aborriti cadaveri getta sul fuoco!....»

Sanno i miei Giudici, che fece la reazione nella inclita città di Siena nel medesimo tempo? A Siena furono gettati cinque ebrei vivi ad ardere sul rogo acceso su la piazza maggiore davanti alla immagine della Madonna, che sta a piè della Torre, e allo Arcivescovo Zondadari!! Questi fatti i Giudici possono ritenere per veri pur troppo, imperciocchè vengano narrati dal Canonico Giovanni Battista Chrisolino dei Conti di Valdoppio, parroco della Cattedrale aretina, a gloria (com'egli dice) di Maria Santissima del Conforto, stampati in Città di Castello nel 1799.

Cotesti immani uomini, siffatte nefandità commettendo, invocavano il nome della Consolatrice degli afflitti; sarebbesi dovuto lasciarli fare, nella fede che ciò operassero a maggiore gloria della Madre di Dio? — Anzi imparo, fremendo, come nell'Agro aretino fare Viva Maria! significhi portare le mani ladre nella roba altrui. Ora i ladri e i violenti sol perchè gridino Viva Maria, o Viva Leopoldo II, voglionsi venerare per santi, o lodare per leali?... Vergogna per tutti queste cose, non che dire, pensare; per Magistrati poi enormezza!

Sanno i miei Giudici, che cosa operasse la reazione nel 1849 a Empoli, a Lucca, nell'Aretino e altrove? Certo prendevano a pretesto il nome del Principe, ma le case incendiavano, le strade rompevano, le imposte ricusavano, dalla patria difesa aborrivano, straniere dominazioni macchinavano, ruberie e ferimenti commettevano, terre e castelli di assaltare tentavano. — Io non ho gli Archivii, ma se giustizia vive nel mondo mi verranno finalmente concessi, e allora si conosceranno le mene delle Provincie, e chi le suscitasse, a qual fine tendessero, non meno che gli sforzi dei Giusdicenti a reprimerle. In tanta deficienza giovi non ostante favellare di alcuno.

«Nella sera del 12 febbraio, un piccolo pugno di scioperati, e avversi al Paese, non che al proprio interesse (non però dimoranti a S. Miniato, o appena 8 o 10), concepito il vandalico disegno di troncare e guastare la linea ferrata in quel tratto di pianura, che giace fra l'Arno e il posto della Scala, si recarono alla Parrocchia di S. Piero alle Fonti; ove di prepotenza vollero suonare la campana a martello, nella speranza che i contadini, ed altri popolani accorsi al suono, gli avrebbero secondati. Ma gl'intervenuti, comunque numerosi.... altamente biasimarono, e, protestando non volere dare mano a opera tanto nefanda, si dileguarono. I pochi facinorosi, vedutisi delusi, si dettero con forsennate grida, e con fiaccole, a fare proseliti lungo la strada nel punto che passa la parrocchia della Isolata, quando per l'unione di altri male intenzionati si lusingarono potere dare principio; gl'Isolani in numero di circa 60 si fanno loro incontro a passo di carica, e fatto alto al cancello della strada ferrata, esplodono in aria i fucili. Ciò bastò, perchè i perversi e i faziosi estinte le fiaccole si disperdessero, dandosi a fuggire per le vie traverse, temendo essere inseguiti. A S. Miniato appena ebbesi contezza dell'accaduto, la indignazione dei cittadini contra questi perturbatori dell'ordine, fu universale; e già molti volenterosi avevano preso le armi per discendere al piano ec.» — (Lettera del signor Carlo Taddei al prof. Giovacchino Taddei. — Vedi Monitore del 17 febbraio 1849.)

Tutti i Documenti dell'Accusa riportano lo incarceramento dei Parrochi, e di altra gente, ordinata dai signori Montanelli e Mazzoni in premio, essi dicono, della gioia che le popolazioni circostanti a Firenze, nella purezza dell'animo, mostrarono con innocenti e festive dimostrazioni allo annunzio del ritorno del Granduca. Di questo incarceramento io non so; ma so, che un Lally Tolendal viene celebrato per le storie, come quello che nelle prime commozioni di Francia ebbe il coraggio di proporre un proclama col quale esortavasi il Popolo a non insanguinare le mani, e lasciare libero il corso alla giustizia. Il Bailly intendendo a salvare la vita al Bertier, ordinava che lo trasportassero alla Badia, e quivi lo custodissero prigione; se non che fece tronco quel disegno la plebe, la quale avventandosi in Piazza della Greve contro cotesto sciagurato lo ridusse a morte. Assai più notabile è il caso del Foullon. Lafayette, di cui certamente non vorrà negare alcuno la nobiltà del carattere, e lo amore degli uomini, per sottrarre dalle mani del Popolo furibondo il Foullon, trovò il consiglio di mostrarglisi acerbamente crudele: «Ed io, diceva arringando la moltitudine, lodo il furor vostro; sempre ebbi in odio costui; lo reputo perdutissimo uomo, e non credo che possa immaginarsi pena che uguagli al suo fallire.... Però badate; egli ha da avere complici, e non pochi: importa conoscerli; intanto io farò trasportarlo alla Badia: quindi lo processeremo, e condanneremo alla morte infame che si è meritata pur troppo.» Il Popolo persuaso applaudiva, quando il Foullon, indovinando il segreto concetto del Lafayette, ebbe la inavvertenza di fare plauso anch'egli. Allora il Popolo si ravvisava, una voce sinistra sorse a gridare: «sono d'accordo!» e il pietoso trovato del Lafayette riuscì invano. — Inoltre, cosa nè singolare, nè inusitata presso i Governi, è schiudere la carcere come asilo supremo ai perseguitati... e me pure pretesero dal fiorentino Popolo.... Ma di questo più tardi. Che tale poi fosse lo scopo del Montanelli, me ne persuadono e la indole mite di lui, e il nessuno aumento, per quanto io sappia, del martirologio in Toscana.... e i successi che stiamo per esporre.

Intanto, è mestieri affermare apertamente, che le tinte, di cui l'Accusa colora il tumulto del 21 febbraio, sono false e smontano al sole. Se cotesto moto avesse presentato il carattere che immaginano, o come la città di Firenze sarebbesi tutta levata a reprimerlo? Nè il tumulto si rimase a così tenere dimostrazioni; però che io leggo, egli acclamasse ai nemici della nostra Patria, e seppi con certezza come gli ammotinati s'indirizzassero contro la città con urli di minaccia, e spari di schioppo. La Guardia Civica non pare che andasse persuasa troppo della purezza dell'animo di cotesti innocentissimi, dacchè accorse spontanea a ributtarli con le armi, e accorse ancora spontaneo e furibondo il Popolo fiorentino. L'azione del Governo non fu di eccitare, ma di risparmiare la effusione del sangue, trattenendo la moltitudine da mettere le mani violente nella vita altrui, ed ostando che gli arrestati a furia di Popolo si manomettessero.[241] Il Montanelli, comunque infermo, sorse dal letto e vi si adoperò, oltre quello che parevano consentirgli le forze. Funesta notte poteva essere quella, e madre di assai più terribile giorno: quando il sig. Montanelli non avesse altro merito, parmi che Firenze dovrebbe benedire il suo nome. Adesso corre il tempo della ingratitudine; ma i tempi non vanno sempre ad un modo; e chi ha bene operato può aspettare nella tranquillità dell'animo, che gli sia resa giustizia un giorno, e da tutti. — Ora, considerati i Rapporti di Polizia, il consenso spontaneo ed universale della Civica e del Popolo fiorentino, nello avventarsi contro i campagnoli tumultuanti, parmi che si possa concludere con una di queste due cose; o che il moto del 21 febbraio non presentava i caratteri attribuitigli dall'Accusa, o che nè i tempi erano quelli, nè i modi per operare la restaurazione del Principato Costituzionale.

E anche ad Empoli, negli avvenimenti del 12 febbraio, i facinorosi gridavano: Viva Leopoldo II! e intanto la Stazione bruciavano, e la strada ferrata rompevano. Ho sentito dire che si scusassero col timore che i Livornesi sopraggiungessero, ed hanno accettato la scusa; ma, in grazia, la Stazione con la strada come ci entrava ella? E nel 23 febbraio, quando gli Empolesi, minacciando rinnuovare gli attentati medesimi, vi fecero accorrere pronta e spontanea la brigata delle Guardie di Finanza di Firenze, avevano sempre paura dei Livornesi? No. La verità è che uomini avversi più che al Governo alle persone di quelli che lo tenevano, eccitarono le passioni delle moltitudini, e queste, fiduciose della impunità per la dissoluzione del Paese, non pure trascorsero al guasto della strada ferrata e allo incendio della Stazione, ma posero in compromesso la proprietà degli agitatori medesimi. Il Popolo di Empoli, dedito al commercio dei trasporti più di ogni altro, ebbe a patire danni per la costruzione della strada ferrata, e l'odiò allora, e forse l'odia anche adesso; solito effetto della nuova industria che disagia o rovina l'antica. — Tutte queste cose sapeva, e le dissi apertamente in faccia agli Empolesi; però nessuno si dolse di asprezze per parte mia, nè fu ricercato per negozii politici, e tutto a tutti rimisi, salvo delitti comuni; ed ecco come favellai ai Deputati di Empoli venuti a Firenze per condannare le grida non consentanee ai tempi levate dalla gente empolese, e per respingere da sè il fatto della strada ferrata:

«I fatti di Empoli commossero a dolore il Governo Provvisorio, a sdegno la Toscana tutta. L'essere usciti in parole non consentanee ai tempi, e in atti di ferocia contro le cose e le persone nella sera del decorso venerdì, affligge non solo quanti amano le istituzioni e i governi liberali, ma quanti hanno senso di umanità. Lo incendio della Stazione è siffatto eccesso, che parrebbe incredibile, se non fosse avvenuto alla distanza di poche miglia da noi. Ben fa il Paese a respingerlo da sè. Così si mette d'accordo con la pubblica opinione che lo ha fulminato con la sua disapprovazione.» E continuavo confidando che gli uomini più autorevoli di cotesta illustre terra «raccomanderanno al Popolo di quella e delle adiacenti campagne l' amore all'ordine, che ogni Partito dee rispettare; la tolleranza delle opinioni, che i soli illiberali possono respingere; la concordia, che i soli fautori degli Austriaci possono odiare; il rispetto alla proprietà, e soprattutto alla strada ferrata, che solo l'uomo nomade può guardare di mal occhio; la quiete e la sicurezza, che sole possono mantenere la floridezza di quel Paese ec.» — (Vedi Monitore, 16 febbraio 1849.)

A Castelfranco-di-sopra le turbolenze presentarono tale carattere da indurre il Gonfaloniere e la Guardia Civica a interporre le loro premure affinchè cessassero. Colà il Governo non mandò forza; i Cittadini stessi compresero la necessità di prevenire disordini, e vi si adoperarono con frutto. — ( Monitore, del 26 febbraio 1849.)

A Castelfranco-di-sotto, nel 9 febbraio, successero moti così gravi che la Guardia Civica ebbe a impugnare le armi e combattere; alcuni Civici rimasero feriti. I Rapporti di Polizia autorizzarono il Governo a pubblicare la seguente notizia nel Monitore del 14 febbraio 1849: «In Castelfranco avvenne un movimento in senso retrogrado. La Guardia cittadina accorse numerosa a reprimere il disordine, sebbene ne patisse danno. — Il sangue uscito dalle vene dei Civici di Castelfranco è una offerta fatta alla causa della nazione e dell'ordine. Perchè i buoni cittadini non si affrettano a respingere questi movimenti? Qui non si tratta di quistione di forma governativa. Il nome di Leopoldo è un pretesto per violare la proprietà, per saccheggiare le case, e per uccidere i migliori cittadini! — Il movimento non è politico, ma anarchico: non si combatte per un Governo contro un altro, ma per non averne nessuno. Il Governo vuole l'ordine, perchè la Legge abbia forza e sia salva la Patria. I cittadini devono volere l'ordine per la sicurezza della Patria non solo, ma ancora per quella dei proprii giorni e delle proprie sostanze. — Vogliono i cittadini che la Toscana sia invasa da continui ladronecci? Vogliono che Austria speri nelle nostre contese le sue vittorie? — Morire per l'ordine è morire per la Patria. Ritenga i poveri dall'anarchia il pensiero che il Governo si adopera per diminuire la miseria; muova i ricchi a resistere alla reazione, il senso dell'onesto, l'amor patrio, il proprio interesse.»

In Prato si tentavano disordini contro la strada ferrata Maria Antonia, della specie di quelli di Empoli. Le Autorità e la Commissione Governativa seppero prevenirli con prontissimi e gagliardi provvedimenti. (Vedi Monitore, 16 febbraio 1849.)

A Cascina incendiavano la Stazione della strada ferrata. «Nel mio passare ho trovato la Stazione di Cascina in fiamme. Spegnere lo incendio era impossibile, perchè la Stazione era presso che distrutta. Io seguito il mio viaggio, appena avrò preso alcuni concerti col Pretore di Pontedera. — Al Ministro dello Interno. — Paoli.[242] »

Finalmente a Lucca la strada ferrata a furia di Popolo disfacevano.

Del contado di Arezzo più tardi. Dovevano dunque lasciarsi fare? Stare a vedere le genti sbranarsi, battere le mani agl'incendii, plaudire ai saccheggi, con sempiterna infamia assistere, neghittosi, al sobbissare del Paese? E queste cose con serena fronte profferiscono Magistrati toscani? E, nel pretenderle, il loro cuore nei loro petti sta saldo? Dunque, a mente di loro, la bandiera cuopre sempre comecchè perfidissimo il carico? La marca basta per garantire la merce falsata? Non così, per onore del nostro Paese, la intendono tutti i Magistrati toscani. La Corte Regia di Lucca, con Sentenza del 4 giugno 1850, decidendo intorno alla spedizione di Capannori e di Porcari, ha dichiarato che: «Essendo diretta a ricomporre in quiete e all'ordine la provincia.... di comprimere ogni reazione che minacciasse disorganizzare lo Stato, e di risparmiare, allontanandone il pericolo, le calamità di mutue stragi.... e non tendente a rafforzare il Governo nel male acquistato potere.... comparisca ragionevole ritenere che il Governo stesso non si allontanò da quella linea di condotta che la necessità della precauzione e le regole della prudenza consigliano, e che in pariforme caso un Governo, anche legale, avrebbe, senza esitazione, abbracciata.»

Perchè la Verità dorrebbe preferire le sponde del Serchio a quelle dell'Arno? — Così è: come a Lucca, accadeva da per tutto. Le agitazioni politiche già già destavano le furie socialistiche. Commosso da apprensioni terribili, oppresso da fatiche, a cui sembrava impossibile che uomo potesse durare, io mandava un grido di desolazione col Proclama del 16 febbraio 1849: «La nostra bella contrada si disfà, se quanti hanno cuore italiano non sorgono animosi a salvarla. Bande di facinorosi, col pretesto della fuga di Leopoldo II, ed anche senza pretesto, irrompono al saccheggio e allo incendio. Il Governo ha represso gli scellerati, e saranno puniti.»

In cotesti tempi, per così vigile provvedere, persone onorevolissime mi levarono a cielo; nè fra queste mancavano parecchi membri del Municipio fiorentino, e il suo egregio Capo. Alle mie dichiarazioni che la mia natura, vinta dal travaglio, stava per soccombere, allibivano; e primi fra gli altri, gli antichi impiegati, gli stessi servi della granducale famiglia, a mani giunte, mi supplicavano a non gli abbandonare. Sapevano ben essi quali sorti gli aspettassero! Ahimè! Come mai tutte queste fatiche, cure e pericoli adesso, a un tratto, diventarono delitti?

Fra tante, e solennissime tutte, testimonianze, mi giovi allegare quella del signore Allegretti, e ciò per due ragioni; la prima, perchè, preposto allora, e credo anche adesso, nel Ministero dello Interno alla Sezione della Polizia, giudicava dei tempi con esattissima cognizione delle cose; la seconda, perchè dall'attuale Governo adoperato e promosso non può neanche dalla ombrosa Accusa reputarsi sospetto. Almeno così parrebbe che da costei si potesse sperare. Scrivendo pertanto il sig. Cav. Segretario Allegretti al sig. Biavati di Lucca lettera confidenziale sul principiare del marzo 1849 così si esprimeva: « essere io stanco di cotesto stato di cose, avere minacciato andarmene, e laddove questo avvenisse, grandi guai sarebbero caduti addosso alla Toscana.» Io poi non dubito nella onestà del signore Segretario Allegretti, che egli non sia per commentare largamente a voce quanto scrisse, e credo che come compiacenza all'animo, gliene verrà lode dai suoi Superiori, cui certo non può piacere la selvaggia e veramente smodata persecuzione dell'Accusa.

Nella lettera scritta al signor Prefetto di Arezzo si avverta, all'opposto, che non vi si parla di decadenza del Principe, nè di Repubblica; anzi, non vi si adopera espressione offensiva alla Corona; le quali cose stanno a dimostrare che io la dettai quando mi trovava abbastanza libero di me, nè mi si teneva accalcata e furiosa dintorno la fazione a impormi frase e concetto di quanto, prepotentissima, ella ordinava di poi. Che se fa amarezza la frase: «i Principi se ne vanno, il Popolo resta,» hassi a riflettere in prima, ch'ella suona piuttosto cruccio o dolore, che esultanza per la partita del Granduca; e poi, che essendo quel Dispaccio dettato, lo scrivente poteva avervi messo coteste parole che furono dette in quella notte, e ripetute il giorno successivo nel Parlamento; e in quanto a leggere prima di firmare, davvero, mancava il tempo e la voglia. — Però se l'Accusa intendeva a penetrare l'animo mio in cotesta occasione, sembra che avesse dovuto fondarsi in preferenza sopra gli autografi miei.

«Il Consiglio dei Ministri al Governatore di Livorno. — Il Granduca ha abbandonato Firenze e Siena. Non si sa dove si sia ritirato con la famiglia. Scrive non volere approvare la Legge della Costituente. Il Ministero convoca le Camere, e si dimette. Si prevede la elezione di un Governo Provvisorio. Raddoppi le guardie alle porte. Chiami a sè gli Ufficiali della Civica e della Linea. Si assicuri delle Fortezze. Appello ai cittadini di stare uniti per prevenire qualunque avvenimento doloroso. Energia, attività, e si salvi ad ogni costo il Paese. — Guerrazzi.»

Al Maggiore Fortini nel giorno 8 febbraio 1849, ore 7 antimeridiane: «Soldato e Cittadino, come ella è, farà in modo che col Governatore e il Comandante la Piazza sieno religiosamente mantenuti tranquillità e ordine. — Guerrazzi.»

Altro Dispaccio parimente autografo:

«Il Consiglio dei Ministri al Prefetto di Pisa. — Il Granduca è fuggito da Siena; non si sa dove siasi ritirato con la sua famiglia. Scrive disapprovare quanto ha consentito circa alla Costituente italiana. Il Ministero convoca le Camere, e si dimette. Si prevede la elezione del Governo Provvisorio. Chiami intorno a sè gli Ufficiali della Linea e della Civica. Appello dei cittadini di stare uniti onde prevenire qualunque catastrofe. Circondarsi dei migliori patriotti. Si salvi il Paese. — Guerrazzi.»

Ho peccato io se fra tanto sbigottimento, mentre trepidavano tutti sul giorno che stava per sorgere, mi affaticai ad operare in guisa che il Paese non si disfacesse con sanguinosa rovina? Merita questo che mi si mandi un Profeta Natan onde io scelga, per pena, fra peste, fame e guerra? O Giudici, che fino ad ora osaste reputarmi colpevole, ditemi in grazia se tali fatti voi considerate delitti.... ditemelo, onde, insegnandomelo voi, impari anche io quali sarebbero state in cotesto fiero caso le vostre virtù!

§ 5. L'Accusa non vuole leggere.

L'Accusa asserisce come dalla Segreteria del Ministero dello Interno fu, nell'8 febbraio, mandata notizia ai Prefetti e alle altre Autorità, contro il vero, che Leopoldo aveva abbandonata la Toscana; cosa, ella aggiunge, ch'era pure inserita nel Proclama affisso nel medesimo giorno.

Adesso che l'Accusa non voglia leggere si manifesta primieramente dal Proclama allegato, dove io sfido l'Accusa a trovarmi lo annunzio che il Granduca avesse abbandonato la Toscana.[243]

Inoltre, l'Accusa a che intende ella con la sua proposizione? Per avventura a provare, in mio danno, che la falsità della notizia circolata fu, senza dubbio, la causa del commuoversi della Toscana contro, o piuttosto del non commuoversi in favore del Principato? Venga l'Accusa, legga meco i suoi Documenti, e conoscerà chi sostiene il falso.

A pagine 236 del suo Volume occorre la prova che alle ore 7 ⅔ antimeridiane partirono Staffette per Massa e Carrara, Arezzo, Montepulciano, e Grosseto. Il Dispaccio al Prefetto di Arezzo dichiara: « Il Granduca è fuggito da Siena: ignorasi dove si sia ridotto.» (pag. 279.) Alla pagina 231 leggiamo: «Qui ricorrerebbe il Dispaccio del Guerrazzi al Prefetto di Grosseto del preciso tenore di quello diretto alla Prefettura di Arezzo[244] Alle ore cinque antimeridiane al Governatore di Livorno e al Prefetto di Pisa facevo sapere: «Il Granduca ha abbandonato Firenze e Siena, e non si sa dove siasi ritirato con la sua famiglia.» (pag. 235.) E così erano avvertiti il Comandante di Piazza e il Maggior Fortini a Livorno. Dunque nelle prime ore pomeridiane del giorno 8 febbraio Firenze, Pisa, Lucca, Livorno, Massa, Arezzo, Montepulciano, Grosseto e Siena con tutti i paesi circostanti erano per me informati precisamente del vero stato delle cose; cioè, che il Principe aveva abbandonato Siena, e che ignoravamo il luogo dov'egli con la sua famiglia erasi riparato.

Ma qui opporrà l'Accusa: dì pure quanto sai; al Governatore di Portoferraio fu mandata lettera nell'8 febbraio che spiegava: «Leopoldo di Austria ha abbandonato la Toscana;[245] » e il Segretario Allegretti scrive, che egli la compose dietro le traccie somministrategli da te verbalmente, e che lettere di uguale tenore furono mandate alle Superiori Autorità del Granducato; ed in fine, il Segretario scrive, che quantunque esse non appariscano firmate da te, l'Archivista «cui secondo il costume incumbeva procurarne la firma, non ti trovando accessibile, perchè in conclave co' tuoi Colleghi, non potè farlo, — e di fronte alla commissione ricevuta fosse stabilito spedirla anche senza firma di te.»

Altrove insisto su questa dichiarazione. Qui importa notare come nel medesimo giorno 8 febbraio fosse scritto al Governatore di Portoferraio in due maniere.

Il Governatore di Livorno lo avvisava così: «il Granduca ha abbandonato improvvisamente Siena[246]

Il Segretario Allegretti: «Leopoldo di Austria ha abbandonato la Toscana

Il primo, dietro ingiunzioni scritte autografe mie. Il secondo, sopra asserte traccie verbali.

Ancora: prima delle ore tre pomeridiane del giorno 8 era nominato il nuovo Ministero, e per via telegrafica venne annunziato al Governatore di Livorno alle ore 5 e 10 minuti pom. del giorno stesso:[247] quindi la firma del Dispaccio in discorso, secondo le attribuzioni ordinarie del Ministro dello Interno, a lui propriamente apparteneva, e non a me.

Di più, gli Ufficiali del mio Ministero avevano sempre liberamente accesso, anche non chiamati, a me. Il sig. Segretario Allegretti pieno di riguardi soleva aspettare fuori; ma io spesso ne lo riprendeva, confortandolo a entrare senza esitazione alcuna nella mia stanza.

Inoltre, o io aveva ordinato che i Dispacci senza la mia firma si mandassero, o no; se ordinai, che senza la firma mia si spedissero, e allora che cosa importava, che io fossi inaccessibile? Non mi dovevano venire a cercare. Se tale non ordinai, perchè stabilirono spedire senza la mia firma i Dispacci? E quando si asserisce, che le traccie verbali somministrai nelle ore pomeridiane, come poteva io indovinare, che sarei stato impedito al punto di dovere firmare?

Finalmente, tra le ore 5 e le 6 pomeridiane del giorno 8, apprendevo, e mi era forza annunziare, che, per notizia datami dal Ministro Inglese, il Granduca era andato con la sua famiglia a Portoferraio:[248] come avrei patito io che più tardi (poichè la Posta pel Ministero, credo non andare errato se affermo, che nell'8 febbraio 1849 partì più tardi delle ore 6), si spedissero informazioni declarative lo abbandono assoluto della Toscana per la parte del Principe? Quando pure avessi di cotesto tenore ordinati Dispacci, io gli avrei fatti abolire.

Anzi (singolare riscontro!) trovo, che il Prefetto di Firenze diramava il giorno 9 febbraio la Circolare compilata dal Segretario Allegretti, mentre io pubblicava notizie, e tutto il mondo le sapeva contrarie al tenore di quella.

Per le quali considerazioni si farà manifesto, in primo luogo, quale e quanta fosse la perturbazione in quel giorno, e con quale confusa e disordinata ansietà procedessimo tutti così nei più umili come nei più alti ufficj; e secondariamente, che, salvo il debito onore che alla probità del sig. Allegretti sempre mi piacque professare e piace, dubito non del tutto esatte le sue reminiscenze.

Non ostante però queste avvertenze, rimane provato, che rispetto a me l'Accusa non vuol leggere, avvegnadio ponessi cura d'informare fino dalle prime ore del giorno 8 la massima parte della Toscana del vero stato delle cose, voglio dire il funesto caso della partenza del Granduca da Siena, noi ignoranti del luogo dove si fosse diretto, nè egli consapevole troppo per le cose altra volta discorse.

§ 6. Ordine per abbassare gli stemmi.

Altrove toccai di questo addebito, sicchè mi occorre adesso spendervi più poche parole dintorno. Il Decreto del 10 giugno 1850 somministra di questo fatto tale difesa, che io non saprei desiderare nè addurre migliore: «La furia dei faziosi esigeva violentemente lo abbassamento degli stemmi, e l'ottemperare in ciò a un ordine del Popolo non può non apprendersi che come lo effetto di un desiderio di evitare i danni alle cose e alle persone, e così animato dalla veduta di proteggere la sicurezza e l'ordine pubblico.» ( Attesochè 84.)

Quindi io non ricorderò per quante guise questi stemmi fossero, in molte parti della Toscana, vilipesi ed arsi. — Non era meglio risparmiarli all'onta? Poteva e doveva patire io che venissero strascinati per le strade, come a Fiesole avvenne? Infatti, dove l'azione del Governo si estese, furono risparmiati e custoditi; e fu lodata la prudenza del Vice-Prefetto Zannetti, il quale, informando il Governo, così scriveva il 10 febbraio: «Nella perduta sera volevansi atterrare e distruggere tutte le armi granducali. Bastò qualche rilievo a trattenere le dimostrazioni che a colto e ben civilizzato Popolo non si addicessero. E le armi furono, a sera inoltrata, scese e calate dai posti e depositate in una stanza del Municipio.»[249] Vuolsi avvertire che in taluni luoghi, non solo di onta, diventavano eziandio materia di furore e di offesa. «Ma la prudenza è al colmo, la licenza dei retrogradi e dei tristi sfrenata, il contegno nostro moderato, ma già diventa furore vedendo fra noi esistere il monumento di derisione, l'arme di quel Principe.»[250] Non era meglio remuovere il motivo di furore, che permettere lo spargimento del sangue? Certo era meglio; i Giudici lo dicono, e in questa parte siamo d'accordo. E badate che non solo gli stemmi granducali lorenesi, ma eziandio i medicei vollero remossi, perchè quando s'innalza l'Albero della Repubblica debbono cadere i monumenti della oppressione.[251] Invano però fu scissa dall'Accusa la mia dalla causa dei signori Guidi ed Adami, onorandissimi amici; o fummo violentati tutti, o nessuno. Se da me emanò copia maggiore di ordini, questo naturalmente vuolsi attribuire agli ufficj diversi che occupavo. Nella loro carica avrei dovuto fare quanto essi fecero; nella mia avrebbero fatto quanto feci io.

Ma le parole riferite che proruppero dalle labbra dei Giudici meritano esame profondo. Ecco, per esse, vengono a stabilirsi due fatti ed un principio importantissimi.

Primo Fatto. Furia di Faziosi.

Secondo Fatto. Azione violenta e imperante del Popolo.

3. Principio. Adesione a cotesti ordini violenti persuasa dal consiglio di proteggere la pubblica e privata sicurezza.

Ora questi fatti e principio di propria loro natura non ponno limitarsi a un caso, ma devono, per necessità, estendersi al periodo del tempo percorso ed alla serie dei casi avvenuti sotto la impressione delle condizioni medesime; non possono restringersi ad uno o due individui, ma referirsi a tutti coloro che negli stessi accidenti versarono: sintomi permanenti sono eglino della infermità, che travagliava tutto il corpo sociale; e comparisce insania, o perfidia, che le medesime cause non abbiano virtù per partorire i medesimi effetti per tutti. Se, pertanto, questa furia di Faziosi esercitò la sua violenza contro il Prefetto, perchè avrebbe rispettato il Presidente del Governo Provvisorio? Se la forza si confessa tale da imporre al Prefetto, ragion vuole che più intensa si adoperasse sopra di me, avvegnadio troppo più gravi fossero le cause che la spingevano contro il Presidente del Governo Provvisorio, che contro il Prefetto, e di molto maggiore importanza i resultati che attendeva estorcere da lui: e se valse, nella coscienza dei Giudici, a scusare il Prefetto, davvero rimane arduo a comprendersi come e perchè la reputassero pel Presidente inefficace. Se questa furia premeva, e lo dicono i Giudici, così irresistibile a cagione de' segni delle cose, ma certo più gagliarda (e mi basta uguale) deve essersi razionalmente avventata per volere eseguito il Decreto risoluto sotto le Logge dell'Orgagna, che le cose aboliva. Se alla furia dei Faziosi e' fu forza cedere in un punto, per evitare danni alle sostanze e alle persone dei cittadini, e nella veduta di proteggere la sicurezza e l'ordine pubblico (e i Giudici approvano, ma non per me!), pari concetto ebbe a muovermi sopra altri punti, nei quali concentrandosi principalmente le loro antiche mire, i diuturni conati e le attuali necessità, è troppo naturale che con prepotenza maggiore li pretendessero. — I Giudici dunque hanno rasentato la verità, anzi si erano posti sul cammino di conoscerla intera: pochi più passi sopra la via ch'eglino stessi tracciarono, e la luce si sarebbe fatta loro manifesta.

Ma giunti a me, essi tornarono a calarsi la benda su gli occhi, che si erano in tanto buon punto sollevata: per me non bagna la pioggia, il fuoco non brucia; per me non fa buio la notte, la luce non illumina; per me il sale le cose sciocche non sala; queste, ed altre più strane sentenze dicono coloro che giù la benda su gli occhi si calano.

E se l'Accusa, invece di rovistare gli Archivii per ricavarne soltanto armi da offendere, vi avesse avuto ricorso per trarne luce a illuminare la verità, quivi avrebbe trovato documento di bene altra importanza, ed io lo ricordo, sicuro di non rimanere smentito. — Certo giusdicente del Granducato chiese ordini precisi per la esecuzione del Decreto intorno allo abbassamento delle armi granducali, avvisando che il Popolo nella sua giurisdizione sarebbe per avventura sceso alla violenza per impedirlo: io, per l'organo del sig. Segretario Cav. Allegretti, feci rispondere: la misura presa dal Governo circa l'abbassamento delle armi essere stata appunto diretta a risparmiare loro sfregi plebei e ad impedire luttuosi conflitti: se il Popolo costà desiderava le armi, lasciassersi stare, avvegnachè il Granduca non avesse perduto i suoi diritti su la Toscana.

Non sarebbe stato di qualche utilità riporre in Processo un simile documento? Ahimè! Gli esaminatori degli Archivii carte siffatte hanno guardato con l'occhio cieco del Bano di Croazia. E poichè l'Accusa incominciò a interrogare i Segretarii del Ministero, non poteva e doveva udire tutto quanto essi avrebbero saputo deporre in proposito? L'Accusa ha ascoltato i temuti testimoni del vero con l'orecchio sordo del Bano di Croazia.

XXIII. Dichiarazioni in Senato ostili al Granduca.

L'Accusa, sotto il titolo di Atti Speciali, incomincia dal porre il mio discorso in Senato. Io non devo biasimare il metodo ch'ella ha creduto bene, in questa parte, seguire; passo passo le tengo faticosamente dietro nei suoi meandri. — L'Accusa preoccupata dalla idea singolarissima che il Circolo e le turbe concomitanti, dopo pronunziato il Plebiscito e commessi i fatti narrati, mi lasciassero nella piena facoltà di agire a mio talento, ci narra come esse sparissero tornando alle proprie stanze dove, a modo dei vipistrelli allo accostarsi dello inverno, si addormentassero, finchè, avendo io compíto libero, spontaneo, gli atti incriminati, tornassero a riprendere l'usato costume. Ora questa idea è contraria alla ragione come al fatto, e i testimoni devono avere deposto che da quel punto in poi non venni mai più abbandonato, e fui fatto segno di sospettosa vigilanza.[252] Il Circolo non si ridusse a Santa Trinità per dormire, ma per sedere in permanenza, dove così stava fino dal 5 febbraio, e di là spediva i suoi Popilii che assediavano le anticamere, e penetravano, non annunziati, nelle segrete stanze, per imporre ordini e referirne al Circolo, in quei primi giorni troppo più poderoso del Governo, costretto a cedere sopra una parte per conservarne un'altra: di là muovevano di ora in ora Deputazioni per sindacare i nostri atti, e dirci, scrollando il capo amaramente, le parole riportate dal Nº 13, febbraio 1849, del Popolano: «Il Governo vorrà sì o no accorgersi di essere un governo rivoluzionario, e persuadersi che le rivoluzioni vere vanno avanti soltanto a colpi di cannone?» E' fu pertanto a cagione di questa non vincibile pressura, che il Nazionale del 9 febbraio predicava: «L'azione del Governo può essere vigilata, ma non attraversata; nè senza disordine grandissimo potrebbe altra azione estranea al Governo sostituirsi alla sua.» Le quali cose significano per lo appunto il contrario del dormire, cioè stare sveglio notte e giorno senza interruzione per invadere ed usurpare ogni cosa: parte dei principali agitatori mi accompagnò nelle stanze di Ufficio levando a cielo l'operato di quel giorno; e siccome io di tanto non potei contenermi che per me non si favellasse a costoro qualche acerba parola, ebbi a vedere tali gesti, e a udire tali minaccie, che dovei risolvermi di mettere capo a partito, studiare, non che le opere, gli accenti, se pure non ero deliberato in tutto di capitare a fine infelice.

Nelle parole del signor Montanelli, profferite davanti al Senato, occorre la prova del difetto di libertà in cui ci trovammo tutti appena rientrati in Palazzo: «Credemmo nostro debito, appena avemmo un momento di libertà, di portarci in mezzo di voi ec.» Di vero non ci potevamo sviluppare dalla turba dei Faziosi, che, urgentissima, ci si stringeva alla vita.

Pensai alla mia condizione, come meglio mi fu dato in mezzo a tanto trambusto. Come mai, considerava, me, che pure sapevano contrario allo scopo a cui gli agitatori tendevano con tanta ostinazione, vollero preso? Era evidente ch'essi mi apparecchiavano insidie per perdermi, come contumace ai voleri del Popolo. La resistenza da me dimostrata alla Camera dei Deputati, che, nel Decreto del 10 giugno 1850, si qualifica pravo consiglio, dagli organi repubblicani allora si accusava come colpevole opposizione. L' Alba, moderatissima in quel giorno, narrando il fatto diceva: «Vi tornarono i Deputati nel mentre che taluno chiedeva la dissoluzione della Camera, opinione combattuta dal pertinace coraggio di F. D. Guerrazzi, e in quel momento per lo meno importuna.» (Nº 9. feb. 1849.) — Molto mi teneva sospeso il contrasto col Niccolini, e la umiliazione alla quale io lo aveva ridotto; mi occorse al pensiero, che sovente i Deputati dell'Assemblea di Francia ebbero a pagare amara una parola di rimprovero detta contro taluno dei Caporioni dei Circoli. Il silenzio nell'Assemblea fu spesso stemperato in fiele nelle scapigliate adunanze di Popolo, che chiamavano Clubs, ed aguzzò la scure del carnefice. Cose volgari io narro, e dal comune degli uomini conosciutissime; dai miei Accusatori soltanto ignorate, o volute ignorare. Quanto sia assurdo intento volere dimostrare che poca mano di Popolo allora insanisse, ho chiarito altrove. Il Nazionale dell'8 febbraio raccontando ora per ora i fatti della giornata attesta: «Ore 11. La piazza è stivata di Popolo.» — La Costituente del medesimo giorno: «Il Circolo popolare è radunato in piazza. — Molti distinti cittadini prendono la parola, e conchiudono nella necessità di costituire un Governo Provvisorio.» — Gli elementi che operarono il 12 aprile, operarono eziandio l'8 febbraio. Se Guardia Civica, se Popolo, se plebe così urbana come rustica, se milizie non avessero acconsentito, chi le poteva costringere? Dov'era la forza capace a violentarle a quello da cui aborrivano? Questo è manifesto, e non vi ha sofisticheria che valga a metterlo in dubbio: — è manifesto.

L'Accusa si arrabatta smaniosa a persuadere, che una mano di gente stracciata operò i fatti dell'8 febbraio; presentendo l'obietto, che allora mal poteva fare violenza alla Camera, ci dice che il luogo chiuso e la sorpresa non lasciarono campo a misurarne la estensione. — Bene: ma la guardia custode della Camera composta di 60 uomini? — Non avendo ordine, non sapeva che pesci pigliare. — Meglio: ma la Guardia civica apparecchiata? — Consegnata nei quartieri, uscì fuori a cose fatte. — Egregiamente: ma le cose fatte si potevano disfare; e il Popolo, la Guardia Civica, e tutti gli altri rimasti fedeli, malgrado la tristezza, o tristizia (chè nell'uno e nell'altro modo corre egualmente bene il discorso nella famosa Accusa) dei tempi, usciti fuori, e vista la scarsa mano di gente cenciosa, potevano in un attimo depositarla al Bargello.[253] Se si trattava di pochi ribaldacci, oh! che mi vengono adesso i Documenti dell'Accusa a contare di ora di riscatto suonata, di slancio, di eroici fatti operati il 12 aprile, e di simili altre novelle? Se ella volesse nulla nulla essere coerente a sè stessa, dovrebbe rampognare con arrabbiato cipiglio la poltroneria delle migliaia dei fedeli cittadini, e sopra tutto la codardia delle migliaia degl'impiegati fedelissimi, che si lasciarono mettere i piedi sul collo da un cento di ragazzacci sbracati. A disperderli sarebbero state sufficienti una voce sola e una frusta; or come dunque, essa dovrebbe dire, gente paucæ fidei, non trovaste valore in petto, nè lena in gola, che bastasse ad inalzare un grido? Non una frusta, che servisse a frustare quel branco di ragazzacci sbracati? Tanto è, migliaia e migliaia d'impiegati fedelissimi non ebbero una voce, una frusta sola. Extra jocum, chè la dolente materia nol comporta: laddove il Popolo si raccoglie in gran numero padroneggia sempre, attestava Silvano Bailly, il quale verosimilmente doveva intendersene.[254] Io era stato trabalzato in piazza dalla moltitudine carezzevole, e atterrato, e per poco non pesto. Le mie orecchie erano intronate di morte ai traditori, e a cui non importa dire. Aveva conosciuto il Plebiscito decretato sotto le Logge dell'Orgagna, che dichiarava così:

«Il Popolo di Firenze.

«Considerando, che la fuga di Leopoldo di Austria infrange la Costituzione e lascia senza Governo lo Stato;

«Considerando, che il primo dovere del Popolo, solo Sovrano di sè stesso, è di provvedere a questa urgenza;

«Facendosi anche interpetre del voto delle Provincie sorelle, nomina un Governo Provvisorio nelle persone dei Cittadini Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, che a turno assumeranno la Presidenza, e loro affida la somma delle cose per la Italia, e per l'onore toscano,

a condizione:

«Che la forma politica definitiva della Toscana si rimetta alla decisione della Costituente Italiana; e

«Che frattanto il Governo Provvisorio deva unirsi e stringersi con quello di Roma, in guisa che i due Stati agli occhi del mondo ne compongano uno solo.»[255]

Rigoroso il mandato; palese il tranello, però che in quel medesimo giorno l'Assemblea Romana votava la decadenza del Pontefice, e la Repubblica, ed è da credersi che di ciò fossero troppo bene informati i Caporali del Circolo quaggiù; per la qual cosa quello che la immediata Unione con Roma volesse dire, ognuno sel vede. Infatti, il Plebiscito del Popolo fiorentino non era presentato mica come un voto o un consiglio: al contrario, come ingiunzione, che equivale «all' obbligo espresso di percorrere la strada tracciata intieramente senza riposo[256]

Ed io per parare il colpo, e tutelare il mio capo, ormai mi vedeva abbandonato da tutti. Il Municipio si opponeva forse? Protestava egli? Si dimise? No. Egli prese parte agli atti governativi. Finchè il terreno apparve ingombro di spine, stette dietro al Governo: quando seppe da lui, che la Toscana si mostrava aliena alla Unione con Roma e alla Repubblica; quando conobbe gli ostacoli remossi; e sopra tutto quando non ci era pericolo; allora spiccò bravamente la corsa, e vinse il palio.

Sì, io non serbo amarezza; ma, o voi del Municipio, che a tale orribile passo, con arti di cui la pubblica coscienza raccapriccia, mi avete condotto, ditemi: non mi deste conforto e soccorso nella universale trepidanza a preservare da ruina il Paese? Ah! Voi lo neghereste invano; ne menavate vanto allora, e con Deliberazione del 12 febbraio bandivate, ed era vero: «che dopo avere speso ogni cura a remuovere dall'animo del Principe il pensiero di uno allontanamento, lealmente offriste il vostro concorso agli uomini, che di necessità assumevano il grave carico di reggere provvisoriamente il Paese in sì difficili momenti.» In che cosa peccai? dite. Forse per essere proceduto parziale ai Repubblicani? Ma io solo mi opponeva al precipitare della fazione, mentre voi mostravate volerle ormai dare vinte le mani.[257] Forse per avere convocato i comizii universali? Ma con un Giornale protetto da una parte di voi, questo provvedimento consigliavate e pretendevate![258] Forse perchè alla difesa delle patrie frontiere con tutta l'anima attendeva?... — Forse perchè alla restaurazione del Principato Costituzionale io ostava?... E qualcheduno di voi lo ha detto per onestare la tradita fede, che non si onesta mai. Ma di questo più tardi.

Urgeva pertanto, che io mi atteggiassi in modo, che le insinuazioni dei malevoli, i rancori delle vanità offese, i sospetti di parte non facessero breccia nell'animo del Popolo maravigliosamente commosso: e, molto più importante ancora, urgeva che le esterne turbe non passassero sul capo al Governo e ai suoi conduttori stessi; salvare insomma la città. Però, andando in Senato, alla proposta del Senatore Corsini, che il Governo Provvisorio conservasse le forme attuali governative dello Stato, e il potere devoluto alla persona del Principe, risposi a un di presso nei termini seguenti; e dico a un di presso, perchè tutti conoscono che la nostra stenografia lasciava molto a desiderare, in fatto di esattezza.

Ministro dell'Interno, «Sento il bisogno di manifestare l'animo mio intero. Signori! Io, con quella maggior fede che un uomo del Popolo può esercitare, ho servito fedelmente Leopoldo Secondo; e debbo dirvi, o Signori, francamente, era offuscato da un gravissimo errore; imperocchè io credeva che libertà di Popolo e Principe potessero stare insieme. Mi confortava in questa mia speranza il considerare Leopoldo Secondo, per quanto egli mi diceva, onestissimo e dabbene.

«Oggi questa speranza è caduta; questo velo si è squarciato, ed io devo solennemente dichiarare che Leopoldo Secondo non ha corrisposto per niente alla fede con la quale noi lo abbiamo servito. Per conseguenza, io sono stato chiamato al Governo Provvisorio dal Popolo; sono stato confermato dalla Camera dei Deputati toscani; chè altrimenti io non accetterei questo mandato; intendo esercitarlo a benefizio del Popolo, non intendo esercitarlo a benefizio di Leopoldo Secondo, che giusta la mia opinione ci ha traditi.»

L'Accusa, ad escludere la difesa, oppone che io non poteva essere dominato da timore, imperciocchè poco innanzi avessi esposto, che io non aveva paura del Popolo. Della malevola quanto irragionevole induzione, che ricavasi da queste parole, altrove ho discorso, e a quel punto rimando. Qui aggiungo (e chiedo venia al lettore se lo trattengo di studii filologici, dacchè io nol faccio per vana saccenteria: mi compianga piuttosto vedendomi, con Toscani Giudici, ridotto perfino a raddrizzare il significato di parola toscana), qui aggiungo, che dove mai avessi dichiarato nell'Assemblea non avere paura, questo non esclude che più tardi dovessi concepire timore. Paura è codardia di animo, che aombra o per immaginativa, o per cose, che non abbiano potenza far male: timore denota la giusta estimazione che gli uomini, comecchè fortissimi, fanno del pericolo sovrastante:

Temer si dee di sole quelle cose,

Che hanno potenza di fare altrui male;

Delle altre no....

avverte Dante nostro; e la distinzione fra timore e paura fu notata dal Grassi, confermandola con esempii elegantissimi.[259]

Ora, quando prima venne il Popolo nell'Assemblea, bene sta che io non ne avessi paura; conosciuta poi la sua furia, e considerate le arti pessime, che altri poteva adoperare per indirizzarla a mio danno, sarebbe stata stupidezza non raccogliere dentro di me il prudente timore. E, se male non iscorgo, parmi sul futile argomento dell'Accusa avere adoperate parole già troppe.

Io per me ho tanta opinione nella intelligenza del Senatore Corsini, che non dubito punto asserire ch'egli si sarebbe astenuto dal suo discorso, dove lo avessero informato della deliberazione presa dal Popolo, e dello impeto col quale la pretendeva eseguita, minacciando chiunque, anche con parole, gli si fosse opposto. — Supponiamo che la proposta del Senatore Corsini fosse stata accettata, che cosa ne sarebbe avvenuto? La fazione, il Popolo, la turba insomma, che comandava sovrana, incitata dall'ostacolo, chiamando me e il Senato traditori, ci avrebbe condotto a fiero passo. La proposta Corsini pareva ed era una sfida contro al Plebiscito decretato in piazza dalla moltitudine onnipotente; così saremmo andati incontro ai danni che più c'importava evitare; la società si perdeva. Me atterrato, chi saliva in Palazzo? Domandatelo agl'impiegati più alti, a cui le labbra diventavano pagonazze discorrendo fra loro di cotesto pericolo.

Supponiamo, che vedendo impossibile mandare ad esecuzione la proposta Corsini, io ne avessi tolto pretesto a rassegnare lo ufficio, e si fosse sparsa in quel giorno fra le turbe commosse la voce, che io mi era dimesso per la insorta opposizione; avete mai pensato a quello che stava per nascere? Certo non ci avete pensato. Sì, ripeto; se il Senatore Corsini fosse stato informato della condizione delle cose, pensando quanto grave posta giuocava con le sue parole, si sarebbe taciuto. Invero gli avvisati colleghi del Senatore con cenni lo ammonivano a desistere, sicchè egli ebbe luogo a correggere il detto, e il Senatore Capponi, sempre più confermando la grave sentenza riportata altrove, aggiungeva:

«Questo è certo. Il Paese è in una di quelle necessità supreme dove il Potere mancando, il Paese provvede a sè stesso. In questa necessità di cose, il Senato vota per quel Decreto ch'è stato proposto. Il Senato non può fare altro, e intende di farlo come rappresentante della Nazione, o del Popolo, giacchè Popolo e Nazione sono sinonimi.»

Il Senatore Fenzi dichiarava unirsi alle parole del Senatore Capponi.

Donde si conosce, che il Senato sentiva la necessità di esprimere il suo voto, non più come uno dei poteri costituiti nel reggimento costituzionale, ma come rappresentante di Popolo, e in virtù del presuntivo mandato, che la parte eletta della Nazione conferisce sempre agli uomini insigni per dottrina, per costumi distinti.

Se pertanto io e il Senato, ed io più assai di lui, ci trovavamo nella dura necessità di esprimere il concetto medesimo, perchè solo è scusato il Senato, e perchè solo accusato sono io? I Senatori egregi, consapevoli delle ragioni che ci fecero parlare, non m'incolperebbero per questo: di qui pure il diritto sacrosanto e per ora negato, che eglino soli, come miei Giudici naturali, intorno alle mie sorti pronunzino.

Nè già si creda, che come le parole del Senatore Corsini (certo senza avvertirlo) posero in quel giorno a grave cimento la pubblica salute, a lui non fossero per partorire danno. Egli forse ignorò quanto furore si concitasse contro, e quanti sforzi tutto il Governo Provvisorio adoperasse, perchè incolume passasse la tempesta; e non rifinivamo dire ai più accesi: «Come così intendete voi libertà? Invitate gli Oratori ad aprire schiettamente l'animo loro, e poi se non favellano a modo vostro vi adirate? Allora voi li fate liberi di pensare e dire come piace a voi.» E così il Senatore Corsini scampò per questa volta la mala parata. Più tardi però, come altrove ho detto, vollero invadere il paterno palazzo, e rovistarglielo tutto; con quanto e quale pericolo ogni uomo comprende. Inoltre, quando le intemperanze dei Faziosi stringevano il Governo a creare il Comitato di Salute Pubblica con poteri rivoluzionarii, e impadronirsi delle persone sospette, il Senatore Corsini fu designato fra le principali.

E forse lo stesso Senatore io penso che si accorgesse del danno che poteva uscire dallo incauto discorso, imperciocchè, oltre le parole aggiunte da lui, come lenitivo alle prime, fu visto, in certe occasioni, mettere prontissimo tappeti alle finestre, mentre gli altri cittadini non reputavano opportuno mostrare al Governo Provvisorio tanta svisceratezza.

Mi conferma nel mio proposito la visita del padre suo Principe Don Tommaso, sollecitatore della protezione del Governo, per circolare liberamente nel Granducato e recarsi fino a Genova senza sospetto, adducendo lui essere capo di famiglia e non tenuto pel fatto dei figli; in quanto a sè, tutto il mondo sapere quello che a benefizio di Roma avesse adoperato, e potermi mostrare altresì la patente amplissima rilasciatagli dal Popolo romano in guiderdone, non meno che un consulto di solenni Teologhi declarativo la erronea opinione di coloro che supponevano i Rappresentanti della Costituente italiana o romana meritevoli di scomunica. Ed io, mentre della esibizione di questi documenti lo ringraziava, penso avergli detto parole cortesemente idonee a rassicurarlo da qualunque dubbio avesse potuto concepire.

Sarebbe giusta cosa ricavare adesso da simili ripieghi, che ogni prudente cittadino pratica in tempi difficili per uscirne illeso, argomento di accusa e d'ingiuria contro cotesti signori, dicendo loro: «Quei vostri furono atti e parole di chi ha doppio il cuore per gettarsi a quel Partito che avesse trionfato?» Ci pensi l'Accusa.

Non basta ancora: imperciocchè quando l'Accusa crederà, ch'io mi abbia vuoto il sacco, spero ritrovarci frugando qualche altra cosa che valga, non dico a farla vergognare, che questa è da altri omeri soma, che dai miei, ma almeno a confonderla. Sappia pertanto l'Accusa, che il Senatore Corsini, il quale siede adesso nei Consigli della Corona, scrivendomi privatamente mi si professò parziale, ed in fine adoperando parole di affetto disse essere rimasto, non che contento, edificato della mia cara politica. Nelle incursioni della Polizia questa lettera andò dispersa; parecchi testimoni però l'hanno veduta e la rammentano, ma io confido nella lealtà del signor Duca di Casigliano per sentirmela affermare vera. I gentiluomini non negano le proprie parole, non le smentiscono, non sanno tradire, e se fra loro qualcheduno si trova bugiardo, o fedifrago, o traditore, si deve credere che in mezzo ad essi stia come Pilato nel Credo, o come Barabba nel Passio.

L'Accusa invece di ponderare a qual tremendo repentaglio fosse posta la pubblica e la privata sicurezza; quanto fiere apprensioni agitassero i cittadini a cotesti giorni; il mancato governo; la macchina costituzionale caduta, perchè colpita nella sua sostanza; la plebe minacciante, e male raffrenantesi; me sbilanciato e in pericolo; irritante la proposizione Corsini; fatale provocare l'ira della moltitudine accesissima; attaccata a un filo la comune salvezza; me ultimo argine della società trepidante; invece, dico, di ponderare tutte queste cose, pensa che io libero e spontaneo, senz'altro motivo che pel piacere di mostrare animo ostile al Principe che a supremo ufficio avevami assunto, e che lealissimamente aveva servito nel mio Ministero, favellassi in cotesta sentenza. Sicuramente che, in questo modo argomentando, non ci sarebbe a fare altro che declinare il capo e dire: percuotete! — E voi, Giudici, ponendo una mano sul cuore, senza sentirvelo trasalire nel petto, vi reputereste capaci a percuotere? Poche ore innanzi di cotesto discorso, vi avreste dovuto rammentare, signori Giudici, con quanto zelo, con quanta calda affezione io raccomandava il Granduca con lettere confidenziali dirette allo stesso Montanelli; sarebbe stata religione che voi non metteste in oblio come scrivendo ad amico intimo io m'ingegnassi confermare la fede della mia Patria al Principato Costituzionale: dovevate pure avvertire con quante diuturne dichiarazioni mi fossi mostrato alla Costituzione devoto; lo studio posto a compiacere ai desiderii del Principe; insomma avreste dovuto considerare tutto quanto non avete voluto considerare, e allora avreste compreso che necessaria fu la risposta al Senatore Corsini, e ch'è follia risguardare alle parole profferite in simili angustie. Più tardi sarete chiariti come uomini di Stato, politici e storici, giudichino le parole e i fatti di tale che, circondato da esercito devoto, non nutriva timore alcuno di sè, poco della Patria!

Mi giovi qui pure riportare la pittura, comunque sfumata, che di cotesti tempi fece il Conciliatore, non sospetto di parzialità col Governo; e chiunque ha mente giudichi della verità delle mie parole:

«Questo commuoversi continuo delle moltitudini; questo accorrere su le piazze levando a rumore il Paese; questo gridare di popolo minuto contro i popolani grassi che rappresentano la defunta aristocrazia; questo fare scendere sovente il Governo di Palazzo e condurlo a deliberare sotto la Loggia dell'Orgagna, ci rende immagine viva dei tempi dell'antica Repubblica di Firenze, la quale ebbe vita continua di tumulti, di fazioni e di commuovimenti.»

Considerando il riguardo che non si scompagnava allora dal cauto Giornale, parmi che possiamo comprendere le apprensioni dei cittadini, lo impeto delle moltitudini, e il pericolo continuo nel quale versava il Governo.

XXIV. Spedizione di Portoferraio, e di Santo Stefano.

Desumo la storia di queste due accuse dal Decreto del 10 giugno, facendovi le aggiunte e correzioni opportune dietro il confronto del Decreto del 7 gennaio e l'Atto di Accusa del 25 detto 1851.

«È luogo a ritenersi che a questo punto non si arrestasse la Rivoluzione, ma che, presentendo prossima l'ora del riscatto, i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, si dessero a presentare petizioni per la cacciata dello stesso Principe dal suolo toscano.

« Nel concetto di accoglierle, così scrisse il Guerrazzi nel dì 8 febbraio 1849 (6 ore pom.) al Governatore Pigli:

«Il Ministro Inglese assicura essere andato il Granduca con la sua famiglia a Portoferraio; si faccia tornare il Giglio. Si mandino barche e navigli con Livornesi ed uomini arrisicati a cacciarnelo. Leopoldo non merita ospitalità sopra il suolo toscano, dopo che, con tanta ingratitudine e nera perfidia, ha corrisposto alla fede del suo Popolo. — E la raccomanda il 9 al Governatore di Portoferraio sotto minaccia di destituzione:

« Può supporsi che sia diretto costà, e già si trovi in cotesta Isola, Leopoldo Secondo. — Quando ciò fosse sicuro, egli ha abbandonato la Toscana, il Governo Provvisorio non può permettergli di rimanere in una parte di essa. La sua presenza potrebbe divenire causa di perturbazione, e forse di guerra civile. Ella perciò deve in quel caso invitarlo ad assentarsi anche da cotesta Isola, e fare in modo che la presente disposizione abbia il suo pieno ed immediato compimento. — A ciò mancando non potrebbe da lei evitarsi la destituzione dallo impiego. —

«Fallito il disegno di cotesta Spedizione, e dietro notizia che il Principe era a Santo Stefano, si rinnuovarono dal Guerrazzi al Pigli gli ordini per una seconda Spedizione militare contro il Granduca, chiamando a soccorso le truppe e i talenti del Generale D'Apice che vi si ricusò.» — Perchè, dice il Decreto del 7 gennaio, fosse nelle ferme intenzioni della Rivoluzione procacciare ad ogni costo la partenza del Principe dalla Toscana.

La lettera al Pigli è così concepita: «Dalle annesse lettere che mi ritornerete, e che per difetto di tempo mando nell'originale, vedrete il pericolo che ci minaccia. Colla massima sollecitudine apparecchiate gente scelta che s'indirizzi verso Santo Stefano per la via del Littorale, ma per paese amico, e per ingrossarsi come palla di neve. D'Apice vi scriverà, e vi terrete ai suoi consigli. — 14 febbraio 1849.»

La dichiarazione del Generale D'Apice suona nel modo seguente: «Dirò con tutta verità, che allorquando mi trovava in Empoli ricevei lettera per parte del signor Guerrazzi, nella quale mi diceva lasciassi in Empoli porzione della truppa che io aveva sotto i miei ordini, e con altra mi dirigessi in Maremma, e mi pare precisamente a Grosseto. Ma poichè si trattava che cotesta Spedizione doveva farsi contro il Granduca, che allora era in Maremma, io ricusai incaricarmene.»

E raccomandando io scriveva al Paoli: «Scrivo a lei perchè capace d'intendere e di eseguire. Qui poco si fa, molto si parla. Cornacchie, non uomini. Leopoldo austriaco sta in Santo Stefano, organizza la reazione coll'empio pensiero di convertire Maremma in Vandea. Bisogna fare due cose: riunire quanta più forza si può: parte offrirne al Prefetto di Lucca, parte tenerne a disposizione del Governatore di Livorno. La causa della Toscana, e forse della Italia, dipende da queste misure, perchè da ogni buco può entrare acqua, cagione di naufragio. Rendete ragguaglio, per Dio, di quello che fate. Il Potere centrale deve essere informato di tutto

«Pigli (continua il Decreto del 10 giugno) raduna gente di ogni arma. La Cecilia la conduce; sparge proclami, ma non ottiene seguito, nè riunisce gente ai ribelli.

«Questi apparecchi si accelerano, ma rimangono interrotti per dirigere il tumultuario armamento a Pietrasanta a comprimere un tentativo di restaurazione del Generale Laugier che dicevasi avere rialzato a Massa la bandiera del Principato, senza però abbandonare il disegno della cacciata del Principe.»

§ 1. Spedizione a Portoferraio.

L'Accusa stessa, poichè ha posto che i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, presero a presentare petizioni per la cacciata del Principe, perchè m'imputa questi fatti? Perchè, come ha proceduto con altri meno di me pressurati, non mi scusa per quello che non mi riuscì impedire, e non mi ricompensa di una parola che non sia disprezzo per quanto operai? L'Accusa non può, e non lo tenta, attenuare il carattere della forza rivoluzionaria, adesso che nel pieno suo impeto punta sopra di me. La ritenga pertanto, com'ella medesima la qualificava, audace, impronta, sprezzante di ogni autorità, che leva il furore a virtù, la moderazione a delitto; la ritenga, com'ella stessa ce la racconta, cospirante in Toscana, anzi per tutta Italia, a rovesciare Monarchia e Statuto; in agguato di opportunità per invadere ogni cosa; opportunità che le venne offerta nello allontanamento del Granduca da Siena; la ritenga, come ella dice, ferocemente esultante per la strage di un Ministro reputato contumace ai voleri del Popolo: e tanto, se giusta, avrebbe dovuto bastarmi presso di lei.

Ma l'Atto di Accusa trova che gli eccitamenti, le improntitudini e l'esigenze (e si guarda di pronunziare violenze, perchè quando si volta a me la Fazione cangia natura) furono adoperate, a coartarmi dopo l'8 febbraio, e, senza precisare il tempo in cui ripresero, crede potere affermare in coscienza che non intervennero nel giorno 8, nè durante lo spazio necessario a commettere gli atti che, a suo parere, costituiscono il delitto di lesa maestà. In più parti di questa Memoria a chiara prova dimostrai lo assurdo di siffatto supposto: aggiungansi nuovi fatti e nuove considerazioni. L'Accusa stessa confessa che il Circolo, nel giorno 8, si costituiva in permanenza armato: e se meglio avesse voluto cercare pei Documenti da lei medesima raccolti, avrebbe trovato che il Circolo fiorentino si era costituito in permanenza fino dal 5, ed aveva creato una Commissione, per mantenersi in corrispondenza continua col Ministero.[260] È naturale pertanto che non se ne stesse con le mani alla cintola; che, se non dormiva il 5, molto meno si addormentasse l'8 febbraio, ma sì attendesse alacre e ardente a conseguire lo estremo suo fine. Ritenuto quello che dicono i Giudici del Decreto del 7 gennaio 1851, che fosse nelle ferme intenzioni della Rivoluzione procacciare ad ogni costo la partenza del Principe dalla Toscana, non può razionalmente negarsi che questi conati urgessero più veementi al primo scoppio che dopo. — Io leggo talora che mancano prove della coartazione; tale altra, che anzi la coartazione è esclusa; finalmente che le prove ci sono, ma non bastevoli. Questo linguaggio non solo perplesso, ma contradittorio, dei Documenti dell'Accusa, mentre gli scredita tutti, mi toglie abilità di conoscere lo stato della procedura; dacchè ognuno comprende che tra il provare poco e lo escludere la contrarietà è grande, come fra la luce e le tenebre. Non sarà privo di ammaestramento, e forse somministrerà subietto di amare riflessioni, esaminare per lo appunto il progresso in peggio degli Atti della Accusa.

Il Decreto del 10 giugno 1850 andante: «Attesochè, comunque il processo manifesti avere il Guerrazzi fatto sforzo di contenere in questa parte le sfrenate voglie della Demagogia (Processo a c. 69, 767, 2220, 2245, 2418.; Som. a c. 2498, 2510, 2513, 2615, 2761), ciò non pertanto, a perimere ogni elemento di civile imputazione, converrebbe giungere a provare luminosamente che tutti gli atti ostili, dei quali si fece autore, furono influenzati da una forza tale da impedire il retto uso della ragione e della libertà, almeno riguardo alla esecuzione dei malvagi disegni che inspiravano, e da coartarlo a non abbandonare quella posizione che poteva strascinarlo al delitto, ec. ec. ec.»

Qui sembra che prove ve ne sieno, ma non per tutti gli atti; come se la violenza politica che nasce da un Popolo in rivoluzione, sempre in atto, o in potenza, presente, e sempre delirante, sospettosa e furiosa, sia di natura transitoria, e instantanea, uguale alla violenza ordinaria che può usarsi da uno o più individui contro lo individuo; e come se non torni lo stesso aver la mano di un uomo sul collo, o udire il ruggito delle moltitudini giù in piazza.

Il Decreto del 7 gennaio 1851 crescendo: «Considerando — che comunque il Processo dimostri che il Guerrazzi, una volta salito al Supremo Potere, si adoperò, in qualche circostanza, a distogliere le più accese voglie della Demagogia; — ciò non pertanto il complesso degli atti autorizzava a ritenere che tutto ciò egli facesse per tenere fermo nelle sue mani il Potere di che, per modi riprovevoli, era giunto a impossessarsi; — e in ogni ipotesi, a perimere la civile imputazione degli atti criminosi dei quali certamente fu autore, dovrebbe esso provare luminosamente...» e segue come nel primo Decreto.

«Considerando che molti sono i fatti allegati dal Guerrazzi per far sentire il predominio assoluto e costante sopra di lui della Fazione; ma oltrechè questi fatti non sono d'importanza da stabilire una violenza irresistibile e continuata, il Processo somministra altri fatti, dai quali emerge la influenza personale su le turbe tumultuanti! — essendosi notato ch'egli dichiarò non averne timore! (pei Giudici di cotesto Decreto timore e paura sono tutta una cosa!) ed essendo egli riuscito, come racconta, a contenerle e comprimerle a vantaggio di privati cittadini....»

Qui i miei sforzi spariscono, e, in certo modo, si neutralizzano in virtù dei prodigiosi ragionamenti del Decreto.

Ora ecco l'Atto dell'Accusa del 29 gennaio 1851 che dà la stretta: «Ma la violenza coattiva, sia allo Individuo, sia al Collegio, non è provata, e resta anzi esclusa in quei primi giorni, e da quei primi atti NEI QUALI E CO' QUALI venne o consumarsi il delitto. Le posteriori improntitudini, insistenze, esigenze ec.» — E qui non solo vi sono piccole prove, non solo cessano o si neutralizzano le prove, ma vi sono prove in contrario. Davvero in questo modo io non ho veduto giuocare nè anche agli aliossi, non che con anime che pensano e sentono, e delle umane miserie profondamente si contristano.

Ben dovrebb'esser la tua man più pia,

Se state fossimo anime di serpi.

Io ignoro il deposto dei testimoni; vi furono, vi hanno ad essere, e mostreranno quanto singolare sia la nuova infermità trovata dall'Accusa della intermittenza rivoluzionaria. Ridotto ai miei soli ricordi, rammento che la Fazione dichiarò essersi arrogata il diritto di vigilare «fino dal 5 febbraio ogni mia azione, d'interpellarmi con la stampa, co' Circoli e co' petizionarii, di chiamarmi a severo rendimento di conto ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.»[261]

Il Circolo nella sua protesta liberamente espose, che la decadenza del Principe e l'abolizione della monarchia fino dall'8 febbraio era stata nel voto, e nel grido di tutti.[262] Dai Giornali si ricava, come nel giorno 13 il Circolo mi mandasse una Deputazione per informarsi di quanto io sapeva, e di quanto operava.[263] Il Governo è dichiarato impotente a salvare il Popolo; s'egli non si muove alla cacciata del Principe, il Popolo farà da sè.[264] Il Circolo fiorentino propone spedire armati da tutta la Toscana contro il Granduca: Firenze si dispone a mandare 1000 uomini.[265]

A tutto questo si aggiungano uomini sempre al mio fianco armati, fino dal giorno otto febbraio, nell'anticamera e pei corridoj, sicchè si rendeva difficile il passare; più spessi nei primi giorni, che dopo; commissarii dalla città, commissarii dalle Provincie;[266] individui ancora, che con brusca cera, così nelle sale, come per le vie, senza distinzione, di giorno o di notte mi fermavano, e m'interpellavano. Con gli scarsi Documenti che ho per le mani, mostrai pocanzi, essere state rammentate le deputazioni dei Circoli di Livorno, Arezzo, Prato e Pistoia: ho mostrato gli eccitamenti alle Provincie di accorrere per coartare il Governo, ma prima passassero nell'aula del Circolo fiorentino, per dare e ricevere conforto, per concertare istruzioni; ho esposto le lagnanze amare, le minaccie e le accuse contro il Governo, perchè per lo appuntino, e subito, non obbedisse; fu detto delle trame contro di me, della dichiarazione di tradurmi in giudizio, dell'aperta rampogna di traditore, della strage più e più volte minacciata. Quello, che Popolo e soldati facessero nei primi giorni del febbraio, esaminatelo nei Giornali del tempo.

E tutto questo pare poco alla Accusa! Di triplice acciaio deve avere ricinto il petto l'Accusa! Cotesto suo non è umano coraggio, o almeno di cotesti uomini antidiluviani, che potevano dire: «Col leone lottai mentre era fanciullo, e sebbene scherzassi, egli fuggì ruggendo dalle mie mani co' denti rotti.»[267]

Io trovo prova di quanto affermo in certo tentativo avventurato dal signor Marmocchi, per allontanare da sè il nugolo delle moleste deputazioni, e il nugolo più tristo degli sciagurati, che o per malizia propria, o aizzati da altri, accorrevano delatori di sospetti per istrascinare il Governo nelle vie rivoluzionarie, e porre le mani addosso ai designati cittadini.

«Firenze, 28 febbraio 1849. — Il Ministro dello Interno rende noto, ch'egli non riceve deputazioni di verun Circolo, od altro corpo morale, se non sono munite di speciale mandato in iscritto, che indichi chi le spedisce, e l'oggetto della missione.»[268]

Imperciocchè gente nefanda, nefande cose voleva; e, parve che ordinandole scritte, il pudore dovesse trattenere da porle in discussione, e ridarle in iscrittura. L'Accusa ha da essermi cortese di questo, che ordinando nel 28 febbraio cessassero, ciò significa che avevano incominciato innanzi; e se il Circolo, anzi i Circoli fino dall'8 febbraio si costituirono in permanenza per invigilare e dominare il Governo, dica nella sua coscienza chi legge, con quale verità si possano asserire queste tre cose a un punto, — che non ci sono prove, — che ve ne sono, ma non bastevoli, — che ci sono prove che escludono l'allegata violenza. Come queste tre cose possano stare insieme, non bisogna domandarlo a me; a me tocca udirle, e commentarle co' mesti giorni di carcere troppo più che bienne; e' vuolsi chiederne ai Magistrati, che le seppero accozzare insieme.

E come le referite cose precederono il 28 febbraio 1849, così lo susseguirono, non essendo mai riuscito di allontanare dal Governo le fervide istanze e i più fervidi petenti, per conseguire lo scopo che stava in cima di ogni loro pensiero.

Nel giorno stesso, e nel medesimo Monitore, il Ministro dello Interno rende noto pubblicamente: «che i Rapporti di Polizia, che i privati cittadini si degnano trasmettere per il pubblico bene, sieno inviati invece ai rispettivi Prefetti, ai quali soltanto spetta questo incarico, perchè, mentre è compreso di gratitudine per le premure che in tal modo i Cittadini mostrano pel Governo, non potrebbe convenevolmente corrispondervi.»

Nè per questo cessarono le denunzie segrete, e le intimazioni ad arrestare i cittadini sospetti, che io con mille espedienti attesi ad eludere. I Rapporti di Polizia lo proveranno, e verrà dichiarato chi sieno coloro, che mi devono libertà, sicurezza; forse anche la vita. Di tanti mi basti allegarne uno, non per vana jattanza, molto meno per rimprovero, ma perchè di questo fatto si hanno a trovare negli Archivii le prove.

Spesse e insistenti Deputazioni del Circolo pretendevano che l'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri signor Baldasseroni della pensione si privasse, e come cospiratore contro il Governo si traducesse in carcere. Stretto da tanta pressura, risposi stessero sicuri, avrei provveduto senz'altro. Rimasto solo col mio Segretario sig. Chiarini, lo interrogai intorno alla sua opinione, che a me non conviene riferire, perchè, trovandomi adesso ridotto in misero stato, parebbe viltà; basti che io la seppi tale da dovere esclamare: «Non sarà mai detto che io dia mano a perseguitare gente dabbene.» Però, onde oppormi con buon successo alla Fazione, scrissi lettere particolari al Prefetto Martini, onde segretamente s'informasse e con lealtà referisse. Di queste ricerche occorre traccia a pag. 501 dei Documenti dell'Accusa: «La persona spedita ieri a Usigliano di Palaia è tornata. Riferisce, che Baldasseroni è con la famiglia in villa Bertolla, e conduce vita ritirata, senza apparenza da ingerire sospetto di cospirazione. Domani con la posta dirò qualche cosa di più in particolare.» Non piacquero le notizie Martini; il Partito mandò suoi emissarii sul luogo a invigilare, è comecchè non ricavassero costrutto, pure tornarono ad assalirmi; onde io di nuovo mi rivolsi al Prefetto di Pisa; e questi sempre più confermando i suoi Rapporti, io mi adoperai così efficacemente, che giunsi a rimuovere cotesti arrabbiati dalla disonesta persecuzione. Le lettere responsive dell'ottimo signor Martini, tutte di suo carattere, furono, se non erro, dal Segretario Chiarini consegnate al Segretario Allegretti, affinchè le depositasse nello Archivio. — Il signor Barone Bettino Ricasoli volevasi ad ogni costo arrestato e processato; lui accusavano di cospirazione, eccitatore di sommosse, ricoglitore nel suo castello di Broglio di moschetti, e perfino di cannoni.[269] Questo signore aveva provato avverso, e però doveva essermi raccomandato maggiormente: almeno io penso, e sento così!.... Mandai persona a posta, fidata e discreta, e trovai che moschetti ne aveva, ma per la Guardia Civica, ed anche cannoni, ma di legno, innocente minaccia un giorno su i merli del Castello, adesso confinati in cantina, come vediamo tutto giorno accadere anche ad oggetti che cannoni di legno non sono, e lo hanno per bazza; e lui inconsapevole difesi da fastidii, e forse da gravi pericoli. Detenuto nel Forte San Giorgio per ordine della Commissione Governativa, di cui il Barone Ricasoli faceva parte, io volli contestargli questo fatto: pare che poco, anzi punto lo muovesse. Io ho reso bene per male, altri resero male per bene: certo i Signori della Commissione mi hanno fatto perdere tutto.... tutto, tranne la fama: essi poi non hanno perduto nulla!.... Ma io aveva promesso allegare uno esempio solo, e ne ho citati due.... troppo si produrrebbe lunga la storia, e tanto mi basti.

Rimane adesso ad esaminare, che cosa potessero i Circoli in quei tempi. I Circoli, nientemeno, si reputavano, ed erano padroni; il Governo aveva ad essere arnese passivo, ed esecutore docilissimo; altrimenti, fuori; oppure avrebbero fatto da loro. Avvi una testimonianza gravissima di quello che potesse allora il Governo, ed è del Ministro Inglese. Se fossero pubblicati i Dispacci di Benoît Champy Ministro di Francia, ne avremmo altra solenne conferma. Lord Hamilton scrive a Lord Palmerston, con lo scrupolo di fidato mandatario e con l'accortezza del diplomatico, affinchè il superiore si regoli nella sua politica. — Tanto meglio voglionsi ritenere esatte coteste informazioni, in quanto che, come ho avvertito, Sir Carlo Hamilton ne riferiva di vista. Ecco pertanto in quali termini egli si esprimeva: «Il Governo Provvisorio è obbligato però di sottomettersi a padrone supremamente dispotico, il quale ad ogni ora gli rammenta le catene con le quali lo tiene stretto, cioè il potere dei Circoli ( clubs ). QUESTE FORMIDABILI ASSEMBLEE GOVERNANO IL GOVERNO. È impossibile esagerare il terrore e la desolazione di questa bella città[270]

Il Ministro Hamilton, comecchè così vedesse e sentisse, pure non rifiniva raccomandarmi: «resistete, resistete; salvate il vostro Paese.» Benoît Champy dava simili conforti; entrambi promettevano scrivere ai loro Governi lettere amplissime in lode degli sforzi da me sostenuti; il primo anzi assunse di fare rettificare in certi Giornali esteri, segnatamente nel Débats, gli erronei giudizii: entrambi offerivano, in qualsivoglia evento, protezione dei loro Governi, asilo nelle proprie dimore. In Toscana, Giudici miei concittadini, presenti, scienti forse più degli Esteri Ministri, mi rampognano e mi accusano, e non solo mi accusano, ma mi oltraggiano con insulti fabbricati nel 1800!

Un'altra persona domiciliata qui a Firenze, scrivendo nell'8 marzo a certo suo amico di Parigi, tale gli dava ragguaglio delle nostre condizioni: «I Ministri e il Comitato esecutivo — tutti sono obbligati a sottomettersi alla tirannide di una mano di Faziosi, che si fecero padroni di Firenze, quantunque la più parte non sia neppure nativa del Paese. Firenze è fatta convegno di tutti i seminatori di zizzanie della Penisola. Ridotti in Club, che porta nome di Circolo del Popolo, dettano leggi, promulgano decreti, ai quali il Governo ha da sottomettersi docilmente[271] Infatti il Giornale del Circolo così con parole ingenue ne raccontava la importanza e lo istituto:

«Essi sono un vero Magistrato (i Circoli) del Popolo, cui egli corre per tutti i suoi interessi, per tutti i suoi reclami e lagnanze, e vi trova tutte le simpatie per ottenere protezione. — ( Popolano, 17 febbraio 1849.)

E quando in cotesto modo scrivevano, ero pur giunto a impedire che i Circoli dominassero interi; e la potenza loro scemava: si pensi un po' quanto potessero allora che mandavano commissarii in Provincia, e sopra ogni canto gli Oratori loro con accese parole aggiungevano legna al fuoco, le armi in pugno brandite tenevano.

Ora sotto la impressione di questi fatti si prendano a considerare i Dispacci dell'8 febbraio. —

Il primo delle 2 e ½, strappato a forza, porta seco evidentemente la prova della violenza immediata, avvegnachè vi si legga perfino la dichiarazione della decadenza del Principe, che sempre ho combattuta e impedita.

Nel secondo delle 5 e 10 minuti, è gittata la parola che accenna l'áncora di speranza, con la quale in quei fortunosi frangenti immaginava salvare il Paese: « Si rammentino tutti, che sarà proclamata presto la Costituente TOSCANA.»

Quando non occorressero altre prove, per conoscere che il Dispaccio dell'8 febbraio 1849, ore 6 p. m., fu imposto dalla violenza della Fazione trionfante, basterebbe questa sola, ed è che facendo scrivere il 14 febbraio 1849 (giorno della Spedizione a Santo Stefano) al Governatore di Portoferraio, lo ammoniva: «Se il Principe è partito, non è decaduto; lo Stato non è perciò venuto a mancare; le leggi non sono abolite ec.»[272] Ma importa inoltre riflettere alla inanità del medesimo. Generalmente, me non reputano stupido affatto: però, se la condizione mia non fosse stata in quel punto pericolosa così da farmi temere ogni obiettare fatale, se io avessi sperato, che tra i furibondi schiamazzi dei comandatori la Spedizione di Portoferraio potesse avere luogo consiglio, come non richiamarli a considerare «che ritenuta certa la partenza del Principe per Portoferraio, di due cose dovevano ammetterne una, o che il Principe vi fosse arrivato, o no? Se arrivato, o gli Elbani nol vogliono accogliere, e allora qual forza possono aggiungere a loro cento o duecento persone? Se lo hanno accolto, e quale urto mai vi augurate che facciano poche barche, contro fortezze giudicate insuperabili, e difese da molte centinaia di cannoni di grosso calibro? Non poche barche, ma intere armate male si avventurerebbero sotto le batterie del Falcone e della Stella. Dove poi non fosse arrivato, come si sosterranno le vostre barche, se venissero ad incontrarsi contro le fregate a vapore il Porco-Spino e il Cane Mastino, rinforzate dalla fregata a vela la Teti, e il vascello di primo ordine il Bellerofonte?[273] Ma nè queste, nè altre, erano riflessioni da potersi avventurare a quel tempo, nè alcuna. «A Portoferraio! a Portoferraio!» urlava la turba infellonita, e bisognò darle aperto il Dispaccio, che vollero portare alcuni di quella allo Ufficio del telegrafo. Come ci hanno testimoni i quali attestano, che nella mattina dell'8 febbraio il Niccolini diceva: «Noi siamo d'accordo, tranne col Guerrazzi... ma...», così non ne mancano altri co' quali egli confidandosi, nei primi giorni di cotesto mese infaustissimo, palesava: «andrebbe bene ogni cosa; solo resistere Francesco Domenico alle loro mire, ma gli avrebbero messo il cervello a partito.»

La storia moderna mi somministrerebbe esempii in copia per mostrare come in simili casi si comportassero uomini incanutiti fra guerreschi pericoli. Vi rammentate il 17 marzo del 1848 a Milano? Quando i deputati del Popolo lombardo si presentarono al conte O'Donell capo del Governo, per esigere da lui la sanzione di atti ostili all'Austria, negava forse? No; diceva: « Farò quello che voi volete, quello che voi volete. Sì, avete ragione, giù polizia, giù tutto[274]

E fu appuntato perchè non avesse resistito? Lo accusarono forse, perchè avesse acconsentito a buttare giù tutto? Ed io tutto non dissi che gittassero, e mi adoperai che ciò non facessero. Non incontrò tanto crudeli e poco assennati sindacatori, imperciocchè la sua resistenza, come di certo esizio per lui, così non avrebbe apportato profitto alcuno alla fortuna austriaca in quei giorni. Il sagrifizio della persona allora è lodevole, che, come nello esempio del Cavaliere d'Assas, gridando all'erta, ad onta della morte minacciata, si dà la sveglia al campo e si preserva dalla sorpresa: altrimenti è giudicato follia.

La discretezza, di cui per certo non mi dà norma l'Accusa, mi trattiene dallo esaminare la condizione di tutti coloro che si dichiararono coartati, e dal confrontare se le scuse che addussero e furono tenute buone, a paragone delle mie, dovessero più o meno gravi considerarsi: forse lo dovrò fare più tardi; — mi basti per ora uno esempio domestico.

Ferdinando Zannetti procedè sempre zelante delle libertà costituzionali: nel 12 aprile, io penso che più efficacemente degli altri alla restaurazione del Principato Costituzionale desse opera; e fu dei primi, che il Decreto a questo scopo tendente firmò: era Generale della Guardia Civica, e quindi stava in lui il comando della forza capace a schermirsi; egli conosceva i pericoli della Unione con Roma; egli sentiva quanto poco il Popolo, pure allora chiamato a libertà, fosse disposto a reggimento repubblicano; assennato com'è, prevedeva eziandio che il suo pronunziarsi per la Repubblica avrebbe potuto strascinare irreparabilmente il Governo; egli era stato testimone del mio rammarico espresso agli Ufficiali della Guardia Civica per la partenza del Principe, e dell'aspra lotta da me sostenuta perchè la Repubblica a furia dai violenti non si pronunziasse; e nondimeno, invitato dal Popolo, ebbe a gridare: Viva la Repubblica! Viva la Unione con Roma![275] Quando il Popolo è preso da una passione, e i più fervidi di quello ti fanno cerchio dintorno, e schiamazzano, e gridano, chi mai resiste? Chi può resistere? Me poi il Popolo non calcava festoso, ma torbido; non invitava, ma minacciava; non arrendevole trovava, ma in quanto mi era dato con industria opponente. Gli arrabbiati della Fazione trionfante, padroni nei primi giorni di tutto, non si muovono dalle mie stanze, notte e giorno spiano gli atti, le parole e i pensieri.

E tutto questo sembra poco all'Accusa; anzi, ella, proprio in coscienza, crede che, invece di provare, escluda la prova della coartazione!

Io mi ricordo avere letto nei Giornali dei tempi certo discorso, o lettera di Giuseppe Mazzini ai suoi amici di Roma, nella quale gli ammoniva non volersi partire di Toscana, prima di avere conseguíto il suo intento. Ora (e spero che l'Accusa non mi vorrà smentire almeno in questo), io affermo che il concetto mazziniano fosse repubblicano.[276] — L'Accusa avverte, che la presenza del Principe in Toscana era pruno negli occhi ai Rivoluzionarii.[277] Qui dentro, Romani, che la Unione con Roma e la Repubblica agognavano; qui Lombardi, che nella Repubblica vedevano l'unica via per ritornare alla patria, ai domestici focolari, e alle gioie di famiglia; qui il lombardo signor Maestri, Inviato straordinario romano, forte del soccorso del Circolo, il quale, come il signor Rusconi si esprime, lottava quotidianamente per portare via di assalto la Unione con Roma. All'Accusa sembra che tutti questi elementi qui condensati escludano perfino la possibilità, che io mi trovassi nei primi giorni costretto a consentire quelle cose a cui non trovavo riparo, nè con la forza, nè con la opinione, nè con lo ingegno.

Che Dio benedica l'Accusa! Se si confronteranno i varii Dispacci scritti nel giorno 8 febbraio, dalla forma stessa del linguaggio, chiunque imparziale consideri, argomenterà la maggiore o minore coazione, che in quel momento pativo. Infatti nei Dispacci telegrafici scritti a dettatura sotto la immediata pressione, tu leggi d' ingratitudine e di nera perfidia: nel Dispaccio scritto al Governatore di Portoferraio si dice, che il Governo non può permettere al Granduca di rimanere in una parte della Toscana; che la sua presenza potrebbe causare perturbazione, e forse guerra civile; la cacciata diventa invito di assentarsi.

Qui per avventura si obietterà: — e non potevate mandare contr'ordine segreto al Governatore di Livorno? — In qual modo spedirlo perchè giungesse a tempo? Per telegrafo forse? Allo Ufficio di Livorno era preposto tale, che prima di recapitare i Dispacci al Governo ne faceva copia alla Fazione. Tentai rimuoverlo, ma il Popolo tumultuante volle stesse fermo in Livorno; di vero egli serviva meglio lui, che il Governo. — Potevate mandare le lettere per la posta. — E chi se ne fidava? — Per messo particolare. — Non era agevole sottrarmi, nei primi giorni, alla incessante sorveglianza; e avrei trovato chi avesse voluto incaricarsene? E trovatolo, in quale estremo pericolo non avventurava lui con me stesso? Adesso non doveva trattenermi il medesimo dubbio, che in buon punto mi persuase a resistere alle sollecitazioni del Colonnello Reghini a Livorno? Più tardi, e quando credei poterlo fare senza danno, mandai persona a Livorno a chiarire i miei amici delle mie intenzioni, ma allora era impossibile. Pure via, tutto questo doveva arrischiarsi in negozio sì grave; arrisichiamo.... perchè? Per far pervenire il Dispaccio in mano di gente che lo avrebbero letto in piazza, alla presenza del Popolo!

Intanto, è vero che una frotta di furiosi intronava le orecchie gridando: «Bisogna cacciare il Granduca; Portoferraio sta per diventare la Terceyra di Toscana; di là muoveranno trame, cospirazioni e guerra civile: egli è evidente: qui non vi ha mestiero indugio; bisogna provvedere, e subito; scrivasi al Governatore di Livorno, a quello di Portoferraio; da tutta Toscana si muovano gente. Il Popolo comanda questo e questo altro, e vuole essere obbedito, e subito: ora non hanno luogo discorsi, e guai a chi esita.» Lo sguardo torvo, lo scrollare minatorio del capo, le pugna percosse sopra la tavola non si rammentano; tacere allora, e obbedire, fu la mia parte, senza potere nemmeno fare osservare la inanità degli ordini. Nè meno insensata parevami la lettera, ch'ebbi a mostrare scritta, al Governatore di Portoferraio, con minaccia di destituzione; avvegnadio se il Principe fosse sbarcato, protetto da quattro legni da guerra, non il Granduca era in potestà del Governatore, ma il Governatore del Granduca; e supposto che il Governatore si mantenesse parziale al Principe, la minaccia di destituzione avrebbe destato la sua ilarità.[278]

§ 2. Dimostrazione.

Aveva pensato in prima di porre a piè di pagina a guisa di note, e per ordine di data, i fatti narrati quotidianamente dai Giornali, onde confutare lo strano concetto dell'Accusa, che la violenza dei Faziosi mi lasciasse libero di operare tutti gli atti nei quali e pei quali venne a consumarsi la perduellione: ma considerando come questo partito genererebbe confusione e stanchezza, mi è parso bene raccoglierli tutti in un punto, affinchè servano come di Appendice al paragrafo della Spedizione all'Elba, e d'Introduzione a quella di Porto Santo Stefano. Però vuolsi avvertire una cosa, che molti fatti non occorrono rammentati dai Giornali, avvegnadio le violenze, i soprusi e le soperchierie non si raccontino; e rifletterne un'altra, che nei primi giorni i Faziosi, troppo più occupati a operare che a scrivere, nè tempo avevano nè modo di registrare per lo appuntino i gesti loro: sicchè operavano più, scrivevano meno. A questo, in parte, devono avere supplito i testimoni uditi dall'Accusa, e meglio suppliranno questi stessi più diligentemente ricercati, e i nuovi che saprà addurre la Difesa.

Nel giorno 8 febbraio abbiamo dai testimoni, ricercati dalla stessa Accusa, che il Niccolini, eccitando la gente a unirsi a lui per mandare a fine i suoi disegni, affermava: «ostare io solo.... ma!...» Ancora: che poco prima, o poco dopo di quel giorno stesso, ad altro testimone Niccolini medesimo confidava: «trovare resistenza in me.... ma che mi avrebbero messo giudizio.»

Ora dai Documenti dell'Accusa resulta che il Circolo di Firenze stette in permanenza fino dal 5 febbraio 1849. (pag. 193.) E questa permanenza venne di nuovo decretata, e con più rigore mantenuta nel giorno 8, nè il 20 febbraio era per anche sospesa. «Il Circolo... sempre in permanenza fino dal dì 8 corrente.» — ( Popolano del 20 febbraio 1849.) — Che cosa potessero i Circoli non importa ripetere.

Della sospettosa Polizia del Circolo l'Accusa stessa raccolse prova, e la citerò più tardi; intanto osservate come fino dal declinare del gennaio egli procedesse a investigare sottilmente le cose, e le persone: «Il Circolo del Popolo nella sua seduta ordinaria del 28 gennaio deliberò di stabilire una inchiesta su i fatti avvenuti la notte del 27, e nominò una commissione composta di cinque membri del Circolo, a cui dirittamente furono porti i più estesi e precisi ragguagli intorno agli avvenimenti in discorso.» — ( Frusta Repubblicana, 1 febbraio 1849.)

Quello che il Partito trionfante faceva e ordinava al Governo che facesse, si ricava dalla Costituente Italiana del 9 febbraio, organo, come sappiamo, della Emigrazione armata, fra gli accesi accesissima a precipitare lo Stato a Repubblica, per le ragioni chiarite in più parti di questa Apologia. «Non lasciate ricadere il Paese in un fatale letargo, non lasciate ch'ei si addormenti. Agitatelo, tenetene sempre desta e viva la vita! In ogni momento colla parola, colla presenza, cogli atti mantenetevi innanzi alla sua attenzione, ponetevi con esso in continua, incessante comunicazione di spiriti e di idee! Che da tutto e dovunque il Popolo conosca ch'ei non versa nelle condizioni ordinarie, bensì tra vicende agitate e pericolose, e anzichè cullarlo con facili lusinghe, gridategli sempre: all'erta! all'erta! Rammentatevi l'artefice che ha bisogno di aver sempre rovente il ferro per foggiarlo secondo la propria intenzione. Solo in questa intimità tra il Popolo e voi, solo dentro a quest'aura di rivoluzione e di entusiasmo sono possibili le forti cose, a operare le quali oggi voi foste chiamati.» Padroni di tutto, è da credersi che non si rimanessero ai soli consigli commessi alle pagine infiammate del loro Giornale, ma sì alle parole aggiungessero lo esempio.

Se nel primo giorno il Circolo fiorentino facesse forza, e poi, uditelo un po' dal Giornale che ne registrava gli atti e i concetti: «Armi al Circolo del Popolo, legione sacra che stette sempre al primo posto ogni qualvolta occorse combattere i nemici del Paese, ogni qualvolta occorse spingere la bilancia delle nostre sorti che pendeva incerta....»[279] I vecchi consigli di violentare il Governo praticavansi. —

Voi desumete prova che nei primi giorni non mi era dato oppormi apertamente in nulla, dal rimprovero che mi muovono, il 15 febbraio, «di non volere dichiarare la Repubblica, perchè la Repubblica bandisce decaduto Leopoldo, e di ostare alla Unione con Roma per amore della autonomia toscana, della quale dieci giorni indietro vi mostravate poco curante.» Il giorno 8 mostrarsi poco curante era tutto quel più, ed anche non senza molto pericolo, che potesse farsi.[280]

«Voi non volete dichiarare Repubblica, perchè la Repubblica dichiara decaduto Leopoldo, e la decadenza di Leopoldo porterebbe intervento, invasione, abbassamento di stemmi inglesi e francesi, e tutte le diavolerie immaginabili.

Voi non volete per ora l'Unione con Roma, perchè l'Unione con Roma ci toglie l'autonomia toscana, di cui oggi vi mostrate tanto passionati, quando dieci giorni fa ve ne mostravate non curanti; e la distruzione di autonomia importando infrazione dei trattati di Vienna, importerebbe anch'essa intervento austriaco, invasione straniera e tutta la solita litania. Ma dunque che cosa volete?» — ( Frusta repubblicana, 15 febbraio 1849)

Gli Emigrati Lombardi amaramente mi rampognavano nel 14 febbraio, che da sei giorni io non adémpia le grandi misure nè adoperi lo impeto di azione che mi avevano inculcato dalla prima ora della mia chiamata al governo. Consigli di gente armata, accesa di passione politica, smaniosa di ricuperare la Patria, convinta profondamente che per altra via non vi si ritorni, che sieno, dacchè l'Accusa non vuol capire, capite voi tutti che leggete queste pagine, e vedete con quanta giustizia di me si faccia lo strazio disonesto.

« Sei giorni sono trascorsi, e noi cercavamo indarno negli Atti del Governo quella coscienza delle grandi misure, quello impeto di azione, che dalla prima ora della sua esistenza gli avevamo inculcato.» — ( Costituente Italiana del 16 febbraio 1849.)

E se l'Accusa volesse sapere quali ammonimenti mi dessero i Settarii, e come facessero a fidanza, e se mi lasciassero libero, altro non ha che fare, che leggere queste poche righe: «Fino dall'8 febbraio abbiamo detto agli uomini che le speranze del Popolo avevano inalzato al Governo: noi vi richiederemo conto strettissimo giorno per giorno, ora per ora, della opera vostra, e un minuto sprecato, è una colpa; e noi conteremo i vostri minuti[281] Vero è bene che chi scriveva dichiarava essersene astenuto, e in quanto a sè forse non profferiva bugia; però lo aveva fatto fare dalle Deputazioni incessanti dei Circoli, e dagli Assembramenti popolari.

E se all'Accusa prendesse così per genio vaghezza di conoscere quale potere i Giornali e i Circoli si fossero arrogato sul Governo, può, a tempo avanzato, vederlo in queste parole: «Noi però abbiamo conservato sopra tutti i vostri atti un diritto e un dovere; il dovere di vegliare su di voi; il diritto di provvedere a noi, se voi stessi nol fate.»[282]

Oda un po' l'Accusa che cosa il Circolo del Popolo, onnipotente, allora, intendesse istituita fino dal 10 febbraio; e neghi che se io non ero, ella avrebbe veduto il Tribunale rivoluzionario, e feroce, e insensato, e spietato, come.... come vediamo essere tutti i Tribunali nei giorni dell'ira di Dio.

«Un Comitato straordinario di Salute Pubblica sia immediatamente instituito. Sieno uomini provati a libertà, ad energia di cuore e di mente; abbiano pieni i poteri; sia rapido, estremo il giudizio: vigilino a vicenda il giorno e la notte; dispongano sempre di forze determinate e sicure. Sia lor cura scuoprire le fila intricate e lunghissime della reazione; e scoperte, con lo esempio della pena prevengano colpe e pene ulteriori. Tutto ciò noi domandiamo al Governo Provvisorio di Toscana, — lo domandiamo col linguaggio della necessità, con la coscienza ferma del diritto, con la volontà irremovibile del Popolo libero.» — ( Popolano dell'11 febbraio 1849.)

E che la Unione con Roma, e per conseguenza, la Monarchia abolita, il Principe decaduto, la Repubblica proclamata, fossero non pure desiderii o voti, ma ordini imposti dalla Fazione trionfante, fino dal giorno otto febbraio, voi lo vedete a prova. «La Unione con Roma era per noi condizione della esistenza del Governo Provvisorio fino dal giorno otto febbraio; fino dal giorno in cui il Popolo restituito nel pieno possesso dei suoi diritti rovesciava per sempre un ordine di cose impossibile ormai.» — ( Alba, 25 febbraio 1849.)

«Ieri abbiam detto al Governo Provvisorio di Toscana diritti e doveri. — Con franchezza gli abbiamo accennati: diremo con franchezza se verranno compiti. — Una verità oggi ripetiamo, una suprema verità: — il tempo preme, fate tesoro del tempo.

«Abbiam detto ieri uniti con Roma, — oggi diciamo immediatamente uniti. I bisogni vincano le forme. — Cittadini! quando vi abbiamo affidati poteri assoluti, abbiamo ad essi posto il suggello di una condizione: l'Unione con Roma: avete accettati gli uni, avete dunque accettata l'altra; compitela.

«Gli avvenimenti mutarono. La Repubblica Romana è proclamata. A voi incombe inviare tosto un plenipotenziario che rechi il saluto e l'omaggio di Toscana alla gloriosa sorella. A quest'ora l'avrete fatto: se no, perchè il ritardo?

«L'Unione con Roma fu decretata, acclamata dal Popolo: restano a stabilirla nodi di legalità: stringeteli.

«Trentasette Deputati erano già destinati alla Costituente nazionale. Questi si raccolgano prima in Costituente Toscana, — compiano la volontà del Popolo, sanzionino il patto di Unione, costituiscano lo Stato della Italia Centrale. Poi vadano a Roma rappresentanti nostri alla Costituente Italiana, e dal Campidoglio dettino a noi i decreti, comunichino a noi le speranze e i bisogni.

«Ciò vi domanda il Popolo, — ciò vuole il Popolo. Poichè se dai bisogni, dalle speranze e dai fatti fu il tempo prevenuto, l'opera deve eguagliarlo non solo, ma superarlo eziandio. Meglio con l'opera d'oggi affrettare il domani, anzichè affaticarci a ricostruire sui frantumi di ieri.»[283]

E badate, che nè soli, nè più temibili erano i Lombardi, condotti in parte dallo stesso Ministero Capponi, ma Napoletani, Romani, e Romagnuoli crescevano l'ansietà, e la paura. Fino dall' 8 febbraio la Fazione organizzò una Legione Romana; nel 12 del medesimo mese ne apparecchiò un'altra; il Popolo anch'esso si armò: «Questa sera una nuova Legione di Romani sta organizzandosi per offerire i suoi servigi al Governo. Anche il Circolo del Popolo sta ordinandosi in legione armata, per mettersi a disposizione delle autorità.» E mettersi a disposizione del Governo significava: attendesse a fare a modo del Partito Repubblicano; se no, guai!

Che cosa si proponesse fino dall' 8 febbraio 1849, e che cosa gridasse tutto il Circolo del Popolo in permanenza, lo si legge nel Nº 16 febbraio del Popolano: «Nell'adunanza di ieri sera il Circolo del Popolo fu invitato da un socio a ripetere con solenne dichiarazione quello che fino dal dì 8 febbraio era stato nel cuore e nel grido di tutti: la decadenza del Despota, e l'abolizione della Monarchia.»

«Qual bisogno ha oggi la Toscana di rimettere ad una Assemblea la decisione di un voto, il quale fu già deciso dal Popolo?... Il Popolo ha già deciso di essere unito con Roma, e Roma ha proclamato la Repubblica il giorno stesso di tale decisione.» — ( Popolano del 15 febbraio 1849.)

E fino da Roma venivano le congratulazioni al Giornalismo toscano per avere insistito presso il Governo Provvisorio affinchè indissolubilmente si unisse con Roma. Altrove notammo, e qui giovi ripetere, Giornalismo di partito trionfante, che sia; e che cosa importassero le parole e le insistenze della Emigrazione Lombarda organizzata a corpo militare, e del Circolo armato.

Di buon grado riproduciamo le seguenti osservazioni del Giornale romano l' Epoca intorno alla pronta Unione della Toscana agli Stati Romani:

«Noi facciamo plauso al Giornalismo liberale di Toscana, il quale fin dal giorno di partenza del Granduca Leopoldo insistè presso il Governo Provvisorio, perchè si unisse subitamente e indissolubilmente col Governo della Costituente Romana. E questo fatto, se così vogliam chiamarlo, questo diritto, se meglio intendiamo di esprimerlo, era implicito nel mandato consegnato dal Popolo ai tre rappresentanti del Governo Provvisorio medesimo....

«La Toscana in qual senso potrebbe ella adunare la sua Costituente? O a meglio dire, cosa potrebbe decidere questa Costituente che nel fatto non sia già deciso? O ella sceglie il Governo di Roma per effettuare la sua Unione; ed allora una parola, un atto fraterno non basta nei momenti attuali di tanta vitalità? O ella recede dalla Repubblica.... e in qual modo tanto trionfo avrebbe ottenuto colà il principio democratico?

«No, non è possibile giammai. La Toscana è democratica, è repubblicana, e non da adesso. Lo è per tradizioni, lo è per sentimento. — Coraggio, uomini del potere! Tempo è di unione e di concordia una. Affrettando la fusione dei popoli delle due famiglie, voi affretterete la Costituente italiana e la Guerra.» — (La Costituente Italiana, 19 febbraio 1849.)

In quel medesimo giorno istituiscono Circoli parrocchiali per agire di concerto col Circolo generale: «E per accendere lo spirito pubblico, fu notato non essere via migliore che istituire subito, in ogni Parrocchia, Circoli parrocchiali da agire tutti di concerto col Circolo generale del Popolo fiorentino.»[284] Sicchè nel giorno 10 poterono armarsi i Faziosi in centurie per istimolarmi, dicevano essi; ma in fatti per dominare tiranni. «La mattina di sabato (10) fu vero scopo d'eseguire immediatamente la ordinata classazione in centurie e decurie, e di stimolare il Governo a volere lo armamento dei patriotti italiani. Fin d'allora fu aperto nel suo seno un corpo di guardia fisso, ove furono tenute esposte note di soscrizione per tutti i patriotti che, nei pericoli della patria, volessero impugnare le armi. Il sabato sera il Circolo era diviso in due parti: una parte discuteva, l'altra era sotto le armi.... Il Circolo e il corpo di guardia non si sono più chiusi. L'azione del Circolo ha dato un moto alla popolazione, che oggi è accorsa in folla a sottoporsi alle armi per sicurezza dell'ordine pubblico.... Tutti i Fiorentini in armonia hanno oggi mostrato che il Popolo poteva sfidare qualunque pericolo.»[285]

La continua guardia, la indefessa pressura si prova dai Documenti stessi dell'Accusa: «Fino dal 5 febbraio il Circolo fiorentino si è costituito in permanenza, ed ha creato una Commissione perchè stia in continua corrispondenza col Ministero[286] — Gl'inquisitori non si staccavano mai dal fianco, ordinavano, investigavano, riferivano, sospettosi sempre, pronti all'accusa.

Dal Circolo armato la città, in cotesti giorni, si perlustrava. «La perlustrazione della città non era neppure trascurata.»[287] e coteste armi sbigottimento e terrore nei cittadini incutevano, cosicchè al Governo, smarriti, si raccomandavano esigendo misure che avrebbero precipitato alla rovina, condizioni già piene di difficoltà, dalle quali, se prudenza e senno non giovavano a salvare, niente altro poteva. Pretesto a parecchi, motivo vero in molti di quel tremendo ribollire, era trovare modo efficace di combattere la guerra italiana; perciò tanto più arduo contrastarli, quanto meglio ne appariva lo scopo all'universale accettissimo; e nella seduta dell'11 febbraio, nel Circolo Popolare si dichiarava che: «.... la divisione dell'Italia avendo fatto finora il nostro infortunio, anche nell'ultima guerra di Lombardia contro gli Austriaci, la sola unione di tutte le forze italiane in un solo Governo, può scacciare il nemico straniero di seno alla patria. — I Principi non sono stati da tanto. L'Italia unita sola il potrà. — Nè a ciò poter recare impedimento, notavano alcuni degnissimi sacerdoti, le minaccianti scomuniche di Pio IX.»[288]

Nè il Circolo fiorentino si contentava, fino dai primi giorni del febbraio, raccogliere le proprie forze, ma eziandio riuniva quelle degli altri Circoli per difendere l'ordine repubblicano; il che agevolmente s'intende per imporre la Repubblica. «Il Circolo armato non potea fare a meno di ricercare agli altri Circoli, nel presente stato di cose, il numero di quelli Italiani, che, socii o non socii, fossero pronti a porgere il loro braccio alla difesa dell'ordine repubblicano. Il perchè fu ordinato di tosto scrivere in proposito.»[289]

E grande fu e penoso lo schermirsi dalle pretensioni di tôrre via i beni e i tesori sacri alle chiese, sopprimere gli ordini cavallereschi, e incamerarne la sostanza. Di ciò tu trovi traccia nei Giornali, fievolissimo eco di quanto a voce burbanzosamente ordinavano: « Secolarizzati tutti i beni ecclesiastici. Il monacume è tempo ormai che cessi da impinguarsi a spese della nazione.... Le chiese siano private di tutto il superfluo. Li antichi credenti onoravano Dio con altari di pietra e calici di legno, ec.

« Soppressi tutti li ordini cavallereschi, ed incamerarne i tesori.»[290]

E vedete com'era libero io, quando, tutto giorno, i rappresentanti della Emigrazione Lombarda venivano a rammentarmi i loro proponimenti, e, le armi brandendo, mostravano come intendessero sostenerli: «Noi ci troviamo in momenti di supremo pericolo; non bisogna nè esitare nè oscillare sulla via che abbiamo eletta a percorrere, poichè la nostra salute è sola nell'azione rapida e vigorosa. — Lo verremo tutto giorno rammentando agli uomini a cui è fidato reggere i destini della Patria.

«La reazione tenta qua e là sollevare la testa; non rifugge da nissuna arte feroce e sovversiva, da nessuna passione, per quantunque bassa e antisociale, per giungere al suo scopo. Ella ha deciso riconquistare il potere fuggitole di mano attraverso al caos della anarchia, attraverso alla guerra civile: ella non rifuggirà dal comparirvi innanzi come vanguardia ed alleata alla invasione straniera.

«La reazione stimola i ciechi istinti delle popolazioni più ignare della campagna, mette in atto la molla segreta della superstizione, si rafforza della influenza dei vasti possessi, della colleganza con un clero che abusa il facile dominio delle coscienze. Ella ha sospinto il Granduca a Siena, lo ha consigliato alla fuga. Il Principe, docile alle sue insinuazioni, ha assunto di rappresentare la sua parte nel dramma sanguinoso della ricostruzione del dispotismo; ora tocca ai vecchi suoi sostenitori a sottentrare alla riscossa ed adempire alla propria.

« Ma noi siamo preparati a riceverli e a rintuzzare convenientemente questa perfidia nuova, che lavora e cospira nel secreto, che getta i germi della divisione nel momento in cui l'Austriaco minaccia alle porte, che vuol renderci all'Austria, anzichè arrendersi a questa forza rinnovatrice e irresistibile, che avvia l'Italia verso un nuovo destino.

«Stoltezza troppa ci hanno supposta i nostri nemici, e semplicità inaudita, se credettero persuaderci causa vera della fuga di Leopoldo essere state le paure della sua timorata coscienza.»[291]

E già fino dal giorno dieci febbraio 1849, se non adempio gli ordini imposti della fusione, mi si minaccia la vita: «In qualunque Governo è sacramento, ma in un Governo che fu decretato dal Popolo, e che solo per suo volere sussiste e comanda, è condizione di vita, è necessità ineluttabile. Nè si dee, nè si può dire — Domani — a chi oggi non ha da vivere. — Domani, o non sarebbe più vivo lui, o nol sareste voi[292]

I soldati che rifiutavano prendere il giuramento, comecchè da me lasciati liberissimi di prestarlo o no, e di tornare, volendo, alle proprie case, sono vilipesi e percossi; avviso ai renitenti: «I pochi soldati che stamani si rifiutavano di prestare giuramento, uscendo di Fortezza, venivano accolti a fischi e sassate dal Popolo: essi tornano tutti contriti a domandare di prestarlo; ma non lo si concedeva loro, e, posti in luogo appartato, si dava loro agio di riflettere affinchè il voto fosse spontaneo e non estorto dalla paura.»[293]

«Ieri, 12 stante, le truppe prestarono giuramento al Governo Provvisorio toscano, salvo poche eccezioni. Coloro che recalcitrarono furono respinti in fortezza a furia di Popolo, ed i loro commilitoni ricusarono riceverli[294]

Avanti: perchè ogni uomo, anche a me più fieramente avverso, si persuada come potessi operare spontaneo io in mezzo al turbine rivoluzionario. E se si obiettasse che i Livornesi erano chiamati a Firenze dal Governo, risponderei ch'è vero, ma che, innanzi di partire da Livorno ammoniti come a Firenze si chiamassero contro i nemici interni, non già per dimostrazione politica,[295] essi avrebbero osservato il precetto, dove non fossero stati provocati dal Popolo e dal Circolo accorrenti.

«Ogni discussione del Circolo fu interrotta quando fu fatto il lietissimo annunzio del pronto arrivo dei Livornesi per la strada ferrata, con cinque cannoni, sessanta artiglieri e seicento uomini. Fra i clamorosi applausi fu scelta una deputazione per andare ad attenderli. Erano le 9 ¼ di sera (11); ma ad un tratto altre voci annunziarono un moto di Popolo che andava ad incontrarli; ed allora il Circolo tutto, tranne gli obbligati al seggio e gli armati, con moto spontaneo, si volse incontro ai Livornesi che furono salutati, in Borgo Ognissanti, col sublime grido di unione, di Viva la Repubblica italiana, a cui i fieri Livornesi non furono tardi a rispondere col medesimo grido. È indicibile la gioia di questo minuto popolo fiorentino al nome di Repubblica! Ciò mostra come in esso non si sieno mai spente le abitudini repubblicane, come dalle due infami dinastie dei Medici e degli Austriaci non se ne sono potute distruggere, in tre secoli, le memorie. E ciò porge la più salda speranza che in tutte le città italiane, vissute a Repubblica, i medesimi spiriti repubblicani abbiano, con egual forza e vigore, a risorgere. È però vero che se alcuno gridava semplicemente: Viva la Repubblica, non mancava chi subito avvertisse di aggiungere un altro grido: Italiana. Ciò mostra che se noi Italiani vogliamo la libertà municipale delle passate Repubbliche, fatti accorti che l'Italia non può vivere di fronte ai grandi Stati europei se non è unita in un solo Stato con Roma per sua metropoli, la Repubblica Italiana deve regolare le libertà municipali. Allora ogni città sarà libera, e l'Italia sarà un solo Stato con leggi a tutti gli Italiani comuni.

«Nel suo passaggio in Piazza del Popolo, di faccia alla linea, fu notato il grido: Abbasso li Uffiziali codini, alludendo chiaramente a quelli che nelle Fortezze avevano tentato di spingere alla diserzione i soldati e di sciogliere l'esercito; al quale grido i nostri bravi italianissimi soldati prontamente risposero: Abbasso[296]

Il Circolo fiorentino fino dal giorno 11 febbraio 1849, col pretesto di avvantaggiare la opera del Governo Provvisorio, tira a sè le milizie; così togliendogli ogni mezzo di resistenza si apparecchia a proclamare la Unione con Roma e la Repubblica: «Fino dalla mattina dell'11 il Circolo aveva mandato un proclama a stampa nelle due Fortezze, da Basso e di Belvedere, per avvertire i soldati delle mene traditrici di alcuni loro Uffiziali. Nè ciò fu senza effetto; perchè, nella sera, appena il Circolo, adunato in permanenza e armato, aperse la ordinaria discussione, molti militi, da bravi e buoni Italiani, sì dell'artiglieria che della linea, presentarono al Circolo una dichiarazione firmata ove proclamavano i loro patrii e italianissimi sensi, e la piena fede che avevano nel nuovo Governo, mostrandosi pronti a spargere il loro sangue per l'amatissima patria, l'Italia. Gli amplessi e i baci fraterni coronarono l'opera. Quindi fu fatto, discusso e dato loro un altro Indirizzo da recarsi in Fortezza agli altri fratelli della milizia, per sempre più riaffratellare tutti i cuori in un desiderio comune: la salvezza d'Italia.»[297]

L'Accusa m'incolpa (e si è veduto) di avere conferito impieghi ai rivoluzionarii; i rivoluzionarii fino dal 12 febbraio mi rampognano all'opposto per non averli ricevuti. Chi di loro ha torto, chi ragione? Ambedue torto, imperciocchè la passione ingombri la mente, e alla pacata disquisizione del giudizio sostituisca l'astiosa agonia di nuocere.

«Noi crediamo fermamente e con religione professiamo la massima che il nuovo Governo sia per dovere obbligato a collocare tutta l'autorità governativa e tutta l'autorità militare negli uomini che hanno saputo fare la rivoluzione, perchè altronde la rivoluzione repubblicana non è sicura. Tanto per loro massima.»[298]

L'Accusa sostiene, ch'e' fu un nonnulla combattere quotidiana battaglia, e spesso quasi vinto tornare a pertinace difesa, affinchè la Toscana nella Unione romana non precipitasse, e il Popolo prima intorno alle sue sorti, come padrone di sè, s'interrogasse, e decidesse. Gli Esuli Lombardi all'opposto non la pensavano così; tengono essere questo negozio supremo, e vi si affaticano intorno con tutti i nervi; di Assemblea non vogliono sentire parlare; àncora di salute ultima la Unione con Roma, donde uscirebbero la guerra, e le forze per poterla vincere. Quanto questo partito potesse avvantaggiare i loro disegni, io non compresi allora, e nè anche adesso giunsi a capirlo: non importa: essi lo pensavano, oltremisura smaniosi a conseguirlo.

«Lasciate dormire in pace le Assemblee Legislative; non evocatele adesso nel momento del pericolo, alla vigilia della guerra. A che mai un'Assemblea convocata a 34 giorni d'intervallo, un'Assemblea che dovrà precedere la Costituente, perchè chiamata a sanzionare la legge? Fate tesoro del tempo, non rimettete la vita del Paese a così lontana epoca; non date agio alla reazione di diffondere le malvagie influenze, non fate disperdere con lunghi conflitti elettorali quella forza che dovete tutta concentrare nella difesa dello Stato. Funesto esempio di debolezza potrebbe essere questo procrastinare, questo invocare una remota sanzione legale al potere, che il Popolo diede intero nelle vostre mani. Ben è dritto che l'Unione della Toscana colla Romagna, che voi ora proclamerete per impeto di volontà popolare, per suprema necessità di circostanza, abbia a risultare, anche qual forma temporaria, voto legalmente espresso dal Popolo. Ma in tal caso basterà promulgare all'atto dell'Unione la legge sulla Costituente Italiana, fare eleggere i 37 Deputati, spedirli a Roma, e ottenere dai Deputati Romani e Toscani insieme raccolti la prima sanzione di quella forma, che poscia dovrà essere sottoposta al supremo giudizio della Costituente di tutta Italia. E le elezioni devono essere compite in 10, in 8 giorni, in meno se pur si può, giacchè il tempo urge, e per poco che aspettiamo, i registri elettorali dovranno cambiarsi in ruoli di combattenti.»[299]

E poco più oltre sentite con quali insistenze c'intronavano le orecchie, e ce le facevano intronare dal Popolo; e nonostante, tutto questo parrà poco all'Accusa. Ma che dico io, parrà poco? Sembrerà al contrario, che sia nulla, anzi che sia prova di piena libertà, — se non superiore, almeno uguale a quella di cui nelle appartate stanze godevano i Giudici alloraquando bastava loro il cuore per dettare le pagine, che di me, della mia fama, e delle mie opere, fanno così acerbo governo!

«Noi rammentiamo con insistenza sempre più forte il debito che ha il Governo Provvisorio di rispondere con alacrità, con energia, ai supremi bisogni del Paese. La patria è in pericolo; questo è il grido che vogliamo risuoni continuamente alle orecchie dei governanti, questo sia il pensiero consigliatore d'ogni loro provvedimento. Gli avvenimenti incalzano, il tempo fugge rapidissimo; è d'uopo prevenire gli uni, economizzare, moltiplicare l'altro. Le rivoluzioni si compiono solo per virtù di ardimenti: osiamo, osiamo; affrettiamoci; l'avvenire è dei confidenti e degli audaci.

«Una potenza somma d'attività è nel Popolo, l'entusiasmo. Non lasciamo che dorma inoperoso nei cuori, risuscitiamolo, facciamo che alla prima sua ebbrezza sottentri il coraggio dei forti propositi... è solo dalle intime fonti dell'anima commossa, agitata, che si traggono le virtù che fanno le nazioni.

«Osate, osate, noi ripetiamo ai cittadini del Governo Provvisorio; siate quali il Popolo vi ha fatto, dittatori nell'ora del pericolo; abbiate la coscienza di questa forza ond'egli vi riveste e vi sorregge, non vi arrestate davanti alle temerità consacrate dalle estreme circostanze. Ogni titubanza, ogni indugio può tornare fatale, e la Patria ve ne chiederà un giorno strettissimo conto... Siate veramente governo di rivoluzione, organizzate a rivoluzione il Paese, non impedite con larve pericolose di legalità la vostra azione, bisognosa di prontezza e di vigore. Troppo furono finora funeste le lentezze ai poteri emanati dalle rivoluzioni; vi giovi, per Dio! l'esempio degli errori passati ad evitarne la prova.

«Il voto del Popolo, la forza irresistibile delle cose, il bisogno di concentrazione e di potenza, chiedono oggi imperiosamente l'Unione della Toscana colla Romagna. Lo chiede l'Assemblea Romana... Non esitate, non indugiate a risolvere; Romagna e Toscana non debbono da questo punto formare che uno Stato solo, nucleo della futura unità... I Toscani vogliono essere uniti in un solo Stato co' Romani... Dite dunque la solenne parola... È il Popolo che ve lo chiede; non temete d'usurpare sulla sua sovranità...

«Noi lo ripetiamo ancora una volta ai cittadini del Governo Provvisorio: osate, osate; la salute della Toscana sta tutta da queste parole: Unione con Roma e convocazione della Costituente. L'istinto popolare, nel suo squisito buon senso, ha già precorso il vostro giudizio, e domanda questa Unione. Voi avete udito le sue grida di gioia e il suo saluto a quella Repubblica, nel cui nome ei vuol combattere e morire; voi potete e dovete sanzionare quel saluto e quelle grida. In nome dell'Italia, non esitate. L'ardimento vi renderà gloriosi; il dubbio potrebbe perdere la patria.»[300]

E non è tutto ancora: nel 12 febbraio Popolo e Soldati invadono i cortili di Palazzo Vecchio e urlano: Repubblica! Per l'Accusa questa pure è prova esclusiva di coazione... Ma è di pietra, è di ferro, o di che cosa è mai cotesta Accusa? Veramente ella in durezza disgrada le sfingi di granito dello antico Egitto; non v'ha metallo, che possa rassomigliarsi a lei; io rimango sbalordito a tanta sovrumana costanza... Solo mi rassicuro alquanto pensando, che ella tale argomentava nel gennaio del 1851; posso io venirle senza tremore innanzi, e domandarle se nel febbraio 1849 ella avrebbe voluto, o potuto procedere come insegna nel gennaio del 1851? — No; ella non lo avrebbe potuto, nè voluto, perchè se le fosse bastato il cuore avrebbe pensato sopra tutto a salvare (in Dio confidando e nella sua coscienza) la Società che agonizzante le stava abbandonata fra le braccia.

«Alle ore tre pomeridiane, il Circolo accoglieva un numeroso drappello di militi d'ogni arma, che venivano ad affratellarsi. Poco appresso, dopo le calde accoglienze e gli applausi, il Circolo, con bandiere alla testa portate dai militi, moveva incontro ad altra schiera di militi, che attendeva da Santa Maria Maggiore; e tutti uniti al sublime grido di: Viva la Repubblica Italiana! e sempre ingrossando, si sono condotti fino nei cortili del Palazzo della Signoria, ad applaudire al Governo della nostra Repubblica. Poi sono andati con grande ilarità a cantare il De profundis all'aborrita dinastia, innanzi alla porta del Palazzo Pitti, fra le risa e gli applausi fino degli Anziani. Tre soldati, arrampicatisi ad una finestra, vi hanno collocato una bandierina rossa, fra le acclamazioni d'immenso Popolo. Quindi il corteggio ha salutato a Santo Spirito i Livornesi,[301] poi si è recato fuori di Porta San Frediano; e dal ponte di ferro e dalle Cascine è rientrato, per Porta al Prato, in mezzo alle faci, in città, ove percorrendo Borgo Ognissanti, Lung'Arno, Piazza del Popolo, Via Calzaioli e altre principali vie, si è, dopo tre ore di gioia repubblicana, sciolto tranquillamente.»[302]

Questi fatti, notati dai Giornali nel giorno 13 febbraio, accadevano il 12; per la quale cosa, irridendomi (e l'ho notato anche altrove) il Popolano intorno alla mia lettera inserita nel Monitore gridava:

«La Toscana, e il suo Governo Provvisorio, hanno sentito questa sera la voce del Popolo, fragorosa e terribile come il tuono, empiere l'aria del grido: Viva la Repubblica! — La Toscana, e il suo Governo Provvisorio, hanno veduto come il Popolo sia maturo per la libertà, e quanto andassero errati coloro che lo dicevano ligio troppo ancora alle tradizioni del principato (e fra questi eranvi ancora gli oracoli del Giornale officiale il Monitore ). — Toscana decida, e il Governo Provvisorio sanzioni tale decisione.»[303]

Vediamo adesso i fatti successi nel 13, e raccontati il 14. — Una Deputazione di Circoli fiorentini, ed un'altra di Popolo livornese, vengono tumultuariamente a impormi la Repubblica; io con le ragioni più efficaci che seppi mi schermiva, e li conforto ad aspettare. I Giornali subito mi pongono segno al feroce sospettare del Popolo commosso.

«Firenze, 13. — Una deputazione dei Circoli e del Popolo livornese, recatasi a Firenze, si presentò stamattina a Palazzo Vecchio, esponendo al Governo Provvisorio i desiderii di tutta la popolazione: venisse cioè proclamata la Repubblica, e tosto si unisse la Toscana a Roma, atterrandosi tutti i segnali di separazione fra le due Repubbliche. La Deputazione venne accolta dall'attuale Presidente del Governo, Guerrazzi, molto freddamente, e non potè ricavarne parola di promessa, essendo a suo dire da aspettarsi l'Assemblea, che viene convocata pel 15 marzo.»[304]

Il Circolo fiorentino manda Deputazioni al Governo, per essere ragguagliato intorno alle condizioni delle cose; intanto spedisce uomini armati di sua autorità contro Empoli.

«... Riferirono notizie che spinsero ad inviare deputazioni al Governo. Intanto fu reso pubblico, come una piccola spedizione del Circolo, composta di soli 20 uomini, guidati dal socio Spinazzi, avesse la prima e sola avuto l'ardire, frammezzo le voci minacciose che si spargevano, di spingersi verso Empoli.... La Deputazione ottenne dal Governo conferma delle cose già note, e migliori speranze pel dì seguente.»[305]

Inviando la seguente circolare a tutti i Circoli della Toscana, l' Alba apparecchia la rivoluzione repubblicana; il Popolano si leva con l' Alba, e la promuove caldamente.

«A voi che vi siete addossata una sì nobile missione nel regolare e manifestare i desiderii del Popolo da voi rappresentato, a voi spetta una generosa iniziativa in questi momenti, nei quali la patria nostra attende ansiosamente la salute invocata. A voi, giovani e forti creature del Popolo, sostenitori de' suoi dritti, ammaestratori de' suoi doveri, a voi il compiere al più presto l'opera di rigenerazione che incominciaste sì bene. Sollecitate lo invio delle Deputazioni vostre a Firenze. Tutte abbiano uno scopo solo, una voce sola: Unione immediata con Roma. — A questo patto sta il Governo Provvisorio in Toscana. Il Popolo appose questa condizione, la consacrarono nell'Assemblea i Rappresentanti di tutta Toscana con unanime voto; altro non grida, altro non domanda Firenze: Unione con Roma. Questa è la calda preghiera, la volontà irremovibile di quanti amano Italia e lei vogliono prima che Toscana e Romagna e Sardegna, nomi di un tempo. — Voi, o membri dei Circoli Toscani, questo dovete ripetere, con la energia di uomini maturi a libertà, al Governo Provvisorio che accettaste con noi. — Questo unicamente voi dovete ripetere. — E le invocate legalità, che non basterebbero a salvarci dalla possibile e probabile invasione dell'Austria, cadano davanti all'urgenza del pericolo, alla volontà del Popolo toscano, al fremito che irrompe dal cuore di quanti vogliono che Italia sia. — Roma ci ha chiamati con una suprema parola, con una parola di fede schietta, d'amore ineffabile. — Toscani! Come vorrete rispondere a Roma? Le direte voi: per renderti lo addio, per stringerci a te, noi aspettiamo il 15 marzo? Ed allora quale sarà il giorno che attenderete voi, o Toscani, per assistere alla Costituente nazionale? — Deh, correte, o Rappresentanti dei Circoli, correte in nome di Dio! e presto, a Firenze! — Noi vi attendiamo con ansia indicibile, con inenarrabile affetto; noi vi apriremo le braccia, noi vostri confratelli nel sostenere pubblicamente i diritti del Popolo. E vi accoglieremo col giubbilo, con la riconoscenza di chi vede rifiorire una cara vita e minacciata e soffrente.»[306]

E per ben tre volte questo Proclama mandavasi per tutta Toscana, e con tali comenti lo accompagnavano:

«Questo indirizzo noi ripetiamo anche quest'oggi, e lo ripeteremo sempre finchè ne sia mestieri. — Preghiamo i Circoli Toscani a fare noto all'Uffizio dell' Alba lo INVIO delle loro deputazioni, o di spedirci copia dei loro Indirizzi al Governo Provvisorio in proposito della Unione con Roma. Noi li pubblicheremo immediatamente, ed avremo uno incoraggiamento di più a non ismettere in quella perseveranza, che, se ci suscita le velleità dei pochi, ci frutta d'altronde la simpatia di ogni buono Italiano, e il soddisfacimento della nostra propria coscienza.»[307]

Così un Governo fuori del Governo avevano creato i Settarii, e tutti infiammati in quei loro smaniosi spiriti, per venire a capo dei concepiti disegni, non badavano con accuse di ogni maniera, ed insinuazioni di tradimento a mettermi in mala voce del Popolo, ed anche, poichè docile benchè nelle mani loro non mi trovarono, a farmi capitare sinistramente.

I Comitati di pubblica sicurezza eletti dal Governo, screditati:

«Creansi Comitati di pubblica sicurezza, ma si compongono di elementi eterogenei, impossibili; ove al buono fa contrasto insormontabile il tristo, l'inerte allo energico, al liberale repubblicano il codino-tricolore.»[308]

Accusano il Governo, e perchè? Perchè la decadenza della Casa di Lorena non dichiara, un sospettoso timore per la Repubblica diffonde; perchè il Granduca e la sua famiglia lasciò fuggirsi dalle mani, e mandò a Empoli un uomo egregio, di temperato consiglio, ad assettare le cose. La maggiore colpa è per Empoli per avere tumultuato, il restante per noi per non avere spento il tumulto nel sangue. Il Popolo deve reprimere da sè gli eccessi del Popolo malvagio (e questo mena diritto allo scannare per le piazze); ma al Governo corre obbligo di mostrarsi rivoluzionario rovinando innanzi a suon di cannonate e moschettate. A mente riposata, e in tempi tranquilli, coteste più che vane jattanze sarebbero festevoli smargiasserie, ma non era così quando servivano a gittare olio e zolfo sur un fuoco che minacciava divorarne tutti.

«Ma il democratico Ministero, ma il Provvisorio Governo, volendo contentar tutti, non contenteranno nessuno: volendo salvar tutto, non salveranno nulla.

«Non sono questi i tempi, nè sono i governi rivoluzionarii, i governi a Popolo, che permettere debbono alle fazioni politiche di avvalorarsi, di diffondersi col mezzo della impunità, e di far causa comune coi ladri e coi briganti. — Non è più la stagione di lasciare pazientemente perorare la causa della Dinastia Sabauda ad un Massimo D'Azeglio a Lucca, ad altri in altri luoghi.

«Non vi basta, o uomini del Governo Provvisorio, non vi basta non volere proclamata la decadenza della Dinastia di Lorena, non vi basta lo insinuare un sospettoso timore per la parola Repubblica, non vi basta lo esservi lasciato sfuggire di mano l'ostaggio prezioso del Reale Arciduca e della sua famiglia che voleva oggi prestar mano, non ispegnendola in tempo, ad accendere la reazione?

«Quando a voi si presentò una Deputazione empolese per invocare l'assistenza vostra contro l'impeto di una turba di masnadieri, che cosa faceste voi?... Inviaste uno dei più tiepidi fra gli amici vostri, il Manganaro, ottimo conciliatore di cose conciliabili, ma inetto a far marciare ad un passo disordine e tranquillità, moderazione di gastigo ed esorbitanza di colpa.

«E il tumulto divenne aperta rivolta; la masnada, esercito; il danno che lieve saria stato riparare, divenne danno difficilmente riparabile.

«A Empoli la maggior copia della colpa; — a voi il restante; giacchè se il vero Popolo deve sapere, occorrendo, da per sè stesso reprimere gli eccessi del Popolo malvagio, un Governo che vuol nome di democratico non deve aborrire da quello di rivoluzionario; e le rivoluzioni, per Dio, non si fanno a furia di sermoncini in piazza, ma coi fucili e coi cannoni[309]

Si mandano Deputazioni in Fortezza per giustificare i soldati che non erano comparsi allo appello; e ciò per onore della disciplina! E agli ufficiali trasognati, per cotesti singolari onori renduti alla soldatesca disciplina, invece di cacciare la gente contumace in prigione, toccava a farle di berretta e a dirle: brava! Nuovo argomento della forza che a quei giorni esercitavano i Circoli, e della necessità di obbedirli. Nel Circolo si parla della mia opposizione allo inalzamento dell'Albero; coteste brevi parole somigliano la nuvola nera pregna del fulmine: «Nella pubblica discussione di ieri sera (13) fu risoluto di spedire, per espresso desiderio dei militi e per onore della disciplina, una Deputazione ai comandanti delle due Fortezze di Firenze, perchè fossero giustificati tutti quei militi i quali non poterono rispondere all'appello serale per far parte delle pubbliche dimostrazioni in favore della libertà e della unità italiana, che occuparono il Popolo fiorentino nella giornata.

«Dipoi, per la tanta affluenza di Popolo, convenne trasferire il Circolo negli ampii corridori del Convento di Santa Trinita. — Il soggetto che più trattenne la discussione fu l'Unione da farsi con Roma. Su di che non poteva esservi pensiero discorde. Solo parlossi di varii modi, ed ogni conclusione fu differita.

« Fu ragionato ancora della erezione di un Albero della Libertà che nella sera era stato portato in Piazza del Popolo per piantarvelo. Fu udito come il Guerrazzi avesse dissuaso il Popolo[310]

Il Circolo tratta comporre una schiera repubblicana di 1,000 uomini, seguita da un tribunale, per iscorrere il Paese e giudicare i colpevoli; se ne rimane, per ora, a cagione dei tumulti empolesi repressi. Voi da ciò lo vedete; il Circolo si affatica a procedere come Governo separato: sola via a trattenerlo, e sventare le insidie per farmi segno ai sospetti e alle ire popolari, sta nel preoccupargli il passo su quanto egli minaccia imprendere fra mezzo agli orrori rivoluzionarii. «Visti i presenti casi della Patria, il Circolo si occupò della formazione intanto di una schiera di 1000 uomini eletti, di puro sangue repubblicano, da percorrere in tutti i sensi il Paese ovunque si manifestassero accidentalmente macchinazioni tedesche; schiera seguita da un tribunale per giudicare i colpevoli. Ma l'ultimazione dei ladronecci e degli scandali d'Empoli ne fece respingere, almeno per ora, la proposta.»[311]

Comecchè dei fatti che seguono occorra traccia nei Giornali posteriori al 14 febbraio, io gli riporto perchè appartengono ad epoca anteriore. Il Circolo fiorentino, avvisando i modi di cacciare il Granduca da Porto Santo Stefano, delibera: «Quindi fu trattato dei mezzi di scacciare il Despota dall'ultimo suo nido di Santo Stefano, e di avviare spedizioni popolari da tutte le città del presente Stato provvisorio, a fare una crociata verso quel punto, e percorrere il Paese affine d'infiammarlo e muoverlo tutto per la santa causa; e fu proposto che Firenze desse cominciamento a queste patrie spedizioni coll'inviare intanto 1000 uomini a Siena, italiani e repubblicani[312]

I Lombardi, uomini intendenti assai delle faccende politiche, a quanto il Governo in quei giorni operava costretto, non si acquietavano punto; non pareva loro che ei desse sicurezza di compimento finale; nulla per essi era fatto, se con la decadenza del Principe e la proclamata Repubblica non si varcava il Rubicone; appunto come adesso per l'Accusa è nulla non averlo passato, ed avere impedito che altri lo passasse! Ma la Emigrazione Lombarda, è da credersi che dei suoi interessi intendesse meglio nel febbraio del 1849 che non l'Accusa nel gennaio del 1851; quindi, mentre questa reputa lo accaduto fra l' 8 e il 14 febbraio completo elemento di colpa, quella rampogna non lo contare niente, e dai sei giorni, cioè dal 9 febbraio in poi, cercare invano negli atti del Governo eseguito quanto essa era venuta ordinando. Finora dunque stetti in mano a Faziosi? — E ardite giudicare voi? Guardi tutto il Paese, e consideri se sono io, o se sono i miei Giudici quelli che devono essere giudicati.

«Questa è la condotta, questa è la missione che vi è tracciata, o cittadini del Governo Provvisorio? Adempitela, adempitela, per Dio! prima che i giorni fuggano, e con essi l'occasione e l'entusiasmo e la forza. Non siam noi sorti nel nome della Italiana Costituente, nel nome del dogma della sovranità nazionale? L'agitazione lunga non fu desiderio di unità, sforzo a ravvicinarsi delle diverse membra della Italia divisa?

«Ebbene, che più tardare si doveva ad attuare questo principio di legalità incontestata, a convocare i Rappresentanti della Toscana alla nazionale Assemblea di Roma, e dichiararci solidarii e indivisibili della nuova vita proclamata dal Campidoglio? Perchè se tutte le fatiche della nostra Rivoluzione han per fine ultimo la compenetrazione ed unificazione assoluta di tutto il Paese che Appennin parte e l'Alpe e il mare circonda, perchè forti di questa missione salvatrice e italiana che vi fu confidata, non realizzare, non tradurre voi medesimi in fatto questo voto infallibile e universale? Ora che la legge d'oggi ha proclamato il principio della unità italiana, consacrandolo nella convocazione dei Deputati alla Costituente, perchè non lo iniziate e preparate nel fatto, proclamando l' Unione con Roma?

«La legittimità del mandato da accordarsi ai rappresentanti italiani non avea bisogno della giustificazione di nessun atto precedente di provinciale pretesa sovranità. I Governi delle diverse provincie non hanno altro incarico che, proclamato il principio, assicurarne l'esercizio nella libertà e verità più intera: i Governi non possono che pubblicare una legge elettorale, la quale emana dal potere esecutivo ad essi provvisoriamente delegato. Imperocchè non fa d'uopo di nessuna legge per decretare il diritto che ha l'Italia di essere sovrana di sè stessa.

«Voi dunque siete nella più stretta legalità, o cittadini del Governo Provvisorio, promulgando voi stessi la legge che chiami il Popolo a nominare i suoi mandatarii alla Costituente Italiana. E voi dovevate farlo, noi ne abbiamo ferma convinzione, voi lo dovevate sotto pena di apparire fiacchi e derisi in faccia a tutti coloro che vi hanno sfidato all'attuazione della vostra dottrina, in faccia a tutti quelli che, credenti in essa, vi hanno promesso il concorso della propria opera e delle proprie simpatie. Voi lo dovevate, perchè tra Leopoldo e l'Italia non è possibile l'alternativa, e la decisione s'impone invincibile da sè stessa.

«Il Popolo, nel suo desiderio, si spinge innanzi alle lente e tranquille deliberazioni; esso attesta altamente le sue simpatie, vuol rompere le barriere municipali che lo dividono, e domanda con grido irresistibile universale: Unione con Roma. L'entusiasmo cresce e si propaga come generosa manifestazione del nuovo spirito italiano; questo voto incarnato nella convinzione di tutti, diventa istintivo, urgente bisogno. L' Unione con Roma è già in tutti i cuori, è già un fatto compiuto, una rivoluzione vittoriosa; al Governo Provvisorio di Toscana forse non resta che consacrare questo fatto, e, accettandolo, farsi interprete del pensiero comune. Ma al di sopra di questo movimento inconsapevole delle masse vi ha l'intelligente e sovrana Rappresentanza Nazionale. L' Unione con Roma, l'obbietto di questa commozione viva ed infiammata, non può essere che espressione temporanea del voto dei Popoli toscani, che essi sommettono docili e reverenti alla sentenza della Italiana Assemblea.

«Sei giorni sono trascorsi dacchè Leopoldo è fuggito, la Toscana libera, il Governo investito della suprema dittatura.... L'entusiasmo, cagion prima ed unica dei miracoli, si diffondeva, affratellando gli animi, preparando la forza.... sei giorni sono trascorsi, e noi cercavamo indarno negli atti del Governo quella coscienza delle grandi misure, quell'impeto d'azione che dalla prima ora della sua esistenza gli avevamo inculcato.»[313]

Le mura di Firenze, nei giorni 14 e 15 febbraio, andavano coperte di questo avviso, che i Circoli bolognesi mandavano ai Toscani:

«Fratelli Toscani!

«Il senno, l'ordine e l'energia che nel momento il più difficile della vita de' popoli voi dimostraste, ci hanno compresi di tanta maraviglia ed in uno di tanto entusiasmo, che non potemmo frenare più a lungo l'impeto dei nostri affetti, e palesarvi quanta sia la stima e quanto l'amore che a voi possentemente ci legano.

«Fratelli! Se Leopoldo di Lorena vi abbandonava vilmente, il Dio, proteggitore de' Popoli, vi rimaneva e rimane a tutela; e, senza dubbio, un Nume misericordioso è coll'Italia nostra, perocchè è piuttosto unico che singolare l'esempio di genti, a cui tolto ogni freno di governo, siensi nullameno comportate con così alta sapienza da esterrefare perfino i più avversi e increduli al loro valore, al loro progresso.

«Roma e Firenze subirono le medesime crisi; Roma e Firenze le attraversarono del pari impavide; Roma e Firenze si stringono fraternamente la mano associandosi ad un medesimo destino: adunque onore a Roma, onore a Firenze!

«Fratelli! concordia e perseveranza, speme nel futuro, attività e non avventatezza, e trionferemo de' nostri nemici.

«Prepariamoci alla pugna; e il primo nostro pensiero sia il riscatto delle misere terre lombardo-venete che piovono sangue, e della infelice Napoli che risuona lugubre di gemiti e di catene.

«Già le Aquile latine dispiegano i loro vanni sul Campidoglio; già la spada di Ferruccio ruota sul capo dei tiranni: il Dio delle vendette sarà colla Italia nel giorno della lotta finale, ed Italia si erigerà alla perfine in Nazione.

«La Costituente Italiana giudichi del nostro futuro. Viva la Costituente Italiana!»[314]

Eccitamento a muovere contro il Granduca: «Guardatevi un po' in seno. Il male più grave, quello che per ora fa d'uopo estirpare, per ora sta lì, e non altrove. Lì sta Leopoldo d'Austria, e finchè esso sta in Toscana non vi può stare ordine, nè regime, nè libertà stabile e vera.

«Che mi parlate voi d'austriaco intervento ai confini, quando l'intervento austriaco è sempre in casa?...»[315]

Nella citazione che segue leggiamo cose che male ci basterebbe l'animo compendiare; solo io prego chi legge ad avvertire la favella ebbra di superbia e di minaccia, foriera della rivoluzione, che già si spera trionfante, e la urgenza dei provvedimenti proposti da mandarsi ad esecuzione. Il Popolo in armi aveva ad ordinare, il Governo ad obbedire. Ecco, il dado è tratto; adesso staremo a vedere se meco si salva la civiltà, o se, me sopraffatto, la Rivoluzione allaga con la sua barbarie. — O voi, uomini di ordine, nudriti sempre dallo Stato, promossi alle cariche, insigniti di onori, voi osate domandarmi perchè io non fuggiva? Rispondete piuttosto a vostra posta voi: Perchè non vi stringevate animosi intorno a me per salvare la Patria e per impedire la decadenza del Principe? Perchè, dite, me lasciaste solo a lottare contro tanto sforzo rivoluzionario? Amici del Principe voi? Ah! voi lo abbandonaste allora; e voi adesso, con persecuzione che egli non vi comanda, che invano sperate gli possa essere accetta, senza verità, senza convinzione, senza coscienza, non dettando carte, ma tendendo agguati, con gelato furore, con l'astio della ingratitudine, con passioni malnate, che enumerare è ribrezzo, avventandovi contro cui dovreste rispettare, voi, — se dipendesse da voi, — lo rendereste odioso e crudele.... Ah! la pazienza ha un confine, e perdonate, o miei compatriotti, questo sfogo a chi si sente da ventotto mesi avvelenare il sangue più puro del suo cuore dai morsi di schifosi scorpioni.

«Salviamo la Patria, cittadini del Governo Provvisorio!... E per salvarla incominciamo dal proclamare in diritto, dal consumare in fatto la decadenza della Famiglia di Lorena dal trono di Toscana. Questa decadenza, questo diritto, questo fatto, se ne persuadano i Toscani, non è ancora consumato.

«Cittadini del Governo Provvisorio, grande errore voi commetteste nel trascurare di proclamare il regime repubblicano e la Unione immediata con Roma il giorno stesso in che saliste al Potere. Cotesta vostra diffidenza nel senno e nella virtù del Popolo vi ha ora reso impotenti a salvarlo, giacchè ora a lui fa d'uopo salvarsi da sè stesso, proclamando ciò che voi, per ritegno o per paura, trascuraste di proclamare.

« E il Popolo si salverà, il Popolo salverà la Patria!

«Senza attendere la convocazione di troppo remota e lontana della toscana Assemblea Costituente, i rappresentanti di tutti i Circoli toscani, quelli dei principali Municipii, quelli della Guardia Cittadina e di qualunque altro corpo morale e politico toscano, accorreranno solleciti in Firenze allo invito che loro sarà mosso dal Circolo del Popolo. Quivi essi faranno di gran cuore ciò che voi non faceste, e il Circolo del Popolo avrà la gloria di avere, per la seconda volta, salvato la Patria pericolante....

«Il Popolo provveda alla salute della Patria, scacciando il tiranno.

«Il Governo provveda per parte sua, a riparare in parte al grave fallo commesso, richiamando nella Capitale sotto severe comminatorie tutti li aristocratici che se ne allontanarono allo allontanarsene di Leopoldo: — e ove essi ricusino, a gravi imposte sieno condannati, le quali, sparse nel Popolo bisognoso, lo riconfortino e lo aiutino a durare nella quiete e nell'ordine necessario in sì gravi momenti. Sia dal Popolo cacciata dall'ultimo suo nido la belva boema, e così appaia manifesta la volontà popolare anche in questo: e tutti i pretesti vengano rimossi ad una restaurazione principesca, che sarebbe distruzione di ogni conquista della democrazia.

« Cacciata di Leopoldo d'Austria, per opera del Popolo.

«Unione immediata con Roma, e promulgazione della Repubblica per opera dei suoi rappresentanti.

«Questi sono i provvedimenti, cui è indispensabile il compiere entro il giro di poche ore.

«Governo, all'opera! Popolo, alle armi!»[316]

Io ripeto, e lo ripeterò dieci volte e cento, che sono privo di Documenti officiali: pare a me, e parrà a tutti coloro che hanno senso di giustizia, atrocissima cosa essere, che mi si domandi conto dell'operato e mi si neghi la via di mostrare le ragioni dell'operato; e tanto più empirà il rifiuto di ribrezzo, quante volte si pensi che l'Accusa con mille occhi e con mille mani ha svolto, letto e riletto negli Archivii del Governo, per ricavarne argomento al suo assunto; e a me, ridotto ai miei soli occhi infermi, si ricusi desumerne quel tanto che valga a giustificarmi: e poi con serena fronte ardiscono dirmi: — difenditi! — E confidano, che altri creda la difesa concessa liberissima!

Non pertanto ridotto in tali angustie, ecco io ho spigolato, in campo che non è mio, prove che bastano per ismentire l'Accusa. Signore! ma perchè muovermi addosso con tante arti per farmi comparire colpevole? O come potè affermare l'Accusa, che non occorrono prove di coartazione nei primi giorni successivi all'infausto otto febbraio? Come sostenere, che all'opposto si trovano prove che ogni violenza escludono? Come la mano le resse scrivere, che alla decadenza del Principe, e alla proclamazione della Repubblica io non mi opposi, tranne che dopo la notizia della disfatta di Novara? Perchè l'Accusa dei testimoni cita quelli, che reputa dannosi, e scarta i favorevoli ricercati dalla Procedura? O a che mira l'Accusa? A qual mai fine tende? Per conto di cui ella lavora? Pel Principe no... dunque per cui? — Io tremo investigare... io raccapriccio indovinare per conto di chi lavora l'Accusa. — Certo questo pervertimento nello ufficio del Custode della Legge svela una infermità profonda nel corpo sociale, conciossiachè i Magistrati oggimai nulla più abbiano ad invidiare ai Sacerdoti di Teute.

Importa poi intorno alle allegazioni di questa parte dell'Apologia avvertire, che alcune narrano fatti i quali non si possono revocare in dubbio, corrette in qua e in là di qualche inesattezza; altre parlano di dottrine, d'impulsi, e di provvidenze da prendersi. In quanto esse emanano dalla Costituente o dai Circoli, facilmente s'intende che equivalevano ad ordini da eseguirsi senza fiatare, però che venissero appoggiate con le armi da gente accesissima e disposta al mettere a sbaraglio la vita, pure di riconquistare la patria, e le paterne case, e tutto quanto all'uomo è più dolce quaggiù: in quanto si partono poi da altri Giornali, si consideri che se non coartavano direttamente, tanto più comparivano terribili suscitando sospetti, infiammando ire, e spingendo la plebe cieca a disfarsi con qualunque mezzi, e i violenti accettatissimi, del Governo costituito. Un po' più tardi mostrerò a prova come io fossi in grido di traditore, posto segno alla rabbia del Popolo.

§ 3. Spedizione al Porto Santo Stefano.

Delle cose fin qui discorse sommerò unicamente quelle che allo scopo di questo paragrafo si riferiscono. Nei giorni antecedenti al quattordici febbraio fu chiarito come due cose si facessero: 1 a eccitamenti urgentissimi al Popolo e al Governo; 2 a coazione a quest'ultimo, affinchè intorno al dimorare del Principe nel Porto Santo Stefano senza indugio alcuno provvedesse. Accusavasi il Governo ora di non avere seguíto il Granduca a Siena; ora di esserselo lasciato fuggire dalle mani; per ultimo, il Governo nemico espresso del Popolo predicavano, e fu qualificato perfino uguale a quelli con cui allora tenevamo guerra: nemici in Toscana, non fuori, dicevano, dovevansi cercare, finchè ci fermava stanza il Principe. Ma quello che mi pareva troppo più grave era lo eccitamento quotidiano, o piuttosto continuo, impresso al Popolo per ispingersi in massa contro Porto Santo Stefano; erano gli apparecchi dei Circoli a chiara prova raccolti non pure fuori del Governo, ma contro il Governo. Ben poco intendimento ci vuole a conoscere la opera indefessa dei Circoli per usurpare l'autorità e adoperarla in concetti diversi ai governativi, anzi in danno manifesto di quelli.

Proseguendo a trattare il doloroso tema, esporrò altre prove speciali in proposito, che sono venuto estraendo dai Documenti stessi dell'Accusa.... prugnole acerbe e scarse date dalle spine della siepe! — E qui si consideri la mia miseria, e si giudichi se è cosa non dico consentanea a giustizia, ma ai sentimenti primi di umanità, che dalla officina del nemico io abbia a prendere quelle sole armi ch'ella crede potermi concedere della difesa. — Le difese si compongono di fatti; ma se mi togliete il mezzo di poterli rintracciare, ordinare e accompagnare dei necessarii commenti, si rende manifesto che la difesa è negata. Le cose sono come elle sono, non quali si vorrebbero fare apparire, quantunque verso me neanche le apparenze si abbia voluto adoperare: avvilire e opprimere fu il truce programma di chi mi perseguita; miserabili furono i conati nell'uno intento e nell'altro; ma il secondo sta in loro potere, il primo no. Intanto rimarrà, e me ne dolgo, come uno sfregio in faccia alla civiltà toscana la memoria dello avermi posto senza pudore a canto di assassini e di ladri.... Ma io ho bisogno di mantenermi pacato; quindi, tronca a mezzo ogni amara considerazione, riprendo lo interrotto lavoro.

Nel Corriere Livornese del 12 febbraio trovo un documento in data dell'8-9-10 febbraio, dal quale si ricava che il Circolo Grossetano «adunatosi per urgenza, inviò una Commissione all'Alberese per invitare il Granduca a ridursi in Grosseto, nel caso si fosse allontanato da Siena per timore di Partiti, dove avrebbe goduto perfetta tranquillità, e consigliarlo al tempo stesso a tornare alla Capitale. La Commissione giunse all'Alberese dopo la partenza di S. A. per Santo Stefano, e allora colà si diresse. La Commissione di ritorno a Grosseto dichiara non avere potuto rilevare la intenzione del Principe di restare o di partire, e non sapere se a quella ora si fosse o no imbarcato. Il Circolo avvertito che si trattava di fuga, manda sollecitamente al Comitato di pubblica sicurezza di Grosseto due petizioni, richiedendo con la prima una continua vigilanza della persona del Principe, onde sapere se partiva, per dove, e con quali intenzioni; — con la seconda venisse stabilita una continua corrispondenza col Governo centrale di Firenze. — Il Circolo popolare avendo fondati sospetti che nei reali Presidii si tenti uno sbarco per una reazione, e verificato che tutto il littorale, non che i Forti di Porto Ercole, Santo Stefano e Palmanuova, sieno sprovvisti della guarnigione necessaria, — fu stabilito dirigersi al Comitato di pubblica sicurezza, affinchè di concerto con le Autorità governative stabilisca il pronto armamento del littorale, e dei Forti dei reali Presidii

Nel giorno dieci febbraio troppo più fiera notizia mi perviene da Livorno: i Deputati Grossetani essersi collegati con quei di Orbetello, Porto Ercole, Magliano, Talamone, e di altri luoghi, e tutti insieme avere deliberato, il Principe non potesse dovesse partire, al Vapore di prendere il largo s'intimasse, la reale famiglia a Monte Filippo si sostenesse.[317]

Alle ore 3 del giorno 11 febbraio, da Grosseto scrivono a Livorno: «L'attitudine di Grosseto è imponente per reprimere qualunque reazione da chiunque e da qualunque parte si manifestasse. Il voto dei patriotti, che tanti ne albergano qui, quanti in una grande città, è la indipendenza d'Italia. Il già Principe trovasi a Santo Stefano; tenta il vile di fare suscitare la guerra civile: è impossibile. La Maremma non sarà la Vandea, nè l'antica Valdichiana. La Maremma, e specialmente Grosseto, darà esempio luminosissimo di amore per la Italia: lo vedrete. Si attendono truppe per terra e per mare all'oggetto di snidare quel covo di uccelli rapaci dal Porto Santo Stefano.»[318]

E quattro ore prima, dallo stesso Porto Santo Stefano, mandavano: «Questo codardo Principe ex-Granduca di Toscana ha impedito al Pretore di pubblicare i Proclami del Governo Provvisorio, ed ha minacciato il paese con dire, che ha a sua disposizione cento pezzi di cannone. Egli tenta di far nascere la reazione, ma non ci riuscirà, per Dio! Questo è il tempo di fargli conoscere qual destino serbi la Italia ai Principi traditori come lui.... Noi confidiamo nel soccorso dei nostri fratelli di Grosseto, e nel Governo Provvisorio[319]

Intorno alle disposizioni delle genti maremmane, possiamo ricavarne conoscenza dalla lettera pubblicata dall'Accusa a pagine 833: « Gli animi sono ardenti, e vogliono finirla una volta per sempre con un ex-Principe traditore[320] e dall'altra pubblicata a cura dell'Accusa medesima a pagine 835 del volume citato: « Presto presto la Maremma si leverà come un solo uomo contro chi ha vilmente tradito la Italia

I Giornali andavano propagando: «Leopoldo d'Austria non ebbe vergogna di dire alla Deputazione del Circolo popolare di Grosseto — che Egli in questi ultimi tempi aveva ricevuto molti dispiaceri dai Grossetani. Quando la Commissione in adunanza solenne riferiva tali parole, il Popolo fremeva d'indignazione, e decretava fino d'allora che lo ex-Granduca era uno dei membri della Camarilla di Gaeta.»[321]

Dal Porto Santo Stefano, asilo periglioso del Granduca, ai Circoli corrispondenti scrivevano: «Sarebbe necessario, che il Governo adottasse pronta ed energica risoluzione, tentando un colpo ardito in quel nido di reali vipere, onde cacciarle lungi dalle nostre terre.»[322]

E perchè alla richiesta tenesse dietro lo effetto, muovevansi da Grosseto Deputazioni a Firenze, le quali ingrossate da quanti Faziosi stanziavano qui, armate di prepotenza e di audacia in virtù degli erudimenti del Circolo fiorentino, venivano a costringermi con ineluttabile pressura. Chi sia, che revochi al pensiero quale e quanta fosse la veemenza dei partigiani a cotesti giorni, e la Toscana fin dentro le viscere commossa da speranza, da terrore, e da furore di mettere le mani nel sangue, non reputerà esagerate le tinte colle quali ce li dipinge il Decreto del 10 giugno 1850.

Narrava taluno di Grosseto, il 16 febbraio, come: «La deputazione inviata al Governo Provvisorio...... fosse tornata con le più liete assicurazioni per parte del Governo, che la Maremma sarebbe coadiuvata nei suoi generosi sforzi di patriottismo con tutti i mezzi. — Molti egregi Maremmani si uniranno al D'Apice, e lo seguiranno nella sua importante missione.»[323] Ed altra testimonianza di queste Deputazioni ce la porge il Corriere Livornese del 23 febbraio: «Il Circolo popolare (di Grosseto) ha tenuto la sua seduta straordinaria per udire la relazione dei Deputati cittadini.... di ritorno dall'Assemblea tenuta dal Circolo Popolare di Firenze il 18!....»

Già fu chiarito a prova, i Circoli fatti omai governo distinto, e aspirando a diventare il solo, corrispondere inquieti e sospettosi fra loro; non pertanto occorre traccia nei Giornali del tempo come in questa occasione più operosi che mai si restringessero a operare.

Il Circolo di Orbetello, l'altro di Grosseto, corrispondono non pure col Circolo centrale di Firenze, ma con quello ancora di Livorno.

A comprendere la tremenda attività del Partito, che urgeva stringentissimo a prendere immediati provvedimenti, importa riferire parte della corrispondenza dei Circoli. Nessun Governo mai si auguri trovarsi tanto bene servito come i Circoli erano: io poi sovente all'oscuro di tutto; sicchè venendo a me i più impronti faccendieri di quello, smaniosi per notizie più fresche, e trovatomi ignaro perfino di quelle ch'essi sapevano, trascorrevano in rampogne acerbe di colpevole negligenza, e di peggio.

Da Santo Stefano, nel giorno 8 febbraio, all' Alba e agli altri Giornali mandano: a ore 2 p. m., l'arrivo del Granduca con parte della sua famiglia, e dei signori Sproni e Conticelli, su di una barca peschereccia partita da Talamone a mezzogiorno.

A ore 4 e ½, arrivo della Granduchessa col resto della famiglia. Albergo in casa Sordini, magazziniere del sale e tabacco. Sospetti di fuga.

Ore 8 e 9 p. m., arrivo di due staffette con dispacci.

9 febbraio, 9 ore p. m., arrivo della fregata inglese.

Da altra corrispondenza pervennero ai Circoli i minimi particolari, come: L'aspirante inglese posto a guardia del Granduca; la tristezza dei membri componenti la R. Famiglia; il cibarsi di S. A. di alcune gallette navigando da Talamone; l'arrivo di carrozze, equipaggi, segretarii e servi.

13 febbraio 1849. Il Granduca è sempre in Santo Stefano. Sparge danaro. Grossetani hanno rotto la strada che conduce a Santo Stefano. Le popolazioni maremmane tutte in armi, avverse al Granduca.

15 febbraio 1849, ore 12 m. Partenza del Ministro inglese. — Il Virgilio va a Ponente con due compagni di Sir Carlo Hamilton.

Ore 3 p. m. Istruttore dei Principini s'imbarca per l' isola del Giglio o per Gaeta, come sembra, per fissare un palazzo di dimora.

Ore 4 p. m. Visita delle LL. AA. al Can Mastino; voce che sieno partite, ma tornano a terra; pure si accerta, che poco più si trattengano.

16 febbraio, ore 7 a. m. Nella notte è arrivato dall'Alberese un Bestiaio con dispaccio pel Granduca.

Ore 9 a. m. Arrivo dell'Agente dall'Alberese con venti starne e un capriolo.

Ore 2 p. m. Fregata mette segnali.

Ore 4 p. m. Il Granduca va a bordo della Fregata Teti in compagnia del Comandante.

Ore 5 p. m. Arrivo di un espresso a spron battuto con dispacci pel Principe.

17 febbraio, ore 6 ½ a. m. Leopoldo è sempre in Santo Stefano.

Ore 7 a. m. Arrivo del Porcospino.

Ore 6 p. m. Sembra che il Granduca voglia partire. Imbarca sul Can Mastino bauli, valigie ec.

Ore 10 p. m. Seguita lo imbarco.

18 febbraio, ore 12 ½ di mattina. Arrivano i Ministri di Francia e Spagna. Sono presenti quelli di Piemonte, Roma, Svezia, Prussia: si attende il Russo. — Stanno ancorati in porto Teti, Porcospino, Can Mastino. Sordini e Lambardi al fianco del Granduca. — Prete Baldacconi mandato a Siena per motivo segreto. Dama Palagi sviene alla lettura di certa lettera. Frequente convocare del Corpo Diplomatico. Imbarco e disbarco di arnesi. Incertezza di atti. Paese tranquillo.

Da altra corrispondenza:

Porto Santo Stefano, 14 febbraio. Porco-Spino parte per Napoli col carico dei danari l'11; torna il 12 col Can Mastino.

Staffette in questo giorno non sono arrivate.

Ore 6 p. m. Sul Virgilio arriva il Ministro Sardo. Servitore supposto del Ministro Inglese, è napoletano. Bellerofonte dicesi navigare per questi paraggi.

15 febbraio, ore 7 a. m. La notte senza staffette.

Altrove si troverà più completa e continua questa corrispondenza, dalla quale risulta quanto grandi fossero il sospetto della Fazione, ed anche la paura generatrice di partiti disperati; e quindi la vigilanza mantenuta su tutti e su tutto, alla quale riusciva impossibile che potessi sottrarmi io.

Ciò posto, ricerchiamo prima quali potevano essere, e quali di fatti erano le mie apprensioni, e poi esamineremo il contegno tenuto.

Primieramente, io opinava che S. A. avesse in animo di partire aspettando il benefizio del tempo, il quale, come dimostrerò a suo luogo, doveva riuscirgli favorevole, e somministrava l'unica via per conseguire lo intento in quella guisa ch'egli pure desiderava; mi confortavano a credere così le informazioni ricevute, di cui trovasi testimonianza nel Dispaccio diretto da lord Hamilton a lord Palmerston in data del 7 febbraio 1849: «Il Granduca.... mi chiede, che io voglia ordinare ad uno dei Vapori di S. M. di essere nel Porto di Santo Stefano domani sera, per ricevere esso e la sua famiglia sul bordo.... Non conosco se la intenzione del Granduca sia andare alla Elba, o no.» — (Collezione di Documenti citata). — Il Piroscafo tardò un giorno; invece della sera dell'8 arrivò in quella del 9. — Opinione universale fu che l'A. S. in Inghilterra o a Gaeta riparasse. Lo imbarco e lo sbarco delle masserizie dimostra l'animo perplesso a stare o a partire. Il Porto Santo Stefano poi non poteva essere lungamente stanza pel Principe e la sua R. Famiglia, atteso i disagi del luogo; i cariaggi, mancando locali capaci a ricettarli, stettero al sereno; nè casa Sordini era atta a tanti ospiti.

Nella notte dell' 8 febbraio pervennero al Principe due staffette, in virtù delle quali io pensai che egli fosse consigliato a restare, nel presagio che la Toscana commossa con universale dimostrazione, Governo Provvisorio e Costituente rovesciando, lo richiamasse al trono.

In quanto ai disegni della Fazione, non vi era dubbio da accogliere; ad uno di questi due scopi ella tendeva con tutte le forze, o cacciare il Principe, o impadronirsene. L'animo mio ondeggiava combattuto da pensieri angosciosi. — Nonostante io esitava, e vinto dalla gravità dei casi rimanevami inerte. Ma quando da un lato i Circoli, le Deputazioni e il Popolo frementi d'ira, vennero ad accusarmi dicendo: «Che avete voi fatto da sei giorni a questa parte? Nulla. Voi ve la intendete co' nostri nemici; voi la rovina del Paese preparate e la vostra;» e dall'altro udivo: «Il Popolo farà da sè, il Governo è ormai impotente a salvarlo: egli nulla vuole conoscere, nulla sapere: si manderanno frattanto mille uomini armati a Siena; il Popolo sorgerà come un uomo solo: presto la Maremma sarà tutta in armi; gli animi ribollono ardenti e vogliono finirla....» con le altre più cose, che prego i lettori di rammentare, e dispensarmi dal travaglio di riferire da capo; coartato allora in guisa, che nessuno io penso abbia patito violenza pari alla mia, nel curvarmi sotto il giogo provvedo ai fieri eventi che presagivo probabili; e tale fu il mio consiglio: dissuadere i Popoli Maremmani da muoversi senza ordine del Governo, e indurli a sottoporsi al comando del Generale D'Apice; nel mentre che la imposta leva in massa sembro assentire, prescrivere che si adunasse gente eletta, usa alla disciplina, e sempre al Generale D'Apice nei suoi moti si sottomettesse; raccolta così una colonna di milizie ordinate, contenere le Popolazioni nei moti impetuosi, e impedire che la Fazione senza o contra il Governo si agitasse; intanto fare comprendere a S. A. che lasciasse tempo al tempo, e in altra parte attendesse quello che pure stava in cima dei suoi pensieri, ritornare senza spargimento di sangue a reggere mite popoli miti; in qualunque caso tenere apparecchiata una forza per tutelare la persona del Principe, e la sua famiglia, dal minacciato attentato d'impadronirsi di loro. Rammentisi che le Deputazioni maremmane non intendevano già coadiuvare, bensì essere coadiuvate; la quale cosa importa, che i Maremmani volevano formare la parte principale della impresa; rammentisi la strada grossetana tronca, e l'accusa di essermi lasciato sfuggire il Granduca dalle mani, e la deliberazione presa di ridurlo a Monte Filippo: rammentisi eziandio le popolazioni in arme avverse al Granduca, e la notizia che si leverebbero in breve come un uomo solo, e l'ardore di cui si mostravano prese, e il proponimento di finirla una volta per sempre con lui... E ritenuto tutto questo, ed altro ancora che non ricordo, domando s'egli era bene lasciare che cotesto assembramento di uomini esaltati si operasse? — I miei Giudici dunque non avrebbero pensato ad alcuna provvidenza al fine d'impedirne o reggerne i moti? Hanno mai avvertito i miei Giudici alle sventure, che dovevano temersi possibili dal mescersi di tante generazioni di uomini senza freno, e senza guida? — Balenò mai loro alla mente il fiero caso, ch'esse giungessero a impedire la partenza del Principe.... e quello, che è anche a imaginarsi più orribile, che lo sostenessero?

Accusa, Giudici, — che fin qui non mi avete giudicato, ma calunniato, — non parlo a voi. Voi irridete le mie parole, e a mezza voce mormorate il ritornello:

Lustre, mostre, ed arti per parere;

arti solite di chi doppio ha il cuore, con quello che seguita: — io parlo al Paese, che mi sarà più pio.

Consideriamo il Dispaccio al Governatore di Livorno: la sua data è del 14 febbraio; — dunque molto tempo dopo le coartazioni e le minaccie perigliose della stampa, dei Faziosi, del Circolo fiorentino e delle Deputazioni maremmane. Il Dispaccio parla di lettere che mi vengono poste sotto gli occhi; dalle quali espressioni si ricava, che una gente estranea, desumendone necessità di misure immediate, non mi lasciava neanche tempo a copiarle, onde senza dilazione si spedissero gli ordini. Dall' 8 al 14 febbraio corre pure un bel tratto! Sei giorni: quanti appunto mi rinfacciavano essermi rimasto inerte. Nei tempi di rivoluzione sei giorni paiono, e veramente sono, una eternità. La stanza del Granduca al Porto Santo Stefano si conobbe presto; dunque finchè non mi violentarono, io stetti inoperoso. Anche qui occorre il caso, che parrebbe a un punto miserabile e festoso, ove non si conoscesse come tutti i Partiti giudichino con le mani su gli orecchi, e la benda su gli occhi: che i Repubblicani mi riprendono da una parte di non fare; l'Accusa dall'altra mi rimbrotta di aver fatto. Per questo i primi mi avrebbero tolta la libertà; la seconda mi mantiene prigione! Il Dispaccio del 14 febbraio trascrive, come quello dell' 8 febbraio, taluna delle parole stesse che i Faziosi venuti ad estorcerlo vedemmo avere già adoperate: si apparecchi gente da ingrossarsi per via; ma però avverto che sia SCELTA; il quale avviso fu introdotto con intenzione di far comprendere che la gente buona fosse, e ad obbedire disposta. La frase però più meritevole di essere specialmente notata è la seguente, posta con cautela, come mi era concesso in quelle strette: D'Apice scriverà, e attenetevi ai consigli di lui; e questo importa: nessuno si muova senza ordine del Generale. — Lasciate, di grazia, lo inviluppo delle parole, che la temperie del giorno rendeva necessario, oppure ritenetele tutte, ma sotto la scorza ricercate il vero, e troverete prudente consiglio, non potendo fare a meno, essere stato quello di apprestare buona e cappata gente, che sotto gli ordini di Domenico D'Apice (soldato a cui per la sua temperanza nemmeno rifiuta lode l'Accusa) si tenesse pronta a fare riparo ai temuti infortunii.

E mio concetto fu, qualora il presagito assembramento si avverasse, spingere D'Apice a presidiare Grosseto, e quivi, recatasi in mano la somma del comando, reprimere le masse popolari dal trascorrere contro Porto Santo Stefano, e tenere fermo il Paese fino alla pronunzia del voto dell'Assemblea toscana.

Il Generale D'Apice, oppone l'Accusa, dichiara avere ricevuto lettera di mio, onde con parte della truppa si dirigesse a Grosseto; « ma poichè, egli aggiunge, si trattava che cotesta Spedizione doveva farsi contro il Granduca, che allora era in Maremma, io ricusai incaricarmene.» — A vero dire, richiamando la mia memoria su questo punto, posso affermare risolutamente senza timore di essere smentito, che tale non fu il dubbio esternato a me dall'onorevole Generale; sibbene la ripugnanza di trovarsi con poca truppa e male ordinata fra Popoli tumultuanti. Questo però non toglie punto, che dentro l'animo suo accogliesse anche l'altro che accenna; solo dico che si astenne da parteciparmelo; e dov'egli mi avesse aperto l'animo suo, conoscendo la fede dell'uomo, lo avrei chiarito del congetturare suo falso; per tutela, non per offesa del Principe, volerlo io incamminare a Grosseto, e commettergli in quella città si fermasse, ogni aggressione contro Porto Santo Stefano sventasse, i moti tumultuarii prevenisse, il Paese quieto fino alla pronunzia dell'Assemblea toscana, che malgrado le opposizioni intendevo convocare, mantenesse.

Dell'ordine dato, e della raccomandazione che nessuno senza comando del Generale si avesse a muovere, oltre al Dispaccio mandato il 14 febbraio al Governatore di Livorno; oltre alle parole della Deputazione Grossetana, che la gente si sarebbe aggiunta seguitando il D'Apice; oltre alla dichiarazione, che per muoversi attendevano le milizie ordinate, ne fanno aperta testimonianza questi Documenti che ricavo dal Volume stampato dall'Accusa: ex ore leonis, come Sansone, il mele. —

«Al Governatore di Livorno — Petracchi.

«La mia colonna è sottoposta al Generale D'Apice, nè posso muovermi senza suo ordine.» — Pontedera, 13 febbraio 1849.[324]

Il medesimo al medesimo:

«Ieri sera circa le ore 11 arrivai a Pontedera, donde avvisai il Generale D'Apice del nostro arrivo, avvertendolo che sarei partito col treno delle 12 di questa mattina. Ero con la colonna sotto la Stazione PRONTO A PARTIRE quando un Dispaccio del Generale D'Apice MI ORDINAVA DI RESTARE QUAGGIÙ.» — Pontedera, 14 febbraio 1849.[325]

Dove gli ordini per la Spedizione del Porto Santo Stefano fossero stati spontanei, io non avrei certo aspettato dal giorno 9 febbraio, in cui seppi l'arrivo di S. A. in quel Porto, al diciassettesimo a sopportare mossa la colonna Guarducci per Rosignano. Gli ostacoli frapposti perchè non fosse mandato ad esecuzione quanto i Faziosi imponevano, appariscono evidenti da questo: la colonna Guarducci nel 16 febbraio si trovava in Empoli:[326] «La colonna Guarducci era già partita prima del mio arrivo a Empoli.» Il giorno 17, rimandata a Livorno, s'incamminava per la via littorale verso Maremma; e non ha guari ho detto: io non l'avrei sopportata mossa il 17 febbraio; imperciocchè senza ordine del Generale D'Apice, a cui era sottoposta, nè mio, nè di veruno altro Membro del Governo Provvisorio, si fosse posta in marcia. Il Popolano, che da sè stesso s'intitolava Monitore del Circolo Fiorentino,[327] ed era informatissimo di quanto accadeva, annunzia la partenza del battaglione Guarducci per Maremma, ma non sa avvertire per comando di cui, nè a qual fine.[328] Riscontro sicuro che Guarducci non ebbe comando nè dal Generale nè da me, è questo: che da Empoli non lo avremmo respinto a Livorno, ma sì da Pisa su per la Via Emilia incamminato a Grosseto. — Altra prova che di arbitrio del Governatore era lo invio del Maggiore Guarducci in Maremma, è considerare come questi non trasmetta i suoi rapporti al Generale D'Apice o al Governo superiore, ma renda ragguaglio dell'operato unicamente al Governatore.[329] Ancora: il Governo non poteva intendere col Dispaccio del 14 al Governatore di Livorno, che questi spedisse il Battaglione Guarducci, però che lo avrebbe fatto direttamente da sè. Con questo ho voluto dimostrare che, per me, il Battaglione fu trattenuto fino al 17 febbraio; che da noi non fu comandato di marciare alla volta di Maremma; e che il Governo di Livorno, il quale volle, seppe eziandio incamminarlo immediatamente là dove il Governo superiore non lo incamminava. Altra prova che eravamo andati trattenendo la gente dallo accorrere in Maremma, è l'ordine trasmesso il 14 stesso, al Battaglione Petracchi, di stare fermo a Pontedera, ed incontrarvelo sempre nel 17 febbraio. In cotesto giorno il suo Comandante non corrisponde più col Generale come gli correva obbligo, bensì col Governatore di Livorno, a cui manifesta il suo pensiero di partire il giorno appresso per Maremma, non già in virtù di ordine ricevuto;[330] il Governatore di Livorno, usurpando le funzioni del Generale D'Apice, comanda senza superiore concerto, e di sua autorità, il ritorno del Battaglione Petracchi.[331]

Dunque rimane provato che D'Apice non mosse per Maremma, anzi rifiutò muoversi; che il Battaglione Guarducci, trattenuto fino al 17 in Empoli, e nel giorno stesso rimandato a Livorno, si avviò per Maremma non pure senza ordine del Governo, ma contro la volontà del Governo; e finalmente che il Battaglione Petracchi tenuto da noi fermo fino al 17 in Pontedera è richiamato a Livorno dal Governatore, che ormai si arroga autorità a disporre le cose a suo senno.

Altro riscontro di consigliato impedimento occorre confrontando la seguente corrispondenza. Il Governatore Pigli domanda con Dispaccio telegrafico del 17 febbraio 1849, ore 11, m. 5 pom., al Maggiore Petracchi: «Per ordine del Governo Superiore domattina circa le 11 » (e non era punto vero) «deve essere eseguita una spedizione di Militi cittadini per oggetto importante. Se ella, senza nuocere alla missione che l'è meritamente affidata, credesse far parte con la sua colonna di detta spedizione, o di mandarne almeno porzione, la prego prevenirmi col mezzo del telegrafo nel caso affermativo.»

Parmi pressochè inutile notare come, se il Governo avesse voluto servirsi di questa forza, avrebbe trasmesso direttamente gli ordini, non già pel mezzo del Governatore: infatti, se non per altro, per economia di tempo, era ragionevole che il Dispaccio restasse a Pontedera, e non si spingesse a Livorno per ritornare poi a Pontedera: parmi del pari superfluo ricordare come per avviarsi verso Grosseto il Petracchi da Pontedera non avesse mestieri di condursi a Livorno: finalmente nemmeno mi tratterrò ad avvertire una cosa, che, come troppo ovvia, salta agli occhi dei più idioti; ed è, che avendo voluto spingere gente in Maremma, poco importava la condotta del Generale D'Apice, dacchè più tardi il Governatore Pigli, quando ebbe sotto la sua potestà il Battaglione Guarducci, ve lo diresse.

Solo mi giovi richiamare l'attenzione di chi legge su questo, che nel fine di rendere frustraneo l'ordine estorto, nei giorni 14 e 15 febbraio, come dimostrano gli stessi Documenti dell'Accusa,[332] fu comandato al Petracchi di non si muovere senza ordine del Generale D'Apice, e, otto ore dopo lo invito a lui fatto dal Governatore Pigli, io sospettando di qualche trama, fui cauto di richiamarlo a Firenze. «Il Presidente del Governo Provvisorio al Comandante Antonio Petracchi. — Firenze, 15 febbraio 1849, ore 8 a. m. — Venga subito a Firenze. Prenda una carrozza. Risposta subito.»[333] Sicchè, ritenuti nelle nostre mani i battaglioni Petracchi e Guarducci, il primo a Pontedera, il secondo a Empoli, di gente scelta e disciplinata, o che presentasse almeno simulacro di disciplina, donde e chi potesse raccogliere il Governatore di Livorno, in verità non si comprende.

L'Accusa insiste allegando lo invio dei 12 Municipali a Grosseto, e degli Artiglieri nazionali e di linea, i quali dalla lettera del Prefetto Massei, riportata nei Documenti dell'Accusa a pag. 321, ricaviamo sommare a 14, e così in tutti a 26! — Ma io non ho trovato ordine alcuno da me, nè da altri, trasmesso al Governatore Pigli perchè muovesse di arbitrio neppure una persona; e questo Governatore molte cose faceva a modo suo, più molte si accingeva a farne; e moltissime poi ne dava ad intendere. Poco sopra avete osservato come egli avvisasse Petracchi della Spedizione che doveva essere eseguita la mattina del giorno 15, prima delle ore 11, e non fu vero; nella lettera del 14, riportata in nota qui sotto, annunzia al Prefetto di Grosseto lo invio dei 26 uomini; aggiunge, che nel veniente giorno partirebbero da Livorno due compagnie di Guardie Nazionali, e non fu vero; nello stesso giorno 15 afferma altre forze militari provenienti da Firenze capitanate dal Generale D'Apice costà sarebbonsi dirette, e non fu vero: da Firenze per lo contrario partì l'ordine che stessero ferme.[334]

Il disegno di formare in Livorno un centro di Governo Repubblicano, nello intento di rovesciare il Governo Provvisorio, vedremo farsi mano a mano più chiaro che c'inoltreremo a discutere le imputazioni dell'Accusa. Essa dice: ma voi impediste le corrispondenze al Principe, e mandaste persone armate a Cecina per intraprenderle. Io nulla impedii. Il Circolo Grossetano ricorrendo co' suoi emissarii al Governatore di Livorno, presso cui trovava più facile ascolto, insisteva per questo provvedimento. Il Governatore, sempre più emancipandosi, prende le misure che reputa convenienti, e poi ne avvisa il Governo:

«Signor Ministro. Persone autorevoli di questa città mi hanno fiduciariamente fatto supporre che dal Fitto della Cecina, villaggio posto sopra la strada maremmana, transitino di frequente degl'individui diretti a Porto Santo Stefano, i quali, per la loro indole sospetta, sarebbero meritevoli di tutta la sorveglianza governativa. Essendomi sembrata cosa di somma importanza lo attivare senza indugio questa sorveglianza, la quale può condurci ad utilissimi resultati, sono sceso nella determinazione di fare la Spedizione per quella località di venti cittadini armati, i quali, di fatti, nelle ore pomeridiane di oggi partono a quella volta capitanati e diretti dal nominato Giovanni Scotto. L'ufficio che eglino debbono esercitare quello si è di vigilare e tenere di occhio le persone transitanti per detta ubicazione, spingendo le loro indagini, nei casi di dubbio e sospetto, fino alla perquisizione, ed effettuandone, occorrendo, anche l'arresto. Per fare fronte alle spese necessarie al mantenimento dei componenti la detta Spedizione, è stata, per mio ordine, prelevata dalla Cassa di questa Dogana la somma di L. 500, su le quali ho fatto una anticipazione di zecchini 12 al rammentato Giovanni Scotto. Affrettandomi a renderle conto, signor Ministro, di questa misura, che ho creduto dover prendere per urgenza, starò in attenzione delle sue istruzioni in proposito ec. — 13 febbraio 1849. — C. Pigli. »

Dall'altra parte il Prefetto di Grosseto avvisava il Circolo di Grosseto, avere deliberato di operare in guisa che i Dispacci attinenti alla Corte Granducale si fermassero. In simili angustie ai signori Marmocchi e Allegretti non era dato disfare, senza manifesto pericolo, quello che ormai aveva il Governatore compíto; e per altra parte, considerando le sciagure a cui sarebbero andate sottoposte le persone partecipi della corrispondenza se le lettere fossero pervenute in mano degli arrabbiati, mi sembra che dirittamente si consigliasse dai predetti Signori, ordinando al Prefetto di Grosseto procedere con prudenza e saviezza per l'adozione delle misure necessarie ad assicurare la esecuzione del divisato progetto.[335]

E che tale dovesse essere la intenzione dei signori Marmocchi e Allegretti nessuno potrà negare, e forse, se interrogato, lo avrà già detto il signor Segretario Allegretti compilatore dei Dispacci allegati. A me giovi affermare che io, non pure non concorsi a impedire la libera corrispondenza a S. A., ma all'opposto, per quanto stette in me, gliela schiusi. A Sir Carlo Hamilton, che me ne fece istanza, detti carta amplissima perchè lo lasciassero passare liberamente; e non solo questa carta io gli affidai, ma consenso espresso a quanto intendeva proporre.

Ed ecco quanto egli aveva in mente proporre, e mi affermò avere proposto. Spontaneo, o, come credo piuttosto, di concerto con personaggi cospicui della città nostra, egli restringendosi meco mi confessava volere tentare l'animo dell'A. S. a deporre i fastidii del molesto Governo, rassegnandolo al suo reale Primogenito; e mi ricercava, nel caso che il suo consiglio venisse accolto, se avrebbe potuto ripromettersi la mia adesione. Io risposi quello che ora non dubito manifestare: parermi il Popolo troppo acceso adesso; essere di mestieri liberarlo prima dagli stimoli urgenti e incessanti; poi dargli tempo a riaversi dal delirio; per questi argomenti egli sarebbe tornato per certo alla devozione antica; in quanto a me, tranne la momentanea esaltazione, crederlo, anzi saperlo bene affetto al Principato; la più parte dei Toscani desiderare le libertà costituzionali, e di queste chiamarsi contenta; per siffatta mia convinzione, confermata dai Rapporti officiali e da particolari notizie, potere egli ritenere per fermo, che avrei di buon grado aderito a tutto quanto tornasse di vantaggio al Paese, onorevole per me. Sir Carlo tornando mi riferiva bene avere del suo proponimento tenuto motto a S. A., ma, rinvenuto il terreno poco arrendevole, essersi trattenuto dallo insistervi sopra. Motivi di convenienza, che anche in mezzo ai pericoli e alle provocazioni della intemperantissima Accusa reputai mio dovere osservare, mi persuasero ad astenermi da esporre questi fatti, finchè Lord Giorgio Hamilton visse, e Sir Carlo dimorò in Firenze. Adesso poi che il Signore ha richiamato alla sua pace l'onorevole ed egregio Lord Giorgio, e Sir Carlo si condusse altrove, penso potere, senza offesa della delicatezza, manifestare simili trattati, e prego con fervorosa istanza il nobile Baronetto, dovunque si trovi, se mai gli perverranno nelle mani queste dolenti pagine, a rendere pubblica testimonianza in faccia della Europa se sieno i miei labbri mendaci, o se anche in questa parte esprimano la verità.[336]

Altro esempio, che il Governatore Pigli faceva da sè, lo troviamo nello avere pagato lire diecimila al Petracchi per la Spedizione a Portoferraio, senza ordine del Governo, anzi senza pure avvisarlo. Di vero, agevole cosa è comprendere come cotesta Spedizione per diffalta di danaro non avrebbe avuto luogo, e il Governatore per certo doveva avvertire, che non gli essendo provvisti i mezzi necessarii, non poteva mandarla ad esecuzione, nè le facoltà sue estendersi a disporre dei pubblici danari; e questo per lui potevasi avvertire subito per telegrafo, non già aspettare al 10 febbraio quando le cose erano fatte. — Così tra il mandare Dispacci, e rispondervi, sarebbe scorso tempo sufficiente a sedare gli spiriti accesi, persuaderli della inanità di cotesto moto, e indurli forse a desistere.[337]

Altro esempio dello arbitrario operare del Governatore Pigli ci viene offerto dalla Spedizione fatta dal medesimo, fino dall' 11 febbraio, alla Isola del Giglio, della Spronara, per vigilare persone sospette, e pubblicare Proclami, della quale avvisa il Governo unicamente nel giorno tredici successivo;[338] e sì, che anche su questo, se per via telegrafica non poteva informarci intorno ai particolari delle cose, gli era agevole notificarcene la somma. Nel maggiore uopo ci lasciava per taluni giorni senza avviso delle operazioni che gl'importava palesarci ormai compíte, comecchè di altre per minuto ci ragguagliasse; ed egli medesimo il confessa: «La rapida e incessante successione degli eventi, e le cure che ne conseguitano, assorbono così il mio tempo da non lasciarmi agio a quell'ordinato e quotidiano ragguaglio che avevo impreso, e che riannoderò come prima mi sia concesso, limitandomi di presente a darle conto dei casi più gravi, e delle più importanti misure.»[339]

Il Rapporto del 14 febbraio incomincia con la protesta medesima: «Neppure oggi mi è dato riprendere la interrotta narrazione degli avvenimenti attuali, bastandomi appena il tempo e le forze di accennare di volo i più notevoli ed importanti.»[340]

L'Accusa sostiene che, ricusato dal Generale D'Apice il comando della Spedizione pel Porto Santo Stefano, il Governo lo confidava al Pigli, il quale tosto incamminò La Cecilia per la Maremma verso Porto Santo Stefano. Contradizioni, e peggio: nè l'una cosa, nè l'altra. La Cecilia per ordine del Governatore di Livorno, non già spedito dal Governo o da me, precede la Colonna Livornese, e va per mettersi a capo delle Guardie Nazionali della Maremma; poi fa una giravolta, pubblica Proclami, nessuno gli dà retta, e torna maledicendo ai Maremmani. Il Governatore non ebbe mai altra commissione, tranne quella di adunare gente scelta, e dipendere dagli ordini del Generale D'Apice. A D'Apice fu proposto il comando delle forze nel caso che si avesse dovuto spedirle a Grosseto; egli non accettò lo incarico, e a nessuno altro venne conferito giammai. Chi sostiene diversamente, a chiare note si sappia ch'ei calunnia, all'atroce intento di nuocere contro la verità manifesta. Infatti, quando ebbe questo ordine il Pigli, che l'Accusa fabbrica nella sua officina? prima, o dopo il 14 febbraio? Prima no, conciossiachè pel Dispaccio incriminato del 14 la gente scelta doveva apparecchiarsi, e dipendere dal Generale D'Apice, e per le prove superiormente addotte ne dipendeva; dopo nemmeno, dacchè, oltre il Dispaccio del 14, per frugare che abbia fatto, l'Accusa non ha potuto rinvenirne altro. Qui dunque si tratta, io lo ripeto, di calunnia, non già di accusa.[341]

Ma la presente materia merita di essere più sottilmente considerata, onde si faccia luce maggiore nella ragione degli uomini e dei tempi. Coloro che volevano strascinare il Paese al compimento della rivoluzione, sfiduciati d'incontrare nel Governo arrendevolezza, si volsero a quelli che meglio parvero disposti a secondarli; e fra questi venne lor fatto incontrare, più accesi degli altri, Carlo Pigli e La Cecilia; noi li vedremo collegati avversare il Governo, tentare ogni via di usurpare il Potere per promuovere la Repubblica, e per altra parte noteremo indirizzarsi a loro uomini perversi con orribili proposte. Alfine l'uno è deposto dall'ufficio, l'altro avviato fuori del Paese.

La Cecilia crebbe avverso a me: delle sue qualità morali non parlo, chè a me nulla è noto che onorevole non gli sia; favello dell'uomo politico. Io presto ebbi a conoscerlo irrequieto e dominato, più che da altro, da certo spirito torbido che lo agitava a fare e a disfare.[342] I Livornesi, i quali, più che altri non estima, aborrono i commuovimenti inani o pericolosi, spesso venivano o mandavano a lamentarsi meco di lui, e mi pregavano trovare modo ad accomiatarlo onestamente. La corrispondenza officiale ha da porgere di questo piena testimonianza; in suo difetto, ne occorre traccia nel mio Dispaccio telegrafico al Governatore di Livorno del 19 novembre 1848: «I reclami contro La Cecilia crescono di momento in momento. Invitisi venire a Firenze per conferire col Ministero.» Egli prima mi tenne caro; quando poi mi conobbe avverso alla Repubblica, prese a inimicarmi con molta acerbezza nel Corriere Livornese che tolse a dirigere: però nel 7 marzo stampa su l' Alba, Giornale devoto a parte repubblicana, essersi ritirato da cotesta Direzione per la stupida servilità dei tipografi proprietarii del Giornale. I tipografi gli rispondevano: «Non essersi già ritirato, ma averlo essi licenziato, e averne avuto motivo non dalla stupida servilità loro, ma dalle sue continue incoerenze, avendo fatto subire in breve tempo al Giornale cento variazioni e colori diversi: ora adulando il Governo in cose che nessuno lodò, anzi biasimò (come nel Discorso della Corona per l'apertura delle Camere!), ora facendogli una opposizione alla quale la opinione pubblica ripugnava[343] Mandato a Roma da Montanelli come Console toscano, in breve renunzia e torna in Livorno. Qui domina Pigli, e lo governa a suo senno: va, viene, capovolge ogni cosa; si accompagna a tutti i conati per istrascinare il Governo a proclamare la Repubblica, ed unirsi, senza indugio, con Roma. Quando mi verranno consegnate le carte della mia amministrazione, confido potere ordire più completa storia; — costretto a valermi delle carte dell'Accusa, a nuocere copiose, a salvare parche, mi si presenta nel primo di marzo 1849 un Dispaccio, dal quale si argomenta come La Cecilia si affaticasse a conseguire qualche grado superiore nello esercito, ed io rispondo: «Gli ufficiali delle milizie sono destinati, e La Cecilia guasterebbe ogni cosa. A Pistoia lo Ufficiale superiore sarà Melani colonnello, a San Marcello Razzetti maggiore; non facciamo confusione. Riguardo ai mezzi, bisogna regolare le cose in maniera che lo impiego della fortuna pubblica si faccia rigorosamente, e possa darsene sempre esatto conto. Entrerà nelle previsioni del Governo mandare un quartier-mastro pagatore.» Pigli risponde: La Cecilia non essere eletto a comandare truppe, solo a precederle fino a Lucca, onde provvedere ai bisogni delle nostre colonne, e averlo inviato i Maggiori Guarducci e Petracchi; stasera o domattina aspettarsi reduce in Livorno.[344] All'opposto ricaviamo dai Documenti che La Cecilia il Generale comandante le Milizie toscane non cura, molto meno il Governo, bensì col Governatore di Livorno unicamente corrisponde; in quel giorno stesso egli lo avvisa non avere trovato cavalli da treno, e fra le altre cose, che alle due partirà per Lucca. Un poco più tardi: avere passato in rivista la compagnia di Pisa, e, dopo altre notizie, domanda l'approvazione del Governatore.

Barli, comandante di Piazza a Pisa, per telegrafo avverte: essersi presentato il signor Colonnello La Cecilia con una Circolare del Governatore di Livorno, che lo autorizza a presentarsi alle Autorità Civili e Militari, per essere assistito in ogni sua operazione a reclutare Volontarii, e cavalli per l'artiglieria nazionale; avergli domandato quanta cavalleria fosse disponibile in questa Piazza; domandare istruzioni per non intralciare le operazioni di cotesto Dipartimento.[345]

Sicchè quanto fosse vero, che Petracchi e Guarducci avessero inviato la Cecilia, e non il Governatore, di qui apparisce espresso. Per queste notizie accorgendomi come ormai volesse stabilirsi un Governo di fatto Repubblicano a Livorno, di cui Pigli avesse ad essere la mente, e La Cecilia la spada, mando al Governatore:

«Lo invio del La Cecilia è uno dei soliti spropositi; domanda artiglieria, cavalleria, e altro da Pisa. Tu hai azione dentro il tuo Dipartimento, fuori no; non puoi farlo senza mandare sottosopra ogni cosa. Per Dio, così rovina la impresa. Dite il vostro bisogno. Dite come potete provvedere per voi, e come deve aiutarvi il Governo centrale. — Manderemo ufficiali a posta. Il Comandante di Pisa, come è naturale, non sa che fare. Si richiami La Cecilia con bel garbo.[346]

Pigli per gratificarsi i Volontarii livornesi, promette di propria autorità venti crazie al giorno di paga. Avverto, che questo negozio sconvolge da cima in fondo lo esercito, imperciocchè tutti pretendono paga uguale; per rimediare, suggerisco far credere che la differenza della paga ricevano dal Municipio; scongiuro non prendano misure senza concerto nostro; altrimenti, quando più la disciplina e la organizzazione abbisognano, ci casca addosso il caos.[347] La Cecilia, apprendendo che l'ordine del Pigli intorno alla cavalleria non verrà eseguito, gli scrive parole concitate contro il Governo superiore.[348] Pigli risponde insistendo non avere egli inviato La Cecilia... «Che debbo farci?» egli aggiungeva: «gl'imbarazzi sono molti!»[349] Questa parevami, ed era, duplicità manifesta. Da lunga pezza io era informato delle disposizioni di Carlo Pigli ostili al Governo, dello studio posto da lui a radunare un partito gagliardo in Livorno, della sua professione nuovamente repubblicana, del suo accontarsi co' più ardenti di cotesta parte, non meno che dello agitarsi perpetuo del La Cecilia. Certo mio parente, che di me, troppo spesso fiducioso più che non conviene, prendeva amorevole cura, sorprende e mi reca lettere, inviate da un Frugoni di Lerici, capitano di mare, e proprietario di bastimenti, a La Cecilia, con le quali gli proponeva alla ricisa di ammazzarmi come traditore, e surrogare lui a me, Pigli a Mazzoni come uomo inetto; si lasciasse Montanelli, finchè non si trovasse meglio. Dai Documenti raccolti per opera dell'Accusa resultano le prove di questi fatti, i quali vengono per altri riscontri confermati in processo. Spedito Marmocchi a Livorno a investigare le cose, così riferisce nel 5 marzo: «Non ho scritto fino ad ora, perchè ora solamente ho un concetto preciso delle cose in questa città. Ho sentito molte persone di opinione diversa. Vado per la diagonale e vado bene. La cosa principale per la quale sono qua è una ridicolezza. Pigli è lo stesso amico di prima, sincero e ardente. La differenza è nella salute, perchè io l'ho trovato veramente decaduto. Si regge mercè lo spirito, e considererebbe siccome gran favore la sua licenza, o almeno una gita di riposo nel suo paese per un mese. Bisogna dare un collocamento conveniente a La Cecilia. In tutti i modi, subito. Non ha il seguito che credete, no, ma manca l'antica amicizia, e di gran cuore se ne andrebbe. Quel di Lerici è un fatuo; non è nulla; vorrebbe vendere al Governo Provvisorio alcuni bastimenti, ecco la chiave di tutto. Il Popolo livornese è sempre eroico e grande; è anche moderato. La Repubblica non è proclamata. Siamo qui come a Firenze su questo proposito, con la differenza, che Firenze è una selva di alberi, e qui non ve ne sono che tre o quattro soli. Volete si tolgano di Piazza, e si portino in Chiesa fino al giorno che l'Assemblea decreti definitivamente la Repubblica? Livorno aderisce, e Firenze non sarebbe così docile. Vedete dunque che cosa è Livorno.»[350]

Il Rapporto del Marmocchi non poteva persuadermi: comunque vogliasi tenere in poco conto la vita, pure sentirti dire, che il disegno di ammazzarti è cosa da nulla, non garba ad un tratto; e il successo venne dimostrando, che Marmocchi per soverchio di dolcezza neanche nelle altre cose si era apposto al vero. Ad ogni modo risposi: non potere offerire altro ufficio, che di secondo segretario a Parigi; però poco dopo aggiungevo, che se l'uomo meritava congedo, non capivo perchè si avesse a impiegare; ed avvertisse che la mansuetudine, quando è troppa, rovina.[351] Marmocchi replica: La Cecilia accettare; egli essermi ancora molto amico, ma disgraziato; non potere dirmi tutto per telegrafo; venire La Cecilia a Firenze: pregarmi riceverlo, in considerazione della lunga amicizia; nessuno credere a tradimento; quel di Lerici essere fatuo come lo scrittore della Frusta repubblicana; la passata intrinsechezza con La Cecilia avrebbe fatto vedere con dolore la presente severità; esultare gli amici ch'egli partisse, ma non derelitto da me; bene altri nemici avere il Governo; trovarsi chi traendo argomento dalla miseria corrompe la plebe; mi manderebbe nella notte uno di questi facinorosi incatenato a Firenze.[352] Qualche ora più tardi nello stesso giorno, aggiungeva avere veduto il Gonfaloniere, il quale si rallegrava col Governo per la misura presa relativamente a La Cecilia, e la opinione pubblica commendarla.[353]

Nonostante scrissi per via telegrafica: « desiderare non vederlo; fosse trattenuto, potendo, in Livorno[354] pure egli venne, ed io lo accolsi con volto sereno e mente pacata; e dopo avergli posta davanti gli occhi la lettera del Frugoni, lo interrogai, che cosa avrebbe fatto nel caso mio. Rispose non essere in sua potestà impedire allo stolto che favellasse secondo la sua stoltezza; e siccome questa mi parve convenevole scusa, tacqui; non ugualmente bene poteva scolparsi intorno alla guerra mossa contro il Governo per istrascinarlo di viva forza alla Unione con Roma, e a proclamare la Repubblica, o rovesciarlo. «Orsù via, partiti di Toscana,» gli dissi. «e tutto è posto in oblio.» Partì per Livorno menando a lungo la partenza, finchè crescendo le manifestazioni di anarchia, aombrate dal pretesto della Repubblica nel 14 marzo, contemporaneamente al richiamo del Governatore a Firenze per via telegrafica, scrissi a Livorno: «S'inviti La Cecilia a partire subito, anche per terra, per Genova, donde recarsi al suo destino. Qualora non volesse appagare questi nostri desiderii, noi l'avremmo per tradita amicizia. Gli si partecipi il Dispaccio.»[355] Allora si condusse a Genova; e quivi si andò indugiando sotto vario colore, finchè i successi della guerra gli dettero campo di presentarsi come utile alla difesa del Paese.

Da Genova nel 27 marzo mi scrisse La Cecilia la lettera che leggiamo a pagine 222 dei Documenti dell'Accusa; in questa ei parla di errori commessi dai Comandanti piemontesi nella battaglia di Novara; poi propone due mezzi di difesa, di cui il primo sarebbe stato plausibile per quello che in tempi antichi e moderni ne hanno scritto peritissimi uomini di guerra; il secondo avventuroso e impossibile. Di questa lettera giova riportare la frase che accenna al pertinace proposito di fare sempre a suo modo: «Insomma se nulla si conclude qui tra oggi e domani, io torno; mi metterai in prigione, ma devo, ma voglio dividere le vostre sorti.»

Non tali auxilio, nec defensoribus istis

Tempus eget! —

La Cecilia non era uomo da dire le cose e non farle; piuttosto prima le compiva, poi le diceva. Di vero il giorno seguente eccolo a Massa, donde m'invia la lettera in data del 28 marzo 1849, nella quale si propongono tre progetti: il 1º contenuto in altra lettera, che io non ricordo, ove non fosse taluno degl'indicati nella lettera del 27; il 2º di seppellirci tutti sotto le rovine delle nostre città; il 3º di fare offrire la corona al figlio del Granduca; questo ultimo mezzo repugna di molto, egli scrive, ma il Paese vorrà difendersi? E tanto basti per dimostrare come io provassi contrario La Cecilia nel periodo del Governo Provvisorio, da quando mi mostrai reluttante ad appagare i desiderii di parte repubblicana.

Ora continuo esponendo i fatti attinenti a Carlo Pigli Governatore di Livorno; diventato, più che capitano, mancipio della Fazione demagogica, ormai egli non ha più potenza di fare il bene e d'impedire il male. Cotesta egregia Patria di cima in fondo compariva guasta. Il Governo, assentendo ai consigli del signor Marmocchi, pensa scambiare la Guardia Municipale di Livorno con quella di Firenze; e chiamata qui la prima, purgarla e spartirla in altre compagnie. Inoltre, ai suggerimenti del Ministro della Guerra Tommi compiacendo, accorda che il primo Battaglione di Linea si spedisca a Livorno, e quivi si riordini mediante un campo da stabilirsi nelle campagne littorane.[356] Annunziando io queste provvidenze a Livorno, aggiungo: «Il Popolo attenda vigilante le disposizioni del Governo ormai disposto a procedere con severa giustizia contro tutti i perturbatori, e nemici delle libertà, sia civili che militari[357] Queste parole ai caporali della Fazione erano savor di forte agrume; nell'anarchia confidando, per soverchiare il Governo, ecco s'industriano a lavorarlo di straforo, mettendo male biette tra il Popolo. «Badate, dicevano, a non lasciare partire la Guardia Municipale Livornese, e sostituirla dalla Fiorentina, però che questa sia qua mandata per opprimere la libertà.»[358] In quanto al Battaglione di Linea avviato a Livorno, si guardassero dal Colonnello Reghini, a cui avevano commesso di trarre a palla sul Popolo, come già aveva fatto sul Popolo pistoiese.[359] Il Popolo si commuove, e circondato il Palazzo del Governatore in numero di 4,000 persone, domanda a morte il Colonnello; altri urlano che si cacci in carcere. «Il Governatore, narra il signor Reghini nel suo Rapporto, si addimostrò sgomento, varii dei suoi spaventati, perchè circuito il Palazzo, e l'anticamera invasa da turbe, che esaltate chiedevano la mia persona in loro possesso, e i moderati gridavano venissi posto alle segrete.[360] Ed io, ben contento di secondare la volontà del Popolo indignato (non so perchè), esortai ad essere dal Popolo stesso condotto in segrete, dove giunsi molto a stento: ma coadiuvato dai buoni che mi fecero corona, mi restò lontano lo stiletto, nè si ottenne di gettarmi a terra.» Io rimasi fieramente percosso per tanto vituperio, imperciocchè il Governatore dovesse nel suo Palazzo, come in asilo inviolabile, custodirlo, nè mai consentire, se non che calpestando il proprio petto, cotesti furibondi giungessero al petto del Colonnello. Avvertito per telegrafo, adoperando la destrezza persuasa dalla gravità dello accidente, senza intermissione rispondo: «Importa grandemente sia fatto il processo ai soldati di cotesto reggimento che si ribellarono. A ciò è necessario il Rapporto del Reghini. Bisogna mettere il Reghini in libertà onde faccia cotesto Rapporto. Non accendasi il Popolo già acceso. Si lasci fare al Governo; ha i suoi fini, e vuole essere libero per il bene della libertà. Dicasi al Reghini, che il Governo penserà a lui. Si risponda subito.»[361] Il giorno seguente, soccorrendo al mal capitato Colonnello, insisto: «Esatte informazioni ci persuadono a conservare Costa-Reghini; però non si vorrebbe urtare la Popolazione. Il Governo vorrebbe formare un campo in prossimità di Livorno, e quindi riordinare il reggimento. Reghini rimarrebbe a riorganizzarlo, e sembra essere adattatissimo per questo. Procuri che la Popolazione applauda a questo progetto, e ci renda intesi dello effetto delle sue premure. Comprende la necessità della prestezza[362]

Ancora nel medesimo giorno 10 marzo: «Intorno al Reghini, sarà collocato. Del reggimento sarà fatto un campo. Forza, tranquillità, coraggio e gravità; — e forse riusciremo.... forse, perchè i tempi ingrossano; e disfacendo tutto, nulla si fabbrica[363]

Il Generale D'Apice, giunto a Firenze, scriveva al Governo Provvisorio la seguente lettera, la quale non abbisogna di comento:

«Ieri al mio arrivo in questa città, seppi che il signor Costa-Reghini Colonnello del 1º Reggimento Infanteria di Linea, fu immeritamente insultato dal Popolo di Livorno, e poi vilmente abbandonato ai suoi persecutori, dalla prima Autorità costituita in quella città, dal Governatore, presso cui il detto signor Colonnello si era rifugiato. — Un tal fatto è talmente grave, che io lo considero come una vera offesa fatta allo esercito, che ho in questo momento l'onore di comandare. Come capo dunque di questo esercito, e nell'interesse del servizio, credo mio stretto dovere dirigermi alla giustizia del Governo, perchè un'ampia e pubblica soddisfazione sia data allo esercito, e al signor Colonnello Costa-Reghini, elevando questo al posto di Generale di Brigata, e dimettendo dal suo posto il signor Governatore di Livorno. Qualora il Governo non credesse a proposito di accedere alla mia richiesta, lo prego in risposta di volere degnarsi spedirmi la mia dimissione dal servizio.»[364]

In tutto questo negozio io procedeva d'accordo col Generale, parendomi fosse pur giunta occasione di potere alla fine allontanare Carlo Pigli da Livorno, e precidere i disegni di coloro che agognavano alla estrema demagogia. — Invano il Colonnello Reghini scrive, averlo voluto libero il Popolo livornese, e accompagnato dal Governatore, e da parecchi Uffiziali della Guardia Nazionale, fra plausi e banda essere stato condotto al Palazzo Governativo; invano dichiara, per questo modo adempirsi l'ordine del Governo che lo voleva fino da ieri l'altro posto in libertà, ordine non ancora eseguito per timore di collisioni, non tutti i Circoli andando d'accordo nella mia liberazione;[365] invano informa per via telegrafica il Ministro della guerra: «Sono in libertà per acclamazione popolare e generalissima. La mia confusione è grande: vorrei dimostrare al Popolo la mia gratitudine, al Governo la mia devozione; supplico la di lei ministeriale autorità, essermi interpetre, come lo è stato, a mio sommo vantaggio, il signor Governatore Pigli.»[366]

Io ben conobbi cotesta essere mala toppa allo strappato, e conoscevo a prova di che cosa sapessero cotesti Dispacci imposti dai presenti, e da loro prima letti, e poi mandati; però nel 13 marzo 1849, allo intento di superare le resistenze, conforto il Generale D'Apice a tenere il fermo nel domandato congedo: finalmente nel Consiglio le provvidenze da me proposte si mettono a partito, e si vincono; allora senza porre tempo fra mezzo, nel giorno 13 marzo, alla ora prima pomeridiana, mando per telegrafo a Livorno: «Il Governo invita il Governatore di Livorno a venire in giornata a Firenze, per conferire insieme su cose importantissime.»[367] Arrivato a Firenze alle 7 pomeridiane, alle 9 si ordina al Colonnello Costa-Reghini: «È pregato a portarsi domani col primo treno a Firenze. Il Generale D'Apice lo vedrà appena arrivato;»[368] e alquante ore trascorse, di nuovo, alle 3 antimeridiane del giorno 14 marzo, intímo a La Cecilia la partenza immediata, sotto minaccia, che avremmo lo indugio per tradita amicizia, come già in altro luogo opportuno fu debitamente notato.

A ben comprendere quanta industria fosse posta da me per indebolire la parte che strascinava il Paese alla demagogia, e quanta difficoltà incontrassi nella perigliosa impresa, prezzo della opera è sospendere alquanto questo racconto, e continuare quello che spetta alla Guardia Municipale.

La Guardia Municipale corrotta e governata da taluni che trovavano il proprio conto a mostrarsi smaniosi libertini, mercè la diligenza fatta, viene a Firenze, ed è stanziata a Santa Maria Novella. Qui noi attendevamo a mandare ad esecuzione il disegno di cui già tenni proposito, allorchè, avendolo i più audaci subodorato, si ribellano con minaccie di morte: ordinai si trasportassero due cannoni, e al Quartiere, intimati prima i pacifici a separarsi dai rivoltosi, si appuntassero. Però essi non ne aspettarono la vista, e più che di passo trassero alla Porta San Frediano incamminandosi verso Livorno, dove tolleravansi o di leggieri erano scusati. Il Dispaccio del 10 marzo così ammonisce il Governatore: «Accade un fatto gravissimo che dev'essere ad ogni costo, intenda bene, ad ogni costo represso. Una parte della Municipale di Livorno si è ribellata. Prima, nel Convento di Santa Maria Novella, aveva fatto mostra di difendersi; poi è uscita da Porta San Frediano, e non si sa dove siasi diretta. Verrà forse a Livorno. Prenda, con la massima segretezza e con vigore, le misure onde venga arrestata. Si concerti con Frisiani e con altri Ufficiali di testa. L'avviso a tempo, onde a tempo provveda. Non intende il Governo mezzi termini nè pietà. Se mostriamo mollezza per la Guardia Municipale, è finita: invece di difensori avremo un branco di assassini[369] Il Maggiore Frisiani raggiunge le Guardie ribellate a Pisa, con ordine di tradurle da capo a Firenze sotto scorta; si sottomettono, ma implorano andare a Livorno, e non tornare alla Capitale presso il Governo Provvisorio. Frisiani non si reputando facultato (come invero non era) ad arbitrare, viene per ordini.[370] Le Guardie promettono aspettarne arrestate il ritorno; i Maggiori Frisiani e Magagnini mallevano per loro; fa lo stesso Mastacchi; se non che le Guardie, mutato consiglio, dai Quartieri di San Martino si recano, nella sera del giorno 12 marzo, alla Stazione della strada ferrata, e quivi per amore o per forza intendono volere essere trasportate a Livorno.[371] Il Governo, sentinella perduta dell'ordine, alacremente commette al Governatore: «L'arrivo dei Municipali a Livorno è fatto gravissimo, e tale da cimentare la pubblica sicurezza. Se forza non rimane alla Legge, il Governo è d'uopo che si dimetta, e con esso cadano tutti i funzionarii pubblici per dare luogo ad uomini facinorosi che condurrebbero a irreparabile ruina il Paese.[372] È necessario pertanto che cotesti ribelli sieno per forza o per arte arrestati e disarmati. Procurate con ogni mezzo che ciò si ottenga, il Governo penserà in giornata a darvi le istruzioni in proposito. Se in un corpo, che tutto deve imporre con la forza morale, si lasciano introdurre germi d'immorale dissoluzione, io non so più qual forza resti al Governo per fare eseguire le Leggi; qual tutela resti al Popolo della propria sicurezza. Uno esempio è necessario. I cinquanta militi municipali venuti costà non appartengono più al corpo. Restituite con un atto di coraggio la fiducia che deesi avere dal Popolo nella Guardia Municipale, e che le mancherebbe, qualora questi sciagurati, indegni di appartenervi, andassero anche questa volta impuniti. I Maggiori Magagnini, il Frisiani, e il Mastacchi hanno cimentato la loro parola in questo affare. Agiscano; chè altrimenti ne va del loro onore. Ogni buon Livornese deve vergognarsi di convivere nelle stesse cerchia e di chiamarsi concittadino di uomini così indisciplinati e ribelli come sono cotesti Municipali.»[373] La pubblica indignazione levandosi a danno loro, altri non potè assumerne le parti di protettore e avvocato; figli di predilezione erano essi, ma sul momento fu mestieri abbandonarli, bensì con fiducia poterli restaurare dello smacco largamente ed in breve. Il Governatore, verso le ore due pomeridiane del giorno 13, annunzia i Municipali disarmati essere stati tradotti in Fortezza; «chiedere intanto essere autorizzato a inviarli a Pisa per essere ivi custoditi e giudicati; implora molta indulgenza e sollecita, non senza però il più ampio apparato di Giustizia.»[374] Fu il richiamarlo risposta. La Fazione sentendosi percossa, prorompe in aperte minaccie; Pigli torna a Livorno; una parte del Popolo tumultua, e intende impedirne la partenza;[375] ma egli ormai privato del comando, increscioso a molti per le sue avventate parole, a parecchi ancora dei suoi partigiani caduto novellamente in fastidio pel non degno abbandono del Colonnello Reghini, comprende essere migliore partito per lui abbandonare Livorno riducendosi a Firenze: quello che vi venisse a fare lo dichiarano i Documenti officiali dell'Accusa; egli venne a osteggiare il Governo, nelle Assemblee e fuori, istando ardentissimo perchè la Repubblica e la Unione con Roma si proclamassero.

Nel giorno 14 marzo stavano radunati nella mia stanza i signori Montanelli, Mazzoni, Pigli, Reghini, e D'Apice, a cui Reghini su la prima giunta aveva esposto per filo e per segno com'erano andate le cose. Io invitai il Colonnello a contestarle in presenza al Governatore; ma egli, si peritasse per gentilezza, o per altro motivo, si andava tuttavia schermendo: allora lo confortai a favellare senza ritegno; poichè la sua sentenza adesso suonava diversa dalla manifestata testè.... nella stessa mattina al suo Superiore. Egli, fattosi animo, confessava essere stato abbandonato pur troppo alla furia popolare dal signor Pigli, e nel venire tratto giù per le scale avere creduto arrivata la estrema ora per lui. Il Pigli si scusava affermando avere adempito a quanto era in potestà sua di fare. Congedati il Generale e il Colonnello, gli palesai aperto non lo potere più oltre conservare in Livorno; e siccome i miei Colleghi assentivano al detto, egli si piegò a dimettersi ponendo innanzi certe sue pretensioni di pecunia, le quali lasciai che altri regolasse con lui, contento ch'egli dal governo di Livorno ad ogni modo cessasse.

La Guardia Municipale ebbe a venire in Firenze e sottomettersi; a Livorno proposi una Commissione governativa composta dei signori Fabbri, Pappudoff, e Manganaro.[376] Certo, Luigi Fabbri fu soldato prestantissimo, e dei primi della guerra della Indipendenza; e spesso (chè spessissime volte col fine di bene inculcarlo nella mente degl'ignavi ascoltatori ei lo disse) con l'orgoglio che ogni concittadino sente in cuore pei forti detti e pei generosi gesti dei suoi compatriotti, lo udii, e ben mille altri meco lo udirono ripetere le parole con le quali, tutto infiammato, usciva nella Seduta del 23 gennaio 1849: «Tra questi v'è un uomo, e sono io, che, all'istante nel quale fu dichiarata la guerra, prese le armi, e, senza diffondersi in vane parole o in semplici grida sulle pubbliche piazze, o in esagerati concetti per istrappare l'applauso dal sentire generoso del Popolo, ha pugnato nella guerra della Indipendenza, ed ha affrontato la morte; e non solo ha affrontato la morte lasciando teneri figli ed amata consorte, ma adesso dichiara, in presenza a tutto questo onorevole Consesso, che ritornando le armi nostre su i campi lombardi, sarà pronto di nuovo a cingere la spada.»[377] — Ma non per questo nè allora nè poi fu Repubblicano il Fabbri, e, se ne avesse bisogno, gliene potrei far fede; e il signor Pappudoff nemmeno, comecchè amico delle oneste libertà. In quanto a Giorgio Manganaro, basti dirne questo: che la parte faziosa lo ebbe ad oltraggiare con la brutta minaccia: « Devi fare come il Pigli, o ti butteremo dalla finestra[378]

Tutte queste cose io volli dire seguitatamente, affinchè si comprendesse come, amici Pigli e La Cecilia una volta, meco una volta concordi per sostenere e promuovere gl'interessi del Principato Costituzionale toscano,[379] poco oltre l'8 febbraio, acconsentendo ad altre persuasioni, gli avessi prima segreti, poi alla scoperta avversarii. Da Firenze in prima si estorcono commissioni onde al Governatore di Livorno sia fatta abilità di eseguire, con nome e credito governativi, ufficii contrarii alla mente del Governo; a suo arbitrio estenderli; a norma degli ordini di tale che in quei giorni troppo più di me poteva, ed era obbedito, applicarli; indi a breve, nemmeno gli ordini si aspettano o si cercano; e già in Livorno spunta costituito il Governo, che, passandomi sul corpo, si augura la Repubblica, la Unione con Roma, e la Decadenza del Principe proclamate. Così vedremo con quanta diligenza e pertinace volere da una parte, difficoltà e pericolo dall'altra, pervenni di mano in mano a contenere la Setta, che dello intero Popolo toscano piccola parte, ma prepotente di audacia e di gagliardía, mentre attende cupidissima a sospingere il Paese nella Repubblica, non si accorge precipitarlo fra gli orrori rivoluzionarii nell'anarchia.

Secondo l'ordine dell'Accusa succede la lettera scritta nello stesso giorno 14 febbraio a Tommaso Paoli, consigliere della Prefettura di Pisa, la quale, comecchè dettata nelle condizioni medesime di tempo e di luogo, forza è che si giustifichi con le ragioni addotte in proposito del Dispaccio al Governatore Carlo Pigli. E dove si ricerchi argutamente la materia, tu vedi in cotesta lettera espressa la traccia di pressura attuale. Invero, ricordisi quanto nel § della Dimostrazione provai con la testimonianza dei Giornali, voglio dire le Deputazioni dei Circoli una succedentesi all'altra nel giorno 13 febbraio, e con quanta mansuetudine oggimai è manifesto, per essere ragguagliate di quanto sapeva e operava; e allora si comprenderà come, per ischermirmi dall'accusa di negligenza (e insinuavasi tradimento), rimproverato, rimprovero di essere lasciato privo di novità. Ancora: il linguaggio che correva su per le bocche degli uomini in quei tempi, ed usavasi nelle scritture, nelle petizioni dei Circoli, ed in quel punto si favellava dalle persone che mi stavano al fianco, forza è che trapassi nel Dispaccio, siccome nel Dispaccio dell'8 febbraio fecero passaggio le parole: «il Principe è decaduto;» e oggimai per mille documenti è provato com'io questa decadenza conflittassi e impedissi. Finalmente, quantunque commosso dalla presenta perturbazione, bene ordino radunarsi uomini, ma parte inviarsi a Lucca, e parte tenerne a disposizione del Governatore di Livorno, il quale a sua volta aveva a dipendere dal Generale D'Apice, come fu dimostrato di sopra.

Ora l'Accusa (ma di siffatti studii non si occupano le Accuse) se avesse desiderato chiarirsi, poteva mettere a parallelo degli atti che incolpa, altri atti che pure ella raccolse nel suo Volume, e confrontando avrebbe acquistato la conferma (dove facesse mestieri) della patita coazione. E innanzi tratto io pongo il Dispaccio mandato allo stesso Consigliere Paoli, dove lo avviso della infermità sopraggiuntami, ed in bel modo lo conforto a procedere prudentemente e con temperanza grandissima, a impedire ingiurie ed offese, a rendere amabile la libertà proteggendo tutti, e conservando il diritto ordine fecondatore del vivere civile.[380] — Di molto maggiore importanza apparisce l'altro Dispaccio del pari indirizzato al Consigliere Paoli:

« A buono intenditore poche parole. — Armatevi — armatevi — armatevi. — Esaltate i soldati; — NON ABBIAMO BISOGNO DEL GIURAMENTO, — ma pure se lo prestano meglio che mai.

«Bisogna che diate forza al Partito democratico di Lucca.

« Non si precipiti nulla in quanto a Repubblica.

« 1º Perchè tutta Toscana ha da esprimere il suo voto.

« 2º Perchè Francia e Inghilterra, stando così, proteggono da invasione straniera; — se no, abbassano le armi, e abbandonano il Paese: giudizio dunque. Partecipi agli amici, non che al Prefetto, se crede

E sapete voi quando io dettava cotesto Dispaccio? Il 13 FEBBRAIO 1849 nelle ore pomeridiane, e per tal modo poco tempo innanzi che per me si scrivesse il Dispaccio incriminato. Voi lo vedete adunque: intorno al giuramento non metto sollecitazione veruna, anzi dichiaro non averne bisogno; raccomando impedirsi la Repubblica; ammonisco intorno ai pericoli non mica transeunti, bensì permanenti, e tali da non iscomparire da un giorno all'altro dove sconsigliatamente si proclamasse; tra siffatte disposizioni dell'animo mio manifestate nel 13 febbraio, ponete le strette e le violenze, che in parte vennero raccolte nel § della Dimostrazione; e si abbiano anche i più diffidenti prova non dubbia della sofferta pressura. Le discrepanze, o meglio le contradizioni fra il Dispaccio del 13 e l'altro del 14 febbraio, somministrerebbero di leggieri materia a lungo discorso: io però amo il lettore di per sè stesso le senta, piuttosto che andargliele ad una ad una enumerando partitamente io.

Per quanto in queste angustie mi è dato, ricorderò alcuni pochi atti, onde il paragone sempre più riesca convincente. Nel giorno 8 di febbraio 1849, instituisco una Commissione, perchè provveda alla custodia dei mobili tutti appartenenti al Granduca, ond'egli (se la fama mi porge il vero) ebbe a dire a Sir Carlo Hamilton, delle cose sue non avere perduto la più piccola; nel 9, alla domanda (ed era minaccia): «nasce dubbio nel Pubblico, che la proclamazione del Governo Provvisorio Toscano abbia fatto cessare le attribuzioni dei pubblici funzionarii,» rispondo sollecito dopo pochi minuti: «il dubbio non è fondato; stieno al posto; chè il mandato dura finchè non sia revocato.»[381] Chiunque attende a mutare forma di Governo, non ne conserva la organizzazione e gli ufficiali; ma quella immediatamente disfa, questi licenzia. Nel 10, riavutomi alcun poco dallo sbigottimento, malgrado la decadenza del Principe proclamata dal Popolo l' 8 febbraio, e malgrado che io pure fossi costretto a scrivere quella parola in quel giorno, annunzio:

«Cittadini. — Abbandonato il Paese a sè stesso, noi fummo dal Parlamento toscano e dal Popolo eletti custodi della pubblica sicurezza. Fermo proponimento nostro è mantenerla, e difenderla. I Cittadini cui preme la Patria si stringano intorno a noi. Chiunque con fatti o detti attenta alla salute pubblica, commette scandali, ed eccita la guerra civile, sarà considerato traditore della Patria, e come tale punito. — Firenze, 10 febbraio 1849

Il giorno seguente, osando di più, il Governo dichiara: suo primo dovere consistere nel mantenere la pubblica sicurezza; in quanto alle sorti toscane, aversi queste a decidere dalla intera Nazione col mezzo dei suoi Deputati; rispetterebbe allora il Governo le volontà del Popolo sovrano: — con le quali sentenze davo ad intendere senza ambage, che tutto quanto era stato deliberato da parte del Popolo a Firenze io riteneva per irrito, e come a cosa di nessun valore ricusavo sottopormi: la universa Toscana, debitamente interrogata, disponesse di sè:

«Dopo che la Toscana fu priva di uno dei tre Poteri dello Stato, fu eletto dal Popolo, e confermato dal libero voto delle Assemblee, un Governo Provvisorio. Primo ed ultimo dei doveri di questo doveva essere la tutela dell'ordine pubblico. A tanto dovere non mancherà mai questo Governo, finchè gli bastino tutte le sue cure, e tutto sè stesso.

«Ai Toscani poi tutto il diritto, e il dovere insieme di decretare la forma che ha da prendere lo Stato. Quando i Deputati eletti liberamente per universale suffragio avranno espresso la volontà loro, il Governo Provvisorio darà primo lo esempio della più perfetta obbedienza ai voleri del Popolo Sovrano. — Firenze 11 febbraio[382]

Finalmente il giorno 14 di febbraio, il giorno stesso del Dispaccio incriminato, faceva scrivere dal Segretario Marmocchi al Governatore di Portoferraio: « sa peraltro che se il Principe è partito, non è decaduto.»[383]

Nel giorno 10 febbraio, considerando la miseria a cui la partenza del Principe riduceva i suoi familiari, e compiacendo ai desiderii di lui, decreto:

«Tutti i Cittadini che fin qui appartenevano al servizio del Principe, riceveranno provvisoriamente la loro pensione a carico della Depositeria Generale, finchè il Governo non abbia trovato il modo di sistemarli convenientemente.»

Nel giorno 11 febbraio, così imponendo i proconsolari ordini della Setta, decreto, che il regio Palazzo della Crocetta sia destinato ad ospedale degl'Invalidi; più tardi, si è veduto, i novelli Municipali vanno di proprio arbitrio a rinnuovare ai Custodi la minaccia dei veterani di Augusto ai possessori degli agri italici: veteres migrate coloni; ma segretamente dispongo non s'innuovi.[384] Nel giorno 11 febbraio, ricercato il Governo dal Governatore di Livorno, se i soldati mossi da quella città per Firenze avessero a proclamare la Repubblica, risponde: chiamarsi pel mantenimento dell'ordine, non già per dimostrazioni politiche, le quali dovevano all'opposto con ogni studio prevenirsi.[385] E qui mi sia concesso notare, onde si conosca quanta sia stata la umanità mia, e la cura indefessa, perchè nefande discordie tra la famiglia toscana non insorgessero, o insorte appena posassero, la esortazione rivolta nel medesimo giorno al Governatore Pigli: «Si raccomanda la buona condotta passando per Empoli. Si rammentino, che gli Empolesi, momentaneamente traviati, sono fratelli.»[386]

Nè, quantunque poco faccia alla materia in questo punto discorsa, io mi asterrò da riportare un Dispaccio telegrafico da me dettato il 16 febbraio, relativo ai Veliti. — O voi non degni soldati di questo corpo onorevole, e da me onorato, che veniste a inacerbirmi il carcere di San Giorgio dicendomi improperii sotto le cieche finestre, o minacciando traverso le porte, io non voglio rammentarvi, che per me, assentendo ai desiderii vostri, dagl'ingratissimi ufficii di Polizia foste rilevati; e neppure, che sopra ogni altra milizia Toscana otteneste prerogative, e soldo; queste cose accennerebbero, per avventura, a provocare la vostra riconoscenza; ed io ve ne dispenso. Leggete, vi scongiuro, più che con gli occhi col cuore, il mio Dispaccio del 16 febbraio, ed imparate che cosa sieno amore di cittadino e carità di Cristiano. — Avvertito, da Pontedera, come alcuni Veliti per timore di minaccia fuggissero via, così gravemente ammoniva:

«Invece di accomodare, arruffate. Qui i Livornesi hanno fatto pace co' Veliti; a Pontedera gli minacciano; sicchè questi fuggono. I Veliti sono il miglior corpo che abbiamo. Bisogna che voi gli richiamiate, e subito fate pace, e sincera. Con questi modi prevedo guai grandi. Siamo tutti fratelli; se non l'amore, ci stringa il pericolo comune.»[387]

Quando lo insulto si posa sopra le labbra del soldato, il valore leva le tende dall'anima sua.

Correva il giorno 12 febbraio, quando una moltitudine di Popolo, traendo a furia su la Piazza del Granduca, si accinse a piantare l'Albero della Libertà, e con infiniti schiamazzi chiedeva il Governo, affinchè l'atto approvasse, e lodasse. Mi presentai solo, e solo mi attentai a contrastarlo, e lo chiamai prepotenza diretta a costringere gli altri Toscani, i quali forse lo avrebbero consentito, ma non erano presenti per farlo: appartenere al libero voto di tutto il Popolo toscano, radunato in Assemblea il 15 del futuro marzo, decidere su la forma del Governo.[388] — Quale concepisse rancore la Fazione assai dimostrammo, e più dimostreremo, se Dio ci aiuta; però nonostante le mie parole, tornava più tardi, e lo volle piantato sotto i miei occhi, quasi in dispregio di me. Siete chiariti adesso, che nè sempre, nè tutto quello che desiderava non fatto, mi riusciva impedire? L'Accusa impenitente sussurra: lustre per parere; opere volpine per istare apparecchiato ai successi futuri. Sta bene; ma egli è forza convenire, che mentre provvedevo alle probabilità future, correvo temerario il pericolo di rimanere oppresso nelle contenzioni presenti: e questo io non vorrei rinfacciare l'Accusa per non avere fatto, ma vorrei, che un cotal poco più onesta ella fosse nel darmi merito per averlo fatto io.

Nè meno importa allegare in mia difesa il Decreto dei Commissarii da inviarsi nelle Provincie, che compilato dal sig. Mordini, firmai il 14 febbraio, avvegnachè in esso non si faccia pur motto di Repubblica, nè di altro attenente a forma di Governo, bensì di risvegliare i sensi generosi della Nazione, mettere a profitto i mezzi sparsi in tutto il Paese, facilitare il fornimento delle Guardie Nazionali, lo scriversi dei Volontarii alla milizia; raccogliere insomma in uomini, in bestie, in danari, e in arnesi, quel più che la diligenza loro avesse potuto ottenere dai Municipii toscani.

Ora tutte queste paionmi prove evidentissime della mia reluttanza a operare cosa che tornasse ostile al Principato Costituzionale, però che da me pendesse unicamente consumarne l'abolizione; e se questa allora e poi contrastai, stupido concetto è pretendere, che al punto stesso io la provocassi e volessi.

Nè pentere e volere insieme puossi,

Per la contraddizion che nol consente.

( Dante, Purg., III.)

Lo dice anche il Diavolo, ch'è pure il Procuratore Regio nell'altro mondo!

Appartiene, per ordine di data, a questa sede del nostro discorso la lettera che l'Accusa senza altro impaccio afferma da me spedita al conte Del Medico; ne favellerò in altra parte: intanto importa fino d'ora avvertire, ch'ella non è punto una lettera mandata, bensì semplice nota posta sotto la missiva di cotesto Delegato: il che suona troppo diverso. E qui pure, se non per ragione di data, per connessità di materia, dovrei esporre i motivi delle note, che si afferma di mio carattere scritto sotto le lettere del 12 e 17 febbraio 1849, la prima del Consigliere di Prefettura, la seconda del Prefetto di Grosseto; ma poichè esse vengono governate da altra serie di fatti, io penso con migliore consiglio favellarne là dove di questi fatti terrò ragionamento. Chiuderò piuttosto, prima di passare ad altro, col proseguire la storia dei sospetti e degli eccitamenti contro la mia persona, mossi dalla Fazione dei demagoghi dai primordii del Governo Provvisorio fino a questi tempi, e poi purgandomi dall'accusa della persecuzione esercitata contro i Sacerdoti.

Nel 9 febbraio, a nome della Fazione, intimasi il Governo a spogliare gli abbienti del superfluo, e a distribuirlo fra il Popolo; ai colligiani, alle femmine, agl'impiegati tolga le pensioni mal date e peggio ricevute, e subito, perchè già in qualunque Governo sarebbe sacramentale dovere, ma in quello che regge, dura, vive e respira per volontà di Popolo, è condizione di vita, necessità. Nè dica domani, no: domani potreste non essere più vivi...[389]

Della inquieta polizia dei Circoli somministrano prova i Documenti dell'Accusa in data dell' 11 febbraio, con l'ordine di vigilare i palazzi, e la taberna di alcuni cittadini.[390]

Nel giorno 13 febbraio, la Emigrazione Lombarda minaccia prossima l'accusa davanti il Popolo, per la colpevole inerzia con la quale avevo poltroneggiato fin lì.[391]

Nel 14 il Monitore del Circolo, me e i miei colleghi bandisce Governo austriaco, se, dubitando, indugiamo più oltre a proclamare la decadenza del Principe.[392]

Nel giorno stesso, pel medesimo Monitore rimango avvertito che il mio mal sonno di tre giorni (la Emigrazione Lombarda vedemmo, che lo calcola di sei ) mi tornerebbe fatale, avvegnachè io giuocassi della mia testa.[393]

La mia opposizione al piantare l'Albero è denunziata al Circolo, da quello con parole crucciose avvertita, e minacciosamente dal suo Monitore propalata.[394]

Con pari cruccio, e pericolo anche maggiore, la Emigrazione Lombarda avvisa il collegio repubblicano essere stata da me freddamente accolta la Deputazione venuta a instare, affinchè la Repubblica senz'altro indugio si proclamasse.[395]

Scellerata cagione di sangue, me furibondi designano alla pubblica vendetta, perchè relutto a dichiarare la Repubblica, la decadenza del Principe, e la Unione con Roma.[396]

Questi, ed altri tali, erano dardi avventati ad hominem, dacchè, bene o male che il credessero, demagoghi e Repubblicani pensavano essere io impedimento unico a conseguire il termine estremo degli sforzi loro,[397] senza il quale, assai più esperti dell'Accusa, tenevano non avere conquistato nulla, e riposta ogni cosa in compromesso. L'Accusa, tetragona ai colpi di paura, scriveva, dentro la sua stanza, nel gennaio del 1851, a canto al fuoco, gli usci diligentemente serrati: — lievi prove di coazione sono coteste, anzi non sono prove, e, meglio meditandovi sopra, piuttosto sono prove escludenti qualsivoglia violenza! — Ma, Dio eterno, che cosa pretenderebbe l'Accusa? che io, in prova della violenza patita, le portassi davanti la mia testa mozza come Beltramo da Bornio?[398] Atroce patto ella pone alla sua fede, se non si contenta di altro che di gole squarciate, e di cuori fessi! L'Accusa non tace che alla prova del cataletto...

Le manifestazioni di animosità della parte repubblicana, a me particolari, sono venuto con prove espresse raccontando durante il mio Ministero, e nei primi giorni del Governo Provvisorio; vedremo a mano a mano crescere in breve, e prorompere alfine in manifesta accusa di traditore.

Da me altri non aspetta (e non mi sento tale da farne) proteste di devozione serotina: io parlo piuttosto con la coscienza del testimone, che con lo zelo del difensore. Però, innanzi tratto, dichiaro, ch'eletto a tutela della pubblica sicurezza, io non solo non mi reputerei colpevole di avere adoperato contro i Sacerdoti, secondo i meriti loro, ma all'opposto mi terrei colpevole per essermene astenuto. Forse i Sacerdoti presumono esercitare il privilegio del delitto? Chi questo crede, gl'insulta. La santità del carattere e lo istituto sublime impongono loro augumento di carichi, ed essi lo sanno, non già dagli assunti doveri gli assolvono. Nè Cristo senza sacrilegio può essere tolto a segnacolo di fazioni contrarie; egli sente misericordia di tutti; per chi piange, ed anche per chi fa piangere. Monsignore D'Affre, inclito martire della fede cristiana, quando si avventurò tra i furori della battaglia cittadina, non andava già a rafforzare questa parte o quella; finchè cristiani uomini gli uni contro gli altri combatterono, egli gridò: — «forsennati! forsennati!» e li conteneva; quando cadevano, egli gemè: — «infelici!» e gli andava soccorrendo; quando fu piagato di mortale ferita, ei li chiamò: — «figliuoli!» e li benedicea. — Chi davanti a Sacerdoti siffatti non s'inchina? — I Sacerdoti commettitori di scandali e di risse, già più Sacerdoti non sono; la Chiesa, pel carattere che rivestono, bene domanda sia proceduto contro loro con certi riguardi, ma essa prima e più severa di tutti acerbamente gli accusa. Ciò premesso, io dichiaro, non avere mai dato ordine che si arrestassero Sacerdoti. Mentre fui Ministro dello Interno, feci chiamare, come altrove ho notato, alcuni Preti ed alcuni Frati, e gli ripresi del poco amore che portavano alla Patria, del costume pessimo, e dello sviarsi dietro a cose umane che non ispettavano loro, con iscapito grande delle divine a cui erano unicamente commessi; non però gli arrestai, nè in altro li volli mortificati. Durante il Governo Provvisorio non adoprai modi diversi; anzi, ricordo come certa volta presentatisi avanti il Ministro dello Interno alcuni Sacerdoti, udii riprenderli, perchè si mostrassero avversi alla Costituente, e andassero dissuadendo la difesa del Paese; e dico averli uditi riprendere, dacchè non erano stati punto chiamati per ordine mio, e nello ufficio del Ministro io penetrava a caso. Senza profferire parole, in disparte ascoltai le discolpe loro; poi fattomi presso ad uno che al sembiante mi parve più giovane degli altri: — «Io non so, Reverendo, incominciai ponendogli la mano destra sul braccio, io non so, Reverendo, perchè voi non dobbiate amare la Patria; anzi non so perchè voi non la dobbiate amare più di noi.» E il degno Sacerdote con atti e parole vivaci rispose: «Io amo il mio Paese al pari di ogni altro. Rispetto alla Costituente Italiana, la mia coscienza mi vieta aderirvi; ma in quanto a difendere la mia Terra dalle invasioni straniere, da Sacerdote le affermo, che prenderei l'arme, e verrei a farlo io stesso.» — Allora gli strinsi la mano, e conchiusi: «E tanto basta, mio degno Sacerdote,... tanto basta.» — Quando mi verrà concesso esaminare gli Archivii, ritroverò il nome e la condizione del Prete.[399]

Superiormente alla tristizia dei tempi, trovarono in me i Sacerdoti continua ed efficace tutela. Di ciò provare mi porge abilità la cortesia dell'Arcivescovo di Firenze, il quale, da me richiesto, mi rimetteva la copia autentica della lettera che io gl'indirizzava il 2 aprile 1849:

«Monsignore.

«Io vorrei pregarla, Monsignore, ad avere la compiacenza di significarmi se V. S. Rev. ma intende per le imminenti solennità celebrare in Firenze.

«Nel mentre che io vado persuaso che V. S. Rev. ma si penetrerà di quanta pace e di quanta consolazione sarebbe la sua presenza in mezzo al suo ovile, mi permetterei aggiungere le mie preghiere caldissime onde ciò abbia effetto.

«So bene che V. S. Rev. ma non si tratterrebbe punto nello esercizio delle sue sacre funzioni per sospetto che potesse concepire; pure vada convinto, che finchè duri nello arduo uffizio che mi fu confidato, saprò e vorrò mantenere severamente la reverenza che si deve a tutti gli Ecclesiastici in generale, e in particolare alla sua degna persona.

«Di Lei, Mons. re Reverend. mo

«(L. S.) Li 2 aprile 1849.»

«Devot. mo « Guerrazzi. »

E già io gli aveva dirette altre due lettere in risposta alle sue, con le quali mi domandava protezione per lo esercizio delle sue episcopali prerogative. Quantunque egli abbia smarriti gli originali, non ha mancato il degno Arcivescovo, con esempio di rettitudine generoso, non per anche imitato da tutti quelli nei quali io maggiormente confidava, di sovvenirmi nelle dure strette in cui mi trovo con lo aiuto delle sue reminiscenze, come si conosce dal seguente attestato:

«Attesto per la pura verità, che nel tempo da me trascorso alla Badia di Passignano, dopo le tristi vicende che mi costrinsero ad abbandonare questa Capitale, oltre una terza lettera già da me rilasciata dietro richiesta delle Autorità Giudiciarie, io ne ricevei pure altre due direttemi dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi, in allora Capo di quel Governo Toscano, nelle quali, con espressioni le più ossequiose e rispettose, mi diceva ch'egli approvava pienamente le misure da me prese di relegare all'Alvernia i due Sacerdoti *** *** come propagandisti di dottrine eterodosse, e mi protestava che sarebbe stato sempre deferente all'Autorità Episcopale, promettendo, fintantochè egli fosse stato a capo del Governo, favore, protezione e sostegno pel libero esercizio della medesima.

«Non avendo io tenuto conto di dette due lettere, e venendomi esse richieste dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi per interesse della sua difesa, ho stimato mio dovere di manifestarne il sentimento, e rilasciarne il presente certificato.

«In fede ec.

«Dal Palazzo Arcivescovile di Firenze,

«(L. S.) Li 11 marzo 1851.

« Ferdinando Arcivescovo di Firenze.»

E queste sono nobili parole: in prigione non posso nè devo fare più lungo sermone. Allora la lode è turpe per cui la profferisce, e senza onore per cui la riceve, quando possa sospettarsi che muova da viltà o da paura. Miseria non ultima del carcere, dove il biasimo ti viene ascritto a furore, la lode ad abiezione. La virtù nella comune estimativa del mondo sta abbracciata con la fortuna.

E, non diverso dall'Arcivescovo di Firenze, il Vescovo di Milto Ordinario a Livorno, con lodevole premura porgeva anch'egli testimonianza di averlo io sostenuto, affinchè in negozio dilicato l'autorità sua fosse obbedita.

«I Signori *** *** presentandosi come incaricati del signor Avvocato F.-D. Guerrazzi mi richiedono di uno attestato, che stia a constatare qualmente il medesimo mentre dirigeva il Ministero dello Interno si prestò ad appoggiare la mia Autorità di Ordinario in emergente dilicato, interessante la moralità e la coscienza, ed io non posso ricusare un tale attestato, in quanto che è vero, che in circostanza come sopra fui dal suddetto signor Guerrazzi utilmente coadiuvato. Ed in fede

«(L. S.) Livorno, 26 luglio 1851.

« Girolamo, Vescovo di Milto

Nè già si creda, che senza mio sommo pericolo fossero i soccorsi, che, secondo l'obbligo mio, dava allo Episcopato per lo esercizio delle sue legittime prerogative, e la preghiera al fiorentino Arcivescovo, che con la presenza e i riti la religione commossa confermasse. Un cartello infame fu affisso nel giorno terzo o quarto di aprile all'Albero della Libertà, piantato in Piazza del Duomo, e fatto remuovere vi ricomparve più volte, il quale diceva così: «Due traditori (il primo era io, il secondo Monsignore Arcivescovo) si sono dati la mano per tradire il Paese; si muova il Popolo, e si dia la meritata pena, prima che gli scellerati disegni sieno compiti.» A vero dire io non ebbi mai l'onore di favellare con lo Arcivescovo; ma non importa; noi cospiravamo insieme per tradire il Paese. In quanto al soggetto cui accenna l'attestato di Monsignore Vescovo di Milto, mi dichiarò mortalissima guerra; scriveva lettere ortatorie perchè mi si spingessero contro come a un verro di macchia, perchè traditore della Patria, venduto ai tiranni, col corredo delle consuete ribalderie, che i ribaldi costumano. La Polizia sorprese una di queste lettere, e svelò come anch'egli partecipasse alle trame del Frugoni di cui ho parlato a pag. 369 di questa Apologia. Longanime come è mia natura, non uso a tremare, e per paura offendere, tardo a muovermi quanto più in grado di accompagnare il baleno del volere col fulmine del fare, io mi restrinsi a spedire la lettera intrapresa del tristo Prete a Manganaro, ordinandogli di depositarla negli Archivii della Polizia, e sorvegliare, e sfrattare il Frugoni.[400]

Ma tornava al benevolo disegno della Accusa raccontare di Preti imprigionati e di Arcivescovo offeso, me annuente o impotente. Ciò non pensava il Vescovo di Livorno, e molto meno lo Arcivescovo di Firenze, che a me ricorrevano per protezione in tempi anche più torbidi, e la ebbero, però che io con tutti i nervi mi vi adoperassi. Ma che importa questo? Ciò che si dimostra lo Arcivescovo non avere mai pensato, pensa l'Accusa; e non solo lo pensa, ma lo rimprovera, e ne forma subietto d'imputazione.

L'Accusa fonda il rimprovero: 1º sopra taluni ordini spediti l'8 febbraio 1849, dove leggonsi l'espressioni: «Si vuole ovunque mantenuta la pubblica tranquillità, ed energicamente represso ogni tentativo reazionario contro lo attuale ordinamento, se vi fosse tanta stoltezza da tentarlo. I Parrochi in ispecie, e Preti in generale, debbono rigorosamente guardarsi, e ove costoro, o chiunque altro, si cogliessero in fallo, sieno irremissibilmente carcerati e processati;» 2º sopra una lettera del 19 febbraio che dice: «Se trova Preti renitenti o traditori, è tempo finirla; si arrestino questi indegnissimi figli della Patria e di Cristo, e si mandino legati a Firenze. Non ammettiamo esitanza, dubbio, od osservazione in contrario: sotto la responsabilità sua, si leghino e mandino in Firenze.»

Mi rifarò dal documento secondo. Le osservazioni, che questa lettera ignoravasi 1º a cui fosse mandata; 2º se spedita; 3º da cui scritta; 4º e da cui firmata, — conciossiachè le firme del signor Montanelli e mia non appaiono di nostro carattere, e il corpo della lettera neppure, come neanche di persone addette alle Segreterie, nè di familiari nostri; tutte queste osservazioni, almeno per quello che sembra, hanno persuaso l'Accusa a dubitare un tantinetto intorno alla autenticità di cotesto documento: però io mi stringerò a dichiarare in istil breve e succinto, che di questa carta io non devo dire nulla. Per qual motivo poi, con mille altre di pari natura, l'abbiano stampata nel Volume, pende il giudizio incerto. Alcuni sostengono, che la Istruzione dapprima si avvisasse apparecchiare il caos, onde i Giudici poi, quasi divini, dicessero: «si faccia luce,» e luce si facesse; — altri opinano, che ella intendesse fornire un saggio della intelligenza e della prestanza di taluni impiegati toscani; e si maravigliarono perchè il Volume dei Documenti non fosse spedito, con tante altre rarità, alla Esposizione di Londra.... ma, spicciandosi, sarebbero sempre a tempo; — altri, altra cosa dichiarano. Intanto stampano lo Indice, ottima giunta alla buona derrata, perchè accuratamente compilato, con diligenza elzeviriana corretto, sicuro nelle indicazioni; per sugosi sommarii, e soprattutto precisi, veramente esemplare;... questa opera inclita in ogni parte armonizza![401] — Favelliamo di altro. E quanto espressi sul documento secondo dovrebbe giovarmi anche pel documento primo, dacchè non sia scritto nè firmato da me, sibbene dal solo Segretario signor Allegretti. Ma il Segretario Allegretti, ricercato con lettera intorno alle ragioni del Dispaccio, risponde per lettera quello, che già abbiamo letto a pag. 289 di questa Apologia. Quando il signor Segretario sarà richiamato, come diritto vuole, non dubito punto nella rettitudine sua, ch'egli vorrà rammentarsi come mostrando nel volto dolore, gli domandassi che avesse, ed avendomi manifestato la repugnanza sua a scrivere disposizione siffatta intorno ai Parrochi, io gli rispondessi: «ed ella non la metta.» Se non che altri intervenne, e disse con impeto: «che importa a lei? Faccia il suo dovere, e obbedisca.» Ma queste cose non importa sapere all'Accusa.

Il Manifesto alla Europa afferma che il Governo non mandò armati a cacciare S. A. da Porto Santo Stefano, e, tranne alcuni pochi Municipali, nessuno; e dichiarò eziandio non essere mai stato instaurato in Toscana il Governo Repubblicano. Questo trovammo a prova essere vero esattamente, se ai Municipali aggiungi i quattordici artiglieri, quantunque rispetto a me non sapessi degli uni nè degli altri. Però non vuolsi revocare in dubbio che le voci corressero diverse dal vero, siccome vediamo per ordinario accadere; se per forte mano vogliasi intendere la colonna Guarducci, nè ella, come chiarii, era spedita da me, nè da altri del Governo, e veniva nel giorno 18 richiamata a Livorno, e rivolta verso il contado lucchese; se per capi stranieri D'Apice e La Cecilia, il primo non si mosse da Empoli, e ricusò il comando; a La Cecilia non fu commesso dal Governo ufficio di sorta, nè leggo avere operato cosa alcuna, tranne bandire proclami, proporsi di capitanare le milizie civiche della Maremma, e, non rinvenuto il terreno molle, data una gira-volta, tornarsi a Livorno prima del 20 febbraio. Il cannone di Orbetello bene salutò la Repubblica, ma la Repubblica in Toscana non era; per la quale cosa il Manifesto alla Europa non ismentendo (come inesattamente scrive il Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze, a pag. 23 della sua Requisitoria) le cannonate di Orbetello, disse a ragione erroneo il supposto, che la Toscana, decretata la decadenza del suo Principe, si fosse costituita a reggimento repubblicano.

E perchè si conosca a prova quanto il mal genio dello errore abbia presieduto a questa opera infelice della Magistratura toscana, noterò come il Regio Procuratore rammentato adduca a conferma di un fatto vero una prova falsa. Veri gli spari di cannone ad Orbetello il giorno 20 di febbraio; non vero, che ne faccia fede il Dispaccio, allegato dalla Requisitoria, di Carlo Pigli; ed è evidente. Il Dispaccio del Pigli apparisce dettato il 22 febbraio a ore 5, m. 45 pom., e dice: « ieri a Grosseto e a Orbetello fu grandemente festeggiata la Repubblica con sparo di artiglierie ec.;» lo ieri del 22 pare quasi sicuro (a meno, che non lo voglia contrastare il signore Paoli) che sia il 21: però, stando a questa prova, il Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze ci vorrebbe dare ad intendere, che S. A. sentisse nel 20 febbraio i colpi di cannone sparati il 21!!! Ma queste le sono baie.

Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis

Offendar maculis.....

Nonostante, quando si agita del sangue e della fama di un uomo, uno scrupolo più di coscienza non parrebbe che potesse guastare la ricetta.

Onde sieno completi gli schiarimenti sul Manifesto alla Europa, dirò che fu composto sul principiare del marzo. Ora, mantenendo viva (come sarà provato fra poco) la Legge Stataria in Firenze per prevenire uno sconvolgimento in senso repubblicano, chi scrisse cotesta carta, la quale comparisce vergata da mano non mia, per certo reputò nella sua prudenza necessario, e lo era, insinuarvi qualche parola vaga la quale trattenesse gli arrabbiati da darsi alla disperazione; imperciocchè i disperati tutti sieno temibili; i politici poi, tremendi: e questo vedemmo, e tutto giorno vediamo. Niccolò nostro lasciò ai Partiti un buono insegnamento, di cui, se volessero seguitarlo, questi potrebbono avvantaggiarsi non poco; ed è: — che bisogna contentarci del vincere, e schivare lo stravincere. — Nè io avrei potuto contrastare coteste frasi senza venire ad aperta rottura coi Colleghi, mettendo da capo a repentaglio ogni cosa; molto più se si avverta, che il Partito Repubblicano durava sempre abbastanza gagliardo da consigliare il mantenimento della Legge Stataria per contenerlo; e dall'altra parte, che incominciando a stringere il tempo della convocazione dell'Assemblea, urgeva per me tentare il provvedimento supremo di riporre in mani toscane la sorte della Toscana; il quale con buona fortuna (altri dirà, se con senno ed ardire) mi venne fatto operare col Decreto del 6 marzo. Io non mi sentiva uomo, per poche parole senza costrutto, mettermi in avventura di sconciare le cose. Come poi devansi giudicare la parole espresse in simili angustie, vedremo nella ultima parte di questa Apologia, dove riporterò la opinione di uomini di Stato, e di Storici reputatissimi, intorno a casi non pure somiglievoli, ma quasi identici.

Più tardi della Spedizione di Lucca: — frattanto importa notare come la colonna Guarducci, la quale non oltrepassò Rosignano, fosse richiamata, e celeremente spedita verso il contado lucchese. Nè si opponga, come l'Accusa fa, ciò non essere stato spontaneo, bensì per ovviare a maggiore pericolo; no: dicasi piuttosto, che dopo avere in cento modi attraversate le Spedizioni maremmane, io colsi il primo pretesto per mandarle a vuoto. So bene, e a mie spese, che con le Accuse non si fa a fidanza; però intendo dimostrare quanto dico. — La commissione di apparecchiare gente scelta per Maremma, io dava sforzato il 14 febbraio, e la colonna Guarducci senza ordine o avviso del generale D'Apice, nè mio, potè incamminarsi per Rosignano il giorno 17 di febbraio; ma per tornare e volgersi verso il contado lucchese, non le si concede mettere tempo fra mezzo; richiamata il 18 a Livorno, da Livorno nel 18 parte.[402] Ancora: — io dai Volontarii indisciplinati aborrivo, e precisamente in questa occasione, così scrivevo nel 22 febbraio da Lucca al signor Mazzoni, presidente di settimana: «Volontarii, non importa; se prendono ingaggio, va bene, perchè allora si disciplinano, e possono partire; sciolti da qualunque freno, mandano sottosopra ogni cosa,[403] e lo vedo a prova.» Sicchè di loro, così com'erano indisciplinati, non sapeva che farmi. Infatti, parte furono inviati in Val di Serchio, perchè lungo il littorale giungessero a Viareggio; parte, senza ordine, sceso il Colle di Chiesa, si spinsero fino al ponte del Macellarino, con presentissimo pericolo di rimanere tagliati fuori;[404] finalmente, con ispreto degli ordini del Generale, vollero trascorrere fino a Pietrasanta; sicchè D'Apice protestò, che se non indietreggiavano essi, egli non avanzava, per la quale cosa mi avventurai solo fino costà, ingegnandomi con parole ora di preghiera, ora di rimprovero, a farli retrocedere.[405] I Volontarii che vogliono operare a modo loro, sono impedimento, non forza; le popolazioni li temono ed odiano; le milizie ordinate li disprezzano, ed essi rendono a tutti pan per focaccia, con ingiurie e soprusi. Però di Volontarii a Lucca non vi era bisogno; e se fu detto, e' si fece per istornarli dalla Maremma; il maggiore uopo di forze, almeno per testimonianza di persona autorevole, era colà, e non altrove; dacchè, partito il Principe, cessava il pretesto di agitarsi in suo nome. Infatti Cesare Laugier, malgrado che il Granduca sul partire da Porto Santo Stefano lo nominasse suo Commissario in Toscana, a cagione della sua partenza, ritenne cotesto Decreto di nessun valore; e le parole contenute nel chirografo, che nel 22 febbraio 1849 egli mi dirigeva da Massa, lo dichiarano espresso: «La partenza del Principe in terra straniera sciolse il Laugier da ogni scrupolo. Credutosi svincolato dal giuramento, pensò il miglior mezzo, per evitare lo spargimento di sangue, retrocedere nelle posizioni da cui era partito.»

XXV. Spedizione di Lucca.

§ 1. Dimostrazione storica.

Dove io indirizzassi la parola ai benevoli soltanto, mi sarebbe avviso procedere a modo di storico, risparmiando loro il tedio di leggere una serie di allegazioni non sempre piacenti, qualche volta tristissime; ma essendo io accusato, e favellando ad uomini che meco certo non vogliono fare a fidanza, è pur mestieri che io vada piuttosto compilando documenti, che dettando storie. Per ora mi aiuto con le notizie che mi somministrano taluni libri e giornali e qualche persona dabbene a cui duole questo mio strazio, e il Volume dell'Accusa a cui questo mio strazio punto non duole; anzi le piace. Quando mi saranno consegnati gli Archivii, potrò confermare lo esposto ed ampliarlo a maggiore edificazione dei cultori della giustizia; nonostante, anche quello che mi è venuto fatto raccogliere basterà al mio assunto presso gli onesti: e forse, o io erro a partito, ce ne sarà di avanzo.

Continuando pertanto la Dimostrazione storica impresa nelle precedenti pagine, metterò prima di tutto un Proclama che fu diffuso a migliaia di esemplari. Di questa sorta pubblicazioni avrebbe potuto adunare l'Accusa copia bene altramente abbondevole; contentiamoci di quello che ci dà. A caval donato non riguardiamo in bocca. Dallo stile e dai modi parmi fattura lombarda; in molte guise, e, per la temperie, efficacissime, egli intende provocare la Unione della Toscana allo Stato Romano:

«Popoli di Toscana!

«Nella lunga e travagliata vita delle Nazioni Dio suscita un pensiero che debbe rinnovarle; quei Popoli che non l'intendono e lasciano trascorrere il tempo prefisso, soscrivono di per sè la loro sentenza di morte politica e civile.

«Toscani! Ora noi ci troviamo in questa condizione. Colui che per molti anni tenemmo a Principe, l'uomo che la intera Toscana a furia di affettuose dimostranze s'ingegnò di persuadere a farsi iniziatore della nostra nazionalità, è fuggito; fuggito non per lasciare una terra che ne lo cacciava, ma sì per farsi simulacro di guerra civile, per infiammare tutte le malvagie passioni che il senno del Popolo aveva saputo spengere; fuggito per disgregare gli animi, sperando, a cotesto modo, di sostituire alla suprema guerra di principio la guerra de' fratelli.

«E fuggendo, esso ha fronte di scrivere che in ciò obbediva alla sua coscienza. Questa gli acconsentiva pure di sottoscrivere liberamente al Programma del Ministero Guerrazzi-Montanelli e alla Legge fondamentale per la Costituente; lo raffreddava in altri tempi, allorchè la intera Toscana, credendo alla possibile colleganza fra i suoi interessi e quelli del Principe, chiedeva la Guardia Nazionale, e con la sola forza dell'affetto lo poneva sulla via di fortificare il suo potere. Ma allorchè le libere istituzioni, per la logica conseguenza, gli mostrarono come bisognasse romper guerra allo straniero, allorchè, per comunione di dolori, Italia chiese di tornar Nazione, la coscienza di quest'uomo si ribellava, gli permetteva di dire e disdire, ed anzi gl'imponeva di farsi segnacolo di dissidii civili. Dal Porto di Santo Stefano cotesta sua coscienza attende che batta l'ora della nostra sventura.

«Toscani! Facciamo per modo che esso attenda invano. Il nostro maraviglioso passato, il nostro senno, la nostra dignità c'ispirino; maestri di civiltà in altri tempi, mostriamo all'Europa che le libere tradizioni vivono intiere negli animi nostri, che in noi non vi ha ira di parte, ma sì febbre di riscatto nazionale, e che se fummo infelici e divisi per le congiurate previsioni di Principi, liberi ora, sapremo volere e tornar grandi. Considerate di qual sorte sia la coscienza di quest'uomo. Essa gl'impone ora di lasciare così gli amici come i nemici in balía della incertezza; lo forza di aderirsi allo scomunicatore di Gaeta e di assistere dalla lunga alle soffiate vampe di Empoli; lo mette d'accordo coi consigli dell'Austria che ne concertava la fuga, e lo fa rinnegare il proprio Popolo, la propria parola. Circondato da arme, e vinto da interessi stranieri, quest'uomo si confida di seminar paure, di suscitare stragi e rapine nel suo nome. Disperato per la prevalenza d'un principio, esso si appiglia ad una fazione ingannata, specola sulla ignoranza dei Popoli della campagna, e pone così il suggello al proprio decadimento. Nell'ora della fuga i Principi tutti si somigliano, e interamente si palesano: e questa è opera di Dio.

«Cacciato non da noi, ma dalle sue fallaci promesse e dai fatti arcani e dai vincoli di sangue che l'uniscono all'Austriaco, Leopoldo di Lorena non intende il Popolo nè l'Italia. Toscani, mostriamo ad esso che la Libertà, l'Ordine, le Leggi non s'incarnano in un uomo, non riposano sopra una volontà. Il Principe può andarsene, ma il Popolo rimane, e con esso il sentimento della propria dignità e de' suoi diritti. Col Principe adunque gli errori del passato, con noi le salde speranze di un riposato futuro, la gloria del combattuto presente.

«I Martiri di Curtatone, il fiore più eletto della giovine Toscana non debbono essere caduti indarno. Se non giovarono alla causa dei Principi, essi tuttavia rimangono sacri a quella più schietta de' Popoli. Percossi in terra tornata a servitù, attendono che la Toscana con sapiente ardimento raccolga il frutto del loro sacrifizio. Fortifichiamo i nostri liberi ordinamenti politici, acciocchè l'Europa li rispetti e vegga in essi la unanime volontà di un Popolo al quale tutte le classi hanno diritto e debito di appartenere, il saldo proposito di una Nazione ridesta. Imperocchè le Potenze non si attentano di combattere i Popoli che vegliano concordi, ma sì quelli che, divisi in fazioni, guastano il concetto nazionale. Ricordiamo che la guerra civile è il più valido aiuto alla oppressione straniera, che i Potenti la soffiano, che i Principi la incitano. Essa è la loro arma, quindi non può esser mai quella dei Popoli.

«E poichè la veneranda Roma, scossa la vergogna secolare, impaura i nostri eterni nemici col supremo grido di libertà, e li fa maravigliare del suo senno; adoperiamoci per metterci in grado di partecipare all'ineffabile amplesso. Affrettiamo senza esorbitanza l'adempimento delle nostre promesse; smessa ogni gara di Municipio, le città sorelle della Toscana aiutino la impresa, e stretti in una benedetta comunanza d'interessi e d'intendimenti, vegga il nimico d'Italia che i Popoli non si vincono quando fra essi riescono ad intendersi.

«Firenze 15 febbraio 1849.»

Il Governo Provvisorio attendeva a chiamare la gioventù alle armi; i Circoli, nello scopo di soverchiare il Governo, ecco si recano in mano questo mezzo di forza per adoperarlo contro me, o piuttosto a vantaggio dei loro disegni. Una cosa essi promettono, un'altra ne fanno: danno ad intendere, a cui ci voleva credere, avere decretato spedire in Provincia Commissarii onde prestare opera vantaggiosa al Governo in questo negozio, per cui ottengono che il Ministro dello Interno lasci stampare sul Giornale Ufficiale una specie di avviso concepito così: «Il Circolo del Popolo di Firenze, nelle gravi circostanze nelle quali è costituita la Patria, ha decretato inviarsi in tutte le Provincie dei Commissarii muniti di apposita credenziale per organizzare Circoli, per eccitare lo spirito pubblico, per promuovere il più generale armamento delle popolazioni in difesa della Patria. Restano perciò invitati tutti i buoni cittadini di accoglierli ed aiutarli nella sacra loro missione.» — ( Monitore, 17 febbraio 1849.)

E per inspirare maggiore fiducia al Governo scopertamente si affaticano a questo ufficio: « Ieri il Circolo del Popolo teneva una pubblica seduta in Piazza, sotto alla Loggia de' Lanzi, ad oggetto di eccitare questa popolazione ad accorrere in gran numero alla difesa della Patria, facendosi inscrivere nei ruoli dei Volontarii aperti a quest'uopo dal Governo Provvisorio toscano. Un numero considerevole di cittadini assisteva all'adunanza ec.» — (Supplem. al Nazionale, 17 febbraio 1849.)

Ma il Giornale che si annunziava Monitore del Circolo di Firenze, se poi gradito banditore o mal gradito io non so, il segreto fine subito dopo palesava: «La pronta Unione con Roma fu argomento principale, anche ieri sera, alla discussione nel Circolo. E questa volta fu coronato da un voto. Il Circolo decise, a unanimità, di spedire 25 Commissarii, cinque per compartimento dello Stato Provvisorio, per invitare tutti i Circoli, corpi morali e Guardie Nazionali ad esprimere i voti, o mandare deputati a Firenze, per chiedere al Governo Provvisorio la solenne dichiarazione di unirsi a Roma.» — ( Popolano, 17 febbraio 1849.)

Per questi indizii, e più per gli avvisi tanto ufficiali come amichevoli, io ottimamente comprendeva quale bufera stesse per iscoppiare. Con molta industria, di lunga mano, si erano indettati i Circoli provinciali col Circolo fiorentino d'inviare a Firenze, pel giorno 18 di febbraio, gente più accesa in forma di Deputazioni, affinchè forzassero il Governo a dichiarare la Repubblica.

«Circolo politico popolare di Barga.

«Cittadino.

«Con deliberazione di questo Circolo nell'adunanza straordinaria del 16 corrente fu creata, alla unanimità ed acclamazione, una Commissione nei cittadini Avv. C. B., Avv. D. C., Dott. A. M., affinchè nel giorno di domenica, 18 stante, si presenti a cotesto Circolo del Popolo, e, di concerto con quello, domandi, a nome del Popolo di Barga, al Governo Provvisorio toscano la immediata unificazione e fusione con la Repubblica Romana, senza attendere l'apertura delle Camere.

«Ha fiducia questo Circolo che accetterete di buon grado un tale incarico, essendo ben noti i vostri sentimenti politici, democratici, italiani.

«Salute e fratellanza.

«Dalla residenza del Circolo Popolare, li 16 febbraio 1849.

«Al Cittadino Avv. C. B., Firenze.

«Il Vice-Presidente.»[406]

Da Lucca il Prefetto avverte il Governo nel 17 febbraio:

«Il Prefetto di Lucca al Ministro dello Interno.

«Alle ore tre e mezzo pomeridiane, dal Circolo politico di questa città è stata inviata al Governo Provvisorio una Deputazione il di cui mandato si è di manifestargli il desiderio della unificazione dello Stato Toscano a quello di Roma. La Deputazione è composta degli appresso cittadini. (Seguono i nomi.)

«Il Prefetto Landi.»[407]

Il Governatore di Livorno, il medesimo giorno, manda:

«Poco fa ha avuto luogo una dimostrazione numerosissima, con cartelli e bandiere, per chiedere la pronta Unione con Roma. Sono stato costretto a parlare. Ho promesso d'informare il Governo, e, senza promettere niente, mi sono limitato a lodare la Repubblica Romana. Credo di sapere che domani si portino costà deputazioni di tutti i Circoli per chiedere quanto sopra.

«17 febbraio 1849.

« Pigli. »[408]

E quando mai l'Accusa desiderasse imparare se manifestazioni siffatte avessero o no potenza per costringere, può considerarlo da sè stessa, leggendone il racconto nel Corriere Livornese del 17 febbraio 1849: «Al mezzogiorno il Popolo, muovendo da tutte le Associazioni Parrocchiali con bandiere e cartelli esprimenti i suoi alti desiderj, si è diretto sulla Piazza del Popolo, da dove con le bande musicali ha poi mosso verso il Palazzo del Municipio. Immensa era la folla; e le grida di viva la Repubblica Italiana, viva l'immediata Unione con Roma, viva la guerra, riempivano l'aria; giunta la moltitudine in Piazza Grande, ha fatto sosta presso la Comunità, ove si è recata una Deputazione. Il Gonfaloniere ha esternato ai deputati, confortanti e ragionate parole, le quali poi ha ripetute al Popolo festante dalla terrazza, ricambiate coi più fragorosi evviva. La folla ha voluto poi salutare l'egregio cittadino Governatore, che ha dette al Popolo calde e generose parole. Quindi la moltitudine pacificamente si è sciolta, nel pensiero di riunirsi dimani alla Capitale coi fratelli di tutta la Provincia Toscana e concorrere uniti a compiere un atto, al quale oggi sono più che mai rivolti tutti i nostri pensieri, come àncora della salvezza d'Italia.

«La sera, nel Teatro Rossini, vi fu adunanza del Circolo Nazionale e di tutte le Associazioni Parrocchiali della città. Il concorso fu straordinario; la platea, i palchi, l'orchestra ed il palco scenico rigurgitavano di Popolo. Fu discusso intorno allo inviare domenica (dimani) al Governo Provvisorio una Deputazione di tutti i Circoli, del Municipio, della Guardia Nazionale e di Popolo, per dimandargli la immediata unificazione della Toscana con la Repubblica Romana; e la deliberazione in proposito avvenne tra le assordanti ripetute e generali grida di viva la Repubblica, viva l'Unione immediata con Roma repubblicana.

«Fu deliberata pure per l'indomani una solenne dimostrazione al nostro Municipio, onde invitarlo a concorrere per parte sua ad appoggiare le dimande del Popolo.»

Io riporto, senza farvi osservazioni, le storie dei Partigiani della Repubblica; in breve ne rileverò gli errori, che artatamente essi v'insinuavano. Venne il giorno 18; e quale egli fosse, uditelo ora descritto dalla Costituente Italiana, Giornale compilato da scrittori lombardi, i quali, per adoperare la penna, posavano un momento la spada: «Ogni giorno, ogni ora il Popolo chiede sollecito al Governo la parola che sanzioni e che compia la sua rivoluzione, che dia un significato a questa agitazione perenne, la quale è desiderio, bisogno di vita italiana: esso sventola innanzi al viso dei suoi rappresentanti la bandiera della patria, e mostra loro la nappa di unione, onde scrivasi il patto fraterno, si tolgano i confini segnati colla spada, si decretino i nostri destini. — E quest' oggi anche Livorno, Pisa, Lucca e altre città toscane avevano inviate le loro Deputazioni, affinchè il Governo, rafforzato innanzi ad una Rappresentanza Toscana, potesse coscienziosamente rispondere ai voti comuni, e il Paese passasse nella tranquillità di una determinata situazione.

« Un programma del generale Laugier palesava vie più la necessità della Unione immediata. Vedevasi, per esso, come Leopoldo restasse ancora a Porto Santo Stefano con una speranza nel cuore, con un pensiero alla bella Firenze e al magnifico Pitti, con un piè sulla nave che lo tragga lungi dai popoli che lo sdegnano, e l'altro sulla terra ove fu re. — Vedevasi come, esso Laugier, nel di lui nome, innalzasse il vessillo della ribellione, e si preparasse a marciare su Palazzo Vecchio, Zucchi del Granduca, spacciandosi avanguardia di 20 mila Piemontesi, Spagnuoli della Toscana; quindi maggiore la necessità di gettare un fatto compiuto in faccia a queste speranze, di opporre a questi tentativi una forte posizione militare.

«Recavansi le Deputazioni accennate, unitamente a una rappresentanza fiorentina, unitamente ai Volontarii accorsi all'appello della Patria, per presentare un'altra volta al Governo la volontà del Paese. Chiedeva tempo il Governo a rispondere, fino dopo il banchetto che imbandivasi dal Circolo del Popolo alle Deputazioni delle Provincie e ai Volontarii, fra le Loggie del Palazzo degli Ufizii. — Bello ed utile pensiero degli uomini del Circolo di adunare questi prodi al desco fraterno, di mostrare ai cittadini i primogeniti della Patria, di offrir loro questo tributo di affetto e di riconoscenza, questo plauso universale. — Era uno spettacolo gaio, commovente, questo convito modesto, ove officiali e soldati si alternavano i bicchieri, ove ai Viva la Repubblica succedevano i cantici della libertà, ove, nella fratellanza della città repubblicana, si iniziava l'intima domestichezza del campo! — E Francesco Ferruccio impalmava la bandiera tricolore, e portava il berretto frigio sul capo;» — (Ah! Francesco Ferruccio si copriva il capo di celata di ferro, non già di berretto frigio; e quando minacciava il nemico, beveva un sorso di vino in piedi, ed anche Dio glielo annacquava![409] ) — «era il connubio della Repubblica del Savonarola colla moderna Repubblica nell'ultimo martire repubblicano caduto sul campo.

«Finito il banchetto presentavansi sotto la Loggia dell'Orgagna il presidente del Circolo del Popolo, del Comitato Italiano, e Giuseppe Mazzini venerato apostolo di libertà. — Parlava Mazzini; e provato come le nazioni nei momenti supremi non si salvino che per audacia ed abnegazione, chiedeva se volessero proclamare l'Unione con Roma e la Repubblica, e votarsi tutti alla difesa delle frontiere. Un grido di approvazione copriva la voce dell'oratore, e le bandiere di tutta Toscana ondeggiavano salutando la Repubblica Italiana. Allora leggevasi una formula di Decreto col quale era stabilita l'Unione a Roma; era proclamata la Repubblica; nominando frattanto un Comitato di difesa composto di Guerrazzi, Montanelli e Zannetti, coll'aggiunta di una Commissione di altri benemeriti cittadini, dichiarando definitivamente decaduto Leopoldo Austriaco, e traditore della patria il generale Laugier. Ad ogni parola interminate acclamazioni, ovazioni sincere, ed in fine la richiesta che tutto subito si presentasse all'accettazione del Governo Provvisorio. — Il Governo ricevette con giubilo le attestazioni di fiducia, dichiarò che la voce del Popolo interpretava il cuore anche de' suoi rappresentanti, e ch'esso aderiva ai voti e alla volontà sì costantemente e generalmente manifestati; che però la proclamazione definitiva dell'Unione Repubblicana rimetterla all'indomani, affinchè avesse luogo con quella solennità e in quell'apparato di forza che esige un atto nazionale.» — (Questo era falso, ma la menzogna è necessità nei Faziosi.) — «L'ebbrezza del Popolo fu quale l'abbiamo conosciuta nei primi giorni di questa rivoluzione; a un tratto s'illuminarono le vie, suonarono a festa le campane, e Firenze echeggiò dei canti di guerra. Il Popolo volle innalzato l'Albero della giovine Libertà, a simbolo di quella libertà che palpita nei nostri petti, a promessa di quella libertà che pianteremo nelle nostre istituzioni.»[410]

Il Popolano, fidus Achates, del pari nel foglio del 20 febbraio 1849: «A ore 2 pomeridiane i Volontarii, già riuniti presso il Circolo, mossero con bandiere e tamburi, unitamente a molti socj, Deputazioni e gran folla di Popolo ec.

«Finite le mense fra la letizia e i cantici, cominciossi a gridare: La Repubblica; e poi, convenuta la maggior parte del Popolo sulla Piazza del Popolo, gli oratori, fra' quali primeggiò Giuseppe Mazzini, cominciarono ad arringarlo. Ivi, innanzi al grande uditorio del Popolo, quanto la gran piazza ne poteva capire, fu proclamata la Repubblica e la riunione con Roma, e lette varie risoluzioni che il Popolo approvò. Tutto ciò in risposta e dopo pubblica lettura del bugiardo proclama di Cesare De Laugier. Non mancò chi promise di subito pubblicare la biografia di tanto infame, degno imitatore di Zucchi. Quindi da una Deputazione furono portate le risoluzioni al Governo Provvisorio, come esprimenti il desiderio di tante migliaia di Popolo e di tante Deputazioni. Il Governo Provvisorio gridò, come sempre, i voti del Popolo, confermò la ridicola ribellione del Lorenese Laugier, e disse che il Popolo mostrasse di volere difendere la Repubblica con dare 2,000 reclute per la mattina seguente.

«Nella serata, in mezzo al generale tripudio fu innalzato l'Albero della Libertà con bandiera in cima, sulla Piazza del Popolo, tutto all'intorno illuminata dalla gioia dei cittadini.»

E già nel foglio antecedente del 19 febbraio 1849, per meglio imprimere la memoria del fatto nella mente del Popolo, aveva raccontato: «18-19 febbraio. — Ieri aveva luogo sotto le Loggie degli Ufizii un grande banchetto pei Volontarii ascrittisi nei ruoli aperti nel Palazzo dei Priori e al Circolo del Popolo.

«Più di 1,000 erano i banchettanti. E il Popolo tutto prese parte al convito.

« Intanto giungevano le Deputazioni dei Circoli di Livorno, di Lucca e di altre principali città toscane.

«Udivasi la nuova della defezione del generale De Laugier, ed unanime fremito suscitavasi in ognuno, unanime imprecazione contro il traditore della Patria.

« Il Circolo del Popolo di Firenze decretava una sentenza di cui più oltre diamo il contesto.[411]

«Intanto lo spirito pubblico animavasi ognor più: gran numero di Livornesi, uniti al Popolo fiorentino, al Circolo del Popolo ed agli altri Circoli, convenivano nel concetto esser venuto il giorno del solenne riscatto, nè potersi più oltre indugiare l'atto formale di Unione alla Repubblica di Roma.

« La Repubblica veniva così proclamata e di diritto e di fatto in Toscana.

«Fino da ieri sera, l'Albero della Libertà era piantato sulla Piazza del Popolo e salutato da rumorose salve di applausi e dal suono di tutte le campane di Firenze. Grandi processioni di Popolo festeggiante, con faci e cantici patriottici, percorsero per tutta notte la città.

«Invitavansi intanto i Volontarii inscritti a recarsi, alle 8, nella mattina del 19, sulla Piazza del Popolo per partire immediatamente alla volta dei confini.»

Il Nazionale, non amico mio, pure narrando i casi della giornata del 18, sovveniva allo sforzo del Governo:

«Oggi fino a ora tarda della sera, Firenze ha risuonato di suoni e canti, e sulla piazza che ora si chiama del Popolo ha stazionato continuamente un folto gruppo di persone a udire discorsi e proposizioni che si facevano dalla Loggia dell'Orgagna. — Fu letto un Proclama del generale Laugier, comandante la truppa ai confini di Massa e Carrara. — Il Proclama in nome del Granduca esortava i Toscani a tornare all'obbedienza; prometteva amnistia generale, quelli eccettuati che prendessero le armi dopo la promulgazione del Proclama. — A grida generali si dichiara il Laugier traditore della patria. — Sulla sera in faccia al Palazzo Vecchio era piantato l'Albero della Libertà. — Noi siamo avversi a ogni sorta di violenza, da qualunque parte si eserciti. — Noi c'inchiniamo alla sovranità del Popolo tuttoquanto chiamato a libere elezioni; da sè medesimo crei la sua rappresentanza, alla quale confidi le sue volontà, e la cura di provvedere allo eseguimento.»[412]

E meglio ancora nel numero del 19:

«Il principio di autorità fu rappresentato sinora dalla dinastia; la dinastia lo ha abbandonato; il Popolo deve raccoglierlo e con la sua libera volontà ricostruirlo. Ma noi, rispettando sempre i suoi decreti, non lo loderemmo se lasciasse forzarsi la mano, e si acquietasse a premature determinazioni uscite dai clamori incomposti della piazza: non lo loderemmo se tornasse ad affidare le sue sorti alle dinastie, che sono un fatto transitorio e perituro, senza prima circondarsi di forti e inespugnabili guarentigie. — Il Popolo sappia con ordine e dignità esercitare la libertà, che gli tornò piena ed intera, ec.»

Intanto che cosa faceva il Conciliatore? Appesa l'arpa al salice super flumina Babilonis piangeva; e nello incendio, che consumava il Paese, salilo in pulpito gravemente ammoniva i Popoli dicendo: il fuoco scotta; e se sarete bruciati, io non so proprio che farci.

«Ai tempi che corrono, il cercare rimedj adeguati alla gravità del male, sarebbe impresa soverchiante le forze umane. Pio IX forse lo poteva, iniziando i nuovi moti pubblici col principio religioso. Ma oggi sventuratamente anche questo salutare freno è tolto, e la corrente straripa a sua posta, secondo gl'impeti delle acque che già ruppero ogni argine. — Però noi contempliamo dolenti questo crescere continuo di rovine, questo stravolgimento d'intelligenze ognora più terribile.»[413]

Ben fastidiosa prefica è quella che imprende a cantare l'esequie all'uomo che non è anche morto! Il giorno dopo questo Giornale, riavutosi, raccomanda al Governo la sicurezza dei cittadini, l'ordine della città; ma considerando la desolazione predicata nel giorno diciotto, non si sa come avesse il coraggio di farlo da vero; molto più che con rugiadosa insinuazione andava sussurrando, che il Governo non aveva preso parte ostensibile negli avvenimenti del 18 febbraio, tirando per così dire l'orecchio al sospetto, affinchè dubitasse che egli forse ve l'aveva presa segreta facendo fuoco nell'orcio. Il qual contegno quanto in sì estremo pericolo fosse, non dirò onesto, ma savio, lascerò che altri consideri.

«Ieri mattina giunse in Firenze una numerosa Deputazione dei Circoli di Livorno, con bandiere, cartelli e berretto rosso. Alle ore due ebbe luogo un banchetto pubblico sotto gli Ufizii, dato dal Circolo popolare ai Livornesi, ed ai Volontarii che sono inscritti per difendere la Patria. Alle ore sei, il Niccolini di Roma, Presidente del Circolo popolare, proclamò la Repubblica sotto la Loggia dell'Orgagna a nome del Popolo Fiorentino. Sulla sera fu piantato l'Albero della Libertà sulla Piazza del Popolo. — Nella sera suonavano a distesa tutte le campane delle chiese, e si sparavano fucili in segno di gioia. — Il Governo Provvisorio non ha preso parte alcuna, almeno ostensibilmente, a questi diversi atti. — In tanta incertezza di avvenimenti ed in tanto pericolo, noi non possiamo far altro che raccomandare a chi tiene il Governo di provvedere alla sicurezza pubblica, ed a tutti gli onesti cittadini di adoperarsi per mantenere l'ordine nella città.»[414]

Il Popolano del 19 febbraio accusa il Governo di frode, quasi le promesse fatte ieri non volesse più mantenere oggi:

«Oggi noi pubblichiamo un documento e un articolo intorno ad un fatto che forse, fra qualche anno, a chi non ha la chiave che schiude i misteri di Stato, apparirà enigma indecifrabile.

«L'articolo che togliamo dalla Costituente Italiana è lo esatto ragguaglio di quanto ieri accadeva sulla Piazza del Popolo di Firenze e dentro il Palazzo della Signoria.

«Il documento è un Proclama che va sfornito di taluni adempimenti di voti nostri e del Popolo, di cui cotesti fatti eran promessa, di cui le misure iniziate dal Governo eran garanzia, ma va per altro arricchito da una grata e lieta novella, cosicchè lo acquisto per l'una parte compensa la mancanza che appare dall'altro lato.

«Mancanza è, e per la Costituente (giornale) e per noi, la proclamazione definitiva della Unione Repubblicana, che il Governo aveva detto di rimettere allo indomani (cioè oggi), affinchè avesse luogo con quella solennità e in quello apparato di forza che esige un atto nazionale.» (Sono parole della Costituente.)

«Acquisto prezioso si è la certezza pervenuta nel corso della notte al Governo, che stolta e infame invenzione del traditore De Laugier era la nuova starsi pronti 20,000 Piemontesi ad invader la Toscana, per riporre l'ultimo Leopoldo sopra un trono cui volontariamente egli aveva rinunciato fuggendo e lasciando senza timone la nave sdrucita dello Stato.

«I Piemontesi protestavano solennemente contro la taccia che dar gli voleva l'uomo del 29 maggio di satelliti di tirannia, di degeneri Italiani, di uomini che per passività di obbedienza fosser pronti a mostrarsi fratricidi; e insanguinare la sacra terra d'Italia di italiano sangue. I Piemontesi protestavano, giammai voler porre ostacolo al riordinamento della Toscana, e intendere lasciarla libera di reggersi secondo la forma politica che più fosse per piacerle: volerci Toscani fratelli e compagni nella guerra contro il comune nemico — l'Austriaco: ma giammai volerci nemici e combattenti sovra limiti di provincia che un dì o l'altro debbono esser totalmente remossi, per dar luogo ad un solo e potente Stato: — la Italia Una e Repubblicana.

«Ed altra notizia, ella pure aggraditissima e inaspettata, era lo appoggio e l'amicizia di una grande e formidabile potenza, alla cui ombra è oggi lecito alla Repubblica della Italia Centrale il metter salde radici e con minor precipitazione che non li avvenimenti minacciati dall'imminente avvenire ci facessero ieri parere indispensabile.

«In grazia di tali rassicuranti novelle, noi consentiamo a subire in santa pace quella specie (ci si perdoni la inconvenienza della espressione) di giuoco di bussolotti accaduto fra ieri ed oggi nel Palazzo della Signoria.

«Ad onta di tutto ciò, ad onta di sentirci coll'animo più libero, e colla mente meno angustiata da funesti pensieri, noi non cessiamo però, nè cesseremo giammai, dal deplorare i danni del provvisorio, dallo invocarne il pronto e definitivo termine. Noi non cessiamo nè cesseremo di deplorare, come una perpetua e feconda sorgente di discordia e di guerra civile, la presenza di Leopoldo di Austria in Toscana.»

L'aria dintorno diventa densa, e infuocata; già si scrivono e già si leggono parole somiglievoli alle grosse goccie di pioggia precorritrici della tempesta; e tempesta di sangue temevasi: nel Popolano del 21 febbraio si dichiara, che la seguente scrittura era dettata fino dal giorno 19:

«La grande tela ordita dai Principi è compiuta. Tocca ora ai Popoli il metterla in brani colla punta delle loro baionette e colla mitraglia dei loro cannoni.

«La condotta dei Regnanti Italiani si svela oggimai ed apparisce nella sua piena luce.

«Pio IX, Carlo Alberto, Re Bomba e Leopoldo d'Austria van perfettamente d'accordo, e congiurano ad un sol fine, ad operare dietro un solo impulso, in un medesimo momento.

«Se sulla infamia e sul tradimento di tutti costoro restasse alcun dubbio in qualche credula mente, basterebbe a dissiparlo il vedere, il riflettere come contemporaneamente Radetzky occupi Ferrara, Re Bomba ingrossi le sue truppe ai confini romani, Carlo Alberto le sue spedisca in gran furia a quei di Toscana, e Pio IX, senz'armi e senza eserciti, per far qualcosa, fulmini nuove proteste colla affiochita sua voce dalle spiaggie di Gaeta.

«Noi siamo lieti, grandemente lieti di questa potente congiura, perocchè essa è il segnale del definitivo scioglimento della grande questione italiana.

«Noi siamo lieti, grandemente lieti nello udire che i Tedeschi sono vicini; e a noi par quasi sentire il nitrito dei loro feroci destrieri, già ci par vedere lo sperpero delle campagne e la fuga de' nobili signori ch'eransi iti a rintanare nei loro aristocratici covi per congiurare contro la patria e contro la libertà.

«Nobili infami!... A che cosa vi sarà valso il congiurare, e il seminare reazioni, divisioni, disordini? il far gridare: Viva il Tedesco, Viva Leopoldo II?

«Oh vedrete, vedrete, insensati quanto iniqui, se il vostro Leopoldo II vi salverà lo scrigno dall'artiglio croato; vedrete, vedrete, codardi, se vi varrà plaudirne lo arrivo per risparmiare le vostre figlie all'oltraggio, i vostri campi e le vostre ville al saccheggio, le vostre fortune al forzato tributo!...

«Noi siamo lieti, grandemente lieti, che l'ora della strage, l'ora del sangue sia venuta: ora vedremo, per Dio, quanti siamo d'Italiani in Italia, ora ci conteremo tutti, e il sangue dei traditori bagnerà, insiem con quello del Tedesco, le nostre vie che han d'uopo di un battesimo di sangue acciò lavarne l'onta delle passate ignominie per i corsi romorosi, per le sciocche dimostrazioni, per le festose processioni; per avere, insomma, sostenuto tanti e tanti anni i passi oziosi e lenti di tanti e tanti cittadini inerti, baloccheggianti, perduti dietro puerili vaneggiamenti, immersi in discussioni ozjose, parolaj senza fatti e senza azioni.

················

«Si fondano in cannoni le campane, si spoglino le chiese dei vani ori e dei male spesi argenti: si reclutino, marcino, combattano e frati e monaci e preti, come in altri paesi fu fatto; si costringa i contadini a marciare per la difesa comune, e i recalcitranti si pongano dinanzi ai cannoni o ci servano di mitraglia ai nemici: ogni pezzo di ferro, ogni pezzo di bastone sia messo a profitto: ai pali si aggiunga una ferrea punta, e servano ad armar lancieri: si riempiano pure le carceri, purchè si vuoti di nemici lo interno dello Stato. In quanto a noi, ne facciamo sacramento a Dio ed alla Patria, appena la campana del Popolo suonerà a stormo, getteremo a terra la penna, e, impugnando il fucile, sdegneremo riprenderla finchè l'ultimo dei Tedeschi non abbia sgombrato l'Italia, — finchè l'Italia non sia più un nome, ma una nazione libera e vincitrice.

«E se questo momento sarà domani, i lettori nostri si tengano per avvertiti, — il nostro Giornale non apparirà che col riapparire del vittorioso vessillo repubblicano fralle mura della redenta Firenze.

«Queste nostre parole erano scritte 24 ore innanzi degli avvenimenti di ieri sera.»

Più cauta in parole, ma di partiti violenti punto meno bramosa, la Costituente del 21 febbraio predicava:

«Cittadini del Governo Provvisorio di Toscana. — Il Paese è minacciato, l'Italia ci domanda soccorso; voi pure avete un debito da adempire, un debito grave e solenne verso la gran madre comune. Gridammo armi ed armati, gridammo denari, energia, impeto di rivoluzione, e di patria carità ardente ed efficace; or come fummo ascoltati?

«Battete a dritta ed a manca, sospingete, sforzate. Le risorse vi sono, la buona volontà vi corrisponda; l'ardimento dei più vi sorregge; camminate adunque, camminate adunque, camminate liberi e forti. I ricchi paghino il proprio debito di oro, come il Popolo generoso offre il proprio sangue; non ismarritevi nell'inestricabile labirinto di minute preoccupazioni, ma seguite la via larga delle misure vaste e risolute. I giorni passano, i giorni sono preziosi e numerati; — che non trascorrano più lungamente senza frutto! —

················

«Debbe (il Governo) agire fortemente a reprimere qualunque rinnovazione di minaccie così inique, qualunque possibilità e principio di tumulti. Versiamo in circostanze straordinarie, in mezzo a pericoli supremi; — si adoprino misure straordinarie, mezzi supremi. — L'esempio di Romagna non è da disprezzarsi: si proclami la Legge Eccezionale; essa emana dalla legge normale della salute della patria.

«Debbe agire fortemente, per raccogliere denaro, subito e molto. Prenderlo dov'è, senza troppa esitanza, poichè ogni altra trafila finanziera non corrisponde alla gravezza istantanea del bisogno. Ori e argenti di tutti, prestito forzato. I Croati a Ferrara, mentre porgono l'esempio, danno stimolo a tutti a concorrere per non subire con vergogna e paura una simile sorte.

«E soldati, per Dio! soldati vogliamo. La Guardia Nazionale riorganizzata si offre, anela forse a una mobilizzazione. Ma per questo ha bisogno di esser educata, di avere quel corredo di istituzioni e di armi speciali che possano farla entrare in campagna; si provveda a tutto questo, — si incominci almeno a provvedere. Poi fa d'uopo anche pensare alle armi, di cui vi ha visibile scarsezza. Noi siam ben lontani dall'avere in pronto i mezzi per l'armamento universale del Popolo, qual è nella nostra mente, e qual è forse nel pensiero dello stesso Governo; si procurino dunque le armi, e possibilmente da Venezia, o altrove, nel minore spazio di tempo che può essere concesso. Armi, soldati e danaro: è la nostra parola d'ordine, il nostro grido giornaliero, il ritornello incessante a cui siamo legati per coscienza. Armi, soldati, danaro; Unione con Roma di diritto e di fatto immediata, è il nostro programma, il codice della nostra politica nelle circostanze presenti. Noi lo verremo sempre ripetendo e insegnando, ec.»[415]

Per questi successi ed eccitamenti, Toscana agitavasi tutta. Il Governatore Pigli, non curata la condizione apposta dal Governo al proclama della Repubblica, la bandisce assolutamente:

«La Repubblica è proclamata. Il Popolo è Re. — Guai a chi tentasse strapparti lo scettro pagato per lunghi secoli con le lacrime, e il sangue, e le opere della più sublime virtù, della quale ti conserverai, ne sono certo, indefettibil campione.

«Popolo, compi i tuoi gloriosi destini! Pensa, che la tua capitale è Roma, che la tua patria è la Italia; chi ti conferisce lo imperio è il tuo diritto! Chi ti consacra è Dio. Viva l'Italia. Viva la Repubblica.

«Livorno, 19 febbraio 1849. — C. Pigli. »

E senza neppure consultare il Governo, nella ebbrezza del trionfo, ed ormai considerandosi dei Capi, o prossimo a diventarlo, della bandita Repubblica, ecco istituire un giorno di feriato, con tutte le sue sequele; al quale scopo è necessaria una legge, che per certo non istà nelle attribuzioni di un Governatore promulgare.

«Cittadini!

«Per festeggiare il presente memorabile giorno, viene disposto che il medesimo a tutti gli effetti di ragione debba considerarsi come feriato solenne, e che non si possa quindi procedere al protesto delle cambiali, ed altri recapiti mercantili.

«Livorno, 19 febbraio 1849.

« C. Pigli. »

E in altro Proclama affermava:

«La Repubblica è stata proclamata ieri in Firenze con l'adesione del Governo, il quale ha bensì impegnato quella città a dare in questo stesso giorno 2000 uomini.»[416]

Questo non era vero. Il Governo aveva mandato: «La Repubblica è stata proclamata. Il Governo l'ha accettata a patto, che il Popolo fiorentino dia per domani 2000 uomini armati[417]

Ma al Pigli, ed ai suoi nuovi amici, importava far credere diversamente. Su l'ora della mezzanotte le Deputazioni, forse unite in gran parte, e certo indettate con i partigiani di Firenze, piuttosto stizzite che vinte, volendo sgarare chela Repubblica andasse innanzi ad ogni modo, con bande, gridi e schiamazzo infinito, destano la città, e abbindolati i cittadini piantano l'Albero della Libertà, e proclamano la Repubblica.

«Tutto era calma e tranquillità per la fiducia degli uomini che reggevano il Governo: quando alla mezza notte il ritorno improvviso delle Deputazioni da Firenze spargeva la lieta novella della proclamazione della Repubblica in Toscana, dell'adesione di quei Tribuni generosi alle volontà manifeste di un Popolo ivi raccolto da tutte le Provincie. Livorno sebbene a quell'ora tarda prendeva immediatamente un aspetto festivo: bande musicali percorrevano le vie, ed il Popolo acclamava con mille evviva a quell'atto solenne d'italiana rigenerazione. Un Albero della Libertà contornato di bandiere tricolori era piantato come per incanto nel mezzo della piazza, fra il suono a festa di tutte le campane e le grida alla Repubblica, a Roma, a Venezia, a Sicilia, a tutti i fratelli d'Italia: il nuovo sole sorgeva ad illuminare il più gran fatto nel nostro risorgimento.»[418]

Il Governatore di Livorno intanto, come colui che guarda per vedere se il tiro ha colto nel segno, scrive a ore tre pomeridiane del 19 febbraio al Ministro dello Interno:

«Qui è stata fatta una solenne manifestazione per festeggiare la Repubblica Toscana. Oggi alle quattro si canterà il Te Deum. È necessario bensì smentire immediatamente una voce, che comincia a circolare intorno la dimissione del Guerrazzi e del Montanelli, e la istallazione al Governo di soggetti che non sarebbero graditi. È di assoluta necessità pronta risposta.»[419]

Che cosa fu risposto? L'Accusa dagli Archivii Governativi ha tolto quello che le piacque, poi chiudendoli si è posta la chiave in tasca, e ha detto a me che li voleva esaminare per conto mio: «Concedertelo non dipende da me, figliuolo; e quando dipendesse da me, tu devi indovinare prima, o rammentare quello che contengono, ed esporne il contenuto: allora giudicherò io quali delle carte possono fare al caso tuo, e quali no; lasciati governare da me, rimettiti nelle mie braccia: vieni, addormentati sul mio seno; se le mie mammelle contenessero latte, te le porgerei a poppare. Ad ogni modo, avendo me per tutrice, sto per dire che tu se' nato vestito, io provvedo a tutto, e credi che lo todo lo que hazo, lo hazo per to bien.» Tenerissima Accusa!

Da Pisa il Prefetto Martini, a ore 1 pomeridiana, avvisa il Ministro dello Interno, per via telegrafica:

«Il Popolo è adunato numeroso volendo proclamare la Repubblica, sia vera o falsa la notizia che lo stesso è avvenuto a Firenze. Molti cittadini s'interesseranno per trattenere questo atto, ma ormai pare inevitabile. Batte la generale. Si dice fatto altrettanto a Livorno, quindi la mossa di Pisa.»[420]

Il tenore di questo Dispaccio dimostra chiaro, che il Prefetto Martini, corrispondendo alle istruzioni del Governo, s'ingegnava con altri a parare quel colpo, ma che disperava venirne a capo.

A Siena già nel giorno 20 febbraio, erano tutti Repubblicani per convinzione o per paura.[421]

Grosseto nel 20 febbraio bandiva anch'essa la Repubblica, e piantava l'Albero.[422] Partito appena S. A. da Porto Santo Stefano, fu nel giorno 22 di febbraio salutata la Repubblica.[423]

Intanto in Firenze si agitava segreta la cospirazione, che scoppiò nella notte del 21 febbraio 1849; infaustissima fu quella notte, ma più infausto giorno le poteva tenere dietro. Il Monitore ne dava ragguaglio nella guisa che già fu detto a pagine 279-282 di questa Apologia.

Ho esposto altrove, e con documenti provato, come Giuseppe Montanelli facesse opera veramente cristiana salvando dal furore del Popolo la gente arrestata, e come in tanto stremo il Governo con provvido consiglio ricorresse al Circolo medesimo, impegnandolo a mandare taluno dei suoi concionatori tanto efficaci a rimescolare le moltitudini, perchè inspirasse loro sensi di carità e di mansuetudine. Se poi mi domandassero perchè io affermi essere stato cotesto savio consiglio, mi parrebbe dovere rispondere, che gli uomini i quali non sieno del tutto perduti ordinariamente s'ingegnano mostrarsi meritevoli della fiducia, che in essi viene riposta, e quantunque ai giorni nostri i traditori non sieno appesi, e molto meno s'impicchino da sè, pure quel brutto nome di Scariotte a nessuno accomoda. Così Lamartine condotto dal medesimo concetto, che animò (ne sono convinto) i miei Colleghi, creava la Guardia mobile a Parigi togliendo al disordine le forze per conservare l'ordine: egli se ne loda, e credo, che in questa parte abbia ragione.[424]

E qui faccio tregua con le citazioni, osservando, che se lo edifizio non riuscì come avrei desiderato completo, non è mia la colpa; però desiderando, piuttosto che sperando, non essere tratto a compirlo, basterà quello che fu detto per somministrare notizia dei tempi; imperciocchè

Ogni erba si conosce per lo seme. Ora io voglio un poco confrontare questi nostri successi con altri, i quali, a un punto più celebri e più terribili, hanno dato al mondo una lezione di spavento.

§ 2. Confronto storico.

Nel 1792 erano in Francia uomini infiammati nei cerebri dai vapori delle speculazioni astratte, i quali reputando, che il male degli uomini derivasse non già dalle ree passioni che gli agitano, bensì dalla forma della Società, come se non fossero essi e le opere loro che gli hanno ridotti nello stato in cui sono, drizzarono la mente a capovolgerla di cima in fondo. Però non tutti accordavano su i fini, nè penso, come allora, in futuro saranno per accordarsi giammai; e questo è sommo bene. Alcuni di loro intendevano, mercè le riforme politiche, arrivare alle sociali; altri alla rovescia, nè tutti volevano trascorrere fino al punto di abolire la fede di Dio; e quelli che pur volevano cassato Dio, più che altro sembravano Titani ciechi brancolanti in cerca di scogli per avventarli contro il cielo; e negli scritti e nei ragionamenti loro manifestavano piuttosto la convulsione della rabbia, che un discorso considerato della mente. Spettava ai giorni nostri sopportare la vista di uomini, che lontani dai ravvolgimenti politici, con la pacatezza del filosofo, e la soavità dell'uomo dabbene, si affaticano a dimostrarti per filo e per segno, che tu non sarai felice mai là dove tutta questa macchina morale, civile, religiosa e politica, non vada in fascio. Certo, chi dette simile impulso ai moti rivoluzionarii del tempo, sortì grande la potenza dello ingegno. Lo spirito del male lo deve avere baciato proprio su la fronte dicendogli: tu sei il figliuolo della mia predilezione. La grande maggiorità dei diseredati, che forma la base della piramide sociale, gl'infiniti figliuoli della Natura, che dalla madre loro credono essere stati benedetti con uno schiaffo, poco si commuovono per Repubblica o per Monarchia; imbestiati dal miserabile costume i grossolani appetiti è forza gratificare dapprima; più tardi verranno i bisogni dello spirito, e il desiderio di razionale reggimento, tanto più duraturo quanto meglio gli uomini saranno ad apprezzarlo capaci. Lasciamo che questo avviso assai si rassomigli a quello di dar fuoco alla casa, nella speranza che ci venga rifabbricata più bella; egli è certo che per isconvolgere la Società non si poteva inventare leva più pericolosa, nè più sicura di questa. — Noi vediamo ordinariamente i Partiti intenti a distruggere, venire a capo dei concetti disegni per due precipui motivi: primo, perchè su le mosse vanno di accordo, quantunque più tardi pieghino chi a destra, e chi a sinistra, chi di loro vuole trascorrere, e chi stare fermo; tuttavolta siffatte discrepanze lo Stato già sconvolto rendono infermissimo: secondo, perchè l'assalto procede sempre più fervido della difesa, nè lo assalito può in un punto da tante parti salvarsi, e l'assalto gli sopraggiunge addosso continuo, impreveduto, e difficilmente prevedibile. Un rimedio ci è, o almeno, se non basta questo, agli altri è inutile pensare; ma lo vedo respinto, però che come tutti i farmachi sappia un po' di ostico a cui ha il gusto avvezzato a malsani dolciumi. Gli umori rivoluzionarii tengono della natura di quelle infermità, che, per ispogliarle del maligno, bisogna inocularle. Il reggimento costituzionale, da senno praticato, sarebbe la vaccina salutare; ma tanto è, le vecchie balie non ne vogliono sapere, e gli armano contro tutti gli errori per questa volta non popolari, ma signorili; intanto il male cova, e a tempo debito se non ucciderà il fanciullo, te lo lascerà concio, che Dio ve lo dica per me.

Le grandi Assemblee di rado trascendono ad enormezze, o, se pure irrompono in quelle, durano poco; e là dove per istituto si ragiona, se qualche volta la passione accieca, anche a tastoni, la via diritta smarrita io ho veduto ritrovare sempre; però i Rivoluzionarii di professione le Assemblee e i Poteri costituiti detestano, o se gli sopportano, vogliono ad ogni patto dominarli. I Rivoluzionarii in Francia avevano, a vero dire, seguito grande nell'Assemblea legislativa in virtù dei Deputati che per sedere sopra i più eccelsi scanni si chiamavano Montanari, e per la pressione delle conventicole; e nonostante questo, non pareva loro essere sicuri a bastanza, ove del tutto non la riducevano in servitù. Se l'Assemblea voleva vivere, doveva rassegnarsi, ed essere nelle costoro mani quasi un suggello, per legalizzare le immanità che si accingevano a commettere. Così, per siffatto disegno, la Comune accanto all'Assemblea a poco a poco diventò Governo; in seguito più che Governo. Nel Palazzo Municipale si radunarono i più violenti; di là spaventarono, quivi usurparono, là ordirono in segreto quanto in palese non avrebbero mai osato, non che fare, dire.

Qui fra noi mancava l'Assemblea. La eletta con l'antica legge elettorale, oltre all'essere stata disciolta per volere del Popolo, nè si sarebbe attentata di adunarsi, e se adunata, avrebbe fornito materia allo infuriare della moltitudine, che pure si voleva attutire. Ora io ho veduto che per placare il toro, non gli si agita mica davanti gli occhi la bandiera vermiglia che odia, e trema; ed è eziandio così da avvertirsi, come da evitarsi che le prime offese chiamino le seconde; imperciocchè la vittoria insuperbisca, e quello che ti riesce ottenere dalla paura, che poca o molta accompagna sempre la prima esperienza della forza, invano chiederai dopo la prova riuscita prosperosa per coloro che intendi reprimere. Però di questo a suo luogo più copiosamente. Intanto reggeva il Governo Provvisorio; per sua natura debole; sostenitore degli ufficiali governativi piuttosto, che sostenuto da quelli. A questo gli ufficiali tutti, a questo i cittadini, amorevoli o no, pongano mente, poichè all'Accusa non preme badarvi: che il Governo Provvisorio potè salvare uomini e cose, fondato appunto sul transitorio, che gli serviva di pretesto a non imprendere mutamenti; — uscendo nel definitivo per impeto di passioni rivoluzionarie, pensate un po' voi dove vi avrebbe balestrato cotesto turbine. La Fazione violenta riusciva a sforzarmi in molte cose, non in tutte, nè nella suprema in ispecie, presso cui le altre erano nulla: di qui l'agonia di volere ad ogni patto imposta la Repubblica a tumulto, e di qui, trovatomi oppositore e custode dei diritti dell'universo Popolo, il proponimento palese in molti, segreto in taluno, di sostituire al Governo Provvisorio un Governo che la desiderata Repubblica proclamasse.

In Francia la stampa della Opposizione, spaventata, tace; dei tipi e dei torchj si spoglia, e ai propagatori delle opinioni rivoluzionarie si donano: qui pure alla stampa, nemica della violenza, voleva imporsi silenzio.

In Francia i Rivoluzionarii intendono impadronirsi di quella facoltà, la quale mentre dura la tempesta degli sconvolgimenti politici non merita più essere chiamata Giustizia, e neppure diritto di punire, ma sì piuttosto potenza di mal fare, conciossiachè, ottimamente avverte il Thiers,[425] arrestare e perseguitare i supposti nemici formi per i Faziosi principalissima e ambitissima libidine. — Quale e quanta poi sia la tristizia e la rabbia delle persecuzioni politiche, non importa discorrere! — Donde nascesse la prima radice dei Tribunali rivoluzionarii di Francia, insieme con gli altri Storici lo dichiara Luigi Blanc: «La mollezza e la esitanza dei Poteri governativi da una parte, e dall'altra il sospetto e la paura fanno nascere la prima idea del Tribunale rivoluzionario. Dupont di Nemours fu che il propose; e per questo modo dalle mani di un Consigliere di Parlamento furono poste le basi del Tribunale rivoluzionario.»[426]

La Storia, non senza che le tremi nella destra lo stilo, registra nelle sue tavole, come a sbramare le rabbie della scapigliata licenza e del bilioso assolutismo non fecero mai difetto uomini tristi; i quali comecchè vestissero toga nè nome di Magistrati meritarono, nè Magistrati furono; come per vetro traverso a loro si vedeva il carnefice. E che cosa importarono quei luridi scartafacci curialeschi, martirio della ragione umana, e scuola di calunnia? Chi ingannarono? Dio forse, o la coscienza propria, o gli uomini? Ah! nessuno, nessuno ingannarono; avrebbero operato più presto e più lealmente, a prendere una pietra e mettersi ad affilare il taglio della mannaia. Deve essere profonda davvero la satanica voluttà di abbracciare il male, e dirgli: «Tu sei il mio bene!» se la vendetta umana spesso, e la divina sempre, il disprezzo presente, la esecrazione dei posteri, e le visioni della notte e i terrori del giorno, non bastarono a rattenere dal truce mestiere. Ahimè! Che importa che Fouquier-Tinville, giudice carnefice della tirannide libertina, muoia come Ciro nel sangue che ha versato? Che giova che Jefferies, giudice carnefice della tirannide regia, spiri ammaccato dai colpi come un lupo? La morte loro non richiamerà dal sepolcro l'illustre Bailly, la egregia Madama Roland, le pie Granut e Lady Lisle, e Cornish innocentissimo. Io non ardisco interrogarlo, — ma è ben profondo, ben soverchiante la ragione nostra, il consiglio — per cui vedemmo per le Storie la nequissima stirpe di cotesti due togati carnefici rinnovellarsi copiosa, mentre fu scarsa quella di Papiniano che osò guardare in volto Caracalla, e dirgli: «essere più facile commettere il fratricidio che scusarlo.»

E qui non pure tra noi si pretendeva che il Governo instituisse Tribunali rivoluzionarii; ma i Faziosi, già già diventati Governo da per sè stessi, siffatti Tribunali creavano, i loro Giudici carnefici eleggevano, uno esercito di mille cagnotti ad accompagnarli disegnavano. Il Governo Provvisorio queste infamie impediva, e, fingendo adempire egli alle sformate voglie della Fazione, mutava in comune salvezza quello che nelle mani altrui sarebbe stato esizio universale. Lo impugnate voi? Su, vengano innanzi le vedove che abbiamo fatto, escano fuori gli orfani per causa nostra, e ci pongano accusa. La pena più lunga, che fu applicata dal Romanelli, questo nuovo Carrier del contado aretino, non arriva al terzo della nostra carcere di custodia!

In Francia, a Parigi segnatamente, spaventavano le persone, solite a trovarsi in tutte le Capitali, per costume depravate, d'istinto feroci, per abitudine di trambusto fatte convulse, perpetuamente oscillanti fra lo ergastolo e la taverna; tanto più rese terribili adesso, che sciagurati predicatori le ammaestravano a colorire le inique passioni con la politica. — Fra noi terribili erano gli scherani nostri, e non pochi, ma non sì, che, come in numero, in ferocia non venissero superati da quelli che ci mandava la vicina Romagna, cui pure adesso con molta fatica contiene grossa mano di armati, vigilanti ai confini.

Vedete in Francia uomini improvidi del domani, non aborrire accendere oggi uno incendio, che non sapranno più spegnere, e dal quale eglino stessi rimarranno a posta loro distrutti; e Cammillo Desmoulins, stracciando lo ingegno bellissimo, gittarne i brani al Popolo feroce, per vie più inferocirlo. «Abbiamo uno esercito, egli diceva, latente sì, ma ordinato e in procinto. Nè causa al mondo fu della nostra più sacra per combattere; nè premio maggiore destinato alla vittoria. Quarantamila palazzi, case, castelli, due quinti delle terre di Francia, ecco il bottino di guerra. Chi presumeva conquistare sarà conquistato, chi vincere vinto. Il Popolo andrà mondato dagli stranieri, e dai mali cittadini; e tutti quelli che il bene proprio al bene comune preferiscono, saranno sterminati.»

E qui tra noi si urlava: «I danari si piglino dove si trovano, le Chiese dei sacri arredi si saccheggino, a viva forza i signori si spoglino, e le spoglie si dividano fra il Popolo, caparra e saggio di più abbondante raccolta.» E' furono giorni pieni di pericolo cotesti; e chiunque comprende quanto efficace maestro sia il bisogno, e quanto la cupidigia docile scolara, ne andrà persuaso di leggieri. I miei Colleghi furono stretti a mettere una Legge nel 22 febbraio, con la quale fu ordinato ai benestanti ripatriassero; dove no, sarebbero multati: ma nessuno fu multato, e vagarono quanto seppero e vollero; — testimone Don Tommaso Corsini. Questi eccitamenti non avendo trovato in Francia nel Governo quei supremi contrasti che in Firenze trovarono, bensì plauso ed istigazioni, ecco in breve spazio di tempo in quali fatali rovine fu visto precipitare quel nobilissimo Stato. — Parte di Popolo ardeva i castelli, ne decapitava i padroni; le mozze teste fitte sopra le picche, trionfo infame, portava in processione per le strade; dai braccioli di ferro dei lampioni pendevano cittadini impiccati; e l'altra parte del Popolo plaudiva e urlava; qualche volta ancora, tratto argomento di arguzia dalla nefanda tragedia, rideva. Desmoulins, furente di rabbia rivoluzionaria, assumeva il titolo di Procuratore Generale del Lampione.

Oppressione antica nel reame di Francia, governativi errori, insolenze patrizie e abusi universali, di lunga mano apparecchiarono il bisogno di riforme; peregrini intelletti somministrarono argomenti e favella al gemere lungo del Popolo; forse il Principe cedeva, ma i Privilegiati non vollero, meno teneri della Monarchia che di sè stessi, ed invidiosi che questa, sviluppandosi da loro, senza loro durasse. Tutto lo edifizio monarchico e feudale doveva salvarsi o perire, e ciò parve amore, e veramente fu astio; ma così amano sempre i Partiti: — próstrati a terra, e adorami; io ti darò i regni della terra. — Satani sempre, e a tutti; anche a Gesù! — Di qui ebbero origine, da un canto, le trappolerie, gl'inganni, e le slealtà, poi le mene segrete, al fine le scoperte opposizioni; e dall'altro, rancori, rabbie, pretensioni quotidianamente crescenti, e il subentrare continuo dello impeto della passione ai nobili discorsi del pensiero; poi, aumentando lo scambievole odio, si venne alle ingiurie; il trapasso all'offesa fu breve; quegli ebbero ricorso alle forze ordinate del dispotismo, questi alle forze scomposte dell'anarchia; i primi, se avessero vinto, avrebbero ucciso la Libertà stringendole il collo; i secondi, vincendo, la condussero a morte aprendole le vene. Il sospetto non chiuse più occhio, e la vigilia infiammò il sangue del Popolo; e siccome quanti più scalini scendiamo per la scala della ingiustizia, sempre più copiosi troviamo i motivi di offendere, al sospetto, alla miseria, alla cupidità, al furore ecco accompagnarsi la paura; fra i cattivi consiglieri, pessimo: — la paura, Ciclope acciecato, che di tutto teme, anche dei camposanti, però che il vento che zufola per le croci le metta spavento; onde impreca alle croci, e vorrebbe anch'esse sepolte. Pareva che ormai la ferocia degli uomini avesse toccato il fondo del suo inferno, e non era niente; l'ultima furia e la più truce di tutte dormiva sempre. Negli ultimi giorni di agosto 1792, si sparge la voce in Parigi, i Prussiani, espugnato Longwy, accostarsi a Verdun. Male davvero conosce la natura delle rivoluzioni chi pensa che siffatte novelle giovino ad abbattere gli animi esaltati; la rabbia vedemmo allora diventare delirio, e destarsi e stendere le braccia insanguinate la furia delle vendette. Il sospetto cerca le cospirazioni pronte a scoppiare, spesso le immagina, qualche volta le trova, la paura l'esagera, e nella propria sua ombra teme il sicario; la minaccia esterna inasprisce, facendo, per così dire, rientrare nella massa del sangue la infiammazione della cute, e un grido sussurrato di orecchio in orecchio a voce sommessa, come si costuma ai funerali, dice: «Siamo traditi, il pericolo delle armi sta lontano, e non è quello che ci stringa più urgente; il pericolo sta qui nei nemici che abbiamo in casa. I Generali alla frontiera badano ai Prussiani, noi qui dentro dobbiamo badare agli aristocratici cospiranti sempre contro la Libertà.[427] La causa della rivoluzione potrà salvarsi, se accorriamo tutti ai confini; ma lasciandoci dietro le nostre famiglie abbandonate, i nostri nemici le trucideranno; dunque è necessità mettere mano al sangue: forse la causa della rivoluzione soccomberà, dunque vendichiamoci anticipatamente della temuta disfatta sopra questi aborriti, che dispererebbero la nostra agonia con gl'insulti del trionfo; sia che vinciamo, sia che perdiamo, bisogna far sangue.»

Riandate col pensiero le citazioni allegate nelle pagine precedenti, anzi aggiungetevi anche questa: «Per combattere il nemico straniero bisogna non temere che il nemico interno c'insidii e ci minacci alle spalle. La Fazione, non c'inganniamo, è numerosa, e potente. La coscienza della causa dà il debito, e il diritto della vittoria: questo fa legittimo, e sacro ogni mezzo[428] e vedete se la mossa del Laugier partoriva in Firenze i medesimi furori. Lascio la decadenza del Principe gridata a furia; lascio la Repubblica proclamata per gittare, come dicevano, un fatto compíto davanti ai suoi nemici; non ricordo il bando di traditore posto addosso dalle turbe invelenite; ma, con ribrezzo, mi trovo costretto a rammentare la empia gioia della vicina strage, gli eccitamenti orribili a purgare con battesimo di sangue le strade della nostra città: e qui mi taccio, perchè nel ravvolgermi per queste memorie mi prende al cuore una tristezza infinita, che poco è più morte.

Confrontate il linguaggio, che qui si udiva, in Toscana, con quello, che costumavasi in Francia, e ditemi poi se i giorni del terrore vi paressero imminenti! «I motivi sono eglino puri? Il fine approfitta la Rivoluzione? Giova o no alla causa della libertà? — Ciò basta... Si deve parlare della Rivoluzione con rispetto, e dei provvedimenti rivoluzionarii co' riguardi che meritano. La Libertà è una vergine di cui è colpa sollevare il velo.»[429] Vedete se qui come in Francia proclamavasi la sentenza, ai Rivoluzionarii non pure spettare il diritto, ma incumbere il dovere di fare di ogni erba fascio per salvarsi: «empia massima e atroce, che somministra ai minacciati il diritto di combattere con armi pari, e distrugge lo Stato Sociale per surrogarvi la guerra.[430] »

Siffatti eccitamenti condussero in Francia le giornate del settembre. Che cosa pagherebbe mai la Francia per potere strappare coteste pagine dal volume della sua storia? Forse quelle che narrano dei gesti del Condé; e se non bastassero, ci aggiungerebbe le altre che parlano del Turena; e, se più si volesse, anche quelle di Napoleone; e finalmente quante altre mai favellano di gloria, purchè cotesto vituperio cessasse. Nè dovrebbe reputarsi troppo caro il riscatto, conciossiachè i Popoli s'infamino peggio pei fatti scellerati, che non si esaltino pei gloriosi.

Coloro che quelle immanità ordinarono non ne sentirono rimorso, almeno sul momento; all'opposto, le confessarono come provvidenza necessaria di Stato; e questo avviene quante volte, pervertito ogni senso morale, il cervello guasto dai sofismi pesa sul cuore come una lapide di sepolcro: quelli poi che l'eseguirono n'ebbero orrore; ed anche questo è ragione, perchè il Popolo traviato dalla passione chiude le orecchie alla voce della coscienza, ma per via di cavilli non sa strozzarla.

E avvertite, che non per ordine dell'Assemblea, ma in onta sua, fu commessa la strage. I violenti l'avevano soverchiata instituendo Governo fuori del Governo, per quei tempi onnipotente quanto feroce. La Francia spaventata imparò lo eccidio del settembre per via di questa Circolare spedita dal Comitato di Salute Pubblica col sigillo del Ministro della Giustizia:

«Prevenuto che torme di Barbari si avanzavano contro la Francia, la Comune di Parigi usa diligenza ad informare i fratelli di tutti i Compartimenti come una parte degl'iniqui cospiratori detenuti nelle prigioni è rimasta spenta per virtù del Popolo. Comparve necessario questo atto di giustizia » (e sempre giustizia rammentasi da coloro che meno vogliono e sanno adoperarla) «per contenere con la paura le legioni dei traditori chiuse dentro le mura, mentre stavamo in procinto di muovere contro il nemico; e il Comitato non dubita che il Popolo di Francia, dopo la serie dei tradimenti lunghissima la quale lo spinse su l'orlo dello abisso, si studierà imitare questo partito tanto vantaggioso quanto necessario, e dirà come il Parigino: — Noi correndo contro al nemico non lasceremo dietro a noi scellerati che scannino le nostre mogli ed i nostri figliuoli...!»

I posteri incolpano meritamente la memoria del Danton, come partecipe ed eccitatore di cotesti misfatti; ed è da credere che dove risolutamente vi si fosse opposto, forse gli sarebbe venuto fatto stornare tanta sciagura dalla Francia, tanta infamia dal suo capo; però che la voce del Magistrato sia autorevole a dissuadere le turbe da promiscue stragi, come da qualsivoglia altro atto di efferata barbarie, dalla quale per religione, per educazione e per naturale istinto esse repugnino: e bene ammonisce il signor De Barante nei frammenti citati, che il Danton, stimolando la plebe a insanguinarsi, non fece affatto prova di audacia, bensì di codardia, solita nei capi di parte, che, per mantenersi in favore dei proprii soldati, alle voglie loro, quantunque disordinate, sempre vilissimamente acconsentono.

E di vero il Danton invece di trattenere, ecco come spingeva la plebe: «Il dieci agosto ci ha divisi in Repubblicani e in Realisti: poco numerosi sono i primi, molto i secondi. In questa debolezza noi ci troviamo esposti a due fuochi; a quello dei nemici fuori, e all'altro dei realisti dentro,» e concludeva col truce attraversare della mano su la gola, e colle più truci parole: «Bisogna atterrire i realisti!»[431]

Così procedono i fomentatori della Rivoluzione, e non la trattengono, nè il proprio corpo in mezzo alla strada attraversano, affinchè il carro sanguinoso si arresti.

La sentenza gravissima del signor De Barante, da noi riportata poco anzi, ci porge occasione, confrontandola con certe parole dell'Accusa, a dimostrarne la manifesta stupidità. Costretta l'Accusa a confessare con amarezza inestimabile com'io mi fossi valoroso oppositore delle più accese voglie della Demagogia, subito dopo, per cancellarne il merito, aggiunge che questo feci per conservare nelle mie mani il male acquistato potere.

Innanzi tratto la mia autorità, per sua natura transitoria, non poteva prorogarsi che per ispazio brevissimo di tempo, sia che l'Assemblea deliberasse la Repubblica, sia piuttosto che il Principato costituzionale restituisse; nel primo caso, è da credersi che non avrebbero scelto a governare la Repubblica, tale che accusavano averla contrariata; nel secondo, di questa pasta non si fanno Principi, e penso che non ci bisogni dimostrazione. Ancora: non qui in Toscana, ma a Roma, il Potere Esecutivo e i Ministri sarebbersi dovuti eleggere; onde se in me fosse stata vaghezza di durare al governo con la Repubblica, e commettermi alle sue fortune, insensata opera faceva travagliandomi ad avversarla in Toscana: lasciato quaggiù, come suol dirsi, sacco e radicchio, avrei dovuto prendere le mosse verso Roma, dove supremo seggio, più volte, mi avevano offerto, e l'ho provato altrove. — Per durare al potere, in virtù del beneplacito della moltitudine, signora assoluta delle cose, nuova arte c'insegna l'Accusa. — La Storia ci mostra come i vogliosi di dominare abbiano sempre piaggiato, non contrastato il Popolo; ma che cosa cale all'Accusa di Storia? Ella sa di dire sempre bene. Anche Cromvello e Napoleone, che furono così assoluti e si sentivano gagliardi su le armi, si gratificarono i Popoli con ogni maniera di lusingheria. Perpetuo aborrimento loro erano i corpi deliberativi; sicchè quando vollero dominare signori, Cromvello nell'aprile del 1653, invaso il Parlamento co' suoi soldati, ne cacciava a vituperio i Deputati, e chiusa la sala se ne ripose la chiave in tasca, ordinando che vi appiccassero un cartello che dicesse: « Stanze da appigionare. »[432] Buonaparte, nel novembre del 1799, faceva saltare, a San Clodio, dalle finestre i Membri del Consiglio dei Cinquecento.[433] Io convocai l'Assemblea Costituente toscana, perchè delle sorti toscane statuisse nello spazio di tempo che mi fu dato più breve.

Adesso come, — esclamerà l'Accusa levando le mani al cielo, — con paziente animo può sopportarsi in bocca di questo bagnato e cimato prevenuto sì superbo vanto! Possono eglino questi agnelli toscani paragonarsi co' lupi parigini del 1792? Dove il coraggio, dove le mani sariensi trovate per far sangue? A diversis non fit illatio. Abbassa le mani, Accusa, e ascolta: già non sono io che queste cose penso essere state possibilissime qui; ma tu, che descrivi la Fazione con tali orribili colori, che se fosse stata composta di tanti diavoli scatenati dallo Inferno, non avresti saputo e forse nè anche voluto fare peggio.

Ma io metto, che fosse mansueta quanto una vergine, eppure anche di questa il buon Parini filosoficamente poetando insegnò:

«Ahi da lontana origine

«Che occultamente noce

«Anco la molle vergine

«Può divenir feroce...»

Oppure tu pretendi, o Accusa, la Fazione pusillanime e codarda? E per questo appunto la si doveva temere spietata. La virtù, che si esercita gagliardamente contro la resistenza, si arresta dinanzi al nemico supplichevole di mercede: ma la pusillanimità, per vantarsi, che anch'essa fu della festa, non potendo mostrarsi nella prima opera, si prende per sua parte la seconda, che è di sangue, e di strage. I macelli dopo le vittorie ordinariamente commettonsi dai bagaglioni, e dai saccardi, e la cagione delle immanità inaudite, per le quali le guerre civili diventano infami, consiste appunto in questo, che la plebe imbelle gavazza nel tuffare le braccia fino ai gomiti nel sangue e nel cincischiare un cadavere steso ai suoi piedi, sentendosi affatto di prodezza incapace:

Et lupus, et turpes instant morientibus ursi,

Et quæcumque minor nobilitate fera est.

Narrano le Storie che Alessandro crudelissimo tiranno di Fere, mentre si deliziava a ordinare i veri strazii di tante infelici vittime, non poteva soffrire i finti di Andromaca e di Ecuba rappresentati sopra i teatri. L'Imperatore Maurizio essendo avvertito in sogno e per altri prognostici, che un Foca soldato in allora sconosciuto lo avrebbe messo a morte, interrogò il suo cognato Filippico intorno ai costumi, alla indole, e alle azioni dell'uomo, ed intendendo com'ei si fosse pauroso e codardo, ne concluse subito, ch'egli doveva essere ancora omicida e crudele.[434]

Leggi, Accusa, il grave De Barante, e t'insegnerà come anche in Francia la sete del sangue a poco a poco si sparse, e a poco a poco crebbe; saprai che nello esordio della strage dei prigioni della Badía gli ammazzatori se giungevano ai cinquanta non li passavano; vedrai come alieni molti di costoro da così immani delitti, al cessare del delirio che gli aveva invasi, presi da malinconia, agitati da visioni notturne, diventassero matti; udrai come uno armaiolo, detenuto nel carcere della Conciergerie, al quale i sicarii fecero patto salvargli la vita se gli aiutava a scannare, accettasse, ma, dato il primo colpo, gittasse via il ferro micidiale, e gridato con quanta voce aveva in gola: «Uccidetemi; io eleggo essere piuttosto vittima che carnefice!» cadesse trafitto martire della sua umanità;[435] e se ne avrai voglia, apprenderai «come dato una volta il segno, e prevalsa la idea che bisogna sacrificare vite per la salute dello Stato, tutto si disponga a questo atroce fine con incredibile agevolezza. Ognuno opera senza repugnanza, e senza rimorso; la gente vi si abitua nel modo stesso che il magistrato a condannare, il chirurgo a vedere gl'infermi patire sotto i suoi arnesi, il generale a spingere ventimila uomini alla morte. Viene composto un fiero linguaggio corrispondente alle opere; e perfino si trovano motteggi e lepidezze per esprimere idee di sangue. Ciascuno corre strascinato, intronato dal moto universale; e furono visti uomini, i quali nel giorno innanzi si occupavano pacifici di arti o di commercio, trattenersi con la medesima facilità di distruzione e di morte.»[436] Sicchè per queste e per altre notizie, tu, se ne avrai talento, potrai, o Accusa, conoscere come un Popolo lieto, giocondo, amabile, ai sensi di carità di leggieri inchinevole, religioso così che mediamente ebbe nome di cristianissimo, mutato, in breve giro di tempo, genio e costume, vincesse d'immanità assai le più feroci belve, e rinnegasse non solo i riti religiosi, non solo lo Dio dei suoi Padri, ma tutto Dio, e facendo l'anima morta col corpo, operasse da bruto. Veramente ogni Popolo presenta una sua speciale fisonomia; però andrebbe errato di molto colui che presumesse in queste nostre parti occidentali tanto un Popolo dall'altro diverso che, sottoposti entrambi al medesimo impulso, uno dall'altro, agendo, differisse; questo starebbe contro il naturale ordine delle cose e contro la esperienza quotidiana. Nelle medesime condizioni di civiltà tanto più si livellano i pensieri, gli appetiti e gl'impeti, che anche in condizioni differenti gli abbiamo veduti procedere a un di presso uguali. Così, a modo di esempio, nella peste di Milano del 1630 il Popolo ebbe fede alla presenza degli untori, e furono processati e morti, imperciocchè quale infamia, qual tirannide e quale errore patirono penuria di Giudici per sentenziare, di Carnefici per giustiziare? E nella moría del Cholera chi di noi non rammenta avere udito gente, e non mica di piccola levatura, bensì di ordinario discorso dotata, affermare che uomini perversi, toccando con arnesi imbrattati, il mortale morbo trasfondevano? — E mentre questi successi accadevano sotto i miei occhi a Livorno, non leggevamo di cittadini dabbene precipitati dalla credula plebe parigina nei pozzi, perchè temuti manipolatori di veleni cholerici?

Qui, come in Francia, sconfortate le moltitudini e indifferenti, e ce lo racconta la stessa Accusa;[437] qui la forza pubblica inerte; qui sciolti i vincoli politici, rilassati i religiosi; qui insomma poteva a buon diritto ripetersi quello che Garat Ministro dello Interno diceva all'Assemblea: «Enormezze incomportabili in Parigi quotidianamente commettonsi, e temesi peggio. La forza pubblica rimane spettatrice inoperosa, e si scusa adducendo difetto di ordini: intanto, prima che gli ordini arrivino, i perversi ragunano il Popolo, lo infiammano, lo strascinano, e il male cresce irrimediabile.»

No, — senza supremo di Dio benefizio, a cui prima dobbiamo grazie infinite, e l'opera di me, fatto segno di vituperevole guerra, Toscana piangerebbe adesso giorni funesti quanto quelli che nel 1792 successero in Francia.[438] Questa è la mia gloria, e nessuno me la può tôrre. Se in secolo meno tristo io fossi nato, se fra gente più generosa vivessi, tradotto innanzi al Tribunale avrei detto: «in questo giorno, e in questa ora le furie rivoluzionarie invadevano la Patria nostra, traendo seco i mali, che fanno piangere un secolo. Dio aiutando, a me fu dato salvare la Patria. Popolo e Giudici, che facciamo noi qui? Andiamo in Chiesa a rendere grazie a Dio pel ricevuto benefizio.»

Queste sono reminiscenze pagane; oggi i cristiani più civili farebbero condurre Cicerone alle Murate, a starsi in compagnia con Cetego e con Lentulo.

§ 3. Stato in che mi trovo ridotto nei giorni 18, 19, 20.

Vedevo imminente formarsi la tempesta, e attendendo fra tanto pericolo a preservarne lo Stato, il quale era da temersi che ne andasse sommerso, pensai in primo luogo occupare le menti col rumore dello apparecchio delle armi, poi nel negozio delle elezioni. Consideravo così tra me, che scemando i motivi dello ardore, e frastagliandolo in tanti scopi diversi, poteva sperarsi che quel fattizio impeto per la Repubblica quietasse. In simile intento nel giorno 17 febbraio, con data del 16, era bandito questo Proclama, e col Proclama provvedimenti relativi allo scopo del Proclama consentivo, e ordinavo.

«Toscani!

«La nostra bella contrada si disfà, se quanti hanno cuore italiano non sorgono animosi a salvarla.

«Bande di facinorosi col pretesto della fuga di Leopoldo II, ed anche senza pretesto irrompono al saccheggio e allo incendio. Il Governo ha represso gli scellerati, e saranno puniti.

«Alcuni soldati figli di questa terra a noi dilettissima, abbandonavano le bandiere, e con sacrilegio maggiore disertavano i confini alla fede del sacramento loro affidati. Una cosa sola conforta l'animo travaglialo, ed è questa, che i più, pentiti, sono ritornati. Possa in breve un battesimo di fuoco reintegrarli nella pienezza dell'onore, che non doveva mai rimanere offeso.

«Ora corre il momento solenne. Momento di eterna infamia o di eterno onore. Non sapremo noi spargere altro che lamenti codardi, e lacrime vane? Vorremo noi offrire di nuovo lo spettacolo allo straniero di una emigrazione troppo spesso derisa?

«No, i mali sono grandi, ma non minori alla costanza del buon Cittadino. Non è mai lecito disperare della salute della Patria.

«Coraggio! La Legge intorno ai Volontarii fu pubblicata; breve lo ingaggio, di un anno e un giorno; la ricompensa giusta, l'onore grandissimo.

«Non più parole, ma fatti. Se trentamila Toscani volontarii non corrono alle armi, chi è quaggiù che ardirà parlare di Libertà? Se il Popolo sarà pari alle sue promesse, il Governo non mancherà al suo dovere.

«Egli saprà vincere l'anarchia interna, egli si difenderà aggredito dalle invasioni straniere: farà quanto Dio e la coscienza gli impongono.

«Rammentinsi i tepidi e gl'infingardi e gl'inerti, che a tale siamo noi che restare è peggiore che andare, e che il partito più fecondo di mali sta nel non far nulla.

«Voi vi ritirate nelle vostre case, sciagurati! Chi ve le salverà dallo incendio? Voi nascondete il vostro denaro e lo negate alla voce della Patria! Chi vi difenderà se lo avrete a dare sotto al bastone croato? Voi pervertite il cuore dei campagnuoli e li dissuadete dalla guerra! Chi preserverà i colti dalle scorrerie dei cavalli nemici?

«Non ci credete? Guardate la Lombardia, e vedrete se questa è verità.

«Firenze, li 16 febbraio 1849.»

Mirava ad attirare le menti commosse verso l'elezioni la Circolare ai Prefetti, pubblicata nello stesso giorno 17 febbraio.

« Circolare del Governo Provvisorio Toscano ai Gonfalonieri.

«Signor Gonfaloniere.

«Il primo pensiero del Governo Provvisorio, appena si trovò chiamato ad assumere in momenti così supremi le redini dello Stato, fu quello di circondarsi di un'Assemblea Nazionale, onde la volontà del Popolo avesse tutto il suo peso nel Governo del Paese.

«Così fosse stato nell'umana potenza, come era nel desiderio dei Cittadini che governano, improvvisare all'istante un'Assemblea Nazionale! Ma volendo far tutto che era umanamente possibile per affrettarne la convocazione, fu dettato un Regolamento nel quale, piuttosto che a giorni, ad ore, vennero misurate le operazioni elettorali.

«Infatti per la preparazione, formazione, correzione e pubblicazione delle liste, fu imposta una sollecitudine per la quale si richiede tanta alacrità nei Parrochi e nelle Autorità Municipali, che solo la gravità dei tempi fa sperare secondata da tutti. Le ulteriori operazioni fino alla convocazione delle Assemblee Elettorali, e le successive, fino alla proclamazione dei Deputati di che parla l'Articolo 39 del Regolamento de' 13 corrente, sono così compendiate nel tempo che il Governo le ordinò, non senza tema che fossero giudicate impraticabili. Non si ebbe riguardo a sacrificare il ricorso, che in tempi ordinarii non avrebbe potuto negarsi, contro le risoluzioni dei Prefetti in domande di rettificazione di liste; e per le trasmissioni di carte da luogo a luogo, si fece conto che le Autorità interessate non avrebbero profittato dei modi di ordinaria corrispondenza comunque spedita, ma avrebbero, come debbono usare, mezzi al tutto straordinarii di più celere comunicazione.

«Signor Gonfaloniere! all'Autorità Comunale, a Voi, è specialmente affidata l'esecuzione del Decreto Elettorale: da Voi specialmente dipende che il 15 marzo tutti gli Eletti del Popolo sieno in solenne convegno attorno al Governo Provvisorio. Gli indugi toscani non sieno più che una memoria. Pensate che il Paese vi guarda ed attende. Studiate in precedenza tutto il meccanismo del Regolamento, onde non vi sorprenda dubbio nel momento dell'azione: e quando sentiate bisogno di alcuna dilucidazione, chiedetene per tempo ai Prefetti, a Noi.

«Le operazioni elettorali sono una catena. Se un anello non corrisponde, la macchina si ferma. E la macchina deve andare a ogni costo.

«Li 16 febbraio 1849.»

Sembra che il sospetto di trovarsi prevenuti, consigliasse i Congiurati ad anticipare, non aspettando che da tutti i paesi, come avevano disegnato, giungessero genti a Firenze. Verso le ore sei pomeridiane del 17 febbraio, ecco arrivarmi da Livorno questo Dispaccio.

«Pigli a Guerrazzi.

«Poco fa ha avuto luogo una dimostrazione numerosissima con cartelli e bandiere, per chiedere la pronta Unione con Roma. Sono stato costretto a parlare. Ho promesso informare il Governo senza promettere niente; mi sono limitato a lodare la Repubblica Romana. Credo sapere che domani si porteranno costà Deputazioni di tutti i Circoli, per chiedere quanto sopra.»[439]

Accorto da qual parte spirava il vento, e avendo oggimai conosciuto, che del Governatore non mi poteva fidare, spedisco senza mettere tempo fra mezzo il mio familiare Roberto Ulacco, e credo averlo fatto accompagnare da Emilio Torelli con lettere urgentissime pel signor Dottore Antonio Mangini, persona a me aderente, e preposta ai miei negozii in Livorno; con queste lettere gli commetteva, che col Gonfaloniere si accontasse, e palesatogli il mio concetto, facessero opera insieme presso gli amici, affinchè il disegno dei partigiani della Repubblica non avesse seguito. Spediti i messaggeri, per mezzo del telegrafo ammoniva il Gonfaloniere in questa sentenza:

«Il Presidente del Governo Provvisorio al Gonfaloniere di Livorno.

«Il Dottore Mangini a questa ora deve avere una nota del concetto del Governo. Dovrebbe fare un Proclama. Se non lo ha fatto, sollecitalo. La condizione nostra è piena di pericolo. Il Paese sta sopra un filo di rasoio. Quello che importa, è, che corrano alle armi. L'anno e un giorno è una formula; assicura che lo ingaggio sarà per un anno fisso. Qua abbiamo mille Volontarii, — domani speransi duemila. Livorno sarà minore di Firenze. Vergogna, vergogna.

«Febbraio 17, ore 10, min. 20 pom.»[440]

Questo pericolo nostro, o piuttosto mio, consisteva nel presagio d'impotenza a resistere allo sforzo repubblicano; l'oscillazione del Paese sul filo del rasoio riguardava la quasi sicurezza, che, attesa la inerzia dei più, sarebbe stato stravolto dalla Fazione audacissima. Consultato adesso da me il signore Mangini intorno ai fatti di cui fu parte, risponde nella guisa che sarà esposta fra poco. Importa intanto considerare, come, dalle carte raccolte nel Volume dell'Accusa resultando la notizia data al signor Dottore Mangini del mio concetto intorno ai successi del tempo, il suo possesso di una mia nota per compilarvi sopra un Proclama, e la raccomandata conferenza in proposito col signor Gonfaloniere di Livorno, nè l'uno nè l'altro sia stato su questo punto ricercato; però se importava considerarlo, non deve recare maraviglia alcuna, dopo averlo considerato. L'Accusa, che nel suo ufficio ravvisa un duello da combattere, s'ingegna con tutte le arti a facilitarsi e ad assicurarsi la vittoria.

La gran bontà dei cavalieri antiqui stava bene appunto fra i cavalieri antiqui; gli Accusatori di siffatte cortesie non sanno o non curano; e' vogliono sgarire ad ogni modo; e a questo scopo intendendo essi, quanto offende raccolgono, da quanto difende aborriscono.

Non racconto novelle, ma cose che io stesso vidi. Fu già un uomo di cervello balzano, a cui venne in testa di fare raccolta di cornici; empito che n'ebbe un magazzino, cangiata voglia, si dette a comprare quadri e ad accomodarli dentro di quelle. Ora accadeva sovente che i quadri non capissero nelle cornici, di che il buono uomo punto si turbava, ma tagliato quel tanto che sopravanzava ce li faceva entrare di santa ragione. Così tagliò fin quasi ai ginocchi un quadro giudicato di Rubens, che rappresentava il caso della coppa di Giuseppe rinvenuta nel sacco di Beniamino, il quale, rimasto nella mia Patria, rende perpetua testimonianza della barbarie dell'uomo. L'Accusa, non so se abbia comprata da altri, o se abbia fabbricata con le sue mani una cornice; fatto sta, che ha preso testimonianze e documenti, e ce gli ha provati; quei, che a parere suo c'incastravano, ella ve gli aggiustò con amore; a quelli che non v'incastravano ha tagliato inesorabilmente le gambe ribelli.

Ecco come scrive il Dottore Antonio Mangini: «Nel giorno successivo all'Adunanza del 16 febbraio, per mezzo di Roberto Ulacco, da lei specialmente ed appositamente inviato, ricevei una lettera urgentissima, nella quale accludendomi un lungo scritto tendente a dimostrare la inopportunità della Unione con Roma, e della proclamazione della Repubblica, mi commetteva lo pubblicassi a modo di Proclama, e per tal modo ne rendessi convinti i Circoli, e il Popolo di Livorno. Comunicai questo scritto al Dottore Mugnaini, a cui restò. Questo Proclama era intempestivo, perchè veniva dietro la deliberazione presa. Non ostante questo, il Dottore Mugnaini voleva servirsene nel miglior modo possibile. Immantinente conferii col Gonfaloniere Fabbri, il quale conobbe essere impossibile arrestare la opinione prevalente. Nulladimeno, mi promise intervenire la sera al Circolo, dove dovevano essere eletti i Membri componenti la Deputazione del Circolo Politico, che doveva partire per Firenze la domenica mattina successiva. Infatti il Fabbri intervenne al Circolo, ma indarno: non prese parola, perchè non vi fu discussione, essendo partito già preso; e indarno il Dottore Mugnaini volle opporsi, e con esso altri pochi. La domenica a Firenze avvenne quello che a tutti è noto. Interpellato oggi il Dottore Mugnaini per lettera, ha convenuto essere rimasto a lui quel Proclama, ma dichiara non averlo più trovato, e probabilmente essersi perduto fra moltissimi altri suoi fogli. Questi sono i fatti di cui sicuramente mi ricordo.»

Mentre ingrossano senza riparo le turbe nella Capitale per proclamare la Repubblica, e mentre qui stanno tali, di cui Europa armata anche adesso paventa, per condurle, ecco cadere, non come favilla no, ma come folgore sopra le polveri incendevoli, la notizia: il Generale De Laugier essersi dichiarato contro al Governo Provvisorio; abbandonata la custodia delle frontiere, muovere contro la Capitale; avere sostenuto il Delegato Regio Conte Staffetti; minacciare fucilazioni e stato di assedio; percorrere le vie con sembianti terribili, e finalmente avere pubblicato il seguente Proclama:

«Toscani!

«Il nostro amato Sovrano Costituzionale Leopoldo Secondo si degna avvertirmi:

«I. Non avere mai abbandonato la Toscana, perchè rimasto sempre in questi pochi giorni a Santo Stefano con Guardie d'onore inglesi.

«II. Nell'allontanarsi da Siena aver nominato un Governo Provvisorio.

«III. Aver proibito alle Truppe di sciogliersi dal Giuramento.

«IV. Essere Egli sempre l'ardente amatore della Libertà e dell'Indipendenza Italiana.

«V. Ordinarmi quindi richiamar tutti alla fedeltà e al dovere, ripristinare l'ordine e la quiete.

« Le Truppe Piemontesi, in numero di 20,000 uomini, passare adesso le frontiere per sostenerlo.

«VI. Essere conservati i gradi nella Milizia stanziale.

«VII. Perdono ed oblio per tutti, meno per quelli, che dopo questo Proclama tentassero di fare spargere una sol goccia di sangue cittadino.

«In Massa, li 17 febbraio 1849.

«Viva Leopoldo II Principe Costituzionale. «Viva la Libertà. «Viva la Indipendenza Italiana.

« Il Generale — De Laugier.»

Altre voci succedono mescolate, siccome avviene, di vero e di falso, esagerate dalla fama, dalla rabbia e dalla paura: il Generale levare di Lunigiana artiglierie e milizie; abbandonare la frontiera indifesa alle invasioni nemiche; avere stracciato gli avvisi del Governo Provvisorio, posta Pietrasanta in istato di assedio.[441] Concionatori su le piazze crescevano legna al fuoco; era da per tutto tremendo anelito e delirio furente; immensi urli gridavano traditore De Laugier, Repubblica, morte ai nemici del Popolo; i sospetti si arrestino, le porte chiudansi, le case si perquisiscano; se il Governo vuol fare queste cose lo soccorreranno, se si rifiuta lo metteranno in pezzi, e faranno da sè; e questo sarebbe il meglio, perchè ormai, e si era visto a prova, il Governo non sa camminare con passi rivoluzionarii, verso i nemici della Patria procede con indulgenza colpevole, tepido poi si mostra e incapace degli estremi partiti; e questi abbisognare adesso, e questi ad ogni modo volere. Più che mai ardenti e minacciosi tornavano ai rimproveri avventati contro me fino dai primi giorni di febbraio.[442]

In quel giorno i Settarii andavano insinuando malignamente parole mortali contro il Governo Provvisorio, o piuttosto contro di me: «già la calunnia investe i nomi rispettabili dei componenti il Governo Provvisorio; già i reazionisti esitanti fino all'ultimo momento a mostrarsi a visiera alzata, susurrano iniquamente gli uomini del Governo nostro temporeggiare per concerti fraudolenti col despota piemontese, insinuano volere essi conservare lo Stato allo austriaco Leopoldo, e, senza compromettere sè stessi, lasciare che il loro Partito si comprometta, e si perda.»[443] Così fingevano compiangere i mali, che eglino stessi seminavano: lacrime di coccodrillo erano coteste. Ed in quel giorno G. B. Niccolini strillante come uccello del malo augurio, più spesso che mai avesse fatto, andava urlando dintorno: «Giù il Guerrazzi dalle finestre, e chiunque si oppone!» Incominciava per costui a diventare idea fissa quel mandarmi capovolto dai balconi del Palazzo; nonostante questa ed altre tali tenerezze, l'Accusa ritiene, che il Niccolini «continuò a godere, almeno per certo tempo, come in avanti, della confidenza e intimità dei Triumviri, non escluso il Guerrazzi

La fiumana, rotti gli argini, allaga; la Repubblica in mezzo a fremiti è bandita, il Principe si urla decaduto, chiamato a morte De Laugier, l'Albero... ma che parlo io di Albero? una foresta di Alberi sorge su per le piazze e pei crocicchi di Firenze; e non solo la Repubblica, la Decadenza del Granduca, la Unione immediata con Roma, e la morte del Generale De Laugier si urlano, ma si riducono in Plebisciti.

Dall'alto dei balconi del Palazzo Vecchio vedevamo quel mareggiare di teste in burrasca, e udivamo cotesto inferno di gridi, Sir Carlo Hamilton ed io; e lo interrogava dicendo: «Ora come potrò resistere? Ah! fui gittato come uno schiavo alle fiere.» Ed egli, fieramente turbato: «Cedete su tutto, ma salvate la vita e le sostanze dei cittadini.»

Quando il Popolo irruppe allagando camere e sale, ed io solo nel vano di una finestra (al salto periglioso eravamo vicini, e il caso di Baldaccio dell'Anguillara mi traversava la mente), con ragioni, con preghiere, con rimproveri, e finalmente con arguzia potei schermirmi da cotesti furiosi, dovevano venirmi a canto i Giudici. Allora avrebbero veduto e sentito se incitai i Popoli, o se con pertinace resistenza, che a Dio piacque benedire, li contenni. Allora avrebbero inteso quali fieri accenti scambiassi con Giuseppe Mazzini, che delle parole dette a Livorno non voleva più sapere, e la Repubblica pretendeva, e subito s'instituisse; i quali, comecchè pronunziati nello impeto della passione, non è bello nè onesto riferire. Se in quel giorno i Giudici e gli Accusatori che fin qui mi stettero schierati di contro fossero stati fra i difensori dell'ordine al fianco mio, il giorno 18 febbraio così si sarebbe loro scolpito nel cuore, che forse avrebbero sentito vergogna di affermare, che alla proclamazione della Repubblica mi opposi soltanto dopo la disfatta di Novara. Ma dei miei Giudici e dei miei Accusatori fin qui non fu istituto difendere, bensì offendere; e tutto il mondo, non dubitino, di ciò si è accorto da buona pezza di tempo. Però, se cotesti Giudici e cotesti Accusatori non vi erano, vi ero io, e vidi intorno a me, soldati dell'ordine, il Gonfaloniere Peruzzi, il Generale Zannetti e quello Adami che osarono processare, e Romanelli e Franchini che ardirono accusare, ed altri parecchi cittadini onoratissimi i quali con la vista e con la voce mi confortavano a durare cotesta lotta mortale.

L'Accusa, cui sembra poca cosa differire, può intanto conoscere che per essere state differite in quel giorno la decadenza del Principe e la proclamazione della Repubblica, nè allora nè poi furono atti compíti cotesti.

Sentiamo adesso come ha coraggio incolpare l'Accusa. Il Decreto del 10 giugno, e con poche varianti sul medesimo tema il Decreto del 7 gennaio, e l'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, sostengono, la Spedizione armata volta verso Lucca essere in gran parte composta della gente straniera, la quale allora infestava il Paese: guidandola io, avere incusso da per tutto paura d'incendio e di saccheggio alle campagne che la impresa del Laugier e la causa del Principe si fossero attentate a favorire: Laugier da me con Decreto messo fuori della Legge, e da me costretto a rifuggirsi, quasi solo, in Piemonte, abbandonato dalle sue milizie per opera nostra spaventate e corrotte.

A Cesare De Laugier mi legava amicizia antica; e veramente la meritava, come quello che dell'onore italiano si mostrò tenerissimo sempre. Di questo fanno fede le opere che, con lungo studio, dettò sopra i gesti degli Italiani in Ispagna e in Russia (dove i nostri soldati combatterono per le glorie di un Popolo, a cui, almeno per ora, non piacque porre la gratitudine nel novero delle virtù che gli fanno corona), e il desiderio di accendere dalle scene, scuola vecchia di vizio e di viltà, con drammi guerreschi la mente dei giovani alla milizia. Egli procurò rendere popolare in Toscana la storia dei fatti di arme pei quali suonò onorato il nome degli esuli italiani su le remote spiaggie di Montevideo; e primo scrisse erudimenti per la milizia cittadina, ahimè! staccata acerba dall'albero dove avrebbe maturato rigogliosa e salutare. Per queste e per altre cagioni erami caro Laugier: egli pertanto scrivendomi, con lodi che mi parvero troppe, intorno al Decreto del 9 febbraio sul giuramento delle milizie, ammoniva mal consiglio essere stato quello di sciogliere le milizie dal giuramento, però che, già troppo inferme, per lo sciogliersi anche di cotesto vincolo sarebbonsi per avventura sbandate; i soldati avere già balenato con pessimi segni, più tardi avrebbe saputo ridurli al fine commessogli; lasciassi fare a lui, che egli gli avrebbe col tempo ridotti. Così egli scriveva a me; quello che al Ministro della Guerra scrivesse, ignoro; questo chiariranno gli Archivii del Ministero. Io gli rispondeva dandogli ragione, ed esponendogli come il Decreto fosse stato impresso nel Monitore senza la mia firma, anzi contro il mio consenso. Potrei io invitare Cesare De Laugier, a nome della verità, di ritornarmi, almeno in copia certificata conforme, la mia lettera? Diligente conservatore delle sue carte io so il Generale, ed egli in parte la citò nella sua relazione da Sarzana: giustizia vuole si conosca intera.

Della improvvisa mossa del Generale De Laugier tanto maggiormente io mi ebbi a restare sorpreso, in quanto che nel giorno stesso in cui egli muoveva con le sue forze contro lo interno del Paese, nel 17 febbraio, mandava al Ministro della Guerra: «Tenere bene le frontiere guardate; dove occorresse, farebbe il suo dovere di soldato.»[444]

Ora questa amicizia con Cesare De Laugier mi tornava funesta; tale non gli fu, nè gli sarebbe mai stata la mia; i miei avversarii cominciarono a susurrare prima, e poi dire alla scoperta al Popolo febbricitante: «Ora vi siete chiariti? Non vel presagivamo noi? Sotto i governativi languori non covava la trama? Guerrazzi del traditore Laugier è amico antico; in ogni occasione tolse sempre le sue parti, così a Livorno come qui a Firenze, e sempre; seco lui tiene corrispondenza segreta; per certo di questa infamia egli era a parte, forse macchinata e condotta da lui. Quest'uomo non si mostrò propenso alla Repubblica mai; ed ora chi è che l'avversa? Forse non egli solo? Perchè, con quale intento le insorge egli contro? Chi non è con me, è contro me; e questo, io vo' che sappiate, ha detto tale che non può fallare. Che cosa significa questa tenerezza di conservare intatti i regii ostelli? Ha paura che noi li guastiamo? E di ciò a lui che ha da calere? Quali pensieri del Rosso sono questi suoi? Non sono eglino roba nostra? e se li guastiamo, dovrà egli risarcirli a sue spese? Inoltre, noi sappiamo, e ve ne abbiamo avvertito le mille volte, che il Guerrazzi se la intende di lunga mano col Ministro Gioberti per farci venire i Piemontesi in casa. Quel benedetto Montanelli, piuttosto che chiamare intorno a sè il Guerrazzi, faceva meglio a mettersi l'esca accesa negli orecchi. Ancora, udite, e questa è prova espressa contro la quale non ci è da ripetere; noi sappiamo il Guerrazzi avere mandato tutti i suoi bauli a Livorno, e con essi la famiglia, tranne il nipote e un familiare rimasto ammalato; ora che cosa significa fare bauli? — Significa che l'uomo si apparecchia a viaggiare: egli dunque tenta fuggire; egli fugge; egli è traditore.»

Deh! Non fate le meraviglie se il Popolo armeggiasse in siffatta guisa; per avventura abbaca con miglior senno o con più coscienza la gente che tira salario a posta per ragionare? Almeno il Popolo dice le sue sciocchezze gratis.

E badate, queste voci, comecchè triste, pure avevano in sè qualche fondamento di vero, consistendo appunto la calunnia nell'arte di mescere il vero col falso. Vera la relazione antica col De Laugier; vero il mio pronto sostenerlo in parecchie occasioni tanto in Livorno che in Firenze; a Livorno, in ispecie, quando nelle feste del settembre 1847 la milizia uscì fuori armata, mentre, per quanto si asseriva, egli aveva promesso mandarla fuori senz'armi, e non era vero; a Firenze, quando mi mandò un suo segretario affinchè mi adoperassi a fare approvare la sua condotta al Consiglio Generale, la quale venne amplissimamente approvata; vero lo invio delle valigie e di tutta la famiglia a Livorno, tranne il nipote che meco venne a Massa; vero che, temendo prossimi i tempi, dai quali la mia anima rifugge, avrei preferito morire nel tentativo di fuga, che vivere in terra insanguinata.[445] Stampavasi in Piemonte, e pubblicamente dicevasi, avere io domandato lo intervento delle milizie piemontesi a Vincenzo Gioberti; ed era vero all'opposto avergli scritto, a mediazione dell'amico Pasquale Berghini, lettere ortatorie onde nol consentisse: nonostante per siffatto modo si dilatò la voce, che io ebbi a smentirla nel Monitore del 13 marzo 1849: «Brevi parole e schiette. Da Torino mi giungono notizie che il signor Vincenzo Gioberti va susurrando avere io domandato lo intervento piemontese. Dove ciò fosse vero, dovrei dichiarare il signor Gioberti mentitore, e gli raccomanderei a rammentarsi che gli uomini pubblici devono cadere con dignità. Però, in questi tempi copiosi di vani romori, spero che le notizie pervenutemi ritengano appunto siffatta natura. Nonostante giovi ad ogni buon fine questa mia dichiarazione.»

Nel Messaggere Torinese del 14 marzo si leggeva: «Vediamo con piacere le imprecazioni (del Gioberti contro di me), perchè i nuovi fautori del Gioberti si affannavano in Piemonte a sparger voce che il toscano intervento fosse concertato col Guerrazzi, voce che, per quanto combattuta dagli amici del prigioniero di Portoferraio, andava acquistandosi qualche credito.»

Nè già si creda che fossero nuove queste notizie; al contrario, esse avevano incominciato a circolare fino dal novembre 1848, come occorre nel Nº 30 novembre del Monitore: «Nel Corriere Mercantile del 28, sotto la rubrica di Genova 27 novembre, si legge, che in quella mattina partirono sul Vapore San Giorgio 350 soldati delle riserve piemontesi chiamati in Toscana, a quanto si dice, dal Ministro Guerrazzi.»

E fu smentito; ma la calunnia è un'acqua torba, che, per chiarire che si faccia, lascia sempre la posatura in fondo; almeno così insegna Don Basilio, nell'arte del calunniare professore solenne.

Alla fine il Popolo sconvolto si avventò con le sue ondate contro i gradini del Palazzo Vecchio, fremendo ed urlando: «Il Guerrazzi fugge — è fuggito — è traditore.»

Hanno mai provato i miei Giudici il Popolo quando viene in siffatto arnese a visitarvi a casa? — Se lo avessero provato, se anche veduto, o se almeno fattoselo raccontare, io quasi quasi mi persuado che non avrebbero scritto la coazione poca, o nulla, o esclusa dai primi atti co' quali, e ne' quali, ec., come in altra parte fu detto.

E gli urli mi percossero nella mia stanza, dove stavo di corpo infermo, e della mente peggio, però che quel contendere ogni momento la fama e la vita, è tale martirio che logora viscere di bronzo. Qui non vi era tempo da perdere. Se il Popolo tornava imperversando nell'ostello già violato, mi lacerava di certo; risolvei, per subita ispirazione, andare contro lui. Presi (nè so bene il perchè, non potendo l'uomo negl'improvvisi moti dell'animo rendere ragione a sè stesso dell'operato) uno squadrone, e correndo giù per le scale mi presentai al Popolo dicendo: «Chi è che mi accusa di tradimento? Io non fuggo, chi ha cuore mi seguiti.»[446]

Il Popolo brontolando si acquietò alquanto; ed ecco come mi trovai sospinto a partire per Lucca. Così i Francesi sospetti, nella prima Rivoluzione, riparavano al campo per sottrarre il capo alle parigine stragi.

E avvertite che appena uscito da Firenze, o sia che per le relazioni dello Inquisitore, che mi avevano messo al fianco, della mia fede dubitassero, o sia che per sospetto spontaneo le consuete ubbie riassumessero; fatto sta, che allo improvviso mi giunse dietro per staffetta il richiamo: al quale, non senza sdegno, rispondendo io per via telegrafica da Lucca il 22 febbraio 1849 diceva: « Non posso partire di qua senza vergogna, e SENZA CHE MI SI DICANO LE RAGIONI DELLA CHIAMATA.»[447] L'Accusa fra i suoi Documenti riporta un conto dell'oste Bordò pel Niccolini, e da cotesto conto appunto si conosce ch'egli meco non venisse, nè io meco lo conducessi, imperciocchè se fosse stato del mio seguito nei miei quartieri e non altrove avrebbe albergato, alla mia mensa, e non a quella dell'oste, seduto.[448] L'Accusa, inoltre, cita ricavandone motivo a mio danno l'espressioni contenute nel Dispaccio spedito da Massa il 23 febbraio 1849, le quali dichiarano: « Ho servito fedelmente, e lo dico con franchezza, il Principe Costituzionale: servirò con uguale fedeltà il Popolo, non ne dubitate. »[449] Queste parole testimoniano aperto com'io venuto in sospetto m'ingegnassi inspirare la fede che meritavo; come ai miei stessi Colleghi, che di me, non pur gli atti, i pensieri conoscevano, la mia devozione religiosa agli interessi del Principato Costituzionale contestassi, e finalmente, e di ciò mi onoro, che con zelo e sagrifizio pari mi sarei, siccome invero mi sono, consacrato agl'interessi del Popolo, per liberarlo a un punto dagli scellerati furori degli anarchici, e dei reazionarii.

Ma i Giudici appongono: tutto questo è nulla; il Guerrazzi aveva detto non avere paura, dunque non la doveva avere, e poteva resistere al Popolo in tutto e per tutto.... A simili opposizioni, le quali riesce giudicare impossibile se patiscano maggiore il difetto di discernimento, o quello della riconoscenza, comecchè grandissimi entrambi questi mancamenti appariscano, io mi sono confessato e mi confesso stremo di difesa.

Oltre le ragioni a me speciali, stranissima (e potrei dire stupida) cosa è supporre che uomini di carne avessero potenza di resistere a tutto, in mezzo a così orribile trambusto, e rifiutare la sanzione al Plebiscito, che Laugier traditore della Patria dichiarava, mentre io riusciva a evitare l'altro relativo alla decadenza del Principe, e al bando della Repubblica. Stranissima e stupidissima cosa è supporre, che il Governo potesse astenersi da ordinare una Spedizione, che Popolo armato, e gente accorsa da più parti, non che di Toscana, d'Italia, imperiosamente imponevano. Qui non sovveniva ripiego di sorta; non si potevano opporre qui le teorie dai Repubblicani predicate, nè le promesse dai medesimi fatte poco anzi; non giovava addurre la necessità di consultare il Popolo; bisognava ed era prudente obbedire, avvegnachè, se per una maggiore resistenza avessero rotto l'ultimo freno, che cosa mai sarebbe accaduto di me? Dichiarato traditore, sarei stato messo in brani a furia di Popolo. — Questo c'importa poco, avvertiranno i miei Accusatori; ed io dirò: in fede di Dio voi parlate discretamente, perchè davvero trovarmi straziato dal Popolo, o da voi, potrebbe parere lo stesso, dove non pensassi che il Popolo si ravvede sempre, e piange, e voi non vi ravvedete, nè piangete mai; ma se non per pietà altrui, per voi medesimi almeno avrebbe dovuto premervi, che il Paese non venisse in balía di chi esaltava per santo qualunque partito, per istrascinare il Paese alla Repubblica, e danari dov'erano voleva arraffare, e dei sacri argenti spogliare le Chiese, e tribunali rivoluzionarii istituire, e rivoluzionarii eserciti disegnare, e impiegati sospetti e traditori non pure destituire, ma ammazzare:[450] avrebbe dovuto, sciagurati, premervi che lo Stato non cadesse nelle mani di chi esultava nella prossima strage, il sangue con aperte narici quasi bestia feroce fiutava, le strade con un battesimo di sangue cittadino intendeva purificare. E sì, e sì, che queste cose con le proprie mani avete raccolto, e co' vostri occhi avete letto come i Faziosi cospirassero a imporre silenzio perpetuo agli avversarii loro; e sì che avete provato, come già voi stessi di contumelie e improperii vituperassero, e con più disonesto attentato manomettessero. Ora io vi domando, perchè dal nuovo pericolo percossi vi rivolgeste a noi, e ci chiedeste protezione? Se voi estimaste che la mala turba fosse aizzata per noi, o con qual senno o consiglio a noi vi raccomandaste? Voi mi credeste custode allora della civiltà toscana; e voi credeste, che avrei voluto e potuto difenderla. Ditemi, non vi difendemmo noi? Si tacque forse la nostra voce? A procurare tostano castigo dei colpevoli non fummo solleciti noi? Noi dalla rivoluzione vi difendemmo; come mi avete difeso voi dalla reazione? Io non parlo di altri; parlo di voi, i nomi dei quali ho letto sotto i Decreti e le Requisitorie compilate fin qui; e a voi rivolgendomi dico, che per onore vostro avreste dovuto continuare a credere oggi come credeste allora, e che me in voi stessi avreste dovuto rispettare.

§ 4. L'Accusa non sa leggere.

Il Decreto della Camera di Accuse del 7 gennaio 1851, firmato da Giuseppe Orsini, Giovan Battista Aiazzi e Luigi Pieri, il quale ne fu relatore o compilatore, come si abbia a chiamare, a pag. 88, § 32, dice in questa maniera:

«Il De Laugier con Decreto del giorno successivo (18 febbraio 1849), firmato dal Guerrazzi e dal Mordini, fu posto fuori della Legge come Traditore della Patria, e vennero dichiarati ribelli i soldati che l'obbedivano.»

Nel Volume che serve di fondamento all'Accusa, a pag. 838, cotesto Decreto occorre riportato, e dice in quest'altra:

«Il Governo Provvisorio toscano

«Considerando, che il Conte De Laugier col suo Proclama del 17 corrente si è fatto eccitatore della guerra civile;

«Considerando, che il Governo Provvisorio toscano legittimamente costituito dal Popolo mancherebbe a sè stesso, e al debito che egli ha di tutelare la vita e gli averi dei cittadini, se non facesse alla colpa succedere immediatamente la pena; ha decretato e decreta:

«Art. 1. Il Conte De Laugier è dichiarato traditore della Patria, e come tale posto fuori della legge.

«Art. 2. I soldati tumultuanti sono dichiarati ribelli.

«Art. 3. I bassi uffiziali, che rimarranno fedeli terranno il posto immediatamente superiore a loro, occupato dagli uffiziali traditori.

«Il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento della Guerra è incaricato della esecuzione del presente Decreto.

«Dato in Firenze questo dì diciotto febbraio milleottocento quarantanove.

« G. Mazzoni «Presidente del Governo Provvisorio toscano.

«Per il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento della Guerra,

«Il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento degli Affari Esteri, A. Mordini.»

Fui indiscreto io, se a giudicare di me pretesi Giudici che sapessero leggere? — Tremendi diritti mi somministrerebbe la Difesa, ma carità di Patria mi prega che io chiuda in cuore il giustissimo sdegno, e mi taccia.

§ 5. Della lettera del 19 febbraio 1849 indirizzata al Pretore del Porto Santo Stefano.

La Requisitoria del Regio Procuratore generale, a pag. 126, afferma essere stata questa lettera dal signor Marmocchi composta sopra minuta o appunto del Guerrazzi. Il Decreto della Camera di Accuse, a pag. 87, aggiunge, che per essa lettera non si deponeva punto il pensiero della cacciata del Principe. Ecco la lettera:

«Cittadino Prefetto.

«I provvedimenti da voi adottati, dopo le notizie delle quali avete informato questo Ministero col foglio vostro in data del 17 stante, non possono non rimanere pienamente approvati. — Noi corriamo alla frontiera dalla parte di Massa. Colà urge il pericolo. Leopoldo penso che attenda a fuggire. Voi intanto mandate a Orbetello, Massa, S. Filippo, e Rocca S. Caterina. Il Pretore di San Stefano si porti dal Granduca, e gli dica, che il Governo, eletto dalla Assemblea e dal Popolo, gli partecipa che la reazione non può avere luogo; che la sua presenza ecciterà, come ha eccitato, qualche facinoroso al delitto; che è indegno di Principe cospirare a turbare l'ordine, che dice raccomandare. La Nazione giudicherà di Lui come Sovrano. Il Pretore faccia il suo dovere; se non può farlo, protesti all'Ammiraglio, che con la minaccia dei cannoni inglesi s'impedisce il Magistrato ad eseguire gli ordini del Governo. E vi saluto.

«Li 19 febbraio 1849.»

Prima di tutto, come possa da uomo di mente sana conservarsi il concetto di cacciare via tale, ch'ei pensa in procinto di partire, è per vero dire uno dei tanti prodigi di ragionamento, che l'Accusa ci abituò ad ammirare senza insegnarci, almeno per ora, ad intendere. Io poi ho serbata a questa sede del discorso la lettera del 19 febbraio, perchè l'attenzione del lettore si fermi a considerare il tempo e lo stato delle cose in cui fu dettata.

Ora è da sapersi come il signor Gustavo Mancini con Dispaccio del 12 febbraio 1849, in assenza del Prefetto di Grosseto, domandasse le istruzioni, e come dopo cinque giorni il Prefetto medesimo, non le vedendo comparire, per averle insistesse. Dunque da ciò si rende manifesto, come io da ben sette giorni mi andassi indugiando a rispondere intorno al Granduca, però che scrivere spontaneo cosa che gli tornasse spiacente io non voleva, e cosa che a me e ad altrui nuocesse io non poteva. Giunto a Firenze nel giorno 18 febbraio il Dispaccio nel 17 mandato da Grosseto, che instava, affinchè al Pretore del Porto San Stefano le istruzioni domandate fino dal 12 del mese stesso si mandassero, il signor Marmocchi, il quale esercitava allora l'ufficio di Ministro dello Interno, meco per certo ne avrà conferito, e con altrui. Nel Volume dei Documenti occorrono di mio carattere due scritti relativi a questa lettera: il primo veramente è appunto come per ordinario ponevo nel margine dei Dispacci, contenente il concetto della risposta, che si doveva fare; il secondo è copia precisa della lettera mandata.

Lo appunto dichiara: «Le istruzioni furono date. Se S. A. ama, come dice, il Paese, repugna alla dignità e lealtà sue rimanere in parte ove serve di bandiera alla guerra civile. Rammenti, che la situazione attuale del Paese fu creata da lui, non già dal suo Popolo innocentissimo.»[451]

La copia della lettera del 19 febbraio suona in diversa guisa: «Approvansi i suoi provvedimenti. Noi corriamo alla frontiera dalla parte di Massa. Colà urge il pericolo. Leopoldo penso che attenda a fuggire. Mandi a Orbetello, a Massa, San Filippo, e Rocca Santa Caterina. Il Pretore di Santo Stefano si porti dal Granduca, e gli dica, che il Governo, eletto dalle Assemblee e dal Popolo, gli partecipa che la reazione non può avere luogo; che la sua presenza ecciterà, come ha eccitato, qualche facinoroso al delitto; che è indegno di Principe cospirare a turbare l'ordine, che dice raccomandare. La nazione giudicherà di lui come Sovrano. Il Pretore faccia il suo dovere; se non può farlo protesti all'Ammiraglio, che con la minaccia dei cannoni inglesi s'impedisce il Magistrato ad eseguire gli ordini del Governo.»[452]

Ora parmi chiaro, che meco conferendo e con altri il Ministro dello Interno ricevesse commissione di comporre il Dispaccio dietro le traccie dello appunto trascritto sopra la lettera del signor Mancini del 12. Questo naturalmente successe nelle prime ore del giorno 18, dopo lo arrivo della posta. I casi avvenuti in cotesta fiera giornata, le ardenti accuse mosse contro il Governo di avere con negligenza colpevole somministrato motivo alla guerra civile, e la necessità di difenderci all'uopo da persone, che si erano arrogate il diritto di sorvegliare i nostri atti, i nostri moti di ora in ora, e perfino di minuto in minuto, persuasero di certo alla svegliata prudenza del signor Marmocchi di mettere nel Dispaccio parole più colorite, e provvedimenti, che nè allora seppi, e neppure adesso so che cosa mai potessero importare. Lascio, come anche ora che scrivo, frugando nella mia mente, Rocca Santa Caterina che sia, del pari ignoro; bensì chiunque abbia intelletto di stile, di leggieri comprende, che la copia della lettera del 19 non è mio dettato.[453] Interrogato il Ministro circa il Dispaccio trasmesso, io, secondo ch'egli mi veniva dicendo, scrissi su i margini della lettera del signor Prefetto, onde potere mostrare ai miei Inquisitori come le istruzioni fossero date, e quali: molto più, che difetto nel mandarle vi era, ed aveva mestieri schermirmi da giusto rimprovero d'inerzia.

Arrogi quello che soventi volte ho dichiarato, non correre nè potere correre allora stagione opportuna a restaurare il Principato Costituzionale pochi giorni dopo che egli lasciava il campo, senza fare neppure le viste di resistere a parte repubblicana. Ella è follia espressa pretendere quiete il giorno seguente alla rivoluzione. La Inghilterra, che stette ferma all'urto della rivoluzione francese del 1830, pure, a giudizio di Lord Melbourne, durò per bene quattro anni a tentennare.[454] Nè questo è tutto: distraendo in altra parte le forze che tenevo apparecchiate col Generale D'Apice per impedire tumultuarie aggressioni contro Porto Santo Stefano, molte e gravi fortune potevano accadere alle quali importava grandemente ovviare. Come le terre di Maremma ardessero tutte, abbiamo veduto; certo La Cecilia le descrive diverse, ma altri dissente da lui; varii i giudizii secondo le impressioni; bensì il fatto dimostra che meglio i secondi opinassero, dacchè per le città e terre di Maremma, non annuente il Governo, vollero proclamare la Repubblica, e la proclamarono; e al Porto Santo Stefano eziandio, appena ebbe quinci rimossi i piedi il Granduca.

Pertanto considerando maturamente la qualità dei successi, i tempi fortunosi, i pericoli, la inanità, anzi il danno espresso di rimontare contro pelo la corrente quando strascina più rapida, e la sicurezza di riuscire dando tempo al tempo, e modo di riaversi con la quiete consigliera di giusti partiti ai Toscani tutti, costituzionali ed anche esaltati, io per me, se avessi tuttavia seduto nei Consigli della Corona, le avrei detto:

«Altezza. L'autorità che, debole e disarmata, non senza sforzo reggeva all'urto della Fazione avversa al Principato, impossibile parmi che possa ricuperarsi adesso per forza, adesso che di propria mano ha schiuso la porta ai suoi nemici. Che la Toscana per la massima parte, e gli uomini di senno pressochè tutti, sieno del costituzionale reggimento tenerissimi, V. A. lo sa, lo ha veduto, senza timore d'inganno lo ha detto più volte, ed è vero così. Si danno epoche per la umanità, che io volentieri chiamerei di contagio politico; e la presente è fra quelle: testimone la Europa. Quali argomenti si adoperano contro il contagio? Giova talvolta sostenerne imperturbati lo assalto, e, senza lasciarsi sbigottire, far prova di vincerlo col valore e con l'arte; tale altra parve più utile scansarsi, aspettare che la malignità dell'aere cessasse per tornare poi nelle purificate dimore. Praticare in un punto questi due partiti è impossibile. Del presente stato male s'incolperebbe tale o tale altro uomo, tale o tale altro Popolo. Stupidezze di menti meccaniche sono queste. Siffatte perturbazioni politiche non dirò che sopraggiungano alla sprovvista per tutti, bensì sempre ai Governi fatali, generate di lunga mano, per molti umori disposte, come sarebbero appunto le pestilenze ed altre maniere di perturbazioni fisiche. Ora poichè dei due partiti fu scelto quello di scansarci, scansiamoci, e provochiamo da questo i frutti che ne dobbiamo raccogliere, i quali, a senno mio, matureranno presto, e felici se lasceremo gli esaltati a straccarsi nello inane tumulto, se torremo loro prudentemente dinanzi gli argomenti i quali, gittandoli a disperate risoluzioni, chiuderebbero loro al rinsavire ogni via; in qualunque Stato che muti forma di reggimento con sicurezza di durata, il trapasso dal vecchio al nuovo noi vedemmo sempre doloroso per necessarii subugli; immaginiamo ora se accadrà di quieto questa trasformazione priva di potenza vitale. Voi vedrete i neghittosi diventare prodi per lo spavento della prossima anarchia. Tutto il male sarà attribuito alla Rivoluzione; ogni speranza di pace riposta nella restaurazione del Principato Costituzionale; dalla speranza al desiderio, dal desiderio al bisogno di ristabilirlo è brevissimo il tratto, se pure tratto ci corre; il moto poi riuscirà irresistibile, imperciocchè gli avversarii non pure troverete avviliti negli sforzi infecondi, ma vinti dal sentimento della propria impotenza, ed è questa fortuna suprema nelle faccende politiche dove la forza doma, ed anche per poco, — non vince; i traviati troverete all'abituale devozione ricondotti, gli ignavi, scottati dall'acqua calda, solleciti ora a guardarsi anche dalla fredda; riassicurati i timidi; tutti acclamanti; gli amici vostri, non della vostra fortuna, esulteranno e procederanno modesti; gli amici della vostra fortuna, e non di voi, si mostreranno insolenti, e voi con la prudenza e gravità vostre ne saprete tenere corti gli ugnoli. Fra pochi mesi V. A., tornando chiamato dal voto universale della Nazione, esclamerà: io ne vado sicuro, come Carlo II reduce a Londra, che suo fu il torto di andarsene o di non essere tornato più presto fra Popoli amatissimi e amantissimi.[455] Ogni altro consiglio, Altezza, come pernicioso a Voi, esiziale alla autorità che importa ricostruire, nemico al Popolo, deh! vi scongiuro, rifiutate. Ricondotto dalle armi, e sieno pure piemontesi, aprirete nel cuore delle genti una ferita che per tempo non sana, e gli esempii del secolo ce lo hanno fatto vedere.[456] Confidando nei moti interni, adesso che la febbre dura, avverto, che per lo meno insorgeranno contrasti, e questo è ciò che ho dimostrato doversi prudentemente evitare, conciossiachè l'uomo, animale di contradizione, soglia, per contrasto, ostinarsi, e, per offesa, nello errore confermarsi. Nè sono a temersi contrasti ed offese individuali soltanto, ma nascerà, e già è nata la guerra civile, di cui V. A. ha meritamente ribrezzo: l'anarchia stenderà, e già ha cominciato a stendere, le mani ladre, e, orribile a dirsi, alza l'augusto vostro nome a bandiera! Altezza, se orrore di sanguinosi conflitti l'animo vostro mansueto persuase ad allontanarvi da Siena, deh! considerate che, a cagione della presenza vostra a Santo Stefano, questi conflitti.... per ora.... non cessano.... ma crescono; — dacchè, durando le cause che in questo momento li provocano, anzi essendo diventate maggiori, la distanza di poche miglia non può avere virtù di spegnerli. Sceglieste il partito di dare tempo al tempo; io lo avrei combattuto con tutte le forze prima che voi, Altezza, lo aveste preferito; ora che lo sceglieste, giova seguirlo; se non m'inganno, ormai è quello che vi ricondurrà con pace nell'onorato seggio: mite foste, mite mantenetevi; gli altri consigli rigettate, però che se per essi (cosa che adesso subito parmi ad accadere difficile) vi fosse restituito lo scettro.... V. A. lo rigetterebbe da sè perchè sarebbe insanguinato.»

Così con non savie forse, ma affettuose parole, io avrei favellato a Leopoldo II, se mi fosse stato concesso recarmi a Santo Stefano; e questo era il concetto che in nota succinta registrava il 18 febbraio 1849 sul Dispaccio inviato al Governo dal Consigliere di Prefettura di Grosseto il 12 di quel mese.[457]

§ 6. Motivi per muovermi contro il Generale Laugier.

Ora si voglia supporre per un momento, che stesse in facoltà del Governo astenersi dalla Spedizione a Massa. Innanzi tratto, io vorrei domandare se i Giudici credono davvero che quando un soldato alza una bandiera, sia pure in nome del suo Sovrano, devano tutti sotto pena di ribellione prestargli fede, e seguitarlo. Badino, che quello che dicono, come pare, è veramente enorme, e potrebbe tirare grandemente a male.

Per buona sorte servendo l'Accusa alla sua passione ha rinnegato la scienza, ed ha commesso gli errori deplorabili, di cui, invocata la dottrina dei pubblicisti, la incolpa l'Avvocato Adriano Mari nella Difesa che presentò alla Cassazione per Leonardo Romanelli.

Il terreno che io ho da percorrere brucia: scerrò quello che scotta meno; e dirò soltanto, che più meditava il Proclama del 17 febbraio del Generale Laugier, meno mi riusciva intenderlo. Per nessun segno io poteva ritenerlo sincero.

Infatti il Proclama dichiara, che il Granduca nello allontanarsi da Siena aveva nominato un Governo Provvisorio: ora questo era patentemente falso, nè conosciuto in quel tempo, nè mai; anzi contradittorio con la lettera e con lo spirito delle dichiarazioni granducali del 7 febbraio: con la lettera, perchè nulla contenessero espressamente in proposito; — con lo spirito, perchè raccomandando a noi i regii servi (e non invano), cosiffatta raccomandazione a privati non si poteva indirizzare; e se il Principe avesse eletto un Governo Provvisorio, noi privati cittadini ridivenivamo: inoltre pensava, che se il Principe avesse lasciato qualcheduno a rappresentarlo, sarebbe stato un Luogotenente, non un Governo Provvisorio. L'affermazione del Proclama accennava a due cose: prima, a una menzogna; seconda, ad uno errore commesso, o fatto commettere, perchè il Paese versasse nell'anarchia. Sosteneva inoltre avere vietato alle truppe di sciogliersi dal giuramento, ed anche di questo non era comparsa notizia. — Della Commissione conferita al De Laugier, nessuno fu avvertito dal Principe in modo autentico; in quanto a me, dopo l'ultima lettera particolare del signor Commendatore Bitthauser da Siena, nella quale mi si prometteva prossimo il ritorno del Principe, e intanto a suo nome mi si raccomandava la quiete della città, non ebbi avviso di sorta, neppure verbale. Nè anche Sir Carlo Hamilton mi riportò invito, ordine, raccomandazione, o che altro, da Santo Stefano. Al Governo, eccetto la lettera e la dichiarazione del 7 febbraio, non pervenne altro atto dalla Corona direttamente nè indirettamente. Ma non soli noi; non il Senato, non la Camera dei Deputati, non il Municipio, nessuno insomma ricevè avviso, che appo loro accreditasse il contegno del Generale Laugier.

Ingrate materie io tratto, e con ingrato animo; ma se dei generosi non è spento il seme, ricorderanno, che io mi difendo da capitale accusa, e deploreranno con me chi mi ha ridotto in questo non giusto stato. — Sopra tutto mi faceva andare pensoso la chiamata dei 20,000 Piemontesi. Gli uomini che presiedevano allora ai consigli del Re Carlo Alberto si erano mostrati, non dirò poco benevoli, ma con mio sommo rammarico avversi alla Toscana. In altra parte di questa Apologia ho favellato delle quistioni col Governo di Piemonte poi confini; fu visto che per comporre coteste faccende era stata proposta al Ministro Pareto una commissione mista di Piemontesi e Toscani; accolto il partito, riceveva un principio di esecuzione. Avenza (come ognuno conosce) fa parte di Carrara: occupata prima dai Piemontesi, dopo l'armistizio Salasco la sgombrarono: allora, gli Avenzini imploranti, presero a presidiarla i Toscani. Il Piemonte a un tratto, sopportando ciò molestamente, c'impone la uscita non senza aggiungere minaccie. A questo punto, salito al Ministero io, trovai la quistione. Proposi allora alla Corona saggiare un po' di quali frutti sarebbe stata portatrice la Costituente, fino dal 12 Maggio 1848 da lei bandita fra cotesti Popoli, opposta come mezzo di difesa al Piemonte; e piaciuto il consiglio sfidai in certo modo il Governo Sardo a rimettercene al voto universale. Il Piemonte aderiva: proseguendo nelle trattative, fu convenuto una forza mista di milizie piemontesi e toscane, fino al giorno della votazione, presidiasse Avenza; in quel giorno si ritirasse; due commissarii, uno per parte, alla votazione assistessero. I Sardi, presentendo sfavorevole lo esito del negozio, adesso si danno a mettere in campo cavilli: opposi a tenacità tenacità; il convenuto solennemente ebbe ad adempirsi, ed è cosa degna di considerazione, come due soli voti ottenessero i Piemontesi. Con voglie prontissime gli Avenzini confondevansi alla famiglia toscana.[458] Ottimo esperimento era cotesto, e pegno felice a bene sperare della Costituente quando le vicende politiche ci avessero persuaso o costretto di ricorrere a lei. Piemonte, mal soddisfatto, metteva innanzi non so quali irregolarità di votazione, e mandava di nuovo Carabinieri ad Avenza per tenervi lo ufficio. Inestimabile, e l'ho detto, fu la contentezza della Corona per l'esito di questo suffragio universale. Pareva a lei, come a chiunque altro, che procurare alla Toscana confini naturali fosse un bello acquisto, — e più ne letiziava il cimento prosperoso del voto.

Nel decembre i Piemontesi tentano torci Panicale, per la qual cosa il Regio Commissario conte Del Medico si risentiva gagliardamente scrivendo al Delegato di Sarzana:

«Devo significarle il dispiacere e la sorpresa che ho provato nel ricevere dal signor Sabatini, R. Delegato di Pontremoli, la notizia che a Panicale si fossero avvisati di procedere ad una votazione assistita soltanto da alcuni Sarzanesi, senza la presenza di verun Toscano, e, dirò di più, accompagnata da minaccie e da violenze. — Come non sentirne dispiacere? Oltrechè quei modi non sono civili nè onesti (non parlo della legalità la quale niuno vorrà per certo affacciare), non si addicono poi a popoli di amiche Potenze, e molto meno ad Italiani del nostro tempo.»

Più tardi (referisco le parole del Monitore ), correndo il 12 decembre, il villaggio di Parana fu preso da alquante milizie piemontesi, che ne cacciarono fuori le toscane;[459] tennero dietro i dissidii per Mulazzo, Calice, Pallerone, e terre altre parecchie, su di che vedi il Monitore del 3, 12, 27 decembre 1848, e 6 febbraio 1849, e le corrispondenze officiali, quando me le daranno.

Per queste tribolazioni sarde assai si turbava la Corona, e penso non dilungarmi troppo dalla verità, se confermo, che principalissimo motivo a renderle accetta la Costituente fu quello di potere opporla quando il bisogno stringesse alle tendenze corrosive sarde, che lievi adesso, ma tenaci, davano a pensare del futuro assai. Meschina contesa fu quella, per non dire di peggio; intorno alla quale una considerazione mi conforta, ed è questa, che la si deve attribuire unicamente a colpa degli zelanti, flagello dimenticato dal Profeta Natan, e fatale a qualunque Governo, il quale comunque per ordinario diligente venga distratto da cure supreme.

Con simili premesse, come io dovea credere che di punto in bianco dal sospetto si traboccasse nella sconfinata fiducia? E come supporre vero, che, mutata di subito politica, la Corona si gittasse a occhi bendati in braccio al Piemonte? Non era mica indovino io; e badate, se anche avessi indovinato, non per questo mi sarei trovato meno deluso, conciossiachè se la Corona, cedendo a improvvidi consigli, chiamò un giorno il soccorso sardo, il giorno veniente lo disdisse: però io avevo buon fondamento a ritenere il soccorso sardo non vero, perchè non verosimile.[460]

E qui ripeto, che l'obbligo di soccorrere quei Popoli alla nostra fede commessi ci correva grandissimo, dacchè pareva duro, dopo averli alienati dai Piemontesi, esporli adesso al loro risentimento, che pur talvolta provano anche i generosi quando si vedono disprezzati. Ad ogni modo il nostro dovere era cotesto, perchè, se i fati non ci vogliono uniti nel grembo di una stessa famiglia, la gente apuana serbi almeno per noi stima di probi, amore di fratelli.

Quando conobbero menzogna lo intervento piemontese, cotesti Popoli mostraronsi a viso aperto contrarii al Generale Laugier, e con lettere pressantissime e messaggi dicevano: «Ci affrettassimo a liberarli dalla insopportabile molestia. Non essersi dati alla Toscana per patire le stravaganze di un soldato, che non adempiva al dovere, voltando la faccia colà dove non erano nemici.»[461]

La chiamata dei Sardi con volontà della Corona, a cagione delle cose esposte, mi pareva incredibile; pure il Generale De Laugier bandiva in quel punto 20,000 Piemontesi passare la frontiera, sicchè malgrado avvisi in contrario era a dubitarsi che fosse così. Io pensai che Cesare De Laugier italianissimo come perpetuamente vantava, preso da vaghezza di lode presente, e più dalla cupidità di fama futura, avesse di repente abbracciato il partito di unire la Toscana al Piemonte: non era strano, nè forte, supporre in lui il disegno, che intendesse collegare il suo Paese ai destini di un grande Stato italiano forte in su le armi, invece di lasciarlo andare in balía della cieca ed avventurosa unificazione con Roma. In questa opinione confermavami la notizia di un Partito piemontese agitantesi da tempo remoto in Toscana; la permanenza di Piemontesi di gran seguito quaggiù, a cui mettevano capo con molta ostentazione tutti coloro, che si reputavano od erano parziali al Piemonte, e il Generale Laugier, non dico che fosse, ma si riteneva fra questi;[462] la riunione di parecchi personaggi al Golfo della Spezia per macchinare nuovità; e finalmente la natura stessa del Generale De Laugier, uomo della prestanza militare del quale non è da dubitarsi, però non sempre seco, per quanto parve, pienamente concorde. Nè questo agitarsi non dei Piemontesi, ma pei Piemontesi, a Lucca, era solo; temevansi eziandio le mene, provocate da cui non voglio dire, a favore di Carlo Ludovico, che, incominciate da parecchi mesi indietro,[463] furono rinvenute vitali dalla procedura conclusa col Decreto della Camera di Accuse della Corte Regia di Lucca in causa Santarlasci e consorti, da me citata a pag. 459-460 di questa Apologia.

Ed oltre ai moti politici, da tempo antico covavano nel contado lucchese, e vi si erano manifestate, enormezze in senso di anarchia.

«Il Prefetto di Pisa al Ministro dello Interno. — Oggi alle 4 circa, vetturini ed altri paesani lucchesi hanno rotto 4 o 5 verghe della strada ferrata a due miglia da Lucca, verso Pisa, e si sono opposti alle riparazioni che i lavoranti della strada volevano subito fare ecc. — 31 decembre 1848.»

Parevami (e ciò sia detto, s'egli è mai possibile, senza inasprire gli animi che pur troppo dureranno inacerbiti), parevami eziandio che in tale impresa, dove più che nelle armi era da farsi capitale nella benevolenza dei Popoli, non fosse da preferirsi il Generale Laugier, essendo noto a tutti quanto da lui repugnassero e Lucca e Pisa e Livorno, nè troppo gli procedessero benevoli neppure in Firenze: colpa, io voglio credere, non sua, bensì dei mutabili umori del Popolo, a cui per rendersi accetto egli non omise argomento di sorta. Ma, insomma, quando vogliamo conciliarci il Popolo per via di blandizie, è pur mestieri non prenderlo a contro pelo nelle sue affezioni, ed anche nelle sue fantasie.

E avvertite, che non fui mica il solo a credere che il Generale Laugier mancasse di mandato a operare come faceva. In certa sua Apologia, datata da Sarzana il 1º marzo 1849, e impressa nel Risorgimento, egli medesimo ne informa: «Non vedendosi comparire i Piemontesi, gli animi abbatteronsi: si suppose mia invenzione lo intervento, e perfino la lettera del Granduca

Pensoso, e gravemente pensoso del pericolo che minacciava la città per la estrema esasperazione, solita accompagnare la paura del pericolo e la violenza rivoluzionaria, intendendo al disegno di distrarre la mente accesa delle turbe cittadine dalla Spedizione di Porto Santo Stefano, e dal proclamare a tumulto la Repubblica, mi parve operare prudentemente, prima col Dispaccio del 18 febbraio a volgere i corpi volontarii armati, senza dilazione, verso Lucca, e più tardi a vuotare Firenze, se mi venisse fatto, di quanta più gente armata potessi: quantunque (e si noti con prudente discernimento) nel medesimo giorno alle ore 6 pomeridiane io sapessi, che i Piemontesi non sarebbero entrati,[464] e su le prime ore del giorno 19 mi giungesse la conferma di questa notizia per la parte del Delegato Regio di Massa.[465] Ho detto, che anche un pensiero di personale sicurezza mi spinse; della mia persona niente importa all'Accusa, e troppo bene lo dimostra in ogni suo atto; ma se un cotal poco di me a me premesse, vorrà ella per questo incolparmi di criminlese? In marcia i soldati non attendono ad agitazioni politiche, nè i cittadini stanno loro alle orecchie per sobillarli. Di questo mi rampogna l'Accusa, ma davvero anche qui ella si è affrettata troppo, però che io deva confessare avere sortito il mio concetto meno che mezzo. I soldati non toscani formarono piccolissima parte della colonna spedita a Lucca, ed è agevole riscontrarlo negli Ufficii del Ministro della Guerra. Vennero alcune compagnie lombarde da molto tempo condotte ai nostri stipendii:[466] la massima parte erano Toscani; con loro partii; in mezzo a loro io stetti inerme. Mi circondavano i soldati medesimi che avevo trovato tumultuanti in Fortezza di S. Giovanni Battista. Le genti in mezzo alle quali io passava, nel vedermi circondato di ufficiali al nome italiano poco, ed a torto, creduti amorevoli, mormoravano. Ai soldati e agli Ufficiali toscani poi nemmeno mancava chi insinuasse condurli D'Apice ed io per tradirli nelle mani dei Piemontesi. Così nei tempi torbidi la perfidia mesce mostruose novelle, e così facile le accoglie l'armento degli uomini.[467]

§ 7. Di una lettera del R. Delegato di Massa e Carrara.

Ho voluto differire a ragionare in questo luogo della lettera del Delegato Regio di Massa e Carrara del 13 febbraio. Il Decreto della Camera delle Accuse del 7 gennaio così dichiara alla pagina 84:

«Al Prefetto Staffetti il quale faceva noto al Guerrazzi con lettera del 13 febbraio, come le truppe acquartierate ai confini ricusassero di prestare giuramento e si sbandassero, il Guerrazzi con lettera privata rispondeva che calunniasse e screditasse il Granduca nell'animo di Laugier, onde indurlo a seguitare il nuovo Governo.»

Importa, come sempre, prima di tutto rettificare il fatto. Il Regio Delegato di Massa e Carrara queste cose mandava: 1º la milizia toscana a Pontremoli, negato il giuramento, sbandarsi, e verso la Capitale incamminarsi; 2º d'accordo col comando generale egli spedire Ufficiali a incontrarla per ricondurla al dovere; 3º ancora inviare parte della Guardia Civica a Fosdinovo per agire secondo i casi; 4º a Massa avere temporeggiato a deferire il giuramento alle milizie; 5º mancata la truppa di Linea, difficilissimo mantenere l'ordine nel Paese;[468] 6º doversi organizzare 5 o 6 compagnie di bersaglieri; 7º da Fivizzano indirizzare una Deputazione in cerca di truppa piemontese temendo invasione nemica.

Se ciò sia vero si conoscerà leggendo la lettera stessa del Delegato, stampata a pag. 208-209 dei Documenti:

«In questo momento giunge avviso al Comando generale da Pontremoli che la truppa non ha voluto prestare giuramento, che ha incominciato a sbandarsi, dichiarando incamminarsi verso la Capitale.

«Di accordo col Comando generale, si spediscono alcuni Ufficiali per incontrarla verso Fosdinovo e procurare di ricondurla al dovere. Nel tempo stesso io parto per Carrara, per mobilizzare una parte di quella Guardia Civica, e la invio egualmente a Fosdinovo per agire a seconda delle circostanze. Vi è colà una compagnia di truppa di Linea, colla quale si vorrebbe impedire il contatto di questi traviati.

«Qui, conoscendo le difficoltà d'indurre immediatamente come si voleva la truppa a prestare nuovo giuramento, si è temporeggiato, predicando la necessità di mantenere l'ordine, e procurando di disporla a poco per volta al giuramento stesso; ma le notizie sopracitate, unite ad altre che sono giunte di Lucca ed altri paesi, non so quale effetto potranno produrre.

«Se manca la truppa di Linea non so cosa potrà accadere in questi paesi. Io faccio e farò risolutamente quanto sarà in mio potere per il mantenimento dell'ordine, ma questa volta l'affare è serio davvero.

«Mandami subito il Capitano Franzoni che ti diressi con lettera pochi giorni sono, e manda qui a chi credi l'incarico di organizzare 5 o 6 compagnie di Bersaglieri, le quali potranno essere utilissime. Io non mi ricuso di fare quanto possa essere utile. Addio.

«Massa, 13 febbraio 1849.

«Tuo affez. « Del Medico Staffetti.

«Notizie del momento.

«Da Fivizzano è stata mandata una Deputazione a Sarzana per cercare la truppa piemontese temendo di una invasione nemica. — Manderò staffette ogni qualvolta sia necessario.»

La minuta, o appunto della risposta, dichiara in questa maniera:

«Prefetto ed Amico,

«Tieni forte: fa quanto credi; arma Bersaglieri: difendi i confini: lusinga, loda ed eccita l'onore del Laugier; senta nel profondo che Leopoldo II, senza pretesti, senza plausibile motivo, lasciò il Paese all'anarchia e all'invasione. Portò seco quant'oro potè; e sull'estremo lito, con un piede in terra e un piede sopra un naviglio inglese, sta speculando la guerra civile. Creeremo un'armata, troveremo denaro; e quando nulla potrem fare, anderemo all'aria.»

Tieni forte, riguarda la difesa dell'ordine: fa quanto credi, si riferisce al mettere in moto la Guardia Civica: arma i Bersaglieri, considera la difesa dei confini: le altre parole sono dirette a indurre il Generale ad operare gagliardamente in pro della Patria, e in benefizio di cotesti paesi. Quanto fosse in noi l'obbligo e lo interesse di difenderli, ho esposto altrove; se fosse necessario confermare in qual conto da noi Toscani meritamente si tenessero, io non avrei a fare altro che allegare le istruzioni dal Ministero Capponi conferite nel 22 settembre 1848 al Marchese Ridolfi inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Granduca di Toscana alle conferenze di Brusselle, in quella parte in cui queste provincie gli si raccomandano:

«.... Ciò che il Governo granducale chiede, e lo chiede opinando di avere molti titoli per ottenerlo, è la conservazione dei suoi attuali confini, quali furono determinati dall'atto di accettazione del 12 maggio 1848. La perdita di questi territorii nuovamente aggregati alla Toscana sarebbe per essa cagione di vivissimo rammarico; e ciò non tanto per la diminuzione che essa soffrirebbe del suo territorio o per altro fine di proprio e particolare interesse, ma perchè il Governo granducale è sinceramente convinto che i popoli della Lunigiana e della Garfagnana, recentemente aggregati, siano toscani e per geografica posizione e per rapporti commerciali e per affetto, e che la prosperità, che ai medesimi può derivare dal far parte della famiglia toscana, non sia per essi possibile di trovare nella unione con qualsivoglia altro Stato. I voti e l'affetto di queste popolazioni, la lealtà costantemente dimostrata dal Governo di S. A. R. nella questione italiana, i sacrifizii da esso fatti per la causa nazionale costituiscono altrettanti titoli degnissimi di considerazione, per i quali questo desiderio della Toscana non potrebbe senza ingiustizia non appagarsi....»[469]

Certo le parole contenute nella estrema parte di cotesto mio appunto, dimostrerebbero animo mal disposto pel Principe là dove spontanee mi fossero uscite dalla penna. Ma quando furono esse vergate? Vogliasi rammentare: nel giorno 14 febbraio 1849, in quel giorno stesso nel quale, come confido avere dimostrato nelle pagine precedenti, la prepotenza della Fazione mi costringeva a spedire al Governatore di Livorno l'ordine di apparecchiare gente onde essere poi inviata per la Maremma. Agl'Inquisitori e' fu mestieri fare copia della lettera del Regio Delegato; accesi quindi gli avvisi e i comandi; coteste espressioni contengono l'eco di quanto stampavasi pubblicamente, e predicavasi; ed io scrissi lo appunto in discorso per acquietare cotesti arrabbiati; ma la ricerca, che doveva proporsi l'Accusa, e sopra la quale avrebbe potuto fondarsi, allorchè fosse stata quella scrittura spontanea, consisteva nel conoscere se il foglio fu spedito, se ricevuto dal Conte; se, adoperando gli argomenti indicati, ei si era fatto a scrollare la fede del generale Laugier.

Ora tutto questo non prova l'Accusa, e non fu. Perchè non interrogò ella i miei Segretarii, tanto gli eletti quanto i reprobi, voglio dire tanto i mantenuti in carica, quanto i congedati, se compilarono Dispaccio alcuno sopra le traccie di cotesto appunto? Perchè non ne ricercarono lo egregio conte Del Medico? Veramente, a cagione del suo amore per la Toscana, male gl'incolse, e forse, mentre io tribolava in carcere sotto le torture degl'interrogatorii, questo illustre amico mutava in terra non sua gli amari passi dello esilio; ma nel modo (ed è questo uno dei singolari trovati della presente Procedura) che i dimoranti in Firenze, per lettere s'interpellavano; anzi un po' a voce, e con giuramento, e un po' per via di epistole s'invitavano a raccontare il fatto loro; potevasi col medesimo mezzo richiamare anche il Conte, a somministrare schiarimenti in proposito.

Veramente l'Accusa, sommando i suoi addebiti, di cotesta lettera non fa capo d'incolpazione, ma intanto ella la cita, ella la converte in risposta, la suppone spedita, e ricevuta; le giova nella composizione non giusta nè leale dell'atmosfera criminosa, nella quale si studiò sempre e si studia immergermi dentro.

Io penso avere provato quanto la pressione da me patita fosse materiale e continua, tale da soddisfare la Legge anche nei casi ordinarii; ma per chiarire come altre forze e di altra maniera necessità valgano a costringere gli uomini politici, mi giovi riportare certa sentenza profferita da Odilon Barrot nella Seduta dell'Assemblea di Francia del 19 luglio 1851 che mi cade adesso sott'occhio: «Bisogna confessare, che occorrevano allora una certa corrente d'idee, tali e siffatte preoccupazioni degli spiriti, certe morali necessità, le quali fanno sempre sentire la loro pressione sopra gli uomini politici. Quante volte nelle nostre secrete discussioni intorno ai punti che adesso si affacciano, circa i pericoli che avevamo preveduto, e la esperienza confermò, quante volte non intesi io rispondermi: — Certo voi avete ragione, non oggi però; più tardi: adesso lo stato degli umori, la corrente, le preoccupazioni impediscono ad accettare le vostre idee!»

§ 8. Minaccie d'incendii e di saccheggi.

E poichè sento in cuore carità di patria, andando, confidai prevenire i casi pei quali tutta guerra civile viene esecrata meritamente. La fortuna (ed io perciò le perdono ben molte offese) di tanto mi era in questa parte benigna, che lo esito rispose alla speranza. Onde io rimasi sbigottito davvero, quando mi conobbi accusato di avere incusso timore di saccheggio e d'incendii. Questa turpe accusa è scomparsa, come piace a Dio, nel Decreto del 7 gennaio 1851 e nell'Atto di Accusa; ma fu scritta nel Decreto del 10 giugno 1850: onde riesce pieno di sconforto pensare come uomini cristiani possano con tanta leggerezza aggravare di scellerate accuse il capo di un uomo cristiano.

Di me troppo era consapevole, avvegnadio quasi per iniziare il carattere di cotesta Spedizione, appena giunto in Empoli, volli ogni trascorso rimesso agli Empolesi, e riceverli in grazia come buoni fratelli: e già mostrai in che guisa premurosamente ammonissi i Livornesi, passando per Empoli, ad osservare buona condotta, e a rammentarsi che cotesti popoli, comecchè momentaneamente traviati, ci erano pur sempre fratelli. Tanto riposi solertissima cura a inspirare sensi di umanità in tali fortunose vicende, dove la voce di lei per ordinario si fa meno ascoltare! Nonostante rilessi affannoso se per avventura taluno vi avesse aggiunto qualche espressione maligna, e la Dio mercè di simile minaccia io non trovai vestigio. Questa sarebbe stata contradizione al mio scopo, il quale fu implorare pace, e portarla; impedire effusione di sangue; appena nata, sopprimere la guerra civile. Di ciò dia prova, che informato come la colonna condotta dal Petracchi si avanzasse sopra Pietrasanta precorrendo la colonna D'Apice, nello intento di ovviare ogni probabile conflitto, anzi ogni ingiuria, e anche semplice iattanza, non meno che per istudio della militare disciplina, non esitai ad avventurarmi solo per vie non sicure; e giunto in tempo, le ordinai riprendesse la via di Viareggio. L'ordine venne eseguito, non ostante la stanchezza dei soldati, e il non celere obbedire.[470] Ne sieno prova il comando ai soldati di portare fronde di olivo nella bocca dello archibugio scarico e su i caschi, e il perdono concesso largamente a tutti. Se questo non feci a De Laugier, ciò avvenne, perchè prima di attendere la risposta si era fuggito; però ai signori Compagni e Salvioni, intercedenti per lui, dissi che non sarebbe stato senza grave pericolo rimanersi allora in Toscana, e che lo consigliavo a ritirarsi in Piemonte, dove liberissimo intendevo lasciarlo andare.

In qual parte, pertanto, incussi timore di saccheggio e d'incendii? Forse nel Dispaccio da Pisa inviato nel 21 febbraio 1849 al Prefetto di Lucca? Quivi si parla del Decreto del Presidente del Governo Provvisorio contro De Laugier; si protesta ritenere per apocrifi gli atti di lui, perchè nè il Governo nè il Municipio ha ricevuto da Leopoldo II veruna dichiarazione autentica in proposito; avere il Governo sentito il bisogno di reprimere la guerra civile nei suoi primordii; venire io mandato con 3,000 uomini e D'Apice generale, a disperdere gli autori dello attentato.

Per avventura i saccheggi e gl'incendii s'incontrano nell'Ordine del Giorno ai Soldati, in data di Lucca, del 21 febbraio? Ma no, quivi anzi si palesa il modo col quale intendevo mandare ad esecuzione il Decreto, che poneva il Generale De Laugier fuori della Legge: — fugga, sgombri dalla nostra terra; — e quivi è l'ordine di non combattere: «Portate un ramo di olivo sopra i vostri caschi, perchè voi non venite a suscitare, ma a reprimere la guerra civile.» Con quale, non dirò probità, ma fronte, avrei potuto io nel giorno 22 febbraio volgermi ai Cittadini, ponendo la condotta del Governo in parallelo con quella del Laugier, se avessi minacciato gli orrori dello incendio e del saccheggio?

«Cittadini! — Un soldato ribelle ordina si straccino le Notificazioni del Governo Provvisorio, eletto dall'Assemblea nazionale e dal Popolo. Il Governo Provvisorio all'opposto ordina, che le stampe di cotesto soldato vengano diffuse e affisse sopra le cantonate. Il Governo intende che il Popolo, confrontando, giudichi e veda: come il soldato adoperi parole di menzogna, il Governo di verità; — il soldato ecciti la maledetta guerra civile, il Governo si affatichi richiamare i fratelli a concordia, necessaria sempre, santissima adesso che l'Austriaco torna a minacciare la desolazione nel nostro diletto Paese; — il soldato tolga il presidio alle frontiere, il Governo spinga la gioventù, atta alle armi, a difenderle; — il soldato calpesti la legge e la nazione, il Governo legge e nazione sostenga; — il soldato tenti spegnere la civile libertà nel sangue dei cittadini, il Governo procuri conservarla intera; — il soldato semini l'anarchia, susciti la Patria a sanguinose reazioni, il Governo voglia conservare l'ordine e gridi pace, pace.

«Tacciano le discordi opinioni, tregua alle parti. Soldati toscani, il vostro posto non è contro il soldato toscano, ma sì alle frontiere contro il comune nemico. Cittadini, l'odio vostro non contro voi, ma deve volgersi contro l'Austriaco, che vede le vostre discordie, e ride. Il Governo co' voti più ardenti del suo cuore supplica Dio che cessi, appena nata, l'empia guerra: richiama i traviati ad avere pietà se non di altrui almeno di sè stessi; spera dovergli bastare a questo fine una parola di affetto, desidera essere risparmiato da più penoso ufficio; ma quando accadesse diversamente, sappiano i perversi pertinaci avere dichiarato il Governo, chiunque con parole, con scritture, o con fatti si adoperi aizzare la guerra civile, traditore della Patria, e come tale doversi punire con tutto il rigore della Legge. Il Governo farà in modo, che la sua dichiarazione non rimanga parola vana, e lo abbiano per inteso.»[471]

Vedasi il Proclama diretto ai soldati del Generale Laugier in data di Camaiore, del 22 febbraio (il quale non pervenne loro, e fu inutile, perchè già eransi sbandati): in quello io dico, «che voglio abbracciarli, dimenticare ogni trascorso, perdonare lo involontario fallo; tornino in famiglia per combattere il solo nemico che abbiamo, lo straniero.» Vedasi la Notificazione datata da Camaiore nel medesimo giorno, essendomi qui pervenuta nuova della intenzione manifestata da alcuni di arrestare la madre del Generale Laugier;....[472] di qual tenore ella fosse vedete qui sotto. Mi risponderanno, preservare uno annoso ed innocente capo dalle furie di uomini perversi, fu dovere, nè può somministrare adesso argomento d'ingenerosa iattanza. Ed io dico: sta bene; dovere fu, non argomento di lode; non mi si dia, non la cerco; ma neppure si converta il dovere in subietto di accusa. Ed io mi difendo da accuse. Se poi taluno volesse appuntarmi per l'espressioni che adoperai in cotesto Proclama, lo pregherei a tenere sempre fisso nella mente lo esempio del Lafayette e del Fauchet, che non dubitarono valersi di parole bene altramente gravi, per salvare Foulon, o Luigi XVI; e la Storia, invece di biasimarli, gli loda per l'arguta loro pietà.[473]

Nelle tempeste rivoluzionarie se si avesse a guardare le parole, che la necessità pone su le labbra, o su la penna, guai a tutti quelli, che sederono, sedono, e sederanno Ministri! Sarebbe più agevole far passare un cammello traverso la cruna dell'ago, che assolvere un Ministro da queste stolide imputazioni; gli uomini di Stato e i Politici opinano così: è opera di Accusa, quando speculando il suo calendario crede il sole entrato nel segno del mastino, andare a cercare il nodo nel giunco, e dai detti e dai gesti ricavare materia di perduellione. Non senza raccapriccio, io credo, gli Storici prudenti noteranno, e già hanno notato, come la Riforma Leopoldina del 1789 di cosiffatte esorbitanze purgava la Toscana. Del progresso abbiamo avuto assai: oh! chi ci fa stornare, di grazia, sessantadue anni!......

Nulla d'incendio e di saccheggio nel Dispaccio spedito al Presidente del Governo Provvisorio datato parimente da Camaiore il 22 febbraio; il quale mi giova riferire non solo per mostrare che non fu mai proposito ricorrere a questo mezzo ch'è infamia dei popoli civili, ma eziandio che non ve ne fosse bisogno, atteso l'arrendevolezza per tutto incontrata.

«Al Presidente del Governo Provvisorio.

«Al mio giungere in Lucca, senza perdere tempo, deliberai correre contro Laugier e verso i nostri fratelli in tre punti. Uno per la strada littorale di Viareggio, dove mandammo i Livornesi con ordine che fossero sostenuti per mare dal Vapore il Giglio. In Val di Serchio furono lasciati in riserva i Civici Pisani. Il secondo verso il Monte-Chiesa, dove il Maggior Petracchi si era spinto col solito generoso ardore, distendendosi fino a Macellarino. Il terzo per la via di San Quirico verso Camaiore, dove Laugier aveva raccolto maggior copia di gente e posto tre pezzi di artiglieria.

«Era ordine a tutti di procedere a schioppo scarico con ramoscelli di olivo nella bocca del medesimo e sui caschi; dove avessero incontrato resistenza fossero andati innanzi, domandando se per la empietà di un uomo i fratelli dovessero trucidare i fratelli. L'anima mi esulta nel poterle dire che i Toscani ingannati da Laugier, appena seppero che per la parte di San Quirico mi avvicinava col General D'Apice, protestarono che non intendevano combattere contro i loro concittadini, onde da Montemagno, ove Laugier aveva posto un pezzo d'artiglieria e diverse compagnie, si ripiegarono sopra Camaiore, e quinci, per quanto ci viene riferito, sopra Pietrasanta. Entriamo adesso a Camaiore, alle 5 e mezza pomeridiane, fra il suono delle campane e gli applausi di tutte le popolazioni accorse dalle campagne circostanti, che acclamavano al Governo Provvisorio, alla Italia, alla Libertà. Il Municipio indirizza la protesta che si compiega qui dentro.

«Appena riposati qualche ora, è proponimento nostro passare oltre. Qui mi giunge la consolante notizia che il Petracchi con la sua colonna è entrato in Viareggio in virtù delle medesime disposizioni dei nostri fratelli Toscani.

«Nessuna nuova di perviene di mosse piemontesi, anzi avendo mandato un amico mio[474] e del Gioberti a Sarzana per sapere un po' se, egli Ministro, i Piemontesi avessero a comprimere la Libertà in Toscana, con promessa che, ove trovasse dato simile ordine al Generale Piemontese colà stanziato, sarebbe tornato ad avvisarmi, od altrimenti avrebbe proseguito per Torino, non si è più visto; e tutto porta a credere che la invasione Piemontese fosse una brutta calunnia del Laugier. Dove, contro il diritto delle genti e lo interesse medesimo dei Piemontesi, questi passassero la frontiera, noi anderemo loro incontro collo stesso ulivo in cima alle armi, e gl'interrogheremo se i nemici dei Piemontesi sono i Toscani o se gli Stranieri, e gli costringeremo a nome della Patria e della Libertà a procedere uniti con noi alla difesa della Patria. Credo debbano esser queste per tutti i cuori generosi liete novelle. Nella fiducia di potergliene partecipare ben presto anche migliori, mi dichiaro di Lei ec.

«Camaiore, 22 febbraio 1849.»

Perchè incutere timore di saccheggio e d'incendio, se le popolazioni mostravansi lietissime di accoglierci, e noi invitavano a liberarle con incessanti messaggi? Dove dalle mie labbra fosse uscita la immanissima minaccia, come avrei avuto abilità di lasciare ai Lucchesi il seguente Manifesto? Io vado lieto per averlo dettato, perchè spira intero l'anima mia. Del mio intelletto ho, com'è debito, opinione rimessa; ma non così leggermente concedo che altri possa vincermi per altezza di cuore.

«Lucchesi!

«I deboli nella inaspettata vittoria si mostrano crudeli. Il Popolo nel trionfo dei suoi diritti, come colui che si sente fortissimo, è sempre generoso. Il Governo, nelle cui mani fu confidata la rappresentanza del Popolo, sa mantenersi all'altezza del suo mandato: egli non ricorda le ingiurie disoneste ed ingiuste di cui era posto segno ne' tempi passati; e se le ricorda, le perdona. Come vinse i suoi nemici armati con fronde d'ulivo, così egli intende vincere i suoi detrattori colla persuasione e con la magnanimità. Si assicurino pertanto tutti i suoi avversarii, perchè la passata malevoglienza, invece di somministrare al Governo argomento di persecuzione, dà titolo loro di amplissima tutela. Quelli soltanto che le procedure iniziate paleseranno cospiratori contro la Patria saranno giudicati a norma delle leggi veglianti; depongano il pensiero che il Governo intenda procedere a modo di Dittatore e rinnovare le proscrizioni sillane. Egli assunse il carico di mantenere tranquillo il Paese, finchè l'Assemblea nazionale non decida delle sue sorti: questo intende fare, e questo con ogni supremo sforzo farà. Il Governo darà opera infaticabile a stringersi con gli altri Stati Italiani per combattere la sacra guerra della Indipendenza. Tutti quelli che sentono carità di Patria devono cospirare a questo scopo. Il Governo indirizza le sue preghiere ad ogni classe di cittadini, e segnatamente poi ai Sacerdoti, onde essere sostenuto nell'arduo assunto. I copiosi di beni terreni ricordino che con poco danaro dato alla Patria acquisteranno onore grande e sicurezza di non rimanere disfatti dai rapaci stranieri. I Sacerdoti tengano in mente che l'albero della Libertà deve crescere fortunato accanto alla Croce. Una volta la Libertà fu bandita coll'abolizione di ogni culto divino; adesso si predica Cristo iniziatore di Libertà. Noi abbiamo fatto molti passi verso i Ministri dell'Altare; deh! ne muovano essi uno solo verso di noi. Anche la Libertà è una Religione nutrita di lacrime di popoli desolati, santificata col sangue dei Martiri, ed essa pure merita la benedizione del Cielo. Non sieno i Sacerdoti ribelli ai voleri di Dio, perocchè Dio con segni manifesti protegga visibilmente la Causa Santa della Libertà e della Indipendenza Italiana.[475] Possano queste parole, che ci partono dal cuore, avere virtù di vincere gli animi più renitenti, indurli a deporre gli odii e gli sdegni, e ad unirsi una volta nel concorde volere di dare salute alla povera Patria, che a mani giunte a tutti i suoi figliuoli supplica PACE.

«Lucca, 26 febbraio 1849.»

Se io con gli atti smentii le mie parole; se la lingua dolosa pronunziava ipocriti accenti, sorga l'accusatore, e mi vituperi: possano i miei avversarii, come me in questa parte, aspettare il giudizio degli uomini e di Dio senza paura.

A completare i Documenti che furono mia fattura, mi giova citare una frase del Dispaccio telegrafico del 21 febbraio 1849 riportato a pagine 487 del Volume dell'Accusa: «Le cose andranno bene. Penso al Piemonte;» e l'altra contenuta nella lettera del 22 febbraio riportata poc'anzi: «ho mandato a Sarzana uno amico del Gioberti, e mio.» Come pensavo io al Piemonte? In che guisa? Con quali termini? Certo gl'Inquisitori dei Circoli non mi si staccavano dai fianchi, ma adesso, in Lucca, era più libero; mi confidava con persona amica in procinto di partire. A Pasquale Berghini io consegnava questo scritto pel Ministero Piemontese:

«Berghini,

«Siete amico mio, e più della Patria; quindi vi dichiaro essere la verità:

«Che la Costituente Italiana fu liberamente accettata dal Principe col consiglio del Ministro d'Inghilterra.

«Che partì da Firenze sempre promettendo sollecito il ritorno.

«Che tardando a tornare, e mandandogli noi la nostra dimissione, rispose, stessimo al nostro posto, sarebbe quanto prima tornato.

«Che dopo simulata infermità andava via senza indicare il luogo ove intendeva celarsi.

«Che il Ministero, considerando da una parte offeso il patto costituzionale, dall'altra la impossibilità di governare, depose, come doveva, i suoi poteri nel seno dell'Assemblea.

«Che l'Assemblea e il Popolo elessero il Governo Provvisorio per provvedere alla quiete e all'ordine del Paese. Sostenere adesso da taluno dei Deputati che non votarono con libertà, è menzogna:

«1º Perchè la necessità li costringeva ad eleggere un Governo Provvisorio;

«2º Perchè nella Sala delle Conferenze anche prima di entrare in Seduta pubblica, e prima che il Popolo invadesse l'emiciclo della sala, avevano determinato l'elezione del Governo Provvisorio;

«3º Perchè i Deputati in parte uscirono, ma per le mie veementi rimostranze, cacciato via il Popolo, i Deputati tornarono, mentre nessuno li costringeva, unitamente al Presidente, e votarono, dopo discussione, all'unanimità.

«Il Governo non poteva governare con Camere nate da legge elettorale conosciuta difettosa, e perciò le ha convocate di nuovo sulla base del voto universale. Queste Camere sono convocate pel 15 marzo: più presto non si poteva. Il Popolo irrompe e vuole Repubblica. Il Governo con tutte le forze ricusa prendere la iniziativa per dichiarare la Repubblica, e la fusione con Roma. Intende che tutta la Nazione rappresentata legittimamente, e con maturità di consiglio, decida delle sue sorti. Ma sforzato da questa posizione, che gli sembra ed è legalissima, in primo luogo si difenderà dalle ingiuste aggressioni, ed in secondo luogo, ritirandosi, lascierà a cui spetta, tutta la odiosità d'avere protetto, mentre invadeva il comune nemico tedesco, la guerra civile in Italia.

«Lucca, 21 febbraio 1849.

« Guerrazzi. »

Lo scrissi allora, nè mi sembra dovermene pentire adesso. Se Vincenzo Gioberti, invece di essere preso da quella sua caldezza che parve soverchia, e se invece di stimarmi, a torto, dei maneggi politici di Giuseppe Mazzini svisceratissimo, avesse voluto sperimentare da sè, io vado convinto che noi ci saremmo trovati d'accordo; però che io non mi senta presuntuoso così da ostinarmi nel mio concetto, e quanti mi conoscono sanno che di buon grado ascolto, e, dove trovi avere errato, di leggieri il confesso. La mia scrittura pertanto apriva l'adito a interrogazioni e a schiarimenti, e a senno mio le prime potevano ridursi a due: Perchè la Convocazione dell'Assemblea col suffragio universale? Qual fine ve ne ripromettete voi? Io gli avrei risposto, con parlare succinto, quello che verrò diffusamente ragionando fra poco, e allora io penso che il Ministro Gioberti avrebbe potuto, con vantaggio grande della Patria comune, interporsi mediatore fra il Paese e il Principe; certificarlo dello scopo mio, e confortarlo ad aspettare lo esito del rimedio proposto, siccome quello che si addiceva meglio ai tempi, al Paese, al decoro, e alla contentezza dell'universale.[476]

Il signor Farini nel tomo III della Opera altrove citata a pag. 223 afferma: «Queste dichiarazioni del Guerrazzi erano consentanee a quelle che il Governo Provvisorio aveva già pubblicate, nè a mutare le risoluzioni del Governo Piemontese potevano essere efficaci.» In primo luogo ha da notarsi, che lo intervento piemontese in Toscana fu concetto particolare a Vincenzo Gioberti, non già del Governo Piemontese, se dobbiamo ritenere per vere le dichiarazioni parlate da Urbano Ratazzi nella Seduta del 21 febbraio 1849 della Camera dei Deputati piemontesi, e le scritte da Domenico Buffa, che in quei giorni governava Genova. In secondo luogo domando: e perchè le mie dichiarazioni non dovevano avere la virtù di mutare il concetto di Vincenzo Gioberti intorno allo intervento piemontese in Toscana? Forse la bandita Costituente toscana chiudeva irrevocabilmente l'adito a qualsivoglia mezzano partito? La Costituente doveva per necessità sopprimere il Governo Costituzionale in Toscana? I rimedii vi erano, e buoni, e lo stesso signor Farini gli ha scritti, ma non ha meditato, come agli storiografi si addice, a sufficienza su quelli; o forse gli obliò, o forse, e questo parrebbe più grave, gli ha voluti dimenticare. Quando Roma nel gennaio del 1849 ebbe bandita la Costituente, Vincenzo Gioberti non reputò rotta ogni via di accordo col Pontefice; all'opposto tenne, che per essa potesse condursi a fine la pratica di onorevole e fortunata conciliazione. «Illustrissimo signor Presidente. — Ricevo da Gaeta la lieta notizia, che il conte Martini fu accolto amichevolmente dal Santo Padre in qualità di nostro ambasciadore. Tra le molte cose che gli disse il Santo Padre pel conto degli affari correnti, questi mostrò di vedere di buon occhio che il Governo Piemontese s'interponesse amichevolmente presso i rettori ed il popolo di Roma per venire ad una conciliazione. Io mi credo in debito di ragguagliarla di questa entratura, affinchè ella ne faccia quell'uso che le parrà più opportuno. Se ella mi permette di aprirle il mio pensiero in questo proposito, crederei che il Governo romano dovesse prima di tutto usare influenza, acciocchè la Costituente che sta per aprirsi riconosca per primo suo atto i diritti costituzionali del Santo Padre. Fatto questo preambolo, la Costituente dovrebbe dichiarare che per determinare i diritti costituzionali del pontefice uopo è che questi abbia i suoi delegati e rappresentanti nell'assemblea medesima, ovvero in una commissione nominata e autorizzata da essa Costituente. Senza questa condizione il papa non accetterà mai le conclusioni della Costituente, ancorchè fossero moderatissime, non potendo ricevere la legge dai proprii sudditi senza lesione manifesta non solo dei diritti antichi, ma della medesima costituzione. Se si ottengono questi due punti, l'accordo non sarà impossibile. Il nostro Governo farà ogni suo potere presso il pontefice affinchè egli accetti di farsi rappresentare, come principe costituzionale, dinnanzi alla commissione o per via diretta, od almeno indirettamente: ed io adoprerò al medesimo effetto eziandio la diplomazia estera, per quanto posso disporne. Questo spediente sarà ben veduto dalla Francia e dall'Inghilterra, perchè conciliativo, perchè necessario ad evitare il pericolo d'una guerra generale.»[477]

Perchè Vincenzo Gioberti, che sì manieroso mostravasi a Roma, voleva dare alla Toscana il pane con la balestra? Hassi a ritenere pertanto, che Gioberti un po' per isdegno concepito per mendaci rapporti, un po' cedendo alle insistenti suggestioni di cui non importa dire, deviasse in questa faccenda dalla prudente gravità dell'uomo di Stato.

Questi Documenti, la difesa del mio onore mi ha persuaso allegare; e non tanto per respingere da me la temeraria imputazione appostami dal Decreto del 10 giugno 1850, ma molto più ancora, perchè porgono manifesta testimonianza di tre cose a ritenersi notabili:

Prima, come io reputassi e dovessi reputare la mossa del Generale Laugier operata senza il consenso della Corona, e contraria agl'interessi della Patria, a parte qualunque quistione intorno alla forma di reggimento.

Seconda, come in tutti questi atti emanati da me, sempre circuito dallo inquieto sospetto degli Inquisitori rivoluzionarii, pure lontano alquanto dalla violenza immediata io non adoperassi verbo nè facessi allusione alcuna relativa alla Repubblica: riscontro sicurissimo dell'animo mio intorno a questo particolare.

Terza, come per me non fossero incarcerati, nè si ordinasse incarcerarsi Sacerdoti; i quali no, mai, se Sacerdoti davvero, io mi condurrò a credere nemici della Patria nostra, a noi tutti, quanti sortimmo nel suo grembo la vita, per tanta bellezza, e più per tanta sventura sommamente diletta.

§ 9. Corruttela delle milizie laugeriane, e di tutte in generale, e accusa del giuramento.

A materia ingrata subentra altra ingratissima. Nel modo di concepire dell'Accusa, so bene io che cosa ella intenda per corruttela, e come non le piaccia nè le giovi distinguere; a me all'opposto talenta analizzare ed esporre dirittamente la materia al giudizio altrui. Ora, se per corruttela si voglia indicare la indisciplina delle milizie, apparirà strano davvero che a me si attribuisca; se invece per corruttela s'intende la parzialità dimostrata a difendere la Patria, la repugnanza a seguire, e la prontezza ad abbandonare il Laugier, si vedrà del pari come male possa essermi attribuita. E innanzi tratto, favelliamo del Decreto che scioglie le milizie dal giuramento. Questo Decreto fu apparecchiato per ordine di non so cui, e presentato alla firma; io ricusai firmarlo, sì perchè i nostri sindacatori non lo esigevano, sì perchè ho piccola opinione dei giuramenti, i quali dovrebbero legare moltissimo, ma alla prova vediamo che stringono pochissimo: ne abbiamo uditi tanti di questi benedetti giuramenti! — Breve; di giuramenti non sono partigiano gran fatto, perchè l'uomo probo, e che teme Dio, non ha mestiero di altro ritegno, che il timore di offenderlo; e per lo improbo, i giuramenti sono come funi a Sansone quando aveva i capelli cresciuti.... E Cristo maestro lasciò scritto: «sia il tuo parlare: sì, sì; no, no; il soverchio a queste parole viene dal maligno.» Ho letto ancora, che Ugo Foscolo, il quale per fede intemerata fu, piuttosto che raro, unico al mondo, soleva portare uno anello dove erano incise le parole: est, est; non, non; nobilissima impresa, che ognuno che voglia può meritare. Nonostante la mia opposizione e la mancanza della mia firma, il Decreto venne stampato, e col mio nome. La sera il Generale D'Apice accorse ad osservarmi come gli paresse cotesta provvidenza inopportuna, ed io gli rispondeva approvando il suo concetto; solo non comprendere il motivo delle sue riflessioni, però che io mi fossi astenuto da firmare il Decreto, e non avere voluto che si stampasse. Egli replicava averlo letto: io soggiungeva essere impossibile; finalmente chiesto il Monitore, esaminando, trovo il Decreto stampato. Procedei alle debite indagini, interrogai ufficiali e stampatori, e chiarii come lo sconcerto nascesse dal costume, che mi assicurarono antico, di raccogliere i Decreti dalla tavola dei Ministri, e farli firmare dopo stampati. Più del costume pessimo ed antico, scusava poi la nuova pressura, imperciocchè ai Decreti nostri sovente accadde quello ch'ebbe a sperimentare il Governo Provvisorio di Francia nei suoi, «i quali, pretesi con gridi impazienti da quelli che accorrevano a dimostrarne la urgenza, erano portati via e stampati, prima che fossero sottoscritti dai Componenti il Governo Provvisorio.»[478]

Questo fatto molto di leggieri poteva chiarire l'Accusa interrogando gli ufficiali del Ministero dello Interno, tanto gli eletti quanto i reprobi, e qualcheduno degl'impiegati alla compilazione del Monitore; potevasi eziandio ricercare il Generale De Laugier, che presentasse la mia lettera, dove di questo fatto gli si ragiona; e al D'Apice era dato somministrare in proposito testimonianza pienissima; ma tanto è pervertito il fine dell'Accusa, così, falsato il suo instituto, ella dimentica lo ufficio che le commise la Società, che il vero teme, e fugge, se nuoccia al fine della condanna.

Nè qui, nè a questo soltanto si limitò l'Accusa; e quante volte i testimoni vollero deporre quello che venne loro dettando la coscienza, udironsi dire da taluno degli Esaminatori: « basta.... non importa altro

Questo nasce dal pervertimento delle nozioni più ovvie intorno allo ufficio del Ministero Pubblico, che fino dal principio di questo lavoro noi con l'autorità del Guizot deplorammo. Non è duello, no, lo incontro del Ministero Pubblico col prevenuto; questo sarebbe scelleratissimo, imperciocchè rinnuoverebbe lo spettacolo dell'uomo inerme gittato alle bestie feroci; — sarebbe pagano. Un credente di Cristo, Santo Telemaco, incontrò il martirio perchè questa infamia presso gli antichi Gentili cessasse nei circhi; ora potremmo noi moderni cristiani patirla rinnuovata nei fôri? No; — la Legge e la Società non hanno istituito il Ministero Pubblico avvocato, furiere e provveditore del patibolo; egli non deve fare dell'accusa un patrimonio suo proprio: non deve mettervi gara, come se si trattasse vincere un palio. Se, non vincendo l'Accusa, il Ministero Pubblico corresse pericolo dell'azione della calunnia, comprenderei, se non la fede, almeno il bisogno del sostenerla tenacemente. La Società e la Legge chiudendo il prevenuto, e sequestrandolo da ogni relazione, circondandolo di terrori, saziandolo con pane d'angoscia.... hanno confidato alla religione di chi presiede al Ministero Pubblico d'indagare sottilissimo le ipotesi della innocenza e della colpa; altrimenti il giudizio diventa assassinio giuridico. La Società e la Legge non sentono bisogno, molto meno vantaggio, a punire: in ciò non guadagnano la prosperità, nè la morale, nè la economia pubblica, nè nulla. Se alla religione del Ministero Pubblico la Società non confidasse altro che la vittoria della pena, come potrebbe resistergli il prevenuto? Chi cercherà le difese per lui? Chi lo assisterà? Chi supplirà con lo ingegno e la pacatezza a quanto gli rapiscono il tedio del carcere, e le ansietà della procedura? Come mai il prevenuto, sbigottito e solo, durerà davanti l'Accusa fredda, acuta, esercitata da lunghissima scherma, sovvenuta da cento braccia e da cento occhi, terribile Briareo? No; — l'Accusa è tutela di verità: se dimentica il suo instituto, o lo calpesta; se le prove della innocenza sopprime; se i testimoni favorevoli esclude, o non ascolta, o non provoca a dire quello che sanno; se i mezzi per chiarire la verità rigetta, — paga solo di quanto ella pensa capace per la condanna.... allora, perchè si raddoppiano impieghi? Perchè si commettono inutili spese? Il carnefice può fare tutto da sè.

Continuando adesso io dico, che se l'Accusa con le sue imputazioni vuolsi referire alla mia visita nel Castello di San Giovanni Battista, io colà mi recai in compagnia del signor Montanelli con la semplice intenzione di esaminare la indisciplina della milizia, che da ogni parte mi affermavano vergognosa. Trovai la Fortezza chiusa, remosse le sentinelle, Popolo stipato sotto le mura, parte dei soldati alle trincere, parte vaganti, e le milizie e il Popolo avvicendarsi ingiurie e sassate. Fatto aprire le porte, il Popolo vi sì precipitò, ma venne, con molta difficoltà, respinto, adoperandomivi io stesso. Dentro, tumulto infernale. Anche cotesta fu trista giornata. Le milizie schieraronsi in tre file, due laterali, una di faccia; da sinistra i Volontarii gridavano: Viva la Libertà! Viva il Governo Provvisorio! — Verso questi si avviò il signor Montanelli. Io, accompagnato dal Colonnello Baldini, m'incamminai al centro. Qui sorgevano diverse le grida; alcuni urlavano: Viva Leopoldo! — Altri: vogliamo andarcene! — Altri finalmente, e questi erano i troppo più: vogliamo la massa! Alcuni artiglieri, ma rari, minacciavano volerci puntare contro i cannoni. Passando davanti alla Linea, non una, nè dieci, ma cento volte dissi: che il Governo non costringeva nessuno; e chiunque volesse ritirarsi, lo facesse liberamente; noi poi non essere nè padroni, nè signori, nè nulla; soltanto preposti a mantenere illeso lo Stato a benefizio dello Stato medesimo, e di quello a favore di cui si sarebbe dichiarato il voto universale; ognuno di loro avrebbe potuto votare come meglio credeva.

E queste cose diceva in parte suggeritemi dagli stessi Ufficiali, che mi assicuravano come i soldati ritenuti a forza avrebbero voluto partire; e lasciati partire, avrebbono voluto rimanere. Così invece di esortare i soldati al giuramento, e incutere timore ai repugnanti, la verità è, che per me concedevasi a tutti facoltà amplissima di restare o di andare. Le mie proposizioni compariscono vere dalle cose che seguono:

Nel giorno stesso ci pervenne la seguente Protesta:

«Ai Signori Membri del Governo Provvisorio.

«L'ordine, la Patria e la Guerra della Indipendenza, essendo la divisa di tutti gli Uffiziali toscani, quelli della milizia stanziale di Firenze protestano altamente pel loro onore in faccia alla Toscana e alla Italia tutta, che i loro sentimenti non concordano con quelli espressi questa mattina da una parte dei loro sottoposti ai signori Membri del Governo Provvisorio, e pregano il Governo suddetto a rendere di pubblica ragione la presente dichiarazione.

«Firenze, dalla Fortezza di S. Giovanni Battista, li 11 febbraio 1849.»

Questa Protesta presentava l'intero collegio degli Ufficiali dei Volontarii, del Reggimento di Artiglieria e del 4º di Linea: l'originale è negli Archivii, la copia nel Monitore.

Pochi soldati si prevalsero della facoltà di partire; e i partiti, come gli Ufficiali presagivano, tornarono chiedendo essere ammessi al giuramento, che avanti rifiutavano. — ( Monitore, 12 febbraio 1849.)

A Pontremoli i soldati reputandosi sciolti dalla milizia, disertano con arme e bagaglio; ma breve tratto di cammino percorso, tornano addietro, e parte spontanei, parte persuasi dagli Ufficiali, giurano. — ( Monitore, 15 febbraio.)

A Portoferraio varii soldati tumultuano; vengono repressi dai Sedentarii, timorosi che non si vogliano unire ai galeotti per mandare in subbisso la città. — (Monitore, 15 febbraio.)

Gli Ufficiali delle milizie stanziate all'Elba mandano al Governo Provvisorio la seguente Protesta:

«Gli Uffiziali del 2º Battaglione del 3º Reggimento di Linea, di guarnigione a Portoferraio, protestano, nulla avere risparmiato per quanto loro incumbeva, onde prevenire gli eccessi commessi nei tre precedenti giorni da molti individui del Battaglione medesimo. Quindi solennemente dichiarano di avere disapprovato l'accaduto, avvenuto con loro dolore per subdoli raggiri, e di non approvare quanto fosse per seguire di consimile, giacchè i sottoscritti intendono di servire fedelmente alla Patria, all'Onore, al Governo Provvisorio, e a tutto ciò che per le superiori disposizioni potrà contribuire alla tanto sospirata Indipendenza Italiana.

«Portoferraio, 13 febbraio 1849.»

A questa Protesta accenna il Dispaccio del Ministro della Guerra, al Governatore di Portoferraio, del 16 febbraio 1849. «Pervenuta a questo Ministero per l'organo del Maggiore Orselli Comandante il Battaglione che trovasi ora in cotesta Città, una Protesta di cotesti Ufficiali, che fa loro onore, il Ministero medesimo non può che esternare su di ciò la piena sua soddisfazione, scorgendo in essa quei sentimenti che non possono andar disgiunti da chi apprezza la Patria, l'onore, ed i voleri di un Governo eletto dalla pluralità dei voti di un Popolo.»[479]

Sessanta soldati soli partirono dalla Elba, e sessanta tumultuarono a Livorno. Qui il Popolo gli arrestò. Lo Stato Maggiore del presidio di questa Piazza protestò devozione al Paese rappresentato allora dal Governo Provvisorio. Sopra gli altri il maggiore Pescetti, che non rifiniva di persuadere i soldati, com'essi non avessero a badare tanto in là, e dovessero difendere con tutta l'anima da qualunque invasione straniera la Patria, che gli nudrisce e paga durante la vita intera, perchè col braccio la proteggano un giorno. — ( Monitore, 15 febbraio 1849.)

A Lucca, tranne pochissimi, soldati e Ufficiali si mostrarono pronti di obbedire al concetto di mantenere il Paese quieto dentro, difeso fuori, fino al resultato del voto universale; e invece di aspettare insinuazioni o abbisognarne, mandavano agli altri proclami per trasfondere in essi lo ardore dal quale, a sentirli, si dicevano animati.

La Linea senza riguardi voleva la Repubblica:

«Fratelli d'Italia!

«Non seconda è la Linea a quei sentimenti che Veliti e Granatieri hanno mostrato alla Nazione; essa pure sente nel cuore l'alto disimpegno che l'è affidato, sente gli affetti di Patria, l'idea sacra della Libertà. Il traviamento di pochi, che ogni sforzo all'opera non omesso a ricondurli al giusto e perfetto sentiero ( sic ), non sia per dare idea di corruzione nel totale.

«Pronta ed avida di far mostra di sè al mantenimento dei diritti sociali, alla difesa della Libertà e della Indipendenza d'Italia, anela quel momento di stringere la mano d'unione al Popolo, per nuovamente combattere il comune nemico, quando chiami la tromba all'onorato appello.

«Sì, Fratelli! giura altamente esser con voi e con le altre milizie, nella brama che la Patria risorga, e vendicare quei valorosi che un dì pugnando morivano sui campi lombardi.

«Viva il Governo Provvisorio toscano! Viva la Repubblica Romana ec. ec. ec.

«Livorno, 15 febbraio 1849.

« La Linea. »

Più rimessi i Granatieri, pubblicavano parole portentose a dimostrare la gran voglia che provavano di farsi fare a pezzi, pei fini di che avverte lo stupendo loro Proclama,

«Livornesi!

«Alcuni soldati, dimentichi di sè stessi, ignari del proprio dovere, a scherno di noi tutti, tentarono la fuga, e corse voce per ogni via di Livorno, essere dei Granatieri; ma, siccome galleggiano in seno al mare le navi, così l'innocenza più leggiera galleggia sopra l'infamia e i delitti.[480] Vi supplichiamo a disprezzare e non credere i retrogradi che amano porre discordie fra il Popolo e i Soldati.

«No, non vogliamo che rida su di noi lo straniero, non vogliamo che le Armi Fraterne, intente alla difesa della Patria, brandiscano contro i petti nostri, ma anzi l'impeto del nostro furore le faccia sfavillare nella gente nemica allorquando pugneremo a fronte i diritti della bella Penisola, e la tanto sospirata Libertà. ( sic.)

«Livornesi! ogni cittadino è soldato; or dunque facciamo di noi salda catena, la quale sarà di cilicio al barbaro Croato che tenterà spezzarla.

«Sì, giuriamo tutti sul tricolore Vessillo, di farci fare in brani pria che vederlo sventolare in mani tedesche. Fratelli! scordate quei detti pestiferi vomitati da Vipere velenose, amanti di discordia fra noi, la rovina di tutta l'Italia; è loro che fuggitivi ( sic ) vogliamo che sentano il peso di quella pena quale si deve ai Traditori di Patria. Uniamoci, e la vittoria è certa.

«Viva il Governo Provvisorio! Viva l'Italiana Indipendenza! Viva l'Unione.

«S. B. — I Granatieri.»

Le Guardie di Finanza (e fecero bene, e le lodai allora di Palazzo, e torno a lodarle adesso di prigione) accorsero spontanee a tenere in rispetto Empoli che sembrava volere rinnuovare il guasto della odiata strada a vapore.[481] Nè mancarono i Veliti, chè anzi primi fino dal 12 febbraio, non contentandosi di favellare ai soldati Toscani, si rivolsero a tutti quelli d'Italia, e loro dicevano.... Ma sarà meglio ch'eglino stessi i proprii concetti manifestino:

«A tutti i Soldati Italiani di Toscana!

«Fratelli! Camerati! L'affetto e la riconoscenza ad un uomo è un lodevole sentimento; ma il sentimento più puro e più nobile è quello del Cittadino verso la sua Patria. Prima di rivestire una uniforme di soldato noi eravamo Cittadini, e tuttora siamo Cittadini a buon titolo, poichè vestiamo le insegne e portiamo le armi dei difensori della Patria. Rispettiamo noi stessi nei Governanti eletti dal voto del Popolo, di quel Popolo di cui noi pure facciamo parte. Riserbiamo le ire contro il nemico comune, contro lo straniero oppressore dell'Italia, e giuriamo di volere essere soldati e difensori di questa Italia, madre comune di tutti noi, di questa Italia che fino a quest'oggi fu debole perchè divisa in brani, ed ora comincia ad esser forte perchè si unisce al cenno di Roma, della città che Dio ha posto a capo e centro della forza e della gloria italiana. Fino a quest'oggi il superbo straniero rideva dei soldati toscani del Papa, e gl'insultava chiamandoli guardie del Santo Sepolcro. Ma lo straniero non riderà e non insulterà ai guerrieri della grande Nazione Italiana. Uniamoci dunque in un amplesso fraterno ai nostri concittadini, e gridiamo con loro:

«Viva il Popolo Italiano! Viva Roma eterna! Viva l'Italia!

«Firenze, 12 febbraio 1849.»

(Seguono le firme dei componenti il Reggimento Veliti.)

E non si voglia dimenticare, in grazia, che in quel giorno stesso, 12 febbraio, io mi opponevo allo inalzamento dell'Albero della Libertà in Firenze, e che nel giorno seguente, 13, soldati toscani e Popolo empievano i cortili di Palazzo Vecchio, con tremende grida proclamando la Repubblica; in fine, che soldati erano quelli che, poche ore prima, avevano appeso bandiera rossa alla magione reale.

Il giuramento non conteneva in sè espressione o concetto il quale, in modo irrevocabile, alienasse i soldati dalla Monarchia Costituzionale: presentava anch'esso il carattere di provvisorio; e quando pure avesse dovuto ritenersi permanente, anche alla restaurazione dello Statuto applicavasi: «Giuro fedeltà e obbedienza alle Leggi e ai Poteri esecutivo e legislativo costituiti e da costituirsi dal libero assenso del Popolo. Giuro difendere e sostenere col mio sangue la sacra bandiera italiana sotto cui ho la fortuna di militare, e di non mai abbandonare o vilmente cedere il posto che mi verrà affidato. Giuro sdegnare qualunque relazione col nemico della Patria. Giuro di non usare le armi che contro i suoi nemici sì interni che esterni. Giuro di prestare obbedienza a tutti i miei superiori, e rispettarli e difenderli.»[482] Porge testimonianza della verità di quanto poco anzi affermai, che nessuno soldato fosse stato violentato, anzi nemmeno blandito a rimanersi, l' Ordine del giorno dell'11 febbraio 1849: «Il Capitano interrogherà ciascun soldato della sua volontà di servire la Patria, oppure abbandonare le bandiere. Quelli che vorranno continuare saranno raccolti ec. — I soldati poi che avranno deciso abbandonare le bandiere, verranno immediatamente licenziati senza congedo alcuno. Il Governo Provvisorio rilascerà loro la giacchetta di panno e il berretto di fatica.»[483] L'Auditore Padelletti nell'Atto del 27 agosto 1849 dichiara: «Non feci Processo verbale perchè non vi era bisogno, essendo liberi di andarsene quelli che non volevano servire il Governo Provvisorio.»[484]

Come a me poco importasse di questo giuramento l'ho dimostrato riportando la lettera spedita al Consigliere Paoli nel 13 febbraio 1849, nella quale si legge la sentenza: « Non abbiamo bisogno di giuramento; ma se pure lo prestano, meglio che mai.»[485]

Nè quanti rifiutarono giurare ebbero a patire per parte del Governo Provvisorio molestia: all'opposto si accettarono di nuovo, reintegrandoli facilmente nei loro gradi e titoli di anzianità. «Il Governo Provvisorio, volendo attribuire ad aberrazione momentanea di mente, anzichè a mala volontà, il fatto di quei militari che ricusarono di prestarsi al giuramento di fedeltà alle nuove istituzioni, ha ordinato che vengano riammessi al servizio, senza perdita di anzianità, tutti coloro che pentiti del commesso fallo si sono di già costituiti e si costituiranno alle militari bandiere per riprendervi il corso della rispettiva Capitolazione. — Firenze 17 febbraio 1849.»[486]

Dai quali fatti deduco, ed il dedurlo è lieve, non avere punto bisogno le milizie toscane delle mie insinuazioni per dichiararsi favorevoli al Governo Provvisorio; recandomi inerme e solo in compagnia del Montanelli, non potere usare violenza alla milizia, ma all'opposto essere in facoltà della milizia ritenerci prigioni; gli Uffiziali delle tre armi, onoratissima gente, se le mie parole non fossero state ristrette in questa formula: «Qui non si tratta altro che di difendere la Patria, e questo di voi altri soldati è dovere supremo. In quanto al Principe o forma di Governo, dipenderà deciderne all'Assemblea toscana eletta con suffragio universale. Voi pure, soldati, darete il voto alla persona, o persone, che penserete più acconcie a sostenere il vostro voto;» (se, dico, così da una parte e dall'altra non fosse stato detto ed inteso), è da credersi che da me, inerme, in mezzo a loro, dentro Fortezza chiusa, avrebbero con equo animo ascoltato proposizioni di tradimento? Può egli supporsi, che essi avrebbero mandato spontanei, senza che nessuno gliela chiedesse, padroni del Castello assoluti, la protesta del 12 febbraio contro una parte della milizia, se i sensi manifestati da questa fossero stati tutti affetto, tutti spiranti benevolenza e devozione al Principe? Avrebbero eglino pregato il Governo a rendere pubblica la dichiarazione di non concordare co' sentimenti espressi da una parte della milizia? — No, ripeto, qui non si trattava tradire nessuno, lo intenda bene l'Accusa, sibbene tutelare la Patria fino al voto dell'Assemblea: — no, le grida dei pochi soldati non suonavano devozione, ma sì piuttosto impazienza di servizio militare, e cupidità di recuperare le masse perdute.

Adesso esamino se le milizie laugeriane potessero essere per opera mia corrotte, o spaventate da me. Le milizie dopo le rotte sogliono rilassare la disciplina; questo noi vedemmo accadere anche negli eserciti incliti per militari ordinamenti, come a mo' di esempio quelli di Napoleone; le nostre milizie, dicasi con rammarico, non avevano mai avuto il pregio della disciplina, e per maggiore stroppio erano state vinte. Non è mio studio trattare qui dei modi di comporre ed istruire lo esercito in Toscana; basti dire, ch'eglino erano tali, da produrre effetti pessimi, e li partorirono. Gli Ufficiali disprezzavano i soldati a un punto, e temevano; i soldati avevano a vile gli Ufficiali, e gli odiavano; non fu spettacolo capace di rassodare la disciplina davvero la mutua detrazione. Il Generale Laugier, preso da impeto, coperse di obbrobrio a Valleggio gli Ufficiali, al cospetto dei soldati. Per avventura poteva avere ragione di concepire amarezza inestimabile contro gl'imbelli, ma si ha da confessare eziandio, che il modo tenuto tagliò alla radice la disciplina. Cotesti Ufficiali non potevano più durare al comando. Non importa che io dica come occorressero nobili eccezioni, e non poche, e queste al confronto quanto da un lato facevano risaltare la bontà dei soldati virtuosi, così dall'altro svelavano come il male fosse profondo pur troppo. Che cosa, di rovina in rovina, diventasse il nostro esercito sarà bello tacere, imperciocchè dopo la vergogna vediamo avanzare una strage nefandissima dalla quale il pensiero inorridito rifugge.[487] Io narrai come la massima parte dei soldati raccolti in Castello di San Giovanni Battista, indifferente ad ogni sentimento, urlasse: « Vogliamo andarcene! La massa! La massa! » La soldatesca laugeriana, uguale in tutto a questa, non aveva in bocca gridi diversi.

Nello scritto che ho citato sopra, impresso nel Risorgimento, egli stesso, il Generale Laugier, dichiara che nel 16 febbraio: «aumentava la diserzione e la indisciplina nelle truppe; mancava il danaro per pagarle.» Più oltre: «Moltissimi ordini di previdenze militari non sono eseguiti.» Ancora: «Truppe e cavalli non avevano preso nutrimento; compagnie senza cappotto; mancano fieno e biada; cavalleggieri privi di portamantelli. — A Montemagno ordino strattagemmi guerreschi, che non furono eseguiti con diversi pretesti.» — «Le truppe, egli aggiunge, erano piene di entusiasmo, non però quelli, fra queste, che temevano di pericolare il proprio sostentamento, e famiglia.» A cui coteste parole accennassero, di lieve si comprende, imperciocchè i soldati semplici non abbiano famiglia, nè il soldo loro sia tale da farli paurosi di perderlo. Convoca gli Uffiziali e propone loro o ritirarsi in Piemonte, o far testa a Fosdinovo: rigettano l'uno e l'altro partito; vogliono capitolare. — A un tratto gli giunge notizia del campo di Porta in piena rivolta; — «ai soldati essere stato assicurato (egli continua) averli io traditi, e fuggito in Piemonte. Gli esorto a ricondursi all'ordine, e seguirmi a Fosdinovo, ma rifiutano ostinatamente gridando: A casa! La paga! La massa! — Il Colonnello Reghini e molti Ufficiali assistevano impassibili a quella brutalissima scena. Coloro stessi che io reputai più fidi, mi avevano abbandonato. Volli che il Commissario di Guerra Pozzi mi mostrasse la cassa; negava: la pretesi; costretto, aprì; eranvi poche centinaia di lire; l'obbligai a consegnarle al Capitano Traditi, e ne feci ricevuta. — Ordinai all'artiglieria, alla cavalleria, ai buoni soldati, seguirmi a Fosdinovo. Gli Uffiziali non mossero. — Cercai coloro che formavano parte del mio Quartiere Generale, ed avevano oggetti per me necessarii, che avevo loro affidati al momento della partenza: non potei mai trovarli! — Mi fermai all'Avenza con la speranza di vedermi, se non altro, raggiunto da quelli che mi avevano le mille volte giurato non volere la loro dalla mia sorte dividere, o almeno restituirmi quello che avevo loro affidato. Inutile!»

Riuscirebbe difficile, per non dire impossibile, ritrarre con tinte più scure la indisciplina soldatesca, nè questa poteva essere opera del momento, sibbene derivata da origine remota; e come si vede, poco, anzi nulla, desumeva da opinioni politiche, ma tutto da voglia di ridursi a poltroneggiare a casa co' danari della massa. Nè dicasi che questo portento di disordine nascesse dal mio Proclama del 22 febbraio 1849, però che óstino due ragioni, una più forte dell'altra; la prima, perchè cotesto Proclama non fu impresso, nè pubblicato; la seconda, perchè innanzi che io muovessi da Lucca, De Laugier, deliberato a partirsi, mandava l'ultimo addio ai Popoli della Versilia. E queste mi paiono ragioni, che anche dall'Accusa si potrebbero capire.

I soldati toscani un po' per colpa dei successi, e moltissimo per quella degli uomini, erano ormai ridotti a tale, che, qualunque mutamento in loro accadesse, non poteva essere che in meglio. Don Mariano D'Ayala, personaggio di quella rettitudine che tutto il mondo sa, si dimise dal Ministero della Guerra, sgomento di riuscire a condurre la milizia a termine ragionevole di disciplina.[488] Quello che il Generale D'Apice ne pensasse, può ricavarsi da questi brevi cenni, contenuti nella lettera del 27 febbraio 1849, pubblicata nei Documenti dell'Accusa a pag. 72: — «Alla mia entrata in Massa, vi trovai il Caos; ed ho dovuto mandare le truppe di Laugier ad organizzarsi altrove, per dopo richiamarle. — Una compagnia italiana dovei spedire a Firenze, per evitare la dissoluzione di quel corpo, conseguenza della indisciplina della truppa, della quale io non ho colpa. — Gli Uffiziali del mio Stato Maggiore sono animati del migliore spirito, e pieni di zelo e di attività. Cosa farà la truppa? Lo ignoro

Il Ministro della Guerra, Colonnello Tommi, malgrado i suoi sforzi lodevolissimi, non venne a capo di nulla; ond'è che giustamente commosso, uscì col seguente Ordine del Giorno, che ben dimostra quale e quanta fosse la disperazione del male, atteso i rimedii gagliardi, ch'egli si proponeva adoperare:

«Uffiziali, Sotto-Uffiziali, Soldati!

«La giustizia non può sostenere più a lungo la indisciplina che disfà l'armata. Ogni mite consiglio, ogni mezzano temperamento sarebbe una ingiuria alla Patria, che versa in tanto rischio, da esigere come dal cittadino ogni sagrifizio estremo, così dal soldato ogni prova più estrema di valore. Nè il valore può essere disgiunto dall'ordine, che solo costituisce la forza degli eserciti; e l'ordine è calpestato da voi. Fiacchezza nei comandi, ribellione nelle compagnie, soldati faziosi, inobbedienti, disertori; ecco il miserando spettacolo che la Toscana ha dinanzi ogni giorno. E la Toscana non può soffrirlo, noi non vogliamo, voi nol dovete, ove pensiate uno istante alla ignominia vostra e del vostro Paese. Su dunque, sentite per voi stessi una volta riverenza di uomo, ed amore di soldato; e trattenete con contegno migliore la mano della Giustizia, che pende inesorabile sopra di voi. Noi l'amministreremo senza pietà, poichè la pietà sarebbe così per voi estrema rovina, come per noi incancellabile vergogna.»

Se non che a guasto antico male si ripara con parole; e le minaccie, e i rigori stessi, tornano inefficaci nella estrema corruzione; sicchè il meglio è disfare, ed a questo partito penso che si sieno attenuti; ma tanto basti allo increscioso argomento di dimostrare come le milizie del Generale Laugier e le toscane tutte fossero di per sè e da gran tempo corrotte.

Prima però che io mi parta dallo ingrato soggetto promosso dalla suprema indiscretezza dell'Accusa, e da me assunto per necessità di difesa, abbiano meritata lode i generosi soldati che si mostrarono degni di fortuna, non di causa migliore; — con grato animo io la profferisco loro, e desidero ch'essi non l'abbiano meno accetta, perchè venga dalla parte di un prigioniero.

§ 10. Perchè il Generale Laugier si partisse da Massa.

Apparisce chiaro del pari, che non per me il Generale De Laugier fosse costretto ad allontanarsi. Due vie egli aveva per riuscire alla impresa: o una forza irresistibile e materiale, o un consenso universale di Popolo. Per la prima aveva mestieri del soccorso piemontese, per la seconda no. La seconda era scevra da conflitto sanguinoso, e da guerra civile; la prima difficilmente, imperciocchè le armi allora non erano poche in Toscana, terribile il furore della gente armata, e la concitazione di parte del Popolo maravigliosa; ed una volta venute a riscontro le due schiere, l'una avrebbe voluto andare innanzi, e l'altra spingere indietro, la quale cosa come possa definirsi senza zuffa tra uomini che tengono le armi in pugno, e si reputano nemici, io non so vedere. Ad ogni modo questo partito venne meno, col rifiuto o con la disdetta dello intervento piemontese.[489] Avanzava l'altro; ma non correva la stagione opportuna, nè poteva farlo riuscire De Laugier, come ho notato poco anzi: questo doveva partirsi dal centro ed estendersi alla periferia: alla rovescia, senza molto polso di armi, non vedemmo mai riuscire simili moti, perchè hanno sembianza di aggressione, e trovano i Popoli indifferenti o contrarii; nè ricorrere alla forza diventa meno incomodo a cui l'adopera che a quello contro cui si adopera, conciossiachè per esempii quotidiani rimanga chiarito come quegli che usa la forza si trova sempre, per vicenda di casi, tratto più in là che non voleva; e sostenuto da gente cupida, e spesso anche pessima, almeno in parte, ch'è del pari pericoloso accettare o ricusare, comincia co' consigli proprii e termina sempre o quasi sempre con gli altrui: per le quali cose, trovandosi debole suo malgrado, è costretto ad abbracciare partiti violenti, e, posto ormai sul pendio, bisogna che vada.... e vada tuttavia — prima di passo, e poi di corsa a precipizio. Il tempo pertanto non era opportuno; e il modo anche meno: ritornerò fra poco su questo argomento. Frattanto giovi notare come De Laugier, incontrate appunto le popolazioni indifferenti o avverse, depose giù dall'anima la impresa avventata prima assai che io mi muovessi da Firenze. Di vero, la mia partenza fu il 20 febbraio, ed egli ci racconta nella sua Relazione del 1º marzo, che nel 17 già era solo; non secondato che da pochi, contrariato segretamente dalle autorità politiche e governative, in niun luogo aveva appoggio, meno in lui solo.[490] Viareggio non si mostrava disposta a contrastare co' Livornesi, essendo fra loro dimestichezza grande a cagione dei commerci;[491] più tardi protestò apertamente contro De Laugier.[492] Pietrasanta non si commosse,[493] Lucca e Massa mormoravano contro di lui.[494] Carrara gl'insorgeva nemica, Camaiore ci accoglieva festosa; soldati Piemontesi non venivano; i suoi per fame, per difetto di paga, per indisciplina, sbandavansi; tutto questo basta, e ce n'è di avanzo, per fare capitare male un disegno importuno. Ma in conferma del vero, stiamoci agli stessi laugeriani Proclami. Nel 21 febbraio, appena entrato io a Lucca, egli così avvisava i Pietrasantini.

«Pietrasantini!

«Io voleva sostenere i diritti di Leopoldo Secondo mio legittimo Sovrano; le popolazioni non hanno corrisposto; siamo pochi, e perciò mi ritiro, perchè mi ripugna di versare il sangue cittadino.»

Nelle prime ore del giorno 22 febbraio mi pervenne nelle mani questo altro:

«Popoli della Versilia!

«Voleste risparmiar l' orrore di una guerra abbominevole, io vi aderisco; nessuno desidera versare il sangue cittadino, meno dell' Italianissimo Generale De Laugier.»

Veramente nella sua Relazione datata 1º marzo, Sarzana, copiosa d'inesattezze, egli c'insegna come nel 21 febbraio fosse deciso andare a Lucca, e nella notte ritirandosi avesse ordinato a Montemagno strattagemmi guerreschi; e se non condusse a fine il primo proponimento, e' fu perchè le milizie nol vollero, o nol poterono seguitare; il secondo (che non mi sembra diretto a risparmiare sangue) gli fallì, perchè sotto diversi pretesti non venne eseguito. — Che che di ciò sia, il Generale Laugier nelle prime ore del giorno 23 partiva per Sarzana. — A me si presentò la Deputazione Massese in Pietrasanta, nel giorno 23 febbraio, verso le ore 2 p. m.[495]

Da tutto questo, se non erro, mi sembra provato: che io a Lucca andai per sottrarmi a presentissimo pericolo; nel concetto di allontanare dalla città in momenti di esasperazione gente arrabbiata; per rendere innocua la Spedizione, la quale, senza me e contro me, con offese e con morti sarebbesi fatta; e rimane chiarito eziandio, come non paure d'incendii o di saccheggio io incutessi, ma parole civilissime e cristiane favellassi, perdono a tutti concedessi, i soldati del Generale Laugier non corrompessi (poichè tanto, più guasti di quello ch'erano non si potessero fare, nè pervenisse a loro il mio Proclama; anzi prima che io lo scrivessi, si fossero, molto per colpa loro, moltissimo per colpa di chi li lasciò senza paga e senza pane, sbandati); Laugier non costringessi a partire, come quello che i Piemontesi non vollero soccorrere, le popolazioni seguitare, i soldati obbedire; finalmente che in tutto quel successo io non favorii la Repubblica, anzi neppure la rammentai nei pubblici Atti, malgrado i focosi eccitamenti degli uomini mandati dalla Fazione repubblicana a sorvegliarmi; e che pei fatti e per le ragioni politiche io ritenni, e doveva ritenere, la mossa del Generale Laugier, operata senza il consentimento del Principe, contraria agl'interessi della Patria.

Che mal consiglio fosse cotesto, e capace di sobbissare il Paese con la guerra civile, universalmente, crederono, ed io allora credei, e credo ancora. I Popoli se ne commossero prima, e se ne rallegrarono poi come di lutto domestico evitato. Santissimi Vescovi ne resero, spontanei, grazie solenni a Dio!

XXVI. Leggi Statarie.

Il Decreto del 10 giugno 1850 espone, che la Legge Stataria del 22 febbraio 1849 ben fu firmata dai signori Mazzoni, Romanelli e Mordini, — e dal Guerrazzi, il 2 marzo, abrogata, — ma in conseguenza della protesta del Municipio fiorentino contro questo eccezionale e riprovato sistema di Procedura. Gli altri Documenti dell'Accusa quasi litteralmente concordano.

Certo io non nego, anzi con grato animo ricordo avere io conferito sovente, intorno alle condizioni della Patria, col signore Ubaldino Peruzzi, il quale, cedendo alle mie istanze e a quelle di persone a lui amiche, accettò la carica di Gonfaloniere di Firenze che, me proponente, S. A. gli commise. Lo reputai allora uomo probo e di ottima mente, e non ho motivo per ricredermi adesso della concepita opinione. Veramente i suoi consigli, come meritavano, accettavo; i soccorsi suoi e del Municipio, che gli aveva promessi leali, mi davano animo a durare nella opera perigliosa di tenere ordinato il Paese;[496] ma della Protesta del Municipio non seppi niente, come quella che fu presentata nel 24 febbraio, quando stavo lontano da Firenze, dove tornai il giorno 26 del medesimo mese.[497] Dai Documenti dell'Accusa si ricavano due cose: che la Deliberazione Municipale intorno alla Legge Stataria non era pubblicata in virtù di altra Deliberazione Municipale; e che quantunque simile sospensione si decretasse per la promessa ottenuta dal Governo di revocarla il giorno dopo, pure nè il Governo credè conveniente revocare la Legge, nè il Municipio pubblicare la Protesta.[498] Dunque non è vero, che indotto io dalle Municipali Proteste la Legge Stataria abolissi.

È vero soltanto, come nel primo marzo, il Cavaliere Ubaldino favellando meco intorno alle ragioni della Legge del 22 febbraio, io venni di mano in mano esponendogli i motivi pei quali non l'aveva per anche abrogata: — siffatte Leggi, di leggieri io consentiva, avere a durare poco, e piuttosto per incutere terrore, che per mandarle ad effetto; ed oggimai per me la Legge del 22 il suo effetto avere partorito in Firenze. Allora egli mi diè contezza delle Deliberazioni Municipali, e sempre persistendo nella censura della Legge, e raccomandandone la revoca, si persuase dei pericoli imminenti dai quali doveva difendere il Governo Provvisorio lo Stato, sicchè promise fare opera che il Municipio aggiornasse la pubblicazione delle sue rimostranze.

Però, nonostante che le promesse il Cavaliere Ubaldino adempisse (Ubaldino Peruzzi, Gonfaloniere di Firenze, sapeva allora, e non dubito che saprebbe anche adesso mantenere le sue promesse, perchè onorato) intorno allo aggiornamento,[499] — convocati i Colleghi dimostrava loro, che io di cotesta Legge non sapeva che farmi; e siccome taluno sembrava tentennare, io gli domandai: «Se avrebbe sostenuto, egli Toscano, che soldatesche palle rompessero il petto ad uomini toscani?» Alla quale interrogazione avendo con subita vivezza ed atto di orrore risposto di no, allora io soggiunsi: «Dunque in nome di Dio togliamola via.» E il 2 marzo l'abrogai, malgrado che nel giorno stesso mi pervenisse la lettera del signor Gonfaloniere Peruzzi, con la quale mi assicurava che il Municipio consentiva ad aggiornare la pubblicazione delle sue Deliberazioni. Quindi anche qui erra l'Accusa, governata dal destino nemico, che non le concede imberciarne pure una; ed è vero che io toglieva la Legge giusto in quel punto, che in certo modo il Municipio non si opponeva a farla durare.

Si ritenga pertanto, che fino al 2 marzo non solo dissuasi, ma volli che la Legge Stataria durasse; e che nel 2 marzo, nonostante che paresse a taluno aversi a mantenere, io instai ed ottenni di farla cessare. Ora dirò le ragioni per le quali non l'abrogai al mio primo giungere a Firenze.

Il Circolo di Firenze annunziava[500] avere spedito Commissarii nelle Provincie onde eccitare i Popoli ad accorrere alla Capitale, per mandare ad effetto la proclamazione della Repubblica, già decretata dal Popolo fino dal 18 febbraio, ed accettata dai Circoli e dai Municipii toscani; in altri termini, a compire una rivoluzione per rovesciare il Governo Provvisorio, e sostituirvene altro di loro fattura. Già fino dal 23 febbraio comparivano indizii di vicina tempesta, e il Nazionale gli aveva notati.[501]

Nel 27 febbraio due Compagnie, una del Battaglione Italiano, l'altra di Volontarii Lucchesi, e molta mano di Popolo, si fanno ai quartieri della Cavalleria a Pisa, e menano i soldati a percorrere le vie della città, acclamando alla Repubblica.[502] Da Lucca muoveva una Deputazione a Firenze, per costringere il Governo a proclamare la Repubblica, e unirsi a Roma, a seconda di quanto venne annunziato col N. 465 dell' Alba.[503] Notabilissimo poi è il rapporto del Consigliere di Prefettura Ciofi, il quale dimostra quali e quante sottili astuzie adoperassero gli Arrabbiati, insinuando perfino essere desiderio del Governo di parere sforzato ad abbandonare la via della legalità, e procedere con la rivoluzione; sicchè anche Siena veniva da cima in fondo rimescolata, per violentare il Governo, e dichiararsi per la Repubblica.[504] Fra i Documenti dell'Accusa

occorre lettera del Circolo popolare di Vicchio al Circolo del Popolo di Firenze, colla quale si lamenta, che il ritardo di posta abbia impedito di mandare gente al convegno in Firenze, su la Piazza del Popolo, per proclamare la Repubblica, e la Unione con Roma.[505] A Pisa, invece di scemare, il furore cresce di giorno in giorno, e si vuole ad ogni costo piantare l'Albero, e costringere l'Arcivescovo a cantare il Te Deum.[506]

Per siffatti successi in parte accaduti, e in parte facili a presagirsi, il Partito Costituzionale con ardentissimi voti mi chiamava a Firenze; e i Faziosi, che prima avevano veduto la mia partenza con sospetto, mandatemi le spie dietro, e finalmente smaniando di paura, si erano ingegnati a farmi richiamare appena mosso; ora non volevano che io ritornassi; anzi, mentre il Partito Costituzionale mi proseguiva di lode,[507] eglino decretarono, e su pei canti appiccarono i cedoloni, che il Popolo non mi venisse incontro, o mi accogliesse freddamente. Di vero, non s'ingannavano; imperciocchè, appena giunto a Firenze, chiamato dal Popolo con altissime grida a mostrarmi, uscii sul poggiuolo del Palazzo, dove arringando dissi, — che il Popolo non porgesse ascolto ai falsi amici; sarebbe stata tirannide, non libertà, imporre a forza e a tumulto alla Patria una forma di reggimento per la quale tutto il Popolo toscano aveva diritto di pronunziare il suo voto; la Legge si rispettasse, il Decreto dell'Assemblea eletta col suffragio universale si attendesse. Nè i Giornali del Partito tacquero il male concepito dispetto, chè l' Alba nel suo Nº del 27 febbraio 1849 biasimando stampava: — «ma il Popolo sa quando e perchè applaudire, e ciò ne dimostrano tanto gli evviva agli eccitamenti patriottici dello illustre Cittadino, quanto il silenzio profondo con cui venne accolta la dichiarazione di lui circa al ritardo nel proclamare la Repubblica, e nello unirsi con Roma.» — E nella guisa che riportai a pag. 192 di questa Apologia, ammonii gravemente il Prefetto di Pisa e il Governatore di Livorno, con Dispaccio telegrafico del 27 febbraio delle ore 5 pom.

E subito dopo, il Governo pubblicava in Firenze il Proclama, che nel Volume dei Documenti si legge stampato alle pagine 573 e 851:

«Toscani!

«Il Governo Provvisorio ha convocato l'Assemblea Toscana, e i Deputati alla Costituente Italiana, col voto di tutto il Popolo Toscano, affinchè decidano intorno alle sorti del nostro Paese: questo fatto, assunto di faccia a tutta la Nazione, deve essere e sarà mantenuto.

«I principii dei componenti il Governo attuale sono bastantemente noti, per non rimanere dubbii sopra il partito che essi prenderanno nell'Assemblea Toscana, e nella Costituente Italiana.

«Il Governo intende che sia interpellato il voto del Popolo, e si deliberi intorno cosa di tanto momento con maturità di consiglio e libertà di scelta.

«Chiunque presumesse trascinare violentemente la Patria, e con manifesta tirannide, fino di ora è considerato traditore della Patria, per essere giudicato a norma della Legge del 22 febbraio 1849.

«Al Governo fu commessa dal Popolo e dalla Assemblea Toscana la custodia della Libertà e la difesa dei diritti popolari; egli intende e vuole governare in benefizio della Libertà e del Popolo, e combattere la tirannide sotto qualsivoglia aspetto si presenti.

«Firenze, 27 febbraio 1849.»

G. Montanelli. F. D. Guerrazzi. G. Mazzoni.

L'aura popolare, che mi tornava favorevole, soffocate per ora le calunnie di tradimento, mi dava animo ad avventurare siffatti linguaggio e partito, cogliendo ogni occasione perchè lo spirito pubblico, sicuro di non rimanere per prepotenza soverchiato, prendesse coraggio a manifestarsi liberamente.

A Livorno i provvedimenti praticati partorirono buono effetto, nonostante che il Circolo non avesse tralasciato di spedirvi suoi mandatarii, come si ricava dagli stessi Documenti dell'Accusa, e dai Giornali del tempo;[508] e così a Pisa,[509] e così a Lucca.[510]

E badate, che per trattenere il nuovo turbine, erano mestieri gagliardi partiti davvero, imperciocchè più accese che mai venivano da Roma le ingiunzioni e le istanze, che la Repubblica di assalto si conquistasse; e il Farini, che talora (ma rado, una volta su mille a farla grassa) imbrocca nel segno, penso che a ragione dica, come Giuseppe Mazzini desse a Roma sollecita opera per costringere la Toscana a quella unificazione, a cui è vero che ella non si voleva piegare, ma a cui, parimente è vero, si sarebbe lasciata piegare per oscitanza, se altri non le infondeva sentimenti di dignità, per disporre almeno co' voti e liberamente dei proprii destini.[511]

Se a inestimabile furore si accendessero le menti degli Arrabbiati, lascio pensare a chi legge: si assembrarono, urlarono, minacciarono, protestarono. Quanto fu stampato in proposito riuscirebbe a riportarsi fastidioso; basti saperne questo, che il Circolo di Firenze nel 27 febbraio, in solenne adunanza, decretò la seguente protesta, la quale dai Giornali del tempo venne riportata, e con quali chiose Dio ve lo dica per me:

«PROTESTA.

« Il Circolo del Popolo di Firenze

«Abbenchè persuaso di esser forte, per la opinione generale del Paese che si è ormai pronunziata, colla adesione di tutti i Circoli e di gran parte dei Municipii, per la immediata Unione con Roma, e la proclamazione della Repubblica; sicuro perciò che starebbe pienissimamente in esso il mandare ad effetto con ogni successo la propria deliberazione; — tuttavolta mosso da maggiore carità di patria, senza cambiare le proprie convinzioni, e pronto a far render conto al Governo, davanti alle Assemblee, del proprio operato, dichiara di astenersi dalla dimostrazione annunziata pel 1º marzo, e ciò per remuovere anco il più lontano probabile di farsi cagione di quella guerra civile, alla quale ne sfida il Governo col suo Manifesto di questo giorno: ma nello astenersene protesta solennemente contro il Manifesto istesso, inaudito nella istoria di ogni rivoluzione. Imperocchè se la Legge Stataria si è veduta applicata dai Governi assoluti contro i liberali, — giammai si vide un Governo libero e democratico applicare leggi eccezionali contro uomini dello stesso Partito, che vogliono la cosa istessa che il Governo dice volere.

«Il Circolo decreta che la presente Protesta, stata approvata per acclamazione, sia fatta immediatamente di pubblica ragione.

«Firenze, 27 febbraio 1849.»

Ora io domando ai miei Accusatori e Giudici: doveva io lasciare che questi agitatori per violenza operassero quanto stava in cima dei loro desiderii? Sì, o no? Accusatori e Giudici comparsi fin qui, su via, parlate: — avvertite però, che, rispondendo affermativamente, voi vi trovate a concordare co' più arrabbiati Faziosi, però che anch'essi acerbamente mi mordessero, appunto come fate voi, per non averli lasciati operare. E che Dio vi perdoni, Accusatori e Giudici comparsi fin qui, quale altro spettacolo avete fino ad ora apprestato alle genti, oltre quello di farvi vedere scalmanati e ciechi, affaticarvi di su e di giù a raccogliere tutte le male erbe in due campi diversi, ma del pari faziosi, nemici a morte, ma ugualmente anarchici, sia che mentiscano larva di Repubblica, o principesca? Non è fra questi poli, che deve oscillare l'anima dei Giudici, nè in altri poli qualunque; bensì stare ferma alla vibrazione delle scosse politiche le quali spesso cambiano, sempre si acquietano.

Ed ecco perchè, vedendo approssimarsi il turbine, per quattro giorni mantenni la Legge Stataria; nè vi voleva meno, imperciocchè in quei giorni la Toscana fosse minacciata da invasione estera, da guerra civile, e da reazioni interne;[512] e appena mi parve, almeno pel momento, allontanarsi, instai onde venisse revocata. Lo universale mi reputò della Legge annullatore, e questa opinione, nel modo che ho chiarito qui sopra, fu vera. Se vuolsi sapere quello che i miei stessi avversarii pensassero in cotesta occasione, può leggersi nella Nazione, Giornale piemontese al Governo toscano infestissimo: «Il Governo toscano, che aveva per ridicola inspirazione pubblicata la Legge Stataria, ora l'ha ritirata, ed io credo per volontà del Guerrazzi; il quale si sarebbe approfittato dell'assenza di M. per farlo» (e questo non era vero). « — Giacchè, dovete pur saperlo, Guerrazzi è per singolarità il più assennato, e il più moderato dei nostri padroni.» — ( Alba, 14 marzo 1849. — Dalla Nazione, Nº 56, 7 marzo.)

Le mani erano di Esaù, la voce di Giacobbe; di Torino la stampa, lo scritto di Toscana; infatti apparteneva a certo Professore fior di senno della Università di Pisa, che a me non importa rammentare, e a lui io credo molto meno. Io poi ho voluto coteste parole citare, unicamente in prova della opinione universale, e parmi non demeritata, della mia temperanza. In quanto alla singolarità, che accenna lo Scrittore, dimostra una cosa sola, ed è quanto sia temerario, per non dire disonesto, giudicare un uomo, non ultimo finalmente del vostro Paese, o senza conoscerlo, o con la itterizia delle vostre passioni addosso. Poveri infermi, il giallo non istà negli obbietti che guardate, egli vi sta proprio negli occhi, — forse nel cuore; e allora la vostra malattia sarebbe senza rimedio, — la quale cosa io non vi auguro.[513]

E non per iattanza vana, ma per difesa di me troppo a torto oltraggiato, io rammenterò come a quei tempi gli uomini che le opinioni loro facevano pubbliche col Conciliatore, i gravi mali deplorando, non sapevano, non dirò quale apportare, ma neppure quale avvertire rimedio; e verso di me si volgevano confortandomi ad operare, secondo che esperienza di storie veniva suggerendomi; se non che in cotesti casi abbaruffati il senno cade vinto e il coraggio, i consigli generali non valgono; ed anche fossero comparsi speciali, a cui consiglia non duole il corpo; ed altro è dire: fa; ed altro è fare; e la favola del sonaglio, che i topi deliberarono in collegio di appiccare al gatto, ce lo insegna ab antiquo. Intanto la stupenda audacia della Fazione repubblicana persuadeva gli uomini del Conciliatore, essere qualunque partito per attraversarla intempestivo od esiziale; oggimai a reverire in pace l'altare della Libertà rassegnavansi; unicamente a mani giunte supplicavano ad inalzare a canto a quello l'altare della virtù; le quali parole, ridotte in casereccia favella, significavano, che, per quanto amore portavo a Dio, dalle passioni fanatiche prima, poi dalle violenti, e alla fine dalle cupide le persone loro, e i poderi, e le case tutelassi. Ed io di cuore mi consacrava alla impresa, e certo per volontà non mancai al debito mio; ho fatto quanto la mia natura dentro me mi concedeva, e quanto fuori la veemenza degli accidenti mi consentiva. Se voi credevate fare meglio, dovevate dirmelo allora, e venire a provare a quei tempi; ma voi invece me pregaste, in me confidaste, chè di fare voi lo esperimento mi parevate vaghi come i cani delle mazze. — Perchè dunque mi avete tradito, e poi sempre e sempre calunniato; anzi, a quanti vennero a dirmi raca traverso i fori del mio sepolcro con aperte palme applaudito? Parvi esemplare questo? Parvi virtuoso? La coscienza è il Pubblico Ministero di Dio; e le sue accuse, non contaminate da infelici passioni, suonano sempre giuste; — voi interrogatela, intanto che io riporto le vostre parole:

«..... Le passioni non hanno più freno; l'interesse è l'unico motore della più parte delle azioni, e l'uomo sale imperturbato i gradini dell'ignominia, come una volta avrebbe salito quelli della virtù.... Questi mali dei tempi nostri notiamo liberamente aiutando il ragionamento col paragone dei tempi antichi, non a sfogo d'ire private, ma sibbene a pubblico insegnamento. Quali rimedii fossero buoni a ripararvi, male sapremmo indicare, sebbene di rimedii sia urgenza, se vuolsi trarre un qualche utile frutto dai mutamenti dello Stato. Chi tiene oggi il Governo della Toscana conosce al pari di noi questi mali; e scrivendo sulle virtù degli Avi, non risparmiò il flagello di Nemesi alla codardia dei nipoti degeneri. Operi dunque come lo consigliano conoscenza di tempi ed esperienza di Storia. Noi non facciamo altro voto, se non quello di vedere inalzato l'altare della virtù accanto a quello della libertà, onde abbiano culto ambedue, quale si conviene a vergini Dee, che amano pellegrinare sorelle fra le sventure e le follie degli uomini.» — ( Conciliatore, 28 febbraio 1849.)

«Il Circolo Popolare di Firenze aveva intimato il Popolo a proclamare la Repubblica oggi 1º marzo. Il Governo Provvisorio fece allora intendere al Circolo, come unicamente all'Assemblea, che tra pochi giorni sarà convocata, sia riserbato il votare liberamente una forma di stabile Governo: la Repubblica proclamata senza consiglio deliberato, non potere avere nè autorità per sè, nè reputazione all'estero.

«Il Circolo, peraltro, non si appagava di queste ragioni, e persisteva nel primo proponimento. Allora il Governo pubblicò un Proclama, nel quale applicava contro chiunque avesse turbato con violenze la quiete pubblica il rigore delle Leggi Statarie. Il Circolo protestò contro il Governo; ma in pari tempo promise astenersi da ogni manifestazione.

« Così terminò questo incidente, che poteva avere gravi e dolorose conseguenze, e la giornata di oggi sembra riuscire tranquilla

In questo modo il Conciliatore del 1º marzo 1849, Giornale di quella tenerezza per me che tutti conoscono, racconta il motivo pel quale di quattro giorni protrassi la durata della Legge Stataria.

Avvertite cosa, che la impronta Accusa non bada: io voglio dire come la Legge Stataria fosse spada a due tagli, e guardasse a tenere in rispetto ogni maniera di gente, qualunque partito professasse, o piuttosto fingesse, la quale con sedizioso attentato la vita e la proprietà dei cittadini, o in altro modo l'ordine pubblico sovvertisse; nè questo è già un mio ingegnoso trovato, conciossiachè ricevesse manifesto commento dal fatto, dell'averla io quattro interi giorni protratta per contenere la rivoluzione minacciata nel 1º marzo 1849.

E quando il Ministro dello Interno propose, e il Presidente del Governo accettò di richiamarla in vigore, io volli, che meno comparisse il concetto politico, e più fosse messo in rilievo il sociale; e di vero, nei Considerandi, unicamente si appella a tranquillità pubblica turbata da fatti, che formano brutto contrasto con l'ordine pubblico generalmente mantenuto in Toscana; e meglio si definisce nello Articolo IV, per moto reazionario che cosa s'intenda. Ai caratteri che deve presentare, io penso che nessun cittadino mai potrebbe astenersi da contribuire con tutte le forze a comprimerlo: «Moto reazionario,» si dice, «è quello il quale per le cause onde procede, e pel fine cui è diretto, e pel suo materiale carattere, possa ritenersi attentato contro il Governo, o contro l'ordine stabilito, o contro la pubblica tranquillità.» Nè qui rimasi, chè quantunque a me non ispettasse in cotesti giorni la Presidenza del Governo, che veniva esercitata da Giuseppe Montanelli, pure volli conoscere i nomi degli uomini deputati a comporre la Commissione preposta alla esecuzione della Legge, e non resi il foglio finchè non seppi che erano tutti probi e miti; tali insomma da corrispondere alle intenzioni del Governo.

Ai Giudici del Decreto del 10 luglio 1850 basta l'animo di affermare: «Che tutto ciò fu fatto per comprimere la reazione, la quale in sostanza altro non era, che un desiderio di restaurazione

Ho avuto luogo di notarlo altra volta: io pendo incerto se ingiurino più profondamente le offese o le difese dei Magistrati, i quali dettero opera fin qui a questa scandalosa procedura; fatto sta, che esorbitanti suonano coteste parole, ed io, e quanti facciano studio del Principato Costituzionale, dobbiamo considerarle non meno alla dignità della Corona, che al Paese, vituperevoli. E poichè mi accorgo che qui tra noi pochi fanno la parte loro, a me piace e giova fare la mia, protestando altamente dal profondo del carcere per la dignità della mia Patria e del Principato Costituzionale, contro tanto disonesta sentenza.

Da simili proposizioni due conseguenze sono da trarsi, ed è la prima, che male giudicherà di me chiunque ritenga l'enormezze dell'Agro Aretino atti devoti alla causa del Principato Costituzionale; la seconda, che nefando desiderio, e degno della universa riprovazione è quello, che perduti uomini, ossa di trucidati e ceneri di case arse ammucchiando, vi piantassero sopra la bandiera dello assolutismo. — Lo so, per ventura pochi, e nondimeno per onta della civiltà nostra anche troppi, vivono uomini fra noi a cui basterebbe il cuore di mostrare l'ossuario dello Agro Aretino, come la Svizzera addita adesso con orgoglio l'ossuario di Morat, e non solo lo pensano, ma in isvergognate pagine lo scrivono.... Ah! stracci la coscienza pubblica coteste pagine, testimonianza di giorni di lutto per la nostra Patria.... le arda, e le disperda, perchè davvero mai ceneri più esecrabili furono gittate in balía dei venti.

Perchè non avete raccontato i fatti che condussero il Governo a decretare la Legge Stataria per le Campagne Aretine? Eranvi ignoti forse? No, voi gli sapete. Forse ne andavano smarrite le traccie? No, si trovano negli Archivii ministeriali, e voi ad una ad una avete sfogliate le carte (che adesso presumete contendere a me), assistente uno ufficiale del Ministero. Bene io leggeva cotesti miserandi Rapporti, per cui tutto sconfortato, al tocco dopo la mezzanotte dei 24 marzo 1849, mandava per Dispaccio telegrafico al Governo di Livorno:

« La campagna di Arezzo è in preda al brigantaggio e allo assassinio. I Pulicianesi hanno dato l'assalto a Castiglion Fiorentino. Vedete s'è tempo adesso di dimostrazioni.[514] »

Quello che non avete fatto voi (e ve ne correva santissimo il dovere) farò io, o piuttosto lascerò che faccia Adriano Mari, non avvocato ma storico diligente, e rimesso così, che alla sua narrazione potremmo piuttosto aggiungere alcuni tratti più dolorosi (dalla quale parte io volentieri mi assolvo), che emendarla come esagerata:

«Riandate colla mente i fatti che precederono la emanazione di quelle Leggi. L'assalto di Prato e la morte degli aggressori sotto le mura di quella città, l'incendio delle Stazioni della strada ferrata, le aggressioni e le offese ai tranquilli cittadini sulle pubbliche vie, gl'insulti alle Guardie Nazionali, la violazione del domicilio e gli oltraggi ad onorevoli magistrati ed a pubblici officiali, erano fatti criminosi, che non uscivano dalla categoria dei veri e proprii delitti comuni. E quando nella repressione di tali eccessi avete la causa proporzionata, lo scopo certo e immediato, come andare sospettando uno scopo supposto e remoto? Come è lecito argomentare per via di congetture un'altra intenzione, e ciò per trovare rei di alto tradimento? Gl'incendii delle Stazioni, gli oltraggi alla Guardia Nazionale, le violenze, le rapine, erano forse espansioni d'affetto al Principe, e di attaccamento al Governo Costituzionale? I moti di Puliciano e Laterina non erano diretti a impedire la decretata mobilizzazione della Guardia Civica? Gli abitanti di Castiglion-Fiorentino, qualunque fosse la loro opinione politica, non presero tutti le armi a respingere l'assalto dato dagl'insorgenti? Non temevano tutti che si rinnuovassero i tristi avvenimenti del 1799, e le esorbitanze commesse al grido di — Viva Maria, — per cui nell'Agro Aretino quella sacra invocazione divenne quasi sinonimo di violenza e rapina?

«Nel vero, io domando agli onesti di qualunque Partito: — Se una turba forsennata vi avesse aggrediti nel vostro domicilio, vilipesi e malmenati, siccome accadde ad alcuni gonfalonieri non d'altro rei che di aver presso loro i ruoli della Guardia Nazionale; se vi avesse minacciato di morte non per altra cagione, che per avere in qualità di pubblici funzionarii eseguite incumbenze inerenti al vostro ufficio, siccome occorse al cancelliere Bandini, e al medico fiscale dottor Sebastiano Fabroni; se fosse rimasto ucciso o ferito un parente, un amico vostro, costretto suo malgrado a partecipare a un tumulto e a dare l'assalto a una Terra, come fecero con sacca e scuri[515] sotto le mura di Castiglion-Fiorentino; se dentro quella Terra, ingiustamente aggredita, abitato avessero le vostre famiglie; se là fossero state le cose vostre più care: avreste o no desiderato di essere soccorsi e protetti dal Governo di fatto con mezzi validi e proporzionati? E, se a tempi e cose eccezionali occorrevano eccezionali provvedimenti, avreste voi desiderato che la forza inviata al ristabilimento dell'ordine fosse abbandonata a sè stessa, o piuttosto guidata da una suprema autorità che ne vigilasse la disciplina, ne frenasse e riparasse immediatamente le intemperanze e gli arbitrii? Avreste voi desiderato, che questa autorità spettasse, anzichè ad uomo fazioso, a cittadino onesto e specchiato?... Chi è veramente imparziale, torni col pensiero a quei tempi, a quei luoghi; interroghi il suo cuore, e pronunzi.

«Laonde non può cader dubbio sulla necessità di quelle misure eccezionali. Nè i meno discreti vorranno rimproverare il Romanelli di avere opinato come il Conciliatore, che sosteneva i principii di onesta e moderata libertà; e che tuttavia col nome di Statuto continua a difendere a palmo a palmo il terreno delle istituzioni liberali.» — «[516] Qualunque possano essere (diceva in quei tempi il Conciliatore ) le divergenze nelle idee e negli affetti, che sempre, ed ora più che mai, in questa disgraziata Italia sono stati occasione di discordie e di debolezze, vi sono due punti nei quali è d'uopo intenderci e convenire, cioè:

«Il bisogno di salvare la dignità del Paese da qualunque specie di prepotenza straniera;

« Il bisogno di salvare l'ordine interno dai danni dell'anarchia, qualunque sia la bandiera a cui nome si volesse provocarla.

«Predichiamo la concordia, perchè vi sono tali cose in questione, nelle quali nessuno potrebbe transigere, e per le quali è debito sacro a tutti accorrere alla difesa. Avremo sempre una parola di biasimo per chiunque si mostri indifferente ai mali della Patria; protesteremo contro ogni specie di violenza da qualunque parte e per qualunque cagione essa muova.» —

«Tuttavia supponete, che le insurrezioni di Puliciano e di Laterina tendessero a ristabilire il governo granducale. Ciò non è vero; ma supponete che dal processo apparisse. Potreste mai da questo argomentare, che fosse precisamente e univocamente contrario al ristabilimento di quel governo ciò che fu fatto per impedire e comprimere le insurrezioni tendenti a quello scopo? Il fine non giustifica tutti i mezzi; a buon fine può essere inteso un mezzo non buono; e chi si oppone al mezzo iniquo non è per questo che sia avverso al fine buono. Così l'opporsi alle parziali insurrezioni, e con esse alle violenze, alle rapine, e alla guerra civile, è referibile a ciò che il mezzo ha di cattivo in sè stesso; ed è abusiva interpretazione il supporre, che il Ministro facesse per avversione al fine ciò che era diretto a frenare un mezzo cattivo[517]

Eh! male accorti e sciagurati che siete, i villani con la scure e col sacco, a cui medita su le ragioni dei tempi, sono indizio pessimo di male profondo. — Quando le sole passioni di fanatismo religioso o di fanatismo politico ardono i petti mortali, copia di sangue allaga la terra; e se gl'imperversati mettono le mani nel bene degli altri, e' lo fanno meno per avvantaggiare sè, che per danneggiare altrui. Ora, difetto di provvidenze economiche, o motivo altro qualunque, che a me non giova in questo momento indagare, ha generato per le nostre campagne un nugolo di gente conosciuta col nome di pigionali, contadini senza podere, incerti del domani, assediati dalla dura necessità, corrotti dai vizii, come tutte le cose cattive fecondi, trascorridori del comunismo, a cui, più che altri non pensa e urgentissimamente, importa provvedere. Se io dica il vero, ecco, queste carceri infami, dove voi potete patire che io rimanga chiuso, ve ne fanno testimonianza; vedetele: esse traboccano di accusati, la più parte villani, e la più parte ladri. Dal 1848 già di due terzi crebbero i delitti. Il bilancio del Ministero di Giustizia e Grazia minaccia diventare il più grave di tutti, attesa la spesa delle carceri. Piena la prigione di Volterra, piena l'altra di San Gimignano; la nuova prigione aggiunta a questa mia si è empita con foga pari a quella con la quale la inclita gioventù nostra empirebbe la platea dei Teatri, quando si mostrasse in iscena o la Cerrito o la Taglioni, o quale altra femmina attaccata a paio di gambe più famose. Vedete voi: possedete abbondanza di ladri da empire le vostre carceri, senza avere bisogno di farvi morire con lenta tise i dabbene uomini; ma fate voi... poichè così vi giova... solo guardatevi da dire quello che non pensate, e soprattutto poi da stamparlo, onde la torma dei famelici non impari, che acclamando il nome di un Principe o di un Santo possa, non pure senza biasimo, ma con lode amplissima, professare religione e politica con l'accetta e col sacco!

Altri esponga le ragioni del diritto: io assentendo ad una voce che si confonde co' palpiti del mio cuore, vi dico che patria carità imponeva alla trista illuvie si ponesse o almeno si tentasse porre sollecito riparo. Nobilissime suonano in proposito le parole di Lionardo Romanelli; ed io le cito a causa di onore: «Non ha cuore di uomo il cittadino che rimane indifferente ai mali minacciati al proprio paese, e che, potendoli prevenire o mitigare, si astiene per basse paure, per umani rispetti, e per vile egoismo[518]

Ora poi è prezzo della opera udire le immanità del truculento Commissario. Quinci innanzi non si rammenteranno più gli annegamenti di Nantes, nè le lionesi stragi; la fama di Carrier, di Fouchè, di Lebon e di altri maladetti da Dio, si oscura: nacque in Toscana chi tutti questi leverà di nido. — Lionardo Romanelli con le istruzioni del Governo partiva; e quando gli fossero mancate, andava seco la sua anima veramente cristiana. Arrivato a Montevarchi, prima di tutto prescrive che non si facciano arresti irregolari senza gli ordini dei Pretori di San Giovanni e di Montevarchi; e poichè nonostante il suo comando, durante la notte, si sostengono alcuni, egli accorre e gli libera. Procedendo, ammonisce i soldati, che le opinioni rispettinsi, soltanto i tumulti e le violenze reprimansi; ordina sia ritenuto uno, colpevole di violenze commesse a Pergine e alla Pieve Presciana. Nel punto d'investire Puliciano, gli abitanti gli mandano deputati per pace, ed ei gli accoglie; alla erezione dell'Albero della Libertà in Puliciano contrasta; procura si catturino quattro, perchè designati come fautori della baruffa di Laterina da un ferito ch'ebbe a subire l'amputazione di un braccio.

La Commissione straordinaria ecco instituisce le sue procedure. — Per questa volta cadonmi le braccia; il barbaro ed eccezionale processo già già le sue vittime divora; voltatevi proprio ad Arezzo, per rabbrividire alla vista di strazii obliati in Toscana.

1 a Procedura. — Per tumulto suscitato a Cortona, sotto pretesto di mancanza di pane, e di rincaro del sale; uno degl'imputati fu condannato a un anno di casa di forza; e un altro a sei mesi.

2 a Procedura. — Per ispionaggio, e ragguagli menzogneri a carico della Colonna mobile, allo scopo di commuovere a offesa di lei gli uomini del contado; rimandato per incompetenza.

3 a Procedura..... — interrotta per la mutazione del Governo.[519]

E qui finisce tutto. — Come tutto? E i multati dove sono? — Non vi sono. — E gli Aretini passati dalle soldatesche palle, dove giacciono essi? — In nessun luogo; sono tutti vivi. — Ma se i Giudici del Decreto del 10 giugno 1850 hanno scritto, e stampato, che la Legge Stataria del 23 marzo 1849 non rimase lettera morta![520] — Che volete che io vi dica? andatelo a domandare a cotesti Giudici benedetti, che cosa abbiano inteso significare: in quanto a me, me ne lavo le mani.

«Con decreto de' 7 aprile successivo, emanato dal Guerrazzi nella qualità di Capo del Potere Esecutivo, questa Legge fu estesa a tutte le Terre, Borghi e Villaggi del Granducato.» — Così prosegue l'Accusa.

E questo è falso. Io non estesi la Legge del 23 marzo a tutte le campagne del Granducato assolutamente, ma sì condizionalmente a quelle terre, borgate o campagne, dove sotto mentiti pretesti si commettono attentati contro la tranquillità pubblica, e la sicurezza delle persone. Costretto, per pubblica salute, a firmare Legge da me perpetuamente aborrita, posi diligentissima cura a ben dichiarare come io piegassi a farlo, unicamente in vista di delitti comuni:

«Il Capo del Potere Esecutivo provvisorio toscano:

«Quando il Governo ritirò la Legge del 22 febbraio p. p., sperò che la benignità sua non sarebbe scambiata con la debolezza, e fosse tornata proficua al Paese la virtù del perdono. Ora poichè, sotto mentiti pretesti, in alcune campagne e borgate si commettono attentati contro la tranquillità pubblica, e la sicurezza delle persone, il Rappresentante del Potere Esecutivo toscano, per conseguire lo intento dichiarato nella sua Notificazione del 1º aprile corrente,

«Decreta quanto appresso:

«Art. 1º La Legge Stataria del 23 marzo 1849, attivata per il Compartimento di Arezzo, e la Commissione Militare con essa istituita, saranno applicate in tutte le Terre, Borghi e Villaggi dello Stato, in cui si verificassero gli attentati disordini definiti allo Art. IV di detta Legge.

«Art. 2º. Tosto che per Rapporti o per altre notizie, pervenute al Ministero dello Interno, si abbia cognizione di qualche fatto della indole surriferita, la Terra, il Borgo, Comunello o Villaggio in cui sia accaduto, verrà subito militarmente occupato dalla Colonna mobile.

«Art. 3º Le spese della occupazione, una volta che sia stata ordinata, saranno sempre e in qualunque caso sopportate dalla Comunità, Borgo, Comunello o Villaggio, che vi avranno dato causa, salvo ad essi il diritto di rivalsa contro gli autori dei disordini, coerentemente alle disposizioni espresse nell'Art. 3º della Legge anzidetta.

«Art. 4º Il Ministro Segretario di Stato ec.

« Guerrazzi. »

Vediamo quale fosse questa mia Notificazione del primo aprile:

«Toscani! — Finchè l'Assemblea Costituente toscana non abbia deliberato le sorti politiche del Paese, il Rappresentante del Potere Esecutivo, volendo non essere minore della fiducia in lui riposta dal Popolo, dichiara ch'egli procederà severissimo contro ogni attentato o d'individui o di partiti, diretto contro la quiete e sicurezza pubbliche, e la indipendenza che deve restare inviolata al voto dell'Assemblea.» — Vedi Monitore del 2 aprile.

Io vorrei sapere un po' che cosa provoca la rampogna dell'Accusa in questo mio Decreto. Il provvedimento in sè stesso? o il modo col quale venne adoperato? o il fine politico? o le conseguenze che ha partorito? Se non si distingue, male s'incolpa, e peggio possiamo difenderci. Chi ama pescare nel torbo, contamina le acque; io vo' che si chiariscano. Supposto che all'Accusa fastidisca il provvedimento in sè stesso, dirò, che quando la salute della Società venga minacciata da pericolo estremo, furono i partiti straordinarii adoperati sempre, ed anche lodati; a patto però che il pericolo sia vero, non mentito per arte, o sognato per paura, e le misure eccezionali durino poco, si applichino con discrezione, e soprattutto si ponga mente a questo, che invece di rimediare ai mali umori, non gl'intristiscano e rendano per ira concentrata, e per profondo odio, insanabili. Di provvisioni straordinarie, pensai che nello aprile del 1849 potesse correre da un punto all'altro necessità per cause comuni, e per cause politiche. Per cause comuni, — perchè sbigottito io considerava il corpo sociale propendere a disciogliersi con inestimabile celerità; e se mi opponessero che altri pure pervenne a tenerlo fermo senza siffatti rimedii, io prima di tutto risponderei, dubitare assai che questo siasi ottenuto in modo sicuro, perchè il proverbio insegna, che le case salde non si puntellano, e di puntelli io qui ne vedo molti, anzi troppi; e poi a reggerlo vi furono adoperate forze, le quali erano state per altro uso disposte; ancora, che fu fatto uso di forze da ogni previsione nostra lontane; e finalmente non somministrare a confortarci motivo i delitti comuni dal 1848 in poi cresciuti di due terzi, con giusto timore che qui il mal progresso non sia per fermarsi. Rispetto a cause politiche, — perchè la esperienza dimostra che da un lato i Partiti vinti, prima di morire, ordinariamente prorompono in atti disperati e feroci; i vittoriosi, per consueto, in atti superbi e bestiali. In quanto al modo col quale la Legge Stataria venne applicata, ho già chiarito come non abbia fatto piangere nessuno; onde quando ogni altra lode mi venga a mancare, io non avrò perduto la gloria, che avventurandomi nelle vicende politiche desiderai conservarmi illesa, e che a Pericle moribondo parve doversi anteporre ad ogni altra, intendo dire, di non avere messo per colpa mia in gramaglia nessuno.[521] Se poi si volesse biasimarne il fine, a meno che non si pretenda che io dovessi rimanermi come Nerone a cantare su la torre, mentre andava a fuoco e a fiamma il Paese, io non so con quanto o senno o coscienza mi vogliano riprendere; e per quello che concerne il fine politico, è di evidenza intuitiva che la Legge del 7 aprile fosse arme apparecchiata contro l'estreme violenze dei Faziosi. Invero, se l'Assemblea io sapeva che stesse per deliberare la Repubblica, quali timori erano questi miei? Non cadevano paure, imperciocchè i Faziosi ne avrebbero acceso i falò, e levate al cielo le grida. I sospetti non versavano, nè potevano versare, che su questo: o che i Deputati a dare il voto per la restaurazione si peritassero, o che per improntitudine di Partito la deliberazione dell'Assemblea si volesse a forza, come minacciavano, cancellare.

Intorno alle conseguenze rammento, che la Corte Regia di Lucca col Decreto del 4 giugno non solo si astenne da improbarle come delittuose, ma come prudenti le commendò. Nè per me volendosi, o potendosi addurre ragioni che valessero oltre quelle contenute nel Decreto allegato, torno, come ogni buon cittadino deve fare, a piangere amaramente su lo spettacolo, che nello stesso paese, — sotto le leggi medesime, — a breve distanza, — nella causa medesima, — giudicando lo adempimento della stessa misura, — ciò che per alcuni Giudici fu argomento di lode, per altri possa esserlo, non dico di biasimo, ma (ed empie di orrore!) di capitalissima accusa.

Però di queste tre Leggi, la prima non mi riguarda, e non fu mandata mai ad esecuzione; e mantenuta da me per impedire che per prepotenza di Faziosi, la forma Repubblicana, la decadenza del Principe, e la Unione con Roma s'imponessero, dispersa appena cotesta bufera fu da me abrogata; la seconda, comunque da me non firmata, intesi che alla repressione di delitti comuni di pessima indole principalmente mirasse, non avvertita la maschera sotto la quale presumevano andare impuniti; la terza accenna a delitti comuni, e si propone per iscopo di assicurare la libera votazione dell'Assemblea nel vitale partito, se e come Toscana avesse ad unirsi con Roma.

XXVII. Intorno all'Accusa della soppressione del Consiglio generale Toscano, e della mutata forma delle Elezioni.

Il Parlamento fu soppresso dal partito prevalente, col Decreto promulgato nel giorno otto febbraio sotto le Loggie dell'Orgagna alla presenza del Popolo, come nelle pagine che venni in altra parte di questo scritto dettando fu largamente provato.

Lo soppresse la stampa repubblicana furiosissima e incalzante. Torniamo a gittare uno sguardo sopra nuovi documenti di quella, e vediamo se davanti un tanto percuotere di ariete, quando anco altro non fosse stato, avrebbe potuto il Parlamento sostenersi.

«La Costituzione e lo Statuto scompaiono col Principe disertore: noi ricorderemo ai Deputati della Toscana, ch'eglino, come Consiglio deliberativo, hanno compiuto l'opera loro...... Il Senato, grottesca parodia della ciarliera Camera dei Pari di Francia, violatrice della Costituzione, di ogni mandato, di ogni sovranità; il Senato, autorità unicamente fittizia, più non esiste in Toscana; egli altro non era che una superfetazione del potere reale;[522] questo caduto, il maggiorasco dell'Aristocrazia già cadente ha perduto ogni nerbo di vita, anzi ogni vitalità costituzionale e deliberativa. Il nostro Senato, come quello di Francia, rimarrà rimembranza più o meno ridicola, più o meno riprovevole, secondo gli effetti che resulteranno dalle ultime sue sbadigliate elucubrazioni. Il Senato, figlio accarezzato dello Statuto, è sepolto con lui.» — ( Alba del 9 febbraio 1849.)

«Oggi gridiamo francamente al Governo di Toscana, ai Democratici di Toscana, quello che il Popolo in questi dì domandò ai suoi reggitori, quello che scrisse su le mura di tutte le vie di Firenze: Unione con Roma! Uno Stato solo di Toscana con Roma.

«Dare indietro — sarebbe tradimento, apostasia; sarebbe un volere sepolta la fede combattuta da tanti dolori sotto le bandiere della prima vittoria.

«L'Assemblea Toscana è disciolta.» — ( Alba, 11 febbraio 1849.)

Il Nazionale del 10 febbraio 1849, più mite nelle frasi ma non meno assoluto nel concetto, così si esprime riguardo alla Camera:

«I rimedii e gli ordinamenti che potevano attendersi da mature deliberazioni delle Assemblee Legislative, ora necessitano subito. Le Assemblee stesse nè giuridicamente decorosamente possono continuare ad esistere: quando il Governo credesse utile od opportuno di circondarsi di Assemblee deliberanti, dalla sua stessa indole sarebbe costretto a interrogare la volontà del Paese per mezzo del suffragio universale

E la Costituente Italiana del 9 febbraio parla così più dittatorialmente al Governo Provvisorio:

«Innanzi a tutto ei deve sgombrarsi la strada, concentrare in sè tutta la vita del Popolo, rompere nettamente in faccia agli avanzi di un'epoca che ormai è rinnegata. Il Consiglio generale dei Deputati è instituzione tale che, dopo il fatto d'oggi, non ha più corso....; è inutile ordigno che, senza aggiungere forza, vizia il carattere e lo spirito della rivoluzione.»

E non solo la stampa repubblicana, ma quella eziandio che si chiamava conservatrice, e si diceva ed era organo di frazione notabile e più moderata del Partito Costituzionale, si univa a provocare lo scioglimento del Consiglio. E questa testimonianza io consegno alla Storia, perchè, giudicando delle azioni umane, ne faccia tesoro. «Oggi peraltro che un Governo Provvisorio è instituito, mal sappiamo intendere che resti a farsi dai Rappresentanti. Senza parlare delle cessate ragioni del loro mandato, giacchè in tempi di crisi politiche necessariamente rovina ogni giuridico fondamento al Potere, inutile affatto ci sembra oggi ogni loro azione. Però il Governo disciolga la Camera, e col principio accettato del suffragio universale faccia nuovo appello al Paese, o i Deputati provvederanno al loro decoro con una volontaria dimissione.» — ( Conciliatore del 9 febbraio 1849.) — Nè già una volta sola, ma subito il giorno dopo magistralmente, secondo il consueto: «a questo pensi il Governo sorto dalla necessità del momento, onde non compromettere ( sic ) inutilmente la tranquillità del Paese, che nuovamente consultato col suffragio universale ha un modo legittimo di manifestare la sua volontà su la normale costituzione dello Stato.» — ( Conciliatore del 12 febbraio 1849.)

Pertanto, senza discrepanza, universale urgeva allora la opinione pubblica per lo scioglimento del Consiglio.

Forse taluno opporrà: — E che ti faceva quello che quivi si bisbigliava? Dovevi lasciar dire le genti, e stare fermo come torre. La stampa è stampa, nè ha virtù di prendere pel collo un Ministro. — Anche in tempi ordinarii, la stampa è forza tale a cui sembra piuttosto l'opporci efficace di quello che sia.

Vostro saver non ha contrasto a lei;

Ella provvede, giudica e persegue

Suo regno.

Ed io allego la stampa come organo di Partito trionfante; sicchè vedete che poco riparo le poteva fare la gente. Gli uomini politici vengono mossi non solo dalla pressione presente, bensì ancora dal presagio degli umori che i partiti presi siano capaci a generare. I signori Fitz James, Dreux Brezé, De la Tour du Pin, Montauban, e Mortemart, svisceratissimi del ramo maggiore di Casa Borbona, si accostarono al trono di Luigi Filippo dichiarando solennemente nello agosto del 1830, questo avere operato non già per diffalta di fede, a cui gentil sangue di Francia non faceva mai mancamento, bensì per salvare la Patria dall'anarchia apparecchiata a divorare, e da tale pensiero essersi trovati costretti con irresistibile violenza.

Il Parlamento, siccome il Conciliatore accenna, cessava per necessità delle vicende accadute, perocchè mancassero la ragione del mandato, e il modo di esercitarlo: la ragione, non potendo estendersi, secondo la indole di qualsivoglia altro mandato, a cose nè espressamente nè virtualmente contemplate; il modo, essendo venuta meno la facoltà di operare co' Poteri indicati nello Statuto. Nella guisa stessa che cadeva il Ministero per l'assenza della Corona, cadeva il Parlamento, e con loro tutta la macchina governativa. Il Parlamento, giusta le regole di Diritto Costituzionale, a cagione di questo successo non aveva neanche bisogno di pronunzia per disciogliersi; era cessato ipso jure et facto; e, dirittamente avverte l'organo che si vantava del Partito moderato, il Conciliatore, non si sapeva comprendere nè in virtù di quale fondamento giuridico, nè a qual fine continuasse a sedere.

Il Parlamento ancora si disfece da sè stesso quando nella seduta dell'otto febbraio, secondo che a suo luogo ho fatto conoscere, taluno dei suoi membri dichiarò, che, eletto il Governo Provvisorio, intendeva cessati i suoi poteri; tale altro sostenne mancare perfino di facoltà per eleggerlo; parecchi finalmente si astennero da votare, o votarono come semplici cittadini. Come dunque mantenere in vita un corpo che da sè stesso esibiva la sua fede di morte?

Il Parlamento disfece sè stesso quando molti Deputati si assentarono, dimostrando col fatto che non volevano prendere parte alle deliberazioni.

Con quale senno o consiglio l'Accusa rimprovera avere sciolto il Parlamento, quando lo ritiene esposto a violenze estreme?

Un poco di buona fede anche per me: i Romani privavano dell'acqua e del fuoco i proscritti, ma non ho mai inteso dire che i Romani, o Popolo altro qualunque, privassero alcuno della buona fede; dunque se l'Accusa non mi vuole privare della buona fede, e va persuasa di quanto scrive, o come può ella credere che il Parlamento avrebbe voluto o potuto adunarsi dopo la giornata dell'8 febbraio?

No; il Parlamento, per le regole costituzionali, a cagione dell'assenza della Corona, era cessato; egli non poteva esercitare altramente il suo ufficio, privo di mandato per istarsi al fianco di Governo impreveduto: e questo in diritto; — in fatto, non voleva più adunarsi quando parte dei suoi membri disertava le sedute; non poteva più adunarsi, quando dal suo seno sorgevano voci ad ammonirlo della sua incapacità a perdurare; quando il Popolo lo aveva soppresso, e incalzava per la Unione con Roma; quando la opinione universale gli urlava negli orecchi ch'era morto, e che dirittamente pensò quando, con le sue proprie gambe, andò a farsi sotterrare.

Cause irresistibili erano queste per confermare il Decreto di scioglimento, il quale non ebbe altra virtù che constatare un fatto oggi mai compíto dalla mancanza di uno dei tre Poteri costituzionali, e per la volontà del Partito trionfante.

Inoltre, l'uomo di Stato che o per volontà propria, o per prepotenza di casi, si pone a capo di un moto rivoluzionario per contenerlo e dirigerlo, non può mica fare come Diogene, il quale pretendeva entrare in teatro quando gli altri tutti ne uscivano. Senno e potenza consistono nello allentare il moto deviandolo a poco a poco: ora, senza il Decreto che il Parlamento scioglieva e chiamava il Paese a deliberare intorno alle sue sorti, non si sarebbe potuto in verun modo resistere alla veemenza del Popolo, il quale instava per la Unione con Roma, e per la decadenza del Principe.

E quello che merita considerazione maggiore si è, che senza questa provvidenza non si potevano, a mio parere, aprire le porte del ritorno al Granduca. Ragioniamo, e vediamo se il mio concetto è giusto.

Poichè la Corona, abbandonando il Governo, aveva lasciato il Paese senza autorità, e il Partito Repubblicano, valendosi della occasione, aveva preso il disopra; tre soli modi occorrevano a ristabilire il Governo Costituzionale. Questi modi erano: 1º Armi straniere; 2º Accidente interno; 3º Consenso universale.

Che si avesse ricorso ad armi straniere, non era pensiero che potesse cadermi nella mente; e neppure, io m'induco a credere, in quella dell'Accusa: e dov'ella, ai giorni che corrono, il contrario mi dicesse e giurasse, io la terrei spergiura. Infatti, due volte abbiamo veduto ai tempi nostri il mondo armato ricondurre i Borboni in Francia, e il mondo armato non bastò due volte a dare loro stabile fondamento, però che il Popolo mantenne sempre vivo quel dolore nell'anima di sopportare il regno come un giogo di umiliazione impostogli nel giorno della sventura dalla superbia straniera; per la quale cosa, il tempo, invece di lenirlo, lo inciprignì per modo che poi ne uscirono quegli effetti, che, pessimi pel Principato, neppure pei Popoli si possono dire lieti. Nè questo esempio è singolare nella Storia. In Inghilterra il voto del libero Parlamento aperse durevoli e prosperose a Carlo II Stuardo le porte del ritorno al soglio paterno; mentre Giacomo II, suo fratello, sovvenuto dalle armi di Francia, non ricuperò il trono, e perdè irrevocabilmente lo amore degl'Inglesi.[523] Quando le armi straniere muovono ad aiutarti, di rado avviene che nol facciano per solo comodo proprio; quando anche vi si conducano un poco per benefizio tuo, nonostante il comodo loro sarà sempre troppo la maggior parte: per la quale cosa esse ti tengono subietto, e ti tolgono la riputazione di poterti reggere da te; onde per necessità ti poni in perpetua tutela altrui. Da un lato acquisti fama e atteggiamento di debole, dall'altro perdi la confidenza, perchè tu stesso mostri non ti volere o non ti potere fidare; ed è il primo dannoso, il secondo senza rimedio. Ad ogni modo, senza che io vi spenda intorno altre parole, la chiamata delle armi straniere dagli uomini politici è reputata infelice consiglio negli Stati grandi, pessimo nei piccoli. Solo può giustificarla la disperazione di ogni altro partito; ma a questo estremo non eravamo noi, e sarà dimostrato in appresso. E poi, mi rimane in cuore una speranza che consigli spontanei non abbiano fatto repudiare la sapienza comune e le tradizioni avite; nè a farmela deporre mi costringe la opposta apparenza, imperciocchè io conosca a prova quanto empia sia la virtù della necessità politica, e solo menti affatto plebee possono giudicarla arte fraudolenta di privato interesse.

E chi nel febbraio del 1849 avremmo potuto chiamare? Per avventura gli Austriaci? Ma nè sì sollecite nè così infelici potevano presagirsi le sorti della guerra italiana; e in ogni caso, io non poteva prevedere davvero che s'invocassero per ausiliarii quelli che, salendo al Potere, trovavo, da tre Ministeri precedenti al mio, dichiarati nemici. Tradizionale correva per Toscana tutta la fama che uomini svisceratissimi della Monarchia e di senno antico, miei predecessori nel Ministero, avevano sempre avversato la introduzione di armi straniere in Patria, e di taluno si diceva eziandio che, piuttosto di consentirla, avesse scelto rassegnare la carica. Avremmo chiamato i Piemontesi? Rammentisi senza amarezza, e non per incolpare cotesti Popoli, speranza e decoro del nostro Paese, ma sì taluno di coloro che in quel tempo gli resse, come meschine cupidità, in mal punto messe in campo, facessero diffidare dei loro aiuti. Vorrei anche credere di leggieri quello che ci assicurava il Ministro piemontese, intendo dire, le molestie tutte non dipartirsi già dal Governo, ma sì dalla trista genìa degli uomini zelanti che dimorava a Sarzana, se l'azione diretta del Governo nel negozio dell'Avenza non mi costringesse a dubitarne. — Comunque sia, Piemontesi o non Piemontesi, entrando su le nostre terre in sembianza ostile, diventavano stranieri; e questo non sarebbe stato bene per noi, nè per loro. Dunque, alle armi non domestiche, molto meno alle straniere, non dovevo immaginare che si volesse nè che fosse bisogno ricorrere. E qui mi si conceda che a mente tranquilla torni a lamentare la subitezza di Vincenzo Gioberti, peccato ordinario delle indoli generose; però che io gli scrivessi nel 21 febbraio la Nota referita nelle precedenti pagine proprio per porgergli l'addentellato onde trovar modo a comporre prudentemente le cose italiane ogni giorno più ardue; ed è da credersi che lo avremmo trovato. Piacque ai Cieli altrimenti!

Gli accidenti interni, o rivoluzioni condotte per forza, senza sangue non si operano; male, se le forze dei Partiti si equilibrano; peggio, se no. Feroce nel primo caso la guerra civile; nel secondo ferocissima e spietata: imperciocchè allora vi si unisca la paura; e di questo fu toccato altrove.

Nel caso nostro i Faziosi nell'8 febbraio, e quelli che, senza parteciparne le opinioni, pure aderivano a loro in quel momento di ebbrezza, non parevano la minorità; ma sedato lo impeto, il Partito Costituzionale doveva riprendere il di sopra. E posto ancora che fossero i più deboli, rimane sempre vero, ch'essi, come più audaci e maneschi, dominavano lo Stato, e da un punto all'altro diventando Governo era da aspettarci che ponessero in pratica il principio di vincere ogni ostacolo con la forza, e col terrore mantenersi. Intanto la guerra civile si manifestava da ogni parte con orribili indizii. Credei, e credo davanti a Dio e davanti agli uomini, che il mio dovere m'imponesse impedire che i cittadini si sbranassero, e questo, secondo le mie forze, ho procurato fare, e fino all'ultimo ho fatto. Temperare i Partiti estremi onde non venissero al sangue, mi parve principale scopo della missione alla quale la Provvidenza mi aveva riservato. Se da un lato tentai reprimere i moti reazionarii e sovversivi la società, dall'altro prevenni persecuzioni, vendette, e gli effetti trucissimi della paura. Recuperare lo Stato col mezzo della guerra civile, torna lo stesso che incendiare la casa per rientrarvi.

Il nostro Principe si proclamava altamente nemico alla guerra civile: «Alcuni torbidi scoppiati nel seno della Toscana mi consigliarono a chiamarvi intorno a me da ogni parte dello Stato, e non già che l'animo mio soffrisse di promuovere la guerra domestica, e di porre gli uni contro gli altri coloro che tutti sono ugualmente miei figli.» — (Proclama di S. A. del 4 settembre 1849.) — E questo, come vedremo, ha poi detto sempre. La guerra civile deve detestarsi da tutti, e detestai; e così facendo, ho adempito ai miei doveri di cristiano e di cittadino, e certamente corrisposto alle intenzioni del Principe.

Ripetere qui quanto già dissi intorno alle ragioni dei tempi e agli umori dei Popoli, sarebbe certamente sazievole: solo piacemi riferire adesso due esempii, il primo antico, il secondo odierno, e ciò nello scopo che l'uno all'altro serva di confronto. Sul principiare della Rivoluzione di Francia del 1789, il Popolo concitato a sdegno contro certo Thommassin, da lui creduto incettatore, lo chiama a morte; chiuso, per salvarlo, nella prigione di Poissy, l'onda del Popolo batte fremente le porte del carcere. L'Assemblea, sollecita a riparare i mali, manda uomini apposta per tutelarlo dalla furia delle moltitudini, e il Vescovo di Chartres, anima di angiolo, con parole soavi di amore e di cristiana carità si affatica a raumiliarle, e lo facea, se una voce proterva ad un tratto non prorompeva in questo concetto: «Or vedete, Sauvage, perchè povero, lasciarono perire; questo poi, perchè ricco, vogliono salvare.» Al tristo grido il furore degli accorsi divampa, le imposte scassinate, volano in pezzi, già fuori del carcere il misero prigioniero strascinano, le spade già di sinistra luce balenano. Lo egregio Vescovo, non gli sovvenendo ormai partito migliore, s'inginocchia, i Deputati dell'Assemblea lo imitano, e tutti insieme, non senza lagrime, tendono supplichevoli le mani al Popolo, implorando la vita al Thommassin. «No, — ha da morire;» risponde la turba. Nè anche adesso si sgomenta il Vescovo: e «Voi cristiani siete» egli dice, «concedete dunque che da cristiano muoia; bastivi uccidere il corpo, deh! abbia salva almeno l'anima.» Allora il Vescovo riceve la confessione del meschino, e levata la destra lo scioglie benedicendo dai suoi peccati; quindi aggiunge con voce benigna: «Voi lo potete trucidare adesso.» Il Popolo si sente ammollire la durezza del cuore; non osa: e il Thommassin è salvato.

Certa sera del marzo 1849 io mi riduceva al Palazzo Vecchio, quando posto il piè su la piazza scôrsi moltitudine di Popolo imperversarvi dintorno; e un grido funesto mi percosse: « Li vogliamo morti. » Accorrendo vidi come la Guardia Nazionale ritrattasi nel quartiere avesse chiuso le imposte, con poco frutto però, chè la calca facendo forza minacciava fracassarle; tempo non mi parve cotesto di fermarmi a interrogare di che cosa si trattasse, nè gli arrestati qual nome si avessero: uomini erano. Penetrato a stento nell'atrio dove mette capo l'usciolino del quartiere, questo pure rinvenni custodito dalla moltitudine sospettosa, e chiuso per di dentro: bussai più volte, ma non si attentavano aprire; se non che avendo ravvisata la mia voce lo schiusero un poco, tanto che io potessi entrare, e subito tornarono a chiuderlo dopo le spalle. Mi apparvero davanti due giovani, morti giudicati alle sembianze; ignoto il primo, notissimo il secondo, ch'era Tommaso Fornetti. Amicizia antica mi legava con la sua famiglia, con la sua parentela, con lui, del mio Studio onorevole ed onorato frequentatore; e se non fui io che feci ottenergli lo impiego di Segretario al Ministero degli Esteri (chè di tanto non posso vantarmi), certo egli mi provò in cotesta congiuntura caldissimo e non inefficace promotore. Quando la volontà del Principe mi assunse al Ministero, egli si dimise dal segretariato, dubitando forse non essere mantenuto, a cagione dello scrivere, che faceva nel Giornale — Il Conciliatore, che per seminare zizzania pareva nato a posta, ed in ciò ebbe torto; nè dopo cotesto atto non giustificato dal dubbio che accenno, nè, a parere mio, da verun'altra ragionevole causa, mi era più comparso davanti. «Se' tu, Maso?» gli dissi amorevole. «Ch'è stato?» — Ed egli narravami, che essendogli occorso su pei canti certo Manifesto pieno di atrocità, non aveva potuto tenersi e lo aveva strappato; ora trovarsi tratto costà in presentissimo pericolo, perchè le imposte della porta minacciavano cedere, e già i calcinacci per le reggi commosse violentemente cadevano. — Allora ripresi: «Benedetto ragazzo, e chi t'insegna a metterti in questi ginestraj! E mentre sudo acqua e sangue perchè la stadera non trabocchi, tu vai a caricarla di nuovi pesi! Però tutto questo non vale nulla adesso: vieni e tenterò di salvarti.....» Schiusa un tal poco la porta, raccomandai alle Guardie Nazionali, che appena uscito mi formassero argine dietro, e poi presi ambedue i giovani sotto le braccia; e «Su via coraggio» dissi loro, «andiamo.» E trassi fuori risoluto con loro. Le Guardie Nazionali animose si posero e pronte fra noi e la moltitudine arrabbiata. Già avevamo mosso cinque passi o sei, quando, fra gli urli che c'intronavano le orecchie, se ne levò uno così in tristezza come in fragore soperchiante agli altri, che gridò: «Perchè sono Signori è venuto a salvarli; se fossero stati poveri potevano agganghire.» Facciamo presto, raccomandava ai giovani, chè conosceva i goccioloni forieri del rovescio, quando ad un tratto non ci potendo raggiungere ci lasciarono andare dietro una pistolettata, la quale per ventura non colse noi, ma stracciò uno orecchio al custode dello ufficio dell'Ambasciata inglese. «Facciamo presto, chè non ci arrivi la seconda» raccomandai da capo; e sorressi i pericolanti e li condussi in casa, facendo quello che tra gente di cuore si costuma. Fornetti fu accolto dai miei familiari, che lo conoscevano ab antiquo, come un parente di casa. Allora seppi l'altro chiamarsi Lenzoni, ed essere figlio della illustre Donna, che tanto fu pia alla memoria di Giovanni Boccaccio, di cui gl'ingrati concittadini ignorano perfino il sepolcro; e quantunque io poco sia uso a dimostrarlo, mi sentii tutto commosso della pietà di questo dabben figlio, che si preoccupava meno del pericolo passato e della tremenda agitazione presente, che dell'angoscia della Madre sua, se per sorte le fosse giunta notizia del caso, corrotta, come suole, od aggravata dalla fama.

Non potendo consentire che uscisse, lo consigliai a scrivere, e la lettera pervenne celere, quanto l'amore del figlio e l'ansietà materna potevano desiderare. Nel partire, ordinai ai miei di casa li tenessero sollevati; rinforzassero internamente le porte, e non aprissero, badassero bene, a nessuno, se non udivano la mia voce. La folla brontolando si sciolse, non però in modo che per buona pezza della serata qualche capannello dei più pertinaci non rimanesse a imprecare e a minacciare. A notte fitta, Ottavio Lenzoni venne pel fratello, e a lui, ricevute e risposte convenevoli parole, liberamente lo affidai: Fornelli poi, quando tempo mi parve, attaccata la carrozza, non senza calde raccomandazioni di pensare a sua madre, e astenersi da commettere sè stesso a pericolo di vita, feci accompagnare alla sua dimora.

Questi esempii mi è parso dovere addurre per dimostrare a quanto sottile capello stia sovente raccomandata la vita degli uomini, e la sicurezza pubblica, e più per fare conoscere quali espedienti fossero i miei per tutelare la città e i cittadini: ora io ammaestrato dall'amara esperienza del vivere fra gli uomini, comprendo benissimo che il secolo ingrato il benefizio ricevuto dimentichi, ed anche che acerbo lo sopporti; ma ricavare dal benefizio argomenti per nuocere a colui che lo fece, oh! questo è orribile; — io per me non dubito punto bandire al mondo, che chi tale costuma, avvelena la virtù nelle sue divine sorgenti.

E, orribile, orribile a pensarsi, in questo modo appunto adoperò l'Accusa! — Se sia vero qui si manifesta. — La mia Difesa allegava la violenza irresistibile sopra di me esercitata, la necessità di cedere in parte per la comune salvezza, il molto bene mercè mia procurato a vantaggio dei cittadini, contenendo o reprimendo le turbe tumultuanti; e i Giudici, questi fatti accogliendo, ecco in qual modo gli avvelenano: Appunto perchè il prevenuto Guerrazzi riuscì più volte, COME RACCONTA, a contenere e a reprimere le turbe tumultuanti, in benefizio dei cittadini, questo a chiara prova dimostra che a posta sua poteva governarle; e se le poteva governare, ciò significa ancora che egli non ha dovuto sperimentarle violente!![524]

Voi lo vedeste come talvolta mi riuscisse contenere le turbe tumultuanti.... mettendo in repentaglio la mia vita per salvare l'altrui. Signore! Quanto era meglio che io fossi morto, chè adesso non mi sentirei amareggiata l'anima, per le tante infamie che ascolto!

Ond'è che ritornando al mio ragionamento, dichiaro, che rimaneva il terzo espediente, il quale consisteva nella restaurazione del Principato Costituzionale operata dal suffragio universale. Questo mi parve non pure possibile, ma onorato partito, e lo coltivai con ogni studio, al doppio fine d'impedire che il Paese rimanesse stravolto dal turbine repubblicano, e di predisporlo a giudicare pacatamente quello che fosse da seguitarsi o da aborrirsi.

Se i Rivoluzionarii si fossero trovato a petto il Parlamento toscano senza autorità, privo di mandato, sia a continuare un sistema che più non era, sia ad apparecchiare cose nuove; tra sè discorde; già intimato a disciogliersi, anzi sciolto; senza fede in sè; in parte repugnante, e in parte persuaso di essere inabilitato ad adunarsi; per poco che uomo, non dirò intenda di politica, ma goda di quel comune discorso della mente di cui qui tra noi vediamo dotati gli uomini più meccanici, conosce come cotesto ostacolo ad altro non avrebbe servito, che a irritare gli animi dei Settarii, i quali camminandogli sul corpo avrebbero di slancio proclamata la Repubblica.

Ora primo ammaestramento di prudenza nelle popolari commozioni, è rimuovere le cause, che, contribuendo ad inacerbirle, non sono poi capaci a reprimerle. Per lo contrario trovando i Repubblicani convocata l'Assemblea per decidere liberissima la forma del Governo secondo i canoni predicati da loro, rodevano un morso fabbricato dalle proprie mani, e poco giovava ricalcitrare. Cotesto era guado che non si poteva saltare senza lasciarvi cadere nel mezzo la reputazione di probità, privi della quale non solo i Partiti, ma i Governi eziandio si disfanno irreparabilmente. — Nella parte finale di questa scrittura sarà chiarito come anco in Inghilterra non fu trovato espediente migliore a restaurare il Principato Costituzionale del libero Parlamento. Vincenzo Gioberti ministro del Piemonte, scrivendo nel 28 gennaio 1849 al Ministro Muzzarelli di Roma, gli proponeva operare in guisa che l'Assemblea Costituente romana decretasse in genere i diritti costituzionali di Pio IX, e quindi con una Commissione eletta dal Papa questi diritti si determinassero. Proposta di simile natura presso noi non avrebbe incontrato alcuna delle difficoltà, alle quali per avventura poteva andare soggetta nell'Assemblea Romana; imperciocchè in Toscana nulla era a definirsi, e bastava ritornare al posto.[525]

L'Accusa ritiene, che l'Assemblea Costituente toscana dovesse per necessità d'instituto procedere avversa al Principato Costituzionale; e, come si vede, l'Accusa s'inganna. Questo inganno nasce da difetto d'istruzione politica, però che appunto le Assemblee Costituenti, essendo chiamate a dare forma di reggimento allo Stato, non possono in prevenzione escluderne veruna; questo inoltre si fa manifesto con lo esempio del consiglio di Vincenzo Gioberti, il quale per certo si sarebbe astenuto da darlo alla Costituente Romana, se Costituente per necessità significasse decadenza del Principato; anzi la prima Costituente in Francia, di cui tutti i Partiti, non esclusi i Legittimisti, si onorano, nel 1789 compose lo Statuto costituzionale; finalmente questo inganno resulta eziandio dal confronto della opinione dell'Accusa col testo della Legge del 6 marzo, che contiene la norma della discussione e della deliberazione commesse all'Assemblea Costituente Toscana: « SE, e COME Toscana dovesse unirsi con Roma

Il mio concetto, che, come ho mostrato, era promosso dallo stesso Partito Costituzionale moderato, ebbe plauso ancora fra i Repubblicani onesti; per la quale cosa anche lo scisma della parte contribuì a farmi tenere fermo. In breve si vedrà con quale e quanta forza urgentissimamente stringessero i Repubblicani più accesi a impedire la convocazione dell'Assemblea Costituente, deridendola, screditandola, e con ogni arte di astuzia, di ragionamento e di violenza, perseguitandola. Già di questo toccai altrove quanto basterebbe a persuadere ogni uomo onestamente discreto; ma io devo ricordarmi come da me si pretendano prove limpidissime e fulminanti....

«Che Costituente o non Costituente?» andavano vociferando gli smaniosi Settarii. «La Repubblica non ha mestieri di essere proclamata; ella lo fu, e dai Popoli tutti; ed anche non ce n'era bisogno, perchè è necessario forse un Decreto onde il Sole si levi da Oriente, e spanda la sua luce su tutto il creato?[526] No, Signori; adesso fa di mestiero la Legge per inviare i Deputati all'Assemblea Romana, e basta. Opporsi a questo è resistenza ai comandi del Popolo. Fin dall'8 febbraio nel cuore e nel grido di tutti fu la Repubblica; in quello stesso giorno decretata solennemente, dalla Toscana tutta confermata; ora per dirsi repubblicano il Popolo dovrà aspettare la licenza dei suoi mandatarii, dei suoi sottoposti?» Queste e più intemperanti cose dicevano; ma vedendo che facevano poco frutto, come altrove accennai, ecco proporre nuova istanza. «Il Governo dichiari dunque la decadenza di Leopoldo, e proclamando il principio di Repubblica e di Unione riservi all'Assemblea Nazionale la sanzione dell'opera. Ancora una volta lo ricordiamo al Governo Provvisorio di Toscana, le oscillazioni non sono più possibili, il Popolo non le vuole[527] Ed anche a questo colpo insidioso fu riparato.

Di questo può andare sicura l'Accusa, che non sorse voglia, non palpito del Partito Repubblicano, che la stampa non raccogliesse; e non manifestazione che come ordine da eseguire subito, — senza esitanza, — non fosse presentata dai Circoli, dai Petizionarii, ed anche dai singoli cittadini.

L'Accusa ha scritto (e mi giova insistervi sopra): — che cosa ha fatto il Guerrazzi? Al più, al più, egli ha impedito che la Repubblica si proclamasse fino alla convocazione dell'Assemblea Costituente toscana. — Davvero? Ebbene, ricordati che io ti ho domandato, e torno a domandarti adesso: sai tu che cosa si desidera per ricondurre le menti deliranti nel diritto cammino? Sai tu quello, che in simili condizioni riesce ordinariamente ad ottenersi impossibile? — Ed io, poichè, tu Accusa, non sai o t'infingi non sapere rispondere, rispondendo per te dirò, e lo dirò con un uomo di Stato, Storico e Pubblicista di grande celebrità: La tranquillità, onde ogni uomo esamini con calma, e adoperi il suo giudizio a considerare quella che a sè e al suo Paese convenga.[528] Ora la convocazione dell'Assemblea partoriva appunto questo bene; per essa si acquistava il tempo necessario, affinchè gli animi accesi, riposati dall'agitazione che gli affaticava, ponderassero quanto fosse da evitarsi, e quanto da seguirsi; gli spiriti costituzionali, che sbigottiti non ardivano mostrarsi, si ravvivassero; con varie pratiche i più tormentosi perturbatori, sia che gli spingesse zelo focoso di convinzione o freddo calcolo di pescare nel torbido, si allontanassero; il Paese insomma risensasse, si riscuotesse, e recuperando le sue tradizioni smarrite, i suoi costumi, le sue voglie, la sua maniera di sentire e di essere, ritornasse nella carreggiata donde una scossa improvvisa lo aveva sbalzato.

La mia condotta fu semplice; nè penso essermi mostrato impenetrabile come la Sfinge a Edipo: non consentii alla parte repubblicana, nè alla Unione con Roma, per convincimento, desunto da fatti e da giudizii, che la Toscana all'una cosa repugnasse e all'altra. Per me, terrò sempre così disonesto, come insensato, precipitare per forza o per inganno i Popoli colà dove si mostrano repugnanti ad andare; e se i Partiti senza fede, di cui oggi è infelice instituto scrivere carte in contumelia altrui, comprenderanno alfine, come si possa professare opinione discorde dalla loro senza essere per questo traditore o codardo, penso che faranno meglio i fatti loro; — ma predicando ai Partiti, prédico al deserto.

Il Procuratore regio della Repubblica, signor Rusconi, scrive: «Che essendo mancato il Governo, il Paese aveva diritto di essere governato, di provvedere alla propria conservazione,»[529] — e qui sta bene; — « egli era necessario ricorrere a quella fonte, che solo legittima ogni Governo, interrogando il voto popolare. Un'Assemblea Costituente a suffragio universale eletta, era la resoluzione più sensata che potesse adottarsi;»[530] — e questo è anche meglio. — Ora vorrei sapere un po' dal signor Rusconi perchè, se questo andava bene per Roma, non dovesse andare del pari bene per la Toscana? Forse i Toscani non hanno diritto per essere consultati prima di disporre di sè, o non hanno intelligenza per giudicare? Per quale motivo ci vuole egli ridotti nella condizione dei minori, o dei maniaci? In Roma le deliberazioni avevano a prendersi gravemente nell'Assemblea eletta dal voto universale; qui, a furia di Popolo, anzi di una frazione di Popolo. A Roma, perchè conoscevate gli umori della Nazione favorevoli ai disegni vostri, gli rispettaste; qui, perchè li dubitaste contrarii, bisognava contentarci degli schiamazzi; e chi esitava, si doveva eccitare; chi repugnava, atterrire; anzi, diffamandolo come traditore, esporre alla cieca ira delle moltitudini furibonde. E qui cesso, che più lungo discorso discrezione non consente.

Il signor de Larochejaquelin, realista purissimo, rispondendo nel 30 agosto 1850 alla Circolare del signor Barthélemy, ammonisce: «Non essere, come altri crede, l'appello alla Nazione un atto rivoluzionario: all'opposto, deve reputarsi invito alla medesima, perchè nella sua sovranità finisca l'era delle rivoluzioni.» Alla quale opinione si accosta anche il signor De Montalembert, che a quanto mostra non pare che si possa mettere fra i Repubblicani! — I Costituzionali, comecchè moderati, non discordano; e lo abbiamo veduto nel consiglio del Conciliatore.

Ma oltre che non se ne potesse fare a meno per le ragioni copiosamente discorse, varie considerazioni speciali vie più confortarònmi di ricorrere al voto universale.

I. La notizia di fatto della propensione del Paese al Governo Costituzionale. — Assunto al Ministero, persuadendomi che il primo dovere del Ministro consistesse nel bene applicarsi a conoscere gli umori dei Popoli, ordinai, come in altra parte ho accennato, a tutte le Autorità governative ed ai Gonfalonieri, mi rimettessero circostanziate informazioni su lo stato religioso, morale, politico ed economico dei Popoli da loro amministrati. Raccolti i Rapporti a diligenza del Segretario signor Allegretti, furono disposti in quadri sinottici; e da questi venne a resultare, come la grandissima maggioranza del Popolo Toscano alle libertà costituzionali stesse contenta. Anche questi libri e questi Rapporti domando, affinchè si conosca da quali motivi io fossi condotto nel consultare il voto universale del Popolo.

II. L'opinione stessa di S. A. — Quando nel primo colloquio, che io ebbi l'onore di tenere col Principe, io gli feci lealmente avvertire, che la Costituente, nel modo che dal medesimo era stata accettata, poteva esporlo a perdere la Corona, e che però la materia meritava considerarsi due volte; il Principe rispose: averci pensato, ed essersi anche a questo disposto, purchè fosse per benefizio del suo Popolo; ma poco dopo soggiunse: — però io non temo la prova; la mia famiglia ha beneficato la Toscana; io mi sono ingegnato, per quanto era in me, imitare gli esempii paterni, onde io non dubito che, consultato il voto del Popolo, sia per riuscirmi favorevole. — E questo credo ancora io, soggiunsi, ma mi è parso onesto avvertirlo.

Onde io piena la mente di queste parole, commesso a dettare il Discorso della Corona per l'apertura del Parlamento, che avvenne nel 10 gennaio 1849, scrissi con mano franca (come quella, che consentiva al sentimento del cuore) la sentenza, la quale pronunziata poi dai regii labbri empì di applausi e di esultanza la sala: « quando mi assentiste il titolo di Padre io di lieto animo lo accettai, perchè veramente mi sento affetto paterno per gli uomini, che sempre mi studiai, e studio governare con amore. Se i presenti, e se i posteri mi confermeranno il titolo di Padre del mio Popolo, sarà questa la più gloriosa ricompensa, che abbia, mai saputo desiderare il Principe vostro[531] E il Conciliatore dell'11 gennaio così commentava: «Queste semplici parole avranno un'eco nel cuore di tutti i Toscani, e non saranno infeconde, perchè tutti sanno non esser queste una frase officiale; e gli applausi, che scoppiarono unanimi appena furono udite dalla bocca di un Principe, che non ha mai mentito, erano una conferma del vero, ed un omaggio alla virtù.»

III. La opinione di uomini per eccellenza conservatori. — Favellando talvolta dell'esito probabile del voto universale con persone versate nei pubblici negozii, e segnatamente col signor Senatore Fenzi, ricordo come questi mi affermasse che il Paese consultato si sarebbe per certo chiarito propizio al Principato Costituzionale.

IV. Lo esperimento fattone dal Governo Costituzionale di Carlo Alberto in Lombardia, dove, malgrado i supremi sforzi di parte repubblicana, lo vedemmo uscire, con mirabile concordia, secondo al Principato Costituzionale.

V. Le necessità, le dottrine e le promesse, create, bandite e profferte dai Ministri, che furono a un punto becchini del Governo Assoluto e pronubi del Costituzionale, dinanzi a tutto il mondo. Mi porga docili le sue orecchie l'Accusa, e ascolti leggere certo Decreto pubblicato qui in Firenze:

«Noi Leopoldo Secondo ec.

« Al cessare dei Ducali Governi di Modena e di Parma, i Popoli della Lunigiana, i quali, con tanto dolore scambievole, eransi veduti separare dal Granducato, manifestarono incontinente la volontà loro di ricongiungersi ad uno Stato cui tante care memorie li collegavano.

«Eguale desiderio dimostravano altresì le popolazioni degli Stati di Massa e Carrara, della Garfagnana e degli ex-feudi di Lunigiana; le quali per la geografica loro condizione, per i commercii, per le industrie del vivere e per le affezioni furono mai sempre avvezze a considerare sè stesse come congiunte alla prossima Toscana.

«Di questo comun sentimento delle suddette popolazioni si fecero interpreti varii Governi Provvisorii che si erano costituiti in quelle Città e Terre, e a cui si volsero perchè fosse accolto l'universale loro proposito di essere aggregate al Granducato.

«Ma parve a Noi riceverle solamente in protezione e in tutela, non consentendo l'animo nostro ad una formale aggregazione, consapevoli, come Noi siamo, che ampliare lo Stato non è per Noi altro che accrescere la gravezza dei doveri, l'adempimento dei quali fu sempre l'unica ambizione nostra; e non volendo per modo alcuno preoccupare quel generale ordinamento delle italiane cose, che insieme provvegga al comun bene della Nazione, e al particolare delle famiglie di che essa è composta.

« Dovemmo però bentosto conoscere che uno stato incerto e mal fermo era dannoso e increscevole a quei Popoli, i quali, parte per universali acclamazioni, parte per via di assemblee popolari congregate a questo fine dai respettivi Governi Provvisorii, tornarono a più fortemente esprimere il voto di essere stabilmente uniti e parificati coi Popoli che la Provvidenza ebbe affidati alle Nostre cure.

« E fu da ciò a Noi dimostrato, esserci imposto di soddisfare a quel giusto e benevolo desiderio loro; il quale, mentre attendeva ad accrescere e munire per via di un politico legame quegl'interessi scambievoli che mai non poterono esser distrutti dalle separazioni di signoria, conduceva più efficacemente a coordinare le riunite forze a quello scopo comune e supremo, al quale ora deve intendere tutta insieme la Nazione.

«Animati pertanto da eguale affetto per gli antichi e per i nuovi figli, e nella fiducia di promuovere, quanto è in Noi, quel bene d'Italia il quale primeggia fra i nostri pensieri; e perciò convinti di far cosa che sì per questo riflesso, sì per i vantaggi che ne vengono allo Stato, debba essere di soddisfazione alla Toscana e alle Assemblee che la rappresentano;

«Sul parere ec.

«Ci siamo determinati di pienamente aderire agli espressi voti con aggregare, conforme aggreghiamo, al Granducato, gli Stati di Massa e Carrara, e i Territorii della Lunigiana e Garfagnana, ordinando che ci siano proposti nel più breve tempo i modi convenienti ad introdurre in essi le leggi ed instituzioni governative ed amministrative del Granducato, onde le Popolazioni dei medesimi sien fatte partecipi di tutti i diritti che spettano ai Toscani.

«Volendo però, che l'adesione nostra, e quindi l' aggregazione da noi decretata, non sia per interporre alcun ostacolo alle future sorti d'Italia, e che nessuno, comunque non prevedibile, evento pregiudichi mai la volontà e gl'interessi dei sopraddetti a Noi carissimi figli, dichiariamo fin d'ora che nel nazionale ordinamento che con quest'atto avemmo in animo di promuovere, e cui professiamo di volere ora per allora conformarci, mentre sosterremo quanto è in Noi questa unione vantaggiosa del pari alle due parti che la formavano, intendiamo che per qualunque siasi caso contrario resti preservata ai Popoli, che a Noi ora si aggiungono, quella naturale libertà, per cui possano in ogni evento provvedere a sè medesimi, e di essi non venga disposto altrimenti senza il loro consentimento.

«Dato in Firenze li 12 maggio 1848.

«LEOPOLDO.

«Il Presidente Cempini.

«Visto per l'apposizione del sigillo «Il Ministro della Giustizia B. Bartalini.»

L'Accusa fa le stimate, ed esclama: «Possibile? Dev'essere apocrifo!» No, Accusa mia, egli è tratto dalla Gazzetta di Firenze del 15 maggio 1848, e fu in cotesti tempi, come tanti altri lenzuoloni suoi fratelli, impastato su i muri a farvi la parte della rosa: nasce, languisce, muore, — e non ritorna più. Non dubitare, Accusa, ch'egli è un Decreto sottoscritto, condizionato nelle regole, e messo negli Archivii, dove a te sarà passato di occhio; e ti compatisco, perchè non si può avere avvertenza a tutto, specialmente quando si vuole fare presto, e non lasciare (come in altri paesi si costuma) per anni e anni i poveri detenuti a sentirsi morire nelle carceri con rovina irreparabile della educazione dei figliuoli, della domestica economia, — di tutto: non siamo mica in terra di Turchi, la Dio mercede; altrimenti prima di giudicarli, poveretti, sarebbero condannati, e di che tinta! — Queste cose, a memoria di uomo, non si sono viste in Toscana, e le non si hanno a vedere. — Onesta Accusa, poichè così bene ti scorgo disposta, riprendi in mano cotesto Decreto, e nota come sei proposizioni normali vi si trovino consacrate solennemente.

Legalità dei Governi Provvisorii approvata. Facoltà dei Popoli, per disporre di sè stessi, confermata. Dovere nei Prìncipi di aderire al voto dei Popoli bandito. Promessa di aderirvi sempre pubblicata. Costituente italiana, allo scopo di attendere al nazionale ordinamento, annunziata e promossa. 6º Guerra dichiarata scopo supremo e comune di tutta la Nazione.

Lo vedi, Accusa, Io lascio giudicare proprio a te, se cotesto Decreto non contenga per necessità di queste due cose l'una, o lo impulso della rivoluzione da farsi, o la testimonianza della rivoluzione già fatta. Qui, qui e non altrove, cerca e trova, Accusa mia, non pure il germe e il fiore, ma il frutto ch'è segno delle tue imputazioni. E se questo facevasi nel 12 maggio 1848, o come presumi che non si continuasse a fare nel febbraio 1849? E se questo operavasi da un Governo Costituzionale, come poteva astenersene un Governo nato dal perturbamento dei Poteri Costituzionali? E se questo un Governo ordinato bandiva per disordinarsi, come un Governo disordinato doveva ripudiarlo per ordinarsi? Se il Ministero del maggio 1848 così provvide per seminare la rivoluzione, o perchè il Governo Provvisorio non potè praticare per contenerla e per reprimerla?

Gli speculatori della Rivoluzione francese non senza verità ne attribuiscono parte alla rappresentanza del Figaro, della Folle Giornata, e della Madre colpevole di Beaumarchais: o pensiamo un po' quali portentosi effetti dovevano partorire le parole del Decreto del 12 maggio 1848 sopra menti affannate da stupenda concitazione: zolfo e olio sul fuoco!

La dottrina dei fatti compíti distrugge la pretensione del diritto: chi raccoglie il retaggio dei primi, male si affatica a sostenersi sul secondo; il principio dell'autorità, e quello del voto popolare, non sono redini da stringersi in una stessa mano; procedere dall'uno o dall'altro, secondo che torna, è consiglio pessimo, a praticarsi impossibile. Quando, tra gli altri fatti, le Potenze stipulanti i Trattati di Vienna approvarono la separazione del Belgio dall'Olanda, e dello Egitto dalla Porta, distrussero virtualmente cotesti Trattati. Sofisma è ricorrervi, come adesso fanno i Diplomatici, cavillo forense e nulla più; e siccome senza forza i sofismi non reggono, così potrebbero attenersi risoluti a quella che di presente possiedono, senza beccarsi i geti con un fantasima di diritto a cui nè credono essi, nè nessuno altro crede. — Il Guizot, per giustificare la conferma di cotesta separazione, addusse lo esempio di due travi cascate per vetustà dal tetto della fabbrica, che bisogna lasciare giacenti a terra. Ora questo esempio non ispiega nulla; e la esperienza insegna diffidare degli uomini che, usi sempre a procedere con formule rigorose di raziocinio, ad un tratto ti balzano su con paragoni e parabole; imperciocchè questo voglia dire che essi proprio non hanno più in fondo al sacco un pugno di ragione per farne un discorso che valga.

Perchè nella famosa storia dei successi avvenuti dal 1848 in poi, con tanto studio di verità dettata dall'Accusa e dagli altri che la precederono nel nobile arringo, simili a un punto e diversi, come si addice a fratelli; perchè, dico, il Decreto del 12 maggio è taciuto? Perchè l'Accusa lo cuopre, pietosa figlia, camminando a ritroso, come se si trattasse delle vergogne del Patriarca Noè? Gran comodo sarebbe quello di potere cancellare dalla memoria altrui i ricordi dei fatti successi, con la facilità stessa con la quale taluni cancellano dalla propria anima ogni sentimento di gratitudine e di pudore. Io però rammento questo Decreto, non già per cavarne motivo di biasimo ai Ministri onorandissimi che allora sedevano nei Consigli della Corona, ma sì per proseguirli della lode che meritano. Imperciocchè per esso mi si faccia manifesto, come uomini i quali logorarono massima parte della vita nello esercizio di dottrine diverse da quelle che comunemente si professavano allora, sapessero, prudentissimi, piegando dinanzi alla politica necessità, l'animo ai tempi accomodare; quantunque, per avventura, tutte le cose, di cui è pregno il Decreto allegato, potessero, nel 12 maggio 1848, parere un po' troppe anche a me.

E avvertite che, circa quel torno, a Presburgo ancora, tutte le domande degli Ungheresi concedevansi; il Bano Jellachich e il Patriarca Rajaesis che avevano impreso ad osteggiare i Magiari, quegli dalla parte di Croazia, questi dalla Servia, disapprovavansi, destituivansi, di alto tradimento a Vienna accusavansi; ed ei lasciavano dire. E questo ancora dimostra quanto elastica, molteplice, proteiforme e barometrica sia l'accusa di alto tradimento.

Nè gioverebbe punto all'Accusa, qualora si risolvesse a mettere in causa meco (il che non credo che voglia fare, almeno per ora) i signori Cempini, Bartalini, e gli altri del Ministero Toscano del 12 maggio 1848, dimostrare come cotesto Ministero non subisse « forza tale da impedire il retto uso della ragione e della libertà, e da coartarlo a non abbandonare la posizione che poteva strascinarlo a pubblicare il Decreto allegato;» però che cotesti Giureconsulti egregi, e uomini di Stato gravissimi, l'ammonirebbero dicendo: — «Accusa, Accusa, tu dovresti sapere che altra è la coazione che cade sopra uomo privato, altra quella che cade sopra uomo pubblico. La prima deve presentare i caratteri indicati dal gregge dei forensi, quantunque, anche in questa parte, sia ufficio del discreto, e soprattutto onesto Giudice, considerare non solo la coazione in sè stessa, ma eziandio le varie maniere con le quali si fa manifesta, e le diverse qualità degli uomini sopra i quali ella venne esercitata. Tale per nota d'infamia sbigottisce, che di ferro non cura; e questo va avvertito nel calcolo della imputabilità delle azioni incriminate. La necessità politica poi, nell'uomo pubblico, consiste, nei tempi di pericolo, nell'abbracciare quei partiti che, secondo la religione della propria coscienza e la virtù del suo intelletto, egli reputa più acconci a procurare il maggior bene o il minore male possibile allo umano consorzio, di cui gli venne confidato il governo. Il Ministro che abbandona il posto davanti alla irrompente anarchia; il Ministro che soffre esposte ai ferri dei feroci le gole degli amici, — ed anche dei nemici; il Ministro che lascia sobbissare il Paese per mettersi in salvo col suo fagotto, è a mille doppii più infame della sentinella che diserta il posto alla presenza del nemico; però ne sente più profonda la pena, chè la Storia lo marchia in fronte, e lo manda argomento d'ira e di disprezzo alla memoria dei più lontani nepoti. Voi, Giudici, guardate bene di notare per lesa maestà quelle azioni, che, non fatte, frutterebbero dai Popoli l'accusa di tradita umanità.» — Così (parmi udirli) direbbero i lodati Giureconsulti e Ministri all'Accusa, e direbbero bene.

VI. La prova, che, consentendo la Corona, ne avevamo fatta in parecchi paesi della Lunigiana, e segnatamente pel negozio dell'Avenza, dove, comecchè il Governo Piemontese instasse calorosamente, tutti (chè due voti non fanno opposizione) si dichiararono pel nostro Principe.

Per la quale cosa io penso potere affermare, che difficilmente si procede, nelle faccende politiche, con sicurezza maggiore di quella che avessi io quando alla necessità del suffragio universale assentiva. Tanto meno ingratamente mi vi disponeva, in quanto che erami noto come il Sacerdozio, avverso alla Costituente Italiana, non trovasse niente a ridire alla Costituente Toscana.[532]

E mal consiglio fu impedire, o effetto della consueta inerzia non andare e non mandare gente a deporre il voto, chè, in questo modo operando, l'Assemblea unanime, o quasi unanime, e nella sua prima Seduta, avrebbe restaurato il Principato Costituzionale, vinto ogni ostacolo che a me rese il compimento del mio disegno difficile, e con benefizio del Paese grandissimo. E questo appunto massimamente temevano.

Nonostante però che molti elettori si astenessero, ed altri si facessero astenere (il che fu male), e malgrado che molti eletti costituzionali rifiutassero il mandato (il che fu peggio), non fallì il mio presagio, e la maggioranza favorevole alla Costituzione si ottenne. Ma la composizione di questa maggiorità richiese tempo e cure, perchè moltissimi Deputati erano ignoti al Governo, ed io non ben noto a loro; bisognò tastarli prima nelle Conferenze, e la maggiorità non potè vincere di slancio, come quella che non andava copiosissima di nomi universalmente autorevoli; tentennò a decidere, sbigottita dai clamori della minorità smaniosa, dagli schiamazzi della stampa, dalle insinuazioni perfide, ch' eglino erano stati chiamati a sigillare il tradimento del Governo.

Dimostrazione storica.

Vogliano ricordarlo sempre i lettori, compongo una Difesa. Non mi abbandonino; mi seguano, io gli scongiuro, benigni, tenendo la mente rivolta a due cose: non trattarsi adesso di eleganze di testura o di eloquio, bensì di aggirarmi per la matassa arruffata dell'Accusa rompendone ad uno ad uno gl'inamabili fili.... Che Dio vi benedica! O che volete voi, che cammino sia il mio, se, dov'ella leva l'orma, a me tocca mettere il piede? E poi, badate a questa altra, che l'Accusa crede, nel suo portentoso cervello, ritenere che la Fazione violentasse tutti e tutto fino al mezzodì circa dell'8 febbraio; poscia cessasse ad un tratto onde lasciarmi abilità di commettere spontaneo e liberissimo tutti quei fatti, che nella sua opinione costituiscono il reato di crimenlese; e riprendesse in ultimo il suo berretto e le sue furie, nel maligno intento, che lo imperversare posteriore non iscemasse di uno atomo la mia colpa davanti all'Accusa. Le violenze della Fazione; secondo la veridica storia dell'Accusa, si comportarono per lo appunto come le acque del Mare Rosso, quando sotto la verga di Moisè rimasero spartite, e stettero a guisa di muraglia, a destra e a sinistra,[533] perchè io potessi entrare nel mare della Lesa Maestà a piedi asciutti. Veramente cosiffatte partizioni senza verga di Moisè non succedono; ma l'Accusa portentosa crede ai portenti in mio danno, ed anche ne opera.

Sì, certo ne opera; imperciocchè non la vedemmo noi nell'ordine dei mesi mettere marzo prima di febbraio, e sostenere che i miei sforzi per impedire la decadenza del Principe e le sue sequele, incominciati fino dall'8 febbraio, fossero impressionati dagli eventi sinistri della guerra, di cui ci pervenne la desolata notizia nel 26 marzo 1849? In questo modo è taumaturga l'Accusa.

Adesso pertanto io penso, che se la convocazione dell'Assemblea fosse stata cosa capace di promuovere i disegni della Setta, sia naturale credere, che questa l'avrebbe favorita con tutti i nervi; invece, abbiamo già veduto in parte, e più particolarmente vedremo adesso, screditarla, e perseguitarla: udremo minaccie, sentiremo furori. — L'Accusa nondimeno contrasta, e dice, che ciò non conduceva ad altro, che a prorogare di qualche giorno la decadenza del Principe; e i Settarii all'opposto urleranno, che nello indugio sta il pericolo, e la morte. L'Accusa da un lato incolperà fabbricarsi, con artificii diabolici, per me la Repubblica; i Settarii, dall'altro, urleranno lo spirito repubblicano, per miei trovati infernali, evaporato. Faziosi tutti, e tutti procedenti ciechi, appassionati ed ingiusti.

L'Assemblea Costituente è screditata; si dimostrano i pericoli del differire; si suppongono ragioni nel Governo che non addusse, e si confutano con argomenti diretti ad atterrire. Si dichiara espresso, che la forza ha distrutte le passate Assemblee, e disfarà anche questa.

«Il Governo Provvisorio per procedere con ordine e con legalità ha cominciato a convocare pel dì 15 marzo una nuova Assemblea Legislativa toscana, sulla base del suffragio universale diretto.

«Prescindendo dalla difficoltà che adesso presenta una convocazione d'uomini tali, quali occorrono per sostenere i diritti del Popolo: prescindendo dal riflesso che nei Comuni piccoli, ove le opinioni sono meno avanzate, meno desto lo spirito pubblico, piccoli di mente e di cuore saranno necessariamente i Deputati prescelti da un Popolo ignaro e semplice, facilmente accessibile alle seduzioni e ai traviamenti; prescindendo dalla pericolosa e ambigua esitanza del provvisorio, a cui dà origine tale disposizione; prescindendo da tutto ciò, qual uopo mai vi era di essa?....

«Il Governo Provvisorio, o, a meglio dire, il Partito Democratico, è sicuro o non è sicuro di avere forza bastante per far prevalere il proprio diritto, dappoichè disgraziatamente niun diritto in fatto prevale senza la forza?

«Il Governo Provvisorio e il Partito Democratico sembra che di tal forza siano sicuri, giacchè per tutta ragione, a chi obietta esser facile che alla prossima Assemblea appariscano persone dell'antico calibro, rispondono che quella forza la quale rovesciò le altre Assemblee rovescerà, occorrendo, anche questa.

«Ora noi non sappiamo comprendere, come si possa volere creare colla probabilità di dovere distruggere; non sappiamo comprendere perchè per ottenere un voto forse incerto, ma che ha apparenza di legalità, si debba rimettere una decisione che urge, una decisione da cui pendono le sorti, non di Toscana sola, ma di tutta Italia; si debba non tener conto della forza presente, che grande è oggi, ma che domani, ed ogni dì che passa, può menomarsi; si debba non tener conto prezioso dello entusiasmo del Popolo, che oggi è acceso, ma che intiepidito, ammorzato che sia per vane formalità, per temporeggiamenti paurosi, può spengersi irremissibilmente, nè dare più buon frutto di sè.»[534]

Il voto universale pertanto metteva paura alla Fazione, ond'è che viene chiarito per vero, ch'essa sentiva non le tornerebbe favorevole, e che ricorrere a quello nello universale scompiglio era atto di riordinamento, non già di disorganizzazione.

L'Assemblea viene qualificata come impaccio alla Rivoluzione; — acerbe rampogne si muovono per averla proclamata, e minaccie laddove non vogliasi ritenere la Rivoluzione fatto compiuto; — reazione politica, pretesto alle rapine della cupidità, e della miseria; — nobili paventano le vendette e i saccheggi del Popolo; — errore del Governo di convocare l'Assemblea Costituente toscana; — per questo, e per altri pretesi falli ripreso perfidamente, come quelli che potevano cagionare effusione del sangue cittadino; — da capo sospetti insinuati contro gli ufficiali civili e militari, e Governo pressurato non pure a dimetterli, ma a punirli; — Popolo commosso ad avventarsi contra di loro.

«O voi vi fidate nelle forze del Popolo, — ripeto, — o non vi fidate. Se vi fidate, l'Assemblea è pericolosa. Ad ogni modo l'Assemblea è un impaccio che par gittato dinanzi alla Rivoluzione, come si getta uno sterpo fra le gambe a chi corre, perchè inciampi e cada.

«Voi dite averla convocata, nella speranza che l'Assemblea mandataria di tutta la Toscana acqueti ogni tentativo di reazione, e riesca la espressione del voto generale.

«E noi vi rispondiamo con le parole medesime che stanno scritte sul Rapporto della Convenzione Nazionale francese del 1793: — Quando la Nazione è in piedi, che cosa sono i Rappresentanti che seggono nelle Assemblee? —

«Oggi voi potreste, da voi e col Popolo, sedare e distruggere ogni reazione. — Ma domani, quando Leopoldo avrà ragunato a sè d'intorno i suoi fidi, quando questi avranno destramente seminato l'oro inglese, quando le baionette austriache saranno alle frontiere, credete voi poter sedare con eguale agevolezza la reazione? — Vi credete voi più potenti in faccia alla forza e alla violenza, unica ragione a cui si debba ora affidare l'arbitrio delle nostre sorti? — vi credete voi più potenti, ripeto, con 120 uomini di tutti i colori, di tutte le opinioni, che non con migliaia di gente del Popolo, tutti di un solo colore e di una sola opinione? — E credete voi che cotesto Popolo, ove non abbia più fede in voi, ove, col temporeggiare e col respingerlo, lo abbiate reso diffidente di voi e di sè stesso, credete voi che esso vorrà starsi pago della decisione dei vostri 120 Rappresentanti, e non piuttosto riterrà le proprie decisioni come un fatto compiuto, nel modo istesso che voi oggi sembra non vogliate ritenere per fatto compiuto la Rivoluzione?

«A noi, cittadini del Governo Provvisorio, vel diciamo col cuore sulle labbra, non fa nullamente spavento la reazione: solo ci fa spavento lo indugio. La reazione oggi non è di politica; è reazione di miseria, è reazione d'ignoranza, non è reazione di fede monarchica. La pretesa Vandea di Empoli non è che una lega di vetturini: la questione politica in Empoli, se bene l'approfondate, non è che una pretensione di antichi e stolti romori contro la strada ferrata. Leopoldo d'Austria può forse domani aver seguaci e satelliti molti in Toscana, per effetto d'oro, di promesse, di calcoli, di raggiri: oggi, — persuadetevene, o cittadini, — esso ne ha pochi, o, meglio dire, non ne ha alcuno. I suoi nobili stessi gridano al tradimento: lo maledicono per averli lasciati in abbandono, per averli esposti, dicon essi, alla animavversione del Popolo, con cui si sono compromessi per sua cagione, e da cui temono vendette e saccheggi.

«I suoi impiegati di null'altro curansi che dello stipendio, godono nell'ozio, e si augurano che la manna duri a cadere, senza avere la pena di chinarsi a raccoglierla.

«In quanto ai partigiani della idea monarchica, essi saranno sempre ostili alla democrazia, regni Leopoldo o non regni: la loro reazione è così sicura, com'è sicuro il regno delle tenebre accanto a quello della luce, com'è l'ombra inevitabile seguace del corpo.

«L'antagonismo dei Partiti non è reazione; e se aspettate, o cittadini del Governo Provvisorio, il 15 marzo, perchè tutte le opinioni sieno ad un livello, tutte le esigenze si chiamino sodisfatte, e di un volere unico e solo si cuopra Toscana, come il manto funereo cuopre un corpo fatto cadavere, prorogate in tal caso la vostra vana Assemblea al giorno del giudizio finale, e convocatela nella gran valle di Giosafat: colà forse, colà soltanto saremo tutti di un color solo, e di una sola opinione.

«Il massimo errore, fin qui commesso dal Governo Provvisorio toscano, è per noi la convocazione di un'Assemblea Toscana, oggi che l'Assemblea può e debbe chiamarsi unicamente Italiana, e unicamente risiedere a Roma; oggi che le esigenze della legalità debbono far luogo alle esigenze della necessità, il regime dell'ordine a quello della Rivoluzione: Rivoluzione permanente, sistematica, accanita, entusiasta, popolare, repubblicana, contro lo straniero, e contro chi perora la causa dello straniero: — i tardigradi, li opportunisti, i moderati...» con quel più, che viene riportato nella nota 1 a pag. 436 di questa Apologia.

«..... Ma di tutti questi errori nei faremo grazia al Governo Provvisorio toscano, ov'egli si affretti a fare ammenda del principale: ov'egli proclami la immediata Unione con Roma, e conseguentemente il regime repubblicano, amministrato da un Governo Provvisorio, finchè la Costituente Italiana di una Repubblica consistente di cinque milioni di rivoluzionarii e di due Popoli non faccia una Repubblica di 24 milioni di cittadini, e di una sola nazione.»[535]

Non vi è mestiero di Assemblea, il voto del Popolo ha già deciso. — Governo è spinto ad unirsi con Roma, e subito. — Il provvisorio non s'intende, nè si cura; vuolsi la Repubblica. — Il Governo è d'accordo con gli Austriaci, e apparecchia la invasione straniera se non procede come a Rivoluzionario conviene, e non consente il Principe sia dichiarato decaduto e la Repubblica proclamata. Quante mortalissime insidie cosiffatte insinuazioni contenessero in sè nel furore dei tempi, non vi è discreto uomo, che di per sè senz'altra chiosa profondamente non senta.

«Qual bisogno ha oggi la Toscana di rimettere ad una Assemblea la decisione di un voto, il quale fu già deciso dal Popolo? — Il Popolo ha già deciso di essere unito con Roma, e Roma ha proclamato la Repubblica il giorno stesso di tal decisione. Or come pretendereste di stare uniti a Roma, se l'Assemblea Toscana non si pronunciasse per la Repubblica?...

«E se ciò avvenisse, quali impacci non creereste, provocando una seconda Rivoluzione, che vi potete risparmiare, prevalendovi della prima così bene avviata? Essere uniti con Roma, vuol dire essere Repubblicani; e voi pretendete intanto che ci possiamo gridare uniti con Roma, ma che non ci dobbiamo dire Repubblicani. Permetteteci, cittadini del Governo Provvisorio, che vi diciamo apertamente, cotesto argomento essere un argomento ad bestiam, e che voi ci raffigurate il principe Amleto di Danimarca, mentre dice a sè stesso: To be, or not be, that is the question; e di cotesta questione non sa trovare il verso per uscirne a bene.

« Essere o non essere, — questa è la quistione. Or quando per essere basta il dire noi siamo, non sappiamo capacitarci perchè si debba dire noi saremo, col rischio di non essere mai!

«Infiniti sono i rischi che minacciano il Governo Provvisorio. —

«Leopoldo d'Austria fuggì fidando nella reazione: fuggì nella certezza che i suoi fedelissimi sudditi non comporterebbero la lontananza delle adorate sembianze del loro padrone; fuggì, perchè il Partito reazionista vide essere cotesto l'ultimo colpo, il colpo disperato per far trionfare una causa che essi medesimi vedevano perduta. — Se Leopoldo d'Austria fosse fuggito nel semplice scopo di sottrarsi ad una sanzione cui consentire non poteva il suo animo timorato, se fosse fuggito unicamente per sottrarsi ad una scomunica, se fosse fuggito lealmente e da buon cittadino, da buon cittadino avrebbe incominciato a deporre quel potere, che ei credesi aver ricevuto per grazia divina, ed alla cui influenza, al cui prestigio egli affidò le ultime sue speranze, — le speranze di ricostituire un trono dispotico sulla guerra civile e sulla anarchia.

«Quest'ultimo scopo soltanto fu quello che ricercò Leopoldo lo Austriaco: ed ove egli vada fallito, sieno pur certi i Toscani, sia certa l'Italia che, non avendo la reazione trionfante, avremo li Austriaci sostenitori del Trattato di Vienna, i quali verranno a riporre sul trono un sovrano che per amore non vi fu voluto riporre. Ora, se schiacciammo la reazione, perchè, o Governo Provvisorio, non volete che schiacciamo li Austriaci?... Perchè volete che abbiamo l'una latente e permanente, li altri in minacciosa prospettiva?...

« E voi sembrereste nol volere, se recedeste dallo scendere prontamente ad energiche e violente misure, a provvedimenti solidi e rivoluzionarii.

« Voi sembrereste, per taluno, quasi non volere, ricusando ancora di dichiarare decaduta dal trono la famiglia di Lorena, ricusando di proclamare immediatamente il regime repubblicano, oggimai inteso e gradito da tutti meglio assai di quello che nol sia il provvisorio. »[536]

Non si deve convocare l'Assemblea, perchè si corre pericolo di addormentare la Rivoluzione nella fredda legalità delle formule. Impegno del Popolo quando me pose al Governo dello Stato, fu la Unione d'Italia con Roma.

«Uomini che abbiamo voluto al Potere, in nome di Dio non esitate! Leopoldo di Lorena è in Toscana tuttavia. La Inghilterra fa bordeggiare le sue navi davanti ai nostri porti sguarniti. Il Piemonte nella professione di fede del ministro Gioberti dichiara non accomunarsi co' Repubblicani, agli unitarii, ai sognatori. Il Papa in Concistoro segreto domanda ec...... Uomini del Governo Provvisorio, non presentite l'uragano? Voi non osate ferire nel cuore la diplomazia europea, e ferite in cambio il cuore a voi stessi, e vi mettete a pericolo di addormentare una Rivoluzione nella fredda legalità delle formule ec. — Ora la Repubblica è una necessità cui la stessa Diplomazia non può intimarvi di disobbedire, poichè non potete davanti al Popolo rinnegare l'impegno che vi ha collocati al reggimento della cosa pubblica: la formazione di uno Stato solo con Roma. Voi sapete di doverlo a Firenze, a Toscana, a Roma, alla Italia. Ma voi dite di consultare l'Assemblea di cui ieri l'altro rettificaste la missione col chiamarla Costituente.

«E se questa Assemblea, nata dal campo di quelle elezioni fra le quali la reazione combatte l'ultime prove, se questa Assemblea non intendesse la missione sua, e riuscisse Assemblea unicamente Toscana? E ciò potrebbe accadere.

«Se prima d'essere raccolta, il cannone tedesco tuonasse l'allarme dalle gole degli Appennini, o le flotte interventrici occupassero i vostri porti? E ciò potrebbe accadere.

«Se un giorno fossimo costretti a domandarvi conto di questa arrendevolezza ai protocolli stranieri, di questa momentanea, eppur dannosa esitanza, fra il vecchio ed il nuovo?

«Oggimai abbiamo compiuto l'opera nostra, e vi abbiamo avvertiti. Governo Provvisorio di Toscana, bando alle esitazioni: abbiate coscienza della vostra forza, perchè il Popolo è con voi; siate geloso della vostra responsabilità, perchè la Italia vi giudica.»[537]

Più veemente il medesimo Giornale nel 17:

«Questa Unione che fino dal primo giorno della Rivoluzione fu il voto esplicito, insistente, imperioso del Popolo fiorentino; questa Unione, che fu ad un tempo la ragione suprema della creazione di un Governo Provvisorio toscano, e la condizione prima, assoluta, imprescindibile della sua esistenza, ha già acquistato le simpatie delle provincie sorelle; ed al grido di Unione proclamato a Firenze, rispondeva un'eco potente, irresistibile, da ogni parte della Toscana. Ieri erano i Circoli di Livorno che inviavano deputazione al Governo per invitarlo a proclamare l'Unione immediata con Roma. Oggi sono i Circoli di Arezzo, di Prato, di Pistola, di tante altre città che ripetono lo invito, la domanda, la istanza medesima, o con indirizzi o con commissioni speciali. E il Governo accomiata le Deputazioni, mette agli atti gl'Indirizzi, e risponde non essere ancora tempo di esaudirli, non potersi precipitare gli eventi, doversi attendere il responso dell'Assemblea del 15 marzo.

«Ma il Popolo insiste nelle sue esigenze, forte nella coscienza dei proprii diritti, e confortato dalle istanze fraterne, con cui i Popoli di Roma e di Romagna gli stendono le braccia. Ogni giorno un nuovo fatto, una nuova dimostrazione viene in conferma della volontà costante, immutabile, del Popolo nostro, in riprova della sua maturità alle libere istituzioni repubblicane, le quali una soverchia diffidenza delle sue forze, o una soverchia diffidenza delle proprie, ricusa acconsentirgli se non a brevi e tenuissimi sorsi.»

Però che, come dagli sparsi Documenti si ricava, il grande spino al cuore era la paura che Toscana tutta con politica probità consultata non si dichiarasse per la Repubblica; ed anche qui se ne incontrano vestigii: «Che cosa fareste della vostra Assemblea ove si dichiarasse ostile, e giudicasse inopportuna e immatura la Repubblica? — Allora voi la rovescereste, — voi dite, — la rovescerebbe il Popolo conscio dei suoi diritti, e deciso a farli ad ogni costo rispettare. Or bene: fate conto, ch'ei l'abbia già rovesciata cotesta benedetta Assemblea, e non ne parliamo più, e figuriamocela seppellita. Che bisogno ci è, di grazia, di rappresentanti del Popolo, quando il Popolo è in piazza pronto a rappresentarsi da sè stesso?»[538]

Se io non erro mi sembra provato, che l'Assemblea fosse massimamente odiata dalla Setta repubblicana, sì perchè col differire temeva andassero disperse le esaltazioni degli spiriti, siccome appunto ad ogni specie di ebbrezza vediamo accadere, e sì perchè il voto universale sentiva certamente contrario ai suoi desiderii. Del pari fu visto come dal giorno otto febbraio con ogni maniera argomenti, urgentissimi sforzassero per avere Repubblica a furia di Popolo proclamata; come mi si fosse posto al fianco un uomo «capace di sviscerare fino l'ultimo dei pensieri del dittatore toscano,»[539] e quotidianamente in lotta meco per poterla spuntare; questo dicono i ricordi dei tempi, questo tutti i libri confermano; eterna rampogna è questa, che mi gettano in faccia i Repubblicani; che più? questo apertamente le carte stesse dell'Accusa palesano, e nondimeno l'Accusa ha la fronte di scrivere: «il mio sforzo essersi ridotto in qualche contingenza, perchè la Repubblica non venisse troppo presto attuata.»[540] Comecchè non vi abbia mestiero di ulteriore dimostrazione, pure per chiarire in qual modo anche dai Documenti stessi dell'Accusa resulti la prova della continua opposizione mia all'esigenze della Setta, giovi innanzi tutto rammentare il Proclama che iniziava il Governo Provvisorio, avvegnachè per quello sia fatto palese quali fossero la sua missione ricevuta, i suoi fini, e i mezzi per conseguirli.[541]

Fino da cotesto giorno otto annunziava rimesso alla decisione dell'Assemblea Toscana il giudizio delle sorti nostre.[542] Nell'11 informato il Governo della congiura ordita nel seno delle Conventicole di prorompere e imporre la Repubblica a forza, bandiva il Proclama del 12 febbraio.[543]

E nel 13, quando si volle piantare l'Albero della Libertà sotto i miei occhi, dichiarai espresso: «appartenere al libero voto di tutto il Popolo Toscano convocato in Assemblea il 15 del futuro mese di marzo decidere su la forma del Governo.»[544] Nel giorno stesso commettevo discretamente al Consigliere Paoli, che si astenesse da porgere e da accettare eccitamenti per la Repubblica.[545] — E qui ricordiamo di passaggio all'Accusa di considerare, se sia o no importante acquistare tempo nelle rivoluzioni. Quel Popolo, che nel 12 febbraio piantava l'Albero, nel 12 aprile lo spiantava: — e si compiaccia avvertire da capo eziandio, che nè in tutto, nè sempre pervenni a contenere la moltitudine, poichè, nonostante il mio aperto contrasto, degli Alberi qui e altrove ne fu alzata una selva; e se quante si contavano mani a trattare alberi si fossero potute avere a trattare armi nazionali, il nostro Paese sarebbe lieto, che ora è tristo. La Circolare mandata nel 16 febbraio ai Gonfalonieri del mio alacre provvedere porge splendida testimonianza.[546] Quando il Principe abbandonò il suolo toscano, e le milizie del Generale Laugier o sbandate vagavano o al Governo Provvisorio si sottoponevano, e il Partito reazionario aveva ricevuto tale battisoffiola per cui stava cheto come olio, pauroso dei danni estremi, è agevole immaginare la pressura dei Settarii! Non era tempo quello di dichiararsi? Forse temevo della battaglia di Novara, forse presagivo futuri infortunii, e fra questi dubbii ed auspizii esitavo? Eh! Dio mio, se il giorno delle nozze dovesse prognosticarsi quello delle esequie, invece di menare balli per gli sponsali, canterebbero l'uffizio dei morti. Il Niccolini, il quale, come raccontai altrove, mi si era messo ai fianchi per commuovermi sotto milizie e popoli onde mi costringessero a proclamare la Repubblica per via di tumulto, arringata la turba, sospinse una mano di Lucchesi a venirmi incontro incappucciata di certi strani berretti vermigli, e a gridare smaniosa: Repubblica! Repubblica! Come io loro favellassi domandatelo all'Accusa. Ella nei suoi Documenti ne riporta uno di mio, dove leggiamo impresse queste parole: «Il Governo ha assunto il carico di mantenere tranquillo il Paese finchè l'Assemblea Nazionale non decida delle sue sorti: questo intende fare con ogni suo sforzo supremo, e questo farà.»[547] E tale Proclama, o Bando ch'e' si voglia chiamare, era pubblicato nel 26 febbraio 1849, un mese innanzi la triste notizia della rotta novarese, come l'Accusa dichiara; e se la turba coteste mie dimostrazioni accogliesse docile, doveva l'Accusa investigare; e se non lo voleva investigare, nemmeno in oltraggio al vero e in onta alla santità del suo uffizio doveva affermarmi onnipotente conduttore delle moltitudini. In Firenze si raddoppiò la piantata degli Alberi, si suonarono campane, si spararono archibugi, si levò tale e tanto schiamazzo, che io per me credo, che se avessi allora avuto l'onore di tenermi accanto consigliera l'Accusa, mi avrebbe scongiurato dicendo: «Piegate ai tempi; prendete nappa rossa, e gridate Repubblica!» Peccato, che io non avessi tolta l'Accusa per mia consigliera a quei tempi.[548]

Ed in quel giorno i Commissarii, che, me invano opponente, si condussero a Firenze, sapete che cosa venivano a leggermi in faccia con turbato sembiante? «Che quel mio contegno fu visto con maraviglia e dolore, perchè può giovare alla reazione, può porgere ai nemici interni ed esterni mille argomenti, con cui sedurre e fare traviare la parte meno colta del Popolo, specialmente delle campagne, sparlando della Repubblica, e facendola credere dal Governo ripudiata[549]

Ed io con efficaci parole e co' recenti fatti mi purgava prima della calunnia di traditore, che stupidamente quanto perfidamente uomini faziosi insinuavano contro di me; gli scongiuravo a proseguirmi della consueta benevolenza: — stessero sicuri, da me null'altro volersi, non altro procurarsi, che il bene della mia Patria; dovere di cittadino e fede di Magistrato impormi di consultare il Paese intero in cosa nella quale ne andava della salute di tutti i cittadini; — e poichè gli ebbi fatti capaci della rettitudine delle mie intenzioni, confortai i Colleghi a perdurare nella mia sentenza, sicchè quel giorno stesso fu pubblicato il Proclama, che si legge a pag. 504 di questa Apologia.

Nel 2 marzo 1849 abrogando io la Legge Stataria del 22 febbraio 1849, promulgata me assente, non trascurai rammentare — «l'accordo universale di riservare alle Assemblee la funzione del voto popolare intorno alle forme del nostro reggimento.»[550]

Le altre contese sostenute vengono riportate nelle pagine, che in breve succedono. — Troppo lungo epilogo dello esposto fin qui, tornerebbe certamente tedioso; basta spremerne il sugo in due proposizioni: 1 a Il Parlamento Toscano non fu sciolto, ma il Governo ne constatò la morte temporaria, perchè allora non avrebbe potuto, nè voluto sedere; sarebbe stato cagione di perturbamento, e non di ordine. 2 a L'Assemblea Costituente Toscana fu convocata al doppio scopo, d'impedire la decadenza del Principe, e il bando della Repubblica a furia di una parte minore del Popolo Toscano audace per la inerzia e per lo sbigottimento della maggioranza, non che pel miscuglio di uomini non toscani; — di raccogliere libero intorno alla forma del reggimento e alla persona del Principe il voto del Popolo tutto, il quale per le cose dimostrate, giusta le previsioni della umana prudenza, era sicuro che si sarebbe espresso pel Principato Costituzionale, e per la casa erede di Leopoldo I precursore di civili libertà.

XXVIII. Mio disegno; motivi che lo persuasero, ed espedienti per conseguirlo.

Come il tempo negli antichi marmi corrompendo taluna lettera, e tale altra consumando, rende le iscrizioni a leggersi difficili, così la forza degli eventi, esercitandosi sopra le opere dell'uomo politico, quasi sempre ne scompone il disegno; però, nel modo stesso che periti archeologhi sanno ricostruire le prime, e ridurle ad ottima lezione, uomini che la scienza del governo degli Stati professano, indagando, ritrovano in mezzo alle scosse della fortuna, e alle deviazioni della necessità, il concetto dell'uomo politico. — E non sarà soltanto legge di giustizia storica, bensì di giustizia universale, giudicarlo non già con le norme assolute del retto, e del giusto, bensì con lo esame dei tempi nei quali visse, e degli avvenimenti che lo costrinsero ad operare.[551] Che se questa sentenza dettata da Ugo Foscolo fu reputata vera, ragionando dello scopo di Gregorio VII, tanto maggiormente deve accettarsi nel mio, in quanto che le forze del tempo, se meno si presentavano ardue a dominare, più inopinate e furiose imperversavano a scuotere. Io però rinnegherei la esperienza e la verità, se o credessi o affermassi, che agevolmente dagli uomini politici si renda giustizia agli uomini politici loro contemporanei: chè da un lato le Fazioni pervertono lo intelletto, il giudizio per passione si corrompe; e sovente eziandio, più che non converrebbe a spiriti elevati, invece di affaticarsi a cercare il vero sotto la fronte prima delle cose, pigramente si accomodano alla volgare sentenza. Onde, a senno mio, non le preghiere soltanto, come disse Omero, sono zoppe e losche, ma la verità altresì, avvegnadio veda a poco per volta, cammini tarda, e troppo spesso non giunga neppure in tempo a chiudere gli occhi al travagliato dalla fortuna e dagli uomini. M. Lamb, che fu poi Lord Melbourne, con aggraziata e verace scrittura deplorò la condizione dei Ministri di Governo, la quale mi piace referire onde si veda se questa sia stoffa da mettersi fra dita di uomini rusticani, e per di più maligni:

«Le geste del soldato si compiono davanti alla faccia del sole, alla luce del giorno, presenti i compagni, e i nemici contro i quali ei combatte. Tutti le vedono, le conoscono tutti; nessuno le contrasta, o le attenua. La fama tosto pel mondo le spande: e tosto il premio di lode dovuto ai salvatori degli Stati ricevono. Il sagrifizio di un Ministro e la devozione dell'uomo di Stato sperano invano ricompense siffatte; però che gli sforzi loro adoperandosi più spesso a prevenire, che a comprimere grandi vicissitudini, avviene che rimangono oscuri, ignorati, esposti a tutte le false interpretazioni della ignoranza e della mala fede. Li criticano, li accusano, e li condannano, mentre all'opposto meritano il plauso della Patria non ingrata. Quante e quante volte questi sforzi generosi e penosi vanno obliati in mezzo alla pubblica sicurezza mantenuta da loro, o alla prosperità per essi iniziata!»[552]

Ora il mio disegno da alcuni in parte si disprezza, in parte si nega; da altri si confessa, ma si calunnia, e acerbissimamente riprendesi.

Qui emmi venuta in testa certa fantasia di raccontare una storiella, la quale, comecchè alla mestizia dello argomento non convenga, pure alle fortune che provo maravigliosamente si accomoda; ed è questa. Fu già un Dottore, ma non ricordo il nome, di assai tenera pasta, al quale, quantunque volte gli capitava operare qualche bene, pareva proprio andare a nozze; e malgrado che da questo suo costume gliene fossero venuti fastidii non pochi, e molestie grandi, pure non si sapeva ridurre a mutarlo. Ora accadde, che, passando per certa contrada, s'imbattesse in un marito ed in una moglie, i quali con una pertica e con un bastone si ricambiavano univoci, e non equivoci (come direbbe l'Accusa), segni di coniugale affetto. Il buon Dottore acceso di sdegno cacciavasi risoluto in mezzo agli arrabbiati, e, messa la destra al petto dell'uomo, la sinistra non so in qual parte della donna, teneva l'uno dall'altra lontano, esclamando: — «In questa maniera, sciagurati!... per voi si rappresenta la Unione di Gesù Cristo con la Chiesa? Così si fa bugiardo il primo padre Adamo, quando disse, che marito e moglie sarebbero stati due in una carne sola?...» E continuava a dire; ma il marito, accigliato, gli rispose: «E che cosa importa a lei dei nostri fatti?» E la moglie dall'altra parte: «O come entra lei nei fatti nostri?» E poi marito e moglie insieme: «E se ci vogliamo bastonare, o che cosa gliene ha da premere? Se tanto bastonassimo lei!... e se lo meriterebbe... se lo merita.... io lo bastono... tu lo bastoni... noi lo bastoniamo...» E i coniugi coniugarono il verbo bastonare sul corpo del Dottore. Gliene dettero cento, tanto erano e giustamente infelloniti costoro; ma il povero uomo non sentì le dieci, chè cadde alle prime percosse malamente ferito sul capo. Il Cerusico, accorso, prima di medicare la piaga, prese co' suoi ferri a scandagliarla, onde il Dottore traendo doloroso guaio: «Ohimè» disse, «che cosa fate, Cerusico?» E il Cerusico a lui: «Io tasto per vedere se vi hanno offeso il cervello.» — «Ah! Cerusico mio» soggiunse il ferito, non istate a perdere tempo, fasciatemi il capo addirittura; e vi pare egli, che se avessi avuto cervello mi sarei messo in mezzo a scompartire moglie e marito?» — Così è, voi troverete la storia dei moderatori dei Partiti in tutto uguale a quella del Dottore e alla mia.

Ma, delle due Fazioni, per ora parlerò intorno alla prima rappresentata dagli Accusatori e dai Giudici, intervenuti fin qui in questa lamentevole procedura. La parte che da loro adesso si tiene a vile, e la pubblica e la privata sicurezza difese; e sta bene; voto di naufrago, passato il temporale, raro si ricorda: la parte che si nega, è che, consentendo io a quello che formava allora, e conosceva sperimentalmente formare il desiderio della parte grandissima del Paese (voglio dire stabilire ed usare le libertà costituzionali), procurassi con ogni mezzo legale e leale, senza neppure atomo di comodo privato, che con modi civili la universalità del Popolo la restaurazione dello Statuto decretasse.

Ma se altri lo impugna, a me basti averlo dimostrato fin qui, e compirne adesso la dimostrazione. Ho detto come a simile intento per me fossero adoperati di due maniere partiti: i primi di resistenza, i secondi d'iniziamento. Mi si conceda toccarli succintamente da capo, per mostrare poi quanto sembrasse la conclusione propostami razionale e onorevole.

Rispetto ai primi, la resistenza fu opposta alla forza, all'astuzia e alle adulazioni. — La forza apparve materiale e morale; e poichè anche sommarne i capi saría troppo lungo lavoro, mi commetto alla benevola memoria del leggitore. — Astuzia fu la insistenza per la proclamazione provvisoria della Repubblica, salva la conferma dell'Assemblea; — astuzia le otto proposte preliminari per la Unificazione, del 27 febbraio, quasi accettate dal Presidente del Governo; — astuzia i due Ministri romani, ordinario e straordinario, qui fermi per sollecitare ogni momento; e i due ambasciatori straordinarii mandati il 15 marzo per isforzare la Unificazione immediata;[553] — Ciceruacchio, alla testa di una Deputazione del Popolo di Roma portante il voto del medesimo per la unificazione con la Toscana, nel 17 marzo non già da Livorno direttamente avviatosi a Firenze, ma aggirantesi per Pisa, Lucca, Valdinievole, Pistoia e Prato, onde concionare i Popoli, e strascinarli ad ogni modo nello statuito disegno;[554] — e il Ministro degli Esteri, Rusconi, qui venuto in fretta ad assicurare, che Francia e Inghilterra avrebbero impedito qualunque intervento nella Repubblica della Italia Centrale (e non era vero), purchè costituita.[555] — Lusinghe: la Deputazione romana venuta a offrirmi la carica di Triumviro a Roma, e la proposta espressa che di ciò fece il Principe di Canino Presidente all'Assemblea Romana.

Partiti d'iniziamento furono: impedire che il Popolo facesse da sè; ostare, per quanto era dato, che il Governo non passasse alle moltitudini in piazza, la macchina governativa non si disfacesse, gl'impiegati probi e animosi non fossero cacciati o se ne andassero per dare luogo a gente forse prava, certo incapace; attendere con somma diligenza che le proprietà e le vite dei cittadini si rispettassero, onde il Popolo, mutata natura, non diventasse feroce; — rigettate le misure di Legge dei sospetti, di armate mobili rivoluzionarie, di supplizii immediati, e impedito che i Faziosi facessero da sè; — rigettate le misure di mettere mano violenta negli argenti sacri, e nelle borse dei ricchi, e impedito che i Faziosi facessero da sè; — i più temibili fra gli agitatori o cacciati, o allontanati, o imprigionati; — i Ministri Marmocchi e Mordini persuasi a sostenermi nello assunto della Restaurazione per via delle Assemblee Costituenti; — dei Giornali, qualcheduno reso favorevole; altri pregati a cessare, o a moderarsi; — armi tolte al Circolo; — emigrazioni armate allontanate dalla città; — Religione protetta, delegando il Tribunale di Volterra a giudicare delle ingiurie patite da lei; — Arcivescovo richiamato; — Magistrati difesi; — con ogni mezzo attutito il delirio del Popolo, e richiamata la intera Toscana al sentimento delle sue tradizioni, dei suoi costumi, dei suoi interessi, della sua capacità, e della sua potenza; con altre più cose, che nel corso di questa Memoria vengono sparsamente discorse.

Quello però su cui giova trattenermi con maggiore larghezza è il provvedimento legale destinato a operare la Restaurazione. Considerando come alla piena del Popolo, che aveva fino dall'8 febbraio decretato la Unificazione con Roma, la Decadenza della Corona e la Repubblica, fosse impossibile resistere direttamente, fui sollecito di pubblicare il Decreto del 10 febbraio 1849. Ho detto come questo e l'altro Decreto del 14 successivo venissero presentati dal signor Montanelli, e non furono sua fattura, ma sì, mi sembra, del signor Avvocato Rastelli; e mi affrettai a sottoscriverli per tre ragioni distinte, e d'importanza grandissima: 1 a perchè mi davano tempo di un mese e più, e il tempo in questi negozii è tutto, checchè paia diversamente opinare l'Accusa, dall'autorità della quale, in fatto di politica, mi sia lecito discostarmi; 2 a perchè a fine di conto mi assicuravano di un'Assemblea toscana, la quale degl'interessi toscani discutesse, e il Paese veramente rappresentasse;[556] 3 a perchè, sebbene dichiaravasi che la forma del Governo della Toscana sarebbe stabilita dalla Costituente Italiana, però la Legge sopra questa Costituente si prometteva, e non si diceva nè come aveva ad essere composta, nè a quali condizioni vincolata.[557]

Fu per me dimostrato con quanto, non dirò sfavore, ma furore venisse ricevuta cotesta Legge dai Repubblicani. Il Popolano la lacerò acerbamente: espose i pericoli della dilazione alla proclamata Repubblica; minacciò guerra civile; rampognò il Governo per la sua repugnanza di aderire alla dichiarazione popolare della decadenza del Principe; insistè aspramente nel sollecito uso di mezzi violenti e rivoluzionarii, con altre enormezze, di cui con non mediocre fastidio venni raccogliendo la storia da quello e da alcuni altri Giornali, che in quel tempo si pubblicavano. In proposito di cotesta Legge la Costituente Italiana del 13 febbraio 1849, prendendo a discutere strettamente la materia con raziocinii affatto rivoluzionarii, dopo avere detto con focose parole quanto ho riportato a pag. 333 e 334 di questa Apologia, continuava così: «Noi lo ripetiamo ancora una volta ai Cittadini del Governo Provvisorio: osate, osate. Unione con Roma e convocazione della Costituente. L'istinto popolare nel suo squisito buon senso ha già precorso il vostro giudizio, e domanda questa Unione. Voi avete udito il suo grido di gioia, e il saluto a quella Repubblica per cui vuol vivere e morire; voi potete e dovete sanzionare quel saluto e quelle grida.» Nel successivo Nº del 14: «Abbiamo meditato sopra il Decreto che convoca un'Assemblea legislativa toscana, e, in onta alla buona intenzione, non abbiamo saputo indovinarne le ragioni politiche, nè il principio di diritto. Un'Assemblea uscita dal suffragio universale, in un Paese abbandonato al Provvisorio, o non ha voto, o non ha senso, o si colloca come Sovrano in faccia al Popolo da cui fu eletta

E dietro lei la folla dei Giornali del Partito, urgentissima tutta, come se si trattasse di scaldare al fuoco mozziconi di candela di cera e appiccicarli insieme! In verità io non capisco più dove sia andato il senno italiano. La massima parte dei Popoli, repugnante o inerte, come spingiamo noi? Con questo strepito forse? No certo: con che cosa dunque? Col terrore; e questo non dovevate, nè potevate domandare a me; e a questo dovevo oppormi, e mi opposi. I Repubblicani, avendo penetrato il riposto consiglio che dettò il Decreto del 10, presso il signor Montanelli si adoperarono; il quale, piegando alle insistenze loro, apparecchiava il Decreto del 14 febbraio, o, come ho detto, per lui lo apparecchiava l'Avvocato Rastelli. Non vi ha dubbio: il Decreto del 14 febbraio metteva le mani dell'Assemblea Romana nei capelli alla Toscana; legata ad una rota del carro della Repubblica Romana, era mestieri che la mia Patria precipitasse nella carriera perigliosamente inane di quella. Comecchè così mi venisse a sfuggire la tavola di salute, pure firmai, perchè costretto a farlo, tutto parendomi meglio che proclamare a tumulto la Repubblica, la Decadenza del Principe, e la Unificazione con Roma; sperai in qualche congiuntura favorevole; in ogni caso ero determinato a mandare avanti l'Assemblea Toscana, onde discutere pubblicamente insieme i grandi interessi del Paese, che avrebbero persuaso i Toscani a seguire lo antico loro dettato: « piano ai ma' passi.» Infine, cotesto Decreto lasciava lo addentellato a molti schiarimenti, e a molte questioni.

Invero, questo Decreto non piacque ai Repubblicani; e più che mai raddoppiarono le violenze e gli sforzi, i mezzi qualunque, che dichiaravano sacri perchè tendenti a conseguire lo scopo agognato, siccome largamente al suo luogo, con prove storiche, fu fatto conoscere; alle quali, chiunque vorrà giudicare secondo che religione insegna, fie che aggiunga tutti i Giornali che io non possiedo, come, a modo di esempio, la Italia dei Giovani, il Giornale Popolare, lo Inferno, il Calambrone, il Tribuno del Popolo, la Lanterna Magica, il Lampione, — ed altri, che io non ricordo, diarii e foglietti staccati, e avvisi, e proclami, e decreti dei Circoli; e cotesta congerie di fogli gli sarà com'eco di un tempo passato, e come testimonianza di quanto gli uomini pensassero, macchinassero e compissero per instituire la Repubblica, rovesciando il Governo Provvisorio. Nello intervallo che corre dal 14 febbraio al 6 marzo, vedete che il Circolo Fiorentino manda 25 Commissarii nelle Provincie per convocare uno assembramento mostruoso a Firenze, al fine di costringere il Governo a proclamare la Repubblica.[558] Il Circolo delibera che non forzerà la mano al Governo in quanto al giorno della riunione dei Deputati in Roma.... Non vi par ella grandissima libertà cotesta? L'Assemblea intimata dal Governo è vilipesa, minacciata, o derisa. — In questo intervallo i Popoli accorsi dalle Provincie, uniti col fiorentino, proclamano la Repubblica di diritto e di fatto, e piantano l'Albero della Libertà davanti il Palazzo. Il Circolo Popolare decreta Legge uniforme. I Popoli accorsi sopra la Piazza, con immense strida, dichiarano decaduto il Principe, la Repubblica, la Unione con Roma, e Laugier traditore; migliaia di furiosi presentano al Governo i plebisciti perchè gli accetti e ratifichi. — Come potessi schivarmi in quella tremenda giornata, ho esposto altrove. Nondimeno Circolo e Giornali annunziano, bugiardamente, essere stata accolta con giubbilo cotesta dimostrazione, — avere aderito, il Governo, a proclamare la Repubblica; mentiscono parole, falsificano proclami: ma accortisi che il Governo teneva il fermo a non lasciarsi strascinare, di nuovo tramano altro più formidabile apparecchio pel 1º marzo, onde mandare ad effetto la proclamazione della Repubblica. Non essendo soppressa la Legge Stataria, pubblicata dai miei Colleghi per reprimere la reazione, io la mantengo per reprimere le minacciate violenze dei Faziosi; e lo annunzio col Proclama del 27 febbraio, il quale, accorso (per parare il colpo) il 26 da Lucca, persuasi i miei Colleghi, ottengo che sia pubblicato a Firenze. — In Consiglio mi secondarono tutti i Ministri. Il Circolo ruppe in aperte minaccie, più che mai palesò i danni dello indugio, e sospinse alla Repubblica; protestò contro il Governo, ci fece sentire prossimo lo stato di accusa; me appellò, bruttamente, traditore; ma il 1º marzo l'assembramento fu prevenuto. Il giorno successivo tolsi via la Legge, dichiarando che si aveva ad aspettare la deliberazione dell'Assemblea eletta col voto universale.[559]

Le vicende accadute nel tempo intermedio mi avevano purgato agli occhi dei più di ben molte calunnie, quantunque, e lo vedremo in breve, non cessassero di lavorarmi di straforo con arti proditorie. Comprese allora il mondo, e più comprenderà adesso, che, se contrastavo alla tumultuaria e violenta Repubblica, io già nol facessi per tradire la Patria, non per concerti presi col Principe lontano, non per mantenermi al Potere, non per rendermi necessario a tutti i Partiti, non in grazia di futuri comodi, o talento di titoli (vanità sempre, in questo caso vergogna); comprenderà che se ogni esordio di guerra civile ed attentato contro la sicurezza pubblica o privata io diligentemente attesi a comprimere, già nol facessi io in odio del Principato Costituzionale. Nella mia condotta io non ho riguardato me, nè altri: ho considerato quello che mi pareva meglio pel mio Paese: e al mio Paese ho sempre tenuto diritti la mente e il cuore. Questo ho voluto: questo ho operato con pericolo passato, e con danno presente. Non importa: meglio sventura onorata, che fortuna con vituperio. «Io sono per la Patria, e per Lei» dissi certa volta a Leopoldo II; «nè che metta prima la Patria vorrà V. A. adontarsi, perchè anch'ella l'ama con cuore di figlio.» Il Principe blando assentiva al detto; ed io, quello che parlai quando saliva i gradini della magione reale, penso potere ripetere ora che ho sceso gli scaglioni del carcere.

Poichè ogni resistenza felice aumenta nel resistente il credito che scema nello assalitore, così in breve io mi sentii forte abbastanza per avventurare un passo, che sostengo decisivo, come quello che, se non finiva la Rivoluzione, ormai la sottometteva; le sue ultime prove erano fatte, e per necessità di cose doveva andare di mano in mano digradando.

Lo spirito pubblico riassicurato incominciava, comecchè timidamente, a farsi sentire, e bisbigliava sommesso: che se la Toscana dovesse unirsi a Roma, non si aveva a discutere davanti all'Assemblea Romana, ma sì davanti all'Assemblea Toscana. I Settarii se ne commossero maravigliosamente; quale mi minacciò, quale mi interpellò; quale infine, ostentando sicurezza, diceva ormai la quistione decisa: la Unificazione con Roma e la forma del Governo doversi deliberare a Roma. L' Alba del 4 marzo stringeva il Governo Provvisorio con le seguenti parole:

« Alcune interpellazioni al Governo Provvisorio.

«Fino dal giorno in cui il Governo Provvisorio toscano ascese al Potere, chiamatovi dalla volontà unanime del Popolo e dal consenso del Parlamento, fu sua prima cura di circondarsi dei Rappresentanti del Popolo, liberamente eletti per suffragio universale diretto, onde dar forza alla sua nascente autorità e coadiuvarlo nel soddisfare alle gravi bisogne dello Stato.

«A quest'effetto il Governo, abolendo da un lato il Consiglio generale ed il Senato, convocava immediatamente un'Assemblea legislativa di centoventi Rappresentanti, determinando i modi della elezione, e promettendo di sottoporle colla maggiore sollecitudine il progetto di Legge per l'attuazione della Costituente Italiana.

«Questa Assemblea doveva concentrare in sè stessa tutti i poteri legislativi, per esercitarli in unione al Governo Provvisorio, il quale si riservava, oltre alla sua parte d'iniziativa, l'esclusiva sanzione e promulgazione delle Leggi.

«Il giorno appresso, una Dichiarazione governativa, inserita nel Monitore, modificava in parte il precedente Decreto e restringeva nei suoi giusti limiti l'autorità del Provvisorio Governo; annunziando che la volontà liberamente espressa dai Rappresentanti del Popolo toscano, eletti per suffragio universale diretto, sarebbe stata legge pel Governo, il quale avrebbe primo dato l'esempio della più perfetta obbedienza al volere del Popolo sovrano.

«Ma accortosi bentosto come la precipitanza nel convocare l'Assemblea toscana non gli avesse concesso di maturarne bastantemente la natura, i modi ed i limiti; avvedutosi come non bastasse alle esigenze del Paese la presenza di un'Assemblea meramente legislativa, la quale dall'indole stessa del proprio mandato sarebbe stata limitata esclusivamente alla interna amministrazione dello Stato; e come il Paese, rimasto privo di uno dei tre Poteri costituiti, abbisognasse di una Assemblea sovrana Costituente, la quale decretasse la forma politica dello Stato e le norme del nuovo patto sociale; il Governo Provvisorio pensò che fosse necessario sopperire immediatamente a questo pressante bisogno, ed a questo effetto pubblicò poco appresso il Decreto del 14 febbraio, col quale intendeva ad un tempo di dotare la Toscana di un'Assemblea Costituente che determinasse la forma di Governo con cui dovrebbe reggersi il Paese, e di soddisfare al voto unanime e concorde manifestato dal Popolo Toscano e dal Popolo Romano per la Unione immediata dei due Stati in una Italia Centrale.

«Se ci atteniamo al contesto di questi Decreti, i quali a dir vero spesso si elidono e si contraddicono in più d'una parte, non può cader dubbio che il concetto del Governo Provvisorio non sia stato quello di deferire le questioni di ordinamento, tanto quelle relative alla forma dello Stato, come quelle relative alla Unione con Roma, di deferirle, diciamo, ai 37 Deputati della Costituente, i quali, raccolti coi Deputati Romani in Assemblea unica e sovrana, decreterebbero la Unificazione dei due Stati, determinando in appresso il patto sociale e le sorti dello Stato comune.

«Le parole infatti dei Decreti governativi parlano troppo chiaro, a chi voglia e sappia intenderle, perchè si possa revocare in dubbio a quale delle due Assemblee debba appartenere la questione dell'ordinamento politico.

«Il Decreto dell'11 febbraio stabilisce che la forma del Governo della Toscana, come parte d'Italia, dovrà essere stabilita dalla Costituente Italiana. Il successivo Decreto del 14 febbraio, ordinando la elezione dei 37 Deputati ed il loro invio a Roma, il quale sarebbe troppo ritardato se la Legge per la Costituente dovesse essere sancita dalla Assemblea Legislativa Toscana, allega come ragione di questa sollecitudine: che la Unione della Italia Centrale, già operata nei comuni desiderii e nei comuni bisogni, aspetta il suo compimento dall'invio dei nostri Deputati alla Costituente Italiana.

«Ad onta però di queste chiare e lucide espressioni, parecchi organi della stampa periodica (tratti forse in errore dalle non poche e non lievi incongruenze dei due Decreti; da certi termini dubbii ed oscuri contenuti nella Dichiarazione del 12, di cui abbiamo sopra accennato, e nel Proclama del 27; e finalmente dalla convinzione della incompatibilità di due Assemblee che reciprocamente si elidono e si distruggono) hanno stranamente travisata la natura dei due Decreti, e ne hanno falsata la interpretazione, sostenendo che la questione dell'ordinamento politico sarebbe sottoposta all'Assemblea Legislativa, e restringendo la sfera e l'autorità della Costituente, fino a ridurla in qualche guisa soggetta e subordinata ai Decreti dell'altra Assemblea.

«Questa erronea opinione, portata dal Giornalismo nell'arringo dei Circoli e delle altre Associazioni politiche, ha falsati i giudizii, contorte le opinioni, ed ha sparso nel Pubblico l'incertezza, il dubbio e la esitanza; di guisa che la Stampa ed i Circoli nel proporre le liste elettorali, e gli Elettori nel compilare le loro schede, si trovano tuttavia nel maggiore imbarazzo, ignorando la natura e l'indole respettive delle due Assemblee, non meno che i limiti del mandato da darsi ai 120 Deputati della Legislativa ed ai 37 della Costituente.

«Ora questa incertezza, questi dubbii, e questi imbarazzi debbono cessare immantinente.

«Noi chiediamo quindi formalmente al Governo Provvisorio di mettere in chiara luce questa delicatissima e troppo stranamente complicata questione; di disvelare il concetto che lo animava nel dettare i due Decreti; di dichiarare infine solennemente a quale delle due Assemblee egli intenda rimettere la discussione della forma che dovrà assumere la Toscana, e della sua Unione con Roma.

«Non esitiamo a credere che il Governo vorrà dare una pronta e adeguata risposta a questa nostra interpellanza, nè vorrà nascondersi nel velo del mistero o dell'obblio, come ha fatto per la precedente inchiesta fattagli nel nostro Numero di mercoledì. Si rammenti il Governo che in assenza dei Parlamenti, e presso un regime libero e popolare, il diritto d'interpellare il Governo sui suoi atti appartiene ad ogni Cittadino, e sovra tutto a quei corpi morali, i Circoli e la Stampa periodica, che ne rappresentano i bisogni, i voti e le speranze; e che debito del Governo si è di darvi pronta, sincera e soddisfacente risposta

La Costituente Italiana del 6 marzo 1849, dopo avere censurato tutti gli atti del Governo Provvisorio, così prosegue: «Ora taluno vorrebbe turbare il corso logico delle idee, revocare in dubbio a cui competa decidere della forma del Governo toscano, e consumare l'atto più eminente di sovranità popolare. Il dubbio è nato dal cammino ondeggiante, traverso al quale si sviluppavano le decisioni del Governo Provvisorio. Il dubbio è grave. I nostri amici dell' Alba hanno solennemente chiesto che venga in modo esplicito dissipato, e noi non possiamo che fare eco ad essi, ed alle loro legittime istanze congiungere anche le nostre. A noi però il concetto fondamentale della Costituente Italiana, i limiti del mandato legislativo, e le considerazioni stesse che precedono i due Decreti dei 10 e 14 febbraio, stanno dinanzi allo sguardo e insegnano necessariamente la soluzione più logica di questa difficoltà. — Dopo dichiarazioni sì esplicite, nessuna pretesa invaditrice potrebbe essere messa in campo dall'Assemblea Legislativa senza disconoscere la legittimità della sua origine, e attaccare il sovrano mandato deferito alla Costituente. L'Assemblea Legislativa non esiste che come istituzione transitoria e secondaria, come garanzia speciale accordata alla Toscana a propria tutela duranti i pericoli e la necessità della situazione presente: collo esercizio incoato della sovranità nazionale nella Costituente, anche i Poteri legislativi debbono cessare, perchè in quella soltanto debbono concentrarsi. Noi non riguardammo, e non possiamo riguardare l'Assemblea Legislativa, che come elemento di soccorso, congiuntosi al Governo Provvisorio per fortificarlo; che al cessare di esso rientra nelle brevi limitazioni di un'autorità consultiva provinciale. Tali almeno sono le deduzioni naturali, invincibili, della Unione. Noi quindi respingiamo assolutamente qualunque dottrina che tentasse, contro la parola e lo spirito della Legge, trasportare all'Assemblea Legislativa quelle facoltà che sono irrevocabilmente e solo acquisite alla Costituente.» E qui continua facendosi l'obietto se la forma definitiva del Governo della Toscana deva decidersi dai Deputati Toscani congiuntamente ai Deputati Romani, o se da loro esclusivamente; e, come è da aspettarci, si mostra parziale del primo partito.

Eccomi giunto alle Forche Caudine. Stretto in questa maniera, era forza spiegarmi. Lo invio di 37 Deputati Toscani a Roma, perchè, congiuntamente co' Deputati Romani, deliberassero sopra la forma del Governo della Toscana, mi suonava vergognosissimo inganno. Che cosa avessero a deliberare, con Assemblea che già aveva proclamata la Repubblica, davvero non sapeva comprendere. Sul principio non poteva cadere questione, a meno che l'Assemblea Romana, abrogato il Decreto del giorno 8 febbraio, non avesse consentito a tornare da capo; il che appariva assurdo. Supposto che lo avesse concesso, o potuto concedere, il brutto inganno non veniva meno, avvegnadio il numero dei Deputati Romani superasse troppo quello dei Toscani. — Nè meno sarebbe stato festoso mettere a partito, nell'Assemblea degli Stati Romani, stremi di moneta, con carta che non trovavano da esitare nemmeno a vilissimo prezzo, se avesse voluto ricevere caritatevolmente la Toscana, tuttavia florida e con un attivo nel suo patrimonio sempre superiore al passivo.[560] Ma questi, nel linguaggio acceso degli uomini di parte, e' sono positivismi insensati. Io, per me, non desidererei meglio che i cittadini altra moneta non possedessero tranne di rame; dei cibi, non compri, dispensati dall'orticello, si contentassero; sempre brodetto nero bevessero: ma dipende forse da me, se gli uomini questo benedetto amore di sostanza non vogliono abbandonare? Se sia buono o cattivo costume quello di stare attaccati al proprio avere, io non voglio discutere adesso; per certo egli è vecchio, nè facile a farlo smettere, e credo che se ne siano potuti accorgere anche il signor Rusconi e i suoi compagni; però si astengono da confessarlo, perchè, appo la Chiesa loro, presumono la infallibilità della dottrina che negli altri contrastano: e così sempre dei Partiti succede. — Le due Costituenti, promesse dal Governo, non potevano senza pericolo revocarsi; ma, sottoposti i Deputati per la Costituente Italiana alla decisione della Costituente Toscana, il Paese tornava assoluto padrone di sè stesso. Il Governo, che minacciava cascare giù in piazza fra le moltitudini, senza che alcuno osasse impedirlo, era da me raccolto, e riposto in mano del Partito Costituzionale. Ora stava a questo accorrere, e farsi vivo. Non avevo adempito, con industria pari al pericolo, anche quello che gli uomini del Conciliatore avevano consigliato? A chi ben guarda, il Decreto del 6 marzo era infinitamente più ristrettivo della Legge della Costituente già proposta dal signor Montanelli. Invero, l'Assemblea Toscana si trovava investita di facoltà sì ampie, che il Consiglio Generale non immaginò possedere giammai. All'Assemblea spetta deliberare se voglia unirsi con Roma: — quindi, ella poteva decidere non volere; non volendo questa Unione, le competeva, a un punto, il diritto e il dovere di ordinarsi in Repubblica o in Principato Costituzionale separatamente; e, scegliendo il Principato, nessuno poteva impedirle di restaurare la Casa di Lorena. Tutto stava in lei.

Considerando, pertanto, gli uomini capaci per le faccende politiche non abbondare in Toscana, pensai, che su molti sarebbe caduta doppia nomina per le due Assemblee; e questo concessi per avere maggiore sicurezza che i Deputati alla Costituente Italiana, partendo prima delle deliberazioni prese dalla Toscana, non somministrassero pretesto a soverchierie rivoluzionarie. Al quale intento, provvidi ancora che le formalità per lo spoglio dei Deputati alla Costituente Italiana si eseguissero con lentezza; e di vero, non furono mai principiate.[561]

Se in mezzo agli sconvolgimenti politici, o per virtù o per fortuna, mi venne fatto condurre a questa riva lo Stato, l'Accusa, per onore suo, si ritiri, anzi si penta e si dolga di avermi offeso, e prometta fermamente di pensare, in seguito, a quello che scriverà. Nè creda essa che io in questo modo per vana iattanza mi esprima; mai no: se io il faccio, è segno che ho da opporle un testimone a cui ella dee fare di berretta; una prova che ella almeno ha da credere; una autorità, che da lei alla più trista vuolsi rispettare, e questa autorità è la sua; questo testimone egli è dessa.... propriamente l'Accusa....

Il Decreto del 10 giugno 1850 dichiara con parole solenni: «Il Popolo Fiorentino restaurava la Monarchia» (il Decreto non mette costituzionale, ma ce lo metto io, credendo servire allo amore della Patria e alla reverenza del Principe) « alla quale era devoto, ed a cui si era mantenuto, in mezzo alla tristezza dei tempi, costantemente fedele[562] E sia così, poichè così dice. Lo incubo rivoluzionario fu quegli che, aggravandosi sul petto a questo Popolo, gl'impediva la voce e la conoscenza; ora, poichè dallo incubo io lo liberava, dandogli abilità e modo di manifestare la sua devozione, egli è evidente che, anche a giudizio dell'Accusa, merito lode, non biasimo. Di qui non si esce: o crede, o non crede a sè stessa l'Accusa? Io devo supporre che a sè creda; e allora, dove trova materia a quel brutto delitto che si chiama tradimento? Ella potrebbe sospettare, come fa, quando fosse persuasa che io immaginassi il voto universale nemico al Principato Costituzionale, o che per me si volessero praticare violenze e inganni, per estorcere un voto contrario al desiderio dei Popoli; ma no, chè io ho provato, e proverò ancora, come nessuno con sicurezza maggiore alla mia sapesse gli umori dei Toscani; e in quanto a brogli, per preoccupare la libera votazione, nessuno, e neppur essa (ed è tutto dire!), ha mai pensato accusarmi.[563] Forse ella avrebbe potuto criticare il mio concetto, preferire un metodo ad un altro; e su questo ognuno ha i suoi consigli. A me le violenze non garbano, di qualunque colore elle sieno, e quando una cosa può ottenersi in palazzo, con modi civili e fra uomini di senno, non comprendo la ragione nè la necessità di andarla a pescare fra le commosse moltitudini in piazza. Ma poichè prevedo che con l'Accusa non si può fare a fidanza, così sarà prudente consiglio continuare il mio ragionamento.

Io riporterò questo Decreto, affinchè si conosca come con la prudenza, aspettata la opportunità, possano ottenersi giuste e ragionevoli cose, senza ricorrere a partiti disperati.

«Il Governo Provvisorio Toscano

«Decreta:

«Art. 1º L'Assemblea Toscana è investita del Potere Costituente a due distinti effetti, cioè:

«( a ) Per decretare, se e con quali condizioni lo Stato Toscano debba unirsi a Roma.

«( b ) Per comporre insieme ai Deputati dello Stato Romano la Costituente dell'Italia Centrale.

«Art. 2º Tenuta ferma la nomina dei trentasette Deputati per l'Assemblea Costituente Italiana, e la contemporanea ma distinta votazione per l'Assemblea Toscana, non sarà per altro incompatibile che si riuniscano in uno stesso individuo la rappresentanza sì nell'Assemblea Toscana, come nella Costituente Italiana.

«Art. 3º Il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento dello Interno è incaricato dell'esecuzione del presente Decreto.

«Dato in Firenze li sei marzo milleottocentoquarantanove.

« F. D. Guerrazzi « Presidente del Governo Provvisorio

Non è da dirsi se Circoli e Giornali si tenessero offesi; accorrendo pronti al riparo, si dettero sollecitamente a mutare le note dei Deputati, transfondendo nella Costituente Toscana i più sviscerati Repubblicani, affinchè la Repubblica e la Unificazione con Roma fossero proclamate per acclamazione dall'Assemblea appena convocata.

Che più? Io vengo apertamente oltraggiato come avverso alla Repubblica. Il Circolo minaccia rivoluzione, se l'Assemblea Costituente Toscana non dichiara la Unificazione con Roma; esamina gli eligendi, e, se non si obbligano a sostenere questo concetto con le armi, rigettansi con vituperio.[564] I Giornali repubblicani, infervorando gli animi alla scoperta, bandiscono la guerra civile, se l'Assemblea Toscana non proclama la Repubblica, e subito. E queste cose abbiamo veduto altrove; ma specialmente intorno al Decreto del 6 marzo il Nazionale muove querela perchè gli sembra alla onnipotenza del Popolo ingiurioso; e a parere mio s'inganna, imperciocchè lo studio di formulare dirittamente il partito non si sa comprendere in che cosa o come offendesse la libertà di risolverlo.[565] La Costituente provoca il Popolo, affinchè riparando la ostinata resistenza del Governo a proclamare la Unificazione con Roma, in onta alla volontà manifesta del Paese, mandi all'Assemblea Costituente Toscana gli uomini che l'acclameranno spontanea e unanime; e di queste iattanze mi prendevo cura mediocre, conciossiachè io troppo bene sapessi che i Settarii rimasti delirassero, ed i partiti avessero ottimamente compreso, che questa Unificazione, non essendo stata vinta di assalto, ormai per bloccatura non riusciva altramente possibile.[566] Il Popolano, tra perchè il Governo non buchera l'elezioni, e tra perchè la Legge pessima genererà un Assemblea di Retrogradi e di Conservatori, mi viene intuonando da capo la minaccia della guerra civile.[567] Come se fosse fede quella di convocare i comizii universali, perchè liberissimi dieno il voto, e maneggiarli poi perchè lo depositino nell'urna a modo tuo; e lasciata la fede, bel senno davvero sarebbe, per conoscere e rispettare il sentimento di tutto il Popolo, industriarti con ogni arte a farlo attestare del tuo. Questo si chiama nel sistema dei Settarii consultare il Popolo; e se non si obbedisce, o ci dichiarano la guerra, o ci congiurano contro, o ci calunniano con vituperii di cui nessun Partito oggimai più si vergogna; — nessuno.

La solerzia del Governo non mancò alla Patria. Il Ministro dello Interno stampò e diffuse una lista di Deputati di opinione moderata, per rettitudine insigni; altro non poteva fare, e non fece, chè senno e probità lo vietavano. Il Prefetto ebbe ordine raddoppiare vigilanza sopra i Circoli, e sopra le moltitudini. Io raccolsi la Guardia Civica nel Giardino di Boboli. Quello che io le dicessi vuolsi ricavare dal Monitore del 12 marzo 1849: «La Guardia Nazionale di Firenze, in numero di meglio che 2000 uomini, è stata stamane passata in rivista dal Generale Zannetti su la Piazza Maria Antonia. Quindi, marciando per plotoni, si è recata nel Giardino di Boboli, dove il cittadino F. D. Guerrazzi Presidente del Governo Provvisorio l'ha arringata, interpellandola se fosse deliberata a tutelare l'ordine, ad aiutare della sua forza il Governo, fermo nel volere la libertà delle elezioni e la indipendenza degli eletti Rappresentanti. A queste interpellazioni la Guardia Nazionale ha risposto con manifesta ed unanime adesione alla mente del Governo.»[568]

Ora esaminiamo un po' come cotesto atto venisse commentato dai Faziosi: «Ecco, dicevano essi, apparecchiarsi il terreno perchè le Assemblee non pronuncino la Unificazione con Roma, e conseguentemente la decadenza della famiglia di Lorena, e la Repubblica: questo non può succedere, nè succederà; ma quando mai per caso inopinato accadesse, noi allora profitteremo di ogni mezzo ci presentino le circostanze, affine di salvare il Paese nostro da un giogo aborrito, che imporre si volesse a nome della legalità e di una servile rappresentanza.»

I Repubblicani non temono che la Guardia Nazionale voglia suscitare nel Paese la guerra civile, facendo fuoco sopra i suoi fratelli, che « traditi nei loro voti, e vedute strozzate le loro speranze dal capestro delle legali formalità, usassero l'estremo loro appiglio, la suprema loro ragione — la forza e la violenza.» E neppure i Settarii temono che i Deputati possano sopportare l'obbrobrio del rifiuto delle tre Leggi indicate; ma «dove questo obbrobrio dovesse pesare su di essi, certo, ad onta di tutte le esortazioni del Guerrazzi, non peserà su la Toscana l'obbrobrio assai maggiore di avere pazientemente sopportato il tradimento; e la Toscana saprà consumare la sua Unione con Roma, e saprà subirne tutte le conseguenze, anche ad onta dei suoi Rappresentanti, e degli uomini del Governo Provvisorio.[569]

I Repubblicani strepitano e minacciano a cagione dell'Assemblea Costituente toscana, dichiarando che la si vuole da me instituita per decretare la Restaurazione; — il Procuratore Regio Paoli, e dietro a lui gli Auditori Marrucchi, Bambagini e Ciaccheri, e dietro a loro i Consiglieri Orsini, Aiazzi e Pieri, e Regio Procuratore generale Bicchierai, strepitano e accusano a cagione dell'Assemblea Costituente toscana, che la si volle instituita da me per decretare la Repubblica. I Repubblicani mi chiamano alla scoperta traditore per volerla convocare; — i Procuratori Regii, Auditori e Consiglieri, gli uni dietro agli altri, m'incolpano di tradimento per averla convocata. In verità, sarebbe questa farsa gioconda da rallegrare le genti, se non l'avessero rappresentata su le lagrimevoli scene di un carcere, che da 29 mesi divora la salute degli uomini e delle famiglie.

I Repubblicani, per quanto venni informato, e i Circoli e i Giornali manifestavano, tentarono un colpo estremo. La Legge Stataria non era più da richiamarsi in vigore a Firenze. Il 1º aprile per contenerli dall'avventurarsi a disperati partiti, mandai fuori la Notificazione, che già fu da me riportata a pag. 518 di questa Apologia.

Premesse queste considerazioni e questi fatti, lascio a quanti fanno studio di onestà giudicare, se sieno consentanee al vero ed al giusto le seguenti proposizioni dell'Atto di Accusa, § 85.

«Quanto alla Repubblica ed alla fusione con Roma, non si vuol conoscere se il Guerrazzi l'ha creduta sempre, od in massima, forma buona ed accettabile per la Toscana, quando si sa, che servì di elemento disorganizzatore; che in questo senso fu lasciata operare liberamente;[570] che tutto il suo sforzo si ridusse in qualche contingenza a persuadere ed agire perchè non venisse attuata troppo sollecitamente, o prima che venisse approvata dal voto nazionale; e ad interpellare su la fusione il Consiglio di Stato; e che, sia questa, sia altra forma di Governo per la Toscana, non che il giudizio sul Principe e sul Principato, era ormai abbandonato anche per fatto suo al potere illimitato dell'Assemblea Costituente Italiana! »

Sì, certo, pretendere e sostenere che il voto nazionale toscano pronunziasse intorno alle sorti toscane non era piccola impresa, però che nei miei presagi importasse esclusione di Repubblica, e richiamo del Principato Costituzionale. Il successo poi dichiara, e lo ardore dei Repubblicani a impedirlo rivela, come io al vero mi apponessi. Inoltre, per mostrarvi come i denti dell'Accusa, comecchè mordano, pure tentennino, avvertano di grazia i miei lettori: l'Accusa afferma, che io altro non feci che procrastinare la dichiarazione della Repubblica all'apertura dell'Assemblea. Quel giorno venne; ebbene, fu ella proclamata la Repubblica? No: nè allora, nè poi. L'Accusa opporrà: «No, perchè Novara ti aveva messo in cervello.» Nemmeno; nel giorno 25 marzo, imitando lo esempio dato da Roma nell'8 febbraio, dove avessi voluto, poteva essere decretata la Repubblica per acclamazione. Chi mai lo avrebbe impedito? L'Accusa da capo obietterà: «Sì, potevi, ma per quanto?» Questo è un altro discorso: — quanto sarebbe bastato per sentire qualche Requisitoria contro i perversi perturbatori dell'ordine repubblicano.....

Il 25 marzo il signor Montanelli apriva l'Assemblea Costituente Toscana;[571] nel 27 sopraggiunse la notizia lacrimevole della disfatta del 23 di Novara. Riarse la rabbia dei Repubblicani; ma oggimai credevo di avere raccolto forze abbastanza per resistere con profitto. Sebbene non mi fosse riuscito ad allontanare, per virtù di voto, i non Toscani dall'Assemblea, — nè per ingegno, pubblicando sul Monitore la lettera del Generale D'Apice. — pure, mercè le pratiche indefesse, era giunto il Governo ad acquistare una maggiorità al Partito Costituzionale.[572] Venuto alle strette co' Colleghi, Montanelli domandava allontanarsi, diviso fra la evidenza dei fatti e il dolore di dovere renunziare alle visioni dello entusiasmo; Mazzoni, proseguendo nella sua fede, nonostante i fatti nemici, passa fra gli oppositori del Governo.

Nella notte del 27 al 28 fu proposta all'Assemblea la elezione di un Capo provvisorio al Potere Esecutivo per curare specialmente le cose della guerra. — Non era presente il Popolo, mancavano gli stenografi; ma vivono i Deputati presenti, i quali attesteranno le ingiurie atrocissime avventate contro di me dal Partito Repubblicano. Non mancarono accuse aperte di trame ordite per operare la Restaurazione del Principato; nome e sostanza del tradimento dichiararono. Montanelli sorse a difendermi sostenendo, che egli rispondeva per me, e prometteva, che io senza il consenso dell'Assemblea non avrei con violenza imposta forma governativa allo Stato, e veramente io pensava fare così. Ma le ingiurie repubblicane siffattamente mi commossero, che ricusai ostinatissimo lunga ora il carico commesso. I preghi urgenti, continui, a ributtare impossibili, dei Deputati Costituzionali formanti la maggiorità, e dell'egregio Presidente Taddei; le rampogne oltre modo passionate, e veementi degli amici, che, dopo avere tanto fatto pel Paese, vinto da sdegno lo abbandonassi nel supremo pericolo; — e soprattutto la paura di commettere cosa vile, dopo spazio, forse troppo, di tempo, mi piegarono. Nel Monitore del 28 marzo è riportato il Decreto dell'Assemblea, che dichiara:

«L'Assemblea Costituente Toscana nella notte de' 27 al 28 marzo 1849 ha deliberato quanto appresso:

«Art. 1. Che sia immediatamente ricostituito un Potere Esecutivo provvisorio.

«Art. 2. Che questo Potere Esecutivo sia conferito ad una sola persona.

«Che il Cittadino Deputato F. D. Guerrazzi sia rivestito del Potere Esecutivo anzidetto.

«Che questo Potere abbia facoltà straordinarie per provvedere ai bisogni della guerra e alla salvezza della Patria, e che queste facoltà continueranno in esso, finchè ne durerà la necessità.»

Nel N o del 29 successivo si legge il mio Proclama, il quale stampato a pagine 220 di questa Apologia, in nota, rende testimonianza manifesta del mio forte rifiutare, e del pauroso quanto esiziale sospettare dei Repubblicani, che i pieni poteri io adoperassi per restaurare violentemente il Governo Costituzionale.

Malgrado le mio promesse, o fosse diffidenza di me, o le suggestioni calorose che venivano da Roma, le quali accertavano dei soccorsi inglesi e francesi, solo che trovassero il Paese costituito a determinato reggimento, esporrò brevemente quello che per loro si tentasse.

A ben significare le scosse che camminando pel dirotto sentiero io pativa, non meno che la necessità delle dichiarazioni vie via emesse come scudo a riparare me ed altrui dal flagello delle lingue dolose, importa riprendere e proseguire la serie delle calunnie di traditore, che copertamenie o scopertamente i Settarii andavano insinuando contro di me. Quando pensai cavare di Livorno la Guardia Municipale livornese sostituendole parte della fiorentina, mentre i Faziosi Reazionarii davano ad intendere in Firenze che io chiamava i Livornesi per formarmene un corpo di Pretoriani, i Faziosi Repubblicani a Livorno dicevano che io vi mandavo a opprimere la Libertà; ed allorchè, consigliando il Colonnello Tommi, il reggimento del Colonnello Reghini s'indirizzava a Livorno, secondo che ho esposto a pag. 373 di questa Apologia, con Dispaccio del 9 marzo eravamo avvisati: «ad arte essersi sparso fra il Popolo che il Comandante era incaricato di fare fuoco sul Popolo, come già dicevasi aveva fatto sul Popolo Pistoiese.»

Nel 17 marzo 1849 si fa credere a Livorno, che io tramo di consegnare la Toscana al Piemonte; a parare la insidia scrivo a Livorno, e induco Montanelli ad accompagnare con la sua firma (poichè in lui riponevano fede i Settarii) il Dispaccio del medesimo dì inviato al Governatore:

«Al Governatore di Livorno.

«Scrive il signor Demi, che si sparge voce come noi vogliamo consegnare la Toscana al Piemonte. Quantunque noi crediamo che queste voci non sussistano, pure vi autorizziamo a dichiarare, che il Governo crede, e lo ha detto, che la Unione con Roma sarà proclamata come necessità. Guardatevi dalle mene dei nemici, che si vestono in ogni maniera per guastare la santa impresa.

« Guerrazzi. — Montanelli. »

L'Accusa s'impadronisce di cotesto Dispaccio, e intende ritenerlo per dimostrazione di animo: come se all'uomo politico posto a duro partito non deva nè anche essere concesso con parole schermirsi. Le quali parole poi, in confronto delle opere, spariscono; e considerate tritamente, non esprimono cosa che valga: però che la opinione di un fatto deva cedere davanti alla evidenza del fatto contrario.

Ma io potrei dire di più, se non mi ritenesse la reverenza delle somme chiavi; potrei dire, che prima di accusare uno scritto, hassi a conoscere la lingua nella quale e' fu dettato; e se la non si conosce, allora tutte le Procedure ammaestrano ricorrere al Dragomanno. L'Accusa pensa che la parola Unione spieghi il rimescolare di due cose, per modo che vengano a formare uno impasto solo; ed anche qui l'Accusa s'inganna. Altro è unire, ed altro unificare; unire significa, in lingua italiana (che nei tempi antichi si chiamava fiorentina, perchè sapevano parlare e scrivere egregiamente in Firenze tutti, compresi anche Giudici), congiungere due cose in guisa che ognuna ritenga la propria specialità: unificare importa ridurre due cose ad unità per modo, che, ognuna di loro perdendo la propria specialità, compongano un tutto. Dove l'Accusa obiettasse che sono queste sottigliezze filologiche, e che le parole voglionsi intendere pel senso politico, che il tempo loro partecipa, nemmeno avrebbe ragione. Di ciò gli faccia testimonianza primieramente il Farini, che io qui le richiamo alla memoria: «Il Mazzini era giunto (in Toscana) il dì stesso che il Granduca partiva da Siena, e vi era stato accolto con grande festa. Egli si era dato a predicare la Unificazione con Roma, che non voleva chiamare Fusione, parola a lui ed ai suoi esosa, la quale voleva dire lo stesso...... ma il Guerrazzi non voleva la Unificazione ec.»[573] Più espresso poi il Conciliatore: «Colla parola Unione intendemmo sempre stabilire un vincolo di federazione negl'interessi politici, militari e commerciali, dei varii Stati d'Italia.»[574] E poco oltre: «Quindi o si parla di Unione, e noi diciamo: si proclami pure la Unione con Roma, ma si proclami al tempo stesso la Unione col Piemonte.» Nella Seduta del 29 marzo 1849 il proponente la Legge che aveva in iscopo la confusione degli Stati Romano e Toscano, non riputando la sola parola Unione esprimesse il suo concetto, la chiamò Legge per la Unione assoluta con Roma. Per le quali spiegazioni filologiche e politiche, io vorrei che si persuadesse l'Accusa potersi desiderare la Unione degli Stati Italiani senza bisogno ch'ella scappasse fuori con una Requisitoria di Lesa Maestà.

L'Accusa sa, o dovrebbe sapere, poichè nel suo Volume lo registra a pagine 828, come io, favellando nel 12 febbraio dalla terrazza di Palazzo Vecchio al Popolo ragunato per piantare l'Albero, dicessi, che forse cotesto atto di unirsi con Roma sarebbe stato consentito da tutta Toscana; per ora essere prepotenza che le presumevano imporre: — donde era agevole quanto onesto dedurre, anche senza porre mente ai successi del tempo, che una legge suprema costringeva ad usare cosiffatti ripari. Nel Popolano del 18 marzo abbiamo veduto appormi alla scoperta l'accusa di tradimento, e tradimento con tremanti labbra i Settarii fremevano, e tradimento ogni ora nelle oscure carte stampavano. Ad ogni caso inopinato, non solo in Firenze ma nelle Provincie si gridava: tradimento.[575] Tradimento per Novara, tradimento per Genova. Nel 29 marzo a Lucca, a Pisa e a Pescia spargono la voce essere io partito per Gaeta a prendere il Granduca,[576] con altre più strane novelle, — e trovano fede;[577] quindi la necessità di stampare nel Monitore del 30 marzo la Nota seguente, ma senza pro: «Siamo autorizzati a smentire la voce che si va spargendo dello invio, per la parte del Governo, di una Deputazione a Gaeta.» L'Accusa non manca di acciuffare cotesto avviso; lo separa dalle circostanze che conosce accompagnarlo (anzi le sopprime), lo appunta, lo arruota, lo affila, e me lo scaglia addosso, come se spontaneo egli fosse, e pubblicato solo per vaghezza di mostrarmi avverso al Granduca. Se questa sia fede, conosca il Paese intero, e giudichi; e se a tale siamo noi che possano per esercizio lodevole di professione usarsi arti, che nel cittadino si rimprovererebbero come iniquissime, io incomincierò a dubitare davvero, se la vita salvatica debba anteporsi a questo tanto commendato nostro civile consorzio.

Nel 1º aprile i Settarii, i quali si affaticavano a screditarmi presso lo universale, insinuando che, se avversavo la Repubblica, già non intendevo a questo per amore che portassi al Paese, bensì per turpe interesse, e per cagione di accordi già stabiliti col Principe, ordiscono fra loro di muovermene improvvisa domanda; avvisato per tempo, entrando all'Assemblea, preoccupo il passo e distruggo lo artifizio, dicendo: «Domando la parola per un fatto personale. Innanzi che io mi recassi in seno di questa onorevole Assemblea, ho appreso come qualche Deputato ha proposto all'Assemblea stessa di fare una interpellazione al Potere Esecutivo sopra la verità del supposto invio di una Deputazione o che altro di simile a Gaeta, per ricondurre quaggiù il fuggitivo nostro Principe. Debbo dichiarare che una simile domanda è tanto trista per chi la fa, quanto è stupida per chi la crede.»

Si levarono voci minaccievoli; di grida, di gesti rabbiosi non fu penuria, ma per quel giorno squarciai la male composta trama. Intanto, mentre in mezzo al fortunoso mareggiare di Fazioni smanianti la mia fama preservo e la mia vita, del combattuto potere mi valgo a difendere pertinacemente l'Assemblea dagli estremi conati della Setta, promulgando il Proclama del 1º aprile 1849 già riportato a pag. 579-580 di questa Apologia.

Me ne valgo per richiamare l'Arcivescovo, e per resistere alle crescenti e continue calunnie. L'Accusa rammenta e adopera contro me, come subietto di Accusa, la dichiarazione del 5 aprile, che io con tutti i Ministri firmai; ma non ricorda o non sa del cartello mantenuto affisso, dopo il 3 aprile, all'Albero su la Piazza del Duomo; non sa o non ricorda la congiura allo scopo di tôrmi di mezzo come traditore che ha venduto Patria e coscienza; non ricorda, e si dovrebbe rammentare come in piena Assemblea mi rinfacciassero nel 3 aprile di apparecchiare le feste della Restaurazione con i due milioni stanziati per le spese della guerra; non si ricorda, e lo dovrebbe sapere, che a motivo dei veementi sospetti nella deliberazione dell'Assemblea Costituente fu apposto il vincolo solenne di non risolvere intorno alle sorti della Toscana senza il concorso e l'annuenza dell'Assemblea, a pena di nullità, e di essere punito come traditore della Patria. Crescendo pertanto il perseguire infestissimo, irrequieto, dei Settarii, per tutela di vita, e per condurre a compimento il concepito disegno, feci e consigliai gli altri a fare la dichiarazione seguente:

«Il Capo del Potere Esecutivo e il Ministero dichiarano sopra l'anima e onore loro, essere calunnioso, che per essi siasi operato o si operi, direttamente o indirettamente, pratica, trattato, insinuazione, ed anche principio alcuno o preliminare di proposta, parlato o scritto, tendente alla Restaurazione in Toscana della Dinastia della Casa di Lorena. Il Potere Esecutivo sente e ricorda l'ordine imposto dall'Assemblea, e l'obbligo da sè medesimo assunto, che non si possa in verun modo mutare la forma politica della Patria nostra senza consultare l'Assemblea Costituente. — Firenze, 5 aprile 1849.»

Dei firmati, ne fecero colpa allo egregio amico P. A. Adami; e questi non tacque averla sottoscritta, perchè la conobbe provvidenza necessaria a salvarmi e a salvarsi da pericolo imminentissimo; e fu reputato sincero: così che la porta del carcere gli venne dischiusa; — certo non avranno ommesso di rampognare il defunto Colonnello Manganaro, uomo di molta virtù; ma egli sembra che avesse la fortuna, la quale a me non arrise finora, di trovare orecchie alla persuasione non disperatamente impenetrabili, conciossiachè i giorni che visse ultimi della vita onorata non gli furono fatti amari con lo squallore del carcere infame.[578]

La Seduta del 29 marzo si apre con le dimostrazioni del Partito Repubblicano avverse al voto della notte del 28: voglionsi pubblicati i nomi dei consenzienti e dei dissidenti, per esporli alla popolare indignazione. Il Deputato Manganaro[579] contradice la proposta, ma dichiara: «Frattanto ho il coraggio di asserire, che io votai per il Potere Esecutivo conferito al Cittadino Guerrazzi; e nulla temo avere opinato in tal modo.» Così eravamo arrivati a tal punto col Partito Repubblicano, che era pericolo procedermi amico, e per dichiararlo vi abbisognava coraggio; e questo avrebbe dovuto avvertire chi giudica. Un Deputato propone la Legge di cui lo scopo è la Unione assoluta con Roma, e però implicitamente la dichiarazione della Repubblica e la decadenza del Principe. Nella Seduta del 30 marzo il Deputato Marinelli riassume la interpellazione mossa nel 29 dal Deputato Giotti per sapere da me se avessi mandato una Deputazione a Gaeta: intende che vi risponda pubblicamente, perchè simile notizia si va insinuando fra il Popolo! Altri v'insiste. Lo scopo di questa interpellazione era di diffidare sul mio contegno i Repubblicani fanatici, e spingerli a qualche estremità. A me parve necessario riparare alla insidia, dichiarando a voce e in iscritto, non essere vero, sì perchè lo invio della Deputazione a Gaeta fosse veramente menzogna, sì perchè, come altrove ho detto e qui ripeto, e di ripetere mi giova, volevo condurre con la persuasione i dissidenti ad aderire alla Restaurazione; non già per via di trame, nè per violenza, o per basso motivo di privato interesse. — Il Deputato Venturucci troppo presto avventura la proposta: «Gettiamo uno sguardo sopra gli avvenimenti che occasionarono la esistenza di questa Assemblea. Mancò uno dei Poteri; il Governo si trovò incompleto; fu interrogato con suffragio universale il Paese come intendeva provvedere al suo avvenire. Ebbene! Ora non possiamo, che rispondere: il Paese, di cui siamo i Rappresentanti, accetta la Carta del 1848. Così avremo una Costituzione concessa, ma consentita. Noi non avremo fatto una Rivoluzione, saremo in terreno legale, o almeno la Rivoluzione non sarà colpa nostra. Non nasceranno interni dissidii, si eviteranno gli esterni nemici, avremo serbato le nostre forze per un migliore avvenire, e daremo il nobile esempio, giusta la sentenza di Sallustio, di avere voluto seguire la ragione piuttosto che la fantasia.»

Questo era il concetto del Rappresentante del Potere Esecutivo. Ma Venturucci col suo affrettarsi indisciplinato l'ebbe a mettere in repentaglio gravissimo.[580] — Si levarono grida di disapprovazione, nelle tribune alte in ispecie. Un Deputato del Partito contrario obietta la proposta di dichiarare l'Assemblea solidale della Rivoluzione. Un altro afferma che l'Assemblea ha ricevuto mandato ristretto dal Popolo, vale a dire determinato a proclamare la Repubblica e la Unione con Roma. — Dannata sentenza era questa, imperciocchè con siffatto mandato imperativo non faceva mestieri discussione, e l'adunanza compariva simulacro inane.

Il Deputato Nespoli, ad evitare che il partito Busi fosse approvato per acclamazione, fa la proposta che prima si provveda al modo di resistere; penseremo dopo alla forma del Governo. Venturucci protesta contro qualunque voto per acclamazione; Nespoli gagliardamente lo appoggia; Palmi nota, che il proponimento della patria difesa votato dall'Assemblea è nullo, se non venga seguíto dallo effetto; per conoscere questo, bisogna consultare il Popolo intero; e quindi propone lo invio di Commissarii in provincia. Turchetti si unisce a questi oratori, concludendo perchè il voto nella quistione agitata si sospendesse. Questi tutti formavano parte della maggiorità creata dal Governo, ma andavano disseminando, e anche anticipando incautamente i varii partiti discorsi nelle conferenze: invero i Repubblicani, prevalendosi di cotesta sconnessità, si sforzano a far discutere il partito Busi come pregiudiciale. Turchetti, e principalmente il Deputato Sestini che muove dubbio se possa deliberarsi così grave negozio, senza il concorso dei 120 Deputati, vengono derisi. I Settarii, sparsi nelle tribune alte, prorompono in grida di minaccia. La più parte dei Costituzionali balena. Fu allora che io, domandata la parola, uscii in quella proposta, di cui, elogiando così, faceva la storia il Conciliatore del 1º aprile 1849: «Alle parole degli opponenti alla fusione immediata con Roma strepitando le tribune, e togliendo così ai Deputati la libertà delle loro opinioni, il deputato Guerrazzi si è alzato, e rivoltosi con nobile fierezza al Presidente della Camera, disse: Signor Presidente, io domando che sia a me data la forza di cui ella dispone; ed io come capo del Potere Esecutivo andrò a fare sgombrare le tribune a tutti questi scellerati ed iniqui perturbatori. Queste parole sono state accolte co' più vivi applausi.»[581]

I Deputati della maggiorità, e il Popolo non educato dal Circolo, m'interruppero con applausi di conforto. Palmi e Venturucci, ripreso coraggio, orano per la sospensione del partito Busi, fino a mutate condizioni politiche. Modena, e altri Deputati, conflittano la sospensione, e intendono si deliberi sopra la Unione, e subito. Si va ai voti. Sessantasei Deputati si trovano presenti: 42 votano pel Governo, 24 per la parte repubblicana. La maggiorità governativa sommava quasi a due terzi.

Quanto è vero dunque ciò che afferma l'Accusa, che io avversassi la Repubblica, solo per farla proclamare dall'Assemblea? Gl'idi di marzo erano venuti; dunque perchè non la feci dichiarare, non la favorii io? Anzi, perchè l'avversai? — La notizia della disfatta novarese ti aveva sopito nell'animo il genio repubblicano, — oppone l'Accusa; ma io ripeto che nel 25 marzo questa mai sempre dolente novella non era arrivata, anzi in quel giorno inebbriava, piena nel suo bel fiore, la speranza.

I Repubblicani, secondo che vedevano inclinare le cose alla restaurazione dello Statuto, s'inviperivano a sospingere il Paese nella Repubblica. Urgeva contenerli, e affrettarmi a sgombrare le vie, affinchè il voto universale, nelle vicende che precipitavano, si manifestasse solenne e trionfante: a questo intento mando Montanelli, che lo chiedeva, in Francia; pubblico il Proclama del 1º aprile, e alla fine dichiaro non potersi provvedere alla salute della patria: 1º Se non si proroghi l'Assemblea, con obbligo nel Potere Esecutivo di non risolvere intorno alle sorti del Paese senza consultarla; 2º Si sospenda ogni questione intorno alla forma del Governo; 3º Rimangano i Deputati a Firenze per condursi, a richiesta del Capo del Potere Esecutivo, in qualità di Commissarii per la guerra nelle Provincie, o sovvenirlo in altra maniera.

Prima che per me si manifesti il motivo di cosiffatta proposta, vedasi come l'accogliessero i Repubblicani. Essi tornano passionatamente su le cose decise, — perchè, come il Popolo avrà coraggio, essi dicevano, per prendere le armi, se l'Assemblea non l'ha per proclamare la Repubblica? — I Settarii fremono nelle tribune; il Deputato Del Sarto procura placarli con accomodate parole, ma cresce il rumore. Il Deputato Manganaro valorosamente dichiara: «Che Popolo e non Popolo? Nessuno ha diritto di chiamarsi Popolo nel nostro cospetto. È una frazione del Popolo che ce ne vorrebbe imporre. Noi soli, eletti dal suffragio universale, possiamo parlare in nome del Popolo, e provvedere alla salute di lui.»

Il tumulto a queste parole scoppia per modo violento e scandaloso, che il Ministro dello Interno dichiara: la dignità dei Ministri non consentire che rimanessero. Biondi esclama che i Deputati avranno il coraggio di morire; e nessuno abbandoni il posto (e questo si chiama sapere sostenere le parti di Deputato). Turchetti corre a dare ordini per isgombrare le tribune. Il Ministro dello Interno grida al Presidente: «Io le ho mandato 180 uomini, che ne fa ella?»

Nel 3 aprile si tornò a discutere intorno alla mia proposta. Il Deputato Pigli, sempre nello intento d'indurre l'Assemblea a riporsi dalle cose decise, si oppone che il partito del Capo del Potere Esecutivo venga preso in considerazione, finchè non sia decretato intorno alla forma di reggimento: egli vota per la Repubblica. «Il Partito Repubblicano» prosegue l'oratore «dicono poco numeroso in Toscana: gli uomini si pesano, non si contano. Gli uomini della Rivoluzione vincono con la Rivoluzione. Prudenza e opportunità essere istrumenti da tiranni. Voi dite non vedere il Popolo invaso da entusiasmo; e sia: ma dovete dirmi, che avete fatto tutto per eccitarlo, che tutto avete fatto perchè non andasse spento e distrutto. I principi sono fuggiti, i troni sono restati. Voi chiamate il Popolo a difendere le frontiere, ma non gli date armi, nè danaro e divise. Volete che il Popolo risponda davvero? proclamate la Repubblica.» Protesta contro le parole del Deputato Venturucci, che dichiarò la Toscana soddisfatta dello Statuto del 1848. Così, a sentire il Pigli, la Repubblica era di Elena il nepente, che avrebbe somministrato non solo uomini, ma danari, armi, cannoni e cavalli, anche quando il Governo non gli avesse somministrati; ed egli ignorava quello, che altrove ho narrato, che richiesto dai Repubblicani Romani a mandare a Bologna per instituirvi una Commissione di reciproca difesa, vi aveva spedito Manganaro e Araldi, i quali, poichè ebbero atteso più giorni indarno, si ridussero non so se più sconfortati, o incolleriti, per non avere potuto vedere in faccia un Commissario Romano!!![582]

Le opinioni di Carlo Pigli udivo, in quei tempi, andare su le bocche degli uomini accesi da inestimabile entusiasmo, ed anche oggi leggo ripetute nei libri che essi stampano. La dura esperienza dovrebbe averli sgannati; ma non è così. Io ho sempre tenuto come perniciosissima la invasione della fantasia nel dominio della ragione; e tanto le volli anche materialmente separate, che, in casa mia (quando la ebbi!), tenni due stanze: in una delle quali scriveva quanto mi dettava la immaginazione, e in un'altra trattava negozii. La Repubblica è una voce; niente più, niente meno; nè le voci a un tratto, meno quelle di Dio, operano prodigii. In quanto a spirito pubblico, non vogliono intendere i Repubblicani che essi non operarono rivoluzione in Toscana, ma andarono oltre perchè trovarono sgombra la via; se il Principe teneva fermo, il Partito Repubblicano non avrebbe allora mai, nè anche un momento, prevalso; e in quanto agli ordini militari, ci vogliono tempo, concordia e sapere. Le armi, i danari, e le assise non difettavano; mancavano chi le volesse e sapesse maneggiare e vestire; e le cose affermate in questo proposito, a carico del Governo, erano sfrontatezze, e niente altro. Deh! non ci nuoccia perpetuamente la nostra matta prosunzione; e di più non dico.

A Pigli subentra il Deputato Mazzoni; egli pone essere stata intendimento universale la Repubblica; venire tardi i consigli della paura. Il Popolo avere conferito ai Deputati mandato imperativo. Adesso trattarsi di Repubblica, o di Restaurazione. Per richiamare il Principe Costituzionale, mancare l'Assemblea di facoltà. — Si obietta il Popolo restío allo appello del Governo; l'Assemblea faccia il suo dovere: se il Popolo non farà il suo, peggio per lui. La proposta del Potere Esecutivo non somministrare veruno vantaggio, anzi recare danno. Con la Restaurazione non può trattare l'Assemblea.

Il Deputato Mazzoni erra manifestamente su la natura del mandato, il quale era impressionato dalla formula proposta dal Decreto del 6 marzo: se, e come Toscana deva unirsi a Roma. Aveva ragione trattarsi adesso di Repubblica o di Restaurazione; non aveva ragione a credere i Deputati propensi alla Repubblica prima dello infortunio novarese, mutati dopo; perchè prima di allora erasi dato opera ad agitare fra i Deputati i concetti, che verrò esponendo. Rigidi i suoi principii, non giusti. E quando anche veri e giusti, vi ha qualche cosa nel mondo, davanti alla quale ha da cedere il rigore del raziocinio, ed è la carità della Patria. Perano piuttosto venti sillogismi, che un uomo solo! La carità del luogo natío persuade a procurare al Popolo il maggior bene possibile anche a carico della propria reputazione. Pur troppo col Deputato Mazzoni, uomo d'altronde per integrità di vita santissimo, procedevo diverso. Questo motivo mi costrinse a non partecipargli i miei consigli: sarebbe stato lo stesso che persuadere il David di Michelangiolo. Propugnarono pel concetto repubblicano i Deputati Modena, Bichi, Giotti, Menichelli, Vannucci, Trinci Bartolommeo, Cipriani; lo avversarono i Deputati Carrara, Palmi, Micciarelli, e Socci. Gli oratori favorevoli al Governo, e contrarii alla immediata proclamazione della Repubblica, vennero vilmente oltraggiati dal Popolo tuttora parteggiante pei Circoli. Più volte fu ordinato lo arresto dei perturbatori, e lo sgombro delle tribune.

Pigli, per confondere le cose e ritardare la votazione, dichiara volere interpellare il Governo: non gli riesce, e si passa ai voti. Quarantatrè sono per la sospensione, 29 contro; il Deputato Taddei si astiene dal votare perchè non aveva assistito alla discussione.

La parte del Governo in questo nuovo sperimento acquista un voto, quella dei Repubblicani cinque; e ciò perchè il Partito dei pretesi ortodossi costituzionali di Firenze, invece di venire a rafforzare il nostro concetto, disertava la causa; e non fu bene.

I Repubblicani dell'Assemblea non si sgomentarono per questo, ed insisterono perchè le interpellazioni del Deputato Pigli si ammettessero: il Ministero o il Capo del Potere Esecutivo vi rispondessero pubblicamente. Io pure gli avevo più volte nei giorni antecedenti, ed anche poche ore avanti, ragguagliati con coscienza di quanto volevano adesso sapere di nuovo.[583] Ora perchè questo? Non senza astuzia era il trovato. Il Ministero repugnerà, essi pensavano, per prudenza a manifestare le condizioni nostre di fronte alle Potenze estere, e, per pudore della Patria, la fiacchezza dei Toscani; allora scompariranno le cause della oppugnata proclamazione della Repubblica, e discutendo gli articoli potrà essere rigettata la Legge proposta dal Potere Esecutivo. Ultimo tentativo per l'agognata Repubblica. Essi s'ingannarono; i Ministri Marmocchi e Mordini risposero in modo da tôrre loro ogni baldanza. Quivi Marmocchi non dubitò di posporre tutto alla verità, e dichiarò pochi i Repubblicani, contrario lo spirito del Paese a cotesta forma di Governo, arduo eccitare i Popoli alla difesa delle frontiere; allegò fatti, confermò la sua sentenza con raziocinii. Il Ministro degli Esteri smentì i conforti di Francia e d'Inghilterra asseriti falsamente dal signor Rusconi. Il Deputato Pigli comprendendo quanta e quale impressione avrebbero fatto coteste solenni dichiarazioni nell'universale, dopo averle provocate, si oppose perchè fossero pubblicate; — e così presumono illuminare il Popolo, e servire agl'interessi di lui! Questi paionmi, e sono tranelli di Settario, non concetti, non ispiriti di uomo di Stato. Ai giorni nostri, se lo inchiodino bene nella mente gli uomini di tutte le condizioni e di tutti i Partiti, colui che cammina con maggiore probità riporterà vittoria su gli altri. — Allora io sorsi, e dissi: «Poichè lo avete voluto, io intendo, al contrario, che abbiano intera pubblicità; e questo per due motivi del pari importanti: primieramente perchè non si concede sopprimere nel ragguaglio della Seduta una parte, che il Pubblico ha diritto di sapere; secondariamente perchè tutti i Toscani sieno informati per loro governo dello stato del Paese.»[584]

La mia proposta fu vinta.

«L'Assemblea Costituente Toscana

«Decreta:

«1º Doversi nel momento attuale sospendere ogni deliberazione intorno alla forma del Governo ed alla Unificazione della Toscana con Roma.

«2º Doversi prorogare, siccome proroga, la prossima futura di lei Tornata al dì 15 aprile corrente.

«3º I Deputati non pertanto dovranno restare in Firenze.

«4º Il Capo del Potere Esecutivo non potrà risolvere intorno alle sorti della Toscana senza il soccorso e l'annuenza dell'Assemblea, non solo a pena di nullità, ma di essere punito come traditore della Patria. Potrà bensì provvedere alle necessità dello Stato con la emissione di tanti Buoni del Tesoro, fino alla concorrenza di 2,000,000 di lire, ipotecando i medesimi unitamente all'imprestito volontario decretato con la legge del 5 aprile 1848 per sostenere la guerra della Indipendenza, sopra i Beni dello Scrittoio delle Rendite.

«Li 3 aprile 1849.»

Fu vinta, ma combattuta dalla diffidenza. La proroga era concessa per soli dodici giorni; ed anche a me piacque che fosse così; e m'imposero, sotto solenne religione, l'obbligo di non risolvere intorno alle sorti della Toscana; e due milioni assegnarono per limitare le facoltà che aborrivano, e pur si dovevano, in tanta urgenza, lasciare liberissime. Però gli Avversarii non rifinivano di sussurrare menzognero ed esagerato il rapporto; i fatti non veri; vero soltanto l'accordo del Potere Esecutivo col Principe a Gaeta.

Avrei potuto allora chiudere violentemente l'Assemblea, e operare qualche giorno innanzi quanto successe il 12 aprile. Nol feci, e non lo volli fare. Considerai, che avventurandomi a cotesto passo avrei potuto incontrare resistenze di città, di provincie, od anche d'individui; e questo verosimilmente accadendo, bisognava ricorrere alla forza. Simile partito poi non era sicuro che riuscisse, con le milizie che possedevamo allora: dato che riuscisse, era mestieri venire a contesa; ed io diligentemente procurava, che non insorgesse dissidio di sorta da nessuna parte, perchè lo universale consenso rallegrasse la Corona, e la persuadesse, che i casi passati dovessero ritenersi come que' brevi scompigli, che pur talvolta si levano anche fra persone dilette, e da obbliarsi facilmente; nessuno nella solennità del reintegrato Statuto avesse a piangere: dall'altra perchè non fosse somministrato pretesto agli stranieri d'intervenire nelle faccende nostre con la loro diplomazia, e peggio con le loro armi. — Inoltre, dal partito violento mi dissuadeva la mala compagnia reazionaria od anarchica, che in queste occasioni sempre ribolle, e ti spinge fuori dei limiti del tuo disegno. Nè anarchici, nè reazionarii; estremi entrambi. Siffatta maniera di gente servendo piuttosto alle passioni proprie, che al bene dello Stato, sono fastidio sempre, vergogna spesso, qualche volta rovina della parte a cui si attaccano; sozzi in vista, nè meno in effetto dannosi de' serpenti di Laocoonte.

Io intesi fare così. Ottenuta la proroga dell'Assemblea mandai Deputati di qualunque Partito, purchè probi, nelle Provincie, affinchè, investigato lo spirito e le tendenze delle Popolazioni, sopra l'anima e coscienza loro ne riferissero dentro breve spazio di tempo. Al punto stesso, io con ogni conato, e sinceramente, mi adoperai nel negozio dello adunare milizie. Mi volsi a tutti i Partiti, parlai a tutti gl'interessi, eccitai tutte le passioni. Feci comprendere agli amici della Restaurazione correre loro dovere di conservare intero lo Stato alla Corona; non prendessero il desiderio del richiamo del Principe a pretesto di codardia, imperciocchè io non indicassi loro nemici nuovi, sibbene antichi, tali dichiarati dallo stesso Sovrano, già combattuti, e certamente acerbi per le recenti offese sopra i campi lombardi. Serbare lo Stato intero, e respingere, s'era possibile, ogni aggressione straniera, formava il dovere primo di ogni cittadino; o almeno tentarlo. Altra causa ad operare lealmente consisteva per me nella promessa solenne data dalla Toscana ai Popoli Lunensi e della Garfagnana di difenderli, per quanto forza umana bastasse; e delle altre ragioni altrove indicate non parlo, avvegnadio quando ti lega la religione della promessa tra gente onesta più lungo discorso non abbia luogo.

Però io devo confessare, che da tutti questi sforzi sperava potesse ottenersi tanto da provvedere all' onore prima, e poi al benefizio delle sorti della Patria, non però quanto bastasse a giusta difesa, se l'Austria si fosse avventata con grosso sforzo di gente contro di noi. Onde era ordine al Generale D'Apice, che dove i nemici si fossero affacciati grossi così da non poterli per qualsivoglia estremo di virtù impedire, anzichè sprecare senza prò sangue umano, si ritirasse protestando: in ogni altro evento proteggesse la Garfagnana, e Massa e Carrara. La disperata difesa, che andavano immaginando i Repubblicani, non poteva farsi, e quel seppellirci sotto le rovine delle città è partito che il Paese civile repudia. Queste deliberazioni, è vero, salvano all'ultimo i paesi, ma sul momento li guastano, e noi non li possiamo patire sciupati. Quando le palle nemiche avessero a bucherare i nostri palazzi, ohimè! non vi parrebbero eglino malconci dal vaiolo? Ed a chi mai di noi basterebbe il cuore di vedere il suo palazzo col vaiolo? Siffatte enormezze si hanno da lasciare ai Barbari, che non vogliono sopportare dominio straniero in casa, come sarebbero il russo Rostopchin a Mosca, o il vescovo Germanos a Missolungi; una volta avemmo ancora noi un Biagio del Melano.... ma, come Barbaro, lo abbiamo dato all'oblio, così che io giocherei Roma contro uno scudo che neanche venti dei miei civilissimi lettori ne conoscono il nome.[585] Chè se i Toscani un giorno, per volontà dei cieli, e per virtù propria mi chiariranno bugiardo, pensino che io faccio capo saldo a tutto 12 Aprile 1849; e se non vorranno pensare a questo, io domanderò perdono, se pure i miei occhi saranno aperti, e sarà incerto se con maggiore esultanza me lo concederanno essi, o lo domanderò io. Fino a quel giorno la evidenza mi dà la ragione e l'angoscia di averla.

La frontiera toscana, com'era allora, a giudizio degl'Ingegneri, non si presta agevolmente alle scarse difese: lunga si sprolunga la linea, ed abbisogna copia di gente, e apparecchio immenso. Le milizie nostre, poche a tanto uopo, e in condizione di disciplina deplorabile; e ciò sia detto, salvo il debito onore di quelli che mostrarono cuore ed ingegno per sostenere le difese estreme. La gente raccogliticcia, e giova qui rammentarlo anche una volta, non fa frutto: di questo non vogliono persuadersi gli Entusiasti, ed è verità vecchia, e lo abbiamo sperimentato a nostre spese di nuovo.

Oltrechè poi anche di gente siffatta non era il novero grandissimo, o almeno corrispondente allo assorgere di Popolo come un uomo solo che intende difendere disperatamente i suoi lari; avvegnachè, per lungo disuso e per mansuetudine antica, i Toscani repugnassero dalle zuffe; e sebbene abbiamo visto, come condotti una volta al campo riescano soldati a nessuna milizia secondi, pure sradicare dall'animo dei Popoli la infame repugnanza tutto a un tratto non puossi. Nel Ducato di Lucca, per concessione della Principessa Elisa, i Lucchesi si reputavano immuni dalla milizia. Privilegio esercitato con ragione, quando si trattava andare in remote contrade a combattere guerre di conquista; stolto, empio, iniquamente preteso, quando chiama la Patria. Per la qual cosa vedemmo, maraviglioso a dirsi! nel contado lucchese i rustici armati a sostenere la guerra per non andare alla guerra.... Le campagne toscane poi poco alla milizia disposte per le cause referite, e per altre, che sarà bello tacere. La gioventù cittadina, diversa, ma meno adatta alla sobrietà e alle fatiche, alla virtù insomma, — senza la quale armati si hanno, soldati non già, — difficile a governarsi, apportatrice nelle armi delle scapigliature di piazza, non osservatrice di altri ordini che dei suoi, e questi ogni ora mutati; non obbediente ad altri capi che agli eletti da lei, impedimento sempre, difesa nulla o scarsissima.

Da Firenze dopo molte istanze ottenemmo 80, credo, soldati civici, i quali ancora non partirono per la Frontiera, ma rilevarono il presidio di Orbetello.

Più tardi partirono mille, e generosissimi tutti, senza badare a Repubblica o non Repubblica; chè nei cuori accesi di carità patria davvero, quando si tratta di difendere il suolo natio, si guarda dove e perchè si va, non a chi ci manda.

I padri empivano di querele il Palazzo, perchè il Ministro della Guerra rendesse loro i figli.

«Firenze 2 aprile. — Il Ministro della Guerra è assediato da continue dimande di molti cittadini, i quali reclamano perchè i loro figli siensi arruolati Volontarii. — Non può egli fare a meno di rammaricarsi nello scorgere nei genitori dei coscritti tanto dolore per atto così eminentemente patriottico, e che onora la Gioventù toscana. La Patria versa in sommo periglio, nè mai ha avuto tanto bisogno quant'oggi dell'opera dei suoi figli: essa attende però, ed esige da tutti quelli che nudrono in seno amore del proprio Paese, sagrifizio di ciò ch'è più caro all'uomo. Senza di che mai Italia si affrancherà dal dominio straniero, sorgente dei nostri mali. Il Ministro della Guerra, al tempo medesimo che si congratula co' giovani soldati, non può non rammentare ai loro genitori il dovere sacrosanto, che ad ogni cittadino incombe di rispondere allo appello della Patria: che, in luogo di lamenti, egli si attende dai genitori un incitamento ai figli ad essere buoni e virtuosi soldati; non può infine non richiamare alla loro memoria lo esempio delle madri spartane, le quali non solo volonterose consentivano ai figli di prendere le armi, ma eziandio con le loro mani ne gli rivestivano, e gli accompagnavano al luogo del generale convegno, e prima di lasciarli gli ammonivano a combattere da eroi, o gli consigliavano a volere perdere meglio la vita che serbare un contegno del quale la patria dovesse arrossire. Nudre pertanto fiducia il Ministro della Guerra, che tutti i Toscani i quali abbiano figli ricovreranno più generosi sentimenti, e che, invece di muliebri lagnanze, verranno ad allegrargli le orecchie parole di patria carità.

« Manganaro. »

Credono eglino i Repubblicani, che, gridando dentro coteste leprine orecchie: Repubblica! avrebbero camminato i padri più accesi nelle cose della guerra? Immaginino come vogliono, noi vediamo com'è. Nè meglio Livorno di Firenze, anzi peggio; e Toscana tutta alla medesima stregua. Se questa dolente pagina fosse scritta per mia difesa soltanto, ci verserei sopra tutto lo inchiostro del calamaio, e ci strofinerei sopra lo stoppaccio settantasette volte sette; ma la lascio, perchè leggendola si abbiano a vergognare i miei conterranei. E perchè le madri slave non piangono quando i loro figli vanno a combattere, ma esultano, riesce ai Croati vincere noi, che ci vantiamo così civili, e presumiamo tanto!...

Udii, che gli Ufficiali (intendo i pessimi) sotto pretesti varii sollecitavano congedi, o allegavano infermità per non andare alle frontiere: infermità che in taluni forse erano vere, ma dedotte insieme, e in mal punto, erano da sospettarsi tutte false!

Pertanto prevedevo sicurissimo, che i Deputati i quali percorrevano le provincie, muniti di mie facoltà per eccitare la milizia civica alla patria difesa, sarebbero tornati, non dirò senza costrutto, — chè tanto non credevo allora, nè credo abbia maledetto il Signore la nostra contrada, — ma con rapporti capaci a fare mettere giù la speranza di vedere le moltitudini correre armate alla frontiera, molto più per opinioni politiche allora invise allo universale. Io aspettava il ritorno di questi Deputati, e mi consigliava a parlare in questo modo nell'Assemblea, indirizzando il discorso ai Partigiani della Repubblica:

«Voi non avete creduto alle mie parole mai: ecco persone di fiducia vi riferiscono, come nelle provincie non ferva lo entusiasmo di combattere, che voi immaginaste. Se pertanto non comparisce universale il moto di correre alla difesa delle frontiere per amore della Patria, la quale contiene le cose che per modi diversi tornano a tutto uomo più care, come vorreste voi che vi si precipitassero i Popoli per una forma di governo, che molti ignorano, moltissimi aborriscono? Se non si levano per cagioni, che tutti i cuori sentono, come presumete eccitarli per via di astrattezze che la mente non comprende o rigetta? Voi mi avete rampognato di avere omesso i mezzi capaci a tenere desti gli spiriti del Popolo. Se intendete degli onesti, io gli ho praticati tutti; se mai (lo che io non voglio credere) accennaste ai modi della Rivoluzione di Francia del 1793, sappiate ch'essi fecero paurosa la libertà ed infame; sicchè vi volle mezzo secolo a riassicurare gli animi sbigottiti. I sacri argenti tolti alle Chiese avrebbero gittato forse 15 o 20 mila scudi, sussidio insufficiente a tanto uopo, e avrebbero partorito esecrazione infinita contro il Governo. Il tôrre a forza fa sparire la moneta, e dare al capestro il collo dei repugnanti vi farà ricchi di delitti, non di moneta.[586] Spingere uomini incontro al cannone con la scure dietro, nè lo potevate domandare voi, nè lo potevo eseguire io. Solo posso precederli, e questo, se mi è dato, farò. Voi vi ingannate intorno alla virtù dello entusiasmo; egli esalta, non crea le forze. Con lo entusiasmo voi non formate la scienza degli artiglieri, la disciplina negli eserciti, gli esercizii della cavalleria, non gli apparecchi di guerra, e per di più da un punto all'altro, di faccia al nemico. Non invocate gli antichi esempii di Francia, perchè l'anima trema rammentando le necessità dei pochi, che vogliono dominare su i molti. Queste necessità sono i Settembrizzatori a Parigi, le Mitragliate a Lione, gli Annegamenti a Nantes. — La Libertà non si nudrisce, si avvelena, col sangue; nè ho mai sentito dire, che rovistando pei sepolcri si trovino argomenti al prospero vivere degli uomini, bensì vermi; ed io per me non voglio prendere gli esempii da altro Paese, che da quello che mi citate. Dove mise capo la convulsione dei Francesi così atrocemente eccitata? Dove andarono a terminare le quattordici armate rivoluzionarie? Nella perdita di tutta la Italia, nel confine del Reno minacciato. Dove si quietarono gli esaltati spiriti della Libertà? Nelle turpitudini del Direttorio. Se lo ingegno, e la fortuna di un uomo, cui si piegarono tutti ad adorare despota, non erano, — la Francia sarebbe stata invasa, e divisa. Ecco quali immensi abbattimenti succedono a immensi furori. Ora la fortuna vi para davanti due vie da seguitare: la prima sta nel precipitarvi con grandissimo pericolo, anzi con esizio certo, nella Unificazione con Roma e nella Repubblica, contro gl'interessi e il sentimento universali; la seconda, compiacendo al genio e alle necessità della Patria, nel restaurare lo Statuto Costituzionale. Il primo partito, oltrechè voi non potrete sostenere, vi divide dentro, chiama certamente il nemico di fuori, ed apparecchia sventure, che nemmeno potranno sostenersi con onore: il secondo vi unisce in pace; chiude il campo alle contese tra partiti nemici, nelle quali essi sempre trasmodano, e, se per impeto di passione, feroci, — se per ingordigia di comodi, ferocissimi e spietati; toglie adito ai pravi disegni dei reazionarii, e pretesto agli stranieri d'invadere le nostre terre. Il suffragio universale del Popolo torrà via ogni amarezza dall'animo del Principe, per indole facilmente oblioso; il quale, considerato la qualità dei tempi, gli eccitamenti straordinarii e la potenza di uomini repubblicani qui da ogni parte convenuti, e gli errori in cui tutti di leggieri trascorriamo quando la mente è commossa da súbita passione, o turbata da inopinate vicende, troverà più che non bisognano motivi per l'animo suo a dimenticare il successo come un sogno di febbre. Preservate la Patria dalla occupazione straniera, e mantenete le libertà costituzionali, che dirittamente esercitate bastano ai Toscani. Frattanto permettete, che io mi congratuli meco, e con voi, che il sentiero a questo partito non sia stato mai chiuso, e che la nostra Patria in così impetuoso turbinío non abbia a deplorare fatti scellerati, nè perduta la fama della sua vera civiltà. Questo consiglio io vi do di coscienza, non per fine di privato interesse, non per obbligo d'impegno assunto, non per patto convenuto, non per altro meno onesto motivo; ma sì, come a dabbene uomo si addice, mosso unicamente dallo amore di Patria, e di voi; e perchè voi ne andiate nel profondo dell'animo persuasi vi confermo, che nessuna pratica fu da me iniziata in proposito col Principe assente, — veruna. Se io abbia operato con lealtà quanto mi parve che fosse bene della Patria e non per basso intento, voi vel conoscete a prova. Voi trovate il terreno delle trattative vergine; provvedete voi. Brevi le condizioni, e facili. Lo Statuto si mantenga, duri indipendente il Paese. La Inghilterra da me consultata si profferisce mediatrice di questo: farà lo stesso la Francia. Di oblio non parlo; conciossiachè, se male io non conobbi, mi paia più agevole al Principe nostro concederlo, che a voi domandarlo; e a me giammai, quante volte per altri lo chiesi, disse di no. Se ho commesso errori (e ne avrò commessi di certo) perdonateli alla bontà della intenzione, alla infermità del giudizio.[587] E quando non mi sia meritata alcuna lode, deh! concedetemi almeno che senza detrimento di buona fama io vada a riposare in terra lontana, ma sempre italiana, l'animo e il corpo affaticati

Io per me non dubito punto affermare, e ritenere per certissimo, che le parole aperte, i modi schietti e legali, la lealtà, ed anche (non mi sia conteso dirlo) la generosità del procedere, la urgenza finalmente dei casi, avrebbero sciolto la durezza dei più pervicaci, e (lo soffrano in pace gl'interessati a negarlo) partorito assai più prosperevoli sorti alla Patria comune, di quelle che le vennero, dal costoro operato, nel 12 aprile 1849. Il consenso universale di tutta la Toscana sarebbe stato istantaneo come lo spandersi della luce al sorgere del Sole; dopo quindici e più giorni non avremmo veduto condotti ad aderire al Municipio di Firenze alcuni Municipii toscani nella guisa stessa con la quale i Romani traevano i testimonii in giudizio, dando ai malevoli argomento per calunniarli avversi alla cosa, mentre erano offesi del modo. La livornese resistenza non sarebbe accaduta, e con essa, se non la volontà, veniva almeno tolta la occasione alle armi straniere di scendere quaggiù, del pari che il motivo a chiamarle; donde poi era dato campo larghissimo alle potenze mediatrici a interporsi con frutto. E forse oggi anche noi ci consoleremmo della non acquistata indipendenza italiana con la indipendenza toscana mantenuta, con lo esercizio effettuale delle libertà sanzionate nello Statuto, di cui la conservazione fra noi mi pare che assai si rassomigli alla mostra del diamante Koh-i-noor (montagna di luce) nella Esposizione di Londra, dove tutti lo possono vedere in gabbia, ma sparirebbe con la gabbia, lo zoccolo, il guanciale, et reliqua, se qualcheduno si attentasse a toccarlo.

A questo punto io mi rinnuovo l'obietto, che per deliberarmi io aspettassi la occasione. Se si dirà che la occasione mi facilitasse il cammino a mandare a compimento il concetto prestabilito, si parlerà con rettitudine; se poi all'opposto si sosterrà che l'occasione generasse il concetto, questo ormai fu dimostrato falso da quanto sono venuto esponendo in questa scrittura fin qui, ed aggiungerò in breve per conclusione. — Nè penso che alcuno vorrà appuntarmi per avere colto il destro propizio, avvegnachè l'uomo non possa creare gli eventi: questi sono di Dio. L'uomo può qualche volta impadronirsene, e indirizzarli per forza o per ingegno a fine determinato. Ricordo che Madama Staël per istudio di scemare la fama a Napoleone soleva chiamarlo homme des circonstances, della quale sentenza punto ei si offendeva, per i motivi che ho poco anzi discorsi. Sicchè su questo particolare penso, che sarà savio arrestarmi.

Però io voglio esporre quello che avessi considerato nello evento di fortuna prosperevole alle armi piemontesi. Vinta una battaglia, non sempre si vince la guerra. Poniamo vinta la guerra con una battaglia sola, come accadde a Marengo nel 1800, e ultimamente a Novara; allora si presentavano subito al pensiero molte e gravi contingenze, così nello interno, come di fuori. Incomincio dalle ultime. Il re Carlo Alberto sarebbe cresciuto di reputazione e di forza, per virtù sua e per decadenza della Fazione repubblicana. — Bisogna ritenere che la massima parte dei Lombardi procedeva sviscerata della Repubblica, non già per fine politico, quanto per riputarla mezzo sicuro a ricuperare la patria. Una fatale persuasione, che durò anche dopo lo infortunio novarese, e compose il martirio doloroso di Carlo Alberto (principe, il quale se trova molti superiori in grandezza, nessuno, a parer mio, lo uguaglia nella sventura), si radicò nella mente dei Lombardi e di parecchi fra gli altri Italiani, che il Re non camminasse sicuro in questa bisogna, ed in segreto se la intendesse co' nemici d'Italia. Assurdità, e peggio; ma la disgrazia è persuaditrice tristissima degli uomini, e chi da lontano conosce per relazione le cose udendo il veemente narrare, e i giuramenti smaniosi, e i pianti, e tutto quanto insomma ha maggiore virtù di commuovere l'animo umano, si trova conturbato nello intelletto e nella fede. In questo travedimento gli esuli tennero per fermo, che ormai non più il Principato, ma la Repubblica avrebbe loro riaperte le porte della patria: di qui il correre a sollevare Italia tutta a parte repubblicana; di qui l'opera ardente e indefessa, impresa a danno della Monarchia Piemontese, che fu parte non piccola fra le cause della disfatta di Novara. Della verità del mio concetto porge argomento il considerare che prima degl'infortunii di Custoza i Repubblicani si fossero sottomessi, dichiarando non volere con importune contese disturbare la opera della Indipendenza italiana. — Ora, se la sorte delle armi, arridendo al Re, avesse non pure quietati, ma distrutti, i fatali sospetti; se al Re fosse stato concesso di schiudere ai Lombardi il varco pel ritorno in patria, mentre la Repubblica non si era mai mostrata capace di tanto, non veniva tolto ad un tratto il motivo negli esuli di parteggiare per la Repubblica? Certo che sì. Cresciuta l'autorità del Principato, non poteva supporsi che Piemonte consentisse tenere quello stecco su gli occhi di una Repubblica della Italia Centrale, e l'avrebbe avversata con tutti i modi: dalla parte di Napoli, non importa dimostrarlo. Conquista da Torino non temevo, chè se di volere non avesse patito difetto, gli mancava il potere. La Francia, la quale come abbiamo letto dichiarato da Lamartine, non avrebbe sofferto che il Regno Sardo si ampliasse col Lombardo-Veneto e co' Ducati, pensiamo un po' se gli avrebbe consentito stendere la mano anche sopra Toscana! Dalla conquista in fuori, la Repubblica della Italia Centrale doveva aspettarsi dal Piemonte pessimi ufficii. La vittoria delle armi italiane avrebbe richiamato l'attenzione della Francia e della Inghilterra, rimaste quasi arbitre dei destini d'Italia, ad assettare le cose nostre; diversamente invero da quello che appaiono adesso, ma pure in modo contrario alla Repubblica. La Inghilterra, tenerissima della sua Costituzione, non ama le Repubbliche, e la Francia repubblicana le odia. Però Napoli sarebbe stato costretto a procedere dirittamente nelle vie costituzionali, e ad accogliere con onore gli esuli cittadini. Dal quale successo erano a prevedersi verosimili due conseguenze: la prima, che anche in questa parte l'autorità regia costituzionale acquisterebbe aumento; la seconda, che i napolitani esuli, reduci in patria, sarebbero rimasti di affaticarsi per la Repubblica nel modo stesso, e per le medesime ragioni che ho esposto testè discorrendo degli esuli lombardi. La Toscana e Roma pertanto si vuotavano di questi arnesi potentissimi di Rivoluzione. Così tra le cause scemate per desiderare la Repubblica, la cresciuta autorità costituzionale, le pratiche di Potenze primarie, la pressura da due lati, la debolezza comparativa dello Stato, il difetto di frontiere validissime, e la necessità di non isconcordare per costituirsi con solidità, avrebbero costretto questi due Stati a piegarsi alla forma costituzionale. Cosa sarebbe avvenuto del potere temporale del Papa, non è facile prevedersi: solo lo evento è bastato a persuadere che lo avrebbero restaurato le armi repubblicane di Francia: ad ogni modo faceva mestieri accomodare anche il Papa degnamente, come a Capo della Chiesa Cattolica si addice.

E questo per ciò che riguarda di fuori. Nello interno poi, a cagione di quanto venne dichiarato superiormente, opera perduta sarebbe mettere parole intorno al successo della aggiunzione al Piemonte, come quella che pareva ad accadere impossibile. Consideriamo piuttosto la Unificazione con gli Stati Romani.

Trovavo dentro (e fu sovente materia delle mie conferenze col Capo del Municipio fiorentino, e con altri precipui cittadini così di Firenze come delle Provincie, delle libertà costituzionali fidatissimi amici) repugnanza infinita di lasciare uno stato certo e provato sufficiente, per avventurarci in condizioni ignote, piene di pericolo, allo universale per nulla necessarie, dalla maggiorità rigettate.

Trovavo che i Toscani, ed in singolare modo i Fiorentini, sentivano inestimabile molestia a ridursi in grado di provincia romana, mentre ab antiquo avevano formato florido stato, copioso di commercii e pieno di gloriose memorie.

Trovavo che i Toscani aborrivano di rendersi solidali al fallimento della finanza romana, e ostinatissimi contrastavano per non essere tratti in cotesto vortice di debito.

Trovavo che Firenze non si adattava a restare priva della sede del Governo, fonte per lei non pure di decoro, ma di vantaggi notabili, sia per la stanza degl'impiegati, sia pel concorso di quanti muovono dalle Provincie quaggiù pei loro negozii col Governo; sia finalmente pel soggiorno dei forestieri, i quali sogliono fermarsi nelle Capitali.

Trovavo la classe commerciante di Livorno paurosa di scapitare in pro di Civitavecchia, il quale porto, come prossimo alla metropoli della Italia Centrale, non ha dubbio che si sarebbe ampliato con danno di Livorno.

Trovavo costumi diversi, diversi i gradi di civiltà, diverse le maniere del vivere, l'economie ed altre più cose, che non consentono che Unificazione piena e assoluta ad un tratto si faccia, o fatta non abbia poi a dolere. Toscana mutata in provincia sopportava sagrificio troppo duro, come grande sarebbe riuscito il vantaggio, se qualche parte dello Stato Romano si fosse aggiunta a lei in condizione di provincia. Queste unificazioni o fusioni, come dicevano allora, si operano di consenso o di forza. A effettuarle con la forza vuolsi una potenza grande, che raccolga nella mano di ferro le varie generazioni abitatrici di una contrada della medesima lingua, e le costringa tutte a portare la impronta delle sue dita. Ma da Napoleone imperatore e re in fuori, nei tempi moderni, non discerno altri che potesse essere stato capace da tanto. A volerle condurre per via di consenso, si richiedono uguali, o molto simili, le condizioni disposte dalla natura, e secondate dalla operosa volontà degli uomini.

Ora tra per le sollecitazioni delle Potenze estere, e le volontà dei Re d'Italia, tra per il cessato bisogno nei più di ricorrere al partito estremo della Repubblica per tornare in patria, e la inclinazione della Toscana a starsi divisa, e le difficoltà in parte invincibili della Unificazione con Roma, lasciato che le passioni ardenti si sfocassero e le cause di quelle, preparata grave e profonda discussione, io ritenevo come sicuro che l'Assemblea Costituente Toscana, avrebbe deciso, in ogni evento, pel Principato Costituzionale e per la Confederazione, non Unificazione, con Roma come con gli altri Stati Italiani.

E così opinava certamente il Partito che ebbe ad organo prima il Conciliatore, poi lo Statuto; conciossiachè abbiamo veduto com'egli confortasse consultare la Toscana, convocando l'Assemblea Costituente col principio accettato del suffragio universale, e persuadendo i Deputati a sciogliersi spontanei se questo non ordinasse il Governo. Il Governo aderì al consiglio, nè si vede ragione perchè cotesto Partito avversasse poi quanto aveva provocato egli stesso; solo per mostrarsi coerente avrebbe dovuto credere che l'Assemblea Costituente procedesse nemica alla Restaurazione; e ciò non fu. Questo fatto io lascio alla considerazione del Paese, chè a me non giova spendervi attorno più lunghe parole.

Rimane a vedersi chi avrebbe scelto l'Assemblea per Principe. — Non è verosimile scegliesse uno straniero, perchè per le dominazioni straniere parmi, se non erro, immortale lo aborrimento degli Italiani tutti; scegliendo uno di casa di Savoia, avrebbe contradetto Napoli; se chiamato un Reale di Napoli, gli si opponeva Piemonte, e ad ambedue avrebbero ostato Francia e Inghilterra. Se è vero, come parmi verissimo, che la memoria degli antichi beneficii non si cancelli per breve furore, nè la diuturna benevolenza cessi per impeto passeggero, e che, remosse le cause del delirio, l'uomo ritorni nel suo stato normale; — deve credersi che i Toscani avrebbero richiamato i Principi, che potevano salutare col nome di concittadini.

Dimostrazione storica.

I fatti, che per sofisma o per calunnia non si tramutano, hanno dimostrato fin qui come, il Principato Costituzionale cedendo il campo, subentravano inevitabili ad occuparlo la Repubblica e l'Anarchia. Parte repubblicana era poco numerosa fra noi, nè di Toscani tutta, ma audace e gagliarda, sovvenuta dalle voglie dell'accesa gioventù, cui sembra spesso che per potere basti desiderare: onde è sicuro che quella parte, come voleva, avrebbe potuto, nello sbigottimento universale, cacciare le mani nei capelli al Paese, e strascinarlo colà dove ella mirava: però ammaestrando la esperienza, che i pochi contro ai molti inerti o repugnanti, senza ricorrere ai partiti estremi, non durano; in breve, siccome già si appoggiavano, avrebbero dovuto i Repubblicani darsi interi in balía, non dirò al Popolo minuto (conciossiachè il nome di Popolo suoni sempre reverito alla mia mente), bensì alla plebe che del Popolo è piaga. La plebe soverchiata, indi a poco parte repubblicana avrebbe regnato come regna il fuoco. Commesso io alla salute del Paese, credei riparare nella consultazione del Popolo toscano per mezzo del suffragio universale come ad asilo ultimo ed efficace. Da una parte non lo potevano rinnegare i Repubblicani, perchè da loro medesimi professato; dall'altra tornava accetto ai Costituzionali, perchè somministrava loro tempo di riaversi: finalmente era desideratissimo dal Popolo; perchè trattandosi di disporre di sè, gli pareva giusto poter dire anch'egli, una volta, la sua. Intorno ai fini e ai presagi di questo provvedimento non occorre dire altro, avendoli a suo luogo con abbondanza di ragioni spiegati. — Ora i Repubblicani, dubitando contrario lo esito del voto universale (e con parole espresse il dubitare significano),[588] tentano, e più volte, le vie della violenza; violenze e lusinghe cadono davanti la probità del provvedimento, la costanza dell'uomo.[589] Frattanto la plebe ribolle commossa per un fine, e muoventesi per un altro, sicchè poi gli stessi agitatori ne hanno paura. In mezzo a perturbazioni, per varietà infinite, per impeto stupende, procede il mio concetto. Con la Legge del 6 marzo, al Popolo toscano la padronanza piena e legale per disporre di sè restituisco, e non limitando (che questo non poteva io), ma stabilendo la norma con la quale dovesse esercitarsi il mandato, prevengo la opposizione che i Deputati non abbiano già a deliberare, bensì, e unicamente, a ratificare. L'elezioni protette, e liberissime. Il Popolo non accorse nella copia sperata; e di ciò un poco fu colpa la consueta inerzia, un poco la nuovità degli ordini politici, e molto le dissuasioni dei parrochi; nel che operarono, a mio parere, poco avvisatamente; avvegnadio, messa da un lato la paura di possibile scomunica votando per la Costituente Italiana, egli è sicurissimo che non vi era pur dubbio del non incorrerla votando per la Costituente Toscana; e somministrando questa onorata via per assettare di quieto il Paese, parmi che avesse dovuto da loro con ogni maniera di ufficii promuoversi. Nondimeno nè anche si potè dire scarsa la votazione; dacchè il numero dei voti sorse nel Compartimento Fiorentino ai 28,231, nel Lucchese a 2618, nel Pisano a 6341, nel Sanese a 9288, nello Aretino a 6687, nel Pistoiese a 4418, nel Grossetano a 5288, nel Livornese a 11,781, nello Elbano a 909, nel Massetano e Carrarese, a 893, nel Garfagnino a 704, e nel Lunense a 702. Il Partito che si vantò, e tuttavia si vanta, unico ortodosso costituzionale in Toscana, quando si conobbe pressochè escluso dalle elezioni, gridò desolazione dell'abbominazione sopra la Babilonia fiorentina; e non pertanto uscì dall'urna una maggiorità di uomini che volle e seppe rappresentare il principio costituzionale del Paese, ed anche qualcheduno che minacciato dalla plebe delle tribune ebbe cuore per esclamare: «Piuttosto morire, che lasciare per viltà il seggio di Deputato.»[590] La Guardia Nazionale fiorentina interpellata con rito solenne, se le bastasse l'animo di tutelare l'ordine interno della città, e l'Assemblea nello esercizio del suo ufficio, rispose affermativamente, e quindi ambedue vennero alla sua fede commesse. La parte repubblicana, tentando far votare la Repubblica per acclamazione, venne repressa; e tanto più da me si volle grave e speciale consulta, intorno al deliberare le sorti politiche del nostro Paese, in quanto che mi pervenivano quotidiani rapporti che mi confermavano nella conoscenza antica del rifuggire che faceva la Toscana dal reggimento repubblicano. Le notizie della guerra, dubbie prima, varie poi, alla fine infelici, anzichè sbigottire gli animi repubblicani gli accesero, come suole, di stupendo furore: me accusarono in faccia di fellonia; me venduto, e venditore!.... Tali enormezze ero destinato a sentirmi dire dopo quarantasei anni di vita onorata! E se tradissi io, e se me e altrui vendessi, ora lo vedete a prova. — Poichè alle mie parole non credevano, le mie insinuazioni aborrivano, alle mie stesse preghiere imprecavano, provvidi l'Assemblea si prorogasse, e i Deputati nelle Provincie si spedissero, e ciò in prima perchè la nuova esaltazione si calmasse, e il tempo porgesse consigli più adattati ai casi; e poi perchè i Deputati tornassero ad attestare della fedeltà dei miei rapporti; lasciando pure che, sotto pena d'infamia a me, decretassero il divieto di mutare forma di Governo, inconsultata l'Assemblea: però che questo non volessi fare io.

Tutto ciò fu detto, chiarito, con documenti provato, e comprendo ottimamente che l'Accusa degli spessi riepiloghi abbia a sentire fastidio grandissimo, e forse ancora orgoglio del suo stile laconico di faccia allo asiatico mio: nonostante questo, mi è parso non dovermi trattenere dal dire, confortato dalle parole e dallo esempio del Foscolo, il quale, condotto a scolparsi davanti al Direttore della Polizia del Cantone di Zurigo, così gli scriveva:

«Da tutte queste cose che io mi assumo di esporle, e dalle troppe parole che ho fin qui speso, m'avveggo con mio rincrescimento che io la costringo alla noia di prolissa lettura. L'apologia è cosa sì infelice per indole sua, che non può aspirare neppure a scansare la verbosità. Perchè, dove a lei, signor mio, basta una sillaba, un atto arbitrario, un cenno muto, a macchiarmi, — a me bisognano narrazioni, esami, allegati e convincentissima serie di ragionamenti, a lavarmi.

«E incomincio anco a sentire che l'uomo al quale è conteso il tacere trova compenso nello spassionarsi di tutte le ragioni che aveva represse dentro il suo petto. Socrate sapeva ch'ei, giustificandosi o no, era precondannato a morire; pur (se Platone merita fede) perorò per lunghissime ore a' suoi giudici; e quando ei fu sentenziato, gli andava pur tuttavia intrattenendo a parole: — O Ateniesi, ora che voi avete fatto il voler vostro mandandomi a morte, io il debito mio rassegnandomi, voi ed io non abbiamo da far altro di meglio fuorchè il conversare fra noi: ond'io parlerò, e non rincrescavi d'ascoltarmi, e rispondere.»

Fino al punto a cui mi sono fermato, la linea è retta per lo scopo a cui incammino la mia politica. Ora pertanto come potevo tergiversare o ravvilupparmi in subdoli partiti dopo il Decreto dell'Assemblea del 3 aprile, se fino al 15 aprile ella si era prorogata, e fino a quel termine non si poteva discutere della forma del Governo da darsi alla Toscana?

Udite adesso di grazia che cosa vi dice il Procuratore Regio D'Arlincourt. Egli vi narra: — «come io ingannassi da una parte e dall'altra, e però fossi da entrambe percosso.» — Poco dopo: — «come io, trattando più tardi col Municipio, giuocassi partita doppia,» — nonostante che abbia scritto poco sopra: — «come io troppo possedessi di sagacia e d'ingegno per non comprendere dai casi avvenuti e che avvenivano in giornata, che stava per accadere imminente la restaurazione del Granduca.»[591] — Questi sono martirii del senso comune, e Dio volesse che il nobile Visconte e compagni avessero crocifisso il giudizio soltanto! Ai giorni che corrono, di giudizii temerarii non è davvero a lamentarsi penuria; pure io aveva creduto fin qui, che lo scrittore, quando col suo cervello di farfalla non corre pericolo soltanto di commettere leggerezza, bensì di gettare un peso nella bilancia dove è librata la vita dell'uomo, dovesse avvertire che un grano più di pudore non guasterebbe certamente i fatti suoi: e le proteste di non volere pregiudicare, e poi lavorarti di straforo, ormai sono abiti usati così, che la vecchia ipocrisia li vendè al rigattiere, dal quale gli ha comprati la ipocrisia nuova, e, per averli rifatti nelle manopole e nel bavero, crede, che non le sieno riconosciuti addosso.

Rimane adesso a vedersi come io adoperassi i brevi giorni, che dal 3 al 12 intercedono, e ciò rispetto: 1º alla difesa della Patria; 2º alle disposizioni per la Tornata dell'Assemblea del 15 aprile. Parlerò prima della guerra, o per meglio dire della difesa delle frontiere. Fino dall'8 agosto 1848 a mediazione dei Ministri delle Potenze estere fu convenuto come lo esercizio di siffatto diritto non potesse somministrare all'Austria argomento di aggressione; nè il patrocinio stesso poteva ora mancarci, e non ci mancava, molto più quando ci fossimo ricondotti al pristino stato di cose di quieto. Non vale obiettarmi, che in questo disegno tornavano inutili gli apparecchi guerreschi: imperciocchè gli uomini che fanno mostra volersi difendere, vengono sempre più rispettati;[592] ed è sicuro che otterranno patti migliori, di quelli che disarmati si mostrano, e disposti ad accettare ogni carico si voglia loro imporre: laonde Ugo Foscolo meritamente deplora come causa suprema delle sorti infelici del Regno Italico la dissoluzione dello esercito provocata dal partito liberale.[593] E neppure rileva opporre, che le nostre armi inferme e poche non avrebbero potuto durare contro lo sforzo austriaco; dacchè anche lo esercito italico di faccia alle forze alleate si trovasse in condizioni perverse: ma gli altri ti aiutano quando mostri di volerti aiutare; la debolezza, che non è colpa tua, consiglia la compassione altrui; la propria abiezione provoca ira; e quando veramente una necessità grandissima non prema di sgarire un punto, anche i poderosi calano a partiti comportabili. Eranmi conforto a proseguire nello arduo cammino le parole che mi venivano porte da quei dessi, ch'ebbi a sperimentare, ora più ora meno copertamente, sempre avversi, e che in fatto di Governo Costituzionale presumevansi allora, e tuttavia si presumono, possedere del Governo Costituzionale la pratica, e la scienza. Lodavano la rigettata Unificazione con Roma; il concentramento del potere in un solo Magistrato approvavano; e a questo rivolgendosi raccomandavano, che a salvare la Toscana adoperasse quei partiti che la esperienza gli persuadesse migliori: quindi dicevano due essere i mali che minacciavano la Patria, la guerra civile e la possibile invasione austriaca; laddove queste due calamità egli fosse giunto ad allontanare, gli promettevano riconoscenza solenne. Se i tempi fossero corsi meno infortunosi, avrebbero saputo dare più forti consigli; però, comunque acerba ne flagellasse la sventura, doversi, mercè il concorso dei Municipii, mantenere libero lo Stato da invasione straniera, e incolumi le istituzioni costituzionali aborrite dalle fazioni reazionarie, la pubblica tranquillità, le proprietà, e le persone minacciate dai turbolenti di ogni Partito: breve, salvare quanto più dell'onore e della indipendenza nazionale si potesse.[594] Grave soma davvero era questa per le mie spalle; sicchè parendo al Partito preteso ortodosso che io non potessi uscirne a bene, determinò fare da sè; ed avendo capacità, e coscienza di riuscire meglio, prudentemente decise, e di ciò non lo incolpo. Però a mio parer non gli fu onore mancarmi di fede, se dubitò che io non sarei arrivato a salvare le libere istituzioni; non gli fu onore precipitarmi dentro uno abisso di miseria, se tenne che non avrei prevenuto la discordia civile; non gli fu onore ribadire il chiodo con la calunnia, se pensò che per me non si sarebbe potuto preservare il Paese dalla invasione straniera. Nondimeno ritengasi, che nel 29 marzo gli ortodossi Costituzionali di Firenze me reputavano per volere e per sapere adattato all'ardua impresa.

Vediamo pertanto, da quel punto in poi, in che cosa peccassi, perchè di amici mi si avventassero ad un tratto tanto acerbamente nemici. Qui accorrano i Toscani tutti, si chiariscano a prova, e giudichino poi se io abbia commesso colpa per la quale cristiani e gentiluomini dovessero credersi assoluti dall'usare meco quella fede, la rottura della quale anche tra' popoli più barbari è reputata indegnissima cosa! Due pertanto erano i fini alla mia cura commessi, come sempre furono, cui si provvedeva con apparecchi guerreschi, e con interni ordinamenti.

Cavalli pel treno, e copia di cannonieri per diligenza del Ministro della Guerra si procurarono.[595] Qui in Firenze, senza distinzione di parte, chiamo quanti sentono in cuore carità di Patria, e gli scongiuro di recarsi ai confini.[596] A Livorno commetto che mandino vie via gli arruolati per farne la massa in Firenze; a provocare lo arruolamento si adoperino i mezzi meglio efficaci, impegnandovi Sacerdoti, Circoli, e Popolani;[597] più tardi ordino, le armi da caccia si requisiscano, agli schioppi da guerra sostituiscansi, e qua a Firenze le armi, e i Volontarii si avviino;[598] di nuovo domando armi, perchè in Firenze dalle Provincie già accorsero mille giovani, e non so come armarli; accetto un battaglione intero di Livornesi Volontarii, purchè portino le armi, e gli Uffiziali si sottopongano agli esami i quali hanno a dimostrarli degni, che per costume e per perizia possa loro affidarsi il sangue dei fratelli;[599] informato che in Livorno si trovano 2000 schioppi, prescrivo si prendano, giudicando il proprietario Italiano abbastanza per chiamarsi soddisfatto quando gli venga retribuito il giusto prezzo.[600] Da Lucca si aspettano parecchi montanini per arruolarsi; il Municipio lucense con ogni sforzo seconda le diligenze del Prefetto.[601] Il Prefetto di Pisa, sussidiato da uomini di seguito nel Popolo, confida trarre gente dalle campagne.[602] A Lucca le armi da caccia si prendono, e, dandole in cambio delle guerresche alla Guardia Nazionale, con queste si armano i Volontarii.[603] D'Apice provvede di comandante la Guardia Nazionale di Livorno adattato a mobilizzarla sollecitamente.[604] La Gioventù livornese viene confortata da me a mostrare virtù pari al pericolo.[605] Romanelli eccita la gioventù aretina;[606] Franchini, soldato della Indipendenza, lasciato il Ministero accorre alla difesa dei patrii colli; Morandini, forte uomo, a ragione pensando che quando lo straniero minaccia la Patria, il mandato vero del cittadino sia di volare a difenderla, si dimette dalla Deputazione, e va al campo.[607] Le armi di nuovo con più sottile ricerca a Lucca e a Livorno requisisconsi, e si ottengono.[608] Prometto (consentendo alle istanze di Giorgio Manganaro) condurmi a Livorno; intanto, esortata la Guardia Nazionale fiorentina a non mancare alla Patria, due Compagnie del mezzo Battaglione che usciva di guardia senza prendere riposo vogliono partire.[609] I Cacciatori volontarii di Costa e Frontiera chiamati a formare un Corpo di riserva.[610] Il Gonfaloniere Fabbri, compiacendo al suo genio e alla carità della Patria, fatto appello ai sentimenti generosi della Gioventù livornese, conchiude con queste memorabili parole: «Giovani generosi, caldi di amor patrio, questo è il momento più bello della vostra vita. Da voi la Patria attende la propria salvezza. Dio non abbandona gli oppressi. L'ora del risorgimento è suonata. Le armi soltanto ponno decidere dei nostri destini.»[611] Provvedo mandarsi mezzo milione di lire per armi, e da Livorno chiedo prima armi, poi gente,[612] e le armi si mandano.[613] Maremma invia Volontarii, ma pochi; quelli raccolti e istruiti a Firenze, richiesti dal Generale, partono pel campo.[614] Chiamato da Livorno il Battaglione Del Fante, continuo a esigere armi; i Livornesi rimprovero di iattanza; ordino tolgansi le armi alla Guardia Nazionale; — poco frutto fa Lucca.[615] La Legione Accademica è riconcentrata in cotesta città.[616] Acquistansi nuove armi a Livorno.[617] Tommaso Gasperini, Ermolao Rubieri e Angiolo Angiolini, rinunziati gradi superiori della milizia cittadina, si arruolano e partono soldati, esempio grande di modestia e di virtù.[618] Nel giorno 6 pubblico il Manifesto alla Gioventù fiorentina;[619] ai Sacerdoti dichiaro non trattarsi adesso di Unificazione con Roma, nè di forma di governo; ai Conservatori, che mal conserva chi si espone a vedere tutto disperdere; agli affezionati del Principe, che badino trattarsi adesso di mantenere intero lo Stato, affinchè egli tornando non abbia a trovarlo menomato, e ne faccia loro rimprovero; ai Repubblicani, che la Repubblica, perfettissima forma di governo per uomini perfetti, non è frutto maturo pei nostri denti, o a meglio dire per le corrotte anime nostre: e che intorno al riordinamento del Paese, le Leggi dell'Assemblea si hanno a venerare come precetti di Dio. Intanto vadano, combattano, e mostrino la loro virtù. Civici livornesi concentrati a Pisa; i Bersaglieri e i Volontarii chiamati a Firenze; provvedersi armi.[620] Al Gonfaloniere di Livorno scrivo il Dispaccio riportato a pag. 53 di questa Apologia, dove me dico infame, se per dispiacenze private ricusassi una pace, che può avvantaggiare la difesa della Patria; componga B. un Battaglione, cotesta anzi essere la via unica per ridonargli l'amicizia antica; spedirò appena raccolto il battaglione in Garfagnana; raddoppinsi tutti. Nel solo Generale D'Apice si riunisce tutto il comando.[621] Ordino al D'Apice in ogni evento regga in Garfagnana, e cuopra Massa e Carrara; spingo al campo tutta la milizia di Linea; raccomando le provviste. A Livorno Giorgio Manganaro instituisce una Commissione che di nuovo si dia a ricercare le armi, e le prenda per la difesa della Patria.[622] Il Ministro della Guerra provvede a formare prontamente un Corpo di Zappatori.[623] Da Carrara muovonsi Volontarii per San Marcello, e per altri punti della frontiera.[624] Rimproverato Livorno di tepidezza, lo accendo con lo esempio di Firenze, che manda già milletrecento uomini a Lucca.[625] Livorno spedisce 700 Volontarii ed armi a Firenze,[626] donde poi la calunnia dello averli io pretoriani miei chiamati quaggiù. Armi tolte ai Circoli,[627] donde poi sicurezza intera alla libertà del prossimo voto dell'Assemblea. Schioppi requisiti sotto multa di lire cento a chi dentro tre giorni non li depositasse al Municipio: i Civici impotenti a marciare depositino i loro presso i Capitani, per armarne i Volontarii in procinto di partire,[628] donde poi la calunnia, che io disarmassi la Guardia Civica per dominare tiranno la città. Partono da Firenze 800 Volontarii, altri 800 se ne aspettano da Livorno per organizzarsi.[629] — Invece di mandare soccorsi a Genova, tento potere ottenere armi dall'arsenale di cotesta città.[630] — Da capo mi chiamo parato a rimettere ogni ingiuria, purchè i miei offensori accorrano alla difesa della Patria: sempre dimenticai tutto (io dico), e saranno prima stanchi di offendermi, che io di perdonare. — Vengono armi ed armati da Livorno: m'impegno trasportarmi io stesso al campo.[631] Il Gonfaloniere di Pisa, Ruschi, chiama gli scolari assenti, i quali rispondono allo invito, e vogliono essere incamminati a Lucca, quantunque non compresi nella nota firmata alla Università di Pisa.[632] Da Livorno 20 cannonieri toscani, e 18 americani, domandano potersi condurre ai passi dello Abetone. Manganaro spedisce archibugi.[633] — In virtù della solerte opera del Governatore provvisorio e del Gonfaloniere Fabbri, Livorno manda ancora 205 Volontarii, ed altri ne promette.[634] I Municipali tutti sono diretti a Lucca.[635] Accetto i soldati lombardi alle stesse condizioni del Piemonte, se armati ed organizzati; diversamente si lascino andare.[636]

Questo, secondo che ricavo dagli scarsi Documenti autentici che mi trovo fra mano, è quel poco che per me fu fatto, inefficacemente forse, ingenerosamente non già, per tutela del Paese e per salvezza del suo onore. Se mi verranno, come spero, consegnati gli Archivii, potrò ordire più completa Storia; per ora non ho voluto avanzare niente altro, perocchè non mi fosse fatta abilità di appoggiarlo con prove: tale e tanta è la grandine della bugie ai tempi nostri, che oggimai temo che anche il galantuomo corra risico grande di non essere creduto, dove non porti seco in tasca quattro testimoni almeno, che affermino con sacramento la verità delle sue parole. Di più non seppi, nè potei fare: armi e armati raccolti; gioventù commossa; Partiti tutti con preghiere richiesti; anche il ritorno del Principe accennato, come motivo di difesa per serbargli intero lo Stato; Deputati spediti Commissarii in Provincia (più oltre dirò peculiarmente di loro); Guardie civiche mobilizzate; Milizie stanziali, Municipali tutti mandati alle frontiere; Volontarii organizzati; Legioni accademiche ricomposte; e, in quanto a me, oblio delle offese in benefizio della Patria con pienezza di cuore accordato, obbligo di correre io stesso alla frontiera assunto. Capisco che scarsi meriti sono questi per pretendere lode, e non la pretendo; solo non parmi che dovessero fruttarmi l'odio del Municipio fiorentino e della Commissione Governativa. Pensai io, e credo che tutti quelli i quali sentono onore pensassero allora, che un motivo armato dovesse da noi farsi, e in ogni caso e sempre a benefizio delle Provincie, che con tanto amore si erano alla fede toscana commesse. Dopo il Decreto del maggio 1848, e dopo le dichiarazioni profferite dal Governo pel fatto dell'Avenza, a operare in questa guisa consiglio prudente e religione di promessa persuadevano. Nè vale dire, che nel presagio della insufficienza degli aiuti fosse meglio non darli; conciossiachè, da un lato, simile contegno apra una porta da rimessa alla ingratitudine, e dall'altro i derelitti non ti menino buona la scusa, ed a ragione, chè da cosa nasce cosa, e la fortuna nelle vicende umane tiene massima parte, e, finchè la speranza ha fiore di verde, tale risorge che si credea spacciato, onde gli antichi costumavano spesso quel detto, che Anteo battendo la terra si rilevava più forte. Nè per mantenersi in fama di onesti bisogna avere promessa lunga e attendere corto; e, se non erro, assai più giova essere parchi a stendere la mano, che facili a lasciare coloro che si raccomandarono a quella.

Il Conciliatore nel 27 marzo usciva in questi acerbi rimproveri contro dei miei Colleghi e di me: «Che avete fatto dopo cinque mesi che tenete il Potere, senza che nessuno vi abbia seriamente avversato?» (Che cosa s'intenda con la parola seriamente, io non saprei; quello che so, è che il Conciliatore con le acute scane fendeva moderatamente a morte i fianchi al Ministero Montanelli, e al Governo Provvisorio.) «Quali sono gli apparecchi vostri, gli uomini, le armi e i danari? La guerra è rotta, Piemonte già versa sangue per la causa d'Italia, e neppure un soldato dei nostri varcò la frontiera: anzi possiamo assicurare, che le scarse milizie ebbero ordine di rientrare nello interno. A questa ora nel marzo del 1848 la Toscana aveva sul Po 8000 combattenti, e si dicevano pochi, e la inettezza o il mal volere del Governo accusavasi, e due Ministeri si rovesciarono per questo, e per questo una Rivoluzione fu fatta, e il Paese esposto a sciagure e ad aggravii esorbitanti; e adesso quando il Piemonte ci domanda: Toscani, dove sono i vostri soccorsi? noi siamo costretti a tacere con vergogna.» Io vi dico in verità, emuli miei, che non per me mai i Toscani hanno dovuto abbassare la fronte avvilita. Questo vostro discorso sembra nato a un parto con l'altro sì famoso del Generale Buonaparte reduce dalla impresa di Egitto; ma Buonaparte poteva dire al Direttorio: «Dove sono gli eserciti? che avete fatto dei tesori?» perchè veramente eserciti vittoriosi aveva lasciato, e lo erario pieno; ma i Ministeri precedenti al mio ci avevano lasciato tale una eredità, che se fosse stato in potestà mia io non mi sarei giovato accettarla nè manco col benefizio della Legge e d'Inventario;[637] e questo dicasi in quanto a quattrini: rispetto ai soldati, essi nel marzo non avevano toccato sconfitta sul campo di battaglia, e la troppo peggiore per la disciplina delle armi a Livorno; infermi gli ordini nel marzo, pure non guasti affatto dalle scioltezze, per non dire licenze, della non prospera ritirata. Mariano D'Ayala attese a riordinare e ampliare le milizie nostre, con tale diligentissima cura, che n'ebbe (io ben rammento) dallo stesso Conciliatore meritata lode: onde non si comprende come, elogiato prima lo artefice, si facesse poi a biasimarne la opera. Ma questi sono accorgimenti di Partiti!... A Mariano D'Ayala parve potere restaurare la disciplina nelle soldatesche nostre, svegliando nei loro petti sensi di onore; quindi schivò fra le pene, quelle che la dignità umana offendessero: forse era savio consiglio; a me pareva opera perduta farne sperimento su genti guaste; mi talentava meglio licenziarle tutte per tornare a comporle da capo. A questo mi muoveva il pensiero che, operando sopra gli animi viziati, duriamo fatica doppia, chè prima bisogna tôrre via il fracido e poi edificare; e siccome il guasto difficilmente tutto si leva, così quasi sempre ci tocca a provare nel processo dei tempi i fondamenti deboli; il degno Collega, all'opposto, teneva potere riuscire in virtù del suo sistema, ed io naturalmente piegai riverentissimo la mia opinione dinanzi alla molta perizia ch'egli si trova a possedere delle militari faccende. Però vuolsi confessare, che o si fosse voluto accogliere il mio suggerimento, o piuttosto tenere il sistema di Mariano D'Ayala, nè l'uno nè l'altro potevano produrre i beni desiderati nel breve giro di quattro mesi; e nè in Piemonte, dove pure gli ordini militari di tanto superavano in bontà i toscani, le milizie poterono così tosto riaversi dei danni patiti nella disciplina, a cagione delle sorti infelici della guerra. Bene è vero che il Governo piemontese crebbe fino a 135 mila uomini lo esercito nel gennaio del 1849; ma come nei corpi umani la grassezza è segno di floscio, così neanche negli eserciti il numero denota forza; e a tutto vuolsi tempo, anche facendo presto: la colpa sta nel non fare nulla, e dare ad intendere di aver fatto. Napoleone sviluppato dalle nevi russe corre in Francia, e prende gente sì, non soldati, per avventurarla ciecamente su le pianure di Dresda e di Lipsia, come un giuocatore disperato si giuoca il danaro dell'ultimo pegno che ha portato al Presto. Questo dicasi rispetto alle milizie stanziali. In quanto ai Volontarii, gli spiriti procedevano alquanto rimessi dopo la prima guerra in Lombardia, però che a molti stava sul cuore la giornata del 29 maggio, in cui 3 mila circa Toscani furono lasciati soli a combattere onoranda ma dolente battaglia contro gli Austriaci grossi di 35,000 uomini, nonostante che fossero stati confortati a tenere il fermo, con la promessa di sollecito soccorso.[638] Arrogi, che fino a tanto resse Gioberti, egli rifuggì da noi come il Diavolo dall'acqua santa; e quando gli subentrò Presidente al Ministero il Generale Chiodo, là su le frontiere dove tenevamo soldati per la comune difesa, ce li corrompevano i maledetti zelanti del Piemonte, peste dei Governi, e mille volte peggiori degli stessi nemici, e li traevano a disertare con armi e bagagli.[639]

Il Conciliatore riportava queste notizie senza un filo di biasimo per gl'imbroglioni; e se punto io m'intendo di favella, con tale un garbo che dava ad intendere come cotesti fatti non lo infastidissero troppo:[640] sicchè pareva (per non dire troppo) strano, che dopo venti giorni egli ci conciasse così di santa ragione, se non avevamo da dare i soldati che ci portavano via, e se non volavamo a farci ammazzare per fratelli che mostravano volerci dare il pane con la balestra.

Dopo che Creonte esultò per l'empie liti di Eteocle e Polinice, può da un punto all'altro, mutati indole e costume, buttata là la clamide greca, e vestito il ferraiuolo di Tartufo, farsi esprobatore dell'uno, perchè guardasse l'altro in cagnesco? L'Accusa rovistando carte non mie ha rinvenuto una lettera, dalla quale resulta che i Piemontesi nel 13 marzo 1849 armata mano avevano preso possesso di Calice, ravvivando in mal punto la vecchia contesa.[641] — Ma chi pospone la Patria al cordoglio d'ingiuria patita, non merita sedere al Governo degli Stati; e noi considerando le necessità di questa nostra inclita Madre, e le nobili parole della Corona Toscana, che, confortando il Popolo a sopportare magnanimo i colpi di fortuna, diceva: «E noi non disperiamo della Italia, e siamo risoluti di durare nel proposito, che ci fece unire le nostre armi a quelle del re Carlo Alberto, nè per isventure sapremo mai separarci da lui;»[642] non volemmo venire meno al dovere nostro. Dica pertanto Lorenzo Valerio, se scrisse dirittamente Pasquale Berghini (se pure lo scrisse) quanto si legge stampato nel Libro III, pag. 132, dell'Opera di L. C. Farini, che avversi noi al Piemonte, malgrado le misere superbie nostre, non avremmo avuto uno scudo nè un soldato per la guerra della Indipendenza. Appena vedemmo questo amico fidato, non ci versammo nelle sue braccia con amore, e non deplorammo insieme le miserie le quali avevano impedito che il nostro Popolo e il suo procedessero come a fratelli veri si addice? E dopochè furono reiterate le affettuose accoglienze, più volte venendo a trattare dei bisogni della Patria, non ci legammo per fede con lui, che la causa del Piemonte, e con essa la causa d'Italia, avremmo con ogni supremo sforzo soccorsa? Conobbe in noi punto, il Valerio, stupido astio per la grandezza che il Piemonte deve avere, se piace a Dio, onde sia baluardo efficace d'Italia? — Io penso che Lorenzo Valerio, aperto, schietto e affettuoso Legato del Piemonte, avesse motivo di chiamarsi contento di me, assai più di qualche altro che volle giocare meco di arguzia, e non comprese nulla.

Le maliziette e le saccenterie, mel creda chi legge, arruffano più che altri non pensa; e se ne giovano i guastamestieri e quelli che, non avendo cuore nè mente da accogliere concetti grandi, apportano nella trattativa dei negozii politici le arti del sensale. Fu conclusione dei ragionamenti nostri, che per noi si sarebbe fatta diligentissima provvista di danari e di soldati, intanto che pel medesimo ufficio egli si recherebbe a Roma. Queste conferenze accadevano nel 10 marzo 1849; però lascio considerare quali fossero la mia maraviglia e il mio dolore, quando nelle prime ore del giorno 16 marzo venni fatto avvertito da Livorno, Domenico Buffa avere proclamato nel giorno antecedente a Genova rotto lo armistizio Salasco. Mi condussi a casa Montanelli, il quale da parecchi giorni giaceva infermo, e quivi mandai per Valerio, che quantunque per i molti disagi sofferti, e per la tremenda ansietà dell'animo, fosse anch'egli ridotto in pessimo stato di salute, pur venne; e udita la novella, egli, la fronte includendo nel cavo della destra e stringendola con le aperte dita, come persona che la dolorosa moltitudine dei pensieri intenda concentrare in uno solo, più volte esclamò: «Ed avevano promesso aspettare il mio «ritorno!» — Credo potermi ricordare eziandio, ch'egli aggiungesse: «Vogliono perdere tutto!» Non essendone sicuro, io non lo accerto. Ma perchè riesca anche in questa parte compíta la difesa contro l'accusa che mi mettono addosso, pongo senz'altro comento, chè tutto spiega da sè, la minuta di lettera confidenziale trovata dall'Accusa negli Archivii del Governo, e da lei stampata a pag. 220 del suo Volume.

«Signor Ministro,

«Appoggiandosi sul fatto dell'armistizio prosciolto e delle ostilità riprese, il Generale La Marmora ha dichiarato d'occupare Pontremoli e Fivizzano, sotto colore di essere spedito a scendere dall'Appennino in Lombardia.

«Io e il Governo Provvisorio abbiamo sentito la trista nuova della prepotenza che il Piemonte così stranamente ci arreca, e sebbene con animo conturbatissimo, pure abbiamo dato ordine rapidamente alle nostre truppe di lasciar passare le truppe sarde, perchè la guerra ripresa non corresse l'orribile rischio di cominciare con un'avvisaglia fra Piemontesi e Toscani.

«Questo contegno del Governo Sardo è per me inesplicabile: mi affretto però a chiedere confidenzialmente tutte quelle spiegazioni che reputerete più opportune a togliere di mezzo i dubbii che la condotta del vostro Generale insinua gravissimi nell'animo mio.

«Avvezzo a conoscere le tergiversazioni e gl'indugi, coi quali il Governo Piemontese ci ha condotti e tenuti sospesi sulle cose di Lunigiana, io non posso infatti considerare come un semplice avvenimento di guerra, quello della occupazione di Pontremoli e Fivizzano, e credo quindi avere il diritto di ottenere convenevoli spiegazioni.

«Per ciò che riguarda poi il Piemonte, io non penso che egli farebbe opera utile neppure a sè stesso, cominciando con tali atti la guerra, e non correggendoli colle spiegazioni opportune. Non penso neppure che il Governo siasi portato convenientemente coll'istesso Valerio, che di tutte queste cose va ignaro, e al quale noi abbiamo resa testimonianza di tutta fiducia, e pei diritti d'un'antica personale amicizia, e più per quelli della rappresentanza d'un Popolo fratello.

«Che anzi in questo stesso momento mi giunge notizia, che la presenza di truppe sarde in Lunigiana abbia già suscitato una serie di atti di rivolta, contro i quali io v'invito a protestare energicamente, dichiarando lo scopo dello stanziamento delle dette truppe, e invitando quella popolazione alla più severa osservanza degli ordini stabiliti. Che se il Governo Piemontese poi non vorrà aderire a queste mie giustissime richieste, io sento il dovere d'ammonirvi delle tristissime conseguenze di un simil contegno, e di farvi noto che dove per voi si tenti di rompere guerra alla Toscana, menomando il suo territorio o fomentando la ribellione, la Toscana potrebbe bene accettarla e fare proclamare la Repubblica a Genova, e sostenere con altri mezzi una ostilità sconsigliata, colla quale dareste principio a una serie forse infinita d'errori e di colpe, e dalla quale penso che aborrirete come ogni generoso Italiano.

«Qui dunque è necessario che il Governo Piemontese dichiari apertamente i suoi intendimenti, e corregga l'odiosità delle apparenze colle prove più amichevoli verso di noi.

«Io e il Governo che rappresento non abbiamo che una via, e la percorreremo energicamente (e il Proclama che vi accludo e la Legge sull'imprestito coatto vi faranno fede di ciò); ma se le nostre relazioni non sieno accompagnate dalla più illimitata fiducia, noi non potremo percorrerla più, e su voi ricadrà tutta l'odiosità della nostra impotenza. Si tolga dunque di mezzo ogni causa che spenge l'entusiasmo e l'amore che deve congiungere i due Popoli e i due Governi, e speditemi quanto prima potete le spiegazioni che chieggo. Vi saluto distintamente ec.

«Dalla Residenza del Governo Provvisorio Toscano, li 17 marzo 1849.»

Nonostante che il Governo Provvisorio questi casi sentisse amaramente, e lo significasse al Ministero Sardo, dissimulava il torto; e così, riportando il Proclama del Generale La Marmora, coloriva la cosa nel Monitore del 22 marzo 1849:

«Il Generale La Marmora alla testa di un numero considerevole di Piemontesi è entrato in Lunigiana; e in forza di alcune disposizioni che il Governo Sardo aveva preventivamente concordato col Governo Toscano, per causa della guerra, è da sperarsi che nulla conturberà il momentaneo ricovero richiesto e ottenuto dalle truppe piemontesi nel suo passaggio.»

Il Generale La Marmora pubblicava entrando il seguente Proclama:

«Abitanti della Lunigiana!

«Il Piemonte ha tenute le sue promesse. Spese l'intervallo della tregua a rinforzare e migliorare l'armata, senza perdonare a sacrifizio di sorta; accresciutene le file di ben 40,000 uomini, ecco che dichiara la guerra, ed il Re si pone alla testa della magnanima impresa. Per cooperarvi ho ordine di passare fra voi; ma la mia momentanea occupazione di coteste valli non è che militare, ed affatto estranea alla vostra interna politica. Qualche incomodo vi recherà forse il nostro passaggio. Ogni cosa sarà però pagata esattamente, nè d'alcuna molestia v'avrete a lagnare. Noi non vi chiediamo che un momentaneo ricovero; e ben lo speriamo nella nostra qualità di fratelli vostri, e per la missione nostra di liberare altri comuni infelici fratelli. — E siccome la santa causa che siamo chiamati a sostenere vi desta nell'animo quelli stessi generosi sentimenti che noi nutriamo, il comune entusiasmo si confonda col solo grido di

«Viva la Indipendenza Italiana.

« Il Generale — Alfonso la Marmora.»

Io non accuso, mi discolpo, e neanche spontaneo, ma costretto; e non sono andato già io a ricercare queste carte importune, bensì l'Accusa, e le ha stampate, ed ora vendonsi; sicchè trovandosi oggimai di pubblica ragione, chiedo in grazia di non essere ripreso di poco cuore, come quello che alla dignità della Patria non abbia saputo donare il proprio silenzio. Però supplico fervorosamente Dio a volere che queste carte, invece (come altri iniquamente spera) di somministrare materia a nuove ire, persuadano la tolleranza scambievole che nasce dal sentirci tutti quanti siamo non immuni da errore; insegnino ad assumere la severa gravità ch'è indizio di Popolo che si rigenera, e consiglino gl'improvvidi scrittori, avvegnachè il Sammaritano non infondesse nelle piaghe del trafitto asfalto, ma vino e olio; ed è così soltanto che possono dirsi pace anche i Giudei ed i Sammaritani.

Esaminiamo adesso se la protervia mia nello attraversare il disegno della Restaurazione, e nello instituire ad ogni costo la Repubblica, mi facessero meritevole di cosa, che per demerito altrui non si giustifica mai, voglio dire il tradimento.

Le mie tergiversazioni, per gittarmi poi al Partito trionfatore, indignarono forse gli animi dei Costituzionali ortodossi, come hanno commosso i Giudici del Decreto del 7 gennaio 1851, sicchè vollero venire a mezzo ferro e farne un fine? Questo supposto può scriversi dai Giudici, ma non può sostenersi da cui goda del bene dello intelletto, perchè le mie informazioni sì antiche che recenti m'istruivano che i toscani Popoli avversavano le forme repubblicane. Riporto a testimonianza di fede, davanti gli uomini di tutti i partiti, i Documenti che seguono. — Per somministrare schiette e leali notizie ai miei avversarii, che parteggiavano per la Repubblica impossibile, domando al Governo di Livorno: «Ditemi se gioverebbe più ad animare o la idea della difesa della nostra terra, o la idea della Repubblica. Intendo che si presenta lo spirito di tutto il Popolo, non già di una classe o di una fazione. »[643] Rispondeva il sagace uomo Avvocato Massei:

«Al Cittadino Guerrazzi, Rappresentante il Governo Toscano.

«Crederei più opportuno toccare in genere della difesa della Patria contro lo straniero, piuttosto che della forma di Governo col Popolo. Così faccio io nelle mie brevi parole al balcone, e non senza qualche effetto.»

Avuta questa risposta, insistevo col Dispaccio telegrafico del medesimo giorno:

«Continui sempre a consultare lo spirito pubblico. Animi per la difesa del territorio. Purchè vogliamo davvero, difenderemo il Paese dall'invasione straniera. Chiunque vuol tutelare la Patria, parta subito e faccia massa a Firenze. Qui si istruiscono, e poi s'inviano al campo. Essendo uomo di Governo, non le raccomando di ridurre i Livornesi a temperanza e modestia, e al vero amore della libertà.

«D'Apice è in viaggio. Ricevetelo come merita. Gioventù, alle armi. La Patria non muore mai.»

Interrogato con diligenza il Prefetto di Pisa, informava sollecito: «La Unificazione con Roma ha contro di sè l'opinione generale. La difesa del Paese sarebbe la formula che concilierebbe senza confronto il maggiore consenso. Ciò ritenuto, il pronunziarsi per questa gioverebbe in quanto a rassicurare da ogni inquietudine sulla Unificazione. Ma anche la formula della difesa non va esente dalle difficoltà per lo spirito delle popolazioni di campagna poco disposte ad adattarsi ai mezzi di esecuzione. È verità, e bisogna dirlo.»

Il Prefetto di Lucca anch'esso: «La Unificazione con Roma aumenterebbe i mezzi materiali, ma diminuirebbe i morali religiosamente e politicamente; nel primo senso sarebbe preferita; nel secondo temuta e schivata.»[644]

Uguali rapporti venivano dalle altre provincie toscane, i quali non mi è dato riferire, però che nel Volume dei Documenti dell'Accusa io non li trovi impressi, e gli Archivii non mi sieno stati conceduti fin qui. Nonostante questo, è sicuro che tutti suonassero nella stessa guisa, avvegnadio nella conferenza segreta del 3 aprile io dichiarai espresso la Toscana procedere, per la massima parte, avversa alla Repubblica ed alla Unificazione con Roma, e il Ministro dello Interno, più tardi, nella pubblica Assemblea, adempiendo al suo dovere, senza rispetto significò: «Vi sono Rapporti dei nostri pubblici funzionarj, e dei pubblici funzionarj di un ordine più elevato (per esempio i Prefetti) intorno alla idea della Unificazione della Toscana con Roma. Se debbo qui fedelmente esporre quello che a me da questi funzionarj vien riferito, dirò, che la massima parte della popolazione toscana recalcitra alla immediata Unificazione con Roma: alcuni perfino ne fanno argomento di timore per non poter conservare l'ordine pubblico, quando questa Unificazione fosse legalmente e definitivamente proclamata da questa Assemblea, mentre all'opposto la opinione contro qualunque ingiustissima invasione straniera potrebbe crescere fino al furore.»

Nel 2 aprile 1849 indirizzo al signor Presidente dell'Assemblea Costituente Toscana la lettera seguente:

«Signor Presidente dell'Assemblea Costituente Toscana.

«In coscienza, e sopra l'anima mia, considerate attentamente le volontà e le cose, io credo che non possa salvarsi, o almeno tentare di salvare il Paese, laddove non siano dall'Assemblea consentite queste cose:

«1º I pieni poteri non sieno illusione nè facoltà che scappano ogni momento di mano, ma libero esercizio di pensare e attuare subito quanto si reputa necessario per la salute della Patria.

«2º Proroga dell'Assemblea a tempo determinato o indeterminato, con obbligo nel Potere Esecutivo di non risolvere intorno alle sorti del Paese senza consultarla, — pena la dichiarazione di traditore.

«3º Sospensione di ogni quistione intorno alla forma del Governo.

«4º I Deputati rimangano a Firenze per condursi a richiesta del Potere Esecutivo, in qualità di Commissarii per la Guerra, nelle Provincie, e sovvenirlo in altra maniera.

«Per me non vi vedo altra via. L'Assemblea deliberi. Scelga chi vuole per Capo, Dittatore, o che altro; le parole sono nulla, le cose tutto. Io sarò lieto di mostrare come deva obbedire chi ama la Patria davvero. Addio.

«A dì 2 aprile 1849.

«Amico — Guerrazzi.»

Chiamo i signori Prefetto Massei e Consigliere Paoli a Firenze per assistere alla Tornata dell'Assemblea del 3 aprile, perchè essi somministrassero schiarimenti sul modo col quale avevano saggiato lo spirito pubblico allorquando, a Livorno e a Pisa, lo avevano detto contrario alla Repubblica, e la opinione loro sostenessero apertamente.[645] In quel giorno mi viene offerto da Livorno un Battaglione di Volontarii, ed importa apprendere il come: «Feci conoscere (scrive Massei) al Ministro dello Interno la necessità di decidersi per l'accettazione o il rifiuto della offerta di un Battaglione di Volontarii fatto da alcuni patriotti livornesi, sotto nome di Battaglione repubblicano, pronti a renunziare al nome[646] Ed io rispondo come si legge a pag. 625. Poche ore dopo, riparando all'oblio del nome, con Dispaccio telegrafico, aggiungo: «il Battaglione può chiamarsi Del Fante, livornese, morto a Krasnoie. Ritenuto quanto ho detto su le armi e su gli Ufficiali, si metta in via.»[647]

Nel giorno 3 aprile accadde la Seduta memorabile dell'Assemblea, nella quale per certo io non lusingai parte repubblicana, nè essa lusingò me, e fu detto di sopra: in quel giorno stesso certo ufficiale della Posta mi portava un plico aperto diretto a lui, dove stavano incluse lettere per gli spettabili signori Ottavio Lenzoni, Cesare Capoquadri, Orazio Ricasoli, Gino Capponi, conte Serristori, ed altri parecchi, di cui non rammento il nome, raccomandandogli che facesse recapitarle al domicilio dei segnati. Sospetto era lo invio; ritenni si trattasse di trame, e il tenore della lettera breve mandata all'ufficiale confermava grandemente il dubbio: pure rimisi ai mentovati Signori le lettere col sigillo intatto, e solo gl'invitai a non volere partecipare ad intrighi, rendendomi più grave il fascio già troppo per le mie braccia. Ora ho da dire che commisi al Segretario scrivesse conoscerne io il contenuto, ma il fatto sta che, non avendole aperte, io non lo conosceva. Siccome al mondo tutta cortesia non è anche spenta, così qualcheduno, a cui duole del mio non degno strazio, mi fa tenere per mezzo del mio Difensore una copia della lettera da lui ricevuta onde me ne valga, la quale dichiara così:

«Al vero Cittadino.

«Non vi è tempo da perdere. Movetevi una volta con coraggio, senza timore. La Toscana tutta reclama anche da voi la sua salvezza, ed è dovere di farlo. Correte, ma subito, dai soggetti in calce notati; stringetevi con i medesimi, e d'accordo col Municipio andate da Guerrazzi per concertare il modo, prima per tutelare l'ordine, e quindi per salvare la Patria da una invasione austriaca. Il Principe confida anche in voi, e i Toscani non dimenticheranno il vostro nome, che sarà scolpito in un monumento inalzato a eterna memoria dei benemeriti della Patria.»

N. B. La lettera non ha data, ma ha il bollo di Posta del 30 marzo 1849, ed è scritta, o sottoscritta così: « Il Comitato dei Veri Cittadini.»

Dunque, nel 3 aprile, nella comune estimativa io non era reputato avverso alla restaurazione del Principato Costituzionale? All'opposto, me giudicavano attissimo a restituirlo in Toscana. Dunque allora non pensava la gente che i miei fatti e i miei detti mi palesassero uomo capace di tenere due corde al suo arco. Dunque nessuno si avvisava che io fossi di cuore doppio, ma sì all'opposto me tenevano per tale, da sicuramente confidarmi il disegno del richiamo del Principe, e del medesimo prendermi a parte.

Quantunque non sia mio instituto esaminare le risposte date dai testimoni, che l'Accusa stessa ricercò, tuttavolta, occorrendomi leggere i deposti relativi ai giorni 11 e 12 aprile, poichè mi cade il taglio mi giova riportare quello che intorno alla mia propensione di restaurare il Principato Costituzionale dichiarino alcuni spettabili Cittadini. Il signor Dottore Venturucci, animoso e dabbene, interrogato se per me si manifestassero tendenze alla Restaurazione, risponde: «A onore del vero, dirò, che interpellando io il Guerrazzi come Capo del Potere Esecutivo, mentre si parlava di dover fare una guerra insurrezionale, su le disposizioni del Popolo Toscano, su quelle delle Milizie, intorno ai termini della Toscana con gli Stati Italiani ed Esteri, il signor Guerrazzi si mostrò molto pago di queste interpellazioni, e si diè a rispondere: — La disposizione del Popolo Toscano è manifestamente per Leopoldo II: la soldatesca si compone di gente non buona, in ispecie Volontarii; — e rivoltosi a Montanelli ch'era tornato di recente, soggiunse: — dillo tu. — E Montanelli assentiva con lacrimevole storia. — Inoltre, egli aggiungeva, tranne che con Venezia e con Roma, non siamo in buoni termini con altri Governi; anzi, nè anche con Roma ci troviamo in perfetto accordo, e nella intimità che uomo potrebbe credere, però che il Mazzini quando stette a Firenze fu poco contento di noi, non avendo io voluto che si alzassero gli Alberi, nè si proclamasse la Unione con Roma, e dovei penare molto perchè ciò non si facesse. Noi non siamo in termini officiali con nessuna Potenza; nessuna ci ha voluto riconoscere; solo il Ministro inglese mantiene con noi termini officiosi.»

I Giudici del 7 gennaio 1851, questo chiamano parlare coperto. «Onde, — il signor Venturucci continua, — da tutte queste cose, ed anche da altre risposte del Guerrazzi, sembrerebbe potesse ragionevolmente arguirsi essere in lui stata la tendenza a operare la Restaurazione Costituzionale, e che per questo soltanto cercasse ottenere un voto di fiducia, e avere in mano il potere assoluto

Vuolsi notare come il Montanelli tornasse di Lunigiana il 10 marzo 1849,[648] e però cotesti discorsi accadevano nel 12 o 13 dello stesso mese, che secondo il calendario della onesta Accusa succederebbero il 27 marzo, che fu giorno doloroso per la notizia della battaglia di Novara.

Il Professore Taddei, schietto e leale, testimoniando del vero, dice: «Posso rispondere, che dalle sue espressioni sì di quel giorno (12 aprile 1849), che dei giorni precedenti, si rilevava benissimo ch'egli non solo non avversava la ripristinazione della Monarchia, ma che anzi vi si mostrava proclive. La quale proclività dava a me fondamento per lusingarmi, che egli volesse e sapesse trovare modo di fare questo passaggio in conformità del desiderio universale nei modi più atti per risparmiare il sangue, e per conciliare nel tempo stesso la dignità del Paese.» Nè alla età del signor Taddei si mentisce, perchè potrebbero fare all'illustre vecchio mali gravi, non lunghi, e l'uomo compreso nei casti pensieri del sepolcro aborrisce macchiare d'infamia la veneranda canizie. Di Ferdinando Zannetti ho favellato altrove. Potrei citare i signori Emilio Nespoli e Avvocato Giuseppe Panattoni, ma per non allungare di soverchio le citazioni, ed essendo eglino meno espliciti degli allegati, credo bene porre fine a questo negozio, che più propriamente è materia dell'Avvocato difensore.

Nè questa opinione furono soli a concepirla i Fiorentini, chè nel Messaggere del Galignani, in data del 7 aprile 1849, occorre questa notizia: «Leggiamo in una lettera da Firenze del 1º. Corre fama che Guerrazzi, il quale non è stato mai partigiano della Repubblica, siasi fatto Dittatore unicamente allo scopo di avere più agio a restaurare l'autorità del Granduca.»[649]

Ed appartiene eziandio a questo periodo il Documento che segue:

Istruzioni che il Ministro della Guerra dà al Generale D'Apice, state precedentemente concertate col Capo del Governo.

«1. Provocherà in Lucca, Pietrasanta, Massa ec., lo spirito pubblico per la difesa del Paese, mostrando tutti i pericoli della invasione, e rammentando di frequente gli orrori di cosiffatta sventura. Saggerà bene il genio del Popolo; e se gioverà, per allacciare più consensi, lasciar da parte la questione sulla forma di Governo, sì il faccia. — Però la mobilizzazione deve essere immediata; si metta d'accordo con le Autorità, e avvenga per amore o per forza, in specie per le campagne.

«2. Destramente conosca, e mi referisca se proclamare la Repubblica e la Unione con Roma sarebbe adesso argomento di forza, o piuttosto di dissoluzione.

«3. Avvenendo qualche moto di ribellione o attentato alle vite ed alle sostanze, secondi le Autorità locali per reprimerlo e punirlo acerbissimamente.

«4. Non concedendo il tempo ristabilire la disciplina con modi graduali e blandi, bisogna tentare, se si può, con modi severi. Quindi sia inesorabile: non raccomando giusto, sapendo quanta sia la giustizia sua. Per converso, largheggi ai meritevoli di ricompense. Faccia sentire al soldato, la guerra essere un mestiere che giova, il merito cosa da trarne immediato vantaggio, la disciplina fruttare onore e sicurezza.

«5. Tenga ilare e perpetuamente occupato il soldato. Qui sta il gran segreto della disciplina. Il Capitano che può affaticare di più i soldati gli avrà meglio disciplinati; perchè il lavoro afforza le membra, persuade la condotta regolare, e stanca la persona. Vorrei si esercitassero ai lavori di zappa, vanga ec.

«6. Con la solita sua prudenza può mostrare il Generale che la difesa del Paese, e della integrità del territorio, è cosa che tutti i Partiti desiderano, e di cui tutti i Governi domanderanno conto ai soldati, qualora vilmente si ricusino. Ritornando anche Leopoldo, terrà in dispregio un'armata che non seppe conservare alla Toscana la Lunigiana, Massa e Carrara

«7. Difenderà la Frontiera ad ogni costo; e cercherà con ogni diligenza conoscere gli avvenimenti oltre la Frontiera, così per la parte dei Piemontesi, come per quella degli Estensi, e ne darà ragguaglio fino a Lucca con staffetta; da Lucca a Firenze per telegrafo.

«8. Adoprerà tutti i mezzi per accordarsi col Governo Piemontese e co' Liguri, per far causa comune contro il nemico tenendosi sopra la difensiva; però non gli si toglie la facoltà d'imprendere l'offensiva quante volte giovi alla difensiva.

«9. Lo stesso anche più ampiamente dicasi per la parte degli Stati Romani, che considererà sempre come destinati a formare una stessa famiglia con noi, se i casi non vogliono altrimenti.

«10. Finalmente vigilerà a impedire qualunque complicanza col suscitare inopportune quistioni politiche con gli Stati confinanti.

«11. Non gli si raccomanda che in ogni evento salvi l'onore del Paese, perchè in questo il General D'Apice non ha mestieri di raccomandazione.

«12. Le migliori truppe saranno postate nei passi più deboli della linea di difesa. — Organizzare una riserva in seconda linea in modo da soccorrere con celerità i posti attaccati.

«Firenze a dì 1º aprile 1849.

« G. Manganaro. »

L'Accusa legge con l'occhio cieco del Bano di Croazia l'ordine di lasciare da parte la quistione su la forma del Governo, e l'altro d'indagare destramente se la Repubblica piaccia o no; il quale non era senza arguto consiglio, però che, i partigiani della Repubblica ponendo nel Generale grandissima fede, io disegnava adoperarlo a persuaderli efficacemente, in virtù della convinzione che doveva nascere in lui dal coscienzioso esame dei fatti, a deporre la ubbia di volere instituita la Repubblica in Toscana:[650] nemmeno apprezza l'Accusa l'Articolo 6, il quale pure spiega a chiare note, che il Generale faccia sentire la possibilità del ritorno del Granduca, e quanto sarebbe per desiderare egli ancora, che il suo Stato intero si conservasse. Questo è il concetto che parimente dettai nel Manifesto alla Gioventù Fiorentina, ma qui più esplicito e là più coperto, siccome consigliava prudenza, chè adesso favellavo con un uomo solo, e discreto per indole, per instituto obbediente. Si sollevano le cateratte all'Accusa soltanto allo Articolo 9, dove raccomando di accordarsi con gli Stati Romani per fare causa contro il comune nemico, perchè gli ha da considerare come destinati a formare una sola famiglia con noi, SE I CASI NON VOGLIONO ALTRIMENTI. Che cosa trova qui da riprendere l'Accusa? Forse trattasi qui di Unificazione con Roma repubblicana? Quanto queste Istruzioni negli altri Articoli esprimono, non esclude simile concetto? E meglio non lo escludono fino dalla radice il cumulo dei fatti concomitanti? — O dunque che cosa significa egli cotesto Articolo? — interrogherà l'Accusa. — Ed io rispondo avere in altra parte manifestato i miei pensieri in proposito. Il Ministero Capponi,[651] dettando la commissione al Legato Ridolfi per le Conferenze brussellesi, si palesò vago di vedere Toscana arrampicarsi su pei greppi degli Appennini, e mettere un piede in Lombardia; a me cotesti possessi lombardi non andavano a sangue, e mi pareva che meglio potesse allargarsi verso la Umbria, memore dell'antica Etruria, di cui furono confini la Magra e il Tevere; il quale concetto mi parve allora, e ritengo anche adesso, più classicamente politico, per ragioni che non importa discorrere. A me piaceva parte degli Stati Romani, non già nella guisa che disse David quando gli morì il figliuolo avuto da Betsabea: «Poichè non verrà più a me, io me ne vado a lui;»[652] ma sì nel modo contrario, voglio dire che, invece di andare a loro, essi venissero a me; onde se, senza pericolo di commettere tradimento, si può desiderare ampliato lo Stato da parte di Ponente, non si sa come appo l'Accusa si corra pericolo di fellonia, piegando questo desiderio a Levante. Io poi giudico, e quanti hanno pratica delle faccende politiche giudicheranno meco, che corra necessità assoluta di ampliare i piccoli Stati, conciossiachè, mettendo pure da parte il riflesso che le difficoltà degli Stati grandi diventino tribolazioni vere pei piccoli, i tempi (per dire tutto in una parola sola) impongono l'obbligo di tali spese a cui gli Stati piccoli non possono sopperire. Avviene per questi come nelle private proprietà, dove i troppo grandi possessi non recano danno minore dei troppo piccoli alla pubblica economia, chè in quelli nuoce la inerzia a usufruttare, in questi la impotenza. Ed a me talora, pensando lungamente su le condizioni economiche della Toscana, veniva fatto concludere: «Noi abbiamo gl'incomodi di un guscio di noce armato come un vascello a tre ponti.» Siffatto mio intendimento poi non avrebbe dovuto suonare nuovo all'Accusa, poichè mi scoppiò fuori quasi per forza nella Tornata del Consiglio Generale toscano del 22 gennaio, e venne con la consueta carità raccolto, ravviato, e messo in vetrina dallo amico nostro il Conciliatore.[653] — E forse nè anche a questo tacerà l'Accusa, e dirà che simili disegni deggionsi dai Ministri cacciare via come tentazioni del Demonio; ed io, poichè, tra le tante e strane vicende della mia vita, mi trovo ridotto anche a questa, di favellare di politica con l'Accusa, mi permetterò osservarle, che, se i casi volevano, avremmo potuto compensare la Chiesa in Lombardia, a modo di esempio, col ducato di Parma, che già fu suo, e com'ella sa, o piuttosto non sa, da Paolo III, nel 12 agosto 1545, dato in feudo ecclesiastico, reversibile dopo la estinzione della linea mascolina, a Pier Luigi Farnese; la quale investitura però non tolse, che nel 1718, in virtù del Trattato della quadruplice alleanza, Art. V, Cap. I, fosse dichiarato feudo imperiale, senza il consenso del Duca Francesco, come senza attendere alle proteste d'Innocenzo XIII;[654] e neppur tolse più tardi che nel 1731 le milizie austriache l'occupassero, per consegnarlo a Don Carlo infante di Spagna. Tutto questo poi ho voluto raccontare, perchè l'Accusa conosca che simili composizioni di Stati, e sieno ancora della Chiesa, si costumino fare senza pericolo di tradimento, per via di Congressi e col mezzo di Trattati politici. E mi sembra non presumere troppo di me, se affermo che il mio concetto d'ingrandire, se lo volevano i casi, la Chiesa in Lombardia e la Toscana nella Umbria, superò in bontà quello di ampliare Toscana in Lombardia, o si attenda alla Storia e alla antica parentela dei Popoli, o alle comodità geografiche, o finalmente alle altre tutte cagioni per le quali avviene che lo accomunarsi piace che succeda, e successo si mantenga. Che se poi ad ogni modo pretenderà l'Accusa, che i miei desiderii e presagii costituiscano peccato, senta una cosa l'Accusa: — prometto confessarmene; — e mi lasci stare.

L'Accusa dirà, immagino: — della commissione del 1º aprile 1849 ego te absolvo, e se a malincuore Dio solo lo sa; ma con altri ganci ti tengo; ora rispondi: come ti scuserai del Dispaccio del 18 marzo 1849 mandato al Generale D'Apice?[655] — Parmi la risposta breve: nè lo mandai, nè lo firmai. — Ma egli è composto collettivamente, però che accenni a conferenze avute col Governo Provvisorio. — Che monta questo? Il Montanelli come Presidente del Governo Provvisorio si reputò rappresentare l'ente complesso, e credo dirittamente pensasse; e tanto è vero che fu così, che sebbene vi adoperi il numero plurale non pertanto si sottoscrive: G. Montanelli. — Ma dunque come va ch'è scritto di tuo carattere, tranne la firma? — Il signor Montanelli praticava un costume assai somiglievole, per quanto leggiamo scritto, a quello della Sibilla Cumana; notava le cose sue su fogli sparti, e gli lasciava ora qua, ora là; io uso diversamente, e pongo cura diligentissima a tenere in sesto non solo lo scrittoio mio, ma anche l'altrui; e talvolta alle tre ore antimeridiane mi sono trattenuto allo Ufficio per accomodare le carte arruffate dei Segretarii. Ora il signor Montanelli avendo conferito col Generale D'Apice, spontaneo o richiesto gli mandò la commissione in discorso, e lasciò sul mio tavolino la minuta del Dispaccio neppure sottoscritto; tornato la sera, vidi il foglio, lo lessi, e parendomi, come veramente era, di nessuna rilevanza, lo stracciai pel mezzo e lo gittai nella paniera. Ragionando nel dì successivo delle varie cose del giorno innanzi, il signore Montanelli mi venne interrogando se avessi veduto le Istruzioni partecipate al D'Apice; e negando io, egli soggiunse avermene lasciato sul tavolino la minuta; allora immaginando che accennasse alla carta gittata nella paniera, la ricercai, ne misi insieme i quattro pezzi, e domandai se a sorte intendesse di quella. Avendomi risposto per lo appunto essere, io per gentilezza non consentendo ch'ei la ricopiasse emendai il fallo involontario riscrivendola; e scritta che fu, lo avvertii: «E parti commissione questa sufficiente per noi? E pensi che possa contentarsene il Generale? Siffatta vaghezza mette a strano partito noi e lui; bisogna essere precisi nello indicare le cose che vogliamo sieno fatte; altrimenti tu me lo crei di punto in bianco Dittatore, e ti togli l'adito a mai trovarlo in peccato. Ancora, e scusami amico mio, — e questa commissione di promuovere gl'interessi repubblicani della Italia Centrale che cosa significa mai? Questa è buona per un negoziatore, non per un Generale; questa poteva darsi dal Direttorio a Buonaparte mandato alla conquista d'Italia; ma a D'Apice, che ha da starsene in Toscana, io non vedo a che giovi; la sua commissione è militare, non politica, e meglio importava indicargli i luoghi della frontiera, ove urge, e noi vogliamo che si afforzi. Inoltre, gl'interessi repubblicani della Italia Centrale che cosa sono eglino? Toscana non è confusa ancora con gli Stati Romani, e penso, che male ciò possa effettuarsi; forse mai, — ed a questa ora tu ne dovresti essere quanto me persuaso: di più, Toscana non assunse ancora forma repubblicana, e dubito forte se mai l'assumerà;[656] pertanto sai tu che cosa mi pare tu abbi ordinato al D'Apice? Che abbandonate le nostre frontiere, ei se ne vada diritto a prendere soldo dalla Repubblica Romana.» Sorrise Montanelli, e, come costumava, tutto soave mi rispose: «Ormai l'ho spedito;» e preso il foglio lo sottoscrisse.

In vero, come avrei potuto dare al Generale cotesta commissione, e come contestargli essere conforme alle conferenze verbali, se i miei colloquii e le mie commissioni suonavano diversi? — Il Generale D'Apice udito in testimonianza depone: «Avendo avuto luogo di recarmi due o tre volte a Firenze, ho udito in coteste circostanze parole da lui che mi fecero credere non fosse lontano a ristabilire in Toscana il Granduca Leopoldo II, e dette maggiormente forza a tali mie supposizioni il discorso fattomi dal medesimo signor Guerrazzi l'ultima volta che parlammo insieme, il quale consistè nello avvertirmi che in ogni caso importava difendere la frontiera, perchè, se tornava il Granduca, avrebbe avuto piacere di trovare non menomato lo Stato neppure delle provincie che da cotesta parte gli si erano aggiunte; per la quale cosa tolto commiato da Firenze e giunto a Lucca riunii davanti a me i due Tenenti Colonnelli Facdouelle e Fortini, e Colonnello Baldini, e ripetei loro in sostanza il discorso del signor Guerrazzi,[657] nè mai alcuno di noi si è occupato di vedere se convenisse più l'una che l'altra forma di governo, quantunque fra le istruzioni suddette vi fosse pure questo incarico[658] Più oltre: «Nel richiedere al Ministro della Guerra più ampie istruzioni, ebbi in veduta specialmente la comparsa del Granduca Leopoldo o di altro in suo nome, avendo presente il discorso fattomi dal signor Guerrazzi sul possibile ritorno del medesimo Granduca, per cui bisognava difendere la frontiera; come pure non avevo dimenticato le qualche parole confidatemi dal Guerrazzi, per cui mi era parso ch'ei non fosse alieno da trattare il ristabilimento del Granduca.» Non importa notare nemmeno che il Generale non accenna a un tempo soltanto, ma a tre diversi; e comecchè mi manchi modo di riscontrarlo, io do per sicuro che la prima volta e la seconda egli si portasse a Firenze prima del 27 marzo 1849; e ciò avverto onde l'Accusa si vergogni avere, in onta al vero, sostenuto che simili disposizioni in me nascessero, tardo pentimento, dopo la battaglia di Novara. Ora, se io avessi scritto al Generale come suona il Dispaccio del 18 marzo 1849, e gli avessi favellato come egli depone, avrebbe avuto motivo a dubitare della sanità del mio cervello. Anzi, dove bene s'intenda, parmi evidente la prova che cotesta commissione fosse del tutto fattura non mia, imperciocchè io mi ero lasciato andare fino a fargli sentire la possibilità del ritorno del Granduca, e quella lo incarica di sostenere la Repubblica; donde la necessità della doppia origine di siffatte manifestazioni. Per la quale cosa ammonisco i miei Giudici, che colui il quale tiene con varie persone discorso diverso può reputarsi talvolta, ed essere, uomo mascagno; credere poi che un Magistrato parli a un Generale bianco e gli scriva nero, per lo meno è da matto.

A questo tempo si referisce la seguente lettera, che io scriveva al signor Consigliere Carlo Bosi, dalla quale si fa manifesto come io sentissi di coloro, che più si mostravano smaniosi per la Repubblica.[659]

«Al Governo di Livorno.

«Qui non può farsi nulla. La Patria versa in grandissimo pericolo. Io ne ho assunto la malleveria davanti agli uomini e a Dio: voglio riuscirvi, o morire: ormai della vita poco m'importa, anzi mi pesa. Ordino pertanto sia posto termine alle perturbazioni manifeste e segrete contro il Governo, e contro la quiete pubblica. Chi sono gl'infami che altro non sanno che dividere la Patria e spaventare la città, senza mai — mai prendere uno schioppo e arruolarsi nella milizia finchè dura il pericolo? Wimpfen ha minacciato in Casale con 10 mila Austriaci mettere capo a partito alla Italia Centrale; ma non sono 10 o 20 mila Austriaci quelli che temo, sibbene questi commettitori di scandali. Voi mi farete esatto rapporto di quanto avviene, indicandomene gli autori; e quando vi ordinerò arrestarli, voi non dovete porre tempo tramezzo, fosse mio fratello: altrimenti renunziate. Oh! è facile sostenere la Repubblica con la gola fioca di acquavite e di fumo; con la opera poi la cosa è diversa. Il Popolo non si disonori con atti brutali: s'invigili cautamente il contegno di tutti; se commettono fallo, si raccolgano prove e mi si rimettano. Per suscitare la forza bisogna sia forte la Legge. La Inghilterra, che non ci avversa, dichiara che dove continuino in Livorno gl'insulti alle persone, ai Consoli, alle Insegne ec., provvederà al Paese come già fece a Lisbona. Per Dio! mi viene il sangue al viso. Badate i retrogradi; vi sono, e vanno puniti: ma

«1º Non si ha a scambiare retrogradi co' paurosi.

«2º Quando si mette la mano addosso a qualcheduno, conviene avere ragione: se no, se poco amico, diventa avverso; se nemico, cresce nell'odio.

«Dei perturbatori non so che farmi. Gli uomini liberi sono gravi, animosi e operosi. Tali furono gli Americani, e così vinsero.

«Partecipi questi miei sensi al Popolo Livornese, e gli dica che me ne appello al giudizio loro, all'onore, alla carità patria, e alla fama che pel mondo si sono guadagnata grandissima. Viva la Libertà! Viva Livorno! E chiunque è valido alla frontiera.

« Guerrazzi. »

«P. S. Al Proclama aggiunga eccitamento a marciare; — vengano ad arruolarsi; — gli mandi a Firenze con armi; — mandi armi — armi — armi. — I gradi a chi sarà meglio reputato capace. — Come affidare il sangue nostro a cui non sa nulla?»

E meglio la mia opinione intorno agl'improvvisi fattori della Repubblica può dedursi da quest'altra lettera che indirizzava ad un mio fidatissimo e congiunto, comecchè di lontana parentela.[660]

«Caro Giorgio,

«Viene costà Adami: a lui parla del negozio di cui mi scrivi. — Pei male intenzionati — lascia fare. Il tempo non è per loro. Quello che mi duole, senza punto sbigottirmi, si è che persone amiche — o che si dicono — o che si dissero amiche, invece instruirsi, emendarsi e attendere con discretezza, vogliono Repubblica, perchè:

«Non hanno da noi

«Danaro pel giuoco,

«Danaro per le donne,

«Danaro per l'osteria.

«Ma la Repubblica esige più severa virtù del Principato. Addio.

« Guerrazzi. »

Nel giorno otto aprile furono spediti 27 Deputati in Provincia; quantunque non si ponesse studio a scerre i nomi, e questo per probità, nondimeno sostengo, che 18 almeno di quelli appartenevano al Partito Costituzionale; e con protesta di non pregiudicare agli altri, che trovo notati alla pag. 226 dei Documenti dell'Accusa, parmi che sieno: Guerri Francesco, Giorni Donato, Nespoli Emilio, Panattoni Lorenzo, Sestini Giuseppe, Socci Gaetano, Biondi Marco, Frangi Riccardo, Del Sarto Eduardo, Vivarelli Tommaso, Giusteschi Napoleone, Paoli Tommaso, Micciarelli Elpidio, Brizzolari Enrico, Barsotti Giuseppe, Becagli Luigi, Turchetti Eduardo, Palmi Gregorio. Le Commissioni scritte ch'ebbero dal Governo furono:

«Cittadino Deputato,

«I Rappresentanti del Popolo i quali, a forma delle già pubblicate istruzioni, si recheranno nelle Provincie ad eccitare i Giovani alla difesa della Patria in pericolo, ed a raccogliere le armi di coloro che non sono in grado di adoperarle, sono investiti dei supremi poteri per conseguire tutto ciò che può condurre ad ottenere questo intento. A tale effetto sono autorizzati a servirsi dell'opera dei Pretori e dei Gonfalonieri del Distretto nel quale si recheranno, con facoltà anche di sospenderli dalle loro funzioni, e proporne la destituzione al Potere Esecutivo, qualora non corrispondessero alle premure che sono in obbligo di darsi per coadiuvarli.

«Però voi, Cittadino Deputato, recandovi nella vostra Provincia, siete autorizzato in forza della presente Ministeriale, a procedere alle sopraesposte misure, qualora non troviate nei pubblici funzionarii quell'attitudine e buon volere che dai tempi si esigono, informando immediatamente il Governo dei motivi che vi avessero indotto a prender queste misure, e con piena responsabilità del vostro operato.

«Informate il Governo intorno a quei Ministri del Santuario, che, postergando al sacro dovere di una Religione di carità e di amore gl'interessi di Casta, tradiscono insieme al mandato di Cristo le speranze della nostra Patria, affogando le Libertà, prezzo di tanto sangue e di tanti sacrifizii.

«Date opera a crear Comitati che si occupino di raccoglier denari, ed oggetti per coloro che si mobilizzano; a procurar soscrizioni di Cittadini che si obblighino a soccorrere le Famiglie di coloro che, mobilizzandosi, le lascerebbero nella indigenza. E di ciò è urgentissimo occuparsi, perchè, con questa sicurezza, avremo fra i combattenti anche coloro, che, trattenuti dalla indigenza della famiglia, non si muoverebbero.

«Vigilate perchè questi Comitati non si istituiscano inutilmente, ma operino con ardore, al quale effetto usate molta avvedutezza nella scelta delle persone che dovranno comporli.

«Non trascurate la parte più sensibile della umana famiglia, le Donne. Profittate della sensibilità del loro cuore, il quale, infiammato, è capace degli slanci più sublimi. Levatele all'altezza delle circostanze, affinchè esse pure ci aiutino, procacciando oggetti di vestiario, fasce e fila pei feriti, ed ispirando coraggio nei Giovani, i quali non sapranno allora ricusarsi dall'affrontare i pericoli.

«Operate adunque, operate, ed il Paese, ne siam certi, saprà pienamente corrispondere.

«Li 8 aprile 1849.

«Devotissimo — Marmocchi. »

Nel 9 aprile erano trasmessi ordini pel ritiro dei moschetti ai Circoli,[661] la quale operazione consumata, toglieva, in certo modo, l'ultimo dente alla Fazione. Tutti i provvedimenti onde la deliberazione del giorno 15 riuscisse libera, pacata e solenne, essendo stati presi, mi addormentai sicuro fra l'ultimo puntello e il naviglio su lo scalo. Anche la mano di un nano bastava ad abbatterlo, e il nano, maligno com'è natura dei nani, venne, e lo abbattè, procurando per gratitudine, che il legno precipitando mi passasse proprio sul corpo. Questo è il dramma; rappresentato a Firenze, spettatrice Toscana. I Toscani adoperino i diritti della Platea verso, o contro coloro, che bene o male sostennero la propria parte.

Insieme alla commissione scritta caldissime preghiere ricevevano a voce, che convinti per nuovi e proprii sperimenti del desiderio della universa Toscana, di ritornarsi al suo Statuto, nel giorno designato (15 aprile) convenissero in Firenze a sostenere la proposta che avrebbe fatta il Capo del Potere Esecutivo; e fu nel 9 aprile 1849, che il signor Filippo conte de' Bardi, recatosi dal signor P. A. Adami, gli favellò in questa sentenza: «Parlare in nome suo e dei Deputati della maggiorità rimasti in Firenze; pregarlo a farmi, di quanto sarebbe per dirgli, speciale partecipazione: per impedire, avere io fatto abbastanza; ed egli, comecchè della persona pessimamente disposto, essersi condotto all'Assemblea a fine di sostenere il Governo nel suo contrasto alla Unificazione con Roma: ora correre urgentissimo il bisogno di tôrre il Paese dalla incertezza; non dubitassi; nella Tornata del 15 aprile, proponessi francamente il partito di restaurare il Principato Costituzionale, che mi avrebbero circondato tutti per sovvenirmi co' voti, e al bisogno con la persona; questo poi esporre a lui onde me lo referisse, perchè non gli era occorso mai di trovarmi libero così, da potere tenermi prudentemente siffatto linguaggio.» P. A. Adami conferì meco intorno alla proposta del conte de' Bardi, ed io l'accolsi con animo volonteroso, dicendo al medesimo che bisognava trovarci pertanto nel 15 aprile tutti al nostro posto, per la quale cosa io non avrei potuto concedergli per la prossima domenica il consueto permesso di recarsi a visitare la famiglia a Livorno; e questo fu il motivo che indusse Adami a partirsi a mezzo della settimana per casa sua, e gli giovò, salvandolo dal trovarsi nei giorni 11 e 12 aprile a Firenze.

Ciò posto, senza ira come senza rancore, e favellando di me come di un morto, uomini del Municipio di Firenze e della Commissione Governativa, udite:

Cosimo Ridolfi, dando facile orecchio a parole di astio, o di superbia, o di avventatezza sconsigliata, procedè meco nel giorno ottavo di gennaio 1848 in Livorno ingiusto e leggiero; io nel risentimento, eccessivo. S'egli avesse profferito una parola, una parola sola (che fra gli onesti è dovere, perocchè, dopo il primo onore di non far torto a nessuno, venga subito l'altro di confessarlo fatto), io che mi sento di assai placabile natura di leggieri avrei dato all'oblio il brutto caso, nel quale anche oggi va ficcando le mani l'Accusa, scompigliandone le ceneri per tentare se vi fosse rimasto nascosto qualche mal tizzo sotto: ma questa parola non disse il Marchese; e volle tramare di orgoglio la tela ordita dalla ingiustizia, ed io crebbi nella intemperante querimonia; però le mie parole non furono pese a lui, come le sue catene a me. Ad ogni modo avemmo torto da una parte e dall'altra. Alla più trista, poniamo la partita saldata, e non poteva essere questa pel Municipio di Firenze e la Commissione Governativa causa per nuocermi.

Quando il Principe chiamò nei suoi Consigli il marchese Gino Capponi, io ne fui lieto, stringendomi a esso amicizia ventenne; e subito gli mostrai come io intendessi sostenere il suo Ministero, dacchè, sapendo in quei giorni stremo di pecunia lo erario, gli proposi, per conforto dei miei amici di Livorno, di sovvenirlo di 6 od 8 milioni di lire, e di ciò fa fede la lettera che leggiamo stampata a pag. 3 dei Documenti.[662] Non piacque il partito; ma pure esso dimostra le voglie pronte di procedere parziale al Ministero Capponi: dunque per questo, Municipio fiorentino e Commissione Governativa, non potevate muovervi a farmi danno.

Io scongiurai l'amico prima, poi il Ministro Capponi, a trattenersi dal mandare armati a Livorno, condottiero Leone Cipriani, per reprimere tumulti, a comporre i quali parve ad altri ed a me dovessero bastare i provvedimenti ordinarii; ma ei non mi volle ascoltare: quello che avvenne non importa dire; così si potesse dimenticare! Livorno era lasciata in balía di gente perversa: andai, la mantenni alla devozione del Principe, la preservai dall'anarchia; non mi fu grato, non dirò Gino Capponi, ma il Ministero Capponi; all'opposto mi si mostrò nemico, mi abbeverò di amarezze, mi saziò di umiliazioni: tacqui, soffersi, e quante volte parlai, o scrissi di Gino Capponi, lo feci con rispetto, e l'ho dimostrato: dunque per questa causa non sembra che voi, Municipio e Commissione, aveste motivo di offendermi.

Il Ministero Capponi mi allontana da Livorno, come si legge che gl'Israeliti cacciassero i lebbrosi fuori del campo; ed io, senza lagnarmi, lascio libero il seggio al signor Montanelli, e mi riduco, senza pure aspettarlo, a Firenze, mostrando a prova la inanità dei brutti favellii, che me, calunniando, susurravano agitatore del Popolo livornese per libidine d'impero; ed anche qui, se non erro, non vedo che il Municipio fiorentino e la Commissione Governativa avessero materia per danneggiarmi.

Il signor Montanelli bandisce a Livorno la Costituente Italiana di concerto col Ministero Capponi;[663] il Ministero depone lo ufficio; però, consultato, delibera quale successore abbia ad accettare, ed uno, proposto, fervorosamente n'esclude, che non era il nostro. Il Municipio livornese, condottiero Fabbri, bene si reca a Firenze per rappresentare al Principe il voto del Popolo di cotesta città, che me desidera assunto al Ministero, ma protesta solennemente farlo, come semplice espressione di desiderio, senza punto intendere menomargli la prerogativa regia di scegliersi liberissimo i suoi Consiglieri. Intanto una Deputazione di spettabilissimi cittadini di Firenze recavasi dal Granduca, e, venuta al suo cospetto, per mezzo del sig. Professore Ferdinando Zannetti gli favellava in questa sentenza:

«Altezza!

«Mossi noi qui presenti dal desiderio di vedere riconciliato Livorno col Governo, e di evitare civili discordie, noi sottoponghiamo al senno di V. A. la proposta di commettere al signor Professore Montanelli lo incarico di formare il nuovo Ministero. Questo poi facciamo, accertati che il Ministero attuale siasi dimesso, e con parola di onore assicurati dal signor Montanelli, che conserverà il Principato Costituzionale, ed eviterà, se gli sarà possibile, di tôrsi a collega il signor Guerrazzi.»[664] E la Corona rispondeva, ammonendo essere per lo Statuto fondamentale riposta in sua piena volontà la scelta del Ministero, alla quale avvertenza il signor Zannetti con modesto parlare soggiunse: «Altezza! Non cadde mai nel mio animo, nè in quello de' miei compagni, di venire a imporle un Ministero; ma il solo desiderio accennato testè, fu quello che ci mosse a umiliarle la nostra proposta, come mero e semplicissimo voto: onesti, come ci studiamo essere, noi ci saremmo guardati bene dal presentarci all'A. V. dove non avessimo riportata dal signor Montanelli la parola della intera conservazione del Principato Costituzionale.»[665] L'A. S. poi me non accettò se prima non ebbe consultato in proposito Lord Giorgio Hamilton e il marchese Gino Capponi, e questo so per confidenza onorevolissima che mi venne fatta dal Principe stesso, sicchè qui non vedo peccato che dovesse concitarmi l'odio del Municipio e della Commissione Governativa.

E prima condizione del mio accettare la proposta del Montanelli fu, che si conducesse dal marchese Gino, e in suo e in mio nome lo pregasse a volere presiedere il Ministero nostro; egli ci rispose, come altrove ho narrato; ma certo per me non gli si poteva dare pegno maggiore di devozione e di stima: onde anche da questo mio contegno non vedo che il Municipio e la Commissione Governativa potessero ricavare argomento di rancore contro di me.

Portai la Costituente come Simone il Cireneo; le tolsi il vano e il maligno, la ridussi nella condizione di potersi dividere, e in parte accogliere, in parte aggiornare, e, venuto il tempo, anche per la parte aggiornata adoperare a tutela dello Stato; discussa fu; voi l'accettaste a pieni voti nel Consiglio Generale, a pieni voti in Senato la confermaste: onde io credo che per questo, Municipio e Commissione Governativa, non potevate appuntarmi, molto meno farmi sopportare non degne pene.

Alla sicurezza pubblica e privata, Ministro dello Interno, provvidi quanto e meglio di voi, e in termini dei vostri più deplorabili assai; imperciocchè, se anche voi confessaste trovare insufficienza negli ordini infermi, quale non la dovevo sperimentare io, quando, colpa o fortuna, voi mi consegnaste questi ordini del tutto disfatti? Quindi io penso che da ciò, o Municipio di Firenze e Commissione Governativa, non abbiate potuto desumere cagione di mal talento contro di me.

Come avreste potuto, o uomini che componeste allora il Municipio Fiorentino, redarguirmi di essere rimasto al Ministero, se pel Gonfaloniere vostro premurosissime istanze mi faceste onde io non deponessi lo ufficio, e con magistrale deliberazione lo inviaste, insieme ad altri spettabili personaggi, a Siena per interporsi mediatore fra il Principe e il suo Ministero, affinchè la dimissione mai dal maestrato non avvenisse?

La notte dell'8 febbraio 1849 non mi assistè al fianco, chiamato, l'onorevole vostro Gonfaloniere? Non udì le provvidenze, non approvò, non confortò, e, piena la mente di quanto aveva udito e approvato, non bandì la mattina che il Governo aveva provveduto alla salute pubblica: i Cittadini quietassero? Municipio fiorentino e Commissione Governativa, voi non mi potevate perseguitare per questo.

Vi disprezzai Membro del Governo Provvisorio? No certo, poichè voi il Governo sorto dalla necessità approvaste, e gli prometteste leali soccorsi, e così in magistrale deliberazione dichiaraste. Vi ascoltai per l'abrogazione della Legge Stataria, vi ascoltai per le armi distribuite al Popolo; e se due volte, due sole volte rimproveraste, se non prendo errore, parmi poterne dedurre, che tutto l'altro vi giovò e piacque. Il Municipio sovvenne il Governo nella esecuzione delle Leggi su la Costituente Toscana, nel negozio delle armi, nella Commissione per riorganizzare la Guardia Nazionale, di cui fu chiamato a fare parte anche il signore conte Digny;[666] col Gonfaloniere soventi volte conferimmo intorno alla Unificazione con Roma; e cadendo d'accordo intorno alla impossibilità di promuoverla con profitto fra noi, stabilimmo avrei adoperato ogni sforzo per impedire che la Fazione Repubblicana la spuntasse a furia di Popolo, e per fare in modo che tutto il Paese con solenne e pacato voto intorno alle sue sorti decidesse. Qui dunque non ho peccato, onde voi, o Municipio fiorentino e Commissione Governativa, aveste dovuto rompermi come una canna fracida.

Da voi pure venne il consiglio di sciogliere il Parlamento e interpellare il Paese col suffragio universale, e non una volta, ma due; anzi da voi la minaccia che, dove il Governo di ciò fare si fosse astenuto, i Deputati avrebbero rifuggito di adunarsi più oltre; onde anche per questa parte, o Municipio di Firenze e Commissione Governativa, io confidava andare immune dal rigore delle ire vostre.

E certo poi non meritai ira siffatta allora quando sofferto fu da ciascuno, che la Fazione Repubblicana gavazzasse imponendo le sue leggi al Paese, ed io solo, presente il Gonfaloniere del Municipio di Firenze, felicemente mi opponeva a quella.

Nè immagino già avervi dato, o Municipio Fiorentino e Commissione Governativa, causa di straziarmi allorchè curai che l'elezioni per la Costituente Toscana accadessero liberissime; e se copia maggiore di Costituzionali elettori non concorse a votare, certo non fu mio errore, e voi lo confessaste, comecchè il numero non si potesse chiamare scarso.

Ditemi, egli è perchè io usciva a risico della mia persona per tutelare i cittadini, o perchè toglieva le armi alla gente dei Circoli, o perchè ostava che la Repubblica per acclamazione si votasse, o perchè solennemente dichiarai, e feci dal Ministro dello Interno dichiarare, che la Toscana si mostrava aliena dalle forme repubblicane, o piuttosto perchè mi accinsi dietro i vostri conforti a salvare quel più che si potesse di onore e d'indipendenza nazionale, e mandai Deputati in Provincia a consultare lo spirito pubblico al doppio scopo che la restaurazione del Principato Costituzionale avvenisse per consenso, senza discrepanza, di tutti, e che lo Stato si difendesse, o almeno di difenderlo come ce ne correva l'obbligo si tentasse; — egli è per tutto questo, o Municipio, io domando, e Commissione Governativa, che voi mi avete tradito? Forse vi ravvisaste, e pensaste avere potuto provvedere meglio da voi stessi; ed io vi ho detto, e vi ridico adesso, che non vi biasimo, anzi, di questo vi lodo, e meco tutto il Paese vi loda e ve ne rende grazie; voi dell'opera vostra andate alteri, e ne avete ben donde: ma v'era bisogno che voi mi tradiste per completare la vostra gloria? — Ma no: per avventura, in quei momenti estremi, io da me mi mostrai diverso? inasprito, smentii in un giorno tutta la mia vita, e commisi sevizie, o provocai le turbe livornesi a irrompere sopra questa bella madre Patria a guisa di Barbari? — Nessun sospetto arrestai, nessuno bandii; anzi, amorevole gli ammoniva affinchè si guardassero. M'inganno; ad uno solo ordinai partisse, e tosto; e chi fu egli mai? Niccolini, quel mio preteso cagnotto e lancia spezzata per commuovere i Popoli ad acclamare Repubblica.[667] Vediamo se l'altro addebito mi si conviene. — E avvertite che io raccolgo Documenti cascati dalle mani dell'Accusa aperte come i lucchetti dello avaro, sicchè quando saranno posti a disposizione mia gli Archivii, come già furono alla Direzione degli Atti, potrò, spero, essere più completo. Antonio Fossi, Segretario del Governo di Livorno, nel 9 aprile 1849 a ore 5 e 30 min. pom., per via telegrafica mi avvisa: «Il Popolo ha occupate le carrozze per seguire i Volontarii. Le misure prese a nulla hanno valso. Il Governatore e il Gonfaloniere accorrono alla Stazione per riparare. Mi ordinano prevenirla pel possibile di un ritardo nello arrivo.»[668] Lo egregio amico Giorgio Manganaro, nel giorno 10 aprile 1849 a ore 1 e 15 min. pom., per telegrafo annunzia: «Oggi il Popolo di Livorno è tornato alle solite improntitudini. Comunque avessi fatto presidiare la Stazione da numero 60 Guardie Nazionali, questa è stata invasa da più di 600 persone, le quali si sono impossessate delle carrozze e dei vagoni, e con estrema violenza hanno voluto viaggiare gratuitamente. Mi sono trasferito col Gonfaloniere sul posto, ma la opera nostra è andata perduta, e la mia voce è stata impotente per farli rientrare nel dovere.»[669]

Ora sentano un po' come io coteste ribalderie provocassi e confortassi: «Al Governatore di Livorno. — 10 aprile ore 3 antim. — Se il Governatore ha senno, faccia indagare subito quali fossero le persone, ne ordini l'arresto di notte, e le mandi a Volterra: facciasi tutto prima del giorno.»[670]

Alle ore 11 e 40 min. pom, del medesimo giorno: «I Livornesi, per improntitudine di alcuni, suscitano perigliose discordie quaggiù; pure vengano e saranno accetti.»[671]

Nel giorno 11 aprile, ore 1, min. 55 pom.: «La Strada ferrata Leopolda non continua le sue corse per cagione della insolenza livornese. Vedete quanto danno questo produrrà al commercio. Bisogna tutelare la Stazione con ogni mezzo[672]

Nel medesimo giorno, a ore 3 e m. 21 pom.: «Insisto pei disordini della Strada ferrata. La Società sospende le corse. È cosa intollerabile. Si dichiari alla città che ella è unica in queste prepotenze. È un furto. Si faccia conoscere. Appena giunti a Firenze ne prenderemo 10 per cento, e gli manderemo a Volterra. Questi sconsigliati rovinano il commercio, e fanno perdere la reputazione al Paese. Provvedete. Firenze si muove più tardi, ma più dignitosa.»[673]

E detti ordini perchè buona mano di costoro si arrestasse, e mandai cavalli a posta; ma fra lo spandersi ch'essi fecero per i campi, e gl'impedimenti opposti dalle barriere della strada ferrata da una parte, e dall'altra la ritrosia della nostra milizia a operare cosa che valesse, ebbero modo a fuggire. Ancora nel medesimo giorno, alle ore 4, m. 35 pom., domando al Governatore di Livorno: «È vero, che il Governatore di Livorno abbia risposto, credersi impossibilitato a impedire, che le turbe invadano i vagoni a Livorno? È vero, che abbia affermato, non potere impedire questo successo oggi e domani? L'Amministrazione ha sospeso le gite da Pisa a Livorno per questo motivo.»[674] Più tardi alle ore 5 e m. 20 pom.: «Il Capo del Potere Esecutivo chiede se altra gente sia partita o partirà da Livorno. Vengono Livornesi senza pagare? Sì, o no?»[675]

Questi Documenti parlano per me, e non sono soli; scelti dalla mano dell'Accusa, certo non è da credersi, che cogliesse rose in fiocco perchè io me ne tessa ghirlanda; e tuttavolta bastano.

Avete considerato voi con quanto, non dirò studio, ma accesissimo zelo io proteggessi le strade ferrate, e qui e a Lucca e da per tutto, non solo allora, sibbene in ogni tempo? E pure mi affermano per sicuro, che uomini a me noti per antico commercio, e nelle loro richieste soddisfatti sempre, nel giorno 12 aprile 1849 di subito, senza causa come senza consiglio, mi si mostrarono avversi, e togliendo seco gli operaj, e le guardie della Strada, ne componessero una schiera, e costituitisi capitani di gente eletta muovessero a gridarmi: « Morte! Morte!» Se questa cosa fosse vera, bisognerebbe dire, che coloro i quali hanno che fare con la Strada di ferro, talvolta terminano col parteciparne la durezza; e di più non dico. Esamineremo in breve se pei fatti dei giorni 11 e 12 Aprile meritassi essere tradito.

XXIX. Del giudizio pronunziato sul mio operato dal Decreto del 7 gennaio 1851.

Nel § 32 il Decreto della Camera di Accusa della Corte Regia per somma grazia crede dovere concedere, che se io in qualche circostanza distolsi o raffrenai le più accese voglie della Demagogia, pure il complesso degli atti (comodissima formula quando non si trovano ragioni) autorizza a credere che tutto io facessi per conservare nelle mie mani il potere. Ora è impossibile, che il complesso degli atti conduca inevitabilmente a supporre cosa assurda. E qui i miei lettori mi sieno benevoli a non appuntarmi, se alla medesima accusa, ripetuta con singolare insistenza, la medesima serie di raziocinii io contrapponga, conciossiachè io veda, che Cicerone adoperasse nella medesima guisa, nella orazione per Sesto Roscio Amerino, sia che anch'egli avesse a persuadere gente dura, o qualche altra necessità lo sforzasse; — e nella fiducia che le mie preghiere verranno accolte, continuo.

Il mio potere era provvisorio; il suo termine segnato; convocata l'Assemblea Costituente, ella doveva decidere per la Repubblica o per la Monarchia Costituzionale. Nel primo caso, ricusando, come avevo fatto, la carica di Triumviro a Roma, dimostravo animo alieno dal proseguire nel duro incarico; inoltre, è egli verosimile, che prevalendo i Repubblicani, volessero mostrarsi parziali a persona reputata avversa, e riporre in sue mani la somma delle cose? I Repubblicani mi avrebbero mandato in carcere, ne più nè meno, come gli altri hanno fatto, ed in breve vi chiarirò; e la ragione sta nella storia del Dottore spartitore di liti che ho raccontata di sopra. Nel secondo caso, mi sembra che senza prova mi verrà concesso, che me l'Assemblea non avrebbe scelto Principe! Il Decreto si compiaccia ricordare, che invece di attaccarmi al Potere, nella notte 27-28 marzo io feci tutto quanto da uomo onestamente può farsi per essere liberato da tanto peso, e non mi riuscì affrancarmene;[676] volga altresì la mente alle istanze del Montanelli e dei suoi amici, perchè accettassi il Ministero; non oblii, che al Governo Provvisorio io presi parte per ineluttabile forza, da un lato, della Fazione trionfatrice; dall'altro, per l'esortazioni non meno potenti dei cittadini, affinchè dall'anarchia preservassi la Società;[677] e deh! consideri eziandio il Decreto, che a quei giorni, durare in carica egli era peggio che posare su pettini da lino; e se mi dicesse, che tra affanni punto minori si sono veduti uomini non pure accettare il Potere, ma ricercarlo ed ambirlo, io rispondo, ch'è vero per quelli i quali intesero fare esperimento pratico di una loro astrattezza politica, potentissima delle passioni umane, a cui ogni giorno osserviamo sagrificarsi da molti riposo, sostanze, e persino la vita; ma non poteva essere vero con me, che governavo per benefizio altrui e non per procurarmi comodo privato, o per fondare monarchie alla napoleonica, ovvero per compiacere a un mio concetto. Dunque mi è lecito dolermi, che il Decreto non abbia rifuggito da scrivere così dissennate proposizioni, le quali non reggono al confronto del fatto e del raziocinio.

E proseguendo il Decreto argomenta, che il pensiero del richiamo del Principe, per certo inconciliabile con gli ordini da me dati di cacciarlo violentemente dalla Toscana, sembra piuttosto sopraggiunto in forza dei successi della guerra, e delle dichiarazioni del Ministro Inglese, e non senza frode, se attendasi questa sentenza ricavata da una Decisione del 10 marzo 1800! «È vero, che ne contrapponeva altrettante ( proposizioni ), che lo dimostravano tutto diverso: ma oltrechè queste non distruggono quelle, un tale contegno altro non spiega se non che procurava di stare, con l'arte solita usarsi da chi doppio ha il cuore, preparato a far giuocare in ogni evento o l'una o l'altra, nell'atto di gettarsi a quel Partito che avesse trionfato.»

Così veramente adoperarono molti, signori Giudici, anzi moltissimi impiegati, per cui il Conciliatore, come altrove ho detto, ebbe ad esclamare: «Che cosa possiamo sperare da quelli che s'inchinarono a tutti i poteri, che stancarono le anticamere dei Ministri, e che oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica?» Ed io mandava, come altrove ho avvertito, Dispacci telegrafici a Pisa e a Livorno di questa sentenza: «Uomini, parte esagerati, parte male intenzionati, jeri codini, hanno spedito in diverse parti della Toscana per convenire giovedì a Firenze, per costringere il Governo a dichiarare la Repubblica,» con quello che segue.[678] Così adoperarono molti, signori Giudici, anzi moltissimi impiegati, che stavano allora abbracciati allo impiego ferocemente tanto da disgradarne Ajace Oileo, quando, naufrago, abbrancò lo scoglio.[679] Se mai venisse fatto a chi tale mi giudica, voltare gli occhi su la cima dei campanili, vedrà che le banderuole, per istare bene con tutti i venti, non li contrastano mica, ma gli secondano. Le ventaruole politiche poi non pure secondano il vento che tira, ma con tanto abbrivo gli si arrendono agevolissimamente, che, soffiando Gherbino, le miri trascorrere fino oltre a Greco. Bell'arte invero la mia di conciliarmi il Partito, che fosse per trionfare, combattendoli tutti! Artifizioso giuoco quello, per cui vincendo i Repubblicani mi dicono alla ricisa, ch'essi avrebbero fatto mettermi in carcere;[680] e vincendo i loro oppositori, mi ci hanno messo. Non osai io guardare in faccia i Retrogradi e i Faziosi, e dire loro apertamente: Voi siete iniqui? Certo non parranno queste le vie più acconcie per apparecchiarseli entrambi benevoli. Non si ricordano i Giudici che furono giorni in cui la gente, quanto più si sentiva nera, tanto più procedeva tinta in chermisi da disgradarne le barbe bietole di agosto, e tutti smaniosi acclamavano la Repubblica? Dov'erano allora gli sviscerati pel Principato? Se qualcheduno, accostandosi loro, diceva: anche tu sei di quelli? essi, imitando Pietro, rispondevano tosto: non so quello che tu dici.[681] La Repubblica non era Partito vincitore allora? A che le resistenze, a che gl'indugii? Guardando le tante bocche che mi schiamazzavano attorno — Repubblica! Repubblica! io pensai: parte di costoro sono vili propugnatori di quanti danno loro la pietanza; parte sono ebbri; — aspettiamo che smaltiscano il vino; — parte finalmente, comecchè onestissimi, per passione travedono: e agli errori, alle ebbrezze e alla viltà io solo contesi, e volli che il Popolo prima posasse, poi giudicasse di sè. Nell'8 febbraio trionfò la Repubblica; l'accettai io? Domando: l'accettai io? — No, la impedii. Dunque in quel giorno io non era per lei. Se io non impedivo, sarebbe stata, o no, proclamata? Sì, proclamata. Se io non mi fossi sagrificato, intendetelo bene, o ingratissimi, sagrificato anima e corpo a tenere il Governo, chi sarebbe salito al potere? Chi? — Rispondete! Allora lo sapevate, e lo temevate; adesso, che vi credete sicuri, lo avete dimenticato, e di me vi curate come di un cane morto! E se continuerete a dire breve incendio sarebbe stato quello, io tornerò a rispondervi: sì, ma sarebbe bisognato estinguerlo col sangue; sì, ma per ispegnere di fiamma, le cose e le genti incenerite non si restituiscono.... Voi però, riprendono i Giudici, nicchiaste, perchè non reputaste la Repubblica sicura; ed io rispondo: se non la reputai sicura allora, o quando la dovevo credere tale? Se nel giorno del trionfo si pensasse a quello della sconfitta, io vi ripeto, che l'uomo starebbe perpetuamente esitante tra il sì e il no: personaggio da commedia. Se i Giudici miei intendessero politica; se invece di andare a pescare le loro citazioni nelle Decisioni criminali del 1800, le avessero desunte dalle opinioni degli uomini di Stato, avrebbero posto mente a queste parole del Generale Cavaignac riferite nel Monitore francese del 19 gennaio 1851: «In Francia, come per ogni dove, due cose sono possibili adesso: egli è forza scegliere Monarchia, o Repubblica.» — (È vero! È vero! Voci da sinistra e da destra.) — «Chiunque non è per l'una, è per l'altra; e se ciò potesse applicarsi al passato, direi: quelli che operarono malamente nella Monarchia, apparecchiavano la Repubblica; e quelli che male si comportarono nella Repubblica, apparecchiarono la Monarchia.»

Affermando, come l'Accusa fa, che i miei sforzi si restrinsero a impedire la proclamazione della Repubblica, finchè il voto universale si pronunziasse, prima di tutto non dice il vero, perchè molte più pratiche impresi, e fu dimostrato; e quando anche fosse così, basterebbe; perchè, come vedremo, la elezione di un libero Parlamento in Inghilterra non solo fu sufficiente a impedire che la Repubblica s'instituisse, ma instituitala soppresse, restaurando il Principato.

Ora mi urge tenere proposito stretto della citazione desunta dalla Sentenza criminale del 1800! Cotesto insulto giaceva da 51 anno deposto sotto la polvere nella obsoleta armeria criminale, ed a ragione, però che i Giudici nel 1800, anneriti dal fumo degli uomini arsi vivi nella scelleratissima Reazione del 1799, non si contentassero a quei tempi condannare, ma insidiavano ancora. Adesso i Giudici hanno estimato decoroso tôrre dalla armeria criminale cotesto insulto, forbirlo, e tentare di sfregiarmene il volto.... È facile insultare un uomo oppresso; più facile insultare un uomo che da ventinove mesi si tiene chiuso in disonesto carcere; facilissimo insultare un uomo, cui hanno legato e piedi e mani! — Però vi ha un Tribunale che giudica Giudici e prevenuti, ed è la Coscienza Pubblica. Giudici del Decreto del 7 gennaio, io vi chiamo davanti a questa, perchè ella decida se io meritassi lo ignobile oltraggio; se in voi fu gravità, e, quello che più importa, giustizia, a dirmi improperio.

Francesco Forti, scrittore meritamente reputato fra noi, nel suo Libro delle Instituzioni Civili, dimostra la fallacia del sistema forense di citare particole di Decisioni antiche nelle Decisioni nuove; conciossiachè i raziocinii che vi occorrono sieno speciali affatto al caso contemplato, nè senza pericolo grande possano trasportarsi ad un altro. Quasi impossibile è che si trovino due casi identici; quindi quel curioso e matto gettito di Decisioni antiche, che i Curiali si avvicendano nel capo, lo indefesso disapplicare delle Decisioni allegate, e l'opporre Decisione a Decisione; sicchè spesso si è veduto (materia di riso, e lo doveva essere di pianto) citare la Decisione medesima per sostenere pro e contro. In Prussia le allegazioni delle Decisioni vietarono, ed hanno fatto bene. Se questo concetto nelle materie civili fu rinvenuto giusto, tanto maggiormente si deve reputare tale nelle criminali, essendovi troppo più importante il subietto, necessaria la esattezza. Ora il prevenuto del 1800 era egli uomo pubblico o privato? Si trovò in libertà piena, od agì costretto? Ebbe due interessi da salvare, importanti entrambi, ma importantissimo l'uno, e l'altro meno? Furono parole le sue, o atti? Tutto questo s'ignora, e tutto questo era necessario esporre, se si voleva dimostrare la parità di ragione, e salvare la citazione dalla taccia di temeraria, per non dire di peggio.[682]

In politica quotidianamente avviene, che l'uomo non possa nè deva procedere con la schiettezza, che neppure la buona morale desidera nei commercii della vita privata. Di vero, ragionando gli antichi intorno alla buona fede che deve presiedere ai contratti, consentirono di leggieri in questa sentenza, che il venditore di un carico di grano non fosse obbligato di palesare al compratore che altri ne attendeva di Sicilia o di Egitto. Nella diplomazia senza offesa della morale è mestieri ricorrere a certa dissimulazione persuasa dalla necessità. Quante volte i successi stanno fuori di noi, indipendenti dal nostro volere come dal nostro potere, e pel continuo alternare di fortuna si modificano, o trasformano, agevolmente si comprende che assoluti non ponno essere i consigli e il linguaggio degli uomini politici. Così di rado avviene, che alla commissione patente dei negoziatori non si aggiungano istruzioni segrete, le quali, a seconda dei casi, la estendono, la restringono, o la mutano. Nelle Storie italiane incontriamo ad ogni piè sospinto lettere in cifre, le quali per certo dovevano contenere cose diverse dal mandato aperto. Richelieu, cardinale, sappiamo come dentro le lettere officiali soleva inserire certe note di proprio pugno scritte, sconosciute perfino ai suoi Segretarii più intimi; in Inghilterra, l'uso della doppia corrispondenza incominciò sotto la regina Elisabetta, e credo che tuttavia duri, imperciocchè Pitt la raccomandò molto non solo per le ragioni allegate, ma ancora perchè, trovandosi i Ministri per la Costituzione costretti a comunicare gli Atti diplomatici al Parlamento, non venissero a rendersi palesi le condizioni dei negozii con indiscretezza somma, e, quello ch'è peggio, con danno del Paese.

Ma poniamo da parte questi esempii, e adduciamone uno che cade singolarmente a taglio pel caso nostro. Prima però che mi faccia a discorrerlo con qualche lunghezza, devo avvertire che, per quello raccontano gli storici, Monk poco si curava delle libertà della sua Patria, e suo intento era consegnarla in assoluta balía di Carlo II. Se così fu, come dicono, io non gl'invidio il suo ducato di Albermarle, nè la contea di Torrington, nè la baronia di Potheridge, e sto contento al mio carcere. Noto altresì che Monk rovesciò un Governo costituito nel suo Paese, ingannando per privata comodità: — io impedii che si costituisse per violenza di Parte, e volli si consultasse il voto libero e pacato del Popolo, senza badare a me, come si è visto. Monk aveva esercito disciplinato, e devotissimo ai suoi voleri: — io non avevo armi disciplinate, nè devote. Monk era uomo da tempo antico avvezzo ai garbugli sanguinosi dei Partiti estremi: — io dedito agli studii. Egli di provato coraggio su cento campi di battaglia:[683] — io per professione alieno dalle armi. Dalle quali cose tutte ricavo ch'egli avrebbe potuto e dovuto mostrarsi più franco di quello che non fece.

Queste cose avvertite, è da sapersi come tenendosi Inghilterra a Repubblica, re Carlo II mandasse da Colonia una lettera nel 12 agosto 1656 al Monk, molto raccomandandosi a lui, e facendogli grandi profferte, la quale lettera egli spedì difilato al Protettore Cronvello, per suo governo![684]

Morto Cronvello durava la Repubblica, agitata più che condotta dal lungo Parlamento, pieno di uomini violenti, e tra loro nemici. A chi considerava nella prima scorza le cose, pareva la Repubblica non soltanto gagliarda, ma rigogliosa della vita irrequieta della giovanezza; però i meglio avvisati conoscevano cotesta essere febbre di parossismo che consuma. «La restaurazione degli Stuardi speravano e desideravano i Popoli numerosi, anonimi, i quali, se eccettui i momenti di esaltazione, amano il riposo politico per accudire tranquilli ai commercii della vita civile.»[685]

Deposto Riccardo Cronvello, giudica Hume, Monk concepiva il disegno della restaurazione di Carlo II;[686] ma non era piccolo negozio operarla; difficilissimo poi, senza mettere in fiamme il Paese; e Monk voleva uscirne vincitore senza sangue. Giorgio Booth nel 1º agosto 1659 prende le armi nella contea di Chester, col pretesto di ottenere un Parlamento libero, o almeno il richiamo nel Parlamento lungo dei membri dimessi da Cronvello: fine vero era la restaurazione di Carlo II. Realisti e Repubblicani si voltano a Monk. Re Carlo gl'invia Stefano Fox fidato messaggio, con lettere regie per indurlo a collegarsi col Booth e procedere uniti contro il Parlamento lungo: ma il Monk riceve tutto chiuso in sè la lettera, non risponde, e lascia partire sconclusionato il messaggio. Sollecitato dal Colonnello Atkins di accontarsi col Booth per favorire la causa regia, replica brusco: «io gli muoverò contro; nello stato nel quale mi trovo non posso farne a meno.»[687] A questa epoca sembra referirsi l'altra spedizione fatta da re Carlo, del dottore Niccola Monk al Generale suo fratello, con nuova lettera autografa per impegnarlo a cessare dalle incertezze. Il Dottore arriva mentre il Generale stavasi a conferenza con gli ufficiali; trattenendosi allora il fratello col cappellano Price, uomo di provata fede ed amicissimo al Re, gli palesa lo scopo della sua missione; al fine, presentatosi al fratello, dopo gli affettuosi abbracciari, incomincia a scuoprirgli il trattato. Monk, rompendogli le parole a mezzo, lo interroga se per avventura ne abbia tenuto discorso con altri che con lui; e udendo come ne avesse favellato col Cappellano, accomiatollo con Dio senza volerne sapere altro:[688] «non si fidando» avverte Hume «neppure di un fratello, dal punto ch'ei conobbe avere egli confidato il segreto a persona a cui pure lo avrebbe confidato egli stesso.»[689] Nonostante Monk si apparecchiava a sostenere il Booth, e già aveva dato gli ordini per mettersi in cammino, e scritto lettere al Parlamento lungo perchè richiamasse i membri dimessi, o si sciogliesse convocandone un nuovo; quando, meglio considerando il negozio, gli parve intempestivo il momento, per la quale cosa revocati gli ordini, e soppresse le lettere, decise aspettare. Al cappellano Price, che non rifiniva spronarlo, con mal viso gridò: «Dunque volete rovinare ogni cosa e farmi perdere il capo sotto la scure?»[690] Il giorno successivo arrivava notizia che Booth era stato disfatto, sicchè a buon fine tornavano le prudenti dimore. Allora nei Repubblicani sorse una allegrezza smoderata, e i gridi, e i vituperii contro re Carlo andarono a cielo. Avendo taluno detto in questa occasione alla presenza del Generale, come i vinti avessero disegnato restaurare Carlo Stuardo, egli riprese: «Io per me vorrei che il Parlamento promulgasse una legge per impiccare su l'atto chiunque parlasse soltanto di richiamarlo!» Le divisioni fra i Repubblicani inasprendosi, Lambert e i compagni costringono il Parlamento a dimettersi dal Governo, ed eglino stessi lo usurpano sotto nome di Commissione di Sicurezza; Monk si dichiara a favore del Parlamento lungo, e così arringa i soldati: «Quanto a me, credo che il mio dovere stia nel sottoporre le milizie alle autorità civili; e il vostro è difendere il Parlamento, che vi dà la paga, e gl'impieghi: se però alcuno di voi pensa diversamente, è libero di abbandonare le bandiere, e andarsene dove meglio gli torna[691]

Monk pubblica lettere con le quali dichiara avere preso le armi «per la difesa della libertà e dei privilegii del Parlamento, e per sostenere, contro tutti, i diritti e le libertà del Popolo;» e, lasciata la Scozia, si muove con lo esercito contro Londra; il Comitato tratta con lui; egli lo inganna, e si avanza indirizzando lettere al Municipio di Londra, con istanza caldissima che facesse causa comune col Parlamento lungo per rivendicarsi dalla tirannide del Comitato militare. Il Parlamento lungo recupera la sua autorità nel 25 decembre 1659 mercè gli aiuti di Monk. Così sono varii gli eventi, e fanno forza agli umani disegni, che Monk, il quale partendo di Scozia si era proposto completare il Parlamento con la restituzione dei membri dimessi, o abolirlo affatto convocandone uno nuovo che collo assenso di tutti governasse la nazione, si era trovato adesso a sostenerlo con l'autorità e con le armi! Non pertanto questo era il suo scopo, e, malgrado l'operato in contrario, noi lo vediamo affaticarsi a conseguirlo con tutti i nervi.[692] Monk accostandosi a Londra, dopo avere vinto un Partito coll'altro, si dispone a superare il Parlamento; nella necessità di aumentare cautele, si toglie dal fianco la moglie, perchè, secondo l'ordinario, ciarliera; e allontana eziandio il cappellano Price, come quello che non gli pareva abbastanza capace a dissimulare. Invia Gumble a tenere bene edificato il Parlamento con profferte di devozione, e per dargli pegno di fedeltà gli fa consegnare una lettera segreta, con la quale il Municipio di Londra domandava il suo aiuto per rimettere in Parlamento i membri esclusi, o convocarne uno nuovo libero e completo.[693] E si avverta bene che Monk intendeva fare, e fece appunto come il Municipio lo pregava; qui fu che dette di una mazza sul capo a certo ufficiale che andava vociferando dintorno: «Sta a vedere che questo Monk ci ricondurrà Carlo Stuardo.» Al cappellano Price che, prima di lasciarlo, lo svegliava raccomandandogli il Re, susurrava sommesso: «Lasciatemi fare, perchè abbastanza sospettano di me.»

Il Parlamento spedisce verso Monk due commissarii, Scott e Robinson, sotto pretesto di complimentarlo: ma in sostanza per ispiarne gli andamenti;[694] e questo fecero ignobilmente, seguendolo da per tutto, albergando nella medesima casa, e tentando perfino forare i muri per udire e vedere quello ch'ei facesse o dicesse nella sua stanza: ma il Monk teneva l'occhio fisso al pennello, e si mostrava loro siffattamente sviscerato della Repubblica ch'eglino ne scrissero a Londra celebrando il suo zelo pel Parlamento lungo. Monk giunto in prossimità di Londra domanda che sieno licenziati i reggimenti rimasti fedeli al Parlamento; per pretesto dava lo studio di evitare ogni conflitto con le sue milizie: motivo vero era restare signore assoluto della città; e gli riusciva. I reggimenti congedati dal Parlamento si ammottinano. Il Popolo, côlto il destro, insorge a tumulto, e domanda Parlamento libero. Monk sta fermo! — Arrivato in Londra il Generale è accolto dal Parlamento che intende rovesciare, lo blandisce con ogni maniera di sommissione. A Ludlow dice: «Dobbiamo vincere e morire per la Repubblica!» Ad un altro dichiara che, malgrado il suo rispetto pel Parlamento, non patirà mai che accolga nel suo grembo uno dei membri esclusi. «Dissipava» scrive il Guizot «i sospetti rinascenti, e con la solennità delle proteste assopiva le diffidenze più inquiete; sicchè l'ammiraglio Lawson, il quale altre volte dubitò del Monk, ebbe a dire a Ludlow, nell'uscire di casa sua: «Il Levita e il sagrificatore sono passati vicino a noi senza soccorrerci; spero avere incontrato il Sammaritano che ci salverà.»

La città commuovendosi a tumulto, il Popolo grida: «Parlamento libero! Abbasso il Parlamento lungo!» Il Municipio ricusa pagare le imposte. La ribellione si fa manifesta. Monk è chiamato in Parlamento. Il tempo che desiderava è pur giunto; egli ricuserà andare; scoprendosi, al fine si unirà al Popolo, e, cacciato via il Parlamento, restaurerà la Monarchia. Niente di questo: parendo a lui che la occasione non fosse a bastanza matura, va in Parlamento, parteggia co' più arrabbiati, esagera il bisogno di misure severe, offre reprimere la sommossa, e malleva la riuscita.[695] Alle parole tengono dietro i fatti; nel 9 febbraio 1660 invade la città con lo esercito, abbatte porte e saracinesche, leva le catene dalle strade, e schianta i piuoli dove le attaccavano; fa arrestare i Membri più autorevoli del Municipio. «Per questi accidenti» scrive il Guizot «il Popolo di Londra rimase come percosso da stupore; quello che vedevano non indovinavano; ormai che cosa dovessero credere non sapevano; ogni loro idea era sconvolta. È questi, esclamavano, quel Monk che doveva ricondurre il Re? Egli è un demonio scozzese. Signore! Che cosa mai avverrà di noi? Vedevansi con terrore arrestare i Municipali maggiormente diletti, e tradurre prigionieri alla Torre. Ogni resistenza impedita. Il Popolo spaventato fuggiva per le strade; Londra presentava lo spettacolo di città presa di assalto. Il Parlamento trionfava, e grato al benemerito Generale stanziava 50 lire sterline pel suo pranzo. Haslerig andava gridando: Adesso Giorgio appartiene a noi anima e corpo

Se non che il Monk dagli eventi che si succedevano tolse motivo a conoscere da un lato, come il lungo Parlamento fosse caduto in discredito, e mancasse di aderenze e di aiuti; dall'altro, quanto universale e profonda animavversione il Popolo gli portasse; però, come pilota che gira la ruota del timone, ad un tratto occupa i quartieri della città, rassicura la moltitudine, si collega col Municipio, e scrive lettere al Parlamento perchè nel 6 maggio si sciolga, dando luogo a un Parlamento nuovo e libero: così scandagliata bene la opinione pubblica per una serie continua di prove personali, la fa compagna delle sue armi; e diventa arbitro delle sorti d'Inghilterra. Ma non precipita ancora, e, dopo avere sostenuto impossibile la riammissione dei membri esclusi nel Parlamento, adesso consiglia armato che vedano aggiustarsi fra loro; appuntate le conferenze fra i membri del Parlamento in carica e gli esclusi, questi discutono molto e non si accordano in nulla, troppo essendo gli umori ed i fini diversi. Tentate le vie della conciliazione e non riuscitegli a bene, Monk delibera più gagliardo espediente, qual era quello di condurre, senz'altro rispetto, i membri esclusi a riprendere per forza l'antico posto nel Parlamento; ma ad infievolire la impressione, intento a schivare resistenza disperata dalla parte dei vinti, manda fuori un Manifesto nel quale molto si distende contro il ritorno dello Stuardo, e contro lo Episcopato; parla della necessità di apparecchiare nuovo Parlamento, e convocarlo pel 20 aprile. Ciò fatto, toglie in mezzo alle guardie i membri esclusi e gli riconduce a Westminster. Alcuni Lordi, cogliendo il destro, vollero aprire la Camera alta; Monk prevedendo cotesto tentativo inopportuno, gli fa cacciare via duramente, onde si tengano per avvertiti tutti coloro che volessero precipitare le cose, o condurle in modo diverso da quello ch'egli aveva disegnato.

I Repubblicani, vedendo riprendere posto a canto di loro gli uomini che avevano cacciato, si commuovono a maraviglioso furore; alcuni vanno via, altri rimangono, parecchi degli usciti si ravvisano e tornano. Il Parlamento completato elegge Monk Generale in capo dello esercito inglese, rende alla città porte e catene, libera di prigione i Municipali arrestati il 9 febbraio, proroga la convocazione del nuovo Parlamento al 25 aprile. Monk manda fuori un altro Manifesto nel quale, dopo aver dimostrata la necessità in cui si era trovato di completare il Parlamento perchè le imposte si riscuotessero, finisce raccomandando severamente sorvegliare e accusare in pubblico chiunque macchinasse a favorire il ritorno di Carlo Stuardo.[696] Ad Haslerig, che fattosi a trovare il Monk lo confortava a mantenersi saldo nella causa repubblicana, questi toltosi il guanto, e posta la sua nella mano di lui, diceva con sembiante solenne: «Io vi protesto che mi opporrò con tutte le mie forze alla elevazione di Carlo Stuardo, al governo di un solo, e alla Camera dei Pari.»

Haslerig e i Repubblicani più accorti gli oppongono: «Egli è chiaro che qui si tende a richiamare il Re, e il voto del Parlamento lo dà a sospettare pur troppo. Badate, Monk, che non vi avvenga come a Stanley, che, per avere restituito il trono a Enrico VII, n'ebbe in guiderdone la morte: egli è grande delitto presso i re avere troppo meritato di loro.» Allora gli propongono il regno, ed egli ricusa; gli danno la regia stanza di Hampton-Court per tenerselo bene edificato, ed ei ricusa; gli stanziano ventimila lire di sterlini, ed ei se le prende. — I Repubblicani ricorsero ad un'altra alzata d'ingegno, e fu di fare presentare al Monk, dai più accesi fra i suoi ufficiali, una dichiarazione perchè la firmasse, la quale consisteva nell'obbligarsi a costringere il Parlamento onde decretasse che la Repubblica era la forma definitiva del governo del Paese, e che verun Parlamento successivo potesse avere abilità di alterarla. Monk, preso alla sprovvista, si trovò sgomento, e non gli ricorrendo miglior partito propose aggiornare la firma all'indomani nel Consiglio Generale degli Ufficiali. Nello intervallo di tempo conferì co' suoi devoti, e la mattina al Consiglio, invece di firmare il foglio, ammoniti gravemente gli ufficiali esaltati del proprio dovere, vietava pel seguito di simile sorta assemblee; e notati i più audaci, statuisce licenziarli alla prima occasione: bene avrebbe potuto, adoperandovi alquanto di forza, rompere gl'indugii, ma repugnava, alla indole di lui far capitare male persone alle quali lo legavano vincoli antichi, e precipitare di crollo ciò che si poteva compiere pacificamente e di quieto.

Molte furono le arti praticate dal Monk affinchè il Parlamento lungo si sciogliesse, la quale cosa ottenne nel 16 marzo 1668; prima di separarsi, il Parlamento deliberò che nessuno ufficiale si accogliesse se prima non approvasse con iscrittura la guerra impresa contro l'ultimo Re, e che dal nuovo Parlamento si escludessero gli uomini che avevano impugnato le armi contro il Parlamento lungo; e Monk lo lasciò fare, anzi, nell'ultima Tornata, egli domandò che abolisse la Legge su la milizia, perocchè, avendone commessa la organizzazione a mani sospette, era da temersi che in onta dei buoni Repubblicani si richiamasse Carlo Stuardo; ed ottenuto il Decreto, nel giorno stesso fece stamparlo e pubblicarlo.

Il Popolo ad alte grida acclamava il Re; canzoni realiste si cantavano pubblicamente per le vie; un tintore cancellava dal piedistallo, che già sorresse la statua di Carlo I, la iscrizione: exiit tyrannus regum ultimus etc.; e Monk, contento di secondare segretamente il moto, stava in apparenza così avviluppato nelle sue ambagi che una segreta spia del Re ebbe a scrivere il 10 marzo al suo signore: «Monk, in quanto riguarda Re e Lordi, si è scoperto parziale al Parlamento.... l'altro giorno ha detto che verserebbe l'ultima goccia di sangue prima di consentire il ritorno degli Stuardi in Inghilterra.... stasera però sembrava alquanto meglio disposto.» I Repubblicani, sempre più agitati, s'ingegnano penetrare gli arcani consigli di Monk; e côlto alla sprovvista Cristofano suo figliuolo di sette anni, con domande suggestive e con doni gli fanno confessare avere udito certa notte suo padre e sua madre, mentre giacevansi in letto, che favellavano del ritorno del Re. Allora Enrico Martyn, legato di antica amicizia col Monk, gli va incontro risoluto, e così gli favella: «Orsù via, diteci una volta, che cosa intendete di fare?» — «Una Repubblica» risponde Monk «io la volli sempre e la voglio.» — «Sarà» soggiunse Martyn, «ma voi mi avete l'aria di quel tal sarto campagnuolo che fu incontrato certo giorno con la vanga e la zappa in ispalla. — Dove ve ne andate? gli domandarono. — Vado a prendere la misura di un vestito. — Come! con la zappa e con la vanga? — Al giorno d'oggi così si fa.»

Ora, non che sia di mestieri al caso nostro, ma per completare il racconto, è da sapersi come il giorno dopo, nella stanza di Morrice, Giorgio Monk consentisse a ricevere dalle mani di Giovanni Greenville la lettera di Carlo Stuardo scritta fino dal 21 luglio 1659. Questa lettera diceva: «Io non posso credere che mi vogliate male: voi non ne avete motivo, e quello che attendo da voi parmi così grande benefizio pel vostro Paese che io spero che voi non vi ricuserete a farlo.» Nelle istruzioni del Greenville occorreva questo altro passo, che pose ugualmente sott'occhio al Generale: «Io vado persuaso che Monk non può serbare in cuore alcuno mal volere per me; nè egli ha commesso cosa che io non possa perdonare agevolmente: sta in lui farmi tale un favore del quale io non saprò ricompensarlo mai come merita.»

Imprese subito le trattative, furono in breve concluse a questi patti: 1º Oblio generale, tranne quelli che crederebbe escludere il Parlamento; 2º Garanzia dei beni venduti, e pagamento del soldo allo esercito; 3º Libertà di coscienza. — Carlo Stuardo condottosi a Breda di leggieri concesse i patti, e gli avrebbe conceduti maggiori. Pel 25 aprile fu convocato il nuovo Parlamento, e nel 1º maggio fissata la deliberazione intorno alla forma di Governo conveniente a Inghilterra, Scozia, ed Irlanda. — In questo giorno Greenville si presenta al Consiglio di Stato, e domanda favellare al Monk. Monk avvisato dal colonnello Birch si accosta alla porta, dove Greenville gli consegna lettere regie da parteciparsi al Consiglio e allo esercito.

Comecchè la cosa fosse concertata col Monk, egli finge stupore; ordina con mal piglio a Greenville aspettasse, e alle guardie lo custodiscano; rientra in Consiglio, che stupefatto davvero non sapeva a qual partito appigliarsi. Il Birch deluso giurava al Monk essere ignaro di tutto, e non importava che giurasse; fatto chiamare dentro il Greenville, e interrogatolo dove avesse ricevuta la lettera dello Stuardo, risponde: a Breda; — vogliono mandarlo in prigione; il Monk fece sicurtà per lui, e tutti insieme decisero che la lettera dello Stuardo sarebbe aperta in pieno Parlamento. Carlo Stuardo fu proclamato Re dal Parlamento e dal Popolo, con gazzarre, luminarie, e falò, e allegrie altre cotali, che fanno dimenticare ai guastamestieri di tutti i Governi, come sotto coteste apparenze covi pur sempre un Partito vinto, ma non abbattuto, che può placarsi e guadagnarsi con miti consigli, inasprirsi e allargarsi con insensate rigidezze.

«Tanta fu la emulazione e la impazienza fra Lordi, Comuni e Municipio, a chi sapesse meglio manifestare la propria gioia e reverenza, che per servirmi delle parole di un nobile storico (probabilmente Clarendon) riusciva impossibile non domandare con sorpresa, dove fossero coloro che avevano commesso tanto male, ed impedito il Re per tanti anni di godere la consolazione e l'appoggio di così ottimi sudditi. Il Re stesso ebbe a dire più tardi: — Che il torto era suo, se non aveva preso prima possesso del trono, dacchè trovava tutte le classi tanto impegnate a promuovere la sua restaurazione.»[697] Il giorno dopo pare sempre così; nei giorni avanti cammina diversa la bisogna.

Nel giorno dopo in Inghilterra fu vista accendersi gara fra Parlamento, Municipio e Borghesi, a chi più mandava danaro al re Carlo, il quale avevano pure sofferto che per tanti anni languisse in condizione piuttosto misera, che augusta; e mentre il Municipio gli stanzia lire diecimila di sterlini, ecco i Borghesi dargliene sedicimila, e il Parlamento munificentissimo donargliene cinquantamila.[698] — Nel giorno dopo quel desso che nella Camera del Parlamento aveva posto le insegne della Repubblica, venuto in furore di Monarchia, fu visto rabbiosissimamente stracciarle ed arderle.[699]

Nella regia patente, che amplissima fu largita al Monk, dopo la esposizione dei beneficii operati da lui in vantaggio della Inghilterra e del Re, si legge a modo di conclusione: « Hæc omnia prudentia, ac felicitate summa victor sine sanguine perfecit. » Veramente questo fu principalissimo scopo, che il Monk si propose nella Restaurazione, e gli fu bella gloria fra i suoi contemporanei; ed io non dubito, che gli verrebbe confermata dai posteri, se come si auguravano senza eccezione avesse ottenuto l'oblio dal Parlamento, e se le lettere private da lui prodotte nel processo del marchese di Argyle non facessero andare dubbiosa la Storia se deva cancellare cotesta lode, per le poche vite che permise spente, o piuttosto lasciarla stare per le moltissime che preservò.[700]

Facciamo adesso una supposizione: immaginiamo che poco innanzi delle conferenze e dei patti stabiliti col Greenville, il Municipio di Londra insieme col Popolo fosse giunto a rovesciare il Monk, terminando con molta agevolezza, con impeto, e senza alcuna guarentigia, quello che fra tante difficoltà era stato apparecchiato e quasi compíto da lui; immaginiamo altresì che spinto prima in disonesto carcere, fosse stato condotto poi davanti ai miei Giudici; come non lo avrebbero eglino deriso? «Gli atti di distruzione» gli avrebbero detto «già non ci darete ad intendere che fossero preparativi di Restaurazione. Le manifestazioni ostili non comprendiamo come potessero condurre allo scopo che adesso ci raccontate; dove sono gli atti univoci, non equivoci, co' quali presumete convincerne? Dove le prove limpidissime? Allo stringere delle tende, vedendo come fosse impossibile avversare la Restaurazione, l'avete secondata; invano però, chè tardo pentimento fu questo, e forse dovuto più che altro alla opinione del signor De Bordeaux ministro di Francia.[701] — Con qual fronte sostenete il disegno di restaurare il Principato, se pure ieri il Popolo acclamante il Re disperdeste, il Municipio imprigionaste, i Repubblicani con le vostre armi sovveniste, quelli che si mostravano parziali al Principe di propria mano percuoteste, — impiccato, chiunque il ritorno dello Stuardo procacciasse, voleste? I bandi, i proclami, i manifesti per dichiararvi svisceratissimo al Parlamento lungo pubblicavate forse in benefizio della Monarchia? Che cosa alla fin fine avreste fatto? Vi sareste così destreggiato, finchè un Parlamento libero pronunziasse intorno alle forme governative del Paese... Bello sforzo invero, onde noi dobbiamo mandarvi assoluto, anzi decretarvi la corona dell'alloro! O non vedevate come tutti noi con accese voglie stavamo in agonia pel ritorno di Carlo Stuardo! Quali indugii erano i vostri? Dovevate pure indovinare quello che con saldo cuore vi diciamo adesso, noi essere vogliosi di mostrare col sangue nostro, con quello della moglie, dei figli, dei servi e delle serve, il nostro sviscerato zelo per il diletto capo di Carlo Stuardo. Quanto (e fu poco) operaste, dal complesso degli atti siamo autorizzati a ritenere, che il faceste per mantenervi al potere tanto male da voi conseguito, tanto pessimamente esercitato. Voi intendevate giuocare a partita vinta, e tenere il piede in due staffe per gittarvi alla Fazione trionfante, secondo che costumano le persone della vostra qualità, che di mal pelo portano taccata la coda, anzi pure, che hanno doppio il cuore, come ha detto una sentenza della Camera stellata, ai tempi di Enrico VIII, oggi fa cento anni.»

Povero Monk, altro che ducati, e contee, e baronie, e pensioni, e patenti col victor sine sanguine, se tu avessi avuto la fortuna di nascere nel 1805 in Toscana come sono nato io! Tu stavi fresco con i miei Giudici, o Giorgio Monk, tu stavi fresco....!

All'opposto, un uomo di Stato a cui nessuno per certo, comunque da lui per opinioni diverso, vorrà negare pratica di negozii umani grandissima, e capacità somma di speculare gli avvenimenti politici, il signor Guizot, così giudica di Giorgio Monk:

«Anche in Inghilterra, ora sono dugento anni, diceasi la Monarchia scomparsa per sempre, la sola Repubblica possibile. Monk conobbe questo essere falso. Egli credè alla Monarchia quando la Repubblica durava, quando tutti intorno a lui, sinceramente od ipocritamente, ed egli stesso come gli altri, non parlavano che di Repubblica. E quando, dopo la morte di Cronvello e la caduta di suo figlio Riccardo, si pose avanti realmente la quistione tra i due governi, Monk si decise per la Monarchia.

«Gli si è negato questo merito: e Monk, mirando al suo scopo, ha tanto usato ed abusato della simulazione, che alcuni spiriti prevenuti e superficiali hanno realmente revocato in dubbio, che la sua risoluzione fosse precoce, e costante. Ma quando da vicino e profondamente si studiano i fatti ed i documenti, non può più dubitarsi. Fino dal primo momento Monk si decise; e checchè facesse o dicesse, egli fu saldo nella sua decisione sempre fino all'ultimo giorno. Nel dubbio ed esitanza universali, egli avea una opinione decisa ed un partito preso. Fu questo il primo suo atto di buon senso politico.

«Se Monk fu deciso, fu ancora paziente. Seppe aspettare il buon successo, preparandolo. Uomo di guerra, mentre il suo mezzo di azione era l'armata, fu costantemente risoluto a non rinnovare colpi violenti e la guerra civile. Comprese che la Monarchia, per essere solidamente ristabilita, doveva esserlo pacificamente, naturalmente, come una necessità nazionale, e un supremo rifugio del Paese. A dispetto di tutte le impazienze e le diffidenze, seppe contenersi, dissimulare, indugiare, attendere, fino a che l'evento quasi da sè stesso si compiesse. E compiutosi l'evento, Monk volle che nelle patenti, che consacravano la sua fortuna e la gloria, s'inserisse il motto: Victor sine sanguine (vincitore senza sparger sangue): tanto la sua prudenza era figlia della riflessione e della volontà. I partigiani della Monarchia eziandio fecero prova di molto discernimento. Alcuni di loro avevano sostenuto la Rivoluzione, altri l'avevano combattuta; asprissime guerre si erano fatte fra loro in pro o contro del Re, di cui volevano porre in trono il figliuolo. Umori, passioni, interessi li dividevano, e nonostante le discordie loro aggiornarono. Fino al giorno della vittoria, passioni, genio e interesse ridussero nel supremo intento comune: sottoposero le preferenze particolari alla necessità di tutti; e questa è pietra di paragone vera del giudizio politico dei Partiti.

«E fecero anche di più i promotori della Monarchia: confidarono la esecuzione dei loro disegni nelle mani di uomo che sospettavano, ed avevano ragione di sospettare. Monk aveva militato pel Re, per la Rivoluzione, per la Repubblica, per Cronvello e pel Parlamento; egli operava sovente, e favellava in varie guise, non pure diverse, ma contrarie fra loro: simulava con risoluta franchezza da sgomentare i più intimi. I partigiani della Monarchia stavano sul conto suo pieni di dubbio, e d'inquietudine; dalla speranza facevano trapasso alla paura, dalla luce alle tenebre: ma nè per isperanza, nè per paura, nè per desiderio, nè per le ambagi del Monk, forviarono. Monk somministrava a un punto, e imponeva la norma del come si avessero a governare; però tutto sommando avevano maggiori motivi di confidare che per diffidare.... non si commisero ciecamente in sua balía, ma lo secondarono con discrezione, lo attirarono senza metterlo a cimento, docili ai suoi consigli, vigili ma tranquilli dietro a lui come a capo eletto, imperciocchè tali imprese abbisognano di un capo, nè vi sia capo tranne quello, che, sostenendolo, lasciamo operare.»[702]

Ascoltiamo un altro Giudice, David Hume, solenne storico, il quale, se non sedè Ministro nei consigli della Corona, durante la sua vita fece professione di politica, e tenne carica di diplomatico. «Accorda meglio alla ragione, e alla schiettezza, ritenere, che Monk appena mosse di Scozia nutrisse il disegno di ristabilire il Re. Nè qualunque obiezione si volesse dedurre dallo aver egli tutto taciuto, perfino allo stesso Carlo, può essere tenuta in qualche conto, allorquando si rifletta, che Monk era di natura riservato; che le sue circostanze richiedevano dissimulazione; ch'egli sapeva il Re circondato da traditori e da spie; che insomma sarebbe durezza interpretare in discredito della probità del Monk una condotta, che dovrebbe anzi sublimare in noi la idea che ci formiamo della sua prudenza.» Così a pag. 431 del Cap. 62 della Storia d'Inghilterra, e poco oltre a pag. 442: «Malgrado questi passi, che muovevansi verso la restaurazione della Monarchia, il Monk proseguiva a mostrarsi caldo partigiano della Repubblica, nè aveva peranco consentito ad aprire pratiche col Re. Convocare un Parlamento libero, e restituire sul trono la famiglia regia, erano in quello stato di cose due provvedimenti per necessità connessi fra loro. — Nè era tenuto in conto di poca sincerità il silenzio da lui osservato nel principio della impresa, dacchè ei si mantenne riservato del pari nel tempo in cui, secondo i dettami del senso comune, chiaro appariva che non poteva nutrire altro disegno

Nel Capitolo 65 poi il dabbene Hume, riportando in nota la notizia della morte di Giorgio Monk, non si può trattenere di spendere altre parole per giustificare la dissimulazione di lui. «È per verità una singolare prova della strana possanza dello spirito di Parte, quella che la malevolenza debba perseguitare la memoria di un signore il cui tenore di vita non andò mai soggetto a censura, e che, col ristaurare l'antico, legittimo e libero governo ne' tre Regni, che si trovavano immersi nella più rovinosa anarchia, fu certamente fra gli abitanti di queste isole quegli che, dal principio di quei tempi in poi, più d'ogni altro rendesse servigii durevoli ed essenziali alla patria. Neppure i mezzi, onde si valse per condurre a fine sì grande impresa, vanno soggetti a grave sindacato; giacchè appena è biasimevole la dissimulazione ch'ei seppe per qualche tempo tenere, e la quale, nel caso suo, era assolutamente necessaria. Ei non godeva la confidenza di quel bifronte, sedicente ed usurpatore Parlamento, cui balzò di sgabello; perciò non poteva tradirlo. Negò persino di spingere una tale dissimulazione sino a prestare il giuramento d'abiurare il Re. Nullameno confesso che il reverendo dottor Douglas mi ha mostrato una lettera, trovata nelle carte di Clarendon, tutta di pugno di Monk, e diretta a sir Arturo Haslerig, che contiene le più calde, e quindi, nel cuor suo, le più false proteste di zelo in favore della Repubblica. Per verità, duole assai che un così degno e schietto uomo debba una volta essersi trovato nella necessità di spingere cotanto innanzi la dissimulazione. Il casato de' Monk s'estinse col figlio del Generale.»

Ecco pertanto come uomini di Stato e politici solenni giudicarono di Giorgio Monk, lo esempio del quale mi piacque con lunghezza riferire, non già perchè mi attagli, parendomi le sue dissimulazioni troppe, e troppo profonde: onde mi riesce difficile a credere, che fossero tutte costrette dalla necessità, e qualcheduna non ne usasse per compiacere al suo genio.

Ancora, (e non importa che ne faccia protesta, perchè tutto il mondo lo conosce a prova) a operare come feci mi mosse non cupidità di comodi privati, bensì il rispetto che professai sempre al voto, che mi parve ed era universale nel 1849 nei miei compatriotti; e lo amore di figlio che porto al mio diletto Paese mi persuase a procurargli il maggiore bene che per me si potesse, quantunque con gravissimo carico mio; onde io spero con troppo migliore ragione meritarmi il nome di ONESTO, che pure tributarono i contemporanei al Soldato inglese: chè se nel naufragio della mia vita mi sarà concesso uscire alla riva sopra questa tavola sola, e me lo assentirà la benevolenza degli uomini probi, ciò recherà qualche conforto ai miei lunghi, atroci e non meritati travagli.

XXX. I giorni 11, 12 e 13 aprile 1849.

Io mi era tratto dal cuore lo stile del quale lo hanno trafitto, per iscrivere una storia di tradimento con ferro grondante di sangue... Ma un fiotto di voci scellerate mi percosse fino nel profondo del mio carcere, e mi avvertì come, — nella guisa stessa che i selvaggi della isola di Giava, incisa la scorza dell'albero Upas, lo circondano cupidi, pure aspettando che ne coli il visco velenoso per intingere in quello le freccie mortalissime, — una torma di lupi dalla faccia umana stesse con le orecchie incollate a queste mura, per attrappare al varco un grido di dolore, uno accento d'ira, per mescolarlo nel fiele di cui contristano quotidianamente con effemeridi infami la veneranda Patria: allora ruppi le carte e le gittai ludibrio dei venti. Io parlerò sommesso, — io narrerò pacato; — e voi che leggete, pensate e dite se mai vedeste affanno pari allo affanno mio.

Prima però della mia, udite la storia di questi giorni composta dal Decreto del giugno 1850, riveduta e corretta dal Decreto del 7 gennaio 1851, e dall'Atto di Accusa.

«L'ora del riscatto era suonata (Il Decreto del 7 gennaio anch'egli pone: l'ora del riscatto era suonata ). Il Popolo Fiorentino disperde gl'incomposti gruppi di armati (Il Decreto del 7 gennaio aggiunge soverchianti ), che imponevano alla città con bruttezza di modi e di costumi. Nel giorno 12 restaurava la Monarchia, alla quale era rimasto in mezzo alla tristezza dei tempi fedele (Il Decreto del 7 gennaio aggiunge: costantemente. L'Atto di Accusa dice, che il Popolo ravvivò gli antichi sensi di fede ). — In faccia a questo moto unanime, risoluto, evidente nel suo scopo, la restaurazione del Principe (Il Decreto del 7 gennaio muta con le parole infallibilmente diretto ), non potevano concepirsi mali, che non avvennero; il Guerrazzi richiama nella notte dell' 11 la Guardia Municipale per opporsi alle mene, ei diceva, diaboliche dei retrogradi, e dava ordini (che non furono eseguiti per evitare la effusione del sangue e la guerra civile), nei termini che appresso:

«Firenze, 12 aprile. — Basetti, prendi il comando della Municipale. Fuori in piazza a difendere l'Assemblea e la Patria, e la Libertà, e il tuo amico Guerrazzi.» E più tardi: «In Piazza vi sono i Veliti e la Guardia Nazionale, entra la Cavalleria e l'Artiglieria; esca la Municipale, o si cuopra di vergogna.» — E tali furono le insistenze, riuscite a vuoto, mosse al Colonnello Tommi, per trasportare le artiglierie in piazza, e al Colonnello Diana d'intimare il Popolo e caricarlo, per cui si compì la Restaurazione pacifica e senza sangue.

Nè qui si trattiene la opposizione del Guerrazzi (Il Decreto del 7 gennaio aggiunge: per contrariare l' avvenuta Restaurazione), perchè ad alcuni Membri recatisi all'Assemblea per invitarla a sciogliersi (L'Atto di Accusa aggiunge: e intimarle che non si rendesse opponente alla già decretata e incoata Restaurazione ) egli dichiarò ch'essi avevano operato una vera Rivoluzione, e minacciò prima, poi intimò loro l'arresto.»

Il Decreto del 7 gennaio e l'Atto di Accusa lasciano lo intimò, ma questo secondo aggiunge: «E si fu dopo tutto questo, che il Guerrazzi si mostrò più docile e pieghevole alla Restaurazione stessa, suggerì dei temperamenti, non secondati, e si esibì di recarsi a Livorno onde maneggiarsi perchè vi fosse accettata

Quanto questo racconto corrisponda al vero, adesso vedremo.

Erano in Firenze nel giorno 11 febbraio tre colonne di Livornesi. La prima condotta dal Guarducci. Questa stanziò un tempo a Pistoia, amorevolmente accolta dal Popolo. Ottime informazioni ci venivano di lei. Nel Ministero della Guerra potranno trovarsi. Fu chiamata di là per inviarla nel contado aretino: andò, ma credo non passasse Montevarchi. Il signor Romanelli avvisò irregolare il procedere dei militi, gli revocassimo; poco dopo mandava diverso rapporto: essere stato male istruito, i militi non dare luogo a richiamo; ma siccome la gente gli era di troppo, ed egli si augurava venire a capo della sua commissione per vie conciliatorie, così insisteva perchè fossero rivocati. Guarducci ebbe ordine tornarsi alle stanze di Pistoia; giunto a Firenze per trasportarvisi con i cariaggi della Strada Maria Antonia, prese quartiere al convento di Santo Spirito, onde ristorarsi del cammino. Il maggiore Guarducci espose lo stato miserabilissimo delle sue genti: mancare di cappotti, di vesti, di scarpe, di tutto. Il Ministro Manganaro propose passarle in rassegna, ed io l'accompagnai. Veramente noi le trovammo in pessimo arnese. Il Ministro osservò non essere cotesta forma, assisa, nè armamento da soldato; restassero per essere vestite e armate convenientemente. Esse rimasero, e questo serva a raddrizzare ciò che fu detto erroneamente di loro, che repugnassero a partire, e perfidamente dato ad intendere al Popolo, che io le avessi chiamate a Firenze a pravo scopo.

La seconda colonna composta di poca gente, guidata da Cercignani e Toccafondi, albergava da qualche tempo in Borgo Ognissanti; la più parte Civici.

La terza era di Volontarii disarmati, e furono messi in Fortezza di San Giovanni Battista.

Intorno a questa è da dirsi. Alla chiamata della difesa della Patria erano accorsi circa mille Giovani dalla provincia. Per cura principalmente del Capitano Montemerli in poco più di 15 giorni, secondandolo altri egregi Ufficiali, si resero idonei ai più complicati movimenti militari. Instruiti a dovere, erano incamminati al campo. Si offersero allora mille altri circa Giovani livornesi; il Ministro della Guerra pensò surrogarli nella Fortezza di San Giovanni Battista ai partiti, affinchè presto s'instruissero, e pronti, secondo i bisogni della Patria, si avviassero ai confini: disegnò gl'instruttori e gli Ufficiali; non gli armò, perchè non ebbero tempo ad ammaestrarsi neppure nei movimenti che si fanno senz'armi; e non furono mai armati.[703]

E questo ancora risponda alla calunnia, che fossero stati raccolti armati per soverchiare il Popolo di Firenze. Bene altre volte erano venuti militi da Livorno quaggiù, e gli accoglievano festosi; anzi, come si è visto certa volta, giunti di notte, comecchè fosse tardi, erano ricevuti al chiarore di torcie, e al suono di bande.

Ora secondo i rapporti che ci venivano, niente era da dirsi della colonna Guarducci, e meno degli altri raccolti in Castello. Quelli di Borgo Ognissanti commisero parecchi trascorsi di cui fanno fede i Rapporti delle Delegazioni. Mi riferisco a cotesti; io credo potermi rammentare si trattasse di qualche baruffa in Via Gora a cagione di femmine. Non conosco la strada, nè le persone che vi abitano; però mi assicurarono, che colà si riducono donne le quali non godono fama di castissime in Firenze. Che se poi la informazione si trovasse essere falsa, io protesto solennemente che non intendo oltraggiare la fama delle donne di Via Gora, e mi unisco alla stima in che le tiene l'Accusa.[704] Ma caste o no, le donne, quando tirano pei fatti loro, convengo di leggieri che si abbiano a rispettare. Però devo aggiungere, riportandomi sempre ai Rapporti delle Delegazioni, che della medesima specie baruffe erano state commesse, in tempo assai remoto, dai militi albergati all'Uccello, senza che avessero sèguito alcuno, tranne il castigo, che in simili casi sogliono applicare ai trasgressori. Io vorrei un po' sapere, se tutti i soldati appartenenti a milizie ordinatissime, e sottoposte a disciplina piuttosto acerba che dura, si sieno astenuti sempre da procedere brutali con le femmine di partito, e se abbiano puntualmente pagato tutto il vino che si hanno bevuto; e, avendo commesso queste ed altre taccherelle che si tacciono per Io migliore, siasi detto di coteste milizie che la città deturpassero con la bruttezza dei modi e dei costumi! La sera del 10 aprile 1849 mi avvisarono essere sorto tumulto a Porta a Prato: andai, e trovai che un sergente e un soldato della compagnia Cercignani avevano voluto forzare la consegna di non uscire dalla città in cotesta ora; erano stati arrestati: mantenni l'arresto, e ripresi severamente il sergente, che, invece di dare esempio della disciplina, pel primo la manometteva. Di lì recatomi alla Porticciuola, osservai per buon tratto di Via della Scala rovesciarsi in città una frotta di gente armata di grossi bastoni, e udii ancora uno di quella imprecare al mio nome.

Donde muoveva? Chi la inviava? Chi le labbra e l'anime comprava per dirmi: morte? Come, e perchè la gente di contado mostravasi tanto tenera delle offese di cui i cittadini si risentivano sì poco? Io so chi la spingeva, e chi la comprava, e non merita memoria. Per questo e per altri indizii sospettando fosservi uomini indettati ad attaccare briga, e con intento scelleratissimo aizzare la gente a guerra fraterna, come pur troppo vi erano, fu reputato il meglio sgombrare la città dei militi livornesi. A questo scopo fino dal giorno 9 aprile, con lettera confidenziale al Ministro della Guerra, commisi ordinasse al Guarducci partisse incontanente per Pistoia; colà avrebbe trovato le cose necessarie: agli altri sarebbesi provveduto subito dopo. Il Guarducci verso sera nel giorno 11 aprile con la sua colonna s'incamminava alla Strada ferrata Maria Antonia. Percorsa quasi tutta la città, sboccando per via degli Avelli, ormai era arrivata alla Stazione.

Essa partiva, obbedendo agli ordini ricevuti, sicchè bisogna convenire che perduta opera era quella di disperderla; bastava lasciarla andare. O che l'Accusa, per via di figure rettoriche tolte in prestito dalla Italia Rossa, vuole dare ad intendere che lo sfondo di un uscio aperto equivalga alla presa di Belgrado? Qui accadde il conflitto detestabile. Se fossero i Livornesi provocati o provocatori non so di certo; solo rammento che i rapporti pervenutimi nella notte chiarivano, come una mano di ragazzi, seguitati da parecchi uomini, gli avessero insultati a parole, ed inseguiti co' fatti. Chi primo fu ad usare l'arme nella infame battaglia? Questo, come cosa di obbrobrio eterno alla Patria, ogni uomo onesto deve aborrire di raccontarlo, ed io non lo dico; però non lo ignoro. Intanto mi pervenne avviso del fatto; e quantunque io non lo credessi grave, pure asceso in carrozza condussi meco il Colonnello Vincenzo Manteri per vigilare da me stesso. Quando udii lo scoppio dei moschetti mi prese ribrezzo. Arrivato a certa strada, di cui ignoro il nome, mi occorse uno squadrone di Cavalleria, condotto dal Maggiore Diana, che stava a ridosso dietro un casamento: solo l'Ufficiale Capanna tentava imboccare nella Via dell' Amore, comunemente nota col nome di Via dei Cartelloni, ma il cavallo aombrato non glielo concedeva. A me pareva che in quel momento, nè il luogo, nè gli atti fossero convenevoli a soldati, e non rimasi da muoverne qualche risentita parola al Maggiore; poi fatto scendere un Dragone da cavallo vi salii sopra, intimando ai soldati di seguitarmi. Così mi persuase il dovere, e così senza badare ad altro io feci. A mezzo di questa via certo uomo da una porta mi trasse un colpo di fuoco addosso, e certo non mi parve cotesta cosa da farsi in Via dello Amore; ma (come a Dio piacque) rimasto illeso, attesi ad affrettarmi. Arrivato nella Piazza Vecchia vidi alcuni Livornesi inferociti, sciolti a modo di Bersaglieri, sparare nella direzione della Piazza Nuova lungo la Chiesa di Santa Maria Novella; tre o quattro giacevano feriti; un altro, mi pare, soldato, e un vecchio, lo furono accanto a me. Le fucilate dalla parte dei cittadini venivano dalle finestre, rade ma aggiustate; una ne fu tratta da certa casa allora non finita, prossima allo ingresso della Stazione; però che levando gli occhi vedessi la fumata spandersi fuori della finestra. Scesi da cavallo per ordinare che cessassero l'orribile guerra, e siccome non volevano obbedire presi a strappare loro le armi di mano: uno poi, così si mostrava imbestialito, fu mestieri prendere in quattro per trasportarlo alla Stazione. Resi altrove meritata lode, e qui la ripeto, al signor Janin e a tale altro signore che mi si disse americano, i quali per amore di umanità standomi al fianco secondarono i miei sforzi; nè, in omaggio del vero, devo commendare meno il Maggiore Guarducci, che vedendo i soldati inobbedienti a cessare dal fuoco gittò via lo squadrone, protestando con accese parole non volerli più comandare. — In questo momento vennero a dirmi alcuni cittadini, avere arrestato l'uomo che aveva tratto contro di me nella Via dei Cartelloni; e mi presentarono uno stocco che gli avevano tolto di mano: povero arnese, fatto di un fioretto appuntato dentro a un finocchio delle Indie; ordinai lasciassero l'uomo in libertà, e gli rendessero lo stocco; solo gli domandassero in che cosa l'avessi offeso. Dentro la Stazione trovai altri feriti, aiutai a riporli dentro ai carri, mi sottrassi fuggendo alle istanze di andare seco loro, nè quinci mi mossi, finchè io non gli vidi partiti. Il Dottor Morosi, il Chiarini, ed altri moltissimi, possono attestarne.

E questo ancora valga a chiarire come sia erroneo affermare, che il Popolo disperdesse i gruppi armati e soverchianti. La quasi totalità della colonna Guarducci era assettata nei cariaggi, imprecava ai rimasti, voleva partire senza loro; i combattenti, se non erano venti, a trenta non arrivavano, i quali dagli egregi uomini rammentati sopra, e dai compagni stessi furono strappati a forza dalla Piazza, e a forza rimessi dentro alla Stazione. Però fra tutti i militi, e segnatamente presso coloro che piangevano detestando lo scontro scellerato, e se n'erano astenuti, trovai comune la opinione, che una gente iniqua avesse tramata la insidia per ispingere al sangue fratelli contro fratelli; e così su l'anima mia ho creduto, e credo che fosse.

Allora mi referirono che il Generale Zannetti avviluppato in altra strada prossima si trovava a mal partito. Rimontai a cavallo, e seguitato dai Dragoni mi diressi in Piazza Nuova di Santa Maria Novella; la Civica si aperse per lasciarmi passare, ma presto conobbi non essere possibile entrare a cavallo nella Via de' Banchi dove stava il Generale Zannetti, perchè, riselciandola allora, copia di pietre nuove e vecchie ne ingombrava lo sbocco. Qui incontrai uno stuolo di Popolo armato di grossi bastoni fermo su per le pietre ammonticchiate; e mentre io mi approssimava mi furono tratti due sassi da un medesimo uomo giallo, e pessimamente in arnese; però un sasso solo mi colse fra il petto e la spalla destra. Io mi accostai sempre più, esclamando: A me? E il plebeo: Sì a te; ed io di nuovo avanzando: A me? Il plebeo scappò mutolo appiattandosi dietro ai compagni. Chi sa quanti Alberi della Libertà aveva piantato costui! Intanto seppi che il Generale Zannetti non correva più rischio. La Guardia Nazionale che mi stava attorno mi si dimostrava amorevole oltremodo, e sentivo ad ogni passo dirmi proprio così: «A lei vogliamo bene; ella è un galantuomo davvero, ma mandi via i Livornesi.» Ed io rispondevo: «Sì, avete ragione, e subito.» Con senso di gratitudine parimente rammento, come non mancasse taluno dei Nazionali che precorrendo e a lato mi sgombrasse il cammino, e fidata scorta fino alla Via degli Avelli mi facesse.

E premuroso che i Livornesi tutti, anche quelli che venuti per istruirsi ed armarsi avevano stanza nel Castello di San Giovanbattista, più presto che si potesse se ne andassero, mi vi condussi io stesso, e persuasi la gente di ridursi immediatamente a casa. Certo, parve duro a costoro, dopo averla abbandonata per militare alla frontiera, ritornarvi così subito a guisa di scomunicati; ma alle mie esortazioni si arresero, se non che domandavano gli schioppi; però anche questi con molte ragioni ricusaronsi; e, se io non erro, il Colonnello Tommi mi fu assai efficace aiutatore nella bisogna del rimandare i Volontarii disarmati a Livorno. Per questo modo dopo avere ordinato i carri della Strada ferrata, ed accertata la partenza, lasciai il Castello insieme col Capitano Montemerli e il signor Chiarini Segretario.

Prima però che per me la Fortezza si abbandonasse, ecco comparirmi davanti i signori Conte Digny e Avvocato Brocchi, i quali, dopo avermi con oneste parole commendato sì per quello che avevo fatto, sì per quello avevo disposto si facesse, mi significavano come la città non potesse posare tranquilla, finchè non avesse sicurezza che da Livorno non fosse per muoversi Popolo armato contro Firenze: questa voce sparsa nella città, e creduta, tenere agitati gli animi dei cittadini a stupenda irritazione; studiassi anche qui di trovare modo a sedare. Negando che simile motivo potesse accadere senza mio ordine, o almeno a mia insaputa, essi fervorosamente instarono onde io per via telegrafica, ad ogni buon fine, ordinassi che nessuno da Livorno si muovesse; e questo feci con volenteroso animo, aggiungendo: che dove per sorte Volontarii si trovassero per via, subito indietro si richiamassero; — scritto il Dispaccio alla presenza di moltissima gente, lo consegnai al signor Conte Digny, il quale disse correre col fido Brocchi alla Stazione di Livorno per ispedirlo.

E questo risponda all'accusa stupida, che io mi accingessi alle difese estreme. Veramente chi così intende non provoca la partenza di milleseicento Giovani, non li toglie da un Castello provveduto in copia di armi e di cannoni; ma qui dentro gli aduna, gli arma, e poi minaccia. Ma ormai a queste perfidie non crede più neanche la plebe di Firenze, e deh! non mi togliete il conforto della fiducia, che il Popolo fiorentino generosamente si penta di averle creduto un momento!

Pensai condurmi allo Spedale di Santa Maria Nuova per visitare i feriti, e ci giungemmo davanti; ma cambiai consiglio, perchè veramente, fra le angoscie dell'animo e del corpo, io era come immemore di me. Avevo appena riposato il capo, che vennero a significarmi (e penso che fossero Guardie Nazionali di presidio al Palazzo) come un capannello di Popolo accennasse atterrare l'Albero della Libertà in Piazza, e a domandarmi che cosa dovessero fare; ebbero in risposta: « Il Popolo lo ha alzato, il Popolo lo atterri. »

Qui sorge l'Accusa, e rampogna come diretti a combattere la Restaurazione gli apparecchi ordinati durante la notte dell'11 al 12 aprile 1849. — Prima di tutto ella dissimula i Livornesi, non dispersi, ch'è falsità, sibbene da me rimandati a casa; inoltre, nemmeno si studia ad onestare le sue contradizioni, imperciocchè avendo concesso prima, che, quantunque tardi, io mi fossi mostrato propenso alla Restaurazione, quando per le sventure della guerra considerava la tornata del Principe possibile, ad un tratto mutato consiglio, pretende che io l'abbia all'ultimo avversata, quando il moto impresso agli avvenimenti la faceva inevitabile. E così non solo mi trovo accusato di traditore dall'Accusa, non pure qualificato da lei di doppio cuore, non pure convertito in donna; chè adesso attende a dimostrarmi anche matto...

O pazïenza, che tanto sostieni!

Ciò nasce dalla insania di ritenere come diretto alla Restaurazione qualsivoglia atto di reazione e di anarchia; e questo è torto grande, e, a parere mio, ingiuria manifesta alla dignità del Paese e del Principato. — Quando, tolto pretesto dalla persona del Principe o dalla forma del Governo, le vendette private fiutano l'aria come segugi per conoscere s'è il tempo di lacerare, — la calunnia e lo spionaggio tendono trabocchetti agli ufficiali per iscorticarli degl'impieghi, e gli ufficiali minacciati per conservarli si mostrano pronti a vendere trenta Cristi per un danaro solo, — l'astio codardo si affaccia all'uscio socchiuso, celando dietro la schiena la mano armata di stiletto, — la mediocrità velenosa si apparecchia a fare scontare altrui il martirio di sentirsi nulla, — il fanatismo rinfresca la sua fiaccola con la pece e coll'olio, — e la plebe gallonata o cenciosa, strascinandosi alla coda chi presumeva starle alla testa, stende le mani ladre od omicide: — cotesta è reazione. Il Conciliatore ci ammoniva, come questo motivo sarebbe stato Restaurazione popolare di libertà, non Reazione, facendo fede così quanto l'una dall'altra differenziasse; ma quando favellò in simile sentenza il Conciliatore? Il giorno 13 aprile; e sta bene, ed io concedo volentieri, che gli uomini del Conciliatore in quel giorno potessero e dovessero credere così. Nella notte dell'11 al 12, e per la massima parte della mattina del 12 aprile poteva, all'opposto, e doveva temersi, che o tutte o la massima parte delle infamie che compongono la REAZIONE sarebbonsi vedute. L'Accusa, confondendo i tempi, da per sè stessa si confuta: invero ritiene in tutti i suoi Documenti, come nel giorno 12 aprile soltanto si trattasse di Restaurazione; differiscono poi nello indicare in quale ora del 12 questo successo si compisse; chè il Decreto del 7 gennaio, sconsigliato quanto intemperante, lo dichiara compíto allorchè i Membri del Municipio vennero nella Sala delle Conferenze dell'Assemblea. — e la Requisitoria in quel punto lo dice incoato soltanto, e questa sentenza troviamo essere vera. Dalle quali cose apparisce, che i provvedimenti presi nella notte dell'11 al 12 aprile, e nello stesso giorno fino allo apparire dei Membri del Municipio nella Sala delle Conferenze, non potevano contrastare alla opera della Restaurazione, come quella che non era per anche iniziata. I casi del giorno 11 aprile ebbero indole di tumulto popolare suscitato dal conflitto co' Livornesi in Piazza Vecchia; fin lì non ispiega il carattere politico che nel giorno susseguente gli impressero; nessuno lo conduce, o se ne mostra capo. Nè temevo soltanto la reazione in Firenze, bensì anche a Livorno, e altrove, e la temevo come cagione di guerra civile, onde io mi mostrai solertissimo a prevenirla da per tutto.[705] — Però il Guerrazzi non doveva supporre mai, aggiunge l'Accusa, che fossero per nascere scandali, e che tutto si sarebbe composto in santissima pace. — Davvero! E dei Livornesi ch'erano rimasti in città non mi dovevo prendere cura io? Non sono uomini essi? E mi venivano informando parecchi trovarsi nascosti nella Chiesa di S. Maria Novella, nè sapevo che cosa fosse avvenuto di quelli stanziati in Borgo Ognissanti. L'Accusa insiste dicendo: — non v'era mestieri straordinarii provvedimenti; sarebbe bastata la Guardia Nazionale. — Domando con ribrezzo licenza di sollevare un lembo del panno insanguinato, che cuopre quel giorno maledetto.... non vi spaventate.... lo lascio cadere subito.... e perdonatemi ancora, — perchè, vedete, io sono sforzato a difendermi da un'Accusa, che mi rugge d'intorno. Presso il canto al Mondragone in via dei Banchi era allora, e forse havvi anche adesso, una bottega di Vendita di Tabacco; colà, nella sera dell'11 aprile, si rifugiarono tre Livornesi perseguiti da uno stuolo di Veliti, che li chiamava a morte. Zannetti, Generale della Guardia Civica, ordinava lasciasserli stare; vedendo come poco frutto facessero i comandi, pregò supplichevole; lo insultarono, lo ributtarono, ed egli ebbe a fuggirsi via, inorridito, da un luogo, che rimarrà perpetuamente infame per la strage di tre uomini operata a sangue freddo. Il Colonnello Emilio Nespoli, e Paolo Feroni Capitano, a stento salvarono, riparandolo nel Palazzo Riccardi, un giovinetto livornese, che la plebe indracata voleva finire.... Di nuovo scongiuro perdono, e calo il panno. — Quale alba promettesse cotesta orribile notte, lascio che quanti leggono considerino! Onde maturamente esaminando la scrittura dei Giudici ho, per onore della umanità, creduto e credo, che quando essi scrissero le parole: in faccia a questo moto unanime, risoluto, evidente nel suo scopo, la Restaurazione del Principe, non potevano concepirsi mali, che non avvennero; il Guerrazzi richiama nella notte dell'11 la Guardia Municipale per opporla alle mene, egli diceva, diaboliche dei retrogradi, — questi ed altri casi ignorassero: se così non fosse, dovrei deporre sgomento la penna, e piangere su lo abisso di miseria, che opprime la nostra Patria.... Obbrobrio! — Il Ministro dello Interno ordinò la Guardia alle Porte si raddoppiasse; se i campagnoli vi si presentassero in frotta, si chiudessero; grosse pattuglie la città perlustrassero. Il Ministro della Guerra non mancò neppure egli di apprestare opportuni ripari per la difesa della pubblica salute. Nella notte vennero a rammentarmi importare grandemente la Guardia Municipale si richiamasse, ed io ordinai il ritorno di cotesta milizia, come quella che per suo speciale istituto è preposta alla tutela della pubblica e privata sicurezza. Dove io nella mia mente per diaboliche mene avessi inteso il motivo del giorno successivo tendente alla Restaurazione, ed avessi voluto contrastarlo, o come immagina l'Accusa, che mi sarei disarmato di 1600 e più Volontarii Livornesi? Quando l'Accusa ne dimostrerà che i Capitani, licenziando i soldati, si apparecchiano alla battaglia, noi dal nostro canto ci persuaderemo di quello che ci vuole dare ad intendere. Nè questo è tutto; così meno iniqui mi procedessero gli uomini, come mi si mostra il cielo propizio; chè dalle carte medesime raccolte dall'Accusa per offendermi mi viene somministrato argomento di difesa; e di vero, se io durante la notte dell'11 al 12 avessi creduto, che il motivo del giorno 12 per la Restaurazione fosse la mena diabolica che disegnavo prevenire o reprimere, mi si ha a concedere ancora, che delle Guardie Municipali avrei adunato in Firenze il maggiore numero che per me si potesse. Ma no: appunto perchè presagivo d'indole prava i moti temuti, e quindi ristretta, io giudicava bastanti a reprimerli, come altra volta accadde, la Guardia Nazionale, le poche milizie rimaste, e 400 Municipali.

Il Colonnello Solera disegna cavare da Pisa tutti i Municipali per condurli a Firenze; ed io, interpellato dal Prefetto, rispondo:

«Firenze, 12 aprile 1849. Ore 6, min. 55 ant.

«Al Prefetto di Pisa.

«Ritenga i Municipali di Pisa se le sono necessarii. — Bastano gli uomini di Solera; ma vengano presto; ed entri con solennità in Firenze.

« Guerrazzi. »

Lo allontanamento delle milizie livornesi, le cittadine preposte alle Porte e ai luoghi più importanti, dimostrano a chiara prova come un solo pensiero mi dominasse, quello di mantenere l'ordine nella città. Bastevoli gli apparecchi delle poche milizie stanziali e dei 400 Municipali a contenere o reprimere un moto di reazione o di anarchia, insufficienti a contrastare la Restaurazione desiderata dal voto universale, e però evidentemente non destinati contro di quella.

Quanti mi hanno in pratica sanno come per lunga infermità io patisca d'infiammazione intestinale, e sanno altresì in quale stato le commozioni e le fatiche del governo procelloso mi avessero ridotto; però non sarà difficile credere che dopo i successi dell'11 aprile io passassi le ultime ore della notte oltremodo agitato. La mattina più volte tentai levarmi, e proprio non potei; finalmente, non vedendo più venire persona a ragguagliarmi di quanto accadesse, mi sforzai reggermi in piedi, e passando dalle stanze alte del Palazzo, secondo il consueto, entrai nell'Ufficio del Ministro della Guerra signore Gio. Manganaro. Domandai quali provvedimenti avesse preso, e me li disse.[706] In questa sopraggiunge il Colonnello Tommi, che veniva a referire non potere trarre i cannoni in Piazza, perchè mancante di arnesi e di cavalli; parendo a me coteste scuse frivole, osservava che gli arnesi per trasportarne due vi avevano ad essere; e in quanto a cavalli, potersi servire di quelli della Posta. Egli tolse commiato, e non fece trasportare i cannoni; avendolo riveduto verso le tre pomeridiane nello Ufficio del Ministro della Guerra, gli domandai a mo' di scherzo: «Perchè non avete fatto trainare i cannoni in Piazza?» Egli rispose: «Perchè mi parve che non si trattasse di tumulti, ma di moto universale appoggiato dalla Guardia Nazionale, e però non ne vidi il bisogno.» Al che soggiunsi: «Avete fatto bene.» Però si voglia notare di grazia che i cannoni non erano stati punto ordinati da me; e che se io insistei, ciò fu meno per avere i cannoni, che per confutare gli ostacoli che proponeva il signor Tommi, i quali, a vero dire, non persuadevano troppo.

Dopo il Colonnello Tommi entra il signor Diana Maggiore di Cavalleria, domandando ordini precisi su quello che doveva operarsi da lui. Devo confessare che io mi sentiva alquanto indisposto contro questo ufficiale, parendo a me che nella sera precedente non avesse adempito al suo dovere standosene in luogo appartato, mentre i cittadini si laceravano con iscambievole strage; nella quale opinione mi confermava eziandio l'atteggiamento in cui mi era comparso il Capanna, imperciocchè, se questo animoso giovane bene faceva slanciandosi, perchè il suo Maggiore non lo seguiva, o, piuttosto, perchè non lo precedeva? E se il Capanna faceva male, perchè il suo Superiore non lo richiamava? Però io non nego avergli detto un po' turbato: «Quando vede tumulto si cacci tramezzo e divida.» Il Maggiore Diana non rammenta un'altra cosa che gli richiamerò io alla memoria, e non creda già in suo disdoro, ma sì in onore, ed è la sua risposta alle mie parole, la quale fu questa: — lo farebbe, ma desiderare conoscere se la Guardia Nazionale stava per l'Assemblea. — Questa domanda rivela, per mio giudizio, ottimo discernimento nel Maggiore, conciossiachè, dove la Nazionale si fosse mostrata avversa al moto, era a temersi che si presentasse o prendesse indole di reazionario e di anarchico; laddove all'opposto la Nazionale lo avesse secondato e diretto, siffatti timori cessavano, nè doveva contrastarsi. Fermo nella mia opinione, avvegnadio veruna conoscenza di fatti mi fosse giunta per farmela mutare, risposi: «Di ciò stia sicuro; come vuole ella che la Nazionale non difenda l'Assemblea, se lo ha promesso?» Il Maggiore Diana afferma avergli io ordinato di caricare; io nego apertamente essermi valso di cotesto termine; ma supposto che io lo avessi adoperato, ignaro del tecnicismo, — da me, poche ore prima, il Maggiore aveva conosciuto col fatto quello che io mi intendessi per caricare, — dare di sprone ai cavalli, gittarsi inermi colà dove il Popolo si mesce in empia battaglia, strappare ai forsennati le armi di mano, mettere risolutamente in avventura la propria vita per salvare l'altrui.

Parliamo di Bernardo Basetti. Interrogato come testimone, dichiara «che nel giorno 12 mi comparve davanti, e appena lo vidi gli dissi: — In Piazza; — se non che avendo egli considerato quello che vi accadeva, e la probabilità con la sua azione di dare luogo alla guerra civile, formò subito il pensiero di non andare; anzi, al contrario, condurre gli uomini al Quartiere. Solera, protestando non intendersi delle cose nostre, lasciò a lui la cura di fare pel meglio; egli dette ordini rigorosi ai soldati e agli Ufficiali di starsi su la spianata del Convento di San Firenze. Da mano ignota ricevè un biglietto aperto del Guerrazzi, il quale, in sostanza, gli rinnuovava l'ordine di andare in Piazza, ch'egli lasciò inadempito per la ragione già addotta; poco dopo, invitati dal Municipio gli Ufficiali della Guardia a recarsi alla Comunità, vi si condusse col Solera e con altri; — quivi dichiara l'animo suo; è accolto e lodato; — in cotesto riscontro Orazio Ricasoli gli consegna un secondo biglietto aperto del Guerrazzi, il quale, comecchè contenesse le medesime istanze, ottenne il medesimo resultato. Egli ha conservato i biglietti e li conserva tuttora, ed è pronto ad esibirli.» E gli esibisce.

Ora io nego di avere veduto Bernardo Basetti; e non lo nego già per comodo che mi faccia, imperciocchè a me nulla nuoce affermarlo: io lo nego, prima di tutto, perchè tale è la verità, e poi perchè questa verità ridonda a onore della intelligenza e dell'animo del Basetti. No, il Basetti non mi ha veduto, avvegnadio, se così fosse, amico e beneficato da me, mi avrebbe chiarito, dicendo: «Avverti a quello che fai; se pensi opporti a qualcheduno dei soliti tumulti, o reprimere un moto di anarchia, non è questo il caso; da quanto ho veduto in Piazza, e posso giudicare io, la universa città si commuove a restaurare di comune consenso il Principato Costituzionale.» Egli è certo che favellandomi così, mi avrebbe istruito intorno lo stato delle cose, e, adempiendo ufficio di amicizia, alla Patria giovava, ed a me, e forse anche a sè; perocchè, più spesso che altri non crede, l'utile si trova in compagnia dell'onesto; e se non mi voleva procedere amico, il suo obbligo, come Ufficiale, gl'imponeva farmi rapporto di quanto fosse stato considerato da lui, domandarmi che cosa avrebbe dovuto fare in Piazza, in che modo, a quali fini operare; e udite da me le debite spiegazioni, il suo dovere, come Ufficiale, gl'imponeva esporre i pericoli e la impossibilità di eseguire i comandi; e supposto, che tutto ridotto all'acqua chiara, io per ultimo lo incombensassi a tutelare la vita dei Deputati e mia, dal deposto di Bernardo Basetti si viene alla conseguenza, che, per dubbio di effusione di sangue, lasciava con deliberato consiglio, che il nostro certamente si versasse dalla plebe indracata. Giudichi Bernardo Basetti se queste conseguenze del suo deposto gli accomodano: per me, averlo veduto o no torna indifferente; e se lo nego, lo faccio soltanto perchè non è vero.

Mentre io stava tuttavia nelle prime ore della mattina nelle stanze del Ministro della Guerra, mi ragguagliavano come al presentarsi della Guardia Municipale la turba che era stipata in Piazza, e minacciosa, rovesciatasi sopra di sè aveva fatto sembiante di andarsene più che di passo, se non che la Guardia invece di attelarsi s'incamminava ai Quartieri per essere stata presa dall'acqua nel cammino. Allora fu che scrissi i due biglietti intorno ai quali furono mosse sì strane calunnie:

«Firenze, 12 aprile 1849.

«Basetti,

«In Piazza vi sono Veliti, Guardia Nazionale, entra la Cavalleria e l'Artiglieria. — Esca la Municipale, o si cuopre di vergogna.

« Guerrazzi. »

Ministero e Segreteria di Stato della Guerra e Marina. 1º Ripartimento.

«Basetti,

«Prendi il Comando della Municipale: fuori in Piazza a difendere l'Assemblea, e la Patria, e la Libertà, e il tuo amico

« Guerrazzi. »

Col primo lo ammonisco, che stando in Piazza (come credeva) Guardie Civiche e le Milizie stanziali, la Guardia Municipale con la sua viltà sarebbesi tirato addosso un carico grande. Questo biglietto chiaro si comprende essere scritto prima che al Ministro della Guerra si presentassero il Colonnello Tommi e il Maggiore Diana, perchè appaia fondato sul supposto, che la Cavalleria e l'Artiglieria già si trovassero in Piazza. Dopo il colloquio col signor Tommi non avrebbe potuto scriversi con verità; — che se l'Accusa appuntando il dito sotto l'occhio notasse: Tu lo facesti apposta per eccitare il Basetti con lo esempio, — io le risponderei: Tu se' maliziata indarno; imperciocchè l'arte sarebbe tornata vana, essendo egli passato per la Piazza, ed avendo potuto co' proprii occhi vedere se le mie parole erano vere; — posto ancora che per altra via si fosse condotto ai Quartieri, agevole cosa era mandare da San Firenze in Piazza del Granduca qualcheduno che speculasse gli eventi. — Col secondo lo conforto di difendere l'Assemblea, la Patria, la Libertà ed il suo amico; ed anche questo fu scritto nelle stanze del Ministro della Guerra, come ne fa fede la stampiglia impressa sul margine del foglio. Queste avvertenze dimostrano come ambedue i biglietti fossero scritti e mandati innanzi che io scendessi nella Sala delle Conferenze, e così prima che per me si conoscessero le trattative incoate fra il Municipio e l'Assemblea, di operare concordi alla restaurazione del Principato Costituzionale. Apprendo come uno di questi biglietti fosse consegnato aperto al Basetti dal signor Orazio Ricasoli, a cui pure chiusa ed intatta rimisi la lettera sospetta, che mi recò l'ufficiale della Posta; il qual fatto non dissuase il Conciliatore, di Angiolo ad un tratto convertito in Demonio contro di me, nel suo manifesto di guerra del giorno 19 aprile 1849, da mettere a carico mio: « il segreto della Posta non rispettato

Ora, che cosa l'Accusa trova da appuntare in cotesti biglietti? il modo, o il fine? Se il modo; lo so, — quando la stampa di questa mia Patria mi si rovesciava addosso come calcina viva sopra corpo morto, prevalendosi del mio silenzio costretto, e nella speranza di consumarmi moderatamente fino le ossa, vi fu chi scrisse avere io ordinato a Bernardo Basetti di trarre sul Popolo; onde coscienza punse cotesto uomo, e non patì che si facesse tanto disonesto strazio di tale che gli fu amico, lo aveva beneficato, e adesso non si poteva difendere; e pubblicò con le stampe, calunnie essere quelle voci.[707] Di vero poteva io mai dare questo empio ordine? La sera precedente mettevo a cimento la vita perchè cessasse la strage fraterna, e poche ore dopo la comando? L'11 aprile strappo le armi ai cittadini, per riporle in mano loro il 12, e aizzarli a fare sangue? Preoccupato da tremenda ansietà, nel giorno 11, non mi do pace finchè la città non è sgombra di Livornesi onde i lugubri scontri non si rinnuovino, nel 12 li cerco e li provoco? Nei giorni 10 ed 11 scrivo al Prefetto Landi, conforme la Sentenza della Corte Regia di Lucca, del 4 giugno 1850, riporta: «Attesochè avvertisse il Guerrazzi al Landi, con i suoi Dispacci de' 10 e 11 aprile, come lasciare nemici dietro, mentre la milizia era ordinata a recarsi alle frontiere non fosse prudenza, e come avrebbero ottenuta lode per parte degli amici e dei nemici adoprandosi alla difesa esterna, come per la sicurezza interna, e conseguentemente gl'ingiungesse di operare il disarmo, di procedere ad arresti senza rispetto, meglio essendo, siccome egli litteralmente si esprimeva, di arrestare e disarmare che dare l'esempio più tardi di mutue stragi.» E mentre a Lucca aborro la strage, e la prevengo, qui a Firenze dopo breve giro di tempo l'amo, e la cerco? Mi si dieno gli Archivii, odansi (non come chi ha paura del vero, quasi fosse una di quelle visioni notturne che mettono il tremito nelle ossa, bensì come chi lo ama al pari di una benedizione) i miei Segretarii, eziandio quelli rimasti in carica, e conoscerete qual cuore, quali ordini fossero i miei. Dunque l'Assemblea, la Patria, la Libertà, e l'amico, non si difendono con altro che con le morti? Quando difesi la vita dei cittadini, allagai di sangue la piazza? L'amico sa difendere l'amico anche esponendo il proprio petto per lui, ma ahimè! queste cose non sapeva Bernardo Basetti. Il vanto (e gli parve tale!) del Basetti di non essere uscito in piazza per timore di accendere la guerra civile ha dato fondamento all'Accusa; cotesto vanto è insensato: ma che importa ciò all'Accusa, che di ogni campo fa strada nella sua persecuzione? Dunque, e in quel giorno e poi, la Guardia Civica doveva astenersi dalla difesa dell'ordine pubblico e della privata sicurezza, per sospetto di guerra civile? Il Colonnello Nespoli, che pure non mi era amico, quando mi offerse scortarmi e tutelarmi con una compagnia di Guardia Nazionale, commetteva atto di guerra civile? Per timore che possa correre sangue, lascinsi esposti a morte certa rispettabili cittadini..... alla belva plebea si dieno non contrastato pasto! — Ma voi non avevate mestiero difesa, ammonisce l'Accusa, poichè ogni cosa avvenne con modi soavi. — Eh! via, apprenda verecondia l'Accusa; queste cose non possono dirsi, nè devono, da chi fa professione di verità. Lascio di rammentare gli atroci avvenimenti del giorno innanzi; non torno ad avvertire che in quel punto quale carattere potesse assumere la sommossa ignorava, e dagli esordii io doveva presagirla nefandissima ed empia. Si esamini pure il moto quando gli dettero forma e direzione; coloro che se ne posero a capo giunsero forse a contenerlo sempre nei confini desiderati? Non rimasero talora atterriti degli elementi che si confusero con essi? I nuovi amici piacquero loro tutti? Le opere di quei giorni approvarono tutte? Per me so, e ne depongono i testimoni, che la plebe, dopo avere spiantato gli Alberi che aveva piantato, venne per irrompere nell'Assemblea e manomettere i Deputati; per me so che fece forza al Palazzo Vecchio, prima e dopo che vi avesse tolto stanza la Commissione Governativa; io so, che da gente prava fu spinta, per buona parte della notte, plebe avvinata ad aggirarsi intorno alla mia dimora, come lupo nei giorni di neve, a urlare: morte! morte! — io so, che il giorno 13 aprile una torma di villani con falci, e vanghe, e zappe, invasero i cortili del Palazzo Vecchio gridando la parte, a modo di musicanti venuti a farti la serenata sotto ai balconi: Morte al Guerrazzi! Morte al ladro! Morte all'assassino! con altre più cose che io non ho ritenuto a mente, come sembrava, pur troppo, che bene avessero appreso a ritenere costoro. Queste dimostrazioni di esultanza non furono già del tutto buccoliche, come va idilieggiando l'Accusa, dacchè il Prefetto provvisorio Pezzella, nel Proclama del 14 aprile 1849, bandiva:

«Peggiore ed altrettanto deplorabile cosa ella è, se trasmodi fino a recriminazioni di Partiti, violenze alle persone, e guasti alle proprietà.

«Se infelicemente sia ciò in qualche parte accaduto, confido che non sarà mai più.»

E noi sappiamo quanto nei Documenti officiali si limino e aggarbino le espressioni, per modo che dicono mille volte meno di quello che veramente sia; nè tardarono uno istante a mostrarsi gli avvoltoj: «i quali, — come c'istruisce Ferdinando Zannetti, — mossi, più che da leale affezione di Partito, da invidie ed animosità particolari, immaginano secrete macchinazioni per dare a credere misteriose trame, designando intanto le persone su le quali a sfogo di rancore vogliono proclamati arresti, esilii ed altre coercizioni.»[708] La Reazione comparve subito e sopraffece le buone intenzioni (perchè non dubito punto che la Commissione e il Municipio si proponessero a scopo il ristabilimento dello Statuto, e la preservazione della Patria dalle armi straniere), se al grido della plebe di: Viva la Monarchia, fu mestieri che la Guardia Nazionale aggiungesse: « Costituzionale;» e all'altro: Viva la Restaurazione: «con libere istituzioni[709] e più apertamente parlando il lealissimo uomo, nella lettera che scriveva al buon Pietro Bigazzi: «Nei momenti attuali — tu non devi negare i ripetuti gridi: Morte ai liberali ec.»[710]

Dunque pel modo non furono esorbitanti i miei ordini, nè capaci a fare nascere guerra civile, come opina Bernardo Basetti, il quale da un lato s'ingegna onestare la disobbedienza, e lo abbandono; dall'altro, farsi merito presso il nuovo Governo: senonchè la toppa appare più trista dello sdrucio, e per cuoprire una cosa brutta ne dice quattro assurde; e l'Accusa, poichè le giovano, piglia anche le assurde, e con obliquo scopo palesate, e me lo appunta al petto come Lanzo alabarda.

E se non ponno biasimarsi gli ordini miei pel modo, molto meno si vorranno riprendere pel fine, dacchè io non lo chiamavo alla difesa di una forma determinata di Governo, bensì dell'Assemblea, la quale doveva in breve pronunziare in modo civile, e con voto del pari che con universale contentezza (e lo abbiamo veduto) la restaurazione del Principato Costituzionale; — però l'Accusa pare che trovi eziandio essere delitto difendere la Patria; e ritiene ogni atto mosso a questo scopo santissimo, ostile alla Restaurazione: sul quale proposito io devo avvertire, che se l'Accusa non sentì vergogna a incriminare, io provo quanto farei ingiuria al pudore spendendo pure una parola a difendermi in questa parte; e lo stesso dicasi della Libertà, — e fermamente, credo che a non pochi Magistrati palpiteranno più frequenti i polsi udendo come nei Tribunali Toscani la difesa della Libertà suoni misfatto; e se Libertà sapessi in che e come differisca dalla licenza, per qual modo si custodisca e con quali argomenti si difenda, voi tutti conoscete a prova; — finalmente dopo avere pensato alla Rappresentanza del Paese, alla Patria e alla Libertà, parmi possa essere concesso di pensare un poco anche a sè. Comprendo benissimo come l'Accusa aggravandosi sopra il mio capo mi ha tenuto in conto di un ghiabaldano, di cui i nostri antichi per proverbio dicevano: che ne davano trentasei per un pelo di Asino;[711] ed io quantunque presuma di me poco, pure anche in questo non mi accordo con l'Accusa, essendo la propria conservazione di Natura; e intorno a me educai creature, che amo e che mi amano, che piangerebbero e soffrirebbero per la morte mia.... Ami tu qualcheduno, Accusa? — Supposto che tu l'ami, troverai doverti conservare meno per ragione del diritto, che per l'obbligo di non partirti o lasciarti strappare dalla vita, finchè le tue creature non sappiano aiutarsi da per sè stesse nel mondo. — Vero è però, — e in questa parte sarei tentato di dare ragione all'Accusa, — vero è però che, o lasciassi libero il freno alla plebe indracata, e avvinata e pagata, o mi commettessi alla fede di gentiluomini cristiani, poco divario è corso, perchè la prigionia assomiglia alla morte, in ispecie per la educazione dei figli, o delle creature insomma che si amano... ma allora io credevo, che differenza ci fosse!

Rimane a vedere se io potessi confidare in questa prova di amicizia sviscerata per la parte di Bernardo Basetti, e parmi di sì; imperciocchè non v'era mestieri che fosse sviscerata, anzi bastava mediocre; e neppure, se ben si considera, amicizia bisognava, ma sentimento di dovere e semplice gentilezza. Il signore Emilio Nespoli, e l'ho detto, per bene due volte, venne ad avvertirmi di pormi in salvo, e offerse mandare verso il Prato una compagnia di Guardia Nazionale a tutelarmi, comecchè non mi stringesse seco vincolo di amicizia. Ora è da sapersi avere io conosciuto Bernardo Basetti nel 1830 a Montepulciano, dove mi fu cortese di buoni ufficii e di consolazioni, onde me gli attaccai con amore, parendomi forte e generosa natura: provò fortune diverse, e le contrarie forse non senza colpa sua; me ebbe in tutte uguale; esulò, tornò, e molto mi affaticai presso i suoi creditori, affinchè quieto lo lasciassero stare in Toscana, e l'ottenni; però non sembra che la vita volgesse troppo gioconda per lui, dacchè mi scrisse lettere ortatorie, quando fui assunto al Potere, di accomodarlo di qualche impiego, e segnatamente nella Guardia Municipale che stava sul formarsi in Firenze, sentendosi, sia per la perizia acquistata nell'Algeria nelle cose militari, sia per la operosità naturale, sufficiente ad esercitarlo, onde io gli conferii dignità e soldo di Capitano, e di grado in grado quello di Comandante supremo; se non che, non gli parendo essere bastevole a tanto ufficio, me lo confessò modesto, ed io onorevolmente, e secondo il suo genio, lo collocai. Non basta: consentii che impiegasse nel Corpo medesimo un giovane che ei teneva in parte di figlio. Aveva eziandio due fratelli onestissimi, Agostino e Ferdinando; e raccomandatimi entrambi, il primo conseguì impiego, all'altro pensava provvedere quando me ne capitasse il destro. Io so che parlando del fratello Bernardo gli affliggo, e Dio sa se anche me attristo; — scusimi appo loro non poterne fare a meno, e il modo discreto col quale io ne parlo. — E non è tutto ancora: nel 19 novembre 1848 lo mando Capitano provvisorio della Municipale a Livorno;[712] non accettato costà, Pigli, compiacendo alle intemperanze popolari, lo respinge a Firenze.[713] Per l'offesa dello amico, turbato, senza porre tempo fra mezzo domando informazioni del fatto.[714] Il Governatore Pigli risponde nel modo seguente:

«Al Ministro dello Interno.

«Fino da ieri sera si conosceva pubblicamente il desiderio di molti di avere qui il Capitano Roberti. Nella dimostrazione fatta ieri a favore dei Deputati, benchè poco numerosa, un cartello diceva: Viva il Roberti, Capitano della Municipale di Livorno. E già si sapeva che egli era partito per Firenze. Gli Ufficiali chiamati da me furono, ieri sera, presentati a Basetti con gradimento reciproco. Fu fissato che stamani all'appello del mezzogiorno si sarebbe presentato alla Compagnia. Stamani i rapporti verbali dei tre Ufficiali, fatti a me, assicurano che il Capitano Basetti presentandosi avrebbe avuto una dimostrazione contraria; che la presenza del Governatore l'avrebbe potuta mitigare forse, ma non impedire; che quanto allo scioglimento era pericoloso, per essere quasi tutti concordi, in ispecie i graduati: doversi riflettere che sono tutti armati e hanno molti aderenti a favore di Roberti nel Popolo. In questo stato di cose ho creduto savio consiglio, senza farne sentore alla Compagnia, far partire il Basetti, che referisse a viva voce: il quale ha di buon grado aderito alla proposta. Prego a riflettere come sia pericoloso l'impegnarsi a cosa che non siamo certi di poter sostenere.

« Pigli.»

Voi lo vedete: Basetti cede il campo; Pigli, con partiti che gli sembravano cauti, ed erano vili, insinua a lasciarlo offeso. Geloso dell'onore del Basetti più di quello ch'egli se ne mostrasse, odasi un po' come lo sostenessi io:

«Al Governatore di Livorno.

«Guerrazzi e Montanelli mandano al Governatore che ordini la rivista della Municipale, e dica in nostro nome che il Basetti ha da essere il Capitano, perchè nostro amico e uomo di nostra fiducia. Che Roberti deve stare qua, che noi non soffriamo soverchierie, e ci dimettiamo piuttosto, lasciando alla Municipale l'odio della sua resistenza. Che se credono di strascinarci per il collo, s'ingannano per Dio. Il Governatore eseguisca gli ordini, e avverta che, così procedendo le cose, ritenere il Governo è una vergogna, un insulto. Intanto se la Municipale continua nel sistema di ribellione, si sciolga e si sospendano le paghe. Così vogliamo; queste sono vergogne, e bisogna che cessino. Gli Ufficiali e tutti quelli che si mantengono fedeli alla libertà vengano a Firenze. La Caserma si chiuda. Risposta subito.

« Guerrazzi.»

Mi sembra che da me non si potesse dare a Bernardo Basetti prova più alta di amicizia oltre quella di mettere a repentaglio per lui perfino la mia carica, e questo perchè lo stimo amico mio e persona di fiducia. Quindici minuti dopo pongo da capo in moto il telegrafo, indicando la via da seguirsi onde ottenere il fine desiderato:

«Al Governatore Pigli.

«Chiamate Fabbri, Lauri, Notari, Betti, e Frediani e altri, e dite loro che il Ministero è disposto a sciogliere la Municipale, a dimettersi anzichè lasciarsi imporre dalla Municipale stessa. Però usino tutti la loro influenza a farla vergognare dell'enormezza commessa. Domani vengo col Basetti. Arte, prontezza e vigore. I Livornesi si lasciano guidare, ma da mani non deboli. La Cecilia torna contento. Sua Altezza ha approvato. Risposta subito.

« Guerrazzi.»

Pigli obbedisce, e annunzia:

«Al Ministro dello Interno.

«Sentite le persone indicate nel Dispaccio Ministeriale, ci siamo presentati alla Guardia Municipale, riunita, e in considerevole numero, Fabbri, la Cecilia, i Consiglieri, ed io. Ho incominciato a parlare parole di fiducia per prendere ad annunziare alla nomina del Capitano provvisorio Basetti, il quale domani prenderà il Comando della Municipale. Le contestazioni e opposizioni, per quanto presentate con rispetto, sono state molte. È stato detto che promosso il Capitano Roberti, si deve procedere per la stessa via di ragioni, e promuovere gli Ufficiali nella Compagnia. Ha detto alquante parole il Gonfaloniere, molto più e più efficaci La Cecilia, spontaneamente intervenuto. Io finalmente ho concluso che la nomina del Basetti non distrugge i titoli ed i diritti di alcuno, e che il Governo nella sua imparzialità e giustizia saprà tutti proteggere e rimunerare secondo il merito. Siamo partiti in mezzo agli applausi. Basetti venga e sarà ben ricevuto. Il resto al tempo e alla saggezza del Governo.

« Pigli.»

Ed io prometto il giorno successivo recarmi in Livorno conducendo meco Bernardo Basetti, fino alle lacrime commosso del come voglia e sappia proteggerlo.

«Al Governatore di Livorno.

«Si lodi la Municipale. Quante volte si mostrerà obbediente alli ordini del suo creatore avrà diritto alla sua particolare considerazione. Roberti non è promosso. Basetti non è Capitano definitivo, ma provvisorio. Tutta la Guardia dovrà essere definitivamente approvata dal Consiglio. Ho passato una cattiva giornata. Domani sera io sarò in Livorno con Basetti. A ore dieci passerò la rivista in Caserma della Municipale. Viva la Municipale fedele alla libertà, nemica della licenza.

« Guerrazzi.»

Trionfante entrò Basetti nei Quartieri dond'ebbe poco anzi a partirsi con fronte dimessa, e finchè stette a Livorno l'onorarono ed amarono; ed anche si dica a lode di lui, seppe farsi rispettare ed amare.

Per le cose esposte io pensava trovarmi un cotal poco fondato ad aspettarmi da Bernardo Basetti una prova di amicizia; se non voleva ricordarsi a quell'ora essermi amico, io doveva credere ch'egli avrebbe eseguito il mio ordine, se avesse potuto farsi umanamente ed efficacemente; e se no, mi avrebbe ragguagliato con fedeltà come a probo Ufficiale appartiene; se infine le parti di amico e di Ufficiale volle dimenticare, non dovevo credere ch'egli avrebbe posto mai in oblio quelle di uomo, che non consentono (nella folle speranza di proprio comodo) pronunziare assurde opinioni; delle quali l'Accusa, intenta solo a nuocere, si varrà per fabbricarvi sopra assurde e futili incolpazioni, è vero, ma rincrescevoli sempre, non fosse altro per avermi dato il fastidio di spendere tante parole a dimostrare la stolidità e malizia loro.

Non mi comparendo davanti il Ministro dello Interno, nè il Prefetto, ignaro dello stato delle cose m'incammino alla Sala delle Conferenze, dove seppi adunata l'Assemblea. Ora sentiamo raccontare dal Professore Taddei, Presidente, quello che, a mia insaputa, era successo nella prima parte della mattinata. Il Municipio desidera unirsi all'Assemblea per proclamare la Restaurazione, come senno e amore vero di Patria persuadevano; però... ma parli il labbro del vecchio illustre: «Mi rammento che il signor Giuseppe Martelli venne a cercarmi nella Camera stessa, ed a pregarmi di volere secolui recarmi al Municipio: io aderii immediatamente, e trovati poi in una carrozza i signori Ricasoli e Cantagalli, vi montai; c'incamminammo uniti al Palazzo Riccardi per condurre insieme con noi al Municipio il Professore Zannetti. Radunati tutti al Municipio, e trovatici unanimi ad operare ognuno dal suo canto per restaurare la Monarchia Costituzionale, non rimase altro da fare, che mettere d'accordo l'Assemblea e il Municipio, nello stabilire il modo col quale legalmente e dignitosamente si potesse soddisfare al desiderio di tutti. Due del Municipio, e segnatamente i signori Digny e Brocchi, si recarono nella Sala delle Conferenze, in qualità di Commissionati dello stesso Municipio per comprovare quello che già aveva io referito, e devenimmo alla stesura di concisa Notificazione, la quale fu letta e ratificata dai Commissionati suddetti, ed immediatamente spedita ai torchj[715]

Il Proclama fu questo:

«Toscani! L'Assemblea Costituente Toscana si dichiara in permanenza. Essa prenderà, d'accordo con la Guardia Civica e col Municipio, i provvedimenti necessarii per salvare il Paese.

«Firenze, 12 aprile 1849.

« Taddei Presidente.»

Mentre l'Assemblea da una parte adempiva la promessa, come tra gente onesta si conviene, dall'altra prevalevano nel Municipio consigli pessimi; e fatto nuovo partito, i suoi Membri statuiscono mancare di parola all'Assemblea, e disprezzato il Collegio nella sua rappresentanza, come nelle singole persone dei Deputati, senza neppure avvisarlo di volere procedere soli, e, se bisognasse, avversi nel disegno fermato, — quasi per ardere le carra, e non dare luogo ad ammenda, stampano un Proclama, ed in fretta lo appiccano su pei cantoni. In questa sentenza quel Proclama bandiva:

«Cittadini,

«Nella gravità della circostanza, il vostro Municipio sente tutta la importanza della sua missione. Egli a nome del Principe assume la direzione degli affari, e si ripromette di liberarvi dal dolore di una invasione.

«Il Municipio in questo solenne momento si aggrega cinque cittadini che godono la vostra fiducia, e sono:

«Gino Capponi, «Bettino Ricasoli, «Luigi Serristori, «Carlo Torrigiani, «Cesare Capoquadri.

«Dal Municipio di Firenze,

«Li 12 aprile 1849.

«Per il Gonfaloniere impedito

« Orazio Cesare Ricasoli Primo Priore.»

Di questo Proclama del Municipio, di cui taluno aveva portato frettolosamente novella all'Assemblea, si facevano accesi ed amari discorsi, quando i signori Digny, Brocchi e Martelli tornarono nella Sala delle Conferenze. Questa è la scena che il Visconte D'Arlincourt, togliendola di peso dal Duca di Ossuna del nostro Federigi, ha inserito nella sua Italia Rossa, nella quale il Conte Digny, nobile e fedele realista, spalanca la porta ed intima la sedicente Assemblea a ritirarsi. Però hassi a notare, per rendere unicuique suum, che l'attributo di sedicente non appartiene proprio al Visconte D'Arlincourt, ma al Brocchi, il quale se ne compiace così, che per bene due volte nel corso del suo esame lo viene ripetendo. Ed è poi strana a considerarsi quest'altra cosa, che il Conte Digny ha protestato contro la qualificazione di nobile e fedele realista, che a parere mio non fa torto, allorchè nasca da convincimento coscienzioso, o da personale affetto, mentre contro il pubblico grido, che lui accusa di fede tradita, è stato cheto come olio. E di vero, l'apparizione del Conte era tutto altro che nobile, conciossiachè versasse in questo: il Municipio volere rompere i patti, anzi averli rotti; l'accordo invocato prima con l'Assemblea adesso respingere; aborrirla compagna, dichiararla nemica; si disperdesse, lasciasse operare da sè solo il Municipio. A tanta slealtà, non è da dire se si levassero, e a ragione, amari richiami. E prima di ogni altro il Presidente Taddei, a cui pareva, com'era vero, che di lui e della sua onoratezza si fosse fatto bindolissimo giuoco. — Accesi, e meritamente, sopra gli altri si mostravano i Deputati signori Ciampi e Cipriani, i quali (sempre si abbia presente questa avvertenza) non offesi già dalla proposta di Restaurazione da operarsi d'accordo col Municipio, che annunziata testè dal Professore Taddei era stata da loro accettata, bensì dalla brutta mancanza di fede, esclamarono, che bisognava arrestare il Municipio fedifrago. E poichè il Conte rispondeva con petulanza molta e senno poco, io mi posi in mezzo alla disputa favellando in questo concetto: «Voi fate una Rivoluzione;[716] onde non partorisca le conseguenze che le sono ordinarie, procurate unire a voi quanti maggiori consensi potete; non rigettate quelli che vi si offrono.» E siccome il Conte rispondeva con petulanza molta e senno poco, aggiunsi: «Voi meritereste essere arrestato!»

L'Accusa, come vedemmo, sostiene che io mi opposi alla incoata Restaurazione, minacciando prima e intimando poi l'arresto dei signori Digny, Brocchi e Martelli, che venivano ad ammonirmi di non volere opporre ostacoli alla iniziata opera loro. Il più lieve rimprovero che possa farsi all'Accusa, è ch' ella non sa quello che si dice. E la ragione apparisce evidente: suppongasi vero tutto quanto afferma l'Accusa; concedasi per un momento la minaccia e la intimazione dell'arresto; sembra che, per accusare l'uno atto e l'altro come avversi alla Restaurazione, dovesse ricercarsi la causa che gli motivarono. Ora è provato per dichiarazione di coloro che di queste minaccie depongono, come non muovessero già da opposizione; al contrario, dal volere l'Assemblea esclusa da cooperare al ristabilimento della Monarchia Costituzionale, e più poi dalla tradita fede, dopo essere stata a questo fine ricercata dal Municipio, e dopo essersi posto secolei pienamente d'accordo.

In qual guisa i Commissionati del Municipio potevano condursi a intimare l'Assemblea di non opporsi alla incoata Restaurazione, se, ricercata poco anzi, aveva consentito? Se a questo fine aveva stampato un Proclama? Se anche sul tenore del Proclama avevano convenuto?

Onde il tribunale della Coscienza Pubblica giudichi fra me e i miei Giudici, è di mestieri esporre le prove che l'Accusa ha raccolto, e certo non in benefizio di me. Il Professore Taddei così depone: «Gli stessi Deputati (che come Commissionati del Municipio avevano letta e approvata la Notificazione dell'Assemblea, Digny, Brocchi e Martelli) ritornarono a dire che la fusione dell'Assemblea col Municipio non era compatibile (dopo averla ricercata!). Questa risposta non poteva a meno di dispiacere — oltre a mancare di lealtà verso di me, e verso gli altri[717] L'Avvocato Panattoni dichiara, che udì lamenti.... sopra un malinteso, che pareva nato a motivo di non avere il Municipio secondati certi accordi che dicevansi passati col signor Presidente Taddei, e che resultavano ancora da un Manifesto stampato. — Il signor Venturucci (avvertasi, che sopra questo testimone l'Accusa fonda la incolpazione dello intimato arresto ai Municipali) depone come i signori Conte Digny, Brocchi e Martelli, si scusavano di avere pubblicato il Manifesto del Municipio (ed era ragione che si scusassero), e promettevano di andare d'accordo con l'Assemblea, e combinare. E Guglielmo Conte Digny, che tanto poco e tanto male le più volte rammenta, nondimeno su questo proposito dichiara: «È un fatto, che tanto lui ( sic ) che tutti quelli, che volevano indurre il Municipio a concertarsi coll'Assemblea, si appoggiavano specialmente sulla osservazione, che il Municipio di Firenze aveva bisogno di appoggio dei Rappresentanti di tutte le Popolazioni toscane per essere riconosciuto da esse. E fu dietro questa idea che furono redatti ( sic ) i progetti di Proclama di cui ho parlato. Anzi uno di questi progetti era redatto fino dalla mattina da uno dell'Assemblea.»

Non è pertanto vero, anzi è turpemente falso, che alla restaurazione del Principato Costituzionale mi opponessi, quando facevo sentire la necessità di riunire il consenso universale, e per atto immediato al partito preso dal Municipio fiorentino; è vero, all'opposto, che la breve disputa nacque dal rifiuto dell'adesione dell'Assemblea, che il Municipio faceva, dopo averla richiesta, e accettata. Ed ho creduto allora, e fermamente credo adesso, che in cotesto modo operando bene meritassi della Patria. Con l'adesione dell'Assemblea si sarebbe tolto al partito la indole di municipale che mostrò negli esordii, indirizzandosi perfino col primo Proclama il Municipio Fiorentino ai soli Fiorentini. Con l'adesione dell'Assemblea, i fattori del 12 Aprile non avrebbero avuto a deplorare nel giorno 16 aprile la esitanza di alcuni Municipii,[718] nè nel giorno 24 la resistenza di taluni alla manifestazione dello spirito pubblico, e si sarebbe per essi ottenuto veramente quel voto universale che avrebbe blandito gli animi e consolate le memorie.[719] Con l'adesione dell'Assemblea, Livorno si sarebbe sottomessa, e quindi tolto via il pretesto come la necessità di chiamare armi straniere. Con l'adesione dell'Assemblea, non era mestieri appoggiarsi su le forze che somministrava la Reazione, le quali trassero il Municipio e la Commissione aggiunta, repugnanti certo, ma obbedienti allo impulso della necessità, oltre ai confini stabiliti. Con l'adesione dell'Assemblea, non veniva nel Municipio e nella Commissione aggiunta la paura, e con essa la infelice compagnia di esilii, di carcerazioni, di famiglie disfatte, e di sventure che ormai mano di uomo non può riparare, e quella di Dio può consolare soltanto. Con l'adesione dell'Assemblea, il Municipio e la Commissione molte morti che ci hanno contristato potevano evitare. Con l'adesione dell'Assemblea, voi non avreste avuto bisogno di giostrare meco con la lancia di Giuda.

Voi, usurpando il mio disegno, voi, ritorcendo contro me ingratamente gli apparecchi con tanta fatica e tanto pericolo condotti a termine, quasi finale, avete guasto il presente e l'avvenire; poichè avvertite, che qui considerato e qui fu scritto, come le commozioni popolari fossero di augumento a Roma, avvegnadio colà con una legge si concludessero, mentre partorirono la perdizione di Firenze, terminando quaggiù con offesa nelle persone e negli averi.[720] Quando, falliti i vostri disegni, gittaste un grido, voi nol voleste confondere col gemito universale; anche in quello voleste lasciare una memoria di superbia e di odio: «Se gli avvenimenti del 12 aprile dovevano avere questa conchiusione, meglio era che non fossero accaduti, e che coloro, che condussero la Toscana a questa dura necessità, fossero gli attori di questa ultima parte del Dramma ignominioso[721] I Parti ferivano fuggendo; voi mordete spirando: e pure, invece di mordere me, offendete voi stessi: infatti qui sta appunto la condanna vostra; se voi non eravate certi di fare meglio di me, se l'opera di Parte non vi ha procurato meno triste sorti di quelle che andavate predicando sarebbero uscite dalle mie mani, dovevate lasciarmi fare. Però io non dimentico, nè tampoco voi stessi dovete obliare, che me giudicaste degno di salvare quel più si potesse dell'onore e della indipendenza nazionale; me animaste ad usare per la salute della Patria i mezzi che la esperienza mi avrebbe saputo consigliare più opportuni ed efficaci; me confortaste a perdurare nella impresa, offrendo il soccorso e il concorso dei poteri municipali.[722] Sono questi essi i concorsi vostri? È questo il sapore dei vostri soccorsi? Perchè dopo avermi tradito mi avete oltraggiato? E perchè dopo avermi onorato mi avete detto obbrobrio? — Ma poco importa essere rigettato da voi; a me basta, che non mi repudii il Paese, e mi conservi la benevolenza che io spero non essermi demeritata.[723]

Ma non è da voi che mi tocca adesso a difendermi; bensì dall'Accusa, a cui mi avete consegnato nell'orto.... voleva dire nella Fortezza di San Giorgio. Ora che ho dimostrato come la minaccia e la intimazione dell'arresto, quando pure fossero avvenute, avevano lo scopo diametralmente opposto a quello finto dall'Accusa, io dimostrerò che non sono, e non possono essere vere.

Tre sono (e pare impossibile!) i deposti sopra i quali fonda questa incolpazione l'Accusa. Primo è Digny, succede Brocchi, viene ultimo Venturucci. Io non dirò come i due primi, così facendo, tentano onestare il tradimento di cui mi dolgo; non osserverò che mendaci sempre con gli altri, e il primo lo è quattro volte con sè stesso sopra un medesimo punto; non dirò nemmeno che ambedue confusi, perplessi, contradittorii, sono costretti (per paura di sentirsi rimproverare dallo stesso Ministro processante) a ripetere, — il primo fino a quattro volte, — che non sa, non ricorda, ha perduto la memoria dei particolari, — forse egli, forse altri s'inganna, — e tali altri rifugii per cui si rendono da per sè stessi spregevoli assai più che altri non potesse fare; — tutto questo, e non è poco, passeremo; confrontiamo i deposti:

« Digny. — Nacque fra noi e parecchi di loro una discussione viva e confusa intorno al Proclama già pubblicato dal Municipio, col quale annunziava assumere a nome del Principe la direzione dei pubblici affari. Io non rammento con sufficiente precisione i dettagli (sic) di cotesta discussione; — solo mi sovviene che il signor Guerrazzi rivolgendosi agli adunati diceva: — Voi avete fatta una Rivoluzione, — e per poco che le cose sostassero, e che piacesse agli adunati, egli ne avrebbe fatto arrestare i Componenti, i quali designava con le parole: questi Signori; per il che io non posso asserire s'egli volesse intendere tutti i Componenti del Municipio, o la Deputazione quivi presente. A queste parole sollevavasi una certa confusione fra i presenti, ma, domandata la parola da me e dal Brocchi, facemmo successivamente intendere, che le conseguenze di un passo simile sarebbero state gravissime, e ricadute su le persone di chi le avesse ordinate ( sic ), per cui sorsero proposizioni di conciliazione, e una deputazione si formò che ci accompagnò al Municipio.»

« Brocchi. — Rapporto ( sic ) al primo incontro, noto la circostanza che l'Avvocato Guerrazzi, rimproverando al Municipio di andare a promuovere la guerra civile, disse: — che sarebbe stato capace di fare arrestare tutti i componenti del Municipio. Il Dottore Oreste Ciampi e il Professore Emilio Cipriani, presenti, insistevano che si arrestassero quei Componenti del Municipio, che allora nella Sala si trovavano, ed io ed il Conte Digny replicammo, che ponessero mente a tale arresto.» E più oltre da capo: «questa proposizione volevano si portasse all'atto il Dottore Ciampi, e il Professore Cipriani.»

« Venturucci. — Mi rammento benissimo che Guerrazzi alzatosi in piede, e con veemenza, disse queste parole: — Signori, voi avete fatta una Rivoluzione; voi vi rendete responsabili delle conseguenze che ne possono derivare. Sì, voi avete fatto una Rivoluzione, ed io sarei capace di farvi arrestare tutti: anzi, siete tutti in arresto. Cui Digny replicò: Signori, pensino a quella che fanno: — faceva riflettere di più all'Assemblea non essere in numero sufficiente per deliberare, che ormai era evidente qual piega prendevano le cose. — Il signor Guerrazzi mutò tono, e con voce calma parlò con quelli del Municipio, che si scusavano di avere pubblicato un Manifesto, e dichiaravano essere pronti a mettersi d'accordo con l'Assemblea, e di concertare le cose

Ora questa intimazione di arresto non può essere vera, perchè me ne mancava l'autorità, e me ne mancava il potere. Mi mancava l'autorità per queste ragioni: il fatto del Presidente dell'Assemblea, confermato dai Deputati presenti, di unirsi al Municipio per provvedere alla salute della Patria, mi aveva tolto il mandato di Capo del Potere Esecutivo; e così ritenni, e così dissi; vedremo più tardi quando il Municipio andava in cerca di un pretesto per onestare la sua brutta azione, e non l'aveva ancora trovato, fare annunziare che a me repugnante aveva svelto di mano il potere: ma poi, considerando ch'ella era questa troppo grossa bugia, variò con l' arresto; la verità è, che io con animo lietissimo appresi la novella di essere esonerato da tanto carico, e che fino dalla sera precedente aveva dettato una renunzia spontanea, la quale deve essersi trovata nella stanza che occupavo in Palazzo Vecchio.

Mancavo di potere immediato, perocchè, verun corpo di guardie stanziando alla Camera, dove io non avessi preteso stringere con una mano sola i tre colli dei Municipali, non si sa davvero comprendere come gli avrei potuti arrestare; e se non avevo armi allora, peggio era da aspettarmi nel seguito, dacchè, trovato modo in mezzo a cotesto trambusto d'interpellare il Generale Zannetti intorno alle disposizioni della Civica, n'ebbi in risposta: nella massima parte sembrargli decisa ad appoggiare il Municipio.

Da siffatta scienza, in quel punto e non prima di allora acquistata, — insieme alla ignoranza di cotesto caso, espressa parlando al Maggiore Diana, e scrivendo al Maggiore Basetti, — non meno che dalla contemporanea notizia del convenuto fra l'Assemblea e il Municipio di concertare le provvidenze per la salute della Patria, imparai che mi era stato ritirato il potere, e che ormai poteva sperarsi che ladronecci non sarebbero successi, omicidii non rinnuovati; insomma il motivo, temuto reazionario ed anarchico, diventava politico, e tendente al fine, che fra tre giorni ancora, in virtù di solenne deliberazione dell'Assemblea Costituente, avrebbe conseguíto pacificamente il Paese.

Esaminiamo i tre deposti. — Quello del Conte accenna a cosa non presente, bensì da farsi in futuro, e sotto due condizioni: la prima, che le cose sostassero; la seconda, che agli adunati piacesse. Quello del Brocchi spiega una propensione, non volontà determinata, a operare cose presenti, o future. Quello del Venturucci dichiara: volontà portata all'atto. Tutto questo che monta? Importa: che un deposto per necessità esclude l'altro; — importa: che da un uomo comecchè versato mediocremente, non dirò nelle regole della ermeneutica forense, ma in quelle della Logica e del senso comune, dovrebbersi rigettare tutti i deposti. Invece l'Accusa, che sta insieme con la Logica come gennaio con le more, gli allega tutti, comecchè si contradicano, e si elidano, in prova del medesimo fatto! — Oltre il contrasto fra loro, che gli rende inattendibili, per poco che tu rifletta su quello del Digny, tu vedi correre i vermini della bugia su tutte le sue parole; infatti, come poteva egli prendersi travaglio di un partito che doveva effettuarsi in avvenire impossibile? Come richiamare l'attenzione degli adunati su le conseguenze di cosa non avvenuta, e che non poteva accadere? Come ammonire le persone dei pericoli a cui si avventuravano per colpa di una minaccia partita unicamente da me? Il Brocchi almeno si mostra meno stolido, se non più verace, poichè, le minaccie da lui si affermano di arresto immediato, e veramente furono per la parte dei signori Ciampi e Cipriani, ma nel senso di rammarico di mancata parola; e poichè da più era mossa la minaccia, sta bene eziandio che a più lo ammonimento si dirigesse. L'Accusa pertanto, comecchè alleghi tre deposti discordi, tuttavolta si fonda sopra uno solo (altra prova di senno nell'Accusa!), ed è quello del Dottore Venturucci. Conoscendo la lealtà dell'uomo onorandissimo, io viveva sgomento e dubitava della mia memoria, quando venne a confortarmi la lettura del suo esame, dove dichiara: «Rispetto alla prima domanda, cioè se il Guerrazzi accogliesse benignamente la proposta della Deputazione nella Sala delle Conferenze, ripeto quello che ho annunziato — e presso a poco disse le parole che ho riferito, — ma tardò poco a calmarsi e a convenire con i signori Municipali; ed è da notarsi eziandio che il Guerrazzi era già alterato per alcuni rimproveri che gli avevano fatto di non essere comparso, secondo il convenuto, la sera antecedente nella ora stabilita all'Assemblea.» Non deponendo pertanto il Dottore Venturucci assolutamente, ma a un dipresso, non è da dubitarsi neppure un momento, che non sia per trovare esatta la mia narrativa, molto più che stando egli dal lato opposto, in fondo della tavola lunghissima, e lontano dal gruppo dei disputanti, non distinse da cui si partisse la intimazione dello arresto, la quale in vero fu fatta, come ho avvertito, per la parte dei signori Cipriani e Ciampi, e secondo che per bene due volte dall'avvocato Brocchi ancora si dichiara. — Nè già si creda che io qui arresti la dimostrazione: io vo' perseguitare l'Accusa con la verità, com'ella mi ha perseguitato con la fallacia. Il Cavaliere Martelli, uno dei tre Municipali, interrogato, depone: che, quando egli venne col Conte Digny e col Brocchi per la seconda volta all'Assemblea, vi trovò anche me, e che a lui rivolgendo la parola mostrai: «propensione grandissima per conciliare le cose, e gli dissi: farmi paura i Partiti, e dichiararmi parato a tutto per metterli d'accordo;» inoltre, contestatogli il deposto del Conte Digny su le minaccie, risponde francamente: «Io non intesi cotesto discorso di certo; può essere che l'abbia fatto quando non vi ero io» (e questo non poteva darsi, perchè si presentò con gli altri, e la disputa avvenne alle prime parole). « Al Municipio in cotesto giorno sentii parlare delle minaccie di arresto state fatte contro il Municipio da alcuni Deputati, ma non intesi includere fra essi il Guerrazzi.» Ed è questo il secondo riscontro della verità della mia narrativa, e della fallacia del supposto dell'Accusa. — Terzo riscontro: Panattoni, Avvocato, attesta che dai colloquii uditi rilevò che minaccie veramente non accaddero, ma rammarichi per la parte di alcuni Deputati, e forse anche del Capo del Potere Esecutivo, a cagione che il Municipio non avesse secondato gli accordi che si dicevano passati col signor Professore Taddei, e resultanti ancora dal Manifesto stampato, ecc.[724] Quarto riscontro: Panattoni, Avvocato, condottosi al Municipio per proporre temperamenti conciliatorii, ascolta urli di gente tumultuante che dice: essersi deliberato arrestare il Municipio; ond'egli esce ad arringare cotesta turba per ismentire la voce calunniosa, non si sa come diffusa fra il Popolo, e Digny conferma la verità della buona intelligenza che passa fra l'Assemblea e il Municipio.[725] Quinto riscontro: Panattoni, Avvocato, espone, che fu detto, e gli pare anche da qualche Deputato, che il Dottore Venturucci narrasse poco dopo questo fatto, ma che fu giudicato un suo male inteso. Sesto riscontro: Se le minaccie in discorso fossero state profferite da me, e ritenute temibili dai Municipali, non è da credersi ch'eglino si sarebbero per un'altra volta, come fecero, commessi in mia potestà. Settimo riscontro: Se io avessi bruscamente intimato l'arresto al Conte, breve ora dopo trattenendosi col Chiarini non gli avrebbe dimostrato dispiacenza per non essere io stato accettato, com'egli ne faceva istanza, a parte della Commissione Governativa.[726] Ottavo riscontro: Nel giorno 14 aprile il Conte trova il Chiarini Segretario al Ministero dello Interno, e gli dice: «Giusto, aveva bisogno di vederti; insomma, tentano fare una Reazione?» Interrogato da cui, risponde: «Dagli esagerati.» Ed ingegnandosi il Chiarini di provargli cotesto suo concetto fallace, il Conte soggiunge: «Ma intanto volevano ieri l'altro arrestare il Municipio.» Chiarini di nuovo: «Non ho sentito dire niente di questo, e non lo credo.» E il Conte: « Eppure mi viene assicurato che lo dicesse il Guerrazzi.» — «Io» obiettava Chiarini «non lo crederei nè anche se glielo avessi sentito dire.»[727] Digny tacque; Chiarini fu dispensato prima, poi dimesso dallo impiego. Io ho notato come il proverbio, che corre fra noi, dice: chi il suo can vuole ammazzare, un pretesto sa trovare; — ma Digny non seppe trovare neanche il pretesto, dacchè il Conciliatore del 13 aprile annunzia un motivo per giustificare la trama ordita a mio danno, ma, parendogli che non potesse reggere in confronto degli atti miei, va in cerca di un altro, e, come vediamo, non è più felice adesso. E quale il pretesto affermato nel 13 aprile dal Conciliatore? Eccolo, e somministra il nono riscontro della verità delle mie parole:

«Il Dittatore Guerrazzi ostinavasi nel ritenere nelle mani un potere rimasto senza valore. Alcuni Deputati ostinavansi a rivaleggiare ( sic ) di forza col Municipio. Non mancò tra loro chi chiedesse fosse posto in istato di accusa il Municipio e la Commissione aggiunta.» — Pretesto alla iniqua guerra nel 13 aprile era la mia renitenza a lasciare il Potere; la proposta di porre in istato di accusa il Municipio e la Commissione annunziavasi sì, ma ad alcuni Deputati attribuivasi; trovata debole la prima calunnia, estendono anche a me, anzi unicamente a me, la seconda; però che nella musica della calunnia s'impari maravigliosamente presto a trapassare da una nota all'altra.

Dunque è chiarito: non essermi opposto alla Restaurazione, ma invece adoperato onde riuscisse subitamente universale e felice; — avere rampognato i Municipali, non già della iniziata Restaurazione, bensì di slealtà per mancata parola, e di periglioso consiglio, convertente a vittoria meschina di Partito quella deliberazione, che per essere dentro e fuori proficua doveva e poteva presentare i caratteri che ho qui avanti notati: — non avere minacciato, molto meno intimato l'arresto di persona.

Con tale e siffatto lusso di prove in contrario, la imperterrita Accusa scrive, senza che la mano le tremi, come io nello intento di oppormi alla Restaurazione un po' compita, un po' incoata, minacciassi prima, intimassi poi l'arresto ai Municipali. Le mie parole dovrebbero suonare severe a carico di quanti nei Documenti dell'Accusa parteciparono, ma taccio, e raccomando al Paese Civile, ai Governanti nostri, al Principe nostro temperantissimo, considerare se per questa via si renda rispettabile l'Autorità, e veneranda la Giustizia, salute estrema di società commosse.

Riprendo la mia narrazione. I motivi che mi persuadevano a insistere, perchè il Municipio deponesse il pensiero di camminare disgiunto dall'Assemblea, erano di due sorte: i primi di onestà, e fu dimostrato; i secondi di politica convenienza, e gli esposi ai Commissionati Municipali che ne rimasero percossi così, che, condannato lo intempestivo Manifesto, promisero correggerlo. «Il Municipio» io diceva «si propone due fini parimente ottimi, e necessarii: preservare il Paese dalla invasione straniera, mantenere incolumi le libertà costituzionali; in quanto a me, avevo disposto le cose in modo, che la Restaurazione in guisa diversa, che mi sembrava più onorevole, e ad un punto più sicura, si operasse; ma l'uomo trama e la fortuna tesse. Quello ch'è stato è stato, ed ormai tutto lo studio nostro si ha da riporre in questo, che ciò che ebbe mal principio riesca a prospero fine. Importa massimamente che non si manifesti dissenso in veruna parte delle Provincie, e che il moto si dilati universale e spontaneo. A conseguire un tanto scopo, parmi, non che utile, necessaria l'adesione dell'Assemblea, per rimuovere l'obietto che taluno potesse fare, questo essere un partito imposto da Firenze, non consentito da Toscana tutta.[728] Versiamo in cosa di pericolo grandissimo, procuriamo con sommo studio evitare ogni accidente capace a fornire appiglio o pretesto di offenderci. Quando anche l'adesione dell'Assemblea non vi paresse necessaria, e forse nemmeno utile, accettatela tuttavolta per misura di cautela, che negli eventi dubbiosi non è mai troppa. Se nel rifiuto ostinandovi ne venisse a nascere danno, pensate, a qual carico voi vi esporreste? Di faccia al Paese voi sareste tenuti a rendere conto di qualunque sventura potesse succedere. Comprendo voi andare orgogliosi della presa iniziativa; voi non volete dividere con altri la gloria delle durate fatiche, per infrenare l'anarchia e la parte repubblicana; voi non consentite partecipare con nessuno l'onore dei pericoli corsi, per apparecchiare questo evento; e sia così; la sua parte ad ognuno:[729] ma adesso, dato bando ai consigli della vanità, vediamo insieme quali rimedii possiamo apportare alle fortune afflitte della Patria.» Piacquero i consigli e le parole; suonavano uguali a quelle che adoperò più tardi il Conciliatore, Giornale di cotesto Partito, — con una differenza però: che io le diceva di cuore, egli per finzione;[730] — e fu risoluto che una Deputazione dell'Assemblea si conducesse al Municipio per confortarlo di non operare scissura, e starsi unito per carità di Patria. Affermano testimoni degni di fede, che per me in questa occasione si dettasse una carta,[731] dove erano indicate le guise dell'operare congiunto dell'Assemblea col Municipio; e questo dimostrerebbe quale e quanto studio da me si ponesse, onde la bene iniziata alleanza non si disfacesse, e a fine fruttuoso s'incamminasse. Questi consigli e queste profferte andavano a presentare al Municipio il Generale Zannetti e l'Avvocato Panattoni, accompagnati dal Dottore Venturucci, e dai tre Municipali, Digny, Brocchi e Martelli. Quivi giunti esposero la commissione, la sostennero con buoni argomenti, sicchè fu di nuovo statuito solennemente che, in tanta opera, Municipio e Assemblea avrebbero proceduto congiunti.

Tardando le risposte, fu avviso di condurre l'Assemblea nel Palazzo Vecchio, però che la Camera, non avendo chi la guardasse, poteva di leggieri, siccome già minacciavano, essere forzata; e così fu fatto. Tornarono alla perfine i Municipali, Digny, Brocchi e Martelli, e poichè, secondo quello che Panattoni racconta, le profferte nostre erano state con lieta fronte accolte dal Municipio, vuolsi credere che per accordarsi con noi intorno alle ulteriori operazioni venissero; — tutto al contrario: essi venivano ad accertarci, che il Municipio, rigettata ogni proposta di conciliazione, aveva deliberato di fare da sè solo. — Commosso da questo partito, di cui prevedevo e sentivo gli effetti perniciosi, con quelle parole che la profonda convinzione sa suggerire meglio persuasive, io supplicava a considerare i mali a cui stavano per esporre la Patria. Livorno alle ordinanze del Municipio Fiorentino non era da credersi si volesse sottomettere, e la ragione non importava che si dicesse; e il suo dissenso solo guasterebbe l'armonia del disegno, e metterebbe in repentaglio tutto il bene che si auguravano ricavare da quello. «Ma che cosa è mai» io domandava «questa durezza? Qual tristo genio v'insinua nell'animo i fatali consigli?» Mi avvertirono come i loro Dottori avessero considerato, che l'unione dell'Assemblea col Municipio veniva a contaminare la origine governativa di questo, e forse a metterlo in imbarazzo co' Rappresentanti delle Potenze Estere da cui speravano protezione. Alle quali ragioni io fervidamente rispondeva: «Ed è prudenza questa, per guardare fuori di casa, trascurarla dentro, e per una protezione dubbia, che non verrà forse mai, non attendere a pericolo sicuro che accadrà di certo? — E poi anche a questo vi ha rimedio, e pronto; uditelo se vi talenta. — Io sarei di avviso, che si mettesse fra noi una proposta a partito; la quale, deliberata, si pubblicasse con le stampe, e dicesse:

«Il Municipio fiorentino, provvedendo alla salute della Patria, ha deliberato restaurare il Principato Costituzionale in Toscana, e assumere il Governo Provvisorio del Paese, finchè non abbia disposto in altro modo la Corona. L'Assemblea Costituente Toscana, considerando che il Municipio fiorentino con questa sua Deliberazione altro non abbia fatto che prevenire il suo voto, aderisce pienamente alla deliberazione, dichiara il suo mandato adempito, e, lasciando al prelodato Municipio la cura di condurla a compimento, si scioglie.» Proponevo eziandio che il Generale Zannetti e il Professore Taddei si chiamassero a parte della Commissione Governativa per senso di convenienza; e ciò tanto più agevolmente potevano assentire, in quanto che Zannetti avessero già chiamato, e il Professore Taddei fosse per ogni conto meritevole di tanto onore. I Municipali accettarono la mia proposta piuttosto con esultanza che con soddisfazione; come savissima e opportunissima la lodarono; e commisero la cura di compilarla a taluno dei presenti; e questi sì fece, ma, letto lo scritto, non parve suonasse, e veramente non suonava, a dovere; onde Guglielmo Conte Digny prese a dire: «Troppo più mi garbavano le parole del signor Guerrazzi; via, signor Guerrazzi, la prego non le sia grave di scrivere ella stessa quanto ha proposto.» Al che risposi lo avrei fatto molto volentieri; se non che sentendomi, pei tanti travagli patiti, un po' confuso di mente, io gl'invitava a lasciarmi solo; e questo di leggieri assentirono.[732]

Qui fu — e il cuore mi si stringe a raccontarlo, — che letta la minuta dello scritto, e andata altamente a grado ai Commissionati, il signor Digny con tale una sembianza, — che parea Gabriel che dicesse: Ave! — mi parlava le parole, che per certo egli deve aver fatto stampare nel Conciliatore del 14 aprile 1849: «Si stringano dunque i Liberali intorno al Vessillo Costituzionale, salvino con esso gl'interessi della Libertà, salvino le ragioni dell'avvenire..... Gli errori comuni saranno argomento di reciproco compatimento; i sagrifizii che tutti faranno delle private opinioni saranno cagione di reciproca stima; la cooperazione di tutti a ristorare i mali passati sarà garanzia di nuova concordia.» Bene è sciagurato quegli di cui il cuore sta duro a questi nobili inviti; ma come ha da considerarsi l'uomo che fabbrica dei sensi magnanimi e santissimi una coltella per tagliarti proditoriamente i garretti? — Nè qui si rimasero i fervorosi favellii del Conte, che me lodava tuttavia e levava a cielo per l'ottima mente dimostrata sempre, e più che mai scongiuravami a soccorrere la Patria; ed io commosso rispondeva: «O che credete, che la Patria prema a me meno che a voi? Salvate le Libertà Costituzionali. Spero andrà bene ogni cosa, ma temo che da Livorno voglia venire opposizione; pure io mi vi porterò subito, e opererò in maniera, mercè lo aiuto degli amici, che stia contenta al fatto; però considero che Livorno è ingombra di gente straniera, la quale non ha cuore, nè interessi toscani, e questa per certo farà resistenza. Bisognerebbe, se il mio presagio si avverasse, e si avvererà di certo, avere autorità di farla arrestare e allontanarla: ora a me simile autorità è venuta a mancare, e non potrei ordinare l'arresto di persona senza offendere le leggi. Se vi pare bene, datemi facoltà capace a ovviare questo temuto impedimento, e riposate sopra la mia fede tranquilli.» Il Conte Digny accolse premurosamente la proposta, e mi domandò quando contavo di partire per Livorno; alla quale interrogazione avendo risposto: «subito, col treno della Strada ferrata delle 4;» egli mi fece osservare, come nello spazio breve di tempo non avrebbe potuto procurarmi la commissione in discorso, e ch'egli trovava opportunissimo mi fosse conferita; però pregarmi a volere attendere fin dopo le ore ventiquattro, ch'egli sarebbe allora venuto a portarmi la spedizione necessaria. «E come potrò partire io dopo le 24, se non vi sono altre partenze?» gli osservai; ed egli rispose: con treno speciale. Qui certamente fu, che narrando io la mia amministrazione avermi stremato di pecunia, così che pochi paoli mi erano rimasti addosso, e non potere commettere la spesa, piuttosto grave a privato, di un traino a posta per la Strada ferrata, il Cavaliere Martelli, generoso e buono, soggiunse: «Non essere di ostacolo il danaro.» Ed io credei ancora profferire le parole che ho detto di sopra, avvegnadio già sentissi romoreggiarmi attorno certe male voci di danari espilati, che nella sera poi si convertirono apertamente con infamia eterna di chi le suggeriva alla plebe sciagurata in: « ladro[733] Allora il Conte soggiunse: «Dunque mi dia parola aspettarmi;» ed io: «Le do parola;» e ci toccammo le mani.

Per completare il racconto, mi giovo adesso della relazione che mi fanno pervenire testimoni oculari dei casi che narro. Letto lo scritto che fu da me dettato a richiesta del Digny, e approvato largamente così dai Municipali come dai Deputati, era rimesso al Municipio dai signori Dottor Venturucci, Alimonda, Digny, Brocchi e Martelli. Il Municipio, accolto il messaggio, e consideratolo, invitò i messaggeri Dottore Venturucci e Alimonda a ritirarsi, per deliberare; indi a breve richiamati, ebbero a sentirsi dire: il Municipio essere ormai deciso operare solo, e respingere dal suo seno qualsivoglia rappresentante della Costituente Toscana. Allora il Dottore Venturucci, altamente compreso della convenienza di accettare il proposto temperamento, sia perchè si effettuasse istantanea l'adesione delle Provincie, in virtù del voto dei loro Rappresentanti, sia pei riguardi dovuti ai Deputati, i quali pure animosamente, e non senza pericolo, avevano avversato la proclamazione della Repubblica e la Unificazione con Roma, prese prudenti raziocinii a discorrere, affinchè il Municipio dalla deliberazione sconsigliata si remuovesse; e poichè vide ogni ragionamento tornare vano, esortò i signori del Collegio a darsi cura perchè ai Deputati tutti, ed a me, fosse fatta amplissima abilità di partirci sicuri in qual parte meglio ci talentasse. La Commissione Governativa e il Municipio, unanimi, non solo assentirono, ma solennemente promisero osservare la proposta del Dottor Venturucci, e Gino Capponi, stretta la mano al Dottore, lo lodò per la solerte umanità di averla fatta.

Mentre attendevamo la risposta per la parte del Municipio, ci venne referito come una turba di plebe commossa già schiamazzasse dicendo vituperio all'Assemblea, ed a me. Il Colonnello Tommi, sedendomi accanto, mi offeriva condurmi seco lui nella vettura che l'aveva condotto, e che lo aspettava a piè dell'uscio del Palazzo in via dei Leoni; io lo ringraziai, ma non ricordo, se la data fede di non partirmi allegassi. Il Ministro Manganaro poco dopo propose di andare per una carrozza di posta, e trarmi di là, ed anche questa gentile esibizione venne da me rifiutata, fermo nel proponimento di osservare, come fra la gente dabbene si costuma, la parola.

Digny e Brocchi, furono quelli che vennero a significare la ripulsa, ed a me, cui pareva che in quel giorno Dio ne volesse male, però che i nostri antichi costumassero dire: «Dio a cui vuol male toglie il senno,» riuscì molestissima. Io non sapeva comprendere come da uomini savii potesse rigettarsi il voto istantaneo di una adesione complessiva, preferendo correre le dimore, le perplessità, e i pericoli dello sperimentare le molteplici ed individue volontà municipali. Davvero, se fu sapienza questa, io confesso di non conoscere più che cosa sia insania! Però non mi sapevo dare pace, e, nello intento di accomodare la vela al vento superbo che soffiava, per ultimo proposi che, messo da parte ogni concetto di accogliere nel loro seno due Rappresentanti dell'Assemblea, il Municipio e la Commissione stessero contenti al Decreto che l'Assemblea avrebbe pronunziato in questa sentenza: «Aderisce all'operato del Municipio e si discioglie;» e se ne giovassero. — Le ragioni che io dicevo così prorompono evidenti dalle viscere stesse del soggetto, che Digny, rimastone commosso, mi richiese di ciò pure gli facessi scrittura, ed anche in questo il compiacqui. Tale è la carta a cui forse allude nel suo esame l'Avvocato Brocchi, e non ricorda portata al Municipio; poichè per l'altra, precedentemente rimessa, è vero quanto fu detto di sopra, ed anzi, oltre al doversi trovare negli Archivii del Municipio, taluno dei Priori ne trasse copia per uso privato. In questa congiuntura insistendo io su Livorno, e confortando il Conte a pensare alle difficoltà che potrebbero sorgere da quella parte; egli alla presenza del Chiarini mi richiamò ad osservare la mia promessa di aspettarlo la sera, rinnovandomi la sua, che il Municipio e la Commissione mi avrebbero fatto partire munito delle domandate facoltà, per treno speciale; e qui pure successero i fatti che depone il Chiarini, nella parte seguente del suo esame: «Le idee di Restaurazione nel signor Guerrazzi non erano ignote ad alcuni componenti il Municipio di Firenze; ciò è tanto vero che, allora quando nel 12 aprile 1849 ebbe luogo quel rovescio, e fu creata la Commissione Governativa, fu proposto che il Guerrazzi si comprendesse nella Commissione, e tale proposizione fu appoggiata molto dal Segretario del Ministro di Francia, e sostenuta da quelli del Municipio che lo conoscevano bene. Oltre il prefato Segretario, potrebbe attestare questo fatto il Conte Digny, il quale, allorchè più tardi venne nelle stanze del Ministro della Guerra, disse al signor Guerrazzi: dispiacergli che non fosse stato accettato per uno dei componenti la Commissione Governativa; e facendo sperare che la sua proposta sarebbe stata accolta dal Municipio, lo pregò a fargliene la minuta, la quale da questo fu fatta e consegnata al Digny. Questo discorso del signor Digny, pare a me che provi abbastanza la sua persuasione intorno alla tendenza del signor Guerrazzi a restaurare il Principato Costituzionale, imperciocchè diversamente il Digny non si sarebbe attentato di richiedere il Guerrazzi a stendergli cotesta minuta, ch'egli subito, e volentierissimo dettò, ringraziando il signor Digny delle premure che diceva avere fatto per lui onde nella Commissione Governativa si comprendesse, aggiungendo che non avrebbe accettato, atteso il modo col quale il cambiamento politico era avvenuto.»

Dopo piccolo spazio di tempo mi comparvero innanzi i signori abate Bulgarini e Capaccioli, incumbenzati dal Municipio e dalla Commissione Governativa a parteciparmi la giunta loro imminente, e il desiderio che sgombrassi il Palazzo. Il signore Bulgarini per commissione speciale del Conte Digny mi domandava dov'egli avesse potuto rivedermi la sera; razionale ricerca a cui bene intende, perchè, nel presagio che io rendendomi allo invito cortese sgombrassi il Palazzo, il buon Conte voleva sapere in quale orto.... voglio dire in qual parte avesse potuto darmi, secondo il convenuto.... la risposta. Dissi: «Mi sarei ritirato nelle mie stanze; attendere il Conte nella sera colà.» Il Capaccioli andò a portare la risposta al Conte, Bulgarini attese a fare schiudere i passi che dal Palazzo conducono alla Camera dei Deputati.[734]

Intanto che il signor Bulgarini e i custodi indugiavano in questa faccenda, io accolsi i Deputati in casa mia. Indi a breve vennero ad avvisare aperta la strada; chiunque volesse potersene andare liberamente, dove meglio gli talentasse. Parecchi fra i Deputati pregarono, e con reiterate istanze sollecitarono affinchè seco loro io mi partissi; ricusai sempre, allegando la promessa di aspettare fino a sera la Commissione del Municipio; però gli accompagnai per le scale, e per la sala alta del Palazzo, e poi mi ridussi da capo nelle mie stanze. Poco dopo mi visitarono i signori Generale Zannetti e Colonnello Nespoli, il quale mi consigliò a mettermi in salvo, offrendomi mandare una compagnia di Guardia Nazionale per tutelarmi, andando alla Via ferrata Leopolda, ed io ricusai le offerte rispondendo non avere alcun timore, ed essermi legato di aspettare fino a sera. Egli allora con parole di affetto mi disse Addio, e chiese potermi baciare, ed io lo baciai di gran cuore, ricambiandogli le parole con quelle lodi che alla virtù del giovane egregio mi parvero condegne. Zannetti aggiungeva: «Dunque io verrò a prenderti stasera, e allora ti bacierò.[735] »

Adesso, su per certi Giornali ho letto che l'adesione dell'Assemblea non si poteva accettare dal Municipio per tre ragioni, e non si doveva per una quarta. La prima poichè l'Assemblea era prorogata; la seconda perchè pochi apparivano i Deputati presenti; la terza perchè siffatta accettazione gli avrebbe tolto il credito presso le Potenze. Nessuna di queste ragioni regge allo esame. L'Assemblea, per prorogarsi che faccia, non perde il diritto di revocare la proroga quando le piace, al sopraggiungere di casi gravi, e i sopraggiunti comparivano gravissimi; non è poi vero che pochi fossero i Deputati; in breve ora potevansi richiamare i partiti per Pisa, Lucca e Livorno; finalmente pel fine morale dell'adesione bastavano pochi, non facendo punto mestieri specificarne il numero, e la deliberazione si sarebbe presa alla unanimità dei Deputati presenti; l'avrebbero sottoscritta il Presidente e i Segretarii soltanto, come si costuma. Intorno alla terza io non voglio dire adesso, chè si è veduto a prova qual frutto abbiano cavato da cotesto concetto; imperciocchè bene ammaestravano i nostri vecchi, — che dopo il fatto, di senno sono piene le fosse; bensì argomentando a priori, non si arriva a comprendere come una espressione di consenso (al quale termine si era per ultimo limitata la mia proposta) avesse potuto nuocere al credito del Municipio, che dall'Assemblea non desumeva autorità od incumbenza. — La quarta ragione, per cui i Dottori affermano che non doveasi accettare l'adesione, consiste nella sua inanità, perchè i Deputati sarebbero stati costretti a consentire; e questo è cavillo mero, avvegnadio dalla storia degli avvenimenti successi parmi chiarito abbastanza come l'Assemblea avesse dimostrato tale essere la sua volontà, e per la opera sua a sostenerla gagliardamente, e con pericolo, da questi stessi Dottori era stata lodata. No, tutti i sofismi col tempo scompaiono, e, sviluppata dalla moltitudine delle parole dolose, rimane questa verità: «pei consigli di superbia non si aborrirono gli eventi infelici che avvennero pur troppo, i quali forse tutti, ma certamente in parte, sarebbesi potuto evitare, e con essi le conseguenze che la Patria deplora.»

Sono così dolenti le cose che mi avanzano a raccontare, così piene di amarezza infinita, che, non mi comportando l'animo afflitto andare in fondo tutto di un fiato, forza è che mi riposi continuando la digressione. Per mio giudizio, se il moto popolare sorto dalla rissa dell'11 aprile potè convertirsi in politico nel giorno 12, vuolsi attribuire alla cessata febbre del Popolo, — alla Guardia Nazionale, che in nome di Leopoldo II accettava la Monarchia Costituzionale, e difendeva la città dall'anarchia invano acclamante il nome del Principe; conflittava al Municipio, e a quel Partito di Costituzionali che si presume ortodosso; che ritrovava, per seguitare il Popolo, il coraggio che aveva smarrito nel giorno in cui bisognava guardarlo in faccia; — agli animi disposti, agli ostacoli rimossi, alla paura della invasione straniera, alla speranza, bandita come sicurezza, di evitare un tanto infortunio col sollecito richiamo del Principe Costituzionale, e finalmente, io pure lo dirò, al bisogno in moltissimi di fare porre in oblio, dal Principato che ritornava, lo zelo professato alla Parte Repubblicana che partiva. Però siffatte Rivoluzioni non sono mica miracolose, nè si operano da sè; e come la Rivoluzione presente, e da chi fosse apparecchiata e disposta in tutte quelle parti che non sono vili, se fin qui non giunsi a dimostrarlo, oggimai tornerebbe vano insistervi sopra con altre parole. Supporre, come l'Accusa ha fatto, pochi e deboli i Faziosi, e nondimeno potenti a tenere oppressi Popolo, Curia e Senato, e da un punto all'altro vederli sparire, e' sono novelle che non furono mai nel mondo, dalle cavallette in fuori: «e Moisè stese la bacchetta sopra il paese di Egitto... e come fu mattina il vento orientale aveva portate le locuste... poi voltò il vento in un fortissimo vento occidentale, il quale portò via le locuste, e le affondò nel Mare Rosso, e non vi rimase pure una locusta in tutti i confini di Egitto[736] L'Accusa, a quanto sembra, aveva in mente questo passo dell'Esodo quando dettò le sue carte; ma coteste, giova ripeterlo, sono storie di cavallette, non di uomini. Faziosi eranvi e non pochi, e ardimentosi, e maneschi; non tanti però, che potessero violentare un Popolo fermo nel volere di non sopportarli. Rammentate la notte del 21 febbraio 1849, quando la città insorse come un uomo solo, contro la minacciata irruzione dei villani? Or bene, di chi andava composta la turba accorrente a respingerli? Di Popolo, non senza mistura, è vero, ma per la massima parte fiorentino. — Chi lo chiamò? — Nessuno; spontaneo venne. — Chi io spingeva allora? — Ebbrezza e paura. — Dunque leggiero o mendace fu nel 12 aprile, e tale insomma da non fidarsene mai? — All'opposto io tengo che deva reputarsi sincerissimo; e giova chiarire questo punto. Le anime umane conturbano di rado, ma pure qualche volta, febbri più ardenti assai delle corporali, e non soltanto quelle del Popolo per passione mobilissimo, bensì ancora quelle dei Magistrati, dei Parlamenti, degli uomini insomma e dei Collegi, i quali, per istituto e per dovere, hanno da camminare prudenti.[737] Come narrammo essere accaduto in Inghilterra ai tempi di Carlo II, successe qui. Il Popolo, non mendace, non finto, sibbene sanato dalla momentanea insania e sincerissimo, abbatteva gli Alberi, che niente altro dicevano a lui senonchè le turbolenze, le offese giudiciali e cittadine, e la invasione straniera degli anni 1796 e 1799: il Popolo sincerissimo ripose con affetto la granducale insegna, che gli prometteva indipendenza patria, le riforme di Leopoldo I, lo Statuto di Leopoldo II. Il Popolo era sanato; male pagò il Medico!

Così almeno giudicai secondo il mio intendimento, ma non sembra che abbia ad essere in questo modo; imperciocchè quantunque il Popolo a me paresse sano, pur vedo che lo continuano a purgare.

E poichè la materia mi tira, io voglio palesare quello che serbo riposto nell'animo, intorno al contegno di quella parte di Costituzionali, che adesso chiamerò direttrice del 12 aprile 1849; e ciò faccio tanto più volentieri, in quanto che vedo due Partiti alle prese fra loro, ed ho diritto di metterci ancora io la mia voce. Uno di questi Partiti lamenta perpetuamente le speranze deluse di mercede pel Paese, e credo eziandio un pocolino le speciali sue; l'altro, che richiama al pensiero la immagine di Dante:

Come procede innanzi dall'ardore

Per lo papiro suso un color bruno,

Che non è NERO ancora, e il BIANCO muore;

alla scoperta gli dice: «Tu non hai fatto nulla; ti posasti un bel giorno come la mosca su i bovi, e poi desti ad intendere a cui ti voleva credere che arasti il campo.» Mi sia permesso affermare, che il Partito dal color bruno, che non è nero ancora e il bianco muore, nel giorno 8 febbraio avrebbe a buoni patti dato una gamba per essere lasciato andare illeso con l'altra; doloroso e lacrimoso esclamava: Siam fratelli; siam stretti ad un patto, con quanto tiene dietro. Il Partito direttore del 12 aprile, in cotesto naufragio avvisando salvare la pencolante società, attese a promuovere la elezione del Governo Provvisorio con la voce e con la stampa; io mi persuado che alle persone elette avrebbe voluto aggiungere qualche altra dei suoi; ma che noi, o alcuni di noi volesse rifiutare, non credo: provveduto in questa guisa al pericolo più urgente, incominciò a speculare intorno ai modi capaci di restituire le forme costituzionali alla Toscana, — che in coscienza le si confanno, e le bastano per quanto ho potuto conoscere di certo, mentre stava al Potere, — e parve così a lui come a me trovarli nella Costituente Toscana; di qui i suoi conforti a sciogliere il Parlamento, le persuasioni ai Deputati a non intervenirvi se il Governo si mostrasse restío a farlo, e le istanze a consultare il Paese col mezzo del suffragio universale. Il Partito direttore del 12 aprile volle procedere solo nelle elezioni, senza dare al Governo aiuto, nè riceverlo da lui; tuttavolta, malgrado che i Repubblicani vi si affaticassero attorno con isforzo maraviglioso, ebbero a convincersi del poco frutto che facevano, e lo confessarono.[738] I Direttori del 12 aprile non prevalgono nelle elezioni, però prendono ad avversare l'Assemblea da loro medesimi voluta; mutato avviso intorno alle cospirazioni da essi vilipese, adesso cospirano; e negarlo non giova, chè mi erano note coteste conventicole e i luoghi dove si raccoglievano, ed io lasciavo fare però che tendessero allo scopo a cui io stesso mirava, e, se amici non gli speravo, nemmeno sperimentarli nemici temevo; e se taluno mi avesse presagito lo strazio che reputarono onesto praticare meco, io gli avrei detto: «taci, tu menti!» I Direttori del 12 aprile potevano, accostandosi a me, darmi forza e coraggio a muovere l'ultimo passo, e dirmi apertamente: questi sono i nostri disegni; quali sono i vostri? Potevano altresì, se tanto ero venuto loro in odio, persuadere l'Assemblea a non eleggermi, a dimettermi, e precipitare le deliberazioni; anzi, come avrebbero dovuto, potevano starsi allo stabilito nella mattina del 12 con l'Assemblea, che pure dichiararono della Patria benemerente; tutto questo a loro rincrebbe, e davvero non si comprende a qual fine parlassero affettuose parole, quando nei fatti incocciarono a mostrarsi superbi; dicevano volere stringere tutti in amplesso fraterno: ma di che cosa sappiano cotesti amplessi, provo io, che ne porterò i segni finchè mi duri la vita. Non avrebbero per avventura giovato meglio a tutti parole meno soavi, fatti più degni? — Ma no, essi calpestarono l'Assemblea e me, e si posero a capo del moto popolare per sentirsi rinfacciare più tardi, che, se gli andarono avanti, ciò fecero come il tronco dell'albero menato via dalla piena. Però, se i Direttori del 12 aprile non erano, la sommossa popolare veniva sicuramente soppressa dalla Guardia Nazionale e dai borghesi; imperciocchè le sommosse, dai cittadini industriosi ed abbienti odiate sempre, ai nostri tempi mettano ribrezzo; i cervelli incominciano a preoccuparsi anche fra noi della salute della Società: quel rimescolarsi delle plebi cittadine co' proletarii delle campagne fa stare pensosi, e le smodate condanne non giovano a nulla e la esperienza n'è vecchia. I Direttori del 12 aprile, tolta in mano la sommossa, l'avvivarono, l'atteggiarono, le diedero moto, le diedero affetto[739] la vestirono di tutte le speranze del tempo, con i timori del tempo e degli uomini la fasciarono, l'afforzarono con tutte le previdenze e con tutti gli apparecchi di lunga mano raccolti; ed avendola assunta alla dignità di Restaurazione Costituzionale trovarono quaggiù favorevoli tutti, dissidenti pochissimi o nessuno. Ora provano la ingratitudine; ed io invece di rallegrarmi con empia gioia, e dir loro: qual seme gittaste, tal messe raccogliete; piango con essi i nostri non degni destini; e Dio, che vede i cuori, sa se io avrei mosso neppure un lamento per lo strazio disonesto a cui mi hanno condotto, se oggi, mercè loro, la Patria comune andasse consolata delle benedizioni, che essi le promettevano.

La sera il conte Digny non mancava al convegno, e con esso venne il Generale Zannetti; e l'uno e l'altro, come Mandatarii speciali del Municipio e della Commissione Governativa, dicevano con accomodate parole: fossi contento esulare, tanto che fossero quietate le cose, in estero paese. Ma sentiamo un po' il Generale Zannetti come racconta il fatto: « Ella m'invita » (così rispondeva l'uomo di coscienza cristiana al Processante), « Ella m'invita a tornare sopra una giornata della quale io dovrò rammentarmi, perchè, contro mia volontà, è vero, ma pure in quel giorno anche io divento complice di mancata parola. — Mi spiego: nella sera del 12 aprile riunitasi la nuova Commissione Governativa, fra le varie e molte risoluzioni che ella prese, fu pure quella di allontanare da Palazzo Vecchio il signor Guerrazzi, e siccome pareva alla Commissione medesima prudenziale provvedimento, che il signor Guerrazzi si allontanasse dalla Toscana, e dubitando ch'egli non volesse accettare, la Commissione incaricava il signor Digny e me di comunicare questo progetto al signor Guerrazzi ed invitarlo ad aderirvi; ed invero il signor Guerrazzi non ESITÒ un momento ad accettare la proposizione di un passaporto per uscire di Toscana, perchè, egli diceva: in qualunque luogo di Toscana io vada, se per sorte succede qualche movimento, sarò io lo incolpato. Allora, in adempimento della commissione ricevuta, il signor Digny ed io dicemmo al signor Guerrazzi che sarebbe partito nella notte con passaporto per l'estero. »

Guglielmo Conte Digny nega il convegno, nega la proferta del passaporto, nega il contratto religioso e solenne; tutto nega: — qui occorrono due vie da governarmi col Conte; scerrò la più mite.

Vi ricordate del personaggio di commedia chiamato Rosignolo? Sì, certo, voi rammentate quel gobbo che aveva tante e poi tante inventato girandole, che alla perfine, non sapendo come districarsene, immaginò, per non essere côlto in fallo, un suo trovato, e fu il seguente: narrò (e anche questa era girandola) come, navigando per mare, un grossissimo cavallone lo aveva portato via dalla coverta, e fattagli percuotere la testa nel bastimento così, che ne aveva perduto la memoria; col quale pretesto quando gli tornava il ricordarsi, ei rammentava; e quando non gli tornava, scusavasi con la capata nel bastimento.

Digny, intorno ai concerti presi dal Municipio col Presidente Taddei la mattina del 12 aprile, rammenta perfettamente avere letta la Notificazione dopo stampata; per gli altri fatti, non ha la minima memoria avere letto la Notificazione prima che fosse mandata alla stampa.[740]

Contestatagli la disputa nella Sala delle Conferenze a cagione della mancata fede al Presidente Taddei, Digny si sovviene solo che il Guerrazzi disse: «Signori, avete fatto una Rivoluzione, ecc.;» per le altre cose, non rammenta con sufficiente precisione i dettagli (sic).

Contestatogli il fatto gravissimo del passaporto promesso e accettato, e però del contratto consumato, Digny rammenta, che la Commissione non prese deliberazione sul Guerrazzi finchè non fu trasportato a Belvedere; intorno al religioso deposto del Generale Zannetti, dichiara: « non rammento avere data alcuna assicurazione.... in tanta confusione di avvenimenti, dopo tanto tempo, forse la mia memoria, — forse quella dello Zannetti si confondono....»

Contestatogli il fatto dei danari da me richiesti al Marchese Capponi per le spese del viaggio, e somministrati poi con autorizzazione ed ordine della Commissione Governativa dal Municipio pel titolo espresso del viaggio, Digny ricorda: «che la mattina del 13 Guerrazzi gli scrisse un biglietto a lapis, nel quale lo pregava di domandare al Marchese Capponi una somma in prestito;» quindi « sa che i danari per mezzo del Martelli mi erano stati trasmessi, ma non sa menomamente che ci fosse la idea di farli servire al mio viaggio! »

Contestatogli che Giovanni Chiarini, presente al contratto del passaporto, depone che fu promesso al Guerrazzi di farlo partire mediante treno speciale, tre volte gli vacilla la memoria, e dice: « Non ho memoria di avervi messo che poche parole e insignificanti....; sebbene la mia memoria sia molto confusa in questa parte, credo rammentarmi che condizionalmente si parlasse di treni speciali; ma, ripeto, non ho memoria di avere avuto commissione formale, sempre perchè la Commissione non aveva neppure discusso su questo soggetto.» Ma sapete voi, signor Conte, che la vostra memoria è veramente infelice?

Nè qui soltanto Guglielmo Conte Digny è d'infelice memoria; ma basti per ora. Forse il Conte si lagnerà che non gli si abbiano i debiti riguardi, ed anche in questo avrà torto; conciossiachè, se io dovessi prendere da lui lo esempio del punto rispetto che a sè stesso porta, davvero che io temerei incorrere la taccia di sboccato; e, al fine che lo asserto non vada disgiunto da prova, cred'egli che io vorrei smentirlo quattro volte sopra la medesima cosa com'egli fa? — In certa parte del suo deposto narra come egli venisse la sera a trovarmi nel mio appartamento in Palazzo Vecchio, dove io lo aveva chiamato fino dalle 4 del pomeriggio per dirgli che voleva andare a Livorno, ma egli nulla rispose! In altra parte, narrando il medesimo fatto: «Guerrazzi insisteva col Zannetti e con me per andare a Livorno, ma NOI adducemmo le grida e il tumulto per consigliarlo a non pensarvi per ora;» dunque parlava, e sinistre parole, se io male non mi appongo? — In altra parte: «È vero.... che col Guerrazzi e Zannetti si parlò di partenza;» dunque, che siate benedetto, signor Conte, parlaste ancora di partire? — In altra parte: «La conversazione si aggirò sulla possibilità di una partenza del Guerrazzi, ma io non ho memoria di avervi messo che poche parole e insignificanti....; credo rammentarmi che condizionalmente si parlasse di treni speciali.» Dunque prima non parlaste; poi parlaste che non potevo partire, e parmi questa significantissima cosa; poi parlaste parole insignificanti, dopo averle parlate significantissime; finalmente parlaste di treni speciali sotto condizione. Qual mai condizione? — Signor Conte, sapete voi come nel nostro Paese si appellino coloro che quattro volte smentiscono sè stessi? — Io glielo direi se non mi trovassi dove mercè sua mi trovo; o piuttosto, tutto bene considerato, mi sembra che non glielo direi. A lui basti sapere ch'è il testimone di predilezione dell'Accusa!

Cinque furono testimoni presenti al fatto; e siccome essi non hanno battuto, come Rosignolo, il capo nel bastimento, così non importa tenere su questo proposito più lungo discorso, molto più che dalle cose successive viene maravigliosamente confermato.

Adesso cresce intorno al Palazzo un tumulto di plebe ed uno schiamazzo di gridi: Morte! morte al Guerrazzi! Chi poi cotesti urli incitasse, io non dirò; dirò soltanto la contesa infame che dalla ringhiera che guarda Via della Ninna udimmo più tardi, nella notte, agitarsi lì sotto al lampione. I gridatori non trovavano modo di spartirsi la moneta ricevuta per la egregia opera di maledire e imprecare morte a cui non conoscevano, e non gli aveva offesi mai, e nelle vecchie frenesie loro trattenuti. Gli adulti, per assottigliare il prezzo ai garzoncelli, adducevano la ragione che, avendo meno voce, men forte avessero gridato Morte al Guerrazzi; e i garzoncelli non si arrendendo allo argomento, comunque affiochiti, strepitavano, che era stato promesso a tutti ( come agli Operaj della vigna ) mercede uguale; che quanto e più di loro avevano strillato: Morte a Guerrazzi! e che non volevano soffrire bindolerie. E qui da una parte e dall'altra un bisticciarsi da fare piangere gli Angioli, e ridere i Demonii. Ahi sciagurati! Il fanciullo che avvezzaste a vendere l'anima sua a prezzo di poca moneta per gridare morte a un uomo, gliela darà più tardi per rubargliela. Voi renderete conto a Dio di quel delitto e di quel sangue. Tali erano le opere civili e cristiane che nella notte del 12 aprile si commettevano a Firenze!

Di lì a breve fu inteso romore come di gente che prorompe; e poi spalancata la porta del mio quartiere, tra una mano di Guardie Nazionali, comparvero alcuni del Popolo; e il Generale Zannetti venuto per me mi pregava a mostrarmi, ed io andai; e con accento commosso volgendomi ai Popolani, dissi: «Che cosa volete da me? In che vi ho offeso? Qual peccato voi mi rimproverate?» Essi tacquero; non una parola, non un grido profferirono: io sarei stato curioso davvero di sapere quale colpa il Popolo fiorentino mi apponesse. Però non cessavano in Piazza il tumulto e lo schiamazzo, onde quei dieci o dodici che stavano quivi dentro rinchiusi meco, fra servi, custodi, segretarii, e la mia nipote giovinetta pure ora uscita di Convento, e la sua governante, si mostravano sgomenti, e lo dirò con compiacenza, assai più per me che per loro. Temendo che la Plebe rompesse le porte, alcuni tentarono a questo estremo caso un riparo. — Io auguro a tutti quelli che mi hanno offeso di non trovarsi mai in simili strette, perchè all'uomo può forse bastare il coraggio per sè fino in fondo; ma quel trovarsi intorno gente atterrita, e di tutti avere a confortare gli spiriti smarriti, è tale uno sfinimento a cui mal regge l'anima umana. Non pertanto l'Accusa acuta e sottile si studia mettermi la mano sul cuore, e sentire com'egli mi battesse. — Egli batteva come deve battere il cuore dell'uomo, che sa quali mali possono fare gli uomini, e sente non meritarli.[741]

E poichè, — lasciamo da parte il volere, — sembrava che i nuovi Governanti non avessero il potere di opporsi alla plebe, che ad ogni ora ci dicevano in procinto di sbarattare la Guardia Nazionale, e fracassate le imposte irrompere dentro a far carne; parecchi dei racchiusi meco procuravano spiare luogo di salute, là dove questo estremo accadesse, e qui pure il mio pensiero si consola, rammentando che quantunque mi fossero per la più parte sconosciuti, nondimeno queste apprensioni per me sentissero, queste diligenze per me facessero. In che queste ricerche consistessero, a qual fine fossero dirette, e qual parte io vi prendessi, sarà bene lasciare referire ai testimoni, perchè nel ricordare quel tempo parmi che il mio strazio si rinnovelli. Però mi maraviglio, e non posso astenermi di rimproverare a nome della Legge l'Accusa, che omise interrogare testimoni su punti capitali, e con tanta compiacenza si allargò su questi particolari, forse per argomentare dal mio spavento e dai miei conati di fuga la coscienza colpevole, e poi non ne trasse costrutto essendole tornati contrarii; come se potesse apprendersi quale indizio di colpa, lo studio di sottrarsi ai bestiali furori di plebe avvinata e indracata.[742]

Dopo parecchie ore di tediosa aspettazione, standoci, la mia famiglia ed io, in procinto di partire, ecco una Guardia Nazionale, dopo l'ora fissata alla partenza, portarmi un biglietto del Generale Zannetti, il quale diceva: « Alcuni non volere lasciare libero il passo; opinare la Commissione di trasferirmi pel corridore dei Pitti in Belvedere, donde remossi i Veliti avrebbe messo la Nazionale: però questo accadrebbe nella prossima mattina; non dubitassi di niente, stessi tranquillo; andassi a prendere per qualche ora riposo, che giudicava doverne avere di mestieri.»[743] Questo biglietto unii alla lettera, che nel tumulto di angosciose passioni io scrissi sotto gli occhi del signor Galeotti, castellano di San Giorgio (poichè tale era l'ordine; e le cose necessarie a scrivere di lasciare in potestà mia si negava!), e mandai a Gino Capponi e agli altri Componenti la Commissione Governativa il 25 aprile 1849. Questo biglietto è stato soppresso! Così tentavasi abolire ogni prova del patto violato a mio danno, e me seppellire sotto la lapide del tradimento, senza neppure lasciarmi la consolazione di potere dire al mondo: «Popoli civili e anche barbari, vedete come si tiene fede a Firenze!» Ma ciò, come a Dio piacque, non valse al fiero disegno. Mi stava su l'anima una amarezza infinita, come un Zannetti, che pure mi parve angelica natura, avesse potuto avvilirsi tanto da sostenere meco le parti di brutto Giuda Scariotte, e tuttavia mi pesa per Gino Capponi... e mentre scrivo queste righe infelici... la mano mi trema, e gli occhi mi si offuscano di lacrime, — ma non per me. Un'aura di refrigerio penetrando nello infame carcere, mi portò che avessi a deporre ogni amarezza contro il Generale Zannetti, avvegnadio fosse stato ingannato, non ingannatore; quasi nel punto stesso mi capitava sott'occhio il suo Rendiconto generale del servizio sanitario dell'armata toscana spedita in Lombardia per la guerra della Indipendenza, dove trovai scritto il nome di Domenico Guerrazzi,[744] giovane accademico, rimasto ferito di mitraglia nell'avambraccio sinistro, nella sempre onorata e sempre dolorosa battaglia di Montanara, e di qui trassi argomento per dirgli, che io avevo dubitato di lui, ma oggimai, saputo il vero, avergli ridonato la mia stima; si consolasse: continuare io a ritenerlo, come lo reputai sempre, quanta lealtà viveva al mondo; ond'egli subito, per riparare al mal soppresso biglietto, mi scriveva la lettera seguente, che, senza sentirsi più spessi sussultare i polsi, io non credo si possa leggere da uomo vivente, amico, od avverso, che sia.

«Pregiatissimo Amico.

«9 settembre 1850.

« La lettera che mi dirigevi l'altro jeri, fu a me carissima e di verace conforto. Infatti, il pensiero di dovere nell'animo tuo essere considerato come uomo sleale, come vilissimo traditore, ed ogni traditore ed ingannatore è vigliacchissimo uomo, mi gravava potentemente su l'anima. Vero è però, che dopo i miei costituti quel gravame si alleggeriva non poco; vero è, che almeno allo Avvocato tuo difensore la dovutagli lettura del Processo doveva palesare quanto io mi fossi stato leale in cotesta epoca. Pure essere oggi fatto conscio, che tu pure lo sai, e non mi reputi reo in veruna particola di quel turpissimo fallo della Commissione Governativa, agevolmente immaginerai che mi fu, ed è di solenne consolazione. Però accogli sincero il ringraziamento per la lettera che mi scrivesti, e pel gentile pensiero che ti prese di me dal fondo del tuo sepolcro, monumento storico di vergogna... Ti lascio col desiderio che presto tu possa essere confortato dal termine di una procedura, che già già per la sua lunghezza ha indignato i Cittadini, ed anco i più avversi a te....»

Così mi scriveva il Generale Zannetti or fa un anno e 20 giorni! — Ed io gli rispondeva:

«Caro Amico.

«Ti ringrazio della lettera e del libro. Certo la condizione del tradito è dura, ma troppo peggio è quella del traditore. Questo mi dà conforto nel disonesto carcere. Il tempo poi conduce le sue giustizie, e in ciò confido. Aspettare e sperare sono fondamento di sapienza umana. Tra noi non abbisogna più lungo discorso. Addio; ci rivedremo: io su la panca degli accusati, tu nel seggio dei testimoni.»

Come io dormissi, lascio che altri pensi; — sul fare del giorno scrissi una lettera alla Commissione, e questa pure è stata soppressa; non ricordo il dettato, ma lo effetto fu che fece muovere il Conte Digny per assicurarmi stessi tranquillo, non volersi già attentare alla mia sicurezza; solo alla Commissione non piacere che io toccassi Livorno; mi adattassi a partirmi da un altro lato. Allora, e con ragione, tornai a ricordargli mancarmi il danaro per questo viaggio; però pregarlo a dire al Marchese Capponi, che le cose mie conosceva, m'imprestasse trecento scudi, i quali gli verrebbero rimborsati a vista dal mio Procuratore a Livorno; anzi questa domanda scrissi col lapis, e non mandai, ma consegnai allo stesso Digny. Costui confessa possedere questo biglietto; lo mostri. Indi a breve sopraggiunse il signor Martelli, al quale narrando il successo, e sollecitandolo a fare in guisa che il Conte la commissione assunta non obliasse, come persona turbata da cosa che le dia fastidio prese ad esclamare: «no davvero! mancherebbe anche questa! — ella devia dal suo cammino per compiacere il Municipio e la Commissione aggiunta; è giusto ch'essi pensino alle spese del viaggio.» E poichè io avvertivo ciò non montare a nulla, perchè ricco io non era, ma neppure tanto povero da non sopportare la spesa del viaggio; il signore Martelli, sempre più infervorandosi nel discorso, aggiungeva: «Il Municipio e la Commissione non lo possono patire assolutamente: adesso andrò, e procurerò quanto bisogna.» — Allora, per una ragione che non sarà difficile comprendere, favellai: «In questo caso, signor Martelli, basteranno mille lire, di cui il Municipio potrà rivalersi sopra la Depositeria, perchè dimani l'altro, 15 del mese, scade la rata mensile del mio stipendio, ed il Cassiere della Comune potrà riscuoterla per me.»[745]

Per questo modo disposte le cose, passa un'ora, passano due, senza più vedere uomo in faccia; nuove adunate di plebe accadono in piazza, e me inique voci, ma più languide assai della sera, maledicono e chiamano fuori.... ed io sarei andato fuori a domandare ragione dei vituperii, e se avessi potuto parlare avrei condotto di quella gente, almeno la onesta, a vergognarsi; invece Gino Capponi parlò per me! — Come favellò Capponi? — Parole triste non disse, — di queste non può dire Capponi.... ma io per Gino Capponi avevo, e avrei discorso in bene altra maniera![746] — Verso le undici fu vista una frotta di villani armati di falci, vanghe, ed altri arnesi rurali, precedere le Guardie Nazionali, che piegavano verso il Palazzo; i villani allagano i cortili, e levano su urli d'inferno, che per le angustie del luogo forte commuovendo l'aria ebbero virtù di scuotere i vetri così, che pareva volessero spezzarsi; io non comprendevo nulla, o piuttosto un'ombra truce di sospetto passò su l'anima mia, e mandai pel Digny chiedendogli quali arti infami fossero coteste; rispondeva scrivendo un biglietto, ov'è da notarsi questa frase: «stessi tranquillo, darsi moto per provvedere alla mia personale sicurezza.» Fors'egli per mia sicurezza personale intendeva trarmi in Castello per consegnarmi poi all'Accusatore? Questa opera emulerebbe la immanità di Maometto II, quando, dopo avere promesso a Paolo Erizzo salva la testa, lo fece segare nel mezzo per non tradire la fede della capitolazione! Se non che il fatto del Turco è dubbio, mentre quello del Conte so bene io se sia vero.[747] Verso le ore 12, venti o poche più Guardie Nazionali in compagnia del Generale Zannetti e del signor Martelli vengono a prendermi; non si mostrò Digny: — l'Accusa in vece sua si mostra, e indaga se impallidii, se repugnai; e, raccolte risposte contrarie al desiderio, sta cheta. Pellegrini, fra i primi testimoni ricercati dall'Accusa, a siffatte inquisizioni risponde: «La mattina successiva rividi il signor Guerrazzi fino alle ore 11 e ½, alla quale ora vennero a prenderlo il Generale Zannetti e l'Ingegnere Martelli; — avendo io sentito che il signor Zannetti gli disse: che andasse con lui (e mi pare anzi, che glielo dicesse come domandargli se voleva andare con lui, e soggiungendogli che poteva, volendo, condurre seco la famiglia): ed il signor Guerrazzi sentii che gli rispose: «Eccomi;» e andò via unitamente con quei Signori.» — E più oltre: — «Non mi accòrsi che si turbasse, e vidi, e sentii, che si mostrò subito disposto di andare, come di fatto andò con quei Signori.»

E perchè doveva impallidire io? Con me stavo bene; degli altri un sospetto mi aveva traversato la mente, ma lo avevo respinto come tentazione del Demonio. Doveva dubitare di Gino Capponi amico ventenne, mio confortatore nei primi passi che mutai nel sentiero delle lettere umane? Poteva sospettare io avrebbe sofferto a tenere di mano ad una prigionia, la quale me ha disertato e la mia casa, quel Capponi che nel 25 gennaio 1848, al Carcere Elbano, così mi scriveva: «Per me, che io ti abbia a scrivere in cotesto luogo, è cosa tale che io pongo tra le afflizioni della mia vita: dispiace a tutti, credilo pure, e a me più che ad altri, per quella antica familiarità ed affezione che ora mi preme più che in altro tempo di attestarti; credimi ec.?» Poteva dubitare che me volesse prigione e calpestato e distrutto Orazio Ricasoli, uomo che mi era parso di cuore dolcissimo, e che tante grazie, pochi giorni innanzi, mi aveva profferto per non crederlo capace di turbare lo acque già torbide? O Digny e Brocchi, che, lasciato da parte quanto fu discorso fin qui, la sera stessa del ricevimento dei Legati Romani, avevano tenuto meco discorso lunghissimo, nella Sala del Guardaroba in Palazzo Vecchio, intorno alla necessità della Restaurazione Costituzionale? O il Marchese Torrigiani, col quale intervennero onestissimi officii, di cui le inchieste sollecito compiacqui, e a cui la sospetta lettera senza sospetto rimisi? O il Senatore Capoquadri che, Ministro di Giustizia e Grazia, volle, per eccezione amplissima ed onorevolissima, che senza esame la Curia fiorentina nell'Albo degli Avvocati potesse ascrivermi? quel Senatore Capoquadri, il quale, da me visitato Ministro, mi palesò breve sarebbe la sua durata al Ministero, dacchè l'animo suo non gli consentisse patire certe emergenze che non gli parevano regolari del tutto; onde io da lui dipartendomi nello scendere le scale ripeteva col Dante:

O dignitosa coscïenza, e netta,

Come t'è picciol fallo amaro morso!

quel Senatore Capoquadri, che la sospetta lettera ebbe da me senza sospetto, e me ne profferse grazie? Forse doveva dubitare del Barone Bettino Ricasoli? Se mai avesse potuto rimanermi dubbio per qualcheduno, di lui doveva sospettare meno che degli altri, perchè emulo pubblico. Io così sento, e così con esso adoperai; ma pur troppo, e tardi, mi accorgo che di siffatta magnanimità, che pure si ammirava virtù tra uomini barbari e semibarbari, presso i civili è spento il seme. Temistocle, sè confidando prima ad Admeto re dei Molossi, poi a Serse barbaro, fu reputato sacro da loro; Santa Elena grida che cosa giovasse a Napoleone avere imitato Temistocle; e se ai grandi esempii è lecito mescolare l'umilissimo mio, il Castello di San Giorgio e l'infame Carcere delle Murate testimonieranno ai presenti ed agli avvenire a che meni commettersi in balía della fede degli uomini civili! — Mentre siamo per muovere, il signor Cavaliere Martelli Priore mi consegna con autorizzazione ed ordine della Commissione Governativa lire mille pel viaggio, che, dopo essermi fermato due o tre giorni in San Giorgio, tanto che la plebe quietasse, dovevo effettuare fuori di Toscana. — Martelli: «Peraltro, sebbene la Commissione su la sorte del Guerrazzi non avesse deliberato, pure tra le altre idee vi fu quella, non mi ricordo da cui esternata, di farlo allontanare dalla Toscana, dandogli il danaro per ciò effettuare. Mille lire ebbi dalla Cassa Comunitativa, e le consegnava la mattina del dì 13 al momento che da Palazzo Vecchio muoveva per la Fortezza di Belvedere, sembrandomi il momento di adempire all'autorizzazione ed ordine che mi aveva dato la Commissione Governativa.» Ecco il Mandato in virtù del quale, nel giorno 13 aprile 1849, furono estratte dalla Cassa del Municipio lire mille.Testo del documento

Questo Documento, già senza che vi sia mestiero avvertirlo, non s'incontra nel volume dell'Accusa, che pure stampò (Dio la perdoni) fino la nota della roba dei bauli. Però non è solo; altri ne occorrono parimente inediti che confermano la verità del fatto. Il danaro dato prima fu ripreso, perchè quei Signori pensarono che pel viaggio da Palazzo Vecchio al Castello di San Giorgio dovesse essermene avanzato, e per questa volta saviamente pensarono; depositato presso il Segretario del Ministro di Giustizia e Grazia, Giuseppe Cavaliere Martelli scrive la seguente lettera al Cancelliere del Municipio Fiorentino:

Autografo. Documento a c. 571 nero.

«Sig. Cancelliere Preg. mo

«Allorchè avvenne l' arresto dell'Avvocato F. D. Guerrazzi, ella sa che la Commissione Governativa si decise di aderire alla di lui richiesta, ad esso accordando la somma di Lire 1,000, perchè trattavasi in quel momento di farlo altrove transitare, mentre egli asseriva non aver presso di sè alcun danaro pel viaggio.

« Ed avendomi l'annunciata Commissione affidato l'incarico di fare avere all'Avvocato Guerrazzi la detta somma di Lire 1,000, in seguito di diverse inutili premure da me fatte, per combinare in Palazzo Vecchio le persone che dovevano farmene il mandato, io mi rivolsi a pregare Lei, signor Cancelliere, per avere dal Cassiere della Comunità le Lire 1,000, onde subito io le potessi passare al signore Guerrazzi, come di fatto feci.

«Questa somma fu poi ripresa nella perquisizione che ebbe luogo ai detenuti di Belvedere, ed ora si trova al Dipartimento di Grazia e Giustizia presso il signor Segretario Duchoqué, il quale lo aspetta oggi alle ore 12 al suo Uffizio, per riconsegnarla a lei o ad un suo delegato, dietro una circostanziata ricevuta.

« Così Ella ed io resteremo esonerati da ogni responsabilità, in questo affare, per lo che io la prego a favorire di ritirarmi la ricevuta che ritiene il cassiere del Comune di Firenze. E pregandola a praticare in quest'affare la sua consueta esattezza, onde il signor Segretario Duchoqué non aspetti inutilmente, passo con ossequio e rispetto all'onore di dichiararmi,

«Dall'Uffizio delle RR. Fabbriche, li 2 giugno 1849.

«Dev. serv. Giuseppe Martelli.

«All'Eccellentissimo Sig. re il Sig. r M. Gotti «Cancelliere della Comunità di Firenze.»

Il Cancelliere, che sa tutte le cose che il Cavaliere leale gli contesta, scrivendo al Segretario ne dichiara eziandio bene altre ancora: egli sa, a modo di esempio, che la Commissione, composta di TUTTI i Priori residenti nel Magistrato rappresentante il Municipio Fiorentino, ORDINÒ a lui Cancelliere, si dessero le lire mille per la causa espressa nella lettera del Cavalier Martelli.

Documento a c. 570 nero.

«Illus. mo signor P. ne Col. mo

«Dall'unita ufficiale del signor Cavalier Giuseppe Martelli, uno dei Componenti la già Commissione Governativa Toscana, di questo stesso giorno, rileverà la causa che motivò la stessa Commissione, che si componeva di tutti i signori priori residenti nel magistrato rappresentante il Municipio di firenze, ad ordinarmi di spedire, conforme feci, nella mattina del 13 aprile decorso, un mandato di lire 1,000, marcato di nº 424, a favore del prelodato signor Cavalier Martelli, per passarsi all'Avvocato F.-D. Guerrazzi, per il titolo espresso in detta officiale. E siccome la somma predetta esiste presso V. S. Illustrissima, per quanto resulterebbe dalla mentovata lettera del signor Martelli, mentre questa Comunità non ha ottenuto rimborso dal Regio Erario, così prego la somma di lei bontà a volere liberamente passare allo stesso Camarlingo, e per esso al suo Sostituto Legale, latore della presente, l'ammontare di detto Mandato; ritirando dal medesimo o distinta ricevuta, o meglio (almeno per quanto a me sembra) in calce di detto Mandato. E colla più alta considerazione e profondo ossequio, passo al pregio di protestarmi,

«Di VS. Illustrissima,

«Dalla Cancelleria Comunitativa di Firenze, li 2 giugno 1849.

«Umiliss. Servo «Firmato — G. Gotti.

Al signor Segretario del Ministero di Grazia e Giustizia.»

Andando con la nepote e la governante, chiesi (dacchè trattavasi di pochi giorni) mi seguitassero Roberto Ulacco segretario, e i due servitori; e lo concessero; Ulacco subito, i servitori più tardi. Durante il cammino.... Ma giova sempre, quando si può, che da per loro i testimoni raccontino. — Generale Zannetti: «Siccome, strada facendo, il signor Guerrazzi mi domandò più volte s'egli era prigioniero, oppure se così si agiva per tutelarlo semplicemente dal Popolo, non mancai riassicurarlo, dicendogli che la Commissione non poteva mancare a sè medesima. ma poichè ebbi ad accorgermi che la commissione governativa non manteneva altrimenti la sua promessa, e più che mancava di fede e di riguardo alla Guardia Nazionale, ed allo stesso Capitano consegnatario, unendo i Carabinieri alla Guardia Nazionale, per tutelare il signor Guerrazzi; e di più vedendo che la Commissione Governativa non teneva la promessa della intera ripristinazione del Governo Costituzionale; io che aveva firmato con lei, a nome della intera Guardia Nazionale, il primo Decreto da essa fatto della Restaurazione del Governo Costituzionale, non trovai altra via lecita e conveniente a calmare la mia coscienza, che quella di ritirarmi dal posto di Generale.»[748] Però mi veniva confermando, che la Commissione di mandarmi a Livorno non aveva voluto intendere nulla, e mi tornava a interrogare se io fossi contento davvero di starmi per qualche tempo lontano dal paese; ed io gli rispondeva: — che lo avrei reputato (tanto mi sentiva sbigottito dalle sventure della Patria) sommo beneficio; però conoscere egli le mie fortune, e a vivere fuori con la mia famiglia lungamente non mi bastare; ed egli cortese si esibiva tornare la sera a conferire meco in proposito; la quale cosa non consentii, dicendo tenermi per soddisfatto se avesse voluto favorirmi il giorno veniente. — Così alternando varii discorsi arriviamo al quartiere del Comandante le Guardie di Onore, dove ci tratteniamo alquanto; quindi prendendo passo passo su per l'erta del monte giungiamo sotto le mura della Fortezza di San Giorgio. Qui mi occorre un'altra infamia; le mura apparivano gremite di Veliti, i quali presero a profferire minaccie e improperii contro di me. Io strinsi il braccio al Generale Zannetti, e guardatolo in volto lo interrogai con voce tranquilla: — Dove mi porti? — Come restasse quel virtuoso uomo, male può con parole referirsi; chiamò tutto commosso il Comandante del Forte signor Cavalier Galeotti, il quale o non poteva reprimere cotesta ignominia, o la sopportava, e acerbamente lo rimproverava dicendogli: «Così non mantenersi patti; Carabinieri non dovere essere in Fortezza; ricondurmi indietro finchè non isgombrassero.» Il Comandante Galeotti lo chiamò in disparte, sussurrandogli non so quali parole nell'orecchio, a cui il signor Zannetti non parve acquietarsi. Retrocedemmo al Palazzo Pitti; passata qualche ora, torna il Generale affermando che adesso potevamo andare sicuri, perchè i Veliti a tenere dei patti erano stati remossi, e che le parole date si avevano ad osservare. Certo, quando pervenimmo la seconda volta sotto la Fortezza, Veliti non vedemmo: i Veliti erano stati appiattati nel quartiere; partito appena il Generale Zannetti uscirono fuori! — Così, postergato ogni pudore, prendevano bruttissimo giuoco della fede di uomini onesti! — In quanto al Comandante del Forte, mi proverò a sforzarmi di credere che egli non fosse partecipe di cotesta infamia. E infamia fu, però che, come ho annunziato altrove, questi, soldati no, ma della onorata milizia onta perpetua, sotto le finestre venissero a inasprirmi con disoneste parole l'amarezza del carcere, e traverso le imposte della porta taluno di loro minacciasse volere darmi della baionetta traverso il corpo. O non vi bastava il trofeo del canto al Mondragone?[749]

Mentre a diligenza del Municipale signor Cavaliere Martelli apparecchiano il quartiere molto alla lesta, come quello che doveva bastare per giorni, e si può dire per ore, io e i miei ci riduciamo nelle stanze del Prevosto. Qui mi si mostrava assiduo al fianco il Capitano Galeotti, e volendolo io dispensare dall'ufficio, risponde secco: «avere ordine di guardarmi a vista.» Finalmente prendiamo stanza nello alloggio preparato. Il Capitano Galeotti domanda se avessi armi addosso per risparmiarmi la visita su la persona! «Ma che sono io arrestato?» gli domandai. «Tali non sono i patti.» Il Capitano risponde secco: «avere i suoi ordini.» La mattina appresso volendo accostarmi alla finestra per bere un sorso di aria pura, m'impongono ritirarmi; nè stette molto, che alle quattro finestre ebbero messo le ferrate, poi le tramoggie, poi le graticole, poi le ribalte guarnite di festoni di tela, le quali calavano alle ore 24; sicchè mi parve essere diventato proprio Giona in corpo alla balena. Se l'ardore del Sole schiantava le tavole tanto che un pelo di luce passasse, ecco di subito calafati e falegnami, che penzoloni imbracati con corde inchiodavano, sverzavano, ristoppavano la fessura: poi visita alle finestre due volte il giorno, nè la rimanente casa restava imperquisita: nè basta ancora: guardie di sotto, guardie di sopra e all'uscio, e per le scale; nessuno usciva; fu dopo qualche giorno, non senza difficoltà, e non so se previa visita personale, concesso dal Cavaliere Galeotti castellano al cane di prendere aria pel Forte, ma legato. — Colà stemmo raccolti sei: rappresentai la indecenza che le donne non potessero avere stanza appartata. Credei che a gentiluomini e a padri di famiglia dovesse comparire sacra la ragione del pudore: non risposero. Rappresentai il modo disonesto del prendermi, che mi pareva nato a un parto con quello tenuto dal Valentino a Sinigaglia per ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e compagni: non risposero. In cotesta dimora, che di bellissima erano riusciti a rendere infernale, durammo giorni 44, tranne un servo (anch'egli, poveretto! côlto al laccio), che, caduto infermo di febbre, era trasportato per refrigerio al Carcere delle Murate.

Fu tramutato di Arno in Bacchiglione!

Così sepolto vivo, ignaro affatto di quello che pel mondo accadeva, mando il nepote al suo zio in Roma credendo sottrarlo al pericolo, quando ad un tratto con profondo rammarico conosco averlo esposto a pericolo maggiore. E se vi talentasse sapere quali pericoli il mio nipote, qui nella sua Patria, corresse, ve lo dirò. Giovane di 15 anni, un bel giorno mi significò volere ridursi in campo per fare il suo ufficio nell'arme dell'artiglieria. Io per distornelo gli dissi, che se voleva andare si scrivesse soldato. La età novella, il duro mestiere, la qualità del semplice gregario, gli affetti domestici e i comodi della casa, non valsero a trattenerlo; nè io, premendo il dolore, lo trattenni. Il giovanotto dopo il 12 aprile dai proprii camerati fu preso in abbominio; — uno gli sparò dietro lo archibugio! — Non vi pare questa una turpissima azione, o Signori? — Ed ora egli naviga l'Oceano fuggendo una terra così poco amica al suo sangue. Forse i miei occhi non lo rivedranno più; ma la mia benedizione lo accompagnerà da per tutto; — e la nepote, che uscita di convento per visitare lo Zio si trovò ad accompagnarlo in prigione, anch'essa come grano di spelda vive balestrata fuori della Patria sua... Oh! il primo passo che mosse per la vita fu doloroso per lei, — e queste sono le sventure che dissi: mano di uomo non può riparare, quella di Dio consolare soltanto.

Dopo 44 giorni, certa notte di maggio con misterioso terrore mi strappano allo improvviso dalle braccia della mia nepote, e mi trasportano al Carcere delle Murate; quinci la notte appresso pure mi rimuovono, e mandano a Volterra: di là finalmente, nel novembre del 1849, mi tolgono e ricacciano dentro alle Murate, dove fino da quel tempo giaccio sepolto.

Qui per ammenda, dopo lunga procedura, un giorno, armati fino ai denti di tutte armi, e a me nudo affatto, e legato, quasi per ischerno, di repente dicono: Difenditi! Per ammenda, l'Accusa, esordita da uno Zagri barattiere e prevenuto adesso di falsità, sopra le traccie somministrate da lui di continuare non rifuggono. Per ammenda, i Documenti della mia Amministrazione all'Accusa concedonsi, che ad uno ad uno gli esamina e gli sceglie; a me poi l'Accusa, e i Giudici fino ad ora li contendono.[750] Per ammenda, si trovano Giudici, che scrivono avermi colto in fragranti! quando mi trovavo in Belvedere, dove dimoravo sotto fede che alla mia libertà non si attentasse. Per ammenda, i miei Giudici naturali e necessarii, trattandosi d'imputazione relativa alla malleveria ministeriale, dove intervenne perfino Decreto firmato dalla Corona, non mi consentono. Per ammenda, immaginano non so quale delitto continuo e complesso, per cui mi troverei esposto a rispondere perfino dei fatti, che io stesso mi credei in dovere reprimere. Per ammenda novella, congiungono il mio con non so quale altro, processo di Pistoia, dove, per quanto intendo, si tratta di espilazione e di altre simili turpitudini. Per ammenda (incredibile a dirsi se non fosse vero!), L'ACCUSA il testimone Zannetti rifiuta, il testimone Digny chiama a deporre, — e questo parmì che tocchi la cima di quello che può osare un'Accusa... — Certo io sono vivo... la morte violenta di Oliverotto da Fermo, nè del Carmagnola, ho sofferto. Il secolo e il paese civili queste immanità non consentono... dal sangue aborriscono... i troppo delicati nervi se ne irritano. Lo imputato si lascia per anni e anni nella trista compagnia dei suoi pensieri angosciosi; gli si dà spazio infinito a contemplare la sua famiglia distratta, la dissoluzione del suo corpo, la etisia della sua intelligenza; gli si nega un sorso di aria pura. — Era barbarie, ma barbarie grande, quella di levare dal mondo un uomo per morte violenta: oggi la carità persuade restituirglielo, decorso spazio che reputasi conveniente di tempo. — Andate, affrettatevi al carcere, amici e parenti; l'ora venne per riscattare dalle mani di questa carità il prigioniero; ricevetelo, amici e parenti; ella vi consegna — che cosa mai? — un matto o un moribondo.

XXXI. Di una Sentenza della Corte Speciale di Parma del 1831.

Come pei tragedi antichi si costuma mettere in fondo delle loro tragedie il Coro, il quale veniva a raccontare agli uditori la catastrofe di tutta la favola; così l'Accusa, sul finire del suo Volume, stampa la Sentenza del Tribunale di Appello di Genova, del 24 luglio 1849. Dove poi io m'ingannassi, e non l'avesse posta per disporre gli animi alla già immaginata catastrofe, in osservanza al precetto della Poetica di Orazio: Segnius irritant animos demissa per aures, — potrebbe dubitarsi che l'Accusa lo avesse fatto per dimostrare come in Piemonte si astenessero dallo iniziare Giudizio, se prima non si erano bene accertati, che tutti i prevenuti si fossero posti in salvo; mentre, all'opposto, in Toscana si sono bene accertati prima di tenerli sottomano, quantunque, se qui fra noi religione di patto e santità di fede valessero, quanto (e non domando troppo) una volta valevano per le spiaggie di Algeri o di Salè, me e lo egregio uomo Lionardo Romanelli non dovessero tenere. La sentenza finale e capitale di Genova non ha fatto piangere nessuno; mentre per la Procedura fiorentina già furono le famiglie disperse, le intelligenze spente, ed altre che non vo' dire lacrimevoli sventure patite. Quando il condannato a morte può andare a cena e a dormire col Giudice che lo condannò, le sentenze danno materia di piacevolezze convivali;[751] ma occhi non bastano per piangere le blandizie di queste carceri umanitarie. Ormai, se male non mi appongo, dubito forte non abbia a correre il detto: «meglio condanna capitale del Tribunale di Genova, che assoluzione in Toscana;» però messo questo da parte, riporterò ancora io una Sentenza per Coro della mia Apologia, intorno alla quale importa innanzi tratto avvertire com'essa fosse pronunziata da Tribunale Speciale, e negli ardori di Rivoluzione pure ora repressa; come tre mesi soli, e forse nè anche tanti, gl'imputati avessero a travagliarsi nel carcere, nè uscendo da mangiare pane di dolore si trovarono ormai per tutta la restante vita imbandito pane di disperazione. Certo, io sento rispondermi dall'Accusa: «ora ad affrettarti tocca a te; io per me sono lesta.» Oh! lo credo, che tu sia lesta, e da tempo non piccolo; e forse ogni ora che passa ti par mille anni di concludere: ma io ti ricordo le parole di Ugo Foscolo al Direttore della Polizia del Cantone di Zurigo, e ti ammonisco che se alla Difesa fossero stati consentiti gli Archivii, come furono sbirciati da te, e se tu non avessi potuto ricusare lo esame del Processo al mio Difensore fino oltre maggio passato, e così due e più anni dopo il mio arresto, potremmo avere veramente concluso. — Intanto, se ti piace, leggi, o Accusa, la Sentenza di una CORTE SPECIALE.

«Parma, 7 luglio 1831. —

«La Commissione dichiara essere risultato dal dibattimento:

«Che una grave sedizione scoppiò in Parma nei giorni 13, 14 febbraio prossimo passato, nella quale gran parte del Popolo prese le armi, inalberato lo stendardo della Libertà ad esempio degl'insorti di Reggio, Modena e Bologna, e disarmò una porzione del reggimento di S. M., ed obbligò la M. S., che non volle consentire le domande dei rivoltosi, ad abbandonare la sua residenza nella notte del 14 al 15 febbraio suddetto, trasferendosi a Casalmaggiore, donde per la via di Cremona si recò nella sua città di Piacenza, ove pervenne il 18 dello stesso mese;

«Che nel detto giorno 15 febbraio il Potestà di Parma riunì il Consiglio Comunitativo, il quale ampliato per l'aggiunta di 30 Cittadini, e su la considerazione che gli Stati erano rimasti senza Governo per lo allontanamento di S. M., seguíta dal primo Magistrato dello Stato S. E. il Presidente dello Interno, senza che gli constasse a malgrado delle fatte indagini, avere essa lasciato chi la rappresentasse, nominò un Governo Provvisorio voluto dalla necessità, onde evitare i mali dell'anarchia, da tenere luogo di quello che si era allontanato, composto dei signori Conte Filippo Linati, Antonio Casa, Conte Gregorio Ferdinando da Castagnolo, Conte Iacopo Sanvitale, Cavaliere Francesco Malegari;

«Che cotesto Governo Provvisorio, al quale vennero aggiunti altri due membri, nelle persone dei signori Macedonio Melloni ed Ermenegildo Ortalli, con deliberazione di quel Consiglio Civico, emanò molti atti i quali sono certamente contrarii al governo di S. M., e che secondavano la Rivoluzione avvenuta in Parma nei giorni indicati 13, 14 febbraio, a diversi dei quali atti sono concorsi ed hanno apposta la loro firma gli accusati, Conte Filippo Linati e Cavaliere Malegari, escluso però il proclama agli abitanti della città e provincia di Parma e Guastalla dell'8 marzo;

«Considerando ch'è pure eminentemente resultato dal dibattimento dall'una parte, che tale era la effervescenza, e sì violento il moto rivoluzionario in Parma, che non era più in potere di alcuno resistervi, che esso non poteva essere vinto o compresso se non se da una imponente forza straniera, e che sarebbe stato per avventura pericoloso (senza d'altronde alcun vantaggio alla buona causa) il ritirarsi dal Governo Provvisorio, siccome si potrebbe inferire da ciò che accadde il 10 marzo, imperciocchè su la voce che si sparse di una vicina invasione austriaca essendosi quel Governo dimesso, alcuni membri vennero arrestati e tenuti prigioni; e dall'altra, che essi signori Conte Linati e Conte Malegari accettarono con repugnanza l'affidato incarico di membri del Governo Provvisorio, e a condizione, che le cose rimanessero nello stato in cui si trovavano, e che appena seppero la nomina del signor Melloni su mentovato vollero dimettersi, se non che furono istantemente pregati dai buoni e fedeli sudditi di S. M. a restare in carica, onde gl'interessi del Pubblico, che sono poi quelli dell'ottima nostra Sovrana, non pericolassero;

«Che eglino oltre di essere persone di riconosciuta probità ed onoratezza hanno manifestato, anche durante la Rivoluzione, sentimenti di attaccamento e di devozione a S. M.; che in particolare il Conte Linati si prese ogni cura per la conservazione delle cose proprie della prefata M. S. lasciate in Parma;

«Che disapprovarono gli ostaggi fatti dal Popolo in seguito dello avvenimento di Firenzuola, e s'interessarono per la loro liberazione;

« Che con la loro fermezza poterono qualche volta frenare la foga di qualche loro collega, e che si opposero costantemente a troppo ardite domande allo estremo offensive alla Maestà del Trono, sicchè essi erano venuti in odio agli esaltati, e fu più volte cancellato il nome loro negli affissi al Pubblico, ed in particolare il Cavaliere Malegari era stato trattato di spia e di traditore;

«Che lo stesso Cavaliere Malegari fu inteso disapprovare altamente la Prolusione del Professore Melloni suddetto, e dire, che il Governo di S. M. era stato indulgente verso di lui; che durante la Rivoluzione consigliò il sacerdote Bichieri ad aspettare il ritorno di S. M. per pagare un suo debito verso il Tesoro, e che non volle fosse ammesso al giuramento il notaro Begani per correre pericolo che fosse cambiata la formula del giuramento, e che fece alcun tentativo per ricondurre Parma alla sommissione di S. M.;

«Dal che tutto, si deve considerare, che la reità degli accusati Conte Linati e Cavaliere Malegari, per essere concorsi o avere apposta la loro firma in qualità di membri del Governo Provvisorio a diversi atti su menzionati, non fu che apparente, e che essi assunsero e tennero il carico di membri di quel Governo senza dolo nè ree intenzioni, ma cedendo alla forza irresistibile delle circostanze, e col proposito di far sì, che la condizione delle cose fosse la meno triste per la loro parte;

«In conseguenza di che, la Commissione proscioglie il Conte Filippo Linati, e Cavaliere Francesco Malegari, e ordina che i medesimi sieno posti in libertà ove non sieno ritenuti per altre cause.

« Sottoscritti: Rossi. — Bertolini. — Cortesi. — Parolini. — Della Valle. — Vincenzi.»

Così giudicano gli uomini virtuosi, i quali, prima di entrare nel Tribunale a scrivere sentenze, non si fermano sopra la soglia per vedere da che parte corrano i nugoli, onde regolarsi nei Motivi, Attesochè, o Considerando che si vogliano chiamare; ed in Toscana ancora, un Senatore, il quale dovrebbe giudicarmi (e tu considera, Lettore, quanto i conforti del Regio Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, per farmi stare contento a Tribunale che non sia quello del Senato, possano persuadermi), antico di esperienza e di dottrina, dettando uno scritto intorno alla vita del Prof. Pietro Obici, allorchè viene a favellare dei moti modanesi del 1831, di cui l'Obici fece parte, così gravemente si esprime: «Invitato l'Obici a far parte dello Stato Maggiore, agevolmente ne vide il pericolo; ma non credè possibile o conveniente almeno il rifiuto. — E qui ricorrono le dottrine sostenute con tanto zelo e tanta eloquenza da Lally Tolendal nella sua Difesa degli Emigrati Francesi. Negli avvolgimenti politici dee distinguersi la situazione dell'individuo, e considerare le cagioni, o per dir meglio le strettezze che lo spingono a volgersi all'una o all'altra parte. Il più delle volte la scelta non dipende dal volere, ma dalla necessità.»[752]

Però facendomi a ponderare sopra la Sentenza della Corte Speciale di Parma, e confrontandola alle proposizioni della Accusa toscana, meritano avvertimento grandissimo i fatti sopra i quali venne profferita. Maria Luisa, armata mano, era costretta colla fuga a salvarsi. Maria Luisa, come quella che reggeva assoluta quando rimase sola, o in compagnia di Ministri, in una parte qualunque dei suoi Stati, non può dirsi averne derelitto il Governo, e nondimeno la necessità del Governo Provvisorio fu ritenuta. La Duchessa cacciata con violenza alla fuga, non ebbe abilità di lasciare un Governo; tuttavolta la necessità del Governo Provvisorio non era contrastata. A Parma bastò per la elezione legale del Governo Provvisorio il solo consenso del Municipio. Atti si commisero contrarii veramente alla Duchessa, e secondanti la Rivoluzione in nome del Collegio del Governo Provvisorio; nonostante questo i Giudici parmensi si astennero dalla bestemmia ereticale d'immaginare un delitto continuo e complesso, che mette dentro una caldaja a bollire insieme Romani e Cartaginesi, Giudei e Sammaritani, Angioli e Demonii, e fatto un impasto infernale pretendere che uno debba rispondere delle azioni dell'altro. La pressura generale che nasce dal tempo e dalle tendenze degli uomini si apprezza, e si ritiene sufficiente così a muovere come a giustificare il contegno di uomini politici. Il timore probabile di danno futuro si dichiara motivo bastevole a costringere, e la preghiera degli onesti per assumere o durare nel maestrale. La probità dell'uomo, le condizioni della vita, lo attaccamento dimostrato anche da fugaci detti o da lievi fatti, si valutano per iscusare. Lo studio che gl'interessi del Pubblico non sinistrassero, i quali (ottimamente si nota) sono, a fine di conto, quelli del Sovrano, si considera causa onorevole a non disertare gli ufficii supremi nel giorno del pericolo. Si pregia la cura di conservare le cose appartenenti alla Duchessa; la volontà di dimettersi anche dopo la invasione straniera valutasi; la tutela e la difesa dei cittadini valutasi; la industria spesa a frenare qualche volta la foga di qualche collega valutasi; tutto quanto insomma dai Giudici toscani del 1850 e 1851 si disprezza, e si tiene a vile appo i Giudici parmensi nel 1831, si accoglie e si stima per rimandare assoluto il Conte Linati. Pel Cavaliere Malegari si contentarono ancora di meno, e gli ottennero assoluzione l'essersi opposto a domande troppo ardite, essere venuto in sospetto dei Rivoluzionarii, la disapprovata Prolusione del Professore Melloni, il conforto a non pagare un debito, la dissuasione a non prestare un giuramento. — Tanto alla coscienza dei Giudici parmensi del 1831 bastò per assolvere e rispettare: troppo maggiori cose, riscontri bene altramente gravi e copiosi ai Giudici toscani del 1850 e 1851 hanno somministrato argomento per accusare e insultare!

Sono venuto al termine di questa opera condotta fra mortale tedio del carcere, difficoltà di ogni aiuto, deficienza di cose maggiormente necessarie, travagli infiniti e amaritudini ineffabili; e nondimeno me ne separo con tristezza: perchè il fastidio, che a poco a poco intirizzisce l'anima, fa che si ponga amore agli oggetti più miseri; ma ormai vada a trovare sua ventura fra magnanimi pochi a chi 'l ben piace. Però io non posso concludere, nè debbo, senza richiamare l'attenzione del mondo civile sopra due punti principali. Incominciando io dalla parte con la quale termino, avrei dovuto dire: — 1º sorta la necessità del Governo Provvisorio, gli atti che operai per la salute pubblica, a giudizio dei Savii universale, vanno immuni dal titolo di lesa maestà; ed è soltanto in offesa manifesta delle dottrine comunemente accettate, che i Giudici hanno loro attribuito un carattere, che non hanno e non possono avere: 2º per patto espresso non si poteva attentare alla mia libertà, perocchè la mia prigionia desuma la sua origine dal tradimento; e se i Partiti scapigliati sono capaci di queste e di bene altre ignominie, un Governo regolare non può per religione, per fede e per dignità, giovarsene; ma sì all'opposto conviene che quanto in suo nome fu promesso, procuri che lealmente e dirittamente si mantenga.

Io ho voluto riserbare queste ragioni per ultimo, non parendo dicevole alla integrità mia opporre eccezioni perentorie; adesso poi che di punto in punto, se pure io non m'inganno, sono venuto giustificandomi, non mi pare vergogna valermene, e me ne valgo. Mantenete il patto. La Italia ricorda un'altra capitolazione tradita, e ancora Inghilterra la rammenta; imperciocchè, se mai favellando di Nelson ammiraglio tu pronunzii il nome di Trafalgar, non vi sia Inglese di cui gli occhi non balenino di nobile orgoglio; ma dove ti venisse fatto susurrare quello di Napoli, non troverai Inglese che non abbassi al suolo sbigottito la faccia.[753]

E in questa parte io volli riserbare eziandio a far conoscere, quale sia stato il palpito ultimo della mia vita al Potere, che io tenni, e me ne onoro, da cittadino e da cristiano. Nel giorno 12 aprile alle ore 8 e m. 57 antim., per via telegrafica, mandava:

«Al Governatore di Livorno.

«Nei dolorosi casi avvenuti ieri in Firenze, non si ha a vedere altro che la insidia dei nostri eterni nemici. Livornesi e Fiorentini, entrambi traditi, hanno apprestato spettacolo gradito a costoro. I Livornesi sieno generosi, con l'esempio dimostrino che non furono rettamente giudicati, e si apparecchino a difendere la Patria che essi amano tanto. Pubblica se credi.

« F. D. Guerrazzi.»

E Manganaro, amico degno della Patria e di me, rispondeva:

«Al Potere Esecutivo.

«La Città è tranquilla nè si pensa da alcuno, per ora, di recarsi a Firenze; anzi si sta redigendo un Indirizzo di pace ai Fiorentini che sarà firmato da molti.»

Così, mentre altri squassava con vigore estremo di braccia l'Albero della Discordia, e ne faceva cadere su la terra i frutti dell'odio, io, improvvido di tradimento, attendevo a insinuare nelle anime inacerbite sensi di magnanimità e di perdono, ed anche vi riuscivo: — e come il perdono fu il palpito ultimo della mia vita al Potere, così prego Dio onde mi mandi virtù che mi basti a fare sì, che la parola la quale ultima verrà profferita dalle mie labbra mortali sia: perdono a quelli che mi hanno tanto atrocemente lacerato!

FINE DELL'APOLOGIA.

APPENDICE.

A

VII. Tumulti quando incominciassero. —Pag. 37.

« Il Consiglio, — non obliando la miserabile condizione nella quale, per effetto dei mutamenti politici, era caduta la Toscana, — deliberava unanime questa dichiarazione di fiducia, formulandola così: «Siamo grati agli espedienti che il Governo si affrettò di adottare.» — Non era anche venuta l'ora dell'ingratitudine

Con quali intenzioni il signor Guerrazzi salisse al Ministero, e perdurasse in quello, si ricava dalle seguenti lettere, di cui le prime due dirette al cavaliere Niccolò Puccini; la terza ad egregia Donna lucchese, che il Prefetto di Lucca prima di rimettere fece copiare, e in copia conservò; l'ultima confidenziale al prelodato signor Prefetto.

«Amico.

«Tu molte cose hai indovinato: altre no. La troppa acutezza sfonda il foglio. Io quando scherzo ragiono come te; ma in questo mi sento superiore a te: che credo in più e migliori cose, come, a modo di esempio, nella capacità del Popolo a diventare superiore a quelli che lo hanno superato. Mi raccomandi giustizia; io ti assicuro che il tuo amico mostrerà sempre giustizia e generosità. Scusami la brevità. Tu se' discreto, e pensa che non istò in prigione per avere tempo di scrivere a lungo. Addio.

«Firenze, 27 ottobre 1848.

«Affez. mo F.-D. Guerrazzi.

«Al Cittadino Niccolò Puccini. — Pistoia.»

«Amico Carissimo.

Sai tu? le lettere mie saranno brevi, in istile di XII Tavole. — Per ora fo bene? Tu gridi: bravo Cecco! — Perchè dai di occhio ai tuoi poderi; e finchè faccio gli affari vostri, io vo d'incanto. Sta benone. Il Ministero canaglia non parti che ritenga del gentiluomo più che non credevano? Lasciamo gli scherzi, frutto fuori di stagione. Io vado innanzi secondo la mia coscienza, che, comunque inasprita, fu sempre onesta e buona. Se io non potrò dire come Pericle sul termine della vita, cioè: non avere mai offeso nessuno; spero potrò affermare non averlo offeso senza giustizia. E sta sano, mandandomi democratici deputati, — se più tardi non li volete avere escamisados.

«Firenze, 16 novembre 1848.

«Affez. mo F.-D. Guerrazzi.

«All'Ill. mo signore C. Niccolò Puccini.»

«Signora.

«Tre cose voleva Del Re, e le ha ottenute:

«Si mutasse in parte lo Stato maggiore della Civica. — Io lo aveva già mutato tutto, ponendone a capo Lelio Guinigi con moltissimi rispettabili e amati cittadini.

«Si comprimessero le Fazioni. — Io comprimerò qualunque Partito inesorabilmente, — Bigionisti e Riformisti, e lo vedrà.

«Si procurasse il bene di Lucca. — Lucca è carissima nostra sorella, e non abbiamo mai confusi i buoni Lucchesi con i pochi faziosi, Bigionisti, che fanno chiasso e lo perchè non sanno; Riformisti, che si agitano per avere impieghi che non avranno mai. — Pace, concordia e giustizia internamente, gloria italiana fuori. — Credo la Deputazione sia rimasta contenta: forse qualche individuo della medesima no: che ne pensate voi?

«Firenze, 3 del 49.

«Aff. mo A. o Guerrazzi.»

«Signor Prefetto di Lucca.

«A. C.

«Desidero vedervi presto: venite più presto che potete; superata la prima prova, il Ministero ha speranza di salvare anche quelli che l'odiano. Non sono quello che fui; non dirò che morì gran parte di me; ma se posso, voglio costringere i nemici, se non ad amarmi, ch'è impossibil cosa, almeno a rendermi giustizia. Addio.

«10 gennaio 1849.

« Guerrazzi.»

B

VIII. Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a chiarire le sofferte ingiurie per parte della Polizia. —Pag. 75.

« Questo Partito.... da me ardiva pretendere un atto di contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di un atto di fede, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la mia futura condotta.... Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole riparazione

Delle trattative intorno a tale argomento, degli artifizii del Partito avverso, delle premure degli amici, onde il signor Guerrazzi uscisse finalmente del carcere, porgono testimonianza diversi Documenti, dei quali basteranno al lettore le due Lettere che qui riportiamo.

«Amico Carissimo.

«Avrei desiderato ricevere altre lettere da te, per aver notizie di tua salute. — Sento, è vero, con piacere, che sei sano, grazie alla tua coscienza e filosofia; ma ben sai che i caratteri di un amico sono cari agli occhi, e più al cuore.

«Ogni giorno si dice che vieni: pure io dubito, che il tuo ritorno possa ritardare ancora. Corre voce, che qui vogliano accoglierti con festa, e mi dispiace, perchè così facendo si potrebbe forse recare danno alla città ed a te. — Io dico a tutti coloro che si chiamano amici tuoi, che si astengano da qualunque dimostrazione clamorosa, e ti lascino, per così dire, passare inosservato; ma non sono essi che bisogna trattenere; è la plebe, e con quella mal si ragiona. — Credo che non mi porrai nel numero dei soffocatori, ma dei prudenti; perchè mentre faccio a tutti tale raccomandazione per amore della patria e dell'amico, non saprei mai impedirti di procurarti una decorosa e legale giustificazione; e so che non sei capace di cercarne una diversa. È giusto che si conosca chi ha errato; ma ciò deve farlo la legge, e non gli esaltati, ai quali potrebbero unirsi i tristi, che pur troppo devono esservi fra noi. — Ora

Le leggi sono, e ognun pon mano ad esse.

«Se qualche volta ti ho consigliato, ho sempre avuto in mira l'utile tuo; e la lunga amicizia che esiste fra noi ti è pegno sicuro. Nell'attuale stato di cose, stimerei ben fatto, quando sarai per tornare, che con tacito permesso superiore, che credo non ti sarebbe negato, ti facessi precedere da un avviso, pregando, anzi intimando chi si vanta tuo amico, a non fare clamore alcuno, dicendo loro, che anzichè esserti di giovamento, potrebbero pregiudicarti; che questa non sarebbe espressione di amicizia, ma desiderio di nuocerti; che i tempi sono gravi, e l'unico e santo pensiero di tutti deve essere il bene reale della patria; che queste divisioni d'individui non devono convertirsi in divisioni generali; che vi sono leggi tutelanti ogni cittadino; che non hai bisogno di soccorso per difendere il tuo onore; — con tutto quel più che puoi e sai dire.

«Fallo, ed opererai sanamente, e ti sarà vantaggio. Sappi che corrono da parte a parte lettere anonime di minaccie. Previeni qualunque occasione a cui potresti servire di pretesto, e forse con tuo danno. — Io non vedo altro mezzo: — se il tuo senno te ne suggerisce uno migliore, adopralo pure, purchè produca lo stesso effetto.

«Armati di pazienza, e aspetta.

« Ho sentito con piacere che sei disposto a fare un sacrifizio alla patria ponendo tutto in oblio, purchè il Governo conosca soltanto da qual parte stava l'inganno. — Te ne ringrazio, perchè comprerei la pace nostra a caro prezzo.

«Rispondimi.

«Il tuo amico ti augura bene, e ti abbraccia.

«Livorno, 29 febbraio 1848.

« Gaetano Paganucci.

«Al sig. D. F. Domenico Guerrazzi.

«Nel Falcone. — Portoferraio.»

«Amico Carissimo.

«Livorno, 19 marzo 1848.

«Stamattina non abbiamo potuto concludere nulla, perchè essendovi stata una dimostrazione per lo Statuto romano, non abbiamo potuto riunirci. — Però alcuni fra noi sono di parere di aspettare la tua risposta; altri di fare subito l'istanza, perchè al Governo piacerebbe averla, ed il Popolo sollecita da ogni parte. — Credo che forse aspetteremo; ma tu non tardare a scrivere. — Ti dico però francamente, e da vero amico, che bisogna accettare. — Il modo sta in te, vale a dire, che puoi scrivermi lettera, dicendo (in sostanza): «che i tuoi principii furono sempre costituzionali; fede le opere tue; che l'istituzione della Guardia ti è simpatica, come lo è a tutti.» — La forma ed il resto, ognuno lo vede a modo suo. — In quanto a consentire per l'abolizione del processo politico, puoi dire, come è vero, che questo è un sacrifizio che ti si chiede; che sei sicuro del trionfo; ma che a sollecitazione non tanto degli amici, quanto di tutti, e in vista di togliere ogni occasione di discordia alla patria, ti rassegni, pronto sempre a fare in vantaggio di essa ec. ec. ec. — Dì quello che ti pare. — Se vuoi, farò stampare la tua risposta. — Peraltro ti soggiungo, che non è momento da esitare. — La pace in città esiste; ma può essere precaria; e Dio ci guardi. — Vedi: ha perdonato la famiglia dell'ucciso. — I tuoi compagni di prigionia non dissentono. Per la verità non posso dirti nulla di R***, perchè non gli parlo; ma credo che seguirà il vostro esempio; — e poi, egli è forestiero. — Ripeto, e ripeterò sempre, che bisogna sacrificarci, certi che il premio di quest'opera verrà presto. — Se volessi o potessi dirti quanto è accaduto e accade; quanti intoppi si incontrano; quanti disinganni in ogni verso; quante cose non s'intendono, ec., empierei dei volumi. — Conchiudiamo; rispondimi subito, se non l'hai fatto, e secondo il desiderio di tanti amici che ti vogliono bene. Il Governatore aspettava oggi una risposta; ma non siamo andati da lui, nè ci andiamo, prima di avere tue lettere.

«Si avvicina la sera, e vado in Piazza a sorvegliare per la pace, cosa che occupa i tanti buoni che sono fra noi.

«Addio. Ci rivedremo presto.

«Affezion. mo Amico Paganucci.

« Ti giuro sul mio onore, e non lo giuro invano, che se consenti a tornare a Livorno subito, e non vi è altro mezzo che quello che ti suggerisco, la città avrà pace; diversamente, torniamo indietro una settimana, cioè al tremendo dubbio di una guerra cittadina. — Vedi quale responsabilità ti assumi! L'amicizia mi costringe a palesarti il vero.

«Al signor F. Domenico Guerrazzi.

«Nel Falcone. — Portoferraio.»

E mentre gli si domandava oblio della offesa patita, ed ei lo dava, l'Accusa per questi fatti ha coraggio di scrivere: «che il signor Guerrazzi ha interessato la grazia!....»

C

Ivi. — Pag. 76, innota

« Al Popolo, che ingannato era venuto ad arrestarmi, tali apparecchiava parole, come resulta dallo Scritto inedito pubblicato dall'Accusa (a pag. 60 del suo Volume di Documenti).»

Eccolo per intiero:

Suadeo vos emere aliquantulum charitatis et verecundiæ, et animadvertetis vos esse cives ejusdem miseræ civitatis.

Foscolo, Hypercalypsis.

Repugnavo a emettere qualunque dichiarazione intorno al mio stato, perchè farlo dal carcere mi sembrava viltà. Adesso poi sollecitato reiterate volte dai miei amici, e persuaso che le mie parole possano tornare di qualche benefizio al Paese in cui nacqui, mi è forza rompere il mio proponimento. Dirò parole sincere, e quali nè persecuzioni immeritate, nè ardenti calunnie, potrebbero farmi dettare diverse. Io venni strappato dal seno della mia famiglia con violenza e con ingiustizia; poteva fuggire, e non volli: fuggono i colpevoli, e nei passi paurosi della fuga cercano scampo: gl'innocenti hanno da trovarlo nella giustificazione delle opere loro. Popolo sono, Popolo nacqui, e quindi non abbisogno adularlo per ottenere il suo favore; nè io posso odiare il Popolo, nè egli me: noi siamo stretti con vincolo necessario! Però troppo spesso il Popolo lascia aggirarsi dai falsi profeti, e troppo spesso lapida i veri, e poi al bisogno si trova tradito miseramente, e il pianto non giova. Popolo mio, che cosa ti feci? Mi dissero: Che tu non contavi nulla; mi proposero di entrare nel novero degli sciagurati che ti s'imposero padroni insolenti e ignoranti; si vantarono possedere potenza di punirti: finalmente (lo dico o lo faccio?) lo dirò, perchè la mia difesa è sacra: minacciarono strangolarmi, se io non avessi consentito a formar parte di loro. Immani cose e spregevoli! Forse il mio sangue potrebbe animare un secondo Trasibulo, non certo uno dei trenta Tiranni. La prima colpa, e il mal seme delle calunniose persecuzioni fu questo, — il mio aborrimento a entrare nel novero di cotesti Tiranni da dodici al quattrino. Io mi posi in disparte, e non valse: costoro non pure in Livorno, ma in Toscana, ma in Italia, me predicarono furibondo Gracco, me invaso di itterizia di sangue, me erede delle furie di Marat; ed in aggiunta agente dei Gesuiti, e compro dall'Austria, e simili altre calunnie, che mi farebbero tremare la mano se non mi muovessero a riso la bocca. Lasciamo di loro; io scuoto dal mio pensiero la loro memoria, come gli Israeliti scuotevano dai loro calzari la polvere uscendo fuori di casa abominata, — conciossiachè non sieno degni neppure di disprezzo. Ma tu, o Popolo, soffristi che io fossi tratto a vituperio in carcere, e non solo lo soffristi, ma venisti a gravare le mani, a me infermo, di obbrobriose catene! Tutto questo, perchè? Mi accusano di sette, di congreghe, conventicole insomma, dirette a sovvertire il Governo? È calunnia: io sfido chiunque ad articolare un fatto solo che induca a sospettarlo, e giuro sopra l'anima del padre mio, ch'è cosa falsa: nessuno del mio paese ardirebbe dirlo. Lo scrisse il Giornale La Italia: tale sia di lei. Parlo dei fatti del 6. Io giaceva steso sul letto infermo quando venisti in casa, o Popolo, perchè io ti servissi; cercai sottrarmi, perchè male disposto della persona e studioso di quiete; ma riuscì impossibile lo allontanamento per essere ingombro il cortile del palazzo; tornai in casa e favellai di forza: — mi lasciassero; disapprovare ogni idea di tumulto, non sentirmi capacità nè salute di avventurarmi fra coteste procelle. — Uno del Popolo mi rispose: — Ora, come? Voi avete detto che dei carichi pubblici avreste assunto quelli che il Popolo vi avrebbe commesso, e adesso vi ricusate? — Non mi ricuso; ma voi siete tutto il Popolo? Io qui non vedo alcuno che rappresenti il Governo, e il Governo nel mio concetto forma parte principalissima del Popolo, composto di tutte le classi della città. — Voi volete lo invito del Governo? — lo avrete. — Alcuni partirono, molti rimasero, tenendomi quasi in ostaggio; tornarono, e con essi lo Aiutante di Piazza Baldanzi, con istanza del signor Governatore a recarmi al Palazzo per acquietare il Popolo. Andai: — il Popolo chiedeva armi, e non altro. Seppi, che l'Avvocato Marzucchi ne aveva fatta promessa, ma non aveva potuto mantenerla; seppi inoltre avere il Popolo nominata una Deputazione per esporre i suoi voti al Governo, e cessare le dimostrazioni tumultuarie; e mi disse il Marzucchi averla proposta al Popolo egli medesimo; — proposizione che egli rinnovò il giorno nove nella Caserma della Guardia Civica, alla presenza di mille e più persone.

Parlai al Popolo poche parole, e si disperse: mentre mi tratteneva in Palazzo favellando con l'Avvocato Marzucchi e il Conte De Larderel, entrarono alcuni individui concitati nello sguardo che chiamarono in altra stanza il Marzocchi, e quindi a breve vidi uscire alcuni del Popolo, e udii che dicevano, non senza improperii: — sono venuti a proporre l'arresto di una cinquantina di popolani, la pagheranno: il pezzo più grosso ha da essere un orecchio! Abbandonai precipitoso il Palazzo, mandai subito a chiamare persona congiunta per sangue col più minacciato di coloro, e lo avvertii del pericolo. Feci il mio dovere, e non meritava veruna riconoscenza; e se non l'ho avuta, non me ne dolgo. Il giorno 7 per tempo mi condussi al Palazzo del Governatore; eranvi gli Assessori Marzucchi e Venturi e il Conte De Larderel: favellai, io credo, nè insensate nè triste parole; esposi i mali della città, proposi i mezzi di rimediarvi; di più domandai loro quello che per me dovesse farsi. Mi pregarono tutti a rimanere nella Deputazione, e adoperare ogni mio sforzo pel bene del paese. Promisi farlo, purchè essi pure cooperassero, e come provvedimento per tôrre via ogni pretesto di lite li persuasi a interporsi presso Gianpaolo Bartolommei, col quale da qualche tempo io viveva con freddezza, ond'egli consentisse formare parte della Deputazione. Recatomi col Conte De Larderel alla Comune, conferivamo su quanto era da farsi, quando sopraggiunsero gli Assessori Marzucchi e Venturi, e referirono le loro premure presso il signore Bartolommei riuscite indarno. Presenti gli Assessori distendemmo la prima Notificazione; dettò il Venturi il paragrafo relativo all'approvazione, su tutto quello avevamo fatto e facevamo, e fu egli che persuase inserire la frase che avremmo ragguagliato il Popolo del nostro operato volta per volta, sostituita alla espressione di ora in ora, avvertendo come la prima denotasse maggiore spessezza della seconda. In questa sopraggiunse un giovane colla notizia che il signore Bartolommei erasi determinato a formare parte della Deputazione, ma che prima voleva vedermi. Andai: sopita ogni grossezza, venne alla Comune. Il Popolo applause; quinci passammo alla Caserma della Guardia Civica. Tutti mi porsero amica la destra; la strinsi a tutti: il Mayer per la seconda volta domandò oblio di una ingiuria fattami; lo concessi: il Ricci pareva restio; più tardi venne a casa in compagnia dei Capitani Orsini e Conti: disse essere stato ingannato, e che chiarito dello errore veniva adesso a scusarsi; e fu accolto amorevolmente. Ogni cosa pareva disposta alla concordia, e cotesto giorno ebbe la sembianza di felicissimo. Il giorno otto per tempo mi mandava a chiamare il Governatore; eravi seco l'Avvocato Venturi; poco dopo sopraggiunse il Conte De Larderel: mostraronmi la Notificazione del Marchese Ridolfi; considerata attentamente rispondemmo: il Governo ha male appresa la Deputazione; ebbene, ognuno ritornerà alle proprie case: noi non desideriamo meglio. — No ci venne detto, voi non partirete; noi non vogliamo pubblicare cotesta Notificazione, che manderebbe a soqquadro ogni cosa. Marzocchi è partito per Pisa, e già ci ha ragguagliato. Vedete la lettera; tanta è la lealtà nostra, che noi non dobbiamo celarvi nulla. La lettera parlava di spiegazioni date al Ministro, e della favorevole accoglienza delle medesime; avere proseguito, egli Marzucchi, per Firenze, per dare ad altri coteste spiegazioni; augurarne bene; — badassero a tenere tranquilla la città; — dissuadessero la Deputazione recarsi dal Ministro, perchè forse non sarebbe stata bene accolta. Conchiusero finalmente col pregarci a rimanere nella Deputazione fino a nuove istruzioni. Osservai, badassero bene che noi intendevamo rimanere perchè pregati, e non volevamo poi essere ripresi di nulla. Il Venturi mi stese la mano dicendo: Francesco, noi ci conosciamo da molti anni: sono un galantuomo: tutto quello che avete fatto e farete fu con piena approvazione del Governo: e se mai trovassero a ridire sul vostro operato, io vi prometto che darò subito la mia dimissione. Venturi non ismentirà le parole, e il Conte De Larderel ne può fare buona testimonianza; ma non abbisognerà certamente. Dopo ci mostrarono varie dimissioni dai gradi della Civica, che a loro e a noi parvero inesplicabili; erano di Gianpaolo e di Luciano Bartolommei, di Federigi e di Fiorini. Il Gonfaloniere ed io andammo alla Comune: qui trovammo lettera di L. Giera dimissionario dal posto della Deputazione. Il signor Gianpaolo Bartolommei non credè civile neppure scrivere alla Deputazione; mandò un articolo al Corriere Livornese, in cui, discorrendo di non so quali rimorsi, diceva deporsi dall'assunto incarico. Rispondemmo ad ambedue manifestando loro lo invito dell'Autorità locale, e pregandoli a sospendere le dimissioni fino a nuovi ordini del Governo. Tutto ciò ci fece nascere sospetto, che qualche segreto agitatore si compiacesse seminare lo spavento e scompigliare la concordia; sospetto reso tanto più grave da un Ordine del Giorno del Colonnello della Guardia, del giorno avanti, che invitava tutti i Civici a radunarsi per difendere (niente meno) la vita e le sostanze dei cittadini, — e da certe espressioni sfuggite al Ricci nella Caserma, nel giorno stesso quando mi era condotto davanti: come! mi avevate detto che dovevamo fare sparger sangue; ed ora non è più vero? — Adesso alcuni ufficiali della Civica prorompono nella stanza, e passionatamente domandano, che cosa intendessimo fare, se scioglierci o rimanere. Manifestammo loro le istanze del Governo locale. Invitati ad andare in Caserma a ripetere coteste spiegazioni, andammo e le ripetemmo. L. Giera, sopraggiunto, disse che nel suo particolare aveva ricevuto uguale preghiera dal Governo. Invitati a pubblicare cotesto fatto li compiacemmo con la seconda Notificazione. Di poi ognuno si ritirò, aspettando le ulteriori disposizioni del Governo. Il giorno 9 il Governo non cerca più di me, ma invita gli ufficiali della Civica, e partecipa loro altra Notificazione del Marchese Ridolfi. I fratelli Bartolommei vennero a comunicarmela, domandandomi che intendessi fare. Risposi sorridendo: «starmene in casa a badare ai miei negozii.» Più tardi si fecero a trovarmi molti individui, avvertendomi essere necessario che io manifestassi il mio concetto (che la soppressione della Deputazione non era cosa che meritasse sdegno), e inculcassi la necessità della concordia. — Ben volentieri mi recai alla Caserma a prestare quest'ufficio. Nella stanza degli ordini avvennero diverse arringhe più o meno concludenti, ma cospiranti tutte alla pace, alla tranquillità e alla concordia. — Nello uscire dalla stanza una voce sinistra mi percosse: — «Bisognerebbe ammazzarli tutti!» — Mi sentii ribollire il sangue, ed esclamai: — la quiete è stabilita, nessuno ardirà turbarla; ma se mai per somma e non preveduta sventura qualche tumulto avvenisse, guardi la Civica a non far uso delle armi: pensi che potrebbe rimanere ucciso un padre o un fratello. — Giunsi alle scale; la calca era folta; non si poteva avanzare nè retrocedere; intanto vedo apparirmi incontro l'Avvocato Marzucchi. Respinti in mezzo alla Caserma, io domandai al Marzucchi spiegazione di certe parole lette nella Notificazione, che mi parvero lesive così alla verità come all'onore; le parole suonavano: coloro che si dissero vostra Deputazione ec. — Come hai consentito, lo interrogava io, che queste parole si stampassero, quando noi fummo da te pregati a formarne parte? quando quello che facemmo fu da te approvato? — Il Marzucchi, presenti mille persone, rispose: — Finchè io mi rimanga rappresentante del Governo, mi sia permesso non manifestare la mia opinione sopra gli atti del medesimo; in quanto a quello che avverte il Guerrazzi, è vero; il Governo locale approvò quanto dalla Deputazione venne operato, e la Deputazione fu proposta e consigliata da me. — Io mi dichiarai soddisfatto, e aggiunsi che mi ritiravo nelle mie case. Marzucchi allora, ammonendomi gravemente, mi disse: — No, non devi ritirarti, ma affaticarti pel bene del tuo paese; — con certe parole dolci di lode, scontate con largo sorso di amaro. Allora di nuovo parlai, parlò lo stesso Marzucchi e Bartolommei, credo Bernardi e Ricci. Mentre così ci travagliavamo, una vocina stridula si fece sentire: «la Deputazione è figlia della minorità!» — Queste parole irritanti m'increbbero: mi volsi a vedere chi le avesse proferite: era un tal Viviani; allora esclamai: — Oh! l'ho notato, è il Viviani, non ci occupiamo di lui.-E la gente d'intorno impose silenzio allo importuno. Il Viviani pretende che io immaginassi una proscrizione; ch'egli fosse posto nelle note; egli mi finse Silla, sè proscritto. Il Viviani ha fatto me e sè troppo grandi. Veramente non ho la pazienza dello zio Tobia, che vessato dalla mosca la prese, aperse la finestra, e dicendole: creatura di Dio il mondo è largo abbastanza perchè noi non ci diamo noia! la pose in libertà; — ma mi protesto, che non ho mai imitato Domiziano: però viva, sieno quieti i suoi sonni: se deve morire per le mie persecuzioni, può contare sopra 100 anni di vita. — Il Popolo adunato, scosso da tante esortazioni, giurò sopra il suo onore da ora in avanti rimanersi tranquillo; la Guardia promise vigilare alla quiete della città. Allora proposi a Marzucchi: poichè ogni motivo di provvedimenti straordinarii cessa, prega il Ministro a ritirare le milizie, e concedere che il Municipio si aggiunga varii individui, i quali, prevenendo ogni dimostrazione tumultuaria, si facciano organo presso di lui dei voti del Popolo. Promise farlo, e credo ancora promettesse darmi risposta in giornata. Tornai a casa. Alle 2 p. m. il Conte De Larderel venne a trovarmi; mi disse essere stato accolto freddamente dal Ministro Ridolfi; aggiunse sentirsi male disposto, andassi a trovarlo nella sera. Più tardi ricevo avviso essere stato risoluto il mio arresto; mi posi a ridere; a buio si rinnovarono gli avvisi. Mi misi a scrivere un articolo di Giornale. Alle 8 circa, vennero Giannini e Meucci per parlare del Giornale, e rinnovarono lo avviso; intanto sopraggiunge Dario Bastianelli ad avvertirmi per parte del Conte De Larderel, non istessi ad andare da lui perchè gli era entrata la febbre. Dopo questi venne il signor Mastacchi, giovane al quale in tempo di mia vita avevo allora forse favellato tre volte, e mai di politica; e notiziandomi sicuro il mio arresto, mi scongiurava a non soffrire questo insulto tanto fatale alla mia mal ferma salute; mi scansassi, in qualche luogo riparassi fino a ragione conosciuta. Ringraziai cordialmente per tanta bontà l'onesto giovane, e gli altri venuti con lui a me ignoti perfino di vista, ma nel tempo stesso scriveva un biglietto a Gianpaolo Bartolommei: avere da più parti saputo che il Governo disegnava arrestarmi, ordinasse tenere aperto il portone, perchè non desideravo trovassero i Carabinieri impedimento. — Ahi io credeva che soli i Carabinieri sarebbero venuti ad arrestarmi!

Questa è la verità, e null'altro che la verità. Ora mi volgo ai miei Nemici, ai Giornalisti, ai Municipii, al Governo, e al Popolo, e dico:

Ai Nemici: — Voi mi avete atrocemente perseguitato; calunniato senza coscienza e senza verità: voi mentre ero in carcere avete versato a piene mani sopra di me la ferocia e la menzogna[754], rinnovando le immanità dei Veneziani che conducevano la loro vittima al supplizio tra le colonne di Piazzetta San Marco con la spranga alla bocca, o la gittavano cucita dentro un sacco nel Canale Orfano. Voi mi avete baciato e tradito come Giuda[755]. Tal sia di voi. Voi temete che io mi vendichi di voi? Il giudizio del pubblico e i rimorsi della vostra coscienza bastano soli alla mia vendetta.

Ai Giornalisti: — Alcuni senza conoscermi mi hanno difeso; che posso dir loro? Io gli ringrazio meno della difesa, che per avermi mantenuta la fede negli uomini: altri, conoscendomi, tacquero; pieni di tanto sdegno per le ingiustizie che si commettono mille miglia lontano, per le domestiche non hanno ire. Il cuore loro è fatto ad uso di fantasmagoria. Che giovano le parole? Esse sono frasche. Ognuno verrà giudicato a misura delle opere, e un giorno il vostro peso sarà trovato leggiero sulla bilancia.

Ai Municipii Toscani: — Perchè veniste volta a volta a lanciare le vostre imprecazioni sopra Livorno vostro fratello, come sopra una vittima espiatoria? Certo vi scusa lo essere stati indotti in errore da taluni de' miei concittadini, che per sostenere le loro calunnie non aborrirono infamare il proprio paese, e renderlo esecrabile alla faccia della Italia: ma senno e carità volevano che voi v'informaste bene dei fatti, prima di cuoprire d'obbrobrio una città innocentissima. Adesso sarebbe giustizia emendare i vostri Indirizzi, non già nella parte in cui dimostraste la vostra benevolenza al Principe Costituzionale, che non contiene in sè nulla che non sia commendevole, ma nell'altra che esprime gl'immeritati improperii.

Al Governo: — Io non voglio con inopportune querele creare imbarazzi e promuovere scandali; ma si persuada che nè Catilina vissero in Livorno, nè vi fu mestieri salvare la patria. Il Governo porse troppo facili le orecchie, e trasmodò in atti violenti ed ingiusti. Quando i Popoli si commuovono, è difficile che non nascano Partiti; più difficile che i cittadini all'uno o all'altro non si appiglino. Solone, che pure fu salutato uno dei sette Sapienti della Grecia, ordinò, nelle leggi che dava ad Atene civilissima, il bando a chiunque non avesse Partito; piacendogli piuttosto il cittadino appassionato, comecchè poco direttamente al bene pubblico, che lo ignavo e lo inerte. I Partiti voglionsi dominare e dirigere, e non farsi schiavo di nessuno. Il Governo rinnuovò lo errore di Enrico III, il quale si dette in balía della Santa Lega, e cessando essere re di Francia diventò servo dei Guisa e capo di fazione. I tumulti a Roma, nota Machiavelli, giovarono alla Repubblica, perchè terminarono sempre in buone leggi: nelle condizioni presenti dei Popoli, io per me non approvo i tumulti, ma, come Machiavelli nelle Storie m'insegna, noi non potremo deplorarli abbastanza, quando terminano con le prigioni e lo esilio dei cittadini. Questa sventura condusse a precipizio la Repubblica Fiorentina. E se siffatti mali nascono da provvedimenti violenti, quanti non ne dobbiamo temere maggiori quando le violenze percuotono cittadini incolpevoli, che invece di provocare tumulti si affaticano, richiesti, con ogni forza loro a comporli? Ma se umana cosa è lo errare, bestiale è poi ostinarci nello errore. Io non muovo querele, nè do consigli; e non ostante, meno per me che per la causa della giustizia e della verità, pei luttuosi fatti della notte del 9 gennaio, io lo conforto a riparare l'onore offeso di persone che non demeritarono la benevolenza della patria e la stima dei generosi.

Al Popolo poi convienmi fare più lunghe parole. — Tu, o Popolo, sei venuto a incatenare me, colpevole soltanto di averti obbedito in cosa innocente, a te consigliata, e ad ogni modo a me estranea affatto. Tu hai incatenato queste mani che non vergarono scritto che non tornasse in onore della patria italiana. Gli stranieri una volta, sbarcando in Livorno, davano di occhio ai Mori della Marina, e andavano via sprezzando questa nostra città, come una osteria posta sopra la strada maestra[756]. Se oggi si trattengono un'ora, lo fanno per istringermi la mano, e l'onore del figlio del Popolo refluisce sul Popolo, perchè la mia fama è tua fama..... Se ho trascorso..... perdona questa vampa di orgoglio a colui che fu sempre saturato di calunnia e di vituperio! Un Carabiniere, nonostante il timore della punizione, mi tolse le catene che tu mi desti, e agitato dalla paura di avermi offeso ne ha perduta la ragione. Una persona costituita in dignità squassò sdegnosa le catene, gridando più volte, e non senza pianto: questa è una indegnità! — E così un Carabiniere ed uno Impiegato ebbero per me la pietà che mancò a te, — a te, mio Popolo, pel tuo figlio che t'ama. Ma tu, o Popolo, rigetti la colpa sopra la Guardia Civica, ed essa, chiamandosi ingannata, la rigetta sopra alcuni ribaldi. E sia così, e così mi piace, e giova credere. Ma dimmi: i lupi cessarono di starsi in custodia del gregge? Il grano fu separato dal loglio? Dura tuttora, o cessò il regno di Giuda? Cotesti servi di tutti i poteri, traditori di tutti gli amici, adulatori di chi sorge, calunniatori di chi cade, coteste vespe importune e venefiche ti sussurrano sempre dintorno?

Ma se tu pensassi, o Popolo, che io volessi concitare il tuo sdegno contro costoro, t'inganneresti. Oh! vivano nella loro viltà come sopra un letto di riposo. La stirpe dei codardi per sommo di Dio benefizio è scarsa tra noi; conserviamoli gelosamente come mostri: noi gli additeremo ai nostri figliuoli, nella stessa guisa che accennavano al fanciullo Spartano lo Iloto ubbriaco.

Io l'ho detto: tra me e te, Popolo, noi non dobbiamo odiarci, nè lo possiamo. Forse Aristide odiò la patria perchè bandito ingiustamente? In certa notte con pericolo di vita ruppe il bando, e fu la precedente alla battaglia di Salamina, per avvisare Temistocle intorno alla ragione dei venti, e all'ordine della flotta persiana. Gli antichi esempii non saranno stati letti invano. I Veneziani supplicarono Carlo Zeno imprigionato iniquamente, onde salvasse la patria dal pericolo supremo da cui era minacciata: usciva, pugnava, vinceva, e poi altero e costante tornava al carcere[757].

Tra me e te ogni trista memoria è obliata, o Popolo, e con tutti fra te. Vi lasciai non liberi: uscendo adesso vi trovo facoltati a farvi liberi se volete. A patto tale, chi non vorrebbe avere sofferta la prigionia? Baciamoci dunque, e stringiamo ora che ne fa mestieri più che mai i vincoli di famiglia. Giù rancori, giù discordie, se volete essere forti contro il nemico comune: io non so davvero come potrete riuscirvi, con matte fazioni tra voi. E soprattutto nè viva a tale, nè morte a tale altro: il secondo grido è crudele, o la nostra religione lo aborre; il primo è segno di servitù. Oggimai non hanno a contare gl'individui, ma i principii. Mi confortarono, o Popolo, ad abbandonarti, e porre la mia stanza in altro paese. Non posso farlo: le cose si amano pei sagrificii che costano, e il mio paese mi costa assai. Io qui ebbi nascimento, e qui desidero sepoltura accanto alle ossa del padre mio e dei miei amici, che più felici di me mi precederono nella morte: io continuerò, secondo che è dato al mio povero ingegno, a onorarli come posso e devo; ma tu, o Popolo, ricompensami con lo starti unito, col non fare il mio nome bandiera di fazioni e di tumulti: io te ne scongiuro per la mia fama, e più per la tua: anche tu fosti accusato, e devi mostrare che lo fosti a torto, a nessuno secondo tra i Popoli italiani, e a qualcheduno primo. Le petizioni offrono mezzi legali per manifestare i tuoi voti: e per tôrre d'inganno il Governo attienti a queste.

Terminerò col darti uno avvertimento non inopportuno ai tempi che corrono. Le cose di Francia non t'illudano; gli Stati non vivono d'imitazione. Ogni Popolo ha le sue età. Non bene risensato dal lungo letargo, male imprenderesti a correre. Sta quieto; fortificati; sviluppa il tuo ingegno nello studio del reggimento degli Stati. La forma costituzionale presenta campo abbastanza per questo. Certo, il contegno di Luigi Filippo ti rende sospettoso; per lui il trono circondato da istituzioni democratiche diventò menzogna; ma la colpa stette nell'uomo, non già nella cosa; e alla fine tu vedi a quale luttuoso termine lo ha condotto la sua slealtà. Occorrono esempii di re e repubblica vissuti lungamente d'accordo. Senofonte nella vita di Agesilao ci porge testimonianza di questo fatto, con le seguenti parole: «lo elogio di Sparta non può separarsi da quello della sua famiglia, perchè se Lacedemone non imprese a spogliare i suoi re del potere supremo, i re a posta loro non ambirono autorità maggiore di quella che concedevano loro le leggi.»

Di più non dico, e forse il detto è troppo. Tu, o Popolo, vorrai intenderlo e seguitarlo? Deh! sia dato un giorno di conforto al travagliato mio spirito!

Di Prigione, 19 marzo 1848.

F. D. Guerrazzi.

D

IX. Esame del §§ VI, VII, VIII, dell'Atto di Accusa. —Pag. 113.

« Nè, come per sè stesso poco è vago di parole il Commercio, così egli si era rimasto a dimostrarmi la sua benevolenza con vuoto suono di favella, chè mi aveva profferto largamente qualunque somma pei bisogni della patria avessi riputata necessaria. »

A dimostrare la temperanza civile del signor Guerrazzi, l'animo suo disposto ad ogni più umile ufficio, purchè utile al bene della sua Patria, e come si fosse largamente meritate le profferte e le lodi de' suoi concittadini, si riporta il seguente Documento del signor Avv. Dell'Hoste[758], dal quale resulta com'ei si offerisse perfino a fare da segretario al signore Guinigi, onde comporre le turbolenze livornesi. Così narra Valerio Massimo che Epaminonda si adattò a sostenere l'impiego di soprastante alla nettezza delle strade di Tebe, rendendo, con la splendidezza dell'opera e la modestia dell'animo, onoratissima una carica che aveano voluto imporgli per umiliarlo[759].

«Stimat. mo Sig. r Cancelliere Guidotti.

«Benchè i miei commessi di Studio mi avessero assicurato di avere, nei sette mesi del mio arresto politico, puntualmente eseguito il mio ordine, di abbruciare anche i più indifferenti carteggi che non fossero di affari meramente legali, non già per riguardo mio, ma unicamente per togliere di mezzo le carte inutili, nella riordinazione dei miei fogli, nulladimeno, per adempire alla promessa che ieri le feci, io ho consumata oggi inutilmente tutta la giornata in cercare il viglietto Guerrazzi del dì 15 settembre 1848, a cui alludeva la lettera che al medesimo io risposi in detto giorno, e che ella mi contestò ieri per incarico della Direzione Criminale di Firenze.

«Sono dolente che anche quel biglietto sia stato dai miei commessi distrutto, ma mi consola il pensare che il signor Gonfaloniere Francesco Ruschi, ed il già Ministro dell'Interno signor cavaliere Donato Samminiatelli, lo lessero in quello stesso dì 15 settembre 1848. Intanto io scrissi in detto giorno al Guerrazzi in quella mia lettera, che io ero rimasto edificato del di lui contegno, inquantochè egli spontaneamente dicevami, che esso si sarebbe adattato a fare anche da commesso al Guinigi, se lo rimandavano come Governatore a Livorno, imperocchè egli dichiarasse di non conoscere altra idea che questa per ristabilire il buon ordine in detta città.

«Questo mi sono creduto in dovere di scrivere a VS. in ordine all'invito che ieri alla fine del mio esame facevami, di verificare se il detto biglietto Guerrazzi, de' 15 settembre 1848, esistesse tuttora presso di me.

«E con tutto il rispetto mi dichiaro

«Suo Devotiss. o Servo « Avv. o Antonio Dell'Hoste.»

E

Ivi. —Pag. 117.

« Narra l'Accusa, ed è vero, che in varie città della Toscana (essa rammenta Livorno, Arezzo e Lucca) avvennero manifestazioni affinchè S. A., Montanelli e me chiamasse al Ministero. »

Quando fu fatta la dimostrazione ad Arezzo, Montanelli era già incaricato della formazione di un Ministero, e certo cartello, di cui parla la querela aretina contro Tornelli e consorti, non indicava nome di alcuna persona. Questo vuolsi dire a rettificazione di quanto è stato appreso per vero sulle false asserzioni dell'Accusa alla pagina indicata.

F

XXII. Atti speciali, § 5. —Pag. 289.

« Nelle prime ore pomeridiane del giorno 8 febbraio Firenze, Pisa, Lucca, Livorno, Massa, Arezzo, Montepulciano, Grosseto e Siena con tutti i paesi circostanti erano per me informati precisamente del vero stato delle cose. »

I Dispacci della notte del signor Guerrazzi alle Autorità provocavano Proclami dove si dichiarava assente la Corona, e che a vigilanza sua nel Monitore officiale stampavansi.

«Cittadini!

«Nell' assenza del Granduca, la Camera dei Deputati e quella dei Senatori, in mezzo agli applausi ed alle acclamazioni del Popolo Fiorentino, eleggevano ad unanimità i cittadini Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, a comporre e rappresentare il Governo Provvisorio della Toscana.

«In tal modo è provvisto alla sicurezza dello Stato; e noi conosciuta la solennità del momento, il bisogno della cooperazione di tutti i buoni, l'interesse di guarentire l'osservanza delle Leggi, procureremo, ciascuno nei limiti delle proprie attribuzioni, che l'ordine e la quiete sia conservata nel nostro Compartimento, come lo è stata nelle altre principali città della Toscana.

«Cittadini, l'unione delle Autorità, come costituisce un loro dovere, non può che essere il primo dei vostri desiderii per il conseguimento della comune prosperità. Cotesta unione sarà tanto più efficace, perchè voi vi mostrerete solleciti coadiuvatori degli atti del Governo intesi al ben essere generale.

«Le virtù vostre, il vostro amore per la Patria, per le libere istituzioni, come rifulsero in ogni tempo, si manifesteranno più splendidi adesso che la Patria lo reclama, la Italia lo chiede, lo rende indispensabile la realizzazione delle nostre speranze.

«Lucca, 8 febbraio 1849.

« R. Buoninsegni Prefetto — G. B. Mazzarosa Gonfaloniere — L. Guinigi — N. Guinigi — G. Manganaro — A. Pandolfini — G. Pagliaini.

( Monitore Toscano, 10 febbraio 1849.)

G

XXIV. Spedizione di Portoferraio, e di Santo Stefano, § 1. —Pag. 312.

« I Circoli, nientemeno, si reputavano, ed erano padroni.... Avvi una testimonianza gravissima di quello che potesse allora il Governo, ed è del Ministro Inglese. Se fossero pubblicati i Dispacci di Benoît Champy Ministro di Francia, ne avremmo altra solenne conferma. »

Il signor Benoît Champy si è fatto pregio d'inviare la seguente lettera a lode del signor Guerrazzi.

«Paris, 10 Septembre 1851.

«Monsieur.

«Vous me demandez quelles ont été mes impressions au sujet de la ligne politique suivie par le Ministère formé en Toscane au mois d'octobre 1848, dans les diverses circonstances qui ont succédé et suivi le départ de S.A.R. le Grand-Duc, de Sienne pour Santo-Stefano. C'est au nom de la défense d'un accusé que vous m'adressez cette demande: il est de mon devoir de vous répondre; je le fais avec une entière franchise.

«Je déclare donc, 1º que jusqu'au départ de S. A. R. le Grand-Duc, de Sienne pour Santo Stefano, le Ministère dont M. Guerrazzi faisait partie m'a paru constamment animé de la ferme résolution de maintenir intacts les droits et l'autorité du Souverain, en même temps que les principes politiques qu'il représentait en arrivant au pouvoir.

«2º Qu'après le départ de S. A.R. le Grand-Duc pour Santo Stefano, les membres du Gouvernement Provisoire, parmi lesquels figurait M. Guerrazzi, non seulement ont cherchè par de louables efforts à protéger la paix publique et la sécurité privée, mais encore ont résisté avec énergie a la pression des Clubs, qui demandaient que la déchèance du Souverain fût immédiatement prononcée et la République proclamée en Toscane. La volonté des Membres du Gouvernement Provisoire était de réserver à la Nation seule le droit de décider de la forme et de l'organisation politiques qu'il lui conviendrait d'adopter.

«Telles sont, Monsieur, mes impressions: elles sont encore aujourd'hui ce qu'elles étaient au mois de mars 1849, époque à laquelle, nommé Ministre de France à Carlsruhe, j'ai dù quitter la Toscane. En vous transmettant ce témoignage, j'ajoute qu'il est l'expression d'une convinction sérieuse et profonde.

«Veuillez recevoir, Monsieur, l'assurance de mes sentiments de haute considération.

« Av. Benoît Champy, «Représentant du Peuple à l'Assemblée Nationale, ancien Envoyé extraordinaire et Ministre plénipotentiaire en Toscane.

« A Monsieur l'Avocat Corsi, «Florence.»

H

Ivi. —Pag. 314.

« Facendo scrivere il 14 febbraio 1849 (giorno della Spedizione a Santo Stefano) al Governatore di Portoferraio, lo Ammoniva: «Se il Principe è partito, non è decaduto; lo Stato non è perciò venuto a mancare; le leggi non sono abolite ec. » Nè solo faceva scrivere, che il Principe non era decaduto, ma confidenzialmente lo scriveva di propria mano egli stesso al Prefetto di Lucca Raimondo Buoninsegni:

«Ministero dello Interno

«A. C.

«Torno a scrivervi. — Armate — armate — armate.

«Suscitate con tutti i mezzi il patriottismo del Popolo.

«Credete a me; co' Riformisti non tregua mai nè pace; ci fanno guerra sotterranea e crudele.

«Non temete Piemonte. Francia e Inghilterra stanno con noi e proteggono. Non abbisogniamo di giuramento. I soldati giurarono allo Stato. Lo Stato ci è. Leopoldo NON FU DICHIARATO DECADUTO: ciò spetterà, SE VORRÀ FARLO, alla Nazione.

«I soldati non saranno tutti cattivi: separate i buoni dai tristi; comprimete, fucilate: fate il diavolo e peggio, che in questi casi è il meglio.

«A Manganare fu scritto opportunamente. Eccitate i soldati con premii e buone parole. Domani una Legge militare.

«Sarà provvisto danaro in tempo. Confermo le passate. Energia, perdio! energia; le mezze misure ci ammazzano.

«Firenze, 13 febbraio 1849. — 1 ora e ½ pom.

« Guerrazzi.

«Avvisate di ora in ora.»

I

XXV. Spedizione di Lucca, § 9. — Pag. 481, innota.

« Qui ho parlato di Decreto pubblicato senza ch'io lo firmassi: nell'Appendice terrò discorso di altro Decreto da me firmato senza averlo letto. »

Io ho parlato di Decreto impresso senza il mio consenso, e senza la mia firma; ora terrò discorso di Legge pubblicata con la mia firma, e senza il mio consenso, e voglio dire della Legge del 4 marzo 1849. — Questo però non s'intenda assolutamente alla lettera, però che il Decreto del 4 marzo 1849 fosse, co' lavori disposti dal Consiglio di Stato, e dal Cavaliere Sopraintendente Peri, annuente il signor Mazzoni, compilato dall'onorevole uomo Lionardo Romanelli, il quale venne a sottoporlo alla mia sanzione mentre il Legato Maestri, col suo Stato Maggiore, sosteneva meco la sua lotta quotidiana; onde io turbato dalla contesa vi gettai sopra gli occhi, ma la condizione dell'animo mio non mi concedeva, non che considerarlo, leggerlo materialmente; e questo sia detto affinchè non si creda il signor Romanelli capace di sottrarre la firma altrui per sorpresa: la colpa fu tutta mia, non sua.

Di nessun peccato mai ho così fervorosamente pregato Dio a perdonarmi come di questo. In quell'Atto si vede sanzionato il principio della separazione in carcere per tutto il tempo della pena. Ora questa misura è contraria alla religione, alla salute del carcerato, alla sua intelligenza, al fine della pena, alla economia e al bene della società.

Alla religione: perchè l'uomo per la prigionia separata, di soverchio protratta, si dispera, e, o violento si dà la morte, o nel cuore diventato salvatico maledice quello ch'è orribile maledire. In Inghilterra, nella prigione modello di Pentonville, di cui ragionerò più sotto, nello spazio di 18 mesi si verificarono sei suicidii sopra 450 detenuti; e il Coroner ebbe a dichiarare parergli cotesto sistema fatale.

Alla salute: dacchè è provato come l'uomo non possa stare per anni e anni dentro una cella di pochi passi alta e lunga, stremo di aria, senza intisichire, o contrarre altro morbo locale, come scrofole tubercolari o alienazione mentale. Il carcere di Pentonville fu fabbricato per 500 prigionieri, e costò 3 milioni di lire. La camera di ogni detenuto ha 14 passi di lunghezza; l'aria vi si rinnuova mercè ventilatori costruiti co' migliori trovati; col mezzo di bene intesi apparecchi, vi si alternano correnti di aria fredda e calda; così che durante mesi interi la temperatura non varia più di un grado o due; vi si trovano campanello per chiamare i serventi, sedie, tavolini e letto eccellentissimi, tavola per le mondizie, dove due cannelle versano a piacimento acqua calda e acqua fredda. Il vitto corrisponde allo albergo; abbondante, ben cucinato, di prima qualità; carne giornalmente, perchè trovarono, che senza carne il prigioniero diminuiva notabilmente di peso (oltre 15 libbre per individuo, è 86 su %), e le forze lo abbandonavano. Non vi è con minore diligenza curato lo spirito; vi si trova una Biblioteca generale, e alquanti libri compongono una biblioteca particolare per ogni cella. Quattro professori sono preposti allo sviluppo della intelligenza dei condannati. I Vescovi e i Ministri di tratto in tratto li visitano. Nonostante queste comodità, ho notato il numero dei suicidii nel corso di 18 mesi; e nonostante gli agii esposti, uomini di dottrina e di pratica grandissime hanno attestato solennemente, che l'uomo non può sopportare senza danno dell'anima e del corpo la carcere separata per più di 12 mesi. Dopo i 12 mesi si ammettono i detenuti al lavoro collettivo, poi si trasportano nella terra di Van-Diemen, alla isola di Norfolk, nell'Australia, o altrove. — Con l' Atto dei 4 marzo 1849, confermato con la Legge del 5 maggio 1849, tutta intera la pena si sconta nella carcere separata; ch'è quanto dire con la perdita della salute e della intelligenza, peggiore assai di quella della vita; — il lavoro, la più parte in cella, consistente in filare canape, fatalissimo per la polvere minuta che n'esce, causa potente di etisia; — il vitto vario: pei condannati allo Ergastolo, carne (4 oncie) e vino (1 mezzetta), una volta per settimana; alla Casa di Forza, carne e vino nella medesima proporzione, due volte; alla Casa di Detenzione, tre volte: — ventilatori non si conoscono; temperatura quale la stagione manda nella state e nel verno; aria poca, acqua fredda sempre; — mobili, un letto pieno di capecchio, che si alza e si chiude al muro per tutta la giornata; non seggiole, non tavole; uno sgabello incatenato, una mensola traversa, una catinella, una brocca, un vaso mutato due volte al giorno; — le stanze lunghe sette passi, larghe poco più di due (a tre non arrivano), fetide e buie; d'insetti schifosi, qui nelle Murate, popolatissime; — sacramentale l'ordine che i detenuti non si parlino nè si vedano; e per meglio assicurarsene, le brevi finestre, ora quadre, ora circolari, ora bucate a guisa di 8 (come a Volterra), munite spesso dalle tramoggie, invenzione infernale, che lascia vedere uno spicchio di cielo all'insù. Su questo proposito io mi ricordo un fatto di Lord King Gran Cancelliere d'Inghilterra, a cui i prigionieri della Flotta si lagnarono di essere tenuti in celle oscure senza mai poterne uscire. Il Direttore scusavasi col motivo, che sarebbero fuggiti se gli avesse lasciati fuori, a cagione della poca sicurezza del carcere; ma Lord King lo ammonì severo: «fate alzare i muri quanto volete, ma guardatevi di fabbricare una prigione dentro la prigione

Il lavoro in comune si concede, ma a chi? Ai detenuti nello Ergastolo giunti al settantesimo anno, e a quelli che condannati a vita vi passarono il massimo periodo dello Ergastolo a tempo. Signore! E qual lavoro possono fare allora in comune se non iscavarsi la fossa, dove avranno ad essere in breve sepolti? Io ho esaminato questi infelici, quando escono per un'ora a prendere aria in certi chiostrini chiusi dintorno, lunghi quanto un lenzuolo mortuario, donde non si vede che un po' di cielo; e sono rimasto percosso dal camminare vacillante a modo di ebbro, dalla faccia cadaverica emaciata, con isbattimenti colore di cenere; tranne pochi, o giovani o di fresco venuti, non anche domi dalle rigide carezze di questo carcere umanitario. La pena può nello Ergastolo prolungarsi a vita, nella Casa di Forza a sette anni e mezzo, in quella di Detenzione non so bene a quanto[760].

E quanto sia maggiore supplizio simile detenzione ad un uomo italiano che ad uno inglese, si comprende da chi tenga conto del clima, e della nostra natura meridionale, bisognosa di espansione.

Contraria alla economia: perchè il lavoro individuale, tranne rarissime eccezioni, non ricatterà mai le spese del mantenimento, mentre il lavoro collettivo sempre le supera. In Inghilterra il lavoro individuale ha rappresentato da Lire 60 a Lire 300 l'anno, mentre il lavoro collettivo ha dato Lire 3 al giorno; fra noi credo non andare errato se affermo che il valore del lavoro separato a Volterra non oltrepassasse mai la media di sette soldi per giorno.

Il minimo della media del mantenimento dei detenuti nello Ergastolo, e nelle Case di Forza e di Detenzione, somma a Volterra a Lire 165. 3. 4. per individuo; ma non vi si comprendono le spese degli impiegati, delle guardie, del mantenimento di fabbrica, mobiliare, e interessi di capitali spesi ec.

Contraria alla intelligenza: perchè se dietro prove continue uomini insigni reputarono, che senza danno delle facoltà intellettuali l'uomo non potesse rimanere chiuso in carcere separato per 12, o al massimo per 18 mesi, pensate un po' voi se vi si possa tenere per 6 anni, anzi per tutta la vita!

Di quelli che all'Accusa piacque darmi per coaccusati, il giovane Pantanelli, per insania, si segò le vene, ed ora abita Bonifazio; Petracchi, per disperazione, si gettò giù dalle finestre e si ruppe le gambe; tenuto un tempo a Bonifazio, fu rimandato alle Murate concio, come, Dio ve lo dica per me. Il Piccini, svanito, tentenna per andarvi; vi andò ancora il Capecchi, ma, a quanto mi dicono, per simulata pazzia: pure, che sia ridotto a mal termine non è difficile credere: degli altri non so.

Contraria al fine della pena: perchè questa intende correggere, e il carcere separato soverchiamente, o protratto, uccide; ogni emulazione che nasce dal consorzio è tolta via; ogni impressione derivante dal commercio degli uomini soppressa; il cuore, impregnato di tristezza, cose triste rumina sempre; i vincoli di famiglia sciolti. Se il carcerato impietrisce l'anima, che gl'importeranno moglie e figliuoli? Se non giunge a diventare pietra nell'anima, forza è che diventi cadavere logoro dall'angoscia cocente dei suoi pensieri. E d'altra parte non si conosce argomento, che tanto valga a placare e a intenerire i cuori, a predisporli al pentimento, quanto le affezioni domestiche. Io ho letto, come per indagini istituite resulta nelle scuole cenciose di Londra di rado incontrarsi figliuoli corrotti dai genitori. Gran freno agli uomini è lo amore dei figliuoli, e sopra tutti temuto il giudizio della propria famiglia! Io potrei addurre stupendi esempii di padri e di madri, che studiosamente nascosero la propria turpitudine ai figliuoli, per non doverne arrossire davanti a loro. Dunque perchè nell'ammenda del colpevole vogliamo privarci di questo argomento, confessato il meglio efficace di ogni altro?

Leggiamo che una Commissione di Francesi nel 21 aprile 1851 si è condotta nel Belgio a studiare i mezzi di svegliare nei condannati sensi di pentimento, e di rimorso! Che i Romani mandassero in Grecia per Leggi, bene sta; perchè non è strano che il Popolo più adulto nella civiltà superi pei trovati intellettuali il meno adulto; ma nei tempi che corrono, andare in cerca di argomenti per commuovere il cuore, come se fossero artificiali, e si trattasse di provocare gli affetti come i sudori, parmi cosa da trasecolare: non ci è bisogno di andare tanto lontani, no; qui in casa fucile abbiamo e pietra focaia atta a levare cotesto fuoco, il cuore umano e gli affetti domestici. Se per virtù di questi tu non ricavi scintilla di pentimento o di rimorso, tu viaggiassi quanto Aasvero, non incontrerai di meglio. Riguardo alle femmine, è provato come nulla più giovi ad emendarlo, quanto costituirle nella dignità di mogli e di madri. Il signor Hampton c'informa, notabile essere il buon contegno delle condannate alla Terra del Van-Diemen dopo il matrimonio. Se così per le donne, perchè no per gli uomini? — Nozze, tribunali, ed are, — diero alle umane belve esser pietose — di sè stesse e di altrui.

Contraria al bene della società: perchè, che cosa diventeranno la moglie ed i figli del condannato? Uscito dopo lunga prigionia egli non cura ricercarne; ma se lo pungesse siffatto desiderio, dove mai gli andrebbe a trovare? — Ah! i suoi figli forse saranno nella carcere donde egli è uscito poco anzi: le figlie in parte ch'è vergogna dire.

E nonostante, giovani e dilicate donne non rifuggono di avventurare il piede nei sinistri carceri, e solo per vedere linde le pareti, gli usci ritinti, simmetriche le celle come quelle del Castoro, la fuga dei corridori, vanno in estasi per la bellezza del luogo, e non rifiniscono mai, calandre sentimentali, di dare ad intendere che le prigioni sono quasi diventate casini a Fiesole. Se voi sapeste come, dietro cotesta porta ritinta, continua si disfaccia una esistenza, a modo di arena che sgorga dall'oriolo a polvere! Se voi sapeste, povere creature destinate a rimanere sempre deluse dalla fronte prima delle cose, voi piangereste le più dolenti delle nostre lacrime. Voi non potete sentire cantare al povero storno le parole: I can't get out, che commossero tanto le viscere al nostro amico Yorik; perchè s'egli dicesse soltanto: non posso uscire, sarebbe chiuso in carcere anche più tetra, e a pane e acqua.

Howard, per giudicare con pieno conoscimento delle carceri, volle starvi rinchiuso per quattro mesi, o sei, che non ricordo bene; ed io fermamente penso, che poco possa parlarne chi non le ha provate. In questo caso, senza taccia d'immodestia, mi dichiaro professore; à quelque chose malheur est bon: e di vero, se Dio mi dà grazia, intendo che questa esperienza, acquistata a prezzo sì duro, fruttifichi alla Umanità.

Però non sarebbe giusto negare, che da quello erano prima le nostre carceri non abbiano migliorato assai; ma in faccende tanto importanti non bisogna mai volgere il capo addietro, per vedere il cammino percorso; all'opposto tenere sempre diritti gli occhi al sentiero che ci rimane davanti; e meglio poi, bisogna non innamorarci tanto dei trovati stranieri, quando neppure si possono mettere in opera com'essi fanno; e pensare sempre che tutti i climi non sono benigni al medesimo fiore. Io voglio sperare, che, mercè l'ottima mente di chi presiede agl'Istituti Penitenziarii in Toscana, sarà emendato, e presto, il fatto fatale e involontario da me commesso della prigionia separata per tutto il tempo della pena; — confido, che, applicandoci lo ingegno, egli troverà mezzo, senza danno, e con utile inestimabile, di riunire gli uomini in umano consorzio, almeno in quanto concerne il lavoro comune; e in questa speranza tempero il dolore di essermi condotto con leggerezza in negozio tanto importante. Non mi trattengo neppure ad avvertire come il carcere promiscuo pei reati comuni, e i delitti politici, o tu consideri lo scopo, o risguardi alla moralità della pena, sia indizio supremo di barbarie o di vendetta, spesso di ambedue, onde anche qui non dubito prontissima ed efficace l'ammenda.

K

XXIX. Del Giudizio pronunziato sul mio operato dal Decreto del 7 gennaio 1851. —Pag. 671 e seguenti.

Opinioni di alcuni Scrittori partigiani di varie Fazioni intorno al medesimo argomento.

Secondo che me ne venne il grido dal mondo lontano, scrissero dei fatti miei distesamente un Inglese, un Francese, parecchi Italiani, fra i quali un Cappuccino. Inglese, Macfarlane energumeno: di costui già lessi la Storia degli Assassini di tutto il Mondo in 3 volumi, e mi parve Omero degno di cotesti eroi, e cotesti eroi degni del loro Omero. Quando mi proveranno, che predicando al Rospo egli potrà per via di persuasioni lasciare il veleno, che gli viene da natura, imprenderò a curare Macfarlane l'Inglese. Il Francese è D'Arlincourt: se costui fosse giovane, la risposta che meriterebbe non sarebbe nemmeno una guanciata....; ma essendo vecchio passeremo su lui, come sopra un sentiero fangoso, in punta di piedi, e in fretta, per non c'imbrattare le scarpe: nella sua gioventù compose romanzi assurdi; ha voluto disonorare i suoi capelli canuti con un romanzo perfido; sciagurato vecchio! Non sembra a voi che io abbia parlato troppo di cotesto mal vecchio? Sì davvero, la metà di avanzo. Lasciamo degli oltramontani, e degli oltremarini, e le loro ignominie: veniamo a favellare degl'Italiani, principiando dal Cappuccino; ma come volete che io mi trattenga con Padre Pasquale (dacchè importa grandemente, o miei Lettori, che voi tutti sappiate come il buon Frate si chiami per lo appunto Fra Pasquale), se fino dal principio del suo Opuscolo mi paragona con una secchia? Secchia? dite voi. — Secchia, dico io; e per farvelo vedere vi cito addirittura il passo, che dichiara così: «Al signor Guerrazzi si tributa nella penisola una specie di culto, onde la nostra critica potrebbe sollevare contro noi le passioni dei suoi proseliti.... La Italia è il solo paese, che possa vantarsi avere trovato in una secchia una causa di guerra, un soggetto di poema. Or bene, il Guerrazzi è questa secchia, senza altri giuochi di parole![761] » Così, Padre, io tolgo presto commiato da voi; e se non mi sembra dovermi raccomandare ai vostri scritti, penso potermi, o Reverendo, raccomandare con maggiore frutto alle vostre orazioni.... però badate, che io conto sopra di queste.

Dopo il Frate metto due Rossi tinti in chermisi: uno si chiama C. Augusto Vecchi, l'altro Carlo Rusconi. Dirò poco del primo, non tanto perchè mi pare che meriti poco, quanto per non conoscerlo intero, essendomi pervenuto della sua Opera fino al sedicesimo fascicolo; ma se la balla corrisponde alla mostra, so bene io come mi avrà concio. Favellando a pagine 248 della mia vita privata, dopo molte gagliofferie afferma, che appresi sui processi criminali le corruttele dei viventi. Ora io non avvocai cause criminali, tranne due o tre, e queste per la singolarità loro, perchè ricordo che in una si trattava di fattucchieria, e in un'altra di un Carabiniere còlto con l'amante sua dentro a una capanna, — parendomi strano, che là, dove Virgilio aveva trovato argomento dello episodio di Didone ed Enea, i Giudici nostri avessero rinvenuto materia per cacciare in prigione la innamorata Regina, e il pio Troiano; onde io per puro amore del Libro IV della Eneide mi feci a difenderli. Più oltre C. Augusto Vecchi senti un po' che cosa scrive: «La pazza idolatria di sè stesso lo spinse tanto oltre a credersi disceso da stirpe dominatrice, poichè un Guerrazzo aveva tiranneggiato in remoti tempi la sua natale città. E tutti hanno letto in una sua Lettera diretta a Giuseppe Mazzini com'ei rivendicasse su tarlata pergamena rinvenuta in Portoferraio l'albero geneatico della modesta famiglia sua. Ed io ho veduto nello scorcio del 48 in Firenze siccom'egli dispregiatore in altrui degli aviti vezzi, facesse imprimere sur un polizzino ingessato un blasone di propria fattura; in cui tra bandiere, picche, e pastorali mitrate, appariva un lione rampante; e sotto una insegna cavalleresca, che nessun principe al certo gli aveva conceduto.[762] » Io con troppo maggiore motivo di quello che ebbe il Cardinale Alfonso d'Este, quando domandò all'Ariosto in proposito dell'Orlando Furioso: donde avete cavato tante c...., devo ricercare il mio Augusto dove diacine abbia letto tante bugie. — Tutti hanno letto la lettera ec. Orsù, sa egli leggere? Nè prenda in mala parte la domanda, imperciocchè ho trovato persone, che non sapevano leggere, le quali ne avevano obbligo molto maggiore del suo: supposto pertanto ch'ei sappia, torni a leggere questa lettera meco. Discorrendo delle cose mie alla buona, così scrivo a pagine 19 di questa lettera stampata a Livorno nel 1848 nella Poligrafia Italiana:

«Nasco di gente antica. Gli avi miei, agricoltori e soldati, seppero versare il sangue per la patria e per la fede, come senza troppo svolgere di carte te ne porge testimonianza l' Odeporicon del Proposto Lami. Guerrazzo combattè in Ungheria contro il Turco, quando pendeva lite se il mondo dovesse obbedire a Cristo o piuttosto a Maometto, e se alla causa della Umanità avesse a prevalere quella della barbarie; nè egli si ritrasse dai campi di battaglia prima che lacero di ferite non divenne incapace alla milizia, come si ricava dalla patente amplissima del Principe Don Mattias dei Medici datata da Vienna; ebbe la insegna di Santo Stefano, e la potè portare senza vergogna perchè prezzo di sangue[763]. Filippo, regnando Cosimo I, governò Livorno dove io suo discendente dimoro senza neppure il titolo di cittadino. Donato avo mio condusse una compagnia di soldati armata a proprie spese a Napoli col Principe Carlo: nella speranza di future duchee vendeva in parte i paterni poderi. Il Principe Carlo acquistato il regno, seguendo il vecchio costume, attese a tenersi bene edificati i sudditi nuovi, e i suoi sovventori gli increbbero. Gli uomini nelle superbe fortune infastidiscono spesso dei proprii amici nelle umili, i Principi sempre. Antico caso e non raccolto mai dalla esperienza.

Donato si ridusse povero a Livorno, e vergognando tornarsi a casa donde erasi dipartito con tanta iattanza, qui stanziò come uomo deluso, sazio di giorni, e soldato che dal menare le mani in fuori non sapeva fare altro. Roso dal tedio del vivere solo, condusse tardi in moglie una del Popolo, e per sostentarsi continuò a struggere il suo. Le nozze sterili lo confermavano in questo proponimento: moriva, e credo all'ospedale, miserissimo in parte per cagione delle improvvide vendite, in parte per le rapine dei congiunti. Per colmo di sventura lasciava incinta la moglie.»

Dunque nè il signor Augusto, nè tutti, possono avere letto nella mia lettera le cose, che non vi sono; almeno pare, e dico così, perchè tra la portentosa illuvie delle bugie giudiciali, e stragiudiciali, se io non perdo il lume dello intelletto, è proprio miracolo. Rimane pertanto a conoscere se quello che scrissi, non fatuamente, fosse vero; ed il signor Vecchi, se avesse voluto tôrsene il carico, avrebbe potuto trovare nell'Opera del Proposto Lami intitolata: Charitonis et Hodœporici Hodœporìcon ( Pars secunda; Florentiae 1741, ex Typographio Jo. Bapt. Bruscagli et Sociorum, ad insigne Centauri ):

Pag. 606. — «Anno 1553. — Il Capitano Filippo di Raffaello Guerrazzi di Castelfranco è Commissario dell'Artiglieria della Fortezza di Foiano. (Vedi sotto all'anno 1574.)

Pag. 606. — «Anno 1563. — Guerrazzo figliuolo di Filippo Guerrazzi di Castelfranco fu da Cosimo I Granduca creato Cavaliere di S. Stefano pel merito fattosi nella milizia, come consta dal suo Diploma. — Di questo Cavaliere non si fa menzione nella Galleria dell'Onore.

Pag. 608. — «Anno 1574. — Muore Castellano di Livorno il Capitano Filippo di Raffaello Guerrazzi, il quale fu soldato di valore, ed era prima stato Commissario dell'Artiglieria nella Fortezza di Foiano in Val di Chiana, come si vede da una sua patente del 1553.» — Giuseppe Vivoli Cavaliere, nel Tomo III degli Annali di Livorno, Annotazione alla Epoca XI, pag. 126, 128, parlando del Forte dell'Antignano, aggiunge: «Il disegno di questo Forte, dice il Grifoni (Cron.) con la guida del MS. del Pezzini, fosse dal Capitano Filippo Guerrazzi di Castelfranco posto in carta; e che essendo piaciuto a Cosimo I, desse tosto l'ordine al medesimo di presiedere a farlo eseguire (1567).» E più oltre: «Alcuni opinano, avess'egli, oltre il comando della Fortezza, ottenuto in Livorno anche il posto di Commissario, vale a dire, di Capo del Governo locale. Ebbe rinomanza di prode soldato e di ufficiale di merito distinto, perchè, innanzi essere impiegato a Livorno, era stato Comandante del presidio militare dell'Elba.» Al medesimo successe nella stessa carica di Castellano di Livorno il suo fratello Antonio stato Capitano alla Isola del Giglio. — ( Storia del Valdarno di sotto, MS. presso il signor Dottore Domenico Guerrazzi di Castelfranco.)

Pag. 609-610. — «Anno 1594. — Vive Battista di Bonaccorso Guerrazzi, prima Castellano, poi Capitano di Archibusieri a cavallo in Ungheria, sotto D. Antonio de' Medici; ove in una battaglia restò ferito e inabile a continuare nella milizia: onde si ritornò in Italia, come apparisce dal Passaporto di quel Principe dato in Vienna il dì 9 ottobre di questo anno, ed esistente appresso i signori Guerrazzi. — Questa famiglia Guerrazzi passò da Gangalandi ad abitare a Castelfranco nel 1427, come consta da' Libri pubblici della Comunità, e di essa vi sono ancora in oggi due soggetti considerabili per la dottrina; ed uno è il signor Avvocato Guerrazzi, dimorante in Firenze, e l'altro il signor Dottore Raffaello Guerrazzi, che esercita pure la professione legale nella medesima città, adorno nello stesso tempo di molta erudizione, contro il consueto di simili Dottori, che fanno assai capitale della barbarie per essere reputati eccellenti. Ha di più fatto considerabile profitto della lingua greca sotto il signor Dottore Angelo Maria Ricci pubblico professore della medesima, onde è da esso commemorato nel Catalogo dei suoi discepoli, dato fuora nel primo Tomo delle Dissertazioni Omeriche, non lasciando di far menzione ancora del signor Tommaso suo Fratello, colle seguenti parole: His adnumerandi Raphael Guerrazzius in Græcarum Litterarum curriculo longe progressus, et Thomas eius frater Sacerdos moribus integerrimis.

Pag. 612. — «Anno 1645. — Prete Lodovico Guerrazzi di Castelfranco, Proposto

La prima fabbrica di vetri fu fondata in Livorno dalla mia famiglia, come si ricava dal seguente Documento riportato negli Annali del Cavaliere Vivoli, Tomo III, pag. 419:

«Paolo e Michele Guerrazzi di Castelfranco abitanti in Pisa supplicano a S. A. S. di haver privilegio di poter fare in Livorno una Fornace di Vetrami di ogni sorta.» — In pié della quale come in filza S. A. S. benignamente rescrisse:

«S. A. S. gli farà dar la Casa in Livorno Nuovo a pigione moderata, a loro soddisfazione, et così ordina al Paganuccio che faccia, et che per anni 10 nessuno possa far vetrami in Livorno nè suo Capitanato, nè condurre di fuora per vendere, eccetto loro, eccettuando da questo però cristalli orientali fini, occhiali, spere, paternostrami, et vetri per invetriate, fiaschi che venghino di Fiandra, fiaschi coperti di spalatro, di Francia, che questi vi possono venire. — Con che li Supplicanti saranno obbligati dare le robbe ai bottegai di Livorno per il prezio nel quale gli stanno di presente posti a Livorno, perchè possino vendere a minuto per servizio delle lor botteghe, et come li bottegai saranno obbligati a pigliar le robbe dai Supplicanti, così non potranno li Supplicanti vendere a minuto in detta Terra, et suo Capitanato, a manco numero di dodici pezzi per volta, et il quale ordine il Governatore di Livorno lo farà bandire subito che haveranno messo fuoco, al che fare sieno obbligati per tutto dicembre prossimo, et lo faccia eseguire con quelle pene che saranno convenienti, et quanto alle legne il Paganuccio gliene faccia dare sempre a l'uso et prezzo che le paga S. A.

«FERDINANDO.

«9 marzo 1598.

« Antonio Serguidi.»

L'arme trovai in casa, nè avevo punto mestieri falsarla, commettendo opera infame per fine da nulla, imperciocchè la si trovi murata nel mastio della Fortezza Vecchia di Livorno, come tutti i Castellani costumavano fare, e nelle sepolture della mia famiglia nella Chiesa di Santa Caterina di Pisa, dove si legge questo epitaffio:

Sepulcralem hunc lapidem Quem mortalitati consulens Sibi suisque vivens posuerat Franciscus Guerratius Philos. Ac Medicinæ Doctor Templi incendium consumpsit Ardens Camillæ Guerratiæ In Patruum amar restituit Anno Reparatæ Salutis MDCLXV.

E dell'Accademia Pisana fu non volgare ornamento Pietro Guerrazzi professore, dichiarato cittadino fiorentino. Turpi sieno, o innocenti, ed anche puerili, le giunterie non sono da me, neppure per fabbricare una insegna. Filippo Guerrazzi nell'arme sua pose i cannoni, perchè Commissario di artiglieria; Guerrazzo la croce di Santo Stefano, e la mitra Monsignore Vincenzo di Domenico Guerrazzi, dell'ordine di Sant'Agostino di Lecceto, promosso al Vescovado di Borgo San Sepolcro, quale non potè conseguire stante la morte immatura. — (MS. citato di sopra.) — Il costume porta di stampare la insegna di famiglia sopra i polizzini da visita, e ve la posi ancora io, non temendo davvero commettere delitto di lesa maestà repubblicana; in ogni caso spero non venire condannato alle gemonie per questo. Riguardo poi alla nobiltà il signor Vecchi, se veramente desidera conoscere quello che io ne senta, potrà riscontrarlo, purchè lo legga davvero, nel Capitolo XV dell' Assedio di Firenze, dove troverà che io ne professo la opinione stessa, che ne aveva Dante:

«Ben se' tu manto che tosto raccorce,

Sì che, se non s'appon di die in die,

Lo tempo va dintorno con le force.»

E colà dico, che parmi ostentazione di vanità disprezzarla, come pregiarla troppo; e che ai nati da lignaggio reso illustre dagli avi per atti di mano e d'ingegno la chiarezza del sangue impone obbligo grande di continuare la bella trama che eredarono ordita. In quanto a me, ripeto che vengo da agricoltori e da soldati, e pongo fine a simili quisquilie, a cui mi condusse la necessità di lavarmi dalle disoneste imputazioni di falsità, che il signor Vecchi non ha dubitato appormi nel suo libro, che pure intitola: — Storia!

Succede un altro Repubblicano, e, per quanto egli c'insegna, socialista: Ministro fu della Repubblica Romana, e tenne l'ufficio degli Affari Esteri; io lo conobbi in Firenze, dove venne a sollecitarmi per la Unificazione et reliqua, con ogni maniera di pressure morali. Ho detto com'egli, nello intento di strascinarmi, giungesse fino ad affermarmi, che Francia e Inghilterra gli avevano promesso protezione e difesa, se di Roma e Toscana si componesse Repubblica; e questo non era vero: ma passione stemperata di Parte sospinge troppo più in là, e stemperatissimo mi apparve il signor Rusconi. Leggo, lui essere d'ingegno mite, d'indole amoroso, e questo volentieri mi presto a credere; e se tale è come ce lo dicono, confrontando le molte falsità, che pure non ha aborrito scrivere, tanto più dovremo deplorare la devastazione che il maledetto spirito di Parte opera anche sopra i migliori. Io pertanto stamperò quello che nel suo libro mi riguarda, e lo verrò di mano in mano con opportune Note commentando.

In opposizione alla Requisitoria del Regio Procuratore di Firenze ecco la

REQUISITORIA DEL REGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA, SIGNOR RUSCONI, estratta dalla sua opera intitolata: La Repubblica Romana del 1849.

«Reggeva allora la Toscana con poteri quasi dittatoriali[764] Domenico Guerrazzi, uomo di acutissimo ingegno, ma che troppo poco credeva alla umana virtù per essere capo di un paese, che da una grande virtù soltanto poteva essere salvato[765]. Scrittore efficace, ma dotato piuttosto d'immaginazione che di sentimenti profondi, egli dalle pagine di Machiavelli e di Guicciardino desumeva le ispirazioni di quella politica che intendeva professare[766]. Informato a quelle letture, e i prodigi operati dai Popoli nelle grandi crisi sociali non accettando, che in quanto potevano riuscire sublimi nei dominii dell'arte, egli poco credeva a quelle manifestazioni patriottiche, che vedeva farsi dintorno[767]; stimava la Toscana più facile preda, che non gli dessero ragione per crederlo le maraviglie di un anno prima di Curtatone e di Montanara. La fuga del Duca gli era sembrata su le prime avvenimento di minore rilievo che altri non riputasse, e con facile fantasia precorrendo lo evento in quello vedeva forse il filo misterioso, che da quel laberinto poteva trarlo. Ostentando di basarsi sul positivo, sul pratico, come lo scrittore del Principe e messere Francesco, egli, che romanziere era e poeta, rispondeva a chi gli parlava di entusiasmo nazionale, dimandando quanti cannoni e quanti soldati sapeva mettere insieme cotesto entusiasmo[768]. Terribile uomo era egli, e che addimandava gran tatto per essere appressato, giacchè troppo sicuro egli si sentiva di sè, per adottare nessuna risoluzione che paresse essergli stata da altri consigliata.

«Il voto di Toscana era però di unificarsi con Roma, di non comporre con essa, che un solo paese, e già i Deputati la Toscana aveva eletti per andare a far parte della Costituente Italiana[769]. Le renitenze del Governo, o piuttosto del Guerrazzi, rimanevano a vincersi, per bandire intanto di fatto quella Unificazione, salvo poi alla Costituente di ratificarla. Il Ministro di Roma sentì la importanza del mandato, che affidato avrebbe al suo Inviato in Toscana, e volle incaricarne il Dottore Pietro Maestri. Se il Guerrazzi era uno avversario terribile, avrebbe avuto con chi lottare, e il Dottore Maestri era tale da sviscerare i pensieri del Dittatore Toscano[770].

················

«Il doloroso tema delle cose toscane ci chiama a sè, e imprendiamo con tanto maggior disgusto a trattarlo, quantochè la Toscana fu la sola Provincia d'Italia che oscurasse con una pagina turpe la più gloriosa delle Rivoluzioni.

«Già dicemmo in altro Capitolo come la Repubblica di Roma fosse stata festeggiata al di là dell'Appennino, e come il voto popolare di Toscana si manifestasse in favore dell'Unificazione delle due Provincie[771]. Ci rimane a dire perchè quella Unificazione non si effettuasse, e quali ne fossero le fatali conseguenze.

«Il Guerrazzi che, come vedemmo, reggeva pressochè solo le cose toscane dopo la fuga del Principe, era uno di quegli uomini che, dopo essere stati innalzati dalle Rivoluzioni[772], vergognano, quasi si direbbe, dell'origine della loro grandezza, e non anelano che a farla obliare, blandendo i Partiti opposti.

«Repubblicano per tutta la vita, se poteva credersi ai suoi scritti, e tirato anche forse più al demagogo che al repubblicano, allorchè giunto al Potere ebbe modo di far proclamare la Repubblica, non volle[773]; allorchè gli fu dato di unificar due provincie assecondando i voti del Popolo, egli, che unitario e entusiasta del Popolo si era detto, bramò persistere in una disunione insensata[774]. Avviluppato dalla Diplomazia, che, non avendo concetti politici, formula nel temporeggiare tutta la sua scienza, egli che scritto avea le pagine dell' Assedio di Firenze, e vilipeso a quanti assumono il mandato di Rappresentanti di Re o di Corti, caduto era nelle reti di un ambasciatore che giudicava colle istruzioni che riceveva dalla distanza di mille miglia dei bisogni e dei provvedimenti che dovevano adottarsi per un Popolo[775]. Fatto propenso al Piemonte del quale non era mai stato ammiratore, la Repubblica Romana era divenuta per esso come uno spino, e quello spino vieppiù gli era infesto allorchè gli si parlava di Unificazione[776].

«Qual era il concetto di quell'uomo? Lo si può indagare traverso alle oscillazioni della sua condotta. Egli aveva poca fede nella Rivoluzione, niuna nei resultati ch'essa si era proposti. Per esso la questione era di rendersi necessario a tutti i Partiti, e reggere col Positivismo che affettava le sorti del Paese di cui stava a capo[777]. Non volendo offendere il Piemonte prima della Battaglia di Novara col mostrare di aderire a Roma, perchè più dell'entusiasmo del Campidoglio apprezzava le baionette piemontesi, dopo la disfatta del Piemonte persistè a non volere unificare la Toscana con Roma, perchè reputò quello il solo mezzo ad evitare un intervento forestiero[778]. Non vedendo come, dopo Novara, non vi fosse più che da inalzare il grido di Francesco I a Pavia: Tutto è perduto, fuorchè l'onore, — egli l'onore ancora volle mettere a repentaglio, e lo perdè miseramente[779]. Errore incompatibile in Uomo di Stato, contraddizione a tutta una vita che celebrato avea sempre la gloria e le virtù del sagrifizio, egli credè possibile una Restaurazione senza soldati conoscendo i sentimenti del suo Popolo, egli antepose alla gloria di vivere o morir coi Fratelli il miserabile egoismo di salvarsi solo in mezzo all'esizio universale[780].

«Le cose però s'incalorivano ogni giorno dopo la fuga del Duca, e qualche concessione era pur mestieri di fare a quel desiderio di Unificazione che nel Popolo si manifestava. Il Dottor Maestri, Inviato di Roma[781], instava perchè quel desiderio fosse appagato, mostrando che nulla di meglio chiedeva la Repubblica, che nessun altro scopo avea la sua missione. Lottando quotidianamente col Toscano Triumviro, a cui tutti quegli argomenti adduceva che sogliono far forza in chi non ha una preconcetta opinione, egli gli mostrava come i principj dovessero salvarsi, quali che si fossero i pericoli a cui si andasse incontro, come la moralità dei democrati stesse nel far concordare le aspirazioni colle opere, come l'utile vero si procacciasse seguendo i dettami di quello che era nobile e grande, e come nulla vi fosse di peggio in politica, specialmente in tempi di Rivoluzione, che il non far nulla, e l'aspettare gli avvenimenti colla stolta lusinga di dominarli.

«Queste cose egli diceva altresì al Montanelli e al Mazzoni, compagni del Guerrazzi nel Governo Provvisorio; ma benevoli ascoltatori avea in loro, nè per parte loro sarebbero mai venuti gli ostacoli. Il Guerrazzi solo balenava, prometteva un giorno, poi si peritava, finchè cresciuto l'impeto dell'opinione del Popolo dovette alfine arrendersi sulla fine di febbraio, e fare inserire nel Monitore Toscano[782]: «Come il Governo, volendo mostrare quanto gli stesse a cuore la desiderata Unificazione della Toscana con Roma, avesse intavolate trattative a quell'uopo.»

«Le trattative dovevano versare per allora sulla congiunzione dei due territorj, togliendo le linee doganali che li dividevano;

«Sulla parificazione delle Tariffe;

«Sulla unità di Rappresentanza diplomatica all'Estero;

«Sulla reciprocità pel corso delle monete ec. ec.

«Quanto al decretare l'Unificazione assoluta dei due Paesi, Guerrazzi opinava che si dovesse aspettare il voto dell'Assemblea Toscana che dovea fra breve radunarsi, sentenza a cui pure aderiva Mazzoni per un suo amore di legalità, soverchio forse in quei momenti, e a cui non ostava il Montanelli, assorto più che in tutt'altro nel concetto della sua Costituente.

«Quella concessione fatta all'opinione calmava per un momento il Popolo, ma in breve si vedeva con quanta sincerità Guerrazzi aderisse a ciò che annunziava il foglio officiale[783]. A legare vieppiù i due Paesi, l'Inviato di Roma avea proposto da gran tempo un cambio di Truppe, una divisa per esse uniforme; ma nè l'una, nè l'altra cosa veniva mai attuata. L'unità della Rappresentanza all'Estero restava del pari obliata, sebbene il Governo della Repubblica ne avesse dato l'esempio, affidando al Console Toscano in Genova la tutela eziandio degli interessi dei sudditi romani. La parificazione delle Tariffe, votata infine dall'Assemblea di Roma, era accolta da Guerrazzi colla stessa indifferenza, nè il Governo Toscano facea un passo, mentre quello di Roma gli spianava da ogni lato la strada[784].

«Quell'ambigua condotta teneva il Paese nell'agitazione, sfatava gli animi di ogni generoso sentimento, preparava quella terribile catastrofe che dovremo fra breve raccontare. Aggiornata per quanto si era potuto la convocazione della Costituente Toscana[785], il Guerrazzi si vedeva però alfine costretto a radunarla, e nel Discorso di apertura che profferiva faceva una parte tanto più larga a quel voto di Unificazione dei due Paesi, quanto meno intenzione avea di attenerlo, ben conscio d'altronde, che senza assecondare quel voto, almeno in parole, non gli sarebbe rimasto per un'ora il Potere[786]. Senonchè poi, onde non lasciare mettere in discussione quel soggetto, a cui con tanto ardore parea riportarsi, con mille piccole arti ei lo andava sempre aggiornando, adducendo ora la necessità di aspettare lo scioglimento delle cose del Piemonte, ora motivando i sentimenti toscani che da quell'atto, diceva, potevano rimanere offesi. — E all'effetto di prender tempo, egli suggeriva ancora all'Inviato Romano, come, per condizioni preliminari di quella Unificazione, sarebbe stato bene, che Roma sanzionasse che il Governo e la Rappresentanza nazionale avrebbero risieduto un anno a Firenze, uno a Roma; che Firenze avrebbe avuto un collegio militare, una università, una scuola di belle arti, — disposizioni che avrebbero servito a non irritare quelle suscettibilità municipali che troppo fatalmente sentivano, egli soggiungeva, i suoi compagni[787]. Ma gli rispondeva con dignità l'Inviato Romano, non doversi stuprare un gran concetto con quelle meschine considerazioni; doversi far scomparire gli elementi secolari di divisione che tanta parte erano stati nella rovina d'Italia, non piaggiarli, accarezzando grette passioni, che da nessuno, che l'Italia amasse, potevano alimentarsi; doversi mostrare colle opere al Mondo che l'Italia era matura a quella civiltà, per cui dettato avevano le loro pagine i suoi scrittori immortali, per cui il sangue avevano sparso migliaia di martiri: essere necessario infine un atto magnanimo, che forse Sicilia e Venezia avrebbero tosto imitato: e quanto alla Costituente Italiana poi, per cui già la Toscana eleggeva i suoi Deputati, essa avrebbe difinitivamente regolate le condizioni di ogni provincia, facendo ragione a quelle esigenze che potessero restare.

«Guerrazzi, stretto così da vicino, inaugurava la Toscana Costituente col Discorso a cui accennammo[788]; poi tergiversando in mille maniere decidevasi ad aspettare l'esito delle cose piemontesi prima di fare null'altro. La Toscana permaneva quindi col Governo Provvisorio, permaneva staccata da Roma; il Partito liberale, sdegnato di quell'inerzia, accennava d'irrompere da un momento all'altro[789].

«La notizia della disfatta di Novara poco dopo giungeva, e paralizzava vieppiù le risoluzioni del Guerrazzi. Quella notizia produsse oltre Appennino l'impressione che aveva prodotto a Roma, e là pure si sentì che una crise si avvicinava. Ma mentre Roma traeva forza dalla sventura e si apparecchiava a morire, almeno degnamente, la Toscana, mercè la condotta subdola del suo Triumviro, s'accasciava miseramente; in una stolta ed egoistica lusinga miseramente si addormentava[790].

«Guerrazzi, riescito a disfarsi[791] dei suoi Colleghi, che opposti si sarebbero a quelle risoluzioni a cui già piegava, spaventando[792] l'Assemblea con un Rapporto dei Ministro dell'Interno, che dipingeva coi più neri colori lo stato del Paese, indotto avea l'Assemblea ad aggiornarsi, conferendogli una specie di Dittatura, a cui l'ultimo ostacolo veniva tolto coll'allontanamento di Montanelli, mandato a Parigi[793]. Fatto solo rettore delle sorti toscane, fu allora che fra i due partiti che gli restavano, d'unirsi a Roma, o di accudire ad una Restaurazione, si attenne a quest'ultimo, avendo egli, repubblicano, voluto prima forse l'unione col Piemonte monarchico, se il Piemonte vinceva; poi il ritorno del Duca come il solo mezzo, così credeva, di evitare l'intervento tedesco. Questa ultima risoluzione, che avrebbe potuto scusare le sue intenzioni, se fossero state leali, non scusava certo il suo senno. Come non vedeva egli che il Duca non poteva tornare che colla Reazione? Che Livorno, non vi fosse stato altro, non si sarebbe piegata mai a quel ritorno? Che, in fine, un'intervenzione armata diventava necessaria[794]?

« Infiammando i sentimenti nazionali, egli potea mettere il suo Paese in solido con Roma; evocando le memorie di Curtatone e di Montanara, potea spingere la terra ov'era nato a dar di sè una testimonianza dell'antico valore; e se destinato era che entrambi quei Paesi cadessero, grande consolazione sarebbe certo stata che cadevano almeno con gloria; gran documento di virtù cittadina alle venture generazioni avrebbero lasciato! Prima che far ciò, egli preferì di assiderare, con mille voci insidiose astutamente sparse, quei po' di spiriti patrii che tuttavia restavano; si oppose ai Corpi Lombardi che chiedevano di traversare il suolo toscano per andare a Roma; blandì con ogni maniera di accorgimenti gli uomini del Principato, e fu stolto abbastanza, o abbastanza orgoglioso, per credere nella riconoscenza loro, o nel bisogno che avrebbero avuto dell'opera sua[795].

«Qual successo potessero aver quelle trame, egli cominciò a immaginarlo la sera dell'11 aprile. Una mano di Livornesi, venuti in Firenze già qualche tempo prima per scuotere la neghittosa che le ambagi del Triumviro avevano assopita, si era impegnata in una lotta con alcuni Fiorentini in cui erano sembrati risvegliarsi tutti gli antichi odii civili[796]. I Livornesi avevano avuta la peggio, e avevano giurato di vendicarsi. Essi erano tornati, forse in un migliaio, il giorno appresso, e Firenze era stata minacciata da una vera battaglia campale. Mercè gli ufficii di molti cittadini la tempesta si era però diradata; i Livornesi erano ripartiti, ma non senza mantenere un cruccio segreto che presto o tardi avrebbe voluto sfogarsi. Ed ecco finalmente che nella sera dell'11 aprile corre voce per Firenze che i Livornesi si battono coi Fiorentini alla Stazione della Strada ferrata; che la Piazza di Santa Maria Novella risuona di colpi e rosseggia di sangue; e l'allarme vien dato alla città, in cui prende allora decisamente il sopravvento il Partito reazionario, che, avendo profittato prima delle ambiguità del Guerrazzi, di quei nuovi fatti allora si valeva per dire i Livornesi rappresentanti dei Demagoghi che insidiavano Toscana, e che era tempo di finirla con quei forsennati che avevano convertito uno Stato tranquillo in un teatro di disordini e di anarchia. Il Partito reazionario concludeva affermando che bisognava tornare alle istituzioni antiche se si voleva la pace, che essi erano Toscani, non Italiani, e che senza ripudiare l'opera dei Democratici non si sarebbero evitate le fiere catastrofi da cui la Toscana era minacciata[797].

«Molti Livornesi macellati in quella sera in Piazza Santa Maria Novella, e le grida di morte ai Lombardi, morte agli Italiani, mentre sparsero la desolazione nell'anima di tutti i buoni, dovettero far accorto il Guerrazzi a che via andava la Reazione.

«L'avvertimento però giungeva troppo tardi. La novella dei fatti di Firenze si spargeva pel contado, dove da qualche giorno manifestavasi qualche commovimento in favore del fuggito Leopoldo, e la mattina del 12 aprile Firenze era percorsa da un'orda briaca, che acclamando al Principe imprecava al nuovo Governo, inferociva con ogni maniera di sevizie contro chiunque le era additato per liberale, andava per abbruciare le case e i fondachi di quelli, che l'opinione pubblica designava per amatori delle cose nuove. La schifosa turba imbestialì a suo senno; così, senza che il Potere costituito ardisse farle opposizione, atterrò gli Alberi della Libertà davanti ai presidii delle Guardie Nazionali, che come smemorate la lasciarono fare, rialzò gli stemmi del Duca facendo gazzarra, e stampò per tal modo un marchio indelebile d'obbrobrio sopra una delle città più gentili di questa terra italiana. Dov'era allora il Governo? Che facea il Municipio? Dove erano le truppe? Come patì la Guardia Nazionale sì rea violenza? La condotta del Guerrazzi portava i suoi frutti; il nulla fare, il paralizzare ogni sentimento patrio, lasciava una delle prime città italiane allo sbaraglio di alcune migliaia di villani; i Liberali piansero di disperazione vedendo l'eccidio a cui le cose erano condotte, vedendo come anche l'onore era stato indegnamente immolato.

«La Reazione percorse tutto il suo stadio, si autorizzò dell'idea fatta spargere dal Guerrazzi, che solo una Restaurazione poteva risparmiare un intervento tedesco. Le grida di morte ai Deputati, morte ai Liberali, rimbombarono per molte ore, accompagnate da atti che per l'onore d'Italia non vogliamo ricordare. Una Commissione fu istituita poi che disse governare in nome del Principe, e gli amici del Principato Toscano cominciarono dal retribuir Guerrazzi dei servigi fatti loro, con quella carcere che da tutt'altri, che da essi, avrebbe dovuto meritare[798].

«Le Deputazioni si apprestarono a partir per Gaeta, per richiamare il benamato Principe, e tornare a quelle saggie franchigie troppo dal Guerrazzi e dal Montanelli conculcate. Ma il benamato Principe lasciò scorgere che non voleva far più a sicurtà come prima con quelle dimostrazioni di affetto, e che alcuni battaglioni di tedeschi lo avrebbero meglio rassicurato. Fu allora che anche gli spegnitori di ogni entusiasmo patrio, fu allora che quei reazionarii commovitori delle campagne conobbero che abisso si fossero scavato, e che cercarono ( indegno strattagemma ) di adonestar l'intervento austriaco, mostrandolo da Livorno solo motivato. D'Aspre però, a cui noiavano tutte quelle reticenze, che voleva anche un po' umiliar Leopoldo pei suoi sentimenti italiani, troncò le ambagi con un Proclama in cui disse, che il Principe stesso aveva voluto quell'intervento. Gli amici del Principato Toscano avrebbero dovuto nascondersi allora per vergogna, se di qualche pudore fossero stati capaci; ma trovarono più idoneo il continuare a bandir la croce sui Repubblicani, dicendo che se anche il Principe non si affidava più in essi, ciò era sempre per opera loro.

«Così cadde Firenze, e, che peggio è, cadde vituperosamente; vituperosamente non pel suo Popolo che l'Italia aveva amato, come quello di tutti gli altri Paesi, ma per le stolte e ambiziose tergiversazioni di un uomo che portò il pessimismo dei suoi scritti nella vita politica[799], e per lo zelo di una gente fredda, egoista, inconsiderata, che non comprese come, ostando al movimento nazionale, diveniva per necessità l'alleata dei Tedeschi.

«Era serbato a quell'inclita città il vedere quindi una Convenzione stretta col nemico d'Italia per l'occupazione della patria, e il vedere un Corsini ad apporre il suo nome in un patto, che convertiva una provincia italiana in un feudo tedesco.

«La Storia, che giudicherà gli uomini e gli atti di questa età dolorosa, saprà dispensare imparzialmente le lodi e l'infamia[800]

Seguono due libri entrambi stampati da Felice Le Monnier, il quale si è fatto Editore del pari della mia Apologia, onde si può dire di lui quello che gli antichi narravano della lancia di Achille, la quale sanava le ferite che faceva.

« Vulnus Achilleo quæ quondam fecerat hosti

« Vulneris auxilium Pelias hasta tulit[801]

La prima ha titolo: « Gli ultimi Rivolgimenti Italiani; Memorie storiche del signor Marchese F. A. Gualterio di Orvieto. — Firenze, 1850-51.» Quando di queste Memorie mi pervenne notizia, ne augurai subito male, talchè nel 9 gennaio 1850 ebbi a scrivere al mio Difensore signore Avvocato Tommaso Corsi: «Ricordi quello che si narra di Alessandro Macedonio, quando Lisimaco gli leggeva certa storia di strani gesti operati da lui? È fama che Alessandro, interrompendo Lisimaco, esclamasse: e dove eravamo noi quando facevamo sì stupende cose? — Questa storia mi si affacciò alla mente più volte leggendo le mille gagliofferie e perfidie stampate sul conto mio; però a imitazione di Alessandro mi sono stretto nelle spalle interrogando me stesso: — e dove ero io quando facevo tante belle cose? — Jeri leggendo il Galignani's Messenger del 28 decembre me ne capitava una sott'occhio nuova di zecca, e parla così: — dicesi che un certo signor Marchese Gualterio di Orvieto abbia pubblicato una Storia Politica d'Italia dal 1847 al 1849, la quale cause one immense sensation by the new light which it will throw on the men and things of our day ec..... by documents esaminati nello Archivio segreto del Governo, e di alcune Cancellerie; — e seguita: — another revelation still more curious will show in the most evident manner that the Dictator Guerrazzi was supported by Lord Palmerston. The proof of this exists in a letter of Guerrazzi to Sir G. Hamilton, complaining in the better terms of having abandoned by England after the english Ambassador had formally promised him that he might calculate on his support.» Ora niente di questo è vero; e l'onorevole Lord Palmerston ebbe la bontà di significarmi, col mezzo del Ministro Hamilton, il suo gradimento per i miei sforzi, da me in tempi difficili, e privo di qualunque aiuto, operati in benefizio della salute pubblica, confortandomi a perdurare in quelli, e a sostenere con ogni facoltà mia il Principato Costituzionale. Lo evento poi corrispose al presagio. Cotesto è libro di Parte; due compaiono essere i fini che si propone: favoreggiare gl'interessi della Monarchia Costituzionale Piemontese, esaltare il Partito, che si dice dei Costituzionali moderati. Malgrado le lodi prodigategli da questi ultimi, senta un po' me il Marchese Gualterio, chè, quantunque non gli sia parso finora, troverà che io so dire il vero, e posso, perchè fin qui, e sono quarantasei anni, viltà che sia non ho saputo mai; da parte il merito letterario di cotesto libro, io gli dichiaro che non è opera da prudente storico, nè da uomo onesto. Come storico di casi contemporanei, sembra a me che dovesse mettere più coscienza nel ricercarli, più gravità nello esporli, dacchè io davvero non comprendo come possa giovare alla comune Patria, e allo stesso concetto che promuove, inciprignire le piaghe, e perpetuare, anzi crescere, le maladette discordie. Se io male non veggo, in questa parte egli amministra ottimamente i negozii, — non però quelli d'Italia. Come onesto, io lascio considerare a lui, che pure è gentiluomo, e si professa dabbene, se egli doveva raccogliere nelle orecchie tutto quanto vi versava dentro la necessità di attenuare un'azione turpissima, l'astio della mediocrità, e l'odio di superbie umiliate. Egli non è ancora giunto co' suoi scritti alla mia vita politica, e siccome mi giova sperare che di ora innanzi avrà compreso, con un bove solo non tirarsi il solco, nè potersi giudicare del suono delle campane se ambedue non si ascoltano, e che di ciò farà senno così per dettare le rimanenti Memorie, come per correggere le già scritte, non mi trattengo più oltre sopra di lui, pago, intorno alle ragioni della mia vita privata, di quel tanto che mi fece l'onore di attestare Tommaso Corsi, e che io stesso ho discorso sparsamente nella mia Apologia. «Ma sopra ogni altro feritore infesto

«Sopraggiunge Farini, e me percuote.» Non dirò delle sue intenzioni, quantunque, secondo il mio giudizio, rette non pare che abbiano ad essere; ad ogni modo io domanderò chi gli abbia insegnato comporre Storie sopra Requisitorie di Procuratori Regii, cospargendole di tratto in tratto di qualche fiore còlto nel suo giardino! Ora che cosa altro ha egli fatto, almeno per me? E gli domando eziandio, se sono prove di temperanza, di moderazione, e di probità, praticare com'egli ha fatto contro uomo, che da trenta mesi si logora chiuso in carcere, e non gli può rispondere! Se così costumano i moderati, che cosa dobbiamo aspettarci dagli sbracati e dagli scamiciati, è difficile immaginare. Pensino a questo i Moderati. Il suo libro si manifesta dettato nel medesimo spirito di quello del Gualterio, ma con manco di generosità, e più piglio di Procuratore Regio, però che Gualterio non dia i suoi giudizii per definitivi, e prometta, se avvisato, emendarli. Io già ho tenuto proposito del libro intitolato Lo Stato Romano in varie parti dell'Apologia: mi giovi qui singolarmente rilevare alcune, che, adoperando il più benigno linguaggio, chiamerò falsità. A pagine 86 del Tomo III afferma: « Chi rompe paga, scriveva per telegrafo il Guerrazzi a' suoi Livornesi, usi da lui a rompere ed essere pagati?» Mi sia permesso domandare al Farini: su che cosa fonda questa vergognosa imputazione ai Livornesi, e a me? Se nel proprio mal talento, questo non fu mai, per quello che io sappia, annoverato fra le sorgenti della Storia; e veda, che quello ch'ei finge, grave sempre, per me oggi è gravissimo. A pagine 87 afferma: «dicendo provvedere alla sicurezza pubblica, provvidero al proprio impero, soldando guardie di polizia fra le turbe dei turbolenti e dei fuorusciti, le quali, come non avevan prima nè termine nè misura nelle voglie pazze e malvagie, così furono poi non presidio, ma offesa della città.» E questi, veda il Farini, e' sono rotondi, non già sinceri periodi; avvegnadio se della Guardia Municipale tu consideri la origine, troverai averla scelta una Commissione composta del Prefetto e del Gonfaloniere di Firenze con altri cittadini spettabili, e non avervi preso punto parte io, se togli la nomina Basetti, e i suoi figlio e fratello; o, se piuttosto tu vogli considerare i portamenti, li conoscerai essere tali da meritarsi di essere conservata dalla Commissione Governativa. Individui pessimi certo entrarono in quella, ma non per colpa del Governo, e perchè in qualunque composizione di corpi questo guaio vediamo avvenire sempre; nè poi furono tanti, che dessero cattivo nome al corpo intero: onde l'accusa del Farini suona singolare, e non vera. Intorno al disfacimento degli ordini in Toscana, lo mando.... se il Farini ci vorrà andare.... a quella parte della mia Apologia, dove di ciò si ragiona, e le parole di Gino Capponi si riportano. Quanto scrive intorno al Granduca nostro, suona così:

«Havvi chi afferma, che egli non si fosse mai acconciato agli ordini liberi in guisa da lasciare gli appetiti e le ubbie dell'assoluto, e, come dicono, paterno reggimento. Havvi chi dice, che sin da quando rallentò i vincoli della libertà, perchè il papa coll'esempio aveva sciolti i popoli italiani, scrivesse all'arciduca Ranieri vicerè di Milano ed altri suoi consanguinei, facendo querela e beffa dei liberali che inuzzolivano. Taluno attesta, che nel tempo, in cui colle poche sue armi concorreva alla guerra d'indipendenza, egli fosse in buoni termini co' regii ed imperiali parenti, coi quali non aveva intralasciato i consueti uffizii. Ond'è, che molti hanno argomentato poi dai fatti che seguirono, e da quelli che si vanno via via svolgendo in Toscana, che Leopoldo II non solo fosse sempre oscillante fra gli avvisi e le parti contrarie, ma che sempre fosse fermo nella devozione ad Austria ed alieno dalle liberali novità. Del che io non ho a fare giudicio, perchè non ho d'onde fondarlo su base a cui la coscienza s'acqueti; nè d'altra parte ho debito di addentrarmi nelle cose toscane più di quanto sia necessario ad indagare e chiarire le attinenze di quelle colle romane. E dovendo rimanermi in prudente, e direi onesta, dubitazione, amo meglio, il confesso, pendere a benigno giudizio d'un principe che pur si parve ornato di buone qualità, mite dell'animo, degli studii fautore, riformatore d'abusi, quando gli altri italiani principi di sè davano nome ed esempio peggiori.»

Ora, che cosa egli è questo vedere, e non vedere, a modo della Vergognosa di Camposanto? Non si gittano addosso accuse pessime per iscivolare via lasciando dietro una traccia di bava a mo' di lumaca. La storia scrivono gli Storici, non gli Scoiattoli. Egli doveva verificare le accuse, e se accertate esporre gravemente, e lealmente, e se non riusciva ad accertarle doveva trascurarle, perchè davvero raccattare quello, che ai giorni di oggi s'incontra per via, è mestiere da carrettaio, non ufficio da Storico. Tra lo Storico, che pazientemente raccoglie la materia, la studia, la saggia, la sottopone a religiosa indagine, e alla fine la veste con forme caste ed elette di stile, e lo scrivano che tuffa la penna nello inchiostro e la mena di su e di giù per le carte, la differenza che corre è grande quanto fra un pittore e uno imbiancatore; oltre che elle paiono, coteste del Farini, come veramente sono, ipocrisie, che putono di vieto lontano un miglio; e per un momento ho quasi dubitato, che dei Gesuiti oggimai fossero le voci, ed altri avesse avuto le noci; chè se la cosa non istà per l'appunto come la credo, in quanto a noci, almeno mi pare, che se le sieno spartite, e da un pezzo.... — A pagine 218 afferma: «che i Ministri tennero consiglio co' sollevatori nei Circoli nella notte dell'8 febbraio.» E veda l'onesto Farini, questo fatto che sarebbe cagione di capitale condanna, nemmeno l'Accusa (che non ha fatto a risparmio per inventarne grosse) ha osato affermarlo. A pag. 219 pone: «che nell'8 febbraio il Governo prima gridò, poi disdisse la Repubblica;» ed anche questa è calunnia pretta che neppure ha potuto riscontrare nell'Accusa, — fidata scorta degli erranti passi. Intorno alla inverosimiglianza delle tre lettere scritte dal Granduca, con le quali prima chiede, poi renunzia, e finalmente torna a sollecitare i piemontesi aiuti, ho discorso altrove; le due prime possono credersi, non già la terza, che a me pare immaginata a posta per salvare chi aveva promesso quello che non doveva promettere, e non poteva mantenere, se gli ordini costituzionali si vogliono osservare.

Però in queste mie miserie mi hanno somministrato non mediocre argomento d'ilarità le lodi smodate con le quali prosegue la commissione del Ministero Toscano del 22 settembre 1848 al Marchese Ridolfi per le Conferenze di Brusselle. Se io di mia certa scienza non sapessi essere allora Presidente del Consiglio Gino Capponi, non lo crederei a cui mel giurasse; però che Gino Capponi sa, che politica francese di Enrico IV, e seguita sempre da Richelieu a Lamartine inclusive, fu tenere deboli e divise la Germania e la Italia, e sa che gli Stati piccoli congregati ad equilibrio di leghe all'urto degli Stati uniti e grossi non reggono, come vedemmo ai tempi di Ludovico il Moro; e finalmente sa che rovina d'Italia fu appunto questa, operata in buona parte dal Magnifico Lorenzo dei Medici, che in condurre un disegno piccolo e cattivo pose arte e sagacia eccellenti: che mentre le si stavano componendo su i confini, grosse ed unite, l'Austria e la Francia, essa durava frantumata in piccoli brani; nè potersi della indipendenza nostra neppure parlare là dove nell'alta Italia non venga posto uno Stato forte capace a guardare le frontiere da vicini potentissimi; — e nonostante che queste cose sapesse, leggiamo con maraviglia commettere al Marchese Ridolfi di consentire che la Lombardia si concedesse a un figlio di Carlo Alberto, e la Venezia o ad un Arciduca di Austria, o a Francesco V di Modena; in quanto alla Sicilia s'ingegnerà di promuoverne la separazione dalla Corona del Re di Napoli, assegnandola in retaggio a un figliuolo di lui; i Ducati di Parma e Modena ad ogni modo si sforzasse fare abolire; e per quanto concerne Toscana si adatterebbe a prendere di Lombardia un pezzo, ma non tale che si avesse a dire di lui: la carne non vale il giunco; però di 12 oncie buon peso, e senza osso, — e per di più Toscana non vorrebbe chiedere, ma sì piuttosto desidererebbe essere pregata. — Cose sono queste da far cascare le braccia ad ogni fedele cristiano. Così, invece di diminuire, si accrescevano le divisioni in Italia! E quello poi che riesce più stupendo a vedersi si è, che Farini, il quale si sbraccia a maledirmi (e se fosse vero, come è falso, avrebbe fatto bene) per essermi mostrato avverso alla composizione necessaria di uno Stato gagliardo, trova a lodare un concetto che guastava il presente e l'avvenire. Egli è vero che debole Stato siamo noi, e la nostra voce poco avrebbero ascoltato; e questo a parere mio somministrava un motivo di più o per parlare almeno magnanimi, o per tacere prudenti; e concludo sostenendo che un uomo dotto nelle storie e nelle ragioni della politica, come Gino Capponi, non può avere consentito così mirifica commissione, e mi pare assai che volesse tôrne il carico il Marchese Ridolfi, se pure non ebbe ordini segreti, che, la stupenda commissione correggendo, la riducessero ai termini del credibile. — È falso quanto scrive Farini a pag. 285, che «i Governanti Toscani non erano amici al Piemonte;» io ho chiarito, onde non si rinnuovi questa sventura, come taluni fra i Piemontesi si dimostrassero, all'opposto, poco amici dei Toscani. — Dello esilio di Massimo Azeglio, e delle ingiurie al Lovatelli di che ragiona a pag. 332, davvero nulla so, che pare qualche cosa dovrei saperne, ed anche questa va messa al monte. Delle contumelie stampate contro Gioberti, non occorre fare altra parola. Non fu il 4, ma il 3 di aprile, che l'Assemblea sospese il voto intorno alla Unione con Roma, non lo profferì contrario, come Farini asserisce erroneamente, dacchè, in modo diverso, fino da quel giorno la Restaurazione sarebbe stata decisa, e quanto racconta in seguito non accaduto, come quello ch'era ad accadere impossibile. — In due luoghi scrive, che gli agitatori menavano tanto rumore che Guerrazzi non gli sapeva sopportare (pag. 219), e che i lazzaroni democratici deturpavano la Toscana, fremente lo stesso Guerrazzi! (pag. 332.) Ma io ricuso cotesto pane dato con la balestra, anzi perfino col punto di esclamazione in fondo; e neppure si potrebbe onestamente accettare, perchè accompagnato da soverchie tumidezze e da bugie. Bugia le sommosse fiorentine represse dalle bande livornesi; bugia l'essermi io ridotto co' Livornesi in Castello; bugia essermi mostrato pronto a pigliare posto nella provvisoria congregazione del Governo; bugia il mio girare nel manico per accettare la Restaurazione (pag. 333): le quali cose tutte, secondo che io affermo, essendo con copia di prove dimostrate nell' Apologia, non abbisognano di più largo discorso. Vorrei piuttosto tenere proposito di certa sua imputazione intorno ai successi di Genova, molto più che l'Accusa tocca anche di questi, e poi dice: te li do per giunta; — onde io, che dell'Accusa non vorrei la giunta nè la derrata, mi condurrei volentieri a tenerne ragionamento, ma basti dire (e se sia vero lo può il Farini riscontrare nel Volume dei Documenti della sua Musa, — l'Accusa), — che io desiderai soccorrere Genova quando venne fra noi la notizia, che il Piemonte in gran parte commosso per lo infortunio di Novara, respinto da sè ferocemente ogni principio di accordo, voleva tentare le ultime prove, e quando fu detto che il Generale La Marmora fra i patti della capitolazione ponesse quattro ore di saccheggio[802]. Non si verificò la prima notizia, e, se male fosse o bene, mi confesso incapace di giudicare; in quanto alla seconda, che non si verificasse fu certamente bene. E si acquistò bella gloria Vittorio Emanuele, e diè con auspicii felicissimi fondamento al nuovo Regno, superata Genova, commettendo ogni trascorso all'oblio, concesso prima lo scampo a coloro che consigli di politica lo dissuasero a ricevere su quel momento in grazia; e leggo con piacere come il buon seme generasse frutto migliore, conciossiachè i Liguri lo abbiano di recente accolto nella loro nobile città con dimostrazioni di stima profonda.

In questa nuova percossa della fortuna, come fu visto l'apice a cui possono arrivare la ignoranza con le sue stupidezze, e la tristizia con le sue perfidie, così doveva presentarsi eziandio uno spettacolo di stranezza piuttosto portentosa che rara, e consiste nel concorso di due Giornali, che si accordano fra loro come il Diavolo con l'Acqua Santa (e poichè ad uno Accusato non si addicono le parti di Giudice, io mi asterrò prudentemente dal decidere chi di loro sia il Diavolo, chi l'Acqua Santa), a favellare onestamente di me: uno è il Cattolico dei RR. PP. della Compagnia di Gesù, come ho notato nell' Apologia; l'altro è la Opinione, dello Autore chiarissimo della Vita di Fra Paolo Sarpi, Bianchi Giovini, il quale scriveva nel novembre dell'anno passato: «e prima di questo scisma, ci giustificava uno dei martiri illustri della causa italiana, l'infelice Guerrazzi, il quale, checchè si sia detto da alcuni, non è, e non fa mai mazziniano, e che riconobbe anzi a quali sventurati risultamenti avrebbero condotta l'Italia i delirii di quel Partito. Tentò egli di opporvisi, ma l'onda era troppo forte, ed egli espia in carcere, e sotto la minaccia di un processo iniquo, gli altrui errori.»

L

XXX. I giorni 11, 12, e 13 aprile 1849. —Pag 756.

« Poteva, dubitare che me volesse prigione.... il Senatore Capoquadri che, Ministro di Giustizia e Grazia, volle, per eccezione amplissima ed onorevolissima, che senza esame la Curia fiorentina nell'Albo degli Avvocati potesse ascrivermi? »

«Sig. r Avv. o Pregiatissimo.

«Per declinare dalle regole prescritte dagli ordini veglianti per l'ammissione di un Legale all'Ordine degli Avvocati, è necessario che il Postulante abbia un merito distinto. La Camera di Disciplina, che io presiedo, non saprebbe immaginarne dei più distinti di quelli che adornano la sua persona. Ed è per questo, che si è recata in sommo pregio di accoglierla nell'Ordine, a cui Ella col suo nome, col suo talento, e con le sue opere accresce lustro e decoro.

«Gradisca, signor Avvocato, l'assicurazione della alta stima e considerazione, con cui ho l'onore di essere,

«Firenze, 24 luglio 1848.

«Sig. r F.-D. Guerrazzi, di Lei

«Devotiss. o Servitore «Cav. re Avv. o Ranieri Lamporecchi.»

M

Ivi. —Pag. 762.

« Colà stemmo raccolti sei: rappresentai la indecenza che le donne non potessero avere stanza appartata. Credei che a gentiluomini e a padri di famiglia dovesse comparire sacra la ragione del pudore: non risposero. Rappresentai il modo disonesto del prendermi, che mi pareva nato a un parto con quello tenuto dal Valentino a Sinigaglia per ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e compagni: non risposero.»

Ecco la lettera: la quale merita tanto maggiore considerazione, in quanto che dettata sotto la impressione di memorie recenti, piena di contestazioni di fatti del giorno, e consentanea alle prove, che quantunque raccolte dall'Accusa pur ella ha reputato suo interesse dissimulare.

«Signori GINO CAPPONI ed altri componenti la COMMISSIONE GOVERNATIVA.

«Desidero sia letta questa scrittura con la pazienza con la quale io la detto. — Forse tornerà inutile, eppure non mi sembra bene ometterla, sentendo come per molti capi importi farla alla mia religione.

«Innanzi tratto, sapete voi, o Signori, in qual modo io venni condotto quaggiù? Rispondendo per voi dico: No, imperocchè mi parrebbe enorme supporre, che voi lo aveste saputo, e consentito. A voi poco preme sapere come infiniti modi per sottrarmi alla disonesta prigionia mi sovvenissero e fossero offerti, i quali tutti, o non adoperai, o ricusai; quello però che dovrebbe premervi è questo: — che la mattina del 12 aprile la Deputazione del Municipio Fiorentino, la quale venne all'Assemblea, consultatomi intorno alla deliberazione presa di governare il Paese a nome del Principe, proposi farvi aderire l'Assemblea onde le Provincie più volonterose concorressero, ed ogni mal germe di discordia fosse tolto via; parendomi ancora pel Principe più onorato, e meno nocivo alla libertà, richiamarlo in virtù del consenso universale, che per forza di tumulto. A istanza altrui formulai un Decreto che suppongo voi abbiate nelle mani; voi sentiste diversamente da me; tuttavolta cotesta carta deve porgervi testimonianza della mia volontà, disposta a contribuire alla pace del Paese con tutte le mie forze.

«Raccomandandomi il Priore Digny la Patria con fervidissime parole, e confortatomi ad adoprarmi dal canto mio onde la sua miseria non si facesse maggiore, io, rispondendo con pienezza di cuore a lui e agli altri membri della Deputazione Municipale, proposi recarmi a Livorno con qualche rappresentanza officiale avesse voluto la Commissione conferirmi per disporre gli animi a starsi all'operato contenti. Accolsero con segni manifesti di gradimento questa proposta, e il Priore Digny m'invitava a non partirmi: sarebbe tornato la sera a concertare la cosa. — Intanto i Deputati si ridussero di quieto ai proprii alberghi, ed io rimasi contro il consiglio di tutti, e ricusata la carrozza offertami dal Colonnello Tommi, stretto dal dovere e dalla parola data alla Deputazione Municipale.

«Il Generale Zannetti e il Colonnello Nespoli vennero verso le ore 3 pom., il primo per assicurarmi che nella serata, con treno particolare, sarei inviato a Livorno; il secondo a offrirmi di mandare qualche compagnia di Nazionale alla Stazione per tutelarmi, ad ogni evento, nel caso avessi voluto partire alle 4. — E poichè il Nespoli accomiatandosi da me mi baciava, come si costuma, in volto, il Zannetti favellò queste precise parole: io non ti bacio adesso, ti bacierò stasera. Tornarono in serata Digny e Zannetti. Il primo tacque delle facoltà che doveva conferirmi la Commissione, donde io inferiva che non me le volesse assentire, ma confermarono entrambi sarebbe il mio viaggio avvenuto nella notte per Livorno. Stessi pronto a partire. Verso le ore 3 del mattino ricevo il biglietto che unisco, pel quale Zannetti mi annunzia alcuni non volere lasciar libero il passo, opinare la Commissione trasferirmi pel Corridore dei Pitti in Belvedere, donde remossi i Carabinieri, avrebbe messo la Nazionale. Questa lettera, che accenna mutamento di esecuzione a concerto che resta fermo, in sostanza mi turbò alcun poco, non tanto però che mi facesse dubitare di uomini probi ed amici. Zannetti venne tardi la mattina, e dichiarò la prudenza consigliare che per 2 o 3 giorni rimanessi in Fortezza, tanto che la plebe si sdracasse. Allora le donne, e il Commesso della Segreteria dello Interno Roberto Ulacco, vollero tenermi compagnia. A confermarmi nella mia fede valse il fatto seguente: che manifestando io esser privo di danaro per pagare il viaggio, e certi miei debiti, il Priore Martelli mi portò L. 1000, e me le consegnò giusto in quel punto che da Palazzo Vecchio muovevamo a Palazzo Pitti. Durante il cammino, Zannetti mi avvisò la Commissione non pareva inclinata mandarmi a Livorno, e mi interrogava se fossi stato contento a starmi qualche tempo lontano dal paese. Risposi: avere l'animo travagliato così dalle sciagure della Patria, che lo avrei reputato beneficio; egli però conoscere le mie fortune; provvedesse come gli pareva meglio. Ed egli a me: lasciassi fare, avrebbe accomodate le cose in serata, e il giorno appresso sarebbe venuto a darmene ragguaglio. Non l'ho veduto più. — Mi coglie il ribrezzo pensando da cui mosse la insidia; ma insidia vi fu, e bruttissima, a modo delle Valentinesche. Ora vorrete voi Gentiluomini giovarvi di trame proditorie, e di fede tradita?

«Sapete voi come io stia ristretto in carcere con altre cinque persone? Io rispondo per voi, e dico risolutamente: No. Dentro una stanza alberghiamo quattro, due uomini e due donne, fra queste la nepote sedicenne, cavata per pochi giorni di convento per visitare lo Zio. Voi siete padri, o Signori. — Io non aggiungo parola; — solo desidero vi preservi il Cielo dalla umiliazione di vedere così poco curato il pudore delle vostre figliuole!...

«Da nove giorni qui altro non si fa che scalpellare, turare, mettere ferrate, cassettoni, graticole e bodole, tirare tende, inchiodare catenacci, invitiare bandelle, murare e smurare; e tutto questo con tale una perturbazione del corpo e tortura dell'animo, da non potersi con parole significare. La mancanza di aria, di moto, la vista della gente che mi soffre attorno, la cura che mi lima dentro, hanno inasprito le mie infermità, e temo peggio.

«Cagione di tanto esquisita sevizia si allegano certi segnali fatti dalle finestre. Se alcuno di voi vedesse di quale generazione sieno queste ferrate e questi cassettoni, e se sapesse che da martedì in poi stanno al posto, di leggieri vi persuadereste della falsità del rapporto. Nelle cariche che ho occupato mi son guardato sopra tutto dalle relazioni degli amici zelanti; ho preferito piuttosto le censure acerbe dei nemici, perchè le prime mi avrebbero quasi sempre sospinto a errare, le seconde qualche volta mi schiarirono. Certa fiata mi annunziarono il Barone Ricasoli far grande raccolta di armi e di cannoni, a Broglio, e mi accusavano di colpevole oscitanza perchè non commettessi perquisizioni ed altri simili fastidii: io stetti saldo, e fatta cautamente e discretamente esaminare la cosa, conobbi le armi esservi, ma non molte, e per armare la Nazionale, ed esservi pure i cannoni, ma di terra cotta. Se trascorrevo a credere, sarei stato ingiusto e ridicolo. E perchè non metta più parole intorno a quest'infelice argomento, dirò che in carcere sono tenuto, per la intelligenza, come un bruto; per salute, come uomo che si voglia spegnere; per angustia, come Guazzino; — insomma come un Ciantelli non immaginò tenermi quando mi mise le mani addosso.

«E perchè sono ritenuto io? Per delitto, o per sospetto? Se per delitto, si proceda a processo regolarmente e civilmente; io risponderò dei miei fatti collettizii e particolari. Il Governo Provvisorio fu necessità: voi lo consentiste, e certo non vorrete allegare che lo faceste per forza, imperciocchè offendereste voi stessi, non patendo violenza lo animoso Magistrato. Consultare il Paese intorno alla sua volontà, era pure cosa necessaria, ed io l'assentiva, perchè lo stesso Principe dal voto universale non repugnava, estimandosi amato, e perchè Emanuele Fenzi mi assicurava non alieno lo stesso Senato. Se il voto non riuscì universale, colpa degli uomini ignavi, non mia; e nè tutti gli Elettori della vecchia Legge Elettorale concorrevano a votare. E le note stampate non facevano ostacolo, perchè ogni Partito poteva stampare le sue, e le manoscritte accettavansi. Intanto il Popolo che ora vuole il Principato allora gridava Repubblica, ed io fui solo contro alle sue ire, e negai che una mano di gente usurpasse il voto del Popolo consultato con modi civili; e non senza pericolo della mia persona, e biasimo grande degli esagerati, l'ottenni.

«Mi opposi a Laugier: in prima, perchè a noi mancavano avvisi certi del Principe; e del Laugier conoscendo la vita e i costumi, non era ignaro dell'avversione manifestata da lui contro la Casa del Principe fino all'assedio di Gaeta; finalmente si presentava con la invasione dei Piemontesi, alla quale conoscevo poco propenso il Granduca; e nemmeno ignoravo agitarsi un Partito nella Toscana, specialmente, a Lucca, per darsi al Piemonte. Io stesso n'ebbi eccitamenti, e nelle tasche della mia veste da camera, chiusa nei bauli che sono in Palazzo Vecchio, se non m'inganno, deve esserne rimasta la prova. Di più, la impresa di Laugier venne meno per opera dei Popoli che non gli vollero dar reità, e il suo ultimo Proclama al Popolo della Versilia chiaramente lo manifesta. Come mi studiassi a fare che la votazione dell'Assemblea procedesse libera, ne porgono testimonianza la rivista alla Nazionale, i detti e gli scritti pubblici. E comprendendo troppo bene come si dovesse calare ad onorevole accordo col Principe, allontanai quelli che mi pareva avessero a contrastare simile concetto più efficacemente degli altri, o arrestandoli, o beneficandoli, cosa che si accomoda meglio alla mia natura. All'Assemblea mi opposi alla decadenza del Principe, alla proclamazione della Repubblica, e all'Unione con Roma: perchè la prima cosa mi sembrava piena di pericolo per la Patria; alla seconda non reputando accomodati i tempi nè i costumi; rispetto alla terza, parendomi cotesta Unione uno di quei matrimonii che si contraggono in articulo mortis; e dei miei colleghi parte ebbi avversi, e parte fermi a gran pena. A me il Popolo chiedeva la Repubblica, a voi il Principato; io negai, voi assentiste; e con ciò disposi quello che avete fatto voi e voleva fare io, pel bene di questa Patria comune, ma con onore, salve sempre la libertà e la sicurezza delle persone. Atti, e scritti attestano questo mio concetto, e lo attesteranno anche persone spettabili, costituite presso noi in ufficio diplomatico.

«Avere dato opera alla difesa dei confini non deve ridondarmi in biasimo, sia perchè la difesa era stata promessa a codesti Popoli nella loro dedizione, e fu rinnuovata poi; sia perchè mi pareva onorevole rendere il Paese quale era stato lasciato al Principe, commettendo per l'avvenire la cura di provvedere a lui stesso. Tutelai la Religione richiamando lo Arcivescovo di Firenze, e tenendo ferme le censure comminate da Lui contro preti protetti dal Popolo; mantenni con ogni supremo sforzo il Paese salvo da omicidii e da saccheggi: l'altrui vita salvai esponendo la mia.

«Spero che nessuno di voi mi reputi così scellerato o stolto, che per me si partecipasse al fatto eternamente lamentabile dell'11 aprile. Il Battaglione Guarducci ottima prova di sè aveva fatto a Pistoia, siccome lo attestano le dichiarazioni che io mi ebbi, e la fede dello egregio Franchini mandato a speculare sui luoghi. Da Arezzo, dove fu diretto, prima vennero biasimi, poi giustificazioni per la parte del Romanelli, onde io non reputai commettere fallo rendere cotesto Battaglione a Pistoia, facendolo transitare da Firenze, e qui fornirlo di armi e di vesti. Intorno a questa gente io non ricevei mai reclamo, nè credo lo ricevesse il Ministro della Guerra. I Volontarii raccolti in Fortezza di San Giovanni erano consegnati, ordinai che non uscissero, e lì dovevano organizzarsi, appunto come il Battaglione che n'era uscito il giorno 9. Le compagnie stanziate in Borgo Ognissanti commisero brutti falli e insolenze: queste furono sottoposte alle discipline militari: quando alcuni di loro furono arrestati a Porta a Prato, andai di persona, gli rimproverai acerbamente, e, chiamati più volte gli ufficiali, ordinai si punissero con tutto il rigore della Legge. La Nazionale di Guardia può far fede del successo. Simili insolenze non erano nuove, e furono commesse anche dalla gente stanziata all' Uccello, la quale ricercata e punita non porse argomento a gravi contese; molto meno a collisioni sanguinose. Quando avvenne il fatto di Piazza Vecchia, andai di persona, — e quello che operassi, e quali pericoli corressi per istrappare a forza cotesti sciagurati dalla guerra infame, ve lo dica la gente, non io. — Meglio per me fossi morto quel giorno!

«Se mi ritenete per sospetto, io vorrei dirvi che la mia vita politica è rotta, che le sciagure della Patria mi hanno percossa la mente così da dissuadermi da partecipare più oltre nella cosa pubblica; ma voi lo terreste per giuramento di marinaro: vorrei offrirvi la mia parola di onore, ma, temendo ripulsa, non la espongo; solo vi avvertirò che vogliate ricordarvi come i tumulti a Roma non cagionassero mai la rovina della città, perchè terminarono con una Legge; all'opposto in Firenze, perchè si conclusero con prigionie, esilii, ed ingiurie maggiori. Se voi mi reputate un Capo Partito pericolosissimo avete tre modi: o ammazzarmi, o conciliarmi, o cacciarmi via. Il primo modo voi non vorrete, nè potrete tenere; il secondo pare che schifiate; rimane il terzo: ebbene, se vi par giusto, fatelo. Ho letto le storie non per ornato vano, sibbene per condurvi sopra la vita; e lo esempio di Giano della Bella m'insegna come gli animosi cittadini abbiano a sacrificarsi in benefizio della Patria. Nè possono mancarvi mezzi per assicurare a voi la mia partenza, e rendere a me meno amari i passi dell'esilio.

«Ritenendomi in carcere, voi mi rovinate la salute, e questo la coscienza vostra, che pur siete gentiluomini e cristiani, non lo può patire. — Rovinate i miei nipoti che, orfani per malignità del Choléra, tornano adesso (poveretti!) orfani una seconda volta. Rovinate le mie poverissime fortune, e condannate me e loro alla miseria.

«Ritenendomi in carcere, parrà che lo facciate per compiacere una plebe matta, che non sa servire nè esser libera, mutabile e feroce, e che me le gettiate davanti come alle belve nel circo; parrà che lo facciate per vendetta di me che pure non vi offesi, ed anche di recente mi condussi verso voi con la convenienza che meritate; parrà lo facciate in benefizio di una Fazione che vince; e quindi, comecchè coperti, cresceranno i rancori, e a loco e tempo proromperanno, nè avremo pace mai, e con somma contentezza dei nostri nemici presenteremo l'aspetto di moribondi litiganti sull'orlo della fossa. A me sembra essere tratto quattro secoli addietro, e mi paiono rinnuovate le gare degli Albizzi, degli Alberti, dei Ricci, e degli Scali: la prerogativa regia diventata quasi un pugnale, che i contendenti s'ingegnano strapparsi di mano per offendersi a vicenda.

«Queste cose ho voluto dirvi per la Patria, per la mia famiglia, e per me, onde voi mi trovaste modo onorevole di uscir di paese, — pensaste alla mia famiglia, alla gente che volontaria pena oggi qui meco, e comunque giovane si consuma, — e alleggeriste le angustie del carcere disonesto, che davvero sono troppe, e non sopportabili. Abbiate mente che così, senza offesa della vostra reputazione, non può tenersi un uomo che il Principe elevò al grado di suo consigliere, e voi stessi eleggeste a governare il Paese. In ogni evento della fortuna gli uomini, ancorchè emuli, hanno da usarsi scambievolmente un certo tal quale pudore di convenienza, senza del quale il costume pubblico precipita con danno infinito in cinismo feroce.

«Che se tutte queste considerazioni, e queste istanze per altrui e per me, dovessero convertirsi in un nuovo motivo d'ingiuria pei miei cari, e per me, allora la storia domestica mi presenta un altro esempio imitabile in tutto — eccetto che in una parte, — e questa consiste nel non desiderare mai che dalle mie ossa sorga verun vendicatore.

«Dalle Segrete, 28 aprile 1849.

« F.-D. Guerrazzi. »

FINE.

INDICE DEL VOLUME.

Avvertenza Pag. v

Introduzione 1

Considerazioni Generali 5

I. Metodo adoperato dall'Accusa 5

II. Giudizio del Guizot sul metodo adoperato dall'Accusa 6

III. Esposizione dei fatti generali composta dall'Accusa 8

IV. Confronto del metodo praticato dall'Accusa con le dottrine del Guizot 14

V. Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori e in casa 17

VI. Agitazione in Toscana 20

VII. Tumulti quando incominciassero 27

VIII. Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a chiarire le sofferte ingiurie per la parte della Polizia 57

IX. Esame dei §§ VI, VII, VIII dell'Atto di Accusa, e Comento alle parole del Decreto del 7 gennaio 1851: « che con mezzi riprovevoli ero giunto a impossessarmi del potere .» 78

X. Costituente 126

XI. Di una proposizione contenuta nel § IX del Decreto della Camera delle Accuse 159

XII. Notte del 7 all'8 Febbraio 1849 162

XIII. Mio concetto intorno alla Repubblica 176

XIV. Concetto dei Repubblicani 190

XV. Motivo dei Repubblicani nel nominarmi membro del Governo Provvisorio 192

XVI. Giorno 8 Febbraio 1849 196

XVII. Mia situazione in Piazza 216

XVIII. Cause di delinquere 227

XIX. Della contradizione notata dai Documenti dell'Accusa fra la potenza e la impotenza di resistere alle pretensioni del Partito repubblicano 231

XX. Forza 244

XXI. Conseguenze della Forza ammessa dai Documenti dall'Accusa 248

XXII. Atti Speciali 254

§ 1. Fatti di Siena 254

§ 2. Invito al Circolo Fiorentino di tenere le sedute in Palazzo Vecchio 267

§ 3. Impieghi dati in ricompensa a Mordini, a Ciofi, a Dragomanni; danari a Nicolini 270

§ 4. Lettera al Sig. Gio.-Bat. Alberti Prefetto di Arezzo 275

§ 5. L'Accusa non vuole leggere 287

§ 6. Ordine per abbassare gli stemmi 291

XXIII. Dichiarazioni in Senato ostili al Granduca 294

XXIV. Spedizione di Portoferraio, e di Santo Stefano 304

§ 1. Spedizione a Portoferraio 306

§ 2. Dimostrazione 321

§ 3. Spedizione al Porto Santo Stefano 348

XXV. Spedizione di Lucca 397

§ 1. Dimostrazione storica 397

§ 2. Confronto storico 416

§ 3. Stato in che mi trovo ridotto nei giorni 18, 19, 20 febbraio 1849 429

§ 4. L'Accusa non sa leggere 445

§ 5. Della lettera del 19 febbraio 1849 indirizzata al Pretore del Porto Santo Stefano 446

§ 6. Motivi per muovermi contro il Generale Laugier 452

§ 7. Di una lettera del R. Delegato di Massa e Carrara 463

§ 8. Minaccie d'incendii e di saccheggi 469

§ 9. Corruttela delle milizie laugeriane, e di tutte in generale, e accusa del giuramento 480

§ 10. Perchè il Generale Laugier si partisse da Massa 494

XXVI. Leggi Statarie 497

XXVII. Intorno all'Accusa della soppressione del Consiglio generale Toscano, e della mutata forma delle Elezioni 520

Dimostrazione storica 547

XXVIII. Mio disegno; motivi che lo persuasero, ed espedienti per conseguirlo 559

Dimostrazione storica 615

XXIX. Del Giudizio pronunziato sul mio operato dal Decreto del 7 gennaio 1851 671

XXX. I giorni 11, 12 e 13 aprile 1849 692

XXXI. Di una Sentenza della Corte Speciale di Parma del 1831 766

Appendice.

A — A pag. 37. — Due Lettere di F.-D. Guerrazzi al Cav. Niccolò Puccini (27 ottobre, e 16 novem. 1848) 773-774

— A pag. 37. — Lettera di F.-D. Guerrazzi ad una Signora lucchese (3 gennaio 1849) 774

— A pag. 37. — Lettera del medesimo al Prefetto di Lucca (10 gennaio 1849) 774

B — A pag. 75. — Due Lettere del signor Gaetano Paganucci a F.-D. Guerrazzi (29 febb., e 19 marzo 1848) 774-776

C — A pag. 76. — Scritto inedito di F.-D. Guerrazzi, dalla prigione di Portoferraio (19 marzo 1848) 777

D — A pag. 113. — Lettera dell'Avv. Antonio Dell'Hoste al cancelliere Guidotti 786

E — Nota alla pagina 117 dell' Apologia 787

F — A pag. 289. — Proclama pubblicato dal Prefetto e dal Municipio di Lucca l'8 febbraio 1849 787

G — A pag. 312. — Lettera dell'ex-Ministro di Francia Benoît Champy all'avv. Tommaso Corsi (10 settembre 1851) 788

H — A pag. 314. — Lettera di F.-D. Guerrazzi al Prefetto di Lucca (13 febbraio 1849) 789

I — A pag. 481. — Intorno al sistema penitenziario, e più specialmente intorno alla Legge del 4 marzo 1849, Dichiarazioni di F.D. Guerrazzi 790

K — A pag. 671. — Intorno alle Opinioni di alcuni Scrittori (Macfarlane, D'Arlincourt, Vecchi, Rusconi, Gualterio, Farini ec.), Discorso di F.-D. Guerrazzi 795

L — A pag. 756. — Lettera dell'Avv. Ranieri Lamporecchi a F.-D. Guerrazzi (24 luglio 1848) 819

M — A pag. 762. — Lettera di F.-D. Guerrazzi ai Signori Gino Capponi ed altri componenti la Commissione Governativa (25 aprile 1849) 819

Errata Corrige.

Pag. verso

6 11 qua e quale

9 34 violenza licenza

12 5 ma invitati ancora ma, invitati, ancora

14 11 promossero promosse

16 1 fangosa, se, fangosa; se

16 2 non leggete, se non leggete; se

16 26 27 gennaio 29 gennaio

21 15 a circolare a far circolare

28 4 occupazione, occupazione

85 36 adunate adunati

85 38 Medici; Medici,

190 18 marzo 1848 marzo 1849

190 31 aprile 1848 aprile 1849

243 18 Alardi Araldi

265 28 animò animo

309 5 8 febbraio 5 febbraio

359 32 Pietrsanta Pietrasanta

365 30 fecondoli facendoli

392 5 tobridi torbidi

535 38 ignari ignavi

566 33 non sono uso devo dichiararvi che per parte mia non sono uso

629 12 15 andante 6 andante

649 39 gennaio 1849, gennaio 1851

NOTE:

1. Decreto del Tribunale di Prima Istanza di Firenze, Turno Correzionale, Camera di Consiglio del 1 o settembre 1851.

2. Plutarco, Vita di Focione, volgarizzamento di G. Pompei.

3. De la Justice politique, p. 49 e seg. Bruxelles 1830.

4. Storia d'Inghilterra, cap. 67, tom. 8, p. 261. Capolago 1827.

5. Feci istanza onde fosse concesso al mio difensore di esaminare i documenti della mia Amministrazione; la Corte Regia rigettò la istanza.

6. Gazzetta di Firenze del 18 ottobre 1848.

7. A chi usa specolare sopra gli avvolgimenti politici gioverà mettere in confronto la dottrina del Lamartine con quella del Metternich intorno ai governi costituzionali; quella del primo consiste nel sostenerli transito alla Repubblica; il secondo opina, che sieno aberrazione di Popoli, che poi si quieta nel ritorno al principio dell'autorità; per la quale cosa di ambedue coteste sentenze prevalendosi i partigiani del dispotismo dicono: nel concetto del Lamartine le Costituzioni pericolose, in quello del Metternich inutili. Ma il dispotismo ormai non può reggere se non a patto di oscurare lo intelletto, e al punto stesso ingrassare il corpo. I soli comodi della vita promossi, e sia pur quanto vuoi, non basterebbero allo uopo, perchè non solo pane vivit homo, e uccidere dall'altra parte la vita dell'anima è impresa quanto disperata altrettanto iniqua. Però ho messo questo per via di esempio, chè per me credo il dispotismo incapace di comprimere la intelligenza, e ampliare le sostanze dei Popoli anche disgiuntamente. Io vorrei (ma non lo spero) che le mie parole ottenessero fede: chiunque taglia il pedale delle Costituzioni si aspetti a vedere crescervi sopra il pollone della Repubblica..... e questo è sicuro.

8. Vedi Indirizzo della Emigrazione lombarda dell'8 febbraio 1849. Monitore, 12 febbraio 1849. — «Nella stessa adunanza (13) fu pure discusso e approvato il progetto di regolamento per la nuova istruzione militare, di cui tenemmo parola qualche giorno fa. Omai questa istituzione non è più solo un desiderio, ma sarà tra breve un fatto. Le sottoscrizioni raccolte bastano già a dare guarentigie della sua attuazione.» Costituente Italiana, 14 gennaio 1849.

«AVVISO PER L'EMIGRAZIONE.

«In relazione alle deliberazioni prese oggi dall'Emigrazione, il Comitato dirigente per l'associazione militare invita tutti gli emigrati qui dimoranti all'adunanza, che si terrà nel locale del Circolo Popolare giovedì giorno 8 del corrente mese di febbraio ad un'ora pomeridiana per eleggere il Comitato Elettorale dell'Emigrazione, incaricato delle operazioni relative alla nomina dei Deputati dell'Emigrazione stessa alla Costituente Italiana.

«Firenze, il giorno 6 febbraio 1849.»

( Costituente Ital., 7 febbraio 1849.)

9. Vedi Istanza del 17 febbraio 1849. Monitore, 24 febbraio 1849.

10. Vedi Gazzetta di Firenze, 31 agosto 1848.

11. Gazzetta di Firenze, Supplemento, 31 luglio 1848.

12. Samuele, I, e. X, v. 12.

13. Gazzetta di Firenze, 24 agosto 1848.

14. Gazzetta di Firenze, del medesimo giorno.

15. Gazzetta di Firenze, del medesimo giorno.

16. Discorso del Presidente dei Ministri, Gazzetta di Firenze, 29 agosto 1848.

17. Proclama del Prefetto di Firenze del 7 ottobre 1848.

18. Ordine del Giorno del Ministro dello Interno del 7 ottob. 1848.

19. I Deputati nel 23 settembre 1848 vuotarono tutti la sala, ma nell'8 febbraio 1849 ve ne rimasero molti anche del centro.

20. Gazzetta di Firenze, 30 agosto 1848.

21. Gazzetta di Firenze, 6 agosto 1848.

22. Gazzetta di Firenze, 19 agosto 1848.

23. Monitore del 16 decembre 1848.

24. Monitore, 8 gennaio 1849.

25. Seduta del Senato del 23 gennaio 1849. Il Conciliatore, giornale di Opposizione, così scriveva nel Nº del 6 gennaio 1849: «Intendiamo che in tempi di perturbazioni non a tutto può bastare il Governo; intendiamo che non sempre possa farlo tra noi, dove la organizzazione regolare della macchina governativa manca tuttora; intendiamo, che certi momentanei disordini sieno inseparabili dai beneficii che arrecano le libere instituzioni.» E meglio nel Nº del 13 gennaio: «In verità, quando ci guardiamo attorno, e domandiamo a noi stessi ov'è la forza, che in tanta dissoluzione possa essere nucleo di nuovi ordinamenti civili, mal sappiamo rispondere: tutto che di antico è distrutto, combattuto e deriso il nuovo

26. Chiamai fra gli altri, e invano, lo ispettore Checchi, il quale protessi dalle ire popolari quando l'antica Polizia fu distrutta, non ostante ch'egli per ragione di ufficio avesse dovuto recarmi molestia. Anzi gli scrissi lettera con la quale lo confortavo, se non erro, a ritornare al suo posto in Livorno.

27. Nel 4 febbraio 1849 soltanto fu composta la seconda compagnia della Guardia Municipale; nel passarla in rivista, e nel distribuire le medaglie (però che la formassero tutta combattenti reduci di Lombardia), fra le altre cose io diceva: «Solenne è questo giorno per la Patria, e per voi. Solenne, perchè la custodia della pubblica sicurezza in tempi difficilissimi viene alla vostra fede affidata. La insegna, che la Fortuna mi concede appendere sopra il vostro petto, albergo di cuore lealissimo, mi è certo segno che come sapeste con animo pronto e fermo volere difendere l'onore italiano contro i nemici esterni, così saprete con animo e voglie pari difendere contro gl'interni nemici l'ordine pubblico. — Voi siete nuovi in questo arringo; eppure da voi si domandano ad un tratto prove che appena si chiederebbero a persone per lunga pratica esercitate; e voi le darete, perchè grande è la fede vostra, grande la volontà egregia, e il bisogno della Patria grandissimo. Infinita è la fiducia che in voi ripongono i vostri concittadini: sappiatevela meritare.» Monitore del 5 febb. 1849.

28. Vedi Discorso di Mariano D'Ayala nella stessa Seduta.

29. Vedi Atti governativi negati.

30. Un proposto di Laterina era di questi: fu trovato tenersi con molto scandalo in casa due donne, nè a verun patto anche dopo i monitorii del Superiore ecclesiastico volle licenziarle. Un frate di Viareggio ec. ec. Ma basti così. Vedi Atti Governarvi negati.

31. Atti Governativi negati.

32. Monitore del 24 novembre 1848.

33. Monitore citato.

34. «Uomini, che si vantano, e per avventura saranno almeno in parte, sviscerati della Indipendenza italiana, senza posa si affacciano alle nostre frontiere così terrestri come marittime, dichiarando volere accorrere ora in Lombardia, ora in Isvizzera, ora finalmente a Venezia per versare quanto hanno sangue in benefizio della Patria comune. Bellissimi proponimenti invero, che troppo spesso lasciano desiderare sieno susseguiti da non meno belle imprese, e cotesto continuo andare e tornare non è quello della spola del tessitore, però che invece di aggiungere filo alla trama dello Stato, lo consumino irreparabilmente.» Monitore del 29 novembre 1848.

35. Monitore del 28 dicembre 1848.

36. Requisitoria del Regio Procuratore generale, p. 7, § 23.

37. Nel 3 novembre a ore 12, minuti 45, ricevo l'annunzio dei tumulti portoferraiesi; nel 3 novembre a ore 3, minuti 30, rispondo: «Affliggono le nuove di Portoferraio. Si prendono provvedimenti per ricomporre cotesta città. Il Giglio è a Livorno? Risposta subito.» — A ore otto dello stesso giorno mi annunziano: «restituite le fortezze, le chiavi delle porte e delle polveriere; reintegrate le Autorità.» Ma il Sig. Manganaro è a Livorno il 4 novembre, e nonostante le nuove riassicuranti, Manganaro insiste per andare a Portoferraio. — Vedi Dispacci telegrafici del Governo del 3 al 4 novembre 1848.

38. Vedi Dispacci governativi negati.

39. Intanto, ecco come scriveva il Pigli a sua discolpa: «Circa le 23 ha avuto luogo una dimostrazione con tamburi e bandiere per festeggiare la morte del Ministro Rossi. Da prima erano centinaia di popolani, e sono andati al Console Romano: da ultimo più migliaia, e sono venuti da me. Ho fatto il sordo ai ripetuti evviva. Il Capitano Roberti è salito; mi ha quasi obbligato mostrarmi al Popolo. Ho detto: il Ministro Rossi non era amato dalla Italia solamente pei suoi principii politici. Dio nei suoi arcani consigli ha voluto ch'egli cadesse per mano di un figlio dell'antica Repubblica romana. Dio custodisca l'anima sua e la libertà di questa povera Italia. — La dimostrazione si è sciolta subito. Si richiami il Roberti: egli l'ha pubblicamente approvata.» — Dispaccio telegrafico del 17 novembre 1848. — Dunque è manifesto, che Pigli costretto disse coteste parole; e che la dimostrazione gl'increscesse lo palesa il suggerimento di richiamare il Roberti, che l'approvò. — Io la ripresi acerbamente; la mancanza degli Archivii m'impedisce somministrare i documenti relativi; però dai Dispacci telegrafici resulta quanto le arringhe del Pigli mi turbassero. «Pigli, le tue parole dette al Teatro hanno sconcertato tutti; amico mio, tu sei buono, e rovini noi e il Paese.» Dispaccio telegrafico del 13 novembre 1848. — E più tardi, esortandolo a fare più parca copia di sua favella al Popolo, lo confortava a imitare la Rosa, la quale (io gli diceva)

Quanto si mostra men tanto è più bella.

40. Il Governo in cotesta occasione pubblicava il seguente Proclama. «Cittadini! Il Governo vuole che il Popolo domandi con modi civili, non violenti. — Gl'individui convinti di avere operate le violenze del giorno di ieri, saranno sottoposti all'azione ordinaria della Giustizia. A reprimere le violenze dei pochi deve bastare l'applicazione della Legge. Tornando vana la loro azione pel rinnuovarsi dei deplorabili eccessi, il Ministero, anzichè provocare un conflitto incompatibile con la fiducia di cui ebbe sì larghe prove, darà la sua dimissione.»

41. A Leigh Hunt portarono via il naso!

42. Discorso su la Finanza Toscana, comparso nello Statuto.

43. Dispacci telegrafici del 22 novembre 1848, ore 5 minuti 35: «Qua sono state rotte le urne delle elezioni. Il tumulto è venuto su la Piazza di Palazzo Vecchio. Una deputazione è salita chiedendo sospensione delle elezioni in Firenze, e che sieno posti in istato di accusa i due passati Ministeri. Questa deputazione ha ricevuto Mazzoni, e le ha risposto con destrezza. Il Prefetto di Firenze aveva pubblicato un manifesto opportunissimo stamani mattina.» — Detto giorno, ore 5, minuti 45. «Dopo il fatto della violenza ai collegi elettorali, i Ministri Montanelli, Mazzoni e Franchini qui presenti, col Prefetto di Firenze fanno premura al Ministro Guerrazzi perchè torni immediatamente a Firenze per concertarsi intorno ai provvedimenti di estrema importanza.» Risposta, detto giorno, ore 6, minuti 20. «Domani sarò presto a Firenze.» — Detto giorno, ore 8, minuti 20. «Domani vieni più presto che puoi, e appena arrivato avvisami, e ci troveremo insieme per determinare che cosa si debba fare. Stasera hanno avuto luogo nuove dimostrazioni.» — Risposta, detto giorno, ore 9, minuti 50. «Domani sarò a Firenze a ore dieci.» — Novembre 23, ore 1 antem. «Stasera hanno rotto le finestre a casa Ridolfi, Ricasoli, Salvagnoli, e Capei. Questi eccessi sono commessi da quegli stessi che hanno rotto le urne elettorali: sono pochi ec.»

Il 23 novembre, passando da Pisa non potei fermarmi, perchè, come si vede, ero atteso a Firenze. — Qui giunto, maravigliai non avessero preso i provvedimenti opportuni: furono tosto presi da me, e facili, ed efficaci, i quali consisterono, come ho detto, nel vigilare io stesso di persona col maggiore della Guardia Civica Fiorentina le elezioni onde succedessero a dovere. In tutti i luoghi dove fecero violenza, mercè le cure del Governo l'elezioni tanto si operarono libere, che vennero eletti quei dessi, che pur volevansi esclusi. — Così a Pisa sortirono deputati i signori Castinelli e Severi; a Signa il signor Vasse, e credo rammentarmi, non senza raccomandazione del Ministro Adami; a Firenze i signori Tabarrini e Marzucchi.

44. I miei Segretarii presenti al fatto ne deporranno.

45. Monitore, 8 gennaio 1849.

46. Si referiscono a questo fatto le risposte alle interpellazioni di cui a pag. 33. Dubitando, che il vergognoso oltraggio fosse istigato da qualche agitatore, e venendomi referito, che il Niccolini si aggirava fra la moltitudine, lo mandai a chiamare, e alla presenza di parecchi testimoni lo rimproverai acerbamente, e minacciai; egli scusavasi affermando essere accorso invero non già per eccitare ma per sedare.

47. Ma e perchè dovrei tacerlo? — Il Sig. Fabbri, Gonfaloniere di Livorno, nel 6 aprile 1849 mi scriveva, tutto infiammato di patria carità per la difesa contro lo straniero, che riconciliandomi io con G. Paolo Bartolomei, egli si riprometteva persuaderlo a condursi alla frontiera. Gli mandavo per via telegrafica questa risposta: «Al Gonfaloniere di Livorno. Sarei un infame se per private dispiacenze ricusassi anche un bacio per la difesa della patria. Favorisci, ed eccita G. P. Bartolomei: per ridonargli la mia amicizia anzi cotesta è la unica via. Componga il battaglione subito. Appena fatto, lo manderò in Garfagnana, o all'Abetone.» G. P. Bartolomei sovvenendo alla dura necessità della mia condizione, ha protetto il mio nipote in Piemonte; e venuto in Toscana, lo accolse in casa sua, guardandolo con amore e diligenza paterna..... L'emulazioni allora soltanto nuocciono quando sono codarde.

48. Thiers, Histoire de la Révolution, Bruxelles, 1838, tom. I, cap. 3, pag. 34.

49. È noto che il principe di Talleyrand, acuto conoscitore del cuore umano, e delle sue infermità, quando alcuna cosa commetteva a qualche subalterno gli diceva: « e sopra tutto vi raccomando di non ci metter troppo zelo

50. Monitore, 14 novembre 1848.

51. Dispacci al Prefetto di Pisa, negati.

52. Monitore del 20 decembre 1848.

53. Dispacci governativi negati.

54. Detti Dispacci negati.

55. Ordini al Prefetto Guidi Rontani negati.

56. «Fu notata la improvvisa partenza del Ministro dell'Interno nel mezzo dell'Adunanza. Pare che egli si fosse dovuto recare a prendere le disposizioni opportune, onde ripristinare la calma della città momentaneamente disturbata per improntitudini commesse ai danni di un Cambia-monete.» — ( Conciliatore del 28 gennaio 1849.)

57. Conciliatore del 28, 29 gennaio, e 8 febbraio 1849.

58. E questo deperimento mio ricordo, che il generoso giornale dell'Accusa, la Vespa, descriveva con dileggio per far ridere la gente sopra un uomo, che si logorava l'anima e la salute nel vigilare alla pubblica sicurezza.

59. Atto di Accusa, § 83.

60. Memorie, pag. 47.

61. Il marchese Venturi è morto, ma vivono per attestare i fatti narrati i signori Vivoli e Pistolesi, uomini di anni maturi, e devoti al Governo di S. A.; di molti altri mi taccio.

62. Vivono Domenico Orsini, Massaio del Monte a Livorno, e Consigliere municipale, ed altri parecchi testimoni del fatto.

63. In certi libri, scrittori, in questa parte pessimamente informati, non dubitano affermare, che in Livorno fossero avanzi di sètte, e settarii fra il popolo minuto. Quando potrà scriversi storia per utile universale, e senza ingiuria dei singoli, dimostrerò a prova, come non in Livorno, ma altrove occorressero sètte, di piccola importanza, e, per la indole dei componenti loro, accademie piuttosto che altro.

64.

La mala signoria, che sempre accora

Li popoli soggetti.

Dante.

65. «Lo spirito militare non può formarsi così facilmente, nè così facilmente possono mutarsi le condizioni del Paese. — Non è poi cosa tanto utile, come da alcuno si crede, formare questo spirito militare fra noi. La educazione militare non può formarsi, se non faccia scendere la Toscana da quel grado di civiltà nel quale si trova; e se lo spirito militare ha da formarsi a questo prezzo, io non farò mai voto a conseguir questo intento. — La Toscana ove la mezzeria è generale, la proprietà così divisa, le fortune così repartite, come non lo fu finora, non diverrà giammai militare.» (Discorso del già Ministro Ridolfi nella Tornata del Consiglio Generale del 19 agosto 1848.) Stupefacenti parole su i labbri del Deputato, che reggendo Ministro bandì la guerra della Indipendenza, e ora sollevò gli animi (come si disse) fino alla speranza di potere vincere il nemico a furia di sassi e co' bastoni, ora promise accorrere co' suoi figliuoli alla guerra se ne occorresse il bisogno; ora finalmente licenziò la gioventù, che traeva dalle patrie dimore desiderosa di partecipare alla contesa per la Indipendenza italiana. Quali conseguenze ne ricavasse la gente attonita, è facile indovinare. Il Nazionale del 10 gennaio 1849, con molto senno e pari verità discorrendo gli avvenimenti successi dal settembre 1847 in poi, adduce le ragioni dei varii Ministeri, e le cause della loro caduta. Importa consultare cotesto organo, che si mantenne mai sempre independente:

«La Toscana da più di un anno abbandonata a sè stessa, può dirsi che si governava a senno dei cittadini. I Governi che si sono succeduti dal settembre del 1847 in poi non hanno mai saputo prendere quella forte iniziativa che spetta a chi regge lo Stato, e che è un dovere assoluto in chi prende a governare un Paese appena sciolto dalle fasce dell'assolutismo, e desideroso di lanciarsi nelle nuove vie di una libertà lungamente sospirata. — Dov'era mestieri con mano sapientemente audace riformare, resecando il vecchio, piantando il nuovo, fortificando le libertà pur ora inaugurate coll'istruzione che le facesse più universalmente conoscere e amare..... si fece anzi un brutto innesto di vecchio e di nuovo; la tutela delle istituzioni liberali si lasciò o si diede a mani inette, o da poco tempo acquistate alla nuova causa, non mosse da convinzioni antiche, ma dalle vicende della fortuna; si procedé timidamente, lentamente, fiaccamente. — Accadde che nel reo impasto il nuovo isterilì e si corruppe della sterilità e della corruzione del vecchio; le libere istituzioni come pianta aduggiata languirono; lo Stato, siccome corpo percosso da paralisi, rimanendo sana e vigorosa la mente, non ubbidiva all'impulso delle volontà che lo guidavano, e strascicava; le idee lo precorrevano, i fatti lo premevano; quando avanzava non camminava, ma era spinto dall'urto prepotente delle idee e degli avvenimenti che ne vincevano l'inerzia. — Oscillando, trabalzando per una via, che si poteva correre nella maestà del trionfo, arrivarono alla Costituzione arrivarono alla guerra..... Grandeggiavano intanto i fatti d'Italia. La Lombardia sollevata ci chiamava oltre Po, dove i Liguri e i Piemontesi già combattevano con lieti auspicii. Noi nè uomini, nè armi, nè danari avevamo parati alla grande e non inaspettata impresa... Ma la fatale imprevidenza parve rea negligenza, e inasprì gli animi delusi e accorati dall'esito infelice della guerra sacra. Innanzi al Parlamento pur or convocato il Governo si appresentava nudo affatto di provvedimenti, della causa italiana pendente ancora, delle sorti della guerra come dimentico. Il Governo di allora cadde innanzi allo sdegno e al dispregio del Paese.... In mezzo a queste circostanze nacque il Ministero Capponi. — Delle infelici prove di quel Ministero.... non faremo altre parole....; solo diciamo come nella Toscana agitata, inquieta, tumultuante, paresse necessità venire al Ministero Montanelli..... — Il nuovo Ministero ebbe nome di Ministero democratico: prendeva il potere in nome del Popolo: stretto da violenti antipatie da un lato, travagliato forse da troppo intemperanti e cupide simpatie dall'altro, cominciò a porgere parole di riconciliazione, e pose mano vigorosamente al governo. Noi crediamo che gli amici gli facessero mal servigio; poichè, come dice il Machiavelli, non è cosa desiderabile prendere un magistrato o un principato con estraordinaria opinione ec.....» — ( Nazionale del 10 gennaio 1849.)

E qui giovi notare una volta per sempre, che il Nazionale non fu Giornale sovvenuto, nè amico del Governo mio, anzi più spesso oppositore acerbo così, che nel 24 febbraio 1849 ne fu ordinato l'arresto con dispaccio telegrafico del presidente Mazzoni.

66. A carte 40 dei Documenti, n. 66, vi è la minuta della lettera scritta all'Avv. Giera, che si dimetteva dalla Commissione. In essa si trova la verità del mio racconto. Il Governo pregò la Commissione a non dimettersi. Il sig. Giera, interpellato prima confidenzialmente il Governo, sospese la sua dimissione, e dichiarò agli Ufficiali della Guardia Civica essere esattissimo tutto quello che io affermava in proposito. Vedi esposizione inedita delle cose di Livorno del gennaio 1848 pubblicata fra i Documenti dell'Accusa, a pag. 60.

67. Le carte, che mi furono perquisite allora, e poi rese stante il Decreto onorevolissimo del Principe, che troncò cotesta procedura, adesso perquisite da capo in questa nuova procedura, s'incontrano nel volume dei Documenti a pag. 47, n. 79, a pag. 49, n. 82, a pag. 50, n. 83, a pag. 67, n. 100. — Si trattava di provvedere le armi dal Municipio, e di trovare modo che le dimostrazioni cessassero, le unioni parrocchiali si organizzassero.

68. Al Popolo, che ingannato era venuto ad arrestarmi, tali apparecchiava parole, come resulta dallo Scritto inedito pubblicato dall'Accusa a c. 65 dei Documenti:

«Io l'ho detto, tra me e te, Popolo, noi non dobbiamo odiarci, nè lo possiamo. Forse Aristide odiò la patria perchè bandito ingiustamente? In certa notte, con pericolo di vita ruppe il bando, e fu la precedente alla battaglia di Salamina, per avvisare Temistocle intorno alla ragione dei venti, e all'ordine della flotta persiana. Gli antichi esempii non saranno stati letti invano. I Veneziani supplicarono Carlo Zeno imprigionato iniquamente onde salvasse la Patria dal pericolo supremo da cui era minacciata: usciva, pugnava, vinceva, e poi altero e costante tornava al carcere.

«Tra me e te ogni trista memoria è ormai obliata, e con tutti fra te. Vi lasciai non liberi, vi trovo facultati a farvi liberi se volete. A questo patto chi non avrebbe voluto soffrire la prigionia? Stringiamo ora, che ne fa mestieri, più che mai i vincoli di famiglia. Giù rancori, giù discordie; se volete essere forti contro il comune nemico, io non so davvero come potrete riuscirvi con matte fazioni tra voi. E sopra tutto, nè viva a tale, nè morte a tale altro. Il secondo grido è crudele, e la nostra religione lo aborre; il primo è segno di servitù. Oggimai non hanno a contare gl'individui, ma i principii. Mi confortano, o Popolo, ad abbandonarti, e porre la mia stanza altrove. Non posso farlo; le cose si amano pei sacrificii che costano, e il mio paese mi costa assai: io qui ebbi nascimento, e qui desidero sepoltura accanto alle ossa di mio padre e dei miei amici, che più felici di me mi precederono nella morte: io continuerò, secondo ch'è dato al mio povero ingegno, a onorarti come posso e devo; ma tu, o Popolo, ricompensami con lo starti unito, col non fare il mio nome bandiera di fazioni e di tumulti. Io te ne scongiuro per la mia fama e più per la tua. Anche tu fosti accusato, e devi mostrare che lo fosti a torto, a nessuno secondo tra i Popoli italiani, e a qualcheduno primo. Le petizioni offrono mezzi legali per manifestare i voti, e tôrre d'inganno il Governo: — attienti a queste.»

«Vediamo se alle parole corrispondessero i fatti. Francesco Costantino Marmocchi, mentre io stava prigione a Portoferraio, si oppose alla stampa nell' Alba di parole in mia difesa; io non solo dimenticai il malo ufficio, ma nelle elezioni di Dicomano lo purgai dalla calunnia, e lo feci eleggere Segretario al Ministero dello Interno. — Giovanni Sorbi, Tenente, o Capitano della Guardia Civica, che fu a prendermi nella notte dell'8 gennaio, promossi a Pretore di Santo Stefano, e credo che vi sia tuttora; e perchè tutto restringa in uno, così rispondeva al Governo di Livorno, che mi consultava se avessi acconsentito a far pace co' promotori dell'8 gennaio: « Io ho dimenticato sempre tutto; e saranno prima stanchi di offendermi, che io di perdonarli.» Dispaccio telegrafico del 9 aprile 1849.

69. In questo tempo chiesi facoltà di stampare un Giornale, e mi fu negata; a questo accenna la lettera, di cui si legge minuta a pag. 66 dei Documenti, n. 98, indirizzata al sig. Cons. Pezzella. Per intendere a dovere cotesto Documento, si avverta che successe in quel torno una baruffa sanguinosa tra fornaj; e i matti avversarii propagavano, nè più nè meno, che travestito da fornaio io avevo aizzato la gente a ferirsi, e forse aveva ferito io stesso! — Inoltre, un pazzo furioso irrompendo fuori di casa incontra un soldato e lo uccide, altri ferisce, e i matti avversarii raccontano sul serio, che io ho spinto il pazzo ad uccidere. Cose incredibili sono queste, e non pertanto vere! Mentre era Ministro, moltissime persone s'interposero per la grazia dei due fornaj feritori già condannati, uno dei quali ricordo che si chiamava Morgantini. — La grazia fu negata.

70. Partendo scriveva questa lettera:

«Signor Silvio Giannini.

Persuaso che la mia presenza somministrerebbe alla città pretesto di collisione, per la quale essa avrebbe a pentirsene e vergognarsene poi, io, come ogni dabbene cittadino deve fare, cedo alla invidia, e mi allontano. Partendomi col corpo, io lascio i miei affetti entro un paese che mi costa tanti sagrifizii e tanti dolori; — e con sincero animo gli auguro tempi felici, menti più giuste, ed uomini che possano amarlo molto meglio di me.

La reverisco.

Affez. D. Guerrazzi.»

71. Corriere Livornese del 28 agosto 1848.

72. A pag. 46, n. 77, dei Documenti, occorre la minuta della mia lettera mandata ai Membri del Municipio, e ai componenti la Camera di Commercio, dove io dico loro: «Voi sapete, che quattro volte chiamato dalle Commissioni, dal Municipio, e dalla Camera di Commercio, mi astenni dal venire a Livorno, parendomi la città nostra contenesse copia di ottimi cittadini capaci di condurla traverso ogni più duro caso. Non potei resistere all'ultima, perchè avrei dimostrato ostinazione somma, e poco affetto a chi mi ama.» La riporteremo in seguito per intero.

73. A pag. 151 e seg. dei Documenti dell'Accusa trovo la narrazione di questi successi esattissima; non si dichiara se scritta o no di mio carattere; comunque sia, io non posso che ratificarla pienamente.

74. «La Camera di Commercio, di consenso col Popolo adunavasi, e di unanime accordo quattro negozianti partivano per Firenze onde dimandare s'inviassero a comporre le cose di Livorno il generale Don Neri Corsini e il deputato Guerrazzi. La Deputazione è partita. Il Governo pensi alle conseguenze, se ricusa questa ultima prova della longanimità del Popolo.» — ( Corriere Livornese,4 settembre 1848.)

75. Che fosse impresa da pensarci due volte, e poi non farne nulla, lo dichiara la seguente lettera, la quale io mi conduco a pubblicare con repugnanza, conciossiachè io dubiti forte porgere indizio di scarsa modestia, se non mi assicurasse la speranza, che le angustie in cui verso varranno a scusarmi presso i cortesi. Però nel riportarla mi corre l'obbligo avvertire, che lo scrivente mosso da patria carità, forse anche da voce più autorevole della mia, poco dopo lasciati consorte, e prole amatissime e amantissime, e i dolci riposi della villa e i cari studj, accorse anch'egli a travagliarsi a benefizio di quella terra, che ama, ed onora pur tanto.

«Amico carissimo,

«Comunque i doveri di famiglia resi più solenni da qualche mese di assenza al Campo, non mi abbiano concesso di condurmi a Livorno per assumere l'ufficio del quale mi onorasti, io te ne protesto la mia gratitudine, e ne vado lieto per l'unica ragione che la carica affidatami mi è prova della tua leale amicizia.

«In ogni circostanza io ti corrisponderò con pari affetto, e nel mio nulla se posso giovarti, adoprami; e (poichè anco i grandi uomini non sdegnano ascoltare talvolta il parere dei piccoli) non ti sia molesto se ti suggerisco d'essere cauto, perchè a mio avviso ardua è l'impresa, e gravissimo è il fardello a cui ti sobbarchi; vero è peraltro che ogni rovescio ha il suo diritto, e che se col tuo ingegno, e con la tua influenza perverrai a ricomporre cotesta sconvolta città, sarai ben largamente ricompensato col saluto non perituro di Padre della Patria.

«Addio, conservami la tua amicizia e credimi per sempre,

«Crespina, 11 settembre 1848.

«Tuo affez. amico «L. Fabbri.»

76. «Ieri sera circa le ore 10 giungeva con la Deputazione livornese il Guerrazzi. La carrozza era seguita da una quantità di Popolo fino al Palazzo Comunitativo, ove il Guerrazzi trattenevasi a conferire con alcuni membri della Commissione fino a mezza notte. — Stamattina mentre il Guerrazzi si recava al Palazzo del Municipio una grande moltitudine si è affollata su i suoi passi applaudendo, nè si è disciolta, finchè egli non si è mostrato al terrazzo ove ha detto poche e severe parole: — non doversi applaudire gli uomini, ma gli onorevoli fatti; gli applausi alle persone non essere degni di Popolo libero, ma segno di schiavitù; essere egli venuto come cittadino a conferire con cittadini su i modi di ricomporre le cose nostre, e di ristabilire in Livorno l'ordine e la quiete, che vi erano prima; — stessero tranquilli, nè disturbassero con clamori coloro, che si occupavano pel pubblico bene, e di cose richiedenti tranquillità e maturità di consiglio. Un bravo unanime ha accolto i suoi detti, e il Popolo si è dissipato. —

«Indi a poco nello stesso palazzo, dietro convocazione di un priore del Magistrato, si sono adunati la Camera del Commercio, il Corpo dei Legali, la Ufficialità della truppa di linea, della Civica, parecchi delegati dei possidenti e dei Medici, alcuni membri del Clero, e tre popolani di ogni quartiere, onde avvisare ai mezzi idonei per ricondurre la pace in Livorno e ristabilire l'autorità governativa.» — ( Corriere Livornese del 5 settembre 1848.)

77. «Cittadini! Commosso dai casi della Patria, io mi riduco fra voi. È un semplice cittadino, che ritorna in famiglia per provvedere in comune al pubblico bene. Tento indagare le cause dei fatti, ascolto i desiderii, le apprensioni, i voti vostri, e persuaso che ormai saranno conformi a giustizia, io mi sforzerò che vengano esauditi. Confido nella temperanza vostra, e nella benevolenza che il Principe professa avervi portata sempre, e tuttavia portarvi, e in Dio, che illumina il cuore degli uomini, onde, ogni discordia sopita, attendiamo con voleri uniti e forze concordi alla difesa della Patria comune ec. ec.

«Livorno, 5 settembre 1848.

« Guerrazzi.»

78. Convenzione del 4 settembre 1848 fra il cavaliere generale Torres, tenente colonnello Reghini, ed altri ufficiali.

La Convenzione è intitolata così: — «Convenzione tra il signor Costa Reghini tenente colonnello delle truppe attive toscane, attuale comandante della Fortezza di Porta Murata, e il cavaliere generale Torres comandante della forza armata popolare in Livorno.» Firmavano: «Torres cavaliere generale. Costa Reghini tenente colonnello. A. Alieti capitano. D. Ulacco capitano di artiglieria. F. Porciani, e L. Romei capitani.»

«Torres frammischiandosi col Popolo la sera del 3 era stato acclamato da quelli che lo ascoltavano, come capo, e direttore della forza armata. Egli presentavasi alla Commissione e annunciandosi eletto dal Popolo si offriva a organizzare e a dirigere gli armati. La Commissione verbalmente gli confermava il mandato. — Ma ieri mattina essa si dimetteva in seguito di una scena cui diè luogo lo stesso signor Torres nella sala del Palazzo Comunitativo ove si recò seguito da una turba di Popolo ec. ec.» — ( Corriere Livornese del 5 settembre 1848.)

Così questo Torres col quale gli ufficiali capitolavano, a cui le Fortezze si consegnavano, le commissioni cittadine cedevano, da me inerme era costretto a sgombrare la città..... e l'Accusa dignitosa e schietta par che dubiti avere io aizzato cotesti moti.

In certa pubblicazione intitolata: Storia del Processo politico di F. D. Guerrazzi, stampata in Firenze presso Mariani, si dice: che bandii di Toscana il signor Torres quando fui membro del Governo Provvisorio; è errore: lo feci accompagnare ai confini due volte mentre governavo Ministro di S. A. (Vedi Dispacci telegrafici del 23 dicembre 1848.) — Mi duole, che cotesta Storia fino dalla prima pagina appaia gremita di falsità; così io non capitanai le Deputazioni livornesi che venivano spesso a Firenze, ma venni una sola volta, il 6 settembre 1848. Prego i Compilatori a studiare migliore esattezza, chè la materia lo merita.

79. La petizione presentata dall'Abate Zacchi e da Vincenzo Malenchini deputato, riguardava: 1º Opera efficace per la guerra. 2º Guardia Civica ricomposta. 3º Prezzo del sale diminuito. 4º Pensioni ridotte. 5º Migliorie alla Marina. 6º Tariffe giudiziarie diminuite. — Corriere Livornese, 30 agosto 1848. Si riporta eziandio nei Documenti dell'Accusa, a pag. 675.

80. Nel Municipio di Livorno ha da trovarsi una Deliberazione, che giustifica come se qualche irregolarità avvenne e' fu a cagione della pressura popolare. Fabbri era Gonfaloniere, e però deve appartenere alla seconda metà del mese di settembre 1848. Ho mosso domanda per averla con le altre, che mi riguardano, per difendermi dalla improntissima Accusa; ma senza superiore permesso non mi si possono dare, e il superiore permesso peranche non viene; e poi dicono: difendetevi!

81. «Stamane, 6 settembre, un altro Popolano ferito dalla esplosione delle polveri presso il Calambrone è stato portato a questo ospedale. Questa notte tre dei feriti portativi ieri sera sono morti. Sei altri rimasero morti alla Polveriera.» — ( Corriere Livornese del 6 settembre 1848.)

82. Corriere Livornese, 6 settembre 1848.

83. Corriere Livornese, 6 settembre 1848.

84. Duolmi non ricordare il suo nome; ma il colonnello Reghini potrà nominarlo.

85. È debito di riconoscenza avvertire, che sopraggiunse in fretta mezzo spogliato Antonio Petracchi per acquietare cotesti arrabbiati. Non si creda poi ch'egli fosse uomo ligio a me: all'opposto, egli crebbe per favore dei partigiani del Ministro Ridolfi, e fu di quelli che vennero ad arrestarmi nella notte dell'8 gennaio. Io poi dico questo non per rancore che serbi contro di lui (Dio me ne guardi), ma perchè penso che gli possa giovare.

86. Corriere Livornese, 20 settembre 1848.

87. Corriere Livornese, 7 settembre 1848.

88. Deliberazione con la quale si sopprimono tutte le Commissioni per ordine del Ministero.

«Adunati servatis servandis

«Gl'Illustrissimi Signori Gonfaloniere e Priori, componenti il Magistrato della Comunità di Livorno in numero sufficiente di otto per trattare etc.

«Il Magistrato ha intesa in primo luogo l'intiera Lettura di un Rapporto in data di questo stesso giorno presentato dai Signori Avvocato Francesco Domenico Guerrazzi ed Antonio Petracchi Priori aggiunti a questo consesso. Quindi tornando a esaminare le singole proposizioni in esso contenute le ha ammesse nel modo e nell'ordine che appresso.

« Proposizione prima. — Le Commissioni instituite dalla Commissione Governativa Provvisoria di

«1. Finanza e Annona.

«2. Guerra.

«3. Lavori Pubblici.

«4. Sicurezza Pubblica.

«si ringraziano come quelle che hanno benemeritato della Patria, ed avendo pienamente soddisfatto al loro scopo si sciolgono. — Girato il Partito è tornato vinto ad unanimità di voti favorevoli.

« Proposizione seconda. — La Commissione di Pubblica Sicurezza come necessarissima per l'assenza da Livorno delle Autorità ordinarie si mantiene; e in quanto occorra si rielegge ex-integro sempre provvisoriamente dal Municipio. — Approvata con Partito di voti favorevoli ad unanimità.

« Proposizione terza. — La Commissione Governativa Provvisoria installata per urgenza rimane sciolta. — Approvata ad unanimità di voti favorevoli.

« Proposizione quarta. — Il Municipio elegge una Commissione esecutiva dal proprio seno e le commette di provvedere con tutti i mezzi contemplati con Dispaccio Ministeriale del 6 settembre corrente per consolidare e mantenere la quiete nel Paese, nello stato normale di ordine, e specialmente organizzare la Guardia Provvisoria, e la Guardia Municipale, non meno che disimpegnare gli affari occorrenti alla giornata sempre di concerto col Municipio; ben inteso che quando si tratti di pubbliche azioni sieno queste discusse e deliberate dal Municipio nel modo consueto per essere poi mandate ad esecuzione dalla Commissione eligenda dal seno del Municipio stesso. — Approvato con Partito unanime di voti favorevoli.

« Proposizione quinta. — Tutti i Dispacci che riceverà il Municipio saranno partecipati immediatamente alla Commissione esecutiva, onde provveda e risponda al Municipio, e da questo sia la risposta trasmessa nelle forme al Ministero, o a cui altro di ragione. — Approvata con Partito unanime di voti favorevoli.

«Disponendosi ora la Civica Magistratura ad eleggere i due Soggetti che dovranno comporre la Commissione esecutiva Provvisoria, il Signor Luigi Baganti f. f. di Gonfaloniere ha nominati i Signori Avvocato Francesco Domenico Guerrazzi e Antonio Petracchi, ambedue appartenenti alla Magistratura; e mandati separatamente a Partito questi due Nomi, è stato ritrovato che ciascuno di essi aveva riportati i voti favorevoli ad unanimità.

«Passando finalmente le SS. LL. Illustrissime alla elezione della Commissione Provvisoria di Sicurezza, il prelodato Signore Baganti ha proposto i seguenti Soggetti estranei al Corpo Magistrale:

«1. Malenchini Dottor Tito.

«2. Poli Dottor Adriano.

«3. Adami Dottor Giovan Salvadore.

«4. Lambardi Dottor Emilio.

«E detti quattro Soggetti mandati separatamente a Partito è stato ritrovato che ciascuno di essi aveva riportati voti favorevoli otto, contrarii nessuno.

«Per copia conforme etc.

« Pel Gonfaloniere « L. Baganti f. f.

« Il Cancelliere « J. Ceramelli.»

89. Quando questa Deliberazione fu disfatta non so; rammento solo, che fu fatta il 9 settembre 1848.

90. Deliberazione per determinare i limiti entro ai quali doveva restringersi l'autorità della Commissione esecutiva.

«Seduta del 12 settembre 1848.

«Adunati servatis servandis

«Gl'illustrissimi signori Gonfaloniere, e Priori componenti il Magistrato della Comunità di Livorno, in numero sufficiente di otto per trattare:

«La Commissione Municipale esecutiva onde bene conoscere la latitudine del suo mandato, ha fatto istanza che venga circoscritta la sfera delle sue attribuzioni.

«In conseguenza di ciò il Magistrato ha stabilito:

«1º Si confermano le attribuzioni conferitele nelle precedenti deliberazioni.

«2º Le si dà facoltà piena d'impiegare persone che reputerà più adatte consultando i Parrochi di ogni Cura, non meno che ad adoperare i mezzi più opportuni per eseguire la costituzione della Guardia Municipale, e la ricostituzione della Guardia Civica in conformità delle cose deliberate.

«3º Però tutte le pubblicazioni ed avvisi devono farsi a nome del Municipio in unione della Commissione esecutiva Municipale e delle persone aggiunte.

«4º In quanto alle spese occorrenti, la Commissione esecutiva Municipale, in unione al signor Francesco Bombardieri delegato a questo ufficio per quello che concerne la Guardia Civica, avrà ricorso alla cassa del Municipio, e per quello che spetta alla Guardia Municipale si dirigerà al Commissariato di Guerra e Marina.

«E quanto sopra approvato per voti favorevoli otto, contrarj nessuno.

«Per copia conforme ec.

«Visto. Il Gonfaloniere.

« Il Cancelliere « J. Ceramelli.»

91. «L'Ordinanza sulla Guardia Civica Provvisoria, approvata in genere, se siamo bene informati, avrebbe incontrato la superiore disapprovazione in alcuni particolari, che a noi sembrano d'importanza minima. Si crederebbe lesa la prerogativa Reale, per la nomina degli ufficiali superiori, ec. ec.; ma questa Guardia Civica nuovamente organizzata per ricondurre la quiete e la pace nella città, non si chiama e non è provvisoria? Dovendosi essa in tutta fretta costituire pel pronto ristabilimento dell'ordine, come si poteva seguire scrupolosamente le tracce del Regolamento del settembre, — adempiendo le lunghe formalità delle nomine? — Ogni buon cittadino di Livorno sa che qualunque grado sia per ottenere dal voto de' suoi concittadini nella nuova Guardia Provvisoria sarà provvisorio. Egli sarà pronto a tornare semplice soldato della milizia cittadina, appena il Principe, valendosi delle prerogative che la legge gli accorda, nominerà gli ufficiali di cui gli spetta la scelta.

«Insomma quello che fu fatto provvisoriamente, e per urgenza, noi crediamo non possa in alcun modo redarguirsi, nè offendere minimamente le leggi e la regia autorità. E ripetiamo: i provvedimenti adottati dal Municipio e dalla Commissione hanno rassicurato gli animi, hanno ristabilito in Livorno la pace, e la fiducia reciproca.» — ( Corriere Livornese del 12 settembre 1848.)

92. «I signori Torello Borgheri ed Eugenio Pignatel si recarono ieri a Firenze come Deputati della Camera del Commercio per chiedere, che sieno tolte finalmente di mezzo queste cause del pubblico malcontento tanto dannose agl'interessi della nostra città.» — ( Corriere Livornese del 13 settembre 1848.)

93. «La Camera di Commercio penetrata ogni dì più della causa della nostra città, — onde testimoniare pubblicamente in qual concetto ella tenga i provvedimenti adottati per l'ordinamento della cosa pubblica si è impegnata a sopperire alla metà della spesa richiesta al mantenimento della Guardia Municipale, ed ha già messo a disposizione del Municipio L. 7000 pel primo mese.» — ( Corriere Livornese del 12 settembre 1848.)

94. Egli è proprio un miracolo se nelle frequenti razzia (e lo dirò in arabo perchè le sono cose da Beduini) fatte sopra le mie carte se ne potè salvare qualcheduna, che porga lume in questa materia. Ecco tre documenti, che consacro ad Apollo liceo, come pei Pastori di Arcadia costumavasi quando salvavano l'agnello dalla bocca del Lupo.

Lettera diretta ai signori del Municipio, dimostrativa gli ostacoli sconsigliati opposti dal Ministro dello Interno ai partiti di Polizia da me suggeriti e fatti adottare.

«Illustrissimi Signori,

«Ci ha recato maraviglia non piccola la Ministeriale comunicataci dalle VS. Illustrissime intorno ai partiti che abbiamo dovuto prendere onde tutelare la pubblica sicurezza.

«Certamente la mole delle faccende fu colpa dell'oblio di S. E. il Ministro dello Interno.

«Noi e Voi, o Signori, nello arrestare persone sospette, pregiudicate, e in parte trasgressore dei precetti ricevuti, abbiamo proceduto non per vie eccezionali, ma in virtù della Legge del 26 novembre 1847, la quale, come si accenna nel Proemio, ha da durare fino alla pubblicazione del regolamento organico di Polizia.

«Le attribuzioni da noi adoperate si contemplano nello Art. 2 della allegata Legge.

«La pratica poi viene in conferma di quanto affermiamo, imperciocchè dai Protocolli della Delegazione di San Marco consideriamo una serie non interrotta di processi e di risoluzioni di simile natura con le quali — per misura di prevenzione reclamata dalle loro pregiudicate qualità — furono condannati parecchi individui a dimora coatta di 4, 6, 8 mesi, e allo esilio per 3, 4 e 6 mesi, con la comminazione trasgredendo di reclusione nella Casa di Forza di Piombino.

«Egregiamente commetteste la compilazione dei processi alle Cancellerie dei Delegati di Governo, così ordinando l'Art. 9 della rammentata Legge.

«Solo rimanevaci il dubbio se per l'Art. 1, la Commissione preposta a conoscere e deliberare intorno cotesti fatti avendosi a comporre del Governatore e degli Assessori legali, essendosi dispersa, in Voi risiedessero le facoltà alla medesima conferite: ma siccome ripensandovi sopra, le facoltà tutte governative troviamo essere a VS. partecipate, e considerando ancora che il provvedimento di cacciare via dalla città uomini perversi e rotti ad ogni maniera di delitti è legge suprema di sicurezza, così noi vi preghiamo avvertire S. E. il Ministro che voglia coadiuvarci con tutti i nervi nelle misure che saremo per prendere.

«Il ristabilimento dell'ordine è a questi patti, e andiamo sicuri che nella sua alta perspicacia il Ministero sarà per accettarli.

«Ci valghiamo poi della occasione per richiamare la grave avvertenza del Ministero intorno alla necessità di vestire presto la Guardia Municipale: temiamo che abbia a perdere della rispettabilità sua; e consumata anche questa forza noi riusciremmo poveri di consigli e non sapremmo a che cosa ricorrere; — e intorno allo altro fatto del cacciatore a cavallo Berni: queste mene perniciosissime non possono tollerarsi, e mantengono sempre vivo lo Stato di suspicione del Popolo contro il Governo, che noi tutti ci affatichiamo con indefesse cure sopire. Tanto per governo delle SS. VV. Illustrissime, mentre ci confermiamo

«Livorno, 26 settembre 1848.»

Lettera al Commissario di Guerra intorno alle sofisticherie ministeriali per le spese della Municipale.

«Illustrissimo Signore,

«Le accludiamo lettera del capitano Roberti, e le facciamo osservare che S. E. il Ministro dello Interno avendo consentito a pagare la Guardia Municipale è venuto implicitamente a consentire il pagamento delle spese accessorie. Ora se il pagamento del soldo è appoggiato al Commissariato, come razionalmente deve non appoggiarsegli la soddisfazione di queste altre spese? Per l'amore di Dio non creiamo altre difficoltà, che noi ci anneghiamo dentro. Letto che l'abbia si compiacerà ritornarmi il foglio Roberti.

«Le recheranno la presente due ufficiali che vogliono foglio di rotta, e paga per ripartire. Con Ministeriale di stamane S. E. il Ministro dello Interno concede al Municipio sussidiare tutti i Volontarj che tornano a casa entro i limiti del bisogno, per rivalerci sopra il Governo. Per iscansare inutili giri, e poi perchè noi non vogliamo maneggiare danari, e finalmente perchè poco adatti a distinguere quello che si meritano, reputiamo prudente inviarli immediatamente a VS.

«E con vera stima ci confermiamo

«Livorno, 27 settembre 1848.»

Lettera al Gonfaloniere relativa alle compagnie dei ladri, e alla insufficienza delle misure dal Ministero prescritte. Raccomandazione a non attraversare. Fiducia della classe commerciale al Governo; imprestito offerto al 4 per %.

«Illustrissimo signore Gonfaloniere,

«Si compiacerà avvertire S. E. il Ministro dello Interno che in quanto alla prima parte del suo Dispaccio ci referiamo alla nostra di ieri; e di più aggiunga come valendoci dei pochi mezzi che stanno in potestà nostra noi eravamo giunti a penetrare come s'intendesse comporre in Livorno una compagnia di ladri giovandosi dello scompiglio che immaginarono crescente. Ora in così grave emergenza la misura indicata nella Ministeriale non basta, sia perchè la nostra Guardia Municipale è scarsa e insufficiente a tanta faccenda, sia perchè si tratta dovere procedere con gente audacissima e capace di ogni estremo partito.

«Noi che stiamo sul luogo, conosciamo la materia e imploriamo che ci lascino fare, sempre che le disposizioni che saremo per prendere non si allontanino dalla legalità, e fin qui ci sembra avere dimostrato che non ce ne siamo dipartiti. Bisogna allontanare questi facinorosi dalla città. Per le altre cose tutte parci bene quanto ci suggerisce la Ministeriale, e sarà osservato con diligenza. Pensiamo che giovi eziandio avvertire il Ministro come le cose procedano di bene in meglio, e della fiducia riposta nell'attuale Governo dalla classe commerciale, e della carità patria mostrata in sovvenirci in tanta strettezza di danaro al modico cambio del 4 per %, e questo ne sia pegno della opinione di sicurezza che impera quaggiù. E con questo la riveriamo.

«Li 27 settembre 1848.»

95. Corriere Livornese, 18 settembre 1848, e numeri antecedenti; Atti del Municipio.

Corriere Livornese, 5 settembre 1848. «Le nostre osservazioni non sono dirette contro l'ottimo Principe, ma contro i Ministri che sono responsabili del linguaggio che gli fanno tenere.»

Corriere Livornese, 6 settembre 1848. «Il Guerrazzi non prendendo consiglio che dal suo cuore, e desiderando vedere pacificata la sua patria, mostrò i mali di una divisione di Livorno dalla Toscana, separò la causa del Principe da quella del suo Ministero, invocò il sussidio della Religione.»

96. Corriere Livornese, 12 e 16 settembre 1848.

«Per buona ventura, se il Principe non trovava a Pisa le armi dei cittadini, che vi aspettava, vi trovò il rispetto, e lo amore dei suoi sudditi, il quale non gli verrà meno giammai, perchè tutti sanno che egli non può nè deve corrispondere degli sbagli dei suoi Ministri.

Crediamo poi, che la bontà e la clemenza di questo nostro Principe sia tanto elevata e grande da non limitarsi alla disapprovazione dello abuso del potere, ma sibbene anche da renunziare piuttosto al diritto della sua sovranità prima di ordinare lo spargimento di nuovo sangue cittadino.

Il Principe e il suo Governo, sempre sotto le medesime formule, e con la stessa religione promettono non inviare forza alcuna contro la nostra città..... il nostro Principe piange il suo scettro intriso di sangue contro la sua volontà, e contro ai suoi ordini

97. Corriere Livornese, 12 settembre 1848.

«Un nome solo conosce ed onora la Italia fra tutti quelli che compongono il Ministero attuale, quello di Gino Capponi....

La dignità del Principe, e la salute della Nazione richiedono che..... si conservi il solo Capponi.....

Nonostante non lo crediamo, riuscendoci acerbissimo supporre che un Ministero il quale assume il titolo da un Gino Capponi abbia ordinato si mitragliasse una città innocente.»

98. Parole del Ministro dello Interno.

99. Vedi Relazione officiale diretta al Ministro dello Interno il 28 settembre 1848 dai signori Tartini, Bandi, e Duchoqué.-(Documento dell'Accusa pag. 677.) «Il signor Guerrazzi, cercato e interpellato, emise la sua opinione, ma offerse accompagnare gl'inviati del Governo, dichiarandosi pronto a parteciparne le fortune. Ciò è taciuto nel Rapporto.» — ( Corriere Livornese del 30 settembre 1848.)

100. Vedi lettere del Montanelli nei Documenti dell'Accusa, a pag. 16.

101. Vedi Documenti dell'Accusa, a pag. 36, 39, 679.

102. Vedi Documenti dell'Accusa, a pag. 679.

103. Vedi Documenti dell'Accusa, a pag. 30.

104. Fra i Documenti dell'Accusa, pag. 679, trovo questo Manifesto.

«Amici e Fratelli.

«Le vostre domande furono soddisfatte. L'oblio con la formula completa da voi desiderata venne concesso. I poteri eccezionali gittati come un velo sopra la faccia della Libertà, saranno tolti per non rinnovarsi mai più.

«Io spero che voi abbiate così meritato ottimamente della Toscana, e quella ve ne sarà grata.

«Io mi allontano da questa amatissima terra con la persona; col cuore rimango fra voi. Avrete a governarvi Giuseppe Montanelli, nome caro ai buoni; per detti e per fatti bello ornamento della Patria. Amatelo, riveritelo. Se voi avete fiducia in lui, com'egli ha fiducia in voi, la opera della quiete dignitosa e con sicurezza sarà confermata; opera alla quale non io, ma la bontà, la temperanza, e la egregia indole vostra tanto potentemente hanno contribuito. Addio.

«Livorno, 4 ottobre 1848.

« F. D. Guerrazzi.»

105. A questo accennano l'espressioni della lettera del sig. Gonfaloniere Fabbri del 9 ottobre 1848 stampata a p. 23 nei Documenti dell'Accusa: «Sto preparando cosa, che ti sarà gradita; adesso non voglio dirti nulla....» Nel medesimo Documento occorre quest'altro periodo: «dimani comunicherò ai miei Colleghi la tua lettera, e sono certo che sarà da loro bene accetta tanto per la sua forma materiale, che spirituale.» Il sig. Gonfaloniere, richiesto, mi aveva fatto sperare copia delle Deliberazioni del Municipio di Livorno che mi riguardano, e le lettere private a lui stesso dirette, onde me ne valessi nel presente bisogno; — mi duole che non abbia potuto mandarmi queste carte per difetto di superiore permesso.

106. Documenti, pag. 9.

107. Monitore del 6 febbraio 1849.

108. Però importa avvertire in proposito, che se il Ministero mi avesse lasciato in Livorno, nè vi sarebbe venuto Montanelli, nè la Costituente sarebbe stata bandita, il Ministero approvante.

109. Vedi Documenti dell'Accusa, pag. 456. Dispaccio telegrafico del Gonfaloniere di Livorno al Ministero.

110. L'Accusa sembra ritenere autore il Montanelli dell'articolo stampato nella Italia; anche in questo s'inganna: esso appartiene a certo Professore della Università di Pisa, di cui taccio il nome per amore di pace.

111. Vedi Documenti dell'Accusa, a pag. 899.

112. «Giuseppe Massari si recava a visitare per sè, e per parte di Vincenzo Gioberti, il nostro concittadino F.-D. Guerrazzi il quale si affrettò a recarsi da lui...» — ( Corr. Livornese, del 25 Maggio 1848.) — Per avventura il signor Massari veniva a visitarmi mosso dal desiderio medesimo, che conduce quei strani cervelli degl'Inglesi a vedere Gasparone in Civitavecchia? — Avverta, che io conservo il suo biglietto lasciato sul mio banco, me assente, dettato di cortesi parole quali il signor Massari sa usare allorchè di tratto in tratto lo prende vaghezza di mostrarsi onesto, e gentile.

113. Io non ricordo tutte le persone presenti alla conferenza narrata; in nome della onestà le prego a mostrarsi per renderne testimonianza.

114. Seduta del dì 13 ottobre 1848.

«Adunati servatis servandis

«Gl'Illustrissimi Signori Gonfaloniere, e Priori componenti il Magistrato della Comunità di Livorno, in numero sufficiente di sei per trattare:

«Essendosi questa mattina adunata sotto il Palazzo Comunitativo una quantità di Popolo con bandiere e tamburi, unitamente alla Banda Civica, ed avendo presentato un Indirizzo del seguente tenore:

( Qui è riportato l'Indirizzo del Popolo.)

«Il Municipio adunatosi per urgenza,

«Considerando essere indispensabile al bene del paese e dell'intiera Toscana, che il nuovo Ministero sia composto di uomini adattati ai tempi ed aventi la pubblica fiducia;

«Considerando che il Popolo di questa città accenna il desiderio che sieno eletti a detto ufficio l'attuale nostro Governatore Montanelli e l'Avvocato Guerrazzi;

«Considerando che mentre da un lato il Municipio ritiene essere prerogativa Regia la nomina dei Ministri, e che conseguentemente la loro Elezione deve emanare dall'animo del Principe, dall'altro lato ravvisa che senza offendere la detta prerogativa potevasi rappresentargli il voto del Popolo;

«Perciò Delibera:

«Di accogliere l'Indirizzo succitato del Popolo come semplice espressione di un desiderio, e di farsi organo, onde tale manifestazione pervenga all'Ottimo nostro Principe.

«E quanto sopra è stato approvato ad unanimità.

«Per Copia ec.

« Il Gonfaloniere «Avv. L. Fabbri.

« Il Cancelliere « J. Ceramelli.»

115. Prova manifesta che quantunque benevole le disposizioni a favor mio, per certo da me non provocate, non avrebbero avuto virtù di costringere persona, ha pure registrata nel suo volume l'Accusa. Parte del Municipio invitando il Governo a mandare Governatore in Livorno sollecitava in nome del Popolo cotesto ufficio per me; il Ministero ricusò; io mi partii da Livorno, e Montanelli fu accolto. I Documenti a pag. 679 narrano così: «Questa mattina (4 ottobre, 11 ant.) sono stati affissi per tutte le contrade della città proclami stampati che esprimevano un voto perchè Guerrazzi fosse eletto Governatore, Montanelli Ministro. È tornata la Deputazione da Firenze, ma le risoluzioni che ha portato non sono state di piena soddisfazione, giacchè alcuni del Popolo che amano Guerrazzi avrebbero voluto vedere in qualche modo ricompensate le sue tante cure pel bene di Livorno.... — In Piazza vi sono grandi attruppamenti di Popolo attendente che venga affissa la officiale risposta portata dalla Deputazione; non so come verrà accolta; forse il Popolo si calmerà, e sacrificherà alla quiete del paese l'uomo da lui amato, ed in cui aveva riposta grande fiducia. — (Ore 3 pom.) Guerrazzi è già partito alla volta di Firenze lasciando uno addio al Popolo, ch'è stato affisso in istampa per tutti i canti e che t'invio. Questa repentina partenza ha fatto molta sensazione. Intanto gli scritti aumentavano per le vie, tutti esprimenti il desiderio, che Guerrazzi fosse eletto Governatore ed il Montanelli Ministro. — (Ore 4 pom.) Il Gonfaloniere..... ha detto, che la Deputazione tornata da Firenze portava l'annuenza del Governo a tutto quanto domandava la città, tranne però la nomina del Guerrazzi a Governatore. — Il Gonfaloniere ha quindi dimostrato la necessità di accettarlo (il Montanelli), ed il Popolo ha aderito

116. Eppure la opinione pubblica non era avversa al Ministero nostro, non dirò degli amici, ma degli avversarii, e degli emuli. La Riforma, foglio per certo a noi non parziale, scriveva: «Il nuovo Ministero fu accettato come termine di agitazione rovinosa, e come pegno di tranquillità.» — (3 novembre 1848). — Il Nazionale, che fece professione di Costituzionalismo anche in mezzo alla procella repubblicana, si esprime sul conto nostro in guisa da far comprendere due cose: che potevo aspettarmi l'appoggio anche della passata Assemblea, e che gli agitatori si reputavano non istrumenti, ma nemici del Ministero:

«Noi crediamo che il presente Ministero potesse presentarsi anco alla passata Assemblea, ed averne quell'appoggio che nessun uomo ragionevole deve negare a chi governando il paese chiede per il paese cose necessarie e veramente utili. Molto più pensiamo, che oggi egli sia per ottenere questa giusta cooperazione. — Diciamo molto più; non solamente perchè alcuni atti del Ministero hanno attenuato le sinistre prevenzioni destate al suo nascere; ma perchè i furibondi, che hanno dato con le loro grida e co' loro fatti alla santa parola di democrazia un senso contrario al suo senso nativo, e un senso non accettevole nè dagli onesti nè dai sensati, hanno persuaso l'universalità, che il Ministero non può secondare costoro senza distruggere sè medesimo.» — ( Il Nazionale, 2 dicembre 1848.)

117. L'Atto di Accusa, § VIII, cita in parte la lettera del Pigli dell'11 ottobre; a che fine l'allega? Essa contiene una dichiarazione di principii; e quali sono eglino? L'applicazione sincera della Costituzione. Egli mi conforta a sperare, che il Governo presto entrerà nel mio sistema: aggiunge, il Ministero attuale non potere durare; repudiarlo il paese; tornassi a Firenze, assistessi con attenzione al Dramma, e fossi presente quando sarei chiamato. È un Deputato della Opposizione, che scrive ad altro Deputato della Opposizione. Che cosa contiene la lettera, che perfettamente regolare non sia? — Non di Costituente vi si ragiona, nè di Repubblica; non di maneggi, non di dimostrazioni, non di concerti illegali; ma di speranza che il Ministero mutasse, e di chiamata mia ad attuare il sistema della sincera Costituzione. Questa lettera non solo non ha nulla che mi pregiudichi, ma non ha nulla che non mi favorisca. Io pertanto l'accetto; quantunque non possa astenermi da domandare: e dove mai l'Accusa apprese il costume di costruire laboriosamente l'edifizio delle sue imputazioni sopra atti che non si partono da me?

118. Il Conciliatore (organo semi-ufficiale dei precedenti Ministeri Ridolfi e Capponi) del 22 gennaio 1849, parlando delle diverse voci correnti in quel giorno, avverte come alcuni dicessero, che il Ministero avrebbe presentato egli stesso la legge: « e così dovrebbe essere, egli soggiunge, giacchè il Ministero entrò al Potere con questo programma, e mal si comprende come oggi lo consideri lettera morta, e se lo lasci imporre dal Popolo

119. Ho presentato a S. A. rispettosa Istanza, onde si degni autorizzarmi a manifestare le conferenze ch'ebbi l'onore di tenere con lui.

120. Non rechi maraviglia se io pongo i sentimenti di lingua a pari di quelli di religione gagliardi: tali essi sono più che altri non pensa; e comecchè con qualche esagerazione, Paolo Bourgoing, in certo suo opuscolo che ha titolo — Guerra d'idiomi e di nazionalità, non dubitava attribuire il precipuo motivo della guerra tra Magiari e Slavi alla pretensione dei primi d'imporre il proprio linguaggio ai secondi.

121. E la Costituente montanelliana dalla stessa Opposizione salutavasi splendida e generosa.

«Intanto fu lanciata in mezzo d'Italia la bandiera della Costituente. Noi ne apprendemmo allora tutti i pericoli. Assentimmo in genere l'idea, perchè a tutto quello ci siamo proposti assentire che conduca al fatto che propugnamo, la Nazionalità Italiana. — Credemmo più splendida e generosa l'idea del Montanelli; credemmo praticamente esser meglio possibile l'idea del Gioberti che si moveva dal fatto, lo rispettava, e non lo contradiceva.» — ( Conciliatore, 14 gennaio 1849.)

122. Atto di Accusa a pag. 77.

123. «Art. 12. La Costituente italiana avrà due stadii: il 1º anteriore, il 2º posteriore alla cacciata dello straniero. Tutte le quistioni di ordinamento interno della Nazione non si dovranno agitare se non che nel secondo stadio, poichè alla loro risoluzione è richiesto il voto di tutto il Popolo italiano, gran parte del quale non potrà eleggere i suoi rappresentanti finchè geme nel dolore della servitù straniera. La Costituente del primo stadio deve occuparsi di tutti i problemi, che si riferiscono direttamente o indirettamente allo acquisto della Indipendenza. Essa impedirà quello sparpagliamento di forze, che fu la causa principale dello esito infelice della ultima guerra. A tale effetto la Costituente, potrà incominciare le sue operazioni appena due Stati italiani si sieno intesi per iniziarla

«Art. 13. § 3. Se vanno d'accordo, che le quistioni di ordinamento interno si aggiornino tutte fino alla cacciata dello straniero, senza che alla Costituente iniziatrice sia vietato preparare gli elementi per la loro più facile soluzione.» — Potrei citare altri atti, ma questi spero che basteranno.

124. Il Popolano dell'8 novembre 1848 riporta un articolo dallo Indipendente di Venezia, che critica il Programma Ministeriale, dicendolo «un po' pallido, un po' cattedratico, un poco troppo pacifico;... che se vi è abbastanza per la libertà civile e pel progresso morale della Toscana, vi è nulla o poco più di nulla per la guerra ec.» E continua con l'invitare i Circoli Toscani a spingere il nuovo Ministero per la via rivoluzionaria; perchè, siegue: «Ci sembra poi di una estrema gravità il riserbo che i nuovi Ministri si prefiggono nel loro Programma rispetto alla Costituente Italiana, per cui si limitano a tenere alzata la bandiera ed a richiamare del continuo l'attenzione dei Principi. A noi pare non sia tutto il da farsi, ma che anzi si aspetti e si voglia molto di più. Perchè dove si tratta dei grandi destini di tutta una Nazione, bisogna voler riuscire ad ogni costo, e non basta il dire: se non riesciamo, la colpa non sarebbe nostra. La questione non è di colpa o di responsabilità; la questione è della sorte di 23 milioni di persone.»

E finisce con lo spronare i popoli a forzare i Governi alla accettazione piena della Costituente Italiana.

Il medesimo Popolano dell'11 gennaio 1849, il quale rende conto del Discorso della Corona proferito all'apertura delle Assemblee, così si esprime: «Ciò che riguarda la Costituente in questo discorso è anche più incerto e più dubbio di quello che sia permesso ad un discorso di apertura.»

«Non ci voleva altro che il S......... od uomini della sua stampa o della sua scuola per trovare sovversivo un Discorso (della Corona) che tutta Italia ha ormai letto e compassionato pel suo languore, per la sua sconfortevole pallidezza, per la povertà delle sue promesse, per quel suo camminare a ritroso, che è sempre stato, e sarà sempre, il camminare abituale dei Principi.» — ( Frusta Repubb., 14 gennaio 1849.)

«Se nel Discorso di apertura del Parlamento Toscano, che riferimmo ieri, dovessimo trovare il riflesso della politica passata e il disegno della politica avvenire del Governo, saremmo imbarazzati assai. Piuttostochè andar pescando nel vago delle frasi..... preferiamo attendere gli atti del Ministero innanzi al Parlamento, — e attendiamo.» — ( Il Nazionale, 11 gennaio 1849.)

«Ecco il Discorso della Corona che nella sua circonvoluta e sospesa espressione, per poca nitidezza di esposizione ed evidenza di concetto, non riflette largamente i principii e le idee incarnate dall'attuale Ministero, professate dal suo Programma e dalla conseguente condotta. Quantunque l'importanza di tali manifestazioni politiche vada decadendo ogni dì più, e la coscienza del Popolo siasi educata a riguardare piuttosto ai fatti che ai Programmi ed alle parole; pure desso era aspettato con ansia interessata da tutte le parti, intente al movimento del paese, alla influenza che la potente iniziativa toscana esercita, e deve mantenere, sulla universa Italia.» — ( La Costituente Ital., 11 gennaio 1849.)

«Ora adulando il Governo in cose, che nessuno lodò, anzi biasimò (come nel Discorso della Corona per l'apertura delle Camere)....» — ( Corriere Livornese, 9 Marzo 1849.)

125. Odasi un po' come il Conciliatore cotesti miei sforzi annunciasse.

«Qualche dissidio si manifestò tra i Deputati sull'ordine del giorno, in quanto che ad alcuni piaceva di far mostra di zelo esagerato in pro di una votazione di urgenza.» — ( Il Conciliatore, 23 gennaio 1849).

Ma allora era così. Ai Deputati faceva mestieri di freno, non di sprone. Si chiarisce dunque per vero quello che disse il Deputato Socci, avere la Camera votato di gran cuore la Legge intorno alla Costituente? — La Frusta Repubblicana, sempre intenta a insinuare perfidamente la diffidenza fra il Popolo sul conto mio, rilevava coteste parole, e commentandole diceva: «Il Ministero rampognò...... nel modo stesso che aveva rampognato coloro, che per ossequio al Popolo pretendevano nel giorno della presentazione della Legge per la Costituente, prima doversi decidere, che discutere, prima affermare, che riflettere.» — (Nº del 28 gennaio 1849). — Dalle quali parole però si conosce quanto consuoni al vero il sospetto dell'Accusa, che io mi accordassi col Circolo per sollecitare la presentazione di cotesta Legge.

126. Il Conciliatore, di cui uno dei Collaboratori sostenne alla Camera, che il mandato dovesse dichiararsi con una Legge, nel Nº del 23 gennaio 1849 così discorre in proposito: «Il Ministero in questo aveva ragione; giacchè, partendo dai suoi principii, il mandato doveva essere quale sarebbe uscito dal suffragio universale, non quale voleva farlo l'Assemblea. Non il Governo colle sue istruzioni, come sosteneva il Ministro dell'Interno, non l'Assemblea con una Legge, come pretendeva la Commissione, ma gli Elettori soli avean diritto di assegnare, se volevano, i limiti del mandato conferito ai loro eletti.»

Nei consigli del Conciliatore è evidente essersi operata variazione. Io però persisto a dire, che il mandato doveva per necessità temperarsi e moderarsi, pei motivi discorsi, dalle istruzioni del Potere Esecutivo. Intanto giovi sempre più confermare quello, che allora era chiaro anche per confessione dei nostri oppositori: « Però adesso del secondo stadio della Costituente non può parlarsi; lo hanno detto e ripetuto i Ministri.» — (Discorso del Deputato Galeotti; vedi Tornata del 2 gennaio 1849.) — E veramente era così.

127. La Riforma di Lucca, in data 8 novembre 1848, dietro una sua corrispondenza così si esprime:

«Si parla, e par certo, che gravi dissidii si sieno elevati fra Montanelli e il cittadino Ministro dell'Interno. Anche Adami pare che ne abbia assai del Ministero.»

Il Conciliatore del 22 gennaio 1819: — «Ieri correvano voci di dissoluzione del Ministero, ed alcuni ne davano per ragione le differenze insorte fra i Ministri in proposito della Costituente.»

128. «Viva lo Impellicciato, viva lo Impellicciato! urlò il Popolo re. Ma per bacco, esclamò uno degli spettatori, sbaglio, o gli spunta il codino? — E qui nacque un parapiglia, perchè tutti volevano vedere il codino dello Impellicciato. — Non vi faccia specie (sorse allora a dire il saltimbanco credendo di calmare la effervescenza); se gli spunta il codino, non è colpa sua: è colpa dell'aria che si respira sopra certe seggiole..... non mi capite? Chi sa, che coll'andare del tempo quel codino non cresca e diventi coda! — A queste parole nacque un casa del diavolo: abbasso i codini, non vogliamo codini, abbasso lo Impellicciato! si gridava da tutte le parti; era una tempesta di fischi e di urli degna proprio del Popolo re.» — ( Vespa, 12 dicembre 1848.) — Questo è il Giornale, che dall'Accusa merita il nome di generoso! — Il Popolano dell'8 gennaio 1849, accennando a me, diceva:

«Al democratico che si accosta al Potere vedesi perciò accadere il fenomeno opposto che accadeva ai paralitici, nei tempi in cui eran di moda i miracoli, allorquando accostavansi alle sante reliquie. Questi riacquistavano le forze ed il vigore, mentre colui s'infiacchisce subitamente al pernicioso contatto

E questo per l'Accusa è il Giornale reprobo! E sì, che, non fosse altro, lo insulto esprime con garbo meno plebeo del generoso figlio della sua predilezione:

Han gli stessi delitti un vario fato:

Questi diventa re, quegli è impiccato!

129. Vedi Giornali romani del tempo; in ispecie il Contemporaneo.

130. «Il succitato Ministro ha avuto un abboccamento con Terenzio Mamiani sul vapore Mentore.» — ( Corriere Livornese del 22 nov. 1848.)

131. Vedi Monitore, Seduta del 23 e 24 gennaio alla Camera dei Deputati.

132. Gazzetta di Firenze, 17 agosto 1848.

133. L'Accusa repubblicana, o piuttosto quella che si chiamava repubblicana, ecco come faceva aspro governo delle mie parole dette alla Tornata del 22 gennaio 1849.

«Il Ministro Guerrazzi veggendo come quelle vuote spelonche, che fanno le veci di cuore alla massima parte dei Deputati, non avessero eco per questo nome, vi ha aggiunto quello di Leopoldo II! Siano perdonati i pleonasmi al Ministro Guerrazzi, purchè ne faccia pochi, e que' pochi a fin di bene!

«Ha detto il Montanelli, e nobilmente detto, che: — se al bene della Italia converrà che la Toscana sia, la Toscana sarà..... Se alla Nazione italiana sembrasse diversamente, chi siete voi che vorreste resistere al voto di 23 milioni? La parola solenne d'Italia è l'arbitra suprema di tutte le prerogative. —

«E questo doveva bastare per una Assemblea di Deputati Italiani: ma siccome in cotesta Assemblea ve ne hanno degli Austriaci, anzi dei Croati di purissimo sangue, ai quali simili parole sarebbero sembrate una ragione di più per opporsi al pieno sviluppo del concetto informatore della Costituente, il Ministro Guerrazzi ha creduto ben fatto il soggiungere:

( Qui si riportano le mie parole un cotal poco alterate, poi si riprende:)

«Noi lo ripetiamo; se queste parole debbonsi riguardare come un ingegnoso espediente per combattere l'astuzia, il cavillo e la ignoranza, noi le accettiamo come si accetta una trista e penosa necessità. Ma se debbonsi considerare come professione di fede, come programma non di Ministro ma d'Italiano, noi che siamo schietti e leali, e impavidi Repubblicani, noi che lo fummo ieri, che lo saremo domani e sempre, siamo obbligati dalla nostra fede a combattere la sfiducia e la diffidenza del Ministro Guerrazzi, e a dirgli che l'ora è suonata, sol che al Popolo piaccia consultare l'orologio ove le ore della sua vita hanno funzioni assegnate, non dai Principi e dai Ministri, ma da Dio.

«La Costituente non deve e non può che costituire l'Italia, non già questa o quella provincia di essa a danno dell'una o dell'altra. Che cosa ha voluto il Guerrazzi far capire all'Assemblea con quelle parole che dovevano bruciare le labbra repubblicane dell'autore dell' Assedio di Firenze? Forse ha voluto insinuare la speranza che porzione di quelle terre, su cui passeggia un soldato con in petto la croce sabauda, o un frammento di quelle sulle cui bandiere sarebbe tempo per Dio! si scancellassero le chiavi simboliche della schiavitù delle genti cristiane, potessero accrescere di un miglio, di due, di quattro quella frazioncella d'Italia che si chiama Toscana?... Forse, nuovo Gioberti, come questo apostolo di menzogna volea porre sull'avvilita fronte del suo re la corona dell'Alta Italia, vagheggiava egli lo arcadico concettino d'una corona della Italia Centrale?.... Compirebbe questa la triade delle Italie reali che successivamente furono create dalla male ispirata fantasia dei sostenitori del decrepito e anticristiano principio monarchico.

«La sorte avuta dalle due prime utopie, l'utopia di una Italia del Nord sotto il giogo di un Carlo Alberto, l'utopia di una Italia del Sud sotto la verga di un Re Bombardatore, bastano a far sorridere di compassione o sogghignare d'ira allo affacciarsi di questo terzo progetto, ultimo letto sprimacciato alle morbide ambizioni reali.... Ma cotesta menzogna, per quanto pietosa, svela pur essa il verme che rode cotesto magnifico arbore della Costituente, e il quale forse rendeva caduchi i suoi fiori, abortivi i suoi frutti, nella prima fase dello sviluppo.» — ( Popolano, 23 gennaio 1849.)

134. Giulio II coll'elmo in testa fu veduto allo assedio della Mirandola osteggiando i Francesi, ed è fama che Leone X morisse di allegrezza nel sentire ch'erano stati cacciati fuori del Milanese.

135. Che fosse inteso da tutti così lo dimostrano le parole del signor Galeotti nel discorso letto nella Seduta del 23 gennaio: «però adesso del secondo stadio non può parlarsi; lo hanno detto e ripetuto i Ministri; ma bensì del primo stadio di essa.» — (Documenti dell'Accusa, pag. 779.)

136. La discrepanza è manifesta qualora si confrontino le risposte del Montanelli e mia al dubbio espresso dal signor Lambruschini. — (Vedi pag. 789 dei Documenti dell'Accusa.) — Ora il dubbio espresso dal signor Lambruschini era tale, che per le parole del Montanelli doveva confermarsi, e quindi farlo persistere nella minacciata astensione di concorrere col voto al principio, che si pregiava avere professato, ed amato; all'opposto per le parole mie doveva dileguarsi affatto, e si dileguò, però che meglio alle mie fidandosi, come quelle che rappresentavano gli umori dei Toscani, e le condizioni dei tempi, concorse liberamente col voto alla deliberazione della Legge su la Costituente.

137.

Non è puleggio da piccola barca

Quel che fendendo va l'ardita prora,

Nè da nocchier, che a sè medesmo parca.

Dante, Par. XXIII.

138. Aggiungo adesso, perchè prima non mi era potuto procurare, l'Avviso col quale il Direttore della Posta di Livorno pubblicava il mio ordine del 29 ottobre 1848 intorno alla Patria:

«Il Direttore della R. Posta di Livorno riferite senza ritardo alla Generale Sopraintendenza delle RR. Poste le istanze popolari esternate con la Dimostrazione nella sera del 28 corrente, concernenti il Giornale La Patria, mentre annuì alle medesime, si fa ora carico di comunicare al Pubblico conforme gli fu ingiunto la partecipazione ricevuta dal signor Consigliere Ministro dello Interno del tenore ec.»

139. Parole dello Indirizzo della Magistratura fiorentina al Ministro di Grazia e Giustizia, del 12 marzo 1849.

140. «Si è sparsa voce, che 400 Svizzeri sieno alle Filigare pronti a transitare per la Toscana. — Si è pure sparsa la voce, che gli Svizzeri invece di portarsi a Gaeta si condurrebbero per via sicura alla città di Siena. Comunico queste voci perchè il Governo, se può, le smentisca.» — (Dispaccio telegrafico Pigli, 2 febbraio, ore 1, m. 45.) — Deliberazione del Municipio Fiorentino, del 3 febbraio, di mandare Deputati al Granduca, motivata lº sul dubbio che l'assenza di S. A. da Firenze non abbia il carattere di precarietà; 2º su la necessità, che il Capo Supremo dello Stato stia presso la Rappresentanza nazionale, e presso il centro della pubblica Amministrazione, massime in tempi si gravi. — Il Circolo Fiorentino manda nel 5 febbraio 1849 uno Indirizzo per rimproverare il Ministero di non avere seguito il Granduca e domandato il suo ritorno a Firenze. — Questa deliberazione del Circolo è contraria alla lettera diretta dal Mordini a L. Corsi di cui si giova l'Accusa: invero quella dichiara proporsi la dimissione del Ministero verso il 5 febbraio; questa nel 5 febbraio rimprovera il Ministero di non avere seguitato il Granduca a Siena; e ciò parmi prova, che tra loro non fosse determinato disegno.

141. In qualche scritto moderno, e fiorentino, ho letto affermare straniera questa voce, e da fuggirsi da chi professa amore al paterno idioma. Siffatta opinione comparisce erronea, imperciocchè la parola reazione occorra adoperata dal Cocchi scrittore elegantissimo, nei Discorsi Toscani, I. 3: «È manifesto, che per l'azione del bagno caldo e freddo, e per la reazione del corpo nostro si può risvegliare moto, ed impeto.» Onde io la ho accolta con tranquilla coscienza.

142. I trasporti a cagione della strada ferrata, i cappelli di paglia per le diminuite ordinazioni, ec. ec.

143. «Livorno è agitatissima. Mi si dia qualche schiarimento in proposito: — le notizie che chiedo sono necessarie.... è necessaria immediatamente qualche notizia precisa, qualunque essa sia. Pigli.» (4 febbraio, ore 9. m. 15.) — «La città è in qualche agitazione. Mi si dice esservi per tal motivo molto fermento in Livorno, e a Lucca. Urge schiarimento per tranquillizzare il Popolo. Paoli.» (Pisa, 5 febbraio, ore 7, m. 15.) — Di Siena non parlo.

144. Documenti, a pag. 218.

145. La stampa, che sotto nome di repubblicana precipitava alla demagogia, così commentava la mia lettera poco fatidica invero:

«Diceva il Monitore Toscano, giornale officiale, or fa pochi dì, anzi soli due dì prima della fuga di Leopoldo d'Austria, di felice memoria, piacergli riferire una lettera che un amico suo scrivevagli di Roma: e in cotesta lettera così piacevole al Monitore, leggeansi le seguenti parole: — I buoni Italiani convenuti qui in Roma pare che abbiano deposto il pensiero di proclamare la Repubblica ecc.... — E il dì appresso veniva officiale novella della proclamazione della Repubblica a Roma, per opera di una grande maggioranza di voti nella Assemblea Costituente.

«Tre dì dopo, due popolazioni affollate, e dirò tre, perchè eravi anco la truppa, fin qui formante popolo a parte, sulla Piazza della Signoria, riassunta al primitivo suo nome per l'atto migliore e più umano che giammai abbia operato l'Austriaco Leopoldo, — quello d'andarsene, — era gridato, non da una voce nè da due, ma da migliaia e migliaia: Viva la Repubblica! Ed il simbolo di essa volevasi piantare, se non fosse stato proibito, sulla Piazza rigenerata da quel nuovo battesimo di Popolo. —

«Il Popolo di Firenze ha mostrato di sentire repubblicanamente al pari di qualunque altro Popolo: le tradizioni degli avi si sono in lui risvegliate per miracoloso istinto, ed egli oggi sorpassa d'assai in repubblicanismo il Governo, dacchè il Governo vien fuori a parlare di maturità e di opportunità, mentre il Popolo a tutti cotesti cavilli, altro non grida che Repubblica!

«E Repubblica sia!» — ( Frusta Repubblicana, 15 febbraio 1849.)

146. Altre lettere nel medesimo senso furono da me scritte; spero che i ricevitori vorranno mandarle al mio Difensore Avvocato Tommaso Corsi. Del fatto cui appella la lettera del sig. Bertani occorre traccia nel volume dell'Accusa, a pag. 476.

147. Niccolò Tommaseo, nome illustre in Italia, io non so bene se più per fama di lettere o per integrità di costume, passando per Firenze scriveami questo biglietto:

«N. Tommaseo desiderava attestare al Ministro Guerrazzi la sua gratitudine non solo per quanto egli fece e bramò per Venezia, ma per quanto egli parla ed opera in difesa di quell'ordine dignitoso e leale, fuori del quale non troverà che ignominie.» (Vedi Documenti, a pag. 540.) — Nonostante, l'Accusa sa che io fui elemento disorganizzatore. Forse glielo hanno detto i suoi generosi Giornali.

148. Della Democrazia in Francia, pag. 33. Bruxelles, 1849.

149. Fourier pretende fare questo, e dentro sei mesi. Egli calcola così: una dozzina di uova 10 soldi, e non è caro: fondinsi 600,000 falensterie; in ognuna possono alimentarsi 12,000 galline, che faranno l'uovo per 365 giorni dell'anno; ma posto lo facciano per soli 200 giorni ( questo uom da bene ebbe avvertenza a tutto ), ogni falensteria produrrà per franchi 500 di uova al giorno; annualmente, 100,000 franchi; tutte le falensterie insieme 60,000,000,000. Ora il debito inglese somma a 4 miliardi e ½ di Sterlini, o 135 miliardi di Lire. Dunque ce ne avanza. Il calcolo è giusto; rimane a trovare chi beverà uova!

150. Questo fenomeno ho letto osservarsi fisicamente anche nei detenuti alla carcere separata per dodici o diciotto mesi; però a Pentonville non permettono il subito trapasso dalla prigionia alla libertà assoluta, ma ritengono il detenuto per qualche giorno in mezzana libertà, onde senza danno della salute si assuefaccia all'aria aperta, e alla vista degli uomini e delle cose.

151. Questo brano di lettera mi fece copiare e mi rimise il signor Marchese il 12 febbraio 1848 con queste parole: «Ecco il brano della lettera al quale credo tu accenni. Il rimanente sarebbe inutile, tanto che nemmeno lo trascrivo, non che pubblicarlo. Per me non voglio la boria di averti fatto il sermoncino: tu giudica, se ti piace, che il brano qui sopra possa giovarti, e si pubblicherà; ma non senza licenza tua della quale vorrei conferma. Addio; ti scrivo in gran fretta; cura la tua salute.»

152. Memorie. Edizione di Livorno, pag. 11.

153. Edizione di Livorno, pag. 10.

154. Pag. 12.

155. Pag. 43.

156. Pag. 45.

157. Ivi.

158. Pag. 53.

159. Pag. 70, 71.

160. Pag. 75.

161. Rusconi, Repubblica Romana, pag. 166.

162. Vedi pagina 153 di questa Memoria.

163. Della Servitù d'Italia, pag. 188. ( Prose politiche; Firenze, 1850).

164. Ivi, pag. 190.

165. Della Servitù d'Italia, pag. 189.

166. Quantunque il Popolano dell'8 gennaio 1849 parli in termini generali, dalla parte già citata di questo articolo si conosce come s'indirizzasse a me:

«E siccome ogni potere è di sua natura conservatore e moderatore, perciò noi veggiamo Ministri succedersi a Ministri, Governi a Governi, Assemblee ad Assemblee, scacciate impetuosamente le une dalle altre, e oppresse sotto il peso della pubblica riprovazione. Egli è che così deve avvenire, finchè la fase complementaria della nostra rivoluzione non sia compiuta: egli è che ogni potere odierno non può peranco rappresentare il vero governo democratico: esso non può accettarsi che, come un mezzo, non già come un fine; come una fase, un gradino per giungere alla vetta dello edifizio tutto intero, dal quale siamo tuttora così lontani da non poterne abbracciare collo sguardo la stupenda architettura e la magnifica ampiezza

167. E proprio non lo volevo dire; ma l' enfant terrible dell'Accusa io trovo che lo ha stampato nel suo Volume, però cessa il motivo del silenzio.

Mettendolo Turpino anche io l'ho messo.

Così va sovente scusandosi l'Ariosto, onde io giovandomi dello esempio di Messere Ludovico dirò:

Mettendolo l'Accusa anche io l'ho messo.

«Il Prefetto di Pisa al Governatore di Livorno. — Le comunico un Dispaccio telegrafico del cittadino Guerrazzi, che ricevo in questo momento. — Al Prefetto di Pisa. Uomini parte esagerati, parte male intenzionati, JERI CODINI, hanno spedito in diverse parti della Toscana per convenire giovedì a Firenze, e costringere il Governo a dichiarare la Repubblica e la Unione con Roma. Il Governo vuole si consulti il voto universale del Popolo, perchè tutto il Popolo ha da sostenere la Repubblica. Il Governo non intende farsi strascinare, e dichiara, chiunque presumesse violentarlo, traditore della Patria, sottoposto alla Legge del 22 febbraio 1849. Dia annunzio a Livorno, e faccia in modo che nessuno giovedì si muova.»

168. Ferdinando Zannetti nel suo esame dichiara: « EGLI SOLO si opponeva a tutti coloro che volevano la promulgazione del Governo Repubblicano, e della Unione con Roma.» — (Processo, a carte 2241, F. III.) — In certi punti pare che all'Accusa sieno cascate le cateratte.

169. Importa grandemente osservare in quante guise e con quanta perseveranza si fossero adoperati pessimi agitatori al fine avvertito. Non essendovi pervenuti, deliberarono afferrarmi per perdermi più tardi. Certo avrebbero amato piuttosto calpestarmi subito; ma le perfide insinuazioni non avevano partorito fin qui frutto bastantemente copioso. A pag. 148 di questa Apologia riportai le infamie della Vespa generosa, e del Popolano reprobo.

Fino dal novembre 1848 spargono voce, avere io mutato casacca, ed essere diventato capace di tirare sul Popolo; per lo che ebbi a scrivere per telegrafo a Livorno il 30 novembre: «Che cosa dicono di tirare sul Popolo? Da quando in qua sono io diventato parricida? Prudenza e vigore, e togliete ogni credito ai guastamestieri.»

Nel 5 decembre 1848, per telegrafo raccomando diffidassero dei rumori, «che spargonsi con leggerezza o con malizia contro di me.»

Nel 6 decembre 1848 gli agitatori fanno arrestare a Livorno i cannoni caricati per Firenze, col sospetto che dovessero usarsi a reprimere i turbolenti; io scrivo per via di telegrafo: «E che? Si teme che noi li vogliamo per mitragliare Livorno? Mancherebbe anche questa!»

«Il Popolo intende che i cannoni non si levino da Livorno, non avendo bisogno di sotterfugi.» — (Dispaccio telegrafico da Livorno, 6 decembre 1848.)

«P. accompagnato da una Deputazione mi ha detto: scriva che il Popolo non dorme.» — (Dispaccio telegrafico da Livorno, 6 dicembre 1848.)

«Circola a stampa, ed è affisso pei muri della città, un foglio ove si avverte il Popolo a stare in guardia, e a non permettere che i cannoni sieno trasportati altrove. Guardati, vi si dice, è un trabocchetto!» — (Dispaccio telegrafico da Livorno, 12 dicembre 1848.)

Fogli avversi si rinnuovano a Livorno, e la mattina del 23 si stracciano. — (Dispaccio telegrafico del 23 dicembre 1848.)

Torres, e le persone che si rammentano nei varii Dispacci da Livorno dal 6 al 24 dicembre 1848, si riaffacciano a Livorno per concitarmi contro lo sdegno del Popolo.

Di lettere anonime, minatorie la mia prossima strage durante il Ministero, ne avrei potuta comporre una collezione; me apertamente traditore chiamavano.

Insomma a tanto giunsero le inique arti, che, dopo avere incontrato nelle tardissime ore della notte appostato un uomo con la carabina sotto il pastrano, i miei amici mi persuasero a non avventurarmi più oltre, e S. A. ebbe la bontà di farmi apparecchiare alcune stanze in Palazzo Vecchio.

Queste erano le arti e le insidie durante il Ministero; più tardi quelle durante il Governo Provvisorio.

170. Di questo fatto basti per tutte la prova delle 12 Circolari mandate ai sigg. Capponi, Serristori, Capoquadri, Lenzoni, Ricasoli, Zannetti ec., con le quali s'invitavano a conferire meco a questo scopo. Ma di ciò altrove.

171. La popularitè veut esclaves ceux qu'elle semble choisir pour idoles, scrive Luigi Blanc parlando del Necker; — (T. 2, pag. 467; Parigi, 1847); e Luigi Blanc in fatto di moti rivoluzionarii è giudice competente.

172. Tolga Dio che io per difendermi accusi quei dessi che mi macchinavano contra; ma non posso astenermi da osservare con amarezza, che di questo fatto dovevano essere rimaste traccie abbastanza palesi per chiarirlo a mio vantaggio.... Ohimè! Tale non era lo scopo dell'Accusa.

173. Orlando Furioso, IV:

Sotto vasi vi son, che chiamano olle,

Che fuman sempre, e dentro han foco occulto.

174. Vedi Ragguaglio delle Sedute del 30 marzo e 2 aprile, nel Monitore, e nell' Alba. Quello che asseriva rimane confermato dal sig. Casamorata nelle Dichiarazioni riportate a pag. 341 e 179 del Volume dei Documenti. «Le guardie, che la milizia fornisce ai Poteri sovrani dal momento che comincia il loro servizio, si hanno come intieramente passate sotto l'autorità diretta dei Poteri stessi presso cui servono, nè da altri dipendono nè possono ricevere ordini fino a che non è finito il loro speciale servizio. Conseguentemente il Comando generale, cui venne ordinato genericamente, fino dall'apertura delle Assemblee, di fornire coteste guardie, altro non potè nè dovè fare, che porle intieramente agli ordini dei respettivi Presidenti..... — Il rispettivo Presidente o di per sè o per mezzo di un suo sottoposto scriveva al Generale Comandante la G. Civica, chiedendo quel numero di uomini, che secondo le sue idee giorno per giorno credeva necessario...... La Guardia si adunava, e si recava alla Residenza dell'Assemblea sotto il comando del proprio Ufficiale: questo, giunto sul luogo, si portava a rassegnarsi al Presidente, da cui direttamente o per mezzo dei Provveditori riceveva gli ordini relativi al servizio della Guardia. — Del resto, per detta mattina (8 feb. 1849) il Seggio dell'Assemblea aveva chiesto una guardia di 75 uomini, che però infatti riuscì di una sessantina.... la quale differenza si spiega considerando il repentino comando, e l'ora sollecita più dell'ordinario. — L'Archivista del Senato, chiedendo la Guardia, indicò esplicitamente il solito distaccamento.» — Questi Documenti ha pure stampato nel suo Volume l'Accusa, e non gli ha saputi leggere; il pievano Mainardi almeno nel suo libro leggeva! — Ma non è questo, che io voleva avvertire; egli è questo altro: — dunque si chiarisce vero: 1º Che la G. Civica del Parlamento non dipendeva da me. 2º Che da me non poteva nè doveva ricevere ordini. 3º Che se la mattina per tempo giunse a una sessantina, prima delle 11 ore, in cui l'Assemblea fu aperta, poteva completarsi. 4º Che dalla sessantina alle 75 richieste la differenza non corre tale da fare supporre che col rinforzo di 12 o 13 guardie avessero potuto fare maggiore resistenza. 5º Che è quasi certo, che non l'avrebbero fatto, se è vero, come racconta l'Accusa, che le Guardie riposero le loro baionette nel fodero.

175. «Le truppe stanziali e le milizie cittadine della Capitale saranno sotto il comando del Comandante di Piazza e del Prefetto, i quali dovranno firmare ambedue qualunque ordine sieno per emettere.» (Ordine del Giorno del Ministro D'Ayala, 8 febbraio 1849.) — Don Mariano, interrogato, avrà già addotto le sue ragioni: io penso che fosse mosso appunto dal pensiero, che ognuno dei due ufficiali contemplati, dovendo assumere solo misura di tanto momento, non esitasse, e così le provvidenze riuscissero invano: comunque sia (e questo è nuovo segno dell'intemperanza dell'Accusa), chieste le ragioni del fatto dal Ministro della Guerra autore dell' Ordine del Giorno, e ritenutele soddisfacenti, però che a lui non ne abbia mosso rimprovero, essa continua ad obiettarlo a me, che non ci presi parte.

176. «Quando avvenga, che la quiete pubblica della città sia turbata da sommossa popolare.»-(Ordine del Giorno, 8 feb. 1849. M. d'Ayala) — Il Comandante Colonnello Pazzi referendo di cotesto ordine, spiega che le Milizie stavano pronte a uscire dove il bisogno lo esigesse. — (Offic. del 21 maggio 1849.)

177. Monitore, Sedata dell'8 febbraio 1849.

178. Monitore, detta Seduta.

179. Monitore, detta Seduta.

180. Monitore, detta Seduta.

181. Monitore, detta Seduta.

182. Monitore, detta Seduta.

183. Monitore, detta Seduta.

184. Monitore, detta Seduta.

185. Conciliatore del 9 febbraio 1849.

186. Job, c. 6, V. 12.

187. «L'Assemblea Costituente toscana nella notte del 27 al 28 marzo, mi volle onorato dello arduo incarico di governare esecutivamente lo Stato.

« Quello che da uomo può farsi onestamente, per essere liberato da tanto peso, io feci: non essendomi riuscito affrancarmene, opererò quanto devo.

«In ogni prova alla quale piace alla Provvidenza chiamare talora i Popoli due cose possono salvarsi sempre: la sicurezza e l'onore.

«I pieni poteri, dei quali io sono rivestito, saranno da me adoperati non per offesa della Libertà ma per tutela del Paese. Di questo vadano persuasi i miei concittadini.

«Firenze, 28 marzo 1849.

« Guerrazzi.»

188. La lettera anonima diceva:

«Ill. Sig.

«Scrivo in questo carattere perchè alla Posta non si faccia secondo il solito ec. ec. ec. — Io frequento molte, ma molte Società.... e qui la croce addosso a Guerrazzi..... guerra a morte..... Ecco i nomi di questi assassini aristocratici. Tutti i Fortini; il Capitano poi della Guardia Civica il più accanito. I suoi cognati, Senno Capitano dei Carabinieri, l'altro Segretario del Ministero di Grazia e Giustizia signor Duchoqué, M***.

«Terribile al colmo il Direttore degli Alti Puccini, e il suo amicone avv. B*** e L***.

«Quelli di secondo ordine a suo tempo ec. ec.

«Vanno finiti, — ridotti impotenti, — esiliati.»

Non importa dire, che a nessuno dei rammentati fu non solo non recata molestia, ma neppure diminuito riguardo.

Il Puccini tanto rimase in ufficio, che potè iniziarmi contro questa brutta procedura, e in modo così parziale, che rispetto a lui l'accusa di poca benevolenza verso me pare fosse vera; ma egli periva di misera morte, e così Dio gli perdoni come io l'ho perdonato.

189. «Avuto riguardo alle molte famiglie povere le quali ritraevano dalla cessata Corte dei periodici sussidii in denaro o in pane, mancati i quali, queste famiglie vengono veramente a risentirne danno gravissimo, per cui sono costrette a languire nella miseria, il Governo, il quale sente e vuole avere viscere di padre per i Popoli alla sua tutela commessi, non può permettere che la parte che più esige il di lui soccorso venga a mancare per l'abbandono di chi era in dovere di assisterla. All'adempimento del qual dovere, che è per lui religione, il Ministro dello Interno aprirà una nota ove verranno ad iscriversi tutti coloro che ricevevano dalla prefata Corte i citati sussidj onde questi possano venire seguitati ai medesimi provvisoriamente, e finchè la suprema Legislatrice del Paese, l'Assemblea, non abbia preso anche in proposito gli opportuni provvedimenti.» — ( Mon. del 3 marzo 1849.)

190. «Il Potere Esecutivo provvisorio della Toscana,

«Considerando esser cosa del più grave interesse la sistemazione da darsi al già Dipartimento della Corte Toscana, sia avuto riguardo agli stabilimenti ed uffizj che ne dipendono, sia avuto riflesso alle determinazioni da prendersi relativamente agli stipendiati della Corte stessa, la sorte di molti dei quali è strettamente connessa alla sussistenza di altrettante non agiate o povere famiglie;

«Considerando che, se un decreto del Governo Provvisorio emanato nel decorso febbraio provvide ai più bisognosi fra quelli stipendiati, resta ancora a fissare la sorte di quelli che non possono dirsi compresi nella categoria presa di mira dal decreto suddetto;

«Considerando che l'onore nazionale, come un interesse sommamente morale e politico, vogliono che le definitive determinazioni da prendersi su questo proposito siano il frutto di maturo e coscienzioso consiglio;

«Sulle proposizioni del Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento delle Finanze, del Commercio e dei Lavori Pubblici;

«Decreta:

«Art. 1º È istituita una Commissione composta dei Cittadini

«Prefetto di Firenze,

«Gonfaloniere di Firenze,

«Generale della Guardia Nazionale Fiorentina,

«Avvocato Giuseppe Panattoni Consiglier di Stato,

«Cristoforo Cecchetti Soprintendente alle Possessioni dello Stato.

«Art. 2º La detta Commissione resta incaricata:

«1. Di discutere sulla sorte degli impiegati addetti al già Dipartimento della Corte Toscana, per quindi proporre al Governo il modo della definitiva loro sistemazione, avuti i debiti riguardi alla natura e durata del servizio, non meno che allo stato economico delle respettive loro famiglie;

«2. D'esaminare e proporre, se, come, e fino a qual punto debba mantenersi ai già stipendiati di Corte il godimento dei diversi emolumenti, somministrazioni e franchigie di cui essi profittavano, oltre il proprio onorario;

«3. Di esaminare e proporre, se, come, e fino a qual punto debba lo Stato continuare la prestazione di quelle sovvenzioni, che in modo permanente o a ripetuti intervalli solevano elargirsi dalla Corte, e nel caso affermativo compilare la nota delle persone e famiglie da sussidiarsi;

«4. Di liquidare ed appurare i conti dei sovventori, manifattori, e altri creditori della Corte stessa e suggerire i modi di pagamento;

«5. E finalmente di prendere in maturo ed esteso esame i provvedimenti da suggerirsi per la definitiva sistemazione ed organizzazione delle varie branche e ramificazioni nelle quali il vasto Dipartimento della Corte si divide, esponendo, in questo importante proposito, quali di esse debbano o possano rimanere soppresse, quali debbano o possano conservarsi; ed in quest'ultimo caso indicarne, e proporne il passaggio, sotto la direzione e tutela di quel Ministero o Dipartimento da cui per natura loro potessero con maggiore opportunità rilevare organicamente.

«Art. 3. All'oggetto di facilitare alla Commissione l'adempimento di così importante e delicato incarico, resta dichiarato che essa potrà mettersi in spedita e diretta comunicazione con qualsiasi pubblico dicastero dal quale gli occorresse attingere schiarimenti e notizie in proposito.

«Art. 4. Il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento delle Finanze, del Commercio e dei Lavori Pubblici, è incaricato dell'esecuzione del presente Decreto.

«Dato in Firenze, dalla Residenza del Potere Esecutivo provvisorio di Toscana, li trentuno Marzo milleottocentoquarantanove.

F. D. Guerrazzi.

Il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento delle Finanze, del Commercio e dei Lavori Pubblici. P. A. Adami.

191. La stampa scapigliata mordeva sovente questo mantenere che io faceva degli officiali al proprio impiego: «Invano si dice da tutti e ad ogni istante al Governo Provvisorio, Gonfalonieri, Prefetti, Sottoprefetti, Delegati, Pretori e soprattutto Preti, essere quasi da per tutto pietra di scandalo e fautori di disordini. Gonfalonieri, Prefetti, Delegati e Preti rimangono ai loro posti, e proseguono impuniti e baldanzosi a recare il loro sassolino per la distruzione del Governo, e il Governo prosegue a voler ignorare come anche il sassolino atterra il gigante.» — ( Popolano del 15 febbraio 1849.)

192.

Il Governo Provvisorio Toscano

ha decretato e decreta:

1. È istituita una Commissione, la quale dovrà immediatamente occuparsi di ricevere la consegna dei Palazzi Regj, e di tutti gli oggetti di qualunque natura nei medesimi esistenti, dei quali farà esatto inventario.

2. Questa Commissione è composta del

Gonfaloniere della città di Firenze Ubaldino Peruzzi;

General-Comandante la Guardia Civica della stessa città Carlo Corradino Chigi;

Deputato al Consiglio Generale Avv. Luigi Fabbri;

Professore Emilio Cipriani.

Dato in Firenze li otto febbraio milleottocentoquarantanove.

I Membri del Governo Provvisorio toscano F. D. Guerrazzi — G. Montanelli — G. Mazzoni.

193. Documenti, a pag. 281.

194. Vedi Popolano del 13 febbraio 1849.

195. In diverso stato da quello in cui io mi trovo non sarebbe degno di notare come o la Vespa, o lo Stenterello, io non so bene quale di questi due salutati dall'Accusa generosi propugnatori dell'Ordine, giungesse perfino dileggiando a chiamare impostura l'offerta, che io feci di mezza la mia indennità in sussidio di Venezia, avendo assegnata l'altra al compimento della Chiesa di Rosignano. — E' fu mestieri di pubblicare la lettera diretta da me al signor cavaliere Salvetti Gonfaloniere di Rosignano.

«Ill. Sig. Il tempo non concede lunghe parole, e meglio così. Dite ai Rosignanesi, che sono nobili cuori, e degni in tutto della libertà, fonte di vita. Per dimostrare in qualche modo la mia gratitudine, desidero che la indennità stanziatami dalle otto Comunità di cotesto Distretto sia divisa in due parti uguali, ed una applicata al compimento della Chiesa di Rosignano, e l'altra alla sottoscrizione aperta nel vostro paese in benefizio di Venezia. Questo è poco, anzi nulla, e per conseguenza non diminuisce di un atomo lo immenso obbligo, che sento, e che mi sarà sempre grato professare per cotesto nobile e generoso popolo. Salute. Firenze ec.» — ( Corriere Livornese del 25 novembre 1848.)

196. Monitore Romano.

197. La Repubblica Romana del 1849, di Carlo Rusconi, Ministro degli Esteri della Repubblica Romana, pag. 166.

198. Monitore Toscano del 9 febbraio 1849.

199. Corriere Livornese del 9 febbraio 1849. — Merita grandissima considerazione che nei tempi antecedenti il Partito repubblicano in Firenze instasse con tutti i nervi pel suffragio universale.

«Il Circolo del Popolo di Firenze nella sua adunanza del dì 4 corrente ha deliberato di fare un indirizzo al Ministero perchè presenti, fino dal principio della sessione, una Legge elettorale col voto universale diretto; una domanda alle Camere perchè la votino; una lettera a tutti i Circoli e Municipii dello Stato perchè domandino lo stesso; ed un invito al Popolo perchè, alla convocazione della Camera il dì 10 corrente, acclami con solenne e tranquilla dimostrazione il voto universale.» — (Popolano, Nº 203, 8 gennaio 1849.)

Quando poi la parte repubblicana, meglio avvisata, comprende che il voto universale non le tornerà favorevole, allora la sua dottrina imperturbata smentisce, disvuole ciò che volle. Mazzini non istà più a' patti, e muta parola; che cosa importa il consenso dei non Repubblicani, e perchè si aspetta? Basta quello dei Democratici puri. La penna stessa, che tracciava le linee citate, senza scomporsi registrerà queste altre:

« Quella adesione, la cui mancanza ogni dì serve di pretesto al Governo Provvisorio toscano per indugiare la promulgazione della Unione nostra con Roma e quella del regime repubblicano, ogni giorno al Governo Provvisorio si fa maggiormente manifesta per l'organo della pubblica opinione, per le proteste dei Circoli, per la impazienza del Popolo. Tutta Toscana Democratica non ha che un voto, che un desiderio, — Unione con Roma, — Repubblica, — e se tutta Toscana Democratica esprime cotesto voto, non sappiamo vedere il bisogno, vedere la prudenza di avere anco l'adesione della parte di Toscana che non è democratica. Oggi è il Circolo democratico di Montalcino..... il quale alla sua volta viene a fare la sua propria professione di fede al Governo Provvisorio toscano. E il Governo Provvisorio toscano che cosa fa? Il Governo Provvisorio sul suo organo officiale, il Monitore, riporta delle parole che ei pretende uscite dalla bocca di Mazzini: parole che consigliano i Livornesi ad aspettare, per dichiarare Repubblica, la decisione della Costituente Italiana in Roma. Tali parole noi le ignoriamo ecc..... Certo sappiamo che nel suo discorso ai Fiorentini..... ei disse doversi pronunziare immediatamente la Toscana, non già per mezzo di una Assemblea, ma de' suoi Circoli, de' suoi Municipii, delle sue rappresentanze già costituite. E quand'anco Mazzini avesse detto quelle parole, noi domandiamo al Governo Provvisorio toscano come mai egli invoca la autorità di un nome, la sentenza di un uomo, quando non riconosce l'autorità di una popolazione, quando chiama non legale, non sufficiente il desiderio espresso e palese di migliaia d'individui?» — ( Frusta Repubblicana del 18 febbraio 1849.)

Il Popolano riportava con le medesime parole il principio di questo scritto. — Vedi il Nº del 18 febbraio 1849.

200. Monitore Romano, marzo 1849.

201. Monitore Romano, medesima Seduta.

202. Corriere Livornese, Art. Gioberti e Mazzini, 10 maggio 1848.

203. Monitore del 16 febbraio 1849.

204. Lamartine, Révolution de 1848, Bruxelles, 1849, Tomo I, pag. 202.

205. De Barante, Histoire de la Convention. Estratti comparsi sul Débats. — Thiers, Histoire de la Révolution. Brux., 1838, T. I, pag. 255.

206. Thiers, Idem. T. II, pag. 87.

207. Rusconi, Opera citata, pag. 167.

208. Io non compongo un libro di arte, ma una difesa; così i miei lettori non mi sapranno mal grado se dei casi esposti in una parte di questo libro mi verrà fatto tenerne discorso altrove. Più tardi ritornerò su la giornata del 18 febbraio. Per ora valga riferire la testimonianza del professore Zannetti sul mio operato in cotesta congiuntura: «fu in questa circostanza (quando EGLI SOLO si opponeva a tutti coloro che volevano la promulgazione del Governo Repubblicano e della Unione con Roma) nella quale mi accòrsi della prontezza del suo spirito, quando non potendo resistere alle esigenze delle Deputazioni riunite in Palazzo Vecchio..... consentì a dichiarare nel giorno appresso la Repubblica, anche senza il consentimento della Camera, che voleva convocata, purchè alle 9 della mattina fossero in Piazza 2000 uomini armati e pronti a sostenere la nuova forma di Governo.» (Proc. 2241, f. 111.)

209. Il signor Montanelli, non io, come afferma la requisitoria del Regio Procuratore Repubblicano Rusconi (Op. cit., pag. 167), fece inserire nel Monitore del 28 febbraio 1849, che stando a cuore del Governo la unificazione della Toscana con la Repubblica Romana, aveva intavolato trattative sopra i seguenti articoli:

1. Unificazione dei due territorii togliendo la linea doganale.

2. Parificazione di tariffe per importazione, estrazione e transito.

3. Unificazione del sistema postale.

4. Reciprocità pel corso della moneta, e moneta uniforme.

5. Reciprocità di corso pei Buoni del Tesoro, e carta monetata.

6. Unità di rappresentanza all'Estero.

7. Istituzione di comune difesa.

8. Sussidio a Venezia da dividersi dai Governi.

Queste cose concesse, rimaneva inutile deliberare: poichè non erano riusciti a entrare per la via maestra, tentavano i tragetti. Insorse grave discussione fra me e il signor Montanelli principalmente intorno agli Articoli 1. 2. 5. Dice il signor Rusconi, che Roma agevolava un passo alla Toscana; mi pare anzi che gliene agevolasse più di uno..... ma per dove? Il signor Montanelli, giustamente commosso dalle mie considerazioni, chiese allontanarsi, come invero si assentò col pretesto di visitare le frontiere. Io rimasi a strigarmela co' Ministri romani. L'Articolo 7 concessi senza esitare, e stesi gli appunti per adempirlo, non che le istruzioni pei Commissarii, le quali poi vennero ridotte in bella scrittura dal signor Achille Niccolini: spedii eziandio i signori colonnello Manganaro e capitano Araldi a Bologna per sollecitare un tanto scopo. Il Governo romano non aveva mandato nessuno; aspettarono parecchi giorni invano, e se ne tornarono sconclusionati! Accolsi anche l'8º. Gli altri furono rimessi al Consiglio di Stato. Il R. Procuratore Generale pensa che questa operazione fosse un nonnulla: il signor Rusconi Procuratore Regio della Repubblica all'opposto acerbamente l'accusa.

Fra questi due Procuratori fortunatamente occorre il Consiglio di Stato composto di uomini valorosi, e che temono Dio, i quali dietro le traccie del mio Dispaccio del 4 marzo 1849 (Qui in parentesi mi permetto due domande. 1º In questo giorno era accaduta la infausta battaglia di Novara? 2º Perchè fra le centinaia di carte inutili, per cui il Volume dell'Accusa si assomiglia più che ad altro alla bottega di un Cenciaiolo, non fu stampato questo mio Dispaccio del 4 marzo?) mi risposero in questa sentenza: «E ravvisando come pienamente civile e giusta la idea, che nel suo dispaccio de' 4 corrente marzo viene dal Governo significata, di volere serbare il suo carattere di Provvisorio e deferire all'Assemblea Nazionale ogni decisione intorno alle future sorti della Toscana, ha creduto — che al Governo stesso converrebbe astenersi dal pregiudicare in verun modo, e sia pur anche per Trattati, meramente preparatorii a quella unificazione o veramente assoluta e piena di un solo Stato con la Repubblica Romana, e della Toscana, od anche semplicemente federativa dei due Stati, la quale per essere coerente alla sua natura di Provvisorio non può l'attuale Governo non lasciare intatta e libera alle Deliberazioni dell'Assemblea Nazionale, che tra pochi giorni sarà convocata. — E ciò perchè nel primo caso di completa unificazione, Toscana spegnerebbe in tutto la sua propria individuale esistenza, e vita; e nel secondo, di unione federativa, la diminuirebbe, e molto considerevolmente. — Ora ciascuno intende, che la Nazione soltanto può avere balía di sè stessa, e che di ciò vorrà deliberare con gravissima maturità di consiglio, e senza veruno impaccio di precedenti trattati i quali menomamente scemino quella libertà, ch'è tanto necessaria.»

Dunque se io facevo qualche cosa di civile e di giusto, come può sostenere l'Accusa che facevo nulla? Da quando in qua, a mente dell'Accusa, le cose giuste e civili sono diventate cose da nulla in Toscana?

210. L'Accusa, che tra le altre cose sostiene come mio proponimento fosse far bandire la Repubblica dall'Assemblea Costituente, con solerte studio va raggranellando qua e là alcune espressioni dagli Atti pubblici, capaci a suo credere per dimostrarlo. Siffatte espressioni si rassomigliano alla cautela di chi con mano fa riparo alla candela, che intende mantenere accesa, quando il vento tira. Lo importante consisteva in questo, che al Popolo Toscano si rendesse abilità per disporre con libero ed avvisato voto di sè: ora, adoperare alcuna blandizie di parole, che al tutto non disperasse i più accesi fra gli Arrabbiati, e li trattenesse dal gittarsi a partiti estremi, egli è tal consiglio, che la prudenza più che mezzana suggerisce. — All'opposto, quando si tratta di scuoprire la verità, l'Accusa non sa leggere neppure nel suo Volume. — Invero nell'Originale del Parere del Consiglio di Stato riposto negli Archivii, ed estratto dall'Accusa, si legge una nota marginale, che si dice scritta di mio carattere, e sarà. Cotesta nota, dichiara: «Commissione di studii preparatorii. Se definitiva la Unione, si trova lavoro fatto. — Se federativa, simile concetto non cimenta principii. In Germania si è operato in questa maniera senza pregiudizio di quistione politica.» — (Doc. dell'Accusa, p. 319). — Per quanto mi viene fatto ricordare, gli studii preparatorii concernevano le ragioni finanziarie del maggiore o minore profitto che sarebbe toccato in sorte al nostro Stato nella ipotesi della Unione con lo Stato Romano. — Notavo, che avrei potuto (previo sempre il parere del Consiglio) creare una Commissione, che studiasse la materia, imperciocchè da questo fatto non resultava danno alla Unione federativa. Egli è evidente, che questa nota per me non avrei fatta, se in me fosse stato deliberato proponimento di provocare la Unione definitiva.

211. Edizione Le Monnier, 1851, pag. 402.

212. Vedi Doc. dell'Accusa, pag. 900.

213. Vedi Doc. dell'Accusa, pag. 707.

214. Tom. I, Paris, pag. 152.

215. Popolano del 9 novembre 1848.

216. Storia Costituzionale d'Inghilterra, cap. 14.

217. Hume, Storia d'Inghilterra, cap. ultimo.

218. Poichè qui cade in acconcio, rammenterò chi promuovessi ed intendessi promuovere allo ufficio di Prefetto e di Delegato Regio nelle Provincie, onde si conosca se fossero gente di Partito, e cospiranti ai danni della Monarchia Costituzionale. A Firenze il Deputato Guidi Rontani; in Arezzo lascio il Cav. G. B. Alberti, in Lunigiana il Cav. E. Sabatini, a Massa il Cav. R. Cocchi; poi a questo surrogo il Conte Andrea Del Medico, a quello il Consigliere P. Beverinotti; ma prima a Pontremoli m'ingegno inviare il Cav. F. Ruschi, a Lucca il Cav. L. Fabbri; recusarono entrambi per ragioni di famiglia; però a Lucca mandai l'Aud. Buoninsegni, poi interino Landi antico impiegato, e, pei conforti del Segretario Allegretti, a Pisa il Consig. Martini, a Grosseto Massei già Presidente del Trib. di Commercio di Lucca. Egregi tutti, ma degno di speciale menzione Raffaello Cocchi, il quale, rimasto in credito di spese per lo ufficio liberalissimamente esercitato da lui, volle con nobile esempio, che della somma dovutagli parte s'impiegasse a sollievo dei poveri, e parte in benefizio di Venezia.

«Non possiamo tacere un esempio generoso di patria carità. — Il Consigliere della Corte R. di Firenze Raffaello Cocchi veniva dal Governo destinato a Delegato R. a Massa e Carrara, e rimaneva in questo straordinario ufficio per il periodo di sei mesi. — Egli medesimo limitava la ricompensa al mero rimborso delle spese incontrate per questa missione: ma non basta; chè spontaneo ne donava poi un sesto alla eroica Venezia, e due sesti a sollievo della onesta e secreta indigenza nella Provincia da lui amministrata. — Onore all'illustre Magistrato! Questi fatti abbisognano più presto di trovare imitatori, che chi voglia di alcuna lode accompagnarli.» — ( Monitore del 10 dicembre 1848.)

219. «Noi avevamo pure avvertito come gli insulti, le calunnie e le beffe fossero lo addio del ritorno, che i poveri superstiti estenuati di Montanara e Curtatone raccoglievano a quei giorni fra le mura di Siena.» Vedi Docum., pag. 791. — Così fu desiderata da taluno la prigionia nel campo nemico dove almeno avrebbe trovato la pietà, che tutti quelli i quali hanno avuto il battesimo del fuoco, cessata la battaglia, sentono per le scambievoli sventure!

220.

Siena, 24 ottobre.

«Già saprai che tutta la famiglia granducale, eccetto il Granduca, è qui ritirata, e saprai come da questo abbiano i nemici d'ogni libertà preso ardire per formare di questa un tempo italianissima città un centro di reazione. All'opera costoro hanno dato principio eccitando con arti infernali un trambusto gravissimo.

«Jeri il partito retrogrado imbaldanzito dalla presenza della corte, dietro un piano già stabilito, cui non erano estranee alcune autorità, proruppe arditamente in ostilità facendo insultare dai suoi cagnotti del basso popolaccio tutti i liberali che incontrava per via, o nei Caffè, dando loro l'accusa di Repubblicani. Dagli insulti orali si passò ai fatti, e quindi agli arresti e alle carcerazioni arbitrarie eseguite dallo stesso popolaccio sfrenato: io non starò a descriverti minutamente tutti gli eccessi commessi a sfogo ancora di private vendette; ti dirò solo che le persone le più specchiate erano fatte segno alla insolenza di questa canaglia. Fra gli altri un giovane Vignoli e Raffaello Crocchi (ambo onestissimi) furono trascinati in prigione a guisa di assassini, battuti e calpestati in mezzo agli urli e a fischi che assordavano il cielo. Ti dirò di più che quest'ultimo è alquanto difettoso nella persona, gracilissimo e di mal ferma salute. — Ad un giovane israelita di cotesta città fu sputato in faccia ricoprendolo di contumelie. Furono cercati due altri Livornesi conoscenti del Vignoli, giunti qui da pochi giorni, con animo forse di ucciderli, imperocchè grandissimo è l'odio dei nostri retrogradi contro tutti voi altri Livornesi; nè mai desistono da calunniarvi, da vomitar contro di voi le più schifose invettive. Per colmo poi di scelleraggine si tentò d'inveire contro i reduci prigionieri che esposero la loro vita su i campi di Lombardia, e che soffersero la dura cattività di Boemia: opportunamente avvertiti si erano già posti in salvo dileguandosi per le campagne circostanti. Ne vuoi di più? questo Governo locale anzi che attutare la effervescenza popolare, la blandì, e la rese più forte col non prendere nessun provvedimento: solo in ultimo fece affiggere una fiacchissima notificazione, nella quale, anzichè disapprovare sì rea condotta, si lodava come dimostrazione di affetto al Principe.

«I protagonisti di questo vergognoso dramma (e li nomino, chè frutti loro eterna infamia), furono Giovanni Bordoni tenente della Civica, Giuseppe Fantacci, e un tal Didaco Becattini, tutti impiegati nella bottega Raveggi, tutta gente vile ed abbietta. Fra i nobili, Giovanni Placidi, Bernardino Palmieri e Ottavio Spennazzi figuravano come istigatori andando di bottega in bottega a suscitare l'incendio. L'ultimo poi era dei più accaniti, e si valeva dell'opera di un popolano a cui contamina la figlia consenziente il padre. — Oggi questi ribaldi hanno presentato una nota delle persone che vogliono espulse, e che ascende al Nº di 150.»

Altra Lettera.

«Domenica passata doveva aver luogo una merenda dei volontarii e prigionieri senesi, e nello stesso tempo fare fra loro un giuramento di ritornare tutti al Campo quando il bisogno o la guerra riprincipiasse. Il tempo sinistro impedì che fosse effettuata detta merenda.

«Pur non ostante, questo accordo suscitò sinistre interpretazioni nel popolo senese, per cui furono chiamati per parte del Governo due individui, i quali assister dovevano alla merenda, e furono fatte loro delle domande per sapere il vero scopo di una tale riunione. — Inoltre fu fatto credere che l'oggetto di detta riunione non era già quello di fare una merenda, ma bensì di concertarsi onde far nascere un tumulto nella città avente uno scopo repubblicano. — Avvertì che tale congettura era avvalorata dall'idea che vi fossero nella succitata riunione implicati varii Livornesi. — Dietro di ciò, dopo fatta una giojosa manifestazione alla famiglia reale che a Siena tuttora dimora, — fu insultato da quattro del popolo cioè — Didaco Becattini, Beppe-Bello, Passa-Bello, ed altro, — un certo Cammillo Castelli israelita di Livorno, accusandolo di essere Repubblicano; gli fu sputato in viso da uno di loro, ed esso Castelli entrò nel Caffè del Greco, e chiese soddisfazione dell'insulto a quel Becattini, che vilmente non accettò la sfida. Nel successivo lunedì furono arrestati e maltrattati dal popolo varii onesti individui, i quali come il Castelli suddetto venivano segnalati per Repubblicani. La Guardia Civica coadiuvava con la sua forza il popolaccio negli arresti, ed era sempre in movimento, ora per arrestare, ora per maltrattare, ora per circondare le abitazioni di quelle persone che credeva repubblicane: fra queste si segnalavano i due Livornesi Gio. Patron e Paolo Pieruccetti; per quello si circondò la casa ove abita, e per questo lo spedale ove fa le pratiche, — per cui ad ambedue i succitati Patron e Pieruccetti è convenuto fuggirsene da Siena come meglio poterono. Altri fatti potrebbersi notare, ma servirà a conchiudere il tristo avvenimento del giovine calzolajo Vignoli e d'un certo Crocchi che sono stati mal conci dai colpi e dalle sassate nell'atto che erano condotti in arresto; e del dentista Venturini che dovè fuggirsene a gambe dalla città perchè era indicato come Livornese. — In brevi termini, questi fatti non sono di assoluta volontà del Popolo, ma bensì suscitati dalle molte Camarille Aristocratiche ed Austro-Gesuite, e dall'appoggio a queste della non del tutto defonta Polizia. Quando però esse non desistano dalle loro mene infernali, siamo pronti a dare i nomi di coloro che le compongono, perchè la pubblica opinione ne faccia giustizia, e per infamia di pochi non condanni una generosa città.» — ( Corriere Livornese del 26 ottobre 1848.)

221. Vedi Doc., a pag. 791.

222. Vedi Doc., dell'Accusa, pag. 726. — Fra i nomi dei pacieri e dei promotori agli atti di devozione pel Principe e sua R. Famiglia, trovo registrati quelli di Ciofi e Niccolini; ora, finchè così operavano, non li poteva avere in odio nè perseguitare io; forse fingevano, ma rimane vero pur sempre, che per venirmi in grazia era mestieri si dimostrassero devoti al Principe Costituzionale.

223. È notabile come in questo Avviso, dettato da persona nemica alla Costituente, non si dica nulla del timore che potesse riuscire dannosa alla sovranità di S. A.

224. «I liberali erano soliti riunirsi la sera, ed erano sempre o più o meno insultati da gente pagata e poca.» — Vedi Doc., pag. 802.

225. F. Guerri scriveva a Marmocchi il 2 febbraio alle 7 di sera: «I popolani non ci hanno dato ascolto, — il sangue è incominciato a versarsi, — Iddio ci salvi! La dimostrazione liberale fatta un'ora fa al Granduca mi si dice imponente pel numero. — Le grida erano: Viva Leopoldo e la Costituente italiana. — Ma il primo a gridar la Costituente, che per ora non so chi sia, fu côlto di una coltellata nel viso. I reazionarii, che si dicono circa una ventina, ivi presenti, incominciando a fare rumore sono stati colpiti da pugni, uno ferito di coltello, e sono stati portati allo spedale. — Ancorchè la cosa non sia trascorsa più oltre, per Dio, non doveva succedere. — Temo triste conseguenze, e consiglio mandarvi una compagnia di linea.» — Vedi Doc. dell'Accusa, a pag. 206.

226. Vedi Doc., pag. 802.

227. «Ha già fatto un indirizzo al Ministero per rimproverarlo di non avere seguíto il Granduca, e domandare il suo ritorno a Firenze.» (Circolo del Popolo di Firenze. Doc. dell'Accusa, a pag. 193.)

228. Ved. Doc. dell'Accusa, a pag. 791, 792, 799, 800, 801 802.

229. Parte IV, pag. 117.

230. «Si è udito parlare in bocca di questi sciagurati: — Morti tutti i Repubblicani, daremo addosso ai Signori. — Scala naturale delle passioni cattive di plebe corrotta suscitata, e fermentante da insinuazioni immorali.» — (Doc. dell'Accusa, pag. 101.)

231.

Cittadino Presidente

Questa sera 6 febbrajo vi era Circolo al Pubblico Teatro. Mi vi sono recato, e siccome il presidente mi ha chiamato al seggio annunziandomi come vice-presidente del Circolo popolare di Firenze, così ho detto a questi nostri fratelli quanto noi c'interessavamo ai loro destini, ho raccontato quanto avevamo fatto per loro, ed ho offerto in nome del Circolo tutti quegli aiuti tanto morali che materiali di cui potrebbero abbisognare. Molti evviva e ringraziamenti al Circolo popolare. Spero il Circolo approverà quanto ho fatto. Voleasi fare una dimostrazione questa sera; e siccome vi era pericolo si cambiasse in tumulto, così ho pregato il Popolo la differisse a domani. Domani a mezzodì avrà luogo. Domani stesso vi scriverò più a lungo e vi dirò qualche cosa degli affari in generale: non lo posso questa sera perchè non ho visto nessuno.

Vostro Socio e F. G. B. Niccolini.

P. S. Vi raccomando calorosamente le decurie e centurie.

(Documenti dell'Accusa, pag. 103.)

232. Storia della Rivoluzione, Ed. cit., cap. 28, pag. 86.

233. A pagina 348 dei Documenti dell'Accusa trovo il biglietto al signor Lanari, e dice così: «Signor Lanari. In Livorno i proprietarii dei Teatri si fanno un pregio imprestarli una sera o due al Popolo per le sue solennità. Vi reputava un po' più patriotta, meno impresario. Mi figuro che tutto dipenderà da moneta; ditemi quanto volete, e vi pagherò, perchè voglio sottrarvi al caso, che il Popolo entri di santa ragione, e per pagamento possa spezzarvi le panche.» Intanto ecco che l'Accusa cita inesattamente; poichè per avere scritto, che gl'Impresarii livornesi imprestavano al Popolo i Teatri per le loro solennità, ciò non importi che per solennità ritenessi l'adunanza del Circolo a Firenze; le solennità a cui accennavo erano passate, e per necessità diverse dalle presenti: insomma frase usata per impegnare lo Impresario e niente più: inoltre, in anticipazione io non sapeva quello che il Circolo potesse commettere, e mi si diceva volervi celebrare festa di allegrezza, di pace e di riconciliazione fra i Partiti; ma ciò non monta, anche avessi presagito il suo contegno, a me non era dato operare diversamente da quello che feci.

234. «Opponendo ad ogni contrarietà il diritto del Popolo nei palazzi eretti dai nostri padri per lui.» Vedi Documenti dell'Accusa, pag. 196.

235. A pag. 171-172 dei Documenti dell'Accusa occorrono due scritti del signor Nerli Direttore delle Regie Fabbriche, dai quali si ricava, che esitando egli a ordinare certi acconcimi, che si trovarono sommare a Lire 1000, nella Chiesa di San Pancrazio richiesta dal Circolo, mentre il Governo aveva indicato, che fossero piccoli e necessarii, i Rappresentanti di quello gli dissero: « che se non facesse immediatamente e prontamente eseguire quanto avevano domandato, avrebbero fatto conoscere al Popolo dove egli abitava.» — Con tali dichiarazioni, aggiunge il signor Nerli, ognuno può credere che non tardai a dar corso a tale affare.....! Crede ella l'Accusa, che il Circolo fosse meco più blando che col signor Nerli, o che pretendesse meno da me di quello che imponeva a lui?

236. Certa volta durante il mio Ministero facendo parte di una Deputazione di Barga egli si presentò all'Ufficio; ma siccome ei non disse parole, e non lo badai, persisto a dichiarare essermi state fino al 9 Febbraio 1849 le sue sembianze ignote.

237. Vedi Requisitoria dei Repubblicani contenuta nella opera del Rusconi.

238. Ricordo che voleva rifiutare, ma G. P. Vieusseux me ne sconsigliò, assicurandomi che gli avrei fatto dispiacere.

239. Vedi Archivio degli Affari Esteri.

240. E quando Niccolini romano ebbe ad abbandonare Firenze, lo feci io perchè m'impediva proclamare la Repubblica? E quando più tardi con lievi soccorsi Mordini persuadeva Flaminio Lolli a recarsi in Corsica e in Grecia (Ved. Docum. a pag. 232), e quando ad ogni patto mandavo La Cecilia a Parigi, intendevo ingagliardire la schiera dei Repubblicani? Dunque i Repubblicani erano ostacolo a fabbricare la Repubblica?... Gran testa è quella dell'Accusa!

241. «Questa notte la città nostra fu agitata da insolito commovimento. Dopo le ore 8 di sera si videro splendere sopra le colline circostanti moltissimi fuochi, e ad un tempo si udirono spari di moschetto che continuarono lungamente. Presto si conobbe che nella campagna vicina a Firenze si tumultuava. La generosa popolazione fiorentina non mancò a sè stessa. Per tutte le vie era un accorrere, un chiedere le armi, un dichiararsi pronti a respingere con la forza i traditori, a versare il sangue per la libertà. La Guardia nazionale accorse in grandissimo numero, e mostrò qual partito se ne poteva trarre sì per comprimere gl'interni nemici, come le straniere aggressioni. Gli esuli lombardi accorsero tutti a difendere la libertà minacciata, e la Legione Polacca, sebbene rientrata in Firenze da poche ore, dimenticò la fatica e la stanchezza per accorrere a difesa della terra che ospitalmente l'ha raccolta. La Guardia Municipale fu infaticabilmente operosa. Ma ciò non bastava al desiderio ardente del Popolo. Tutti indistintamente chiedevano armi sospettando di essere traditi. Allora si mostrava a raffrenare l'ardore generoso il professor Montanelli, membro del Governo Provvisorio, che sorgeva dal letto, ove giaceva infermo, per accorrere alla chiamata del Popolo. Acquietava gli accorsi, mostrando loro come il disordine poteva essere più funesto della scarsità della forza; avvertiva i cittadini a tenersi pronti, ove fosse stata necessaria l'opera loro; lasciassero libera l'azione del Governo che vigilava a salvezza comune. Alle parole dell'uomo venerato e caro si acquietava la moltitudine, ma non dimenticava il pericolo della Patria. Intanto non cessavano le cure del Governo. Forti pattuglie perlustravano la città e uscivano anche dalle porte per iscoprire se dalle campagne si movesse aggressione. Furono arrestati molti tumultuanti, e il Popolo a fatica si conteneva dal manometterli, se non fosse stato l'egregio contegno dei militi, e il rispetto alla Legge che è così forte in questa egregia popolazione. Il Governo ricerca assiduamente gli autori de' fatti scellerati i quali resteranno esposti a tutto il rigore della Legge, alla infamia e all'abominio di tutti gli onesti; premio degnissimo a chi cerca contaminare di sangue cittadino questa terra che fu culla di civiltà e di sapienza.»

« Popolo di Firenze!

«I segnali di un movimento retrogrado apparivano ieri sera sulle colline circostanti. Ma agli occhi tuoi, o Popolo di Firenze, splendeva un'altra fiamma, quella santissima di libertà, e col tuo sorgere pronto, risoluto ed unanime, contro l'esterno attentato, mostrasti quanto male si fosse apposto chi ti aveva sperato cooperatore alle sue nefande intenzioni.

«Lode a te! Lode a tutti coloro che in questa solenne occasione si mostrarono devoti alla Patria! E bene veramente meritarono della Patria la Guardia Municipale, le milizie di Artiglieria, l'Emigrazione armata Lombarda, la Legione Polacca, e tutta la Guardia Nazionale, di cui faceva parte la Riserva. Ogni elogio sarebbe poco a significare i sentimenti che il Governo professa verso i generosi militi della Guardia fiorentina per la prova solenne di devozione che col loro numeroso e pronto concorso porgevano alla causa dell'ordine e della libertà. Esso sa che in qualunque pericolo li troverebbe egualmente pronti a rispondere alla chiamata della Patria.

«Perchè sia conosciuto il carattere dell'attentata reazione, basterà dire che si gridava: — Viva i Tedeschi! — Il nemico comune d'Italia vorrebbe con questi mezzi spianarsi la via della invasione da tanto tempo desiderata.

«Ma tu, o Popolo, vincerai, serbando fede in Dio che protegge l'Italia, e nella santità dei tuoi diritti. I tuoi figli già su i piani lombardi si mostrarono degni discendenti del Ferruccio, e le glorie del Mincio non saranno, ove occorra, smentite sulle rive dell'Arno.

«Firenze, 22 febbraio 1849.

« G. Mazzoni. « G. Montanelli. »

( Monitore del 23 febbraio 1849.)

«È stato universale il grido di riprovazione e di difesa. La Guardia Civica è corsa immediatamente alle armi in gran numero. La Guardia Municipale ha mostrato zelo e operosità lodevolissima. La Emigrazione Lombarda era tutta armata. Il Popolo voleva armarsi tutto, e ho dovuto parlargli per contenerlo. — Sono stati fatti degli arresti nelle vicinanze, e durano fatica a salvare gli arrestati dalla furia del Popolo.» — (Dispaccio telegrafico del 22 febbraio 1849.) — La verità dei fatti contenuti in questo Dispaccio è confermata dalla Deliberazione Municipale del 24 febbraio 1849 dove occorre scritto: «Considerando in ispecie che la condotta del Popolo e della Guardia Nazionale di Firenze nella sera del 21 corrente dà al Governo garanzia sufficiente, che i Cittadini bastano senza eccezionali misure a tutelare l'ordine e la libertà...» Dunque anche il Municipio pensava che i moti del 21 la libertà e l'ordine avversassero, ed egli stesso fa fede che Popolo e Civica così risoluti li compressero da dispensare l'uso di ogni eccezionale provvedimento. Il Prefetto di Firenze, spaventato a ragione degli atti minatorii del Popolo, invoca il 22 febbraio lo aiuto del Circolo onnipotente in tutela degli arrestati: «Il Presidente del Circolo del Popolo è pregato inviare alle Carceri pretoriali una deputazione dei suoi Socj per esortare il Popolo, che ivi si trova affollato, a rispettare la Legge e la giustizia, non insultando le persone che gli agenti della pubblica forza vi conducono in istato di arresto.» — (Vedi Documenti dell'Accusa, pag. 115.) — E buono accorgimento fu questo; però che si venisse a togliere al disordine la parte più temuta, e impegnarla ad opera di civiltà. — Uno Smith, un Ricciardi, e fu detto un Trollope, furono salvati a stento su la Piazza di San Firenze dal Popolo infuriato. — Il Conciliatore, perpetuo nemico nostro, nel 23 febbraio 1849 stampava: «I fatti accaduti nei contorni di Firenze e in varie parti della Provincia danno segno di una divisione di animi nelle nostre Popolazioni, e possono essere seme funesto di sanguinosi dissidii domestici.... Ma se del mal fatto sono oggi inutili i rimpianti, non crediamo che a niuno onesto sia conteso proporre quei rimedii che almeno possono renderlo minore nei suoi effetti.... Usi il Governo della forza della Legge per comprimere i perturbatori..... Ora la rovina si è fatta completa, l'avvenire si è coperto di tenebre, e Dio solo sa a che riusciranno.»

«L'adunanza del Circolo rimase sospesa dalla notizia che si udivano fucilate in varie direzioni delle campagne e apparivano segnali di fuochi dal Monte alle Croci, da Monte Oliveto, e da quasi tutte le colline che circondano la città. Verificata in parte la cosa, tutto il Circolo corse ad armarsi. Già tutto il Popolo di Firenze muovevasi di un moto solo; ed era cosa commoventissima il vedere la disperazione di coloro che non potevano trovare armi.» — (Il Popolano del 23 febbraio.)

242. Documenti, pag. 507.

243.

«Toscani!

«Il Principe, a cui voi prodigaste tesori di affetto, vi ha abbandonato.

«E vi ha abbandonato nei supremi momenti di pericolo.

«Il Popolo e le Assemblee legislative hanno appreso questo fatto con senso di profonda amarezza.

«I Principi passano, i Popoli restano.

«Popolo ed Assemblee hanno sentito la loro dignità, e provveduto come conveniva.

«Il Popolo e le Assemblee ci hanno eletti a reggere il Governo Provvisorio della Toscana. Noi accettammo, e in Dio confidando e nella nostra coscienza, lo terremo con rettitudine e con forza.

«Coraggio! Stiamo uniti; e questo avvenimento sarà lieve come piuma caduta dall'ala di uccello che passa.

«Nessuno si attenti sotto qualunque pretesto turbare la pubblica sicurezza. Il Popolo guardi il Popolo. La libertà porta bandiera senza macchia. I Toscani se lo rammentino. Custodi, per volere del Popolo, della civiltà, della probità, e della giustizia, noi siamo determinati a reprimere e acerbamente reprimere le inique mene dei violenti e dei retrogradi: difensori della Indipendenza, noi veglieremo a ordinare armi libere e onorate.

«Viva la Libertà!

«Firenze, dal Palazzo della nostra Residenza, questo dì 8 febbrajo 1849.

« I Membri del Governo Provvisorio Toscano « F.-D. Guerrazzi. — G. Mazzoni. — G. Montanelli.»

244. Il Dispaccio al Sotto-Prefetto di Montepulciano non si è trovato; ma solo una lettera responsiva di Zelindo Boddi, che il sig. Falleri ci fa sapere concepita in misterioso linguaggio; ella dice così: «Ho letto la sua lettera; — mi ha recato dolore, ma non mi fa perdere animo. — Il Popolo al giungere della Staffetta si è adunato, ed è corso incontro a me. — Ho annunziato il tristo successo, e meglio andrò a pubblicare quanto accadde, fra pochi istanti, nello interno del Paese. Mi uniformerò agli ordini, ed alle istruzioni ricevute, e darò conto di tutto a misure prese e adottate. — Mi circondo di tutti i buoni, che mi promettono conforto, e assistenza. (Docum., pag. 280). Questa risposta, che al Falleri sembra misteriosa, a me pare, che risponda acconciamente alla lettera ed allo spirito del Dispaccio, per certo uguale agli altri spediti da me, e forse con qualche espressione di più, che valse a indurre lo scrivente ad attestare il suo dolore pel tristo successo, però che la bontà della indole, ed altri pregi, che taccio, da molti anni mi avevano persuaso a stimare e ad amare Zelindo Boddi.

245. Documenti, pag. 297.

246. Documenti, pag. 289.

247. Documenti, pag. 412.

248. Documenti, pag. 412.

249. Vedi Documenti dell'Accusa, pag. 284.

250. Indirizzo del Popolo di San Quirico. (Vedi Monitore, 19 febbraio 1849.)

251. «Al cittadino presidente del Circolo del Popolo di Firenze. — Il Circolo (di Siena) ha deliberato nella sua tornata del 21 di atterrare tutti gli Stemmi Medicei, e tutte le insegne della vecchia tirannia, al sorgere della nuova libertà. Quando s'inalza l'Albero della Repubblica debbono cadere i monumenti della oppressione ec..... V'invitiamo a fare altrettanto.» (Il Popolano del 26 febbraio.)

252. Io conosco il deposto del Professore Zannetti, il quale meritamente ogni uomo onora, come lealissimo. Interrogato intorno alla violenza, che avrebbono potuto farmi gli Arrabbiati, risponde, che esigenze forti per certo io subii perchè nelle varie volte (e furono moltissime) ch'egli si condusse da me nella qualità di Generale della Guardia Nazionale dovè accorgersi, che mi trovava in condizione ASSAI CRITICA.

253. Medesimi eventi, e medesime scuse occorrono in Francia; così vedremo più tardi Garat Ministro della Giustizia esporre all'Assemblea nel 1792: «la forza pubblica rimane spettatrice inerte — e si scusa dicendo non avere ordini. Prima che gli ordini arrivino, i tristi radunano il Popolo, lo infiammano, lo strascinano, e il male cresce.» (De Barante, frammenti citati.)

254. Mémoires de Bailly. Tom. I, pag. 228.

255. Vedi questo Decreto stampato in tutti i Giornali del tempo, nei numeri del 9 febbraio.

256. Alba, 9 febbraio 1849.

257. Vedi il Considerando IV della Deliberazione Municipale del 24 febbraio 1849.

258. Conciliatore. Si riporta per intero in altra sede di questa Apologia.

259. Aureo Trattatello dei Sinonimi.

260. «Il nostro Circolo non dorme, e cura quanto può gl'interessi dei fratelli, che gli sono carissimi. Ha già fatto uno indirizzo al Ministero per rimproverarlo di non avere seguito il Granduca, e domandare il suo ritorno in Firenze. Si è poi costituito in permanenza, ha creato una commissione perchè sia in corrispondenza continua col Ministero, e cinque commissarii ec. — Firenze, 5 febbraio 1849.» — (Documenti dell'Accusa, pag. 193.)

261. Vedi sopra.

262. Popolano del 16 febbraio 1849.

263. Popolano del 14 febbraio 1849.

264. Popolano del 16 febbraio 1849.

265. Popolano del 15 febbraio 1849.

266. «Domenica giunsero varie Deputazioni dalle principali Provincie col grido di Repubblica sulle labbra.» — ( Popolano del 20 febbraio 1849.)

267. Caino, Mistero. Atto 1.

268. Monitore del 1 marzo 1849.

269. A pagg. 102, 105-109 dei Documenti dell'Accusa si trovano traccie del fiero sospetto in cui era venuto il Barone Ricasoli. L'Archivio del Ministero conserva le altre carte.

270.

Sir George Hamilton to viscount Palmerston.

« Florence, February 27, 1849.

«.... They (Provisional Governement) are obliged however to submit to a most despotic master, who hourly reminds them of the chains by which they are held in submission, viz the power of the clubs. These formidable assemblies govern the Governement. It is impossible to exaggerate the terror, the poverty and desolation reigning in this fair city.» — ( Correspondence affecting the affairs of Italy. Part. IV, pag. 174. London, Printed by Harrison and Son.)

271. Galignani's Messenger. March, Friday, 16, 1849. «A letter from Florence of the 8 March says, etc.»

272. Di questa lettera, quantunque porti la firma di Marmocchi, fu somministrato il concetto da me, come sovente soleva fare; e forse si custodisce nello Archivio. — Documenti dell'Accusa, pag. 298.

273. Era notorio allora, ed il Governo non lo ignorava nè poteva ignorarlo, che grossi legni inglesi incrociassero nelle acque toscane. — Vedi il Corriere Livornese del 9 febbraio, e il Nazionale del 10 e 12.

274. Pepe, Histoire des Révolutions d'Italie, pag. 36. — Bruxelles.

Cesare Vimercati, officiale di marina austriaco, nella sua Italia ne' suoi confini e l'Austria ne' suoi diritti, ovvero Rivoluzione e guerra del 1848, a pag. 39, così ci racconta pure questo fatto. «Il Vice-Presidente allora prometteva sulla sua parola che gli avrebbe soddisfatti; ma il Popolo, sapendo per esperienza quanto valevano le promesse, infuriava gridando: lo vogliamo in iscritto; ed un tal Cernuschi facendosi avanti obbligava O' Donell a sottoscrivere diversi ordini che venivano tosto pubblicati per la città, e che qui riportiamo:

«Milano, 18 marzo 1848.

«Il Vice-Presidente, vista la necessità assoluta per mantenere l'ordine, concede al Municipio di armare la Guardia Civica.

« Firmato: Conte O' Donell.

«La Guardia della Polizia consegnerà le armi al Municipio immediatamente.

«Conte O' Donell.

«La Direzione di Polizia è destituita, e la sicurezza della città è affidata al Municipio.

«Conte O' Donell.»

275. Questa sera fummo spettatori d'una di quelle dimostrazioni che rivelano tutta la bontà nativa del Popolo, la soave arrendevolezza dell'animo suo.

«Il Popolo e la Guardia Nazionale disposti in ordine, a suon di tamburo, preceduti da splendide bandiere, si recavano a salutare dei loro voti, dei loro applausi e dell'antico affetto, il nuovo Generale della Guardia Nazionale di Firenze, il professore Zannetti. La scena fu lieta e commovente ad un tempo: l'amore delle moltitudini trasfuso nell'evviva prolungato e universale: la rispondenza dell'acclamato rivelata con parole tenere, appassionate, interrotte dalla interna agitazione: l'ora, il luogo, e la solennità della festa, d'una familiarità popolare.....

«Il professore Zannetti..... l'uomo eminentemente italiano, rinnovava la promessa alla patria di volerla difendere contro tutti i nemici interni ed esterni col baluardo del proprio petto, del proprio sangue. Diceva esser degno il Popolo di governarsi da sè stesso, di raggiungere la più filosofica forma di governo, la Repubblica, quando sappia contenersi nelle vie dell'ordine, dell'armonia, della fratellanza. La Guardia Nazionale non dover mai apparire altrimenti che in tutela della libertà: l'esercito stanziale, gli altri corpi dello Stato, il Popolo tutto concordare con essa al santissimo fine. E la Toscana decretare i suoi destini con tranquillo giudizio, secondo il voto universale.

«Il Popolo applaudiva a queste parole, interrompendole della sua approvazione; applaudiva agli abbracci fraterni dati come simbolo dell'amplesso generale dal professore Zannetti ad un Ufficiale della Guardia Nazionale, ad un altro della milizia.

«Suggellava in quel momento un patto infrangibile d'amore e d'alleanza coll'esercito, colla Civica antica, colla sorgente e rinnovata Guardia Nazionale. Poi, ad una semplice preghiera del Generale, si disperdea, procedendo alle grida di: Viva Zannetti, Viva la Repubblica, Viva l'Unione con Roma.

«Tali sono le tendenze e le volontà del Popolo che si rivelano ad ogni istante, in qualunque occasione. Noi non sappiamo perchè gli uomini del Governo e quelli che sono da esso preposti sembrino paventare questa salutare espansione del Popolo, e s'industrino a rattenerla. Vanno ripetendo l' ordine, l' ordine, l' armonia. E chi più del Popolo la sente, la coltiva, l'apprezza? Vanno instillandogli che egli non abbia a usurpare una soverchia potenza, facendosi rappresentanza del concetto di tutti, e quasi gl'indicono di porre un freno agli interni aneliti, che sono la prima rivelazione della verità. E chi più del Popolo non l'ha da gran tempo compresa questa verità; di lui che in luogo del monopolio dei privilegiati, ha domandato e domanda il libero esercizio della sovranità universale? Lo spediscono dolcemente alle case con raccomandazione di calma taciturna, quasichè l'aperto grido alla luce del cielo in questo stadio di vita convulsa e interrotta, — d'organismo politico disfatto e rinnovantesi, — non fosse un sintomo, una prima e necessaria manifestazione dell'avvenire!

«Noi estimiamo, noi apprezziamo sopra tutti il distinto carattere, le splendidissime doti dell'egregio Zannetti. L'accento paterno e italiano dell'animo suo trova le vie del nostro cuore come quelle del Popolo. Lo preghiamo solamente a non lasciarsi trarre dal concetto dell'armonia fino a quello della profonda quiete, dall'idea della rispettata legalità fino ad un prolungato e mortale silenzio; — perocchè egli sa come noi e più di noi, quanto nobili e sante sieno le ispirazioni del Popolo accompagnate agli evviva per l'illustre cittadino.» — ( Costituente Italiana del 15 febbraio 1849, — Popolano e Alba del medesimo giorno.)

276. Nel Galignani's Messenger del marzo 1849, si legge, in certa lettera datata da Firenze: «after spending some time at Florence in attempting to effect the fusion of Tuscany with Rome, he at length repaired to Rome.»

277. Io sono stato lunga pezza meco stesso esitante se avessi dovuto citare la opera di Luigi Carlo Farini, come quella, che va deturpata di molte, e potrei dire infinite macchie. Vi ha chi godrebbe, che concitato a sdegno, non ingiusto forse, pei molti errori dettati sul conto mio, e più pel difetto del riguardo, che ogni onesto aver deve a cui versa in pericolo, io gli facessi rabbuffo tale da intronargli la testa. Appunto perchè questo spettacolo si cerca, e si vuole, non si ha da dare; e volta mite la parola a Luigi Carlo Farini, gli dico: « tu hai peccato molto; se per leggerezza, mi appello da te male informato a te bene informato: anco verso gl'Imperatori adoperavasi questa formula, e non l'avevano a male, e tu sai che da Filippo dormente sendo interposto appello a Filippo svegliato, il re multò sè stesso nei danni della iniqua sentenza; nè tu, confido, per carità patria, e per onore al tuo nome, vorrai esser minore del Macedonio; dove poi, e questo repugno credere, te avesse mosso o tristizia di mente malvagia, o viltà di anima venduta, allora io dovrei contristarmi per la Patria, e per te.» Intanto fra i suoi errori, cui a me piace credere involontarii, non ha potuto negare queste verità: «... Il Mazzini era giunto il dì stesso che il granduca partiva da Siena, e vi era stato accolto con grande festa. Egli si era dato a predicare l' unificazione con Roma, che non voleva chiamar fusione; parola a lui ed a' suoi esosa, la quale voleva dire lo stesso, ossia non aveva significato pratico, perchè gli uomini ed i popoli non si fondono come i metalli per calor di libertà e artificio di eloquenza, nè gli Stati si unificano per decreto di assemblee. Ma il Guerrazzi non voleva l'unificazione, e pochissimi erano in Toscana che la volessero; del che gli stessi ufficiali del governo facevano testimonianza: sicchè anche in Toscana il Maestri milanese, legato della Repubblica Romana, faceva poco frutto... Il Mazzini non riesciva a governare nè coll'autorità sua, nè colle pratiche e le grida de' suoi, i negozii politici della Toscana. Modesto egli al sembiante, come ostinato di volontà, desiderava sovra ogni altra cosa fare della Toscana una provincia della Repubblica Romana: ma questo concetto coperto sotto la pomposa parola d' unificazione non andava a versi nè del Guerrazzi, nè del Consiglio di Stato, nè pur dei cittadini più segnalati per liberali caldezze.» Quello che seguita intorno a Montanelli e a Mordini non è vero; e finalmente! «... A Roma egli (il Mazzini) dà sollecita opera a costringer di là Toscana a quella unificazione, a cui la non si voleva piegare, e vi narra che tutti i Toscani ne hanno desiderio, sebbene sappia il contrario; e perora e studia perchè si compia.»

278. Il mio Difensore mi narra, come l'Accusa per escludere la violenza si fondi sopra il deposto di due testimoni; e chi sono eglino? Due Custodi del Ministero. E perchè due soli, e gli altri esclusi? Perchè questi due come conservati in impiego reputò l'Accusa degni di fede, i dimessi non parvero sicuri. Badino bene i Ministri ai Custodi che si mettono dintorno, procurino di tenere strette le chiome alla Fortuna, perchè il pericolo, che corrono di vederseli mutati in delatori, e in peggio, è grande davvero. — Ma i Custodi hanno contro il fatto, il senso comune, copia di testimoni più intelligenti e più degni; e finalmente intorno alla violenza relativa il Dispaccio della Spedizione di Portoferraio niente possono deporre perchè essi dichiarano avere lasciato il posto alle 23 ore, ovvero alle ore 4 e ½ pom., e il Dispaccio in discorso fu scritto alle 6 pom.

279. Popolano del 9 febbraio 1849.

280. Avverti che i Giornali sono scritti il giorno avanti della loro pubblicazione: così l'Articolo Firenze 14 è pubblicato il 15 febbraio.

281. Alba, 4 marzo 1849.

282. Alba, 11 febbraio 1849.

283. Alba, 12 febbraio 1849.

284. Popolano del 12 febbraio 1849.

285. Vedi Documenti dell'Accusa, pag. 193.

286. Ivi.

287. Popolano del 12 febbraio 1849.

288. Ivi.

289. Popolano del 13 febbraio 1849.

290. Popolano del 12 febbraio 1849.

291. Costituente Italiana del 12 febbraio 1849.

292. Popolano del 10 febbraio 1849.

293. Popolano del 12 febbraio 1849.

294. Il Nazionale del 14 febbraio 1849.

295. «Il Governo chiama i militi livornesi contro i nemici interni, e non per una dimostrazione politica. Ella prenderà tutte le misure onde questo non segua. Presentemente la città è in calma.» — (Dispaccio telegrafico al Governatore di Livorno, 11 febbraio 1849, in risposta al Dispaccio telegrafico del medesimo Governatore, che interrogava: «Si sa che Roma ha proclamata la Repubblica; non sarebbe bene insinuare a questi militi di proclamare essi pure la Repubblica venendo a Firenze? Su questo particolare attendo ordini precisi.» — Vedi Documenti, pag. 481.) — Confrontisi questa domanda con la lettera dello stesso Governatore DEL 9 FEBBRAIO 1849, segnatamente con le parole: «Prevenuto dello arrivo di G. Mazzini atteso su le prime ore del giorno scorso, e consapevole dei timori che si avevano di un pronunziamento in senso repubblicano, volsi ogni cura a prevenirlo, e tutto disposi onde l'illustre Italiano meco prima che al Popolo avesse colloquio, augurandomi averlo concorde o che le cose procedessero senza danno nella santa causa comune ec.» — (Documenti, pag. 306.) Donde si fa manifesto come non vi fosse trama di sorta per rovesciare la Monarchia, secondochè fantastica l'Accusa; gli ordini del Governo avversassero la Repubblica, e Mazzini a Livorno sopraggiungesse a caso; la Costituente fosse messa innanzi per arrestare la tumultuaria proclamazione della Repubblica, e finalmente che Mazzini a Firenze, mutato consiglio, non tenne il patto.

296. Popolano del 13 febbraio 1849.

297. Popolano del 13 febbraio 1849.

298. Ivi.

299. Costituente Italiana del 13 febbraio 1849.

300. Costituente Italiana, del 13 febbraio 1849.

301. Dunque Livornesi non vi erano mescolati?

302. Popolano del 13 febbraio 1849.

303. Popolano del 13 febbraio 1849.

304. Costituente Italiana del 14 febbraio 1849.

305. Popolano del 14 febbraio 1849.

306. Popolano del 14 febbraio 1849.

307. Alba, 16-17 febbraio 1849.

308. Popolano del 15 febbraio 1849.

309. Popolano del 14 febbraio 1849.

310. Popolano del 14 febbraio 1849.

311. Popolano del 13 febbraio 1849.

312. Popolano del 16 febbraio 1849.

313. Costituente Italiana del 16 febbraio 1849

314. Il Popolano del 15 febbraio 1849.

315. Frusta Repubblicana del 15 febbraio 1849.

316. Popolano del 15 febbraio 1849.

317. Documenti dell'Accusa, pag. 308.

318. Documenti dell'Accusa, pag. 825.

319. Ivi.

320. Popolano del 17 febbraio: «(12 detto) — Le popolazioni maremmane sono tutte in armi, e su questi luoghi l'ex-Granduca non può sperare nessun favore.» — Popolano del 21 febbraio: «(16) — Gli animi sono ardenti, e vogliono una volta finirla con un ex-Principe.....»

321. Popolano del 14 febbraio 1849.

322. Corriere Livornese del 14 febbraio 1849.

323. Corriere Livornese del 17 febbraio 1849.

324. Documenti, pag. 161.

325. Documenti, pag. 160 e 415.

326. Documenti, pag. 162. Dispaccio telegrafico del 16 febbraio.

327. Documenti dell'Accusa, pag. 326. « Il Popolano continuerà sempre ad essere il Monitore del Circolo del Popolo di Firenze.» ( Popolano, 6 febbraio 1849.)

328. «Questa mattina (17 febbraio) a ore 10 a.m. circa è partito da Livorno per Maremma un battaglione di Volontarii livornesi comandato dal maggiore Guarducci.» — ( Popolano del 18 febbraio 1849.)

329. Documenti dell'Accusa, pag. 300. Rapporto Guarducci a C. Pigli da Rosignano, del 18 febbraio 1849.

330. «Faccia subito partire per Pontedera i Cavalleggieri; e li dia ordine che si mettino sotto il mio comando, perchè domani penso partire per la Maremma.» — 17 febbraio 1849.

331. «Petracchi a Guerrazzi: — Ricevo in questo momento un Dispaccio dal Pigli che dice: Torni immediatamente. È vero, si tenta un colpo a Pietrasanta, ma non riuscirà. Nulladimeno è necessario che i buoni Livornesi sieno in Livorno. — Cosa devo fare? ho bisogno d'istruzioni, e sollecitamente.» — 18 febbraio 1849, ore 11 a. m.

Mazzoni, non io, dà il medesimo ordine a Petracchi, ma dopo.

«Petracchi a Pigli: — In questo momento ricevo un Dispaccio dal Presidente Mazzoni, che mi ordina partire per Livorno.» — 18 febbraio 1849, ore 12, m. 45.

Dunque Pigli ordinava prima, e indipendentemente dal Governo.

332. Pag. 161, 165, 415.

333. Documenti dell'Accusa, pag. 166.

334. «Ill. sig. Prefetto.

Mando a Grosseto, come il Governo superiore mi ordina, 12 Municipali guidati da un Tenente, e alquanti Artiglieri nazionali, e di linea. La prevengo, che domattina a qualche ora partiranno da Livorno 2 Compagnie di Guardia Nazionale dirette a Santo Stefano, e che nello stesso giorno di domani procederanno nella stessa direzione altre forze militari provenienti da Firenze, e capitanate dal Gen. D'Apice, — È inutile ec. — Livorno 14 febbraio 1849, ore 11 di sera. — Pigli.»

335. Documenti, pag. 295.

336. In proposito di corrispondenze qui cade in acconcio raccontare come (e il modo ignoro, ma anche da ciò si argomenti se convenisse andare cautelati) il Circolo del Popolo intraprendesse un plico diretto da Gaeta al sig. Boiti impiegato nella Posta delle lettere di Livorno, e recatolo al Governo instò perchè lo Ufficiale si destituisse. Doleva grandemente tanto a me, che al buono Adami, piegare sotto la dura legge, ma e' fu forza pel momento subirla. Il sig. Consigliere Ronchivecchi, curatore del giovane, sollecito degl'interessi di quello e della famiglia cui apparteneva, poco bene provveduta a sostanza, raccomandava il giovane nello impiego si restituisse; ed io risposi subito, che volentieri, imperciocchè non era stato remosso per noi, bensì dalla prepotenza della Fazione soverchiante; però bisognare, che alcun poco di tempo passasse onde non fare un peggio; al fine, quando mi parve capitato il destro, reintegrai il sig. Boiti nello ufficio con grande contentezza della sua famiglia e del sig. Ronchivecchi, il quale parmi venisse due volte, ma certamente una, per conferire meco su questo negozio, e ringraziarmi. — Di questo fatto, della umanità di riceverlo, dell'ottima mente a soddisfarlo, e dei discorsi intorno la violenza che la Fazione esercitava sul Governo, chi meglio può testimoniare del sig. Consigliere Ronchivecchi? — Così mi adoperava io a preservare da ogni offesa della Fazione la famiglia degl'impiegati; e se me salutassero allora una seconda Provvidenza, pensatelo voi!... Ma in quel tempo l'ora della ingratitudine non era suonata.

337. Rapporto del Governatore del 9 pervenuto al Governo il 10 febbraio: (Documenti dell'Accusa, pag. 306.) «.... cui concedo — munizioni da bocca e da fuoco, non che lire 10,000 tolte dalla Cassa della Dogana e delle quali sarà reso conto, mentre d'altronde negarle sarebbe stato un contrastare per diffalta di mezzi al conseguimento del fine ».

338. Rapporto del 13 febbraio 1849. Documenti dell'Accusa, pag. 309.

339. Detto Rapporto.

340. Documenti dell'Accusa, pag. 309.

341. I Documenti dell' Accusa, a pagine 320, contengono la prova contraria a quanto immagina l' Accusa. Il Governatore Pigli nel 21 febbraio 1849 chiede di aggiungere una colonna di 100 Volontarii ai Municipali mandati ad Orbetello, facendoli condurre dal sig. La Cecilia. Questo Documento pertanto dimostra: 1º Che nè il Governatore nè La Cecilia avevano ricevuto incarico di Spedizione alcuna, perchè altrimenti il Pigli non aveva bisogno di essere autorizzato a mandare 100 Volontarii; 2º Che il Governatore bene era stato commesso a ragunare gente scelta, non già a spedirla, molto meno a darle capi di sua volontà; 3º Che la proposta era mossa per avventura allo scopo che non gli venisse rampognato il fatto come uno dei soliti spropositi; quale era stato lo arbitrario, comecchè poco dannoso, invio di La Cecilia in Maremma.

342. Dell'ingegno di Gio. La Cecilia, decisamente antipatico a qualunque subiezione, ostinato a fare a modo suo, e a confondere ogni ordinamento, mi porge prova certa lettera rinvenuta tra le mie carte in Livorno. Il Municipio mi aveva incumbensato della organizzazione della Guardia Civica; io consentiva, compiacendo al voto del Popolo, incumbensare La Cecilia di talune attribuzioni: questi le usurpa tutte, e subito; anzi arriva perfino a pubblicare notificazioni col mio nome senza pure consultarmi! Il Gonfaloniere mi mandava la lettera seguente, che io partecipava a La Cecilia con la nota che vi si legge a tergo: sono testimoni informati del fatto Fabbri e Baganti, ed altri parecchi:

«Illustriss. Signore

«Leggo nella Notificazione o Avviso di questo giorno, che le forme per la elezione degli Uffiziali, sotto-Uffiziali ec., devono essere indicate dal Municipio; ciò è contrario alla Notificazione del 9 settembre, poichè in essa vien detto che in tutto quello che non è contemplato nel presente Regolamento s'intende supplito dalla legge e dagli ordini in vigore relativi alla Guardia Civica Toscana.

«Ora non trovandosi nulla in proposito su detta Notificazione mi sembra che si debba tenere il sistema antico delle schede ec. per quanto lungo, e nojoso.

«Le sono rispettosamente

«Di VS. Ill.

«Dalla Comunità di Livorno, il 27 settembre 1848.

«Devotis. Servitore « Avv. L. Fabbri Gonfaloniere.

«All'Ill. Sig. Avv. F.-D. Guerrazzi Livorno.»

( In margine ) «A. C.

«Non è mia colpa tutto questo apparato di solennità, ma del Diplomatico Baganti. — L. F.»

( A tergo ) «Come rispondere alla qui aggiunta? Questa Notificazione di stamani io non l'ho neppure vista. — E ciò dipende sempre perchè voi organizzatori disorganizzate ogni cosa, repugnando fare sempre capo a un centro. Io taccio per non parere geloso di prerogative; ma voi siete imbroglioni per eccellenza. Non sono io incaricato con Petracchi della Guardia Civica? Dunque perchè mandi tutti i fogli in Comunità? anzi ve li porti tu stesso? Perchè fai Notificazioni in mio nome senza che pure le legga? Così non va BENE.

«F. D. G.»

343. Corriere Livornese del 9 marzo 1849.

344. Documenti, pag. 498.

345. Ivi.

346. Documenti, pag. 426.

347. Documenti, pag. 427.

348. Ivi.

349. Documenti, pag. 496.

350. Documenti, pag. 499.

351. Documenti, pag. 428. Dispacci telegrafici del 5 marzo 1849.

352. Documenti, pag. 499.

353. Documenti, pag. 500.

354. Documenti, pag. 429.

355. Documenti, pag. 433.

356. «Concertate il mutamento della Municipale di Livorno con Firenze, e subito qui la ridurremo. Create le altre due Compagnie, o date promessa d'imminente formazione.» (Dispaccio telegrafico del 5 marzo 1849. Documenti, pag. 428.) — «Consigli di prudenza hanno fatto inviare il primo reggimento in città amicissima. Piace il disarmo.» — (Dispaccio telegrafico dell'8 marzo. Documenti, pag. 430.)

357. Medesimo Dispaccio.

358. «Sulla voce della partenza della Municipale Livornese per Firenze, alcuni del Popolo hanno mormorato, che i Fiorentini venivano qua per opprimere la libertà.» — (Dispaccio telegrafico del Marmocchi 6 marzo 1849. Documenti, pag. 500.)

359. « Perchè ad arte si era sparso, che io veniva incaricato di far fuoco sul Popolo, come già (dicevasi) avevo io fatto sul Popolo pistoiese.» — (Rapporto del Tenente Colonnello Reghini al Generale D'Apice, del 9 marzo 1849. Documenti, pag. 69.)

360. Si noti che ricorrevano al solito rimedio adoperato in simili frangenti per tutelare la vita minacciata dei cittadini.

361. Dispaccio telegrafico del 9 marzo 1849. Documenti, pag. 430.

362. Documenti, pag. 430.

363. Documenti, pag. 431.

364. Lettera del Generale D'Apice. Documenti, pag. 70.

365. E questo dimostra quanto tuttora potessero i Circoli.

366. Dispaccio telegrafico del 12 marzo 1849. Documenti, pag. 502.

367. Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 433.

368. Ivi.

369. Documenti, pag. 431.

370. Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 432.

371. Dispacci telegrafici del Prefetto Martini, e del Comandante di Piazza Barli. Documenti, a pag. 432 e 503.

372. Perchè non fuggivi? — domandano ora i Giudici. — Allora, io domando a loro, avreste voi interrogato così?

373. Dispacci telegrafici del 13 marzo 1849. Documenti, pag. 433.

374. Documenti, pag. 503.

375. Vedi Documenti, pag. 506-507.

376. Dispaccio telegrafico del 18 marzo. Documenti, pag. 437.

377. Documenti dell'Accusa, pag. 787.

378. Documenti dell'Accusa, pag. 530.

379. Il lettore benevolo avrà in mente: 1º La sentenza contenuta nella lettera di Carlo Pigli diretta a me l'11 ottobre 1848: « Noi vogliamo la Costituzione sincera, e la strada di ogni civile progresso sgombra da ogni impaccio di vile egoismo;» 2º Il Rapporto del medesimo, 9 febbraio 1849, il quale, dietro le mie istruzioni contenute nel Dispaccio telegrafico del 31 gennaio 1849, si affaticava a impedire che Mazzini provocasse la gente a tumultuaria Repubblica: «Prevenuto dello arrivo di Giuseppe Mazzini atteso su le prime ore del giorno scorso, e fatto consapevole dei timori che si avevano di un pronunziamento repubblicano, volsi ogni cura a prevenirlo, e tutto disposi onde l'illustre Italiano meco prima che al Popolo avesse colloquio, augurandomi averlo concorde a che le cose procedessero senza danno alla santa causa comune.... Convocai presso di me lo Stato-Maggiore della Guardia Civica ed i migliori patriotti, tra i quali D'Apice, La Cecilia, ed Antonini, sempre tacendo la causa delle mie inquietudini, finchè, affrettata la venuta di Mazzini in Palazzo, nello intendimento di porre a profitto la sua influenza, svelai il segreto e le mie vedute, alle quali egli ed ogni altro aderirono..... Mazzini comunicò la fuga del Principe, e tosto grida di gioia e di Repubblica proruppero; ma egli proseguendo dominò così le menti, da tutti ridurre concordi ad acclamare la Costituente.» (Documenti dell'Accusa, pag. 38, 305, 307.) — Accusa, Giudici decidenti, fin qui o come avete fatto a sostenere, che alle più stemperate voglie della Fazione io mi opponessi tardi, — dopo le sorti infelici della guerra italiana, — ai conforti del Ministro Inglese? — Accusato accuso; io vi traduco davanti il Tribunale della coscienza pubblica, mio giudice e vostro, e v'intimo a giustificarvi delle vostre imputazioni.

380. «Carissimo. Vi scrivo di letto dove ho dovuto rifugiarmi. La lama rode il fodero; ma qualche Santo aiuterà. Piacemi il vostro ardore, ma ricordate che bisogna avere prudenza e gravità grandissime.... Grande è il carico che abbiamo sopra le spalle, ma non inferiore all'animo nostro, e consiste nei rendere amabile la libertà, mostrando com'essa sia principio di ordine troppo diverso dal Varsoviano ec.» — 11 febbraio 1849.

381. Dispacci telegrafici nei Documenti dell'Accusa, pag. 413, 480.

382. Monitore Toscano dell'11 febbraio 1849.

383. Documenti dell'Accusa, pag. 547.

384. Documenti, pag. 281. Non si conosce dai Documenti dell'Accusa la data di questa deliberazione, ma certo deve avere tenuto dietro al Decreto pressochè immediatamente.

385. Documenti, pag. 414.

386. Documenti. Dispaccio telegrafico dell'11 febbraio 1849, o. 5, m. 25.

387. Documenti, pag. 167.

388. Monitore del 12 febbraio 1849.

389. Documenti, pag. 329.

390. Documenti, pag. 107.

391. Costituente del 13 febbr. 1849.

392. Popolano del 14 febbr. 1849.

393. Documenti, pag. 330.

394. Popolano, 14 febbraio 1849.

395. Costituente, 14 febbraio 1849.

396. Popolano, 15 febbraio 1849.

397. Rusconi, opera citata.

398.

Io vidi certo, ed ancor par ch'io 'l veggia,

Un busto senzo capo andar, sì come

Andavan gli altri della trista greggia.

E il capo tronco tenea per le chiome

Presol con mano, a guisa di lanterna.

Dante, Inferno, XXVIII.

399. Il nome di questo Sacerdote mi cade adesso in mente: lo citerò testimone.

400. La lettera a Giorgio Manganaro amico mio, e prestantissimo uomo, dice:

«Amico

«Vedi lettera di Prete birbo: sorveglia se vi è Frugoni, e si cacci via. — Sai tu, che ci è di nuovo? La Cecilia mi propone di dare la Toscana al Piemonte, e andare a Roma per intrigare in proposito. Vedi fede! Questa lettera si depositi negli Archivii della Polizia.»

« Guerrazzi. »

(La lettera non ha data; dal marchio postale sembra impostata il 5 aprile 1849.)

401. Dicono, che questa rarità costi da 3000 scudi di stampa! Pater, ignosce illis, — con quello che seguita. Ma via, quando la finanza è gaia, si può spendere a soddisfare qualche capriccio.

402. Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 483.

403. Documenti, pag. 287 e 488.

404. Documenti dell'Accusa, pag. 285, 287, 488, 845.

405. A questo fatto accennano le parole della mia lettera del 23 febbraio riportata nei Documenti a pag. 847: «Stamani mi sono mosso da Camajore col Generale D'Apice, e sono arrivato a Pietrasanta. Poco dopo, è arrivata la Colonna condotta dal Maggiore Petracchi; la quale, preso un poco di ristoro, si dirige immediatamente verso Viareggio. Qui attendo il Generale D'Apice

406. Documenti, pag. 111.

407. Documenti, pag. 483.

408. Documenti, pag. 482.

409. Si accenna alla pioggia che cadde breve ora innanzi alla battaglia di Cavinana, e fu il Principe di Oranges, che vedendo piovere mentre i soldati bevevano disse: «Soldati! Noi non anderemo punto imbriachi alla guerra contro i nemici, poichè con tanto favore Iddio ci adacqua con le sue sante mani il vino.»

410. Costituente Italiana, 19 febbrajo 1849.

411. Questa sentenza poi non fu stampata, ma bandita a voce di Popolo e affissa manoscritta per le cantonate.

412. Il Nazionale, 18 febbrajo 1849.

413. Il Conciliatore, 18 febbraio 1849.

414. Il Conciliatore, 19 febbraio 1849.

415. La Costituente Italiana, 22 febbrajo 1849.

416. Tutti questi Proclami sono stampati a pag. 836-837 del Volume dei Documenti.

417. Dispaccio telegrafico, a pag. 420 dei Documenti.

418. Corriere Livornese del 19 Febbraio 1849.

419. Documenti, pag. 485.

420. Ivi.

421. «I Sanesi in questo momento, codini o non codini, sono tutti Repubblicani: — quello che non aveva fatto la ragione ha fallo la paura.» — (Lettera riservata al Ministro dell'Interno. — Vedi Documenti a pag. 215.) — In cotesta lettera si leggono le seguenti espressioni, le quali l'Accusa non mancò distinguere con carattere italico: «Dal Rapporto straordinario di questa Prefettura vedrete cosa si è operato per secondare le superiori disposizioni, e per ispingere la Città a seguitare il movimento repubblicano.» Superiori disposizioni di cui? Del Governo no, dacchè al movimento repubblicano si opponeva. Il Rapporto della Prefettura di Siena, che si legge nella medesima pagina, ed è documento officiale, dichiara avere agito nello interesse, non già per ordine, del Governo. Che qualcheduno della sua carica abusasse, può darsi; questo accade in ogni Governo, e considerati i tempi e gli umori degli uomini, tanto più era da aspettarlo nel nostro; ma io amo credere piuttosto, che lo scrivente la lettera riservata accennasse a disposizioni superiori simili a quelle che imprimevano moto alle operazioni del Governo di Livorno; e però a me intieramente estranee.

422. Documenti, pag. 320-846.

423. Documenti, pag. 848.

424. Lamartine, Histoire de la Révolution de 1848. Bruxelles, 1849 Tomo I, pag. 237.

425. Histoire de la Révolution, tomo I, pag. 160, edizione citata.

426. Luigi Blanc, Histoire de la Révolution, edizione citata, tomo II, pag. 462.

427. Thiers, Révolution française, edizione citata, t. 1, p. 166.

428. Alba del dì 11 febbraio 1849.

429. Thiers, Histoire de la Révolution, Cap. 4. Convention.

430. Guizot, De la Justice politique, edizione citata, pag. 27.

431. Thiers, Opera citata, pag. 162.

432. Hume, Storia d'Inghilterra. Capolago. Cap. 60, p. 336

433. Thiers, Opera citata, tomo II, p. 570.

434. Couardise mère de la cruauté. Montaigne, c. 27, l. 2.

435. Lamartine, Les Girondins. Bruxelles, 1847, tomo III, pag. 271.

436. Thiers, Histoire de la Révolution, edizione citata, t. 2, c. 4.

437. Attesochè 21 del Decreto del 10 giugno 1850, altrove citato.

438. Nel confronto storico contenuto in questo paragrafo, quantunque io abbia citato varii scrittori, avverto essermi giovato principalmente della opera del sig. De Barante, che conosco per via dei brani riportati nel Giornale dei Débats.

439. Documenti, pag. 490.

440. Documenti dell'Accusa.

441. « Pietrasanta, 20 febbraio. — Questa città è stata posta dal De Laugier in istato d'assedio; domani si teme la legge stataria; è stata proibita la dispensa dei Giornali; pattuglie di Linea e Veliti percorrono la città guarnita da 400 uomini e da una batteria. Sono venute delle Compagnie dalla Lunigiana, si crede che l'abbandoneranno tutta a discrezione del Tedesco. — Sono state spedite delle forze a Viareggio, a Camaiore, e verso Monte di Chiesa. — Il popolo accusa di tutti questi mali lo spirito retrogrado di alcuni cittadini.» — ( Monitore Toscano del 21 febbraio.) — Anche qui è di necessità la corrispondenza officiale intera: per bene giudicare un fatto bisogna conoscere esattamente le cause che lo produssero, e le circostanze che lo accompagnarono.

442. «Altri errori e non pochi, sebbene meno gravi, ha commesso il Governo Provvisorio, errori che han tenuto il Popolo sospeso e timoroso, errori che han fatto correr rischio alla città di vedersi innaffiata di sangue cittadino, — e qui vogliamo alludere allo abbandono fatale in cui per varii giorni fu lasciata la truppa in balía di capi spergiuri o mal fidi; errori che han fatto nascere la reazione laddove non era che malcontento, — e qui vogliamo alludere alla incuria con che il Governo ha lasciato in balía di sè stesse le provincie, vogliamo alludere alla sua inerzia inescusabile nello scaldarsi le vipere in seno, lasciando al maneggio degli affari, alla vigilanza della pubblica sicurezza, al mantenimento delle leggi, uomini ligii allo antico ordine di cose, uomini sordidi e ignoranti, uomini o traditori od infami.» — ( Il Popolano, 14 febbraio 1849.) — Se questi erano i peccati veniali, ogni uomo può immaginare quali mai dovevano essere i mortali.

443. Il Popolano, 14 febbraio 1849.

444. Monitore del 20 febbraio 1849. — Alba del 21 febbraio 1849.

445. Prova di questo, e, molto più, prova dell'animo disposto a partire quando avessi potuto farlo senza pericolo della Patria e di me, sta appunto nello invio dei familiari e delle cose più necessarie a Livorno: «Al Governatore di Livorno. — Mandi a casa mia ordinando a Maria che faccia valigia, o valigie di vesti, biancherie, e scarpe, e quanto altro per me, e pel nipote può occorrere, e spedisca immediatamente a Lucca al Palazzo della Prefettura. Guerrazzi.» — ( Dispaccio telegrafico del 20 febbraio 1849. — Documenti dell'Accusa, pag. 421.)

446. A questa disposizione dell'animo, e a questo fatto accennano l'espressioni del Proclama del 20 febbraio 1849: «Quanti sentono in cuore affetto alla Patria e alla Libertà, con tanto sudore e con tanto sangue acquistata, sappiano fare com'essi: prendano un'arme, e accorrano a difenderle

447. Documenti dell'Accusa.

448. Avverti, che questo conto incomincia dal 22 febbraio e va al 27 del medesimo mese. Altrove ho detto da chi, e perchè questo conto fosse stato pagato.

449. Documenti dell'Accusa, pag. 288.

450. Notai altrove come il Segretario cav. Allegretti scrivesse al signor Biavati, che guaio grande sarebbe venuto addosso alla Toscana, se io avessi abbandonato il Governo; ora avverto, secondo che la memoria mi viene ricordando, come sovente, andato a prendere il signor Adami per recarci a casa insieme, incontrassi nella sua stanza il Segretario cav. Menzini, e quivi trattenendomi alquanto lamentava le soverchie fatiche, e la non sopportabile contesa contro lo impeto della Setta prevalente, e apriva l'animo mio deliberato a scansarmi appena me ne capitasse sicuro il destro; alle quali proteste il Segretario Menzini commosso mi pregava a mutare consiglio, imperciocchè se io avessi ciò fatto poteva stare sicuro, che tutti i buoni impiegati mi avrebbero tenuto dietro. Crederei far torto al signor Menzini uomo di molta sufficienza, e di ottima indole, se lo confortassi a non volersi dimenticare, mentre io mi disfaccio in prigione, quello ch'egli mi diceva in Palazzo.

451. Documenti, pag. 208.

452. Documenti, pag. 321. Il Dispaccio occorre a pag. 296.

453. Invero non penso che per me sarebbonsi usati tre infiniti uno dopo l'altro della medesima desinenza: « cospirare a turbare l'ordine, che dice raccomandare.» E certamente poi non avrei scritto la frase: « l'Ammiraglio, che s'impedisce,» ch'è solennissimo svarione grammaticale; ma sì l'ammiraglio che impedisce.

454. Edinburgh Review, citata altrove.

455. Hume, Storia d'Inghilterra, cap. 72.

456. «Ah! on ne fait pas de l'autorité avec du gouvernement, avec de l'administration toute seule. On ne fait pas de la prospérité avec de la compression ou avec de la prospérité matérielle seulement. On ne fait de l'autorité qu'avec les principes, les hommes, les vertus de l'autorité.» E lo bandisce De Falloux, l'ardente realista, all'Assemblea di Francia, nella Discussione del 13 luglio 1851, intorno alla necessità del rivedere la Costituzione.

457. Non è fuori di proposito avvertire, che il Monitore Toscano del 22 febbraio avvisava la partenza del Granduca senza riflessioni, senza dimostranza alcuna, che rivelasse contento di scopo ottenuto: «Riceviamo da Grosseto la seguente notizia officiale. Leopoldo II, dopo avere imbarcato tutto il suo equipaggio, e dopo aver tenuto un lungo Consiglio con i Ministri Esteri presenti a Santo Stefano, si è recato a bordo del Vapore inglese Bull Dog insieme alla sua famiglia e parte del seguito. Ciò accadeva a 10 pom. precise.» Ma quello che più importa è, che Giovanni Sordini, che fu ospite di Sua Altezza, invece di perdere la fiducia del Governo, con molta querimonia della Fazione Repubblicana, fu messo a parte della Commissione di Sicurezza pubblica, e non incontrarono molestia il Nieto e il Lambardi, che si erano mostrati devoti al Principe nell'ora della sventura. Ed eccone la prova: «Vedete, che cosa vuol dire, che il Governo Provvisorio non abbia impiegati fedeli al suo servizio. Con un Tenente del Porto granduchista per eccellenza, ed uno dei primarii, e più furbi reazionarii, non potrà sapere mai nulla. E per aggiunta questo Tenente è, come sapete, anche Gonfaloniere. Nel Comitato di pubblica Sicurezza vi è il Sordini, quegli che ha tenuto in casa il Granduca.....» — ( Corrispondenza dell'Alba, Nº del 28 febbraio 1849.)

458. Il Prefetto di Pisa al Ministro dello Interno. «Scrive il Delegato di Massa perchè comunichi subito: la votazione ha avuto luogo senza il concorso dei Sardi. Avenza è nostra: due soli voti pel Piemonte. Tutto è proceduto con calma; ora gran festa. Io vado a prendere possesso con la truppa. La Popolazione ci viene incontro festante dalla..... a un miglio d'Avenza.» — (Dispaccio telegrafico del 12 decembre 1848. — Documenti a pag. 466.)

459. Nel Volume dei Documenti a pag. 469 leggo questo Dispaccio: «Il Prefetto di Pisa al Ministro della Guerra. — Trascrivo il presente Dispaccio del Generale De Laugier, che me ne incarica. — Massa Ducale, 24 decembre 1848. Ore 4 pom. — Forza maggiore piemontese cacciò via con minaccia di fuoco da Parana i Toscani. Protestammo. Istruzioni per ciò, ed anche per Avenza al bisogno. Il Generale De Laugier, — Ore 2, 55 min. ant.»

460. Questo fatto nel libro di Luigi Carlo Farini, intitolato Lo Stato Romano, così si racconta:

«... Ma nel momento in cui i Costituzionali toscani si ponevano a grave repentaglio tentando aiutare l'impresa del Laugier, i consigli della Corte di Santo Stefano cambiavano intieramente. Erano colà giunti da Gaeta sopra un battello a vapore il Bargagli ministro presso la Santa Sede ed un Saint-Marc francese, faccendiere legittimista, i quali col granduca e colla sua famiglia ebbero confidenti colloquii per un giorno intiero, senza che i legali fossero chiamati a consiglio od avessero sentore degli avvisi che quelli recavano. Avevano recate lettere del Santo Padre pel granduca, lettere e consigli del cardinale Antonelli, della Corte di Napoli, della Duchessa di Berry, dell'Esterhazy, dei legittimisti, pel granduca, per la moglie, per la sorella, per la Corte Toscana. Il giorno appresso, convocati i legati, il granduca disse, avere ricevuta una lettera di Gaeta (che poi quelli seppero essere del papa), in cui si diceva, che l'Austria non permetterebbe mai che il Piemonte intervenisse in Toscana, e che non prima le truppe piemontesi passerebbero la frontiera, il maresciallo Radetzky muoverebbe sopra Torino; che presto Austria, Francia, Spagna e Napoli restaurerebbero coll'armi il papa, e che il Piemonte era al bando dell'impero e del sacerdozio. Per le quali cose, soggiunse il granduca, aveva dovuto convincersi, essere suo debito di ammonire prontamente il re di Sardegna dei pericoli che correva, dichiarandogli, non volere essere cagione delle disgrazie che lo minacciavano, e quindi aveva rinunziato all'aiuto ricercato prima, ed aveva mandato ordine al generale Laugier di astenersi o dare indietro dall'intrapresa che gli aveva affidata. I legati furono maravigliati ed afflitti da questo discorso, se si eccettui monsignor Massoni internunzio pontificio, che fece segno d'assenso. Un d'essi, lo Svedese, notò che la notizia mandata da Gaeta delle deliberazioni dell'Austria non poteva essere fondata sulla verità, perchè a Gaeta non si poteva avere sentore il giorno 18 d'una determinazione qualunque presa dall'Austria in Olmutz intorno all'intervento piemontese chiesto con lettera del granduca, giunta a Torino soltanto il giorno 17. Le notizie di Gaeta adunque, soggiungeva, facevano fondamento in un desiderio, forse in un consiglio di là mandato all'Austria, o in una semplice supposizione, e perciò non doveva il granduca fondare in quelle i suoi giudizii e le sue deliberazioni. Pensasse, che avendo l'Austria accettata la mediazione della Francia e dell'Inghilterra a Brusselle, non poteva credersi nè che il Piemonte, contro l'avviso della Francia e dell'Inghilterra, pigliasse l'impresa della restaurazione in Toscana, nè che quelle permettessero all'Austria di assalire il Piemonte per simigliante cagione: perciò conchiudeva, che il granduca dovesse scrivere di nuovo a re Carlo Alberto, non già rivocando la domanda del soccorso, ma sì disdicendo la lettera che aveva mandata per rivocarlo, ed avvertendolo semplicemente delle notizie che di Gaeta aveva ricevute. Parve Leopoldo arrendevole a questi ragionamenti e consigli, e fatto venire innanzi a sè il Legato Sardo, gli consegnò una nuova lettera pel suo re....»

Però io sono ben lontano di fondarmi sopra uno Scrittore, il quale, per mostrarsi svisceratissimo del Piemonte, fatto di ogni erba fascio, tanto è feroce contro coloro, che reputa poco disposti a caldeggiare le fortune piemontesi. Il suo zelo per cotesto nobile Reame io lodo, la passione di avvantaggiarlo con ogni possa approvo, ma io non so quanto primieramente alla sua coscienza provveda, e poi gratifichi ai Popoli subalpini, assalendo con falsità manifeste e continue la fama di tale, che, quando pur volesse, non gli potrebbe rispondere: egli sovente si duole, che la parte a lui avversa non abborrisca dalla calunnia, ed a ragione la rampogna; ma, fratello, tu vedi la paglia nell'occhio altrui, e nel tuo non ti accorgi del trave; invece di maledire la calunnia, parmi, che tornerebbe meglio evitarla; oh! da siffatti aiuti aborrono i generosi; nè penso io, che imprenda opera patria colui, il quale invece d'indagare pacato gli errori di tutti, e riprenderli mite per documento del futuro, inacerbisce gli animi affannati sotto il flagello della lingua dolosa. Ai magnanimi piacciono i magnanimi, non i saccardi, che traggono dietro agli eserciti per ispogliare i morti, e graffiarli nel volto con disonesta ferita. — E tanto basti; però in proposito della citazione estratta dal libro del signor Farini avverto, che non mi sembra verosimile la terza lettera del Granduca al Re Carlo Alberto, o almeno del tenore che egli asserisce; imperciocchè, se disdicendo la disdetta avesse S. A. confermato la chiamata delle milizie piemontesi, la sua partenza dal Porto Santo Stefano, secondo che ragione persuade, avrebbe dovuto somministrare motivo ad affrettarne la marcia piuttostochè a differirla, e a contrammandarla. Intorno al fatto in discorso, sappiamo come fosse motivo della dimissione del Presidente Gioberti dai Consigli del re Carlo Alberto. Da quello che resultò nella celebre Seduta del Parlamento Sardo del 21 febbraio 1849 sembra potersi ritenere, che Gioberti, inconsulti Colleghi e Parlamento, offrisse intervenire con le milizie piemontesi in Toscana.

461. Io ho chiesto le Corrispondenze ufficiali, e fin qui non mi si vollero dare; sicchè con che cosa io abbia a difendermi non si sa vedere. Nel Monitore trovo il seguente Dispaccio del Comandante di Piazza di Carrara al Ministro della Guerra, in data del 19 febbraio 1849:

«Il General De Laugier s'è messo in aperta ribellione col Governo Provvisorio, giacchè avanti ieri essendosi recato a Pietrasanta vi lesse un Proclama di Leopoldo d'Austria, quindi da pochi birbaccioni fece suonare le campane a festa, e lacerare tutti i proclami del Governo Provvisorio; in seguito, presa mezza batteria, la fece trasportare al forte di Porta appostandola in direzione ostile, guardata da circa dugento soldati che io stesso vidi. — Il Delegato di Massa già aveva protestato contro l'infame attentato del De Laugier; mi trasferii subito a Carrara.

I Carraresi si sono condotti degnamente, giacchè tanto il Municipio che la Guardia Nazionale e tutta l'intiera Popolazione non hanno voluto riconoscere il potere militare di De Laugier, ed hanno fatto rispettare tutti i decreti del Governo Provvisorio che stanno affissi nelle muraglie; agli stessi pochi soldati che qui stanziano, è stato comunicato lo spirito della popolazione di Carrara, stantechè il proclama di Leopoldo d'Austria, ch'era stato affisso alla porta del loro quartiere, è stato da loro stessi lacerato, e ve ne hanno sostituito un altro in favore del Governo Provvisorio, dimodochè penso che l'attentato del De Laugier sia ormai sventato, non avendo ottenuto, come egli sperava, l'appoggio morale di queste popolazioni

Nei Giornali del tempo trovo quest'altra corrispondenza:

«Massa, 21 febbraio. — Noi ci troviamo in tale incertezza, in tale stato d'inquietudine, che vi giuro mai provammo l'eguale. Il Generale De Laugier, dopo aver fatto affiggere una protesta in nome di Leopoldo, si diede quindi a correre le nostre contrade seguito da parecchi Dragoni a cavallo, e gridando Morte ai Repubblicani, Viva Leopoldo II. Il Municipio, composto d'uomini deboli o peggio, non ha fatto alcuna protesta pubblica contro di esso. Solo il Circolo popolare alzò la sua voce di disapprovazione, dichiarando che il Popolo di Massa non parteggiava per alcuno, ma solo per l'Italia e per l'Indipendenza; ciò procurò da parte del De Laugier una minaccia di oppressione, stato d'assedio, e peggio. Non sappiamo nulla di positivo della Toscana; correte però presto a liberarci, che le tiranniche violenze di questo piccolo despota ci sono insopportabili.»

Dispaccio telegrafico del Prefetto di Lucca del 18 febbraio: «Il Vicario che oggi mi scrive era impedito ieri, perchè guardato a vista; — non posso sapere il vero stato delle cose, perchè a Massa e Carrara Laugier esercita potere sovrano e dittatoriale, a quanto si dice.»

462. Le corrispondenze officiali, di queste mene non tacciono. La Sentenza della Corte Regia di Lucca del 4 giugno 1880 dichiara: «Attesochè altri non manchino i quali affacciano il sospetto, che fra i segreti agitatori delle campagne alcuni vi fossero avversi a un tempo alla democrazia e alla Dinastia Lorenese, e coltivassero la occulta mira per ricondurre il già Ducato di Lucca a condizione di cose impossibile;» — ma più esplicitamente i Giornali dei tempi intorno alle mene pei Piemontesi.

Il Popolano del 15 febbraio 1849 così allarma il Governo Provvisorio con le sue corrispondenze lucchesi, che in sostanza erano vere: «A Lucca pure i fervidi patriotti perdon coraggio per la fiacchezza del Governo, che sembra volontario ficcarsi negli occhi le dita per nulla scorgere di quanto gli succede dattorno. Note di adesione al Governo Sardo circolano sempre per la città, e diecimila Piemontesi sono alle frontiere, presso Sarzana, desiderosi di porre il suggello del fatto compiuto alla perfida macchinazione della trista combriccola della Riforma, foglio svergognato e venduto, a cui, nei tempi che corrono, e nel bisogno di unione e di quiete interna che supremo impera, non dovrebbe bastare lo invocare la libertà della stampa per proseguire nelle sozze sue opere; e come austriaco, e come traditore della patria, esser dovrebbe messo fuor della legge, e condannato alla pena dei facinorosi.»

«Le più allarmanti notizie fannosi correre in quel paese (Lucca) pieno di generosi intelletti, ma dallo iniquo partito, soverchiante, tenuti isolati e divisi.

« Ieri abbiamo da lettera di onesto cittadino tenersi colà per certo l'accordo del De Laugier col Piemonte. Alla menzognera notizia una mano di soldati con insolita burbanza dirigevasi sulla piazza di San Michele, dichiarando ad alta voce non volere eglino prestar servigio al Governo Provvisorio, perchè — urlavan essi — composto di tre assassini, e proseguirono in altre esecrande invettive finchè parte di Popolo non gli ebbe ricondotti a forza nella loro caserma, dopo essersi impossessata delle armi. I cittadini spontaneamente si dettero a pattugliare per la città, ove niun disordine ebbe luogo, ma non fu però potuto impedire fossero sparsi fogli sediziosi fralle truppe, colle quali insinuavasi dovere eglino persistere nel loro proposito di non servire ad un Governo che ci conduce al macello. Di tutta la Ufficialità risiedente in Lucca due soli hanno parlato a pro di esso: gli altri permisero che alti personaggi s'introducessero nel quartiere militare, e vi spargessero danari per sovvertire sempre maggiormente i soldati.

Questi fatti avvenivano in Lucca parimente il dì 12, e se una protesta a stampa, scritta dai buoni soldati, circola e condanna la mala condotta dei traviati compagni, ciò non dee mica impegnare il Governo a starsene inerte spettatore delle lotte intestine, nè ad aspettare che la battaglia cessi o per mancanza di combattenti, o per breve sosta prodotta da stanchezza più che da persuasione.» — ( Popolano del detto giorno.)

463. «Noi lo abbiamo sempre predicato: la libertà e gli eccessi appianano la via alla reazione!... Sì, la persuasione del si stava meglio prima, sentita nei cuori di gente ignorante ed illusa, potè essere tradotta nel grido forsennato di Viva Carlo Lodovico; e l'eresia politica della separazione trovar numerosi partigiani..... Ora dunque tocca al Governo ad unire l'opera sua con quella dei buoni cittadini, perchè le difficoltà che ci circondano sieno dissipate, e sia tolto ogni pretesto alle mene di reazione che ci minaccia.» — ( Riforma, 2 gennaio 1849.)

464. Dispaccio telegrafico del Governatore di Livorno, 18 febbraio ore 6, m. 3 p. m. — Documenti, pag. 484.

465. Documenti, ivi.

466. Ivi, pag. 284.

467. « Gli esuli lombardi accorsero tutti a difendere la libertà minacciata, e la legione pollacca, sebbene rientrata in Firenze da poche ore, dimenticò la fatica e la stanchezza per accorrere a difesa della terra che l'ha ospitalmente raccolta.» ( Monitore del 22 febbraio 1849. ) — Dunque se nella notte del 21-22 Lombardi e Pollacchi erano a Firenze, non potevo a un punto essermeli tratti dietro il 20. L'Accusa volle sempre mostrarsi esatta così.

468. In Massa i Partiti, secondo le informazioni, erano tre, e fierissimi tutti, che attendevano il destro di romperla crudamente fra loro, il Repubblicano il più ardito, lo Estense il più numeroso, il Costituzionale il minore.

469. Merita esame profondissimo la seguente lettera da me mandata al R. Delegato conte Staffetti, mentre io durava nei Consigli della Corona: per essa si comprende come la mia politica fosse la conseguenza franca e decisa del Decreto del 12 maggio 1848 — (Ministero Compini ), — e della Commissione data il 22 settembre al Marchese Ridolfi — (Ministero Capponi ), — sia intorno alla consulta del voto popolare, sia intorno alla necessità di accorrere con tutte le forze in soccorso dei Lunensi:

«Al signore Conte Andrea Del Medico Staffetti Delegato R. di Massa e Carrara.

«Signore Delegato, Amico carissimo.

«Io ho motivo fondato per credere che le minaccie, e le paure relative al paese alla fede vostra commesso, e che voi con senno pari alla energia governate, si abbiano a reputare per vane; e nonostante, quando fossero vere, il Ministero è deliberato difenderlo con ogni supremo sforzo, così persuadendo la politica, l'onore, e il dovere.

«Uno Stato, perchè duri, e non sia uno scherno geografico, concedetemi la espressione, ha mestieri di confini naturali. La natura gli ha dati alla Toscana; essa ha potuto conseguirli; e adesso deve mantenerli. — La difesa esterna, alla quale ogni Stato che non si voglia ridotto nella condizione di schiavo tremante ha diritto, così ordina. L'amministrazione interna, per le ragioni che ogni uomo intende, senza pure tôrmi il pensiero di esporle, così domanda. — Il Trattato di Vienna ormai, nella divisione territoriale del nostro Paese, fu chiarito assurdo, e Dio volesse che fosse stato assurdo in questa parte soltanto!

«Qualunque sieno le sorti che la Provvidenza riserba alla Italia, confido in questo, che, se avranno a decidersi co' Congressi, agli antichi errori verrà riparato col senno; se poi con le guerre dei Popoli, saranno emendati con la spada. Ad ogni modo vogliono essere corretti, se non si ama perpetuare gli argomenti della inquietudine, e saranno.

«E ciò posto da parte, noi vi abbiamo aperto le braccia, voi vi ci siete precipitati dentro, e ormai questo amplesso ha da essere indissolubile. La libera votazione del Popolo è l'unico, e il santo diritto divino dei Principi: infatti la libera volontà dell'uomo, determinata dalla segreta ispirazione del suo Creatore, è il modo col quale in simili bisogne Dio si rivela agli uomini; e questa dottrina io penso che non abbisogni essere dimostrata.

« Non sarà detto che voi abbiate ricevuto danno per la benevolenza dimostrata con modi così solenni a noi Toscani. Voi siete per natura, e diventaste adesso per libero consenso della mente, quasi carne della nostra carne, ed ossa delle nostre ossa. Noi vi difenderemo da tutti, e ci salveremo, o periremo insieme.

«Poche sono le forze nostre, e non pertanto bastano contro i nostri nemici; e poi stanno per noi la ragione, e il buon dritto, che, come la esperienza insegna, fanno forza agl'Imperii più poderosi.

«Queste leali ed esplicite dichiarazioni avranno, io spero, virtù di assicurare i timidi, e confermare i risoluti.

«S. A. R. rimase oltremodo commossa dello amore dimostrato in tale occasione da cotesti Popoli; io vi commetto lo incarico onorevole di farglielo palese, e assicurarli ch'essi vengono con altrettanto affetto ricambiati; e il Principe e il suo Ministero vi aspettano con ansietà, mio egregio Signore, per consultare insieme intorno ai provvedimenti valevoli per promuovere ogni maniera di prosperità di coteste popolazioni benemerentissime.» — ( Monitore, 20 decembre 1848.)

470. Dispaccio al Prefetto di Lucca del 23 febbraio 1849 — citato altrove: «Sono giunto a Pietrasanta: poco dopo è arrivata la colonna condotta dal Maggiore Petracchi, la quale, preso un poco di ristoro, si dirige immediatamente verso Viareggio. Qui attendo il Generale D'Apice. Mi vengono notizie avere Laugier inchiodati i cannoni al posto di Porta, e fuggir via; indietreggiato fino a Massa, avere sciolto i soldati, che percorrono sbandati il Paese, ed Egli essersi salvato

471. Documenti dell'Accusa, pag. 814.

472. L'Accusa, spigolando per nuocere, trova che il Prefetto di Lucca annunziava: «Il Dottore Casali avverte il Presidente, che un amico livornese ha deciso per lo arresto della madre di Laugier, e se tuttora è in Livorno sarà custodita.» — (Documenti dell'Accusa, pag. 484.) — Ma l'Accusa non ha riportato il mio Proclama per salvare da tanta infamia il capo della povera madre; e lo riporto io: «Essendoci pervenuta la notizia come alcuni del Popolo crucciati per lo empio attentato di Cesare Laugier abbiano manifestata la intenzione di arrestare sua madre dimorante a Pisa: Si ordina sotto pena della indignazione del Governo, che sia rispettata religiosamente..... — Camaiore, 22 febbraio 1849.» — ( Era Novella, 24 febbraio 1849. — Conciliatore, 26 febbraio 1849.)

473. Thiers, Histoire de la Révolution (Convention), pag. 232, edizione citata. — Blanc, tomo 2, pag. 445, edizione citata.

474. Berghini, di cui ragionerò fra poco.

475. Non è già per cattare sacerdotale benevolenza, ma per dire il vero, che qui ricordo con quanto studio io cercassi porre i Preti in grazia al Popolo; invero, aprendo a caso l' Alba del 1848, a c. 1264, trovo: «Alla lettura dei nomi dei due Canonici, alcuni hanno obiettato: non vogliamo preti; Guerrazzi ha fatto osservare, che fra questi vi sono anche molti buoni, e che uno della Deputazione» (erra, parlai di Monsignor Gavi) «era dispensatore ai poveri di molte migliaia di lire l'anno. Il Popolo ha annuito.» — Io, che sono un uomo tagliato all'antica, tenevo sempre la mente volta a quello che il Segretario Fiorentino dice, nei Discorsi su le Deche di Tito Livio, della religione dei Romani, ammonendo con ragioni e con esempii buoni com'essa fu parte non piccola a formare in loro la virtù per cui conquistarono il mondo.

476. Il signor Farini, nel Vol. III, a pag. 255, della sua Opera su lo Stato Romano, parlando di Vincenzo Gioberti, scrive: «i ministri toscani (obbrobrio!) lo ingiuriarono villanamente.» Vincenzo Gioberti, uomo di mente, e perciò di cuore grande, deplora questi importuni ricordi, come li deploro io; ed entrambi (ne sono certo) daremmo molto, ma molto assai, perchè i fatti che somministrano argomento a simili scilomi andassero obliati, o, se possibile fosse, non fossero accaduti: ora aizzare l'uno contro l'altro non è opera a cui bastino gl'ingenerosi: le nostre destre non si sono potute toccare; ma con gli spiriti già ci siamo abbracciati, piangendo sopra la Patria, e su noi.... Fermo questo, come spero, devo ammonire il signor Farini, che anche qui erra; e mi conceda, che io gli aggiunga, ciò accadergli troppo spesso, onde il suo Libro, che pure è dettato con vaghezza di stile, si levi alla dignità di Storia. — L'Accusa, a cui cotesto libro (e veda il Farini a che cosa meni la parte di Don Marzio nel mondo) è servito di lanterna, e, come a Dio piacque, fallace, per impegnarsi dentro al laberinto delle sue bugie, stampa nel Volume dei Documenti a pag. 860 la prova, che il Governo Provvisorio toscano non insultò, ma fu insultato. La dichiarazione del Governo Provvisorio di Toscana del 17 marzo 1849 fu provocata dalle furiose e non degne parole contenute a riguardo nostro nel Saggiatore, Giornale politico. Quanto era meglio pel signor Farini, ed anche per tutti, non accennare a questa miseria, molto più se si considera ch'ei lo fece allo scopo di aggravare con menzogna me travagliato anche troppo!

477. Lettera di V. Gioberti al Muzzarelli, del 28 gennaio 1849.

478. Lamartine, Histoire de la Révolution de 1848, Bruxelles 1849, tom. 1, pag. 194. — Qui ho parlato di Decreto pubblicato senza ch'io lo firmassi: nell'Appendice terrò discorso di altro Decreto da me firmato senza averlo letto.

479. Documenti. pag. 549.

480. Pare che l'estensore di codesto Proclama in quel giorno fosse di Guardia alla punta del Molo!

481. «Nuovi avvenimenti minacciavano di tornare ad alterare nel decorso giorno in Empoli l'ordine pubblico, e la quiete della popolazione. — Non appena tal notizia giungeva a cognizione delle Guardie di Finanza appartenenti alla Brigata di Firenze, che spontanee ed animose si offrivano di andare a tutelare quanto ha di più caro e di più sacro il cittadino che veracemente ama la sua Patria diletta. Esse partirono alla volta di Empoli la decorsa sera, condotte dall'Aiutante Maggiore Pietro Giovannoli. Possa un tale esempio di paterna affezione essere apprezzato quanto merita, e seguitato quanto n'è il bisogno, da tutti i buoni Toscani i di cui costumi, la di cui concordia, il di cui sagace e retto intendimento ne assicurano, che anche in questi solenni momenti non ismentiranno quella commendata opinione, che per tali virtù sempre mai si meritarono. Firenze, 23 febbraio 1849.» — (Documenti dell'Accusa, pag. 846.)

482. Documenti, pag. 247.

483. Documenti, pag. 247.

484. Ivi.

485. Documenti, pag. 286.

486. Ivi, pag. 249.

487. L'Accusa pare, che faccia nascere i sassi

Dal più profondo e tenebroso abisso, per urtarvi dentro: invero la disciplina militare difficilmente troverebbe cultore più passionato di me; quando mi pervenne la notizia della strage del Giovannetti la mia voce si levò nel Parlamento, perchè fosse sottilmente ricercata, e punita.

« Guerrazzi. — Mi vengono sicure notizie non solamente a carico della compagnia dalla quale si suppone che possa essere derivata la uccisione del Colonnello Giovannetti, ma ancora relative al pessimo contegno tenuto da tutto il Corpo dei Granatieri nella presente Campagna.

«Mi si annunzia di più che le provocazioni, le minaccie e gli scopelismi usati contro il Giovannetti datano da tanti tempi remoti; e per conseguenza domanderei al sig. Ministro della Guerra affinchè si facesse dovere di affrettare una simile inchiesta. Privatamente lo faremo anche noi, affinchè, corrispondendo a questa inchiesta le notizie che mi vengono date, sia proceduto con tutto il rigore della Legge, non solamente a carico della compagnia, ma anche contro tutto questo corpo di Granatieri; il quale, essendo corpo scelto, doveva dare esempio di disciplina, e, secondo le informazioni ricevute, avrebbe fatto tutto al contrario.

« Ministro della Guerra. — Dal momento in cui le nostre truppe mossero per la Lombardia fu istituito un tribunale militare a cui incombe l'incarico di fare le indagini necessarie dei fatti tumultuosi o dei disordini che avvengono nel campo. Io, nonostante, tornerò ad eccitare il tribunale, affinchè si occupi di queste indagini.

« Guerrazzi. Contiamo nella vostra lealtà e nella vostra giustizia affinchè questo abbia luogo.» — ( Monitore, Seduta del 16 agosto 1848.)

488. Vedi la sua dimissione mandata al Governo Provvisorio, negli Archivii.

489. «Il Prefetto di Lucca al Ministro dello Interno. Trascrivo un biglietto del Delegato di Massa e Carrara, che mi perviene in questo momento, così concepito — Massa 18 febbraio. Signor Prefetto. I Piemontesi non entrano. Laugier è sconcertato. Qui calma dignitosa. Altrettanto sia in Toscana, ed il folle progetto cadrà per la sua propria incostanza. Dirami questa notizia, e sopra tutto la comunichi al Governo.

«P. S. Io non sono ancora libero, nè le mie comunicazioni. Domani spero poter dare migliori notizie.» — (Documenti, pag. 484.)

490. Documenti, pag. 366.

491. Documenti, pag. 484.

492. Documenti, pag. 486.

493. Ivi.

494. Ivi.

495. Trovo sopra i Giornali così narrati i casi del 23 febbraio. A me non furono referiti diversi quando giunsi a Massa. «Massa, 23 febbraio. — Alle ore 10, mentre vi scrivo, il paese è in grande allarme. È ritornato a briglia sciolta tutto il treno con 22 pezzi di cannone e tutta la truppa a marcia forzata. Giunti sul piazzone del Palazzo, la popolazione in massa si è slanciata sui soldati del treno, lottando con essi, e gridando: Non partano più i cannoni. Allora gli artiglieri hanno staccati i cavalli che sono stati condotti in una stalla e guardati dal Popolo, i soldati tutti si sono sbandati, fuggendo chi per la Toscana, chi per le montagne, chi vendendo la roba per mangiare, essendo digiuni da 48 ore. Veduto Laugier tutto questo, abbenchè dicesse non voler cedere la Piazza, è uscito dal Palazzo a cavallo scortato dai Dragoni con sciabole sguainate, ed ha gridato: Valorosi soldati, seguitemi; io ho la cassa, andiamo a unirsi a Fosdinovo: chi mi vuol bene mi segua. — Dopo questo parole è scappato come il Demonio con la Cavalleria verso Fosdinovo; si crede però che i Dragoni torneranno indietro.» — ( Alba, 23 febbraio 1849.)

496. «Il Municipio di Firenze — dopo avere speso ogni cura a remuovere dall'animo del Principe il pensiero di uno allontanamento, lealmente offeriva il suo concorso agli uomini che di necessità assumevano il grave incarico di reggere provvisoriamente il Paese in sì difficili momenti.» — (Deliberazione del Municipio Fiorentino del 12 febbraio 1849. — Documenti dell'Accusa, pag. 314.)

497. Monitore del 26 febbraio 1849.

498. Deliberazioni Municipali del 24 febbraio 1849. — Documenti, pag. 315.

499. «Cittadini del Governo Provvisorio.

«Non avendo avuto tempo a convocare un'Adunanza Magistrale, ho riuniti presso di me diversi Priori, li ho consultati sul ritardo della revoca della Legge Marziale. Tutti siamo unanimi nel mantenerci fermi nei principii esposti nella nostra Deliberazione del 24 corrente, e non possiamo secondare le vedute del Governo in quanto sono contrarie a quei principii.

«Considerando però che il Governo solo è responsabile de' suoi atti, e non volendo essergli d'impaccio in momenti pericolosi, mentre non revochiamo, nè revocheremo mai le nostre rimostranze, consentiamo bensì ad aggiornarne la pubblicazione.»

500. «Il Circolo del Popolo di Firenze nella Seduta del 26 febbraio 1849 ha decretato:

«Che il Circolo del Popolo inviti tutti gli altri Circoli non solo, ma tutti quanti i nostri fratelli democratici, perchè vogliano recarsi giovedì prossimo 1 marzo sulla Piazza del Popolo a ore 12 meridiane, onde sia mandata ad effetto la proclamazione della Repubblica e della Unione della Toscana con Roma, già decretata dal Popolo di Firenze col suo precedente Decreto del 18 febbraio corrente, ed accettata da altri Circoli e da molti Municipii dello Stato.» — ( Popolano, 28 febbraio 1849.)

501. «L'attitudine della popolazione, riservata e fredda innanzi le tumultuarie o violente manifestazioni, e alle intemperanti e premature esigenze di alcuni che pretendono d'imporre la loro volontà a tutta la Toscana, usurpando e preoccupando i diritti del Popolo tutto... gli traccia la via che egli dee battere... Non sarà possibile far nascere l'ordine e imprimere il moto a questa massa che va in sfacelo ec.» — ( Nazionale del 23 febbraio 1849.)

502. «Il Comandante la Piazza di Pisa al Ministro della Guerra. In quest'oggi son giunte da Lucca due Compagnie, una del Battaglione Italiano e l'altra dei Volontarii Lucchesi, e per non esservi più partenze per Firenze, loro destino, questo Prefetto ha ordinato che partano dimani col primo treno. In questo momento il Popolo unitamente a una parte dei suddetti militi sono andati alla Caserma della Cavalleria, ed hanno obbligato i soldati ad uscire con loro, e andar vagando per la città, gridando: Viva la Repubblica.» — (Documenti dell'Accusa, pag. 493.)

503. «V'inviamo i cittadini Canonico Alfonso A., Capitano Francesco G., Canonico Carlo R. e Avv. Giuseppe D. G., Agostino R. e Oreste M., socj del nostro Circolo; i quali sono stati eletti per recarsi costì ed unirsi a Voi, ed ai Deputati degli altri Circoli Toscani, nella Dimostrazione da farsi al Governo Provvisorio giovedì prossimo, per chiedere che sia mandata ad effetto la proclamazione della Repubblica e l'unificazione della Toscana con Roma, a seconda di quanto è stato annunziato col num. 465 dell' Alba.

«Accoglieteli ec. — Li 27 febbraio 1849.» — (Documenti, pag. 124.)

504. «Cittadino Presidente del Governo Toscano.

«Il Circolo del Popolo di Firenze ha inviato quest'oggi in Siena e nei dintorni dei Commissarii per ottenere che per giovedì futuro una banda di Popolo ed una Deputazione di questo Circolo da me presieduto si portino a Firenze per proclamare definitivamente in piazza la Repubblica e la Unione con Roma.

«Fra questi Commissarii è un tal B. aderente di M.

«Dubitando io della fede dei messaggi qua venuti, non ho voluto precipitare, ed ho rimessa a dimani sera l'adunanza pubblica di questo Circolo.

«Il predetto B. ha fatto sentire che tutti i Circoli Toscani invieranno giovedì prossimo i Deputati a Firenze, che Livorno si verserà tutto nella Capitale per eseguire quanto sopra.

«Io ho obiettato al B. che non mi sembrava utile o decente lo attraversare i passi del Governo, e paralizzare la convocazione della futura Assemblea Legislativa già decretata dalla Legge.

«Ho obiettato ancora, che avendo il Popolo di Firenze proclamata la Repubblica, salva l'adesione del Parlamento, non poteva porsi in contradizione con sè medesimo con lo impedire che questo Parlamento sorgesse a stabilire la forma definitiva del nostro Governo. Ho avvertito infine che gli ultimi avvenimenti della Toscana, le reazioni abbattute, i Governi Popolari stabiliti di fatto, erano tali elementi che obbligavano senz'altro la futura Assemblea a proclamare la Repubblica.

«Queste cose io andava dicendo al B. ed altre molte. Quest'ultimo peraltro ha insistito nel sostenere che è urgente il proclamare giovedì prossimo la Repubblica e la Unione o Fusione con Roma, non mancando d'insinuare segretamente a molti che anche il Governo desidera di abbandonare la via della legalità e procedere con la Rivoluzione.

«In questo stato di cose, io ho preso il partito di rivolgermi a voi, Padre della Patria, per domandare istruzione e consiglio.

«Immensa è la popolarità che io ho acquistata in questo paese; come Presidente poi del Circolo, posso fare e disfare.

«Debbo io secondare, o impedire in questa città i progetti del Circolo fiorentino? Attendo replica con la prestezza del fulmine per regolarmi.

«Avverto che domani sera il Circolo Pubblico, che suole essere numerosissimo, si adunerà a ore 24 al Teatro dei Rozzi.

«È urgente adunque che prima di quest'ora la replica mi giunga.

«I Senesi sono quasi tutti Repubblicani ec. — D. D. C.»

(Documenti, pag. 217.)

505. «Il ritardo di posta dell'invito, che piacque a voi, Cittadino Presidente, d'indirizzarci all'effetto del nostro intervento sulla Piazza del Popolo in questo giorno 1º marzo per solennizzare la proclamazione della Repubblica e della Unione della Toscana con Roma, è stato sentito con generale dispiacere, giacchè impedì di adunare il Circolo, e di aver tempo sufficiente per trasferirvisi.

«Non accusate adunque il nostro Circolo di poca buona volontà, ma ascrivete la mancanza della nostra assistenza a questo atto solenne di libertà italiana, al non avere, come molti altri Municipii, un corso giornaliero e regolare di posta.» — (Documenti, pag. 127.)

506. «Ore 1 pom. — Il Popolo è deciso d'inalzare l'Albero della Libertà, gira le strade in gran numero con bandiere sormontate con berretti repubblicani. — Le campane di tutta la città suonano a festa. — L'Albero è stato portato sulla Piazza dei Cavalieri (una volta degli Anziani!!!). — Ore 2 ½. — Si leggono, affissi per tutti i canti della città, cartelli con questa scrittura: — Alle ore tre riunione in Ponte. — Una Deputazione numerosa di Popolo si è portata dallo Arcivescovo onde invitarlo ad assistere al Te Deum che il Popolo vuole cantare nel Duomo dopo l'inalzamento dell'Albero.» — ( Italia dei Giovani, 28 febbraio 1849.)

507. «Ieri Firenze sapeva imminente il ritorno del Guerrazzi. — Firenze esultante si apparecchiava a riceverlo, siccome era debito ricevere il compositore dello scisma nato dalla fuga di Leopoldo d'Austria. — Firenze gioiva ieri del cessato pericolo della guerra civile, siccome la sera del 21 fremeva accorrendo con pari gioia a difendere le patrie libertà contro i reazionarii illusi e trascinati dalle parole e dalle promesse dei nemici della libertà e dell'Italia.» — ( Nazionale, 27 febbraio 1849.)

508. Il Nazionale del 2 marzo narrava: — «Ieri sera vi fu pubblica adunanza del Circolo Nazionale nel teatro grande in Via Goldoni: era presente l'Avv. L. Deputato del Circolo di Firenze. Si trattò della dimostrazione che doveva aver luogo stamane in Firenze contro il Proclama del Governo Provvisorio del 27 p. p.; fu proposto di uniformarsi a quanto aveva fatto il Circolo della Capitale.»

Il Signor L., il quale si affaticava a fare contro me, adesso è incolpato con me e come me nel mostruoso pastone dell'Accusa.

509. «Il Prefetto di Pisa al Ministro dell'Interno. Comunico il seguente Dispaccio del Prefetto di Lucca, con avvertenza che i due contrassegnati nel medesimo dovrebbero dire M. e L., i quali furono qui al Circolo senza frutto. Martini.» — (Documenti, pag. 494.)

510. «L'Avv. M. e il P. L. erano stamane in Lucca a far gente per condurla a una dimostrazione in Firenze; mentre di mio ordine il Delegato di Governo li faceva cercare perchè desistessero, sono partiti. So che al Circolo Politico si sono affacciati per pochi momenti, che letta appena la Notificazione del Governo di ieri hanno renunziato all'idea ed al mandato che avevano dal Circolo Popolare di Firenze. Landi.» — (Documenti, pag. 494.)

511. «A Roma egli dà sollecita opera a quella unificazione, a cui la non si voleva piegare, e vi narra, che tutti i Toscani ne hanno desiderio, sebbene sappia il contrario; e perora e studia perchè si compia.» — ( Lo Stato Romano, vol. III, pag. 276, Ed. Le Monnier.)

512. Lord Hamilton, con piena cognizione di cose, scrive al suo Governo nel 27 febbraio. «La Toscana è minacciata da invasione esterna, da guerra civile, e da moti reazionarii nelle Provincie.» — Vedi Raccolta di Documenti citata.

513. È impossibile annoverare tutti gli errori commessi per leggerezza o per malvagità nel giudicare gli uomini politici del nostro tempo; per non iscostarci da casa, vediamo in certi libri Benoît Champy, ministro di Francia, accusato di alimentare le sedizioni in Firenze, mentre Benoît Champy ci si mostrò sempre moderatissimo uomo, e più presto inclinato alla Monarchia Costituzionale, che alla demagogia. Quale dovesse essere tra noi, lo fa conoscere il partito che, come rappresentante del Popolo, sostiene nell'Assemblea di Francia: egli appartiene alla destra, e, comunque nipote del Lamennais, parteggia per l'Eliseo, ed ha votato la revisione della Costituzione. — Lord Hamilton Baillie, ministro inglese, è detto intrinseco dei ribelli; e questo diplomatico fu onestissimo tory, amico del Principe e del Principato, aborrente da ogni trambusto, zelante propugnatore della civiltà; di più, percosso da insanabile malattia, la quale non gli permetteva uscire di casa, e talora nè anche ricevere visite. — Lord Palmerston viene designato sempre col mantice in mano per soffiare nel fuoco rivoluzionario d'Italia; ed io, salvo onore, ho da dire, che il nobile Lord assai si rassomiglia allo zio di Francesco Berni, di cui questo bizzarro ingegno cantò:

A Roma andai dipoi, come a Dio piacque,

Pien di molta speranza, e di concetto

Di un certo mio parente cardinale,

Che non mi fece mai nè ben, nè male.

Questa fallacia di giudizii non solo su gli uomini comparisce, ma su le cose ancora. I democratici di Europa si mostrarono parzialissimi alla rivoluzione di Ungheria; ed oggimai è provato che i Magiari non erano repubblicani nè democratici; stirpe fiera, tenace dei privilegii, conservatrice delle preminenze sopra la razza slava, aliena dalle idee e dai costumi stranieri; sprezzante di ogni novità per modo, che spesso pronunzia in guisa di proverbio quel detto: «Mio nonno stesso non intese mai favellare di questa cosa.»

514. Documenti, pag. 438.

515. «Certo con sacca e scuri non si andava a restaurare il governo monarchico-costituzionale. E se abbiamo detto, che in quelle campagne il grido di — Viva Maria — è quasi sinonimo di violenza e rapina, perchè non si reputi esagerata, o imaginata a comodo di difesa quest'asserzione, ci permettiamo di riferire alcuni versi del nostro amenissimo poeta Guadagnoli, scritti in uno dei vernacoli del contado aretino.»

Doppo che 'n tempo de la battitura

Fadighæ' quant'un æseno da basto,

Nun me spettevo mèo questa figura!

E pure armasto so come so armasto!

Cappodeddua! se doppo mïtitura

Dicio che 'l græn la ruggene avía guasto,

Alnotta tanto tanto se putía

De calche sacco fœ' VVIVA MARIA!

516. Conciliatore, 12 febbraio 1849, Nº 42.

517. Consultazione per Lionardo Romanelli, Firenze 1851, p. 24 e seg.

518. Rapporto alla Commissione Governativa Toscana. — Documenti, Pag. 350.

519. Rapporto sopra citato.

520. «Nè sembra potersi dire, che per questa volta la Legge marziale rimanesse opera morta, giacchè a comprimere ec.» — (Decreto del 10 giugno 1850, pag. 55.)

521. Plutarco, Vita di Pericle.

522. E tutto questo non meritava la Camera dei Pari di Francia, che salvò la libertà della stampa, propugnatore Chateaubriand, quando la Camera dei Deputati la sagrificava.

523. E sì, che questo re aveva cuore inglese, e della gloria patria pareva piuttosto fanatico, che amante. Si narra, che nella famosa battaglia al capo della Hogue, vedendo dall'armata inglese rotta la francese e con essa disperse le sue speranze del ritorno, diceva raggiante di allegrezza ai gentiluomini francesi, che gli facevano corona: «Ah! bisogna che voi lo confessiate, non vi sono che i miei Inglesi al mondo capaci di bussarvi in questa guisa.» Non importa dire se i gentiluomini francesi prendessero diletto di coteste regie parole.

524. Siccome temo, che chi legge non mi abbia a dare fede, — tanto parmi, ed è enorme il caso, — m'induco, comecchè repugnante, a copiare le parole precise del Decreto:

Considerando, che molti sono i fatti allegati dal Guerrazzi nelle sue MEMORIE per far sentire il predominio assoluto e costante sopra di lui della Fazione Repubblicana; ma oltrechè questi fatti non sono di tale importanza da stabilire una violenza irresistibile e continuata, somministra il Processo altri fatti, dai quali emerge l'influenza personale del Guerrazzi sulle turbe tumultuanti; essendosi di sopra notato, che dichiarò all'Assemblea Costituente di non averne timore, ed essendo egli più volte riuscito, come racconta, a contenerle e comprimerle a vantaggio di privati cittadini. — ( Decreto della Camera delle Accuse, § 53, pag. 92.)

525. Vedi parte della Lettera Gioberti a pag. 479 di questa Apologia, il rimanente, nell'Opera ivi citata.

526. Questo anche disse Napoleone Bonaparte, che fu quel grande e sviscerato Repubblicano che tutto il mondo conosce, nelle conferenze di Leoben, quando i ministri austriaci perfidiavano a riconoscere la Repubblica francese. — (Thiers, Histoire de la Révolution; Bruxelles, 1838, tomo II, pag. 380.)

527. Alba, 28 febbraio 1849. — A prova della continua pressura della Fazione Repubblicana si vogliano, in grazia esaminare questi frammenti:

«La volontà del Popolo è stata disconosciuta, contrariata, rinnegata. La disobbedienza del Governo chiedeva riparazione.... La decadenza del Principe, la Unione con Roma divengono oggi necessità, e con esse TUTTA QUELLA SERIE DI PROVVEDIMENTI ECCEZIONALI O RIVOLUZIONARII, dei quali abbiamo altre volte accennato, e non ci stancheremo mai di accennare. Laonde da oggi noi chiamiano ALTAMENTE RESPONSABILE il Governo Provvisorio, prima di tutto di essere appunto tuttavia Governo Provvisorio toscano. E ritorniamo a domandargli, che cosa ne sia avvenuto del Decreto del Popolo del dì 8 febbraio; che cosa ne sia avvenuto della Unione con Roma, della Repubblica proclamata in Firenze, in Pisa, in Livorno, per tutta Toscana! Oggi gli muoviamo queste parole senza rancore, senza ire, senza minaccie! senza disperare delle intenzioni sue. E lo invitiamo a rileggere la nostra epigrafe che risolutamente e irrevocabilmente riprendiamo quest'oggi: Unione con Roma ec. » — ( Alba, 25 febbraio 1849.)

« Unione con Roma: questo è il nostro grido, perchè lo crediamo, e lo sentiamo espressione di potenti bisogni, d'incalzanti necessità. Lo abbiamo innalzato dal primo dì in cui il Popolo provvide a sè; lo abbiamo di giorno in giorno ripetuto, sperando che destasse un eco, che provocasse una risposta: lo ripetè con noi la voce gagliarda e solenne del Popolo, prima come un voto, poi come una domanda: il Governo tacque al voto, alla domanda rispose barcheggiando. Non è più il tempo delle parole a doppio senso, delle mezze misure: abbiam francamente chiesto, francamente si risponda.»

«Molti serii motivi devono ora troncare gl'indugii, rompere i nodi. Quando noi abbiam per la prima volta inalberata la nostra bandiera politica, quando abbiam per la prima volta scritta sul nostro Giornale la epigrafe, che ne riassumeva le speranze e la fede, Leopoldo Austriaco non aveva ancora sciolto ogni vincolo, rotto ogni velo, smessa ogni maschera; non aveva ancora posata sulla sua spada tedesca la mano, che stendeva in atto bugiardo di pace, di unione; la minaccia non suonava ancora sulle sue labbra, che mormoravano l'antica commedia del Padre tenero e mite. Ora tutto ciò avvenne: egli ha spinti Toscani contro Toscani, ha tentato di gittare l'illuso Popolo delle campagne ad invadere, a distruggere le nostre città; ha implorate le baionette piemontesi per conculcare il Popolo suo, avendosi apparecchiata a' reali ritorni una via di delitti e di sangue: ma poichè i Toscani di contro a' Toscani rovesciarono i fucili, ed apersero, compatendo, le braccia; poichè le nostre città fermamente si opposero a' rei, disingannarono gl'illusi, convinsero i creduli; poichè all'intervento piemontese mancò il tempo e la sanzione del Popolo, e nella via dove sperava ire e discordie, trovò amore ed unione; il Principe Austriaco è fuggito, scornato e tremante, senza che un verace compianto lo accompagnasse, o che un nobile sdegno si curasse di maledirlo. Così anche gli ultimi nodi tra Principe e Popolo furono spezzati e per sempre. Perchè adunque se il fatto esiste, non proclamarlo? Che intende il Governo colla stretta e rigida provvisorietà, che vuol rispettata e salva ad ogni costo? Perchè dare a' nemici nostri il lontano sospetto di una transazione, che nessuno vuole, impossibile, non che a compiersi, ad idearsi soltanto?.................... «Inoltre il Popolo nostro, a vita politica nuovo, di politici intendimenti inesperto, vuole un Governo che gli assicuri l'ordine e la vita. Incapace a comprendere certi dilicati fili, che stringono all'avvenire il presente, domanda una forma chiara e precisa, che gli spieghi apertamente i suoi diritti, i suoi doveri, i suoi interni rapporti. Attaccato francamente al Principe, che per lui non era null'altro che un Governo, quando si vide dal Principe abbandonato, ingannato, tradito, si gittò francamente alla forma contraria, alla idea repubblicana, che per lui era simbolo di un Governo, e gridò: Viva la Repubblica, nelle sue feste, nelle sue gioie, nelle sue canzoni. Scrisse: uniti con Roma, sulla porta delle sue case, su' muri delle sue città; uniti con Roma fu la parola de' suoi Circoli, fu il grido delle sue adunanze: e piantò l'Albero della Libertà, che per lui rappresentava queste due idee di Repubblica e di Unione, in tutte le sue Piazze, nel sagrato dalle sue Chiese.

«Ma se un giorno, a mente più calma, questo Popolo si domanderà: Che cosa siam noi? Che cosa è la Toscana? Granducato no, perchè Leopoldo Austriaco vi ha perduto ogni diritto; Repubblica no, perchè il nostro Governo s'intitola ancora Governo Provvisorio... dunque aspettiamo; — allora s'incrocierà le braccia, e attenderà, per agire e per combattere, di sapere in nome di chi agisce e combatte.

«Nè ciò basta. Quando l'8 febbraio abbiam detto: Unione con Roma, — era forse il proclamarla un giusto e santo ardimento: ora il non farlo, sarebbe imprevidenza od audacia. E infatti allora s'ignorava quale sarebbe il contegno dal Governo Piemontese verso la Romana Repubblica; forse anche il gelido silenzio aveva fatto travedere il pensiero triste ed egoista dell' abate Gioberti: ora la vergognosa caduta di questo ci ha fatti sicuri quale sia la volontà ferma e coraggiosa della Giovane Camera, e quale sarà quindi la volontà o imposta o libera del Gabinetto. Il Ministero di Torino riconoscerà immediatamente la Repubblica Romana; non potrà riconoscere il Governo di Toscana, perchè non ha forma stabilita, e non si approva ciò che s'ignora, ciò che non è se non provvisorio.

«Ma se Toscana con Roma formerà immediatamente la Repubblica d'Italia Centrale, il Piemonte stenderà a questa Repubblica la mano e le braccia: i due Stati stringeranno patti di solidarietà e di amicizia; e così due terzi quasi d'Italia saranno uniti a combattere lo straniero, e a vincere la guerra di Nazione e di Libertà.» — ( Alba, 28 febbraio 1849.)

«Domani sarebbe tardi, imperciocchè domani la Nazione sorgerà a chiedervi strettissimo conto dell'operato.» — ( Alba, 14 marzo 1849.)

«Con estremo dolore abbiamo inteso che non si sia venuto alla proclamazione definitiva della Unione repubblicana, come il Governo Provvisorio avea solennemente promesso. — Ieri tenevamo questa promessa omai come un fatto, e fu cagione in noi di vivissima gioia; oggi abbiamo l'amarezza di essere stati delusi da uomini che sin qui meritarono l'intiera nostra fiducia.

«Uomini del Governo Provvisorio! ponderate quali danni possono derivare dalla vostra lentezza alla causa cui veniste assunti a sostenere. La reazione si avvantaggia della vostra perplessità, pigliando da essa tempo d'impaurire i buoni; è tempo di organizzarsi e stendersi tra i tristi e li ignavi. Perdio! troncate li indugii; ogni ora, ogni giorno che passa aggiunge forze e proseliti al Partito della reazione. Noi, che abitiamo le più remote provincie della Toscana, sappiamo di buon grado che cosa si possa temere o sperare da queste popolazioni, fornite bensì di buon senso, ma facili ad essere pervertite. Noi conosciamo la difficoltà e i pericoli delle future elezioni, i quali voi non potete prevenire in altro modo, che col proclamare prontamente la invocata fusione con Roma. Nulla dovete temere per parte delle provincie dalle risoluzioni forti e istantanee, molto bensì dovete paventare dalla irresolutezza e dagl'indugii.

«Uomini del Governo Provvisorio! ricordate che le rivoluzioni non si compiono colla pacatezza di un'ordinaria prudenza. In condizioni violenti abbisognano misure audaci e pronte, che sgomentino i tristi, e infiammino l'ardire dei buoni. Ma voi adoperate tutto al rovescio, e quasi ci sembrerebbe che vi prendeste gioco dell'entusiasmo del Popolo.

«Uomini del Governo Provvisorio, rammentatevi quale responsabilità posa su voi; qual conto dovete rendere a Dio ed alla Nazione, se foste per esser causa d'una guerra civile, e se danneggerete menomamente la causa della Libertà.

«Santa Sofia, 28 febbraio 1849.»

( Popolano, Nº 250, — 5 marzo 1849.)

Allora succedevansi Petizionarii e Commissarii dalle Provincie; e mandavano accesissimi indirizzi i Circoli, e i Municipii di Pisa — Arezzo — Pistoia — Siena — Modigliana — Montevarchi — Santa Sofia — Lastra a Signa — Poggibonsi — S. Giovanni — Cascina — Campiglia — Fucecchio — Montesansavino — Dovadola — Sarteano — Marradi — Cortona — S. Gimignano — Livorno — Piombino — Castellina — Montescudaio — S. Sepolcro — Guardistallo — Pitigliano — Subbiano — Capalona — Reggello — Montecalvoli — Santa Fiora — Castel S. Niccolò — Casciavola — Porto Ercole — Aulla — Bibbiena — Asciano — Castagneto — Vico-pisano — Lungone — Tredozio — Monterotondo — Arcidosso — Pietrasanta — Figline — Lari — Pian di Scò — Portoferraio — Montemarano — La Cecina — Poppi — Sorano — Galluzzo — Massa marittima — Prato vecchio — Castelfranco — Orciano — Quincarico — Rocca S. Casciano — Montieri — Asinalunga — Buonconvento — Volterra — Calcinaia — Castelnuovo — Civitella — Montelupo — Val d'Elsa — Castelfiorentino — Firenzuola — Lucignano — Terranuova — Capalbio — Casciana — Pontremoli — Porto S. Stefano, ed altri parecchi, depositati negli Archivii Governativi.

528. Thiers, Histoire de la Révolution; cap. IV, (Convention).

529. Della Repubblica Romana, pag. 66.

530. Opera citata.

531. Monitore, 10 gennaio 1849. — Discorso della Corona, in fine.

532. Anche di questo fatto negli Archivii Governativi hanno da essere depositate prove. Però nè anche alla Costituente Italiana furono avversi i Sacerdoti tutti e i Vescovi. Vi fu chi sostenne non incorrersi affatto nella scomunica, sia votando per la italiana quanto votando per la toscana:

«Empoli, 8 marzo. — In questa mattina è stata affissa sulla porta della Chiesa Collegiata di questa Terra la seguente Dichiarazione:

«Empolesi!

«Le Elezioni dei Deputati alla Costituente Toscana e Italiana sono imminenti.

«Accorrete a dare il voto, e non ascoltate chi vi susurra all'orecchio che incorrete la Scomunica. Io posso e debbo dichiararvi, che secondo i principj della Morale Cattolica e della ragione non vi è nè scomunica, nè peccato di sorta, per gli Elettori alla suddetta Costituente.

«Empoli, 8 marzo 1849.

«Vostro Affezionatissimo « P. Pasquale Martelli Proposto.»

«Molto Reverendo Signore.

«Richiesto da varii Parrochi di questa Diocesi, se potessero dar risposta ai proprj lor Parrocchiani sull'interrogazione fatta ad essi, cioè, se nelle attuali circostanze, in cui si trova la nostra Toscana, la pena della Scomunica s'incorra per l'elezione da farsi nel prossimo Lunedì, 12 del corrente mese, dei Deputati alla Costituente Italiana, io ho manifestato apertamente ad essi la mia, qualunque siasi, opinione, dicendo loro che, per l'esame già fattone, io era d'avviso che effettivamente non s'incorresse. Ne prevengo di questo mio parere VS. Molto Reverenda per sua regola, acciocchè, qualora Ella pure sia ricercato dai suoi Popolani sullo stesso proposito, possa dar loro una replica, che lasci pienamente tranquilla la loro coscienza.

«E dandole la Pastoral benedizione mi confermo con sincerità di cuore,

«Di VS. Molto Reverenda,

«Pisa, li 8 marzo 1849.

« Affez. come Fratello « Giovan Batista Arc. di Pisa.»

( Conciliatore, 11 marzo; Monitore, 9 marzo 1849.)

533. Esodo, C. 14, c. 22.

534. Popolano del 14 febbraio 1849.

535. Popolano del 14 febbraio 1849.

536. Popolano del 15 febbraio 1849.

537. Alba, 15 febbraio 1849.

538. Frusta Repubblicana, 18 febbraio 1849.

539. Rusconi, Opera citata.

540. Requisitoria, pag. 132, § 85.

541. Vedilo a pag. 287 di questa Apologia.

542. Documenti, pag. 412, citato altrove.

543. Vedilo a pag. 383 di questa Apologia.

544. Documenti, pag. 828.

545. Documenti, pag. 286.

546. Vedila a pag. 431 di questa Apologia.

547. Documenti, pag. 849. — Questo Documento è riportato per intiero a pag. 474 di questa Apologia.

548. « Durante la giornata vennero elevati per tutte le piazze di Firenze i sacri Alberi della Libertà incoronati di fiori, sormontati dalle bandiere tricolori, e dallo antico berretto con cui si saluta ogni aurora di redenzione. — La solenne funzione fu inaugurata dappertutto con allegro scampanío dai campanili di Firenze, con gli spari dei moschetti, col rullo dei tamburi della Guardia Nazionale, col suono di musici strumenti, con lo scoppio di lietissimi evviva.» — ( Corriere Livornese, 27 febbraio 1849.)

549. Corriere Livornese, 27 febbraio 1849.

550. Monitore del 2 marzo 1849.

551. Ugo Foscolo, Prose letterarie, vol. II, pag, 316. Ed. Le Monnier.

552. Discorso di M. Lamb pronunziato alla Camera dei Comuni d'Inghilterra nel dì 11 marzo 1818, intorno al Bill delle indennità.

553. L'Accusa nota argutamente la solenne accoglienza dei Deputati della Costituente Romana. Poichè è forza scendere a siffatte meschinità, si ha da sapere come questi Signori, avvezzi alle romane magnificenze, si erano lagnati pel ricevimento più che modesto del Governo Provvisorio; e già di queste parole gli Esaltati si prevalevano per susurrare, che ciò era segno di disprezzo, e di peggio; allora io dissi: riceviamoli questa altra volta solennemente, cioè con l'assistenza del Municipio, del Generale, e dei Colonnelli della Guardia Nazionale. — Vedi Monitore, 16 marzo 1849.

554. «Quest'oggi, verso le ore 3 p. m., è giunto in Pisa, proveniente da Livorno, Ciceruacchio con altri suoi compagni di Roma. È alloggiato alla Locanda Peverada. Il Popolo lo ha festeggiato, ma non in molto numero. Ha parlato di Unificazione con Roma. Domani parte per Lucca.»

«Sono arrivati stamani in Lucca Angiolo Brunetti detto Ciceruacchio, il D. Guerrini, il Tenente Costantini, Vincenzio Longhi, Girolamo Conti, Giuseppe Fabiani, popolani di Roma. Partono in giornata per Pescia e Pistoia; dimani saranno a Firenze per chiedere l'Unificazione. Durante la loro dimora furono festeggiati dal Popolo. Hanno udita in San Michele la Messa celebrata dal Sacerdote Giambastiani, che ha dirette calde parole di amor patrio alla folla ivi accorsa ec.» — (Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 506.)

555. Costituente Italiana del 17 marzo.

556. Frattanto la Toscana non può fare a meno di una Assemblea Legislativa, che rappresenti veramente il Paese. — (Considerando II, Decreto del 10 febbraio 1841. Documenti dell'Accusa, pag. 821.)

557. Articolo 10 del medesimo Decreto.

558. In altra parte ho mostrato quello che imprendessi felicemente a troncare trame siffatte; mi gode l'animo di riferire un Documento citato dalla Difesa Romanelli a pag. 156, il quale attesta gli sforzi nel medesimo intento eseguiti dal mio degno collega.

«A. C.

«Il Circolo Popolare di Firenze invia costà dei Commissarii, per quello mi assicura un mio particolare e schietto amico. — Se questi intendono di commuovere la città, perchè ci forziate la mano alla fusione con Roma e ad usurpare la tanto vantata e voluta sovranità del Popolo, devo dichiararvi che per parte mia non sono uso a cedere alla violenza, e a tradire i miei principii. Se però venissero ad eccitare gli spiriti marziali della Gioventù, pur troppo pacifica, e persuaderla a inscriversi nei ruoli dei propugnatori della santissima causa della indipendenza e della libertà, secondateli di tutto cuore e con ogni mezzo.

«Firenze, 17 febbraio 1849.

«Affez. L. Romanelli.»

559. «Il Governo Provvisorio Toscano,

«Considerando suprema legge dello Stato essere provvedere alla propria salute;

«Considerando che per ottenere questo intento supremo il Governo abbia avuto non pure il diritto ma il dovere di ricorrere a qualunque straordinario rimedio;

«Considerando che la libertà non consenta mantenere siffatti rimedii neanche un istante quando il pericolo cessi;

«Considerando la piena vittoria della opinione contro gli eccitatori scellerati della Guerra Civile, l'accordo universale di riservare alle Assemblee la sanzione del voto popolare intorno alle forme del nostro Reggimento, ed in fine l'orrore che il generoso Popolo ha da sentire per qualunque attentato parricida contro la Patria in presenza del pericolo di straniera aggressione;

«Considerando che i sospetti e la diffidenza della tirannide repugnino alla maestà del Governo popolare;

«Decreta:

«Art. 1. La Legge Stataria del 22 febbraio 1849 è abrogata, la Commissione eletta con quella Legge disciolta, ec.» — ( Monitore, 2 marzo 1849.)

560. Il signor Berti Pichat, Preside di Bologna, nel marzo 1849 mosse a Firenze per tentare di ridurre in contante buona somma di carta monetata romana; malgrado la diligenza che vi misero non pochi sensali, e la usura offerta superiore al 30 %, non poterono barattarsi oltre L. fior. 8000 a mediazione del Veneziani, perocchè i Banchieri la rifiutassero con qualsivoglia premio. I nostri Buoni del Tesoro una sola volta, e per ore, scapitarono 7 %; ma il loro corso regolare fu oscillante fra il 3 e il 4 %. Il sig. Berti Pichat, da quel leale uomo che era, dandomi esatto ragguaglio della sua Provincia, mi assicurava, Bologna e le terre dipendenti avverse alla Repubblica poco meno che alla invasione straniera.

561. Non furono mai principiate. Lo spoglio delle Liste degli eletti per la Costituente Italiana doveva effettuarsi a Firenze da una Commissione centrale, composta ai termini dello Art. 10 del Decreto del 14 febbraio 1849. Alcuni Gonfalonieri provinciali si recarono a Firenze a questo scopo, ma il Municipio, che per organo del suo Gonfaloniere mi manifestava quale e quanta fosse la repugnanza della universalità dalla Unificazione con Roma repubblicana, protrasse le operazioni della Costituente italiana, me consapevole e consigliere, onde il voto della Costituente toscana procedesse senza ombra di coazione, o di urgenza. Di ciò occorre la prova nel Decreto dell'8 aprile 1849 (Documenti, pag. 885), che l'Accusa riprende come quello «che provvedeva a ultimare le operazioni di squittinio relative alle elezioni dei Deputati alla Costituente Italiana.» Ben poca mente ci voleva a comprendere, che un simile Decreto pubblicato per attutire l'ardore degli improperii dei Repubblicani rimaneva vuoto di effetto, dovendo l'Assemblea Costituente Toscana decidere intorno alle sorti del Paese nel 15 aprile successivo, a norma del Decreto dell'Assemblea del 3 aprile 1849. Tutto sta nello esaminare come sarebbe stato deciso dopo 7 giorni!

562. Detto Decreto, pag. 55.

563. Dal Rapporto recente fatto dal signor Ducos, intorno alle spese commesse dal Governo Provvisorio di Francia, troviamo che Ledru Rollin spese franchi 123,000 per bucherare l'elezioni in pro della idea repubblicana; e in vero, questo è il contegno di cui intende che prevalga un suo concetto politico. Non un soldo fu speso da me, onde l'elezioni fossero disposte in un senso piuttosto che in un altro: dal quale fatto può dedursi questa conseguenza (dove ve ne fosse mestieri): se liberissime lasciai l'elezioni mentre fui Membro del Governo Provvisorio, tanto più deve credersi che tali procurassi che fossero, Ministro Costituzionale.

564. Popolano del 3 e 7 marzo 1849.

565. Il Nazionale, 9 marzo 1849: — «Il Decreto adunque (del 6 marzo) di che ci occupiamo, in doppio modo viene ad offendere (ove non rimanga opportunamente chiarito e ammendato) il fondamentale principio della nazionale sovranità: sì perchè determina e circoscrive abusivamente la iniziativa, per propria indole illimitata, della convocata Costituente; — sì perchè, ne' limiti delle assegnatele competenze, pare che pretenda essere la Nazione astretta a accettare quale atto sovrano le qualunque sue Deliberazioni.»

566. La Costituente Italiana, 11 marzo 1849: — «Il Governo Provvisorio Toscano non ha creduto di pronunziare primo, e consecrare la parola della Unificazione, ed ha voluto innanzi a tutto interrogare la volontà delle popolazioni, che gli aveano concesso mandato di provvedere alla loro suprema salute. Alla inesplicabile esitanza, ostinata anche dinanzi alla già chiara intenzione del Paese, una subita riparazione debbe essere accordata coll'inviare alla Assemblea Costituente Toscana gli uomini che reclameranno spontanea, unanime, l'Unione con Roma.»

567. Il Popolano, 8 marzo 1849: — .... «oltre a che il Governo nulla sembra disposto a fare affinchè le elezioni procedano in guisa da produrre il resultato che noi vogliamo, cioè la Unione con Roma e la proclamazione della Repubblica ec.»

Il Popolano, 9 marzo 1849: — .... «una Legge mal concepita (del 6 marzo) è d'uopo sia anche peggio eseguita. Da ciò emergerà forse un'Assemblea di Retrogradi e di Conservatori; ed un'Assemblea di simil colore sapete a che cosa ne conduce direttamente e senza transazioni? Alla guerra civile, ec.»

Anche il Regio Procuratore Generale nella sua Requisitoria, a pag. 130, ha saputo conoscere: «Che nel dì 6 marzo, lo stesso Governo Provvisorio, quasi temperando l'Atto del 14 febbraio, in cui era implicita ma positiva ed assoluta l'adesione del Governo alla Costituente italiana, decretò che l'Assemblea Legislativa toscana avrebbe usato del potere costituente, tanto per comporre insieme co' Deputati dello Stato Romano la Costituente della Italia Centrale, quanto per decretare se, e con quali condizioni, lo Stato Toscano dovesse unirsi con Roma

568. «Ieri ebbe luogo, siccome annunziammo, la rivista della Guardia Nazionale.... Il Guerrazzi venne sì dai militi che dal Popolo astante salutato con fragorosi applausi: onde presso a poco diresse alla Guardia queste parole: — Domani è giorno solenne per un Popolo libero:...... questo Popolo però non va esortato nel dare il suo voto; questo Popolo che ha una coscienza, va lasciato libero ne' suoi diritti. Militi della Guardia Nazionale, difenderete voi le proprietà e la vita degli individui? — Sì, sì. — Farete sì che il voto sia dato libero, e che sia libera la discussione sulle sorti del Paese, discussione che sarà agitata dai Deputati che voi stessi avrete scelti? — Sì, sì.» — ( Il Nazionale, 12 marzo 1849.)

569. «Questa mattina la Guardia Nazionale è stata raccolta dal Generale Zannetti sulla Piazza di Barbano, e di colà attraversando tutto Firenze si è recata in Boboli, ov'è stata passata in rivista dal Guerrazzi.

«Non possiamo con precisione riferire le parole che a ciascun battaglione ha indirizzato il Presidente del Governo Provvisorio, imperocchè, a quanto ci viene riferito, elleno fossero di diverso genere ad ogni fermata. Bensì una calorosa esortazione alla Guardia Cittadina è stata reiteratamente volta dal Guerrazzi, ed è quella di sostenere con ogni forza il Governo Provvisorio e la futura Assemblea Costituente Toscana sì dai pericoli che sovrastare loro potrebbero dalla parte dei reazionarii retrogradi, quanto da quelli che nascer potrebbero dalle impronte pretensioni degli ultra e degli intolleranti, consigliando a starsi contenti i Toscani a quello che i loro Rappresentanti saranno per decidere.

«In quanto a noi, fin da questo momento protestiamo, che se le future Assemblee non pronuncieranno la Unione con Roma, e, conseguentemente la decadenza della Famiglia di Lorena e la istaurazione del regime repubblicano, profitteremo di qualsiasi mezzo ci presentino le circostanze, affine di salvare il Paese nostro da un giogo aborrito, che imporre gli si volesse a nome della legalità e di una servile rappresentanza.

«Noi non temiamo che il Popolo il quale compone la Guardia Nazionale, quel Popolo che gridò e grida tutto giorno Viva la Repubblica, Viva la Unione con Roma, voglia suscitare nel Paese la guerra civile, facendo fuoco su i suoi fratelli che, traditi nei loro voti, e vedute strozzate le loro speranze dal capestro delle formali legalità, usassero l'estremo loro appiglio, la suprema loro ragione — la forza e la violenza, — contro coloro che non si meriterebbero davvero il nome di Rappresentanti del Popolo, ma di traditori della Patria, ove si negassero a coteste tre supreme Leggi, che oggi ci sono imposte non tanto dalle circostanze, quanto dal bene della nostra patria, dalla sua salvezza, dalla necessità di assicurare solidamente la sua futura solidità e grandezza.

«Noi non temiamo nemmeno per ombra un tanto obbrobrio per parte dei futuri Deputati; ma ove questo obbrobrio dovesse pesare su di essi, certo, ad onta di tutte le esortazioni del Guerrazzi non peserà sulla Toscana l'obbrobrio assai maggiore di avere pazientemente sopportato il tradimento; e la Toscana saprà consumare la sua Unione con Roma, e saprà subirne tutte le conseguenze, anche ad onta dei suoi Rappresentanti e degli uomini del Governo Provvisorio. Questa è la nostra fede!» — ( Popolano, Nº 256, 12 marzo 1849.)

570. Chi? Secondo la Grammatica, io. O che dopo avermi convertito in perduelle, l'Accusa vuole trasformarmi anche in donna? Qui pure sento il bisogno di protestare.

571. L'Accusa trae dal Discorso di apertura dell'Assemblea letto dal signor Montanelli argomento d'incolparmi; e sì, ch'Ella avrebbe dovuto all'opposto ricavarne motivo ad assolvermi, considerando: 1º che codesto Discorso fu opera del signor Montanelli, non mia; 2º che di sua mano apparisce scritto; 3º e che io, quantunque il turno mi chiamasse ad essere Presidente di settimana, e come tale l'Assemblea presiedessi, e dovessi leggerlo, pure mi vi rifiutai, però che contenesse proposizioni dalle quali dissentivo, e alle quali per parte mia ero deliberato a non aderire.

572. Altrove ho dimostrato, e qui insisto a dimostrare, la falsità della incolpazione appostami dall'Accusa: « avere io lasciato in balía di mandatarii non Toscani la decisione intorno alle sorti dello Stato.» La Legge del 10 febbraio 1849 relativa alla Costituente toscana nell'Art. 8 decreta, che i forestieri dalle elezioni si escludano; certo, adoperare la parola forestieri fu male, ma egli è pur certo, che con essa denota i non Toscani. Lo sforzo dei parteggianti per la Repubblica potè ottenere che il Popolo mandasse Deputati non Toscani all'Assemblea Toscana; però essi furono pochissimi, e per nulla bastevoli a partorire i danni immaginati dall'Accusa. Il Generale D'Apice stampò nel Monitore la lettera, che io gli consigliai, e scrissi a norma del suo dettato rispetto a questo negozio, la quale spiegava, che, trattandosi di pratica domestica, convenienza e senno gli suggerivano di rinunziare alla Deputazione; e parecchi seguitarono lo esempio. Io manifestai agli amici il mio disegno di prendere parola all'Assemblea per escludere i non Toscani, parendomi, com'era, pretta improntitudine quella di volere rappresentare la Toscana in cosa vitale senza conoscerla; ma essi me ne sconfortarono con grandissima istanza, onde non provocarmi contro il furore degli avversarii. Fra questi amici ricordo il signor Guidi Rontani; e gli altri, spero, mi sovverranno con la loro memoria. Intanto, che così sia vero si ricava dalia relazione dell'Adunanza del 27 marzo 1849, tenuta dall'Assemblea Costituente Toscana. In cotesta Adunanza il Circolo del Popolo presentò una petizione al fine, che i non Toscani venissero ammessi allo ufficio di Rappresentanti Toscani. Avrebbe il Circolo operato così, se la faccenda stesse come fantastica l'Accusa? Ancora: una Sezione lasciò sospesa la proclamazione di tre Deputati, fra i quali due non Toscani. Avrebbe potuto tenerli sospesi la Sezione, se la Legge gli ammetteva? — Più oltre: rispetto alla quistione se gli eletti non Toscani possano formar parte dell'Assemblea Costituente è deciso, che messa da parte l' applicazione legale ogni Italiano deva essere accolto in Assemblea Italiana. Dunque la Legge gli escludeva. — ( Alba, Nº del 28 marzo 1849, pag. 1943.) — Nelle note stampate dal Governo non occorre un nome solo di non Toscano, e nonostante sapete voi su quale fondamento questa Accusa ha cuore di sostenere, che le sorti del nostro Paese furono commesse a mani non toscane? Eccolo. Esaminate nel Monitore del 25 marzo 1849 il Prospetto dei Deputati dell'Assemblea Costituente Toscana, e su 120 trovate tre non Toscani: Modena, D'Apice e Niccolini; ma D'Apice renunziò, Niccolini fu reietto; dunque ne rimase uno. Così lasciavansi in balía di non Toscani i toscani destini! — Incredibili cose, e non pertanto vere. Raccomandai escludessero almeno Niccolini, e fu escluso: «non venne proclamato Giovanni Battista Niccolini di Roma, quantunque la Sezione fosse di sentimento ammetterlo sebbene non Toscano.» — ( Alba, luogo citato.) — Niccolini protestò; ma quantunque conoscesse la sua esclusione opera mia, e fosse sfrenatissimo, ed ora per la nuova ingiuria soprammodo infiammato, pure non seppe rimproverarmi, come per certo non avrebbe mancato di fare, di essermi servito di lui pei miei fini, ed ora gittarlo via mal gradito arnese. Questo Documento, benchè non valga nulla, rarissimo, mercè le diligenze del mio Difensore, mi perviene adesso, e adesso qui mi è forza metterlo:

«Cittadino Presidente,

«In nome della sovranità del Popolo, stando alla lettera e allo spirito del Regolamento, e onde non veder violato un Principio Costituzionale, debbo protestare come protesto sulla decisione presa dalla Camera a mio riguardo considerandola come inlegale; perchè:

«Se alla Camera fosse riservato il dritto di ammettere o escludere i Deputati regolarmente eletti, cioè le operazioni dei Collegj elettorali che li nominò ( sic ), essendo state riconosciute valide, cesserebbe ogni sovranità del Popolo, e il suffragio elettorale sarebbe una mera illusione, e lo provo:

«Si supponga che in una Camera di 120 persone 60 membri siano conosciuti rappresentare il Principio Costituzionale Monarchico, 60 quello Repubblicano; ora nella verifica de' poteri possono esser presenti alla Camera i 60 Repubblicani, e soli 10 Costituzionali, e così viceversa. Che se il Partito che si trovasse in maggioranza, venisse ad escludere l'altro Partito, cosa diverrebbe il voto della metà degli elettori che hanno mandato alle Camere uomini rappresentanti i loro principj? Dove si troverebbe allora l'espressione sincera della volontà del Paese? Io lo lascio a voi a considerare.

«Ma vi è più. L'Art. 6 del Regolamento, che si è dichiarato dovere provvisoriamente reggere la Camera, porta che:

« L'Assemblea pronunzia sulla validità delle elezioni, ed il Presidente proclama Deputati coloro i cui poteri sono stati dichiarati validi.

«Io non aggiungo parola su questo Articolo, che di per sè stesso è troppo chiaro, e che non ammette nessun'altra possibile interpretazione.

«Io spero, o Cittadini Rappresentanti, che voi vorrete seriamente considerare questa mia protesta che contiene un alto principio di diritto costituzionale, e vorrete considerarla dall'alta sfera in cui la confidenza del Popolo Toscano vi ha posto. Onde esser liberi bisogna esser giusti, diceva un sommo Legislatore, e sulla vostra giustizia io mi riposo tranquillamente.

«Nel pregarvi, Cittadino Presidente, a leggere all'Assemblea questa mia protesta, con tutto il rispetto mi dichiaro

«di Voi, Cittadino Presidente,

« Dev. Servo G. B. Nicolini.»

573. Farini, Opera citata, tomo III, pag. 248.

574. Conciliatore del 25 marzo 1849.

575. Documenti, pag. 509. — Dispaccio telegrafico del Prefetto Martini.

576. «È possibile, che sia partita una Commissione composta del cittadino Guerrazzi e dei Ministri d'Inghilterra e di Francia, e di altri due personaggi, per Gaeta a prendere Leopoldo II? Alla quiete del Popolo sarebbe utile uno schiarimento su questa voce, sparsa generalmente a Pisa, a Pistoia, e qui.» — (Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 512.)

577. «Le voci più stravaganti si spargono qui, trovano credenza nei goffi, e appoggio nei nemici del Governo. In me non mai. Ho già smentita solennemente la ingiuriosa notizia fino all'arrivo del Dispaccio sui Volontarii, venutomi in acconcio con la vostra firma. Compirò l'operazione mediante nuova mentita ai detrattori. Appunto per confonderli, ho fatto la domanda di schiarimento su l'incredibile assurdo. Io mi congratulo davvero, che la Nazione vi abbia scelto a suo moderatore. Mi sdegno delle maligne arti di chi vorrebbe attraversarvi i disegni generosi. Fatemi vostro vendicatore mortificandomi. A questo prezzo sono contento.» — (Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 512.)

578. Anzi, stupendo a dirsi, il mio Avvocato m'informa, che non gliene domandarono nemmeno schiarimento!....

579. Importa rammentare, perchè gli fa onore, quale opinione avessero gli Arrabbiati di questo egregio amico. Spedito a comporre i tumulti di Empoli, commissione da lui condotta a termine con umanità pari alla solerzia, fu bistrattato dal Popolano, e lo abbiamo veduto. Pigli propone inviare a Portoferraio un Commissario per destituire Gonfaloniere e Consigliere « che però non dovrebbe essere Manganaro.» — (Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 481). — Sparsa voce a Siena, che il Governo vi mandava Prefetto Manganaro, Ciofi ammonisce: «Si vocifera che il Prefetto V. ritorna a Pistoia, e che viene qua in sua vece Manganaro. Questa sostituzione dispiace moltissimo ai Sanesi; i quali mentre vedono bene V., mostrano grande avversione al cognome Manganaro.» — (Dispacci governativi. Documenti, pag. 216.) — A Livorno lo minacciano di buttarlo giù dalla finestra, se non fa come Pigli (Documenti, pag. 530). Così nel febbraio, nel marzo e nello aprile 1849 erano onorati e tenuti in pregio dai Repubblicani i miei migliori amici.

580. Era arte ordinaria screditare con sospetti, o fare segno di vituperii i Deputati, che si scoprivano parziali ai disegni del Governo; eccone una prova espressa:

«La causa repubblicana fu ieri sera fortemente attaccata dal Presidente del Circolo di Pistoia (Dott. Didaco Macciò) a motivo di una santa proposizione fatta da un buon Popolano intorno al piantare in piazza l'Albero della Libertà.

«Il bianco-rosso Macciò si fece a sostenere, che il mettere l'Albero era un ferire nel cuore il primo stadio della Costituente; era una cattiva ricompensa al Governo Provvisorio; — era un volerlo trascinare a certa rovina: — insomma ciò non era nella legalità. Disse ancora che chiunque si era pronunziato con quel segnale aveva fatto male, e commesso un arbitrio: che mettendo in cima all'Albero il ridicolo berretto della libertà, altro non era che scimmiottare i Francesi del 93: che anche Roma, la imprudente Roma, aveva fatto male malissimo a proclamare la Repubblica. Disse anche altre bestemmie più forti di quelle che declamò giorni sono, perchè il Circolo non inviasse al Governo Provvisorio le Deputazioni richieste dal Circolo fiorentino, per implorare da lui la immediata Unione con Roma e la proclamazione della Repubblica.» — ( Popolano, N o 251, 6 marzo 1849.)

581. Dunque il Conciliatore del 1º aprile 1849 la mia fierezza come nobile salutava; dunque gli uomini del Conciliatore con plausi vivissimi nel 1º aprile mi confortavano: come va, domando, che nel 12 aprile mi tradivano, e dopo mi hanno calunniato, resi complici a farmi patire strazii, che io non saprei imprecare neppure ai miei più mortali nemici?

582. Parla di questo fatto il Conciliatore del 16 marzo 1849. «Di consenso dei due Governi Romano e Toscano è stabilito in Bologna un Comitato di difesa il quale avrà cura di proporre, e ordinare tutto ciò, che potrà contribuire a difendere il territorio comune. Il Governo Toscano ha già inviato da qualche giorno in Bologna due Rappresentanti, il Colonnello Manganaro, ed il Capitano Araldi.»

583. Vedi ragguaglio delle Sedute della Costituente Toscana del 2 e 3 aprile 1849 qua oltre.

584. Risposte date dai Ministri dello Interno e degli Esteri alle interpellazioni Pigli; ed estratto di altri particolari delle Sedute del 2 e 3 aprile 1849 dell'Assemblea Costituente Toscana:

« Ministro dell'Interno. Quanto allo Interno io devo conservare molta prudenza intorno queste interpellazioni; nulladimeno disegnando così l'insieme della Toscana, dirò: — in generale le popolazioni della campagna sono mediocremente disposte alla idea della guerra; le campagne nostre in parte negano mobilizzarsi in Guardia Nazionale. Parecchi Gonfalonieri mandano preghiere di esser dimessi, non sentendosi il coraggio civile di affrontare l'antipatia delle popolazioni per la mobilizzazione della Guardia medesima, antipatia che potrebbe esser vinta con più efficaci eccitamenti dei Gonfalonieri mentovati. Lo stato di ignoranza in cui si trova parte della popolazione toscana, fa che queste lepidezze non prendano sempre un aspetto fiero, e di una aperta reazione: ma in molti luoghi, dove la popolazione della campagna conserva ancora una certa fibra forte, allora questa repugnanza si converte in modi alquanto più sensibili. I Deputati di quest'Assemblea, e ormai il Popolo tutto, sono informati dei fatti successi in varie parti del contado toscano. Questo è quanto allo stato della popolazione campestre. — Nelle città lo spirito è acceso per la patria difesa. Livorno ha mandato quasi tutta la gioventù in campo per avviarsi alle frontiere. Firenze comincia a muoversi, e si muoverà....

«Guardia mobile parte da diverse città della Toscana verso la capitale, per organizzarsi, ricevere le armi, e andare ai confini; non come fiammella che vive prossima a spengersi, ma come scintilla che seconderà gran fiamma.

«Le cure del Governo infine ad ora adoprate sono tali, che hanno cercato di alimentare ed accarezzare amorosamente questa fiammella; e spera poter riuscire a fare che una massa non piccola della nostra Gioventù possa coprire le frontiere. — Vi sono poi i Rapporti dei nostri pubblici funzionarj di un ordine più elevato (per esempio i Prefetti) intorno alla idea della Unificazione della Toscana con Roma. Se debbo qui fedelmente esporre quello che a me da questi funzionarj vien riferito, dirò, che la massima parte della popolazione toscana recalcitra alla immediata Unificazione con Roma: alcuni perfino ne fanno argomento di timore per non poter conservare l'ordine pubblico, quando questa Unificazione fosse legalmente e definitivamente proclamata da questa Assemblea, mentre all'opposto la opinione contro qualunque ingiustissima invasione straniera potrebbe crescere fino al furore.

«Il superior Comandante della Guardia Nazionale fiorentina anch'esso ci ha denunziato dubbj gravissimi sulla adesione della Guardia stessa intorno a questa grave perdita d'immediata Unificazione, confidando nello egregio spirito dei Militi per correre alla frontiera.

«Come Ministro dello Interno a me pare avere in generale sodisfatto alle domande ed alle interpellazioni direttemi dal Deputato Pigli.

«Il Ministro della Guerra vi potrebbe dire circa i mezzi che sono in suo potere per armare ed equipaggiare la Gioventù, e unirla ai Battaglioni della nostra Milizia stanziale.

«Il Ministro delle Finanze potrà a sua posta dirvi quali mezzi sono a sua disposizione per soddisfare ai bisogni dell'armamento.

« Un Deputato. Domando la parola.

« Presidente. Non mi pare che siano esaurite le interpellazioni, perchè il Deputato Pigli ne ha fatte di due specie: cioè sullo stato interno dello Stato e sugli Affari Esteri; in conseguenza io credo...

« Un Deputato. Domandava la parola per rettificare un fatto.

« Presidente. Io credo non poter aprire la discussione, sino a che non siano esaurite le risposte alle interpellazioni. — Il Cittadino Ministro dello Interno ha altro da soggiungere?

« Ministro dello Interno. Se sono sodisfatti.... ( no, no. ) No? però a me pare che potrebbero esserlo.

« Ministro degli Affari Esteri. Le interpellazioni a me dirette vertono sulle notizie di Genova e Piemonte, sulla probabilità che può esistere di una ripresa di ostilità nella Guerra Italiana, e sulle relazioni che passano tra il Governo Toscano e le Potenze estere.

«Le ultime notizie di Genova sono state pubblicate nel Monitore di ieri sera. — Il Governo non ne ha ricevute altre fino a questo momento. Quanto al Piemonte resulterebbe al Governo, sebbene la fonte della notizia non sia officiale, che l'armistizio fatale di cui tanto ha parlato la stampa periodica fosse firmato dal nuovo Re nel giorno 24 del passato mese, e che il Re istesso avesse dichiarato esser sua volontà di fare rispettare l'armistizio ancorchè non si fossero potute ottenere dal Maresciallo Austriaco le modificazioni fatte sperare al Parlamento Sardo. Probabilità dunque di ripresa di ostilità non esiste in Piemonte, a meno che non vogliano aprir la guerra per proprio conto le Popolazioni con una generale insurrezione.

«Quanto alle relazioni che sono fra il Governo Toscano e le Potenze estere non posso dire all'Assemblea che questo: Non avere le medesime cambiato dal 9 febbraio. — Il Governo è in rapporti officiosi coi Rappresentanti d'Inghilterra, Francia e Spagna; colla Prussia, Russia e le altre Nazioni, sono rotti anche i rapporti officiosi. Dirò poi che riguardo al partito che l'Inghilterra e la Francia possono aver preso relativamente alla questione italiana tale quale l'hanno fatta i recenti avvenimenti, è da ritenersi che siano fino a questo momento arrivate le istruzioni analoghe dei respettivi Governi ai Rappresentanti di queste due Nazioni qui residenti.

«Ho risposto alle interpellazioni del Deputato Pigli.

«Il Presidente domanda al Deputato Pigli se non ha altro da domandare.

«Il Deputato Bichi domanda che siano cancellate da' fogli degli Stenografi le interpellazioni e le risposte.

« Un Deputato osserva che le interpellazioni erano inutili, perchè i componenti l'Assemblea conoscevano pienamente i fatti stessi tanto per i mezzi che ognuno di loro aveva come Deputato della provincia, quanto anche per avere avuto più volte notizie dal Governo nelle adunanze segrete.

« Presidente. Prima di tutto, insiste nella sua proposta il Deputato Bichi?

« Deputato Bichi. Insisto perchè gli Stenografi cancellino dai loro fogli le narrazioni che rivelano vergogne.

« Presidente. Bisognerebbe che ella scrivesse la sua proposizione e che io la ponessi in discussione.

« Deputato Guidi Rontani. Io farei una osservazione: se il Deputato Bichi chiede che sieno cancellate le risposte del Ministro dello Interno, perchè queste non abbiano pubblicità, e perchè le date spiegazioni non possono corrispondere al fine che le mosse; io approverei la loro radiazione. Se poi questa mozione dovesse considerarsi come impugnativa dei fatti, allora non potrei concordarla.

«(Diverse voci: no! no! )

« Presidente. Allora siccome semplicizza la disputa, domando se si debbano radiare dal rendiconto degli Stenografi tanto le interpellanze, quanto le relative risposte.

« Deputato Guerrazzi. Io non sarei mai di parere di dissimulare la verità; meglio valeva non chiederla. Ora che è chiesta la verità, la verità si dica. La magnanimità dell'Assemblea non deve consistere nel dissimulare la verità, ma nel contemplarla e spendere ogni mezzo per vincerla, qualora non fosse consentanea all'alto scopo che ci siamo proposti.

«Se la verità è dura, è un fatto fatale; a noi non deve bastare il cuore di mutarla per quanto è possibile, perchè quando noi cadremo sotto la necessità dei fatti, noi mostreremo ancora che abbiamo fatto quanto per noi era possibile per superarla con virtù e con fermezza.

« Presidente. Rinnuovo all'Assemblea l'interrogazione se essa è di parere che debbansi radiare tanto le interpellazioni quanto le risposte.

«(La proposizione Bichi non è ammessa.)

················

Ciampi. «... Ma si obietta e si dice: noi dobbiamo prepararci alla guerra della nostra Indipendenza: occorrono dunque pronti e sufficienti mezzi per sostenerla. Ed io rispondo: Per ciò che potrà farsi in questi pochi giorni nei quali l'Assemblea tacerà, i mezzi non mancano. E se mi si soggiungesse, che sono insufficienti, allora dirò: Proclamate il principio, dite nettamente sotto qual bandiera volete far questa guerra, dite che deve essere una guerra di Indipendenza Nazionale, Italiana, e allora, interpretando anche il voto dei miei amici della opposizione, vi dichiaro, che noi tutti voteremo non per 2, ma per 18 e 20 milioni, e quanti più ne abbisognassero. Ma permettetemi che francamente io ve lo dica: — negare di proclamare il principio, abbassare la guerra della Indipendenza alla difesa egoista dei confini toscani, e far tanta insistenza per aver questi due milioni, mi sembra lo stesso, che chiedere i fondi per le feste della Restaurazione.»

585. «Era castellano nella rocca di Monte Petroso Biagio del Melano. Costui sendo affogato intorno dai nimici, e non vedendo per la salute della rôcca alcuno scampo, gittò panni e paglia da quella parte che ancora non ardeva, e di sopra vi gittò due suoi piccoli figliuoli, dicendo ai nimici: «Togliete per voi quelli beni che mi ha dati la fortuna, e che voi mi potete tôrre; quelli che io ho dell'animo, dove la gloria e l'onore mio consiste, nè io vi darò, nè voi mi torrete.» Corsero i nimici a salvare i fanciulli, ed a lui porgevano funi e scale perchè si salvasse. Ma quegli non l'accettò, anzi volle piuttosto morire nelle fiamme, che vivere salvo per le mani degli avversarj della patria sua.» — (Machiavelli, Istorie Fiorentine, lib. IV.)

586. Di queste espressioni a un dipresso mi valsi nella ultima Seduta dell'Assemblea insorgendo contro la proposta di un Deputato — che la corda faceva trovare i danari. —

587. Giovami riferire l'autorità del signor Montalembert per temperare la stupida indiscretezza di coloro, che esaminando la mia condotta vanno a cercare il nodo nel giunco. Nella Seduta dell'Assemblea di Francia del 10 febbraio 1851, cotesto oratore si esprimeva così: «Adesso voi mi direte, ch'egli ha commesso errori. Egli ha commesso errori? davvero! e voi avete fatto questa bella scoperta? Permettete, che io vi domandi, da quando in qua avete trovato nel mondo un Governo, che non commettesse errori?» Con più grato animo mi valga ricordare la parte finale del Discorso di Addio fatto al Congresso americano « da quello, che lasciava ai posteri il nome di Washington onde essi arrossiscano di eccezione così solitaria.» — (Byron, Ode a Napoleone.)

Il Generale, rivolto ai suoi colleghi, favellò in questa sentenza:

«Gli atti pubblici provano fino a qual punto i principii che ho rammentato mi abbiano condotto nello adempimento dei doveri del mio ufficio. La mia coscienza almeno mi dice, che non me ne sono allontanato. Comecchè ripassando gli atti della mia amministrazione non conosca colpa veruna d'intenzione, io ho un sentimento troppo profondo dei miei difetti per essere sicuro di non avere commesso errori. Quali essi sieno, io prego l'Onnipotente Dio a dissipare i mali che potrebbero partorire. Io così porterò meco la speranza, che la mia Patria non cesserà di considerarli con indulgenza, e che dopo quarantacinque anni di vita consacrati a pro suo con rettitudine e zelo cadranno in obblio i torti di un merito insufficiente, come io cadrò ben tosto nella dimora dello eterno riposo!...»

Quando abbiamo letto siffatte parole, o Dio! come si fa egli a riportare lo sguardo su le pagine dell'Accusa, e di altri che insensatamente quanto ferocemente mi lacerano per gli errori, che in mezzo a tanto trambusto di vicende e agitazioni di uomini posso avere commesso io, mentre i Governi stessi, in condizioni ordinarie, e i sommi personaggi non ne andarono immuni? — Quando Gesù Cristo, soccorrendo alla peccatrice, disse agli accusatori: Chi di voi senza peccato, getti la prima pietra, — fra tanta turba di gente (e badate ch'erano tutti Farisei) non uscì un solo di cui la fronte fosse così sconosciuta alla vergogna, che ardisse stendere la mano al sasso: ai giorni nostri, qui, in patria, — voi lo vedete, — al grido: Chi di voi senza peccato, gitti la pietra, — mille braccia si tirano su la camicia fino al gomito, e ghermiscono le più elette ghiaie del Mugnone, pronti a scagliare..... o generosi!.... o forti! Ben ti puoi estimare avventurosa, o Patria, che tante serque contieni in te di petti santissimi, e di Farisei neppure uno solo!

588. Ritengo la proposizione già provata: nondimeno penso importante aggiungere alquante prove specialissime:

Rispetto alla Guardia Nazionale: — «La principale occupazione del Circolo la sera del 24, fu la questione delle elezioni dei capitani, tenenti, e sotto-tenenti della Guardia Nazionale, avvenute nella mattina del 22. Queste elezioni sono cadute generalmente su persone poco repubblicane; sono state generalmente rielette le medesime persone agli antichi gradi.» — ( Popolano, 28 febbraio 1849.)

Per quello riguarda l'elezioni dei Deputati a Firenze: — «2 Marzo. — La discussione di ieri sera al Circolo (del Popolo) si aggirò tutta sulla nota dei Candidati del Compartimento Fiorentino all'Assemblea dei 120. La serata non fu migliore per la Commissione. Dopo avere già essa stessa riformata la sua nota, ripudiando una parte dei suoi figli, ha dovuto ritirarne altri da sè nel tempo della discussione, ed altri sono stati respinti dalla giustizia del Circolo; oltre quelli che sono usciti vincitori coi voti sì, ma laceri e mal conci dalla discussione. L'ultima giustizia, però, speriamo che la faranno gli Elettori col rigettare tutti quelli che si spacciano nostri legislatori, e non sono stati mai nè Unitarii, nè Repubblicani, nè Rivoluzionarii, nè Cospiratori per l'Unità e per la Repubblica; nè sono capaci colla sapienza e coll'azione sul Popolo a fare alcuna opera buona nella costruzione del nuovo edifizio da elevarsi sul Campidoglio; insomma, che non hanno nè scienza, nè coraggio; ma sono gente di moda.

«Lo zelo laborioso di alcuni Socii, che sanno posporre i riguardi al dovere, estorse da alcuni Candidati dichiarazioni pregevoli, da pigliarne atto per confrontarle coi fatti avvenire, siccome fu detto. Richiesto un Candidato: Che farebbe se l'Assemblea dei 120 non votasse l'Unione con Roma? rispose: Scenderei in piazza collo schioppo per unirmi col Popolo a fare la rivoluzione ec.» — ( Popolano, 3 marzo 1849.)

«L'esempio fu bello, quantunque non riuscisse affatto onorevole ai varii Candidati; alcuni dei quali balbettarono mal sicure parole in temi che mostravano di male intendere; altri ricopersero sotto sonori accenti la fiacchezza dei loro sensi tutt'altro che rivoluzionarii. Pare che il Circolo dovrà cancellarne qualcuno dalla nota dei Candidati, senza aspettare che lo cancellino gli Elettori. Pure si udirono in altri anche belle e generose parole repubblicane, da cui esalava purissima l'idea della nostra Unità. Ma alla domanda fatta quasi a tutti: — Che fareste se l'Assemblea dei 120 tradisse l'Unità italiana, non ratificando la riunione con Roma già decretata dal Popolo? — alcuni Candidati s'impelagarono, smarrirono il senno, e non seppero, com'altri, risolutamente rispondere: Lascerò il posto disonorato, e correrò a debellare col Popolo italiano questi nuovi traditori.» — ( Popolano, 7 marzo 1849.)

589. Le lusinghe non cessarono mai. — «Roma 29 marzo, di sera. — In seguito delle disastrose notizie del Piemonte, l'Assemblea ha nominato un Triumvirato a norma del Decreto che vi accludo. I membri di questo Triumvirato sono Mazzini, Armellini e Saffi. Si voleva farvi entrare anche Guerrazzi e Montanelli; ma si è poi pensato che il primo, essendo costà Capo del Potere Esecutivo, non avrebbe potuto accettare fino ad Unione compiuta. Ad ogni modo però il Triumvirato attuale è provvisorio, e non appena formeremo con voi uno Stato solo, provvedemmo ad una nuova nomina, e la faremo in guisa da trar profitto degli uomini più illustri e più popolari tanto di Toscana come di Roma.

«Affrettate adunque l'Unione, affrettatela con tutte le vostre forze, imperocchè da questa Unione soltanto può venire la comune salvezza della Italia Centrale.» — ( Alba, 4 aprile 1849.)

590. Il Segretario Biondi. Tornata dell'Assemblea Costituente del 2 aprile 1849.

591. Italia Rossa, del Visconte D'Arlincourt, pag. 116 e seguenti.

592. Il generale Pepe nella Storia delle Rivoluzioni d'Italia del 1847-48-49 (Bruxelles, 1850, pag. 270) narra uno esempio stupendo di virtù, il quale a me piace referire non tanto perchè serva maravigliosamente di conferma alla mia sentenza, la quale non ne ha bisogno, quanto perchè consoli l'animo contristato dall'odierno diluvio universale di viltà. Il generale Nugent fu gagliardo battagliero, ed aspro nemico della Italia, comunque togliesse a moglie gentildonna italiana di Benevento; nel 1849 con prova estrema di valore assaltava Brescia, che con prove estreme di valore si difendeva. Prevalsero alfine il numero degli assalitori, la qualità delle armi, e la esperienza del trattarle; però cadde Brescia, dopo ch'ebbe ucciso al nemico 1500 uomini, 36 ufficiali, un luogotenente-colonnello, un colonnello, e lo stesso generale Nugent, — il quale sentendosi vicino a morte nel dettare il suo testamento lasciava alla città di Brescia un legato in tributo della sua ammirazione per lei!

593. Prose Politiche. Lettera Apologetica. Ed. Le Monnier.

594. «L'Assemblea Costituente rigettò l'Unione con Roma; e con ciò fare impedì forse una nuova complicanza dalla quale nessun utile e molto danno poteva ora resultare. Forse impedì piuttosto un decreto che un fatto; ma in ogni caso fece opera ragionevole. Concentrò inoltre in un solo tutto il potere esecutivo; ed anco questo partito era consigliato dalla imperiosità delle circostanze.

«Operi adunque chi ebbe la somma dei poteri per salvare la Toscana, e l'esperienza dovrà consigliarlo nella scelta dei mezzi più opportuni ed efficaci.

«Due mali oggi minacciano la Toscana: il disordine interno armato in lotta civile, ed una possibile invasione austriaca. Queste due calamità egli deve scongiurare dal nostro Paese; e quando vi riesca, non vi sarà onesto cittadino che per questo non gli si professi riconoscente.

«Se noi sapessimo la Toscana in condizioni diverse da quelle nelle quali oggi sventuratamente si trova, noi sapremmo proporre ben altri consigli. Ma ove è ella la guerra dei Popoli che soccorra la disfatta dei Regii? Ove è un nucleo al quale si vogliano rannodare le forze disperse? ove è un principio vitale che le animi e le governi? I Decreti non creano eserciti, i proclami non aggiungono stabilità ai governi disfatti.

«Però noi crediamo che tutti i sinceri amatori della patria debbano oggi convenire in questo: salvare per primo quel più che è possibile dell'onore e della indipendenza nazionale invocando l'appoggio della Francia; dividere almeno la sventura cogli altri Popoli fratelli, se non bastammo a dividere i pericoli; — salvare l'indipendenza dello Stato, minacciata dall'Austriaco vittorioso; salvare le libere istituzioni minacciate dalle fazioni reazionarie; salvare la pubblica tranquillità, e con essa le proprietà e le persone, minacciate dai turbolenti d'ogni Partito.

«Questo crediamo sia oggi dovere del Governo di procurare, invocando il concorso dei poteri municipali; l'autorità dei quali riman sempre incontestata, qualunque sia l'influenza degli avvenimenti politici.» — ( Conciliatore, Nº 88, 29 marzo 1849.)

595.

NOTIFICAZIONE.

«Lieto il Governo di aver viste coronate di buon successo le cure che si è dato per provvedere di cavalli il treno di artiglieria, è ora ansioso di riempiere il vuoto d'uomini in che il medesimo Corpo si trova.

«A quelli pertanto che abbiano militato in Cavalleria, a tutti quelli che all'ufficio di cannoniere conduttore si sentano adatti (siano pur anche coniugati) fa premuroso invito di offrire alla Patria i proprii servigi.

«Per tre anni è l'impegno; cinque zecchini il premio d'ingaggio.

«Non è per altro in questa leggera somma, ma nel cuore dei Toscani, che il Governo ripone la sua fiducia.

«Una nota per tutti quelli che vogliono scriversi è aperta fin d'oggi presso il Comando di questa Piazza. — Su via Cittadini: mostriamo al mondo che se altamente gridammo di voler esser liberi, abbiamo anche il coraggio, sappiamo anche sostenere i sacrificii con cui si merita la Libertà.

«Dal Ministero della Guerra, li 2 aprile 1849.

« G. Manganaro. »

596.

«Toscani,

«Alla sicurezza interna fu provveduto con necessarii provvedimenti ieri e stamani. I fatti corrisponderanno alle parole. Adesso della sicurezza esterna.

«Bisogna difendere la nostra Terra. Questo è dovere di tutti, qualunque opinione i Cittadini professino. Onore, religione, interesse, e ogni altro affetto che governa il cuore degli uomini virtuosi ed anche poco virtuosi, persuade alla difesa del Paese nativo.

«Il Governo primo mandò alla Gioventù Toscana fervidi eccitamenti; gliene mandava pari in caldezza la generosa Assemblea. Ai confini! ai confini! Deh! Gioventù Toscana, difendi la tua Patria. La difesa è agevole: i luoghi aspri, i calli dirotti, i tronchi e i massi offrono riparo a noi, impedimento al nemico, dove mai si attentasse varcare i nostri monti. Pensa che anche i bruti difendono i proprii covili; vorrai essere, o Gioventù Toscana, da meno dei bruti?

«Ai confini! ai confini! Il Governo verrà con voi: reggerà se occorre sotto la tenda: chiunque adesso non diventa soldato si guardi dal mentirsi amico del Popolo: amici del Popolo sono quelli che muoiono con lui e per lui.

«Intanto la Gioventù sappia che presso ogni Municipio sta aperto il Registro nel quale hanno da scriversi coloro che intendono accorrere alla difesa della Frontiera; ma meglio del Registro varrebbe prendere un'arme, baciare la madre, e recarsi a Firenze. Qui si fa l'adunata delle genti per andare ai confini.

«2 aprile 1849.

« Guerrazzi. »

597. Dispaccio telegrafico del 2 aprile 1849.

«Al Governo di Livorno.

«Bisogna prevalerci delle buone notizie per eccitare il pubblico spirito alla guerra. Adopri i mezzi che pensa più opportuni. Si valga di Popolani, Circoli, e Preti, di tutti; e appena impegnati dieci, o dodici, mandi subito a Firenze, previo avviso, dove faremo il deposito. Vestiremo, armeremo, e manderemo al campo. Risposte d'ora in ora per mio governo.

« Guerrazzi. »

(Documenti pag. 441.)

598. Dispaccio telegrafico del 2 aprile.

«Al Governo di Livorno.

«Mancano armi. Di Francia ne vennero altre? Ve ne sono a Livorno? Se mandate Volontarii, e li dovete mandar subito, inviateli con armi. Ai bagagli e alle vesti penseremo noi. Requisite i fucili da caccia, e sostituiteli agli schioppi da munizione. Così vuole la Patria. Quando la Patria ordina, a chi non obbedisce — guai.

« Guerrazzi. »

(Documenti, pag. 442.)

599. Dispaccio telegrafico delle ore 2, 55 minuti, 2 aprile.

«Al Governo di Livorno.

«Intorno al Battaglione io lo accetto a due patti: che porti i fucili, e che gli Ufficiali si sottopongano agli esami. Fucili, noi non ne abbiamo, come vi ho detto. Qui stanno mille giovani inutili per difetto di armi, e me ne piange il cuore; quindi se gli facciano imprestare. Requisiteli, come ho ordinato; insomma li portino. Ufficiali devono essere nel numero normale, corrispondente alla quantità dei soldati, a seconda dei Regolamenti, e l'esame li deve dimostrare degni per morale e per conoscenza che a loro si affidi il sangue dei fratelli. E questa è giustizia. Lodi, e ringrazii il Gonfaloniere. Giustizia, ma piena giustizia: la Patria non desidera altro.

« Guerrazzi. »

(Documenti, pag. 442.)

600. Documenti, pag. 442. Dispaccio telegrafico delle ore 8, 45 minuti, 2 aprile.

601. Documenti, pag. 517. Dispaccio telegrafico Landi, del 2 aprile, ore 5, min. 9.

602. Ivi. Dispaccio telegrafico Martini, del 2 aprile, ore 4, min. 45.

603. Ivi. Dispaccio telegrafico Landi, del 2 aprile, ore 7, min. 45.

604. Ivi. Dispaccio telegrafico D'Apice, del 2 aprile, ore 8, min. 10.

605. Firenze 3 aprile.

«Livornesi!

«Adesso vi parla una voce assai più potente che quella del vostro concittadino, — la voce della Patria in pericolo, e vi domanda:

«Che quanta Gioventù contiene cotesta mia terra diletta, e il suo contado, accorra alla frontiera e la difenda.

«Wimpfen si è vantato con 10,000 Austriaci calpestarvi come biacchi striscianti nel fango!... Io non dico di più.... Gli occhi mi si empiono di lacrime e di sangue per la vergogna.

«E vi scongiura ancora che le rendiate le armi altra volta prese da voi per difendere il Paese. Bene le prendeste, e bene le adoperaste; ma chi di voi non può andare alla frontiera, per quanto amore porta a Dio, e ai suoi morti, impresti queste armi alla Gioventù che risponde alla chiamata.

«O Livornesi miei, vorrete mandare i vostri figli disarmati contro gli Austriaci, come i tiranni di Roma gittavano gli schiavi nel circo alle fiere?

«Coraggio, costanza e modestia, e nulla io reputo e non è perduto. Ma ai confini vi spinga amore di Patria santissimo, e non voglia di gradi, o cupidità di averi. Colui che si muove per ambizione o per interesse, si parte col conto fatto nella sua anima di piegare laddove trova maggiore premio di vanità, o di danaro. Chi si parte da casa con l'ambizione o lo interesse, di rado avviene, — Livornesi, badate alle mie parole, — di rado avviene, che per la via non si accompagni col tradimento.

«Voi sapete che io ho un nepote solo del mio nome, consolazione unica a questa travagliata mia vita: andate al campo, e lo troverete semplice soldato di artiglieria. Egli ha da guadagnare i suoi gradi col sapere, con la obbedienza, e col valore.

«O uomini livornesi, datemi le armi e i figli,ed io vi salverò vostra Madre — la Patria.

«Se gli Austriaci prevalgono, la condizione dei vivi è peggiore di quella dei morti — perchè morirono senza vergogna, e non li turba nel sepolcro lo scherno dei figli.

« Guerrazzi. »

(Documenti, pag. 872.)

606. Documenti, pag. 577.

607. Trovandoci nella suprema necessità di tentare una disperata prova per ristorare le sorti della guerra, o salvare almeno l'onore operando, credo che potrò meglio servire alla Patria nel Campo, che paziente uditore nel Parlamento toscano: perciò renunzio ad essere Deputato. Co' miei Elettori, a guerra finita le scuse. — Firenze a dì 2 aprile 1849. G. Morandini.

608. Documenti, pag. 443, e 518.

609. Documenti, pag. 443. — «La Guardia Nazionale fiorentina corrisponde. Ieri parlai al mezzo Battaglione, che montò la guardia: oggi, appena smontato, due compagnie armate e vestite con sacchi e cappotti vogliono partire subito. Dio ci aiuti!»

610. Circolare del Ministro della Guerra del 4 aprile 1849.

611.

NOTIFICAZIONE.

«La Patria in pericolo chiede uomini ed armi. Bando alle discordie; uniti in un solo volere prepariamoci frettolosi a respingere lo straniero che osasse attentare alle conseguite Libertà.

«La calma operosa è più utile del tumultuario affaccendarsi, perchè la prima mostra il fermo proponimento e la solennità dell'atto che va a commettersi, mentre il secondo confonde, e non ha durevole impronta.

«Ogni Cittadino pertanto, che ritiene armi inoperose, le consegni a questo Municipio.

«Lo stesso invito vien fatto ai Militi della Guardia Nazionale dai 50 ai 60 anni, coerentemente al disposto dell'Articolo 7 del Decreto dei 23 marzo 1849 del Governo Provvisorio toscano.

«Giovani generosi, caldi di amor patrio, questo è il momento più bello della vostra vita; da voi la Patria attende la propria salvezza. Dio non abbandona gli oppressi. L'ora del risorgimento è suonata. Le armi soltanto ponno decidere dei nostri destini.

«Livorno, dal Palazzo Civico, li 4 aprile 1849.

« Il Gonfaloniere Avv. Luigi Fabbri.»

612. «Si dica allo A., che tratti, e concluda il baratto di ½ milione, e di là mandi in Francia subito. Le armi si raccolgano. Ne sono arrivate altre in Livorno? Qua armi prima, poi gente.» — (Dispaccio telegrafico del 4 aprile 1849. Documenti, pag. 443.)

613. Documenti, pag. 519.

614. Documenti, pag. 519 e 520.

615. «Se il Battaglione Del Fante, se i Volontarii non vengono subito con le armi, non vengano più, essendosi il nemico incominciato a mostrare verso Sassuolo. Di nuovo invito per armi, e mandarle subito... e presto le armi. Lucca vostra non corrisponde, — vergogna.» — (Dispaccio telegrafico del 5 aprile 1849. Documenti, pag. 444.) — «Il Battaglione se non viene presto, non importa. Si dirà anche dei Livornesi: solite ciarle e fatti punti. Se non rendono le armi, si levino alla Nazionale, perchè quando sono superati gli Appennini, o che credono di difendere Livorno dalle bombe austriache? Con le picche si guarda la città. Abbiamo gente; un milione circa in Francia per arme. Prediche, Esposizioni in Duomo, e per ultimo la Madonna santissima di Montenero muoveranno i Popoli.» — (Dispaccio telegrafico del 5 aprile 1849. Documenti, pag. 445.)

616. Ordine del Giorno del Ministro della Guerra del 5 aprile 1849.

617. «Si presenti al sig. M. di cotesto Governo, e faccia acquisto per conto dello Stato dei seguenti articoli: Fucili 1240. Sacchi 200 nuovi. Detti 100. Capsule 1 milione, a patto restituirle se non sono servibili.» — (Dispaccio telegrafico del 5 aprile 1849. Documenti, pag. 445.)

618. Ordine del Giorno della Commissione organizzatrice il Corpo dei Volontarii toscani del 5 aprile 1849.

Comecchè io non detti Storie, pure considerando che il buon cittadino non deve pretermettere occasione di lodare chi di lode fu degno non tanto per giusta ricompensa di loro, quanto per eccitamento di virtù, oltre il fatto di Morandini, Rubieri, Angiolini, e Gasperini, giovi onorare Ilario Fabri di Santa Sofia, che non compreso nello imprestito forzato offerse 500 scudi ( Monitore del 2 aprile 1849), M. Galeotti che offerse spontaneo 500 lire, e Pianigiani il quale, escluso anch'egli dallo imprestito, offriva contribuire 14 per 100 su la prima categoria ( Monitore, del 4 aprile 1849). Il Pretore Franci di Pontedera annunziava per telegrafo:

«Il Pretore di Pontedera al Capo del Potere Esecutivo.

«Ho fatto quello che doveva come cittadino. — Al Circolo ieri sera ho detto quelle stesse parole che ella mi diceva sabato in compagnia in Vapore. Fu letto il suo Indirizzo del giorno 6 andante alla Gioventù fiorentina. — Il generoso Danielle Ricci di Pontedera ha offerti due zecchini ad ogni giovane pontederese che s'inscriverà per andare ai confini. Anche il Municipio, lo spero, si proporrebbe sussidiare le famiglie di coloro che per la difesa della Patria le abbandonassero. — Che fare di più? eppure non abbiamo fin qui che quattro Volontarii. Povera Patria! Madre sventurata, hai figli troppo ingrati. Vergogna. — Ore 2, 5 m. pom.

« Franci. »

«Il Pretore di Pontedera al Capo del Potere Esecutivo.

«Dopo un eccitamento fatto stamani dall'onorando vecchio Cesare Vallerini, Vicario in disponibilità, alla Gioventù di Pontedera, abbiamo ottenuto le firme di altri dodici Volontarii. — Ore 6,35 m. pom.

« Franci. »

Il Circolo di Grosseto mandò 16 cavalli; almeno questo qualche cosa di buono seppe fare. — ( Monitore, del 5 aprile 1849.)

619. «Alla Gioventù Fiorentina!

«Una Gioventù fiorentina piena di fede, di modestia e di ferocia, tenne levato gloriosamente il gonfalone della Repubblica fiorentina contro le armi di un Imperatore potentissimo e di un Papa; e quando vinta dal tradimento ebbe a deporlo, vi si avvolse dentro come in un sudario di gloria, e si adagiò nel sepolcro.

«La Gioventù fiorentina allora aveva fremito di rabbia e lacrime d'ira, e mani gagliarde contro i nemici della Libertà ch'è sì cara: imperciocchè questa Libertà nella nostra terra le venisse insegnata dagli esempii paterni, esposta con gli scritti da Niccolò Macchiavelli, difesa da Michelangelo, sostenuta con la virtù della parola o del ferro da Francesco Carduccio, da Francesco Ferruccio, da Dante da Castiglione, e da altri famosi di questa inclita terra.

«Allora in questa città vissero uomini, i quali come lo Alberti tennero per ferma una cosa, che anche a quei tempi parve enorme, doversi alla salute dell'anima anteporre la salute della Patria.

«E in questa Piazza della Signoria per la Libertà era arso il frate Girolamo Savonarola, di cui fu somma sventura andassero disperse le ceneri. Come nel primo giorno di Quaresima il rito della Chiesa ordina, che si freghi con la cenere la fronte al cristiano e gli si ricordi che polvere nacque e polvere ha da tornare, noi potremo adesso spargere un pugno di cotesta cenere sopra la testa della Gioventù fiorentina e dirle: Rammentati che Dio ti creò libera, e libera tu devi morire.

«O Dio! forse da cotesti tempi in poi qualche cosa è mutata quaggiù, onde i Fiorentini non amino la Patria come altra volta l'amavano? In San Giovanni i Fiorentini vengono sempre battezzati nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Le arche mortuarie conservano sempre il deposito sacro delle ossa paterne; la cupola s'inalza sempre degna di rappresentare quasi una via che unisce la terra col cielo; popolate le valli delle medesime case e dei medesimi oliveti; il nostro cielo sfavilla sempre del sorriso di Venere celeste, che si compiace avere stanza quaggiù, circondata dalle divine opere del genio quasi un pianeta in mezzo alle stelle.

«E sta tuttavia questo Palazzo Vecchio testimonio di tante opere e di tanti detti virtuosi. Sotto il ballatoio, o Fiorentini, leggete scritta in caratteri d'oro sopra fondo azzurro la parola Libertas. Non vi sembra un Angiolo amoroso che reietto dagli uomini si rimane esitante di abbandonare Firenze, e sta così sospeso fra il Cielo e la Terra fiso aspettando pure che il Popolo lo richiami?

«Sta questo Palazzo, che fu sempre come il cuore della Libertà. O sacre mura! quando io levo in alto il capo vedo formicolare di gente il ballatoio, e fervere nella battaglia, e avventar dardi e sassi contro i sottoposti soldati della tirannide, e poi ad un tratto fermarsi per mancanza di armi: allora la venerabile sembianza di Messere Jacopo Nardi rivela il muro a secco per rovesciarlo sopra il nemico, e declinato lo sguardo, i gradini e la piazza considero ingombri di membra infrante, e di armi spezzate; — lavate quel sangue di schiavi; esso non rallegra ma contrista la terra della Libertà. — Per la memoria del fatto basta il braccio tronco del David di Michelangelo. Il marmo del Buonarroti, compenetrato della sua anima grande, sembra che non potendo rimanere spettatore immobile del caso, abbia preso parte alla battaglia riportandone onorata ferita.

«Nulla pertanto è mutato — nulla, meno che gli uomini....

«Così dicono gli stranieri calunniando; non io. Figlio delle comuni sventure, partecipe degli stessi dolori, conosco a prova quanto sia grave dopo trecento e più anni di vergognosa tirannide levarci all'altezza della Libertà. Dove il pensiero tuona, non risponde la voce amica e franca; dove il cuore freme, il braccio non consente intorpidito; una bevanda avvelenata ti serpeggia nel sangue e ti costringe al sonno; — la spada è diventata rugginosa, lo scudo rotto, il capo senza dolore non sopporta più l'elmo; parenti, amici, tutti ti supplicano a dormire: bisogna che tu dorma.

«Ma vi è un Angelo che rompe il sonno della tirannide, come vi ha un Angelo che rompe il sonno della morte, — e questo è l'Angelo della Libertà.

«E voi, o Fiorentini, udiste questa voce quando sopra i campi lombardi più costanti e più tenaci degli altri duraste sotto la procella di ferro e di fuoco che vi avventava lo implacato nemico. Voi mostraste allora quello che soventi volte io diceva, come un Popolo e un Dio non possono tenersi chiusi dentro al sepolcro.

«Adesso il bisogno urge maggiore. Qui ora non trattasi di acquistar gloria, ma di fuggire vergogna: qui non vuolsi far procaccio di comodi, ma ripararci dal danno; e da qual danno? — Tendete l'orecchio, o madri, o spose, o figlie miserissime.... Dalle rive del Po e del Ticino, da Brescia e da Bergamo muovono voci di pianto disperato, che stringono il cuore d'ineffabile affanno. Ora che sarebbe se vedeste le sconce ferite, e le membra lacere, i muri grondanti sangue? Udite fino di qua il singulto dell'agonia di Venezia! Cotesto singulto è immenso, perchè si parte dall'agonia della Libertà d'Italia. O Cristo, o Cristo, i tuoi giusti occhi non guardano adesso la terra, poichè lasci perire Venezia!

«La difesa è agevole. La Natura provvida volle circondare questo suo giardino, la bella Toscana, di un muro insuperabile di monti; ma il Cherubino che deve stare a guardia di questo Eden hanno a crearlo gli abitatori del luogo con la propria virtù. — Ordini di milizia non valgono, inutili per gli aggressori le artiglierie, i moti della cavalleria impossibili; dieci mila uomini di qui possono respingerne cinquanta mila, il numero è d'impaccio e forse rovina.

«Ma il nemico non può venir grosso contro di noi. I Popoli gli fremono alle spalle come moltitudine di acque in tempesta. Le ire dei Popoli e del mare si stendono sopra la terra, e i troni, le armate e le provincie spariscono. Non vi sbigottite per una sventura, i Popoli non muoiono mai; la tela che il ragno della tirannide trama laboriosamente in un secolo è disfatta dal Popolo in un minuto di furore.

«La difesa della terra nativa fu imposta dalla natura a tutti gli animali come un istinto. La terra nativa ha diritto di esser difesa da tutti coloro che ella nutrisce e ricovra pietosa nel suo seno; tutti i suoi figli hanno il sacro dovere di difenderla; chi manca alla natura manca a Dio, però che la natura sia la figlia primogenita del Signore.

«O Sacerdoti, il calice dove la prima volta beveste con labbra tremanti il sangue di Cristo, vi sarà tolto dal Croato. Quale legge vi sconsiglia dalla difesa della Patria? O piuttosto qual legge non v'impone difenderla? E vi ha un Tribunale nel mondo che non patisce appello, e questo sia nella propria coscienza; ponetevi, o Preti, la mano sul cuore, e ditemi se mancando alla difesa della Patria una voce non si muove là dentro che vi chiama traditori? Tradendo la Patria avrete comune con Giuda la disperazione e lo inferno. Chi non ama la Patria odia Cristo; chi affligge la Patria trafigge Cristo.

«Ora non si parla di Unione con Roma, nè di forma di governo; qui non entrano scrupoli, nè casi di coscienza: si tratta di difendere le nostre terre e le nostre vite. Se un Pontefice venisse e dicesse che difendere la Patria è peccato, io gli spruzzerei l'acqua benedetta nel viso profferendo la formula: «va addietro Satana!» però che egli sarebbe il Demonio trasformato in Pontefice; e se le mie parole suonino vere, io ne chiamo in testimonio il Vangelo prima, e poi tutti i Dottori di Santa Madre Chiesa Cattolica.

«Voi altri, che vi chiamate Conservatori, di leggieri comprendete, che male conserva colui che acconsente a vedere tutto disperso; fortuna, onore, libertà, a caro prezzo, con lauto sudore, con diuturni studii acquistati, tutto va in volta a modo di paglie trasportate dal turbine. Diventata l'Austria dispensiera di libertà, lascio considerare a voi qual sia per essere la parte che sfuggirà dai suoi artigli taglienti e sottili.

«E se vi ha anche taluno che negli intimi precordii faccia voti per la Restaurazione, si rammenti che il suo Principe non che difendesse la frontiera, ma spingesse i Toscani alla guerra di Lombardia; che dove il voto del suo cuore si compisse, il suo Principe gli direbbe: — perchè hai consentito che mi venissero tolte la Lunigiana, e Massa e Carrara? Di queste frontiere ha bisogno la Toscana se non intende rimanere esposta al primo invasore; io lasciai più vasto lo Stato, per la tua codardia lo ritrovo diminuito. Va, tu non sei un servo fedele; tu mi stai addosso come l'insetto sopra la pianta. Io non scambio la lealtà colla viltà. Vile fosti, vile rimanti, e sgombra dal mio cospetto.

«E voi, uomini ardenti, di cui lo impeto ribocca come spuma che bolle fuori del vaso, avvertite che quando ciò avviene il fuoco si spegne e il liquore scema. Ogni cosa ha il suo tempo, il frutto mangiato immaturo allega i denti. Un fanciullo che stende la mano alla spada, e non gli riesce sollevarla, diventa segno di compassione o di scherno. La bandiera della Repubblica non va affidata ad un braccio di tisico, ma di un gagliardo credente che la faccia trionfare con gloria, o cadere con onore. Bandiera e Bandieraio, se avessero a sparire, devono tramontare entro un mare di sangue; allora il Bandieraio non sorgerà più, ma la Bandiera come il Sole tornerà ad affacciarsi in Oriente, aspettata dalle generazioni, benedetta dai Popoli. La Repubblica ha da vivere, o ha da morire sopra i campi di battaglia; voi la fareste morire delle infermità dei pargoli. Sapete voi di che si nutrisce la Repubblica appena nata? Di midolle di leone. Potete apprestarle questo alimento voi? Staremo a vederlo. Intanto la difesa della Patria anche per voi, e sopra tutti per voi, è obbligo santissimo. Imitate la modestia e il valore dei giovani Cavalieri antichi; essi militavano con bianco scudo finchè per qualche inclito gesto non avessero acquistato il diritto di assumere l'impresa. Voi avete lo scudo bianco, la occasione della prova è aperta innanzi a voi; se volete scrivervi Repubblica, scrivetela, ma come i martiri della Chiesa di Cristo prima di morire tracciavano la propria fede sopra il terreno, — col sangue.

«Andate dunque, partite tutti, nel nome santo di Dio e della Patria. Io vi terrò sicure le case e le famiglie. Qualunque opinione singolare, intemperanza, od enormezza, saranno da me acerbamente punite. La Legge è sovrana qui, e la Legge emana dall'Assemblea eletta dal voto universale del Popolo. Le Leggi dell'Assemblea, se intende riordinarsi il Paese, hanno da venerarsi come comandamenti di Dio. Non già in angusta sala dove entra scarsa la luce del Sole, tra lunghe ambagi, ed inamabili discorsi, ma sui campi aperti, fra il torrente dei raggi di un Sole di maggio, in mezzo al lampo delle armi, alla faccia del firmamento, al cospetto del nemico vinto, si ha da proclamare la più perfetta forma politica di Stato per uomini perfetti: la Repubblica! — La Repubblica potrà nascere quando le avremo apparecchiato il battesimo di sangue delle nostre, o delle vene nemiche, — ciò non importa — purchè sia battesimo di sangue.

«Firenze, 6 aprile 1849.

« Guerrazzi. »

(Documenti, pag. 579.)

620. Dispaccio telegrafico del 6 aprile, ore 12, m. 5 ant.

«Al Governo di Livorno.

« — Primo. — I Civici vadano subito a Pisa, e quivi si concentrino.

« — Secondo. — I Volontarii vengano a Firenze, e portino con essi le armi.

« — Terzo. — I Bersaglieri pure vengano a Firenze.

« — Quarto. — Intorno alle armi e altro, proposte da Bini, il Ministro della Guerra dà ordini separati.

« — Quinto. — Autorizzo di ricomprare a modico prezzo le armi già nostre, ma presto. E sempre presto.

« Guerrazzi. »

621. «Al Ministro della Guerra.

«D'Apice ha ragione sul comando unico, nè i corpi sono così grandi nè la superficie delle operazioni sì vasta da consentire divisione di comando; veda di contentarlo, egli merita molto, ed è ottimo per questo genere di guerra. Gli ho ordinato, in ogni evento regga in Garfagnana, e cuopra Massa e Carrara. Spinga quanta gente più può di Linea. Provveda alle sussistenze. Al Secchi, al Pierni dia maggiori facoltà per l'Amministrazione. — Ore 4, 20 m. pom.

« Guerrazzi. »

622. Alba, 8 aprile 1849.

623. Alba, 8 aprile 1849.

624. Documenti, pag. 446.

625. Dispaccio telegrafico dell'8 aprile 1849, ore 7, 30 m. p. m.

«Al Governatore di Livorno.

«Firenze mi ha sollevato dalla inerzia di Livorno. La Guardia si mobilizza. Domani mille trecento uomini partono per Lucca. Dove è andata Livorno? o si muova, o renunzii allo scroccato titolo d'eroica.

« Guerrazzi. »

626. Documenti, pag. 528.

627. Documenti, pag. 94.

628. Monitore Toscano del 9 aprile 1849.

629. Documenti, pag. 448.

630. Ivi.

631. Dispaccio telegrafico, del 9 aprile 1849, ore 11, 23 m. p. m.

«Al Governo di Livorno.

«Venne la gente. È stata alloggiata egregiamente. Livorno si commuove. Sta bene. Ora ravviso la mia città. Dimani mando da te altra gente, ed armi e munizioni. Spero respingere gli Austriaci. Al primo tiro corro agli Appennini. Viva la Patria.

« Guerrazzi. »

632. Dispaccio del signor Ruschi del 9, e del signor Barli del 10 aprile 1849. Documenti, pag. 529, 531.

633. Documenti, pag. 530.

634. Documenti, pag. 531.

635. Ivi.

636. Documenti, pag. 450.

637. Altrove ho detto, che il nostro Attivo superava il Passivo; ma il Passivo era composto di spese quotidiane, l'Attivo rappresentato in parte da beni i quali da un punto all'altro non si possono vendere.

638. Custoza, l. 4, pag. 81. Turin 1850.

639.

«Massa di Carrara, 5 marzo 1849.

«Cittadino Generale d'Apice.

«Penetrato vivamente della necessità di tentare ogni sforzo onde cessi il malvagio esempio delle diserzioni dalle Truppe che sono sotto il vostro comando, ho fatte le più insistenti rimostranze presso il Generale La Marmora, e presso il Ministro degli Affari Esteri di Torino onde siano restituiti coloro che disertarono dal 23 del decorso mese fino a questo giorno, e non siano ricevuti coloro che disertassero in seguito.

«Confido che ne otterremo un buon risultato, tanto più che mi riuscirà di provocare delle interpellanze in proposito nella Camera Piemontese.

« G. Montanelli. »

«Generale,

«Firenze, 6 marzo 1849.

«Amico mio: pieno di sospetti, di cure, io mi logoro l'anima. Sento di emissarii piemontesi per fare disertare le milizie nostre. S'è vero, — guardate. — Pubblicate un Ordine del giorno che chiunque fosse sorpreso a corrompere soldati sarà immediatamente passato sotto le armi. Vigilate la condotta di tutti, e date esempj, esempj per amore di Dio. Addio.

«Affmo. — Guerrazzi. »

«Sig. Generale Domenico D'Apice.

«Massa di Carrara.»

640. «Pontremoli, 4 marzo. La diserzione delle truppe è grande, anzi grandissima. Vanno in Piemonte, il quale ha risposto al capitano Carchidio, che vi fu spedito dal Generale D'Apice, che si credeva in dovere di accettare e difendere questi disertori; ed infatti sono ricevuti benissimo e mandati in Alessandria. Quest'oggi sono disertati i carabinieri di Pallerone, di Aulla e di un altro picchetto che non rammento. — Egualmente hanno fatto una ventina di Cacciatori che dall'Aulla dovevano venire a Pontremoli.»

641. «Amico Carissimo,

«Calice, 2 aprile 1849.

«Nel mentre che la Popolazione di Calice stava pensando a fare una proposta contro la presa di possesso operata nel 13 marzo caduto dal Commissario Sardo, e che io dovea recarmi presso del Delegato Beverinotti per concertarla, è sopraggiunto il fatto della battaglia di Mortara, che ha prodotto un cambiamento nel sistema politico di questi luoghi.

«Può darsi che l'armistizio non abbia luogo, e che per conseguenza vengano riprese le ostilità; ma nel caso contrario, questi abitanti appena che sieno partiti i Carabinieri Sardi, qua distaccati, sarebbero intenzionati di unirsi alla Toscana, qualunque sia la forma di Governo che ivi venga adottata.»

642. Proclama del 6 agosto 1848.

643. Dispaccio telegrafico del 1º aprile, ore 1, 33 m. ant. Documenti, pag. 441.

644. Documenti, pag. 515.

645. «Alla Commissione Governativa di Livorno, il Ministro dell'Interno. — I Cittadini componenti la Commissione Governativa, Massei e Paoli, urge che si rechino domani mattina col primo treno a Firenze per assistere all'adunanza dell'Assemblea. Marmocchi.»

646. Documenti, pag. 516.

647. Documenti, pag. 442.

648. Vedi Dispaccio telegrafico. Documenti, pag. 502.

649. «We read in a letter from Florence of the 1 st. — A report is current that Guerrazzi, who has never been in favour of a republic, has only made himself Dictator in order to be the better able to restore the authority of the Grand Duke.» — ( Galignani's Messenger, Saturday, april 7, 1849.)

650. Il colonnello G. Manganaro, che mi sarà sempre cara ed onorata memoria, spiegando come testimone la importanza di questa Istruzione, dichiara: «Ella era diretta a procurarsi armi per combattere la perniciosa idea di proclamare la Repubblica e la Unione con Roma, sostenuta da un Partito nemico del benessere della Toscana, il quale spingeva con ogni maniera d'intrighi il Governo alla detta proclamazione, e Unione.»

651. Istruzioni del 22 settembre 1848 al marchese Ridolfi, citate.

652. Samuele, c. 12.

653. «Il Monitore, che riferisce la discussione che ebbe luogo al Consiglio Generale sulla Costituente Italiana, ha soppresso alcune parole singolari che furono proferite dal Ministro dell'Interno. Quando egli rimproverava agli avversarii del mandato libero d'esser più realisti del re, soggiungeva che il Ministero, consigliando al Principe la Costituente, non solo aveva creduto che il Popolo gli avrebbe assentito con libero voto quel potere che egli ora esercita in forza dei trattati, ma che questa generosa fiducia gli avrebbe fruttato la Corona del Regno della media Italia. Queste parole dette in Parlamento, ed in faccia alla tribuna del Corpo Diplomatico, meritano d'esser notate, e noi crediamo di non peccare d'indiscretezza referendole, secondochè la memoria ce le ricorda. (26 gennaio 1849.)

654. Queste proteste si rinnuovarono dalla Chiesa tutti gli anni nel giorno 28 giugno fino al 1788.

655. «Cittadino Generale.

«Dietro le conferenze che il Governo Provvisorio ha avuto con voi, noi non possiamo darvi altra istruzione che rimetterci alla savia discretezza vostra coerentemente a quanto fu discusso a voce, procurando sempre che tutte le operazioni vostre convergano al doppio scopo di promuovere gl'interessi repubblicani dell'Italia Centrale, e la liberazione della Italia da tutta dominazione straniera. E vi salutiamo.

«Dalla Residenza del Governo Provvisorio,

«Li 18 marzo 1849.

«Il Presidente del Governo Provvisorio Toscano « G. Montanelli.

«Al Cittadino General D'Apice.»

656. Nota, che la conferenza col Dott. Venturucci aveva avuto già luogo.

657. Il Colonnello Baldini, e i signori Fortini e Contri interrogati depongono questo discorso essere stato loro veramente tenuto dal Generale; non rammentarsi però se a nome del Guerrazzi.

658. Nelle istruzioni del 1º aprile ho mostrato, che tale incarico non vi era, e non vi è: il Generale in questa parte ha in mente il Dispaccio del signor Montanelli del 18 marzo.

659. Nota: la lettera è senza data, ma si ricava dal marchio postale della sopraccarta, ch'è del 3 aprile 1849.

660. Questa lettera non ha data perchè mi succede sovente non porla dentro, e fuori manca lo involto; è diretta a Giorgio Ansuini; ma o appartiene a questi giorni e giova, o appartiene a tempo antecedente e giova più che mai, però che attesti come io stimassi coloro, che da un punto all'altro mi si mostravano sviscerati della Repubblica.

661. «Cittadino Ministro dell'Interno.

«In adempimento di quanto mi scrivevate col pregiato vostro di ieri sera ho comunicato all'Ispettore delle armi Maggiore Bonci il desiderio da Voi esternato in quello, ed Egli mi ha rimesso il Biglietto che vi accludo.

«E con stima mi confermo

«Li 9 aprile 1849.

«Di Voi, Cittadino Ministro dell'Interno, F. C. Marmocchi.

«Devotiss. Zannetti.»

«Cittadino Generale.

«Autorizzato al ritiro dei fucili che furono consegnati ai Circoli, sarei a pregarvi, o Cittadino Generale, di volermi fare indicare in che numero questi fucili furono consegnati ai Circoli summentovati.

«Mi affretto intanto a dirigerne l'opportuna domanda ai Presidenti, e contemporaneamente a prendere le opportune misure per il ritiro delle armi in proposito.

«Profitto intanto ec.

«Di Voi, Cittadino Generale,

«Li 9 aprile 1849.

«Devotissimo Gas. Bonci.

«Al Cittadino Generale

«Comandante la G. Nazionale.»

662.

«A. C.

«Livorno 31 agosto 1848.

«Ho partecipato a Adami la tua risposta in proposito Imprestito. Vi era anche Giraudino, informato dell'affare, e propenso perchè segua, che mi ha incaricato dirti, che tu gli voglia bene, e ti rammenti di Lui. — Essi mi dicono se credi che Adami torni a parlare al Ministro, e come; oppure se ti prendi cura di tutto. — Sappi però che qualche banchiere di costì almanacca altri progetti, non tanto buoni pel Governo, è vero, ma che pure potrebbero essere accolti: — dunque bisogna vegliare. — Avevano proposto interrogare la Banca ora che il Paese si quieta, ma ho detto aspettare la tua risposta, per non allarmare il Paese, non sapendo se il Ministro voglia, o no aspettare, giacchè in questo secondo caso converrebbe più il silenzio. Non facciamo nulla senza tuo avviso, che è atteso col corriere d'immediato ritorno.

«Ecco in sostanza le basi:

«Biglietti fruttiferi al 3 ½ per 100 con obbligo di riceverli in pagamento per affari commerciali. — Non minori di L. 200. — Le Casse Regie prenderli. — Cambio alle medesime per L. 25,000 ogni settimana. — Al pubblico per la stessa somma. — Frutti pagabili ogni quattro mesi. — Provvisione ½ per 100 ogni 4 mesi. — Garanzia del sovventore. — Se si trovasse piccola difficoltà, potrebbe superarsi.

«Aspetto dunque tua risposta.»

663. Ripeto, che corretta dal Ministero io possiedo la minuta del primo Proclama pubblicato dal signor Montanelli a Livorno.

664. I Decreti del Tribunale di Prima Istanza del 10 giugno 1850, e della Camera di Accuse della Corte Regia del 7 gennaio 1881, per denigrare il signor Montanelli tacciono la condizione « se mi sarà possibile;» e sempre così.

665. Esame Zannetti.

666. Su la proposizione del Gonfaloniere Peruzzi fu nominato con altri Commissario Guglielmo Digny. — Vedi Monitore del 16 febbraio 1849.

667. Partì nel 4 o 5 aprile 1849. Vedi la sua umile rappresentanza a pag. 93 dei Documenti. Egli la termina con queste parole: «Aspetterò che le indagini vengano proseguite, ma chieggo dalla vostra giustizia, che mi si conceda al più presto ritornare laddove non sarò giudicato, nè trattato da forestiere.» Gli fu risposto, che le indagini sarebbero state incominciate subito dopo la sua traduzione in luogo di custodia, ed egli preso vento, che si trattava arrestarlo, spulezzò.

668. Documenti, pag. 528.

669. Documenti, pag. 530, e 531.

670. Documenti, pag. 449.

671. Ivi.

672. Documenti, pag. 449.

673. Documenti, pag. 449, 450.

674. Dispacci telegrafici. Documenti, pag. 450.

675. Dispacci telegrafici. Documenti, ivi.

676. Monitore citato. — Come dimostrazione di animo valga questa lettera mandata al sig. Dott. Quintilio Mugnaini in Livorno: essa porta la data del 6 marzo 1849, ed è munita esternamente di doppio marchio postale:

«Amico.

«Dimmi presto quello che vuoi, perchè la mia vita politica ormai ha pochi giorni di durata, risoluto a ritirarmi. Così intendo mostrare più cose; che amo la quiete e i miei studii più che altri non pensa, e se la natura mi diè impeto ed energia non per questo voglio primeggiare sopra altrui, chè il maggior pregio dell'uomo libero è la modestia; che errarono quelli, che me promovendo parteggiarono per la persona e non pel principio: questo non ha da essere e non sarà. Io ho mandato Cecchino al campo soldato semplice di artiglieria, e l'ho unico al mondo. Credeva che gli uomini amassero la Libertà come me — per respirare più libero, — mi sono ingannato: tornerò a vivere di memorie, e conversare coi morti. Oh! gli alberi, gli alberi, bisogna piantarli nel cuore, e allora va bene. Sussurroni la più parte, queruli, astiosi, ed ecco tutto.»

677. E poichè gli ho sotto gli occhi aggiungo i deposti dei signori Professore Taddei, e Colonnello Nespoli. Il primo dice: «Non posso negare per altro, che reiteratamente il Guerrazzi si oppose all'accettazione del Potere Esecutivo, e che io stesso seguendo il sentimento di varii altri Deputati feci istanza perchè lo accettasse, essendo nella persuasione, ch'egli avrebbe saputo farne uso a vantaggio del Paese.» Il secondo dichiara: «Siccome il Partito ultra non era d'accordo col Guerrazzi, così penso, che nascesse diffidenza dell'uno verso dell'altro, e nella notte nella quale fu dichiarato capo del Potere Esecutivo ho memoria, che da qualche Deputato fossero contro lui profferite ingiurie per le quali il Guerrazzi accennava volersi ritirare dal Governo Provvisorio.»

678. Vedi pag. 192 di questa Apologia.

679. Per quanto posso ricordarmi, i signori Martini e Carlo Martelli, soli, quantunque facessimo loro vivissime istanze a rimanere, si dimisero dallo ufficio, ed il signor Frullani non lo accettò offerto, allegando che beneficato dal Granduca gli sarebbe parso mostrare ingratitudine: di che io molto lo commendai, e glielo dissi in faccia; e questa è pure dimostrazione di animo, dacchè il tempo non mi consentiva più aperto discorso.

680. Vedi Appendice. Requisitoria del Procuratore regio della Repubblica, Rusconi.

681. S. Marco Evang., c. 14, n. 66.

682. Il mio Difensore mi partecipa in quali termini cotesta Decisione proceda, e intorno a quale vile paltoniere ella versi. Sta bene: quello somministrerà argomento ad un altro canto.

683. Nel 1665, durante la guerra fra Inghilterra e Olanda, Monk certa volta si trovò con poche navi stretto dall'armata intera di Ruyter. Mentre gli ufficiali inglesi intorno a Monk gli esprimevano le loro apprensioni per una zuffa tanto disuguale, Monk caricando tranquillo una pistola rispose: «una cosa so certo ed è, che non sarò preso.» Con ciò volendo dare ad intendere, che, in caso di perdita, avrebbe fatto scoppiare la Santa Barbara.

684. Guizot, Monk, pag. 61.

685. Ivi, pag. 72.

686. Hume, Storia d'Inghilterra, Cap. 62.

687. Guizot, Monk, pag. 71.

688. Hallam nella Storia Costituzionale della Inghilterra (Cap. 10, pag. 208) narra che non solamente rimandò il fratello senza speranza, ma che lo minacciò di farlo impiccare se mai tornava con simili proposte.

689. Hume, Storia d'Inghilterra, Cap. 62, pag. 432.

690. Guizot, Monk, pag. 76.

691. Guizot, Monk, pag. 80.

692. Hume, Opera citata, Cap. 12, pag. 435. — Guizot, Monk, pag. 74.

693. Guizot, Monk pag. 102.

694. Hume, Opera citata, pag. 436.

695. Guizot, Monk, pag. 115.

696. Guizot, Monk, pag. 129.

697. Hume, Storia d'Inghilterra, Cap. 62, pag. 449.

698. Lettera del 21 maggio 1660 del Ministro De Bordeaux al Cardinale Mazzarino, citata dal Guizot.

699. Lettera come sopra del 13 maggio 1660.

700. A Lord Say che gli parlava della necessità di escludere dall'oblio almeno qualcheduno dei Giudici, che avevano condannato a morte Carlo I padre del Re, Monk rispose incollerito: «No! neanche un solo: io mi reputerei il primo furfante del mondo se consentissi ad eccettuarne uno solo.» E col colonnello Hutchinson in altra occasione si espresse: «Dio mi danni, se per la morte del Re, uomo abbia a perdere pure un capello!» Nonostante, l'impeto e la vendetta dei Realisti furono più forti di lui; e quantunque nel Parlamento sostenesse il Partito della moderazione, potè appena ottenere, che il numero degli esclusi regicidi si riducesse a sette, dei quali sei soli patirono la morte. Ma il caso del marchese Argyle presenta tale carattere di tradimento, e di rancore personale, che lo steso Hume storico, di Partito tory, non può nascondere, che anche fra i contemporanei suscitò generale indignazione. Guizot racconta, che Lord Wharncliffe si è ingegnato, comecchè timidamente, ad attenuarne la colpa; ma egli dice, che coteste ragioni non lo persuadono per nulla, e che la indegnissima azione del Monk non merita scusa.

701. Anche Monk ebbe a sollecitatore per la restaurazione di Carlo II lo ambasciatore di Francia De Bordeaux, imperciocchè il Cardinale Mazzarino la desiderasse, ma non voleva muovere un passo ond'ella avvenisse; — così Hume ci avverte nella Nota ultima della Storia d'Inghilterra. — I ragionamenti di Lord Hamilton, perchè nulla manchi al parallelo, possono paragonarsi alle sollecitazioni del signor De Bordeaux.

702. Guizot, Monk, Prefazione, pag. 8 e seg.

703. Tutto questo è provato con i Documenti stessi dell'Accusa.

704. Quanto siffatte scapigliature mi dolessero, si è visto, e come io rigidamente le rampognassi, e studiassi reprimerle, si è visto del pari; onde io ho scritto quanto sopra non per amore di attenuarle, molto meno per iscusarle, bensì per tôrre a quelle intemperanze le tumidezze barocche con le quali noi le vediamo dipinte dall' Accusa, e dalla Italia Rossa.

705. «Al Governatore di Livorno. — Al primo accenno di Reazione arresti, e mandi a Portoferraio: io voglio, che il Paese non rimanga insanguinato di guerra civile.

« Guerrazzi. »

(Dispaccio telegrafico del 10 aprile 1849. Documenti, pag. 449.)

706. Il Ministro si avvisò apprestare i provvedimenti per cagione del suo ufficio, non già per istanza che gliene muovessi io. — «La notte dell'11 al 12 aprile 1849 dopo le ore 12 scese giù al mio Uffizio il Ministro della Guerra Manganaro, e dicendomi: — scriva, — mi dettò ordini ai Comandanti dell'Artiglieria, e della Cavalleria, ed al primo s'ingiungeva facesse trasportare sulla Piazza del Popolo 4 pezzi di Artiglieria, che precedentemente aveva ordinato al medesimo Comandante che stessero pronti.» — (Deposto del Tenente Colonnello Pozzi.)

707. «È falso che il Basetti fosse Comandante della Guardia Municipale. Il comando di quella era nel 12 aprile, e successivamente, nel Colonnello Solera.

«È falso che le due lettere che cita la corrispondenza di Firenze contenessero l'ordine — di far fuoco sul Popolo nel caso che volesse tentare un movimento rivoluzionario.

«È vero che in quel giorno il Basetti ricevette due lettere del Guerrazzi, ambedue intercettate ed aperte; una delle quali consegnatagli dal Capo del Comune nella sua residenza, dove l'Ufficialità della Guardia Municipale si era portata a fare adesione.

«Sentito in seguito come testimone nel Processo Guerrazzi fu richiamato a consegnare le indicate due lettere, e le consegnò, ben lontano dal volere aggravato il detenuto, come si vuol far supporre da qualcuno; ma perchè in lode della verità fosse manifesto che falsa era l'opinione che esse contenessero l'ordine di far fuoco sul Popolo.

«Ogni maggior dettaglio è impedito dalla pendenza della Procedura.

«Il tempo mostrerà se il corrispondente fiorentino ha detto il vero.

« Bernardo Basetti. »

( Nazionale, 22 maggio 1850. )

708. Lettera con la quale Ferdinando Zannetti si dimette dal Comando della Guardia Nazionale. — Conciliatore, 20 aprile 1849.

709. Lettera citata. — Conciliatore, 20 aprile 1849.

710. Lettera di Ferdinando Zannetti a Pietro Bigazzi. — Conciliatore, 22 aprile 1849.

711. Varchi, Firenze 1570, pag. 101.

712. Documenti, pag. 394.

713. «Al Ministro dell'Interno.

«Il Capitano Bernardo Basetti si reca per mio ordine a Firenze. Dalla sua bocca intenderà VS. la cagione che ha mosso questo mio ordine. Più tardi riceverà un rapporto dettagliato sugli avvenimenti.

« Pigli.»

714. «Al Governatore di Livorno il Ministro dell'Interno.

«Che cosa sono questi dispacci sibillini? Non hanno voluto ricevere Basetti? Che cosa è avvenuto? Io vuo' saperlo, e subito.

« Guerrazzi.»

715. Processo, a c. 2222.

Il Conte Digny, a cui viene contestato lo esame Taddei, gira di largo dalla cantonata, e risponde: « non ho la minima memoria che la Notificazione mi fosse comunicata prima di mandarla alle stampe: rammento peraltro perfettamente, che mi fu presentata stampata. I miei Colleghi ed io, vedendo, che cotesto atto partiva unicamente dall'Assemblea, non credemmo doverci opporre alla sua pubblicazione...!» Il Conte Digny non dice la verità; e più oltre vedremo il deposto Taddei confermato pienamente: intanto nota, Lettore onesto, che l'Assemblea annunziando che prenderebbe col Municipio e col Generale della Guardia Civica i provvedimenti necessarii per salvare il Paese; se egli, Conte Digny, credeva che ciò non potesse farsi, nemmeno, come ei falsamente dichiara, avrebbe proceduto da onesto. Il silenzio del presente, che lascia in suo nome consumare un fatto, importa consenso. Il Cavaliere Martelli, uomo probo, che evidentemente dice la verità, ma forse per intempestivi riguardi non la dice intera, confessa questa chiamata, e questo invito del Professore Taddei, Presidente dell'Assemblea, con tanto studio dissimulati dai signori Digny e Brocchi, e che dimostrano l'impegno assunto di operare congiuntamente: «In cotesta mattina fui incaricato di recarmi alla Camera dei Deputati e di pregare il signor Giovacchino Taddei di recarsi al Municipio — » Anzi lo stesso Conte Digny approva i fatti contestati, perchè di tutto lo esposto Taddei non ha memoria che della lettura della Notificazione scritta; dunque il rimanente non impugna; e rispetto alla memoria, vedremo, che quella del Conte Digny, per confessione sua propria, è infelicissima.

716. L'Accusa della parola rivoluzione si spaventa, e pare che trovi in essa il segno di ostilità alla Restaurazione; eppure io adoperava la parola stessa di cui si servì il Conciliatore, organo dei fattori del 12 aprile. (V. Nº del 15 aprile 1849.) «Nei primi momenti ogni politica rivoluzione (giacchè questo nome conviensi ai fatti di distruzione, quanto a quelli di restauro)...» Grande miseria è questa dovere aver lite con l'Accusa perfino intorno alle parole di una lingua, che non sembra essere la sua!

717. Infatti ricordo, come se fosse adesso, che l'onorando vecchio rimproverando questa ignobilissima mancanza di fede al nobil Conte, gli diceva: Questa è una baronata! E diceva santamente.

718. «Ciò dovrebbe impedire ogni ulteriore resistenza sì per parte dei Municipii tuttora irresoluti...» — ( Conciliatore, 16 aprile 1849.)

719. Conciliatore del 24 aprile 1849: «Nè sappiamo per vero dire comprendere da cosa sieno mossi coloro, i quali credono di dare esempio di magnanimi sensi resistendo soli alla universale manifestazione dello spirito pubblico.»

720. Macchiavello, Storie, L. III.

721. Atto del Municipio fiorentino del 6 maggio 1849, nel Conciliatore di quel giorno.

722. Conciliatore del 29 marzo 1849, e pag. 498 di questa Apologia.

723. È curiosa quest'altra rivoluzione del Conciliatore, organo del Municipio e della Commissione Governativa: prima del 12 aprile me lodava, l'Assemblea riprendeva. (Vedi Nº del 31 marzo 1849.) — Dopo il 12 aprile me riprendeva, l'Assemblea lodava! (Vedi Nº del 13 aprile 1849.)

724. Esame del medesimo.

725. Esame suddetto.

726. Esame Chiarini.

727. Questo è un fatto sul quale non fu sentito il signor Chiarini, e sul quale ha da essere richiamato a deporre.

728. È il medesimo argomento adoperato a respingere l'esigenze del Popolo fiorentino per la proclamazione della Repubblica: ben è il Popolo fiorentino, diceva io, dei Popoli toscani principalissimo, ma non tutto della Toscana. Se si persuadessero, che la Logica nelle sue regole non concede rivoluzioni, le cose andrebbero nel mondo meglio ordinate, ed anche più onorate.

729. Chi sottilmente riguarda il cuore dell'uomo forse in queste parole troverà la ragione del modo tenuto meco dal Municipio, o almeno da taluno dei suoi Membri.

730. Conciliatore del 13 aprile 1849; — le riporto più oltre.

731. Martelli depone: «Guerrazzi si adoperò a minutare un Proclama per recarsi al Municipio.» Avvertito, che cotesta minuta fu fatta nelle stanze del Ministro della Guerra, risponde: «Questa minuta fu incominciata di certo nella stanza accanto a quella delle Conferenze, e lasciai che il Guerrazzi scriveva; non so se terminasse.» Panattoni depone: «Come il Municipio aveva inviato alcuni Rappresentanti all'Assemblea, così questa fece altrettanto, e furono proposti Zannetti, e me: esitavamo; ma ho buona memoria che il Conte Digny mi strinse un braccio, e contemporaneamente il Guerrazzi, che aveva francamente aderito, mi fece un cenno d'incoraggiamento, talchè mi tenni come plenipotenziario anche per la parte di lui. Il Municipio ci sentì formalmente, e forse fu omessa la cautela di un verbale (che però fu promesso di formulare più tardi), ma le proposte conciliative furono pienamente concordate, e il Municipio assentì di mandare una Deputazione all'Assemblea. Furono presenti a cotesto concordato il Marchese Carlo Torrigiani, e in ultimo il Senatore Capoquadri, prendendovi parte eziandio il Deputato Dottore Venturucci, ch'era venuto con noi.»

732. In conferma della verità di questi fatti, alla contestazione seguente: — «Guerrazzi nei suoi esami parlando della deputazione del Municipio, che si recò come sopra all'Assemblea, si esprime nei seguenti termini: — venne il Municipio all'Assemblea dichiarando, che il Popolo fiorentino aveva restaurata la Monarchia Costituzionale di Leopoldo II; io per certo non aveva nulla da opporre, anzi feci considerare, che onde fosse il consenso più pieno, e non paresse che il Municipio di Firenze volesse imporre agli altri Municipii toscani, gioverebbe assai che l'Assemblea aderisse al voto municipale. Piacque la proposta, e a richiesta del signor Digny, e di altri Priori del Municipio fiorentino, io stesso ne distesi la formula la quale rimase presso cotesti signori;» — il signor Dott. Venturucci risponde: «Questo accadde veramente, ma dalle due alle tre pomeridiane, allorquando l'Assemblea erasi ritirata nelle stanze del Ministro della Guerra, ed è verissimo che il signor Guerrazzi stese una specie di ultimatum, che io stesso verso le 3 e ½ recai al Municipio.» La medesima contestazione è fatta all' Avv. Panattoni, e provoca la seguente risposta, la quale non accenna al successo nelle stanze del Ministro della Guerra, bensì all'altro, che avvenne nella Sala delle Conferenze, dove, in sostanza, i medesimi trattati si agitarono, comecchè si conchiudessero in guisa diversa: «Questo appunto si accorda col mio concetto. Anzi devo soggiungere, che il lunedì 9 aprile con alcuni amici ritenevo, che non si considerassero renunzianti Capponi, Corbani, e Castinelli; volli interpellarne il Capo del Potere Esecutivo, il quale non contraddisse; onde se il Guerrazzi fosse stato contrario non lo poteva dissimulare.» Il Presidente Taddei depone: «Inoltrata l'ora, e i Deputati rimasti nella Sala delle Conferenze essendosi recati nel Ministero della Guerra, ebbe luogo un altro abboccamento con i Commissionati del Municipio, ai quali fu fatta la proposizione, che, se non tutta l'Assemblea doveva riunirsi al Municipio, e alla Commissione Governativa, si riunisse loro almeno una Deputazione tratta dal seno della stessa Assemblea. Il signor Guerrazzi stesso ne formulò la domanda, ma neanche questa venne accettata.» Martelli finalmente depone anch'egli di questa minuta, che ritiene incominciata nella Sala delle Conferenze; il quale aggiunge che gli mostrai tutta propensione per conciliare le cose, e gli dissi, spaventarmi i Partiti, e che, se fosse stato utile conciliarli, ero pronto a farlo. — Da tutto questo la onesta Accusa ricava, che io mi mostrai avverso alla Restaurazione.

733. Lo stipendio ministeriale sotto il Ministero Ridolfi sommò a L. 18,000 annue; il Marchese Capponi lo ridusse a L. 14,000; da me fu ridotto a L. 12,000: nei 5 mesi e 15 giorni che ho tenuto il maestrato, ho rimesso di mio Lire 5333. 6. 8, come ne fa fede il libro di Amministrazione delle mie pochissime sostanze, tenuto dal signor Giovanni Bertani. La schifosa calunnia fu desunta dai due milioni, che l'Assemblea Costituente mi stanziò per le spese della Guerra, — ma i Buoni del Tesoro, i quali dovevano rappresentare questi 2 milioni di lire, non furono, — non che spesi, — stampati!!

734. Digny dice, che i signori Bulgarini e Capaccioli ebbero eziandio lo incarico di significarmi reietta la mia novissima proposta, e sarà.

735. Esaminiamo prima le prove testimoniali, poi discuteremo le razionali.

Martelli. «Nel tempo che si parlava nella Sala delle Conferenze dei Deputati» (equivoca con le stanze del Ministro della Guerra), «Guerrazzi disse: fargli paura Livorno; e si offerì andarvi per conciliare; disse inoltre, avere rubato tanto, che non aveva un soldo. Il Digny non disprezzò questo progetto » (notisi che parla un Commissionato del Municipio), «ed io fui quello, che disse non essere di ostacolo il danaro. Fu parlato di questo progetto alla Commissione Governativa, e fu rigettato.» — Chiarini. «Infatti il signor Guerrazzi, se avesse voluto, avrebbe potuto fuggire per mettersi in salvo come procurò mettere in salvo i Deputati dell'Assemblea; pranzai secondo il solito seco, e lo riscontrai sempre tranquillo a fronte delle grida disoneste e minacciose, che contro lui si emettevano sopra la Piazza del Granduca.» — Papadopulo. «Mi pare avere inteso, che appunto per la restaurazione del Governo gli fosse proposto recarsi a Livorno per persuadere il Popolo a fare lo stesso. Egli acconsentì, e stabilirono di fare la gita al tocco di notte.» — Ulacco. «A me pare di certo, che lo stesso Guerrazzi aderisse di venire a Livorno per l'oggetto di persuadere i Repubblicani a ritornare sotto il Governo Toscano.» — Nespoli. «In cotesto giorno sentivo, che il Popolo era irritato contro il Guerrazzi, e nel timore che irrompesse, e sfogasse delle vendette sopra di lui, due volte, per quanto mi pare, fui ad avvertirlo, insinuandogli di mettersi in salvo, ed offerendogli anche di mandare verso il Prato una compagnia di Guardia Nazionale per tutelarlo nello andare alla Via ferrata Leopolda; la mattina ricusò accennando non avere alcun timore, la seconda fra le 2 e le 3 dopo mezzo giorno, per quanto mi pare, mi fece travedere di essere in trattative con altre persone da dovere aspettare, senza però che io sapessi nè su che cosa, nè con chi le avesse pendenti; in questo secondo incontro eravi anche il Generale Zannetti, che venne via meco, e non rammento se dicesse ritornare.» — Chiarini. «Nespoli Emilio offrì farlo scortare dalla Guardia Nazionale fino alla Stazione della Strada ferrata: il signor Guerrazzi ricusò per aspettare le comunicazioni del Municipio dietro i concerti già tenuti precedentemente.» — Zannetti. «Non lo ricordo particolarmente, ma è possibile, che io mi ci sia trovato ( col Nespoli ), ed anche abbia promesso al Guerrazzi di tutelarlo, perchè non facevo che adempire al dovere del mio grado.» E più oltre: «In aggiunta devo dire che anche nella mattinata del 12 io ebbi a trovarmi col signor Guerrazzi in Camera delle Conferenze, unitamente a molti Deputati, ed una Deputazione del Municipio, composta dei signori Digny, Martelli, e Brocchi; e poi più tardi nelle stanze del Ministro della Guerra; e come tanto là che qui si trattasse in sostanza di unire il voto della Camera a quello del Municipio; come fosse incaricato il signor Guerrazzi di stendere la formula del Decreto per la nuova Commissione Governativa; come appunto per ottenere l'unione del voto della Camera con quello del Municipio si proponesse dal signor Guerrazzi di associare alla Commissione il signor Professore Taddei che rappresentava la Camera per esserne Presidente, e il Professore Zannetti come Generale della Guardia Nazionale. La Commissione Governativa non aderì accettare la formula data dal signor Guerrazzi per quanto la Commissione del Municipio AVESSE ADERITO.» Interrogato solennemente, — s'è vero quello che il Guerrazzi dice di essersi fermato a Firenze a disposizione della Commissione Governativa, e più tardi essersi dato nelle mani ai Membri del Municipio fiorentino, ed a Lui Testimone nella sua qualità di Generale, sotto fede che non si sarebbe attentato alla di lui libertà; — risponde senza ambagi: «È innegabile quanto dice il signor Guerrazzi, ed è appunto per ciò, che io diceva nel principio, o nel corso di questo mio esame, e precisamente quando mi richiamava al giorno 12, — che mi riconduceva ad una epoca dolorosa, — PERCHÈ, CONTRO MIA VOLONTÀ, DIVENTAI COMPLICE DI UNA MANCATA PAROLA!»

Esaminiamo Digny, e Brocchi. — Brocchi. «L'Avvocato Guerrazzi.... chiedeva una missione onorifica per Livorno, ed ebbe evasiva risposta.... e qui dirò una volta per sempre, lo che avrei dovuto forse premettere, che lo stato del mio animo il 12 era tale da non potermi oggi riportare alla mente, che dei fatti complessi, molte circostanze tornandomi nuove, come se in quei fatti io non avessi rappresentato una parte principale.» — Messala, cavaliere romano, avendo rilevata una sconcia battitura sul capo, dimenticati tutti i numeri, non gli rammentava che dall'uno al cinque; — ma indi a poco la memoria del Brocchi, cessato lo ecclissi, s'illumina di nuovo per affermare, che il Collega Martelli confonde epoche e fatti, e per ricordarsi, che non essi offrivano a me, bensì io proponeva loro recarmi a Livorno con missione onorevole, come si rileva ancora dalla mia scrittura indirizzata alla Commissione Governativa: «Guerrazzi minutò» (il Brocchi dichiara) «un Proclama per conciliare i diversi, anzi i contrarii atti pubblicati dal Municipio, e dalla sedicente Assemblea; — mi pare proponesse una Commissione mista da aggiungersi al Municipio; — mi pare, ma non ricordo bene, portassi io questa minuta al Municipio, — ma per concorde opinione di non accettare quella proposta, intorno alla quale tanto io, che Digny, non ci eravamo impegnati a nulla.» — Digny. «Andai a cercarlo nelle stanze del Ministro della Guerra: quivi Guerrazzi e i Deputati per evitare collisioni persistevano a domandare un Proclama comune col Municipio; sebbene io facessi sentire DIFFICILE » (si noti) «una transazione, Guerrazzi da un lato, Cipriani dall'altro, si mettono a formulare progetti!» Qui Guerrazzi gli dice: « voi già sapete, che io vedeva volgere le cose alla Restaurazione » (il Brocchi non concorda; egli ha inteso, che le mie parole suonavano: « tutti lavorammo nel senso della Restaurazione »); «la vostra grande difficoltà è Livorno; io posso accomodare ogni cosa; potreste mandarmici per interino;» ma egli avendo risposto evasivamente, io soggiungo: «ho rubato tanto, che non ho un quattrino, e ve lo dico per vostra regola...;» però dichiara non potere asserire di ripetere le precisissime parole. — E fa bene ad avvertirlo, perchè sono parole ebbre coteste sue. — Più oltre nel recarsi in Palazzo con tutti i Colleghi seppe, che il Guerrazzi desiderava vederlo in serata. — Più oltre dichiara: «Essere un fatto che il Guerrazzi, e gli altri, che volevano indurre il Municipio a concertarsi coll'Assemblea, si appoggiassero specialmente sul bisogno dello appoggio ( sic ) dei Rappresentanti di tutte le Popolazioni toscane per essere riconosciuto da esse, ed in questa idea (e non può reputarsi cattiva) avere il Guerrazzi ed altri Deputati composti varii progetti di Proclami; ritenere forse il Guerrazzi per richiesta le parole che io dissi: — fate se credete nuove proposizioni.» E se vuolsi conoscere per confessione sua propria quale sia la fede di questo Conte, basta considerare quanto non dubita raccontarci più oltre, e confrontarlo con le parole superiormente trascritte: «facevo sentire difficile una transazione: — del resto io rammento benissimo che io andava per la seconda volta in Palazzo, con la certezza che nessuna transazione sarebbe accettata. — Bulgarini e Capaccioli, avvisarono, credo, il Guerrazzi della risoluzione definitiva, e per Capaccioli Guerrazzi mi fece dire che desiderava vedermi in serata;» onde non sa come io ritenga aver egli promesso di vedermi con ordini od altro. Io non istò ad analizzare questo mucchio di lordure; tutta l'acqua dell'Arno non basta a lavarle.

Prove razionali sono la facoltà mia di partire: partirono tutti, perchè non io? Me aveva affidato di accoglienza e di asilo il Britanno Legato; me ad ogni evento, col mezzo del suo Segretario, l'Ambasciatore Francese profferiva tutelare con bella gentilezza fino dalla mattina nel suo palazzo; me vollero trarre seco loro i Deputati che pei passi sgombrati accompagnai onde uscissero incolumi. Me il Colonnello Nespoli e il Generale Zannetti erano venuti a prendere per iscortarmi fino alla Stazione della Strada Ferrata; me il Tommi, me il Manganaro proffersero condurre via; che più? Il Municipio stesso e la Commissione mandavano a invitarmi, o intimarmi, o comandarmi a partire; perchè dunque rimasi? Alle azioni umane, in ispecie se così inopportunamente singolari, bisogna pure assegnare proporzionato motivo. Digny si arrampica ai ragnateli per escludere il convegno, e allega la chiamata del Capaccioli; questi non sa, che io rispondevo alla domanda del Conte, e tali per lo appunto suonavano le mie parole: «Ditegli, che lo aspetto nelle mie stanze.» E se non fosse così, a qual fine, per qual causa, doveva io mandare pel Conte? Forse, com'egli dichiara, per dirgli io che volevo andare a Livorno?.... Gagliofferie sono queste. — O che bisogno avevo io di chiamare alle ore quattro del pomeriggio il Conte per dirgli la sera che volevo partire per Livorno, mentre a cotesta ora potevo essere arrivato? — Avevo dato parola, e lo aspettai, quantunque non mi paresse sicuro il fermarmi. Rideranno certo i giovani Riformatori della Società della mia pertinacia ad osservare la parola, ma io già sono vecchio, e quando era giovane trovai che nel mondo costumavasi ancora mantenere le parole date.

736. Esodo, cap. X.

737. «In certi tempi si manifestano tali eccessi di febbre nelle civili società, che le stesse Assemblee forza è che assumano indole democratica, e con estrema caldezza favoriscano la causa del Popolo. Nè questo successe unicamente ai tempi nostri, ma il Consiglio di Castiglia, il Parlamento di Francia, e le Assemblee degli stessi nostri antichi Baroni somministrano altrettanti esempii in conferma di questa verità.» — ( Edinburgh Review. Vita di Lord Melbourne, Ministro inglese.)

738. Siccome le prove non sono mai troppe, mi capita tra i piedi il Popolano del 7 marzo 1849, ed in proposito delle elezioni mi occorre questo passo: «Tutto compreso, conviene confessare che la idea rivoluzionaria, repubblicana, unitaria, non brilla per la dappocaggine di quelli che la dovrebbero rappresentare nell'Assemblea dei 120.»

739.

L'avvivai, l'atteggiai, le diedi moto,

Le diedi affetto.....

( Versi sotto il ritratto di Masaccio. )

740. Le parole in carattere italico sono testuali del Conte.

741. Testimoni. — Pellegrini. «Di parlargli (a Guerrazzi) non ebbi luogo; bensì lo vedevo, perchè passeggiava fumando per le stanze, ed anzi aveva qualche volta attorno a sè una bambina sua nipote, la quale piangeva nel sentire gli schiamazzi di piazza, e le cose che si dicevano contro di lui, ed il Guerrazzi sentivo che la consolava dicendole: «non avesse paura, che non gli facevano nulla.» Alla interrogazione se mi mostrassi turbato, il medesimo testimone risponde: «vidi, che non faceva altro che passeggiare in su e in giù con serietà, e fumando; ma io poi non so qual fosse il suo carattere.» Bernicchi, Armannini, Chiarini, Pellegrini, Mosti, Zucconi, Papadopulo e Ulacco: — ai miei occhi pareva, che fosse com'era sempre, serio, e sostenuto: — lo vedevo passeggiare, ma sempre tranquillo. Il signor Guerrazzi anche lassù nel Forte vedevo stare pensieroso, e passeggiare, ma senza dir nulla. — Era tranquillo, e faceva coraggio a noi. — Noi eravamo sgomenti, ma egli ci dava coraggio, e pareva tranquillo.»

742. Orsini. «In cotesta sera mi fece calare per mezzo di un lenzuolo sul tetto, che resta di sotto, ma mi fece subito ritirare su; — peraltro, prima che fossi calato sul tettino, ci si voleva calare egli.» — Pellegrini. «Intenda bene, che il signor Guerrazzi non è che cercasse fuggire, almeno per quello che diceva, ma unicamente per salvarsi dal furore del Popolo, che gli minacciava la morte.» — Orsini, Papadopulo, e Armannini: «Sentii che lo persuadevano a mettersi in salvo dal furore del Popolo, che minacciava sfondare la porta di Palazzo Vecchio» (così almeno davano ad intendere) «ed entrare in casa. Il Guerrazzi ricusava dicendo: «che non aveva fatto male a nessuno, che aveva impedito il più possibile la guerra civile, che aveva governato il meglio che avesse potuto.» Insistendo peraltro, egli disse: «bene, vediamo se ci è modo.» — Chiarini. «Unicamente come misura di precauzione per sottrarlo al furore del Popolo, fu fatto non so da chi scendere il Rossino onde vedere se vi fosse stato luogo a celare il signor Guerrazzi nel caso in cui il Popolo avesse potuto irrompere, — sicchè le pratiche ulteriori furono più lo effetto delle premure di tutti, che sue.»

743. Pellegrini. «Una Guardia Nazionale, — venuta circa le ore 2 dopo mezza notte — a portare un biglietto al signor Guerrazzi...»

744. Vedi in fondo del libro il Registro dei malati, feriti, e morti dell'armata toscana nella campagna di Lombardia, alla lettera G. — Questo giovanotto, di casa, piuttostochè comoda, doviziosa, mi venne presentato tuttavia infermo dal padre suo mentre sedevo Ministro di S. A. Taluno (ai Ministri di rado mancano lusingatori) m'insinuava procurargli dalla generosità del Granduca la Croce del Merito, al che risposi: «Ai miei parenti sia più bello meritare Croce, che portarla.» E si ebbe come gli altri la comune medaglia.

745. Questa è la ragione per cui vedremo in breve nel Mandato della Comune inserita la frase: «imprestito a carico del R. Erario.»

746. E sì, che bastava dicesse per me le poche parole che per testimonianza di Santo Antonino Arcivescovo di Firenze, non pure gli amici, ma i neutrali favellavano, quando prevalsi gli emuli volevano condurre a morte Cosimo dei Medici il vecchio: «Alii non solum amici, sed neutrales ad bonum et pacem Reipublicæ intendentes e contrario loquebantur dicentes: — quid mali fecit homo iste? » — ( Opera, T. III, p. 523.) — Io pure comparendo davanti al Popolo fiorentino avrei adoperato la formula antica con la quale gli s'indirizzava Dante Alighieri: «Popule mi, quid feci tibi?»

747. Dopo la perdita di 77 mila uomini Maometto s'impossessò di Negroponte, di cui sostenne l'assedio Paolo Erizzo. Ridotto agli estremi egli ebbe a capitolare; e fu una condizione della resa avere salva la testa. Maometto per odioso cavillo fece segare il prode guerriero pel mezzo procurando non gli fosse minimamente offesa la testa. Questa efferatezza però deve porsi tra i fatti di cui giova dubitare, dacchè molti accidenti della vita di Maometto la smentiscono, e Marino Sanuto, esattissimo fra gli storici di quei tempi, non la rammenta. — (Daru, Storia della Repubblica di Venezia. Capolago, T. III, pag. 346.)

748. Papadopulo e Ulacco. «La mattina dopo ritornò lo Zannetti con uno, che non mi rammento chi fosse, e pei corridori dei Pitti lo condussero a Belvedere promettendogli fargli avere un passaporto onde andasse subito all'estero.» Il Cavaliere Martelli e il Generale Zannetti tornando in Palazzo persuasero i servitori Armannini e Zucconi, che furono poi ritenuti carcerati in San Giorgio, e alle Murate, e finalmente rilegati (povera gente!) uno a Pescia, l' altro a Casciana, e Ulacco anch'esso a Parrana. — Zucconi. «Nel quartiere di Palazzo Vecchio stemmo fino al 13 aprile: in quel giorno il signor Guerrazzi essendo stato trasportato con quelli della sua famiglia a Belvedere, io lo seguitai anche costì, perchè il signor Generale Zannetti e l'Architetto signor Martelli, che lo avevano accompagnato, tornati al quartiere indussero tanto me che l'altro servitore Luigi Armannini ad andare noi pure in quel Forte a continuare il nostro servizio presso al signor Guerrazzi, lusingandoci che dopo due o tre giorni quando in ispecie fosse stato un poco quietato il Popolo, che faceva chiasso, e minacciava di morte il signor Guerrazzi, saremmo usciti.

749. Quantunque io creda fermamente, che gli Ufficiali di questo corpo non possano essere confusi co' loro ribaldi soldati, i quali a questa ora saranno stati espulsi di certo, pure io dichiaro, che il contegno loro fu quale si conviene a persone onorate. Questo poi io dico perchè è vero, e non per vili riguardi, e penso che cotesti bravi Ufficiali mi crederanno.

750. «Illustrissimo Signore.

«Al seguito della richiesta di V. S. Illustriss. a a mia cura inoltrata al Ministro di Giustizia e Grazia, ricevo commissione di parteciparle che le Carte e Documenti esistenti negli Archivii delle RR. Segreterie, da esaminarsi nello interesse della nota causa di Perduellione, sono posti a disposizione del Tribunale Istruente, e perciò il Ministro incaricato potrà presentarsi a tale uopo, ogni qualvolta lo creda opportuno, dirigendosi per migliore indicazione al signor Segretario aggiunto del Ministero dell'Interno, Ottavio Andreucci.

«Frattanto con distinta stima ho il pregio di confermarmi,

«Di V. S. Illustrissima,

«Devotiss. e Obbligatiss. Servitore « A. Lorini.

«Dall'Uffizio del Regio Procuratore di Firenze, li 11 giugno 1849. (Ricevuta il 12 detto.)

«Al Signor Giudice Direttore degli Atti Criminali.»

« N. B. Il sottoscritto Ministro, appena passatagli la presente Officiale, essendosi, per l'oggetto di che in essa, trasferito al Ministero dell'Interno presso il signor Segretario aggiunto Avvocato Andreucci, e successivamente, di concerto con lui, a quello di Giustizia e Grazia, è rimasto quivi stabilito che a sua cura si sarebbero riunite le Carte e Documenti di che si parla in questa medesima Officiale, ed esistenti negli Archivii delle RR. Segreterie ed altrove, per esserne poi fatta la trasmissione al Tribunale Istruente.

« Dini.»

( RISERVATISSIMA. )

«Illustrissimo Signore,

«Quest'Uffizio accompagna a V. S. Illustrissima numero 36 Documenti, la maggior parte lettere originali, più Nº 12 Ricevute e riscontri di pagamento parimente originali, e Nº 10 Minute di Dispacci telegrafici, perchè ne sia fatto l'uso di ragione nella Causa di Perduellione costì pendente.

«Vi troverà annessa una nota di riscontro, che firmata vorrà tornarmi nell'accusare il ricevimento di quanto sopra. E mi pregio segnarmi con distinta stima,

«Di V. S. Illustrissima,

«Devotissimo Servitore « F. Fortini ff.

«Dalla Residenza del Regio Procuratore Generale alla Corte R. di Firenze, li 10 settembre 1849. (Ricevuta il dì 11 settembre.)

«Al Signor Giudice Direttore degli Atti Criminali di Firenze.»

Alle istanze del Guerrazzi poi l'Accusa sentite come rispondeva:

«Il Regio Procuratore Generale,

«Vista la presente istanza defensionale nell'interesse di Francesco Domenico Guerrazzi;

«Attesochè non sia nelle facoltà dei Tribunali di ordinare che sieno aperti e posti a disposizione dei terzi, ec. — ancorchè Difensori, ec. — gli Archivii contenenti il Carteggio e le Corrispondenze del Ministero ec., e si ritenga solo ammissibile la domanda di comunicazione di certi Documenti relativi a certi fatti perchè abbiano rilevanza in causa ec.;

«È di parere che la istanza medesima non debba essere accolta, ec.

«Fatto li 11 ottobre 1850.

« Bicchierai.»

751. Il Marchese di Pomeras nell'11 novembre 1671, condannato a morte, passando per Laval assistè al suo supplizio, e molto si dolse col pittore, che assai male ne aveva rappresentato la effigie; la sera poi andò a cenare, e a dormire col Giudice, che lo aveva condannato. Lo narra la Contessa di Sévigné. — (Fletcher, I grandi giorni dell'Avernia. — Revue des Deux Mondes, Tome 11 e, Paris, pag. 21.)

752. Cavaliere Senatore Professor Giovanni Resini. Biografia del Prof. Pietro Obici. Pisa, Nistri, 1851, pag. 6.

753. Nelson raccomandò nel suo testamento Emma, la Erodiade della tradita capitolazione Ruffo, al Governo inglese, ma questo ricompensò tutti i membri della sua famiglia, e passò in oblio Emma Hamilton la mala femmina, come quella che lo aveva spinto a disonorare una vita tutta gloria con azione vituperosa. — ( Vita di Nelson. Rev. Brit. Tomo VII, p. 117.)

754. Come in questa seconda, e troppo più iniqua replica.

755. Come in questa seconda, e troppo più iniqua replica!

756. Alexandre Dumas, Impressions de Voyage

757. Querini. Vita di Carlo Zeno.

758. Questo Documento occorre fra quelli, che l'Accusa non ha reputato di suo interesse stampare nel mostruoso Volume.

759. «Mirifica procuratione abjectissimum negotium pro amplissimo ornamento expedendum Thebanis reddidit.» — (Valerio Massimo, Factorum Dictorumque memorabilium, Lib. III, cap. 7.)

760. Il condannato alla galera a vita, poichè vi aveva consumato 30 anni, domandava e otteneva per benigna consuetudine la grazia della rimanente pena. SE venisse rispettata, il maximum dell' Ergastolo non dovrebbe passare 22 anni e mezzo; la Casa di Forza non dovrebbe prolungarsi oltre i 4 anni e mezzo; e quella di Detenzione non dovrebbe durare più di un anno; ma non è così in pratica; e mi dicono perfino di condannati alla Casa di Forza a 97 mesi. — Se le cose stanno come mi suppongono, parrebbe, che grande incertezza governasse tanto importante soggetto.

761. « Il Nuovo Messia, la sua legge e i suoi discepoli, o le Rivoluzioni nella Penisola italica spiegate per mezzo delle loro cause. Catechismo morale-polilico-teorico-pratico, estratto dalle opere del sig. Guerrazzi avvocato livornese; del Padre Pasquale Cappuccino nel Convento di Gibilmanna in Sicilia. Traduzione dal Francese. Firenze 1849.» Tale è il titolo di una opera di 12 pagine! — O uomini di Mindia, diceva Diogene vedendo le porte sperticate di cotesta terra, chiudete le porte, che non abbia a scappare la città!

762. « La Italia. Storia di due anni 1848-1849, scritta da C. Augusto Vecchi; — dedicata ai Forti, alle Madri, e alle Vergini innamorate.» ( Torino. C. Perrin, 1851.)

763. Citando a memoria commetto alcuni errori, che sono emendati da quanto vengo esponendo qui oltre.

764. E non è vero.

765. Senza ira, come senza rancore: riuscì a voi salvare la Repubblica Romana?

766. Questo mettere a un mazzo Guicciardino e Machiavello non a giudizioso. Chiunque però si faccia a governare gli Stati con sicurezza di sbagliare meno che può, forza è che adoperi il modo sperimentale di considerare le umane cose da cotesti due politici gravissimi insegnato. Altro è il modo di esaminare, ed altro lo scopo: quello è l'arnese, e questo è la opera. Lo scopo ai dì nostri diversifica assai da quello dei tempi del Machiavello; il modo di esaminare è ottimo ancora al presente, perchè fondato sopra la esperienza.

767. Le manifestazioni, che mi vedeva fare dintorno, davvero non mi ricordavano punto nè Leonida, nè Pietro Micca, nè il vescovo Germanos. Molti dei prodi giovani erano morti!... — Altri accorsero alla voce nostra per difendere la Patria, ma ohimè! inesperti, e neppure moltissimi, male potevano avventurarsi in campagna aperta; soccorsi, e confortati dal consenso universale, avrebbero potuto guardare i posti alla frontiera, e salvare l'onore; di più non credo, nè altri può credere con fondamento, che potessero fare.

768. Forse per avere scritto romanzi e poesie si ha da crederebbe si possa fare la guerra senza cannoni, e senza soldati? — Intorno alla virtù dello entusiasmo ho detto altrove; divina cosa ella è, ma non si possono pretendere prodigi da quella; e questo entusiasmo non ha bisogno delle perette per sollevarsi; nè il Paese allora era disposto a dare corpo alle immaginazioni degli esaltati. Nelle opere che leggo, vedo Filippiche sempre, o nere o rosse; non istorie, nè materia da storie.

769. Qui due errori: uno di giudizio; l'altro di fatto. Non è vero, che il voto universale fosse di unirsi con Roma; non è vero, che fossero eletti i Deputati a formar parte della Costituente Italiana.

770. Messa da parte la tumida esagerazione delle parole, e del concetto di questa scrittura, devo confessare, che la persona meno acconcia a persuadermi era il signor Maestri, il quale appoggiandosi agli esaltati del paese, e di fuori, opponeva ai ragionamenti le fantasie di mente accesa, la violenza, e spesso ancora parole meno che oneste. Proconsolo sì, non Legato, e la Repubblica Romana ai giorni nostri non mi pareva tale che potesse o dovesse spedire Popilii.

771. Voto popolare, è vero; ma non voto universale del Popolo, nè espresso nei modi convenienti di chi dispone di cosa solenne.

772. Ministro mi fece il Principe; Membro del Governo Provvisorio le Camere del Parlamento Toscano, e il Popolo; Partiti opposti io non blandii: fummo d'accordo a consultare il voto universale; e questo difesi. I Repubblicani presentendo sfavorevole il voto universale si sforzarono strascinare il Popolo, o metterlo in compromesso tale, che non potesse più tornare addietro; e queste sono male arti, e in tutti così, rossi come neri.

773. Lo Scrittore servendo al Partito giudica senza esame: egli non ha mai letto i miei Scritti politici. Appena vennero i tempi opportuni per occuparmi praticamente delle cose del Paese, l' Apologia prova come sempre le Dottrine Costituzionali sostenessi.

774. Amo il Popolo davvero, e quindi aborro prevalermi della sua esaltazione per perderlo: tutti desidereremmo la Italia unita in una sola Nazione, ma questo non importa già che nutrendo simile desiderio l'uomo politico deva rigettare il bene possibile, per tenere dietro a cosa, che i tempi non consentivano nè gli uomini.

775. Richelieu scrisse tragedie, Canning poesie, Martinez della Rosa commedie, nè penso che governassero gli Stati con le loro opere letterarie. Lo Autore può scrivere quello che vuole: il Ministro fa quello che deve; e le reti dello Ambasciatore sono prette immaginazioni; e chi sia questo Ambasciatore dalle mille miglia non è facile a comprendersi.

776. Il Piemonte mi offriva pegno di accomodare probabilmente le cose d'Italia; la Repubblica Romana a scomodarle sempre più. Qui nota, lettore; gli zelanti del Piemonte mi accusano propenso alla Repubblica Romana; gli zelanti Repubblicani propenso al Piemonte!

777. Volendo reggere col positivismo, per necessità dovevo accostarmi al Partito dei positivi. E ritenute le proposizioni, che pure va dettando lo Scrittore, — che la fuga del Principe non appresi per cosa di grave momento, e vidi sempre in lui il filo per uscire dal laberinto; — che fui oppositore costante alla Unificazione con Roma, in ispecie a quel misleale bandirla, e lasciare poi alla Costituente la libertà del ratificarla; — che giunto al Potere ebbi modo a fare proclamare la Repubblica, e non volli; — che propenso al Piemonte erami spino negli occhi la Repubblica Romana; — che la Unificazione con Roma prima della battaglia di Novara per non increscere a Piemonte respinsi, e dopo per evitare, come credeva, la invasione straniera; — che finalmente i Repubblicani avrebbero dovuto mettermi in prigione: — ritenute tutte queste proposizioni, non mi sembra che stia a martello supporre che volessi rendermi necessario a tutti i Partiti; almeno del Repubblicano non diventavo benemerito; ma Partito e Logica non si sposeranno mai. Il signor Rusconi ha voluto fare di me la seconda edizione di lord Ashley, che poi fu conte di Shaftesbury, ed uno del Ministero Cabal sotto Carlo II; ma egli ha mancato di avvertire come questo uomo insigne per improbità politica non si opponeva mai ai Partiti, bensì si gettava in balía di quello, che più gli appariva zelato, e promosso dal Popolo. Parteggiò col Cronvello finchè visse, e dopo la sua morte attese ad unirsi alle fortune della Restaurazione. Salcio sempre, e ferro mai; così stette a galla sempre; ma, ripeto, Logica e Partito non sono destinati a sposarsi. (Vedi Hume, Storia d'Inghilterra, Capitolo 65.)

778. E prima, e dopo lo infortunio di Novara, pretesi che con buona fede s'interrogasse la universalità dei Toscani sopra le sorti del Paese. Tutto è qui; la mia anima non si noleggia ai Partiti, e la mia rettitudine per scilocco o tramontana non varia. Il Paese doveva consultarsi; anche i Repubblicani ne andarono d'accordo: dunque il voto universale doveva rispettarsi, e aspettarsi: poi i Repubblicani il voto universale pretesero non rispettare nè aspettare; ma allora, era il Popolo, o un Partito, che voleva imporre la Repubblica?

779. Questo è vaniloquio. L'onore dell'uomo di Stato consiste nel procurare il maggior bene, e nello evitare più che possa mali al suo Paese. Noi non avevamo a sostenere per punto di onore la Repubblica, perchè non l'avevamo proclamata.

780. Chi mi fa rimprovero di non essere morto, quantunque Ministro di Repubblica, prima di tutto è vivo! Ciò posto, dirò: appunto perchè conoscevo i sentimenti del Popolo aborrii di eccitarlo, e strascinarlo come si pretendeva; invece di salvare me solo nello esizio di tutti, operai in modo da salvare gli altri e perdere me solo. — Il signor Rusconi, che fu Ministro, dovrebbe sapere, che i Ministri non si dilettano a immaginare, ma a raccogliere i fatti, e su quelli fondare i giudizii e le azioni; chi altramente fa, sè perde ed altrui.

781. Il Dottore Maestri pur troppo si atteggiava, come ho detto, a Proconsolo, piuttostochè a Ministro di Stato amico. Lascio considerare se le sue teorie fossero accettabili: mettere a cimento la salute di un Popolo per principii, che appartenevano ad un Partito violento sì, ma in minorità nel Paese, non è probità di cittadino, bensì opera di fazioso. Il signor Rusconi pensa accusarmi, e, se non isbaglio, fa la mia apologia. Io che sono uomo all'antica, per esempio, credo, che il Popolo si accomoderebbe più volentieri con un Re come Enrico IV, che s'ingegnava a fare in modo che tutte le domeniche avesse la gallina in pentola, che col signor Rusconi, il quale s'ingegnerebbe a farlo impiccare per la maggiore gloria ed esaltazione della Repubblica.

782. Il sig. Rusconi erra: non io accettai, ma il signor Montanelli accolse le trattative sopra 8 punti come si è veduto nella Apologia; ed in questo fummo discordi, sicchè egli mi lasciò a discutere solo il negozio con lo insistentissimo signor Maestri: la violenza di questo Signore giunse a tale, che io scrissi a Roma, lo avrei fatto scortare ai confini se non si richiamava, e mi fu promesso. — Tutto per forza, e sempre hanno preteso da me e da altrui. — Finchè non incontrano opposizione essi sono larghi di blande parole, ma se taluno si avvisa contradirli indracano, violentano, e oltraggiano..... come tutti i Partiti in generale, senza eccezione di alcuno.

783. Non dica il Popolo, ma la parte del Popolo, che unita ai non Toscani dominava tiranna in quel momento. E in quanto a sincerità, io non aveva promesso nulla.

784. Fu parlato di cambio di milizie, ma il Governo di Roma voleva mandare Volontarii, ed io non gli accettai. — Quello che più importava era la difesa comune; invitato a inviare per questo scopo ufficiali a Bologna, gli mandai, e non trovarono nessuno! — Questo fatto mi somministrò la misura della concludenza delle proposte fattemi. Il signor Berti Pichat venne da Bologna portando carta del Governo per farne danaro con qualunque sagrifizio; e questo fatto mi somministrò la misura dei termini ai quali si trovava ridotta la finanza romana, che si voleva mescolare con la nostra. Delle proposizioni senza ambiguità dissi avrei accettato quelle, che per giudizio del Consiglio di Stato non avrebbero pregiudicato la libertà del voto del Popolo Toscano. Giudicate come vi pare, ma narrate secondo la verità e la rettitudine. I passi ce gli spianava pur troppo la Repubblica Romana, ma bisogna andare prima d'accordo sul dove ella ce gli spianava.

785. Non è vero: fu affrettata quanto più si potè, nè si poteva fare in meno tempo; assolvendo perfino da talune formalità, che pure sembravano necessarie; e gli Atti del Governo riferiti dal Monitore, e dall' Accusa nel Volume dei Documenti, ne fanno piena testimonianza.

786. Non feci io il Discorso di apertura, nè lo lessi: lo scrisse e lo lesse il signor Montanelli. Consideri il signor Rusconi, che con tanta inesattezza non si giudica, nè si condanna.

787. Anche questo non è vero; dimostrando la difficoltà, che il Popolo Toscano aderisse alla Unificazione, gli diceva che non avrebbe acconsentito a perdere i vantaggi di Stato a parte; e che gl'interessi materiali non si possono ad un tratto distruggere: ma è proprio una miseria parlare di questi negozii ai Repubblicani socialisti, i quali presumono condurci alla ricchezza universale traverso il fallimento universale. Il signor Rusconi è socialista, e sul principio della sua opera, senza pietà neanche pei suoi amici, li dichiara apertamente ignoranti tutti; pensiamo un po' che cosa dovessi parergli io, che non sono dei suoi! Ma perchè anche egli non ha esposto il suo balsamo per sanare i mali della Società? — Questi uomini siffatti di dura cervice non vogliono capire come invano si strascinino Popoli a cose a cui reluttino. Sia male o bene la vitalità municipale in Italia qui non importa discorrere, ma la pretensione di passare la spugna sopra la medesima è follia. Sicilia e Venezia pure allegavano le stesse ragioni per ricusarsi alla Unificazione, e il Rusconi si arrovella contro gli uomini che gli palesavano queste repugnanze nazionali. Le idee fisse generano questo male, che vedendosi un lato solo della quistione, gli altri non si vogliono guardare, e si termina col non capire più nulla. — Intorno poi ai motivi del differire a proclamare la Repubblica, mostrai essere semplicissimi, e consistere nel non volerla i Toscani, e nel pretendere (e qui errai) che anche i Partitanti della Repubblica, oppressi dalla evidenza dei fatti da me e da altri in cotesto tempo raccolti, se ne persuadessero.

788. Ripeto, che il Discorso non fu mio; fu composto, e letto dal signor Montanelli. Con tanta inesattezza probità non consente giudicare.

789. Anzi cospirava a rovesciarmi: ma una volta la Costituente Toscana riunita, io era sottoposto; e quando una Assemblea uscita dal voto universale non voleva intendere di Repubblica e di Unificazione, si ha da credere che esprimesse il parere della maggiorità della nazione, e lo esprimeva. Se non è così, voto universale che significa? Votate liberissimamente come vogliamo noi; non era un po' questa la pretensione repubblicana?

790. Quanto sia vero questo, si è veduto.

791. L'Assemblea conoscendo le mie intenzioni mi prescelse, e non mi disfeci. Montanelli desiderò andare altrove perchè conosceva a prova la inanità delle pretensioni repubblicane, anzi socialistiche, e si partì amico da me, nè crede adesso, che io gli abbia fatto torto.

792. Falso anche questo: furono i partigiani del signor Rusconi che a forza vollero pubblico questo rapporto, e lo ebbero secondo la verità. Forse era falso? — Può dirlo falso il signor Rusconi? E se fu, com'era, vero, dovevo io mentire all'Assemblea, che ordinò le si dicesse pubblicamente la verità, proponente Pigli? Così non si giudica con probità.

793. Che io al desiderio del Montanelli compiacendo consentissi ad allontanarlo, è vero; ma che io lo allontanassi con forza o con astuzia, non è vero. Montanelli conobbe inevitabile la Restaurazione, la volle operata secondo il mio concetto; e amò andare lontano per salvarsi dalle quotidiane molestie degli amici del signor Rusconi.

794. Qui occorrono spropositi quante parole. Io volli nulla, ripeto; volli quello che al Popolo piacque, pacato e illuminato sopra i suoi interessi. La unione al Piemonte è un sogno. Il Granduca poteva tornare senza armi straniere, se la resistenza di Livorno non era; e Livorno non avrebbe resistito (e lo dichiarò), se il Municipio Fiorentino avesse accettata l'adesione dell'Assemblea Costituente; e se il Principe voleva assicurarsi con un polso di armati, una Legge votata gli dava facoltà di condurre 5000 uomini da potenza amica, e costituzionale, e non vi sarebbe stato bisogno di chiamare, o forse, come credo piuttosto (nonostante le apparenze contrarie), sopportare gli Austriaci. E le mie risoluzioni perchè non dovevano essere leali? Non è egli desso quegli che dichiara non avere voluto io mai la Repubblica? aver potuto bandirla, ed essermi opposto prima e dopo la sventura di Novara? Dunque, in che, e come non erano leali? Questi Procuratori Regii, repubblicani, o no, ragionano tutti ad un modo.

795. Ai Corpi Lombardi; che venivano per mare, facevo osservare come fosse più giudizioso proseguire per quella via fino a Civitavecchia, — e meno che al signor Rusconi, a tutti parrà, com'è, così; agli altri che si presentarono dalla parte di terra fu data abilità a passare, ed ebbero soccorsi. Non sono stato mai così stupido da credere alla gratitudine degli uomini: ho pensato a fare il mio dovere, e basta. Io poi sono di quelli, che non vedono che gloria sia innalzare una bandiera per abbandonarla subito nel sangue e nel fango; i tentativi insensati scemano il credito e tolgono il coraggio. I Toscani furono eccitati a difendere le frontiere, e lo hanno dimostrato i Documenti. La difesa per salvare l'onore si sarebbe fatta, ed anche per dare motivo alla diplomazia di tenere lontano lo straniero; di più non credo; ma ci voleva tempo. — Il signor Rusconi appartiene alla scuola di coloro, che danno allo entusiasmo la virtù dei denti del serpente di Cadmo. Venezia prima che si dichiarasse Repubblica non difese forse la sua Indipendenza? Falsare il vero non è virtù da Repubblicano, che io sappia.

796. Dai solenni svarioni intorno a quanto avvenne in Firenze nell'11 aprile, e che tutti conoscono, si argomenti la esattezza e la probità dello Scrittore. Così Scrittori neri e rossi, indemoniati dal maligno spirito di Parte, alterano i fatti, o gl'immaginano, falsano i giudizii, buona fede e morale e onestà calpestano per servire ai proprii furori. Anch'essi faranno bene, perchè insegneranno ai Popoli il fastidio delle esagerazioni, e porranno in credito il linguaggio sincero, sperimentato ed esatto, che si desidera dalla gravità delle cose, e di cui i nostri padri ci lasciarono nobili documenti, a modo di esempio il Machiavelli (che il signor Rusconi disprezza) nei Discorsi su le Deche di Tito Livio.

797. Tutto questo è un finimondo di bugie.

798. Cioè dai Repubblicani; ed ecco come è consentaneo seco lo Autore, che io volevo rendermi necessario a tutti i Partiti. Il Partito vinto mi voleva mettere in prigione! il vittorioso mi ci ha messo. Raccomando la Storia del Dottore.

799. Come! Poco sopra i miei scritti predicano il sagrificio, la gloria, la Repubblica ec. — Adesso porto il pessimismo dei miei scritti nel Governo. — E con questa coerenza ed esattezza si scrivono Storie! Machiavelli, e Guicciardini, bisogna dire, che le scrivevano con più fondamento.

800. Il signor Rusconi mi darebbe diritto di recriminare intorno alla falsità dei suoi fatti, e alla fallacia, per non dire peggio, dei suoi giudizii, ma le condizioni fra noi sono diverse; egli è tristamente esule, io beatamente prigione, e sotto processo. Renunzio a questo diritto per augurargli però miglior mente, e miglior cuore: miglior mente, per astenersi dal dettare scritture che sono una contradizione perpetua fra loro, e ponderare con più gravità quanto gli sfugge dalla bocca; perchè se il parlare (e si vede) poco gli costa, tacere gli costerebbe anche meno; — migliore cuore, onde comprenda quanto sia disonesto gravare la reputazione di chi non può, come vorrebbe, difendersi, e sta in carcere, scontando le insanie o le perfidie altrui.

801. Ovidio, de Remedio Amoris, libro I.

802. Documenti, pag. 448, 511, 513, 514, 525. — A Livorno Piemontesi furono coloro, che le armi del Console sardo abbatterono. — (Ivi, pag. 513.)