F. D. GUERRAZZI

IL SECOLO CHE MUORE

VOLUME Iº

ROMA Casa Editrice Carlo Verdesi e C. Via del Mortaro, 17 — 1885

PROPRIETÀ LETTERARIA

Roma, Tipografia Nazionale.

INDICE DEL PRIMO VOLUME.

Prolegomeni Pag. 3

Capitolo I. 55

Capitolo II. 75

Capitolo III. 103

Capitolo IV. 123

Capitolo V. 145

Capitolo VI. 171

Capitolo VII. 205

Capitolo VIII. 239

Capitolo IX. 303

ALLA MEMORIA DI GIORGIO PALLAVICINI

PREFAZIONE

Trent'anni fa gli editori italiani, i quali avessero saputo che il Guerrazzi aveva un libro nuovo da pubblicare, avrebbero fatto a gara a presentargli le loro offerte; e la pubblicazione di quel libro sarebbe stata un avvenimento. Quand'io penso a ciò, mi pare un sogno che quest'opera postuma, che è forse letterariamente la migliore, certo una delle migliori del Guerrazzi, veda la luce soltanto oggi, dopo dodici anni ch'egli è morto. E sì che nell'ultimo periodo della vita di lui si parlò molto di questo nuovo romanzo ch'egli stava allora componendo; e il titolo di esso e ciò che si sapeva o supponeva degli sdegni che l'autore vi avrebbe sfogati contro le istituzioni, i costumi e gli uomini del suo tempo, e l'umore sarcastico di lui dovevano naturalmente accendere la curiosità dei lettori. E la curiosità, almeno per un momento, fu accesa: ma la pubblicazione che di lì a poco, molto improvvidamente, e con poco rispetto verso l'autore, s'incominciò a fare del romanzo a pezzi e bocconi sopra un giornale, bastò subito a spengerla. Varie le cagioni di ciò; politiche e letterarie; ma cagione, forse non ultima, anche il modo poco conveniente di quella pubblicazione, che fu presto troncata.

*

Il Guerrazzi, che tanto contribuì co' suoi scritti a fare l'Italia, si trovò nel regno d'Italia fra gli spostati e gli scontenti. Certo, a chi non sa scompagnare dal bene della patria le idee di grandezza, di forza e di dignità nazionale, non mancarono cagioni di dolore e di sdegno in quelli anni dal 1859 al '70. Se ne togli i piccoli ma gloriosi fatti d'arme del 1859 e la mirabile epopea garibaldina nelle provincie del mezzogiorno, i fasti della nostra unità sono abbastanza dolorosi, e non tutti molto onorevoli; la cessione di Nizza e Savoia, le battaglie di Custoza e di Lissa, Aspromonte, Mentana, e la presa di Roma (quando, abbandonata dai Francesi, non rimanevano a difenderla che i soldati del Papa). Con tutto ciò chi vorrebbe, piuttosto che averla avuta a questo patto, rinunciare all'unità della patria? Ma il Guerrazzi vide tutto più in nero che realmente non fosse, e fu, finchè gli durò la vita, continuo profeta di sciagure, le quali per fortuna non si avverarono. La miseria pubblica, il fallimento, il disonore nazionale, la perpetuità della dominazione francese e del Papa a Roma, erano gli spettri che assediavano la sua mente, ed erano, per lui, come tutti gli altri malanni della patria, le conseguenze inevitabili, fatali, del governo dei moderati.

Prima del 1870, volgendosi ad essi, scriveva nei prolegomeni di questo libro: «mettete in Campidoglio la monarchia; compite l'unità italiana; procacciate che cessi la dominazione dei Francesi, come cessò quella degli Austriaci.» E quando, finito di scrivere il libro, vide la monarchia italiana portata a Roma e la dominazione francese cessata, aggiunse in nota: «La dominazione francese cessò non per virtù nostra, ma per infelicità altrui, epperò senza nessuna sicurezza di libertà vera. A Roma andammo, ma sarebbe troppo più lo scapito che il guadagno se ci avessimo a stare ai patti proposti dal Governo.» Si può scommettere che, se avesse vissuto qualche anno di più, e avesse visto all' infame setta dei moderati, come egli la chiamava, succedere nel governo gli uomini della sinistra, non avrebbe mutato linguaggio, o l'avrebbe mutato per poco. Forse avrebbe finito col persuadersi essere fatale in Italia che il governo duri perpetuo in mano all' infame setta, perchè anche i sinistri, arrivati al governo, diventano, pare, moderati.

Agl'Italiani, assuefattisi a poco a poco a pagare le tasse e a fare a meno d'ogni alto ideale di patria, adagiantisi ogni dì più nel pensiero bassamente utilitario che oramai coll'acquisto di Roma l'Italia, o bene o male, era fatta, e che quindi agl'Italiani non restava altro che cercare di adagiarcisi ciascuno il meglio che fosse possibile, a questi cosiffatti Italiani non poteva che riuscire molesta la voce di un uomo il quale anche morto non cessava di annunciare il finimondo alla patria. A buon conto, pensavano, di tutte le tristi profezie da lui fatte non se n'era avverata nessuna.

*

Questa, credo, una delle cagioni della poca rèssa che gli editori fecero intorno al libro, dopo la morte dell'autore. Un'altra è, che nel primo decennio dalla costituzione del regno d'Italia la fama del Guerrazzi scrittore andò declinando.

Il Capuana ha detto recentemente che il D'Azeglio, il Guerrazzi e il Niccolini, nello scrivere, quelli i loro romanzi, questi i suoi drammi, non badavano molto all'arte, badavano sopra tutto alla necessità politica; onde, passata questa, non è rimasta di tanti loro lavori nè una pagina nè una scena. Anch'io dissi una volta qualche cosa di simile; dissi che «l' Arnaldo da Brescia e l' Assedio di Firenze non erano opere d'arte, erano bombarde e cannoni contro i tiranni e gli stranieri accampati in Italia.» E soggiunsi che «poichè i tiranni e gli stranieri se n'erano andati, non era gran male lasciar dormire quelle bombarde e quei cannoni nelle armerie.» Ora, ripensandoci, mi pare che tanto ciò che dissi io quanto ciò che disse il Capuana non sia molto giusto; perchè potrebbe lasciar supporre che quelli scrittori non avessero avuto un ideale loro proprio dell'arte; mentre l'ebbero e lo proseguirono con tutte le forze dell'ingegno. Altro è dire che il loro ideale non è precisamente il nostro, altro lasciar credere che non ne ebbero alcuno.

E ci vuole un bel coraggio a sentenziare, come ha fatto il Capuana, che delle opere di quelli scrittori non è rimasta una pagina nè una scena; e più ancora ce ne vuole a dire quello che dissi io, che quelle opere non è male lasciarle dormire negli scaffali. Chi dà a noi il diritto di affermare che il nostro ideale artistico è migliore del loro? Che ne sappiamo noi se di qui a cinquant'anni, e forse meno, gli scritti che noi leviamo a cielo non saran gittati nel fango, e quelli che noi disprezziamo esaltati? A buon conto, il Guerrazzi (per restringere a lui solo il discorso) fu un uomo di ingegno straordinario: e noi degli uomini di ingegno straordinario quanti ne abbiamo? Uno forse. Sarei molto impacciato se dovessi trovare il secondo. Noi abbiamo qualche erudito, qualche critico, qualche novelliere, tutta gente di ingegno poco superiore al mediocre; e abbiamo una quantità innumerevole di scrittori che non sanno scrivere. Con tutto ciò parliamo a bocca piena del nostro amore per l'arte, per la grande arte, per l'arte pura; come se cotesto amore fosse qualche cosa che avessimo proprio inventata noi, e come se si potesse essere grande scrittore e perfetto artista, senza aver grandi cose da dire, senza conoscere a perfezione lo strumento necessario per dirle, la lingua.

*

Fra quanti scrivono oggi in Italia, dove c'è uno, se ne togli il Carducci, che conosca la lingua italiana come la conosceva il Guerrazzi? Anzi, dirò di più, quanti ce n'è che la conoscano mediocremente? Pigliamo alcuni di quelli che presso il volgo (ristretto volgo) dei lettori italiani passano per bravi scrittori, di quelli che meritano le lodi delle signore che han passato la quarantina, dei segretari e dei capisezione dei Ministeri, dei maestri elementari e di tutte in generale le persone che si dilettano di letteratura domenicale; e pigliamo de' migliori: il Nencioni, per esempio, il Verga, la Serao (cito i primi che mi capitano sotto la penna). Chi mi sa dire che lingua è quella in cui scrivono costoro? Italiana no certo. E il meno male nei loro scritti sono i barbarismi; il peggio è l'improprietà frequente della parola, e l'atteggiamento del pensiero quasi sempre contrario all'indole della lingua nostra. La barbarie dilaga terribilmente e ci trascina tutti senza che quasi ce ne accorgiamo.

Il Nencioni, il Verga, la Serao, se per caso cadranno loro sotto gli occhi queste parole, debbono sorridere; come in sulle prime sorrisi io leggendo le disposizioni a proposito di un lascito fatto dal signor Orazio, un personaggio di questo romanzo, per un premio annuo da conferirsi al giovine autore della miglior poesia in conforto o in lode di qualche virtù guerresca. «Queste raccomando, diceva il signor Orazio, abbiano ad essere le norme del giudizio e del partito. I commissari considerino prima di tutto la purità della favella, in seguito l'altezza dei concetti, per ultimo la novità e lo splendore delle immagini.»

«Una sola locuzione, ed anco una sola parola straniera sarà sufficiente a rendere la composizione immeritevole di premio, quantunque per altri lati possa comparire degnissima.»

Già, io sorrisi; ma dopo aver sorriso pensai quanta precisione di linguaggio, cioè di pensiero, c'è nella prosa del Guerrazzi in paragone di quella del Verga o della Serao; e il Nencioni, dopo aver sorriso di me, ricorrendo con la mente al tempo ch'eravamo giovani insieme, penserà che non per nulla s'è stati amici pedanti. La volpe perde il pelo, ma non il vizio.

*

E tuttavia io non nego quel che c'è di buono nello spirito letterario da cui procede la nostra barbarie; e intendo perchè la fama del Guerrazzi scrittore venisse declinando. Atteggiatosi arditamente a novatore quanto alla sostanza e alle forme dell'arte, il Guerrazzi rimase fedele al dogma della lingua italiana scritta. Per quanto toscano e studiosissimo delle vivezze del parlar popolare, delle quali versò non poca parte nella sua prosa, questa, considerata nell'insieme, discende in linea retta dalla prosa degli scrittori: la lingua e lo stile del Guerrazzi hanno carattere essenzialmente letterario. Perciò i personaggi de' suoi romanzi, di qualunque tempo e condizione sieno, parlano tutti troppo bene e troppo allo stesso modo; si rassomigliano troppo al Guerrazzi scrittore e troppo poco ai personaggi che dovrebbero rappresentare.

Oggi invece si vuole la verità e la naturalezza innanzi tutto; si vuole che lo scrittore interroghi direttamente da sè la natura, e scriva col suo linguaggio d'uomo il più schiettamente che può le risposte. Chi non riconoscesse che in alcuni dei nostri scrittori, nel Verga, per esempio, e nella Serao, nonostante la povertà e la barbarie della lingua e dello stile, l'impressione del vero c'è spesso più immediata e più schietta che non nel Guerrazzi, sarebbe ingiusto.

Ma sarà giusto perciò dare l'ostracismo dall'arte al Guerrazzi? Sarà giusto buttare in un canto, come ferri vecchi, i suoi libri, dove c'è tanta ricchezza e vivezza di lingua e di pensiero? S'ha paura forse che, raschiandoci un po' di dosso la nostra barbarie, e assuefacendoci a pensare un po' più che non facciamo, quella unica buona qualità di alcuni nostri scrittori, si perda anche quella? Io credo al contrario che, educandola meglio, si afforzerebbe.

*

Da parecchi anni io non aveva letto più niente del Guerrazzi, finchè il Carducci pubblicò l'Epistolario di lui, ch'è forse la sua opera più dilettevole e più bella. Poi son tornato a qualche libro e ho ammirato la ricchezza e la potenza del pensatore e dello scrittore meglio che non facessi da giovine; finalmente m'è venuto alle mani questo Secolo che muore, e il piacere della lettura è stato così vivo e così grande, che ho sentito rimorso di non aver desiderato di leggerlo prima.

In quest'opera, che è come il testamento del cittadino e del letterato, il Guerrazzi scrittore, pur conservando il suo carattere e le principali qualità del suo stile, mi pare artisticamente più perfetto. Direi che ha sentito anche lui un'aura delle nuove idee. Egli è un po' sempre di quella razza di scrittori, che, nuotando nella opulenza, han bisogno (esempio sopra tutti insigne Victor Hugo) di profondere a larga mano nei loro scritti i tesori della loro mente. La proporzione, la misura, la sobrietà, è ciò che manca quasi sempre a cotesti signori del pensiero e della parola. Pure in questa opera una occulta intenzione di maggiore sobrietà mi pare che ci si senta. Come romanzo essa accostasi al genere del Buco nel muro. Anche qui, descrivendo il signor Orazio e la famiglia di lui, l'autore, si sente, ha pensato più d'una volta a sè stesso e alla propria famiglia. Ma anche qui, anzi qui più specialmente che altrove, l'uomo politico con tutte le sue fantasie, con tutte le sue passioni, con tutte le sue ire personali, giuste e non giuste, il pensatore, il filosofo, il poeta, l'umorista si fondono, o meglio, si alternano col narratore; e se qualche volta ti secca che questi sia interrotto da uno di quelli, quando poi l'interruzione è finita, perdoni ben volentieri all'interruttore.

Io non so quali ingredienti ci vogliano per fare un romanzo; e non saprei per ciò dire se questo del Guerrazzi sia un romanzo buono o cattivo: benchè credo che, se c'è scrittore al quale dovrebbe essere lasciata la più gran libertà, questi è il romanziere; salvo a dirgli poi: m'avete divertito, o: m'avete seccato. Dato che tale mia opinione potesse diventare un canone di critica, io quanto a me dovrei dire che il Secolo che muore è un romanzo ottimo. Mi contenterò di dire che è un buon libro.

Ma bisogna saperlo leggere.

Giuseppe Chiarini.

Roma, 7 luglio 1885.

PROLEGOMENI

Il Secolo muore.

O come fai ad affermare ch'ei si muoia? O non mangia, o non bee, non veste panni? Sì certo, egli mangia, egli beve, egli veste panni; e che per ciò? Forse Silla, Filippo secondo di Spagna, e Ferdinando di Napoli, e Ferecide non vivevano essi, mentre li portava via il fastidio?

Tre tiranni e un filosofo, imperciocchè i pidocchi, che rispettano l'asino e il montone, divorino principi e filosofi[1].

Il Secolo muore; l'ira di Dio gli ha stracciato le vele e rotto gli alberi; l'abominio dei popoli gli aperse i fianchi; mira, il Secolo pravo come sospeso sopra l'abisso vacilli; odi il gorgoglio delle acque irrompenti nelle squarciate latebre per sommergerlo giù nello inferno.

Prometeo roso perpetuamente dallo avoltoio: Laocoonte soffocato co' figliuoli dai serpenti non offrono immagine più dolorosa di lui: egli si dibatte negli spasimi della morte, e non una mano, non una bocca cessa dallo imprecare alla desolazione di lui: vittima al mondo non discese mai agli Dei infernali consacrata da tante maledizioni come il Secolo, che muore.

Ma Secolo ch'è mai? Ed in qual guisa ei muore? Quali appaiono le cause che lo conducono a morte? Che cosa morirà di lui? Chi gli darà il colpo di grazia? Chi ne sarà l'erede? Quali i superstiti? Ed essi come dureranno nella vita?

In parte a queste domande si potrebbe dare risposta precisa, perchè le scienze politiche in taluni giudizi non fallano, o poco fallano; ma un'altra parte sta nel dominio della divinazione, e l'avvenire tiene chiuso nel pugno quella Forza suprema che governa, travolgendoli, uomini e cose.

Non basterebbero volumi per soddisfare ai quesiti proposti; ed io qui detto un proemio: nè lo compongo già a modo di libro scientifico, bensì vado significando quanto mi spira l'anima: altri più savio gli darà ordine ampliando le ricerche e le considerazioni.

E prima di tutto io avverto come per Secolo non s'intenda mica lo spazio di cento anni, bensì l'epoca intera nella quale si compie una trasformazione della umanità ed un'altra ne incomincia. E vi ha chi assegna cinquecento anni fra il nascere e il morire di ciascheduna di queste trasformazioni, ma il fatto non corrisponde; bene la fantasia umana armò il Tempo di falce e di orologio a polvere: col compasso in mano egli non apparve mai. Dove tu ponga mente alle varie e moltiplici cause, così interne come esterne all'uomo, onde hanno moto i casi nostri, ti persuaderai di un tratto come questi periodi non sieno nè possano essere per lo appunto di cinquecento anni. Tutto ciò che prima camminava adesso corre; e il Secolo, che correva, adesso a sua posta precipita: però il termine delle rivoluzioni indi in poi più breve; forse brevissimo.

Per ora taccio delle cause che menano a morte il Secolo; ed anco mi passo dal discorrere intorno al modo col quale per avventura morirà: consideriamo quello che sembra sicuro deva morire in lui.

Sembra destinata a morire nei suoi derivati, come morì già nei suoi principii, quella che noi chiamiamo autorità, e gli antichi distinsero col nome di polizia. Io esaminerò le vicende del solo popolo latino, perchè principalissimo fra gli altri, e perchè degli altri, quando più, quando meno, pur sempre ei fu mente e moto.

Nel giro di milleottocentosettanta anni la repubblica romana si tramuta nello impero, e lo impero casca sotto le battiture degli oppressi, cui noi appellammo barbari pel rovello di non averli saputi vincere. In mezzo ai barbari sorse la potestà dei sacerdoti: amici prima per calpestare i popoli coi piedi uniti; nemici in breve per la contesa di chi dovesse rimanere a calpestarli solo; dura lotta questa, dove or l'uno, ora l'altro parve toccare terra per non risorgere più; prevalse lo impero; ma sul punto ch'egli, stretto a mezza vita il sacerdote, lo teneva in alto per soffocarlo, ecco si ravvisa, e depostolo a terra gli dice: «Sacerdote, se servirai a me ti lascerò dominare e ti pascerò co' rilievi della mia mensa.»

Quando Satana profferse a Cristo i regni della terra a patto che lo adorasse, Cristo n'ebbe pietà, e gli disse: «È scritto che tu non tenterai il tuo Signore.» Colui che temerario ardisce vantarsi sacerdote di Cristo piegò le ginocchia, stese la mane e visse.

Tutte le trasformazioni genera la necessità delle cose; ci si mescola talora la volontà, ma sempre in piccola dose; e poi anco il volere dominato dallo effetto piglia carattere di necessità. Ai Romani da prima, se vollero vivere, fu mestieri combattere; vinsero, e poichè la vittoria inebria peggio del vino, dalla difesa trapassarono alla offesa; in questa via avendo bisogno di forza, lei soprattutto onorarono, e a lei unicamente imposero il nome di virtù; oltre questa, certo ne possederono altre, però secondarie, e tenute in pregio sol quanto contribuirono a renderli insuperabili nella virtù militare: nella medesima guisa che le verghe di ferro aggruppate intorno alla scure formavano insieme il fascio romano.

E come favoleggiarono i poeti, che i Ciclopi con un occhio solo facessero maravigliosamente i fatti loro, così le repubbliche con una virtù sola possono operare cose grandi: i Romani poi ne compirono grandissime. Tuttavia se una virtù sola basta a fondare gli Stati, a mantenerli non basta; e necessità, o provvidenza ordinò che qualunque si trasforma in tarlo del mondo più presto o più tardi ci si scavi la fossa. La giustizia, e la libertà importa che guidino con la loro luce i passi dei mortali: una sola di queste due scorte senza dubbio è divina, ma come il sole quando illumina un lato, lascerebbe l'altro nelle tenebre: mentre fa di mestieri che entrambe esse splendano, e senza tramonto, agli universi figliuoli degli uomini, altrimenti il cammino di questi attraverso ai secoli va e viene come l'onda sopra il lido del mare, e non progredisce mai.

Ma ai Romani non piacque altro che forza, quindi venuta meno alla repubblica, la necessità costrinse Cesare a raccoglierla nella sua mano: non l'uomo creò i casi, bensì i casi crearono il tiranno; difatti spento Cesare pullula più che mai rigogliosa la tirannide: e non la vogliono intendere che per rivendicarsi davvero in libertà bisogna principalmente schiantare la mala pianta del servilismo abbarbicata dentro noi, non già il tiranno, il quale sta fuori di noi. Dove un popolo duri abietto, vile e servo, che monta la morte del tiranno? Non formicolano nel suo sangue i germi di venti tiranni? Uno avulso non deficit alter; Cosimo dei Medici, il quale se ne intendeva, si fece ritrattare contemplando un arbore fronzuto avvolto da una fascia che porta cotesta leggenda.

Cosimo fondatore della tetra tirannide medicea ai nostri dì salutano tuttavia padre della Patria, ed ha l'onore della statua; dopo ciò, o come maravigliarci se non cessano le piaggerie ai presenti mentre non le sanno smettere neppure ai tiranni di quattro secoli fa? In verità vi dico che tale statua oggi eretta agli eroi della giornata prima, che volga un lustro porterà invidia alle statue dello antico Demade, le quali furono ridotte in orinali.[2]

Senza olio non illumina la lampada, senza virtù viene meno la forza, sicchè lo impero non salvò la repubblica; anzi la potenza romana di giorno in giorno decrebbe; taluno imperatore compì gesti famosi, ma siccome la virtù del singolo non può supplire alla virtù del popolo, così cotesti furono guizzi del delfino tratto fuori dell'acqua, tutti belli a vedersi, ma uno più languido dell'altro, e precursore della morte.

Nè poteva fare a meno, imperciocchè con quale allettamento il despota avrebbe richiamato la virtù intorno a sè? Il valore che l'uomo noleggia perde perfino il nome di virtù, e si chiama servizio. Ora, come vorrà il monarca acquistarsi il sangue altrui? A contanti forse? Compra e vendita cotesta, non virtù. Il soldato mercenario, pieno che abbia lo zaino, e in questo modo conseguito il fine della sua milizia vendereccia, dirà: «Finchè non seppi in qual modo tirare innanzi la vita io sfidai la morte, adesso, che lo so, che preme a me se il padrone muore o ruina? Muoia; io vivo.» Così i pretoriani; e se i marescialli del primo Napoleone così non dissero, così fecero. Chè se taluno mi obietti: i nostri eserciti si formano con la leva, io gli domanderò: se egli reputi virtù quella a cui il cittadino è condotto come il malfattore in prigione, vo' dire con gli sbirri e co' nottolini.

Lo scrittore dello Spirito delle Leggi dichiarò espresso la virtù non somministrare fondamento alle monarchie, bensì l' onore. Quale mai onore? Può darsi onore dove non si appoggi alla virtù? Per certo egli scambiava l'onore con la vanità; il dabbene uomo si peritò a palesare quello che per avventura sentiva, chè filosofo e cortigiano non si può essere ad un tratto, e per arroto egli esercitava la magistratura e tirava salario. Vanità e interesse, sostegni unici della monarchia.

Larghissima, anzi infinita la schiera di coloro i quali appetiscono le distinzioni, chè in essi ne cresce l'agonia alla stregua che sentono meritarle meno: epperò trovano il proprio conto a credere, o piuttosto a fingere onde altri ci creda, che un segno di onorificenza tenga luogo di onore; e più oltre arrisicandosi affermano che senza un segno che lo attesti non si dà onore. Ai monarchi poi non sembra vero che il bestiame reputi dignità la principesca marca, impressa sopra la groppa, o il campanaccio appeso al collo. Titoli e fregi di re corrispondono ad un puntino con le indulgenze del papa. Finchè si trovi chi se ne contenta, i papi e i re si tengono le tasche piene di questo becchime, ed operano divinamente. Se ti piglia vaghezza di conoscere così ad un tratto la diversità che passa fra i tempi nostri e gli antichi, giudicalo da questo: i cittadini i quali per bene operare soperchiavano la uguaglianza civile degli Ateniesi bandivansi per via dell' ostracismo: ora accadde che dopo avere a quel modo esiliato Aristide, per poca considerazione il popolo esiliasse anche Iperbolo, uomo indegno: della quale cosa pentitosi il popolo, abolì cotesta pena perchè disonestata da colui. Le pene dunque se da cittadino indegno avvilite sopprimevansi presso gli antichi, presso noi le onorificenze deturpate da uomini perduti si confermano e si ampliano![3] Di qui la differenza.

E alla ferocia, anco ai dì nostri, che esaltiamo civili, non mancarono capitani, i quali diedero sembianza e nome di virtù militare: noi rivedemmo i tempi di Attila, dov'essi poterono letiziarsi nel gaudio della strage; durarono poco, ma la traccia dolorosa che si lasciarono dietro non è scomparsa ancora. La folgore e l'uomo possiedono la facoltà di operare più male in un giorno, che non valga a ripararlo un secolo.

Ferocia e morbidezze non possono stare insieme lungamente, imperciocchè la ferocia come espressione di barbarie sia acerba e rude, mentre le delizie amolliscono le anime e i bracci. Difatti i Romani perdono prima con la virtù il valore militare, e poi con la barbarie perdono perfino la ferocia, sicchè quando abbisognano di braccia per sostenere scudi di ferro (eglino ci avevano sostituito scudi di vimini) e di ferocia per combattere, le presero in prestanza dai barbari confinanti.

Taluno giudica le invasioni dei popoli oppressi sopra le terre dei ladroni del mondo persuase da voglia di vendetta, ovvero da cupidità di rapina, e può darsi, imperciocchè con ambedue queste guise si manifestassero pur troppo, tuttavia per me penso ch'eglino obbedissero a legge più generale, legge dinamica, che vuole pigli il di sopra chi troppo lungo tempo rimase di sotto. Forse leggi dinamiche non reggono la materia? E se la reggono, come il mondo morale dovrebbe procedere scomposto? Quando nelle nostre zone si abbassa la marea si alza nelle settentrionali, e quando colà il sido intepidisce, s'inacerba fra noi: il moto dei barbari incominciò dai mongolli e dagli abitatori della palude meotide; in che e come avevano potuto offenderli i Romani?

Ed ora volgiamo alla potestà sacerdotale, e miriamo un po' come s'innestasse alla principesca. Forse da per tutto fu prima il sacerdote, chè le principali passioni dell'uomo appena aperse gli occhi alla luce furono la paura e l'errore; donde il sacerdote; su gl'inizi egli vi accoppiò ancora la forza, e apparve ad un punto guerriero, se non che in breve gl'increbbero le fatiche ed i pericoli delle battaglie; la natura delle cose ordinando che il prete sia imbelle e crudele: però ei si prese a nolo un guerriero, pensando acquistarsi un servo, e si trovò ad avere comprato un padrone; per la quale cosa i barbari non pativano penuria di sacerdoti, tuttavia li tenevano in conto di gente da poco; e veramente bestiali si mostravano essi, e grossiere erano le superstizioni professate da loro; mentre dei preti romani splendidi i riti, la dottrina cristiana, comecchè guasta, amica alla umanità e consolatrice degli afflitti, la sapienza scarsa, ma unica. Il prete romano aveva piluccato dai gentili la pompa dei canti, dei suoni, degl'incensi, delle faci: prima che le arti risorte tornassero a somministrargli ornamenti scenici, arraffò le statue degli antichi numi e le adattò al suo uso: anch'egli aveva fatto provvisione di terrore, conciossiachè senza terrore il sacerdote non regge; di paura e di errore egli nacque; di paura e di errore bisogna ch'egli viva; però più tardi, avvisandosi meglio, mise al lato dello inferno il paradiso: al purgatorio non ci aveva ancora pensato. Di qui tormenti, di là gaudi; angioli da una parte, demoni dall'altra; luce e tenebre del pari eterne; stridore di denti e cantici celesti; timiami ad un punto e leppo di carni abbrustolite; dolore e piacere eterni poli della creatura umana: a rinfuso ogni cosa, e turbinante con moto vertiginoso, in brillamento perpetuo da abbarbagliare il barbaro così, ch'ei si reputasse vestito allora quando lo avevano spogliato. Il sacerdote investiva il Sicambro del regno ampio dei cieli, a patto che per senseria gli donasse mezza la terra; egli solo mezzano patentato di Dio, epperò valevoli solo i partiti conchiusi da lui; gli altri no perchè guasti dallo intervento del prosseneta marrone.[4] Arrogi che il sacerdote latino con quanta maggior cura seppe conservò la lingua romana, e con essa la notizia delle leggi antiche, le quali, sebbene ei rabberciasse a suo vantaggio, pure lo resero venerabile ai barbari ignorantissimi, quanto e più le sue dalmatiche e le sue mitre. Il barbaro si confessava ingenuamente bestiame da demonio, mentre il sacerdote lo serpentava a persuaderlo, che in lui ci era lievito da farne un santo; solo che lo sapesse trovare. Se il barbaro tuffava il braccio nel sangue fino al gomito, ove si rendesse in colpa, ecco lì il sacerdote pronto a lavarglielo coll'acqua benedetta. Il barbaro acciuffa il pane dell'orfano e della vedova, (grave colpa in vero), non importa, a patto ch'ei lo divida con la Chiesa, il sacerdote gli consacra il rimanente coll'olio santo. Tenerissima lega fra pastorale e coltello: quello guida il gregge alla beccheria, questo lo scanna.

Forse con simile accordo potevano durare insieme barbaro e sacerdote, senonchè questo abusando del credito acquistato sul barbaro, un giorno saltò fuori con la dottrina, che lo spirito essendo senza dubbio superiore alla materia, egli prete, come quegli che governava lo spirito, doveva per necessità reggere la materia: se egli consacrava i re, se questi gli si prostravano dinanzi, gli è chiaro ch'egli dovesse stare sopra di loro, ed essi in ginocchioni sempre davanti a lui. Al contrario il barbaro, bollendo, argomentava: o il prete che mi fa? Egli mi viene dietro per leccare il sangue grondante dalla mia accetta, e invece di pagarlo a me pretenderebbe che io lo pagassi a lui. Gli avevo concesso seguitarmi da lontano nelle battaglie perchè spogliasse i morti e mi desse mezze le spoglie, ed oggi le vuole tutte per sè. Di saccomanno ch'ei fu, adesso presume imporsi imperatore. Certo manda luce salutevole la fiaccola che tiene accesa il prete, ma per illuminare unicamente i passi suoi, sicchè quando ci siamo accostati a lui supplicandolo col suo invitatorio, onde ci accendesse la nostra candela, ci ha respinto gridando: «Che lumen de lumine? Addietro sciagurati; non sapete, che chi primo toccherà l'albero della scienza morrà; così ha detto il Signore.» E allora, soggiungeva il barbaro, o come vi mantenete in vita voi altri? Forse come noi non nascete, e come noi non morite? Roma dei Quiriti un dì ci conquistò con la spada, Roma dei Preti ci vorria forse conquistare con l'aspersorio? E bene; tenga per sè la sua scienza il prete, a noi non fa mestieri raffazzonarci romani, bensì mantenerci barbari, cui la necessità ammaestra, secondochè porge la nostra natura: quindi si composero leggi proprie; anzi, se la fama riferisce il vero, Carlo Magno costumò dettarle mentre si lavava il viso.

Di qui la guerra fra sacerdozio ed impero, che fu contesa tra pirata e corsaro: l'uno bandiva al mondo, l'altro truffatore, e sacrilego, e ladro: avevano entrambi ragione. La potestà sacerdotale condusse il rappresentante della potestà secolare a morire dentro una cantina a Spira; la potestà secolare diede uno schiaffo al Sommo Sacerdote e lo condusse a morire di rabbia come un cane: si sciuparono, si stracciarono i panni addosso, si rovesciarono a vicenda sul capo clamide e piviali; e in grazia dei loro scambievoli vituperii il mondo apprese come essi fossero non solo formati di creta al pari di ogni uomo, bensì del limo, onde si fanno i serpi.

Rotto lo incantesimo la umanità ardì guardarli in faccia ed ammonirli che il male loro non era bene, nè si fermò a tanto, chè i guerrieri vollero provarlo a loro con l'arme, e i sapienti con le argomentazioni: allora i re ed i sacerdoti commossi dal pericolo comune rifecero lega, a patto che il sacerdote in apparenza fosse più cosa del re, ma in sostanza il re comandasse al sacerdote; poi di amore e di accordo si posero a rassettare la catena antica, alternandoci ad un anello di paura dello inferno un anello di paura del boia: però, per quanto ci si assottigliassero, tutti non li poterono risaldare; ancora Dio, scoprendosi alcun poco la faccia, mandò un raggio di consolazione sopra la terra, e fu la stampa, conciossiachè Dio per ben due volte donasse la luce ai mortali, e la seconda assai più largamente della prima, chè la luce materiale si alterna con le tenebre, nè tutta a un modo illumina la umanità, mentre la seconda rischiara tutto il mondo del pari, e non tramonta mai. La stampa pertanto supera in virtù la luce.

Per benefizio di siffatta luce prese a sorgere nella mente del popolo un concetto, che lo condusse a ragionare così: «Se il sacerdote rappresenta Dio, o chi para che le creature se ne rapportino direttamente al loro Creatore?[5] Se al re tedia la cura di governarci, noi lo esoneriamo: e poi in che e come egli dimostra essere più sapiente o migliore di noi? E supposto ch'egli sia tale, con quale ragione si manterranno sempre così i successori suoi? E anco posto tutto da parte, i re e i sacerdoti divorano per mille, anzi per diecimila e più.»

I sacerdoti e i re si restrinsero insieme per avvisare intorno alla risposta da darsi, e stabilirono di amore e di accordo che la si avesse a fare, ma in certa lingua inventata da loro, composta di ferro, di piombo e di fuoco. Il popolo allora a sue spese imparò che per cavare dal sacerdote e dal re una risposta in voce umana, bisogna interrogarli con voce di corda.

Ed in vero i re e i sacerdoti udendo favellare il popolo, rimasero attoniti quanto Balaam, allorchè la sua giumenta lo interrogò dicendo: «Perchè mi percuoti?» E ch'è, che vuol dire popolo? — borbottavano fra loro — popolo, e polvere non hanno fatto fin qui tutta una cosa? E camminando sopra la polvere chi di noi avvertì l'orma che ci stampavano i nostri piedi? Chi mai avrebbe creduto che il popolo sentisse scalpicciarsi, e se sentito avesse potuto adontarsene? O non ci è avvezzo?

Pur troppo ci era avvezzo, ma un giorno gli mancò la pazienza, e avendo conosciuto come col solo sollevarsi avrebbe potuto accecare i potenti della terra, ei si sollevò e gli accecò: dacchè il potente non volle rammentarsi ch'egli aveva ridotto il popolo in polvere, il popolo lo ricordò al potente.

Ma accecare altrui non significa illuminare sè stesso: nel dì della vendetta al popolo appartiene il còmpito della distruzione. Quando egli con supremo conato arriva a rompere le sue catene, altro non sa ed altro non può saper fare, eccettochè sbatacchiarne i tronconi nel volto agli oppressori: quando il ferro delle catene si converte in armi, più che per le spade si trova adattato ai pugnali; a questi stende la mano la libertà, però insieme con essa la ferocia e la vendetta. E poi che il popolo possieda l'ira e la forza per distruggere, ma gli manchi la scienza per ordinare, così egli commise l'opera della sapienza ai suoi fratelli. Di questi alcuni perfidissimi lo trucidarono, altri prosuntuosi lo delusero; ma i più lo venderono come fu venduto Giuseppe ebreo agli Egiziani; poi i venditori si misero a gridare co' lupi dimostrando come non odiassero già la tirannide, bensì la combattessero per essere chiamati a parte della dominazione. Di qui lo sbracciarsi loro per le monarchie costituzionali, col solo fine che i convitati antichi si stringessero a tavola per far posto ai nuovi commensali; e l'interesse privato sublime nella sua terribile nudità stette in capo al desco costituzionale come lo scheletro a quello dei re di Babilonia; il popolo sempre somministrò la vivanda; chi nacque agnello ha da morire arrosto, tale è il fato.

Un giorno, un'ora per ischerzo lo salutano padrone, perchè si metta addosso o si ribadisca un padrone: lupercali del secolo nostro degli antichi più strazievoli assai. Un dì la razza arrogante donde si cavano i re ebbe cuore per derivare il principato da Dio, ma questi essendosene lavato le mani, fu mestieri trarlo fuori o dal popolo, o dal diavolo: dal diavolo non conveniva, imperciocchè il diavolo aborra dominare sopra gli schiavi, bensì sia primo a soffrire tra gli uguali; ora questa maniera di principato ai nostri signori non garba, chè godere vogliono per mille, e soffrire per nessuno; dunque dal popolo, e il popolo partorì il principe, il quale appena nato, alla rovescia di Saturno, che divorava i figliuoli, venne in pensiero di mangiarsi il padre a pranzo, e lo faceva se altri non lo ammoniva dicendo: «Se mangi il popolo a desinare con che cenerai?»

E poi il diavolo possiede intelletto e coscienza, però come uomo poteva augurarsi ottenere da lui l'alienazione non pure della propria libertà, ma eziandio in perpetuo quella dei suoi discendenti nati e nascituri? Queste enormezze non si possono pretendere, eccetto dal popolo, sul quale non rimane nè manco l'orma del piè che lo calpesta.

Buttiamo da banda i perfidi, e discorriamo dei saccenti: che volete? al popolo parve che il berlingare fosse senno, epperò elesse gli alchimisti di libertà, i quali lambiccarono il concetto delle monarchie temperate: il governo ha da essere colonna che ha fusto, capitello, e base; quindi il capitello sia il principato, i maggiorenti in mezzo e il popolo in fondo. Scrissi altrove, e ripeto adesso, che la esperienza mi ha insegnato come le colonne a quel modo possano stare, i reggimenti no: imperciocchè in questi i pezzi non durino mai fermi, seguitando ognuno la natura e le passioni sue: quindi, dimenandosi, avviene che uno sbilanci su l'altro, e allora dopo una guerra clandestina di frodi, ovvero aperta di violenza, che logora le forze dello Stato, e corrompe le coscienze se conservi il nome di temperato o di misto; in sostanza il governo diventò o monarchico, o aristocratico, o democratico; l'aristocratico si mantiene di più, ma ed anco cristallizza ed impietra quanto gli sta dintorno: la storia lo dichiara furiere eccellentissimo mandato innanzi ad apprestare le stanze alla tirannide; Venezia informi: ella, o piuttosto chi presume rappresentarla si volta indietro di tratto in tratto sospettoso che lo sbirro della inquisizione o il poliziotto austriaco sopraggiungano a riagguantarlo: la Venezia per ora ha paura della libertà.

A mio parere, per eccesso di bontà, o per manco di arditezza unicamente si può negare il bisogno della distruzione come prodromo della creazione; e mi sembra che la esperienza avrebbe dovuto a quest'ora ammaestrare che i due metodi non possono esercitarsi contemporaneamente perchè il vecchio ammazza il nuovo, o piuttosto lo perverte tramutandolo in nudrimento a prolungare la propria vita. Così, per esempio, la istruzione sola può migliorare le sorti della umanità, ma quale istruzione? E come, e da cui compartita? La intellettuale non basta; vuolci eziandio la morale, ed anco per la intellettuale bisogna distinguere, imperciocchè in buona parte ella si adatti al progresso come al regresso. Ora prevalgono i preti, e però i loro fautori invocano a tutt'uomo la libertà d'insegnamento, chè andando eglino scevri da famiglia, di poca mercede abbisognano; e talvolta per interesse di partito la rinunziano; a loro avanza sempre tempo o perchè liberi o gravati meno da cure pubbliche o domestiche.

I principii onde si compone l'ottimo reggimento spettano alla teoria, ma i metodi per attuarli quasi sempre, per necessità, sono empirici; e chi troppo fida nella virtù dei principii come capace di per sè sola a partorire effetti copiosi, e peggio poi a vincere la potenza antica dei principii opposti, s'inganna amaramente. Se mai vi fu lume, il quale meritasse andare riparato con amorosissima cura, per certo è quello della libertà: se non giunsero mai a spegnerlo, ciò avvenne perchè Dio lo volle immortale: del pari che il nafta non si estingue per acqua, la libertà non si smorza nel sangue: però la sua fiamma fin qui non fu vista divampare trionfale; all'opposto, vacilla sempre; e se contro i venti avversi congiurati a suo danno non la sovvengano più validi aiuti, il suo valore sarà di cui combatte, non già di cui sta per vincere; e molto meno di chi ha già vinto.

Dirò quello che sento; uno sconforto infinito mi opprime l'animo, quando odo bandire ad uomini senza dubbio amici della libertà: « lasciamoli fare! » Ah! quando i topi vi sono entrati in dispensa, quando i tarli nel mantello, lo sapete voi che cosa significhi lasciarli fare? — Nè mi si obietti: o che dovremo predicare la crociata addosso ai preti? Gli arderemo noi? No, questo fecero essi quando poterono, e lo farebbero ancora se potessero; quantunque noi usando così contro loro altro non faremmo che saldare una partita, che la umanità tiene da tempo antico accesa sopra i suoi libri a debito di cotesti spietati; pure tolga Dio che allignino in noi siffatti pensieri: ma almeno vorrei che ognuno tirasse innanzi pei fatti suoi, senza rabbia come senza persecuzione. Pretende il papa la infallibilità, e infallibile sia a casa sua: il Concilio dei vescovi lo dichiara luogotenente generale di Dio sopra la terra, e veruno glielo contrasti, ma noi intanto aboliamo il primo articolo dello Statuto; proclamiamo intera la libertà di coscienza. Ma noi predichiamo la libertà dello insegnamento, che ci nuoce, taciamo su la libertà della coscienza, che ci giova; e perchè questo? Perchè, ammoniva un giorno certo mio collega nella legislatura italiana, la libertà di coscienza essendo cosa di Statuto, bisogna andar cauti a metterci le mani sopra, per paura che i servili onnipotenti adesso non ce lo riformino tutto in peggio. Dunque non faremo, nè possiamo fare noi. Il collega ha ragione: fermi pertanto per timore di peggio. E la monarchia non può volere la educazione, che scalza il principio di autorità, il quale, o sia clericale, o secolare, in fondo è un principio solo: chè se adesso questi due principii si trovano in iscrezio, andate franchi a credere che essi sentono entrambi la necessità di accordarsi, e si accorderanno: ponete mente al caso di Forlì: colà il municipio aboliva nelle scuole elementari pubbliche lo insegnamento religioso; ma il Governo si spaventa dello scandalo, e vuole che lo Stato convertito in sagrestano educhi la gioventù nella dottrina del cardinale Bellarmino per ammannire l'intelletto delle nuove generazioni a ricevere il seme dell'odierno Concilio Vaticano. La monarchia per propria natura e per istinto di conservazione non può procedere amica alla libera dottrina, per la ragione che questa per propria natura non può essere amica a lei. Che giova agguindolare? Tempo perso: il gioco è scoperto. Chiesa e monarchia, delle scienze amano quelle le quali giovano a loro; le altre, che non le danneggiano, sopportano; aborrono quello che presentono infeste. Chi pretende diversamente sarebbe pari a colui che le volesse costringere a spaccare le legna per comporsene il rogo: coloro poi che si arrovellano a vedere nei bilanci degli Stati massima la partita per mantenere la forza, e minima quella per diffondere la scienza, bene dimostrano avere ottima volontà, non mente.

Il Secolo muore, e secondo che sembra a me, bisogna che prima muoia e poi si rinnovelli. Siccome le catastrofi spaventano, e che che se ne dica incerto è sempre il porto dove i venti fanno capitare le rivoluzioni, così nei tempi passati molti s'industriarono ad operare in guisa, che il nostro consorzio mettesse un tallo sul vecchio, cioè che mentre da un lato mano a mano si demoliva, dall'altro con proporzione uguale si fabbricasse: commisero errore, imperciocchè anco Cristo condannò l'arte di mettere toppa nuova sopra panno vecchio. Io tuttavolta confido che i posteri li perdoneranno, se essi con volontà eccellente, ma con fallace consiglio prolungarono le miserie della umanità, forviandola dal suo corso fatale.

Ma nè i presenti, nè i posteri perdoneranno coloro i quali, dopo la prova fatta, con pienezza di conoscenza ricalcano la medesima via. Voi siete maschere col nome scritto dopo le spalle: vi conoscono tutti, e tutti sanno i fini a cui tendete, vanità ed interesse. Voi siete scappati fuori nei campi dello Stato come un fior di ruta, la monarchia non vi vuole, la democrazia vi rifiuta: se fossi in voi disarmerei addirittura; o non vedete, che mentre vi proclamaste capitani di lungo corso capaci di condurre la umanità per mari inesplorati e procellosi, vi siete mangiato il biscotto del viatico prima di uscire dal porto?

Delle rivoluzioni si compiono quelle che tutti presagiscono come portate dalla necessità. Gli avversari del vivere libero non hanno mestieri di spie per essere informati: gli avverte lo istinto, e non errano mai: quando minaccia il terremoto, gli animali domestici, presentendolo, fuggono dalla casa destinata alla ruina; vorreste voi che gli uomini di Stato possedessero meno perspicacia dei gatti? — Questo non si può concedere; nè simile concetto contradice punto allo smanioso rovistare che fa il Governo, e a non trovare mai nulla, perchè altro è non esserci una cosa, ed altro non saperla cercare; altro è persuadere la propria coscienza, ed altro raccoglier prove per persuadere altrui; altro ostinarsi a credere che la faccenda cammini ad un modo, ed altro che la vada diversamente.

Ora le monarchie tremano che i conati dei popoli si appuntino nel volere mutata la forma del governo: per opinione mia s'ingannano; la repubblica è una forma, un grido, una voce; la distruzione o la trasformazione (se ti piace meglio), ma pur sempre la morte del presente è la cosa. La repubblica offre qualche cosa di concreto sopra la quale tu puoi mettere la mano, mentre la distruzione non ha forma, benchè disformi quanto le si para davanti. Ed io qui dissento da quanto mi sembra affermato da Giuseppe Mazzini, il quale giudica che i passati rivolgimenti non attecchissero in Italia, perchè i fattori di quelli o non avessero, o non sapessero mettere in pratica un concetto di reggimento nuovo non solo per ciò che appartiene alla politica, ma sì anche agli ordini del vivere sociale. Con la reverenza che si deve a tanto e a tale uomo, a me pare che cotesti rivolgimenti non allignassero, perchè non accaddero per unica virtù di popolo: se mi sia lecito usare linguaggio mercantile, in negozio che seppe tanto del mercante, essi furono fatti in conto a metà con la monarchia; onde come per ordinario avviene nelle società, ognuno dei soci vantando avessero messo la maggiore porzione pretendeva pigliare tutto per sè; e a diritto, perchè i benefizi delle rivoluzioni non sono di quelli che possano spartirsi fra monarchia e democrazia. Ancora, chi può dire prima della tempesta quello che egli opererà dopo? Quali elementi gli avanzeranno? E come vorranno essere foggiati? Pericoloso poi è proporre generalità, però che comprendendo esse o troppo o troppo poco, quando si arriva a specificarle a modo di cui le propose generano sempre perplessità ed equivoci. Se non erro, qui dentro sta l'agonia del tempo: mietere la messe maledetta del presente, e sul campo sgombrato spargere il seme che si conoscerà più utile alla specie umana. La distruzione e la trasformazione del presente implica per necessità miglioramento avvenire.

Coloro che un dì congiurarono, adesso vituperano la congiura, allegando che la cospirazione non è il diritto, e che non si deve cospirare quando la legge dà modo di conseguire il tuo scopo con argomenti civili; per ultimo conchiudono che chi non consente negli ordini odierni politici ha da uscire dal Parlamento. — Cospirare bisogna, non fosse altro per trovarci concordi in ciò, che dobbiamo proseguire sotto pena di presentare ai popoli lo spettacolo di perpetuo screzio e di contradizione con iscapito di credito. A voi piace la monarchia costituzionale, e bene sta che ve ne palesiate sostenitori ripromettendovi, mercè la sapiente opera vostra, renderla non solo tollerabile, ma desiderabile; però altri opina che la sia per propria indole incapace di ammenda; ora è chiaro che voi potreste con sicurezza discutere dei rimedi per guarirla, ma certo nè apertamente, nè sicuramente avvisare intorno ai partiti di abolirla: voi trovate il vostro pro a plasticarvi alla maniera che fate; altri non ce lo trovano: voi siete contenti, scontentissimi gli altri. Quanto al diritto, vi rispondono che il consenso dell'universale n'è il fondamento; concedeteci dunque che noi procuriamo di guadagnarcelo; la forza poi è il modo con cui si attesta il diritto; però abbiate la pazienza di lasciarcela raccogliere; vedrete, a cose fatte, non solo plaudirete dalla platea, ma darete la scalata al palcoscenico per montarci su a sostenere la vostra parte, fosse pure quella di comparse. Industrie vecchie e rinnovate sempre: il buono arcadore non porta mai una sola freccia nel turcasso.

Qui sopra fu scritto voi potreste discutere con sicurezza i rimedi per emendare la monarchia; però non è certo; e ad ogni modo senza profitto, imperciocchè ella aborra i vostri beveroni sapendo come essi, comecchè da voi propinatile senza malizia, la farebbero morire di colica. Considerate che cosa i monarchi accusino di cospirazione: cospirazioni sono i consorzi artigiani, le adunanze democratiche, i sodalizi dei tiri al bersaglio, le compagnie degli esuli, le fraternite per associare alla fossa i patriotti defunti, i comizi popolari, le scuole promosse dalla carità di privati cittadini, le banche del popolo, e soprattutto la stampa; e senza andare tanto per la sottile, alla rinfusa perseguitano ogni cosa. L'uomo della legge, come l'arciere nella corte dei re di Persia, sta lì con l'arco teso per frecciare chiunque ardisca sollevare la testa dal piatto.

E poi chi potrebbe dire che quanto avviene si operi per virtù di congiura? Ai tempi che corrono ci bisogna davvero molto apparecchio perchè la gente si trovi d'accordo in qualche impresa? La rivoluzione rode.... ha roso le viscere della società nostra. Le autorità un dì conformi, oggi fra loro pugnaci, non generano rivoluzione? L'ordinare e il disordinare continuo dello esercito, è rivoluzione; rivoluzioni le tasse eccessive e tuttodì crescenti. Rivoluzione la finanza disastrata così, che ormai non altro rimedio, eccetto il fallimento, pare che giovi. Le armi in terra e in mare infelici, le persecuzioni aperte, o segrete, l'ostinato favore di una setta astiosa, intenta sempre a deprimere i migliori, la improbità degli ufficiali, le prevaricazioni dei giudici, la corruttela da per tutto non furono sempre tenuti come il ventipiovolo delle rivoluzioni?

Gli amici dell'ordine presente di cose gridano: bisogna provvedere, ed hanno ragione; mandino in esilio la memoria di Custozza e di Lissa: in prigione il fallimento: alle gemonie la miseria pubblica: mettano in Campidoglio la monarchia: compiano la unità italiana: procaccino che cessi la dominazione dei Francesi come cessò quella degli Austriaci[6]. La rivoluzione non è un demone, bensì una necessità. Se fosse un demone, i fautori interessati del Governo lo avrebbero evocato troppo più che i suoi avversari; e se fosse comparso vi avrebbe detto come l'ombra di Samuele a Saulle: «Domani sarete tutti morti.»

E noi? Con voi forse, e certo dopo di voi. Di qual morte? Il fato degli uomini sta chiuso nel pugno di Dio.

Quanto all'atto, alla forza, o al moto materiale non si comprende come altri lo rinneghi, imperciocchè la forza compaia necessaria onde il pensiero si traduca in azione. Carica quanto sai un orologio, se tu non dai impulso al pendolo questo rimarrà fermo in eterno; fa' pure maturare quanto vuoi il frutto, e' ti sarà mestiere un dì stendere il braccio per istaccarlo, che se casca da sè lo raccorrai fradicio, se rimanga su l'albero indozzerà. Certo, chi suona la campana prima che sia venuta l'ora riceve il battaglio sopra la testa, e tuttavia se non fossero questi avventurosi saggiatori, chi avvertirebbe i dormenti che l'alba è nata? Se voleste o poteste dare sicurtà alle monarchie che il popolo non fosse per menare mai le mani, esse si leverebbero d'attorno i soldati come il chirurgo ripone la lancétta, quando ha cavato sangue.

Gli Stati si difendono con la milizia così all'esterno come all'interno, e per la stagione che corre più per di dentro che per di fuori; però leggendo le storie l'uomo rimane percosso dalla inanità delle difese, non meno che dalle molteplici ed inopinate vie dalle quali la rivoluzione prorompe: a modo dei fiumi ella strappa dove te lo aspetti meno. Ora è un volo dal balcone, come Jezabele; ora un sasso nel capo, come a papa Lucio; ora un piumaccio sopra la bocca, come a Federico II; ora un ferro rovente introdotto negl'intestini mercè un corno bucato, come Eduardo II; ora una mina incendiaria come a Dudleio di Scozia; ora veleno, come a Leopoldo II di Austria; ora strozzamento, come a Pietro II di Russia; ora soffocazione a mezza vita, come a Paolo I di Russia; ora pugnale, come Enrico III ed Enrico IV; ora mannaia, come Carlo I e Luigi XVI; ora piombo, come a Massimiliano I; ora un colpo di baionetta nel femore come a Ferdinando di Napoli; ora battaglia cittadina, come a Carlo X e Luigi Filippo di Francia; e via, e via. Le occasioni infinite; le più frequenti, le gravose imposte.

E se vuoi andare chiarito come le monarchie non imparino mai nulla, mira in qual modo in tutta Europa, se togli la Svizzera, si stringano i popoli nello strettoio, senza pensare al poi: anzi uno, che fu ministro, e aspira a ridivenirlo, dichiara essere arte di governo mettere su le spalle al popolo una tassa, subito dopo una seconda, quindi la terza, e la quarta, imperciocchè non costumando così come ci sarebbe dato conoscere quanta sia la potenza del portare, che il popolo possiede comune coll'asino? E dice santamente.

Adesso parrebbe che la rivoluzione si fosse messa per una via senza dubbio strana, intendo accennare agli scioperi; dove questi si allargassero tanto da percotere l'odierno ordinamento di cose come rimediarci? Che pesci pigliare con proletari, i quali dicessero al capitale: «Noi moriremo di fame, ma tu con noi; cucinati il tuo danaro?» E' la sarebbe la rivoluzione presagita a Filippo II dal suo giullare di Corte: «Se tutti quelli, egli diceva, che oggi accennano di sì di un tratto si mettessero al no, chi sarebbe il più buffone di noi?»

E dopo la distruzione, che mai verrà? Io già l'ho detto, questa è scienza di auguri: peggio di così non parrebbe, e la cessazione del presente ci sembra massima parte di bene. Taluni filosofi non hanno perfino insegnato, che il piacere in questo solo consista, nella cessazione del dolore? Il genio dei tempi porta la distruzione delle monarchie, costituzionali o no; anzi le prime più aborrite, come quelle le quali o per necessità d'instituto, o per voglia di persone hanno introdotto nello umano consorzio maggior copia di corruttela. Difatti, vanno ripetendo gli agitatori, le monarchie in generale non contengono più causa di vivere: le più innocenti e sincere sorsero un dì dal bisogno di raccogliere le forze della tribù sotto la guida di un guerriero per la difesa degli assalti altrui, ovvero per assaltare: adesso questo fine ha da smettere, però che i popoli, fatti bene i conti, conoscono a prova come nelle guerre, se i vinti rimangono col capo rotto, anco i vincitori lo riportino incrinato, e lo scambio pacifico dei prodotti di una terra con quelli di un'altra ti reca a casa i beni che i popoli desiderano di godere.

La Prussia se ne accorgerà; la monarchia costà si tramuta in impero; potrebbe darsi che di crisalide diventata farfalla, non si trovasse costretta a battere le ale da Berlino.

E quantunque i principi, non esclusi i più mansueti, usino assisa soldatesca (forse per bene imprimerci nella mente che il diritto sta nella forza), ciò non significa già che tutti sappiano di guerra, e veramente se cingere spada importasse virtù militare, i Cesari e gli Scipioni si comprerebbero in mercato mezza lira la serqua. Se consideri i modi di governare delle monarchie, vedrai come le assolute quasi sempre, e le costituzionali sempre tracollassero le fortune dei popoli. Quando nella monarchia assoluta volere e fare scoppiano come due faville dal medesimo tizzo acceso, ella benefica le genti con la piacevolezza del fulmine; quando nella costituzionale è costretta ad accompagnare con la sua la volontà degli altri, ella risucchia ed addormenta come il vampiro del Ceylan. Fiera necessità quella di guastare e lasciarsi guastare per vivere: stendere la manca alla elemosina per atteggiare la destra al comando. Allorchè venne meno la forza, il principe è costretto ad usare la blandizie; di adulato farsi adulatore: e se Giove un dì si mostrava pei doni propizio, oggi a sua posta Giove ha da tenersi co' doni bene edificati gli Dei minori. Si maravigliano dell'armonia nella quale si accordano Governo costituzionale e Banche di credito, e sembra strano, imperciocchè arieggino fra loro come fratello e sorelle. Di qua, di là si traffica, si cambia e si merca, si sciolgono e stringono affari, si fa faccende, distinte è vero, ma senza nè anco volerlo, talvolta si avviticchiano alle gambe della gente dabbene, sicchè dalla Banca sdrucciolano nel Parlamento e dal Parlamento nella Banca. Presidio dei Governi le Banche, e poichè le Banche si compongono co' sussidi dei privati, sembra ufficio di ottimo cittadino sovvenirle, onde sovvengano; nè sa vedersi la ragione per cui abbia a gridarsi la croce addosso al legislatore, che vi piglia parte. O che la Banca forse è una di quelle case, donde Pompeo uscendo di soppiatto sentì dirsi da Catone: «Tu dovevi vergognarti quando ci entrasti, non ora che n'esci»? Nemici dei legislatori banchieri tutti coloro cui mancò il potere, o l'arte per essere accolti nel concilio di cotesti semidei.

Chè se alle monarchie vennero meno le cause di vita, ogni dì crescono le cause di morte: precipua fra le altre gli eserciti stanziali da loro meritamente considerati àncora estrema di salvazione; e di quante miserie essi sieno origine non importa ripetere, chè la è materia trita. Le bocche non si stancano da predicarla, ma ci hanno orecchie a cui la voce non basta; per isturarle ci vuole il trapano.[7]

Pure chi considera pacato non può dare torto alle monarchie, comecchè temperato: se la volontà degli eletti, ch'esse procurano guadagnare, e che guadagnano, procacciasse altresì le volontà degli elettori, allora potrebbero licenziare lo esercito: ma i denti che leva alla democrazia non può adattare alle sue mascelle; trapiantati non barbicano; ed a cotesta benedetta democrazia i denti rinascono tanto presto! Dunque rimane abbondantemente dimostrato come alle monarchie faccia mestieri tenersi in serbo apostoli di bronzo e confessori di piombo per ricondurre il gregge (dove mai traviasse) sopra il diritto sentiero.

Le monarchie divorano troppo: sembra che la infermità alla quale vanno più che alle altre soggette sia la bulima: ora mentre da tempi rimotissimi eroi e semidei si perigliarono tanto laudabilmente a purgare la terra dai Lestrigoni e dai Ciclopi, come il secolo nostro sopporterà un uomo che consuma la sostanza di diecimila? Gli antichi predicarono e il Gioberti confermò essere i re animali carnivori.

Occorrono nel mondo instituzioni affatto pari agli archi fabbricati co' mattoni senza calcina, donde levando un mattone tutto l'arco si scompagina per tracollare; le monarchie fra queste; finchè si credeva emanassero da Dio, non ci era da ripetere: correva l'obbligo di venerarle in tutto e per tutto come articoli di fede; e la fede è la ragione (lo ha detto il papa anche ieri); ma ai dì nostri, che i cervelli ricusando ogni imbeccata pretendono ragionare a modo loro, sembra presunzione, anzi insolenza, che liberi cuori ed intelletti arguti ti si sottomettano, non perchè tu prevalga per magnanimi sensi, o per sapere, bensì perchè il caso ti fece nascere da una madre piuttostochè da un'altra (non ho accennato a padre, per attenermi al certo). Un giorno sostennero necessaria la eredità del trono per fuggire le contese sanguinose fra i concorrenti al principato, e fu vero; ma ai tempi nostri non abbiamo veduto che nei governi popolari la elezione del magistrato supremo dia luogo a guerre civili.

Oggimai la stemperatezza del vivere si confessa ulcera delle nostre generazioni: il lusso è il campo dove semina la corruzione e la servilità raccoglie; un dì bastava all'universale soddisfare ai primi bisogni della vita e poi alle oneste comodità, le quali e piacciono e giovano: oggi gli è appunto questo a cui meno si bada, anzi questo si sagrifica alle apparenze della vanità. Invade le menti dei cittadini il furore di rovinarsi, come una volta le Baccanti il furore di ubriacarsi; dal colpevole scialacquio nascono a frotte le fraudi, le morti, i falsi, le prevaricazioni, i furti, il pudore venduto, le anime a nolo: insomma la tetra miliare che infradicia il corpo sociale. — Di tanto male non è ignota la origine; all'opposto palese, e non dissimulata, imperocchè gli eccitamenti e lo esempio alle sontuosità lo dieno le monarchie alle quali par debito lo scialacquio per corrispondere alle profusioni insensate di che gli adulatori le dotarono a danno dei popoli: e queste, giudicano, prova solenne del vizio della istituzione tornando a detrimento comune fino quella parte di lei che si presenta sotto forma di bene. Le monarchie, alla rovescia dei fari, i quali si pongono nei luoghi eminenti a fine di avvertire i naviganti perchè se ne discostino, tirano i cittadini a naufragare nello sperpero.

Ma ond'è che le monarchie caddero tanto nello abbominio delle genti? Le religioni tutte poggiano sopra la fede di un Dio, il quale fu creduto somministrasse la prima radice alle monarchie, sicchè correva universale il dettato: un solo Dio, un solo Papa e un solo Imperatore; la Divinità poi dura eterna, mentre l'eredità ha termine; che cosa la Divinità sia ignoriamo; definirla è follia, temerarietà questa da lasciarsi ai sacerdoti; tuttavolta Iddio deve essere meno una volontà che una legge; che se un momento fu volontà, di subito si convertì in legge, nè più ora può alterarsi o disfarsi vigilando al suo adempimento la necessità; e questo forse volle significare la sapienza antica quando nell'Olimpo pose a piè del trono di Giove il Destino, dalla cintola in giù nascosto dentro le nuvole, con le mani intrecciate sopra l'urna dei fati e gli occhi volti in su, quasi per ammonire il Saturnio di stare a segno. E su questo meditando ogni uomo che abbia discorso, si condurrà agevolmente a conoscere quanta sterminata diversità interceda fra la nozione di Dio e la idea del monarca.

La distruzione si proverà di mettere le mani addosso alla religione, tuttavia s'ella mai arriverà a sceverarne il guasto e il vano, non la schianterà, però che eterno affatichi i petti mortali il bisogno di credere; quei dessi, i quali non si rendono capaci del come lo spirito possa sopravvivere alla materia, si spaventano morire interi, e per la nostra intelligenza riesca meno arduo alla vista di una fattura supporre un fattore che immaginare la fattura venuta su a caso e senza legge. Noi parliamo della religione cattolica, una delle più ree di quante abbiano contristato la stirpe umana, sebbene tutte le religioni in mano di tutti i sacerdoti sieno state farina per farne pane ad uso di casa loro; ma sollevando il piviale del nostro papa e vedendo che roba ci sta sotto, l'uomo trasecola come lo sopportino popoli civili. Se non era lo imperatore dei Francesi a quest'ora il Papato era da gran tempo sospeso al palco di qualche spezieria come un coccodrillo impagliato.

E come i Francesi ci nocquero col volere conservato troppo, così ci nocquero quando vollero abbattere troppo. Nel secolo passato per distruggere il prete si rifecero a demolire Cristo. Ora Cristo non si rovescia, imperciocchè la sua dottrina si allarghi così da potere abbracciare ampissimo tratto del perfezionamento umano. Allora i preti, a modo del diavolo, il quale, com'essi ci diedero ad intendere, si schermisce dagli schizzi dell'acqua benedetta dietro la Croce, procurarono salvarsi dietro Cristo dalle aspersioni della filosofia. Intanto non si dimentichi mai che i Francesi, o trascorrendo troppo, o troppo stornando, fin qui guastarono i fatti nostri ed i loro più che non giovassero: grande è il debito loro verso la umanità, ma lo salderanno; così giova sperare, e rammentiamoci eziandio che il prete romano ha cavato i chiodi dal corpo di Cristo per conficcarli in quello dell'umanità. Bisogna calare giù dalla croce questa desolata, e porla in grado di citare il prete di Roma davanti Dio, perchè le renda il suo Cristo, ch'egli ritiene come una cosa furtiva.

Allora con Cristo il papa renderà durevolmente Roma, dacchè il prete verun'altra ragione accampa della rapina, eccetto il tempo lungo; ma il tempo prescrive la pena, non già assolve dalla restituzione. Giova ripeterlo: come acquistò egli? Per donazione del popolo? Questo non è, e fosse i padri mancarono di potere per alienare la libertà dei figli. O forse per mancia dello aiuto prestato al Conquistatore? Violenza non partorisce diritto, e la facoltà del riscatto dura eterna. Origine perenne del diritto la volontà del popolo esercitata dentro i suoi confini naturali; chè se alla volontà si aggiunge la necessità, qual riparo ci metteranno le parole? È legge di natura che i gravi tendano al centro; ora quella che spinge gl'Italiani a Roma vuolsi giudicare della medesima qualità.

Spazzate via le ciurmerie romane, le quali da tanto secolo usurpano il nome della religione, la dottrina di Cristo consolerà col puro suo raggio molta parte del genere umano.

Eppure Roma avrebbe potuto la terza volta dominare il mondo. Quando Attila incedeva alla distruzione di lei, le immagini dei santi Pietro e Paolo, agitando spade di fiamma, lo respinsero indietro: questa fu favola, comecchè Raffaello l'abbia immortalata co' suoi dipinti divini, ma sarebbe stata verità la terza dominazione di Roma sul mondo, se il Sommo Sacerdote avesse bandito ai popoli: «Le antiche dominazioni nacquero tutte dalla violenza o dalla frode: egli è mestieri che cessino tutte. La gente che mi fu tanto lungo tempo soggetta torni in libertà e si governi a suo arbitrio: riabbia i suoi consoli, e se le talenta restituisca il suo Senato ed i suoi tribuni: io qui starò norma di giustizia; dispensatore di lode o di biasimo ai meritevoli, che si convertiranno in premio, ovvero in pena in questo mondo ed in quell'altro.»

Simili parole non solo gli avrieno difeso la porta Pia meglio dei suoi zuavi, ma ei le avrebbe agevolmente potute convertire in leva da sovvertire qualunque trono fondato sopra la iniquità, per quanto apparisse potente.

Senonchè Roma tirata in giuso dalle cupidità della terra non ebbe virtù di volgere gli occhi al cielo ed ispirarsi dall'alto: adhesit pavimento anima mea; l'anima di lei sta attaccata alla melma. Troppo ella trascorse nella via della perdizione per poter tornare in dietro. Roma diventò troppo terra, e come terra bisogna che si disfaccia; il suo divorzio da Cristo è irrevocabile: finchè può, duri come si trova; ogni moto ne affretterà la fine, fosse pur quello di accostarsi un sorso di acqua alla bocca riarsa dall'agonia: ove si volga in fuga, ad ogni passo le cascherà un brandello. Strana coincidenza: Roma imperiale finì con Augustolo, Roma sacerdotale doveva cessare con Pio IX: però spettava al sacerdote comportarsi in modo da privare la vecchiezza del conforto, che non le negano i cuori più duri, la compassione.

L'uragano minacciava le istituzioni, che si vantano e si appellano giustizia: le leggi, cresciute peggio della gramigna, male concepite, pessimamente significate, ti presentano un laberinto, dove la ragione si smarrisce, e in mezzo a quello il giudice l'aspetta per divorarla: ho detto giudice non minotauro, perchè questo almeno, ci contano, fosse mezzo uomo e mezzo belva; mentre nel giudice talora tu cercheresti inutilmente l'uomo anco con la lanterna di Diogene. Troppo spesso vediamo il retto senso in mano al giudice prevaricatore e all'avvocato preso a nolo come la gallina fra i denti della volpe: dei curiali tenuti per eccellenti coloro che meglio riescono a convertire la ragione in torto e viceversa: fra tanta stortura di giudizio, fra così immane depravazione d'intelletto, la corruzione piglia nel garbuglio domicilio come in casa propria. Il giudice prevaricatore non teme più la scotennatura, a cui un giorno lo dannò Cambrise, imperciocchè a quale stravizio d'iniquità non può egli apporre la maschera della buona coscienza e della dignitosa rettitudine? Le leggi adesso, come gli stivali di Teramene, si adattano a tutti i piedi.[8]

Pare dono, ed è giogo, il codice posto in mezzo alla via per ritardare il cammino della umanità; tutti i termini, se forti, impediscono e si odiano: se deboli si scavalcano e si disprezzano. Massime poi se come i nostri non si accordino fra loro nel concetto, e meno ancora nel significato delle parole che adoperano; quello di procedura poi un museo di tagliole. E' si sbracciano ad emendarli; il meglio sarebbe metterli in un bucato d'inchiostro; o darli a rivedere a Vulcano.

Orribile a dirsi! Magistrati preposti alla tutela pubblica seminano i delitti, li coltivano, e poi ne cavano vantaggio di privato interesse: il Governo da prima finge ignorare, informato nega; quando non può più negare attenua, o scusa: il paese, che dovrebbe rimescolarsi, ode, stira le braccia e sbadiglia; la notizia di coteste infamie è cascata nel paese come un sasso dentro la mota; ha levato qualche sprazzo, poi silenzio; ovvero segno unico di vita il consueto gracidare dei ranocchi.

Al magistrato, che piglia nome di difensore della legge, se mai avvenga che la coscienza dei giudici giurati salvi il collo del prevenuto dalla corda, pare che tu abbia rubato l'orologio di tasca; mentre un'altra volta, dove ci trovi il suo conto o il superiore glielo comandi, ed anco non glielo comandi, ma egli presenta che gli fia accetto, sigillerà il sepolcro, e negherà e potrà negare che si scoperchi a raccontare il delitto! Anche ai magistrati preme la unità delle leggi, come agli uomini di Stato piace la unità politica, quindi si studiano estendere la corda alla universa Italia, e ciò perchè a questo modo costuma presso la gente egemonica, ed è assurdo pretendere che questa gente dabbene, ormai usata alla corda, allunghi il passo per mettersi in riga co' popoli più civili di lei, bensì questi devono dare indietro per aspettarla a srugginirsi: finchè ciò non avvenga, si feliciti l'Italia anco nella unità della corda.

La magistratura si loda non per quello ch'è, sibbene per quello che dovrebbe essere; se vi hanno giudici buoni (e ve ne hanno) non rileva, perchè travolti dai pessimi istituti. Dicono che le passioni umane rompono su la soglia del tribunale come onde in frangente; non è vero: i giudici ogni giorno mettono il capo alla finestra per ispecolare da che lato il vento spiri. Tutte le passioni entrano in tribunale per la porta maestra, e ci ha chi spalanca loro le due imposte a un tratto, nè può fare a meno, imperciocchè i giudici non formino collegio a parte come di sacerdoti, consacrati unicamente al culto della giustizia; all'opposto si mescolino nelle lotte della vita politica; parteggino alla scoperta; nei Parlamenti contendano; come gli altri, e più degli altri, smanino pel trionfo dei propri interessi. Ora male si pretende dall'uomo qualità più che umana: sia caldo e freddo ad un punto, appassionato e tranquillo, e possa da un punto all'altro spogliare un abito morale per vestirne uno diverso. Tutti sanno come fosse ordinato in Atene che gli Efori giudicassero al buio, e ciò dopochè Iperide, in dubbio di salvare Frine incolpata di empietà, ricorse, quale supremo argomento, per commuovere gli Efori, a stracciarle i panni di dosso, mostrando la meravigliosa bellezza delle sue forme; ma molti ignorano l'ufficio del Filacto, magistrato presso i Cumei, il quale consisteva di tener per mano il re nelle adunanze notturne, finchè i senatori non avessero sentenziato al buio se da lui bene o male fosse stata amministrata la giustizia.

La legge nel medesimo tempo permette e punisce il medesimo fatto secondo le qualità di cui l'opera e la gravità sua; se gravissimo concesso, e concesso altresì al Governo; nei privati, e se lieve, percosso. Il Governo, dopo aver tassato il sangue e la fame, impone il balzello anche alla disperazione: ei si compiace mostrare che dal gioco del lotto ricavi la entrata più grossa del suo bilancio, deplora il male e lo provoca, confessa la colpa e la rinnova; ogni altro gioco meno proditorio pel giocatore perseguita; e al magistrato sembra sul serio amministrare giustizia da un lato condannando la femmina che allotta galline, dall'altro lasciando in pace il Governo, il quale trova modo di risucchiare dalle vene del popolo ottanta e più milioni di lire.

Ma il Governo divora per essere divorato; Polifemo, che dopo avere mangiato ad uno ad uno i compagni di Ulisse, serve di pasto ai Ciclopi. Gli usurai nomadi hanno piantato i tabernacoli loro nelle viscere dello Stato; e quinci mandano le mandrie delle arpie a pascere dintorno: tuttavia tremano, e spaventati spaventano; al popolo parlano di disperazione, come se la disperazione del popolo non dovesse mettere in pensiero loro, piuttostochè questo; e percotono altresì le teste vuote dei legislatori, le quali ripetono come tamburi: «fallimento». Allora tutti quelli che stanno uniti al Governo col vincolo del debito si commovono fieramente per la salute della Patria, ch'essi hanno soccorso alla ragione del dodici per cento e più; maledicono come nemici della Patria chi non paga i balzelli vecchi, ovvero si oppone ai nuovi; non corre tempo di pace adesso; le forze tutte dello Stato importa convertire in uscieri per dichiarare la guerra dei gravamenti ai debitori morosi. Avete ragione, tuttavia considerate come per molti quello che voi chiamate ricchezza mobile sia miseria stabile, e come il meschino guadagno non basti ai primi bisogni della vita. Che rileva ciò? Rispondono, virtù sono la sobrietà e la temperanza; digiunino una volta la settimana, il digiuno viene raccomandato dal Vangelo, rincalzano i Giudei. Bene sta, ma allora come il popolo giocherà al lotto? Anch'esso è necessario per pagare l'interesse del cinque sopra cartelle comprate al quaranta, ed anco meno per cento. Digiuni un altro giorno, ripicchiano i governatori della Banca Nazionale. Ormai il debito e il credito hanno partorito una feroce complicità: se guardi alla intenzione ed agli effetti tu vedrai uscirne le medesime sequele dei capitali delitti, e tuttavia mentre del processo Stastings si parlò con orrore per tutta Europa, oggi discorrono di amministrare a cotesta maniera parecchi Stati con mirabile tranquillità: tutto si connatura, anco il morbo asiatico. Se io mi fossi trovato nei piedi del Peabody avrei istituito un premio di dieci milioni di dollari per colui che trovasse la maniera d' inoculare la fame; dormono i grandi ingegni in Italia? Su, sorga qualcheduno, il quale con questa scoperta faccia impallidire la gloria dell'Jenner.

Un dì si vedeva una nobilea spennacchiata, che se ne stava in sussiego come uccello che mudi nella aspettativa di rinnovare le piume, le quali non si rimettevano mai: pure crogiolandosi nei suoi titoli ella guardava con occhio obliquo la gente nuova, e i subiti guadagni aveva in dispregio; Napoleone I, il grande schernitore della razza umana, promosse a tutt'uomo la miscela del danaro plebeo con la povertà superba della nobilea; buttò il concio a far rinvenire le terre sterilite, e lo diceva. I nobili allora allungavano la mano, prendevano e disprezzavano: adesso non più così; su la sera vennero i nobili a parte delle baratterie, e ci si misero con l'agonia di cui sente avere tardato troppo ed ha bisogno di rimettere il tempo perduto; libidine di vergine trentenne; un giorno i nobili spregiavano gli usurai, ma non gli odiavano, e avevano ragione; gli usurai odiavano i nobili, ma non gli spregiavano, e non avevano torto; oggi stanno insieme, e a buon diritto si disprezzano e si odiano da entrambe lo parti: in turpe gara titoli, rapina, e servitù.

Le cause di vivere in società sono mutate, o piuttosto diventarono opposte: in vero, gli uomini si condussero ai civili sodalizi per sovvenirsi, oggi stanno insieme per divorarsi con maggiore comodità: parco chiuso di belve dove l'una tira addosso l'altra col ferro poco, molto co' tradimenti e moltissimo con le frodi.

E la famiglia di cui il nido si compone di casti affetti e di soavi pensieri come non doveva appassire in mezzo al morbo? Già da tempo le nozze erano diventate paretaio per chiappare mariti; contratto da prima, oggi mercato; verun rito religioso vi presiede; nè manco si cerca qualche vecchio virtuoso la benedirle: difatti sarebbe superfluità; o che forse nelle fiere dove si vendono e si barattano bestiami si chiama auspice un Dio? Nei giorni andati nel contratto si poneva la condizione che la sposa o serbasse, o prendesse il suo galante, e il marito acconsentiva: oggi si omette il patto, perchè non ce n'è più bisogno: si appetiscono le nozze per onestare le libidini vecchie, o mantellare le nuove. Un dì fornivano alle femmine occasioni di non tenere mai i piedi in casa le pratiche religiose, adesso ferme queste, ci hanno aggiunto il continuo visitarsi, e la frequenza agli asili, alle scuole e ad altri luoghi di beneficenza: tutto è in maschera, la tirannide va larvata di libertà, la lascivia di virtù: spesso la femmina svolta il canto dello asilo infantile, e sguizza furtiva nel misterioso lupanare dove l'attende l'adultero della giornata.... della giornata, perchè anco l'adulterio stampi il suo lunario in capo all'anno e in ogni giorno metta un santo nuovo. Baci maritali diacci come falde di neve, o se tepidi, perchè le labbra conservano un po' di ardore col quale le accese la bocca dell'amante: e nodi sono eglino questi? Sì certo nodi di cui Tisifone staccandosi un paio di vipere dal capo somministrò il legame. Già già le nozze forniscono alle spose materia per sperimentare la virtù dei veleni sopra i mariti. Nè questi meglio di quelle; adulteri anche essi, e gelosi: mettono le mani nel sangue meno per ispasimo di affetto tradito, che per rabbia di superbia offesa: la figliuolanza, quantunque per cause diverse, spaventa l'un genitore e l'altro; la madre vana, che vede nei figli molesti testimoni della età che avanza, il padre, che ha da apprestare la dote alle figlie e sostenere le spese della educazione della famiglia. Oh! quanto volentieri i padri costumerebbero coi figli, siccome i fanciulli fanno con le bolle di sapone; i quali le spingono per l'aria soffiando nella cannella, e dopo che hanno vagato alquanto in balìa del vento le vedono scoppiare ridendo. Però nei demolitori sorse il tetro proposito di distruggere la famiglia, sfiduciati di poterla emendare; così taluni selvaggi delle isole dell'Oceano quando pensano che il padre infermo non possa più riaversi, lo gettano a ritemperarsi sul fuoco. — Senza Dio, senza patria, senza famiglia, qual mai consorzio può darsi fra gli uomini? Prima, che ciò avvenga Dio ripieghi il cielo come un rotolo, sigilli le stelle e spenga il sole, abbandonando la terra alle tenebre e al freddo.

Ma quando striderà la tempesta qual voce potrà farsi sentire o sarà ascoltata? Se a taluno arridesse questa speranza io vorrei che con magna voce gridasse: «Piuttosto che la famiglia distruggete le città, e seminatene l'area di grano, così vi forniranno messe di spighe, mentre ora vi producono messe di vizi, o di delitti: uscite dai chiusi, le città sono prigioni di prigioni, parchi per avere sotto mano le belve; spargetevi pei campi. La terra vi generò, la terra vi alimenta, la terra vi dà nel suo grembo riposo; madre sempre la terra; al cielo levate le preghiere, alla terra chiedete soccorso: vi è pane per tutti. Se la immensa pecunia sparnazzata dai re per comperare la ignominia o l'angoscia dei popoli fosse stata spesa in opere utili alla umanità, quanta miseria e quanti delitti sarebbero stati risparmiati! — Poche idee, ma sicure con le quali possiate solcare le menti dei mortali come col vomere la terra, o vi redimeranno, od altra industria nol potrà: ma intanto la presente società bisogna che muoia: Dio non vuole, e gli uomini non possono sanarla: che resta dunque a noi altri? Accogliere speranze e formare voti pei futuri destini dei nostri nipoti, imperciocchè se questi voti e queste speranze non gioveranno, male certamente non ne potranno fare; e poi bene auspicando e bene sperando si acquieta l'amarezza, che sorprende l'animo nostro alla contemplazione dei mali presenti, e meglio ancora ci disponiamo a morire con la maggiore pace possibile.»

Capitolo I. L'ANTIVIGILIA DI NATALE.

— Oh! che lo invito glielo abbia a mandare?

— Fa' quello che il cuore ti detta; io per me non glielo manderei...

Era ormai un quarto d'ora e più che Orazio e Marcello se ne stavano seduti avanti al fuoco, senza alternarsi parola, ed i ragionamenti loro, prima che tacessero, non avevano avuto nemmanco alla lontana relazione di sorta a cotesta domanda e nè a cotesta risposta; non pertanto s'intesero perfettamente.

Ora come avviene ciò? Decifrarlo è difficile, ma io credo che nel modo stesso col quale i corpi si mettono in corrispondenza fra loro per virtù di correnti elettriche, o di fluidi animali, così gli spiriti si compenetrino, mercè un'aura di pensiero, che muove da una parte e dall'altra. Basta; comunque la cosa accada, non si potrebbe negare come due creature s'intendano, e conversino insieme senza significare con parole gli interni concetti.

Difatti le menti di Orazio e di Marcello stavano in quel momento appuntate in Omobono Compagni, padre d'Isabella, il quale, secondo il presagio che un dì si ebbe a fare Orazio, era riuscito alla prova cattivo a farina e peggio a pane.

Sarebbe spietà e travaglio pretto dell'anima chiarire come le subitanee conversioni dei tristi occorrano tanto frequenti nei desiderii e nelle immaginazioni degli scrittori, quanto rade nel mondo reale: non impugno qualche caso di convertito sul serio: avis rara, ma però tanto straordinario, tanto pericoloso, tanto incerto, che di tratto in tratto parmi lecito domandare a sè stesso, se la carne valga il giunco.

Poniamo da parte se l'uomo obbedisca a propensioni naturali; io credo di sì; certo è poi che un abito morale formato da diuturne meditazioni, da propositi continui e da pratiche giornaliere talmente ti si converte in natura, che tu non potrai spogliarlo senza che ne venga via anche il pezzo.

Cedendo all'impeto di una spinta violenta, il cuore dell'uomo al pari dell'ago calamitato devia dal suo polo, ma poi e cuore ed ago lasciati a sè stessi tornano oscillando al punto dove la necessità li costringe; tanto più il cuore, in quanto gli fanno forza molte e diverse passioni incrostate, per così dire, nello essere suo; però che ora ceda alla vendetta, ed ora alla cupidità, talvolta alla vanità, tal'altra alla superbia, e così via, le quali passioni tutte spesso procedono nel medesimo individuo non già alla spicciolata, bensì congiuntamente.

Così Omobono, nato falco e vissuto sparviere, entrando nel cammino della onestà parve un pulcino dentro la stoppa; sopportava fatica da sudare acqua e sangue; a mantenersi saldo sulla via del galantuomo sentiva proprio dolore quanto e più ne pativa l'uomo condotto a sostenere il giudizio di Dio delle braccia aperte in croce, finchè durava la messa.

Nella insolita scalmana di affetto verso la figlia e il nipote, che mai non disse e non fece Omobono! Donò ad Isabella tante gioie pel valsente di oltre trentamila lire; volle costituirle la dote di ben oltre quattrocentomila; il neonato, ben intesi, doveva esser suo, propriamente suo, e però erede di quanto egli si trovava a possedere nel mondo. Lasciasse, per amore di Dio, Marcello quei suoi tisicuzzi negozi, dove assottigliandosi anima e corpo avrebbe raggranellato una dozzina di mila franchi per anno: pensiero suo sarebbe stato di avviarlo per modo che, senza un suo risico, dodicimila lire le avrebbe guadagnate in un bacchio baleno: si lasciasse fare!

E troppo tempo non corse, ch'egli s'industriò con ogni maniera di astuzie riagguantare le gioie donate ad Isabella, la quale, tuttochè buona femmina fosse, pure era femmina, e però a pigliare generosa, a rendere parca, massime quando si trattava di gioie: la dote Omobono non pagò mai; l'aveva promessa e basta; il figlioccio gli passò per la mente con la frequenza con la quale gli ci veniva Attila re degli Unni; e quanto allo allogamento del genero Marcello, lo tolse appunto ai suoi modesti traffici, gli aperse la Banca, dove sul principio non fece penuriare capitali, chè in breve rimasero assorbiti da un giro vorticoso di cambiali del suocero; e poi, il male pigliando vizio, incominciò a tempestare Marcello con uno uragano di tratte a vuoto, sicchè Orazio ne rimase spaventato per modo che, ristrettosi con Marcello, deliberarono insieme di cavarsi fuori da cotesto pelago, e lo fecero con infinita querimonia di Omobono, che liquidati i conti, essendo rimasto debitore, mise in campo un sacco di ganci, da sgomentare ogni fedele cristiano, per non pagare il saldo, onde per la meno trista fu mestieri lasciare parecchi bioccoli di lana in cotesta siepe. Pertanto il civanzo che fece Marcello col suocero magnifico fu questo, perdita del suo antico avviamento e scapita di non poca moneta; e tuttavia Omobono non rifiniva di lamentarsi che quel suo genero gli costava un occhio.

Allora scappò la pazienza ad Orazio, il quale prese a far cosa a cui avrebbe dovuto pensare prima; chè del senno del poi ne vanno piene le fosse: mise sopra al suo trespolo Omobono, raccolse prudentemente quante maggiori notizie sul conto suo potè e incominciò a studiarlo per di dentro e per di fuori. Lo seppe di progenie malnata e indigente e feroce. Uscì di casa come una fusta di pirati una volta sferrava da Algeri per corseggiare sul Mediterraneo: suo viatico questo, paura del diavolo poca, del codice penale nessuna, odio immortale alla miseria; però nei primordi facendo di ogni erba fascio, qualche penna in mano ai giudici correzionali l'ebbe a lasciare. Essendosi in lui imbattuta per caso la sfrontatezza cadde in deliquio sospirando: «Ahimè, il mio padrone è nato!»

Strano a dirsi, e pure vero, veruno più di lui credeva alle proprie menzogne: di parola osservata non si discorre nemmanco; dei contratti eseguiva quelli che tornavano a lui; se no litigava; i giuramenti falsi si tirava giù come ciliege in guazzo: fu marito senza affetto, fece un affare, donde cavò facoltà da costituirsi sgozzino: le arti dello strangolatore apprese tutte ed altre ce ne aggiunse di suo, e così bene l'esercitò, che quasi persuase il tapino, da lui spogliato in camicia, di averlo rivestito da capo a piedi; e come fu marito senza affetto, così diventò padre con paura, che nell'unica figlia altro non vide che una nuova Eva venuta al mondo per portargli via una costola; vano, non ambizioso, imperciocchè non si proponesse scopo alcuno nel procurarsi dovizie, però che, più di essere, gli premeva comparire straricco; e se avesse potuto avrebbe istituito erede sè medesimo: ambì reputazione di Mecenate, e comperati quadri a tanto il metro li sciorinava battezzando il più tristo almeno un Raffaello: uccellato, da principio non se ne accorse, poi conosciuta la ragia relegò le tele in soffitta e vendè le cornici. Ostentava lusso e penuriava del necessario: stoffe di seta e luminare di bronzo dorato in sala, in camera lenzuola di tela canapina e un candeliere di ottone; nella scuderia cocchiere con livrea e mozzi di stalla, in casa un servitore unto e bisunto da disgradarne Guccio Imbratta di sudicia memoria, al quale per giunta egli truffava il danaro del salario, dandogli ad intendere che glielo faceva fruttare venti per uno mettendolo a parte dei suoi negozi, e costui lo credeva, perchè cosa mai non crede la ignorante cupidità? Se temeva che qualche cittadino informato di talune delle sue marachelle potesse sbottonare di lui, eccolo pronto a soffiare nelle orecchie di quanti gli si paravano davanti una procella di calunnie a carico di quel galantuomo, di cui la minore o l'uxoricidio, o aver lasciato morir di fame il padre, o truffato la eredità al fratello: dove, per ventura, lì per lì si fosse presentato il trafitto dai suoi improperi, ecco farglisi incontro festoso, blandirlo con parole umili, ricercarlo con premura della sua salute, dei figli, del padre morto, della moglie strangolata e via discorrendo. Costui partitosi, se l'altro, col quale aveva messo male del festeggiato, gli domandava: — Per caso non sarebbe egli il parricida di cui testè mi favellaste? — Egli ghignando, con una crollatina di spalle rispondeva: — Appunto è quel desso. — Tetra impostura forse non mai più vista al mondo. La onestà degli altri si recava a insulto, anzi credeva che taluno si mantenesse uomo dabbene proprio per fargli dispetto: il suono della lode per la virtù altrui gli giungeva grato all'orecchio quanto quello della sega quando la limano; e si racconta come certa volta essendogli caduto il portafoglio di tasca con di molti biglietti di banca, un popolano avendolo trovato per via glielo riportasse; di che rimase inferocito, onde cavatosi uno scudo di tasca lo porse al popolano, e guardatolo a straccia sacco gli disse: «Va': comprati tanta fune ed impiccati: il far da galantuomo costa caro.» Quando morì la sua povera moglie, avendo trovato vero il proverbio, che nella vita matrimoniale il marito gode due giorni di contentezza massima, quello cioè delle nozze e l'altro dei funerali della moglie, volle metterli a confronto, e calcolare quale dei due costasse meno: fatti i debiti riscontri, trovò che nel secondo aveva risparmiato sul primo settantatrè e un quarto per cento. Procurò altresì che sopra la lapide, che le pose con lunga diceria, si dichiarassero le virtù della morta e quelle di lui vivo, e il pianto inconsolabile e lo affetto imperituro, con tutte le altre ciurmerie, le quali generarono il proverbio: «Bugiardo come una lapide.» Tuttavia volendo mettere d'accordo l'epitaffio lungo e la spesa, ci adoperò una lastra sottile di marmo ravaccione di Serravezza, spendendoci in tutto lire novantatrè, e non so che soldi.

Due cose sopra ogni altra nequizia inspiravano paura nel pravo talento di Omobono, ed erano queste: sgraffiato una volta dal pettine della polizia correzionale, ei procedeva a mo' del cane, il quale scottato dall'acqua calda teme la fredda; quindi al di là degli articoli del codice egli guardava con lo struggimento dei nostri primi padri, quando, espulsi dal paradiso terrestre, oltre i suoi muri contemplavano il frutto proibito; ed Omobono di cotesti frutti non poteva astenersi, nè voleva, comecchè di lasciarci il pelo aborriva: allora attese a istituire intorno a sè un semenzaio di giovanotti di belle speranze, destinati a svilupparsi nella pienezza del furfante; questi con amore coltivava, forniva di danaro; perchè mano a mano in ogni maniera di vizi s'impantanassero; noviziato iniquissimo di corruttela: nel medesimo tempo Omobono per via di ambagi, e come di mezzo ad una nebbia, gli ammaestrava nella infinita famiglia degli scrocchi, onde si accorcia la via della fortuna, e poi senza ordinare nulla di preciso aggiungeva: «Io vorrei essere inteso, figliuoli miei, a volo, chè tutto non si può dire; il mondo è di chi se lo piglia, e per fare roba presto, bisogna avere un parente a casa del diavolo.»

E il giorno stesso nel quale aveva dato al giovane uno spintone verso la galera a vita, egli era fantino da mandargli di mancia un cento o duecento lire per sopperire ai bisogni di casa sua, accompagnandole con una lettera gremita di buoni consigli e di salutari avvertimenti da disgradarne una serqua di missionari; la quale egli aveva cura di riportare sul copia lettere del banco, e ciò pel medesimo fine per cui gli accorti capitani nel presagio della difesa muniscono le rocche. Così addestrato, il nostro cane, uomo spontaneo o sguinzagliato, irrompeva nelle bandite del codice penale, donde tornando con qualche truffa in bocca glie l'agguantavano Omobono, o gli sbirri; finchè raccoglieva Omobono, la faccenda andava a pennello; se il disgraziato capitava in mano al bargello, era un altro paio di maniche: allora Omobono non rifiniva d'imprecare alla corruttela dei tempi, le lettere di ammonimento scritte al giovane mostrava a chi voleva, ed a cui non le voleva vedere:

«Come si fa?» bisbigliava in modo che lo sentissero tutti; «gran brutta dote mi donò natura, col farmi affezionare troppo a chi mi sta dintorno: se mi dessi la disciplina ogni quattro ore di filo, non basterebbe a scontare questo viziaccio.»

Verso sera scivolava guardingo a casa del giovane; quivi padre e madre consolava; certo quel benedetto ragazzo l'ha fatta grossa; pure stessero di buon animo, che egli per quanto gli bastassero le forze gliel'avrebbe accomodata. E qui figuratevi le benedizioni, i pianti, i baci sulle mani e sulle falde del vestito, e l'accendere i quattro lucignoli delle lucerne per fargli lume sino all'ultima scala. Svoltato il canto, Omobono, senza frapporre indugio, si recava al giudice istruttore, dove sulle prime pigliava le difese del giovane per terminare col mettere il magistrato sulla via di scoprire il giovane e coprire sè.

L'altra nequizia di costui consisteva nel seminare discordia tra persone amiche, e, se congiunte per sangue, tanto meglio; nè si ristava dal soffiare in cotesto fuoco, finchè non lo vedesse divampare in odio immortale; allora pareva scaldarcisi le mani con ineffabile contentezza. Insomma, per le qualità dell'anima Omobono Buoncompagni era tale da credere che, a suo tempo capitato allo inferno, Giuda Scariotte, fattogli di berretta, si alzasse dal suo seggio e gli dicesse: «Ci si metta lei

Quanto poi alle doti fisiche ogniqualvolta Orazio si riportava al pensiero le forme di Omobono, rideva ad un punto e rabbrividiva, imperciocchè davvero il corpo di lui rappresentasse una truce buffoneria; veduto di profilo pareva una figura composta di tre sette: dal cucuzzolo del suo zuccone scendeva una linea inclinata sopra la fronte, ed un'altra dal cucuzzolo fino alla nuca; questo il primo sette: dalla collottola giù per le spalle chine in avanti partendosi un'altra linea terminava all'osso sacro, donde ripiegandosi lungo le cosce toccava il ginocchio; e questo il secondo sette: il terzo sette composto dalla medesima linea delle cosce e da quella delle gambe arrembate, fino al tallone: costumava inoltre portare le braccia a guisa di manichi di brocche, e le mani nascoste o in tasca dei calzoni, o nella cintura, chè aveva

Dita e man dolcemente grosse e corte

come quelle dell'innamorata del Berni. I piedi, zoccoli veri di animale solipede, onde, o perchè male ci si reggesse sopra, o per qual altra causa, saltellava sempre: vera scimmia affricana, e di scimmia egli mostrava altresì la faccia gialla come lardo invietito, grinzosa e scura sotto gli occhi grigi. Come i pensieri sotto, così i capelli sopra cotesto cranio rari, scarmigliati, bianchi e neri come se avessero lite fra loro: camuso il naso, di cui le narici, o piuttosto froge, si dilatavano e si crispavano, unico segno in lui di sensibilità: si sarebbe detto che il cuore, accortosi della sua inutilità in cotesto corpo, avesse depositato la facoltà del palpito sopra le alette del naso a costui: la barba rigida e mozza, che ritta sempre in su più che ad altro rassomigliava ad una zeppa per ispaccare le legna: la bocca sdentata, chè forse i denti non avevano potuto reggere alla fiumana corrosiva delle ribalderie del continuo irrompente dalla gola di Omobono: breve, onde io ponga fine a questa miniatura, cotesta era faccia che la molta virtù di Socrate valse a rendere tollerabile, e non potè nobilitare; faccia, che, a mio parere, fruttò più di un voto nella sentenza che condannò il povero filosofo a bere la cicuta; faccia, che prima di Socrate, ai tempi di Socrate e dopo lui fu giudicata sempre dagli intendenti faccia di ladro. Difatti narrasi dal dottore Zimerman[9] cosa o ignota a tutti, o a pochi manifesta, come un giorno capitasse in Atene certo fisiomante, al quale, prima ch'egli avesse preso lingua in città, i discepoli di Socrate mostrarono il maestro, affinchè dai lineamenti del suo volto tirasse a indovinare la natura di lui; sicuri che egli avrebbe preso un granchio, ed essi una riprova della inanità della sua pretesa scienza. Il fisiomante, considerata un cotal poco la faccia del filosofo, sentenziò reciso: « Questa è faccia di ladro. »

I discepoli di Socrate diedero in uno scoppio di risa; ma qual fu mai la maraviglia loro e lo spavento, quando Socrate, dopo aver racquetato col cenno cotesto rumore, disse placidamente: «Quest'uomo ha ragione; sortii da natura lo istinto del ladro, e me dominò per lungo tempo la passione del furto, la quale avendo spinto a furia di combattimento fuori dell'animo mio, tanto non seppi fare, che ella non abbia lasciato qualche traccia di sè sopra la mia sembianza.»

Intanto tu, lettore, poni in sodo questo assioma: faccia bianca con occhi grigi e naso camuso, ordinariamente è faccia di ladro.

*

Nel punto stesso in cui Orazio terminava di susurrare le parole: «io per me non glielo manderei» ecco levarsi dall'altra parte della sala uno strepito di voci gioconde, che in diversi tuoni gridavano:

— È fatta! È fatta!

Le voci movevano da un gruppo composto di una donna e da cinque giovanetti, tre maschi e due femmine. La donna era Isabella, splendida di matura bellezza, la quale pendesse piuttosto alla seconda che alla prima metà dello autunno, lieta di casti pensieri e di santi affetti, disgradava ben mille primavere di più giovani donne: ella deliziavasi nella gloria della sua maternità, come il cigno gode sull'aurora bagnarsi le ali nella rugiada; lei circondavano i figli, formosissimi nella stessa guisa che i nostri famosi maestri dipinsero la madre di Cristo sempre accompagnata dagli angioli; vari gli atti, e un po' anche i volti, ma non più di quanto conviene essere a' fratelli; i capelli di tutti pari a quelli della madre, di un bel biondo di oro; per lo che stando essi raggruppati insieme gli inondasse dall'alto un torrente di luce, che scendeva dalla lumiera appesa al soffitto, e paressero circonfusi dal nimbo radiato a modo di angioli. Di statura diversi, pari alle canne dell'organo disposte a spirare armonia di paradiso, dove la mano esperta sappia ricavarne il suono; e la mano esperta è quella appunto della madre.

O madri, non vi lasciate sedurre dalle piaggerie; meglio varrà per voi allevare sani i vostri figliuoli in casa, che medicare gli altrui fuori di casa; meglio educare i suoi, che confondersi con quelli degli altri; stiamo al sodo; che tu madre possa amare gli altri più dei tuoi non ci credo, e non è; se fosse, come storto amore si avrebbe a riprendere: in tutto ciò che non si uniforma alla natura gatta ci cova: la carità incomincia da sè e dai suoi, lo ha detto Cristo, tenerissimo della umanità; se ve ne avanza, prodigatela altrui; per la donna, che non è madre, la faccenda procede altrimenti; ella può, invece che all'uomo, consacrarsi al bene del genere umano.

La celebrità della madre di famiglia è un sole, che smonta il vermiglio della verecondia; spettabile sopra tutte la donna la quale, per sentenza di Teofrasto, non diede mai a dire di sè nè in bene, nè in male. Delle donne latine di una si conosce la tomba e il nome, Cecilia Metella, non già la famiglia e le opere; di un'altra solo la tomba: di questa sappiamo unicamente che domi mansit et lanam fecit.

A coloro poi che incauti amici s'industriassero persuadere a voi madri di famiglia come questo sarebbe pensare solo a sè, e nulla agli altri: se così costumassero tutte, l'umano consorzio si sfilaccerebbe sotto le dita dell' egoismo; la loro vita sarebbe quella dello insetto caduto nel calice del fiore, dove oblioso del mondo esterno sugge, si rinnuova e muore, voi rispondete: «Coteste le sono novelle; di che cosa andava composto il fascio romano? Di verghe: ebbene, come il fascio romano si formava di verghe, la società si costituisce dall'aggregazione delle famiglie, e chi coltiva la propria famiglia è buono operaio nel campo dell'umanità.»

*

— Che cosa è quella che voi avete fatto? — interrogò Marcello.

— Ecco, rispose sorridente Isabella, io aveva commesso a tutti questi figliuoli che componessero una lettera, secondochè il cuore loro dettava, col proposito che io poi avrei scelto la meglio, ovvero ne avrei formata una io, togliendo ora dall'una, ora dall'altra quanto mi fosse parso più adattato: ora avendo giusto fatto così, mi venne di comporre questa, approvata dal consenso universale. La volete sentire? Non dite di no, perchè bisogna che di santa ragione voi la leggiate, non si potendo spedire se prima non vi apponiate il nome vostro.

E lesse:

«Carissimo, nonno, suocero, ed amico.»

Il parroco, il quale essendosi posto con tanta poca riverenza a sedere sopra le reliquie di Santa Filomena, sentì di un tratto, convertite in carboni accesi, ardergli il fondamento, non diede in maggiore sbalzo di quello che facesse Orazio all'udire cotesto principio di lettera; ma subito dopo si contenne e aggrinzò la bocca come i bambini quando incominciano a piangere.

Isabella, non avvertendolo, proseguiva: «Se provassi mezza la voglia che abbiamo noi di vederti, di vedere noi, tu a quest'ora avresti preso a nolo le ali di una colomba per volare a casa nostra. Vieni dunque a rallegrarci con la tua presenza, siccome tu ti rallegrerai nella nostra: sagrifichiamo tutto un dì sopra l'altare domestico al Genio della famiglia. Vieni; a nome di quanto hai di più sacro al mondo (e dovremmo essere noi) t'intimiamo a comparirci davanti il giorno del santo Natale all'ora di desinare, e prima potendo.»

Marcello, finita la lettura, dondolava il capo da destra a sinistra, nè assentendo, nè disdicendo. Orazio chiuse gli occhi, e s'incrociò le mani sul petto in atto di cui dica: « in manus tuas commendo.» Tuttavia Isabella, assorta nel suo fervido amore, non badando a cosifatti segni, ripiglia:

— Ed ora la segneremo tutti, e la manderemo alla posta, chè abbiamo ad essere sempre in tempo; così babbo la potrà ricevere domani, a mezzo giorno al più tardi, e se glielo permettono gli affari, farci la sorpresa di venire la sera. Tenga, zio, a lei sta scrivere il primo il suo riverito nome.

E così dicendo gli porgeva la penna intinta nello inchiostro. Al povero Orazio pareva gli macinassero il cervello; lo colsero i brividi, si sforzava a non battere i denti, e appena ci riusciva: due pensieri si combattevano nel suo spirito, che uno gli mormorava dentro l'orecchio destro come un moscone dentro a un fiasco: — come onesterai la schifezza che ti assale contro il perdutissimo, che pure è padre della tua nuora? Da che parte ti rifarai a spalancare intero l'animo tuo? Informerai il padre al cospetto della figlia? Dell'avo alla presenza dei nepoti? — Ma, santo Dio, s'egli non ebbe viscere mai nè di padre, nè di nonno! Non importa, essi non lo credono, e giova così; e tu vorresti versare in cotesti cuori un'amarezza che non ha confine, avvelenare i giorni di quei cari innocenti? E bada, tu corri il rischio che alle tue parole neghino fede; e dopo tanta fatica per procurarti il loro affetto ti piglino in odio... libera nos Domine.

L'altro pensiero nell'orecchio sinistro gli ronzava: — nota bene, che se tu respingerai la proposta benevola senza addurre motivo alcuno, ti giudicheranno a ragione cervellino, zotico, e peggio. Diranno che hai aspettato sul chiudere bottega a buttare sul mercato questi fondacci di magazzino, questa merce avariata. Su, Orazio, da bravo, dacchè tu sei prossimo al laus Deo del tuo libro mortale, e non lo nascondi a te stesso, chiudi gli occhi, butta giù anco questo, e non isconciarti sul più bello le uova nel paniere. Ricorda come il tuo Signore, il quale vede le azioni più riposte dell'uomo, e legge gli arcani del cuore, te ne ricompenserà; sì, Orazio, credi ch'ei te ne ricompenserà. Tienti fermo a questa fede: alla svolta si provano i barberi!...

Orazio prese bravamente la penna, e segnava, ma la mano tremando gli negò l'ufficio, sicchè lasciò cascare sopra il foglio uno scorbio, e subito dopo la penna scivolandogli dalle dita lo imbrattava con una seconda macchia più grossa della prima; non ci fu verso potere scrivere più innanzi, e ormai la lettera concia a quel modo non poteva andare, quindi deliberarono ricopiarla. Intanto tutti dintorno allo zio Orazio a domandargli se si sentisse male; forse lo aveva indisposto il fuoco, anzi certissimamente il fuoco; e Orazio assentiva dicendo: «può essere, può essere»; ed aggiungeva «il meglio sarà ridurmi in camera»; e preso in fretta il braccio di Marcello si sottrasse alla nuova persecuzione.

E così accadde che la lettera d'invito ad Omobono Buoncompagni fu spedita senza la sottoscrizione di Orazio.

Capitolo II. ANIMA DI BANCHIERE.

Orazio davvero avrebbe potuto dire: «Non son qual fui, morì di me gran parte», e pur troppo parecchie cose avevano contribuito a buttarlo giù: primieramente gli anni, i quali, taciti e cheti, gli erano piovuti addosso come falde di neve e come neve ghiacci: Orazio non si curava rammentarsi di loro, ma essi troppo bene si rammentavano di lui. Il tempo, che da prima sembrò avere esitato a tirare un solco sopra cotesta fronte serena, da un pezzo in qua, terminato un solco dava subito di volta a tracciarne un altro, nè ora più sopra la fronte sola, bensì sotto le ciglia a modo di zampe di uccello, lungo le gote, agli angoli della bocca; insomma da per tutto: nè egli si sgomentava del prossimo fine della vita, anzi ci si era di già apparecchiato quasi ad un viaggio lontano; e siccome sovente teneva gli occhi chiusi, a cui lo veniva interrogando costumava rispondere: parergli onesto in una cosa sola imitare Cosimo dei Medici il Vecchio, ed era assuefare gli occhi a morire, come egli diceva, tenendoli chiusi. E più degli anni lo aveva abbattuto la morte della Betta. Povera Betta! Egli aveva scorticato lei, e in verità nè lo aveva desiderato, nè voluto. Chi conobbe la Betta facilmente giudicò che non sarebbe arrivata a lunghi anni, perocchè sebbene ella sentisse tutti i dolori di Orazio per via di riverbero, noi sappiamo come il fuoco riverberato scotti e più forte. Orazio poi, di natura pugnace, non prevedeva i pericoli soprastanti, o se pure li prevedeva non li curava; percosso dalla fortuna, egli attendeva a rifarsi con tutte le potenze dell'anima, e dall'altissimo scopo a cui mirava egli traeva argomento di rinnovato coraggio: infelice lo ricompensava la coscienza; felice la coscienza e il plauso della gente: laudumque immensa cupido, per la quale benedizione o maledizione gli eccelsi spiriti, come si favoleggia del pellicano, squarciansi il petto per alimentare col proprio sangue le generazioni degli uomini. La Betta non possedeva tante provvisioni per lenire le trafitte dell'anima: ella le sentiva intere, ed il cuor suo ne rimase infermo senza rimedio; presaga del suo prossimo fine, pose studiosa cura nel celare il proprio stato ad Orazio: finchè potè aiutarsi salì le scale di casa; mancatale la balìa, ella si diede ad inventare un monte di scuse per dormire al pian terreno: tuttavia per quanto le bastarono le forze contrastò al male, chè, dovendo lasciare creature a lei tanto caramente dilette, le rincresceva proprio di morire; ma certa sera mentre Marcello accompagnava lo zio alle sue stanze, Betta, ponendogli la bocca sull'orecchio, ebbe a dirgli:

— Quando lo zio dorme, vieni giù a trovarmi, e fa' che nessuno se ne accorga.

Allorchè Marcello le venne davanti, in brevi accenti Betta gli favellò:

— Figlio mio, io sto per partirmi da questo mondo, e dubito più presto che non vorrei; bisognerà pertanto risparmiare più che noi possiamo questo dolore allo zio: domani innanzi giorno fa' di condurmi il dottore, e avverti che veruno di casa lo veda; tacine anco ad Isabella, se non chiedo troppo: quando avremo saputo quanti giorni potremo tirare avanti, allora qualche santo aiuterà.

E così fu fatto; il medico venne, il quale da prima si dolse non essere stato chiamato in tempo; e dopo, esaminata con ogni diligenza l'inferma, disse reciso: arduo determinare per lo appunto il momento nel quale il lume si spegnerebbe; forse fra tre, forse fra quattro dì, ma per suo giudizio alla fine della settimana non arriverebbe di certo.

Se taluno maravigliasse dell'acerba sincerità del medico, e sto per dire ferocia, sappia che egli era stato medico militare, però uso a modi spicci, e che la Betta prima di lasciarsi visitare gli aveva fatto promettere sopra il suo onore che le avrebbe palesato la verità intera. La Betta non mutò colore, gli porse grazie, e tolto di su la comoda da notte certo suo anello, che si era levato a cagione del gonfiamento delle dita, lo porse al medico dicendo:

— Questo, caro dottore, vorrà portare per ricordo di me.

E il dottore con voce alterata:

— No, signora Betta, per conservare memoria di lei non fa bisogno ricordi; creda — e qui il dottore si toccò il petto — se potessi prolungare la sua vita con alcuni anni dei miei, io glieli darei di tutto cuore.

— Grazie, dottore, grazie; ma a che pro? Poichè andare bisogna, ormai che ci siamo, andiamo.

Marcello accompagnando, secondochè si costuma, il dottore fino all'uscio di casa, gli domandò per mettere in quiete la sua coscienza, la quale gli rimproverava non aver prima ricorso a lui, se la malattia della Betta fosse di qualità che, curata a tempo, potesse guarirsi.

— No, rispose il medico; le si poteva prolungare per qualche giorno, in mezzo ai dolori, la vita: mi sono doluto, che non mi aveste chiamato prima così per abitudine, che per altro, costumando noi altri medici mettere le mani avanti per non cascare; ed io, sappiate, sono di quelli che credono in coscienza carità cristiana in questa maniera di malattie abbreviare le sofferenze del paziente, ma ciò non usa, e il costume fa legge. Vi rammentate la storia degli appestati di Giaffa? Napoleone costretto ad abbandonarli presagiva di certo che i Turchi gli avrebbero lacerati in brandelli, onde gli parve partito umano ministrare loro forte dose di oppio perchè morissero in pace, senonchè il medico Desgenettes ci si rifiutava netto con una frase da tamburo, che suona perchè è vuoto: «l'arte mia consiste nel restituire agli infermi la salute, non già privarli di vita.» No, signore, io non la intendo così; per me l'arte medica si mette dinanzi due fini del pari importanti; il primo, e principale, rendere la salute quando si può, e di rado si può; il secondo, di alleviare con tutti i mezzi la sofferenza. Qui nel caso nostro si tratta di vizio organico, il cuore è guasto profondamente, il palpito, irregolarissimo, minaccia da un punto all'altro cessare: le acque spandendosi per tutta la persona hanno compìto l'anasarca... Vi manderò una pozione oppiata... gliela ministrerete spesso in piccole dosi... Se anche in copiose, non ci sarà niente di male.

— Capisco, — rispose Marcello, — ma io gliela porgerò in piccole; perchè, sarà la mia, se volete, una virtù codarda, ma dall'altro canto considero che persuadendo l'uomo di sostituire il proprio arbitrio alla regola, non sapremo più dove andremo a cascare una volta scavalcato il fosso.

Il medico tentennando il capo parve assentire, e nel prendere licenza raccomandò a Marcello, sia di notte, sia di giorno, non si rimanesse di mandarlo a chiamare; soprattutto badasse allo zio; e strettagli forte la mano si partì.

Con pietoso inganno (la Betta in ciò adoperandosi massimamente) Marcello ed Isabella giunsero a nascondere allo zio Orazio lo stato in cui si versava l'affettuosissima donna; ma giunta la terza sera dopo la prima visita del medico, Betta fece cenno a Marcello le si accostasse; allora di un tratto gli gettò le braccia al collo e pianse; poi con un filo di voce gli disse:

— Figliuolo mio, non ne posso più... ecco, mi sento proprio morire: ho considerato se mi riusciva astenermi da rivedere lo zio, ma non ho forza che mi basti: vammelo a chiamare; tanto questo dolore ha da soffrire... ed io qualche parola che lo consoli potrò pure dirgliela.

Orazio, udita la chiamata, antivedendo sciagura, si gettò giù dal letto, e avvolto appena dentro una coperta fu al capezzale di Betta, la quale tostochè lo vide così sciorinato prese affannosa a parlare:

— Marcello, per l'amore di Dio, fa' di coprire lo zio, che non abbia a chiappare qualche malanno.

— Sì, giusto — replicava Orazio respingendo stizzoso Marcello — adesso è caso di pensare a reumi! Che novità son queste, Betta? Betta, Signore! Betta, non mi spaventare.... dimmi? Come ti senti? Bene, non è vero? Via, non tanto male.

— Signor Orazio non si spaventi; si metta a sedere qui accanto a me. Senta io l'ho conosciuto sempre uomo di stocco e cristiano: dunque si chiami le sue virtù intorno al cuore per sopportare l'annunzio che fra poco.... stanotte.... di qui a due ore Betta la lascerà.... la lascerà per sempre.

— Oh! — con voce roca proruppe Orazio, e cadde in ginocchioni accanto al letto, stringendo con ambedue le mani la destra della Betta, la quale con molto sforzo proseguì:

— La mi perdoni, caro signor Orazio, se la lascio così in asso, mentre più che mai, poveretto, lo vedo bene, ha bisogno di cura.... la colpa non è mia.... però aveva pregato tanto il Signore che mi permettesse di starmi per un altro po' di tempo in questo mondo: egli, che legge nei cuori, sa se lo facessi per me.... a lui non piacque esaudirmi, pazienza! Basta che ella non se la pigli a male, chè, quanto a me, me la terrò in benedetta pace. E tu, Marcello, con la tua Isabella raddoppiate l'assistenza a questo santo vecchio.... ve lo raccomando con tutto il cuore e con tutta l'anima.... povera me!.... vagello.... o non siete voi suoi figliuolo e figliuola di amore? Che bisogno avete delle mie raccomandazioni? Proprio pensieri del Rosso.

Qui tacque, che la commozione le tolse il respiro: dopo alquanti minuti di sosta riprese:

— Signor Orazio.... Orazio.... senti.... vorrei domandarti una grazia.... mi scuserai? Ora qui presso a morte.... ti contenti che io ti baci.... la mano.... il primo e l'ultimo.

Orazio aveva la gola come stretta da una tanaglia; si sforza parlare e non gli riesce; si leva, e presa con ambedue le mani la faccia della Betta, la bacia e la ribacia in fronte, su la bocca, e sugli occhi, e Betta a posta sua lo baciò più volte, fra un bacio e l'altro alternando i cari nomi di padre, di fratello e di sposo dell'anima. — Di un tratto a Orazio vennero meno le gambe di sotto, vampe infocate gli turbinarono dinanzi agli occhi, finchè perduti affatto gli spiriti cadde sul pavimento a' piedi del letto. Allora Betta bisbigliò:

— Sia ringraziato Dio, che la è andata a finire così! Marcello, aiuta lo zio, che si è svenuto. La Provvidenza ebbe misericordia di lui, lo tolse al senso dei mali presenti. Or va'!... non ho più bisogno di nulla... lasciatemi morire in pace.

Marcello sovvenuto dai famigli trasportava lo zio nella sua camera, nè lo abbandonò se prima nol vide tornato in sè. Il povero uomo, tostochè ebbe ripreso gli spiriti, volle ricondursi presso la cara donna, ma gli mancarono le forze, ond'egli sospirò dal profondo e pianse; poi disse a Marcello:

— Tu almeno va', figlio mio, ad assisterla fino all'ultimo... ahimè! Povera Betta?...

Marcello cheto cheto si pose dappresso alla morente, la quale ansava in molto orribile maniera e con sempre crescente affanno: ad ora ad ora apriva gli occhi, ma si vedeva espresso che pupille irrequiete e strambe erravano prive di conoscenza. Secondochè accade ordinariamente sullo spegnersi dello intelletto, si ravvivò nella Betta, mandò un ultimo lampo, e potè dire:

— Orazio! Orazio!

E Marcello chinato all'orecchio di lei mormorò sommesso:

— Sono io.....

— Chi io?

— Marcello, il tuo Marcello.

— Sii benedetto... dammi la mano... ti vedo appena... un'ombra... insegna ai bimbi il mio nome, se non ti affliggerà... se no tacilo addirittura... tu amami sempre... Marcello... O Dio! non ti vedo più... non... più...

*

Strana cosa a dirsi! Orazio, morta Betta, non pronunziò mai, mentrechè visse, il nome di lei, quantunque si conoscesse che ella gli stava sempre dinanzi la mente: a mensa talora fissava il posto che ella aveva occupato in vita, e col braccio levato stava lì per non pochi minuti, quasi le volesse parlare: i pietosi figliuoli provarono da prima distrarlo da cotesta fantasia, ma ebbero a pentirsene, perocchè subito dopo lo assalissero le convulsioni: se avveniva che altri pronunziasse il nome della defunta, subito, quasi per iscatto, la destra gli saltava sul cuore. Talvolta sulla sera egli penetrava nella stanza mortuaria della Betta, e quivi posto il capo sopra il capezzale ov'ella era spirata si tratteneva lungo tempo; quando ei ne usciva pareva ci avesse lasciato un frammento di vita. Non si attentarono impedirlo; diede alla cara salma onorata sepoltura, e fece incidervi sopra il desiderio ardentissimo di tenerle dietro, espresso con le parole: A rivederci presto.

Una tristezza senza fine amara erasi aggravata sul cuore di Orazio nel considerare le fortune afflitte della patria. Egli fu dei pochi che sotto il tremore della tirannide universale ardirono primi levare la faccia, e saettarla con tutte le armi che amore e furore metteva loro nelle mani; nature eroiche ed immaginose, razza di Titani, i quali quante volte erano stramazzati a terra, tante ne sorgevano più rubesti che mai: gaudi i pericoli, le cospirazioni sollazzi, tripudio percuotere, essere percosso, e per taluno perfino la morte. Vollero e operarono affinchè la patria rifiorisse nella gloria e nella libertà, ed ora la vedevano strema di sostanza, e di onore: presi in uggia i magnanimi, e peggio ancora calunniati o derisi; le memorie loro rase via dalle carte e dai marmi. Adesso sopraggiunse la invasione dei lumbrichi; essi regnano e governano; e gran parte di questi una gioventù presuntuosa e corrotta. Pochi, per sottrarsi alla infamia dei tempi presenti, s'inebriarono con la voluttà della morte, e corsero là dove si parava la occasione di morire, e morirono; ma raccolto prima nelle palme le ultime stille di sangue, lo avventarono contro gli abietti deturpatori della patria, perchè almeno ne restassero segnati. Divini gesti un giorno, e celebrati nei tempii, oggi scherniti ed inani, imperciocchè il popolo un giorno stupido di paura, ed oggi risentito male, invece di nobilitarsi nella dignità del lavoro, e procedere sobrio e severo nel cammino della rigenerazione, noi lo vediamo dare mano egli stesso alle arti della corruttela. Una volta il tiranno si assottigliava il cervello per somministrare al popolo pane e circensi; adesso il popolo gli ha tolto questo incomodo; pensa da sè a inschiavirsi.

Però uno stringimento incessante logorava l'anima di Orazio, il quale se la sentiva disfare in polvere come ferro sotto l'azione della lima. «Il padre delle misericordie potrà perdonarmi forse, ma non mi perdonerò mai io, per avere creduto che la causa della libertà potesse confidarsi nelle mani dei re — spesso andava dicendo Orazio, ed aggiungeva: — non vi confondete, il popolo nelle monarchie lo proverete più schiavo che non è tiranno il principe.»

E lo rodeva altresì la sollecitudine di non sapere quale avviamento dare ai figli del suo nipote: le femmine gli parevano uccelli, a cui educhiamo le ali perchè lascino il nido; e giova appunto che sia così: pei maschi, il nostro consorzio civile possedeva un giorno parecchi indirizzi lodevoli, oggi li sperimentiamo tutti cattivi, anzi pessimi. Le varie professioni delle quali si onora la vecchia civiltà, mirale adesso, e dimmi poi se non ti paiano tante serpi sul capo di Medusa. Il sacerdozio campa di errore, la milizia o di ozio o di sangue; la mercatura arrena dove due interessi armati stanno l'uno contro l'altro, nè possono uscirne altrimenti che o ficcando la botta o buscandola. I banchieri impiccatori destinati ad essere a suo tempo e luogo appesi dagl'impiccati. Gli avvocati redivivi Mitridati, che si pascolano e ingrassano co' veleni dell'ira e della calunnia venduti: i buoni rari, e questi perseguiti a morte, perchè minaccia ad un punto ed accusa alla turba dei tristi. La scienza anch'essa servile, e intesa più a nocere che a prosperare la umanità, laddove non la esercitino persone favorite dalla fortuna: di vero, confrontate lo speso nel traforo del Moncenisio con quello nel bombardamento di Parigi, e giudicate. Rifugio unico l'agricoltura; agricoltori i romani e soldati; ma Orazio non possedeva tanta terra che bastasse ad occupare tre figliuoli; tuttavia questo era il meno che lo affliggesse, imperciocchè egli costumasse dire che a buona lavandaia non mancò mai pietra per lavarci i panni, e così per via di motti si consolava.

*

— Verrà....?

— Non verrà....

— Sì le dico, che verrà; o non sente il rumore di una carrozza.

— Bella riprova! Como se a Torino si trovasse la sola carrozza che condurrà il tuo suocero, posto che ei venga in carrozza.

— Ma ecco si è fermata all'uscio.

— Va' a vedere....

— Andiamo tutti: senz'altro è nonno.... sicuramente è babbo.... il signor Omobono.

Ed i fanciulli tutti con Isabella e Marcello corsero ad incontrare Omobono.... Orazio no, il quale per trovarsi in cotesto giorno più dello antecedente indisposto, si era rimasto seduto, e poi amava Omobono quanto il fumo agli occhi o giù di lì.

Omobono entrò in sala strepitoso e festante, tenendosi abbracciati da un lato e dall'altro, a mezza vita, figlia e genero: i fanciulli seguivano urlando, ed egli pure schiamazzava ingegnandosi sopperire con la chiassosa ostentazione al difetto di gioia verace.

— Guardatevi bene, signor Orazio, diceva Omobono, dopo avergli stretta la mano, di venire meco a contesa, perchè, voi lo vedete, la vostra bandiera al mio solo apparire andrebbe deserta, e voi cadreste prigioniero. Come state signor Orazio? Già, bene; oh! noialtri vecchi siamo schiappe di legno ferro, noialtri....

— Benvenuto signor Omobono, e vi ringrazio della visita che vi siete compiaciuto farci.

— Veramente, senza superbia, non ci voleva altro che voi per tirarmi qua: domani a casa è giornata di affari: stasera aspetto dispacci privati per regolarmi in Borsa; da un punto all'altro sono per arrivarmi i miei commessi dal Giappone, dalla China e dalla Tartaria, perchè quest'anno, vedete, ho fatto esplorare anche la Tartaria, per procurarmi seme extra; ho intenzione di mettere su bigattiere, strade ferrate, credito fondiario, società di miniere.... un mondo di cose senza contare la mia Banca, gli sconti di piazza, le anticipazioni su mercanzia.... basta, ho colto a volo la occasione di venire a Torino per concertarmi col ministro sopra certi negozi del Banco Sete, e dei Canali Cavour, e così ci ho fatto incastrare senza danno, o senza troppo danno, la contentezza di rivedere il mio sangue, e voi, signor Orazio, che mi siete più caro della pupilla degli occhi miei....

— Voleva ben dire che tu ti fossi mosso proprio per noi, — pensò Orazio; ed anco Isabella avvertiva il marrone paterno: quindi Orazio a voce alta si fece ad osservare:

— Tanto travaglio e tanto arrotarsi a che pro?

«Tutti torniamo alla gran madre antica,

E il nome nostro appena si ritrova.»

— Magnifiche, signor Orazio, stupende queste sentenze, dentro un libro di filosofia e nei confetti parlanti; e voi, ditemi, perchè vi affaticate sempre e non quietate mai?

— Ma mi sembra, soggiunse Orazio, che tra porri e porri un divario ci corra: io mi industriai prima con ogni onesta sollecitudine a procacciarmi tanta roba, che bastasse a sostentarmi la vita; ottenutala, smisi di arrovellarmi, pigliando parte nelle faccende pubbliche, ovvero attendendo agli studi geniali.

— E che rileva cotesto? O che io, senza superbia, non avrei potuto con plauso esercitare qualcheduna delle belle arti? Anzi, se mi tasto, mi sento forte per affermare che sarei riuscito in tutte: ricordano a Bergamo la perizia con la quale suonava il flauto in gioventù; ed anco un dì mi sorrise la Musa, ma io elessi invece dedicarmi intero ai grandi affari, ai quali mi chiamava la mia propensione naturale, sicchè, senza superbia, io posso, con solerzia e sveltezza pari, condurre di fronte quattro aziende o sei, tra loro svariatissime, come sarebbe a dire bonificamento di terre, direzione di banche, di case di commercio, d'industrie agricole e commerciali, setifici, miniere, e via discorrendo. Impertanto il mio arrotarmi pari al vostro, il fine diverso; e se non temessi di recarvi dispiacere, io vorrei sostenervi come le mie fatiche sieno più generose o più utili delle vostre.

— Davvero?

— Ne dubitate? Ebbene, io ve lo dimostro. Quando voi alla vostra premura di radunare facoltà diceste: basta, ditemi un po' a chi pensaste voi? Alla vostra persona, e non oltre: ora io all'opposto mi occupo dei figli, e dei figli dei miei figli; difatti la roba vostra non credo, e non è sufficiente per la famiglia uscita da Marcello e da Isabella, per mantenerla nel grado in cui l'avete messa voi. E poi la opera mia torna non pure vantaggiosa alla famiglia, ma approfitta altresì allo universale.

Orazio buono uomo era, ma risentito alquanto, ed ab antiquo i sassi chiamava sassi e pane il pane, onde rendendo artatamente blanda la voce soggiunse:

— Ecco, se voi non aveste peggiorato Marcello di un cento di mila lire, e vi compiaceste pagare la dote alla Isabella, la sostanza di casa mia avrebbe potuto sopperire a tutto; chè io mi tengo al sodo, e le girandole sono fuochi di artifizio; ma a ciò diamo di taglio; quanto ai banchieri io aveva sentito dire che quando s'incontrano co' pesci cani si fanno di berretta, e si salutano col nome di fratelli.

— E fosse così, anzi poniamo che la sia per lo appunto così; dite, signor Orazio, forse si divorano unicamente fra loro i pesci cani e i banchieri? Tutti ci divoriamo a vicenda; e siccome la batte fra divorare ed essere divorati, o la sa come ella è? Io stimo più spediente per me entrare nell'arciconfraternita dei divoratori.

— Già cotesto è il discorso e non fa una grinza, ma non ci vedo spuntare nè anche un crepuscolo di benefizio universale.

— O che abbacate voi di crepuscolo, mentre ci splende mezzogiorno sonato: mirate qua: è vero o non è vero, che i pesci nutriti ottimamente, secondo la usanza vecchia per la quale il più grosso divora il più piccolo, generano una moltitudine di nuovi pesci, che servono di gradita vivanda ai pesci fratelli ed a noi: se così non facessero morirebbero tutti: del pari fra gli uomini; se uno non si avvantaggiasse sull'altro, finiremmo tutti di miseria e d'inedia. Il sagace ridona in pioggia quanto ha risucchiato di nebbia. Affermano gli uomini venuti in società per sovvenirsi mutuamente, ed è vero, però col mezzo del divoramento scambievole; tanto vero questo, che mentre da un lato troviamo antichissimo l'uso di mangiarci fra noi, dall'altro vediamo crescere la umanità e prosperare.

— Sentite, Omobono, coteste vostre sono opinioni trovate fra le carabattole del misantropo Hobbes; hanno la barba bianca, e nessuno ci pensa più; per me ignoro se l'uomo sia fatto a immagine di Dio, e non ci credo; ma so di certo ch'egli gli infuse nel cuore nobili istinti, gli diede senso di pietà e amore di gloria; in mezzo all'anima gli stabilì un tribunale che si chiama coscienza, presso cui non ci ha barba di avvocato che valga ad imbrogliare le carte.

— Se le mie opinioni hanno la barba bianca, i vostri discorsi fanno dormire ritti. Sensi di pietà affermate voi? come va che quanto più risalghiamo alle prime origini dell'uomo, e più noi lo troviamo divoratore del proprio simile, con buona fede perfetta e con piena quiete dell'animo; e ai giorni nostri per avventura gli uomini hanno smesso la tenera usanza? Voi la sapete più lunga di me, e potete insegnarmi come costumassero portoghesi, olandesi, spagnuoli, inglesi nelle due Americhe, nelle isole del grande Oceano e nelle Indie. Gli spagnuoli adoperarono mastini per isterminare le razze dei popoli aborigeni, gl'inglesi i missionari; i primi distrussero co' morsi, i secondi con la bibbia. Lo rammentate voi Beniamino Franklin? Egli mandò in dono al Pitt una cassa piena di serpenti a sonagli, per mercede del bene che egli aveva fatto agli americani. Poco tempo mi avanza a leggere, ma ho sentito più volte levare a cielo i russi perchè, dopo conquistato mezza l'Asia Settentrionale, ci conservarono gli antichi abitanti, gli istruirono e li protessero; ci fondarono città, c'instituirono fiere, ci promossero l'agricoltura; insomma, essi, barbari, si mostrarono a prova più civili di noi. Fiori rettorici! cose da ecloghe e da buccoliche: veniamo al sodo; non ci è caso, per giudicare un tristo ci vuole un tristo e mezzo. Gli storici avrebbero a discendere tutti in linea retta dal Machiavelli ovvero dal Guicciardini, e se di questi valentuomini non si fosse sperso il seme, di lieve avrebbero compreso come nel settentrione asiatico regni tale una temperie, a cui è impossibile che altri si adatti, eccetto lo indigeno, mentre le terre occupate dagli spagnuoli e compagni di rapina apparivano comodissime a pigliarsi ed eccellenti a tenersi: quindi torna ai russi conservarci gli aborigeni ed incivilirli fino al punto, che da un lato essi diventino buoni a produrre quello ch'ei ci cavano, e dall'altro a consumare quello che ei ci portano. — È affare di bilancio. La chiamerai carità cristiana? No signore, è carità pelosa.

— Ma la coscienza, signor Omobono; vorreste voi negare la coscienza?

— La coscienza è come il solletico; chi lo patisce e chi no; e poi, caro mio, ditemi in grazia, la mia coscienza è proprio sorella della vostra?

— Oh! no.

— Voi ridete? Ebbene, io v'incalzo e vi domando se la coscienza vostra si rassomigli giusto alla coscienza di Pio Nono, del conte Menabrea, di santa Caterina da Siena, del Bismark, e via discorrendo? Vi ha tale spagnuolo, il quale si farebbe mettere a fette piuttosto di cibare carne il venerdì, e ammazzerebbe un uomo per un lupino. Che cosa pensate voi che abbia a dire la coscienza a cotesti cari re di Viti Leven, i quali si mangiano i propri sudditi a desinare? O santa ingenuità di sacra corona alterata in Europa![10] La coscienza di un tempo diversifica dalla coscienza di un altro; la coscienza di un paese non è più quella del paese accanto, pensa se del paese lontano! Caro mio, chi sa quanti, e quanti secoli la nostra razza ha vissuto senza intendimento del bene e del male, ed anche adesso riuscirebbe difficile chiarire quanti uomini vivano in simile ignoranza: la qual cosa, a parer mio, dimostra espresso che il bene e il male, secondochè gli intendiamo noi, siano faccenda del tutto artificiata, non già di natura. Caro mio, se colui che presiedè alla creazione di questo basso mondo ordinava che tutte le creature dovessero conformarsi ad una regola prestabilita, egli l'avrebbe appesa in alto in mezzo al firmamento, affinchè tutti l'avessero potuta vedere così di giorno come di notte. O non ci ha messo il sole, e la luna? Dacchè egli aveva le mani in pasta, ci voleva tanto a fare un sole guidatore al ben vivere? Se pertanto su in cielo il sole splende di giorno, e la luna di notte, egli è perchè non ci diamo dello zuccate, fra le quali, ho sentito dire, che non corre differenza in veruna parte del mondo; e se non ci fu messa la regola universale del vivere, significa aperto che si lascia in potestà nostra comportarci in un modo piuttostochè in un altro. Accade dei costumi appunto come delle lingue; la favella ci viene da natura, le guise del favellare dal talento degli uomini.

— Oh! la stirpe dei mortali pur troppo si divide in diverse classi, sani ed infermi, forti e deboli, belli e deformi, ingegnosi e stupidi, buoni e tristi, e che perciò? La bellezza è cosa affatto corporea; ebbene, forse una brutta razza non si può fare divenire bella? Sicuramente si può; e se mi opponeste che della bellezza non si dà norma certa, io vi risponderei che avete torto marcio: provate ad animare la Venere di Milo, o piuttosto quella dei Medici, datele moto, datele affetto, datele accento e lo splendore degli occhi, e il lampo del sorriso, e mostratela al Caffro o all'Ottentoto, e mi conterete poi se la preferiranno o no alle orribili loro femmine. Come della bellezza del corpo così di quella dell'anima. O sta' a vedere che voi vorrete darmi ad intendere che ferocia piaccia più dell'amore, tradimento più della fede, e così di seguito. Anco tu metta da parte il senso di umanità, che ci viene da natura, l'uomo ha da condursi a preferire le passioni buone alle ree, imperciocchè queste seminino la distruzione, mentre le prime fecondano uomini e cose.

— Ed anco qui noi ci troviamo distanti quanto gennaio dalle more; io, e meco altri moltissimi, crediamo dannoso questo moltiplicarsi alla scapestrata del gregge umano; o che torcete il grifo? I vescovi nelle loro Omelie salutano sempre i diocesani col nome di gregge; e sono uomini santi, ed io, che non mi reputo uomo santo, non potrò appellare la università dei miei dilettissimi fratelli gregge ed armento? La Provvidenza per rimediare alla meglio a questa smania di crescere, vedendo restringersi la voglia di cibare carne umana, supplì con la smania della guerra; le bestie, uscite di mano alla natura meno perfette dell'uomo, non poterono educarsi a tanto raffinamento di civiltà; talvolta gli uomini stanchi, non sazi, cessano le stragi; allora la Provvidenza sempre pronta, alla mancanza della guerra sopperisce con la fame, o con la peste, o con qualche altro partito. Eh! caro mio, la Provvidenza non per nulla si chiama Provvidenza.

— Codeste vostre proposizioni furono facilmente dette e ripetute, ma provate mai. Prima di sgomentare con siffatte maledizioni vorrei che mi diceste se la superficie del mondo, nelle zone abitabili, fu coltivata tutta e bene? Che la vita sia una prova, e lunga, e dura l'arte di migliorarci, pur troppo è vero, ma nobile scopo rendere buoni noi, nobilissimo altrui. O che presumereste voi, stamane, negare il progresso della umanità al meglio? Considerate che trecento anni fa un uomo che si fosse avvisato a ragionare come voi lo avrebbero arso vivo in qualità di eretico....

— Ebbene, o che questo sembra a voi veramente progresso?

— Eh! per me lo lascio giudicare a voi....

— Via, mettiamo da parte questo tasto e passiamo ad un altro; parliamo di gloria — soggiunse Omobono nel concetto maligno di trafiggere Orazio nella parte più tenera: — fumo di gloria non vale fumo di pipa, scrisse una donna, che per caso aveva giudizio. Quante e quante vissero migliaia di uomini, così detti grandi, dei quali oggi va spento il nome! Per un Attila, che si rammenta, cento Jenner annegarono nell'oblio. Gli uomini sono così fatti, che chiudono nella loro memoria, come dentro un ciborio, i nomi di coloro che li straziarono; chi li benificò pigliano in uggia, ed a ragione; perchè i primi somministrino materia di esercizio all'odio, ch'è dote naturale alla nostra stirpe, mentre i secondi ci obbligano alla gratitudine, cosa del tutto contraria alla nostra natura. E poi, o che cosa è questo lusso orgoglioso nell'uomo di voler superare l'altro uomo? Questa superbia di vivere anco dopo morto? Questa fisima di rompere la testa, anco sepolto, al genere umano? Tutti tacciono nella fossa, e ci stanno tranquilli: chi ha dato a quattro o a sei il diritto di far chiasso anche nel camposanto? A me sembra questa una sconvenienza grandissima; chi leva la testa fuori del suo sepolcro non si deve lamentare se altri ci dà dentro co' piedi. E qual pro, ditemi per vita vostra, in questo diluvio di libri in prosa e in rima? O che importa sapere a me che il Petrarca amasse una donna maritata? E che cosa che ella morisse? Per me avrebbe operato il signor Canonico da galantuomo a starsi chiotto come un olio. Vorrei altresì sapere quanti ragnateli gli uomini cavarono dal buco con la Divina Commedia o con la Gerusalemme Liberata? All'opposto non rifinirei lodare taluni trovati della scienza, ma ad un patto, che non ne potessero approfittare tutti, però che a questa guisa torna lo stesso che non se ne avvantaggi nessuno; a modo di esempio, ottima la invenzione del telegrafo elettrico, ma doveva destinarsi all'uso esclusivo dei banchieri, ed anco non di tutti. Nel sottosopra però nelle scoperte della scienza troviamo essere più gli sbirri che i preti, sicchè a occhi chiusi io la do vinta all'antico borgomastro di Strasburgo, il quale fece gettare nel Reno l'inventore del telaio meccanico, che mandava a spasso tanti operai. Ognuno si agiti, e goda a modo suo, a condizione però di non infastidire altrui.

— E a patto di stare bene con sè medesimi; e voi signor Omobono come vi trovate con voi?

— Io? Ci sto amicamente, quantunque non mi possa astenere da confessarvi che stava meglio prima che tanti spiriti irrequieti mi scappassero fuori con le diavolerie della libertà e della indipendenza nazionale. Ignoranti da mitera, libertà che è? Nè manco voi lo sapete? E a quanti sommano coloro che di quella libertà godono? E a quanti quelli che la sanno godere? Fanciullacci piagnucolosi e strepitanti pel balocco, che appena ottenuto buttate via. Con simile generazione di uomini fra la tirannide e la libertà gli è un fare perpetuamente a scarica barili, una porta l'altra, e l'altra l'una. Per me alla granfia col guanto preferisco la granfia ignuda. Non vi confondete, voi potrete vedere giusta l'ora che fa nella vita del popolo, quando il pendolo dell'orologio sociale va dal prete al gendarme, e dal gendarme torna al prete: e queste verità ormai si sentono bandire fino dalla tribuna del Parlamento italiano. Quanto alle vantate nazionalità, bisogna proprio avere la benda su gli occhi, per non vedere come le sieno altrettanti triboli messi sotto i piedi della umanità, perchè quanto più piccolo sei e meglio t'impasteranno; così gli individui si agglomerano più facilmente dei comuni, i comuni delle Provincie, le provincie delle nazionalità. Il singolo come possiede meno forza così ha minori motivi di starsi separato dai corpi collettivi; ma quando promovete le nazionalità, e favorite lo sviluppo delle loro passioni dominanti, e i modi tutti di vivere e prosperare esclusivi, separati sempre, bene spesso ostili a quelli delle altre nazionalità, voi lavorate senza addarvene a perpetuare la divisione, la prepotenza e la guerra fra gli uomini. Volete la repubblica universale e la fratellanza del genere umano, e ogni giorno scavate loro i trabocchetti, e gittate randelli fra le gambe; volete libertà e siete più schiavi voi che non è tiranno il monarca. Perchè ci vituperate voi, e perchè volete montarci addosso? Siete forse più onesti, più sapienti, più animosi di noi?

— Il fatto sta per voi: vi parlerò per via di parabole: date tempo al tempo, signor Omobono, e se pensate che rimettendovi a casa voi non saliate una scala per volta, bensì scalino per iscalino, vi sarà chiarita la ragione di parecchie cose, che sembrate ignorare. Di quest'altro persuadetevi, che voi vi metteste a puntelli all'edifizio che si sfascia; ora il puntello non è l'edifizio, sebbene si troverà un giorno travolto nella medesima rovina.

— Caro mio, voi v'ingannate; il vizio è il mercato dove si trafficano le virtù; e siamo tali puntelli noi, che alla occasione diamo la pinta alla fabbrica. Quando sarà istituita sopra buon fondamento la repubblica, noi offriremo i nostri umili servizi alla repubblica italiana, ed anco alla repubblica universale: però non vi augurate mai di passarvi dell'usuraio e del prete; prete e usuraio sono ossa delle ossa, e carne della carne della umanità. Tuttavia mentre queste cose hanno da venire, io per me penso che non valeva il pregio di capovolgere questo mondo, e quell'altro per isfrattare gli austriaci di Italia; anzi sarebbe tornato meglio sovvenirli ad occuparla tutta, che senza tanti disturbi adesso ci troveremmo ad aver fatto maggiore cammino; invece ora il popolo scorrazza a scavezzacollo per l'aperta campagna, e ci vorrà il diavolo perchè i sullodati prete e giandarme ce lo riconducano alla fune.

Si vedeva chiaro come Orazio, o per fastidio, o per istracco, non si curasse rilevare le invereconde enormezze di Omobono, sebbene coteste sconce trafitture lo pungessero, oltre ogni credere, dolorosamente; ma alle ultime proposte di costui il suo volto presentò di transito tutti i colori dell'arcobaleno, e già la bile troppo a lungo repressa stava per gettare giù gli argini e prorompere, quando un servo si affacciò sul limitare della sala annunziando il pranzo in ordine.

Capitolo III. L'UOMO FELICE.

Ottimamente avvisarono gli antichi, quando posero i conviti sotto la protezione di un Dio, e meglio i cristiani sul principiare delle mense rendono grazie all'Ente supremo, imperciocchè gli uomini, se tristi, confortati dai doni della natura, balenino di bontà, e se buoni appaiano divini. Omobono poi immaginando avere coi suoi ragionamenti mandato sottosopra Orazio, gonfiava di vanità; lo avresti preso per un tacchino quando imporpora i bargigli e fa la ruota; mentre Orazio a cui non pareva vero essere liberato da cotesto fastidio, per tema di non porgergli lo addentellato a ricominciare, non proferiva parola, sicchè il pranzo procedeva d'amore e d'accordo. In seguito diventò anco lieto, avendo preso i fanciulli a far vezzi ai loro maggiori, risa alternando e discorsi, correndosi dietro, e perseguitati troppo da vicino riparandosi in grembo ai genitori ed ai nonni.

Eccetto il maggiore, il quale, come sappiamo, fu chiamato Omobono, agli altri Orazio aveva imposto nome romano; dalle eroine e dagli eroi greci si astenne, perchè egli diceva sentirsi più consanguineo alla razza latina che alla greca, ma che cosa intendesse significare con simile proposizione io non saprei: fatto sta, che le femmine egli appellò Arria ed Eponina, gli altri due maschi Curio e Fabrizio.

Giunti a quella parte del convito dove per usanza vecchia si propina, Marcello contemplando Eponina seduta sopra le ginocchia di Orazio, abbracciarlo intorno al collo e consolare il vecchio con frequenti baci, Arria in grembo alla consorte Isabella, Omobono e Fabrizio posti uno a destra, l'altro a sinistra, stretti a mezza vita dal suocero, di cui la faccia era quasi diventata di uomo giusto, sorreggendosi sopra Curio, che gli sedeva al fianco, si alzò e levato in alto il bicchiere pieno di vino disse:

— Alla prosperità della mia famiglia, cominciando dai nostri padri fino ai nostri figliuoli: possano durare per tutta la loro vita felici, come io mi sento in questo punto felice...

Levarono tutti i bicchieri e risposero al brindisi amoroso; solo uno rimase sopra la tavola, e fu quello di Omobono. Cotesto suo atto fece l'effetto dell'acqua fredda rovesciata nella pentola quando spicca il bollore: costui dopo avere aspirato con compiacenza l'universale sbigottimento esclamò:

— Vi paio strano io? Ebbene, vi dirò cosa la quale, ne vado sicuro, me l'assentirà anco il signor Orazio; e tu, Marcello, da' retta. Ci fu tempo addietro a Milano un certo Foscolo, che mise sulle scene una maniera di tragedia, dove non so quale regina dei Salamini (figuratevi che razza di regina avesse ad essere costei) tra le altre belle cose diceva: «Torni il sorriso al mio pallido volto: il ciel non ama i miseri.» Ora se il cielo ami i miseri, o no, ignoro; quest'altro io so di certo, che nè cielo, nè terra amano gli sventurati. Dunque, se tu sei savio, Marcello, nascondi la tua contentezza, come l'avaro il suo tesoro, per tema che i ladri non te la rubino. Tra noi a Milano si conserva una tradizione del nostro santo Ambrogio, il quale, secondochè si narra, essendosi fermato colla sua compagnia a certo albergo e vistolo oltre la usanza benissimo in assetto, interrogò l'oste come gli andassero i fatti suoi; a cui l'oste rispose: «Di bene in meglio; io case, io poderi, avventori a isonne, e tutti di quelli che vanno per la maggiore, baroni e mercanti grossi, che possono spendere; io bella moglie, in somma nulla mi manca e di molto mi avanza.» Il santo allora pensò che dove era tanta prosperità quivi non potesse trovarsi anco Dio, per la quale cosa ordinava tosto ai famigli si affrettassero a rinsellare i cavalli ed a ricaricare i muli, per allontanarsi quanto più presto potessero, e così fu fatto; nè di troppo eransi dilungati per la pianura, che avendo udito uno schianto accompagnato di strida e di guai da fendere il cuore, si voltarono e videro come dal terreno spaccato uscissero fuori fiamme, le quali ebbero in piccola ora ridotto in cenere l'albergo e tutto quanto di persone e di cose si ci trovava dentro. Certo questa non può essere che novella, pure contiene dentro di sè una verità evangelica...

Omobono volse dintorno uno sguardo, e considerata la tristaggine diffusa su tutta la compagnia se ne compiacque, dicendo in cuor suo: «dunque io faccio paura!» Ed era un vanto, che egli possedeva in comune con gli spauracchi piantati nei campi quando si semina il grano. Nè stette guari che, travolto dalla sua insanabile contradizione, levatosi ad un tratto, prese il bicchiere e con alta voce esclamò:

— Ad ogni modo io bevo alla maggiore prosperità del mio sangue, del signore Orazio e di me.

Quindi stretti più forti nelle proprie braccia i due fanciulli, i quali sentendosi far male strillarono, con parole scarmigliate continuò a favellare così:

— Questi due, Curio e Fabrizio, voglio io; io, ragazzi miei, vi arricchirò, vi tufferò fino agli occhi nel godimento: statevi un anno meco, e metto pegno che direte poi: se il Padre Eterno sfrattò Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, nonno Omobono ci ha ricondotto noi altri due, Curio e Fabrizio.

— Come! — gridò un fanciullo svincolandosi dalle sue braccia, — e dovrò restarne fuori io, che tu hai tenuto al battesimo?

— Oh, no; anzi tu, Omobono mio, tra i primi primissimo.

Il banchiere si era perfino dimenticato il nome del figlioccio: anzi, volendo riparare a cotesto sconcio, rovesciò le tasche del corpetto e sparse parecchie monete di oro e d'argento sopra la mensa chiamando:

— Arria, Ponina, Fabrizio, accorrete anco voi.... volate.... pigliate.... assassinatemi.... a che vi rimanete? Infingardi! Quando è tempo bisogna assassinare.

Veruno accorse, veruno sporse la mano; anzi le fanciulle si strinsero più forte al seno della madre e dell'avo; sicchè egli o punto nella sua vanità, ovvero già pentito di cotesta sua capestreria, raccolte borbottando le monete, se le ripose con molta diligenza in tasca: indi trasse fuori l'orologio, e dopo guardatolo disse:

— Orsù, la è ora che io mi rechi al ministero; non mica perchè il ministro non si terrebbe onorato di ricevermi a qualunque ora, però ch'egli abbia più bisogno di me ch'io di lui.... e poi lassù mi temono.... tuttavolta anco volendo spesso non si può! Marcello, manda per una vettura. Signor Orazio, senza cerimonie, e voi altri tutti accomodatevi, non vi disturbate per me.... non istate ad aspettarmi, ch'io non vi so dire quando sarò sbrigato: potrebbe anco darsi benissimo che piacesse al ministro consultarmi sopra i provvedimenti finanziari, che egli sta per proporre alle Camere, e allora ce ne andremmo a giorno. Addio dunque; a rivederci a domani.

E strepitoso e arrogante uscì seguito dalla sua figliuola Isabella, la quale gli mise addosso la cappa foderata di pelle, molto raccomandandogli ad aversi riguardo in cotesta rea stagione; a cui egli così verdemezzo rispose:

— Sta' di buon animo, che a mantenermi vivo ci penso da me.

*

Lo zio Orazio in cotesta sera si dolse più che mai di gravezza di capo, e desiderò anco prima del solito ritirarsi nella sua camera, quantunque sembrasse non si potesse distaccare dai nepotini; li baciò più volte, e diresse ad ognuno avvertimenti i quali andavano giusto a colpire il difetto già sviluppatosi in essi: anco abbracciò e baciò la Isabella, cosa che costumava di rado, e le susurrò nelle orecchie: «la buona madre di famiglia è corona di gloria sul capo del marito: e tu sei tale, figlia mia; ti raccomando Marcello; egli non sa sopportare a lungo i colpi della sventura, massime se troppo spessi o troppo violenti.»

A Marcello, che lo accompagnò secondo il consueto, prese nel licenziarlo ambe le mani, disse:

— Marcello, io ti avrei a parlare lungamente, ma stasera non me ne sento la voglia; sarà per un'altra volta: questo mi stringe a imprimerti bene nell'anima che per verun caso mai tu ti risolva a confidare alcuno dei tuoi figliuoli al suocero.... io so che tu perderesti il figliuolo e col figliuolo te stesso.

*

Omobono, contro il presagio, tornò presto a casa con una faccia da disgradarne Longino quando diede la lanciata a Cristo: ad Isabella, che gli chiese se alcuna cosa desiderasse, rispose alla trista:

— Nulla; un lume: maledetti i pranzi di famiglia; al diavolo i brindisi: sono arrivato tardi, e il ministro avea strinto il negozio con un altro banchiere. Ecco qui un centocinquantamila lire almeno di perduto.... un pranzo centocinquantamila lire, per Dio, costa caro; maledetto.... e strappato più che preso dalle mani d'Isabella il candeliere, si ridusse alla camera chiudendone l'uscio strepitosamente.

— Che vuoi? — favellò Isabella, considerando il suo marito sgomento pel contegno paterno — la passione del guadagno gli leva il lume dagli occhi: gli è fatto così.

— Capisco, ma egli è fatto male.

*

Però i nostri coniugi la mattina si levarono innanzi l'alba per blandire l'animo esacerbato di Omobono; invano, che costui se l'era già svignata, senza pure lasciare un saluto. Il servo narrò com'egli non rifinisse maledire e pranzo e brindisi et reliqua, mugliava, come se lo travagliasse il mal di denti, di non so quanto denaro perduto, ed aggiungeva che avendo egli sceso le scale in fretta fino all'uscio, di un tratto si fece a risalirle a due scalini per volta: al servo, per seguitarlo in furia, erasi spento il lume, col quale, riacceso, essendo entrato in camera trovò il signore Omobono in ginocchioni sotto il letto, che cercava a tasto le sue ciabatte, e rivenutele, in un attimo aperse la sacca da viaggio, ce le ripinse dentro, e poi fuggì via come se mille diavoli lo avessero cacciato.

— Che vuoi, Marcello mio, egli è fatto così.

— Capisco, Isabella mia; ma bisogna confessare che egli è fatto male, e di molto.

*

Attesero lo zio Orazio, oltre l'usato un buon quarto d'ora, sperando vederlo comparire da un punto all'altro per pigliare parte alla colazione; non comparendo, chiamarono il suo cameriere per sentire un po' che novità fosse cotesta: il cameriere disse che forse lo zio aveva preso a sonnecchiare sul mattino, come qualche volta gli veniva fatto, onde egli si era rimasto da sturbarlo; tuttavia, lo indugio pigliando vizio, Marcello gli commise che aprisse senza rispetto la camera e domandasse allo zio se di alcuna cosa abbisognasse. Andò il servo, ma pari al corvo della Bibbia non ricomparve; allora Marcello, agitato da indistinta e pure pungente sollecitudine, s'incamminò con passi precipitosi alla camera del dilettissimo zio.

Ahimè! spettacolo di pietà e di orrore. Orazio, colpito nella notte da accidente apopletico, giaceva morto nel letto. Mi passo di narrare la desolazione della famiglia, massime quella di Marcello, il quale per la morte dello zio sentì perduta molta parte di sè. Trasportato semivivo sopra il suo letto, quivi rimase per lunghi giorni in balìa del delirio; temevano non rinvenisse; infine per le cure della moglie e per le carezze dei figli, mitigato alquanto lo spasimo, ebbe la consolazione delle lacrime. Durò un pezzo a vivere come cosa balorda, improvvido di sè e di altrui: all'ultimo riprese gli spiriti, non tanto però che altri non si accorgesse l'anima di cotesto uomo dabbene essere rimasta quasi percossa da parziale paralisia.

Quanto ad Omobono, allorchè seppe la morte di Orazio, si strinse a dire che era stata una morte economica, da vero padre di famiglia.

Isabella, valorosa donna, dominando la passione che la travagliava, in cotesti frangenti ebbe avvertenza a tutto: qualcheduno l'appuntò di durezza di cuore, ma se costui l'avesse vista ritirarsi, appena le capitava il destro, nei più segreti penetrali della casa a sfogarsi in pianto, e dal pianto desumere costanza per durare in mezzo a tante tribolazioni, certo si sarebbe morso la lingua; ma pur troppo la va così, le virtù chiassose e volgari si comprendono e lodano, le profonde e le insolite non si capiscono, od anche si calunniano. Quando le parve tempo, la egregia donna mise sotto gli occhi del marito un foglio, che Orazio aveva scritto nella notte, che fu l'ultima del viver suo: ella aveva curato che i desiderii dello zio, nella parte che non pativano dilazione, sortissero il compimento.

Il foglio pertanto diceva così:

Marcello, da parecchi giorni mi si è cacciato addosso uno sfinimento insolito, il quale, aggiunto agli anni ed ai disgusti che provo, giudico addirittura precursore del mio prossimo fine. Manco male: non ho affrettato nè temuto la morte; e quantunque a costei non sia mestieri dare licenza, pure io le concedo accomodarsi come meglio le pare e le piace; che posto ancora che il Tempo in capo ad ogni mezza notte mi venisse snocciolando ad uno ad uno un sacco di giorni sonanti e ballanti, come marenghi nuovi di zecca, io a quest'ora mi sentirei più che disposto a dirgli: basta. Ed altresì ho da dirti che da un pezzo in qua ogni notte mi sogno Betta, che cammina davanti a me, per una via lunga lunga, e di tratto in tratto si volta come per aspettarmi: decisamente egli è tempo di andarcene.

Non ho voluto dettare testamento, imperciocchè questo mi paresse sempre, e in vero egli sia, un mezzo legittimo per levare la roba a cui va: tu per via dell'adozione fatta in buona regola essendomi diventato figliuolo mi succedi in tutto e per tutto. Prima che il cielo benigno e la virtù nostra ci deliziassero con le beatitudini del regno italico, costumava pagare per le successioni tra ascendenti e discendenti un tenue diritto fisso; oggi non è più così, e il figlio succedendo al padre deve contribuire una gabella proporzionale sul valore della eredità; il quale dazio in compagnia dei suoi fratelli già nati e dei nascituri costituiscono in pro del Governo quel comunismo che perseguita a morte in altrui per creare a sè un monopolio; nella stessa guisa, che da esso imprigionansi i gallinai per raccogliere solo la vendemmia del gioco del lotto.[11]

Io pertanto sul limitare della morte chiedo con tutto il cuore e con tutta l'anima perdono a cui me lo può dare, per avere creduto che la causa del popolo potesse senza pericolo commettersi nelle mani del principe. Bestia carnivora è il principe; anco il Gioberti lo ha scritto, ed io ho ripetuto più volte e ripeto.

Ti scongiuro dunque, o Marcello, di non servire, nè concedere che veruno dei tuoi figliuoli serva principe, perchè ho conosciuto a prova come il principe considerandosi di schiatta diversa dalla tua, e senza fine superiore a te, tutto quello che gli potrai fare di bene, quantunque con grave tuo incomodo, ei terrà per tributo dovutogli, onde non crede avere a professartene gratitudine, nè può sentire amicizia per te; e venendo il caso, il quale o presto o tardi non manca mai, che l'interesse del principe si abbia a trovare in contrasto con quello del popolo, allora se parteggierai pel principe, il popolo ti odierà addirittura come parricida e assassino, ovvero ti scoprirai favorevole al popolo, e il principe ti affibbierà, niente meno, che la taccia di traditore.

Nè, procedendo amico al popolo, tu hai da augurarti andare immune da fastidi: accade sovente che taluno paia padroneggiare il popolo, mentre insomma egli n'è servo, e di servitù peggiore di ogni altra, imperciocchè stando col principe tu servirai un padrone solo, mentre seguendo le parti del popolo ti troverai a servire tutti. Il popolo poi stima davvero averti eletto capo quando ti ha attaccato alla sua coda; nè ciò mica per malizia, ma sì perchè in buona fede reputi che la tua signoria deva consistere nel procurargli subito quanto gli frulli per la mente: per la quale cosa tu spesso lo udrai rinfacciarti ingenuamente il benefizio che ti fa di cavalcarti da mattina a sera finchè tu gli sia crepato fra le gambe.

Mi ricordo, ma le sono storie vecchie che oggi non usano più, come certa volta un Curiazio tribuno della plebe, essendo caro grande in Roma, proponesse una legge, che a diligenza del Senato si mandasse fuori a comperare grano, la quale avendo Scipione Nasica combattuto come improvvidissima, avvenne che la plebe pigliasse a tumultuare, onde egli con gran voce esclamò: «tacete voi altri del popolo, che io so troppo meglio di voi quello che convenga alla vostra salute.» Attestano che i romani allora tacessero, il popolo adesso lo avrebbe preso a sassate; e se tu domanderai se avrebbe avuto torto o ragione, dirò che la sconfinata diffidenza presente del popolo corrisponde all'antica sua sconfinata fiducia: tante volte abbindolato e tradito, si rassomiglia al cane, che scottato dall'acqua calda teme la fredda.

E poi tu nota questo, che il popolo ravveduto chiede talvolta perdono e piange: il principe non chiede perdono, nè piange mai: vero è bene che la riparazione del popolo, se mai arrivi, arriva tardi: non importa, che tu prima di chiudere gli occhi al giorno la prevedi, e nel presagio di quella consoli l'anima afflitta. La coscienza aprendoti la nebbia del futuro ti fa manifesto come i semi di sapienza e di amore sparsi da te frutteranno più tardi, ma inevitabilmente per la umanità, la quale, per tardare che faccia la stagione di mettere dentro la falce, non perde la messe.

Tu sai, figliuolo mio, come io non abbia mai fatto piangere alcuno, e tuttavolta pochi uomini furono così pertinacemente e così universalmente perseguitati quanto me; però pochi lo sanno, e poco comparisce al di fuori, e ciò perchè quando io rilevava qualche batacchiata delle grosse, me la succiava senza gridare: «Ohi!» e me la faceva medicare la mattina avanti giorno, come il Garibaldi costumò a Roma per la ferita riportata nelle costole durante l'assedio. Gli uomini sono naturalmente nemici di chi li supera in senno, e due volte tanto quelli che li vincono in virtù, e così non dovrebbe essere, imperciocchè ogni uomo possa, dove voglia, fare onorato procaccio di virtù, mentre ad acquistarsi ingegno la volontà sola non basti. Questo odio, io lo ripeto, per me credo che venga da natura, dacchè l'uomo troppo riccamente dotato di sapienza o di cuore rappresenti una ingiustizia della quale tu non sai nè a cui nè come chiedere ragione, intantochè l'universale o favorito meno, o del tutto diseredato, si senta per simile parzialità minacciato e avvilito. Nè gli amici alla svolta tu proverai tutti oro di coppella, che anche essi patiscono di quello di Adamo, e le gioie dello amico loro non piacciono intere, nè i suoi dolori interi dispiacciono: e va bene; però a me non garba, e come non soffersi vivo, così non patirò morto che gli uomini vengano nelle mie case a rizzare su il telaio della loro ipocrisia. Alla stregua dell'ardore col quale mi hanno straziato in vita, tu vedrai lo sciame dei calabroni affannarsi ad onorarmi ed a levarmi a cielo morto. Appena saranno sepolti i miei molti difetti e le scarse virtù, essi si sbracceranno con marre e vanghe a levare di sotto terra le moltissime virtù che non ho posseduto mai, e salutarmi spirito unico, anzi divino; e ciò per due ragioni, entrambe le quali fanno capo al loro interesse privato; la prima per far mettere nel dimenticatorio la iniqua guerra che mi dichiararono in vita, e sottrarsi a questo modo ad ogni pericolo di possibile vendetta; la seconda per usurpare, con lo invilupparsi dentro un lembo del mio tappeto mortuario, un brandello della mia fama. Tu impedisci gli interessati funerali; notte tempo dammi sepoltura allato al padre mio: non un segno sopra la fossa, non una parola: lascia che il flutto del tempo libero e pieno passi sopra di me; dov'egli non mi sommerga intero, il popolo memore, levandomi più tardi un monumento, attesterà che io me lo sono meritato.

Le statue erette in vita ad ogni maniera di persone, massime a principi, bene attestano l'abiezione di cui le inalzava, non già la virtù di quello al quale vennero rizzate. E nè anche le scolpite a principi morti sempre ti appariranno sincere, come quelle che intendono piaggiare i principi vivi. Così i toscani, maestri a vestire la servitù col lucco della libertà, posero il simulacro a Leopoldo I col motto: quaranta anni dopo la sua morte; ciò è vero, ma tu pensa che allora reggeva sempre in Toscana assoluta la stirpe di lui. O perchè non pensarono essi all'immagine del loro Leopoldo, quando il re Carlo Ludovico, borbonico, o la principessa Elisa, napoleonide, regnavano fra loro? Allora gli anni sarieno stati meno, ma la volontà più sincera; adoperando le arti degli adulatori fecero sospettare bugiardo quello che in altra guisa sarebbe sembrato verace.

Finalmente considero: noi altri per ordinario paghiamo il fitto per istarci in casa, ovvero la compriamo, ed in questo caso l'interesse del capitale impiegato rappresenta la pigione. Alla patria poi dove abbiamo abitato durante tutta la nostra vita veruno pensa a lasciare qualche cosa: parmi, male. Tutti quelli che possiedono facoltà sufficienti avrieno da lasciare alla patria o poco o assai, perchè si formasse in lei un patrimonio bastevole di compartire al popolo la educazione, o piuttosto l'educazioni fisica prima, morale subito dopo, poi intellettuale, all'ultimo industriale; e non dico così perchè l'una incominci dove l'altra finisce, che sarebbe errore, bensì perchè le educazioni fisica e morale devono primeggiare sopra le altre: operando diversamente o non si approda a nulla, o si fa peggio. Se la fortuna non mi si fosse mostrata sempre con la faccia del leone, a cui mi fu mestieri strappare i denti, avrei avuto cuore per imitare i più illustri benefattori della umanità, ma trovandomi povero per la troppa famiglia con la quale mi giocondò la natura, non mi è concesso fare quanto vorrei: onde io chiedendo perdono alla patria della offerta meschina, spero che ella vorrà gradire il buon volere e tenermi conto dello esempio atto a condurre altri più fortunati di me ad imitarlo con maggiore efficacia.

Lego pertanto al municipio della mia città scudi duemila, affinchè procuri che in capo ad ogni anno gettino cento scudi d'interesse, e se centoventi non guasterà nulla: di questi costituiscasi un premio, e conferiscasi al giovane di cui la età non superi gli anni sedici, il quale prima della metà del marzo abbia mandato al municipio la migliore poesia, in conforto o in laude di qualche virtù guerresca. Gli scritti spediscansi chiusi e innominati; solo li distingua un numero o un segno. Aperti, leggansi in piena adunanza, poi eleggasi una Commissione perchè gli esamini di proposito e li giudichi. Convocata per altro giorno nuova adunanza del municipio, odasi il rapporto della Commissione, e diasi il premio mandando la proposta a partito; bene inteso che i consiglieri possano nella votazione loro avere riguardo o no al giudizio della Commissione.

Queste però raccomando abbiano ad essere le norme del giudizio e del partito. I commissari al pari dei consiglieri considerino prima di tutto la purità della favella: in seguito l'altezza dei concetti, per ultimo la novità e lo splendore delle immagini.

Del vecchio possediamo abbastanza, e ottimo, e disperazione espressa superarlo: ancora, chi va dietro agli altri non gli va mai innanzi; così diceva Michelangiolo.

Una sola locuzione, ed anco una sola parola straniera sarà sufficiente a rendere la composizione immeritevole di premio, quantunque per altri lati possa comparire degnissima.

Rispetto allo idioma, egli è chiaro come per lui, anzi principalmente per lui gli spiriti patrii possano ridursi in ogni estremo dentro un cassero dove resistere alla invasione straniera. Lo straniero prima ci entra in bocca, poi in casa. Nelle faccende della patria il tutto sta nel cominciare da manomettere, si comincia dalla lingua e si finisce con la coscienza: questa è la storia della più parte degli scrittori dei giornali: come dall'odore del muschio tu ti accorgi, che quivi è passato il serpente, così dallo strazio della lingua sarai avvertito che colà si fece macello dell'onore. In questa sentenza concordano santi Padri e scrittori profani.

Che se a taluno pigliasse vaghezza di conoscere la ragione di questo mio legato, io lo chiarisco con quattro parole. Posto in sodo il vario fine al quale devono mirare le diverse educazioni, egli è certo come per conseguirlo intero abbisognino instituti dispendiosi e moltiplici: mancandomi a tutto il potere, e pur volendo che l'obolo mio torni di utilità alla patria, ho pensato promovere la poesia, di cui lo esercizio nobilita il cuore e sublima l'intelletto. Ho sempre giudicato che l'anima dello altissimo poeta sia complessa e composta delle facoltà di legislatore, di guerriero, di magistrato, e di cittadino. Anche poni mente a questo: l'uomo nato poeta finisce con lo esercitare una o più delle facoltà accennate; all'opposto, l'uomo che negli esordi della vita si senta propenso a legge, ovvero a guerra, non mette mai capo al poeta: dunque parmi evidente che la poesia contenga in sè maggior copia di potestà creatrice. Aggiungi altresì che lo intelletto non governato dal cuore riesce sempre funesto, e ciò per suprema sventura a ragguaglio della grandezza di quello; che se per converso lo intelletto ed il cuore nell'uomo grande si corrispondano con divina armonia, allora la benedizione di Dio si distende sopra la terra che gli diè nascimento. Ora veruna disciplina, verun'arte, verun magistero, per opinione mia, è capace quanto la poesia a generare questa corrispondenza, e generata crescerla.

Lascio alla mia patria voti, onde ella diventi virtuosa e feroce: dal consorzio umano a nostro modo incivilito altro non se ne potrà cavare, per dirla col Dante, che

Ruffian, baratti e simili lordure,

alla men trista una serqua di avvocati; nei tempi che chiamiamo barbari incontriamo sempre qualche eroe, con la scure al collo, se vuoi, pur sempre eroe.

Non bisogna riformare, bisogna mondare.

Queste le novissime parole scritte dallo zio Orazio al nipote Marcello poco prima che lo cogliesse la morte.

Capitolo IV. LA FANCIULLA.

O lettore, con la facilità con la quale tu hai voltata questa pagina, il tempo fece passare dieci anni dalla morte dello zio Orazio; tienti per avvisato; ed ora ripiglio la storia, dove intreccerò le cinque vite dei figli di Marcello e d'Isabella, come costumano coi piombini le fabbricatrici di cordone.

Ab Jove principium fu dettato degli antichi; ai giorni nostri non corre più. I numi stessi avuta la disdetta, sfrattansi dai cieli, nè più nè meno dei covoni per San Martino: quei loro deliziosi Olimpi e cotesti loro terribili Averni chiudonsi come le botteghe per le feste d'intiero precetto. Della magnifica eredità dei figliuoli di Saturno, messa in liquidazione, ohimè! che avanza? Qualche soggetto di pittura da condursi pei soffitti delle case o pei ventagli delle donne. Donne e fanciulle si fanno vento con Giove armato di fulmini, mentre principi e Parlamenti sbigottiscono di un papa armato con le scomuniche.

Non solo le umane, bensì le divine cose durano finchè le sostenga la forza; e Giove stette, non per le folgori, in cielo, ma sì pei carnefici, che gli prestavano in terra, re, sacerdoti e popoli; sì, importa del continuo rammentarlo, anco i popoli, i quali troppo spesso dimostrarono a prova istinto di sacerdote e di tiranno.

Dunque diamo di frego a Giove, ma potrò fare altrettanto con lo Amore? Non è concesso; però che sebbene lui salutassero Dio insieme con Giove e non possieda guardie di pubblica sicurezza nè giandarmi, tuttavolta egli regni sempre e governi.

E questo avvenne per la ragione che Amore fu una maniera di Talleyrand divino, il quale giustificava, anzi vantava le sue giravolte politiche, dicendo avere servito lo Stato, che rimane, non i principi, che se ne vanno, così Amore compiacque alla natura eterna, non agli Dei, caduchi anch'essi e mortali. Servendosi dell'ali si voltò in un attimo alle insegne del vincitore; anco Mercurio potè fare così, e poichè questi ebbe in sorte maggior copia di ali, tu lo trovi in troppo più luoghi che Amore.

Mercurio in Chiesa, Mercurio in Camera, Mercurio in Corte, Mercurio fuori e dentro le stanze dei ministri, Mercurio dentro e fuori dei Parlamenti; nell'aria, nella terra, nel fuoco e nell'acqua Mercurio; Mercurio per la stagione che corre si è spinto al calore dell'olio bollente, e quivi sta. Mi tarda andare a Roma per vedere la Basilica del Vaticano consacrata a Mercurio.

Innumerevoli, fin qui, le trasformazioni di Amore, nè accennano cessare per ora. Bisogna essere giusti, Amore lasciò piangendo Psiche, la celeste sua sposa, e Venere degenerata madre l'ebbe a pigliare per un orecchio, onde trarlo pei ginecei greci e romani; dove, fiutato il tempo, appena gli venne fatto fuggì via e si diede a bazzicare con un visibilio di tenere Marie, di più tenere Caterine e Brigide e di tenerissime Terese; nè parve meno leggiadro aleggiare intorno le chiome bionde della bella di Magdala, o su i salteri dei veli e le cocolle, che un dì sulle ghirlande di mirto e di rose di Aspasia o di Flora. Abelardo ed Eloisa informino.

Come colui che imprende lontane navigazioni per procacciare tesori alla famiglia, l'Amore, tenendo sempre fermo il domicilio nel cuore della donna, militò sotto le insegne della religione cristiana, e fu più volte Crociato in Asia; certo alla presa del Tempio di Gerusalemme il sangue umano arrivò a mezza gamba dei Crociati; e che rileva? Non per questo meno, anzi giusto per questo, i pii guerrieri obbedivano all'estro dell'Amore religioso. Amore svelse i figli dalle braccia materne e i mariti da quelle delle mogli, e gli frombolò sopra i campi di battaglia, dove rese sacro il sangue versato, e, convertite le belve in martiri, santificò la strage: acerbo mostrava allora il sopracciglio, e pure piacque, dacchè ad alta voce esclamasse: io sono Amore di Patria e di Libertà. Amore si condusse, non badando pericoli o travagli, sopra le plaghe estreme del mondo per esplorare i segreti del firmamento, o in mezzo ai ghiacci eterni rinvenire un passaggio al polo, ovvero scese giù nelle viscere della terra per leggerne la storia nei vari strati della materia che la compongono, come nelle pagine di un libro, e volto ai mortali con sembiante austero egli disse: abbiatemi caro, che io sono l'Amore della Scienza. Nè Amore solo si trasforma, ma si moltiplica, e posta la radice nella famiglia, quivi, portentoso vilucchio, si rintreccia con lo amore dei consorti, dei figli e dei fratelli: amori non affatto uguali negli atti e nelle sembianze, e non di manco somiglievoli come chi nasce da una medesima schiatta.

E poichè natura volle che la metà del genere umano fosse di femmine, nel Pater noster delle quali amore tiene luogo del pane quotidiano, due cose per me e per te, o lettore, hanno a resultare chiare, che senza Amore tu non potrai comporre nè città, nè provincia, nè famiglia, nè romanzi e nè nulla; e che o repugnanti o nolenti, ci tocca a parlare, di nuovo parlare, e sempre parlare di donne. Fato dei fati è la donna!

Dunque io vi parlerò di Eponina, la stupenda fanciulla; perchè così l'avesse chiamata Orazio, tu se ne hai vaghezza potrai riscontrarlo nel paragrafo XXI dei Ragionamenti di Amore del buon Plutarco, e ti conforto a farlo, imperciocchè tu leggerai una pietosissima, non menochè mirabile storia. Ora io dovendo mettere parole di Eponina, vado incerto se deva o no descriverne il sembiante: la critica con molesto ronzio mi bifonchia nell'orecchio destro: «la bellezza della eroina di un libro, già si sa, la è rima obbligata, e siccome gli scrittori s'incaponiscono a dimostrartelo, per filo e per segno, così condannano il lettore al supplizio di udirne una descrizione a ritaglio, dalla quale, raccolta insieme, tu non troverai, per quanto tu ti ci arrabatti sopra, modo di formarti, neppure alla lontana, una idea di cotesta bellezza. Che se, per un impossibile, su coteste postille tu giungessi a disegnare un viso, tu li comporresti tutti eguali come le ciliege che tu cogliessi dal medesimo albero.»

La critica, a senso mio, se ne piglia troppo, e quello che dice non è vero niente: anco i pittori, quando ritraggono bei volti di donna, hanno a dipingere sempre e nasi, e occhi, e bocche, e l'altro che viene dopo, o che per questo dovrebbero buttare i pennelli fuori di finestra? Infinita è la varietà della natura; ogni creatura forma un tomo a parte: nel creato non occorrono sinonimi. Che se lo scrittore non basta a somministrare al lettore tratti che gli valgano ad immaginarsi la bellezza descritta, è segno certo che non gli arrisero le Muse, e la Natura non glie lo volle dire; e se il poeta non mette varietà nelle descrizioni significa che trovandosi padroneggiato da un tipo (forse la faccia della donna sua) dimenticò l'obiettivo dell'arte pel soggettivo della passione, e lo incastra in tutti i suoi componimenti, come Raffaello adoperava della Fornarina nei suoi dipinti.

Eponina non ritraeva per nulla i contorni delle statue greche, che bellissime nel marmo, mi farebbe paura riscontrare nei volti di donna: sopra cotesti ovali di perfezione disperata, sopra coteste linee rigide e' sembra che tutto abbia a scivolare, suoni, aliti, baci, lacrime ed affetti: l'Amore, accarezzandoli, ci si reciderebbe le mani. Tale non compariva Eponina. La fronte avea larga e prominente alla radice dei capelli, poi con dolce curva rientrava fino sulle sopracciglia, donde prendeva principio un'altra curva delicata, quella del naso alquanto vòlto in su, quasi per aspirare quanto di vita alitasse nell'aria. Le chiome, composte ora in una foggia, ed ora in un'altra, e tutte leggiadre, ella teneva strette intorno alle tempie; se le avesse sciolte le avrebbero ventilato dietro le spalle come ale di angiolo, tanto erano copiose e dorate. Sotto le palpebre sempre mobili[12] scintillavano gli occhi, non azzurri, non neri, bensì di un colore strano, grigi come ferro troncato, composti nelle pupille di cerchi concentrici, ognuno dei quali mandava il suo raggio, donde riuniti in fascio prorompeva un getto di luce elettrica da rassomigliarsi a quello che emana a volta a volta dagli specchi giranti dei fari. Il contorno del volto, alquanto depresso sulle guancie, glielo faceva comparire piuttosto lungo che no; bianca, non candida,[13] della bianchezza dell'alabastro, del continuo tinta, secondo le impressioni che le venivano di fuori o dei pensieri che le turbinavano dentro, di tutte le più soavi sfumature dello amaranto. La forza straordinaria dei muscoli dei suoi labbri non consentiva ad Eponina atteggiarli al sorriso; s'ella (e ciò accadeva di rado) li apriva all'allegrezza, dava in ghigni strepitosi a modo di baccante, e se alla favella, ovvero al canto, era una Musa.

Il re poeta scrisse che il firmamento racconta la gloria di Dio, ed ha scritto bene; così del pari il Genio, o vuoi l'altissimo Intelletto, manifesta la sua presenza sopra la fronte della creatura umana. Forse non uscì mai dalle mani del creatore arnese come Eponina, adattato a sentire ed a rendere le più sottili vibrazioni del dolore e del piacere; vera arpa eolia esposta agli aliti della natura. Ella copiosa nel dire leggiadramente arguto, ella inesausta nelle fantasie, ma soprattutto portentosa nel suono e nel canto. La sua voce si sviluppava come una larga onda ch'empiesse ogni cosa d'intorno d'inusitata contentezza; quando poi si rompeva in miriadi di note, al pari dell'acqua della cascata, la quale balzando di roccia in roccia si sbrizza in innumerevoli stille giocondate dai colori dell'iride, allora uno spolverio di luce, un acuto diletico, un tintinno inebriante investiva i sensi degli ascoltanti, i quali sentivano consumarsi e pure non avrebbero a verun patto consentito che cessasse cotesto voluttuoso tormento, nel modo stesso che Clizia infortunata quanto più si disfà più s'innamora del Sole.

Queste già erano doti più che bastanti per assicurare alla nostra fanciulla la vita piena di affanni, e tuttavia ella ne possedeva altre parecchie e non meno gravi: troppo superiore a quanti la circondavano, non lo poteva celare a sè stessa nè ad altrui; a che giova mostrarci in atti ed in parole modesti, quando il fatto manifesta ad ogni momento la tua preponderanza? Ragionando, mercè la grazia del dire e la potente dialettica, riduceva al silenzio quanti si fossero fatti ad argomentare con lei; vero è bene che il torto stava sempre da parte di loro, ma se fosse stato alla rovescia, sarebbe tornato lo stesso; e la madre, innamorata della sua prole, sempre lì ad attizzare, invece di spegnere la vampa. Punisconsi le madri per disamore ai figli, ed è giusto; ma importa sapere che più si trovano madri le quali perdono i propri figli per soverchio affetto. Nè qui forse giaceva il guaio maggiore, che Eponina, con quel suo veemente ingegno, non poteva essersi rimasta dal tuffarsi intera nelle eccessive dottrine, che da molto tempo hanno spiccato il bollore intorno alla emancipazione della donna. Qui non cade il destro di ragionare su questo argomento, ma si avverta che sempre il soverchio ruppe il coperchio; e che infermo infastidito di giacersi sopra un fianco non guarì mai per subito voltarsi sull'altro. Badino le donne che oggi, come in antico, potrebbe accadere che l'albero della scienza non fosse l'albero della vita: non si stieno a confondere, esse avranno sempre bene meritato dell'umanità e di Dio educando figliuoli come gli antichi Gracchi, o come i moderni Cairoli. Raccontano le vecchie storie come Uguccione della Faggiuola, standosi a Lucca, udita la ribellione di Pisa, partì in fretta e in furia per ricondurla in sua potestà; votata appena Lucca, questa gli si rivolta a sua posta, sicchè perse Lucca e non riacquistò Pisa: ora voi, donne, che avete intelletto di amore, potrebbe darsi che guadagnando poco (chè nulla io non lo voglio dire) nella gloria, scapitaste moltissimo nell'affezione.

E per disgrazia capitarono sotto gli occhi di Eponina i libri della donna, che, se la fama narra il vero, quantunque sposa altrui, tolse, invereconda, il nome dell'amante; nè paga del commesso errore, voltò le forze dello ingegno a giustificarlo, anzi a voltare la colpa in merito. Lelia, Valentina e Indiana (qualunque possa giudicarsi il merito letterario di coteste opere) vincono in infamia di assai i libri più osceni, imperciocchè questi infiammino i sensi, mentre quelli corrompono l'anima.

E nonostante questo, e forse appunto per questo, aggirata Eponina nel turbine delle impressioni e degli esercizi continui, giunta al diciannovesimo anno non aveva per anco sentito verun trasporto d'amore; per ora amava sè; ma venne il tempo, chè non può mancare, nel quale dell'arpa e del piano forte non vide che legni, sciapiti le parvero i suoni, fastidì, nonchè altro, la propria voce; come tratta fuori di sè guardava sovente il cielo, quasi aspettando la ispirazione dall'alto, ovvero tendeva l'orecchio per raccogliere un suono indistinto e lontano; le si gonfiava il seno con frequenti sospiri, ed anco in altro modo più sensibile le si gonfiava; negli occhi un balenìo, negli orecchi un sibilo. Allora vogliosa di solitudine volgeva il passo verso il camposanto della città, nel quale entrata, si poneva a sedere su qualche avello in atto di dolore; ma intanto che i passeggeri nel mirarla la compassionavano, ella, mutata voglia, si sentiva presa come da smania di correre dietro a due farfalle, che parevano inseguirsi a vicenda e scansarsi, aliandosi attorno senza agguantarsi mai.

Ed anco adesso, con la nuova propensione ad amare, non l'era occorsa sembianza sopra la quale riposare lo sguardo vago, e ciò non solo perchè procedesse in sè raccolta, come si addice a donzella costumata, ma eziandio perchè quanti giovani aveva sogguardato, tanti l'erano comparsi disamabili ed esosi; pure in simile disposizione di animo, si capisce che non può tardare l'amante, e così fu. Certo giorno Eponina, in compagnia della madre, sboccando da una strada, vide la porta di un palazzo chiusa e ornata di gramaglie, con un cartello all'uscio, il quale, secondo il costume, indicava il nome e la qualità del defunto; mentre ella, tirata dalla curiosità, si accosta per leggere, ecco spalancarsi la porta e comparire il feretro; ma perchè la soglia non fosse larga abbastanza, fu mestieri che i reggitori dei lembi del tappeto si facessero innanzi, uscendo uno dopo l'altro primi.

Chi venne innanzi, di un tratto sosta a breve distanza da Eponina, onde ella potè, senza immodestia, guardarlo e riguardarlo a tutt'agio: giovane egli era, e biondo, e bello della bellezza che garba tanto alle donne: volto e persona, di cui pare che posseggano il monopolio gli Apelli della Novità del Sonzogno; faccia unita, levigata dove non apparisce ruga prossima e nè manco remota; potente della freschezza dei venti anni: un cotal po' di lanugine, sparsa a spilluzzico sopra il suo labbro superiore, ti rendeva incerto a giudicare se la natura fosse stata più parca a guarnirgli di peli la bocca, o il padre di quattrini le tasche. Ambrosia egli certo non ispirava, come gli Dei di una volta, bensì un tal quale profumo di nobilea, che fino a tutto il giorno di oggi inclusivo piace alle donne, e non meno agli uomini, qualunque cosa ne dicano in contrario. La uguaglianza per ora si abbaia da chi, o non può soverchiare, o non ha anco soverchiato: tanto vero questo, che più eccessivi detrattori del popolo abbiamo veduto quelli che pur ieri popolo erano e pel popolo parteggiavano.

Il giovane teneva la faccia vestita a mestizia, come la persona di abiti neri di tutto punto come costuma mostrarsi ai funerali. Le vesti, per attillatezza mirabili, gli parevano nate addosso; lo stesso dicasi dei guanti candidi e degli stivaletti inverniciati. Tutto questo non era molto, anzi poco, massime per donna di così alta levatura, come Eponina, e tuttavia bastò, e ce ne fu d'avanzo. E si ha un bel mettere in canzone i poeti, quando parlano di archi, di strali e di subite ferite sotto la sinistra mamma; fatto sta che al primo contemplare la creatura destinata a piacerti, tu ti senti rimescolare il sangue dal capo alle piante, e porti la mano al cuore, come se ti sentissi trafitto, come fece per lo appunto Eponina.

Chi il giovane si fosse a lei non riuscì sapere, non si attentando domandarne, timorosa che anche la inchiesta obliqua non isvelasse alla gente la sua interna passione; oltre a ciò pativa la mala febbre che nasce dallo sgomento di avere ad amare sola. Tuttavia bisogna mettere in sodo che se la fanciulla innamorata può essere un libro chiuso per tutti, ella non può celare i pensieri suoi più riposti alla madre amorosa, la quale li vede affacciarsi e scorrere via di sulla fronte alla figliuola, come nuvole traverso il disco della luna, quando soffia il vento; ond'ella di frequente le diceva:

— Eponina, Eponina, tu hai un amante, e me lo nascondi.

— Non è vero, — rispondeva l'altra risoluta — io non ho veruno che mi ami e te lo posso giurare.

Però non poteva andare un pezzo che i due giovani si sarebbero incontrati una seconda volta, senza che se ne pigliasse pensiero la Provvidenza o il caso, dacchè, sebbene Isabella fosse parca frequentatrice di teatri e di veglie, pure conducesse talvolta le figlie a ricrearsi fuori di casa; di vero, certo dì le venne ricapitato un invito di donna Teresa marchesa Remoli, affinchè si compiacesse favorirla di sua presenza, con la famiglia, al ritrovo in casa sua per la prossima sera di domenica.

Ora è da sapersi che donna Teresa era vedova; la morte del marito, se non le aveva fatto bene, nè anco le aveva fatto male, ed ella stessa lo diceva, però che il marito, morendo, la istituisse usufruttuaria della sua eredità, la quale rendita, unita ai frutti della dote, le dava agio di vivere con molta splendidezza. Del restante buona femmina, piccola e tozza; dell'età oltre i quaranta un pezzo, però munita del suo bravo congedo, con la giunta del ben servito dallo Amore (ella diceva averlo dato a lui, ma non era vero, e non glie lo credevano). Dopo cotesta epoca ella si dedicò intera allo esercizio delle belle arti e della letteratura: sonava, non precisamente a fuoco, ma giù di lì: il suo debole poi erano gli epigrammi, dei quali componeva ogni dì almeno sei, arguti più di una pittima di semi di lino: pittrice implacabile e spietata, sempre in manopole e in grembiule, sempre co' pennelli in mano: a sè davanti teneva su i cavalletti ammannite quattro tele o cinque, e secondo gliene chiappava l'estro, ora col pennello stoccheggiava questa ed ora quella; eccetto il pranzo, ella faceva i suoi pasti nello studio per non perdere tempo, e sovente le accadde, nell'impeto della composizione, colorire il quadro col biscotto intinto nella cioccolata, e mettersi in bocca il pennello intriso nella tinta a olio. Adesso ella stava tentando una maniera nuova per lei, e difficilissima, una tempesta marina. In coscienza, se ella a cui la mostrava avesse domandato ex abrupto: «indovinate quello ch'è» bisognava risponderle: «per ora, se non sopraggiunge alle viste qualche cosa di nuovo, sembra una forma di cacio parmigiano messa a lessare dentro un lago di acqua di broccoli.»

O dunque di che mai erasi invaghito il defunto (ben inteso mentre era in vita)? In primis la gioventù, che come il sole rallegra ogni cosa creata, rallegrò pure ai suoi tempi la marchesa Teresa, in oltre ella portò in casa assai dote, festosa fu e amorevole e lieta; o che pretendete di più da una moglie? E poi questo di più la marchesa lo possedeva, però che artista veramente fosse in certa arte nella quale tanto era singolare quanto se ne vantava meno, e consisteva nel creare confezioni e di ogni maniera pasticci; anzi taluni dei più intimi di casa andavano susurrando che nell'animo del marchese, buona memoria, questa qualità aveva sostituito tenacissimamente ogni altro vincolo matrimoniale, collo andare del tempo (si sa) o rilassato o sciolto; su di che non proferisco giudizio, pure affermando che se i pasticci della marchesa Teresa avessero potuto stamparsi e custodirsi nella Biblioteca Nazionale, chi sa quale e quanta concorrenza di fama avrieno mosso col tempo ai discorsi dell'immortale conte di Cavour.

In casa della marchesa Teresa fu che Eponina vide per la seconda volta il giovane amato da lei, e le parve, come succede, due cotanti più bello. — Vi rammentate di Omero quando narra di Priamo, che affacciato alle mura di Troia guarda le schiere argive, e si strugge nel desiderio di saperne il numero e il nome, finchè giunta Elena lo ragguaglia per filo e per segno dei capitani, della patria, dei costumi e di quant'altro aveva vaghezza conoscere il vecchio Priamo intorno all'oste nemica? Voi ve ne rammentate di certo perchè Omero avete letto, e le cose lette nell' Iliade non si dimenticano. Ora, quello che Priamo faceva a Troia tutte le fanciulle fanno nelle veglie, quando occorrono loro dinanzi giovani appariscenti e sconosciuti. Eponina ne chiese astutamente alla compagna che le sedeva allato, e poichè anco a questa era ignoto, con arte maggiore la indusse a moverne ricerca fra le persone circostanti, e allora seppe chiamarsi Ludovico Anafesti, ed avere titolo di conte; di padre orfano, figlio unico di madre rispettabile e rispettata; di sè non avere dato argomento che altri parlasse in bene nè in male, giovane troppo; apparteneva ai giovani di bella vita, inteso tutto a corse, a balli e a feste: di sostanze non pareva stesse bene in gambe, chè il padre ci aveva fatto uno sdrucio da non potersi rammendare, ed egli tirava a rifinire il resto; lo appuntavano viziato al gioco; di amori non se ne sapeva; se ne aveva non erano di quelli che si potessero decentemente manifestare, del rimanente cavalcatore illustre, schermitore e tiratore a segno dei buoni; non accadeva duello ch'egli, o come paciere o come secondo, non c'incastrasse, e voilà tout!

Non ci era da scialare, ma via, per questi ragguagli Ludovico non aveva scapitato nel cuore di Eponina, sicchè quando incominciarono i balli, ella imprimendo sotto le palpebre abbassate un moto ondulatorio alle pupille, non lo perdeva un momento di vista: con palpito di cuore da non potersi dire avvertiva se dal giovane taluna o donna o donzella si preferisse; ma no, con suprema contentezza si accorse com'egli, verso tutte cortese, non dimostrasse parzialità di sorta; dalla movenza dei labbri s'ingegnò indovinare lo parole proferite, attese acutamente alle mani ed alle dita di lui per vedere se mano o vita della compagna danzatrice premesse oltre la convenienza ed i costumi del ballo, ma di niente potè accorgersi. Di due cose l'una, o egli non amava, o la sua amata non si trovava lì; intorno alla seconda parte Eponina andava chiara, ma chi l'assicurava della prima? Non gli conoscevano amante, dunque poteva non avere amato, anzi era certo ch'ei non avesse amato mai, e lei destinavano i cieli a percuotere la roccia, donde sarebbero scaturite le linfe dolcissime dello amore. Ci era da ammattirne di giubilo! Ma intanto? Intanto il giovane non la guardava neppure, o sia che non l'avesse scorta o, scorta, non l'avesse impressionato; non importa, ella di sè fidente non se ne curava, dicendo nel suo segreto: «Aspetto il mio astro!»

Nè l'astro si fece aspettare. Poichè ebbero compite varie guise di ballo, e furonsi confortati di cibi e di bevande, e levati fino al cielo, e un poco più su, i classici pasticci della marchesa Teresa, ecco questa signora dabbene di un tratto scappar fuori a dire.

— Orsù, a Tersicore sagrificammo abbastanza; adesso tocca alle altre sorelle, che potrebbero averselo a male: per dare il buono esempio comincierò a canticchiare qualche cosuccia io, che se principiaste voi a me non basterebbe più l'animo per farmi sentire.

La marchesa si era data attorno per raccogliere al suo ritorno dame, damigelle e cavalieri che godessero fama di valorosi nelle arti del canto e del suono, non meno che artisti di professione e taluni dei più celebri cantanti si trovassero allora nei teatri di città. Ella, come promise, aperse il canto con una barcarola di facile esecuzione; suo cavallo di battaglia; la voce le usciva un po' tremula, talvolta per paura della odiata stecca l'abbassò così che appena si sentiva; nondimeno nel sottosopra ce la sfangò assai bene, e n'ebbe plausi, dove sarebbe stato difficile spartire i meritati dai dovuti alla padrona di casa.

Avendo la marchesa proposto ad Eponina di tenerle dietro, questa se ne schermì, desiderosa, come disse, che le altre mostrassero la loro virtù prima che fosse stanco l'uditorio, e parve modestia, ma invece fu astuzia per ecclissarle tutte: arti di guerra femminile. La signora Teresa ci rimase presa, e la ringraziò della squisita delicatezza; Eponina allora sembra si facesse animo a chiederle qualche favore, a cui la marchesa assentì col capo, aggiungendo: «Lascia fare a me.»

Cantarono arie, duetti, terzetti ed anco un quartetto come persone le quali dell'arte intendevano assai addentro, e tutti i giorni stavano in esercizio, ma le voci erano scarse, tirate fuori a trilli e a gorgheggi, come colui che non sentendosi a sufficienza vigore si sforza e si eccita. Quando venne la volta di Eponina, si trovarono, per cura della marchesa, parecchi disposti a farle da coro, mentre ella avrebbe cantato la Casta Diva della Norma. Richiesta se volesse accompagnarsi da sè, rispose: «Volentieri, ma coll'arpa, altri col pianoforte.»

Eponina aveva ragione da vendere; dotata di squisito senso dell'arte, aveva avvertito come non si dia bellezza di donna, la quale regga alla doppia azione del canto e del suono del pianoforte, chè fuori di misura disamabile si presenta nel tocco dei tasti quel continuo distendere e stringere le braccia, e l'alzare e l'abbassare le dita atteggiate ad artigli di girifalco: se la donna starà diritta col tronco e ferma, rassomiglierà la statua di granito di Mennone, la quale dicono rendesse suono in grazia di certo foro praticatole per di dentro: ovvero agiterà il capo, e allora la testa dondolante ti parrà una banana sbatacchiata dalla tempesta, o un ariete romano abbrivato per isfasciare mura. Donne e donzelle, date retta a me, quantunque profano: quando vi piacerà letiziarci co' vostri canti, non vi accompagnerete mai da per voi col pianoforte: più assai della fuga

Che l'onestade ad ogni atto dismaga

come insegnò l'Alighieri, noceranno alla bellezza vostra i gesti illepidi che menerete sopra cotesto istrumento.

Circa all'arpa poi muta specie, massime se la sonatrice, oltre la persona spigliata, possieda gioconde braccia e petto ricolmo. Ora è da dirsi come tutte siffatte qualità occorressero in copia nella nostra Eponina, di cui così lieve era lo incesso, che a mirarla camminare si sarebbe detto: «ora vola.» Le sue braccia apparivano coperte di guanti; ma come si fa a sonare l'arpa co' guanti? E' fu mestieri levarseli. Veruno penetrò mai nella sua stanza verginale, molto meno io; e pure metterei pegno che più di una volta ella studiò allo specchio l'atteggiamento, che convenisse meglio alla sua persona, e quale più leggiadro partito di pieghe si affacesse alla sua veste. O bella! Non costumò farlo Caio Gracco, per piacere al popolo? E con quale giustizia lo si vorrebbe negare alle donzelle, per gratificarsi l'animo dello amante desiderato? Non ci è vecchio che, salendo le scale di una casa per rendere visita all'amica anziana, non si raddrizzi sul cucuzzolo i cinque capelli bianchi, a modo dei birilli nel mezzo del biliardo.

Eponina dunque, essendosi atteggiata divinamente, preludiò sull'arpa ed incantò chi vide: quando poi l'onda sonora della voce prese a sgorgarle potentissima dal petto, ammirazione ed astio, plauso e censura, tutto rimase sommerso come in un mare di luce; senza battere palpebra, osando appena trarre il respiro, ascoltavano tutti; a molti avvenne che, senza se ne accorgessero, le lacrime traboccassero dagli occhi; taluno con ambedue le mani si compresse il seno, quasi non valesse a sopportare l'eccesso del piacere; a tutti tremava l'anima. Allorchè tacque, veruno ebbe balìa di applaudire: parevano impietriti per virtù d'incantesimi: tanto regnava profondo il silenzio, che si udiva perfino il crepito delle candele che ardevano, ed Eponina vinta anch'essa dallo entusiasmo rimaneva immobile, con le labbra mezzo aperte, fitto fitto frementi un brivido di voluttà: aggiungi che portando ella una ghirlanda di ellera in capo, questa scomponendosi, le era scesa dinanzi dalla fronte, da parere proprio una corona di alloro, a modo che pittori e poeti sogliono attribuirla alle Muse.

Quando gli animi soggiogati poterono ripigliare il dominio di sè, proruppe uno scoppio di grida e di applausi cotanto strepitoso, che i cristalli delle finestre ne tremarono e parecchi lumi si spensero.

Ora mentre Eponina si tira indietro con grazia infinita la corona dell'ellera, scorsale quasi sino sulle ciglia, si mira davanti attonito Ludovico: esultò la donna, e con supremo sforzo di volontà raccolto quanto più potè di virtù magnetica negli occhi propri, la saettò dentro gli occhi di lui. Il giovane non sostenne lo improvviso sfolgorio, chiuse le palpebre, e susurrando suoni indistinti balenò per cadere, e cadeva, se altri non lo avesse sostenuto. Eponina, nell'orgoglio del cuore, stette per esclamare ad alta voce: «Ho vinto!» Si suggellò le labbra, ma per tacere che facesse, questo grido non rimescolò meno poderoso tutta la sua anima.

E questo fu il modo col quale Ludovico ed Eponina s'innamorarono.

Capitolo V. IL SUOCERO.

Grande

L'ombra è del trono per coprir delitti dice Aristodemo, che fu re, ed ebbe il cuore peloso[14] e tuttavia l'ombra della ricchezza cuopre anco di più, e non importa che la sia vera; basta ancora supposta. Però gli uomini blandiscono la ricchezza, ed all'opposto detestano il ricco e lo insidiano. La ricchezza sta col ricco come la autorità col principe: tenta il banchiere schiantare il banchiere, ma impiccherebbe chiunque toglie la riputazione alle banche; un principe s'ingegna rapire all'altro principe comando, quattrini e sbirri; ma per pigliarseli per sè: quindi non intorno al ricco, bensì intorno alla ricchezza stanno i famelici inetti, i quali col muso in su aspettano che dalla sua mensa caschi qualche briciola, per divorarla a muso in giù: amici della ricchezza, non del ricco, gli sparvierati che gli aliano attorno per arraffargliela di un tratto: men tristi amici (chè migliori non si potrebbe dire) sperimenta il ricco coloro che tengono dimestichezza con lui per astiarlo o per denigrarlo, studiosi di godere i vantaggi che ricavano da cotesta frequenza e ad un punto non iscapitarne di reputazione. Di qui la ragione del subito abbandono dei potenti e dei ricchi, traditi dalla fortuna; e siccome i principi e i ricchi lo sanno, così si agguantano più forte che possono ai quattrini ed agli sbirri; molto più che ai tempi che corrono, ricchezza e signoria patiscono di marea, e chi le serba fino al termine della vita può vantarsi di rinnovare il miracolo di Tucria vestale, che portò il vaglio pieno di acqua attinta al Tevere fino al tempio di Vesta[15]. Se la gente sapesse le ansietà, le abiezioni, i pelaghi e i delitti di questi invidiati potenti; oh! come sentirebbe per loro compassione o ribrezzo, per sè compiacenza della vita onesta e della temperanza civile.

Entriamo nello studio di Omobono: mirate, due volte la settimana ei passa la notte intera a registrare su certi libri arcani una quantità di note segnate sopra fogli volanti; avvertito che egli cavò questi libri da una cantera praticata sotto la cassetta che serve di serbatoio di legna da ardere, accanto al camminetto ammannito con frasche e legna secche a levare in un attimo un magnifico falò.

Ci fu un tempo in cui la penna di Omobono volava scrivendo su cotesti registri, e all'atto dello scrivere assentiva col capo e tutta la persona, mentre stirava la bocca verso le orecchie come borsa che si allarghi per ingollare monete: cotesto allargamento di labbra era il sorriso di Omobono. Adesso poi pare che la gotta gli abbia rattrappito le mani; di tanto in tanto caccia fuori un sospiro da disgradarne il soffio del mantice di un magnano: è inverno, è freddo, è notte, ma egli suda come di agosto, e le gocce gli cascano giù dalla fronte a quattro a quattro; lì presso, osservate cotesta catinella piena di acqua fredda, ecco egli vi tuffa la spugna che poi si mette sul cranio calvo per temperare la vampa del cervello. L'ultima volta che Omobono ebbe a tribolarsi in cotesta disciplina parve rimanerne sgomento più del solito, onde, lasciate cadere sul banco ambedue le braccia, ci posò in mezzo il capo e lungamente rimase in cotesto atto; poi lo rialzò scotendolo tre volte o quattro, se lo rinfrescò con la spugna e scosse forte un cordone levando la faccia in su.

Indi in breve fu udito un lieve rumore nel soffitto; lo avrebbe mosso più forte un topo entrando in dispensa, e poco dopo aperto cheto cheto l'uscio della stanza comparve la lancia spezzata, il cagnotto, l'anima dannata, o come meglio si deva dire, di Omobono; imperciocchè come la cosa avvenga io non lo saprei, ma il fatto sta che le anime male non nascono mai sole nel mondo, bensì si trovino quasi sempre doppie come le mandorle dentro al nocciolo, una più grande, l'altra più piccina; così col carnefice viene al mondo il sotto-boia, e.... ma basta; allo inferno ed alla tristizie umana non si conobbe mai il fondo. Dopo Omobono veniva il suo commesso Gavino Nassoli: costui par di metallo tirato con la lima; se poeta, o pittore l'avessero a descrivere o a dipingere, butterebbero fuori di finestra penna e pennelli: la sua faccia è tutta denti, dai lati della berretta di cuoio gli si drizzano gli orecchi appuntati pari a quelli di un cane da fermo, a cavallo del naso gli stanno le lenti tonde e grandi quanto due scudi, traverso le quali, incavate dentro spessi cristalli di rocca a cagione della molta miopia dell'uomo, ti apparivano i suoi occhi piccini piccini, come lontani un miglio: allorchè costui gli accosta ignudi di occhiali a foglio scritto sembra che piuttosto di leggere i numeri (dacchè egli dai numeri infuori non legga altro) li voglia brucare a mo' che le capre costumano le foglie di sulle siepi.

Omobono, appena lo vide, gli disse:

— Fatevi in qua, Nassoli; sedetemi accanto; avete chiuso bene l'uscio? Sì, ma non tirato la portiera; andate a tirarla.

Dopo ciò incominciarono un colloquio a voce sommessa: pareva si confessassero; e, come sovente avviene, i confessori peccatori ambedue. Il Nassoli di tanto in tanto poneva il dito su i libri arcani a mo' che l'anatomista fa col coltello sul cadavere che gli sta davanti; e per certo doveva credere il suo atto di cerusico, perchè, conchiudendo il colloquio, e levando alquanto la voce in suono di miserere, disse:

— Caro mio, il morto è sulla bara: senza rincalzi straordinari non si può reggere. O non vede, che sia benedetto! credito mobiliare, transatlantico, banco sete, meridionali, rendita.... tutto fa acqua, e le trombe non bastano.

— Provvederemo — rispose Omobono, chiudendo i libri; tornate a dormire.

Ma non andò mica a dormire Omobono, il quale uscito di casa per mezzo di una porta segreta stette fuori fin verso le cinque del mattino. Dopo circa un mese la cassa del Banco si riempì di enorme quantità di biglietti di varie banche così italiane come estere, di che preso subito fumo il Nassoli, il quale per malizia avrebbe dato tre punti ad un questore, quando si ridusse in camera a dormire se ne portò un fascio, dove a tutto bell'agio, accese prima due candele, se li fregò lungamente traverso le palpebre: fatta e rinnovata la prova si condusse con la solita precauzione nella stanza da letto di Omobono, e quivi susurrò insieme con lui un secondo colloquio; però le voci sommesse non escludevano i gesti risentiti, e per quanto Omobono insistesse, il Nassoli pareva duro a non lasciarsi persuadere; all'ultimo Omobono scappò fuori con queste parole:

— Lo vedo anch'io, la galera bisogna che voghi con altri remi.

— Non ci è che dire — ripetè il Nassoli — bisogna che con altri remi voghi la galera.

— Chi è che ha parlato di galera?

— Galera ha detto lei, ed io ho approvato.

*

Di un tratto cascò e sbalzò Omobono in casa del suo genero a Torino, onestando la sua comparsa con dieci pretesti uno più plausibile dell'altro, e veruno era vero; ci si trattenne due giorni nei quali non rifinì mai di ragionare delle faccende domestiche dei suoi figliuoli, che tanto gli stavano a cuore, e dimostrava loro come dovessero partirsi da Torino per venire a Milano; a Torino non tenerli parenti, nè amicizie vecchie, nè sostanze, nè traffici, nè affezione di luogo natio: colà gli sarebbe riuscito più destro incamminare i nipotini ormai adulti, il maggiore avrebbe tolto seco, secondo la promessa, per iniziarlo nella banca dove aveva a succedergli.

— Voi lo vedete — proseguiva costui — il patrimonio non basta a dotare le figliuole e a sopperire al comodo sostentamento dei figliuoli; certo voi con diligenza in molte cose li avete fatti educare, ma quello che importa adesso sta nello applicarli ad una professione speciale: consulteremo il genio di ognuno; intanto Omobono fin d'ora è banchiere. Capisco che un dì erederanno il mio e basterà per tutti e ce ne potrà avanzare, anzi ce ne avanzerà di certo: però la fortuna muta, ed ancorchè non mutasse, prudenza insegna reggerci sopra le nostre gambe.

E continuava di questo tenore tanto, che a ridire tutte le sue ragioni si sarebbe spento il lume.

Marcello nonostante la pressa che il suocero gli metteva dintorno, chiese tempo a riflettere; nè ci fu verso di fargli mutare di proposito.

Però, egli è pur forza confessarlo, la raccomandazione in articulo mortis dello zio Orazio, di non confidare a verun patto mai i propri figliuoli ad Omobono, se non dileguata del tutto, certo erasi di molto infievolita nell'animo di Marcello. Gli avvertimenti paterni nello spirito dei figli rassomigliano assai alla voce lanciata dentro una grotta; l'eco ve la ripete cinque volte e sei, di mano in mano più languida, finchè cessi del tutto: di qualunque umano retaggio troviamo essere il meno trasmissibile la esperienza: ogni uomo deve assistere personalmente alle lezioni di lei: costano care, ma, a detta del Franklin, sono le sole che valgano a mettere a partito anco il cervello dei matti.

E poi non quietava un momento da serpentarlo la consorte Isabella, dicendole fra le altre cose: nel padre suo entrare troppo più dello strano, che del tristo; certo la cupidità di lui immane, ma in fine dei conti a chi avrebbe ella giovato se non ai loro figliuoli? E pur troppo non si poteva negare cresciuta la famiglia oltre il bisogno; e volendo dare dote alle femmine e recapito convenevole ai maschi, educazione splendida a tutti, le forze proprie non bastavano a tanto. Dio guardi che ella avesse a seguire lo esempio dello imperatore Vespasiano, che, messa sotto al naso di Tito la moneta cavata dalla tassa sui pisciatoi gli domandò se di malo odore putisse: ma caso mai non tutti lodevoli fossero i guadagni paterni, eglino redandone le sostanze avrebbero potuto a luogo e tempo riparare il danno agli offesi, e restituire ad un punto la buona fama al parente.

Pende incerto se sia più mordente lima la ragione in mano alla donna, o se la donna in mano alla ragione: fatto sta che quando si legano insieme nessuno riparo ci può fare la gente. Che se volessimo addentrarci di più nel cuore d'Isabella avremmo a dire che il suo cuore, come quello delle altre creature umane era un laberinto; nè per ogni laberinto si trova un'Arianna, la quale porga il filo per uscirne a salvamento: forse in lei spirò un fiato di orgoglio, che alla casa sua, più che a quella del marito, i figliuoli dovessero il signorile stato; forse il presagio di accomodare in alto loco le figlie, e la speranza di udire benedetti i figli pel buon uso della eredata opulenza l'abbarbagliarono: donna ella era e madre, e noi sappiamo che il diavolo quando vuole tentare i santi piglia faccia di angiolo. Insomma Marcello, sgombrata finalmente Torino, portava i suoi penati a Milano.

Il giovane Omobono di subito accomodato nel Banco dell'avo, da prima compite le sue faccende si riduceva nella casa paterna; indi a breve ci tornò più di rado, ora trattenuto a pranzo dal nonno, ed ora pei cresciuti negozi, sicchè terminò col porre stanza ferma presso il banchiere Omobono. Quivi il giovane trovò non solo agio, bensì ancora lusso ed eleganza, e se ne compiacque; servi a lui solo destinati; e di presente l'avo gli assegnò lire mille al mese, avvisandolo che se di più gliene fossero occorse non mancasse di farglielo sapere. Di subito parve l'avo gli mettesse addosso uno amore sviscerato; se ne dimostrava arcicontento; con chiunque ne parlasse (e ne parlava con moltissimi) non rifiniva mai di levarlo alle stelle; e a dire il vero non senza ragione, chè il giovane si mostrava stupendamente perito nell'arte dei numeri, come quello, che con amore pari al profitto aveva studiato nella Reale Accademia di Torino. Ogni azione del giovane pareva tirata a filo di sinopia; esatto, accurato, non si stancava mai; il lavoro gli serviva di alimento.

Oltre queste doti, altre e più pregevoli di mente e di cuore possedeva il giovane, di cui lo zio cortese disegnò fare capitale: ritraendo non poco dalla sorella Eponina si poteva dire bello, però alquanto più pallido e più pensoso di lei; di rado le guance e i labbri gli allietavano una sfumatura di vermiglio e di riso: poco parlante, di voce soave, modesto e servizievole quanto altri mai: accadeva con lui come sovente succede con le persone simpatiche, voglio dire che, quantunque ci si parino la prima volta davanti, pure le ti paiono conoscenze vecchie. Aggiungi modi gentileschi, un zinzino contegnosi co' superiori, ma affabilissimi cogli inferiori. Presentato in parecchi ritrovi, ben presto strinse amicizia coi giovani più eleganti della città: dai babbi accolto volentieri, dalle mamme anco più; per le ragazze non era venuto anche il tempo: in una parola la sua curva ascendentale pel cielo della buona società procedeva pari a quella della luna pel firmamento, nelle belle notti di maggio, placida e serena; le nuvole verranno più tardi.

A mantenerlo in questo apogeo di gloria valsero alcune avventure, che mi occorre raccontare nella guisa che mi riuscirà meglio succinta. Certa sera al ritrovo, che con parola inglese chiamano Club, sebbene ei fosse vago del gioco come il cane delle mazze, pure per non comparire tigna, gittò una magnanima moneta di cento franchi, con la magnanima effigie del magnanimo Carlo Alberto, sopra una carta del Faraone; nè più pensandoci s'imbrancò nella compagnia di piacevoli gentiluomini pigliando diletto dei loro ragionamenti. La carta puntata vinse una, due, tre volte e sempre; ormai la copriva un mucchio d'oro, e i cupidi giocatori, pure stringendosi alla vista della carta fortunata, smaniavano conoscere il giocatore che, improvvido o temerario, non sodisfatto di tanto favore, intendeva sperimentare le ultime prove. Molti occhi dei seduti intorno alla tavola stavano fitti negli occhi del banchiere, il quale sudava per la pena, dacchè forse, e senza forse, cotesta insistente e nemica guardatura lo impedisse di pigliare ad un tratto la fortuna per gli orecchi e rimetterla in carreggiata a favor suo, ovvero scemare il banco facendo scomparire la moneta di tavola: chiusa allo scampo ogni via: duello all'americana cotesto: e' bisognò sbancare. Il banchiere era tedesco, barone e cavaliere non so nè manco io di quanti ordini: uso a tenere banco nei ridotti di parecchi famosi Bagni di Europa, o solo o in compagnia di altri baroni quanto lui, o più di lui, non gli era occorsa mai disdetta pari a quella di cotesta sera: vuolsi però aggiungere, che nè manco erasi trovato mai sottoposto a vigilanza come cotesta sera. Forse la fortuna sentendosi libera di fare a modo suo intese vendicare in una volta ben mille offese: breve, il banchiere rimase sbancato: per conforto lo stropicciarono co' pettini da lino, per viatico gli diedero un bicchier di acqua fresca, e con inestimabile contentezza di tutta la brigata lo accompagnarono a casa più morto che vivo.

*

— Ma chi ha vinto? Chi è il vincitore? Su via si manifesti per potercene rallegrare con esso. — Così strepitavano da più lati, e tale levarono schiamazzo, che Omobono fu alfine costretto a porgere loro attenzione: udito il caso, placidamente favellò:

— La carta è mia.

E rinvenuto vero, i compagni gli si misero dintorno, astiandolo di sotto al panciotto, e di sopra accarezzandolo a rotta di collo: ma egli a ciò non badando, attese a raccogliere molto diligentemente la moneta, la quale noverata trovò sommare a parecchie migliaia di lire. Allora, senza rimoverla dalla tavola, vòlto ai circostanti con lieto viso li interrogò:

— Ed ora, che cosa abbiamo a fare di questa moneta?

E gli altri: — E come entriamo noi nei fatti tuoi? Tu l'hai vinta e tu goditela.

— No, non ha da esser così, — riprese Omobono — la farina del diavolo, dicono, che va in crusca; miriamo un po' se fra tutti noi troviamo maniera da cavarne un pane. Orsù, ognuno di voi dica la sua.

— Per me, — saltò su a parlare il cavaliere Faina, scrittore di un giornale malignamente buffone, noleggiato dagli sguatteri di Corte, e che però si chiamava pubblicista per la medesima ragione per cui le femmine di partito si dicono pubbliche — fonderei o piuttosto sussidierei un giornale, bene intesi del nostro partito.

Voi vedete da per voi quali orribili sdruci faccia ogni dì la demagogia nel consorzio civile; ad ogni passo aumenta di forze: vires acquirit eundo, giornali, e giornaletti pullulano su in maggior copia dei ranocchi quando piove in estate. Voi beneficati dalla fortuna avete a perdere più degli altri, legatevi pertanto, e con maggior concerto di quello che abbiate fatto fin qui: la marea monta; o che attendete per ripararvi, che ella vi sia arrivata alla gola? Noi pubblicisti mettiamo veglie, ingegno, opera e pericolo, voi opulenti ponete un po' del vostro superfluo per salvare il necessario: noi staremo sopra la breccia a combattere fino all'ultimo fiato, ma voi somministrateci le munizioni per durare nella battaglia.

— E i danari per giocare. Quanto hai perduto stasera al Faraone, pubblicista Faina? — si fece sentire una voce, ma prima che costui avesse potuto conoscere da cui si fosse partita, un'altra disse:

— Per me la impiegherei a celebrare tante messe pontificali nell'osteria.....

— No, marchese, meglio alla campagna, ci si mangia di migliore appetito.

— Accetto l'emenda, conte.

— O che le feste di ballo, hanno ad essere del tutto bandite? Badate alle scomuniche delle figliuole di Eva — osservava un vecchio peccatore, il quale per cagione di certe infermità, che si guariscono poco, e non si dicono punto, calzava scarpe di panno.

— Giovanotti, udite un mio consiglio — levata la destra favellò solennemente un senatore sgranato di fresco — che so di certo tornerà a tutti gradito, io per me destinerei cotesta somma a celebrare in questo anno con magnificenza straordinaria il giorno onomastico di S. M. il Re d'Italia: ed in memoria del fatto porrei una tavola marmorea sopra le pareti di questa sala, e.....

— Come non si hanno a mangiare e bere, per me sto a rifornire il Club di mobili e di tappeti nuovi — interruppe il devoto di Como.[16]

— Ed io propongo sovvenire il capocomico dell'Arena, perchè dia al popolo un corso di recite gratis, a patto che le sieno scelte per educarlo nel rispetto della proprietà e di noi altri nobili — disse un cavaliere, spiantato, protettore della prima donna che recitava all'Arena.

— Tutta roba buona, signori miei, tutte pensate d'oro; certo non sarebbe alle vostre proposte che si potrebbe applicare il proverbio dei polli di mercato: tuttavolta, con vostra licenza.... se me lo permetteste, ecco che cosa farei. — Narsete, — chiamò Omobono (che tale avea nome il custode del ridotto) e gli disse: — da questa somma, che io vi consegno, caverete lire cinquecento, e le verserete alla cassa di risparmio in testa della vostra bambina Lucia, perchè le servano come un principio di dote; domani me ne mostrerete il libretto. Delle rimanenti, mezze porterete all'ufficio della Società Operaia, e mezze a quello degli Asili infantili a nome del nostro Club come una debole offerta fatta da tutti i gentiluomini che lo compongono, e non se ne parli più. Miei signori, io mi sono accorto, che voi parlavate per provarmi, e poi mi avreste dato la baia; ho letto nei vostri cuori, e pongo pegno avere letto bene. Quanto a lei cavaliere Faina — soggiunse volgendosi al pubblicista — la non si confonda, il modo praticato da me giova meglio di un milione di giornali, che il popolo non sa o non può leggere, a insinuargli il rispetto alle persone ed alle sostanze nostre: chè egli più che non si crede compensa con infinita gratitudine un briciolo di bene ed anco di buon viso che noi gli facciamo: d'altronde io, e se non m'inganno anch'ella, signor cavaliere, appartenendo al popolo, è naturale che nutriamo per lui simili sentimenti, e c'industriamo persuaderli anche agli altri.

— Magnificenza di parole tonde! Ma sa ella, che se non modera l'abbrivo mi diventa di punto in bianco un san Crisostomo, aliter Bocca di oro? — esclamò il pubblicista Faina, allargando la bocca verso le orecchie: voleva ridere e parve lo avessero comunicato con una fetta di limone.

A cose nuove uomini nuovi predicano da mezzogiorno a tramontana, e i giornalisti sono novissimi, però mi raccomando spesso a Dio, che la più parte di loro non invecchi: per ordinario tu li sperimenti leggeri, pedanti e presuntuosi, e ciò per virtù degli scapestrati giudizi che ti spippolano lì per lì a occhio e croce, e per lo ufficio, che si pigliano di fare da aguzzini agli uomini politici, e da amostanti alle nazioni della terra: tuttavia non sarebbe giusto affermare che tutti sieno tristi, e ciò perchè taluni professano di buona fede i principii che sostengono, ed in tali altri, essendo peranche giovani, la natura non fu vinta dal costume; quelli però che si appellano umoristi, e fanno mestieri di buffoni, tieni addirittura per maligni: i ghiottoni si sono surrogati nella convivenza civile ai giullari di corte, i quali campavano di rilievi e di calci; siccome all' uomo che ride di Vittore Hugo avevano foggiato, per via di terribili cincischi, la faccia a perpetuo riso, così la nequizia deformò lo spirito del giornalista buffone alla rabbia dello scherno. O sia che costui privo d'amore e di sdegno contempli senza commoversi tanto gli eccelsi quanto i brutti fatti, o sia, che invaso da itterizia morale tutto asti e derida, vuolsi reputare sempre sozzo animale. Per me giudico i giornali umoristi addirittura postriboli dove bordellano le arti divine: della miseria della scrittura non tocco nemmeno, ma vi domando se vedeste mai della nobilissima arte del disegno menare scempio più miserabile di quello che si faccia in coteste carte? Poni per sicuro che il popolo dove più cestisce cotesta mala pianta od è insanabile affatto nella sua corruzione, o si trova lontanissimo dalla norma del vivere onesto. E se vinto lo schifo tu ti accosterai a considerare i menanti di quelle gazzette, troverai come la più parte di loro sia gente di scarriera, senza arte nè parte; arcatori da disgradarne i Parti di frecciatrice memoria; leccano e sgraffiano: fabbricanti di chiodi più che tutti i chiodaioli di Pistoia.

Adesso vi dirò le generazioni le quali forniscono principalmente le reclute della vituperosa milizia: i medici fuggiti più della morìa si convertono in giornalisti buffoni; i cerusichi, che non seppero cavare sangue senza stroppiare un uomo, giornalisti; i curiali, terrore dei clienti e cilizio dei giudici, giornalisti; il padre diviso dalla figlia per sospetto di libidine snaturata, giornalista; il marito cui tolsero la moglie per salvarla da traffico infame, giornalista; spie austriache che impararono dall'aquila, che servivano a divorare da due becchi; repubblicani, che sostennero la dignità del carcere fino col rubare l'olio del pubblico; garibaldini strenui espugnatori della cassa militare, tutti giornalisti buffoni, incliti sostenitori a capriole della monarchia costituzionale. — Uffici di giornali, magazzini di anime a nolo, come di vestiti da maschera. Quante fette vuoi di coscienza? Te le taglieranno sottili da disgradarne ogni fedele salsamentario fiorentino. Perchè andate cercando fuori di voi le cause del miasmo? Vi avete dentro lo avello.

Corrono ormai anni ben molti che noi flagelliamo queste infamie, e ce ne seppero malgrado anche i nostri amici facili ad accendersi al primo aspetto delle cose, e ci dicevano: essere la stampa l'arca dell'alleanza; chi la tocca muore; e la esaltavano per le virtù, che avrebbe dovuto avere, chiudendo gli occhi al fastidio che la rodeva fino all'osso; e così del pari della milizia, della magistratura, del sacerdozio, presidio un dì, oggi flagello. E certo io non sarei per acconsentire giammai, che mano straniera pigliasse a maneggiarmi la stampa: anco gli sparvieri coprono gli artigli co' guanti bianchi, anzi oggi principalmente gli sparvieri; ma perchè ella non pensa da se medesima a riformarsi? O piuttosto perchè non esercitano i cittadini rigido sindacato non solo sopra i giornalisti, ma altresì su quelli, che si versano nelle faccende politiche? Chi sei? Donde vieni? Quali i tuoi intendimenti? Quale la vita? Le opere quali? Come campi?

Nella vita privata non si deve entrare; all'opposto mi preme entrarci e ci entro. Deploro accettate nella società nostra certe regole, le quali affermano persuase dalla onestà ed invece giunsero a cacciarvele dentro i furfanti, necessitosi di avere una cappa comune con la gente dabbene: ogni uomo è galantuomo in abito nero e in guanti bianchi, tanto ai funerali quanto ai festini; e la gente dabbene si è lasciata fare. Il pensiero ci fa sudare come il piumino sul letto nel mese di luglio; così vero questo che paghiamo i giornalisti onde ogni giorno ci mandino a casa un pensiero bello e fatto, strambo, o no, poco monta, purchè ci ciottoli nel cranio, e ci suoni come il soldo nel bussolo al cieco, tanto, che paia non averlo vuoto. Slegate dunque i fasci delle bacchette, e tirate giù a scamatare di santa ragione deputati, senatori, ministri e sopratutto i giornalisti, finchè dalle loro giubbe esca fino l'ultimo scrupolo di polvere, per esaminare un po' di che qualità ella sia. Anco a rischio di apparire sazievole, io lo vo' ridire; tu non puoi essere ribaldo in casa e probo in curia. Senza libera accusa virtù pubblica non prova: accusa non provata puniscasi come calunnia; va bene, ma nei liberi reggimenti sia concesso, anzi sia lodato guardare in faccia un uomo e dire ai cittadini: badate costui è barattiere!

Popolo e patria e' sono sonaglioli che si attaccano ai muli per richiamare l'attenzione di cui passa; non date retta alla moltiplicità dei partiti, che si dimenano nei Parlamenti: i partiti si ristringono a due; quello che si è aggrappato alla pentola come Aiace Oileo allo scoglio, e l'altro che spasima di supplantarlo, però chi s'impanca guidaiolo non bada a qualità, cerca il numero; onde ti avviene sovente trovarti con maraviglia e con ribrezzo a lato di tale che tu avevi diritto di non patire per collega se non quando per crimini la giustizia ti avesse condannato in galera.

Perano tutte le disuguaglianze fra gli uomini, eccetto quella fra gli onesti e i furfanti.

Ma intanto che questo è di là da venire, perchè sopporti in casa i giornalisti scimmiotti? Perchè siedono alla tua mensa? Perchè gli inviti alle tue veglie?

Tu ti liberi in grazia di polveri insetticide dalla improntitudine delle mosche, dal fastidio delle zanzare, dalle trafitture delle cimici, e liberarti dai giornalisti scimmiotti[17] non puoi? — Non puoi, perchè non vuoi; e non vuoi perchè essi dilettano il peggiore dei vizi che guasta la parte femminina di casa tua, vo' dire la smania di malignare alle spalle altrui, e tu pure ci ridi.

Il giornalista umoristico, giullare in corte, sicario con la penna in piazza, panegirista di bellezze di rado vere e, se fabbricate, anche più, flamine delle foggie del vestire, storico delle pettinature, Mercurio di amori a levante e a ponente, il giornalista giullare è diventato la trichina[18] della società.

Il cavaliere Faina giornalista buffone, deluso nella speranza che parte della vincita fatta da Omobono scendesse, come rugiada al cespite dell'erba inaridita, a rinfrescargli la tasca, e parendogli per giunta essere stato scorbacchiato da lui, non si potè tenere da sfogare il suo maltalento schizzandogli addosso il suo veleno: lì pronto il giornale, e la occasione fa l'uomo ladro; quindi prese a straziarlo di straforo con motteggi quanto perfidi altrettanto calunniosi: menò la frusta in tondo contro il nonno, il padre e la madre, massime contro questa alterando taluno episodio della onestissima avventura del suo matrimonio con Marcello. Omobono, come colui che, eccetto la Gazzetta di Milano, non leggeva giornali, non si dava per inteso di tutto quel tramestio del cavaliere Faina, con inestimabile stizza di questo, che vieppiù giudicavasi disprezzato da Omobono, e con la stizza e la fiducia dell'impunità gli crebbe la insolenza, sicchè ormai passava il segno; eppure non gli bastando la scrittura commise la sua rabbia al disegno.

La litografia che comparve nel giornale rappresentava una di coteste chiatte, le quali dal servizio che prestano nei porti pigliano nome di cavafanghi: per esse si cala giù a fittone una cucchiara di ferro dentata, col mezzo di catene, la quale quando è piena di molticcio, per via delle medesime catene dipanate sopra una ruota si riporta a fior d'acqua; parecchi uomini pongono in giro la ruota, camminandoci dentro a modo che si salgono le scale, e ciò in virtù di traverse su le quali mettono i piedi: prepongonsi a questo travaglio i condannati alla galera; ora fra i galeotti a girare si vedevano tratteggiati Omobono nonno ed Omobono nipote, uno sopra, l'altro sotto, con la leggenda: Rinforzo alla vecchiezza.

Dobbiamo confessarlo a lode del vero, di quanti videro a Milano la infame litografia non ci fu alcuno che non la vituperasse, e non ne rimanesse altamente indignato. Gli amici del giovane Omobono si ristrinsero insieme per concertarsi su quello che si avesse a fare; intanto di comune accordo bandirono il cav. Faina dal Club; poi a Ludovico Anafesti, il quale fra gli altri giovani pareva che prediligesse, commisero di tastare un po' l'amico intorno le disposizioni dell'animo suo. Di fatti era così; appena Omobono e Ludovico si erano conosciuti, uno s'innamorò dell'altro, secondo il comune della gioventù, che subito accende e subito spegne amicizie e fiammiferi: però talune durano, e questa pareva volere essere di quelle. Pertanto, senza porre tempo fra mezzo, chè in queste materie lo indugio piglia vizio, Ludovico si reca da Omobono, cui, avendo trovato affatto inconscio della persecuzione del giullare giornalista, cerziorò per filo e per segno, mettendogli per ultimo sott'occhio la litografia, che chiamano caricatura. Omobono lesse e considerò i giornali; un lieve pallore passò come ombra sopra le sue guancie, poi piegati con pacatezza i giornali, Ludovico annuente, se li ripose in tasca.

— Ed ora che pesci abbiamo a pigliare con cotesto mascalzone?

— Ma.... lascio deciderlo a te; — rispose Ludovico — intanto sappi che i tuoi amici hanno fatto il debito loro, cacciando via dal Club cotesto cattivo soggetto.

— Sarebbe stato meglio non ammetterlo mai. Adesso che lo abbiamo accolto, e sopportato in nostra compagnia, sarebbe mestieri trattarlo da gentiluomo dabbene, e a questo modo operando non lavo lui e mi insudicio io.... e questo vedi, non è il più grave dei malanni, che ci porti la usanza dei ribaldi. Basta ci penserò: ci rivedremo stasera al teatro.

— Bada, stasera vado alla Scala; ci è opera nuova; ne dicono mirabilia; puoi figurarti che piena!

— E ci è caso incontrarci il cavaliere Faina.

— Anzi di sicuro, perchè egli scrive la cronaca teatrale in parecchi giornali, e mi hanno assicurato, che talvolta nel medesimo giorno ha levato a cielo o messo allo inferno la medesima cantante, secondo che lo pagavano i suoi protettori o i suoi malevoli.

— Me ne dispiace, perchè io sono uomo di pace, e non vorrei che nascessero scandali — disse Omobono con faccia e voce mansuete.

— Oh! quanto a questo sta di buon'animo, che io ed i tuoi amici ci troveremo lì, e provvederemo al bisogno.

I due amici si strinsero le mani, e si dissero addio. Ma le ultime parole di Omobono erano rimaste come una lisca in gola a Ludovico, molto più che per le nequizie del Faina non lo aveva veduto andare nei mazzi come pure si aspettava; sicchè un pensiero molesto prese a trottargli per la testa: sarebbe vile Omobono?

Capitolo VI. IL GIORNALISTA.

Immensa folla si accalca alla porta del teatro della Scala, dentro e fuori folgoreggiante di lumi; il fiore di quanto Milano in sè raccoglie di nobilea e di eleganza si vede stipato nell'atrio, e diviso in due ale nel cui mezzo le donne leggiadre ed anche le non leggiadre hanno a passare per sostenere il bersaglio delle occhiate ardenti, delle parole accese o mordaci; imitatrici profane di quel gran santo che fu San Pietro Igneo, il quale traversò due cataste di legna infiammate senza che paresse fatto suo, anzi, si dice, che giunto a mezzo, aprisse la scatola e pigliasse una presa di tabacco.

Sospiri tagliati co' denti non anco finiti di nascere, ammicchi concordevoli o concordati, la famiglia infinita dei sorrisi, o tutti agri, o tutti dolci, ovvero agrodolci e la non meno infinita famiglia degli sguardi quale foggiato a punto interrogativo e quale ad esclamativo; insomma di quanto ci aveva da essere non ci mancava nulla. Allo aspetto di tanta giocondità avresti giurato che Venere ci avesse portato non già il suo cinto, bensì sovvenuta dalle tre Grazie, una balla dei suoi doni, ed ora ognuna di esse preso il pellicino ce lo scotesse fino all'ultimo vezzo. Delizie, venustà, lusinghe, allettamenti, carezze turbinavano insieme confusi, come gli atomi traverso i raggi del sole.

Tra gli spettatori primeggia il cav. Faina, messo di tutto punto; abito nero, guanti perlati, panciotto bianco come la sua coscienza e cappello nuovo di zecca: ogni cosa a credenza, e così gli stivali inverniciati, e le calze, e la camicia altresì: costui coccoveggiava allungandosi, ripiegandosi, facendo lazzi, saltetti e smorfie a modo di civetta quando chiama le lodole sul vergone: questo appellava per nome, quell'altro stringeva pel braccio, a tutti dava del tu, usava ed abusava della pazienza altrui ostentando una familiarità alla quale egli non aveva certamente diritto, sfacciato come.... un giornalista sfacciato (che più in là non si può ire). Nello apogeo della sua gloria, ecco, pari allo spettro della maga di Endor al Re Saulle, sorgergli davanti improvviso Omobono, il quale aveva potuto giungere inosservato fin presso a lui, nascosto dietro un sacramento di matrimonio diviso in due grossi volumi, moglie e marito. Egli primo, stese la mano ad Omobono, gli augurò la buona sera e gli chiese:

— Come stai? — e qui gli diede un colpetto sulla pancia, e sorridente soggiunse: — Non ti si vede mai. O che saresti innamorato? Caso mi apponessi, confidati allo amico, che Tito nol saprà; ti servirò di coppa e di coltello: tu sai, che io con gli amici non bado a buttarmi nel fuoco.

— È vero, natura il fece e poi ruppe la stampa; giusto, avevo bisogno di confidarle qualche cosa.

— Eccomi qua ai tuoi comandi.

E così favellando entrambi si fecero fuori della folla. Allora Omobono, con voce mite ed umile sembianza, cominciò a dire:

— Caro mio, non più tardi di stamani gli amici miei mi hanno fatto conoscere come la S. V. da un pezzo in qua si pigli il capriccio di lacerare a morsi la mia reputazione e, non contento della mia, laceri quella di tali che per dovere e per amore a me premono troppo più di me.

— Tattere! Tattere! amico mio.

— Tali non paiono agli amici, e veramente nè manco a me, nè credo che la madre mia ed io possiamo averle somministrato motivo di conciarci come ella fa.

— Ma qui non c'entra nè morso, nè strazio. Noi altri pubblicisti possediamo a titolo di arte gli universi dominii del cielo e della terra, ed anco dello inferno: o che vuoi tu mettere i confini al pianto ed al riso? Noi ridiamo di tutto, noi facciamo ridere di tutto, e voi, o squallidi mortali, esaltateci, imperciocchè, senza di noi, voi fiottereste perpetuamente come bambini sculacciati.

— E di questo disegno, signor cavaliere, che avrei io da pensare?

— Prima di tutto ch'egli è un disegno, e poi o che ti frullerebbe il grillo d'immaginare che fosse stato fatto per te? Già le persone disegnate non rassomigliano punto te, nè il tuo onorevole avo, al quale prego presentare i miei cordiali saluti, e dire che domani o posdomani passerò da lui per proporgli un negozio.... un negozio grosso da piantarci in mezzo la forchetta ritta.... come nel rosbiffe, che si ammirava l'altra sera al buffet del principe Parpaglione.... Che festa! caro mio, che festa! E tu non c'eri.... caro mio... dove diavolo ti ficchi? Tu bello, tu ricco, nato vestito per far furore, ma non ti si vede mai....

— Signor cavaliere, andiamo al grano, come diceva l'ebreo Marini, di questo disegno che cosa devo pensare?

— O non te l'ho detto, che tu sia santo; il disegno non fu fatto per te; non ti rassomiglia per nulla; se taluno te lo afferma, ti dà la baia; e puta il caso che qualche rassomiglianza ci fosse, sarà tutto per accidente.... O non ti basta? A sorte saresti di quelli che vogliono la botte piena e la moglie briaca?

— Per me, la si figuri, sarebbe proprio un gusto rimettermene al suo savio parere, ma gli amici miei non la intendono a questa maniera; guardi un po' se le sovvenisse qualche ragione di quelle buone che valesse a persuaderli, che io ho un diavolo per capello, e darei a patto una mano per uscire da questo ginestraio; — e tutto ciò Omobono profferiva ad occhi dimessi, e con voce tremante.

L'altro, pensando averla a fare con un giovane dal sangue di piattola, rispondeva smargiasso:

— La stampa è libera come l'acqua del mare, come l'aria del cielo: palladio della libertà e della civiltà la stampa; guai a cui la tocca! Ci si ruppero i denti principi grandi e teste da corona: cannoni Krupp, mitragliatrici, schioppi dreyse, remington, chassepot, armi ed armati che ci urtarono dentro ci s'infransero come onda fra gli scogli. Da Dio e dalla nostra coscienza noi altri giornalisti abbiamo ricevuto un mandato sacro; a noi, sacerdoti delle sorti umane, e non ad altri, spetta il giudizio del come lo dobbiamo eseguire e del limite estremo dove possiamo spingere il dileggio, il biasimo, la rampogna e l'accusa per la tutela della pubblica virtù. Che se il privato cittadino si arrogasse la facoltà di mettere i cancelli alle nostre prerogative, a seconda dei fumi del suo orgoglio, dei ghiribizzi del suo amor proprio, o del bisogno di tenere le sue colpe celate, allora potremmo sonare l'agonia alla libera stampa. Queste sono le ragioni, che offro a te, e se non ti garbano rincarami il fitto, e incaricandoti di presentarle anco agli amici comuni aggiungerai che se si sentono far male si scingano.

— Mi scusi, cavaliere, ma non mi quadra; ella ha troppo ingegno per non comprendere che l'uomo non può costituirsi giudice e parte. La giurisdizione che si arroga il giornalista sarebbe eccessiva, si figuri un momento che io non ci volessi sottostare, allora?

— Io ti ho già chiarito: chi non la vuole la sputi.

— Ecco in questo caso mi parrebbe che la questione si avesse a definire così: in libera stampa schiaffo libero.

E ratto levando la mano gli lasciò andare sopra la faccia il più solenne musone che mai sia stato dato al mondo, dopo che ci nacquero una guancia sinistra e una mano destra; subito al cavaliere si tumefece la gota, sotto l'occhio il sangue gli diventò nero, e tinta in bel vermiglio sopra la pelle gli rimase la impronta delle cinque dita: accecato di rabbia e di vergogna, vinta su quel subito la paura, il Faina si avventò al collo di Omobono, se non che questi prevenendolo, forte lo abbranca pel petto, e con impeto irresistibile lo scaraventa contro la parete: il cavaliere pubblicista fu visto, dimenando le braccia a guisa di ale, correre presto presto sulle calcagna allo indietro, finchè perduto lo equilibrio stramazzò supino al pavimento, dove scivolando sul dorso non si ristette se prima non ebbe battuto una sconcia capata nel muro, con danno irrimediabile del cappello preso a credenza, il quale gli si rincalzò fino al mento.

Comecchè sbalordito dallo inopinato accidente, tuttavia aiutandosi con le braccia si mise subito a sedere, tentando rabbiosamente tirarsi su il cappello, ma o sia che lo facesse senza discrezione, o fosse debole la stoffa, la tesa gli si strappò nelle mani e il cilindro gli rimase sempre ficcato nel capo, e di più ardua estrazione. Fra i tanti che sghignazzavano si trovò un pietoso il quale, desiderando che cotesto strazio cessasse, si mise a cavalcione sul capo del Faina, e preso con due mani il cilindro s'industriò a cavarlo fuori; in cotesto atto ei presentava la figura del servo il quale, stretta fra le cosce la bottiglia, si sforza ad estrarne il turacciolo; sicchè quando il Faina, rimosso il cappello, tornava a rivedere le stelle, ovvero i lumi, udì dintorno queste voci di scherno commiste alle risa universali: — Non lo sturare, chè altro che veleno non ne può uscire....

— L'hai tu visto? Egli era proprio dodici once buon peso.

— Altro che dodici once! Per me lo giudico pesato sulla stadera dell'Elba, che ha la prima tacca sul mille.

— A quest'ora il vangelo dei cinque santi lo ha da sapere a mente; ne porta impressa la effigie sul muso.

Sovvenuto, il Faina si rimise in piedi; il suo cuore zufolava di rabbia peggio di un gruppo di vipere in amore, se accada che taluno con sasso, o con bastone le disturbi: gli occhi aveva pregni di lacrime lì lì per isgorgare, ma l'ira glie le teneva sospese, così talora la tramontana impedisce alle nuvole ammassate dallo scirocco rovesciare sulla terra l'acquazzone; ma uscito appena dal teatro egli pianse.

Che pianse egli mai? Pianse il cappello nuovo nabissato, pianse il corpetto, la veste e la camicia ridotti in brandelli, e intanto più amaramente pianse, quanto non avendoli pagati dubitò poterne ormai sostituire altri a credenza; pianse i pranzi pericolanti e le cene che dubitò perdute, e soprattutto pianse la cessata o per lo manco diminuita facoltà di frecciare gli amici... insomma ogni cosa pianse eccetto l'onore defunto; e a diritto, chè non avendo avuto occasione di celebrarne il battesimo, nè meno poteva lamentarne i funerali.

Frattanto non trovando meglio a fare mandò giù un paio di ponci, e si mise a letto.

— Magari! — esclamò svegliandosi di soprassalto il cavaliere Faina, il quale sul far del giorno si era sognato come Omobono trito e contrito si fosse recato a casa sua per chiedergli scusa, e profferirgli generoso risarcimento dei danni: in sostanza se la fosse andata a finire così, avrebbe raggiunto lo scopo propostosi, allorquando aveva preso a spunzicchiarlo col giornale, con uno schiaffo di giunta, non previsto nel programma; ma si sa, le faccende non riescono a pelo, e i prudenti si contentano riceverle a taccio. Adesso vedremo se il fatto rispondesse alle fantasie del cavaliere Faina.

La prima visita fu, spuntato appena il giorno, degli interessati nel giornale il Gingillino, amicissimi suoi, i quali gli spiattellarono crudamente come essi non lo potrebbero più oltre tenere collaboratore nel giornale, dove egli non avesse vendicato lo insulto patito nella sera antecedente; certo, poco loro premevano le bazzecole di soddisfazione e di onore, e capivano che al Faina doveva importarne anche meno, ma tanto egli quanto gli amici suoi non potevano rimanere indifferenti alla certezza che, senza un giusto riparo il giornale sarebbe caduto in tal discredito da non poterne vendere da ora in poi nè manco una copia. Per queste ragioni fu deliberato che il Faina manderebbe un cartello di sfida ad Omobono, e quanto più presto meglio, affinchè nel pubblico si bociassero in un medesimo punto la ingiuria, e il risarcimento, e s'imparasse da tutti che con gli scrittori del Gingillino non si giocava di noccioli. Il Faina con la guancia che pareva una melanzana si lasciava fare, stillando ragioni nel suo cervello per persuadersi che Omobono fosse un poltrone: gagliardo senza dubbio egli era, e la sua gota ne sapeva qualche cosa; ma siamo giusti, lo schiaffo a fin di conto glielo aveva dato a tradimento e dietro provocazioni che avrebbero tratto fuori dai gangheri anco Giobbe, e poichè gli tornava credere che Omobono si sarebbe mostrato di facile contentatura, così lo credè.

Pertanto i suoi testimoni, o padrini, o secondi che si abbiano a chiamare, si condussero a casa di Omobono, il quale, udito appena chi fossero e perchè venuti, disse loro:

— Sta bene; fra un'ora i miei amici verranno a conferire con le signorie vostre. — E senz'altre parole li accomiatò; senonchè sul punto che essi stavano per uscire li interrogava:

— Chiedo perdono, signori, ma dove i miei testimoni avranno l'onore di trovarli fra un'ora?

— All'uffizio del nostro giornale.

— Davvero, avrebbero potuto indicarmi luogo meno indecente; ma non fa caso, a rivederci fra un'ora.

I padrini sentirono la trafitta, ma riputarono conveniente dissimularla, per non accendere una seconda querela. Non che un'ora, ma appena n'era trascorsa mezza, che eglino videro comparirsi davanti il marchese Sagrati, colonnello di cavalleria riposato, e il contino Anafesti, ambedue in fama di solenni amatori di simili scontri; dalla quale cosa i testimoni del Faina non trassero favorevole augurio. Ricambiatisi i saluti, più che con le parole col capo, gli uni contro gli altri piegandolo a modo dei montoni, che si accingano a cozzare fra loro, il signor Pancrazio, come il più anziano dei secondi del Faina, pigliandola alla larga per iscoprire marina, incominciò a deplorare la barbara costumanza del duello, alla quale è forza, che anco il buon cittadino si sottoponga come a giogo odiatissimo per colpa di non avere o voluto, o saputo, o potuto fin qui istituire un tribunale di onore, che possedesse tale reputazione da fare regola nel mondo; e via e via sopra questo metro sciorinando tutti gli argomenti, i quali per essere stati detti e ridetti hanno messo la barba bianca; e i padrini di Omobono zitti.

Allora il signor Pancrazio, che la pretendeva a sottile, si provò a stringere il cerchio aggiungendo: che gli andava proprio il sangue a catinelle, nel considerare come si trovassero al cimento di tagliarsi la gola due egregi cittadini, fiori di galantuomo, l'uno pubblicista, che tanti servigi ha resi, e potrebbe tuttavia rendere alla causa della libertà e della civiltà, nonchè della umanità, padre di famiglia, servizievole, letizia delle liete brigate; l'altro giovane erede d'immense ricchezze, alacre, solerte, stoffa da cavarne un finanziere coi fiocchi, destinato a sostenere una brillante carriera in Società; e «come a me cuoce il presagio di tanto guaio, vado persuaso, che cuocerà anche ad altri»; ed i padrini di Omobono duri.

E poichè, tastato il terreno il signor cav. Pancrazio Luridi (che tale aveva nome e cognome il padrino del Faina, ed era cavaliere anch'egli), conobbe come bisognasse venire addirittura a mezzo ferro, onde non senza un qualche impeto esclamò:

— Debito sacrosanto dei padrini, imposto non solo dalla religione, ma eziandio da ogni norma del vivere onesto, è procurare con ogni estremo conato, comporre gli screzi ed impedire lo spargimento del sangue e la perturbazione delle famiglie. Tale almeno fu sempre lo scopo che si proposero tutti quelli che si vituperano col soprannome ignominioso di moderati, epperò non dubitare che i democratici volessero rimanersi da seguitarli sopra questo sentiero..... ma come dic'egli il proverbio? Alla svolta ti provo.

— Questa è una botta diritta per noi — masticò fra i denti il giovane conte, e si accingeva a rendergli pan per focaccia, quando il compagno lo trattenne osservandogli che a lui come più attempato stava rispondere: e ciò fece con bellissimo garbo, levatasi prima una carta di tasca:

— Voi dite unicamente, cavaliere Luridi, e tanto io partecipo i vostri degni sensi che nel presagio, che o da voi o dal vostro egregio compagno mi sarebbero tenuti siffatti propositi, aveva preparato un bocconcino di dichiarazione, la quale, dove il vostro signor primo non trovi difficoltà a sottoscrivere, darà di un tratto sopita ogni querela.

— Sentiamo, sentiamo, e quando sia osservato il decoro...... la convenienza del mio signor primo, non mi tirerò certamente indietro dallo adoperarmi perchè venga da lui accettata.

Così il Luridi cavaliere e l'altro secondo, che non era cavaliere, ma meritava esserlo, ribadivano il chiodo:

— Certo s'intende, salvo onore del nostro signor primo, e senza pregiudizio delle dovute riparazioni.

— «Io sottoscritto (dopo avere spiegato il foglio, lesse pacato il Sagrati) cavaliere Luigi.....» Credo?

— Appunto, Luigi.

— Figlio?

— Di Ambrogio.

— Morto, o vivo?

— Morto.

— «... del fu Ambrogio Faina, nella mia qualità di gerente responsabile del giornale intitolato il Gingillino, di mia certa scienza, e libera volontà, dichiaro avere ingiuriato villanamente, ed a torto, il signor Omobono, del vivente Marcello Onesti, e sua famiglia con disegni e scritti nel mentovato giornale più volte; lo prego a volermi perdonare come cristiano e come cittadino, e lo supplico inoltre, nonostante la mia provocazione, di mandare a monte il mio cartello di sfida, considerandolo come non avvenuto ad ogni effetto di ragione. Milano questo dì, ecc......» — Dopo che voi, signori, lo avrete fatto segnare da lui.....

— Basta, basta, che ce n'è d'avanzo. Comprendo, signor colonnello, che a voi è piaciuto divertirvi alle nostre spalle.

— Mi maraviglio di voi, signor cavaliere; io non ho la pessima usanza di pigliarmi gioco di chicchessia, massime in occasioni tanto solenni. E poichè vi abbiate pegno che io parlo da senno, vi accerto addirittura, che non sarò mai per accettare dichiarazione, la quale anche di una sola virgola differisse da questa.

— Com'è così andiamo innanzi: rimane inteso, che al mio primo appartiene la scelta delle armi.

— Adagio, chè ho fretta, cavaliere — soggiunse il colonnello — la scelta delle armi al contrario spetta al mio.

— Oh! quanto a questo poi non cedo.... — esclamò vivacemente il Luridi, lieto nella speranza gli si parasse davanti un attaccagnolo, onde uscirne pel rotto della cuffia, e l'altro:

— La è chiara come l'acqua. O scusi, chi provocò il primo? Chi toccava il cavaliere Faina? Chi gli badava? O non dettò egli le ingiurie? O non consentì egli che l'infame disegno nel suo giornale si pubblicasse?

— Questo non è provato, mentre lo schiaffo è chiaro e lampante; inoltre se le cose allegate costituiscano o no ingiuria vorrebbesi discutere e provare, mentre lo schiaffo è schiaffo in tutte le cinque parti del mondo.

— Eh! in coscienza non potrei dire diversamente, ma tanto è, la provocazione mosse dal cavaliere Faina, tutto al più potrei, sebbene a malincuore, convenire per la parte del mio primo esservi corso eccesso; ora voi, signor cavaliere Luridi, che siete versatissimo in questa maniera negozi, voi sapete come si proceda in simili casi; se ne rimette la scelta alla sorte.

— No davvero, qui non ci cade dubbio; la scelta dell'arme va de jure al mio primo.

— Cavaliere, pigliate un granchio.

— Marchese, prendete un marrone.

— Io insisto.

— Ed io non mi ricredo.

— Io pure — aggiunse facendo bordone il compagno del cavaliere Luridi.

Allora il contino Anafesti, impetrata licenza di parlare, disse:

— Per commissione speciale del mio primo, cedo all'avversario la elezione dell'arme.

— Dunque la spada.

— E la spada sia.

— A tutto sangue; — rincalza il Luridi — importa che una buona volta si sappia che i duelli per burla si hanno a smettere.

— Voi avete un sacco ed una sporta di ragioni; tale fu la usanza dei nostri vecchi, e perciò essi nei duelli facevano portare le bare.

— I riposi poi....

— Che riposi? Di riposi non si ha neanche a parlare.... finchè hanno fiato stieno col ferro in mano.

— Pure se volessero sostare....

— A che pro? Tanto il duello non è all'ultimo sangue? — Più presto si ammazzano, e più presto finisce la storia.

— Ma gli è di rubrica....

— Non si stia a confondere, tanto alle prime botte s'infilano ambedue, come succede fra quelli che non sanno maneggiare la spada....

— Non sa maneggiare la spada? Avverta bene, marchese, che il cavaliere Faina ha fatto stare al canapo anco il Parise di Napoli....

— Tanto meglio; ammazzerà più presto il suo avversario. Dunque lo scontro a domani....

— Domani è troppo presto....

— Le cose lunghe diventano sempre serpi; e lo indugio piglia sempre vizio.

— Domani è presto; vogliano rammentare che il cavaliere Faina giace tuttora infermo a letto.

— A cagione dello schiaffo?

— A cagione dello schiaffo, che in breve, non dubitino, sarà lavato col sangue....

— Potrei sbagliare, veh! ma per mio giudizio, — osservava il colonnello, gli farebbe meglio uno empiastro di semi di lino. Basta, fissiamo senz'altro sabato mattina: allo spuntare del giorno, se me lo permettete, manderò la mia carrozza a pigliarvi, e lo credo prudente, per non mettere tanti a parte del segreto: noi staremo ad aspettarvi fuori di porta Ludovica. Le armi troveremo nella villa dello amico il quale ce la presta volentieri per terminare la contesa; procurerò ci si trovi anco un cerusico, e se volete condurne un altro di vostra fiducia anche voi, padroni. Sta bene così?

— Approviamo.

— A rivederci a sabato.

*

— Maledetta questa vita da cane! — esclamò il questore cavaliere Speroni, svegliato innanzi l'alba dal suo cameriere, e pieno di rovello gli domandò:

— Che ci è egli di nuovo?

— Ecci un signore che ha il nastro di cavaliere sul petto ed uno empiastro al viso, il quale fa istanza per parlare a vostra signoria per cosa di grandissima premura; da questa carta vedrà di che si tratta.

— Ho capito — soggiunse il questore, gettato appena l'occhio sulla carta, la quale per ogni buona cautela era stata posta dentro una bolgetta sigillata; — digli che passi.

— O cavaliere, siete voi? Che novità ci portate? Accomodatevi e informatemi presto di che cosa si tratti.

Qui il Faina prese ad esporre a modo suo il caso successogli con Omobono, ed il questore, che già lo sapeva a mena dito, gli diede spago e lo lasciò dire. Quanto la calunnia sa immaginare di più sfrontato nei suoi parossismi di rabbia, e la perfidia di maligno il Faina s'ingegnò insinuare nell'animo del questore a danno di Omobono e dei suoi secondi: si chiamò vittima d'infame tranello; i suoi padrini soperchiati avere dovuto accettare per arme la spada, nel maneggio della quale andava celebre il rompicollo del suo avversario: così tramato il suo assassinio, dov'egli non ci avesse posto riparo, avrebbe avuto il suo compimento.

Allora il questore, senz'altre parole, preso il suo stratto segnò dietro dettatura del cavaliere Faina: «sabato.... all'alba.... porta Ludovica.... carrozza.» Scritto ch'egli ebbe, aggiunse:

— Vedete, cavaliere, per riconoscere meglio la carrozza, procurate abbassare le tendine da ambe le parti; sarebbe bene, che portaste con voi qualche arme, così piglierebbe più colore il negozio, e porgerebbe ragionevole appiglio alla polizia per procedere allo arresto: andate e vivete tranquillo, che alle mie mani non succederanno guai: però da quello amico che mi professo esservi vi avviso a temperare la vostra penna; il troppo stroppia, e il Governo va servito discretamente; ecco voi avete preteso farmi apparire i signori dei quali testè mi favellaste come demagoghi e sovvertitori della monarchia, mentre questo non è ed io li so indifferenti, e a noi ci basta: intanto da parecchie settimane mi avevate promesso mettermi in mano la trama di una setta repubblicana, e fin qui menate il can per l'aia, esponendomi al rischio di scomparire col prefetto e col ministro.

— Eh! caro mio, io l'ho da fare con merli accivettati; però sto lì lì per gettare il giacchio, e farne una retata.

— Orsù via sbrigatevi, che ben per noi; comecchè questi benedetti deputati sembra che vogliano rubare agli ebrei il mestiere di tosare le monete, pure i fondi segreti bastano sempre a ricompensare i servizi importanti. Ed ora, cavaliere, lasciatemi riposare un altro poco, che stanotte non ho chiuso un occhio. Addio, cavaliere.

— Cavaliere, addio.

*

Nel riferire, che i testimoni fecero ad Omobono il successo e i patti del duello, i quali furono da lui facilmente approvati, tanto non si potè tenere Ludovico, che non gli dicesse:

— Sentimi, amico, Dio sa se ti abbiamo servito e ti serviremo di cuore, ma a favellarti aperto ci tormenta un rimorso, ed è di avere accettato con troppa correntezza la spada per arma della sfida, perchè micidialissima se la tratta il coraggio, e peggio se la paura: spinta dal braccio e abbrivata dal moto della persona trapassa come ago, e poco ferro nel cavo del corpo basta ad operarvi ferite insanabili: ora per nostra quiete dimmi, a parare ti senti capace?

— Tra bene e male spererei. Un dì mi dilettai a tirare, e il maestro Filippo mi assicurava trovarmici disposto, ma il maestro, come capisci, era interessato a che non ismettessi; pure, che io deva avere disimparato affatto non crederei.

— Proviamo un po' se ti piace; hai in casa i fioretti?

Omobono andò pei fioretti, e ritornato ne presentò uno a Ludovico, il quale con elegante prestanza si pose in guardia aspettando lo assalto; ma Omobono avendogli giustamente osservato che, se voleva provarlo alle parate, toccava a lui essere assalito, non già assalitore, Ludovico prese ad investirlo con impeto. Le industrie del gioco egli adoperò tutte; anzi un cotal poco stizzito per incontrare maggiore contrasto che non aspettava, raddoppiò di solerzia, e di ardore: però invano, tantochè rifinito di forza voltò la punta del fioretto a terra esclamando:

— Ma siamo a cavallo, laudato Dio tu sei un Marte..... un professore proprio di cartello.

— O non potrebbe darsi, scusa ve' Ludovico — osservò il marchese Sagrati — che a te ne avessero insegnato di molto, ma tu ne avessi appreso poco?

— Bene, fa una cosa, lascialo riposare e poi prova tu?

— Oh! io non mi sento stanco — disse Omobono, ponendosi nuovamente in guardia. — Colonnello, ai vostri ordini.

Ma il colonnello si era dimenticato dei suoi anni, mentre questi non si erano punto dimenticati di lui; però in breve soffiava come un mantice, e si sentiva bagnato fino alla camicia; comecchè dallo assalto passasse con molta disinvoltura alle parate, pure in un bacchio baleno fu toccato due volte.

Jam fuimus Troës! — tra sorridente e mesto disse il dabbene uomo, abbassando il fioretto — però ti esorto ad esercitarti con Ludovico fino a sabato; e se allora il Faina non manca, vivi tranquillo, che tu gli darai la giunta della derrata.

— Come, colonnello, — interrogò Omobono — dubitereste voi che egli venisse?

— Eh! caro mio, a questi lumi di luna non per nulla si è cavaliere.

*

Il tempo, di cui il bulimo non si attuta mai, divorato appena il venerdì, si era messo in tavola il sabato, ed a stento un po' di bruzzo faceva capolino dalla parte di oriente, quando la carrozza, giusta il convenuto, si fermò all'uffizio del Gingillino; salirono in essa il Faina (nonostante ogni dimostrazione degli amici, carico di un fascio di spade e di sciabole avute in presto dalla questura) e i suoi padrini: prima cura del pro' cavaliere fu abbassare le stoie, e ciò fu notato anco dal cocchiere, il quale col capo accennò di approvare; chiuso lo sportello, via a corsa. Adesso parve al Faina, che s'ingegnava sbirciare gli oggetti dalle tendine scostate, di essere giunto alla porta, e si apponeva in questo, che ad una porta egli era, sicchè con un gran battere di cuore aspettava la fermata, la intimazione dello arresto et reliqua: pareva a lui cotesto suo tiro magnifico, come quello che lo cavava fuori dallo impiccio anco con onore agli occhi dei suoi testimoni, tenuti al buio di quella tale sua visita al questore.

— Carrozza Sagrati! — gridò il cocchiere passando di tutta corsa sotto la porta.

— Lascia passare, — rispondeva lo ispettore dal casotto delle guardie doganali: e il cocchiere fasciando di una brava frustata il collo dei cavalli, proseguiva più veloce che mai.

— Come! Come! Come! — guaiava il Faina. — Che tradimento è questo?.... non dovevano fermare la carrozza? Non frugarla? Massime così di mattino?

Ed il Luridi a posta sua osservava:

— Certo, fa specie anche a me, ma lo ispettore sarà stato imbeccato dal marchese.

— Non si doveva lasciare imbeccare: qui sotto gatta ci cova: gli ordini erano precisi..... m'informerò bene io dello ispettore..... lo perseguiterò a morte nel giornale e fuori, e giuro a Dio non mi fermerò finchè non lo abbia ridotto ad accattare insieme alla sua famiglia.

— Lascia stare il cane che dorme; come sai, danno del pubblico non ce n'è stato, chè roba da gabella non portiamo noi; e badiamo a non farci altre stincature, — parlava il Luridi, fiutando l'aria, ormai ritroso di spencolarsi più oltre pel Faina; il quale si coperse con le mani la faccia bagnata di freddo sudore, e maligno com'era incominciò a sospettare della fede dei compagni: — Poveri (egli abbacava nel suo cervello) crivellati da debiti, essi si vendono per necessità, ed anco per boria di comparire, però che essi si sentano così abbietti, che quando taluno li ricerca in compra, se ne tengano come di onore. Ah! li disegnava a pennello colui che disse: «Giuda vendè un Cristo per trenta denari, ed essi per un denaro solo venderebbero trenta Cristi: dove mai salissero sur un fico, non ci monterebbero già, come Giuda, per impiccarcisi, bensì per cogliervi i fichi maturi e mangiarseli.»

E così avrebbe chi sa per quanto continuato, se la coscienza, come il cane da pastore insegue il lupo, non gli correva dietro gridando: e tu, mascalzone, non sei dei loro?

*

— Bene arrivati! — disse il marchese facendosi allo sportello, il quale aperto, ed aiutati i sopraggiunti a scendere, soggiunse: — Favoriscano qui in casa; l'aria punge stamane, e penso non tornerà loro sgradevole confortarsi lo stomaco con una refezioncella.

Assentirono, in silenzio si ristorarono, ed in silenzio si condussero poi sopra un prato dietro la villa. Il Faina ed i compagni suoi non si diedero altramente pensiero delle armi che avevano seco loro portate, onde il colonnello si trasse innanzi con un mazzo di fioretti senza bottoni, forbiti e nuovi, affinchè i testimoni scegliessero o facessero scegliere al Faina; scelsero essi, che costui se ne stava come una cosa balorda; poi uniti insieme esaminarono il pratello cosparso di uno strato di finissima sabbia; e comecchè ogni sassolino ne fosse stato remosso, pure ne scansarono qualche altro che parve loro male sopra gli altri sporgente: ancora si condussero in certa stanza terrena per assicurarsi se il cerusico si fosse ammannito per ogni evento, e trovarono com'egli avesse disteso sopra una tavola il suo armamentario, sarracchi, seghe, di più maniere coltelli, pinzette e pistorini[19] di varie dimensioni, viti da comprimere, fila, fasce, cerotti, in un catino apparecchiato il diaccio, in un ramino acqua calda; insomma ogni cosa in punto da morire nelle regole per le mani del cerusico, caso mai non avesse stecchito il duellante sul colpo una botta diritta.

Lieta commedia presentava in cotesto momento il Faina, ora ritirando la gamba destra ed ora la sinistra, quasi avesse sotto i piedi carboni accesi; apriva e chiudeva a vicenda l'uno e l'altro occhio, con le mani annaspava, contorcevasi in atti convulsi, per modo tu lo avresti reputato colto dal male di san Vito.

I padrini di ciò non si accorsero, o, come credo, piuttosto non se ne vollero accorgere, e molto gravemente si condussero sul campo: non tirava un alito; il muro della villa, volto ad occidente, rimaneva parato dal sole che allora spuntava, sicchè non ci era da far quistione sul giusto reparto di vento e di luce; Omobono ed il Faina furono posti una ventina di passi distanti fra loro; il primo con una pace da mettere il ribrezzo della quartana addosso al suo avversario, cavatosi il cappello, la veste e il corpetto, ripiegò tutto per bene; il Faina intirizzito non aveva balìa di moversi; solo ad ogni tratto sbadigliava. Allora il Luridi gli si fece da lato, e non senza durezza gli disse:

— Ed ora che gingilli? Sbrigati a buttare giù i panni e vieni a batterti.

— Io non mi batto.... non mi vo' battere.... — borbottava fra i denti il Faina come invaso da improvviso furore. — Birboni!... traditori!... lo vedo bene che m'avete tratto alla mazza.... per invidia.... perchè non vi sentite, quanti siete capaci di legarmi le scarpe....

— Per Dio! sei ammattito Faina.... abbassa la voce.... Oh! che vergogna.... che vergogna!....

— Che credete, che io non abbia capito? Voi mi volete arraffare il giornale.... voi ci volete rimanere soli per beccarvi il mensuale delle spese segrete.... soli a godervi le mance del prefetto.... soli, i toccamano del ministro....

— Ma Faina.... via.... senti.... ormai ci siamo tutti per la pelle.... calmati.... piglia il fioretto in mano, dopo due botte o tre, confidati in me, io ti prometto di fare in modo di aggiustare il negozio.... Diavolo! o ch'egli ti abbia ad ammazzare alle prime quattro o sei stoccate!

— Quattro.... o sei! — continuava a digrignare fra i denti il Faina — alla prima mi passa da parte a parte... Io non mi batto... non mi voglio battere... Sono un vile.... datemi del poltrone, non me ne importa un accidente....

E qui un profluvio di altre parole turpemente smaniose.

Il Luridi, tuttochè luridissimo fosse, stomacato della abiezione di costui, gli ordinò con mal piglio di tacere, e quindi s'incamminava verso i secondi di Omobono per tentare di mettere uno empiastro qualunque sopra tanta bruttezza. Di vero, chiesta ed impetrata nuova conferenza, propose che i duellanti si toccassero la mano, e così s'intendesse senza altro da entrambe le parti rimessa ogni ingiuria: venne scartato il partito; allora il Luridi uscì fuori con un'altra composizione; lasciassero andare il Faina pei fatti suoi, e chi ha avuto ha avuto.

— Che sono tutte queste giammengole? — proruppe il colonnello con una faccia, che parea Longino. — Qui non si fila, nè si tesse; voi sapete il debito vostro, o costringete il vostro primo a battersi, od uno di voi, o, se volete, ambedue, padrini del Faina, disponetevi a battervi con noi altri, padrini di Omobono.... a meno che, come già vi dichiarai, il querelante non sottoscriva senza tanti gingilli la scusa che io vi lessi.

— E non cred'ella, signor marchese, nella sua generosità, che non avanzi altra via per assettare meno ignominiosamente questa faccenda.

— Veruna.

— E non consentirebbe a modificare in parte i termini della dichiarazione?

— Se si muta una virgola, mi chiamo sciolto da qualunque impegno.

Allora il Luridi, non dandosi per inteso di quella parte del discorso del Sagrati che chiamava i secondi del Faina a sostenere la sua querela, rispose:

— Questi signori ci vorranno essere cortesi di dispensarci dal presentare noi la loro formula di dichiarazione al Faina.

— Volentieri lo faremmo, ma noi non possiamo. Noi non lo conosciamo, e nè lo vogliamo conoscere: voi accettaste il suo mandato, e non vi è concesso ricusarne le conseguenze: chiamatelo voi, ed al cospetto nostro ditegli il patto col quale gli consentiamo il recesso dalla querela.

— Faina, venite qua — disse il Luridi vòlto a cotesto sciagurato — udite a quali condizioni questi signori renunziano a mandare innanzi il duello.... voi avreste a sottoscrivere questa dichiarazione. E qui gli pose in mano il foglio, che gli aveva dato il marchese, il quale con mal piglio gli ordinò:

— Leggete forte, che possano sentire tutti.

E il cavaliere Faina lesse tutto di un fiato, senza stringere ciglio, il terribile scritto.

— Ebbene, siete voi disposto a segnarlo?

— Sì, solo vi supplico di una grazia, signori, promettetemi di non pubblicarlo; sarei rovinato, pensate che ho famiglia.

— Noi non promettiamo nulla, anzi protestiamo di volerci valere di questo documento nel modo che ci parrà più vantaggioso agli interessi del nostro signor primo.

Allora il Faina si strinse nello spalle e segnò.

— Potete andare. — E con queste parole e più col cenno il marchese gli fece capire, che si doveva immediatamente levare loro dinanzi. Al Faina pertanto toccò tornarsene pedestre in città; le strade erano tutte motose per una pioggerella caduta nella notte, ed egli diguazzava nel fango inzaccherandosi dietro fino al codione: a vederlo trottare in mezzo alla melma, concio in cotesta maniera, borbottante, gesticolante come matto, i villani, che dal contado venivano in città al mercato, lo straziavano con motti uno più pungente dell'altro.

Il marchese dopo avere trattenuto certo spazio di tempo il Luridi e il suo compagno, porse loro (per volere espresso di Omobono) la dichiarazione sottoscritta dal Faina, ammonendoli severamente:

— Signori, prendete, queste sono carte le quali recano infamia, e molta, a cui le fa, ma non apportano onore a chi le riceve; e noi non ci gioviamo a valercene. Permettete però che io vi avverta di procedere un'altra volta più cauti prima di prendere queste gatte a pelare. A noi non piacque insistere perchè da voi si adempisse il debito assunto di dare fine colla vostra persona alla sfida, e da questo lato voi siete fuori di pericolo, ma a noi non istà salvarvi dal discredito che vi siete tirato addosso col sostenere le parti di soggetto sì indegno.

Ringraziarono, scusaronsi, e inchinandosi con tutte le curve immaginabili, cotesti secondi, che valevano il loro primo, uscirono di casa dove li attendeva la carrozza: invitati a salire da un servo, salirono, nè ebbero scorso gran tratto di cammino che scopersero da lontano il Faina in contrasto con la belletta; quanto più poterono si trassero indietro nascondendosi per non essere obbligati, almeno per convenienza, ad accoglierlo in carrozza: egli però, che andava come cane arrabbiato privo di lume, non li scorse, e fu ventura, chè altrimenti chi sa che razza di maledizioni avrebbe avventato contro di loro.

Quando Omobono e gli amici suoi tornarono in città non si ricambiarono una sola parola, molto più che videro il colonnello immerso in profonda meditazione, e per quanto pareva, ad argomentarne dai segni esterni, penosa: sul punto di separarsi però, sembrando ad Omobono poterlo fare senza indiscretezza, gli domandò se si sentisse indisposto; alla quale interrogazione il colonnello rispose:

— Di spirito, sì, imperciocchè io pensassi: se tu scarpicci uno scorpione tutti ti battono le mani e dicono: bravo! Mentre se tu avessi scarpicciato il cavaliere Faina, a questa ora magistrati e sbirri ti correrebbero dietro, come cani da caccia, per agguantarti e conciarti pel dì delle feste. Pensava altresì che se tu ammazzavi il Faina forse ti aspettava la medesima pena che se tu avessi levato dal mondo Cesare Beccaria. Su quale fondamento sputiamo sentenze noi? E sentenze che importano fama, vita e sostanze? Se giudichiamo pel danno che sente la società dalla morte di un suo membro, ci hanno casi nei quali il municipio avrebbe a instituire un premio a cui li leva di mezzo, come fa con gli uccisori del lupo; se invece pigliamo a norma della sentenza la intenzione dell'agente, io davvero sarei lieto di sapere in grazia di quali arnesi un uomo mi apre il cuore e vi legge dentro. Questa nostra società è una campana fessa; così non può andare.

*

I nostri gentiluomini tacquero, interrogati, risposero ambigui come quelli che andavano convinti davvero veruna gloria venire ad essi da cotesta avventura, e tuttavolta non potè rimanere occulta; troppe le persone che ci avevano preso parte. All'osso dalli addosso: il Faina bandirono da ogni casa, da ogni ritrovo; lo sfuggirono i buoni ed i tristi: i buoni per naturale repugnanza, che volentieri rendono manifesta quante volte lo possano fare senza fastidio e senza pericoli; i tristi perchè la società loro è società di lupi; finchè sani si aiutano, feriti si mangiano. Ma costui, fasciato, anzi corazzato di sfrontatezza, non lasciava presa; a mo' che una pianta vecchia schiantata dal torrente, si drizza talora in mezzo del fiume, e par che sfidi le acque grosse che la strascinano, così egli presumeva atteggiarsi a Capaneo della opinione pubblica, e male gl'incolse, ch'egli ebbe a patire le ultime ingiurie per parte dei monelli di piazza, terribili giustizieri di tutte quelle sentenze di morte, le quali invece che con la mannaia si eseguiscono co' torsoli di cavolo. Non ne potendo proprio più, il cavaliere Faina si raccomandò al questore, perchè lo allontanasse da Milano, e quegli gli rispose come gli antichi baroni agli ospiti, passati i giorni di corte bandita, cioè che stava in potestà sua l'andare e lo stare; ma l'altro diceva:

— E come camperò io, dopo che per servire il Governo mi sono chiusa la via di presentarmi ai galantuomini?

Il questore, consultati in proposito i suoi superiori, gli offerse mandarlo a Trapani guardia di sicurezza.

— A me cavaliere questo oltraggio sanguinoso? — urlò il Faina, guaì, disse cose da chiodi, minacciò darsi al disperato, avrebbe scoperto gli altarini; teneva buono in mano per far conoscere a insinuazione di cui aveva calunniato Tizio e messo in mala voce Sempronio. Fatto un po' di riscontro di cassa, giudicarono prudente evitare gli scandali; quindi gli proposero mandarlo vice-direttore in un penitenziario; anche qui il Faina andò sui mazzi, o finse; taluno gli bisbigliò negli orecchi: ricordasse colui, che per troppo volere, ebbe un carpiccio di bastonate; il Faina si consolò con lo esempio di Scipione, e nel ridursi in un angolo remoto d'Italia a rodere quella crosta di pane esclamò a sua posta: ingrata patria, non avrai le mie ossa!

Gli altri proprietari collaboratori del Gingillino, per quanto si affannassero, tanto non poterono fare che il contagio del Faina anco sopra di loro non si appiccasse. Giornale non letto è ranocchia crepata; il Gingillino uscito dalla mota ritornò nella mota: ma senza pro della morale pubblica, chè di simili giornali non ci ha penuria mai; fecondati dalla malignità umana, come l'ortica nascono, pungono e muoiono per riprodursi più fitti.

Capitolo VII. ADULTERI A TARIFFA.

I giovani credono troppo, ed i vecchi troppo poco. Di cui la colpa? Di nessuno. Nei primi anni della vita abbondano il volere e il potere, negli ultimi fa difetto il potere. L'uomo quando si pone davanti la sua giovinezza come un'anfora colma del vino di Opimio, ben può affogare in quello e mente e cuore, imbestiandosi turpemente nella ubbriachezza; ma questo egli non fa, o di rado fa, ed invece vi attinge le care fantasie dall'ale di farfalla, folleggianti intorno alle rose e i capricciosi ghiribizzi che si rincorrono perpetuamente sopra una ruota composta dei colori dell'iride: nel vino tinge, quanto dece, le fiorite guance Venere; nel vino, dicono, che spenga i suoi strali Amore, quando li cava ardenti fuori della fornace; nel vino talora l'eroe pesca i suoi entusiasmi di patria; la morte stessa talora si è spruzzata il teschio col vino.... e valga il vero, Leonida dove ordinò che andassero i suoi trecento innanzi che s'immolassero ai Geni della Libertà? Li mandò a desinare, perchè quanto alla cena, li aspettava allo inferno. Ora va pei suoi piedi che se li mandò a mangiare, li mandò altresì a bere, perchè il bere sta al mangiare come alla messa il prete, e ci è da giocare il triregno contro un laveggio di Pistoia, che novantanove su cento bevessero vino. Gli uomini da secoli arrangolano per trovare la verità sulla terra, e non la trovano; in chiesa non ci bazzica più per paura delle scottature; in Corte nè manco, dacchè un ciambellano traditore le diede il gambetto al sommo di una scala facendogliela ruzzolare fino all'ultimo scalino; dai Parlamenti la cacciarono via a furia di granatate; nella curia gli avvocati l'accecarono col fumo di paglia bagnata, cioè con le loro parole: in campagna i contadini le aizzarono alle gambe i cani da pagliaio, in città i cittadini le appiccarono la coda dietro, come i monelli costumano a mezza quaresima: perseguitata a morte, la verità si tuffò dentro un tino di vino e quivi chi la vuole vada a trovarla. In vino veritas, ha bandito lo Spirito Santo, personaggio dabbene ed incapace di profferire bugie.

Ma quando poi l'uomo vede innanzi a sè la vecchiezza sotto la forma dell'anfora vuota, sicuramente che non ci si potrà inebriare; bella forza! non ci è più vino. Il vizio non può più correre; lo ha attrappato la gotta: i peccati mortali e non mortali vorrebbero pure (tanto per non poltrire nell'ozio) esercitarsi in qualche consueto lavoro; ma, ahimè! frugando per tutta la bottega non trovano più arnesi. La vecchiezza comparisce ravviata, positiva, unita come il suo cranio calvo; le illusioni non l'abbindolano più, la tentazione anco solleticandola con una penna di passero nelle narici non varrà a farla prorompere in uno starnuto; in compenso di tutto questo perduto, ella acquistò una qualità solenne, una qualità da mettersi sopra gli altari ed accenderlesi i moccoli ai piedi, da farla diventare nera in tre mesi a furia di suffumigi d'incenso.... la esperienza. Peccato! che questa matrona ti venga a casa in compagnia del falegname per pigliarti la misura della cassa da morto.

Il nostro Omobono pertanto come giovane credeva, e gli giovava credere, in moltissime cose: alle parole delle donne; quanto alle lacrime, non se ne discorre neppure.

*

Ma prima di proseguire, torno un passo indietro; e veruno ci trovi a ridire, perchè senza passi indietro io non lessi mai storia, nè la udii raccontare.

Omobono dunque per le due avventure da me riferite, diventò il Saracino di piazza, o, come oggi si dice, il Lione. La fama, volando, portava il suo nome di bocca in bocca, senza stancarsi mai, anzi ci prendeva balìa per volare più lontano; l'avo Omobono ne andava in visibilio, o ne faceva le viste; voglioso poi che il figliuolo della sua predilezione non iscomparisse rimpetto agli altri giovani incliti per censo o per lignaggio, volle che il nipote accettasse eleganti carrozzini e cavalli magnifici, così da tiro, come da sella, il groom e il tigre insieme alle altre diavolerie con le quali la dissipazione insapona le scale al fallimento: e per dire il vero, non ebbe a insistere troppo presso al nipote, ond'ei si lasciasse fare, chè la vanità ha il sonno più leggero della lepre, che per poco stormire di frasca si risveglia; e se l'avo si mostrava disposto a largire con una mano, l'altro era lì pronto ad agguantare con due.

Se si conoscessero tutti i danni e i fastidi che partorisce la celebrità, io per me credo che non vi sarebbe uomo al mondo, il quale incontrandola per la via non fuggisse peggio di un cane arrabbiato. Ognuno sa dove gli fa male la scarpa. La fama è una croce come le altre, e chi l'ha sulle spalle deve portarla fino al sommo del monte. Adesso continuiamo a raccontare di Omobono.

Certa sera, mentre egli se ne tornava placidamente a casa, ecco sente toccarsi sopra una spalla; si volta risoluto e vede davanti a sè una donna aitante, di forme egregie di corpo, velata così da non lasciare conoscere la sua sembianza nè anco se fosse stato di giorno, figuratevi se di notte! Costei gli mette in mano un foglio e va via; e poichè egli, come era naturale, pigliò subito a perseguitarla, ella che se ne accorse, si volse a mezzo con la persona e con tale un gesto, che parve preghiera, ma che poteva ancora esser comando, gli intimò che cessasse ed egli obbedì, quantunque il suo cervello cominciasse a fermentare.

Riprese dunque il cammino di casa col passo consueto, deliberato di aprire il foglio in camera sua; ma la curiosità crescendo mano a mano che diminuiva la via, accelerava il passo, sempre fermo però di leggere il foglio a casa; però il vino di Opimio, che gli lavorava dentro non lo permise, sicchè il solletico della curiosità diventato insopportabile, egli ebbe ad accostarsi ad un muro, e quivi raccogliendo quanto più potè della luce di un lampione, spiegò la carta e si mise a leggere. Elegante tutto, inviluppo, carta, scrittura; il foglio dettato, già s'intende, in idioma francese esponeva: come qualmente una infelice femmina, di condizione contessa, di nazione lituana, vittima di un mostro (il mostro, va da sè, era il marito) che dopo essere stato da lei sposato ed arricchito con immense possessioni poste in Lituania, Posnania, e in altri siti (la Guascogna ai giorni nostri, mutato polo, andò in Lituania) adesso, allegando per pretesto la sua infecondità, pretendesse ch'ella testasse, e lui di ogni suo avere instituisse erede; questo repugnare alla sua religione, alla sua coscienza ed al rispetto della propria famiglia, eccetera; il marito di lei, furibondo per siffatto contrasto, non lasciarle pace, nè quiete, ed ultimamente essere trasceso ad atti violenti, temere di peggio: allo improvviso, ed allo scopo di venire a capo dei suoi fini, egli averla trasferita a Milano, dove ella non conosceva anima viva: qui trovarsi da tre giorni, e qui avere il marito reiterato le istanze, e con le istanze le minaccie ond'ella facesse il testamento: per le quali ragioni, ella gittarsi nelle sue braccia, affinchè le procurasse la protezione della magistratura del paese; chè, una volta posta in sicuro, troverebbe ella modo per informare S. M. l'imperatore di tutte le Russie, il quale, andava più che sicura, stante la nobiltà ed i molti meriti di casa sua, l'avrebbe liberata per sempre dal predetto mostro di suo marito. Rivolgersi a lui come a banchiere, che per onesto premio s'incarica curare gli interessi altrui, e perchè la fama glielo aveva dipinto (veramente la fama non maneggia pennelli, ma la lettera diceva dipinto ) giovane discreto, quanto animoso, nato di madre esperta della sventura, di uomo illustre, eccetera; e qui dàgli la soia a bocca di barile: confidare pertanto, non essersi rivolta a lui invano: ispirarla Dio; nè le sue ispirazioni averla delusa mai nelle avversità della vita. Si recasse il dì seguente dopo l'una ora di notte al palazzo ***, e quivi senz'altro chiedesse del conte Kranoski; lo introdurrebbe una fidata cameriera: allora lo metterebbe a parte di ogni particolare e gli consegnerebbe le carte necessarie.

La lettera, la quale incominciava con la sua brava corona di perle, emblema di contea, finiva con la firma di contessa Dorliska Lubowmiska Kranoski.

O vanità, trasformati in Ebe e mesci due, quattro e dieci bicchieri del vino di Opimio al nostro giovine, levato di punto in bianco alla dignità di servire di materia alle ispirazioni di Dio. Vedeste traverso il microscopio solare una stilla di acqua del Tevere? Se l'avete veduta, avrete notato altresì come miriadi di serpi nascano, scoppino per rinascere e scoppiare di nuovo con vicenda perpetua; così fantasmi sopra fantasmi pullulavano nel cervello di Omobono, sicchè al tramonto del giorno che successe a quello dello incontro con la contessa se lo sentiva tutto indolenzito. E sì, che nel canestro dei fiori l'aspide ci era, e si sentiva nella dichiarazione di essersi la contessa rivolta ad Omobono come banchiere, il quale dopo reso il servizio si paga, e chi ha avuto ha avuto: ma, si sa, nobili, preti e soldati vogliono sempre sgraffiare: colpa non loro, ma delle unghie appuntate di che li armò o la natura o l'arte.

Nella sera assegnata il martello batteva il primo tocco dell'un'ora di notte all'orologio del Duomo, ed Omobono poneva il piede sul primo gradino della scala del palazzo ***. Andò su franco, non senza il consueto comporsi con la mano i capelli e i baffi; bussò discreto, e subito apertosi pianamente l'uscio s'incontrò nella faccia di un cosacco riposato, vestito da femmina.

— Si comincia male! — disse fra sè Omobono; nè il presagio mentì, chè la vecchia megera in lingua francese (il lettore avrà notato come le brutte cose si sieno fatte fin qui in idioma francese, aspettando che in breve le si facciano in tedesco) gli disse come monsieur le comte, contro la sua abitudine, per quella sera non era ancora uscito di casa; essere madame fâchée, anzi disse propriamente désolée del contrattempo; supplicarlo a scusarla. Mon Dieu! ce n'était pas sa faute; sarebbe di sicuro per domani sera; con altre più parole ortatorie, alle quali il nostro giovine rispose: Stesse madama di buon animo, che ciò non montava; assicurasse madama la comtesse della sua perfetta buona volontà, e addio per la stessa ora a domani.

In onta però alle belle parole, Omobono aveva un diavolo per capello, perchè i giovani sentono brulicarsi il mercurio nelle vene, e spettano per natura alla setta di coloro che dicono: pochi ma subito. Andando giù in fretta ed alla spensierata avvenne che di uno sconcio spintone urtasse nella spalla destra di un che saliva.

Que diable! si esclamò da una parte: — Pardon, monsieur, dall'altra. — Ma tanto presto non potè comporsi cotesta faccenda, che urtante ed urtato non avessero agio di considerarsi bene al lume del lampione.

Omobono vide un cosaccio mal tagliato, creatura da caserma, fatto a tacche col coltello; di colore del vino puro, co' pomelli delle gote rilevati a mo' del cane da presa, e il naso in su come cane da fermo, il quale fiuti per l'aria l'onore militare: difatti cotesta attitudine gli veniva dal collare rigido ed alto, il quale costumano cani e soldati; gli enormi baffi su ritti per le guancie parevano due granatini di stipa, e la barbetta una coda di cavallo da barroccio cresciutagli sul mento, gli occhi tondi e strabuzzanti da destare nei bambini una sedizione di vermini: insomma un orco. Vestiva soprabito, secondo il costume soldatesco, abbottonato fino alla gola, dall'ultimo occhiello del quale un nastro rosso, forse per la vergogna, si affacciava peritoso quasi dicesse fra sè: Mi mostro, o non mi mostro? Di vero egli era, a modo della testuggine, destinato a uscire dal guscio ovvero a ritirarcisi dentro: però a lode del nastro vuolsi confessare come egli non si affacciasse mai spontaneo, bensì costretto di obbedire alla potente spinta, che gli dava per di dietro il dito pollice del cavaliere.

Il sole puntuale come un mercante che ha da riscuotere una cambiale, si levò, camminò e andò a letto, mentre Omobono, puntuale quanto lui, al tocco dell'una ora di notte, era sull'uscio della contessa Dorliska Lubowmiska Kranoski. Gli aperse la solita megera, lo salutò sommesso, e senza altre parole lo mise dentro ad una camera oscura; non già che fosse buia affatto, ma poco ci si vedeva, e ciò perchè il lume del candelabro andasse avvolto di un fitto velo increspato: mobili molti a catafascio; in confuso ogni cosa, come chi o non ebbe tempo di ordinare la casa, o non la voglia ordinare, deliberato a farvi breve soggiorno: in mezzo un lettuccio magnifico, e sopra esso, quello che premeva di più, la donna. Costei mollemente adagiata, si faceva al capo colonna del braccio ignudo, a perfezione tornito e bianco, e giù dal capo le pioveva pel seno e per le spalle una vera cascata di capelli lucidi e neri più dello asfalto; la persona intera ella teneva avvolta dentro un'ampia zimarra di velluto nero, orlata e forse foderata di martora zibellina.

Dopo brevi istanti di silenzio, ella con voce che a tutti gli altri sarebbe parsa maschile, ma che Omobono giudicò divina, incominciò a sciorinare ringraziamenti, complimenti e caccabaldole di ogni maniera; invitato a sedere, il giovane prese una seggiola e si assettò pudicamente a piè del lettuccio, conforme l'uso, che vuole s'incominci in bemolle per giungere di rincorsa al cisolfautte. Allora la contessa esormò con moltissimi particolari la storia della quale ella aveva presentato lo epitome nella sua lettera; mentre stava per conchiudere, Omobono la vide di un tratto balzare di sul lettuccio e recarsi a certo stipo, che aperse mercè una chiave tirata fuori con precauzione dalle pieghe della zimarra: quivi prese parecchie carte condizionate ottimamente, e le depositò sopra una tavola dove stavano ammanniti carta, penne e calamaio.

— Ed ora, mio signore, fatevi avanti ed esaminate meco le carte, che io vi verrò mano a mano porgendo, onde vediate se bastino a indurre il magistrato a pigliarmi sotto la sua tutela.

— Non è caso, madama, ciò menerebbe troppo a lungo, ed io non dubito punto che questi fogli non confermino ampiamente la verità delle cose esposte da vostra signoria.

— Sia come volete — riprese la contessa levando la faccia verso la porta donde era entrato Omobono; poi domandò: — Che ora fa?

Ed Omobono, consultato il suo magnifico orologio, rispose: — Un'ora e mezza di notte.

— E vi va bene?

— Oh! quanto a questo poi....

La contessa sorrise alquanto e proseguì: — Tuttavia permettetemi, signore, che io vi accenni la importanza di questi fogli: questo è il testamento di mio padre, conte Daniele Casimiro Lubowmiski, aiutante di S. M. l'imperatore Niccolò; — e glie lo porse.

Omobono, a cui non premeva il testamento più di un bottone da camicia, attese alla mano e la rinvenne nobilesca affatto, classica nei contorni, lunghetta alquanto e nel mezzo del dorso quanto conviene carnosa; non vi eccedeva nodo, le vene un po' troppo turchine, segno che non vi correva rapido, come un giorno, il sangue della gioventù: candida la pelle, ma raggrinzita in faccette romboidali, segno anche questo che i muscoli, dopo essere stati tesi al massimo grado, ora principiavano a rilassarsi. Tale diversità gli artefici industri rinvennero ab antiquo fra il marmo pario ed il pentelico: quello serrato in grani uniti e con superficie uniforme, rappresenta meglio la gioventù; questo, screziato in minutissime mollecole la età che declina: prevalse il primo, e da quello gli eccellenti scultori ricavarono le più mirabili statue dell'antichità.

Certo la è una grande cosa la mano: tutti i poeti lo hanno detto in rima, ed ancora io lo dico in prosa; ma ad Omobono tardava contemplare in pieno la faccia di cotesta donna, la quale per istrano accidente fin lì rimasta fuori della zona luminosa, non si svelò quale era. Di un tratto con terribile fracasso, pari a quello che don Alfonso fece alla porta della camera di donna Giulia,[20] uguale a quello che mossero e moveranno tutti i mariti, quando chiappano o fingono chiappare le mogli in flagranti (e qui, dicano quello che vogliono i grammatici, la parola in flagranti cade a pennello, perchè denota i ferri arroventati al più alto punto d'incandescenza) ed un coso rosso e scarduffato casca in mezzo della stanza, come bomba in fortezza nemica. Appena Omobono lo fissò in viso lo riconobbe per quel desso, in cui aveva dato dentro la sera precedente, sicchè di un lampo ei venne in chiaro come egli avesse avuto il puleggio, non già perchè costui si trovasse in casa, bensì all'opposto, perchè non ci si trovasse. La donna, dopo avere mandato il solito grido, era caduta nel solito svenimento resupina sul solito letto; la zimarra apertasi davanti lasciò vedere com'ella vestisse sotto la semplice camicia, donde diffondevasi, anco troppo, la così detta copia di gigli e di rose: alla rovescia di Anna Bolena, la quale prima di mettere il collo sul ceppo, attese con pudore mirabile ad invilupparsi bene le gambe nel lembo della veste, onde nella convulsione della morte violenta non rimanesse disonestata, caso fosse, o consiglio, la nostra contessa mostrava le gambe fino al ginocchio; ma nella scompostezza dei moti, cadde il velo dal lume, che percotendo in pieno sul volto di costei, lo rivelò intero. Potenze e dominazioni del cielo! Quale disinganno, Omobono, fu il tuo! Non sacerdotessa, bensì diacona e archimandrita[21] colei di Venere Pafia; il corpo suo, stadio dove l'Amore aveva corso più palii, che non tutti i cavalli della Sicilia e della Grecia nell'ippodromo olimpico; nè Venere solo ed Amore, ma eziandio Bacco ci si era messo in terzo, avendo lasciato la traccia del suo passaggio pel corpo della contessa, con molte rose di colore amaranto sul viso di lei.

La coscienza, la quale nel nostro fòro interno sostiene le parti di procuratore del re, così rivolse la sua allocuzione ad Omobono: «Un pezzo di asino grosso come te, o figlio mio, non si vide fin qui in tutta la cristianità: un tonno, non che altri, avrebbe evitato la rete nella quale sei caduto tu; ma ormai che la frittata è fatta, occhio alla penna per uscirne pulito. Arme non hai, e questa dovevi portare; invece ti trovi addosso il portafogli con di molta moneta dentro, e questo non dovevi portare. Ma neanche l'arme ti gioverebbe; come uccidere, così potresti rimanere ucciso; pure parrebbe più facile che la peggio avesse a toccare a te; caso tu campassi la pelle, lo scandalo da un lato, la melensaggine stupenda della quale desti prova dall'altro, ti farebbero perdere in un attimo la riputazione acquistata; dunque senno adesso, che di quel del poi ne vanno piene le fosse, e sopra tutto bada a non lasciarti chiudere la coda fra l'uscio e il muro».

Tutti questi successi e tutte queste considerazioni furono compiti, già s'intende, in meno che non si dice amen. Tuttavia il conte marito aveva già messo mano alla sua terribile catilinaria, accompagnandola di temerari pugni nel capo e con frequenti comment se fait-il? Come se fossero cose nuove, nel suo discorso ricorreva frequente il mon Dieu! che di simili faccende se n'è sempre lavato le mani, all'usanza di Pilato. Insomma egli gridava che ce misérable da gran tempo insidiava l'honneur di casa sua, tentando con arti diaboliques sedurre la faiblesse de sa femme, ed esserci, a quanto pareva, riuscito pur troppo! Oh rage!

— Creda, monsieur le comte, — rispondeva Omobono tutto contrito — ch'ella proprio s'inganna; creda in onore che io ebbi l' onore di conoscere la sua rispettabile dama unicamente da ieri l'altro sera, avendomi fatto l' onore d'invitarmi.....

Tais-toi, misérable! Point de justifications avec moi..... sacré non.....

— Ma senta, signor conte, non s'inquieti; la si lasci persuadere; miri qua..... veda: questo è giusto il biglietto che la sua signora mi mise in mano ieri l'altro verso l'un'ora di notte.

Tais-toi encore une fois, lâche! Tu mi hai strappato il cuore dal petto, ed ora che farò io al mondo? Parbleu! ammazzerò prima, e dopo mi ammazzerò sopra un tas di cadaveri..... esempio memorabile al mondo ai traditori che fanno professione di contaminare i talami altrui.

E qui frugatosi in tasca, ne cavava un pugnale e due rivoltelle da sei colpi l'una. Ci era da ammazzare un battaglione di soldati; e sì, che in tutti, compreso lui, si riducevano a tre.

Omobono, che aveva capito la ragia, con ingenua malizia aggiungeva:

In primis, senta, signor conte, ella fa torto e torto grave alla virtù della sua signora, ch'è svenuta là..... e poi, o come può ella credere sul serio che io, giovane di ventidue anni, abbia perso di un tratto il lume degli occhi per le bellezze postume di una donna di quaranta sonati?

Tais-toi! Tonnerre.....

— Bellezze certo un dì da galleria, ma oggi da bottega di rigattiere.

La vanità mise la mano alla gola al delitto, e per un momento se lo cacciò di sotto, imperciocchè dalla parte dove stava giacente la donna s'intese un grugnito di rabbia, che il conte si affrettò ad interrompere urlando:

C'est fini! Ta dernière heure.....

A sonné! Connu, mon cher comte, connu..... Or via, veniamo al sodo. Voi mi avete attirato qua per taglieggiarmi: ho dato del capo nella ragna. Pazienza! Chi non ha giudizio paghi di borsa. Da banda parolone e minacce: qui perdiamo tempo senza conclusione: voi volete il mio danaro, non il mio sangue: quanto dunque ha da costarmi questa pretesa seduzione?

Vous avez, monsieur, une manière d'envisager les choses..... mais c'est égal..... la seduzione, allons donc, è pur troppo consumata, il mio onore à jamais perduto..... io non uso mercanteggiare, e vi propongo di un tratto una onorevole composizione au plus grand rebais.....

— Ebbene?

— Cinquecentomila franchi. Mon Dieu! C'est presque pour rien.

— E parlate sul serio?

Mais certainement, prix fixe.

— Caro conte, io non costo tanto. E come la pigliate tanto alta, io vi dichiaro aperto che voi non buscherete nè manco un centesimo: voi volete godervi co' miei danari, non già farvi tagliare la testa a Milano. Aggiustatela come volete, che io non intendo darvi nulla.

E qui si mise a sedere, con le mani sotto le ascelle, in atto napoleonico.

Mon cher jeunne homme, ne vous fâchez pas: il y a des arrangements.... on négocie.... e quanto pretendereste pagarmi per refezione di danni e interessi?

— Capisco che mi toccherà darvi più di quello che costate. Andiamo alle corte.... io vi darò diecimila franchi.... c'est à prendre, ou à laisser.

Mais y songez vous? E non sapete che qui, in Milano, abbiamo debiti tout justement più del doppio?

— O che ve l'ho detto io che voi facciate tanti debiti?

— Questa non pretendo che fosse la vostra parte; la vostra parte è quella di pagarceli.... Orsù tagliamo la differenza in mezzo; ne pagherete soltanto la metà.... duecentocinquantamila.

— Venite qua, accomodatevi anche voi, e ragioniamo. La somma che mi estorcete ha da pagare il mio signor nonno, perchè io davvero non la possiedo, e voi lo dovreste sapere. Ora date spesa al vostro cervello: se il mio biglietto sarà presentato alla cassa O. Buoncompagni ascenderà a somma non eccessiva, sarà pagato senza osservazioni; al contrario, se soverchia, il cassiere entrerà in sospetto, ed è naturale che vada a informarsi dal nonno come sta questa faccenda: questi a volta sua ne chiederà a me.... e voi capite che simili affari non amano le soglie dei tribunali.... le soglie dei tribunali, mon cher monsieur, voi lo avreste a sapere, sono come i carboni, o tingono o scottano.

— Ma il cassiere siete voi, mio caro giovane....

— No, io amministro la cassa, ma non faccio i pagamenti; a quest'ufficio è preposto il signor Nassoli.... uomo di naso lungo.

— Ebbene sarà pensiero vostro avvertire questo monsieur Nassoli di pagare senza difficoltà, tout de suite, à la présentation de votre billet de change.

— Questo sarà debito mio fare, quando saremo andati d'accordo, e avrò firmato il pagherò.... Il banchiere che non onora la propria firma è perduto.

— Certo è cosa très grave, molto più che io girerò subito il pagherò a terzi, per mettermi al coperto di ogni eccezione personale.

Pardon, monsieur, ma si vede chiaro che il diavolo a voi altri signori insegna fare le pentole, ma non i testi. E a chi volete voi, siate benedetto, girare il mio pagherò? A Isacco Levi? A Giacò Coen? A Sacerdoti e C., o ad altri cotali? Ma questi, intendete bene, non vi pagheranno la valuta, se prima non l'abbiano incassata. Lo girerete ad un barabba? Screditate la operazione, e, in caso di lite, basta l'odore della truffa a mettere sopra le traccie il procuratore del re; e poi correte il rischio che il barabba, riscossa la somma, vi appiccichi una coltellata per pagamento. Se rimanete a Milano, la girata ad un terzo non ci casca; o che siete mercante voi? Di questa maniera recapiti si riscuotono da sè. Dove al contrario giudichiate spediente partire, vi sarà mestieri confidarvi in altrui, e correrete sempre il pericolo di non vedere del sacco le corde. Se fossi nei vostri piedi, mi contenterei dell' onesto; dividerei i pagherò in quattro scadenze di mese in mese, onde io possa estinguerli coi miei, e senza che veruno della casa si accorga della ragia. E per finirla una volta, io mi obbligherò di pagarvi ventimila franchi; diecimila franchi per visita, mi sembra pagare da imperatore.

Il conte fischiò, la contessa grugnì, ed Omobono si accorse di volo che non bastavano, onde, per non istare sui bisticci, vedendo bene incamminata la cosa, soggiunse:

— Mi penetro dei vostri bisogni: ebbene io vi darò tante volte mille franchi quanti anni ho già assegnato alla signora, la quale io pregherei a smettere lo svenimento ed a coprirsi meglio per timore del fresco: finita la commedia, si tira giù il sipario.

— Madama la contessa non conta già, mon cher, quarant'anni, come voi avete avuto la bontà di assegnarle, bensì quarantacinque; ora, supposto che anche io mi piegassi ad accettare la vostra spilorcissima profferta, vedete che non quaranta, bensì quarantacinquemila franchi sarebbero quelli che voi dovreste pagare.

E qui da capo la vanità, mettendosi sotto i piedi il delitto, costrinse la contessa, che aveva cessato lo svenimento, a gridare:

— Come puoi tu mentire così? Non ti ricordi che io nacqui al tempo che regnava in Francia Luigi Filippo? Ben io mi ricordo del giorno della mia nascita, come se fosse adesso: per me dichiaro che se arrivo a trentatrè, gli è quel più che possa concedere.

— Dunque defalchiamo — soggiunse Omobono.

— No davvero, — rimbeccò la contessa — anzi aumentiamo: diecimila si aumentino per la vostra insolenza, diecimila per l'audacia, diecimila.....

— Silenzio, femmina. Ebbene divideremo le lire quarantamila in quattro pezzi; uno di ventimila pagabile fra cinque giorni, e gli altri tre di lire seimilaseicentosettanta in capo a ognuno dei tre mesi successivi.

— Non così..... non così potrei accettare; il primo sia di diecimila lire a cinque giorni data, e per questo mese basta; gli altri di lire diecimila l'uno, a trenta, sessanta e novanta giorni di data, come porta l'uso del commercio e la consuetudine della piazza.

— È impossibile; fate il secondo almeno a quindici giorni, mon cher.

— Sentite, al punto in cui siamo, vostro principale interesse è che i pagherò vengano puntualmente pagati: ora io non posso in modo diverso da quello che vi ho detto..... badate: a chi troppo tira, la corda si strappa.

Je tiens, mon cher, a conservare la vostra amicizia, però brisons là, e facciamo come desiderate.

— Permettete adesso che vada pei pagherò — disse Omobono con aria da disgradarne san Luigi Gonzaga.

E l'altro con non meno semplicità:

— Oh! vi pare? Pigliarvi questo disturbo.

— Ebbene, andate voi.

— Neppure. Ecco qua i fogli pei pagherò.

— E i bolli? Altrimenti i biglietti non avrebbero valore.

— Abbiamo avvertito anche a questo: ecco i bolli.

— Va bene: incominciamo.

Omobono si tirò innanzi al tavolino: il conte gli pose sotto mano il necessario per iscrivere. Omobono, con mirabile disinvoltura intinse la penna nel calamaio, e il conte, con le lenti sul naso, gli si mise in piedi dietro la seggiola per vigilare quello che egli andava scrivendo. Omobono, come se dettasse a se medesimo, principiava:

— Milano, tre marzo milleottocentosessantasei. Buono per lire 10,000. A cinque giorni data pagherò.....

— No, mon cher, a questo modo non cammina.

— O perchè non cammina? — interrogò Omobono, deponendo la penna.

— Perchè ha da dire pagheremo, e voi dovete sottoscrivere in nome della ragione bancaria O. Buoncompagni e C.

— E vi pare egli che io deva..... che io possa obbligare la rispettabile casa del mio signor nonno in questa razza di negozi?

— Dovete, perchè lo voglio..... potete, perchè fino dal primo gennaio del presente anno il vostro signor nonno vi ha dato la firma della sua ragione, come resulta dalla circolare del medesimo giorno, depositata nella Cancelleria del Tribunale di Commercio il due del medesimo mese, e comparsa tre volte nella Gazzetta Officiale.

— Permettete che io vi faccia umilmente di berretta: voi vi siete corazzato fino ai denti. Che cosa volete? Io vi ammiro.....

— Eh! mon cher, procuro esercitare la mia professione con coscienza e puntualità.

— Voi meritate una corona d'alloro; dunque pagheremo all'ordine del signor....?

— Conte Adamo Kamieski.

— Come! O non vi chiamate Kranoski?

— E chi vi ha detto Kranoski? Io mi chiamo Kamieski.

— Oh! credeva..... ma non fa caso..... Kamieski, lire diecimila.

— Aggiungete in oro.

— In oro..... e la valuta come l'ho da mettere?

— Per altrettante somministrateci in contanti e in oro.

— Contanti.... oro. Buono...

— Avvertite segnare la somma in tutte lettere, articolo 273 del Codice di commercio.

— Omobono Buoncompagni e C., eccovi soddisfatto.

E così senz'altro accidente fu continuato fino al quarto biglietto, compiuto il quale, Omobono piacevolmente favellò:

— Adesso parmi di poter dire: Ite missa est.

— Sicuro, adesso voi potete andare: in ricompensa dei tanti e tanto savi avvertimenti che mi avete dato, permettete che vi consigli a tenere acqua in bocca; io non sono solo.... adoperate prudenza e vivrete.

— Lasciate fare a me — e si alzava per andarsene.

Ma la contessa osservò:

— Finchè mi duri la vita mi gioverà tener presente la memoria di quest'ora nella quale un breve errore mi traviò fuori dei miei doveri di sposa; epperò, signore, non vi sia grave lasciarmi il vostro orologio, dove mi sia dato contemplare quest'ora.... ahimè! di rimorso e altresì di desiderio....

— Di desiderio può darsi; quanto a rimorso, io protesto solennemente, che quanto a me il peccato non si affacciò nemmeno nei dominii della tentazione.... mia bella donna.... eccovi l'orologio.

— Oh! a proposito — esclamò il conte quasi punto da emulazione — e i bolli ce l'ho a rimettere io?

— Eccovi il borsellino — disse Omobono frugandosi prestamente in tasca, e presolo in mano l'offerse al nobile conte, aggiungendo poi piacevolmente: — Conte Adamo, richiamo poi la vostra attenzione, che se la vostra amabile signora e voi non ponete termine a queste gare, io corro rischio di ridurmi a casa col vestito di Adamo nostro padre comune, e vostro protettore speciale.

— Eppure alleggerirlo di qualche altro arnese non sarebbe male — osservò la donna rapace.

Ça suffit! femme; il troppo stroppia; gli è un caro giovane, ed a me preme conservare con lui la buona amicizia.... ed ora s'il vous plaît, beviamo un coup.

Merci, — rispose Omobono — già si fa tardi, e dove non possa servirvi in altro vi leverei lo incomodo.

À votre aise — disse il conte, e si atteggiò ad accompagnarlo. La donna proterva nel dargli licenza gli porse la mano favellando:

Sans rancune, e a rivederci in migliori occasioni.

— Così spero anch'io.

Omobono voleva con bel modo dispensare il conte da tenergli compagnia, ma siccome costui insisteva, egli non giudicò prudente mostrargli diffidenza: giunti pertanto sopra la soglia della porta di casa, rinnovati alla lesta i complimenti, si separarono.

Un pezzo andò il nostro giovane provando di tirare un occhio quanto più poteva a destra ed un altro a mancina, per sospetto che non gli capitasse qualche altra faldella; nè in veruna occasione (come egli ebbe a dire poi) desiderò mai avere un altro paio di occhi per metterseli di dietro e guardarsi le spalle. Il polso gli batteva a colpi di maglio: a mano a mano che rinasceva la sicurezza, quetavasi; all'ultimo allentò il passo, e quando gli parve essere affatto fuori di pericolo si pose a sedere sul primo muricciolo gli occorse davanti, e quivi sciolse un sospirone proprio dal cuore.

— Io l'ho scappata bella; — diceva ragionando seco — il pericolo non è stato certo di lieve momento.... eppure non so, se mi proponessero ricominciare quasi.... quasi accetterei — e qui si fregava le mani come il conte Cavour quando aveva dato a bere una balena all'onorevole Parlamento subalpino, trasformato più tardi in italiano. — Omobono di tratto in tratto prorompeva in uno scoppio di riso.... povero giovane! Gli si fossero spigionate le soffitte? Basti per ora sapere che egli se ne andò diritto al teatro, dove gli amici suoi nol videro mai allegro e contento come in cotesta serata.

*

È il giorno della scadenza del primo pagherò, otto marzo, e il conte Kamieski, il quale non estimandosi Giulio Cesare nè aspettava, nè temeva gli idi di questo mese sinistro, s'incamminava, con la contegnosa compostezza del gentiluomo di vecchia razza, verso il Banco Buoncompagni; sbirciando argutamente se alcuna cosa occorresse capace di dargli sospetto; niente apparisce mutato nè per di dentro nè per di fuori: la medesima frequenza di cui entra e di cui esce: i commessi intenti tutti alle proprie occupazioni. Omobono alla cassa: lo assiste il Nassoli, misurato come il pendolo; forse due scritturali, che gli siedono al fianco, non paiono ortodossi affatto..... non sembrava fossero troppo vaghi di cotesti esercizi; anzi tu li avresti giudicati, più che a menare la penna, capaci di trattare il remo.... ma le saranno state ubbie.

— Il cassiere — chiede il conte arrivato alle paratie dei commessi, con voce che studiava fare burbanzosa.

— Favorisca — risponde il Nassoli, invitandolo col cenno della mano a passare dentro il bugigattolo della cassa.

Omobono, visto il conte, lo salutò graziosamente con un inchino del capo, accompagnato col più gentile dei suoi sorrisi; il conte da parte sua, col volto corazzato, gli rispose con un saluto di protezione.

— Comandi? — riprese il Nassoli.

E il conte:

— Vengo ad esigere un pagherò di diecimila lire, che scade oggi.

— Si compiaccia presentarmelo per vedere s'è in regola.

— In regolissima: eccolo....

Il Nassoli si tira su gli occhiali a mezza fronte, e, secondo il suo costume, accosta così il foglio alle palpebre, da parere ch'ei volesse co' peli cancellarne le cifre; poi imperturbato lo rende con queste parole:

— È in regola.

— Ebbene lo paga?

— Che dubbio? Sarà pagato.

— Dunque lo paghi.

— Dunque non pago.

— Perchè non lo paga?

— O bella, perchè non è ancora scaduto.

— Come! non iscaduto? Oggi non abbiamo l'otto di marzo?

— Certo.

— O dunque?

— Signor conte, io non ho tempo da perdere; il biglietto ha da pagarsi un otto marzo, ma non quello di questo anno.

— Come! Come sta questa faccenda?

— Tal è qual è, come dice il cane quando lecca l'acqua; la si chiarifichi da sè; venga si accomodi, che lo potrà fare ad agio.

Il conte, che ormai aveva gli occhi tra i peli, leggeva e rileggeva e non si addava; il sangue gli era salito al capo, sicchè delle lettere del pagherò, parte gli sembravano scritte di rosso e parte di fuoco. Allora il Nassoli, pensando, che dai ma' passi, quanto più presto si esce, e meglio egli è, notò:

— Osservandissimo padrone mio, favorisca leggere bene il millesimo, miri (e ci metteva il dito sopra) ci sta scritto tre marzo millenovecento sessantasei, la quale cosa, come vostra signoria può insegnarmi, significa, che se si compiacerà ripassare alla cassa da qui a cento anni, in questo giorno otto marzo, ella verrà puntualmente pagato....

— Ma questo è tradimento.... questo si chiama assassinare la gente.... io voglio il mio denaro.... il mio denaro: — e qui voltosi furibondo ad Omobono, continuava: — e voi signore, che me lo avete carpito, non dite nulla? Vi costringerò a parlare bene io, vi schiafferò in piazza.... vi strapperò il cuore dal petto e ve lo sbatterò in faccia....

— Queste cose, signor conte, una volta usavano in Inghilterra, e le faceva il boia coi traditori; e qui siamo a Milano — rispose Omobono, guardandolo fisso senza punto alterarsi, e poi: — il pagamento dei recapiti della banca non riguarda me, bensì sta nelle attribuzioni del signor cassiere.

— Al cassiere, furfante! spetta pagare i tuoi debiti? Al cassiere?

E qui agitato da terribile ira fece per avventarsi contro di lui; quando ecco i due commessi a latere del Nassoli balzare su come gente pratica ed acciuffarlo per le braccia e per la vita impedirgli ogni violenza: il mal capitato mugliava come un toro: forte egli era e dava strettoni da schiantare una porta di città; ma gli altri fra le guardie di sicurezza godevano fama di tanaglie maestre; onde egli con la bava alla bocca urlava:

— Lasciatemi, mascalzoni.... ladri da strada.... ora ve la farò vedere io, se giustizia vi è, il questore....

— Chi è che mi chiama? — si udì una voce al di là della paratia, e subito dopo comparve la nostra antica conoscenza, il questore Speroni, amico del cavaliere Faina: pareva venisse a festa, perchè, si sa, dell'arte sua ogni uomo s'innamora; e al conte, che dal caso inopinato pareva sbalordito domandò da capo: — Che cosa desidera la signoria vostra dal questore di Milano?

— Desidero, — rispose il conte facendo come meglio poteva buon viso alla cattiva fortuna — desidero sapere se a Milano si pagano a questo modo i biglietti all'ordine? Ecco per avere domandato il mio mi trovo preso, come da sbirri (il povero uomo senza saperlo indovinava) e temerci di peggio se la presenza vostra non mi assicurasse; appena sia libero.... oggi.... al più lungo domani avrò l' onore di recarmi al vostro ufficio per esporvi minutamente la odiosa insidia ordita a mio danno da cotesto ribaldo, contro cui fino da questo momento sporgo querela di truffa e di violenza....

— Illustre signore, ella ha da sapere come noi altri questori, prima di tutto per debito di ufficio e poi anco per genio, battiamo il ferro quando è caldo: le tracce dei reati da un punto all'altro si volatizzano peggio dell'etere; non perdiamo tempo, venga subito, e voi altri accompagnatelo.

— Come! Confida la mia custodia ai commessi di questo Banco.... o piuttosto di questa spelonca....?

— Stia tranquillo, io la confido nelle mani di due guardie di sicurezza.

— Signor questore.... sono gentiluomo....

— Non dubiti, che le saranno usati i debiti riguardi: giù ci aspetta una carrozza; anch'io desidero che le cose si facciano per benino.

Omobono a cui coceva essere stato tratto in trappola come un novizio, e non aveva potuto ancora digerire gli scherni della contessa, tanto non si potè tenere, che sul partire queste parole non dicesse al conte:

— Signor conte, quando rivedrete la rispettabile vostra signora, vi prego farle accettare i miei saluti, e dirle da parte mia, che finchè non si tira la rete in terra, non si può vedere se il pesce è preso.

*

Del conte e della contessa o Kranoski o Kamieski non parla più la nostra storia, eccettochè per dire che veramente nobili, anzi nobilissimi essi erano: avevano mutato nomi quanto paesi, da per tutto traendosi dietro una coda di truffe più lunga di quella delle comete. Per giuntare la nobilea facevano mostra di modi fastosamente superbi, chè dura tuttavia la opinione essere la prepotenza indizio di nobiltà; co' democratici poi ostentavano spiriti liberali e odio eterno contro il tiranno della sventurata sì, ma pur sempre infelice Polonia[22]: con tutti molto li avvantaggiò l'Amore, finchè la contessa lo potè agguantare, ma da molto tempo in qua egli volava fuori di tiro; onde un giorno venuti meno tutti i partiti che rasentavano il Codice penale, bisognò appigliarsi ad uno di quelli che lo tagliano in mezzo: crederono agguantare e rimasero agguantati: scaltrissimi per lunga sperienza si lasciarono agguindolare da giovane inesperto, confermando il dettato, che in pellicceria ci ha più pelli di volpe che di asino.

Il Governo reputò prudente bandirli senz'altro, e fece bene, perchè sarebbe riuscita difficile la prova del delitto commesso; e tuttavia la contessa, costretta, rese l'orologio, e così ebbe a contentarsi per richiamare alla sua mente Omobono della sola immagine ch'ei le lasciava nel cuore.

Ma, se alla contessa fu forza restituire lo orologio, non per questo ritornò ad Omobono. Gli antichi solevano consacrare agli Dei inferi le membra dello agnello riscattate dalle zanne del lupo: Omobono lo consacrò al questore in memoria del fatto, e per testimonianza dell'animo grato.

Egli volle altresì usare cortesia con le guardie di pubblica sicurezza, le quali pertinacemente rifiutarono qualunque dono[23]: credeva facessero per burla, e s'ingannò; le guardie stettero ferme a sostenere che avevano compito il debito loro, ed il Governo pagarle giusto per questo, onde Omobono dopo un lungo contrasto, ebbe a concludere:

— Ma che sarebbe proprio vero, che per ravviare questa matassa arruffata della società, si dovesse incominciare da metterla sotto sopra? Eh! così si costuma con gli orologi a polvere, perchè non si potrebbe fare anco con gli uomini? Molto più, che gli uomini anch'essi sono polvere che passa e non misurano il tempo.

Capitolo VIII. LA INFANTICIDA.

— O dove vai così a rotta di collo?

— Non di certo a riscotere una cambiale.

— Molto meno a pagarla. Insomma dove vai?

— O non lo sai? Oggi debutta (perla del dire della odierna gioventù dorata e della massima parte dei giornali italiani) l'amico nostro avvocato Fabrizio; se ne aspettano mirabilia.

— E tu naturalmente da buon amico desideri e speri che egli faccia fiasco.

— L'avrei caro perchè egli è un presuntuoso da sfondare lo stomaco ad ogni fedele cristiano; però in cotesto suo capo non manca mercurio, e dubito che ei ce la sfangherà; molto più che difende una causa di spolvero, un infanticidio, e ci ha di mezzo un prete; ne sentiremo delle belle, scandali da scriverne al paese. Sarà un dramma in dieci atti, e per giunta senza pagare biglietto; vieni adunque anche tu, che ci divertiremo.

— Verrei, ma proprio non posso.

— O che hai che ti para?

— Bisogna che vada alla messa.

— Alla messa!

— Già, caro, alla messa; la mia egregia zia, donna Claudia della sacra famiglia dei Biscottini, mi tiene il broncio da parecchi giorni, perchè gente sviscerata per la salute del tuo povero amico le assicurò di certa scienza che io era un'anima persa, e che lasciando a me, tornava lo stesso che insaponarmi le scale per isdrucciolare giù nello inferno; onde in me si raddoppia la necessità di tenermela bene edificata, però che, dal suo filo in fuori, io non ho refe da rammendare i miei strappi.

— Capisco; la scusa è onesta anco per assistere alla messa; ma, se non la sbaglio, mi sembra donna Claudia in assai buona età da farti allungare il collo più di una cicogna, posto il caso che tu vincessi il palio co' gesuiti.

— Amico del cuore mio, datti pace, che tu non avrai a desolarti di vedermi tribolato da una zia eterna: ci hanno due cose fuori della mia potestà, le quali mi porgono fidanza del prossimo dolore di piangerla a spron battuto, onde non io, ma qualche altro nipote più amoroso di me possa dispensarsi dalla terza rimessa al suo arbitrio: le due cose sono il catarro e il medico che la cura; la terza sarebbe lo speziale.

*

Giù il cappello, lettori, ch'entriamo nel tempio della giustizia.

E tuttavia, io lo dichiaro alla libera, qui dentro tu troverai tutto, tranne la giustizia. Ed invero, o come ce la potresti trovare, se gli uomini non sanno nè manco in che cosa consista? Taluno (credo san Tommaso d'Aquino) insegna: Giustizia essere tacito convenimento della natura in aiutorio di molti. Misericordia! La Sfinge si sarebbe fatta coscienza di proporre a Edipo d'indovinare enigma traditore come questo. Tale altro (credo sant'Agostino) dichiara: Giustizia è ferma e perpetuale volontà che dà la sua ragione a ciascuno. Peggio che andar di notte senza lume: ragione che significa mai? E come si impara ella? E con quale regola la si spartisce? Ancora, la volontà disgiunta dall'atto è nebbia che lascia il tempo che trova, e tanto è il mal che non mi nuoce quanto il ben che non mi giova. Arrogi, la ferma e perpetuale volontà a cui spetta? Senza dubbio all'uomo, e se così, come puoi fidare che una norma commessa in balìa dell'uomo possa rimanersi inalterabile e ferma? Non che altro le campane di bronzo per virtù del caldo o del freddo dilatansi o restringonsi, pensa se la umana volontà, nuvoletta poverina lasciata in abbandono all'uragano delle passioni. Giustizia (questa nuova definizione ce la somministra Brunetto Latini, maestro di Dante) è abito lodevole per lo quale l'uomo fa opere di giustizia; manco male adesso la giustizia, abbassato il volo dalle regioni della metafisica, incomincia a rasentare la terra, ma ci vuol poco a comprendere come questa definizione manchi di due estremi, senza i quali la giustizia si risolverebbe a nulla, ovvero a danno; e sono: certezza della costanza dell'abito, e notizia sicura delle opere giuste. Passiamo ad altra definizione: Giustizia è studio di non fare troppo o troppo poco ed osservare lo MEZZO. Dio ne liberi! la sarebbe giustizia da moderati; e il nome ha trucidato la cosa. Per un po' che tu ci pensi sopra, tu conoscerai che ai termini di cotesta definizione, chi ti ripescasse caduto e ti lasciasse poi fra il pelo dell'acqua e l'orlo del pozzo, sarebbe giusto; giusto avrebbe a giudicarsi colui il quale, potendo rubarti un sacco di scudi, te ne lasciasse la metà; e a ragionare così non costa altra fatica che aprire la bocca, e' ci sarebbe da sbattezzarsi pensando come sia tanto facile starsene zitti, e come ciò non di manco, l'uomo s'incaponisca di sfringuellare a vanvera. Più positivi, parecchi definiscono per giustizia il patibolo addirittura, ovvero il luogo dove si fa la festa ai condannati; e questa, a mio parere, ha da essere la giustizia vera, imperciocchè i diversi significati della giustizia si adattino maravigliosamente a simile significato: così giustiziare denota uccidere i condannati dalla giustizia; giustiziati gli uccisi dalla giustizia; giustiziere quegli che uccide gli uomini giudicati dalla giustizia.

Dunque smetti l'ubbìa di cercare la giustizia nei tribunali; ella sta di casa altrove; cercavi i giurati: di fatti e' ci sono: mira chiuso in cotesto casotto quel branco di brave persone. Li vedi? Guardali bene, sono i giurati, ovvero i giudici del fatto: a quale specie di animali essi appartengano non è cosa facile dire: a quella dei feroci, no certo: se le sembianze umane potessero significarsi a suono di musica direi, che presentano una scala semitonata dalla faccia della pecora fino a quella del montone; il demonio dello sbadiglio si è impossessato dell'anima e del corpo loro; con la bocca senza requie, ora aperta ed ora chiusa, raccontano la storia di tutte le forme dei mascheroni che furono, e predicano la profezia di tutti i mascheroni da fontana che saranno fino alla consumazione dei secoli: onesti tutti da ventiquattro carati buon peso: veruno di loro diede mai agli avventori meno di undici once per libbra: è calunnia del Giusti, che taluno di essi vendesse zenzero per pepe buono, egli ci mise unicamente pane pesto, ed anche a ciò indotto dallo scrupolo, che il pepe pretto accendesse troppo il sangue dei padri di famiglia. Tutti, o quasi, pagarono le cambiali a scadenza senza protesti o gravamenti; tutti conservarono salutare terrore per la galera a vita ed anche pei lavori forzati a tempo.

Veramente, lo dico pel dovere di servire alla verità, e col rossore sopra la faccia, qualcheduno di loro amò la donna altrui, ma diventata vedova se la fece sposa, dando coda di sacramento al fatto che incominciò col capo di peccato mortale; e qualche altro lasciò vincersi dalla tentazione sotto l'aspetto di cameriera, ma non sì tosto se ne accorse la pudica moglie si picchiò il petto, si rese in colpa, e rimettendosi in carreggiata cacciò via la fantesca, alla quale, per non mostrarsi da meno del patriarca Abramo quando licenziò Agar, donava cento lire, dico cento in tanti cinquini di argento, perchè facessero più figura; e se ma' mai la pratica si lasciò dietro strascico peccaminoso, alla colpevole tentatrice fu liberale delle spese del parto e del puerperio ordinate dalla legge, e pel prodotto ebbe cura che saldo e ben condizionato lo deponessero nella ruota dei bastardi. Ciò basta alla dignità del borghese galantuomo e moderato, e ce n'è d'avanzo.

Rispetto a dottrina, chi presumerà superare i miei droghieri nell'arte di pesare a stadera, ovvero in quella di comporre un cartoccio bislungo o a cono? Non tutti, chè non sarebbe vero, ma taluno di essi temporibus illis, quando costumava moneta di metallo, per amore della teoria della uguaglianza democratica, tosò gli scudi traboccanti: ora però, che correvano biglietti di banca, se ne stava come Adamo sbandito su l'uscio del paradiso terrestre a struggersi alla vista del frutto vietato, peritandosi di andare a pigliarlo per propaginarlo nel proprio orto. Al mio droghiere giurato non istate a contare dei Tristi di Ovidio o dei Treni di Geremia, un conto di ritorno vince per lui il lamento di ogni più pietoso epicedio; come di rimpetto ad un conto di netto ricavato, che butta il pro di un cinquanta per cento, non gli rompano le scatole con le odi di Pindaro e di Tirteo. Le cose del mondo non vanno, e non andranno mai bene, finchè il padre eterno non provvederà a che sieno tenute in regola a partita doppia.

Oltre i droghieri fanno parte del Giurato alcuni medici, i quali appartenendo alla setta dei controstimolisti non disperano della salute della umanità, a patto che non si sopprima il salasso, e se Cesare Beccaria sostenne il contrario, egli è perchè non fu medico, nè chirurgo, e quindi nè manco potè essere legislatore compito e medico. Diavolo! Come volete rimediare allo stimolo, se renunciate al taglio della testa, che è il controstimolo?

E poi vengono gli ingegneri, i quali affermano la società difettare nei fondamenti; e per giunta i muri essere tirati su fuori di piombo; orribile comparire di aspetto come quella che va composta con un guazzabuglio di ordini architettonici. Onesti ingegneri, voi pigliate un granchio, le nostre società, quasi tutte monarchiche, furono inalzate su fondamenti di ossa e murate con calcina spenta nel sangue dei popoli, che fa cemento mirabile per simile maniera di fabbriche, a detta del Guicciardino, che se ne intendeva: quanto ai muri a sghembo, ci si provvede con puntelli di baionette: chi poteva tagliare la umanità tutta da una pezza non lo volle fare, però bisogna pigliarla com'è e tirare di lungo, senza andare a cercare il quinto piede al montone.

E gli avvocati dove me li lasci? Come si pongono di tratto in tratto colonne per indicare la diritta via sopra i cammini pubblici, così gli avvocati piovvero nel mondo per farcela smarrire. Costoro reputano offesa personale la divisione operata dal creatore fra le tenebre e la luce, e si affaticano ad abolirla. Il Dante impone silenzio a Ovidio ed a Lucano per le trasformazioni da essi raccontate, ma gli avvocati fanno dimenticare quelle di Dante; qual

serpentello

Livido e nero come gran di pepe[24]

può non che vincere, uguagliare la maligna virtù delle calunnie vendute e delle ire date a nolo? Con lo intelletto guercio per sofismi e con l'anima viziata dall'avarizia, o come giudicheranno essi? E pure essi giudicano e condannano le colpe, che seminano a bocca di sacco nell'umano consorzio.

A questi e ad altri cosiffatti uomini la legge dà commissione di penetrare nello spirito umano, indagare le più segrete scaturigini del delitto, e poi conosciute le contingenze tutte, onde si forma la volontà della creatura umana, confrontarle con le spinte esterne e gli urti del temperamento individuale: perchè per moltissime cose l'uomo è tomo della medesima opera, non iscompagnato, ma diverso dagli altri; poi vuole che essi abbiano ad un punto la sapienza del Kant e del Cabanis per assicurarsi, senza fallo, della spontanea intenzione dello agente, ovvero, come dicono in termine del mestiere, dello elemento intenzionale. Questa terribile Iside davanti cui Socrate piegherebbe sgomento la faccia, ecco tutto giorno svelano sensali, droghieri e merciaioli. E tuttavolta noi vivemmo nei tempi nei quali i giudici ordinari pronunziavano sentenze alla stregua della prova; se piena la prova, e piena era la pena; se no, un terzo, mezza e due terzi di pena. Tenetevi pertanto caro il giurato nella medesima guisa che anteporreste la scarlattina al vaiolo: per ora la scelta non può cascare che fra due mali; più tardi vedremo: la via è lunga, me ne sono accorto anch'io, ma la speranza ci conduce gratis, e lo fa volentieri; da poi che mondo è mondo, questo è il suo mestiere, e lo sarà fino all'ultimo.

Dacchè la Felicità viene pian piano perchè ha i pedignoni, contentiamoci della Speranza; cari miei, imitiamo la virtù di colui, che non potendo comprarsi l'arrosto, si soddisfece coll'impregnare il pane del suo fumo. L'oste ladro pretendeva dal povero uomo anco il pagamento del fumo, e il giudice gli diede ragione, solo condannò il convenuto a pagarlo col suono della moneta. Storie vecchie.

Oltre i giudici giurati, eccolo lì, il pubblico ministero, l'avvocato fiscale, il procuratore del re, insomma colui che urla sempre: Crucifige. Come il franco tenitore nel torneamento, egli tiene in resta la lancia del sofisma per iscavalcare nemici, i quali vinti, egli manderà alla dama dei suoi pensieri, che è la forca. In verità egli è un tristo, ma tristo mestiere, peggiore di quello di cogliere finocchio marino e masticarlo, come dice Amleto, peggiore di quello del ladrone da strada, imperciocchè questi affatto ingeneroso non paia, potendo incontrare contrasto e rimanere ucciso: l'avvocato fiscale assassina in poltrona.

Di contro al difensore della legge siedono i difensori degli accusati: anche questi decorano con vanti pomposi un mestiere assurdo ed ignobile: assurdo però che per costoro sieno innocenti tutti, come se colpe e colpevoli non esistessero al mondo: quindi la rôsa di pretendere ogni accusato senza delitto, mentre non giova ai rei, nuoce ai giusti. Per me vorrei che come pei crimini di lesa maestà si costuma nella Inghilterra, lo imputato dovesse dichiarare se intenda sostenere la innocenza assoluta ovvero la sua scusabilità; nel primo caso, dove non si giustificasse intero, gli applicassero la pena a venti soldi per lira in odio della temerarietà; nel secondo, gli si usasse misericordia, dacchè i giudici dovrieno rammentarsi sempre che anche essi un giorno tremeranno dubbiosi se verrà loro usata misericordia, ed avendola essi adoperata con altrui, più agevolmente la otterranno per sè. Inoltre ignobilissimo parmi il mestiere dello avvocato, però che ai giorni nostri si pigli a nolo ad un tanto l'ora, come le vetture di piazza; e quando ti fai pagare la coscienza a tariffa, oh! buffone, mi vuoi far ridere quando favelli di convincimento. Presso i Romani la difesa, non pagata per divieto della legge, induceva la gente a non discredere simile convincimento; e i Greci una volta ordinarono che gli accusati da per loro si difendessero; onde essi ricorrevano, è vero, alla opera degli oratori, ma unicamente perchè le proprie arringhe dettassero, mentre poi eglino o le leggevano, o, mandatele a memoria, le recitavano nel tribunale. Di qui le bellissime orazioni di Lisia, succinte e semplici, varie secondo l'indole dello incolpato e le qualità del delitto: altri si compiaccia delle filippiche o delle orazioni per la corona, che io mi contento della orazione dell' obolo e del fratricida.

*

Fabrizio aveva assunto la difesa della miserrima donna, per bontà di cuore, non senza però qualche miscuglio di libidine di fama: sicchè in fondo in fondo provvide più allo interesse proprio che allo altrui, onde se un giorno egli si avviserà chiedere a Dio la ricompensa di cotesta azione, dubito forte che egli non abbia a sentirsi rispondere: Recepisti mercedem tuam, tu hai riscosso il tuo salario da un pezzo.

Il profeta nei tempi andati esclamò; «Voi che passate, vedete, se mai ci fu dolore uguale al mio!» Queste pietose parole, dette già per Gerusalemme, furono poi applicate alla madre di Gesù Cristo; e senza dubbio non sembra che veruna angoscia possa superare quella della madre che raccoglie in grembo il proprio figliuolo lacerato dalla bestiale ira degli uomini, e pure si conosce spasimo fuori di misura superiore a questo, ed è quello della madre che si mira davanti il figlio che ella dubita ed altri l'accusa avere ucciso. Quando successe il pietoso caso, ella si sentì del tutto tramutata, o piuttosto sè da se stessa divisa: veruna parte del suo essere stette ormai più unita coll'altra: le sue facoltà intellettuali, non che le sue membra, entrarono in urto fra loro: gli occhi stirati verso le tempie, presero guardatura disforme; con uno vedeva il pargolo saltellante e vivo, con l'altro immobile e morto: delle orecchie in una udiva il vagito di cui piglia possesso della vita, nell'altra il singhiozzo della morte; allora ella fuggiva alla dirotta, mugolando, turandosi gli orecchi con le dita; indarno però, che gli infesti suoni crescessero sempre e non provava refrigerio alcuno nè dallo stopparsene i fori con le foglie, nè spingendovi dentro i lembi di carne rovesciati in su a modo che si fa con le faldelle per le ferite: si sotterrava la testa, ed era peggio: allora non sapendo a qual partito appigliarsi, si acchiocciolava giù sul pavimento senza dare in un gemito; di tratto in tratto lei scoprivano viva le convulse palpitazioni del cuore. Se tu l'avessi sperata traverso al raggio della luna, cotesto raggio le avrebbe passato il corpo, tanto era per lo spasimo continuo diventato attrito e trasparente: i capelli in parte rimasti neri, in parte diventati bianchi; taluni pieghevoli, altri irti e ribelli ad ogni cura di pettine; delle mani, la manca, senza requie, aperta e chiusa, pareva volesse grancire qualche cosa; la destra giù inerte come morta. Come sudava piangeva; le lacrime, per così dire, non piante, traboccandole dalle ciglia, in parte le gocciavano in bocca, ahimè, quanto amare! Serbavano il sapore della colpa; parte cadevano in terra e la terra, vindice anch'ella della natura oltraggiata, mescolandole con la polvere le riduceva in fanghiglia; e più che tutto terribile la bocca; fregandosi ella con moto perpetuo le labbra fino a scorticarsele, queste presentavano sembianza di piaga insanguinata.

Non una parola di conforto si fece udire per la dolorosa, ma che parlo io di conforto? Non atto, non voce che non significassero maledizione per lei. Ella non la vide, nè la udì, chè Dio ebbe misericordia della canna schiappata. Ora dove sono i suoi uguali, che devono giudicarla? Gli uomini! Ma l'uomo comprenderà egli la paura della figlia per le furie paterne? La ferocia della fanciulla pel suo pudore offeso? L'orrore della donzella per la derisione delle compagne e pel vilipendio universale? L'uomo non potendo tutto questo provare, nè manco può comprendere. Ebbene, giudichino le donne. Misera lei! Le donne non conoscono lacrime per la sventura della sorella caduta: non furono già le figlie, quelle che copersero le vergogne di Noè. Tuttavia non disperiamo, verrà il tempo (e lo vedrà chi lo potrà aspettare) in cui le donne-giudici, uscite fuori dal Mercante di Venezia[25], col berretto in capo e la rettitudine nel cuore, la toga addosso e la sapienza dentro al cervello, giudicheranno le accusate; per ora le arrostiscono gli uomini. Le tante società instituite per la emancipazione delle donne stanno per dare grappoli come quelli della terra promessa. Ammannite i corbelli!

L'altro accusato era un prete, un degno sacerdote in verità, il quale aveva avuto la custodia delle anime; mostrava quella età nella quale gli uomini di giudizio dovrebbero depositare con buona grazia nella cancelleria del Tempo concupiscenze ed ardori, a mo' che fanno i mercanti dabbene i loro bilanci nella cancelleria del tribunale di commercio, per dimostrare ai creditori che s'ei sono costretti a fallire, falliscono di buona fede. Appariva lindo, zazzerato, con la sua brava chierica bianca quanto una fetta di zucca prima di essere fritta: contegnoso negli atti; piuttosto malinconico, che sconcertato, e

Più pensoso di altrui, che di se stesso,

come canta il Petrarca a proposito di Cola di Rienzo: il suo volto non diceva nulla; una lettera sigillata, una sciarada non anche indovinata, un biglietto del giuoco del lotto prima della estrazione: anche alla sua fama poteva applicarsi il detto del furbo, che portò via la lampada dal Duomo di Pisa: «Chi ce la vuole, e chi non ce la vuole.» Pure da un pezzo in qua, essendo diventato potente, i suoi compagni nel sacerdozio lo avevano ribattezzato in sagrestia con lo inchiostro e fatto bianco col suffumigio delle candele accese a San Gaetano padre della divina Provvidenza... Ahi, preti! preti! preti!... La cronaca dei tribunali, così nostrani come stranieri, va trucemente famosa per le geste vostre, o laidi, o scellerati!

Se voi sacerdoti vi contentaste ad esercitarvi soltanto nei sette peccati mortali, guà! per uno accomodo ci starei, ma quello che più mi dà uggia, è l'ottavo, nel quale eglino presero tutti la laurea nella università della Ipocrisia, e consiste nell'arte di ricoprire gli altri sette. Più che ci penso, in coscienza, meno ci capisco: un dì i municipi, e credo taluni anco adesso, stanziavano non so quanti scudi in premio all'uccisore di un lupo, e non elargivano nè manco un soldo a cui ammazzava un prete: all'opposto la legge (e' vi hanno legislatori, che per immaginazione danno tre punti giunta a messer Ludovico Ariosto), considera il prete un uomo, e chiama omicida chiunque si avvisasse levarlo dal mondo. E sì che fu provato e riprovato il prete essere uguale alla somma di tre lupi; diventino uomini e vivano.

E non basta; personaggi soliti a dare la orma ai topi e le mosse ai tuoni si tirano su le maniche in Parlamento, e si sbracciano, affinchè venga concessa ai preti liberali la facoltà d'insegnamento. Come va questa faccenda? Vietasi agli speziali, sotto severissime pene lo spaccio di sostanze velenose, e poi lasciate ai preti libera la facoltà d'insegnare? O che siate benedetti, che cosa volete voi che insegnino! Che il papa è padrone del cielo e della terra; infallibili i suoi responsi; egli potere con una parola del nero far bianco, il tondo quadro, e così via. I preti sono fungosità dello errore: dopo secolari travagli la verità appena li può pigliare di mira, e voi li armate di tutto punto, affinchè tornino alle conquiste della superstizione? Voi vedrete il prete rigermogliare peggio della gramigna, che scusso di famiglia semina e non ara, e alla raccolta miete per venti: anche ieri tutti l'ossequiavano come potente; ieri ed oggi lo venerano molti: voi l'offendeste, voi lo spogliaste, ed oggi vi assottigliate il cervello per dotarlo di forza per vendicarsi e rifarsi della odiata inopia. Il mondo, insomma, è una contradizione divisa di giorni e di notti, e il peggio incoglie a cui non vi si adatta.

Difensori del prete due avvocati insigni; entrambi parziali pel ministero che regge: non già perchè importi loro un ministero o un re, o un reggimento piuttostochè un altro; essi possiedono vele per tutti i venti e carte per tutti i mari: stanno per cui comanda. Uno di loro, quel grasso, è celibe; lui non dilettano davvero la gloria o il desiderio di giovare alla patria e simili altre quisquilie: egli vuol vivere con quanto di meglio produce l'alma natura per tutta la superficie della terra: e perchè anco la ghiottoneria si compiace della estetica, egli chiama poppe di Venere le più magnifiche fra le pesche; e qui mi fermo. Chi procede poco ligio al Governo, e peggio poi chi gli si scuopre avverso, corre mille traversie, non fosse altro quella di mettersi tardi a tavola, e a lui non occorse mai trovare il pranzo diaccio in questa vita, e così spera nell'altra. Più grave peso, non so, se per parlare giusto, io mi abbia a dire o la fortuna o la natura pose sopra le spalle all'altro avvocato; egli ebbe tre figli e gli attaccò tutti al corpo dello Stato; poco gli importò del dove si sarebbero attaccati, purchè succhiassero; pel primo gli era riuscito murarlo come capitello nella fabbrica di un ministero: andare più su non poteva, chè glielo impedivano cornici, cornicione, frontone et reliqua che gli stavano di sopra; ma ciò non preme, anzi ci aveva piacere, perchè maggior numero di circolari di quello che già ci era in cotesto cranio non ci sarebbe capito, e girando dell'altro si correva rischio di rompere la corda all'orologio. Il secondo si riputava felice nella bestialità prebendata di un benefizio nella cattedrale di Milano. Soldato il terzo, e se invece della spada, si fosse posto al fianco il breviario del fratello, veruno si sarebbe accorto dello scambio: per conoscere le fosse dei campi lombardi, egli non temeva concorrenza col più esperto ingegnere ed agrimensore d'Italia.

Per istare a galla, questi due avvocati e deputati del centro non l'avrebbero ceduta di un pelo ai tappi di sughero; e nonostante ciò, un giorno, essi si trovarono come Ercole al bivio: ecco l'autorità si parava loro biforcuta davanti in sacerdotale ed in monarchica, una coll'aspersorio in mano, l'altra con lo scettro; quella col laveggio del triregno in capo, questa con la cazzeruola del berretto Ricotti: che pesci pigliare? Tolsero esempio dal sole: se anche questo ministro maggiore della natura talvolta si ecclissa, tanto più potevano ecclissarsi essi; però, nei voti ancipiti, non comparvero alla Camera, e così, piacendo a Corte, non dispiacquero alla sagrestia: ben veduti da tutti, promossi dai giudici, favoriti dai preti, delizia dei segretari, partecipi di tutte le commissioni e le inchieste, più del matto dei tarocchi ch'entra in tutte le verzicole, sentendo come nelle alte sfere, la scissura fra la potestà temporale e la spirituale si lamentasse, si adoperarono lodevolmente, non meno che fruttuosamente a farla cessare.

*

La Corte! Ecco uno dopo l'altro comparire tre giudici. O perchè tre? Una volta, che il Tribunale dei giurati abbia chiarito l'accusato colpevole del delitto che gli venne apposto, poco ci vuole ad aprire il volume della legge e riscontrare quale pena ella gli assegni. Un solo giudice avrebbe a bastare. Io raccomando questa economia, non per ora, ma sì per quando la Italia, dopo il fallimento, si porrà in carreggiata per diventare un paese governato da cristiani.

Il presidente interrogò gli accusati intorno alle generalità: il prete ha nome Liborio e fu figlio del fu Ambrogio Rospani di Chivasso, curato di San Rocco in Valpaiola; la donna si chiama Felicina, figlia di Salvario Rubinetti, che si è reso defunto, di Castiglione. Dopo ciò, fece leggere ai dodici giurati la formula del giuramento, e questi senza pure stringere le ciglia promisero di non tradire i diritti dello accusato, che non conoscono, nè quelli della società, i quali conoscono anche meno; promisero non lasciarsi sopraffare dal timore, come se dipendesse da loro chiudere la porta in faccia alla paura, e per ultimo giudicare con imparzialità e fermezza, conforme conviene ad uomini liberi. Breve, la tromba sonò, il canapo si abbassò, via, barberi, potete correre il palio della giustizia.

Avvertiti gli accusati a drizzare bene le orecchie, ecco il cancelliere legge una bibbia dove si racconta per filo e per segno, come qualmente la Felicina fosse figlia femmina, nata unica a Salvario Rubinetti, applicato di terza classe al ministero della guerra; per isventura di questa esserle morta la madre nella sua infanzia, sicchè il padre solo la tirò innanzi con amore sviscerato: fino da fanciullina costei avere dimostrato propensione agli amori, ai balli, ad ogni maniera sollazzi: sopra le altre compagne s'ingegnava comparire attillata ed ornata, e poichè il povero stato non le permetteva le ricche spese, saccheggiava la natura per fregiarsi co' fiori più smaglianti della stagione: compita l'adolescenza, le si cacciarono addosso una smania irrequieta ed uno sfinimento, di che il padre prese ad andare pensoso: e quanti frequentavano in casa cominciarono a temere che la non fosse per dare in consunzione: in questo frangente capitò don Liborio a visitare il vecchio amico Salvario, il quale appena ebbe vista la fanciulla, si sentì preso di straordinaria compassione per lo stato di lei, onde egli disse, ed in questo lo secondava anco il medico, che per ritornarla nella primiera floridezza non ci era altro verso che farle mutare aria, conducendola in villa; dove circondata da immagini tutte piacevoli si sentirebbe ricreare: egli profferirsi menarla per qualche tempo alla sua canonica, confidandola alle cure della sua sorella, piissima donna, la quale l'avrebbe avuta cara come un sollievo inviatole da Dio per consolarle l'uggia della solitudine.

Il padre, dopo un lungo tentennare fra il sì e il no, parendogli che per la partenza della figliuola gli si avesse a rompere il cuore, finalmente acconsentiva commetterla nelle mani del prete. Così Felicina andata a casa don Liborio da prima niente fu notato nel contegno di lei, che non meritasse lode: più tardi ebbero a riprenderla di frequenti assenze, massime sulle prime ore della notte, che non sapeva scusare, o scusava con menzogne manifeste, tanto che la sorella di don Liborio protestò più volte che ella intendeva lavarsene le mani, non volendo sul finire del salmo della sua vita sentirsi chiamare arruffamatasse e pollastriera. Delle quali cose don Liborio (dice lui) sentendo maraviglioso fastidio, certo giorno si restrinse con la Felicina per farle una bravata nelle regole, quando ella (lo dice sempre il prete) con sua non minore maraviglia che spavento, gittatasegli ai piedi, gli spiattellò essere gravida di tre mesi. Tra l'ira e la pietà, quest'ultima prese il sopravvento, però, sotto pretesto di ricondurla al padre, la menò a Monza, dove acconciolla in casa della Brigida Travicelli, femmina di piccolo stato, ma di buona reputazione, a patto che l'albergasse e la governasse sinchè non si fosse sgravata. La Brigida chiamata davanti al giudice istruttore, depose come veruno mai si facesse a visitare la Felicina, eccetto il prete, ma rado: costui averle di mano in mano assottigliato la retta, sicchè, sull'ultimo, la Brigida dichiara avere mantenuto la meschina quasimente per amore di Dio. Avvicinandosi l'epoca del parto, la fanciulla spesseggiava lettere al reverendo, perchè andasse a consolarla, ma lui duro; onde se non era lei che le dava animo come poteva, la si sarebbe per la disperazione buttata via; finalmente il nodo arrivò al pettine, cioè Felicina prese a nicchiare, e la Brigida, immaginando che le cose fossero per passare lisce, sperò non ci sarebbe stato bisogno di altro aiuto fuori del suo; ma non si appose, chè il parto si mise al brutto: le strida della partoriente le straziarono così le orecchie e il cuore, che ella, persa la bussola, non sapeva più a qual santo votarsi; all'ultimo si dispose andare per la levatrice, e così fece, lasciando l'uscio di casa accosto. Andò e tornò, stando fuori il tempo che ci vuole a recitare un credo; la levatrice non trovò, chè era andata ad assistere una altra partoriente, ma al suo ritorno in casa vide la ragazza sgravata, don Liborio tutto affaccendato in camera, il pavimento insanguinato, e in mezzo al sangue la creatura giacente in terra, morta. La Felicina guaiva da mettere pietà alle pietre, don Liborio con parole soavi la raumiliava dicendo, che, poichè l'era andata a quel modo, bisognava rassegnarsi ai divini voleri: e senza punto smarrirsi, rinvolto il morticino dentro un mucchio di giornali, fece intendere volerlo trasportare alla prossima cappella per farlo seppellire in sagrato. Pochi giorni dopo taluni fanciulli, giocando alla palla in luogo remoto, avvenne che una delle loro palle andasse a ruzzolare entro certa chiavica che ingombra a modo di ponte massima parte della strada; la quale palla volendo ricuperare, uno di essi s'introdusse carpone sotto la chiavica, dove rinvenne lo involto dei giornali, ed avendolo disfatto, con orrore mirarono il corpo del delitto. I periti dell'arte, esaminato il morticino, concordi risposero essere nato vivo e vitale, e senza paura d'ingannarsi aggiunsero che lo giudicarono ucciso per istrangolazione, e per rottura del cranio; ai quali due atti, massime al secondo, vuolsi adoperare non piccola forza. Interrogata la Felicina, rispondeva che, partorito il figliuolo, ella, per lo grande spasimo, tracollò giù dal letto sul pavimento, dove giacque in deliquio: di nulla avere pertanto conservato la memoria, eccettochè, rinvenuta in sè, si vide innanzi don Liborio, il quale piangeva per la disgrazia, che al neonato nel cadere si era infranto il cranio. All'opposto don Liborio afferma che sopraggiungendo nella stanza dell'accusata, non solo rinvenne la creatura col cranio fesso, ma altresì strangolata. In conseguenza di che la Camera delle accuse, giudicando provato lo infanticidio con premeditazione, ne chiama colpevoli la Felicina, ecc., e don Liborio, ecc.

Il presidente, ultimata la lettura del decreto della Camera di accusa, ribadiva il chiodo, spremendone il sugo, dichiarando ai due accusati:

— Ecco di che cosa v'incolpano; adesso sentirete le prove che si hanno contro di voi.

Qui il procuratore del re presentava la lista dei testimoni, che letta ad alta voce dal cancelliere, ed ammessa senza eccezione, fu proceduto allo interrogatorio dei testimoni e dei periti.

Naturalmente giurarono tutti di dire la verità null'altro che la verità, e di non avere altro scopo che quello di fare conoscere ai giudici la pura verità, stando in piedi, con la destra sopra il Santo Evangelo, previa seria ammonizione sull'importanza dell'atto e sopra le pene stabilite contro gli spergiuri negli articoli 365, 366, 367 e 369 del Codice penale.

I periti naturalmente ancora ratificarono in tutto e per tutto la perizia da loro depositata negli atti. Il presidente allora domandò prima agli accusati, poi ai difensori, se avessero cosa da osservare. Gli accusati tacquero; Fabrizio fece col capo atto di diniego, ma uno dei difensori del prete, quegli dai tre figliuoli donati allo Stato, levatosi in piedi, dopo avere salutato a destra ed a mancina, per davanti e per di dietro, e confettati i periti di valorosissimi e di dottissimi, li interrogò: «Dicano, nella loro scienza e coscienza, se per operare la strangolazione e la frattura del cranio del neonato, ci sia stato mestiere di forza superiore a quella di cui l'accusata poteva essere capace, in specie considerando lo stato di parossismo nervoso, nel quale si versava in cotesta occasione. In subalterna ipotesi, dicano se la frattura del cranio possa essere stata cagionata dal percotere, che per avventura fece il parto cadendo sul pavimento.» I periti risposero per la verità, che la forza per istrangolare la debolissima creatura appena partorita, la madre poteva avere, ed anco di avanzo; non così per operare la frattura del cranio, la quale poteva probabilissimamente essere successa nella caduta del parto sul pavimento.

Chi avesse mirato il volto del prete dopo siffatto responso dei periti, lo avrebbe visto illuminarsi di un subitaneo raggio, ma fu lampo appena apparso represso, ed ei si ricompose tosto nel melanconico atteggiamento, il quale gli procurava la simpatia dello universale.

Dopo i periti interrogarono la Brigida Travicelli; ahimè! Non era Ettore, eppure quanto mutata dalla Brigida di un'altra volta: il suo deposto orale fu perpetua contradizione dello scritto. Ora ella affermava il reverendo nel commettere alla custodia di lei la giovane, averle premurosamente raccomandato di pigliarne cura come se le fosse sorella; non averle taciuto come per bontà di cuore l'accogliesse ospite in casa sua per rimettersi in salute; dove deludendo la vigilanza della sorella era caduta in leggerezza con qualche giovinastro del paese, adesso egli trovarsi nel maggiore imbarazzo che mai gli fosse capitato nel mondo, che nè a metterla per la strada, nè a ricondurla in cotesto arnese al padre gli bastava l'animo: la retta egli aveva pagato puntualmente sempre, e se altra volta attestò diverso, lo fece, Dio la perdoni, per istizza, dacchè credendo allora che il reverendissimo don Liborio avesse lo zampino in cotesto pasticcio, a lei non pareva di essere ricompensata come si meritava, e il prete, secondo il solito, fatta la grazia, avesse gabbato il santo; ma avendolo riconosciuto innocente, come il bambino allora allora battezzato, o giù di lì, e che tutto egli aveva fatto per carità, ed ora si trovava in brutti guai, cadutale la rabbia, aveva fatto proponimento di riparare, come poteva meglio, allo errore commesso.

Fabrizio, avendola fatta interrogare, come, perchè, e a persuasione di chi, ella avesse mutato credenza, ella rispose:

— Degni sacerdoti averle fatto toccare con mano come stavano le cose.

— Difatti le vostre parole sanno di sagrestia: e dite, vi hanno dato denari od altro, o vi hanno promesso ricompensarvi più tardi del mutato deposto?

— A me non hanno dato nulla.

— Promesso?

— Se più tardi vorranno darmi qualche cosa, sono una povera vedova e non posso rifiutare la carità altrui.

La mula era ferrata a nuovo; ond'ella continuando disse circa alle lettere, che veramente la Felicina spesseggiava a scriverne quanto più si avvicinava il tempo del parto, ma a cui le indirizzasse ella non lo poteva dire, non sapendo leggere: chi fosse l'amatore della Felicina, nè questa averglielo mai confessato, nè ella essere giunta a conoscere, ma dando spesa al suo cervello essersi immaginata, che fosse qualche soldato dell'esercito di Sua Maestà, e questo argomentava dalla furia con la quale la ragazza correva alla finestra appena sentiva sonare la tromba dei bersaglieri: in cotesti momenti non l'avrebbero potuta tenere nè manco gli argani.

Dopo la Brigida, venne uno stormo di beghine e di preti, tutti ampissimi fidefacienti della moralità, della probità, della santità, di una sporta insomma delle virtù, che finiscono in a; e il reverendo don Liborio, in sembianza compunto:

Stavasi tutto umìle in tanta gloria,

come madonna Laura.

Quanto a Felicina, l'avvocato Fabrizio reputò spediente citare per testimoni alcune fanciulle sue compagne d'infanzia e pari di anni, avvisandosi che come giovani avrebbero più agevolmente aperto l'animo a sensi di pietà, e messo per lei parole di difesa. Se (egli aveva pensato) se cuori induriti da lunghe offese non reggono alla vista di tanto infortunio, come non si commoveranno coteste anime verginali? E di simile commozione egli si avvisava far capitale per aprire una breccia dentro ai crani dei giurati.

Non lo avesse mai fatto! Pari ad un nugolo di insetti maligni, ognuna di loro si provò a spuntare il proprio pungiglione sopra le carni della povera Felicina, e lei dipinsero proterva e invereconda, degli amori altrui insidiatrice: invidiosa e spietata, sicchè non pareva esser contenta, se tutti i giovani non tirava a sè, nulla curando la disperazione delle compagne. Sovente avere presagito fra loro ch'ella non poteva, se non capitar male, ed ora essersi pur troppo verificato il presagio: della sua fine esse aver sentito dolore, non meraviglia.

All'avvocato Fabrizio cocendo essersi scottato le dita, venne in mente d'interrogare alcuna per qual modo poteva affermare che la Felicina toglieva altrui gli amanti, e fece peggio, perchè la interrogata come vipera rispose che questo non diceva per lei, perchè innamorati, ella non aveva avuti fin lì; e caso mai li avesse avuti, oh! la Felicina non sarebbe stata bastante a levarglieli di sotto: averlo sentito dire da altre.

Insistendo Fabrizio, ond'ella dicesse da quali indizi argomentasse lo istinto rapace nella Felicina di levare gli innamorati alle sue compagne, sentì rispondersi:

— Mi ha seccato.

Intervenne il presidente, il quale disse:

— La non si stia a seccare di più, e risponda con garbo.

Ora, siccome costei compariva magrissima, non è da dirsi quale e quanta ilarità destasse nell'uditorio la lepidezza del presidente; e la testimone indispettita osservò:

— Caro lei, subito che per colpa sua i giovanotti lasciavano le ragazze, ciò significa che se li pigliava per sè.

Le passioni, massime le passionacce, ragionano sempre così.

Le beghine a carico deponevano avere veduto la Felicina sbadigliare alla messa: ed una volta, alla predica del padre Giabolò, domenicano, si era addormentata: decisamente religione ella non ebbe mai.

Per ciò che spetta ai documenti, quelli che concernevano la Felicina procedevano a rovescio degli altri allegati sul particolare di don Liborio, cominciavano bene e finivano male; mentre i secondi mostravano patente brutta sul principio, e giù giù conchiudevano in lode. Era curioso considerare come la buona fama di queste due creature facesse l'altalena nel mondo, mentre la reputazione dell'uno declinava, quella dell'altro andava in su, e viceversa. Ci voleva altro che Fabrizio per combattere le arti dei gesuiti, e posto che egli avesse potuto sopperire alle arti manifeste, come avrebbe riparato alle segrete?

Le risposte del prete, mirabili per semplicità e per modestia; egli la contava così: essendo accaduta la disgrazia alla sciagurata Felicina, mentre la ospitava in casa sua, vergognò aprirsene coll'amico, ed anco temè per la figlia e pel padre; per lui, che quantunque dabbene, violentissimo uomo era; per lei, che dubitò ne sarebbe morta di onta: egli per troppo tenera (e se così vuolsi) per troppo pusillanime natura in mal punto si ritrasse dal retto cammino, e con quanto inestimabile danno! Procurò nascondere un fallo, e più tardi ebbe a rivelare un delitto, e il padre.... il povero padre, che sarebbe rimasto desolato alla notizia del fallo, a quella del delitto cadde spento d'apoplessia fulminante.... (e qui si asciugò gli occhi). La stessa debolezza lo assalse, allorchè avendo divisato portare il morticino al curato viciniore, perchè lo seppellisse, incominciò a ragionare per via: «Che cosa mai avrebbe detto il degno sacerdote a vederlo in cotesto arnese? Come non lo avrebbe umiliato per essersi messo in cotesto salceto? Qual senno, quale discretezza verrai a mostrare, non dirò di uomo anziano, di teologo, di parroco commesso alla cura delle anime, ma sto per dire di giovine scapestrato?» Si vergognò: perse il lume dagli occhi, povero di consiglio, non sapendo più dove andare, nè che si fare del carico infelice, dopo avere vagato un pezzo, capitò in un luogo remoto, quivi lo depose e fuggì via. Non ci è dubbio, egli confessava pianamente, tutto questo essergli successo per castigo dei suoi peccati, ma potere levare le mani al cielo e prendere Dio per testimone, ch'elle erano pure di delitto. Troppo cara gli era costata una imprudente carità, pure non se ne lamentava, e riverente piegava il capo ai decreti della divina Provvidenza.... ed aggiunse certe altre erbuccie che si tralasciano per brevità.

E pur con queste vele e con questi remi voga da secoli e accenna volere vogare un pezzo la galera della umanità.

Felicina interrogata non rispondeva: la sua mente vagava altrove; durava fissa nella immagine di un pargolo natante entro una pozzanghera di sangue: non cessava di udire il grido, che incominciò vagito e finì in singhiozzo di agonia. Sollecitata da Fabrizio, scossa dai giandarmi, finalmente si guardò d'intorno stralunando gli occhi; poi prese a strillare con lo odioso strido della civetta:

— Scellerata! Scellerata! Io sono la scellerata!

Cotesto ululo, a molti di coloro che lo udirono mise addosso spavento, a veruno pietà; nè ci fu verso di cavarle altro di bocca. Fabrizio sudava per la pena, e con la mano coperta dalla sottovesta si lacerava il petto.

Il procuratore del re (se io fossi re, nè manco per tutto l'oro della Sonora, gli permetterei chiamarsi mio procuratore) sorge, e principia col tirarsi su le maniche della toga, vorrei dire, come il sacerdote che si accinge ad immolare la vittima, ma il paragone mi sembra troppo di lusso; dirò come il gladiatore in procinto di scendere nel circo a duellare contro un uomo che non conosce e non odia. Anco questa comparazione mi pare di soverchio onorifica: lo ufficio del pubblico accusatore supera ogni similitudine, egli è unico; pari a se stesso; non lo confondiamo con altri, i confronti varrebbero a smussarne la punta, la quale importa che rimanga tagliente nella sua truce acutezza.

Se mai avvenga che nel casamento dove abiti con la tua famiglia torni di casa un macellaio, tu dà la disdetta e al termine dell'affitto vattene; se un procuratore del re, paga l'annata e vattene subito: lascialo isolato, esposto al bersaglio della pubblica esecrazione. Se cotesto mostro fosse vissuto ai tempi di Ercole, avrebbero celebrato capitale fra le sue fatiche quella di purgarne la terra. Difensore della legge sappiano che deve reputarsi e salutarsi colui il quale pone ogni studio di salvare lo innocente alla famiglia e alla patria; nel dubbio, si astiene; non già l'altro che spinge feroce le creature di Dio sotto la mola, onde la pena macini. Gli uomini se la pigliano con gli istrumenti del supplizio, scaraventando di tratto in tratto nel fiume cesti, assi e mannaie, e si maravigliano di vederli drizzati su un'altra volta come se fossero tornati a galla dal profondo delle acque; in che voi altri differite dagli orsi, i quali si arrovellano contro lo spiedo che li ferì, senza pensare alla mano che lo vibrava? Non contro gli arnesi del supplizio, bensì contro chi ordina che s'innalzi, bisogna voltare l'obbrobrio e l'ira; questi, non quelli, conviene sbalestrare quando capita.

Io di certo non mi condannerò al castigo di riportare la parlantina smollata nel sangue di cotesto acaro legale[26]; riferirò per sommi capi la sua orazione: pertanto egli parlò della ineffabile angoscia che gli travagliava l'anima per dovere mettere parole in tanto deplorabile negozio (come se non fosse stato dieci volte padrone di tirarsi giù dalla finestra prima di parlare!); pur troppo considerarsi, ed a ragione, i difensori della legge soldati; anzi per cui dirittamente guardi più dei soldati da compiangersi assai, imperciocchè questi riportino talora ferite nel corpo per ordinario sanabili, mentre i difensori della legge si sentono sempre trafitti nell'anima, così che nè per tempo, nè per mutare di stato possono consolarsi giammai. Tuttavia senza ira, senza amore, come senza viltà avrebbe compito il debito suo: soldato del dovere.

E qui si forbì le labbra, che gli pareva avere sbancato Marco Tullio Cicerone, poi con la estrema diligenza, che mette il sacerdote a rinettare col dito la patena quando ha celebrato la messa, si mise costui a raccattare i minimi frammenti della vita di Felicina, e commetterli insieme con cemento di perfidia e di sofisma: lei disse colpevole della bellezza funesta di cui la ornarono non amici i cieli; in lei indizio di futura pravità la gaiezza, onde giovanetta folleggiava nei sentieri della vita; lampo di libidine il talento di ornarsi di fiori, pigliando esempio dalla natura, e vincerli nella fragranza e nel colore; prova di corruzione in lei la cupidità di tirare a sè gli amanti altrui, scompigliando in questa maniera, senza verecondia, come senza pietà gli amori delle compagne; e con istinto più tristo dei cacciatori, conciossiacosachè, questi, chiappati gli uccelli, non li curano più, mentre ella all'opposto li curava per godere del tardo pentimento loro e dell'angoscia delle amiche tradite.

— Voi la vedete — sclamò quindi additando Felicina — questa rea femmina sta dinanzi a voi. Gli uomini della scienza esclusero la insania: dubitano vada soggetta a qualche passeggera aberrazione, che potrebbe essere conseguenza del rimorso, ma io lo nego, e affermo che finge; dunque, di quanto ella fa possiede conoscimento intiero; la volontà le persuade la elezione dei suoi atti; ebbene, diede ella alcun segno di pentirsi? Fors'ella accolse docile e sommessa l'esortazione del magistrato, onde chiarisse la giustizia di questo mistero di delitto? E lasciamo da parte il magistrato, giunse a intenerirla suo padre, che supplice le s'inginocchiò davanti? E quando cotesto infelicissimo traboccò nel sepolcro per ischianto di angoscia della sua contaminata canizie, si desolò ella? Chiese perdono a Dio del suo peccato? Desiderò un confessore per versargli nel seno tutta l'anima sua e procurarsi il sollievo che emana dalla penitenza, da questo fonte che la misericordia divina pose nel mondo, non meno portentoso di virtù che quello del battesimo?....

A questo punto un curato non potè stare alle mosse e gridò: Bravo! Il quale bravo destò l'eco necessaria dell'usciere, che non ripetè cotesta parola, ma urlò: Silenzio! Il regio procuratore continuava:

— No, anzi essendole stato proposto, lo respinse dispettosa. Dirò aperto quello che sento: in giovane donna io non vidi mai tanta durezza, tanta pervicacia, tanta impassibilità. Egli è perciò, che quando il troppo caritativo sacerdote le offre ospitalità nel suo tetto, se non sacro, almeno religioso, e la pone al fianco di piissima donna, ella non rabbrividisce al pensiero d'inquinare l'ospizio e di tradire l'ospite, rendendogli, ingrata! in compenso del pane che le offre, un serpente: non la spaventa la considerazione di immergere l'uomo di Dio in un mare di guai: concetto che io per me giudico tanto più proditorio, inquantochè il nostro sacerdote ebbe con lunga battaglia ed indefesso studio a combattere propensioni naturali non per certo felici, e le vinse; ed ora che da lungo tempo era uscito vittorioso dall'acerba tenzone, e così superiori come inferiori, a ragione reputandolo simile a Giacobbe, uomo provato nelle prove del Signore, lo proseguivano di altissima stima, per non dire venerazione, eccolo da un punto all'altro messo a repentaglio di perdere tutto: egli gustò l'aceto del carcere, egli il fiele dell'accusa; egli sentì l'obbrobrio, la detrazione, e le infamie di cui il secolo scapestrato è liberale contro la religione, âncora della società, e contro i suoi venerandi ministri....

Qui mormorio di approvazione per tutta la sala; ma l'usciere, assumendo le parti di Eolo, sorse in piedi guardando con piglio minaccioso i susurroni; per la qual cosa i mormorii ebbero a rinsaccarsi senza poter prendere la forma di un secondo bravo.

— Certo — continuava il pubblico ministero — il sacerdote doveva fare del cuore rocca, e ricondurre senz'altro la figlia al padre, svelandogli il suo peccato: non gli bastò l'animo: temeva non gli sarebbero mancati (tuttochè ingiusti) rimproveri di negligente custodia: sapeva che lo infelice genitore sarebbe morto d'ambascia, nè parve esagerato il presagio, poichè pur troppo lo verificò lo evento. Ora mettiamoci la mano al petto: chi di noi conoscendo uccidere lo amico, partecipandogli una notizia, non repugnerebbe dal farlo? Che partito in simile frangente sovveniva a don Liborio? Egli si mostrò certo generoso e pietoso; incauto forse, ma io vo' mettere anche incauto senza forse; e che perciò?... Io svolgo e risvolgo il volume della legge, ma non ci trovo qualificata come delitto la carità incauta; e neppure nella mia coscienza, dalla quale argomentando mi arrisico ad affermare, prestantissimi giudici, che nè anco voi la troverete nella vostra. La donna non palesò mai per preghiera, nè per minaccia il nome del suo complice, ed io, o signori, ho dovuto pensare, come avrete senza dubbio pensato anco voi nella vostra perspicacia, se lo poteva ella? Non si trova ella forse nella condizione di colei, che correndo scalza nel pruneto non sa dire qual pruno l'abbia punta? Costei scrisse, ci narra un testimone credibile, moltissime lettere senza mai ottenere risposta; e ciò a parere mio dimostra ad evidenza, che da lei s'indirizzavano ad uomini diversi, imperciocchè noi tutti ci sentiremmo sgomenti del silenzio altrui, e smetteremmo scrivergli più innanzi, o per cruccio del disprezzo che ci parrebbe patire, o per disperazione di vincerlo; quindi s'ella continuò il carteggio, è chiaro che deve averlo fatto con persone diverse. Allorchè la scaltrita donna ebbe picchiato a tutte le porte, e non gliene fu aperta alcuna, allorchè conobbe respinta da tutti la obbrobriosa genitura, ecco si volge in extremis al pietoso sacerdote, che accorre, e giunge.... o Dio! in qual momento egli giunge? Sarebbe pietà lasciare sepolto nelle tenebre quanto accadde in cotesta notte scellerata.... Il soffio del Creatore accese un'anima, il soffio di una madre la spense.... il primo latte della madre alla sua creatura non fu il bacio su le labbra, sibbene la stretta delle dita intorno al collo, donde uscì un solo vagito — primo ed ultimo; — per battesimo egli ebbe la strangolazione! poi cadde, e si ruppe il cranio. Però importa, prestantissimi giudici, che voi poniate in sodo, come una sola fu la causa della morte della creatura; prima di cadere era stata strangolata.

Per procedere con la imparzialità che per me è religione, mi sono mosso un obietto: perchè l'accusata si dispose a commettere il delitto? Non era più sicuro gettare il neonato nella ruota dei trovatelli? (Baratro degli uomini inciviliti, largo a ingollare, scarso a rendere anime viventi. Apotete spartano, riveduto e corretto ad uso della civiltà cattolica.) Su questo proposito rispondo: e che so io? O che sono tenuto io di entrare nel cervello del colpevole, e cercarvi, e trovarvi un nesso logico nei suoi divagamenti? Signori, io pensai sempre, e penso che il delitto assai più che dalla pravità del cuore, nasca da un calcolo sbagliato dello spirito. Con la morte del figliuolo forse l'accusata immaginò fare scomparire non solo la traccia, ma perfino la memoria del successo; le mancò il senno, e comparve il suo concetto infelicissimo così nello scopo, come nella esecuzione, e ciò perchè, come predica il proverbio antico a cui vuole male Dio toglie il senno. — E aggiunto un diluvio di ragioni di simile risma conchiudeva: — il tempo perverso domanda esempi virili; non vi trattenga la mostra di demenza, ond'ella vi sembra dominata, perchè usa per costume inveterato a fingere, chi ci assicura, ch'ella non finga? E nè anco vi commuova il rimorso, che per avventura a voi potesse parere che ella sentisse, imperciocchè il rimorso in ogni caso sarebbe il foriero delle pene che Dio le destinò nella vita futura, ma a Dio l'altra vita; la presente a noi: a lui lo spirito, a noi il corpo; nè il cielo volle mai usurpare le pene della terra, nè la terra quelle del cielo. La società offesa, chiede vendetta, e più della società la famiglia: considerate tutto intorno a noi minaccia rovina: ogni cosa agli urti incessanti della rivoluzione accenna sfasciarsi, mettiamoci, metteteci se pure n'è tempo, riparo per non rimanere sepolti sotto i frantumi... colpite, e al fiero esempio le vostre figliuole pensino, e tremino... Chiedo pertanto, che lo accusato don Liborio venga dimesso a carcere sofferto, e quanto all'accusata Felicina chiedo le sia applicata la disposizione dell'articolo 531 del Codice penale. —

Al finire di questo discorso, dove non sai se primeggi lo assurdo o la ferocia, comecchè entrambi v'insaniscano tiranni, fu udito un bisbiglio come di labbra susurranti avemarie e paternostri; di fatti non poche beghine avevano cavato fuori di tasca il rosario e devotamente lo recitavano.

Invitato a dire, sorse il giovane Fabrizio: il sudore gl'imperlava la fronte,

Non avea membro che gli stesse fermo:

con la destra si tirò dietro le tempia i capelli, e vibrato uno sguardo sopra il procuratore del re, che parve lo strale di Apollo contro il serpente Pitone, come se un demone lo agitasse proruppe:

— Sono quelle che ho udito parole di uomo civile in tempi civili? Vi contenterete voi padri di conservare caste le vostre figliuole per terrore della gogna, della mannaia e del capestro? Porrete voi custode alla verecondia delle vostre figliuole il carnefice? Per ritrovarla inalterata inchioderete la castità delle vostre figliuole sulla croce come lo schiavo romano? O padri, poichè voi non sentiste il debito di protestare in nome delle vostre figliuole, lo faccio io, e dichiaro che movendo il primo passo nel fòro, non avrei mai creduto inciampare in tanta indegnità.

Guardatevi di favellare alle vostre figlie di colpe, di delitti e di patiboli, bensì dite loro, che la società minacciata di naufragio ha gettato sopra esse l'âncora della speranza; e, od esse la salveranno, o veruna altra cosa potrà; serbino non pure i corpi, ma sì le anime incontaminate da ogni malefico influsso: quando le ammaestrerete fate di porre il dito sul vangelo, colà dove predica: «voi avete udito che fu detto dagli antichi non commettere adulterio, ma io vi dico, che chiunque riguarda una donna per appetirla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore»: dite loro che l'anima della donna ha da essere un santuario di pensieri casti e soavi; dalle sue labbra devono fluire sempre parole di consolazione e di amore; e dalle sue mani, pari agli arbori di mirra e d'incenso emanare perpetuamente atti di carità. Dimenticate i concetti sciagurati del pubblico ministero; sperdeteli al vento, e caso mai vi tornassero alla memoria sbanditeli come la tentazione del maligno.

E voi, fanciulle, la testimonianza delle quali, troppo fiducioso io invocai, invece di sovvenire alla vostra sorella caduta, voi avete portato fascine al rogo e fuoco per ardervela sopra; — voi sole siete quelle che potete far tesoro delle parole del difensore della legge.

Lo so, a me verrà taccia d'incauto per avere invocato la testimonianza di donne ormai tocche dal fiato malefico del tempo, ma a voi quale e quanto non lontano rimorso? Certo non i miei, ma i vostri nemici mi riprenderanno, dicendo che io doveva sapere come le sacre carte parlino bensì di angioli, di angiolesse non mai; e che se angiolesse ci fossero volerebbero non con ali di colomba, bensì di pipistrello. Voi salutano fiori, e fiori siete; ma fra questi vi hanno le rose, delizia della gioventù innamorata, ed i giacinti, fiori da morto, fregio di cataletto... andate contente se potete, con le vostre parole voi avete intrecciato la ghirlanda sopra la bara di Felicina. Che colpa fu la sua, se a lei, più che a voi, sorrise la natura? Se in lei più che in voi infusero i cieli senso del bello? Avete mai considerato se fu maggiore in Felicina la virtù di vincere i cuori, o la screanza in voi per allontanarli? Se come affermate non li serbava per sè, è segno certo che non ve li rapiva ella, bensì abbandonavano voi. Siate sicure, i vostri obbrobri contro la povera Felicina non vi guadagneranno più cuori di quelli che vi procurava la vostra venustà, nè cresceranno il valore della vostra dote.

Ma strano a pensarsi, mentre dispetti di femminucce e parole astiose forniscono materia al pubblico ministero per tessere grande parte di accusa, la gioventù perversa e gli atti biechi del prete accusato od egli dissimula o scusa... quasi li loda! Dat veniam corvis, vexat censura columbas. Ecco il procuratore del re, curandaio dell'anima di don Liborio, me lo tuffa, inquinato di mille sozzure, nelle sue pile e me lo rende di bucato: ecco il nuovo Saulo nella persecuzione della innocenza; casca da cavallo e, in grazia del procuratore del re, si spacca il capo? No... diventa Paolo... uno apostolo... un santo.

I tribunali così esteri come nostrani — continuava il giovane alzando la voce — vanno pieni di processi per delitti scellerati e nefandi, pei quali di leggieri si comprende come i preti abbiano elevato la ipocrisia alla sublimità di scienza. La religione hanno convertito in coccio da tartaruga, dentro cui si rannicchiano quando stormisce sul capo loro l'ira degli uomini e di Dio... Dio, del quale s'industriano snaturare nelle menti umane lo intelletto e lo amore mediante superstizioni, idolatrie e gaglioffaggini, che il popolo imbestiano così da disgradarne i bruti...

— Avvocato — interruppe il presidente — io adoperai fin qui, a vostro riguardo, molta indulgenza, considerando essere questa la prima vostra orazione, adesso poi mi parrebbe mancare al mio dovere se non v'invitassi a temperare le vostre parole, trattandosi della religione cattolica, riconosciuta della maggioranza dallo Statuto fondamentale.

— Signor presidente, accennando io a superstizioni, a gaglioffaggini e ad idolatrie, ma credete voi che io parli di religione?

— Ma le pie tradizioni che il popolo conserva ab antiquo voglionsi rispettare.

— Ah! gli errori diventano venerabili quanto più antichi? Credeva che questo accadesse pel vino; mi sono ingannato; da ora in poi terrò per sante le fraudolenze alla stregua del tempo che esse soffocano lo spirito umano. Popolo, rispetta le tue fasce, perchè ti stringono da secoli; tu hai da giacerti mummia eternamente dentro al sepolcro della vita! Chi aprisse il pollaio alle volpi si chiamerebbe stolto, e stolto altresì chi immettesse il lupo nell'ovile; e voi, che commettete le anime e i corpi delle vostre creature nelle mani ai preti, come vi chiamerete voi? Quello che la lingua rifugge a raccontare, quello che senza coprirsi la faccia per la vergogna non si potrebbe udire, forma per costoro esercizio di disciplina gentile...

— Calunnie! — interruppe una voce sonora nella sala.

Per cui l'avvocato come punto rispose:

— Chi è il temerario, che ardisce tacciare le mie parole calunnie? Si faccia innanzi. Signor presidente, vogliate ordinare che il processo continui a porte chiuse; ond'io possa allegare oltre a cento sentenze pronunziate nel giro di pochi anni contro le nefandezze sacerdotali.

— Continuate, avvocato; ciò non fa al caso nel nostro processo: l'interruttore sia condotto fuori della sala.

Lo interruttore fu rinvenuto; egli era un prete gobbo: allora il riso s'impadronì della gente quivi adunata; perfino i giudici risero, ed anco don Liborio; due no, Felicina e Fabrizio. Così senza rimedio si alterna nel mondo la tragedia con la commedia, perchè questa quando tu te l'aspetti meno t'insanguina le mani, e quella, mentre tu stai per piangere, ti cocca e ti fa la castagna.

Quietato il riso, Fabrizio riprese:

— Deh! datemi ascolto e incoraggiatemi con la vostra attenzione, perchè se il mio dire vi parrà inculto, egli però si parte dal cuore. Avete veduto il pubblico ministero con quale agonia attese a raccogliere pruni, sterpi, stecchi e trucioli per costruire il rogo dove abbruciare la misera giovane? Per me confesso che in ascoltarlo, sentendo paura ch'ei mi notasse e gli saltasse il capriccio di accusarmi, mi venne voglia rimpiattarmi; qual vita comecchè innocentissima non gli fornirebbe materia per chiedere l'applicazione della pena capitale? Ma sapete, signor procuratore del re, che con tutto il rispetto che io professo per le vostre virtù, se mi mettessi a frugare nella vostra vita coi modi coi quali voi rovistate nell'altrui, gioco cavarci tanto da farvi impiccare per lo meno tre volte.

Ora venite qua, e ditemi: quando la Felicina per gli inviti del suo insidiatore, lasciò la casa paterna, era incinta, o no? Se incinta, perchè allontanarsi da un luogo dove avrebbe rinvenuto sussidi a celare meglio il suo fallo? Qui i testimoni pochi e interessati a nasconderlo; e per andar dove? In casa circondata da persone rigide, studiose a vigilarla, non facili a perdonare di questa maniera peccati: ad ogni modo repugnanti a sovvenirla per dissimulare la sua colpa: quindi cresciuti i pericoli, lo scandalo sicuro. No, prete, tu avesti Felicina pura e ce la rendi contaminata. Chi ci racconterà le arti infernali del seduttore, le lusinghe, le profanazioni, le minaccie, il terrore? Chi le violenze, o lo assopimento, o la ebbrezza? I serpenti conoscono le infinite guise con le quali i serpenti inviluppano la vittima nelle loro spire, non io. Perchè non la ricondusse al padre? Questo il debito suo. Egli mentisce quando narra del padre fulminato dallo annunzio della colpa della figlia: non fu, no, la notizia del fallo, bensì quella del suo preteso delitto che uccise il misero uomo.

Certo, non io scuserò la fanciulla, la quale non seppe resistere alle lusinghe dell'amore, ma non sono questi i peccati di cui inorridisca la natura, e trovino uomini e genitori implacabili: la gente ci si mette attorno per ridurli a sacramenti e le più volte riesce: in questi casi le nozze valgono per matrimonio e per battesimo. Ora dirò io la ragione per la quale la figlia non fu ricondotta al suo genitore: il pubblico ministero, con verecondia pari alla carità, suppone perchè dei molti pruni male ella avrebbe saputo indicare quello che la ferì, ed io gli affermo al contrario ch'e' fu perchè l'unico e il solo temè rimanere scoperto, perchè questo non poteva, anco volendo, riparare al mal fatto, perchè questo uno appetì la voluttà, non gli imbarazzi della colpa. Al pubblico ministero non garba indagare le cagioni del delitto: a lui basta trovare il fallo e domandarne il gastigo. Ciò significa che egli, o non conosce il suo dovere, o ricusa adempirlo; quando egli insta, affinchè la legge percuota un capo cui egli non in virtù di prove, ma per via d'induzioni dichiara colpevole, allora religione, coscienza e legge gl'impongono l'obbligo di rinvenire prima di tutto la causa di delinquere; però che se causa non si trovi, e non pertanto il delitto sia stato commesso, ne viene per conseguenza che lo imputato, come agente senza intelletto, non si condanni per colpevole, bensì si chiuda come demente. Giusto, in questo punto, sul quale il pubblico ministero guizza con riprovevole leggerezza, io lo intimo a rendermi ragione della causa determinante Felicina a commettere lo infanticidio. Ormai ognuno sa e sente che spugna di delitto non cancella vestigio di colpa. Non riesce arduo, non dà luogo a ricerche il deposito di una creatura nella ruota; mentre all'opposto è impossibile chiuderla nella bara, senza suscitare sospetti ed investigazioni di polizia; e non ci ha mestieri di troppa sagacità per comprendere come, nello infortunio in cui la Felicina si trovava travolta, la più sicura, anzi l'unica via, che le si presentasse, era per lo appunto quella di deporre il figlio nell'orfanotrofio. Invece si pretende più verosimile, anzi vero, e di più provato, che la madre in mezzo agli spasimi, agli sfinimenti, e mentre la natura raumilia le ferocissime infra le belve, ella pensi unicamente a celare la sua colpa; peggio ancora, deliberi mandare ad esecuzione il consiglio premeditato di uccidere la sua creatura. Così secondo il concetto del pubblico ministero, il proposito di ammazzare il suo figliuolo, maturava nel cervello della madre alla stregua che le membra di lui crescevano nel suo seno. Io me ne appello a quante madri qui convenute ci ascoltano, e le invoco a dirci se questi concetti non sieno calunnie espresse contro la natura.

Si concede, che il neonato possa in cadendo essersi infranto il cranio, perchè si vuole assolvere un colpevole; si contrasta la strangolazione fortuita, perchè vuolsi condannare lo innocente. Fra i dibattimenti dello spasimo, fra le smanie del dolore, in mezzo al deliquio, non vi par egli più ragionevole supporre che la mano cercando qualche oggetto per aggrapparvisi siasi crispata intorno al collo del pargolo? Ci è forse bisogno della forza di un atleta affinchè simile infortunio succeda? Così debole cosa è l'umano alito nel suo nascimento che anco l'aura di primavera basta per ispengerlo. Se taluno è reo qui, non è la donna. Anco nei piati civili chi intenta un' azione deve provarla; tanto più nei criminali, dove l'oggetto della lite è una testa, e il pubblico ministero malignò di molto, ma non ha provato nulla. Io non vi chiedo la condanna del prete accusato, quantunque le prove, il discorso della mente tutto me lo chiarisca seduttore, omicida, traditore dell'amicizia, profanatore della ospitalità, ipocrita spietato....

Come quando un gruppo di venti si scatena sui campi della messe cresciuta, le spighe del grano si dimenano di qua e di là, e pare che sentano dolore, così si agitavano i capi degli uditori, e di nuovo proruppe la voce:

— Calunnia!....

— Calunnia!.... Ebbene, quando a me non soccorresse altra prova della reità del prete indegnissimo, mi basterebbe questa. Sapete voi in che fasce fu trovato avvolto il morticino? Ve lo dirò io: nei fogli dei giornali l' Armonia e la Civiltà Cattolica: giornali entrambi di cui si nutriscono i partigiani dei gesuiti, come Mitridate si cibava di veleno. Ecco il prete e i suoi doni. Questo padre dabbene ebbe avvertenza di provvedere il sudario in cui si avvisava ravvolgere il figlio morituro. Ma io, lo ripeto, non chiedo la condanna dell'accusato; questo non è mio ufficio; solo vi supplico a rimandare assoluta Felicina. Misera! a cui sembra cotesto nome, sia stato posto per derisione; miratela! Ventura per lei se l'avesse colpita in pieno la orribile infermità della pazzia: ella non è pazza, ma neppure gode il bene dello intelletto: si sente morire: i suoi pensieri, quasi strali scoccati dall'arco guasto, deviano dal bersaglio, di rado ella possiede la coscienza della vita; stringe il cuore a vederla sempre con gli occhi intenti al suolo, come chi cerca un obbietto che desideri trovare.... difatti ella vi cerca una fossa dove deporre in pace il capo doloroso.... Ah! non glielo negate voi. Dio l'ha percossa, e dove Dio percosse l'uomo non tocchi. Considerate questa povera foglia rimasta vizza sull'albero della vita, tremola per istaccarsi e raggiungere le altre cadute.... non le impedite la morte serena. Mentre alle fanciulle della sua età la vita sboccia fragrante e lieta come una rosa, ella niente altro implora che uscire dal mondo ignorata, che non la ricordi veruno, che intera la copra la terra della fossa: a questo patto ella non maledirà la vita che provò insidia...... perdonerà tutti, fino il suo vile seduttore, il quale volentieri abbandona alla misericordia di Dio.... —

L'avvocato commosso non potè condurre a fine la sua perorazione, con danno dei raccoglitori dei modelli della moderna eloquenza, e piacere inestimabile dei giurati, rinati alla speranza di trovarsi a tavola all'ora consueta. Il presidente allora chiese a don Liborio se avesse da aggiungere alla difesa dei suoi avvocati, ed egli sorgendo, reverente negli atti, disse:

— Nulla; io non mi lagnerò della diatriba contro la mia persona e il carattere sacro che io vesto, di cui il giovane avvocato, servendo al mal vezzo del tempo, ha fatto abuso: solo deploro, che la causa della sua cliente non abbia potuto somministrargli argomenti migliori di difesa: alla intenzione e al bisogno di giovare altrui, perdono la intemperanza e l'eccesso.

Quanto a me, prima di tutto confido in Dio, e poi nella mia coscienza e nel sapere dei giudici. Solo chiedo in grazia mi sia concesso osservare che non si serve davvero la causa dell'umanità straziando la religione ed i ministri di lei, i quali, istituiti da Melchisedec, vennero a noi per lungo ordine di anni e per lungo ordine di anni, in onta ai conati della empietà, vivranno. —

Non aggiunse: Portae inferi non prevalebunt, ma l'agguantò proprio sul margine estremo dei labbri. Un dì per significare le colonne d'Ercole della tetra sfacciataggine soleva dirsi: costui ha la fronte di bronzo, ovvero sopra la sua faccia si potrebbero battere i ducati; adesso codeste comparazioni non farebbero più al caso, mercè di tali, che ho conosciuto e conosco, di cui al confronto, il bronzo parrebbe latte rappreso e il torsello pasta frolla. Ogni cosa è in progresso.

Felicina non intese la voce del presidente, che a lei pure rivolto, disse:

— E voi, accusata, avete nulla da aggiungere per la vostra difesa?

Ma quella del prete la scosse, tremò forte dal capo alle piante, gli occhi smarriti fissò sopra lui come se fossero state due punte: poi di un tratto, a mo' di tagliola che scatti, gli si avventò al collo urlando col solito strillo:

— Scellerato, scellerato, scellerato, che hai fatto del tuo figliuolo? Rendimi il mio figliuolo....

Così mosse subitaneo lo assalto, che il prete colto alla sprovvista, non ebbe modo di schermirsi, si ripiegò e cadde in ginocchioni livido in faccia; quantunque la ipocrisia lo vestisse della sua corazza di ferro, la paura gli grondava da tutti i pori. Però toccando terra, sentì rianimarsi; a tutti i vermi succede così: la terra è casa loro, e comprendendo la stretta pericolosa in cui versava, e come una parola incauta avrebbe potuto tradirlo, egli si strinse a dire:

— Signore, liberatemi voi da questa forsennata.

Non pertanto grandissima era stata la impressione nell'uditorio per lo improvviso caso, e se da un canto l'aura di santo Ignazio loiolita riprendeva ad asolare, dall'altro la pietà tentava intenerire i cuori, e vi riusciva, se in mal punto il presidente non avesse con inconsulte parole redarguito Felicina:

— Accusata, credete voi con siffatti furori migliorare la vostra causa? L'audacia è l'ultimo rifugio dei colpevoli, ma non li salva mai.

— Dunque la è bella e giudicata? — saltò su impetuoso ad esclamare Fabrizio. — Dunque prima della sentenza è condannata? Ah! signor presidente, voi pretendete che la vittima si lasci svenare in silenzio? Voi negate ai morenti perfino il sospiro? Badate, dal lambire che le vittime facevano il sangue di sul coltello che le aveva sgozzate, gli antichi traevano funesti auspicii...

— Qui non ci sono sagrificatori, nè vittime, — interruppe il presidente stizzito — bensì giudici, dei quali è instituto condannare i rei, ed assolvere gli innocenti.

— Sempre? — E lanciata questa parola, che parve sasso frombolato dalla fionda, Fabrizio si lasciò andare giù rifinito sopra la sedia.

Il presidente allora, dopo dichiarato chiuso il dibattimento, riassunse la discussione, fece notare ai giurati le principali ragioni addotte pro e contro dalla difesa, rammentò i doveri cui erano chiamati a compire; insomma eseguì tutto quello e quanto viene prescritto nell'articolo 494 del Codice di procedura penale.

Legge e coscienza impongono abbia ad essere questo riassunto imparziale. Lo fu? E con più ampia domanda: ordinariamente egli lo è?

Io ho contemplato le bilancie di ferro tenute in pugno dalle statue della giustizia marmoree o di bronzo (anco quella eretta da Cosimo I, buona anima sua, sopra la colonna di Santa Trinita a Firenze, regge le bilancie) e confesso non averne mai veduto i gusci pari, nè l'ago diritto: ed ora se questo non possono fare braccia di bronzo e di marmo, o come pretendete ottenerlo da braccio di uomo? Qui havvi un polso, e dentro il polso il sangue che vi corre e vi ricorre risospinto dal cuore. E noi sappiamo per esperienza lunga pur troppo, quanto influiscano sopra il nostro cuore i rispetti, i sospetti e i dispetti co' quali (a detta della prelodata buona anima di Cosimo I) si governa il mondo; e non solo queste passioni, ma altresì l'uggia, la simpatia, il temperamento, la disposizione del corpo ed altre minute, infinite e non conosciute cause che tanto possono sopra di noi.

Imparziale il riassunto del presidente parve, ma togli un micolino di qua, un zinzino aggiungi di là; qui smussa leggermente una punta, e lì aguzzala; appoggia la voce sopra un periodo, e un altro susurrane, chè la voce colorisce più e meglio del pennello assai, e tu ti troverai ad avere con intera coscienza composta una relazione imparzialmente assassina; tale appo cui giudicheranno galanteria la lingua dell'aspide e la coda dello scorpione.

Nocque a Felicina il riassunto del presidente troppo più della requisitoria del procuratore generale, imperciocchè questa sembrasse, com'era veramente, irosa e sleale, mentre l'altro fu giudicato mansueto, e retto; quegli irritò, questi convinse. Nè punto meno riuscirono insidiose le questioni messe innanzi ai giurati, laberinto vero, per uscire a salvamento del quale sarebbe bastato appena il filo di Arianna; e la più parte dei giurati non conobbe altro spago, che quello col quale legavano i cartocci a bottega.

I giurati chiusi in Camera a deliberare, non riuscendo in tutto a formarsi da per loro un giudizio, nè potendo vincere la confusione in cui caddero per la moltiplicità delle questioni, accordaronsi a pigliare per guida il lume che traspariva dal riassunto presidenziale, e dove parve a loro che inclinasse al sì eglino dissero sì, e dove al no, senza tanto beccarsi il cervello, dissero no.

In meno di un'ora fu finita ogni cosa; la più parte di loro metteva doppio tempo a desinare: neppure una delle formalità volute dalla legge fu trascurata: vennero tutte eseguite puntualmente, chè il manuale sapevano a mena dito.

I dodici rientrarono nella sala, dove li accoglie un silenzio inquieto, foriero della tempesta. Il presidente domanda al capo dei giurati, conforme alla usanza, qual sia il resultato della deliberazione; questi con la mano sulla parte dove il cuore ha la gente, pronunzia la formula sacramentale: «Sul mio onore e sulla mia coscienza la deliberazione dei giurati è questa....» e la lesse, la quale sonò alternativamente ora affermativa ed ora negativa con questa ragione, che condannò senza pietà Felicina, e rimandò assoluto prete Liborio.

Il presidente, in ordine al verdetto dei giurati, dichiarato prima assoluto don Liborio, decretò si ponesse subito in libertà, non senza ammonirlo di procedere un'altra volta meglio avvisato negli atti di carità: anco questa ha i suoi confini; anzi per dirgliela in rima, conciossiachè il presidente desse talora una capata nella poesia, gli allegò la sentenza dello abate Pietro:

. . . . . . . . . . . e quando eccede,

Cangiata in vizio la virtù si vede.

E il diavolo rise. Quanto a Felicina, giudicata colpevole di netto, il pubblico ministero chiese con bellissimo garbo alla Corte l'applicazione della pena ai termini dell'articolo 531 del Codice penale.

— E che porta questo articolo? — domandavano così per curiosità l'uno all'altro gli astanti, ed anco i giurati.

— Ma! — rispose uno, tirando su una presa di tabacco — semplicemente la morte.

— La morte! — I giurati saltarono su come i diavoli di Germania scattano fuori dalle scatole, e si misero paura scambievolmente: parecchi di loro per quel dì non pranzarono; due, il giorno di poi ebbero a purgarsi; in altro modo non sapevano piangere. Le fanciulle infeste a Felicina si dispersero a mo' di colombe pel sopravvenire del falco; e tanto più volentieri mi valgo di questa comparazione, in quanto che ho avuto luogo di osservare come gli uccelli cari a Venere, non sieno punto, secondo la opinione universale, miti, al contrario rissanti spesso fra loro a colpi di becco, ovvero di ale a mo' che le femmine dispettose costumano co' gomiti.

Ai consiglieri della Corte non fece caldo nè freddo; nell'animo loro la sentenza, come la nebbia, lasciò il tempo che aveva trovato: di cotesta maniera arrosti tutti i giorni ne cuocono; all'odore dello strinato ci sono avvezzi.

Chi trionfò davvero fu il procuratore del re; quando tornò a casa pareva Ezio reduce dai gelidi Trioni con due corbelli di alloro: la bambina che gli si fece incontro giù per le scale egli si pose a cavalcioni sul collo, segno di sterminata allegrezza, perchè non dimenticava mai la sua gravità, anco quando era col berretto da notte e la veste da camera. A mensa si cantò da sè l' epinicio, ovvero l'inno del trionfo; per celebrare degnamente la vittoria volle una bottiglia di Chianti, proprio di quello del Ricasoli. Cotesto vino, che ha il colore ed anco il gusto del sangue rappreso, piace ai procuratori del re; anche il boia lo beve per le pasque.

La folla spulezzò in un attimo per cavarne i numeri, ed essere in tempo per giocarli prima che chiudesse il banco del lotto. Solo una vecchia tentennava il capo, e le gridava dietro: «Dove vai senza giudizio? Numeri buoni saranno quelli che piglierò quando le taglieranno la testa!»

A Fabrizio non fu mestieri interporre ricorso in Cassazione per Felicina; ricondotta in carcere la prese il delirio e non la lasciò più: poco prima dell'agonia, secondochè per ordinario succede, tornò a rischiararla nella sua pienezza la luce dello intelletto, e se ne valse per raccontare punto per punto le infamie del prete traditore ed omicida. Innocente ella era, e gli uomini le posero per lapide al suo sepolcro una sentenza di morte.

E pure questa sentenza troppo più che alla Felicina tornò maluriosa a Fabrizio, il quale appena fu pronunziata declinava il capo nelle mani, nè più si mosse, finchè gli uscieri vennero ad avvertirlo, che stavasi per chiudere il Tribunale; da quella via lo consolarono dicendogli: «Si faccia animo, se ha perso questa, ne vincerà un'altra!» Egli si destò, e gli parve essersi rinnovata in lui la leggenda dei sette dormenti; l'uragano gli aveva devastato lo spirito: amore, affetti, generose aspirazioni, ogni cosa dispersa; vibrò truce lo sguardo al cielo, e parve Giuliano l'apostata, quando raccolto nel cavo della mano il proprio sangue lo gettava in alto a sfida del galileo. Giù per le scale del Tribunale fu udito borbottare:

— Caligola era un moderato.... già che ci era doveva desiderare che non i Romani, bensì tutti i viventi avessero un capo solo.... umanità! umanità! non vali una corda che t'impicchi.

E don Liborio? Ah! il cielo non abbandona mai i suoi divoti, come disse colui che rubò la corona alla Madonna degli Angioli. Nelle prime ore della notte, che tiene dietro a cotesto giorno lugubre, mentre don Liborio si confortava di cibo e di bevanda, ecco fu bussato discretamente alla sua porta, dalla quale, schiusa cheta cheta simile alla bocca di una volpe che sbadigli, entrò un prete umile in vista, che, salutato appena don Liborio, così gli favellò:

— Qui non tira vento buono per lei; su si levi subito e non perda un minuto di tempo; troppo ci costa di fatiche e di danaro, perchè noi non evitiamo il caso di cominciare da capo.

— Ma voi chi siete?

— Io? Miri; — e gli mostrò un foglio alla vista del quale a don Liborio cascarono i frasconi: era un mandato del vescovo: di protervo si fece mogio, e si lasciò condurre come un montone. Trasferito pel momento in luogo sicuro; più tardi, a diligenza dei reverendi padri di Gesù, giunse a Roma inavvertito, dove presentatosi al cardinale penitenziere, dopo essersi sentito raccontare a parte a parte una lunga storia, che sapeva, cioè quella dei suoi delitti, venne sottoposto a penitenza asprissima. Anche qui gli valsero le arti della ipocrisia; e sì che i suoi compagni in chierica se ne intendevano; tanto è, gli riuscì essere liberato dal carcere. Vagò pel mondo, ma preceduto da per tutto dagli avvisi dei gesuiti, non potè fare di troppi civanzi. Io lo incontrai in Corsica mercante. Mercante di che? Ve la dò a indovinare in cento. Mercante di messe. Mercante di messe? dite voi. Mercante di messe, dico io. Ecco come. I preti di Francia, gesuiti o non gesuiti (imperciocchè voi dobbiate ficcarvi bene nella mente che i preti sono come i fagiuoli, ve ne ha dei bianchi, dei rossi, dei turchi, coll'occhio, ma in fondo sono tutti fagiuoli), costumano pigliare dai devoti a dire più messe che possono, e che non possono. In Francia il seme di Voltaire ha generato più preti, che quello del Giappone bachi in Lombardia. E tuttavia non sopperiscono alla richiesta di messe; taluno ha facoltà di binare[27], ma pochi: potrebbero ternare e quadernare senza facoltà, ma non usa, forse in grazia dello antico proverbio: Che non ci è putta nè ladrone che non abbia qualche devozione; insomma, siccome in questo mondo se ne ha a vedere di tutti i colori, così ci stanno anco dei preti, a cui non basta l'animo appropriarsi il danaro delle messe senza celebrarle: per le quali cose essi hanno trovato un mezzo termine, onde uscirne pel rotto della cuffia, accollando la celebrazione delle messe agli impresari. E questo si capisce; ma se l'accollo fanno alla pari, dove il guadagno? E se con ribasso come evitano il peccato? Adagio; fanno lo accollo alla pari, e ci guadagnano sopra: ecco come: in danaro pagano meno che possono, il rimanente somministrano in piviali logori, in pianete fruste, in dalmatiche usate e manipole rammendate e stole rattoppate, candelieri dorati a mecca, residenze ristuccate, madonne ricucite, cristi tenuti su con la colla, santi ritinti.

Don Liborio non stava a guardarla tanto pel sottile, e o non faceva contrasto, ovvero ne faceva tanto da migliorare il mercato senza però lasciarselo fuggire di mano, quindi anche egli punto da scrupolo (o che credete, che po' poi non avesse coscienza anche don Liborio?) di commettere simonia, portatesi tutte queste ciarpe in Corsica, negoziava coi preti dei paesi poveri come san Quintino, che sonava a messa co' tegoli, e dava in elemosina, vale a dire in salario delle messe, o candelieri, o pianete, o vasi di fiori sbiaditi a prezzo esorbitante, di rado aggiungendo danari, od aggiungendovene a spizzico: a questo modo si procurava certificati della puntuale celebrazione delle messe, che spediti in Francia, accettavansi per buoni, bastando ai committenti francesi avere tanto in mano da ninnare la coscienza perchè si addormentasse. Tuttavia la confessione non fu mai più concessa a don Liborio: gli permisero la predicazione, però che assai si mostrasse prestante in simile faccenda; invero copiosa era la messe che racoglieva nel suo apostolato, massime nel propagare il domma della Immacolata Concezione[28].

Capitolo IX. AMORE TERRENO.

E se la Parca ti proceda amica, ella non può fare a meno, che pigliando un tosone di oro per filare la tua vita, non ci mescoli dentro alquanto di lana scura: così ordinarono i fati; mentre se all'opposto, per elezione, o per destino, la Parca scelga per te il vello nero, tutti bui si succederanno i tuoi giorni, e pieni di amarezza: fra le tenebre del tuo sepolcro e quelle della tua vita, aspetta e vedrai che non ci corre differenza alcuna.

I casi avversi chiama la gente Sventura, come se fossero una cosa sola, e di qualità pari; invece la Sventura è molteplice, simile in tutto ai serpenti di Laocoonte; o se pure ella ha un corpo solo, mirala (Dio ti preservi da provarla!) i suoi capi sono infiniti! Cotesta idra spietata ti lacera il corpo, e nello stesso punto lo spirito; nel punto stesso t'investe la facoltà del pensare e quella del sentire; il sepolcro non ti possiede ancora, ed ogni giorno senti la morte.... Ch'è mai l'uomo fra gli artigli della Sventura?

Eppure, guarda cotesta onda mostruosa dell'Oceano! Anco il mare conosce le sue catene di monti, pari a quelle della Imalaia, delle Cordigliere e delle Alpi, quantunque esse sieno mobili, ed ei le faccia e le disfaccia senza posa.... Osserva.... osserva.... vedi quel punto nero che apparisce e scomparisce?.... Non vedi nulla! Ecco, guarda con questo telescopio e fa' presto, chè il punto nero sta per iscomparire per sempre. Lo vedi!.... Ebbene, l'onda mostruosa investì uno dei Leviatan del mare, i quali col ferro e col fuoco portano la schiavitù e la morte; lo travolse giù nell'abisso, lo trabalzò fino al cielo, e quivi lo disperse ai venti insieme con le sue spume; tutto scomparve, alberi, vele e la bandiera che nei giorni sereni, ventilata dalle brezze dell'Oceano, pareva che collo zufolare delle pieghe dicesse: anche l'Oceano mi riconosce signora!....

Cotesto punto nero è un uomo, che combatte contro l'Oceano. Con quali forze? Non ci pensa. Per quanto tempo?..... È già sparito, ma ha combattuto. Vissero e vivono anime non degne di trovarsi abiettate dentro un corpo di creta, che non piegano alla forca caudina del fato, e Bruto sputò la sua anima in faccia alla Sventura esclamando: «Vergognati della tua onnipotenza». E così Spartaco schiavo, e Catilina patrizio: entrambi caduti supini sul campo di battaglia, entrambi laceri di ferite nel petto, e con gli occhi aperti, trucemente fissi nel cielo, e co' ferri stretti nel pugno sfidavano ad un punto e maledivano i fati. La paura consacrò la fama di costoro agli Dei infernali, e la esecrazione mantiene sopra essi e la rinnova contro quelli che gli somigliano, perchè dura la medesima paura. Furono virtuosi? Io non lo so; so bene quest'altro, che chi li spense sarebbe stato in ogni caso più malvagio di loro.

Impertanto possono combattersi i fati; vincersi no. Taluna di quelle povere creature che si chiamano re ebbe la presunzione di farsi sudditi i fati, e Carlo di Angiò al primo urto di sventura superbamente vantava: «Buono studio vince rea fortuna.» Quando poi sentì trafiggersi da strali più fitti, che non appaiono atomi dentro il raggio del sole, curvò la testa supplicando: «Sire Dio, fa' che la mia caduta sia a piccoli passi!»

Concetto degno di re, non già di uomo, imperciocchè dimostri com'egli non intendesse perseverare nei supremi contrasti, bensì accomodarsi agli eventi a patto gli fornissero un nido dove riparare. Pure di non essere portato via, gli bastava durare sbattuto, come la pianta marina abbarbicata sul fianco dello scoglio vive vita di tremito.

Ai giorni nostri l'uomo, pauroso di rimanere sbranato di un tratto dalle granfie del leone, preferisce disfarsi lentamente in polvere sotto la roditura del tarlo; non vi state a confondere; se Napoleone I avesse provato appetito della bella morte, l'avrebbe trovata: io non dirò che la sua scelta fosse coraggiosamente codarda[29], ma egli è certo che volle vivere per giustificare lo abuso delle facoltà concessegli da Dio.

Perduto il trono, intese conservare la fama: e convertita Sant'Elena in pulpito, si mise a predicare concetti che non ebbe mai; o se pure egli li accolse nella mente, e' fu per disperderli. Vincitore, oppresse la umanità; vinto, la ingannò. Oh! non badate al tiranno caduto, che favella di libertà; le sue parole hanno per fine di costituire il fondamento di un altro trono. Dall'isola di Sant'Elena, Napoleone I legò al mondo Napoleone III, nella medesima guisa che Augusto legava ai Romani Tiberio.

Il poeta della Francia ha pianto sulla demolizione della colonna di piazza Vendôme, doveva piangere quando fu eretta. Tutti i popoli di Europa conservano memorie di avere sbranato, e di essere stati sbranati: se le tigri e i leoni conoscessero le arti, avrebbero anch'essi le loro colonne traiane, napoleoniche e nelsoniane.

Le arti cortigiane possono lamentare la dispersione dei trofei di sangue; la umanità se ne rallegra. Il cantore che lusinga gl'istinti feroci del popolo non riceverà mai il premio dello amplesso di Dio: bene l'amore sarà una corda della sua lira, non già un sentimento del suo cuore. Fin qui i francesi delirarono ubbriacarsi di sangue, più che di vino, ed oggi, non si potendo inebriare col sangue altrui, bevono il proprio.

E l'uomo ragnatelo, che fu Napoleone III, il quale prima ridusse la Francia in condizione d'insetto, e poi la risucchiò; adesso torna, pieno di speranza, a ordire la sua tela per riagguantare la mosca morta.... Almeno Belzebub era il demonio delle mosche vive! Anco co' denti fradici si mangia, anco con la viltà si campa, anco allo strepito delle maledizioni assuefannosi le orecchie, e si dorme: uomini siffatti prima di ogni altra cosa vogliono vivere, ed a ragione; curano la materia, perchè sono e sentono essere totalmente ed unicamente materia.

*

Con lo amore si cammina a gran giornate, e poichè il conte Ludovico ed Eponina si amavano senza incontrare ostacoli, potete immaginare voi se la macchina scivolasse a tutto vapore. Però bisogna dire che lo amore di questa non fosse uguale in tutto e per tutto allo amore di quello; la differenza chi sapeva cercarla la trovava. Era l'amore di Eponina amore di conquista e trionfale; amore, che nato appena, squassato l'arco gridò: «Valgo, e voglio regnare solo»: amore, che di ogni fiore fece ghirlanda ed anco, pur troppo, di ogni pruno siepe; amore, di quelli che alternano il nudrimento con desiderii terreni e con aspirazioni divine: simili alla rondine, la quale rasenta la terra per terminare la sua curva in mezzo dei cieli, essi pigliano per volare le ali in presto così dalle passioni come dallo ingegno e dai talenti; che la rondine anco quando rade la terra vola, e lo amore posandosi sulla materia alia impaziente a levarsi più in alto: però Eponina se avesse voluto spegnere il suo amore avrebbe potuto; certo le sarebbe stato mestieri pigliarsi il cuore e adoperarlo a modo di pietra per ischiacciargli il capo, ma lo avrebbe potuto: Ludovico all'opposto, quando pure avesse voluto, non avrebbe potuto per propria virtù; ma, in forza d'impulsi esterni, avrebbe potuto, anco senza volerlo. Natura da paternostro, la quale non si ripromette resistere alle tentazioni, ma si raccomanda quotidianamente a Dio per non essere indotto in tentazione.

La madre Isabella invece di temperare gli ardori della figliola, gettava legna sul fuoco, e poi ci soffiava dentro: se l'avessi a dire proprio come la penso, io per me credo, che mutatis mutandis (per valermi dello stile dei notari) ella fosse invaghita del contino Anafesti, poco meno di Eponina. O come mai? Ordinariamente la va così; garbavano alla Isabella i modi del contino, spruzzati in pelle in pelle di nobilesca albagia, il suo fare amabilmente contegnoso, la grazia della persona, lo incesso, la parola, il volto, e tutto, perfino il balbutire, vizio col quale i gentiluomini di razza manifestano la propria virtù. Isabella, a fine di conto, popolana nacque, e venne educata da pari sua: però tu che leggi, se sei popolano, devi confessare che grande è la potenza dei titoli sopra i cervelli popoleschi..... e sul tuo.

Quando un popolano pesta le mani ed i piedi gridando uguaglianza, per ordinario non gli do retta, imperciocchè io pensi che uguaglianza gli appetisca sì, ma a patto di diventare co' marchesi marchese. Allorchè tu presenti al popolano un conte, quantunque spiantato, tu, il più delle volte, lo miri, confuso per non saperlo onorare abbastanza, facendogli di berretta, e profondendogli inchini: caso mai il popolano od abbia, o si immagini avere l'amicizia di un titolato, tu lo udrai ricordare a tutto pasto il suo amico barone, o conte, o marchese, od anco cavaliere scusso. Là dove il popolo è condannato a starsi terra terra, come la porcellana, urla uguaglianza; se avvenga poi ch'ei si alzi un sommesso, lo proverai superbo come tutti i servi diventati padroni. E tu che mi leggi, ricorda come un popolano, anzi plebeo, erpicato un dì nei Consigli della Corona, a mo' di zucca sopra la pergola, immaginasse la vendita dei titoli di nobiltà, e ne prescrivesse la tariffa: egli pose a prezzo l'onore, nella stessa guisa che la Curia romana ci aveva messo il paradiso con la vendita delle indulgenze: così mentre la nuova nobilea niente acquista che turpe non sia, la vecchia perde il pochissimo lustro che le avanza.

Una volta l'antica nobiltà era in parte rispettata, e col manto orrevole di fodera di vaio spelacchiata, tanto la sua figura la faceva; adesso la nuova, infagottata nei mantelli, col soppanno di pelle di gatto di fresco scorticato, pone parecchia buona gente in sospetto della propria pelle. Un dì i nobili vecchi disprezzavano i nuovi, e non a torto: oggi i vecchi ed i nuovi si disprezzano vicendevolmente, e a ragione. Una volta i nobili vecchi mandavano fuori a correre il palio titoli e servitù, i nobili nuovi ci hanno aggiunta una puledra che si chiama Rapina. Affermano che il Giusti (il gran cantore toscano, che dal bellico in giù fu moderato e dal bellico in su rivoluzionario, fiera divina[30] ), quando cantò di un pirata in cappamagna, pigliasse la mira sopra un tale dei tali, per me credo ch'egli intendesse bersagliare tutta la classe dei pubblicani.

Napoleone I, magno conoscitore dei peccati umani, che forse poteva curare da Dio ed invece volle approfittarsene da tiranno, fomentò il guazzabuglio fra la nobilea viziosamente spiantata e la nobilea colpevolmente arricchita; e travasando fanciulle plebee con grosse doti sulle famiglie feudali, diceva che a cotesta maniera bisognava letamare l'antica nobiltà sterilita.

Certo, non può negarsi, e' ci ha di quelli i quali si mostrano e sono alieni davvero da siffatte distinzioni artificiali, ma se tu la squattrini pel sottile, troverai che a ciò li conduce non mica amore di uguaglianza, bensì studio di non vedersi menomata la legittima disuguaglianza da essi ottenuta per opere eccelse o di mano o d'ingegno, nè vada confusa con la turpe disuguaglianza venduta a tariffa che del vile anco è fregio[31].

Eccetto questo caso che, raro sempre, ogni dì più si stema, titoli e croci non furono mai tanto agognati quanto in questi tempi di fior di democratici, e dai repubblicani larghi di cintura più che più, i......... informino.

*

I nostri amanti non si erano promessi con parole di legittimare l'affetto onde si sentivano presi davanti il prete od il notaro, perchè nell'amore quando è di quello buono, ciò che parla meno sono le parole: con gli occhi, col sorriso, col tremito, con gli effluvi della persona se lo dicevano e promettevano sempre. O chi avrebbe voluto contrastarlo? Ed anco volendo, o chi lo avrebbe potuto? La signora contessa, madre di Ludovico, lo amava troppo per pensare nè manco per sogno a far cosa che gli tornasse molesta, cotesti non sono tiri da mamme amorose, massime se di figli unici; certo ella aveva preso lingua e le sarebbe stato caro di concimare con più letame plebeo, che non avrebbe potuto Eponina, la sua casa sfruttata, ma poi fiat voluntas tua. E quanto a babbo Marcello, non ci si pensava neppure; di tante cortesie lo colmava, tanto volentieri con lui si tratteneva, che si giudicava sicuro dovesse parergli toccare il cielo col dito accasando la sua cara figliuola con Ludovico. O non ci è un arnese che ci prenunzia il tempo cattivo? Sicuramente che ci è, e parecchi lo serbano in casa sotto forma di cappuccino, il quale quando la stagione mette al vento o al piovoso, si incappuccia, e se al buono, scapucciasi. Ora domando io o perchè non potrebbe essere corredata del suo barometro anche l'anima? O che difficoltà! Per me non ce ne vedo alcuna. Ma chi lo ha visto? Come è egli fatto? Chi lo fabbrica? Oh! se non si vede si sente. Quanto al fabbricante mi prevarrò dell'arguzia subalpina del ministro Galvagno: Rispondo che non rispondo. Lepidezza di cui rimase sbigottito quel desso che la profferì, e parve prodigiosa tanto là nelle parti del Piemonte, che il Municipio di Torino deliberò conservarla nell'acquavite, allato ai feti mostruosi, dentro il Museo di Storia naturale.

Fatto sta, che mal sonno aveva dormito Eponina, ed Isabella peggio: entrambe si erano alzate di pessimo umore: fin lì avevano trascurato le squisite mondizie della persona, loro cura e delizia. Eponina trascurò il pappagallo, che indarno ripeteva indiavolato: Eponina! Eponina! Isabella pestò la zampetta al suo Cialì: la prima erasi versato addosso la tazza del caffè, l'altra aveva rotto una caraffa di cristallo. Tutto insomma presagiva un giorno uzziaco. Con sospiro affannoso le donne aspettavano la posta del mattino, dacchè Ludovico, quantunque passasse la serata a veglia in casa Marcello, pure prima di coricarsi scrivesse una epistola erotica, breve o lunga, conforme gli frullava, e la faceva impostare, ovvero usciva ad impostarla egli medesimo, onde la fanciulla dell'animo suo la ricevesse la mattina per tempo: ghiribizzi d'amore.

Queste lettere specificano a parte a parte.... Rassicurati lettore; io non vo' dirti davvero che cosa e come dicessero; ho fatto per metterti paura: tu pure ne avrai scritte, rammentale, ed immagina che quelle del conte non saranno state più argute nè più sceme delle tue: piacevano a chi le dettava, piacevano a cui le riceveva; contenti loro, contenti tutti....

— Eccolo! Eccolo! — esclamò Eponina dalla finestra dove si era affacciata. — Dio mio! fanno la leva dei gottosi per fornire di fattorini la posta.... è uno scandalo.... ne vo' scrivere al Barbavara.... ed occorrendo anco al ministro.

Credo inutile dire che il fattorino non era neppure di leva pel servizio militare, mancandogli giusto otto mesi a compiere venti anni, e lesto in gamba così da dare tre punti a Mercurio, e le linguaccie dicevano che la prestezza non era la sola qualità da lui posseduta in comune con Mercurio.

Il pacchetto è consegnato alla portinaia; questa, punta dalla padrona, lo porta su di volo: Eponina in capo di scala glielo strappa di mano e riscontrando foglio per foglio mormora:

— Giornali.... anco giornali.... maledetti quanti giornali vivono al mondo! (e per questa volta dalla maledizione non rimase escluso veruno, nemmeno la Novità del Sonzogno, che la Eponina come patriotta preferiva a qualunque altro giornale di mode parigino).... Lettere per papà.... una per te, mammà.... per me nulla, o Dio! Nulla per me.

E la povera giovane sarebbe stramazzata sul pavimento, dove pronta al soccorso non l'avesse accolta nelle sue braccia la madre: se non che di corto ripigliava animo come sicura di non potere essere dimenticata, nè s'ingannò, che scorso un quarto d'ora appena, la cameriera discreta accostandole le labbra all'orecchio ci susurrò:

— Gaspero l'aspetta di là, in sala, per consegnarle una lettera del padrone nelle sue proprie mani.

— Che novità son queste! Ditegli che venga qua.

— Gliel'ho già detto, e mi ha risposto avere ordine di parlare a lei sola.

Eponina ansando va a pigliare la lettera; sul punto di aprirla nota come Gaspero, dopo fatto un profondo inchino, accennasse a svignarsela, onde ella imperiosamente gli comandò: — Non vi movete. E Gaspero di cui il mestiere era obbedire si fermò, perchè tra l'ordine del padrone un po' stantio, e quello della Eponina fresco fresco nella cronologia della obbedienza, prevaleva l'ultimo. Eponina con una ondata di virtù visiva lesse di un tratto:

«Amor mio!

«Che io ti ami non importa dirtelo; chè tu conosci quanto me, forse meglio di me, che sono cosa interamente tua; quando pure volessi non potrei dimenticarti, e tu sai se io lo voglia; eppure una terribile necessità mi stringe la gola sforzandomi a lasciarti. Io mi conserverò intero all'amor mio, perchè il mio amore è il mio cuore; ma sarei peggio, che tristo se pretendessi, od anco ti consigliassi a respingere gli omaggi che ti verranno fatti da altri certo non più devoti, ma più fortunati di me, Eponina di una cosa ti supplico, ed è non credere verbo di quanto ti verrà fatto udire a carico dell'onor del tuo Ludovico. Per le ossa del padre mio, per la vita della madre mia, per l'amor nostro, io ti giuro che la colpa altrui mi precipita in questa desolazione. Mentre tu leggerai questa lettera, Milano avrà avuto da me l'ultimo addio».

— Ho capito — disse imperturbata Eponina e fissando di un tratto gli occhi dentro gli occhi di Gaspero gli domandò:

— E quando parte il vostro padrone?

Il servo preso così a soqquadro rispose:

— E' non me l'ha anche detto.

— Dunque si trova in casa?

— Oh! no signora, egli è partito.

Allora Eponina, abbrancato con incredibile violenza Gaspero pel petto, gridò:

— Guai a te se mentisci! Chè dalle tue bugie può uscirne un precipizio, che i tuoi occhi non basterebbero per piangere; dove si trova in questo momento Ludovico?

Il servo, conquiso dagli sguardi di Eponina, terribili di amore e di furore, come persona costretta dal fascino, rispose: — In coscienza io non lo so, uscì di casa stanotte, e non lo abbiamo visto più. La signora contessa mi ha ordinato piangendo di fare i bauli per un viaggio lungo e di portarli a Venezia; la mia partenza è stabilita a stasera per l'ultima corsa della ferrovia.

— Prendi e bevi — disse Eponina porgendogli una moneta, e l'altro corrucciato respingendola soggiunse:

— Nè prendo, nè bevo.... palesando il segreto del mio padrone ho commesso errore, ed ora vuole ella col suo danaro convertirmelo in colpa?

— Hai ragione, scusa, va'.

Eponina tornata alla madre la mette a parte del successo, e a lei, che si confessava povera di consiglio, risolutamente favella:

— Madre mia, qui il tempo stringe, e come vedi lo indugio piglia vizio, io non voglio nè posso essere di altri che di Ludovico; nel mio amore sta la mia vita; divisa da lui, o ammattisco, o mi ammazzo: le parole non montano; andiamo a trovare papà, e facciamo in modo ch'egli acconsenta subito al mio matrimonio con Ludovico; ottenuto il consenso paterno, lascia a me il pensiero di scovar lui; ci uniremo e poi partiremo insieme, dacchè io intenda partecipare come moglie alle sue ree del pari che alle sue prospere fortune.

I gesti e i detti di Eponina soggiogavano, e poi la madre conosceva a prova l'arduo volere di lei, sicchè estimando ogni opposizione vana, si piegò ad accompagnarla nello scrittoio del padre.

Ivi rinvennero Marcello, il quale seduto davanti al banco si reggeva la testa con le mani, in atto di leggere un foglio; da più di un'ora ci teneva gli occhi su, e una volta in fondo, tornava da capo; al comparire della moglie e della figlia, tolse via con precipitazione il foglio, che si ripose in tasca, nel mentre che co' cenni invitava le donne ad assettarsi: il suo volto era torbido, e taceva; sarebbe toccato a Isabella incominciare, ma sì, tentava rinvenire il bandolo della matassa, e non ci riusciva; allora, come sempre, risoluta Eponina prese a favellare: brevi le sue parole e quasi incise sopra metallo; la voce stessa rendeva il suono che esce dalle vibrazioni di una corda metallica.... ma ahimè! non corda di metallo, bensì la più delicata fra le fibre del suo cuore mandava fuori quel suono infelice. La udì Marcello, con sembiante di mano in mano più triste; quando ella ebbe finito il suo discorso, il padre esitò, gli balenarono gli occhi, aperse le labbra per parlare, ma, appena ne fu uscito un suono inarticolato, le richiuse; tuttavia gli occhi di Eponina, fitti sopra Marcello, scottavano; non ci era verso da sottrarsi alla risposta, ond'egli all'ultimo cupamente sentenziò:

— Prima di saperti moglie a costui io vorrei vederti morta.

— Perchè?

— Tanto ti basti, Eponina, e non costringermi ad affliggerti e ad affliggermi di più; a questo pensa, che il padre piglia cura della felicità e della fama della sua figliuola per lo meno quanta ce ne può pigliare la figliuola stessa.

— E tu, padre, rammenta che io ho coscienza, che io ho volere, e non posso commettere al giudizio altrui ciò che è sostanza dell'anima mia; riconosco in te l'autorità di chiarirmi e di consigliarmi, ma volere e pensare spettano a me.

— E pure bisogna che per questa volta sia così. La causa che mi fa dire venne confidata all'onore di tuo padre; pretenderesti tu che io mancassi al mio onore?

— Bisogna.... bisogna... — mormorava Eponina.

E il padre di rincalzo: — E il suo celarsi e il fuggire dello sciagurato non ti dice nulla, figlia mia?

— Nulla, però che io sappia come noi altri cristiani adoriamo un innocente, che fu lacerato ed infamato con la morte degli schiavi.

— Eponina! — esclamò il padre, ed aperse le braccia: la figliuola vi si gettò dentro, ma non piansero, non aggiunsero parola. Tutto quello che potevano dirsi, si erano detto.

*

Da parecchi giorni Ludovico Anafesti si trova a Vienna sotto nome mentito. Senza amicizie, mal pratico del paese, ignaro della lingua tedesca, non bene fornito a danari, erasi ridotto a stare nel primo albergo che gli avevano proposto, e quivi viveva di pessima voglia struggendosi nell'angoscia; pur troppo lo premeva il male e lo spaventava il peggio. Dalla madre fin qui veruna lettera: mandava Gaspero due o tre volte il giorno alla posta, e quando il servo dopo breve ora tornando gli annunziava da lontano: Niente! il capo gli cascava giù peso sul petto come se glielo avessero empito di piombo, a mo' che fece il plebeo Settimuleio con quello del suo amico Caio Gracco. Per ordinario il giovine taceva; però di tratto in tratto lo spasimo che lo lacerava gli faceva forza a lamentarsi con parole tronche, nelle quali ricorrevano spesso i nomi di Eponina e della madre: imprecava al destino che lo aveva forzato ad abbandonare questi unici amori dell'anima sua: aggiungeva poi non so che di generosità sprecata..... di condizione insopportabile..... dando in certa guisa a divedere che l'immane sacrifizio incominciava a pesargli.

— Senza colpa nè peccato ho perso tutto, — egli diceva — casa, nome, patria, madre ed Eponina, che a quest'ora, o non pensa a me, o con orrore ci pensa.... Oh! se tu sapessi quanto patisco per te.... tu mi saresti accanto a temperarmi il fiele che bevo.... Io non sono avvezzo al dolore, e questo è troppo, ed incomincia adesso.

Gaspero da dieci minuti gli stava impalato davanti, aspettando la occasione opportuna per favellargli, la quale parendogli ora venuta incominciò:

— Il padrone della locanda, signor Bruksteiner, persona garbata, mi ha messo a parte essere uso di questa locanda regolare il conto co' forestieri che si fermano una volta in capo a dieci giorni; al quale effetto....

E gli porgeva la nota: Ludovico ci getta gli occhi sopra, e vede che ella sommava niente meno che a cinquanta fiorini, ond'è che rendendola a Gaspero, lo avvertì languidamente:

— Gaspero, paga e poi procura subito di trovarmi un albergo di cui il padrone sia meno garbato, ma più discreto, chè, andando avanti di questo passo, in poco più di un mese mi troverei al verde.

— O la signora contessa non le diede le gioie? Forse a Vienna le gioie costano come ghiaie?

— O Gaspero, tu ti hai a rendere capace come nella vendita delle gioie, quando si scapita un terzo si scapita poco; che se caschi in mano al giudeo, il quale di questi commerci si è imposto, e noi lo sopportiamo tiranno, fa' conto che s'ei non le giudicherà ghiaiottoli, la batterà di lì: e poi io tengo sacri questi ornamenti materni, e sebbene comprenda che un giorno o l'altro mi toccherà a venderli, pure io sentirei rimorso ad affrettare la necessità di disfarmene.

Gaspero, provvisto di tanti bei marenghi d'oro, andava alla volta del locandiere garbato, nè stette molto a tornarsene tutto raggiante verso il suo padrone, nel cavo della mano manca stringeva tuttavia i marenghi di Ludovico, e con la destra agitava un borsellino di moneta; era fuori di sè dall'allegrezza (perchè se il vino letifica il cuore dell'uomo, a mille doppi lo esalta il danaro, col quale si compra e vino e pane e carne e ogni altra cosa) e con voce che aveva preso l'argentino del metallo ragguagliava il padrone, come il sig. Bruksteiner, proprietario della locanda l' Aquila Imperiale, avesse in quella stessa mattina ricevuta la somma di franchi duemila da consegnarsi al signor Giulio Bonatti; ond'è, che prelevatine duecento in saldo del conto, gliene contava milleottocento, dei quali, pregava gli facesse un bocconcino di riscontro, per sua regola.

— Ma io non li aspettava....

— In coscienza, signor Ludovico, che sia benedetto, le pare questa una buona ragione per rifiutarli?

— Non ho detto questo: temo ci sia equivoco e non vorrei....

— In quanto a questo, dorma fra due guanciali; il signor Bruksteiner ha scritto sopra i suoi registri, e l'ho visto io con questi occhi veggenti: Ricevuto da M. Hans Kreutzer franchi duemila in oro da passarsi al signor Giulio Bonatti, n. 8. Tante cose ci tocca a pigliare, che non aspettiamo e che non vorremmo pigliare, che la sarebbe bella respingere i quattrini, che pigliamo più che volentieri. Dia retta a me, li pigli addirittura, chè per me, mi pare di vederlo, li manda la sua signora madre.

— No, Gaspero, non vengono da mammà; me lo dice il cuore; non mica perchè non volesse, ma perchè temo, poveretta! che non possa.

— O chi vuole che, a questi lumi di luna, mandi a spasso duemila franchi, se non è la madre?

— Sta' zitto; pochi amori vincono quello della madre, pure ve ne ha uno che vince anco lui.

*

Compiacetevi ripassare le Alpi e tornar meco a Milano. Eponina è sparita. Dopo le novissime parole favellate col padre suo, ella parve tranquillarsi: alla madre, che blanda industriavasi consolarla, rispose:

— Non fa caso; vedi, io non mi sgomento; ho fede nella innocenza del mio sposo Ludovico; e il tempo la chiarirà.

Convenne a mensa insieme con gli altri; certo, se si dicesse che il pranzo fu lieto, sarebbe bugia, ma nè anco fu tristo come si presagiva: più confusi degli altri apparvero Marcello ed Isabella, i quali, quantunque amassero del pari tutti i loro figliuoli, pure della Eponina andavano orgogliosi, però ebbero caro che, terminato il pranzo, ella proponesse di recarsi a veglia dalla signora Claudia tanto per isvagarsi.

— Va' pure, le dissero a coro i parenti, e fa' di cacciare i tristi pensieri, pensando che dopo il tempo cattivo ne viene il buono.

Tu ti rammenti sicuramente, mio diletto lettore, di donna Claudia? La zia biscottina del rompicollo il quale poneva ogni sua speranza, per rammendare gli strappi fatti nel proprio patrimonio, nella eredità di lei? Questa signora abitava un quartiere nel medesimo palazzo dove aveva stanza Marcello. La signora Claudia in gioventù coltivò parecchie maniere di amori; il suo cuore era un porto capace per tutti; nella lunga navigazione della vita aveva dovuto far getto ora di questo ora di quell'altro amore, ma però ne aveva conservati due più preziosi di tutti, co' quali costa costa ella si augurava riparare in braccio alla divina provvidenza, voglio dire, l'amore dei biscottini con la cioccolata e quello di santa madre Chiesa, la quale, come ognuno sa, è sposa legittima di Gesù Cristo, redentore nostro. Costei era un po' maligna, un po' linguaggia, anco un zinzino scandalosa; la tacciavano altresì di avarizia, ma per acquistarsi la gloria del paradiso non intendeva miserie, sparnazzava alla grande; del rimanente pulita come una gatta, bella favellatrice e dama di tratto signorile; si mostrava svisceratissima per la Isabella, che assai aveva usanza con le figliuole in casa sua, e la signora Claudia accoglieva tutte con festa, ma sua delizia era Arria. Questa ogni dì per non poche ore se ne stava allato a lei, ed ella l'ammaestrava nell'arte del ricamo in seta ed in oro, nel fabbricare fiori artificiali e a miniare Gesù bambino e i santi, cose tutte nelle quali riputavasi ed era certamente valentissima.

Arria, secondo il consueto, in cotesto dì, dopo le nove di sera tornò alla casa paterna: interrogata perchè non fosse venuta seco Eponina, ebbe a rispondere non averla veduta dal pranzo in fuori, nè in casa della signora Claudia esserci punto stata: dapprima crederono che parlasse per celia, ma e' fu uno istante, chè tosto subentrava la dolorosa realtà.

A cui legge riuscirà più agevole immaginare la desolazione della famiglia, che a me descriverla; però me ne passo. Le fantasie germogliavano, si urtavano nel cervello di quella povera gente, e via via più angosciose: più delle altre importuna ricorreva quella che disperata avesse posto fine ai suoi giorni, onde Marcello, che se ne chiamava in colpa, guaiva come se lo trafiggesse il male dei denti nel cuore; anche egli voleva darsi moto, ma non avendo balìa di reggersi in piedi stramazzava, nè gli altri, compresi interamente dal proprio affanno, badavano a lui; correvano privi di consiglio; i parenti e gli amici convenuti a casa durarono tutta la notte nella ricerca piena di agonia, e non venne lor fatto rinvenire nulla, come accade sempre quando la mente si volta tutta ad un punto che non è il vero. Chi può ridire le ansie di cotesta notte? Chi lo spasimo dei genitori? Chi le smanie di tutti? La mattina si radunarono in casa Marcello: tampoco se si fossero incontrati altrove si sarebbero riconosciuti, tanto apparivano nelle sembianze mutati. Rovistata da cima in fondo la camera di Eponina, non occorsero in iscritto, ovvero in indizio altro qualunque, capace di fornire lume: giunse la posta, e con la posta, bontà di Dio! una lettera, la quale, sebbene sconfortante, di fronte allo sgomento che li travagliava, parve sollievo.

La lettera di Eponina diceva così:

«Io corro sopra le traccie dello sposo che la mia anima si è eletto per istarmi con lui e partecipare le sue fortune. Per me lo stimo, anzi lo so innocente di qualunque colpa, che altri, o illuso o perfido, possa apporgli: e fosse anche reo, la parte della donna è quella di portare coraggiosamente la croce del marito. A Maria bastò l'anima per accompagnare Gesù al patibolo e per consolarne l'agonia: ora nel patire, tutte le donne hanno da sentirsi Marie: che, se ella era madre io sono sposa; e questo amore o supera quello o lo ragguaglia. Non porto invano il nome di Eponina. Ad ogni modo chi accusa e condanna deve provare la colpa; e trattandosi d'indurmi a pestare il capo di persona a me congiunta coi vincoli più solenni, che conoscano le creature umane, io non devo, nè posso starmene al giudizio altrui: se lo facessi, sarebbe viltà, se altri lo pretendesse, commetterebbe ingiustizia. Considerati i nostri tempi in confronto agli antichi, oggi il padre che impone alla figlia di spegnere il suo amore già consentito e benedetto da lui, solo per cieca obbedienza alla autorità paterna, è più tiranno del padre romano, al quale si concedeva la vendita dei figli sanguinolenti.»

Il povero Marcello nel sentirsi trattare da tiranno levò le mani al cielo e diede in un sospiro desolato, tuttavia giova osservare che qualche volta anco la buona gente, senza accorgersene, passa il segno reputando che la intenzione benevola temperi la rigidezza del comando.

*

Dei fratelli di Eponina fin qui non toccammo del minore; ma siccome egli sa essere una delle dramatis personae ed anco delle più importanti, così si strugge fra le quinte e si arrabatta per uscirne fuori a recitare la sua parte: per me non lo tengo, esca pure, ma prima di entrare in iscena mi permetta che io gli serva da Cicerone, affinchè i lettori apprendano a conoscerlo per di dentro e per di fuori. Curio nelle forme del corpo comparisce affatto diverso dai suoi fratelli; e come questo possa succedere laddove ogni sospetto di contrabbando sociale viene meno, domandatelo a cui lo può sapere, e non a me, che non ne so nulla. Egli era pertanto di statura mezzana, tarchiato e forte a meraviglia; neri gli occhi ed i capelli; la crescente lanugine sopra le guancie pur nera; acceso in volto, che ad ogni lieve commozione gli divampava; le labbra tremule come gli occhi, sempre in procinto di mandare baleni; svelto, veloce al corso, agile ai salti, cacciatore perpetuo, tiratore unico: sciabole e spade più frequenti in sua mano, che penna o libri: anco di musica egli sapeva, ma impaziente ad osservare la misura, lo scartavano sempre dalla orchestra: sonava il flauto o la tromba proprio per le Muse e per sè, imperciocchè non ci fosse verso che alcuno si fermasse per ascoltarlo. Per confessione di quanti lo conoscevano, egli superava i suoi fratelli in bontà e in ingegno: tuttavia non passava giorno che qualcheduno non conciasse pel dì delle feste, e ciò perchè essendo pronto di parole, e più di mano, mutava subito le controversie in contesa: siccome poi la esperienza gli aveva insegnato come le sassate di colta sieno quelle che contano, così di rado si trovava secondo a menare le mani; però, appena vinto od anche offeso l'avversario, sboglientiva subito e tu lo vedevi affannarglisi attorno amoroso per consolarlo o medicarlo: nè per repulse si ristava, nè per ingiurie e nè anco per battiture; a patto però che non fossero troppe, nè troppo sode. Poichè in tutte le guerre si portano due sacca, cioè quella del dare e l'altra del riscotere, egli ne riscoteva e spesso: allora con la faccia grondante sangue ei non voleva che alcuno lo curasse, se prima non avesse lavato e fasciato lo avversario e gli avesse chiesto ed ottenuto il perdono, sicchè nei presenti talora, più che altro, mosse il riso, e, strano a dirsi, a lui fruttarono più amici i pugni dei baci. Se taluno dei conoscenti cadeva gravemente infermo, egli, finchè durava il pericolo, lo vegliava la notte; e se moriva, egli lì a lavarlo, a vestirlo, a deporlo nella cassa, ad accompagnarlo alla fossa. Nel donare piuttosto eccessivo che largo: sovente anche nella crudissima stagione tornò alla madre in giubba nera, scarpe, calze e cappello, ma senza calzoni, però che nello androne di casa se li fosse levati per vestirne un tapino che moriva di freddo: quanto a danari le sue mani simili a vagli; per la quale cosa la madre, intantochè lo riforniva di quattrini, lo rimproverava dicendo: «Ma, Curio mio a questo modo tu darai fondo ad una nave di sughero.»

Rispetto a scienze, s'egli avesse potuto imparare passeggiando, come certamente fece Alessandro Magno sotto Aristotele, maestro dei peripatetici[32], sarebbe riuscito più cosa di lui; ma fossero pure le sedie sulle quali assettavasi imbottite e coperte di velluto, ei le avrebbe provate intollerabili come pettini da lino: di percezione rapidissima, chiappava la scienza a volo, o non la chiappava più; apprendere per lui era come un buttare la moneta all'aria giocando ad arme o testa; e tuttavolta, quantunque la fantasia gli bollisse sempre come una caldaia a vapore, le scienze di calcolo gli talentavano sopra tutte le altre: lo ingegno possiede le sue contradizioni come il cuore.

Dicitore parco e preciso; e tanto più preciso quanto più gli sconvolgeva la mente la procella della passione; vero vulcano di Ecla, il quale ha fuoco dentro e in vetta la neve. Rispetto allo amore per la Libertà basti dirne tanto che alla madre, la quale egli adorava come cosa santa, certo dì che lo interrogava chi più amasse nel mondo, rispose: la Libertà; ed insistendo ella: anche più di tua madre? Egli esitò, si fece pallido, poi ridivenuto vermiglio risolutamente confermò: più della madre.

Ed ora che ho fatto conoscere il mio Curio, spieghi l'ale e voli.

Quando questo giovane si fu persuaso che Eponina e Ludovico non si erano abbandonati alla disperazione, si mise a ricercare sottilmente dove si fossero ridotti, però che a lui paresse chiaro che i due amanti avessero dovuto fuggire di conserva; ma siccome egli s'ingannava nel suo supposto, così non gli venne fatto scoprire traccia della sorella; al contrario di Ludovico, e poichè simile esito lo confermò nel suo concetto, decise di mettersi in via per iscovarlo. Chiesta ed ottenuta licenza, la quale tanto più volentieri gli concessero, quanto che se la sarebbe presa da sè, dove gliel'avessero negata, provvisto di denaro e di preghiere a procedere prudentemente, egli partiva pel suo viaggio di scoperta.

E adesso vediamo la prudenza di Curio.

Fino a Venezia egli andò a posta sicura; a Venezia ebbe a trattenersi alquanto per rinvenire l'orma smarrita, la quale in breve ritrovata, subito corse a Vienna; appena giunto, eccolo a rovistare caffè, teatri e locande, ma gli venne meno il tempo e le gambe; cadde svenuto come quello che da più dì non aveva mangiato nè dormito: per ventura questo accidente lo colse in una locanda dove facilmente potè sopperire al suo bisogno: ricreato di forze, la mattina si ripose in giro per tempissimo: oggi la fortuna gli arride più propizia; sullo entrare nello albergo L'Aquila Imperiale, sbircia Gaspero, di cui gli occhi s'incontrano per lo appunto co' suoi. Gaspero, nel presagio della mala parata, s'industria sguizzare, volta la persona di scancio e prende a camminare di traverso, a mo' dei granchi, ma Curio dietro; insieme essi vanno su per le scale, insieme per le anticamere, insieme pei corridoi, dove l'uno lascia l'orma l'altro mette il piede, finchè Gaspero giunto all'uscio della stanza del suo padrone, quivi si ferma e sta. Sopraggiunge Curio, che gli domanda:

— Dov'è il tuo padrone?

— Non sono obbligato a risponderle.

— Levati di costì e lasciami passare.

— Io non mi muovo e non la lascio passare.

— No?

L'uscio della camera schiantato dagli arpioni si apre strepitosamente, e ruzzolano in un fascio sul tappeto insieme attaccati Gaspero e Curio.

Ludovico, comecchè desto, stavasene supino a letto, senza neanche il refrigerio del poeta Berni, il quale in quel medesimo atto per passare la mattana contava i travicelli del soffitto, perchè il palco della camera appariva stoiato e dipinto con uno stormo di amori, i quali tiravano a segno sopra l'ospite come per avvezzarlo con la minaccia dei loro strali agli altri più pungenti che l'oste gli apparecchiava coi suoi conti; al rumore del tracollo egli saltò giù da letto e, dopo rampognato acerbamente Gaspero, gli ordinava uscisse, chiudesse la porta in fondo del corridore e colà si piantasse di sentinella, impedendo la entrata a chi venisse a disturbarli.

Appena Gaspero aveva avuto tempo di eseguire i comandamenti di Ludovico, che Curio, sempre in virtù della racomandatagli prudenza, salta al collo del conte, lo scaraventa sul letto, e stringendogli la gola da fargli schizzare gli occhi dalla fronte, digrignando i denti, urla:

— Scellerato, che hai tu fatto della mia sorella? Dov'è Eponina?

A Ludovico non riusciva articolare parola; appena poteva mandare fuori un rantolo; sforzandosi sgusciargli di sotto, ma era niente, ogni conato per liberare la strozza dalla fiera tanaglia gli tornava in peggio, però che l'altro stringesse più forte. Ormai la faccia di Ludovico era divenuta tra rossa e pavonazza (avrei potuto dire con una parola sola infaonata, ma correva rischio di buscarmi di pedante e non essere capito da veruno) gli balenavano gli occhi esterrefatti, e Curio procedeva a strangolarlo, con la devozione con la quale il prete novizio celebra la sua prima messa. Se la fortuna qui non ci mette le mani, la vita di Ludovico è giunta al Laus Deo.

E la fortuna ce la mise. Ti ricordi aver letto (e se non lo hai letto vallo a leggere), nella Iliade di Pallade-Minerva, che agguanta pei capelli il piè-veloce Achille in procinto di avventarsi contro Agamennone, re dei re, dopo averlo salutato di cuore di cervo e di muso di cane?[33] Così per lo appunto accadde a Curio che, sentendosi strappare i capelli dalla nuca, si voltò addietro e vide... che vide egli mai? Vide Eponina in carne ed ossa, la quale sapendo il fratel suo non nato da regio sangue non si permise adoperare i titoli dati dal figliuol di Peleo al divo Atride; bensì di bestia e di insensato il dabben Curio ne ebbe quanto ne volle....

— Ecco le solite fole da romanzieri! — esclama la signora Verdiana, penitente di don Formicola, curato di San Satiro. — O come la scapestrata Eponina era piovuta là dentro? Chi ce l'aveva portata? — La non s'inquieti, signora Verdiana, e senta me. Veruno ci aveva portato Eponina, perchè ci si era condotta da sè ed ecco come: la povera giovane invece di recarsi a veglia dalla signora Claudia, toltasi seco quanta più moneta poteva ed in buon dato gioie, doni dei suoi parenti e di amici ammiratori della virtù di lei, si recò a casa di certa amica del cuore, o se ella vuole, d'ingegno scapestrato come il suo, e questa l'aiutò a travestirsi ad accertarle il viaggio ed a partire.

La medesima sera Eponina lasciò Milano col traino stesso sul quale partiva Ludovico; con lui, senza che ei se ne accorgesse, scese a Venezia, con lui continuò il viaggio e giunse a Vienna; colà fece in modo di aver la stanza contigua a quella di Ludovico, divisa solo da sottile parete dove era una porta di cui ella volle la chiave; e siccome favellava stupendamente il tedesco e pagava alla grande, così non è a dire se le facessero festa, e ai suoi voleri più che volentieri soddisfacessero. Raccomandò al cameriere di affermare vuota la camera abitata da lei, e la raccomandazione accompagnò con un marengo: il cameriere, uso a dire tante bugiarderie gratis, lascio considerare a voi se ci s'inducesse pagato! La servì a pennello, molto più che piace a tutti gratificarsi la bellezza, ed Eponina era bellissima; chiusa nella sua cameretta, ella gustò dolcezze ineffabili, quali solo può immaginare il cuore di donna innamorata... ed il suo, signora Verdiana; però che Eponina udisse sovente rammentare il proprio nome, tra lacrime e sospiri del giovane amato, e se non giunse ad avere contezza piena del caso che glielo svelse dal fianco, almeno si confermò nella fiducia della sua innocenza; per la medesima via, conosciute le angustie di lui, le sovvenne mettendosi d'accordo col padrone della locanda, l'onesto Bruksteiner, il quale trovandoci il suo conto la servì a braccia quadre ed ebbe per giunta un sorriso in pagamento, che, se avesse potuto, egli avria messo nel barattolo delle ciliege per conservarlo nello spirito.

Per le quali ragioni, ella vede bene, signora Verdiana, che la presenza della Eponina giusto nel punto d'impedire uno sciaratto, si spiega naturalmente senza miracoli: e caso mai ci fosse mestieri miracolo, o che la opposizione dovrebbe muovere proprio da lei? Da lei che crede come articolo di fede che sant'Antonio da Padova si trovasse nel punto stesso a Padova e a Lisbona!

*

Mentre Ludovico si stropiccia il collo e fa prova di tossire onde assicurarsi che nella gola non ci ha nulla di guasto, Curio sempre ardente come tizzo acceso così rampogna la sorella:

— Ahi! trista, chi mai avrebbe detto che a te basterebbe il cuore di fuggire via da noi, che ti amavamo come la pupilla degli occhi? Senza rispetto pei parenti, senza vergogna per te, tu ti sei messa dietro al tuo seduttore; ahimè! a vederti mi trovo costretto a coprirmi la faccia.

— Curio, — rispose Eponina, ficcando i suoi occhi dentro gli occhi del fratello — tu sei giovane troppo ed inesperto delle passioni umane per erigerti giudice delle medesime: tuttavia sappi che la seduzione è parola vuota di senso: vivi e proverai; la donna conosce ottimamente quello che fa, e sebbene paia talora che si governi per moto improvviso dell'animo, va' sicuro, che ella ha pensato più di una volta a quello che intende di fare: se poi ella s'inganna, ciò avviene perchè i ragionieri stessi nei loro calcoli sbagliano: ad ogni modo, io non mi sento donna da lasciarmi sedurre. Ho seguìto Ludovico, lui inconsapevole, egli ignorava la mia partenza da casa e la mia presenza qui; ora per la prima volta gli apparisco davanti, e se la tua avventatezza non era, non mi avrebbe mai vista: però io voglio che tu sappia che lo considero come sposo dell'anima mia e intendo essere sua per la vita. E poichè questo avrei fatto anco sapendolo colpevole, tanto più mi tengo obbligata di farlo adesso che, quantunque al buio del suo segreto, pure lo so innocente ed infelice... Fratello Curio... giungono questi sensi così nuovi al tuo cuore che ti abbisognino maggiori spiegazioni?

Così avendo favellato, Eponina sorrise blanda al suo Ludovico e gli porse la mano in segno di pace; cui egli si recò alla bocca coprendola di baci, ma più di lacrime assai. Curio trasognato guardava un po' l'uno, un po' l'altra; lungamente tacque e parve meditare; all'ultimo proruppe:

— Orsù vi credo; maledico la mia furia e vi domando perdono. Ludovico, ti ho fatto male? Lasciami guardare un po'.... ti è rimasta una striscia rossa, ma non è nulla, sai.

— Certo.... certo.... gusto non ce l'ho avuto.... ma non pigliartene pensiero; con un po' di gargarismo spero uscirne.

— Bene, per ora addio, tornerò a parlarti, perchè parlarti mi bisogna, quando ti sarai rimesso in sesto.

— Accomodati come ti piace, ma per me se tu parlassi addirittura, l'avrei caro....

— Magari! e in due parole mi sbrigo. O perchè non ti sposi Eponina e poi senza tanti andirivieni ve ne tornate tutti e due a casa?

— Perchè non posso.

— O come non puoi? E chi ti tiene?

— Il debito di un uomo onorato, intendimi bene, Curio, m'impedisce sposare tua sorella, che amo quanto me stesso, mi divide dalla madre e dalla patria, a me, dopo Eponina, sopra ogni altra cosa dilette.

— Arzigogoli! Senti una cosa, Ludovico: o tu sposi Eponina, o io ti ammazzo.

— Ecco daccapo la bestia che ti piglia il sopravvento — disse Eponina — guardami e considera se ci può essere donna al mondo più dolorosa di me: il padre potrebbe consentire le mie nozze con Ludovico, e non vuole; Ludovico le vorrebbe, e non può; ne domando la ragione ad ambedue, ed ambedue me la negano, come se non ci andasse di mezzo l'anima mia, ed io accetto rassegnata il mio destino di donna, che è quello di nascere, soffrire e morire.

— Quanto al nascere ci ho già consentito e quanto a morire quasi assicuro che a suo tempo ci acconsentirò, ma circa al soffrire io voglio avere le braccia libere. Pertanto, Ludovico, mettiamo le minaccie da parte, molto più perchè adesso che ci penso, quantunque io ti abbia detto che ti ammazzerei, potrebbe darsi benissimo che tu ammazzassi me.

Or via, ragioniamo; tu sei giovane onesto, almeno fin qui ti conobbi tale; però credo indovinare che qualche riguardo o impegno grosso ti faccia impedimento a palesarmi la causa che ti muove ad agire come fai: però tu stesso devi conoscere che questo negozio così per aria non può stare: considera se ti convenga aprirtene con qualcheduno; già s'intende sotto sigillo di confessione e con promessa solenne di silenzio assoluto. Tu designa persona, la quale non dubito che per la sua onoratezza piacerà ad Eponina ed a me; tu la informerai e noi staremo a quanto giudicherà, taciuti i motivi del suo giudizio; insomma basterà che ci dica: Ludovico ha ragione; noi allora piegheremo il capo alla sorte maligna, la quale pur troppo ne può più di noi.

— E tu accetti il partito? — chiese Ludovico ad Eponina.

E questa gli rispose:

— Poichè tu non vuoi riporre la tua fiducia in me, mi adatterò.

— Ebbene datemi un'ora per pensarci su, che per me la è faccenda gravissima: per altri d'importanza suprema; ho bisogno di raccogliermi; lasciatemi solo.

Eponina e Curio si ritirarono; anzi per somma delicatezza uscirono entrambi; e così ella per la prima volta vide le strade di Vienna. Trascorse due ore e più, si ridussero da capo allo albergo, dove rinvennero Ludovico dolente in vista, ma pure risoluto, il quale disse:

— Sta bene: voleva non farlo, anzi mi era meco stesso obbligato a non farlo, ma Curio ha profferito una savia parola: la malignità della sorte ne può più di noi. Qui però siamo stranieri, non conosciamo persona in cui ci potessimo fidare: e per giunta io non conosco la lingua del paese.

— Dunque? — interrogò Curio a cui subito era saltata la mosca al naso.

— Dunque — riprese umile Ludovico — ho pensato, che la persona più acconcia a ricevere ed a custodire il mio segreto sei tu, e tu il più atto ad ottenermi fiducia da Eponina.

— Io? — replicò Curio esitando, ma poi aggiunse: — Bene, sia: a quando?

— Subito.

— Dove?

— Qui o altrove a tuo piacimento.

— Usciamo.

— Usciamo.

Eponina desolata li vide partire, e col cuore ancora più chiuso dopo breve spazio di tempo li vide tornare: si tenevano a braccetto per non traballare; le faccie e i colli a terra come se li gravasse un medesimo giogo d'ineffabile affanno. Curio non trovava bandolo per cominciare, Eponina per chiedere; un gemito di lei tenne luogo di domanda. Allora Curio reggendosi con la destra ad una tavola a voce fioca favellò:

— Sorella, Ludovico ha ragione; nel rifiutare le tue nozze egli fa prova di rettitudine e di gentilezza. La sorte maligna ci vince. Io quanto posso ti scongiuro, sorella, di tornartene a casa: là nelle braccia di nostra madre riparati, finchè la tempesta duri e, se non cessasse, morite almeno consolate con la mutua pietà. Dammi, sorella un abbraccio; dammi un bacio.... venti baci, e addio.

— Ed ora dove vai, Curio? — domanda con crescente angoscia Eponina.

— La gioventù italiana è corsa alla chiamata del Garibaldi nel Tirolo a combattere le ultime battaglie della patria: io vado a cercarvi la morte.

Ed avventatosi al collo della sorella, dopo averla baciata e ribaciata, corre via precipitoso; senonchè, giunto in fondo al corridore, ritorna sopra i suoi passi ed affacciato all'uscio della stanza di Eponina, esclama:

— E rammentati bene, Eponina, che io, tuo fratello, ti faccio testimonianza come Ludovico, ricusando di palesare a te e ad altri le accuse che lo movono a respingere le tue nozze, dimostra tale generosità di cui non avrei mai creduto capace la creatura umana. Ludovico, addio, e tu pure rammenta che sei andato troppo in su per durarci un pezzo: chi la piglia troppo alta ordinariamente fa stecca.

FINE DEL VOLUME PRIMO.