F. D. GUERRAZZI
IL SECOLO CHE MUORE
VOLUME IV.
ROMA Casa Editrice Carlo Verdesi e C. Via del Mortaro, 17 — 1885
PROPRIETÀ LETTERARIA
Roma, Tipografia Nazionale.
INDICE DEL QUARTO VOLUME
Capitolo XX. Pag. 7
Capitolo XXI. 99
Capitolo XXII. 185
Capitolo XXIII. 243
Capitolo XXIV. 333
Capitolo XX.. . . . . . . . . . . . . . . .
Se uno era il martello, l'altro si poteva dire la incudine; quegli la corda, questi il sapone; il primo cincischiava, l'altro ragguagliava: anzi, a pensarci su, avrei giudicato il difensore della legge meno assai terribile del giudice, imperciocchè il procuratore regio co' capelli a Medusa, i gesti da Medea sul punto di trucidare i figliuoli, e la voce da Tisifone, che infellonita dalla diuturna repulsa ti entra in casa col conto del delitto in mano a chiederti il soldo in moneta di galera a vita, spaventa l'animo dei giurati, i quali temendo comparire al cospetto delle loro mogli trasformati in bestie feroci, fanno la gatta di Masino, le quale, come si sa, chiudeva gli occhi per non veder passare i topi; mentre il giudice con voce in bimolle e faccia da compieta ti riassume il dibattimento, così che parti udire il frate cercatore, il quale dopo il: sia laudato Gesù Cristo, levatosi il cappuccio, si raccomanda che tu gli metta il soldo nel bussolo: — non importa poi che il soldo del frate porti testa di rame, mentre quello del giudice fa testa di ossa e di carne.
Però Fabrizio, quel dì prima della udienza, si trattenne in fraterno colloquio col presidente delle Assise: del primo noti la sembianza e i sensi; del secondo no: parlando egli chiarirà l'animo suo; quanto a forme fisiche te lo schizzerò, come soglio, in quattro tratti: se invece di abbottonarsi calzoni, panciotto e giubba per davanti, ei se li fosse abbottonati per di dietro, tu non ti saresti accorto qual fosse il verso più nobile di cotesto uomo; bianca la faccia e oleosa come pomata di semi freddi, e da una tempia all'altra orlata di una frangia di capelli bianchi, più che ricciuti, intricati a mo' di bioccoli di lana non iscardassata; il naso stranamente largo gli scendeva giù pel viso e gli dava fisonomia di montone; simili in tutto alle sembianze che puoi osservare negli antichi bassirilievi messicani; epperò la bocca gli si apriva quasi sotto la gola: immaginati un miscuglio di agnellaccio e di pesce cane:
— Ma certo, io sono con voi, commendatore, su la necessità di dare un esempio da servire al paese; ma caro mio, diciamolo tra noi, come si fa? Questi benedetti borghesi non calpestano forte il delitto per timore di stiantarsi le scarpe; così il presidente; e il regio procuratore di rimando più dottamente:
— Costoro, allorchè hanno detto: i buoni costumi fanno le buone leggi, immaginano avere scoperto l'America: mi fanno proprio ridere; cotesto si trova scritto sopra i boccali di Montelupo; ma quando i buoni costumi hanno da venire di là da giudicare i vivi e i morti, sono le leggi, sono i giudicati e le pene che valgono a risanarli infermi, e li ripescano annegati.
— Voi dite unicamente, commendatore: e' non ci ha caso; proprio così.
— Ma con qual cuore piglieremo noi queste gatte a pelare, se mentre da un lato ci stacchiamo le spalle dal posto per ordire un braccio di buon costume, altri te ne disfà una pezza: nei nostri tempi le Danaidi non sarebbero state condannate mica a riempire la botte senza fondo, bensì a vendicare la pubblica morale.
— Massime poi quando gli esempi pessimi ci vengono da... bocca, chetati! da chi non ci dovrebbero venire, o che riparo ci possiamo mettere noi?
— Che volete che vi dica? E' pare che il teatro di questo mondo abbia ad essere corredato della reggia, della prigione, del tribunale, del tempio, e via discorrendo: e osserverò per giunta, che ai popoli non sembra sia fin qui venuta in uggia la vecchia commedia, perchè invece di fischiare re, preti, giudici e carcerieri, li pagano. Basta; per me sempre più mi confermo nelle mie massime; ho fede nella perfettibilità degli uomini, ma credo che fino alla consumazione dei secoli saranno stimate come meritano le buone serrature.
— Commendatore! Seneca potrebbe parlare come voi; ond'è che io, essendomi tolta buona e cara moglie, per sollievo della mia vita, me la tengo custodita sotto una campana di cristallo e non la mostro ad anima viva.
— Come! Voi avete preso moglie? Voi?
— Sicuro eh! O che credete?
— Io non credo niente; solo nei vostri piedi... alla vostra età...
— O quanti anni credete voi che io abbia? Io ne conto sessanta finiti.
— Per marito novello non mi paiono pochi.
— Massinissa di ottantasei anni generò Metimnato, lo racconta Plinio: voi, che siete sì dotto, lo dovreste sapere.
— Ebbe un figliuolo; non ci è contrasto; anzi la storia naturale ci dimostra come le mogli dotino di figli più volentieri vecchi mariti di settanta anni, che giovani di venti.
— Giusto, ve lo diceva anch'io.
— Però, perdonatemi, presidente, io devo dolermi con voi, per non avermi chiamato a parte della vostra contentezza; evidentemente voi non mi annoverate nella eletta dei vostri amici.
— Tutt'altro, caro commendatore, tutt'altro; non ve ne arrecate, ho praticato in un modo con tutti; e mi sono fatto a dire: o che ha premere altrui se ho preso moglie? Mandandoglielo a dire, o non è lo stesso che chiamarli a casa perchè te la vengano a vedere? Di qui visite, contro visite e visite poi; ognuna di queste getta una voglia nell'orecchio della moglie, e il seme delle voglie nel cervello delle donne si sviluppa più fecondo del seme delle pulci dentro le loro gonnelle, sicchè in capo a un mese (te la do lunga) la fanciulla pudibonda, che ti venne in casa da saperti appena pronunziare in tre pezzi un sì o un no, che ti ricusò una veste di alpacas come troppo costosa, avrà parole più di un leggìo, appena si chiamerà contenta ai velluti, alle trine, alle piume di uccello di paradiso. Io intendo che la mia moglie stia in casa, e non legga altri libri che il cuoco piemontese; la ignoranza costa nulla e fa buona comparsa, mentre la scienza spianta la famiglia. Rammentatevi di Eva, finchè si mantenne ignorante, passeggiava ignuda che non pareva fatto suo: appena ebbe gustato il frutto della scienza chiese un vestito.
— Scusate se troppo mi attento, la vostra signora è ella giovane?
— Sicuro! Diciotto anni appena: quando compri, compra giovane, m'insegnava mio padre; non vi ho detto che la presi per sollievo della mia vecchiezza? Se l'avessi tolta attempata avrei dovuto servire lei, mentre sta a lei servire me. Dal convento me la trassi in casa, di casa esce per andare alla messa, ogni quindici dì me la conduco a passeggiare in carrozza su la via del Camposanto, e sempre meco; visite proibite come le pistole corte; eccetto i parenti la sera per giocare a tombola: per ora ella si occupa di brigidini; più tardi attenderà ai figliuoli...
— Ai figliuoli più tardi? Adesso ai brigidini?
— Già! Voi me lo domandate in certa maniera che mi pare mi canzoniate. Gua'! ognuno si governa secondo il suo capriccio, nè io vi riprendo se voi praticate in modo diverso dal mio. Alla prova si scortica l'asino, ma io ho veduto tornare senza gambe e senza braccia più spesso quelli che vanno alla guerra, che quelli che stanno a casa.
— Non è vero, e veruno lo avrebbe a sapere meglio di voi: quante volte nella mollizie dell'ozio, cugini, cognati e talora congiunti più prossimi ti hanno viziato la moglie?
— Ah! è vero; massime cugini... ah! i cugini sono i coccodrilli del santo matrimonio.
— Nè basta; quante volte la donna, nella rilassatezza della quiete domestica, corrotta a grande agio, ingenuamente scellerata, propinò il veleno nel cordiale che ministrava a bere al marito infermo?
— Ah! la mia mi dà tutte le mattine che Dio mette in terra un bicchiere di acqua mescolata col siroppo di tamarindo del dottore Erba.
— E quante e quante la moglie ti ha soffocato a mezzanotte col capezzale, su cui avevi fino a quell'ora posato il tuo capo a canto al suo!
— Fin qui a vero dire non mi ha soffocato veruno, ma la è cosa da pensarci... e ci penserò.
*
La causa criminale che doveva in cotesta mattina agitarsi davanti la Corte di assise si versava in un caso di adulterio, singolarissimo se altri fu mai. Efisio, Gavino e Artemisia erano tre giovani dispari per pochi anni fra loro: di bellezza uguali: loro vide insieme il dì nascente, loro vide il tramonto folleggiare insieme pei fioriti sentieri della vita: a cui li vedeva parve vedere tre angioli, e tali erano davvero per bontà e per leggiadria: l'uno all'altro aveva insegnato a sillabare il verbo amo sopra il medesimo abbecedario. Venuti poi alla età nella quale l'amore si colora, come l'erba ch'esce dalla terra per virtù del sole, per tutti si tinse in una medesima grana; e quando l'albero di Amore da un punto all'altro ingrandì trionfale, accolse tutti e tre sotto le sue fronde, tutti e tre nudrì co' primaticci suoi frutti; insomma voi avete a figurarvi tre boccette piene dello stesso elixir di Amore. Quando Efisio era presente, Artemisia lo amava più di Gavino; all'opposto preferiva Gavino se Efisio si trovava lontano. Ma poi venne tempo in cui la natura d'accordo co' genitori d'Artemisia urgevano la fanciulla, ognuno a modo suo, s'intende, a eleggere fra' due il marito; ella, che semplicissima era, rispose che non si voleva stare a confondere, li avrebbe sposati tutti e due; ma la mamma le fece comprendere discretamente, come i legislatori, a istanza massime delle donne, avendo proibito la poligamia sotto severissime pene, non avevano potuto senza pericolo di contradizione permettere la poliandria. Artemisia allora stette irresoluta; non dava in tinche nè in ceci; se a sorte ella si fosse trovata in mezzo a due vagli di biada, piuttostochè a due giovani amati, ci era caso che si rinnovasse in lei il fatto dell'asino di Buridano, che non si sapendo decidere cascò morto di fame;[1] ma ella non si sentiva punto disposta da natura a lasciarsi morire d'inedia, anco a rischio di renunziare alla gloria di trovarsi un giorno assunta in cielo, con un giglio di purità in mano grosso quanto un cero pasquale. Ora la bilancia sta in bilico; un grano basterà a farla traboccare da un lato piuttostochè dall'altro: una mezza serqua di centinaia di migliaia di lire che Efisio si trovava a possedere, in grazia della liberalità di uno zio, pesarono, come dovevano pesare, più di un grano nella bilancia; Artemisia pertanto andava moglie ad Efisio.
Simile accidente non mutò in nulla gli affetti e nemmeno le usanze di vita di queste tre amabili creature, eccettochè a sera inoltrata bisognava pure che Gavino pigliasse commiato dai dolci amici; ma il mover lento tutti e tre verso l'uscio di casa, — ma il trattenersi lungo sopra la soglia, — ma il frequente accompagnarlo giù fino al portone di strada, facevano incerto il giudizio se rincrescesse più a lui andarsene, ovvero agli altri lasciarlo andare.
Artemisia e Gavino presumerono troppo delle proprie forze, o piuttosto non avvertirono nulla, sicchè un giorno si trovarono ad avere saltato il fosso, con bene altre scuse del Menebrea quando minacciò di volerlo saltare; perciocchè furono dei nostri amanti complici, o meglio provocatori, gli anni, la stagione, l'ora, la memoria dello antico affetto e la pietà del nuovo.
Procedendo poi, come succede, con meno discrezione che non avrieno dovuto, attesa la comodità grande del trovarsi insieme, accadde quello che doveva accadere...
Efisio comprese in un attimo la fortuna avergli apparecchiato davanti tre partiti, e non più: primo, correre difilato al Naviglio, e a capo in giù precipitarvi dentro, ma se ne rimase per parecchi moti e tutti lodevoli, tra i quali capitalissimi questi: che correndo un sido da cani, avrebbe trovato l'acqua troppo fredda, ed egli temeva i reumi; e che bisogna pensare almeno due volte alle cose che da una volta in su le non si possono fare; il secondo stava nel pensiero ch'egli doveva o con ferro, o con laccio, o con veleno precipitare innanzi tempo creature umane dentro il sepolcro; e per giunta chi? Artemisia! la luce degli occhi suoi; anzi, pure dell'anima. Gavino! Il primo volto sul quale egli posò gli occhi con coscienza di amore? Solamente a pensarvi non aveva pelo sul corpo senza stilla di sudore; consisteva il terzo nel tuffarsi nello studio di uno avvocato, e ci si tuffò.
Mentr'egli, quasi sempre fuori di sè, esponeva l'atroce caso, lo avvocato, tirando su fino al quarto cielo del suo cervello una presa di tabacco, mulinava fra sè: oggi è giorno di gala; uno scandalo, un guadagno, una occasione strepitosa a sbraciare la mia fama prossima a spegnersi sotto la cenere; egli è come se mi capitassero addosso tutti di un picchio Pasqua di resurrectio, giovedì grasso e ceppo di Natale: quod faustum sit. Però mi passo da dire come egli la ferita di Efisio medicasse con l'acqua forte e l'arsenico, e fasciasse con le spine: di lettere degli amanti infocate così che scottavano le dita ce n'era un subisso; d'indizi, amminnicoli precedenti, concomitanti e susseguenti, un flagello; e che s'indugia più? Mano ai ferri.
E dalla bottega dello avvocato Tami ecco uscire la più famosa querela di adulterio che sia stata mai vista da poi che mondo è mondo. Ora tra il volere e il non volere, il cruccio dell'offeso di non vedersi comparire davanti a misericordia gli offensori e la peritanza di questi ad andarci, tra il supremo fastidio di Efisio, che lo persuadeva a tornare indietro, e lo struggimento dello avvocato, affinchè precipitasse avanti, siamo alla porta co' sassi; eccoci al giorno del dibattimento.
Metto pegno che se Efisio avesse convitato i suoi concittadini ad un banchetto per porli a parte di qualche sua contentezza non ne avrebbe annoverati tanti, nè sì scoppiettanti di allegria, come adesso erano venuti spontanei a far falò della sua miseria; le donne soprammodo dell'altissima e della bassissima vita; le due plebi si toccano.
Ecco qua, è ammannita ogni cosa; qui giudici del fatto e giudici del diritto; da un lato il gladiatore reziario della offesa, dall'opposto il gladiatore scutato per la difesa; entrambi avvocati, che si mostrano i denti: promettono morsi da cani; tanto meglio, con la mostra di cotesta ferocia verrà temperato il sangue troppo indolcito alle signore per la pratica indefessa delle opere di carità corporale e spirituale. Gl'istrioni hanno indossato le vesti, secondo la parte che ognuno sostiene; i giudici copersero il capo col berrettone, che rammenta lo spegnitoio del senso comune; un collaboratore del Gazzettino Rosa, al quale il direttore del Diavolo domandava la differenza che corre tra i berrettoni e le pentole qual sia, ha risposto: questa; nelle pentole le rape bollono per di sopra, nei berrettoni dei giudici bollono per di sotto. Le comparse stanno pronte; aspettano tutti con impazienza, e dubito forte che se il Cristo, il quale pende sul capo al presidente, non tenesse inchiodate le mani, le schioccherebbe anch'egli, onde precipitare gl'indugi. Attenti! I sonaglioli hanno dato il segno dietro le scene... si alza il sipario...
Il presidente comincia dal movere le consuete domande ad Artemisia...
— Ti piace? Non ti piace? — Rassomiglia un gatto d'Angora spaventato. — No, una picciona. — Nè anche, una rapa monda. — Chetatevi, linguacce, non vedete che la è rossa come una ciliegia. — Ecco, la è una bella fetta di grazia di Dio. — Magnifico pezzo di carne. — Ma che cosa trovi di bello in lei, che gonfi i bargigli come un tacchino? domanda dispettosa la droghiera al marito; e questi brevemente risponde: Quello che non ho mai trovato in te.
— Silenzio! salta su a strillare un usciere, che alle vesti e agli atti ti dimostra che le cavallette sono penetrate anche nel campo della Giustizia.
Il presidente non aveva potuto cavare una parola di bocca ad Artemisia, la quale piangeva, piangeva, piangeva.
Davvero nè più bella nella sua decadenza, nè più vereconda nella colpa deve essere stata di lei Eva quando comparve al cospetto di Dio; per confessare la verità, io non mi ci trovavo, ma me lo immagino. Il presidente allora si voltò a Gavino, giovane di forma nobilissima e d'ingegno non meno, e nè pur questi potendo reggere al groppo degli affetti che gli mossero assalto, seppe rispondere con altro che col pianto.
La è finita. Lo scrittore ha scambiato il tribunale in un mulino e i giudici in macine, che per virtù di pianto devono macinare la giustizia. Di diluvi universali ce ne fu uno nel mondo, e n'ebbe a bastanza. Povere fantasie! E poi come si fa a far piangere un uomo?
O signori, faccio loro assapere come io non immagini nulla. Dante Alighieri fu levato a cielo meritamente perchè indusse Paolo a tacere e a piangere. mentre Francesca raccontava la prima radice del suo affetto al poeta; parve ed è un tratto di gentilezza sublime; e badate, che Dante proprio quel pianto immaginava col suo cervello, perchè gli è certo che ei non si trovò nello inferno a udire Francesca come io non mi trovai nel paradiso terrestre a vedere Eva; e se io narrai che Gavino pianse, egli è perchè il dabben giovane sparse lacrime amare e non per sè; bensì per l'amata donna, la quale in grazia sua adesso si trovava travolta in cotesto obbrobrio, e per lo amico, che avrebbe difeso a prezzo della propria vita, e pure aveva ferito nel cuore... Vicende umane!
Il presidente, timoroso che il tribunale diventasse un lago, si decise interrogare Efisio; Efisio era il marito; di forme alquanto meno leggiadro degli accusati, e questo non gli poteva giovare, ma più che tutto gli nocque essere poeta. Poeta, marito, tribunale e società moderna la è roba che messa insieme disgrada il sacco romano dei parricidi. Egli non pianse, però la voce gli tremolava flebile, a mo' del ventipiovolo annunziatore di pioggia imminente; e il bello fu che, invece di rispondere al presidente, egli s'indirizzò alla moglie con gesti e sembianti ispirati, favellandole queste amorose parole:
— Dimmi, ti aggirai io con inganni? Ti feci forza pur col pensiero, affinchè tu mi preferissi all'amico diletto? Tu venisti a me con passo armonioso come una voce. Amore fu che ti condusse al mio seno, battendo le ale dove si riflettevano i gaudi senza fine molteplici dei cuori innamorati. Amore, dopo averci condotti al talamo, spense, agitando più forte l'ale, le tede che ardevano dintorno, poi le distese sopra e ci coperse a guisa di padiglione, e se di tratto in tratto le scosse, ei lo fece per piovere sopra i nostri spiriti sogni felici, nella maniera stessa che le farfalle testè prese piovono una forfora di oro sopra le dita di cui le tiene prigioniere...
— Scusi, signor querelante, ma quanto ella ha detto non fa al caso...
— Non fa al caso? Signor presidente, che diavolo dice? Al contrario, gli è proprio il casissimo... ella mi ha rotto...
— Io non rompo nulla.
— E lo lasci sfogare, esclamarono taluni dal banco dei giurati.
— E lo lasci sfogare, ripeterono molte voci in platea, massime femminili.
E il presidente chiotto chiotto si aggomitolò come un istrione fischiato.
— Ed ora dove sono rimasto? esclamò Efisio stropicciandosi a più riprese la fronte...
— Alle farfalle, gli ripeterono tre voci o sei dalla platea.
— Silenzio! torna a strillare l'usciere.
— Io non avrei mutato, proseguiva il poeta, il mio talamo pel trono di Dio; noi ci ricingemmo, Artemisia ed io, con le nostre braccia stretti come dentro un cerchio incantato dove non poteva entrare l'affanno, donde non poteva uscirne la felicità.
— Capisci, zuccone, che cosa significa volersi bene? Questa volta a dire così non fu la droghiera, ma Agata, la seconda moglie di Ambrogio, mercante all'ingrosso di formaggi lodigiani, la quale per imprimerglielo bene nella memoria gli pestò il piede destro, dove aveva un lupinello al dito mignolo. Il povero Ambrogio vide le stelle a mezzogiorno, e non potè trattenersi tanto che non gli uscisse di bocca un: per Dio! che rintronò tutta la sala con grande scandalo dell'uditorio.
— Si cerchi chi ha bestemmiato e gli si faccia sgombrare la sala.
I giandarmi non trovarono o non vollero trovare il signor Ambrogio; dalla sala non uscì alcuno, ed Efisio continuò:
— Come l'ape immersa nelle foglie della rosa non si accorge della tempesta che si forma sopra il suo capo, così io, tuffato dentro la voluttà, non sentiva i passi dello infortunio che si avvicinava; viveva sicuro che l'Amore lemme lemme mi avrebbe scavato la fossa con la più soave delle sue frecce — ahi! quanto è lieve ingannar chi si assicura — di un tratto io me la sento piantata nel cuore. Artemisia! Artemisia! In che t'increbbi? Non mai nocchiero speculò sì arguto l'orizzonte per accertarsi sicuri gli auspicii della navigazione, com'io contemplai la tua fronte, onde sperderne la nuvola più leggera che la tenesse adombrata; ed io sovente ti riprendeva per trovarti sospirosa e sola; ond'io me ne andava in cerca di Gavino, perchè la tua malinconia sollevasse, e riempita la coppa della esultanza domestica, noi la libavamo in tre; bella ogni musica, ma sopra le altre accetti i trio, come quelli che noi cantavamo in tre, pigliando maraviglioso diletto nel mescolare le nostri voci insieme; in tre rincorrevamo le farfalle sul prato; odoravamo in tre la cardenia colta su le aiole, in tre (bene inteso coperti dei debiti indumenti, vulgo mutande ) rinfrescavamo negli estivi ardori le nostre membra nel ruscello: e quando mi chiamavano altrove le cure dei campi, Gavino, in che mani affidava Artemisia, se non nelle tue?
Qui fu udito un bisbiglio confuso di voci, le quali avendo potuto distinguere avrieno sonato così: — Matto da catena, tu ti sei andato a cercare col fuscellino il male come i medici: se questo non è aguzzarsi il cavicchio sul ginocchio, che altro sia non saprei: va', ti stanno meglio che le tre corone al papa: vorrebbe il resto, ed ha a rifare un tanto: mandatelo a rimpedulare il cervello. — Efisio stava in procinto di farsi una sconcia stincatura, se per fortuna non gli capitava di vedere la sua donna che, in atto dolce di pietà e di amore, volgeva al cielo le mani giunte implorando un po' di refrigerio a tanto strazio. Accadde che anche Gavino in quel medesimo punto sogguardasse Artemisia, e tanto ne rimase percosso, che di subito cessato il pianto, con voce tra acerba e angosciosa così trafisse Efisio:
— Ahi! sciagurato! Come ti regge il cuore affliggere così divina creatura? Dovevi piuttosto ammazzarla, e me con essa.
A Efisio presero a tremolare le palpebre; gli parve gli mancasse il pavimento sotto le gambe; la parola gli rimase attaccata alla gola, tese singhiozzando le braccia verso gli oggetti della sua tenerezza, e subito dopo cadde come fulminato sopra la sedia.
Fabrizio, pauroso che dalla maglia rotta gli scappasse il pesce, si affretta a sorgere in piedi, e chiesta ed ottenuta facoltà di dire, così prese a parlare:
— Fra i nequissimi, pessimo il delitto di adulterio; quindi i romani, di cui le leggi furono meritamente salutate la ragione scritta, lo punirono con pene troppo più severe dell'omicidio e del furto; invero il ladro ti ruba cosa che tu puoi recuperare, puoi rifare, alla peggio te ne puoi astenere, ma l'adultero ti strappa il cuore della moglie, la reputazione di casa, la sicurezza della famiglia, e tutto questo perduto non puoi riacquistare, o farne a meno. È il derubato argomento di compassione, uomini pubblici e privati si affrettano a sovvenirlo ed a consolarlo; all'opposto il coniuge tradito deridono tutti, e se qualche pietoso vorrebbe pure confortarlo, non sapendo come trovare il bandolo della matassa lo lascia su l'arcolaio. Il tradito teme del pari la pietà e il disprezzo; qualunque aura, sia pure di primavera, gl'inciprignisce la piaga; in ogni discorso sospetta una punta per lui; gli pare che tutti lo ammicchino; le allusioni remotissime gli cacciano il ribrezzo addosso: odia la religione mosaica, perchè ad ogni piè sospinto ci si parla di corni; cornu salutis, cornu fortitudinis tuæ; nè meglio gli talenta la cattolica, che ha il cornu epistolæ; da per tutto per lui larga messe di beffe; nelle orchestre trova il corno; nei fiumi il corno; negli eserciti corna; le are dei Numi non ti offrono asilo per queste, perchè anche gli altari hanno le corna. In terra la Natura, in troppe cose scarsa, fu liberale di corna agli animali; e chi non li ha se li procura. I francesi tutti, ma in antico; nei medi tempi, i guerrieri più cospicui. A Mosè le donò Dio come insegna di divinità; a Giove Ammone i sacerdoti le tributarono, e a Bacco; leva gli occhi e mira su in alto assunto fra le stelle il corno di Archeloo, donde pare che versi su la testa dei mortali copia infinita di benedizioni; e la luna dove la lasci? Non ti consola dal cielo con le sue amabili corna? Nello stesso alvo materno l'utero ti abbraccia con le sue corna. Giù nello inferno, ornamento ed arme, mostrano i diavoli le corna; da qualsivoglia lato tu ti volga, non può fare a meno che tu non inciampi in corni.
Rispetto a omicidio, la è chiara che questo non ti lascia senso alcuno dei mali, mentre l'adulterio ti arde col fuoco dell'inferno che brucia e non consuma. Mi gode l'animo affermare che anche ai tempi dei romani come ai tempi nostri, qui tra noi, le pene più acerbe vennero emanate da re e da imperatori. Romolo punì lo adulterio con la morte; in odio all'esecrato misfatto, Augusto Cesare pubblicò la legge Giulia, che condannava i colpevoli alla emenda, allo esilio in isola deserta, alle verghe e fino alla castrazione!...
Moto di orrore su tutti i banchi.
Il Tebro inorridì, il Pado e il Reno,
Agata strinse il caro Ambrogio al seno.
Fabrizio non lo bada e non lo cura, e prosegue imperterrito:
— I figli nati dall'adulterio insanabilmente bastardi: incapaci di succedere ai padri: appena diritto agli alimenti. Disposizione squisitamente civile conservata nel nostro codice. Di fatti, havvi un animale domestico, il quale rimpiatta la sua lordura sotto la cenere, e l'uomo vorrà essere meno del gatto per drappellare la colpa come una bandiera vinta al palio? Nè a Roma solo, ma per tutto il mondo, re, quantunque barbari, palesarono salutevole severità; Sesostri informi, re d'Egitto, che ordinò gli adulteri si seppellissero vivi; Diacmo re di Scizia, la propria figlia, colta in adulterio, fece seppellire viva; Temas dei tenedi, pure risparmiando al suo figliuolo tanto atroce supplizio, non lo volle meno morto. Insomma, i re imitarono in questa come in moltissime altre cose il modello di Dio, il quale da ogni suo perdono volle sempre esclusi gli adulteri; anco sant'Agostino lo dice. I popoli stessi, quantunque lontani da rappresentare l'immagine di Dio, e seguire i suoi santi precetti, pure non mancarono di provvedere alla esterminazione dell'abominevole delitto; tacerò dei parti, non parlerò degli arabi, nè dei messicani, nè di altri popoli, così del vecchio come del nuovo mondo, mi giovi rammentare soltanto i battas, tribù nell'isola di Giava, i quali condannano il peccatore ad essere mangiato cotto o crudo, a scelta del marito. L'offeso convita al pranzo espiatorio parenti e amici; legasi il colpevole a un palo; gl'invitati si accostano, ed ognuno di loro, secondo il grado di dignità, si taglia il tocco che gli gusta meglio; primo di tutti, già s'intende, il marito, il quale si piglia come più appetitosa la parte dell'adultero dietro l'orecchio, e un'altra che non importa dire.
La nostra storia racconta come, a questo punto della orazione di Fabrizio, dei gentiluomini quivi raccolti, un terzo temè sentirsi staccare gli orecchi, due terzi avvantaggiati guardarono i vicini per vedere dove avrebbero dovuto mettere i denti, caso mai il costume dei battas si avesse a trapiantare fra noi.
In questa, ecco due dei soliti uscieri cavallette saltare uno presso il presidente, l'altro presso il procuratore regio, e ad ognuno di questi consegnare un plico: nella sopraccarta di entrambi si leggeva scritto a caratteri da speziale: preme; però ambedue lo aprirono di botto. Fabrizio, appena ebbe scorso il suo, balenò della persona, chiuse gli occhi, di livido si fece cenerino, e per poco non diede di un picchio sopra la terra; pure con isforzo mirabile di animo e di corpo si tenne, ripiegò tutto tremante il foglio e se lo ripose nel seno.
Il presidente lesse il foglio come sorbiva il caffè bollente, a centellini; letto che l'ebbe lo rivoltò sottosopra considerandolo in ogni sua parte, e siccome gli occhiali per la precipite china del suo muso montonato gli erano scesi fino alla punta del naso, levò in alto la lettera tenendola aperta con ambe le mani; in su pure rivolse il muso e gli occhi, poi si piegò a levante e la rilesse, finita la lettura, voltò persona, muso e ogni altra cosa a ponente e lesse da capo; e poichè parve che nè anche questo punto cardinale avesse virtù di capacitarlo, ripose tutto a mezzogiorno e lesse per la quarta volta... Ci voleva tanto a capirla! Allora chinò il capo sul petto in sembianza di fiat voluntas tua. La udienza rimase sospesa.
Dopo un'ora tornava Fabrizio a ripigliare l'accusa, ma eheu! quantum mutatus ab illo, non mica ch'ei rimettesse uno scrupolo della sua asperità; all'opposto, la crebbe, ma la voce gli negava il consueto ufficio, si sentiva spossato, sicchè inerti gli pendevano giù le braccia; andò avanti a modo di orologio a cui si sia rotta la catena. Dopo avere esposto come nella sola Francia, secondo le statistiche dell'anno passato, l'adulterio avesse prodotto sette avvelenamenti, cinque assassinii, due incendi, cento divorzi, quattordici ammazzamenti di mogli e di amanti da mariti oltraggiati, disse constare del delitto: non impugnarlo gli accusati colla voce, confessarlo col rossore e col pianto. Lodevole certo il pentimento, ma di questo, tardo venga od issofatto, non si appaga la società offesa; di una cosa sola dolersi, ed era trovare la legge troppo mite in simili casi; tuttavia punite, signori giudici; certo la pena dal nostro codice sancita contro l'adulterio non preverrà la rinnovazione di questo delitto; pure il mondo sappia che per voi non andrà invendicato; punite, e poichè nel caso nostro il codice non può essere una scure, sia una verga di ferro. Tanto da voi chiedono morale religiosa e morale civile, e tanto vi persuade la salute delle vostre famiglie e di voi; ricordate i loro doveri alle mogli, insegnateli alle figlie col terrore; pertanto l'ufficio della regia procura fa reverente istanza affinchè i prevenuti siano condannati ai termini dell'articolo 486 del codice penale.
L'avvocato di Efisio, quando toccò a lui, parve uno dei barberi, che saltato di sopra il canapo voglia vincere il palio di riffa, senonchè il cliente, agguantandolo con ambe le mani per la toga, gli comandò fieramente aggrondato:
— Stia zitto! o lo strozzo.
— In saldo del conto? Ma, caro bene, nel suo interesse, ella comprende, che qualche cosa ho pure da esporre...
— No, niente.
Allora l'avvocato, non potendo contrastare alla volontà di Efisio, così ricisamente manifestata, si levò con voce di zanzara e disse:
— Il querelante se ne rimette alla saviezza del tribunale.
Ora vuolsi sapere come i prevenuti, stando ostinati a non volere farsi difendere, il tribunale si trovasse costretto ad assegnar loro l'avvocato; elesse un rompicollo, e certo scapestrato egli era per eccellenza, ma vispo, immaginoso, e per giunta di cuore ottimo: come tutta questa roba in un avvocato? Cari miei, anche i gatti giovani paiono gentili.
Pertanto egli cominciò con uno esordio, che parve fratello di quelli co' quali il celebre Vaccà preludiava alle amputazioni delle gambe della povera gente: — Signori, egli diceva, sebbene intorno all'esito della mia operazione io non nutra dubbio veruno, pure, quando la è andata bene, voi vedete che questo povero diavolo rimarrà sempre con un membro di meno; in fatti il giovane avvocato tale dava principio alla sua arringa:
— Dubiterei della giustizia, dubiterei dell'onesto e del decoro, dubiterei del cuore e del cervello vostro, illustrissimi giudici, insomma io dovrei dubitare di troppe cose, se adesso la minima incertezza mi turbasse circa l'assoluzione dei miei clienti; ma ahimè! questa è una di quelle cause dove anche vincendo si perde; dacchè accusatori e accusati dove troveranno più i mutui affetti ond'erano sì lieti? Dove le gioie domestiche? Dove la pace dell'anima? Spento il fuoco, non troviamo altro che cenere. La stima scambievole è un cristallo preso al bersaglio. Amore trovò nel suo nido i serpenti come Ercole, ma come Ercole non li seppe strozzare. La fama, il delicato ermellino che preferisce la morte a patire la sua pelle maculata, tu l'hai affogata sotto un monte di obbrobrio. Chi fu il mal cristiano che ti mise la torcia in mano perchè tu incendiassi la tua casa? Chi ti armò del coltello col quale sgozzasti la tua felicità? Quali furie t'invasero? In che ti parvero rei questi cari capi? In che cosa peccarono? Quali le prove? Io rabbrividisco considerando come nella mancanza assoluta di ogni amminnicolo si mettano in campo come argomento di delitto il pudore, la verecondia, le lacrime degli accusati. Dunque pel difensore della legge la meraviglia di sentirci iniquamente apposta una colpa sarà prova di colpa? Prova di colpa il dolore che invade l'anima nostra vedendoci feriti da mano caramente diletta? Lo sbigottimento di comparire in pubblico con sembianza di reo, l'amarezza infinita che allora s'insinua in tutte le fibre del nostro essere, pel regio procuratore costituiscono indizi di reato; e se tali egli ha i segni della colpa, o m'insegni, di grazia, quali saranno per lui i segni della innocenza? Se pallore e tremore attestano mala coscienza, dove vi salverete, o giudici; dove mi salverò io; dove voi, signor difensore della legge? Sì, voi? Perchè qui, testè, alla presenza mia, di tutti, orribilmente vi tramutaste in viso e tremaste per tutta la persona. Veniamo a mezza spada: Signore, di che cosa incolpate voi queste persone dabbene? Del trovarsi spesso insieme? Chiedetene ragione all'accusatore Efisio, il quale si faceva a cercare premuroso il nostro Gavino, della prolungata assenza lo rampognava; a casa volente o repugnante lo conduceva. Di amarsi l'un l'altro? Oh! la novità cotesta per lo accusatore Efisio! Non aveva partecipato egli, promosso e approvato cotesta divina trinità di amore? Se l'amore è delitto pel pubblico ministero, e se egli si sente immune da tanto misfatto, me ne rincresce per lui, perchè s'ei solo non si troverà impiccato, ed anche solo ei si troverà nel mondo. Di essersi scritte lettere piene di dolci desiri? Qual maraviglia! Si amavano, e dovevano trattenersi dal ripetersi in prosa e in rima ciò che mille volte si dicevano al cospetto del marito? — Ricordatevi come per queste anime elette un tempo Amore fu una strada maestra dove esse camminarono di conserva spensierate e liete; di un tratto ecco pararsi davanti a loro un bivio; il tronco a destra menava al matrimonio; il sinistro alla disperazione. Efisio ed Artemisia infilarono a destra, e ce li seguitò l'Amore, finchè incontrato l'Imeneo, gli raccomandò i giovani ad averne buona cura, e costituitolo procuratore in rem propriam corse dietro a consolare il povero Gavino. In quattro salti lo avrebbe raggiunto Amore, se non si fosse trattenuto per via a scaricare la faretra delle frecce e a spegnere la fiaccola dentro al ruscello; pure lo agguantò, si mise a sedere con lui sopra l'erba, e prese nelle sue le mani di lui, gli disse:
— Non mi ravvisi? Io sono sempre Amore, quantunque abbia spento la fiaccola e buttato via le quadrella. Io mi trasformo; ma sono Amore in sembianza di padre, di fratello o di figlio; — quanto a marito non è pensiero mio, tocca a Imeneo...
Ed egli parlava di Dio, imperciocchè se taluno vi sostiene la esistenza di più Amori, non gli date retta; amore è tutto un etere; la differenza non istà nella sostanza affatto, bensì nel diverso grado del calorico. Ed ecco per qual guisa Gavino di amante si trasformò in fratello di Artemisia, ed Efisio se ne compiacque: — me ne sarei compiaciuto anche io.
Le lettere accennano forse ad occulti ritrovi, od alludono a fatti che la pudicizia non può udire senza recarsi le mani su gli occhi? No davvero; amore tramandano sì, ma come i fiori il profumo e i rosignoli il canto. Io avrei tenuto coteste lettere preziosissime come semenzai di buoni esempi da approfittarmene alla occasione, e il procuratore regio ci trovò delitti: gusto depravato! Io ci avrei adattato le strofe di una canzone di amore, egli ci vorrebbe adattare gli articoli del codice penale: voglie fradice! Ecco che cosa vuol dire essere procuratori regi. A me basti affermare, senza tema di venire smentito, che coteste lettere nulla in sè contengono che dia appiglio alla turpe accusa. Ma che vide? Che cosa mai vide lo accusatore Efisio? Lo dica una volta: ma no... non dica nulla, egli lo ha già detto. Vide abbracciari e baciari; niente più, niente meno. Io innanzi tratto potrei opporre allo accusatore Efisio: tu sei testimone unico, epperò testimone nullo, etiamsi papa aut imperator fuisses; tuttavia io non voglio fargli torto: sta bene, abbracciaronsi e baciaronsi; ma o non li vedeva tutti i giorni adoperare così? Non sono cose ovvie, anzi desiderabili tra fratello e sorella? Se mi opporrete che tra baci e baci ci corra, e che altro è baciarsi alla presenza del marito, ed altro quando viaggia su le ferrovie romane, risponderò che toccava allora al signor Efisio accompagnare la sua concessione col regolamento, come i nostri cari piemontesi costumano; il regolamento avrebbe distinto il giorno dalla notte, la compagnia dall'assenza; anzi, ora che ci penso, avrebbe fatto meglio a mettere l'argomento in musica, indicando piano, pianissimo, andante, allegro, crescendo, e tocca via. Quanto poi a buona morale e alle altre tutte sperpetue di cui il pubblico ministero, tra i fulmini ed i tuoni della sua eloquenza, ha minacciato la società, io vo' ch'ei sappia che amore alto, veemente e sincero non nocque mai all'umano consorzio; ben gli nocque l'amore ipocrita; l'amore sensale che va in traccia di un sacco con una donna, l'amore ragioniere che tiene un libro in mano invece di arco, e la penna dietro gli orecchi invece del turcasso dopo le spalle, l'amor notaro; questi e non altri gli amori tarli che han roso le fibre intime della moderna società. Alla Maddalena fu molto perdonato perchè aveva amato molto; e santa Teresa ci ha fatto sapere essere il diavolo immensamente infelice, perchè non poteva amare... ha ella capito, signor regio procuratore? E Gesù crocifisso per virtù di amore non istaccò le braccia di croce, onde stringersi al seno la dilettissima santa Caterina da Siena? E se non reggeva il chiodo di fondo a tenerlo fitto pei piedi, chi sa fin dove si sarebbero spinte le cose. Dunque, l'egregio magistrato difensor della legge guerreggi i furti, stermini le frodi, ammazzi gli omicidi, ma lasci in pace l'amore.
La Dio mercè i miei clienti sono tali che non hanno mestieri scuse; e bandisco con fronte sicura che la bella onestà non si scompagnava mai da loro: pure, siccome gli uomini gravi hanno da cogliere ogni occasione per difendere la causa della pubblica morale, piacemi rammemorare un fatto che a molti, forse anche al pubblico ministero, basterebbe il cuore infamare per colpa, se amore, gratitudine e religione non lo avessero consacrato virtù. Favete auribus, porgetemi tutti gli orecchi. Correndo la metà del secolo decimoterzo, sotto il pontificato di Gregorio IX, il conte di Gleichen, combattendo per la fede in Palestina, cadde prigione e fu ridotto in ischiavitù. Ora avvenne che, mentre egli stava lavorando nei giardini del Sultano, la figlia di questo gli ponesse gli occhi addosso, e consideratone il decoro della forma e la severa venustà del sembiante, forte si accendesse di lui. Siccome in cotesti paesi volere (almeno in cose di amore) è potere davvero, ella per segreto messaggio lo fece avvisare ne avrebbe procurato la fuga, semprechè seco se la menasse e la togliesse per moglie; ma il gentiluomo, di coscienza netta, le mandò per risposta: più che volentieri, ma non poterlo fare, trovandosi già moglie: la quale cosa udendo la saracina, disse: ciò non tenga, chè il cuore di un uomo a più mogli può bastare. Contenti loro, contenti tutti! Saliti in nave, dopo prospera navigazione giunsero a Venezia; donde il conte, per quietare certi suoi scrupoli, mosse a Roma, e quivi presentatosi al papa gli narrò a parte a parte l'amorosa storia. Gregorio commosso lo assolvè, e poi gli spedì la dispensa di tenersi le due donne col santo timore di Dio, a patto che la saracina si convertisse alla fede cristiana. Ora, aggiunge la storia, tale e tanta fu la contentezza della contessa di ricuperare il marito, che qualsivoglia condizione le parve accettabile; nè mai rifiniva di accarezzare la sua benefattrice. La saracina non ebbe figli, e se ne consolò amando di amore materno quelli della rivale. Al castello di Gleichen mostrano anche adesso, a cui lo vuole vedere, il letto dove queste care creature dormivano insieme: ebbero sepolcro comune nella chiesa dei Benedettini a Petersbourg; e il conte superstite alle due donne compose il seguente epitaffio, che ci fece incidere sopra:
«Qui giacciono due donne che amaronsi fra loro come sorelle e me come fratello. Una abbandonò Maometto per seguitare il suo sposo, e l'altra si strinse al seno la rivale che glielo riconduceva. Uniti co' vincoli dello amore e del matrimonio, avemmo un solo letto nuziale in vita, come abbiamo in morte un sepolcro solo.»
Successe un'accompagnatura di singhiozzi; taluni giurati, paurosi di perdere il decoro, finsero soffiarsi il naso per celare le lacrime: anche le donne si sentivano commosse, ma non lo diedero a divedere, parendo loro non senza pericolo cotesto esempio; massime adesso, che non essendo più il caso che i mariti andassero a combattere contro i credenti in Maometto in Palestina, ci cascava come il cavolo a merenda; e questo osservava con molta sagacità la signora Agata, la quale aggiungeva, che se la quistione della poliandria poteva fino ad un certo punto sostenersi come non anche esausta, quella poi della poligamia, per giudizio dei savi universale, doveva considerarsi attentato contro tutte le leggi divine, umane e cattoliche.
Il nostro bizzarro avvocato capì esser giunto il momento di battere sul ferro caldo, sicchè con voce malinconica e non pertanto abbrivata esclamò:
— Tanto mi piacque dire per dimostrarvi come non sieno sempre delitto le azioni in sembianza delittuose, nè sempre virtù le opere apparentemente virtuose: la mia difesa non ha mestieri ipotesi, nè scuse, nè commozioni, nè affetti; giustizia intera invoco; un millimetro meno io la disdegno. — Efisio!...
Efisio diede un salto come un puledro a cui scaricano una pistolettata rasente agli orecchi per avvezzarlo al rumore.
— Efisio! Io non ti sono amico, quantunque io chiuda nel petto un giovane cuore e mi senta poeta quanto tu; io non ti sono amico, ma va'... io ti compiango. Io vorrei potere condurti adesso al camposanto...
— Oh! Sentiamo anche questa!
— Io vorrei poter costringere i morti ad obbedire ai miei comandamenti, per dir loro: — Sorgete e rispondete: amereste voi tornare in vita a patto, aprendo le braccia ad un amico della vostra infanzia, questi vi rispondesse urlando: indietro, le tue braccia stritolano peggio delle mascelle del coccodrillo? Ovvero desioso di deporre un bacio su i labbri della donna del tuo amore, questa fuggisse via strillando: i tuoi baci uccidono più presto della peste bubbonica? Quanti mi state ad ascoltare, dite, vi garberebbe tornare alle vostre case per dimorarci soli più che nel sepolcro? Alle vostre ville per udirvi solo l'eco delle vostre pedate, come se la solitudine pigliasse cotesta voce per ischernirvi? Chi vorrebbe vivere unicamente per sentirsi morti? Non speranza di figli. Non conforto di cui teco partecipi i dolori e le gioie. Veruno ti bagnerà le labbra riarse dall'agonia, veruno ti chiuderà le palpebre, o ti dirà il vale estremo. Per me gioco la testa contro un cocomero, che i morti con la gargana del deputato Massari[2] risponderanno ad una voce: — Lasciateci in statu quo, intendiamo e vogliamo rimanere morti. — Eppure questa è la vita che ti sei fatto, o Efisio. Se ti fossi conciato come Origene propter regna cœlorum, io lo sopporterei con pazienza, ma ridurti, come hai fatto, la vita in vetri rotti per camminarci su scalzo la via dell'inferno, questa io la giudico tale una rabbia contro di sè, che ogni altro tormento mi comparisce un ninnolo...
Qui chinò il capo sul petto e ce lo tenne alquanto; poi, rialzatolo, a un tratto esclamò:
— Eppure a tanta ruina tu potresti riparare con una sola parola. Dopo il Creatore a te solo è concesso con una parola ricondurre la luce dove hai chiamato le tenebre, ripopolare di stelle il firmamento per tua colpa abbuiato; una parola... una sola parola, e il lago tornerà a riflettere gli azzurri sereni del cielo. Che ti arresta? Dubiti forse del tuo perdono? Io mi ti offro mallevadore che la tua Artemisia, che il tuo Gavino ti perdoneranno; ti perdoneranno, perchè è bello per l'uomo pronunziare almeno una parola della lingua di Dio, e questa parola è perdono... Va', Efisio, tu sei perdonato a patto che tu ti possa perdonare.
— Poffare Dio! esclamò Ambrogio, gli avrebbe a rifare anche il resto?
— Ma sicuro, riprese Agata, l'ha fatta penar tanto quella poverina.
Vuolsi credere che se Fabrizio, ovvero il presidente, avessero avvertito le capestrerie dell'avvocato, non l'avrieno sì lungamente lasciato ruzzare fuor di briglia; ben per lui che, pari a due boa ingronchiti dal freddo, costoro non davano segno di vita.
Diverso da essi Efisio, scappa su a modo di un diavolo di saltaleone senza che il suo avvocato fosse a tempo di reggerlo, e volto al banco degli accusati con parole tronche esclamò:
— Maledetto il giorno in cui apersi il cuore alla gelosia. Maledetta l'ora che dubitai di voi. Maledetto l'uomo, che invece di raumiliarmi, mi aizzò: annullo la mia querela; confesso che fu proprio il diavolo (e senza badarci accennava all'avvocato) che mi trasse dinanzi a voi, illustrissimi signori: questo valgami di scusa, e perdonatemi...
Chi lo chiamò matto, chi savio.
Al signor Ambrogio, che brontolò caninamente: con me la non sarebbe andata a finire così, Agata gattescamente rispose: — Smetti da fare il Nerone; ad altri grugni, che non sei tu, le donne hanno fatto la barba e il contropelo. Altri altre cose; ma il popolo, il quale lì per lì rimane tocco dal lato generoso delle azioni umane, senza troppo squattrinarla pel sottile proruppe in bravo, pestò i piedi, sbatacchiò una contro l'altra le mani fino a schiantarsele.
Il presidente, a tenore del paragrafo secondo dell'art. 487 del codice penale, ebbe a dichiarare prosciolta l'accusa contro i due incolpati; pareva mordesse le parole per dimezzarle; ma tanto e' furono capite e con suo infinito rovello applaudite.
Efisio si accostò di scancio, a mo' che camminano i granchi, alla moglie e all'amico, e stese loro ambo le mani; questi gli si avventarono al collo e si abbracciarono in tre, non ignudi, ma vestiti, eppure belli a vedersi come le Grazie di Canova, quantunque di bellezza diversa.
E Fabrizio e il presidente come rimasero eglino? Fabrizio come il re Erode delle marionette; sempre strabuzzati gli occhi, irti i capelli, il pugnale brandito per ammazzare, ma tutto questo insieme con lui attaccato a un chiodo; quanto al presidente, ti sarebbe sembrato il cugino del montone involuto per le corna ai cespugli del monte Mora, in aspettativa di essere sagrificato in vece di Isacco sopra l'altare del Signore.
A cui non preme sapere la fine dei giovani amanti, salti pure venti righi o trenta, che senza essi:
può star la storia e non sarà men bella; chi poi sentisse diversa voglia dia retta, che mi spiccio in due remate. — Gravino, senza farne motto ad anima viva, di subito scomparve; si arrolò soldato, combattè le patrie battaglie sempre eroicamente e sempre sventuratamente, colpa non sua, bensì di coloro che dal cravattone e dalla insolenza in fuori null'altro ebbero di soldato; per ultimo una palla di cannone gli portò via ambedue le gambe: dopo aver sofferto inenarrabili angoscie e tentennato un pezzo fra la vita e la morte, parve volerla scampare. Artemisia ed Efisio, appena lo poterono fare senza pericolo, da Brescia lo trasportarono a casa, donde non s'è più mosso: dire che Artemisia ed Efisio quivi gli prodigarono cure di madre e di padre sarebbe poco. Gavino è diventato un culto per loro; non lo lasciano mai solo; le più sere i coniugi gli tengono compagnia intorno al letto; il dottor Taberni, quando va a visitarlo, butta da parte il suo concio ligure e il suo concio parlamentare, e vi si trattiene fino al tardi: in capo alla settimana qualche altro amico non manca; Gavino ha trovato modo di moversi e fa da scritturale ad Efisio; lo tiene bene informato e lo dirige in tutti i suoi negozi, sia agricoli, sia commerciali. Da due mesi Artemisia, non lo dà per sicuro, ma crede di essere incinta; di qui un dire inesausto, un mulinare a perdita di vista sopra argomento sì caro: intanto hanno messo in sodo che, figlio o figlia stia per uscire fuori, Artemisia l'allatterà; e spoppata la creatura le sarà balia Gavino, che la tirerà su secondo il tempo istruendola in tutto quello ch'ei sa, compresa la trigonometria, Gavino è sempre lieto di quella gioia parata che tiene l'anima in perpetua primavera; e' pare che siasi dimenticato di avere posseduto un giorno un paio di gambe, o finge: fatto sta che a cui sta per movergli parole di consolazione gli tronca le parole di bocca: credetemelo, io ho trovato la felicità giusto in quel punto che voi reputaste essersi da me perduta per sempre.
Il presidente mogio mogio tornossene a casa; appena ebbe messo il piede nel portone chiamò:
— Candida? — Alla qual voce rispose una maniera di grugnito dallo interno di un casotto immondo e fetido, che era ad un punto sala, camera e cucina, e di tratto in tratto anche inevitabile bottega di ciabattino, marito della Candida. Sul davanti del casotto si apriva una finestra munita un giorno di vetri, oggi di foglio unto e di ragnateli. Ora, siccome dal grugnito in fuori non usciva altro dal casotto, il presidente, facendo del cuore rocca, c'introdusse il capo e vide. Che vide mai? Candida, che stesa a pancia all'aria su di una cassa si faceva guanciale del capo del suo marito, aggomitolato sotto alle spalle di lei; ed ecco come sta la cosa. Questa coppia elettissima di sposi, vincolata co' più stretti nodi del comune amore per l'acquavite, sovente si trovava briaca nel medesimo tempo da non poterne più; sicchè invece di badare per altrui, aveva dicatti di badare a sè stessa. Gl'inquilini, dopo averla minacciata più volte di licenziarla, l'ammonirono che cotesta volta erano buone mosse, e se avesse mancato poteva baciare il chiavistello: allora si stringe in conferenza per provvedere al caso, e deliberò darsi la muta con questa ragione, che il marito si ubriacherebbe il giorno e la moglie rimarrebbe sana, la notte all'opposto; fare insomma uno accordo contrario a quello di Febo con Febea, dove questa prese a splendere la notte e quegli il giorno. Ora, siccome il presidente tornò a casa nelle ore in cui il marito aveva diritto di starsene briaco e la moglie il dovere di mantenersi ad occhi aperti, accadde ch'egli trovasse la Candida supina sopra la cassa, riposata sul marito convertito in guanciale.
— Candida, ripetè il presidente; ed ella senza moversi:
— Lustrissimo! In che posso servirla? Comandi, in che posso obbedirle? Per lei mi metterò in quattro ed occorrendo in sei. E non si moveva.
— Zitta! non isvegliate il marito.
— Per questo poi! Non si sveglierebbe nè anco se gli angioli del giudizio si allentassero a sonare le trombe.
— Candida, prosegue il presidente, voi sapete che state sotto la mia speciale protezione.
— Fin qui non me n'era accorta, risponde sbadigliando ed allungando le braccia la donna.
— Come non ve ne siete accorta? O le tre lire al mese non ve le do io? O le cinque lire di mancia per Pasqua di ceppo ve le dà il re di Prussia?
— Allegri, ci è da scialare. Oltre queste quarantuna lira l'anno, è più facile che mi caschi sul capo un tegolo dal tetto, che in tasca un soldo da casa.
— Be'! be'! Quello non fu fatto si farà: intanto a voi questo cavurrino.
— Due franchi! Tigna! mormorò la Candida; ed egli:
— Candida, voi avete a dirmi... ma innanzi ditemi se date mente a quelli che entrano ed escono di casa, perchè dal luogo dove ve ne state a pancia all'aria dubito forte che voi li possiate vedere.
— Lustrissimo! ella s'inganna, perchè se vorrà entrare qua dentro e mettersi sulla cassa a pancia all'aria come me, e come me col capo ritto appoggiato al mio marito, riscontrerà da sè che si può ottimamente vedere tutti quelli che entrano e che escono.
— Lo dite voi, e basta; dunque via, ditemi quali le persone che mi vengono a trovare in casa quando io sono fuori. — O questo non entra negli obblighi del perfetto portinaio.
— Fatecelo entrare...
— Lustrissimo, il portinaio ha da spazzare le scale, accendere il lampione, avvertire che veruno porti via nulla, andare per la balia quando pigliano i dolori del parto a qualche signora del casamento, o per lo speziale se venisse la colica a vostra signoria illustrissima; questo e non altro è il vero compito del portinaio.
— Dunque voi non badate a chi entra nè a chi esce, nè vi curate sapere dove va, nè perchè va?
— Chiedo scusa, lustrissimo, anzi ci badiamo e ci arronziamo per sapere dalla Mecca alla Storia.
— E tutto ciò per vostra erudizione, senza volerlo dire a persona?
— Chiedo scusa, lustrissimo, lo ridiciamo bene e meglio.
— E a chi lo riferite voi?
— Lustrissimo, al lustrissimo signor questore.
— Al questore! esclama il presidente dando di un passo in dietro; ma voi qui dunque fate la spia?
— Come sarebbe a dire? Spia! Noi siamo martiri oscuri che ci sagrifichiamo all'ordine pubblico. Spia! Noi custodi pagati con moneta di disprezzo della sicurezza pubblica; quando voi dormite, noi vigiliamo per voi; noi siamo gatti battezzati per servizio della società; noi meritiamo meglio di lei, ed è chiaro, perchè, mi fa la finezza di sapermi dire qual differenza passa fra noi e voi altri? Per me non ci vedo che questa, che noi pigliamo gli uccelli e i magistrati li pelano e gli arrostiscono. Il nostro premio in questo modo è piccolo, ma Dio ci ricompenserà nell'altro a misura di carbone... almeno questo è quanto ci assicura il lustrissimo signor questore, quando si schermisce dal crescermi la mesata. Dunque la non mi confonda, lustrissimo, e non mi distorni da dare a Cesare quello ch'è di Cesare e a Dio quello ch'è di Dio, vale a dire: a lei ciò che spetta come inquilino, a lire quarantuna l'anno, al questore quanto gli spetta per la sua mesata.
Dopo queste parole, la donna candida torna a sdraiarsi sul guanciale marito e nega rispondere ad altro. Il presidente si caccia su per le scale arrovellato, pensando alla temerità della polizia, che si attenta ficcare il naso fino in casa di un presidente della Corte di assise. Si sa, il vasaio porta invidia al vasaio.
Il presidente sonò piano; lo squillo del campanello parve una gocciola; ma Bibbiana, destra, aperse subito l'uscio con la catena traverso, donde il padrone le fece cenno, mettendo l'indice diritto sul naso, di stare zitta. Entrato in casa, con voce e garbo di congiurato le mormorò negli orecchi: — Seguimi, senza che veruno ti scorga, nello stanzino dei panni sudici.
— Domine! O non potrebbe scegliere meglio; ha ella posto mente alle pulci?
— Ho pensato a tutto. Entra.
— Eccomi entrata.
— Chiudi l'uscio.
— Eccolo chiuso.
— Bibbiana, tu hai da sapere che il pane che tu mangi è mio.
— Lo so.
— Ti piace rimanere al mio servizio?
— Si signore.
— Or bene, sai che tu devi fedeltà al tuo padrone?
— Si signore.
— A ciò pensa che ti obbligano tutte le leggi umane e divine che si versano sopra la servitù.
— Si signore, ma faccia presto, che ho lo stracotto al fuoco, e se mi trattiene troppo si attacca al tegame e piglia il bruciato.
— Assumo tutto sotto la mia responsabilità.
— Si, ma intanto lo stracotto piglia il bruciato.
— Dimmi, Bibbiana, in nome del tuo Dio, quando sono fuori vengono gente in casa?
— Sicuro che ce ne viene.
— Ce ne viene? E molte?
— Piuttosto di parecchie; e certo più di quelle che ne vorrei io, perchè mi tocca andare su e giù dalla cucina all'uscio come le secchie al pozzo.
— E chi sono? con chi parlano?
— Con la signora, perchè la si figuri se cercano me!
— E la signora dove le riceve?
— In sala, in salotto...
— E nella camera da letto?
— Qualche volta anche nella camera da letto.
— E chi sono? Chi sono? urlò il presidente fuori di se, pestando i piedi.
E Bibbiana accivettata, senza punto scomporsi, rispondeva:
— Oh ecco, il fornaio, il vinaio, il macellaio, il canovaio, il pastaio, il calzolaio...
— Altri?
— Il cappelaio, il sarto...
— Altri?
— Il vetturino...
— Altri? Altri?
— SI, tutti gli altri che hanno credito con lei, che sono stanchi di aspettare, che minacciano citarla al tribunale; e dicono di vostra signoria roba da chiodi, ed anche strapazzano la signora; la quale, poverina! ci patisce e non fa altro che piangere, e sovente l'ho udita fra i sospiri lamentare: — Quanto era meglio che io mi mantenessi ragazza, innanzi di avere a soffrire tante mortificazioni!
— E non ci viene altri? Proprio altri?
— O santa Vergine, e chi altri ci avrebbe a venire?
— Lo puoi giurare?
— Lo posso giurare e lo giuro su questa croce benedetta — e messi gli indici della mano traverso l'uno all'altro, li compose a croce e quella baciò con molta compunzione; ma di un tratto, come se l'avesse morsa la vipera, strillò: — Ora che ci penso su, la mi dica, signor padrone, a che proposito ella mi ha fatto tante domande? Che forse dubiterebbe della onestà della sua signora? Già, questo è ciò che guadagniamo noi altre donne pigliando mariti vecchi; avvilite, tenute in prigione e per di più sospettate... Ma la sua signora la è roba sua, ed ella la può insudiciare come le garba; rispetto alla mia reputazione è un altro paio di maniche...
— Bibbiana! diamogli un taglio.
— Ah! vostra signoria mi ha preso per una pollastriera? Anche questo toccava sentirsi dire alla figliuola di mia madre...
— Bibbiana! buttiamo carte al monte...
— A me? cui il conte Mercato confidava le figliuole, ond'io gliele menassi a confessione e a messa...
— Bibbiana! chetati.
— A me? in carne ed ossa, alla quale il marchese Piazza, dando in custodia la signora marchesa sua moglie, disse: — Bibbiana, io ho più fede in te che in un battaglione di bersaglieri. A me?...
— Finiscila, Bibbiana!
— Che eletta dama di compagnia alla baronessa Scala, vagheggiata dal duca Cordonata, dopo averne fatte più di Paris a Vienna per andarle a fagiuolo, si ebbe a metter giù dalla impresa esclamando: è tempo perso, finchè la difende quella maledetta colubrina di Bibbiana la fortezza non si piglia...
— Ho capito... ho capito... ho capito.
— E se ha capito mi risarcirà del danno fatto al mio onore, perchè, prima Dio, sono donna onorata...
— Che cosa è questo diavolio? E chi è che tarocca qui dentro? si udì ad un tratto per di fuori tra dolce e severa; — verdemezza.
— Gesù mio! la padrona!
— Nina mia, non ti rimescolare; voleva farti una burla... una sorpresa... Bibbiana mi ha guasto l'uova nel paniere...
E in questo fu aperto l'uscio: pur troppo era stata profetessa Bibbiana, imperciocchè le miriadi di pulci nate, cresciute ed educate là dentro, non potendo emigrare come i poveri irlandesi per le lontane contrade di America, stavano pensose dei loro destini, quando la Provvidenza n'ebbe pietà, e mise in capo al presidente di andare a chiudersi insieme a Bibbiana nello stanzino dei panni sudici. Vi lascio considerare il terribile assalto, e se le pulci sopra coteste due vittime espiatorie vendicassero in un minuto ben mille offese; padrone e serva comparvero al cospetto della presidentessa a littera neri.
— Salva! salva! gridò questa scappando via; ed i rimasti l'uno l'altro guardando, e vedutisi conci a quel modo, proruppero in tale scoppio di risa da schiantare i travicelli del palco.
Lo stracotto andò bruciato, la minestra prese di fumo, ogni cosa in malora. Bibbiana, liberata che fu dalla invasione dei demoni, andò per ordine del presidente a provvedere alla osteria Nazionale un pranzo troppo migliore del suo, e il presidente, riscattato anch'egli, mercè le pietose cure della moglie, e manibus inimicorum suorum, scese in cantina a prendere due bottiglie di nebbiolo; e tutti insieme, in festa e in giolito, fecero un pranzo, in paragone del quale quello delle nozze non gli poteva legare le scarpe; perchè, per più allegria, vollero a tavola con loro Bibbiana, a cui la bizza della sua reputazione come uno starnuto l'aveva presa, e come uno starnuto se ne andò via.
Bibbiana beveva quanto due padrone, e il presidente quanto tre Bibbiane, pure con due bottiglie di nebbiolo e due litri di Monferrato ognuno dei nostri personaggi aveva a bordo la sua salutifera portata; ed ecco, quando meno ci si pensava, saltare in testa a Nina la fantasia di voler sapere la cagione della clausura del suo marito con Bibbiana nello stanzino dei panni sudici: di parole se ne fecero un monte, da taluna delle quali fingendosi impermalita Bibbiana, si volse al presidente con la procacia che partecipa il vino e così gli disse:
— Tanto più poi importa che la signora rimanga informata, quanto che il trovarci chiusi dentro lo stanzino le dia plausibile motivo a formarsi un sinistro giudizio intorno alla mia onestà; e la reputazione, signor presidente, capisce, preme più della vita... per noi altre serve, se ci toglie la reputazione, che cosa ci resta?
— La reputazione, masticò fra i denti il presidente, e volto alla consorte le favellò:
— Nina, tu sai che di calunnie al mondo non fu mai penuria; vedi, anche alla beata Vergine, che fu quel giglio di castità che tutte le generazioni conoscono, toccò a sopportarne delle bigie e delle nere; ma oro non piglia macchia. Ecco, non so quale ribaldo, mentre io presiedeva l'udienza, mi fece consegnare una lettera...
— Lettera! Dov'è questa lettera? Dammela subito...
— Essendo anonima, non mi pare le si dovrebbe fare l'onore di pigliarne contezza.
— Su, dammela, la voglio...
— Dategliela...
E a questo modo strillando, Nina stava a destra e Bibbiana a sinistra del presidente con le mani uncinate rasente agli occhi, da mettere lo spago in corpo a bene altro uomo animoso che il presidente non era.
— Tranquillità, ordine; abbasso le mani... con la moderazione si viene a capo di tutto: ecco la lettera, e trattasela di tasca la porse alla sposa.
Il decoro della mia storia mi toglie la facoltà di riportare tale quale il tenore di cotesta lettera; basti saperne il sugo. Nina, ella accusava, spasima pel cugino Gabriele, e Gabriele delira per Nina; ogni volta che il presidente sta inchiodato alla udienza, Gabriele va ad annunziare alla Nina a quanti dì viene san Biagio, la quale piega il capo e dichiara: fiat voluntas tua; ed ora, ora che in tribunale si tratta una causa di adulterio, Nina e Gabriele ammanniscono altra materia, affinchè i giudici non si perdano in iscioperi. Bibbiana, more solito, regge il venti.
Il presidente, sbirciando come la Nina, mano a mano che tirava innanzi con la lettura, si faceva in viso di tutti i colori dell'arcobaleno e all'ultimo minacciava cascare in sincope, si affrettò a sostenerla susurrando:
— Cuor mio, non ti affannare, raglio di asino non arrivò mai al cielo; io ti accerto che non ci ho mica creduto... ohibò! Ti giuro... ti giuro sul... che non un momento ho dubitato di te, luce dell'anima, madre, figliuola, gatta, perla di questa povera anima mia...
— Goffredo (poichè, e lo doveva avvertire prima, il presidente si chiamasse come il pio Buglione), voi mentite, ci avete creduto benissimo — e dubitato di me.
— No, in coscienza... ecco... tu mi mortifichi, Nina...
— E vi siete avvilito... orrore! fino a chiudervi nello stanzino dei panni sudici per tirare su le calze a Bibbiana...
— Brava! Per lo appunto così; la signora ha mangiato la foglia per aria.
— Ebbene, si, ho dubitato, facendo croce delle braccia al petto, belava pietosamente il buon Goffredo, ma anche a san Pietro Gesù Cristo ebbe a rinfacciare: homo paucae fidei, quare dubitasti? e tuttavia lo perdonò; e tu, Nina, non vorrai perdonare al tuo Goffredo? Tutta la colpa è di Amore, che volle generare la gelosia.
La donna, ristatasi alquanto sopra di sè, favellò in questa sentenza:
— Pur troppo bisogna perdonare, perchè se mi taglio il naso m'insanguino la bocca: ormai tocca a noi altre donne fare da uomini: dunque acconsento mettere una pietra sopra la cosa, ma ad un patto.
— Bene; ti do carta bianca, che tu sia benedetta... mi sottoscrivo a tutto — e intanto che con la bocca diceva così, tremava in cuore pel sospetto del cugino Gabriele; onde immaginate voi s'egli ebbe a cascare a pancia all'aria quando sentì la Nina a dire:
— Il patto è questo, che voi andiate subito... stasera, a trovare il cugino Gabriele e gli dichiariate senza tanti amminnicoli, che nè solo, nè in compagnia si attenti mai più capitarmi in casa.
— Quanto a solo, scusi veh! signora, mi sembra una grulleria, perchè o quando mai il signor Gabriele si è attentato visitarla solo? Ci avrei dovuto essere anch'io.
Come vedete, Bibbiana, per raccattare le maglie, valeva un Perù.
— Quello che non ha fatto potrebbe fare, rincalza Nina con maravigliosa disinvoltura; sicchè lascia andare l'ambasciata com'io l'ho detta, che le precauzioni non sono mai troppe: tanto devo al decoro di questa casa, all'onore del marito, e soprattuto alla mia dignità.
— Ma Nina mia, osserva il presidente raggiante come la luna piena quando sorge dai colli della Brianza, così, su due piedi... ma come si fa a dare lo sfratto a Gabriele, che in fin dei conti gli è meglio del pane, che si piglia a morsi e non grida nè manco: ohi! Festoso.... servizievole, eccetera; tu lo conosci a prova; sarebbe peggio il rimedio del male; figurati le supposizioni... non so se capisci? Pensa alle lingue delle tue nemiche, o no... pensa piuttosto a quelle delle tue amiche. E vedi, Gabriele stesso, a ragionare, se ne avrebbe a male e rovesciarsi e mettere il campo a rumore. Abbi pazienza, Nina mia, ma in questo non ti posso servire. Quanto a raccomandargli che non venga a visitarti solo, lo approvo e ci sto; perchè anco il giureconsulto Bartolo, che fu quasimente un santo padre della nostra scienza, soleva avvertire sua moglie: sola cum solo non præsumitur dixisse: Ave Maria præterquam clericus fuisset; sed a præsumptione ista cave, Bartolina mea, ma in compagnia, poi, mi sembra ch'ei si potrebbe ammettere.
— O ammetterlo per tutto, o per nulla; io non intendo ragioni; recisamente, assolutamente voglio che in questa casa non metta più piede... e voi glielo dovete andare a dire subito.
— Eh! precipizio ... o non sarebbe meglio pensarci fino a domani? La notte porta consiglio.
— Non posso, non voglio e non devo; caro mio, su la reputazione non si transige.
— Ecco, entrò di mezzo Bibbiana, se i padroni lo permettessero, io vorrei dire la mia.
— Di' su, Bibbiana.
— Ecco, nei piedi loro io mi governerei così: messo in sodo che avvertire il signor Gabriele a non presentarsi in casa solo sarebbe grulleria, perchè non ci è venuto mai, e la proibizione potrebbe fargliene nascere la voglia, prima lo metterei a parte della cosa, che mi sembra giovane prudente e da fidarcisi, e poi lo pregherei a non frequentare di giorno casa nostra, ne anche in compagnia di parenti; quanto alla sera continuasse a favorirci secondo il solito, due volte la settimana, per accomodare la partita al signor presidente.
— No signora; nè di notte, nè di giorno, nè solo, nè accompagnato.
— Ma via, signora, non s'incocci sul feroce; parrà che con quel suo cugino ella ce l'abbia a morte: la si lasci persuadere, pensi alla partita de' tre sette del padrone... ed abbia viscere di carità.
— Tu sei una tigre ircana... dunque per lo interesse della tua reputazione tu mi ammazzeresti la partita dei tre sette come Medea trucidò i suoi figliuoli...
E così bisticciaronsi un pezzo, finchè a mediazione della Bibbiana fu stipulato un trattato, in virtù del quale rimase stabilito: 1º il cugino Gabriele non verrebbe a visitare di giorno la signora, nè solo, nè accompagnato; 2º gli si concedeva l'ingresso nella casa del presidente soltanto la notte, in compagnia dei congiunti, e ciò per l'unico fine di accomodare la partita dei tre sette al padrone, ed occorrendo la calabresella, ed anche la briscola.
Asmodeo, ridendo, appose il suo sigillo a cotesto convegno, facendolo registrare debitamente al protocollo degli atti maritali, che si conservano nello archivio di casa del diavolo. Il presidente, contento come una pasqua, si fregava le mani dicendo:
— Tutto è bene quello che finisce a bene: la va sempre a un modo; quanto più appaiono le matasse arruffate e meglio si ravviano: del passato io sono chiaro, dello avvenire sicuro; da ora innanzi, da qual parte mi entrerà il sospetto in corpo? Io per me non ce lo vedo.
Il povero uomo credè avere provveduto ai casi suoi meglio di colui il quale, pauroso che il diavolo gli entrasse in corpo, dentro gli orecchi si cacciò cotone intriso nell'olio santo, tra i denti prese un crocifisso, per ultimo, tiratesi giù le brache, si mise a sedere a mo' di semicupio in un catino di acqua benedetta, esclamando in atto di sfida:
— E adesso staremo a vedere da che parte mi entrerà in corpo il maligno?
Il povero uomo aveva dimenticato i buchi del naso. Nina, Gabriele e Bibbiana, quante volte si trovavano insieme, non rifinivano ridere alle spalle del presidente Goffredo.
*
— Com'è andata? L'hanno assoluta?
— No.
— L'hanno condannata?
— No.
— O dunque?
— Il marito l'ha perdonata.
— Oh! vigliacco; in premio del suo perdono, io, sua moglie, gli avrei sputato in faccia.
— Tu?
— Io.
— Eppure egli è si dolce cosa perdono; hanno perfino affermato a udienza sul testimonio di un vescovo svedese essere il perdono la parola unica rimasta sopra la terra dello idioma che Dio prima favellò all'uomo.
— E tu, Fabrizio, che avresti fatto? Avresti perdonato?
— Qui non ci entra perdono; se tu ci pensi un poco, ti persuaderai che non ha luogo perdono: difatti, la proprietà è un furto, non già soltanto rispetto alla terra, bensì anco rispetto ai frutti che produce; e che sieno cresciuti co' miei sudori non rileva, e che bastino a me solo nè anco importa, mentre o che questo si può dire circa la donna? La mia moglie che è? Una sorgente di acqua, a cui ne ha voglia venga e beva; un arbore dai rami fronzuti, chi abbisogna di ombra venga e meriggi.
— E la famiglia, e i figliuoli?
— Sono inconvenienti: ma gli ostacoli che può incontrare il diritto nel suo esercizio non alterano la bontà della sua essenza: altrimenti ti troverai condotta ad affermare bene quanto ti riesca fare, e male quanto non potrai eseguire. Tocca a cui spetta rimovere gl'inconvenienti: — per me, strido con un coltello fra i denti, vo' la tua moglie e il tuo campo... hai capito?
— E tu pensi così Fabrizio?
— Io?... Che importa di me? Così la pensano i filosofi della giornata, e così praticano i principi... cioè i principali della nostra società... andiamo a tavola.
Se avesse potuto scoperchiarsi la volta del cranio di cotesti due viventi, chi sa qual lanterna magica di passioni truci e barocche si sarebbe palesata agli occhi degli spettatori; ma siccome i crani umani non sono scatole, così bisogna tirare a indovinare quello che ci bolle dentro; di tratto in tratto qualche baleno somministrava terribili indizi: chè il pensiero come gli occhi di Fabrizio lasciati dalla volontà in loro balìa sbalestravano a destra e a sinistra; senza badare a quello che facesse, egli mise sale nel vino, si provò a mangiare la minestra di puntine con la forchetta; richiamato a sè, recasi un pollo nel piatto, e tagliatogli il collo sta a contemplarlo con riso diabolico. Alla Bianca, che gli mesce acqua nel vino, comanda acerbo:
— Più rosso... cioè voleva dire più scuro.
La donna accorta pensava fra sè: il tempo volge alla burrasca, mettiamoci alla cappa.
Fabrizio, buttato giù l'ultimo boccone, esce di casa e si fa a trovare il capo dei confidenti,[3] a cui con lunghe e minuziose istruzioni conferisce lo incarico di codiare sua moglie, di cui dubitava; anzi, della infedeltà della quale era più che sicuro. Quanto all'adultero, Fabrizio si astenne da qualunque commissione per timore che il confidente se ne sarebbe tirato indietro; ci andava di mezzo il pane, e a questa prova Fabrizio sapeva come uomo che tira paga dal governo, prefetto o spia, non resista. L'ufficiale pertanto rispose si lasciasse servire; saprebbe ben egli trovare il nodo nel giunco.
Bianca, avendo preso fumo di ciò che il suo marito mulinava, avvertiva subito il conte: qualche cosa agitarsi per l'aria; stesse su lo avvisato; dubitare assai dover fare quaresima prima di carnevale. Il conte, dentro i cui precordi la passione amorosa spiccava in cotesto punto il bollore, lo inopinato disturbo giunse fuori di modo ostico, e per sincerarsi del fatto non menochè per apporci rimedio, chiamato subito il capo dei confidenti del ministero dello interno, gli comandava che giorno e notte spiasse e facesse spiare Fabrizio, e di tutto quanto avesse potuto raccogliere lo ragguagliasse partitamente.
Così, per opera e virtù di due precipui magistrati, la gente che il popolo paga per vigilare sopra la sicurezza pubblica, era preposta a tutelare obbrobri, o ad accertare vendette. I confidenti, in onta alla buona volontà, per più giorni si trovarono a gettare il giacchio su la siepe; e la ragione è chiara, che le spie di Fabrizio erano intese a spiare la Bianca, decisa a non moversi di casa, finchè non fosse diradato il tempo; mentre quelle del conte esploravano Fabrizio chiuso nel suo ufficio, a mo' del ragnatelo che aspetta ad agguantare la mosca rannicchiato in fondo al buco.
Ed è chiara altresì la ragione onde il conte prese lo indugio in fastidio più presto di Fabrizio, imperciocchè il fine di questo fosse la vendetta generata dall'odio, il quale tiene della natura del rettile che par morto e dorme, quando invece l'Amore ha sempre la gola secca, e porge assiduo il bicchiere perchè glielo empiano di voluttà: quindi, appena gli parve tempo, mandò a dire alla donna andasse senza sospetto alla posta consueta, perchè nuvoli per aria o non ce n'erano mai stati, o si erano dispersi; e a lei che tardava più che a lui, consapevole
Che se in femmina poco l'amor dura,
Se l'occhio il tatto spesso noi raccende,
gli uomini non mondano nespole, fu premurosa tenere l'invito.
La spia, tosto l'ebbe sbirciata uscir di casa, disse: — Ci sei! — la pedinò, notò la strada e la casa dov'era entrata, e soggiunse con indicibile contentezza: — È cascata sul vergone! Adesso a noi! — Difilato più del ramarro che nei giorni canicolari da un cespuglio trapassa a un altro cespuglio, va all'uffizio del regio procuratore, come uno spettro gli penetra nella camera, e a voce sommessa gli bisbiglia nell'orecchio:
— Vostra signoria illustrissima è rimasta servita — aggiungendo inoltre tutto quanto l'altro bramava sapere.
Fabrizio si abbottona fino l'ultimo bottone del soprabito, si rincalca il cappello in capo, si tasta nelle tasche, e poi va di corsa dove il diavolo lo porta. Salisce due scale a tre scalini per volta, alla terza stava per ischiantarglisi il cuore: si mette a sedere su gli scalini per ripigliare un po' di lena; riavutosi continua l'ascensione con meno furia e maggior rabbia: arriva alfine davanti la maledetta porta e suona.
La conduceva in affitto una povera donna vedova di un vecchio impiegato, a cui il conte aveva fatto assegnare una pensione asmatica, piuttostochè a vivere, sufficiente a non morire di fame; e costui la scelse appunto per la buona reputazione che godeva, imponendole, pena il suo sdegno se rifiutava, ospitare i criminosi amori. Ella cauta aperse l'uscio dopo averlo assicurato con la catena traversa, ma poco le valse, imperciocchè Fabrizio per l'apertura introduce la canna della rivoltella e digrignando minaccia:
— Apri ... sono il marito di colei ch'è qui dentro. La misera donna rimase di sasso; non le riuscì dire parola o muovere membro; ma Fabrizio ferocemente insistendo:
— Apri o sei morta — ella trasse la catena dallo incastro e l'altro entrò. Appena entrato si guarda intorno per apprendere dove i colpevoli si fossero ridotti, e non ebbe a cercare molto, attesa l'angustia della casa, che da tre in su non aveva altre stanze. Di un calcio spalanca l'uscio, che stiantato dagli arpioni sbatacchia strepitoso sul pavimento. Fabrizio si affaccia dentro e vede...
Non vede nulla, però che le imposte delle finestre fossero chiuse e le cortine calate, ed anche perchè a Fabrizio paresse tenere gli occhi fissi sopra le fiamme di un forno quando lo scaldano: però un fruscio di robe e di persone gli ronzò negli orecchi ed un barlume di capi cozzanti tra loro, non già come i montoni fanno, gli parve che gli passasse dinanzi agli occhi, onde alla cieca sparò uno dietro l'altro tre colpi di rivoltella sul mucchio ...
Due gridi dolorosi si fecero sentire: son morta! ahimè! muoio!
Allora la rivoltella cascò di mano a Fabrizio, che preso da raccapriccio e da orrore si diede, brancolando, a cercare la porta di casa; rasenta, nel passare, la padrona, rimasta immobile per la paura, senza neppure accorgersene, e più che scendere sdrucciola le scale roteando sopra sè stesso.
Aveva perduto il cappello; dava del capo dentro le cantonate, investiva i passeggeri, che gli dicevano improperi, e taluno fu a un pelo di dargliene un carpiccio delle buone. Lo salvarono le spie messegli dietro dal conte, le quali, presolo in mezzo, e preservandolo dagl'insulti, lo ricondussero incolume al tribunale.
Qui, chiuso nella sua stanza, Fabrizio, appoggiati i gomiti sul banco e agguantatasi la fronte con ambe le mani, mulinava:
— Vendetta! Bel pro che me ne viene, affè di Dio! Ho fatto come Sansone, ho crollato il tempio per seppellirmi sotto le sue rovine. Ho messo fuori del balcone di casa la bandiera della mia infamia, come il dì della festa dello statuto la bandiera tricolore: gua', m'ero curvato per raddrizzarmi più forte, e mi trovo schiantato al pedale. Che fo? Che penso? Aspetterai esser tirato col gancio al collo alle gemonie delle assise? Quanta gente a godersi lo spettacolo dello accusatore accusato, a udire condannato chi soleva far condannare; il popolo non si leva tutti i giorni questi gusti! — E chi verrà ad assalirmi? Chi? Il mio sostituto, e con la piena dell'animo, che sfoga la lunga umiliazione dei rabbuffi da me sofferti d'inettezza e d'infingardaggine, non mica perchè ei li avesse meritati, bensì per far credere agli altri ed anco a lui, se mi riusciva, che io era troppo più cosa di lui. Io l'ho pasciuto da aspide, che maraviglia s'egli sputerà veleno? Ho creato un debito di odio, l'infortunio ne ha segnato la scadenza, ed ora i creditori vogliono riscoterlo con gl'interessi della vendetta, che non conosce usura. Ma di punto in bianco promoveranno il mio sostituto nella mia carica? E perchè no? Non accadde lo stesso di me? E tra me e lui che ci corre? La lunghezza di una corda da forca. Noi altri furieri del patibolo siamo tutti uguali; orologi a polvere, pari nel contenuto; la mano che ci capovolge è la ragione unica per la quale uno di noi sta di sotto e l'altro sta di sopra... O il tribunale! Il tribunale! — Codardo! — Adesso ti fa paura, perchè, invece di accusatore, ti ci hai da presentare come accusato... Coraggio, poltrone! Si tratta di tanto poco! Invece di sedere a destra, ti assetterai a sinistra; invece di adagiarti sul seggiolone avrai la panca... Che serve? Gli articoli del codice penale, adesso che stanno per mordermi, mi paiono denti di pesce cane. Fuggirò... ma dove? Tu hai spento un luminare d'Italia, anzi del mondo... che monta il tuo onore? Sfregandolo al muro non se ne accende un sigaro, mentre lui celebravano nuvola infocata per condurre la gente italica alla terra promessa della libertà... menzogna! Egli fu un nugolo di fumo e di legna verdi; che importa? Tale era creduto, e fede vince realtà. Tanto basta, perchè dove metti i piedi le pietre ti si spacchino sotto per lapidarti, — e il popolo si attacchi o naso od orecchio, un brano insomma del tuo corpo al cappello, a mo' che i villani costumano l'olivo benedetto pel dì di Pasqua. Ma via, ti riesce fuggire e ti ripari in America, erede universale di tutti i furfanti degli Stati monarchici... sei salvo? Lì sì che ti daranno addosso; la nazione che porta in dono la testa di un odiato all'altra nazione riceve in ricompensa una diminuzione di spese di tonnellaggio su i bastimenti, o qualche altra agevolezza nei trattati di commercio. Al diavolo le malinconie! Io mi salverò, ma poi come si campa? Io, da mandare la gente alla forca in fuori, non so fare altro; ma se mettessi su cattedra per bandire: dame e cavalieri, venite a imparare la maniera di mandare la gente alla forca, i miei buoni amici repubblicani dell'altro mondo mi riderebbero in faccia dicendomi: lo insegneremo a te e con maniere sbucchiate da qualunque ipocrisia, e però spiccie, schiette e sopra tutto a buon prezzo... i repubblicani in America tirano furiosamente ai dollari... in Europa no... qui tirano allo scudo. In America non re, non boia, non giudici; vale a dire tutti giudici, tutti re, tutti carnefici: due metri di corda, un ramo di albero o un braccio di lampione, e un uomo da strangolare non bastano per la materia e per la forma del sacramento della giustizia? E tu, grullo, presumerai dar lezione di far male al prossimo nel paese dei serpenti a sonagli? Ma insomma, o che ci è bisogno di andare tanto lontano per morire? O che la morte manca in casa tua?... No, ci è una difficoltà sola, che Fabrizio ama Fabrizio — e mi dà uggia quel morire in mia presenza, — peggio poi avermi a dare da me stesso la morte... da me cancellarmi dal libro della vita come lo scolaro cassa di su la lavagna il calcolo che ha sbagliato.... Ecco una idea... si... no... ma si; andiamo a pigliare consiglio dal nostro presidente; anche dagli orecchi dell'asino si cavano auspicii del tempo che farà domani.
Entrò nella camera del presidente, mentre questi stava dietro a fare il conto dei suoi debiti, e visto che la somma andava in su, esclamò dolorosamente: — Ah! quando mi metteranno nella Commissione per la riforma del codice penale, procurerò bene io di aggiungervi un articolo contro i creditori importuni.
E qui, levando il capo, vide Fabrizio, a cui mosse tosto la favella dicendo:
— O signor commendatore, è lei?
— Bella domanda! Dopo avermi veduto, o che vorreste? Ch'io fossi un altro?
— Si dice così per dire, ma che si sente, commendatore, che mi sembra turbato? — Silenzio! Vengo per interrogare, non per essere interrogato. Ho bisogno di un consiglio.
— Da me?
— Da voi...
— Un luminare come lei! Ma che le pare?
— Non m'inasprite... da voi...
— Ma io non ho cervello...
— Bene, lo vedremo; e qui Fabrizio, afferrato uno sgabello e levatolo in alto per darlo in testa al presidente, aggiungeva come chi declama versi tragici:
Dal capo del Saturnio ampio celeste
Uscia Minerva perchè ci era entrata,
Ma nel tuo, che rassembra il mappamondo,
Sette Palladi almeno han posto il nido,
E te lo provo, se mi assenti, o sofo.
Che con questo sgabello io te lo spacchi.
— Mamma mia! urlò il presidente, saltando su ritto e mettendosi a scappare intorno alla stanza, ma ch'è ammattito? Giù lo sgabello.
— Si vede bene che non sei Giove; questi ordinava gli dessero sul capo con la scure, mentre tu hai paura dello sgabello. Presidente! Voi date un calcio alla fortuna, che non capita mica tutti i giorni, ne manco ai Numi, di partorire a un tratto sette Minerve. Sedete, presidente, non si mise a sedere anche Aristodemo, quando disse a Lisandro:
. . . . . libero mi esponi
Di Sparta amica od inimica i sensi?
— Sento anche ritto.
— Non mi fate il rivoluzionario... sedete. Bravo! così. Obbedienza cieca e passiva. Ora dovete sapere che una volta c'era un re... cioè... non un re, un procuratore del re, e questo procuratore sono io, ed accadde che questo io, adempiendo al proprio ufficio insieme con voi, ve ne rammentate, compare? non mi fate il chinese; l'altro dì, o quello innanzi, quando fu trattata in tribunale la famosa causa di adulterio, di un tratto ecco mi venne consegnata una lettera...
— Gua'! per lo appunto come a me...
— Come a voi? Sì, sì, ora mi rammento, e che cosa vi diceva la lettera?
— Mi diceva che la mia moglie, postergando ogni dovere, mi tradiva col suo cugino Gabriele.
— E voi allora?
— In prima, dato spesa al mio cervello, pensai: — Goffredo, bada, questa è una trappola tesa alla tua felicità da qualche invidioso; crepi la invidia; non gli dare retta; — poi feci a dire: o non potrebbe darsi che movesse da qualche parente degli accusati per isgomentarti e farti dare in ciampanelle; e mi rincorai; tuttavia, per levarmi la pulce che mi era entrata nell'orecchio, andai difilato a casa per sincerarmi, dove giunto, con infinita mia contentezza, in breve mi fui chiarito ch'io mi era apposto al vero. — E come faceste a sincerarvene?
— Naturalmente secondo i principii della scienza, istituendo diligenti, non menochè sagaci inquisizioni.
— E sopra chi esercitaste le vostre ricerche?
— Prima di tutto sopra Artemisia!..
— E Artemisia chi è?
— Mia moglie, e poi su Bibbiana, ch'è la donna di casa.
— E voi ci credeste?
— Sicuro eh!
— Una balena s'ingoiò Ruggero,
E fu finzione, adesso un presidente
Beve balene, e questo fatto è vero.
— Ah! signor commendatore, ella mi vuol dare la quadra; o sentiamo dunque che cosa avrebbe fatto vostra signoria? I reati si provano per via d'istrumenti o per via di testimoni; nel fattispece strumenti in permanenza non ci stanno; dunque per necesse entrano in ballo i testimoni; la indole del caso vuole che gli agenti della colpa sieno ad un punto i testimoni; dunque, se non ricorriamo a loro, dove ci volteremo? Di qui non si scavicchia.
— Nè fia che tu di Ammone inclito alunno
Mi neghi che inchinando alzi un peana
Alla tua tonda capricornia faccia.
Plenilunio di fede maritale...
— Del senno del poi ne vanno piene le fosse; ma di grazia, mi dica, che cosa avrebbe ella fatto?
— Io? Io li ho ammazzati.
— Ammazzati? Lei? Chi? Come? — E saltò su ritto ritto, che proprio non fu sua colpa se non andò a toccare il palco col capo.
— Ecco chi ed ecco come: mettetevi a sedere come faccio io e porgetemi ascolto: proseguo il racconto; il procuratore del re pertanto, mentre pigliava le sue conclusioni in causa di adulterio, ebbe una lettera, la quale diceva così: poltrone, invece di fare il gatto fuori di casa, non badi ai topi che ti hanno roso le lenzuola sul letto; ma noi teniamo per fermo che tu non ci vuoi badare, perchè le corna sono come i denti, dolgono un po' su lo spuntare, ma poi ci si mangia.
— Questo è il rispetto che oggidì si porta ai magistrati! Segni sicuri che in breve il cielo non coprirà più la terra.
— Rincareranno gli ombrelli; ma ciò non rileva, continua Fabrizio; chiusi tutto dentro di me, dissimulai; circondai la mia casa di spie... mi riportarono gli adulteri trovarsi insieme; andai... li sorpresi... e li ammazzai...
— Misericordia!
— E sapete voi l'assassino dell'onor mio chi era?
— Non lo so davvero.
— Il conte *.
— Apriti terra! gemè il presidente, abbassandosi, rannicchiandosi e invocando con tutte le potenze della sua anima un coppo per potercisi come la testuggine rimpiattare dietro. Fabrizio, vistosi scomparire dinanzi il presidente, rimase alcun tempo sbigottito, poi si levò per cercarlo, e trovatolo lo trasse fuori di sotto al banco per la cravatta.
— Ed ora che sai tutto, tu vuoi fuggirmi, ribaldo; su presto, un consiglio, e fa' che sia dodici once buon peso.
Il presidente tremava a verga, e quasi senza avvertire quello che diceva belò:
— Senta, signor commendatore, se io mi trovassi nei suoi piedi, sa ella che cosa farei?
— Che cosa fareste?
— Mi costituirei in prigione.
— Ah! scellerato, alla fine ti ho colto; non credere che io non conoscessi da gran tempo i tuoi tranelli; ho contato ad una ad una le frodi che tenevi sotto a covare come la gallina le uova. Tu vuoi goderti la voluttà di mandarmi in galera...
— Ma no... ma no, commendatore.
— Sì, sì; invidia e interesse sono le faville che ti hanno il cuore acceso. Tu, spento che avrai tutti gli uccelli, pezzo di asino, ti dai ad intendere di cantare come un cardellino.
— Ma no, ma no, commendatore, abbasso quelle vostre mestole e ascolti un po' me: provato che sia, e noi lo proveremo di sicuro, l'atrocissimo oltraggio che lei ha patito, non solo lo manderemo immune da qualunque pena, ma lo proseguiremo eziandio con le lodi ch'ella si merita.
— Tu cerchi abbindolarmi; come si può far questo?
— To'! Abbiamo fatto condannare tanti innocenti per ordine dei superiori, sarebbe bella che non mi riuscisse a fare assolvere un colpevole!
— Questo potrebbe anche darsi, disse Fabrizio tentennando il capo, se non si trattasse di lui!
— Chi lui?
— Lui, lui, il conte *.
— Chi muore giace, chi vive si dà pace — e alla fine dei conti la legge è uguale per tutti.
— E questo ti dà l'animo affermare me presente? la legge è uguale per tutti si scrive su le pareti del tribunale, a mo' che gli strioni mettono il gabbamondo su le cantonate per fare una retata. Tu sai meglio di me che cotesta leggenda sta nell'aula delle udienze con profitto pari delle sentenze morali dentro i confetti parlanti...
— Ma non si scarmani, commendatore; si lasci servire; io, se sarò commesso a dirigere il dibattimento, girerò le cose in modo che bisognerà che i giurati me lo lascino scappare fuori pel rotto della cuffia...
— Vedi dunque che la legge non è uguale per tutti.
— La legge sì non già chi la maneggia.
— E dei giurati chi mi garantisce?
— Oh! i giurati sono bestie educate; o paglia, o avena, mangiano tutto quello che si mette loro davanti.
— Il tuo consiglio è falso, ripiglialo indietro e barattamelo qui sul tamburo con un altro che si possa spendere ed abbia miglior suono.
Il presidente, ormai al verde d'ogni rimedio umano, voltava gli occhi al cielo per qualche ispirazione divina, ma la Provvidenza gli si manifestava sotto l'aspetto poco lodevole di travicelli al palco, sicchè non rinvenne miglior partito di quello di raccomandare l'anima a Dio. In questo punto, per somma ventura del malcapitato, si spalanca la porta e comparisce l'usciere, che presto presto favella:
— Con licenza dell'illustrissimo signor presidente, avviso l'illustrissimo signor commendatore regio procuratore qualmente l'illustrissimo signor prefetto abbia mandato al suo ufficio l'illustrissimo signor consigliere di prefettura Inutili per consegnargli un plico urgentissimo in sue proprie mani.
E' sembra che l'usciere avesse imparato a favellare in isdruccioli da qualche personaggio delle commedie dell'Ariosto. Il presidente, colta la palla al balzo:
— Vada subito, commendatore, disse, la non si lasci aspettare, il cor mi dice: il suo soccorso è nato.
E s'ingegnò ammiccare all'usciere gli menasse via cotesto matto di camera; e l'usciere mascagno, chiappata la mosca a volo, rincalza:
— L'illustrissimo signor consigliere Inutili aspetta all'uscio.
— Ecco, vengo; aspettatemi qui; in meno che si dice un credo vado e torno.
— A rotoli come la tela di Lucca, mormorò il presidente, ed appena lo vide fuori della stanza prese mazza, cappello, ombrello e fascettone per avvoltolarselo al mento e al collo; fatto capolino dall'uscio per ispeculare se fosse libera l'andata, spiccò una rincorsa fino a casa, dove non si tenne sicuro se prima non ebbe girato a due mandate e tirato tutti i chiavacci dell'uscio. Quando poi in seguito gli occorreva raccontare la brutta avventura, costumava aggiungere che per uscirne a salvamento avrebbe dato a buon patti una gamba, e doverne portare il voto a Sant'Antonio se l'aveva passata liscia.
Il prefetto accolse Fabrizio con la gelida garbatezza con la quale i superiori trattano gl'inferiori, massime se si sappiano prossimi a dare la capata: agli altari in rovina non si accendono più moccoli. Il prefetto pertanto incominciò con la formula consueta:
— Sono dolentissimo di doverle annunziare per ordine superiore come da un pezzo in qua i suoi portamenti abbiano fatto nel governo la più penosa impressione. Si rende giustizia ai meriti del magistrato, il quale nello esercizio del suo ufficio mostrò perizia non ordinaria e fermezza nei principii sani, che, abiurati i pessimi in cui un giorno forviò (vuolsi avvertire così di passo che il prefetto fu presidente nel 1849 di un circolo repubblicano a Firenze), promise osservare: quantunque qui si sarebbe desiderata, non minore severità, che anzi questa sta bene, e se maggiore meglio, ma più temperanza di atti e di parole, imperciocchè co' modi gladiatorii l'autorità ci scapiti e provochino dagli avvocati, vere campane del bargello, rimbecchi e vituperii, che di rado si possono punire; ma ciò che ha passato il limite di ogni pazienza è stato il suo contegno domestico. Che vostra signoria ami teneramente la sua signora s'intende, a cagione della molta bellezza e delle virtù che l'adornano, ma ch'ella si lasci travolgere il senno dalla gelosia, ma che dia in escandescenze, ma che prorompa in minaccie, ma ch'ella faccia segno dei suoi odiosi sospetti un personaggio avuto in altissimo pregio dall'universale; a cui noi tutti dobbiamo venerazione ed ossequio...
— Dunque perchè costui è potente potrà straziare a suo libito l'onore dei cittadini? Dunque noi dovremo chiudere gli occhi a quello che vediamo, gli orecchi a quello che ascoltiamo?
— Appunto, ell'è pur troppo illusione del suo cervello malato quello che si dà ad intendere avere veduto ed udito.
— Come! prorompe stringendo i pugni e digrignando i denti Fabrizio, è illusione avere io veduto... con questi occhi, il conte * in criminoso congresso con la baldracca di mia moglie? Illusione avere sparato su di essi tre colpi di rivoltella? Illusione averli ammazzati tutti e due come cani?
— Appunto, riprende il prefetto con pacatezza stupenda, tutto questo è illusione, eccetto lo scandalo immenso dato da lei.
— Come, non ho ammazzato?
— Nessuno. Il personaggio a cui ella temerariamente accenna da una settimana non si è mosso dalle sue terre, e la sua signora...
— L'hanno trasportata al camposanto?
— La sua signora è qui... e accostatosi a un uscio lo aperse dicendo: favorisca, signora.
Dalla stanza contigua ecco uscirne fuori saltabellando la Bianca piagnolosa, la quale, gittate le braccia al collo dello stupefatto marito, fra i singhiozzi diceva:
— O Fabrizio! Quante ne fai patire alla tua povera moglie? — Queste sono le promesse? E questi...
Ma Fabrizio non la lasciò continuare, e respingendola urlava:
— Vade retro Satana... addietro, non mi toccare. Poi, percotendosi il capo a più riprese gemeva: qui, qui mi scappa via ogni cosa... il cranio è incrinato... il cervello mi gronda giù come l'acqua. — Di un tratto inferocendo smania: — Infami tutti! tutti congiurati a farmi ammattire. Che contano d'inferno e di demoni nell'altro mondo! Qui sono i demoni, qui lo inferno... l'intelletto è ito, il cuore del pari; qui e qua, e picchiavasi forte la fronte e il seno, si possono appiccare gli appigionasi, ebbene, nella casa vuota entrino la rabbia, il furore, la sete di sangue, la libidine della strage; all'inferno tutti con me; ora vedremo se ammazzandoti una seconda volta resusciterai.
Si avventa in questo dire al collo della Bianca, e con la destra tenta strangolarla; la donna, colta dall'atto subitaneo, non può fare riparo se non agguantando con ambedue le mani il braccio del marito, ma invano si sforza liberarsi dalla tenace tanaglia.
Il prefetto anch'egli si affanna di apportare soccorso alla meschina, se non che Fabrizio con la terribile forza nervosa che dà la pazzia lo abbranca pel petto con la mano manca e lo sbatacchia giù sul pavimento in così dura maniera, che n'ebbe ammaccata la fronte e pesto il naso: senza potersi rilevare da terra costui prese a urlare da spiritato: Soccorso! soccorso!
Uscieri, servi e quanta altra gente stava nell'anticamera in aspettativa di udienza ecco rovesciarsi addosso a Fabrizio per levargli la donna di sotto, ma egli invelenito si difende a morsi, a calci, e non lascia presa. Alla fine liberano da morte sicura la Bianca, terribilmente malconcia; aveva gli occhi fuori come gatto arrabbiato; le impronte sanguigne intorno al collo le durarono più di un mese. Il prefetto, rattoppato alla meglio co' cerotti, anch'egli stette un pezzo a presentare nella faccia l'aspetto della cantonata dove faceva ogni giorno impastare i suoi manifesti. Fabrizio, legato e ben condizionato, portarono diritto come un fuso nell'ospedale dei matti.
O come era avvenuto questo? Fabrizio cadde in abbaglio o vide il vero? Egli aveva veduto il vero; pur troppo aveva sparato, ma al buio, e la persona tutta tremante come ramo di arbore allo imperversare del libeccio non gli aveva concesso prendere la mira, e non aveva colpito persona. Il conte, passata la prima commozione, conosciutosi illeso, e la Bianca altresì, come uomo risoluto e di pronti partiti, si affrettò al riparo montando tutta la macchina che abbiamo narrato. Intendeva traslocare Fabrizio in Sicilia, e se reluttante si riprometteva vincerne le repugnanze con la minaccia di palesare le carte donde appariva come un dì costui si fosse legato ad uccidere il re; ma non ce ne fu bisogno, stante lo aver dato nei gerundi prima del tempo. La vecchia ospite fu fatta svignare, e non le parve vero; un nuvolo di guardie di polizia travestite e non travestite, aggirandosi nella contrada dov'era successo il caso, spargevano mille voci diverse dal vero; più che altro insistevano a dire che uno scapestrato, provando certa pistola di sua invenzione, aveva lasciato scappare il colpo; intanto pagherebbe la trasgressione. Il prefetto, a cui fu data ad intendere una novella senza capo nè coda, finse credere ogni cosa, bevve grosso e abbuiò tutto. Vere bocche di acquaio i prefetti, quando ci trovano il conto.
Il giorno successivo si leggeva in un giornale officioso il seguente avviso: «Abbiamo a registrare un fatto deplorabile. Il signor Fabrizio Onesti, commendatore e regio procuratore a questa R. Corte di appello, che tanto illustrava con la sua dottrina e rara eloquenza la magistratura italiana, preso dalla monomania per credersi venuto in disprezzo dei giudici giurati, perchè nell'ultima sessione delle assisie non sempre accolsero le sue conclusioni, tentò ieri gettarsi giù dalla finestra; impedito per miracolo alla sua moglie, che in cotesto frangente fece prova di singolare coraggio, ha procurato con altre vie di uccidersi, sicchè sono stati costretti a chiuderlo nel manicomio, dove mercè le cure intelligenti dell'egregio signor commendatore direttore di cotesto stabilimento si spera restituirlo in breve sano alla famiglia, agli amici e al fôro, di cui è sì bello ornamento.» Stile della Gazzetta Ufficiale, della Opinione, della Nazione e di altri della medesima mandria, compresa la Perseveranza.
E il misero Fabrizio migliorava così; il giorno stesso nel quale compariva cotesto avviso, egli cadde in tali eccessi di furore, che fa mestieri mettergli la camiciuola di forza e legarlo con le cinghie sul letto; dopo alcuno spazio di tempo la mania furiosa cessò, sicchè poterono lasciarlo sciolto dentro una cella chiusa con un cancello di ferro, per cui facilmente veniva ad essere vigilato dai custodi, che andando su e giù pei corridoi tenevano sempre d'occhio i pazzi. Fabrizio notte e dì, con gran voce accompagnata da gesti terribili, non rifiniva mai declamare orazioni contro gli ordini sociali, i vizi del tempo e la necessità delle riforme, se pure non si voleva battere una capata delle solenni; e sovente gli accadeva manifestare con eloquenza mirabili verità, come quegli a cui natura era stata pur troppo liberale di doni, ch'egli aveva offerti in olocausto alla vanità plebea e ad altri ignobili affetti.
Ora, mentr'egli dimora chiuso costà, accadde che il presidente Goffredo, fattosi del tutto manso, avesse supplicato il cugino Gabriele di prendere in mano le redini di casa e ravviargli la matassa arruffata della domestica economia, e il giovane dabbene presto gliela rimise in filo; saldò i debiti, diede il puleggio al fattore, modello di prima qualità, perchè non contento di rubare prestava il rubato al padrone coll'interesse del cinque per cento il mese; insomma fece in modo che il cappone comparisse sopra la mensa del presidente più spesso che la giustizia nelle sue sentenze; e se ciò accadesse con esultanza somma di lui, Dio ve lo dica per me. Per questi ed altri meriti il presidente ormai senza il cugino Gabriele non poteva più stare; a tale giunse cotesta sua amorevolezza importuna, che Gabriele ebbe ad avvertirne Artemisia, onde ad evitare il ridicolo ella persuadesse il marito di porre modo a quel dolce tormento. Ora dunque accadde, certo dì di festa, che Gabriele e la madre di Artemisia andassero, secondo il solito, a casa il presidente per recarsi di conserva alla sua moglie a udire messa; la quale divotamente udita, frullò per la testa al presidente di favellare così:
— Ecco, oggi è libero il passo allo spedale per cui voglia vedere i matti: che dite, ragazzi, ci vogliamo andare? È un divertimento che non costa nulla; forse ci troveremo anche quel matto dell'Onesti, che già tenne ufficio di regio procuratore alla Corte che presiedo io.
— Sì, sì, andiamo, risposero ad una voce Artemisia e la madre di lei.
Più umano, Gabriele osservava: — Mi paiono gusti fradici; cotesti spettacoli mettono in corpo la malinconia per una settimana almeno...
Ma la vecchia mamma di Artemisia salta su e rimbecca:
— Già, basta che la mia piccina mostri avere una voglia perchè tu subito le dia il gambetto.
— È proprio la prima volta che me lo sento dire. Gua'! se volete andare, andiamo; per compagnia s'impiccò un lanzo.
Chi va a vedere i matti, od è più matto di loro, ovvero è un tristo. Le donne, entrate nel manicomio e osservando i miseri privi dello intelletto, di taluno, conforme le governa il caleidoscopio della loro isterica sensibilità, risero; di tale altro piansero, e presto si uggirono di tutti. Di un tratto il presidente Goffredo esclamò:
— Oh! eccolo.
— Chi ecco?
— Il commendatore! Il matto! E' pare Ferraù alla riviera. Andiamo a dargli noia; vediamo un po' se mi riconosce.
— Ehi! infermieri; ci è da fidarci nel cancello?
— La vada franco; non lo stianterebbe Sansone. Allora il pio Goffredo in compagnia degli altri si accosta al cancello, e con voce tra beffarda e compassionevole chiama:
— O commendatore! O sor commendatore, favorisca; ci è gente che si vorrebbe procurare l'onore di salutarla.
Il matto gli sbarra gli occhi addosso e poi si accosta lento al cancello. Intanto il presidente continua:
— Buon giorno e buon anno; come si trova a suo agio qua dentro? Al tribunale tutti lo aspettano a gloria. O che non mi riconosce?
— Altro se ti riconosco; e questa gente che ti accompagna chi è ella?
— Questa è mia moglie, quest'altra mia socera, il gentiluomo...
— Non importa che tu perda il fiato; egli è il cugino Gabriele...
— Giusto, ci ha dato dentro di colta; dopo avere ascoltato insieme la messa...
— Ah! la messa?
— Sì signore, la santa messa, ci è nato il desiderio di venire a riverirla e ad informarci della sua salute.
Allora il pazzo con voce da banditore si mise a gridare:
— Avanti! avanti! dame e cavalieri; la vita che meniamo qua dentro uggisce maledettamente: ho pensato rallegrarvela; e a questo scopo intendo darvi la spiegazione di alcune figure di cera che sto per mettere nel mio museo; all'entrare! all'entrare! Il tutto gratis, secondo il detto del Vangelo, gratis accepistis, gratis date. Attenti dunque, che vado a dare principio al bel divertimento.
Tal bue va a pascere che si trova al macello; il divertimento del presidente sta per trovare il suo riscontro nel divertimento del matto, il quale continua:
— Questi, signori cavalieri, è il marito putativo di questa bellissima madonna, che non si chiama Maria, bensì Artemisia, omonima della famosa regina di Caria, che prima bevve il marito morto, e poi finì vecchia arrabbiata di amore per un soldato vivo;[4] quest'altra è la classica pollastriera mamma Agata, di cui da venticinque anni si contendono il dominio tabacco e vino; nè pare che stieno per ora sul finire la lite. Il gentiluomo poi è un tale Gabriele, che trovò spediente annunziare lo amoroso messaggio per conto proprio e non per l'altrui. Questo branco di degne persone, dopo avere passeggiato l'adulterio per le vie e per le piazze della città, gloriose al pari di Cesare quando menava il trionfo, si recarono devotamente a chiesa per presentarlo a piè degli altari al cospetto di Dio. — E così, dame e cavalieri, bisogna che sia, conciofossecosachè, quando le società degli uomini si conservano selvaggie, ecco di un tratto scappa di mano alla natura un Lino, un Orfeo, un Cadmo, un Romolo, un Teseo, promulgano leggi, che a guisa di morse costringono i viventi a pigliare una piega per istarsene insieme senza mangiarsi a morsi; ma nelle società diventate civili, se avviene che si guastino, allora la libertà non consentendo partiti tanto violenti, è mestieri operare in guisa che i buoni costumi rifacciano un po' di carne alle leggi; dieno loro vigore allo stomaco per digerire e alle dita per agguantare; per le quali cagioni e ragioni i guidaioli generosi e podagrosi del nostro italo regno agli uffici supremi preposero gli ottimati, i patrizi, quelli insomma che vanno per la maggiore, affinchè con gli esempi incliti educhino le moltitudini, meglio che co' precetti; di vero, se il senatore Cambray-Digny si affaccia ad una finestra e si mostra al popolo sotto adunato: ecce homo; la sua presenza farà più breccia nell'animo di quello che tutti e dieci i comandamenti della legge di Dio. Quando non furono trovati uomini nuovi, buoni da bosco e da riviera, si conservarono gli antichi; così i vecchi sbirri si persuasero con ogni maniera di carezza a rimanersi per ammanettare; alle amministrazioni però deputarono uomini nuovi, perchè i vecchi rubare sapevano, ma non con le eleganze del rubare moderno: quanto a boia non rinvennero meglio del Piantoni, ed il carnefice del duca di Modena, che impiccò Ciro Menotti, continua a impiccare per conto del re d'Italia, quantunque la sua reputazione sia affatto scroccata.[5] A capo dei tribunali stanno magistrati come questi — e qui additava il buon Goffredo — che se capitassero ma' mai in bocca al diavolo, durerebbe a sputare corna e lische almeno un mese. — Ed ecco come saranno sanati infallante co' buoni esempi i rei costumi del nostro inclito regno.
I pazzi avevano fatto un cerchio intorno al presidente ed alla sua bella compagnia, levando un rombazzo, un frastuono, un rovinìo che pareva il finimondo, nè ci era verso di scapolare loro di sotto; le sghignazzate e i fischi andavano al cielo, e già era corso qualche scappellotto, ventipiovolo d'imminente acquazzone. La faccenda diventava brusca davvero, se il direttore non giungeva in tempo con un rinforzo di spedalinghi armati di nerbi, i quali distribuendo a destra e a sinistra busse da levare la pelle, fece prendere il puleggio a cotesti matti, i quali però appena furono fuori di tiro si voltarono d'accordo riprincipiando un inferno di fischi e di vituperi.
Il direttore, confuso per lo spiacevole inconveniente, si profondeva in inchini, senza aprire bocca come colui che non sapeva da che parte rifarsi; ma il presidente venne tosto a levarlo di pena, imperciocchè sorridendogli beato, mentre si assettava il cappello sgualcito, gli disse:
— Poverini! bisogna compatirli, e' sono matti.
— Giusto! era quello che pensava anch'io, cotesti miseri non sanno ciò che si dicano o si facciano, si affrettò di soggiungere il direttore.
Artemisia tremava; di che tremava ella? Non mi è facile indovinarlo; questo so e lo ridico, che stringendosi ella al braccio dell'amante, gli susurrò negli orecchi:
— Han fatto male a mettere cotesto infame allo spedale, lo avevano a cacciare addirittura in galera.
Ma Gabriele non le badava, chè mormorò fra sè questi detti segreti:
— La Dio mercede, noi siamo giunti a tale, che in Italia adesso i savi parlano come matti e i matti come savi.
Da cotesto giorno in poi il verme penetrò in quello indegno amore, e comecchè il giovane contrastasse alla incessante corrosione, in breve l'ebbe guasto; allora egli si provò a sbrattarsene e non potè; condizione infelicissima, che annebbia sovente i migliori spiriti; un bel giorno con inaudito sforzo ruppe la fune della consuetudine, e insalutato hospite fuggì: pellegrinando in remote contrade corresse i trascorsi della riprovevole passione, e rigenerato in faccia alla propria coscienza ricuperava la stima di sè e la pace. Ora, chi credete che di cotesto caso si arrapinasse più, il presidente Goffredo o la moglie Artemisia? E' fu Goffredo; quanto ad Artemisia infuriò lunedì, martedì pianse, giurò vendicarsi il mercoledì, il giovedì si diede attorno a cercare il mezzo di condurre a compimento la sua vendetta; lo trovò il venerdì; fa vendicata il sabato; sei giorni di fedeltà per femmina come quella equivalgono alla eternità. Bisogna dirlo; all'uomo qualche volta è dato restare a mezza scala; la donna va sempre fino in fondo.
Non affatto infelice Fabrizio, poichè la fortuna gli concesse nel profondo della sua miseria redimere un'anima. Certo tristaccio, quando lo riseppe, notò malignamente: — I regi procuratori, onde facciano un po' di bene al consorzio civile, bisogna che diventino matti. — La quale sentenza, se non peccasse di troppa generalità, si dovrebbe rilegare in oro.
*
Il conte! il conte! Noi vogliamo sapere come andasse a finire il conte, urla la moltitudine dei miei lettori. — Ordine! tranquillità! silenzio e tenebre! Ed io vi conterò il fine del conte. Libero da ogni ostacolo, costui irruppe con la foga della giovinezza dove alla cieca più Venere piace, per dirla col Parini, e, o sia che la sua complessione inchinasse a decadenza precoce, ovvero il troppo affaticare della mente, e le notti vigilate, e lo abuso delle bevande nervose, massime caffè, gli logorassero le forze vitali, in breve egli si trovò ad avere, non che bevuto, sgocciolato il boccale della voluttà; venuto a compieta, contro la propria impotenza arrovellava, se avesse potuto avrebbe fatto arrestare dal questore Amore e trasportare ammanettato dai giandarmi alle Fenestrelle; pestava i piedi e si svelleva i capelli, dando di sè miserando non meno che burlevole spettacolo. Dove la donna, mossa da pietà o da quale altra passione, si fosse avvisata racconsolarlo con parole di compatimento, apriti cielo! Allora sì che bolliva! rompeva in escandescenze, e, come dice il volgo, ci andava di moccolo. Avvenne quello che doveva avvenire; lo colse lo accidente di gocciola e morì. Per la costui morte grande si levò il lamento nella universa Italia, che gl'italiani costumarono con lui come gl'innamorati con la donna amata, quando le diluviano addosso tutte le virtù le quali essi desiderano che la donna possieda ed ella non ebbe mai. I suoi gesti dipinti dall'adulazione co' falsi colori del servilismo ogni giorno più smontano al sole della verità; anche pochi anni, forse mesi, e di coteste storie non apparirà altro che pareti bruttate di memorie laidissime.
Ben può l'erede comprare un posto privilegiato al camposanto e commettere a Carrara un monumento di marmo; i lacchè dell'arte faranno alle capate per iscolpirglielo, senza darsi un pensiero al mondo se adoperano lo scalpello per un bandito o per un eroe; ma la Storia, che non vende posti al suo cimiterio, e per amor di pane non usa la penna, più presto o più tardi mette ognuno al suo posto e il tempo conferma il giudizio.
Corse voce che lo avesse avvelenato la Bianca, e fu calunnia; ella non era capace di siffatti reati; anzi ella amava il conte a modo suo; certo cotesto amore a lei arrideva quando le veniva davanti col turcasso pieno, non mica di frecce, bensì di cedole di banca di mille lire l'una; ma insomma se lo teneva caro; di un'altra cosa ell'era capace, e in questa parte non si lasciava patire; mantenuta dal conte, manteneva... chi mai? Non importa dirlo; uno di quei tanti così che costumano portare i baffi appuntati volti in su come le vacche le corna, ed i capelli spartiti per davanti e per di dietro su la zucca come gli spicchi del popone. Donde vengano non si sa, dove vadano nemmeno; pari al sole dei climi tropicali, non conoscono crepuscolo; splendidi di tutti i loro raggi compaiono nelle sale magnatizie, sfolgoranti di tutti i raggi loro precipitano nella tenebra; forse, se ne francasse la spesa, a cercarli bene, si troverebbero in galera, ovvero in sagrestia; intanto corruscano nei club; nei turf si esaltano Minossi, poichè ci decidono i piati, e talora eziandio emuli a Castore semideo scendono nello stadio e corrono il palio; luogotenenti e vescovi in partibus di Tersicore, la musa ballerina nelle soirées dansantes; diaconi e suddiaconi di Como nei banchetti e nei buffets; Achilli della forchetta e della spada, perchè talora duellano, e non senza audacia, per conto proprio, più spesso vengono a regolare cotesti intrugli, che chiamano a ragione partita di onore, essendo provato che l'onore non ci si fa mai vedere, o, se per caso ci s'imbatte, scappa senza voltarsi indietro. La cittadinanza finge maravigliarsi di simile risma di gente e le appella misteriose; cittadinanza vile e corrotta, che si tappa occhi, orecchi e bocca per non vedere, non udire e non parlare; per poco che ci attendesse, non che altro, il lezzo glie le svelerebbe anche al buio; esse, finchè il vento soffia in poppa, si reggono sopra ogni maniera senserie e sul truffare al gioco, non mica barando per sè, che sarebbero scoperti subito, bensì tenendo il sacco a persone illustri duchi, marchesi ed altri titolati: essi guadagnano a starsene all'ombra; dopo queste viene l'industria di darsi a nolo a femmine use vendersi un dì alla libidine altrui, oggi costrette dalla propria a comprare, mantenendo in fiore l'ampia famiglia dei contratti innominati do ut des, ut facias facio; ed è destino che queste donne caschino stupidamente nei laccioli medesimi onde accalappiavano altrui. Narrasi che il conte, tra robe e quattrini, avesse lasciato alla Bianca pel valsente di centocinquanta e più mila lire, sicchè, come vedete, ci era da scialare un pezzo; quindi non mancò il bertone di proporre alla donna il pellegrinaggio di Parigi, che è il santo Iacopo di Galizia di quanti barattieri e baldracche vivono nell'universo. La donna assentì più che volentieri, trovandosi fornita in copia di viatico, ed anco per allontanarsi da una città, dove così atrocemente le levavano i pezzi d'addosso; le turpi adulazioni ora le facevano scontare con ispregi abiettissimi; e percotendo lei credevano vendicare la propria viltà; logica dei tempi, che fa cascare le braccia alla medesima infamia.
Di questa ragione salmi finiscono sempre col solito gloria; fecero del ben bellezza, sicchè in capo ad un anno del sacco rimasero loro appena le corde; ma il bertone, innanzi di vederne il fondo, arraffato il buono e il meglio, si tirò al largo, nè se ne seppe più nuova; alla donna parve toccare il cielo col dito tombolando nelle mani di un imprenditore di pompe funebri; costui sperava cavarne presto uno scheletro per decoro dei catafalchi; campando ella oltre l'aspettativa, la sgabellò a un oste; l'oste a un carrettaio; qui di vettura privata diventa omnibus, e così di male in peggio: allora dà di una stincata al sifilicomio, n'esce, ci torna, lasciando via via nuove offerte al tempio, una volta i capelli, un'altra i denti, ora un occhio. Poco prima della famosa rivoluzione dei Comunardi a Parigi fu vista bazzicare il Boulevard des Italiens, dove vendeva fiammiferi. Parecchi italiani la conobbero e udirono da lei la storia del conte, arrapinato, pestare i piedi e svellersi i capelli quando Venere, appoggiato il pollice destro sotto il naso, gli faceva ventola con la mano aperta. Qualcheduno ne scompisciava dalle risa; i più, tentennando tristamente il capo, mormoravano: ecco i grandi uomini partoriti pei piedi dalla monarchia.
Tutti però le davano il soldo.
Forse ella, nel portare l'acquavite o il petrolio ai combattenti, sarà rimasta morta; o forse il governo del repubblicano Thiers l'avrà fucilata. Forse chi sa che un giorno o l'altro non la troviamo segnata fra le sante in qualche lunario francese: ce ne hanno messe tante!
Capitolo XXI.. . . . . . . . . . . . . . . .
Se madre natura possedesse croci dei santi Maurizio e Lazzaro, ed anco della Corona d'Italia, a straziare, capisco anch'io ch'ella potrebbe avere i suoi adulatori, ma poichè croci non ha e collari nè meno, non arrivo a capacitarmi come uomo si periti a contarle le sue ragioni in faccia, ond'io, che libero sono e mi vanto, le dico aperto ch'ella ebbe torto marcio quando fabbricò il caccao a non farlo tutto di Sconusco, a quello di Caracca superiore assai, il caffè tutto di Moka, o alla più trista di Portorico; il the, o il tchà[6] tutto pekò a coda bianca — e l'amore tutto pari a quello che il Canova effigiò abbracciato alla divina Psiche, e sorreggente per le ale sopra la palma di questa l'angelica farfalla dell'anima. Ma ahimè! e' ci hanno più qualità di amori che di frati; taluno dolce così, che di petto a lui il mele ibleo morirebbe di vergogna; tale altro, al contrario, disgrada in amarezza l'assa fetida, con la quale mi dicono che il diavolo inzucchera la ricotta giù nello inferno.
Ma dolce sia l'amore od amaro, l'uomo l'adopera come vela buona ad ogni vento su questo mare che si chiama vita. La signora Giorgio Sand, che per teorica, e mi assicurano anche per pratica, intende di amore quanto la bella di Magdala e santa Teresa, dichiara l'amore comporre per la donna il poema intero della sua esistenza; per l'uomo un episodio soltanto. Non senza trepidazione io mi conduco a contradire tale e tanta teologhessa nella scienza amorosa, ma per me credo che lo stame, onde la Parca compone la vita delle creature, così maschi come femmine, ella intrecci di un filo di dolore e di un filo di amore; di tratto in tratto lo sbrizzola anche di un filo di piacere, perchè gli avventori non si sdegnino e sviino dalla bottega.
Ecco come sta la cosa. La donna pensa all'amore più dell'uomo, anzi assidua, come quella che può molte faccende operare senza il concorso della mente: a mo' di esempio, la calza; all'opposto i negozi dell'uomo lo vogliono tutto lì, gli assorbono il cervello senza lasciargliene libero un briciolo; ma intanto ch'egli, medico, scruta col polso in mano il mistero della infermità, o avvocato intende ad accecare con parole la giustizia, o prosseneta a mettere in corpo al mercante per via di panzane una partita di meliga avariata, ecco un alito di vento gli porta un vagito lontano di pargolo, un arpeggio di chitarra, forse anco una sfumatura di odore del fazzoletto che la signora marchesa ha cavato fuori per soffiarsi il naso, e la sua mente, rapita via dal polso, dal tribunale e dal granturco, errare pei dominii sterminati dell'Amore.
Però io vi ammonisco, le nuove vicende che sto per esporre davanti a voi si aggireranno sempre intorno all'Amore, pari ai satelliti del sole, che immoto in mezzo a loro li veste tutti della sua luce. Da molto, forse da troppo tempo ho messo da parte Eufrosina, Curio e Filippo, però non crediate mica ch'io me ne sia dimenticato, anzi si volgeva il mio cuore verso coteste care creature, quantunque volte mi stringeva il bisogno di ricrearmi delle brutte cose e delle bruttissime persone che pullulavano sotto i miei piedi, nella corsa che ho impreso traverso questa società morta e corrotta, e che pure veruno si attenta a seppellire. Andiamo pertanto a trovarli colà dove li abbiamo lasciati. Curio e Filippo giacciono gravemente feriti allo spedale di ***, ed Eufrosina sta in mezzo a loro, ma non tutta per loro a mo' di una sorgente blanda e continua di consolazione; ella infermiera, ella segretaria, ella lettrice di lettere segrete a tutti gl'infermi che o non potevano o non sapevano, ed ella del pari scrittrice a parenti, a spose e alle più dolci amanti; chè a lei non premeva nulla di che gente fossero e neppure di quali costumi; le bastava persuadersi ch'ella avrebbe col suo scritto consolato un'anima in pena, onde accettasse ogni più dura fatica; scrivendo senza posare mai da un giorno all'altro, ella sarebbe morta di vigilia e d'inedia, martire della penna. Non abbiamo letto ai giorni nostri di un sonatore, venuto a gara di suono, morire per eccesso di fatica? perchè non poteva Eufrosina consacrarsi vittima allo scritto? E bada che il musicante accettava il duello armonico per causa di lucro, mentre ella durava la immane fatica per senso di pietà. Se ai miseri infermi fosse stata imposta la scelta tra non vedere l'aurora o la faccia di Eufrosina, io per me credo avrebbero renunziato all'aurora. Davvero ella non pareva cosa mortale, imperciocchè la si trovasse lì appunto da per tutto; onde talora pensavano che fosse uno spirito diffuso dintorno nell'aria; se lo spasimo strappava ad un sofferente un sospiro, egli non l'aveva ancora compito che si sentiva refrigerato con le parole: — Fratello, che hai? — E subito dopo ella gli rinfrescava la fronte, o gli inumidiva le labbra inaridite; se altri gli toccava le piaghe strillava, al tatto di lei o non provava dolore, o si peritava di manifestarlo. Se i fiori tramandano soavità di profumo, perchè i cuori pietosi non potrebbero spandere un senso di sollievo? Ed Eufrosina spesso veniva dicendo che, se si fosse trovata nei piedi della Madre di Dio quando composero le litanie in onore suo, ella avrebbe dato indietro tutti i titoli, massime quelli di torre di avorio e di porta d'oro, e tenutosi unicamente quello di consolatrice degli afflitti.
E dirò altresì cosa che parrà a molti incredibile, e non pertanto vera. Ciò che preservava la bellissima vergine da ogni affetto, non dirò impuro, ma terreno, era appunto la qualità che doveva contribuire meglio ad accenderlo, intendo la sua trasumana bellezza; imperciocchè accostandosi ella alle forme che il Beato Angelico effigiò negli angioli, la riverivano e amavano come creatura eletta di Dio. Nella medesima maniera che gli occhi nostri fissandosi nella soverchia luce smarriscono la vista, così, contemplando la suprema bellezza della donna, nell'uomo tace il materiale appetito.
A questo modo i nostri amici sopportavano assai pazientemente la loro miseria, perchè consolata dallo scambievole amore, quando un dì furono visti dalla porta dello spedale prorompere dentro la infermeria quattro uomini armati in sembianza di T, preceduti da un altro infagottato con abiti borghesi. — Giandarmi i primi, ai littori antichi pari in ferocia; in ciò diversi, che quanto i littori terribili, i giandarmi appaiono ridicoli, e sono; di fatti i littori si presentavano ricinti di pelli di lione, con in mano il fascio delle verghe e la scure nel mezzo, i giandarmi con la lucerna senza olio a traverso il capo e la squarcina allato fanno ad un punto soffrire e ridere. Chi li guidava apparteneva alla famiglia degli sbirri pennaioli; una maniera di gingillino mal cotto destinato ad arrampicarsi terra terra come la porcellana; costui non potendo avere altro di onesto, se ne pigliò il vestito. Gl'infermi, al comparire di cotesta brutta figura, tacquero come le passere quando il falco alia intorno all'albero su cui stanno appollaiate; imperciocchè presagissero danno per taluno di loro; nè a torto, che in nocere proviamo gli uomini più tristi dei gatti, ai quali la natura concesse facoltà di tirare in dentro gli ugnoli e accarezzarti senza sgraffiarti, mentre gli uomini così detti di polizia, se ti toccano è forza che ti sgraffino, e se ti baciano bisogna che ti mordano.
Fermaronsi tutti intorno al letto di Curio, in un attimo lo circondarono e lo frugarono nelle parti più riposte; fino sotto al capezzale, dove l'infermo posava la testa, parte sostanzialissima e per avventura più innocente del loro mestiere: essi vollero assicurarsi che Curio non aveva armi. Di tanto accertato lo sbirro pennaiolo, con voce stridula incominciava:
— Siete voi Curio Onesti?
— Sono.
— Di Milano?
— Di Milano.
— Figlio del fu Marcello e della vivente Isabella Onesti?
— Giusto come dite.
— Allora in nome della legge io v'intimo l'arresto.
— Oh! e' ci era mestieri quattro giandarmi? Prima che io mi possa movere ci sarà che ire; ma, di grazia, mi sarebbe concesso sapere di qual colpa io sono reo?
— Magari! Per diserzione alla milizia.
Curio diede uno scossone, per cui andatagli scomposta la fasciatura della gambe gli parve vedere le stelle a mezzogiorno: non però cessando la consueta baldanza, tra gli spasimi strepitava:
— E quale è il furfante che si attenta sostenerlo? Disertore è colui che per viltà scappando, ovvero rimpiattandosi abbandona la bandiera alla quale egli è ascritto, ed io mi trovo allo spedale ferito così, che forse non mi potrò più riavere, mirate... e qui stracciavasi con furia la camiciuola sul petto... non vi paio un crivello io? Ho combattuto tutte le patrie battaglie; accorsi a tutte volontario. Quale è il campo italiano che non bevve del mio sangue? Qual rupe del Tirolo non ha un brindello della mia carne?
— E chi ve l'ha chiesto?
— Chi? La patria.
— La patria non è il re.
— Come non è il re! O non si dice e non si stampa essere il bene della patria inseparabile da quello del re?
— Già, fu detto, scritto e stampato; ma, caro voi, o che bisogno ci è che tutto quello si dice, si scrive, si stampa sia vero? Finchè il bene della patria mette capo a quello del re, le cose camminano d'amore e d'accordo, quando poi si dispaiono allora il monarca inghiottisce la patria.
— E fosse così; o non fummo noi incamminati verso il Tirolo in virtù di ordini regi? O non fu bandito ai quattro venti che doveva stendere colà il suo più forte braccio l'Italia?
— Già, perchè i cerusichi austriaci l'agguantassero, e punta la vena ne traessero in copia il sangue guasto.
— O come, non è dunque più vero che ci assicuravano avremmo contribuito grandemente alla vittoria, se da cotesto lato avessimo percosso il nemico?
— Gua'! Bisognava pure darvi ad intendere qualche cosa; — ma il fatto sta che voi ci entraste come il prezzemolo nelle polpette. Quello che volevamo acquistare lo avevamo in tasca senza il vostro soccorso.
— L'aveste per elemosina; vi fu messo nel bussolo come il soldo al cieco.
— Ma che bussolo o non bussolo, abbiamo fatto l'Italia; l'Italia è fatta in grazia del nostro saper fare.
— Eravate tremanti, non già sapienti, quando, travolti dal terrore nei passi amari della fuga, supplicavate: Irreparabile sventura! Dietro a Brescia; per amore di Dio, coprite la ritirata!
— Coteste erano finte di cartoccio per levarvi dal Tirolo, dove ci avreste rotto le uova nel paniere. Ci avevano dato la musica in mano, che dichiarava così: se volete vincere perdete.
— Lusso d'ipocrisia! Perfidia sciupata! Non ci provaste sempre docili ai vostri comandi? Forse anche allora non vi fu risposto: obbedisco, alla quale parola voi batteste le mani e la proclamaste magnanima?
— A voce alta, ma a bassa la chiamammo asinaggine; e poi, o che poteva egli fare il vostro Giuda Maccabeo? Siena per forza.
— E allora perchè abbindolarci?
— Gua'! per cautela.
— Va bene; ma intanto io non so di tante diavolerie; andai con Garibaldi, perchè dal governo moveva la chiamata; mi parve che fosse lo stesso combattere il nemico in un luogo piuttostochè in un altro; anzi stimai fosse merito accorrere nel luogo più pericoloso. E come disertai dalla bandiera del re se mi condussi a militare sotto la bandiera del re? Voi mi dite che il re non è la patria quando gl'interessi di quello vanno disgiunti dagl'interessi di questo, ma fin qui, per quanto io sappia, non si separarono.
— Noe, noe; voi mi date in ciampanelle; voi avete definito male il disertore; a noi non rileva la cagione onde mancaste ridurvi al corpo assegnato: voi foste rinvenuto buono dal consiglio di leva ed assentato a tenore del regolamento.[7] Vi presentaste o no al reggimento a cui vi avevano ascritto? No; dunque la diserzione è flagrante, imperciocchè, ficcatevelo bene in testa, soldato vero è colui il quale entra a servire nelle milizie regolari del re nei modi prescritti dal regolamento; i volontari non contano; al contrario, si hanno in sospetto, come quelli che furono, o sono, o diventeranno ribelli. Il soldato vero, una volta ascritto alla bandiera del re, deve consegnare la sua anima al suo superiore, come la veste da borghese al custode del magazzino; ripiglierà, se vuole, l'una cosa e l'altra quando cesserà la milizia.
— In una parola, gesuiti armati.
— Precisamente.
Curio, per non dare di fuori, morse la coperta, ma persuadendosi poi che con quel ceffo di ferro male limato non ci era da cavarne costrutto, appena si sentì alquanto sboglientito riprese a parlare:
— Ebbene, ci siamo intesi; io qui rimango per conto vostro, e voi potete vivere sicuro che mi ci ritroverete di certo: potete andare.
— Ma io non vi posso lasciare; lo vieta il regolamento; voi dovete venir meco allo spedale militare.
— Io vorrei sapere un po' come abbia a fare per tenervi dietro?
Mentre così favellava, ecco fu vista entrare nello spedale una lettiga munita di coperchio chiuso da incerato verde portata da quattro uomini, i quali, fattisi presso all'infermo, la depositarono giù a piè del letto; poi senza perdere tempo si ammannivano a sollevare l'infermo per tramutarlo, con quel maggior garbo che per loro si fosse potuto, nella bara, quando Eufrosina, stesa la mano, trattenne quello ch'era più presso a lei: non tremava ella, non piangeva; suono di minaccia non si udiva nella sua voce, e tuttavia metteva paura, imperciocchè sopra le sembianze deformi distingui male l'amore o l'odio, mentre l'odio si rivela in tutta la sua terribile potenza sul volto della bellezza; — solo ella domandò:
— E' mi sarà vietato assisterlo allo spedale? Avvertite, che siamo promessi sposi.
— Osta il regolamento.
— Non mi negherete almeno di accompagnarlo allo spedale?
— Osta il regolamento.
— Di venirlo di tratto in tratto a visitare?
— Osta il regolamento.
— Ma ch'è mai questo regolamento?
— Il regolamento! esclamò l'uomo dalla faccia di ferro; e dopo alcuna esitanza riprese: il regolamento è il regolamento.
— Io sono chi sono, giusto come il Dio degli ebrei rispose a Moisè, brontolò una voce sotterranea, la quale lì per lì non si conobbe da che parte movesse, e la pronunziava Filippo, che da parecchio tempo, non si potendo più reggere, aveva cacciato il capo sotto le lenzuola. Gli astanti non lo avvertirono, però che Curio, gittato giù l'argine della pazienza, proruppe:
— Se mai al tuo intelletto crescessero l'ale, il regolamento ti farà da forbice, onde tu di aquila ridiventi oca, perchè il regolamento fu composto da oche, e le oche solo considera; se il tuo cuore moltiplicasse i suoi palpiti, il regolamento gli metterà il tempo addietro, perchè il cuore deve regolarsi col pendolo del regolamento; se il regolamento si porrà di mezzo tra la mano di tuo padre moribondo e te, il padre morrà con la mano levata palpando il vuoto, e tu inaridirai nella sete della benedizione paterna; il regolamento va dintorno a calafatare le orecchie umane, affinchè non le ferisca grido di madre che domanda aita, nè di figli che implorano pane, nè di quarantamila donne supplicanti la vita di un garzone ventenne. Il regolamento ti concia l'uomo a cero pasquale; di sopra spento, di sotto assicurato con uno spunzone; in mezzo trafitto da cinque ferite. Vuoi tu sapere regolamento che sia? Te lo dirò io; stammi a udire. Il regolamento è Polifemo cieco, che brancola tastando i suoi montoni per agguantarli e divorarseli vivi, senza pure sputare pelle nè ossa.
— Lo avete accomodato nelle regole...?
— Sì signore.
— Su dunque, da bravi, recatevelo in ispalla di un tratto; marche!
I quattro giandarmi si ordinarono a dietroguardia, intantochè gli altri quattro soldati s'incamminarono col cataletto verso la porta: l'uomo del regolamento disparve.
Lunga e dolorosa la infermità di Curio, pure si riebbe in grazia della sua stupenda complessione; appena entrato in convalescenza lo mandarono a Genova, nell'ospedale stabilito dentro il convento di San Francesco di Paola, perchè colà, col benefizio dell'aere marino e le cure delle pie suore di carità, recuperasse intera la prima salute. La intenzione pareva eccellente, ed era, come quella che si partiva da medici umani, ma il fine mirava a rendere in breve capace il povero Curio a sostenere il giudizio davanti al Consiglio di guerra. Chi avrebbe ravvisato in quella larva di uomo zoppicante lo splendido Curio? Lo intelletto è quasi un arco nella mano potente della volontà; se questa langue, lo intelletto inerte non balestra pensieri; Curio si sentiva il cervello peso come una pietra dentro al cranio; teneva continuo gli occhi chiusi, forse nel concetto stesso di Cosimo il Vecchio dei Medici, che interrogato perchè così costumasse, rispose: — Io lo faccio per avvezzarli a morire! — Sovente inoltrandosi nell'ombra stette a un pelo di passare il confino della ragione per mettere il piede nei dominii della demenza; facile trapasso, però che buio fitto ingombri il limite estremo, dove la ragione cessa e la demenza comincia; e gli fu ventura che gli comparissero ad ora ad ora davanti tre angeliche sembianze, quella di Eufrosina prima, seconda la madre, ultima Filippo, le quali sorridendo lo respingevano indietro spruzzandolo di speranza. Allorchè gli accadde aprire gli occhi, gli parve vedere e vide certo uno stormo di gabbiani che gli aliavano intorno al letto, come intorno le patrie costiere quando il mare si mette alla burrasca. Appena trasse un sospiro, ecco staccarsi dallo stormo uno di cotesti uccellacci, che agitando un paio di ale bianche dalle parti laterali del capo a lui si avvicinò; allora si accorse che gabbiano non era, bensì una di quelle creature che per buttare le mani innanzi si chiamano suore di carità. A chiamarle donne noi offenderemmo le nostre madri. La suora di carità che volò con l'ale tese verso Curio era giovane, di capello sauro, come la più parte delle cavalle maremmane e delle femmine francesi, bianca nella faccia, ma di un bianco spiacente, come sarebbe a dire di calcina lattata,[8] nel sommo delle gote pareva ci avesse impastato un ranuncolo; gli occhi tondi, neri, quali tu miri nelle pollanche: e perchè io stringa la mia immagine in poche parole, la si sarebbe potuta mandare per modello agli scultori di Norimberga, disperati fabbricanti di puppatole. Il gabbiano... voleva dire la suora di carità, venuta a canto a letto di Curio, in suono di miserere prese a dirgli:
— Mon cher frère en Jésus-Christ...
Curio ebbe a ruzzolare da letto, sentendo egli italiano in terra italiana favellarsi in lingua francese, là dove egli credeva avere a trovare donne italiane; peggio poi quando la suora di carità gli prese le mani e gliele strinse fra le sue: egli sentì un diaccio come di pancia di tarantola toccargli il cuore, e n'ebbe a un punto paura e ribrezzo. La suora continuò il suo sermone a mo' di sonatina imparata a mente, applicabile a tutti come gli oremus e i serviziali, concludendo col conforto di rimettersi in mano di Dio e della Provvidenza; imperciocchè parecchi distinguano Dio dalla Provvidenza, e li rammentino come se fossero marito e moglie. Intanto tornava a rifiorire la rosa sopra la bella faccia di Curio, e gli occhi suoi assorbivano copia di luce che riverberavano più intensa, dalle aperte nari aspirava a lunghi tratti l'aria di primavera; ti sarebbe parso Apollo di Belvedere, che col capo alquanto piegato, pieno di baldanza e di vigore, mira il serpente trafitto dallo strale infallibile. E gli occhi della suora, che, comunque stupidi, per accendersi come fiammiferi non aspettavano altro che essere stropicciati, agli occhi di Curio accendendosi a un tratto, presero a corruscare; le mani di lei strinsero più forte le mani del giovane; un tremito le si diffuse per tutta la persona; calido le diventò l'alito... la temperatura del bacio; le labbra della suora volendo susurrare non so che parole nelle orecchie del giovane, sbagliarono strada e si fermarono sopra la sua guancia. Curio allora interrogò se stesso:
— Ma che questo gabbiano voglia ministrarmi il suo amore come un purgante?
E ficcatole gli occhi addosso, fu subito chiarito di che si trattasse; e fra sè disse: chi non vuol vendere vino levi la frasca. Per la qual cosa, licenziata la suora con le più accorte maniere che per lui si seppero, chiamò a sè il confessore, a cui sotto sigillo di confessione confidava essere preso di amore per la bella infermiera, e forse non presumere troppo di sè giudicando che ella di pari amore fosse rimasta punta. — Il confessore si morse le labbra, si fece in viso color di bargigli, e nelle escandescenze in cui ruppe diede a divedere che allo zelo del prete si mescolasse, oltre al dovere, concupiscenza dell'uomo cavallino; pure si tenne; anzi lodò il giovane della sua prudenza; ma da quel punto in poi la suora non si vide più; la surrogava una suora vecchia, di cui la faccia pareva plasticata nel sapone di Susa: il vaiolo si era preso il gusto di scavarci una moltitudine di cavità, dove la morte e il peccato giocavano alla buchetta.[9]
Come a Dio piacque, Curio tornò più vispo di prima; ma per saltare dalla padella nel fuoco; imperciocchè avesse a comparire dinanzi al Consiglio di guerra. Indicarongli, ed egli accettò, difensore un uffiziale, a cui per ventura il regolamento non avea ancora mummificato il cuore; il quale udendo come egli intendesse addurre per discolpa avere seguito la fortuna di Garibaldi, come quello che egli giudicava meglio adatto per condurre alla vittoria la gioventù italiana, levò di schianto ambe le braccia al cielo ed esclamò:
— Dio ve ne guardi! Il Consiglio vi crescerebbe di due gradi la pena; lasciate dire a me; se vi poteste atteggiare ad imbecille, beato voi! la migliore accompagnatura che uomo possa avere nel cammino della milizia è la stupidità; con questa al fianco voi potete vincere il palio anche correndo col generale Lamarmora: ed abbiatelo per inteso.
Il difensore officioso mise innanzi ai giudici certe sue gretole, che erano tanti bruscoli negli occhi al senso comune, e parvero abboccarsi dal Consiglio: aggiunse poi, per far breccia, che Curio intanto si mise dietro al Garibaldi, inquantochè il re con regio decreto lo aveva eletto a suo generale; seguito la bandiera di lui perchè onorata dello scudo di Savoia: nè avere creduto mancare, se trovandosi di faccia al nemico prendeva senza perdere tempo a menare virtuosamente le mani contro di lui. — Certo, e lo abbiamo avvertito, la sventura aveva annacquato il sangue di Curio, non tanto però che, punto sul vivo, non isprizzasse quanto prima veemente; onde sorse su a dire: che non avrebbe mai per viltà rinnegato il suo degno capitano, l'unico che avesse saputo condurre alla vittoria la gioventù italiana; non avere veduto nè considerato lo scudo di Savoia, perchè nascosto nelle pieghe della bandiera italiana...
Tutti i componenti il Consiglio proruppero in un oh! lungo e roco; il presidente fischiando il più puro dei dialetti piemontesi urlò:
— Countacc! S'ha sentire anco questa, che lo scudo di Savoia sia entrato nella bandiera italiana come il baco nella pera per rosicarne il torsolo?
Curio, che aveva avuto il tempo di calmarsi, vide il marrone che aveva commesso e tacque; le sue parole gli tornarono indietro di rimbalzo formulate in condanna del massimo della pena assegnata dall'articolo 131 del codice penale sardo, vale a dire tre anni di reclusione militare.
Mentre riconducevano Curio trasecolato in prigione, l'ufficiale difensore gli si chinò all'orecchio susurrandovi queste parole:
— Voi vi potete vantare di essere nato vestito; — e siccome l'altro accennava a rimbeccare, l'uffiziale si affrettò ad aggiungere: zitto!
Vuolsi così colà dove si puote
Ciò che si vuole, e più non domandare.
Così il nostro Curio era condotto in prigione. Io per me credo fermamente che i re, per vendetta della monarchia offesa da Dio quando egli convertì Nabuccodonosor in bestia, s'industrino, quante volte lo possano, mutare gli uomini in bestie: fra i tanti mezzi che a tale scopo essi possiedono, capitalissimo ha da giudicarsi il carcere, massime militare, dove il cibo malsano, l'aere tristo, le asperità, la solitudine e i lavori animaleschi operano sì, che la vita del carcerato se ne va in raschiatura sotto la lima della necessità. Lo imperatore Francesco di Austria, che fu quel gran maestro che tutto il mondo sa nell'arte d'imbestiare la creatura di Dio, condannò i nobili cattivi dello Spielberg a fare la calza.
Io non condurrò il mio lettore al finestrino della carcere, donde mostrargli come viva e come operi il prigioniero, lasciato solo con la sua solitudine; lo ha di già fatto lo Sterne, e in guisa da sgomentare qualunque altro volesse ritentarne la prova; il carcerato dello Sterne alla fine di ogni giorno tagliava una tacca in un regolo; al mio la disperazione risparmiava la fatica, facendogliela ella stessa nel cuore. Anco il suo cranio si mutava in prigione, imperciocchè ogni dì più si stringesse tanto da poter presagire che avrebbe in breve soffocato l'intelletto: cessata la milizia, è proprio inutile che il soldato vada a riscotere l'anima dal magazzino dov'ei la depositò; tanto non saprebbe più dove metterla. Curio, per mantenere più che potesse acceso il lume della ragione, chiese qualche libro a leggere; da prima non gli risposero nè manco, poi glielo rifiutarono, all'ultimo glielo concessero. Sapete voi qual libro? Ve lo do a indovinare su mille. La legge della leva del 20 marzo 1854 e il codice penale sardo del 1º ottobre 1859. Trovandosi in questo modo Curio costretto ad esercitare il suo ingegno sopra materia tanto infelice, operò come la valentissima non meno che sfortunata donna di Properzia de' Rossi, che sopra un nocciolo di pesca condusse in iscoltura tutta la passione di Gesù Cristo, con tale e tanto magistero, che chi la vide ebbe a restarne maravigliato.[10] — Avendo io potuto vedere il codice militare e la legge della leva concessi per sollievo del suo spirito a Curio, li rinvenni così tanto gremiti di osservazioni, note e pensieri, da far rimanere a bocca aperta la gente; tu ti hai a figurare una maniera di caleidoscopio dello intelletto umano, dove, girando, miri sciogliersi, aggrupparsi, tramutarsi senza posa risi, sorrisi, lamentazioni, capestrerie sempre nuove e sempre grottesche. Se mai capitasse in mano di romanziere, o di poeta, o di predicatore, o vogliamo legislatore, ovvero anche filosofo, chi sa quanto ci saccheggerebbero a man salva: per moneta non lo potei avere, e me ne increbbe; lo copiai in parte e giudico che valga il pregio citarne qualche tratto. All'articolo 5, t. I, c. 1, Curio appicca questo commento. — Ecco qui; in virtù dello articolo 5, la morte col mezzo della fucilazione nella schiena rende il condannato indegno di appartenere alla milizia; ed è ottimo accorgimento piemontese per distinguere la condizione dello ammazzato per davanti da quella dello ammazzato per di dietro; onde resta chiarito che se lo ammazzato per davanti dopo morto si presentasse al reggimento, hassi a ripigliare sotto le bandiere senza opposizione, mentre se lo ammazzato per di dietro ma' mai si attentasse dopo morto a presentarsi al reggimento, ne sarebbe addirittura respinto. — Atrocissima poi la chiosa di Curio all'articolo 3, titolo I, della legge su la leva, e meritata pur troppo: «Non sono ammessi a far parte dello esercito gli esecutori di giustizia, nè gli aiutanti, nè i figli degli esecutori, nè degli aiutanti loro.» Per questa guisa la gente, innanzi di entrare nella milizia, carnefice non ha da essere, dopo entrata sì; prima di entrare infame, meritoria dopo; se sei carnefice prima ti sbatacchiano la finestra in faccia, se dopo ti ribelli a fare da carnefice, e repugni, ed imprechi a cui ti costringe, commetti atto d'insubordinazione, ti scaraventano fuori della onorata milizia per la porta del sepolcro. Se ammazzi con la forca, infame e boia; se con una palla di piombo, inclito ed eroe! Arrogi, il boia ammazza sempre o quasi una belva feroce perduta nel delitto, cui tarda all'universale vedere arrandellata nella eternità, onde il boia talora salutano liberatore, anzi non mancano perfino filosofi che lo vorrebbero impancato nella magistratura e circuito di onorificenze al pari dei personaggi che vanno per la maggiore: — ma il soldato ammazza un uomo di cui la colpa domani non sarà colpa, che il sentimento della pubblica morale o scusa o non condanna; il boia macella persona a lui sconosciuta; il soldato rompe un cuore di un camerata, che forse amava e n'era amato: per la preda del boia veruno prega, per la vittima del soldato quaranta e più mila donne italiane; se taluno supplica per la prima, ottiene grazia sovente; per la seconda si prostra un popolo davanti al trono invano. Cipriano la Gala ha salvo il capo; Pietro Barsanti è messo senza misericordia a morte.
La prigionia di Curio tirava al suo fine, quando certa notte venne desto a forza da uno scoppio di fucile, che gli parve sparato accanto. Precipitandosi da letto corse a spalancare la finestra; ahimè! Si era dimenticato che la tramoggia toglieva la vista del di fuori; tuttavolta, essendo la tramoggia composta di calcina, la pioggia rodendo il cemento ci aveva aperto un breve pertugio, il quale allargato tosto da Curio col mezzo di un chiodo, gli concesse vedere una frequenza insolita di gente a cotesta ora; un andare e un venire di lumi dalla caserma; poco dopo comparve una bara portata da quattro uomini, i quali, come entrarono cheti, cheti del pari se ne uscirono: solo uno di essi piangeva tacito, pure di tanto non si potè tenere che in qualche singhiozzo non rompesse. Allora sopraggiunse un uffiziale infellonito e gli menò una piattonata da mandare faville sopra la spalla non gravata dalla stanga della bara! Il soldato si ricacciò in gola un altro singhiozzo che stava per uscir fuori; per vantaggino l'uffiziale aggiunse al colpo le parole: — Crepa piano, canaglia!
Curio, che moriva di voglia di sapere che cosa fosse accaduto, prese ad interrogare alla larga il carceriere quando prima gli comparve davanti, ma l'altro acqua in bocca; però Curio avendolo avvertito che tanto fra pochi giorni usciva, non si gittasse al ritroso, lo contentasse, il carceriere, trovato essere vero quello che gli ricordava, non senza molto raccomandargli la segretezza, che altrimenti guai a lui, gli raccontò come in settimana si avesse a fucilare un soldato per avere impresso il Vangelo dei cinque evangelisti[11] su la faccia del suo capitano: la sorte avere designato a formare parte del drappello dei fucilatori certo suo compaesano, che molto lo amava, anzi aveva sentito dire ch'era stato suo fratello di latte, e poichè nè per preghiera, nè per minaccia aveva potuto ottenere la dispensa, vinto dalla passione si era messo il cervello in bricioli. Intanto, il carceriere aggiungeva, le tradizioni della disciplina antica si disfanno: se si tira avanti di questo passo, per me non so dove si vada a cascare; una volta noi altri savoiardi della vecchia stampa, prima di disobbedire al regolamento avremmo fucilati padre, madre, fratelli, sorelle, la serva e il servitore...
— Ammazzò padre, madre e la sorella,
Il fratello, la serva e il servitore,
come Marziale, cantarellò Curio; e l'altro.
— Precisamente!
Allora Curio ficcò bene gli occhi addosso al carceriere, dubitando avere così al barlume dell'alba scambiato la faccia di un lupo con quella di un uomo. Niente affatto; la faccia del carceriere appariva qual'era, faccia di uomo pio, che in quel punto si levi, forbendosi la bocca col tovagliolo, dalla mensa eucaristica; — pinzo e beato. Soli il catechismo cattolico ed il regolamento piemontese hanno virtù, di conciarti la creatura umana a quel modo.
Tosato, vestito di tela greggia, Curio, il bellissimo Curio, adesso comincia la vita del soldato: andare per carne e per pane, portare buglioli di acqua spesso, rado di vino, segare legna, spaccarle, recarsele in ispalla: nè questo era tutto: spazzare la caserma, lavarla; nè questo era il peggio... insomma di opere servili e sozze un mucchio; ond'egli fra tante e tanto laidissime cose si guardava bene di richiamare alla mente la cara immagine della gentile Eufrosina, pauroso d'inquinarla; anzi, se mai gli cadeva nella mente, egli si affaticava di cacciarnela via come mosca impronta che si ostini a passeggiarti sul naso. Fra le uggie che lo infastidivano a morte, conforto unico, quando gliene veniva fatta licenza, condursi solo in riva al fiume, e quivi sdraiato contemplare inerte di pensiero e di corpo l'acqua che passava; alfine si alzava sospirando: — Perchè non passo anch'io? — Ovvero seduto lungo il lido del mare, con la punta di un ramoscello tracciava sopra la sabbia geroglifici, che l'onda irrompente di subito cancellava. Un tristo filo gli filava la Parca.
Certo giorno, quello dei suoi cento padroni che gli sta immediatamente sul capo, gli ordina: s'imbianchi dove ha da comparire bianco; si annerisca dove ha da comparire nero; di tutto punto si abbigli, perchè sul mezzogiorno si aspetta il maggiore, che verrà piumato, inargentato, con tanti voti sul petto da dar quindici ed una caccia ai piedi alla miracolosa Madonna di Oropa.
Il maggiore venne serio come un bufalo; gonfio come un tacchino quando fa la ruota; in sembianza non di bestia, bensì di tutte le bestie dell'arca di Noè. E ora perchè si rimescola il sangue da capo alle piante a Curio? E perchè sopra la faccia sparuta del maggiore adesso si stende un'ombra a mo' che accade su la campagna aprica, se una nuvola venga improvvisa a passare traverso i raggi del sole? Curio riconosce nel maggiore il vile Fadibonni e il Fadibonni lui; la rassegna si compiva in meno che non si dice un credo; al maggiore ogni istante pareva mille anni di trovarsi lontano di là. Quello e l'altro dì passarono senza accidente; al terzo Curio ricevè un invito di presentarsi al maggiore; ed egli, non potendo fare a meno, vi si recò; il Fadibonni, appena lo vide, chiuse l'uscio, avvertì di tirare le cortine, e all'ultimo, voltosi a Curio, con allegra faccia lo abbracciò, lo baciò, ed ei si lasciò fare; finalmente il maggiore prese a ragionare così:
— Or di' su, qual destino ti balestra in queste parti? Quali i tuoi casi? O perchè non hai messo il cambio? La è questa una delle tue solite capestrerie?
— I casi miei sono lunghi ed infelici; dispensami da contarteli; non misi cambio perchè una condanna di disertore mi obbliga a entrare nella milizia, e ad ogni modo mi sarebbe mancato il danaro.
— O che non sei più ricco?
— Misero, ma misero assai.
— E i parenti?
— Morti tutti, o falliti.
Qui la solita ombra si diffuse sopra la faccia del maggiore, il quale, stato alquanto sopra di sè, soggiunge:
— Ma i tanti amici?
— Mi ha repugnato andarli a cercare.
— E i debitori tuoi?
— Sono liberi pensatori: col paternoster non ci hanno pratica; e dacchè il proprio dovere non li persuase a sodisfare al debito, ho rifuggito costringerli con la forza.
— Ma ti hanno fatto pagherò?
— Certo, e di molti.
— E li possiedi?
— Io li possiedo.
— O senti; fa' una cosa; se li hai addosso mettili fuori, se no, va' a pigliarli; ti aspetto qui a piè fermo.
— E a che pro?
— Va' a pigliarli: al resto penseremo dopo.
Curio andava pei pagherò; e rovistando per lo zaino rinvenne una obbligazione dello stesso maggiore, di seicento lire, la quale mise da parte come quella che non faceva al caso; tornò con gli altri fogli al quartiere del maggiore; il quale, poichè gli ebbe visti e considerati, disse:
— Curio, da' retta, tu mi hai a girare in regola questi biglietti, ed io mi porrò coll'arco del dosso a riscuoterli, adoperandovi, dove ne faccia di bisogno, l'opera di certo legale che leverebbe il fumo alle schiacciate; occorrendo spese le butterò fuori io, e del ricupero spartiremo a mezzo. Ti va?
— A dirtela schietta, la non mi va; ma il bisogno non mi concede di guardarla così pel sottile; e poi alla fin fine non mi pare mica giusta che i miei debitori abbiano a riportare premio della indiscretezza loro, quale altri si attenderebbe invano da una bella azione; ma e tu, dimmi, come ti trovi a casa tua?
— Eh! mi troverei anche troppo bene, perchè dalla mamma in fuori io non conosco parenti; ma la è vecchia, bacchettona e bizzosa; suo padre istituì, morendo, me erede proprietario, lei usufruttuaria vita naturale durante. I preti le hanno stretto intorno il blocco; e sono fino arrivati a darle ad intendere che io professo dottrine eretiche, io, mentre credo in tutto,
E sopra tutto nel buon vino ho fede,
E credo che sia salvo chi ci crede...
La conclusione è ch'ella spende fin l'ultimo soldo co' preti, perchè con le messe e i tridui loro procurino salvarmi l'anima.
— Ma o la paga di maggiore?
— Oh! se a ciascun l'interno affanno... con quello che seguita; vien qua, accostati a me, ch'io non vorrei lo risapesse l'aria. Sai tu che ci è di nuovo? Se io ho voluto passare maggiore, mi è toccato obbligarmi a cedere un terzo della mia paga al colonnello per cinque anni, e appena ne sono passati tre.
— Che mai! Questo non è possibile.
— Possibile questo ed altro. Aggiungi l'uscita degli amori, di cui è rincarato il prezzo a misura della penuria dei viveri, e senza amore un cuore ben fatto non può durare un giorno... — dammi un fiammifero per accendere il sigaro... — e se in questa altalena non mi fossi armato di provvidenza col mettere da un lato in cima della tavola una vecchia, dall'altra una giovane e me in mezzo, a quest'ora io sarei andato a Patrasso; però a dare il tuffo siamo vicini, perchè alla giovane crescono le voglie, e alla vecchia scema la moneta...
— E simile contegno non ti nuoce alla reputazione?
— All'opposto, sarebbe screditato, e di molto, l'ufficiale che pelato non pelasse; aggiungi il gioco, nobile esercizio, apparecchio alla guerra, ma com'essa rovinoso.
— E com'entra il gioco con la guerra?
— Nel gioco, come nella guerra, assaltiamo, ci difendiamo, perdiamo, vinciamo, ci ritiriamo, rifacciamo le forze, torniamo all'offensiva: pari la filosofia nella guerra e nel gioco, sia per trarre partito dai tempi, dai luoghi, dalla conoscenza dell'indole dell'avversario: insomma impossibile esser guerriero e capitano bravo, se con notturna mano e con diurna non agitiamo indefessi le carte di lanzechenecco e di bambara. Ma a ciò diamo di taglio; or dimmi un poco, non ti converrebbe acconciarti meco per confidente?
— Confidente che è?
— Gli è il soldato di compagnia dell'uffiziale, ed è perciò che viene affrancato da ogni servizio al quartiere; onde, se togli il debito di pulire le sue vesti e la sua armatura, per due o tre ore per giorno esercitarsi, si può dire quasimente libero.
E siccome a Curio venne fatto di ridere, il Fadibonni, pigliando cotesto sogghigno per assenso, soggiunse: solo ti avverto, che se tu vuoi durare al mio servizio, quante volte tu ti trovi a conversare con gli uffiziali miei amici, procura dir corna del Garibaldi; più grosse le dirai e più verrai in fama; non chiamarlo mai generale, dagli dell'avventuriere, e se ti capita anco del brigante. Adesso corre il costume di ripetere con ammirazione il detto del gran capitano Lamarmora sopra di lui: cuor di leone, testa di asino. Io, vedi, per diventare maggiore non ebbi altri meriti oltre quelli di mordere il generale e cedere un terzo della paga al colonnello.
— Pazienza! Io non diventerò mai maggiore.
— Ebbene, se non vuoi dirne male, astienti da dirne bene, perchè, adesso che ci penso, sono tanti quelli che, beneficati da lui, se ne lavano la bocca, che ormai non se ne fa più caso; sta' zitto e basta.
— E quando mi disponessi a farti da servitore, quali sarebbero i miei obblighi?
— Meno che nulla, vedi. La mattina avresti a farmi il caffè e portarmelo a letto; ed ecco fatto. Scotere, bacchettare, spazzolare le vesti, il mantello, il berretto; ripulire gli stivali, lustrare sproni, bottoni e squadrone; assettarmi la sciarpa; ed eccoti fatto. Portare le lettere che lascerò la sera sul tavolino; se alla posta, alla posta; le altre a cui vanno, capitani, colonnelli, capi sezioni, segretari, ministro, eccetera; soprattutto hai da porre avvertenza a due, una colla busta gialla e l'altra con la busta rossa; la gialla va alla mia vecchia amante, la rossa alla giovane; guarda a non isbagliare, che tu mi spianteresti di netto; ed eccoti fatto. In un lampo ti sbrighi; tornato a casa, spazzi la camera, rifai il lotto, mi aiuti a vestire, mi cuoci tre uova o quattro, a battiscarpa mi arrostisci una braciola...
— C'è altro?
— Vai pel pane, pel vino, apparecchi, sparecchi, risciacqui i piatti e bicchieri, ed ecco...
— Basta, basta; sai che ho pensato?
— Che hai pensato?
— Che tutte queste cose ti farai da te.
— Come! ricusi? Un vero canonicato!
— Per ora non ho colpa da meritarmi i lavori forzati.
— Ma al quartiere ti toccherà peggio.
— Può darsi, ma servendo tutti, servo nessuno; e tra questi tutti ci entro ancora io.
— Bada! te ne pentirai.
— Allora ci sarà sempre per rifugio l'inferno.
— Tuo cuore, tuo consiglio. Oh! a proposito; bisogna ti dia un avvertimento: fuori di qui non ci conosciamo; anzi, procura di fare in modo da allontanare fino il sospetto che ci siamo conosciuti.
— Oh! quanto a questo vivi tranquillo, sarà pensiero mio.
E si separarono.
Fadibonni, rimasto solo, si mise a riscontrare i pagherò. Cento, duecento... oh! delizia, trecentocinquanta, cinquecento, uno di mille! Benedetta la mamma che ti ha fatto, o Curio dell'anima mia!
Insomma, e' ce n'era per una diecina di mila lire, e che nomi! Giovani della più prelibata nobilea; di oppositori e di sostenitori sfegatati del ministero; neri, rossi e azzurri. — Ma questa è una manna, di tratto in tratto proseguiva a dire il Fadibonni, Dio mi ha fatto piovere le quaglie fino in casa, e per giunta belle e arrostite.
Però anche qui egli ebbe a provare come il giudizio umano spesse volte erra, imperciocchè coloro ch'egli reputava pan buffetto sotto ai denti, gli parvero ghiaie, mentre gli altri che avrebbe venduto a mezza lira il paio, gli riuscirono meglio a pan che a farina. Breve: strizzando, attorcigliando, stiracchiando, non senza avvantaggiarsi delle infinite torture inventate dal suo mozzorecchi, potè racimolare cinquemila lire ad un bel circa. A questo modo passarono due mesi e più, quando Curio, un po' per vaghezza di sapere a che fosse cotesto negozio approdato, e molto per bisogno che pativa di danaro, si fece a trovare il maggiore. Stava per tirare la corda del campanello di casa, quando abbassando gli occhi vide a piè dell'uscio una lettera; la raccolse e conobbe essere diretta al maggiore: lo prese il capriccio di leggerla; e perciò sceso pianamente si condusse in parte dove giudicò non lo avrebbe disturbato alcuno; colà lesse quanto segue:
«Snaturato figliuolo! Ti scrivo e non rispondi; meglio avessi io dato la vita a un cane che a te; eccomi qui, meschina, dopo avere strutto quel poco che avevi e il molto che io possedeva per eredità paterna, di cascata in cascata prima mi trovai ridotta per campare darmi dintorno a vendere erbaggi; all'ultimo infermai e strema di tutto mi condussi all'ospedale dove ora mi trovo; la febbre è cessata, ma io non valgo a reggermi in piedi; lo spedalingo ha promesso tenermi qualche altro giorno per carità, ma lunedì mi toccherà andarmene senza remissione. Credilo, figliuolo, credimelo quanto è vero Dio, a me non rimane altro che mendicare, ma io non ho balìa di strascinarmi per le strade: cascherò su qualche muricciuolo e lì morirò. Mandami per le piaghe di Gesù Cristo un qualche soccorso; non me lo negare; non t'infingere povero per ributtarmi, che io so come tu spendi e spandi in male femmine e in gioco, che fu e sarà sempre la tua rovina. Altro non aggiungo: aspetto la tua risposta a braccia aperte, supplicando la beatissima Vergine che ti tocchi il cuore. Tua madre in lacrime. — Bergamo. — Livia O. T.»
Senza dubbio nel cavarsi la chiave di tasca per aprire l'uscio, cotesta lettera era cascata al Fadibonni; Curio nel ripiegarla pensò: una più, una meno, non sarà quella che lo manderà all'inferno.
Curio fece male a leggere la lettera. E chi lo nega? Per me dichiaro che fece malissimo. Tamen, ci hanno pecche naturali che non si possono correggere; ed io che scrivo conosco un uomo probo, e che per quello che fa la piazza si potrebbe citare per esempio, a cui tu confiderai sicuramente un tesoro, ma guardati di lasciarlo solo in camera tua: egli in un bacchio baleno te l'avrà rovistata da cima a fondo, frugata in ogni parte più intima; spiegato e ripiegato vesti, biancherie, pannilini e lani; aperto lettere, lettele e rimesse al posto: caso mai tu avessi smarrito in camera tua qualche oggetto, vivi tranquillo, ch'egli te lo ritroverà. Che ci vuoi fare? È istinto congenito alla natura degli uscieri, dei commissari pei gravamenti, degli espositori ai pubblici incanti, dei notari, e, bisogna che lo confessi a confusione mia, dei romanzieri.
Curio, non so a qual titolo, pareva affetto della medesima infermità.
— Dulcissime rerum, esclamò il maggiore quando, aperto l'uscio, gli comparve davanti Curio — Mira eh! se mi rammento del mio vecchio latino? Non ci si vede mai, come dicono lassù a Firenze quegli squasimosdei del bel parlare arnino; che fai? come te la passi?...
— Nel venir su; a piè dell'uscio di casa tua ho trovato questa lettera... m'immagino che ti appartenga, — e in così dire gliela porse.
La solita nuvola ottenebrò correndo la faccia del Fadibonni, il quale irrompendo in risa sfrenate domandò a Curio:
— E tu l'hai letta?
— O che nella lettera ci è scritta cosa che a te rincrescerebbe io conoscessi?
— Ho capito. Tu l'hai letta... avrei fatto come te — e continuava a ridere, a ridere — che vuoi tu? Dai dai, mia madre, sempre serpentata dai preti, ha finito col dare la balta al cervello, e non poteva fare a meno; adesso s'immagina essere diventata mendica, e ridotta ora a vendere erbaggi, ora a rimpagliare fiaschi, tal'altra a raccogliere stracci per la via; custodita a vista, trova maniera di deludere la vigilanza dei guardiani e scappa, sicchè mi è stato forza ordinare ultimamente che la chiudano nello spedale.
E siccome Curio tentennava il capo, il maggiore riprendeva:
— O che volevi la lasciasse in balìa di sè stessa, perchè una volta o l'altra mi si precipitasse?
— No: posto che quanto mi hai raccontato sia vero, avrei voluto che tu nella miseria di tua madre non trovassi argomento di riso.
— Te l'ho già detto, soggiunse il maggiore, ed in subito si fece livido in faccia: dal partorirmi in fuori ella non mi ha dato mai altro segno di madre: fin qui furono i soli Padri Eterni a fare i figli crocifissi, ora poi che ci si mettono anche le madri, noi altri poveri figliuoli di famiglia possiamo addirittura andarci a impiccare.
Ma qui, accorgendosi che se le sue parole rendevano testimonianza di gaiezza come un lucignolo spento ricorda il lume che spandeva acceso, mutò discorso dicendo:
— Orsù, diamo un taglio a queste giammengole: favelliamo di affari; sai! io non ho mancato di usare le debite cautele per costringere al pagamento i nostri debitori; ho sudato acqua e sangue, e di qualche cosa sono venuto a capo; ecco delle diecimila lire cedutemi la metà, comecchè con molta fatica ho riscosso poche lire più o meno; ma per l' altra metà che spetta a te, in fede di gentiluomo io ne ho perduto la speranza, epperò mi tardava vederti, per renderti i tuoi pagherò, onde tu veda se a te, più fortunato o sagace, riuscisse cavarne cappa o mantello.
Così favellando aperse lo scrittoio, e cavatone fuori un pacco di pagherò, lo deponeva nella mano aperta di Curio trasecolato, e continuava:
— Questi tuoi debitori sperimentai della natura dei corvi; sentono l'odore della polvere; avvicinandosi il cacciatore, levansi a stormi e vanno a posarsi su gli alberi fuori di tiro.
Curio, anco qui non potendo altro, diede una scrollatina di spalle e fece bocca da ridere; parve che il maggiore se ne scorrucciasse; e di fatti con voce alterata proseguì:
— Non ti garba la partizione? Ebbene, non ci dobbiamo guastare per questo: buoni amici fummo e tali abbiamo a rimanere: da' qua i biglietti, io guarderò se dando un'altra stretta di forza al torchio qualche altro soldo mi riescirà a spremerne: anche di quelli che già ho riscosso intendo... anzi pretendo... e non lo contrastare, che lo tenteresti invano... fare a mezzo; darteli non posso, ma te li prometto.
Curio non si sentendo di umore di patire, oltre il danno, lo strazio, troncò il colloquio e prese commiato: per le scale si percosse della mano la fronte ed esclamò:
— Grullo, o Curio, nascesti e grullo morirai; e sì che a questa ora dovresti sapere che i ganci quando diventano diritti non sono più ganci.
Intanto, avendone agio, egli si pose a ricercare con molta cautela traccia dei suoi parenti; meglio non lo avesse fatto, gli parve di mettere il piede su la via del calvario; ad ogni passo inciampava dentro una tomba; cercò di Eufrosina e del padre Filippo; da questo lato ebbe nuove meno triste; non liete però. Filippo tra bene e male era guarito, ma camminava zoppo; col tempo sarebbe andato più spedito, forse; così almeno prognosticavano i medici, frattanto ranchettava. In grazia della protezione del buon maggiore suo amico, egli aveva ottenuto il posto di custode delle carceri militari del Castello di Milano.
Curio, dopo avere esitato un pezzo tra la pietà e la vergogna di comparire al cospetto della madre amatissima, da tanto tempo derelitta e in apparenza obliata, vinto dalla pietà, statuì condursi a Milano ad ogni patto; alla carità di figlio si aggiunse ardore di amante; se questo più e l'altra meno, chi saprebbe dire? Eufrosina era la luce dell'anima sua. Mercè la fede del medico curante, la madre ottenne il congedo per assentarsi parecchi giorni, e andò.
Giunto a Milano su la piazza del Duomo, voltò gli occhi in su per ammirarlo, imperciocchè ad ogni buono ambrosiano il Duomo rappresenti tutta Milano; di Lombardia e d'Italia anche un bel tocco, e poi un po' degli amici, dei parenti, del babbo, della mamma, e aggiungi altresì dell'amante. Tutti cotesti angioli, arcangioli e santi di ogni generazione, dentro e fuori le nicchie, egli reputa suoi conoscenti; tuttavia, se vogliamo dire la verità vera, Curio pareva guardasse tutta quella gente, ma non la guardava; tra il sì e il no gli ciondolava il pensiero se dovesse condursi prima a visitare Eufrosina, ovvero la madre; ci corre il debito avvertire che l'amore di figlio prese il sopravvento, e comparve improvviso a casa la madre.
Non si descrivono i pianti, i baci, le rimembranze dolorose del passato, nè gli affanni del presente, chè al guardo spaventato di Curio pur troppo la sorella Arria apparve come donna sopra la quale la morte abbia segnato: «posto preso.»
Il passato e il presente in tutto tenebra; nè meno buio il futuro. Eufrosina sempre divinamente bella; ma pari all'armonioso abitatore del cielo chiuso in gabbia, ogni giorno più perdeva della sua naturale vispezza.
Filippo rendeva quasi credibile la leggenda di Merlino, il savio mago, che lo afferma chiuso vivo dentro un sepolcro. I suoi occhi balenavano di tratto in tratto, ma le ciglia irsute provvidamente ne nascondevano il lampo; guai a lui se i superiori lo avessero avvertito; lo avrieno fatto spulezzare più che di passo; mentre presso costoro entrava in favore il celere obbedire, l'ostinato tacere e il non mostrare pietà!
Curio condusse Eufrosina alla madre, la quale a sua posta stette maravigliata da così eccelsa bellezza, e in breve, più che della bellezza, le piacquero l'anima ingenua e il forte volere. Ella sentì subito che Dio le mandava un raggio di consolazione per sollievo dei giorni che Arria traeva con tanta angoscia verso la tomba. Avrebbe la signora Isabella desiderato tenerla presso di sè, anche per conforto della propria tristezza, ma considerando lo stato in cui si versava Filippo, cacciò via da sè cotesto pensiero come una tentazione del demonio. Molti furono i ragionari e diversi, i quali veramente si potevano risparmiare, dacchè la conclusione stesse in mano della necessità, ed era: sperare e aspettare.
Chi immaginò prima il tempo vecchio ad un punto ed alato, sicuramente lo ebbe a provare in vita sua o celerissimo o tardo, a seconda della speranza o del timore; ora pei nostri personaggi fu la volta in cui parve che adoperasse l'ale, dacchè improvviso precipitò loro sul capo il termine del congedo, e bisognò pensare a separarsi. Tanto patirono pel nuovo distacco, che stettero a un pelo d'imprecare il momento nel quale desiderarono rivedersi: per ordinario nelle faccende della vita accade così, e se la mente presaga avvertisse i mali che stanno per nascere dalle cose appetite, io, per me, credo che l'uomo strozzerebbe le sue voglie appena nate, come Ercole in culla i serpenti.
Senz'altro accidente trascorsero a questo modo parecchi altri mesi; quando, certa notte, parve a Curio udire persona che piangesse a canto a letto; da prima sommesso, poi di mano in mano più forte, ond'ei, temendo pel doloroso, lo avvertì pianamente:
— Bada, fratello, che il sergente di guardia non se ne accorga e ti metta in prigione.
— Nè anche il pianto è concesso... ah!
— Ma perchè piangi?
— Te lo dirò — ed entrambi sporsero tanto i capi loro fuori del giaciglio, da toccarseli e da potere Curio intendere il susurro dell'altro. — La mia storia, proseguì il doloroso, per la umanità è vecchia, ma per l'uomo è sempre nuova... amai una cara fanciulla...
— Ed ella amò te...
— E fui preso nella leva; sai tu che numero estrassi? L'uno; mi toccò separarmi da lei e lasciarla...
— Incinta.
— O come lo sai? Chi te lo ha detto?
— Me lo ha confidato nelle orecchie madre natura.
— Adesso ella mi scrive non poter più celare il suo stato, non essersi attentata a frequentare le case in traccia di lavoro, e quando pure, vinta la vergogna, ci si fosse esposta, ne avrebbe ricavato infamia, non soccorso: ormai trovarsi allo estremo; non sapere come tirarsi innanzi; impegnato tutto; giacersi sopra la paglia senza saccone; finchè non avesse partorito la creatura che si sentiva muovere dentro le viscere, volere vivere, ma caso mai avesse dovuto soccombere sotto il peso della fame... per lo amore di Dio non sospettasse ch'ella con deliberato animo avesse ucciso il figliuolo di lui. Della povera creatura, di lei che lo amava tanto si ricordasse; nelle sue orazioni pregasse per loro. E più non potè dire, sicchè rimasero co' colli tesi, l'uno con la bocca incollata all'orecchio dell'altro.
A Curio, mentre teneva gli occhi intenti nella tenebra, ecco apparir disegnato con luce, che pallida in prima, diventa poco a poco più splendida e viva, il numero 600. — Ah! l'ho trovato, egli esclama, l'ho trovato, e quello che non avrei ardito per me, lo ardirò per lui; se non tutti, almeno in parte me li avrà pure a rendere; e dominato da questa fantasia, volto al compagno, con lieta voce gli disse:
— Camerata! coraggio; io ti posso sovvenire; dunque cessa di tribolarti; e per mio governo, a levarti di angustia quanto ti occorrerebbe?
— Ma, un cento di lire... ti paiono troppe?
— Cento lire! Dormi, dormi pover'uomo, domani io ti prometto il doppio, per lo meno.
— Ah! che gusto hai di straziarmi così? Era meglio ch'io mi tacessi.
— Oh! sai che ci è di nuovo? Che tu mi pari un villano calzato e vestito. Per me lo scherno ai miseri è delitto che supera ogni altro delitto. E questo disse in suono di scorruccio così sincero, che l'altro raumiliato rispose:
— Perdona; la miseria è paurosa e sospettosa.
— E spesso anche ingiusta.
— E spesso anche ingiusta... scusa da capo, e Dio ti benedica.
Fattosi giorno, Curio, debitamente facoltato, uscì dal quartiere per andare alle stanze del maggiore, avendo prima avvertito di mettersi in tasca il pagherò del Fadibonni. — Bussa. Il servo gli afferma sempre a letto il padrone: ed ei: — Aspetterò qui nella entratura. — L'altro: — Dio ne liberi! Il padrone non vuole che in casa si trattenga persona. — Non fa caso, soggiunge Curio, aspetterò giù all'uscio. — Scende e si pone in sentinella camminando su e giù quattro passi o sei traverso l'uscio. Il Fadibonni veramente giaceva in letto; quando si seppe liberato dall'importuno, si voltò sul fianco destro ed attaccò un altro sonno, cessato il quale chiama il servo e gli comanda:
— Va' un po' a vedere se il soldato ci è sempre. Il servo andò, tornò e disse:
— Ci è sempre.
— Potesse agguantarlo un accidente! E si voltò sul fianco sinistro, dove giunse ad appisolarsi da capo; svegliatosi, chiama:
— Biagio! Quel demonio è andato via?
— Illustrissimo no, egli va su e giù che pare un pendolo da orologio.
— E ora come si fa? Bisognerebbe pure che io uscissi di casa. E tu, Biagio, nei miei piedi che faresti?
— Io consigliare un signore come lei? Ma che le pare!
— Tira via, che faresti?
— Ecco, per obbedienza dirò: se mi trovassi nei suoi piedi, scenderei chetamente al primo piano, di là per la fune del pozzo mi calerei giù in chiostra dove fan capo le stalle che mettono sopra la strada dietro casa: così lascierei lo insolente a passeggiare tutto il giorno, se ne avesse voglia.
— Archimede non avrebbe trovato di meglio, esclamò Fadibonni, e la tua invenzione merita premio, e così dicendo diede mano al suo portafogli; il servo tese subito la destra; ma vuoto era il portafoglio, e vuota rimase la mano alzata del servitore. Il Fadibonni, sconcertato, poichè stette alquanto sopra di se, barbottava:
— E' piove sul bagnato! E sì che prima di giacermi a canto a lei avvertii a mettermelo sotto al capezzale... ma Giulia gentile li sente all'odore meglio che il cane i tartufi.
Curio non si mosse finchè non vide tramontato il sole; ed avendo mancato allo appello in quartiere, ci guadagnò tre giorni di arresto, uno dei quali inasprito col digiuno di pane ed acqua. — Quando si trovò libero uscì; mandava faville pari alla sbarra di ferro tratta fuori dalla fornace; guardava torto e taloccava iroso; non chiese licenza di abbandonare la caserma; per questa volta non pensa ad avviarsi a casa il maggiore, cerca i luoghi dove sapeva trattenersi costui; al caffè non lo rinvenne, non al biliardo, non al ridotto; di un tratto sbircia su la piazza un gruppo di ufficiali, e il cuore accelerando i suoi palpiti lo avverte colà trovarsi il maggiore; nè s'ingannava; vistolo, si accosta, e con la mano al caschetto gli fa il saluto militare; il maggiore descrive con la persona mezzo giro a sinistra e finge non vederlo. Curio si conduce dall'altro lato e rinnuova il saluto. Invano, che il maggiore si ostina a non volerlo vedere; ma Curio non si stanca, e tanto replica il saluto, che i compagni del Fadibonni, essendosene accorti, gli ebbero a dire:
— Maggiore! e' pare che questo uomo cerchi te; dagli retta, e liberaci dal fastidio.
Allora, stretto fra l'uscio e il muro, Fadibonni con mal piglio si appressa a Curio e a voce alta lo interroga:
— Cercate di me?
E Curio sommesso:
— Di te.
L'altro di rimando:
— Vien qua oltre e dimmi il fatto tuo.
Scostaronsi trenta o più passi dal gruppo degli ufficiali; quivi fermaronsi: e il maggiore continuò a dire:
— E ora che novità sono queste? Che vuoi? Che pretendi da me?
— Quattrini.
— Non possiedo più nè manco un soldo per me, o come vuoi ch'io ne dia a te?
— Trovane.
— E dove?
— A questo hai da pensare tu, che sei debitore, non io creditore.
Queste parole venivano profferite cupe, ansiosamente rotte; parevano passi che movano pel buio i duellanti all'americana per piantarsi lo stiletto nel cuore.
— Ma donde questo tuo disperato bisogno?
— Ecco... e qui Curio si fa a narrargli il pietosissimo caso del camerata, conchiudendo: — Tu capisci come sia pure necessario che queste creature non muoiano.
— Per me non vedo la necessità che vivano.
Siffatte parole, e più il suono beffardo della voce, irritarono da vantaggio Curio, che digrignò fra i denti:
— Orsù; manco discorsi, fuori quattrini.
Allora l'altro, presagendo la mala parata, muta voce e sembianza; con aria tutta compunta ripiglia:
— Ma tu sai, Curio, amico carissimo, che la metà dei nostri pagherò riscossa fu spesa, e dell'altra metà, malgrado ogni mio sforzo, non mi è riuscito cavarne ancora costrutto.
— Non questi, non questi ti chiedo, bensì gli altri di cui tu mi vai debitore in virtù di un pagherò segnato da te.
— Pagherò! Segnato da me!
— Già, di lire seicento... Io non ti metto con le spalle al muro perchè tu me le dia tutte; dammene due terzi; la metà, almeno un terzo, tanto che cotesti miseri non si buttino alla disperazione.
— E l'hai teco questo pagherò? Perchè, vedi, non arrecartene, sarà come tu dici, ma io non ne conservo memoria; voglimi usare la cortesia di mostrarmelo.
— È giusto; eccolo.
Curio lo estrae dal portafogli e glielo consegna, l'altro lo piglia e con moto rapidissimo se lo caccia in bocca per ingollarlo; però Curio, non meno celere di lui, con la manca lo afferra per la strozza, e tanto lo stringe, che non che il foglio, ma neppure l'aria ci può passare, e nella bocca aperta spinge due dita della destra e ne cava fuori il foglio lacero in parte, ch'ei getta via lontano per terra; poi a pugno chiuso piglia a pestargli il viso, che meno forte cala mazza del fabbro sopra la incudine; Curio sentì sgretolarsi sotto la mano il naso di costui, e gli occhi così di un tratto gli comparvero infaonati da parere un vero Ecce Homo. Accorsero gli ufficiali compagni del malcapitato per salvarlo da cotesto furore, e tutti di concerto si posero a tempestare con colpi di sciabola sui reni e sul cranio di Curio, finchè a lui, rotto in più parti della persona e tutto grondante sangue, non si prosciolsero le braccia stramazzando supino; nel cadere arrangolò:
— Sono morto!
Due barelle trasportarono il maggiore a casa e Curio all'ospedale.
Tre giorni dopo questo caso i soldati, attingendo acqua al pozzo per lavare la caserma, trovarono impedimento a tuffare il bugliuolo; a fine di rimovere l'ostacolo calarono un paio di ganci, ma, non bastando a sollevare il peso, ce ne aggiunsero un secondo paio, poi un terzo; tira... tira, fra schiamazzi e risa portarono fino all'orlo del pozzo un cadavere... il cadavere del soldato cui il buon Curio aveva promesso sovvenire; la giovane incinta, quando seppe l'atroce caso, si accosciò giù, si coperse il capo, stette immobile sul giaciglio di paglia, non pianse, cheta cheta aspettò che la fame le conducesse liberatrice la morte.
Fadibonni mise un bel pezzo a guarire, imperciocchè, quantunque le sue ferite non presentassero verun carattere di gravità, e' bisognò che aspettasse gli sfumassero dalla faccia il nero, il pagonazzo, il turchino, il verde e il giallo, che tanti sono appunto i colori della pesca reale.
Curio, preso dal delirio, si versò lungo tempo in pericolo senza speranza di salute, ed anche i medici se la buttavano dietro le spalle, non mica per difetto di carità, che anzi umanissimi erano, ma perchè conoscevano come, salvandolo da una morte, lo avrieno gittato fra le braccia di un'altra più triste e forse più dolorosa. Contro l'aspettativa e il desiderio così dei nemici che degli amici, sopravvisse, ed in capo a ben lunghi undici mesi Curio tornava più gagliardo di prima.
Intanto il tribunale militare aveva incominciato la istruzione del processo, e Curio, sottoposto agl'interrogatorii parecchie volte, aveva sempre con rara precisione esposta la cosa proprio nel vero modo in cui era andata; ma il Fadibonni con parole sdegnosissime la negava a spada tratta; chiamati gli officiali testimoni, non avevano veduto nè udito nulla; in cuore detestavano Curio, perchè mentr'egli credeva flagellare il solo Fadibonni, tutti ne sentivano dolore, come quelli che andavano tinti di una medesima pece. Però il colonnello, soldato vecchio e di virtù antica, il quale la corruzione della milizia italiana conosceva e deplorava, avendo voluto egli stesso interrogare più volte Curio e a lungo, era rimasto colpito dallo aspetto gentile di lui, dai modi ingenui e dallo accento di verità col quale raccontava, senza alterazione alcuna, nei suoi minimi particolari lo accaduto; anche gli facevano impressione la casata illustre del giovane, la cultura e la fama di prode. Il suo pensiero batteva sempre sul pagherò smarrito: se si fosse potuto ritrovare, certo a Curio una grossa pena sarebbe tocca pur sempre, ma la turpe fraudolenza del maggiore, quantunque non provata pienamente, lo avrebbe salvo dalla morte. In simile concetto si appigliava ad ogni amminnicolo per procrastinare la trattativa della causa, aspettando fiducioso che il miracolo della riperizione del pagherò avesse da un punto all'altro a verificarsi. Ma ormai erano a tale le cose, che un nuovo aggiornamento non sarebbe passato senza biasimo, e però l'apertura del giudizio fu stabilita per la entrante settimana.
Certo non erano di oro i fili che in cotesto periodo di tempo la Parca filava per Curio, ma per Fadibonni li filava di ferro arroventato. Nel cuore e nel cervello di lui perpetua si alternava la vicenda del caldo e del freddo. In mezzo all'allegria del convito, alla festività del conversare, nel vortice armonioso delle danze di un tratto una caldana di piombo strutto gl'inondava tutta la persona; una grandine di numeri 600 gli trafiggeva le pupille; traballava per cadere, e sarebbe caduto di certo, se altri sottentrando non lo avesse retto: questo poi non veniva da rimorso, bensì dalla paura che il pagherò si rinvenisse.
Il tempo, galantuomo vero, e, per giudizio mio, unico al mondo, si accosta con passo misurato al giorno del dibattimento e le angoscie del Fadibonni si fanno più atroci, mentre Curio, sovvenuto dalla coscienza netta, si rassegna a un destino ch'ei non può mutare: erat in fatis mala morte mori, come si legge sul tumulo di Giulia Alpinula, figlia infelice di padre infelicissimo.
Il Fadibonni giace, secondo il suo costume, voltandosi fastidioso ora da un lato ed ora dall'altro; spesso col lenzuolo si asciuga la faccia e il collo grondanti sudore, e forte soffiando spinge fuori il fiato fumoso. Al più lieve strepito schizza su a sedere sul letto e porge affannato l'orecchio; poi ricade e il petto gli si alza e gli si abbassa come se gli avesse a schiantare il cuore.
Squilla il campanello! E il Fadibonni su ritto a gridare da spiritato:
— Biagio, chi è? Va' a vedere chi sia. Chi è? Non ti movere.
— Caro lei, se non mi lascia andare, non glielo saprò dire di qui a domani.
— Va', si... fa' presto.
— Ci è il maggiore? si ode dalla stanza accanto; e subito rispondere:
— Non so... credo... andrò a vedere.
— Va' via, balordo; avrai da cercare un pezzo in una stanza e mezzo.
— Allora ci è, passi.
— To', gua'! sempre a letto, poltrone...
— Che miracolo è questo, capitano Parpaglione?
— Come miracolo? O che per te è miracolo che un amico vada a visitare un amico in angustie? Così favellava un uomo mal tagliato, di cui la faccia Rebecchino per risparmiare danari avrebbe potuto pigliare a insegna della sua osteria, e proseguiva: Ci è nulla in casa da bagnare la parola?
— Vuoi vino? Acquavite?
— Biagio, la boccia dell'acquavite e un gotto; il vino è per gli stomachi deboli.
Bevve di un tratto un bicchiere di acquavite che parve dovesse frizzare meglio del pepe, però ch'egli ebbe ad asciugarsi col dosso della mano a un punto la bocca e gli occhi lacrimanti.
— Come stiamo a sigari?
— Male; un mozzicone appena.
— Biagio, to' qua; il capitano avendo sbirciato sul tavolino un pugno di soldi, ne tolse senza cerimonie un pizzicotto, e dandolo a Biagio soggiunse: Va' a comprarne dalla Rossina... sai? la tabaccaia dal canto alle rondini; ella ci ha roba stagionata; avverti che fumino, e la foglia sia intera... pel tuo incomodo te ne regalo uno.
Uscito Biagio, il capitano ripiglia il discorso dicendo: l'ho mandato dalla Rossina, perchè non abbia luogo di tornare presto, avendo noi bisogno di tempo per ragionare insieme. E ora che ti senti? Che hai che mi fai bocca da recere? Non siamo mica in mare. Su allegro! Ti porto buone nove.
— Che nuove?
— Sai... quel certo... tale biglietto delle lire seicento è stato trovato.
— Trovato! E tanto il Fadibonni non si potè tenere, che non si avventasse in camicia come si trovava, a gambe ignude, scalzo, fuori del letto gridando:
— Chi lo ha? Dov'è? Me lo rendano, io ne ho bisogno, me lo rendano per Dio!
— Adagio perchè ho fretta, dice il proverbio; torna a letto. Così... da bravo. Il possessore del biglietto sono io.
— Dunque dammelo, via, a te non può servire nulla.
— Te lo darò: prima, perchè se io lo mettessi in processo tutto il nostro reggimento rimarrebbe infamato, ed io intendo ch'ei splenda in eterno nella pienezza del suo onore: secondo, perchè cervi con cervi non si levano mai gli occhi, e noi tutti protegge il beatissimo san Nicola: terzo, perchè posto nelle carte del processo, mentre te condurrebbe di certo al fiume, non so se salverebbe l'altro dalla fucilazione.
— Oh! dammelo, via... dammelo.
— Te lo darò, ma a un patto; e questo patto è che tu me lo paghi.
— E con quali danari?
— Co' tuoi, parrebbe.
— Non ne ho.
— Procurateli.
— Impossibile!
— Impossibile! — Meglio così, perchè non potendo cavarne verun profitto pel corpo, vedrò allora di avvantaggiarne l'anima; difatti, dando a te questo biglietto per nulla, commetterei una gravissima colpa, che mi tornerebbe a gola come lo stufato, e forse chi sa! Non è fuori dei possibili che questo pagherò, conosciuto dai giudici, non valesse a salvare la vita a quel povero diavolo.
— Ma egli è poi mio questo benedetto pagherò? Io non ricordo mica di averlo sottoscritto, o fammelo un po' vedere.
— Andiamo, via, burlone! Tu lo dovresti avere a quest'ora già visto e considerato; ma non monta; pigliati tutte le tue soddisfazioni. E qui, cavata di tasca una rivoltella a sei colpi, la inarcava; ciò fatto trasse dal seno il portafogli, e si disponeva ad aprirlo, quando il Fadibonni, sciolto un sospiro lunghissimo, disse:
— Camerata! basta; io non ne ho più bisogno. Giusto in questo punto mi risovviene avere sottoscritto quel pagherò.
— Gua'! Accade della memoria come della calza, che talora perde un punto, ma la calzettaia raccattandolo rimette a sesto ogni cosa.
— Però, camerata, ti giuro... non so su che giurare, ma ti giuro che non posso pagarti questa somma; di presente sborserò duecento lire; per le rimanenti ti segnerò pagherò a due e a quattro mesi di data.
— Dall'orecchio destro sono sordo e dal sinistro io non ci sento.
— Per carità, lasciati commovere le viscere.
— I' sono nato senza.
— Mira, mi raccomando in ginocchioni.
— Levati su, che potresti chiappare una infreddatura. Un regalo i' ti vo' fare.
— Bene, bravo.
— Io ti rilascio gl'interessi su le seicento lire dalla scadenza del tuo biglietto in poi... e vedi che in sei anni arrivano ad una bella sommetta.
— Quanti anni hai detto? O che ha sei anni dalla sua data il biglietto?
— Sei per lo appunto.
— O santo mio protettore! esclama il Fadibonni battendo palma a palma; tu mi hai liberato dalle mani dei miei nemici, ed io da qui innanzi te servirò unicamente: e manibus inimicorum nostrorum liberati serviamus illo, come dice il salmo.
— Come! il salmo ti libera da pagare i tuoi debiti?
— Non il salmo, ma l'articolo 285 del codice di commercio.
— Va' via, ragazzo! Non sai che quando il tuo diavolo nacque, il mio andava ritto col gonnellino. La tua non è obbligazione commerciale, bensì civile, e questa si prescrive dopo dieci, non già dopo cinque anni; e poi, dacchè tu sai a menadito i tuoi codici, rammentati il rimedio dell'articolo 2142 del codice civile. Ma la questione, mio ragazzo, non è qui; la quistione è che tu hai impugnato questo biglietto; il biglietto esce fuori, io l'ho raccolto dopochè il soldato te lo ha tratto di gola mezzo inghiottito; ora, se io lo ripongo in processo, che tu non me lo pagherai in moneta conosco benissimo, lo pagherai però con tanta infamia alla morte.
Il Fadibonni, vedendosi capitato in male branche, fa greppo come i fanciulli in procinto di piangere, e gagnolando dice:
— Ma perchè ti provo tanto nemico? Ti ho offeso forse nell'onore? Nella vita?
— No; tu mi hai unicamente portato via quattrini e di molti. Adesso mi capita il destro di rifarmi e me ne approfitto.
— E quando ti ho rubato denari io?
— To'! Questa è nuova di zecca; quante volte tu hai giocato meco, tante non mi hai pelato da mettermi addirittura nello spiedo?
— Io gioco da gentiluomo; tanto vero questo, che per colpa del gioco mi trovo scorticato.
— Amor mio, ciò, se è vero, significa che tu, più esperto di me, mi hai divorato, ed essendoti poi imbattuto in persona più capace di te, ti ha divorato; in terra e in mare pescicani; chi sa che non abbiamo a trovarne anche in cielo.
Il Fadibonni, chinata la testa, pensò; vedremo più tardi a che cosa pensasse; quando rilevò la faccia si conobbe che il demonio, passando, lo aveva schiaffeggiato con la sua ala, ed umilmente prese a dire:
— Fruga da per tutto e ti chiarirai com'io non possieda cinquanta lire; dammi tempo ond'io possa provvedere; se non riesco mi ammazzerò...
— Riassicurati; ti garantisco io dai tuoi proponimenti micidiali; va' franco, noi non siamo di quelli che si uccidono; in qualunque articolo del codice penale noi possiamo andare come a locanda. Ti basta un giorno? No? Ebbene, non buttarti al disperato, pigliane due; dunque a domani l'altro, qui, a quest'ora: vale.
E versatosi un altro bicchiere di acquavite se lo rovesciò nello acquaio della gola e partì.
Il maggiore, quando abbassò la fronte umiliata, aveva pensato a certo suo tiro, ma ruminandoci sopra gli ripugnò, perchè ogni uomo possiede limitata la sua potenza di ribalderia, come la statura; per la qual cosa, uscito di casa, si mise a camminare randagio come cane senza padrone; andando in questo modo a casaccio, le gambe, in virtù della consuetudine, lo portarono nella strada dove albergava Abacuc Ottolenghi, usuraio classico fra i più spettabili della città. Abacuc il giorno di sciabà in casa era repubblicano, i giorni di lavoro monarchico savoino; usuraio sempre; però quando si trovava tra i suoi sosteneva sul serio, che dopo ottenuta la libertà dell'usura, gli ebrei non si dovessero assaettare dietro altre libertà: il coronamento dell'edifizio lo avevano conseguito. In gioventù si era lasciato ire fino a mantenere una figurante del teatro, ed anche un cavallo: sebbene più prossimo ai settanta che vicino ai sessanta anni, nè obliava le palme di amore e nè le sperava: vestiva di tutto punto all'inglese, e per darsene meglio l'aria portava pendenti dalle guance due code simili a quella che la volpe, di gusto migliore, tiene unica attaccata al codione. Abacuc andava lieto di uno Abramino, figliuolo unico, sua cura e sua delizia; a lui rassomigliante come uovo di piccione a quello di luccio. Ora il Fadibonni s'imbattè giusto in costui; e giova sapere come Abramino si fosse per lo addietro intabaccato di Giulia, la femmina che teneva il maggiore a sua posta, e le avesse fatto recapitare più volte biglietti zeppi di desiri molli e di profferte sode; ma Giulia li aveva lasciati senza risposta per moltissime ragioni, di cui queste le capitali: il maggiore le andava a genio più di Abramino; aggiungi il maggiore non accennava ancora di trovarsi al verde, onde, come donna di comprendonio, si attenne alla regola, che chi lascia la via vecchia per la nuova spesse volte ingannato si ritrova; le altre ragioni per cui cotesti voti amorosi andarono a monte non importa dire; basti conoscere che il Fadibonni li seppe, e prima la donna glieli negò con un muso da batterci sopra le monete, poi, mutato consiglio, spontanea glieli confessò per farsene merito presso di lui.
Abramino, coniglio, non già leone di Giuda, appena sbirciato il maggiore tenta scansarlo, e questi vie più diritta gli mette addosso la prua; si accostano; si urtano quasi; è chiusa ad evitarsi ogni via.
— Signor Abramino, o che le faccio paura? Non sono mica Attila, io. Si rassicuri, e sappia ch'ella mi è stato sempre simpatico.
— Grazie, caro lei, signor maggiore, grazie.
— O che pensa, che io le porti il broncio perchè ella vuol bene alla mia Giulia?
— Creda, caro signor maggiore...
— Credo, signor Abramino, ch'ella non poteva porre il suo affetto in luogo più degno. — Veda: le sue qualità fisiche sono giudicate dall'universale stupende, maravigliose, anzi divine; eppure, di petto alle sue qualità cormentali sono meno che nulla; e ohimè! dopo aver trovato tanto tesoro mi tocca a lasciarlo; ah! destino infame. Sono fuori di me, e per la passione vado per le vie come smemorato.
— Caro lei, o perchè la lascia?
— Dio, che angoscia! Il mio reggimento sta per essere traslocato in Sicilia, e le enormi perdite che ho fatto al gioco mi tolgono la facoltà di condurla meco; io sono ridotto nel duro stato di desiderare una persona proba, dabbene, generosa, che me ne tenesse conto... le usasse i riguardi che merita... Se questo mi riuscisse, mi sentirei meno desolato...
E siccome Abramino, sospettoso, lo guardava sottecchi e non fiatava, il Fadibonni, incalzando, aggiunge:
— Ah! s'ella, signor Abramino, la pigliasse sotto la sua protezione... dacchè so che ama svisceratamente cotesto angiolo... se mi promettesse tenerla come la teneva io... gua'! poichè così vuole il destino, piuttosto lei che un altro.
— Se la spesa non fosse grave; se mi convenisse non sarei lontano dall'accollarmela... si può sapere, caro lei, quanto costerebbe il mese?
— Ecco... io l'aveva, si può dire, quasimente per nulla; per vitto e vestiario cinquecento lire...
— Per nulla! Ma che canzona, caro lei? Il mio signor padre mi ha assicurato più volte che in sua gioventù con cento lire, a sfondare, si aveva fior di roba.
— Ma, signor Abramino, si compiaccia riflettere che altre volte con quarantacinque centesimi si comprava una libra di carne di vitella grossa di prima qualità, ed oggi non bastano sessantacinque per quella di vacca... il porco costa un occhio, quantunque non manchi sul mercato. Consideri ancora che il suo signor padre non gli ha detto s'era solo in affari o in società... ho luogo di credere ch'egli stesse in società, se non in accomandita, almeno in partecipazione.
— Dunque cinquecento lire tutto compreso?
— Meno l'alloggio, che fa una bagattella... un duecento lire al mese.
— O Abramo, babbo dei babbi miei! Ma che crede che li abbia rubati io?
— Lei no... ma via, a questo diamogli un taglio. Confesso aver preso un granchio; e sì che doveva sapere che con voialtri ebrei non si può fare un pasto a garbo. Procurerò menar meco la Giulia, e così risparmierò a questo mio cuore lo strazio di separarmi da così angelica creatura.
— Caro lei, non vada in furia, finalmente è lecito, sotto l'impero dello statuto, a ogni cittadino tirare ai propri interessi; — se si potesse risparmiare qualche centinaio (e siccome guardando in faccia il maggiore vide che a queste parole costui strabuzzava gli occhi, si corresse...) qualche cinquantina... ventina di lire.
Ma l'altro aggrondato esclamò:
— No signore, caschi un quattrino, a monte ogni cosa.
— Ma scusi, signor maggiore, adesso mi viene in mente un dubbio: mi sembra, caro lei, che noi contrattiamo della pelle dell'orso prima di averlo acchiappato; la signora Giulia va d'accordo di essere girata all'ordine mio?
— La Giulia, parola di gentiluomo, di tutto questo è al buio; stringiamo il partito fra noi e poi m'industrierò io per farglielo accettare.
— Dove non ci è guadagno la perdita è sicura; senta prima, conchiuderemo dopo.
— No, prima stabiliamo, che non vo' trovarmi in fine ad avere buttato via fiato e passi.
— Come comanda; dunque per seicento lire sta per me.
— Settecento ho detto.
— Va bene; aveva sbagliato.
— Anticipate.
— Anche pagare avanti?
— Certe cose si pagano avanti; consulti tutte le leggi civili e le canoniche e toccherà con mano che si pagano sempre anticipati... sono alimenti, capisce?
— Dove andò il brigantino vada il barchetto; dunque vada e si spicci, che sono aspettato in borsa.
*
— Giulia, mia divina Giulia, esulta; oggi ti vengo davanti messaggero di liete novelle... io ti abbandono.
— Su due piedi?
— Su due piedi: come vorresti che io ti lasciassi su quattro?
— Ahi, scellerato! Senza lasciarmi un dolce pegno di te? Senza nè anche pagarmi il mese di casa arretrato?
— Di poca fede! perchè hai dubitato? Da' retta e veniamo subito a mezzo ferro, che a te preme, come a me, stringere presto il negozio.
— Sono tutta orecchi.
— La necessità mi costringe a lasciarti; il mio reggimento muta di guarnigione; nè la mia miseria mi concede condurti meco, che pure mi sei cara quanto le pupille degli occhi; però non volli palesarti l'animo mio se prima non aveva provveduto per bene le tue faccende; — da me dunque avevi duecento lire al mese?
— Cioè, me le promettesti, ma io non le vedeva mai intere, e per di più a spilluzzico.
— Ora ne avrai cinquecento anticipate, e tutte in un picchio.
— O angiolo mio!
— Nè questo è tutto; per alloggio, servitù et reliqua altre duecento lire, del pari anticipate.
— Bada, maggiore, si muore di piacere come di affanno; ma caso mai ti fosse venuto l'estro di far la burletta meco, ti avverto che ho un paio di granfie da conciarti pel dì delle feste.
— Giulia, non mi fare la cialtrona; io parlo da senno; una difficoltà ci potrebbe cascare, ma verrebbe da te.
— E sarebbe?
— Colui che destino a surrogarmi nel tuo cuore è un ebreo.
— Non guasta; volterò la Madonna dall'altra parte e tutto sarà accomodato.
— Brava! Libera Chiesa in libero Stato. Dunque ti annunzio un gaudio magno, il mio sostituto è Abramino Ottolenghi.
— Già me l'era immaginato...
— Accetti?
— E come!
— Co' tuoi bei modi angelici tu arriverai a strappargli le penne maestre: non ti mancherà il cuore; in ogni caso ricorda che ti è affidata la vendetta di mille pelati fin della calugine.
— Circa a questo io ci renunzio, perchè, vedi, amor mio, è più facile pelare un pettine da lino che un ebreo, quantunque innamorato e di nido. Credilo...
— Alla tua esperienza; ci credo e non fiato più: però è bene che tu sappia che tutto questo non ti sarà concesso fruire senza il mio consenso, perchè l'ebreo mette per condizione finale al contratto il pacifico possesso.
— O non lo hai già dato il tuo consenso?
— Io non l'ho dato, ma lo darò a un patto.
— Quale?
— Che delle lire settecento pel primo mese tu me ne abbia a rendere mezze.
— Mezze! Ma che ci pensi? Ed a qual titolo pretendi tanti quattrini? Allora il mercante guadagnerebbe meno del mezzano?
Il Fadibonni suo malgrado avvampò. Nella guisa che il sole vicino al tramonto manda l'addio dei raggi vermigli al vertice dei colli, il pudore moribondo tinse coll'ultimo rimasuglio del suo cinabro le gote di costui. Riavutosi alquanto, rispose alterato:
— Dei titoli ne avrei parecchi; ti basti quest'uno: l'altra notte, coricandomi allato a te, misi il mio portafoglio sotto il capezzale. Vana precauzione! La mattina lo rinvenni vuoto, e dentro ci aveva messo... se ben ricordo... o cinquecento o quattrocento lire.
— O bugiardo della forza di mille cavalli; io ci trovai uno da cinquanta, tre da cinque, sei palanche e un doppio soldo...
— Dunque sei tu quella che rubasti? Era cotesto il tuo primo furto?
— Sfido io, o che volevi che campassi di aria? Anche il re per capo d'anno lo ha detto.
— Ma io ho giocato per te... ma io mi sono spiantato per te... ma io mi sono nabissato nei debiti per cagione tua! E mentre io mi affatico a crearti stato di regina, a te basta il cuore per lasciarmi morire di stento? Questo è il tuo amore? Questa la riconoscenza?
— Va' via, matto; attendi la settimana santa per cantare le lamentazioni. Senti, non buttiamo via il fiato; le lire duecento per lo alloggio non si hanno a toccare, perchè mi bisognerà pure mettermi attorno uno straccio di cameriera. Alle cinquecento che rimangono facciamo così, diamo nel mezzo.
— No; trecento almeno.
— No; duecentocinquanta al più.
— A monte ogni cosa.
— A monte. Bada, cuor mio, vengo di razza di can barbone; gettami in mare quanto vuoi, io mi terrò a galla.
— Ma ti toccherà nuotare; nè sai se ti avverrà, e quando, giungere a riva; e ad ogni modo ci arriverai tutta bagnata. Sopra Abramino non ci potrai fare più assegnamento...
— No! E perchè?
— Perchè guai a lui se ti guarda! Gli metterò addosso una paura da mandarlo in visibilio.
— Ebbene, io cercherò uno che metta paura a te.
— Vien via, sguaiata! non ci facciamo il sangue verde.
— Per me sono amica di tutti.
— E te lo credo senza che me lo giuri; dunque vuoi darmi sole trecento lire?
— Ho detto duecentocinquanta.
— Risolutamente?
— Risolutamente.
— Ebbene, vada per duecentocinquanta.
— E dimmi, quanto mi toccherà aspettare il tuo sostituto?
— Queste le son faccende che si fanno bollire e mal cocere; vado per esso e te lo conduco subito.
— Delizia mia! Se tu avessi indovinato per tempo la tua vocazione, a quest'ora saresti triplice milionario; ma sei sempre giovane, ed un bello avvenire si distende innanzi a te.
Il Fadibonni non intese le parole della landra, o finse di non intenderle; pauroso che l'uccello se la svignasse dal vergone, aperto l'uscio di casa, si cacciò a scavezzacollo giù per le scale.
*
— Caro lei, com'è che la vedo tanto rimescolato?
— Abramino, mi compatisca, ahimè! pensando a dovermi dividere da quella divina creatura, mi sento pigliare dal ribrezzo della febbre quartana.
— Per vita mia, io non vorrei essere cagione di tanti disturbi. Quando ci entra di mezzo la passione non si è mai sicuri... e considerando che domani l'altro ella potrebbe pentirsene...
— Domani parto.
— Allora muta specie... e se la signora Giulia acconsentisse...
— Ella acconsente; e confida di essere nell'amarezza che l'opprime consolata da tanto bravo giovane quale ella è.
— Dunque parrebbe che remosso ogni ostacolo io potessi liberamente presentarmi a lei?
— Aspetti un momento ed avrò l'onore di presentarla io stesso; — prima però mi occorre pregarla.
— Di che?
— Non si spaventi, Abramino: di cosa che lievissima per lei, tornerà a me di supremo vantaggio: ho bisogno di trovare in presto mille lire per tre mesi.
Abramino, facendo il chinese, rispose: — Niente di più facile.
— E viva sicuro di due cose: del pagamento puntuale a scadenza e della mia eterna gratitudine.
— Degli affari di casa io non mi occupo, ma ho motivo di credere che, presentandosi al banco Ottolenghi, vostra signoria non sarà rimandata, somministrando, bene inteso, le debite cautele e pagando gl'interessi di ragione... anticipati.
— Che guarentigia vuol'ella che io le offra? O che la mia obbligazione non l'avrebbe a bastare?
— A me basterebbe; ma io sono figliuolo di famiglia; nelle faccende del banco non mi occupo punto; quattrini non tocco. Il mio signor padre mi assegna lire mille al mese, le quali giusto ho riscosso dal cassiere stamattina: di altro non posso disporre.
E per mostrare che diceva la verità, tratto fuori dal portafogli mi biglietto bianco della Banca Nazionale, lo mise sotto gli occhi del maggiore, il quale, vedendo la bugia trottare sul naso di Abramino, soggiunse:
— Ma a lei non costerebbe niente a procurarseli altrove.
— Dio ne liberi! Se il mio signor padre venisse a saperlo mi diserederebbe.
Allora il Fadibonni conobbe in un attimo come ogni discussione menerebbe a nulla, onde, chiappata la mosca a volo, riprese:
— Pazienza! Pel rimanente cercherò altrove; intanto fo capitale su le trecento lire che avanzano a lei, dopo pagate le settecento a Giulia.
— E allora, caro lei, con che rimango io?
— Oh, a lei ricco sfondolato non mancano mezzi di far quattrini! Intanto pensi che se ho creato debiti l'ho fatto per sopperire al mantenimento di Giulia, che le merci furono portate a casa sua, che dove non le pagassi io potrebbero molestare lei, e però di traverso chi la protegge, e che per cosa al mondo non voglio lasciarmi debiti dietro. Nell'oro io non nuoto di certo, ma mi vanto soldato onorato al pari di ogni altro: sono maggiore; le rilascio un mio pagherò, e veda che libero dalla spesa di Giulia mi sarà molto facile mettere da parte tanto da poterla soddisfare in capo a tre mesi o quattro.
Abramino a sua posta capì come senza lasciarvi anche quel bioccolo di lana da cotesto roveto non usciva: giovane egli era e intabaccato di Giulia, però la concupiscenza a cagione degli ostacoli rinascenti gli s'inviperiva, onde brontolò questa risposta:
— Via, per amor suo, signor maggiore, mi sobbarcherò anche a questo carico; le presterò trecento lire.
In capo a cotesta contrada, appellata col nome del Cavour, teneva bottega uno ebreo cambiamonete, creatura del padre Abacuc; da lui Abramino si fece dare una carta bollata da pagherò, e porta la penna al Fadibonni gli disse:
— Scriva, io detterò.
— Sono ai suoi ordini.
— Da oggi a tre mesi pagherò io sottoscritto all'ordine del signor Abramo Ottolenghi lire trecentoventi...
— Come trecento venti? O non devono essere trecento?
— O gl'interessi chi me li paga? Veda, caro lei, le conteggio uno per cento al mese; un vero regalo; la tratto da fratello.
— Mi pareva che, anche a modo suo, farebbero trecentonove.
— E la senseria? E la provvisione? E il foglio bollato? Caro lei, gliene regalo mezzi. Tiri via.
Il Fadibonni, risoluto a non pagare frutti nè capitale, non istette su lo spilluzzico, scrisse, sottoscrisse, appose la data, fece insomma ogni cosa in regola: mentre Abramino riscontrava l'obbligazione, il maggiore stese le mani rapaci e pronte sopra i biglietti di minore valuta nei quali il cambiamonete aveva barattato le lire mille, e se li ripose in tasca.
— I miei biglietti! Dove sono iti i miei biglietti? esclamò Abramino non li vedendo più sul banco.
— Non si scarmani, li ho presi io per andarcene adesso insieme da Giulia. Capisce che la nostra delicatezza non le consente ch'ella paghi le settecento lire alla Giulia in mia presenza: parrebbe ch'ella sborsasse il prezzo della mercanzia che io le consegno: con persone bene allevate non bisogna trascurare mai i debiti riguardi: i riguardi, signor Abramino, chiamano lo amore quando non è nato; nato lo mantengono sano.
— Sarà, lo dice lei.
Andarono. Giulia, guardando traverso le stecche della persiana, li aspettava, e il suo cuore batteva forte come un tamburo (sono desolato pensando che ormai il mio lettore non potrà più apprezzare la esattezza di questa similitudine, dopochè il ministro Ricotti ha soppresso i tamburi per far morire d'itterizia il capitan Lamarmora) per la paura che non venissero più. Non aveva serva, andare ad aprire essa le pareva cosa da scapitare nella stima del signor Abramino; non le sovvenendo meglio lasciò l'uscio aperto, onde le comparve addirittura davanti il maggiore, che tenendo per mano Abramino, glielo condusse presso al canapè dov'ella stava seduta, favellandole con piglio da Agamennone:
— Dal dono apprendi il donatore qual sia.
E Abramino di rincalzo, molto leggiadramente:
— Di certo la mia signora può stare sicura che, se non riuscirò, nulla sarà omesso da me ond'ella non si accorga di avere mutato. Se uno ardente affetto, se una devozione a tutta prova...
— Grazie, mio signore, grazie; il tempo e la sua benevolenza scemeranno il dolore... forse saneranno... saneranno senza dubbio la piaga che ora dà sangue: perchè, veda, Abramino, io sono donna che quando mi ci metto amo col cuore... coll'anima. Maggiore, favoritemi un bicchiere d'acqua.
Il Fadibonni riempito il bicchiere glielo porge, ed ella intanto che lo piglia, chinatasi alquanto, gli susurra nell'orecchio:
— E i quattrini?
Il Fadibonni, tratto di tasca un involto, glielo consegna dicendo:
— Il signore Abramino ti prega per mio mezzo accettare questa piccola offerta dello amore che ti porta affinchè tu possa figurare da pari tua... e secondo la condizione di lui.
Qui un sorriso di Giulia e per giunta uno inchino accompagnati dalle parole: — procurerò farle onore.
Abramino le baciò la mano, ed ella smaniosa di riscontrare il danaro, di un tratto uscì fuori con queste parole:
— Maggiore, l'altra sera ci lasciaste il vostro portasigari — e senza aspettare osservazioni in proposito scappò via; in un attimo verificò se fossero bene quattrocento cinquanta lire quelle contenute nello involto, e tornata col portasigari, mentre lo dava al Fadibonni, ricambiaronsi fra loro una occhiata, la quale poteva tradursi proprio così: — Sgualdrina, non ti sei fidata? — Bisognerebbe avere perduto il bene dello intelletto per confidarsi ad un furfante come sei tu.
— Mia cara Giulia, allora entrò di mezzo a dire Abramino, perdonerà se non posso più a lungo trattenermi con lei, perchè col treno del tocco mi occorre andarmene fino a Casale per assicurare il pagamento di un effetto tornato in protesto col relativo conto di ritorno; di là passerò a Vercelli per assistere alla circoncisione del mio nipote, figlio di mia sorella Esterina e del cognato Anania; poi darò una capata a Milano per vedere un po' come vanno le faccende del banco sete, che da tre anni mette fuori bilanci magnifici, e poi tra ceralacca e spago non dà un soldo di dividendo: ma che vuol'ella, cara signora Giulia? L' hijo d'un mancer ci fece sottoscrivere mio padre per cento azioni, e da questo, veda, signora mia, che anche le civette impaniano.
Tale preludiava Abramino nei suoi amori con Giulia.
Al maggiore pareva mille anni svignarsela, onde di nuovo appressatosi a Giulia, in atto eroico favellò:
— Giulia, addio: non ti raccomando i nostri amori, come fece Augusto a Livia, perchè questa rimase vedova, mentre tu convoli a seconde nozze, e nè meno t'impongo dimenticarmi, perchè so che tanto non è nella tua potestà; ti resti di me la memoria come di un sogno che sopraggiunge su le ale dell'alba e fa risvegliare la dormente alla luce con un sorriso. Nel dipartirmi da voi vi auguro sieno i vostri amori pari al muschio del quale dura perenne il profumo senza mai diminuire di sostanza: bevete infaticabilmente nella tazza della voluttà, e l'amore ve la riempia senza requie a bocca di barile: si rinnovino per voi gli amori come il fieno nei prati, dove rifà capo sotto la falce che lo miete; vivete felici, ruzzolate per un pendio di rose monde da ogni spina dalle mani stesse delle Grazie, e quando giunti al termine del tramite mortale, se il Dio dei cristiani non si trovasse d'accordo col Dio di Moisè per collocarvi insieme in paradiso, vi mandino almeno a domicilio coatto nella stella di Venere; addio, addio.
Sbirciato il cappello di Abramino e vistolo nuovo, mentre il suo declinava al tramonto, se lo mise in capo, e provato che gli andava, se ne andò via bisbigliando.
*
— E ora alla busca delle cinquanta lire, e più se riesce.
La signora Radegonda, di cui il casato si tace honestatis causa, era giunta a quella età che non invoglia persona a ricercare qual sia; — la età grigia; tra le ventiquattro e l'un'ora di notte; la età che non è bianca ancora, e il nero muore; dondolante fra i cinquanta ed i cinquantacinque anni, fu moglie buona e mamma meglio di una figlia unica, e sopra il marito e la figlia, finchè vissero, riversò tutto l'acquazzone della sua tenerezza: ma da prima perse il consorte; poi, per colmo di sventura, la figlia; e l'amore sbraciato dal dolore le coceva l'anima spasmodicamente; anch'egli patisce di ripienezza, e in qualche luogo bisogna pure scaricarlo; provò sfogarsi col canarino, col gatto, col cane, ma non li rinvenne bastevoli all'esercizio della sua passione: allora si tuffò a capo fitto nella beghineria; e fu peggio, imperciocchè i santi le stessero dinanzi dipinti ed appesi a un chiodo; Cristo di legno, e crocifisso, nè disposto a quanto pareva a sconficcarsi, come fece un dì (lo dicono i preti) per abbracciare santa Caterina di Siena: dei confessori, i giovani avevano grandi faccende altrove, i vecchi tabaccosi non le andavano a fagiuolo, e la povera donna aveva ragione. Intanto il sodalizio con gli angioli in sembianza di giovani eternamente leggiadri, l'estasi amorose, le preghiere lubricamente devote, le orazioni confettate di misticismo e di libidine, l'amor divino rinforzato coll'acqua arzente del bruciore terreno, avevano proprio ridotto la misera creatura in un mucchio di stoppa, anzi di polvere, o piuttosto in un barile di petrolio. Dio guardi se ci fosse cascata sopra una favilla. Veruna compagnia di sicurtà contro agl'incendi l'avrebbe per tesoro assicurata; — e poi incendio di amore non ha riparo. Di fatti la favilla non mancò. Fortuna volle che dirimpetto alla vedova tornasse di casa il Fadibonni; si videro, si adocchiarono, si salutarono, si sorrisero; costui, spillando lo stato della vedova, la seppe abbastanza comoda secondo il suo stato per la pensione lasciatale dal marito, a dovizia fornita di masserizie, di panni, di ogni ragione orerie, insomma di tutto ciò che i giureconsulti romani distinguevano col nome di mondo muliebre. Ce n'era di avanzo, perchè il Fadibonni se ne mettesse incontinente alla caccia, e non fu lunga impresa, nè ardua: pei bambini balocchi di legno, ai vecchi balocchi di carne: pari in entrambi la concupiscenza di ottenerli, dispari la tenacità di conservarli: quanto facile i primi a buttarli via, altrettanto duri i secondi ad agguantarcisi con tutti i tentacoli. Ora taluno vorrebbe sapere chi dei due condusse la povera donna al mal passo, l'anima o il corpo. Per me confesso addirittura che non lo posso contentare; primamente, perchè mi riesce difficile chiarire distinta la esistenza di cotesti due enti, e supposto che riuscissi a sciogliere siffato nodo, ecco che inciamperei nell'altro, non meno scabroso, di determinare se la materia prevalga allo spirito, o viceversa; chi il mandante, chi il mandatario, o piuttosto chi il colpevole in capo e chi il complice. La meschina era cascata dentro una fitta, dove ogni conato per uscirne la faceva sprofondare vie più: peccava, si pentiva, tornava a peccare per ripentirsi poi, e così con perpetuo ciclo logorava ogni estremo residuo di volontà, di pudore, ed eziandio di salute. Dall'altra parte il maggiore, attaccatosi come ruggine alle sue ossa, le sperperava con persistenza scientifica ogni sostanza; orerie, argenti, pannilini, lani, stoviglie, rami tutto insomma mano a mano spariva. Cotesta casa era neve al sole, ned ella si attentava rifiutare nulla, anzi, strano a dirsi! dava volentieri, pensando che le tribolazioni vecchie e nuove provate nel suo traviamento le dovessero andare in isconto dei peccati.
Alla stregua che la roba scemava, le assenze del maggiore infittivano e si prolungavano: adesso correvano mesi che non capitava a casa Radegonda; difatti ci era rimasto tanto olio da mandare un sospiro di luce: anche la pensione vitalizia della vedova, a cura del maggiore, era stata per parecchio tempo impiegata ad Abacuc, figlio di Anania e padre di Abramino Ottolenghi.
Il Fadibonni ecco si mostra improvviso nella camera di Radegonda, la quale dalla comparsa di lui rimase abbarbagliata, levò supplice le pupille al cielo, le mani congiunse in atto di preghiera, mosse le labbra, ma non potè profferire parola; il peccato aveva preso a nolo dalla beghineria le sue smorfie, ma quel tristo le si accostò carezzevole, la blandì con parole soavi, e siccome ella mostrava non crederci, egli, aggrondate le sopracciglia, proruppe in accenti minatori, perchè la donna smarrita lo pregava per l'amore di Dio e delle anime del purgatorio a placarsi; il maggiore durò un pezzo ingrugnato, alfine parve rasserenarsi, e strettale la mano le disse:
— Addio, a stasera, se posso, verrò a cenar teco.
Rimasta sola Radegonda, per la grande contentezza non capiva nella pelle, le pareva toccare il cielo con un dito: senza porre tempo tra mezzo prese a rovistare per la casa, onde rinvenire robe da potersi fare onore: ahimè! dentro le cantere non tovaglie, nè tovaglioli, nella credenza non posate, non stoviglie su la rastrelliera; di accattarli in presto si peritava; amore vinse vergogna, e con occhi bassi e tremula voce si condusse a chiedere tutte queste masserizie alle casigliane; delle quali quelle di miglior sangue l'accomodarono, pure commiserando lo stato a cui si era ridotta una signora così puntuale e per bene, altre dispettose gliele negarono, e le tagliarono dietro il giubbone che Dio ve lo dica per me.
Ora mancava il meglio, e come avesse a sopperirci non sapeva; ecco, mentre declina la faccia melanconica, le viene fatto vedere nelle dita, oltre l'anello matrimoniale, un altro ornato di piccoli brillanti, ricordo ultimo della defunta figliuola, fin lì salvati dal rigido saccheggio del maggiore.
Se l'anima le rimordesse ignoro; questo so, che in un attimo si cacciò giù per le scale, e arrivata in fondo consegnò l'anello della figlia alla portinaia, conquidendola a portarlo subito al monte di pietà per impegnarlo; ella poi si trattenne nel casotto ad aspettare: indi a breve l'assalì l'impazienza, perchè ogni tantino cavava il capo fuori lo stambugio della portinaia, come fa la gallina tra le stecche della stia per beccare il granturco nella mangiatoia. Alla fine la portinaia tornò; al monte non avevano voluto dare su l'anello più di trenta lire. La vedova prima desiderò toccare la moneta e ne sentì ineffabile compiacenza, poi la rese alla donna prescrivendole recarsi al mercato per comperarvi commestibili e vino. Avuto quanto ella ordinava, si mise intorno ai fornelli soffiando a gote gonfie sul fuoco, apprestò le vivande, attese a cocerle con religiosa diligenza; di tratto in tratto le gustava, paurosa pigliassero di bruciato, o troppo sapide riuscissero, troppo sciocche; si pettinò, si lisciò, si fece bella... aveva lo specchio davanti e ci si contemplava più spesso che non fosse di mestieri, ma sempre invano, imperciocchè ella badasse allo specchio quanto un re (dispotico o no non fa differenza) al consigliere fedele. Con ardentissimo affetto ella affrettava il tramonto del sole, quantunque l'accostasse di un giorno al sepolcro, e alla età sua un giorno contasse mezzo anno; che importa ciò? per rivedere presto l'amor suo avrebbe dato a patto un anno intero, due anni. Le ossa, come le legna, quanto più sono secche più avvampano.
Verso le due ore di notte venne il desiderato. Qui la Musa fa punto, salta un foglio e ripiglia la storia dal momento nel quale la misera Radegonda, vinta da molte cagioni, massime dalla virtù del laudano a lei propinato in copia dal perfido Fadibonni, giacque nel letto come corpo morto: costui allora pianamente si vestì e si pose a rifrustare sottilissimamente per tutta la casa: delle posate non ci era a fare capitale, le riconobbe di ferro inargentato; tovaglie e tovaglioli lisi, buoni a nulla: peggio le vesti, e per asportarle troppo voluminose nè tali che dessero un filo di speranza le avrebbe accettate il capitano per danaro. Che fare? Dare l'anima al diavolo non concludeva, e poi il diavolo da tanto tempo ci aveva acceso su la ipoteca, che non ci era da pensarci nè meno; peggio votarsi ai santi.
Guardò torvo l'addormentata e le vide i pendenti agli orecchi.
— Non basteranno di certo, borbottò fra sè, ma sarà sempre qualche cosa — e ci stese sopra la mano bramosa, svellendoglieli in modo così brutale, ch'ella, quantunque dormente, ne gemè. — E ora che si stilla? Di un tratto, toccatasi con la mano la fronte: — Smemorato che sono, esclama: la Madonna! che, lei sveglia, non ho potuto saccheggiare mai. — Eccola! Non manca nulla, aggiunse dandosi una fregatina di mani secondo l'usanza del Cavour, corona, lampada, angiolino e piletta; vera consolatrice degli afflitti!
E la corona, la lampada, la piletta e l'angiolino — fino l'angiolino, che nella destra brandiva l'aspersorio in modo che pareva volesse venire ad uno assalto di sciabola con Lucifero — tutto insomma egli ripose nelle tasche.
Così il soldato adoperava con Radegonda come il prete con Amina: uccelli entrambi da preda.
Compito l'inclito gesto, il Fadibonni si partiva senza spegnere il lume, scalzo, con gli stivali in mano, e lasciando l'uscio spalancato; se non che giunto a mezze scale gli frullò in mente che i casigliani, levandosi di buon mattino e notandolo, sospettosi di furto non avvertissero la questura, donde scandalo nel vicinato e qualche stroppio per lui; perciò rifece le scale, e chiuso l'uscio con precauzione se ne venne via.
*
Inesorato come il destino, il capitano Parpaglione nel dì e nell'ora stabiliti comparisce in camera al maggiore: che cosa questi dicesse e facesse per indurre costui a contentarsi di sole cinquecentocinquanta lire non si potrebbe con poche parole significare, e le troppe riuscirebbero sazievoli; bisognò snocciolare una ad una tutte le robe rubate, e fu bazza che il capitano se le accollasse per cinquanta lire, non senza però un pertinace tirarsi pei capelli, onde determinare il valore di ogni pezzo. All'ultimo si accordarono: il capitano, mentre stava per mettere in tasca gli orecchini di oro, osservò come ad uno di essi fosse rimasto attaccato un capello bianco, ond'egli presolo delicatamente tra l'indice e il pollice della destra, fece l'atto di restituirlo al maggiore, accompagnando il gesto con queste parole beffarde:
— Quantunque di argento, non mi può servire; però ti propongo renderlo alla sua amabile proprietaria.
Rimasto solo, il maggiore arse il biglietto e, fatto un pizzicotto delle ceneri, le pose sul palmo della mano, poi ci soffiò sopra e le disperse al vento esclamando:
— Siate maledette in eterno!
Distrutta la prova, l'avvocato di Curio, il quale d'altronde di male gambe procedeva nella difesa, non potè nè anche avvantaggiarlo con la scusa capace solo ad attenuare la colpa; all'opposto, avendola l'imputato addotta nella istruzione del processo e non la potendo provare, gli concitò mirabilmente contro l'animo dei giudici. Il colonnello unico ebbe a sostenere dentro di sè un'aspra battaglia fra il convincimento morale e la mancanza della prova materiale del fatto; nondimeno anche a lui fu mestieri piegare il capo, e comecchè con mano tremante, pure anch'egli depose il voto funesto nell'urna. Curio ad unanimità di voti uscì condannato a morte.
Tali un giorno, certo non tutti, ma troppo più di quelli che potessero sopportarsi, gli ufficiali dell'esercito italiano; e guai a chi si fosse attentato riprenderli: figlio di madre infelice era costui! La sua sorte pari a quella di Atteone, quando ardì contemplare Diana ignuda; i suoi stessi cani gli si avventarono addosso e lo divorarono; — ed io lo so, che provai cani una ciurma di nati nella terra in cui io pur nacqui: a me risparmiarono lo schifo e il ribrezzo di rammentarli, perchè da loro stessi conficcarono i propri nomi in cima alla forca. Nè uomo nè Dio varranno a staccarli di là ove li attaccarono; essi un giorno serviranno di Faro[12] per allontanare gli uomini liberi da questi liti resi infami dalla loro scellerata stoltezza.
O patria! O mia Livorno! in quale abiezione caduta, poichè il sole della libertà col suo calore vitale ad altro non valse che a farti scoppiare fuori le petecchie dei moderati servili, vili e feroci!
Capitolo XXII.. . . . . . . . . . . . . . . .
Dei gusti non si disputa; gli è questo un proverbio scritto fino su i boccali di Montelupo; onde io, valendomi di siffatta indulgenza secolare, dichiaro detestare del pari virtù codarde e delitti burbanzosi; e tuttavia, stretto pel collo a scegliere, per me sento che mi mostrerei più parziale ai secondi, che alle prime, e ciò perchè co' secondi potrai, se vuoi, fabbricare qualche cosa, con le prime no. Romolo e Roma e i primi Quiriti informino; dei quali una metà, per dir poco, sarebbe stata meritamente raccomandata al Piantoni, il quale incominciò la sua magistratura di boia nel 1831 per conto di Francesco IV duca di Modena, buon'anima, e continua ad esercitarla per conto di Vittorio Emanuele II, gloriosamente regnante.
I delitti animosi voglionsi considerare come altrettante grappe di bronzo, le quali penetrano nel cuore e nelle carni dei popoli come nei massi di granito e li tengono con inestimabile stabilità legati insieme, mentre le virtù codarde appiccicano, non attaccano; il visco agguanta i pettirossi; le aquile portano via visco, vergone e tutto.
Adesso dovendo scrivere di Filippo, padre di Eufrosina, le virtù pusillanimi non ci hanno che fare, e nemmeno i delitti rubesti, bensì ci capita con grandissima compiacenza dell'animo nostro di favellare di un cuore temperato ottimamente, il quale, in qualsivoglia punto della terra lo avesse balestrato la fortuna, sariasi creduto sempre nel suo centro, e da qualunque plaga di cielo avesse rivolto gli occhi in alto, gli sarebbe parso di vedere Dio per trovarsi faccia a faccia e favellare con lui. La vita pigliava qual'era, senza querimonia come senza tripudio. Dalla buona del pari che dalla ria ventura attendeva a cavare qualche cosa che giovasse alla umanità: e forti dulcedo, nel modo che adombrava l'enimma proposto da Sansone ai filistei; se il destino gli poneva nelle mani rose, ei ne tesseva ghirlande pei felici; se catene, ei ne foggiava spade per gl'impazienti di servitù. E poichè egli aveva fede che le dieci trasformazioni di Visnù, dirimpetto alle infinite a cui la materia del suo corpo, prima che la natura gliel'avesse data a nolo, e dopo che se la sarebbe ripresa, erano una bagattella, egli ratificava tutte le passate e consentiva le avvenire, persuaso che le avrebbe adoperate sempre pel bene dei suoi simili. Se mi troverò convertito in ostrica, finchè mi manterrò sana offrirò delicatissimo cibo alle mense degli uomini, e se inferma, con la mia malattia comporrò perle, ornamento di donne oneste e belle,[13] e se diventerò pizzuga[14] attenderò a comporre un coccio degno di essere ridotto in iscatola da tabacco degna di papi: insomma, onore del naso di Pio IX, ovvero del collo di Cleopatra; nobili destini non mi potranno mai mancare.
Ed ora la sorte lo aveva arrandellato carceriere nel Castello di Milano. Tristo mestiere in verità, e pure egli sapeva valersene per consolare, ed in quanto gli era concesso sovvenire i meschini che gli capitavano sotto. Gli spruzzi di acqua benedetta, di cui sono larghi i sacerdoti ai morti, giovano per lo appunto quanto l'acqua benedetta a morti, ma lo spruzzo della speranza ai vivi dolorosi è rugiada di cielo; e quindi di parole e di buoni uffici non faceva a spilluzzico l'uomo dabbene, trasmetteva e riportava consigli, saluti e messaggi di genitori, di amici ed anche di amanti, purchè, bene inteso, si trattasse di legittimi amori: confermava i risoluti, ingagliardiva i dubbiosi, raumiliava gli acerbi e diceva loro: — O perchè bestemmi? Tu mi pai matto, e sei. Delle due l'una, o in Dio ci credi, o non ci credi; se non ci credi, egli è lo stesso che tu ti arrapini con questa brocca di terra cotta, e se ci credi, e per giunta lo reputi capace a farti bene o male, e allora, grullo! ingegnati a tenertelo bene edificato. — E se lo interrogavano s'egli ci credesse, rispondeva: io ci credo a modo mio e non penso dalle mille miglia ch'egli si faccia tutore e conduttore delle singole creature, che nella natura stanno, o vivono, o si agitino; per me, ruminandoci sopra, ho trovato che Dio dev'essere una forza nella materia, una scienza nell'intelletto, una regola nella morale; ed ora che ti ho detto così, tu ne sai forse meno di prima; ed io che ti ho detto così, non mi sono avvantaggiato neppure di un dito; sicchè tara bara, il meglio che tu possa fare è bere questo mezzo litro di vino e buttarti giù a dormire. Fortuna e dormi: caso mai tu provassi lo strapunto poco morbido, pensa che potrebbe essere più duro, e consolati. Certo, Filippo, come quegli che aveva molto vissuto fra gli uomini, non si sgomentava più per cosa che vedesse, o bigia, o nera, e le parole di lui sonavano acri, ma una stella, che non conosceva tramonto, lo illuminava con bella luce di amore, ed egli ne rifletteva i raggi sopra le creature circostanti. Cotesta sua benignità mescolata di amarezza rassomigliava ai dì di primavera, quando la pioggia bagna le piante ed il sole le asciuga, onde esse si drizzano rigogliosamente liete, quasi per ringraziarlo di coteste sue virtù per le quali godono la vita.
E luce dell'anima sua era Eufrosina, la celeste fanciulla, la quale riposa serena sopra i dolori della vita, simile al bambino Gesù dipinto dormente dal soavissimo pennello dello Albano, intanto che mormora fra il sonno: ego dormio, sed cor meum vigilat.
Filippo, se non con amore, con diligenza pari ha compito le tre operazioni nelle quali si versa la presente sua vita: tastò le porte e le inferriate delle carceri, consolò i carcerati, adorò la figliuola Eufrosina, la quale quando egli vide addormentata contemplò sorridendo, la baciò, e contento come una pasqua andò quindi a coricarsi.
Non bene passata un'ora, venne desto a forza da un rumore confuso di schioppi lasciati andare giù di schianto sul selciato, d'imprecazioni e di catene. Si sollecita a vestirsi alla meglio e schizza giù in piazzetta; faceva buio fitto, e comecchè portasse la lanterna, egli appena distinse gli oggetti circostanti; pure vide al barlume parecchi soldati, che sotto la scorta di un ufficiale conducevano prigionieri in Castello; subito ebbe sospetto che si trattasse di pezzi grossi. Il capitano del drappello, piemontese puro sangue, dopo il sacramentale countacc! prese a dire una carta d'ingiurie al povero Filippo, perchè lo avesse fatto aspettare tanto, e poi perchè ardisse presentarglisi innanzi così sciatto di vesti.
Filippo aveva riposato mezz'ora, o poco più, delle fatiche della giornata, e se avesse fatto presto come lo zotico capitano pretendeva, non si sa come il tempo gli sarebbe bastato a mettersi solo la camicia; tuttavia tacque, avendo sentito dire, ed essendogli stato dalla esperienza confermato a sue spese, che il soldato non ha mai tanto torto, come quando ha ragione.
— Ecco qua, sebbene mi sia messo in regola, a tenore del regolamento, col signor cavaliere comandante del Castello, favellò il capitano, tuttavia ho voluto consegnarvi da me stesso il prigioniero. Avvertite qua, sergente; egli è condannato a morte; comecchè egli abbia interposto appello davanti al supremo Consiglio di guerra, non gli darei una palanca della sua vita. Si sa, i disperati si attaccano alle funi del cielo; dunque, sergente, occhio alla penna: voi sapete quello che ve ne va se vi scappa. Ecco qua, andiamo un po' a vedere come me lo arrandellerete.
A Filippo si strinse il cuore, e suo malgrado si sentì spinto a sollevare la lanterna per mirare in faccia il malcapitato... ecco: egli prorompe in uno strido e lascia andare la lanterna in terra, la quale mandando un getto di luce si spenge, colpa dell'olio, che rifluito a cagione del colpo verso il lucignolo lo soffocò: nel punto stesso un urlo più straziante del primo percosse gli astanti, che sebbene non assueti a spaurirsi, ne sentirono raccapriccio e terrore; sicchè il capitano, secondo la rubrica, esclama:
— Countacc! Che storia è questa?
Curio, con l'occhio avvezzo al buio, aveva di già riconosciuto Filippo, e il suo cuore si era sollevato: adesso poi per questi urli infelici sentì come conficcarsi sul capo il coperchio della cassa da morto, imperciocchè, sebbene la sua ragione avesse licenziato la speranza, pure questa ostinata continuava a farsi vedere e non vedere, come le stelle fra i nugoli nelle notti di tempesta.
Filippo si chinò e si raddrizzò; quello che pensasse nel brevissimo tempo in mezzo a questi due atti non si potrebbe significare con un volume; mostrò essere della razza di Anteo, il figlio della terra, che quante volte cascava sopra sua madre, tante si rialzava più forte di prima; in fatti, di voce fermissimo e di sembiante, riaccese la lanterna e disse:
— Scusi sa, signor capitano, questa maladetta palla tedesca che ha preso a pigione la mia coscia sinistra di tanto in tanto mi dà dolori da cani: caso mai metto il piede in fallo, anche di mezzogiorno io vedo le stelle.
— Ma, ecco qua, l'altro grido donde è venuto?
— Ah! l'altro grido... non le faccia specie, signor capitano, nella piazza ci è l'eco, taluni dicono che ci si risente; grullerie? Come ho avuto l'onore di informarla, è l'eco. Mi rincresce proprio che avrà svegliata la signora del signor comandante, la quale, come saprà, dopo un travagliosissimo parto è entrata appena in convalescenza; — quanto a prigioni, di quelle a tutta prova ne possediamo poche; per fortuna, la meglio, secondo la mia povera opinione, in questo momento è vuota: — favorisca, signor capitano, di visitarla e dirmene il suo parere.
— Stupenda!
— Veda la porta com'è bassa; per entrarci bisogna andare carponi.
— Vedo; ed ecco qua, munita di doppie porte: — le serrature è a due mandate — i chiavistelli robusti, muniti con bravi lucchetti... chi la fece non mancava di giudizio.
— Consideri! Lo chiamavano Sette cervelli; lunga è poco più di quattro passi, a cinque non ci arriva; a livello del pavimento si apre la finestra munita di due grosse inferriate...
— Oh! qui mi cascò l' assino; meglio... meglio in alto vicino al palco, le finestre basse, ecco qua, sono troppo alla mano per essere segate. — Direbbe bene, il signor capitano, se la finestra non desse sopra un corridore che prende aria da finestrini muniti di ferro in croce; e tagliati anche questi, che avrebbe fatto il prigioniere? Nulla, perchè si troverebbe in una chiostra, chiusa da tutte le parti e per giunta vigilata dalla sentinella.
— Com'è così muta specie: anche a me parrebbe che avesse a bastare.
— Aggiunga poi, illustrissimo, che il prigioniere non ci ha a stare mica libero, bensì incatenato al pancaccio.
— Giusto! È quello che pensava ancora io.
Intanto Curio, sentendosi rifinito, si lasciò andare sul pancaccio, dicendo con fievole voce: ho sete.
E Filippo al capitano:
— O che un bicchiere di acqua io gliel'ho a dare?
— Gua'! fate voi; per me, pensandoci su, mi sembra che gli si potrebbe dare.
Allora Filippo entrò in prigione, ed accostatosi a Curio a voce alta gli dice:
— Un po' di pazienza e avrete l'acqua: — e a voce sommessa aggiunse: Curio, coraggio!
Conosco gente che va matta a vedere la pioggia delle stelle cadenti; per me, da una volta in su, e fu la notte della vigilia di San Lorenzo, non la volli più vedere, imperciocchè allora mi venisse fatto rassomigliarla alle parole regie, che partono dal cielo in sembianza di stelle, promettono luce e calore, e poi si spengono a un tratto lasciandoci al freddo ed al buio peggio di prima; ma la parola dello amico scende refrigerio alle anime desolate, da non potersi significare con accenti umani, e lo inferno converte in paradiso, perchè quivi si ferma a scintillare come nel suo proprio firmamento.
Il capitano parti co' suoi soldati, e Filippo tornò a dare animo a Curio e a provvederlo delle cose necessarie al vivere, e:
— Quanto a vitto lascia fare a me, che ti porterò del meglio, perchè bisogna tu ti rimetta in gambe e presto: circa al restante adattati, che se ai superiori saltasse il ticchio di venirti a visitare, vedendoti provvisto meglio degli altri piglierebbero ombra ed allora...
— E allora?
— To'! O a che pensi? Dubiti forse che alle mie mani tu abbi a morire! Bada qua, questa è una lima e quest'altra è cera scura: attendi senza requie la notte a segare le catene, più presto che farai meglio sarà; conto che tu deva essere lesto in tutta la nottata di domani; adesso riposati e stai di buon animo: segate le catene fa' di riappiccicarle con la cera, mettiti a letto e fingi dormire, che domani verrò accompagnato, e forse potrebbe venirci il mio aiuto solo.
— E della Eufrosina non mi dici...?
— Silenzio; qui non ci ha luogo Eufrosina; zitto e dormi.
Chiusa appena la prigione, Filippo, salendo le scale a quattro a quattro, entra in casa; corre nella stanza della Eufrosina col cuore che gli picchiava il petto più forte di un ariete romano. La stanza era vuota.
— Frosina! Frosina! Dove ti sei cacciata?
— Veruna risposta; passa in camera sua; colà pure chiama, osserva... niente. Salta in cucina, di cui la finestra dava su la piazzetta del castello dove facevano capo le prigioni, e quivi la mira caduta supina in terra priva di sentimento. S'immaginò subito il successo e prese a dire:
— Ci mancava anche questa! Ora su, Nina mia; non ti abbandonare; il diavolo, sai, non è brutto come si dipinge; da brava, via, rimettiti in piedi.
E siccome l'altra non dava retta, la levò di peso portandola sul letto e con acqua diaccia, aceto ed altri argomenti s'ingegnava farla rinvenire, e rinvenne.
— Ahimè! Anima, che hai?
Ed Eufrosina, mentre si fregava gli occhi, rispondeva:
— Che brutto sogno, babbo mio, mi sono fatta... mi pareva...
— Senti, Eufrosina, quello che hai visto è vero. Curio è qui in prigione condannato a morte per avere rotto la faccia ad un ufficiale furfante e truffatore...
— Babbo... porgimi la mano... ah! muoio.
— Ferma... non morire... avrai sempre tempo a farlo: sta' di buon animo: — noi salveremo Curio, lo salveremo quanto è vero Dio... ma tu hai da fingere di non sapere nè manco che esista nel mondo... non lasciarti sfuggire nè un gesto, nè un detto: sii prudente... sii discreta... raddoppia vigilanza... pensa che se adesso lo perdi, lo perdi per sempre...
— Basta, basta; e tu pensa, babbo, che mi preme più che a te... accostati ora, che ti vo' dare un bacio, due baci, venti baci.. ma perchè così al buio? Allegria che non si vede è meno che mezza. Accendi il lume.
— Come! Accendi il lume? O non è acceso... anzi due?
— Ma io non ci vedo.
— Stropicciati da capo gli occhi.
— Io non vedo nulla.
— Com'è possibile mai?
E presi i candelieri accostava le due candele agli occhi di Eufrosina, e mentre specola mormora:
— Ecco qua, i soliti occhi... smaglianti... sinceri... veri testimoni del cuore... come dunque può essere che tu non ci veda?
— Non ci vedo, mamma mia! non ci vedo... Madonna santissima! sono diventata cieca... E gittate, smaniosa, le braccia al collo al padre, proruppe in pianto... Oh! io non li rivedrò più, continuava singhiozzando, nè Curio... nè babbo... oh!
— Sta' quieta... non ti disperare, o mi fai dare nei lumi; non sarà nulla, sangue al capo... vado pel medico del Castello... ma, bada, bocca chiusa: per me sento che il colpo che hai ricevuto alla vista di Curio è stato cagione di tutto.
Il medico del Castello, desto sul più bello del sonno, andò bifonchiando: visitata Eufrosina fra uno sbadiglio e un altro, conchiuse che Eufrosina aveva perduto la vista; lì su due piedi non poteva dire di più; continuassero le pezzette dell'acqua diaccia per iscoprir marina, la rivedrebbe domani; — su di che buona notte.
Filippo sbattuto, ma rigido più che mai, la mattina per tempo fu a visitare il comandante del Castello col quale rinvenne per ventura il medico: chiesta ed ottenuta facoltà di parlare, espose il caso della figliuola, aggiungendo che lì in Castello non la poteva guardare, chiedergli pertanto il permesso di menarla presso certa parente della defunta sua moglie in Milano: se questo partito gli rincrescesse, Dio lo sa, persuaso com'era che per la molta capacità del signor chirurgo maggiore in breve la sua figliuola sarebbe andata guarita.
Il comandante anch'egli era della progenie dei cani, ma non mastini, quindi qualche devozione egli aveva, e poi a farlo meno acerbo contribuiva la nascita di una figlia, a lui vecchio e malconcio dalla gotta, partorita pochi giorni innanzi dalla moglie trentenne; il dabbene uomo la chiamava la figlia del miracolo, ma chi l'udiva pensava come di cotesta maniera miracoli assai di frequente accadevano nei castelli, dove stanzia continuo un presidio di soldati, quantunque di tratto in tratto si muti. Il chirurgo maggiore, per la fumata d'incenso che gli aveva sbraciato Filippo, venuto propizio alla istanza di lui, ed anche per levarsi dintorno la seccatura di dover visitare la inferma, l'approvò con molte ragioni, una più bella dell'altra; onde Filippo ottenne la facoltà di starsi per qualche ora assente dal Castello, a patto che il servizio non ne soffrisse.
Filippo, salutato il comandante, partiva, senonchè mutati alquanti passi tornava indietro, e levata la mano al berretto aggiungeva:
— Signor comandante, vorrei sottoporre alla sua saviezza di mandare un uomo di rinforzo al sottocarceriere durante il tempo che io starò lontano: ella sa che stummie di gente ci tocca custodire, ed è meglio aver paura che toccarne.
— Giusto! Era quello che pensava anch'io; andate franco, sergente, che terrò l'occhio alla penna.
Filippo con celeri passi s'incammina alla prigione di Curio in compagnia dell'aiuto servente: entra senza salutare il carcerato, e molto sollecita il servo a sgombrare la prigione di ciò che vuolsi quotidianamente pulire e che non importa inventariare: rimasti soli Curio e Filippo, questi subito gli domanda:
— A che punto siamo della segatura?
— Tra un paio di ore gli è affare fornito.
— Bene: però ti avverto che la Eufrosina con noi non possiamo... non dobbiamo condurre.
— Come!
— Anzi, tu non la potrai nè manco vedere...
— Ma io...
— Ma tu, interruppe Filippo con atto che parve più di rabbia che d'impazienza, devi lasciarla in custodia di tua madre finchè non sia passato il pericolo: piglia qua lapis e carta; scrivi a tua madre raccomandandoti che presso di sè accolga la mia... la nostra Eufrosina, come figliuola la custodisca... l'ami. Ma di' un po' su, confidati a me, che non lo saprà neanche l'aria, la è veramente buona, come tante volte mi hai assicurato, tua madre? — Non potrebbe mica il troppo affetto filiale averti fatto velo alla mente? Perchè... vorrei tu mi capissi... Eufrosina... l'anima dell'anima mia...
Adesso fu la volta per Curio di mostrare impazienza; levate le spalle, tolse di mano a Filippo la carta e il lapis, ponendosi a scrivere senza dargli risposta.
Filippo, che comprese l'intimo pensiero di Curio, ne rimase mortificato, e susurrando a fior di labbro: Scusa, andò a piantarsi di sentinella alla porta per parare ogni accidente: di vero ben gli valse il consiglio, imperciocchè il servente, pigliando per contanti la raccomandazione di Filippo, si fosse sbrigato più presto del consueto, ed ora tornasse con la lingua fuori nella speranza di sentirsi dire: Bravo. Filippo, appena lo vide, borbottò sommesso: — Avessi potuto romperti il collo! — e ad alta voce soggiunse: — Metti giù la bigoncia, chè al posto ce la porterò io.
— Ma le pare, sor sergente: questo tocca a me.
— Silenzio! Obbedite; andate a empire la mezzina e fate sia fresca e pulita... andate ad attingerla al pozzo... via, presto, che mi occorre prima di mezzogiorno andare per commissione del comandante fuori di Castello.
Quando lo vide per sufficiente spazio allontanato, mise il capo dentro la prigione e interrogò a voce bassa: Sei lesto?
— Mi manca appena un rigo.
— Tira via.
Quando il servo tornò coll'acqua era finita ogni cosa, e Curio aveva potuto raccontare così a bastoni rotti tutto lo accaduto fra lui e il Fadibonni. Filippo aveva preso la breve scrittura, ed involtatala dentro sottilissima foglia di piombo, se l'era nascosta in bocca tra la pelle delle guancie e le gengive, avendo notato più volte come i questurini, visitando le persone, non avessero risparmiato le ascelle, i capelli e ogni altra più segreta parte del corpo (delle vesti, delle scarpe e del cappello non se ne parla nemmeno), ma quanto alla bocca si erano rimasta di sbirciarla aperta, senza insisterci troppo.
Filippo aveva avuto la fiera costanza di essersi rimasto fin lì da visitare Eufrosina; e con deliberato consiglio, timoroso di darsi alla disperazione, caso mai avesse trovato che le durava la crudele infermità, e la disperazione come il coraggio gli portasse via la prestanza; e per disgrazia troppo bene si appose, dacchè le tenebre abbuiassero sempre gli occhi della bella desolata. Filippo, nel mirare la sua creatura immobile e in volto trasfigurata, compresse i gemiti che lo spasimo gli spingeva alla gola, ma non si potè tenere da baciarla con veementissimo ardore: riconfortatosi alquanto, la mise a parte del proposito di condurla presso la madre di Curio, che in cotesto stato, ella, lo doveva capire, sarebbe stata di pericolo mortale alla fuga, ed ella lo voleva salvo il suo Curio, non è vero?
— E, babbo, dimmi, quando è che tu lo salverai?
— Zitto! Questo non importa che tu sappi.
— Non importa? Ah! tu non pensi quanto mi lasci infelice.
— Hai ragione, anima, — ed accostati i labbri all'orecchio di lei, ci bisbigliò con un filo di voce: — Stanotte.
Eufrosina gli prese il capo con ambedue le mani, glielo strinse forte, lo baciò su gli occhi, su le labbra, su tutta la faccia, e parlò:
— La mamma mia, la moglie tua, che ti fu sì cara, dal cielo ti ascolta, ti benedice e ti aiuterà, ne sono sicura; e, dimmi, Curio lo sa?
— Lo sa.
— Ha mostrato voglia di vedermi?
— Si domanda? L'avresti anche tu?
— Ah! per ora come farei a vederlo? E tu, babbo? bada bene, non dirgli la disgrazia che mi è successa, perchè quel caro angiolo mio se ne accorerebbe, e nel maggior bisogno gli cascherebbe il cuore... però una voce mi dice che lo rivedrò... lo voglio rivedere di certo... ma adesso non è tempo; capisco che ci vuole risoluzione... va' dunque, babbo, pei fatti tuoi.
— Vado, Frosina, vado; guarda qui, ci è da mangiare, e qui metto la boccia per bere... per trovare ogni cosa tu non hai a fare altro che stendere le mani...
— Ho inteso... ho inteso... va' pure senza sospetto.
— Ma se credi che ti abbia a mandare qualcuno...
— Va'... va'... ah! non senti, che finchè non vi sappia in salvo mi parrà di arrostire a fuoco lento?
Ora è da sapersi come Filippo avesse in Milano un amico, ma un amico come usavano nel 1848; lo chiamava compare, non già perchè gli avesse tenuto al fonte verun figliuolo, ma perchè l'uno accanto all'altro avevano ricevuto il battesimo di fuoco nelle cinque giornate; — di cui adesso taluni milanesi fingono ricordarsi, per far dimenticare la memoria di Napoleone tanto iniquamente ravvivata da loro. — Pari nei due amici il cuore, disforme la vita: randagio sempre Filippo e propenso a imprese guerresche, l'altro casalingo e pacifico: tuttavia, quando si trattò menare le mani, non si distinse il borghese dal soldato, ed è ragione, perchè la tirannide schietta nudrisce gli oppressi di latte acerbo, ma forte, latte di lupa, mentre la tirannide impiastrata di libertà è ai popoli come una balia sifilitica; la vita degli alunni delle monarchie costituzionali è rósa dalle scrofole interne ed esterne... in verun tempo mai, ne chiamo in testimonio la terapeutica moderna, fu fatto tanto uso dei bagni di mare e di ferro, bene inteso ridotto in limatura o in chiavi false.
Il compare si chiamava Foldo e di suo mestiere era fornaio. — Fornaio? — Fornaio. Lo so, lo so, che messere Zanobi Bartolini, reggendo come commissario della repubblica di Firenze il comune di Pistoia, quando gli mancava gente da impiccare andava in compagnia del bargello per la terra a diporto, ed imbattendosi in qualche fornaio, lo acciuffava e impiccava, affermando: che ad impiccare a quel modo i fornai si poteva andar franchi, che tanto la coscienza non se ne risentiva. Questa opinione veramente a me parve sempre un zinzino abbrivata, imperciocchè succeda dei fornai appunto come dei lucchesi, i quali godendo fino dai tempi passati il privilegio di fornire il mercato di carnefici, interrogati di che patria sieno, rispondono: «io sono di Lucca per servirla; — ce ne sono dei buoni e dei cattivi...»
Foldo dunque faceva il fornaio — fornaio di cuore; un di quei cuori che la Natura serba sotto il banco e tira fuori di tanto in tanto, per far prova che anche lei, se ci si mette, una creatura di garbo la sa imbastire; Filippo, entrato nella bottega di Foldo, gli domandò:
— Come sta la comare?
— Prima Dio, bene.
Allora Filippo, senza aspettare la risposta, infila su per la scala (Foldo per mezzo di scala interna dalla bottega saliva in casa) e va dalla comare; della quale nuova improntitudine di Filippo impermalito Foldo, che lo aveva provato fin lì tanto riguardoso, gli corre dietro e lo trova piantato a mezze scale;
— Che fai tu qui?
— Zitto! Io ti aspettava, ho bisogno di parlarti.
— O chi ti teneva da farlo in bottega?
— Parla piano. In bottega ci era gente, e non ti ho voluto neppur chiamare per paura di destare sospetti; era sicuro che tu mi avresti seguitato.
— Dunque andiamo in casa, ci chiuderemo in camera e parleremo.
Filippo gli disse: — Ecco, per ora ti confido che mi bisogna trovarmi travestito a certa posta di qui a mezza ora: però prestami i tuoi vestiti da giorno di lavoro; quando tornerò a ripigliarmi i miei panni da soldato, allora ti racconterò ogni cosa per filo e per segno. — Comare, vi prego, acqua in bocca; gioco sopra una carta la vita di quattro persone.
E Foldo: — Vivi tranquillo, abbiamo mangiato la foglia.
Senz'altre parole, aiutato dalla moglie, Foldo trasformò il compare per modo, che guardatosi allo specchio non si riconobbe neppur'egli; dopo ciò Foldo per maggiore cautela fece uscire Filippo dalla scala maestra, che riusciva in via Ciovasso, dietro a quella dell'Orso, dov'era aperto il suo forno.
Filippo, travestito, se ne andò lemme lemme, che non pareva fatto suo, rasente le case, sbirciando con l'occhio destro i numeri delle porte; voltò al Carmine, prese di via Brera, venne giù per San Giuseppe, Appiani, Bossi: per ultimo a San Tommaso; qui, notato il numero 31, guizza nella porta e si arrampica per le scale al quarto piano: picchia; gli è aperto.
— O Filippo, siete voi? Se non era la voce chi vi avrebbe riconosciuto! Come qui? Mirate casi! In questo momento io pensava a voi...
Così incominciò a parlare Isabella, e Filippo di rimando:
— Perchè a me...?
— Che so? A voi e a Curio, e non mi potendo capacitare come a lui e a voi potesse bastare l'animo di lasciarmi tanto tempo senza vostre nuove, fra me pensava, qualche altra disgrazia mi sarà cascata su le spalle.
— Giusto, veniva a darle nuova di Curio; e la signora Arria come sta?
Isabella non rispose altro che levando gli occhi al cielo e stringendo le mani come chi si raccomanda. Allora Filippo girò la ruota del timone e soggiunse.
— Io, signora mia, le vorrei parlare in luogo dove veruno ci sentisse.
La Isabella umile riprese:
— Andiamo in cucina, non ho altra stanza più adatta.
Andarono: non ci erano seggiole; Filippo si sentiva stanco; cominciò ad appoggiarsi al camino, poi vi mise su la coscia offesa, poi l'altra, finalmente ci si assettò a sedere.
— Ebbene? interroga Isabella, vedendo come Filippo gingillava a parlare.
— Ecco, signora, prima di tutto bisogna che si pesti bene nel cervello che stasera, o al più lunge domani notte, egli sarà salvo...
— Chi salvo? Curio! Dunque corre pericolo?
— No signora: egli non corre pericolo al mondo; solo è in prigione.
— O Dio mio! Voi mi spaventate... in prigione! Quando? Dove? Perchè?
— Non corre pericolo, perchè l'ho in custodia io. Io sono il suo carceriere. Dunque non si rimescoli.
— Ma che colpa ha commesso? Di qual delitto è reo?
— Una bagattella... cose da nulla; ha spaccato la faccia al suo maggiore.
— Oh! grave errore è cotesto. Si è comportato indegnamente.
— Anzi ha fatto benissimo; e se non lo avesse fatto dovrebbe tornare a farlo; creda, signora, la faccia di cotesto maggiore era proprio degna di mandarci i cazzotti in guarnigione, come dice il poeta... un ladro... un furfante... e poi lascia morire di stento la sua povera mamma... via, ce n'è di meglio in galera.
— E chi ha conferito a Curio l'uffizio di vendicatore del genere umano?
— Le basti, signora, che egli ha dovuto farlo, e se non lo avesse fatto lo stimerei meno di un prete; ma, le ripeto per la decima volta, a liberarlo ci penso io.
— Caro sergente, mi sembra avere udito che la legge militare procede severissima contro gl'infrattori del carcere; per l'amore di Dio pensiamo di non fare un peggio; se foste ripresi, che mai ne andrebbe a Curio e a voi?
— Certo, la legge militare non è fatta col miele.
— Dunque non sarebbe meglio lasciare che Curio scontasse la pena?
— Che diavolo dice? Ma che le pare?
— Perchè mai?
— Perchè... perchè la pena alla quale condannarono Curio non è di quelle che si sopportano due volte.
— Voi mi spaventate... ma si prega, si mettono persone di mezzo... e gli avvocati o che ci sono per nulla?
— Tempo perso... le ripeto che Curio fu condannato...
— Ma condannato a che?
— A morte... e subito, tese ambo le braccia per sostenere la Isabella che balenava per cascare, aggiungendo con parole infocate:
— Su, su, che adesso non è tempo di svenirsi, bensì di richiamare tutte le virtù intorno al cuore per la salvezza di Curio.
La madre si raddrizzò di forza, quasi il dolore le avesse infuso nuova lena nel sangue, e favellò:
— La sventura mi ha posto per bersaglio ai suoi strali; — a quest'ora dovrebbe trovarsi presso a finirli... coraggio!
— Sì, coraggio, riprese Filippo, e volendola confermare in cotesta risoluzione cavò di tasca una grossa chiave e mostrandogliela aggiunse: — Miri, questa è la chiave che tiene chiuso il nostro Curio (e cotesta fu pietosa menzogna). Ora a noi, signora Isabella: come sta a quattrini?
Isabella ghignò acerba e a denti stretti rispose:
— Di debiti un diluvio.
— E mezzi per farne?
— Veruno... e se potessi racimolare qualche soldo, o che la inferma figliuola ha da soffrire?
— Dio ne guardi, povera creatura!
— E il padre mio travolto nella miseria? A lui tanto più aspra quanto più insolita.
— Di certo; dunque la non si stia a confondere, penserò io a rimediare.
— Ma come potrò io uscire dall'agonia del pendere incerta per la vostra salvezza?
— Aspetti, egli era appunto quello che io stava per dirle. Da domani in su Foldo, il fornaio di via Ciovasso... lo conosce?
— No, bensì ho udito parlarne.
— Bene; quando non ci sarò io, ad ogni suo bisogno faccia ricapito a lui; — ma mi raccomando con circospezione, senza che veruno lo sappia. Dunque da domani in su Foldo le manderà a casa un filo di pane; lo guardi bene dentro, e quando ci troverà un franco, ciò vorrà dire che siamo fuori di prigione, e quando due che ci troviamo fuori di Stato: sul partire per l'Inghilterra le scriveremo addirittura per la posta.
— Ho capito...
— Il pane non istia a pagarlo, faremo i conti con Foldo quando sarò di ritorno... ora ecco qua un biglietto di Curio, lo legga, poi ragioneremo del resto.
Isabella prese il foglio, lo baciò, lo lesse in un bacchio baleno, e il sangue dal cuore le refluì sopra le guancie.
Amore e luce, allorchè prima nascono, ovvero quando tramontano, colorano sempre le sommità della persona o della terra; subito dopo con ineffabile affetto esclamò:
— Oh! venga, venga la desiderata... povera tosa! ma sarà nulla... più no, che non potrei, ma la custodirò... ne avrò cura come figliuola.
— Come figliuola sua ha detto? Tocchi qua...
— Ne dubitereste, Filippo?
— No... si... scusi, sa, anch'ella è madre...
— Pover'uomo! Anche a voi tocca un'angoscia che non ha conforto... Ma come accadde il caso?
— Che vuol'ella che le dica? Frosina vide Curio dalla finestra, lo udì condannato e cadde riversa: la testa non le trovai rotta, nè ammaccata, sicchè non sembra che se ne possa accagionare il colpo battuto sul pavimento; gli occhi le durano belli e smaglianti, ma, disgraziata! non ci vede più. Ne consultai il chirurgo maggiore del Castello, ma costui, che non essendo stato trovato buono per veterinario ce lo regalarono chirurgo al reggimento, non seppe dirmi altro: acqua fresca e seguitate. Stringiamo dunque, che il tempo incalza, e se la fortuna mi assiste, vorrei dar sesto a ogni cosa, perchè le sassate sono buone di colta... La ragazza io non so se gliel'abbia a raccomandare o non gliel'abbia a raccomandare. Se penso a lei, madre, penso che sarebbe insolenza; ma s'ella pensa a me, misero padre, mi perdonerà... Non è vero?
E sceso di sul camino, presa la mano alla Isabella, gliela baciava con religioso trasporto.
— Ottimamente! si udì in cotesto punto esclamare una voce, che mosse dal dottore Taberni, il quale aperto l'uscio di cucina c'intrometteva il capo. Egli, secondo il solito, era venuto a visitare la inferma, onde Isabella presolo risoluta per un braccio gli disse:
— Senta un po', dottore, il caso accaduto a questo povero padre, e ci dica schiettamente la sua. Guardi per carità se ci fosse rimedio; — e qui con parole succinte gli esponeva (non senza prima far di occhio a Filippo, perchè reggesse il venti) per filo e per segno come il cielo avesse felicitato Filippo di una figlia di sorprendente bellezza, anima dell'anima sua e pegno dilettissimo di cara moglie defunta: ella essersi accesa di veemente amore per un giovane dabbene che di pari amore la ricambiava: annuente il padre essersi promessi sposi, anzi avere stabilito il dì delle nozze. Ora trovandosi il giovane in compagnia di certo suo amico a passare sotto le case in demolizione su la piazza del Duomo, un ponte rovinando dall'alto era venuto a cascare sopra i due poveri giovani, di cui uno investito da un grosso trave sul capo rimase sul tiro; l'altro, il genero di Filippo, stramazzò svenuto e malconcio, non morto; però lì per lì giudicarono morti ambedue. Il capo maestro muratore, ch'era della contrada dove abitavano cotesti meschini, rimescolato corre a casa e racconta il fatto alla moglie, la quale si affaccia alla finestra e trasmette in meno che si dice un credo la notizia alle comari; una di queste, zotica, chè troppo spiacerebbe imaginarla maligna, la spara a bruciapelo alla fidanzata, la quale, come percossa da folgore, casca priva di sentimento; dopo molta ora, e quando pareva ogni maniera soccorsi adoperata invano, ecco ella si trova ad avere ricuperato i sensi e perduto la vista.
— La vista! esclama il dottore; e non ci vede proprio più briciolo?
— Dite su, Filippo, ordina la Isabella al sergente, il quale non rispose la prima volta, distratto a pensare che se tanto allo improvviso la signora Isabella, donna senza dubbio da potersi bere in un bicchiere di acqua per la sua sincerità, aveva saputo trovare girandole per prevenire ogni sospetto nella mente del dottore, di che mai sarebbe stata capace altra donna simulatrice a caso pensato; — alla seconda interrogazione egli si fece vivo e disse:
— Punto, nè luce di giorno, nè lume di candela accostatole agli occhi.
— E gli occhi conserva lucidi?
— Lucidissimi secondo il consueto.
— Sangue dentro ce ne avete osservato?
— No.
— Il capo le duole?
— Si, intorno alle ciglia e verso le tempia.
— Dite su, la tosa è atticciata? Patisce d'isterismo?
— Ecco, baliosa si mantenne un pezzo, ma da certo tempo in qua ora divampa in viso, ed ora si fa bianca come panno lavato; talora smania tutta notte, o vegli o dorma, e sovente si lagna il cuore oppresso presagirle guai.
— Eh! eh! riprese il dottore battendo sopra la tavola le dita delle mani in cadenza, come chi suona un tamburo — caso raro... però possibile... e tanto possibile che eccolo accaduto, dunque è inutile perfidiarci sopra... il moto istantaneo e violento dell'animo deve avere alterato profondamente il nervo ottico... forse... anzi quasi di sicuro un moto del pari violento potrebbe in un attimo restituirle la visione... ma come procurarlo? Ed ancorchè tu lo potessi provvedere ti attenteresti, dottore Taberni, a metterlo in pratica? Puoi tu limitare la scossa al nervo ottico? E se le percuote con veemenza pari il cervello, chi ti assicura che non ti rimanga sul tiro?
Il dottore parlava a voce alta, e il povero Filippo, a seconda delle proposizioni che gli uscivano di bocca, dava i tratti o torceva la bocca; tu lo avresti preso per uno infermo del male di san Vito.
— Dunque, proseguiva il Taberni, bando ai rimedi superlativi... procederemo con giudizio e procureremo di guarirla... ma sì di certo che la guariremo... metto su pegno che la guariremo...
A questo punto si sente agguantare le gambe, ond'egli spaventato non sapendo che diavolo fosse, dando una solennissima spinta tenta svincolarsi da cui lo teneva avvinghiato; abbassa gli occhi e vede Filippo, che inginocchiatosi dinanzi a lui, s'ingegna baciargli i piedi; per la quale cosa il dottore, forte incollerito, si mise a gridare:
— E chi dà a lei, signor mio, il diritto di scambiare un uomo per un papa? Oh! che le pare abbia faccia di prete io? E come e quando ha potuto sospettare in me il matto orgoglio di vedermi con piacere avvilita davanti la creatura di Dio? E lei la pretende a uomo libero? — Oh! vada a imparare, mi faccia il piacere... vada.
— Ma senta...
— Non sento nulla, non voglio sapere nulla di un uomo che mi ha fatto la ingiuria di pigliarmi pel papa... ringrazi Dio che qui, in casa di questa signora, non voglio fare scandali... però non mi posso astenere di maravigliarmi con lei, signora Isabella, che essendo donna tanto di garbo, consenta bazzicare gente che scambia un galantuomo per un prete.
Così, sempre bifonchiando, presa la via dell'uscio, si cacciò giù per le scale senza che ci fosse verso di trattenerlo. La Isabella confortò Filippo, rimasto sottosopra alla uscita del dottore, a non darsene per inteso: tornerebbe il giorno appresso, senza neppure ricordarsi del cappello preso di essere tolto in vece del papa. Ora, levato ogni indugio di mezzo, andasse per Eufrosina, chè troppo le tardava abbracciare e consolarsi con la povera figliuola.
Allora Filippo si mette la via fra le gambe e va difilato alla bottega di Foldo, alquanto più ilare, perciocchè gli paresse che le cose pigliassero buona piega.
— Sai tu, Foldo, che ti ho da dire?
— Gua'! sei di ritorno, Filippo? Che mi hai da dire?
— Io ti ho da dire che, portando i tuoi panni addosso, mi è avvenuto come al Berni, quando un amico gli prestò il mantello.
— Di' su, che lo sappia anch'io.
— Quando mel veggo addosso la mattina
Mi par dirittamente che sia mio,
E non la voglio intendere
Ch'io ve l'ho pure a rendere.
Orsù, andiamo per le corte — e qui, dopo avere chiamato anche la comare Bita e chiuso l'uscio, si rifece da capo a raccontare ai nostri coniugi la dolente storia di Eufrosina e di Curio; la Bita piangeva a catinelle; circa a Foldo il pianto non era il suo forte, bensì di tratto in tratto prorompeva in singhiozzi da sfondare una porta. Filippo, venuto in fondo alla sua narrativa, dava per perorazione un pugno sopra la tavola esclamando:
— Ebbene. Curio non ha da morire.
— No davvero, rincalzarono in coro i due coniugi; ma Foldo da solo:
— Non morirà per Dio!
— Dunque Dio mi assisterà; diversamente lo rinnego.
— Ci sto; se non ci aiuta lo rinnego anch'io.
— Ed ora ascoltami: domani mattina per tempo io ti verrò a trovare col giovane travestito, carico con un sacco delle robe di Eufrosina; tu avvisa gli amici vecchi, perchè mi abbiano ad assistere nel fiero passo a cui mi metto... mi mancano danari, e bisogna pure che me gl'imprestino.
— E tu, a volta tua, Filippo, ascolta me; male hai fatto a non aprirti subito meco, perchè a questa ora mi sarei accordato con gli amici intorno al modo da praticarsi pel meglio; basta, acqua passata non macina; non so se quello proposto da te sarà approvato; dunque fa' una cosa, domani non pigliare la via che hai tenuto stamani per venire qui; invece entra in via di Legnano; se non incontri persona, ritorna su i tuoi passi e per ponte Vetro vienmi a casa, dove procurerai entrare da via Ciovasso. Dove mai ti accorgessi di persona, allenta il passo; e se ti moverà incontro dicendoti: buon giorno e buon anno; tu le domanderai: che santo fa oggi? E se ti risponderà: santo Ambrogio da Milano, allora ella si volterà e tu tienle dietro senza sospetto: niente ti sarà chiesto e nulla tu domanderai; solo obbedirai a quanto ti prescriverà o con la mano o col cenno. Quanto a danaro non pigliartene cura: ne abbiamo tanti da comperarne acuti da ficcarsi nel piede di cui ci vuol calpestare. Addio, Filippo, lavora di fine da parte tua, e di noi non dubitare.
— Mi raccomando.
E Foldo, tornando addietro, gli prese la mano e disse:
— Tutti amici miei e veterani delle cinque giornate, semplici come colombe e astuti più dei serpenti. I giovani non san fare, per condurre le cose a modo e a verso bisogna avere giocato le partite dove per posta si metteva su una corda, ovvero otto palle nello stomaco quando andava bene. Forse prima che tu parta ci rivedremo; in ogni caso, to' un bacio, e Dio stia con noi.
Non uno, ma dieci ne ricambiò con Foldo il buon Filippo, che voltatosi al primo interrogò:
— O che un bacio alla comare io gliel'abbia a dare?
— Dagliene due: i baci della moglie a cui il marito fa da notaro non registra la vergogna.
E la Bita, fra il riso e il pianto, minacciando col dito Filippo, diceva:
— Tristo, e guai a voi se per colpa vostra io non avessi ad essere la comare del primo figliuolo che partorirà Eufrosina.
Filippo, pauroso fosse per mancargli il tempo, accomiatatosi da loro si affretta a casa, dove Eufrosina, persuasa del pensiero gentile di dissimulare al padre la propria cecità, si era industriata di mettere a tasto in sesto le sue robe, e tra bene e male ci era riuscita; ma ella presumendo troppo aveva ardito eziandio acconciarsi il capo, e scioltasi i capelli ci aveva passato quattro volte e sei il pettine; ma di un tratto l'era caduto, e per quanto avesse brancolato diligentemente da per tutto non l'era riuscito rinvenirlo più. Povera fanciulla! Dacchè l'era tolto di compiacersi a contemplare la sua bella chioma, sentiva tanta consolazione a pettinarsela e a palparla!
Appena conobbe il rumore dei passi paterni, per non lasciargli tempo di accorgersi dello sconcio ed affliggersene, disse:
— Babbo, raccatta il pettine e finisci di pettinarmi tu.
E Filippo lieto ci si provò subito: assorto nel piacere di far bella la sua creatura, non pensò ad altro. Intanto che la pettinava la mise a parte di quello giudicò necessario ch'ella sapesse; ed avacciandola poi, e sovvenendola a vestirsi, quando la mirò di tutto punto, presala sotto il braccio favellò:
— Andiamo via, che la signora Isabella ti aspetta.
Adesso viene la volta per Filippo ad industriarsi che la figliuola si accorga men che si possa della sua disgrazia, e questo fa removendo col piede gli ostacoli che loro si parano dinanzi, ovvero sospingendo lieve col gomito la figlia, ond'ella senza accorgersene li scansi, e creda potere procedere franca come se ci vedesse.
Una favilla di amore come bene e quante anime accende!
La guardia della porta del Castello, quando vide la fanciulla bellissima, che veniva via pari all'angiolo che si accosta a fare aprire le porte dell'inferno, trasse tutta fuori per contemplarla e per salutarla; e il caporale, ch'era da Barberino di Mugello, bel parlatore e qualche volta dicitore in rima, le favellò:
— Deh! Eufrosina, tornate presto e non ci fate aspettare; voi lo sapete, come ci lasciate ci piglia il buio ed il freddo:
Quando partite voi tramonta il sole,
Le chiappa il freddo e van tentoni al buio
Le anime nostre desolate e sole.
— Ecco, date retta a me, disse un altro soldato, che all'accento parve siciliano, io per me proporrei che ci avessimo a collettare, e li danari deste a me per far dire una messa a santa Lucia, onde rendesse la vista degli occhi alla buona fanciulla.
Parve ch'egli accendesse un fuoco d'artifizio, sicchè si udiva da più parti:
— O che le avrebbe a rendere la vista dei ginocchi?
— To', questa è nuova di zecca; io ho visto sempre santa Lucia dipinta cieca, o come potrebbe dare agli altri la vista che non ha per sè?
— E voi altri imparate quale sarebbe il sacerdote e quale il tempio dove celebrare la messa; prete il camerata Rosolino, chiesa l'osteria del Fico.
— Io vo' dire la mia, vo' dire; propongo pertanto che noi abbiamo a digiunare un giorno per uno; così si risparmia quattrini e ci troviamo la devozione bella e fatta...
— . . . . . . . . ma fiorentino
Mi sembri veramente quando io t'odo,
interruppe un livornese: costui di fatti veniva da Firenze: — E fermi, proseguiva, mettendosi la mano in tasca; io pago il vino per tutti, e ce lo beveremo alla prossima guarigione della nostra Eufrosina piena di grazia.
— Magari! risposero a coro i camerati appuntando gli sguardi nella mano del livornese, il quale, poichè ebbe rovistato un pezzo, la trasse fuori mortificato, e disse:
— Maledetto vizio di portare i danari alla rinfusa! Li perdo sempre. Tanto è, finchè non ci daranno moglie, noi altri soldati avremo sempre le tasche sfondate.
— Largo allo Specioso! Giusto voleva dire; il lupo perde il pelo, il vizio mai; e chi tal disse, nacque a Pisa, dove dei fumi livornesi sono piuttosto invidiosi mordaci che severi censori.
Allora Eufrosina, ridendo lietamente, incominciò:
— Peccato che tanto bella concordia deva andare a monte! Quanti siete?
Non risposero, compunti da pietà, però che la domanda chiarisse lo stato deplorabile della fanciulla, che dopo poco ripeteva: — Insomma, quanti siete? O che mi toccherà riscontrarvi a tasto?
— Otto; col caporale nove.
— Ebbene, ecco un cavurrino, che a me cieca è riuscito trovare in tasca, mentre il livornese alluminato ha fatto fiasco... — L'ha avuta! gridarono attorno i soldati uccellando il livornese, il quale con ciglio e accento severi parlò:
— Signori, non mi pare buona creanza interrompere chi parla, massime quando l'oratrice è una gentil donzella.
— Ora, continua Eufrosina, in questi due franchi entrano tre e più litri di vino; bevetene un bicchiere avvantaggiato per uno alla mia prossima salute.
Qui ruppe tale un rombazzo di voci per applaudire Eufrosina, che il colonnello del presidio, immaginando che o qualche principe, o il re stesso si fosse fatto a visitare il castello, tirò via di uno strettone il piede dalle mani del barbiere, che gli tagliava i calli, e con una gamba calzata e l'altra scalza corse per essere primo ad ossequiare, mentre il comandante, pauroso che la rivoluzione fosse entrata in Castello, si rimpiattava sotto il letto della moglie puerpera.
Eufrosina aveva operato da quella arguta giovane che era; — tanti capi, tante opinioni in Italia, così in caserma, come in mercato e in Parlamento; ed ogni dì crescono, perchè durano fatiche da cani ad insaccarci tutti nella unità dei regolamenti piemontesi e non ci riescono: unico efficace fattore della unità italiana fin qui il fiasco; Asti e Artimino, Chianti e Barbèra si riconobbero senza ostacolo di progenie latina; enotrii tutti, e si mescolarono fraternamente dentro lo stomaco dei deputati italiani.
Filippo mise la figlia nelle braccia di donna Isabella; nulla parlò; la guardò solo con uno sguardo che nè parole, nè colori valgono a dipingere; però il poeta lo tace, ed il pittore Timanto lo nascose sotto il velo, quando ebbe a effigiare Agamennone assistente al sagrifizio della figliuola Ifigenia. Ogni momento Filippo ripeteva doversene andare, ed era sempre lì; moveva verso l'uscio e poi tornava indietro; fin quando ebbe sceso mezze le scale rifece gli scalini per ribaciare la sua cara, la sua divina creatura.
Nel rientrare in Castello Filippo, al caporale di guardia che gli andò incontro verso la porta, disse sentirsi rifinito, ed era vero: pel quel giorno non poteva più strascinarsi dietro le gambe, epperò avrebbe portato le sue robe alla Eufrosina alla domane per tempo, onde aver libera tutta la giornata; volesse avvertirne la guardia, perchè non gli avesse, come a caso insolito, a porre ostacolo.
— Andate franco, sergente, lasciatene il pensiero a me.
Tuttavia Filippo, comecchè a stento, andò a licenziare il rinforzo mandato dal comandante alle carceri, e fece in compagnia del suo secondo la visita dei prigionieri, o piuttosto la principiò, che appena ebbe trovato modo per susurrare nell'orecchio a Curio: stasera! — disse al secondo:
— Io non mi reggo ritto, badate a chiudere con la solita diligenza; quando avrete finito, venite a mangiare un boccone meco, mi terrete un po' svagato, chè dall'angoscia mi sento morire.
Il secondo non se lo fece ripetere due volte, e rispose:
— Animo, su, sergente, dopo il tempo cattivo viene il buono, come dice l'uomo del Bosco.
Pertanto, dopo tirati i chiavistelli e chiusi i lucchetti a norma dei veglianti regolamenti, egli se ne andò a trovare Filippo salendo le scale a quattro a quattro; questi, che si era buttato sul letto, scese subito e si mise a tavola col secondo; alquanto cibo gustò, al bicchiere pose appena le labbra, poi sbadigliando disse:
— Ho più voglia di dormire che di mangiare; continuate il vostro pasto, io lo ripiglierò riposato; lasciatemi la parte del pane e del companatico; il vino finitelo pure, chè di questo ce ne ho dell'altro.
Veramente il secondo si era proposto non tenere lo invito, anzi aveva solennemente deliberato in cuor suo serbargli anche la metà del vino; ma sì, ciliege, bugie e bicchieri di vino vengono al mondo come Giacobbe, agguantando il piede di Esaù. Innanzi che fosse andato in fondo della boccia, il capo del secondo dondolava più della cima di un cipresso quando tira libeccio. — È meglio che anch'io me ne vada a letto, disse fra sè, ed era risoluzione piena di giudizio; peccato che la pigliava un po' tardi, perchè la seggiola, in quella ch'egli stava per alzarsi, gli scivolò di sotto, ed ei cadde lungo e disteso sul solaio. Al rumore del tracollo Filippo schiuse alquanto gli occhi, e visto il caso mormorò:
— Sta bene dove sta, e voltatosi su l'altro fianco si diede in balìa del sonno.
Quando si risvegliò, chè a buona caviglia aveva legato l'asino, stava per sonare l'ora della visita notturna alle carceri; bevve un bicchiere di vino, che levò da un armario per darsi un po' di fiato e poi mise mano a spogliare l'addormentato dei suoi panni, il quale voltato e rivoltato tronfiava, non però risentiva: spogliato ch'ei fu, Filippo fece delle sue vesti un fastello, ma consideratolo bene, segnò col capo tale atto da destra a sinistra, che parve mano che cancelli un rigo di su la carta; allora sciolse il fastello, ed esaminati meglio i panni gli parve avere il fatto suo; invero, essendoseli provati, trovò che sopra i suoi gli andavano a pennello, poichè il secondo fosse alquanto più atticciato di lui e quasi complesso quanto Curio. Sicuro, a chi lo aveva in pratica sarebbe parso più grosso, ma al buio non ci si bada, e poi avrebbe scansato che mettessero troppa attenzione sopra di lui; a questo fine tirò giù il lucignolo nel luminello della lanterna, tanto che mandasse un sospiro di luce, e così alla prigione il buon uomo avviossi: i passi alla lontana ei misurò in modo che al suo appressarsi la sentinella avesse trascorso oltre la porta, voltando le spalle; allora guizzò dentro l'androne dove mettevano capo talune celle; affrettasi a quella di Curio, e aperta appena la porta gli domanda ansioso:
— Sei pronto?
— Si.
— Aspetta, e così dicendo presto presto pon mano a spogliarsi; e poichè l'altro trasecolato esclama:
— Ed ora che fai?
Risponde:
— Silenzio e obbedisci; mano a mano che mi spoglio io, vestiti tu.
Siccome Filippo, comecchè si spogliasse, appariva sempre vestito sotto, Curio cominciò a capire. Filippo, considerando poi che la faccenda tirava troppo in lungo:
— Esci, gli disse, finirai di abbigliarti fuori; rannicchiati in un canto; mentre ti vesti continuerò la visita.
E come ordinò fu fatto; nel richiudere la carcere di Curio sbatacchiò gli usci con tale fragore che ne rintronarono i muri del casamento. Taluno dei prigionieri vedendo comparire Filippo solo, e rincrescendogli, però che il sotto carceriere, secondo il consueto, gli avesse promesso portargli robe vietate, si attentò domandare:
— O di Pietro che n'è, che stasera non si vede venire?
E Filippo, con voce e cera da Lucifero:
— Che v'interessa sapere queste cose? O mirate un po' che mi bisognerà tenere in giorno i signori carcerati di quanto i superiori ordinano e disordinano? Lo so bene che a voi altri, cattivi soggetti, quando vi menano in prigione vi sembra andare in villeggiatura, e Pietro vi aiuta a bucare il regolamento: ma questa bega ha da finire... e finirà...
Mortificato il prigioniere, torna chiotto chiotto a sdraiarsi sul pancaccio, e Filippo, a cui doleva sostenere la parte dell'uomo di arme, non che per mitigare cotesta infinta asprezza, seminava sigari, conforto da carcerati.
Filippo, dopo abborracciata la visita, si accosta a Curio e così gli favella sommesso:
— Levati, piglia la lanterna, escirai primo, io ti terrò dietro coprendoti con la mia persona.
E così fu fatto; la sentinella, la quale non aveva veduto se fossero entrati due uomini od uno, non si addò di nulla; e i nostri amici, accelerando il passo, presto si furono ridotti a casa.
— Barba bene insaponata è mezzo fatta, — mormorò con lieta voce Filippo; ma per la commozione tremando, si pose a sedere sul letto asciugandosi il sudore. In breve però fu in piedi da capo e disse:
— Curio, ora andiamo a fare il fagotto di Eufrosina.
Mentre Curio stava per entrare nella camera di lei, incespicando nel corpo di Pietro fu ad un pelo di dare della faccia per terra.
— Questo ch'è?
— È Pietro spogliato per vestir te.
— Vive? soggiunse Curio atterrito.
Filippo, attanagliandogli con la mano destra il braccio:
— So, per lo meno quanto tu, gli rispose alterato che libertà a prezzo di delitto non è libertà... dorme... ubbriaco.
Empirono una balla di robe senza pigiarvele, giovando che facessero maggior volume: portando poi la balla nella prima stanza, Curio, nel rivedere Pietro steso sul solaio, osservò:
— Non sarebbe meglio portarlo sul letto e coprirlo?
— Lascialo stare, che sta bene. Quando ti trovi per le mani una faccenda di suprema importanza, qui intendi tutto, e non confonderti in altro: anche la pietà in mal punto può nuocere. Pietro al pancaccio ha fatto il callo; tra il pancaccio e il mattonato non ci corre un tiro di cannone, e tu l'avresti a sapere; smovendolo potrebbe urlare.
— O a mettergli adagio un guanciale sotto il capo?
— No signore, tu buttati sul letto e dormi; io ho dormito tutto il giorno per vegliare.
— No, vacci tu piuttosto.
— Ho dormito tutto il giorno per vegliare, ti ripeto: più tardi farai a modo tuo, adesso obbedisci.
Giusto nel punto in cui si apriva il Castello, Filippo si trovò alla porta con Curio dietro, portatore della balla sopra l'omero manco, celando per questo modo la faccia a chi stava fuori della porta della caserma; e secondo la promessa ci stava il caporale, che appena ebbe scorto Filippo gli andò incontro salutando:
— Buon giorno, sergente.
— Buon giorno, caporale.
— Tanti saluti e poi tanti da parte mia alla cara Eufrosina.
— Presenterò le vostre grazie: addio.
— Sergente, sentite una cosa, quando tornate, mi promettete di confidarmi dove dimora adesso?
— Ve lo prometto: addio.
— Non crediate mica per cattivi fini; solo per mandarle di tratto in tratto i miei versi e qualche fiore.
— S'intende... diavolo! addio.
Senz'altro intoppo, alla fine vennero all'aperto; non si scorgendo attorno anima viva, affrettarono il passo per la via Legnano: appena giunti a un terzo, ecco occorrere loro persona che parve sbucata dal centro della terra, e rasentatili salutò:
— Buon giorno e buon anno!
E Filippo: — Il santo?
— Santo Ambrogio da Milano, e vienmi dietro accosto al muro.
Dopo camminato un pezzo, lo sconosciuto, che precorreva, picchia con le nocche su di un portone da rimessa, che si apre, e dietro a quello sparisce. Filippo e Curio, arrivati a cotesto punto, assai sbigottirono non vedendo più alcuno, se non che a rimettere loro il cuore in corpo una voce parlò:
— Buon giorno e buon anno.
— Il santo?
— Santo Ambrogio da Milano.
— Entrate.
Entrarono: l'uscio si richiuse, ed essi si trovarono dentro un fienile ingombro di legna e di strame; di corto si mostrò un uomo di faccia gioviale che li invitò a bere un bicchiere di acquavite per cacciar via la mattana, ed a mangiare un boccone di pane; finito il sobrio pasto, costui disse:
— Voi altri deporrete qui la balla, e m'indicherete dove ha da essere recapitata, che noi ce la porteremo con le debite cautele, s'intende.
Filippo glielo disse.
— Bene, adesso spogliatevi dei vostri panni e vestite questi da barocciai; ecco due perrucche; giovanotto, giù i baffi; di biondo trasformatevi in nero; voi, vecchio, di grigio ferro vi muterete in argento schietto; ci guadagnate un tanto; tra poco arriverà qui un branco di bestie e di cristiani, e voi v'imbrancherete con gli altri; vi affideranno un baroccio; a condurre un cavallo poco ci vuole; le nostre povere bestie, affrante dalle fatiche, voi non proverete bucefali; andate dove gli altri andranno: non domandate, non rispondete; e sarà spediente che voi non vi mettiate uno dietro l'altro, lasciate tra voi quattro barocci o cinque; e addio; lavorate pulito.
Dopo mezz'ora la contrada andava sossopra da un fracasso di cavalli, di barocci e di vetturali; se avessi pretensioni alla fama di storico veridico, dovrei aggiungere: e di bestemmie, perchè, io non so la cagione, la plebe tutta, ma i vetturali in particolare, hanno lite perpetua col paradiso e con chi ci è dentro. Lascio andare l'acqua per la china, ma per me ripeto che se la plebe non crede in Dio e bestemmia, è stolta; se ci crede, scellerata.
In tanta gente, in mezzo a cotesto bailamme, Filippo e Curio si confusero con gli altri, senza che veruno se ne addasse, e ciò tanto più potè farsi, che due barocciai, i quali erano d'intesa, entrarono nel fienile, e dati i debiti segni, si convertirono in facchini, ammonendo sommesso i due fuggitivi che pigliassero posto ai loro barocci.
Parte dei barocci caricò strame, parte legna, di questi i barocci di Curio e di Filippo: poi si misero in moto per andare: alla prima svolta il guidaiolo capo del traino a voce alta ordinò:
— Chi ha strame in casa Berretta; chi ha legna alla prefettura.
Alla prefettura! pensarono d'accordo Curio e Filippo, di cui i barocci portavano legna, ma curvarono le spalle e proseguirono senza fiatare.
Di vero fermaronsi davanti alla parte postica del palazzo della prefettura, e tosto diedero mano al discarico: indi in breve fu un brulichio, uno andare e un venire da disgradarne le formiche. Qui ad un tratto si presentava a Curio ed a Filippo l'uomo del fienile, il quale, mentre finge dare loro ordini pel trasporto, aggiunge sommesso:
— Ora smettete il mestiere di barocciaio per pigliare quello di facchini; caricatevi un fascio di legna sopra le spalle e salite su franchi; troverete qualcheduno per le scale che vi guiderà.
I nostri eroi, carichi come muli, seguitarono i compagni che osservarono avviarsi su per le scale, però che altri scendevano per recarsi alle cantine, ovvero alle cucine; ma pei nostri eroi, rifiniti dai patimenti, non fu piccola fatica portare quel tocco di fascio di legna in soffitta; venuta loro meno la balìa, si buttarono a sedere sopra gli scalini a riprendere fiato, mentre i compagni scendevano vociferando, e taluno motteggiandoli; riconfortati alquanto, scesero anch'essi pensosi se ad un secondo viaggio sarieno loro bastate le forze, quando ecco, mentre meno se lo aspettavano, apparve loro sopra la porta del secondo piano un vecchio vestito civilmente che li salutò col saluto convenuto: Buon giorno e buon anno. Quelli avendo chiesto il santo, udirono rispondersi: Santo Ambrogio da Milano.
Invitati entrarono in casa al vecchio; quivi per tutto cotesto giorno rimasero, alternando insieme molti e bei ragionamenti che non importa riferire; basti sapere ch'egli era un patriotta della stampa antica; la fortuna lo aveva fatto padre di un giovane che un dì, ardente garibaldino, per vanità infelice aveva fatto voltafaccia, e, Saulo alla rovescia, perseguitava ora i repubblicani coll'impeto col quale un dì aveva parteggiato per loro; infatti di presente si trovava a Lugano per tenerli di occhio; ma il vecchio si era mantenuto per genio proprio e per pericoli comuni durati per la libertà legato ai vecchi amici, onde questi non avevano saputo escogitare asilo più sicuro ai fuggitivi della casa del delegato capo di polizia, occhio diritto del prefetto e mignone dello stesso ministro dello interno, il quale aveva aperto con questo oggetto della sua tenerezza un conto corrente d'infamie e di croci; circa a quattrini adagio; ma al delegato di questi importava poco, perchè se li pigliava da sè.
— È mio figliuolo, diceva il vecchio con un sospiro, l'ho unico sopra la terra, e odiare non lo posso: il mio dovere m'impone di stargli a canto, tentare di ricondurlo nel diritto sentiero; e in ogni caso, quanto più posso, emendare il male ch'egli fa: prima che finisca la settimana io non lo avrei ad aspettare, ma vado sicuro che lo richiameranno prima per isguinzagliarvelo dietro, chè senza di lui non sanno a quanti dì viene san Biagio. Ora lasciatemi andare a chiudere il cancello di mezze scale, e prima che si faccia più buio bisogna che vi accomodi nella soffitta, dove ho ammannito quanto ho potuto, stante l'angustia del tempo e la necessità di non destare sospetto: adattatevi e compatite; non fumate, non accendete lume, procurate non fare rumore, camminate scalzi; avvertite che qui in casa molta gente ci bazzica, e la serva fino a sera, chè allora va a dormire a casa sua; quando potrò verrò a vedervi, e se vi manca qualche cosa ve la provvederò; per la strada si assettano i basti. Passata la prima sfuriata, ci riuscirà facilissimo più che altri non pensa cavarvi da Milano e dal regno. Noi siamo potenti e molti; di vero, chi mai potrebbe capacitarsi che vi abbiamo trovato asilo proprio su la testa del prefetto, anzi nel giaciglio del segugio che vi avrebbe a scovare?
I successi si svolsero giusto nel modo presagito dal vecchio; il suo figliuolo, richiamato, tornò due giorni dopo dalla Svizzera, il quale ridottosi a parlamento col prefetto, col generale di divisione, col procuratore del re e col questore, si condusse a casa in fretta e in furia per rinnovare la biancheria della valigia, desinare e partire. Mangiò appena, le mani gli tremavano per la commozione; narrò, il governo sottosopra per la fuga del soldato condannato a morte e del carceriere; non sapeva distinguere chi più procedeva smaniosa in questa faccenda, o l'autorità civile o la militare; entrambe parergli frenetiche: se non giungeva a dare uno esempio solenne, addio disciplina; il regolamento urlava carne peggio di un lupo affamato: egli aveva rimesso il cuore in corpo a tutti: essere corso fra loro un patto: se a lui fosse riuscito in capo ad una settimana reintegrare i contumaci in Castello, gli avrieno impetrato dal governo una questura e la croce dei santi Maurizio e Lazzaro. Bel colpo, babbo mio! bel colpo!
— Bada, gli notava il padre, bada, figlio mio; ho paura tu abbi preso una gatta a pelare; i repubblicani sono potenti; almeno se ne vantano.
— Eh! dove sono adesso i repubblicani? Repubblicani erano i giovani, ma il governo li pesca alla mazzacchera delle preture, degli assessorati, delle delegazioni, delle questure; qualcheduno, che va per la maggiore, si abbarbaglia con lo specchietto delle prefetture; due l'hanno, quaranta l'aspettano; un flagello allunga il collo e pigola da mattina a sera; per me, vedete, con metà meno di brumeggio mi farei forte di chiapparvi una retata di deputati.
Nè alcuno voglia osservarmi che sembra strano un tale linguaggio in bocca a costui, colpevole anch'egli, però che tale lebbra invada appunto l'anima venduta, la quale negli altri disprezza o aborre quello che in sè o non vede o non sente.
— Ci sono i vecchi, soggiunse il padre; ed essi non hanno speranze, ed anche meno timori.
— Vecchi! una manata di sgangherati, conti della sputacchiera, duchi del cristere; cenere, cenere, soffiaci su, e andranno dispersi: afflavit Deus et dissipati sunt.
— Ma hai pensato che se li agguanti, tu li meni al macello...
— Babbo, mors tua vita mea; due più, due meno, non saranno la rovina nel mondo, e poi siamo troppi; non so e non credo che ci siamo condotti a vivere insieme per aiutarci, certo egli è che adesso stiamo insieme per divorarci.
— Come così è, riprese il padre visibilmente commosso, io vo' tentare se mi riuscisse buscarmi un cento di lire a man salva: al caffè dove vado la sera ci è un gran chiacchierio su questo proposito; chi dice che li ripescheranno, chi no; tanto si sono incaloriti su tale contrasto, che ci sono già corse scommesse, ed altre ce ne correranno.
— Scommettete pure che saranno presi, e figuratevi di avere i quattrini in tasca.
— Dunque scrivimi quanto più spesso puoi, e tienmi bene informato, perchè, secondo gli avvisi, scommetta pel sì, o alla peggio anche pel no, onde non fare all'ultimo la figura dei pifferi di montagna. E ti tratterrai molto fuori?
— Di una settimana mi avrebbe a bastare, perchè per quanto mi è riuscito conoscere spillando dintorno, fuori del confino non dovranno essere andati; staranno nascosti nel contado.
Al vecchio veramente qualche scrupolo aveva trottato per la testa, ma le parole del figlio gli serenarono l'anima: egli non tradiva costui, bensì avrebbe tradito i miseri che aveva accolto nelle braccia; al figlio non noceva, all'opposto, seminandogli di triboli l'atroce cammino, sperava disgustarlo, e dato il caso riscattarlo; in ogni modo quelle due vite innocentissime, salvate e offerte a Dio, avrebbero giovato a impetrare la sua misericordia sul figlio perduto, imperciocchè il vecchio repubblicano era, ma poneva ogni sua fidanza in Dio, e nel ben fare lo confermava la fede ch'ei lo vedesse e lo approvasse.
Le lettere del figliuolo gli giungevano quasi ogni giorno, e per esse veniva a conoscere quanto stupida e volgare cosa sieno le reti che la polizia presume intrecciare con arguto magistero: nei prati ov'ella mena la falce non crescono altr'erbe che femmine da partito, pollastriere, lenoni, osti, barbieri, e soprattutto preti; senza di questi non raccoglierebbe una boccata di fieno. Il presuntuoso bargello scorrazzava a destra e a mancina come il cane con la polpetta in corpo; ogni momento stava lì per lì per acchiappare la preda, e poi stringeva mosche; certa volta corse con la lingua fuori fino a Domodossola; adesso non gli sguizzavano più; certi i segnali; sicuro il covo; stende la mano e piglia un cappellano e la moglie dell'organista scappati insieme; scattò di un pelo che il bargello scorrubbiato non tirasse il collo a tutti e due: molto più ch'entrambi con le mani su i fianchi urlavano:
— O lei come ci entra nei fatti nostri? Chi le dà noia? Facciamo col nostro e non diamo fastidio a nessuno.
Il peggio fu, quando ricondusse la moglie al marito (chè il prete lasciò ire per non entrare in disgrazia al ministro), dacchè questi gli si avventò come un basilisco gridando:
— O chi le ha detto di pigliarsi questi pensieri del Rosso? Chi l'ha incumbenzato di andarmela a cercare? Chi di riportarmela? Lei se la infarini e lei se la frigga.
E qui gli sbatacchiò la porta sul muso.
Allora la donna si mise a guaire:
— Ohimè! chi mi farà le spese? Chi mi vestirà, chi mi albergherà, chi mi nudrirà? Ora il marito mi scaccia, il cappellano non mi vorrà più a cagione dello scandalo; io verrò a stare con lei; lei è obbligato per coscienza a mantenermi, e per legge.
Il delegato scappò via per non darsi del capo nel muro: infellonito, frusta, rifrusta, da per tutto fruga, ci adopra l'estremo della sua malizia; invano; coloro ch'ei cercava stavano tranquilli a dormire in casa sua: scornato, ebbe a tornare con le pive nel sacco.
Mentr'egli entrava in Milano, i nostri eroi ne uscivano. Molte le cautele, gli accorgimenti infiniti adoperati per trarli fuori di pericolo, e soprattutto non laudata quanto merita la fede inconcussa degli amici; io mi passo dal descriverli; basti al lettore che Filippo e Curio, travestiti da calderari istriani, passarono per Rocca di Anfo; rividero fremendo di pietà e di rabbia tutti i luoghi consacrati dall'altrui sangue italiano e dal proprio: appena giunti a Trento trovarono modo di avvisare Foldo, il quale non mancò di mandare subito alla signora Isabella il filo di pane co' due franchi dentro; di che se si facesse festa grande in casa di lei lascio che il lettore immagini: avresti giudicato che nel cuore della madre di Curio dovesse essere ben morta ogni litizia, e non fu così, perchè il cuore materno si accende tanto per una, quanto per cinque fiaccole: ed ella godè uno dei più bei giorni che avesse rallegrato la primavera della sua vita, sentendo a prova come la coppa della gioia e del dolore non si vuota mai tanto, che qualche gocciola in fondo non ne rimanga sempre.
Da Trento scesero a Trieste, dove in grazia delle cure amorose del signor Giamari, greco, della libertà di tutti i popoli amante come fratello, di quella della Grecia e dell'Italia come figlio, ebbero comodità imbarcarsi per Londra; di questo ricevè lettere nunziatrici Isabella, le quali la confortavano a starsi di buono animo, confidare in Dio, che li avrebbe sovvenuti anche in avvenire. Ormai non potersi revocare più i mattini sereni; tuttavia dopo un giorno procelloso gli occhi si consolano a vedere il tramonto del sole circondato da mesti raggi, e l'anima ne gode.
Io, scrittore, non conosco cosa nel mondo della quale sia stato detto tanto bene, ovvero tanto male, a seconda degli appassionati interessi, come delle sètte segrete: i governi lungamente mi perseguitarono, e ferocemente, pel sospetto che io fossi capo o parte principale di taluna di quelle: la verità è che io mi tenni fuori di tutte; privato cittadino, sovvenni coll'opera e col consiglio, impiegandoci non pure le mie facoltà, ma altresì quelle di parecchi amici, quanto ci parve magnanimo, libero e onesto. Di questi amici alcuni morendo portarono seco nell'altra vita l'anima dirittamente intera, ed io li piango; altri durano tuttora nella vita, ma hanno fatto getto dell'anima intemerata, — e di questi piango troppo più. Ora che io e voi siamo giunti dinanzi la porta della morte e teniamo in mano il battente per picchiarci che ci apra: dite, vecchi compagni della mia gioventù, valeva il pregio avvilirvi? Il retaggio che lasciate ai vostri figli, unico inalienabile, è la fama contaminata.
Ma tornando a parlare delle sètte segrete, è giusto che si affermi come, nonostante gli errori molti e qualche colpa commessa, elle fossero per la libertà ciò che furono le catacombe per la religione cristiana; loro mercè si mantennero accesi sopra il medesimo altare con fiamma congiunta l' amore della patria e l' odio contro lo straniero; colla parola li confessarono, col martirio li suggellarono; ed anche questo altro so, e veruno me lo potrebbe negare, che molti italiani vanno debitori all'opera delle sètte segrete della loro vita. — Com'essi l'abbiano spesa non considero, non voglio considerare; noi compimmo il nostro dovere; — non ora, ma più tardi, per quelli che mal vivendo perderono le cause del vivere, non può mancare chi in loro potendo più di loro li interrogherà: e voi come adempiste il vostro?
Capitolo XXIII.. . . . . . . . . . . . . . . .
Più brevi sì, ma non però men gravi di quelli di Ulisse furono gli errori pei quali si avvolsero Curio e Filippo. Tutto essi provarono; l'ira immane dell'oceano, in mezzo a cui essi si conobbero troppo meno di atomi travolti nella immensità dello spazio: anzi più che ad altro andarono debitori della propria salvezza alla loro nullità: le ruote del carro non giungono a stritolare il granello di arena sul quale trapassano; videro la tremenda rabbia della natura quando si agita a rompere le leggi le quali tengonla infrenata come schiavo che tenti spezzare la sua catena, e i furibondi spasimi di lei allorchè intende ribellarsi alla tirannide di Dio che la flagella; — videro spaccarsi montagne, e dai fianchi lacerati avventare fiamme; — sentirono traballarsi sotto le gambe la terra, a mo' di creatura che ferita nel cuore baleni per cadere; — sparire a un tratto fiumi, e ad un tratto irrompere moltitudine di acque schierate come guerrieri in battaglia; — li atterrirono serpenti a sonagli lunghi ben diciotto piedi, e torme di alligatori andare a processione a guisa di formiche; i vermi stessi e i bruchi mezzo braccio e più: natura piuttosto immane che grande; paurosa, non bella. Alberi due volte tanto i nostri altissimi campanili. Conghi, tigri, leopardi, pantere, orsi, copracappelli, insomma una sterminata famiglia di enti maligni mettere in comunella la ferocia e il veleno. E gli uomini? Gli uomini trovarono tali da fare diventar rossa per vergogna la faccia ai coccodrilli se non l'avessero corazzata di scorza. Peggiori degli antichi lestrigoni i comanchi, i quali se divorassero interi i prigionieri è ignoto, tuttavia sappiamo che li scalpellavano di certo, ovvero svellevano dal cranio la pelle co' capelli, e se ne ornavano la persona, a imitazione delle nostre croci; e si narra di un giovane ventenne, il quale portava penzoloni da un anello saldato intorno al braccio manco ben dodici di queste capelliere svelte di propria mano dal capo dei suoi nemici; — giovanetto di belle speranze senza dubbio costui. La umanità da per tutto è la medesima stoffa, gli uomini fogge tagliate dal costume diverso. Fra i popoli che in America si dicono civili, o almeno non selvaggi affatto, si praticava allora e tuttavia si pratica la legge del Lynch; e i nostri personaggi, approssimandosi a Brownsville, terra sul Rio Grande, la quale dopo il trattato Guadalupa-Hidalgo segna il confino tra il Messico e il Texas, si trovarono presenti ad un fatto che vale il pregio ricordare. In mezzo di una macchia folta videro tempestare un branco di bestie, uomini e cani frugando bramosamente per cespugli e per greppi; su quel subito giudicarono dessero la caccia alla pantera, ma in breve furon tolti d'inganno, imperciocchè si udissero disperate grida uscire dal prunaio, dove slanciavasi di corsa una maniera di colosso umano, ricomparendo di corto con una mano alla strozza di un uomo e con l'altra a quella di un cane di ferocissima razza, costà noti col nome di blood-hound: venuto allo aperto costui arrandellò il cane lungi da sè; il cane rotolando ringhiava minaccioso, e aveva ragione da vendere, perciocchè essendo stato educato con parecchi altri colleghi dagli uomini a lanciarsi addosso agli uomini, e lacerarli, ora dell'opera meritoria si trovava a ricevere quella razza di ben servito; e ciò, sebbene bracco, gli pareva ostico. Per senso di carità ci sarebbe da mettere l'esempio davanti gli occhi dei questori, assessori, apparitori, e di altri siffatti tutori e curatori della pubblica sicurezza, ma è tempo perso, mastini e questori non imparano mai nulla. Ai polli soprasta la stella della strozzatura; ai tordi l'altra dello spiedo; agli sbirri, finchè mondo è mondo, predomina l'astro della sassata e del bastone: così vuole il destino!
Intanto il colosso si era vôlto alla terra traendo seco attanagliato il prigioniero, mentre la turba gli moveva dietro con schiamazzi e fischi. Curio e Filippo imbrancaronsi con gli altri, e curiosi di sapere la cosa, interrogati quanti più poterono spillarono: il colosso venuto in lite col mastino essere il capitale magistrato della terra, cioè lo sceriffo; il prigione un indio bravo, il quale aveva allora allora fesso il ventre a un povero giovane del Kentuky, che spazzando davanti la porta del caffè dove stava per garzone, aveva per disgrazia buttato un po' di spazzatura su le scarpe di lui; il popolo infellonito volere mettere in pezzi l'omicida, che si era dato alla fuga per campare la pelle, ma lo sceriffo, e più il cane, gli avevano tronco il disegno.
Lo sceriffo condusse (che senza offesa del vero non si potrebbe dire strascinasse, dacchè l' indio andava così di buon grado che non pareva fatto suo) il prigioniero dinanzi al cadavere del garzone, che giaceva supino in mezzo della strada dentro una pozzanghera di sangue, e di subito mise mano allo interrogatorio.
— Conosci questo uomo?
— Sì.
— Chi lo ha ammazzato?
— Io.
— Come puoi provare di averlo ammazzato?
— Hanno visto tutti.
— Si, si, abbiamo visto tutti, urlava la turba, benchè pochi fossero quelli che si trovarono presenti al caso.
— Perchè?
— Perchè mi è parso di ammazzarlo; — perchè stamani ho bevuto acqua di fuoco più del consueto; — perchè col buttarmi la spazzatura addosso ha inteso insultarmi.
— Dunque tu convieni che devi essere punito?
— Siccome per conchiudere l'affare non è necessario il mio consenso, così chiedo astenermi da rispondere.
— Come ti piace; ed ora, riprese a dire lo sceriffo volgendosi alla turba, tutti quelli che giudicano doversi impiccare... come ti chiami?
— Che fa il nome alla cosa?
— Nulla; per la formalità, capisci!
— A Lampasas mi chiamavano Lumediluna.
— Sei cristiano?
— Si; mi battezzarono a Georgetown.
— E allora come t'imposero il nome?
— Dianoro Bermudez.
— Bene, prosegue lo sceriffo, tutti quelli che giudicano aversi a impiccare Dianoro Bermudez, del paese di Lampasas, passino dal mio lato sinistro.
Non uno rimase dal lato destro del degno sceriffo, perfino i fanciulli, i quali per via della età quello che facessero ignoravano.
— Tu lo vedi da te, o Dianoro, che adesso ti tocca a pensare sul serio di morire, disse lo sceriffo.
— È cosa vecchia; ci pensai da quando nacqui.
— L'uomo prudente è come la tavola degli osti, sta sempre apparecchiato: possiamo andare.
Lo sceriffo s'incamminò verso la campagna; dietro lui Dianoro, e dietro Dianoro le turbe; venuti allo aperto occorse loro un bello, grande e forte cedro rosso, del quale si servono per fare le bacchette ai lapis; lo sceriffo, dopo averlo ben bene squadrato, domandò:
— Dianoro, di' su, questo cedro non ti parrebbe al caso?
— Per me, me ne lavo le mani; io non ci entro.
— Ma... mi pareva che per qualche cosa ci entrassi anco tu.
Tacque il dabbene sceriffo, e presa senz'altro indugio la corda si mise ad armeggiare per foggiarla a nodo scorsoio. Dianoro stava a guardarlo tranquillamente, ma vedendo poi che non veniva a capo di nulla, gli levò la corda di mano dicendo:
— Si conosce chiaro che voi non siete del mestiere; lasciate fare a me.
E in un attimo annodò un cappio ch'era una delizia, e senza spavalderia se lo adattava al collo da sè. Lo sceriffo, incantato, a questo punto non si potè reggere, lo abbracciò forte forte e disse:
— Dianoro! Ti giuro sul mio onore che se non ti avessi a impiccare ti piglierei per segretario; e ora, figlio mio, desideri nulla da me?
— Intendo dare un avvertimento al popolo e fare una preghiera a voi; te, popolo, ammonisco che tu ti astenga dall'acqua arzente, o almeno bevine con discrezione, massime la mattina a digiuno, se ti preme non essere impiccato; se poi non te ne preme, è un'altra cosa. A voi, signore sceriffo, mi raccomando che non mettiate il mio nome pagano nè cristiano su i giornali della Contea, perchè non vorrei lo risapesse mia madre e ne sentisse dispiacere: siccome io non le ho dato veruna contentezza nel mondo, così vorrei che per cagione mia non patisse dolore.
— Molto bene... benissimo... ti avanza nulla a desiderare da me?
— Nulla; potete lanciarmi nella eternità.
— Amen!
Dopo un minuto Dianoro ciondolava come un pendolo dal cedro rosso, cullato soavemente dalla brezza vespertina.
Di facoltà per sostentare la vita Curio e Filippo non soffrirono mancamento; all'opposto n'ebbero copia, ma ogni giorno più veniva meno per loro la speranza di raccogliere in breve quanto bastasse per tornare in Italia a ripigliarsi le dilette creature e condursele in parte dove poter vivere e chiudere gli occhi in pace; la quale persuasione, oltre ogni credere amara, li rendeva irrequieti, scontenti, non fermi mai in un luogo, e sempre in traccia di fortune di cui spiavano invano l'orma dinanzi a loro: arti e professioni esercitarono tutte, sonatori, maestri di musica, di armi, di lingue, di matematiche, massime medici, e veramente non ci era mestieri fior di scienza per salire in fama di clinici solenni in coteste parti. Lascio giudicarlo a voi; essi trovarono medici che ministravano ai tisici acido solforico, per bruciare (così dicevano) i tubercoli polmonari; per l'enteriti ordinavano cristei di cera lacca liquefatta, e cerusici che senza tante giammengole segavano le braccia e le gambe con le seghe dei falegnami. Da San Patricio ebbero a venirsene via nottetempo a modo di fuggiaschi, fidati nelle gambe di cavalli mezzo salvatichi chiamati mustanghi, e ciò perchè la gente del paese intendeva ritenerli a forza, reputandoli santi, o almeno capaci di operare miracoli: causa di questo convincimento fa che, essendo scoppiato in coteste contrade il cholera, essi guarirono quanti ne capitò loro sotto mano. Se il rimedio che adoperarono possa giovare in Europa ignoro, in America faceva la mano di Dio: possano i miei lettori andare sempre immuni dal tetro morbo, tamen per amore di umanità io lo pongo qui; badiamo però, io non lo raccomando, chi vuole lo sperimenti; suo cuore, suo consiglio: me ne rimetto in lui. — Recipe un bicchiere da tavola di spirito canforato, e mescolavi dentro venti gocce di laudano, pepe del buono quanto vuoi, e acqua di Colonia; filtra per tela, e mandane giù; se ti riesce, almeno un terzo, e ti dirò: bravo! Per completare la informazione, mi corre l'obbligo di aggiungere che gl'infermi, conci a quel modo, spiccavano salti da sfondare il soffitto, e poi giravano sopra sè stessi più veloci dei fusi delle macchine da filare: non importa; guarivano, ed oltre alla salute del corpo, nel dì del giudizio potevano sostenere di avere avuto un acconto delle pene dello inferno.
— Ahimè! ahimè! come mi sento stracco, sospira Curio gittandosi giù su l'erba in riva a un fiume; a cui Filippo:
— Abbiamo camminato tanto oggi! Riposati, figliuolo mio.
— O a me caro più del padre; non parlo del corpo io, bensì della vita; il cervello mi sta inerte dentro il cranio come morto nella bara; mi tocco il petto invano per sapere da qual parte io mi abbia il cuore: — egli non mi palpita più; sono sazio di giorni.
— Ecco, questo ti avviene perchè ti lasci arrugginire dalla malinconia. Dimmi, che fai tu perchè la ruggine non ti roda la carabina? Ogni giorno che Dio mette in terra tu la strofini con la sua brava pomice e col suo bravo olio. Ora, il coraggio è l'olio e la speranza la pomice per la malinconia; e voi giovani sprecate questo olio col boccale, come se aveste a condire la insalata per ventiquattro, sicchè non ve ne avanza una goccia per la estrema unzione. Bada, Curio, molti giovani, che con le armi in mano vinsero virtuosamente gli austriaci, si lasciarono vincere dallo sbadiglio.
— Filippo, ricordo avere letto certa sentenza in un libro, credo nella prefazione del Pellegrinaggio del giovane Aroldo, una sentenza la quale diceva così: «L'universo è una maniera di libro, del quale ha letto una pagina sola chi ha visto unicamente il suo paese. Io ne ho voltate di molte, e mi sono apparse tutte cattive; però questo esame mi è riuscito fruttuoso, imperciocchè, odiatore prima della mia patria, quando ebbi considerato le ribalderie dei popoli in mezzo ai quali sono vissuto, tornai ad amarla; e se dalle mie pellegrinazioni non avessi ricavato benefizio, eccetto questo uno, non mi lagnerei delle spese fatte, nè delle fatiche sofferte.» Veramente se il pellegrino venne sincero a tale conchiusione, beato lui! Per me, sia che mi pigli gli uomini nel vecchio o me li abbia a pigliare nel nuovo mondo, mi paiono tutti fichi degni di penzolare dall'albero di Timone; e ormai diffido trovarne quaggiù meglio nè peggio, sicchè vorrei insalutato hospite uscirmene da questo mondo, dove non mi trattiene più nulla.[15]
— Nulla! Nè anche la vista di quel superbo alligatore, che steso supino costà su i giunchi del fiume si gode la benedizione dei raggi del sole?
— Non gode, bensì si travaglia inebetito di ripienezza a cagione della strage menata stamani di chi sa quante creature viventi. Ma sta' tranquillo, o coccodrillo, a te non può mancare il regno dei cieli, perchè ti scusano la fame, lo istinto della tua conservazione e la mancanza d'intelletto, mentre noi abbiamo visto l'uomo mosso a malfare per vanità, per ferocia, per avarizia, insomma per colpa di spirito viziato, non già per bisogno del corpo: noi viviamo in società con gli uomini come i cuochi in cucina presso la stia, per avere i polli sottomano onde arrostirli; meglio coccodrilli, che uomini.
— Ecco, vedi, Curio mio, io giudico che un divario ci corra, e grande, perchè io piglio a cottimo, con una brava palla nel cranio ovvero nello stomaco, di mettere a partito anche un Francesco di Modena o un Ferdinando di Napoli, mentre con tutte le sei palle della mia rivoltella nel grugno a quel mostro la sarebbe come se gli dicessi sei volte: ben levato a vostra signoria; quindi io reputerei atto prudenziale svignarsela di qua prima ch'ei si accorga della nostra presenza.
— Tu me lo calunni, linguaccia; ed io pure conosco averlo offeso; però me ne pento e dico mea culpa; mira, Filippo, quanti vaghi uccelletti gli fanno festa aliandogli intorno al muso, ed egli sembra partecipare per loro la tenerezza che ne sentiva quell'anima candida di madama Sand.
— Misericordia! Se tu non mandi a rimpedulare il cervello, un giorno o l'altro t'innamori di un coccodrillo; o lo sai perchè l'alligatore sta fermo? O lo sai perchè gli uccelli gli volano intorno ai denti? Perchè gli vanno a beccare i frusti della carne rimastigli nelle gengive, ed egli sentendosele rinettare se la gode più di canonico dopo pranzo. Interesse, Curio mio, interesse nato e sputato da una parte e dall'altra.
— Lo vedi se ti ho colto in flagranti, Filippo; e le creature tutte pensi tu che le sieno mosse da altro che dal proprio interesse?
— Accidenti alla disdetta, che ci rende tristi e villani, saltò su a gridare Filippo tutto acceso nel volto, ed io... io ti amo per interesse?
— Oh! no... tu no.
— E tua madre ti ama per interesse?... E...?
— Taci per l'amor di Dio, esclama Curio rizzandosi in un attimo e chiudendo con la mano la bocca a Filippo, — non la rammentare nè manco. Pur troppo tu dici santamente; compagna iniqua alla coscienza dell'uomo è la sventura; se mi capitasse tra i piedi la piglierei pel collo e la strozzerei... ma tu, mio Filippo, senti quanto me lo schianto del cuore di amare come noi amiamo, e di essere amati come sanno amare quegli angioli, e non potere corrispondere con essi, non dare loro e non riceverne nuove? Nulla conoscere di quanto fanno, dicono, patiscono o sperano...
— E chi ti dice che noi non possiamo sapere questo di loro? O che i cuori amanti non conoscono altra corrispondenza eccetto quella del telegrafo sottomarino? Il sospiro delle anime appassionate va con ali più celeri della favilla elettrica, e in men che non balena si trasporta da un polo all'altro.
— Ti sieno grazie della tua ottima mente, o padre mio; tu, a patto di darmi un po' di refrigerio, non ti tireresti indietro da sostenermi che le tavole girano e gli spiriti dei morti vengono a raccontarci a veglia le novelle dell'altro mondo.
— Ascolta, figlio mio, a filo di ragione io ti confesso non avere mai saputo giusto quello che doveva credere, ovvero discredere: per me detesto gli empirici della scienza quanto gli empirici della fede: empirici tutti. Ma che vuoi tu? Io sento... o piuttosto parmi sentire che non morrò intero; questo parmi sicuro, che tra il cielo e la terra esistano creature in troppo maggior copia di quella che sappiamo immaginare noi; ed invero, infiniti oggetti sfuggono ai nostri occhi, comecchè armati di potentissimi arnesi, o perchè del pari infinite idee non isfuggiranno alla nostra miope intelligenza? Dunque, se dopo avere picchiato ad una porta, veruno mi risponde, dirò il vero affermando che la casa è disabitata?
E senza attendere risposta Filippo si prostese sopra l'erba verde celandovi il viso, e alquanto ce lo tenne fermo in onta a Curio, il quale mentre ostentava irriderlo in cuore tremava; quando si rialzò egli aveva nella voce e negli occhi il pianto; per la quale cosa lo amico suo lo interrogava dicendo:
— E ora, che novità è codesta? Parla, che hai?
— In questo punto Arria, la tua sorella, è passata a miglior vita. La madre tua ed Eufrosina mia, inginocchiate intorno al letto, pregano pace all'anima di lei e piangono.
— E come hai fatto a saperlo?
— Il come ignoro: piglia ricordo del giorno e dell'ora, ed a suo tempo lo riscontrerai.
Se Filippo quello che disse credesse, o piuttosto il facesse per purgare l'animo dello amico dalla tetraggine che gli si era cacciata addosso, non saprei, fatto sta che Curio prese nota del caso, e gli si ravvivò lo spirito come lume per nuovo olio versato nella lucerna, — e insieme con lo spirito i sensi da lungo tempo inerti ripresero la consueta alacrità.
— Raccattiamo dunque il bordone, disse Curio, e proseguiamo il pellegrinaggio: intanto seguirò il tuo consiglio, allontaniamoci dallo alligatore, che se ci vedesse non ci concederebbe andare un tratto per la via.
— Giusto, era quello che pensava ancora io, perchè tanto, dinne quante vuoi, gli uomini meglio dei coccodrilli saranno sempre.
— Quod est videndum, Filippo; — conchiuse Curio, ed entrambi mossero di conserva lungo la ripa del fiume, sperando imbattersi in barca o in chiatta che dall'altra sponda li traghettasse. — Poichè ebbero camminato per buono spazio, notarono con maraviglia la ripa torcersi a gomito e spingersi traverso al fiume, in guisa di penisola, mentre le acque, invece di arricciarsi a cagione di simile ostacolo, tentando passare di sopra, avvallansi gorgogliando scorrono per di sotto; allora sostarono dubbiosi di avventurarci il piede; notandovi poi segnato un calle assai trito, ci si commisero sopra. Considerando essi sottilmente, come avviene quando ci occorrano cose inopinate e strane, cotesta superficie osservarono che l'andava composta da una congerie di tronchi e di rami di alberi o rotti o sradicati; la superficie in parte compariva sottilissima, in parte più profonda e contenuta come in gabbionate di vimini; qua e là incontravi certa maniera di pozzi di cui le pareti erano formate di tronchi di albero l'uno incastrato dentro l'altro, donde si udivano le acque del fiume scorrere fragorose verso il mare.
— Tutto qui mi fa perdere la tramontana, cominciò Curio a favellare; fiumi che invece di scavarsi l'alveo sopra terra, come usa fra noi, ci passano di sotto; foreste che si staccano dalla sponda e si mettono a viaggiare per trasferire altrove il proprio domicilio; acque colore vermiglio, quasi che dopo tanti secoli non siano anche giunte a lavare la terra dal sangue di cui i ladroni spagnuoli la inzupparono...
— Ecco che ti ribollono le solite fisime: se invece di erpicarti su pei peri tu porgessi attenzione a quello che si favella intorno a te, tu avresti udito e adesso rammenteresti due fiumi in America pigliare nome di Coloradi, uno dei quali scorre nel Texas, l'altro in California; qui, oltre il Colorado, vi ha un altro fiume chiamato Riviera Rossa, e ciò a cagione del mescolarsi che fanno le acque con certe terre ferruginose.
— Lo sapeva, Filippo, e la fantasia mi ha posto le mani sugli occhi dell'intelletto, perchè se le acque dei fiumi avessero ad andare tinte di rosso per via del sangue umano mescolato fra loro, qual fiume al mondo potrebbe mostrarle limpide? Mario, dopo la strage dei teutoni, quando assetato e stanco scese in riva al fiume, non più bevve acqua che sangue; ma i teutoni a suo tempo ci barattarono un Mario in dieci Radetski. Basta; tiriamo innanzi e Deus providebit, come disse Abramo quando s'incamminava a scannare il figliuolo... a proposito, Filippo, sei tu amico della Provvidenza?
— Certo; non però di quella a cui i preti appioppano per babbo san Gaetano e per mamma l'Accidia; io ho fede nella provvidenza che si lascia sempre trovare dall'uomo quando la cerca con virtuosa solerzia.
— Bene vertant Dii! borbottò Curio, e non aggiunse verbo; molto più che gli oggetti circostanti pigliassero a legare i sensi suoi con parvenza mirabile: infinite gli si pararono dinanzi gli occhi le varietà delle piante e degli alberi, parecchi dei quali noti anche in Europa; i più domestici del luogo, come i cipressi calvi, i cedri rossi, i ginepri da lapis, alberi da arco, alberi ferro, aceri da zucchero, ebani, palme, in copia magnolie grandiflore, le quali così intensamente impregnavano l'aria di profumi, da dare il capogiro ai nostri viaggiatori; l'aria spirava ebbrezza; gli occhi dal tremolio della luce e dello azzurro restavano affascinati. Non ci era mestieri fantasia per popolare la foresta di uccelli diversi nella forma e nel volume, bellissimi di penne dai colori smaglianti; — però la natura matrigna aveva negato loro la dolcezza del canto: uccello senza canto fa riscontro alla camelia senza odore; qualcheduno imitando la voce umana irrideva, donde il nome di uccello beffardo. Non era cotesta natura ravviata dall'arte, non aveva uccello predicatore arguto dei riti di Venere, e nondimanco dall'aura, dai rami, dalle piante e dagli animali usciva urgentissimo lo invito:
. . . . . amiamo or quando
Esser si puote riamati amando.
A questo modo, studiando il passo per non ismarrire il sentiero, i nostri amici arrivarono all'estremo lembo di quella penisola, donde appuntando lo sguardo videro spingersi dalla parte opposta del fiume una lingua di terra pari a quella dove allora si trovavano, sia nella grandezza come nella forma, la quale si prolungava traverso della corrente. In quel punto il tratto che correva fra l'una e l'altra riva avrà misurato dalle cinquecento alle seicento braccia, nè per valicarlo appariva altro mezzo, eccetto una barca, la quale avrebbe cavato la voglia di entrarci anche alle ombre dei clienti di Caronte. Per giunta traccia di navalestri non si vedeva: cerca e ricerca, alfine venne lor fatto di scorgere accoccolate dentro il cavo di un albero smisurato due creature, che essi su quel subito non seppero a quale famiglia di bestie assegnare: avevano la pelle di una tinta, che colore onestamente non si sarebbe potuto dire, non castagno, nero neppure, piuttosto un miscuglio di molte maniere di sudiciumi: i capelli cenerini; ignudi erano, se togli una fascia traverso il corpo pendente giù fino a mezzo le cosce; grimi, pieni di schianze, orribili a vedersi. Stettero in forse di volgere loro la favella, ma pel gran bisogno che ne avevano ci si arrischiarono interrogandoli chi fossero: — uno di quelli, e propriamente colui che poteva supporsi uomo, rispose:
— Siamo gente libera come vostra signoria, nel caso che siate uomo libero, cittadini della Unione Americana e barcaioli di mestiere al servizio di vostra signoria.
— E dove abitano le loro eccellenze?
— Il nostro domicilio è qui.
— In questo buco?
— In questo buco.
— Dove siete nati?
— Chi lo sa!
— Vi ci menarono di fuori?
— Chi se ne rammenta!
— Che sapete fare?
— A frustate c'insegnarono la schiavitù i reverendi padri delle missioni.
— La schiavitù non è mestiere; v'insegnarono altro?
— Sicuro eh! C'insegnarono anche il rosario.
— A frustate?
— A frustate.
— Siete cristiani?
— Comandi?
— Chiedo se credete in Gesù Cristo?
— Crediamo nello inferno, dove bruceremo eternamente se non reciteremo il rosario, e se quando vivevamo in servitù rubavamo anche una pannocchia di maiz al padrone; ma ora siamo liberi e potremmo rubare senza paura della casa del diavolo, ma padrone noi non abbiamo più.
— Ma mi sapreste dire come siete liberi?
— Chi lo sa! Prima i padroni si scannavano per tenerci a catena, e poi si sono scannati per mandarci liberi.
— Ma la differenza che trovate fra la libertà e la schiavitù me la sapreste dire?
— O non l'ho detta? Quando eravamo schiavi avevamo modo di rubare in questa vita ai padroni, e andavamo all'inferno nell'altra; ora che siamo liberi non possiamo più rubare ai padroni, e la fame ci ha aperto le porte del paradiso; e, se vuole, io ci ho notato un'altra differenza: con la schiavitù frusta quotidiana e pane tre volte la settimana, con la libertà, nè frusta nè pane.
— E figliuoli ne generaste?
Allora si rizzò su l'altra creatura, che Curio suppose essere femmina, la quale per abbaiare non ebbe mestieri come Ecuba essere trasformata in cagna, e prese a urlare:
— Dodici! dodici! dodici!
— La figliolanza d'Isdrael; e che ne avete fatto?
— Questo è il conto dei miei figliuoli: cinque morirono pel morso avvelenato dei serpenti a sonagli; due ne sbranarono le pantere; tre se li inghiottì la febbre gialla; uno lo impiccarono le facce pallide perchè ruppe il cranio al figliuolo del padrone, che lo frustava senza discrezione; l'ultimo ebbe il cranio spaccato dal padrone; e così finì la chiocciata.
— Era tanto bello il mio Candido! finito di parlare la femmina prese a guaire il negro; il padrone pianse tanto la morte di quel giglio di amore! Si sbatacchiava per terra, si mordeva le mani; credo che se io non lo avessi retto si sarebbe buttato via.
Filippo, intento a guarire Curio dalle sue fantasticaggini di misantropia, osservò:
— Tanto, è inutile che tu vada come i medici a cercare il male col fuscellino; anco dalle anime più buie trapela sempre qualche raggio di amore.
E Curio senza badargli continuò ad interrogare il nero:
— Dunque il padrone amava questo figliuolo assai?
— Oh quanto! Il mio bel giglio, pel colore e per la forza, vinceva il re dei bufali; era alto un metro e ottantacinque centimetri; alla fiera di Bastrop due giorni innanzi gli avevano offerto seicento dollari; bella moneta, mio signore, seicento dollari per un negro; ma il padrone s'incornò su settecento e lo riportò a casa.
— Ma se il padrone lo vendeva, voi non avreste veduto più il vostro bel giglio pari al re dei bufali?
— Certo, ma grande onore sarebbe stato per noi avere messo al mondo un figliuolo venduto settecento dollari.
Curio ghignò da cacciare i brividi addosso a Filippo, il quale tentava per vergogna celarsi dietro qualche tronco di albero. — Curio, pigliando diletto a tormentarsi tormentando altrui, continua a interrogare il negro:
— E perchè mai il padrone spaccò il cranio a questo tuo giglio che pareva un bufalo?
— Una grulleria! A Candido saltò il ticchio di accoppiarsi con la femmina del padrone; e siccome la sguaiata lo respingeva, egli l'agguantò pel collo, non mica per male, capisce bene vostra signoria, ma per tenerla ferma... sono così fragili coteste faccie pallide! Non volle la femmina più tornare in sè: io giudico lo facesse per dispetto. Ahimè che angoscia!
La femmina strappandosi i capelli urlava a sua posta:
— Soli, poveri, ignudi, vecchi, ahimè che angoscia!
— E perchè non morite?
— Perchè ci hanno condannati a vivere.
— Non è vero; nessuno può impedire all'uomo la morte; o questi non sono alberi, e non è fune questa? Le acque del Colorado non corrono rapide e profonde al mare?
— Impossibile! Ne andrebbe della salute dell'anima; così ci hanno insegnato i reverendi padri missionari, e vostra signoria comprende che, dopo avere sofferto pene da cani in questa vita, non ci mancherebbe altro che andare a patire pene da serpenti nell'altra.
— Ma se la morte fosse sonno unicamente, tutto sonno, e tu ti avessi ad addormentare per non destarti più, dimmi, acconsentiresti a dormire?
— Cora, senti, la faccia pallida ci domanda se vogliamo addormentarci senza svegliarci più. Ti contenti di dormire sempre?
— Magari! Sempre, sempre dormire.
A Filippo non resse più il cuore di sopportare cotesto strazio, sicchè, fattosi animo, entrò di mezzo a dire:
— Di qua passano barche per traghettarci dall'altra ripa?
— Di qua passano, ma rari, certi mostri fabbricati dalle facce pallide, dentro i quali essi sono riusciti a imprigionare un diavolo; il tormentatore sentendosi tormentato mugula per la pena, stride e fischia; ansa affannoso mandando fuori boccate di fumo mescolate di faville; piange fuoco; sbatte presto presto le ale sul fiume tentando levarsi per l'aria, ma non può, incatenato a mezza vita come si trova dentro il bastimento. Quando passa, nonostante gl'inviti delle facce pallide a salirci su, offerendo gratis nolo e alloggio, scappano tutti, facendosi il segno della santa croce; altri legni non passano, e se vostra signoria intende valicare dalla sponda opposta, non troverà barca, eccetto la mia.
— Dunque menaci la barca, e senza indugio fai di trasportarci di là dal fiume.
— A dirsi è breve; a farsi ci corre; quanto credono darmi le signorie vostre?
— Quanto chiedi?
— Ma... dieci dollari vi parrebbero troppi?
— Prima di risponderti, la tua barca, la tua femmina e la tua pelle, dimmi, costano tanto?
— Una volta io solo costai cinquecento piastre (allora non correvano i dollari). Le signorie vostre parlano come persone che non sanno niente.
— Come non sappiamo niente? Il tratto di qui a là vuoi tu che misuri oltre quattrocento braccia? In meno di un quarto di ora il transito è fatto.
Il negro si mise a ridere sgangheratamente, la femmina lo imitò mostrando i denti bianchi e acuti da disgradarne un cane da presa, e l'una ciondolava il capo verso l'altro a guisa di montoni che accennino cozzare; riso ch'ebbero un pezzo, il negro soggiunse:
— Per traghettare quest'acqua, mirino, padroni, bisognerà andare un duemila passi in su lungo la ripa del fiume, se basteranno; anzi, oggi non basteranno di certo, perchè la corrente tira in giù a furia, e se ti agguanta co' suoi denti di alligatore non ti lascia se prima non ti abbia scaraventato nel golfo di Matagorda.
— All'occhio questa furia di corrente non apparisce.
— Che importa che la vostra signoria la veda; a vincerla tocca a me.
— Tu dici la bugia per iscorticare il prossimo; ti aiuteremo anche noi.
— Le vostre signorie al remo? Ma che ci pensano!
— Eh! noi siamo gente da bosco e da riviera.
— Mancano i remi per tutti.
— Non fa caso; ci metteremo in due al medesimo remo.
— Questo è buono per andare di là; ma per tornare da quest'altra parte chi ci darà mano?
— O che in capo al giorno non ci ha a capitare qualche passeggero che voglia venire dove ci troviamo adesso?
— Difficile, signori miei, difficile, perchè tutte le città lungo il fiume giacciono dalla riva sinistra.
E non era vero.
In questo ecco udirono intronarsi da fischi acutissimi e ripetuti, onde volgendo subito il capo videro l'aria dintorno annuvolata da getti di fumo, come avviene quando parecchie vaporiere s'incontrano in una stazione.
— E questo che è? domanda Filippo al negro, il quale da prima esitava a rispondere grattandosi il capo; poi di un tratto, come se avesse trovato lo scappavia, prese a urlare:
— Novità! Padroni, novità... non perdete un momento a mettervi in barca, se volete passare dall'altra parte... in barca..! in barca...! Cora, giù i remi... per avere il contento di servire le vostre signorie, ecco, voglio usarvi l'agevolezza di traghettarvi per cinque dollari solamente... gli è quasi per nulla... in tutti e due, s'intende.
I nostri viaggiatori, che non possedevano dollari da sbraciare con la pala, messi anche in sospetto dalla calca delle offerte tentennavano; intanto ecco dalla parte opposta del fiume venir via a golfo lanciato parecchi palischermi: certo ognuno procedeva spinto da quattro paia di remi, ma se la corrente fosse stata impetuosa come i negri asserivano, non si sarebbe potuta tagliare così addirittura; i palischermi non sursero tutti nel medesimo punto, bensì sparpagliaronsi lungo la riva, e i marinari, appena scesi, presero a urlare a squarciagola:
— Chi vuol passare dall'altra ripa? Chi vuole imbarcarsi per Lagrangia, per Colombo, per Bastrop, per Austin, faccia presto; si passa a credenza...
Curio e Filippo non si poterono astenere da ridere di cuore della furberia dei negri, i quali non si fecero più brutti, perchè questo era impossibile; peggio accadde quando i nostri amici, per istraziarli, si scusarono di non approfittare delle loro offerte; pure per commiserazione diedero loro mezzo dollaro di elemosina e se ne andarono. I negri presero a storcersi in atti di rabbia e di minaccia; scagliarono loro addosso il mezzo dollaro, e poi recatesi le mani alla bocca ci susurravano parole le quali avventavano contro i bianchi a guisa di sassi: certo ci è da scommettere che non erano benedizioni.
Di corto, i nostri viaggiatori, in compagnia di parecchi tessiani, da più parti usciti fuori della selva, s'imbarcarono e giunsero sopra la ripa opposta; dove videro ancorati due piroscafi, i quali seppero navigare su e giù regolarmente il Colorado fino a cinque o sei miglia sopra la città di Austin, dove la rapidità della corrente non si può vincere con veruno argomento umano inventato fin qui.
I capitani dei due piroscafi avevano sbarcato tutta la loro ciurma e spedita in giro per la terra, perchè a suono di trombe e di tamburo ragunassero gente e le ammonissero, mediante diversi stendardi bianchi segnati di nero, che chi voleva andare a Colombo per la elezione del presidente della Contea Austin avrebbe potuto imbarcarsi pel prezzo di otto dollari a testa, due pasti compresi, senza vino, nè birra. I piroscafi erano due, uno chiamato l' Erebo, l'altro la Furia, ed entrambi offrivano le condizioni medesime. Di corto sparvero almeno mezzi gli stendardi bianchi e ne comparvero altri più grandi gialli, dove si leggeva tinto in rosso l'avviso: impossibile buon prezzo; passo su l' Erebo, sei dollari fino a Colombo, due pasti compresi. Subito dopo ecco sventolare immensi stendardi celesti, che presentavano scritto in bianco: incredibile rinvilio; passaggio sopra la Furia, sei dollari fino a Colombo, due pasti e birra. La calca eccitata si stringe sopra un piazzale, dove il capitano dell' Erebo si trova in faccia a quello della Furia, rossi come i barbigli di gallo o come galli gladiatori in procinto di battersi; ed eccoli subito instituire fra loro un incanto di noleggio con gara feroce. — Cinque dollari, due pasti e birra. — Cinque dollari, due pasti, birra e wiskey. — Quattro dollari. — Tre dollari. — Due. — Uno. — Più giù non potevano calare; per un dollaro non c'incastrava neppure la ripresa del carbone; confidavano rifarsi nelle altre corse alle varie città lungo il fiume. La folla si divise correndo dietro all'uno od all'altro capitano, secondochè si sentiva più gusto per l' Erebo o per la Furia: i passeggeri giunsero presso i bastimenti con un palmo di lingua fuori; lì furono sospinti per di sotto, tirati in fretta e in furia per di sopra e poi arrandellati peggio dei sacchi di biada sul ponte: rinnovansi fischi da fare rizzare in piedi dall'antica sepoltura Adamo con le mani agli orecchi; su l'àncora, come si tira la secchia dal pozzo, e via: i due piroscafi passarono lo stretto di conserva, e da principio si mostravano un riguardo che prometteva assai bene; li teneva d'accordo la paura di stritolarsi nelle angustie del passo; venuti poi in acque più larghe, dove ognuno potè governarsi a danno dell'altro con fiducia di non pregiudicare sè stesso, prendono a correre con tristissimo consiglio di sghimbescio uno addosso all'altro, tentando colpirlo di fianco e sommergerlo: le scellerate industrie diventavano più sottili nelle giravolte del fiume, dove il piroscafo che navigava in mezzo procurava abbrivare la prua addosso all'altro che rasentava la sponda, e così costringerlo a rallentare il corso e levargli la mano. Nei luoghi spaziosi lottavano con gara più leale e più bella, ma con poco frutto, essendo i piroscafi pari in bontà e i marinari ugualmente capaci. Il capitano dell' Erebo, sul quale eransi imbarcati Curio e Filippo, stando ritto sopra il terrazzino traverso ai tamburi, si dimenava, gestiva, urlava da spiritato: con voce rantolosa non ismetteva mai di ordinare:
— Fuoco alla caldaia!
I suoi sottoposti, invasi dalla medesima rabbia, buttavano giù senza posa carbone a palate; ma siccome l'emulo capitano della Furia adoperava lo stesso e peggio, non si veniva a capo di nulla: entrambi serpi che mordevano lime, quantunque essi corressero nella fuga infernale da venticinque a ventisette miglia all'ora, per modo che il soverchio moto, trasformando alla vista gli oggetti circostanti, facesse apparire le piante e gli alberi delle due sponde quasi due striscie continue di panno verde. Il capitano dell' Erebo, non avendo altro da rodere, per la rabbia si rodeva le mani; intantochè i passeggeri con terrore avvertivano le faville della cappa del camino cascare a gruppi su certe balle di fieno e di cotone caricate in coperta con pericolo presentissimo, anzi certezza d'incendio; e poichè parve loro, e veramente era, ogni indugio pernicioso, deliberarono mandare alcuni di loro in deputazione al capitano, affinchè la salvezza comune non patisse detrimento. Il capitano, poichè l'ebbe udita, rispose a denti stretti:
— Quando anche doveste andarvene tutti all'inferno, vi parrebbe caro il viaggio a cinque franchi e trenta centesimi a testa?
E senza confondersi più oltre con loro, rivolto ai suoi:
— Che Dio vi danni, pigliate quanti barili di sego troverete nella stiva e buttateli tutti nel focone.
E fu fatto: per un momento fumo, faville, cigolìo della macchina cessarono, ma dopo pochi minuti secondi ecco il fumo prorompere nero, vorticoso, affannoso dieci cotanti più di prima; le fiamme dardeggiano fuori del fumaiolo orribili come lingue di serpenti; la macchina urla e smania quasi ci fosse dentro l'anima dannata di un papa o di un re. Pur troppo quello che si prevedeva accadde: le balle del fieno e del cotone avvamparono. Ora sì che lo sgomento dei passeggeri giunse al colmo, i quali si videro soprastare tre morti una peggiore dell'altra: annegati nell'acqua diaccia del fiume, o cotti nell'acqua bollente delle caldaie, ovvero inceneriti nelle fiamme del fieno e del cotone; arrogi per soprassello di terrore che si vedevano abbrivati con irresistibile spinta contro uno dei soliti puntoni composto di tronchi di alberi che occupava quanto era largo il fiume, eccetto forse una sessantina di braccia. Un passeggero americano, che al lato di Curio stava con molta attenzione a considerare lo spettacolo, a quel punto tirò giù la lunga carabina che portava ad armacollo e prese la mira al timoniere che stava alla ruota.
— Che fate voi? grida Curio deviando vivamente la carabina dello americano, il quale pacato risponde:
— Affinchè l' Erebo si fermi non ci vedo altra via che ammazzare il timoniere; e si riprovava, senonchè in questo istante un urto terribile mandò la più parte di quelli che si trovavano sul ponte a gambe levate; il capitano stesso capitombolò giù dal terrazzino, e fu creduto precipitasse nella stiva.
I cumuli di tronchi e di rami di alberi, ed anche di alberi interi mescolati con terra, di cui fu tenuto proposito, li formarono i secoli, e giunsero a tale da turare il passo del fiume, non già impedire lo scorrere delle acque per di sotto; in lingua paesana questi cumuli si chiamano draft; si sollevano e si abbassano con le acque del fiume, come quelli, che sopra esse galleggiano; appunto sul Colorado ne occorreva uno lungo ben diciassette leghe, che gli anglo-sassoni americani, questi titani del nuovo mondo, tagliarono pel mezzo praticandovi un canale: questo poi in taluni punti offre bastevole larghezza; in altri si stringe così, che i rami fronzutissimi degli alberi cresciuti lungo le sponde, intrecciandosi per di sopra, vi formano come una volta; quivi non penetra raggio di sole, e il buio vi dura tutto l'anno fitto, sicchè ti sembra traversare una botte forata nelle viscere dei monti.
L' Erebo era ferito: il paragone del guerriero col costato trafitto da una freccia non farebbe al caso, però che dalla ferita del guerriero trabocchi fuori il sangue, mentre da quella del piroscafo l'acqua irrompe dentro gorgogliando: mentre l' Erebo si versa in cotesto terribile pericolo, ecco la Furia passargli da canto, strisciarlo come ad oltraggio e sparire via più ratto di saetta volante, urlando: urrà!
Curio aveva chiuso gli occhi mormorando: in manus tuas me commendo; quando li riaprì vide il diavolo del capitano al suo posto, che impartiva ordini con voce squillante, che parevano rintocchi di campana a martello; costui era caduto a capo fitto sul ponte, ma senza pur perdere tempo a riscontrare se si fosse slogato spalla o braccio, arrampicandosi su di una corda aveva ripreso il posto nel terrazzino: quinci in un battere di occhio conobbe come il timoniere, per colpa del fumo, perduta la vista della prua, avesse urtato sconciamente nel draft, e qualche tronco, sfondando le staminare, penetrato nel corpo; — si guarda attorno, e poi breve e vibrato:
— Attenzione per chi intende salvare la vita. — Fieno, cotone, tutto all'acqua...
In meno che non si dice, accesi o spenti, fieno e cotone giù nell'acqua; e il capitano da capo:
— Con tutta piena forza — l' Erebo indietro potentemente.
Pilota, timoniere e macchinista, molto per amore della vita, e moltissimo per la paura del capitano Brawler, avvezzo a pagare le partite di disobbedienza in moneta di rewolver, operarono di concerto tale uno sforzo, capace di sbarbare, non che l' Erebo, il Colosseo di Roma. Il piroscafo, liberato dal tronco feritore, lascia aperta una via all'acqua, che minaccia farlo passare per occhio in pochi minuti: qui non ci ha tempo da perdere; di fatto la voce stridente del capitano si ode da capo:
— Attenzione! Tutta pienissima forza — a poggia.
E il buon battello gira agile a destra come uscio si volge sopra arpioni bene unti. Il capitano allora con immenso urlo insiste:
— Forza... tutta forza — urrà! contro terra...
E l' Erebo si precipita a investire la sponda con lo impeto del disperato, il quale dà del capo contro il muro per finire la vita; ma per l' Erebo non fu così, imperciocchè il capitano, con occhio di falco, avesse visto essersi formato a destra della spiaggia certo spazio arenoso, dove il battello incagliandosi, il pericolo di colare a fondo era vinto. La fortuna secondò l'ardire, ed egli subito, agguantato un cavo, si lasciò scorrere fino a terra, dove si mise a considerare con diligenza il luogo: parve soddisfatto dello esame, dacchè, volta la faccia in su, così arringasse i passeggeri affacciati in diversi atti di paura o di ansietà dalle paratie del battello:
— Coraggio! Per ora non affogate più: sarà per un'altra volta; — potete scendere. Domani dopo mezzogiorno ripiglieremo il viaggio: tenetevi per avvertiti; chi intende aspettare, bene, rimane fermo il contratto; chi no, perderà mezzo nolo; e poichè giudico io che siamo presso a Columbus, ch'è quanto dire a tre quinti del viaggio, vedete bene che vi regalo un tanto.
Ai passeggeri non parve vero abbandonare l' Erebo a sì buon patto; tutti avrebbero volentieri renunziato al dollaro, e qualcheduno ne avrebbe dato un altro. Ciò fatto, il capitano, sempre con la medesima foga, chiamato a sè il dispensiere, in brevissime note gli significa il voler suo; dopo il dispensiere il carpentiere, e con lui adopera nella medesima guisa; finalmente convoca i negri che si trovano a bordo, cava fuori il taccuino, scrive una pagina e la stacca, poi due, poi sei, poi dieci, le consegna ai negri, e col cenno più che con la voce li spinge in diverse parti; i negri corrono via come se fra loro si contrastassero il palio. Allora il capitano, preso un pizzico di tabacco, se ne fece una spagnoletta, ponendosi a passeggiare su e giù, ed a fumare come se nulla gli fosse accaduto.
Curio e Filippo, senza prendere partito, si misero anch'essi andare aioni per la selva, nè si dilungarono gran tratto che occorsero in parecchie brigate di gente delle quali ognuna tirava dietro la sua bandiera; ma a poco a poco tutte le bandiere rimasero deserte, eccetto sol due; celeste l'una, l'altra vermiglia; in entrambe leggevasi un nome tinto in bianco: le accompagnavano il solito strepito di trombe, di tamburi e di conchiglie: urli e fischi da parere il finimondo; chi portava ceste, chi panieri o corbelli; chi a piedi, chi a cavallo, e sovente sul cavallo o sul ciuco due; qualche volta anche tre; le donne più strepitose di tutte sciorinavano smanianti stoffe di vari colori e dello schiamazzo proprio s'inebriavano: arrivate le due processioni sopra un prato, deposero a un tratto ceste, corbelli e panieri, e misero in mostra bocce, bicchieri e di ogni maniera vasi di liquori e mangiari. Qui stavano tutte le facce appuntate, ma quando te lo aspetti meno un vocione si fa sentire dall'alto; ti giri, non vedi nulla; guardando meglio ti si mostra mezzo nascosto dalle fronde sopra un albero certo personaggio grosso, panciuto e in faccia rosso come pomodoro maturo: come diavolo costui fosse riuscito ad erpicarsi lassù è difficile darci ad intendere; ma per troncar corto egli incominciava a concionare subito in questa sentenza alle turbe; e col braccio destro abbracciato un ramo, col sinistro gestiva come vela di molino a vento. A quanto fu dato capire egli sermonò della scelleraggine della servitù, della necessità di sperderne dalla faccia del mondo fin la memoria, della urgenza di eleggere a presidente della Contea Abramo Sandiford di Bastrop... A cotesto punto un groppo di proietti vegetali, vari di mole e di famiglia, interruppe l'oratore; egli, mostrando il viso alla fortuna, con la man manca come meglio poteva si schermiva, ma quasi sempre infelicemente, da quell'uragano di batate, di patate, di carote, et similia, e mostrava volere continuare ad ogni costo; allora ebbe principio il getto di corpi più voluminosi, ma sempre morvidi; e l'oratore: forbici! Subentrano zolle e sassi; non bastando più la mancina alla difesa, chiama in soccorso la destra, onde il povero uomo, perduto lo equilibrio, rovinò giù sul terreno. Si levano attorno risa sgangherate con la miscela dei soliti urli, fischi e grugniti: forse taluno della turba sentendone pietà lo avrebbe raccolto, ma la pietà non ebbe tempo a sfondare il guscio, perchè dal lato opposto sorse una voce:
— Attenzione, cittadini!
Una fanciullina però fu vista accostarsi al malcapitato oratore, rialzarlo amorosa ed asciugargli il sangue che gli colava dal naso rotto; forse gli era figliuola o piuttosto nipotina.
La moltitudine tutta di un pezzo si era volta dall'altra parte a mo' di bandierola sul camino quando muta il vento; e certo le si parò dinanzi agli occhi uno spettacolo degno di essere veduto. Un omaccione tirato giù con l'accetta, colore di olio vieto, con barba e capelli più che pece neri, ombreggiato il capo da un cappellaccio d'immensa grandezza, stava ritto sul basto di un asino che gli serviva di pulpito (quanti predicatori fra noi non ne meriterebbero altro più illustre) donde prese a sermonare le turbe:
— Che cosa è mai la schiavitù? Su la coscienza mia, io confesso che non ci capisco niente. Sul principio del mondo Dio disse all'uomo: io ti costituisco re di tutte le bestie, delle quali ti servirai e ti ciberai secondochè te ne piglierà il ticchio: al quale intento io ti regalo due paia di denti canini. Glielo disse, o non glielo disse? Glielo disse: dunque il punto sta qui: i neri sono uomini come noi, ovvero sono bestie? Ora, per usare una felice espressione dei francesi, che sono la ingegnosa gente che tutto il mondo sa: porre così la quistione torna lo stesso che risolverla. Farei torto ai gentiluomini che mi fanno l'onore di ascoltarmi se mi attentassi temerariamente paragonarli ai neri, di cui so che qualche famiglia di scimmie rifiuta la parentela. Ad ogni modo la servitù pei neri vuolsi considerare proprio una manna di Dio; di fatti ai loro paesi non cessano mai di straziarsi con la guerra...
— E noi altri viviamo in pace?
— Silenzio! Udite! udite!
— I prigionieri da prima ammazzavano, arrostivano e morfivano, ma dopo, che trovano conto a venderli, li serbano vivi... e questo bisogna convenire che è un vantaggio... un progresso della umana virtù...
— La quale fa passi da gigante in questi baratti di carne umana con acqua di fuoco; così i vincitori muoiono per ubriachezza, i vinti per frustate...
— Chetatevi! Non è vero nulla; noi li raccogliamo a braccia aperte, noi li mettiamo a parte della famiglia, noi li nutriamo...
— Polenta di maiz poca e cattiva; condita coll'acqua, coll'acqua e poi coll'acqua...
— Subito che non muoiono, vuol dire che possono vivere.
— E le frustate per companatico non le mettete in conto?
— Chi ben picchia, bene ama. Il sapiente re Salomone ha lasciato detto: gastiga il tuo figliuolo e tu ne sarai in riposo: ed egli darà di gran diletti all'anima tua.[16]
— E dollari alla tua borsa.
— O che pretendereste, che noi gli avessimo a trattare meglio dei nostri figliuoli? D'altronde la esperienza insegna il bastone essere l'unica grammatica che il nero impari presto e bene; ma quelli i quali affermano che noi li percotiamo a morte, non sanno quello che si dicono; essi credono che noi non abbiamo cuore per calcolare che se il negro infermo non lavora, se muore, noi perdiamo il capitale che ci costa.
— I condannati in galera travagliano meno di loro.
— Nego, ricisamente nego, perchè il nero, quando ha lavorato sedici ore, può impiegare a suo benefizio quello che gli avanza del giorno: aggiungi poi che i missionari non rifinano di predicare il lavoro essere la migliore preghiera che l'uomo possa fare a Dio, onde noi, facendo lavorare i negri più che possiamo, crediamo in buona fede provvedere alla salute delle anime loro; più lavorano, più si tengono bene edificato il Padre delle misericordie; inoltre il vestito non lo contate per nulla?
— Un paio di calzoni ed una camicia l'anno!
— Sicuro! A questi calori ogni di più li farebbe morire.
— E cappelli?
— I nostri cappellai sono le palme. Sta' a vedere che questo cappellone che porto è pelo di castoro?
— O le scarpe?
— Le scarpe! La esperienza, questa madre del sapere, insegna che le scarpe al negro gli fan male ai calli.
— I neri uomini sono, e cristiani come noi pel battesimo, dunque perchè non hanno ad essere cristiani come noi nella libertà?
— E dai, con questa benedetta uguaglianza! È qui, signori miei, che mi è cascato il ciuco; qui dove pigliarono equivoco ministri, missionari, preti, frati, filosofi, insomma tutti; gli è chiaro come l'acqua che Cristo ha predicato pei bianchi e non pei neri; e valga il vero. Vi basta l'animo di trovarmi un nero fra i dodici apostoli, o fra i settantadue discepoli? Tutti erano bianchi ai tempi di Cristo, fin Caifasso, fin Pilato, fin Giuda...
— O Melchiorre mago era bianco?
— Melchiorre?
— Si, Melchiorre.
— Melchiorre era un re, non era un uomo.
Filippo, che da parecchio tempo se ne stava ascoltando l'oratore, accanto all'asino, piano piano, non parendo fatto suo, aveva cavato di tasca un pezzo di esca e, accesala, la cacciò destramente, senza che veruno se ne accorgesse, nell'orecchio che più gli era vicino, al ciuco, il quale, sentendosi scottare, spara una coppia di calci mandando a capo fitto il predicatore, che piglia ad andare con le mani e coi piedi carpone per terra; ma l'asino, inseguendolo, gli pose le zampe anteriori su la groppa, sicchè parve volesse cavalcarlo; di qui un riso inestinguibile e nuvoli di polvere levati dal pestare dei piedi in terra, e urli, e un battere delle mani che andava alle stelle.
Fin qui commedia, ora incomincia la tragedia, perchè, si sa, i casi umani, onde sieno perfetti, hanno da presentare i caratteri della tragicommedia; invero il giumento, infellonito dal bruciore dentro l'orecchio, spicca un salto, e saltando tira un'altra coppia di calci, che spaccarono il cranio come una melanzana al predicatore della schiavitù: egli era paesano del Texas, e perciò aveva condotto seco moglie, due nuore e cinque figliuole e un cappellano; perchè si professasse cattolico, apostolico e per giunta romano; siccome in America non usano svenimenti, le donne misero il malcapitato nelle mani del cappellano e ripresero il cammino di casa loro conducendo seco l'asino. Gli astanti sparsero di terra l'erba insanguinata, e le cose ripresero l'aspetto di prima.
I due uomini che parevano i capi delle processioni, ristrettisi insieme a parlamento, in breve si trovarono d'accordo a continuare il broglio delle elezioni, remossa qualunque predica: impertanto posero sopra due ceste voltate sottosopra due corbelli zeppi di polizze celesti e rosse co' nomi dei due candidati alla presidenza della Contea; uno era, e l'ho già detto, Sandiford di Bastrop, abolizionista, l'altro Talaveyra y Musquito di Gonzales, impenitente per la schiavitù: a chi pigliava una polizza mescevano un bicchiere di liquore a scelta; spesso gli elettori, se inavvertiti tornavano a bere la seconda e la terza volta, comecchè taluni appartenessero alle confraternite della temperanza, se scoperti erano abbaiati e respinti; e allora, impronti più delle mosche cavalline, ostentando cruccio, si facevano a pigliare le polizze e a bere dall'altra parte.
— Ma a votare dove vanno? — domandò Curio a quello che pareva capo del partito abolizionista.
— A Columbus, gli fu risposto.
— E quando?
— Domenica prossima.
— Credete che domani potremo rimbarcarci su l' Erebo?
— Nè manco per sogno.
— Dunque il capitano è imbroglione? Sono queste le virtù che professano i cittadini americani?
— Il capitano reputano universamente uomo lealissimo: egli non inganna perchè ha fede che la sua volontà basti a risarcire il suo battello per domani, e certo egli non lascerà nulla addietro onde ciò avvenga: e poi avvertite che l'americano si fa a dire: io non costringo nessuno a credermi; sono libero di affermare la mia opinione intorno ad un fatto che casca sotto gli occhi di tutti; sta al giudizio degli altri accertarsi se la mia opinione possa verificarsi; — e ciò basta alla sua coscienza mercantile. Ma qui, aggiunse guardando l'orologio, l'ora si fa tarda, e prima di tornarmene a casa mi occorre mangiare qualche cosa.
— Ed anco noi siamo digiuni da ieri.
— Dunque venite meco, che saprò io dove darmi di capo.
Curio e Filippo tennero dietro al tessiano, maravigliando forte com'egli s'incamminasse verso la spiaggia dove aveva investito l' Erebo; ma la maraviglia loro crebbe oltremodo quando da un fianco del battello incagliato videro un nugolo di maestri di ascia, segatori, carpentieri, calafati ed altri operai siffatti, usciti come per incanto di sotto terra, che lavoravano a furia per risarcirlo; dall'altro fianco del battello, immediatamente a canto, sorgeva sopra la spiaggia una baracca ornata di festoni di rami, di bandiere nella massima parte americane; fra quelle delle altre nazioni primeggiavano le papaline, venivano dopo le inglesi; scarse le francesi; delle italiane nessuna. Sopra la baracca una immensa bandiera bianca di bambagina, dove avevano dipinto in fretta con tinta nera: «grande banchetto elettorale tessiano; tre mense; antipasto, pranzo, frutti, pasticcerie, birra e wiskey tutto compreso; un dollaro a testa».
La guida dei nostri viaggiatori tentennò il capo e sorridendo disse:
— Per far quattrini su l'acqua gli americani danno dei punti al diavolo. — Poi volto ai compagni soggiunge: — che ve ne pare?
— Parcene bene; ma com'entra qui la bandiera del papa?
— Ci entra come la civetta per pigliare le lodole: la più parte dei tessiani appartengono alla religione cattolica; e l'americano si serve della bandiera del papa per richiamo a fare una bella retata. Vale il pregio che voi ci assistiate, siete forestieri e deve riuscirvi dilettevole conoscere i costumi del paese.
— Dispensateci, signore, la nostra povertà non ci permette il lusso di simili banchetti.
— Ciò non tenga; pregovi accettare il mio invito.
— Signore, rispose Curio alquanto alterato, la nostra educazione ci vieta accettare di questa maniera inviti da stranieri.
— Straniero io! Voi siete italiani, ed io sapete dove nacqui? A Novara; dunque venite meco, e non mi state a seccare.
— Ma noi non vi conosciamo; e voi come sapete che noi siamo italiani?
— Ci voleva Colombo a scoprirlo! Mentre ci troviamo insieme, voi senza accorgervene avete ricambiato tra voi un paio di dozzine di parole lombarde. Non mi conoscete! Oh! che l'uomo si può chiamare straniero all'uomo; anzi l'italiano all'italiano quando la ventura glie lo fa incontrare in luogo lontano dalla patria? Orgoglio! orgoglio! Il poeta ha detto:
. . . . . . . . regale è cosa
Serbar nelle sventure altero il nome;
ma io innanzi tratto mi professo popolano, nè voi, chiedo scusa, non mi parete tagliati dal legno onde si fanno i duchi; a noi pertanto corre il debito di aiutarci; e non ho mai sentito dire che la ospitalità umili l'ospite; certo questa non è casa mia, ma come pubblica posso esercitarvi ottimamente l'offizio della ospitalità.
Le parole sapevano di brusco, ma così dolce le temperava la soavità della voce, che i nostri viaggiatori gli tennero dietro senz'altro parole.
Dentro la baracca stavano disposte quattro tavole per lungo; in fondo, in luogo più eminente, una per traverso; dietro a questa, anche più in alto, un pulpito con allato una campana di bordo. Sul pulpito faceva bella mostra di sè il capitano vestito di nero con la cravatta bianca; la sua destra guantata pure di bianco teneva la catena della campana. Le mense spoglie di tovaglioli, bocce e bicchieri; un solo piatto per uomo, ed una sola posata: sopra le mense a mucchi carote, cipolle, patate e batate, pannocchie di maiz o granturco bianco, rape, navoni ed altre siffatte galanterie.
— Attenzione! urla il capitano. Adesso incominciò a sonare la campana a distesa; poi fermo; dopo tre tocchi... primo... secondo... terzo; al terzo ognuno pigli posto, si serva e mangi come può e quanto può.
Come disse fece; al terzo tocco un rovinìo di gente si affolla verso la mensa, e, come accade, ci furono spintoni da stramazzare un bufalo e gomitate da rompere una coppia di costole almeno, pestamenti di calli da far vedere tre soli in cielo e bestemmiare in terra: alla meglio o alla peggio aggreppiaronsi tutti, e senza alcun riguardo pel prossimo ognuno stese le mani rapaci e pronte al mucchio dei vegetali, procurando grancirne quanti più poteva; subito dopo tuffatili nel pimento presero a sgretolarli a morsi, sicchè subito si levò la soave armonia che menano i cavalli quando masticano fave. Parecchi i quali avevano abusato del pimento, sentendosi bruciare la gola, gridavano: bere! da bere!
Il capitano agita da capo la campana, ed ecco uscire dalla banda del bastimento e scendere per lo scaleo in cadenza una processione di negri a due a due, i quali portavano gravemente inzuppiere di metallo; accostaronsi alle mense e quivi stettero bianco vestiti e impalati. Obbedendo poi a nuovo ordine, loro significato mercè il rintocco della campana, depongono le inzuppiere sopra le tavole e tornano su ritti. Venti mani calarono in un attimo sopra ciascheduna inzuppiera e la scoperchiarono:
— Dannazione! Vuote! Come vuote? Perchè vuote? urlano i commensali voltisi verso il capitano e tendendo contro lui i pugni chiusi.
— Attenzione! senza punto commoversi grida più forte il capitano, e rincalza la sua voce col suono della campana. La mensa, o cittadini, esercita due forze; la prima sul principio, la seconda all'ultimo; una è centripeta; di fatti vi vedo seduti tutti, e Dio vi benedica; l'altra è centrifuga, e pasciuti che foste, vi sperdereste di qua e di là, e bravo chi vi agguanterebbe; io vi ho contato e voi siete giusto duecentoquindici: ognuno deponga il suo dollaro nella inzuppiera, e riscosso che abbia il costo del pranzo io ve lo continuerò sotto i lieti auspicii coi quali l'abbiamo incominciato.
Gli americani non si adontarono dello strano ragionamento: anzi taluno esclamò:
— Molto benissimo! — intanto che gettava il suo dollaro nella zuppiera.
Qualche tessiano di origine spagnuola parve volersene risentire, senonchè la coscienza, tirandogli una falda del vestito, gli susurrò dentro all'orecchio destro: giù la superbia, che tu sei fantino non solo da scroccarti lo scotto, ma sì di portarti via la posata. E la fame, tirandolo per l'altra falda, gli urlò nell'orecchio sinistro: arrabbio: ond'egli si adattò a pagare, e gittando il dollaro tempestava percotendo del pugno su la tavola: da bere! da mangiare!
Allora il pranzo riprese il suo andamento con tale puntualità, che meglio non avrebbe potuto ordinare il capitano Lamarmora, buon'anima, se togli che questi alla campana avrebbe sostituito il figlio della sua predilezione, il tamburo... Ed ella che vuole, signor lettore, che mi fa cenno di parlare? Udiamo, via, che ho fretta... sicuro! Siamo d'accordo! Se il confessore glielo avesse consigliato, il capitano Lamarmora avrebbe tenuto ferma la campana e sagrificato il tamburo, — anche Abramo per piacere a Dio non si ammannì a sagrificare Isacco; — molto più ch'è fama la campana inventasse san Paolino vescovo di Nola, e il tamburo sia di origine turca.
Di che cosa andasse composto il pranzo non vale il pregio di scrivere; ci furono braciole di bove arrostite; — e poi lombate di bove arrosto; — e poi daini, oche, anitre salvatiche girate nello spiedo; pesce su la gratella, e tutto spolverizzato di pimento in guisa che ci pareva piovuto sopra; le ultime mense andarono composte di torte di salmone salato, mosciama, buttagra, salacche e simili altre delizie da mettere il fuoco in corpo al Mongibello. Con questo tiro furbesco avvenne che le vivande bastarono e ne avanzarono, un po' perchè ce n'era copia, e un po' perchè cucinate in modo, che nè anche all'inferno si farebbe peggio; ma del bere avevano patito penuria, ed ora boccheggiavano a labbra asciutte più assetati che mai; però bisogna dire, a onore del capitano, che nè anche l'acqua del Colorado convertita in birra o in wiskey, rhum e cannella sarebbe bastata per cotesta razza gorgozzuli. Il capitano si coperse il capo e con voce sonora disse:
— La seduta è sciolta, chi vuol bere se lo paghi.
Tuttavia quest'uomo dabbene ebbe avvertenza, perocchè in una baracca succursale, fabbricata dietro la baracca da pranzo, era instituita canova di vino e di ogni altra ragione liquori.
I nostri italiani, quantunque avessero piuttosto riso che mangiato, pure il pimento aveva loro messo il diavolo in bocca; il wiskey gliel'avrebbe finita di sgallare; la cervogia la più parte degli italiani giudica medicina; onde l'ospite gentile, che questo conobbe, desideroso di gratificare i patriotti, commise che portassero qualche bottiglia di bordò. Adesso accadde che mentr'essi centellavano il prezioso liquore, alternando di bei ragionamenti, tre tessiani, di cui uno il promotore della candidatura del presidente schiavista, senior Talaveyra y Musquito di Gonzalez, si assettassero a canto loro, e fumando e bevendo bicchieri colmi di rhum, urlassero a coro; di un tratto ad uno di essi saltò in capo la fantasia di voltarsi al nuovo amico dei nostri personaggi e interrogarlo con piglio arrogante:
— Dunque vostra signoria è risoluta recarsi ad ogni costo a Columbus, per quivi sostenere la candidatura del Sandiford alla presidenza della Contea?
— Esattamente come dice vostra signoria; votare e far votare per lui.
— E che cosa muove la signoria vostra a pigliarsi queste scese di capo pel Sandiford?
— Pel Sandiford! Io non lo conosco neppure; io non parteggio per l'uomo, bensì pei principii di libertà del genere umano ch'egli dichiara di professare.
— Scusi, signore, ma che ella ha ricevuto il mandato di procura per trattare i negozi del genere umano?
— Certo; cristiano sono, e come cristiano sento corrermi il debito di fare altrui quello che vorrei fosse fatto a me.
— Oh! non ha sentito vostra signoria che il signor Gesù Cristo, quando predicò tutti gli uomini uguali, intendeva parlare dei bianchi, non già dei neri? In questo il signor predicatore su l'asino aveva ragione da vendere.
— Il signor predicatore ne sballava di così grosse, che nè anche l'asino sul quale predicava si è potuto reggere. Cristo ha parlato per l'anima dell'umanità, non pei corpi, e voi presumerete interpretare i suoi precetti con la tavolozza dei pittori. Ai tempi di Cristo non esistevano etiopi? Ed egli non li conosceva? Ignora vostra signoria che non mancano dottori i quali sostengono che Adamo nacque di razza nera?
— Ma che vostra signoria parla sul serio? Le basterebbe il coraggio di bandire, che vostra signoria, che io, che tutti questi idalghi, siamo uguali ai sacchi di carbone chiamati neri?
— Scusi, vostra signoria è cristiano?
— Certo, e per giunta cattolico.
— Allora mi farebbe la finezza di chiarirmi perchè nelle chiese cattoliche di Bogota, dirimpetto all'altare dove si venera il Cristo bianco espongono il Cristo nero? Perchè il papa ammette agli ordini sacri preti neri? Perchè consacra perfino vescovi neri? Ognissanti di San Domingo, questo eroe della libertà, non era nero? Ha vostra signoria mai letto le opere degli scrittori e dei poeti neri, ve ne ha perfino nere, e di che cuore!
— Queste, mio signore, sono eccezioni.
— Ah! ella dunque crede regola la sapienza della razza bianca? — Buon pro le faccia! Ad ogni modo i negri creature umane sono, e caso mai avessero ereditato dalla natura meno della razza bianca, senno ed amore consigliano ad uguagliare per quanto da noi si può la parte nostra con la loro, affinchè essi con rabbia e con rapina non si piglino tutte e due, la nostra e la loro. Nè noi bianchi, consideri vostra signoria, fummo sempre come adesso siamo dottori che vadano per la maggiore; anzi, ai giorni nostri scienziati di grido dimostrano per filo e per segno, che vostra signoria, che io, in fin di conto, siamo scimmie piallate.
Il tessiano di un salto si alzò da sedere, ma l'altro pacato continuò:
— E poi che serve recalcitrare con la forza del secolo e il genio della umanità? Così decretava solennemente il congresso degli Stati Uniti; — e se è lecito, anzi dovere del libero cittadino discutere la legge, finchè mandata a partito non riesca vinta, vuolsi rispettare una volta votata. Pensi al misero Brown; egli pretese contrastare alla legge, la quale allora permetteva la servitù, e venne senza misericordia impiccato...
— Costui fu arruffapopoli, e quando lo impiccarono non gli diedero il suo avere.
— Scusi, vostra signoria gli avrebbe dato, oltre la forca, il vantaggino? Il Brown venne al mondo troppo presto; in tutte le umane faccende per pigliar pesci bisogna levarsi presto, eccettochè nelle politiche, dove chi si affretta busca croce, o corda, o fuoco: Arnaldo da Brescia, Giovanni Hus, Girolamo da Praga apparvero primaticci, e furono arsi; Lutero sbucciò a tempo, e fece la riforma. Adesso veda vostra signoria in che acque ella navighi: la guerra di secessione è finita: adattiamoci ai fatti conchiusi; non rimescoliamo le ceneri dei morti; inchiniamoci riverenti davanti al sepolcro insanguinato di Lincoln.
— Dunque, secondo lei, per avere ragione bisogna vincere? E chi le ha insegnato di barattare il diritto con la forza? Dunque gli americani ebbero torto quando sorsero contro la madre patria? Torto il Messico e le altre parti dell'America Meridionale quando scossero il giogo della Spagna? Torto allorchè noi tessiani volemmo le nostre sorti separate da quelle del Messico? Fino dal tempo delle missioni cattoliche, avevamo o no la schiavitù noi altri tessiani?
— L'avevate.
— Senza le braccia dei neri avremmo potuto dissodare tante terre incolte.
— Sarebbe stato a mio parere difficile.
— Sa vostra signoria che, quando il Messico levò la bandiera della ribellione contro la Spagna, e il Texas gli tenne dietro, don Agostino Iturbide imperatore abolì la schiavitù da per tutto, ma, penetrato della necessità di mantenerla nel Texas, ne permise la continuazione a patto che non traessimo i negri dalla parte del mare, bensì ci entrassero unicamente da quella di terra?
— Lo so: quanto vostra signoria afferma è verità.
— Di punto in bianco al Messico viene il dolore di corpo di abolire intieramente la schiavitù, vietando che s'introducessero i neri nel Texas, sia dal lato di mare, sia dal lato di terra: allora tutti noi altri abitatori della contrada, disperati, levammo gli occhi al cielo gridando: consumatum est! Ora sa ella chi furono coloro che in cotesti tempi facevano fuoco nell'orcio, onde noi, armata mano, a cotesta abolizione contrastassimo? Gli americani, che accolti ospiti nel 1821 in numero di trecento sotto la scorta di Stefano Austin, vi si erano allargati come la macchia dell'olio: anzi, sopportando molestamente che gli animi non procedessero accesi a forma della loro impazienza, proposero al governo del Messico di comprarci a contanti, ma quello non ne volle sapere. Ora donde tanta smania di dominare su di noi? Eccogliela pronta: per mantenerci la schiavitù, imperciocchè il Texas fosse per essi un mercato dove smaltivano lo scarto dei negri della Carolina Meridionale, della Virginia, dell'Arkansas, del Missurì, del Tennessee, non che per avvicinarsi alle miniere e all'Oceano Pacifico.
— Tutto questo può darsi; anzi è.
— Gli americani, scottati nel proprio interesse, non sapendo più dove ripiegare coteste sferre di negri, ci aiutano addirittura a ribellarci dal Messico: uniti vincemmo in vari scontri; per ultimo, superati i nemici nella battaglia di San Giacinto, rotto Santanna, e prigione del generale Houston, avemmo pace e ci legammo con gli Stati Uniti, co' quali vivemmo di amore e d'accordo godendoci insieme i benefizi della schiavitù. Più tardi gli americani e noi, venuti in lite col Messico per cagione di confini, ripigliammo le armi; i successi sul principio vari, finalmente si volsero favorevoli a noi, onde pel trattato Guadalupa-Hidalgo del 1848 furono stabiliti a Rio Bravo fino a Bagdad sul Golfo nel Messico; può vostra signoria negarlo?
— Le sono cose note a tutti; e quello che vostra signoria afferma non fa una grinza.
— Quindi ecco rifiorire il traffico dei negri nella sua pienezza, ecco rilevarsi l'agricoltura; tutte le benedizioni di Dio piovere sul paese. Saturno scappato di Europa pareva venuto a letificare il Texas. Protettore nostro, e degno di corona civica il generale Jackson, potente signore di armenti di bufali e di negri, e quindi sviscerato promotore della schiavitù. Quando ce lo aspettavamo meno, ecco saltar su un fungo, un uomo da nulla, un legnaiolo, povero in canna, che per pisciare sul suo doveva pisciarsi in mano, che non possedeva un dollaro da far dire una messa, insomma un plebeo, un operaio... Lincoln!
— Ah! vostra signoria parlava di Lincoln?
— Sicuro. Di questo saltimbanco che si arrampicò alla presidenza della Unione come una zucca su la pergola dello zibibbo; per lo appunto, costui compiacendo all'astio e alla paura dei mercanti falliti del Settentrione, ecco farsi a bandire anche qui l'abolizione della schiavitù; mette in ballo Cristo, la umanità; sputa paroloni da misurarsi col metro; i compari di Europa gli battono le mani, e il dannato, che Dio confonda, appicca il fuoco a quella terribile guerra che tutto il mondo sa. Si signori, per affrancare quattro uomini, più che tre quarti bestie, i quali non sanno che farsi della libertà e la venderebbero per una scodella di lenticchie, si mandano a morte centinaia di migliaia di uomini liberi pieni d'intelligenza, si butta sottosopra lo Stato, sicchè tra sperpero di pecunia e sperpero di vite, prima che la Unione si riabbia ci vorrà un bel pezzo... Dunque dica su, vostra signoria, le pare che noi abbiamo torto?
— Certo, grandissimo torto.
— Torto! Come torto? urlò il tessiano tutto alterato, e l'altro tranquillo soggiunse:
— Se mi ascolterà con pazienza, in quattro parole mi sbrigo. Vostra signoria sa come le azioni umane, eziandio quelle che paiono in vista maggiormente virtuose, sieno soppannate di vizi, ed è bazza quando non sono delitti: ai discreti deve bastare ch'esse accennino al buono e al meglio, e lo producano: non fa prova di senno chi si tribola a penetrare più oltre. La causa dell'abolizione della schiavitù in sè è ottima: tutto sta nell'esaminare se per voi altri ci si trovi il tornaconto, perchè, vedete, io non intendo discutere con voi se l'uomo deva promovere il bene morale anche a scapito del proprio danno materiale: pur troppo questa dottrina ebbe in ogni tempo tanti confessori in teoria, quanti pochi esecutori in pratica. Pertanto io giudico fuori di dubbio che la schiavitù, come nociva alle qualità morali dei tessiani, così pregiudichi smisuratamente i loro interessi. Potrei dirvi che la vostra causa, essendo andata perduta in onta alla possanza degli Stati meridionali, delle ricchezze profuse, degli sforzi estremi tentati per farla prevalere, si deve credere che Dio nella sua giustizia l'abbia condannata; ma lasciamo Dio nella sua beatitudine e non lo mescoliamo alle nostre miserie: — questo però vi sostengo; che il lavoro libero produce benefizi maggiori del lavoro forzato; tanto gli scrittori affermano e la esperienza ha provato.
— Lavoro libero! Ma vostra signoria parla del Texas, ovvero del mondo della luna?
— Parlo del Texas; e chiedo in grazia a vostra signoria di porre mente alle mie parole. Prima del 1820 sole seimila anime abitavano il Texas, disperse a Sant'Antonio di Bexar, ai forti Bahia e Santissimo Sacramento, e nel cantone di Nacodoches; poco dopo erano sessantamila divise in centodiciassette contee: città e villaggi sorgono dalla terra più presto e più fitti delle pannocchie del maiz; nel 48, senza contare gli indiani, che nessuno conterà mai, sommavano a ben quattrocentomila; adesso se non arriviamo a un milione, poco ci manca. Dunque, vede bene che le braccia non mancano; e noi possiamo lavorare con profitto pari alla sicurezza.
— Noi lavorare! Per avventura vostra signoria lavorerebbe? E giudica il lavoro manuale degno di un gentiluomo?
— Eh! tanto più lo giudico degno del gentiluomo, quanto ho stimato sempre l'ozio il distintivo del furfante.
Qui successe un po' di silenzio, imperciocchè cotesta sentenza avesse trafitto il tessiano più acuta della punta di un ago.
— Dunque noi zapperemo, noi correremo dietro al bestiame?
— E chi le dice questo? Noi possiamo avvantaggiarci della opera così dei bianchi come dei neri, scambiando il lavoro col danaro, e rimettendo in potestà dei medesimi l'andare o lo starsene.
— Dando ai neri siffatta facoltà, crede sul serio che ei rimarrebbero?
— È un fatto; io lo concessi, e tutti sono meco rimasti.
— Perchè ignorano che la schiavitù sia stata abolita.
— Vostra signoria prende errore; essi lo sanno quanto noi: ad ogni modo io li ho informati a voce, e provvedendoli dei giornali, dove hanno letto il progresso di questo grave avvenimento. Aggiungi che anche prima si agitasse la quistione della schiavitù nel congresso, io li lasciai sempre liberi di stare o di andarsene con Dio; soli tre tolsero commiato, e dopo non bene quarantotto ore due tornarono supplicando genuflessi onde io li ripigliassi; il terzo non rividi più; temendo gli fosse incolto qualche malanno, feci frugare dintorno le macchie e ne trovarono le ossa; le pantere lo avevano divorato. Signori, se voi terrete i negri come figliuoli, essi vi ameranno come padri. Qualche scarto in tutte le cose s'incontra sempre, così negli animali come nei frutti e nei fiori, ma nel sottosopra, per esperienza fatta, i negri sono buoni come i frutti sono grati e i fiori odorosi.
— Ma vostra signoria come paga i suoi negri?
— Io? Non li pago. Detratto il seme, dividiamo il raccolto; io compro la parte che spetta loro di cotone, di cocciniglia, d'indaco e di caccao; del grano, del maiz, della segala, dello zucchero e del caffè procuro ne mettano da parte tanto che basti loro per l'annata corrente e per l'avvenire; il di più vendesi: di caccia e di pesca non patiscono mai penuria; contribuiscono meco a pagare i medici e i maestri; spese di culto non corrono, perchè io sono il prete e questo è il tempio (qui dirizzato il dito in su mostrò il cielo).
— Se noi ci governassimo come vostra signoria, in capo ad un anno andremmo a gambe levate.
— Io, all'opposto, ogni anno compro un ettaro di terreno e ne dissodo due.
— Questo succede perchè vostra signoria avrà portato tesoro di Europa; il che per altro non è credibile.
— Certo; però di Europa portai due sacchi di dobloni, e li tengo sempre addosso; — e sorridendo mostrava le braccia.
— Vostra signoria non ha figliuoli?
— Dica piuttosto che io non ho vizi, perchè, come diceva ottimamente Beniamino Franklin, un vizio solo costa più di cinque figliuoli...
— Ma dunque, interruppe il tessiano indispettito, vostra signoria è proprio decisa di votare per la presidenza del Sandiford di Bastrop?
— Giusto come dice vostra signoria: votare e far votare.
— E se io le dichiarassi che vostra signoria fa male?
— Rispetterei la sua opinione e farei a modo mio.
— E se io glielo impedissi?
— Vostra signoria si guarderebbe bene da farlo, perchè ciò offenderebbe la libertà naturale e civile del cittadino.
— Contrario o no, offenda o non offenda, ponga che io glielo impedisca.
— Con che, di grazia?
— Con la forza.
— Allora io le spaccherei il cranio.
Questa fu la favilla che suscitò lo incendio; perchè i due litiganti saltarono su da sedere in atto di gladiatori combattenti; il tessiano, agguantato il braccio del vecchio, gli diede un poderoso strettone per isbatacchiarlo in terra, e non gli riuscì; mentre l'altro, per botta risposta, tale gli abbrivò con la mano libera un pugno nel mezzo del petto, che costui fu obbligato di rimettersi a sedere boccheggiando; e così sarebbe finito il conflitto, senonchè subito sottentrava il compagno, il quale colpiva alla sprovvista il vecchio nel naso, per modo che questi si coperse con ambedue le mani la faccia insanguinata; nè qui rimase la soperchieria, che al secondo si aggiunse il terzo, il quale prese a picchiare senza misericordia il meschino sul capo.
Da tante parti assalito, il povero uomo male si poteva schermire; egli non chiese, nè l'animo altero gli avria consentito chiedere soccorso; pure, chi sa? Già aveva incominciato ad affacciarglisi allo spirito la nota sentenza che dicono di Dio: «maledetto l'uomo che confida nell'uomo.» Ma se gli si affacciò, non ebbe tempo a compire la immagine, perocchè subito sentisse un battere di colpi frequenti e poderosi come di mazza sopra la incudine, e schiusi gli occhi alcun poco vide Curio avvampante così, che pareva mandasse faville: afferrata con la destra la brocca del wiskey e con la manca quella della birra rimaste su la tavola, pestava giù busse da stritolare le ossa; nè Filippo gli rimaneva addietro, che adoperava il suo bastone di punta dando nei fianchi ai ribaldi, i quali, sfidati di poter durare il combattimento ad armi pari, trassero fuori delle tasche il bowieknife, ovvero coltello piegatoio, che gli americani maneggiano con maestria terribilmente celebre: non era tempo di gingillarsi cotesto; però Filippo e Curio, recatesi in mano le rivoltelle a sei colpi, le armarono e ad una voce imposero:
— Giù i coltelli!
E siccome i tessiani parevano tentennare, Curio riprese:
— Io voto a Dio di bucarvi come crivelli, marrani! Costuma nel vostro paese di libertà avventarsi in tre contro un vecchio disarmato?
I tessiani misero subito, o finsero mettere il cervello a partito, e ripiegati i coltelli dissero:
— Caramba! al diavolo il Sandiford, il Talaveyra e la presidenza della Contea; su via, bagnamo la parola e non pensiamoci più.
— Andate pei fatti vostri, cercate i vostri amici tra i comanchi, ubbriacatevi con loro: noi vi sputiamo.
I tessiani si allontanarono brontolando come mastini vergati. Allora i nostri amici si volsero a curare il vecchio: il sangue per virtù dell'acqua e dell'aceto fu ristagnato; e se togli l'occhio infaonato, il naso gonfio e un forte senso di bruciore nella fronte, non rimase altra traccia di battaglia sopra la faccia del vecchio.
— E adesso, signore, che cosa pensate di fare? domanda Curio; e l'altro:
— Penso tornarmene al mio ranchero; tanto fino a domani l'altro, e sarebbe bazza, il battello non può essere restaurato; di cavalli non patiamo penuria; in cinque minuti ne trovo due per voi; qui presso pasce il mio, e se gli mando un fischio mi comparisce in men che non balena davanti: affrettandoci, fra due ore ci possiamo trovare a casa.
— Signore, dalle vostre parole ricaviamo come voi intendiate menarci a casa vostra; della cortesia gran mercè, ma noi, con vostra licenza, abbiamo deciso rimanerci qui, finchè l' Erebo non sia risarcito.
— Ed io non vi do nè devo darvi questa licenza; perchè voi non conoscete con che schiuma di ribaldi l'abbiate a fare. I nativi del paese e coloro che mi offesero sono tessiani puro sangue, vanno composti per un terzo di ferocia ereditata dai selvaggi cannibali, per un terzo d'ipocrisia infusa gratis dai preti nella loro anima, e finalmente per un terzo di rapina, istinto loro naturale educato da Cortez, da Pizzarro, e un po' anche dal generale Jackson, presidente della Unione. Guai a voi se anche una notte sola vi fermaste qui! Prima che tramonti il sole fate con seco gli ultimi convenevoli, perchè su in cielo voi non lo vedrete ricomparire mai più. Siccome questo non posso sopportare io, dunque meno parole e a cavallo.
Come il vecchio aveva già detto, il suo cavallo, chiamato dal fischio del padrone, in un attimo ricomparve; tutti gli arnesi aveva addosso, tranne briglia e morso, che avvolti assieme pendevano dal posolino della sella. Appena si ebbe palesato il bisogno, vennero offerti al vecchio colono parecchi cavalli; egli scelse quelli i quali giudicò più mansi; ma prima che gli amici salissero in sella li interrogò:
— Siete usi a tenervi bene in arcione?
— Andate franco; noi siamo da bosco e da riviera.
— Scusate! Non ho inteso pregiudicarvi; era debito mio avvertirvi, perchè questi cavalli, comecchè mi sieno sembrati a bastanza quieti, pure sono mustanghi, che si agguantano col laccio per servircene, e dopo serviti si rimandano al branco, se pure non giudichino di tornarci di proprio moto scaraventando il cavaliere in mezzo della strada. Basta, uomo avvisato è mezzo salvato.
Partirono i cavalli, senza stimolo presero a correre via come il vento; il loro cammino era in mezzo ad un mare di biade mature, dove altri cavalli passando avevano lasciato la traccia; imperciocchè l'aspetto della campagna troppo comparisse mutato da quello che fu; e dove un giorno s'incontravano macchie fitte, dentro le quali qualche albero intaccato serviva di guida, e per passarci bisognava abbassare il capo fin sul collo del cavallo, onde non investire nei rami degli alberi inestricabilmente avviticchiati, adesso la vista spaziava sopra una superficie senza confine: però il terreno coperto dalle paglie abbattute non si vedeva, sicchè se i cavalli non fossero stati provvisti di garetti di acciaio, avrebbero traboccato ad ogni momento a cagione dei solchi o di qualche fossa cieca. La furia della corsa appena permetteva ai cavalieri di respirare; in terra gli oggetti circostanti sparivano via come larve di morti allo spuntare del primo raggio del sole; in cielo le nuvole sembrava corressero a precipizio per rovesciarsi su i cavalieri. Dopo un lungo imperversare giunsero in parte dove comparve una via tracciata, non però massicciata; cavalli e cavalieri erano sfiniti e grondavano sudore, e procedendo a furia senza cautela si correva rischio di non potere più levare le gambe da coteste fitte.
Rallentato il passo, quieto alquanto l'ansare angoscioso, Curio favellò:
— Mio riverito amico, se al vostro paese così si chiama andare di trotto, mi garberebbe proprio sapere da voi che nome abbia andare a rotta di collo.
Il vecchio rispose:
— Era mestieri camminare così per giungere a casa prima che abbui.
— O che dista molto di qua il vostro ranchero?
— Eccolo là.
E il vecchio additava una gran casa bianca, in apparenza lontana tre miglia; intorno alla casa sorgeva non una foresta, bensì parecchi gruppi di magnolie, di cui le foglie smaltate di smeraldo riflettevano in luce di oro i raggi del sole occidente e la vestivano di un nimbo luminoso pari a quello che i sacerdoti ponevano e pongono intorno al capo degli dei e dei santi; di sul tetto scappava un pennacchio di fumo, che candido e grazioso si spandeva per l'orizzonte, come lo invito della ospitalità ai pellegrini bisognosi di cibo e di riposo.
Di un tratto le tenebre scendono su la terra, e dense così che i nostri viaggiatori non vedevano più la casa, meta del cammino; ma il vecchio, preparato al caso, cavò un sibilo acutissimo da un fischietto di marina, e subito dopo le finestre della magione apparvero illuminate; dalle porte aperte trassero altresì persone con torce di pino accese. Di corto toccarono le soglie della casa; il vecchio saltò giù destro e leggero; gli altri lo imitarono con meno sveltezza, sentendosi mezzo rotti e scorticati per intero; tuttavia egli, presili per mano ed introdottili in sala, lietamente favellò:
— Se potessi restituirvi la patria, lo farei; ma consolatevi; voi non vi potete più dire di trovarvi in terra straniera, poichè il vostro capo si posa sotto tetto italiano.
Dopo si fece schierare davanti tutti i negri addetti al servizio domestico, e due bianchi, che alle sembianze si davano a conoscere per tessiani, e tale lor disse in suono di padrone:
— Don Giacinto, e voi, don Patricio, voi siete del paese e non ci ha mestieri troppe parole per farvi comprendere di che si tratti: abbiamo litigato; ci è corso un po' di sangue; poteva esser peggio, ma in grazia di questi gentiluomini i miei nemici non hanno potuto mordermi; pertanto attendete con diligenza a far governare i cavalli; poi ordinate ai negri della stalla chiudano porte e finestre e le assicurino dentro con le stanghe traverse; voi chiudeteli nella stalla assicurandovi che in qualunque evento non possano uscire; con diligenza pari chiudete e sprangate tutte le porte e le finestre del piano terreno e del primo piano; traete dall'armeria cinque carabine di precisione a sei colpi, con le sacchette della munizione; provate e riprovate se si trovino in punto; due tenete per voi; le altre servono a questi signori e a me; sturate le feritoie e stieno allestite la contessa e la marchesa: andate. — Di voi altri, soggiunse volto ai negri, due stieno al servizio di questi signori; tu, Antonio, verrai meco; i tre che restano apparecchino la mensa e ammanniscano cena. Su presto, andate e procurate di rompermi stoviglie meno che potete.
Dopo questo discorso, i tre che dovevano attendere alla cena salutarono e partirono. I due negri addetti al servizio di Curio e di Filippo, precedendoli co' candelieri accesi, li condussero in due bellissime camere che davano sopra un cortile interno tutto piantato di spalliere di gelsomini volti a pergola, con una magnolia grandiflora, magnifica a vedersi, nel mezzo. I negri, per essere reverenti in atto, non procedevano meno risoluti e ratti, perchè, senza profferire parola, agguantati i nostri personaggi, in un attimo li spogliano, li inondano di acqua diaccia e di aceto; li stropicciano, prima con le spazzole, poi con le spugne; asciugati, li rivestono di tela bambagina odorosa; i nostri volevano rivestire i propri panni, ma i negri assolutamente impedirono, dicendo che i panni loro dovevano prima asciugare del sudore onde erano pregni, e dopo spolverarli e ripulirli; e poichè la ragione parve buona, si lasciarono fare in tutto e per tutto, sicchè in breve si sentirono ricreati.
In questa ecco l'ospite azzimato, anch'egli biancovestito, con varie strisce di drappo nero ingommato su la faccia, comparire nella stanza di Curio, attigua a quella di Filippo, il quale, dopo licenziato i negri, invitò gli ospiti a sedere, ed egli pure essendosi seduto così disse loro:
— Capisco, amici miei, che io devo esservi comparso uomo strano e bizzarro, mentre non vi ha cosa che tanto mi piaccia e mi garbi praticare quanto la semplicità: in breve vi chiarisco intorno alla mia condotta: se avessi sofferto lasciarvi questa notte a Columbus, ora sareste carne fredda o prossimi a diventarlo... e mi pare avervelo già detto... lo so... lo so, e me ne fido; giovanotto! non istate a tentennare il capo ghignando; fidato nella forza e nella animosità vostre, voi ne avreste ammazzati tre, quattro, ma all'ultimo avreste dovuto soccombere; per la medesima causa io vi ho fatto correre a scavezzacollo, timoroso che non c'inseguissero e non ci assalissero per via. Ora siamo salvi, ma, notatelo bene, non già sicuri da nuovi assalti, perchè la diversità che corre tra l'americano di razza inglese e l'americano di razza spagnuola è questa: l'americano anglo-sassone rifugge dai conti lunghi; liquida presto ogni cosa, amori, odi, merci, fondi rustici e urbani; ti fa la quitanza di una ferita come di una cambiale: la morte si salda da sè: paga l'oste, muta l'oste; tale la sua divisa; l'americano spagnuolo infila la vendetta come un paternostro di più al suo rosario, e lo recita la mattina e la sera, finchè non si sia vendicato. L'anima dello americano spagnuolo, voi lo sapete, è una società in accomandita costituita da tre soli azionisti, il prete, il filibustiere e la pelle rossa. Forse m'ingannerò, ma ci è caso che questa notte stessa vengano ad assaltarci i nostri elettori di Columbus, onde io mi sono armato di provvidenza per riceverli come si meritano.
— Voi lo temete?
— Anzi, pensandoci meglio, ne vado sicuro.
— A quale ora li aspettate? E in quanti giudicate che verranno?
— Verranno nell'ora che ci crederanno immersi nel sonno, e in maggior numero che potranno; pari in tutto alla pantera, che non conosce generosità, e quanto più l'è dato sbranare con sicurezza, tanto meglio per lei.
— E di quali forze possiamo disporre per difenderci?
— Poche, ma bastano e ne avanzeranno; in primis questa casa resiste a qualunque assalto; a nostro danno non possono adoperare altro che carabine e rivoltelle; essi combatteranno di fuori, noi per di dentro; essi scoperti, riparati ottimamente noi; sicchè li potremo ammazzare quasi a man salva; i combattenti dalla parte nostra sono meno di quelli che condusse in Grecia Serse: io, voi e i due peoni.
— O i negri?
— I negri non si vogliono adoperare, perchè facili a sgomentarsi e a fuggire: presso me ne tengo pochi impiegati nel servizio di casa; gli altri stanno su i poderi, o badano il bestiame; all'opposto i peoni idonei ai traffici, ai trasporti, alla ragioneria ed alla difesa; e però essendomi capitato di fare buon mercato, comprai quei due che avete visto in casa.
— Non ci capisco un'acca, riprese Curio; o come va che emancipate i neri e poi comprate i bianchi?
Il vecchio sorridendo rispose:
— Io vi chiarisco in quattro parole. Messicani o tessiani, in questo somiglievoli agli antichi germani, di cui ci narra Tacito, che disperati al giuoco, dopo perduto beni mobili e immobili, armi, cane, cavallo e donna, buttavano su per posta la propria libertà. Il messicano e il tessiano, quantunque capaci di tendere insidie alla vostra vita, osservano religiosamente il contratto che li fa schiavi altrui: onde ciò avvenga, la sua ragione ci ha da essere; mi basta così, senza che io mi pigli la gatta a pelare di rinvenire la causa di queste perpetue contradizioni umane. Qualche volta avviene che il peone, sebbene disposto a servire fedelmente, si trovi per l'acerbezza del padrone alla porta della pazienza co' sassi: allora di due cose l'una; gli preme o non gli preme la vita; se non gli preme, fende il cuore al padrone, e poco dopo è impiccato anche lui; ovvero gli preme, e chiamato il padrone in disparte tale gli favella succinto:
— Consiglio vostra signoria a vendermi senza perdere tempo, perchè l'avviso che, tenendomi presso di lei, prima che domenica arrivi io avrei pensato di tagliarle la gola.
Allora il padrone non si tiene le mani a cintola, si dà moto dintorno per disfarsi del peone come di cavallo che abbia il tiro secco. Da questo in fuori non ci è verso che uomini bianchi vengano a servirvi per salario; non li emancipo perchè ho bisogno di loro, ed affrancandoli non si fermerebbero meco nè anche un minuto; ma da loro non esigo lavori servili, li tratto co' riguardi che meritano; hanno mensa e stanza separate dagli altri; da me solo dipendono; non diffido, ma neppure mi addormento in grembo a loro, e fin qui li ho riscontrati puntuali. Quanto a coraggio non preme parlarne; mangerebbero il fuoco. Oltre queste difese che vi ho detto, avremo di rinforzo due signore, le quali fanno grazia accorrere in mio soccorso quando le chiamo; confido che anche voi le avrete a commendare per buone e per belle; io non le baratterei con le Camille, le Pantesilee, le Marfise antiche, nè con la moderna nostra Scannagatta; è provato che scendono da nobile sangue, onde noi chiamiamo una contessa e l'altra marchesa; qualora io le trovi cortesi secondo il consueto, e come non dubito, mi procurerò l'onore di presentarvele.
Curio e Filippo si guardarono in faccia confusi, dubitando che il cervello dell'ospite avesse preso di un tratto la via dei campi, ovvero li uccellasse, e stavano in procinto di chiedergliene spiegazione, quando comparve su la soglia della camera un peone, il quale con molto sussiego avvisò:
— Le vostre signorie sono servite.
Scesero tutti nel tinello, con mirabile eleganza addobbato e imbandito; dopo assettatisi a mensa l'ospite domandò agli ospiti:
— Piacevi, signori, che inviti la marchesa e la contessa?
— O signore, che dite mai? Noi l'avremo per grazia.
— Giacinto, Patricio, abbiate la compiacenza di condurre fin qua le nostre signore.
Curio e Filippo tenevano tesi gli sguardi sopra la porta donde erano scomparsi i due peoni, quando un ruggito formidabile li costrinse a voltarsi dal lato opposto, e videro da due postierle praticate nella parete sbucare fuori una pantera ed una orsa spaventevoli per mole e stupendamente belle. L'ospite avendole chiamate pei loro nomi, esse con segni manifesti di allegrezza si affrettarono a posargli il muso una su la coscia sinistra e l'altra su la destra; egli le brancicò, tirò loro le orecchie, i peli del muso, e con soddisfazione scambievole ricambiaronsi lezi e carezze; iterate tre volte e quattro le gentili accoglienze, l'ospite offerse all'orsa pannocchie di maiz abbrustolite, ch'ella parve gradire moltissimo, essendosi messa immediatamente a sgretolarle come se fossero cialdoni; alla pantera distribuì parecchie braciuole di montone, che ella accettò con gradimento punto minore.
Curio e Filippo sentirono loro malgrado pigliarsi da uno sgomento, che paura non si poteva dire, bensì un desiderio di mano in mano più intenso, che coteste belve se ne andassero pei fatti loro; ma l'ospite, dilettandosi dello imbarazzo dei nostri amici, vôlto ad essi con allegra faccia favellò:
— Signori, sembra che voi non siate usi a corteggiare dame, perchè a quest'ora voi non avreste mancato di offerire i vostri convenevoli a queste signore.
— Vi siete apposto alla prima: noi siamo vaghi di femmine come il cane delle mazze.
— Queste dame, quantunque non battezzate, sono use a rendere bene per male; quindi per insegnarvi carità e gentilezza verranno da voi a presentarvi i loro complimenti.
— Ci fareste grazia di avvisarle che oggi le dispensiamo; sarà per un'altra volta.
— Scortesi! Contessa, marchesa, consolatevi; chi non vi vuole, non vi merita; e poichè a trattenervi più oltre con questi villani la vostra dignità ci scapiterebbe, così v'invito a ritirarvi.
E preso un nerbo lo alzò per confermare le parole col cenno: le belve, capita la ragia, partirono brontolando; anzi l'orsa per vezzo ammiccò un pugno al padrone. Scomparse che furono, Curio non potè trattenersi dal domandare all'ospite:
— Ed ora, che capestreria è cotesta di tenervi con tanta domestichezza al fianco belve le quali in un estro di ferocia potrebbero sbranare voi o taluno della vostra famiglia?
— Le bestie, anche ferocissime, caro mio, quando non facciate loro penuriare il cibo e non le vessiate, amano vivere in pace con tutti, nè io me le tengo in casa per capestreria, bensì per bisogno. Voi avete a sapere che qui nel Texas costuma allevarci in casa orsi, pantere e leopardi, ma di questi meno, perchè sovente li proviamo codardi.[17] Chi sa che non abbiamo a vedere le bestie al cimento; allora giudicherete da per voi stessi che cosa sieno capaci di fare.
Sederono a mensa, dove i negri, sorvegliati da Giacinto e da Patricio, rigidi osservatori di ogni regola di governo della buona famiglia, ministrarono: comecchè apparisse piuttosto parca che copiosa la cena, e i commensali fossero sobri, tuttavia tanto presero diletto nei mutui ragionari, che produssero la notte alle tardissime ore; e già le stelle cadenti persuadevano al sonno, quando di un tratto la casa rintronò di spaventosi ruggiti, e subito comparve su l'uscio don Giacinto, armato di carabina, che disse:
— Signore! dallo strepito che fanno le canne di zucchero violentemente troncate arguisco che si accosta un branco di cavalli a corsa...
— E di cavalieri, aggiunse il padrone senza alterarsi nè moversi da tavola; don Patricio dov'è?
— Di sentinella a tramontana.
— Da cotesta parte non ci hanno porte, e gl'impostoni a piano sono chiusi e bene assicurati; pure riscontrate meglio; poi andate a terreno e appuntellate gli usci della porta maggiore e delle laterali. Dove avete ripiegato i neri?
— Nel dormentorio.
— Chiudeteceli a doppia chiave, chè se escono mettono per paura a scompiglio ogni cosa; sturate le feritoie alle sole tre finestre di sala; qui portate le armi da taglio e da tiro, e deponete tutto su questa tavola; spegnete i lumi, ma lasciate accese le lanterne sorde.
Il peone andò a fare l'officio; il vecchio continuava tranquillo:
— Non ci ha dubbio, e' sono i nostri amici di Columbus che vengono in forze a visitarci; se non arrivano in mille non sarà colpa loro; ma una trentina li aspetto; a loro danno noi gl'insegneremo che tal bue crede andare a pascere e poi va al macello.
Intanto cresce il fracasso, ed a giudicarne dal rovinio, avevano ad essere una gran frotta. I peoni tornano in sala, riferiscono eseguiti a capello i comandi; dispongono su la tavola armi e munizioni, sturano le feritoie, spengono i lumi. Ora bazza a chi tocca. Il vecchio si alza, prende una carabina a sei colpi e con suono metallico di voce comanda:
— La finestra di mezzo difendo solo; don Patricio, e voi, signor Filippo, compiacetevi appostarvi alle feritoie della finestra a manca; don Giacinto, signor Curio, facciano lo stesso a quelle di destra; veruno spari senza ordine mio. Giacinto, Patricio, le signorie vostre si sono obbligate senza restrizione a difendermi, ma caso mai la loro coscienza li rinfacciasse sostenere causa ingiusta, ovvero aborrissero da combattere i propri paesani, io li dispenso da pigliar parte nel combattimento.
— A vero dire, rispose don Patricio, io nacqui a Matamoros, e perciò fui e sono messicano; ma non rileva; ladroni giudico quelli che vengono ad assalirci, ed i ladroni, a mio parere, non hanno patria nel mondo.
— Sentenza di oro da legarsi in oro, soggiunse don Giacinto; con l'aiuto di Dio, della beata Vergine e dei santi Pietro e Paolo, noi li ammazzeremo come cani.
Dopo ciò tacquero: gli assalitori, supponendo che gli abitanti del ranchero dormissero la grossa, e nella fiducia di coglierli alla sprovvista, mano a mano si accostano, adoperano precauzione, scendono pianamente da cavallo e girano attorno alla casa per riconoscerla. Non si vedevano ma si sentivano giù a piè del muro tentare le porte; allora al vecchio parve bene mandarli a salutare, ed ordinò il fuoco. Cinque palle volarono a un punto, tre senza costrutto, ma due ebbero il debito recapito, a giudicarne da due stramazzoni per terra e da un diluvio di bestemmie. Gli assalitori scostaronsi, e addopatisi dietro il fusto degli alberi circostanti, quinci impresero un fuoco alla dirotta; gli assaliti barattavano tre pani per coppia: a giudicarne dai tiri simultanei, gli assalitori, se non arrivavano a cinquanta, meno di trenta non erano.
Il vecchio, sboglientita la prima furia, considerava e codesto mo' sprecarsi polvere e palle senza levare un ragnatelo dal buco, per la qual cosa ordinava cessassero il fuoco, tenessero le armi ammannite; egli voler vedere un po' che almanaccassero i nemici. Gli assalitori si valgono della tregua per consigliarsi su quanto era da fare; deliberarono lo incendio, a tal fine raccolgono mucchi di canne da zucchero, foglie secche, arbusti, e fattane catasta davanti la porta maggiore ci appiccano il fuoco: era loro disegno, appena la porta incendiata avesse concesso l'adito, entrare in casa e quivi mettere a ruba quanto capitasse loro alle mani; se poi questo non avessero potuto fare senza troppo pericolo, allora avrebbero lasciato abbruciare la casa con tutti quelli che ci erano dentro.
Il vecchio aguzzava la vista e lo udito, ma non veniva a capo d'indovinare quello che gli assalitori armeggiassero.
D'improvviso si illumina la scena, e al chiarore della manella di strame che porta accesa in mano, si scopre uno dei tre offensori del vecchio accostarsi alla catasta della legna e delle altre materie infiammabili per appiccarci il fuoco; non aveva ben finito di stendere il braccio, che passato fuor fuori da una palla in mezzo al petto cascò bocconi su la fiamma; i compagni tentarono tirarlo indietro e non riescono, perchè, bersagliati a man salva dalle feritoie, uno casca sopra l'altro traendo urli spaventevoli; il mucchio divampa, e i cadutici sopra, sentendosi scottare, non trovando altro aiuto si rotolano per iscostarsene, insanguinando di orribili strisce il terreno.
Allora la voce del vecchio, facendosi udire da capo, comanda:
— Don Giacinto, vada per la contessa e la meni alla postierla a sinistra giù a terreno; don Patricio, faccia lo stesso con la marchesa, appostandola alla postierla diritta; quando sentiranno il mio fischio aprano gli usci e le avventino contro gli assalitori; richiusi gli usci si compiaceranno ridursi nella sala di entratura per ricevere nuovi ordini.
Le belve, comecchè per ispiegar le ugne e insanguinare le labbra non avessero mestieri incitamento, pure i peoni innanzi di sguinzagliarle le inzigarono; da manca, da destra, con un gran salto esse cascarono addosso agli assalitori, e, poichè di cibo fossero sazie, non si fermavano a divorare, bensì guizzavano or qui, ora là, facendo sdruci con le granfie che parevano tagli di sciabola; dove addentavano portavano via ogni volta almeno una libbra di carne, nè ci era riparo, perchè investiti i ribaldi da terribilissimo urto, non si potevano reggere in piedi, e sternati non avevano schermo, nè le armi loro giovavano. Gli urli disperati, i ruggiti, gli omei e il suono strano di bramiti e di bestemmie di quel branco di bestie e di cristiani empivano il cuore di affanno: aggiungi il nitrire incessante dei cavalli atterriti, i quali tremavano, le orecchie tese appuntavano; irta la criniera, la coda diritta, tentavano sforzi maravigliosi per iscavezzarsi, o per rompere le briglie e fuggire: smanianti di paura, dalle froge aperte cacciavano fuori alito fumoso, negli occhi dilatati e reticolati di sangue roteavano la pupilla smarrita, con le zampe zappavano in furia il terreno, come se volessero scavare una fossa per nascondercisi dentro: insomma a nessuno riuscì abbonire il proprio cavallo, tanto da poterci saltare su in groppa e scappare; invece parecchi rimasero malconci dai morsi e dai calci; la più parte aveva spulezzato, ma una dozzina di assalitori teneva fermo nella speranza di vendicare ad un punto le vecchie ingiurie e le nuove.
Quando i peoni, data la via alle fiere, si condussero nella sala di entratura, ci trovarono il padrone ed i suoi amici; il padrone intanto aveva osservato dalle feritoie come i nemici, più impronti delle mosche, scacciati, tornassero caparbi alle offese; onde gli parve metter fine alla triste avventura, chè le cose lunghe diventano serpi; con questo intento favellò ai compagni:
— Orsù, lo indugio piglia vizio, perchè la fodera di ferro delle porte arroventandosi può agevolmente bruciare il legname che fascia e lasciare libero il passo; facciamo uniti una sortita e finiamo di ammazzare cotesti marrani scomunicati.
— Salvo vostro onore, don Giacinto si credè in debito avvertire, cotesti hidalghi non sono scomunicati, molto meno marrani, bensì cristiani battezzati come vostra signoria e come me; salvo sono cristianacci.
— Come le piace, don Giacinto; però gente da mettersi in quarti, e non sarebbe il loro avere.
— Sì signore, da ammazzarsi come serpenti a sonagli; chè se, sbalestrati nell'altro mondo, non riuscisse loro trovare la via del paradiso, la colpa non sarebbe nostra. Non le pare, padrone?
— Io mi dichiaro puntualmente del suo avviso, gli rispose il vecchio, che proseguì volgendo il discorso ai compagni: — don Patricio, aprite la porta di mezzo; — fuori di conserva, e dopo sparate le carabine diamo mano alle sciabole e scagliamoci su cotesti mar... voleva dire cristianacci.
Filippo, avendo udito quelle parole, pensò; a cui comanda non duole il capo; il tempo degli slanci è passato per me; io mi costituisco dietroguardia, per dare, dove occorra, il colpo di grazia, ovvero proteggere la ritirata.
La porta si spalanca e ne prorompono fuori gli assediati; il primo avviso furono quattro palle, che andarono a ficcarsi nelle carni degli assalitori; e poi addosso: al comparire che fecero all'improvviso costoro, gli altri non ressero, molto più che temerono restare oppressi dal numero; da per tutto vittoria, eccetto in un punto, dove la prospera fortuna ebbe a tornare in tristo lutto; ed ecco come: il vecchio, venuto all'aperto, s'imbatte in colui che l'aveva percosso nella faccia a Colombo e lo riconosce al chiarore della fiamma; acceso d'ira si avventa saltando e ruggendo come.... appunto come la pantera e l'orsa sue; però che l'uomo inferocito, se metti da parte il battesimo, ti apparirà tale e quale un orso o una pantera; onde io ho creduto sempre e credo che, dove le bestie feroci fossero insignite di questo sacramento, non ci sarebbe più ragione di escluderle in paradiso dalla compagnia di san Domenico o di santo Arbues; il primo santo tallito, il secondo novellino. Il tessiano, essendosi accorto a sua volta del vecchio colono, lo aspetta a piè fermo, quantunque per ripararsi dalla sciabola non gli sovvenissero altre armi dalla carabina (che aveva scarica) e dal coltello piegatoio in fuori. Il vecchio, mentre corre improvvido, incespica nei tronchi di canna di cui era ingombro il sentiero e stramazza; la sciabola nel tracollo gli schizza di mano; l'avversario in un attimo gli s'inginocchia sul petto e con la manca forte gli stringe la strozza; il vecchio tenta ogni via per levarglisi di sotto, dando degli strettoni o cercando voltolarsi; non riusciva.
Filippo, che rimasto fra le ombre vedeva il caso al chiarore del fuoco, spianò per bene la carabina, pigliando di mira il capo del tessiano; però a sparare si peritava: «Guai a me! ruminava nel suo pensiero, se ora mi capita pigliare due colombi ad una fava,» e questo diceva perchè nella baruffa i capi dei contendenti si toccavano e si confondevano. Il tessiano, sentendo che l'aveva a fare con uomo il quale, sebbene attempato, possedeva nervi di acciaio, dubitò potere da un punto all'altro essere messo di sotto, e poi cotesta storia doveva finire: per la quale cosa si cacciava la mano destra nella tasca laterale delle brache per cavarne fuori il coltello piegatoio; di vero lo cavò, ma chiuso: ora il punto stava nel poterlo aprire; la gola al caduto non avrebbe lasciata libera per tutto l'oro di California, e con la sola destra non riusciva a inastare la lama del coltello; si provò co' denti...
— Gua'! gua'! bisbiglia Filippo, il quale tutte queste cose attentamente considerava; qui non ci è tempo da perdere; chi ha paura delle passere non semina panico... prima che arriviamo a sovvenirlo, egli sarebbe spacciato... e la vendetta! Oh! la vendetta non resuscita... ecco... no... da bravo, Filippo... e sparò.
Il vecchio che, prossimo a soffocare, ormai aveva perduto la vista delle cose circostanti, con sua ineffabile contentezza sente di un tratto liberarsi la gola; un tepido lavacro gli bagna la faccia; il nemico, prosciolte le membra, gli rotola allato: solo lo molesta una puntura al sommo del petto; guardò, e vide il coltello che, caduto a piombo, gli aveva traforato le vesti e sforacchiato le carni. Filippo lo sovvenne a rimettersi in piedi, imperciocchè Maurizio si sentisse tutto rotto nella persona, e mentre si agguantava alla sua mano, egli le disse:
— Patriotto, io vi devo per la seconda volta la vita; avete fatto un tiro da Guglielmo Tell.
E Filippo a lui: — E' mi parrebbe bene ritirarci a casa, perchè questa guazza notturna per noi altri vecchi è peste.
— Voi dite unicamente; tra i nostri non ci è guaio?
— Sani e salvi.
— Bene; sto in pensiero per la marchesa e per la contessa.
— Oh! eccole là accucciate davanti alla porta di casa. Come il Signore, dopo avere lavorato, riposano.
— Che diavolo dite, Filippo? Dio, prima di riposarsi, creò...
— Ed esse distrussero, interruppe sempre acerbo Curio; ma fare e disfare è tutto un lavorare.
Rientrarono tutti in casa, eccetto i peoni, avendo chiesto ed ottenuto rimanersi fuori per soccorrere i feriti e confortare i moribondi.
Difatti don Patricio e don Giacinto, andando attorno, trovarono dieci morti e due moribondi; feriti nessuno, o perchè non ce ne fossero stati, o perchè i compagni presili sopra le spalle li avessero tratti con seco.
Don Giacinto, cattolico apostolico romano, quantunque nato in America, si adagia a canto al moribondo più prossimo, e così pietosamente gli favella:
— Deo gratias. Vostra signoria non se la piglierà a male se io le dico per ispirito di carità che ella mi sembra assai prossima a levare l'àncora per l'altro mondo.
— Così sembra anche a me; — rispose l'altro, il quale più che dalla bocca respirava da uno squarcio che aveva al sommo del petto.
— Se vostra signoria desiderasse provvedersi di una bussola per dirigersi con sicurezza in luogo di salute, io sarei al caso di contentarla.
— Magari! E dove l'ha questa bussola?
— Io gliela profferisco nel santissimo sacramento della confessione.
— Scusi! O ch'è prete lei?
— Prete... prete veramente non mi posso vantare, ma una volta ebbi gli ordini sacri minori, fra i quali, vostra signoria sa, entra l'esorcista; ond'è che io non penso peccare di presunzione se, facultato a cacciar via i demoni coll'acqua benedetta, mi giudichi altresì capace di salvare vostra signoria da casa del diavolo in grazia della confessione.
— Ecco, a dirgliela come la penso, questo punto non mi è chiaro.
— Che diavolo dice? Si vede bene che la morte imminente la fa vagellare. Facendo vostra signoria professione di religione cattolica, apostolica...
— E romana.
— E romana, deve sapere che ogni uomo, in caso di necessità, è buono a confessare, la quale confessione poi salva di certo il penitente, purchè compreso da attrizione, ch'è in certo modo l'essenza della contrizione.
— Sicuro; mi ricordo benissimo averlo letto nel trattato dei sacramenti del padre Ribadeneira, ed anche ho udito quando il curato spiegava il Vangelo alla messa... Avrebbe vostra signoria da favorirmi un sigaro?
— Si signore.
— Ora mi sia cortese di accenderlo e mettermelo in bocca; mentre vostra signoria mi ammonirà, io mi svagherò a fumare.
Don Giacinto, quantunque la faccenda non gli paresse affatto canonica, accese un sigaro, e dopo provato lo insinuò fra i denti del moribondo: in seguito, postosi in atto di ascoltare, favellò:
— E ora su da bravo, incominci.
Il sigaro ritto mandava fuori dalla cima un filo di fumo, in grazia dell'arsione spontanea del tabacco: al moribondo non era riescito cavarne però fuori una boccata; per lieve fosse lo sforzo che aveva fatto, bastò a menargli fuori l'anima dal petto; della quale cosa don Giacinto essendosi accorto, si volse al compagno dicendo:
— Don Patricio, in che termini si trova col suo moribondo?
— Sembra ch'egli sia in alto mare; non risponde.
— Allora, considerato quello che deve considerarsi, mi permetterei consigliare a vostra signoria andarcene a bere un gotto di rhum e a dormire?
— Vostra signoria è il buon senso nato e sputato; così opino anche io.
Però il tessiano non era mica morto; fingeva esserlo, per levarsi il fastidio d'attorno: appena i signori servi ebbero voltato le spalle, costui carponi si accostava al morto, e levatogli il sigaro di bocca se lo metteva nella propria fumando tranquillamente.
A giudicarne da quello che videro la mattina seguente, la vita gli era bastata a fumarne mezzo; e morto non l'aveva lasciato: pari all'eroe caduto in battaglia con l'arme in mano, egli col sigaro stretto fra i denti sfida la morte.
Capitolo XXIV.. . . . . . . . . . . . . . . .
Taciti e mesti, Curio, Filippo e il degno ospite loro, seduti al rezzo delle magnolie, stavano contemplando il sole occidente. Ognuno di essi, compreso da tanta magnificenza, andava a seconda della propria indole fantasticando immagini e pensieri. Filippo, come colui che ritraeva assai della educazione antica, rammemorando i versi del Tasso,
Ma nell'ora che il sol dal carro adorno
Scioglie i corsieri e in grembo al mar si annida
con quello che seguita, vedeva nel sole il grande auriga della natura, che, affranto dalla fatica, in ogni membro riarso, anelava rinfrescarsi in grembo a Teti, la quale gliene faceva invito con assidui sorrisi smaglianti azzurro ed oro; prima però, siccome è cura di ogni amatore di cavalli, sciolti i suoi dal plaustro, li mandava ai prati ampi del cielo, dove essi si rincorrevano, scapestrando a mo' di fanciulli irrompenti fuori della scuola; e le ore, seguendo il vecchio costume dei cortigiani, disertato il carro del sole declinato, rifacevano i passi nel firmamento per andare incontro alle cerve del carro di Diana; però che le ore nacquero per servire sempre.
Diverse le immagini del colono tessiano; a lui parve raffigurare nel sole occidente un guerriero che cada sul campo della gloria: e la sua mente pensò a Giuliano l' Apostata alla battaglia di Frigia;[18] considerando bene, non mancava niente a pareggiare il confronto, non lo scudo e l'elmo corruschi, non le armi fulgide e lo splendore della clamide imperatoria; le stesse nuvole chiazzate di vermiglio, che brizzolavano il cielo, porgevano ricordo delle goccie di sangue, le quali, è fama, l'Apostata in sua mano raccogliesse e contro l'empireo avventasse esclamando: ah! Galileo, vincesti.[19]
E tu pure, oceano, pigliando il colore di porpora,[20] ti piaci sovente rassomigliare il campo di battaglia tinto dalla strage; sublime letto di gloria pel guerriero che muore! Vi cinga, immortale camicia di Nesso, la fama, o carnefici incoronati, dacchè il vostro nome sia grande in proporzione del male che avete fatto all'umanità!
Con altre fantasie si contristava Curio contemplando cotesta agonia della luce, e la tenebra spegnere codardamente, come un veleno letale, il bel raggio di amore. La sua mente, versandosi su le storie dei tempi passati, si fermava nel re longobardo Rachis, figlio di Pammone, il quale, nello splendido mezzogiorno della sua potenza, punto nel cuore dall'aspide della parola sacerdotale, casca sotto il proprio peso, sbadiglia, e di re diventa frate. Eccolo ginocchioni dinanzi a papa Zaccaria, che ad una ad una gli spoglia le insegne regali; da un lato mira gettata la dalmatica tessuta di bisso e di oro; dall'altro lo scettro; la corona percotendo in terra ci ha seminato le gemme, nella medesima guisa che il sole nella sua partita sparge in cielo le stelle: ora sotto la cappa si spenge il re; in breve sotto il cappuccio del frate si spegnerà anche l'uomo; nè da cotesto infelicissimo occaso si scompagnano le rugiade, imperciocchè le lacrime sieno le rugiade del dolore, siccome la rugiada è il pianto della natura. Silenzio e tenebre: la notte ormai accecò il sole, il monastero si è inghiottito il re. E perchè il paragone comparisse più conforme al vero, — siccome fra noi, tramontato il sole, spunta dal lato opposto la luna, così l'immaginativa riportava a Curio la sembianza di Tasia vedova del re frate, che si faceva, pallida pallida, a visitare il marito, e sempre invano, — perchè: se Rachis fosse sceso cadavare nel sepolcro dei morti, la desolata avrebbe potuto liberamente piangervi sopra e implorare pace all'anima diletta; ma l'avara crudeltà del frate vigilava con occhi senza palpebre il sepolcro dell'uomo vivo e ne respingeva ogni affetto.[21] L'inferno e il monastero si mostrano del pari gelosi di conservare la loro rapina.
Dileguatesi siffatte immaginazioni, subentra nella mente dei nostri personaggi un altro pensiero del pari in tutti uguale; e lo sentivano, imperciocchè paia cosa certa che gli spiriti degli uomini corrispondano fra loro con altre facoltà che la parola, i cenni e lo sguardo non sieno: invero i pensieri di tutti loro adesso si appuntano nel giorno dell'addio. Invero, come potessero durare più oltre a convivere insieme non si vedeva; gli affetti nostri, quantunque legati con vincoli che si giudicano sacri, di leggieri si sciolgono, pensa se gli altri che ci sorgono nell'anima a modo di riverbero di luce, o come eco di voce.
Il vecchio colono, quasi dando l'ultima mano ad un disegno condotto a conchiusione da tempo remoto, ad un tratto incominciò così:
— A voi tarda, amici miei, ripigliare la vita avventurosa in cerca di fortuna, onde vi sia dato rivedere la terra del vostro nascimento e vivere in pace con le creature che tanto vi sono a ragione dilette. Senza loro i giorni vi sanno di amaro, che poco più è morte, e vi lodo e va bene; però vi prego a considerare che, se pel tempo che corre, impossibile non si può dire, difficilissimo proviamo far fortuna, e farla presto; quindi io vi propongo addirittura di mettere giù la voglia dei pellegrinaggi e rimanervi meco a vivere all'ombra della nostra vite e del nostro fico, per dirla con le parole dei patriarchi del Testamento Vecchio... Non mi interrompete di grazia; statemi a udire fino in fondo; risponderete dopo. — Voi per avventura vedrete due impedimenti a questo mio concetto; uno da parte mia, l'altro dalla vostra. Da parte mia vi daranno scrupolo i congiunti, gli eredi necessari, le speranze deluse ed altri simili intrugli; ponetevi l'animo in pace; io ne vado immune: ora in due tratti tirati giù con la brace vi darò contezza dell'essere mio. Nacqui a Novara; il mio nome è Maurizio Goguini; credo essere stato conte o marchese, qualche cosa così: giovanetto, perchè se aveva compito il diciassettesimo anno a diciotto non arrivava, mi sentii acceso per la libertà o piuttosto per la sua larva; tolto quanto più potei danaro sopra i miei beni, accorsi là dove mi chiamava la voce del conte Santorre Santarosa, amico vecchio di casa mia; breve, ingloriosa impresa fu quella, e per parecchi lati anco infame; caddi ferito, ed a gran pena mi salvai nella Svizzera; colà giacendo lungo tempo sul letto del dolore, diedi spesa al mio cervello; tritato e vagliato, il preteso liberatore mi resultò uno erede ustulante il retaggio dell'uomo vivo; in lui vidi libidine di regno, non amore di libertà; onde costui quinci a breve, per non cascare giù dalla speranza del regno, sopporta in pace che un soldato tedesco, il generale Bubna, gli brancichi per dispregio la ganascia e gli dica irridendolo: «Ecco il re d'Italia». Costui più tardi, per emendare il breve fallo di amore di patria, e per accattarsi il perdono dei re, di preteso soldato della libertà in Italia si converte in soldato della tirannide nella Spagna; — sputai monarchi e monarchie: — nè meno severo meditai sul Santarosa, su Moffa di Lisio ed altri cotali, e mi comparvero avversi alla monarchia non mica per ischiantarla, bensì per ripararsi sotto l'ombra delle sue fronde; non impazienti di patire tirannide, bensì di esercitarla: della vera libertà amici falsi o tepidi. La monarchia non li volle, la democrazia li rifiutò. Il Santarosa per fastidio di vita si fece ammazzare a Sfatteria. La libertà non pose cura a rilevare cotesta morte, nè raccolse le ossa del caduto, nè gli pose il monumento, o gli cantò l'epicedio: solo il dottrinario Cousin gli sbraciava quattro palmi di marmo con una iscrizione stecchitaci su. Giusta dispensiera di fama quasi sempre la morte è provvida: a moderata cenere, tomba moderata, posta da mano moderata; — e sputai patrizi pelatori della monarchia per mettersene le penne al berrettone; poi vidi il popolo, e lo conobbi terra dove Dio non soffia più, sibbene qualche volta lo scirocco che ne leva la polvere da un luogo per balestrarla in un altro; popolo che invoca sempre, e vuole altissimi fatti, come se avessero a venire da altri fuori che da lui; e intanto si appaga di maledire e servire; popolo nato forse alla vendetta, non alla libertà...
— Eppure, interruppe Filippo, il popolo italiano ha saputo rivendicarsi in libertà...
— Non libertà; dalla oppressione straniera; per ciò bastava odio e mani; l'acquisto della libertà desidera intelletto di amore. — Anzi nè anche dagli stranieri seppe liberarsi il popolo, perchè commise la sua causa al re, e questi ad uno imperatore, donde uscì fuori una indipendenza scrofolosa; figlio di Anteo, il popolo italiano, a cui per guadagnare qualche cosa fu mestieri battere la patta in terra; il mendicante seduto su gli scalini del palazzo che implora la elemosina per lo amore di Dio vi par'egli che possa presumere di entrarci dentro a farla da padrone? Taci, importuno, tu hai avuto abbastanza; rodi modesto e in silenzio il catollo[22] che ti buttarono davanti. Che hai che ti tasti dintorno? Ti mancano alcune costole come Nizza e Savoia? Gua'! Dai bagni di Barberia non si usciva senza riscatto. — Sciagurato! Libertà è quella che si ricupera rompendo di uno strettone delle proprie braccia le catene e sbatacchiandone i tronchi sul cranio all'oppressore; libertà che conta è quella che si strappa a mano stretta, non l'altra che si accatta a mano aperta; — ed io sputai fuori della mia bocca una volta i monarchi, due volte i patrizi e dieci volte il popolo.
— Dunque tutti all'inferno, dove non ci è redenzione? disse Filippo.
— Io parlo della vecchia Europa, massime dei popoli così detti di razza latina, e più specialmente degl'italiani; e così presagendo fino dal 1822 parmi essere stato profeta. Qui mi rifugiai raggiungendo i trecento primi venuti coll'Austin; danari non portava molti, pure quelli ch'io aveva erano troppi più del bisogno; comprai taluni negri, che in altro modo non si poteva possederli allora, e mi posi proprio a rinnovare le fatiche di Ercole; vincemmo l'aere infesto, purgammo i paduli dai serpenti, dissodammo terreni, schiantammo foreste, non ad uno ma a parecchi Acheloi fiaccammo le corna, domammo fiere, e selvaggi più feroci assai delle fiere; — ed ora vivo non senza orgoglio ed in pace in una contrada, che Dio creò, ma che io disposi a ricevere le sue benedizioni: certo gli uomini che mi circondano non mi amano come vorrei, però quanto la natura loro glielo concede, ed io in mancanza di meglio me ne contento...
— Contento! Ma voi non consolano figli, non congiunti.
— Io adottai figliuola la umanità.
— Però non sembra che qui la umanità proceda diversa da quella del nostro paese, e l'amore che a lei è dato mostrarvi non si prova troppo diverso dall'odio.
— Chi ve lo ha detto?
— Eh! mi pare averlo veduto; a meno che in queste parti coltellate e archibugiate non corrano per carezze e per baci.
— Pregovi avvertire che i nostri assalitori furono messicani, alunni di preti e di predoni spagnuoli. Questi avvelenarono il nuovo mondo con le infamie della religione cattolica e con esempi di tetra rapina, e il nuovo mondo si vendicò del vecchio barattandogli i suoi veleni col veleno della sifilide; atroce vendetta! La morte intorbidò la stessa sorgente della vita.
— Di grazia, signor Maurizio, il lynch è trovato spagnuolo?
— Potrei rispondervi che gli spagnuoli ne hanno di peggio, ma delitto altrui non giustifica il proprio; è trovato americano: però, badate, non fa prova di giudizio, e nè anche di onestà colui che imprende a sentenziare le azioni di un luogo o di un secolo con le nozioni di altri luoghi e di altri secoli: i santi si hanno a guardare dentro la propria nicchia, pena a chi manca di buttar fuori strafalcioni grandi come la cupola di San Pietro in Roma; ciò posto in sodo, io vi affermo che in paese dove la nozione della legge civile a pochi è manifesta e da meno osservata, dove la forza per prevenire e per reprimere male si può raccogliere, e più difficilmente ordinare, dove sovente l' amen della sentenza è una pistolettata che il condannato spara contro il giudice che lo condanna, dove razze moltiplici e tutte o in parte selvagge non repugnano da qualunque frode o violenza per sottrarre alla pena l'uomo della propria tribù, dove indiani e pantere prorompono fuori delle selve per ritornarci con la carne in bocca, non importa se di bestia o di uomo, io vi affermo, dico, che il lynch apparisce la forma più sicura e più giusta per tutelare il consorzio civile che si sta componendo. E poichè la coscienza pubblica giudica quasi sempre il reo preso sul fatto, non ci è pericolo di sbaglio.
— Brown dunque a ragione fu impiccato? Lui condannò la giustizia del lynch.
— Brown fu un giusto, e tuttavia gli accusati come il Brown non si salvano mai, e sapete perchè? perchè la colpa che si punisce non istà in loro, bensì nei giudici che la condannano; l'opera sua comparve più enorme del crimenlese, perchè pregiudicava l'avarizia dei borghesi; e l'avarizia dei borghesi vince in crudeltà il dispotismo dei re. Tra voi civili chi salvò Cristo? Ditemi sinceri, chi vi mette più ribrezzo addosso, la barbarie americana col lynch, o la civiltà europea, che sacramenta l'assassinio col crisma della legalità, converte il giudice in Lucifero del boia, e calca nei moschetti le palle con articoli del codice criminale? Di qui ogni giorno più scomparisce il lynch, e spunta riparatrice la potestà dalla legge; per voi non ci ha redenzione; stornare non potete; e nè anche peggiorare, perchè non si supera il pessimo. Credete a me, che ne feci esperimento: sono gli americani pari ai sassi scoppiati dalla rupe per virtù di mina, adesso rudi, ma, se scarpellati a dovere, capaci a fornirti materia per costruire mirabile edifizio della civiltà umana. Ricordatevi che voi italiani foste salutati una volta da un poeta francese polvere di uomini. Certo un giorno la polvere affaticata si commosse, turbinò in vortici e scorse baldanzosa un tratto di via per ricascare più in là sopra altra polvere. Travaglia gli americani la pletora della violenza, gl'italiani strugge la dissenteria della corruzione; sboglientiti i primi, voi li vedrete sani e prestanti; sopra i secondi ha già scritto la morte: posto preso. Ammirate gli americani, però che essi hanno avuto cuore di servirsi dell'oro come Dio della parola; questi per creare e quelli per ricreare il mondo. Gli spagnuoli che fecero dell'oro a palate raccolto? Nelle terre deserte dall'ozio l'oro si seminò inavvertito e generò mirabile copia di corruzione. Crederono che l'oro recherebbe perpetua prosperità fra loro, ed invece si tirò dietro per mano la desolazione; però che ricchezza e miseria sieno le due cime del cerchio che si ricongiungono insieme. Andate in California ed ammirate che miracoli partorisca l'oro tenuto come servo, non come padrone; ormai non mette più conto cercarlo, i prodotti della terra che egli ha fecondato rendono più di lui; con l'oro gli americani hanno spaccato monti da cima in fondo, onde vi passasse la vaporiera di mezzo, costruito aerei e sterminati viadotti, scavato canali da sbalordire per la lunghezza e per la difficoltà di condurli; si proposero erigere edifizi, che facessero prova non essere state novelle i monumenti babilonici; mancavano di sassi e di scalpellini, che importa? For ever ago, essi vanno a cavare i massi di granito dalla China, e incettano operai a sedici dollari di salario per giorno, ovvero a 84 e 80 delle vostre lire. Che più? non bastandogli la terra, l'americano un bel dì si volta in San Francisco al mare, e gli dice: ritirati! E il mare, che udendo un giorno simile comando da un re, si arricciò incollerito, e ricoperse di schiuma lui e il suo trono,[23] davanti al popolo si ritrasse come leone ammansito, perchè l'oceano è amico del popolo; e percotendo assiduo l'estremo lembo della terra che abita, gli va mormorando questo insegnamento: «mirami; dacchè sono nato, verun tiranno ha potuto stampare su me l'orma aborrita.» Qui l'americano con l'oro fecondò la natura, noi con l'oro l'abbiamo resa sterile; qui la natura diventata alma parens, Cibele, che nudrisce con le sue cento mammelle i suoi figliuoli di vita e di virtù, mentre voi spesso vi trovate costretti a stendere le mani traverso l'oceano per implorare dall'America tanto da non morire di fame: non si fa pane coll'oro.
— Ma la patria! la patria!... gridò con voce straziante così il giovane Curio, che parve uno stianto del cuore.
— Dovunque, rispose Maurizio, levando gli occhi in alto tu vedrai il cielo popolato di soli e di pianeti, e su su nel fondo il cuore ti dirà esserci Dio, quivi è la tua patria, anche il padre Dante lo ha detto;[24] e ciò perchè essendo la patria cosa divina, Dio non volle commettere alla empia virtù degli uomini il darla o il torla.
— Ma le ossa dei padri non formano parte della patria? La patria si porta essa sotto le suola delle scarpe?
— Cotesto è culto di gente barbara. Da per tutto troverai calce resultata da ossa umane; che se quella calce tu veneri per santa, fa' come gli antichi sciti, i quali costretti ad esulare se la portavano seco. Danton, attesta la fama, pronunziò il motto della patria che non si porta sotto le scarpe, e parve sublime, mentr'era materiale: poichè teco verranno le care memorie e i dolci affetti, il culto degli esempi virtuosi e gl'insegnamenti paterni; l'altro che preme? Monumenti e tombe non valgono il pregio di essere rimpiante: vanità di vivi, non refrigerio di morti: l'avello dell'uomo di cui il nome cascò intero nell'oblio non merita ingombrare la terra nutrice. Viviamo tra i vivi o tra i morti? E se non ti basta per patria il luogo dove in fondo ai soli ed ai pianeti contempli Dio, la patria è quella dove la donna amata ti consola e il bacio dei figliuoli ti aspetta; dove la mano dell'amico ti serra la mano con tale stretta, che risponde ad un palpito del cuore; — colà dove puoi veracemente, pienamente affermare il tuo diritto, il tuo Dio, quivi è la tua patria.
— Eppure, soggiunge Curio, come uomo che non è vinto ancora e sente fuggirgli sotto una credenza antica, eppure i nostri grandi ci hanno insegnato essere la nazionalità e la unità della patria eccelsi scopi, e noi abbiamo versato per conseguirli il nostro sangue...
— Omnia tempus habent. Le cose di che avete detto sono spade a due tagli; ottime secondo i tempi e i luoghi; — continuerai ad adoperare nel Bengala la veste che indossavi in Siberia? Voi bene meritaste della patria e della umanità quando vi travagliaste per questi due fini: per iscuotere il giogo della servitù straniera era necessità diventar forti, e perciò uniti, perchè appunto nella unione sta la forza: nè io v'incolpo se da questo vostro disegno non ve n'è venuto tutto il vantaggio da voi presagito; imperciocchè forti non foste mai; voi avete chiesto la vostra unità come il mendico agitando il bussolo, e il passeggero ve l'ha gettata dentro per elemosina; se urtati dalla Francia, dall'Austria o dalla Prussia, voi non la potreste sostenere; ma questo mettiamo da parte. Quando la fratellanza universale e la umanità prevarranno, davvero allora dovranno sparire le nazionalità e le unità dei popoli. Di fatti, che significano esse? Significano Stato a parte, esclusivo, retto da interessi sempre distinti, sovente ostili al consorzio umano; significano concentramento di forze in un luogo, in un ordine di cittadini, in una persona, causa perpetua di tirannide schietta o ritinta di biacca costituzionale dentro, di prepotenza fuori. Voi avete a figurarvi la unità come il latifundio che isterilisce il paese e suppone il feudatario o la mano morta; la federazione di piccoli Stati, la prosperità e la pace. Credetelo a me, alla stregua che spariranno dal mondo le nazionalità, fie che cresca la libertà e ne vada lieta la umanità. Allora interrogato l'uomo: — A qual paese appartieni? Lo udrai rispondere: — Uomo sono e appartengo alla famiglia della umanità: allora sarà possibile la soppressione degli eserciti permanenti, di rado difesa contro i nemici esterni, sempre arnese di tirannide dentro, almeno nella intenzione di chi l'ordina e li tiene ai suoi servizi.
— Dunque noi altri soldati volontari fummo soldati della tirannide?
— In parte senza saperlo lo foste; ma siccome serbaste una coscienza, una volontà, un pensiero, vi ebbero in uggia sempre, anche quando procuravate vantaggio o diminuivate vergogna, ed appena poterono farlo senza paura vi dispersero. O come volete che tutelino la libertà uomini a cui s'insegna a prova di fame e di prigione a tutto dimenticare, niente apprendere, eccetto il comando del superiore, e questo eseguire con obbedienza cieca e passiva? Ma non ci sono le leggi umane da osservare? Che leggi e che non leggi, sopra ogni cosa sta l'ordine del superiore. Ma o i comandamenti di Dio non contano più nulla? Nulla; se non in quanto si accordano con gli ordini dei superiori; però ti si farà delitto se repugnerai a uccidere l'uomo inerme, a empire di strage le città pel fine d'indurle a salutare terrore; delitto gravissimo commetterai se, avendo ribrezzo a far da boia al tuo compagno, tu scaraventerai lontano da te lo schioppo, griderai: io qui venni soldato, non carnefice. Sbagli, risponderanno, tu hai ad essere ad un punto e soldato e carnefice.
— Ma non sempre i soldati gettano la coscienza nel pozzo...
— Peggio il rimedio che il male: alle milizie stanziali per vizio del proprio ordinamento non è concesso altro che fare il danno della patria, perchè se abiettate con la dottrina della obbedienza cieca e passiva, tu le proverai belve ammansite, contaminate di spiriti ribelli ti diventeranno pretoriani arbitri delle vite degl'imperatori e dei destini della patria...
E qui tacquero per assai lungo spazio di tempo: ad un tratto Maurizio riprese:
— Dunque nulla vi alletta a tornare, tutto vi respinge dall'Italia. Il governo di cotesto paese vi costrinse ad esulare, ebbene, voi confinatecelo come costumò Diogene con quei di Sinope; e poi non vi pende sul capo la sentenza di morte? Per voi non ci è grazia, non ci può essere: se foste parricidi potreste sperare, ma avendo voi fatto oltraggio all'arca santa della milizia, ogni scampo vi è tolto; il vostro è sacrilegio regale, perchè la forza si vuole venerata, adorata, ad ogni modo temuta come quella che unica oggi tiene ritti i troni. Anche qui tra noi giunse l'esecrata novella della strage del giovanetto Barsanti, e gli uomini del lynch ebbero lacrime per l'infelice. Quando il medico Lanza scenderà le mal salite scale del ministero, potrà lasciarsi dietro ogni cosa; una sola non potrà, il rimorso di cotesta morte. La storia ricorderà che fu principalmente per lui che questi tempi ebbero nome di borgiani; tra Claudio, imbecille sanguinoso, il Valentino, tiranno da fiera, e Ferdinando di Napoli, Mastrilli da teatro diurno, piglierà posto anche il dottor da Vignale. Cristo, che patisti lo schiaffo dalla mano di un giudeo, tu solo puoi comprendere l'amarezza sofferta dall'Italia per la umiliazione di avere a capo del suo governo un Giovanni Lanza, medico da Vignale!
— Pur troppo! disse Filippo, eravamo destinati a considerare ridotte in atto dal governo italiano le grottesche fantasie delle tentazioni di sant'Antonio del Callotta.
— Fantasie del Callotta, interruppe Curio a sua volta; oh! di' piuttosto immaginazioni di Nerone ubriaco, di mangiatori di oppio; fantasime incise dal Piranesi, quando la tetra ipocondria gli rodeva il fegato.
— Si, questo e peggio, soggiunse Maurizio; dunque siamo intesi: voi tornerete in Italia a pigliarvi la mamma e la figliuola vostra e riverrete qui, tu, Curio, a tenermi luogo di figlio; e sì dicendo gli pose la mano sopra la spalla con tenerezza di cui non aveva dato segno fino a quel punto, e nella sua voce si sentiva la pietà della preghiera e la paura della ripulsa; e voi, Filippo, mi farete da fratello: intanto gli porgeva la mano libera. Che volete? Nella solitudine non s'incespica mai, ma all'ultimo la proviamo la più pesa di tutte le croci: mi sento stanco di camminare per una via dove non incontro sasso che mi laceri i piedi, ma nè anco trovo albero che mi ripari coll'ombra. E caso mai vi avvisaste redarguirmi di contradizione, io vi risponderò che l'uomo è una contradizione perpetua, che mangia, beve, dorme e veste panni, e ben venute quelle contradizioni che fanno scomparire il nostro intelletto e onore al nostro cuore.
— Scusate, Maurizio, ebbe a notare Curio, come di faccia alla coscienza vi potete sdebitare di chiamarvi dintorno i vostri congiunti? Non vi par'ella giustizia preferire a persone da voi conosciute per accidente, e forse non abbastanza conosciute per chiamarle con prudenza a parte della vostra famiglia, coloro che vi stanno uniti con vincoli di sangue?
— Oh! rispose Maurizio scotendo il capo, quanto all'amico Filippo egli è un libro da coro; si legge a dieci passi di lontananza senza bisogno di occhiali; un poco più difficile a capirsi sei stato tu, pure adesso presumo conoscerti meglio che tu non conosca te stesso; rispetto a' parenti, ti dirò che questi bisogna prendere quali essi sono, gli amici poi si pigliano fra quelli che garbano: i primi t'impone la necessità, i secondi ti procaccia la elezione: se tu mi fossi figlio di natura tu dovresti la vita a me, mentre adesso io la devo a te e all'amico Filippo. I parenti di me non cercarono mai; quindi qual maraviglia se io non cerchi di loro? Nè penso abbiano voglia di cercarmi; da cinquanta anni e più di me non ebbero novella, e tu puoi credere che non avranno atteso venti anni per farsi immettere nel possesso dei miei beni; dunque giudico che da molto tempo dev'essere trascorso a favor loro il termine dei trenta anni per succedermi a tenore di legge: ora, se di un tratto io mi facessi vivo, sta' certo che mi avrebbero caro come un morto maligno scappato dalla sepoltura per divorarli. Lasciamo che godano in pace il bene di Dio, il quale essi credono possedere legittimamente; capisco che all'ultimo essi vedrebbero che, se fossi resuscitato, lo farei per dare, non per riprendere; ma prima troppo più li turberebbe la paura di perdere, che la speranza di acquistare. Ed ora voi potete comprendere che io posso bene ingannarmi nei miei ragionamenti, ma che però opero sempre a caso pensato. Per istasera satis: domani ci ritornerò su per venire ad una conchiusione; intanto pensateci, e buona notte.
Di vero la notte portò consiglio, e Curio e Filippo si trovarono d'accordo ad accettare la proposta di Maurizio; il primo per tutte le ragioni esposte da questo, alle quali, esarcebato com'era, altre ne aggiunse del medesimo conio; Filippo taluna di quelle ragioni trangugiava come pillole confettate in aloe; da altre poi torceva incollerito il pensiero; ma sopra tutte prevalse lo immenso amore che sentiva per la figliuola e la brama di vederla accasata prima di morire. Maurizio non potè tenersi dal manifestare la sua inestimabile contentezza; ci furono ritrovi, feste, conviti, dove intervennero i conoscenti di Maurizio da cento miglia lontano; questi adottava co' modi più solenni Curio, e a tutti lo presentò come suo figliuolo ed erede. Cessate le feste, si diede, con la consueta alacrità, ad ammannire le cose necessarie pel viaggio; gli tardava vedere la famiglia di Curio raccolta sotto il suo tetto; andò, tornò, scrisse a New-York, a Baltimora, a Boston; finalmente, la vigilia della partenza così parlò ai suoi amici:
— Andate e tornate presto, che non ci è tempo da perdere; voi capite, che se io non sono di partenza, tengo però un piede nella staffa. Voi, adesso, siete cittadini americani, non dimenticatelo mai; ecco l'atto della vostra naturalizzazione; questo è il passaporto e queste lettere di raccomandazione pei ministri e pei consoli americani delle città e porti dove passerete. — Questa lettera contiene un credito illimitato sopra la Casa Baringh di Londra; potete usarne secondo il vostro giudizio, perchè io ho pensato: chi sa quanta povera gente si trova avvilita in Italia pel delitto di avere combattuto per la patria! Non senza orrore ho letto di alcuni soldati delle patrie battaglie morti di fame... Orsù, non ci pensiamo; quanti ne troverete che vogliano fuggire crudeles terras et litus avarum, tanti menatene con voi; due condizioni pongo a questa leva: amore del lavoro e buon costume. Qui poi faremo i patti e converremo dello statuto della colonia; non mi manca terra nè facoltà per lavorarla, e adesso mi casca in acconcio per confidarvi che il Texas è paese fecondo di argento, come la California di oro; io, dissodando, ne rinvenni una miniera, ne cavai quanto potei senza argomento alcuno d'ingegneria, come senza dirlo a persona; poi ricopersi lo scavo che occorre su la mia terra ed io solo conosco; lo riapriremo alla occasione e ci attingeremo come ad un salvadanaio per sussidiare la colonia e imprendere lavori di bonificamento; questo poi ho voluto dirvi, fidando nella vostra discrezione, perchè andiate persuasi che ai vostri compagni non può venir meno il vivere, finchè non sieno in grado di procurarselo col proprio lavoro.
Si abbracciarono e si divisero.
*
La costanza non è mica corazza che ripari le ferite del dolore, solo dà balìa all'uomo di sopportarne delle nuove; sicchè, nel sottosopra, non sai dire s'ella sia benedizione o maledizione di Dio; ad ogni modo la signora Isabella, sfinita di forza e di costanza, si sentiva prossima al termine dei suoi giorni. Lei meritamente salutammo madre dei sette dolori; lei Niobe cristiana, che si recava l'urna in mano contenente la cenere di tutta la sua stirpe. Certo le avanzava un figlio, ma ciò la fortuna maligna aveva fatto non già per consolarla, bensì perchè ella non si addormentasse sopra il suo cuore per cangrena tranquillo, ma sì per accompagnarla con le strappate dello spasimo fino all'ultimo passo verso il sepolcro. Adesso la santa donna con la morte nel petto, e nel sembiante larva di quello che fu, dissimulava il suo stato fino a darsi attorno per le faccende di casa; a tanto strazio ella si conduceva per non contristare la cara Eufrosina, dandole ad intendere che sana si sentiva e baliosa. La pietà profonda, il desiderio immenso che sentiva di conservarsi rigoglioso il bel giglio di amore, la persuadeva a custodirlo con l'aspra diligenza dell'avaro; anzi, ella giunse al punto di percuotere con frequenza il cucchiaio e la forchetta nella scodella e nel piatto che aveva davanti, onde far credere alla cieca ch'ella cibasse largamente le vivande che a stento aveva provveduto alla povera figliuola.
Chi ignora le gioie, i dolori e le cure della famiglia, non comprende le ragioni di tanto smisurati sagrifizi; affermano siffatte ragioni interessose, ed è vero; ma vi hanno interessi degni di essere assunti tra le stelle in cielo più della chioma di Berenice, ed altri che il diavolo non si attenta toccare per paura di scottarsi le dita; le sue ragioni erano queste: per Eufrosina sperava che le furie della mente di Curio sariensi placate e il suo sangue addolcito; per Eufrosina Isabella si riattaccava alla vita, giunta all'occaso; nel presagio dei nepoti, ella riviveva in loro, esultava nella speranza che la sua stirpe avrebbe conservato e cresciuto la traccia luminosa della gloria di Orazio, la memoria della bontà di Marcellino, ed anche riscattato gli errori degli altri suoi sventurati figliuoli... Ah! alla povera madre non bastava l'animo di confessarli colpevoli nè manco a sè stessa.
La buona donna, moglie di Foldo, quante volte le sue faccende gliene porgevano comodità, scappava dalle sue amiche: entrata in casa lei, le altre potevano riposare a tutto agio, imperciocchè ella sola facesse per quattro. Siccome la non si poteva dare pace di vedere la Isabella levata, e più volte gliene aveva mosso rimprovero, questa, la prima volta, le aveva susurrato negli orecchi: — Deh! non me lo dite più mai per quanto amore portate alla gran madre di Dio; la Eufrosina se ne affliggerebbe; e dal vedermi questa figliuola attorno contenta, mi fate la carità di dirmi quale altro conforto mi resta?
E veramente se la Eufrosina si fosse addata della miseria che la circondava, sarebbe morta per ischianto di cuore. Quanto a Foldo, ogni giorno che Dio mandava in terra faceva portare il pane a casa di Isabella: ma non solo pane vivit homo; rammentatevelo, lo ha detto anche Cristo; rammentatevelo perchè oggi vive una gente che predica neanche il pane necessario al sostentamento dell'uomo... Dio mi perdoni, ma ecco, io nego addirittura ch'egli presagisse la venuta dei moderati nel mondo; diversamente non avrebbe spedito in terra Cristo a redimere il genere umano; tanto, co' moderati tramezzo, fu tutto sangue sciupato!
Torniamo al racconto. Isabella si sarebbe lasciata morire d'inedia innanzi di chiedere soccorso a Foldo e alla sua degna consorte, sapendo quanto cotesti cuori popolani davvero si spropriassero a sovvenire le miserie altrui.
Prima però di ridursi a simile penuria, certo dì ch'ella non sapeva a qual santo votarsi per far quattrini, rovistando per le cantere di un vecchio scrittoio, le venne fatto rinvenire non so che cimeli vergati di mano di Orazio e con questi sperò procurarseli; al quale effetto trasse a fatica da un libraio in fama di liberalone e glieli offerse in vendita. Il libraio, appena ci ebbe gettato gli occhi su, ne rifiutò recisamente l'acquisto aggiungendo:
— Che cosa volete che io mi faccia di coteste carabattole?
— Credeva, rispose Isabella, che gl'italiani avessero a reputarsi onorati... ad ogni modo essere curiosi di possedere l'autografo di un loro grande scrittore.
Sì, giusto! Gl'italiani hanno a badare a ben altro; essi, donna mia, non sanno che vendere; e se non vendono più, egli è perchè hanno venduto tutto.
— Non tutto, signore, non tutto.
— O sentiamo un po' che cosa non hanno venduto.
— L'onore.
Il libraio stette alquanto su di sè; poi soggiunse:
— Può darsi, ma s'è rimasto in bottega vuol dire che veruno si è presentato ad acquistarlo.
Isabella, comecchè donna, venne in pensiero di saldargli la turpe ingiuria con uno schiaffo sul grugno, e lo faceva se glielo acconsentiva la spossatezza, ora accresciuta pel nuovo strazio; aveva già volte le spalle per andarsene, quando il libraio, così incapace di sentire vergogna per sè come il pudore della dignità altrui, solo per istinto di curiosità interrogava:
— Scusate, donnina, si potrebbe sapere come vi sono capitate nelle mani coteste quisquilie?
— Io sono figliuola adottiva e nuora, insomma erede unica rimasta di Orazio Onesti.
— Come così è, perdoni sa, se non la conoscendo... se non avendo l'onore di conoscerla (e qui si cavò la berretta) si accomodi, prego (e le offeriva lo sgabello stesso sul quale egli poc'anzi sedeva), non può credere come mi si stringa il cuore a lasciarla andar via così sconsolata... Faccia una cosa, la mi lasci coteste preziose reliquie del celebre suo signor socero, ed io mi metterò in quattro per esitargliele — ma' mai mi capitasse nel negozio — perchè, veda, con quei benedetti inglesi non ci è più da fare un pasto buono; le penne costoro le hanno rimesse, ma si ricordano essere stati pelati; i russi poi si mantengono tuttavia barbari abbastanza da tenere in pregio le memorie degli uomini grandi e da lasciarsi pelare; ma dia retta, signora, io posso proporle meglio a pronti contanti: mi dica, avrebbe ella, o taluno di casa sua, alienato in perpetuo o temporariamente il diritto di proprietà delle opere del suo signor socero e padre?
— No signore, nè io nè la buona memoria del mio signor marito. Il mio signor socero sì, ma a tempo allo editore che primo le stampò, la quale da parecchi anni è scaduta.
— Perfettamente; pertanto se la signoria vostra mi cedesse per tre anni, a decorrere dal dì della pubblicazione di ogni singola opera, la facoltà di stamparla, le pagherei subito lire mille italiane in oro, e più mi obbligherei a darle gratis una copia rilegata in brochure, s'intende, della mia edizione.
— Caro lei, io non me ne intendo, ma veramente... disse Isabella, peritandosi a compire la frase per la paura le sfuggisse di mano quella cima di fune, che giudicò porgerle la Provvidenza nella sua misericordia; e il liberale stampatore, aggrondato, con voce alquanto risentita:
— Mille lire! Le paiono poche mille lire... in oro... subito... prima che ella esca di bottega?
— Via, non s'impermalisca, voglia scusarlo alla inesperienza... mi getto nelle sue braccia... e che devo fare per istringere il negozio?
Il libraio liberale fra sè esclamò: Accidenti! questa ha fame; si poteva portare via la compra per metà prezzo; il cuore mi strascina sempre dove vuole! Poi a voce alta: Ecco, io stenderò un bocconcino di lettera, nella quale la signoria vostra mi dichiarerà avermi ceduto la proprietà degli scritti di Orazio Onesti per quattro anni, ed ella la segnerà.
— Sì signore, come comanda.
— L'editore liberale ecco si assetta al banco, si pone gli occhiali a cavallo al naso, e tutto tremante per la contentezza del magnifico affare conchiuso buttò giù la lettera, avvertendo di portare a cinque i tre anni primamente convenuti.
La Isabella si accorse pur troppo della pidocchieria, ma non si attentando rilevarla per la solita paura, si tacque; riscosse le mille lire e si affrettò a ridursi più che potè difilato a casa, senza pur volgersi addietro, nel sospetto che costui non gliele ripigliasse.
Quel medesimo giorno, Dio (avrebbe detto un prete) per ricompensare il libraio liberale e dabbene della sua azione da galantuomo, gli mise dinanzi un americano da Baltimora, svisceratissimo della letteratura italiana, di cui giusto in quel punto imparava la grammatica, a cui parve toccare il cielo col dito acquistando gli autografi di Orazio Onesti per sole cento lire sterline; e ne dimostrò al libraio la riconoscenza scotendogli il braccio fino a levarglielo dal posto e invitandolo a bere il the a casa sua in Baltimora.
Il libraio, partito l'americano, ripose i biglietti di banca nello scrittoio, deliberato consegnarli tutti... non aveva ancora compito la frase, che ecco un cavallone di cupidigia scaraventare quella modesta onda di onestà a frangersi su gli scogli e gorgogliando susurrare: — Eccetto, bene intesi, una discreta provvigione per me. — In siffatto proponimento si mantenne fino a desinare, allora lo appetito dello stomaco gli destò quello dello spirito, e almanaccando su la faccenda conchiuse: — A dargliene mezzi basterebbe, ed anche mi paiono troppi. — A cena (ahimè! l'ora dei pasti era funesta alla generosità del libraio liberale) rugumandoci su venne nella determinazione di darne alla Isabella un terzo, ed anche quelli giudicò troppi... e ciò a modo di addentellato, nel caso che gli piacesse fabbricare accanto; perchè il nostro libraio fu della razza di cotesti uomini, di cui il primo pensiero li condurrebbe talora al Campidoglio, se l'ultimo non li menasse sempre alla forca. La notte standosi in letto gli tornarono a gola i biglietti di banca dello americano, e gl'impedivano il sonno; infastidito di giacersi sopra un fianco, si volge su l'altro, e in mezzo alla giravolta gli scende dall'alto la idea luminosa di pigliarseli tutti per sè; linea recta brevissima, come fece incidere sopra la sua argenteria il Guizot, ch'era andato sempre storto.
La mattina seguente, essendosi raccolta nella sua bottega la solita conversazione: un prete, un borsaiolo ebreo e un moderato cristiano, di un tratto gli si posò nel cervello importuno come una mosca sul naso il pensiero: e se in questa si presentasse colei per saper l'esito delle sue carabattole, che pesci piglieresti? Gua'! la risposta viene da sè: i' non le ho ancora vendute. Adagio, Biagio, prevedi il caso ch'ella ti avesse a dire: non vo' più venderle, rendetemi la roba mia. Allora — e qui alzò tre dita della mano sinistra, e coll'indice della destra toccando il primo dito susurrò: per uscirne con onore mi pare che mi sovverrebbero tre vie: prima la fantesca nello spazzare la bottega, supponendoli fogliacci, li ha buttati via; il commesso del negozio per le medesime ragioni ed apparenze ci ha acceso la pipa, via seconda; terza via, il ragazzo di stamperia, preso a soqquadro da non so quale cinquantina di fichi, e intimato a riporli in libertà per urgenza, era scappato portandosi seco i fogli, sicchè la sua dignità di cittadino e di libraio lo aveva dissuaso andarli a cercare colà dove si trovavano.
L'abate, aocchiando la distrazione dello stampatore e cotesto suo almanaccare su le tre dita ritte, gli disse:
— O compare! A caso non vi sarebbe saltato il ticchio di proseguire il trattato della santissima Trinità, che lasciava in asso il dottore di santa Madre Chiesa, santo Agostino?
— Noe, rispose stizzito il libraio, come colui ch'era stato importunamente interrotto sul più bello delle sue meditazioni; io faceva il conto a chi di voi altri tre sarebbe toccato di andare primo allo inferno...
Proprio è così, e non fa nè anche una grinza, gli artisti di canto e i trovatori di armonie; quantunque celeberrimi, cascano negli ugnoli degl'impresari come le lodole in quelli degli sparvieri; gli scrittori del pari capitano in mano ai librai, a mo' che san Lorenzo (di cui oggi ricorre per lo appunto la festa) s'imbattè in quelle dei suoi arrostitori.
*
Poco rincalzo le mille lire portarono alla Isabella, imperciocchè, levatisi prima i chiodi che si trovava avere, e' fu bazza se le avanzò un quattrocento lire. Gli autografi del socero non le vennero più in mente, e lascio figurare a voi se il libraio andasse a ricordarglieli. Con quella po' di moneta rimastale si tirava innanzi, procurando che nulla mancasse alla Eufrosina, quanto a sè governandosi tanto sottilmente, ch'era una pietà.
E questo non era mica il peggio, che l'angoscia da non potersi dire gliela dava la impazienza febbrile sua e della Eufrosina, di aspettare ogni giorno nuova dei cari diletti, e giungere a sera con la speranza sempre delusa. Cotesto davvero era spasimo, che trapassava il cuore delle due donne come una spada, ma più lacerante quello della Isabella, però che a lei toccasse dissimulare il proprio affanno per lenire quello di Eufrosina; alla quale non rifiniva mai dichiarare non essere poi tanto il tempo decorso dalle ultime notizie.
— Come non tanto! interrompeva l'appassionata Eufrosina, — oggi compiono per lo appunto tre mesi.
— No davvero, rimbeccava Isabella, o la notizia ultimissima non la conti?
— Io? Io conto quello che ci portò la posta.
— No, figlia, tu hai a contare da quella che ci portò il cuore. L'amore, a gara di prestezza, si lascia indietro anche la luce, e in un baleno trasporta uno dall'Indo al Polo.
— Sì, è vero, questo mi ricordo aver letto prima ch'io diventassi cieca nelle lettere di Abelardo e di Eloisa; ma adesso a tutte queste belle cose preferisco la posta del Barbavara.
L'altra taceva. E poichè Eufrosina capiva che l'anima della madre in cotesta incertezza si doveva struggere quanto la sua di amante, cessati i lagni l'abbracciava, e con le mani per la faccia e pel collo la blandiva.
Ma ormai il fascio delle tribolazioni per la signora Isabella si era fatto più grave di quello che le sue forze potessero sopportare; non le riusciva più levarsi da letto, dove trovandosi giacente la sera della decollazione di san Giovanni Battista, finse prima accendere il lume e poi lo lasciò spento; tanto a che pro? Gli occhi della Eufrosina non si allietavano al dolce lume, e i suoi provavano quasi un'amara voluttà ad assuefarsi allo imminente buio perpetuo. In mezzo a cotesto silenzio lo zufolio sottile della zanzara si udiva come lo strido della tromba dell'angiolo che chiamerà al giudizio finale i morti, se la vorranno udire.
Eufrosina non si attentava domandare alla signora Isabella come si sentisse, ed Isabella si mordeva le labbra per trattenersi da guaire; sotto lo imperversare della sventura stavano cheti cheti, pari a due uccelli i quali sotto la medesima fronda si riparano al furore della tempesta.
*
— Mamma!
— O Dio! Dio! che voce è questa? — Eufrosina! Dove sei?
— Babbo!
— Curio!
— Non alzate la voce; — siamo noi... proprio noi...
A tastoni, brancolando, trovarono il letto, — incontrarono i pegni della loro tenerezza, si strinsero, abbracciaronsi, bocca a bocca incollarono, l'uno alitava, anzi viveva la vita dell'altro; — non parlarono, non piansero; tanto sprofondarono in cotesto abisso di passione, che rimase sospeso in essi ogni senso di dolore; — così gli occhi affissando la soverchia luce smarriscono la facoltà visiva.
Dopo parecchio tempo Filippo si accorse ch'erano tutti al buio, onde si mise a dire.
— Lume! lume! ch'io vo' vedere la cara faccia della figlia mia.
— Lume! lume! ripeterono in coro Isabella e Curio.
— Lu... gridò a sua volta impetuosa Eufrosina, senonchè a mezzo le strozzò nella gola la parola l'acerbo ricordo della sua cecità; smaniando ricinse con ambo le braccia il capo di Curio, e forte se lo accostò al suo; che adesso alla virtù di amore si aggiungeva la paura. Filippo, per far presto, frega una mezza dozzina di fiammiferi al muro, e, come succede sempre, fece più tardi e si scottò le dita. Alfine accende quanti lumi gli occorrono nella stanza; ma per questo non potè vedere la faccia della sua Eufrosina, imperciocchè ella si trovasse per così dire compenetrata in quella del suo diletto, come se presumesse gittare la propria forma nella forma di lui, onde Filippo, montato in istizza, mise le mani in mezzo a guisa di cuneo, e tirando forte di qua e di là giunse a separare le fronti dei giovani. Eufrosina fino a cotesto punto non si era attentata ad aprire gli occhi; adesso le viene fatto sollevare una palpebra, e:
— Madre di Dio! ella grida, lo vedo, lo vedo, l'ho visto, l'ho visto, l'ho visto!
— Chi hai visto, anima? Chi hai visto?
— Curio ho visto... Curio...
E aveva richiuso gli occhi.
— Riapri gli occhi, cara, le andava ripetendo Filippo fuori di sè, sincerati una seconda volta.
— No, no, mi basta; e se tornassi a non vederlo più? Se fosse stata una visione passeggera!... Capisci, babbo, mi si spezzerebbe il cuore.
— Ma come mi hai visto? subentrava a dire Curio... su, dimmelo, diletta mia.
— Ecco, io ti ho visto, e giudica s'è vero, tu ti sei fatto color di rame; sopra il ciglio destro hai un taglio... è vero o non è vero?
— Si, è vero: dunque su via, coraggio, riprovati una seconda volta.
E così dicendo Curio tentava removere le mani dagli occhi di Eufrosina, ch'ella ci teneva sopra ostinata.
— Oh! non m'invidiare, cattivo, la misera gioia che nasce dalla incertezza di un bene. — Fermati, dico. Tanto per forza non verrai a capo di nulla.
— Ebbene, fallo di tua volontà... Ah! non ti basta l'animo? Ti manca il coraggio? Va', ti faceva meno codarda.
— Codarda io! Guarda se io sono vile!
E tale parlando, allontana le mani dagli occhi e la intera anima trasfonde nello sguardo.
— Vedo! vedo! Curio... babbo... mamma stesa sul letto... Ahimè! Curio... mi sento morire...
E la povera tosa casca nelle braccia dello amante... Piangevano tutti, e veruna esultanza avrebbe avuto virtù di porgere refrigerio ai dolorosi quanto coteste lacrime, se la paura di male per la cara fanciulla non li avesse amareggiati. I nostri personaggi, disposti in diversi atti, non si arrisicavano di pure alitare, come quelli che temevano ogni sottil fiato potesse spegnere la fiammella, la quale, se non era morta, nè anche appariva viva. Allo improvviso Eufrosina ritorna a spalancare gli occhi smaglianti nella potenza dei moltiplici affetti...
Nel modo che la scienza ammaestra la luce del sole emanare dalla combustione simultanea di molti metalli, tra cui principalissimo l'oro, così nello sguardo di Eufrosina sfolgorava la gratitudine verso quello che, dopo averla tribolata tanto, adesso la consolava, oltre la speranza e la tenerezza verso il padre, la carità per la Isabella e soprattutto l'amore ardentissimo per Curio.
Chi mai gliene avrebbe mosso rimprovero? Vince ogni cosa Amore; così ordinò la natura.
Sebbene, qual più, qual meno, i miei personaggi credessero in Dio, e forse taluno di loro senza accorgersene, pure a veruno cadde in mente che ciò fosse avvenuto in grazia di un miracolo; i presagi del medico Taberni si erano avverati,[25] — e nondimeno andavano ripetendo senza fine: miracolo! miracolo! dimostrando a questo modo quanto sia la potenza della contradizione nell'uomo e la forza quasi invincibile della consuetudine.
A scoterli dalla estasi in cui stavano assorti ecco di un tratto sonare una voce; era amica la voce, che diceva:
— Scapati! Senza un quattrino di giudizio! Voi l'avete fatta bella! La questura, avvertita della vostra presenza qui, manda a questa volta questurini, carabinieri; tiene ammanniti i bersaglieri; ha consegnato in quartiere i soldati di linea... tanti non ne farebbe bisogno a prendere Buda... via... spulezzate subito, se non volete che vi agguantino.
Così parlava Foldo con lena affannosa; e le sue parole ebbero la maligna virtù di far cadere in sincope la signora Isabella e impietrire Eufrosina. Foldo mirando com'essi gingillavano, replicò di forza:
— Via, presto, se vi è cara la vita.
Filippo, più presente a sè stesso, agguanta il portafogli e risponde: eccomi! — All'opposto Curio con orribile pacatezza: io sto; quando pende incerta la vita di costoro, — e qui additava le donne — io non devo curarmi della mia.
Non correva adesso stagione di starsene a tu per tu; quindi Filippo e Foldo si allontanarono in fretta, nè camminarono troppo per via che s'imbatterono in una squadra di guardie, le quali giudicarono avviate ad arrestare i proscritti, e pur troppo si apponevano.
Seguitiamo i due amici per vedere dove vadano e che cosa almanacchino, imperciocchè io comprendo quanto strazio sarebbe pei miei lettori lasciarli lungo tempo incerti su quanto sta per succedere; questo tenerli un pezzo su la corda può benissimo essere arte di romanziere, ma la è arte crudele. Filippo si fece condurre difilato dal signor A., rappresentante degli Stati Uniti di America; italiano, esule per molti anni a Boston, uomo di virtù antica, e delle vecchie e delle nuove dolcezze dei governi italici peritissimo.
La necessità suggeriva a Filippo parole succinte ed efficaci; gli pose in mano lettere e documenti; gli si raccomandò in visceribus non mettesse un minuto di tempo fra mezzo; dallo indugio ne uscirebbe il danno certo e irreparabile; forse non difficile impedire che la pietra cascasse nel pozzo; cascataci dentro ci vorrebbe il diavolo a cavarnela.
Il signor A., che poteva dire di sè quello che Virgilio mette in bocca a Didone: non ignara mali miseris succurrere disco,[26] insaccati i fogli e calcatosi il cappello in capo, si mise la via fra le gambe e in meno che non si dice un credo cascò come bomba briccolata in fortezza nemica nella camera del prefetto, il quale allora stava per lo appunto in consulta col generale di divisione, il procuratore del re, il colonnello di giandarmeria, il questore, insomma con tutti i denti del coccodrillo civile e militare preposto alla custodia della città.
La orazione del signor A. stringata in modo da far morire d'invidia Tacito e Bernardo Davanzati, la quale orazione insomma si sostanziò in questo:
«Le persone ch'essi si disponevano arrestare essere cittadini liberi della Unione americana; diventati tali in grazia di debita naturalizzazione; di più riputati dal governo cittadini benemeriti per opere e per dovizie largamente spese in pro della Unione; — per queste cause il presidente della repubblica raccomandarglieli con particolare sollecitudine; onde a lui correre debito non patire che fosse loro torto un capello, e qualora al prefetto bastasse l'animo di provarcisi, egli abbasserebbe l'arme e romperebbe ogni corrispondenza officiale col governo italiano; pensasse due volte il prefetto a quanto stava per fare, perchè con lo embargo generale ed istantaneo sul naviglio mercantile italiano si sarebbe nabissata la fortuna pubblica e privata del regno. Ponesse mente quanto discredito avrebbe partorito al suo governo cotesta bestiale persecuzione; il danno dello scandalo mille volte più grave della utilità che sperava ricavare dall'esempio: per ora la università dei cittadini ignorare la presenza dei proscritti; poterla senza scapito di reputazione dissimulare il governo; egli obbligarsi ricondurli in quel medesimo giorno nella Svizzera.»
— Ma perchè vennero cotesti sciagurati? interroga stizzito il prefetto.
— Oh! ecco, rispose il signor A., innanzi tutto vennero a rivedere la respettiva loro madre e figliuola.
— O non potevano mandare a pigliarle da Lugano?
— Quanto alla figliuola si; quanto alla madre no, la quale, a quanto sembra, giace dal mal di morte travagliata.
— Voi avete detto, signore, che innanzi tutto furono mossi dal desiderio di vedere le loro donne; dunque ci hanno altre ragioni dietro? Quali sono esse?
— Certo l'altra causa consiste nel levare di qui cinquanta o sessanta garibaldini, e menarli seco a fondare una colonia su i terreni che possiedono nel Texas.
— Questo è buono a sapersi; può facilitare la clemenza del governo; dunque sapete di certo che ci libererebbero da una sessantina di rompicolli pari loro?
— Senza cotesti rompicolli sareste voi, signore, prefetto di Milano?
— Che rileva ciò? Quando la casa è infestata dai topi pregiansi i gatti; dopo dispersi i topi, fareste i gatti consiglieri di Stato?
— No, ma io non mi so capacitare come i vostri rompicolli d'Italia riescano in America cittadini commendevoli per costumi come utili per industria solerte ed ingegnosa.
— Sarà l'aria!
— E intanto queste emigrazioni, che indeboliscono l'Italia più che il continuo sudore il tisico, ingagliardiscono l'America; ma ciò non mi tocca; sta a voi pensarci.
— Mi sorprende, soggiunse il prefetto, come questi malanni abbiano potuto in così breve spazio di tempo mettere insieme tanta roba! Ma voi li credete ricchi davvero? Barnum a sorte non sarebbe passato per là?[27]
— Ve li assicuro io possessori di più milioni che la vostra fantasia non saprebbe immaginare; e se volete conoscere chi li ha fatti ricchi, io ve lo dirò, a patto che non ve lo abbiate a male, perchè io non intendo arrecarvi offesa; li hanno resi opulenti e rispettati cittadini in America quelle medesime qualità che stettero a un pelo di condurli a morte in Italia.
Allora il prefetto sottosopra fra le minacce del rappresentante degli Stati Uniti, gli ordini del governo centrale, i milioni dei proscritti, la paura dello scandalo, il pensiero che quando le cose non approdano a bene i cenci vanno al macero, trepidante per la pentola, seguitando lo istinto di conservazione che sortono da natura tutti coloro che rodono il pubblico bilancio, s'industriò buttare la broda della risoluzione addosso agli altri ufficiali, sicchè ingenuo disse loro:
— Dunque, che cosa deliberano fare? Io li ho chiamati a posta.
E gli ufficiali risposero tutti a un modo; quasi gloria patris in fondo ad un salmo: che a lui stava ordinare, ad essi eseguire; sua, affatto sua, la responsabilità del comando; a loro la responsabilità della esecuzione; le responsabilità non doversi confondere; e così giù un diluvio di responsabilità, di responsabilità, responsabilità, e via. Il povero prefetto, lasciato su le secche, pareva l'asino di Buridano messo in mezzo a due stacci di biada; di un tratto gli venne una ispirazione dall'alto: sospendere ogni arresto e intanto avvertire il ministro a rotta di collo; in cotesta maniera gli parve gratificarsi il ministro per la prova di deferenza che gli dava e scansare il pericolo: — due colombi a una fava!
E' fu un gran correre e ricorrere di scintille elettriche lungo i fili metallici del telegrafo, un tremolare affannato di lancetta, un picchiamento irrequieto sopra la tastiera, una grandine di responsi, che parevano piovuti dal cielo. Il prefetto se ne stava mogio mogio, come una gallina bagnata messa sotto il corbello perchè le passi la voglia di covare, fino all'ultimo dispaccio ministeriale in cui si approvava il suo operato; si abbuiasse il caso; si facessero partire i contumaci sotto la malleveria del rappresentante della Unione; viaggiassero, bene inteso, a proprie spese; non li vedesse il sol novello in Argo; intanto sottilmente e segretamente si vigilassero; con anima viva non conferissero.
Poichè di tanto fu certificato il prefetto, sentì come un pane di piombo cascargli giù dallo stomaco, per l'allegrezza spiccò un salto, diede un trillo, se avesse potuto si sarebbe baciato; la gioia gli punse la vena della liberalità; si sentì inondato da un'aura di sciupone; tanto vero, che essendogli entrato lì per lì nello studio il primo consigliere di prefettura, egli gli regalò un sigaro da sette centesimi...
Per cotesto groppo di casi tanto vari e veementi avevano sentito terribili scosse gli spiriti ed i corpi dei più gagliardi dei nostri personaggi, ma la signora Isabella ne rimase infranta; veruno ci aveva fatto avvertenza, perchè la cura particolare teneva compresa in sè l'attenzione di ogni individuo; se l'avessero badata chi sa di quanti pianti e sospiri sarebbe a quest'ora andata ingombra la casa! Più volte la meschina di pallida diventò colore di cenere, le labbra le si fecero pavonazze, e le sue pupille dondolavano per quel vago errore, che non è anche morte e non si può più dir vita. La goccia, onde si versa l'anima, parve formarsi più volte nel cavo dei suoi occhi, ma non traboccò; gli spiriti vitali in procinto di partenza poteron soffermarsi sopra la soglia; — e ciò avvenne per virtù di Amore; il quale, comecchè per pochi istanti, può trattenere la morte; egli solo lo può; veruna altra forza supera o inferna è da tanto.
— E tu, madre, verrai con noi. Noi non presumiamo farti dimenticare le sofferte sciagure; c'ingegneremo consolarle; sopra le tue ginocchia deporremo i pargoli che la fortuna placata ci vorrà concedere, e questi sapranno suscitarti nel cuore qualche vestigio della fiamma antica. Tutti i santi, quando sul partire della vita levano gli occhi al cielo, vedono o credono vedere una gloria seminata di stelle e di capi di cherubini, — caparra di paradiso, e tu, madre, sei santa ed hai diritto che il più gentile del tuo sangue ti schiuda le porte del secolo immortale: — su via, fa' cuore, sei giunta al termine del tuo lungo patire; levati; apparecchiati al viaggio; di poche vesti fa bisogno; a Lugano ne provvederemo quante basta; stasera partiamo.
Così alternatamente Curio ed Eufrosina favellavano ad Isabella; e il volto della madre, quantunque a coteste parole si rischiarasse, pure sembrava un fiore il quale, tronco nello stelo, per benedizione di sole non sappia più raddrizzarsi. Ella volle stendere a un tratto le mani ai suoi cari figli, e non ci riuscì; le mancarono le forze; allora prese ad allungare adagio adagio le dita, e rinnovando a più riprese il moto, giunse a toccare la cima delle mani di Curio e di Eufrosina; in quel punto si provò a favellare, e con un filo di voce disse:
— Figli miei, io sento pur troppo che il termine delle mie tribolazioni è arrivato; in breve imprenderò il viaggio al quale da molto tempo mi trovo allestita; mi ci apparecchiai col viatico del lungo spasimo e della pazienza inalterata; confido che basti; in ogni caso la misericordia di Dio non sarà per mancarmi... a rivederci... più tardi che potrete... a rivederci...
— O mamma, ch'è questo? Tu vieni meno! Mamma guardami! Mamma, mi senti?
— Mamma, mamma, è la tua Eufrosina che ti chiama!
La morente fissò l'una e l'altro con soavissimo sguardo di addio e susurrò parole non bene distinte, come persona che già si sia allontanata... Isabella passava pari alla lampa del sole, che lascia un mondo con mesto addio di luce per portare ad un altro mondo il saluto lieto di luce.
*
— Ma, caro e reverito signore, ella mi mette in un impiccio, in un impiccio di cui non posso neanche farle capire la serietà; non ci è casi; essi devon partire stasera, risolutamente stasera.
— Gli è morta la madre; — e il dolore della madre morta non dovrebbe essere difficile a capirsi neanche da un prefetto. Diavolo! Come può pretendere che un figliuolo si stacchi dal corpo della madre tuttavia caldo? Che un figlio non renda gli uffici estremi alla madre, ch'egli amò tanto? Diavolo! Queste mostruosità non costumano neanche fra i comanchi... fra i modocs; — e ci è da farne diventare rosso per la vergogna un negro di Caffreria...
— Lasci stare, caro signore, caffri e comanchi: a me tutto questo non preme un fico; sa ella che cosa m'importa? Il mio impiego; se io lo avessi a perdere, chi mi fornirà alloggio, vitto, vestito, carrozza, teatro gratis, eccetera?
— Vada franco, signore, lo garantisco io.
— Garantisce lei! Ma che sia benedetto, su che cosa mi garantisce?
Il signore A. si asciugava il sudore per la pena; sentendosi in procinto a dare di fuori, con voce alterata conchiuse:
— Orsù! domani sera soltanto potrà darsi sepoltura alla defunta... veruno in tutto il giorno uscirà di casa, nè veruno ci entrerà; ella, se non si fida, faccia sorvegliare; i miei concittadini trasporteranno il corpo al camposanto, lo seppelliranno; dopo sepolto entreranno in carrozza... dalla fossa allo esilio perpetuo... è contento? E sì che le potrebbe bastare.
Il prefetto storse la bocca, si strinse nelle spalle e gemè:
— Vedete un po' in che bertovello mi trovo! Dio faccia che male non me ne incolga... ma... sono troppo buono!
Proprio come il libraio liberale.
Nel colmo della notte, a lume spento, la salma d'Isabella fu trasportata al camposanto; la cassa avevano messo dentro una carrozza col capo in alto e il piede in giù; nè anche Cristo posò su la deserta coltrice; lo aveva proibito il prefetto. Seguivano due altre carrozze; dentro la prima Curio ed il rappresentante degli Stati Uniti, nella seconda Filippo ed Eufrosina: però in ambedue le carrozze su i posti davanti sedevano due guardie di pubblica sicurezza travestite da galantuomo; lo aveva ordinato il prefetto. Trovarono ammannita la fossa, e due vangatori con la pala in mano in procinto di gettare la terra sopra la cassa; il prefetto per far presto aveva rinforzato i becchini. Avevano trasportato le reliquie della povera creatura a mo' che i contrabbandieri trafugano il frodo; le depositarono in grembo della terra come il ladro ci rimpiatta il tesoro rubato: appena fu concesso inginocchiarsi e recitare un requie. D'altronde, chi avrebbe potuto piangere ovvero pregare? Coteste anime, a cagione della immanità delle bestie che a muso duro hanno il coraggio di affermarsi uomini, si sentivano rapprese dentro una crosta di ghiaccio. — Lo vedo bene che, se inferno non ci è, per certa gente bisognerà inventarlo... Fu forza partire innanzi che avessero colma la fossa; la lasciarono in buona compagnia, chè le dormivano allato figli, marito, parenti; certo alcuni l'avevano fatta arrossire, altri gonfiare di orgoglio; questi l'esaltarono, quelli l'atterrarono, ma ella li amò tutti di perpetuo amore: la lasciarono dando uno sguardo al cielo, riportando la promessa che le stelle sarebbero state benigne di luce alla ignorata sepoltura; e, posta la mano su l'erba, si accertarono che la notte non avrebbe cessato di piangere le sue rugiade sopra le ossa infelici; non una parola e neppure un sospiro avrebbe potuto aprirsi una via traverso la loro gola attenuata; le piante folte ammortivano il rumore dei passi dei nostri personaggi, sicchè parevano ombre che tornassero da associare un'ombra alla sua eterna dimora...
Accostandosi alla porta del cimiterio, ecco rompere il funebre silenzio uno strepito confuso di maledizioni e di minacce, un rumore di chi fugge e di cui insegue, un dimenìo di chi agguanta e di cui tenta guizzare di mano: di corto si conobbe la causa del trambusto; Foldo e la sua degna consorte, avendo voluto entrare di riffa nel camposanto, n'erano stati duramente respinti: allora si piantarono su la porta per attendervi gli amici e ricambiare con essi l'ultimo addio; e siccome anche questo si era loro voluto impedire, resistevano, sbatacchiavano gli sbirri, facevano il diavolo a quattro: quando poi li sentirono vicini, non ci fu verso tenerli, sgusciano dalle mani dei cagnotti e nelle braccia loro si abbandonano. Smaniosi furono gli abbracciamenti, ebbre di dolore le parole, i baci furenti; ed allorchè li separarono, tale sorse dintorno un pianto irrefrenato, che ebbero a maravigliarsene gli stessi sbirri.
E pure non ci cascava maraviglia, perchè, a dire il vero, il distaccamento da Foldo e dalla sua degna consorte non era stato mica la causa sola, nè la principale di cotesto lutto, bensì l'anima dei meschini, rimasta lungamente in bilico per le sofferte tribolazioni, per quel po' di giunta aveva traboccato.
Foldo ricevè dopo pochi giorni dal signor A. trentamila lire, le quali, giusta il desiderio di Curio e di Filippo, distribuì fra i superstiti delle patrie battaglie ridotti in miseria, ai quali o il peso della famiglia, o la ripugnanza di avventurarsi a fortune incerte e difficili dissuadevano emigrare in terre lontane.
*
Curio, Filippo ed Eufrosina sono tornati al Texas, conducendo seco cinquanta e più giovani prestanti. Il signor Maurizio avendo mosso ad incontrarli, don Patricio e don Giacinto chiesero in grazia accompagnarli, e di leggieri venne loro concesso. Le accoglienze furono profondamente benevole, non chiassose; conformi alla indole dei nostri personaggi e al lutto che contristava l'anima loro. Trascorso tempo convenevole, si fecero le nozze fra Curio ed Eufrosina, la quale trovava curioso doversi ella obbligare davanti al magistrato a volere sempre bene al suo Curio; ci volle del buono e del bello a capacitarla come questo ordinasse la legge per accertare lo stato della prole nascitura. Maurizio benedisse le nozze, dicendo con molta gravità:
— Se presbiter significa vecchio, veruno negherà che io sia prete davvero. Vi benedico pertanto, però che io creda fermamente che la benedizione di un vecchio benevolo e onesto non abbia mai fatto male ad alcuno. Vi benedico in nome del Dio della natura, e vi auguro tutte quelle felicità che alle creature umane è dato godere, finchè sentono e ragionano.
Agli esuli furono assegnati terre, semi, arnesi e bestiame in buon dato; essi senza le diavolerie del comunismo si chiamano paghi della mezzaria come si pratica in Toscana, ampliata e corretta secondo che la esperienza venne e viene di anno in anno persuadendo.
Don Patricio e don Giacinto, pregati, si trattennero ancora per alquanti mesi, ma alfine, avendo più volte insistito per ottenere licenza, fu mestieri concederla: essi lodavano, anzi levavano a cielo quello che vedevano; ma l'indole loro, e forse più dell'indole, il costume, faceva sì che si sentissero in cotesta vita ordinata a loro agio come se sedessero sopra un pettine da lino: non adducevano, perchè l'ignoravano, se l'avessero saputa si sarebbero schermiti con la elegante terzina che si legge nella satira dell'Ariosto sul servire in Corte:
Mal può durare un usignolo in gabbia,
Più vi sta il cardellino e più il fanello,
La rondine in un dì vi muor di rabbia.
Per loro la vita randagia e le scorrerie; ora con le tasche piene di dobloni, ed ora senza nè manco un quattrino da far dire la diesilla al cieco; destinati a morire con le scarpe in piedi o per arme o per sanna di belve. E qui bisogna notare che il cervello loro gli aveva indicato una terza uscita, ed era il capestro, ma questo avevano per buoni riguardi sottinteso, che anch'essi avevano frequentato la scuola di grammatica, e di sintassi figurata se ne intendevano.
Il vecchio Maurizio esultava; i nuovi affetti gli avevano rinfrescato l'anima e il sangue, ond'ei sovente accarezzando la gioconda Eufrosina diceva:
— Ecco la mia Medea, che ha ringiovanito il suocero e non sembra che truciderà mai i figli![28] A proposito di questi figli, ma di dove hanno a venire? Eufrosina, ricorda che ho il vetturino all'uscio...
— Quanta furia! rispondeva la gioiosa; quando vorranno venire verranno.
Non così Curio e Filippo, nei quali, dopo ch'ebbero dato sesto alle opere e agli operai, e le cose presero un regolare andamento, scese una nube che allargandosi minacciò coprire intera l'anima loro; e la patria lontana per tormentarli meglio assumeva le forme più caramente dilette, appunto com'è fama le Furie ad agitare lo spirito dei mortali con maggiore spasimo tolsero sembianze miti e nome di Eumenidi.[29]
Però la infermità della nostalgia procedeva sopra questi due uomini con ragione diversa. Filippo, da quel valoroso ch'egli era, si dibatteva per sottrarsi dalle male branche della malinconia; e, dandosi da fare senza requie nella caccia e nella pesca, si esercitava; ma certo dì essendosi accorto che il piede gli diventava più tardo e l'occhio men certo, pensò che avrebbe fatto bene a smettere, se pur non voleva, invece di cacciare, essere cacciato; tuttavia prima di cessare le pantere non ardirono più comparire nei dintorni della fattoria, e conghi e serpenti a sonagli ed altri siffatti rettili formidabili erano sterminati; il povero uomo, per fuggire la mattana, si sarebbe attaccato alle funi del cielo; fumava sempre, sicchè la sua faccia pareva la cima del Sinai quando il Dio d'Isdraele consegnò fra mezzo la caligine in proprie mani a Mosè i comandamenti della legge, incisi, come si dice, sopra tavole di marmo di Carrara. A levarlo di pena lo sovvenne la lettura del libro terzo della Eneide, dove trovò che Eleno ed Andromaca, profughi dalla patria sovversa, rifuggiti in Caonia, l'acerbità dello esilio ingannavano rinnovando in terra straniera Ilio, Simoenta e Pergamo; onde Enea ed i compagni, che a posta loro sbattuti dai fati, colà furono accolti ospiti graditi, poterono raccontare più tardi alla regina Didone:
Molto con me, mentre andavamo, anch'egli
Ragionando e piangendo, entrammo alfine
Nella piccola Troia, e con diletto
Un arido ruscello, un cerchio angusto
Sentii con finti e rinnovati nomi
Chiamar Pergamo e Xanto, e de la Scea
Porta entrando, abbracciar l'amata soglia,
Così fecero i miei, meco godendo
L'amica terra come propria, e vera
Patria...
A questo modo Filippo dava nome di Po ad un fiume che metteva foce nel Colorado, e battezzò Santo Ambrogio un fabbricato immenso, dove raccoglieva le vacche particolarmente addette alla fattoria, imperciocchè sopra la colonia pascessero oltre quindicimila capi di bestiame. Filippo, nel mostrare con molta compiacenza la stalla popolosa, soleva dire:
— Non ci ha dubbio; in paradiso è bene averci per protettori i santi Ambrogio, Carlo, Protato e Damiano, ma in terra, bisogna convenirne, approdano meglio le vacche. A certo ricinto vastissimo, dove la notte riduceva i bovi, impartì il titolo di Foro Bonaparte, e ad altre fabbriche l'Arco del Sempione, la Scala e via discorrendo. La contrada intera con rito solenne appellò Italia.
— Italia; e vedano, signori miei, aggiungeva con ghigno mordace, questa traslazione non mi costa proprio nulla, dacchè le signorie vostre sapranno, e se nol sanno lo imparino, la patria nostra ab antiquo andò distinta con diversi nomi, i quali furono Gianicula, Enotria, Camesena, Saturnia, Esperia, Ausonia, e per ultimo Italia; di tutti questi le rimase Italia, perchè gl'italiani chiamarono i bovi itali, e per converso i bovi barattarono il nome con gli italiani.[30] Per le quali ragioni e cagioni, a noi altri meritamente dura, ed ogni giorno meglio si conferma, il nome d'italiani; nè fa caso che gl'italiani parlino ed i bovi no, dacchè a squattrinarla da vicino, tra il favellare dei primi e il muggire dei secondi non ci corre un tiro di cannone: e poi, o chi ha detto che i bovi non parlano? Parlano benissimo, e ce lo afferma Tito Livio, ch'è quel solenne storico padovano che tutti sanno: tra i prodigi che apparvero nella seconda guerra punica: «un bove, egli scrive, in Sicilia parlò».[31]
Insomma Filippo a questo modo fantasticando si sbizzarriva. Per lo contrario Curio si compiaceva inciprignire la piaga onde portava ferito il cuore; gli veniva in fastidio ogni cosa; le più volte odiose gli tornavano le umane sembianze; le fuggiva sempre; stava ore ed ore seduto sur un tronco o un sasso con gli occhi tesi e fissi nelle immagini che gli raffigurava il suo cervello ammalato; e nella ansiosa contemplazione si andava struggendo come i mangiatori di oppio per colpa della maligna sostanza che cibano. Gli passavano balenando davanti agli occhi i campi di battaglia, i gesti arditi, le incredibili imprese; le cime nevose dei colli, gli orribili dirupi, precipitare torrenti, nemici fuggire, tornare alle offese, stramazzare feriti, boccheggiar moribondi, morti rotolare per greppi o andare travolti fra le acque grosse dei fiumi; distinti i luoghi e i volti, talchè li avrebbe potuti ritrarre a puntino con la matita ovvero col pennello; la memoria tormentatrice gli riportava con disperante precisione ogni scheggia, ogni sterpo, ogni arboscello. E niente gli fuggiva delle notti vegliate e dei baldanzosi colloqui; infine dinanzi agli occhi, per troppa tensione compunti, mirava traversare un'aquila che invece di penne scoteva raggi di luce, e dovunque passava incuteva spavento; l'aquila di un tratto diventava uomo, presentando le forme del generale Garibaldi; all'improvviso la visione mutava sembianza, e gli si presentavano dinanzi agli occhi effigiate a mo' della statua della Architettura scolpita davanti il sepolcro di Michelangelo da Valerio Cioli, con la mano sotto il mento, le larve dei suoi fratelli attendere meste la parola di consolazione, che il parente non può negare mai al parente, perchè il sangue nelle famiglie sia sempre sacro, e quando la universalità dei cittadini abbia il triste diritto di maledire un uomo, non lo ha mai il fratello. Da un altro sepolcro scoperchiato dalla cintola in su gli appariva la buona e cara immagine materna, la quale, protendendo ambo le braccia, sembrava che cercasse il capo di qualche nipote per benedirlo.
Fantasia di poeta non saprebbe immaginare nè manco i molti e vari trovati co' quali Eufrosina s'ingegnava divertire cotesta tetra malinconia, che moveva tanta guerra all'uomo del suo cuore; motti, scherzi, detti arguti, colpi lieti, capestrerie leggiadre, tutto essa poneva in opera, e spesso, Curio invano nolente, traeva a correre per la foresta provocandolo come la Galatea di Virgilio...[32]
. . . . . . . . di un pomo
Il coglie, e fugge, e ai salici si asconde,
Ma prima di celarsi ama esser vista,
senonchè Eufrosina, invece di un pomo, gli tirava un fiore, e poi si rimpiattava nel boschetto delle magnolie. La povera tosa ormai si trovava al verde delle sue invenzioni, quando la Provvidenza, sentendo misericordia per lei, non l'avesse sovvenuta col massimo dei benefizi che può compartire ad una donna. Suffusa di rossore si chinò verso l'orecchio di Curio, ci susurrò una parola, mercè la quale il giovane schizzò su come il diavolo di saltaleone scatta fuori dalle scatole di finto tabacco, battendo palma a palma, e il segreto che gli aveva confidato la pudica, egli, inverecondo, bandì con voce magna alla intera brigata, come se volesse metterlo allo incanto. Filippo abbracciò Maurizio, Maurizio Curio, e poi abbracciaronsi tutti e quattro in lungo ed insaziabile amplesso.
Durante i mesi della gravidanza un solo pensiero come una sola cura dominarono la mente di Curio; vegliare l'amata donna, blandirla con soavi carezze, condurla a diporto all'aria aperta, riportarla su le proprie braccia a casa, adagiarla sul letto, temperare l'arsura dell'ambiente, spiarne l'alito, le parole, i sospiri. E quando alfine gli posero un pargolo su le ginocchia dicendogli: ecco, ti è nato un figlio! e' fu miracolo espresso s'ei non dette nei gerundi: piuttosto che esultanza, il delirio si cacciò addosso a lui ed a tutta la casa: fecero cose sgangherate: tanti colpi spararonsi, tanti fuochi si accesero, che per mesi interi non un uccello si attentò accostarsi a quella zona di cielo.
Ma poichè tutto viene a fine, così il palpito come il cuore che palpita, si attutì anche cotesto ardente affetto, e la larva irrevocabile della patria si riaffacciò all'anima di Curio più straziante che mai; di nuovo lo travagliano le consuete allucinazioni, della quale cosa se senta fastidio insopportabile la donna innamorata, Dio solo lo sa: però il rimedio per un tempo ella ebbe pronto, ed oltre ogni estimativa efficace: questo consisteva nel cavare dalla culla lo infante e farsi pian piano a depositarlo sopra le braccia del padre. Allora uno sgorgo di luce inondava l'anima di Curio, nè per quel giorno, nè per l'altro appresso le nebbie della malinconia potevano addensarsi più sopra di lei.
Però non passava gran tratto l'umor nero a ripigliare il sopravvento, onde Eufrosina ne rimase smarrita: venutole meno ogni consiglio, la misera si disfà in pianto; pure un giorno, pensosa più del suo pargolo che di sè stessa, si presenta risoluta al marito, al quale, con tremula voce, così favella:
— Curio, parte migliore dell'anima mia, dammi retta: se si trattasse di me, vedi, io avrei saputo soffrire e morire in silenzio, sorte ordinaria della donna amante, ma ce ne va di mezzo la vita del tuo figliuolo e mio. La tua misantropia si attacca a me, l'anima mia si contrista entro un mare di amarezza, la salute mi si altera, e da momento in momento mi abbandonano le forze... in breve mi mancherà il latte... non potrò allevare più la mia, la tua creatura... E non potè più dire, chè il singulto le strinse la gola; copertosi il volto, pianse.
Curio, in balìa di profondissima agitazione, prese a scorrere con moti incomposti per la stanza, inciampando ora in questo ora in quell'altro mobile, chè la passione gli toglieva la vista degli oggetti circostanti; per ultimo, quietatosi alquanto, si accosta ad Eufrosina, e gettatole le braccia al collo le dice:
— Sorella, consolati, io procurerò guarirmi, anzi mi guarirò di certo; però io sento non poterlo fare se non a un patto.
— Dillo, amor mio.
— Mi perito, Eufrosina, perchè temo affliggerti.
— Che importa! Pensa che verun dolore uguaglia quello di vederti ogni giorno consumare dall'umor nero.
— Ebbene, Curio prosegue attenuando la voce, sicchè appena si sentiva: tu mi hai a promettere che quando io sarò morto... ma vedi! già ti scolori in volto...
— Continua, per carità... continua.
— Signore! bisogna pur farci una ragione... io nacqui prima di te, e la natura vuole che prima di te muoia... dunque mi hai da promettere che quando sarò morto tu mi riporterai in Italia,
. . . . . . . nella mia,
Nella diletta tua terra natia,[33]
e lì mi darai sepoltura a canto la madre; così pensando... che se vivo ebbi a starmi lontano dalla terra natia, morto potrò riposarci in pace, l'anima mia si consolerà.
Allora Eufrosina, ponendo a sua posta la destra sopra la spalla di lui, tutta accesa nel volto, gli tenne il seguente discorso:
— Curio, ascoltami: io mi confesso femmina di poca levatura, quel poco che so l'ho imparato da voi; pure, meditando sopra le sentenze vostre e dei grandi patriotti italiani che ebbi in sorte udire, credo poter pronunziare un giudizio poco lontano dal vero intorno la qualità dei nostri tempi. La Italia nostra, tra bene e male, nè intera ha potuto unirsi, in onta agli sforzi di tenerla disunita di quei dessi che ora si vantano fattori della sua unità: unirono l'Italia la necessità delle cose e la virtù del popolo affidata nelle mani di Garibaldi; adesso ella è cascata in potestà di paltonieri come il retaggio improvviso dello zio morto in America; costoro, quanto più patirono miseria per lo addietro, tanto maggiormente si sono voluti rifare a tirar via negli scialacqui; dai vizi antichi accoppiati alle viltà nuove pullularono banchieri, borsaioli, giocatori, ruffian, baratti e simili lordure; ciurmaglia d'insetti non più visti prima, roditori come tarli, sozzi come cimici; ribollirono le fogne spingendo a galla ogni maniera di lordezza; gli scrivani diventarono scrittori; allagò dovunque la mediocrità invida e trista; perchè lo scritto riuscisse di un bel nero morato, tuffarono la penna nella propria coscienza; le sacre lettere mescolarono con l'acquavite e la viltà, e poi le propinarono alla cittadinanza, che ne rimase avvelenata; gli ebrei considerando allora che il mestiere fruttava, chiusero tante botteghe di rigattiere e ne apersero altrettante di giornali, ma così nelle une come nelle altre essi, con anima e mani sudicie, continuano a vendere cenci sudici. Tasse a diluvio; fortuna pubblica nabissata, la privata distrutta; esercito infermo; senza combattere dentro ci divora, combattendo fuori non è creduto capace a difenderci; all'opposto presumono educarlo can mastino della monarchia per addentare repubblicani. Con gl'impieghi crearono un nugolo di consumatori a fine di legarli col vincolo dell'interesse alla monarchia; la monarchia è un interesse; chi la rode la difende, finchè ci è da rodere; dei produttori ogni dì se ne strema il numero per molte cause, massime delle emigrazioni di cui esultano col giudizio del matto, che vedendo bruciarsi la casa batte le mani. I preti crescono come l'ombra cresce quando tramonta il sole, tra poco sarà l'un'ora di notte. I nostri uomini di Stato sapevano che preti e ortiche si propagano stupendamente spontanee, tuttavolta li hanno fecondati col guano; speravano disfare i preti come un cavo vecchio e filare la loro autorità dentro la corda nuova, mettere in combutta sacramenti e manette; mitra di vescovo e lucerna di giandarme; stolti! il prete pesca per sè, tutto per sè, sempre per sè: l'arme del prete è la rete. La materia viene dalla terra ed alla terra ritorna, lo spirito si parte da Dio e a Dio si ricongiunge; chi più nobile dei due, lo spirito o la materia? Certo lo spirito; dunque il prete non intende fare a mezzo col potere laico, molto meno stargli sottoposto; egli rappresenta Dio; prostratevi pertanto ed obbedite. Sul campo di battaglia i destini degli eserciti pendono nella mano della fortuna, nel confessionale il destino del prete sta sicuro nella mano del prete. La favola di Prometeo, in grazia del bel giudizio dei ministri italiani, si è convertita in realtà; ecco lo Stato, con le mani e co' piedi legati, messo sotto al becco dello avvoltoio prete perchè lo divori. Del popolo un dì levati a cielo il cuore e lo intelletto; egli sorgente di tutto diritto, egli solo capace di provvedere alla felicità del paese, dandosi per via di plebiscito un padrone; il popolo, buttato via un basto, si chinò giù carponi a sottoporsi ad un altro, come se non avesse provato mai di che cosa sappiano i basti; difatti, eletto appena il padrone, la scena muta; stupido, è bandito, e a tutto incapace, eccettochè a portare rena e calcina alla fabbrica della monarchia costituzionale. Se taluno più astuto non avesse avvertito: badate! potreste avere bisogno del suo sangue, lo avrebbero scaraventato in mare col sasso al collo come un cane tignoso; invero, quando ebbero bisogno di sangue, ecco, fecero scodella delle mani per raccogliervelo dentro, e il popolo strappato dai solchi e dalle officine ce lo versò a bocca di barile. E quale n'ebbe mercede il popolo? Una manata di briciole, che andatagli negli occhi lo acciecò, ma se gli fosse caduta in bocca non lo avrebbe sfamato; però il popolo si è fatto del cuore un salvadanaio di odio dove ogni giorno depone un soldo, e dello intelletto una spelonca dove accumula errori e istinti selvaggi. I vermi, che nella corruzione universale si fanno grassi come canonici in concistoro, levando la voce garriscono:
— O che irrequietudine è questa? O non avete voluto la patria unita? O non l'abbiamo fatta tutti un po', e Dio sa con quanta pena? — Dunque, perchè non posate una volta? Noi, vedete, siamo contenti; certo poteva toccarci di più, ma bisogna adoperare discrezione, e ci confessiamo soddisfatti; o perchè non lo siete anche voi? — Noi non lo siamo, perchè voi divoratori, noi i divorati; noi le api produttrici del miele e voi i fuchi che ce lo rubate; voi, come le lampade dei bastimenti, vi mantenete sempre in bilico sia che soffi vento di servitù straniera o vento di servitù domestica; voi condite di abiezione il vostro cibo e lo tenete più accetto al vostro palato; voi serbate la indegnissima anima vostra con la gira in bianco per indossarla a principi, a repubbliche, a tutti, a patto però che vi facciano abilità d'imbestiarvi nei godimenti materiali della vita. Ora ci vuol poco a capire che così non può tirare innanzi, e quando qualche urto straniero non ci desse la stretta, l'ordine sociale tracollerà per disfacimento interno, di tutti i mali il peggiore, perchè con la mota non si fabbrica, e se la stringi ti sfugge dalle mani dopo avertele insozzate. Quelli che se ne intendono affermano i popoli corrotti potersi solo rigenerare o per invasione straniera o per guerra civile: per guerra straniera io non credo, perchè di due cose l'una: o la vinceremo o la perderemo; quindi od oppressori od oppressi; o esercitare tirannia o patire servitù; e l'una alternativa e l'altra cagione presentissima di pervertimento: per guerra civile qualche volta il popolo corrotto si è rigenerato, ma la prova è zarosa e piena di pericoli; i nemici del popolo in subbuglio, cogliendo la occasione del disordine che tiene dietro ai rivolgimenti pubblici, potrebbero percuoterlo alla sprovvista, ma in ciò mi conforta quello che sovente udii dalla bocca del padre nostro Maurizio e del generale Garibaldi, ed ho anche letto che un popolo in rivoluzione si trova più presso a conquistare che ad essere conquistato; un altro pericolo egli è che dalle discordie nasca un soldato, il quale di punto in bianco ti salti addosso tiranno, e si deve reputare guaio grande e tuttavia minore della libertà ipocrita e meretricia, imperocchè dal primo qualche virtù annacquata sorge, mentre la seconda spegne ogni nobile aspirazione: pure gli è forza masticare quello che il destino, o piuttosto le nostre mani ci hanno ammannito. I seduti a mensa, alla minaccia della guerra civile si cacciano le mani dentro i capelli ed urlano: — Sacrilegio! parricidio!... — Silenzio, ribaldi; a voi, e più che a tutti a voi altri si affibbiano con le debite varianti i versi tremendi:
Vile, un manto d'infamia hai tessuto,
L'hai voluto — sul collo ti sta;
Nè per gemere — o vil, che farai,
Nessun mai — dal tuo collo il torrà.
La trista genia non si spaventa delle guerre straniere, e sì che in queste un popolo intero è avventato col ferro in mano a tagliarsi la gola con un altro popolo che non conosce, non gli ha nociuto in nulla, non odia, senza sapere il perchè, e ne diserta i campi, le case arde, oltraggia le donne, lacera vecchi e fanciulli; lo ubriacano di acquavite e di parole più perfide assai dell'acquavite, come: gloria, onore delle armi e decoro della bandiera, le quali insomma adombrano vanità e cupidigia di un feroce spesse volte codardo. Nerone, senza lo aiuto di Epafrodito scrivano, non sarebbe giunto ad uccidersi; a Napoleone I non riuscì avvelenarsi. Nelle guerre civili tu sai quali offese vendichi, perchè combatti, che vuoi; l'odio ti arma la mano, chi ti tormentò tormenti; applichi la pena del taglione; dente per dente, occhio per occhio; le truci passioni che t'infuriano in petto, se non giustificano il male che fai, lo spiegano. Come possiamo augurarci di ristorare la fortuna pubblica d'Italia senza fallimento? Il giorno che terrà dietro alla bancarotta sarà preceduto dall'aurora della risurrezione del credito nazionale. Cittadinanza marcia e amianto sudicio si lavano col medesimo bucato: bisogna buttarli sul fuoco. Come rinetterete le strade delle città dalla marmaglia dei rettili, se non per via di un diluvio universale? Non per questo ci dobbiamo perdere di animo, perchè ogni diluvio termina coll'arco baleno, annunzio di giorni più sereni. I popoli non muoiono; dopo gl'incendi le città si rifabbricano più belle; testimonio Roma dopo Nerone, e Mosca ai giorni nostri dopo Ropstokin. E tu, Curio, che ti triboli perchè la fortuna ti abbia sbalestrato fuori della tua patria, esulta; tu non avrai desiderato, nè promosso, nè preso parte ai giorni di lutto della tua terra nativa; e poichè la tua mano si sarà preservata pura della strage del passato, così potrà farsi iniziatrice del futuro. Troppe e troppo spesse le sventure si rovesciarono sopra di te, e ti hanno sgomento; il tuo cuore contristato respinse la guida dell'intelletto, ed hai corso pericolo di sommergerti nella disperazione. Pertanto io credo fermamente e con sicurezza ti annunzio che tu, io ed i tuoi figli rivedremo la patria nostra purificata e ci potremo con dignità e contentezza esercitare i doveri prima, poi i diritti di cittadini liberi davvero, di capi di famiglia e di amici della umanità. Che se (e non lo voglia Dio) la morte rendesse tronchi questi santi presagi... allora... allora... sta' sicuro, la tua volontà sarà legge alla tua consorte.
Il singhiozzo le tolse la parola, ed ella conchiuse il suo ragionare stringendosi al seno con quanto aveva di forza nelle braccia il diletto marito.
Curio, non meno commosso di lei, la baciò in fronte dicendo:
— Eufrosina, parlami sempre così; alle donne i cieli furono cortesi del dono della profezia; mantienmi sempre accesa la speranza, ed io ti dovrò troppo più della vita del corpo, la salute dell'anima.
*
Il vecchio rassomiglia al pellegrino, il quale andando su per lo estremo lembo della terra mira sul dorso delle onde agitate giungere a riva le reliquie del naufragio; però che il vecchio, pure su l'ultima spiaggia della vita, contempli travolti dagli anni arrivargli ai piedi i frantumi dei suoi affetti, ed altresì dei suoi concetti. Così quell'io, che un giorno scrissi parole di obbrobrio contro la Speranza, adesso mi chiamo in colpa e m'inchino alla sua divinità! La benefica Iddia non mi aborrì per le mie esecrazioni, all'opposto moltiplicò verso me le sue blandizie, come madre amorosa costuma al figlio infermo. È fama che, quando Dio padre richiamò in cielo la Felicità, la Speranza sua sorella minore le tenesse dietro, ma arrivata che quella fu a mezzo dello emisfero si voltasse, e in atto dolce di pietà e di amore così le dicesse:
«Torna fra gli uomini, sorella. Dio ha chiamato me sola, e con profondo consiglio, imperciocchè senza me e senza te cotesti miseri in breve si struggerebbero di angoscia».
La Speranza ritorse l'ale, ed indi in poi non ha abbandonato più le dimore degli uomini. Quivi ella si pone allato della culla dove il pargolo si lamenta se gli manchi il latte; ovvero siede al capezzale dei moribondi, o su i campi di battaglia bagna le labbra riarse del volontario agonizzante, o ne raccoglie l'ultimo sospiro per portarlo alla madre, alla sposa, alla sorella; con un raggio di sole meridiano penetra nella carcere più profonda e conforta il prigioniero che langue. Che più? Ella è salita sul patibolo col condannato e lo salvò dal terrore della morte... alzandogli il capo in su e facendogli leggere in cielo: perdono.
Tutto o prima o poi abbandona l'uomo, la gioventù, la bellezza, la salute e le sostanze; egli ha veduto allontanarsi da lui gli amici e i beneficati; più di rado parenti e figliuoli, e talora anche la madre; se la moglie gli rimase al fianco, e' fu come quella di Giobbe, per tormentarlo nella miseria. Ogni giorno la luce del sole si nasconde agli occhi nostri, ogni notte declinano le stelle, ma la Speranza non si allontana mai; neppure la morte è potente a scacciarla, imperciocchè ella si metta dietro la nostra bara, ci accompagni alla fossa, assista alla nostra sepoltura e non consenta a lasciarci neppure quando è chiuso il coperchio del nostro monumento. La pietosa allora si pone a sedere sopra il marmo funebre, e fissa in Lui che volentier perdona, scioglie il più sublime dei cantici, quello della Resurrezione.
Salute dunque a te, o divina Speranza!
FINE.
NOTE:
1. Intra due cibi distanti e moventi
Di un modo, prima si morria di fame
Che liber'uomo l'un recasse a' denti.
Par. 4.
2. Giuseppe Massari, una maniera di feto mostruoso della libertà, che merita essere impagliato e conservato in qualche museo per servire alla storia naturale della monarchia temperata del regno d'Italia.
3. Così con parola pulita si chiamano le spie.
4. Il matto piglia uno svarione: due furono le Artemisie; una appunto regina di Caria, moglie di Mausolo, che fece quello che fece, come dice il matto, e morì di dolore due anni dopo la perdita del marito; almeno così la conta Teopompo presso Arpocrate; l'altra fu figlia di Ligdamide, regina di Alicarnasso e di taluna delle isole circostanti, e questa fu che infuriando di amore per Dardano abideno, per gelosia gli cavò gli occhi mentre dormiva; e poi, vie più smaniosa, a rimedio della passione che le bruciava le ossa, così consigliata dall'oracolo, si precipitò dalla rupe di Leucade, dove le si spensero ad un punto l'amore e la vita; questo si trova scritto nella Storia Nuova di Tolomeo Efestione, dove occorre il catalogo di tutti quelli che fecero il salto; rimetto a lui coloro che desiderano più ampie informazioni, e li avverto altresì che dove volessero provare troveranno sempre la rupe di Leucade a Santa Maura, isola ionica, disposta a servirli.
5. Questo Piantoni il 22 gennaio 1871 impiccava in Alessandria Antonio Vertua; ed era la sua 171ª, dico centosettantunesima impiccatura. Nell' Eco del Tirreno, 5 novembre 1872, da tale che esaminò il cadavere dell'impiccato si afferma che le ossa del collo erano al loro posto, e non rotte, il midollo intatto; il boia col suo laccio semplicemente affogò l'appiccato, ed esso non potendo respirare morì asfittico.
Da questo racconto si ricava come il prelodato boia contasse panzane quando si vantava egli solo possedere l'arte di spacciare subito, e senza quasi dolore, il paziente, rompendogli con un calcio o due esteticamente assestati taluna delle vertebre cervicali. L'avvocato Giacomo Borgonuovo, nel suo terribile libro Il Patibolo, il Carnefice e il Paziente, racconta come Pietro Piantoni, impiccando a Genova Felice Abbo, per bene dieci volte pestasse sul capo di cotesto infelice, senza contare Giorgio Porro, aiutante, il quale per di sotto tirava giù a strattoni da schiantare la corda. Anche il patibolo ha i suoi ciarlatani.
6. Quello che noi chiamiamo the i chinesi dicono tchà; the significa nella lingua loro: comprate, pigliate; noi abbiamo scambiato il nome della merce col verbo mediante il quale ve la offrono.
7. Assentato — scritto al libro, alla matricola, voce spagnuola venuta in Italia nel secolo XVI; conservata in Piemonte, e da lui estesa odiernamente a tutta la penisola come reliquia di patita servitù.
8. Frà Agnolo Firenzuola, che ragionò della bellezza delle donne, e se ne intendeva, ecco che pensa intorno alla bianchezza delle donne: «alle guance conviene essere candide; candida è quella cosa che insieme con la bianchezza ha un certo splendore come l'avorio; e bianca è quella che non risplende come la neve. Se alle guance dunque, a volere che si chiamino belle, conviene il candore, al petto basta la bianchezza solamente». Dialogo I, p. 21. — Per me non vo' lite coll'amoroso abate vallombrosano, ma le facce lustre, inverniciate, mi sembra che si addicano alle bambole, non già alle belle donne; però me ne rimetto agl'intendenti.
9. Se a Platone, innamorato di Archeanassa, matura di anni, parve vedere gli Amori folleggiare nelle rughe del volto di lei, non parrà strano che a Curio sembrasse vedere il peccato e la morte giocare alla buchetta nei butteri della faccia della vecchia suora di carità.
Mentre correggeva questo capitolo, mi capitarono i giornali, dove leggo che nella seduta del 13 marzo 1873, nel Parlamento italiano, trattandosi di queste male femmine, fu detto che negli ospedali sono un vero malanno. Dieci anni fa ebbi ad osservare il contegno rapace, gesuitico di coteste gabbiane nell'ospedale di San Francesco di Paola, e non mancai di farne parte al mio buono amico Durando, generale di divisione a Genova.
10. Cicognara, Storia della Scoltura, l. 4, c. 7.
11. Schiaffo.
12. I nomi stanno stampati nel giornale Il Faro, che riportò le proteste degli sciagurati, perchè chiamai assassini peggiori degli austriaci quei soldati che avevano ucciso donne e fanciulli disarmati a Brescia.
13. Affermano la formazione delle perle sequela di una infermità dell'ostrica.
14. Pizzuga, così il popolo chiama la tartaruga.
15. Così racconta Plutarco nella vita di Antonio, § 48: «Narrasi che un giorno in cui gli ateniesi stavano raccolti in assemblea, Timone, salito su la ringhiera, tale favellasse in mezzo al silenzio universale e alla aspettazione di tutti per simile novità. — Io possiedo, ateniesi, un orticello, dove mi nacque un fico, al quale si sono già impiccati parecchi cittadini: ora essendo io in procinto di fabbricare in cotesto luogo, ho voluto prima significarvelo pubblicamente, acciocchè se qualcheduno avesse pur voglia impiccarcisi, non metta tempo in mezzo per farlo innanzi che e' venga tagliato; Dio vi mandi il malanno a quanti siete.»
16. Prov., c. 29, n. 17.
17. «Sur la route de Fredericksbourg la ferme d'un monsieur Masenbach est gardée par des ours apprivoisés en guise des chiens». Domenech, Journal d'un missionaire au Texas et au Mexique, p. 39. Questo fatto confermano parecchi altri viaggiatori.
18. Eragli cessata ogni speranza di vivere, da poi che, domandando del luogo in cui era, sentì che denominavasi Frigia, però che quivi appunto gli era stato predetto ch'egli dovrebbe morire Ammiano Marcellino, Stor., l. 25, § 4.
19. Oggimai non occorre storia la quale ometta riportare questo fatto, comecchè notoriamente falso. Ammiano Marcellino, che si trovò presente alla battaglia di Frigia, alla morte di Giuliano, ne tace; lo misero fuori Sozomeno, Teodoreto ed altri scrittori cristiani, dacchè la religione nostra, ormai scaduta dalla purità primiera, sentiva il bisogno, per sostenersi, della menzogna: gli è giusto ricordare che il gesuita Petavio, nella opera: De ratione temporum, T. 1, p. 149, lo dichiara espresso: fabula plebeia.
20. Ci erano due maniere porpora: una violacea, colore che piglia di sovente il mare in Oriente. Omero qualifica il mare purpureo. In mare purpureum violentior influit amnis. Virgilio, 4 Georg. Purpureis agitatam fluctibus Hellen. Properzio, l. 2. Eleg. 20. E così pure Cicerone più volte in Acad.
21. Anastasius, in Vita Zachariae.
22. Catollo — tozzo di pane; manca al vocabolario della lingua; l'adopra A. Caro, Volgarizzamento degli Amori di Dafne e Cloe.
23. Questo fatto è raccontato da tutti gli storici inglesi. Il Lingard afferma ciò accadesse sopra la spiaggia di Southampton; e attestano altresì che Canuto adoperasse in cotesto modo per pungere la piaggeria dei cortigiani, che assicuravano a lui ogni cosa possibile.
24. Quidni? Nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potero speculare ubique sub coelo? Epistola X, Amico Florentino.
25. Non ci mancava altro che questa! Tra gli altri privilegi, ecco che i romanzieri si usurpano la facoltà di spengere e di accendere gli occhi, come i lampionai costumano i becchi del gas. Non è così; rinnuovo lo avvertimento, che i casi esposti in questo libro sono tutti cavati dal vero, comecchè poi svolti con l'arte. Ora il fatto della perdita e del riacquisto della vista nella maniera narrata è conforme alla verità. Dubitando delle mie notizie in medicina, poche ed incomplete, feci consultare in proposito un professore che con lode universale si è consacrato allo studio speciale delle infermità degli occhi, che cortesemente rispose al quesito nel modo seguente:
«Un individuo nato cieco potrebbe acquistare la facoltà di vedere, e ciò istantaneamente, qualora la cecità fosse dovuta ad una cateratta, e questa o per convulsione, o per caduta, o per colpo e simili si lussasse e si spostasse. Potrebbe altresì darsi il caso che il nervo ottico, preso da un gran torpore alle sue origini cerebrali, acquistasse salute quando una violenta azione morale modificasse codesto centro nervoso.
«Devo avvertire però che di tutto questo non conosco esempi, anzi la seconda ipotesi è così lontana dal probabile che, se mi se ne offrisse uno esempio, vorrei procedere molto severo nel ricercare le prove di una vera e propria cecità antecedente al fatto asserito.
«E qui parmi d'aggiungere che dove mai accadesse questo quasi miracoloso abilitarsi dell'occhio alle sue funzioni, l'individuo non saprebbe probabilmente distinguere gli oggetti, nè i colori, nè la posizione degli oggetti relativamente a sè ed agli altri corpi nello spazio. È celebre uno studio fatto (e si trova in tutti i libri di fisiologia) sopra un tale che Ciselden operò e guarì dalla cecità congenita quando era già adulto; ed io pure ho esempio nel quale la inesperienza dell'organo andava tanto oltre, che alle prime credei la operazione non riuscita; ci volle circa un anno perchè l'occhio si abilitasse normalmente».
Tutto questo è discorso egregiamente dal dotto professore, ma non fa al caso nostro, imperciocchè Eufrosina non fosse nata cieca, bensì divenuta tale per veementissima commozione dell'animo. Intorno al caso speciale ecco come ragiona il prelodato professore:
«L'individuo che possiede il pieno godimento della sua visione può per un violento moto dell'animo rimanerne privo di un tratto, e proprio per ispeciali modificazioni della maniera di essere del nervo ottico. Ora, quando trattisi di una di queste speciali modificazioni, un altro moto violento dell'animo può dalla cecità ricondurlo alla visione. Anzi io penso che fra donne isteriche questo fatto sia facilissimo e frequentissimo, ed io stesso l'ho osservato non ha guari qui in Pisa, ecc.
« Pisa, 6 aprile 1871. »
26. Scottato dall'acqua calda, mi fa paura la fredda. Traduzione libera.
27. Barnum, il grande ciarlatano americano.
28. Ovidio, Metamorph., l. 6.
29. Eschilo, Eumenidi, trag.
30. Festo Varrone, De Re Rus., l. 2, c. 5. Columella, De Re Rus., l. 5, nec dubium quin ut ait Varro cæteras pecudes bos honore superare debeat, præsertim in Italia quæ ab hoc nuncupationem traxit.
31. Bovem in Sicilia locutum. Hist., l. 24.
32. Buccol., Eglog. III.
33. Grossi, Il coro lombardo.