F. D. GUERRAZZI

IL SECOLO CHE MUORE

VOLUME III.

ROMA Casa Editrice Carlo Verdesi e C. Via del Mortaro, 17 — 1885

PROPRIETÀ LETTERARIA

Roma, Tipografia Nazionale.

INDICE DEL TERZO VOLUME.

Capitolo XV. Pag. 7

Capitolo XVI. 57

Capitolo XVII. 103

Capitolo XVIII. 249

Capitolo XIX. 349

Capitolo XV.. . . . . . . . . . . . . . . .

— Dei sei sepolti, tu ci hai narrato la via che li condusse al sepolcro solo di quattro; di due non sappiamo altro che sono là dentro: ora, questo metodo di far morire i personaggi del dramma prima che siano in certo modo vissuti davanti a me, io lettore giudico addirittura irregolare, ed anco un tantino sgarbato. Mi difenderò domani: intanto noto di passo che il camminare all'indietro non dovrebbe fare specie pei tempi che corrono.

Oggi, buona gente, che siete qui tratta dal desiderio di sapere il fine di Omobono e di Fabrizio, ve la dirò la storia dolorosa: statemi a udire, e certo per loro pregherete, se pure vi sia rimasto briciolo di fede nella vita futura.

Di colta vi devo avvisare che adesso mi tocca a mettere sopra la scena tre personaggi nuovi, se voglio tirare innanzi il mio dramma: e siccome voi sapete che non mi aiutano architetti, nè muratori, nè tappezzieri, molto meno pittori, sartori, scultori e barbieri, e mi tocca a fare tutto da me, così toglietevi in santa pace che io ve li descriva.

Il primo gli è uomo e per giunta cristiano, debitamente battezzato in Duomo, dov'ebbe nome di Egeo Bernazzi. Avendolo a descrivere, incomincio dal capo, membro, come ognuno sa, nobilissimo del corpo umano e domicilio legale dell'anima; in parte egli era calvo e in parte circondato da una maniera di siepe di stipa, pari a quella che costumano mettere intorno all'orto per difesa dei cavoli; presentava tre varietà di colori: ebano in cima, nel mezzo rame, in fondo argento, per la ragione che il parrucchiere traditore gli tingeva i capelli, dove ei, mirandosi allo specchio, se li poteva vedere, gli altri lasciava incolti, senza curarsi se dietro gli sonassero le tabelle: gli orecchi parevano lampioni di carrozza, e ci si notava la traccia del buco, perocchè un dì costumasse portare le campanelle, ed altresì sopra le braccia aveva dipinto a punta di ago tinta in inchiostro un cuore trafitto e un Amore incatenato, ma non gli si vedevano, tenendo le braccia sempre coperte. Io credo che le ciglia, vergognando degli occhi, gli stessero calate per nasconderglieli, dacchè, quando acceso dalla rôsa di mordere li spalancava.... misericordia! — rassomigliavano, nati e sputati, quelli del pesce-cane. La scienza, lo dice lei, ha trovato che, novantanove su cento ci è da scommettere che l'uomo nasce dal gorilla o dall'urang; per me penso che, una volta rotto il diaccio e messo in sodo che i progenitori nostri furono bestie, si deve negare recisamente ch'essi appartenessero ad una specie sola, e sostengo che per parecchi di noi il vero Adamo dev'essere stato un pesce-cane. La faccia di Silla, si legge, che pel colore rassomigliava ad una mora aspersa di farina, quella di Marat al fimo di vacca chiazzato di sangue, questa di Egeo alla vinaccia sbrizzolata a bottoncini neri, come un lavoro di mosaico; il naso, un grumo di mosto, e vi so dire che se lo avesse esposto all'incanto, gli osti se lo sarieno conteso a colpi di boccale per metterlo d'insegna alla cantina; la bocca dava la immagine vera di una gramola lasciata mezzo aperta con un lucignolo di canapa dentro; costui si lisciava, pettinava e ungeva perpetuamente, si lavava poco, sicchè gli durava perenne in cima alle ugne un orlo certo meno amabile, ma non però più nero del collarino che circonda il collo alle tortore.

Questo per ciò che spetta al corpo; e non è tutto, chè il meglio resta per via; donde venisse pende incerto; taluno afferma di Nuoro, ed aggiunge che le notizie storiche intorno alla sua famiglia ed a lui si conservano negli archivi del regno, per la ragione che anche gli archivi delle questure e dei tribunali criminali possono chiamarsi drittamente archivi del regno: giovanetto, dichiarò guerra agli orti, ai vigneti e a quanti panni le massaie ponevano ad asciugare al sole; cresciuto, la mosse ai pollai in concorrenza colle volpi; più tardi alle pecore in concorrenza co' lupi solo, ai bovi; e questa volta fu agguantato, e se non era certo suo fratello prete, uomo tenuto in odore di santità, che multis cum lacrymis si gettò deprecando ai piedi dei giudici, dalla maglia dello articolo 609 del codice penale sardo non isgattaiolava. E questa flussione delle unghie non arrivò mai a guarire radicalmente, imperciocchè, riuscito deputato, non potendo sgraffignare altro alla Camera, intascava le candele; e siccome altro non sapeva che di tratto tratto schiattire in Parlamento: — Si faccia la luce! si faccia la luce! — un certo bello umore gli tagliò addosso questo epigramma:

Il deputato Egeo con voce truce

Urla che vuol la luce,

Intanto, al suo proposito fedele,

Alla Camera ruba le candele!

A lui, come ai grandi uomini suoi pari, procedè ingrata la patria; ond'egli, sullo esempio di Scipione, si tolse volontario esilio, negandole le sue ossa. Venuto in terraferma, incominciò col sonare il violino nelle osterie, ma poi tirata la somma trovò ad avere buscato più torzoli che soldi, smise, e, sovvenuto da un suo dotto conterraneo, dopo luoghi studi apprese i misteri tutti dell'arte del materassaio, la quale alfine gli increbbe, sentendosi chiamato dalla natura a tosare, non a battere la lana: gli riuscì entrare nella Borsa come custode; e qui parve proprio che la fortuna a un tratto lo tirasse su pel ciuffo, ed ecco come andò la cosa: un tal sensale di un tal quale ministro smarrì una cedola della Banca Nazionale da lire mille; ora il nostro uomo, il dì veniente, mettendo in sesto la Borsa, rinvenne il biglietto: egli si guardò attorno, si accertò essere solo, e, calandosi giù, e da sparvier lo ghermì e se lo pose in tasca. Ripostolo in tasca e continuando a menare la granata, mulinava fra sè: «Lo piglio o non lo piglio? Veruno ti vide; bisogno ne hai; dunque piglialo. Ma mille lire non mi fanno mica mutare stato; mille lire, a sfondare, mi frutteranno settanta, ottanta lire l'anno; non ci entra nemmanco l'acquavite e l'assenzio, mentre se lo rendo, mi acquisterò fama di galantuomo, la quale fama mettendo a interesse in mano alla furberia ci è caso che mi apra la strada a guadagnare mille per la via diritta ed altrettante per la via storta. Bisogna renderlo. Nella stagione dei ladri, cani e galantuomini costano un occhio». In questo modo l'anima o quella cosa in lui che aveva virtù di pensare, gli ciondolava per guisa che, immemore di quanto si facesse, stropicciò con la granata la faccia della statua marmorea del Santo Antonio Abate della Borsa, ond'ebbe poi a faticare un'ora per ricondurla alla sua candidezza di marmo. Conchiuse renderlo. Il ministro banchiere lo pigliò in grazia; quasi tutte le sue qualità gli piacquero, ma una riportò il vanto sulle altre, e fu la faccia, la quale, ormai tinta in chermisi, sfidava ogni assalto aspettato od improvviso della vergogna. Di corto, o fu ricco o n'ebbe il nome; lo tirarono su cavaliere, e naturalmente poco dopo commendatore; all'ultimo deputato. Deputato? Sicuro, e non era dei peggio; e bisognava sentire quale manifesto composero per lui i comitati dei collegi elettorali! Ma che virtù di olio di merluzzo, di orzo tallito, di revalenta arabica, di pillole di Holloway.... anzi di iniezione Brou? Tutta questa roba non gli legava le scarpe. Donde dunque tanto estro più che pindarico? Ecco: Egeo aveva promesso ad ogni membro del comitato elettorale un bel paio di candellieri di argento se fosse riuscito eletto; fu eletto, e li ebbero: per mala ventura successe che un elettore campagnolo tenesse al suo servizio una contadina, la quale, come le sue consorelle, era fornita di mani atroci; costei, nel proposito di farsi onore, prese a strofinare un candelliere alla disperata, sicchè in breve se lo vide diventare sotto vermiglio; la donna rimase senza sangue addosso come colei che temè averlo scorticato, quindi ricorse al padrone, domandandogli perdono per avere levato la pelle al candelliere. Il dabbene elettore non capiva; visto il candelliere comprese la ragia. Credete voi che l'elettore tacesse il tiro furbesco per non restarne svergognato? Oh! il governo costituzionale ha educato ed educa gli italiani negli esempi della costanza romana; ribolle sulla virtù latina, fitta e granita come il fieno, il trifoglio e l'erba medica in primavera; l'elettore si sentì il coraggio di citare il deputato Egeo dinanzi al tribunale per sentirsi condannare a pagargli in buona moneta il prezzo del voto.

Come l'andasse a terminare non mi è noto; credo che il tribunale, non potendo uscire dalla sua perplessità per giudicare chi fosse il più furfante dei due, l'elettore o l'eletto, imitasse l'Areopago, il quale, non potendo condannare la femmina, che nell'impeto del dolore per la strage del suo figliuolo di primo letto, perpetrata dal secondo marito, questo uccise, ordinò all'accusata si ripresentasse al tribunale di lì a cento anni.

Ladri! E chi è che dice ladri? Coloro che appiccano questo brutto titolo ai signori ministri non se ne intendono. Di fatti, sai tu, lettore, rubare che sia? Te lo dirò io: la scienza definisce il furto una contrettazione di cosa dal luogo a quo al luogo ad quem con animo di appropriarsela.[1]

Ora, vi pare egli possibile che i ministri ed i cozzoni dei ministri vogliano prendere di queste gatte a pelare? Le sono calunnie prette. Dunque i ministri non ci è caso che si avvantaggino su quel del pubblico? E ti basta il cuore a sostenere di questa ragione enormezze? Rispondo a cui mi interroga: io non ho detto questo: ministri io maneggiai di due qualità, patrizi e plebei: voraci i primi, i secondi no, e ciò perchè quelli avvezzi ai bocconi grossi, e a mangiare da due ganasce, questi alla parsimonia e a brucare in punta di labbra: adesso però non entrerei mallevadore che parecchi democratici di marmeggie fossero diventati avoltoi. L'appetito viene mangiando.

Il ministro pertanto (importa metterlo in sodo) non contretta dal luogo a quo al luogo ad quem; il ministro piglia parte della senseria negli imprestiti pubblici, e non se ne vergogna, perchè nel regno sardo ab antiquo costumava così, nè uomo poteva malignarci su, imperciocchè i principi di Savoia, per quello che sembra, avendo eredato da Gesù Cristo non solo la santa sindone e la corona di spine di Gerusalemme, ma i chiodi altresì, si sieno trovati sovente a friggere con l'acqua, e perciò nel bisogno di pigliare di tratto in tratto cinque o sei milioni a usura, per isconficcarseli da dosso: questo veramente non si può dire pagare i debiti, ma sì di cinque o sei bullette farne un bullettone solo; ma non rileva. Ora cotesti principi, come assoluti, essendo allora padroni di tutto, non solo senza biasimo, anzi con lode di cortesia potevano largire ai ministri il paraguanto pei denari provvisti. Nel governo costituzionale all'incontro è un altro paio di maniche, dacchè i denari non si procurino già pel principe, ma sì per lo Stato, di cui la sovranità componendosi di tre membri, egli è mestieri che tutti e tre si trovino d'accordo a donare come a pigliare: accordo facilissimo nel secondo caso, quanto malagevole nel primo.

Almeno certo ministro di finanze la intendeva a questo modo, e il suo concetto volle scrivere a guisa di prefazio nello imprestito conchiuso durante la sua amministrazione pei bisogni dello Stato, ma un famoso ministro statuario e stradaiolo[2] venuto dopo di lui, che diede le mosse ai tuoni, fattosi presentare il libro, letta e considerata la prefazione, si fregò sorridendo le mani, e disse: a questo oremus starebbe bene mettere in fondo, per amen: «imbecille».

Il ministro sgallina negli appalti, intinge nelle forniture, rosicchia nelle ferrovie e in simili altri negozi; ma non piglia mica mance. Dio ne guardi! Da ciò lo tengono lontano la coscienza, e un poco altresì la memoria dello scappuccio accaduto al Teste, ministro di quella perla di re che fu Luigi Filippo. Il ministro, tutto al più, pregato e ripregato, consentirà a stento che nei consigli di amministrazione entrino fratelli, figli, generi, cugini, biscugini e cognati, insomma tutti i suoi congiunti in linea retta e trasversale fino al quarto grado inclusivo: ma, a fine dei conti, o che ci ha da fare egli? Forse non sono essi padroni di governarsi a modo loro? Il ministro potrà, alla più trista, indursi a vendere ai concessionari una sua boscaglia, dieci volte più di quello che costa, ma gli è chiaro come l'acqua che questa vendita non entra per nulla nella strada ferrata, nè manco come appendice o corollario; in vero, la macchia è di legno e la ferrovia di ferro; e poi, o chi ha vietato mai, e volendo lo potrebbe, ai ministri di fare i loro affari e farli bene? Le sono grullerie da dormire ritti.

Il ministro altresì, in capo al giorno, ha mestieri di sollevarsi un'ora o due: o chi sarà l'indiscreto che ci trovi a ridire? Verso la mezzanotte egli se ne va a geniale ritrovo di qualche giocondo uomo, ed anche di gioconda femmina, e quivi si lascia un po' andare. Diavolo! L'arco teso sempre si rompe. Certo cotesti uomini e coteste donne (io non lo vo' nascondere) non erano stinchi di santo; tutt'altro, ed egli lo sapeva; ma in chiesa co' santi, e alla taverna coi ghiottoni: a lui bastava gli ricreassero lo spirito. Colà, di mezzo allo stravizio ed all'allegria, scappava talora dalla bocca al ministro uno enimma, un geroglifico, una sciarada, che cotesti sparvierati chiappavano a frullo tirando a spiegarla, e le più volte ci davano dentro; tanto la fortuna li secondava o l'ingegno. Dove mai, puta il caso, avessero indovinato che stava per aria qualche grossa notizia politica, la quale, appena pubblicata, avrebbe avuto virtù di alzare il prezzo della rendita pubblica, eccoli per tempissimo affacciarsi in Borsa e quivi... sentiamo un po' se cogliete in quello che ci andavano a fare. — A comprare, voi rispondete, e v'ingannate. — No, signori; ci andavano a vendere. Sgomentati, sgomentano: la rendita tracolla: gagnolano e spariscono; altri subentrano, paiono diversi e pure sono fili dei medesimi ragnateli: questi fingono svogliatezza e paura: il numero dei venditori, pecoreggiando, cresce, e nell'orecchio si vanno mormorando a denti stretti: meglio è cascare dalle scale che dalla finestra; e ti sbatacchiano in faccia la rendita a gran rinvilio.

Ecco l'ora del pescatore che tira in terra le reti; ecco l'ora che l'uccellatore getta il giacchio; ecco l'ora del pollaiolo, che, recatesi nella mano manca le zampe della gallina, le stringe il collo colla destra e tirando forte la sbalestra nell'eternità; ecco l'ora che il prosseneta infila nello stidione i giocatori di Borsa per arrostirli; ecco che li ha begli e arrostiti.... — Non aggiungere parole; io ti tappo la bocca; tregua alle prediche; esse non riscattarono mai un'anima dalla servitù del demonio nè da quella della Borsa. — E poi la Provvidenza ha stabilito ne' suoi eterni decreti che i pesci si abbiano a pigliare mai sempre con gli ami e gli uomini con gli inganni. Con l'arte e con l'inganno si vive mezzo l'anno; con lo inganno e con l'arte si vive l'altra parte: sentenza d'oro, da scriversi in oro sul frontone delle chiese, delle reggie, dei Parlamenti, dei tribunali, e, per istringere tutto in una parola, sopra le porte di ogni città addirittura.

Gli uccellatori rendevano conto della preda fatta al ministro, il quale, mentre riscontrava i biglietti di banca, borbottava: prima pars mihi nominor quia leo, e si sentiva rimuginare in corpo una voglia terribile di andarsene fino in fondo alla parlata del lione; ma, pensando poi che la medesima storia si aveva a riprincipiare il giorno appresso, e non poteva fare a meno di loro, spartiva in modo da rimandarli contenti. — Ebbene, o che questo si può dire rubare? Dov'è, dov'è, la contrettazione dal luogo a quo al luogo ad quem prescritta dal giureconsulto Paolo, come costituente la natura del furto? Sfido qualunque procuratore del re a trovarcela dentro. Anco denunziando il caso al Parlamento, forse questi lo qualificherebbe indelicato, e avrebbe torto marcio, imperciocchè delicatezza significhi morbido, liscio e soave al tatto, qualità tutte che assai si confanno alle mammelle delle fanciulle, non già alle mani dei deputati, molto meno a quelle dei ministri, le quali, per governare valorosamente, vogliono essere aspre e forti, e soprattutto indelicate.

Comecchè Egeo, pari alla iena, si cibasse co' rilievi del lione, tuttavia dei danari ei ne raccolse, e di molti: ma la farina del diavolo se ne va tutta in crusca. Appena costui aperse l'anima ai raggi del sole della galera a vita, i sette peccati mortali (altri dice otto; contentiamoci di sette) gli ci entrarono dentro con la foga dei contadini, quando, udito l'ultimo tocco che chiama alla messa, prorompono in chiesa: però tre soli rimasero padroni del baccellaio cacciandone via gli altri a perticate; i tre rimasti in casa furono gola, avarizia e lussuria.... Già si sa, la parca torce per ordinario le vite umane con questi fili a tre capi. Dell'avarizia parmi avere detto assai; però, posto in sodo che avarizia vera va composta di due parti uguali di cupidità per acciuffare, e di strettezza per tenere, bisogna dire che in lui la prima maggioreggiava assai più della seconda; anzi questa, talvolta trasportata dall'ardore di passione più veemente di lei, pigliava sembianza di prodigalità. Così vero questo, che nella spesa della mensa non intendeva risparmi: niente gli pareva buono se non costasse un occhio, e nulla gli sembrava cattivo di quanto la fama predicava rado: vizi vecchi di gente corrotta; usanze consuete a coloro che si cibarono troppo più tempo che non vollero di polenta di meliga. Volle altresì magione nobilesca e suppellettile sontuosa: l'arme sua da per tutto, cioè quella che gli fece un pittore da insegne di osterie per venti lire. Egli poi architetto, ornatista e tappezziere: una variante sguaiata della pianta di Omobono Boncompagni, il nostro amico banchiere. Costui aveva conficcato sopra il suo palazzo l'architettura come Cristo in croce; ci spasimava da fendere il cuore a chiunque l'avesse veduta: le belle arti rinchiuse a mo' di belve feroci dentro il suo albergo, ci si arrapinavano, e in perpetua lite si bisticciavano fra loro: le mobilie di foggie diverse affastellate in mucchio ti davano più che altro testimonianza di saccheggio: pochi i servi e vestiti a nero, ed inguantate le mani di bianco, ministranti ad un padrone che le aveva perpetuamente sudicie.

Così pure negli amori: mandava al mercato per gli amori come pei polli: femmine non illustri per infamia scartava e le mutava spesso: poneva grandissima parte di reputazione comparire in pubblico con cavalli diversi attaccati alla sua carrozza, e con donne diverse attaccate al suo braccio.

Fra le pitture di Pompei ne occorre una assai festevole in vista, la quale rappresenta una pollaiola che vende amorini raccolti dentro una stia, ed è nell'atto di profferirne uno agguantato sotto l'ale, a modo di piccione, allo avventore: ora ciò che un giorno fu argomento di gioconda piacevolezza per un pittore, alunno non meno di Apelle che di Anacreonte, fra noi divenne lurida realtà; e le pollaiole, non come in antico pei mercati e su i trivi, ma in casa, in chiesa, nei teatri e pei fôri; nè esse femmine volgari o grossiere, bensì gentildonne nudrite co' profumi della fina educazione. Comunque sia, il nostro Egeo sembrava che, toltosi dal culto di Venere peribasia, avesse gettata l'àncora accompagnandosi con una amante sola; e di vero egli stava attaccato ad una donna, ed una donna a lui, con l'affetto di due fuste che si fossero uncinate per darsi l'assalto.

Dell'uomo vi ho parlato con amore; adesso della donna. Nella prosodia latina corre la regola: derivata patris naturam verba sequuntur, nella prosodia delle famiglie la regola muta, e dice così: — derivatae matris naturam filiae sequuntur; ovvero tal figlia qual madre; e se falla, segnala col carbon bianco. Prosapia patrizia; figlia unica e perdutissima di madre perduta. Il padre suo ne perì di crepacuore, accarezzando unico conforto la speranza che il sepolcro seppellisce con lui la sua vergogna, e nè anche di questo gli volle essere cortese il sepolcro. — Un gentiluomo proprio di sangue purissimo celeste appetì la giovanetta, e la ebbe, chè a braccia quadre glie l'affibbiarono i genitori, come ortolano che scaraventa la pianta dello aconito nell'orto accanto. Al marito marchese, poichè l'ebbe provata, non parve esperta a bastanza, onde per compirne l'allevamento l'allogò in un sodalizio di meretrici illustri[3] affinchè si esercitasse. Quivi ella apprese dall'arte la pratica e la scienza, e tuttavia, non soddisfacendo le voglie del troppo esigente marito, si separarono di amore e d'accordo. — Egli, inquinandosi in ogni più vile turpezza, si disfece in tabe; ella, furiando nelle libidini, passò in più mani, che non corse mai fiaccola nei lupercali di Roma, e se ne compiacque.

A cui leggendo siffatti vituperii, biasimando, dicesse: cotesti sono ditirambi di mente depravata, risponderò con le parole di Tacito, allorchè scrive di Messalina:

«Veggo che parrà favola, che persona ardisse cotanto in città, che tutto conosce e nulla tace.... ma io, senza punto aggrandire, dirò quello che ho letto ed udito dai vecchi»[4].

Ed io correggo: — quello che ai tempi miei come cosa notissima l'universale affermava e da veruno negavasi.

E tuttavia, comecchè le levassero i pezzi da dosso dietro le spalle, davanti la incensavano sempre: in pubblico ognuno avrebbe schivato darle braccio, mentre in privato facevan calca di baciarle la mano, e ciò perchè ella continuava a godere credito, o dava ad intendere goderlo. Lo interesse altrui metteva lei nel lambicco; ella dal canto suo ci metteva altri, e ognuno si industriava a stillarne più utile che poteva. L'affetto un dì legava con lacci di rose, ma l'interesse oggi stringe con le manette peggio di una guardia di pubblica sicurezza.

Costei essendo capitata nelle mani di certo famoso ministro, questi, tenutala per alcun poco di tempo, la rimandò dicendo: «Bella mia: conosco che tu possiedi tutte le virtù teologali, e forse avrai ancora le cardinali, ma se tu duri a trattenerti in casa mia ancora un mese, tu me la riduci in cenere.» Così avarizia vinse libidine, ed il conquasso di due vizi venuti in urto fra loro parve virtù. Anco Demostene avendo domandato a Laide quanto faceva i suoi abbracciamenti ed uditolo,[5] disse: «Non pago tanto caro un dispiacere.» Gli avvocati furono sempre uguali; non la coscienza, ma il prezzo avvertì costui della turpezza dell'azione che voleva commettere.

Forse veruna femmina al mondo testimoniò meglio di Elvira il simbolo significato anticamente dalla pittura di una donna, la quale nella destra portava una fiaccola e nella manca un gancio, per dimostrare lo schianto della casa donde usciva e la devastazione di quella dove entrava; nei luoghi pestati da lei non cresceva più erba; ella distruggeva per vanità, per esercizio di tirannide, per malignità di natura, per voluttà, per leggerezza; breve, la distruzione era l'aria respirabile della sua vita. Come mai Egeo si fosse tirato addosso cotesto unguento da cancri, è facile immaginarlo da quanto ho avvertito; perchè non se lo levasse dattorno.... non ci era riuscito, e ormai non poteva farne a meno; come l'ellera fa ai muri, lo scassinava, ma ad un punto lo reggeva.

E poichè ella era più furba di un famiglio dell'Otto, certo dì, passandosi in rassegna davanti lo specchio, ebbe a persuadersi che volendo continuare in cotesta vita un pezzo le faceva mestieri di coadiutore: così i provvidi capitani di lungo corso si muniscono per ogni fortuna di doppio apparecchio, di alberi e di vele. Non ebbe a travagliarsi troppo tempo per trovarlo anco superiore alla speranza: le occorse di colta una giovane bella, alta, bionda e di gentile aspetto: le sfolgoravano gli occhi colore del cielo, ma le ciglia pudibonde glieli velavano in parte, come la mano di Psiche la lampada, allorchè, in mal punto curiosa, mosse a vedere com'era fatto Amore. I cieli (e dichiaro così, perchè davvero io non saprei a cui altro attribuirlo) l'avevano dotata di un dono insigne, che io per me antepongo allo stesso cinto di Venere, ed era la facoltà di arrossire a suo piacimento fino alla radice dei capelli; la voce le spirava dalle labbra fragranti, soave come l'alito vespertino in mezzo ai fiori. Insomma, per farvela breve, sapete che cosa io vi ho da dire? Che se l'arcangiolo Gabriele fosse stato spedito a lei per annunziarle imminente la calata dello Spirito Santo, si sarebbe peritato — seppure non avesse creduto meglio di fare per sè. — A giudicare di colta, o al lume dei doppieri, tu le avresti dato venti, o tutto al più ventidue primavere, ma sopra il suo cuore era passato il freddo di ben ventiquattro inverni.

Donde mai l'andò a scovare la nostra Elvira? Dal limbo forse? Dal purgatorio? Scappucciatevi e riverite. Elvira, la quale talvolta si sentiva pungere da un bruscolo di carità nel cuore, come da un bruscolo di paglia negli occhi, visitando gli infermi all'ospedale, la rinvenne quivi giacente in balìa di una Dea.... Per guarirla non ci fu altro rimedio che raccomandarla a un Dio, il quale, trasfondendosi in lei, le ridonò salute. Presela in casa, la rimise a nuovo, e così bene le venne fatto che insuperbì di cotesto restauro, e sulle prime caldezze si decise di darla ad intendere per figlia; pensandoci meglio non ci trovò il suo conto: cugina era poco: si fermò a nipote, figliuola di non so, e non lo sapeva nè anch'ella, qual fratello, morto alla battaglia di Novara; così le parve che stesse a pennello; del resto va da sè, che la fanciulla era nubile e partecipe dello attributo largito da Maometto alle Urì, voglio dire di rinnovare la propria verginità ad ogni quarto di luna.

Adesso che da me sono state descritte le nuove dramatis personae, sta a loro uscire dalle quinte e recitare la parte.

Le cose della ragione di Omobono Buoncompagni e C. andavano troppo peggio che zoppe; a tenerle su ritte non era bastato il barbacane dei biglietti falsi, imperciocchè ormai non se ne sarebbe potuto, senza manifesto pericolo, mettere in commercio copia maggiore. Omobono, quando prima s'ingaggiò in questo partito disperato, sapeva ottimamente che dopo un certo tratto la via si biforcava in due, di cui l'una poteva mettere capo ad una contea, e l'altra alla galera: adesso, tentato per bene il terreno, gli pareva essere senz'altro entrato su quella della galera. Nella tempesta si prova il pilota; ond'ei pensa e ripensa, gira e volta, sbirciala per la diritta e alla rovescia, ecco gli piove una ispirazione dall'alto.... Se arrivasse a comporre una società in accomandita per la costruzione di una strada ferrata! Se la concessione dal governo di fabbricarla! Niente sarebbe perduto, all'opposto salvata ogni cosa: nuovo olio sarà infuso nella lampada, la casa sua rifulgerà di raddoppiato splendore: la massa dei biglietti falsi si dileguerà come nuvoletta di estate nell'orizzonte purificato: dunque qui dentro tutti, coll'anima e col corpo; mano ai ferri subito.

Chi legge facilmente comprenderà come Omobono dovesse conoscere Egeo, e di che tinta! Si amavano svisceratamente, giù per lì come Federigo II Maria Teresa, di cui la passione, secondo quello che egli stesso diceva, non si sarebbe quietata se prima non l'avesse veduta ignuda. Adesso trovaronsi insieme; accordaronsi; con forze unite stabilirono proseguire un fine comune, pure guardandosi le mani. Dopo lunghi ragionamenti gittarono le basi della grandiosa impresa come uomini di siffatti negozi intendentissimi; in seguito aggiunsero alle conferenze il Nassoli, il nipote di Omobono ed Elvira, disegnando meglio il concetto; poi presero a colorirlo: ad ognuno fu assegnata la sua parte; diviso il lavoro; pattuito il guadagno; descritte le vie da correre, le terre da coltivare, gli uomini da sfruttare, gli aiuti da conseguire, le reputazioni da impiegare; i banchieri co' quali negoziare e dividere.

Incominciarono col rendersi per via di doni favorevoli quanti stavano attorno ai ministri, e di leggieri ci riuscirono, imperciocchè anco gli Dei, antichi sieno o moderni, si rallegrano per le offerte dei mortali; ed anco Giove viene pei doni propizio, assicura Omero; e nella Genesi si legge che Dio s'impermalì contro Caino, però che questi gli si mostrasse meno generoso di Abele. Del Dio romano io non parlo nemmeno, che i preti cattolici senza tante invecerie gli hanno appiccato al collo il cartello con la leggenda: point d'argent, point de Dieu. Ora, se anco gli Dei agguantano i doni a due mani, dovranno gittarli fuori di finestra i semplici mortali? Chi tale pretende non se ne intende.

Nè rimasero trascurati gli imi, i quali a prova sperimentiamo spesso più utili dei potenti, e con poco mantengonsi bene edificati; i pesciolini di vasca corrono a frotta ai bricioli di pane, i tozzi li spaventano. Allo sforzo continuo degli interessati irrequieti a soffiare co' mantici in mano, il metallo prese a squagliarsi.

Il ministro più che volente era entrato nel disegno; se repugnante, sarebbe stato lo stesso, che lo avrebbe travolto senza rimedio lo impiegatume, ai tempi nostri con reo nome, convenevole alla cosa, appellato burocrazia. Questa cancrena degli Stati ti avviticchia e ti attortiglia, non già terribile quanto i serpenti venuti da Tenedo Laocoonte e i suoi figliuoli, bensì a modo di lombricaia schifosa e invincibile.

Io non so se gli impiegati convengano la sera insieme a pregare, ovvero ognuno preghi da sè; fatto sta che tutti, prima di coricarsi, si genuflettono accanto al letto, e con le mani giunte a punta di lancia, sicchè sembra che vogliano sfondare il cielo, cantano sull'aria del Veni Creator Spiritus una invocazione al Genio dei manifesti teatrali, dei discorsi della Corona, delle esposizioni dei direttori delle società in accomandita e dei programmi ministeriali, affinchè si degni stabilire dimora permanente in Italia, e sì gli dicono:

«O nato da un tagliacantoni in Ispagna, battezzato in America, dove gli fu compare Barnum, e nudrito da una spaccamonti in Francia, deh! non aspettare (poichè la prima volta hai potuto scamparne per miracolo) che i prussiani ti attrappino la seconda e ti taglino l'ale: che cosa diventereste allora? Un passerotto saltellante per casa destinato a cibarsi di pappa ed a morire del male del calcinaccio; passa le Alpi e vieni ad abitare fra noi; in Roma ci puoi stare anche tu; noi ti aspettiamo a braccia aperte: quasi vergine qui troverai il terreno: insegnaci tu a ridurre a cultura le immense pianure della bugiarderia e la virtù dei concimi della sfrontatezza e della impudenza: portaci di quel prezioso seme di balordo, che, sparso a tempo con le regole delle società in accomandita, fa, come abbiamo udito da persone degne di fede, delle cento per uno: ammaestraci a segare la messe degli azionisti babbei. Scendi, o invocato, scendi. Il genere umano non si mostrò mai ingrato ai suoi veri benefattori; mira! Trittolemo, che insegnò ai mortali l'arte di seminare il grano, e Cecrope quella di raccogliere le olive, e il Cavour quella di piantare carote, ebbero devoti, sacrifici e simulacri. Noi saremo tutto per te; qual più vorrai intorno al tuo capo corona di alloro o berretto da notte; che se ti piacesse avere le mani in pasta, noi ti procureremo il portafogli dell'agricoltura, o se piuttosto ti talentano gli onori, ecco qui, tu ti puoi sfiorire. Vuoi croci di Corona d'Italia? O vuoi commende dei santi Maurizio e Lazzaro? Parla, non peritarti: solo non ti promettiamo collari, perchè cotesta la è roba da cani». La industria degli abbindolatori consiste nel mescere il vero col falso, ed anco nel metterti il paraocchi prima di mostrarti un negozio, perchè tu veda la strada piana innanzi a te, ma ti rimanga nascosto l'abisso che ti si scoscende allato. Però in questa faccenda gli ufficiali potevano assai di leggieri dimostrare al ministro che la impresa proposta era migliore a pane che a farina: ed ora gli magnificavano il concetto di porre, per virtù di queste strade, in comunicazione celerissima fra loro le parti più remote d'Italia: l'agricoltura ampliata, accresciute le industrie, i commerci promossi: paduli sterminati convertiti in campi fiorenti di ogni bene di Dio: bonificato l'aere maligno, le maremme scomparse: in mano alla madre natura messo un pettine d'avorio, laddove prima ravviava i capelli ai suoi figliuoli coll'erpice: le boscaglie infami un dì per latrocini ed omicidii, ora ridotte in dilettosi recessi dove le coppie innamorate vanno.... a far funghi.

La burocrazia cala un'altra veduta del mondo nuovo, e mette sotto gli occhi al ministro i benefizi della secondata corrispondenza, non pure d'interesse, ma sì d'intelletto e di affetto fra le molteplici generazioni della gente italica, donde ha da nascere la fusione vera di tutte in una famiglia sola; perchè, caro mio (i segretari generali danno del caro mio al ministro), la non si confonda, i vari pezzi di cui va composta l'Italia per ora stanno cuciti a filzetta, mentre prudenza consiglia ad assicurarli a sopraggitto. Di più, consideri quali e quanti vantaggi ridonderanno dai quattrini stranieri risucchiati qui da noi. E ci hanno cervelli malsani che temono possa perpetuarsi a questa maniera la dominazione degli avventicci, surrogando in certa guisa la prepotenza del danaro a quella delle armi; non dia retta, le sono fisime coteste. Il concetto del Danton, che il cittadino non si porta sotto le suola delle scarpe la patria, non è pensiero, bensì dolore di corpo dei repubblicani di quei tempi: oggi non usa più, e i repubblicani dei giorni nostri cantano a squarciagola il coro degli zingari del Turco in Italia: «Nostra patria è il mondo intero.» Ad ogni modo, se non ce la porta il cittadino, ce lo porta il banchiere: patria per lui ogni paese dove il denaro frutta dal venti per cento in su. Di fatti gli ebrei furono chiamati a Firenze dalla repubblica a patto che, oltre il diciotto per cento sopra la moneta prestata, non avessero a pigliare per usura. Tanto vero che pel banchiere patria è quella dove fiorisce l'usura, che gli ebrei non sono voluti tornare in Gerusalemme: per la fabbricazione del tempio avrieno potuto aspettare, ma per la Borsa no: è indispensabile che ce la costruiscano prima. Edificata che sia, quel Dio che precedè il popolo d'Isdraele verso la Terra Promessa dentro una colonna di fuoco, lo ricondurrà a Gerusalemme avvolto in una nuvola dove si leggerà scritto: «interessi al 50 per %, netti da provvisione e senseria.»

E non ci ha dubbio, i pensieri e gli atti di banchieri rassomigliano a capello agli atti ed ai pensieri dei tarli; ma come ai tarli avviene trovare per ordinario la morte nel buco ch'ei fanno rodendo, così dai corpi dei banchieri strani, morti nel nostro paese, la natura caverà l' umo, o vogliamo dire terra vegetabile per piantarci cavoli nazionali. Vantaggio strepitoso, incalcolabile! Arrogi che ingegneri e scienziati, così inglesi come belgi, francesi e alemanni, qui accorrendo ad esercitare le loro professioni, le insegneranno agli italiani; e come degli ingegneri dicasi degli operai, e perciò dobbiamo aspettarci di veder sorgere qui industrie doviziose, non mai più viste nè conosciute in Italia....

O segretario generale caricato per compire la tua sonata fino all'ultima nota, tu pigi troppo e corri rischio di sfondare l'organo. Quando la più parte d'Italia si reggeva a repubblica, ricorda che a Firenze fiorivano le arti di Porsammaria e di Calimara, mentre la Inghilterra ci mandava le sue lane gregge ai tempi di Enrico VIII, e la sua figliuola, la potente regina Elisabetta, non usava calze. Le grandi e nobili industrie risorgeranno fra noi quando tutte le arti maggiori non consisteranno nello scorticare e nel frodare; e quando frutterà più onore scoprire una stella che una baldracca al regio scannatoio, o una taglia pel regio erario; quando finalmente il premio alla virtù non si butta per terra, affinchè ella nel raccattarlo s'infanghi... Oh! scusino, signori: io mi batto il petto e mi chiamo in colpa, se in un impeto di passione mi è cascata la maschera; torno a riallacciarmela subito ed a mostrare di ridere perchè altri rida.

Approssimandosi il tempo di tirare in terra le reti, gli amici Omobono ed Egeo ebbero insieme questo ragionamento.

— Egeo, io ti ho da dire una cosa.

— Amico mio, dimmene due.

— Io ti ho da dire che più ci penso, e più sembra non sia stato ammannito abbastanza il terreno parlamentare.

E questo osservava costui per paura, perocchè sapesse pur troppo di far del resto sopra l'ultima carta; mentre Egeo, il quale credeva di aver mestato più che Carlo in Francia, rispose:

— Di più non si poteva; non sono mica terre da conciarsi col guano i deputati, nè con la pollina, nè con altri ingrassi.

— Che vuoi tu? È meglio avere paura che toccarne. Per me, se fossi papa, metterei la indulgenza plenaria a chi mi pestasse dentro ad un mortaio quei cialtroni di deputati repubblicani; to', ci pestarono un filosofo, potrebbero pestarci anche costoro, che non sono filosofi.

— Eh! la garberebbe anche a me; ma non usa più adesso pestare la gente nei mortai, e bisogna adattarci ai tempi. Tu, però, affoghi dentro un bicchiere d'acqua: dimmi, hai tu mai pensato cotesti repubblicani che sieno? Come le femmine, le quali dopo essersi arrabattate molti anni invano a farsi tentare, per disperazione si vestono monache, così certuni deputati, poichè rimasero due o tre sessioni in mostra su gli scanni della Camera, a mo' dei mezzi cocomeri sopra la scalinata, senza attirarsi carezza o sguardo del governo, per disperati si gettano al repubblicano. Essi si cullano nella fiducia che veruno conosca il fatto loro, e invece tutti li conoscono dall' a fino alla zeta, e li deridono; di costoro, va' pur sicuro, la voce, da qualunque parte del corpo la mandino fuori, è stimata del pari.

— Di parecchi io non contrasterò che tu abbia ragione da vendere, ma per altri poi.... noi che di virtù c'intendiamo.

— Noi conoscitori di virtù! Si vede espresso che tu hai oggi, Omobono, alzato il gomito a tavola.

— No, non è questa la ragione; vieni qua che te la dirò dentro un orecchio: — per conoscere i galantuomini non ci è quanto i furfanti; basta metterci accanto a loro per vedere subito la differenza. Persone che s'incocciano nella onestà ce ne fu sempre, e ci sono.

— Gua'! ci sieno; il nostro mestiere sta nello annientarle, non col pistello, ma in altra maniera consentita dalla odierna civiltà. Osservale bene e vedrai come le si distinguano in due categorie: in iraconde ed in flemmatiche: le prime di più facile cottoia, sicchè quando esse tutte infervorate favellano, e noi o tossiamo, o stranutiamo, o sbadigliamo, od esclamiamo in diverso tono le cinque vocali, o buttiamo là una buffonata.... insomma fraus arma ministrat per confonderle; se mostrano i denti accennando a mordere, e noi componiamo a gravità il sembiante, ma sotto ai banchi lavoriamo di piedi. Di siffatti tiri noi possediamo un flagello, e non ci accade mai di votare il sacco; per ordinario non siamo giunti al terzo, che le iraconde pigliano il cappello, sfogansi in fulmini di parole, che non hanno mai incenerito alcuno, e se ne vanno via colla spuma alla bocca. Buon viaggio! A nemico che fugge ponte di oro. Co' deputati flemmatici si desidera un altro governo. Tu sai come la polizia, sotto gli stoppacci dei suoi calamai, allevi un semenzaio di giornalisti; è patto fra noi e la polizia che ad ogni nostra richiesta ce ne abbia a fornire un corbello: sovente ce li dà a mezza gamba, purchè facciano un viaggio e due servizi, vale a dire calunniatori per noi, per lei spie; ma talvolta ci tocca pagarli a noi soli, e sarebbe un guaio se non rinviliassero ogni dì, stante la portentosa loro moltiplicazione. Io non so di anatomia, ma li credo di natura di cimice, che ha i due sessi, così almeno dicono. Costoro valgono oro quanto pesano: nel riferire ch'ei fanno in succinto le orazioni di questi deputati che voglionsi demolire, se ne sopprime con diligentissima cura il buono e il bello; se ne arruffano gli argomenti, i raziocini si alterano; le parole si mutano così che paiono matte o briache. Quei dessi che le profferirono, rileggendole, forza è che esclamino: possibile mai che noi abbiamo sciorinato tante melensaggini? No, voi non le avete discorse, ma come ne chiarirete il paese? Intanto il ragguaglio doloso, stampato sopra centomila fogli, il vapore con lena affannosa trasportò da un capo all'altro d'Italia; dentro ventiquattr'ore si lesse a Susa e ad Otranto. La Gazzetta Ufficiale seguita i nostri giornali alla lontana, come san Pietro Gesù quando lo trasportavano al pretorio; e poi chi la legge? Ovvero vorranno riparare con le proprie forze alla botta proditoria? Fuori danari, e quando la tua orazione vedrà la luce, riveduta e corretta, sarà tardi: il vortice perpetuo dei casi quotidiani avrà tolto ogni importanza ai fatti passati: il paese accorrà il tuo discorso come un cavolo a merenda. Possediamo altresì un altro segreto, e questo consiste nella congiura del silenzio: ai Piombi di Venezia e al Canale Orfano sostituimmo la pratica di non profferire mai il nome della persona a noi infesta, non cenno circa i suoi scritti, non allusione sopra i suoi gesti... tenebre ed oblìo intorno a lui... in breve ti comparirà una figura deforme nel fitto alla caligine.... figurati una maniera di sfinge più che mezza affondata nella sabbia del deserto. Vorrà ostinarsi a stare? Che cosa importa a noi? Invece di scomparire di schianto, lo disfaremo in limatura di ferro; per noi la messa torna a mattutino. Il popolo è con noi. A cui afferma il popolo grato ai suoi benefattori, elleboro e doccia di acqua fredda sul capo. Il popolo non ama alcuno, nè manco sè; egli odia ed obbedisce unicamente chi ha potenza di fargli del male....

— Tu predichi ai convertiti, Egeo, soggiunse Omobono; di questa tua roba in magazzino ne ho delle moggia ammuffite: generalità che in pratica troviamo sempre corte, o da capo o da piedi. Senti me; sai tu quando mi son fatto le stincature? Quando reputai la cosa certa. Dammi retta, poichè noi co' nostri grimaldelli abbiamo aperte molte serrature, ci ripromettiamo schiuderle tutte, e ci inganniamo; quando te l'aspetti meno, ne incontri una con la quale non si scavicchia nè per Dio nè pei santi. — Poichè il tempo ci avanza, industriamoci a spianare ogni difficoltà: mandiamo attorno e andiamo noi stessi a spillare se possono elevarsi contrasti, e quali; rimoviamoli, attiriamoci la più parte dei deputati; tutti se possiamo: non lasciamo aperta fessura donde possa entrarci in casa la disgrazia. Bisogna riuscire, capisci, bisogna riuscire.

— Non accenderti il sangue; mettiti in calma; se tu avessi dei deputati la conoscenza che ne ho io, tu dormiresti fra due guanciali. Tu ti hai a figurare ch'ei sono come la pasta di cui fanno il pane: parte di loro è infornata e parte sta sulla pala; ora, se non è da dubitarsi della prima, come quella che attende zitta e chiotta a godersi della beatitudine della biscottatura, molto meno si dorrà della seconda, che arrangola di essere infornata per cocere; avanza l'altra, che adesso il governo rimena, e questa giudico la più sicura di tutte, perchè chi ci tiene le mani dentro, a seconda del bisogno o del talento, ora di tonda la fa quadra, di gobba convessa, ovvero l'allunga a coda, a mattarello, a maccheronaio, — insomma come gli pare e piace; dunque tu vedi....

— Dunque vedo che tu ne hai lasciata indietro un'altra parte; la più importante e pericolosa di tutte.

— Quale?

— Quella che sta a lievitare nella madia: agguantiamola, Egeo, agguantiamola, che altri non ce la impasti a nostro danno.

— Eh! capisco; non dico di no; ma tu sai che non è becchime quello che domanda questa maniera di polli.

— A manate gitta loro le promesse; a palate gettagliele nella gola e negli occhi.

— Anima cara, a questi lumi di luna nè manco il cerbero di Dante, che fu tanto abboccato da contentarsi di due pugni di terra, si contenterebbe delle promesse: sicuro, la polvere basterebbe, purchè di oro.

— Ebbene, o chi ti para da spargerla?

— Chi mi para? Averla!

— Eh! via, non far marina, che ti conosco, mala erba.

— Senti, io ti confido cosa che, conosciuta, mi butterebbe a terra in un attimo... io sono rovinato.

— Ed io.... soggiunse Omobono a precipizio; ma fu in tempo a mutare frase, dicendo: — io non ci credo, e mi accorgo d'avanzo che tu vuoi giocare sul velluto.

— Omobono, da parte chiacchiere, io ti confermo che mi trovo più presso al laus deo di ogni mio avere che tu non credi.

— Ma qui vedo argenti a profusione; la tua signora, tra gioie, perle e preziosità di ogni maniera, da 350 a 400 mila lire se le ha da trovare.

— Mira come sei informato! O che mi hai già fatto l'inventario? Quanto dici è vero, ma io preferirei levare un tigrotto dalle mammelle della tigre anzi che un gioiello di sotto all'Elvira... Provati, se ti basta l'animo.

— Io mi sbattezzerei a pensare dove tu abbia sperperati i quattrini che devi avere guadagnato.

— E che guadagno... aggiungi; ma se tu provassi Elvira, conosceresti com'essa è donna da tirare in fondo una flotta di navi di sughero. Insomma mi mancano quattrini e mezzi per farne di corto, e se mi rincresce Cristo lo sa, e in questo tuo consiglio di dare a beccare ai polli in chiostra, mi sembra che stia l'anima del negozio.

— Dunque non resta altro che provveda io, disse Omobono a denti stretti.

— Conteggeremo all'ultimo, rispose Egeo a bocca aperta.

Omobono, nonostante la sua repugnanza grandissima di mandare al palio nuovi biglietti falsi, pure, stretto alla gola, ne trasse fuori dallo scrigno per un duecentomila lire, esclamando: — Il Rubicone è passato da un pezzo; dove andò la galera vada il brigantino: — e li consegnò ad Egeo, il quale osservò che non gli parevano a sufficienza, ma che tuttavia avrebbe cercato di farli bastare.

Da questo fatto però non ne venne male nè bene imperciocchè Egeo veramente in così cattive acque come aveva dato ad intendere non si trovava: poco spese, e dei suoi; i biglietti avuti da Omobono, dopo averli ben contati, lasciò intatti nel portafogli.

Ora nel mezzo tempo erano accaduti due casi, che importa riferire.

Egeo, compiacendo alla sua prava natura, ed anco a un vago desiderio di sottrarsi, potendo, alla servitù della Elvira, che incominciava a provare leggera quanto un pane di piombo sopra lo stomaco, prese a blandire più che non soleva Amina, la nipote di lei: se veramente ella fosse tale non sapeva; ne dubitava; tuttavia, poco premendogli di venirne in chiaro, lasciava andare tre pani per coppia. Di Amina non si poteva dire che versasse acqua diaccia nella pentola, ma nè manco ci metteva legna sotto: lasciava che cocesse così lemme lemme senza spiccare il bollore: — spesso mi trovo imbrogliato a esprimermi come vorrei, forse ci rasenterò dicendo ch'ella provocava pudibondamente le carezze, molto più che ogni carezza le fruttava un regalo. Ora, le carezze di amore, od egli sia di sal fine, ovvero di sale grosso, si sa, le sono come le ciliege, di cui una tira le quattro e le quattro, venti; così Egeo, non avvezzo neppure agli assedi regolari, un bel giorno, trovata sola Amina, volle di punto in bianco baciarla in faccia.

Mi chiamo impotente a descrivere la maraviglia, il furore, il rossore della castissima donzella, e ci rinunzio; dirò solo che in breve ella pensò se doveva urlare, o disperarsi, o svenirsi, o che cosa altro diavolo fare: — deliberò con atto dignitoso respingere da sè il novello amatore, e significargli con fermo accento:

— Signor Egeo, la prego a tenersi bene a mente che Amina non sarà baciata da altri, che suo marito non sia.

Ella aveva letto questo esempio in un libro dove si narra di certa figliuola di uno speziale che tal fece risposta al Re, impronto sollecitatore di un bacio da lei; e le fu ventura, che per tal modo si procacciò dote e marito; ma se n'era dimenticata da un pezzo, ed ora le tornò alla memoria come un cibo indigesto alla gola. Egeo, che da qualche giorno in poi aveva cominciato a spillare alcun che dei fatti suoi, stette a un pelo per isbottonare; poi lasciò correre per non guastare le uova nel paniere.

Diversamente accadde al giovane Omobono, il quale di frequente usava nella casa di Elvira, molto per necessità di conferire ogni sera o con lei o con Egeo, intorno al grave negozio che avevano per le mani, e troppo più per genio, perocchè Amina, vedendolo di persona ben formato e di modi gentili, diede spesa al cervello ed attese a ridurselo marito. Arrogi che ella lo immaginava straricco; e adesso nella grandiosa impresa in cui egli andava a mettere le mani ella vedeva aprirsi una sorgente inesausta di opulenza. Si mise tosto a fabbricare un'anfora di elisir di amore, il quale troppo bene le venne fatto, come colei che ne era maestra, se non che questa volta ci pose maggior cura e ne raddoppiò le dosi.

Dicono (ma nella Genesi non ci si legge) che il diavolo in persona ne insegnasse la ricetta ad Eva, subito nella prima conferenza che ebbe con lei, e che accresciuta, diminuita, rivista e corretta, giungesse alla perfezione nella quale noi oggidì la vediamo. Basta, anche a rischio di fare cosa inane io vo' metterla qui: non fosse altro per dimostrare quanto grande sia la premura ch'io pongo mai sempre a rendere servizio alle mie leggitrici.

Recipe. — Scrupoli 24 occhiate languide. Idem occhiate ardite. Idem occhiate velate. Idem occhiate scoperte. Idem occhiate diritte. Idem di traverso. Dramme 6 risi assortiti a mezze labbra; a scopridenti; modesti, immodesti e imbecilli.[6] Idem sospiri caldi e sospiri scorrucciati. Once 9 lacrime in parte risucchiate e in parte lasciate andare pel verso loro. Libbre 2 lettere di amore senza senso comune.[7] Mezza oncia di lettere col senso comune. — Misce in acquavite di libidine colta in primavera e stillata co' lambicchi di Venere celeste, co' lambicchi della fabbrica del canonico messer Francesco Petrarca; amministra per una settimana a tre cucchiaiate da tavola per dì. — Alcune fabbricanti ci aggiunsero non so quali dosi di piè percossi, di fazzoletti stracciati e di ventagli rotti, anzi ardirono mescolarci perfino le cascate in sincope, le canterelle e i temperini vibrati verso i paesi del cuore, ma questi ingredienti, massime i due ultimi, furono scartati addirittura dal costume elegante. La ricetta dello elisir di amore dura adesso inalterata nel modo che ho detto.

Quando la nave è stagna all'acqua, resistenti le vele, esperto il pilota, il vento in filo di ruota, gran tratto si cammina in breve tempo sopra il mare di amore, e i nostri amanti ci camminarono molto: già si erano aperti i segreti affanni e mostrate le scambievoli ferite, onde uno fa per l'altro medico a un punto ed infermo; si promisero amore, e per tenerle saldo giurarono conficcarlo e ammagliarlo coi chiodi del sindaco e del prete, e con le funi del codice civile e del sacramento, imperciocchè Amina pendesse allo ascetico e professasse devozione sviscerata alla purissima Vergine, alla quale non passava sera che ella non recitasse le litanie. Siccome questo amore aveva a procedere placido e sereno, e per così dire in bussola, il giovane Omobono ne fece motto allo zio, il quale non rispose sì, e no neppure; pel momento se ne cavò col solito: ci penseremo. Anch'egli voleva scoprire marina e veleggiare secondo il vento; ma il giovane, conforme persuade la nostra natura, facilmente credendo quanto gli piaceva e gli giovava, la tenne per cosa fatta e lo disse all'Amina, che per la contentezza n'ebbe il capogiro. Allora Omobono, non già col piglio di Arsace quando canta: Eccomi alfine in Babilonia, come aveva fatto Egeo, bensì in sembianza umile, con voce da pigliare per soavità sotto gamba quella del flauto, che nelle notti di primavera si diffonde sulla tremula superficie del lago... — e qui fo punto, perchè altrimenti la similitudine romantica minaccia di vincere in lunghezza la più classica di Omero, — egli, Omobono, la scongiurò a permettere che con un casto bacio i suoi legittimi ardori suggellasse; ma ella intemerata a lui supplichevole rispose come ad Egeo arrogante: veruno uomo l'avrebbe baciata, tranne il marito dopo celebrate le nozze; lì per lì s'impossessò di Omobono una maledetta rapina, che l'avrebbe mangiata viva, ma indi a poco, ripensando alla virtù della donzella e al culto professato da lei alla Vergine purissima, un lampo di giubilo gli irradiò la faccia per modo che parve trasfigurata. La moglie casta è una corona di gloria sul capo del marito... eh! lo ha detto lo Spirito Santo, che se ne intendeva, andò per quanto fu lungo il giorno borbottando Omobono.

Ma dunque cotesto vostro Omobono, che pure ci avete descritto giovane elegante, insomma era un ghiozzo da pigliarsi con le vangaiuole? No, signore, Omobono era innamorato; ed ella fu mai innamorato? Se sì, e non le incolse peggio, accenda i moccoli ai piedi del suo santo avvocato, perchè la sua consorte ebbe più virtù che ella giudizio; e però baci la mano alla sua signora, pigli una presa di tabacco e continui la lettura del Secolo che muore.

Ormai tutto è stato ammannito; il gruppo dei banchieri stranieri, capitanato da un caporale coi fiocchi, presentò le sue proposte; le condizioni furono discusse sottilmente, modificate e approvate, le garanzie richieste accertate con tanti biglietti di Banca Nazionale messi in deposito; il contratto, sottoscritto dal ministro e dagli imprenditori, ormai è diventato irretrattabile, salva sempre l'approvazione della Camera, la quale aveva da parecchi giorni a studio lo schema di legge; nè, per quanto si sapeva, negli uffici era sorta nuvola alcuna che turbasse il bel sereno dell'affare. Ogni ora più pigliava piede il prognostico che la legge sarebbe passata senza serio contrasto; intanto i mestatori parevano tanti barberi al canapo per acquistare e palleggiarsi le azioni; fra gli interessati era una irrequietudine, un'allegria da non potersi con parole convenienti descrivere.

La sera precedente al dì in cui si aveva a discutere la legge per la concessione della ferrovia in proposito, Egeo volle ad ogni patto che si facesse cena in casa di Elvira (veramente cotesta casa apparteneva a lui, e come padrone dì e notte ci albergava, quantunque tenesse aperta un'altra casuccia in via del Giardino; tuttavia volle una settimana fa che la Elvira la mettesse in testa sua, cosa che, senza pensare ad altro, la garga[8] di leggieri assentì), e dopo cena un ballonzolo così tra i banchieri interessati nella impresa ed i clienti più intimi. Gente tutta volgare: si scorgeva in essa, un miglio alla lontana, il filibustiere, il quale aveva mutato il mare per la terra; eccetto l'elemento in loro ogni altra cosa al suo posto come per lo innanzi. Eccetto la prima parte, tutto il rimanente dello epitaffio di Sardanapalo formava la pratica e la scienza della loro vita.[9] Bevevano come tedeschi, fumavano come camini e bestemmiavano come vetturali; taluno di loro aveva titolo di conte, tutti di cavalieri; e veramente meritavano esserlo, ma dell'ordine del Bagno[10].

Mangiarono e bebbero a ribocco, alternando arguzie fra loro, delle quali la più mite avrebbe meritato uno schiaffo a cui la profferiva; ma cotesta gente aveva sortito da natura pelle di rinoceronte, e invece che con ira venivano accolte con alte sghignazzate e suono di mani con elle: anzi in cotesta guisa fu aperto il cancello ad una giocondissima tenzone, dove se uno appiccicava sorbe, l'altro non mondava nespole: ogni scudo veniva giusto barattato per cento soldi: riferire tutti cotesti discorsi non parrebbe onesto, basti che il vituperio, arrandellato fuori di finestra il pudore e il tabarro e il cappello di lui, tornò a tavola, e quivi, tiratesi su le maniche della camicia, cominciò a vomitare le più sozze e ree cose che si sieno udite nel mondo.

— Domani, diceva Egeo ridendo, volto ad Elvira, tu cesserai un momento il sacerdozio di Venere per quello di Mercurio....

— Perchè? osservava un convitato; forse questi sacerdozi sono benefizi con la cura delle anime che non permettono il cumulo?

— Ma, entrava a dire un terzo, io porto opinione che la Elvira abbia in un medesimo punto ministrato alla diva e al nume; anzi, giurerei che taluno di noi potrebbe farne testimonianza come di fatto proprio.

— Insomma delle somme, urlava Elvira, dissimulando col riso il vituperio di cui l'abbeveravano, si potrebbe sapere perchè vorreste che io uficiassi domani in tempio diverso del consueto mio?

— Perchè Mercurio è il santo nostro e di parecchi ministeri, come sarebbe a dire di quello delle finanze, dell'altro di agricoltura e commercio, e in particolar modo di quello dei lavori pubblici, da cui dipendono le concessioni delle strade ferrate. Ora, nel modo che fra molti popoli marittimi costuma battezzare le navi, tu, Elvira, battezzerai con le tue immacolate mani la nuova ferrovia.

— Peccato che io non sono turco, chè adesso potrei farmi battezzare da codeste tue immacolate mani.... disse Egeo, ed alle sguaiatissime parole aggiunse atti anco più sguaiati.

— Ma che tu sii cristiano non è ben sicuro, gioia mia; onde, per levare ogni dubbio di mezzo... ecco, ti ribattezzo; — e così favellando afferra in un attimo la caraffa dell'acqua e tutta glie la rovescia sul capo. Egeo, di rosso cremisi, diventò colore di fegato, e ciò per colpa della tinta dei capelli stemperata nell'acqua. Allora si levò un baccano di risa scompisciate, di convici e di salutazioni un po' diverse da quelle che le divote inviano a Maria piena di grazie; rizzaronsi, acciuffaronsi, si corsero dietro, con plebei colpi di mano si offesero.

Amina e il giovane Omobono, assorti nei loro amori, per un pezzo non si addarono dello infernale tramestìo: egli, col frequente premere col suo piede quello di Amina, le aveva nabissato lo stivaletto di raso turco, mentr'ella a furia di gomitate gli aveva infranto mezze le costole; così anche le colombe a colpi di ale castigano i protervi colombi appassionati: finalmente, travolti pur essi dal vortice, corsero via per sottrarsi al volgare tumulto, e volando di stanza in stanza ecco giunsero in un corridore buio. Il luogo, la occasione, lo strepito, il calore del cibo e della bevanda, con l'accompagnatura di un diluvio di circostanze attenuanti, come dicono i giudici giurati, diedero balìa al giovane di stringere a mezza vita Amina, tutta confusa, recarlasi al seno e stamparle un bacio sopra la faccia; ma ella gli guizzò dalle mani, lo saldò con una solenne ceffata e riprese la corsa; egli, punto sbigottito, dietro focosamente veloce da disgradarne Apollo quando perseguitò Dafne, e la potè riagguantare e imprimerle sopra le nude spalle un secondo bacio con tanto ardore da lasciarci il succhio.

Comecchè le spalle non abbiano denti, tuttavia Omobono si sentì frizzare da un umore acre entratogli in bocca; e ciò perchè al buio aveva strizzato con le labbra una certa tal quale pustola d'incerta origine, ma d'indole più che sicura...

Ditemi, avete voi mai visto nel porto di Genova l'alberatura dei navigli quivi raccolti quando imperversa il vento di Provenza? Tentennando a quel modo s'incamminarono al riposo i nostri personaggi: chi si buttò sopra e chi scivolò sotto il letto; alcuni mezzo spogliati, altri vestiti. Il Sonno allora, spalancate a due battenti le sue porte, quella di avorio e l'altra di corno, diede la via alla famiglia intiera dei sogni, affinchè andassero a taloccare a loro talento i nostri addormentati.

A Egeo, fra le altre cose strane, parve vedere un Amore, il quale, dopo avergli messo al naso il morso e la briglia, glielo inforcava di un tratto a modo di postiglione, spronandoglielo alla dirotta per ispingerglielo al galoppo: infatti la mattina se lo rinvenne tutto sanguinoso per esserlo stropicciato furiosamente quanto fu lunga la notte.

Omobono il vecchio vide addirittura il diavolo, e siccome erano conoscenze antiche, così lo pregò a dargli un colpo di mano, e il diavolo gli rispose: magari! e subito dopo gli portò con la forca un gran fascio di azionisti, il quale Omobono avendo messo nel trinciatoio, mentre per troppa bramosia lo trita senz'avvertenza, onde ruminarselo a suo agio, si porta via di netto una mano. Fuori di sè, dallo spasimo, mugola come un toro, intanto che il diavolo, postasi la mano tagliata al cappello, a mo' di penna, si allontana uccellandolo: «Bietolone! dovevi fare con meglio garbo».

Omobono il giovane allietò la visione di due farfalle di Casimira, che si rincorrevano volando di fiore in fiore, finchè incontrata una enorme bocca di lione, non potendo trattenere il volo impetuoso, vi traboccarono dentro; la bocca del lione si chiuse, ed esse vi rimasero imprigionate. Allora Omobono si accorse che la farfalla assomigliava all'Amina e il parpaglione a lui, e non gli increbbe.

All'Amina sembrò le si fosse posato in grembo, come il cigno a Leda, un magnifico fagiano dalle piume dorate, che ella senza ceremonie si mise subito a pelare; e pelava e pelava con un gusto che era un desio a vederlo; quando di un tratto, quasi le piume del fagiano si fossero convertite in aghi, sentì pungersi le dita; gittò un urlo, si destò e rinvenne che nel cacciarsi le mani dentro i capelli una forcina l'aveva trafitta. Per quietare la paura che le durava nel lago del cuore, rischiarata dal lume della lampada che ardeva dinanzi la immagine della purissima Vergine, sua santa avvocata, si mescè un bicchierino di liquore della Certosa (ah! quei benedetti frati dove mettono le mani fanno tutto bene), e dopo il primo un altro mezzo. Le parve essere rinata; recitò una avemmaria e si ripose a giacere, gustando le beatitudini del sonno dei giusti.

Se Amina si sognò di essere convertita in Leda, all'Elvira toccò sognarsi di essere mutata in Danae, e standosene a pancia all'aria esultava pel rovescio dei marenghi che le pareva le ci piovesse sopra: a romperle cotesta contentezza sopraggiunse un fischio come di macchina a vapore; declina lo sguardo, e mira un boa sterminato, che, postosele ai piedi, fa prova di risucchiarla, e pur troppo si sente attratta da lui tanto più agevolmente, che conosce giacersi sopra un piano inclinato: guardando meglio, conosce cotesto piano andare tutto composto di capi umani, criniti di capelli bianchi, neri, castagni, e biondi, ovvero zucconi: insomma un esercito: formavano questo esercito tutti coloro che ella tenne sotto la sua disciplina come amanti, e adesso in un batter d'occhio li passa in rassegna. Le parve tornare da morte a vita; due terzi erano cavalieri e nobil gente, dunque la difenderanno; e s'ingannò; veruno si mosse, o battè ciglio, o profferì parola; e poichè il boa sempre e più sempre la tirava a sè, ella, non sapendo in quale altro modo aiutarsi per impedire lo sdrucciolo che di minuto in minuto diventava ruina, prese ad agguantarsi ai peli ed anche alle barbe di cotesti capi.... invano! chè la fiera ecco la ghermisce per un piede, le inghiotte le gambe, le coscie; la stringe nei fianchi, la soffoca, non può più respirare. Mercè uno sforzo disperato le riuscì levarsi da giacere supina; allora riprese libero il circolare del sangue, ed ella si destò spaventata e mèzza di freddo sudore. Lume in camera non aveva; si gittò giù dal letto, accese la candela ed aperse una maniera di stipo, che si teneva a lato sopra una tavola da notte, pieno dentro di bocce di cristallo con varia ragione liquori: lo sogliono chiamare cantina; scelse la boccia dov'era scritto: Acquavite di Scio, nè stette a cercare il bicchierino per misurarne la quantità; se l'accostò alla bocca, e in una gozzata ne mandò giù più di un terzo; ripreso fiato, ribevve, e per questa volta ne fece sparire mezza; rotta agli spiriti ell'era, tuttavia parecchie lagrime le cascarono giù per le gote. Volle provarsi altresì a fumare un sigaro, ma le cascò subito dalla bocca; e la fortuna volle che, acceso male, si spegnesse quasi subito, altrimenti avrebbe dato fuoco alla stanza; ella ricascò sul letto dove si addormentò di botto.

Sdraiata dorme e russa come un orso.

Tale progresso hanno fatto nelle vie della perfezione le così dette gentildonne (che di rado troviamo essere donne gentili) da Parini a noi.

Capitolo XVI. LA CONCESSIONE DELLA FERROVIA.

Ecco il giorno, ecco l'ora della discussione intorno alla legge della ferrovia. Alla Camera occorre ammannita ogni cosa; il presidente messo a sedere col campanello da un lato ed il cappello dall'altro, parafulmini entrambi delle procelle parlamentarie: ecco l'acqua e lo zucchero che si hanno a bere, ed ecco in pronto la eloquenza ch'egli ha da bere: al fianco del presidente il segretario legge, nel suono della pentola che leva il bollore, il processo verbale (una volta si chiamava relazione), il quale viene sempre approvato, per la buona ragione che di ordinario non ci è alcuno che lo possa disapprovare.

Vedi allestita la stanza dove i deputati vanno a rifare, bevendo, la voce affranta dalle lotte della tribuna, nella stessa guisa che i cerusichi tengono in pronto l'ambulanza per medicare i soldati delle ferite riportate in battaglia. Qui in bell'ordine disposti coltelli, sarracchi, tanaglie, maddaleoni e fasce; lì bocce, bicchieri, e bicchierini, e cantimplore, e arnesi altri siffatti.

Taluno afferma che i deputati che parlano meno sono quelli che bevono di più, ma non gli date retta; coteste lingue le sono come la campana del bargello, sonano sempre a vituperio.

E' vi ha bevande adattate a tutti i partiti; per la destra limonee, acetose ed altre simili acidità; pel centro sciroppo di tamarindi; qualcheduno propose aggiungervi acqua del Tettuccio, ma non attecchì; per la sinistra rhum puro e anisetta, onde mantenerci il fuoco sacro. Egli è negli angoli più remoti di questa stanza che tu miri passeggiare un uomo con la destra sotto il mento e la sinistra dietro la vita, verso il coccige dove alle bestie spunta la coda, con un foglio; è uno degli oratori, che deve correre il palio nell'aringo parlamentario, il quale, ripassa la diceria, che fra poco andrà a improvvisare;[11] e perchè la illusione diventi maggiore, la prelodata mala lingua assicura che fino dal giorno innanzi egli ha concertato con certi suoi amici compari le interruzioni, le quali devono parere nate lì per lì per provocare ex tempore i frizzi e i motti visti e rivisti e corretti dallo autore. Eh! via, smettetela, cerretani! Credete voi che Cicerone improvvisasse la orazione pro Archia poeta? O Demostene quella per la Corona? E Pitt, e Fox, e Sheridan, e Brougham, credete voi che improvvisassero i loro discorsi? Sapete voi chi improvvisa? Chi vagella.

Anche i bidelli secondo il grado hanno indossato le livree, e appeso al collo la catena; i deputati non ne hanno bisogno, perchè la più parte di loro venne al mondo sotto lo influsso della costellazione della livrea, e serva vestita nacque, e serva ignuda perirà. Quando conterete i miei anni, voi che leggete, andrete come me persuasi che nelle dimore degli uomini trovano alloggio tanto il genio della libertà, quanto quello del servaggio, — e ci ha perfino chi li piglia per fratelli. — E rispetto alla catena, io vi voglio dire che non vidi mai deputati destri scendere stretti insieme a combattere una legge ostile alla libertà, senza che mi ricorresse alla mente Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, che, comunque cieco, volendo pure pigliar parte alla battaglia di Crécy, s'incatenò con altri cavalieri, e a questo modo combattendo incontrarono tutti miserabile morte. Dove non basterebbero Titani co' cantoni di granito credete potercela voi Enceladi di carta pesta, lanciando fagiuoli con l'occhio?

Si alza il ministro, che a quei giorni fu un coso nè brutto nè bello, co' capelli in parte bianchi ed in parte neri; sentiva altresì del guercio, imperciocchè con un occhio guardasse a oriente donde nasce il sole, e coll'altro ad occidente dove il sole tramonta; non buono, non tristo, ma alla occasione più tristo che buono; nei discorsi suoi limpido come l'acqua piovana, e come lei insipido: insomma un vero ministro costituzionale, creato da madre natura subito dopo il diluvio, e poi messo lì a stagionare: costui pertanto prese a snocciolare adagio adagio uno dopo l'altro tutti gli argomenti in pro della legge nell'ordine col quale glieli avevano imbeccati i segretari; e conchiuse col dire, ch'egli però non intendeva del rigetto di cotesta legge fare quistione di Stato: anzi se qualcheduno avesse a proporre meglio, non si peritasse; approvata o respinta cotesta legge, egli rimarrebbe.

Udendo Elvira (fino dalle prime ore del giorno convenuta insieme alla turba degl'interessati nelle tribune della Camera) coteste strane parole, non potè frenarsi da esclamare:

— Tondo ti conobbi e tondo ti rimarrai. — Bos in patria, asinus undique, come scrisse certo bell'umore per lo epitaffio di un deputato vivo.[12]

Omobono, con parole fumanti più del fiato del cavallo che abbia corso a staffetta, strideva negli orecchi all'Elvira:

— Perdio! Qui giochiamo di noccioli... O questa conchiusione come ci casca? Ci sia caso che costui mangi a due palmenti? Non sareste fra voi tutti di accordo?

Elvira, punta sul vivo, rimbeccava come un aspide:

— O che credete che i ministri si comprino come mazzi di sparagi? Io vi ho ripetuto le migliaia di volte, che quanto a guadagnarci questo ministro col danaro, non bisognava pensarci nè manco; poi non era con dugentomila lire che si sarebbe potuto acquistare; aspettate; forse chi sa che la delicatezza ostentata non sia una figura rettorica, una finta di cartoccio per riuscire meglio nello intento.

— Maledetta virtù, grugniva Omobono, io me la trovo sempre fra le gambe come una veste di fiasco.

— Zitto! soggiunse Elvira; ecco, adesso piglia a parlare il deputato Ramassi.

— Ed è dei nostri lui?

— Figurarsi! Come le dita della mia mano! O non vi ricordate di averlo incontrato venti volte almeno a pranzo in casa mia? E sì, che non si dovrebbe dimenticare tanto facilmente, perchè, masticando nel punto stesso da tutte e due le ganasce, non si sa bene s'ei mangi o stia a modello dei mascheroni da fontana.

Il Ramassi nella commedia del Parlamento sostiene le parti di Rimestino Rodipoco, e non è il solo. Certo non costa molto; si piglia facilmente per la gola a modo dei pesci: amava di amore sviscerato i preti a tavola, perchè ci prendeva i quartieri da inverno con loro, e non meno diletti li teneva fuori di tavola, perchè sovente ce lo invitavano. Se egli si fosse trovato nei piedi di Esaù, avria venduto non una, bensì dieci primogeniture, non però per un piatto di lenticchie. In tutto e per tutto d'accordo col reverendo suo direttore spirituale, in un punto dissentiva ricisamente da lui, ed era: che a suo parere la cena mistica si componeva di troppo poco: pane e vino pei sacerdoti, pei laici pane solo. Ora, Gesù Cristo non ha insegnato egli stesso: non solo pane vivit homo? Dunque, alla più trista, bisognerebbe aggiungere nella Eucarestia una braciuola cotta alla navicellaia coll'aglio e il finocchio; e il bello poi stava in questo, ch'egli lo sosteneva sul serio. Se oltre la gola tu poni uno staio di servilità, un quarto di trivialità e un bossolo di scurrilità, tu avrai messo insieme un altro Ramassi; e nondimeno considerando gli arnesi co' quali costumava bazzicare, era mestieri dire: per gobbo è fatto bene.

Costui, spifferando uno sciolema lungo quanto la quaresima de' Greci, accompagnato da lazzi e buffonerie, esagerò in guisa la esposizione fatta dal ministro, da renderla argomento d'inesauribile ilarità: nel delirio dell'adulazione egli chinò troppo la testa, e troppo buttò in alto il turibolo, donde avvenne ch'egli rompesse due nasi: uno fu il suo pel battere forte ch'egli fece della sua faccia in terra, e l'altro del ministro sfracellato dal fiero urto del turibolo. Omobono, smanioso, mormorava negli orecchi all'Elvira:

— Ohimè! Dove diavolo me lo avete scavato? Tanto valeva cercare il male per medicina.

E la Elvira a sua volta, stizzita, rispose:

— Voi dite unicamente; la prima volta ch'ei torna a pranzo a casa, e sarà in breve, io vi giuro di fargli condire le pietanze col sale d'Inghilterra.

— E adesso chi è mai quell'altro che si leva? domandò con trepida esitanza Omobono.

— Gli è un deputato della opposizione, non già della corrosiva, bensì di quella acidula, leggermente purgativa, la quale finisce sempre o per ringraziare il ministro, o per chiamarsi soddisfatta, o per ritirare il suo ordine del giorno.

— Ho capito, notò Omobono, resistenza tanto che basti a salvare l'onore della capitolazione, resistenza che voialtre donne pare abbiate insegnato agli uomini politici.

— Quanto a questo, caro mio, disse di rimando la Elvira, la è quistione sempre indecisa, come quella: ditemi chi fu pria, la messa o il prete.

— Misericordia! continuò Omobono, come costui è avvampato nel viso! Pare un fiasco di vino di Chianti lasciato per dimenticanza sopra la tavola dove desinano i deputati; ditemi, costui parla o mesce?

— Non mesce, no; egli parla, e bene, rispose sorridendo Elvira.

Il deputato dalla faccia vinosa riepilogò con molta chiarezza i molteplici vantaggi della ferrovia in discorso, secondo l'ordine col quale li era venuti indicando il ministro, appiccando però ad ognuno certa sua glossa, nella medesima guisa che nelle litanie ad ogni salutazione tiene dietro: Ora pro nobis. Egli non trovava lodi che bastassero ad encomiare la comunicazione accelerata delle parti estreme d'Italia, ma a patto che gli abitanti loro si trovassero spesso insieme per raccontarsi la scambievole prosperità, mentre non avendo altro a raccontarsi, per ora, che le scambievoli miserie, non distingueva proprio che pro potessero cavare dal vedersi frequentemente. Sicuro, l'agricoltura promossa ed ampliata farà la mano di Dio a questa nostra società messa a soqquadro dagli antichi e moderni scommettitori; ma io non so come la si voglia sovvenire opprimendola co' balzelli, che ogni dì più allungano i denti; lo stesso dicasi per le industrie ed i commerci. Gli è vero, non però in tutto, ciò che scrive il Filangieri, che l'arte del finanziere sta nel mettere il peso al posto dove si possa portare: cento libbre sopra le spalle non recano fastidio, sul naso te lo schiacciano; e va bene; ma poni che il peso sia di una tonnellata, allora poco preme un luogo piuttostochè un altro; dovunque te lo mettano, tienti per ispacciato. Signori miei, il ministero (e parlando di ministero intendo comprendere tutti i ministri che ci governarono, imperciocchè essi tutti partecipino della natura degli enti, che compenetrandosi di tre se ne fa uno solo), il ministero fin qui mi rassomiglia a colui che tagliasse prima le gambe ai cavalli e poi li spronasse a correre. Noi non abbiamo lasciato passare occasione per ammonirlo, ma egli ci ha risposto come quel cuoco il quale costumava scorticare le anguille vive: e' ce le ho avvezze! E poi il ministro ci ha sbatacchiato su gli occhi lo specchio delle rendite dicendo: — Ecco qui, l'entrate crescono; ed è vero, perchè più stringi il torchio, più spremi sangue dal popolo stritolato.... ma badate bene, che alla fine del salmo viene il gloria. Certo, se tu abbatti la tua foresta in un anno solo, tu ne caverai costrutto maggiore che se tu la tagliassi regolarmente in dieci, ma allora con che ti scalderai dopo il primo anno? Con una secchia di acqua cavata dal pozzo. Mi si allarga il cuore quando volgo la mente ai tanti paduli che voi asciugherete, ma adesso che siamo qui in famiglia, ditemi: o non sarebbe stato meglio a pensare un po' più che non intristissero quelli che erano di già asciugati? Le strade aperte in mezzo ai boschi, signori miei, sono spade a due tagli; e taglieranno a vostro scapito se non ci manderete prima forze sufficienti ad esplorarle, e dopo con savi provvedimenti non opererete in modo da far toccare al masnadiero, che troverà maggior conto a lavorare che a rapinare; e nel frattempo, per facilitare la intelligenza, un zinzino di forza non farà male a nessuno...

Qui a sinistra uno stridore di denti; a destra un bravo così potente da tirare giù le travi del soffitto. L'oratore continua...

— Chiedo scusa agli onorevoli miei colleghi di sinistra... io, lo sapete, fui sempre con voi a gridare: morte alla morte, e guerra alla guerra; mi ripiglio del lapsus linguae, tuttavia confessando che fra la morte allopatica di una dozzina di palle sul petto, e la omeopatica delle celle del carcere penitenziario, non mi sembra che ci corra un tiro di cannone. Se le promesse che hanno fatto alla Italia i ministri, che vi hanno preceduto, voi poteste vendere a una palanca la grossa, voi paghereste gli undici miliardi che ci troviamo di debito, e ce ne avanzerebbe. Volete sapere che cosa dice il popolo di voi? Io non ho soggezione a ripetervelo, a patto che non ve ne arrechiate. Il popolo con lingua dolosa dice: che la menzogna visitava spesso il governo subalpino, ma non ci aveva preso stabile domicilio; ci stava a locanda; fu il glorioso Conte di Cavour che ce l'accasò, anzi ce la impiombò come un cardine di porta, onde dopo lui la menzogna può chiamarsi un cardinale della monarchia...

Gli avversari del ministero giubilano, i suoi amici due cotanti più.

— La linguaccia del popolo aggiunge: le bestie fino ab antiquo ebbero sempre parte cospicua nella istruzione; ai tempi di Achille il ministro della istruzione era Chirone, mezzo uomo mezzo cavallo; oggi questa uguaglianza fra le parti non si è mantenuta....

Scoppi di risa da tutte le parti; l'oratore continua:

— Ed anco la parte del cavallo ha ceduto il luogo a bestie di qualità inferiore.

I nemici dei ministri vanno in visibilio, gli amici pel soverchio ridere piangono; l'oratore imperturbato seguita:

— E dice altresì, che per avere una idea giusta della grandezza dei nostri ministri di Stato bisogna guardarli col cannocchiale alla rovescia; mercè vostra, o ministri di tutti i luoghi e di tutti i tempi, i maligni detrattori della monarchia hanno potuto sbottonare dei re queste parolaccie: Dio, affermano le sacre carte, mutò un re in bestia; bella forza! Si aveva a provare, per far conoscere la sua onnipotenza, di trasformare un re in uomo, e allora anch'egli avrebbe veduto ch'era un altro paio di maniche....

— Onorevole signor deputato, la invito a tenersi al soggetto, lo interruppe il presidente.

— Scusi, io parlava di ministri, e mi pareva non dilungarmi dalla questione.

— Chiedo perdono, ella parlava di bestie....

— La è tutta una, così grida una voce stentorea dalle tribune.

— Silenzio! urlò il presidente. Silenzio! i bidelli. Silenzio! parecchi deputati, e fu fatto silenzio; ma l'eco di cotesta voce durò a vibrare un pezzo dentro al cranio di parecchie eccellenze.

Il deputato dalla faccia vinosa, sempre con quel suo piglio beffardo, riprese:

— Signori, io era rimasto ai briganti; e però dico ai ministri, che se non penseranno sul serio alla sicurezza del transito, i malandrini, in grazia della opera vostra, si vedranno provvisto il mercato da svaligiare; e avvertite, che potrebbe darsi il caso ch'ei per ceppo vi mandassero i capponi a casa. — E di questo tenore cotesto cervello bizzarro continuò per parecchio altro tempo, mettendo sempre davanti con fino accorgimento obietti facili a vincersi, nel modo stesso col quale nei circhi dei giuochi equestri vediamo porre dinanzi al pagliaccio cinque cerchi impannati di carta o sei, perchè di rincorsa quegli li sfondi tutti, con meraviglia non meno che con diletto degli spettatori. Infatti il ministro, ripigliando mansueto il suo dire, passò in punta di piedi sopra la poca cura posta dai suoi predecessori a mantenere le conquiste fatte sopra i terreni paludosi, e deplorandola la scusò, notando esserne stata colpa i tempi grossi nei quali troppo maggiori cure dava la salute d'Italia, che quelle dei bonificamenti dei paduli non sono. Adesso la negligenza non avrebbe scusa; essere disposto a compire con tutta alacrità il debito proprio: lo consigliassero i deputati, lo sovvenissero; egli non desiderare di meglio; da tutto e da tutti potersi ricavare del bene, anche dalle vipere.

Questo ultimo tratto andava diritto a colpire il deputato dal viso di vinaccia, che pronto rimbeccò:

— Sicuramente, se ne cava il brodo, che fa bene ai tisici: — ma si chiamò soddisfatto, e finì col dire che, riponendo ogni fiducia nel ministro, avrebbe votato per la legge.

Il popolo ridendo di cuore esclamò: gli ha dato il pane con la balestra. Qualche destro disse: bravo! La sinistra, arrapinata per cotesto voltafaccia, come se a questa ora tanti suoi sozi (avverta il proto nel comporre questa parola a metterci una z sola) non ce la dovessero avere assuefatta, mostrò i denti e il pugno chiuso, come fa la scimmia quando le rubano le noci.

Il pallone ormai è gonfiato: una sottile corda lo trattiene appena sopra la terra; l'orizzonte s' indomenica[13] per fare onore al volo trionfale.

Chi è colui che sorge come vapore da paese guasto a spandere dintorno la desolazione e la morte? Egli ha nome Probo Seigatti. La natura, dicono, stava per fabbricare una nuova specie di avoltoio monaco, e già lo aveva quasi condotto a fine, quando, sul punto di agguantare un'anima di bestia qualunque e ficcargliela in corpo, sbagliò barattolo, e prese un'anima umana. Così nacque costui; ma egli, sentendosi a cotesto modo non finito, per completarsi tolse in prestito un altro paio di artigli, e se ne fece due mani; poi negò restituirli, opponendo la prescrizione all'uccello di rapina, che gli aveva dati in accatto. Nella prima gioventù il suo istinto di avoltoio lo condusse a ghermire quanto gli si parava davanti; mise gli artigli dentro la filosofia ed anche dentro la poesia, diede di becco nelle lingue, si avventò alla gloria, e stette a un pelo di cavarle gli occhi: ma, accortosi di breve come ben potesse sgraffiare tutte le cose buone ed oneste, non però staccare da loro il minimo brandello per proprio uso, prese a maledirle, e per giunta a struggersi d'invidia contro tutti quelli che, attendendo religiosamente allo studio delle discipline umane, ne riuscirono felici cultori. Allora la invidia, siccome costuma, piantò sopra la faccia di lui la sua bandiera colore di bile, ci risucchiò il sangue, nè si rimase finchè non l'ebbe convertita in insegna di morte. Se mai avveniva ch'egli stringesse la mano a qualche creatura, ecco tale c'insinuava un diaccio di tarantola, che per qualche minuto ci sospendeva la circolazione del sangue; se toccava fiori si seccavano; fiatoso aveva l'alito; l'anima due volte più: pesi come il piombo cascavano i suoi occhi colore di piombo sopra la gente; se accadeva che i fanciulli venissero a fissarli, fuggivano a rimpiattarsi dietro le gonnelle delle mamme: così i pulcini presentendo la cornacchia si rannicchiano sotto l'ale della chioccia. Probo viveva giorni fastidiosi, a sè grave, in abominio altrui, quando Abramo, medico e sensale ebreo, considerandolo un dì male disposto della persona, lo volle visitare sottilmente, ma non ebbe mestieri specularlo a lungo, che, appena tocco il polso, esclamò quasi rapito in estasi:

— Dio di Abramo! Esulta, o popolo d'Isdraele; il tuo soccorso è nato: ecco il promesso Messia: poi lo baciò in fronte, e proseguì: ah! tu non sai qual tesoro tu racchiudi in te? Me fortunato, che venni eletto a rivelarti la tua missione sopra la terra! Da' retta.... e ascolta nell'alto una voce che grida: tu sei il figliuolo della mia predilezione.....

— Ma insomma, interruppe Probo impazientito, o Abramo, tu mi hai preso a godere.... ch'è questo che tu trovi in me?

— Trovo, rispose solennemente l'ebreo, che il polso ti batte con le pulsazioni dell'ottanta per cento.... sangue purissimo dell'usura.... nelle vene del Rothschild non circola migliore; e qui fece per inginocchiarsi dinanzi a lui.

Allora Probo Seigatti ebbe una visione: come dentro al raggio di sole che penetri per un foro nella camera oscura vediamo mulinare miriadi di atomi luminosi, così a lui fu rivelata la moltitudine infinita degli scrocchi, dei barocchi, dei retrangoli e dei lecchifermi; gli si schierarono davanti le specie innumere dei babbi morti, dei carrozzini, degli stellionati, dei finti telegrammi, delle false novelle, dei supposti corrieri; vide le coperte insidie, le segrete trappole, le suste, le carrucole, le corde, onde la rendita pubblica ed ogni valore si alzano e si abbassano: gli fu aperto il segreto di impietrire il sangue del popolo e darlo ad intendere diaspro; di congelare le lacrime e farle passare per perle, di colare i gridi di disperazione traverso il vaglio di giornalisti traditori, e giurarli applausi entusiastici, anzi frenetici. Al fine della visione una lingua di fuoco gli cascò sul capo, e quivi cominciò a bruciare alimentandosi con tutto quanto avanzava nel cuore di Probo di palpito umano, e nel suo cervello di pensieri gentili. Quello che costui escogitò e mise in opera per procacciarsi moneta l'animo rifugge raccontare; da questo uno argomenta gli altri: si fe' mezzano per provvedere danaro alle faine d'Italia, affinchè, pagando il soldo ai nibbi stranieri, prolungassero il martirio di questa nostra povera patria.

Costui pertanto incominciò dal discorrere in succinto dei vantaggi che doveva partorire la nuova legge, confermando pienamente quanto avevano accennato gli oratori precedenti, poi sollevandosi a sfere più sublimi mise i deputati dentro alle future cose. — L'Asia, egli disse, voi lo vedete, sta in procinto di riversarsi sopra l'Europa per novelle vie, o piuttosto per le vie del vecchio mondo, rinnovate adesso; il Mediterraneo ritorna la fiera delle produzioni di tre parti del globo; molto, fin qui, averci sovvenuto la provvidenza di Dio, presidio immortale dell'alma madre Italia; ma avvertiamo, signori, non ne abusiamo, che a lungo andare sta la sentenza: Chi si aiuta, Dio aiuta; ei si corruccia con gli accidiosi: ed anche quelli che ogni loro fiducia ripongono nella fortuna sogliono dire: ch'ella non si ferma a bussare le porte chiuse; se non le trova aperte tira di lungo pel suo cammino. La nuova ferrovia mi sembra destinata a servire di spina dorsale all'Italia, le molteplici ramificazioni che si partiranno da lei la muniranno di costole; il portentoso porto di Brindisi restituito alla pristina magnificenza; le Alpi Cozie forate, dopo le Marittime, e le Retiche, e le Giulie, e le Carniche, mentre leveranno la nostra contrada ad inaudita prosperità, faranno fede al mondo del genio italico, il quale, se per inclemenza di fato, durante molti anni, non parve fuora, ei si rimase sotto terra come il grano nei giorni iemali, vo' dire per cestirvi e trionfare in primavera. Ed anco bisogna riflettere a quest'altro: l'America per lo passato fu uno dei gusci della bilancia dell'universo, ora però, estendendo l'azzurro della sua bandiera a nuove stelle, è chiaro che di guscio aspira a diventarne l'ago, però a noi altresì corre l'obbligo di levarci in alto per produrre lontano il nostro sguardo nei tempi. Signori, ponete mente; sentite voi lo strepito pari a quello di venti cascate di Niagara che precipitino dentro uno abisso di tenebre? Lo udite? Ebbene, sapete voi da che cosa nasce? Dal brontolìo delle moltitudini che ripetono: la natura ci donò la terra come il sole: il sole tuttavia possediamo, perchè veruno ce l'ha potuto togliere; la terra no; ce l'hanno rapita; ripigliamola. Signori, diamo opera indefessa a studiare il come per noi si possano chiamare le moltitudini a parte del retaggio costituito dal Creatore alle sue creature, mercè la scienza ed il lavoro. Certo, le moltitudini strascinano la ignoranza come una palla di ferro ribadita al piede del condannato, ma ricordate che i pugnali di Spartaco e degli altri servi ribelli furono fatti col ferro delle loro catene; ora poi le moltitudini hanno interesse più di noi perchè il civile consorzio non vada a soqquadro; per noi il tumulto significa mezzo pane; pel popolo, fame intera; dunque mettiamogli in mano la scienza come una lucerna, affinchè s'illumini il sentiero e miri dov'abbia a posare il piede, per procedere con sicurezza non meno che con utilità. Lodando dunque con pienezza di cuore l'alto concetto di questa magnifica arteria di vita italiana, ed affrettandone il compimento con tutti i miei voti, siami, o signori, concesso separarmi dal governo intorno alla convenienza di costruirla piuttosto co' danari stranieri che co' nostrani. Io, che soglio aprire ingenuo e schietto quanto sento nell'animo, non mi sembra come ciò possa fornire nè anco materia di dubbio; perchè ecco in qual modo ragiono: noi prevediamo che questa impresa produrrà danno, ovvero utile agl'interessati; nel primo caso non sarebbe onesto, e lasciamo l'onesto a casa sua; non sarebbe di utilità alcuna precipitare in impresa ruinosa i capitali così nostrani come forestieri; — i forestieri, a modo che un dì ci chiamarono terra dei morti, oggi ci saluterebbero col nome di terra dei naufragi. Ma io pongo che abbia a giovare; e allora con qual consiglio, con qual giudizio faremo sì che, esclusi i cittadini, abbiano ad avvantaggiarsene gli avveniticci soltanto? Ognuno ripari all'ombra del suo fico e della sua vite. A questo arrogi: noi figli d'Italia, che tante fatiche durammo, tanti pericoli corremmo, tanti sacrifizi patimmo per rivendicare la patria dalla oppressione dispotica degli stranieri, soffriremo con animo quieto vedercela mancipia della tirannide economica dei medesimi? (Movimento prolungato su tutti i banchi e nelle tribune).

Intanto Probo stendeva e ritirava gli artigli, dai quali si vedevano pendere brindelli di pelle scorticata.

— Per verità, proseguiva costui, non può negarsi che taluno di questi ospiti morisse mentre stava dintorno a rosicchiare l'Italia; e certo gli eredi suoi non si fecero vivi per riscattarne le ossa, ma scesero giù di rincorsa a raccoglierne la eredità, se prima di morire i parenti non l'avevano fatta ricapitare a casa. Come! versammo fiumi di sangue per isfrattare di casa nostra inquilini molesti, ed ora non sapremo stemperare un po' di calce per imbiancarcela? E nel presagio di vicini irrequieti, nemici naturalmente di pace, di cui parte intende a ricuperare una signoria, ed altri ad acquistarne una nuova, consentiremo noi che un nugolo di essi venga a studiare palmo a palmo le nostre pianure, i nostri monti e le nostre valli? Per me credo che se noi altri permettessimo questo, ci avremmo a proibire la via San Gallo, dove occorrono la stamperia del giornale la Nazione e lo Spedale dei Matti, perchè temerei che il dottore Bianchi mi agguantasse pel petto in vicinanza di Bonifazio, dicendomi: «Passi qui dentro per farsi raccattare due maglie al suo cervello.» Ma ora sento obiettarmi: quanto ella dice è oro rotto; ma in Italia ecci volere? A questa domanda io mi sento tutto rimescolare dentro, e rispondo: e come siffatto dubbio può uscire da labbri italiani? In qual modo l'Italia vinse la barbarie dei secoli? Col volere. Come la lunga, varia e greve dominazione straniera? Col volere. Come ricostruire la perduta unità? Col volere. Quando Umberto dalle bianche mani, affacciatosi alle Alpi, stese il suo sguardo per quanto è lunga la Italia, sclamò: tutta mia! tutta mia![14] E fu questo magnanimo volere, che trasfondendosi di secolo in secolo nei suoi non manco magnanimi nipoti, di concetto prese forma di realtà; ed in breve, così giova sperare, noi lo vedremo compìto. L'astro di Casa Savoia non può fallire...

Applausi dalla destra, dai due ventrigli ed anche dalla sinistra.

— Certo, in qualche contingenza, non saremo noi che lo impugneremo, anzi più degli altri ci sentiamo disposti ad affermarlo in buona fede, ci sovvenne la Francia, in qualche cos'altro la Prussia; forse... a squattrinarla ben bene, con le debite riserve e proteste, le agitazioni popolari, l'opera di taluno agitatore, di taluno letterato, di taluno filosofo... tarabaralla... un po' di aiuto somministrarono pure essi, ma tutto ciò sarebbe stato uno aguzzarsi il cavicchio sul ginocchio, se non ci fosse stata una forza sapiente, la quale riunisse tutte queste verghe in un fascio solo, stringendole insieme con legami di affetto di gloria e di prosperità, e sè ponendo in mezzo come una scure per difesa... insomma, chi fece il fascio romano della unità italica? Gli è chiaro come l'acqua: fu la monarchia sabauda; ed io vorrei guardare in faccia chi si attentasse negarmelo qui.....

Il Ramassi, lo stesso Ramassi, che pure si reputa estratto essenziale della più abietta servitù che abbia germogliato al mondo, non potè stare alle mosse, e saltò su con otto o dieci destri, i quali tutti uniti insieme si misero ad urlare:

— La monarchia, sì, ma sovvenuta e protetta da noi.

I ventrigli destro e sinistro si mareggiano come una mazza di gelatina e mormorano:

— E noi? E noi?

I sinistri sbuffano come leoni e mugliano:

— E senza noi dove sareste voi?

Di qui uno schiamazzo, un frastuono, un rovinio da mandare sottosopra sala, banchi, deputati e ogni cosa; le guardie nazionali posero le baionette in resta; i ministri consultarono il ministro della guerra se fosse caso di ritirata; le signore ammannirono i sali, i cavalli stessi dipinti sopra le pareti pareva che, aombrati, stessero per iscappare; il presidente, venutogli meno ogni partito, si mise Nettuno in capo, vo' dire il cappello, e la tempesta parlamentaria quasi per incanto tacque.

Probo si accorse avere commesso una papera; il soverchio aveva rotto il coperchio, però non gli parve di avere a gingillare, onde, agitando un fascio di carte, di subito con voce stridente riprese a dire:

— A cotesta gente di poca fede ecco come si risponde: voi non conoscete quali e quanti tesori rinchiuda in sè l'alma terra che ci è patria.... in verità io vi dico ch'eglino non ponno venire superati, eccettochè dai tesori che si accolgono nel seno dei suoi generosi figliuoli (e qui si accennava alla parte dove il cuore ha la gente, avvertendo a non batterci sodo, per paura che dal suono non si accorgessero ch'egli era vuoto). Signori, io, subito dopo le parole bugiarde, odio le vane; le arti oratorie non appresi mai, e non le curo; fatti voglionci; di cose abbisogna la patria nostra; lingua corta mano lunga. Ebbene, io, pieno di fede come Moisè, ho percosso la rupe, e tale ne ha prorotto un trabocco di acque, che io mi sono trovato a mal partito per moderarne la copia. Ecco qui, io non dirò il morto è su la bara, bensì il vivo sta a cavallo: queste sono sottoscrizioni di cittadini italiani, i quali si obbligano ad accollarsi tante azioni per l'ammontare del costo della ferrovia, e più; queste altre sono fedi di deposito delle somme richieste per fornire la guarentia della puntuale esecuzione della impresa, presso i primi banchieri d'Italia; le quali, dove taluno non reputasse bastevoli, io, a nome dei miei rappresentati, dichiaro raddoppiare.

Parecchie voci rabbiose ecco si fanno sentire, chiedendo che si leggessero i nomi dei sottoscrittori. Misericordia! Pareva una seconda edizione dell' Esodo; ebrei tutti: fra l'antico e il nuovo Esodo la differenza questa, che nel primo fu Moisè il conduttore d'Isdraele allo acquisto della terra, nel secondo era Probo il condottiero del popolo ebreo alla conquista della ferrovia. Ma ebrea o no, la moneta è contata; e il busillis adesso sta nello esaminare, non già se sia circoncisa, bensì se tosata. A me non riuscirebbe descrivere la confusione e il turbinìo delle diverse passioni dei deputati, quando Probo, orgoglioso, drappellando le carte, andò a depositarle sul banco della presidenza, come l'alfiere pianta la bandiera sopra lo spaldo della rocca nemica. Nè qui si ferma costui, chè, tornato al suo stallo, muta di un tratto sembianza, e con gesto e voce umili adesso chiede scusa di abusare della pazienza della Camera; non poterne fare a meno; colpa dello argomento, non sua; rimanergli a dire il più e il meglio, ma questo poter fare in brevissime parole. Ciò detto, ecco leva la faccia minatoria e il braccio destro; la mano stringe in atto del fiocinatore, che ritto su la prua del palischermo agita il rampone per avventarlo nel fianco alla balena; ei l'ha vibrato, il mostro marino fulmina via pei mari, minacciando sprofondare nella corsa imperversante uomini, barche e nave; però invano, chè il ferro gli s'incaverna nelle viscere, sicchè mano a mano perdendo balìa, è mestieri che si lasci rimorchiare a terra.

— Affermano altresì, continua Probo con baldanzosa sicurezza, che il capitale non ha viscere, che non conosce patria, che il banchiere si gode a ruzzolare la propria sostanza come lo scarabeo la pallottola di fimo, e in quella depone le sue uova per mantenere e crescere la specie... Sapete voi come si ha a definire siffatta zizzania? Insalata d'invidia condita coll'olio della malignità e l'aceto della nequizia....

— Uh! che sazievole, si attentò a bisbigliare Elvira; può dare due punti allo emetico; con tutti i suoi riboboli ben mostra essere un contadino del Valdarno di sotto o di sopra: a me sembra udire ragionare un diavolo del Malmantile...

— Silenzio! urlano arrovellati quanti si trovano nella galleria, lasci parlare; lasci la lingua a casa, o la venda al beccaio.

— Ecco il guadagno, brontolò Elvira mordendosi il labbro inferiore per la stizza, che abbiamo fatto a lasciare Torino; se la capitale dura anche sei mesi a Firenze, noi ci troveremo ad avere perduto fino l'ultimo briciolo della civiltà piemontese.

Probo non udiva il dialogo, e quindi continuava sereno:

— La campana si conosce pel suo suono; il mio è questo: ho l'onore di dichiarare nel nome della compagnia che rappresento, e nel mio, che noi ci obblighiamo a imprendere la costruzione della ferrovia di cui è proposito a venti milioni di meno, dico, con venti milioni di ribasso sul prezzo stabilito dal signor ministro dei lavori pubblici col consorzio degli imprenditori stranieri....

— Che! Che! Come? strillarono ad un punto Omobono ed Elvira con la caterva dei loro clienti, spendolandosi fuori dalle tribune. — Che ha detto? Quanti ha detto? domandava l'uno all'altro come dubbioso di avere male inteso; e i compari che si scoprirono parziali a Probo ripetevano in quilio: venti milioni! venti milioni! Sicchè gli echi della sala andavano ripetendo: venti milioni! venti milioni!

Probo scese dallo stallo per portare la stupenda obbligazione sul banco della presidenza.

Il deputato Anussi, isdraelita e trapelo del Seigatti per le salite, nel contemplare il passo trionfale di costui verso il banco presidenziale con la dichiarazione in mano, quasi rapito in estasi esclamò:

— O bello! O grande! A te gloria... a te onore... per vita mia, non par tutto Giuditta che torna in Betulia con testa di Oloferne in mano?

La testa tagliata di Oloferne, nel concetto del brigante ebreo, significava, già s'intende, la società composta di Egeo, di Omobono e compagni.

O di Egeo, che ne fu? Avete mai veduto fra le quinte di un teatro di marionette Tabarrino, dopo finita la sua parte, attaccato a un chiodo? Giù penzolone le braccia, rigido il corpo e il capo abbandonato sul petto. Tale era fatto Egeo, il quale però non dormiva, bensì mulinava se ci fosse verso di trovare per sè una gattaiola donde salvarsi piantando gli altri nel bertovello.

Probo poi, se avessimo dovuto giudicarne dal celere muovere delle gambe, si sarebbe scambiato con Mercurio, o per lo meno creduto che Mercurio per quel giorno gli avesse dato i suoi talari a nolo.

— Ed ora, conchiuse tornato al suo posto, altro non mi resta che pregare la Camera e il ministero a volersi compiacere di eleggere una Commissione, la quale, esaminate le proposte da me fatte e le guarentie che l'accompagnano, riferisca se lo schema del mio contratto sia da preferirsi a quello esibito dagl'imprenditori forestieri; onde la Camera dopo matura discussione possa deliberare quello ch'è spediente a farsi pel maggior vantaggio dello Stato. Ma innanzi che io ponga fine al mio ragionamento, sento il bisogno di scaricare l'animo mio. Della mia proposta io confido che non possa nè deva arrecarsene alcuno; non il gruppo degl'imprenditori stranieri (e tu nota, amico lettore, e notalo bene, come oggi costumi ingenuamente appellare il consorzio dei banchieri gruppo, ch'è quel nome col quale significhiamo il turbine generato da venti contrari, che cielo e terra rimescola, e il mare sconvolge coll'eccidio di quanti ci si trovano a pericolare sopra) spettabilissimi tutti, dell'amicizia di parecchi dei quali altamente mi onoro; essi non hanno debito alcuno verso la nostra patria: per loro la impresa non presentava e non doveva presentare altro aspetto tranne quello di un utile impiego dei propri capitali; ora, se consideriamo la immensità della impresa, le vicende a cui andrà pur troppo esposta, le fatiche e le cure, i venti milioni ch'essi calcolavano di guadagnare non parranno per avventura troppi a quelli che hanno fiore di senno e pratica di simili negozi; e non mancherà chi li giudichi discreti, anzichè no. Per noi è evidente che la faccenda procede diversa: sicuramente noi porremo ogni studio per guadagnare, o almeno per non rimettere; e se questo non ci riuscisse, ebbene, fin d'ora ci professiamo lieti e contenti di potere aggiungere anco questo ai tanti sagrifizi da noi patiti in pro di questa nobile patria...

*

La sfrontatezza (non la verecondia, la quale non ci bazzica più da gran tempo) la quale si trovava a stare nella tribuna della Camera seduta accanto a Elvira, sentendosi a coteste parole mareggiare lo stomaco, ebbe a fuggir via più che di corsa, ed avendo incontrato per le scale la impudenza sua sorella, che andava a darle la muta, le raccomandò che andasse su presto ad annacquare il vino a Probo, il quale lanciava all'aria campanili da mandarle fallite dentro una settimana.

— Molto meno, continua il Seigatti, deve e può arrecarsene il ministero, imperciocchè chiamati a serio esame le infinite comodità della impresa e i vantaggi portentosi, non ebbe a credere improvvido il largheggiare di un venti milioni agl'imprenditori: per me lo giudico addirittura provvidissimo; arrogi poi che a lui non erano state sottomesse profferte migliori nè in paese, nè fuori; onde la prudenza persuadeva che non si lasciassero scappare quello che avevano già in mano; per le quali cose, tutto bene considerato, se qualcheduno qui ha torto, confesso averlo io, perchè non fui lesto abbastanza a preoccupare il passo; ma voi, o signori, sapete ottimamente, chè ve lo insegnò quel dolce di Calliope labbro, che fu messere Francesco Petrarca:

Rade volte addivien che all'alte imprese

Fortuna ingiurïosa non contrasti,

Che agli animosi fatti mal s'accorda,

epperò mi passo fino ad accennarvi quali e quanti contrasti io abbia dovuto superare, quante opposizioni vincere; ma poichè adesso, per sommo della fortuna benefizio, mi sono condotto in porto anche io, mi trovo disposto a perdonarle ben mille offese.

Chè almeno qui da sè stessa discorda.

Ed ora concedetemi, signori, che pigli commiato da voi, soddisfatto di avere compito il mio dovere: dubitare che voi non adempiate il vostro è ingiuria che non può cadere in mente in chi tanto come io vi onora e vi stima.

E si assise. I deputati, ronzando simili alle api, gli fecero grappolo d'intorno; chi lo baciava in volto una volta; il Ramassi non si tenne pago se prima non gli ebbe baciato ambedue le guance, e gli volle mettere le mani su le spalle come fanno i cani barboni quando accarezzano i loro padroni; per ultimo gli diè con bel vezzo un colpetto traverso la pancia. Come! Il Ramassi, che non aveva anche digerito l'ultimo pranzo di Egeo? Proprio lui. Elitropio della ghiottoneria, dalle mense tramontanti si voltava alle levanti. Che colpa è in lui se la calamita ha mutato polo? Egli scusavasi con la sentenza antica: Deus fecit nos, non ipsi nos.[15]

Probo se ne stava umile in tanta gloria; aveva l'aria di un condannato di Sibari, dove per ultimo supplizio costumavano annegarlo sotto un cumulo di fiori: dopo Marat, passeggiato in trionfo per Parigi su di una seggiola, verun personaggio al mondo raccolse più di Probo grossi fasci delle amate fronde,

Onor d'imperatori e di poeti.

Non Mario, non Cesare, non Alessandro, non Garibaldi a Marsala, non Lamarmora a Custoza, e quasi, sto per dire, nè anco Persano a Lissa; dicono che egli stesso ne fu spaventato, temendo che l'ardore della apoteosi lo portasse troppo presto in paradiso...

Hai tu mai visto nel bel mese di maggio la passera delle Canarie in gabbia? Ella scende senza posa e salisce per tutte le cannuccie messe traverso alla gabbia, e scodinzola, e saltabella, e il capo volge a destra e a sinistra cantando a distesa; tu fa' conto che questa passera coll'Anussi non ci è per nulla; tu lo miravi svolazzante per tutti i banchi dei deputati onde tenerli fermi, o per condurli al piolo; faceva davanti a loro la fiorata di promesse come i buoni cristiani la fanno di rosolacci, di ginestre e di pisciacani dinanzi ai preti, nella processione del Corpus Domini. E il povero ministro? Metteva proprio compassione, stava lì mogio mogio, in sembianza di cavallo accaprettato a cui il maniscalco dia il fuoco alle zampe per guarirlo dalle galle; pure, come colui ch'era formicolone di sorbo, mostrando lieto viso alla rea fortuna, con bel garbo disse:

— In conferma di quanto egli aveva avuto l'onore di esporre sul principio di questa seduta, dichiarava essere arcicontento che il suo schema di legge ne avesse provocato un altro, che pareva avesse a presentare maggiore utilità al paese; acconsentire volentieroso alla nomina di una Commissione, che pregava la Camera a volere ella medesima eleggere: persuasissimo che Camera e Commissione studierebbero e delibererebbero a norma della scienza, coscienza, prudenza e previdenza di cui avevano somministrato tante e poi tante prove all'Italia, all'Europa e al mondo.

Applausi pochi, tirati con le tanaglie.

O Egeo che pensò? Io l'ho già detto, simile alla marionetta attaccata a un chiodo, in sembianza faceva il morto, ma in segreto almanaccava a quale nuovo Santo avesse a votarsi; appena sentì tirarsi pel filo del capo, voltò su la faccia, e vista che era la mano del Seigatti, che maneggiava il filo, diede in un salto, fece un trillo ed esclamò:

— Commissione cinque per cento, ed uno di senseria, mi vi professo vostro per di dentro e per di fuori:

Sarò quel che più vuoi, ancella o sposa.

E questo tanto più sinceramente egli diceva, in quanto che dugento mila lire di biglietti aveva di già sgraffignato ad Omobono. Certo di potestà diventava sbirro, ma gran parte di prudenza umana sta nello spiegare le vele secondo i venti; così almeno predicano i diplomatici.

Ciò che fa in primavera l'amore nelle vipere, l'interesse opera fra i banchieri; per amore e per interessi ambedue s'ingrovigliano a gomitolo, sicchè riesce più facile schiacciare entrambi ad un tratto: piglia un sasso e buttalo giù sul viperaio, e tu vedrai di qua schizzare capi tronchi, che dardeggiano lingue biforcute, di là code che furiosamente s'inanellano, e si raddrizzano, finchè, scemando adagio adagio cotesta agonia di rabbia, cessino affatto; così accadde dei consorti di Omobono e di lui.

Probo ed i compari suoi subito posero mano a colorire i concerti iniziati; egli convertì i vincoli in catene e le ribadì ai piedi, alle mani e al collo dei suoi fautori; le varie specie delle corruzioni ei praticò tutte; però bisogna dire che, tentato il terreno con la punta della pala, se non si rimaneva, ci sprofondava anche il manico; con alcuni ci vollero biglietti fiammanti (i danari sonanti e ballanti non costumano più), con altri bastarono promesse. Le arti della corruzione sono vecchie, le inventarono i preti e le insegnò la Chiesa: Geezia e Simonia; e questa mercè munus a manu et munus ab officio. Nobilmente plebei, quanti in cotesta assemblea andavano per la maggiore corsero al corno che li chiamava alla pastura. Probo Seigatti, col sacco delle ghiande sotto il braccio, fu Circe per loro; molti vinse la cupidità, ma troppi più il bisogno di calafatare la barca della domestica economia, sdrucita così, che le trombe non bastavano a cavarne l'acqua. Chi si accaparrò la carica di preside, chi fu consigliere, direttore e vice-direttore, chi ebbe a contentarsi dell'ufficio di consulente, avvocato o procuratore: insomma una fiera. L'Anussi, da quello ebreo sparvierato che era, volle cartelle per far quattrini subito; costui professava, più che devozione, fanatismo per la massima antica: meglio un uccello in mano che dieci in frasca. Scelto segretario della Commissione, egli compose un'ode pindarica in numeri arabici invece di versi. I giornali, ognuno secondo la sua specie, presero a stridere, a gracidare, a cantare, o con altre diverse voci a far sentire peani, ed epinici, sicchè per tutto cotesto anno rane, cicale, grilli, con altre parecchie bestie, sbalorditi, non si fecero più udire. Tutto cedeva, se mai ci era pericolo, stava nel troppo abbrivo; la cosa andò giù di schianto; ministri e deputati destri, sinistri e ventrigli, votarono a gara. Ho sentito dire che taluno, nell'estro del suo entusiasmo, mettesse nell'urna fino a tre pallottole nere. Probo Seigatti, con immensa maggiorità di fave, era bandito imprenditore della proposta ferrovia: e la scattò di un pelo che non fosse proclamato padre della patria.

Ahimè!

Cosa bella e mortal passa e non dura.

Ho narrato la fine dei consorti briganti con Omobono, ma gli uomini cattivi come i serpenti velenosi non cessano mica per morte di travagliare il prossimo, e prova ne sia lo stivale del fittaiolo di Pensilvania, dove rimase fitto un dente di serpente a sonagli; oltre al padre, costò la vita a due figliuoli, i quali uno dopo l'altro calzatolo, n'ebbero scorticata la gamba, e quindi dopo breve ora morirono avvelenati. Omobono e il suo satellizio si posero il pensiero della vendetta come una corona di spine sul capo; sparsero da per tutto voci di corruzioni, e non dicevano in questa parte calunnia; di mance date; salari pattuiti; voti compri come polli al mercato; ma soli non facevano frutto, o poco; di corto ci si aggiunsero intorno tutti quelli che, abbindolati dal Seigatti, non ebbero nulla, e gli altri i quali, delusi, ebbero poco. Di fatti Probo, finita la festa, aveva levato l'alloro; di umile che fu, ora lo provavano insopportabilmente arrogante: dapprima si mostrava lungo e disteso come lo spinoso bagnato dall'acqua calda, ed ora si raggruppava di minuto in minuto come cotesto animale, se ascolti latrarsi vicino il cane; e non aveva torto, perchè diversamente la sterminata famiglia delle fameliche formiche lo avrebbe ridotto pulito più di un Cristo di avorio. I giornalisti, il dì che si trovarono davanti la greppia vuota, presero a punzecchiare ustolando per nuova profenda. La invidia andava attorno affannosa co' mantici, accendendo il fuoco dove non ci era, e attizzandolo dove già era acceso, sicchè la voce si moltiplicò in voci, le voci diventarono schiamazzi, e salirono su allagando le aule della Camera, della Reggia, del Senato, dei Consigli e dei Tribunali. La marea del popolo, quando dice davvero, vince in furore quella dell'Oceano, e Probo ed i compari suoi, che da prima se ne ridevano, da un punto all'altro presero a battere i denti per la paura.

L'Anussi non si pigliava suggezione di palesare spiattellatamente: gli è vero, e chi lo nega: l'amico Probo mi pagò un milione in premio delle mie fatiche, ma un milione di carta, bene inteso, sul quale, per ridurlo in oro, io scapitai due quinti; dunque, alla fine del salmo, mi entrarono in tasca circa seicentomila lire. O che vi par troppo? Le notti vegliate, i giorni travagliosi, gli studi, le fatiche, i pericoli gli avete fatti e gli avete sofferti voi? E poi ho io forse trappolato il Parlamento? Non gli ho esposto il vero? Non mi adoperai per la buona causa? Perchè vi lamentate di gamba sana? Ah! voi pretendereste miglior pan che di grano? Badate che all'ultimo non vi abbiate a contentare di pane di vecce.

— Sì, gli rispondevano, ma purchè tu ci trovassi il tuo utile non ti saresti condotto in altro modo quando tu avessi avuto a fare nello erario uno sdrucio da misurarsi col metro.

— Sabato non è, e la borsa non ci è, rispondeva procace l'Anussi; intanto godetevi il bene ch'io vi ho fatto, e non mi rompete più il capo.

Quando poi vide che il cielo si chiudeva minaccioso dintorno, non istette ad aspettare lampo nè tuono, bensì messo ogni suo valsente in moneta, levò le tende e si ridusse in più sicuro porto. Sul partirsi d'Italia non esclamò come Scipione: ingrata patria non avrai le mie ossa, imperciocchè gli ebrei non conoscano patria, e delle sue ossa non avrieno saputo che farsene, nè anco manichi da coltello; — e neppure furono viste seguitarlo fremendo le virtù prische del latino impero; bensì, scodinzolando di qua e di là da vero nabisso,[16] non rifiniva dal dire:

— O sapete com'è? Chi l'ha a mangiare la lavi, e chi l'ha da friggere la infarini.

Probo anch'egli per un pezzo si raffidò nella utilità che in fine di conto aveva procurato al paese. Se da altre parti avesse scorticato, o scorticasse adesso, questa era faccenda da definirsi fra gli scorticati e lui; certo scorticatore egli, scorticati i soci; ma costoro non erano mica tanti santi Bartolommei; la pugna era fra pirata e corsaro; e tal guaina qual coltello. A chi lo aveva aiutato davvero egli aveva largito o poco o assai la mancia, perchè ogni fatica merita premio, e così facendo aveva soddisfatto alla legge divina ed alla umana: alla divina, dacchè il Vangelo comanda: pagate la mercede all'operaio; alla umana, ordinando il codice che si retribuisca al prosseneta la sua senseria, e non distingue tra sensali baroni o non baroni, deputati o non deputati: ora sta' a vedere che andando a braccetto con le due leggi divine ed umana si abbia a mettere capo alla galera. I beveraggi profusi da me mi devono procurare favore e reputazione di generoso, non biasimo. E quando mai in ciò fosse stata colpa, ma che dico io colpa? ombra, velo, fumo di cosa menochè retta, la quale valesse ad appannare la squisitezza del senso morale, come mai marchesi, conti, baroni, gentiluomini tutti di cartello, antichi ministri, deputati che vanno per la maggiore li avrebbero ingorgiati a gola di acciaio? Alla più trista, questi dovranno per necessità essere i miei giudici; o staremo un po' a vedere, se basterà loro l'animo di condannarmi pel boccone ch'essi masticano sempre! Puta il caso ci fosse colpa, non vi potrebbe essere giudizio, perchè i giudici per la massima parte sono miei complici. Qui la è chiara come l'ambra: dubbio non ci può cascare; vorrei vedere anche questa!

E se accadeva che simili fantasie venissero a frullargli nella testa quando stava in letto, si tirava giù il berretto da notte fino su gli occhi e si addormentava nella pace ineffabil del Signore.

Così Probo argomentava fondandosi sul dettato: cane non mangia cane; e sbagliò, però che dovesse all'opposto pigliare per regola di condotta l'altra sentenza, che i lupi danno addosso al lupo ferito e lo divorano. Quindi un bel dì si trovò accusato e tradotto alla presenza dei suoi complici trasformati in giudici. La natura, la quale diede pure ardimento allo scorpione e l'ira al verme, non corteseggiò niente di tutto questo con Probo: respinse da sè come una tentazione del demonio la idea di acciuffare taluno di cotesta nobile ciurma e rotolarlo giù nel rigagnolo a voltolarsi con lui; fermo nella sua ghiacciata abiezione, quanto più lo trafiggevano, ei rifaceva il conto su le dita dell'utile e del danno di rompere paglia con loro: «quando li avrò travolti nella polvere, forse ritornerò io sopra l'altare? Bisogna avvertire bene a questo, che se essi mi si mostrano in apparenza avversi, nol fanno mica per odio di me, bensì per amore di loro, e per bisogno di provvedere alla propria salute: adesso li sperimento serpi; se li irrito li proverò aspidi.»

Gli onorevoli furfanti, voleva dire giudici del Seigatti, altro non facevano che sbottonare contro le arti improbissime dei corruttori; ed anco, per non parere, non risparmiavano i corrotti; però su questi non si aggravavano co' gomiti. «Che cosa è mai, dicevano essi, questo civile consorzio senza la buona morale? La stessa libertà fra gente fradicia dal mal costume diventa peste.»

Che Dio mi aiuti, parevano muli di condotta, i quali, essendosi affibbiata sotto il collo una sonagliera, ad ogni moto più leggero della persona tintinnassero alla dirotta: probità! probità! probità! Caso mai Socrate li avesse uditi innanzi di morire, ci si sarebbe confessato; e non che altri Cristo, se ci si fosse rinvenuto in mezzo, si saria picchiato il petto recitando il Confiteor.

Uno, che a giudicarne dall'arroganza sembrava dei maggiorenti fra loro, somigliante come due gocciole di acqua al geroglifico egiziano dell'uomo col capo di sparviere,[17] colore di stovigli, dagli ugnoli uncinati, cui egli celava con solertissima cura sotto guanti neri, prese a squittire con voce di cagna infreddata:

— Qui non c'è casi; bisogna venirne all'acqua chiara; buttiamo giù buffa, i rispetti mandiamoli a casa, e chi ne tocca le sono sue: non vi state a confondere, senza forti esempi la libertà non ci si fonda; il maestro della me' bimba, don Trabocchetto pievano della Decipula, l'altra sera raccontava in cucina ai contadini il caso di Tito Manlio Torquato, senatore, il quale, udendo i legati della Macedonia mettere querela in Senato contro il suo figliuolo Decimo Silano per concussione nel governo di cotesta provincia, chiese ed ottenne giudicare egli solo la causa: due giorni dopo, udite le accuse e le difese, sentenziava: «essendomi provato che Silano me' figlio abbia estorto danaro dagli alleati, lo dichiaro indegno della Repubblica e di me, e lo bandisco perpetuamente dalla mia presenza.»[18] Silano per disperazione nella notte veniente si ammazzò. Capite? A quei tempi non si mondava nespole. Nè voi altri costà mi state a belare come cotesti esempi si attaglino a me, predicato da tutti l'uomo di ferro, perchè anche il mitissimo Gesù che cosa lasciò scritto nel Vangelo? Se il tuo occhio ti fa intoppare, cavalo e gittalo via da te, meglio è per te entrare nella vita con un occhio solo, che averne due e andare in perdizione. Dunque voi avete inteso: addosso ai ladri!

Al mal capitato Probo incominciò a entrare in corpo la paura per davvero; si spaventò di coteste lustre, come il fanciullo impaurisce del compagno che in carnevale si nasconde la faccia dentro un testone di carta pesta; non ebbe più balìa di azzeccare due idee e di mettere insieme quattro parole; si diede a piangere, supplicò a mani giunte pei figli innocentissimi; costui era così avvezzo ad appropriarsi il bene degli altri, che gli parve furto perfino il risparmio dei venti milioni procurato allo Stato! Lo stomaco commosso della sua coscienza ribolliva furfanterie vecchie e nuove; e poi tremava gli rivocassero la concessione, onde avesse a rimanerne in camicia.

La stessa abiezione stette scandalizzata allo spettacolo di tanta viltà.

Quando poi incominciò a conoscere che cotesti neri nuvoloni si sarebbero sciolti in pioggia, e lui uscito pel rotto della cuffia di una censura, spiccò un salto per l'allegrezza, e fra un groppo di riso e un altro esclamava:

— O grullo! Tre volte grullo! O non capisti di colta che se io cascava gli altri mi venivano dietro, perchè, o chi avrebbe finito di pagare a costoro il beveraggio? Diamo tempo al tempo: quando la pecora entra nella siepe, qualche bioccolo di lana egli è pur forza che ci lasci. Pieghiamo per raddrizzarci. Niente è perduto se rimane la cassa: renunzierò alla deputazione perchè io, se non la posso adoperare come canovaccio per ripulirmi il banco sudicio, non so che cosa farmene.

Probo, mirabile a dirsi! finì con lodare la prudenza dei complici che si convertirono in giudici, imperciocchè seguitando per cotesta via fossero giunti in certo modo a castrare il mal talento dei nemici suoi.

Per converso i suoi complici si tennero ottimamente edificati di lui, perchè lo ebbero provato uomo sodo e da potercisi fidare, ascrivendo ad astutezza e a prudenza quanto fu effetto nel Seigatti di codardia. Di ora in poi decisero di sostenerlo a tutto uomo, sicchè costui cascò davvero come l'antico Anteo, che da ogni stramazzone cavava argomento per rilevarsi più gagliardo di prima.

Ma siccome in queste faccende ci vuole sempre un becco emissario per iscaricare sopra la sua testa le colpe degli ebrei e dei sammaritani, e consacratolo poi agli dei infernali scaraventarlo in mare, di leggeri lo trovarono nello Anussi lontano, e in certa maniera si può dire che si proferiva da sè: quindi addosso tutti a lui; sinfonia d'improperi a piena orchestra sul giudeo; che più? L'ebreo Zinfi giunse perfino a dire ingenuamente:

— Non ci è casi, con questi ebrei non si può fare un pasto buono!

Così è, cotesti nobilissimi e rispettabilissimi furfanti, imitando il costume dei Curoti, picchiavano sopra gli scudi menando un rumore d'inferno, onde Saturno non udisse i vagiti di Giove e non mangiasse anco lui; urlavano a squarcia gola, perchè il principe non udisse i gridi del popolo, e non risensasse, ed essi, se possibile era, quello della propria coscienza.

— Che cosa vuol'ella? Qui domando ad un lettore, che mi ha dato uno strettone alla falda del soprabito.

— Scusi, o che mi permetterebbe una parola?

— La ne dica anche dieci.

— Mi fa la finezza di abbassare il capo, perchè mi perito, e glie la vorrei parlare dentro un orecchio.

— Eccolo abbassato.

— Ma che sia benedetto, la le dice grosse come il cupolone del Duomo; o dove vuol'ella che abbiano la coscienza i Sorci, i Nici, i Rami, i Solicari, i Duecancri, i Garidi ed altra gente di siffatta risma? dunque la tiri un frego al grido della coscienza; lei ce lo ha messo per figura rettorica.

— Ecco, i' ce l'ho tirato; ed ora con sua buona licenza posso ire innanzi?

— La vada a buon viaggio, che San Giuliano e Sant'Antonio l'aiutino.

Dunque Probo fece come colui che si tira indietro per pigliare la rimossa ad abbrivarsi più innanzi; e gli riuscì proprio com'egli aveva pensato, e così a lui toccò aprirsi le porte del paradiso co' grimaldelli, laddove altri ci ebbe a rompere dentro la serratura le chiavi di san Pietro.

Lui allietarono principesche nozze; duchi, marchesi, principi e baroni gli redimirono la fronte coi raggi della loro nobiltà, ed anco a lui il regio favore fece scaturire sul capo due corni luminosi pari a quelli di Moisè, e lo rese sfolgorante di luce propria.

In un caso solo gli sdrucciolò il piede, e fu quando si attentò avventurarsi a entrare da capo in Parlamento senza annasare prima se fumo di pudore fosse rimasto sempre là dentro. Si fece uno scappuccio, ma senza sgomentarsi ripose la bandiera nel sacco: non è anco tempo; a quest'altra bellissima ottava.

E la seconda volta procedè con maggiori cautele. Annasò prima la sua città, annusò meglio il Parlamento; in quella trovò morto ogni senso di umanità, in questo svaporato qualunque fumo di pudore. Di fatti in cotesta città prevaleva allora la setta di coloro i quali avevano segnato umilissima supplica, affinchè la oppressione degli stranieri vi si prolungasse. Poichè in questa vita non vi toccò verun castigo, nè manco la esecrazione del popolo imbestiato, possa Dio, giudice, serbarvi nell'altra i meritati premi!

La Camera dei deputati gli aperse le paterne braccia, quasi al figliuol prodigo; non celebrò la festa di famiglia ammazzando la vitella grassa, perchè vitelle nella Camera non se ne trova. Insomma, tante glie ne dissero e tante glie ne fecero, che egli, guardandosi allo specchio mentre si radeva la barba, talora interrogava se stesso: «ma che io sia diventato davvero un benefattore della umanità?» All'ultimo se ne persuase sul serio; allora prese a portare il capo su le spalle con la religione con la quale il prete sostiene il sacramento con le mani; e talora discorrendo delle sue fortune a tavola, come uomo convinto nell'intimo delle viscere, scappava fuori con questa sentenza:

— Se pari al sole ho comune con lui qualche macchia, come il sole dispenso luce e calore all'alma madre Italia.

Quelli che sedevano a mensa con lui esclamavano:

— Bravo!

Ed il Ramassi conduceva il coro.

Capitolo XVII.. . . . . . . . . . . . . . . .

— Umanità, tu non vali la corda che t'impicchi; — noi abbiamo lasciato Fabrizio, il quale così bestemmiava contro gli uomini, come già Bruto un dì maledisse per disperazione contro la virtù; però, quantunque la procella rimescolasse l'anima del primo come quella del secondo, bisogna confessare che troppo erano diverse le cause, le quali avevano condotto ambedue al doloroso passo.

Fabrizio sortiva dalla natura talento, non ingegno; differentissime doti fra loro; pure anche col talento si fanno cose egregie, ma a patto che il cuore lo sovvenga a conseguire nobili aspirazioni. I diplomatici quasi tutti possiedono talento; non mi è occorso alcuno che abbia ingegno.

Gli onorati studi pertanto praticaronsi da Fabrizio, come una carta geografica, la quale gli avrebbe insegnata la strada per arrivare al tempio dove Dio è Mammone. L'eccessivo presumere di sè lo rese vano, ed è di angustia grande considerare quanto la vanità possa a piegare verso terra anime uscite di mano alla natura, divine per indole. La vanità, oltre a fecondarli, salda insieme i pessimi istinti. Il giovane, il quale arroga di aver messo il tetto, in breve vedrà demolito quel tanto ch'egli si aveva con lunga fatica fabbricato. Fin qui i nostri costumi, o pari in tutto, o diversi poco da quelli di Francia, ond'ella cadde in miserabili rovine, e a noi non è concesso risorgere. Piaccia a Dio che i concetti magnanimi e il sangue generoso non sieno stati sparsi invano; ma intanto ne sgomenta uno sfinimento mortale. Vedete se l'anima della massima parte della gioventù italiana non vi sembra adesso una spugna tuffata nelle turpitudini francesi. Da anni ben lunghi la Francia è fatta acquitrino di gente rotta ad ogni libito; colà furono assegnati nomi onesti alle infamie, eleganze alle oscenità, e perfino sembiante di amore patrio al tradimento; quivi troverai l'assassino che allieta gli ozi forzati del carcere scrivendo poesie con penna intinta nel sangue; — e il pudore mandato a scuola da pubbliche meretrici; banchieri i quali vissero a Corte, perchè non erano incatenati in galera: colà volteriani che vanno alla messa, atei papisti; repubblicani smanianti per una delle tre monarchie che li ha nerbati come servi della pena; da un lato delirano per la uguaglianza, dall'altro spasimano per la febbre di croci, siano pure quelle dello Sperone di oro, o dell'ordine Piano; amatori sviscerati della umanità, e al punto stesso credenti, che la natura li fornì di calcagno unicamente per pestare il collo dei loro fratelli di umanità. — Le lettere diventate bordello; poeti e prosatori, invece di darsi la mano a chiudere la tetra sentina, e a calafatarla, onde non se ne spanda il fetore, pretendono costringere le Muse a rimestarla, ed essi ci tuffano bocciuoli di canna, e per la Europa diffondono le laide bolle, che si attentano battezzare per libri: tutto costà sa di ebbro, sa di matto e di feroce ancora, ma il matto prevale. Le Muse, sdegnate, gli sguardi torcono e il passo dal paese imbastardito; per la quale cosa agli oratori colà sembra arringare, e cicalano; ai poeti immaginare sublimi fantasie, e gonfiano le gote; i guerrieri di Francia si crederebbe che sieno venuti in Italia a scuola da Lamarmora per imparare a perdere; i politici hanno appreso per ispirazione (dacchè maestri non ne potevano avere) l'arte di convertire gli amici in inimici, e di stringere forte con le proprie mani le leghe potenti a cancellare da un punto all'altro la Francia dal novero delle nazioni.

Satura di queste mal'erbe (respingendo dagli occhi le lacrime e la passione dal cuore) miriamo un po' adesso quale si mostri la massima parte delle generazioni che sono venute dopo di noi: odia più della morte la onorata parsimonia: agonizzante per la pecunia, che valga a spingerla nel mare magno della lussuria, dove rompono inevitabilmente salute e fama.

Solo che Maometto promettesse di trasportare in Italia il paradiso che riserva ai suoi devoti nell'altro mondo, anche a patto della circoncisione, la nostra gioventù si farebbe turca. Essa vorrebbe dare ad intendere di dividersi in cultrice della libertà e in cagnotta della tirannide; non le badate; da un canto la riarde astio di stomaco vuoto, dall'altro la travaglia flatuosità della indigestione dei rilievi cascati dalla mensa regia. Agguantatela, una dopo l'altra buttatela su la stadera: qual diversità riscontrate nel peso? Tutta temeraria, tutta insolente, tutta parimente corrotta: per ragioni ha vituperi, per dottrina obbrobri: calunniosa e maligna, simulatrice e dissimulatrice, impronta, temeraria; rôsa dalla invidia, non si potendo inalzare fino agli austeri cittadini, unico vanto d'Italia, si arrabatta ad abbassarli fino a lei:

E nequitosa li persegue, e fuga

Con schiamazzo infinito, e con suo testo

Di lordura macchiato e pien di ruga,

E lo irrequieto suo stridere infesto,

Timidi e pochi amici aggiunge al vero

E al vivere civil sempre è molesto.[19] Le voci distinte confonde in accordo quando si tratta d'inneggiare ghiottornie, lascivie e stravizi, onde s'imbestia la vita. Catoni quando non possono farla da Aristippi, cinici sempre. Leggete le scritture loro: dove la virilità dei concetti? dove il prudente discutere? dove il solerte investigare? Invece di sentenze, motti da taverna; sensi da far vergogna al bordello.

E pure il sentire generoso, gli studi sapienti, il forte operare e le parole sante, indispensabili alla conservazione delle repubbliche, appaiono necessarie alla impresa, piuttosto che umana, divina, di rigenerare un popolo e cavarlo dal sepolcro per riporlo in soglio.

E se così argomentasse la gioventù italiana, i versi eccelsi di Francesco Petrarca, che fino ad ora vagarono per la Italia cercando un luogo dove fermarsi, troverebbero sede nella fronte di lei:

Che puoi drizzar s'io falso non discerno

In stato questo popol doloroso

Quanto ti fia glorioso

Dir: gli altri l'aiutâr giovane e forte,

Questi in vecchiezza lo salvò da morte.

Peggio che ingiustizia sarebbe negare che molta, non tutta, di questa gioventù adoperò ferocemente le mani, e le paia gran vanto avere rivendicato la patria dalla insolenza francese: gl'italiani non si battono; ma oggimai chi dà retta ai francesi? Noi però dobbiamo avvertire che anco i gladiatori combattevano ferocemente: talora costretti, spesso volontari, per campare vita breve e infame consentivano a uccidere e ad essere uccisi, e morendo pigliavano atteggiamento scenico per libidine di plauso: tanto ai morenti, quanto ai superstiti cotesto rumore pareva gloria! Le armi solo sanguinose non approdano nè onorano; le sapienti sì, ma queste per noi italiani stanno sempre nei voti. Soldato fu Cesare, che militando dettava i Commentari; la mano stessa, che la mattina con la spada operava miracoli di valore, la sera con lo stilo li tramandava alla memoria dei posteri, sicchè noi oggi andiamo perplessi se egli meglio li effettuasse o li scrivesse; soldato Catone, che immoto negli ultimi pericoli si confortava leggendo il dialogo di Platone su la immortalità; soldato Bruto, vigilante la notte in mezzo ai campi meditando sui libri; soldati parecchi di quelli alunni di Napoleone I, i quali portavano nello zaino confusi con le cartucce classici greci e latini da volgarizzare e commentare, o piuttosto celebriamo soldati veri coloro che combattono per giusta causa con sapienza pari alla virtù.

In Marte bertone di Venere la gente ravvisa il soldato da osteria, solo lo salutano Dio quando lo accompagna Minerva.

Fabrizio dunque era vano e smanioso dei piaceri, e più delle apparenze del lusso: quanti lo soperchiavano di tutto cuore odiava; se accadeva che qualcheduno dei suoi amici lo rasentasse sfolgorante in cocchio trasportato da focosi cavalli, a voce alta gli mandava un saluto e a bassa aggiungeva: a rotta di collo! — Del suo fratello Omobono non sapeva darsi pace; sopra costui la Fortuna aveva versato e poi scosso il sacco, mentre su la sua faccia lo aveva sbatacchiato vuoto: frequentava luoghi appartati; aspreggiatore di se stesso; ogni giorno più corrivo all'ira e selvatico; per uscire di pena avrebbe dato l'anima al diavolo se gli fosse comparso davanti.

E il diavolo gli comparve davvero nella persona del presidente di una Corte di appello. Aveva nome Vinneri. I sette peccati mortali gli andaron fino a casa ad educarlo gratis; ma egli durante tutta la vita mise da parte quanto gli avanzava da quelli per fabbricarsene un ottavo, e giusto allora stava per rompere il salvadanaio; però dei sette, due gli avevano preso il sopravvento, ed erano la ghiottoneria e l'avarizia, impossessata di lui sotto la forma del demonio del gioco. Se avessero ragguagliato la sua ignoranza con la sua malignità, non ci saria scattato un dito; e tuttavia lo giudicavano dottissimo, però che egli ponesse a parere quello che non era la pazienza industre di cui la natura si mostra liberale alle creature peggio complessionate. Lento il passo, la sembianza grave — i bufali non ridono mai, — la favella tarda, come frequenti sopra le labbra di lui le parole: ci penseremo, esamineremo, gli è un caso momentoso; e vuolsi considerare ad trutinam, e via discorrendo: nel suo studio da per tutto libri, e di carte una catasta: però queste ciurmerie a cui le guardava pel sottile palesavano la sua inane ed improvvida furberia, imperciocchè ti venisse fatto di scorgere improntata in varie guise la forma del gatto di casa sopra lo strato di polvere che vi era caduto. Strana condizione! Non lo amava persona, e tutti accoglievano volentieri costui: prima di salire i gradini davanti la porta del tribunale, egli soleva levare le ciglia in su per mirare da quale parte piegasse la banderuola per regolarsi; nè punto lo celava, al contrario soppiattone in ogni altra cosa, procedeva aperto in questa, affermando che il magistrato è appunto come il cane, latra e morde per chi gli butta il pane. La giustizia distributiva da lui s'intendeva a questo modo: fra il governo, che di presente teneva il mestolo in mano, e i privati, sempre torto ai privati; tra nobili e ignobili, i secondi sempre condannati nelle spese; fra ricchi e poveri, non si sentiva il cuore da innovare l'antico costume: all'osso dàgli addosso; alla marmaglia era giustizia la sorte, ed era la meglio trattata; il primo processo, che allungato il braccio gli capitava sotto, vinceva.

Tutti i governi lo avevano disprezzato, e tutti lo avevano blandito, perchè senza eccezione tutti lo avevano giudicato arnese eccellentissimo di servitù. Costui, per operare i voltafaccia a tempo, girando lieve e veloce su le calcagna come uscio sopra i ben unti arpioni, valeva un tesoro; e se le ritirate politiche fruttassero fama quanto le militari, Senofonte di petto a lui sarebbe stato un tamburo; per la quale cosa egli, sicuro di sè, presentava le insegne degli ordini cavallereschi dei governi caduti ai governi via via sorvegnenti, come il forestiero getta sopra la tavola del cambiatore la moneta affinchè gliela baratti, e i nuovi governi senza fiatare gliela permutavano, ed anche qualche cosa del loro ci aggiungevano. Il governo tramontante se lo vedeva scomparire da canto fra la pera e il formaggio, senza accorgersene, proprio a quel modo che il sonno inavvertito piglia l'uomo; il governo oriente se lo trovò davanti non sapendo donde fosse venuto; forse pensò gli fosse cascato dalle maniche; il Vinneri allora per salutarlo finì un sorriso che aveva incominciato per l'altro; appunto come il cardinale Zondadari a Siena ebbe a finire pei francesi il Te deum ch'egli aveva incominciato pei tedeschi. Se invece di sperperare al gioco il prezzo della giustizia venduta lo avesse custodito nello scrigno, e se le monete fossero stati galletti, non avrieno nella notte lasciato dormire lui nè tutta la contrada.

Ebbe moglie; un povero corpo composto di carne di seppia, bianco e senza sangue; una povera anima tenuta quindici anni in molle dentro una pila di acqua benedetta; la notte a letto, il giorno in chiesa; concepì di una figliuola per distrazione; la vide nascere senza gioia; la vide crescere senza amore; la beghineria l'aveva insugherita; tutto accadeva per volontà di Dio; quanto Dio ordinava tutto era bene; e quindi era mestieri rassegnarsi ai voleri di Dio; se a un povero diavolo ruzzolando le scale accadeva rompersi una gamba, la gamba rotta attestava il castigo del Signore, la rimasta sana il miracolo del Signore, ambedue la visita del Signore a cui vuol bene; le sue sostanze parafernali, che non furono poche, colarono a stille nella Chiesa pei buchi religiosi, che innumerevoli sanno praticare i preti; e i giorni suoi svaporarono in sudore di rosari; alfine disparve tacita, come la goccia dell'acqua santa grondò nella piletta dalle sue dita che ce l'avevano attinta.

Quando fu morta, il Vinneri essendosi accorto ch'ella aveva disperso i beni parafernali com'egli dato fondo ai dotali, esclamò amaramente:

— Ah! quel buono uomo del Franklin ha lasciato scritto che un vizio costa più di due figliuoli, e sarà; non però più di una moglie: devota la divorano i preti, mondana le crestaie; ed ora con questa figliuola in casa come si stilla?

Di fatti, se la madre non se n'era tolta cura, figurarsi se il padre! Egli aveva in pratica la regina di cuori mille volte più della figliuola. La madre, quando l'aveva menata a messa tutte le feste di precetto, a confessarsi ogni mese una volta, quattro a comunicarsi in capo all'anno, credeva aver fatto quanto Carlo in Francia; al padre sembrava avere superato la fatica del Cireneo, menandola nel carnevale al teatro un paio di volte.

La fanciulla venne mirabilmente leggiadra; di capello nero lustro e copioso, gli occhi pur neri luccicanti di voluttà, nei moti serpentina, facile al pianto, facile al riso; e piangente e ridente, leggiadrissima; ma piangente più, imperciocchè ridendo le labbra e i denti davano sembianza vera di gelsomini in mezzo ad un cerchio di ranuncoli, ma le lacrime moltiplicavano i raggi alle pupille: un secentista avrebbe cantato ch'ella piangeva brillanti: vestiva da pinzochera, e cotesta foggia cresceva la procacia della sua venustà: ti sarebbe parsa Venere immascherata da suora del Sacro Cuore di Gesù. La chiamavano Bianca, e la stupidità del notaio, che scrisse Alba per errorem sopra una pagina del suo protocollo pressochè tutta nera, applicata a lei sarebbe stata arguta definizione,[20] imperciocchè casta di corpo veramente ella fosse, ma di spirito corrotta per modo che più non avrebbe potuto; insomma, ella era una botte di petrolio sotto a un forno, una polveriera accanto ad una fucina.

La madre, chiusa nella sua cameretta a recitare rosari, viveva sicura che la figliuola nel silenzio della propria meditasse sopra la Manna dell'anima del Padre Segneri, ovvero intorno il Panierino degli odoriferi fiori offerti al Sacro Cuore di Gesù del Padre Birma, e la indovinava perdio, ch'ella produceva la veglia alle ore più tarde della notte rivoltolandosi nella sozzura delle lettere lenone di Francia. So troppo bene che di laidezze non andarono immuni le letterature greca e latina, e nè anche pur troppo la italiana; ma non so di coteste o la eccessiva volgarità dei concetti, o la forma classica del dire, o la nudità repulsiva, o altre qualità che non importa discorrere, ci fanno conoscere subito come le siano un portato della immaginazione, anzichè un ritratto dei costumi attuali; onde avviene che per loro non si meni strage della onestà come dai Galeotti di Francia.[21] Non indico nomi, non contrasto l'ingegno, nè la leggiadria del dettato; ma quanto più questi ammirabili, tanto maggiormente colpevoli di avere cagionato la decadenza delle virtù cittadine.

E' pare che di siffatte disposizioni della figliuola Vinneri si fosse accorto, e almeno ne sospettasse, perchè seco stesso fermò levarsela ad ogni costo d'intorno; di vero, invece di avere per la morte della moglie ricuperata intera la sua libertà, si trovò ad averla perduta, sentendo la necessità di vigilare con diligenza la fanciulla; già s'intende non per amore a lei, nè per istudio di onestà, bensì in virtù di questo ragionamento: poichè dote io non le posso assegnare, mi tocca ingegnarmi a pescarle un marito al brumeggio della bellezza e della buona reputazione: maritata che sia, io me ne lavo le mani; chi la cavalca la selli.... — Insomma, il credito della figliuola gli stava a cuore, come a cui torna di mezza notte a casa preme che il moccolo gli duri acceso per le scale fino alla porta.

Rapito alle geniali abitudini del giuoco, il presidente Vinneri si rendeva a casa sul calare del giorno, e quivi, avvoltolata la persona nella vesta da camera, i piedi nelle pantofole e il capo coperto dal berretto di cotone — elmo dei mariti militanti — almanaccava col cervello per creare o per chiappare eventi capaci di porgergli il destro per mandare al diavolo l'unica e dilettissima figliuola; l'interesse non rifiniva mai di spronare la immaginazione, la quale pigliava a correre di carriera pei vasti campi della speranza; invano, perchè tutta sudata se ne tornasse sempre alle mosse senza mai avere vinto il palio; fuori dei quattrini non gli sovvenivano chiodi capaci di conficcare un marito in croce.

— Maledetto abbaco! — Fu udito spesso taroccare con seco; invece di venerabile, io mi aspetto vedere un giorno o l'altro esposto sotto la residenza l'abbaco; nel ciborio porranno a custodire l'abbaco, e la eucarestia da ora in avanti sarà amministrata a tutti i fedeli con un cavurrino da due franchi. O tre e quattro volte beati padri circassi! A voi una bella figliuola rende più di un podere in Chianti. Io non so se la donna nascendo portasse via una costola all'uomo, fatto sta che la figliuola quando si marita ne porta via sei a suo padre. Colà, in quelle terre felici, a un bisogno si vende la figliuola, e se ne fa quattrini senza che alcuno vi suoni le tabelle dietro. All'inferno i filosofi! E' fu in grazia loro, che invece di estendere le facoltà del padre di famiglia fino a vendere i figliuoli bianchi, gli hanno tolta quella di mettere all'asta i neri. Gente irrequieta, brontolona, fastidiosa, la quale odia il tondo perchè non è quadro, e se diventasse quadro arrangolerebbe a restituirlo tondo.

Così dopo avere vagellato un pezzo, uggito fino alla morte, messo da parte il presidenziale decoro, chiamava la serva, e per ammazzare il tempo si adattava a giocare a briscola con lei.

Mentre però egli stava per buttarsi via come disperato, ecco la fortuna parargli davanti il fatto suo. Certo dì, mentre scende le scale umide e melmose del pretorio, gli accade di mettere un piede in fallo e dislogarselo ad un tratto; le avrebbe ruzzolate fino all'ultimo scalino, se per sorte, trovandosi lì presso Fabrizio, con mani pronte non lo agguantava tenendolo su ritto; poi con lo aiuto di altri lo mise in carrozza, volendo ad ogni patto accompagnarlo a casa, dove presolo in quattro lo adagiarono sopra il letto. Chiamato il cerusico, dopo tastata la parte, giudica non grave il caso, trattarsi di semplice lussazione guaribile di leggeri: intanto non si muova l'infermo; rinnovino al collo del piede fomente diacce di acqua saturnina; ripasserà più tardi per vedere se ci fosse caso di applicare le mignatte; e a rivederci.

Fabrizio, nel prendere commiato dal presidente, chiese licenza di tornare a informarsi della sua salute, e questi prontamente:

— Caro avvocato, se io le dicessi sarà per sua grazia, direi poco e male, ella mi farà proprio una carità fiorita, perchè chi sa per quanto tempo mi toccherà a starmene fitto nel letto: intanto le rinnuovo le proteste della mia riconoscenza; e tu, Bianca, rammenta che se questo egregio giovane non era forte, a questa ora tu non avevi più padre.

La figliuola, che aveva capito la ragia per aria, cavatosi un candido fazzoletto di tasca se lo accostò agli occhi per asciugarsi una presunta lacrima, e alle parole paterne, come corda armonizza con corda, aggiunse:

— Dio gliene renda merito, signore... signore?

— Fabrizio ai suoi comandi.

— Signor Fabrizio; e se potessi sperare che le mie preghiere valessero qualche cosa presso di lei, io vorrei supplicarla a favorirci più spesso che può.

Poffar del mondo! Non ci era mestieri di tanto, però che voi abbiate a sapere come i giovani nel tastare il piede infermo del presidente si fossero toccate le mani; e nel chinarsi a esaminarlo i capelli loro insieme si confondessero. Ora è provato che i capelli sieno potentissimi conduttori di elettricismo due cotanti meno dei labbri, ma due cotanti più dei fili di zinco; ed eransi altresì ricambiati parecchi sguardi a punto interrogativo, e non so nemmeno io quanti sorrisi reziari.[22] Breve. Uno aveva votato contro l'altro tutto il turcasso delle quadrella di Amore.

Il Vinneri, il quale, comecchè talvolta bestemmiasse per lo spasimo, pure non cessava di tenere un occhio al gatto e l'altro alla padella, fra sè ebbe a dire:

— E' pare che la girandola pigli fuoco.

Fabrizio, com'è da credersi, tenne la parola, forse più spesso che non conveniva, ma padre e figliuola fecero finta di non se ne accorgere. Fra le tante, una volta, trovandosi solo a canto il letto del Vinneri, questi prese la mano al giovane, e strettagliela amorevolmente gli disse:

— Caro Fabrizio, le cure affettuose che vi date per me mi fanno sentire più amara la infelicità di essere privo di figliuoli, ma poichè a ragione vi amo e tengo in luogo di figlio, non posso tacervi alcune considerazioni, che mi sono venute in mente pensando ai casi vostri. Perchè, ditemi, avete cessato di frequentare i tribunali? Perchè dopo la prima arringa, che vi fruttò tanto onore, vi siete ammutito? Donde questa deplorabile accidia a cui vi siete abbandonato? Non me lo nascondete, apritevi a me come a padre....

Ed anco qui sarebbe stato sufficiente stimolo di molto minore, perchè Fabrizio stranamente commosso prese a vomitare vituperii su i giurati a bocca di barile; il presidente lo lasciava dire, quando poi lo vide sboglientito, chiappata la palla al balzo riprese:

— O che siate benedetto, chi mai vi ha consigliato a sciupare il vostro ingegno in isteriche fatiche? Crimen non dat panem, dichiara pure l'antico proverbio del fôro. Furti pernici, omicidi anatre, falsi accegge, avvelenamenti fagiani, non toccano a voi: per voi sono i furti storni, accusati gheppi, insomma da rompercisi i denti a masticarli; e poi, o come si fa a confondersi co' giurati? Questi bottegai si sono impancati a recitare da giudici in onta alla legittima magistratura. Figuratevi! Per costume vecchio essi non usano mai dare agli avventori la libbra di dodici once con le proprie; ora, parvi possibile che vogliano smettere il vizio con le bilance della giustizia? Gente capace a scambiare Puffendorfio con un'isola, Catilina con una benemerita; a scrivere Francesco coll'acca, la Italia col g; gente incapace a fare un o con la canna. Dove siete ito, Dio vi perdoni, a sciorinare eloquenza e dottrina? Tanto voleva dare la crema con la vainiglia ai bufali. Con costoro non si sa mai il punto di coltura; se per caso hai pestato su i calli al presidente dei giurati, impiccati, il tuo cliente è sicuro di sentirsi arrandellata tra capo e collo una sentenza capitale senza circostanze attenuanti; — se non offristi il braccio alla sua moglie quando usciva di chiesa, o non facesti ballare la figliuola al festino, o se fuggisti traverso una maglia dalla rezzola che ti gettarono addosso per pescarti marito, guai a te, annegati; arringando davanti a loro tu farai condannare in galera a vita la stessa innocenza. All'opposto, se il difensore va ai versi al giurato, che importa che dieci testimoni concordi attestino de visu? Che importa perfino che l'accusato confessi avere ucciso un uomo? Che se i cerusichi fiscali riferiscano averlo sparato? I giurati a muso duro sono fantini da sentenziare che non è vero nulla, che il morto non è morto in virtù della parola cabalistica: non consta. Come! Noi altri, che fino da piccini andammo a scuola per imparare a rendere giustizia, su dieci volte sbagliamo nove; ed essi presumono avere la scienza infusa? Eh! via, ognuno faccia il suo mestiere; tractent fabrilia fabri; non confondiamo le carte da tarocchi con quelle da bambara, nè la manteca co' tartufi; i giudici sieno giudici, i sacerdoti sacerdoti, cuochi i cuochi, i nobili nobili: in conclusione, il mondo rimanga diviso in classi, in ceti, in professioni, in condizioni, e stati, arti e mestieri, e se io comandassi lo vorrei distinto in colori come usano lassù nella China. Bel gusto, in fede di Dio, stillarci ad ammannire un pranzo di cinque o sei serviti, per farne poi un buglione prima di metterci a tavola! Tale nei suoi principii e nei suoi effetti tu proverai circum circa la diavoleria della uguaglianza fra gli uomini: così predicano il giurato figliuolo della libertà; per me non glie l'ho visto fare, ma sarà; in questo caso però bisogna dire, ch'egli è uno di quei figliuoli che gli spartani buttavano nel baratro. Da ogni parte sento bociare: rendete i diritti a cui spettano. To'! o chi si oppone? O noi altri giudici non ci siamo a posta per questo? Se la plebe campagnuola usurpò il legnatico o il pascolo sul feudo del padrone, non glie lo facciamo rendere di rincorsa? Il possidente creditore di pigioni, il banchiere di pagherò, ricorrono al nostro ministero invano? Non mandiamo illico et immediate i bravi uscieri a gravare i mobili dello inquilino moroso? Non v'impiombiamo il vostro fallito in prigione? Che cosa è mai questo rendere al popolo i suoi diritti? Forse ai monelli la facoltà di tirarmi le sassate? Ai bottegai di assolvermi parricidi, repubblicani, giornalisti, barattieri ed altra simile risma di gente, a cui in buona coscienza potremmo senza tanti processi legare un sasso al collo e scaraventarla nel Naviglio? Voi, Fabrizio, se un mal genio non vi tirava pei capelli, avreste brillato fra i vostri pari; invece di poggiare in su, voi forviaste, e siete andato in giù; di cui la colpa se invece di trovare l'azzurro del cielo v'imbatteste nel nero di fumo dell'inferno....

Tutto questo il presidente Vinneri spifferò di un fiato; se non lo fermava un nodo di tosse, chi sa dove sarebbe riuscito; tacque per bere e per asciugarsi il sudore.

Fabrizio sostenne codesto rovescio di acqua sudicia a capo chino, sentendosi ora avvampare dalle caldane ed ora gelare dai sudori freddi; poi, temendo che costui saltasse su a squadrargli una seconda di cambio, disse:

— La reverenza che io le devo grandissima non mi concede, signor presidente, di venire in disputa con lei. Per natura e per istudio io professo diverse dottrine: i miei convincimenti mi portano a secondare le aspirazioni della gioventù italiana, le quali, se ci sconfortano talora con qualche disinganno, ci consolarono sempre per la loro magnanimità....

Coteste parole fecero nel presidente l'effetto di una bottiglia di birra stappata sotto le froge del barbero; diede un balzo e proruppe:

Vanitas vanitatum et omnia vanitas, praeter francesconem[23] m'insegnò un dì certo dotto e sentito magistrato toscano. Che significano esse le aspirazioni della gioventù? Le aspirazioni dell'uomo giovane e dell'uomo vecchio tendono sempre al medesimo scopo, e in ogni tempo e in qualunque paese. E voi per lo appunto avete ribadito e andate tutto giorno ribadendo con i vostri arzigogoli il chiodo fitto da madre natura nei nostri cuori; valga il vero: voi vi affaticate a demolire Dio, e volete l'anima morta col corpo: bene sta, ma chi ha fede nella vita futura potrà (non potendone fare a meno) accomodarsi alle miserie della vita presente; ma se al cessare del fiato si spengono i moccoli, voi mi costringete a crescere da questa parte quanto mi fate perdere dall'altra, a riportare nella casa di qua le suppellettili che aveva mandato ad arredare la casa di là. Vero è che per sollievo mi lasciate la fama; ma fatto ch'io sia tutto terra, a che mi approda la fama? Per significare cosa inane sogliamo dire: gli fa come l'incenso ai morti; ora la fama è meno dello incenso, perchè la è vento senza odore; e ora soffia di qua, ed ora di là, conforme le frulla.[24] Le aspirazioni delle creature viventi consistono nel condurre la vita con meno dolori e con più gioie che sarà possibile: varie le vie che mettono a questa patria comune, chi piglia la più breve, chi la più lunga, chi va per la strada maestra, chi per tragetti; la differenza sta nel metodo: se ci fosse dato potere giudicare per l'affetto, non per l'effetto, tale leviamo a cielo che condanneremmo a dieci anni di galera, e viceversa. Siamo alle solite: fine della vita è godere; la cottura e la salsa non fanno vivanda, sono arti del cuoco. Belle, in fede di Dio, le aspirazioni magnanime della gioventù italiana! Ogni dì vediamo qualche repubblicone dei vostri dare il tuffo nella monarchia, a mo' dei gabbiani nel mare per buscarvi una sardina; almeno i gabbiani, agguantato il pesce, ripigliano il volo in su, mentre i vostri repubblicani nel dare il tuffo perdono l'ale. Che montano tante smorfie? Fate addirittura come noi, non fosse altro avrete il merito della sincerità. Io, professandomi servitore umilissimo della monarchia sabauda dall' a fino alla zeta, mi scappuccio a tutto l'alfabeto monarchico costituzionale, quantunque in una cosa mi muova la stizza, e mi basterebbe il cuore per dirgliela in faccia; ella ficcando sempre gli occhi nel buio della parte sinistra arriva a scoprire qualche bagliore, che crede torcia, ed è un lume a mano; allora mette in opera ogni suo studio per farlo suo, ma nel moverlo le si spegne, ed ella s'impuzza di moccolaia.....

Fabrizio, sentendosi vicino a dare nei lumi, giudicò opportuno levarsi, e tolto con viso acerbo commiato uscì dalla stanza; allora il presidente si percosse della palma la fronte, e non disse, ma pensò come Tiberio quando sentì che Camuleio si era sottratto con la morte spontanea alla condanna: Ah! me evasit, mi è scappato! Se non che Bianca, sentendosi la principale interessata, affinchè ciò non succedesse, gli corse dietro per rammendare, se l'era possibile, lo strappo; Fabrizio tutto sconvolto non pose mente a cui lo seguitava rischiarandogli il cammino; giunto all'uscio di casa lo aperse, e giù difilato a furia per le scale; ma sul punto di tirare su il saliscendi della porta di strada, ecco una voce soave e piena di amore domandargli:

— E ti basta il cuore di lasciarmi così? E che cosa ti ho fatto, Fabrizio?

Come vedete, l'amore aveva progredito con passi lunghi, si sarebbe detto che fosse montato su i trampoli. Fabrizio, nel volgere il capo, vide cascare dagli occhi della Bianca due lacrime, che l'Amore si saria affrettato a suggere con un bacio, per donarle a Venere madre, ond'ella ne arricchisse lo scrigno delle sue gioie più care. Ed ora, che importa che io vi riferisca quali fossero le parole che i due amanti scorrucciati ricambiaronsi sopra la soglia di casa? Voi lo sapete, come entra Amore di mezzo, i negoziati non menano a lungo; basta per ultimatum un sorriso; per ultimatissimum un bacio.

Quando Bianca tornò in camera al padre si pose a piè del letto levando il dito, quasi per ammonirlo, ma l'altro non la lasciò nè manco cominciare:

— Sta' zitta, egli disse, io non so più mezze le messe; e sì che mi era accaduto più volte, che per cuocere troppo presto la torta i' l'ho bruciata. Ho fatto come i bimbi quando tirano su un castello di carte, i quali nel metterci a vanvera il tetto rovinano ogni cosa.... ma veniamo al grano.... ritorna?

— Se ne discorre nè meno! rispose la fanciulla con tale un gesto di superba sicurezza, che non gli legherebbe le scarpe quello di Napoleone, quando, buttato all'aria il cannocchiale, esclamava: — La vittoria è mia!

— Va', tu meriti una statua equestre, — ed aggruppate le dita il presidente colse sopra le proprie labbra un bacio e glie lo gittò.

Di fatti, dopo due sere Fabrizio rivolò a tiro di ale al dolce nido, dove si trattò senz'altre lungaggini di nozze. Cari miei, con fanciulle sparvierate, e babbi lesti, l'Amore, voglia o non voglia, è mestieri che entrato subito in barca agguanti il timone, e sciolte le vele al vento drizzi la prua alle rive del Sacramento, che non è quello di California, bensì del santissimo matrimonio.

Io non dirò, chè forse non direi il vero, che tra Fabrizio e il Vinneri la cosa andasse tra galeotto e marinaro, certo è però che entrambi fecero il conto senza l'oste; imperciocchè il socero, avendo tastato il futuro genero sul modo di rizzare su casa, questi gli spiattellò trovarsi corto a quattrini, non volere toglierne in presto dal fratello, e non potere acconsentire che per lui i genitori menomassero la sostanza domestica: avrebbe sopperito co' quattrini della dote. Eccoci al Rubicone. La Bianca lì presente sentì darsi un tuffo al sangue; il presidente cominciò con un: Caro mio — nel suono della più dolce melodia, che mai posero natura od arte sopra labbri mortali; — proseguì, stringendo le mani del genero nelle sue mani di socero, quasi in due manette candite; — chiamò con tutte le potenze dell'anima due lacrime su gli occhi, ma queste fecero orecchi di mercante e non ci vollero andare, — e dopo siffatti esordi gli sparò lì a brucia pelo che la dote della Bianca, di natura eterea, siccome lei, erasi svaporata nell'universo.

Durante cotesto colloquio parve a Bianca essere stata confitta a domicilio coatto in cima all'Ecla, che è un vulcano in Islanda sopra un monte coperto di neve sempiterna, perchè con vicenda assidua ella trapassava dal ribrezzo alle caldane; nè anco San Lorenzo si sentì rosolito dai carboni ardenti come Fabrizio dagli sguardi della cara fanciulla innamorata, finchè ei si tacque. Ora dunque qualsivoglia fanciulla, vaga di nozze, copiosa di affetti e corta a quattrini, immagini l'abisso, l'oceano, la immensità delle contentezze nelle quali sprofondava il cuore della Bianca quando Fabrizio, dopo stato alquanto su di sè, rispose risoluto:

— Non importa, provvederò in altra maniera; con la dote o senza, la mia Bianca mi sarà cara del pari.

Più avvisato della figliuola, il padre, ora che seppe il genero quasi vergente alla inopia, mentre fin lì lo aveva incalzato a mezzo ferro per farlo restare su la botta, eccolo schermirsi con le parate e dire: che alle cose, le quali si fanno una volta sola, bisogna pensarci due. Pareva lo facesse per amore, ma non ci pensava nè manco per ombra; egli voleva chiarirsi prima come Fabrizio avrebbe rizzato su casa, e come mantenuta; non voleva mica trovarsi ad avere giuocato di noccioli; maritando la figlia desiderava ricuperare la libertà perduta durante il periodo del tempo matrimoniale, però poneva per condizione sine qua non delle nozze moglie e casa; secondariamente suo scopo finale risparmiare i danari pel mantenimento della figlia, per goderseli a carte o a tavola; che se un giorno gli si fosse rovesciata con marito e figliuoli a casa... misericordia! Ci si sarebbe appuntato il cavicchio sul ginocchio. Io non so, nè mi curo saperlo, come Fabrizio ne uscisse; fatto sta ch'egli fornì di arredi assai sufficienti la casa e lo studio, dove mise libri in abbondanza, perchè gli avvocati senza libri somigliano agli speziali senza barattoli.

Il presidente, nel contemplare tutte queste cose agli occhi suoi dilette, andava in fregola dalla contentezza, e si stropicciava soddisfatto le mani, appunto come il Cavour in procinto di applicare un nuovo balzello al buon popolo italiano: ma accadendo dei desiderii nella guisa che avviene con le ciliege, il presidente pensò che bella cosa era stata maritare la figliuola senza dote, divina sarebbe potere cavare costrutto dal genero, onde certo giorno chiamatolo a parte così gli favellò:

— Da' retta, Fabrizio, tu da quel bravo giovane che sei hai lavorato a mettere su lucerna, a empirla di olio e ad attaccarla al palco, adesso però bisogna pensare ad accenderla; domani fa' di essere verso mezzo giorno al tuo studio; verrà a trovarti un signorone, cui un mio amico mi prega provvedere di valoroso avvocato, non so per quale causa; mi scrive ch'è negozio grosso e grasso da starci su ritto il forchettone. Gua'; io non ci metto su nè sal nè olio; ingegnati; aiutati che Dio ti aiuta; non istare a cercare il nodo nel giunco; questo posso dirti e ti dico, che se la furfanteria può menare talora alla galera, la fisicosa puntualità conduce sempre all'ospedale.

Così il socero dabbene al genero futuro; però immaginate lo sconcerto di quello, quando la sera dopo al suo ansioso interrogativo: — Ebbene, a che ne siamo?

Sentì rispondersi:

— A meno che a niente; non v'è da cavarne costrutto.

— Perchè mai?

— Perchè la è causa che non si può sostenere.

— Non è mica questa ragione onde tu non l'avessi a patrocinare: la capacità dell'avvocato si misura appunto dal contrasto che incontra a sgararla: per la piana qualunque brenna è buona; ma orsù, miriamo un po' perchè a te pare non poterla sostenere.

— O ecco, la è chiara come l'acqua; e' sembra, a dircela qui a quattr'occhi, che il raccomandato del vostro amico, in tempo che non rimonta allo assedio di Troia, fosse solito tagliarsi le ugna dei piedi senza levarsi le scarpe.... c'intendiamo? Ricco di miseria e nemico mortale di povertà, scarso d'ingegno e pure provvisto di girandole, e fornito di una fronte da venire a paragone con le navi corazzate. Costui chiese al governo la concessione di scavare una miniera di ferro, esaurita da tempo remoto, ed anco in epoca a noi più vicina esercitata da altri senza profitto; tuttavia il governo gliela negò, perchè povero in canna; se avesse messo innanzi persone idonee a sopperire alle spese, avrebbe considerato il da farsi; allora e' prese a darsi moto dintorno per formare una società, e ne venne a capo: butta in terra seme di grullo, e raccoglierai azionisti di società. Allora, tornato a sollecitare il governo, questo dichiarava accordare la concessione a lui, ma in nome e per conto della società. Inoltre fu stabilito per patto, che un numero strabocchevole di azioni di godimento fossero la sua mercede per la procurata concessione, e queste azioni gratuite partecipassero agli utili desiderati alla stregua delle altre azioni paganti, defalcate però tutte le spese; e così fu sempre praticato di amore e d'accordo dal principio della società fino ad oggi. Adesso costui, di punto in bianco, pretende che gli utili non solo nel futuro, ma nel tempo passato altresì, si devano repartire quanto a lui senza defalco di spese. Gli ho dimostrato come gli stieno contro niente meno che la legge, perchè il socio non è tenuto a rimettere fuori quello che ha riscosso a titolo di utili, il patto e la consuetudine, suprema interprete delle convenzioni dubbie, e le nostre sonano chiare; per ultimo il premio eccessivo, imperciocchè al proprietario delle miniere da esplorarsi è bazza se largiscano un cinque per cento sul prodotto netto.... E ora che ne dite, signor socero, non vi pare ella una causa spallata?

— Ed egli che ti ha detto?

— Egli? Ha fatto una risatina, ha dato una scrollatina di spalle, e senza punto commuoversi mi ha parlato così: ci pensi meglio; giovedì a questa medesima ora tornerò qui a riverirla....

— Caro mio, ringrazia la tua stella, egli ebbe giudizio per te; in generale gli uomini si arrotano invano, durante la intera loro vita, a tirare la fortuna a sè con le tanaglie, e tu quando viene a visitarti spontanea la pigli a calci! Tu sei troppo giovane per giudicare su due piedi; la ragione delle cose non è una mosca, che si pigli a volo; tutte le faccende umane si presentano sotto forma di matasse arruffate, e ci vuole il diavolo a trovarne il bandolo. Di là dal codice, caro mio, vi ha un visibilio di ragioni, le quali, come le stelle di terza e di quarta grandezza, senza il telescopio non si possono scorgere. Quel tagliare i nodi di un picchio con la spada è mossa da soldato sagato, non da soldato togato.

— Ma voi, signor socero, che pur siete magistrato, e dei buoni, dovete confessare che le mie ragioni non ammettono replica....

— Eh! eh! Io sono magistrato non avvocato, e quindi per necessità bisogna che il mio parere dissenta da quello degli avvocati... Come no? O non mi venite sempre in due davanti; uno per sostenere il diritto e l'altro il rovescio? Ora, se dessi ragione a tutti e due, o come farei a giudicare? D'altronde, acqua in bocca, perchè senz'altro mi toccherà a dire la mia su la questione. Tuttavia io non dubito a confortarti di assumerne la difesa, perchè, come ho detto, la fronte prima delle cose spesso inganna, e lo ha scritto anche Fedro, perchè essendo i giudizi vari quanto i cervelli, tu presumeresti di te oltre il dovere perfidiando nella tua opinione come unica vera, perchè se vorrai assumere la difesa delle cause, dove la ragione comparisca chiara come due e due fanno quattro, non ci era mestieri che ti mandassero a studio; per ultimo il tuo podere è il tribunale, dove se ti riprometti seminare sempre ragioni tu ci raccoglierai grilli cantaioli... e tu... tu hai bisogno di provvedere alle spese di casa tua.

Il pane, più spesso che non si vorrebbe, mentre fa vivere il corpo ammazza la coscienza. Fabrizio ci pensò su, e conchiuse col difendere la causa. Il futuro socero presiedeva il tribunale, ma furbo da tenere le volpi in convitto, affidò la relazione del piato ad un grullo di cui il pendolo pensante non si metteva in moto se uno di fuori non gli ci dava una ditata. Ora, sebbene Fabrizio avesse, in meno di due mesi, con la velocità delle comete, corsa quasi tutta la curva della perdizione, pure ebbe a stupire non poco quando il socero dabbene certa sera, ridottosi con lui dentro allo studio, così gli favellò:

— Senti, Fabrizio, ma tieni in te, in Camera di consiglio abbiamo deciso in massima darti ragione. Dunque l'arrosto è nello spiedo. Ora il dotto consigliere commesso a presentare la relazione e lo schema dei considerandi, come uomo avvezzo alla cucina antica, non conosce quei guazzetti di argomenti alla francese, dove siete tanto esperti voi altri giovanotti, e per ciò vorrebbe tu gli mettessi come in compendio le tue difese, ed in forma deliberativa; a te facile la fatica, ed è utile che la sentenza venga fuori insaccata bene e stretta forte; dunque va' a casa, beviti un paio di tazze di Moka mescolato di San Domingo, se vuoi sentire cosa degna, e stanotte apparecchiami un lavorino da pari tuo; prima di consegnarlo al consigliere, lo rivedrò io, ma vado sicuro trovarlo al suo giusto punto di cottura.... — e qui datogli di un buffetto sul mento, tutto allegro lo licenziò.

Dopo pochi momenti il Vinneri proruppe impetuoso fuori dello studio, ed ebbe a dare del capo dentro Bianca e Fabrizio, i quali se ne stavano sempre tubando a mo' di colombi nell'anticamera:

— Sei qui? Mi era scordato del meglio; senti.... e presolo pel braccio lo ricondusse nello studio, dove lo ammonì: — Bada, per quanto vuoi bene al tuo Cristo, non dire al tuo cliente come le cose stanno, anzi mostrati turbato, dagli ad intendere che fra noi ci è un contrasto terribile, che consultammo due volte, e l'ultima per tre ore senza conchiusione di nulla.... tu.... giusto! avere vegliato la intera notte per dettare una memoria diretta a ribattere le argomentazioni avversarie e raddrizzare certe storture sorte nella mente dei giudici..... et in primis et ante omnia fatti pagare; se si schermisce dicendo non avere danaro, cavagli di sotto pagherò da negoziarsi in piazza. Confida piuttosto che non ti riescano ventosi i ceci che grati i clienti: gli antichi dottori ci hanno lasciato per memoria come gli avvocati, finchè la causa dura, si venerano come angioli, decisa ch'ella sia, si aborrono come demoni usciti fuori dall'inferno del conto.

— Lasciatevi servire.

Fabrizio vegliò tutta notte, scrisse, stracciò, rifece: l'orgoglio in contrasto con l'interesse sfrigolava[25] come olio quando l'arriva il fuoco: di tratto in tratto gli pareva che un dito gli apparisse sopra la carta e gli mostrasse lo scritto, mentre una voce gli ronzava dentro: questa è limatura del tuo cuore e del tuo cervello fatta per le tue mani.

Nonostante uscì un lavoro avviticchiato di cavilli da mettersi per giaco addosso al sofisma, onde la ragione non rinvenisse la via di ferirlo; perchè quantunque le gretole facciano allo ingegno umano quello che il limone fa spremuto dentro un bicchiere di latte, pure egli spiega potenza nel male come nel bene: vede strambo, ma vede: mena a casaccio, ma turba sempre e scombussola. Però ottimamente operò Catone facendo licenziare da Roma Carneade, s'è vero ch'egli un giorno per pompa di sufficienza levasse a cielo la giustizia, e in un altro ne dicesse corna.[26] Vero è bene che Demostene, per esercitarsi, componeva due arringhe pro e contro il medesimo argomento, e si leggono nelle sue opere. Come stimiamo fortunatissimo quel soldato, che combattendo sovente nelle prime schiere il nemico non rimase mai ferito, così vuolsi giudicare virtuosissimo l'avvocato il quale, voltolandosi fra tante sozzure, non si contamina; e di questi siffatti ve ne ha, ma rari, come gl'Ippogrifi, che l'Ariosto assicura venire dai monti Rifei.[27] Quando la istituzione dell'avvocatura o fia del tutto abolita, o di molto emendata, e in ogni modo respinta dai Parlamenti, vorrà dire che la lancetta celeste nel barometro della pubblica morale volge al tempo bello.

Fabrizio pose per fondamento della sentenza: la miniera messa in società non essere pugno chiuso, all'opposto apertissimo come quella che fu ab antiquo esercitata dai cartaginesi, dai romani, e forse chi sa? dai pelasgi o dai focesi: rimasta in asso per la difficoltà di rompere il quarzo con picconi di ferro, ora in virtù delle polveri fulminanti ne era tornato agevole, non menochè profittevole, il lavoro: ciò messo in sodo, passava a dimostrare i contratti aversi a giudicare non per quello che paiono, bensì per quello che sono, dietro razionale e giuridica ricerca; quindi, esaminato sottilmente il contratto in quistione, conoscersi chiaro che presentava in un punto i caratteri di locazione e conduzione di affitto, di livello e di enfiteusi. Ora dal canone, dal livello, dal fitto, si detraggono forse dal conduttore le spese che egli commette per cavare frutto dal podere o dalla miniera? No certo: di natura pari il compenso pattuito nel caso; e tanto più doversi giudicare così, quanto che se avvertiamo alla sua pochezza al dirimpetto dei tesori largiti dal proprietario della miniera, non si sa come non abbia intentata l'azione della lesione enormissima. Di faccia al governo enfiteuta il concessionario; di faccia a lui enfiteuti gli azionisti. Non fare amarezza al concetto, se le patenti regie specificavano che la concessione si dava a Gaspero Gasperi (il cliente di Fabrizio si chiamava così) come rappresentante della società, imperciocchè resulti a luce meridiana la società essere accessoria e il Gasperi il principale; quindi non egli la mano della società per pigliare, bensì la società la mano per pigliare e portare a lui. La società teneva le veci della scarsa forza utile a mettere in moto la macchina; la macchina poi spettava in assoluta proprietà al Gasperi. E continuava con un viperaio di sofismi su questo gusto.

Fabrizio vinse la causa, e se ne fece un gran dire: prima nella curia, poi nella città. Pretesto pei curiali allo sbottonare indefesso e crudele l'amore per la giustizia; ma figurarsi: alle brutte passioni agitanti coteste anime male si mesceva quella nobilissima come il fiore di arancio nell'olio di ricino per farlo ingozzare senza stomaco; insomma più che tutto li struggeva la invidia, che il vento tirava in fil di ruota nelle vele a Fabrizio, e da per ogni lato diluviargli addosso grassi negozi, mentre essi anfanavano per non parere, ma in somma pescavano pel proconsolo; portavano lo stuzzicadenti in bocca per dare ad intendere che avevano pranzato, ma erano digiuni. Sottile da principio, secondochè usa, più strepitosa in seguito, violentissima all'ultimo prese a rimuginare una voce, che Fabrizio fosse giunto a spuntarla inducendo il Gasperi a dare l'ingoffo al Vinneri di ventimila lire.

Cotesta voce, quanto a Fabrizio, era calunnia pretta, imperciocchè ben egli si trovasse pur troppo su l'orlo, ma dentro al pozzo non ci fosse anche cascato: rispetto agli altri due bisogna confessare che il Gasperi, con impudenza tetra, non menochè stupida, lo andava dicendo a cui lo voleva e a cui non lo voleva sapere; mentre il Vinneri, torcendo il volto, chiusi gli occhi e le mani levate al cielo, esclamava: Orrore!

Un vecchio succhiello di cancelleria, più tristo dei tre assi, il quale pel continuo esercizio non aveva preso la ruggine, conoscendo di lunga mano i suoi polli, mormorò la sentenza che Esopo assicura avere profferito la scimmia fra la volpe e il lupo;[28] la voce passò, ma come l'acqua del fiume, che un poco di deposito lascia sempre.

Fabrizio però, ch'era scolaro della pezza donde si tagliano i professori, mise in pratica la lezione insegnatagli dal socero puntualmente, e a vero dire non rinvenne nel Gasperi resistenza, all'opposto maravigliosa arrendevolezza, dacchè questi, uomo da bosco e da riviera, sapeva di avanzo come per corseggiare con profitto sul mare della giustizia bisogni spartire le prede con gli avvocati; egli aveva sottoscritto i pagherò con lo intendimento di non buttare fuori nè manco le spese, e ci era riuscito; e poi aveva fatto a dire: o vinco, e non è caro, o perdo, ed anche il caro giovane ci perde la cappella e il benefizio: a questo non aveva pensato il caro giovane, perchè non abbastanza pratico, e poi anche le civette impaniano.

Il Gasperi vinse, e poichè, rifrustate tutte le vie del bindolo, non trovandoci modo di sgattaiolare, fece il galantuomo, e pagò, onde Fabrizio con questi ed altri guadagni assicurato, avvertiti appena per cerimonia i parenti, aveva contratto il matrimonio con la Bianca Vinneri, e messolo sotto la doppia custodia della legge divina ed umana; una volta si credeva che ne bastasse una, e lo conservava acidetto, e inodore, meno la tara di uso, già s'intende; oggi al contrario ripongono il matrimonio in due casse, come i cadaveri, onde non ammorbi, ma le più volte non basta.

Fabrizio non apparteneva alla specie dei cauti, i quali attendono agli umori del popolo, ed a seconda di quelli si governano; superba indole e pugnace, si compiaceva per lo contrario bravarli: la prosperità inebria più dell'acquavite assai; e poi il continuo struggimento della moglie accanto gli aveva proprio messo il cotone dentro gli orecchi: costei, buttata giù buffa, ormai si palesava qual'era; la chiesa frequentava sempre, perchè femminuccia pinzochera, ma ci andava come al teatro, sfarzosa di vesti; non già per vedere, ma per essere veduta; non per adorare, bensì per essere adorata: due febbri perpetue la tenevano accesa; la febbre dei diamanti e la febbre dei cavalli: a quella dei diamanti aveva rimediato alla meglio, mettendone a canto a due falsi uno buono; quanto all'altra dei cavalli non sapeva che pesci pigliare; difatti, ti riesce comparire in corso con un cavallo di carne ed un cavallo di legno? Il mio regno, il mio regno per un cavallo! E se questo fu lecito gridare al re Riccardo III per un cavallo solo, o che cosa non si ha da concedere alla donna che prometta per due?

Ma se a Fabrizio teneva calafatate le orecchie col cotone l'amore, al Vinneri le dilatava il sospetto; e in verità ne udiva delle bigie e delle nere; nè gli giovava farsi piccino, rimpiattarsi e sparire, chè il pubblico maligno aveva indovinato il gioco: il presidente, egli mormorava, si astiene da pigliar parte nel collegio giudicante le cause difese dal genero, ma sotto sotto fa fuoco nell'orcio, e le cose vanno sempre per la china: cotesti non sono giudizi, bensì grassazioni commesse a mano armata di carta bollata sul pubblico tribunale; o come va che il genero Fabrizio abbia sempre ragione, e chi piatisce con esso lui sempre e poi sempre torto? Sopra lui solo piovve lo Spirito Santo? Il capitano forse per tempo non interrotto potrà vincere in grazia della virtù e della fortuna sua, ma l'avvocato, senza che il diavolo ci ficchi la coda, sempre non la potrà spuntare.

E la caldaia, bolli bolli, già manda all'aria i sonagli, già la schiuma in pelle in pelle all'estremo dell'orlo minacciava traboccare: alla chetichella almanaccarono volgere petizioni al ministro; non bastando, alla Camera; scarse da prima le firme sotto le petizioni, e tirate con le tanaglie, ora venivano giù una dietro l'altra come le ciliege: però se in questo tramestìo fosse tutta invidia, veruno poteva saperlo meglio del Vinneri, a cui la coscienza, come fa lo stomaco per indigestione di fortumi, arcoreggiava: di fatti, date le spese al suo cervello, capì che bisognava portarci rimedio piuttosto oggi che domani, onde chiesta ed ottenuta subito udienza dal presidente del Consiglio dei ministri, il quale in quel momento reggeva nientemeno che tre ministeri, dopo ricambiatesi dall'una parte e dall'altra accoglienze affettuosissime, imperciocchè da molto tempo costoro si conoscessero ed avessero imparato a stimarsi come meritavano, il Vinneri parlò:

— Eccellenza, io vengo a proporle un affare di oro, un acquisto proprio co' fiocchi, da crescere la reputazione al governo, e per conseguenza a lei che tanto saggiamente lo dirige.

— O sentiamo, via, che cosa ci porta di bello, — rispose il ministro dandosi una fregatina alle mani.

— Ecco; ha ella sentito mai, eccellenza, tenere proposito del mio genero Fabrizio Onesti?

— Mi pare...

— Giovane di eloquenza smagliante, di studi profondi, in brevissimo tempo salito in fama di avvocato principe.

— Ebbene?

— Mi ci sono messo d'intorno, mosso dallo zelo pel governo della E. V., e dai dai, io l'ho frollato, persuadendolo a portare al suo servizio negli uffici così giudiziari, come politici, ed anche amministrativi la sua molta capacità: ond'io la conforto a non lasciarsi scappare di mano questa starna; ch'io so che in qualunque maniera me l'accomodi, o arrosto o in salsa, la proverà una delizia.

— Per amore di Dio, signor presidente, non me lo conduca davanti, perchè, veda, dopo le informazioni che me ne ha dato, il suo genero corre rischio ch'io me lo mangi vivo vivo.

Risero ambedue, ma di un riso di qualità diversa; di subito però il ministro rimettendosi al serio, soggiunse:

— Io non credo niente a questo magnifico acquisto: il suo signor genero ha proceduto sempre ostile alla monarchia in modo scandaloso; anche ieri ostentava sensi esaltati di repubblica... e credo anco un tantino di comunismo; egli capo di tutte le combriccole, egli promotore di comizi popoleschi... non mancano neppure prove ch'egli abbia fatto parte di una congiura contro la sicurezza dello Stato...

— Questo è il bello... si affrettò ad interrompere il presidente, il quale non potè astenersi da pensare: Poveri noi, se invece di conoscerlo sì poco da parergli non conoscerlo, lo avesse conosciuto a fondo! Combattere i nemici co' soldati che abbiamo fatto disertare dalle loro bandiere: noi altri ripetiamo in curia il dettato non sunt sumenda arma e domu rei, ma quando lo possiamo fare, ci sembra andare a nozze.

— Non sempre, massime quando i disertori sono giovani, spesso tornano ai primi amori, li sperimentiamo prosuntuosi, indisciplinati e spesso soggetti a pentimento: in ciò non siamo sicuri nè anche dei vecchi, perchè consideri, signor presidente, anche Giuda rese i danari e s'impiccò.

— Da quel fatto in poi corrono milleottocento e non so quanti anni; il mondo ha camminato, e di coteste corbellerie non se ne commette più; nè V. E., così sapiente nelle arti governative, vorrà negarmi che il tirare a sè i soldati dal partito avverso non ci getti lo sgomento; lo scredita fuori di misura, uno piglia sospetto dell'altro, la paura entra in tutti i cuori, sicchè, quando pure non approdasse per le forze che porta, ci tornerebbe sempre utilissimo per le forze che gli leva.

— Ci è del vero nel suo discorso... non nego che ci sia del vero.

— E poi io l'accerto che mio genero non è pasta da farne salmi penitenziali, i suoi vecchi amici si sono alienati da lui, lo hanno ferito nello amor proprio, gli levarono i pezzi da dosso, sicchè a quest'ora ha segnato sopra il suo libro verde un grosso ma grosso debito a carico di loro, che gli ha da premere di farsi pagare; — e noi, che gli stiamo al canto, procureremo ch'ei lo riscuota senz'altri amminnicoli.

— Sicuro... sicuro, se la vendetta mettesse le sue legna sul fuoco sotto la pentola, questa in un attimo spiccherebbe il bollore.

— Dunque aut aut, concludiamo o non concludiamo?

— Sentiamo via, e che cosa pretenderebbe il suo signor genero?

— Ecco, una procura regia presso la Corte di appello le parrebbe troppo?

— Enorme! Ma che ha dato a rimettere le doghe al suo cervello...il suo signor genero? Di punto in bianco una regia procura! Che scatenìo nel fôro! Che uragano nei giornali! Sopra quanti bisognerebbe passare, calpestandoli come boie panattere!

— Via... via, eccellenza, da quando in qua queste paure di affogare in un bicchiere di acqua? Bene altre sublimi audacie ci ha educato ad ammirare il suo felice ingegno; qui basta fare un po' di vuoto, e il cavicchio ci entra quasi da sè. O che vuole, eccellenza, essere da meno del rosticciere di Londra?[29] Costui con un taglio di carne di due libbre era riuscito ad agguantare un magnifico arrosto di quaranta, e a lei non basterà l'animo di trovarmi un posto pel mio genero? Riscattarmi un'anima? Mettersi al fianco una lancia spezzata tagliente e sicura?

— Ma io non sono mica il ministro di grazia e di giustizia, ed ella è al caso di saperlo meglio di ogni altro... e adesso che fa? perchè si volta addietro?

— Ecco, eccellenza, ho creduto ch'ella volgesse la parola a qualcheduno che mi stesse dopo le spalle... ma via, Conte, che ho fatto mai per demeritare la sua stima; ma che le sembra che tra noi sacerdoti abbiano corso simili tattere? O che non sappiamo tutti ch'ella fa qui la pioggia e il cielo sereno?

— S'ingannano tutti; ed io in coscienza... in onore, posso giurarvi...

— Eccellenza, lasciamo ogni cosa al suo posto, non diamo incomodo a nessuno...

— Orsù, senta, un posto di sostituto posso ripromettermi ottenere pel suo genero.... più no....

— È poco...

— In coscienza...

— E dai con la coscienza! Non sarebbe forse un dente che le dolga, poichè ci batte tanto spesso con la lingua?

— Presidente, per ora le basti; mi lasci vedere quello che saprà fare; solo che trovi nel giovane un terzo di quello che mi assicurò V. S., viva tranquillo, la sua fortuna è fatta.

— Ne parlerò a Fabrizio... non dissimulo che sperava V. E. più generosa meco.

— Ed io m'ingegnerò col ministro di grazia e giustizia... però non taccio che l'avrei creduto più ragionevole.

— Più ragionevole! Ma veniamo al finocchio... come con lo stipendio di sostituto può mantenersi con decoro una famiglia?

— Quando — e qui il ministro toccò coll'indice una cassetta sopra la quale si leggeva scritto: fondi segreti — quando si sa e si vuole rendere servizi utili, la paga si aumenta a beneplacito.

— Oh! scusi, eccellenza, me n'era dimenticato.

— Presidente, la sua conversazione è piacevole quanto istruttiva, ma le noie dell'uffizio mi costringono senz'altro a dirle addio.

— A rivederci, eccellenza.

*

Appena costui fu uscito dalla stanza, il ministro esclamò: Ecco una colonna a cui si appoggia la salute della società! Ecco una delle àncore alle quali si affida la sicurezza dello Stato! Certo cotesti uomini meriterebbero essere gettati dove si calano le àncore, all'opposto li paghiamo, fingiamo rispettarli, onde altri li rispetti... Se un ciarlatano comparisce su la fiera, via di rincorsa; e che fa egli, il povero ciarlatano? Vende zucca per balsamo, mentre costui ministra veleno invece di giustizia... provate a mutare se vi riesce... e se tu provassi! Mi guardi Dio da siffatte tentazioni! Smovendo un mattone mi rovinerebbe sul capo tutta la volta; e sia, ma la volta così sconquassata per quanto starà ferma al posto? Che importa a me? Quando sarò morto caschi il mondo... La razza umana non vale la corda che la impicchi!

Anche Fabrizio, lo ricordate? aveva esclamato così dopo la difesa di Felicina.

Al fine delle sue parole, un nodo di tosse colse il ministro così impetuosa, che nello sforzo gli saltò fuori delle gengive la rastrelliera dei denti finti che vi stava raccomandata. In questa appunto ecco aprirsi la porta ed entrare in fretta il ministro di grazia e di giustizia: era già presso al presidente, quando questi con cenno e con voce lo fermò gridando:

— Non venite oltre... non vi movete... o mi rovinate...

— Io? O che novità sono queste?

— Non sono novità, ma cose vecchie; o non vedete che se fate un passo di più mi stritolate i denti che mi sono caduti per terra, ed io, come sapete, tengo il portafogli delle finanze: ora, un ministro di finanza senza cuore ed anche senza cervello può darsi, senza denti no; sarebbe un padre senza... oh! a proposito...

E qui espose al collega il suo bisogno; e colui nato e cresciuto giunco in terra palustre, si piegò subito alle voglie del suo piuttosto padrone che compagno nell'ufficio, e gli venne dichiarando partitamente chi avrebbe messo da lato con la debita pensione, e chi scarrucolato da un paese all'altro per fare largo a Fabrizio.

Mentr'egli favellava, il presidente del Consiglio, presa così per trastullo una penna, si mette a calcolare: lire seimila aggravio allo Stato per la pensione, lire ottomila per traslatamento di sei sostituti, non contando altri disagi e spese, e tutto questo per tenermi bene edificato il Vinneri! Il Vinneri! lui, se non fossi ministro, non mi gioverei pigliare con le molle per buttarlo sul concio. Il Vinneri! che se dimani ci trovasse il suo conto, mi darebbe di un calcio nei reni alla traditora, quando anche mi trovasse in capo di una scala... Così vuole questa delizia del governo costituzionale... Però, non creda già di mangiarmele a ufo... gli darò bene io ossi duri a rodere... e dall'altra parte è spediente che gl'impiegati stieno sempre corti a quattrini; le punte dei piedi della miseria ne urtino continuamente i calcagni, allora si maneggiano meglio, li troviamo più pieghevoli... più disciplinati. I contribuenti brontolano: brontolino, purchè paghino... e poi essi hanno meno cervello dei passerotti: quello che assorbo io con la tromba delle imposte, o lo Stato non rende a loro in forma di pioggia? E gli operai? Oh! questi sì che meriterebbero la frusta quando mi lacerano a cagione, dicono essi, delle improvvide spese: fare e disfare non è tutto un lavorare? E se facessi sempre bene non lavorerebbero meno? Avanti... avanti, e voghi la galera.

E qui, rinnovata la solita fregatina alle mani, attese ad altri affari.

*

— Caro Fabrizio, diceva il Vinneri stringendo in ambo le sue mani la destra del genero, questa fu per me la più bella giornata della vita.

— Me ne rallegro con voi, e potrei...?

— Anzi, sono io che ti prego di starmi a sentire, e mi corre l'obbligo informartene, perchè si tratta proprio di te.

— Di me?

— Appunto: stamane per faccende di ufficio ebbi una conferenza col presidente del Consiglio dei ministri: dopo aver dato sesto ai nostri affari, egli mi ha chiesto nuove di te.

— Di me? Proprio di me?

— Già, e me ne ha parlato in termini eminentemente lusinghieri: io, che ti sono babbo, vedi, non avrei detto meglio, e così, passando dal lesso all'arrosto, ha deplorato che il tuo bellissimo ingegno si strugga nell'avvocare volgari cause private, oggi segno di fastidiose importunità, domani buttato là nel dimenticatoio, sempre traballante sopra un terreno che ti vacilla sotto: vita di avvocato, vita di giocatore di pallone, di fantino di circo equestre, di funambolo; levante stentato, mezzogiorno pomposo, tramonto in soffitta, quando va bene; se no allo spedale. Codesto non è il suo posto; egli dovrebbe prendere parte nel governo, dove per poco la fortuna lo assistesse non potrebbe mancare di giungere a grado sublime.

— Il signor ministro ha detto proprio così?

— Così proprio; io non ti ci metto su sale nè pepe se io fossi nei tuoi piedi, senza gingillarmi tufferei il cappone che la Provvidenza mi manda dentro la pentola a bollire.

— Eh! non lo nego: la proposta potrebbe forse convenirmi, se non fossero i principii politici da me professati fin qui, i quali mi attraversano la via; il meno che me ne verrebbe sarebbe sentirmi tacciato di carnaccia venduta.

— Si vende cervello di montone, rispose il presidente facendo spallucce, non il tuo; quando tu metti la tua capacità al servizio del governo, e questi ti paga, non è vendita, ma baratto di uffici; dove tu, almeno sul principio, scapiteresti un tanto. Quale è mai il fine di coloro che si atteggiano a oppositori del governo? Quello di partecipare agli uffici; adesso, siccome coloro che li occupano e ci stanno bene tengono chiusa la porta di strada, e li escludono dalla scala maestra, gli altri appoggiano ai muri esterni una scala da pagliaio e si arrabattano a entrarci per le finestre. Sai tu che ti ho a dire? Si compra la roba che vale: su i banchi dei pollaioli io non ci ho visto avanzare altro che le galline morte di pipita. Specchiati nella Camera dei deputati; a dar retta alle lingue maligne, tutti sono venduti, o da vendersi, e pure insieme al monarca ed al Senato ella forma la prima magistratura del regno.

— Ci penserò; e caso mai mi risolvessi, vi ha detto il ministro a quale impiego mi destinerebbe?

— Per ora basterebbe bucare; ma, appena dentro, va' sicuro tu saliresti glorioso al cielo come il fumo dell'arrosto.

— Ma pure...

— Ecco, ti servo. Di primo acchito sostituto procuratore regio alla Corte di appello... Eh! che ne dici? Ti pare piccolo slancio?

Fabrizio, che si aspettava, secondo le persuasioni della sua vanità, almeno la presidenza della Corte di cassazione, con faccia scorrubbiata rispose secco: — Rifiuto.

— E perchè rifiuti? Sentiamo, via, le ragioni: forse la proposta ti riesce sotto il dente tigliosa? ovvero al gusto stantia?

— Ma voi, caro socero, dovreste sapere meglio di me come il sostituto del regio procuratore venga sempre commesso a sostenere le accuse contro gli imputati; ed io, che fin qui sostenni il nobile ufficio della difesa, mutati a un tratto studi ed instituto di vita, dovrò farmi accusatore... incettatore di vittime alla mensa della giustizia...?

— Quanto a questo poi, l'ufficio di liberare la società dai furfanti giudico nobile per lo meno come quello di scarmanarsi per tanti pezzi da galera; nè il banco della giustizia si ha da chiamare mensa, bensì ara; nè tu provvederesti, ma riceveresti le vittime consacrate all'altare; spetta ai giudici la parte di sacerdoti.

— No... non è così... provvisionieri della forca i regi procuratori: gl'impiccatori un po' per uno: il giudice e il boia...

— Ubbie! proprio ubbie!... con voi altri non si vince nè s'impatta; o non avete sostenuto voi, e meritamente, le accuse presso i popoli liberi onoratissime quanto le difese e più, come quelle che chiedono maggior prova di coraggio ed espongono a maggiori pericoli? Cicerone informi, e la sua testa recisa, e la sua lingua sforacchiata. Da' retta a me, non rompere paglia con la fortuna. Considera la immensa soddisfazione di vederti a un tratto mutare scena davanti. Coloro che prima ti squadravano a squarcia sacco, fingendo di non riconoscerti, eccoli tutti umili venire a metterti il prezzemolino al naso; adesso tu li farai aspettare ore ed ore nella tua anticamera come l'ultimo dei tuoi servitori... ecco venuta la tua volta di fingere di non li riconoscere, anzi di neppure vederli... se ti capitassero sotto — e non può mancare che qualcheduno di loro, o dei loro aderenti, non ti ci capiti — io ti raccomando di pigliarti la voluttà di stringerli così per vezzo un zinzino per la gola...

— Ah! proruppe dal cuore Fabrizio, toccato sul debole, se non fosse Dio che mi tenesse le sue sante mani in capo... a quest'ora!...

— Lascia Dio a casa sua, che qui non ci ha che fare; di' che ti tiene la tua superbia o piuttosto la tua sterile vanità.

— Sarà come volete; ma tanto è, una ripugnanza invincibile mi respinge indietro... e poi adesso mi casca nella mente un'altra considerazione: alle gravi spese di casa come potrei sopperire io? La bella e cara Bianca, da noi unicamente diletta, a modo di farfalla che folleggia da fiore a fiore, s'inebria volando di piacere in piacere... ella forma tutta la mia felicità... il mio orgoglio... il mio tutto; ditemi, socero, mi somministrerete voi il danaro che mi mancherà?

Non così pronte si ritirano foglia di vergognosa, o corna di lumaca al tocco altrui, come di subito si chiuse il Vinneri a cotesta mazzata, ma poi riaprendosi a poco a poco incominciò a dire:

— Quando la dovesse andare a cotesto modo sarebbe sempre una cosa passeggera; non si mettono gli ortolani al buio, perchè ingrassati facciano poi nobilissima mostra sopra le mense signorili? Lo stesso, alla più trista, avverrebbe di voi; ma voi non correrete neanche questo pericolo, perchè... perchè il ministro non fa penuriare di danari i magistrati zelanti, che spendono in solerti ricerche dirette a prevenire i delitti comuni, e più i politici.

— E qual profitto mi viene dai danari che spendo per cause inerenti al mio uffizio?

— O te beato eletto al regno dei cieli! Possibile che tu sia così povero di spirito da non comprendere che il ministro, quando vuol provvedere di danaro i suoi beniamini, trova sempre qualche onorato pretesto, onde questi possano darsi ad intendere che non lo mangiano a ufo.

— Io questo so, che quando accetti il mandato di adoperare il danaro altrui per un fine prescritto, se te lo intaschi commetti furto.

— Ecco le solite ubbie: di' su, quando il sarto o il calzolaio ti porta il conto, lo paghi tale e quale, oppure ci fai la tara?

— Io ci faccio la tara.

— D'incanto. Ora, se fai la tara per te, di certo la farai per gli altri, e questa tara ti potrai legittimamente appropriare, perchè da un lato corrisponde ad una tua industria e dall'altro ad una liberalità di animo riconoscente per parte delle persone che impieghi. Aggiungi che in moltissimi uffici, dove per ragione d'impiego l'uomo è costretto, oltre il lavoro ordinario, a prestare opera straordinaria, si ricompensa sempre con supplemento di onorario: di simile natura giusto è il tuo: veruno ti obbliga a vegliare tutta notte, onde altri dorma tranquillo, nè a mettere a repentaglio la tua pelle perchè non isforacchino l'altrui; dunque parmi di tutta equità che ti abbiano a pagare le vacazioni come ad ogni altro impiegato quando lo mandano in gita. La differenza consiste in questo, che agli altri il ministro dispensa il danaro da sè, per te lo rimette nella tua discrezione.

— Andrà tutto bene, ma rifiuto recisamente, conchiuse Fabrizio abbottonandosi l'ultimo bottone del soprabito e facendo atto di andarsene; senonchè il Vinneri, agguantatolo per la mano, lo tirò giù di forza dicendo:

— Non ti licenzio ancora; compiaciti sedere per altri cinque minuti, e ti chiarirò meglio la cosa. Fabrizio, parliamo aperto, ora che siamo a quattro occhi: sai tu chi ti ha procurato tante liti a patrocinare? Io. Sai tu chi te le ha fatte vincere? Io; adoperando coperti accorgimenti; e molle segrete di cui non importa discorrere. Tamen anche le arti della più astuta accortezza all'ultimo si fanno scorgere, perchè dal frutto indovinano il seme. Adesso sai tu a che ne siamo? Te lo dirò io. I tuoi colleghi hanno fatto ricapitare al ministro di grazia e giustizia un lungo memoriale, dove punto per punto si specificano le cause da te avvocate, le ragioni dedotte nelle tue scritture, i motivi delle sentenze, e si prova come senza scandoloso favore tu non potevi vincere in onta al diritto espresso ed alla pratica di giudicare. Infatti, io lo confesso, il troppo amore per te e per la cara Bianca mi ha tolto il lume dagli occhi. Ma ci ha di peggio: i deputati della opposizione minacciano di farne un richiamo in Parlamento, studiosi di dare il gambetto ai ministri; di ciò fu ammonito segretamente il ministro da parecchi esploratori che mantiene nel campo nemico...

Fabrizio si coperse la faccia senza profferire parola; il Vinneri dopo breve silenzio continuò:

— E con bellissimo garbo mi faceva avvertito ch'egli intendeva risolutamente antivenire cotesta botta traditora, non potendo nè volendo esporre a cimento le fortune della monarchia e il credito delle istituzioni costituzionali...

— E il suo portafogli...

— E il suo portafogli, questo ci va sottinteso: per ciò mi proponeva due partiti, entrambi accettabili; lasciandomi la facoltà di eleggere: i quali erano o trasferirmi alla presidenza di altra Corte in forma onorifica per me, ovvero, accettata la mia renunzia.... capisci bene, la mia renunzia inviarmi alla Corte dei conti per liquidare la mia pensione...

Qui successe una seconda pausa, e poi riprese:

— Se consideri attentamente, conoscerai come l'un partito e l'altro torni del pari esiziale al tuo interesse; se scelgo la traslocazione, mi metteranno al collo la croce di grande ufficiale di qualche ordine del regno, come il sasso al collo del cane che vuolsi affogare, e mi butteranno in Arno, o nel Serchio, o nella Polcevera; se risegno l'ufficio, eccomi diventato inutile più di uno scaldaletto a mezzo luglio: io non ti posso più aiutare; non difenderti allorchè tutti ti piglieranno a bersaglio dei loro strali avvelenati dalla vendetta nel fiele della invidia: i miei stessi colleghi, sta' certo, per ricattare la reputazione di servili verso di me, si sbracceranno a mostrarsi una volta e mezzo più servili al mio successore, il quale aspettati addirittura nemico. I clienti diserteranno dal tuo studio: ed a ragione, l'interesse te li diede, l'interesse te li toglie; la calamita tira altrove; e tu che presenterai allora in società? Un fiasco bevuto, una festa fatta, un barbero scoppiato nel correre il palio... e non metto in conto il motteggio maligno, le trafitture, e più acerbo di ogni altra cosa il filo di rasoio del compatimento... datemi la corda, un maglio su la testa, di una scure sul collo, mettetemi nella botte spuntonata di Attilio Regolo, dentro il sacco dei parricidi, ma risparmiatemi, oh! per amore di Dio o del diavolo, l'arsenico del compatimento... Ora, dirimpetto a codesto stato da far venire il mal dei denti ai cani, poni una carica onoratissima con promessa di sollecita promozione e l'insegna da cavaliere, insegna che ogni fedele democratico si fa caso di coscienza di sprezzare lontana e di agguantare vicina con tutte e due le mani, per tenere come l'antico colosso di Rodi la gamba destra sopra un plinto e la sinistra su di un altro, intantochè le navi gli passavano di sotto. Io te l'ho già detto e te lo torno a dire: queste faccende le sono come i denti, dolgono nel nascere, ma poi ci si mastica (veramente il proverbio non parla di denti, bensì di altra cosa, che al presidente non giovava rammentare, nè a Fabrizio udire).

— Ecco, esclamò doloroso Fabrizio, mi tocca a entrare nella magistratura come un dannato nello inferno!

— Ubbie! Da quando in qua si è sentito dire, che il diavolo dia ai dannati seimila lire di pensione all'anno, oltre quello che fa la penna, e la croce per giunta? — Bazzica i santi il diavolo?

— No.... sono questi che consegnano la loro anima nelle mani al diavolo.

Il Vinneri avendo fatto con molta arguzia notare come l'uscita di Fabrizio dal ruolo degli avvocati gli era stato un togliere il dente alla vipera, riuscì a mantenersi nell'ufficio, dove non procedendo diritto (chè simile facoltà non si confaceva alla sua complessione), bensì dando un colpo al cerchio ed un altro alla botte, potè barcamenarsi.

Troppo più duro stato ammanniva la fortuna a Fabrizio. Tutti gli si rovesciarono contro, così buoni come tristi; i buoni, per pietà dello strazio che loro pareva venisse fatto della morale pubblica da esempi tanto abominevoli; i tristi, perchè il pane quotidiano che implorano recitando il paternostro sia l'avvilimento altrui, non già che nella vilezza universale si stimino di più, bensì perchè si disprezzino meno. Calunnia è pei buoni mal comune mezzo gaudio; che i furfanti al male altrui sentano ricrearsi vero è pur troppo; vive una gente nel mondo, la quale reputa i dieci comandamenti insulti fatti alla sua libertà di coscienza, e quelli che li osservano aguzzini inviati per angustiarla. Il misero uomo beveva l'obbrobrio nell'aria; gli aperti oltraggi amari, non meno acerbi gli altri velati da parole freddamente urbane: non passa giorno che gli antichi colleghi, approfittandosi della licenziosa libertà della toga, non gli menassero manrovesci in faccia, sicchè ormai pareva non vi dovesse rimanere più luogo ad altri sfregi; tutto lo irritava, tutto pungevalo; perfino gli atomi che lo fasciavano gli parea che il pungessero. I vecchi amici, se da lontano lo scorgevano, svoltato il canto gli sparivano dinanzi; se mai se lo trovano addosso da non poterlo scansare, ecco fingevano ripulirsi il petto da qualche pagliuzza, ovvero portavano la mano sugli occhi, quasi gli ci fosse entrato un bruscolo; infiniti i pretesti e atrocemente ingegnosi per non salutarlo, per iscansarlo e per fingere di non accorgersi della sua presenza in un luogo. Ora la canatterìa dei giornalisti gli si avventa dietro latrante e mordente; pare un cignale corso in caccia; certo egli le sanne mostrava tinte di sangue, qualche cane traendo guai casca sventrato intorno a lui, ma rossi eziandio erano i denti dei cani, ed a taluni pendevano dalla bocca i brindelli della sua carne. Ne aveva perso il sonno e l'appetito; parlava da sè, o rispondeva come se taluno lo chiamasse fuori del mondo: indizio di follia che si avvicina; si guardava fisso davanti, quasi persona gli desse soggezione, ovvero teneva gli occhi bramosi a terra, imperciocchè egli ormai non tirasse più le sue ispirazioni dal cielo, ma sì dalla polvere: e la congiuntiva degli occhi non gli comparisca più bianca, al contrario iniettata di sangue, e in parte tinta in color fosco, pari a quello della fuliggine: sopra la fronte immoto il pallore della morte e del peccato.

Fabrizio sperpera ogni dì il suo ingegno nella persecuzione di volgari delitti commessi da gente volgare: nè anco lo strepito dei trivi lo assorda, nè manco il polverio che si leva dalle pubbliche strade lo accieca: si spossa a portare fimo come ogni altro più vile giumento; e il guaio non rimane qui, chè le angustie della domestica economia, le quali da prima lo punzecchiavano a mo' di mignatte, adesso lo mordono come mastini: danaro da spendere nella polizia preventiva non gliene offrivano, e a chiederne non si attentava; e ad ogni modo non avrebbe saputo a cui rivolgersi per averne. Ma il bisogno, implacabile boa constrictor, stringendo ogni giorno più forte, deliberò conferirne con la dilettissima Bianca.

Non lo avesse mai fatto, che la dilettissima Bianca, sentendosi minacciata a scemare servidorame, soffiò, miagolò peggio di gatta spaventata: avvampante in volto, impetuosa nelle parole e nei gesti, giurava non potere farne a meno nè manco di uno. O che si ha da licenziare la cameriera? E allora chi mi pettina, chi mi veste, chi mi lava, chi mi stira, chi cuce? e via via. Accommiateremo il cuoco? Peggio... chi va al mercato pel vivere, chi cucina, chi mette in tavola... e quando viene gente a pranzo come rimedieremo? La donna di mezzo? Chi spazza, chi acconcia le camere, chi rifà i letti, chi dà il bucato, chi lo riceve? E alle lucerne pensi tu, Fabrizio? A lustrare le scarpe, a spazzolare i panni ci pensi tu, Fabrizio? A portarti la mattina, quando ti svegli, il caffè nero al letto ci pensi da te, Fabrizio? Misericordia! non ha tante parole un leggio quante n'ebbe la Bianca in cotesta occasione; le cateratte della loquacità donnesca si apersero diluviando. Fabrizio, non avendo l'arca per ripararcisi dentro, tacque e scappò.

La necessità più forte di lui schiuse le gavigne alla Bianca, la quale bel bello si trovò ridotta a tenersi dintorno una serva sola: però l'assottigliare la uscita non bastava, occorreva crescere la entrata, e per questo non ci si trovava ripiego: e poi finchè si scarniva il necessario per la famiglia fino all'osso, la donna, quantunque con afflitto animo, ci si adattava; ma a toccare le spese di lusso, o come le si sogliono chiamare di comparsa, guai! Piuttosto morasi di stento in casa, ma il superfluo lascisi stare.

Se considerate tutte queste cose, vi figurerete quale inferno fu quello quando Fabrizio, lasciandosi cascare su di un seggiolone con le braccia abbandonate, significò alla moglie non avanzargli in tasca più tanto da tirarsi innanzi quel giorno: essere forza mettere la mano su qualche diamante per campare.

Io, lo confesso addirittura, mi trovo corto a colori ed a similitudini per descrivere le disperazioni di Bianca; nè mica finte, all'opposto verissime e lacrimevoli; empì il cielo di strida dolorose; si strappò i capelli, corse per la casa come frenetica; per furore non pianse; solo dagli occhi stralunati sprizzava faville; cascò in deliquio, violentissime convulsioni la sorpresero, in breve ora gli affetti isterici la ridussero a mal partito, tantochè Fabrizio, il quale l'amava teneramente, ne sentì compassione e paura, onde, racconsolatala come meglio gli venne fatto, uscì di casa recandosi difilato presso un cristiano circonciso, o ebreo battezzato, sua conoscenza vecchia, per impegnare l'orologio, quantunque a lui per le necessità del suo ufficio fosse indispensabile più del pane.

Scarso sollievo; stilla di rugiada su la pelle di un dannato; pochi giorni dopo, patite tre o quattro strappatelle, fu mestieri cedere ad uno squasso maestro della fortuna... Ma che Agar, madre infelice, quando, abbandonato il figliuolo Ismaele sotto una palma, se ne va lontano a piangere per non vederselo morire su gli occhi! Due cotanti più angoscioso lo spasimo della Bianca nel vedersi staccare dal seno un diamante: dopo averlo co' più cari nomi chiamato, e con i più acerbi rinfacci garrito della sua ingratitudine, serrò gli occhi e si pose a letto chiusa in un tetro silenzio.

Talora pensava Fabrizio fra sè: chi mai lo avrebbe sospettato! Esclamazione dei tre quarti dei mariti dopo un mese o due di matrimonio, e questo perchè la natura dipinge la passione a buon fresco, e la educazione poi la ritocca a secco: i ritocchi a secco col tempo cascano, ma la pittura a buon fresco rimane. Prima di portarla non si può sapere se farà male la scarpa, e finchè le non si daranno le mogli a prova io non ci vedo verso di evitare simile pericolo.[30]

Già eravamo presso a finire la moneta ricavata dalla vendita del diamante, e Fabrizio, rifuggendo dal rinnovare le parti dell'ebreo Shylock,[31] quantunque a malincuore, si fece a trovare il socero, il quale da un pezzo in qua visitava la figliuola di rado e sempre più breve; questi lo accolse con visibile imbarazzo: avesse potuto svignarsela! Ma poichè altra via non gli si parava dinanzi, eccetto la cappa della stufa, voltata faccia alla fortuna con la consueta inverecondia, tra le altre queste cose favellò al suo genero:

— Caro mio, tu lo sai, dalla mia paga in fuori io non possiedo in questo mondo un becco di quattrino; nell'altro non credo averci fatto troppi avanzi. Però io non te lo tacqui; tu non potresti dire onestamente che ti abbia posto di mezzo: ci dovevi pensare prima di metterti in mare; senza biscotto non si naviga, nè tu eri un pargolo da ignorare come stia la cuffia a Crezia, e assai praticasti la Bianca per prendere di lei conoscenza intera: questo ti ho voluto dire per rammentarti che io non ti piantai dinanzi il dilemma: o mangiare questa minestra o saltare questa finestra, non già perchè valga a levare un ragnatelo da un buco. — Mettiamo dunque in sodo, ch'io non posso sovvenirti in nulla; — e non lo devo: non mi fare bocchi, Fabrizio, che io te lo provo. — Con l'onorario di presidente e trovandomi solo, su per giù alla meglio me la sgabello da pari mio: ora figurati ch'io te ne dessi un terzo; che ne avverrebbe? Patirei io, non solleverei te: scomparirei io e non compariresti tu; e poichè uno di noi altri due deve stare allo stecchetto, io, dal mio punto di vista, ho ragione a volere che ci stii tu; e ciò con tanto maggior fondamento, in quanto che dipenda proprio da te volerci stare, perchè pretenderesti che le beccacce ti volassero intorno alla mensa belle e arrostite coi crostini sotto l'ale e la salsa in un cestino nel becco!

Ah! tu presumi che ti vengano a profferire fino a casa il danaro? Alla rana, che non chiese, non fu data la coda.

— Ma io non sono uso a chiedere. Ho creduto convertirmi in magistrato, non già in accattone per limosinare alla porta dei conventi dei frati una pentola di minestra.

— Qui non ci entra minestra, bensì raccogliere moneta, che basti per provvedere alla pubblica sicurezza ed al pranzo intero di magistrato rispettabile...

— E posto che io mi piegassi a chiedere, ma dove avrei a volgere le mie domande?

— Di questo dovresti informarti tu, ma per me credo con molti la via retta più corta, e per ciò difilato al presidente del Consiglio dei ministri.

— E s'ei non mi dà udienza?

— Le sono coteste pituite di malinconia; S. E. ascolta tutti per essere di natura urbanissimo, e poi per debito d'ufficio, massime quando si tratta di ufficiali preposti alla sicurezza pubblica.

— Caso mai mi ammettesse al suo cospetto, e che potrei dirgli io? Io mi consumo correndo dietro a furti, ingiurie, ferimenti, omicidi e via discorrendo, tanto da parere un gatto che si sbizzarrisce a ruzzolare trucioli. Non mi è capitato mai un delitto di spolvero; mi tocca stare terra terra come la porcellana; ed io non mi posso mica stampare una causa celebre da mandare sottosopra gli uomini e i giornalisti.....

— E chi ti para?

— Come! Che avete detto?

— Io? Dico quello che mi hanno insegnato le sacre carte: pulsate et aperietur vobis; chi cerca trova. La tua promozione e la insegna di cavaliere mi furono promesse; però a patto che dovessero servire di compenso a qualche segnalato servizio da te reso al governo, e fino ad ora la fortuna non ti ha fatto gli occhi dolci; ma, caro mio, buona cura vince sventura: perchè non ti sei tenuto bene edificato il ministro? Perchè non t'insinuasti fra i suoi familiari? Bisognava tu t'industriassi a entrare in grazia a taluno di casa sua; nei principii non bisogna stare sul doge; innanzi di celebrare le messe si servono: tale, ricordati, entrò in palazzo per la gattaiola, che poi all'uscirne non gli bastò gli aprissero le porte a due battenti... ma adesso, lo vedo anch'io, mi sembra tardi... siamo con le spalle al muro... tanto è, mi proverò a toccarne di nuovo al ministro... ma anche tu, vedi, avresti a fare una cosa... dovresti... mandare... anche a nome mio... a sollecitare... il ministro... la Bianca.

— La... Bianca?

— Sicuro, o che ci trovi tu di sperpetua? Forse non ci vanno tutto giorno a frotte le principali gentildonne del regno?

— La Bianca!

— Già, caro mio, la è cosa vecchia, che quando ci si mette di mezzo una donna si ottiene presto e bene. Considera questo, anche la nostra religione cattolica ci persuade ricorrere alla intercessione della Madonna, perchè Dio ci faccia la grazia. La donna, o sia madre, o figlia, o sposa, ascoltasi benignamente sempre e da tutti, i cortesi perchè si sentono commossi, gli zotici soggiogati: anche quando non si voglia o non si possa concedere la cosa domandata, è difficile che la donna si trovi messa alla porta con maniere inurbane: insomma, la donna esercita soave e nonpertanto irresistibile violenza sopra l'animo dell'uomo o con la bellezza, o con la favella, o con la pietà... Vedi... il cuore mi presagisce che se mandi la Bianca a perorare la tua causa presso S. E., tu riuscirai di certo.

— E voi ci avreste mandato la vostra moglie?

— Io? Ma sicuro, quante volte mi è occorso ho mandato la moglie ai ministri, e anche a S. M. il nostro augusto padrone, e me ne trovai sempre bene.

— E non vi sorse nell'animo...?

— Che mai?

— Il sospetto... capite... vorrei che voi m'intendeste.

Ohibò! Nè manco per sogno. In primis mi rendeva tetragono ai colpi del sospetto la inestimabile stima professata da me a quella santissima donna, che fu la tua socera, e poi la moralità a prova di bomba dei personaggi cui ella si faceva a sollecitare nell'interesse della famiglia. Se avessi mai potuto concepire un sospetto sopra di lei, sai tu quando avrei sospettato? Allorchè si andava a confessare.

— Ma le dicerie della gente maligna non vi mettevano in pensiero?

— Chi mal pensa, male abbia: per abbaiare di cani non si eclissa la luna. A te bastino per quiete dell'animo la rettitudine delle tue intenzioni e il conoscimento della dignitosa coscienza e netta della tua consorte.

— Per me ce ne sarebbero di avanzo; il male è che non bastano agli altri: noi pur troppo viviamo incastrati nel mondo, e se sarebbe viltà condannarci a fare a modo suo, nè anco possiamo avere la prosunzione di fare in tutto a modo nostro; specchiatevi in Cesare, che non sofferse neppure tenersi attorno la moglie sospettata.

— Caro mio, tu hai da sapere che cotesti esempi antichi sono come i pesci, i quali non si mangiano senza prima levarci le lische. Cesare potè gettare polvere da gonzi negli occhi ai Quiriti, nei nostri dì ai vecchi criminalisti non avrebbe potuto: egli prima afferma Pompeia innocente di adulterio con Clodio, e poi la repudia. Tu hai a convenire che simile contegno, se gatta non ci covasse sotto, non avrebbe capo nè coda. To'! prima la proscioglie da ogni colpa propria, e dopo la punisce per la colpa altrui; intendi che Cesare sapeva di avanzo che cosa aveva bollito in pentola, ma aborrendo tirarsi addosso la nomea di minotauro, argomento perpetuo di trafittura, comecchè immeritata, volle donare a Pompeia la prova legale della sua onestà rispetto al pubblico; tra lui e lei la prova legale non bastava per levare di mezzo la prova reale; quindi scappò fuori col gingillo che hai detto per rimandarla a casa. Il popolo, il quale nei grandi ammira di più quello che intende meno, plause al logogrifo; noi altri posteri, che spesso non ereditiamo i beni degli antenati, e la imbecillità loro ereditiamo sempre, lo abbiamo a volta nostra applaudito; ma tu, caro mio, vivi sicuro che Cesare, anche innanzi di passare in Brettagna, sapeva di essere stato in Cornovaglia. Ed ora, che adempiendo al debito io ti ho avvertito, tu fa' quello che giudichi più vantaggioso per te; dal canto mio non mancherò sovvenirti come posso; ed ora lasciami in pace, che mi aspettano a pranzo dal conte Seigatti, il quale è in procinto di essere promosso senatore; e tu sai che un desinare riscaldato è delitto di lesa cucina.

Fabrizio, ritornato a casa, si mostrava più balordo del solito: sopraggiunta la notte, alla moglie chiedente se andavano al teatro rispose aggrondato: no; se a veglia: no; se a fare due passi: no, no, con sempre crescente cupezza; allora la Bianca si spogliò cheta cheta e si mise a dormire.

Fabrizio rimase levato a passeggiare per la stanza da letto.

Vittore Ugo nei Miserabili ha scritto di certa procella sotto un cranio, che a diritto viene stimata mirabile cosa; ora, anco sotto il cranio di Fabrizio turbinava una fiera tempesta: io non la descriverò, imperciocchè porre il piede dove altri lascia l'orma non mi garbò mai e non mi garba: chi va dietro altrui non gli va mai innanzi, così Michelangelo Bonarroti lasciò per ricordo a me e a tutti quelli che ne vogliono approfittare: pertanto io, sentendomi pure incapace di precedere in niente nessuno, ad ogni modo desidero camminare con le mie gambe. Devo però avvertire che la conchiusione di Fabrizio mise capo a termine del tutto diverso da quello del Valjean; imperciocchè questi si risolvesse a magnanima azione, mentre Fabrizio si decise a partito in apparenza onesto, ma nel suo cuore sentito abietto; già incomincia a contentarsi che le sue azioni di faccia a sè e ad altrui paiano non sieno quello che dovrebbono essere. Ma la Francia è il paese dei miracoli; colà i galeotti solo (in grazia dei romanzieri, i quali ne spediscono loro le patenti) godono il privilegio di compire le belle imprese; in Italia la galera è galera; qui il ladro non avviene mai che sostenga la parte di Agamennone, mentre persone stimate dabbene troppo più spesso che non vorremmo commettono lamentabili bruttezze.

Fabrizio, presentita la Bianca se avrebbe provato repugnanza di presentarsi a S. E. il presidente del Consiglio dei ministri, per sollecitarlo allo adempimento delle promesse fatte in pro suo, sentì rispondersi da lei: magari! che non avrebbe fatto per avvantaggiare il suo caro marito e sè? veramente nel fôro della coscienza, come accade sempre, la sintassi procedeva in ordine inverso, che il veniva prima ed il marito dopo; alla quale diversità, d'altronde di poco rilievo, vanno ordinariamente soggetti gli umani pensieri nel viaggio che fanno dal cervello alla lingua.

Dunque ella andò.

Il ministro, un po' per iattanza, difetto che sta agli ingegni petulanti come i nèi alla bellezza procace, e un po' per le moltissime faccende che lo assediavano, soleva dare udienza dalle ore dieci di notte fino alle tre, alle quattro, e talvolta fino alle sei del mattino; nella libidine di lode costui si riprometteva che la gente udendo della sua prodigiosa solerzia dovesse esclamare: Atlante, sostenitore su le sue spalle il mondo, è redivivo; Briareo centimano, figliuolo del Cielo e della Terra, dall'olimpo ha trasferito il suo domicilio nel ministero dello interno!

Non avendo la Bianca riputato spediente chiedere udienza particolare, si mise in combutta con gli altri attendenti. Gli uscieri però, obbedendo al comando dei superiori, costumavano introdurre prima le donne, poi gli uomini, per la qual cosa se la Bianca non entrò per la prima, nemmeno fu l'ultima ad essere introdotta; messa dentro, si rinvenne circondata da tenebre, onde su quel subito pensò: i ministri sarebbero per sorte come i gatti, che vedono al buio? Ma ciò accadeva per essere vastissima la stanza e il ministro se ne stesse seduto davanti una immensa tavola nell'angolo opposto diagonalmente a quello ove si apriva la porta donde la donna era entrata, ed egli per giunta si riparasse dietro un grande paravento, per amore degli sbocchi di aria che irrompevano continui nella stanza da cinque porte, le quali senza posa aprivansi e chiudevansi: aggiungi che la lampada incappellata non ispandeva lume oltre una zona di poco più larga della tavola. La Bianca, confusa dal tempo, dal luogo e dal buio inaspettato, peritandosi a un tratto di comparire davanti a personaggio tanto spinto allo empireo dall'interesse di pochi e dalla pecoraggine di molti, si fermò, nè prese animo a muoversi finchè una voce squillante di piacevol suono le ordinava:

— Avanti!

La Bianca, essendosi sentita rimettere il cuore in corpo dalla benignità di cotesta voce, si fece innanzi graziosa e leggera...

Signora, o che la mi permetterebbe ch'io in due tocchi la informassi del come si presentò vestita la Bianca a S. E. il ministro? Veda, con uno schizzo mi sbrigo. Che la Bianca fosse una leggiadra femmina già io gliel'ho detto; forse più leggiadra che bella, ed anche questo, parmi non averglielo taciuto, sicchè fermi al chiodo del come apparve vestita: mi sembra vederla..... oh! senta. Portava un cappellino di velluto nero guarnito di una piuma nera cadente da un lato; la fodera di raso colore bianco-perla inquadrava (se avessi descritto il marito era più proprio il vocabolo incorniciava, parlando della moglie mi sembra stia meglio inquadrare) la sua magnifica capellatura, donde scaturiva il gambo di una rosa con alquante fogliuzze dintorno, la quale pareva si arrampicasse lungo la parete di raso bianco; la rosa era artificiale, s'intende, ma bisogna dire che non se ne sarebbe accorta la stessa natura, tanto compariva eccellentemente fatta. La venusta donna, a rendere più compìto l'inganno, l'aveva intinta leggermente nell'essenza di rosa. Se o busto, o imbottitura, o faldetta avessero emendato in lei qualche vizio del seno, o dei fianchi, per me non glielo posso dire; fatto sta che Diana cacciatrice non gli avria desiderati più belli, tanto fasciati dalla casacca di velluto nero cotesti della Bianca apparivano divini; non portava cintura, nè altro ornamento di sorta, eccetto due bottoni di diamanti agli orecchi ed uno spillo pure di diamante, che teneva appuntato un nastro intorno al collarino di punto di Malines: la gonnella di grossa stoffa di seta marezzata colore smeraldo; le mani brevissime e snelle coperte di guanti bianco-grigi pari alla fodera del cappello.

Il ministro con gli occhi fitti nel buio vedeva avanzarsi una figura, che di attimo in attimo rivelava maggiore avvenenza; e quando sul volto e la persona di lei, entrata nella zona luminosa, la lampada diede in pieno il suo splendore, egli rimase estatico a contemplarla.

Ed ella, signora mia, sarà bene che avverta, il ministro, quantunque due o tre denti finti avesse in bocca, e degli anni fra il tocco e non tocco verso i cinquanta, essere stato piacevolissimo uomo, lindo, attillato e di modi urbani quando se ne ricordava: con l'amore egli non aveva avuto mai baruffe; al primo assalto dava le mani vinte, a patto però che non lo incatenasse; ed ora con le parole di messer Francesco Petrarca, quel solenne maestro di amore, avrebbe potuto dire:

Io ardo quanto son men verde legno.

Come per ordinario avviene, la Bianca si trovò imbarazzata dello imbarazzo del ministro; si guardavano, tacevano, si riguardavano ancora, e non sapevano come rompere il diaccio; la stupidità aveva fatto loro nodo alla gola; nè so come la sarebbe ita a finire, se non avesse balenato un sorriso sopra le labbra di ambedue: per lui cotesto sorriso fece le parti di Mercurio; per lei quelle d'Iride: quegli messaggero di Giove, questa di Giunone: sciolto il gelo, le parole vennero giù anco troppe; la donna dritta come filo di spada al suo scopo, ch'era la promozione del marito e la croce dei soliti santi per giunta: il ministro si difendeva alternando uno scambietto a destra ed ora a sinistra, da mettere la disperazione addosso al più svelto toreador che siasi trovato a repentaglio co' tori meglio maliziati dell'Andalusia: accenna di sotto, vibra di sopra, batte finte, diritte, striscioni, manrovesci, fendenti, insomma tutte le industrie della scherma pose in gioco la donna (e bada ch'era tutto talento naturale non perfezionato dall'arte), sicchè il ministro, messo alle strette, soffiava come se avesse salite mezze le scale che avevano a condurlo in paradiso; alla fine, facendo uno sforzo, con accento risentito le disse:

— Mia signora, ho promesso promuovere il suo signor marito, ed anche ottenergli dalla liberalità del re nostro signore e padrone la croce dei santi Maurizio e Lazzaro, e non mi disdico; solo le piaccia ricordare ch'io ci apposi la condizione necessaria ch'egli rendesse prima al governo qualche servizio segnalato, il quale mi fornisse motivo plausibile per chiedere alla Corona siffatta liberalità, per non chiamarla parzialità; altrimenti, che cosa potrei io dire al re? Come giustificarmi di faccia all'opposizione?

— E che cosa è questa opposizione, che sembra darle noia?

— Ecco, nel Parlamento intervengono sempre due signore, una attempata e pingue come avvezza a non lasciarsi patire; l'altra più giovane e mingherlina perchè esposta a digiuni non comandati; la prima fa il mestiere di dire sempre; la seconda al contrario quello di dire sempre no.

— Ho capito, una specie di suocera e nuora; ho indovinato?

— Giusto, così a un dipresso com'ella dice.

— Non le si dà retta e si tira innanzi pel nostro cammino.

Circum circa è quello che vorrei fare sempre io, ma qualche volta non riesce, e qui sta il guaio dei governi costituzionali; ma, per tornare al nostro proposito, il servizio che posi per patto alla promozione del suo signor marito egli potrebbe renderlo, ed io lo so... veruno lo sa meglio di me; e conoscendolo in facoltà di farlo, dalla sua renitenza arguisco il mal volere. Un partito, mia signora, o piuttosto una setta quanto debole di numero, altrettanto potente di scelleraggine e di audacia, cospira a mettere sottosopra l'ordine sociale e rovesciare la monarchia: importa spengere il male nei suoi primordi: ora, il suo signor marito conosce questi colpevoli conati quanto me... più di me... altro non dico; questo gli riferisca... adempia il debito suo, ed io non mancherò al mio.

La Bianca capiva, e non capiva, ma uscendo a cotesto mo' dal ministro, le sembrava tornarsene a casa con le mosche in mano, onde insisteva per cavargli di sotto qualche cosa di attuale, di effettivo, sicchè nell'ardore della perorazione piegò alquanto il fianco su la tavola, e abbandonato il busto sopra il braccio destro, con la mano si fece a puntellare il volto, di cui gli occhi brillavano di lacrime e i labbri raggiavano di sorrisi: un giorno di primavera.

Mi rincresce proprio che qui la similitudine del rospo e del cardellino non c'incastri, perchè nè anco con le tanaglie si potrebbe paragonare la Bianca con un rospo, molto meno il ministro a un cardellino, e tuttavia questi sentivasi attratto irreparabilmente verso di quella; ma egli, facendo uno sforzo supremo e appuntellate le mani ai braccioli del seggiolone, si alzò di scatto, e porta con bel garbo la destra alla Bianca, così le andava susurrando negli orecchi:

— Mia signora, ella è troppo bella, nè io abbastanza vecchio perchè la sua prolungata dimora qua dentro non dia luogo a commenti ingiuriosi alle persone che qui fuori aspettano impazienti: a me preme troppo la sua reputazione, mia bella signora, per patire che ciò avvenga... mi conceda pertanto il piacere di accompagnarla... e così dicendo si accostava bel bello verso la porta.

La mano di lei aperta e nuda posava sopra la mano aperta e nuda di lui, ricambiandosi fiumane terribili di fluido elettrico; i globuli del sangue al ministro pareva che gli corressero il palio a campanile dentro le arterie verso il cuore; per la quale cosa costui, da quel sagace diplomatico che egli era, per lasciare l'addentellato a nuovi avvenimenti, intantochè l'accompagnava, lasciò cadere, come monete in terra per tentare altri a raccattarle, queste parole:

— Dove mai... se per avventura (locuzione piemontese proprio del Piemonte) si desse il caso.... se ella reputasse spediente... di suo interesse... avere un'altra... qualche altra conferenza meco... ella adesso conosce a prova come il luogo meno adatto per trattare meco di affari sia per lo appunto il ministero...

Al che la Bianca rispose prontissima:

— O chi para, solo che piaccia a lei, vederci altrove?

E questo la donna disse con tanta ingenuità e suono naturale di voce, che il ministro ci rimase preso, onde per non indurla in sospetto egli si trattenne da stringerle la mano, anzi con accento un po' burbero aggiunse:

— Ebbene, vedremo... ella tenga in sè... occorrendo... sarà avvisata fino a casa.

Si separarono, e la Bianca scendendo le scale mulinava nel segreto dell'animo questi pensieri: — come sono baggiani questi uomini che la trinciano a talentoni: o per le corna, o per le orecchie, o per la coda, noi altre donne li agguantiamo sempre quando ci piace. Credono menare e sono menati, come dice Mefistofele del dottor Fausto.

Di fatti certo dì, per mezzo di discreto messaggero, ella ebbe avviso, il ministro aspettarla nel proprio palazzo; l'ora assegnata giusto quella in cui Fabrizio correva come gatto dietro ai trucioli, a perseguitare volgari facinorosi; in capo alla via una carrozza chiusa l'attendeva; entrerebbe in palazzo non già per la porta maestra, sibbene per la porticina, che si apriva su di un vicolo. — Ella intese e andò.

Andò, e da quel giorno in poi i diamanti da lei venduti furono ricattati; nè questo solo, ma ai diamanti di stras, che per penuria di moneta ella aveva tenuti fin lì mescolati co' buoni, ne surrogò altrettanti per purezza di acqua mirabili. Il marito poi non si accorgeva di niente, come quello che inesperto di siffatte novelle non sapesse distinguere i brillanti dai culi di bicchiere.

Fabrizio, per le insistenze della moglie, e per le pittime del socero, aveva messo il cervello a partito in traccia del modo di soddisfare ai desiderii del ministro; pensandoci su comprese come gli sarebbe tornato facile ad un punto e difficile: anche per lui tutto stava nell'allungare la gamba e saltare il fosso (chè la similitudine del passo del Rubicone è troppo pomposa) alla maniera del Menabrea, e la sua coscienza errava di su e di giù a guisa di anima lungo le rive dell'Acheronte, che non si trovi l'obolo in tasca per pagare il navalestro infernale; provava la sensazione dello arrostito vivo a lento fuoco; forse sarebbe morto col picchiotto della porta del delitto in mano, sempre incerto di battere per farsi aprire, ma un punto solo fu quello che lo vinse.

Ai quotidiani vituperi discorsi, scritti e stampati co' quali lo perseguitavano gli antichi compagni, se ne accrebbe un altro, che veramente colmò la misura: pubblicarono un foglio a guisa di avviso di asta, mediante il quale si fingeva dare ragguaglio dell'esito dello incanto a cui erano state esposte persone diffamate, fra le quali il presidente Vinneri, il sostituto procuratore regio Fabrizio e la Bianca moglie di lui: mediante cotesto foglio informavasi il pubblico che il Vinneri, come roba di presa, era stato comprato per un sacco di ossa; di Fabrizio essere andato deserto lo incanto, perchè il governo lo voleva acquistare col ribasso del venti per cento sul prezzo di stima; la Bianca liberata a S. E. il presidente del Consiglio dei ministri con la riserva dei vizi redibitori.

Il mordace libello destò nei maligni, vale a dire in sette ottavi dei cittadini, risa inestinguibili; per due o tre giorni la marea crebbe, poi cadde, dove caddero sempre vizi e virtù, eroi e furfanti — nell'oblio. — Però lo ingiuriato non dimentica nulla; segna la ingiuria con una tacca nel cuore e lo pone in custodia alla vendetta.

Quantunque ognuno dei tre presi di mira dal libello famoso dovesse rifuggire da tenere proposito di cotesta brutta avventura, pure riuscì loro impossibile tacerne del tutto. Il Vinneri ogni discorso circa cotesto argomento finiva stendendo l'indice sul piano del tavolino, come se intendesse ficcarcelo a forza, e con una maniera di squittìo ripeteva: — Adagio, veh! a modino, ma senza pietà.

La Bianca, al contrario, avvampava, le braccia menava in giro smaniosa come ale di molino a vento, trasaliva convulsa minacciando nientemeno che gettarsi dalla finestra se il marito non la vendicava: — Venti... venti giovani animosi, se fosse rimasta fanciulla, a quest'ora si sarieno presentati a vendicare la sua fama: non avere unita la sua sorte a quella di un uomo per trovarsi impunemente insultata; — però Fabrizio, buio, volgeva nell'anima cupi pensieri; andava a se stesso dicendo:

— Potrà il mio socero accusare di calunnia chi lo vitupera carnaccia venduta? E non è forse vero che io mi vendei, e che ora sto per rivendermi? E Bianca... non è ella figlia di suo padre... e moglie mia?...

E levava gli occhi infellonito sopra la donna amata, ma questa presentava la bellissima sembianza così umilmente pura, così baldanzosa di santa fierezza, che un angiolo ci si sarebbe posato sopra prima di spiccare il volo verso casa, cioè al cielo.

Non vengano fuori a magnificarmi l'acqua di Felsina, nè il Cold Cream degl'inglesi, e nè manco i produits de la société hygiénique de Paris... perchè a levare ogni rossore dal viso, e fare in modo che non ci compaia più, non ci è quanto l'acqua benedetta che faccia la mano di Dio, e la Bianca ci si lavava due volte il giorno almeno. Dove il diavolo fece pasqua fu quando Fabrizio, ventilate le probabilità della innocenza e della colpa di sua moglie, conchiuse:

— Se l'oltraggio è falso, merita vendetta una volta sola; se vero, due; perchè nel primo caso si tratta di esaltare la innocenza, nel secondo seppellire la vergogna, e me danneggia più la infamia, che non avvantaggi l'onore: mi vendicherò! — Queste parole parvero il tonfo che fa la lapide lasciata andare nello incastro del sepolcro; — di vero Fabrizio con quelle parole chiuse la bocca dello avello della sua coscienza, recitandovi sopra: requiescat in pace.

Adesso, pel buono intendimento del racconto, ci occorre ricordare come i veri e primi fattori della restaurazione italica, avendo sperimentato truci non meno che implacati persecutori tutti i principi così domestici come forestieri, non escluso, anzi capitale fra essi, quello che dai cortigiani si suole ora chiamare magnanimo, si dedicassero interi al culto della repubblica. Allorchè poi la prepotenza dei casi costrinse Carlo Alberto, per interesse di regno, a zelare la salute della nostra patria, non gli bastando a tanta mole le armi regie, accolse, lusingando, le forze rivoluzionarie, per avventura male atte ad assettare gli Stati, a vincere tirannidi potentissime; e queste subito e lealmente si strinsero a lui, o perchè più della libertà amassero la patria, o perchè supponessero invano affaticarsi per la libertà se prima non si fondava la patria, o perchè sbagliassero. Condotte a felice compimento le guerre patrie, molto per fortuna e un poco per virtù di popolo, quali lo ingegno e le opere dei repubblicani? Vari i concetti. Taluno avrebbe aderito alla monarchia, nella fiducia che s'ella si mostrò inferiore alla sua fama su i campi di battaglia, si sarebbe fatta perdonare la sua sconcezza in guerra procedendo laudabilmente negli studi di pace. Altri più severi vollero mettersi da parte, come quelli che andando convinti la monarchia non potere vivere se non di sangue della libertà, pure aborrivano, per compiacere ai propri concetti, mettere a subbuglio l'ordine pubblico; così la monarchia non avversata avrebbe potuto fare le sue prove seguendo il corso delle vicende umane. Colpa o fortuna (ma si reputò colpa) in breve parve la prova fatta; la monarchia giudicata; opera perniciosa patirla; peggio aiutarla. Ecco, affermarono i repubblicani, per maligna virtù della monarchia la Italia annega dentro un pantano di viltà due cotanti più funesta delle vecchie e molteplici tirannidi: di libertà non parliamo, e nè di senno amministrativo, e di virtù militare, nè di tutto quello onde un popolo fiorisce in casa e sale in fama fuori, e conchiusero rispetto alla monarchia a mo' di Catone Seniore in odio a Cartagine: Monarchia delenda est. Però, ripigliando le armi contro la monarchia, i repubblicani non si sono trovati d'accordo sul modo di combatterla non ci cadde screzio, ma nè anche vi ha concerto: vecchi taluni, molti i giovani, e ogni dì crescenti. I primi, secondochè la esperienza li persuade, assai si ripromettono dal tempo, che matura i frutti della repubblica tanto al sole della libertà, quanto col fracidume dei regali strami; gli altri scalpitano impazienti, di nulla si fidano che non sia taglio di spada e di niente si compiacciono se non sia scerpato di stianto: quelli più che nelle armi pongono speranza nello intelletto; questi più che nello intelletto nelle armi: i primi operano a cielo aperto con la parola e con gli scritti, e come alla Musa chiesero un giorno la patria, e l'ebbero, così adesso implorano libertà dalla scienza e dalla virtù, dannando agli dei infernali la miseria e l'errore; gli altri non respingendo simili partiti, esito più sicuro si aspettano e meno tardo dall'opera delle mani: quindi, ragni indomati, eccoli a rinnovare la fiera tela delle cospirazioni; armi apparecchiano e munizioni; provvedono danaro; si visitano nelle tenebre, con le speranze si esaltano, con le minacce e con le pene, se occorre, spaventano; niente li atterrisce, perchè il pericolo contiene in sè qualche cosa d'inebbriante; e il martirio esaltando gli spiriti novera a migliaia gli eroi; di nulla patiscono difetto, perchè reputano gloria levarsi il pane dalla bocca per darlo alla libertà: niente li trattiene, perchè per loro il coltello è materia al sacramento di morire combattendo la tirannide: si danno, per così dire, scambievolmente la disciplina con due flagelli del pari laceranti, comecchè uno composto di odio e l'altro di amore. Le astrattezze di costoro, che appaiono a primo aspetto più che divine, dove avvenga che trovino ostacolo diventeranno meno che umane; non aborrita la insidia; santificato il tradimento; tutte le sètte così; e Roma, perpetua setta, non tuffò il pugnale nell'acqua santa?

Mel diè il gran Sisto, e il benedisse pria. Giustizia, urlano, giustizia a modo del tremendo Dio degli ebrei; e vuol dire sterminio: a terra dunque i monumenti testimoni di vecchie e nuove tirannidi; dilaghiamo sopra le città maledette una alluvione di fuoco: o che Dio ed i re hanno soli il privilegio d'incendiare Sodoma, Gomorra e Mosca? Anche il popolo ha fame di fiamme come di pane, e non ruba a veruno l'arnese per accenderle.

Di parecchie delle più scapigliate sètte torbidissimo socio era stato Fabrizio; capo non già, che i capi delle congiure ai giorni nostri sono pochi, e non compariscono; quei che si mettono, o lasciano che si mettano innanzi, e' sono materassi e balle di lana, che gli antichi ponevano penzolone intorno alle rocche per ammortire la veemenza delle palle balestrate dalle bombarde nemiche; e d'altra parte la setta è la tenia di qualunque governo, che lo roderà irrimediabilmente se non arrivi a estirparne il capo, e forse non gli gioverà nè manco questo, perchè il talento di opposizione sia parte inerente alla natura umana, e le cause dell'opporsi non mancheranno mai.

Chi conosce Fabrizio ormai sa se costui nella sua superba prosunzione fosse uomo da accomodarsi sincero alla disciplina che vuole gli uomini tutti uguali ed in tutto; costui si buttava in terra come i Titani per cavarne forza a primeggiare su gli altri.

Avverto che ho scritto Titani così per dire, imperciocchè i cospiratori volgari più che ad altro si rassomigliano ai formicolai, dai quali, ove tu li scompigli con la punta del piede, vedrai uscire frotte di formiche spaventate; però come le formiche presto si rassembrano, e rimessi dalla paura minacciano; quando si accorgono che veruno li bada, allora profetano; persuasi poi che la stirpe dei profeti finì con Malachia, salgono in bigoncia del diario settimanale (respiro corto della democrazia) e quindi maledicono come il papa maledice; chi butta loro un tozzo e chi una sassata; per ultimo sgonfi dopo avere sognato dittature, ministeri e tribunizi troni, e repubblicane lussurie, vanno a finire ricevitori del dazio consumo; taluno guardia di pubblica sicurezza o deputato.

I veri capi potenti d'ingegno, di virtù e di tenacità, subodorati gli spiriti cupidi e soperchiatori di Fabrizio, avevano praticato con lui il vecchio insegnamento: loda il matto e fallo correre; sicchè egli ormai persuaso essere l'anima della congiura, e senza di lui non potersi far nulla, non si dava più posa; egli visitatore notturno, egli arringatore ruinoso; superlativo sempre nei consigli, nelle parole, e nei gesti; egli inesausto scrittore di proclami incendiari, viaggiatore, arrolatore, collettore e propugnatore dei partiti più disperati; e mentre il povero uomo sè reputava maestro di cappella, in somma lo annoveravano fra i secondi violini appena.

Un'altra cosa avverto, ed è la strana facilità con la quale parecchi cospiratori, anche dei principali, a mo' di esempio il Mazzini, si commettano alla fede altrui; si comprende come ciò derivi da quella stessa necessità che sforza il marinaro ad esporsi alle tempeste; nè fin qui, ch'io sappia, fondaronsi compagnie di sicurtà per le congiure, come pei sinistri della navigazione: al genio del male è pur mestieri pagare la gabella; basta che le radiche restino; i ribelli sono e si chiamano legione.

Fabrizio pertanto nell'arduo mestiere del cospiratore si era scelto un fratello di arme, un altro sè stesso: pieno del sentimento della propria infallibilità, non chiese informazioni, ed avvertito che il nuovo amico Sotero viveva insieme col padre, speziale di Corte, che con devozione pari aveva ministrato cristei a tutti i reali di Savoia, e però stimavasi universalmente fedelissimo servitore della monarchia, egli giudicò avere trovato proprio il fatto suo, cioè uomo e luogo sicuri per depositare le carte del conventicolo; come di vero egli gli consegnò, perchè nella paterna casa costui li conservasse, tutti i documenti di propria mano stesi o ricevuti da altri, relativi a quanto a suo intuito era stato operato.

Innanzi di dare principio al perverso disegno concepito nella sua mente, Fabrizio pensò alla necessità suprema di ricuperare cotesti fogli; quindi di notte tempo avuti a sè un giudice istruttore e parecchi giandarmi, ordinava loro che in quella medesima notte eseguissero alla chetichella diligentissima perquisizione in casa Sotero; non omettessero stanza nè stambugino, nè per opposizione alcuna si arrestassero; ed essendosi accorto che il giudice d'istruzione esitasse, come quegli a cui pareva, e non lo tacque, che la cosa non procedesse a termine di legge, Fabrizio gli disse:

— La non si confonda, così siamo intesi con chi fa la legge, ed io piglio tutto sopra di me; solo raccomando discretezza.

Come venne loro ordinato, il giudice istruttore e i giandarmi eseguirono con garbo bellissimo e precauzioni infinite, onde i casigliani non si accorgessero dell'accidente. Rovistarono, rimuginarono fino a farsi colare il sudore dentro le scarpe, ma non rinvennero nulla. All'ultimo, dopo quattro e più ore di ricerche inutili, presero, per non parere, un fascio di carte come venivano venivano, e il giudice piegato il capo all'orecchio di Sotero gli sussurrò:

— Sono dolente...

— Ho inteso, rispose Sotero, le hanno dato l'incarico di menarmi in prigione? — E rideva, perchè hassi da avvertire che costui, fino dal principio della perquisizione, non aveva smesso di ridere, non per braveria, o per beffe, bensì proprio di cuore, sicchè il giudice istruttore n'era rimasto più di una volta sconcertato.

— La è cosa da nulla, sa, viviamo in certi tempi, che questo benedetto governo ha paura di tutto, e questi benedetti giovani, bisogna pur dirlo, non cessano un momento di metterlo in orgasmo.

— Capisco, una bagattella da andarmene all'ergastolo a vita: articolo 156 del codice penale. Non è vero, compare? — E così favellando percoteva familiarmente la spalla del giudice. — Pazienza! Ebbene, dov'è il mandato di cattura?

— Eh! essendoci io stesso, che sono giudice, non parve necessario il mandato.

— Che diavolo dice mai, signor giudice! O gli articoli 188 e 192 del codice di procedura penale gli ha ella messi nel dimenticatoio?

— Ma senta, non si tratta mica di condurlo in carcere per un fatto preciso che le venga imputato, bensì per un certo tal quale riscontro che preme all'autorità superiore.

— E qual è di grazia questa autorità superiore?

— La discretezza, signor mio, capisce bene... non mi permette...

— Io capisco che il nome dell'autorità che ordina la cattura dev'essere espresso sul mandato; dov'ella non me lo dichiari, protesto non venire.

— Via, non faccia da cattivo... stia bonino... tanto con lei si può parlare — e a voce sommessa bisbigliò il nome di Fabrizio.

Allora sì che le risa rinnovaronsi più strepitose che mai, e quando Sotero l'ebbe alquanto quietate riprese:

— Non occorre altro... andiamo. Babbo: a rivederci domani... forse prima che faccia giorno... ad ogni modo non mi aspetti a colazione... andrò al caffè.

A piè dell'uscio li aspettava una carrozza, dove il giudice con perfetta compitezza invitò Sotero a salire, dopo entrarono i due giandarmi, ultimo il giudice.

— E adesso in prigione! esclamò Sotero appena adagiatosi in carrozza; ma il giudice, che si sentiva addosso lo sgomento per la singolare baldanza dell'arrestato, subito di ripicchio:

— Ma noe... ma noe... semplice arresto, non equivochiamo.

— Eh! tra carcerato in arresto e arrestato in carcere mi pare non ci possa cadere equivoco. Ma ciò non monta: stanotte a V. S. non garberà interrogarmi, perchè vedo che casca dal sonno, ed io non canzono; dunque dormiamo; domani a quale ora V. S. giudica essere in comodo d'interrogarmi?

— Secondo i casi... perchè, capisce... noi altri...

— Non ci è casi che tengano, ho bisogno saperlo per assestare gravi interessi. Se ella vorrà di tanto essermi cortese, io le prometto cucirmi la bocca sopra le irregolarità della perquisizione e dello arresto, dove posso trovare materia da farlo cacciare dieci volte almeno dallo impiego...

— Oh! che dice mai? esclamò il giudice atterrito; e Sotero rincalzando:

— Dunque, cortesia per cortesia.

— Ebbene, tra le dieci e le undici le garberebbe?

— Sia come vuole, la prigione è fatta apposta per aspettare, ed io non ho fretta...

— Siamo intesi, tra le dieci e le undici?

— Sì, signore.

Se l'arrestato non era, al malcapitato giudice non riesciva assicurare la sua presa in prigione, imperciocchè il direttore delle carceri si rifiutasse ricisamente a riceverlo, non gli parendo che la cosa procedesse in regola; per levare il vino dal fiasco intervenne Sotero, il quale assicurò il direttore non sospettasse di guai; egli stesso pregarlo a dargli ospitalità per cotesto scorcio di notte, perchè il suo ritorno in cotesta ora a casa avrebbe dato disturbo, ed egli non reggersi in piedi.

— Come così è, rimanga servito — e lo condusse in una celletta bella e apparecchiata, perchè i direttori delle carceri usino tenere allestite le prigioni come i becchini le fosse; tanto da un punto all'altro non può mancare chi le riempia. Fu calcolato che delle creature umane ne muoia per tutto il mondo una per minuto secondo, vorrei sapere a ragguaglio di tempo quante ne vadano in prigione.

La mattina di poi Sotero, prima delle sette, fece chiamare il direttore, e coll'aria spigliata di persona usa di favellare con sottoposti gli disse:

— Signor direttore, voglia avere la compiacenza di procurarmi quanto occorre per iscrivere una lettera.

Ebbe il necessario: scrisse la lettera, la sigillò e poi sporgendola al direttore incominciava:

— Ella farà in guisa... — Ma il direttore interrompendo rispose:

— Io non posso acconsentire che di qui escano lettere senza il visto dei giudici istruttori...

— Anzi, Sotero prosegue senza neppure badarlo, mi occorre ch'ella si pigli il disturbo di portare da sè questa lettera e attenderne la risposta. Come V. S. può vedere, io la dirigo a S. E. il presidente del Consiglio dei ministri; lo troverà senz'altro nel suo palazzo, dove ella non indugi ad andare; prenda questa carta e la dia al servitore perchè la passi al signor presidente, e vedrà che non la faranno attendere.

Anche in cotesta occasione si trovò vero il proverbio che il mondo è fatto di cui se lo piglia; il direttore a sua posta rimase soggiogato, e sì che burbero uomo era, e se sopra di lui premeva una legione di uomini che lo costringevano ad obbedire, troppo maggiore egli ne calcava un'altra sotto di sè, che sforzava a obbedirgli: umilissimo si prestò ai comandi di Sotero, e tolta la lettera si affrettò portarla al suo destino: avendo per curiosità gettato lo sguardo su la cartolina, lesse scritto: da parte di, e poi stampato: Sotero B.; per la quale cosa strettosi nelle spalle, mulinava fra sè: o costui è pazzo, o qui l'oste ha sotto il gatto.

Di vero accadde al direttore giusto quello che gli aveva presagito Sotero.

Il giudice istruttore il giorno appresso, puntuale meno per la parola data che per la curiosità di vedere la fine della strana avventura, alle dieci e pochi minuti si presentava alle prigioni, dove il suo stupore crebbe trovando Sotero seduto davanti una mensa fornita alla grande, che faceva colazione, il quale, scorto appena il giudice, lo invitò gentilmente a tenergli compagnia, e siccome questi si scusava, egli insistendo diceva:

— Andiamo via, io la consiglio a fare buona provvista di forze, dacchè ella avrà a sostenere meco lunga battaglia e faticosa; intanto ordini al signor cancelliere di allestire carta, penne e calamaio, insomma tutto l'armamentario necessario alla operazione.

Il giudice non abbocca, sicchè Sotero continua sempre in tono dileggiatore, per la qual cosa il giudice stava fra due, se dovesse senza cerimonie astringerlo all'interrogatorio, ovvero pigliare la lepre col carro; giunto al caffè, Sotero, sempre gentile, ne profferiva una tazza al giudice aggiungendo:

— Oh! una tazza di caffè non si rifiuta mai: per lui si mantengono gli spiriti vivaci; dicono che i veneziani ne fanno grande uso appunto per non cascare addormentati nelle lagune; — e in così dire lo mesceva al giudice male repugnante.

Intanto il cancelliere, avendo compìto il debito suo, si baloccava con la penna fra le dita, impaziente come un barbero al canapo. Sul più bello, e mentre Sotero forbitosi la bocca diceva al giudice: — Eccomi da lei — entra nella stanza il direttore, e con atteggiamento del devoto, il quale riverisca il santissimo Sacramento, accostasi a Sotero, che con aria da protettore gli dice:

— Ben levato, direttore, che abbiamo di nuovo?

— Signore... signore... scusi... perchè io non vorrei mancare al rispetto dovuto a V. S... ella è cavaliere?

— Potrebbe darsi... ma non me ne rammento... ad ogni modo tiri innanzi, che cavaliere o no, non fa caso.

— Ebbene, abbiamo che V. S. è libera, liberissima di andarsene quando le pare e le piace; anzi le dichiaro che qui dentro io non lo potrei più tenere; se vuole favorire nel mio appartamento io me lo recherò a grazia superiore alle mie speranze.

— Bene... bene... grazie... me ne approfitterò per un'altra volta.

— La si accomodi, ma si ricordi di avere in me un umilissimo servitore.

— Alla occasione ce ne rammenteremo.

Il giudice stava a bocca aperta, non sapendo in qual mondo si fosse; ma riavutosi dal primo sbigottimento, lo istinto sbirresco del male captus, bene detentus[32] prese il disopra alla prudenza, onde levatosi con viso acerbo esclamò:

— Come può essere questo? Badi, signor direttore, a quello che fa! Lei corre rischio, nientemeno, di perdere l'impiego.

— Caro avvocato, pensi ella ai casi suoi, che per dare retta a lei ho corso pericolo di trovarmi sul lastrico: favorisca di qua...

E condottolo nello scrittoio, aggiunse.

— Veda, io mi sono salvato per miracolo — e così dicendo gli pose sotto al naso uno scritto breve, il quale sonava così:

«Illustrissimo sig. cav. direttore,

«Per ordine superiore e per servizio di Stato, metta immediatamente in libertà il signor Sotero B. senza trattenersi a cosa in contrario.

« Il Presidente del consiglio dei ministri N... »

Il povero giudice allora, trasecolato e atterrito, interroga il direttore:

— E chi diavolo è costui che pare tanto potente? Forse un principe?

— Più.

— Un cavaliere della Santissima Annunziata?

— Troppo più.

— Un figlio bastardo di...?

— Più ancora, più ancora: lo vuole sapere?

— Magari.

— Glielo dirò, ma buci — e in così dire si pose l'indice lungo la bocca e il naso — egli è una spia.

Rientrarono, e Sotero ordinò al direttore mandasse per una carrozza, la quale venuta, il direttore e il giudice si fecero debito di accompagnarlo sprofondandosi in inchini. Il cancelliere poi mantenne la sua dignità sapendo che i premi non erano per lui, e guai non ne temeva,

.... che il folgore non cade

Su basso pian, ma su l'eccelse cime;

onde con la compostezza medesima con la quale aveva disposto i suoi arnesi, li rimise dentro per adoperarli in pro di qualche altro più fortunato di Sotero. Arrivato Sotero allo sportello della carrozza, stesa la mano al direttore, lo ringrazia della cortese ospitalità, accertandolo ne avrebbe conservata buona memoria.

Qui si trasse innanzi il giudice, il quale belando gli si raccomanda a non tenere rancore contro di lui; pensasse al suo stato di subiezione, sempre e poi sempre costretto, anche contro la sua volontà come contro coscienza, ed in ispreto della legge ad obbedire.... ah! se non fossero cinque figliuoli e la moglie che gli stanno alla vita, quattro più che i serpenti a Laocoonte; ma ormai ci sono... mi raccomando in visceribus; — ci contentiamo non ci faccia male; metto me, i cinque figliuoli al suo servizio.

— Io non la tengo in parola, sarebbero troppi. La si calmi, non sono vendicativo io; nè so vedere in che ella mi abbia offeso: sappia che approvo e lodo gli impiegati zelanti, i quali senza tante invenie obbediscono agli ordini dei superiori quali essi sieno; — anzi, in prova di perfetta amicizia, si compiaccia salire in carrozza col signor cancelliere, che vo' procurarmi l'onore di accompagnarla. In carrozza ha condotto me, in carrozza permetta che io conduca lei.

— Ma le pare! Adesso mi corre il debito andarmene difilato a informare di quanto accadde il signor sostituto del regio procuratore.

— Tanto meglio, che io pure mi dirigo costà, e pel suo medesimo motivo.

— Come così è, andiamo.

Sotero persuase facilmente il giudice a lasciarlo discorrere con Fabrizio prima di lui, che con quattro parole avrebbe dato recapito ad ogni cosa, risparmiandogli forse parecchie mortificazioni; per ciò, mentre se ne stavano dinanzi la porta del regio sostituto, Sotero, girata all'improvviso la maniglia, penetrò nella camera di Fabrizio senza che l'usciere lo annunziasse. Fabrizio, crucciato ad un punto e spaurito, afferra i braccioli della sedia e si leva su a scatto; senonchè Sotero gli si pone ridente a sedere di faccia, dicendogli:

— Non ti disturbare; rimanti assettato, che io vengo ad informarti di faccende meritevoli di tutta la tua attenzione. Nel cammino nel quale ti sei messo, caro Fabrizio, è mestieri maggiore cautela di quella che hai mostrato fin qui; altrimenti tu farai il viaggio dei gamberi. Tu hai mandato stanotte ad arrestarmi fustibus et gladiis, ed hai commesso tre solenni scappucci; non t'inquietare, stai attento, Fabrizio, e' sarà per tuo bene; primo scappuccio; d'ora in avanti, quando procederai ad arresti di persone prevenute del delitto che mulini apporre a me, bisogna tu gitti la rete in tondo e ne faccia tutta una giacchiata, altrimenti i colombi ti scapperanno...

— Sotero, io non sono qua...

— Ed io, Fabrizio, sono qua per istruirti; dunque stai zitto e attento; scappuccio secondo, tu mi hai fatto arrestare senza mandato: per questa volta non ci è danno, ma non ti ci avvezzare. Signore! abbiamo tanti mezzi di fare tutto quello che ci piace in buona regola, che la è proprio da collegiale spencolarsi senza pro. Nei paesi liberi come il nostro la illegalità tu t'hai a figurare che è un grimaldello, il quale ti apre le dieci e le venti serrature ma all'ultimo ne incontri una dove ce lo rompi dentro con tuo danno e discredito della magistratura. E tu a quest'ora avresti a sapere che le brutte e le bruttissime cose ai superiori piacciono a patto che tornino utili e non mettano il campo a rumore; ripeto, con me non ci è danno, ma tu non lo sapevi; però l'esito non discolpa la tua sconsideratezza. Terzo scappuccio: prima di arrestarmi hai tu cercato di conoscere ch'io sia, e se poteva io fare più male a te che tu a me, e se avrebbe giovato meglio al tuo assunto ch'io stessi in prigione, ovvero fossi libero?

— E in che tu puoi nuocere, in che giovare? Chi sei? Che sospetti?

— Io non sospetto; per debito di ufficio, a cui adempio troppo meglio che tu al tuo, io sono al giorno del processo che stai fabbricando, però aspettava da un punto all'altro di essere chiamato da te per metterci d'accordo...

— Debito di ufficio! Ma tu chi sei? Chi sei?

— Io sono, rispose Sotero con certa aria solenne, studiando inverniciare di onestà la sua ribalderia, io sono un fedelissimo suddito del re nostro signore e padrone; figlio di un padre che ha servito sempre con devozione i suoi sovrani, uno che fu allevato, beneficato e largamente favorito dai nostri principi, che Dio feliciti, in parte per compenso dei servizi resi dai suoi maggiori e in parte per incoraggiamento a renderne dei nuovi... quindi io, Fabrizio, posso vantarmi di avere fatto sempre il mio dovere; il soldato difende il sovrano dai nemici esterni; noi lo difendiamo dagl'interni... in apparenza diverso e col consenso dei superiori, in sostanza sempre lo stesso... non ho mutato mai... capisci; non ho mutato mai.

— E le carte che io ti consegnava! esclamò Fabrizio, picchiandosi forte della palma aperta la fronte.

— Io le consegnai religiosamente nelle mani del ministro dello interno; quelle che venivano da te egli ritenne; le altre, sempre di commissione superiore, affidai a quell'energumeno di Zaccaria Recanati, che la trincia da Giuda Maccabeo della repubblica, vuole annegare tutto il genere umano nel Mar Rosso; non gli basta il petrolio, invoca un diluvio di fuoco come a Gomorra, sicchè per le sue sgangheratezze è cascato in uggia anche ai compagni... a lui preme principalmente schiacciare la testa... non già perchè il più pericoloso, ma sì più chiassoso.

E qui avendo notato la faccia disfatta di Fabrizio e lo abbattimento che si era impadronito di lui, per dargli coraggio riprese:

— E ora che costernazione ti piglia? Se il governo ti dà mano a imprendere questo processo (ed io mi ti offerisco disposto a dartene due), ciò ti dichiara espresso che delle tue carte non fa caso, nè te le mette a carico: per me giudico che a quest'ora ei le abbia distrutte: anche in questo io mi ti proffero per aiutarti, e sta' sicuro che quando ti dirò io: poni il piede qua, tu non affonderai nelle fitte. Per ora addio. Se mi vorrai, manda per me di notte come di giorno, e risparmia giandarmi, chè io appartengo alla specie degli agguantatori e non all'altra degli agguantati. Qui fuori aspetta il giudice istruttore, quasi basito dalla paura di perdere l'impiego: rimettigli il cuore in corpo; però negli affari che ti premono non ti valere di lui: di denti non manca, ma per tuo governo sappi che non è can mastino abbastanza, e poi svagella dalla miseria... e addio.

A Fabrizio uscì di mente il giudice; costui coi pugni chiusi e le braccia tese, lo sguardo fiso, immobile in tutta la persona, stette lunga ora: pareva una sfinge di granito: quello che lo molestasse potrebbe forse argomentarsi da queste parole, ruggite piuttostochè discorse, le quali posero fine alla sua distrazione:

Ait latro ad latronem; il ladro sta bene coll'assassino.

Ercole al bivio: se non che delle due vie che occorrevano dinanzi a lui, una menava alla virtù e l'altra alla perdizione; mentre entrambe quelle che si paravano davanti a Fabrizio conducevano alla perdizione; ma l'una diritta e senza intoppi fino allo inferno, l'altra prima di arrivare allo inferno incontrava per via un baratro dove si sarebbero inabissate la fama e la fortuna sue, e da questa aborriva; ond'è che, sedendo a mensa con la moglie, poichè rimase lunga pezza a tavola, all'improvviso ruppe il silenzio dicendo:

— Sai tu, Bianca, che cosa ci è di nuovo?

— Che mai? domanda la donna rimescolata.

— E' ci è che io non posso più, come ti aveva promesso, vendicarti, e con te l'onor mio.

— E perchè? rincalza la moglie con batticuore crescente.

— Domandalo al presidente del Consiglio dei ministri, tuo amico.

La Bianca per poco non cadde tramortita, tuttavia agguantandosi con femminile protervia alla dissimulazione, ultima tavola dei naufragi femminili, ella continua:

— O com'entra qui S. E.?

— Oh! egli ci entra più che io non vorrei... più di quello che io possa patire.... ci entra per modo ch'egli mi chiude ogni via alla vendetta... egli diventa complice dell'onta che mi fanno.

— Ahimè! ahimè! mi sento morire.

— Non morire ancora, che non ho finito; non morire, Bianca, che tu, vedi, potresti rimediare a tutto.

— Io? E come potrei? Basta... prescrivi il tempo e il modo; mi proverai quale più mi vuoi, ancella o moglie... se mancherò perdonami... l'avvilimento in cui cademmo... la debolezza del sesso mi hanno offuscata la mente.

— Svegliati, che adesso ci ha mestieri della tua sagacia: è necessario che tu ritorni subito dal signor presidente.

— Io? Il presidente? E perchè? disse la donna con voce strangolata; e Fabrizio pigliando lei che tremava come vetta, le zufolò dentro gli orecchi:

— Il ministro possiede carte di mio, le quali, sebbene scritte in altri tempi, pure mi chiarirebbero reo della medesima colpa per cui intendo mettere accusa addosso ai nemici del trono che ci oltraggiarono; se non me le rende, io mi perito a saltare il fosso; troppo grossa posta ci metterei su... io voglio dunque che tu vada a conferirne con lui, e gli faccia intendere che senza cotesti fogli io non tiro innanzi il negozio.

A coteste parole il volto di Bianca apparve come il buio di una notte infernale a un tratto illuminato da un fuoco vermiglio del Bengala, imperciocchè ella diventasse rossa in grazia del sangue che le rifluì sopra le guancie scolorate: con la sicurezza le tornò la petulanza, onde quasi acerba esclamò:

— Vedere il presidente io? Io tornarci? Ma che lo pensi? Lo pretendi davvero?

— E che ci ha egli di male?

— Ma la mia reputazione, non ti pare che verrebbe a soffrirne?

— E ora ch'è questa reputazione tua? La reputazione della moglie come ogni altra cosa di lei spetta al marito. La moglie può... anzi deve sempre andare dove il suo marito le comanda... obbedire sempre. Questa tua esitanza, vedi, Bianca, mi offende nel più vivo dell'anima... e non onora nè anche te; mi pare che tu stimi la tua virtù uno di cotesti edifizi che stanno ritti perchè nessuno li tentenna.

— Ma che diavolo vai tu fantasticando con quel tuo cervello fatto a scacchi; nè io te offendo, nè faccio torto a me: tu m'insegni che di male lingue non ci fu mai penuria nel mondo, e suona antico come bello il proverbio che dice: «una stilla di inchiostro basta a macchiare, ed una libbra di sapone non basta a lavarla.» È vero che la fama della moglie appartiene al marito, ma è vero altresì che spetta principalmente alla moglie averne cura e custodirla.

— Ecco, voi altre donne sempre così; se non ci va di mezzo il comodo vostro, vi nascono più dubbi che pulci, ma se ci entra uno scrupolo del vostro interesse, allora non ritegno, non riguardo; giù buffa; e allora vi accorgete di essere cascate nell'acquatrino quando vi sentite il fango fino alla gola. Rammenta che io mi sono fitto in questo ginepraio per vendicare te, tuo padre ed anche me: ricordati che io ci vo di male gambe, e solo che voi accenniate di lasciarmi sopra le secche di Barberia, io butto a monte ogni cosa; qui adesso si fa del resto, — o palle o santo... — E poi, ripreso fiato, con suono che teneva del rimbrotto e del lamento, continua più infervorito che mai: — fin qui io credei che tu avessi sposato, o Bianca, non solo le mie gioie, ma i miei dolori altresì, sovvenuto a portare la mia croce nel mondo, a uscire di angustie, ad ammannirci uno splendido avvenire, a ritornare in fiore, a rimettere su casa alla grande, con vettura, diamanti, palco al teatro, veglie...

— Eh! via, smetti una volta da predicare, che non siamo in quaresima; calmati, marito mio, e vivi tranquillo, che lo aiuto della tua moglie non ti verrà mai meno. Or fa' di stendere un bocconcino d'istanza, affinchè S. E. voglia usarmi la cortesia di ricevermi in udienza particolare, perchè, vedi, presentarmi in combutta con la moltitudine mi uggisce fino alla morte; se la cosa urge, tu chiedila per domani a mezzogiorno, bene intesi, al palazzo del ministero; tu stesso la porterai quando ti rendi all'ufficio alla solita ora. Da parte mia fo conto levarmi per tempo e andarmi a confessare; se la beata Vergine mi ispira, anche a comunicarmi, affinchè Dio mi faccia la grazia di ottenere dal ministro tutto ciò che il tuo cuore desidera...

Credo che si abbracciassero e baciassero; io ebbi ad uscire, e non mi trattenni tanto in casa loro da verificarlo, però metto su pegno che l'andò a finire proprio nel vero modo che vi ho detto.

*

— Che miracolo è questo! Venirmi qui improvvisa in camera alla sette di mattina, esclamò il signor conte di ***, presidente del Consiglio dei ministri, nel vedersi cascare nella stanza da letto la Bianca, quasi bomba briccolata in fortezza nemica.

— Ah! ah! Libertino, tu hai paura di essere colto all'improvviso...?

— Magari ti pigliasse spesso il capriccio di venirmi a sorprendere, tu ti chiariresti della sincerità delle mie parole; ho dato fondo all'àncora, e non mi muovo più.

Dio lo voglia; intanto sappi che io non venni qui per miracolo, bensì per comandamento espresso del mio signore e marito.

— Bada, Bianca, abbi prudenza, non fare a fidanza con questi ferri, che tu ti ci potresti scottare.

— E' non è per amore della mia, ma della tua reputazione, che mi dici questo: di me non temo, anzi ti avviso che oggi... a mezzogiorno... verrò alla libera per parlarti al tuo ministero...

— Non farlo...

— Anzi lo farò e con licenza dei superiori come un libro stampato a Venezia; ora, via, ascoltami. Mio marito afferma che tu possiedi molto carte di suo; già s'intende, quando non era stato convertito per tua intercessione. Coteste carte, egli aggiunge, caso mai venissero un giorno o l'altro a scoprirsi, sarei un uomo morto; ad ogni modo lo trattengono da proseguire franco nella faccenda che tu sai: dunque cercale queste benedette carte e portale teco al palazzo, dove me le renderai, per cavare di pena quella povera anima di mio marito.

— Io l'ho per inteso: a mezzogiorno ti aspetto; e adesso levati il cappello e vieni qua a fare colazione con me.

— No, grazie, non posso trattenermi, bisogna che mi vada a confessare; ho già bell'avvertito il confessore, il quale chi sa quanto tarocca non mi vedendo comparire: addio, addio, ricordati dei nostri amori.

— E tu ricordati, che come questa fu la prima, così non sia l'ultima sorpresa che mi fai.

Io, scrittore, a questo punto ebbi ad uscire dalla camera, e però non potei trattenermi a verificarlo, ma scommetto con Asmodeo[33] un fiasco di vino, che si abbracciarono e baciarono.

Dopo ciò Bianca, tutta lieta, tutta vezzi e saltabelli, andò a dare una capata in chiesa; donde avuta la rannata della confessione e la sciacquata nella Eucarestia, uscì propriamente bianca di bucato.

*

Appena la Bianca fu uscita dal ministro, questi chiamò il servo discreto introduttore delle persone abituato a entrare per la porta di dietro, e così gli disse:

— Giorgio!

— Comandi, eccellenza.

— Perchè contro i miei ordini mi hai fatto entrare in camera cotesta signora senza avvisarmi?

— Mi parve che la signora riuscirebbe gradita a V. E. anche senza avvisi; molto più che io la sapeva solo.

— E da che hai argomentato che la signora mi sarebbe tornata gradita, quantunque mi fosse entrata in camera anche senza avviso?

— Oh! quanto a questo poi, eccellenza.

— Di' pur su, Giorgio, parla franco.

— Ecco, perchè quando cotesta signora viene a trovarla, mi pare che il suo sembiante faccia pasqua di rose.

— Ah! dunque tu mi osservi il viso? E da questo tu tiri a indovinare lo stato dell'animo mio?

— Il viso e qualche altra cosa, e non tiro mica a indovinare, ma leggo proprio espresso quando la fortuna le dà la regina di cuori, ovvero il fante di picche.

— Giorgio, quanti ne abbiamo del mese oggi?

— Eccellenza, quattordici.

— E il tuo salario tira, mi pare, quaranta lire il mese?

— Giusto, più le mance, tavola e livrea.

— Giorgio, eccoti quaranta lire, e tienti per avvisato che, da questo giorno in poi, tu non istai più al mio servizio: stasera fa' che io non ti trovi in casa.

— O Dio! O Dio! Che ho commesso di male? Povero me, sono rovinato!

— Giorgio, prendi qua questi due biglietti di banca; insieme fanno mille lire; esse ti basteranno per le spese prima di trovarti un nuovo servizio; io medesimo procurerò allogarti altrove; ma con me non puoi stare assolutamente.

— Dopo tanti anni, ahimè!

— Tutte le cose nostre hanno lor fine, Giorgio, e quanto più invecchiano, e più si avvicinano alla morte; e tu pure morirai, Giorgio, e morirò anch'io.

— Potessi almeno sapere in che ho mancato!

— Non è per difetto, Giorgio, che io ti congedo, bensì per eccesso; i servi dei ministri non devono adoperare altro che le orecchie per udire e obbedire: evita come la morìa servo che osserva e fante che argomenta; quando sarai ministro, Giorgio, imparerai la saviezza di questo consiglio: ora vattene.

*

Mutata di vesti, più smagliante della mattina, gloriosa e pomposa, al tocco del mezzodì la Bianca si presenta all'anticamera del ministro, il quale aveva di già avvertito l'usciere che, dove si presentasse, quantunque non fosse giornata di udienza, lo avvertisse. Questi come il ministro ordinò fece, e S. E. si mosse ad accoglierla fino sopra la soglia, dove le disse con voce alta, sicchè potessero sentire tutti:

— Non ho saputo resistere, mia signora, al timore di comparire presso la S. V. poco cortese: passi pure a informarmi di quanto le occorre da questo officio; solo sono costretto a pregarla di spedirsi, perchè fra mezz'ora si raduna il Consiglio dei ministri e S. M. lo presiede...

Entrò, chiuse la porta, e guardando la donna con lussuriosa compiacenza, le disse:

— Come sei bella!

— Fatti in là, sgarbato, non mi sgualcire il cappellino — e gli diè delle dita su i labbri, per temperare l'ardore dell'innamorato ministro. — Orsù, proseguiva poi, questi fogli me li hai portati? Dammeli, ch'io vada a liberare cotesta povera anima dal purgatorio.

Il volto del ministro si annuvolò e rispose brusco:

— Non li ho portati.

— O che non li hai potuti trovare?

— Li ho trovati, ma non li ho portati.

— Dunque mi manchi di parola? Dunque di me non fai caso? Le proteste di stima, di devozione, di servitù, bugiarderie tutte?

— Bianca, hai tu mai letto l'Ariosto?

— Io non leggo simili porcherie; me l'ha proibito il confessore.

— Me ne dispiace; tu dunque devi sapere come cotesto poeta racconti di certo mago, il quale possedeva uno scudo così sfolgoreggiante, che chi lo mirasse cascava in terra abbarbagliato: però ei non lo portava mica scoperto, bensì ravvolto di una fodera spessa, scoprendolo solo quando si trovava con le spalle al muro.

— E che ha da fare lo scudo coi fogli che ti chiedo?

— Fatti in qua, porgimi attenzione, e poi da' spesa al tuo cervello: io non posso e non devo restituire questi fogli: io ho interesse quanto tuo marito a tenerli celati... ma per te e anco per me, dandosi il caso, e i casi sono tanti, possono giovarci come un morso da mettersi fra i denti al tuo marito... ora capisci, Bianca?

— Gua'! Gua'! Come sei furbo: io non ci aveva pensato: dunque che cosa ho da riportargli?

— Digli una bugia!

— Ma quale?

— Oh! mira un po' che io ti abbia a mantenere anche a bugie.

— Io non ne so dire.

— E allora fattele prestare dal confessore.

— Ma simili faccende io non le dico al confessore.

— Orsù, dunque, gli dirai che io custodisco i suoi fogli dentro un cassone di ferro mescolati a molti altri; gli affari continui e crescenti non concedermi comodità di ricercarli per ora; mi ci bisogna qualche giorno di tempo; non istia a peritarsi per questo; vada franco; io ti do — ma bada bene — io do a te la parola di onore di renderti i fogli quando li avrò trovati, e tanto gli dovrebbe bastare.

E tanto riferì la Bianca a Fabrizio, che, fatta di necessità virtù, ebbe a contentarsi nel presagio che si sarebbero accomodati i basti per la strada. Ora, tiratesi su le maniche della camicia fino alla spalla, si mise al travaglio di buona gana: Sotero di consiglio lo sovveniva e di opera. In una notte sola le guardie di polizia fecero la bella giacchiata di venti giovani sventati e di taluni vecchi, anche più storditi dei giovani, imperciocchè se vecchiaia partorisse sapienza, i ministri delle Corone si potrieno ricavare dai tavoloni stagionati di abete.

I giorni successivi agli arresti, ecco i giornalisti biacchi, che ingrassano nei pantani ministeriali, arrangolarsi ad insinuare nei cittadini la paura e la calunnia: per lodevole vigilanza dei magistrati egregi essersi scoperta la più atroce (questo diceva l' Opinione ), la più sacrilega (quest'altro epiteto veniva dalla zecca della Perseveranza ), la più sovversiva (scriveva la Nazione, che nell'arte della ipocrisia rappresenta il bimmolle) congiura che mai minacciasse fin qui di mandare sotto sopra il civile consorzio. Per ora gli arrestati oltre a cento, ma la solerte polizia correre su la traccia di altri congiurati, che si riprometteva scovare in giornata. Le corrispondenze e le altre moltissime carte d'importanza suprema trovate: le infinite ramificazioni nelle plebi; le armi, le munizioni, le bombe all'Orsini sequestrate; la maggior copia di queste tuttavia nascoste mettere il ribrezzo addosso ad ogni pacifico cittadino. Scopo più speciale, e confessato della congiura, guerra a morte alla possidenza e al capitale, morte a tutti quelli i quali pel fatto solo di avere proprietà erano ladri; dispersa la famiglia, perchè di petto a lei il bordello e il bagno paradisi terrestri; distrutti i commerci, a fondo le industrie; nè anco la sacra persona del re risparmiata; di questa eziandio (si rizzano al solo riferirlo per orrore i capelli) la strage meditata e ammannita, e si comprende appuntarsi in lei ogni conato parricida, a ragione convinti gli scellerati che, rimosso il tutore e il vindice, riusciva agevole far man bassa della innocente cittadinanza. Ma Dio, che vigila sopra i giorni dei principi, eccetera, non aveva sofferto, eccetera. Adesso gl'italiani confidano che giurati e magistrati faranno a gara di porre il freno ai perduti con salutare terrore: si rammenteranno come il medico pietoso fa le piaghe puzzolenti; alle idrofobie niente altro proviamo giovare, eccetto il cauterio, e cauterio sia; poi conchiudevano che la piena dello sdegno non concedeva loro la calma necessaria al pubblicista per giudicare di questa maniera enormezze; quindi chiudersi la bocca in osservanza al precetto che vieta di pregiudicare con giudizi anticipati la condizione di coloro che stanno sotto il giudice. Gaglioffe ipocrisie, e tuttavolta non meno truci che stupide.

Quello e gli altri dì fu un andare e venire ratti ratti dei cittadini per la città, come le formiche ammusavansi, e quindi quegli pigliava a destra, questi a sinistra; chi riponeva le mercanzie in cantina, chi portava il vino in soffitta; chi seppelliva il danaro; i preti rimpiattarono i calici d'argento e levarono via i voti dalle immagini; passato il pericolo, quando li vollero rimettere al posto, sbagliarono strada, e invece di portarli alla Madonna li venderono all'orefice. Le donne accesero i lumicini a' piedi ai santi; le finestre chiusero diligentemente, affinchè il cholera della rivoluzione non entrasse in casa; taluna calafatò finanche i buchi di chiave alla porta di casa; peccato dimenticasse la cappa del camino. Le scale dei prefetti e dei questori da quel dì in poi non misero più erba per la frequenza di quelli che trepidando venivano per notizie. Le guardie nazionali, a scanso di cimenti, nascondevano i fucili in camera alle balie; nella gola del privato giù polvere e palle, con maraviglia del Dio Stercuzio, che di coteste offerte non aveva visto mai. L'ebreo, sempre sospettoso, ammiccava carezzevole dell'occhio alla guardia di sicurezza, e le diceva: — Per vita mia, se come il nome, cara lei, avesse sesso femminile, la sposerei... in una parola, venivano a galla tutti i segni, coi quali la paura indica le imminenti perturbazioni civili.

Sotero, nel riferire allo amico Fabrizio tutti cotesti successi, aggiungeva:

— La girandola piglia, su, da bravo, ora bisogna macinare quando piove.

Ed era un confortare i cani all'erta, che Fabrizio si sentiva pur troppo disposto a correre senza mestieri perette; con la scorta di Sotero continuarono pertanto le perquisizioni e gl'imprigionamenti: ai conforti di lui tutto procedè in perfettissima regola di legge, imperciocchè Sotero fosse di quelli che innanzi d'impiccare un uomo senza le forme legali avrebbe impiccato sè: quantunque mal volentieri, consentì a Fabrizio che si valesse del giudice suo amico per istruire il processo, considerando che per ricuperare la grazia dei suoi superiori questa volta si sarebbe messo in quattro, e a patto che avesse preso da lui la imbeccata; e tu immagina se il nuovo Teseo con questa razza di filo girava senza perdersi per gli andirivieni del laberinto.

Gli arrestati chiusi in carcere separata, dov'erano silenzio e tenebre come dentro al sepolcro; li funestavano la notte i passi pesanti delle guardie, la reciproca chiamata all'erta, la visita improvvisa delle prigioni e lo infame battere strusciando il ferro sopra le inferriate per tentare se fossero intere: lumi proibiti e i libri; più che tutto l'occorrente a scrivere: nè di fuori entrava, nè di dentro usciva notizia di sorte alcuna: i custodi muti quanto gli eunuchi negri del sultano: in balìa interi allo sgomento e al tedio: e a diritto; perchè non potendo più (come si vorrebbe) adoperare i trovati materiali per costringere i detenuti alla confessione, bisogna pure stillarsi il cervello a cercare nuovi partiti morali e schermirsi con quelli. Si conobbe più tardi che tutto cotesto lusso di terrore era stato sprecato, perchè i querelati si confessarono liberamente repubblicani incurabili; la repubblica in cima dei loro pensieri, e questa con tutte le potenze dell'anima ed i sentimenti del corpo volere promovere: veruno scolpavasi, nè per giustificare sè aggravava altrui: e forse vivevano tali fra loro, che in confronto ai magni spiriti romani non avrebbero scapitato; la maggior parte però lo faceva per iattanza, la quale invano si arrabatta di passare agli occhi di chi se ne intende per valore: la virtù vera non si atteggia a gladiatore combattente, bensì si manifesta nel contegno di Socrate, che siede, e argomentando co' suoi alunni si beve la cicuta. Non è la luce della filosofia maestra d'incendi, questi insegna il fuoco delle ree passioni: chi le dice non le fa; come i fiumi strappano sempre là dove stimi gli argini più saldi, così, donde te lo aspetti meno, nei pubblici sconvolgimenti ti scappano fuori gli uomini di sangue. Quando le Furie agitano le fiaccole, scotono sopra la terra, senza avvertirlo, gocciole infiammate. Cotesti flagelli, come non sai donde sieno scappati, ignori del pari dove si rintanino. La storia dei Comunardi non ci è anco nota, quella della prima rivoluzione di Francia ci conta come il più immane fra i Settembrizzatori (infelice vanto di Francia generare nuovi mostri, e a questi apporre inusitati nomi) apparisse e sparisse senza lasciare traccia nè dello avvento, nè della partenza. Ma i giurati, che giudicano a taccio, tutte queste considerazioni non fanno e non le sanno fare; i difensori della legge, che le saprebbero fare, le reputano estranee, anzi contrarie allo istituto loro. Finchè Dio o il diavolo non ci rimedino, motto della loro impresa è il sub mittatur.

*

— O lo vedi se io ti ho portato Indie a casa? Il giudice istruttore ha già pronunziato la sua brava ordinanza: adesso tocca a te, mettitici con tutto lo impegno; evita più che puoi le avvocatesche sgangheratezze; sii sobrio, stringente come boa, tagliente come un rasoio: più tardi tonerai e fulminerai, ora da' biada ai giudici, poca ma buona: fieno a forcate ai giurati.

Fabrizio possedeva ingegno di avanzo per ordire tela da lenzuoli funerari per coloro ch'egli incolpava; quanto a malignità si era scoperto a mo' di pozzo inesauribile di petrolio dentro il suo cuore. Le prove, già lo dicemmo, abbondavano, ma Fabrizio seppe tanto artisticamente disporle, la locuzione curò in guisa, che apparve ad un punto stringata ed elegante: facili scendevano le induzioni; il nesso dei raziocini rinterzato per modo, ch'egli stette sul punto d'innamorarsi della sua fattura, come l'antico Pigmalione, dicono, ardesse per la statua che aveva scolpita.

Sotero stesso, parchissimo lodatore, ebbe ad esclamare:

— Bel lavoro! Me ne rallegro teco; un vero istrice, da tutti i lati punge: io non so come gli avvocati potranno levare dal collo dei loro clienti la corda che tu ci hai messa.

Per tutto il tribunale in breve si sparse il grido che le requisitorie del regio procuratore erano un bel lavoro; da un punto all'altro per le cantine, per le soffitte, nei sottoscala, per camere e stambugini l'eco si rimandava le parole: bel lavoro! bel lavoro! E chi non lo aveva letto era per l'appunto quegli che lo lodava di più.

L'estratto di questo capodopera fu notificato ai detenuti nelle forme prescritte dalla legge. Zaccaria Recanati, quando vide entrare l'usciere in carcere, imbiancò, tentennò come se temesse gli fosse venuto a leggere la sentenza di morte. Degli uscieri come dei fagiuoli ce ne ha di più specie; i secondi turchi, coll'occhio, bianchi e via, ma tutti ventosi; i primi bruschi, agrodolci, sdolcinati, ma tutti sinistri; il nostro sapeva di dolce, sicchè pensando alla posola che stava per affibbiare a cotesto disgraziato, nello scrivere l'atto della notificazione tremava; a Zaccaria presero a battere i denti; l'usciere più voleva affrettarsi e più s'intricava; alfine conchiuse il referto, e volendosi asciugare la fronte molle di sudore, senza badarci ci fece un rigo con la penna, e con la sua voce più benigna, proprio con quella delle feste, disse all'ebreo:

— La non si confonda, il diavolo non è mai tanto brutto come si dipinge — e se la svignò.

Partito l'usciere, Zaccaria si fece a leggere lo stampato, ma sì, e' fu lo stesso come se si fosse posto a leggere il sole: vampe vorticose gli giravano dentro gli occhi; si gittò sul letto per avere tregua; peggio che mai, la stanza roteando andava capovolta; per non rotolare su la terra si aggrappò al materasso, morse le lenzuola, si attentò di levarsi, e giù stramazzoni per terra, senza balìa di potersi rilevare in piedi; quivi stette, e tanto mandò dal suo corpo mirabile copia di sudore, che la forma ne rimase impressa sopra i mattoni, nella medesima maniera che una pia credenza predica la immagine del corpo di Gesù Cristo trovarsi improntata nella santa sindone, che per molti anni fu il gioiello di maggior valsente che si trovasse nel tesoro dei reali di Cipro, di Gerusalemme e di Sardegna.

Passato il primo parosismo della febbre paurosa, Zaccaria volle riprovarsi a leggere la requisitoria: gli pareva durare il supplizio della ruota, e se i colpi non gli spezzavano le ossa delle braccia e delle gambe, gli sfilacciavano il cuore e il cervello.

Fabrizio conciava tutti pel dì delle feste, ma il suo san Bastiano era stato proprio il povero Zaccaria; lui aveva messo a bersaglio dei suoi strali, su lui votato tutta la sua faretra. Arrivato in fondo con tale un tremendo palpito, che minacciava schiantargli le costole, Zaccaria legge domandarsi da Fabrizio, un dì giurato suo fratello, e nelle cospirazioni compagno, a suo danno l'applicazione degli articoli 153 e 531 del codice penale.

Ed ora cotesti articoli che importeranno mai? chiedeva a sè stesso Zaccaria; ma Zaccaria non sapeva che cosa rispondersi, e ciò perchè i difensori della legge, vergognando pronunziare spiattellatamente morte, ci vanno di scancìo, citando l'articolo senza dichiararne il tenore: anche questa è ipocrisia; gl'inglesi ci chiamano un popolo in carnevale: ci avrebbero definito meglio modellatori in carnevale, perchè qui fra noi tutto è forme e gesso colato. — Adesso il tormentatore sbracia, per così dire, la febbre nel sangue di Zaccaria, e la inacerba con le smanie della incertezza: un diavolo a cavalcioni sopra la punta del naso gli stirava orribilmente i nervi degli occhi dopo averglieli dimenati ben bene con tanaglie infuocate; pativa il dolore dei denti in tutte le ossa, guaiva: oh! oh! e strettasi la fronte con le mani ne grondavano giù lacrime come acqua della spugna tratta fuori dal catino.

A sollievo del misero (a lui parve sollievo), ecco spalancarsi fragorosa la porta del carcere e comparire il custode a recargli il pasto. Il custode, un giorno carceriere addirittura, come la guardia di sicurezza sbirro: ipocrisia da aggiungersi al mucchio: il predicatore lasciò detto: vanitas vanitatum, et omnia vanitas; ai dì nostri con migliore fondamento direbbe: ipocrisia delle ipocrisie. Il custode dunque, fingendo non accorgersi dello stato pietoso in cui vedeva ridotto Zaccaria, così prese a dirgli:

— Ecco qua una zuppina nelle regole, proprio da resuscitare un morto.

— Lasci, signor custode, lasci tutto sul tavolino, che mi sento ben altra voglia che quella di mangiare...

— Andiamo, via, la non si lasci arrugginire dalla malinconia; ha ella avvertito quanto le ha detto l'usciere? E sa, cotesta gente mangia la foglia per aria per sapere da che parte ha da tirare il vento.

— Vede, signor custode, se potesse... più del desinare avrei bisogno di un'altra cosa...

— Di che mai? Parli franco.

— Di un codice penale.... del regno sardo.... badi... 1859.

— Non so... non saprei... capisce... facciamo una cosa... ne parlerò col signor direttore...

— Scusi, signor custode, mi sembra, anzi so di certo che il direttore qui dentro non ci ha che fare; scusi una seconda volta, o in questo foglio non si citano a fine che io li conosca diversi articoli del codice penale? Ora, caro lei, se qui si citano questi articoli in numero, lei è per insegnarmi che io ho diritto di saperne la sostanza...

— E li cita davvero?

— Per la vita dei miei figliuoli, li cita, e poi guardi, si certifichi da sè.

Il custode cavò di tasca gli occhiali e li lesse (dacchè si ha da sapere che il custode fosse un vecchio dragone dell'antico regno d'Italia, prima ridotto a can mastino a nome della gloria, ed ora a can da pagliaio in nome della sicurezza pubblica). Dopo avere letto e ponderato, conchiuse:

— Parrebbe anche a me; eccolo servito; e trattosi il codice di tasca lo porse a Zaccaria.

— Come! questi esclamò, in tasca, caro lei, porta il codice?

— Tre cose ho portato sempre addosso: la medaglia di san Venanzio per liberarmi dalle cascate basse, il codice per preservarmi dalle cascate alte e la cabala del Chiaravalle, onore e gloria di Milano, da non temere confronto con sant'Ambrogio nè con san Carlo: se non mi fossi un po' istruito leggendo la cabala, sarei rimasto ignorante come quando abbandonai la vanga; ma, caro lei, così non troverà mai nulla... oh! non vede come le tremano le mani... lasci fare a me: ecco qua 143... se il condannato in contumacia...

— No, caro lei, 153.

E il custode, bagnandosi l'indice di saliva, sfoglia il libro mormorando: 147, 150... ecco 153, legga.

— Mi faccia questo piacere, legga lei... mi abbagliano gli occhi...

— Volentieri: l'attentato contro la sacra persona del re è punito come il parricidio. Misericordia! esclamò il custode, l'altro articolo leggeremo un'altra volta, e chiuso il libro, fece per andarsene; ma Zaccaria gli si avventò addosso come un gatto spaventato, gli strappò dalle mani il libro e corse in un batter d'occhio nell'angolo più lontano della prigione, dove trovato con mirabile prestezza l'articolo 513 lesse:

«I colpevoli dei crimini di parricidio, di venefizio, d'infanticidio e di assassinio sono puniti colla morte.

«Il condannato per parricidio sarà condotto al luogo del patibolo a piedi nudi e col capo coperto di un velo nero

Il povero Zaccaria lasciò cadersi di mano il libro, proruppe in ischianto ineffabile di dolore e sopra se stesso aggirandosi come paleo, battè sconciamente nel muro, e lunghesso quello strisciando il viso ci lasciò la pelle della guancia diritta; sul pavimento si ruppe il ciglio destro e il naso. Il custode, non potendo sopportare lo strazio dell'urlo disperato, si turò ambo le orecchie con le mani e fuggì via.

Però il custode sospettando sventura, e pauroso glie ne venisse danno, dopo breve ora tornò a visitare Zaccaria: non a lui solo, non a lui solo il proprio interesse fa capolino allo spirito con la maschera della pietà presa a nolo dalla ipocrisia. Lo rinvenne svenuto e impiastricciato di sangue; lo lavò, lo fasciò, lo pose sul letto — ma, bene intesi, tutto questo egli fece dopo avere raccolto da terra il codice, ripostolo in tasca e raccomandato a Zaccaria, appena rinvenne, che per quanto amore portava al suo Dio non rivelasse ad anima viva averlo avuto da lui, e l'altro borbottato la promessa vivesse sicuro, all'ultimo si dispose a uscire, non senza però avere frugato e rifrugato prima la cella con lo sguardo, per vedere se ci fosse rimasto oggetto capace a ferire, e gli parve di no: — io, per me, credo che i custodi potrebbero fare con gli occhi la barba e il contrappelo; — se ne andò difilato a ragguagliare il direttore di quanto gli parve spediente dirgli, e n'ebbe lode di vigilanza; e siccome poi questi gli domandava:

— Avete perlustrato bene che non sia rimasta in cella cosa con la quale il prigioniero possa attentare ai suoi giorni?

— Oh! quanto a questo poi la si lasci servire, lustrissimo.

— Mi fido in voi, perchè viviamo in tempi nei quali bisogna camminare fra le uova, sebbene non giovi andare a piede nè a cavallo: caso mai costui si uccidesse in carcere, apriti cielo! Dovevamo prevederlo e prevenire il carcerato; lo serbiamo vivo, e allora la nostra diventa carità pelosa, lo abbiamo custodito pel patibolo: basta, è nostro debito che lo incolpato non si sottragga alla pena; in virtù del suo misfatto egli è debitore dello esempio alla società.

— Così diceva anch'io, rispose il custode.

Calò la sera; e qual sera! Zaccaria a sedere sul letto, con le braccia abbandonate di qua e di là dallo strapunto, con gli occhi spalancati, fissava intentissimo il buio, il quale ad ora gli si rompeva in strisce di fuoco foggiate a forma dei numeri 153 e 531: così nelle notti tenebrose di estate sembra talora che batta le palpebre il baleno: cessata la fiumana delle vampe, ecco subentra un chiarore grigio perlato, come luce che attraversi un cristallo opaco — la luce dell'ora in cui gli uomini menano a guastare l'uomo — agonia della notte che muore, vagito del giorno che nasce; così la notte non accuserà il giorno di avere rischiarato l'opera nefanda, nè il giorno incolperà la notte per non averlo nascosto dentro la sua tenebra; rei entrambi, o nessuno; unico malvagio l'uomo. Al basso di cotesta luce sinistra presero a sussultare forme indeterminate, quasi sonagli di acqua che bolla a scroscio dentro la caldaia, indi a poco presero sembianza definita e moto e affetto. Non a modo di sogno o per via di visione, bensì ad occhi aperti vide le porte del carcere spalancarsi e uscirne un paziente co' piedi ignudi, vestito di lunga camicia bianca, il capo avvolto dentro un velo nero e le mani legate dietro la schiena: da un lato gli stanno i pietosi, dall'altro gli spietati; pietosi il rabbino Piperno, il direttore delle carceri e i custodi pietosi sempre di ufficio; in mancanza di meglio il condannato è costretto ad accettare per pietà l'ardente premura di cotesti signori di lavarsi le mani di lui; spietati sempre di ufficio il boia e il suo aiutante, il cancelliere, gli sbirri, se meglio ti garba le guardie di pubblica sicurezza; ma a dir vero in quel momento parve a Zaccaria fossero tutti sbirri; e la milizia, fanti e cavalieri, da che parte io l'ho da mettere? Per me altro non so, che questi figli della gloria, questi presidi della patria, che l'amico mio Mariano D'Ayala un dì incocciava a volere venerati come santi, o alla più trista come sacerdoti, adesso fanno il corteo delle truci nozze che il boia sta per celebrare fra l'uomo e la forca, e ringrazino Dio se per amore di risparmio non sono deputati a far tutto con le proprie mani, accompagnatura, macellamento, sepoltura et reliqua. Comecchè ci si vedesse appena, Zaccaria sbirciò gremite di gente le finestre e da un abbaino del tetto del palazzo della giustizia gli parve vedere, e vide certo, la sua moglie, il vecchio padre e i figliuoli con le mani rivolte verso il cielo: allora si sentì preso da un grande sdegno contro la moglie e il padre, e li sgridò a voce alta: togliete di costà i miei figliuoli; non sono gli occhi che contaminano l'anima con la vista delle opere scellerate? Scorse eziandio la gente spessa e stipata, quasi convenuta a mirabile spettacolo, scansarsi appena se spinta dall'urto dei cavalli o percossa da piattonate; chi commiserava al condannato e chi malediceva gli accompagnatori; altri alla rovescia; i più imprecavano a quello ed a questi; imperciocchè la razza umana si senta per natura proclive piuttosto a maledire che a benedire; tra la folla si aggiravano donne e fanciulli urlanti a squarciagola: «acquavite!» Sopra gli altri infesto un brutto servo di Dio, che aveva il viso bucherellato come un vaglio e gridava: «ti rideccolo il bruttino con le ciambelle uscite di forno ora!» In campo aperto ecco comparire la forca, disegnata in alto a modo di porta egiziana, per entrare di posta in paradiso: arnese ingenuo, signori miei, strumento semplice come hanno ad essere le macchine dai buoni ingegni immaginate e costruite; due travi su ritti a certa distanza, un altro in cima a traverso, in mezzo la sua brava carrucola con la sua brava corda, e lateralmente a questa due scale. Gli uomini non hanno conservato il nome dell'inventore della forca, e questo perchè sono una manica d'ingrati; ma ciò non toglie che con l'ara e l'aratro non componga l'àncora di salute dell'umano consorzio. Lo insegnò anche l'Asino scorticato, cui decretarono il nome di quinto evangelista: haec tria tantum... ara, aratrum et arbor patibolarius. Zaccaria vide salire il boia, il paziente e l'aiutante del boia su di una scala, su l'altra il rabbino per confortare il morituro, che, a dirla giusta, più che confortare altrui aveva mestieri di essere confortato; inoltre vide gittare alla traditora il laccio al collo del condannato e la spinta che in bello accordo gli diedero il boia e il suo coadiutore, e il boia... — qui mi tocca far punto prima di proseguire. Piantoni era il boia, uomo coscienzioso, timorato di Dio, cattolico a prova di olio, babbo buono, figlio meglio, sposo poi un miracolo di tenerezza, artista della impiccatura, non sa perchè alla forca non facciano largo le Muse per accoglierla nel coro divino, unico e vero magistrato inamovibile del regno italiano, imperciocchè egli esordisse ad esercitare l'arte sua sul povero Ciro Menotti sotto Francesco IV duca di Modena, e la continui lodevolmente sotto il regno di Vittorio Emanuele II: quantunque quegli tiranno e questi re galantuomo; il Piantoni, quando tenne il suo colloquio coll'avvocato genovese, gli confessò pietosamente essere arrivato alla sua più grande fatica; sentirsi stracco, pure avrebbe servito lo Stato finchè gli bastassero le forze: soldato del dovere, anch'egli sentire l'obbligo di morire su la breccia... cioè sul collo ad un impiccato.[34] Io al racconto di questi sensi magnanimi provo una commozione nelle viscere che mai l'uguale; e perchè non onorano il Piantoni con l'ordine del Merito? Se non lo danno a lui, o che ci sta a fare? Come da ora innanzi potrà sostenersi ordine del Merito se continua ad esserne privo il Piantoni? E bisognerebbe rimandarla alle calende greche, perchè leggiamo che il povero uomo non ne può più le cuoia, e di recente fu mestieri raccomandarsi a un manigoldo dozzinale, che costò un occhio e per giunta pretese lire cinquecento pel suo figliuolo sotto boia non contemplato nel contratto di nolo.[35]

Levo il punto e ripiglio il cammino: — e il boia dalla scala saltare come il giugarro a mezzo il trave, e quivi con la maestria nella quale il buon Piantoni si vanta e veramente si mostra professore, ecco applicargli un piede tra il collo e l'orecchio, e quivi pigiare forte di scancìo, affinchè la lussazione delle vertebre si operi in un attimo, e così succeda, secondo l'autorevole giudizio del prelodato boia, la morte del condannato istantanea. Però nè anche il sotto boia sofferse che gli avessero a dire ch'ei si mangiava il pane a tradimento, al quale effetto dalla scala si calò a terra, e lì, attaccatosi ai piedi del paziente, ritrasse le sue gambe dondolandosi giusto a mo' che i fanciulli costumano quando tirano le funi delle campane.

Ite missa est: questo, per essere giusti, non disse il boia dall'alto della forca, ma lo lasciò capire calandosi giù dal suo altare: allora il corpo rimasto libero prese a giravoltare intorno intorno, come il fuso fa pendente dalla rocca; in cotesto moto gli cadde il velo dal capo, e Zaccaria nello impiccato riconobbe... chi mai? — Riconobbe sè stesso. Allora gli s'insinuò nel capo una strana fantasia, e fu considerare s'egli era caso morire per fuggire la morte; gli parve di sì, e tanto da un punto all'altro si sprofondò in cotesta immaginazione, che avvenne a lui, come a quello il quale spendolandosi troppo dalla finestra non può tirarsi più dentro, ed è forza che vada a sfracellarsi il cranio su la strada. E tanto di subito s'impossessò questa fisima di lui, che come per miracolo liberato da ogni malore, si levò da giacere e si pose a brancolare al buio per rinvenire modo di mettere in esecuzione il suo proponimento: aveva sentito parlare di gente appiccatasi alle nottole d'imposte delle finestre, ovvero ai ferri delle inferriate, ma non gli occorse tovagliolo, nè asciugamano, nè fazzoletto, nè cintura, che tutte queste si era in bella maniera portate via il custode; tastò le pareti se mai gli venisse fatto d'imbattersi in un chiodo. Zaccaria trovò le pareti del carcere copiose di chiodi come la zucca di Eliseo profeta di capelli:[36] provò a battere il cranio nel muro, ma egli ebbe a desistere perchè la spossatezza gli toglieva la forza da potersi ammazzare, l'angoscia soverchia che provava, in ultimo il sentirsi urlare con grida bestiali dalla stanza accanto: «Se vuoi crepare, crepa, ma piano, e lasciaci dormire». E guai se avesse preso fumo il custode; la camiciola di forza non gli sarebbe mancata, nè la legatura sul letto. Strana cosa! la fortuna avversa gli chiudeva al morire ogni via, e intanto a lui cresceva del morire la sete; mentr'egli si travaglia in questo spasimo gli accade mettersi le mani nel corpetto e si sente incidere lievemente le dita.

Come mai poteva succedere questo? Oh! ecco; Zaccaria era ebreo, voi lo sapete, e sapete altresì quali vincoli di parentela sieno corsi sempre fra ebrei e quattrini; ora a Zaccaria un giorno venne in testa di raccogliere un medagliere di quante più potesse monete antiche e moderne; tra le altre gli venne fatto di acquistare una crazia, che gli parve cosa rara. La crazia, voi avete a sapere, è, o meglio fu certa moneta toscana composta di una lega di rame e argento; da un lato mostra san Giovan Battista in piedi, dall'altro le palle dei Medici: sottilissima di zecca, pel continuo stropiccìo diventò così minuta da disgradarne le scaglie dei pesci. — Esultante nell'orgoglio della sua invenzione, Zaccaria si recò ai labbri la moneta come un dono mandatogli da Dio liberatore; tagliente pur troppo ell'era, ma ei non la giudicando abbastanza l'affilò sul davanzale della finestra adoperandovi la saliva; quando l'ebbe ridotta proprio a rasoio si adagiò sul letto... e si recise la gola...

Mentre la vita dalle aperte vene gli fuggiva via, piuttostochè colla voce, col sangue che sgorgava gorgogliando, si raccomandò a Dio perchè riposasse l'anima sua nel seno di Abramo, non già al Dio dell'occhio per occhio e del dente per dente, che visita nel suo furore la quarta e la quinta generazione di coloro che gli hanno voluto male, bensì a quello delle misericordie, supplicandolo che quel suo sangue scendesse come una benedizione sul capo della sua famiglia, non consentisse ch'egli ai figli suoi non trasmettesse altra eredità eccetto la sventura; li prosperasse; a modo ch'egli inviava un dì l'arcangiolo Raffaelle a sanare Tobia dalla cecità, ora spedisse quale è fra gli angioli suoi il più pietoso a lenire il cuore del padre e della moglie; e i suoi persecutori giudicasse non secondo la sua giustizia, ma sì secondo la sua misericordia. E il povero Zaccaria si addormentò contento nel seno di Abramo.

A me parve questo pietosissimo caso, e pur chi sa quanto gli daranno la baiata gli odierni materialisti; si servano; pure mi sia concesso domandare se Zaccaria sarebbe morto con quella pace, se persuaso che mota nacque, mota un po' meglio organizzata visse, per morire poi mota come prima; e che veruno ente nell'universo intendeva le sue novissime preci; e che da nessun lato una stilla di consolazione sarebbe piovuta su i capi desolati dei carissimi suoi. Invece di rapire all'uomo i dolci sogni ond'egli muore in pace, industriatevi, o voi che sapete, a liberarlo dalle atroci realtà che lo fanno vivere trangosciato.

Da questa morte derivarono conseguenze tutte dannose ai malcapitati compagni di Zaccaria; la fine di lui appresero universalmente come prova della coscienza di colpa per sè e per gli altri; Fabrizio sentì darsi un picchio sul capo, per la quale cosa smarrì di un tratto la vista, dopo cinque giorni o sei la ricuperò, ma inchiostro, carta, scritto e tutto insomma gli apparve colore di sangue più o meno vivido: consultato il medico, lo assicurò trattarsi di alterazione poco importante: pigliasse riposo, gli occhi lavasse con acqua e aceto; e caso mai non potesse astenersi dal lavoro, tenesse sul banco una catinella di acqua gelata, dove immergendo di frequente la spugna, con quella si rinfrescasse il capo; questo accidente, invece di ammansirlo, lo inasprì: ora poi ebbe arso davvero i cariaggi: e poichè di tornare indietro non ci era più verso, avanti a scavezzacollo. Il dibattimento ebbe luogo; gli accusati confermarono alla udienza quanto avevano dichiarato di già nel processo scritto: sè predicarono repubblicani, della monarchia nemici implacabili, eterni, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, intenti co' pensieri e colle opere ad abbatterla: ogni altra accusa respinsero sdegnosi: il manifesto donde Fabrizio s'ingegnò dedurre per via di sofismi la strage meditata del capo dello Stato assai facilmente mostrarono non prestarsi a simile concetto: ad ogni modo non essere fattura loro, il signor regio procuratore saperlo meglio di ogni altro; lo domandassero a lui.

Insistendo il presidente della Corte di assise, forse per segreto astio contro Fabrizio, per saperne l'autore, assorsero tutti con l'indice appuntato contro l'accusatore gridando:

Lui lo sa, lui lo sa.

Fabrizio, per un istante smarrito, afferrò frettoloso un cartolare per coprirsene il viso, ma fu brezza sulla fiamma, riprese in breve balìa, e mettendo le mani avanti esclamò:

— Chi ha usanza di questi luoghi conosce come il delitto pigli sempre per sua druda la sfrontatezza.

E cotesta fu una sfrontata provocazione. Perchè gli accusati non raccattarono il guanto e non lo lapidarono sotto un nugolo di vituperi? Arduo sempre conoscere le cause intime delle azioni umane; per me giudico li trattenesse il ribrezzo di far conoscere avere sofferto compagno ad impresa, ch'essi reputavano magnanima, uomo così abietto; nè a dissuadermi da simile pensiero giova punto sapere che non tutti in cotesta congiura sentissero altamente; anzi ci si annoverassero contaminati da non poche brutture parecchi, imperciocchè gli esempi sieno contagiosi così nel bene come nel male, e la vista della virtù abbarbagli di stupore anco i corrotti — quantunque per poco. La storia porge spesso testimonianza di fatti simili a questi; Tacito ne registra alcuni nel quindicesimo degli Annali, dove narra la congiura pisoniana contro Nerone. «Plauzio, egli scrive, fu il secondo a morire... arraffato, e dove si giustiziano gli schiavi ammazzato da Stazio tribuno, uno dei congiurati, non lo scoperse e non fiatò»; più oltre, con maggiore conformità al caso nostro: «non potettero più frodare la congiura ancora i soldati, stomacando quelli che avevano confessato vedersi da Fenio Rufo lor compagno esaminare. Minacciando egli e stringendo forte Scevino a dir su, Scevino ghignò dicendo: — niuno saperne più di lui. — E lo conforta a rendere il cambio a sì buon principe. Fenio non parlò e non tacque, così gli si rappallottarono le parole in bocca per lo spavento.» E poichè anche il servaggio ha i suoi eroi, il duca di Veccaro, confidente di Filippo IV di Spagna, anzichè riversare sul padrone la colpa ond'era accusato, elesse morire su i tormenti.[37]

Fabrizio non si mostrò nell'arringa sobrio come nella scrittura, si lasciò rubare la mano dall'abitudine della frondosa parlantina; nè gli avvocati difensori diversi da lui; — grondanti tutti di parole esagerate ed inani; ridevoli più del cane barbone che dopo il tuffo esca dal fiume e si scuota l'acqua sul greto; però tra la eloquenza dell'accusatore e quella del difensore un divario ci corre e grande: questa è unicamente ridicola, l'altra ridicola a un punto e orribile. — Nei gesti scomposti la croce dei santi Maurizio e Lazzaro (dacchè il ministro aveva giudicato bene crocifiggerlo per tenerlo fermo) gli saltava dal petto verso il viso e pareva si sforzasse ad allungarsi per dare di uno schiaffo in faccia al rinnegato; ma la morte di Zaccaria dispensò Fabrizio dalla parte di serva del boia, che va col paniere in mercato a fare la spesa per la forca: quanto a lavori forzati non si lasciò patire; i più a vita, meno di venti anni nessuno e nessuno assoluto.

Ai giudici borghesi, adesso ch'era levato di mezzo il caso di sentenziare a morte, pareva andare a nozze; i lavori forzati sono carabattole; perchè, rispetto a infamia, ormai è fuori di uso anco per chi la merita, figuriamoci se nei delitti politici, che domani saranno reputati gesti magnanimi, ed anche oggi a cento o dugento miglia dal luogo dove furono condannati — e rispetto a pena non mancano le raccomandazioni per alleviarla, e poi ci è la grazia, e poi e poi. — D'altronde, si trattasse di omicidi... ti dia la peste, si potrebbe correre! Ma di repubblicani che rompono i commerci, interrompono le industrie, buttano la rendita all'inferno, spingono l'aggio in paradiso... oh! allora taglia, che gli è rosso.

Io non mi so capacitare come taluno, osservando che i borghesi appaiono anzichenò corrivi nel giudicare i reati di sangue, mentre poi procedono indragati contro i ladri, i repubblicani, i demagoghi e gli altri tutti sovvertitori di questo mare morto che si chiama quiete, ne abbia fatto le maraviglie, perchè la ragione spiccia chiara come acqua di fontana; del micidiale non temono, perchè dopo le ventiquattro in casa a cena e a letto con la casta moglie, mentre i ladri vanno giusto in giro in coteste ore ad insidiare le loro mercanzie indarno confidate a chiavistelli amici dell'ordine — e i cospiratori sono, si può dire, i primogeniti della notte.

San Sotero è il patrono dei borghesi, però che valga per lo appunto in lingua greca Conservatore, ed in Italia primo a pigliarlo fu Milico liberto, che tradì il suo benefattore Natale facendogli la spia nella congiura pisoniana contro Nerone,[38] da cui lo eredarono i moderati, ora vili, ora feroci e infami sempre. Un giorno, dopo aver fatto i conti, trovandoci profitto, furono anch'essi perturbatori dell'ordine pubblico; e ciò accadde quando i conti contavano e tenevano le città ordinate a questo modo: un re che regna, una nobiltà che comanda, un popolo che serve; allora costoro predicarono la fratellanza con le plebi, sè uniti a queste salutarono popolo, e insieme puntando superarono i grandi e presero lo Stato. Qui finiva la fratellanza, e la plebe fu rimandata ai solchi e alle officine coll'onore di avere abbattuto i grandi e sostituito i borghesi; se mormorava scontenta, la saldarono a cannonate. Ora la plebe sta a casa con la commissione di lavorare e generare; il lavoro le comprano a mezza gamba in pace, in guerra accetteranno i figliuoli, onde si facciano ammazzare in difesa dei loro interessi per nulla.

La borghesia adesso sta di fronte alla plebe, come la nobilea un dì stava di faccia alla borghesia; la potestà regia, che prima notò co' sugheri nobili, oggi nota co' sugheri borghesi; qualche nobile arrembato mantiene sempre nei vivai di Corte, perchè i borghesi ne piglino gelosia e s'infervorino maggiormente nella servitù. Fermi tutti; l'era delle rivoluzioni è chiusa; uscendone, il ministro Farini se ne tirò dietro l'uscio. Non è solo Augusto re di Polonia sfrenato amatore di sè stesso, che dai balconi aperti faceva bandire tutti i polacchi avere bevuto quando era brillo: tutti così; dei re si mena maggior chiasso perchè in vista più degli altri e perchè divorano per trentamila. I medici per curarli dalla bulima ci sarebbero, ma essi invece di guarirli si mettono a mangiare con loro.

I giudici borghesi, quando il fisco insanisce nei bestiali furori, fanno pasqua, perocchè egli somministri loro comodità di acquistare fama di temperatezza pure menando bastonate da orbi; è gaudio da non potersi ridire quello di mandare la gente in galera col titolo di benefattori dell'umanità; alieni pertanto da squilibrarsi da levante e da ponente, messa l'anima a sedere su l'ago della bilancia della giustizia, aborrirono di assegnare a veruno accusato la libbra intera di pena richiesta dal fisco: — e poi, entrando nelle abitudini mercantili della più parte di loro, sottoporre a tara ogni fattura, scalarono moderatamente a tutti quattro, cinque, fino a sei anni di ergastolo; uno, per non parere, rimandarono assoluto: poi strepitosi e ridenti si rovesciarono giù per le scale, affrettandosi al pranzo. Taluno di loro, mentre passava, sorrise stupidamente ai condannati, pensando che avessero ad aver grata la sua sentenza come una fetta di panettone del Biffi; tal altro tornato a casa, e richiesto dalla casta moglie se avessero finito l' affare, rispose lepido: «anche questa è fatta, posso dire come quegli che mise in forno la moglie.» Insomma parve a tutti avere condotto a compimento tale una impresa, da aggiungersi in appendice ai Fasti consolari di Roma; e se non dissero come Orazio: exegi monumentum aere perennius, e' fu perchè non sapevano di latino; sapendolo, forse non se ne sarebbero contentati.

Intanto che Fabrizio si disponeva a sua volta lasciare il tribunale, venne a lui persona fidata per avvisarlo giù fuori della porta accalcarsi una folla di popolo, che alle voci e ai gesti non lasciava presagire nulla di buono; allora Fabrizio fieramente commosso domanda se dei giandarmi ne fosse rimasto qualcuno nel tribunale, e rispostogli di sì, li chiamava ordinando lo mettessero in mezzo e lo accompagnassero a casa. Appena comparso in pubblico, da mille bocche uscì, come se si fossero dati la intesa, un grido solo: «Ecco Giuda!» Egli finse non sentire, e forse non udì, tanto pareva trasognato; ma di un tratto ecco prorompere fuori dalla turba una donna con gli occhi stravolti, scarmigliati i capelli, le braccia ignude, ognuna delle quali ricinge un fanciullo a mezza vita, gli si inginocchia davanti e gli ruzzola tra le gambe le creature urlando:

— Giuda! Il sangue del loro padre ti sia dato a bere nell'ora dell'agonia.

E i bimbi, levando le manine, tenevano bordone alla desolata stridendo.

— Maledetto! Maledetto!

Fabrizio, atteggiandosi a fuggire, brontola con voce incavernata:

— Giù i coltelli! Liberatemi dai coltelli! E voi, che fate qui? Così i regi giandarmi adempiono i loro doveri?

Il maresciallo, punto sul vivo dal rimprovero non meritato:

— Che colpa abbiamo noi se la paura le fa scambiare le braccia dei bimbi per coltelli?

— Mi hanno minacciato co' coltelli.

— Tiri innanzi, non ci stia a badare.

— Mi hanno minacciato co' coltelli.

— No, no, le furono parole.

— Oh! che dissero?

— Ai condannati non si concedono tre giorni di tempo per isfogarsi contro ai giudici?

— Sì, ma che dissero? Chi furono?

— Non franca la spesa informarcene.

— No, lo voglio sapere.

— Per obbedienza le dirò che essi imprecarono il sangue del loro padre fosse dato a bere a vostra signoria illustrissima nel punto di morte.

— E chi erano essi? Come entro io con loro?

— Eh! se lo può figurare, sono i figliuoli dello isdraelita Zaccaria...

Fabrizio non fiatò più; chinato il viso, lo tenne basso fino alla porta di casa sua: non prese cibo nè bevanda; si gettò vestito sul letto accusando un fiero dolore di capo. Dopo un angoscioso dare di volta prese ad appisolarsi, ma di corto saltò giù prorompendo in acutissimo strido. Accorsa la Bianca, lo interroga spaventata che cosa si senta; ed egli:

— Guardami qui! qui — e abbassava il capo per sottoporlo alla ispezione della moglie — ci devo avere laceri... buchi profondi.... morsi.... vestigi di sanna.

— Nè manco per sogno: hai il tuo capo ravviato per bene, secondo il solito; e quando te lo dico io ci puoi credere...

— E che non ho sentito il mio povero capo stritolarsi per un'ora e più sotto le mascelle del diavolo? Poi ei l'ha sputato in faccia a un dannato che gli bruciava di costa, dicendo: «Giuda, tu mi consumi il carbone a tradimento; scroccone di fama... lascia quel posto e da' luogo al tuo maestro.» Ahi, la mia testa! Ahimè, il mio cervello!

— Calmati, Fabrizio mio, come fa buio ce ne andremo ai pater nostri in San Filippo, dove ti farò ungere il capo coll'olio della lampada di Maria dei sette dolori... vedrai... vedrai... ti farà la mano di Dio... ma rispondimi di proposito, chè dianzi non sono riuscita bene a capire, è egli finito il magno processo?

— Il processo! Ah! il processo... sì, è finito. Adesso comincia il mio.

Capitolo XVIII. TUTTI I NODI GIUNGONO AL PETTINE.

E adesso ritorniamo al giovane Omobono. La notte era inoltrata senza che egli si fosse deciso ancora di passarla a veglia, ovvero al teatro: se ne stava seduto dinanzi al caminetto contemplando le fiamme crepitanti, non potendo condurre il suo pensiero sopra veruna delle tante cose che recavano molestia, e neppure sopra veruna delle dilettissime, come l'amore della sua Amina: aveva il cervello attrappito.

Di repente si apre l'uscio del salotto ed entrano taciti, a modo di congiurati, l'avo Omobono e la sua anima dannata Nassoli, Aeneas et fidus Achates. Il Nassoli, che veniva ultimo, ebbe avvertenza di chiudere diligentemente l'uscio e tirare la portiera.

I sopraggiunti, ricambiati i saluti, assettaronsi al fuoco, dove attesero per parecchi minuti a scaldarsi; pareva che il vecchio Omobono, quantunque fosse quel furfante da tre cotte che noi conosciamo, pure una certa esitanza gl'impedisse di rompere su quel subito il silenzio; si trattenne alquanto; all'ultimo incominciò:

— Nipote mio, mi rincresce di avertelo a dire, siamo alla porta co' sassi.

Il nipote non rispose verbo, onde il vecchio, dopo breve pausa, ebbe a continuare:

— Proprio rovinati di pianta.

— Se così è, disse alla fine Omobono con saldo accento, pera l'interesse, salviamo l'onore...

— Questo per lo appunto non siamo più a tempo a salvare, e fossimo non sarebbe ciò che preme; dunque all'onore diamo di frego. Davanti a noi adesso si aprono due sentieri, o darci di un revolver nel cranio, e questo io scarto ricisamente, o adattarci al domicilio coatto in qualche bagno del regno italiano, ed anche questo non entra nelle mie previsioni; haccene un terzo, e questo giudico l'unico spediente; salvare più che possiamo per vivere bene in questa vita, perchè nell'altra Dio fa le spese, in questa no. Ora dammi retta, figliuolo; io conto che tu debba trovarti su per giù un seicentomila lire tra cambiali, biglietti all'ordine, valori pubblici e cassa; che te ne pare?

E Omobono zitto: il vecchio continua:

— Urge che tu riscontri il portafogli, rechi tutto in danari, e ce lo spartiremo... cioè, io piglierò due terzi e tu un terzo.

E il giovane zitto: prosegue l'altro:

— Tu con questo bene di Dio ti ecclisserai; vai in America, ovvero in Australia, e appena ti sappia in salvo io mi dichiarerò fallito.

Il Nassoli, che pareva sbadato pigliarsi diletto di segnare numeri sopra un foglio, qui levò lemme lemme il capo ed osservò:

— Ecco, su i libri del signore Omobono potremmo, per meglio colorire la cosa, segnare altre cinque o settecentomila lire come prese dalla cassa del suo signor nonno.

E il nonno:

— Voi osservate saviamente, Nassoli.

— Ch'è quanto dire, soggiunse il giovane, che io ho da figurare essere stato la causa del suo fallimento?

— Già.

— E per dare colore alla cosa mi toccherà scappare, lasciandomi dietro la opinione di aver rubato la cassa.

— Sicuro.

— Ma chi mi entra mallevadore che io non sarò agguantato anche fuori, e qui, tradotto con le manette, giudicato e condannato a pena infamante?

— Io; ti provvederò di quattro o sei passaporti e di altrettante parrucche, ti munirò di lettere commendatizie per modo che troverai assistenza anche in capo al mondo; e noi pure formiamo una setta forse la più antica come la più efficace di tutte le altre.

— E il nome chi me lo ripara?

— Il nome, caro mio, gli è un cappello, il quale, quando non ci serve più, si butta via per pigliarne un altro, e tu baratterai quel tuo sfiaccolato Onesti coll'altro più robusto di Briganti... non mi torcere il niffo... rammentati che dei Briganti ne annovera parecchi il Parlamento italiano, deputati spettabili, mentre degli Onesti, per quanto io mi sappia, non ce n'è mai stati. E se ai serpi è dato in capo ad ogni anno mutare di pelle, comecchè attaccata alla propria carne, o perchè l'uomo non potrà mutare il nome, ch'è cosa fuori di lui, e insomma delle somme fiato e non altro?

— E la mia coscienza?

Il Nassoli sospese da capo il suo trastullo di segnare numeri, e per la seconda volta levò la testa come persona che senta cosa che non capisca, e così sembra che avesse a parere anche al vecchio, imperciocchè osservasse:

— E adesso che sortite sono queste di parlarmi chinese?

Il giovane con sembianza alterata, ma con salda voce, soggiunse:

— Temo che si opponga un'altra difficoltà.

— E quale?

— Nel portafogli conservo pochi recapiti commerciali da potersi facilmente negoziare.

— O le cinque... le sette... le novecentomila lire che tu hai avuto da me dove le hai tu messe?

— Quelle che sono sono; le si trovano registrate su i libri e depositate in cassa.

— O che il danaro resta nelle casse a condire? E perchè non le adoperasti?

— Perchè?

— Sì, perchè?

— E me lo domanda?

— Certo, ma certo che te lo domando: io ho bisogno sapere perchè tanto valsente, contro la mia volontà e le mie istruzioni, rimase morto nelle tue mani?

— Ebbene, poichè mi obbliga a dirglielo, le dirò: perchè i biglietti ch'ebbi da lei erano tutti falsi, per la qual cosa, appena mi accorsi a qual partito terribile ella mi avesse posto, non solo mi astenni metterne altri in circolazione, ma m'industriai ritirarne la maggior quantità che per me si potesse... quindi la sua cassa è debitrice, non creditrice della mia.

— Che tu fossi un vigliacco... un asino calzato e vestito, già sapeva, ma fino a questo punto prima di ora non lo avrei immaginato. Il giorno che mi chiappò il frullo di uscire di casa, per chiederti a Isabella, era meglio che nello scendere le scale mi fossi rotto le gambe e il collo per giunta... e adesso, Nassoli, non ci sarebbe verso di collocare questi biglietti?

— Lo giudico intempestivo... estremamente intempestivo, rispose asciutto il Nassoli.

— Maledetto! urlò Omobono, dando di un forte pugno sopra la tavola, e proseguiva; ma il Nassoli ne reprimeva il furore dicendo:

— Che serve? Ora l'escandescenze riescono intempestive... estremamente intempestive; navighiamo secondo il vento.

— Avete ragione: orsù, via; domani tu negozierai il portafogli, tutto se riesce, se no la maggior parte: danari e valori tu fa' di portare a me; secondo i capitali che avrai ricavato, io ti largirò sussidi pel viaggio e per istabilirti in luogo lontano, dov'io non senta più parlare di te: ammannisciti a partire da un'ora all'altra; al passaporto e all'imbarco a Genova provvederò io: voi, Nassoli, domani per tempo metterete i miei e i suoi registri in regola, onde dal confronto loro risulti a luce meridiana che Omobono Onesti si è fuggito lasciandosi dietro un vuoto di cassa di tanti milioni, quanti voi reputerete necessari.

— Che? come? ruggì il giovane Omobono. Io non fuggo, io non lascio dietro a me vuoti di cassa. Se ladri ci sono stati, non li dovete cercare in mia casa.

E l'avo cortese di rimando:

— Dammi un sigaro... grazie: — lo accese e dopo due o tre boccate di fumo prosegue: — Se ti ostini a rimanere noi sdruccioleremo di conserva in galera, mentre nel modo che ti propongo io tu te ne andrai a godere la tua bella libertà e forse la stima di nuovi cittadini che la Provvidenza rimetterà nelle tue proprie mani come una vigna da vendemmiare: io certo rimango per le peste, ma ho per fede che la canapa per la fune che ha da impiccarmi fin qui non sia stata raccolta.

— Insomma, io, innocentissimo di tutti questi pelaghi, dovrò essere sagrificato come vittima espiatoria?

— E se non fosse così dove sarebbe il tuo merito? I rei si puniscono; gl'innocenti si sagrificano. Diavolo! È distinzione elementare. Chi fu che si sagrificò per le colpe del genere umano? Gesù Cristo, bene altramente immacolato di te...

— Ma io non sono Cristo, nè lei il genere umano.

— Certo, a rigore non concorrono i termini della comparazione, io l'ho detto così per via di esempio: ad ogni modo accetta di buona grazia la parte che io ti faccio e non ne parliamo più, che non ho tempo da perdere. — E qui tre e quattro boccate di fumo una dietro l'altra.

— Questa non è la mia parte, tremante di passione borbottò il giovane Omobono.

— No! grida il vecchio, diventando livido per male represso furore; — no! — e levatosi di bocca il sigaro lo deposita sul tavolino, quindi continua: — o perchè allora, dimmi, affamato, ti avrei tratto in casa mia e levato la pancia di grinze? O perchè, miserabile, ti avrei messo le scarpe in piedi e la camicia addosso?

— Non m'insultate... non m'insultate, per quanto amore portate a mia madre... alla vostra figliuola.

— Che importa a me delle figliuole? Meno passere, più panico. Chi ti dotò di casa, di servi e di cavalli? Chi dalle latrine ti assunse alle beatitudini del paradiso terrestre? Mio il bicchiere col quale bevi, mio il piatto dove mangi, mia la catinella dentro cui ti lavi, il letto dove dormi, la sedia dove ti assetti, le vesti che ti coprono; se quanto hai di mio intorno a te, da me chiamato venisse a me, tu rimarresti come Adamo quando uscì dalle mani del Padre Eterno.

— Non è vero... la mia casa non ebbe bisogno di casa vostra mai, mentre la mia vi ha sovvenuto, vi ha aiutato, e Dio sa con quanto scapito di reputazione e di danaro.

Il vecchio barattiere, fingendo non sentire coteste parole, continuava infellonito:

— E ti bastò l'animo, impronto e sfacciato, per credere che tutto questo io facessi perchè, oltre gli altri lussi, tu t'incarognissi nel lusso più depravato di tutti, quello di trinciarla da galantuomo? Cotesto è lusso regio, non lecito ai semplici mortali; chiunque si attenti andarlo a cacciare nelle bandite regie, cade in trasgressione, se pure non ci acchiappa qualche palla nel cranio per via di ammonimento.

— Dunque voi presumeste comprarmi l'onore?

— Io non so che sia onore, e so anche meno in che cosa avrebbe potuto avvantaggiarmi. Tu promettesti essermi un guanto nella mano, e mi sembra averti pagato per mille dozzine di guanti: eletta d'intelligenza, fiore di gioventù si adatta a diventare cadavere gratis in mano del padre maestro gesuita, e tu tarocchi al primo servizio che ti chiede il tuo benefattore. Ch'è questa boria! La profferta di gente della tua qualità supera di due cotanti la richiesta: e credi tu che se io ti chiedessi il doppio di quanto ti chiedo, in confronto di quello che profusi per te, tu salderesti mezzo il credito che hai contratto meco?

— Dunque, quando l'avo finse beneficare il suo sangue aveva in mente di comprargli l'anima?

— Nè l'anima, nè il corpo: cotesti contratti un dì faceva il diavolo: oggi non costumano più: noi pattuimmo un cambio di servizi; finora ho pagato, adesso è venuto il tempo che tu mi consegni un po' di quanto ti comprai; e mi piace ripeterti che tu hai a considerare come la fortuna non dia luogo a scelta: dove tu ti ostinassi, me perdi e te non salvi; tu altro non puoi se non aggiungere al vincolo di sangue che ci lega una catena di ferro, la quale verrebbe ribadita dall'aguzzino dalla tua gamba destra alla mia sinistra, ovvero dalla tua sinistra alla mia destra, a piacimento.

Omobono digrignava i denti; si levò con impeto, ma non reggendosi in piedi ebbe a ricascare sulla seggiola; pure riuscì a dire a strappi queste parole:

— Signori, voi lo vedete... mi pare che mi abbiano dato di una mazzola sul capo... lasciatemi in pace... ho bisogno di raccogliermi.

— Il tempo stringe...

— Domani l'altro...

— Che domani l'altro! Domani.

— Ebbene, procurerò di ridurre in essere il portafogli... domani.

— Se le occorre aiuto, rimarrò con lei — disse il Nassoli.

— No, vada col suo principale, ch'egli di certo ne avrà più bisogno di me.

— Dunque a rivederci, conchiuse il vecchio ribaldo, e cercato e trovato il sigaro che già depose spento sul tavolino, lo riaccese alla candela del nipote e se ne andò tranquillo come se avesse conchiuso la compra di una partita di bozzoli.

Ho letto che la luce corre settantaduemila leghe il minuto secondo, e non mi è parso gran cosa, perchè il pensiero umano in un battere di occhio gira e rigira dieci volte il mondo; di vero i visitatori di Omobono non avevano ancora mutato un passo fuori dell'uscio del suo salotto, che egli aveva immaginato, discusso e stabilito quanto dovesse fare: atteso il tempo che gli parve necessario perchè si fossero allontanati, e poi di rincorsa in casa alla Elvira; quivi rinvenne Egeo ed altri parecchi amici sviscerati che stavano spogliandosi amorosamente all'antico giuoco del lanzichenecco, il quale ringiovanito col nome di toppa adesso forma la delizia delle nostre veglie. Omobono, invitato a pigliarci parte, se ne schermì col pretesto di forte emicrania, e veramente tutta bugia non era; quando gliene cadde il destro fece cenno all'Amina, che giocava anch'essa alla disperata, perchè si levasse per andare a parlargli. Di cotesto segno, ch'egli fece con la massima cautela, affinchè veruno se ne accorgesse, se ne accorsero tutti, nè se ne scandalizzò alcuno, che oggimai li consideravano come sposi, anzi taluno gli affermava belli e sposati; ad ogni modo non erano gente da commoversi per simili bazzecole.

*

Eccoli soli e seduti una allato all'altro e con le mani in mano, secondo l'usanza vecchia.

— Amina, cominciò a favellare Omobono, io, con la morte nel cuore, vengo a dirti addio.

— Ch'è mai successo? Parla presto... o Dio! levami di affanno... se non mi vuoi vedere spirare ai tuoi piedi.

— Domani, così imperante l'avo cortese, mi tocca a imprendere per le sue comodità un viaggio.

— Lungo?

— Lungo.

— E tornerai?

— Dio sa quando; — e con voce sommessa aggiunse: — forse mai più.

— Ma la ragione? Anche ai condannati leggono la sentenza.

— Doveva partire senza rivederti; ma tu, che sai che cosa è amore, pensa se mi bastasse il cuore. La ragione pur troppo ci è, e feroce, ma non dipende da me; tanto ti basti e ti sia di conforto sapere che io ti ho amato, ti amo quanto creatura umana può amare, che sono misero, ma misero assai, compiangimi di vedermi ridotto a tale di desiderare che altri ti renda felice, poichè io non potei.

— E credi tu, Omobono, che un amore pari al nostro si rompa come un filo di cotone? Io ti contemplo così disfatto da movere a pietà, non che la tua sposa, il tuo più fiero nemico; vieni, riposa il tuo capo su questo seno, che palpita per te: lasciati consolare, diletto mio... sfogati... non ci giurammo esserci compagni così nelle gioie come nei dolori? Chi altri sarà mai fuori della moglie di Cireneo che aiuterà il marito a portare la croce?

Omobono non esitò ed accettare l'asilo del seno della sua Amina, e, riparato una volta nel fidatissimo porto, era impossibile che non vi si alleggerisse del carico del suo travaglio; sarebbe stata scortesia, o piuttosto salvatichezza, e la natura aveva fabbricato gentilissimo il nostro Omobono; — e poi, se si ha da dire come la stava, nonostante ch'ei nicchiasse, si sentiva voglia di parlare per lo meno quanto ella di udire. Impertanto, dopo qualche lezio, egli le riferiva punto per punto la conferenza che aveva avuto luogo fra il suo nonno e lui; ho detto punto per punto, bene inteso però riveduto e corretto per suo uso.

Anco quando le palle stanno ferme, avviene di radissimo che noi raccontiamo preciso la faccenda come l'avvenne; tanto meno poteva pretendersi nell'agitazione e nel pericolo in cui si versava Omobono.

In simili frangenti l'uomo costuma tagliarsi con la lingua la propria storia e adattarla al fatto suo nella medesima maniera che il sarto gli taglia con le forbici il vestito a suo dosso. Di vero Omobono non mentì, tacque tutta la parte concernente i biglietti falsi, inducendo Amina a credere ch'egli, tra recapiti mercantili, valori e biglietti di banca, si trovasse a possedere il valsente di un milione e più.

Omobono non li vide, perchè tenendo la faccia bassa sopra il seno di Amina, meditasse che, se caso mai avesse dovuto morire, fin d'ora lasciava per testamento volere essere sepolto vivo là dentro: io vidi sì corruscare gli occhi all'Amina al modo stesso che balenano alle bestie feroci nel punto che stanno per avventarsi sopra la preda; ond'ella, più felinamente carezzevole che mai gli fosse stata, stazzonò i capelli e le guancie di lui e interrogò poi con voce che sì e no pareva lamento:

— Ed ora, sposo, può la tua moglie sapere che cosa tu intenda fare?

— Forse mi avanza la scelta? Ecco in succinto l'unica via che mi para davanti il destino. Io fuggirò, portando meco del mio danaro quel tanto che mi basti per condurmi in America traversando la Svizzera; il danaro potrei in coscienza appropriarmi tutto, perchè me lo sono guadagnato con industria onesta del pari che indefessa; e se il mio nonno per lo addietro mi provvide di capitali, io glieli ho restituiti con usura: se i suoi affari da parecchio tempo tracollano in un baratro senza fondo, i miei, meno voraginosi ma più solidi, prosperavano; pure glielo lascerò tutto o quasi. Io so bene che lo sciagurato lo farà sparire, e so eziandio, perchè non si tenne dall'ordinarlo in mia presenza al suo computista, che saranno acconciate le scritture in guisa d'apparire io debitore di parecchi milioni alla ragione di lui, e ciò per dare, se gli riesce, un po' di vernice alle oblique operazioni dentro le quali egli si era abbandonato a testa bassa: mi pare di vedere ch'egli in fine de' conti altro non farà che insaccare nebbia; poco filo è il mio per poter bastare al rammendo dei suoi strappi: pure io non mi devo per questo tirarmi indietro da sagrificarmi per lui. Amina mia, amore e gratitudine non conoscono abbaco nè seste; perchè se prima di pagare il debito avvenga ch'essi si pongano a fare i conti, va' pur sicura che essi non finiranno mai il calcolo. Vivrò ramingo come potrò... e quando l'acerbità del dolore di averti perduta... perduta per sempre... e il peso della infamia immeritata mi si farà insopportabile... e il tedio dello esilio avrà roso ogni fibra vitale del mio cuore, quando infine le cause del morire supereranno quelle del vivere, allora, chiesto prima perdono a Dio, col tuo nome su le labbra, mia adorata Amina, io mi farò dire da una palla nel cranio: tu hai vissuto abbastanza.

— Noi moriremo insieme! esclama Amina, e nello impeto sfrenato dell'entusiasmo con ambedue le mani strigne il capo di Omobono, e la sua bocca salda alla bocca di lui, talchè sembra volerci riversare la propria anima; per lunga ora la passione soverchia non concesse loro pronunziare parola: confondevano baci, sospiri, palpiti e lacrime, liquore stillato dalle palme del paradiso.

Non è vero niente. In paradiso non crescono palme, e chi ci è stato ne fa testimonianza: cotesto che io vi ho detto è liquore anodino, che in certo giorno di armistizio nelle guerre durate fra il cielo e la terra si posero a comporre di amore e d'accordo insieme angeli e demoni. Gli uomini, per non restare indietro, dicono che il giorno di poi fabbricassero in terra l'aceto dei sette ladri, e tutto questo fecero tanto su quanto giù in sollievo della umanità condannata da suo padre al dolore e alla morte. A considerarla bene, questa è una gran cosa. Saturno, padre eterno degli antichi, si mangiava i propri figli, il Padre Eterno nostro non monda nespole, sicchè resta chiarito che a barattare padri eterni più che guadagnare si scapiti; io ho detto ciò, non per disprezzo dei padri eterni vecchi o nuovi, ch'io venero tutti, bensì per ammonire quelli che avessero talento di mutare un'altra volta.

Passò cotesta fiumana di affetto come tutto passa quaggiù; ma l'Amina continuò a tenere con le due mani Omobono, quasi venuta in sospetto che le avesse a fuggire.

Se Carneade quando andò a Roma c'incontrava Amina, per gelosia si sarebbe impiccato: non vanti più la Grecia i suoi retori, tacciano le scuole dei tomisti e degli scotisti; dentro un sacco e in mare disputatori, controversisti e avvocati, imperciocchè veruno di loro avrebbe potuto reggere il paragone con Amina; se voi l'aveste udita vi sareste persuasi a un tratto com'ella avrebbe fatto la barba, non che ad altri, a Demostene. Tutto ella seppe mettere in opera per tirare Omobono ai suoi voleri, quanto il sofisma escogita di più sottile, la dialettica di più strignente e la logica di più calzante. Che se alcuno volesse sapere chi le fu maestra nella eloquenza, io glielo dirò senza ambagi; la natura, suprema educatrice degli animali che hanno discorso di ragione; in vero, se l'arte (lo certifica il Dante) è nipote di Dio, gli è manifesto che deve avere avuto per madre la natura: ora, se tanto l'arte potè, creando università, studi, licei, ginnasi, Giovanni Lanza ministro d'istruzione pubblica, ed un armento di docenti, o perchè la natura non potrà fare senza tante invenie quello che l'arte in grazia dei suoi molti trovati appena può? Forse Orfeo frequentava le scuole dei reverendi padri gesuiti? O fu visto Omero col cartolare a tracolla recarsi alla lezione dei non meno reverendi padri Scolopi? Natura si passa molto bene dell'arte, ma arte non può fare senza natura.

A cui natura non lo volle dire...

con quello che seguita.

Una volta sarebbe stato concesso credere che Amina inspirasse Mercurio, il quale, fra i vari suoi attributi, possedeva quello della eloquenza; di vero gli antichi lo effigiarono talora con le catene di oro pendenti dalla bocca, e tal'altra col cigno in forma di cimiero al sommo del petaso; — ma ohimè! se la religione di Mercurio un dì era merito, oggi dalla chiesa si danna come eresia, ed io non vo' screzi con la Chiesa, perchè se non brucia più gli eretici, potrebbe tornare a farlo, massime per virtù dei nostri guidaioli, che si arrotano a riavvivarla di sanne e di artigli. Tuttavia in riga di dubbio, ma poi mi rimetto al giudizio della sacra congregazione dei canoni, mi parrebbe che se tanto rimase fra gli uomini il culto di Mercurio, dove invece di scemare ogni giorno cresce, e i suoi tempii si moltiplicano[39] e le are, potrebbe benissimo la Chiesa accoglierlo nel suo grembo e metterlo in paradiso allato a san Matteo pubblicano. I romani non istettero a un pelo di assumere Gesù Cristo al fianco di Venere? Per quanto si narra, ciò propose Tiberio in Senato; quest'altro nel collegio dei cardinali potrebbe proporre Pio IX: entrambi pontefici massimi.

*

Ai giorni che corrono, nei quali si vive a salti convulsi e la più parte degli uomini renunzia alla eternità, come a cosa troppo lunga, sarei maldestro se riportassi punto per punto la orazione di Amina; in corti accenti ve ne spremerò il sugo. Dapprima ella distinse il padre dall'avo; i doveri verso colui che ci generò non si possono estendere ad altri, e s'intende da sè che l'atto generativo non si opera per delegazione, nè si crea con la immaginativa: e mise innanzi altresì una nuova distinzione fra l'avo paterno e il materno; più cosa il primo, imperciocchè di lui portiamo il nome e produciamo la famiglia, ond'ella tenere per fede che padre veramente non sia quegli che le giuste nozze dimostrano, bensì colui che ci nudrì fanciulli, educò giovani, uomini sovvenne e sempre amò. Ora, qual cura e quali i benefizi dell'avo materno verso di lui? Egli lo scelse per comodità propria come un cavallo o un cane; ma per uso mille volte peggiore, perchè al cavallo non si chiede altro che correre, al cane abbaiare, mentre adesso l'avo esige dal nepote cose contro la natura, le leggi ed i buoni costumi. In tempi barbarissimi i padri si fecero padroni della vita dei figliuoli, non però mai dell'onore. Anche Dio non andò più in là che chiedere ad Abramo tagliasse la gola al figliuolo Isacco, e Abramo, se avesse mandato pei giandarmi e fatto arrestare Dio come istigatore di parricidio, si sarebbe meritato la croce della Corona d'Italia: ma allora i giandarmi non usavano e Moisè non aveva ancora bandito i comandamenti della legge di Dio, dove sta scritto non ammazzare; e poi le leggi nelle monarchie assolute, di cui è suprema la monarchia di Dio, non obbligano chi le fa; tuttavolta l'onore d'Isacco lasciò stare; e Iefte che disse alla figlia? Niente altro che questo: adattati ad essere sagrificata per la maggior gloria di Dio: gli è vero che quella povera vergine avrebbe dovuto rispondergli: sagrifica te, se ne hai voglia, e denunziarlo alla polizia perchè lo chiudessero nell'ospedale dei matti; pure sta in fatto che in altri tasti Iefte non entrò; e così del pari Agamennone, cui i greci dopo la strage d'Ifigenia dovevano lapidare, non assumere al sommo imperio dell'oste contro Troia. L'onore preme troppo più della vita, perchè vita ch'è mai? È conscia attività del corpo transitorio, mentre l'onore è coscienza della dignità dell'anima che dura: la vita si può affermare proprietà dell'uomo, l'onore spetta meno a lui che alla sua famiglia e alla sua patria; la morte lascia una lacuna nelle famiglie, la infamia una macchia: la prima finisce e si circoscrive nell'uomo, la seconda contamina i successori; essi non peccarono, e tuttavia porteranno il peso della iniquità dei padri. Impertanto conchiudo che niente da te si deve all'avo iniquo. Se per istinto di virtù gentile tu vorrai procedere benefico con lui, io non ti tengo, anzi ti lodo, di ciò acquisterai merito presso la tua coscienza e il mondo: ma appartiene a te solo giudicare il tempo, il modo e la misura con i quali intendi usare questa tua benevolenza: da quando in qua si presumerebbe imporre la regola al benefattore? Ciò tanto più vale col tuo nonno, quantochè perduto il lume dagli occhi non sa più quello che si faccia, e mentre te precipita sè non salva. Se il danaro che possiedi fu guadagnato legittimamente da te, e tu tientelo. Non acconsentire sieno alterati i libri della tua ragione: procura riporli in fidata custodia. Dei consigli dell'avo accetta quello di allontanarti, perchè non puoi rimanere in paese senza correre il rischio di mettergli la fune al collo, e questo non hai a fare. Là dove compiacendo alle sue impronte richieste tu commetti l'errore, o piuttosto di' colpa, di accalorarlo nell'agonia dei naufraghi, di attaccarsi ai rasoi; noi spassionati comprendiamo com'egli ormai bisogna che anneghi, e se ei fa tanto di aggrapparsi a te affogherete ambedue: mettiti da parte, e allora vedrai ch'egli rinsavirà: dando le spese al cervello, attenderà a salvare quello che per lui può salvarsi: vo' dire che non muoia di miseria. Certamente egli riparerà in Isvizzera, e te lo farà sapere, e tu, se sia rimasto privo di facoltà davvero, lo sovverrai allora, non secondo i suoi meriti, ma la tua misericordia. Sedato il primo trambusto, noi torneremo, e i tuoi libri faranno prova della tua innocenza. Allora, caso mai qualche avventato o qualche maligno avesse tolto argomento dalla tua assenza di calunniarti, non solo avrà a ricredersi, bensì a darti lode di cortese e di pio, come quello che aborrì aggravare il padre di sua madre, amara stretta alla quale non avresti potuto sottrarti restando.

Ho detto, ed è vero, che per vincere Omobono Amina non adoperò blandizie, nè lacrime; però, più che tutto, a fermare la mente incerta di lui valse la risoluzione da lei palesata in modo assoluto di volerlo accompagnare dovunque ei si conducesse; considerarsi ormai sua moglie, e quindi per debito di religione e per affetto obbligata a seguitarne le fortune. Omobono, in adorazione davanti a lei, le baciava le mani e quasi benediceva la sventura che lo aveva colpito, come quella che gli rivelava tanta parte della divinità della sua donna: non era avvezzo udire amore a favellare così nobile linguaggio; gli parve essere diventato maggiore di sè; quasi si sentì crescere l'ale dopo le spalle; quasi credè abbracciato con lei volare su e giù per le sterminate volte dei cieli.

*

Il Nassoli si condusse la domane per tempo al banco di Omobono; lo rinvenne chiuso; tornò più tardi e con fortuna niente migliore; all'ultimo, verso le dieci, potè entrarvi; al porre il piè sopra la soglia gli parve un'aura di solitudine ventargli nella faccia, quantunque mirasse seduto al suo posto il commesso principale della casa, a cui volgendo il discorso domandò:

— Ben levato, signor Carpoforo, o che mi saprebbe dire dove si trova il signor Omobono?

— Partito.

— E per dove, di grazia?

— Non lo so.

— E torna?

— Non lo so.

— Diavolo! O che mi permetterebbe ch'io mi ponessi a lavorare intorno ai libri della sua ragione, come siamo andati d'accordo con lui?

— Non posso; sto dietro a metterli in pari io.

— In pari! Oh! che bisogno ci è di metterli in pari?

— O come farebbe lei in diversa maniera il bilancio?

— Bilancio! Oh! che vuol fallire il signor Omobono?

— Vuole liquidare: e a me lasciò la procura per condurre a termine questa operazione.

Il Nassoli capì la ragia e, cauto com'era, diede volta al timone, e ritirate le labbra verso le orecchie scoperse i denti acuti come lesine (era la sua maniera di ridere), prese commiato dal laconico ragioniere: scendendo le scale una considerazione gli si posò in cima della mente, come una mosca su la punta del naso, e come questa importuna, più la scacciava e più riveniva:

— Quel benedetto uomo non l'ha mai voluta capire che piantando broccoli non si possono raccogliere ananassi.

E per la prima volta la venerazione ch'egli professava altissima pel suo principale sofferse un picchio solenne. Venuto al cospetto di Omobono, asciutto asciutto gli espose il caso, e con sua sorpresa vide come costui non si scotesse punto; stette alquanto su di sè, si fregò con la manca la fronte, si arruffò, più che non erano, i peli delle sopracciglia, ed alla fine esclamò:

— Meglio così. Dal divoratore uscirà il cibo e dal forte la dolcezza;[40] io mi salverò naufragando... Nassoli, di poca fede... tu hai dubitato.

Il Nassoli sentì rimettersi il cuore in corpo, ed aumentò di due cotanti la stima verso il suo principale.

Amina ed Omobono con mentito nome recaronsi a Como, non avendo potuto in tanta angustia di tempo procurarsi il passaporto in regola.

Como! E poi dite che la fortuna passando sul mio capo non ci abbia rovesciato la sua cornucopia: si può immaginare occasione più destra per descrivere le magnificenze di Como? qui tutto; prima la emulazione, la quale è tanta parte delle opere umane, mi pone le perette sotto la coda; una legione intera di letterati, che vanno per la maggiore o per la minore, le celebrarono in prosa e in versi. — Cesare Spalla, Giovanni Berchet, il Corbellini, il Torti, il Gentili e il Turati le presero a tema delle loro poesie. Gli storici e gli scienziati metto da parte, però che mi farebbero comporre nuove litanie, le quali solo a Torquato riuscì rendere amabili nei suoi estri religiosi: però non si possono tacere Plinio, Cassio e lady Morgan; alla quale è mestieri che noi perdoniamo molto, perchè ci amò molto e ci confortò a non disperare, mentre da tutto il mondo qui conveniva gente a cantarci l'esequie fino alla Speranza. Mi tengo unicamente a quelli che sciuparono carta ed inchiostro (intelletto non conta) a dettare: sogni d'infermi e fole da romanzi; e qui potrei dire come il Bertolotti ponesse la scena del Sasso rancio e della Isoletta dei Cipressi, il Grossi del Marco Visconti e di Ulrico e Lida, il Carcano dell' Angiola Maria, il Bazzoni di Falco della Rupe, e di altri mi passo. Alcuni di questi libri galleggiano sempre, altri si vedono sì e no fra due acque come cosa che affoga; taluno riposa sopra un guanciale di limo in fondo a Lete, ma ciò gli avvenne non mica per vizio di forma, secondochè taluno crede, bensì per manco di virtù negli autori. Forse perchè pigliarono sembianza di epici, mille poemi si salvarono dal duro sonno e dalla inremeabile morte? Godetevi le vostre trombe epiche, noi ci contenteremo degli scacciapensieri quando si chiamino Promessi Sposi, Gil Blas, Nostra Dama di Parigi, Don Chisciotte, Ivanhoe, l' Ebreo errante, il Viaggio sentimentale.

Ed ecco, quanto più poggi in alto, più vasti orizzonti si dilatano avanti a te; vedi quanti uomini grandi ti porgono la loro fama come tela ai tuoi dipinti; ecco qui Plinio il Vecchio co' suoi 180 volumi di storie naturali e politiche, di milizia, di eloquenza, di grammatica, di tutto; egli fu un feroce scrittore come Nembrod cacciatore dinanzi a Dio; — eccolo co' suoi governi in Ispagna, il suo ammiragliato della flotta romana al Miseno, la eruzione del Vesuvio, e la morte incontrata voluttuosamente per la irrefrenabile cupidità di sapere, dacchè ei ci lasciasse come farmaco ad ogni sventura questa sentenza: «il miglior dono fatto all'uomo dalla Divinità è il potersi togliere la vita; dono che i fati non consentirono alla stessa Divinità». Dopo il Vecchio, ecco Plinio il Giovane, di cui il panegirico a Traiano, mosaico di piaggeria cortigianesca composto di frammenti repubblicani, ingannò anche l'Alfieri, il quale con sommo studio lo volse dall'idioma latino nel sermone nostro; — però, come a tutti apparisce, così non parve al signor Giulio Janin, che ci fa sapere come l'Alfieri convertisse codesto panegirico in una satira scritta in latino, dove si compiace denigrare quanto di grande fu operato nello imperio del magnanimo Traiano. — Le sono cose da non credersi! Ma che non è lecito a monsieur Janin, il quale ci racconta nei suoi viaggi in Italia, nella foresta dei cipressi del camposanto di Pisa avere udito il fiotto del mare, mentre la spiaggia del Gombo dista almeno tre miglia, e dei cipressi ne ha due; uno in cima, l'altro in fondo al quadrilatero, come l' alfa e l' omega sopra le lapidi delle sue sepolture. Quasi tutti i francesi nei giorni della nostra sventura ci dileggiarono o c'infamarono; in quelli del risorgimento ci astiarono e ci astiano; quasi tutti gli italiani nei giorni della sventura dei francesi augurano a loro sorti meno triste, mente migliore.

E come ti basterebbe l'animo di dimenticare il buon Martino della Torre, il quale, vinti per virtù di arme i Ghibellini suoi nemici, non sofferse si mettessero a morte i prigioni; «perchè, egli diceva, non essendomi venuto fatto di dare la vita ad alcuno, nè manco voglio che a veruno sia tolta?» In coscienza non lo potresti dimenticare, non fosse altro per confrontarlo al Thiers, uomo civile di questo secolo civilissimo, il quale, comecchè orbo di figli al pari del Torriano, nelle quotidiane stragi piglia diletto quanto e più le vecchie divote nella recita del rosario.

Nè passerai sotto silenzio Paolo Giovio, vescovo di Nocera, di cui l'ossa giacciono[41] e lo spirito vive in Firenze, non fosse altro per iscolpare gli odierni gazzettieri dimostrando a prova che non incomincia da loro il mestiere di battere moneta alla zecca della calunnia e dell'adulazione; non da loro la usanza di menare le Muse al mercato, non si potendo al macello; levate dunque dai vostri trogoli il muso, o gazzettieri, e consolatevi, voi potete vantare auspice e compagno nella vostra infamia anche un vescovo. Il Giovio tirava a palle rosse su l'Aretino, e l'Aretino su lui; la batteva tra il rotto e lo stracciato: a quello più della mitra calzava un remo; a questo, invece di un collare di gemme, una catena al piede; pure l'Aretino, meno maligno del vescovo (di bontà con costoro non si ha da parlare), prima perchè non era prete, e poi qualche affetto sentiva, non fosse altro per Giovanni delle Bande Nere.

Se volete papi, eccovi papi; ce n'è per tutti i gusti: qui vi mostro Innocenzo XI, che Luigi XIV a sollievo degli ozi regali aveva messo a bersaglio dei suoi strali, plaudente la Francia; e qui il Rezzonico, di cui non avanza di memorabile altro che il sepolcro scolpito da Canova, il quale ci effigiò due leoni che ci hanno proprio che fare quanto una pianeta addosso alla statua di Tiberio imperatore; e dopo i due papi, le due sonatrici di violino, sorelle Ferni, non estranee al papato come di prima giunta sembrerebbe, dacchè se Pio VI, pel suo andare in girone a Vienna e in Francia, si meritò il nome di pellegrino apostolico, a maggior diritto le Ferni, tanta parte di Europa circuendo a suono di violino, possono pretendere il titolo di pellegrine armoniche.

Ma sopra i Plini, i Giovi, i papi e le Ferni inchinatevi ad Alessandro Volta. I francesi sempre superlativi (qualcheduno dice sgangherati) scrissero del Franklin, che strappò il fulmine dal cielo e lo scettro ai tiranni, e non è vero niente: quanto a fulmine, anche ieri la folgore mi ammazzò una vacca; quanto a scettro, me ne rimetto ai lettori. Le storie raccontano che Luigi XVI, essendosi impermalito di cotesta epigrafe, facesse ritrattare il Franklin con la sua lode in fondo ai canteri; i francesi a posta loro se ne impermalirono, e arrapinati smoccolarono la testa a quel povero figliuolo di San Luigi; non per questo la monarchia fece più lume. Ma il Volta agguantò davvero il fulmine per la gola, lo infrenò, lo assottigliò per guisa ch'egli ebbe dicatti accettare l'ufficio di fattorino della posta. Calibano trovò Prospero; così, in grazia del Volta, in meno di un'ora seppi il tracollo di Luigi Napoleone bandito senza neppure la grandezza di Ottone, che incominciò col tôrre la vita ai francesi e finì col chiedere a loro la elemosina di un voto, e in due minuti mi dà notizia il nipote che viene a tenermi compagnia a desinare da Livorno... però il telegrafo non sempre è messaggero di liete novelle, ed io lo so: non importa; benedetto sempre, imperciocchè ad ogni modo egli abbrevi la incertezza, tortura vera dell'anima: un colpo e via: a testa tagliata non dolgono i denti.

Ma più che tutto mi pena ad avermi a strappare dalle dilette lusinghe della natura, di quelle delle Sirene più poderose assai, poichè queste è fama che allettassero unicamente con la voce, la quale scende per le orecchie al cuore, e a ciò si rimedia, secondo lasciò scritto Ulisse, con un po' di cera, e al bisogno può bastare anche il cotone, ma la natura, oh! la natura ti agguanta per tutti i versi; in vero, o come farò a salvarmi dall'aure felici, dalle brezze vitali, dai venticelli soavi, che spirano dai colli e dai rivi di questa terra incantata? Qui sempre limpide le acque, qui sempre verdi le piante, che mormorano sempre fra loro come se si raccontassero i casi di amore che nascosero con l'ombra dei rami, o trasportarono lontano sopra il dorso, ovvero alternassero i presagi degli amori avvenire ovvero ancora i propri amori si confidassero, perchè Dio trasfuse in tutto il creato senso di amore, e quindi parlano di amore le fiere, le piante e i sassi... Lettore! Per amore di Dio passa in punta di piedi e non destare il poeta.

Il cielo è innamorato di sè, ed ha ragione; egli adopera la piana superficie del lago di Como a mo' di uno immenso specchio della fabbrica di Murano, per contemplarvisi dentro ed esultare, Narciso immortale, nell'orgoglio della propria bellezza: per servire a Dio sarebbe povera cosa; Dio, quando vuol guardare la propria immagine, piglia l'oceano, dove si affaccia procelloso tra i fulmini. Ma se il cielo non ama il lago, il lago ama i figli del cielo: il sole, la luna e le stelle; ad ogni dichiarazione di amore che gli fanno con parole di luce egli risponde con sorrisi di luce; perchè anch'egli con l'affetto possiede potenza di fosforo per significarlo. Verso sera, dalla parte di occidente la luce si tinge di vermiglio, e richiama al tuo pensiero la donna innamorata, che pudibonda e lieta si accosta al talamo dello sposo che l'aspetta. Qui le rugiade inebriano più del liquore della vite, imperciocchè penetrino nei pori del tuo corpo madide del canto dell'usignolo e dell'odore del fiore di arancio (lasciatemelo dire, domani me ne confesserò al curato della parrocchia di Pondo).

Venere dea ebbe delubri ed are a Cipro, a Rodi, a Pafo, a Coo, a Citera e altrove, ma a Como impera regina e dea, ed ella qui conduce l'armento dei suoi devoti, come Proteo i suoi vassalli marini: gli amori vecchi ella mette in cura nelle case di salute dei suoi amici Como e Lieo; è vero pur troppo che la primavera pei mortali non si rinnuova, però vi hanno autunni che non aprono mai l'uscio al desiderio della primavera; sopra gli amori adulti, affinchè dallo amore attingano perenne virtù di amore, ella, messa la mano dentro al cinto, ove si trovano confusi

Di amor la voluttà ed il desire

E degli amanti il favellìo segreto

Quel dolce favellìo che anco de' saggi

Ruba la mente,

e trattone fuori un pugno di lusinghe e di dolcezze, lo sparge loro sul capo a mo' che i principi gettano le monete di oro alle turbe nel giorno della loro incoronazione; poi ordina alla natura che canti con la voce di tutte le sue creature:

Amate, amate, che domani ad altri

Sensi potrei chiamarvi, e doman forse

Chi sa se il cielo coprirà la terra.

Gli amori nati appena, e che si trovano all'aurora dei sospiri, ella confida alla condotta di Amore fanciullo, che li guida a rinfrescarsi l'ale testè nate su la superficie del lago, e in cerca di altri amori che a loro acconsentano... così le rondini, corso gran tratto di aria, con magnifica curva radono le acque a caccia dello insetto, delizia dei loro conviti...

— Come! Dunque l'amore a suo parere è un insetto? Dunque come lo insetto l'amore si appetisce e si cerca?

— Sì signora, poichè mi mette con le spalle al muro le dirò che amore come rondine vola, come rondine, animale di passo, presto viene e presto parte; come le rondini e i re è animale carnivoro. Ma ahimè! questa strappata mi ha rovesciato dal mio pegaseo; spento il lume della lanterna magica, i vetri figurati della fantasia non si riflettono più su le pareti del mio cervello: valete, spettatori; torno al racconto.

*

I nostri personaggi presero stanza proprio sul lago, nel bellissimo albergo aperto accanto al palazzo della Regina.

Qual regina? Carolina Amalia Elisabetta di Brunswick. E di qual re moglie? Di Giorgio IV d'Inghilterra. Ed ora che ve l'ho detto, voi ne sapete meno di prima. E sì che vissero e morirono ai giorni nostri; e si lasciarono indietro uno strascico d'infamia, la quale in difetto di altro servea mantenere per qualche tempo i nomi dei re sopra la soglia della morte. Costei fu meno cosa di Messalina; costui più cosa di Claudio.

Il debito fu pronubo delle nozze inauspicate, imperciocchè il Parlamento non acconsentisse pagare i debiti del principe, se non a patto che mandasse giù una moglie senza ostia.[42] Quando prima il principe vide la sposa la baciò, subito dopo chiese un bicchiere di acquavite;[43] nel primo pranzo egli le impose che sopportasse commensale al fianco la sua baldracca,[44] lady Jersey; la prima notte egli ubbriaco l'accolse nel talamo, che metà passò sopra e metà sotto il letto, dove ruzzolò sozzo sacco di vivo.[45]

E pure da cotesto bestiale mescolamento in capo a nove mesi nacque un bel giglio di amore, che, sposato a Leopoldo di Sassonia Coburgo, morte recise nel dare alla luce il primo figliuolo: per lei il Byron, selvaggio amatore di libertà, compose versi stupendi, dove così si esprime: «la libertà obliò le sue mille sventure per la sventura suprema di avere perduto questa donna, sopra la testa della quale ella vedeva splendere il suo arcobaleno... e noi ci compiacevamo nel presagio che i nostri figli avrebbero obbedito al suo figliuolo.»[46] Vedi contradizione di poeta, a cui quando meno se lo aspetta la passione ruba la mano del giudizio.

La regina d'Inghilterra, non solo a Como, ma per l'Europa, per l'Africa e per l'Asia, come il capo comico conduce la compagnia dei suoi strioni, menava una turba di paltonieri per rappresentarci un dramma solo — quello del più lurido adulterio; e se ne teneva, ella regina, madre e donna di ben cinquant'anni matura! Al volgare adultero Bergami, ella, insanita, procacciava titolo di barone e insegne equestri, monili al collo e campanelle agli orecchi; a Malta gli comprò la croce dei cavalieri di San Giovanni; a Gerusalemme, con sacrilego oltraggio, quella del Santo Sepolcro!

Lo indegnissimo marito, comecchè troppo più di lei imbestiato in ogni maniera di turpitudini, ardisce apporle colpa di adulterio, e raccoglie da diverse contrade, massime dalla Italia,[47] a prezzo di oro, testimonianze della sua vergogna, pigliando piacere a propagarla al mondo come il matto ad appiccare il fuoco alla casa. Nè la morte di Messalina fu colpa di Claudio, bensì di Narciso, pauroso di perdere il credito presso Cesare, e col credito la vita; tanto vero ciò, che Claudio il giorno stesso che gliel'ammazzarono di stoccata nel core, non la vedendo a mensa, interrogò perchè tardasse a venire;[48] all'opposto la morte di questa regina fu opera per bene venti anni premeditata dal Claudio inglese.[49]

Le rappresentanze della colpa e quelle del giudizio furono date gratis al mondo; il popolo somministrò il danaro per le spese: quelle della regina costarono un bel circa venti milioni di lire; quelle del re non si possono sapere; — quel popolo che sepolto nelle miniere mena una vita che poco è più morte; e nelle fabbriche si travaglia quindici e più ore, a sette centesimi per ora; e poi i cortigiani fanno le stimate quando sentono dire che la monarchia è venuta in abominio di Dio, del diavolo e di quanti sopra la terra possiedono discorso di ragione.

*

Tanto è, Omobono non era lieto; in ogni atto della sua vita si mescolava uno struggimento per cui egli restava ad un punto sorpreso e sbigottito: gustava miele amaro, tanto in pregio presso gli antichi romani, che ne imposero eccessivo tributo alla Corsica che n'è produttrice feconda; e bene sta che da puro cuore soltanto sgorghi la gioia pura. Il torpore gli s'insinuava nel sangue sottile come la malaria, tedioso a sè sempre, e qualche volta all'Amina, a fatica parlante e sbadato: gran parte del dì e' pare che dondoli tra gli sbadigli e i sospiri; svogliato di quiete e di moto, di veglia e di sonno, di cibo, di tutto: affacciato per ordinario al balcone, guarda fiso le acque del lago, le nuvole del cielo senza pensare a nulla; gli pesa il cervello; anzi non piglia nè manco diletto a contemplare il trasformarsi continuo che le nubi fanno in diverse sembianze, dove il riguardante mira quello che più gli piace trovarci; nella notte, ore intere, col braccio intorno alla vita di Amina, specula il cielo, e se gli avvenga mirare staccarsi dal fondo dell'emisfero due stelle, e dopo descritta una lunga curva di fuoco spegnersi a un tratto vicino alla terra o all'acqua, ripete sommesso:

— Perchè non così anche noi? Codesti fuochi dal cielo muovono verso la terra, e noi, Amina, spiccandoci dalla terra dovremmo quetare in cielo.

— E chi para?

E qui amplessi e pianti con l'altra procella di affetti, la quale impedisce che le acque di Amore stagnando impadulino.

*

— Orsù, Amina, un bel giorno disse, levandosi per tempissimo, che cosa facciamo qui? Moviamoci, nel moto sta la vita; mira come leggiere s'increspano le acque del lago, senti come soave ci venta in faccia la brezza montanina; — prendiamo una barca e andiamo a fare un giro: io porterò meco il mio portafogli, e quando mi capiti sotto qualche orrida scena, ovvero elegante, io mi piglierò diletto a schizzarlo.

— Ed io?

— Angiolo mio, tu ti spasserai a vedermi disegnare, o piuttosto fa' una cosa, provvediti di una lenza e pescherai.

— A cannetta?

— A cannetta.

— Ma sai tu che cacciare a civetta, pescare a cannetta e prestare a sicurtà, son tre castronerie che l'uomo fa; — basta, come ti piace, Amina mia, contenta tu, contento io.

Amina, senza lasciarla bollire nè mal cocere, esce fuori di stanza, e corre su e giù per l'albergo chiedendo, ordinando e mettendo in moto quanti incontra, camerieri e famigli; a tutti dice e non rifinisce mai di ripetere che le cerchino buona barca e rematore capace; tornerà a pranzo, ma se la vedessero tardare non l'aspettino; volersi godere quel paradiso terrestre; quante rinverrà fate, tante manderà ospiti alla locanda; esulti il padrone, perchè le fate hanno per costume pagare i conti in moneta di diamanti; alla più trista in oro senza lega; ammannisse i corbelli per metterceli dentro. In un attimo ecco barca nazionale, rematore nazionale (aveva remato almeno due terzi della sua vita agli austriaci, ma ciò non rileva; oggi è nazionale ) bandiera, lenze, corbe, et reliqua, tutto nazionale.

Spoltrati! spoltrati! È lesta ogni cosa, — e sì dicendo Amina mette il cappello in capo ad Omobono, e presolo per la pistagna del vestito seco lo trae alla barca accostata alla riva, dove l'acqua è profonda; lì giunta ella ci entrò di un salto, che fece stupire i bighelloni accorsi, come avviene nei piccoli paesi d'Italia, dove la poltroneria culla il popolo e la curiosità gli canta la nanna. Omobono stava per andarle dietro, quando ella di un tratto esclamò:

— Il portafogli! Non hai avvertenza a nulla; e sì che ti aveva raccomandato non dimenticare il portafogli; va' a pigliarlo... fa' presto.

Allora Omobono rifece le scale a quattro a quattro, e preso il portafogli torna addietro col medesimo abbrivo: ansava come un mantice e con parole rotte, sporgendo il portafogli all'Amina, diceva:

Eccolo! eccolo!

Amina stende la mano per agguantarlo; Omobono piega più del dovere la persona per porgerglielo; ella non incontra il portafogli; egli non trova contrasto, spendolato troppo sbilancia, balena e col capo in giù dà il tuffo nel lago: esperto nel nuoto, non avrebbe corso pericolo nè manco vestito come era, pure, prossimo alla riva, non gli mancò di ogni maniera aiuti, sicchè poteva cavarsi d'impaccio senza altro danno di un bagno involontario: di passeggiata non si parlò più; ma nel mettere il piede sopra la soglia dell'albergo, Amina, dandosi forte della mano su la fronte, esclama:

— Il portafogli! Ahimè! il portafogli, Omobono.

— È cascato nell'acqua.

— Oh! che disgrazia! Oh! che disgrazia! Su, datevi moto; ripescatelo per amore di Dio; fate di tutto per riaverlo; cento... duegento... fino a trecento lire di mancia a chi lo ripesca.

Omobono, osservando Amina fuori di sè per la smania, non cura nè manco andare a mutarsi di vesti, e così grondante come si trova si riaccosta alla sponda urlando a sua posta:

— Il portafogli! Chi ripesca il portafogli?

Amina e Omobono eccitavano la gente a tuffarsi, la quale per la cupidità del premio saltava nell'acqua a mo' dei ranocchi se odano cosa che metta loro paura. Fruga e rifruga, non venne fatto di trovarlo a veruno, o perchè quivi l'acqua fosse troppo alta, o perchè qualche corrente lo avesse trasportato altrove: comecchè di estate, pure, declinando il giorno, Omobono con quell'umido addosso cominciò a sentir freddo; pertanto si ritrasse a casa; rimase Amina, arrotandosi sempre alla ricerca del portafogli; all'ultimo, stracca, tornò anche ella all'albergo, avendo distribuito prima qualche moneta ai pochi fortunati palombari, pure molto raccomandandosi non ismettessero i tentativi: a cui riuscisse trovare il portafogli, sempre fermo il premio; anzi lo crescerebbe del proprio.

Per tutto quel dì e per l'altro appresso non si fece che tattamellare del portafogli; molti e diversi andarono attorno i discorsi e sgangherati tutti, i quali poi si appuntarono in quest'uno, che il portafogli conteneva un tesoro in biglietti di banca e gioie; lo screzio rimase nel giudizio della somma, la quale, secondo la fantasia dei giudici, saliva a milioni o calava a lire centomila circa.

Omobono comprendeva ottimamente il dispiacere dell'Amina per la perdita del portafogli, dove certo ella conservava disegni così propri come altrui, carissimi per rimembranze, per pregio insigni, ma non sapeva farsi capace della croce che se ne dava; ond'è che ingegnandosi consolarla le diceva:

— Cara mia, non ti disperare; te ne comprerai un altro che tu illustrerai con disegni più belli dei primi. I tuoi sono sicuri; temi forse ti vengano a mancare gli altrui? O che ti butti a madonna fallita? Avrai quanti desideri adoratori che crederanno toccare il cielo con un dito appiccando voti alla tua immagine.

— Ti compatisco, gli rispose Amina, perchè non sai qual tesoro di affetto si contenesse là dentro; lascio i disegni miei, che sono miseria, tuttavia cari per testimonianza di giorni giocondi che non torneranno più; e gli altrui, oltre all'essere mirabili per eccellenza di arte, mi davano ricordo di sensi gentili e di cortesia; ciò di cui non posso consolarmi è la perdita delle lettere del padre, dei congiunti, degli amici, delle persone caramente dilette; ma più che tutto mi addolora la perdita dell'anello sul quale mi giurasti fede di amante e di marito, e delle tue lettere... le tue lettere!... vero metallo arroventato tratto fuori allora allora dalla fornace; — ah! tu non sapresti più adesso scrivermene delle uguali... se tu ti c'impancassi faresti cosa di riverbero... reminiscenze, non getti di vena: ed io le custodiva a sommo studio per mostrartele il dì che avessi dovuto rimproverarti di scemato amore e dirti: «miratici dentro e guarda se tu sei quello di prima.»

— Lo specchio di Ubaldo a profitto di Armida, notò sorridendo Omobono, e qui baciari, abbracciari e motti profumati in essenza di amore e promesse giurate, non però registrate, nè recognite dal notaro, ch'ella non si troverebbe mai al caso di provocare così uggioso paragone.

Anco i fiori in mano agli uomini ed in quella della natura altresì tu riscontri arnesi di morte; in Sibari le rose; nei giardini le bocche di lione, dove se avvenga che le farfalle incaute s'inoltrino, ecco si chiudono loro sopra e trovansi sepolte vive a morire di delizia; così Omobono; ma a strapparlo da cotesta indolenza valse un successo, che più presto o più tardi doveva pure accadere; standosene un dì coll'Amina, o che questa veramente chiamassero, ovvero a lei paresse essere chiamata, si levò precipitosa dal fianco di lui per correre in altra stanza, lasciando sul tavolino la sua borsa da lavoro. Fu meno che non si dice, Omobono fruga la borsa e trova una lettera. Veniva da Milano e pareva indirizzata a non so quale contessa (o non è curiosa questa, che alle donne appena uscite di casa piace affibbiarsi sempre un titolo; alla più trista quello di contessa; alle democratiche due volte più che alle altre); ella era aperta ed Omobono lesse.

*

Questa è un'azione villana, mi scappa fuori a intronarmi le orecchie la mia censora; i segreti delle signore si vogliono rispettare; lei mi è andato a pescare i suoi personaggi nelle bettole dei sobborghi di Milano.

— Scusi, rispondo io, io cavo i miei personaggi da per tutto; mi astengo da cavarli fuori da certi luoghi, per giusto timore di non avere ad andare dentro io in certi altri; nè io ho assunto a descrivere angioli, ma sì uomini dei suoi tempi, signora...

— E dei suoi...

— E dei miei; e gli uomini, ella lo sa, moltissime cose fanno di celato, che in palese condannano, e piacesse a Dio che non fossero più triste di questa di Omobono; ancora da parecchi giorni egli non sapeva niente di Milano, sicchè si potrebbe dire ch'egli si trovasse costituito in istato di legittima curiosità: per ultimo, che Omobono e l'Amina essendo ormai come Gildippe ed Odoardo amanti e sposi, fra loro non ci potevano cascare segreti...

— Adagio; misura tre volte e taglia una; anzi, appunto per questo...

— Tenga la lingua a sè, mi faccia la carità; e allora....allora, o chi le dice che l'Amina non lo abbia fatto a posta per dargli la sassata e nascondere la mano? Il tenore della lettera questo.

*

«Signorina. Appena ho tempo di scriverle. Mi rincresce in coscienza, ma come dicono le gazzette io proprio le posso scrivere: noi lo avevamo preveduto; qui in casa tutti sottosopra: urli, pianti, disperazioni, e perpetui i rinfacci d'ingratitudine; se non vedo meglio mi pare che, uscendone, ella si sia chiusa dietro la porta. In città un tananio, uno schiamazzo che mai il maggiore. Le donne poi... apriti cielo! Scandalizzate da cima in fondo, e come di regola in capo lista le amiche, che hanno già fatto e sono in bilico di fare come lei; però questo è chiaro, da lei si buttarono fuori di finestra la casa e la città: adesso non sarebbe aria di tornare; non ci pensi nè manco par sogno; la si è voluta rompere il collo; e poi per chi? Basta, dei gusti non si disputa, ma non può negare che il suo patito non abbia la faccia gialla come un fiore di pisciacane; quello che mi arrapina si è che qui tutti ne vogliono la vita; la si figuri le meglio parole che mi tocca a udire: traditore, rinnegato, ladro. Il suo nonno Omobono, adesso assunto in cielo fra sant'Ambrogio e san Carlo da quegli stessi che se ne lavavano maggiormente la bocca, lo compiangono come assassinato dal proprio sangue; chi dice che l'abbia portato due, chi quattro, e non manca chi sostiene sei milioni. Mamma mia! Il vecchio, o spinte o sponte, si prevede che avrà a fallire: aggiungono come cosa sicura, che manderanno ad arrestare il nipote: anzi le gazzette sbraitano perchè a quest'ora non l'abbiano chiuso in domo Petri. Tanto per suo governo: secondo il nostro accordo, appena saprò cosa importante, le scriverò a Genova ferma in posta sotto il medesimo nome; procuri farla ritirare.»

Avverto che la lettera fu rinettata dagli svarioni di sintassi e di ortografia, perchè arieggiavano la cameriera lontano un miglio.

Quando Amina tornò nella stanza rinvenne Omobono che stringeva convulso la lettera con ambe le mani; livido come morto; strabuzzati gli occhi: deposta la lettera, si abbottona il soprabito fino all'ultimo occhiello, forte si calca il cappello sul capo, e disse:

— Vado a Milano.

L'Amina conobbe a volo che il cavallo, arrivato troppo sul vivo dallo sprone, stava sul punto di rovesciarsi, però messe da parte le parole importune, forse pericolose, legatasi il cappellino sotto la gola, avvoltasi entro una mantiglia, risoluta confermò:

— Andiamo a Milano.

— Tu hai da rimanere.

— Io devo venire con te. Chi sono diventata io? Come mi lasci? Chi mi sostiene? Da te in fuori non mi avanza altro rifugio; capisci, bisogna o perire o salvarci insieme; e se ti vince la malignità umana, anche a te quale asilo ti resta oltre il seno di tua moglie? Qui vieni, le mie chiome sciolte (e possedeva copiosissimi capelli) copriranno la tua faccia e la mia sfregiate dal perverso destino, non già dalla colpa.

— Amina, io vado a combattere; e vincerò... forse; almeno la buona coscienza mi assicura, perchè sono e mi sento incolpevole; tu pure pensi così, e di questa tua fede grazie; ma te non voglio compagna della lotta mortale; la tua ansietà mi leverebbe il coraggio; e il tuo stesso silenzio mi tornerebbe più tormentoso dei lamenti, perchè il dolore inesplorato sovente si teme più profondo di quello che in verità sia...

— E alla tortura della incertezza non pensi... non ai terrori della solitudine... non al delirio della disperazione; io non ti lascio... mi attacco a te; se tu mi mozzassi le mani ti agguanterei pei denti.

Omobono dinanzi a cotesto ostacolo impreveduto tentenna, e Amina, che si accorge di quel momento di perplessità, rincalza favellando risoluta:

— A che questa risoluzione tanto ruinosa? Tutto quello che ciondola non cade, e poi donde ci vengono le notizie? Dalla mia donna di servizio; donna dozzinale, facile ad accettare per contanti tutto quello che sente dire, ad esagerarlo occorrendo. Omobono mio, considera che chi si risolve presto si pente a comodo: qui ci vuole giudizio: non t'impegnare in modo da non poterti, volendo, ritrarre; a bruciare le navi saremo in tempo sempre: certo, tu buono, tu quanta onestà vive nel mondo, perversissimo l'avo, ma per dichiarare la tua innocenza bisogna che tu passi sopra il corpo di lui: scansiamoci di qui, dove forse più che non crediamo ci conoscono, procuriamoci più sicure notizie, delibereremo poi con piena cognizione di causa.

Ora il partito di recarsi a Milano era nuovo nell'animo di Omobono: sorto improvviso dallo impeto della passione, non aveva avuto tempo di mettere le barbe, però non riusciva arduo all'Amina farglielo mutare; decisero dunque trasferirsi cautamente su quel di Genova e quindi attendere gli eventi. Trasferironsi a Nervi, e colà presero stanza presso certa vedova discreta, che teneva casa elegantemente accomodata sopra la riva del mare.

Le cure non si fuggono a cavallo, chè teco salgono in groppa e ti accompagnano da per tutto, dice il proverbio, e parla d'oro; difatti ci arrivò Omobono con la febbre in corpo di avere notizie da Milano: spedirono pertanto uomo a posta a Genova per pigliare le lettere, e quando gli parve ch'ei potesse essere di ritorno, senza avvisarne Amina, gli mosse incontro a cavallo; trovato l'uomo a breve distanza da Nervi, quegli senza sospetto gli consegnò le lettere, dacchè le lettere fossero due, e ciò pel motivo che la Elvira era stata dalla cameriera messa a parte del segreto (se cosa confidata a femmina, ovvero a simile generazione di femmine quali Elvira e la cameriera erano). La Elvira insomma scriveva che posta giù l'ira, il suo cuore non aveva sofferto lasciare in abbandono la figliuola prediletta in tanto estremo; annunziava peggiorate a dismisura le condizioni del caso; dichiarato il fallimento della ragione Boncompagni; il vecchio Omobono preso sul punto che tentava troppo tardi salvarsi in Isvizzera e tradotto in prigione; il mandato di cattura del giovane Omobono trasmesso ai giandarmi, che lo cercavano seguendone le orme. Il signor Egeo averle confidato che il commesso, cui Omobono costituiva suo procuratore, passato con armi e bagaglio dalla parte dei creditori, aveva fatto toccare con mano col confronto dei libri delle due ditte lui essere stato la causa principale della rovina; quando pure Omobono potesse scolparsi, in mal punto lo tenterebbe adesso e invano; il meglio per lui sul momento cansarsi: si manderebbe per Amina, che Egeo condurrebbe alla chetichella a Locarno presso una sua parente; col tempo si provvederebbe meglio, e forse si assetterebbero le cose: risposta sollecita, che qui davvero lo indugio pigliava vizio.

Omobono, tostochè ebbe letto la lettera, scese da cavallo, chè preso da capogiro temè stramazzare, ed avvoltosi la briglia intorno al braccio continua pedestre la via: declinata la faccia incomincia a istituire mentalmente un conto a partita doppia delle ragioni che lo consigliavano a vivere di fronte alle altre che lo persuadevano a morire; poi tirò le somme e chiuso il conto esclamò: — Non ci è caso, bisogna morire. — Io mi passo da riferire i molti e sottili motivi di cotesto strano Dare ed Avere; solo dirò che accadeva dei suoi pensieri come degli uomini usciti dai denti del serpente seminati da Cadmo, i quali, appena nati, pugnavano fra loro fino alla morte.

Amina avendo udito dal messo dello incontro avuto con Omobono e della lettera a lui consegnata, timorosa di guai, corse tosto alla sua volta; scortolo da lontano lo chiamava con voce e con cenni; ma invano; giuntagli accosto lo tentennò forte per le braccia; allora egli si scosse, le sue pupille oscillarono e ripresero la virtù obiettiva: come se uscisse dal deliquio sospirò:

— Amina, sei tu?

— Sì, sono: perchè sconvolto così? Ti senti male?

— No, bene.

— Ebbene, che ci ha di nuovo?

— Ecco, e le sporse la lettera.

Amina lesse e rilesse; poi soggiunse:

— Ebbene, che hai pensato?

— Morire; rispetto a te, quanto più so e posso ti supplico ad accettare la proposta della signora Elvira.

— Davvero?...

Se per me si possedesse la scienza musicale dei più famosi maestri, da Jubal fino al cavaliere Verdi, io non saprei rendere a gran pezza le infinite inflessioni di voce che fece Amina nel pronunziare cotesta parola.

— E non ti riesce a capire, continuò risentita, che mezza della tua maledizione si è rovesciata sul mio capo; la lebbra del tuo corpo si è comunicata al mio? E ti basta l'animo di confortarmi a vivere una vita di vergogna e di paura? Tu dunque pretenderesti ch'io vegliassi per soffrire i miei dolori ed i tuoi? Tu mi respingi da dormire il sonno eterno sul tuo guanciale? Ah! m'invidi la morte? Tutti voi altri sempre così; sotto infinite apparenze in fondo il vostro unico, rigido, sempiterno vantaggio. E chi ti dà diritto di supporti o più dignitoso o più animoso di me? Ho letto di parecchie donne che ebbero con lo esempio della propria morte a dare coraggio al marito codardo di fuggire, morendo, la infamia; di mariti che uccidendosi insegnassero alle proprie mogli a uccidersi non intesi mai.

— Amina, gemè Omobono, abbandonandosi con voce rotta dai singhiozzi nelle braccia della sua donna, non amareggiare di più le ultime ore del vivere mio, già troppo amare, non mi fingere disamorato per trafiggermi... tu sei giovane... e tu bella... ho pensato che qualche giorno, rimanendo in vita, possa sorgere meno fosco per te: la fortuna muta...

— Ma non il cuore di donna innamorata, nè di moglie virtuosa. Vissi: non si misura la vita col lunario. Quando tutto provammo e tutto godemmo e tutto soffrimmo, la vita è compiuta. Tale in un battere di palpebre vuotò intera la coppa della vita che altri in ottanta anni non ne bevve mezza. Ad ogni evento, a morire basto sola.

— Amina, esclamava Omobono, vie più stringendosi l'amata donna al cuore, tu coll'aprirmi interi i tesori della tua nobile anima mi consoli con tanta dolcezza, che se potessi incontrare la morte la bacerei in bocca e le direi: tu sola sei amica.

— Va bene; ma ora che abbiamo posto in sodo questa suprema risoluzione, Omobono mio, concedimi che io ti domandi se veramente tu hai pensato che sia necessario il morire?

— Sì; innanzi tratto io mi sento così stracco, così rifinito di forze, che, anco potendo, non vorrei continuare questo sazievole viaggio; ma il fatto sta che non posso; vedi! come quando porgendoti il portafogli, perduto l'equilibrio, ebbi a cascare nel lago, adesso mi trovo sbilanciato su l'orlo della vita. Considera i segni della notte che m'investe: di minuto in minuto il buio s'infittisce: il cielo mi si chiude sul capo ruggendo la tempesta: sotto le gambe mi si avvalla la terra: le mani a cui fidava agguantarmi o si ritirano, ovvero si allungano per respingermi. Il cane allevato in casa mi si avventa come se io fossi il ladro: anche ieri sperava poter combattere e vincere; adesso senza impugnare le armi mi confesso vinto, perchè le armi le quali mi dovevano difendere da un punto all'altro mi furono rivolte contro al petto. Il tradimento di Carpoforo mi ha tagliato i garretti. Tuttavia poniamo che io volessi pigliare a morsi il destino... qual profitto me ne viene? Io stesso con le mie proprie mani avrò spinto il padre di mia madre sotto la macina del fisco, perchè me lo stritoli anima e corpo. Non ti par questo parricidio? Non comprendi come sarebbe lo stesso che comprarmi l'eterno rimorso? E se il rimorso consentisse a darmi tregua, la gente non mi zufolerebbe perpetuamente dentro le orecchie: parricida! parricida! Non avrei squarciato la nuvola donde si sarebbe riversato un diluvio d'infamia sopra la madre, su tutta la famiglia vivente, sopra me, su i posteri? Non basta?

— Dimmi, Omobono, in Dio ci credi? L'anima credi immortale, ovvero morta col corpo?

— A me parve sempre presunzione di crani senza mandorla dimostrare la esistenza di Dio, come la non esistenza. I nostri sensi non bastano e lo intelletto è corto per siffatte dimostrazioni: io, per me, non credo nè discredo: il futuro mi si para davanti come la nicchia della immagine d'Iside coperta da una tenda nera; solo quando abbiamo varcato la soglia della vita, la morte tira la cortina; allora, e allora soltanto, sarà conosciuto se di là splenda la luce, oppure abbui la tenebra eterna. Oltre al sepolcro i sacerdoti augurano perpetua la luce e la quiete: a noi giovi trovarci l'una e l'altra; che se tanto non ci consentono i fati, la requie eterna mi basta.

— Io poi — favellò Amina — su questo proposito non ho ragionato mai, e creduto sempre, lasciandomi in balìa delle prime impressioni della infanzia: grande per me fu eccitamento al bene e freno al male il pensiero che, invisibile misurando i suoi ai passi miei, mi veniva allato un angiolo buono, il quale del mio lodevole operare esultava e del mio illaudabile si affliggeva. Sarà ch'io m'inganni, ma concetto proprio divino e fonte inestimabile di bene reputai la fede, che non solo le nostre azioni, ma i pensieri non pur nati ma per nascere sieno tutti dipinti nel cospetto eterno, allo scopo di conformarci in guisa che neanche la tentazione si affacci al nostro spirito, perchè s'è meritorio combattere la tentazione quando è sorta, credo più sano impedire che sorga. Dunque tu non ti avrai per male che io mi apparecchi alla morte con la confessione e la eucarestia.

— Ma, Amina, hai tu pensato che andando a confessarti tu palesi il tuo proponimento al confessore?

— Io confesserò i peccati commessi, ma quelli che sto per commettere non hanno bisogno di confessione.

— Dunque tu hai peccati sull'anima che ti preme cancellare per via dell'assoluzione?

— E chi non ha peccati? Non ne andarono esenti nè manco i santi. Che disse Gesù a cui gli domandava se avesse a perdonare sette volte? Tu perdonerai sette volte sette.

— Bisognava che Gesù pigliasse moglie, per vedere se sarebbe stato sempre del medesimo parere. Ma quali peccati puoi avere tu?

— Li ha da udire il sacerdote, non il marito; molto più che io potrei credere peccati certi atti, pensieri, omissioni che poi non fossero: sta al confessore definirli.

— Ed il proponimento di darti la morte non giudichi peccato mortale?

— Sì, ma di questo chiederò perdono a Dio nell'altro mondo, e confido nella sua misericordia, perchè amore me lo fa fare, e Dio mi sta nell'anima come principio e fine di amore.

— Lasciamo questi pelaghi; quanto tempo ti ci vorrà per apparecchiarti alla buona morte?

— Non saprei... tre... cinque.

— E se nel frattempo ci rovinasse sopra la persecuzione degli uomini?

— Allora avviseremo; chè necessità vince consiglio.

— Bene.

— Un'altra cosa, Omobono, ho da dirti; dammi la mano e senti se la tua Amina trema... hai tu pensato al modo di darci la morte?

— La è presto fatta; tu appunti una pistola alla mia tempia; io alla tua; spariamo; la soglia della vita è passata; ci troviamo nella eternità.

— No, no, no, proruppe Amina spaventata; a questo non consentirò mai io; il mio cranio in pezzi... il mio cervello in brindelli appiccicati al muro, come un avviso di vapore in partenza: gli occhi, schizzati fuori della fronte, giù penzoloni per le gote, i denti sparsi su la terra come granturco pei polli... io diventata oggetto di ribrezzo; forse di scherno... ma questo è terribile... ma questo, non pure crudele, è villano...

— Ebbene, via, invece del capo, vuoi tu che ci spariamo la pistola al cuore?

— Ma che ti pare! Tu, Omobono, verresti ad ammazzarti due volte, perchè il mio cuore è pieno di te, e dove ti mise amore non ti ha a cacciare via persona, nè anche tu.

— Allora non ci vedo altra via che pigliare una barca, andarcene in alto mare e affogarci.

— Non ne verremo a capo, caro mio, perchè entrambi noi sapendo notare, lo istinto della vita ci farà stare a galla su l'acqua.

— Ci legheremo un sasso al collo.

— La morte dei cani tignosi! Ohibò! Meglio impiccarci...

— Diavolo! Così finiscono i ladri. Raccomandiamoci al solito carbone.

— Peggio; prima di tutto non è sicuro; si prova fuori di misura spasimevole; dopo molte ore di agonia non uccide: il suo effetto non si manifesta uguale per tutti, e potrebbe darsi che mentre non potessero richiamare alla vita te, potessero me... e allora immagina il mio martirio! E a te pure, Omobono, non vengono i brividi addosso a pensare che ci sentiremo morire poco a poco, come il coniglio ingozzato dal boa... e ora di che ridi, Omobono? Paionti questi momenti da ridere?

— Non farne caso, anco i gladiatori feriti nel diaframma morivano ridendo.

— T'intendo, sai? Tu dubiti, tu dubiti che io abbia paura... ch'io parli come colui che avendo a scegliere l'albero per esserci impiccato, non ne trovava uno di suo gusto; possibile tu non abbia pensato al veleno; e sì che ci hanno ad essere veleni i quali fanno dormire, un veleno che ci conceda vederci fino all'ultimo... chiudere la vita con un bacio.

— Non ci ho pensato davvero, perchè di morire in una maniera o nell'altra a me importa poco, e non mi era mai caduto in mente di averti compagna nella morte: ho sentito dire, ed anche ho letto, di veleni di cui una gocciola basta per fulminare, non che un uomo, un bue, e certa volta si narra due amanti versarono non so bene quale acido, se prussico od idrocianico, dentro un cannello sottilissimo di vetro; quando vollero uccidersi se lo introdussero in bocca metà per uno, co' denti lo ruppero e in un attimo morirono entrambi l'uno nelle braccia dell'altro.

— O fortunati! Quanta invidia io vi porto.

— Potremmo rimediare... forse.

— E come?

— Ecco, io non saprei dirti il perchè, certo giorno mi prese vaghezza di fare provvista di oppio. Tu sai come agli speziali sia vietato vendere oppio ed altri tali veleni senza la ricetta del medico; se lo facessero cascano in pena; ora, quello che agli speziali è proibito si concede ai droghieri, i quali possono venderti impunemente tanto veleno da attossicare una città; ricorsi pertanto a droghiere amico, che senza ostacolo mi vendè mezz'oncia di morfina.

— E l'hai teco?

— L'ho.

— Ecco il fatto nostro; mostramela, la voglio vedere.

Egli la cercò, la trovò, gliela mostrò, e vistala riprese:

— È piacevole agli occhi, candida come l'innocenza, potente quanto Dio, pare polvere caduta dall'ale della farfalla quando folleggia di fiore in fiore. Adesso tutto è stabilito fra noi; — bando alla tristezza: esultiamo; costringiamo la morte a sorriderci... Omobono, incoroniamo la morte di rose.

E per dirla alla maniera di Omero, rallegrarono il cuore co' doni di Cerere e di Lieo; e per essere in riva al mare forse non mancarono anche quelli di Nettuno.

*

All'alba la donna andò alla messa, chiese del parroco, e gli aperse il desiderio di fare la confessione generale: durante tutto cotesto giorno procurerebbe esaminarsi la coscienza per bene; domani alla medesima ora tornerà da lui; intanto le celebri una messa secondo la sua intenzione, e gli porge un biglietto nuovo di banca di venticinque lire: certo, di argento o di oro avrieno fatto meglio figura, ma quello che vi è dato pigliate; lo dice anche il Vangelo; però il prete lo acciuffava con la bramosia del gatto, e se il guanto non la riparava, avrebbe graffiato la mano all'Amina: allora questa gli chiese in grazia di somministrarle il necessario da scrivere lettera alla madre sua, perchè a casa non lo avrebbe potuto fare liberamente a cagione... e qui chinò la faccia suffusa di rossore, aggiungendo a voce bassa, quasi paurosa che altri la sentisse, — a cagione di un uomo che la vigilava. Il prete mangiò, o piuttosto credè mangiare la foglia per aria, e nel presagio che Dio non si sarebbe rimasto a quell'unica mandata di manna, si affrettò rispondere:

— Padrona, padronissima, favorisca in sagrestia che troverà l'occorrente.

Amina, condottasi là dove la menò il prete, si mise a scrivere, empiendo presto presto ben quattro pagine di carta; piegò, sigillò diligentemente e si raccomandò al curato, affinchè portasse subito la lettera alla posta e l' assicurasse. — Magari! disse il prete, disposto sempre ai comandi di vostra signoria illustrissima, — e si separarono. Il curato, avviandosi con celeri passi all'ufficio postale, lesse nella sopraccarta: Alla nobile donna la signora marchesa Elvira M. nata S., Via S. Carlo, n. 12. ( Urgentissima ). — Eh! eh! lo aveva detto io, qui gatta ci cova. — E mentre sprofondato in cotesto pensiero non bada dove pone il piede, ecco investe l'accattona solita a mettersi accoccolata di fianco alla porta di chiesa, cagionandole una sconcia stincatura:

— Corvaccio! strillò costei, tu possa andare allo inferno prima di sera.

— E tu in paradiso subito — rispose il prete, e scappò via.

*

Sul fare del giorno, in una via traversa di Nervi, quasi nascosta sotto i rami di un gruppo di salici, si vedeva ferma una carrozza polverosa; se dentro ci fosse gente non si poteva scorgere, essendo le tendine abbassate; il cocchiere a cassetta dormiva; un altro servo vegliava ritto alla testa dei cavalli; dopo non breve ora la campana della parrocchia squillò il primo rintocco dell' Ave Maria; allora si aperse adagio adagio uno sportello della carrozza e ne uscì una donna avvolta nel cappotto e incappucciata; accennò al servo vigilante, che le andò incontro qualche passo, sicchè ella potè a voce sommessa susurrargli:

— Merlo, fa' di trovare l'albergo che ci hanno indicato; bisogna tu riponga il legno in qualche scuderia affatto sgombra, perchè non vo' che veruno lo guasti: e poi era guasto, non era; ci facciamo il sangue verde e bisogna succiarci il danno; i cavalli poi metterai dove ti resta più comodo; dirai al locandiere che avendo a parlare al signor curato, mi ci sono condotta subito; molto più che avendo sentito sonare a messa non ho voluto mancare di udirla; fa' allestire il quartiere più appartato che sarà possibile: poi vienmi a prendere verso la chiesa, perchè mi sento le ossa rotte ed una fame da lupi; e tu non devi canzonare; il vino non ti raccomando; solo ti dico che berrai con me alle mie bottiglie; guarda se trovi del cognac buono: provvedi un mazzo di sigari, quelli che aveva meco ho fumato tutti. — Fatti in là, furfante, disse la donna dando una spinta solenne nel petto a Merlo, che gittatole un braccio al collo pareva si disponesse a baciarla, ti sembra questo il tempo e il luogo, e senz'aspettare altro si avviò verso la chiesa. Il servo dal canto suo si allontanava come un can mastino bastonato.

Elvira, che la donna era dessa, s'imbrancò con certe vecchiarelle, le quali mattutine s'incamminavano verso la chiesa, alternando passi e nodi di tosse; ora, strette le ciglia per isbirciare meglio, mira il prete sopra la soglia della chiesa, in atto di uomo che aspetta, e poco dopo una signora affrettarsi a cotesta volta, come persona cui tardi farsi attendere; Elvira rallenta il passo, e solo torna ad accelerarlo quando vide entrati in chiesa il prete, la signora e qualcheduna delle vecchie compagne del suo cammino; ella pure vi entrò di scancìo e si fermò in un canto all'ombra per iscoprire marina; il prete e la donna già stavano ristretti nel confessionale con la mano in pasta a fare il sacramento della penitenza; allora strisciando lungo la parete giunse presso al confessionale, dove presa una seggiola s'inginocchiò dinanzi a quella con le gomita sul paglietto e il capo nascosto nel cappuccio inclinato sopra le mani. Amina l'aveva di già avvertita, onde tirò a finire la confessione, sicchè il prete, che si era già apparecchiato a sentirne di quelle senza babbo nè mamma, rimase edificato delle mende leggiere della sua penitente: tutto il baco stava nella troppa fede posta nel giovane innamorato, che l'aveva tratta fuori di casa, non però a cattivo fine, perocchè entrambi i giovani più che mai erano fermi a legittimare la loro unione col sacramento del matrimonio, e magari se avessero potuto farlo benedire da lui, curato di Nervi!

Il prete non capiva in sè dal giubilo, che gli pareva l'angiolo dell'Apocalisse mettergli la falce in mano e gridargli con gran voce: Caccia dentro la tua falce e mieti perchè l'ora del mietere è venuta,[50] e impostele per penitenza non so che zacchere di avemmarie in onore della sempre vergine e madre, figliuola e moglie, la licenziò, ammonendola che dopo un po' di preparazione egli avrebbe celebrato la messa, al termine della quale le amministrerebbe il santissimo sacramento della eucarestia. Quanti sacramenti in un picchio! Fortuna che non fanno indigestione!

Egli se ne andò in sagrestia, dove si lavò le mani; doveva anche lavarsi l'anima, ma per siffatto lavacro manca troppo spesso il sapone ai preti.

Amina, tolta a sua posta una seggiola, la tirò chetamente accanto a quella di Elvira, e postasi nel medesimo atteggiamento di lei incominciarono a bisbigliare fra loro. Dopo parecchi discorsi, che non importa riferire, Elvira disse:

— Dunque voi vi volete avvelenare coll'oppio?

— Mi è parso meglio di tutto.

— E ti parve bene; perchè con gli altri veleni, massime con gli arsenicati, non si sa mai dove si vada a cascare: però il meglio sarebbe che tu ti esimessi con destrezza da ingollare anche l'oppio: tutto sta cogliere la opportunità; ecco qua un pacchetto di gomma arabica soppesta; a non badarci troppo rassomiglia alla morfina; nel pacchetto ho messo altresì ostie per involtarla, caso mai tu non ne avessi. Dove tutto ciò non ti riesca... oh! zitto... entra la messa...

Il prete incomincia coll' Introibo altare Domini, e se ne va giù giù con la dolce armonia della pentola che spicchi il bollore: quando ebbe salito gli scalini, e però scostatosi dalle donne da non poterle udire, Elvira, studiando con maggiore cautela la voce, continua:

— In queste due cartucce colore di rosa tu troverai due prese di solfato di zinco: allorchè costui si sarà addormentato al sonno eterno, tu pigliane una dentro un bicchiere di acqua e vomiterai l'oppio senza sentirne altro danno che un po' di sbalordimento.

— Ma e se m'addormento ancora io?

— Per Dio! sei pure curiosa. Talora mi daresti venti punti ai quaranta; talaltra inciampi in un filo di paglia e stramazzi; se quando ti fai il bolo ci metti dentro minore dose di morfina che puoi, la sua virtù si spiegherà meno intensa e più tardi.

— Io lo confesso, l'ultima mano mi manca, ma tu duce e maestra, mi perfezionerò.

— Se lo scambio della morfina con la polvere della gomma arabica ti riesce, allora fingi sonnolenza, spossatezza, conati al vomito; ti gratterai le braccia e il collo come se un prurito insopportabile ti tormentasse; l'emetico allora ti ministrerò io; da te non far nulla: penserò io a mescolare il solfato di zinco col vomito; hai capito?

— Ho capito; ma da che mi accorgerò io che l'avvelenamento di Omobono è diventato irrimediabile?

— Zitto... il campanello annunzia la elevazione dell'ostia; raccomandiamoci a Dio che non ci levi le sue sante mani di capo...

Dopo la scampanellata finale, che annunzia ogni cosa al posto, Elvira ripiglia:

— Sta' attenta; si presentano due periodi; nel primo egli si dorrà di sete, di stimolo a spandere acqua e d'impotenza a farla; anche in lui i conati al vomito e la languidezza; poco dopo la salivazione continua, le pupille contratte, le sembianze abbattute; nel secondo periodo: svagellamento, ubbriachezza, perdita di conoscenza, sonno profondo; tu capisci come questi accidenti avvengano di tanto più presto quanto maggiore sia la dose del veleno amministrato; posto che pigli la morfina alle ore otto di sera, verso le undici la dovrebbe esser messa finita... Oh! Dio, facciamo presto, che appunto la messa sta per finire, ed io ho da dirti tante altre cose... Verso quest'ora verrò sotto le tue finestre; tu mi getterai; no, meglio calare; hai fune in casa?

— No.

— L'ho portata io; eccola; nascondila sotto il cappotto.

— Intorno al giardino ricorre una siepe folta di allori; appiattati lì e non ti movere se prima non vedi un lume alla finestra sotto la quale tu devi venire...

— Sta bene... bisogna separarci; il prete ha finito... va' a comunicarti.

Amina si accostò, per dirla in lingua chiesastica, alla mensa eucaristica, a mangiarvi il pane degli angioli. Quando ella tornò al suo posto, l'Elvira se l'era svignata; questa, trovato il Merlo, andò all'albergo a mangiare, bere e fumare con lui; a dormire no, perchè Merlo, anche quando ella traballando si alzò da tavola, ci volle restare, dove dopo avere asciugato tutte le bottiglie, compresa quella del cognac, stese le braccia, e su queste buttato il capo, prese a tronfiare come un tasso. Scesa la notte, Elvira sorse da letto, ed avendo trovato il Merlo sempre a tavola addormentato, gli levò pianamente di tasca la chiave della rimessa, informandosi, senza parere fatto suo, del luogo ov'era posta. Del Merlo non ci era da darsi pensiero: se la vinolenza gli fosse passata alla dimane, avrebbe fatto primiera con tre carte. Anche il cocchiere eccitato a bere (e non aveva mestieri conforti), se non si ridusse nello stato del Merlo, un tiro di cannone non ci correva. Assicurata di questo, Elvira pensò: fin qui le cose mettono bene; adesso da capo si pose a strologare; sembrava ripassasse nella mente il fatto e il da farsi; su di un punto parve si pentisse di qualche errore commesso, perchè si morse il dito, ma poi conchiuse: basta, si rimedierà; dentro la sopraccarta vecchia chi para di mettere una lettera nuova? Su di un altro tentennando il capo a mo' di pendolo, dava a divedere riuscirle difficile la risoluzione; tuttavia all'ultimo anche qui si decise e sonò il campanello. Al cameriere, che sollecito comparve, disse:

— Avvertite il vostro padrone che favorisca venire qui in camera; ho da parlargli.

Indi a brevi istanti ecco il padrone con la berretta in mano, ed ella, scarsa a parole e celere nel proferirle, lo pregava, e la preghiera sonava comando, ad accompagnarla dal reverendissimo signor curato per consultarlo su cosa di grandissima importanza. L'oste rispose come gli osti rispondono in simili occasioni: sarebbe stato un onore ed un piacere per lui, ma che a cotesta ora non ci era da pensarci nè manco, perchè il signor parroco seralmente si recava dal pretore a giocare a goffo con altri maggiorenti del paese, ed a sturbarlo nel suo passatempo prediletto si correva rischio di essere scomunicati in cera gialla.

— E se qualcuno in procinto di morire abbisognasse dei conforti della religione?

— Pei benestanti ci è il cappellano; pei nullatenenti il curato dice, che per venire al mondo ci è mestieri la balia, ma che per uscirne si può fare a meno di tutti.

— Pare che il signor curato sia addentro nelle grazie del signor pretore.

— Faccia conto che le sieno due anime dentro un nocciolo.

— Ebbene, andremo a trovarlo dopo la sua partita.

— Ma sa ella che spesso fanno mezzanotte, prima delle undici mai; o non sarebbe meglio domani?

— Mi occorre vederlo stanotte; se si potesse, subito. Verso le undici vi farò chiamare; siatemi servizievole, che ve ne ricompenserò; voi lo vedete, della mia gente non posso fare capitale in nulla... andate; ma no; ditemi prima, potrei respirare un po' di aria aperta senza avventurarmi sola per le vie del paese?

— Badi, signora, qui, per naturale costumatezza dei terrazzani e per necessità di tenersi bene edificati a cagione dei bagnanti, si può camminare a qualunque ora sicuri; tuttavia, la signora, volendo, può scendere nel giardino di casa, il quale confina con la spiaggia, ordinariamente deserta; qualora lo desideri, io le darò la chiave della porta del giardino che mette sul lido.

— Sì, come volete: addio.

Il locandiere dopo alcuni altri minuti, sempre con la berretta in mano, portò la chiave. La Elvira scriveva; senza levare gli occhi dal foglio disse:

— Mettetela sul caminetto; mille grazie.

Appena uscito, Elvira depone la penna, cava la lettera da Amina speditale a Milano; la legge attenta e su la scorta di quella traccia un po' di carta topografica del paese per raccapezzarsi; ciò fatto scende in giardino, e, senza punto fermarcisi, quinci sul lido, dove agitata prese a fare la lionessa.

La solennità dell'ora, la voce terribilmente arcana delle acque, anche quando addormentate respirano, la distesa dei cieli, la dimostrazione parlante, continua della nullità dell'uomo e della oltrapotenza della natura non seppero suscitare in cotesta materia pensiero che non fosse degno della più trista materia; le venne fatto di volgere il viso in su e contemplare le stelle; le guardò un pezzo e finì col borbottare: «o non sarebbe stato meglio che il Creatore mettesse lassù in cielo, in iscambio di stelle, tanti marenghi, e due volte l'anno, per San Martino e per San Lorenzo, li facesse piovere in casa mia?»[51] Impaziente di più lunga dimora, cerca, trova la casa di Amina e si nasconde dentro una folta siepe di allori: appunta gli occhi e mira dallo interno trasparire un chiarore fioco, che talora si oscura. Non le consentendo la inquietudine di restarsi più oltre ferma, rifà i passi, torna al giardino, consulta l'orologio; — sono le dieci. — Ah! ore maledette, bisbiglia, e con le mani fa l'atto delle pollaiole quando strozzano le galline; e credo anch'io che costei, se avesse potuto, avrebbe strozzato un paio di ore: si propose ricondursi sul posto camminando adagio, ma le furono novelle; dopo venti passi ripiglia la corsa più celere di prima; arriva; ah! il lume, il lume risplende smagliante alla finestra. Se io paragonassi adesso il suo incedere al volo della rondine, io direi poco; adagio adagio venne calato un involto; ella si rizza in punta di piedi, leva quanto più può le mani per agguantarlo: — ah! lo tengo, brontola cupamente nello avventarci le mani, o piuttosto gli artigli di falco. Rasentando i muri, appiattandosi in qualche via traversa e quivi trattenendosi, finchè non si fosse assicurata se la fantasia non l'aveva illusa, o si allontanasse il viandante di cui le pedate le misero addosso la paura, le riuscì rinvenire a colpo la rimessa ove il Merlo aveva riposto la carrozza; l'aperse e la richiuse cauta: accese una piccola lanterna di cui il raggio spandevasi per breve tratto; entrò la carrozza; remosse, sdipanando certe viti, la spalliera imbottita, dietro la quale comparve uno sportello ferrato; anche questo dischiuso, tentò gettare dentro l'apertura il portafogli; ma invano, perchè troppo angusta; non ci trovando altro partito, ruppe il fermaglio al portafogli: alla vista di tanti bei biglietti nuovi di stampa il suo cuore si dilatò: e voi non siete tanti, ella esclamò, che io non sia donna da finirvi in capo all'anno. Non potendo resistere all'agonia, ne acciuffò una dozzina a conto, parte di 1000 e parte di 500 lire: molto più che si trovava corta a quattrini; e meglio di ogni altro sapeva che le ruote senza ungerle, o non girano, o girano male; rimise ogni cosa al suo posto; richiuse la porta, e chiotta chiotta pel giardino rientra inosservata in casa. Prima di tutto, al Merlo, sempre imbertucciato, ripone la chiave della rimessa in tasca; muta poi calzatura e veste: per ultimo chiama il locandiere, il quale la pregò umilmente a volersi degnare di accettare il suo braccio; e così si avviarono alla canonica.

Il prete era tornato a casa inviperito peggio di un basilisco; per le scale, sul pianerottolo, in sala e in camera, non rifinì di bestemmiare, come bestemmiano i preti: — per Cristallino, giuro a Dio Bacco — ed altre più argute amenità che non si rammentano per lo migliore. Alla Verdiana, che gli domandò se voleva mangiare un boccone, rispose: Va' là, Verdiana, che dei bocconi ne ho inghiottiti più del bisogno, e Dio sa se amari. Tutta la sera disdetta; per chiusa, quell'assassino di pretore, con un goffo fulminante, mi ha ammazzato la più bella primiera che si sia vista nel mondo. La Verdiana soggiunse: vuole che venga ad aiutarlo a spogliarsi? Non vo' aiuti, disse il prete; e la serva: vuole che le accenda la lucerna? Non vo' lumi, levamiti davanti, il prete disse, in altra maniera, ma non si può ripetere: appoggiato al letto, ecco egli butta una scarpa di qua, un'altra di là: nel tirarsi i calzoni, volto il capo dove pendeva la immagine della Madonna, favella: Ah! tu mandi i goffi al pretore perchè mi ammazzi le primiere; ebbene, io mi terrò su la lingua le mie avemmarie; tu mi levi i quattrini di tasca ed io non ti metto l'olio nella lampana...

— Signor curato... o signor curato... — urlando da disperata e forte squassando la porta lo interrompe Verdiana; don Macrobio, co' calzoni in mano tutto sbigottito, domanda:

— Ch'è stato? Ch'è stato? Ch'è stato?

E Verdiana: Ci è qua una dama accompagnata dal Bigi, il locandiere dell' Albergo Nazionale, che le vuole parlare subito subito; mi ha dato una carta perchè la consegni a lei. Apra l'uscio...

Il prete, co' calzoni in mano, va ad aprire, e Verdiana gli porge la carta; ma, essendo buio, non la può leggere; ond'egli stizzisce e borboglia:

— Sciatta! Sbadata! Questo accade perchè non hai portato il lume in camera.

— O Signore! Oh! s'è stato proprio lei che non ce l'ha voluto.

— Chetati! Non istarmi a fare la rivoluzionaria volendo ragione... va' pel lume.

Venne il lume, e don Macrobio lesse una litania di titoli uno più appannato dell'altro. Adesso soprasta nuovo pericolo, chè la marchesa, arrivata sopra la soglia, minaccia invadere la camera. Il prete, vergognoso di esser colto in cotesto arnese, non gli sovvenendo meglio, salta sul letto co' calzoni in mano e si nasconde sotto le lenzuola. — Elvira irrompe e va, senza riguardo, a sedere sul seggiolone che il prete teneva a capo del letto, poi ordina alla serva: — Posate la lucerna su lo inginocchiatoio, andatevene e chiudete l'uscio.

Verdiana obbediva a bacchetta, strologando fra sè: — Caspita! la dev'essere una signora altezzosa davvero; comanda con tanta superbia!

Don Macrobio sudava per la pena; e trovandosi per ventura sempre i calzoni in mano, con quelli si asciugò il sudore. — Elvira ritornò sul tasto della sua condizione, sè chiarì, ed era vero, figlia di conte, gran cordone, senatore, generale, ministro, e se più ne hai più ne metti; moglie di marchese, deputato; e si fermò per prendere respiro; aggiunse essere madre, bene inteso madre di adozione, perchè quanto ad età, fra lei e la figliuola adottata ci potevano correre tre anni o giù di lì. La giovane da lei amata, come quella che di tenerissimo cuore era, facilmente sedusse un giovane tenuto per capacità, per onore e per ricchezza principe fra i principali: con maraviglia di tutti, eccolo all'improvviso scomparso e seco avere trascinato la sua dilettissima figliuola... Vi ha chi dice ch'egli abbia rovinato il suo avo banchiere, anch'egli dei primi; altri sostiene che vadano d'accordo per ingrassare sopra la miseria di centinaia, forse migliaia di famiglie: per me giudico che la batta tra pirata e corsaro, e che il giovane, sentendosi prossimo a dare la balta, uccellasse alla dote della mia figliuola per rimettersi in palla. La fortuna ha guastato i disegni del giovane, e questa volta con giudizio, perchè colpevole. La giustizia ha già messo le mani in questo negozio, e per quanto affermano spiccò il mandato di cattura contro il giovane Onesti: il nonno Boncompagni a questa ora si trova in potestà del tribunale. Avvertito, il giovane fin qui è riuscito a cansarsi, vivendo latitante, ora in questa ed ora in quella parte; adesso egli è qui, e la sciagurata Amina seco. — Il tribunale ne ha rinvenuto le traccie, ed a me non farebbe specie se da un punto all'altro si vedessero comparire qui i giandarmi spediti da Milano per arrestarlo.

— Oh! che mi racconta mai, signora marchesa. Che casi! Che casi!

— Nè qui sta il peggio, curato mio; il peggio sta in questo altro, che il giovane, datosi alla disperazione, si è risoluto avvelenarsi.

— Mamma mia! Misericordia Domini super nos!

— E quasi tanto non bastasse, lo scellerato, abusando del perduto amore che la meschina gli porta, ha persuaso, ahimè! anche lei ad avvelenarsi seco.

Domine in adiutorium meum intende!...

— E ieri... non più tardi di ieri, ebbi a Milano la lettera di questa meschina, la quale mi avvisava della funesta risoluzione... mi chiede perdono... e...

Elvira a questo punto ordinò ad una dozzina di lacrime di portarsi subito di guarnigione nella congiuntiva degli occhi, ma o non vollero obbedire, o prima di arrivarci sbagliarono la strada; ricorse al supplemento dei singhiozzi; il prete la consolò, ella si fece facilmente consolare e riprese a dire: — Dunque mi sono messa in viaggio, ho corso tutta la notte e qui giunsi più morta che viva per lo spasimo e per la fatica; affamata, assetata per tentare di salvarla; subito presi lingua, ed ho saputo trovarsi qui. Ora non ci è tempo da perdere; su via, signor curato, non consenta che ancora io mi getti alla disperazione; mi aiuti per carità.

— Ma sa, signora marchesa, che se il giovane è un fiore di virtù, la sua signora figliuola non monda nespole? La si figuri ch'ella ha avuto lo stomaco, con cotesta posola in corpo, di venire stamani da me a confessarsi e a comunicarsi; questo, non ci è caso, è un sacrilegio bello e buono. O chi ha creduto ingannare ella? Me o Dio? Ma sa, che se noi non arriviamo in tempo a farla vivere e pentire, ella se ne va allo inferno diritta come un fuso?

— Così credo anch'io; però si affretti, impediamo che ciò avvenga... Oh! che fa ella che non si muove e sta sempre lì co' calzoni in mano?

— La colpa non è mia, si compiaccia ritirarsi nell'altra stanza, tanto ch'io mi vesta.

— Che importa?

— Se sono in mutande.

— Via, per contentarla mi volterò dall'altra parte, e intanto ch'ella si veste continueremo a ragionare e non perderemo tempo...

— Veramente...

— E se la beatissima Vergine per sua intercessione mi fa la grazia di ritrovare sana e salva la mia figliuola, io fo voto di lasciarle nelle mani quattromila lire per dotare una fanciulla...

— E in mano di cui vuol'ella lasciare, signora marchesa, le quattromila lire? — In quelle della Madonna?

— Nelle sue... nelle sue... signor curato; e se non bastano le aumenteremo, perchè danari non mancano e ci sentiamo un cuore da Cesare; dunque si vesta, che sia benedetto; emetici ne ho meco per far vomitare anche il Conte Verde, ch'è di bronzo... e avverta che prima di andare a sorprenderli bisognerà farne motto al pretore...

— Al pretore! esclamò stizzito il curato, rammentando come costui col goffo gli avesse ammazzato la più bella primiera del mondo. E come ci entra il pretore?

— Ci entra benissimo: perchè il giovane è un rompicollo finito; quattro o sei ne ha su l'anima, tre di certo, ammazzati in duello; la si figuri di che non è capace cotesto disperato; molto più che, anche a risico di una tragedia, voglio portargli via la figliuola.

— Com'è così, la mi scusi, ma io non vengo — disse il prete tornando risoluto a mettere sotto le lenzuola le gambe ormai vestite e i piedi calzati con le scarpe dalle fibbie di argento.

— Ma senta, già prossima a dare nei mazzi prosegue Elvira, il pretore si farà senz'altro accompagnare dai giandarmi; tocca a questi salire e provvedere che non avvengano guai; non li paghiamo apposta?

— Sicuro eh! Noi li paghiamo dieci anni perchè si facciano ammazzare un giorno... patti grassi per loro.

— Anche troppo.

Intanto il curato, sentendo come le cose sarebbero andate a modo e a verso, si decise a uscire seguitando la marchesa, che lo tirava via per la manica. Arrivato a mezze scale, costui si ferma in quattro e si mette a gridare:

— Verdiana!

E questa, a capo di scala, gli rispondeva;

— Che cosa comanda, reverendo?

— La lucerna.

— To'! mormora Verdiana, gli è quasi in fondo e cerca il lume adesso; — di rincorsa va in cucina, accende i tre becchi alla lucerna e raggiunge il parroco, che stava per uscire fuori di casa, dicendo:

— Ecco la lucerna!

— Che tu possa andare a cena con gli angioli, che ho da farmi della lucerna per la strada, io? La lucerna dico... la lucerna da mettermi in capo; sbalordita! cervellona!

— Gua', o chi poteva credere un pari suo, che fa le prediche, tanto smemorato da uscire di casa senza cappello!

— Quando ritorno faremo i conti; intanto sai che ti ho da dire, Verdiana: che se tu non la smetti con queste scappate rivoluzionarie, io ti fo baciare il chiavistello di casa.

Come a Dio piacque, si posero in via, Elvira, Don Macrobio e Luigi Bigi il locandiere.

Il pretore già se n'era ito a dormire, se a dormire può dirsi, imperocchè se ne stesse supino colla moglie, a cui veniva esponendo con compiacenza le fortunate vicende del giuoco della serata; allo strepito che ad un tratto intese farsi all'uscio di casa sbalza su in camicia e va alla finestra, dove udita la voce del prete, che lo pregava ad aprire tosto per l'amore di Dio, tirò la corda. I bimbi del pretore, scalzi, in camicia, arruffati come istrici, si buttano giù dal letto strillando; la mamma, per farli star cheti, urla più di loro; la serva, pel medesimo fine, più di tutti: il cane, il gatto, si recano a debito di coscienza di non negare la propria voce al coro; insomma un finimondo, una vera musica dell'avvenire.

Alla meglio o alla peggio composto un tanto scompiglio, la Elvira ripete al pretore il racconto già fatto al curato e ne implora il soccorso. Il pretore, secondo il solito, era scannato intero, sbirro due terzi, ciuco mezzo, e forse un po' meno, tutta viltà per di sotto, per di sopra e da parte; povero uomo! da quaranta anni voltolava la sua vita rotonda di sommissione, come lo scarabeo la sua pallottola senza poterla portare un gradino più su. Penurioso di ogni bene di Dio, eccetto figliuoli, doni frequenti della feconda consorte. Udendo di cotanta donna, quale la Elvira pareva essere, e delle sue potenti aderenze, scorse di un tratto la importanza del negozio e gli parve che la fortuna gli porgesse una cima di cavo per tirare in terra la barca e ormeggiarla al sicuro. Si veste in un attimo, manda pel maresciallo di gendarmeria, gli bisbiglia i suoi ordini dentro l'orecchio; non dimenticò la brava rivoltella, e via. Anch'egli però erasi dimenticato di una cosa, della sciarpa, insegna della sua dignità; se la fece tirare giù dalla finestra. La sciarpa egli aveva scordata, la pistola no, e a ragione; la forza in questi, come in tutti gli altri casi, è quella che conta; il diritto viene dietro col pialluzzo a ragguagliare quanto la forza cincischiò coll'ascia.

*

Ed ora, voltata la ruota al timone, andiamo a vedere che sia accaduto dei nostri amanti. Ai moti convulsi, ai discorsi deliri, subentrarono quiete e silenzio penosi; si tenevano per mano e corrispondevano fra loro con sospiri repressi. Il sole sembra affrettarsi a purificare nella marina i suoi raggi insanguinati nel quotidiano pellegrinaggio per le dimore degli uomini. Omobono si leva, lo seguita Amina, entrambi si affacciano al balcone e scambievolmente si stringono a mezza vita; fissi nel sole, stanno a vederlo immergere poco a poco nel cumulo delle acque; quantunque tinti in rosso, cotesti raggi offendono la vista; che importa? In breve essi non avranno più bisogno degli occhi, nè di altro sentimento del corpo; ecco, su l'orlo estremo della marina resta un terzo appena del disco solare, un quarto, una linea, un sospiro, è prossimo ad esalare l'ultimo fiato; lo ha esalato.

— Ed ora anche per noi è tempo di andare a dormire, bisbigliò Omobono.

— Sì, rispose Amina; però innanzi io ti supplico compiacermi in un ultimo desiderio; tu vestiti i tuoi abiti migliori, io farò lo stesso, e poichè senza avvertirlo io chiusi nella valigia la ghirlanda dei fiori di arancio, me la poserò adesso sul capo. Celebriamo le nozze; pronuba la morte.

E come Amina desiderò fecero.

Alla luce moribonda del crepuscolo spartirono la morfina in sei boli; dovevano essere tre per uno, ma Omobono per sè ne prese quattro, perchè, come uomo e più forte, era naturale che gliene abbisognasse dose maggiore.

Uno si assise dirimpetto all'altro; parevano di marmo; la vita intera negli occhi. Omobono prese un bolo, lo mise nel cucchiaio, che empì di acqua, lo accostò alla bocca, e levato il capo giù il primo. In questo mentre l'Amina s'industriava scambiare i bocconi di morfina con quelli già ammanniti di gomma arabica, ma non le riuscì; il freddo le penetra le ossa e la paura le toglie il consiglio; sicchè a lei pure è forza trangugiare un bolo di morfina. Omobono, preso ormai pei capelli dal fato maligno, ingola il secondo; Amina, tremante a verga, si apparecchia ad imitarlo. Chi la salva adesso? Quello che nè anche il diavolo ora potrebbe, lo farà Amore.

Cotesta vista rimescolò nelle viscere il povero Omobono, che l'amava tanto, onde balbuziendo parlò:

— Aspetta, cara infelice... mi manca il coraggio di vederti pigliare il veleno... lascia ch'io mi volga altrove... e poi avvelenati... Amina, abbi pietà di me.

E con supremo sforzo agguanta i due boli rimasti su la tavola, e senza soccorso di acqua, cacciatisegli in bocca, li trangugia. Così Amina ebbe agio di sostituire la gomma arabica al secondo bolo della morfina, la quale si ripose in seno.

— Ora, soggiunse Omobono, adagiamoci sul letto; si levò, ma traballava, non mica per virtù del veleno, che sarebbe stato presto, bensì per la commozione; si versa un bicchiere da tavola di cognac e lo manda giù di un tratto; poi un altro: ed all'Amina che gli avvertì: — che fai? — egli rispose ghignando: — tanto più che morire non si può. — Quindi con la bottiglia in mano, che posa sopra la comoda da notte, a tastone trova il letto e vi tracolla sopra di sfascio: — Ora, gorgogliando continua, ora, Amina, vienmi a morire accanto.

Amina si sentiva impietrita: Omobono cominciava a tronfiare, indi a poco piglia a lamentarsi: — Da bere... ahimè! ardo... da bere, e stesa la mano alla boccia ingozza cognac. La efficacia del veleno si palesò in lui oltre l'aspettativa sollecita; la salivazione tanto copiosa lo molesta, che non potendo sputarla gli si rovescia per le guancie e pel mento, lasciando su le labbra bolle di bava; con le mani sempre in moto si straccia le vesti e la pelle, tanto lo tormenta acuto il prurito; i tratti del viso da un punto all'altro gli si tramutano sì che non pare più quello; per ultimo chiude gli occhi russando cavernoso.

— E tutto questo perchè se ora ti manca il coraggio di coglierne il frutto! — per darsi di sprone diceva irridendo se stessa Amina, sentendosi inchiodata sopra la seggiola; e cupidità vinse paura; sorse in piedi, e le bastò l'animo di accostarsi al letto dove giaceva Omobono, con l'indice e il pollice sollevargli le ciglia scrutandogli le pupille, che riscontrò orribilmente contratte; lo chiamò eziandio più volte: «Omobono, caro Omobono... sentimi, riscotiti... rispondimi, via, amor mio». Nulla! — Adesso è il tempo, ella disse, e gli prese di tasca la chiave del baule, lo aperse, n'estrasse il portafogli, che pose sopra la tavola: smoccola la candela perchè mandasse più lume, e reggendosi a stento si accosta alla finestra, ci si affaccia, e la voce di Elvira la percuote subito che dice: «Sono qui».

Il portafogli fu calato, la finestra richiusa in fretta. Amina si fa a serrare il baule e a rimettere la chiave in tasca ad Omobono: allora si accorge come non abbia badato ad altro portafogli di volume molto minore, il quale, aperto da lei, mostra un'altra quantità di biglietti di banca; le pareva tentennare fra la morte e la vita, e tuttavia non sofferse lasciarli; s'ingegnò adattarsi intorno alla vita il portafogli, e sebbene cascasse dal sonno ci si rifece più volte, finchè non le parve averlo celato per bene sotto l'abito stranamente foggiato che costumava a quei dì. Allora soltanto pensò all'emetico, e, strano a dirsi, non gli riuscì pigliarlo; per le membra le si era insinuato un torpore che non le dava balìa di alzare le braccia; quanto più voleva tenere ritto il capo, tanto le ricadeva sul petto peso come il piombo; ed anche la lunga tensione dello spirito in opera di delitto l'aveva rifinita di forza moralmente e fisicamente: si acchiocciolò sul letto voltando le spalle al corpo di Omobono per paura di vederlo, se per caso le venisse fatto di aprire gli occhi, e così stette finchè non sentì picchiare forte l'uscio, e al colpo tenere dietro le parole: «Aprite in nome della legge» e così per più volte; non rispondendo alcuno, con una spinta solenne schiantarono l'uscio dagli arpioni, e dentro rovesciansi prete, pretore, giandarmi, Luigi Bigi e l'Elvira. Alla vista del fiero spettacolo mandarono tutti un grido di orrore. L'Elvira si precipita sopra Amina, del suo corpo la cuopre, l'abbraccia, la bacia, co' più cari nomi l'appella, e intanto le domanda sommesso:

— Hai preso il veleno?

— Sì.

Elvira levò la faccia al cielo quasi per chiedere una ispirazione, e la ispirazione le venne, ma non dal cielo, e la ispirazione fu questa: — Lasciala morire, ti piglierai tutta la moneta per te.

Senonchè Amina ammiccandole con gli occhi desse retta, le aggiunse: — Ma ne ho preso poco; nè mi potrebbe uccidere; — levami di qui, Elvira; io non posso più reggere.

Allora Elvira incominciò a gridare, si affanna, manda sottosopra ogni cosa; ordina ammannissero caffè, corrano pel medico, vadano per lo speziale, portino di ogni ragione emetici: acqua calda... acqua calda, ci vuole.

Avuta acqua calda, la Elvira ministra all'Amina il solfato di zinco e poi acqua; e intanto che a voce alta la conforta a darsi animo, a voce bassa interroga:

— Le prese di morfina dove sono?

— Qui in seno.

Allora Elvira, al fine di divertire l'attenzione da lei, strepita:

— E voi altri movetevi; fate lo stesso con cotesto sciagurato; se non può aprire i denti, schiudeteglieli a forza; cacciategli in bocca questo vomitatorio; se riusciamo a farli recere, sono salvi... su, prete... presto pretore... maresciallo, mi raccomando anco a voi... a lei, signor Luigi Bigi, o che mi stilla lì ritto come un palo da pagliaio... Amina, come ti senti? Come ti par di stare? Ti senti smovere? E voi altri, con quel disgraziato, venite a capo di nulla?

— Di nulla; io lo faccio sbasito, rispose il maresciallo; e' pare che, più che col veleno, si sia ammazzato col cognac.

— Ch'è il peggiore dei veleni, osservò Elvira, calunniando perfino questo suo amico fedele.

— Mamma! mamma mia, reggimi il capo.

— Su, carina mia, coraggio... o Dio, o Dio, ti ringrazio, la medicina opera.

E giù vomito a scroscio; mentre Amina appoggia il capo al seno della Elvira, e vomita nella catinella, questa, fingendo aiutarla con le mani, le cava dal seno i boli della morfina e li mescola col reciticcio. Tranquillatasi alquanto la madre pietosa, le porge a bere caffè a ciotole, mostrando tuttavia accesissimo zelo anche pel giovine avvelenato; ma con lui erano pannicelli caldi: vennero il medico e lo speziale.

Il medico, dopo visitata diligentemente Amina e le materie serbate nella catinella, giudica che a parte le conseguenze del disturbo morale, intorno a cui non si poteva garantire nulla, dove si continuasse la cura del caffè e di altre bevande acidulate con aceto, limone, acido tartarico e simili, la considerava fuori di pericolo: all'opposto, il caso di Omobono parergli disperato; ad ogni modo avrebbe fatto ogni sforzo, ma, per operare, di due cose avere supremo bisogno: quiete e libertà; sgombrassero la stanza tutti, massime la giovane signora, della quale la permanenza prolungata in cotesto luogo era di danno inestimabile.

— Se però non fosse assolutamente necessario... osservò il pretore.

— Necessarissimo, et in primis et ante omnia, confermò il medico.

— Ma che diascolo! Lo vedrebbe un cieco, ribadì il prete, cui, memore del goffo omicida della sua primiera, non parve vero di dare una trafitta al pretore.

Allora Elvira, usa a chiappare le occasioni a volo, chiamato in disparte il medico, lo tastò:

— O non sarebbe meglio che io me la riconducessi a Milano?

— Magari! Ma con questo boccone di scossa io non garantirei.

— Senta, dottore, io non voglio che da lei si garantisca nulla; sono io quella che intendo recisamente ricondurla a casa; desidero che ella ne sostenga la convenienza... la utilità... la necessità... la mia carrozza è comodissima, vostra signoria ci accompagnerà a Genova, occorrendo a Milano: e' sarà mestieri accomodare mezza carrozza a modo di lettuccio, provvedere medicine, cordiali... dottore, la supplico, pensi a tutto lei, perchè, vede, se io non do la volta, è un miracolo: non badi a spesa, sa? Eccole un biglietto da mille; poi faremo i conti.

Lasciato il medico in asso, la Elvira tira da parte il prete e gli dice:

— La mi dia la mano.

— O che ne vuol fare?

— Mi conceda che io gliela baci.

— O signora marchesa, ma che le pare?

— La mia figliuola è salva! Ottenni la grazia, e non gabbo i santi io. Prenda questi due da mille e questi altri quattro da cinquecento, che in tutti fanno quattromila; mariti fanciulle a suo piacimento; siamo intesi. Adesso bisogna che anche lei si metta dattorno al pretore perchè non m'impedisca ricondurre meco la mia figliuola a Milano; che importa averla salvata dal veleno, se poi la si vessa con tante molestie, che avrà da morire d'angoscia? Innanzi ch'ella si rimetta chi sa quante cure bisognerà ch'io spenda... dirò come ha detto dianzi lei, reverendo, lo vedrebbe anche un cieco.

— Non ci è dubbio... non ci è dubbio.

Allora tutti in acie ordinata uniti mossero contro al pretore, il quale stava seduto al tavolino rapito in estasi, come dev'essere stato san Giovanni quando dettava l' Apocalisse, a stendere la relazione informativa pel prefetto. Cascasse il mondo, prima la relazione; ogni altra cosa dopo; udita la istanza dei supplicanti, rispose secco non potere attendere per ora; lo lasciassero alle gravi incumbenze del suo ufficio: trasportassero la inferma alla pretura. Delegava il maresciallo dei giandarmi a frugare con somma cura tutti (e per ciò si comprendevano anche le tutte) quelli che uscivano dalla stanza, perchè come dice lo Statuto? La legge è uguale per tutti. Non doversi levare niente dalla stanza, nè manco una spilla, nequidem acicula. All'Elvira non parve vero, e fra sè disse: Siamo a cavallo; invece all'Amina diede un tuffo il sangue; ma dalla paura in fuori non ci fu altro danno. Il maresciallo dei giandarmi era troppo educato per ardire di stendere la mano su donne di alto affare; e poi nell'esercizio della sua professione aveva appreso come il precetto che la legge è uguale per tutti sia una delle tante cose che nella società umana si dicono, si scrivono e si stampano, ma che però non si eseguiscono se non caute, sano modo, prudenter, e con le altre più forme che le fabbriche dei R. P. Gesuiti provvedono a tutti i governi di questo mondo, ed io credo anche di quell'altro.

Elvira, Amina, il prete, Luigi Bigi, scortati da grande accompagnatura di gente, arrivarono a casa del pretore, dove li accolse la moglie e la caterva dei suoi figliuoli; quella mezzo melensa, come l'aura spiritale di amore del canonico Petrarca per troppo frequenti gravidanze,[52] questi orribili a vedersi più dei diavoli dipinti dall'Orgagna nel camposanto di Pisa, nell'atto di rubare l'anima ai frati; ella si profferse intera all'Elvira, ma che le poteva dare? Dall'acqua in fuori la poverina non possedeva altro; questi nel solito arnese, scarduffati, scalzi e sudici, si misero attorno all'Elvira, toccandole i panni e lasciandovi impressa l'impronta delle cinque dita, nella medesima guisa che gli animali antidiluviani fecero sopra il terreno stemperato, onde i naturalisti ebbero poi notizia della loro esistenza nel mondo e ne ricostruirono la forma. Elvira sentiva pizzicarsi le mani di agguantare tre o quattro di cotesti cosi e scaraventarli fuori di finestra, ma la necessità la costrinse di appiccare la sua voglia all'arpione, all'opposto si adattò fino ad accarezzarli e a dire co' denti stretti alla povera mamma: come sono interessanti! E la povera mamma, facendosi coscienza di accettare senza ammenda cotesto elogio, aggiunse: se non fossero tanto insolenti! — Elvira, per levarseli dattorno, ricordò in buon punto di avere addosso la scatola dei confetti,[53] arnese diventato oggi necessario nel mondo muliebre, onde, recatasela in mano, l'aperse e ne gittò il contenuto nell'altro lato della stanza: se si dicesse che ci si avventarono sopra come i porci alle ghiande, sarebbe troppo gentile paragone, perocchè essi nello strapparseli di mano si graffiassero e mordessero: divorati i confetti tornarono a infestare la gente più impronti che mai: allora risolverono cacciarli via; sì, e' furono novelle! Sgusciavano dalle mani, strisciavano per le gambe, sotto le gonnelle si appiattavano, strillavano come galline spaventate; all'ultimo, ghermiti chi per le gambe, chi pei capelli e chi pel collo, furono chiusi dentro un bugigattolo, dove continuarono a sbizzarrirsi fino a giorno.

Elvira, ripreso fiato, narrò (era la quarta volta che la raccontava, sempre con aggiunte e correzioni) la pietosa storia alla pretoressa, la quale ne pianse tanto da immollarne due fazzoletti; allora Elvira conchiuse col pregarla ad esserle favorevole per ismovere il pretore a non impedirle di ricondurre la figliuola a Milano; ella non poteva trovare il terreno più sollo, perchè ci ebbe appena pigiata la vanga che ci entrò fino al manico, e le diceva: «non se ne desse pensiero; lasciasse fare a lei; non ci era a dubitarne nemmeno; niente niente nicchiasse il pretore, l'avrebbe dovuto contrastare con lei.» E così via, come costumano le donne, quantunque eccellenti, dove si reputino cardini della famiglia. — Elvira, tratto fuori un biglietto da cinquecento lire, lo esibì alla povera donna, la quale, diventata rossa come una fiamma di fuoco, lo rifiutò esclamando: «O che per un po' di opera buona ci è mestieri pagamento? Da quando in qua si usa comprare anche due parole di carità?»

— No, buona signora, rispose Elvira, la carità non si compra, nè si vende; ma poichè la beata Vergine mi ha fatto la grazia di salvare questa mia diletta figliuola, è debito di cristiano mostrare la propria gratitudine alla madre di Dio facendo un po' di bene al proprio simile; e questo debito tanto più preme a me, che la Provvidenza volle colmare di ricchezze. Avrei pertanto voluto spedirle da Milano una cassa di vestitini per i suoi interessanti bambini, ma ella, ch'è donna di giudizio, comprende a colpo di occhio che troppo triste cure mi attendono a Milano, ond'io possa, come pure vorrei, badare a ciò: quindi la prego a volersi pigliare questo carico per conto mio, e ciò con tanta maggiore opportunità, che qui il sarto li potrà provare alle creature prima di cucirli e a questo modo farli tornare a pennello a loro dosso.

Ah! interesse, interesse, quando tu ti ci metti in casa entri sempre, perchè se tu picchi all'uscio nel medesimo modo, diverso è il grido col quale accompagni il picchio, ed ora preghi per lo amore di Dio, ora per l'amore del prossimo, ora per l'amore dei figliuoli, sicchè l'amore tira la corda e si accorge tardi avere albergato un serpente.

Il pretore tornò a casa all'alba, nè solo; con lui vennero l'albergatrice di Amina e il Merlo, rinvenuto dalla sconcia ubriachezza; la Elvira, appena lo vide, gli fece una squartata da levare il pelo: bel capitale ci era da fare di lui, dominato ogni dì più dal turpe vizio del vino; troppo abusare della sua bontà; pensasse che ogni libro aveva il suo fine; quello della pazienza come ogni altro. Ma il Merlo, fattolesi dappresso, a voce bassa e in atto di ossequio le susurrò.

— Ci conosciamo, buona lana; se tu mi hai lasciato ubriacare, senza ubriacarti, è segno che ci avrai avuto le tue buone ragioni: quante volte ci siamo ubriacati insieme! Smettila una volta, che mi sento stufo di essere maltrattato da te, hai capito?

— Andiamo via, Merlo, fatevi perdonare il trascorso passato attendendo ad eseguire quanto sarò per comandarvi.

Ora si tira innanzi la vedova locandiera dell'Amina, e implora piangolosa pagamento del fitto e indennità per la rovina patita; era stiantata di sana pianta; chi da ora in poi avrebbe abitato casa sua? Si raccomandava in visceribus; e fu vista inginocchiarsi e così genuflessa camminare dietro Elvira, la quale, uggita della improntitudine, si volse a Merlo dicendogli:

— Vedete di accomodare per la meglio questa donna. Non sono mica morta io in casa sua; nè il morto mi appartiene, senonchè per la trafitta che mi ha dato nel cuore: d'altronde egli lascia una eredità; si faccia pagare da quella.

— Aggiusterò io questa faccenda, intervenne a questo punto il pretore, ed Elvira con bel garbo gli disse:

— L'avrò per grazia; — e qui ella si volse da capo al curato con queste parole: — Reverendo, io non le chiedo accompagnare quel povero morto al camposanto.

— Di fatti io non la potrei servire.

— Ma non ci sarebbe verso di fargli dire un po' di bene.

Impossibile!

— Me ne rincresce; avrei voluto erogare un po' di danaro in suffragio dell'anima sua... non ne parliamo più.

— Ecco, signora, come si potrebbe fare: ella avrebbe a commettermi quel numero di messe che a lei sembrasse spediente, da celebrarsi secondo la sua intenzione, ed ella le applicherebbe in pro dell'anima del defunto: io voglio credere che le faranno bene, alla peggio male non glie lo faranno, e' sarà come della nebbia, che lascia il tempo che trova.

Così rimase stabilito con mutuo gradimento; gli altari smagliarono di candele; le chiese echeggiarono dei soliti canti; di su, di giù la solita schiera fosca dei preti, come formiche alla busca del grano.

Il pretore, battuto in breccia da tante parti, non seppe negare la istanza che le reiterava la marchesa, molto più che il maresciallo gli faceva osservare fin lì non esserci querela, nè egli poteva pigliarsi da sè le parti di giudice istruttore: quanto spettava a diligente magistrato essere stato da lui adempito. Assicurato tutto; dalla stanza mortuaria non estratta nè manco una spilla, nequidem acicula; di ciò essersi accertato mercè la perquisizione rigorosissima anche su le persone, senza distinguere qualità nè sesso; ciò resultare dal suo rapporto; cavato appena dalla stanza il cadavere si apporrebbero i sigilli; e buona notte sonatori. E come vorrebbe ritenere egli la giovane signora? In carcere? Dio ne liberi! Gli correrebbero dietro fino le pietre e potrebbe uscirne chi sa che diavolìo anche pel governo, il quale (a quest'ora il pretore lo avrebbe a sapere com'egli maresciallo) ama lo zelo e lo raccomanda, a patto che non metta campo a rumore. O piuttosto la lascerà a piede libero? E allora, o che difficoltà trova che ella così si stia a Milano, piuttostochè a Nervi? Molto più che a Milano dovrà istruirsi il processo.

E fu alla Elvira efficace avvocato il maresciallo, uomo atticciato, tuttavia giovane e svelto da levare il fumo alle schiacciate. La Elvira, un po' pensando al presente e molto all'avvenire, gli volle donare un bellissimo anello, e ad accettarlo non potè dire avere patito violenza il maresciallo. Questo anello, non senza sua grande sorpresa, l'Elvira, dopo un mese lo rivide a Milano in dito alla marchesa Zelmi. O com'era ita? chi lo può dire? Rammentate voi quel siciliano che, condottosi a Roma, fu trovato rassomigliarsi al magno Pompeo come gocciola a gocciola? Questi, avendolo saputo, volle vederlo, e riscontrato che la cosa stava appunto come glie l'avevano raccontata, esclamò: la è strana, perchè mio padre, ch'io sappia, non andò mai in Sicilia. Però ti avverto, rispose l'arguto siciliano, che mio padre soventi volte venne qui in Roma. La marchesa Zelmi erasi trattenuta per le bagnature a Nervi fino ai primi di ottobre...

Insomma Elvira si condusse seco Amina in mezzo alle benedizioni di tutto il popolo di Nervi, il quale non potè astenersi da esclamare: piacesse alla Madonna santissima mandarci spesso di questi avvelenamenti; la sarebbe una manna per tutti!

La ipocrisia, avendo presentito questo negozio, ci si era messa di mezzo nello intento del ciarlatano che va alla fiera; confidava smerciare dei suoi prodotti in buon dato; ma presto conobbe che la ipocrisia antica, la ipocrisia classica a mo' che la descrive Cesare Ripa nella sua Iconografia, non era più di usanza. Le ipocrisie venivano a nugoli dall'Affrica in compagnia delle cavallette puniche; queste rimasero tutte in Sardegna; la più parte di quelle capitarono in Italia. Allora la ipocrisia classica si profferse al generale dei gesuiti, che l'accolse cortese, le usò un mondo di finezze e le diede a bere la cioccolata, ma le disse che i conventi e i collegi dei gesuiti si servivano di lavori fatti in casa; la ipocrisia si ripose in viaggio e se ne andò a Roma per favellare al santo Padre, ma non lo potè vedere, perchè lo trovò carcerato in segreta dentro undicimila stanze! Si fece a rendere visita a cardinali, arcivescovi, vescovi, e di maniera prelati, non lascio indietro abati, abatucci e abatini, e tutti rinvenne provvisti di barattoli d'ipocrisie messe in guazzo come le ciliege: per disperata si fece a trovare i ministri del bello italo regno, e si mise in quattro per renderli capaci di adoperare ipocrisie decenti, che non avessero le toppe bianche su le gonnelle nere, mentre quelle che tenevano a nolo l'erano sgualdrine sguaiate che solevano andare dietro la ritirata[54] dei soldati; ma i ministri la chiarirono come non si potessero mettere in ispese inopportune, imperciocchè presentissero avvicinarsi il tempo in cui, dato il puleggio a tutte le ipocrisie vecchie e nuove, nobili e plebee, sarebbe corso l'andazzo di buttar carte in tavola dicendo fuori dei denti: così la penso e così la voglio, e a cui fa male si scinga.

La ipocrisia classica, per non andare a rifinire sopra uno scalino di chiesa, si accomodò a entrare nei conservatorii delle damigelle, alle quali insegnò scrivere le lettere per capo di anno a papà e pel giorno natalizio a mammà, e su su fino a reggere loro la mano quando esse vergarono la prima lettera di amore; la prima, perchè alla seconda non ebbero più bisogno di lei; dicono che, presi in uggia i conservatorii, siasi ridotta a fare da cucina a certi deputati repubblicani che siedono a sinistra nel Parlamento a Roma, ma io non ci credo, quantunque m'intronino gli orecchi col dirmi: che tu sia benedetto, vorresti che i deputati italiani fossero da meno dei cavoli? Mira quante mai le specie di questi erbaggi! Nella sola del cavolo cappuccio ecci il cavolo pisano, il cavolo lombardo, il cavolo veronese, il cavolo bianco piacentino, il cavolo nero napolitano, il cavolo a piccole teste, che abbonda nel Fiorentino, e delle altre specie si tace.[55] Or dunque, tra deputati diritti e deputati mancini, tra ventreschi destri e ventreschi sinistri, non ci possono incastrare ancora i deputati repubblicani-monarchici-costituzionali?

Capitolo XIX. LE SIGNORE ED I SIGNORI.

Parve all'Elvira (e lo notai) avere omesso cosa d'importanza grave, alla quale si era ripromessa riparare quanto prima poteva, e volendo che la dimenticanza non la sorprendesse la seconda volta, fece un nodo al fazzoletto, e per giunta si punse il pollice mancino: di fatti con tante cautele non se ne scordò più; sicchè nel primo momento che rimase sola con Amina le disse:

— Adesso, Nina mia, occorre che bruciamo tutte le lettere che ci siamo scritte: dove hai tu le mie?

— Le ho qui allato.

— Ed io pure le tue; ma non basta; tu mi hai da scrivere una lettera alla liscia, dove esposta prima la disgrazia del portafogli accaduta a Como, mi tratterrai della crescente cupezza di Omobono, della sua paura di cascare in mano alla giustizia, e finalmente della sua disperazione; calcherai sopra il suo proponimento di ammazzarsi, e tu pure, per l'amore grande che gli porti e per lo stato in cui il tuo mal passo ti ha ridotta, avere risoluto tenergli compagnia nella morte come già gliela tenesti in vita; questa lettera nuova riporrò nella busta dell'antica, procurando che la data della marca postale corrisponda a quella della lettera, e bisognerà pure che ci abbiano fede, e chi gliela nega provi il contrario.

Nè queste sparvierate femmine sperimentarono le Provvidenze loro inani, imperciocchè appena giunte a Milano ecco entrare loro in casa un topo insinuante e rodente, cioè il questore, ovvero il cancelliere criminale... insomma uno di quelli che vanno attorno per città e per ville a raccattare gli escrementi che si lascia dietro il delitto, per portarli al tribunale a concimarvi la giustizia.

Le donne sonavano accordate più dell'arpa del re Davidde: spedirono persona svelta a Como per pigliare odore delle cose, e trovarono che le informazioni corrispondevano a capello; però da questa parte giudicarono spediente interrompere i lavori di ricerca, almeno per ora.

Seguitando un altro filone, il tribunale prese a instituire indagini sottilissime su i libri delle ragioni Omobono Boncompagni e C., e Omobono Onesti, e apparvero, come veramente erano, ai più svegliati ragionieri laberinti veri da non venirne a capo nè manco col filo di Arianna. Dai libri della ditta Boncompagni e C. resultava avere essa somministrato a quella Onesti somme da prima non esorbitanti, e con queste la ragione Onesti aveva impreso operazioni regolari nel modo, quanto lucrose nel fine; di un tratto si vede una vera fiumana di valori irrompere dalla prima nella seconda ditta, nè si giungeva a capire bene a quale scopo: guadagno l'Onesti non ci aveva fatto su; pareva piuttosto che i negoziati conchiusi con cotesti valori fossero per interesse altrui; di vero non si mescolavano con le altre operazioni particolari alla banca Onesti; donde si poteva conchiudere che i danari versati dalla banca Boncompagni e C. servissero ad acquistare recapiti sopra le piazze estere, e dopo acquistati alla medesima si consegnassero; e stando le cose come si supponeva, appunto non si capiva il motivo di ricorrere a seconde mani, e astenersi da cambiare direttamente da sè: all'ultimo la fiumana avvertita diventa la cascata di Niagara nella cassa dell'Onesti, avvenuta di un tratto, o a pochi giorni di distanza scritta da mano diversa di carattere; e di questi ultimi valori non si ha altro discarico, eccettochè nella fuga dell'Onesti, nella immersione del portafogli nel lago, e per ultimo nella fine miserabile del giovane Omobono.

Per ottenere un po' più di lume fu pensato mettere le mani addosso al Nassoli, ma questi, fiutata l'aria, prese il largo, e non riuscì a trovarlo. E perchè mai erasi allontanato costui? Di che cosa aveva a temere? Veramente non era stato partecipe degl'illeciti guadagni, ma consigliere di non poche marachelle egli fu, e le aggiunte su i libri della ragione Onesti erano pure fatte da lui, epperò non si giudicava netto come una tovaglia venuta mo' di bucato; ed anche pensando come il dubbio e l'errore sieno due campanelle messe agli orecchi del genere umano, e come i giudici per chiarirsi dieno subito di mano all'arnese della prigione, reputò prudente riparare in luogo sicuro. Il Nassoli, come altra volta fu dichiarato, era filosofo adoratore di due cose: dell' Ordine e del Buon esito; badava al fine riuscito a bene; tutt'altro era metodo: pari agli eroi di Omero, per lui non correva differenza tra valore aperto e frode: o se mai distingueva, preferiva la frode, a mo' di Ulisse e di Diomede; e così il furto dei cavalli di Reso, l'altro del Palladio e il tradimento di Sinone pari in merito alla difesa delle navi greche assalite dai troiani: di uomini siffatti possediamo copia adesso; fra questi il Thiers scrittore e attore plaudente sempre ai felici; se fanno il tomo, ed ei lor suona le tabelle dietro. La fede del Nassoli, posta da lui nel vecchio Omobono, dopo la prima stincatura rimase incrinata; la ristagnava alla meglio, ma al primo urto si ruppe, come suole, sul saldato. Non aveva preso in uggia il procedere di Omobono come delittuoso, bensì come disordinato; giudicava i delitti stonature in orchestra; egli avrebbe atteso con uguale devozione a che Cristo si trovasse in mezzo l'altare come la carruccola in mezzo della scala; con pari diligenza badato che i sei candellieri sopra l'altare, come le scale su la forca, si trovassero equidistanti fra loro. Con la virtù egli non ci aveva pratica, ma, per quel poco che glie ne avevano detto, quel suo trovarsi spesso in balìa dell'entusiasmo gli dava uggia; il male gli si mostrava più positivo e da farci sopra fondamento maggiore, quindi, a mo' che i santi eremiti per ispirazione divina si recarono nei deserti della Tebaide, egli s'incamminò difilato nel convento dei gesuiti a Brusselle; quivi chiesto del generale, gli fu risposto ch'egli era a Roma, ma che volendo avrebbe potuto parlare col padre provinciale, che sarebbe lo stesso. Il Nassoli, cui l'andata a Roma lì per lì non garbava, soggiunse che volentieri: ammesso pertanto al cospetto del provinciale, espose candido le vicende della sua vita, implorando essere ricoverato nel convento come in fidatissimo porto; il provinciale lo respinse reciso; ma l'altro riprese ch'egli non intendeva già mangiare a ufo alle spalle del convento; avrebbe versato nella cassa dell'Ordine ventimila franchi, unico frutto della lunga fatica; e siccome uscendo alquanto dal solito metro volle calcare un po' troppo su l'ultima parte del suo discorso, il generale ne arguì: dunque ei ne tiene in serbo almeno altri ventimila; onde, mutato subito registro, gli domandò che cosa sapesse fare; e l'altro ingenuo rispose: un po' di tutto.

Allora il provinciale proseguendo:

— Ma voi sapete come noi, seguaci veri di Gesù, pratichiamo sopra tutto il precetto: chi si umilia sarà esaltato, e per necesse la prima prova che chiede ai suoi alunni è l'umiltà, massime da voi, che non potreste essere accettato che per converso; e non oltrepassare giammai gli ordini minori cominciando dall'ostiario.

— E ostiario che è?

L'altro glielo disse, e il Nassoli soggiunse: sia. Nella giornata dunque egli consegnò nelle mani del padre provinciale i ventimila franchi e fu gesuita.[56] Richiesti riscontri su lui da Milano, gli ebbero a capello conformi al suo racconto, ond'egli subito venne in fama di sincero. Preso possesso della carica, incominciò dal sonare le campane con esattezza maravigliosa, sia per l'ora, sia pei tocchi, sia pel suono; cani in chiesa non se ne vide più uno; serviva le messe preciso di voce e di tempo; le ampolle piene di acqua e di vino sempre al medesimo livello senza scattare una linea; le pilette colme tutti i dì di acqua santa; lustrava come specchio il pavimento; nella gloria del quadro di san Luigi Gonzaga i ragnateli non si attentarono più impancarsi in compagnia degli angioli; la beata Vergine Maria ebbe a confessare non essersi mai trovata pulita come allora; i santi Ignazio da Lojola, Francesco Xaverio, Stanislao Kostka si maravigliarono di sentirsi spazzolati con tanto furore; la chiesa dei gesuiti di Brusselle, giudicata sempre un gioiello di lucidezza, adesso poi toccava la cima; il Nassoli, che mutato nome aveva preso quello di Lissona, anagramma di Nassoli, fu visto una volta arrampicarsi come scimmiotto su per certe corde, onde assettare un lembo di festone dispaiato col lembo pendente dall'altra parte; egli usciva puntuale, puntuale rientrava; misurati sempre il cibo e la bevanda; nè di un minuto differiva l'andare a giacersi, nè di un minuto affrettava il levarsi; con lui in casa potevano buttarsi fuori di finestra gli orologi: non mai impaziente, non disforme da sè mai, sicchè il provinciale, dopo averlo considerato sottilmente per di dentro e per di fuori come sanno osservare i gesuiti, esclamò: egli è gesuita nato! Allora gli commise certa ragione di conto, che fece presto e bene, comecchè fosse suo mestiere; così di mano in mano fu messo dentro alle segrete cose, dove rimase stupito dell'ammirabile congegno dei concetti, dell'armonia delle pratiche, dell'efficacia dei modi di acquistare l'altrui, conservare l'acquistato, ricuperare il perduto, che ei fu per andarne in visibilio: e sebbene nelle vene, piuttostochè sangue, sentisse gocciolarsi olio di merluzzo, pure rimase vinto dall'entusiasmo, imperciocchè un giorno, esaltato, si gittò pentito e contrito ai piedi del padre provinciale e gli chiese a un punto perdono per avere dissimulato e licenza di versare in cassa gli altri ventimila franchi rimastigli.

Il padre provinciale, senz'abbaco, aveva fatto i conti giusti... egli lo assolvè senza tante invenie, dicendogli come Cristo all'adultera:

— Va' e non peccare più.

Ma subito dopo, riprendendo le parole, aggiunse:

— Però badate; se tenete in serbo altra moneta, quando vi venga voglia confessarvene, voi sarete con pari indulgenza perdonato.

I tribunali di Ninive avrebbero più facilmente trovato Giona in corpo alla balena che quei d'Italia un uomo inghiottito da un convento di gesuiti; però dopo infinite ricerche sempre invano, i giudici posero l'animo in pace di poter ripescare il Nassoli; il quale sotto il nome mentito più tardi venne a Roma, e credo che ci si trovi anche adesso; tuttavia ci vive desolato, considerando come le faccende della compagnia decadano maledettamente; colpa, e lo dice, della passione, che agitando il cervello di alcuni padri ha scombussolato l'ordine antico; niente di troppo; lo zelo è vizio; tutto al suo punto; adagio quando hai fretta: abbaco e compasso compongono il suono e il canto delle sinfonie gesuitiche: amore, odio, vendetta, perdono, dare e pigliare, tutto vuolsi tagliare alla debita lunghezza come le ugna e i capelli: per ora gli danno poco ascolto e gli appongono nientemeno che lo Spirito Santo in persona là dove dice: «ogni cosa ha la sua stagione... tempo di uccidere e tempo di sanare... tempo di guerra e tempo di pace.»[57] Ma egli risponde: Sta bene; badate che lo Spirito Santo ha taciuto di un altro tempo, che se non adoperiamo giudizio ci sta addosso, ed è quello di romperci il collo. — I furori erotici egli saprebbe sanare col nenufar e la canfora, ma contro ai bellicosi si trova corto a partiti; intanto non rifinisce mai di ripetere come una gazza addomesticata: — Ordine, padri miei, ordine; coll' ordine noi venimmo a capo delle più ree fortune; coll'ordine mantengonsi le monarchie ai tempi nostri; — e comecchè ogni giorno più gli si vada illanguidendo la speranza di rimettere i cervelli a sesto, pure ci si attacca con l'agonia del naufrago: dove questa speranza gli venisse a mancare, egli pregherebbe Dio di farlo morire e convertirlo in un orologio a pendolo per misurare il tempo, finchè la eternità sua madre non l'affoghi nel caos con tutti i mondi attaccati al collo.[58]

Il commesso Carpoforo, debitamente chiuso in prigione, fu interrogato; ma costui, che scottato dall'acqua calda aveva appreso a tremare della fredda, non diede in tinche nè in ceci; non sapeva niente di niente, perchè il principale amministrava da sè la cassa, e quanto a scritture senza dubbio le teneva egli; ma poco innanzi della partenza il signor Omobono avergli ordinato consegnasse i libri della ragione al computista Nassoli, e questo aveva fatto; di ciò potersi chiarire ogni uomo gittando solo una occhiata su i libri, i quali sul fine palesavano che una mano di carattere diversa dalla consueta aveva scritto le partite; da questo in fuori non ci fu da spillare altro, ed il processo rimase in asso.

Succede nelle procedure criminali come nelle navigazioni transatlantiche, dove se ti favoriscono i venti etesi ti conduci a volo nel porto destinato; se all'opposto ti coglie la bonaccia, la nave per lunghi mesi dorme sopra l'Oceano che dorme; e poichè i giudici credono fermamente che queste calme giudiciali non rechino ingiuria ad alcuno, così non si fanno scrupolo di prolungarle: in vero, o come lo imputato potrebbe giustamente desiderare quiete e sicurezza maggiori di quanto ne gode prigione? Quivi la voce del creditore non arriva a dargli molestia; quivi non lo angustia la moglie; gli stridi dei suoi figliuoli non lo assordano fin là; il padrone non si bisticcia con lui nè pel fitto della casa, nè per le ore del lavoro, nè pel salario; le carrozze non lo investono per davanti, le tavole da pane dei fornai per di dietro, gli ombrellai possono fallire, i calzolai impiccarsi, i sarti chiudere bottega; nessuna cura per nutrirsi; tutto lì dentro è pagato. Oltre la carcere, si conosce un altro luogo anche più sicuro di quello, ed è la fossa; posta anche questa in mano al giudice; ma egli la serba per le feste solenni; il pane quotidiano della giustizia è la carcere.

Il vento etesio sorse e si levò da Nervi. La pretoressa facilmente indulgendo alla smania materna, di vedere le sue creature vestite con garbo, fu sollecita a chiamare il più rinomato sarto di Nervi e ordinargli una muta di vesti co' fiocchi pei suoi bambini. Il sarto non ci andava di buone gambe, come quello che la conosceva più povera di Giobbe, ma siccome la sapeva altresì proba e discreta femmina, si attentò ad arrisicare; da un lato lo trasse la sete del guadagno, dall'altro il pensiero che, trattandosi di panno ordinario e da estate, la batteva in poco. Il sarto fece gli abiti e li portò. Io renunzio a descrivere la beatitudine della madre: agguantò uno dopo l'altro i suoi scimmiotti per lavarli, e con la promessa del vestito nuovo lasciaronsi fare: il sarto, coadiuvato dalla pretoressa, gli indossava ai fanciulli; la madre si struggeva per la contentezza; gli parevano tanti dogi; eglino stessi rimasero un momento attoniti di tanta magnificenza: un momento, che indi a breve tornarono a tempestare peggio di prima. Il sarto, vista la mala parata, cavò subito il conto fuori di tasca, e premesse non so quali parole circa la malignità dei tempi, le strettezze della sua borsa, i mirifici vantaggi del riscuotere e del pagare subito, conchiuse col supplicare la donna a saldarglielo sul tamburo; ed ella anzi con piacere; andata pertanto a prendere il biglietto delle cinquecento lire, glielo sporse dicendo: pagatevi e rifatemi il resto.

Alessandro Tassoni, volendo dare ad intendere nel suo poema di un furbo matricolato così esprime: l'oste, che era guercio e bolognese: eppure il nostro, che aveva ambedue gli occhi diritti e nacque a Genova, per accortezza gli avrebbe dato ai cento passi venti di giunta; quindi è che avvertita la grossa somma e la facilità di alienarla, toltosi delicatamente il biglietto nei pollici e negli indici delle mani, lo sbirciò per davanti e per di dietro, lo sperò di contro al sole, e poi incurante che alla pretoressa avessero a comparire bugiarde le parole testè pronunziate da lui circa alla propria penuria, cavato fuori del suo portafogli un biglietto legittimo della Banca Nazionale Sarda, prese a istituire fra i due biglietti tale un confronto minuto e sottile, che Dio ve lo dica per me: facile gli fu sincerarsi della falsità del biglietto offertogli; allora verdemezzo le domandò:

— O da chi ha mai avuto voscià cotesto biglietto?

— O che importa a voi saperlo?

— A me? Nulla; purchè voscià me lo baratti.

— Perchè ve l'ho da cambiare?

— Eh! per un pettin de ninte... perchè gli è falso.

— Falso!...

— Falsissimo; scià mii qui; scià mii qua; confronti, paragoni... e tante ne disse e tante ne aggiunse, da persuadere Pirrone.

— Ed ora? sospirò la povera donna, che si sentì venire la pelle d'oca, e non si potendo sostenere in piedi cadde sopra una seggiola.

— Ecco, soggiunse il sarto, un empiastro ci è, che rimedio non lo posso chiamare; io mi ripiglierò i vestiti per ora: a lei darò otto giorni per venirli a ritirare e pagarli; se passato questo tempo io non la vedrò venire, procurerò venderli a conto di voscià, e voscià mi rifarà la differenza tra il costo di fattura e il prezzo che ne avrò ricavato.

Non fiatò la povera madre; e animosa il doppio di quando si fece ad agguantarli per vestirli, ecco ora gli acchiappa per ispogliarli. La sventura, più che per proprio peso, noi troviamo grave per la debolezza dell'animo nostro; alla povera donna scoppiava il cuore come per morte; il solo sforzo ch'ella durava per non prorompere in pianto le avrebbe meritato la corona del martirio; ma gli uomini queste cose non sanno vedere, nè possono: Dio, licenziato dai cieli come un servitore infedele, senza neanco un zinzino di ben servito, è dispensato da vederle: quindi, sentire a quel modo oggi si giudica sciupìo di virtù, come notarlo sciupìo di tempo. Mirabile a dirsi! Quei demoni incarnati dei figliuoli della pretoressa stavano muti e immobili; veri pulcini che sentono aliarsi sopra la cornacchia. Alla pretoressa non sovvenne la maniera di pagare il conto; tuttavia non mancò di recarsi al sarto per compensarlo della differenza coi risparmi che in una settimana aveva potuto fare su le spese di casa: figurarsi! raschiare sul tosato. Gli avanzi consistevano in cinque lire, e la differenza batteva in venti. Il sarto, indovinando la desolazione della povera donna, si sentì venir su come una flatulenza di buon cuore, che lo spingeva a donarle il resto, ma l'afferrò quando stava per uscirgli dalle labbra, e respintala addietro la trasformò in queste altre parole:

— Per le rimanenti quinze lie, voscià non la si stia a invegendòu... me le daròu,.. quando potròu.[59]

Anco a quel modo per un genovese non fu poco; e qui pure metterei pegno che se gli angioli custodi usassero sempre, l'angiolo del genovese glielo avrebbe registrato a credito; in difetto dell'angiolo glielo noto io. Gua'! ognuno ha i suoi gusti, chi raccatta mozziconi di sigaro per le strade, chi croci da cavaliere per le Corti; io le buone azioni da per tutto dove le trovo.

La pretoressa informò del duro caso il marito, il quale sbatacchiato da un insulto nervoso di onestà voleva subito ragguagliarne il prefetto, ma la prudenza lo tenne per le falde e lo consigliò a non mettere il campo a rumore; molto più che i tristi avrebbero trovato materia da malignare nelle cinquecento lire accettate dalla moglie, e di un bruscolo farne una trave; e dacchè i deboli diventano per necessità astuti, deliberò aspettare la sera e far venire una pulce nell'orecchio al prete; e così avrebbe adoperato se il prete per la subita fortuna non fosse salito a petulanza insopportabile, in cotesta sera, cresciuta a dismisura a cagione della sorte che lo favoriva a goffo, onde il pretore, indispettito dentro ma placidissimo in faccia, gli sparò a bruciapelo queste parole:

— Ma sapete, don Macrobio, che novità corrono? Ve le dirò addirittura senza farvi tanto penare; i biglietti di Banca sbraciati dalla marchesa con la pala e' sono tutti falsi.

— Fandonie! fandonie! Guardate, scarto tre carte...

— Eh! caro mio, per questa volta dubito che la voce pubblica riporti il vero... certe informazioni recapitate all'ufficio...

— Astii, pretore mio, soliti astii... datemi carte.

— Le informazioni giunte all'uffizio hanno tanto fondamento di vero, che io per debito di magistrato mi troverò costretto a farne inquisizione presso coloro che so averne ricevuti.

Don Macrobio diventò bianco come la candela, che, datagli ai funerali, spegneva appena accesa; depose le carte sul tavolino esclamando:

— Pretore, su queste cose non si scherza.

— Dico da senno io, e mi vennero partecipati i segni onde conoscerne la falsità. Anche senza confronto, ogni uomo, per poco che ci badi, se ne accorge facilmente; se poi si mette sott'occhio il falso ed il legittimo, ne ottiene la prova, per così dire, palmare.

Allora don Macrobio si rizzò su con tale impeto di rabbia, ch'ebbe a rovesciare tavola, lume ed ogni altra cosa; di rincorsa a casa, dove brancolando mise le mani sopra i biglietti ed aguzzò gli occhi per osservarli; ma questi, imbambolati, gli negavano l'ufficio; quindi prese il partito di tornare alla pretura, dove esaminati con maggior quiete i biglietti, il prete dabbene sentì cascarsi il cuore nelle brache di seta.

Tuttavia, per iscaponirlo affatto, mandò pel sarto, il quale, mediante il confronto minuzioso delle differenze, senza pietà ridusse il cuore del prete in un torsello, che la Crusca insegna essere: «il guancialetto di panno o di seta dove le donne conservano i loro aghi o spilletti, ficcandoveli per la punta.»

Don Macrobio non morì, ma non rimase vivo; di un tratto, spiccato un salto, butta via la callotta di capo, pesta i piedi, si dà dei pugni nella tonsura, e aggirandosi per la stanza come colto da subito furore, tira moccoli da far venire giù tutta la Corte celeste; il pretore, la pretoressa, i cittadini là convenuti a giocare e la serva; i bimbi che dormivano, desti dal diavolìo, si buttano giù da letto ignudi come Dio li aveva fatti e corrono dietro a don Macrobio strillando da disperati. Cotesto parossismo nel prete fu trotto di asino; sgonfiò in breve, ed accosciatosi giù prese a nicchiare come donna partoriente: tanto bene da lui era imitato cotesto piagnisteo, che la signora Caterina, moglie dello speziale di faccia alla pretura, sospettando davvero che qualche donna si trovasse alla pretura co' dolori del parto, andò di corsa pel medico, il quale, taroccando a sua posta, seguitata la Caterina, rinvenne pur troppo il prete, il quale si era sgravato con gran dolore di due biglietti bianchi della Banca Nazionale Sarda e di cinque gialli. Anche il medico cominciò a sbadigliare, non perchè potessero trovargli il biglietto datogli dalla marchesa, il quale ormai chi sa in quante mani era passato, ma sì perchè temeva di entrare in qualche ginepraio; però cheto come olio. Le sera stessa la vedova locandiera col locandiere Luigi Bigi, avvisati dalla fama, che va di notte anche senza lanterna come di giorno, gementi e piagnenti ed anche schiamazzanti, comparvero alla pretura, dove, dopo tre diluvi di parole inutili, quando tutti diventarono afonici, deliberarono andarsene a letto: domani farebbe giorno; e il governo non sarebbe il governo, ma il prete se la prese con Dio, e disse che Dio non sarebbe Dio se prima non costringesse la marchesa a barattargli i biglietti falsi in altrettanti buoni, e poi con le sue sante mani non la impiccasse ad un albero di fico per un piede.

*

Tu, amico lettore, non avrai per certo messo nel dimenticatoio il questore, amico del Faina; caso mai tu te ne fossi scordato, richiamalo a mente, perchè hai da sapere com'egli fosse pure amico di Egeo, e questi due, legati insieme con ben altri nodi, esercitavano fra loro da tempo remotissimo il cristiano precetto, una mano lava l'altra: e se avessero bisogno di lavarsele spesso, Dio sa. Ora, certa sera che Egeo stavasene sfiaccolato a casa senza sapere che farsi dell'anima sua, gli fu annunziata la visita del cavaliere questore, il quale, dopo le strette di mani e i saluti e gli augurii di uso, gli disse:

— Egeo, di' su, che di quel curaçao da far vedere un sordo e sentire un cieco, te ne avanzerebbe un gocciolo?

— Sicuro che ne ho, perchè egli forma parte essenziale del mio viatico nel pellegrinaggio in questa lacrymarum valle.

— E i sigari trabucos li hai finiti tutti?

— Invece di Avana possiedo Manilla da resuscitare un morto.

— Ebbene, vada per Manilla e pel curaçao; fa' portare gli uni e l'altro e barattiamo due chiacchiere insieme.

Portata questa roba, licenziato il servo, chiusa bene la porta, bevuto il primo bicchierino e manomesso il secondo, tra un buffo e l'altro di fumo del sigaro, il questore disse:

— Sotto sigillo di confessione, io ti confido che il tribunale sta per ordinare rigorosissime perquisizioni presso tutte le persone che ebbero attinenza col Boncompagni e con quel poco di buono dell'Onesti, essendosi chiarito com'essi da tempo remoto abbiano posto in commercio una quantità piuttosto sgangherata che grande di biglietti falsi della Banca Nazionale Sarda...

Egeo proruppe in un oh, lungo e roco...

— E temo forte che da questa perquisizione non andrai esente nè manco tu.

— Io! E com'entro io in questi venticinque soldi?

— Ecco, buona somma di questi biglietti è stata spesa dalla famosa marchesa X, che tutto il mondo sa essere molto cosa tua.

— Passò quel tempo Enea... abbiamo rotto paglia da parecchi mesi.

— Sì, ma nel verbo dei giudici il tempo è sempre presente... dunque da' retta... se per caso ti fosse rimasto in casa taluno di questi biglietti, bruciali addirittura; potrebbero servirti da tiro a quattro per menarti diritto ai lavori forzati... capisci?

— Capisco; ma con costoro da parecchi mesi non ebbi affari, e pochi furono quelli che ci feci per lo addietro... e accidenti a quello che mi andò diritto! Biglietti di loro io non ho mai posseduto nè possiedo.

— Tanto meglio; ma allora, o perchè di rame mi sei diventato in faccia di ottone?

— Io? Perchè, a dirtela, ho paura che una persona alla quale sono attaccato, adesso, comunque innocentissima, possa trovarsi nelle peste.

— Ho mangiato la foglia; tu capisci che io mi sono condotto qui per giovare a te ed agli amici tuoi; usa prudenza, e non ci siamo visti.

— O che nascemmo ieri?

— Va bene, ed ora ti lascio, che a me da fare non manca mai; e si alzò per andarsene.

Egeo mentre lo accompagnava col candelliere in mano, lo interrogò sbadato:

— E questa perquisizione per quando tu giudichi l'avrebbe a venire?

E l'altro, non parendo il fatto suo, rispose:

— Chi ha tempo non aspetti tempo: domani potrebbe essere tardi.

Egeo torna a dietro di rincorsa, va al banco, ne tira fuori quanti biglietti si trova a possedere; li riscontra; quelli del Boncompagni non aveva tocchi, erano dugento da mille; i proprio suoi sommavano a cento: esaminati con diligenza e postili a confronto gli pareva impossibile di aver preso quel granchio; ma sì, anche le civette impaniano; divise pertanto i fogli reprobi dagli eletti, li guardò, li riguardò, tornò a guardarli ancora; poi, soprammessa la gamba destra alla sinistra, e quella agguantatasi con le mani incrocicchiate sul ginocchio, dopo alcuni sospiri incominciò a dire:

— Di tanti valori, di tante azioni, obbligazioni di strade ferrate, di tanti biglietti che ti facevano corona, eccoti quasi solo, o Egeo. E almeno di tanto si chiamasse paga quella baldracca della fortuna! Ma no; ella non è contenta se tu con le proprie mani non trucidi questi Isacchi, questi figliuoli della tua tenerezza. Saturno dicono si mangiasse i figli per regnare, ma io non ho mai appetito regni e non appetisco, perchè anche nel mestiere di re comincia a entrarci troppo osso e la carne non vale il giunco. Medea ammazzò i figliuoli, e raccontano lo facesse per vendetta, ma per me non ebbi mai lite con Giasone, anzi con alcuno. Dicono altresì che il Padre Eterno s'incaponì di pagare col sangue del suo figliuolo un debito non suo alla sua giustizia; ma posto anche da parte che qui dentro io ci vedo chiaro come in un forno, io non ho debiti con le giustizie divina nè umana. E ripensandoci su, Egeo, o non potresti scansare in qualche fondo di cantina questi biglietti infedeli per ricondurli in tempi migliori a rivedere le stelle? No; da' spesa al tuo cervello, Egeo, e persuaditi che ti stanno intorno alla vita come i cani a quella di Scilla; sarebbero fantini di mangiarti anche le ossa: ormai è finita per te; fintanto si trattava girare attorno al codice criminale, io faceva buono; anche babbo buon'anima me lo lasciò detto morendo: «Egeo, basta mantenersi onesto fino alla porta della galera», ma adesso bisognerebbe sfondare tre o quattro articoli del prelodato codice criminale, e ciò non mi quadra; non già perchè mi dieno fastidio coteste litanie di articoli, che con una ditata io sono capace di sfondarne più che non fa di cerchi impannati il saltatore col capo, ma sì perchè io corro il rischio d'incontrarmi di là dal foglio muso a muso con qualche cane mastino di procuratore del re. Egeo, datti pace, bisogna che tu ti butti di buzzo buono con un sasso al collo nel canale dell'onestà; o, se ti garba meglio, impiccati per disperazione all'albero del galantuomo... Qui, declinato il capo sul petto, meditò; rilevandolo poi dopo alcuno spazio di tempo riprese: eppure non mi vuole abbandonare quell'altra baldracca della speranza, la quale mi va zufolando nell'orecchio che una volta o l'altra farà cessare la fortuna, sua sorella, dalle vendette: anche Anteo, per ripigliare le forze, ebbe a battere il pattone sopra la terra... no, il paragone non mi garba, chè la patta non gli valse, e all'ultimo gli toccò morire soffocato... piuttosto mi persuade quest'altro: Colombo con piccole caravelle scoperse un mondo; Laperouse ed altri persero sè e i vascelli senza levare un ragnatelo da un buco: coraggio! non è tramontato il mio astro!

Accatasta fascine e legna sottili nel caminetto, e risoluto arde su quelle i dugento biglietti bianchi; severo in sembiante, aspettò che le ceneri si spegnessero e poi si assise dirimpetto a loro; se in cotesto punto gli fosse comparso qualcheduno davanti per domandargli che cosa avrebbe dovuto rispondere al pretore Sestilio, non ci è dubbio che egli, senza singhiozzi, gli avrebbe detto a imitazione del fiero romano: « riferiscigli che hai veduto Egeo sedere su le ceneri di dugentomila lire di biglietti falsi della Banca Nazionale Sarda[60]

Spente per bene le ceneri, furono con diligenza raccolte da Egeo e gittate da lui nella latrina, posto dove nella moderna nostra civiltà danno fondo più spesso figliuoli illegittimi che biglietti falsi.

— Ed ora, abbottonandosi l'ultimo bottone del soprabito, disse: Egeo, andiamo a fare un'opera di carità — e con questo egli intendeva recarsi presso la Elvira, per avvertirla che caso mai si trovasse a possedere biglietti procedenti dalle banche degli Omoboni, nonno e nipote, non istesse a gingillarsi, li bruciasse addirittura, se pure non voleva trovarsi a guai. Se a questo atto lo spingesse tutta carità non credo, perchè gli amori di Egeo e della Elvira fossero stati di quelli che cominciano a graffi e terminano a morsi. Recatosi pertanto a casa Elvira, gli fu detto ch'ell'era uscita: trovarsi sola in casa la signora Amina, di salute mal ferma.

— Fa lo stesso, soggiunse Egeo, e se ne andò difilato nella camera di Amina, la quale rinvenne giacente su di un lettuccio pressochè al buio; domandatole come si sentisse, rispose:

— Male, Egeo, male.

Di fatti molte cause di tristezza l'erano cascate addosso tutte di un groppo; prima la feroce cupidità della Elvira che, richiesta di partire la spoglia del tradito, proruppe in escandescenze, urlando che a lei sola toccava sopportare le spese di casa, a lei spandere danaro per tenersi bene edificati i vecchi amici, procurarsene dei nuovi o mettere il bavagliolo ai nemici; e poi di che cosa aveva ella bisogno? Ogni cosa che desiderava, lì stampata; galanterie, delizie, fantasie chiedesse e domandasse; non le mancava neppure il latte di gallina: aggiungi che ora le conveniva starsene in casa, farsi dimenticare, non mettersi in vista della gente; e di queste e di altre simili ragioni chiamava giudice il Merlo, il quale, da quel furfante matricolato che egli era, le approvava tutte e ce ne appiccicava di suo. Coteste erano gocciole grosse, nunziatrici dell'acquazzone, sicchè Amina a dritto poteva dire: il mal mi preme e mi spaventa il peggio: i servi ogni dì la curavano meno; passava intere giornate senza vedere anima viva: già era venuta a tale, che per sospetto non avria mangiato nè bevuto, se non fosse stata la paura di morire d'inedia. A questa prima causa teneva dietro la infermità di cui andò un tempo fieramente travagliata, la quale, comecchè fosse comparsa guarita per virtù del fosfato di mercurio e di altri farmachi del pari violenti, le serpeggiava insidiosa nel sangue e di tratto in tratto le annunziava la sua presenza, ora trafiggendole le ossa in prossimità delle articolazioni, ed ora stirandole i muscoli dolorosamente; più che tutto le dava spasimo la cefalea notturna, mentre la luce le pungeva le pupille: oltre l'angoscia fisica, principiava a impadronirsi di lei un'allucinazione precursora del rimorso, ed era che, mentre la memoria dei particolari della morte di Omobono in lei illanguidiva, uno solo cresceva, per così dire, a scapito degli altri; e consisteva negli occhi di Omobono, quali ella li vide quando gli sollevò le ciglia per accertarsi se fosse morto, — fisi, con le pupille contratte, senza coscienza di sguardo e non dimanco terribili, oh! quanto terribili! — Cotesti occhi non se li poteva levare dinanzi; nel giorno sempre di faccia a lei, e in mezzo alla tenebra le comparivano più distinti che mai: la solitudine l'atterriva e la compagnia la spaventava, per tema non le scappasse di bocca qualche esclamazione rivelatrice delle sue colpe.

Tutto giorno avviene che ci vediamo sovente apparire davanti la persona alla quale pensavamo qualche minuto prima; forse ciò avviene perchè la precorrano gli effluvi noti ai nostri sensi, che emanano da lei, oppure per tal altro dei tanti segreti della natura che non ha ancora palesato alla scienza: fatto sta che Amina aveva pensato e pensava ad Egeo quando gliene annunziarono la visita.

Entrando nella stanza, così al buio, egli investì dentro una sedia, e parve con suo poco gusto, perchè tirò giù un sagrato da dì delle feste; quindi, stropicciatosi alquanto la parte offesa, prese a dire:

— Ed ora ci è venuto di Francia anche il costume di stare al buio come gli operati della cateratta? E pazienza al buio, ma sola, e' ci è da far morire per la tristezza un morto...

— Ah! buona sera, Egeo; vi ringrazio di non avermi dimenticata; giusto in questo punto pensava a voi.

— Amina, non è facile dimenticarti dopochè ti abbiamo conosciuta; ma a ciò diamo di frego; veramente io non veniva per te, bensì per la Elvira; molto mi preme parlarle; e ora dov'è ita? Come le bastò il cuore di lasciarti qui sola?

— Oh! a lei basta l'animo per bene altre cose — ed avendo il cuore pieno, non si potè trattenere di sfogarsi con Egeo; però delle cause della sua malinconia tacque la seconda e la terza, e della prima confessò quanto credè spediente, accomodandolo alla sua maniera: delle insidie mortali a danno dello sventurato Omobono, del proprio corpo avergli fatto la via pel sepolcro, dei biglietti rapiti... insomma della truce tela di delitti ordita dalla libidine di avere nè anco un motto; invece si distese nella infelice passione che l'aveva traviata, e con arte mirabile toccò della poca generosità usatale dall'uomo troppo amato... e tuttavia dello averla ridotta in tale stato lo perdonava e gli pregava pace; entrava a dire della convivenza con la Elvira, diventatale ormai insopportabile: avere conosciuto a prova come cotesta perversa la raccogliesse per giovarsene ai suoi fini, ed oggi aborrirla, o perchè ella avesse conseguito il suo scopo, o perchè non la reputasse più idonea a procurarglielo; lasciarla in abbandono; non obbedirla i servi, talora deriderla, fra poco l'avrebbero maltrattata, forse peggio... e qui la sua voce sonava pianto, imperciocchè quello che diceva pur troppo temesse.

Egeo sentì i vestigi dell'antica fiamma, chè a modo suo l'aveva amata. Gli fosse cotesto amore uscito dal naso, dal petto, o dai piedi, come gl'indiani credono che le diverse coste derivassero dalle varie membra del Dio Brama, fatto sta ch'ei lo provò un giorno, e adesso ancora, sotto molta cenere, ne trovava le tracce; perciò le diceva:

— Amina, da' retta: tu, e non lo negare, mi hai trattato peggio dell'animale ch'è tanta parte nelle mortadelle di Bologna, sicchè non mi avrebbe da parer vero di agguantare la occasione pel ciuffo di vendicarmi di te; ma no; io ti volli bene e te ne voglio;

Anche infedel ti amai;

Ed or che sei tradita,

Le braccia io ti apro e voglio

Renderti soglio e onor,

come canta Percy nell' Anna Bolena; dunque veniamo al grano, come diceva l'ebreo Marini; della mia vita ho risoluto fare una fine; mi è saltata addosso la fantasia di pigliare domicilio nel paese magno della quiete eterna, ma adagio adagio... con tutti i comodi... in bussola. Tutto provai, meno la parte del galantuomo: ebbene, proviamo anche questa; non fosse altro per erudizione. Alle corte, se tu acconsenti, io ti levo di qui e ti conduco presso la mia parente a Locarno, per ricrearti: poi ti sposerò, o non ti sposerò, come ti garberà: io la rimetto in te. Avverti bene, ricco io non sono più, ma da vivere lo raccapezzerò sempre; a sfoggi dunque non ti ci aspettare; tuttavolta da questa vita ci usciremo un po' meglio vestiti di quando ci siamo entrati; perchè, mira, Amina, io non so chi fossero i maggior tui, ma metto pegno che tu devi avere ereditato qualche cosa meno di venti milioni.

— Egeo, e quando vorreste mandare a esecuzione la vostra proposta? domandò Amina stendendogli la mano.

— Per me, anche subito.

Allora Amina si levò risoluta e si fece nella camera da letto, donde dopo brevi istanti uscì vestita, col cappello in capo, e disse a Egeo:

— Andiamo. Bada anche tu, e pensaci bene per non avertene a pentire poi, da queste vesti che mi cuoprono in fuori io non possiedo altro nel mondo; venendo a te sarebbe follia che io pretendessi amore eletto e puro; saranno norma alla nostra convivenza le parole del poeta:

Egli mi amò per le sventure mie,

Ed io l'amai per la pietà che n'ebbe.

— Andiamo, soggiunse Egeo, mi tengo per avvisato; il peggio passo è quello dell'uscio.

*

Elvira tornò a casa tardi; l'accompagnava il Merlo, avvinazzati entrambi; ella straviziava in sala con principi e marchesi; egli in cucina co' servi; ella aveva giocato al faraone, egli a briscola; ella aveva vinto, egli perso, però gli era entrato il diavolo in corpo; mentre Elvira stava per andarsene in camera, i servi la informarono ch'era venuto il signor Egeo, il quale aveva condotto seco la signora Amina; al che ella osservava: — E' va pei suoi piedi, la vedovanza l'è venuta in uggia; sta bene, andate a dormire; e tu, furfante, marcia in camera, e prima di coricarti risciacquati la bocca.

A cui di rimando il Merlo:

— O sai che nuova c'è'? Io non ci voglio più venire. In pubblico mi tocca a stare fuori di carrozza col cocchiere a cassetta; in casa a letto con te; o insieme da per tutto, o da per tutto separati; io te l'ho detto per la terza volta, e tu non la vuoi capire.

— Ed io per la quarta volta ti avverto che il tuo destino mi sta in cima della mia scarpa diritta; va' là, buffone, marcia a letto.

Un pipistrello ricoperse con le ale cotesto osceno rimescolamento, che amore non si potrebbe dire senza offesa anche dei figli della Venere terrena.

Quando Elvira si vide il giorno dipoi comparire davanti Egeo, diede subito mano al suo agaiolo per cavarne gli aghi più acuti per trafiggerlo; ma egli, o non sentendo, o non curando coteste punture, le favellò così:

— Amina, come sai, ha lasciato la tua casa a cagione delle sevizie con le quali tu avevi preso a tribolarla.

— Non è vero nulla... ella ingratissima... ella disamorata...

— Risparmiati il fiato, o adorabile Elvira, per quando sarai arrivata all'articolo mortis, perchè io so appuntino dove e come te ne sei lavata la bocca; ti è bastato fino l'animo di dolerti ch'ella ti aveva screditata la casa! E di ciò, se ci pensi un momento, devi essere maravigliata anche tu. Siamo onesti, come disse il Ricasoli: tu te l'appropriasti come arnese adattato ai tuoi interessi; ora che tu li hai fatti lo butti via. Gua'! Che ti ho a dire? Tu sei nel tuo diritto, e certo non sarò io quegli che ti biasimerà; tiriamo un frego su questo e non perdiamo più tempo. A quest'ora Amina si trova a Sesto Calende, donde pel Lago Maggiore si condurrà a Locarno; nella notte scorsa venne ospitata in casa Sebergondi, dove certo la passò più innocentemente di te; ma ciò non rileva. Io venni qui per dirti che dalle vesti che la coprono in fuori ella non si è portato altro: ora, ti domando io, ti pare egli decoro lasciarla uscire così ignuda da casa tua?

Elvira, per cotesto parole, si sentì punta nel suo orgoglio, che di bontà e di convenienza ormai non si aveva a parlare con lei; onde alquanto risentita rispose:

— Se la sguaiata non se ne fosse partita insalutato hospite, avrei atteso a provvederla del bisognevole.

— Oh! via, di questo non la incolpare; fui io che la persuasi ad assentarsi così, per risparmiare ad ambe le parti una separazione che, forse a torto, io dubitai non si sarebbe effettuata senza qualche amarezza.

— Basta, io te la crederò come tu me la conti; qualche po' di danaro se l'avrebbe pure a trovare.

— Nè anche un soldo per far cantare un cieco.

— E sarà; la è tanto sprecona.

— Non l'hai creata, bensì tirata su ad immagine tua.

— Ecco, un quaranta... un trentamila lire io gliele regalerò; con queste e col profitto che caverà dai suoi talenti potrà tirarsi innanzi discretamente.

— E così per lo appunto disegna di fare, ma danari non ne vuole.

— Non vuole danari!

— No; ella teme che le abbiano a portare sciagura; mi prega solo dirti tu le sia cortese di mandarle la roba sua: ora tu contentala in questo: dei quattrini parleremo più tardi fra te e me.

— Si accomodi come le aggrada; torna domani e troverai i suoi bauli allestiti.

— Chi ha tempo non aspetti tempo, cuor mio; io non ho da fare niente, e tu, a quanto sembra, nemmeno; riponiamo subito le sue robe nei bauli; io glieli spedirò immediatamente a Locarno, e cosa fatta capo ha.

Elvira assentiva: chiamati il Merlo e gli altri famigli di casa, si diedero a empire bauli di ogni maniera vesti, calzature e cappelli di Amina; la Elvira ci aggiunse roba di suo, e non poca; nè vesti sole, ma dorerie e gioielli altresì. Dato fine alla faccenda, Egeo disse:

— Or ora vado a spedirli, sicchè ci è caso che la roba arrivi a Locarno prima di lei; ma e tu non le scriverai nulla?

— Che le ho da scrivere, io?

— Mira! Cause d'inimicizia tra voi non ce ne avrebbero ad essere; forse un cotal po' di gozzaia, che importa a te come a lei levare di mezzo; fai una cosa, scrivile sol due righe di biglietto.

— Io abbassarmi davanti a lei? Jamais.

— Ma che abbassare! Che abbassare! Tu hai da scriverle da protettrice, alla grande; ecco, presso a poco così; e disse il come.

Allora Elvira si pose a pensarci su, e dopo alquanti minuti di riflessione conchiuse:

— Andiamo via, i consigli di Figaro ci sieno di norma; e sedutasi al tavolino scrisse:

«Tutta cara Amina,

«Apprendo da Egeo la tua partenza per Locarno: quanto questa tua risoluzione mi peni, io non ti dirò; ma tu sei donna di subitanei consigli, e a Dio piacesse che come subiti fossero sempre buoni: ma di ciò basta. Avrei voluto assegnarti centomila lire (quando temeva che le potessero venire accettate, disse quaranta o trenta; adesso, sicura che non le aveva a dare, sbracciava a uscita), ma Egeo mi dichiara che tu rifiuti recisamente danari, ferma nel proposito di sopperire ai tuoi bisogni col frutto del tuo lavoro; quantunque ciò mi sappia un po' di superbia, pure io lodo, e faccio voti che la Provvidenza ti secondi. Ad ogni modo ti avverto che, in qualsivoglia caso, come la casa ti saranno aperte le braccia della tua benefattora; tu non picchierai mai invano alla porta del mio palazzo, nè mai invano ti richiamerai al mio cuore. Sii felice come ti auguro e rammenta qualche volta chi ebbe affetto di madre per te. — Elvira.»

In poscritto le annunziava la spedizione della roba; ce ne aveva aggiunto qualche po' della sua, che la pregava a tenere in memoria di lei.

Egeo prese la lettera, assumendo il carico dello invio, e, domandata licenza di allontanarsi alquanto per curare il trasporto dei bauli, disse a Elvira non si movesse di casa, sarebbe in breve di ritorno, averle a dire cosa di suprema importanza per lei. Coteste parole buttate là valsero a mettere sottosopra lo spirito della mala femmina, per la vecchia ragione che chi porta la coda di paglia teme sempre che gli pigli fuoco: quando Egeo dopo un'ora tornò, sebbene in vista comparisse tranquilla, pure ella in cuore tremava; appena lo vide, ridendo di un suo riso alla trista, gli disse:

— Ebbene, qual tu ne vieni a me, colomba o corvo?

— Elvira, non corre tempo da scherzi; ti parlerò schietto e succinto; dimmi, ti si sarebbero a caso attaccati alle mani biglietti di banca di provenienza Onesti o Boncompagni?

— Che discorsi mi fai? urlò Elvira, e con vicenda assidua ora avvampava in faccia ed ora impallidiva come per morte. Ah! me lo porgeva il cuore che Amina ti avrebbe messo su... Calunnie... tutte infamie... lo giuro su l'onore mio... su l'anima..

— Elvira, per l'amor Dio, non mettiamo tanta roba a sovvallo; calmati. Amina, non mi ha parlato di niente; io lo arguiva dalle folli spese che fai.

— O che credi il mio tempio così venuto in ira agli Dei, che lo abbiano disertato tutti i devoti?

— Io invece penso che un devoto ti sia rimasto, non però di quelli che offrono, bensì degli altri che accattano.

— Sei un insolente, esci dal mio cospetto.

— Ti servo di cuore; ma ti avverto prima che i biglietti spesi da te sono falsi, che la giustizia sta dietro a cercarne la traccia, che è in pelle in pelle a perquisire te, me e chi sa quanti altri: se ne possiedi e non vuoi trovarti a guai, bruciali; altro non ho da dirti, e ti bacio le mani.

Ecco la occasione porgermi il ciuffo, perchè io, aperto lo armadio delle similitudini, ne sciorini almeno un paio, incominciando dal fulmine, dall'albero e dal pastore; ma non ne farò niente, stringendomi a dire che Elvira, appena Egeo fu uscito, corse affannata a tirare il cordone del campanello; se nonchè giunta a mezzo della stanza il Merlo mise fuori il capo dall'uscio aperto dicendo:

— Non ti scarmanare, eccomi qui.

E siccome ella pigliava a narrargli il successo per filo e per segno, egli la interruppe con queste parole:

— Tira via, che ho sentito tutto dal buco della chiave.

— E se hai sentito, adesso che pesci pigliamo?

— Ci devi pensar tu; tu li hai da friggere e tu infarinali.

— Rammentati che a tavola ti ci sei messo anche tu.

— Sicuro, eh! che dovrei servirti gratis di coppa e di coltello?

— Ma non meniamo il cane per l'aia: se ci trovano con questi biglietti falsi temo che entreremo in un bertovello serio,

— Ora che ci penso, ma sai, padrona, che sei curiosa; finchè i biglietti riputavi buoni dicevi sempre io; adesso che li sai falsi parli in plurale.

— E chi ti dice che io li stimo falsi?

— E allora che smanie sono le tue? Tienteli e goditeli.

— Ma se fossero falsi?

— E allora bruciali.

— Si fa presto a bruciare, e poi come tiriamo innanzi?

— Se ti scomoda bruciarli, e tu non li bruciare.

— Vedi, Merlo, quest'altro mi dà noia... ne ho spesi tanti e a tanti gli ho dati, che a dire di no sarà lo stesso che negare il paiolo in capo.

— Senti, se la duri così ti avverrà come all'asino, che non sapendosi risolvere tra la biada e il fieno da che parte incominciare, morì di fame.

— Ecco, io avrei pensato a schermirmi così: li piglierei quanti sono, li porterei subito fuori di casa e porrei in deposito presso qualcuno de' tuoi amici.

— E se la giustizia glieli trova?

— Quando ho detto tuo amico, ho voluto indicare persona che un delitto più non sarà quello che la manderà in galera.

— Ci è del buon senso in questo tuo discorso, pure devi considerare ch'è sempre l'ultimo grano quello che dà la balta alla bilancia: epperò io opino che senza mancia nessuno vorrà incaricarsi del deposito: d'altronde ogni fatica merita premio.

— Quanto a questo non ci trovo a ridire: promettigli un terzo, la metà...

— Generosa come un ladro.

— Giusto, a proposito di ladri, ma pensiamo un po' al risico che il tuo amico ci porti via sacco e radicchio.

— I ladri non rubano ai ladri... che poi sia sempre così non vorrei scommettere; pure affermo che i ladri fra i ladri si trovano più rari che fra voi gentiluomini i galantuomini.

— E questa perla di ladro l'avresti sotto mano, Merlo?

— Non uno, ma tanti da fartene un vezzo.

— Ebbene, va' in camera; to' qui la chiave del segretario; prendi tutto il portafogli e diamo sesto a questa faccenda, che mi scotta le dita.

— Tu la vuoi far bollire e mal cocere, o non ti parrebbe meglio rimandarla a stasera?

— No... il cuore mi dice che abbiamo tardato anche troppo.

Il Merlo andava e tornava col medesimo portafogli arraffato da Elvira a Nervi sotto la finestra del morente Omobono; però smagrito come un infermo messo nell'ospedale a mezzo vitto senza vino. In questa la cameriera tutta sottosopra irrompe nella stanza annunziando:

— Signora... tre signori domandano di lei.

— Fateli entrare...

Erano belli ed entrati secondo la usanza vecchia degli sbirri classici, i quali comparivano in tavola senza prezzemolo. Il Merlo fu agguantato come il gatto col lardo nelle granfie. Allora accadde, come suole, di chiacchiere un diluvio, e, come suole, le ragioni dette agli sbirri furono un monte, e questi, secondo il consueto, non rifinivano di assicurare essere affaruccio da nulla, cose da accomodarsi in un fiat; e al Merlo arrangolava a ripetere:

— Ed io come ci entro? Se mi hanno trovato il portafogli in mano, egli è perchè la mia signora mi ha ordinato portarglielo dalla camera in salotto. O che non doveva obbedire io? Me ne rimetto a lor signori, specchi della vera disciplina... prima di mancare alla obbedienza lor signori, mi hanno detto, ammazzerebbero il padre.

— Ma sicuramente, rispondevano gli sbirri, è chiara a luce meridiana, con un bocconcino di schiarimento alla questura vedrà che lo rimettono in libertà sul tamburo.

— Lo crederei!

— Favorisca, signora, intanto diceva il più galante degli sbirri, offrendo il braccio alla Elvira ma questa, punta lì per lì nell'orgoglio, respingendolo fieramente, domandò:

— E dove, in grazia, pretendete menarmi?

Il poliziotto, a sua volta sgraffiato, avanzò subito le punte degli artigli e rispose con ipocrito sarcasmo:

— Scusi, madama, mi pareva averle detto alla questura, dove il signor questore l'aspetta per procurarsi il piacere di fare la sua conoscenza.

— Aspettate tanto che il cocchiere attacchi la carrozza.

— Oh! la non si stia a disturbare, ci ho provvisto io; la non dubiti che ogni cosa procederà con decoro.

Di fatti non una, bensì due carrozze trovarono ammannite a piè dell'uscio, e quando Elvira, adagiatasi in una, chiamava il Merlo perchè andasse a sederle allato, il poliziotto offeso nella sua dignità le avvertiva:

— Lei, signor maestro di casa, si compiaccia accomodarsi col suo portafogli in quest'altra carrozza che ci si troverà più alla larga.

La questura non toccarono nemmeno: diritti come fusi in prigione; l'una dall'altro divisi; entrambi in prigione. Il portafogli, dopo che ebbero riscontrato i biglietti, sigillarono e consegnarono al giudice istruttore, che stese la confessione libera del Merlo appartenere tutti cotesti oggetti alla marchesa sua signora padrona, e gliela fece sottoscrivere insieme a due testimoni superiori a qualunque eccezione, il confessore e il dottore delle carceri; questi medico del corpo, quegli medico dell'anima dei prigionieri.

Nell'ora stessa che perquisirono la casa di Elvira, altri poliziotti compivano la medesima faccenda nelle case del defunto Onesti e di Omobono Boncompagni, ed in tutte qualche cosa pescavano; in casa dell'Onesti torchi, colori, carte ottimamente apparecchiate per falsare i biglietti, pietre litografiche, tavole di rame, bulini, pennelli: uno armamentario intero da fabbricante di cedole false; presso il Boncompagni, nelle stanze di casa nulla, e neppure nel banco: su in soffitta pezzi di ferro antichi e sconnessi, di uso non determinato; qualche punzone di carattere inglese, ed un marchio assai male condotto, rappresentante l'arme dell'Inghilterra. Qualche benigno questore (ed i questori sono benigni tutti, come possono attestare quanti li ebbero in pratica) avrebbe di punto in bianco sospettato che, dopo essersi ingegnati a falsare le cedole di Banca inglese, ne avessero deposto il pensiero.

Ora le ruote del processo, lungamente ferme, ripigliano a girare con celerità maravigliosa; anzi, si sarebbe detto che da qualche mano arcana venissero unte; e quanto più si accostavano al fine, più turbinavano veloci. Di un tratto, quando uomo se lo aspettava meno, ferme da capo di stianto. O come ciò?

Ecco: gli affini di Elvira, al solo udire rammentarla, strabiliavano, i congiunti si sentivano venire addosso i sudori freddi; per verità, e lo notammo, a lei non erano mancati gli esempi materni e nè i paterni avvertimenti, ma sempre invano; ella era proprio ramo tagliato da madre natura dall'albero del male; la perversità aveva rovesciato a panieri i più maligni dei suoi influssi sopra di lei; ribalda nacque, come velenosa la vipera. Se ammazzata alla chetichella, avvelenata, o meglio annegata col sasso al collo per non tornare più a galla, nessuno dei suoi si sarebbe fatto vivo, qualcuno, all'opposto, avrebbe portato il voto alla Madonna; ma ora non per lei, bensì per sè trepidavano; il nobilissimo loro casato adesso correva rischio, dopo passata la trafila di un processo infame, mettere capo alla galera, e questo li scottava. Se gli affini fossero stati sicuri che i tribunali avrebbero condannata la donna sotto il nome dei congiunti, non se ne sarieno dati per intesi, e così del pari i congiunti nel caso inverso; però grande turbava tutti il sospetto i loro nomi uniti avessero a figurare sopra i registri dello ergastolo, quindi strinsero lega per cavarne la Elvira ad ogni costo; così vediamo sovente nelle classi privilegiate, che ciò che per amore non si fa, per paura d'infamia si effettua.

Di un tratto però la Elvira provava il giudice istruttore, di can mastino, barbone: non più ringhiava, non più mostrava i denti: scodinzolava; in breve ei seppe cattivare l'animo suo: allora le partecipò come Amina, alle interrogazioni giudiciali, avesse risposto: dei biglietti di banca ella sapere nulla, nè mai averne avuti; forse, ma non lo poteva affermare, non era fuori del probabile che Omobono buon'anima, oltre il portafoglio cascato nel lago di Como, ne avesse un altro; e per ciò verosimile che la signora Elvira, entrandole in camera mentr'ella versava in gravissimo pericolo di vita, avesse trovato il portafogli e tenutolo; e non senza perchè, avendo la buon'anima non una, ma più volte promesso solennemente di costituirle dote proporzionata al suo grado, che per opinione comune si aveva per isterminato. La signora marchesa Elvira per senso di dovere, come per attitudine fisica inettissima alla fabbricazione di biglietti falsi; tanto potere giurare e giurarlo. Ora il giudice istruttore persuadeva Elvira a pigliare la testimonianza ordinata a favorirla, tale e quale, e a servirsene di falsariga per adattarci sopra la sua confessione; pensasse che veniva ad escludere il dolo dal fatto dell'appropriazione del portafogli e dall'altro dello spandimento della moneta falsa; pel resto lasciasse almanaccare gli avvocati. Il tedio del carcere, le impedite sfrenatezze nelle quali la Elvira irrompeva alla stregua degli anni declinanti, ed anche perchè si vedeva venire meno ogni altro uncino dove potersi attaccare con qualche speranza di buon esito, la indussero ad accettare il partito e a metterlo in pratica.

Rispetto al vecchio Omobono, ci volle il diavolo per ridurlo a termine di ragione; fieramente di tutto si lamentava e di tutti; i suoi costituti erano querimonie e imprecazioni perpetue; avere accolto al suo seno di padre parenti, amici, di ogni maniera infelici, e tutti avergli deposti nel cuore nidi di aspidi; peggio di ogni altro il proprio sangue; il suo nipote avere falsato i biglietti, egli averne per milioni e milioni empito la sua cassa; nè potersene accorgere egli, perchè inesperto a conoscerli, come quello che non amministrando la cassa non li aveva in pratica: unico e di piena fiducia, capace a trovare il bandolo della matassa arruffata, il Nassoli, ma sparito ad un tratto, non avere lasciato traccia dietro di sè. Cotesta parve acqua grossa, ed era, ma passò per la doccia; tuttavia faceva mestieri rinvenire un capo espiatorio, e per ventura non mancava; quello del tradito giovane Onesti, il quale presentava due qualità uniche all'uopo, era assente e morto.

Nonostante ciò, fu reputato savio consiglio sostare, affinchè le ardenti passioni dei creditori sboglientissero, i quali co' pugni chiusi, i denti stretti, irti i capelli e stremenziti come il Flaxman disegna gli spettri degli eroi greci comparsi ad Ulisse giù nell'inferno, stavano ad aspettare che i prigionieri uscissero di carcere per iscorticarli di santa ragione; ed anche perchè la gente, assuefacendo l'occhio alla cosa, o dimenticandola nel turbinìo giornaliero delle vicende umane, non levasse troppo scalpore a vederli prosciolti.

Ed i presagi, come ordinariamente avviene, si verificarono, dacchè nei fallimenti i tocchi nell'interesse si avventano sul fallito a nugoli e schiamazzanti peggio dei corvi sopra la bestia morta; ed un convento intero di monache non varrebbe a ripetere le letanie delle bestemmie e delle maledizioni che escono loro di bocca; ma poi il nugolo si dirada, chè qualche stella cadente si stacca a sua posta dal cielo mercantile per precipitare anch'ella nel fallimento; il tempo cicatrizza la piaga; e quando ormai si sono adattati a perderli tutti, se mai avvenga di ricuperare un terzo, non parrà loro perderne i due terzi, bensì guadagnare un terzo, e, se ti piace, farai loro deliberare un voto di ringraziamento ai ladri.

I bisticciamenti fra spogliati e spogliatori in commercio arieggiano agli screzi che corrono fra gl'innamorati; si rappattumano presto; la causa di pace trovano per lo più nello accordo di spogliare un terzo.

Dopo un attendere lungo, un bel giorno la Camera di consiglio giudicò tutti i detenuti aversi a riporre in libertà per mancanza di prove; quanto all'Omobono Onesti, lui spento, spenta l'azione penale. Questa notizia non fece caldo nè freddo, e tutti poterono tornare inavvertiti nel consorzio umano, come i ranocchi dalla ripa rituffansi nel pantano. Innanzi però di aprire la porta del carcere alla Elvira, la costrinsero ad accettare per patto ch'ella si sarebbe spontaneamente confinata sotto nome mentito in qualche remota terra di provincia, dove l'avrebbero mantenuta, e poichè ella capì che reluttando gliene poteva incogliere peggio, piegò la testa e si ridusse a Gavi, nell'Appennino Ligure; le tenne dietro il Merlo, delle tante accuse appostegli di questa unico innocente. Qual vita costà menassero, io volentieri mi passo raccontare: nella medesima guisa che i gravi tendono perpetuamente al centro, Elvira ogni giorno più precipitava verso lo stato che gli uomini appellano abbrutimento, con espressa calunnia delle bestie, di cui ogni specie vive da pari suo. Nè tabacco, nè acquavite, nè vino bastavano a sollevare la tetra noia: invece dei bei discorsi come i pastori di Virgilio costumano, si alternavano sbadigli da fendersi le mascelle. Le persone dabbene li fuggivano, i ribaldi si peritavano visitarli; allora il Merlo, per non morir di noia, propose procurarsi la patente per la rivendita dei tabacchi e dei sali, e piacque; e tanto si dimenarono con le mani e co' piedi, che l'ottennero. Apersero pertanto bottega in mercato, dove non mancando frequenza di trecconi e di vetturali, la bisogna avrebbe potuto camminare pei suoi piedi, se la Elvira e il Merlo non avessero da per loro consumato la metà delle provviste; allora trovarono un altro partito, e ci aggiunsero il giuoco: dopo l'un'ora di notte, chiusa la porta, illuminati appena da una lampada fumosa, e con carte luridissime si davano a spellicciarsi scambievolmente a maccao, a toppa, a goffo e ad altri giuochi plebei, comecchè noi non sappiamo giuoco nobile che sia: ladri sempre, non era da supporsi che deponessero gli istinti rapaci sopra la soglia: non l'avrebbero fatto entrando in chiesa, figuratevi se lo volessero fare entrando in bottega al Merlo! però non passava notte, che Dio metteva in terra, che non accadessero fiere riotte con accompagnatura di pugni, seggiolate e legnate ed altra simile confettura: certa notte, fra le altre, il Merlo attaccò lite con Sandraccio, uomo fino dalla sua nascita destinato a morire su la forca come il cappone in pentola. Sandraccio, colto sul punto che rubava la carta, con un pugno mandò a terra la lampada, e grancita una manata di quattrini se la diede a gambe; il Merlo, infellonito, salta fuori di bottega, e piglia a rincorrerlo, e via via tanto che lo arriva sul canto della piazza, quivi gli mette una mano sopra la spalla, e con la bocca trovandosi presso ad un'orecchia di lui, di una zannata gliela strappa mezza: il nibbiaccio, ridotto a mal partito, cacciava urli, che per morte non avria potuto maggiori: sopraggiunsero due giandarmi, i quali, come suole, diedero lì per lì torto ad ambedue; ma il Merlo perfidiava a voler dire la sua ragione, e intanto la ubriachezza e lo affanno non gli permettevano di spicciare parola, sicchè uno dei giandarmi, non avendo tempo da perdere, mise fuori le manette, ultima ratio dei giandarmi; al quale argomento non mostrando volersi arrendere il Merlo, i giandarmi gli strinsero vie più i panni addosso per persuaderlo; non fu niente di niente; due cotanti intorato, il Merlo caccia fuori il coltello, e ne passa da banda a banda il braccio sinistro al giandarme, il quale, senza dire un fiato, cava a sua posta la rivoltella, e gli spacca il cranio come un melogranato. Accuse, processi, discorsi da un lato e discorsi dall'altro, ma è stabilito che ai giandarmi non si può mai negare ragione, massime quando hanno torto; il nostro giandarme, avendo ragione, stentò alquanto più a farsela fare; per allora l'assolverono; dopo alquanto spazio di tempo lo licenziarono, avendo conosciuto i suoi superiori che veramente costui menava un tantino troppo le mani: gli si contavano tre ammazzati e dieci feriti nello esercizio della sua nobile professione.

Elvira (caso non raro nè strano) prese a delirare pel giandarme omicida, che acuto solletico le diede il sembiante terribile e il corpo atticciato, nè il giandarme trovò il tornaconto a rinnovare il caso di Giuseppe ebreo, lasciandole il suo tabarro in mano: durò breve il contubernio; al giandarme non piaceva andare in armento, però dirizzava l'ale in altre regioni, non senza avere fatto prima domine repulisti in casa dell'amica del cuore; l'Elvira, tutta sottosopra, ricorse alla pretura, ma o non la crederono o non le diedero retta: allora non le sovvenendo altro conforto, nè volendo, nè potendo forse ritrarre il piede dal tristo cammino, prese ad affogare più che mai i molesti pensieri nell'acquavite. Sovente la raccattarono per le strade in deplorevole stato, rotta il mento e la fronte, tutta sanguinosa o intirizzita dal freddo; portata all'ospedale per morta, si riebbe sempre; ma anche per lei una volta le furono buone mosse, che stramazzata briaca nel canto di una via, le si rovesciarono addosso le braci del caldano che portava, onde arsero le vesti e le carni di lei; la mattina la rinvennero cenere: — uscita di grembo alla natura terra innocente, ci tornò terra scellerata; ma scellerata o no, ella è tutt'una; anzi essendo il vizio crapulone, chi sa che la sua terra non contenesse elementi più idonei al laboratorio della natura, che la terra costretta alla compagnia della sobria virtù. — Parrebbe che a scavare tutte queste cose l'uomo ci avesse ad essere condotto come un condannato alle miniere, ma no; egli si arrangola per sapere e far sapere ch'è una bestia, e va su i mazzi a pensare che la sua figlia leverà gli occhi al firmamento per richiamare la memoria di lui morto, invece di cercarne la traccia fra i lumbrichi del terreno guasto. E' sono gusti!

I parenti dell'Elvira provarono per la morte di lei maravigliosa contentezza, però non la palesarono, paurosi di rimuginare la cloaca; in segreto ne fecero baldoria; dove e come morisse lo seppero pochi: tuttavia rimane in certo mondo memoria di lei come della più bella e più abietta creatura che sia comparsa fra noi a dare l'ultimo sfregio su la faccia della nobilea italiana.

Omobono, uscito di prigione con fronte più invetriata delle maioliche di Luca della Robbia, ricomparve in Borsa, abbordando disinvolto or questo, or quello dei suoi conoscenti. Guai al banchiere caduto! Il sodalizio loro è compagnia di lupi, uniti per divorare: quando taluno resta ferito, gli altri gli saltano addosso per divorarlo; nè certo ci è da fare le maraviglie, che finisca in odio un amore che nei giorni più lieti si nudriva con dolci messaggi di protesti, conti di ritorno e precetti a pagamento. Non giovava pertanto scansarlo, nè voltargli le spalle; per guardature bieche non si sgomentava costui; con disgustosa famigliarità poneva a tutti le mani addosso, lasciando il segno nero anche su la veste nera; non gli riescendo co' vecchi archetti a pigliare più uccelli, prese ad arcare; dapprima chiedeva cento per avere dieci, ma si ridusse presto a domandare dieci per ottenere uno: e ciò nonostante questo rigagnolo in breve si seccò; allora fu visto di via in via rovistare, a mo' che i cani fanno per le spazzature, in traccia della sua figliuola; cerca, fruga con pervicace insistenza, alla fine la rinvenne; orribile a vedersi, le comparve davanti: sozzo nelle vesti e nel corpo, artigli le mani, il volto non più umano, le scarpe a ciabatta, sdrucite sul tomaio, sicchè seminava, come si suol dire, le dita; la palandrana per lungo uso lustra, sforacchiata, in brindelli, quasi bandiera che si fosse trovata a molte battaglie contro la miseria; il cappello ad ogni sussulto levava in alto il cucuzzolo... pareva la scatola del frate cercatore quando entra in casa al contadino, e la sporge col saluto: sia lodato Gesù Cristo, lusinga al nasso e lusinga alla religione della massaia; ma se era orribile a vedersi, troppo più era ad udirsi. Egli ghignando si congratulò con Isabella, che la sua fortuna le concedesse il lusso di beneficare la giovane cieca; cosa di ottimo augurio, dandogli sicurezza ch'ella potesse adempire il dovere di compensare il padre che si era quasimente spropriato per lei, e che il suo figliuolo aveva assassinato: alle corte, pensasse a mantenerlo, e bene, altrimenti avrebbe ricorso ai tribunali per farla condannare a passargli la prestazione alimentaria. La povera donna con mani e con cenni lo supplicava a tacere, onde le sue parole non contristassero il cuore della infelice giovane; ma costui ringhiava più stizzoso che mai.

— Che importa a me di colei? Veniamo al gloria patri... vai d'accordo a somministrarmi gli alimenti?

— Padre, vi darò quello che posso.

— Parole equivoche... frasi ministeriali: tu hai a pigliare per misura non la tua potenza, bensì il mio bisogno; d'altronde volere è potere; l'ha detto anche il Lessona.

— Sentite, padre mio, venite, noi stenteremo purchè stiate bene voi.

— No davvero; io non intendo di starmene in compagnia; le oche vanno in armento, le aquile volano sole... hai capito... vogliono essere quattrini... piglierò anche carta; però meglio sarebbero contanti.

— Non urlate, per carità; non mi fate scorgere nel casamento... oh! che vergogna! che vergogna! Eccovi tutto quello che possiedo — e Isabella rovesciò le tasche sul tavolino.

— E che sono eglino cotesti soldi? Non mi bastano pel tabacco — pure si mise a contarli — trenta... trentuno, trentadue, trentatrè... quanti gli anni di Cristo; — dopo averli intascati soggiunse: — Vo' vedere se ne hai altri, e fattesi dare le chiavi, frugò armadi e cassettoni, ma non rinvenne altro: allora, infellonito di trovarli vuoti, si volse alla figliuola e le domandò:

— E della bella roba che avevi, che ne hai tu fatto?

— Padre mio... la miseria...

— La miseria! Vallo a contare ai morti... come puoi sostenere la miseria, se ti trovi capace di aprire in tua casa un ricovero di mendicità?

Isabella per sè avrebbe sopportato ogni cosa, ma udendo umiliare così la povera cechina, cominciò a venirle meno la pazienza; ventura fu che di un tratto frullasse per la testa a quel tristo di andarsene, e:

— Orsù, disse, io non vo' entrare nei fatti vostri; domani tornerò a mezzogiorno in punto... e bada a farmi trovare i miei trentatrè soldi... per ora, s'intende... perchè tu devi bene ficcarti nella mente che trentatrè soldi ad un uomo par mio non possono bastare.

Dio solo, che li vide, conobbe i dolori della desolata per sopperire alle improntitudini di cotesto uomo: anch'ella provò le sue ore di passione, che fanno sudare acqua e sangue: non bastando l'arrovellato lavoro notturno e diurno a racimolare i trentatrè soldi ad Omobono e a provvedere il cibo a due persone, sè condannava al digiuno: e siccome la povera cieca non avrebbe sofferto nutrirsi mentr'ella si struggeva d'inedia, il suo cuore di donna e di madre le suggerì, un pietoso inganno, il quale fu questo: mentr'ella sedevasi a mensa con la cechina, batteva del cucchiaio in fondo alla scodella, e recatoselo alla bocca, con le labbra mandava il suono di chi sorbisce materia liquida; e così dando ad intendere che mangiava, incoraggiava Eufrosina a saziarsi senza sospetto.

Ormai ho risoluto di non incomodare più gli angioli con le mie similitudini, però che mi accorgo che anch'essi stanno in bilico di dare la capata nella bottega del rigattiere, ma io credo (e quest'altra è roba che nella bottega del rigattiere non capiterà mai) che solo Gesù, in un trasporto divino, avrebbe saputo trovare così gentile atto di amore.

È facile immaginare come non corressero troppi giorni che la fatica incomportabile e lo scarso nutrimento condussero Isabella a tale, che appena poteva reggersi in piedi; sovente non vedeva gli oggetti interi, all'opposto, la più parte annegati nel fuoco; le frizzavano i nepitelli di cocente ardore; non più bianca la congiuntiva degli occhi, bensì chiazzata di sangue, e tuttavia si fece coraggio per istrascinarsi fino al mercato a procacciare quel po' di vivere per la giornata: comprò non so che erbaggi ed una libbra di riso, non badando, come quella che era sbalordita, ai soldi che aveva in tasca: comprò anche un pane, ma quando fu sul pagarlo si accorse avanzarle due soldi soli: avvampò di vergogna, e rimettendo il pane sul banco, parlò tutta tremante:

— Scusate, mi sono dimenticata di portar meco i quattrini per pagarlo.

Senonchè la fornaia, sbirciandola in volto, si accorse che s'ella stava male in tasca, doveva trovarsi peggio in casa; onde le fece ressa a pigliarlo, lo pagherebbe a comodo; e la Isabella, dopo alquanto schermirsi, pensando che in casa non ci era pane, lo pigliò e le disse grazie, nella pienezza del cuore.

Anche questa sarebbe stata un'azione degna che Dio ne pigliasse ricordo nel suo taccuino, per ricompensarla nel giorno del giudizio, ma poichè la moderna filosofia ci ha portato via il giorno del giudizio e Dio, la fornaia si chiami saldata dalla contentezza che provò, non mi attento affermare maggiore, ma quasi uguale a quella di vederselo pagare.

La Isabella, salite le scale con lena affannosa, depose la spesa sul tavolino di cucina; guardò nell'armadio, e recatasi la boccetta dell'olio in mano, si fece a sperarla di contro all'aria; visto che conteneva tanto rimasuglio di olio da condire il riso alla Frosina, parve respirare, ed esclamò:

— Anche per oggi non istenterà, la meschina.

Allora, tolto il coltello, si pose a trinciare l'erbe; quando l'aspettava meno, ecco comparirle davanti il padre Omobono, che sempre beffardo le domandò:

— Ebbene, i miei trentatrè soldi li hai tu ammanniti?

— Oh! padre mio, mirate un po' che cosa mi sia riuscito raccattare per vivere la giornata... ed anche il pane l'ho avuto a credenza; e come sfinita si lasciò cascare su di una seggiola.

Il volto, l'atto e la voce di lei facevano testimonianza com'ella pur troppo avesse parlato il vero; per la qual cosa non parve aria ad Omobono insistere sopra il denaro, ma posta mano sul pane, sul riso e su gli erbaggi, il pane si cacciò sotto il braccio e il rimanente in tasca, poi volse imperturbato le spalle per andarsene.

— E noi con che camperemo? gli guaiva dietro Isabella; ed egli, di su il limitare di casa, di rimando:

— Un giorno di digiuno fa bene all'anima ed al corpo; quella preserva dal peccato, questo dalla indigestione — e scomparve.

Isabella, che fino a quel punto non aveva avuto balìa di levarsi da sedere, ecco sentire una fiumana di sangue avventarlesi alla faccia; i nervi irritati impartirle inusitato vigore, e assorta in piedi lo rincorse e lo raggiunse a mezzo la prima scala: qui gli pose la mano al petto e gli disse:

— Rendimi il cibo di quella povera creatura.

Omobono, visto il balenare degli occhi della donna, la rigidità delle membra e il coltello che per caso l'era rimasto nelle mani, ebbe paura; feroce ad un punto e codardo come sempre accade tra i vili; quindi si affrettava a renderle tutto piagnucolando:

— Ed io con che mangio?

Isabella brandì il coltello, ed egli atterrito saltò giù sul pianerottolo, non tanto presto che Isabella gli potè levare il pane di sotto al braccio, e tagliatolo gliene porse mezzo dicendogli:

— Con questo voi non potete morire. Al tempo stesso, avendo ricuperata la minestra e gli erbaggi, aggiungeva: e se volete la minestra, aspettate che sia cotta.

— All'inferno te e la tua minestra; all'acquavite come ci rimedio? E così favellava, perchè costui aveva fatto assegnamento su mezzo pane e sul riso per rinvestirli in tanta acquavite.

Prego il lettore a riscontrare la osservazione che sovente ho fatto per mio uso, cioè che l'acquavite pei ribaldi tiene il luogo d'Ippocrene pei poeti: dalla prima i tristi cavano gli estri del delitto, imperciocchè anche ai perduti quel rompere la legge metta un zinzino di scrupolo, ed un zinzino più quelle di natura; dopo avere eccitato gli estri del delitto, fa da calmante al rimorso, il quale taluno morde come la vipera e tal altro come la zanzara, ma tutti morde.

Il dì veniente, inevitabile come il destino, si presentava Omobono, e lo avvertivano invano la sua figliuola giacersi inferma; che premeva a lui se la passione e lo stento l'avevano obbligata a starsene a letto. Volle passare ad ogni modo, e di su l'uscio della camera prese ad interrogare:

— E i quattrini?

— Non ce ne sono, rispose la inferma.

— E da mangiare?

— Neppure.

— Questo vedremo, e andò a sincerarsi rovistando ogni cosa in cucina ed i più riposti nascondigli di casa; allora tornò in camera alla figliuola, dove gli occorse a capo del letto la immagine della Madonna; era una copia di quella del Sassoferrato, che ha il mesero tirato giù su gli occhi e le mani bellissime in atto di preghiera, così leggiadramente soave a vedersi, che devoti e non devoti volentieri le fanno di berretta col saluto: Dio ti salvi Maria piena di grazie;[61] guardatala alquanto, Omobono favellò:

— Oh! che gingilla costei che non ti aiuta? E poichè ella o non può, o non vuole aiutare te, la sforzerò ben io ad aiutare me.

E staccatala dal muro la portò via, strillanti invano e reluttanti le donne. Omobono, nascostasi la tela sotto il palandrano, a scanso di scandali se ne andò difilato a venderla a Neftali rigattiere, il quale dopo un gran battagliare di parole gliela pagò due franchi; costava cinque volte più la cornice, e pure Neftali, comprata appena, se ne pentì; temè qualche mal tiro di Omobono; stava proprio su i pruni, onde prima di mezzogiorno si disfece di cotesta mercanzia pericolosa. L'acquistò per dodici (e l'ebreo, come di rubrica, giurò per vita sua che gliela dava a scapito) una generosa devota; cosa ordinaria a incontrarsi, imperciocchè queste due qualità accordino insieme come il suono e la voce. La generosa, tornata a casa, levò da capo del letto una vecchia immagine della beata Vergine, e ci sostituì la nuova; poi le accese il lume, — e questo parve ordinato, perchè la ci avesse a vedere; poco dopo ci tirò sopra una tendina, — e questo evidentemente perchè non ci avesse a vedere; contradizioni umane, che si svelano da per tutto, anche al capezzale del letto delle generose.

Volle ventura che la portinaia, non vedendo scendere per tutto il giorno la signora Isabella, dubitasse che si sentisse male, e si appose; salì, ed entrata in casa si accorse a un tratto della desolazione delle donne, onde si profferse amorosa di sovvenirle giusta la sua possibilità. Isabella, non respingendo il soccorso che Dio le mandava, levò di sotto al guanciale dov'ella posava il capo una bellissima trina, e la porse alla portinaia, pregandola gliela portasse a vendere a qualche signora; da ebrei rigattieri, per amore di Dio, no; del prezzo ricavato in prima pagasse il fornaio, che le aveva fatto credenza del pane; del rimanente — e questo le susurrò negli orecchi — provvedesse brodo e alimenti leggeri per ricreare la povera Eufrosina; quanto a sè non importava, ormai sentiva avere messo il piede sul cammino della morte, e niente allettarla a tornare indietro. — La portinaia non le rispose niente; solo col dito le accennò la giovane cieca; — come per dirle: fatevi coraggio per lei. La buona donna ebbe avvertenza a tutto. La Isabella, tostochè la vide uscita, si recò il vivagno del lenzuolo in bocca per reprimere i singhiozzi, e le lacrime le inondarono la faccia; — perchè ella pianse? Ah! le venne in mente che coteste trine orlarono l'accappatoio che coprì i suoi figli quando li inviava al battesimo. Tanto ormai del suo sangue non vestiranno più alcuno!

A notte affannosa succede giorno pieno di ansietà, imperciocchè le donne aspettassero da un punto all'altro la visita di Omobono col cuore del condannato che messo in cappella attende il carnefice che venga per lui; con maraviglia pari alla contentezza egli non comparve; ed ecco come andò la cosa. Che Omobono fosse quasi una spugna tenuta per tutta la sua vita in molle nella malignità lo sappiamo; ora, a cagione delle avversità e dell'acquavite, la sua malignità, per così dire, si era immalignita: si era fatto un orologio di cui i minuti, le mezze ore e le ore segnavano i dolori arrecati altrui; se gli bastava il coraggio, sarebbero stati delitti; si contentava seminare ceci per le scale, perchè taluno le ruzzolasse, o vetri per le strade, onde chi va scalzo si tagliasse; si dilettava introdurre sassolini nelle serrature, onde l'operaio la mattina perdesse tempo ad aprire la bottega, e spazientito bestemmiasse il santo nome di Dio. Soleva dire, che se le bestemmie fossero stati fiori, ne avrebbe colto tutti i giorni un mazzo per offerirlo a San Gaetano padre della divina provvidenza!

Ma a costui erano soprammodo odiosi i fanciulli; lo agitarsi di questo sciame strepitoso e irrequieto pei vari giochi della infanzia lo faceva arricciare peggio di un istrice che veda il cane; così non ci era dispetto che loro non facesse; se li sorprendeva a sollazzarsi alla buchetta, egli con le proprie mani la riempiva di terra; se alla settimana, ed egli ecco cancellarne i segni dei vari compartimenti co' piedi; era il flagello dei maschi e delle piastrelle, perchè quante gliene capitavano nelle mani tante scaraventava lontano; nella spagnoletta il meno che si potevano aspettare era vedersi con un calcio sparpagliati i soldi fitti per taglio in terra; onde i ragazzi, appena lo vedevano dalla lontana scantonare, gli urlavano dietro:

— O maligno! O vecchio maligno!

Egli allora, tutto indracato, volgendosi li minacciava col pugno, ed essi, quantunque per la tardità delle membra costui non li potesse rincorrere, pure spuleggiavano; ma indi a breve raggruppavansi più infesti di prima, e agli schiamazzi aggiungevano i fischi. Ora accadde che Omobono, per essersi la sera innanzi ubriacato di acquavite, si levasse tardi, e più scorrubbioso del solito; gli pareva gli tenessero un bottone di ferro infuocato su lo stomaco; aveva la bocca, per così dire, motosa: camminava per le vie svagolato e brontolando vanità maligne; fortuna volle che gli venisse fatto di passare per certa via, dove parecchi giovanetti giocavano alla palla, e come avviene rimase bollato; costui schizzò veleno, ghermì la palla, trasse fuori un coltellino, e sbuzzatala ne disperse il ripieno. Se i fanciulli si arrapinassero a vedersi sagrificare sotto gli occhi a quel modo l'amata palla, immaginatelo voi: per me giurerei che tanto non patì Agamennone per la figlia Ifigenia, lui presente svenata su l'ara di Diana.

Gli urli di vecchio maligno e i fischi andarono alle stelle, e bisogna confessarlo, volò anche qualche sassata; Omobono non si rimase con le mani a cintola, e raccolti anch'egli alquanti ghiaiottoli, rispose per le rime, donde ne nacque una sassaiola nelle regole, l'esito della quale però non poteva esser dubbio, perchè, oltre a trovarsi Omobono solo contro a tutti, i suoi colpi come quelli di Priamo contro lo scudo di Pirro erano tela sine ictu, mentre i sassi dei fanciulli fendevano l'aria sibilando come vipere in amore: dopo lungo battagliare, ecco un sasso coglie in pieno l'occhio sinistro di Omobono e glielo spacca orribilmente; costui per lo atroce spasimo stramazza e si avvoltola per terra; i ragazzi spulezzano; le guardie di sicurezza accorse raccattano Omobono semivivo, e lo trasportano semivivo all'ospedale; e questa fu la causa ond'egli in quel giorno non tribolò con la sua presenza la povera Isabella.

La infermità fu giudicata pericolosa, la cura lunga; ne uscì con un occhio di meno, e più che non era deforme a cagione di una margine cavernosa sempre sanguinolenta; siccome durante la malattia e nella convalescenza spesso diede prova di vaneggiare, fu deciso accomodarlo in certo ricovero di mendicità nella Liguria, dove io lo vidi.

Stava solo dentro una stanza che prendeva luce dall'alto, e tutti i compagni d'infortunio lo fuggivano peggio della moria; colà grugnando logorava i suoi dì a sfilacciare vecchi cavi. Chiamato a nome non rispose; mi posi fra la luce della finestra e lui per tentare se il buio subitaneo valesse a moverlo, e non tentennò. Interrogato il custode intorno ai costumi di lui e alla qualità del lavoro che faceva, mi rispose:

Cotesto suo capo è una pentola che spicca sempre il bollore della iniquità, con questa ragione, che le gallozzole di mano in mano spariscono in una galla sola, ch'è quella del furto. Quante volte ha occasione di andare nella sua stanza da letto, tante ci porta dentro un lucignolo piccolo o grande, e lo nasconde dentro le materasse, ovvero nel saccone; in capo alla settimana noi andiamo a cavarlo e lo riportiamo al magazzino; e' pare che non se ne avveda, però che il lunedì cominci da capo. La sfilacciatura ch'ei fa serve per calafatare i bastimenti; ad altro non è buono.

Allora il mentecatto, piegando il collo sopra la spalla sinistra e sbirciando traverso di sotto in su, proprio a mo' della iena, brontolò:

— Non tutta... non tutta; buona parte ne vende costui ai funaiuoli, perchè la mettano in mezzo ai cavi, che i funaioli furfanti quanto lui danno per nuovi.

Io proruppi in un solenne starnuto per fare le viste di non sentire; ma guardando di scancìo vidi la faccia del custode tinta in verderame.

*

Un tempo furono gli altari asilo contro la giustizia umana e la giustizia divina; oggi contro la umana non contano più, ma contro la divina si cercano sempre, e si cercheranno ancora per lungo secolo; imperciocchè si mantenga grande il numero di coloro a cui giova una religione che ti agguanta l'anima e te la foggia a maestro, dove da un lato ti si registrano a debito le colpe e dall'altro a credito i suffragi, offrendoti comodità di metterti da parte un po' di viatico pel viaggio del paradiso, o alla più trista di saldare i tuoi conti; quindi non importa nè anche dire con quale e quanta furia Amina si attaccasse all'altare, e per converso con quanta furia i sacerdoti si attaccassero a lei; scarafaggi che sotto l'altare pongono il covo. La donna si peritava a mettere nel bucato della confessione tutti i panni sudici dell'anima sua, e per altra parte la serpentavano i preti non isperasse salute se non travasava la sua anima intera nell'anima del confessore; forse, se avesse potuto persuadersi, se avesse avuto pegno in mano che dopo la confessione fosse cessata la vista dei due occhi appannati dalle pupille contratte, ella avrebbe rotto il diaccio; ma no; qui incerto il guadagno, la perdita del mettere a parte una terza persona dell'orribile segreto sicura.

Però, compiacendo alla naturale sua disposizione ed ai conforti del confessore, desiderò in prima mettere a fil di squadra il suo stato dirimpetto ad Egeo. Il confessore sempre lì a limarla, che per celebrare il santissimo sacramento del matrimonio bastava, e ce n'era di avanzo, la sola cerimonia religiosa; ma ella non dandogli torto, pure lo supplicava a consentire che si facessero le cose in regola ai termini della legge; però i preti, addentata che abbiano per un orecchio l'anima del cristiano, non lasciano presa così facilmente, onde il confessore insisteva:

— Ma veda, la è chiara come il sole di luglio che regna in tutto Babele; legislatori e leggi, mentre rifuggono dal fine peggio che dal sangue di vipera, ecco qua spianano le strade e ci spingono la gente. O la mi faccia la finezza di dirmi che cosa predica aborrire questa società matta? Il materialismo; e sta bene, perchè questo è morte di ogni eccelsa aspirazione, e fa le anime immortali sorelle alle ranocchie nel pantano. Ora, mi dia retta, questi grulli, per conseguire il loro scopo, che mi fanno? Allontanano dai matrimoni, nei quali tanta parte ci entra di bestia, ogni concetto di sacramento, che solo vale a nobilitarli: ma le pare che bastino a consacrarlo la lettura di alcuni articoli del codice civile fatta da un coso che sbadiglia e fa sbadigliare, a patto però che sia fasciato della sciarpa dai tre colori? Dopo ciò, o che trova ella di strano che altri, alla derrata del diavolo aggiungendo la giunta infernale, insegni ai popoli il matrimonio consistere nel mescolarsi in amore alla spartita di due creature di sesso diverso? I galli, secondo i nuovi dottori, soli maestri da preporre allo insegnamento del matrimonio e dei suoi doveri. — A queste aggiungeva altre ragioni, ma l'Amina dura.

Proprio il giorno antecedente a quello del matrimonio davanti il sindaco, Amina tenne ad Egeo questo discorso:

— Caro Egeo, il Signore, che ha veduto in segreto la vostra carità verso me, povera, derelitta, ve ne vuole ricompensare in palese... e qui raccontava essere provvista con bene duecentocinquantamila lire di capitale; volere accomunarle con lui con questa ragione, che di ogni loro bene si facessero donazione irrevocabile inter vivos.

Ad Egeo parve sentirsi inondato da capo alle piante di contentezza; un vero bagno di giubilo; ma siccome nel fonte stesso del piacere sorge qualche cosa di amaro che ne intorbida le acque di un tratto, una nuvola gli passò davanti gli occhi. La nuvola sorgeva dal dubbio: — e se fossero falsi! — Ma a rimettergli il cuore in corpo sovveniva la donna dicendo: legittimi essere i biglietti, averli esaminati ella stessa più volte; li riscontrasse anch'egli; e avvertisse che da lei potevano adoperarsi in buona coscienza, perchè il defunto marito glieli aveva assegnati per dote.

Mentiva; ma da un punto all'altro di vermi non si diventa farfalle, e questo le diceva anche il confessore, che ogni dì le faceva una predica, e talora dopo il pasto un'altra.[62]

A Egeo poco premeva, anzi punto, chiarire se Amina mentisse, moltissimo poi se fossero buoni i biglietti di banca; ella glie li portò; egli prese a esaminarli parte a parte, e poi nell'insieme; niente sfuggì alla sua molta pratica in materia: per ultimo con un sospiro, che tenero gli partiva dal cuore, esclamò:

— O benedetta tu sia fra tutte le donne, i biglietti non sono falsi; però, Amina, pensa che mettendo io in comunione solo cinquantamila lire, mentre tu ce ne poni duecentocinquanta, ciò darebbe luogo a Dio sa quanti sospetti, che ci potrebbero turbare la pace domestica... forse peggio... tu hai buon giudizio, e vorrei tu mi capissi: a scanso di fastidi, ecco, io figurerei costituirti la dote di centocinquantamila lire, che tu poi faresti soggette alla donazione, e siccome io godo sempre opinione di ricco, ciò non farebbe specie. Per tua sicurezza iscriveremo nei nomi tuo e mio nel gran libro le ventuna o ventiduemila lire di rendita, a patto che non si possa alienare senza il consenso di ambedue.

La donna assentiva; stipularonsi i contratti; il matrimonio civile si celebrò; e finalmente le due colombe furono congiunte davanti l'altare del Signore da un sacerdote quasi innocente quanto loro, il quale per di più li benedisse.

E codesta benedizione sembra che sopra la infermità latente dell'Amina esercitasse la virtù della rugiada sul cespite dell'erba inaridita; perchè appena ella tornò a casa le si manifestava nella gola un bruciore insopportabile; crescendo lo spasimo mandarono pel medico, il quale tostochè l'ebbe esaminata fece ritirare il marito col pretesto di visitarla nelle parti segrete del corpo, ma in realtà per dirle spiattellatamente:

— Signora Amina, mi duole averle a dire che vostra signoria è minacciata di lue sifilitica della peggiore qualità; prima di tutto si separi di letto dal suo signor marito, ed anche di camera; in quanto a me, mi studierò medicarla con i rimedi indicati dall'arte salutare, e spero riuscire a guarirla; solo la prego ad essere obbediente alle mie prescrizioni.

In questa guisa il giorno che vide stringere il nodo delle due belle anime fu testimone altresì della separazione dei corpi.

Terribile fu il processo della malattia, che per me giudico avvelenamento; e non mica portata fra noi da remote contrade per la trafila degli spagnuoli, o dei francesi, ma sì messa nel mondo con le sue benedette mani da Dio; sicchè fra le altre delizie il genere umano dovrebbe essergli obbligato anco di questa.[63]

Nella sciagurata la infermità consumò implacabile i suoi tre stadi; se talora davanti alla potenza dei medicamenti parve arrestarsi, e' fu come poca acqua in fiamma, la quale invece di spegnerla la divampa. Apersero la marcia le ulceri, a cui tosto si aggiunsero ascessi infiammatori e virulenti, scrofole e dolori nelle ossa in prossimità delle articolazioni; ma supremo affanno le arrecava lo spasimo nei capelli, che presero a cascarle in tanta copia da trovarne quotidianamente sparso il guanciale e piena la cuffia. Durante la notte pativa strazi d'inferno, ora guaiva come colta dalle doglie del parto, ed ora strideva come se le trafiggessero il cuore; le stava nella fronte inchiodata la cefalea notturna, e sempre dinanzi agli occhi, sia che li tenesse aperti o chiusi, le pupille appannate e contratte del morto Omobono... sempre... ahimè! sempre; e siccome ella fantasticando, si dava ad intendere che tra coteste pupille e la sua visione intercedesse qualche spazio, poneva nel mezzo la mano per nasconderle; vani conati! che coteste pupille appannate e contratte, non fuori, ma dentro la fronte gliele aveva dipinte il rimorso.

Impensierito dei progressi del male, il medico curante, sentendosi venir meno il coraggio, persuase consulti, e si aggiunse alla cura medici che andavano per la maggiore: allora sì che ricomparve il caos nella magnificenza della confusione: chi prescrisse bagni sulfurei e chi iodici; altri, Dio ne liberi da bagni: frizioni mercuriali soltanto. Da un lato dieta rigorosa, dall'altro ha da mangiare bocconi ghiotti, e vino del buono, e lo ha detto il Faloppio.[64] Il confessore, che si trovava presente al consulto, non potè trattenersi da esclamare: — anch'io faccio così, e me ne trovo benone.

Uno dei medici, con aria ingenua, soggiunse:

— Come! Anche lei si cura la lue in cotesto modo, reverendo?

— Che lue? Io mi curo in cotesta maniera lo stomaco, la lue lascio intera a lei, eccellentissimo.

Proseguendo i medici a contradirsi, taluno suggeriva tagliassero i capelli alla inferma e col sapone glieli lavassero, tale altro non si toccassero; solo con molta cura si nettassero; chi li voleva coperti; chi scoperti: con quattro voti contro tre rimase vinto il partito della fumigazione. Posero la malcapitata a sedere sopra una sedia, e sotto questa collocarono un lume alimentato a spirito di vino, il quale infocava una lastra di porcellana messa orizzontalmente sul lume, e quivi spargevano ad ardere fino a due grammi di cinabro: coprivano inferma e sedia per via di cappa d'incerato disposta così, che non lasciasse adito a svaporazione; a quel martirio la facevano durare quindici minuti o venti; però cessarono di corto, imperciocchè ogni volta che tentavano lo esperimento ce la cavassero più morta che viva.

Nè i medici soli si erano moltiplicati intorno al letto della inferma, bensì preti, frati e di ogni generazione beghine; i primi non sapevano di altri rimedi che non fossero messe, tridui, novene, e così via; le altre, pur confessando la virtù di tutte queste cose, a cui aggiungevano quella dei rosari alla beata Vergine della Cintola, consigliavano, ammannivano e di celato ministravano all'Amina brodi di serpi e vino dove avevano annegato rospi... ella poi beveva disperatamente ogni cosa, tanto agita i petti mortali la rabbia della vita!

Tuttavia il morbo procede a bandiera spiegata: adesso tutto il suo corpo si cuopre di eruzioni purulenti, massime negli occhi e nelle membra riposte; il sangue dà volta come il vino sotto la sferza del sollione; la sifilide si avventa alla gola, e quinci e dal naso emana in copia una materia viscosa di formidabile fetore più tristo di quello dell' ozena. Ora l'uno, ora l'altro occhio, e sovente ambedue le s'infiammavano nelle iridi, nelle orbite e nei globi, per cui la luce la punge e il buio non la solleva; molto più che le pupille appannate e contratte del morto le stanno attaccate alle palpebre quasi bocca di amante s'incolla alla bocca dell'amante.

Veramente non ci era mestieri occhio medico per conoscere che la morte veniva avanti a gran giornate; tuttavia occhio di confessore in simili faccende non teme confronti; e poi i segni della prossima fine concorrevano tutti; prima di ogni altra cosa la quantità dei medici; il continuo contendere di parole, e talvolta d'ingiurie fra di loro, senza che alcuno sapesse che pesci pigliare; in fine il flagello dei medicamenti; comode da notte, tavole, tavolini, canterani, inginocchiatoio ingombri di bocce lunghe, piccole, mezzane, di ogni dimensione, insomma tante che più non possiedono canne gli organi della chiesa dei Cavalieri di Pisa e della cattedrale di Siviglia; il mercurio faceva pomposa mostra di sè, sotto tutte le forme e con tutti i colori; qui avanzi di pillole di etiope, ovvero ossido mercuriale nero, colà reliquie di deutossido rosso, più oltre di calomelano bianco, e non mancava lo ioduro giallo. Le preparazioni metalliche furono tentate tutte, e invano; il platino o l'argento, e soprammodo l'oro in pillole, ovvero mercè frizioni sopra la lingua; i medici, disperati, si erano spinti fino ad amministrarle bevande di sublimato corrosivo, rimedio giudicato eroico per modo, che a ragione può dirsi l' Achille della morte. Anche il dottor Tenca con la caterva dei suoi medicinali ci rimase sbancato. Allora non parve al prete tempo di starsi con le mani a cintola: quindi, avvertiti i servi che andava a confessare per l'ultima volta la signora, epperò non entrasse persona, nè anco il marito, aperse con fracasso l'uscio, si pose di faccia alla morente con sembianza minacciosa; dopo parecchi istanti con tali parole l'assale:

— Donna, la morte ti batte alla porta di casa; peccatrice, io non voglio avere su l'anima la perdizione della tua anima. Io ti leggo nel cuore; tu non hai confessato tutti i tuoi peccati; fin qui le tue confessioni furono tanti sacrilegi. Tu hai dubitato della misericordia di Dio, e Dio vendicandosi ti nega la sua misericordia; perchè io vo' che tu sappia, maggiore ingiuria non potersi fare a Dio, che mettere in dubbio la sua bontà. Tu certo non leggesti nei libri di santa madre Chiesa, bensì unicamente libri profani, e pure, se tu avessi voluto, avresti eziandio da questi raccolto insegnamenti salutari per l'anima tua, come appunto Sansone levò il miele dalla gola della bestia feroce: e forti dulcedo; l'esempio dell'ira del Signore che leggesti nella Ildegonda di Tommaso Grossi è vero, vero come il Vangelo, vera la mano lunga lunga, nera nera, che calava giù dal cielo del letto, e buttati via dal guanciale il crocifisso, dai piedi la stola, e abbrancato l'infermo alla strozza, lo strangolava; veri i demoni saltati sul letto a graffiargli il crisma dalla fronte; vero il doloroso trasporto dell'anima alle fiamme dell'inferno su le spalle ai demoni; preci non valsero, non assoluzione di sacerdoti, Renzo Brancaleone di San Vittore andò dannato nel fuoco penace, dove sono rabbia, disperazione e stridore di denti, per avere taciuto in confessione un solo peccato. Dunque confessa il tuo, approfittati di questo istante che ti concede Dio nella sua infinita bontà; non ci è tempo da perdere, scegli tra Dio e il diavolo, tra l'inferno e il paradiso.

La donna infelicissima, presa così a soqquadro mentre il suo spirito errava sul confine ultimo della vita e sentiva ventarsi in faccia il soffio ghiacciato della morte, fu invasa da ineffabile terrore; tutte le piaghe del corpo le si riapersero e pianse lacrime di sangue — proprio di sangue spremuto dalle ulcere che aveva intorno agli occhi; tremola più che foglia di autunno in procinto di staccarsi dall'albero, con voce rantolosa svelò al confessore l'atroce insidia tesa ai danni dell'infelice Omobono; e giunte le mani, con gli occhi levati al cielo, stette come persona che attenda il colpo di grazia; ma con sua maraviglia somma, non meno che con sollievo, la voce del prete, lasciato di un tratto il suono del serpentone, assunse quello soavissimo del plauso, e le diceva: Dio stendere così larghe le braccia da ricoverare bene altre colpe che non erano le sue, a patto però ch'ella con attrizione e contrizione dei peccati commessi si pentisse e con fermo proposito deliberasse di non commetterne più (e qui il prete si prendeva evidentemente gioco della moribonda). Tuttavolta, il sacerdote proseguiva, il pentimento solo non bastava alla espiazione delle colpe; occorreva lo accompagnassero i suffragi, i quali non solo avrebbe dovuto ordinare per l'anima sua, ma troppo più per quella del tradito defunto; la quale uscita, sua mercè, da questo mondo senza sacramenti per colpa sua, andò perduta... forse; chè un solo sospiro di contrizione basta a placare l'ira di Dio; e vuolsi credere che questo sospiro gli sia uscito dal cuore; ma quanti secoli di purgatorio prima di purificarsi! Nè manco lo scritturale del debito pubblico saprebbe scrivere tanti numeri. Dunque presto si ponesse mano a fare un bel testamento di ogni sua sostanza in pro della pia casa di ***, con l'obbligo della celebrazione quotidiana di messe, e uffici altri divini in capo ad ogni mese e ad ogni anno. La donna rispose: magari! ma temere assai poterlo fare con efficacia a causa del contratto di donazione scambievole celebrato col suo marito Egeo.

A questa inopinata notizia il nostro prete fece greppo come fanciullo a cui il gatto abbia sgraffiato una mano, pure, avvezzo ai colpi di vento, non si diede per vinto e chiese del contratto, e Amina, che lo teneva sotto il guanciale, potè porgerglielo senza indugio; il prete, presolo, volto alla inferma soggiungeva: — si desse coraggio; non disperato il suo stato affatto, e ci volesse per sanarla anco il miracolo, pensasse che come non sarebbe il primo, così non si avrebbe a giudicare l'ultimo operato per intercessione della beata Vergine e dei suoi santi avvocati in paradiso. Amen. Verso sera tornerebbe a visitarla, intanto trattenesse il pensiero in pie meditazioni.

Impaziente poi di uscire per la ragione che sto per esporre, e non rimanere soffocato dal fetore iniquo, irruppe con passi frettolosi fino alla porta, ma qui risensando tornò a comporsi, piegò il collo, atteggiò il volto a compunzione e aperse l'uscio. I servi, quale turandosi il naso e quale tenendoci sotto ampolline e fazzoletti intrisi in acque odorose, gli mossero incontro per domandargli: Come va? Come sta?

Ed egli:

— Ahimè! Laborat in extremis, orate pro ea, orate fratres; stasera verrò ad amministrarle la estrema unzione, perchè quanto alla eucaristia non ci è da pensarci nemmeno.

E se ne andò: se ne andò per recarsi a saetta volante dall'avvocato meglio tenuto in pregio della compagnia di Gesù; il nostro lettore già deve essersi accorto come il curato, quantunque non fosse ascritto de jure alla prelodata compagnia, pure le fosse addetto: e il mondo va pieno più che non si crede, anzi dirò di avanzo, più che non si ha la codardia di confessare, di satellizio siffatto; di satelliti di gesuiti vanno ingombri il parlamento, i consigli provinciali e municipali; nelle scuole non mancano e nella curia; e, duro a significarsi, non mancano in casa, e tu, che leggi, forse ti trovi del gesuita in corpo più che non pensi, imperciocchè tu mangi del gesuita impastato nel pane, lo bevi confuso nel vino, lo respiri nell'aria: per me propongo addirittura eleggere re d'Italia il padre Becker gesuita, dopo Vittorio Emanuele s'intende, e semprechè il principe Umberto se ne contenti, dacchè non vorrei mi apponessero l'accusa di sovvertire l'ordinamento presente delle cose e la monarchia della Casa di Savoia.

Questo reverendissimo avvocato meriterebbe essere descritto per la sua persona, costumi e modi suoi, con il suo studio altresì ed i suoi commessi; ora mi menerebbe troppo in lungo; lo farò un'altra volta. Il confessore pertanto, succinto e preciso, gli espose il suo bisogno: considerasse se per via di testamento potesse buttarsi all'aria il contratto di donazione che gli porgeva; se sì, ammannisse tutto, testamento, notaio e testimoni; tornerebbe poco prima delle ventiquattro, e partì. L'avvocato senza indugio si mette all'opera, legge, rilegge, torna a leggere; spezza frasi e periodi, li riconnette, li confronta nell'insieme, li esamina separatamente, leggi consulta e commentatori; entra e giravolta nel laberinto — non mica quello di Creta, bensì l'altro della giurisprudenza, in mezzo al quale s'incontra, non il minotauro, che per quello si sente dire fu mezzo uomo e mezzo bestia, bensì una bestia intera. Tanto cotesto contratto, tutto bene considerato, gli parve avere ad essere messo in terzo co' nodi di Salomone e gordiano.

Puntuale come... il vizio delle similitudini, ch'è un vizio come gli altri e peggiorando invecchia, il vizio, dico, delle similitudini quasi mi aveva spinto su l'orlo di paragonare la puntualità del prete con quella degli orologi pubblici, che tutti i giorni gli orologiari rimettono e tutti i giorni vanno peggio; puntuale dunque, il prete comparve nello studio del giureconsulto, il quale con faccia da de profundis clamavi, tostochè lo vide, gli disse:

— Ah! padre mio, cattive nuove; io ci ho provato tutti i grimaldelli della legge sofisticata e della giurisprudenza cavillata, ma e' non ci è verso per aprirlo: il contratto sta, e mettersi a cimento di farlo annullare dai tribunali tornerebbe lo stesso che dare del capo nel muro, e lor signori devono astenersi da sputare contro vento, perchè, massime ai tempi che corrono, vi ritornerebbe in faccia.

Il nostro prete, all'udire questa sentenza, lanciò un'occhiata al cielo, che parve un tiro di schioppo ad ago; tuttavia, ricompostosi, indi a un attimo disse:

— Gua'! bisogna rassegnarsi ai divini voleri, — e se ne andò via senza pur torre comiato dall'onesto curiale. Passò di rincorsa dalla sagrestia, dove presa la teca dell'olio santo proseguì fino alla casa di Amina. Le parole di lui, messo appena il piede sul limitare dell'anticamera, furono queste:

— È anche viva?

— Viva, rispose un medico, che giusto in quel punto usciva da visitare la inferma, anzi in apparenza più sollevata che non fosse mai da parecchi giorni in qua.

— O come può darsi questo?

E l'altro: — Già, tutti gli infermi all'appressarsi della morte pare che si riabbiano; ma non è perciò che sembra ricreata la signora: ella le stazioni del suo calvario ha compito tutte: già accadde la tumefazione delle ossa; la cangrena di queste, ovvero la necrosi è incominciata; le guancie le pendono giù flosce; i muscoli furono presi da paralisi; respira appena; la sua laringe ha perduto le parti solide che ne formano, per così dire, lo scheletro; i brani necrosati di tratto in tratto gitta fuori tossendo; ora riesce facile a intendere, che cessando in lei la potenza di espellere taluno di cotesti brani di carne fradicia, o il catarro sifilitico, che le si condensa nella gola, ella può da un punto all'altro rimanere soffocata; sicchè la causa più prossima di morte per lei non sarà la sifilide, bensì l'asfissia: ciò può accadere adesso, o fra un minuto, o fra ore: ma fino a domani non potrebbe andare. Già Venere, secondo il costume vecchio, non ismesso mai, ha incoronato la sua vittima; voi potrete osservare la fronte della misera donna cinta da una tempia all'altra di ulcere dolorosissime.

Così è, le care rose, onde l'Amore inghirlanda i suoi devoti, dove vengano tocche da taluna delle inique Veneri, o pornea, o schenide, o pandemia, o etaira, perdono le foglie, e diventano spine in paragone delle quali paiono soavi gli artigli delle Furie.

Il prete, dopo avere avvertiti i circostanti che lo lasciassero solo con la moribonda, imperciocchè intendeva riconciliarla con Dio, li chiamerebbe per amministrarle la estrema unzione, entrò in camera, e a colpo d'occhio conobbe come nello indugio stesse il pericolo, onde reso a costei il contratto di donazione, favellò:

— Pur troppo, di qui non si può cavare seme da seminare grano di suffragio; ma a voi non possono mancare mezzi da sopperirci, comecchè in minima parte; dove tenete i vostri ornamenti? Ori, gemme e simili? Vi fia meritorio convertire tutti questi arnesi di peccato, suggeriti dal demonio per la perdizione delle anime, in opere intese alla salute dell'anima. Poca cosa sono, ma Dio che misura il valore dell'offerta non dal pregio di quella, bensì dalla intenzione dell'offerente, ve la segnerà a credito nel giornale dov'è scritto il bene e il male: volete darmi a questo scopo libera e spontanea i vostri ornamenti preziosi?

La donna si provò a parlare, ma facendole fallo la voce accennò col capo affermativamente; allora il prete cacciò le mani rapaci per cantere e cassette, tutto arraffando, e tutto nelle bolge della sua tonaca affondando; non gli parve caso di perdere tempo a esaminare quale fosse buono e quale falso, li scevrerebbe a comodo; — come rispose la buon'anima dell'abate Arnoldo circa all'ammazzare in fascio cattolici ed eretici a Bezières: «ammazziamoli tutti, poi il Padre Eterno a tempo avanzato cernirà i buoni dai cattivi.»

Intascati i gioielli, il prete soggiunse: Qualche biglietto di banca voi ve l'avreste pure a trovare?

Ed ella assentì con un lieve cenno del capo; altro non potè significare; allora egli fruga e rifruga, rovista, rifrusta, metti sottosopra ogni cosa, e trova tra biglietti grandi e piccoli otto bellissime mila lire, che ripose dentro un abitino della Madonna del Rosario fatto a modo di tasca, che portava appeso al collo.

Ciò fatto, da capo il prete, improntissimo come un prete, aggiunge: Se avete altri oggetti di oro o di argento non vi lasciate scappare la bella occasione di fare un magnifico affare, voi li mettereste a cambio in paradiso alla ragione del mille per uno.

Ma essendo venuta meno nella donna la balìa di assentire, ella tacque; ond'egli conchiuse: chi tace acconsente, e continuò ad arraffare: da prima prese una stoppiniera di argento, poi un cucchiaio e un campanello, il quale per sospetto che squillasse agguantò pel battaglio, e insinuò nelle tasche dei calzoni; avendo visto poi a capo del letto un angiolino con la piletta nella mano sinistra e l'aspersorio nella dritta, tutto bene inteso di argento, così gli rivolse la parola: Creatura celeste, tu hai finito il tuo compito, e qui adesso tu stai come lo imbuto dopo la vendemmia. Levando le ciglia in su ecco occorrergli una lampada di argento appesa davanti alla immagine della Madonna, ed un crocifisso della medesima materia inchiodato sopra una croce di ebano... vero patibolo di lusso, e mormorò: dove trovi la ragione medesima di giudicare, tu pronunzia la medesima sentenza; e così brontolando tira innanzi una seggiola, ci monta sopra, stacca la lampada, ne cava il lampioncino di vetro, dove ardeva galleggiante su l'olio il lucignolo, dipana le catenelle intorno al guscio della lampada, e giù tutto in tasca. Anche questa è fatta; ora tocca a te, Cristo. Tu sai, mio divino Redentore, se io voglia o possa dividermi da te. Tu hai salvato me dalla servitù del demonio, ed ora intendo renderti la pariglia salvando te dall'obbrobrio di questa casa; e strettolo nelle gambe lo cacciò nelle tasche del suo tonacone a capo in giù come ci danno ad intendere che fosse crocifisso san Pietro a Roma, dove egli non capitò mai. All'ultimo, passato e ripassato lo sguardo da per tutto, a mo' che il barbiere costuma il rasoio sopra le gote dell'avventore per farci la barba e il contropelo, conobbe essere tempo di levare le tende: per la qual cosa attorse un bioccolo di cotone intorno a un ferro da calza, e lo tuffò per fare più presto nell'olio da lumi del lampioncino; chiamate poi le beghine e le serve in camera prese a menare il ferro col bioccolo unto per la fronte della moribonda a mo' d'imbiancatore che scialbi una parete: dalla fronte in fuori altro non unse, essendone dispensati i preti dai sacri canoni in caso di contagio. Profferite ch'ebbe così alla lesta le parole sacramentali della estrema unzione, aggiunse con voce di usciere che intimi lo sfratto:

Proficiscere anima christiana.

E siccome l'anima cristiana pareva che non avesse furia ad andarsene, egli disse fra sè: poichè non se ne vuole andare ella, facciamo una cosa, me ne andrò io; e se ne andò.

Rimasero le pinzochere a frigolare salmi; ma indi a poco l'insopportabile fetore le cacciò via. Finchè non furono uscite di casa tacquero, ma appena messo il piè su le scale, apriti cielo! Un pissi pissi vorticoso di discorsi di tutti i colori, un fuoco artifiziato di maldicenza da far paura; senonchè tutti i vari discorsi si confusero di corto in uno solo, in quello del giuoco del lotto. In primis fu proposto giocare una quaderna, e votarono pel sì alla unanimità; e non fu difficile, perchè, quantunque devote, avessero talora saltato la messa, non mai il giuoco del lotto; nell'accordarsi su i numeri s'incontrò l'osso; udito hinc et inde il flagello delle opinioni diverse, parvero prevalere queste. Ecco, notava una bigotta, bisognerebbe cavare la giocata degli anni della sua vita bene spesi al servizio di Dio; ella ne contava ventisette, dunque dividiamo prima, due e sette; ora moltiplichiamo, due via sette quattordici; dunque propongo due, sette, quattordici. — O che sia benedetta, si cucia la bocca, saltò su a dire un'altra, ma le sballa proprio da pigliarle con le molle; io... io ho trovato il bandolo; dov'è il libro dei sogni... che numero fa la stola? Quanto fa crocifisso? — Gesù mio, che mi tocca a udire! miagola la terza beghina, o che il crocifisso è un sogno? I numeri non si hanno da rilevare dai sogni, bensì da casi che sono cascati veramente sotto occhi aperti. A monte il libro dei sogni, miriamo un po' in altri libri quanto fa Venere, Amore e... — Lei svagella, signora Girolama, sarebbero quattrini buttati nel Naviglio; o che non sa che la Fortuna si è fatta cristiana? Ella si recherebbe a scrupolo di bazzicare con quei figuri degli Dei dell'antichità, che in fine dei conti erano tanti demoni. — Che la Fortuna sia stata battezzata in duomo, io non l'ho sentito mai dire; ci crederò se mi porta le fedi. Intanto veda qua, dei giorni della settimana cinque sono consacrati da lei ai demoni: lunedì a Diana, martedì a Marte, mercoledì a Mercurio, giovedì a Giove, venerdì a Venere, che non sempre per lei fu il diavolo; il sabato al Dio degli ebrei; la domenica sola al nostro Signore. O sa che cosa ho da dirle, signora Paola? — Che cosa, signora Girolama? — Che i suoi discorsi mi puzzano di zolfo. — E i suoi di scemo.

Si separarono: ognuna giocò da sè; persero tutte; una ne rovesciò la colpa su l'altra: unione acre nelle vecchie la devozione; si potrebbe definire la pellagra dell'anima.

Il curato, affrettando il passo, è giunto senza intoppo fino alla sala d'ingresso, ma qui fu che mi cascò l'asino; egli vide schierarglisi contra in acie ordinata Egeo, il questore suo amico e due guardie di pubblica sicurezza. Il questore, senza tanti amminnicoli, secondo la usanza dei tre quarti e sette ottavi dei questori, messa la mano sul braccio al prete (già si sa che nei questori, come in ogni altro membro della polizia, tra mano e lingua corre parentela strettissima, sicchè alla lingua non riesce parlare se la mano non agguanta: nelle costoro orazioni la perorazione tiene il posto dell'esordio) gli disse:

— O reverendo, o che va nel deserto a sagrificare al Dio di Abramo?

— Mio buon signore, che dice mai?

— Dico che il troppo leggere il Testamento vecchio gli ha fatto venire il capo grosso. Adesso a lei pare d'essere diventato un ebreo.

— Io!

— E di più crede questa casa terra di Egitto, Faraone il signor Egeo; di fatti, ella, come gl'isdraeliti, si parte di qua col buono e col meglio della casa... oh! non vede che di petto a lei uno idropico non c'è per nulla? La si compiaccia passare in quest'altra stanza.

— Ma con chi ho l'onore di parlare?

— Col questore di polizia.

— Scusi, io non ho niente a fare con lei.

— Ma sono io che ho da fare con vostra signoria reverendissima.

— Rifiuto recisamente.

— In questo caso, guardie, ammanettate costui come ladro colto in flagrante e trasportatelo a piedi alla questura.

— Obbedirò per forza.

Il prete di pallido diventò giallo; le passioni dei preti non conoscono altri colori; le tinte del loro arcobaleno circoscritte a due; tinta di odio e tinta di paura; giallo di burro e giallo d'uovo; entrambi andati a male.

— Come le pare, ma obbedisca.

— Però protesto.

— Quanto vuole; favorisca.

Il prete entrato nella camera a parte, sempre infellonito, ma vedendosi capitato in male branche, così favellò:

— Signor mio, noi non siamo usi a saccheggi nè a piraterie; la buon'anima della signora Amina, non potendo disporre altrimenti delle sue sostanze, a me suo confessore consegnava spontanea certi oggetti di sua pertinenza, onde io ne disponessi a seconda della sua intenzione; anzi, poichè senza offesa del segreto sacramentale, questo posso palesare, per erogarli in suffragio per l'anima sua, e per quella di un altro defunto, del quale avrà forse... senza dubbio contezza il signor Egeo. — E qui gittò di traverso un'occhiata ad Egeo, che parve un colpo di lesina. — Ora io domando, signor questore, se il suo governo, non contento di tribolare i vivi, astia che sieno sollevati dalle pene anche i morti!

— Signor curato; innanzi tutto le ricorderò che il mio governo è anche il suo, e poi che egli veglia perchè i cittadini tutti osservino le leggi. Qui in casa il padrone è il signor Egeo; e voi, lo giudico dalle vostre parole, non ignorate il contratto intervenuto fra la sua consorte e lui. E quando ciò non fosse, chi vi dà il diritto di entrare nelle case dei cittadini, col pretesto di religione, per isvaligiarle? Come mi proverete che la signora Amina vi donava quanto eravate in procinto di portar via?

— Il mio carattere sacro non basta?

— Passò l'usanza.

— Allora io non devo nè posso invocare altra testimonianza, quando anche non avesse a Dio spiegate l'ale...

— La bell'alma innamorata, continuò cantarellando il questore. — Bravo reverendo, ma bravo, la ci va fino di Lucia di Lamermoor...

Ma il reverendo, quasi sdegnoso di servire di bersaglio ai motteggi plebei del questore, soggiunse con molta dignità:

— Ecco che io depongo quanto mi fu dato liberamente, protestando però davanti agli uomini e davanti a Dio del sacrilegio commesso sopra la mia persona.

— Eh! reverendo, vi risponderò come un dì rispondevano i vicerè di Sicilia a quelli che li minacciavano ricorrere a Dio e al re per le loro angherie; Dio è in alto e il re lontano; però quanto ha fatto non basta, bisogna che adesso estenda la sua compiacenza a farsi frugare dalle mie guardie, le quali nello esercizio di questa parte penosa del loro ministero uniranno, vostra reverenza non ne dubiti, uniranno alla solerzia ogni possibile riguardo.

— Come, ardireste mettere le mani su l'unto del Signore?

— Poi ci laveremo le mani col sapone.

Il curato tremava di rabbia e di paura; l'abitino gli pesava al collo; onde rivolto ad Egeo, con piglio che parve terribile ed era codardo, esclamò:

— Ah! siete voi, signor Egeo, proprio voi che volete si strugga nel fuoco penace il meschino di cui gli occhi appannati dalla morte stavano perpetuamente innanzi alla vostra defunta? Voi che esponete agli ultimi oltraggi un sacerdote di Dio?

— Ma io... rispose Egeo esitando. E il prete mascagno chiappa la mosca a volo e rincara la posta...

— Or bene, io vi ammonisco, e riponetelo bene nella mente, che non passerà l'anno che voi vi raccomanderete a mani giunte perchè accetti e porti all'altare di Dio la offerta che gli contrastate adesso: prima che scada un anno vi cito a comparire innanzi la Corte di assise del paradiso, per rendervi ragione del vostro iniquo operato...

— O a me non tocca? domanda il questore.

— Di voi e dei pari vostri non si occupa Dio... nè il diavolo; oggi m'insolentite per ordine del padrone; domani, se il padrone ve lo comanda, mi bacerete le mani; voi non avete diritto all'odio altrui; qualcheduno, per mera generosità, potrà disprezzarvi. Adesso, signor Egeo, fatemi frugare come un borsaiolo.

Egeo, per coteste parole, sentì smuoversi dentro; lo prese il tremitò e balbettando pregò l'amico questore lasciasse andare in pace il curato: anzi stette in forse di pregarlo a ripigliarsi la roba che affermava avergli dato l'Amina, ma non ebbe il tempo, perchè il curato, tiratosi il mantello su gli occhi, appena n'ebbe agio, come uno spettro, sparì.

— Ouf! sospirò egli a petto dilatato, appena si fu chiuso nella camera della sua canonica, sono stato a un pelo di passare per occhio; tamen, anche per questa volta san Pietro non ha calato la rete in mare invano; e tratti fuori della tasca dell'abitino della Madonna del Rosario i biglietti di banca, li ripose in compagnia degli altri con arti non migliori acquistati.

Singolare poi fu quest'altro, che Egeo, quantunque non fosse Filippo e molto meno il Bello, pure per lui il curato fu Giacomo Molay, e la citazione di lui per comparire innanzi che finisse l'anno al tribunale prese a trottargli pel capo; la sua fantasia si accese pensandoci su; all'ultimo la sua salute ne rimase alterata: muscoli, nervi, ossa e le altre parti del suo corpo, come creditori arrabbiati dello attendere lungo, si presentano a un tratto per farsi pagare i vecchi conti, si voltavano al vizio onde li sollevasse dalle sequele dello abuso ch'ei ne aveva fatto: aggiungi che nei casti amplessi maritali egli aveva non già sorbito, ma tracannato il veleno sifilitico; e se più breve fu in lui la infermità che sfilaccicò la vita della sua moglie, non per questo ci la provava meno spasimosa: appena ne sentì i morsi, mandava pel curato, il quale venne sì, ma con un viso che pareva Longino. Tosto egli prese a gettargli nell'anima tali e tanti terrori da fare rizzare i capelli, non che ad altri, al Biancone di Piazza; per un pezzo continuò il tristo gioco del gatto col topo con lui, finchè un bel giorno, ficcategli le granfie in corpo, lo costrinse a lasciargli con amplissimo testamento quanto si trovava a possedere, il quale si giudicò oltre il valsente dei quattrocentomila franchi senza vincolo di sorta alcuna, comecchè corresse fra loro la condizione tacita che la eredità si avesse a dividere in tre parti eguali, di cui una avesse a servire pel suffragio dell'anima sua, l'altra per quella di Amina, finalmente la terza pel povero innocente tradito da tutti, e per giunta morto senza sacramenti. Anzi negli ultimi giorni della sua vita provava consolazione grandissima a contare col curato quante messe, quanti uffizi e quante esposizioni del venerabile sarebbero toccate per anima; non rifiniva mai di raccomandare al curato, badasse bene che la ripartizione si facesse giusta; ogni avanzo si applicasse sempre all'anima del povero innocente. Ricordare Omobono non si attentava; solo, in extremis ebbe il coraggio di susurrarne il nome nell'orecchio al prete.

— E soprattutto, egli disse, vi raccomando Omobono, anche prima di me.

Le quali parole fornirono argomento al prete, ogni volta in seguito gli veniva fatto favellare di lui, di uscir fuori con questa scappata:

— S'egli si fosse trovato alla passione di Gesù Cristo, poteva darsi il caso ch'egli ci presentasse la parte del buon ladrone.

*

E per rendere a tutti la dovuta giustizia, il curato non bruciò il pagliaccio a quelle anime poverine, imperciocchè se si mostrava scarso con esse a uffizi e a esposizioni, di messe ne spedì loro a bizzeffe, tutte asciutte e ben condizionate, uscite dalla sua fabbrica, e per maggiore precauzione celebrate tutte da lui.

Ancora eresse un monumento a Egeo, di marmo di Carrara, però ravaccione; e, come stato un dì professore di rettorica, di sua mano (doveva dir testa, ma io so ch'ella non ci ebbe che fare) gli compose l'epitaffio in latino: stette un pezzo fra due se ci avesse a incastrare l' integer vitæ, scelerisque purus di Orazio, ovvero l' insignis pietatis vir di Virgilio; alfine vinse Virgilio, ed Egeo di Gorgonzola resta raccomandato ai posteri per le medesime qualità che, secondo quello ci racconta Virgilio, ornarono Enea Troiano.

FINE DEL TERZO VOLUME.