IL DESTINO
ROMANZO
DI
F. D. GUERRAZZI
PRIMA EDIZIONE con 14 incisioni
MILANO E. TREVES. & C., EDITORI — 1869.
Questo romanzo, di proprietà della ditta E. TREVES & C., Editori della BIBLIOTECA UTILE, è posto sotto la salvaguardia della Legge e dei Trattati di proprietà letteraria.
Tip. P. Agnelli, Via Pietro Verri, 16.
INDICE
IntroduzioneCAPITOLO I - Lo Amore.CAPITOLO II - La Morte.CAPITOLO III - La Resurrezione.CAPITOLO IV - Il Castigo. A G. ANTONA TRAVERSI
Intitolo a Voi questo racconto, a voi per gratitudine del molto bene, che mi avete fatto; sì, in verità un gran bene, imperciocchè voi con la benevolenza, e la cortesia vostre ravvivaste la fede nell'amicizia in me se non affatto spenta, illanguidita almeno.
Confesso, che il nome vostro meritava fregiare più degna cosa, che questo lavoro non è, ma, voi lo sapete, la vita ha sue stagioni come l'anno, nè i frutti del finire dell'autunno pareggiano quelli del cominciare della estate: e voi baderete al cuore che offre, non già al pregio della offerta. Impertanto concedete, che conchiudendo dica con messer Ludovico nostro:
«Nè per poco io vi dia da imputar sono,
«Che quanto posso dar tutto vi dono.»
Auguro a Voi, ed ai vostri, anni lunghi, e sereni, sopratutto sereni.
Livorno, 1 giugno 1868,
Amico vostro F. D. Guerrazzi.
Fulvia Piccolomini.
INTRODUZIONE
A piè del soglio di Giove gli antichi immaginarono stesse il Destino immoto ed arduo con mezzo il corpo nascosto dentro le nuvole, ed ambe le mani una soprammessa all'altra sul coperchio dell'urna, dove sono riposte le sorti degli uomini e degli Dei: egli tiene gli occhi volti in su quasi per tagliare a mezzo gli sguardi di Giove tesi nell'universo ove egli presumerebbe avventare la sua volontà insieme al suo fulmine.
Omero cantò, che i destini di Ettore posavano sopra le ginocchia di Giove, e a diritto, secondo le credenze di allora, ma Giove non poteva creare nè i propri nè gli altrui destini.
Sovente parvero gli uomini dati in balía degli Dei, e di fatti erano; ma allora gli Dei operavano come mandatari del Destino; però nè i figli di Latona avrebbero a colpi di saetta sterminato la famiglia di Niobe se non l'assentivano i Fati, nè Venere penetrato nelle ossa di Pasifae e di Fedra. Venere, la pessima fra le dee, anzi neppur meritevole di avere fama fra i mortali, come si chiarisce dalla ostinata guerra che sostenne perchè Amore non s'invaghisse di Psiche, ch'è l'anima, e non mai si affrancasse dalla materia. Due Veneri non esisterono mai, la Venere celeste, e la Venere terrena così in terra come in cielo una Venere sola: forse può darsi, io non lo nego, Venere dopo il caso di Psiche avrà mutato vita: non era vietato agli antichi immaginare a posta loro una Maddalena penitente, e metterla in paradiso in compagnia degli altri santi.
Però i nostri padri piuttostochè andarsene lassù in cielo pungeva la cura di chiamare gli Dei in terra: invece di volersi indiare, eglino attesero ad umanare gli Dei, non perchè essi portassero fra loro divini concetti, bensì perchè delle passioni proprie s'imbevessero. A questo modo giustificavano tutto: povero uomo! egli è cornuto a quattro, ch'è superlativo, come il buon fabbro Vulcano; ovvero somiglia a Giove per seminare nelle terre altrui; e così gli saldavano il conto dell'adulterio. Per quanto uomo o femmina ci si affaticassero, quello non poteva presumere di superare Mercurio nel genio del furto, nè Giunone nel furore della vendetta. Messalina gareggiò con la nobile cortigiana nel turpe arringo, e la vinse; nè manco una dozzina di Messaline arieno vinto Venere.
Diversi noi: se Dio venne nelle dimore degli uomini ci venne per fare fede delle virtù divine, di cui massima la benevolenza, e per mostrare alle turbe la via che al ciel conduce: a fine di conto, fatta la conveniente tara, i nostri santi non si possono dire furfanti; e allato al truce san Domenico o inventore o promotore dei roghi della Inquisizione ti occorre san Telemaco il quale col prezzo del proprio sangue operò, che la infamia dei gladiatori cessasse.
Ma poichè gira e rigira le religioni nuove ci appaiono come un tallo sul vecchio delle antiche, così nè anco noi abbiamo potuto rinnegare il Destino: in vero egli è più agevole negarlo, che non patirlo. Ma da un lato faceva ostacolo il libero arbitrio che pure si voleva ad ogni modo concedere all'uomo; dall'altro impensieriva la ogniveggenza, che non si poteva levare a Dio; e poi la inclinazione irresistibile della creatura a certe passioni si contrasta invano, perchè necessitate dalla compagine fisica di quella. — Dante Alighieri, che non fu mago, nè gentile, nè tutto seppe, ma molto seppe, si trovò un dì a questa porta co' sassi, nè sapendo che pesci pigliare, immaginò che le contingenze della umana vita fossero tutte dipinte nel cospetto eterno, non già perchè quivi prendessero necessità di succedere, ma sì per essere prevedute a modo di un burchiello che passa strascinato in giù dalla corrente del fiume.
E qui come vede chiunque abbia fior di senno si salta il fosso, e non si spiega niente, però che se la Provvidenza conosce per congettura, che il burchiello fie tratto in foce al fiume, ella può fallare, chè non è tolto tenerlo fermo a secca, o a cespuglio delle sponde, che rasenti: ovvero ella lo sa di certo, ed allora bisogna, che ciò sia, e dovendo essere non si comprende, che cosa giovi all'uomo il suo libero arbitrio.
Che dunque è mai questo Destino? Arduo dirlo: pure dacchè corse la domanda, egli è pur mestieri risponderci. Il Destino si manifesta dentro o fuori di noi; dentro, l'ho detto, resulta dalla compagine nostra, dagli umori, e dal temperamento; queste cose insieme unite generano le naturali disposizioni a cui di rado avviene, che l'uomo non si lasci andare, poichè nella acerba guerra fra lo spirito e la materia, questa senza requie trapana, e l'altro se si stanca, o si diverte un momento, rimane sopraffatto; onde le sequele dei casi, che sono necessità e si dicono Destino: fuori, da eventi i quali altresì stanno in potestà nostra o non ci stanno; i primi non si prevedono, nè possono prevedersi, epperò si sopportano; ai secondi, comecchè si prevedessero, e potessero prevedersi, non è dato a noi riparare, e quindi da capo patisconsi. Se garbi o no questa definizione del Destino, ignoro; questo so, che io non valgo a profferirla migliore; se altri si sente capace, io gli dirò come Donatello a Brunellesco a proposito di Cristi: fa meglio tu; e se farà meglio davvero, io me gli caverò la berretta.
Impertanto ora vi voglio raccontare una storia dove il dito del Destino (i preti odierni direbbero il dito di Dio) ci si vede espresso; la è vera, proprio pretta storia; io ci metto di mio un po' di colorito, e correggo qualche contorno; mi astengo da episodi immaginosi, da accessori più o meno verosimili persuasi dai tempi, dai luoghi, e dalle persone; non intrecci, non fantasie: io le ho poste da parte perocchè la realtà delle vicende di noi mortali, ho potuto toccare con mano, superi sovente qualsivoglia più sfrenata immaginativa; ed ora do di piglio ai ferri ed incomincio.
CAPITOLO I. Lo Amore.
La Fulvia Piccolomini fu bellissima donna, anzi divina, nacque in Siena il 14 marzo 1630 al signore Alessandro, cui bastarono il cuore e i lombi per darle la compagnia nientemeno di quindici fratelli: di diciotto anni ella si maritò con Lelio Griffoli gentiluomo di Siena, e gli portò in dote fiorini 7376, che non furono troppi, ma nè anco sembreranno pochi a cui consideri la compagnia dei predetti quindici fratelli.
Ho affermato, che la signora Fulvia fu bellissima donna, e questo dissi non già perchè ogni eroina di poema o di racconto deva esser bella, ma sì perchè tale veramente a giudizio di quanti la videro, e scrissero di lei: io vi potrei dichiarare, che i suoi occhi chiamavano quanti amori volavano sopra la città di Siena, dove ce ne volano molti, e se diceste, puta il caso, quanto le rondini di maggio, voi direste niente, imperciocchè per l'aere di Siena si veggano gli amori andare su, giù, per diritto e per traverso, fitti e luminosi come gli atomi dentro i raggi del sole: potrei eziandio accertarvi che l'Amore avendo un dì intinte le ale nel sugo del melogranato ne colorì il sommo delle guancie alla venustissima donna; altre e più cose potrei vergare sopra la carta, che non vi farebbero comprendere un ette della bellezza di lei. Ut pictura poesis; proviamo un po' se la parola possa diventare pennello. La Fulvia era di statura anzichè no vantaggiosa, di spalle lata, di colmo petto, di fianchi e di anche potente; camminava con andatura gagliarda forte premendo del bel piede la terra, e pure agile ad un punto e maestosa: dov'ella si fosse sciolti i lunghi capelli neri avrieno coperto lei ignuda del più denso velo, che mai avesse potuto desiderare il pudore; neri altresì gli occhi, forse troppo lucidi e certo troppo spesso immoti, i quali le partecipavano certa aria di stupidità, che poi di subito sprigionando baleni sotto la stretta dei sopraccigli, neri anch'essi, e folti, l'accusavano di fierezza, e per avventura di crudeltà. Fidia non avrebbe sdegnato torre a modello cotesto naso, che segnava tutta una linea diritta, e pure non rigida con quella della fronte; la pelle candidissima da disgradarne il collo del cigno, e le guancie spruzzate, per così dire, del colore di amaranto: le labbra poi vermiglie, mobilissime, sicchè non parrà strano se affermo, ch'elleno parlavano quanto e più degli occhi. Non sarà stato così, perchè io mi professo servitore devoto di tutti, massime delle donne, ma pareva, che il liquore della voluttà o troppo spesso bevuto, o di qualità troppo ardente, avesse infiammato coteste labbra.
Nei dì feriali, quando Fulvia passava per le vie il popolo poeta al solo vederla gioiva.... (Pag. 16.)
Nei dì feriali quando passava per le vie, il popolo poeta al solo vederla gioiva; il calzolaio si affacciava allo sporto con la forma nella mano manca, e con la destra al cappello in atto di cavarselo; il falegname, che segava una tavola sottoposta al suo ginocchio teneva la sega sospesa, e fintantochè la poteva scoprire la seguitava con gli occhi; la vecchia con le dita appiccicate alle labbra dimenticava inumidirsele con la saliva per filare la canapa; dei maggiorenti, chi le faceva di berretta per amore dell'arte, imperciocchè Siena essendo la città dello Amore, questo si meni dietro, o piuttosto lo seguitino le Belle Arti figliuole: non so se questa figliazione sia ortodossa, secondo l'antica mitologia, ma egli è certo, che Amore ha più figli, che altri non pensa. Il Cristianesimo per avventura in Siena non ebbe il coraggio di cacciare via dai luoghi sacri Venere madre di Amore; di chiesa la bandiva, ma accompagnatala in sagrestia quivi la lasciò stare, non si sentendo il coraggio di metterla così ignuda fuori della porta; ed ora ammiriamo la Madre dello Amore nella sagrestia o biblioteca ammirata ella stessa di vedersi circuita da una corona di messali miniati dai Frati Benedetto da Matera e Gabriele Mattei, non però ammirata delle pitture che la circondano, le quali rappresentano i gesti di Enea Silvio Piccolomini dipinti dal Pinturicchio, e da Raffaello di Urbino; perchè questi, e il papa Pio fossero grandi maestri di Amore, come pel primo ne porgono immortale testimonianza i suoi dipinti, pel secondo il suo libro degli Amori di Eurialo e di Lucrezia: i Papi una volta si ricordavano, che gli uomini dalla parte manca del petto portano un cuore.....
Altri poi salutavano la Fulvia sapendola donna di alto affare, e capace così in patria come a Roma, se lo avesse voluto, di avvantaggiare le faccende loro.
E nè mancavano di quelli, che le facevano reverenza estimandola quasi appendice del Papa, avvegnachè ella fosse congiunta del pontefice Alessandro VII, che fu un Fabio Chigi; e Siena meritamente salutavasi città papale noverando ella otto Papi, e trentanove Cardinali; onde se alla Fulvia avesse preso il ghiribizzo di alzare tre dita della mano destra distribuendo croci a diritta ed a sinistra, se le sarieno tolte per buone, nè forse l'avrebbero barattate con le genuine papali. Narrasi come Pio VII vedendo certo giovane screpante sghignarlo per via delle benedizioni, che egli impartiva alle moltitudini accorse, gli dicesse: — non disprezzate la benedizione di un vecchio; essa non ha mai fatto male ad alcuno; — la Fulvia a miglior dritto avrebbe potuto dire: — accogliete la benedizione di una donna giovane e bella, essa altro non può, che farvi bene a tutti.
Siete voi mai andati a Genova? Se sì tornateci, se no fatevici condurre per vedere una donna maravigliosa, anzi divina, anzi un vero paradiso su questa terra. Or come, dovremmo noi lasciare la moglie, e l'ombrello per imprendere il pellegrinaggio alla casa di una femmina sia pure quanto vuolsi famosa? Poffar del mondo! O voi, o i vostri padri recaronsi pure in pellegrinaggio alla casa del Loreto per venerare una Madonna, che, a parte la santità, pare una cafra, potreste dunque portarvi senza contradizione a visitare a Genova una creatura divina.
Voi la troverete pronta a ricevervi così di notte come di giorno; non mai schiva, sempre cortese in tutto e con tutti, veruno scarta, a quanti sono sorride, toccatela quanto vi piace, si lascia fare; anco se vi attentaste a baciarla non si sdegnerà per questo, purchè adoperiate con discretezza: ella ha marito gagliardo a un punto e geloso, il quale la vigila sempre, ma non si sdegna mai; all'opposto si compiace dello smisurato affetto di cui si accendono gli amatori della sua donna: cioè, a dire la verità, non so se se ne compiaccia, egli è certo che sta fermo: e tutto questo perchè la dama è dipinta, e il suo marito altresì. Dicono, che cotesta dama fosse della famiglia dei Brignole Sale, dicono cotesto dipinto essere stato condotto dal grande pittore Van Dyck, e dicono ancora, che Van Dyck ne fosse innamorato; veramente se dovessi dire la mia, io per me giudico, che se Amore non gli guida, i pennelli non possono dipingere così. — Se la dama poi s'innamorasse del pittore, se con tenero affetto lo compensasse di averla resa immortale, almeno fintantochè i topi, le tarle, e la polvere, con gli altri nemici della immortalità non abbiano distrutto il quadro, io non ve lo saprei dire: la storia è antica, e fosse moderna, non vale il pregio rovistarne gli scartafacci per andarci a pescare di cosiffatte novelle.
E comecchè dipinta, e solo spirante dalla tela ciò non fece ostacolo d'innamorarsene al buon Revere, che maestrevolmente la descrisse nel capitolo degli Amori a olio nel suo libro: Paesi e Marine. Revere cui natura concesse bella e spigliata la nave dello ingegno, ed egli con l'arte ornò di fregi dorati e di polena, e corredò di elettissime vele e pareva destinata a navigare senza requie su le acque dei nostri mari; ma l'assalsero rabbiosi lo scilocco dei pedanti, e il libeccio degl'invidi, ond'ei per dispetto la spinse a dare in secco dentro l'arena, e quivi stette immobile. Rimetti a galla la tua nave o Revere; che fa a te ciò, che quivi ti bisbiglia? Anco la fama a taluno tocca domare come belva feroce; nè qui tutto è male, perchè se vinci la prova non ti troverai costretto a pararle la mano per ottenere la elemosina dei suoi favori, bensì l'agguanti pei capelli e la costringi a prestarti omaggio; te la strascini schiava dietro al carro,... così mi piace la fama. Rimetti a galla la tua nave, o Revere, e se tornando in porto non ti auguri vedere, come immaginò per sè messere Ludovico Ariosto, aspettarti sul molo plaudenti donne illustri, principi, e letterati magni, tienti lontano dalle sponde, naviga sempre in alto mare, e canta e scrivi per la Patria e per te.
Gli anni poi non contano; il cuore non invecchia mai, Anacreonte si metteva gli anni intorno al capo per sostituire le foglie della edera che cadevano dalla sua ghirlanda.
Pari a questa dama, fu la nostra Fulvia, se porge la tradizione il vero; per lo meno doveva arieggiarla, però che i segni corrispondano come goccia d'acqua a goccia; sicchè mentre la donna si aggirava per le anguste vie di Siena la precorreva, la seguiva un'aura vocale, che diceva: divina! divina! Se il vento l'avesse circumfusa di un nembo pregno di quanti produce l'Arabia profumi, non avrebbe di uguale allegrezza esultato il suo cuore.
Nei dì di festa, o di obbligo di messa i cittadini sapendo com'ella costumasse recarsi al Duomo verso nona si assiepavano davanti la sua porta per vederla uscire, a mo' che si usa in parecchi paesi, nei quali i giovani fanno il serraglio dinanzi alla porta, donde la sposa si reca a marito, sicchè questa è forza, che si riscatti se pure desidera di giungere all'altare. Giusto adesso avevano fatto a quel modo, perchè correva il mercoledì delle ceneri; ed ella, cessato il carnevale delle feste e dei balli ora sta per cominciare il carnevale delle prediche: si spalanca la porta, e si leva il solito sussurro di ammirazione, ed ella graziosa a tutti sorride, e tutti saluta. Dico cosa incredibile, e non di manco vera, e tutto giorno rinnuovata, cioè, che ognuno si reputava da lei singolarmente distinto, ed ella non vedeva mai persona distinta, bensì una congerie, una polenta, per modo di esprimermi, di facciacce umane.
Però se stamane taluno l'avesse considerata a partito avria rinvenuto le sue sembianze sconvolte, e se non brutte, che tali non avrebbero mai potuto essere, almanco sinistre: nè senza ragione, che quello ed il precedente giorno ella aveva provato uziaci, come dicevano Fiorentini di allora. Di fatti nella festa d'ieri con suo piuttosto spavento che maraviglia ella non era stata acclamata regina, lo sciame degli adoratori si era addensato intorno alla Virginia Chigi, sua dolcissima amica, e la Virginia procedeva in mezzo ad essi appunto come la regina in mezzo alle api, contenendoli ovvero letiziandoli maiestate tantum: ma forse la Virginia era più bella di Fulvia? No, mille volte no; anco Fulvia la pensava così: e dunque a che attribuire la subitanea parzialità? Oh! ecco, la Virginia era tuttora zitella, sicchè tra la Fulvia e lei correva la differenza tra un posto preso ed un posto da prendere; la Virginia sorgeva da levante, e Fulvia inchinava all'occidente; non mica potesse chiamarsi vecchia, dacchè allora ella noverasse ventisette anni confessati, ma reali ventinove, che questo caso successe nel 1659, e lei i registri battesimali fanno nata nel 1630, ma vi ha una aura di maggio ed un'aura di settembre entrambe tepide e liete, pure la prima è messaggera di vita, l'altra prima di rinfrescarti la faccia sembra sia passata tra le fronde dei cipressi; splende il sole in primavera ed in autunno, e pure lì ti blandisce come un saluto, qui t'intristisce a guisa di addio. Il suo marito Lelio fastidioso per molesta gelosia alla stregua, che si approssimava alla vecchiezza (che i suoi cinquantanove anni allora ei non doveva andarli a cercare) in cotesta notte le aveva detto parole acerbe, perchè la notò carezzevole oltre l'onesto (egli affermava) e certo oltre il consueto di lei verso i cavalieri; ed era vero, ma non ci entrava malizia; la povera donna aveva raddoppiato le blandizie come il capitano spinge in campo le riserve per vincere la battaglia. — Ultima trafittura fu, che dopo avere aspettato ore ed ore il sarto, che le riportasse una veste di velluto pagonazzo con la quale disegnava comparire alla predica bellissima fra le belle, la mandò ad avvisare, che aveva dovuto lasciarla indietro per finire un vestito di velluto nero per donna Virginia Chigi: e poi per la prima volta quel richiamo della polvere a ricordarsi ch'ella pure era polvere, incominciava a darle un tantino di uggia; anco il vento pungeva, il cielo era grigio, e una pioggierella minuta cacciava il ribrezzo nelle ossa: bastava tanto, e ne avanzava perchè Fulvia in cotesto dì fosse di animo disposta a tirare il collo all'amore se mai le capitava fra le mani, e metterlo in pentola a bollire come un cappone.
Comparsa appena su la porta, ecco il solito serraglio stringerlese alla vita, e i soliti salutari, e le consuete ammirazioni, ed ella a destra ed a sinistra snodando il collo flessibile a guisa di colombo quando vezzeggia, sorrideva a questo, ed a quello: tutti si credevano da lei conosciuti, e particolarmente distinti, ed ella secondo il solito non aveva avvertito veruno; dico male; uno avvertì, e parve gran cosa, che quel giovane da due mesi non mancasse mai alla corona del popolo, che l'aspettava al suo uscire di casa, e del continuo la seguisse per le vie, ai ritrovi, in chiesa, e allora giusto allora per la prima volta gli fissasse gli occhi addosso.
.... e allora, giusto allora, per la prima volta gli fissasse gli occhi addosso (Pag. 23.)
Non vi spazientite, che per me non sono uso tenere i miei lettori su la corda, io vi dirò addirittura chi ei si fosse: era Paride figlio di Belisario Bulgarini giovane gentiluomo sul fiore degli anni; egli non aveva più che un fratello di qualche anno minore a lui, il quale dilettandosi di cacciagioni e delle cure di villa, di rado veniva in città, e mai ci si fermava: ambedue celibi, per cotesti tempi doviziosi: entrambi poi di bel costume, e cortesi; ma a Paris diede la natura uno spirito inquieto, il quale sariasi nudrito negli esercizi della guerra, o in altri consimili, dove lo ingegno si affatica insieme col corpo; ma la stagione correva tanto propizia a cui volesse dare di piglio ad uno aspersorio, quanto contraria a quale inclinasse di trattare spada; tempi da campane non già da tamburi; tempi nei quali quando s'imbatte la storia, deposto lo stile, stira le braccia, e sbadiglia. Ora questa copia di forza fisica rovesciandosi sopra lo intelletto faceva sì che il peso ne sembrasse e fosse veramente soverchio; e per isfogarsi con lo esercizio s'inoltrava dentro il mare magno dei pensamenti senza il filo di Arianna per tornarsene a casa, come senza scopo prestabilito: andava per andare, come quei cani randagi, che si gettano la coda sul groppone e vanno tutto dì aggirandosi attorno senza sapere dove si ricovereranno la notte. Di qui egli diventò fosco sempre e accigliato, pensoso senza pro, e la confusione dello spirito si diffuse sul passo, negli occhi, su le voglie e su tutto: si mostrava ostinato a proseguire una cosa come se quella massimamente desiderasse, ed in sostanza non adoperava così perchè veruna cosa nè desiderasse nè amasse. Fu biondo, fu aitante della persona, ben disposto di membra; di occhio ceruleo, un dì alacre, ora spento come di pesce, che cominci a passare: fastidioso a sè e ad altrui; favellatore scarso, degli altri poco amatore, di sè nulla. Ora a questa anima in isciopero, venuta ventotto anni su senza un perchè, ecco offerirsi di un tratto splendida nella sua bellezza la Fulvia Piccolomini moglie di Lelio Griffoli: davvero in lui l'amore si palesò con un colpo di freccia, che lo traferì da banda a banda; non come quello che messere Francesco canta in rima ferisse lui, di saetta, mentre a madonna non mostrò pur l'arco, sicchè, a suo parere non gli fu onore[1]. Entrato appena in cotesto cuore, l'Amore, giusto secondo la immagine del Parini, crebbe gigante, e squassando ferocemente il turcasso gridò: « valgo, e vo' regnar solo » amori nati a mo' di turbine di neve nelle Alpi; di vortice di arena nel deserto, amori di uracano, essi varrebbero non già a sperdere un cuore ma l'esercito di Cambise, e la grande armata di Filippo II se potessero infuriare su le cose come infuriano su l'uomo.
E fu sventura, che la Fulvia in cotesto giorno, in quell'ora e con la disposizione di animo nella quale si trovava contemplasse Paride, conciossiachè subito sentisse per lui aborrimento, e paura. Al contrario parve a Paride, che ella lo guardasse con amore: credè l'affare fatto: stette sul punto di stramazzare; un bel pezzo barellò, ma poi si diede a correre a correre, che tanto non va presto lo struzzo nel deserto, per arrivare al Duomo prima della donna amata; e vi arrivò: allora si pose accanto la pila dell'acqua benedetta aspettando la Fulvia con un battito di cuore, che parve miracolo se in cotesto punto non isfiancò. La Fulvia giunse, ma non pareva dessa, tanto mostrava sconvolte la sembianza e la persona; senza punto avvertire gli obietti circostanti ella allungò il braccio per immergere la breve mano dove non appariva nodo, nè vena eccedeva, nell'acqua santa, ma improvviso le sorse davanti dall'altro lato della pila Paride che tuffata la mano tremula più che foglia al vento a lei la porse grondante. Rabbrividì la donna, e quasi mirasse o biscia, o scorpione, od altro più odiato animale, con un grido represso scappò via. Paride sentì stringersi ad un punto il cervello, ed il cuore; troppo breve, e troppo intenso il suo inganno, come troppo crudele la verità: spazio non breve di tempo rimase con la mano in alto, all'ultimo si segnò; le stille dell'acqua benedetta gli gocciarono fino agli occhi, e quivi crebbero per le lacrime che al povero uomo proruppero fuori irrefrenate. Preso da vergogna deliberò uscire e non potè; allora brancolando, chè la chiesa era buia a cagione delle tende tirate alle finestre, e di quella più grande stesa sopra il pulpito come costumasi quando entra la predica, si trasse fino la terza colonna della navata a mano manca, e quivi si rimase rannicchiato: adagio adagio egli riprese balìa, e gli occhi suoi assuefacendosi al buio incominciò a frugare dove si fosse nascosta la creatura nemica; per quanto rovistasse da ogni parte, e più volte si rifacesse alla ricerca, non la seppe rinvenire: ella era sparita: tuttavia non gli riuscendo darsi pace mentre stava per gittarsi al disperato, ecco lì, proprio accanto a lui, dalla parte opposta della colonna mira Fulvia inginocchiata con le mani giunte e il capo inchinato su quella: gli occhi teneva chiusi, e pareva, che pregasse. Paride anch'egli era genuflesso, sicchè camminando su i ginocchi si trasse innanzi per contemplarla meglio: a che rassomigliasse costui mentre aveva giù prosciolte le braccia, e le mani aperte, con la bocca schiusa, e un riso di marmo, la vita intera trasfusa nelle pupille degli occhi alacri, lucide al pari della punta di un coltello, io non potrei dire: certo si conosceva, che in cotesto istante qualche ordigno della sua compagine sforzato cedeva all'urto della passione, e di ora in poi lo intelletto, e la parola ne avrebbero patito nocumento ognuno per sè, e peggio nella corrispondenza fra loro. All'improvviso il meschino giovane sentendosi dentro mancare cadde col volto davanti, e lo avrebbe percosso sul pavimento se non gli facevano difesa le mani; non potendo più frenarsi dette in un sospiro profondo così, che parve un bramito di belva: allora la Fulvia spaventata abbassò gli occhi e vide l'uomo odiatissimo, a suo parere, trasformato in demonio, o in bestia, che cammini su quattro piè; e ciò tanto più parve vero alla sua immaginativa, che Paride cadendo a quel modo sul suolo teneva la faccia storta in molto brutta maniera per guardare in su. La ignoranza, che tornava a infittire le sue tenebre diradate alquanto dagli studi classici dei secoli decimoquarto, e decimoquinto aveva reso credibili anco alle persone di alto affare le leggende delle streghe, l'apparizione dei demoni, ed altre ciurmerie siffatte, anzi n'era cresciuto il numero con l'accessione dei lemuri, dei geni, degli dei mediossumi, e degl'inferi: perchè dove vi ha preti vi saranno sempre in un modo e nell'altro inferno, e paradiso; e poi non fu arduo in ogni tempo mai così ad uomini come alle donne immaginarsi gli uomini con la coda, facilissimo a queste ultime figurarseli con le corna, per le quali cose non parrà strano, che la Fulvia cominciasse a tremare alla vista di Paride in cotesto modo atteggiato, e paurosa, che si fosse convertito in demonio quinci a furia levossi dandosi a fuga affannosa e sviata quasi lodola inseguita dal falco: non per elezione bensì per istinto ella si cacciò là dove le tenebre comparivano maggiori, sicchè per caso si condusse nella cappella Chigi, che incominciata dal suo parente Alessandro VII mentre era nunzio apostolico allora non anco era terminata, nè lo fu prima del 1680.
.... quinci a furia levossi dandosi a fuga affannosa e sviata... (Pag. 28.)
Colà ardeva una sola lampada, in onore del Sacramento custodito nel ciborio, nè ci occorreva persona, chè tutti stavano raccolti intorno al pergamo per raccogliere di prima mano la parola divina. Almeno qui avrò pace, pensò la donna; e a voi beatissima Vergine mi raccomando; proteggetemi voi. Così rimase un pezzo, quando sollevando la faccia proprio sotto la lampada scorse lo aborrito; i raggi del pallido lume cascavano giù a piombo sopra coteste sembianze desolate rendendole più del consueto lugubri: allora ella si tenne per ispacciata; credè davvero, che costui volesse torcerle il collo, e portare la sua anima nell'inferno con esso seco; un freddo acuto le penetrò le ossa; il sudore diaccio le imperlò la fronte, e svenne. Quando tornò il suo spirito ai consueti uffici della vita si vide circondata da pietose gentildonne, le quali le prodigavano ogni maniera di uffici cortesi; essa a quella stringeva affettuosamente la mano, quest'altra baciava, ringraziava tutte, e quasi le pareva sentirsi lieta essendosi liberata dalla visione di quel demonio fatto uomo, o di quell'uomo diventato demonio; e s'ingannava, però che nel girare degli occhi si rivide dinanzi Paride con gli sguardi intenti in lei quasi punte di fiocina, che il pescatore sta per fulminare nei fianchi alla Balena; onde ricaduta in deliquio fu dalle donne amorevoli non menochè curiose di scoprire le cause di cotesto accidente ricondotta in casa, e quivi affidata alle cure del marito, e delle ancelle discrete.
Lelio presa lingua del caso, fu colto dalla più sconcia gelosia di Paride che abbia tormentato marito; e come quasi sempre succede ai mariti gelosi non era lì, ma all'uscio accanto. Difatti questo Paride odierno, diverso in tutto dall'antico non arrivò mai ad assimilare Lelio Griffoli a Menelao degli Atridi: tuttavia a confermare Lelio nel suo falso concetto molto contribuiva Paride, che da quel giorno in poi seguendo il costume della farfalla, la quale non par contenta se prima non si abbia bruciato alla fiammella le ale, prese a perseguitare la Fulvia; la seguitava come ombra, dove ella levava il piede egli metteva il suo; per le vie, in chiesa, nei ritrovi, dovunque: molestia infinita, impronta, ostinata, da non si potere sopportare: avvisato Paride da qualche cittadino da bene cavò fuori il pugnale per ferirlo, ond'ei si tenne avvertito per un'altra volta: qualcheduno si consigliava informarne il Principe governatore di Siena nel tristo augurio, ch'ei desse nei gerundi, e un giorno o l'altro commettesse cosa da far piangere; ma non n'ebbe il coraggio: e per crescente abbiettezza ormai saliva nel massimo onore il proverbio: arrosto, che non tocca lascialo andare, che bruci, insomma la faccenda pigliava mala piega se Paride non cadeva infermo: chiamati i medici e assai sottilmente esaminatolo trovarono quello che pur troppo era; una passione indomata lo rodeva; la lama tagliava il fodero: termine di cotesto stato per ordinario o morte o pazzia: via di mezzo veruna.
Paride dì, e notte seduto sul letto, alquanto riverso della persona sopra i guanciali, con le mani aperte, e le braccia abbandonate su le coltri, gli occhi intenti, e fissi su qualche obietto, che non era mondano: ardeva dentro, la sua esistenza diventava cenere, nè alcuno poteva a cotesto incendio porgere aita. Non madre, non sorella, che lo sovvenissero, non amico che lo sollevasse; il fratello stava in villa, ed egli vietò severamente, che gli porgessero contezza del suo stato. Intorno a lui solo una donna, che gli fu nutrice, la quale come quasi tutte le nutrici sono, massime se prive di marito, e del figliuolo, che prima partorirono, gli portava uno amore, che io direi piuttosto strabocchevole, che disordinato; l'amore del cane, il quale nei giorni delle immanità di Nerone gittato il corpo del suo padrone Tito Sabino nel Tevere ci si tuffò anch'egli tenendolo sollevato su le acque perchè i vortici non glielo travolgessero al mare, e poichè con ineffabili conati lo ebbe tratto alla riva gli scavò la fossa, ce lo compose dentro; e su la fossa stette e morì. — Povera donna! a piè del letto, con le mani soprammesse ad un pomo di colonna teneva senza battere palpebra ficcati i suoi negli sguardi di lui; s'ei sospirava ella gemeva, se Paride faceva bocca da ridere, ed ella a posta sua rideva; se una mosca gli si posava su la faccia, ed ella moveva cheta cheta e gliela scacciava; adagio adagio per non ispazientirlo, gli accomodava le coperte del letto andate da parte, gli moderava la luce del sole, o della lampada: amore materno stemperato in atmosfera di cui la Provvidenza diede il tesoro alla donna, perchè l'uomo travagliato da tanti guai non maledisse la donna, e con essa le universe creature, che uscirono di mano a tale ente, il quale come poderoso non ci si rivela del pari buono e benefico.
Più volte la nutrice, che Betta aveva nome, si attentò a mettere innanzi una parola, tanto per addentellare un discorso, ma egli torvo le aveva intimato: taci; ed ella era rimasta cheta per tre giorni, tanta paura d'infastidirlo le si era cacciata addosso: non sapeva da qual parte pigliare il bandolo alla matassa: era amore? Era odio? O che cosa diavolo era? Conosciuta la infermità si può sperare di trovarci rimedio: egli chiuso come lettera sigillata, nè ella era femmina da girsene a zonzo d'intorno per udire novella, Dio ne liberi; a lei l'uscire senza bisogno di casa saria parso, non dirò peccato mortale, ma almeno grave come sette veniali, che altrimenti degli amori di Paride avria sentito bucinare qualche cosa. Pure dai dai le venne fatto un giorno di scoprire l'arcano, ed ecco come. La camera dove giaceva Paride era così formata: aveva una porta sola in fondo, e lì accanto alla parete in angolo alla porta stava un tavolino di legno intagliato e dorato, e sopra esso uno specchio dove ogni uomo, comecchè rubicondo al paro dei bargigli del gallo, saria parso di verderame; pure anco a quel modo ritraeva la immagine degli obietti: pertanto Betta nella contigua stanza camminando a scancio venne ad appuntare gli occhi nello specchio, dove stava in certo modo dipinto il letto, Paride, ed ogni altra cosa a lui circostante; lì costei si pose senza neppure alitare sempre mirando da quella parte; Paride si rimase lungamente immobile; poi di un tratto cavò fuori di sotto al guanciale uno astuccio, e apertolo si pose a contemplare il ritratto, che racchiudeva; da prima la sua faccia s'illuminò, gli corruscarono gli occhi, il riso figlio dell'amore e della gioia gli allietò il sembiante; parve adorarlo con quel delirio passionato, che oltrepassando l'estremo limite del piacere diventa tormento; quindi a mano a mano, come comparisce la procella sopra le chete acque del mare, e le rimescola con furia infernale, e Dio e il Diavolo pare che nel furore della tempesta si ricambino maledizioni di fulmine, così Paride si sconvolse tutto, le pupille gli sparirono sotto le ciglia aggrondate, gli si gonfiarono i muscoli della fronte, si morse le labbra fino a grondare sangue; strinse con ismisurata rabbia entrambi i pugni, poi levato il destro braccio, e aperta la mano scaraventò il ritratto nell'opposta parete: ciò fatto con le mani si strinse la fronte coprendosi gli occhi: dopo pochi minuti sembra, che una mutazione accadesse nello spirito dello infermo, imperciocchè balzato da letto si diede carpone a cercare il ritratto, il quale rinvenuto intero si accostò al cuore spasimante fra l'angoscia, e la contentezza; e dacchè il ritratto rimbalzato dal muro era caduto giusto davanti al tavolino sormontato dallo specchio nel drizzarsi in piè egli si vide riflesso nel cristallo; si vide, e si atterrì nel contemplarsi tanto disforme da quello, che era stato prima: non potendo più oltre sostenere lo spettacolo di sè si accosta vacillando al letto, dove essendosi posto bocconi pianse amaramente. Betta questi casi mirò, e si sentì trapassata l'anima da una spada, molto più che incapace a porgergli consolazione scappò via turandosi la bocca, affinchè egli non udisse le sue strida.
Quando fu alquanto rasserenata, Betta si lavò gli occhi, e fingendo essersi addormentata, anzi di questa sua negligenza domandando venia, tornò al letto di Paride spiando lo istante in cui il sonno scendesse a refrigerare le sue membra; ma il sonno fugge dagl'infelici, o vi si ferma quanto la farfalla sul fiore da morti: tuttavia ella, postasi a sedere accanto il letto, il suo capo abbandonò su le lenzuola, e fece le viste di dormire; intanto però stese la mano sotto il capezzale per pigliare il ritratto, e vedere un po', che diavolo si fosse; ma Paride al minimo moto apriva gli occhi ed ella ritirava la mano più presto, che vipera non fa la lingua: bisognò rimettere il tentativo alla notte, la quale venuta, più che mezza, Paride la passò in vaniloqui, o in lagni: oggimai egli non poteva dare altra testimonianza di vita, eccettochè con dimostrazione di dolore: poco innanzi l'alba egli si assopì, e Betta all'erta della occasione, cominciò ad allungare la mano procedendo in questa guisa: prima stendeva un dito poi l'altro, dopo puntando su questi spingeva innanzi cautissima il carpo della mano per ricominciare da capo; però se l'alito di Paride ingrossava, ella ferma lì come impietrita: riassicuratasi, il palpito alcun poco quetato di nuovo ripiglia il lavoro, che in breve la condusse a mettere le mani sopra l'astuccio; le pareva le scottasse le dita: nè da tanto sgomento nè da tanta paura dev'essere stato compreso chi prima si accostò all'ara degli Dei per commettervi sacrilegio: volse alcun poco le spalle al letto accostando il ritratto alla candela per contemplarlo a suo agio. Lo vide, e per un pelo non proruppe in un grido, imperciocchè la Fulvia comparisse a tutti maravigliosamente bella; e poi il pittore le aveva cresciuto grazia, cortigiani tutti i pittori; ma poichè la cortigianeria loro serve la bellezza, meritano indulgenza plenaria; pertanto Betta con una mano levata, e con la bocca aperta ammirava, quando allo improvviso sente come una morsa diaccia agguantarle la spalla, ond'ella urlò spiritata.
— Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il corpo e l'anima mia.
— Così dunque, subito dopo prese a rimbrottarla una voce, così dunque serbi fede al tuo padrone?
La parola padrone, ma più il modo con che fu detta valsero a riporre in un attimo il cervello a partito alla Betta, che rispose così:
— Paride! E tu non mi sei altro che padrone?
— E che ti hanno ad importare i segreti del tuo padrone?
— Che me ne importa?
— Sì, che te ne importa?
— Dio castiga i figliuoli, i quali mordono le mammelle, che gli hanno allattati; e in queste parole di Betta sonava un pianto, una rampogna, che anima viva non avrebbe potuto sopportare; molto più, che la povera donna, caso fosse, ovvero intenzione, con ambo le mani aperte si compresse il seno: cadde la ira a Paride, il quale su cotesto seno abbandonando il capo infermo esclamò:
— O mamma mia!
— Mira, Paride, tu te ne vai ed io me ne vo teco, e tu sai che il medico prima di dare mano alle medicine attende a conoscere la ragione del male, nel medesimo modo io, che non acconsento che tu te ne vada (di me poco importa), ho voluto pigliare contezza della tua infermità per vedere un po' se ci fosse verso di guarirla. Adesso so dove ti fa male la scarpa... tu ami...
— Non è vero...
— E questo dunque? Soggiunse la Betta mostrandogli il ritratto.
— Non è vero... ch'è mai cotesto? Un ritratto va bene. Di donna? Di donna bella di forme... angelica quasi? Sì certo, e che per ciò? Tu credi che io l'ami, menamela davanti, e chiamami fellone se io non le mordo il cuore.
— Anch'io nel tempo de' tempi diceva così, quando la gelosia mi dava martello, ma quando mi tornava a casa il mio Bastiano non mi sentiva balìa di guardarlo in volto; poi parendomi averlo offeso faceva la penitenza del peccato gittandogli le braccia al collo, e baciandolo piangendo.
— O Betta, non è la gelosia, che mi travaglia, ella mi odia.
— Ti odia? O brutta befana; ella ti odia... ti amerà... ti amerà; io ti so dire che io non sono io, o in capo ad un mese ella andrà pazza di te. Ti amo tanto io, e perchè non ti dovrà amare ella? Ma per principiare a modo e a verso, come si chiama cotesta femmina?
— Ah! il suo nome è Fulvia...
— Chi mai quella, che celebrano regina delle belle di Siena? Un occhio di sole, una rosa imbalconata?
— Non so...
— La Griffoli, via, quella che da fanciulla era dei Piccolomini, la parente del Papa?
— Giusto quella dessa.
— Oh! allora muta specie, Paride mio, qui inciampiamo dentro un comandamento del Signore... e capisci che direbbe mai l'anima di donna Flaminia, la madre tua, che fra onorata e bella non so qual fosse più, se lo venisse a sapere?
— Ma, Betta, perchè non mi lasciavi stare? Vedi mi hai strappato la benda dalla scottatura, e adesso non ti dà l'animo di rifasciarla...
— Paride, potresti patire, che la tua Betta diventasse un tratto una vituperosa portatrice di polli?
— Ma, Betta, io nulla chiedo, nulla; non pretendo parlarle, rinunzierò a vederla, me ne andrò lontano da Siena, non ci tornerò senza ch'ella me ne abbia conceduto licenza; una cosa sola domando da lei.
— E che cosa tu domandi allora?
— Che mi assicuri, che ella non mi odia.
— E non altro?
— Null'altro, eccettochè, caso mai rimanesse vedova di suo marito, costui conta due volte tanto gli anni di lei, non mi lascerà addietro per un altr'uomo.
— Ma questo, Paride mio, ho inteso, che non si possa fare, perchè insomma si vorrebbe fondare un sacramento sopra la bara di un uomo.
— Nota bene, Betta, io non dico, che sposi me, dico, che morendo suo marito non mi preferisca altri; tu vedi, che questo muta specie.
— La muterà, ma mi ci entra poco; basta la Beata Vergine mi sovverrà di consiglio.
— Betta, fa a modo mio; per questa volta non domandare consiglio ad alcuno; però senti, Betta, ingègnati, se puoi, ottenere da lei un ricordo, che venga proprio da lei... un nastro... un pannolino... che so io.
— Vada pel nastro...
— Senti Betta, non sarebbe meglio, Betta, una ciocca dei suoi capelli lucidissimi e neri?
— Per buttarli via appena avuti: tu le morderesti il cuore, pensa come mai conceresti quei poveri capelli...
— Tu mi strazi, Betta, ma di' o come farai per parlarle?
— Quanto a questo è il mio segreto (e ciò la Betta diceva, perchè proprio fin lì non aveva pensato a nulla), tu intanto cerca di riposare; perchè ricorda, che io mi metto a questo impegno solo per vederti risanato; fidati di me, che dove ci è uomini ci è modo, molto più poi se ci è donne.
CAPITOLO II. La Morte.
La Betta pareva, che dormisse, ma il suo cervello se ne andava in volta scapigliato senza essere capace di somministrarle nulla di buono pei fatti suoi. O Betta, o Betta, in che ginestraio tu hai messo le gambe! Ed ora a qual santo ti voterai? Che pesci piglierai? La è una brutta matassa quella che hai preso a dipanare. Vogli o non vogli; non ci è caso, i polli li porti: che cosa arzigogoli mai, che qui non ci casca ombra di male? Non ricordi le parole del buon Gesù? Esse parlano chiaro: «Ma io vi dico, chiunque riguarda una donna per appetirla, già ha commesso adulterio con lei nel suo cuore.»
Non ci è cavillo, che tenga: il solo desiderio è peccato, e di che tinta! E poi, Betta, tu sei vecchia, e il diavolo, giusto è tristo perchè gli è vecchio; e puoi tu metter pegno, che Paride si rimarrà fermo al chiodo di chiamarsi satisfatto alla novella, che la gentildonna non l'odia? E non hai tu visto come navigava con le vele gonfie di desiderio in desiderio? Prima si contentava sapere, che ella non lo odiava; subito dopo voleva la promessa, che rimasta vedova con altri non si sposasse tranne con lui; per ultimo implorava un ricordo, prima nastro, poi capelli, e se tu gli davi spago, chi sa, che peste di roba avrebbe preteso per memoria. Si sa l'appetito viene mangiando, massime in faccende di amore; e tu, Betta, donna da bene, educata dallo esempio di quella santa femmina, che fu madonna Flaminia, ti sei condotta a questa età per diventare di un tratto trista insidiatrice dell'onore altrui, corrompitrice della onestà delle mogli; via, senza tanti ghirigori, mezzana?
Ouf che caldo! Ma alla fin fine tutto a filo di sinopia non può andare in questo mondo; però ci hanno messo la confessione, il suo bravo pentimento e la penitenza: ora gli è chiaro come l'acqua, che se peccato non fosse, nè manco tutte coteste belle cose potrebbero essere. E poi senti, Betta, vien qua, facciamo i conti: se Paride tuo non riceve refrigerio alla passione, che lo mangia, ne morirà disperato, la sua anima andrà perduta irrimediabilmente; e questo o non è male grosso? Puoi mettere addirittura grossissimo; però concesso male eziandio la raccomandazione, che intendo fare alla signora Fulvia; quale meno peggio dei due? — Diavolo! non occorre stadera nè braccio: si vede ad occhio. E tu, Betta, non conti nulla? Perdesti il tuo marito Bastiano, ch'era una coppa di oro, perdesti quel bello angiolo del tuo unico figliuolo Celso; tutto il tuo affetto riversasti sopra Paride; ogni cagione di vita riponesti sul capo di lui, ed ora dovresti sopravvivere anco a lui? La sarebbe una bella storia cotesta! Sicchè io mi volgo a te, Madonna santissima, e in te confido: se tu non fossi madre, non ci penserei nè manco di raccomandarmi a te; ma tu fosti madre, e soffristi per tuo figlio quanto donna al mondo sofferse mai; tu sentisti come una spada sola trafigga a un punto due cuori, quello del figliuolo e della madre; uno schiaffo percuota due gote, una spina laceri due capi: te, a ragione, chiamano Madonna dei sette dolori, e meglio direbbero dei settemila, te salutano refugio degli afflitti; però non mi abborrire se per questo meschino io mi adoperi, forse meno che dirittamente; se erro consigliami, se pecco perdonami: anco a santa Maria Maddalena, anco a santa Teresa fu molto perdonato perchè molto esse amarono, ed io pure amo svisceratamente, e non sia per vantarmi, ma l'amore delle prelodate due sante non fu tale da stare a petto al mio, perchè.... eccetera; chétati, lingua.... E a te domando, Vergine Maria, Madre del buon Consiglio, dove mai io non imprenda opera, che incontri il tuo sdegno, sovviemmi nell'angustia in cui mi trovo, suggerendomi il modo col quale io possa presentarmi alla signora Fulvia, e trovare grazia presso lei, affinchè, salva sempre la onestà sua, si benigni[2] darmi una mano per liberare questo dolcissimo mio figliuolo dalla mala morte in questa vita e dalla dannazione nell'altra.
Io per me non so come la sia ita, ma dopochè la coscienza diventò avvocata, nell'anima dell'uomo (di quella delle donne non importa ragionare), successe una grandissima strage di linee diritte; e Betta ce ne presenta lo esempio vivo: essendosi in questo modo messo l'animo in quiete, ella cominciò ad abbacare come potesse giungere fino alla Fulvia, e poichè rinvenne la via assai più presto, che non l'era dato sperare, così pensò davvero, che tanta spontaneità di fantasia non fosse senza manifesta protezione della Santissima Vergine. A Voi tutti, che leggete, è noto come in ogni tempo le femmine o vuoi buone, o vuoi triste si sieno dilettate delle gemme: la causa rimane ignota: crederono taluni, che ciò accadesse, perchè essendo le gioie ammirabile oggetto, lo spettatore dalla splendidezza di quelle fosse condotto a contemplare più spesso, e più intensamente la beltà, che se ne ornava la faccia e la persona; ma questa ragione non mi pare che c'incastri, perchè troppo più spesso delle famose, e delle giovani io ne vidi ornate le laide e le vecchie, che senza esse sarebbero passate, pel loro meglio, inavvertite; dunque poniamo in sodo il fatto, rimettendoci per iscoprirne le ragioni vere a quando troveranno le cateratte del Nilo. — Oltre le gemme, ai tempi della nostra storia, le donne insanivano dietro le trine di Malines, di Digione, e di altri paesi fiamminghi per coteste industrie famosi: oggi le nostre predilette ci hanno aggiunto due gusti, per far toccare con mano anco agl'increduli, che in proposito progresso elleno possono stare a petto di chiunque altro: le pelliccerie voglio dire e gli scialli turchi. — Così è, mentre i Russi congiurano per cacciare via i Turchi dalla Europa, le donne ce gl'introducono sotto forma di scialli fino in casa: chi la dura la vince; vedremo come l'andrà a terminare.
Ora, donna Flaminia d'Elci, moglie di Belisario Bulgarini, madre di Paride, comecchè fosse virtuosissima, ed insigne per bontà, pure ebbe un debole per le trine di cui mise insieme una famosa raccolta; la quale ebbe in custodia la Betta, come donna di fiducia e di simili faccende perita: ed ecco, che, pensando al pretesto per intromettersi in casa della Fulvia, le venne in mente di pigliare una scatola la quale empita dei più sfoggiati merletti girsene con quella ad offerirli in compra alla signora Fulvia: le piacque il trovato, se ne applaudì esclamando: — Brava Betta! — , ed è da supporsi, che dov'ella lo avesse potuto fare si sarebbe dato un bacio in un occhio. Più difficile le riuscì ammannire un discorso co' fiocchi: ne imbastì parecchi, ma veruno tirò fino in fondo, ond'essi terminarono collo incatricchiarsi fra loro, generando uno arruffio che nè anco Arianna sarebbe venuta a capo ravviare; allora considerò come i discorsi preparati in simili occasioni abbiano garbo del cavolo a merenda; e il meglio fosse imitare il pescatore, il quale gittò le reti dicendo: — Butta in mare, e spera in Dio.
La mattina per tempo si acconciò come per recarsi a messa, mise a parte del suo trovato Paride, che assai l'applause, e dopo concertate certe cosarelle fra loro uscì di casa con tale impeto, che pareva volesse correre il palio; ma dopo pochi passi rallentò il moto, il quale divenne più fievole mano a mano che si avvicinava al palazzo Griffoli: lo riconobbe, senza domandarne, dall'arme, che Paride le disse avere a rappresentare sei gigli messi in iscancío; stese la mano al picchiotto, lo strinse, lo lasciò andare, poi fatto cuor di leone bussò da spiritata: quel colpo parve che percotesse a un punto la porta e il suo cervello, però che essa balenò per cascare: sentì per di dentro uno strepito di passi accelerati, ed un borbottio che taroccava: — s'intende acqua, ma non tempesta, gli è il Duca, che vuol passare? — Aperto subito l'uscio, quando il servo insolente, come la più parte di quelli delle case magnatizie sono, si vide dinanzi cotesta vecchia azzimata con cera stizza, e voce di agresto, le domandò:
— Chi siete? Che volete? Chi vi manda? Su presto, dite.
La Betta cresciuta tra le blandizie della padrona Flaminia, e del figliuolo Paride, andò sottosopra a cotesta accoglienza; ma tenendosi meglio, che le fu dato, rispose: — Andate dalla vostra padrona, e ditele, che sono venuta con le trine di Malines ch'ella sa...
Il servo andò, e Betta pensava: — Ecco una bugia, ma le colpe pur troppo fanno come le ciliege, una tira l'altra. La Fulvia all'ambasciata del servo arguta com'era, sospettò non sapendo di donna, nè di merletti, che gatta ci avesse a covare, onde le mandò a dire ch'entrasse pure, e questo tanto più ordinò volentieri, quanto che sapeva il suo marito in campagna a vigilare le faccende.
Ma Lelio, secondo la usanza vecchia dei mariti gelosi, mentre glielo aveva dato ad intendere, non si era allontanato di casa; lì stando da arrugginirsi l'anima smanioso di fare da testimonio alla propria vergogna; però appena udì salire la Betta mise fuori il capo da certo stambugio a mezze scale, e guardandola a stracciasacco con voce molto più terribile di quella del servo la interrogò:
— Chi sei? Dove vai? Che vuoi?
Ora sì, che Betta si tenne per isfidata, immaginando così allo ingrosso, ch'egli doveva essere il Griffoli; almeno l'arroganza lo chiariva nobile, e la superbia padrone; per tanto armeggiando, come chi sta per dare il terzo tuffo, ella rispose:
— I' sono Nunziata, la guardarobiera della illustrissima signora Virginia Chigi, che sta qui oltre; ella mi manda alla illustrissima donna Fulvia sua signora consorte perchè, essendole capitato uno assortimento di trine di Fiandra da comprare a mezza gamba, l'è parso non lasciarsi scappare di mano la occasione; ma siccome per la signora Virginia Chigi sarebbero troppe, offre alla signora Fulvia di metterla a parte dello acquisto lasciando in potestà sua la scelta, e la quantità delle trine, che vorrà pigliare per sè.
E quattro, ed otto delle bugie, la via di sdrucciolare allo inferno è troppo più destra, che altri non pensa. — Lelio, si mise l'indice della mano manca tra ciglio e ciglio, poi a scatto impose alla Betta:
— Mostrami qua le tue trine.
E l'altra gliele mostrò aprendo la scatola sotto gli occhi di lui; egli finse ammirarle, o forse le ammirò davvero, chè belle estimavansi da quanti se ne intendevano, ma intanto ch'ei le spiegazzava avvertiva se mai ne cadesse carta, od altro oggetto, che lo confermasse nella sua gelosia: non rinvenendo nulla, alquanto si rammorbidì, sicchè, alla Betta, che stava tutta tremante disse:
— Perchè tremi?
— Che siate benedetto, voi mi guardate con tali occhiacci, e con tale vociaccia mi favellate da far entrare la maremmana addosso anche al Mangia.
Di vero io non so se Lelio Griffoli potè in sua gioventù chiamarsi gentiluomo leggiadro, fatto sta che allora metteva proprio paura: comecchè apparisse più vecchio di quello che era, pure gli si mantenevano i capelli più, che pece neri, e neri altresì i sopraccigli foltissimi, i baffi e la barbetta a nappa: i capelli portava lunghi fin sotto le orecchie, dove li faceva mozzare; la pelle del colore dello avorio vecchio, giallo malsano; sopra cotesto giallo risaltava orribile la barba, che più o meno rasa presentava una tinta verderame, da metterti in sospetto, che la faccia tutta fosse un grosso govacciolo venuto a suppurazione: lungo il naso allato alle narici scendevano due rughe profonde, che allargandosi arrivavano fino oltre gli angoli delle labbra, canali, che scavano l'atrabile e il mal di fegato senza pro, perchè essi dentro trapánano e sgrondano logorando; forse per avvertire chi piglia usanza con loro a starsi su lo avvisato, chè coteste infermità i buoni fan tristi, i tristi pessimi: le pupille ardenti in fondo a certe occhiaia, che ti sembravano condotte con un tizzo spento di carbone potevano paragonarsi a due lupi appiattati dentro due caverne in aspettativa di preda. Lelio per un tempo ebbe fama nè buona, nè rea, anzi taluno, che lo conobbe da giovane lo affermò d'indole mite come per lo più sono gli uomini della sua patria, di costumi umani e di concetti pieni di moderazione; ma poi il continuo furore della gelosia, che lo agitava, la brama di vendetta contro chiunque per suo avviso macchinava in danno dell'onore suo, la paura di tirarsi addosso l'ira del potente parentado della moglie dov'egli si fosse attentato di torcere pure un capello alla Fulvia, lo avere condotto buona parte di vita nel regno, luogo pieno di uomini facinorosi, ed infame per continui assassinamenti, lo avevano reso mano a mano feroce: l'animo suo era diventato familiare col delitto; forse gli arieno fatto fallo la mano, e il coraggio se avesse dovuto commettere l'omicidio da sè; quanto poi a meditarlo, e ad ordinarne la esecuzione ad altri sarebbe stato per lui come bere un uovo. Ora parendo a Lelio, che la faccenda della Betta fosse farina schietta la lasciò ire, raccomandandole, che non ingalluzzisse la moglie a spendere troppo, chè con lei si sarebbe trovato il fondo al pozzo di S. Patrizio, e se il Papa non sovveniva si sarebbe condotto a dare del sedere sul lastrone. — E questo diceva perchè Alessandro VII, che su i primordi del suo pontificato dichiarò non volere conoscere altro parente che la Chiesa, indi a breve mutato registro chiamò a Roma i nepoti ai quali si mostrò parziale due cotanti più, che non avessero costumato i papi suoi predecessori. La natura, che non è demonio, resiste all'acqua santa; e triregno, mitra, e corona se spesso spengono lo intelletto nel capo, rado lo affetto nel cuore. Nondimanco svoltata appena la scala, un'altra pulce entrò nell'orecchio a Lelio; stette per risalire, e già aveva voltata la persona per farlo, ma poi si pentì e scese un'altra scala: qui pure nuove ambagi, e raddoppiate esitanze, a cui pose fine non mica ponendole giù, sibbene andando di corsa a informarsi se si fosse apposto al vero.
La Betta va oltre, di tratto in tratto le si gonfia, il cuore con un sospiro, ch'ella respinge indietro; dentro gli occhi le si accumulano lagrime, ch'ella ribeve: dopo trapassate parecchie stanze, una vecchia, che pareva il caval bianco dell'Apocalisse presala pel braccio aperse un uscio, e per mezzo di esso spingendola strillò:
— Illustrissima, ecco la donna, che domanda di lei. —
Betta da prima non trovò parole, fissa considerava il volto della Fulvia, che veracemente le parve bellissimo, però non tale, che del tutto le quadrasse: se avesse avuto tempo lo avrebbe in certa guisa smontato, e vistolo pezzo per pezzo, forse avrebbe potuto altresì indicare il mancamento: non gliene dette agio la Fulvia, la quale con accento vibrato le domandò:
— Orsù, che volete da me?
Betta annaspa, la Virginia Chigi, le trine, madonna Flaminia, Gand, Malines, Brusselles, Digione, con tutta la Fiandra per giunta; disegni portentosi; principesse e donne di alto affare averle viste, e averne fatto le stimate, e le marie, la compra, la vendita, lo acquisto, il dono, l'omaggio, insomma un guazzabuglio senza capo nè coda, e più andava innanzi più s'irretiva, sicchè la Fulvia di natura risentita, spazientendosi ad un tratto, esclamò:
— Voi mi parete ebbra, levatemivi davanti prima, che io vi faccia cacciare dai miei servitori.
Allora Betta, mossa dal pericolo, si lasciò andare giù di sfascio in ginocchioni, e supplice domandò alla Fulvia:
— Signora, avete figliuoli?
— No.
— Ne aveste mai?
— Neppure.
A Betta s'increspano per subito tremore le labbra, pure si attenta a dire: — Nè ebbra, nè matta sono io, signora, bensì madre desolata di un figlio bello e buono: mia consolazione, mia vita, mio tutto: egli giace infermo di tale malattia donde non si riavrà più, se voi non lo aiutate....
— Io! O che so di medicina, io?
— Questo non monta, egli è certo che voi sola lo potete guarire....
— E di che cosa si tratta? Udiamo via, che ne vale il pregio.
— O Dio! O Dio! — Continua Betta con ambedue le mani coprendosi il volto — la infermità, che uccide il mio figlio è il disperato amore, che sente per voi....
— Per me! E che ciò a fare io? — Donna obbliate....
— No, signora, io non dimentico nulla: nacqui in villa, non so di lettere, ma so di religione e di onestà: io non vi propongo cosa, onde patisca offesa la vostra illibatezza, innanzi di proporvela io morirei: vi prego di una grazia, che voi potete.... anzi come cristiana dovete fare, ed è, che voi mi assicuriate, che non sentite odio per questo vostro misero e sviscerato amante, e mi concediate, che io da parte vostra glielo assicuri per voi.....
La Betta qui considerando come per siffatte parole non si alterasse la Fulvia (che rimase pensosa o tirando a indovinare lo sconosciuto amatore, ovvero deliziandosi nel compiacimento, che prova ogni femmina nel sapersi amata comecchè per nulla disposta a corrispondere di tenerezza), preso coraggio aggiunse: — Il figliuol mio da me è detto tale non perchè lo abbia generato io, ma sì perchè io lo allattai, io lo allevai; ma ciò non rileva: egli è giovane, bello, del bene di Dio ne ha anco troppo, valoroso, saputo, lo amano tutti... perchè dunque non me lo avreste ad amare voi? Mandategli in mercè del fervente amore un nastro, un fiore, una ciocca dei vostri capelli magnifici.... egli non vi comparirà al cospetto; se così vi piace si recherà in remote contrade, non tornerà senza il vostro permesso a Siena, e niente domanda, nè un colloquio, nè.... insomma nè manco un'et... solo vi scongiura, che gli mandiate a dire, che, se alla Provvidenza piacesse voi aveste a restare vedova, voi non gli vogliate preferire veruno altro uomo; o vedova, o lui...
— Dunque le trine?
— Furono scusa per arrivare fino a voi...
— E vostro figlio si chiama?
— Si chiama... un bel nome in verità... e mi hanno detto piacente alle femmine del tempo passato....
— Dunque?
— Si chiama Paride Bulgarini.
Se le avessero letto la sentenza di morte in faccia, se passeggiando per l'erbe e i fiori, una vipera si fosse ritta su a trafiggerle il piede, se un coltello le avesse dato per mezzo del cuore, la donna non avrebbe gittato urlo più straziante nè più pauroso; respinse di una potente spinta la Betta da sè, la quale, dopo mutati su le calcagna alcuni passi precipitosi, andò a cascare supina sul pavimento, ci rotolò ancora la cassetta, che apertasi, sparse da per tutto il tesoro delle sue trine; la Fulvia con subita vicenda di vermiglia diventò bianca come panno lavato, poi da capo pavonazza, e all'ultimo del colore della morte, barellò per cadere, senonchè di repente, ricuperate anzi cresciutele fuori di misura le forze, diede un salto all'uscio, ne aperse furiosa le imposte, e sparve sbatacchiandole con impeto dietro di sè.
La Betta stentò a rimettersi in piedi non tanto per le sconce ammaccature riportate dalla caduta, quanto molto più per lo sbigottimento, che la opprimeva; a crescerle il quale ecco sopraggiungere la vecchia, che pareva il caval bianco dell'Apocalisse, a dirle ingiuria e a spaventarla.
— Andate via, sciagurata femmina; andate via.... su presto prima, che torni messer Lelio, e vi scanni come un cane.... cioè come una cagna.... ripigliate le vostre ciarpe.... guai a voi se la sgarrate di un attimo, il pezzo più grosso ha da essere l'orecchio.
E così borbottando raccoglieva le trine per riporle nella cassetta alla rinfusa, ostentando uno affannarsi da non si poter dire; mentre, colto il destro, ne acciuffava un pezzo nascondendolo con disinvoltura nelle tasche dello scheggiale. La Betta stordita, più morta che viva, non sapendo che dire, e meno che fare, scappò infilando le scale, e trottando per la via quanto le bastavano le gambe; ma la sventura non aveva per anco cessato di perseguitare la povera Betta, però che allo svoltare di un canto ecco incontrare faccia a faccia Lelio, truce in sembiante, il pallore del suo volto era diventato cenerino, teneva irti i baffi come un gatto inferocito, il quale tostochè la ebbe scoperta trasse fuori dalle tasche delle brache un pugnale, e le si avventò addosso urlando:
— Ah! malvagia femmina, aspetta, che vo' lavarmi le mani nel tuo sangue.....
La Betta via, che chi corre corre, ma chi fugge vola, e l'altro incalzando continuava: — Ti vo' cavare il cuor di corpo, e sbattacchiartelo sopra le gote... donna Virginia eh! Le trine eh!... — e qui un turbinío di male parole, che il lettore si può agevolmente immaginare risparmiando a noi lo ingrato ufficio di averle a riferire. Ormai della vita di Betta non si sarebbe dato un quattrino, imperciocchè a cagione dello sconforto dell'animo, e dello sfinimento delle forze ella incominciava a rallentare il corso, mentre il suo persecutore fulminava vie più; e la gente che passava o non la poteva soccorrere, o vista la mala parata che prometteva quel bestiale col coltello ignudo in mano si tirava a sè. Come a Dio piacque, mentre Lelio corre tenendo gli occhi tesi dinanzi a sè, dà dentro a un ciottolo male su gli altri sporgente in mezzo alla via, e va giù a capitombolo battendo il più solenne stramazzone, che da parecchi mesi si fosse visto a Siena. Gli schizzò il coltello dalle mani, si ruppe il naso, si ammaccò gli stinchi; se bestemmiasse, Dio ve lo dica, o piuttosto il diavolo per me; allora i cittadini sanesi gli furono attorno per raccattarlo, e presolo sotto le ascelle, intanto che lo conducevano dallo speziale, lo andavano raumiliando ammonendolo, che non istava bene ad un gentiluomo pari suo inveire armato contro una povera vecchia; e le ingiurie gridate contro quella o l'erano calunnie, e non si dovevano dire, o l'erano verità, e si dovevano dire anco meno; perchè i prudenti non mettono cattedra in piazza per bandire la propria vergogna, con altre più cose, che unite allo spasimo delle ferite riportate facevano venire a Lelio la schiuma alla bocca. Rattoppato alla meglio, con due cerotti sul viso, e un empiastro alla gamba, adagiatolo sopra una seggiola, portarono a casa messer Lelio, che mugliava come un toro battuto.
La Betta non si accorse del caso, e sempre corse finchè non si rinvenne riparata dietro le porte del palazzo Bulgarini cui ella attese a chiudere tirandone per di dentro due grossi catorci; ed era un farsi prestare lo imbuto dopo la vendemmia: così sicura, si mise a sedere sopra i primi scalini perchè, povera donna, non ne poteva più, e il cuore le picchiava dentro con una puntura da levarle il respiro; riposatasi alquanto disse: — Santa Vergine, se ho peccato, ed ho peccato di certo, tu mi hai punita a misura di carboni — e pianse giù a dirotta: tante poi furono le lacrime versate dalla meschina, che bagnò lo scalino dov'ella stava seduta: quivi rimase, finchè un servo scendendo, nè per di dietro così al barlume ravvisandola le gridò: — Che cosa è questo guazzo per terra, ne'? — Al quale ella rispose: — sono io, Giangio, che nel mettermi a sedere per riposarmi ho rotto una boccetta di acqua da occhi, che aveva preso dallo speziale per guarirmi la flussione. — La buona donna ebbe avvertenza a tutto, volle evitare il pericolo, che Giangio mirandola cogli occhi rossi sospettasse, che aveva pianto. Si levò, si ritrasse in camera sua gittando là dove andavano andavano le trine già sua cura e suo tesoro; poi seduta sul letto si mise a mulinare qual contegno avrebbe dovuto tenere con Paride suo; la sua immaginativa girava, e rigirava e non veniva a verun costrutto, pareva un cane quando si rivolge per mordersi la coda (il paragone io lo confesso gli è un zinzino abbrivato; ma ormai è cascato giù dalla penna ed ora mi par fatica a dargli di frego: fammi grazia, lettore, cancellalo tu); tuttavia premeva si decidesse, perchè intendeva di mano in mano più frequenti le scampanellate di Paride impazientissimo di sapere s'ella fosse tornata a casa; all'ultimo deliberò presentarsi a lui senza aver preso partito. Paride sentì da lungi il rumore dei suoi passi comecchè ella camminasse lieve e studiata come chi passeggia fra l'uova; appena si affacciò su la soglia di camera, egli guardò lei, ella lui. — Paride declinato il capo volle reprimere un sospiro, che strozzato si convertì in singulto da squarciargli la gola; Betta se ne andò ad appoggiarsi alla sponda in fondo al letto volgendo le spalle al malato sorreggendosi con la destra mano il gomito sinistro, del quale su ritto ella fece puntello alla faccia annuvolata.
Essi si erano parlati, si erano detto tutto, forse troppo, che poco. Chi sostiene, che la favella stia unicamente nella lingua piglia un granchio. La favella significa più esatti, e meglio i discorsi della mente; la passione può passarsi della favella: di vero, considerate i veraci amatori fatto getto di ogni soverchio eloquio, si stringono nelle espressioni: — Io ti amo; io ti amo. Ora quante più cose non si parlano ad un tratto con uno sguardo, o con un sorriso? Come avremmo potuto noi nei tempi passati esprimere i dubbiosi deliri, la paura, la gelosia, il rimprovero, la gratitudine, la fede, la discolpa, massime al cospetto dei congiunti mascolini e femminini, se non ci sovvenivano gli occhi? E due mani che si stringano non si comunicano esse tanti concetti da disgradarne una dozzina di fili di telegrafo elettrico? I labbri co' muscoli, che ci fanno capo per via dei loro sussulti, non palesano più affetti, che non manda suoni la più compita tastiera di piano-forte? L'Accademia della Crusca, quando avrà posto fine al nuovo vocabolario della lingua (lo faccio per augurarmi la eternità), mi darà licenza di compilare a mia posta un dizionario della lingua degli occhi, delle labbra, e dello stringersi delle mani: sono accademico della Crusca anch'io, e intendo esercitare il tocco di autorità, che mi riviene — di qui a cento anni: la Crusca non ha furia, ed io meno di lei.
Lelio Griffoli.
Ora rechiamoci al palazzo Griffoli: se messer Lelio nei suoi giorni più gai metteva spavento, figuriamoci che demonio incarnato doveva parere adesso gonfio, impolminato, tutto intriso di sangue: volevano spogliarlo; con la gamba sana tirò calci, volevano metterlo a letto; morse cui prima ne fece la proposta; rifiutò ogni refrigerio, cacciò via tutti; sola trattenne la Fulvia, la quale rimase con inestimabile disgusto, però senza paura, stantechè sapesse il suo marito senz'armi, ed a cagione della gamba offesa egli non si potesse movere.
— Chiudete gli usci, Fulvia.
— Ecco chiusa la stalla dopo fuggiti i buoi, vale il pregio davvero fare misteri in casa quando siete ito a bandire la vostra insania in mezzo di strada.
— Fulvia, deponete il pensiero di abbindolarmi: se le vostre ree opere, i vostri costumi diventarono tali, che senza vituperio non può sopportarli un gentiluomo onorato....
— Silenzio, uomo indegnissimo! In che e come puoi tu accusarmi? In che ti mancai? Dove ti offesi? Se qui al tuo cospetto mi trovo femmina, e sola, non pigliarne baldanza perchè con queste mani basto a pigliare di te la vendetta, che mi persuade l'offeso onor mio; e poi pensa, che sei fratelli miei giustamente irritati dello scempio che meni della reputazione di casa Piccolomini, in meno che tu reciti un Credo, ti possono nel tristo tuo corpo far tanti fori da rassomigliare un vaglio. Ricòrdati, sciagurato, del Papa mio cugino; la mia fama è sua: costuma a Roma tagliare la lingua ai calunniatori.
— A Roma può darsi; usa altresì assassinare gl'innocenti; a Siena corre lo andazzo di esporre a lunghe agonie le mogli impudiche; la Pia informi.
— Ma, stupido uomo: puoi tu dirmi di che ti duoli?
— Di che mi dolgo io? Vedi ve' la immacolata coscienza; e netta! E ignoro forse il continuo attenderti fin su l'uscio, quando vai fuori di casa, quel tuo drudo Paride Bulgarini? Non grida la città intera a quel suo scandaloso seguitarti da per tutto: del vostro incontrarvi in chiesa come a posta di amore, dei guardi protervi, dei sorrisi sfacciati, la gente dabbene non ne vuole la vita.... continui messi da una parte e dall'altra, corrotti i servi, me ludibrio in casa e fuori... e di' rea femmina puoi negare, che qui, poco anzi, in casa mia, sotto il tetto dei miei padri, ricevevi una vile mezzana, la quale col pretesto di non so quali trine mandava cotesto tuo Paride per concertare teco nuovi tradimenti all'onor mio?
— Uditemi, messer Lelio, e vergognatevi se potete: tutto quanto avete detto per iscoprire marina è vero, tranne una cosa, il mio consentimento; anzi tale e tanto è il fastidio, che io sento della disordinata persecuzione di cotesto insensato giovane che non vi ha cosa al mondo, che io non fossi disposta a fare per liberarmene, bene inteso senza danno della mia reputazione e della mia coscienza; vera la donna mezzana, vero il pretesto delle trine; ma voi non sapete la collera, che m'infiammò alle proposte bieche, e lo urtone che io diedi alla malcapitata nel petto, ond'ella stramazzò per terra, e le trine andarono sparse sul pavimento. Se io non temessi di mettere a troppo dura prova la vostra cortesia come gentiluomo, e la fede, che come marito voi mi dovete, vorrei che mi credeste addirittura; pure se parvi onesto voi potete cercarne la testimonianza della Caterina, la quale è donna vecchia di casa e privatissima vostra. Se di ciò non vi feci motto, Lelio, egli è perchè precipuo custode dell'onore della donna ha da essere la medesima donna: ed io, la Dio mercede, mi sento oggi come sempre di provvedere ai casi miei, e poi perchè la femmina prudente deve rifuggire in simili faccende gli uomini, i quali tumidi di orgoglio non dubitano di mandare con omicidi e con ferite sottosopra le città e le famiglie: ed io vi confesso, che giammai vi avrei detto un motto di ciò, laddove non fosse accaduto, per vostra colpa, lo scandalo pubblico, con quanta reputazione di voi, ed augumento della integrità mia, lascio considerarlo a voi stesso: spero, anzi vado convinta, che l'avvertimento di questa mattina basterà senz'altra provvisione. Se contro l'aspettativa mia non fosse sufficiente, allora o ce ne andremo in villa o meglio ci recheremo a Roma per tòrre a me questa molestia dintorno, a voi la causa di gelosia indegna quanto affannosa.
— Io vi ringrazio, Fulvia, e se non fosse, che la gamba offesa me lo impedisce, io vorrei inginocchiarmi dinanzi a voi: che mi parlate di testimonianza? Per me; che Dio me lo perdoni, credo più ad una paroletta vostra, che agli Evangeli dei quattro evangelisti. State tranquilla; invece d'incomodarci, io vi assicuro di mandare questo Paride Bulgarini in paese tanto lontano, che voi non ne udrete da ora in poi più novella.
— Ch'è questo, Lelio? Io capisco vie più, che voi con parole non significate... per vostro governo io vi dichiaro espresso, che dove vi attentaste a torcere pure un capello al Bulgarini io vi detesterei.... mi adopererei a sciorre il mio matrimonio con voi.
— E sì e sì che tu mi ami, fellona nata per la perdizione dell'anima mia; or di' su, se non ti garbasse l'amore del Bulgarini, o che ti avrebbe a premere di lui? Che ti fa ch'egli stia sopra terra o sotto? Così da lui non avresti più briga nel mondo....
La Fulvia fece spallucce impazientita, e rispose poi:
— Di qua, ma al mondo di là pensate mai, Lelio? — Alle corte, voi siete tale fantino, che con voi non si vince nè s'impatta, io vi giuro da gentildonna di onore, che se mettete una mano addosso al Bulgarino io lo paleserò al Papa, e chiamatemi bastarda di casa Piccolomini se io non vi rendo il più tristo uomo, che viva adesso sotto la cappa del sole.
— Non andate su i mazzi, via: io non gli porrò le mani addosso.
— Giuratemelo da cavaliere onorato.
— Ve lo giuro da cavaliere di onore.
— E giuratemi altresì, che anco per via indiretta vi asterrete da qualunque oltraggio, ferita o percossa.
— Ed anco questo giuro.
— Or bene, adesso attendete a guarirvi, sicchè in breve possiate accompagnarmi a Roma, che mi pare mille anni di levarmi da tanto travaglio.
Così dicendo partiva: non potevano per anco essere passati cinque minuti da quando ella lasciò la camera di Lelio, che questi chiamata la Caterina se la fece sedere al fianco, e con voce blanda le disse:
— Caterina, tu sei vecchia di casa mia; tu mi fosti sempre fedele, i miei ed io sempre amorevoli a te; già l'onore mio si può dire l'onore tuo: ora parlami schietto come faresti davanti a Dio, e non temere d'indiscretezza, sai! che chiamarmi segreto come il sepolcro gli è piccolo paragone per me. Dimmi dunque come la è passata stamani la faccenda con la mezzana del Bulgarini? Che le riportò questa, e che le rispose la Fulvia? Quali concerti presero? Dove stabilirono trovarsi? Era la sesta o la dodicesima volta ch'ella ci veniva? Dimmi, e fa di ricordartelo bene: udisti rammentare la Tofano? il nome della Spera fu pronunziato da loro? Parlarono di acquetta? Ma perchè non rispondi.... non hai risposto ancora? Ti penti eh? L'hai avuta la imbeccata? Ti farò parlare al corpo di Cristo....
— Gesù mio! che cosa mi tocca a udire! esclamò la Caterina turandosi con gl'indici delle due mani le orecchie....
— Parla, strega, ti dico.... parla.
— Signore benedetto! come posso rispondervi io se favellate sempre voi? Ascoltate; e qui prese a raccontargli il caso della Betta appuntino come glielo aveva esposto la Fulvia, e com'era di fatto.
Lelio si arrabattava, pareva preso dalla colica; che cosa avrebbe fatto costui scoprendosi vituperato non si sa, se tanto insaniva nel sapersi riverito. Finalmente con una faccia, che pareva Longino, interrogò la Caterina, che gli tremava davanti come una vetta:
— Di' su, credi in Dio?
— Ma che diavolo vi mulina per la testa stamani? Non vi sarebbe mica entrato satanasso in corpo?
— Portami qui la immagine di Dio.
— Dove l'avete? In casa io non ce l'ho mai vista.
— Via, un Crocifisso, egli è lo stesso.
— Ecco il Cristo....
— Di' su, Caterina, ne hai paura di Cristo?
— Io? No davvero: io lo amo con tutto il cuore, e così confido che mi abbia ad amare anco Lui.
— Dunque se non ne hai paura non fa al caso. Peggio sarebbe santa Caterina da Siena: siete tutte donne, e tra voi vi reggete: vien qua, di':
— Giuro.
— Giuro.
— Per l'anima mia.
— Per l'anima mia.
— Per la mia eterna salvazione, e se spergiuro possa ardere in perpetuo anima e corpo senza consumarmi mai; il mio cuore e le mie viscere stracciate in brandelli per essere subito ricucite insieme, a fine di lacerarle da capo, possa in tutte le cavità del mio corpo essermi colato piombo strutto, tormentata dalla fame, dalla sete, dal sonno.... Qui si fermò col fiato grosso come persona, che abbia salito di rincorsa l'erta di un colle, e la donna era andata ripetendo fino a questo punto tutte le enormezze, ch'egli aveva profferito: fatto punto ad un tratto conchiuse:
— Or be', per tutte queste cose giurami avermi confessato la vera verità.
— Lo giuro.
— Mi fiderò.... ora va.... e mandami Ciriaco.
A Caterina non parve vero sentirsi licenziata, tanto le s'era mosso il ribrezzo addosso; ma, quando meno se lo aspettava, ecco sente richiamarsi da Lelio, che le dice:
— Via parla libera, me l'hai tu detta la verità? Bada! sei sempre a tempo a salvarti l'anima. L'offeso son io; io ti do la quitanza, però all'arcangiolo Michele cesserebbe il diritto di proseguire contro di te al Tribunale di Dio la querela di falso testimonio.
— Vi ho a dire una cosa, lustrissimo signor padrone, io credo, che invece di darvi tanti pensieri del Rosso per l'anima altrui voi fareste pur bene a provvedere un po' più alla vostra.... Io vi ho detto la verità, e parmi ci avreste dovuto provare piacere, ma voi cercate il male per medicina; pregate Dio di non trovarlo quale vi meritate: io mangio il pane vostro non la vostra cenere; voi fareste scappare la pazienza a Giob; se così vi quadra, e voi tenetela, altrimenti rincaratemi il fitto.
E se ne andò sbatacchiandosi l'uscio dietro; dopo lei venne Ciriaco: brevi le parole e sommesse, accompagnate da gesti rotti e da sguardi furtivi: indi a poco Ciriaco conchiuse: Ho capito! — E recatosi nella stalla sellò un cavallo mettendosi senza indugio in via; a mezzo la contrada, essendosi imbattuto nella Fulvia, che tornava a casa, questa gli domandò:
— Dove vai con tanta prescia?
— Io me ne vado a Roma.
— E non per acquistarvi la indulgenza. Bada, Ciriaco, colà adesso tira un vento di forca, che consola; — e le massaie dai campi hanno raccolto la canapa.
— Gran mercè del buon viaggio, ma non dubitate, padrona, io ci vo per un'opera di misericordia corporale: sono arrivate novelle, che al povero babbo mio sia cascata la gocciola; però, se prima che ei muoia io voglia rivederlo, bisogna che mi affretti.
— Mi pare, anzi sono certissima avere inteso dire, che tuo padre t'insegnò la via del paradiso montando la scala della forca, venti anni fa.
— Giusto, proprio come dite voi.
— O dunque?
— Voi sapete, che tutti noi abbiamo come cattolici due padri: già due padri; non ci è che ridire, uno spirituale, e l'altro corporale: lo spirituale, vale a dire il compare, ebbe la disgrazia d'incappare in un nodo scorsoio, ma il corporale, vale a dire quello che mi diede di certo il nome, e forse la vita, adesso è giunto al confitemini, ed io vado a dargli la consolazione di chiudergli gli occhi in pace.
— Dio faccia, che sia come tu dici, e in questo caso san Giuliano[3] ti mandi la buona ventura nel tuo viaggio.
La Betta avvilita non aveva balìa di comparire per città a giorno chiaro; e siccome ogni giorno più sentiva il bisogno di andare in chiesa per raccomandarsi a Dio, così furtiva ci si recava per udire la messa innanzi che sorgesse il sole, e dopo tramontato a recitarvi i paternostri verso l'un'ora. — Certa sera, tornando a casa, vide presso gli scalini di casa un capannello di persone, onde ella ne pigliò sospetto, ed alquanto sostò; fatta poi accorta dalle voci, ch'ell'erano donne della contrada con le quali aveva usanza si attentò farsi oltre; e quelle la salutarono con la solita amorevolezza, per la qual cosa la povera donna compunta rispose:
— Dio vel rimeriti, sorelle mie....
E poichè esse continuarono i loro colloqui mentre passava, ella udì certa femmina, cui appellavano l'avvocata, per la facile parlantina, che diceva:
— E per tornare ai nostri montoni, questo fisico famoso ci è venuto da Roma dove medica gente, che va per la maggiore, cardinali, prelati ed altri pezzi grossi; affermasi talora lo consulti anco il papa quando gli dà noia il catarro: non vi ha male per quanto incancrenito egli sia, ch'ei non guarisca in meno che non si recita un rosario: possiede poi un'acqua.... un'acqua che fa la mano di Dio a chiunque la beva: affermasi l'abbia inventata niente meno che un santo.... mi pare san Niccolò di Bari....
La Betta drizzate le orecchie non perdeva sillaba del discorso di costei; e sembrandole, che la Provvidenza le mandasse nella sua misericordia questo aiuto davanti, voltatasi a un tratto interrogò la donna:
— Carmina, vorreste farmi una carità fiorita?
— Due, Betta, se posso.
— Oh! sì che lo potrete molto agevolmente, Carmina: io vorrei che mi additaste dove potrei rinvenire questo benedetto dottore.
— Voi siete nata vestita; voi non avrete a sconciarvi per trovarlo; il fisico che io vi ho detto alberga qui presso, in questa stessa contrada nella locanda dell'Àncora di Oro; chi lo ha visto, e ci ha parlato, me lo assicura tanto benigno, che per lui non ci è pasto, o sonno che tenga, sempre parato a soccorrere chi patisce, massime noi altra povera gente.
La Betta tolto commiato dalle donne, non senza avere prima profferto grazie alla Carmina, se ne andò difilata alla stanza del fisico romano; ci arrivò su le due ore di notte; e siccome costui non si era messo a giacere, e le visite lo avevano lasciato libero, così senza indugio fu fatta passare. Difficil cosa ci è ritrarre questo alunno di Esculapio, imperciocchè ci comparisca davanti di notte; dalla lucerna emana scarsissima luce, a moderare la quale una ventola di taffetà verde l'è messa dintorno: arrogi una parrucca arruffata a riccioloni, che gl'ingombra le spalle, e gli casca sul petto a guisa di stola; di più a cavallo al naso porta due occhialoni con le lenti larghe come uno scudo, legati in osso di balena, i quali eziandio ai giorni della gioventù nostra abbiamo visto stringere spietatamente il naso delle ave nostre, tuttavia conosciuti col nome di occhiali di Roma: del rimanente pallido in faccia, bernoccoluto, duro; le mani rugose, venose, piuttosto convenevoli a villano che a chi fa professione di arte liberale. A giudicarne dal dardeggiare delle sue pupille verso la porta, per iscorgere chi entrava, si sarebbe detto, che cotesti occhi di falco non avessero mestieri di aiuto, ma l'apparenza inganna; parve altresì, che alla vista della Betta esultasse, che la riconoscesse e movesse le labbra per salutarla; poi si tenne aspettando che la sopraggiunta favellasse. Betta, dopo le più umili salutazioni che ella seppe fare, incominciò:
— Molto magnifico signor mio, dopo la Madre dei dolori non credo sia stata al mondo donna più spasimata di me; io vengo a voi come a persona, che dopo Dio può dare un po' di refrigerio alla tribolazione che mi travaglia......
— Parlate libera, donna mia, che noi altri faremo quello che potremo; li santi, non ci è che dire, possiedono soli la virtù di operare li miracoli, ma anco noi altri qualche cosa possiamo.
— Vorreste voi venire a visitare il mio figliuolo?
— Non impreme per ora, raccontatemi in dove si duole.
E qui la Betta minutamente, a parte a parte narra le infermità di Paride, la vigilia pressochè continua, il sonno affannoso, breve ed interrotto, la luce odiosa, ogni leggero strepito potente a commoverlo da capo a' piedi, abborrimento al cibo, inestinguibile la sete; la voce varia ora acuta ora cupa; un vaneggiare frequente; sospiri profondi, e incessanti così da logorare un petto, che non di carne, bensì di bronzo si fosse; un deperire ad occhio, un subito trapasso dalla tenerezza al furore; chiuso nei detti, più che con altro esprimere il suo affetto col celere e veemente stendere, e chiudere le dita delle mani. Il fisico romano tutte le quali cose udite, senza neppure pensarci, esclamò:
— Poffare Dio! Se questo non è amore, io non so che mi sia.
— Pur troppo voi vi siete apposto alla prima.
— Ma ci credo anch'io! Adesso sentitemi; a malattie di simile natura dopo la mano del Signore non si trovò medicina che giovi più di quella, che mandare il malato in paesi lontani....
— Ahimè! sospirò Betta nel presagio di aversi a stare alcuno spazio di tempo separata dal suo Paride.
— Cara mia, ci vuol coraggio, e poi chi ha fede si rivede: il punto adesso sta nel ristorare le forze del vostro figliuolo, ond'egli possa mettersi in viaggio; e questo vi prometto in breve; non vo' speranzarvi da un minuto all'altro, ma fra due giorni, o meno vi assicuro averlo allestito da condurlo fino al Cattajo, per mare o per terra, senza che ei se ne risenta....
— Oltre le benedizioni, che vi manderò finchè io viva, voi ne avrete premio di cui vi chiamerete contento.
— Oh! questo non monta; noi altri operiamo sempre per il bene della umanità. Ecco qua, aggiunse il medico levandosi da sedere, e andato a prendere ad un armadio certa boccetta contenente forse un bicchiere di liquore limpidissimo affatto simile all'acqua; ell'appariva ottimamente chiusa con una carticina impastata davanti dove si vedeva ritratto un vescovo con la sua brava mitra e il pastorale, e sotto a quello leggevansi le parole: Manna di san Niccolò di Bari; il medico mostratala a Betta aggiunge: — Ecco qua san Niccolò, roba santa ella è, dunque non può fallare. Adesso ascoltatemi: voi farete una mulsa dove metterete miele vergine in abbondanza, e se ci volete anco sbattere un uovo non sarà male, come non farà peggio se ci scotterete due o tre chiodi di garofano: quando lo infermo chiederà da bere, e lo chiederà spesso, per ogni bicchiere di mulsa, potete metterci da otto o dieci gocciole della manna di san Niccolò, e mirerete il miracolo: sopra modo poi vi raccomando operare queste cose segretamente, senza che lo infermo ne sospetti nè meno: ciò potrebbe guastare la cura: voi incomincierete quando vorrete, ed anco subito; e questo mi parrebbe il meglio prima che la infermità pigli maggior piede.
— Voi siete il mio salvatore; mi pare mille anni di provare: ora ecco, scusatemi, accettate questi due scudi che mi trovo avere allato; io non pensava venire da voi; ma se il mio Paride guarisce io vi ripeto, che non istarà per me, che voi non vi diciate soddisfatto....
— Vi aveva pur detto, donna mia, che me non muove fine di lucro: tuttavia mi repugna mortificarvi; io accetterò questi scudi per farne dire un paio di messe in suffragio.... voleva dire per la salute di Paride.
Betta tornossi a casa, che pareva avere le ali; se non fosse stato tardi si sarebbe messa a cantare: prima si fece ad augurare la buona sera a Paride, il quale la rimproverò di averlo lasciato solo, ed ella:
— Come solo? O non ci era Filippa? Non la Girolama? Non Laparello?
— Sì, ci erano, ma quando non ci sei tu, mi sembra essere solo.
— O caro, risponde Betta, abbracciandogli il capo e stringendoselo al seno: fatti cuore, io mi trattenni a pregare Dio per te, il quale ho supplicato tanto, che confido mi abbia esaudita.... vedrai.
Subito in cucina, dove mise tanto carbone ad ardere, che ce ne sarebbe avanzato per arrostire un bue, e perchè accendesse più presto ci soffiava da scoppiarne le gote, senza curare della cenere, la quale le andava ad insozzare la faccia e i capelli. In breve la mulsa fu lesta, e tutta festosa, come fanciulla che vada a nozze, Betta la portò a Paride, che per la nuova assenza, e per la sete taroccava: egli la prese, e di un tratto la buttò giù:
— Buona!
— Ma ci credo, che sia buona, ripetè orgogliosa la Betta.
Povera Betta prima di porgerla al suo dilettissimo figliuolo ci aveva versato la manna di san Niccolò: anzi la dose assegnatale dalle otto alle dieci gocciole sembrandole poca ce ne versò dodici. — Contenta più di una Pasqua per la buona accoglienza incontrata, chiese ed ottenne tornarsene in cucina ed ammannirne un'altra. — Era cosa da strabiliare, vedere la Betta correre su e giù, che tanto non avria fatto un capriolo, garrire, mettere le mani da per tutto, e per la prescia, contro il consueto, non ripulire gli arnesi e rimetterli al posto. Questa volta ne fece per quattro bicchieri, avvisando, che sarebbe bastata durante la notte. Ricondottasi in camera, lui richiedente, gliene porse un secondo bicchiere, poi curvata la persona con le mani incrocicchiate si abbraccia i ginocchi, sporgendo la faccia verso Paride per contemplarne i moti lievissimi del volto. Mentre piena di ansietà aspetta vederselo trasformare sotto gli occhi, rifiorirne le guance, e l'alma salute versare a piena mano i suoi tesori su quel caro capo, con terrore infinito lo vede farsi colore di cenere, pigliare la faccia aspetto di cadavere, attenuarsi le narici, infossare gli occhi, incavarsi le tempie: tremare le labbra convulse, tutta la pelle incresparsi fitta fitta come nell'agonia degli uomini, ed anco degli animali bene spesso succede: indi a momenti il sudore piovergli giù dalla fronte in tale una copia, che pareva che piangesse; di subito ecco con voce rantolosa gemere:
— O Dio ardo, Betta, mi piglia fuoco la gola; acqua, subito dopo grida, acqua. — E la Betta in piedi acqua cerca, acqua gli porge non senza prima versarci nuova dose di manna di san Niccolò per amore di calmarne le angoscie: ma quelle andavano aumentando: di corto il veleno si palesa nella sua terribile potenza, avendo trovato il corpo debole, e mal disposto vi si apprese come la fiamma alle legna secche, ecco mutare la immobilità in agitazione, Paride si voltola per il letto mugolando, straccia co' denti le lenzuola, si aggrappa con le mani alle colonne del letto, tira calci frequenti più che non fa il marinaio cascato in mare in procinto di annegarsi; urla il nome di Dio e dei santi, chiama in soccorso i congiunti morti e vivi; maledice la Fulvia causa di ogni infortunio, mostra pentirsi poi, torna a maledirla, finalmente ogni cara affezione si spegne, e prevale esclusivo l'odio nel suo aspetto più terribile. Il veleno prosegue la opera della distruzione, la faccia del misero giovane, da cenerina, ch'ella era, piglia il colore violaceo, indi con subita vicenda nera; gonfia qua e là di vesciche: davvero era una rincorsa spaventevole alla distruzione. Con disperato progresso dalla bocca piglia a colare un'umore viscoso di odore insopportabile; dopo cominciano i conati al vomito accompagnati da singulti da schiantare la gola; appena cessato il vomito cominciano le deiezioni alvine di cui la fetidezza ammorbava.
Tali, e più tremendi ancora gli effetti dell'acqua tofana, così appellata perchè certa mala femmina nata a Palermo la trovò; ella si conobbe distinta anco col nome di acqua di Perugia; comunemente dicevasi acquetta, perchè limpidissima; da Palermo la strega si recò a Napoli, dove assai si adoperò nella tetra sua arte, ed istruì alcune, le quali la propalarono da per tutta Italia massime a Roma: sovente la cupidità dava mano a cotesto veleno, ma più spesso l'odio e lo amore; nati a un parto come Esaù e Giacobbe di cui l'uno nascendo agguantava l'altro pei piedi, ed anco un po' come Eteocle e Polinice s'è pur vero quanto ci raccontano i vecchi libri, vo' dire, che eziandio nel ventre di Giocasta si azzuffassero. Parecchie mogli diventate moleste ai mariti sparivano, ma due e tre cotanti più erano i mariti, che di mala morte cessavano. — E' sembra, che le donne, in tutto il resto, bene intesi, amabilissime creature, quanto ad avvelenare ci abbiano un genio proprio speciale; difatti a Roma andò celebre la Locusta ai tempi di Nerone, in Francia la Brinvilliers, vera provvidenza degli eredi impazienti, a benefizio dei quali inventò la polvere di successione; e fo punto[4]. — La più celebre allieva della Tofana si chiamò Spera, la quale (orribile a dirsi!) tenne scuola frequentata da giovani mogli (uomini l'avvelenatrice non voleva) che certo non appresero il mestiere indarno, sicchè Roma andò funestata da strane morti: e tanto si sparse intorno il terrore, che il governo di papa Alessandro VII attese con ogni sottil diligenza a scoprire la congiura, e ci riuscì con molta sua lode. La Spera alunna della Tofana e come lei siciliana con quattro altre complici finì strozzata, e non ebbe il suo avere. Intorno alla morte della Tofana corre diverso il grido: taluno afferma, ch'ella si riparasse dentro un convento, dove traeva vita santissima da edificare le compagne; però tanto non seppe infingersi, che gli occhi acuti di un bargello non distinguessero sotto le vesti della recente monaca l'avvelenatrice antica; onde, quinci tolta, e processata, dopo avere confessato, che ben seicento persone per opera sua ebbero la morte pagò le debite pene; altri poi narra, che nel convento ella finì la vita lasciando esempio imitabile di virtù ed odore di santità da sentirsi pel paese quattro miglia lontano.
Intanto tutti i servi di casa Bulgarini, e non pochi del vicinato, tratti dal rumore degli omei, eransi raccolti nella stanza di Paride; tanti capi, tanti pareri, chi, secondo gli umori, voleva, che innanzi ogni altra cosa si pensasse all'anima e si mandasse pel confessore, chi all'opposto si provvedesse al corpo e si cercasse il medico, e chi il notaio per acconciare gl'interessi del mondo, chè a quelli dell'altro Dio ha destinato la eternità per pensarci due volte ed assettarli a bello agio. I rimedi proposti vari e stranissimi; ognuno, o per dire meglio ognuna, sosteneva a spada tratta il suo, sicchè vennero a lite fra loro; e' fu mestieri transigere accettando un po' da tutte; così preso un piccione, e tagliatolo in mezzo lo adattarono al povero infermo come cuffia sul capo, ebbe senapismi ai piedi, fomente al ventre, cristei, per bocca acqua calda e olio; poi il lumen Cristi sul seno; l'ulivo benedetto su la fronte; abitini un diluvio; le goccie di san Tommaso di Aquino, le quali, per dire la verità, in cotesto caso facevano proprio la figura del Soccorso di Pisa, s'è pur vero, che san Tommaso morisse per lo appunto avvelenato. Dopo un tafferuglio da non si dire, tre persone corsero in tre parti per chiamare confessore, medico e notaio; quindi subito fu spedito la quarta per avvisare il fratello di Paride, Lattanzio con raccomandazione, che venisse via a rotta di collo se pure intendeva vedere vivo il fratello. — Primo accorse il prete con tutti gli arnesi del suo mestiere, il quale messa subito la mano ai ferri incominciò dalla confessione; ma lo infermo comecchè fosse più nel mondo di là, che di qua, mostrò disgusto per cotesto ronzío, che il prete gli faceva nelle orecchie da parere più che altro un moscone dentro un fiasco; allora lo tenne per confessato, e passò alla comunione; nè in questa il prete fu meglio avventuroso, chè il vomito incessante non gli concesse il destro per introdurgli in bocca l'ostia consacrata: indizio pessimo per alcune comari, le quali dopo cotesto caso si allontanarono, giudicando lo infermo al tutto sfidato; imperciocchè tenessero per sicuro, che se ci entrava l'ostia avrebbe fatto perdere la virtù al veleno come si era altre volte veduto. Sopraggiunse in cotesto frattempo il medico, il quale per far presto si era vestito correndo per la strada, che era a vederlo una pietà: tolto subito un lume lo accosta alla faccia del moribondo, nè parve nè anco un momento perplesso intorno alla indole del male: tra spaventato, e affannoso si volge agli astanti e domanda:
— Chi aveva in cura questo infelice?
— E chi altri se non io? rispose Betta.
— Che cosa gli avete voi ministrato?
— L'acqua miracolosa del medico romano.
— Quella, che aveva suggerito io, mormorò sommesso una comare comparsa nella stanza per amore di curiosità e di confusione.
— Ecco qua la guastadetta, continua la misera donna, vedete egli ne ha bevuta appena la metà.
La vide il medico, lesse la leggenda: Manna di san Niccolò di Bari e compreso di orrore esclamò:
— Avvelenato! — Iniqua femmina.... tu l'hai avvelenato....
La Betta proruppe in un urlo che straziò le orecchie, e più il cuore a quanti lo udirono, con una mano si svelse una ciocca intera dei suoi capelli grigi, con l'altra strinse la maladetta guastada, e fuggì via come persona diventata per subita mattezza vesana. Ogni rimedio parve inutile al medico, pure lo tentò, ma lo stato dello infermo andò di mano in mano peggiorando, sicchè sul mettersi del dì egli si era condotto in extremis. In cotesto punto si affacciò su la porta il fratello Lattanzio, il quale, passando a respirare dal vivido aere cotesta atmosfera tetra e pestifera, balenò su la soglia per cadere: riavutosi alquanto, corse diritto alla finestra e la spalancò. Il sole sorgente ci versò un fascio di raggi i quali precipuamente illuminarono il letto, lo infermo e ogni altra cosa. Orribile vista! Nulla più presentava di umano il misero giovane, quanto rimaneva era informe carne putrefatta; Lattanzio stette come impietrito, ma Paride, o sia che lo improvviso colpirlo della luce suscitasse in lui la estrema scintilla della vita, o sia, come per ordinario avviene alla creatura prossima a finire, che sembra farsi indietro nella vita per pigliar campo a dare il tuffo nella morte, fatto sta, che aperti gli occhi riconobbe Lattanzio, e con voce maggiore di quella, che pareva consentirgli il suo misero stato susurrò:
— Fratello! Ti lego la mia sostanza e la mia vendetta. La Fulvia mi ha avvelenato.
E più non potè dire: un singulto gli troncò la parola e la vita. Per consiglio, anzi per ordine espresso del medico, fu ordinato che senza perdita di tempo il corpo o piuttosto i miserandi avanzi del corpo di Paride si ponessero dentro una cassa di quercie piena di calcina forte, ed occorrendo, la prima con una seconda cassa si fasciasse come invero fu fatto. Osservarono, ed anco questo diede novella prova dello avvelenamento, come nel levare il cadavere dal letto per metterlo dentro la cassa lasciasse la massima parte dei capelli sul guanciale, e gli cascassero le unghie dalle mani diventate nere. Essendogli stato rinvenuto il testamento sotto l'origliere, si notò, che di veruno dei tre accorsi tornarono utili gli uffici; così la va pur troppo, mentre un uomo solo può far male quanto vuole, ed anco più di quello che vuole, una moltitudine di uomini si trova inetta a ripararne la minima parte, ed anco questo si chiama provvidenza.
Non invitato era comparso un altro personaggio, ed era il bargello, che avuto fumo della cosa venne a pigliare notizie per informarne il Magistrato degli Otto; non ci fu mestiero argutezza, per mettere la mano sul filo della matassa: la Betta aveva la chiave di ogni cosa: dov'è la Betta? Chiamisi la Betta. Si fruga, si rovista, mandasi fuori, e da per tutto si cerca, tranne nel luogo dove sembrava più facile rinvenirla, in camera sua. Andarono, trovatala chiusa, di uno spintone scassinarono l'uscio. Betta giaceva morta sul pavimento accanto ad un inginocchiatoio; erano in lei meno gagliardi, pure tutti i segni di veleno come in Paride: di fatti sopra lo inginocchiatoio appariva la guastada della Manna di san Niccolò di Bari vuota fino all'ultima goccia; cadendo riversa l'era schizzato fuor della tasca del grembiale uno stiletto, che fu riconosciuto appartenere a Paride.
.... Betta giaceva morta sul pavimento accanto ad un inginocchiatoio; (Pag. 78.)
Dietro alquante lievi ricerche si venne a sapere come Betta, quando sparve dalla camera dopo le parole fiere del medico, fattasi a certo stipo ne cavasse fuori un pugnale, riponendovi in vece e chiudendovi a chiave la caraffa dell'acqua tofana; poi uscì correndo. Recatasi all'albergo dell' Àncora di oro domandò del medico romano, e dall'oste le fu risposto con una carta d'improperi contro cotesto farabutto, che appena ella aveva sceso le scale egli le aveva tenuto dietro, ed essi avevano creduto la seguitasse a casa per visitare lo infermo; ma sendo scorse parecchie ore della notte, senza vederlo tornare, saliti nella sua camera avevano veduto, come l'assassino avesse loro lasciato in pagamento la valigia piena di paglia e la parrucca di cui compariva incamuffato; male patendo la beffa, e il danno, essersi l'oste condotto fino alla porta Romana per domandare alla guardia se avesse visto passare gente, e la guardia avere risposto, che sì, ma verso la terza ora di notte, e volere adesso rincorrere l'uomo, il quale, a quanto sembrava, buon cavallo aveva sotto, egli era come andare a mettere un pizzico di sale su la coda di una rondine. Allora la Betta si ridusse a casa; chi l'avesse vista, per certo avrebbe detto: costei porta la morte in seno; riaperse lo stipo, prese la guastada della mortale acquetta e con essa in mano si chiuse in camera.
Pare, che suo intendimento fosse uccidere prima il medico traditore, poi sè forse di ferro: mutò pensiero, e le piacque procurarsi morte uguale a quella, onde periva il suo Paride. Dimenticò rimettere al posto il pugnale, chè altra cura la tribolava: s'inginocchiò davanti la Beata Vergine, pregò per Paride, per tutti e per sè, con molte lacrime chiese perdono di quanto stava per commettere, confessò a Dio padre le sue peccata, e per ultimo bevve tutto fino all'ultima stilla l'acqua tofana; nè si rimase dallo stare genuflessa, finchè gli atroci dolori di visceri non la costrinsero a contorcersi convulsa sul pavimento. Quivi spirò supplicando a vicenda ora la Madonna ed ora Paride.
Povera Betta! — Povera Betta! Aveva tanto cuore la povera Betta.... ah!
CAPITOLO III. La Resurrezione.
Lelio sempre malconcio del solenne cimbottolo, che aveva tombolato, stavasene tuttavia in casa dove costringeva la Fulvia, contro sua maladetta voglia a tenergli compagnia. A cotesti colloqui presiedeva lo sbadiglio nei dì di festa; in quelli di lavoro la meno trista passione che ispirasse cotesti due coniugi era l'odio: ogni parola portava seco il pungiglione, trafiggevano tutte, la diversità consisteva nella punta più sottile o meno, tra lo stiletto e l'ago; se non così quelle di Lelio, allora fastidiose, e sazievoli fino alla morte; quando ei favellava pareva a Fulvia avere un sassolino entro una scarpa, un bruscolo nell'occhio, una zanzara allorchè piglia a bersaglio il naso di un galantuomo, ovvero il ronzío dello impronto moscone dentro l'orecchio: e chi più sa più ne metta. O che giocondo vivere in matrimonio quando i coniugi riposano la testa sopra un guanciale, che ognuno dalla parte sua ha ripieno di desiderio di scambievoli e cordiali accidenti apopletici, ovvero epilettici non monta. — La sera stessa, che successe il caso del Bulgarini, questi due sposi stavano, secondo la usanza, a lacerarsi gentilmente, quando di un tratto fu udito un fischio acutissimo; Lelio si scosse, ed esclamò:
— Ha da essere Ciriaco, che torna da Roma, e mosse per andargli incontro.
— Proprio gentil maniera! E sopportate voi, che il vostro servo vi chiami a mo', che il bargello costuma gli sbirri suoi?
Ma l'altro non gli rispose che altra cura lo stringeva; egli stesso aperse a Ciriaco, come erano già accordati, per la porta di dietro, che metteva in cucina; appena potè incollare i suoi labbri all'orecchio di lui lo interrogò:
— Ebbene?
— È affare fatto; ma mi è toccato sudare acqua e sangue per trovare un po' di acquetta, che prima si aveva alla mano come l'acqua di Fontebranda; mi rincresce per voi, messer Lelio.
— Per me? Che ha che fare meco l'acqua tofana?
— Eh! riprese Ciriaco con aria compunta, perchè mi toccò pagarla un'occhio se pure ho voluto portarla meco.
— Ho capito; io metto pegno, che più di mezzi tu me gli ha rubati; prega il tuo Dio, che io non lo sappia....
— Ecco, il benefizio non è compito e la ingratitudine incomincia: ma non sapete voi, che il meno, che si arrisica per servirvi gli è il caso di trovarsi arrotato e squartato? Se tutto questo accadesse quando non ci sono io, guà! non m'importerebbe più che tanto, ma il busillis sta, che sono arnesi da farmelo quando mi ci trovo proprio presente, e questo muta specie ed aggrava notabilmente. Ogni cosa invecchia, specchiatevi in cotesta perla di uomo di Francesco Cenci; or sono cinquant'anni, nel quaderno delle sue spese in opere di misericordia scriveva: per le peripezie di Toscanella seimila ducati, e non furono troppi; e voi, io mi aspetto, a vedere fare greppo per mille ducati spesi in una guastada di acqua limpidissima, che era un desio a vederla.
Lelio fece l'atto di cui tocca col dito un ferro, che crede freddo, e poi trova rovente; il boccone era ostico, ma fu mestieri mandarlo giù, onde senz'altre parole interrogò:
— Riuscì pulito il trovato di fingerti medico?
— A capello; e la femmina trasse al brumeggio meglio che non fa il muggine: a questa ora od egli è già partito, od ha messo il piede dentro la staffa.
— A che ora per lo appunto consegnasti la guastada alla vecchia, e che facesti poi?
— Fra la seconda, e la terza ora di notte, uscii da porta Romana, e rientrai per Pispini da Santo Viene; sicchè come potete riscontrare da voi ho corso a staffetta, e giusto adesso tutto polveroso con gli usatti in gamba mi presento a voi.
— Bene sta: hai lettere, o messaggi dei parenti di Roma? Novelle da raccontare?
— Lettere no; messaggi un sacco ed una sporta: quanto a novelle se me ne manca le semino, e le raccolgo in meno che non balena.
— Adesso vieni, che ti presenterò a madonna....
E lo condusse al piano superiore; giunto in sala vide che l'orologio stava per iscoccare le ore quattro di notte, ond'ei lo tirò indietro quasi un'ora, e sottovoce avvertì Ciriaco:
— Non ti maravigliare; ti licenzierò quando l'orologio sonerà le quattro; alle tre ore il medico romano stanziava tuttavia allo albergo, alle tre ore tu ti trovi qui.... capisci! Per ogni casaccio tu nella medesima ora non potevi trovarti in due luoghi.
— Voi dite unicamente: non basta essere nato gentiluomo per pescare di simili acutezze, ma bisogna altresì essere stati, almanco dieci anni, mercanti.
Lelio presenta Ciriaco alla Fulvia molto scusandolo dello arnese in cui le compariva davanti, ed ella lo assolvè di leggeri perchè molto le premeva appagare la sua curiosità, e molto per sollevarsi dalla tetra noia che l'oppressava. Ciriaco espose non avere veduto il papa, bensì saputo dal fratello don Mario, dal figliuolo di lui Flavio cardinale padrone, non meno che da don Agostino nipote, che papa Alessandro quanto a salute ne aveva da rivendere, però di spirito non trovarsi a punto per via dello affronto, che gli pareva avere ricevuto nella pace dei Pirenei, dove non lo avevano considerato nè manco per istrofinacciolo; e pensando, che questo gli era venuto da due potenze per eccellenza cattoliche, la Francia e la Spagna, gli trafiggeva il cuore. Arrogi, che la faccenda tutta era stata negoziata dall'eminentissimo Mazzarino a cui, come cardinale di santa madre Chiesa, non toccava tirare i sassi in colombaia: in Corte mulinarsi grandi disegni contro Parma e Modena a ragione considerate nemiche, sicchè il papa essersi ormai risoluto d'incamerare il ducato di Castro, e volere rimuginare cielo e terra, perchè dal patrimonio ecclesiastico mai più per lo avvenire si separasse. Il cardinale padrone, e don Mario incontrare, secondo il solito, contrarietà grandi per la parte dei primati per invidia, e dalla parte del popolo per le cresciute gravezze come se questo pretendesse vivere a ufo nel mondo, e di un tratto far portare altrui il basto, che natura volle egli solo portasse: ma ormai, potenti per le nozze Borghese, e molto eziandio contando sopra la guardia corsa sotto i comandi di don Mario tenersi bene in sella da non temere scavalcature. Le principesse mandarle mille riverenze e saluti: volerla ad ogni patto a Roma per le feste dei santi Pietro e Paolo, dacchè per le pasquali ella non aveva voluto andare: mal per lei se mancasse, gliene avrebbero serbato il broncio almeno un secolo. Così di parola in parola tirata proprio co' denti, per allungare il discorso, si arrivò fino al battere dell'ora. — Messer Lelio facendo le maraviglie, disse:
— Siamo sempre a buona otta; io credeva che fosse più tardi; l'orologio se non falla ha sonato le tre. Ciriaco tu dal lungo cavalcare devi sentirti le costole rotte; va a riposo, e procura domani di essere levato per tempo.
— Lustrissimo, sì, e la signoria illustrissima di donna Fulvia non vuole farmi l'onore dei suoi comandi?
— Ciriaco, o di tuo padre infermo non hai a dire motto?
— Ah! sì, povero uomo; al mio giungere in Roma trovai, ch'egli si era già partito per quella grande isola, che si chiama Eternità, ond'io non credei prudente per ora seguitarcelo per sapere da lui se gli dava più noia la podagra. Questo sarà per un'altra volta.
— Va, Ciriaco, possa il tuo viaggio non avere avuto peggiore causa di questa: a te ed a cui te lo ha fatto fare auguro riposo, e notte tranquilla.
Era istinto che la faceva favellare così, od era un presagio dell'anima? Come il vaso dove stette custodito l'ottimo vino, sebbene vuoto tramanda odore sfumato, che pure lo rammenta, così l'anima mala, quantunque s'infinga, empie l'aere dintorno di un fluido elettrico, che la rivela.
Il dì seguente, mentre la Fulvia e Lelio se ne stavano nel tinello ad asciolvere, ecco comparire Ciriaco con non so quali carte portate a casa dagli ufficiali della posta, che prese da Lelio, mentre sta leggendole, così alla carlona, domanda:
— Che novelle in città? Sei stato fuori?
— E come non sapete voi nulla? Non vi hanno detto nulla?
— Parla, Ciriaco, instava Lelio fingendosi spaventato, non ci tenere lì sulla corda; accadde disgrazia, che colpisca la mia famiglia, e me?
— No, la Dio grazia; si tratta di un certo Laperini, Luperini, insomma qualche cosa di simile, che va a finire in ini.
— Bulgarini? Forte domanda con voce vibrata la donna.
— Giusto! Bulgarini.
— E che mai gli successe?
— Una spiacevole cosa in verità; ma da ora in poi non gli accadrà più... egli è morto di veleno; corre comune opinione lo abbia avvelenato una serva in cui egli molto si confidava..... sento, che la chiamano la Betta; andati poi nella stanza dov'ella dormiva ci hanno trovato morta anche lei.... chi sa? La disperazione... la paura di trovarsi scoperta.....
La Fulvia, dopo tenuta alquanto la fronte nella mano, saltò su con impeto esclamando: — Non è vero.
— Che! non è vero forse, che abbiano trovato morta la Betta?
— No, che Betta abbia avvelenato Paride Bulgarini: la donna, che allattò una creatura non l'avvelena. — Io credo... spero... temo avere scoperto il reo, o piuttosto i rei di codesti omicidi: Lelio, Ciriaco, guai a voi, se il mio sospetto diventa certezza... voi siete spacciati.
Così dicendo si parte, e lascia cotesti due presi dalla paura per modo, che battevano i denti. Nè per l'uno nè per l'altro cotesto era il suo primo fatto di arme; ma cotesta stoccata diritta, mentre avevano adoperato così sottile cautela a condurre la cosa, proprio nel vero modo in che doveva essere fatta, aveva loro traferito il cuore; onde Lelio guardando sottecchi Ciriaco gli domandò:
— Ciriaco! di quella acquetta te n'è rimasta punta?
— Nè manco una gocciola.
— Tu se' nato sciupione, e morirai all'ospedale. Bisognerà, che tu ritorni a Roma.
— Per andarmene quinci in Piccardia.
La Fulvia si chiude nella sua stanza, e quivi boccone sul letto prende a pensare su la fine di Paride, io dico ella piglia, ma non mica per atto di volontà, bensì condottavi da una forza, che in lei poteva più di lei: certa virtù segreta, le dipingeva nella immaginativa il Cristo del Sodoma flagellato alla colonna; mirava le spine fitte nelle carni, le goccie sanguinose giù per la fronte, e per le guancia, gli occhi ebbri di spasimo, la bocca spirante agonia, e nella mansuetudine divina un rimprovero senza fine atroce ai suoi carnefici; a poco a poco l'agitato pensiero sostituisce alla sembianza del Cristo quella di Paride, che con voce sottile le dice: — Vedi! per te come sono concio? La mia vita fu falciata peggio di fieno nel prato. Per colpa tua io nacqui per soffrire e per morire: di me veruna traccia nel mondo, il sepolcro mi raccoglie intero. E qual mai il mio peccato contro di te? Ti amai troppo; è forse offesa amare? E tu perchè ti mostrasti così fatalmente bella al mio sguardo? E che io domandava da te? Un po' di elemosina di amore, uno sguardo, un detto, che mi consolassero; io fui reo di amarti prima di Dio, tu rea di avermi amato meno di un cane, di non volermi considerare nè manco per prossimo. Ebbene, abbiti la misericordia, che adoprasti; io t'impreco una vita presso cui la morte sia da te desiderata come sollievo; però la morte altro non faccia, che spalancarti la porta della eterna dannazione: sii maledetta in eterno. — La Fulvia tremante come vetta dibattevasi nell'agonia, e con parole rotte supplicava: — «Non maledirmi Paride, della tua morte io non ho colpa; tu sai chi sieno stati i micidiali; se aspettavi un poco io ti avrei amato... ed ora ti amo, caro infelice, con tutte le viscere dell'anima mia, non imprecarmi male; assai mi si volgono amari i giorni della vita; non ti paio abbastanza misera onde tu voglia anco opprimermi col peso della tua ira?» — La immagine di Paride parve non potere resistere allo scongiuro, sicchè con molta passione rispose: — Fulvia, morto o vivo io, te colpevole o no, non posso odiare: io ti perdono.
Pronunziata appena questa parola perdono, ch'è l'ultima, secondochè afferma il Vescovo Isaia Teigner, della favella da Dio parlata alle prime creature sopra la terra, accadde una tramutazione nella immagine di Paride, le spine della fronte diventarono raggi, i capelli pigliano un bel colore di oro su i quali cotesti raggi riverberano, onde il capo di lui comparisce circumfuso di luce, come nell'antica e nella moderna religione effigiaronsi i santi; limpidi diventarono gli occhi, le labbra benigne, tutta la faccia pacata, poi in suono di melodia soggiunse: — Così ti usi Dio misericordia, come io ti perdono. — «Sì che tu mi sarai misericordioso, e solo che tu interceda per me presso sua Madre Santissima, anco Dio mi perdonerà;» e così dicendo la Fulvia sporgeva le mani giunte in atto di fervente preghiera; intanto si sentiva dentro quasi squagliare il cuore; un gruppo di passione le prese la gola e gli occhi, ond'ella diede in pianto dirotto sclamando: — «Misero!... misero!... mi sarà finchè vivo la tua memoria diletta, nè sarò mai quieta finchè i tuoi scellerati uccisori non abbiano pagato le meritate pene.»
E Lelio, che se ne stava con Ciriaco ad origliare alla porta sussurrò nelle orecchie di questo:
— Non ci è caso, bisogna tu vada a Roma per nuova acqua tofana.
— Lustrissimo, non ne facciamo niente: sento di là soffiare un vento di canapa, che mi offende la gola.
— Avverti, Ciriaco, che la canapa sanese gli è propriamente sorella della romana: ora non importa in questo negozio il luogo della nascita, preme evitare la canapa in qualunque parte del mondo sia nata.
Ciriaco soprastette alquanto, e messo l'indice tra ciglio e ciglio, in mezzo della fronte, parve pensare, poi favellò:
— Fiat voluntas tua, bene sta; fornitemi cavallo e danaro e avrete il fatto vostro.
— Ma che dei primi mille ducati non te n'è rimasto davvero nè pure uno?
— Manco la palla di un quattrino.
— Ah! Ma senti, Ciriaco; tu che sei uomo da capire per aria, ed alle cose ragionevoli ti arrendi, devi avvertire, che il primo viaggio a Roma lo imprendesti, e mi costò...?
— Mille ducati tondi.
— Adesso, considera non vai a Roma per conto mio, sibbene per conto tuo; quindi, ecco potresti contentarti di mezzi.
— Voi traffichereste l'olio santo col prete, che venisse a ungervi; se casca un quattrino ai mille, io sto qui murato come i muriccioli del vostro palazzo.
— Bada, sarai impiccato; pensaci due volte, perchè, sai, impiccano una volta sola.
— E voi notate, messer Lelio, che saremo appesi ambedue, e il dì, che ci vedranno pender giù, le genti diranno: gua' la forca si è messa le gioie.
— Ouf! che pena; andiamo, io non vo' guastare la buona amicizia: contentati di cinquecento cinquanta.
— Mai no — mille.
— Seicento.
— Mille.
— Là, dove andò la nave vada il brigantino, settecento.
— Mille.
Non ci fu verso; Ciriaco, che aveva mangiato la foglia non lasciò presa; in Lelio paura vinse avarizia, e bisognò pagare mille ducati di oro del sole: Ciriaco dopo averli ben contati li ripose nella cintura, e disse sarebbe partito il giorno vegnente: tuttavia, pensandoci su mentre la famiglia pranzava, sellato alla chetichella un cavallo andossi con Dio, o piuttosto col Diavolo; dove s'incamminasse ignoriamo, basti tanto, che qualunque via abbia tenuto riuscì allo inferno: certo a Siena non comparve mai più.
Alquanti giorni dopo siffatti casi Lelio e la Fulvia stavano insieme senza mutare parola: il primo trastullavasi con i bottoni del giustacuore ad annoverare le ore, che Ciriaco avrebbe potuto mettere per tornare da Roma; l'altra di tratto in tratto lo sfolgorava con lo sguardo, e non faceva profitto, imperciocchè Lelio non si attentasse per paura a levare gli occhi da terra.
Di repente ecco presentarsi loro dinanzi, introdotto da un servo di casa, certo uomo vestito di nero, vecchio, macilento, di colore oscuro tra il giallo e il cenerino e porgere alla moglie e al marito due carte co' segni esterni di lutto, poi chinato il capo senza dire motto si ritirò. Alla vista di cotesto uomo, che pareva lo inventore del cataletto, al tocco di quelle carte, comecchè per diverse cagioni, rabbrividirono entrambi: aperse Fulvia la sua, presaga di quello avesse a contenere, e si appose; era lo invito ad assistere ai funerali di Paride Bulgarini, che si sarebbero celebrati il giorno appresso in suffragio dell'anima sua.
— E voi andrete? Domandò la Fulvia a suo marito con tale uno amaro sogghigno, che mal si potrebbe dare ad intendere con parole.
— Voi vedete come mi trovo ridotto: pel male, che io gli voglio desidero, che a questa ora si trovi in paradiso; e voi ci andrete, Fulvia?
— Sì, sì, sì, e queste tre affermative sonarono così impetuosamente vibrate, che parvero tre moschettate percosse nel bersaglio di lamiera di ferro. Lelio si guardò bene di rispondere, nè la Fulvia convulsa potè aggiungere motto.
La Fulvia non dormì la notte, nella vigilia tormentosa sempre invocava Paride; co' più dolci nomi lo appellava, appariva, ed era inebbriata di amore e di dolore. Ora come avveniva questo? — Favellando un dì temporibus illis di amore con la mia nonna, femmina saputa quanta altra mai in questa ragione faccende, mi disse, per mio governo, che difficilmente si acquista amore da donna, che per te non senta caldo nè freddo; all'opposto più agevolmente, che non sapresti immaginare, da donna, la quale ti professi odio; e ciò perchè anco odiandoti la donna ti serba nella memoria, alla sua immaginativa tu stai sempre presente, e non vi ha cielo, dove così subito si muti il vento come nello spirito di lei. Aggiungi, che la donna, quantunque non disposta ad amarti, pure si trova lusingata dal sapere che tu l'ami, ed alla lunga non può astenersi dal professartene gratitudine, donde propensione, grazia, usanza, domestichezza, e poi mano a mano amore, imperciocchè appunto di due maniere compaiano gli amori, come di due maniere abbiamo assedi, assedio di assalto, dove alla prima scalata pigli la ròcca, e assedio di blocco, dove ti fanno mestiere industria e pazienza infinite. Di fatti il Poeta ha insegnato: che Amore a nullo amato amar perdona; il che vuol dire, che tenendo sempre il fuoco del tuo amore accanto al cuore altrui, questo non può fare a meno, che non avvampi: la volontà non presiede o poco alla genesi di questo affetto, la donna lo patisce circum circa come un tacchino infilato nello stidione, voglia o no, bisogna che arrostisca. Necessità costringe la donna ad amare nella guisa stessa, che nella bussola l'ago magnetico sta rivolto al polo; ma o sospetto, o rispetto o dispetto, o qualche altro movente tolto dal grande arsenale delle passioni, dando una spinta al cuore della donna hanno virtù di deviarlo dallo amore: proprio nel modo col quale agitando la bussola devia l'ago calamitato, ma nella guisa stessa che, quietato il moto, l'ago oscillando torna colà dove lo chiama natura, così il cuore di donna, sgombro ogni affetto men bello, si volge al cuore dell'uomo, che mostra riverirla costantemente, ed amarla. Così m'insegnava mia nonna; se non è vero rifatevela con lei.
La chiesa appariva parata a lutto con le solite rasce nere alle porte, e dentro co' soliti ceri, co' soliti moccoli, e co' soliti preti o frati, che fossero; ci si vedeva il solito catafalco, il solito scheletro, i soliti rami di cipresso; si udirono il solito uffizio da morti, la solita messa, le solite musiche, ed il solito molteplice invocare la luce eterna ai miseri cui fu rapita ogni speranza di luce terrena; ci furono i soliti schizzi di acqua benedetta, e tutto insomma, che anc'oggi si vede, si ode e si costuma: pertanto io non descriverò il funerale. Francesco Guicciardini rimprovera gli storici antichi, massime latini, di avere omesso ricordare molte cose giudicate volgari, e però non degne di essere ricordate, non considerando come per lontananza di tempo, e mutabilità delle condizioni umane, coteste cose potevano riuscire gnorate, e quindi andare del tutto perdute; messer Francesco ha, come quasi sempre ragione; ma ciò non mi persuade a descrivere i funerali per due motivi, di cui l'uno giudico più potente dell'altro: e consiste il primo nel conoscere questi miei scritti destinati a vivere i giorni di Giacobbe sopra la terra, i quali, secondo ch'egli dichiarò a Faraone furono brevi ed infelici, massime ora, che mi mancano le trombe dei Giornali moderati dispensatori di fama perenne così in cielo come in terra. Aimè! poveri scritti miei, pari ai pesci volanti, si levano alcun poco sopra la superficie dell'oceano dell'oblío, ma in breve, asciutte le ale, è forza che ci ridieno il tuffo senza speranza di risorgere mai più. — Il secondo è che, che ormai mi rassegno a vedere preti, frati, messe, e funerali sopravvivere a me ed ai miei libri, sicchè non se ne sperderà la memoria per colpa del mio silenzio. Che importa, che io veda rompere uno errore ai miei piedi, però che come io miro sovente su le mie marine infrangersi onda sopra onda, così ad errore succede senza posa un altro errore? L'errore fu la fascia, che ravvolse ogni uomo nella sua nascita, l'errore sarà il lenzuolo nel quale lo avvolgeranno deponendolo in grembo alla terra. — Che giova nelle fata dar di cozzo? — La mola del destino macina Dei, macina uomini, ma non macina ignoranza; che rimarrebbe a fare? Forse quello, che la moglie di Giobbe consiglia al suo marito: maledici e muori, che l'arcivescovo Martini volgarizza piamente: benedici, ma il testo ebraico dice espresso: maledici: ed una volta a rilevare questa infedeltà si correva rischio di avere qualche tratto di fune, oggi non importa nulla ad alcuno nè manco ai preti, i quali hanno bene altre cose a fare, che a pensare alla religione; ed io pure mi sento meno la balìa di maledire; anzi di ridere: io sto testimone nel mondo del come un uomo possa essere morto prima, che per lui sia giunto il giorno supremo.
Dunque era finito il funerale, ma avanzava un'altra cerimonia, ed era calare il feretro dentro il sepolcro della famiglia Bulgarini posto sotto il pavimento della chiesa, onorevole per lo stemma della casata squartato per traverso, da mezzo in giù con daghe diritte alternate di vermiglio e di argento, dal mezzo in su aquila nera incoronata in campo di oro. Gli stemmi premono anco ai morti, e i nobili stinchi si hanno da presentare al giudizio in calze di seta per non confondersi co' plebei; se ciò non fosse ne andrebbe scombussolato l'ordine dei cieli: ora per lo appunto dal cielo cattolico piovve sul capo dell'eccelso reggimento nostro il domma dell' Ordine e della Resistenza. Il Padre Eterno è il tipo dei conservatori: difatti non si vorrebbe movere mai, quantunque prima di lui altri inquilini abitassero i cieli, e forse, chi sa, il fato cova nei suoi misteri altre divinità a succedergli nelle sedi beate.
.... cadde supina singhiozzando per la pena. (Pag. 98.)
Tutto dunque, nel funerale di Paride Bulgarini, era stato recitato, e cantato, acceso e spento; adesso non rimaneva altro, che calare il cadavere nel sepolcro: pertanto levarono la lapide, e assicurata con funi la cassa, quattro incappati si disponevano a questa ultima fatica; molti già se n'erano iti pei fatti loro, taluni piegati i moccoli se li erano riposti in tasca onde farsi lume per le scale tornando a casa di notte, mentre tali altri avevano superbamente donato i mozziconi ai ragazzi, i quali durante la funzione avevano raccolto le gocce cadenti dalle candele, e dai moccoli nella palma delle mani senza tema delle scottature, con inestimabile dispetto dei frati torzoni, che, nel vedersi defraudati di cotesti sgoccioli, strabiliavano di rabbia. I più pietosi, od anco, se vuoi, i più curiosi però erano rimasti ad assistere a cotesto atto estremo; la Fulvia fra questi. La cassa fu calata, e dal tonfo, che diede, si conobbe che aveva toccato il fondo; la lapide era dai maestri rimessa a sesto, ed aggrappata con le solite staffe; il sacerdote anco una volta l'asperse con l'acqua benedetta, e per l'ultima volta con voce lugubre pronunziò il Requiem æternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. — La Fulvia col velo abbassato su gli occhi stava immobile a capo della sepoltura, Lattanzio a' piedi di quella presso alla lapide accanto al sacerdote: allo improvviso ella levò gli occhi e lo vide.... Dapprima rimase come impietrita, le sue labbra susurravano accenti indistinti, gli occhi balenavano smarriti; le parve, anzi credè che Paride, appena consegnato al sepolcro, ne uscisse subito potente più che mai fosse stato di vita, e di bellezza; certo le sembianze di lui ora apparivano quali le mirò, e se le finse dopo il perdono, che immaginò ottenere da lui, ma questo la consolava poco in paragone dello spavento, che le penetrava le ossa allo aspetto di un uomo appena sepolto resuscitato. La paura poi crebbe fuori di modo, quando guardando per di là i suoi occhi incontraronsi con quelli di Lattanzio; se ne sentì trafitta; con atto disperato si portò la destra al cuore quasi per tema le si sfiancasse; le gambe le mancarono sotto e dubitò sprofondare nel sepolcro donde era uscito Paride; di sè immemore e del luogo, incapace affatto di contenersi, proruppe in altissimo grido, e voltò le spalle per fuggire; senonchè nel moto scomposto il lembo della veste s'inviluppò fra i piedi di uno scanno, per cui di un tratto rimase impedita: allora pensò, che il morto resuscitato l'agguantasse per le spalle a fine di tirarla seco nello avello, e giudicandosi così dall'umano, come dal celeste aiuto abbandonata, cadde supina singhiozzando per la pena. La rilevarono alcuni pietosi, i quali appena miratala in volto esclamarono: «Madonna Fulvia Piccolomini, la signora Griffoli,» e questo grido propagandosi di bocca in bocca arrivò alle orecchie di Lattanzio, il quale si scosse come persona invasa da scintilla elettrica; e visto, che la gente sorreggendo la donna l'avviava fuori della chiesa, la precorse uscendo da una porta laterale, aspettandola sopra la soglia della porta mediana. Colà quanto l'odio ha in sè di più atroce, la rabbia di terrore, la minaccia di pauroso, tutto raccolse nella virtù dello sguardo, e d'improvviso comparendole innanzi glielo lanciò a modo di freccia negli occhi. Allora la donna sgomenta stette per istramazzare da capo; ma presa subito dopo forza dalla disperazione, respinti i soccorritori, si svincola dalle mani loro correndo verso casa quasi ad asilo. Lattanzio, giovenilmente gagliardo, la seguita da vicino, ond'ella si sente dietro le spalle lo strepito delle sue orme; accelera il passo, indarno, perchè più di lei sente accelerarlo lo insecutore, pure trangosciata arriva alla sua magione, picchia, e ripicchia, sto per dire a fuoco, si avventa alle scale, le vola, apre con fracasso le porte fino alle più intime stanze. Quivi gli occorre il marito, che rumina i rimorsi dei commessi delitti, pure meditando a commetterne di nuovi; verso lui ella si slancia, lui aggrappa con l'agonia del naufrago intorno allo scoglio, ed urla da spiritata:
— Chiudete le porte, sbarratele, tirate tutti i catorci; deh! che non passi..... impedite, ch'ei venga, od io mi butto giù dalla finestra.
— Ch'è mai? Rimescolandosi tutto chiede Lelio.
— Lui! lui!
— Chi lui?
— Paride Bulgarini.... lo avvelenato da te.
— Ma non era morto? Non lo seppellivano oggi?
— Già! morto sì; sepolto sì, ma è resuscitato.
— Resuscitato! Misericordia!
— Resuscitato, e mi corre dietro per agguantarmi.... O Dio! O Dio! senti, che vuole entrare.... entra.... dove mi salvo! Trattenetelo....
E questo ella diceva perchè prima udì picchi concitati nella porta, e poi le pedate di uomo, che con passi scomposti si avvicini; nè Lelio compariva percosso da paura niente minore di quella della sua donna; a bocca aperta, e con isguardi appuntati fissava la porta, presago d'imminente sciagura.
La porta sospinta da mano poderosa si spalanca, ed irrompe dentro la stanza Lattanzio; bello come i poeti e gli scultori immaginano fosse bello Apollo quando vibrò le quadrella mortali contro il serpente Pitone: dalle narici dilatate il suo alito fumava, gli si crispavano convulsi tutti i muscoli della faccia, dalla fronte bianca di marmo grondava sudore, e tuttavia conteneva l'ira pronta a traboccare; a mezzo della stanza si fermò, e lento lento disse:
— Scellerati, voi mi dovete la vita di mio fratello, ed io vengo a dirvi, che prima che scappi l'anno, voi me la pagherete....
Lelio si aggomitolò come un baco da seta infratito, Fulvia no, che fece ogni sforzo per rispondere; ma la voce le fece groppo nella gola, e non potè uscire: quando ella riebbe un po' di calma, Lattanzio era sparito.
CAPITOLO IV. Il Castigo.
A Lelio si cacciò addosso la febbre della paura, onde giudicandosi più sicuro in villa (dove a verun patto non consentì accompagnarlo la Fulvia), colà si ridusse: appena si può con parole significare lo stato miserrimo in cui cadde disfatto dal rimorso, e dal terrore. Quanto a rimorsi alla lunga ci si sarebbe accomodato però che, come il proverbio insegna, anco co' denti guasti si mastica, ma quello che non gli dava tregua era la paura. Pertanto appena arrivato in villa si diede sottilmente a rivedere le mura, le finestre e le porte; le prime tastò per conoscere se per caso in parte fossero deboli, ovvero contenessero qualche vano di gola di cammino, o simile, intonacato alla meglio per non parere, come talora succede, ma le trovò salde quasi di fortezza: alle finestre terrene in fretta e in furia fece raddoppiare le inferriate; porte e finestre del piano terreno munì d'impostoni con nottole da assicurare usci di città; inoltre, appena sonate le ventiquattro, li rinforzava mercè stanghe di querce poste per traverso, ed intromesse nelle buche aperte dentro i muri di sguancio. Molte volte in capo al dì mandava contadini a speculare se scoprissero uomo in cotesti dintorni, ovvero a pigliar fumo se taluno avesse incominciato a bazzicare per quei pressi; nè soddisfatto a tanto, ordinò gl'inalzassero per bene quattro braccia una torretta sorgente sul tetto della casa onde scoprire maggior tratto di paese, e quivi sovente si metteva egli stesso a velettare per ore ed ore. Ogni giorno che Dio mandava in terra, appena la serva tornava dal mercato del prossimo villaggio, egli la sottoponeva a inquisizione, interrogandola troppo più sottilmente del fiscale, che avesse visto, che udito, che cosa ella avesse detto altrui, e che altri detto a lei; visi nuovi ce n'erano capitati? E via, e via. All'ora dei pasti egli medesimo si recava a pigliare acqua alla fontana, alla quale, per trovarsi fuori dell'orto chiuso da muro, si faceva accompagnare da contadini armati, ed egli stesso portava con una mano l'orciuolo, dall'altra il moschetto; più tardi quando la stagione si rese inclemente di per sè l'attinse al pozzo, che gliela dava salmastrosa ed amara, piuttostochè fidarsi ad altri, che andasse alla fonte; presala, la chiudeva nella credenza riponendosene la chiave in tasca. La più parte del tempo stavasi in cucina per assistere alla cottura delle vivande, nè gli bastava, che non se ne saria messo per cosa al mondo un boccone in bocca laddove la serva non le avesse pregustate; ed era argomento di giocondità considerare com'egli per ottenere questo scopo ora vi adoperasse le preghiere, ed ora le minacce, e strattagemmi infiniti: quando non gli sovveniva altro partito ne gittava un pezzo al cane e al gatto, i quali lo assistevano al pranzo a destra ed a sinistra del seggiolone, come il diacono e il suddiacono il prete quando celebra la messa, e poichè gli pareva, che lo avessero senza sospetto rosicchiato come senza danno ingerito, allora si attentava a mangiarne anch'egli. La sera prima di giacersi tirava il chiavistello dell'uscio di camera, ne chiudeva la serratura a due mandate, poi ci appuntellava tavolini e scranne, all'ultimo s'inginocchiava accanto al letto, e sporgendo la candela sguaraguardavaci sotto. Non passava notte che il sonno non gli fosse rotto subitamente da sogni spaventosi, o da altre cause inani in sè, e pure capacissime ad atterrire uno spirito atterrito: certa volta un parpaglione gli prese a zufolare intorno al letto, ed egli immaginò che l'anima di Paride si accostasse a sollevargli le foglie del saccone, ond'ei si levò di un tratto a sedere sul letto urlando da spiritato: «Misericordia! misericordia!» e siccome la farfalla non cessava il ronzìo, ecco si precipita giù dal letto per fuggire; invano, chè lo insetto gli svolazza intorno agli occhi e al naso: fuori di sè, co' capelli come stecchi ritti mena pugni a destra ed a sinistra, finchè la farfalla visto uno spiraglio di luce si drizza verso la finestra dove la insegue Lelio, e ce la chiude spingendole addosso le imposte: allora si udì raddoppiato lo strepito, il quale alla inferma fantasia del Griffoli fece supporre, che la fantasima rotti i cristalli fosse fuggita via; ond'egli grondante di sudore tornossi a giacere, nè ebbe requie mai, chè a destra si volgesse, ovvero a manca, incontrava la faccia di Paride, che gli mostrava i denti in atto di morderlo. Un'altra volta avendo spento la lucerna, e lasciato lo spegnitoio sul beccuccio avvenne, che nel dar volta su le piume urtasse con le coltri la tavola dov'era la lucerna, ove lo spegnitoio cadde, e cascando diede dentro alla colonna di quella, la quale mandò un suono acuto ripercosso dall'eco della stanza. La novità del suono, il caso inopinato ebbero virtù di levare di sentimento il peccatore, che si avvoltolava pel letto mugolando a modo di uomo preso dalla colica: si quietò dopo un lungo anelito ed abbandonandosi sul guanciale con un gemito, che gli partiva proprio dalle viscere, disse: «Oh! che affanno.» Come provvide il cielo, il peso del delitto l'opprimeva; colui che aveva spenta la vita del fratello da per tutto paventava una insidia alla sua; l'avvelenatore temeva in ogni liquore il veleno.
Intanto la Fulvia rimasta in Siena di breve venne chiarita dello errore suo, e seppe Lattanzio non essere larva od ombra vana, bensì giovane potente di vita e di leggiadria: quella sua faccia piena di corruccio, e pure di grazia le stava impressa nella mente, perchè simile alla sembianza di Paride quando nella sua immaginativa divenuto pio le pronunziò la parola di perdono; e dove mai ella avesse potuto dimenticarlo, troppo spesso incontrava Lattanzio, perchè non le venisse rinfrescata; il quale, a vero dire, la guardava sempre a squarcia sacco, anzi un dì peggio dell'altro, e nondimanco la Fulvia nutriva in cuore la speranza, che l'ira fosse giunta sul pendìo, pari al marinaio, che, nel massimo infuriare della tempesta, presente non lontano il termine di lei. A poco a poco tanto nel desiderio di Lattanzio si accese, che in meno di un mese le parti di Paride verso la Fulvia parvero mutarsi in quelle di Fulvia verso Lattanzio; lui cercava, ed anch'egli un po' cercava lei non fosse altro per farle, com'ei credeva, paura; lui nella segreta sua stanza indefessa invocava, per lui vigilava, per lui pregava, per lui sentiva struggersi dentro. Mirabile a dirsi! Comecchè giacente in letto si fosse, col cortinaggio chiuso, e chiuse del pari le finestre e le imposte, di un tratto un tremito fitto le si metteva addosso, i denti le battevano, e gli occhi intantochè esclamava smaniosa: — Eccolo! eccolo! — Chi ecco? — Egli, Lattanzio, il Bulgarini. — Temerono un pezzo, ch'ella non finisse per dare il tuffo nello scimunito; ma in breve toccarono con mano, come Lattanzio presentito, e preannunziato da Fulvia, o si affacciava in cotesto punto alla contrada, o stava poco a vedercelo capitare. Ai giorni nostri chi crede a simili presentimenti, chi no; ma a senso mio è più facile negare la virtù magnetica, che dimostrare sul sodo ch'ella non sia. Questo intenso desìo, crescendo di ardore diventò spasimo; ond'ella all'ultimo deliberò, postergato il pericolo, ogni verecondia cessata, di chiamare Lattanzio a privato colloquio.
A privato colloquio! Ma sa ella che il cuore di questa sua Fulvia assai mi ha l'aria di un pagherò all'ordine s. p., il quale in meno che non si recita un credo può girarsi ad una serqua di persone. — Scusi, mio lettore garbato, prima di tutto, o (come i Piemontesi invariabilmente scrivono, e bene) innanzi tratto, io non mi sono impegnato a mantenerle la Fulvia uno stinco di santo, nè farina da farne ostie; e poi cotesto amore era una faccenda, la quale non generata da obietto esterno, bensì si accendeva dentro, e quivi nata e cresciuta, calzata e vestita si riversava fuori; nel che corre grandissimo divario: la prima senza uomo non può stare, la seconda sta anco con la rimembranza: sicuro eh! e chi lo nega? Quando il tuo amore gli è bello formato nel penetrale dell'anima tua, se ti occorre una nicchia dove posarlo tu ce lo metti subito, e ti pare leggerezza, o peggio, e non è così. Fulvia si era condotta ad amare Paride morto, adesso quando se lo aspetta meno, si mira comparire davanti un Paride vivo, e per di più fatto a pennello, e il suo cuore si volge a questo: veda, e' fu come passare di camera in salotto: di più io non so dirle, per maggiori spiegazioni, benigno lettore, io la rimando alla sua moglie, che naturalmente se ne intenderà più di me: per la qual cosa la non m'impacci di più, e mi lasci finire il racconto.
Pertanto ella si mise a pensare sul modo di avvertire Lattanzio del suo desiderio: avrebbe voluto scrivergli, ma se costui la odiava, e avesse voluto intorarsi nell'odio, non poteva adoperare cotesto suo invito per farla la più vituperata femmina del mondo? E poi che dirgli? Se poco o non sarebbe venuto, o chi sa che mai avrebbe abbacato col cervello: se molto, ci era il caso, di vederci entrare chi doveva starne lontano, vo' dire Don Mattias de' Medici governatore di Siena, ovvero i Signori Otto. Meglio commettere il negozio in mano a donna discreta, che andasse a tenergliene proposito destreggendosi cauta per non fare scappucci: ma dallo altro canto rammemorando i modi da lei e da suo marito adoperati a danno della povera Betta, quando le si condusse davanti messaggera di Paride, s'invilì peritandosi di porre allo sbaraglio qualche persona dabbene: di altre non si sarebbe potuto senza suo biasimo infinito giovare. — Stringendo ogni ora più veemente la necessità, bisognò non istar più sul lellarla e prendere partito, onde si risolvè scrivergli: alla peggio avrebbe potuto stracciare la lettera.... sempre meglio, che scaraventare giù una donna, ovvero uomo per le scale con pericolo di fiaccargli il nodo del collo. Rispetto poi a serbare la lettera e girsene intorno a mostrarla per rendere lei contennenda ed infame.... siffatte ribalderie tra gentiluomini, ella pensava, non costumano.... si trattasse di un popolano, ti dia la peste! Insomma scrisse. O che scrisse? Vediamo, leggiamo, sentiamo. Largo, donne mie, ella era una lettera scema come.... talvolta ne scrivono talune femminuccie senz'arte nè parte; io ve la riferirò in succinto:
«Signor Lattanzio Bulgarini,
«Se siete, come non dubito, gentiluomo, stasera a due ore di notte vi aspetto a casa mia: mi pesa essere odiata da voi senza ragione, e solo che mi concediate un po' di ascolto, io mi auguro chiarirvi interamente. Vi chiamo in casa mia perchè darvi la posta altrove non mi parve onesto nè sicuro: pregovi, per la memoria di Paride fratel vostro, a non farmi attendere invano. Mio marito da molti giorni sta in campagna per ricreare alquanto la inferma salute. State sano, e supplicando Dio, che vi tenga nella sua santa custodia mi sottoscrivo: Io Fulvia Griffoli nata Piccolomini mano propria, Siena 15 giugno 1660.»
Lattanzio quando ricevè la lettera di Fulvia sapete voi a cui pensava? Ve lo dirò io, pensava alla Fulvia; da qualche giorno si spaventava per sentirsi di ora in ora meno infellonito contro lei; e sì che il grido del fratello chiedente vendetta gl'intronava le orecchie; aveva giurato vendicare la fraterna vita, e piuttostochè mancare si sarebbe con le proprie mani scannato. O dunque? Anco il lupo talvolta ha bisogno di aizzarsi all'ira sferzandosi la pancia con la coda; anco il toro prima della battaglia contro il rivale s'inferocisce cozzando delle corna nei tronchi degli alberi. Lattanzio si sarebbe dato la disciplina, se non avesse temuto di farsi male. Al ricevere che fece la lettera della Fulvia, spiccò un salto, anzi ne spiccò due; proruppe in giuramenti da tirare giù i travicelli del paradiso (il che per parentesi non sentì troppo del gentiluomo) poi urlando e pestando i piedi, chiamò i servi ordinando loro di troncare tutte e due le braccia a suono di bastonate al portatore della lettera.
— O che un braccio solo non avrebbe a bastare? Domandò uno dei servi.
— No signore, tutte e due, e tre se gli avesse.
— Come comanda vostra signoria lustrissima.
Ma potevano forse essere i servi giunti a mezza la prima scala, che Lattanzio uscendo con impeto di camera, e correndo loro dietro gridava a squarciagola: — Bernardino addietro! Qua Giovanni, qua.
E i servi tornavano alla chiamata del padrone, il quale con la borsa in mano, mite nella voce e nel sembiante favellò:
— Che colpa ha il servo della improntitudine del suo padrone?
— Era quello che diceva ancora io, soggiunse Bernardino.
— Avrebbe potuto toccare a voi.
— Giusto! Non fa nè anco una grinza.
— Dunque non gli fate ingiuria.
— Sarà obbedito.
— Invece pigliate questo scudo e dateglielo dicendogli che se lo goda alla salute mia.
I servi uscirono piegando il capo, e venuti in parte dove non potevano essere uditi, in breve si trovarono di accordo su questo, ch'essi da parte del padrone non avrebbero dato bastonate, ma del pari nè anco quattrini: si sarebbero spartito lo scudo, e meglio bevutoselo intero: e su ciò non importa dire altro. — Spiegata e letta la lettera, mi tocca a patire la umiliazione di raccontare come il pensiero che primo cadde nella mente di Lattanzio fu per lo appunto quello di spifferare la lettera strascinando la reputazione della Fulvia in mezzo al rigagnolo; ma subito dopo gl'increbbe: tutta la mattina mulinò sopra la punta di ago di una domanda molesta: «Devo andare, o non ci devo andare?» Come! diceva a sè, tu andrai pacato a vedere la faccia, a udire la voce della micidiale del fratel tuo? Potrai mirarla e non avventarti alla sua gola, e strangolarla? Il solo trovarti insieme con lei, meno che per ucciderla, non è forse renunzia alla vendetta fraterna? — Io non andrò. — Lusinghe, blandi parlari e lagrimette, bene altri cuori irretirono, che non è il tuo, Lattanzio: quando d'inganni fu penuria nelle donne, ricorda Ulisse che, costretto a navigare presso il lido delle Sirene, turò a sè ed ai compagni suoi gli orecchi con la cera, mentre tu invece vai senza cera, e costretto a intendere le parole mortali di donna nemica, di cui le mani, gli occhi, la lingua, i detti e i gesti sono lacciuoli tesi alla tua vita. — Risolutamente io non andrò. E che può dirti ella, e che cosa dirai a lei? Quali parole ormai possono correre tra voi? Non le basta un'anima? O ch'ella è insaziabile come lo inferno? Ah! temerei incontrare su la porta di lei lo spettro del povero Paride, che in atto lacrimoso mi dicesse: — «Così hai cura della vendetta di tuo fratello? — Senza fallo io non andrò.» — Insomma, durante la intera mattinata, non ci fu rimedio, fermo al chiodo di non volerci andare: si pose a pranzo, dove cessati i pensamenti stette come smemorato: sembrava ed era fuori di sè; morse il bicchiere credendolo una pietanza, invece di condire la insalata disegnò un circolo di gocciole di olio intorno alla mensa; la mano manca, posta dentro il piatto, per poco mancò non se la tagliasse immaginandola un pollo. Senza accorgersene bevve più del consueto, sicchè al levarsi da tavola gli pareva avere il Mongibello nel capo; il caldo essendo grandissimo si buttò sul letto dove tornò a molestarlo la facoltà del pensiero, la quale prese a discorrere così: ma in fine dei conti ella si afferma innocente, e chiede giustificarsi; l'odio tuo giustissimo investe gli uccisori del tuo fratello; ma s'ella ti chiarisse non essere fra questi, perchè ti adopri ai suoi danni? Perchè la opprimi col tuo abborrimento? Giudicare, senza avere prima ricercata la causa, non è da cristiani nè da gentiluomini, nè da uomini. Priore, udite l'altra parte: sta scritto nella spalliera del seggiolone del Giudice di Lucignano; ora quello, ch'è buono a seguitarsi nei villaggi di Siena, non lo sarà in Siena? Se condanni senza difesa chi andrà assoluto da te? E poi... e poi... bisogna pure confessarlo, la fronte aperta, e gli occhi.... ah! gli occhini sono testimoni del cuore, lo dicono tutti, e gli occhi parlanti della Griffoli non attestano animo pravo; nè brutta femmina può estimarsi, anzi a confessarlo schietto ora, che nessuno ci sente è bella e baliosa gentildonna... e se non fosse una tal quale acerbezza nei contorni del volto, si potrebbe sostenere bellissima; il portamento, lo incesso, i capelli, lo incarnato delle guance, le labbra vermiglie, tutto stupendo. Le belle donne non possono professare iniquità, sarebbe una sconcordanza della natura, e di simili svarioni, frequenti fra gli uomini, non si ammettono nel Creatore. Non sarebbe mica affatto affatto fuori di proposito andare a sentirla; forse ti farà conoscere i veri delinquenti, e badiamo veh! Lattanzio, Paride ha chiesto lo eccidio dei rei non quello degl'incolpevoli. Che viltà t'ingombra, Lattanzio? Forse è ella una lionessa, e tu un cerbiatto? O che non hai rasciutto il latte sopra le labbra per avere paura, ch'ella ti abbindoli? Hai paura? — «Chi dice qui che io ho paura?» — E diede un salto sul letto agguantando la spada attaccata al muro; — visto poi che egli stesso si era offeso, e certo senza intenzione di offendersi, giudicò opportuno di non si ammazzare; e, perchè più oltre io non produca la esposizione di cotesto spirito incerto, conchiuderò col dirvi, che al finire del giorno egli era al tutto deciso di andare.
Avvicinandosi l'ora della posta, si vestì nobilmente, esaminò se le lattughe fossero bene stirate, se gli abiti in punto, scelse tra i guanti profumati un paio novissimi, poi quasi consultandosi cominciò a dire: «O che la spada io l'abbia a prendere? — Mai no, o che la Fulvia sarebbe capace di tanto tradimento?» — E depose la spada sul letto: — e non di manco, egli proseguiva: « Fidati era un galantuomo, ma Non ti Fidare fu galantuomo due cotanti più di lui; e i sospetti non sono mica sassate: quando anco ella si opponesse con tutte le forze, ma la sua gente potrebbe usarmi mal tratto; e forse avrebbero potuto condurmi nel bertovello costringendola a scrivermi lo invito pel ritrovo; di queste trappole ne abbiamo viste delle altre; dunque prendiamola. Ma davvero, va là che ti puoi vantare paladino finito, condurti armato ad onesto colloquio di gentildonna: si capisce che il Griffoli potesse odiare il povero Paride, perchè amante spasimato della sua moglie; ma te per qual cagione dovrebbe odiare a morte, o che forse tu ami la Fulvia? — Io no davvero... la devo odiare, e la odio... almeno, finchè non mi si dimostri innocente come gli Angioli custodi al seggio di Maria santissima; ond'io non dico amarla... no questo mai... e poi mai come amante, ma come prossimo sì, già a patto sempre, s'intende che la mi si mostri bianca come un lenzuolo di bucato.» Lasciò la spada, come quella che non si poteva celare; ma per via di compromesso tenne il pugnale nascondendolo nelle tasche delle brache: un termine mezzano, un partito da moderato.
La Fulvia quasi nel medesimo tempo dava opera al proprio abbigliamento: più che non pareva decente attese a scerre vesti, e colori ed ornati: forse in occasione tanto solenne ella aveva mente a piacere? Giusto così: la donna non renunzia mai a piacere; dicesi, una dama presso a morte volle contemplarsi nello specchio, e miratasi pallida ordinò le recassero tosto polvere di amido, e pezzetta di levante per incandidirsi, e imporporarsi dicendo: «Essere sconvenevole aversi a presentare alla Morte con quella faccia da cataletto;» e la stessa Morte vidi io raffigurata in uno scheletro inghirlandato di rose. Però la Fulvia sopra cotesta fronte ampia e bianca su la quale, se Venere avrebbe deposto lieta il suo serto, Minerva pure non avrebbe sdegnato coprire col suo elmo, non mise niente. Provò una rosa amaranto, e non le piacque; soli i capelli nerissimi, acconciati in modo che parevano arruffati, ed erano con esquisita arte composti; le vesti di colore oscuro facevano risaltare vie più l'abbagliante candidezza della pelle, nè tanto accollate, nè scollate tanto da celare troppo, nè palesare troppo i tesori del seno: appunto come il Tasso dice della rosa, che quanto si mostra meno, tanto è più bella. Messa bene in arnese si contemplò anco una volta nello specchio, non senza segreta inquietudine, chè una voce sottile e pure molesta le zufolava nel cuore, ormai ella essere giunta al suo trentesimo anno; ma quando, in mezzo al lume dei doppieri, vide la sua faccia sfavillò di riso, e dallo specchio parve movere il solito plauso: — va franca, donna, va franca, tu sei ancora bella.
Oh! che tormento aspettare incerti se la persona desiderata verrà o non verrà: per me ne ho provato parecchie, ma la dubbia aspettativa mi lima non pure il cuore e il cervello, ma le altre viscere tutte, e i nervi e i muscoli; se fosse in balía dei Giudici, io sostituirei la pena della ansietà a quella di morte: o per meglio dire non la surrogherei reputandola in coscienza più tormentosa di quella. La Fulvia aperse la finestra a mezzo e tuffò lo sguardo, quanto poteva protenderlo più lungo per iscoprire qualche sembiante umano, che colà si appressasse; indarno, chè le ombre fitte non permettevano spaziare alla vista. Ambe le mani a mo' di ventola metteva intorno gli orecchi per raccogliere l'onda sonora mossa da pedate lontane; ma non raccoglieva niente, si alzava cento volte, e su quanti lettucci, e sedie erano nella stanza si abbandonava; cominciava un discorso per esortarsi alla pazienza, e, a mezzo si rizzava in piedi furente e smaniosa. Di un tratto la torre del Mangia sonò un'ora, Fulvia schiuse gli occhi donde le schizzarono due lacrime; sentì proprio picchiarsi il battaglio sul capo; successe il secondo colpo, e con esso la seconda sensazione: se avesse continuato al quinto, o al sesto, io penso, Fulvia ne sarebbe rimasta o spenta o matta. Il petto mano a mano ansando ora si angoscia in tali palpiti ai quali sembra impossibile, che duri il tenue tessuto del petto della donna: alfine le parve udire strepito lontano; prima di pensarlo si trovò all'uscio, e apertolo si diede ad origliare; certo avevano schiuso il portone, certo parecchia gente veniva su per le scale, vide appressarsi insolito chiarore di torchi: senz'altro era Lattanzio: allora ella richiuse pianamente l'uscio, e si mise a sedere pestando mani e piedi per comparire tranquilla. Difatti dopo brevi istanti ecco comparirle davanti l'aspettato giovane: questi con gentile fierezza fattosi presso al lettuccio dond'erasi levata la Fulvia per riceverlo:
— Signora, le disse, voi m'invitaste in casa vostra; io sono venuto.
Signora, le disse, voi m'invitaste in casa vostra; io sono venuto (Pag. 116.)
— Grazie.
— Non ci ha mestiero ringraziamenti perchè qui venni per amore di cortesia, e per istudio di vendicare la morte fraterna.
— Pregovi accomodarvi, signore.
— Gran mercè! Mi sento a mio agio tenendomi in piedi.
— Allora, ancora io mi terrò ritta.
— Questo non sia: ecco fatto il desiderio vostro.
— Ve ne sono tenuta. — E dopo qualche esitanza un po' vera, ed un po' finta, ella riprese: — perdonate il mio fiero turbamento; ma vi parlerò come il cuore mi detta, ed a voi piaccia avvertire la sostanza delle cose non lo inconsulto favellare (tutto ciò era falso di pianta, perchè a quello, ch'ella voleva dire aveva pensato tutta la notte, e tutto il giorno antecedente: ma ciò non importa). Voi, signor Lattanzio, mi odiate.
Lattanzio non fiatò. La donna ripetè:
— Voi mi odiate; e bene sta; ma perchè mi odiate? Certo perchè credete, me causa della morte del fratello vostro Paride.
— E se così fosse: non mi apporrei al vero?
— Non vi apporreste al vero, perchè io mi affermo affatto innocente di cosiffatta sciagura.
— E non vi peritate voi, signora, a mentire così; non temete, che di un tratto l'anima del povero Paride apparisca qui fra noi e vi dica: «A che vale la bugia? Cotesto atto è scritto nel libro dei peccati, che vendicherà la giustizia divina, ed anco la umana.»
— E sia, ma la partita non apparisce accesa a mio nome.
— Od a qual nome dunque?
— Signore, rammentatevi, che nacqui gentildonna e sono dei Piccolomini.
— Sì bene, ma moglie a un punto di Lelio Griffoli. E negherete voi, che dopo avere condotto alla disperazione il mio povero fratello inebriandolo con la venustà di cui male vi fu prodiga la natura, voi e il vostro marito per levarvelo davanti gli occhi gli propinaste il veleno?
— Non dite questo, signor Lattanzio, disdice a gentiluomo, e a cristiano calunniare atrocemente come fate voi.
— Lo giurereste?
— Comecchè cugina di un Papa, giurerò se volete, ma assai volentieri mi asterrei dal giuramento perchè Cristo ha detto: «Non giurare: non pel firmamento ch'è casa di Dio, non per la terra, ch'è sgabello dei suoi santi piedi, non pel Signore, il quale vuolsi adorare non sacramentare, non per te, che nulla hai di tuo, nè manco i vermi, imperciocchè tutto l'essere tuo ti abbia prestato la natura.» Pertanto adopererò meglio, che giurare invano, vi narrerò schiettamente il caso. Paride vostro mi amava certo senza pari, ma per soverchio di passione m'inseguiva più ardente che il segugio non fa alla lepre; ed io mi sento moglie e figlia, la mia prosapia onoro, nè io vorrei, nè i parenti patirebbero, che per me ricevesse oltraggio la casa alla quale appartengo....
— Però voi nella superba mente vostra non trovaste miglior partito oltre quello di consegnare alla terra il mal capitato amante?
— Io tacqui, ma le sue persecuzioni mi avevano reso favola del paese; tacqui, finchè potei in casa, e negai; però un giorno venne a parlarmi certa femmina dello amore suo; il mio marito prese a dirmi vituperio, ed io vergognando, e crucciata gli apersi l'animo mio alieno affatto da simili trascorsi, e voglioso di trovarmi affrancata da tanta molestia.
— Voi non uccideste, vi contentaste guidare la mano dell'uccisore.
— Chi vi dà facoltà di giudicare così iniquamente di me? Chi fu l'uccisore? È ignoto; nè per quanta diligenza ci abbiano messo i Magistrati si è potuto rinvenire indizi da instituire un processo.
— Sta bene; signora, avete altro da dirmi?
— Ah! Lattanzio, che voi non mi odiate... come micidiale del vostro fratello.
— Signora... Fulvia, io potrò non odiarvi, e potrò anco... riverirvi, quando mi avrete aiutato a scoprire il vile avvelenatore di Paride, ed a compire sopra di lui la vendetta fraterna.
E, salutando profondamente, mosse per uscire. Alla donna non parve opportuno trattenerlo: così separaronsi la prima volta; la Fulvia rimase come il pescatore il quale tirando le reti mentre sperava acchiappare un dentice si trova ad avere preso un crognolo; certo si riprometteva di più, e il primo senso fu di dispetto, che a mo' del poco vento sul fuoco, attizzò la sua passione; di vero dopo averci bene bene pensato su, esclamò: «Faremo meglio un'altra volta» — e non a torto, la pesca era stata scarsa, ma il mare era riconosciuto pescoso, sicchè nè contenta nè lieta se ne andò a giacere.
Lattanzio, per la parte sua dando spesa al cervello, ragionava così: «Se veramente ella non aveva peccato perchè la odierebbe egli? Il fratel suo tanto nemico di ogni ingiustizia, mentre fu in vita, potrebbesi supporre mai, che l'amasse morto, e a lui come un giogo di pena lo imponesse? S'ella aveva detto il vero, in lei sarebbe stata colpa d'imprudenza, non dolo; e comecchè non bene, pure in parte aveva già scoperto come era andato il fiero caso.» Simile allo antiquario, che con molto travaglio tenta ricomporre una iscrizione antica, talvolta si ferma a ritrovare le ultime lettere; egli con due o tre notizie di più avrebbe ricostruito precisa la storia della morte fraterna: nondimanco, prima di mettere mano ai ferri, voleva essere chiaro; per lui spegnere l'omicida del fratello era meritorio quanto comunicarsi, ma se si fosse ingannato ne sarebbe morto di affanno: avrà pensato male, ma la pensava così, nè adesso corre stagione opportuna da fargli una predica.
Ora Fulvia sperava, che Lattanzio la richiedesse di nuovo colloquio, e Lattanzio per converso teneva per certo di ricevere un secondo invito. Ella, ad ogni picchio alla porta di casa, sporgeva il capo fuori della stanza domandando chi fosse; egli tornando a casa, se dopo avere chiesto se fosse capitata persona a portare lettera o messaggio, udiva di no, tirava su per le scale fischiando come un serpe. — Così la non poteva durare, e per queste faccende, bisogna pur dirlo, le donne corrispondono fra loro come le corde armoniche del medesimo strumento: di nutrice, e di fantesche fidate, non fu mai penuria nel mondo; le amiche poi fanno a farsela. Le scuse di cui si ravvolse la seconda chiamata furono parecchie e sottili; sottili tanto, che a guisa del mantino verde intorno al lume non celavano il motivo vero. Lattanzio, richiesto se sarebbe andato rispose di botto: — Magari! — E subito dopo profferita la parola si morse le labbra in pena del peccato d'imprudenza; ma sasso lanciato, e parola detta non si revocano più; onde la messaggera sparvierata sorrise, ed egli diventò rosso fino alle ciglia. La messaggera discreta fece capace Lattanzio non essere caso ora, ch'egli come la prima volta si presentasse alla porta maestra, nè che i servi lo mirassero, nè co' torchi accesi su per le scale lo accompagnassero: venisse solo verso la mezzanotte e passasse per la viuzza dietro al palazzo, donde passò Ciriaco reduce da Roma dopo avere avvelenato Paride. Battesse nei vetri, che gli sarebbe aperto, non traesse seco compagni, ma venisse difeso di giaco e armato di spada. Ora voi avete a sapere, come nelle faccende di amore mistero è mezza colpa, o piuttosto il cartello messo sul crocicchio delle vie per indicare la strada che mena al paradiso, o allo inferno, secondo che giudicheranno o la castità, o la età dei lettori così femmine come maschi.
Trovaronsi insieme, dissero, ridissero, e dissero poi le medesime cose: la Fulvia vinta e sopraffatta non indicò per nome il suo marito, ma lo descrisse per modo, che di certo non si sarebbe potuto scambiare: ella insomma fece come il fanciullo còrso quando il bandito si ricoverò in casa di Piccione; la lingua tacque, ma additò la mano il luogo dove l'ospite bandito stava acquattato sotto un mucchio di concio. Nel cuore di Lattanzio ormai era risoluta la morte di Lelio: ora bisognava trovare tempo, ed occasione per compire la vendetta sicura, per non levarsi come suol dirsi la sete col presciutto, o pigliare il male per medicina; con Fulvia ormai i vincoli di amore o ferrei o serici lo avevano stretto più che fra loro si fossero confessato; si sentirono uno tratto verso l'altro per la mano, tuttavia comprendendo, che il destino gli avrebbe strascinati nolenti pei capelli; si amavano, e si odiavano; lontani smaniavano, trovarsi uniti, vicini pareva loro mille anni di separarsi: stato di animo di cui avrebbe pòrto immagine l'arme di Siena, spartito di bianco e di nero: temevano aprirsi il cuore, e tremando che il terreno si scoscendesse sotto loro, non osavano movere un passo più in là.
Ma la immobilità non fu mai il peccato di amore: troppo, e troppo forti le offese non alla stregua affatto delle difese; e chi li spinse innanzi sapete voi chi fosse, o come si chiamasse? Ve lo do a indovinare in mille: fu messere Francesco Petrarca. O Petrarca figlio di Petracco notaro pubblico fiorentino e canonico di Padova, se tu comparivi al mondo prima di Dante Alighieri, per me credo, che questi invece d'incolpare Galeotto signore delle quattro Riviere di essere stato il mezzano tra Isotta e Lancellotto, egli avrebbe addirittura messo in ballo il Canonico di Padova. — Io pongo su pegno, che le rime del Canonico innamorato abbiano fatto rompere il collo a più amanti, che il Boccaccio, l'Aretino, il Casti, e tutti quanti dei quali si tace il nome honestatis causa. Invero, sua mercè, ogni voce di tentazione è messa in suono di flauto: dittami e rose egli sceglie nei campi dello idioma e del senso esquisito dello spirito umano e te ne infiora la via che mena alla perdizione: i suoi sonetti mi hanno sempre avuto l'aria di arazzi co' quali nel dì del Corpus Domini tappezzano il bordello per celare la luridezza dei muri: insomma nel volume del canonico tu trovi come si abbiano ad usare gli atti, i sospiri, le sussurrate parolette brevi, i dolci sdegni, le molli repulse; e i sorrisi in fondo, veri arcobaleni degli amorosi temporali: colà tu trovi descritto ed inventariato intero l'arsenale di amore per istruzione di chiunque volesse approfittarsene. Aggiungi la civetteria, qualità suprema nei poeti, massime se canonici (e questo bandisco a voce alta) e nelle donne (questo altro mormoro a voce sommessa), di mostrarsi e non mostrarsi, e qui dirti quasi a lettere di avviso della compagnia equestre Guillaume, che di non leciti amplessi egli fu lieto peccatore, e là quasi giurarti su l'ostia, ch'egli simile in tutto all'armellino, innanzi di maculare la sua candida pelle, avrebbe preferito morire una volta e mezzo: ipocrito miscuglio di vanità indiscreta, e di gentilezza stantía. Il corpo non dona ale, bensì sensi all'anima, ond'ella esaltata dalla sua natura eterea, e da questi, s'innalza al firmamento dove legge la Gazzetta ufficiale del Creatore stampata in carattere di stelle; giù, su corre, e ricorre con voli raddoppiati il cielo col desío della rondine in cerca di mosche esca aspettata al caro nido. Allora sembra alle anime innamorate vedere nella luna una vestale che nei silenzi della notte muova a visitare la tomba dell'amica defunta; per loro i raggi degli astri lontani paiono benedizioni di luce sopra le sepolture obliate, forse derise dei caduti ad Aspromonte o a Mentana. Disgraziati! Ignoravano, che ai popoli è interdetto mangiare il pane della libertà, se non venga prima, pesato loro sopra la stadera della monarchia: da ora in poi sapranno dovere che sia. Discite iustitiam moniti et non temnere divos, insegna Tantalo ai dannati nello inferno, ed io lo insegno a voi, o morti, quasi con altrettanta efficacia... Ah! torniamo alle beatitudini delle anime innamorate: esse penetrano nei misteri degli amori odorosi dei fiori, esse sentono i palpiti della marina, e nella tremendamente indefessa creazione e distruzione sembra loro (o beatissime!) udire l'inno di ringraziamento dell'universo a Dio, che ci creò per soffrire e per morire. Però, dopo tanto spaziare dell'anima per la terra e pel cielo, il caso con uno strettone la tira a sè ed essa casca giù languida e spossata facile preda del senso, che l'aspetta al varco. Lasciarci governare dal solo senso è grave fallo; ma a commetterci in balía del solo spirito non corriamo minore pericolo: affermarono, che a Roma si va per tutte le strade terrene (ora il proverbio non corre più, conciossiacchè il governo guastatore di ogni umana e divina cosa non potesse lasciare intatti neanche i proverbi), ma allo inferno si fa capo anco per le vie del paradiso: di fatti il diavolo, o che ci andò da Pontedera? Ci andò precisamente dal paradiso. Lattanzio solenne ammiratore del Petrarca cominciò dal mostrare alla Fulvia i motti arguti, i concetti festosi, le locuzioni divine, poi lasciò cascare il libro, e mise le lezioni nel dimenticatoio; elle finirono come quelle di Abelardo e di Eloisa, e come erano finite sempre fra giovani innamorati prima di cotesti due incliti amanti: più baci, che parole, eccetera, finchè il canonico traditore zio di Elisa, che Dio faccia tristo per tutta la eternità, siccome a Ferraù costumò Rinaldo.
Ziffe e acconciollo pel dì delle feste.[5].... ed entrambi compiacendosi contemplare la propria immagine dentro le pupille degli occhi loro, (Pag. 125.)
E complici erano l'ora, il tempo, e la dolce stagione tutti uniti a reggere il sacco al canonico, sicchè verso sera, sul bruzzo, quando del giorno si può dire quello che Dante favellò del foglio che brucia, che non è nero ancora e il bianco muore, Lattanzio e Fulvia si trovarono seduti a canto su di un lettuccio; a mano a mano accostaronsi, e poi tanto si strinsero, che in mezzo a loro non sarebbe cascato, nè un granello di miglio, nè un pensiero molesto. Come la fosse andata, io per me non lo so, ma il braccio destro della Fulvia a mo' del vilucchio si era disteso lungo il collo di Lattanzio, e la sua mano si era posata sopra la spalla destra di lui; mentre il braccio manco di Lattanzio, in virtù della medesima natura attaccaticcia, si era allungato a ricingere la vita alla donna, le braccia rimaste libere si erano anch'esse cercate, e trovate, ed ora le mani loro vedevansi intrecciate come in un laccio di amore. In cotesto atto rimasero... non so quanto rimasero, ma un quarto di ora rimasero, forse venti minuti; molto più che al chiarore dello spirante crepuscolo uno specchiavasi dentro gli occhi dell'altro, ed entrambi compiacendosi contemplare la propria immagine dentro le pupille degli occhi loro, fantasticavano (pietoso inganno!) che scambievolmente nel fondo del cuore la portassero impressa. Così guardando un pelaghetto di linfe limpidissime tu vi scorgi i minimi lapilli, che gli fanno pavimento: ancora ricambiavansi sorrisi leggiadri, e andavano infaticabilmente domandandosi, e rispondendosi le mille volte parole, che agli orecchi degli amanti paiono divine, ed a tutto altro, che intabaccato non sia il metro tedioso del grillo cantaiolo. Stettero gli amanti fermi al canapo, o lo saltarono? Cari miei, poco ci vedeva innanzi, adesso poi se non accendete i lumi io non ci vedo più: forse è da credersi ci sarà corso un bacio, forse dieci o venti; ma indi in là no davvero, ed io in testimonio pel vero mi offro sostenere il cimento non già del fuoco, bensì dell'acqua; la prova di Tuzia vestale, che per dimostrare la propria verginità portò non so per quanti stadi un crivello pieno di acqua... O che fate bocca da ridere? Supponete forse, che i miracoli sieno invenzione o privilegio dei preti cattolici? Quando scoppiò fuori il prete, scoppiò ancora il miracolo perchè prete, e miracolo sono quasimente due starnuti usciti uno subito dopo l'altro dal medesimo naso. Difatti dove il miracolo viene meno, il prete svapora, e poichè questo i preti sanno, talora si provano rinfrescarsi la origine con prodigi da fare strabiliare i cani; se in un luogo non attecchiscono, in altro sì, dove durano, e dove fanno l'effetto della neve marzolina: non importa; la morte ci ha da trovare vivi; prima, tutti i preti formavano un boa solo a traverso i secoli, adesso sono bachi da seta, di cui ognuno attende a rodere la sua foglia.
In tutte le faccende di questo mondo gli è il primo passo quello, che costa, come disse il sagrestano al conte di Say, stupito di udire come san Dionisio avesse camminato oltre un miglio con la sua testa mozza sotto il braccio; in quelle poi di amore si ribadisce il chiodo. Quindi Fulvia e Lattanzio andarono innanzi a golfo lanciato, ma in fondo alla dolcezza trovavano sempre un senso di amaro; la diffidenza insinuavasi fra loro come serpe tra i fiori, e Lattanzio a guisa del buono schermitore, il quale spia il momento di affibbiare all'avversario la botta maestra, attendeva a cavare fuori dalla bocca di Fulvia la confessione del veneficio di Paride operato per colpa di Lelio; ed ella parecchie volte nello abbandono dei facili colloqui era stata le cento volte lì lì per ispiattellarla, sicchè appena aveva potuto agguantare per l'ale la parola, mentr'essa stava per volarle dai labbri; ed ora le toccava a tenere l'occhio alla penna per non rimanere sorpresa; cosa che fa allo amore, quello che ogni baco fa ai frutti ed ai fiori.
E tuttavia il contrasto, la paura, e (bisogna dirlo a vergogna dello amore) qualche cosa di peggio, partecipano all'amore una maniera di mordente per cui dura di più, e i suoi diletti ne acquistano augumento acre ed intenso.
Ora accadde certa volta, che trovandosi i nostri amanti insieme producessero la veglia oltre quella parte della notte nella quale non può giustificarsi nè in greco nè in latino la presenza di un uomo nelle stanze di una donna, laddove sua legittima moglie non sia, sposata davanti il sindaco del municipio, o in chiesa al cospetto del prete, secondo i gusti. Il Mangia puntuale aveva battuto le sue ore con braccio di ferro sopra la campana di bronzo, ma essi non l'avevano sentite; come due formiche cascate nel calice di un fior di magnolia inebbriate dall'odore vi rimangono improvvide di ogni caso, che accada fuori delle foglie, Fulvia e Lattanzio avevano mandato i loro sensi a spasso in altre troppo più leggiadre regioni che non sono queste nostre terrene, onde nè manco udirono uno schiamazzo, che si fece alla porta del palazzo Griffoli, e l'urto di persone che contrastano, e finalmente lo strepito dei soperchiatori che irrompono. Domine aiutaci! — S'intende acqua, ma non tempesta! Essi erano sprofondati di santa ragione. — Sì, signora, erano sprofondati. Chi può in amore dormire come una lepre, o non ha cuore, ovvero ha il cuore negli orecchi; chi ama davvero concede a Lancillotto di appressarsi inaudito, e inosservato a Paolo e a Francesca e passargli fuor via da banda a banda con un colpo solo di spada. E poi, o mi dica un po'; quando i Romani, capitano il consolo Flaminio, combatterono al Trasimeno contro i Cartaginesi, non racconta Livio, nella Deca, credo terza, che tanto li teneva presi la voluttà di sbranarsi, che non si accorsero punto del terremoto, il quale in cotesto istante subbissò città, respinse all'origine parecchi fiumi, e perfino spianò monti: adesso, vuol essa, gentilissima, concedere all'odio la virtù che nega allo amore? Legherà i sensi nostri più veemente la rabbia che la tenerezza? Io non ci vo' mettere su altre parole: me ne rimetto in lei. E poi tra il fracasso di un terremoto, e il rumore di usci a forza aperti, e il clamore di servi respinti, una differenza ci corre, e ne deve convenire anco lei. Dunque abbia fede, o signora, ai miei racconti, almeno quanto a quelli, che le farà il suo confessore.
Ma ecco a riscotere gli amanti Virginia (questo nome ella diceva, le avevano posto i suoi genitori il giorno dopo la sua nascita, senza consultarla), la sparvierata fantesca, si rovescia nella stanza sclamando:
— Eccolo! Eccolo!
— Chi ecco? Domanda Fulvia.
— Don Lelio, accompagnato da tre scherani, armati fino ai denti e con le spade ignude.
— Bene, senza scomporsi rispose Fulvia; tu, Virginia, va, vola per le scale segrete e avvisa Nardino.
La Virginia sparve a mo' di baleno. Fulvia rimasta sola con Lattanzio, senza mostrare fretta nè indugio, tolta la mano del giovane gli disse:
— Vien meco.
E quegli andò: allora ella aperto l'uscio della camera nuziale soggiunse:
— Trattienti qui dentro tanto, che io torni.
— Ma.... non è questo il pessimo dei luoghi ove celarmi?
— Va, non dubitare, e gli prese la mano, e Lattanzio la sua. — In cotesta stretta si ricambiarono tali e tante parole, che a significarle tutte ci verrebbero meno il tempo e la candela; le ometterò; compendiaronsi in queste poche profferite dalla Fulvia:
— Va, in casa Piccolomini non vissero mai traditori.
— E Vallestein?[6] Ma la Fulvia non intese, chè in cotesto punto chiuse l'uscio mettendosene la chiave in tasca; poi si assettò sicura, o almanco tale in apparenza.
Ecco spalancarsi la porta, ed ecco fragoroso, e feroce entrare Lelio, in compagnia di tre masnadieri; due alla sembianza ed agli atti più che altro rompitori di strada racimolati da Lelio nella Campagna romana, il terzo pareva ed era gentiluomo, anzi cavaliere, non però dei santi Maurizio e Lazzaro. La Fulvia levate le ciglia in su, sembrava volesse interrogarli col guardo non si giovando farlo con le labbra; a cotesta interrogazione rispose Lelio tremando per le membra e nella voce.
— Levata sempre a questa ora?
— Qual maraviglia per voi levato pure a questa ora, e vagatore di notte per sentieri, e assalitore di case. — Questo fin qui ella favellò irridendo: di un tratto però mutato suono di voce, ed aggrondati gli occhi interroga severa: — Or su, dite, che volete voi qui, che cosa cercate?
— Che cerco ti dirò io, or ora, che l'avrò trovato gettandoti il suo cadavere tra le braccia.
— Tu non moverai un passo... scellerato!... qui non si tratta propinare veleno...
E siccome l'altro vie più inviperito faceva atto di avventarsele addosso, ella stese le mani sotto un cuscino cavandone fuori due pistole pese, e voluminose come a cotesti tempi costumavano, e tenendole rivolte a Lelio gli gridò:
— Addietro... avvelenatore...
È da credersi, che coteste armi non sarebbero bastate davvero a spaventare Lelio, molto meno gli uomini di sua compagnia, là dove cheti cheti non fossero entrati nella stanza per la medesima porta, ond'erano venuti i primi, uomini armati di moschettoni ponendosi dietro le spalle loro: erano sei, e li guidava Nardino, il quale dal battesimo in fuora, caso mai lo avesse avuto, non serbava altro vestigio di uomo; ci si sarebbe accostato più un cane mastino: masnadiero maremmano di razza pura; del paese di Giuncarico dove mangiavano (non so se mangino adesso) le serpi per anguille. Lelio, e i compagni scossi dal lieve rumore, che mossero i sopraggiunti voltaronsi alquanto e viste le armi, e i ceffi scomunicati cagliarono; di ciò finse non addarsi la Fulvia la quale contegnosa continuò:
— Signore cavaliere Aloisi, ben vi ravviso; voi più volte della vostra presenza onoraste casa mia, ed io fui lieta accogliervi con la cortesia, ch'è debito fra persone dabbene: ed ora come va, che vi fate esecutore delle ribalderie del Griffoli? Comprendo le strette in mezzo alle quali gettano la scioperatezza e il mal costume; comprendo altresì quale, e quanto guaio menino sopra gli animi umani gli esempi di uomini come Lelio Griffoli, ma non mi sarei mai persuasa, che gentiluomini venissero al punto di bassezza in cui voi siete caduto. Voi siete romano, però ricordatevi, che il papa ha le mani lunghe non solo per benedire.... ed io sono sua parente. Sgombrate tosto da Siena, tornate a Roma, e per parte vostra fate, che io possa come vorrei dimenticarvi: ogni indugio potrebbe tornarvi funesto; se mi trovassi nei vostri piedi non aspetterei l'alba: levatevi di costì, e deponete prima la spada; Nardino, fategliela deporre, il cavaliere, che non seppe tenerla con onore, forza è che la ceda con disdoro.
E Nardino con un pugno menato alla sprovvista sopra la mano del cavaliere gliela fece cascare; e l'altro, comecchè per ira gli avvampasse la faccia, reputò buon consiglio tacersi.
— Quanto a voi altri due... siete stati pagati?
— Lustrissima, no.
— Ravvisò il Griffoli: ebbene eccovi due scudi per uno, e tornate a casa vostra; quello, che vi attende non vi potrà mancare; — però di qui non uscirete se non a patto, che deponiate le vostre armi.
— Lustrissima, e allora con che noi eserciteremo il nostro mestiere?
— Con la zappa, furfanti, toglietevi di qua; appena sia giorno accompagnateli fuori di porta Romana. — Ora lasciatemi col mio marito sola.
— Comanda...? Interrogò Nardino con tale un garbo, che significava: devo levare la spada anco a costui?
— Oh! no, rispose Fulvia, non è il ferro quello, che si ha da temere da coteste mani.
Partirono tutti in parte mogi, e in parte insolenti; non si dicono gli oltraggi, che ebbero a patire, e non si contano le busse. Rimasto solo Lelio con la Fulvia, egli si sentì umiliato, e conoscendo la figura strana, ch'ei sosteneva brandendo il ferro, lo depose sopra una sedia. Allora la Fulvia incominciò:
— Or bene, Griffoli, che novità sono queste?
— Per Cristo! non sono novità. Sono io morto? Sono io diventato così straniero a casa mia, che non devo pigliarmi pensiero del mio onore?
— Che parlate di onore? L'onore uscì di casa vostra quando ci conduceste l'omicidio e il tradimento.
— E fu colpa vostra: ma io devo sentire apatico il grido della mia vergogna, che viene a turbarmi anco in villa?
— Qual vergogna dite?
— Non parlaste voi con Lattanzio Bulgarini?
— Sì certo gli parlai.
— Non lo mandaste a cercare?
— Mandai.
— Non lo accoglieste notturno qui in casa?
— Lo accolsi.
— Dunque è vero?
— Che vero?
— La turpe tresca, che in onta mia, mantenete con lui.
— Questo altro, udite, è vero, il signor Lattanzio ha fatto sopra le lapide del fratello da voi avvelenato un fiero sacramento chiamandone testimoni Dio, ed i Santi, di vendicare sopra voi, sopra me la morte di Paride: se poco mi cale morire, molto mi preme essere non giustamente causa di odio implacabile. Posso curarmi poco dello affetto altrui! Posso, aimè! anco desiderare, tanti affanni mi ha portato! che veruno mi ami; non posso patire, che veruno mi odi. — Io non mi estimo l'arbore donde emana il balsamo, no, ma nè anco soffro sentirmi maledetta come il rovo, che straccia i panni e ferisce le carni: quindi lo ebbi a me più volte, lo supplicai a deporre giù gli odi, e gli sdegni; m'industriai giustificarmi, gli giurai la mia innocenza... che più? Mi genuflessi al suo cospetto per ottenere la pace pel colpevole.
— Ebbene?
— Confermò l'atroce sacramento di vendicare la vita fraterna, dovesse in questa vita dare il capo al carnefice; nell'altra l'anima al diavolo: quanto a me pose il suo perdono a duro patto, gli svelassi l'omicida del fratello...
— E voi mi avete tradito?
— Qual fede doveva serbarvi io? Io non vi ho accusato. E tanto vi basti. Non vantate vincolo di marito; il delitto lo ruppe: veruna legge obbliga la donna a sedersi a mensa con un uomo di cui la mano è assueta a versare veleno nella bevanda, a mettere il proprio capo sul capezzale insieme all'uomo, che può nel sonno agguantarti la gola per istrangolarti: noi siamo diventati stranieri, e come Dio vuole da noi non uscirono figli, che ci tengano legati nostro malgrado... catena di amore fabbricata dal demonio: perchè dunque vi gittate traverso al mio cammino? Se di alcuna cosa vorreste prendervi cura con profitto, sarebbe l'anima vostra. Orsù, Griffoli, a me non conviene, che voi finiate la vita su la forca, e a voi credo nemmeno: dunque parole brevi: vedete... già spunta l'alba... tornate in villa... colà rammentate, che vi si concede vivere... ma ad un patto, ed è, che voi facciate il morto... capite bene il morto.
E proferendo queste parole essendosi destramente accostata alla stanza da letto, ne aperse l'uscio di un tratto, e sparve. Al tempo stesso si presentarono a Lelio Nardino con un altro compagno, il primo dei quali in atto cerimoniale levatasi la berretta gli disse:
— Lustrissimo! La cavalcatura è lesta; l'attende giù a piè dell'uscio.
Lelio capì la ragia, e fatta di necessità virtù si accomodò al tempo: chi gli avesse visto la faccia ne avrebbe avuto paura, così compariva tinta in bile e stravolta, pure se avesse potuto contemplargli l'anima, io non credo, che ne avrebbe sostenuto l'orrore: tutte le atroci passioni esacerbate stavano ritte per nuocere, pari ai serpenti del capo di Medusa allora allora riciso da Perseo; e come quelli ormai incapaci a far danno.
E da cotesta notte innanzi le faccende ripigliarono il consueto cammino, senonchè gli amanti adoperavano alquanto maggiore discretezza per non parere. Però una mutazione accadde in Lattanzio, che non isfuggì punto alla Fulvia, la quale sagacissima donna era, e questa fu, che ora Lattanzio le si mostrava delirante di amore dando in quelle dimostrazioni eccessive, che sogliono costumare gli amanti quando cascano in simile stato di frenesia, ed ora si rimaneva lì freddo e apatico; interrogato rispondeva a vanvera: per cosa al mondo non ci era verso di cavarlo da cotesta astrattezza. Una notte, eravamo nell'ottobre del 1663, Lattanzio si palesò più fantastico del solito, il turbamento, che lo agitava vinceva ogni suo conato per dissimularlo: si rizzava in piedi e passeggiava come se lo molestasse il caldo insopportabile, di repente buttavasi giù a sedere con le mani prosciolte sciogliendo un sospiro lunghissimo: pareva volesse parlare, ma poi si peritava: parecchie volte, dopo avere preso commiato, tornò indietro ad abbracciare la Fulvia, alla quale, che lo interrogava affannata, che mai lo turbasse, egli sul punto di andarsene rispose:
— È destino — e si tirò dietro l'uscio.
La mattina di poi giacendosi tuttavia in letto la Fulvia, l'entrò in camera la fidata fantesca, la quale atterrita, con voce a strappi si mise a gridare:
— Signora, signorina mia, oh! che disgrazia è accaduta! Dio mio! Dio mio! mi sento mancare.
E Fulvia rizzatasi sul letto a sedere:
— Levami di pena, di' su, di' su presto.
— A me non regge il cuore; qui fuori ecci il contadino, permettete ch'ei passi: vi narrerà ogni cosa per filo e per segno.
— Venga tosto...
E il contadino essendosi fatto innanzi come uomo di giudizio spifferò addirittura, che un'ora fa era stato ammazzato il padrone signor Lelio. Forse il villano dalle scarpe grosse, e dal cervello sottile avrà odorato per aria, che alla Fulvia premeva venire a mezza spada senza tanti andirivieni: difatti Fulvia su le prime n'ebbe più maraviglia, che pietà; poi alle istanze di lei continuando a dire il villano, narrò come il padrone per ingannare la noia avesse preso usanza di recarsi alla Frasconaia per uccellare ai tordi, dove pigliava qualche sollievo, quando ecco stamani sul bruzzo uscendo fuori dal boschetto per buttare giù con la ramata i tordi invescati dal vergone, coglierlo un nugolo di palle squartate tratte da qualche sicario di dietro alla siepe; bene avere sentito le pedate di un uomo, che fuggiva, ma non averne potuto ravvisare il sembiante: essere il padrone rimasto ferito in più parti, massime nella mano; averlo subito trasportato in casa, e adagiato sul letto; comecchè tutti lo giudicassero basìto avere mandato pel prete e pel cerusico; egli messasi fra le gambe la via ad avvertirla dell'accidente per suo governo.
.... coglierlo un nugolo di palle squartate tratte da qualche sicario di dietro alla siepe (Pag. 137).
Quando licenziato il villano, la Fulvia si gittò resupina sul letto, e si pose a meditare sul caso, di un lampo, comprese il tiro venire da Lattanzio; sentì scorrersi un gelo per le ossa, le s'increspò per ribrezzo la pelle; alla catena si alternavano spaventosamente gli anelli ora di peccato, ora di delitto: di volgere gli occhi in su per soccorso non correva più tempo, nè lo avrebbe voluto: detestava la colpa e questa vie maggiormente la stringeva al colpevole.
In così profondo turbamento dell'animo, pure desiderando mantenere le apparenze, si vestiva in fretta per recarsi in villa di poco più di un miglio fuori delle porte di Siena, e già era scesa nella strada, e già teneva il piede nel montatoio per salire in calesse, quando da un lato della via vide una calca di gente, che accorreva intorno ad una barella portata soavemente sopra le spalle di quattro contadini; e mentre stava in asso col piè su la staffa, a cavarla di ambage ecco levarsi un turbinio di voci: — Non è morto! è resuscitato! non lo ha voluto Dio nè il Diavolo come l'anima di Lorenzino dei Medici! Gli è come i gatti, egli ha sette vite!
— È destino! — Mormorò la Fulvia, e accorse incontro alla barella dove riconobbe tutto sanguinoso, e bendato il suo marito; la compassione, che mai si scompagna da cuore gentile, punse la donna, che con voce pietosa favellò così:
— Cristiani! mi raccomando, usate carità, andate bel bello, non lo fate patire, che io poi adopererò con voi la cortesia che meritate.
E la plebe: — Oh! lasci andare l'acqua per la china, gli è meglio perderlo, che guadagnarlo, sia benedetta! La è proprio la mano di Dio, che glielo leva dintorno. Non ha mai dato un Cristo a baciare; gli è una tigna, un cacastecchi, uno spilorcio, un avaro; e via di questo gusto: chè il Romano trionfante al Campidoglio non curasse a' vituperii degli sboccati comilitoni, io lo capisco; forse non gli avrà nè anco uditi, o per cagione dello strepito delle trombe o per l'urlo dell'orgoglio soddisfatto, che più clamoroso delle trombe gli ruggiva su l'anima, ma coteste litanie a cui sente approssimarsi la morte, che lo precipita per una via di sangue dentro il sepolcro, devono tornare amarissime, quantunque l'uomo che le provoca, come quello di Lelio, possa essersi convertito in un nido di vipere.
Non per questo, anzi a cagione di questo, non si ristava la Fulvia, la quale con maggiore istanza che mai, non senza aggiungervi l'atto supplice delle mani, si raccomandava: — Carità! cristiani, carità!
Questa voce udì il ferito, il quale sporta la mano fuori della barella l'agitava: che intendeva egli fare? Chi lo sa? Chi può saperlo? La mano dell'uomo si muove nella stessa maniera, sia che benedica, o sia che maledica. Prossimo al fine, non posso trattenermi per ispiegare enigmi.
Adagiato sul letto, e visitato il ferito da quel medesimo maestro di medicina e cerusico che curò Paride Bulgarini prossimo a morte, fu di leggeri conosciuto, lievi tutte le altre ferite, eccetto quella della mano gravissima. Un pezzo il maestro stette incerto se dovesse disarticolare parecchie dita, ovvero amputare addirittura la mano, entrambi verbi che in buono italiano significano tagliare; e più volte levò il coltello in alto, e poi lo declinò avvertendo come alle cose che non si possono fare se non una volta sola, giovi pensarci due; e di vero parve il fatto lodare il consiglio, imperciocchè lo infermo andò di mano in mano migliorando dando speranza di non lontana guarigione.
La Fulvia, dopochè giacque ferito Lelio, o non volle, o non potè più vedere Lattanzio; forse fu un po' l'una cosa e l'altra; però Lattanzio aveva per così dire notizia di ora in ora della salute dello infermo. Avvi chi afferma darsi una cura più grave di quella che nasce dal commesso delitto, ed è quella, che deriva dal delitto tentato, e riuscito a male; altri all'opposto assicura, che l'uomo si senta come sgravato da un peso enorme quando per fortuna non compì il criminoso disegno: su di che giudichino i savi; io mi contento affermarvi come Lattanzio adesso si trovasse in siffatta condizione di animo. Non usciva più di casa; poco si cibava, meno dormiva, sempre su e giù per la stanza quasi belva in gabbia, aggrottate le sopracciglia, chino il capo sul petto di cui con la manca sorreggeva il mento, e la destra si teneva dietro chiusa a pugno lungo al dorso; tutto in sè rannicchiato; i capegli incomposti parevano avessero lite fra loro; una calza legata, l'altra rovesciata fin su la noce del piede lasciava ignuda la gamba. Certa notte, credo fosse la precedente al giorno della commemorazione dei morti, uscito dalla stanza andò nella camera, dove dormiva un suo fidato servitore, e svegliatolo a cenni lo avvertì, che si vestisse e lo seguitasse, la quale cosa avendo costui fatto, egli lo condusse in camera sua e quivi si pose fitto fitto a ragionare con lui; però a voce tanto sommessa, che si saria udito il ronzio dell'ultima zanzara rimasta viva in onta al principiare del novembre. Ad argomentare dai gesti si poteva credere, che si fossero trovati d'accordo, per così dire, in massima, ed ora si trovassero disformi intorno a negozi di seconda importanza: all'ultimo parvero essersi concertati; allora il servo tornò a dormire, Lattanzio a fare la lionessa; ma all'ultimo la stanchezza lo vinse, e così come si trovava vestito si gittò boccone sul letto a prendere un po' di riposo.
Adesso vuolsi sapere come il servo col quale Lattanzio aveva tenuto la conferenza segreta fosse quel desso, che lo accompagnava armato nelle sue notturne visite in casa Fulvia, e quivi si tratteneva finchè al padrone non piacesse tornarsene alla propria magione; quivi pertanto aveva preso domestichezza, come colui, che si mostrava sollazzevole e motteggiatore, con tutta la famiglia; e poichè il padrone non faceva seco a spilluzzico per tenere allegra la brigata, ed egli era di quelli pei quali tanti ne cresce e tanti ne muore, non è da credersi il bene pazzo, che gli avevano posto, massime l'uomo nero della Signora, di cui il naso tinto in vermiglio raccontava la gloria del vino. Da lui quotidianamente, e spesso più volte il dì, sapeva dello stato di salute del Griffoli, e con lui faceva a scarica barili delle ambasciate di Lattanzio alla Fulvia, e della Fulvia a Lattanzio: insomma per non menare più a lungo il can per l'aia: due anime in un nocciolo. Ordinariamente si davano la posta alla osteria dell'Oca, dove si trovava il miglior vino, che producesse il Chianti, il quale a cotesti tempi godeva men fama, e se la meritava di più che ai nostri, dove il padrone corrotto non ha sofferto che uomini nè cose rimanessero innocenti. Colà bevevano l'oblio dei mali e dei padroni; se tardavano troppo a tornare a casa, colpevoli tutti, eccetto loro. Ormai piegando la ferita, quella della mano, a perfetta guarigione (si erano già chiuse le altre) il cerusico visitava il malato una volta in capo a due giorni avendo commesso alla Fulvia, che lo medicava, uno o due volte al dì gli mutasse le fila stendendo sopra la faldella vie via un po' di unguento di semifreddi, ed avvertisse non fosse stantío; per la quale cosa ella lo mandava a pigliare dallo speziale tutti i giorni la mattina per tempo. — Il dì che successe al colloquio notturno di Lattanzio col servo fidato, questi si pose sul canto di via Volpe, sfiaccolato, fischiando come se non fosse fatto suo; appena visto spuntare di faccia l'uomo nero, se la svignò nascondendosi, poi si rimise alla posta; nè si mosse finchè costui non fosse di ritorno col vasetto dell'unguento in mano. Allora lo abbordò di stianto, e abbracciollo con insolita tenerezza; poi lo invitò di portarsi alla consueta osteria per gustare un vino di Broglio, che pareva stillato dalle benedette mani di Dio; di più ci troverebbe un tocco di presciutto di Casentino, presente di un suo compare, da far piangere di tenerezza non che altri re Erode: non istesse su le smorfie; già pagare tutto lui: cinque minuti più o meno non guastavano, e il signor Lelio poteva pure aspettare; non istava a suo agio? Certo che sì, o non giaceva in letto? Così ce lo conficasse Cristo per tutta la vita! E non saltasse fuori con lo scusarsi, che di mattina non beveva vino, perchè sapeva di certa scienza, che prima di coricarsi aveva cura di mettere il fiasco a canto all'orinale sotto il letto; così parte con le parole, e parte con le braccia lo scarrucolò, lo abbindolò, che l'uomo nero dal naso rosso si trovò ruzzolato nell'osteria dell'Oca, assettato ad una tavola, col fiasco e il prosciutto davanti. Fin lì la mente gli aveva tenzonato fra il sì ed il no, come dice Dante Alighieri; ma davanti a cotesti oggetti della sua tenerezza gli naufragarono volontà e coraggio, e (orribile a dirsi!) primo afferrò il fiasco, si versò un colmo bicchiere di vino, e se lo rovesciò nella gola a digiuno. — Di pensiero in pensiero, di monte in monte, questo dice messer Francesco Petrarca, ed io di bicchiere e in bicchiere si venne al punto, che l'uomo nero giurava di vedere le stelle e il sole, anzi due soli, e millanta stelle, nè si accorse di aver fatto tardi se non quando messo il fiasco con la bocca in giù mandava stille rade, più rade di quelle che versa l'erede dopo aperto il testamento; allora gli prese la rosa di avere fatto troppo tardi, e salutata la compagnia andossi con Dio. Tornato a casa, a mo' che le anguille vanno, fu accolto dalla Fulvia, che impazientissima lo attendeva con turbata cera, e pure non si attentò fiatare; era mestieri soffrire, imperciocchè quando poniamo i servi a parte delle cose, che non arieno a sapere, perchè le non si dovrebbono fare, il primo guaio, e forse non maggiore degli altri, egli è quello di sopportare da loro qualunque strazio.
.... si versò un colmo bicchiere di vino, e se lo rovesciò nella gola a digiuno. (Pag. 142.)
La Fulvia pertanto tolto di mano a costui il vaso dell'unguento recavasi al letto del marito, che ora in sembianza mansueto le favellava blande parole e benigne: quivi ella con molta prescia si diede a sfasciare la ferita, e intrise le fila nello unguento con avvedutezza lo medicò: poco dopo egli ristoratosi alquanto con brodo, e vino chiuse gli occhi al riposo, onde Fulvia se ne andò ad attendere alle cure di casa. Scoccava per lo appunto il mezzogiorno, e così giusto tre ore dopo la medicatura, che lo infermo cominciò a urlare come un dannato lagnandosi che gli tagliavano, gli segavano, gli bruciavano la mano; accorse tosto la Fulvia, e procurò consolarlo, poi instando egli lo sfasciò da capo, gli mutò le fila scegliendo le più sottili fra le sottilissime, e un po' di refrigerio parve che l'infermo sentisse. Ma indi a poco lo spasimo prese a tribolarlo più veemente di prima; non è da dirsi quanta la smania e lo scontorcersi del malcapitato: si attorcigliava da sè più che le curandaie non aggrovigliano panno per ispremerne l'acqua, e quindi a spazio non lungo di tempo anch'egli diventa in faccia color di cenere, in pelle in pelle trema, si disfà come morto; anco a lui s'infossano gli occhi dentro un cerchio grigio quasi cadaveri dentro le casse di piombo; il sudore gronda giù dalla fronte a pioggia; la voce diventa rantolosa e fioca: ecco le convulsioni orribili, più violente in lui che nel Bulgarini, come quello che non era attrito dalla infermità come Paride; ecco l'umore viscoso gocciolare giù dalla bocca, lo insopportabile fetore; tutto il corpo diventa chiazzato di macchie pagonazze; — anco sopra cotesta fronte la morte ha piantato la sua bandiera come dentro una rôcca presa. Chiamasi il prete o chiamasi il cerusico? Mandisi per ambedue, comecchè si preveda che il cerusico cascava a proposito come il soccorso di Pisa.
Il prete venne, ma accostandosi non potè ricevere altro che il vomito del corpo, e se ei maledisse le dieci volte il moribondo, Cristo lo sa; quanto al vomito dell'anima Lelio se lo tenne in sè, almeno, finchè il prete stette in camera; egli uscito, Lelio a strappi parlò tanto quanto bastava a palesare, che inferno fosse l'anima sua. Dai tronchi accenti si argomentò finzione essere la presente mitezza: odiare Lattanzio, odiare Fulvia, odiare tutti; nel presagio di guarire volere implorare pace, e darla; breve; farsi il commento vivo del Pater noster, appendice alla orazione domenicale; così tranquillarli, ed intanto ammannire il tossico, ed un bel giorno fra le gioie convivali avvelenare come cani quanti erano. Gli assistenti appunto per paura di essere morsi dal moribondo spulezzarono dintorno al letto; sola rimase la Fulvia: e Dio, com'è da credersi, notò codesto atto, che presso lui ha da essere stato lavacro per ben molte colpe.
Ultimo a comparire fu il cerusico sorgnone: costui portava due occhiali sul naso, che parevano due lanterne, se per sovvenire la virtù visiva, o per dissimulare la malignità degli occhi, pendeva dubbio: questo era certo che quando intendeva speculare profondo dardeggiava lo sguardo di sopra agli occhiali. Ed ora di fatto guardava il moribondo traverso le lenti, ed ora la Fulvia a pupilla ignuda, in su ed in giù come fa l'uccello quando beve; ma la Fulvia si manteneva serena sotto cotesto grandinare di mortale sospetto; certo la Innocenza non avrebbe tolto cotesta fronte per insegna alla sua bottega, ma il Delitto nè anco ci avrebbe potuto scrivere: posto preso. Alla fine al cerusico dopo non poca esitanza parve bene non menare scandolo, ed abbuiare la cosa, sentenziando a voce alta: il povero (chi muore è sempre povero, e a patto che tu muoia ti loderanno anco i nemici, e, sto quasi per dire, anco gli amici; così almeno spero, che sarà di me; anzi ne vado sicuro) esser morto di colica intestinale acuta; a voce bassa poi chiamata la Fulvia in disparte, le sussurrò dentro gli orecchi:
— Donna Fulvia, Gesù Cristo quando bandì la sentenza: chi di coltello ammazza, di coltello conviene che pera, nol disse già in modo tassativo, bensì dimostrativo, cosicchè hassi ad intendere di ogni altro arnese o mezzo: nel caso presente intendi così: chi di veleno uccide, di veleno ha da morire.
— Che dite mai, maestro! chi può avergli propinato il veleno se lo custodiva proprio io?
— Voi avete a sapere, donna Fulvia, come la gente non si avveleni già solo per bocca, ma sì anco per assorbimento, il quale avviene mettendo il veleno sopra le carni umane: ora siffatto assorbimento è accaduto celerissimo oltre il consueto, nel marito vostro, perchè aveva il sangue disposto a corrompersi, e perchè il veleno spiegò la sua virtù sopra carni scoperte e inciprignite dalla piaga.
La Fulvia diede in un grido, e si percosse la fronte pure balenando della persona per cascare; la sorresse il cerusico aggiungendole a voce sommessa: — Povera signora, voi non ne avete colpa, lo so; però mettiamo una pietra su tutto; pensate a suffragare l'anima del defunto.
In questa passando il prete, per amministrare la estrema unzione, udì le ultime parole del cerusico, per la qual cosa soprastette alquanto, e voltosi alla Fulvia confermò dicendo:
— Gli è il meglio, che vostra signoria lustrissima possa fare.
E veramente di messe, mortori, ed altri ganci siffatti, per ripescare un'anima cristiana cascata nel pozzo del purgatorio, la Fulvia non fece a spilluzzico; onde salì in fama presso i religiosi così regolari come secolari di pia, di angiolo di bontà, di matrona insomma, la quale, per troppo levarla al cielo, non significava che non si potesse inalzare anco più in su. Per converso, alla stregua che cresceva il favore sacerdotale abbassava quello del popolo: e già il Griffoli era venuto in compassione a parecchi; in ispecie ai mariti gelosi interi e mezzo gelosi, i quali si attentavano, nientemeno, ad affermare che la moglie si piglia per sè e non per gli altri; e che chi cavalca la mula l'ha da ferrare; e che le donne hanno da badare a casa, senza uscir fuori così attillate, e con tanti fronzoli attorno; nè la femmina che costuma a cotesto modo deve lodarsi come pudica, imperciocchè quando anco non sia anco arrivata a casa del diavolo, pure è in cammino per lo inferno; nè si ha a credere, che chi tende archetti non voglia pigliare uccelli; antichi i proverbi, e di quelli proprio buoni: che chi non vuol vendere il vino levi la frasca, e chi imbianca la facciata cerca appigionare la casa.
La quale opinione, in prima latente, divampò poco dopo per un altro anello, che si aggiunse alla catena ribadita dal destino ai piedi di Lattanzio e di Fulvia: questa, quando se lo aspettava meno, sentì essere successa in lei una trasformazione. Qual mai trasformazione? Mi domanda ingenua una fanciulla allevata presso le Suore del sacro Cuore; ed io di cui la Musa crebbe all'ombra della disciplina delle Monache dei santi Pietro e Paolo qui in Livorno (o che credete, che siamo eretici in Livorno? Pensate forse che non si trovino conventi in Livorno? In Livorno ci si trovano benissimo; anzi non ce ne furono mai tanti come ora, che non ci hanno più ad essere; e oltre i conventi qui ti occorre il suo bravo seminario, il municipio, il prefetto, i bagni di acqua di mare et etiam di acqua dolce, i lampioni che mandano talvolta un sospiro di luce, e le scuole dove la luce sta in agonia permanente, la cattedrale in mezzo alla città, la sinagoga dietro, da per tutto are a Venere pandemia, e macelli di buona e di mala carne, e cavalieri dei santi Maurizio e Lazzaro, e taluno della Corona d'Italia altresì: insomma qui cessi pubblici, qui guardie di pubblica sicurezza, qui tutti gli oneri e gli onori, attribuzioni e prerogative di una città civile, compresi due vescovi) mormoro detti segreti: voi tutte lo sapete, o l'avrete a sapere; però a cui lo sa, giudico inutile dirlo, a cui non lo sa, siccome non può tardare a provarlo, ed ella, leggiadrissima, che me lo domanda; forse più presto delle altre, mi permetta che io me ne passi.
Dunque la Fulvia, avendo sentito come in lei fosse successa una trasformazione, mandò a chiamare il Bulgarini con le debite cautele, e tenne con lui un colloquio del quale il sugo fu questo: bisogna, Lattanzio, che, tronca ogni dimora, voi diate un padre ad un figliuolo, ed un marito alla madre; ed egli: — Magari!
Potevano anco qui non precipitare le cose: potevano consultarsi con persone prudenti, e dar miglior garbo al partito: si peritarono a domandare l'avviso altrui perchè lo avrebbero chiesto ad occhi bassi, e loro malgrado la faccia per vergogna avrebbero sentito avvamparsi fino alla radice dei capelli; sposarono di notte quasi paurosi fosse di coteste nozze testimone il sole. E fu notato altresì che le candele accese in cotesta occasione erano servite per una messa da morto pochi giorni innanzi celebrata in cotesta cappella; anzi giusto nel momento, che la Fulvia rispondendo al prete disse: sì, una di quelle male assicurata dentro lo spunzone del candeliere cascò sopra l'altare e si spense: per uno istante tutti si sentirono ghiacciare di paura; il prete stesso sospese il rito per indagare un po' che diavolo fosse: quanti ci erano presenti ne trassero augurio sinistro. Nei ricordi dei tempi[7], trovo che la Fulvia si costituì in dote scudi 7400, vale dire ventiquattro scudi più di quello, che pel medesimo titolo aveva portato al Griffoli: il matrimonio successe nel giorno terzo di maggio 1663; la Fulvia allora noverava 33 anni, Lattanzio ventisei.
Per questo fatto la opinione pubblica, chè un pezzo stette sospesa sopra il capo loro a mo' di nugolo nero, scoppiò rovesciando ruina. Nella perpetua altalena degli amori e degli odi del popolo, adesso toccava al Griffoli trovarsi in su prossimo al cielo, e gli altri giù vicino allo inferno. Donde mai tanta mutazione? Un po', come sempre suole, per cause buone, e molto per cause cattive: erano buone il poco rispetto al costume, la dimostrazione di cuore spietato contro il morto, lo esempio d'incontinenza, e lo impaziente assettarsi sopra una fossa dianzi riempita come sopra un lettuccio, arnese superlativo pei colloqui di amore. Inoltre tanto non aveva potuto celarsi la cagione della morte del Griffoli, che ormai la notizia non avesse trapelato nella città dove ogni dì pur troppo si andava allargando: le cattive consistevano nello spirito di contradizione, che regge e governa la umana natura. Tutto qui vediamo essere contradizione e contrasto; anima e materia, vita e morte, sereno e procella, dì e notte, pianura e collina, tenebre e luce, libertà e tirannide, e via via; l'uomo poi, contradizione suprema; ed appunto in proposito un Bargagli sanese, bello umore se altri fu mai, mi disse un giorno, che messer Domineddio, presagendo di che panni avrebbe vestito l'uomo, prima creò tutte le cose, e all'ultimo si riserbò a mettere fuori l'uomo, che per lo appunto fu il sesto giorno, perchè dove lo avesse fatto il primo con tanti vetri rotti egli gli avrebbe seminato il terreno, tanti contrasti mosso, con tante contradizioni scombussolato, che a questa ora la opera della creazione non sarebbe anco finita, e i magazzini della Eternità conterrebbero più mondi sciupati, che i magazzini del municipio di Firenze non ha lampioncini per la illuminazione della festa dello Statuto. E perchè tu veda se mi apponga al vero; considera questo: quante volte si commette un delitto, la mente del popolo infellonisce; la giustizia, per non parere, mette le mani addosso a sei, ovvero ad otto e l'ira del popolo si avventa contro tutti; che tutti non possano essere colpevoli a lui non preme cercare nè sapere; se li potesse avere fra l'ugna li ridurrebbe in brindelli in meno che non si dice un credo. Applaude allo accusatore, aizza i giudici a condannare; si dimena inquieto all'esame dei testimoni, i quali attestano in pro dello incolpato, digrigna i denti alla difesa: ecco alla fine la sentenza, che manda al patibolo l'oggetto del suo furore: sarà pago al fine? — All'opposto; adesso avviene una mutazione di pianta: un diluvio di pietà si rovescia sul condannato; per lui accendonsi le candele, per lui si supplicano gli altari, per lui si accatta a fine di accompagnarlo con una buona scorta di suffragi a piedi e a cavallo nel viaggio dell'altro mondo. Nè lo trascurano in questo: marzapani, bianco mangiare, di ogni ragione delicature non gli fanno difetto; chieda e domandi, gli risponderanno a bacchetta: anzi perchè non si dimentichi troppo il condannato della condizione in cui si versa, onde poi non gli riesca fuori di misura angoscioso il ritorno alla realità, procureranno mescere nel dolce un po' di amaro, arte sopra quanti popoli si conoscono al mondo professata dai Veneziani[8]. Pigliano a mordere lo accusatore e i giudici; il difensore torna a galla; il carnefice, forse il più innocente di tutti, inseguono con le contumelie, con la sassaiola ammaccano; potessero, lo ridurrebbero in massa di mota insanguinata. Ma forse questa contradizione non è causa bensì effetto, stando la vera causa riposta in più remota parte, la quale, dubito assai che risieda nello istinto ferocemente naturale dell'uomo di perseguitare; così prima egli perseguitò con la legge, la morale, i tribunali e gli sbirri lo incolpato; adesso, questa vicenda trovando esaurita, piglia il condannato in mano come un flagello e ne percuote sbirri, giudici, morale e legge. O la brutta tragica farsa che si rappresenta da cinquanta o cento secoli nell'universo! Io fo conto che dal primo giorno la venne solennemente fischiata; ma lo Autore avendola trovata buona non se ne diede per inteso, nè per ora fa cenno di calare il sipario.... Vanità di autore è vanità spietata!
Fin qui il cronista; io aggiungo, che Lattanzio prima di partire per lo esilio, avendosi su quel subito eletto a domicilio la città di Lucca, convenne con la Fulvia, che talora sotto mentite vesti sarebbe andato a trovarla: verrebbe notturno fra la mezzanotte e la prima ora del mattino; si annunzierebbe con tre fischi; ella lo aspettasse per aprirgli, o per fargli aprire: non frequente la sua comparsa; una volta forse in capo al mese. Si divisero senza mirarsi, senza pigliarsi per mano, peritaronsi a guardarsi in viso; ognuno di essi temeva di leggere su quello dell'altro la colpa e il rimprovero. Da prima Lattanzio fu puntuale: non iscattava il mese, ch'egli si presentasse, e così durò, finchè Fulvia non ebbe partorito, la quale cosa successe sette mesi dopo la morte del Griffoli, onde il parto fu giudicato suo per virtù dello assioma legale, che pater est quem justæ nuptiæ demonstrant. Le presunzioni generano, e poi fanno le maraviglie se Giunone ingravidò toccando un fiore, e Maria mercè un'ambasciata dentro l'orecchio: dopo la nascita della bambina (che di questo sesso fu il portato di Fulvia), le visite diventarono mano a mano più rade, imperciocchè per quanti sforzi Lattanzio facesse non potè mai baciare cotesta creaturina; si provò una volta a benedirla ponendole una mano sul capo e Fulvia quasi per animarlo a sua posta allungò la destra; ma Lattanzio, avendo incontrato la mano di Fulvia in quella, che stava per posarsi su i capelli della bimba, egli la ritirò vivamente come se avesse tocco un ferro rovente, — e:
— Non ne facciamo niente, susurrò sospettoso; la nostra benedizione potrebbe apportarle sciagura.
Impertanto, quando egli entrava, non levava mai gli occhi sopra la sua donna, ned ella i suoi sopra lui. — Buona sera — diceva egli: — buona sera, — rispondeva ella; ed appressatosi alla culla mirava rabbrividendo le sembianze della pargola, le quali ogni di più arieggiavano le sue. Era un piacere acuto, o se ti piace meglio un dolore soave; nè arricciare il niffo, chè il cuore umano ha più bisticci della lingua, e gli antichi, che se ne intendevano, chiamarono le Furie Eumenidi benefiche (lo attesta Pausania) e le finsero sorelle nientemeno che di Venere, e di questa altro ci ammaestra Epimenide. Lattanzio si genufletteva davanti la culla, e quivi tanto dimorava, finchè un rivo di lacrime non gli uscisse dagli occhi; e certa notte, che gli parve udire singhiozzare la Fulvia favellò soave questi accenti:
— Non ti affannare, Fulvia: le lacrime sono la migliore preghiera per me, — e forse per tutti.
Quando si partiva, lo accompagnava Fulvia fino su la soglia della porta di casa, senza lume, tentone; colà Lattanzio diceva in voce di requiem æternam: — Addio! — a cui Fulvia rispondeva: — Addio!
La fanciullina a cui fu posto il nome Caterina Gaetana, ebbe per comare al fonte battesimale donna Virginia di Agostino Chigi; la Fulvia l'allevò, e la custodì come sanno custodire le madri, le quali dopo avere gustato gli amari frutti della colpa furono purificate dalla sventura, e si santificarono col pentimento. Di veruna cosa tanto pregava Dio, come le durasse la vita per poterla allogare in modo degno di lei; ma sentendosi ogni dì venir meno la lena, giudicò che non avrebbe conseguito questo fine supremo, laddove non si fosse affrettata. A tale scopo se ne aperse con donna Virginia Chigi, moglie che fu di Giambatista Piccolomini e nipote del Papa Alessandro, la quale come svisceratissima sua le propose stringere con nuovo nodo di parentela il vincolo, che già le univa di amicizia e di cognazione fra loro, sposando la Caterina col proprio figliuolo Francesco. Parve alla povera Fulvia toccare il cielo col dito, nè seppe in altra guisa significare la profonda gratitudine, eccettochè col gittarsi nelle braccia dell'amica, e versare copiosissime lacrime. Dava un po' noia la età della fanciulla, che varcava di poco il dodicesimo anno; ma comparendo atticciata e ben complessa, fu giudicato di non cercare il nodo nel giunco: rimaneva ad assestare la dote, ma Lattanzio oltre allo assentire, che la Fulvia dêsse alla Caterina interi gli scudi 7400, chiese in grazia di portarli col suo fino a 15000; e fu tenuta grossa dote, imperciocchè tuttavia corressero costumi nei quali
Non faceva nascendo ancor paura
La figlia al padre, chè il tempo e la dote
Non fuggian quinci e quindi la misura.[9]
Questo Francesco riuscì assai spettabile gentiluomo, ed avendo accompagnato in Francia Flavio Chigi cardinale, e legato a latere, e Sigismondo Chigi nipoti del Papa, assai si trattenne in Corte di Luigi XIV.
La Fulvia dopo questa consolazione si diede intera alle pratiche di pietà: usciva di casa per girsene a supplicare in chiesa, tornava di chiesa per fare orazione in casa; visitava infermi, non respingeva mai poverello di Dio senza averlo con larghezza aiutato; di ora in ora metteva una penna all'ale, che l'avrebbono, secondo la sua opinione, a tempo e a luogo trasportata di volo in paradiso. La vita certo le mancava, pure, se la intensa preghiera non la disfaceva, l'avrebbe tirata in lungo: la prece ardente e continua la consumò. Incominciò a supplicare per Paride, poi per Lattanzio, poi anco per sè, ma terminato questo ciclo, le pareva vedere, e vedeva certo due mani giunte scaturire fuori da un mare di tenebre in atto d'implorare un po' di refrigerio, d'intercessione: cotesta vista la faceva rabbrividire; pensava al naufrago, che presso a dare l'ultimo tuffo solleva a quel mo' le mani su le acque; e allora pregava anco per Lelio. Questo roteare senza posa si rinnovava da prima distinto e completo, poi rotto a pezzi, e il capo ne usciva indolenzito come se lo recingesse una corona di spine; questo dolore sparso mano a mano si concentrò in ispasimo fissandosi sul ciglio destro; ei cruciava come un chiodo fitto dentro l'occhio: difatti lo appellano chiodo solare però che col crescere del sole aumenti l'angoscia, e col declinare diminuisca. Questo fiero malore, che ad altro non saprei rassomigliare che al mal dei denti, nel cervello precipitò il corso mortale della vita di Fulvia: ella morì perdonando a tutti, esaltata dai lumi, dai canti, dagl'incensi ed anco dai singhiozzi dei preti, degl'incappati, degli uomini e delle donne che le stavano intorno al letto: morì contenta, e credè sul serio, prosciolta dal martirio terreno, andare assunta alla pace di Dio. — L'opinione pubblica aveva di già segnato sul conto suo una giravolta, il clero già non la derelisse mai: cosa papale ell'era; e la pietà sua spremuta dal rimorso stillava olio all'altare più della oliva stretta nel torchio; in oltre a lodare la sua munificenza il clero ci trovava il proprio interesse avendo egli considerato, che se la pietà donava alla Chiesa con la mestola, la vanità sbraciava con la pala. I poveri, la plebe insomma, ha confinato la sua tenerezza nei denti: gettale sotto pane da mordere, e ti amerà; ritirale il pane e ti vorrà male di morte. La gente dabbene si stringeva nelle spalle, e diceva: «Povera donna! certo non è stata uno stinco di Santo, ma ha sofferto molto; Dio la perdoni come il mondo l'ha perdonata.»
A Lattanzio, o per moto proprio, ovvero a istanza altrui, il Granduca Ferdinando II concesse lettere di grazia della pena dello esilio; onde quegli tornasse a morire in casa. In città non si fece più vedere: pose stanza in campagna, dove visse solitario, fuggendo ogni aspetto umano, concentrato in sè, raro parlante; veruna cura si pigliava delle faccende sue, poca della persona. Sovente fu visto sdraiarsi sotto un arbore all'ombra, e quando l'ombra cessava egli rimaneva nel medesimo luogo sotto la sferza del sole senza che mostrasse accorgersene; ancora (mirabile a dirsi!) vespe, tafani gli si ammucchiavano sul viso; ned egli, il più delle volte, moveva la mano per cacciarli, tanto il suo spirito vagava dilungato fuori dalla realità della vita, sicchè quando si levava la sua sembianza grondante sangue offeriva anch'ella la immagine dell' ecce homo! Sul cadere delle foglie chiamato a sè il curato della prossima parrocchia, invitollo a pranzo, dove si alternarono fra loro di molti e dotti ragionamenti, che il prete non pure intendeva di divinità assaissimo, ma sì andava non mediocremente ornato di umane lettere. Dopo il pasto recatisi in giardino, Lattanzio di un tratto soffermatosi domandò:
— Che ora abbiamo? Il parroco guardò l'ombra che mandavano gli arbori a sole cadente e rispose: — Le ventuna non possono star di molto a sonare.
— Or bè, don Antonio, voi cominciando da domani udrete la mia confessione generale, perchè tra quindici giorni a questa ora precisa io morirò; e se possibile fosse io mi vorrei acconciare dell'anima.
— O chi vi ha detto che morirete fra quindici giorni; come potete saperlo voi?
— Lo so. — Sento qui dentro la voce del destino, la quale non mi ha ingannato mai.
— Che destino andate voi farneticando? Il destino la è roba da Pagani; dite la Provvidenza.
— Provvidenza sia, io non mi voglio bisticciare con voi, provvidenza o destino, una forza invincibile, spietata che dentro e fuori di noi ne può più di noi.
Nel seguente giorno incominciò la confessione; per ore e ore Lattanzio pallido in faccia come un morto stava genuflesso a piè del confessore, e il confessore grondava sudore tanto da intriderne due fazzoletti; per modo che la serva della Canonica essendosene accorta ebbe a dirgli: — O don Antonio, che novità è questa? Non fareste mica le prove per correre il palio su la piazza di Siena?
— Don Antonio, ditemelo da galantuomo, ci vedete verso che io mi possa salvare? (Pag. 160.)
Terminata la confessione, Lattanzio con voce spenta interrogò:
— Don Antonio, ditemelo da galantuomo, ci vedete verso che io mi possa salvare?
— Guà!
La misericordia di Dio ha sì gran braccia
Che piglia ciò, che si rivolve a lei.
E quando al nostro divino Redentore non avessero inchiodato le braccia, tanto è, ei le terrebbe sempre aperte per raccogliere le anime pentite che confidano in lui.
Venuto il decimo giorno del termine da Lattanzio presagito, si mise a letto, e al parroco, che ormai gli si era fatto indivisibile compagno, parlò a lungo nell'orecchio; e siccome quegli crollava il capo come uomo che tentenni fra due diversi concetti, egli con maggior fervore s'industriò persuaderlo, e parve riuscisse, imperciocchè all'ultimo rispose:
— Restate consolato, sarà fatto.
Giunse il giorno quindici; fino da mezzodì, gli assistenti avevano dichiarato, che Lattanzio non avrebbe passato la giornata. Strana infermità davvero! Non febbre, non doglia di capo, o di visceri; ordinato il moto del cuore, ordinati i polsi, e con tutto questo la vita gli scappava da tutti i pori; ei si disfaceva come la massa di metallo se ne va in forfora sotto l'azione della lima. Gli occhi teneva fitti nella parete opposta al letto, e moveva le labbra come se contasse; di repente si scosse, ed accennato al prete, che si accostasse, domandò:
— Avete avvisato in tempo?
— Vi ripeto per la decima volta, che sì.
— E verrà?
— Verrà senz'altro... eccola se non erro.
E fu sentito strepito di carrozza, che si affretti.
— Egli era tempo... perchè perdo il lume degli occhi... mi sento mancare... manco.
In questa, dall'uscio in fretta dischiuso, si precipita nella stanza una donna per grazia, per leggiadria, per giovanezza divina: mossa, o piuttosto spinta da qualche spirito soprannaturale, si abbandona nelle braccia del moribondo, che gliele tendeva nel delirio di un affetto che pare, — no, che per certo vince, almeno per alcuni istanti, la morte.
— Abbiti l'anima mia! esclamò il morente con tale una lena, che mise in chi lo ascoltò, maraviglia, pietà ad un punto e paura; e l'anima pur troppo le diede, imperciocchè in cotesto supremo amplesso, in cotesto supremo bacio, lo spirito si era da lui dipartito.
La giovane donna tremante, e pure ferma, con le rosee dita chiuse gli occhi al defunto, gli velò la faccia; poi postasi a capo del letto, con il volto levato in su, e le braccia e le mani aperte, disse con voce da fendere il cuore:
— Signore, ricevi quest'anima desolata in pace.
Allora il Parroco con parole umili susurrò nell'orecchio alla donna:
— Signora, ora lo ufficio di pietà avete compito; niente altro vi rimane a far qui; — tornate a Siena, e non si sappia, che veniste ad assistere il vostro patrigno.
— Dite, reverendo, e credete proprio, che l'anima di questo infelice sia andata in luogo di salvazione?
— Io non sono, ed ella, signora mia, col suo buon giudizio lo capisce, il segretario del Padre eterno; ma a giudicarne secondo la carità cristiana credo di sì; che se sopra la bilancia della misericordia qualche granello mancava per farla traboccare, tengo per fermo che la sua pietà ha dato il tratto alla bilancia.
La giovane bellissima era la Caterina Gaetana Griffoli figliuola di Fulvia sposata a Francesco Piccolomini.
Qui ha fine il racconto; però non posso nè devo tacere, che sebbene l'egregio Antonio Pantanelli con parecchi solerti e studiosi amici suoi si sia dato a tutto uomo a rovistare per Biblioteche ed Archivi di Siena, onde raccogliere altre notizie intorno questo caso memorabile, non abbiano approdato a nulla; tuttavia al signor Luciano Banchi direttore dello Archivio di Stato, nel libro dei Battesimi e dei Matrimoni, venne fatto rinvenire come da Lattanzio e dalla Fulvia nascessero cinque figli: Belisario, Ascanio, Paris, Alessandro e Virginia. Difatti la famiglia dei Bulgarini non è anco spenta, e nel 1849 conobbi un Belisario Bulgarini uomo fornito di buone lettere, autore di libri assai lodati, e quello che più preme, onesto: il suo nome va nella Storia della Toscana congiunto con altro nome, che suona tradimento ed infamia. Egli, a quanto sembra, non provò amica la fortuna, l'altro sì, e scandolosamente immeritata; ma Dio non paga il sabato, e le lische alla morena stanno nella coda: così almeno giova sperare, e finisco.
FINE.
NOTE:
1. Ferir me di saetta in quello stato
E a voi armata non mostrar pur l'arco.2. Fu già in onore questa parola, poi la trasandarono: ora dacchè assai l'adoperano i Napolitani, ed è buona, rimettiamola in corso.
3. È il santo protettore dei viaggiatori.
4. Aggiungasi il recente processo delle avvelenatrici di Marsiglia.
5. Ricciardetto, cap. XX.
6. Ottavio Piccolomini traditore del Vallestein trucidato a Egra nel 25 febbraio 1634.
7. «Pertanto (narra la Cronachetta da me trovata nella Magliabechiana) questo matrimonio seguìto tanto presto dopo la morte dei Griffoli aperse affatto gli occhi al popolo di Siena facendo manifesto quello, che sino allora era stato dubbio, cioè la vera cagione di cotesta morte, e cominciossene a parlare tanto largamente, che la Corte pensò a mettervi su le mani, e formarne processo per chiarire il fatto; ma trattandosi di esporre a fiero cimento due delle più nobili e principali famiglie di Siena, una delle quali per giunta era stretta di parentado con la casa di Alessandro VII sommo Pontefice non parve a cui governava lo Stato cacciarsi dentro il negozio senza parteciparlo al Granduca; la quale cosa egli fece per via di relazione puntuale di quanto si andava dicendo, e di quanto verosimilmente poteva credersi. Tutto bene considerato cotesto Principe giudicò imprudente caricarsi di fascine verdi intorbidando per causa privata la buona intelligenza, che passava fra Sua Santità e lui, ed ordinò, che per allora fino a nuovo ordine si soprasedesse. Ma forse fremendo il popolo di Siena, e mormorando gli uomini dabbene della giustizia, e dolendosi, che in caso sì atroce non si facesse diligenza per trovarne la verità, ed assicurarsi delle persone di coloro, che erano reputati principali autori di tanta scelleratezza, il Granduca ricordandosi come Lattanzio Bulgarini era per altra parte contumace della giustizia, pensò sotto quel pretesto levarlo a passeggiare per cotesta città, senza punto intaccare la Fulvia, e così non dare al Papa la minima cagione di disgustarsi, ch'era il suo particolare fine. Aveva la famiglia dei Bulgarini, come hanno quasi tutti i gentiluomini sanesi, sue tenute in Maremma, ed in quelle una vena, ovvero miniera di ferro assai ricca, della quale avevano usato per molti anni servirsi i ministri della Magona di Siena, per servizio di quello Stato con guadagno notabile di quei gentiluomini, che ci erano padroni. Ora accadde, che per consiglio ed instigazione di certo ministro della medesima Magona, di cui il nome non ho potuto rinvenire fin qui, la Magona di Siena abbandonando la miniera de' Bulgarini, e lasciando di più servirsene, si gettò alle miniere dell'Elba, con pregiudizio notabile di cotesti signori, che restando privi dello esito, e dello smaltimento di quella loro mercanzia rimasero anco privi di un grande utile, che da tempo in qua era resultato alla loro casa; il che dispiacendo infinitamente a Lattanzio per la morte del fratello Paride principale della famiglia, e malvolontieri tollerandolo, come giovane di spiriti molto risentiti, pensò vendicarsene contro colui, che universalmente si era tenuto autore, del quale attentato fu inquisito, e cominciatosene il processo, poi fu, non so per qual ragione, lasciato da parte. Ora il Granduca ordinò si rimettesse mano a cotesto processo, e si tirasse a fine: il che fu fatto; in sequela di ciò Lattanzio venne condannato allo esilio ed allo sfratto da tutti i felicissimi Stati del Granduca.»
8. «Venuta la mattina, fu loro dal Doge (siccome usa fare ad ogni condannato a morte) mandato un sontuoso ed amarissimo desinare, negli animali del quale erano i segni di qual foggia di morte avessero a finire la vita: perciocchè ogni starna, ogni pollo, ed ogni altro uccello, aveva legata una piccola fune al collo, nel vedere la quale si voleva, che gl'infelici condannati mangiando si ricordassero, come poco dopo dovevano essere impiccati.» — Da Porto. Lettere storiche. 6. I. p. 2. Let. 37 — E fu pietà veramente veneziana!
9. Dante; ma ai tempi suoi le doti non superavano i 400 fiorini di oro, e queste siffatte si vituperavano come sbardellate; di vero 400 fiorini di allora, a ragguaglio nostro, farebbero 40000 scudi almeno.
INDICE DELLE INCISIONI
Fulvia Piccolomini Pag. 8
Nei dì feriali quando Fulvia passava per le vie il popolo poeta al solo vederla gioiva; 16
.... e allora giusto allora, per la prima volta gli fissasse gli occhi addosso 23
.... quinci a furia levossi dandosi a fuga affannosa e sviata.... 28
— Chi siete? Che volete? Chi vi manda? Su presto, dite. 44
.... Gli schizzò il coltello dalle mani, si ruppe il naso, si ammaccò gli stinchi; 53
Lelio Griffoli 56
.... Betta giaceva morta sul pavimento accanto ad un inginocchiatoio; 78
.... cadde supina singhiozzando per la pena 98
Signora, le disse, voi m'invitaste in casa vostra; io sono venuto 116
.... ed entrambi compiacendosi contemplare la propria immagine dentro le pupille degli occhi loro, 125
.... coglierlo un nugolo di palle squartate tratte da qualche sicario di dietro alla siepe; 137
.... si versò un colmo bicchiere di vino, e se lo rovesciò nella gola a digiuno 142
— Don Antonio, ditemelo da galantuomo, ci vedete verso che io mi possa salvare? 160