1847.
LA SERPICINA.
Quæ ipse vidi …. et magna pars fui. ÆNEID.
Era l'ultimo giorno di carnevale, ed io me ne stava sopra un monte altissimo, dove non saprei dire quante, ma da ore ben molte cadeva in fiocca neve fredda e copiosa quanto….. quanto un discorso accademico, o poco meno.—Ora come io segaligno e freddoloso lassù?—Noi altre povere creature, a guisa di pagliuzze in balía della procella balestrano i fati, adesso in cima ad un campanile, adesso in fondo di una cantina, senza conoscerne sovente, epperò senza poterne dire, la cagione. Per quanto aveva durato lungo quel giorno benedetto, io era andato leggendo gli Apoftegmi dei re e capitani famosi esposti dal Plutarco, sicchè gli occhi mi frizzavano forte, e la mia testa mi pareva ripiena di cotone; per la qual cosa, chiuso il libro, mi ripiegai sopra me stesso, e pensai,—commentai,—ampliai, e restrinsi quello che aveva letto, e quindi, dopo tanto vagare di cervello, d'induzione in induzione mi condussi a conchiudere: andiamo all'osteria!
Per li Dei immortali! ma non occorreva egli modo di passare più decentemente la serata? Oh non vi erano gentiluomini, non vi era clero lassù? Vi erano;—vi erano. Avrei potuto ridurmi a casa di certo canonico, uomo dabbene e amicissimo mio; ma, a vero dire, egli non rifiniva mai da mettere discorsi di benefizii, appuntature, prebende et reliqua, cosicchè me n'era venuta al cuore una grandissima sazietà.—Poteva ridurmi eziandio a visitare il vicario (che per vicario era fatto bene); ma quivi pure tanto io aveva udito favellare continuo di promozioni, pensioni, gratificazioni e simili, che me n'era venuta al cuore una grandissima sazietà.—Poteva infine avviarmi da qualche gentiluomo del paese, buona anch'essa e cappata gente, come direbbe messere Carlo Botta, ma quei dabbene gentiluomini mi riuscivano gravi più dei pesi che si pongono sopra la stadera dell'Elba, di cui la prima tacca è sul mille, e per di più così uniformi tra loro, che ritti uno accanto dell'altro mi parevano mattoni stesi su l'aia del fornaciaio. Di balli anche costassù non si pativa penuria, ma i balli si addicono ai felici;—quando il sangue giovanile concitato dai lumi, dalle musiche e dai giri violenti picchia forte nelle arterie, allora lo apparire e lo scomparire tramezzo cotesta agitazione di un capo biondo o di un capo nero, di due occhi protervamente scintillanti, o di due occhi mestamente languidi, rassembra una commozione di onde per entro un mare di voluttà;—allora lungo la mano che sente palpitare le membra della donna amata scorre una vampa elettrica che fa tremare l'anima, e i labbri anelanti prorompono fiati di fuoco; e se mai avvenga che in cotesto turbinío le guance si tocchino, corruscano faville… Oh godete, giovanetti, i vostri balli! Il tempo e la morte battono la misura di coteste vostre danze, e voi non ve ne accorgete: meglio così; e meglio ancora sarebbe se potendovene accorgere non ve ne importasse. Benedicavi la Fortuna coll'acqua lustrale dell'oblio. Appunto perchè la vita fugge, amate e godete. Io era giovane allora, ma felice non fui giammai: la felicità suona al mio pensiero come una terra sconosciuta che non avrà il suo Colombo; e poichè un senso arcano mi disse essere gentilezza astenerci dalle gioie che non possiamo partecipare, imperciocchè la sembianza trista in mezzo della lieta brigata, a modo di una stilla di latte di euforbie dentro un bicchiere di acqua, la guasta tutta, così da cotesti tripudi mi astenni sempre, e mi astengo.
All'osteria! Ma notate bene, pura e vera osteria; dacchè degli altri ritrovi di moderna invenzione non sia da farne caso, e non vi s'impari nulla. All'osteria tutto si presenta svariato, cominciando dalle vesti, perchè vesti del popolo. Queste vesti raccontano sempre la storia del tempo passato, di rado del presente, talora del futuro, avvegnadio nulla nascendo nuovo sotto il sole, e tornando ad essere quello che fu, le fogge degli abiti si trovino a godere più delle altre cose di privilegio siffatto. Idee, argomenti, favella, modi, tutto insomma singolare possiedono i poveri:—essi non conoscono educazione che li tosi, rispetto che li limi, riguardo che li scorci, convenienza che li curvi, finchè resi tutti di una misura e di un garbo, impiastrati della vernice di bugiarderia, vadano sciolti fra gli uomini, come le mummie di Egitto. Io non conosco per ora cosa più sincera, nel mondo, della povertà, se non fosse la miseria.
E poi l'osteria di questo paese non è mica fatta come l'osteria degli altri paesi; mai no. Qui gli artefici principali convengono; qui il dottore fisico, e qui il cerusico; qui il dottore legale, e qui il notaio, che di faccia alla legge equivale al cerusico di faccia alla medicina; qui il nobile uomo, e qui talora io vidi far capolino anche il prete;—perchè oltre al vino, in questa osteria danno a bere una cotale acqua tinta in nero, che per amichevole convenzione tra venditore e compratori è stabilito che non abbia a chiamarsi inchiostro, ma caffè;—e le menti nate a speculare in politica vi trovano la Gazzetta di Firenze, e qualche volta il Giornale di Foligno di un mese, o tutto al più di quindici giorni indietro, per non istarcene male informati sopra le vicende del mondo.—E neppure l'oste è fatto come l'oste degli altri paesi: in lui la etimologia del suo nome si trova in fallo: oste, dicono derivare dalla parola latina hostis, però che l'oste si comporti come da nemico contro i suoi avventori; ma questo mio oste, in primo luogo, non mescola mai acqua nel vino; in secondo luogo, non con voce, ma con lo esempio anima gli avventori a bere; primo all'assalto, ultimo alla ritirata, a modo dei re di Sparta, spesso ei si giace vittima del nobile ardimento, onde i conti si fanno il giorno di poi, e gli avventori gli danno ragione del bevuto, e pagano con probità religiosa. Biagio si onora essere cattolico, apostolico e romano, e dice che reputa miracoli tutti i miracoli, ma accerta quello di convertire l'acqua in vino alle nozze di Cana in Galilea doversi reputare miracolo miracoloso; e quando io gli narrai avere veduto nella cattedrale di Pisa un quadro di buon pennello rappresentante San Ranieri, il quale versatosi in grembo della veste il vino annacquato fece colarne il vino e restarvi l'acqua onde chiarire il tradimento dell'oste, e intanto il Diavolo in forma di gatto se ne stava sopra una botte; egli, pensato alquanto sopra quel caso, gravemente osservò: "Non poteva fare a meno, perchè costui era il Giuda degli osti, e la sua anima era diventata proprio cosa del Diavolo, che, se la guardava, e' faceva bene."
Biagio (ed io ti prego, amico lettore, ad essermi cortese di perdono se troppo vado per le lunghe) amano, reveriscono tutti, e tengono meritamente in pregio: lui persone di ogni maniera consultano, ed egli serio ascolta, e serio risponde; e il gentiluomo, il vicario e il canonico, quando ei ragiona, sorridono, e gli porgono la scatola, dove egli tuffa disperatamente le dita, perchè bisogna dire come sia grave vizio di Biagio questa rabies di tabacco; ed egli ha tentato più volte di guarirsene, ma, povero uomo! non ci è potuto proprio riuscire, perchè il naso forma una provincia a parte, e ribellata, starei per dire, come gli Stati-Uniti dalla Madre Patria, e per colpa sua egli ebbe a toccare delle sconce mortificazioni, di cui basti referire solo una.
Certo giorno un fattore dal contado di Perugia venne alla fiera del paese, e trasse di tasca la scatola piena stivata di tabacco, detto di Chiaravalle, sottilissimo e grato, offerendone a Biagio. Biagio, che già la guardava con occhio feroce, non se lo fece dire due volte: ed ecco avventa le dita come artiglio di aquila; ma tanto si presentava compressa la polvere, che appena gli veniva fatto sfiorarne la superficie. Allora per acquistare tempo e far lavoro, il subdolo Biagio prese a interrogare il fattore come stesse la moglie, e se i figli fossero costumati, e i bovi grassi,—e poi come si chiamasse suo padre, e se vivesse, e quanti anni correvano che il dabbene uomo aveva detto addio ai campi;—e intanto minava la scatola. Il fattore, come colui che di Biagio non era punto meno arguto, con un tal suo garbo romanesco gli disse:—"Compare, o che volete vedere s'io lo abbia sotterrato qui dentro?"—Biagio diventò rosso fino alla radice dei capelli, e tanta vergogna lo prese, che fece voto starsene tutta la sua vita senza tabacco:—e l'osservò per due ore.—Povero Biagio!
Ma che io vi abbia detto dell'oste è poca cosa, però che adesso mi faccia mestieri tenervi discorso di Lazzaro il tintore. Lazzaro è segaligno; e sembra composto di stinchi: porta calze turchine, turchini i calzoni; la veste, la sottoveste, la camicia turchine; turchine le mani, ed anche la faccia turchina: anzi dentro le crepature della pelle così tenace vi prese dominio per diritto di prescrizione il turchino, che sarebbe opera perduta e illegale volernelo spossessare, e credo che ei non lo tenti nemmeno. Insomma un droghiere potrebbe appiccare Lazzaro allo sporto della sua bottega per mostra d'indaco. Veramente la sua faccia qua e là comparisce chiazzata di vermiglio; ma siccome anche l'indaco presenta in parte rossa la sua superficie, così il paragone piuttosto che venire meno, rinforza. Io mi ricordo come se fosse adesso, che incontrando talora Lazzaro per la via, sul fare del vespro, imbacuccato fino agli occhi, col solo naso infuocato e cremesino fuori la pistagna del pastrano, io tra me e me pensava che tale aveva ad essere la spada fiammeggiante del Cherubino posto a guardia del paradiso terrestre.
In cotesto paese bevono tutti largamente,—lungamente,—e lealmente. E sembra ancora che la Provvidenza abbia decretato così, perchè da una parte gli ha donato il migliore vino che le viti piangano nel mondo, e dall'altra gli negò le fontane, onde è forza usare le acque di cisterna, a cagione del suolo o per altro accidente, di sapore amare. Ho detto poi che bevono lealmente, avvegnadio gli antichi Statuti di questo Comune difendano tenere consiglio post prandium e se ne adduce il perchè senza mistero, con quel candore che distingue i galantuomini veri: propter vinum.[1]
Lazzaro è di eloquenza naturale un fiume: egli ha tinto e bevuto moltissimo, ma ha letto anche molto: però le sue parole stanno in lite perpetua con le sue azioni. Rimase vedovo, e dice sempre: per la grazia di Dio;—e poi tutte le sere nell'ora dei morti egli va in chiesa a recitare il De profundis per l'anima della sua povera defunta; nè mai gli avviene di sentire rammentare Lucrezia sua moglie senza che gli occhi gli si empiano di lacrime. Lazzaro ha due nepoti, uno maschio e una femmina, a cui vuole più bene che a se stesso, e li raccolse orfani, con supremo amore tenne loro le veci di padre, e con esquisita delicatezza quasi ancora le veci di madre, ma non vuole sentirne parlare. Secondo lui, era meglio farne concio: se gli ammirano la vigoria dei giovani, ed ei burbero:—"la mala erba cresce presto."—Se lui per la egregia indole dei ragazzi predicano beato, egli esclama:—"Li tolsi per bastoni della vecchiaia; se mi staranno in mano o mi cadranno sopra le spalle, vedremo poi."—Insomma egli è un cervello balzano, ha il capo pieno di girandole, abbaca sempre co' suoi ghiribizzi, e parla per via di parabole con motti arguti, e mordente che fa proprio gusto a sentirlo.
Quando entrai nella osteria si strinsero su la panca, ed io mi vi posi a sedere davanti al fuoco, e reiterate le oneste accoglienze, Lazzaro a cui la mia comparsa aveva tronco il filo del ragionamento, continuò in queste parole:
—"… dunque non fare mai bene se non vuoi avere del male: e questo è detto antico; ma, come sapete tutti, la verità ha i capelli bianchi e lunghi, perchè gli uomini la maltrattano per modo che la poveretta non si trova mai tanto da pagare il barbiere che glieli tagli."
"Ma voi non parlate la verità," riprese Biagio: "io, per me, mi sento rinascere quando mi trovo secondo le mie forze ad avere fatto un pocolino di bene."
"Perchè voi siete un presuntuoso," soggiunse Lazzaro; "e quando avrete dato un soldo, o due rosicchi di pane avanzato da tre giorni, vi sarà parso di mettere i consoli in palazzo: non vi pare egli un bel che proteggere a così buon mercato? Non vi empite di vento a farla da Mecenate? Oh ella è pure la bella cosa comprare un padrone lustrissimo con due rosicchi di pane? La vanità contratta con l'avvilimento, e la miseria e l'avarizia fanno da mezzane.—Non lo prendete a male, Biagio; ma voi quando date un soldo compiacete a voi stesso, e non vi muove la carità del prossimo."
"Io per me non ho mai pensato a cotesto."
"Non importa. Sapete perchè non ci avete pensato? perchè noi nasciamo così tristi, che ci riesce essere cattivi senza pure pensarci. E voi mi potete credere, che io l'ho letto nel magno dottore di santa madre Chiesa, Santo Agostino, là dove racconta che andava da ragazzo a rubare le pere, non già per mangiarle, ma per vaghezza di fare del male.[2] Il diluvio venne una volta, e adesso non verrà più, non mica perchè noi siamo diventati buoni, ma perchè fu detto: tanto vale lavare la testa al moro;—e la immaginativa dell'uomo è volta alla cattiveria fino ab inizio. Volete voi sentire una novella in proposito? Io ve la racconterò così come so e posso: alias mi tacerò, e sarà meglio; tanto fiato risparmiato."
Lascio considerare a chi legge se noi potevamo ricusare una novella in una serata d'inverno quando la neve fiocca, standoci seduti al canto del fuoco?
Allora Lazzaro incominciò così:—Un montanino verso questi mesi scese per certe sue faccende in Maremma. Baciata e ribaciata la famiglia, mette un pane in sacca, chè dell'acqua da ogni parte se ne trova, e vassi con Dio. Giunto come sarebbe a mezza strada, ecco una vocina fioca percuoterlo all'improvviso, che in doloroso guaio diceva:—"Eccellenza! oh Eccellenza! per quanto amore porta ai suoi figliuoli, guardi di non pestarmi."—Il montanino giusto in quel punto pensava ai suoi figliuoli, onde tutto sentendosi rimescolare dentro, rispose tosto:—"Chi mi chiama? Che cosa volete da me?"—E la vocina fioca continua:—"Deh Eccellenza! abbassi gli occhi, e consideri una povera serpicina a qual misero stato si trova ridotta!"—E il montanaro dechinato lo sguardo vede una serpicina intirizzita dal freddo, che tirava l'anima co' denti e non aveva balía di muoversi.—"In carità," riprende la bestia," la mi prenda per la códa e mi getti nella fossa lungo la via, chè qui corro pericolo ad ogni momento di trovarmi dimezzata dai piedi dei villani che passano: io gliene farei supplica in carta bollata, ma in queste parti rozze, dove non si sa che cosa civiltà sia, non ci è chi la venda; e poi non essendo mai andata all'asilo infantile, non so leggere nè scrivere, onde la mi tenga per iscusata; però, Eccellenza, attesto il cielo della mia eterna gratitudine…"—"Eh! tu mi hai concio con questa Eccellenza; qui non fa mestieri suppliche,"—interrompe il montanaro; e detto fatto, prende la serpe per la coda. Allora la serpicina soggiunge:—"Di grazia, poichè si tolse tanto incomodo, mi vorrebbe ella mettere dentro il buco che si trova in quel masso là a destra della strada?"—"Eccoti nel buco. Vuoi tu altro da me?"—"Deh! non le sia per comando, e San Giuliano[3] lo conduca a salvamento: vorrebbe porre il colmo alla sua cortesia gittandomi addosso una manciatina di fieno per ripararmi da questo freddo crudele?"—E il dabbene uomo fascia la serpicina di fieno, e le domanda:—"Adesso stai tu bene?"—"Io sto d'incanto; gran mercè, e Dio vi mandi il buon giorno e il buono anno."—"Felice permanenza."—E il montanino si rimette la via per le gambe.—Arrivato in Maremma assestava le sue bisogne; e poichè vi rinvenne l'aria migliorata di assai, prese la terzana solamente, e poi deliberò tornarsene a casa.
Essendo capitato sopra la faccia del luogo dove trovò prima la serpicina, un grido minaccioso gli comanda:—"Olà! fermati, villano."—E il montanino subito pensò tra se: quando in questo luogo udii altra volta chiamarmi Eccellenza, potevo dubitare che dicessero a me; ma ora poi mi accorgo che vogliono proprio me; ond'egli fermatosi, gira attorno sbigottito lo sguardo, quando ecco sollevarsi dal masso una testa immanissima di serpe, la quale comecchè cresciuta fuori di misura, dalla fisonomia riconobbe tosto per la serpicina.—"Ohe, buona pasqua, comare! Che Dio vi salvi; come vi siete fatta fiera!"—disse il buono uomo, sforzandosi mostrare buon viso, quantunque dentro il cuore gli tremasse come foglia.—"Chi sei? chi ti conosce? quali dimestichezze sono elleno queste?"—"Diacine! sareste diventata signora? avete messo carrozza, per essere salita in tanta superbia? Peggio per voi…!"—E la serpe sbucando intera fuori dal nascondiglio, arricciate le creste, stralunati gli occhi, avventando in molto terribile maniera la lingua biforcuta, gli attraversa la via e fischia queste parole:—"Fa l'atto di contrizione, che io voglio mangiarti vivo."—"Mangiarmi vivo! Pensateci due volte, che io sono più di tre bocconi senza contare gli ossi: paionvi queste cose da serpenti garbati? Non vi si rizzano i capelli sul capo a favellarne soltanto?"—"Io non ho capelli."—"Non vi spaventa il bargello?"—"Le leggi non si occupano di serpenti."—"E l'inferno?"—"È casa mia…"—"Ma insomma in questi paesi non costuma mangiare gli uomini vivi:—tosarli un po', strizzarli,—pazienza! ma divorarli poi…"—"La metterò io questa usanza."—"Ma non ricordi come io ti campassi la vita? come intirizzita dal mezzo della strada ti ritraessi, nel buco ti accomodassi, di fieno ti ricuoprissi?…"—"Appunto perchè io me ne rammento bisogna che ti mangi vivo."—"Questa è una atrocità! questa è una ingiustizia!"—"Atrocità può darsi; ingiustizia no: e se tu fossi andato a studio, i dottori ti avrebbero insegnato come somma giustizia corrisponda a somma ingiuria."—"Ed io protesto d'ingiustizia."—"Ed io controprotesto che sbagli; e poichè sono una serpe onorata e gentildonna che scendo in linea retta da Cadmo, e i soprusi non mi piacciono, così mi offro pronta a farla giudicare."—"Ebbene sia: ma chi chiameremo noi per giudice?"—"Per me tanto io confido nella bontà della mia causa che te ne lascio la scelta."—"Andiamo oltre, che qualcheduno ci si parerà dinanzi capace a giudicare la lite."—"Andiamo, e Deus provvidebit, come disse Abramo ad Isacco."
Cammina, cammina, ecco farsi incontra a loro un cane che veniva via a scavezzacollo per quanto lo potevano portare tre gambe, che la quarta teneva attratta, come se storpio e' si fosse. Come venne più vicino, conobbero essere privo di un occhio, e tanto guasto dalla tigna da disgradarne San Lazzero.—"Fermati, cane, gli dissero, e vieni a sentire il nostro piato."—Il cane non li badava, e con la coda e gli orecchi bassi continuava la corsa, senonchè sentendosi un'altra volta chiamare, volse alcun poco il muso con sospetto, e sbirciandoli coll'occhio sano, rispose:—"Lasciatemi andare pei fatti miei; io non do fastidio a nessuno."—"No, sosta; noi non vogliamo farti male; vogliamo che tu decida una nostra lite."—"Voi mi date la baia: da quando in qua ci sono giudici cani?"—"Anche di fico si fecero i Numi;[4] perchè da un cane non può ricavarsene un giudice? Or su via, ad ogni modo tu hai da sedere giudice tra noi."—"O signore, come volete voi che io vi giudichi, se la fame mi toglie il vedere?"—"Noi ti pagheremo la sportula, e tu ti sazierai."—"Allora dite, e presto."
Qui l'uomo, esposta sua ragione con discorso brevissimo, concludeva: la serpe dalla sua istanza si rigettasse, e come litigante temeraria nelle spese giudiciali e stragiudiciali si condannasse.
La serpe, replicando, diceva: avere il montanaro esposto il punto di fatto con ammirabile lucidità; la sua ragione non abbisognare di troppi argomenti; essere d' intuitiva evidenza l'uomo nella sua qualità di uomo meritarsi la morte; per questo perchè avendo questa creatura proclamato il diritto di potere mangiare tutti, ognun sentiva che i divorandi nei congrui casi di ragione avevano diritto a mangiare lui; in altri termini, deve o no applicarglisi la pena del taglione? Dubitarne sarebbe assurdo, sarebbe un fare oltraggio a tutti i sillogismi in barbara che si costumano nel Foro. Qualunque altra condanna non raggiungerebbe lo scopo: quindi insistere a che la sua istanza si accogliesse, e l'uomo nelle spese del giudizio si condannasse, redazione, spedizione e notificazione della sentenza non comprese.
Il cane di posta cominciò ad abbaiare:—Deliberò deliberando: "In sequela della domanda presentata dalla serpe, condanno l'uomo ad essere mangiato vivo,—con sentenza eseguibile provvisoriamente,—previa cauzione,—e lo condanno nelle spese, che tasso e liquido in tutte le sue ossa, le quali mi aggiudico a rosicare per mia sportula ed onorario."
Il montanino non giacque morto e non rimase vivo; e risensato alquanto, in suono di lamento richiede:—"I motivi! i motivi!"
—"I motivi! ah i motivi!"—riprese il cane;—"presumi forse che io mi trovi imbarazzato a farteli: tieni, prendi i motivi.—Quando io m'era fanciullino, un animale della tua razza venne, e trovatemi le orecchie lunghe e il pelo fino, mi svelse dalle poppe materne. Qual fosse il dolor mio ditelo voi tutti, o cani sensibili, così a forza allontanati dalle dolci sembianze e dalle carezze di una madre!—Però l'uomo ebbe di me diligentissima cura; la credei affetto, ed era interesse; ma nella mia ingenuità non me ne accorsi allora; quindi gli posi amore, e se io m'ingegnassi piacergli, Dio te lo dica per me. Condotto a caccia, non incontravo fratta o siepe ove io anche con pericolo di restarne graffiato non mettessi il muso per farne sbucare lepre o pernice; nel cuore del verno animoso io mi tuffai per laghi e per riviere in traccia di germani o di arzavole; senza temere pollini mi avventurava su paduli per inseguire le folaghe; mi precipitai contro il cignale, e con offesa spesso, con pericolo sempre, io lo trattenni ai facili colpi del padrone: tornato poi a casa mi facevano entrare nella ruota a girare l'arrosto; finalmente accucciato sotto la tavola io mi recava a ventura rodere gli ossi degli animali vinti dal mio coraggio o dalla mia sagacità. Non basta: la notte io vigilava intorno casa, dove studiando piacere così al padrone come alla padrona, metteva in pratica lo insegnamento di quel mio confratello più di me fortunato:
Latrai ai ladri ed agli amanti tacqui: Così al padrone e alla padrona piacqui.
Certo giorno dal vicino villaggio mossero grida disperate:—Accorruomo! accorruomo!—E siccome gli uomini chiamati scappavano via, accorsi io, cane, non chiamato, e vidi un grossissimo lupo, il quale ghermito un fanciullo stava per isbranarlo. Mi accosto cauto, mi slancio con impeto, e come volle fortuna giungo ad azzannare il lupo dietro la nuca, lui strangolando e liberando il fanciullo. Potevo fare di più io, povero cane, per meritarmi la benevolenza di voi altri uomini? Or bene, ascolta adesso."—E il cane si atteggiava come l'araldo delle tragedie greche quando si accinge a raccontare la catastrofe.—"Il mio padrone scaricando una volta con troppa fretta lo schioppo, invece di ammazzare la lepre ferì me nel capo, e mi levò un occhio. Da quel punto in poi il crudele uomo prese ad abborrirmi come testimonianza vivente della sua incapacità: l'odio crebbe a dismisura vedendo come la gente prendesse dalla mia disgrazia materia a dileggiarlo; meditò farmi portare la pena della offesa che mi aveva recato: e voi uomini, dite, avete troppo spesso per nuocere altra ragione che quella di avere nociuto altra volta? Che più, lo dico o lo taccio? lo dirò per dimostrare la mia ragione, quantunque io me ne vergogni per voi, pensando che voi pure appartenete alla famiglia degli animali.—Un giorno io scorsi di traverso nel fitto del bosco lo efferato padrone prendermi la mira addosso per uccidermi da traditore alle spalle, e se non consumò il nequissimo fatto, e' fu perchè gli mancò fino il triste coraggio del delitto. Tornato, con un calcio mi rotolò in cantina, e mi vi chiuse dentro: colà l'aria umida e grave, il nutrimento guasto e sottile, ma soprattutto la passione (perocchè se voi sapeste, o uomini, qual cuore si abbiano i cani, preghereste Dio da mattina a sera di potere camminare con quattro gambe), mi cagionarono la schifosa malattia della quale mi trovo infermo.—Alla signora poi oggimai importava poco che i cani abbaiassero o tacessero:—alle visite tarde e notturne aveva assuefatto il marito…. quindi nè anche da lei ottenni un sospiro o una memoria. Avendo osservato un giorno socchiusa la porta della cantina, esclamai come Scipione:—ingrata casa, tu non avrai le mie ossa!—e con le zampe e col muso l'apersi intera, e fuggii; ma percorso un tratto di via mi volsi indietro a guardare le pareti inospitali, eppure a me care, per tante gioie godute,—ed anche, poichè così piacque al cielo, per tanti dolori sofferti, e tale me ne venne al cuore angosciosa stretta, che, tratto fuori un sospiro lunghissimo, per poco non tornai indietro a morire quivi di affanno… Ma risovvenendomi del villaggio ove io aveva salvata la vita al fanciullo, e la sicurezza in cui mi stava che mi avrebbero usato costà oneste e liete accoglienze, mi persuasero a proseguire. Arrivo, e mi affaccio appena alla piazza, che ecco levarsi un trambusto di urla e di fischi, e poco dopo un nuvolo di sassi. Vedi tu questa ferita nella gamba? Sai tu da qual mano mi venne? Tu fremi…?—Odilo, e fremi bene altramente poi… Ella mi venne da quel fanciullo stesso a cui aveva salvato la vita.—Ora dunque a che più indugi, o serpe? Quali dubbi accogliesti, e perchè dubitasti? Mangia vivo costui, e così tu potessi divorare insieme con esso tutta la perfida stirpe alla quale appartiene."
"Su via, presto, acconciati dell'anima facendo l'atto di contrizione," riprese la serpe: "il meno che meriti è divorarti vivo."
"Chi è che si acqueti alla sentenza di un cane, e per di più affamato? Non sentisti tu che per fame ei non vedeva lume? Io mi sento leso, e mi appello…"
"Appellati a bell'agio, ma intanto voglio eseguire la sentenza, dacchè porta esecuzione provvisoria…"
"Previa cauzione:—assicurami dunque che se hai torto in seconda istanza mi resusciterai; e poi mangiami vivo…."
"Il cane ha sbagliato… Ma via, per sentenza di cane con uno sproposito solo io mi contento:—appellati se vuoi, e' saranno passi perduti."
E cammina, cammina, eccoti un cavallo che pareva quello dell'Apocalisse, pieno di guidaleschi, con le saliere sopra gli occhi, arrembato, i fianchi sporgenti in guisa da potervi appiccare il mantello: dal ciglio di una fossa protendeva il collo lungo e magro, a modo di cicogna, verso le punte di una siepe ch'ei s'ingegnava addentare, e questa, male cedendo e spesso sfuggita alla pressione, ritornando diritta gli trafiggeva il muso, ond'ei si trovava costretto ad abbandonare la infelice pastura.
"O cavallo, dà retta:—vien qua a decidere un piato che verte tra noi."
Il cavallo li guardò in faccia, e poi si messe a ridere…—Ne dubitate voi? I cavalli di Achille non piansero, come ci racconta Omero? Ora se piansero quelli, perchè non potrò fare ridere il mio? Io ho letto perfino che il sole certa volta si messe a ridere.[5] Insomma io vi affermo che ei rise, e voi ci potete giurare.
Il cavallo, quantunque repugnante, pur mosso dalle premurose istanze, favellò: "Basta; contenti voi, contenti tutti: esponete la ragione." La espongono; e appena hanno chiuso le labbra che il cavallo annitrisce: "Su l'anima di cavallo di garbo, serpe, tu puoi divorarti l'uomo senza un rimorso al mondo."
"Possibile!" esclamò angosciosamente il montanino; "ma che diavolo ti hanno fatto gli uomini, onde tu gli odii tanto?"
"Che cosa mi hanno fatto?" tuonò ferocemente il cavallo. "Guarda, e vedi se vi ha dolore uguale al dolor mio? Spallato, piagato; e tutto questo per cui? Tempo già fu, snello e leggiadro io volava per le campagne aperte sfidando al corso i venti, empiendo le nari dell'aere vivissimo, pascendo erbe stillanti di rugiada, e prorompendo dal collo un potente nitrito scuoteva i campi e il cielo, ed esultava nel sentirmi riportati dai quattro venti della terra gli echi commossi dalla mia voce. All'improvviso mi si accosta un traditore, mi getta un laccio, mi stramazza prima, e poi mi salta addosso… Se io mi rimanessi o no stupito, lascio considerarlo a voi! Or come se la natura dava a questo traditore due gambe per fare i fatti suoi, quale strana pretensione è la sua di volersi giovare delle mie? E la conclusione di questo mio ragionamento fu un così gagliardo scrollo di groppa, che mandò il traditore a ruzzolare ben venti passi sul prato. Un turbine di nerbate per la testa, per le spalle, per tutta insomma la persona mi persuasero che il mio sillogismo doveva in qualche parte peccare, ond'io mi rassegnai portare l'uomo con buona grazia. Dimenticai da generoso la prima ingiuria, renunziai di buona fede alla libertà che è si cara, amai il mio tiranno! Mi spinsi giù per burroni, mi erpicai per pendici, valicai fiumi ov'egli non avrebbe osato avventurarsi giammai; lui trepidante trasportai in mezzo alle battaglie, e lo resi, suo malgrado, glorioso; in pace lo condussi per terre e per castelli; per me comparve orrevole, e ottenne grazia sotto il balcone della sua dama; per me di vermigli palii ebbe ornate le stanze; gli generai animosi poledri, non curai geli, soffersi ardori, fame e sete io patii: alla fine m'indebolirono gli anni, e certo giorno in cui me repugnante cacciava per un calle dirotto senza porgermi il debito sostegno, inciampai, e caddi in un fascio insieme col mio padrone. Io tacerò lo strazio bestiale di pedate, di bastonate e perfino di morsi che soffersi; bastivi questo che da un punto all'altro io mi trovai attaccato alla carretta del concio… Quell'io! quel desso che aveva veduto sorgere il sole di Osterlizza, e sentito le centomila cannonate che lo Imperatore sparò a Vagria! E' v'era da darsi la testa nel muri! La mia dignità offesa non seppe sopportare la suprema ingiuria: mi ribellai, ruppi la carretta, ferii il carrettiere: allora il pio padrone mandò per lo scortichino, e pose ogni industria per ricavarne uno scudo, mezzo scudo; e quando lo scortichino si ebbe abbottonato tutte le tasche, e risposto alla perorazione del mio signore che io non valeva la pena di essere scorticato, con un eroico calcio nella pancia cacciò me misero fuori di stalla, dicendo:—Va a guadagnarti il pane!—Oh cuore di ferro, io te lo avevo guadagnato il pane…"—E qui i singhiozzi interruppero il cavallo, e più non potè dire.
"Adattati, via," concluse la serpe volgendosi al montanaro.
E l'uomo smanioso esclamava: "Oh Dio! così non può essere! Cassazione! Cassazione!"
"Qui non usa la Cassazione."
"Se non usa, userà. Basta che sia in Francia, perchè tra poco venga anche tra noi. In questa terra ormai di proprio non sappiamo fare altro che sbadigli. Di Francia ci viene tutto bello e fatto: stivali per camminare, leggi per governare, parrucche per non infreddare, raziocinii per ragionare, e ogni cosa a buon prezzo. In Cassazione!"
"Potrei oppormi, e non voglio," rispose la serpe; "e questo per convincerti come voi altri uomini abbiate calunniato sempre la mia famiglia, da Eva in poi, quando rovesciò la sua colpa sul mio bisnonno:—come se la donna per perdersi e per perdere avesse di altra cosa bisogno che della vanità la quale le scorre le vene insieme col sangue. Ebbene, tenta se ti piace anche questo esperimento estremo."
E si rimettono in via; nè andarono gran tratto, quando parve loro vedere, e videro certo, qualche cosa che si agitava sopra un albero. Guardano una volta,…. due,… era una scimmia, che scendeva e saliva con la irrequietezza propria a questi animali, scegliendo i frutti maturi, e facendoli sparire in bocca, come il giuocoliere costuma con le sue pallottole.
"O scimmia!"
E quella….. dura.
"O scimmia!"
Ed ella: "Lasciatemi pensare." E preso un fico annebbiato lo tira diritto nel naso al montanaro.—Mal principio era questo; pure il povero uomo con voce sbaldanzita espone il piato, e la supplica a decidere, terminando questa volta, siccome il cuore gli detta, con un poco di perorazione ove toccava della moglie e dei figliuoli che lo aspettano a casa, e che del lungo aspettare si disperano, e si fanno di tratto in tratto a capo della strada per vedere s'ei giunga: cose tutte che mossero la serpe ad un grosso sbadiglio, e poi, come sicura del fatto suo, esclamò: "Aspetteranno un pezzo!"
La scimmia, poichè ebbe porto ascolto a ogni cosa, meditò alquanto, e poi colse un fico, e poi un altro,—e un altro ancora, sicchè la serpe corrucciata la riprese: "Oh insomma, che cosa armeggi? Decidi o non decidi?"
E la scimmia di rimando: "Taci là! credi che io non sappia esercitare il mio ufficio? Pensi tu essere cosa insolita la magistratura in casa mia? Se tu avessi letto il nostro Esopo, tu sapresti come la scimmia giudicasse la gran lite tra la volpe e il lupo, ove dette torto a tutti e due. Qui bisogna meditarvi sopra:" e mangiò un fico:—"conciossiacosachè ci abbia insegnato Loysel: bien juge qui tard juge;— et de fol juge briève sentence;— et qui veut bien juger écoute partie."—Onde prima di sentenziare in merito, parmi bene che ci abbiamo a condurre sopra la faccia del luogo per vedere appuntino come la bisogna cammini.
La serpe si oppone, allegando la indagine del fatto essere estranea all'ufficio della Cassazione; ma la scimmia insiste con queste parole:
"Distinguo: nella specie la quistione di fatto è assorbente quella del diritto, per questo perchè il fatto è pedissequo del diritto, e il diritto è pedissequo del fatto; e intanto nel concreto caso bisogna conoscere il fatto inquantochè altrimenti non si potrebbe applicare il diritto; o, in altri termini, il diritto sta dirimpetto al fatto come il fatto sta dirimpetto al diritto. Per questi motivi, i quali d'altronde trovano appoggio in tutta l'antica e la moderna giurisprudenza e negli scrittori più schiariti alla materia, è di evidenza intuitiva, come due e due fanno quindici, che in Cassazione possono e devono effettuarsi verificazioni di fatto tuttavoltachè appariscano collegate, vincolate e strettamente pedisseque al diritto: e quindi facendo ragione alla domanda del montanaro, dobbiamo ordinare, conforme ordiniamo, l'accesso sopra i luoghi."
La scimmia scende dal fico, e insieme uniti si riducono al punto ove il caso avvenne. Allora la scimmia favellando piacevolmente alla serpe, la interroga:
"Carina mia, or dunque dimmi: quando il montanino ti rinvenne intirizzita, stavi proprio qui?"
"Qui traverso."
"Bene; ed egli ti prese per la coda, e ti portò quaggiù?"
"Precisamente."
"E qui gli ordinavi ti mettesse nel buco?"
"Qui appunto."
"O dove si trova egli questo benedetto buco?"
"Eccolo."
"E come ti riusciva a ripiegartici dentro? Vediamo un po', via."
"Adesso i' non ci capisco."
"Provati, carina."
"Mi sforzerò…" E la serpe assottigliandosi poco per volta, comecchè a stento, vi si ficca dentro, e sopra a lei la scimmia getta allora copia di fieno, interrogando con modi ingenui:
"E così ti ricoperse schermendoti dal freddo?"
"Così."
Allora la scimmia, svelta e leggiera, presa una grossa pietra la sovrappone all'orlo del buco, e grida: "Ora che ci sei, stacci; e a rivederci a quaresima."
Poi voltasi all'uomo, tra beffarda e severa gli disse queste parole: "Non è già che il cane e il cavallo difettassero di ragione: la tua razza malvagia meriterebbe essere cancellata dalla vita: homo sortitus est anima mala. Quale animale senza necessità di fame o di difesa uccide le creature di Dio? Nessuno tranne l'uomo, che per vaghezza o per ozio fa strage delle anime viventi, e dalle voglie omicide ricava argomento di trionfo. Quale animale come l'uomo ha fatto della distruzione un mestiere? Sopra ogni studio, per cui diventa simile a Dio la vostra mente, voi avete nobilitato questo mestiere, e col soccorso delle scienze più sublimi vi siete ingegnati sciogliere il problema di sterminare la maggiore quantità possibile dei proprii simili nel minor tempo possibile. Fu cane o gatto l'inventore della polvere, delle artiglierie, dei razzi alla Congrève, delle mine e simili? Sono eglino bovi e cavalli Paixhans e gli altri che trovarono il modo di distruggere in minuti un vascello, e la polvere-cotone? Chi può come voi adoperare il riso per dissimulare il pianto, e il pianto per dissimulare il riso? Chi di noi seppe tradire il suo Maestro con un bacio? Chi di noi si avvisò nella espansione dell'amore adattare un laccio al collo alla femmina già amata, e strangolarla? La parola vi tiene luogo di arnese per dare ad intendere il contrario di quello che il cuor vostro pensa. La vostra ragione come un faro infame vi precipita tra lo errore e il delitto. Così poco costumate amarvi e beneficarvi, che al più leggiero benefizio ecco accendete le luminarie e i falò, suonate le campane a distesa, date fiato alle trombe da scoppiarne le gote, sudano i torchii, se ne appiccano i cedoloni su pei muri.—Noi altri di una stessa razza non ci facciamo mai male:—noi non conosciamo quella tanto onorevole accompagnatura dei sette peccati mortali…—Omero, Virgilio e gli altri vostri poeti antichi assomigliano qualche uomo micidiale a tigre, a lione, a pantera e simili: ben per loro che sono morti, altrimenti capiterebbero male; e se i poeti romantici hanno smesso questo mal vezzo, nol fecero già perchè queste similitudini sembrassero loro o troppo classiche o troppo viete, ma per avere saputo che questi miei fratelli di bestialità, perduta alfine la pazienza, si erano risoluti ad accusarli criminalmente d'ingiurie. La ferocia umana non trova ferocia che la superi e nemmeno che la uguagli. Come i Romani dicevano di Cartagine, la umanità delenda est. Non date il Santo ai cani;—e ogni albero che non fruttifica o fruttifica male va reciso e gettato sul fuoco;—colui che soccorre ai tristi sperpera la sostanza dei buoni, e quando il bisogno li stringe, manca in coloro che li dovrebbero giovare la volontà o la facoltà per levarli di pena.—Nè questo è tutto: il malvagio che invece di vedersi vilipeso e punito si vede tenuto in pregio e premiato, indura nella nequizia e raduna forze per continuare nella flagellazione delle creature dabbene. Le serpi non si raccolgono, ma si calpestano.—Però siccome conosco a prova amore di figli che cosa sia, e mi sento viscere di carità, mi trovai commossa al pensiero del lutto della tua famiglia in sapendoti divorato vivo; e poi il tuo sembiante mi parve di uomo giusto diverso affatto da quello dei tuoi fratelli, ed ho voluto salvarti. Vatti dunque con Dio, e continua a camminare nella via della carità, perchè quantunque tu possa incontrare qualche cosa che ti riesca molesta, all'ultimo ne avrai rimerito dagli altri, e in ogni caso dalla tua coscienza, suprema premiatrice dei buoni; e forse a rivederci nell'altro mondo, perocchè il sapientissimo re Salomone che cosa abbia detto:—Chi sa se lo spirito delle bestie vada in su od in giù?[6]—Questo noi vedremo dopo…"
Ciò detto, la scimmia con salti smisurati fece ritorno alle amate fronde e più agli amati frutti del fico.
E l'oste, che non poteva capire nella pelle al fine delle sue parole, esclamò: "Oh Lazzaro, cervel balzano da tutti i quattro piè; tu hai voluto provare una cosa e ti è riuscito concludere con un'altra: co' fatti sempre ti contradici e co' detti. Perchè nel passato anno, quando la neve seppellì le case, tu primo andasti a spararla e a sovvenire i poverelli di Dio?"
"Per darmi moto…"
"E perchè rivestisti la matta? E tutti giorni le dai pane e fuoco?"
"Perchè se muore non mi farà più ridere."
"E il tuo nipote?"
"Se quel becca-l'aglio del Villebiforce, invece di perseguitare la tratta dei neri, si fosse, come doveva, sbracciato a favorire la tratta dei bianchi, a questa ora, vedi… per me lo avrei venduto per venti lire."
"Or dunque via, Lazzaro, da bravo: poichè cotesta tua creatura ti pesa tanto; la mia ragazza ed egli si vogliono bene: io lo riparerò qui in casa mia, lo terrò in parte di figliuolo, e tu non ne avrai più molestia…"
"Come? come?" interruppe Lazzaro con voce tremante. "I miei nipoti hanno a stare con me. O che ti pensi, Biagio, che in casa mia per la tua ragazza non ci sia luogo?—Avrà la sua cameretta linda e polita, e il capoletto con gli specchi e la coperta di cataluffo giallo… che fu già della mia povera defunta…—Senti, Biagio, e sentimi da senno:" e Lazzaro alzandosi mi parve allora sublime: "in tutta la mia vita io ho badato ad una cosa sola, a morir bene. Nell'ora del viaggio eterno io ho contato di avere le mie nelle mani dei nepoti, e un crocifisso sul petto, e andarmene in pace… Ah! ora tu vorresti che stringessi l'aria? Tu vuoi rubarmi il nepote… bermi il sangue… farmi morire di dolore?"
In questa ecco aprirsi la porta della osteria, ed entrare un bellissimo garzone con una lanterna di carta unta in mano. Alle sembianze, ma più assai al colore dello indaco di cui portava tinte e mani e volto, mi si fece manifesto per nepote di Lazzaro. E Lazzaro mutato in sembianza, con parola acerba lo interrogava:
"Donde vieni? Che cosa vuoi? Chi cerchi? Me no certo?"
E il nepote senza punto peritarsi, mostrando come quelle asprezze non gli tornassero paurose, rispose speditamente:
"Anzi voi: la Caterina ha apparecchiato da un'ora, e non vi vedendo arrivare ha detto:—Marco, fa una cosa; la neve cade come Dio la manda, la notte è buia, scoscesa la strada; prendi la lanterna, e va per lo zio, chè non gli accada la malaventura…"
"La cara citta! Ma tu non sei venuto per me? lo giureresti? Va, falso, tristo e bugiardo, tu se' venuto per la ragazza di Biagio."
"A dire la verità, quando prima mossi da casa pensava a voi solo, mio buono zio, a voi solo, e niente a Rosa: a mezza strada ho cominciato a pensare anche un poco alla ragazza; nello entrare qui mi parve pensare tanto alla ragazza quanto a voi a parti uguali… E a voi, zio, io credo che penserò sempre anche quando avrò figliuoli…"
"Davvero?"
E il giovane portando aperta la sua mano sul petto, e comprimendovela forte dalla parte del cuore, con voce ferma e religiosa soggiunse:
"Davvero…"
"Sii benedetto nei tuoi figliuoli…" mormorò Lazzaro fra i denti; e poi riprese in suono più distinto piegandosi verso l'oste:—"Or via, Biagio,… dunque ti pare che questi ragazzi si vogliano proprio bene?"—E senza attendere risposta continuava: "Fa una cosa; chiama la tua figliuola, e vieni a cena meco, chè vedremo di aggiustare la faccenda per dopo quaresima."
"Con tutto il cuore, Lazzaro… Avviati, chè io ti tengo dietro."
E Lazzaro gettandosi il pastrano sopra le spalle favellò:—"Anche questa è fatta,—disse colui che infornò la moglie mentre si asciugava il sudore.—Buona notte, compari…"
Ed io tornandomene a casa pensava tra me come avessi imparato più e meglio all'osteria che leggendo gli apoftegmi di Plutarco, e senza che gli occhi mi frizzassero, e il cranio mi paresse pieno di cotone sodo.
NOTE.
Pag. 76.—(1) È verità storica. Lo statuto, scritto in latino, vieta mettere a partito le proposizioni dopo pranzo nel Consiglio dei Priori, propter vinum.
Pag. 78.—(2) Singolarissima cosa! Santo Agostino concorda in questo con Hobbes. Ambedue dichiarano nascere l'uomo inclinato al male; e il Santo non dubita affermare che l'uomo persevererebbe perdutamente in quello, dove gl'insegnamenti della religione, la virtù delle preghiere, lo esercizio delle opere pietose, e sopra tutto poi la grazia divina, non lo ritraessero dal sentiero della iniquità avviandolo sul cammino del Paradiso. Ma sentiamo favellare il Santo:—«Io rubava varie sorte di cose di casa e dalla mensa paterna, o per soddisfare la intemperanza dei miei appetiti, o per comprare dai giovanetti il sollazzo di giuocare con loro. E sovente giuocando adoperava l'astuzia e la frode per uscirne vincitore, tanto mi talentava la vanità di superarli. Ed all'opposto quando essi si avvisavano ingannare me, davo in escandescenze e li vituperava con ogni maniera d'ingiurie. Ed è questa la pretesa innocenza dei fanciulli? Essi non ne hanno, o Signore: essi non ne hanno, mio Dio. Questa prima corruzione dell'anima contamina la rimanente lor vita. Ciò che furono contro i precettori e i maestri, diventano poi contro i re e i magistrati: dopo avere commesso lievi ingiustizie per acquistare noci o palle, o uccellini, ne commettono molto maggiori per accumulare tesoro, possedere case, mantenere numerosa famiglia di fanti e servitori. Così, mio Dio e mio re, allorquando nello Evangelio diceste appartenere il regno dei cieli a coloro che si assomigliano ai fanciulli, voi non proponeste già per modello di virtù la innocenza del loro spirito, ma soltanto la piccolezza dei loro corpi come immagine di umiltà.— Confessioni, l. I, cap. 19.
E con parole ed esempii più singolari nel l. II, cap. 4,—5 e 6:—«Voi Signore, condannate il furto…….., e nonostante, Signore, io ho voluto commettere un furto, e lo commessi non mica per necessità, ma per puro spreto di giustizia, per eccesso e colmo d'iniquità, avendo involato cose di cui non pativo diffatta, anzi pure ne possedevo in copia e migliori di quelle che io rubava. Rubai, niente altro cercando nel furto tranne il furto stesso, e compiacendomi saziarmi nella laidezza del vizio piuttosto che nel frutto dell'azione viziosa. Era un pero presso la vigna paterna che produceva pere nè belle alla vista nè piacevoli al gusto. Noi fanciulli dopo avere giuocato fin presso a mezzanotte, andammo in frotta a scuotere l'albero e spogliarlo di tutti i suoi frutti, e ritornammo carichi di pere, non per mangiarle, ma solo per rapirle e gittarle ai porci, contenti nel piacere di fare quello che ci era vietato.»—E dopo questo racconto il Santo di raziocinio in raziocinio non dubita paragonare il furto delle pere con i misfatti di Catilina, ed anzi a quegli stessi misfatti anteporlo, imperciocchè a fine di conto Catilina amasse gli omicidii non come omicidii, ma come mezzi di pervenire ai suoi fini, mentre egli trucidasse coteste pere senza scopo, se togli quello di fare del male. Citando Catilina in proposito di pere, mi sembra che Santo Agostino si accosti all'avvocato di Marziale, che difendendo l'abigeato di tre capre, prese a rammentare la guerra Cimbrica ed altri malanni della Repubblica Romana; e poi la esagerazione dei paragoni scredita o la sincerità del pentimento o la rettitudine del giudizio. Come a Rousseau, avveniva a Santo Agostino: la veemenza della immaginazione superava in cotesti uomini il sentimento.
Pag. 79.—(3) San Giuliano era e forse ancora è il Santo protettore dei viaggiatori. «Poche orazioni ho per le mani, come colui che mi vivo all'antica e lascio correre due soldi ventiquattro danari; ma nondimeno ho sempre avuto in costume, camminando, di dire la mattina quando esco dall'albergo un paternostro ed un'avemaria per l'anima del padre e della madre di San Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e lui che la seguente notte mi deano buono albergo. Boccaccio, Decamerone, Giornata II, Nov. 2.
Pag. 81.—(4)
Olim truncus eram ficulnus, inutile lignum: Quum faber incertus scamnum faceretne Priapum, Maluit esse Deum: Deus inde ego…. HORAT., Sat. 8.
Pag. 86.—(5) Io domandai al Sole s'egli era maschio o femmina, e mi guardò e si messe a ridere. Le Compère Mathieu, T. 2.
Pag. 93.—(6) Quis novit si spiritus filiorum Adam ascendat sursum, et si spiritus jumentorum descendat deorsum. Ecclesias., cap. 3, v. 22.