L'ASSEDIO DI FIRENZE

Copertina

L'ASSEDIO DI FIRENZE

DI

F. D. GUERRAZZI

SOLA EDIZIONE ILLUSTRATA APPROVATA DALLO SCRITTORE

MILANO LIBRERIA EDITRICE DANTE ALIGHIERI Via Giardino, Num. 33 — 1869

Proprietà Letteraria.INDICE

Ritratto di F. D. Guerrazzi

A N. G. A.

Io promisi un giorno dedicarvi questa opera mia. Da quel giorno in poi voglie, costumi voi avete mutato ed affetti. Io mi mantengo tenacemente lo stesso. E mentre in questo modo soddisfo all'ultima promessa che vi ho fatto, io spero, e non invano, che la vostra coscienza sia per domandarvi: E tu come adempisti i tuoi giuramenti? — Addio. —

L'Autore.

Introduzione

INTRODUZIONE

....... Fermamente credo

Che gli estinti dei vivi

Sién più felici; e molto più i non nati.

Che non videro i mali

Che stanno sotto il sole.

Cleop., trag. del card. Delfino.

S

Sei sola anima mia: non mentire a te stessa; — leva la voce e prorompi in un lamento. La pazienza! Oh! la pazienza è cosa dura e conviene meglio alla groppa del somiero che all'anima, dell'uomo: converti dunque in flagello questa catena spirituale e percuotila in volto ai tuoi oppressori. I potenti della terra hanno flagelli di ferro, ne hanno ancora di scorpioni[1]: tu adopra il tuo di pazienza offesa. — Ardisci! A David valse la fionda, nè i tuoi nemici sono giganti, o il sono di stoltezza soltanto. — Tu già non ti duoli per impeto d'ira o per debolezza codarda, ma perchè una condanna di sventura più e più sempre si aggrava sul capo della stirpe destinata a morire. Quando lo stoico alza la faccia dicendo: Non piansi mai, — mentisce a sè stesso. Perchè non isgorgò la lacrima dal cavo de' suoi occhi, affermerà il superbo non avere mai pianto? Forse sotto la superficie gelata di un fiume scorrono le acque meno rapide al mare? Tutto piange quaggiù, e la natura stessa versa un pianto quotidiano sulle miserie della creazione con le rugiade dei cieli. Lamenta, lamenta, anima mia. — Le muse i genii, le fate e Apollo cessarono; ogni altra lieta immaginazione cessò; il dolore che prima di essi inspirava i canti degli uomini, il dolore che sopravvive ai sepolcri, il dolore che apre e serra le porte della vita, il dolore che regge la misura del tempo..., eterna, unica musa dell'uomo è il dolore.

Troppo innanzi tempo imparai a diffidare di molte, forze di tutte le speranze umane: io vivo in mezzo agli uomini; ma per me non chiedo, non ispero nè temo nulla da loro. E che mai potreste darmi, o gente che morirete? L'odio, la prigione, l'esiglio? Me gli avete già dati; e furono come la pietra lanciata in aria dal pazzo, che ritornò a percuoterlo sopra la testa. La compassione? Oh! trangugiate per voi cotesta tazza di aceto e di fiele: io posso sopportare il vostro odio, la vostra pietà non potrei; serbatela per voi, che voi, come me, aveste nascimento e avete la vita e avrete la morte; in voi, come in me, stanno le malattie del corpo, le imbecillità dello spirito, gli errori, i dolori, i trascorsi e le colpe.

Ingombra questa nostra terra, infelice una gente la quale, o prostrata dagli anni, o torpida di fibra, o per pinguedine fastidiosa, o cieca ad un punto e codarda, penosamente si strascina per lo esilio breve della vita e va gridando a quelli che precorrono: Adagio, adagio; nella quiete sta sicurezza. Qual mai sicurezza? E non sapete voi che la vita è un correre alla morte? La quiete non è vita. Trapassare da una in altra vicenda, agitarsi incessante nel tripudio e nell'affanno, percuotere ed essere percosso, amare, odiare, ora angiolo, ora demonio, e verme e Dio... questa si chiama vita. Se ciò sia bene o male, dimandane a colui che, potendo, non volle creare tutto ad un modo. Ma se difetto di passione l'umana felicità costituisse, l'uomo e il sepolcro sarebbero fratelli di vita, qual corra differenza tra l'uomo e la pietra vi dirà santo Stefano che morì lapidato. O impassibili! Supplicate dai sacerdoti di Giove il destino di Niobe. Badate però; Giove, aspettando i suoi successori in divinità, è fatto dio da museo, e i vostri sacerdoti hanno potenza di convertire un cuore in pietra, ma per loro soltanto: come la idrofobia, questa facoltà non passa in seconda generazione, e ciò vuolsi considerare per qualche cosa di bene ai tempi che corrono.

Odano dunque coteste genti, ma non ascoltino; guardino, ma non vedano: io abborro dal giudizio loro: e quantunque la mia voce si levi presso le dimore degli uomini, desidero che suoni solitaria quanto il ruggito del lione per le arene del deserto, come lo strido dell'aquila su i dirupi delle Alpi.

Meco stesso ragiono; adopro la facoltà d'interrogarmi e di rispondermi. Come si chiama lo spirito che dentro me interroga, e come l'altro che dentro di me risponde? La prima operazione apparterrebbe per avventura al cuore, la seconda al cervello? La potenza di argomentare procede unita o disgiunta da quella di sentire? Antichi filosofi sostennero la esistenza di due anime nel medesimo corpo. La mia anima procedeva ignara di tutto questo: lessi i libri dei filosofi e riuscii a saperne molto meno di prima. L'etiche e le metafisiche loro assai si rassomigliano alla descrizione della luna immaginata da messer Lodovico Ariosto, o al commento (Dio lo perdoni!) del Newton intorno alla visione dell'Apocalisse.

Anima, perchè vivi? L'anima vuota alla risposta mi ritorna a guisa d'eco la domanda: perchè vivi? Qualche vizio di più, qualche nobile passione di meno, e una ruga sopra la fronte, e una ferita nel cuore, ed ogni giorno un fiore caduto dalla corona della speranza... ecco i benefizii del tempo.

Anni felici della mia giovanezza, ond'è che mi passate traverso alla memoria come i ruscelli delle patrie colline al tormentato della sete? Giuochi infantili, sonni placidi, amore... perfidamente lusinghieri, versate a piene mani una rugiada di gioia su l'alba della vita per indurre la creatura a sopportare l'ardore increscioso del giorno e le più dolenti tenebre della sera.

Io sorgeva in quei giorni mattiniero quanto la lodoletta pellegrina, a ricevere sul capo la prima benedizione della luce; te, o sole, esaltava occhio di Dio, glorioso, vigilante sopra la felicità dei figliuoli di Adamo; e quando con lo sguardo innamorato aveva seguito la tua curva di fuoco ai confini dell'oceano, lo rialzava al firmamento, salutando ad una ad una le costellazioni comparse sul bruno orizzonte: però il mio spirito ebbro di raggi e di armonia spaziava con ala infatigabile su quei globi luminosi. Talvolta mi sorgeva nell'anima un desiderio di penetrare oltre il manto dei cieli i misteri di Dio, e meditando mi sprofondava per quegli azzurri sereni; se non che a poco a poco mi si facevano opachi, finalmente neri, ed io mi rimaneva esclamando: Che cosa importa conoscere? Dio vive!

Queste visioni lusingavano la mia fanciullezza, avvegnachè il mio spirito fosse innamorato di Dante e del Klopstok, i divini poeti.

Nè la terra mi si offerse meno bella del cielo. Ammirai le forme del lione, gli screzii della tigre, le liste verdi e di oro del serpente in faccia al sole; stimai l'aconito degno quanto il giglio delle valli di ornare le trecce alla bella fidanzata; non seppi la ragione per cui gli uomini celebrassero l'alloro, dalla savina abborrissero; gli steli della cicuta ebbi in pregio...

E l'oceano! Oh! Aroldo[2] si compiacque scherzare con l'onde dell'oceano, come con la criniera di un cavallo indomato: io ti amai col trasporto di un primo amore. Affidava il mio corpo al cumulo delle acque, e quando spumanti mi fremevano attorno: Ecco, io diceva, esse mormorano per il piacere di rivedermi. Sovente m'immergeva negli abissi a toccare le aliche profonde, immaginando così di stringere la mano dell'elemento diletto. Chi ridirà la gioia del sentirsi sospinto, con la velocità di un dardo scoccato, alla superficie delle acque? chi quella di osservare traverso le gocce che grondano giù dalla fronte moltiplicati all'infinito i raggi dei pianeti? Contemplava nell'emisfero l'astro dell'amore, lo riguardava poi riflesso sul mare, e mi pareva su le onde tremolasse più lieto; allora, preso dal piacere, io guizzava esclamando: Salute all'oceano, poichè Dio lo destinò a riflettere l'astro dell'amore!

E come spensierato commisi il mio corpo alle acque, così affidai la mia anima all'anima dell'uomo. Ahimè deluso! non mi era anche nota la maledizione dello spirito[3]. Io reputava impossibile la parola proferisse un pensiero non sentito dal cuore. Paragonai la vita non con la eternità, di cui non concepiva idea giusta, bensì co' secoli precorsi; e mi parve tanto breve, tanto miserabile cosa, ch'io argomentai gli uomini, sentendosi destinati ad altre sorti, poco curassero i diletti caduchi della terra. Per questo modo la vita umana immaginando quasi preparazione di vita celeste, mi piacqui fingerla uguale all'ora facile dei testamenti, in cui anche gli avari sono larghi di loro sostanza ai superstiti. Vidi gli uomini che si stringevano una mano, e non curai osservare dove celassero l'altra; notai gli amplessi, trascurai i volti: feci tesoro di qualche bello atto di cortesia, e reso cieco gridai: La creatura si ama!

Ma il tempo si portava le illusioni.

Il sole sta immobile globo di fuoco a illuminare l'ozio di pochi, l'affanno di molti, le miserie di tutti; indifferenti si versano i suoi raggi sul ferro dell'assassino e sopra la ferita dell'assassinato, sopra la vita e sopra la morte. Se Giosuè lo costrinse col miracolo a fermarsi nel cielo, non fu per benedire una pace, sì bene a illuminare una strage[4].

E quando le ombre si addensarono sopra la terra, gemei e dissi: L'ora dei tradimenti si avvicina. Guardai le stelle e mi parve impallidissero alla maledizione che il sicario nascosto nella tenebra mandava a quei fuochi di amore. Le strida delle migliaia dei disperati mi percossero, udii il pianto, vidi le mani stese verso il cielo... il cielo stava inecittabile e chiuso come una volta di bronzo, quanto una massa di granito. Non più rallegrava il mio spirito la pelle dipinta degli animali; vidi le labbra sanguinose, conobbi il veleno e commosso da troppa passione domandai alla fiera della foresta: Perchè laceri la creatura di Dio? La fiera della foresta mi rispose sbranando. Seppi la donna avere sfrondato la savina per disperdere il frutto dell'amore; calpestai la cicuta, ne svelsi le radici, le detti ai venti: invano; già gli uomini ne avevano estratto la bevanda che spense Socrate, il più virtuoso dei filosofi.

Ahimè! ahimè! Non querce, olivo e alloro, ma ferro, laccio e veleno sono le tre corone della virtù.

Il vento sorgeva impetuoso. Io me ne andai lungo le sponde del mare, e da lontano mi apparve un rompente che sbalzava nella rabbia della distruzione: presso la sponda raccoglie l'ira e la forza ad inondare la terra, ma gli si oppone la parola di Dio[5], e la superbia di lui rimase rotta traverso gli scogli in minutissimi spruzzi; si spiegò sopra sè stesso fremendo, e tra quelle spume scôrsi una tavola.... la reliquia della barca del pescatore. Da quell'ora in poi in ogni mormorare di flutto ravvisai l'agonia del pescatore, il pianto della moglie e le strida dei figli... poveri figli! Oh! tu sei forte, oceano, contro la barca del pescatore; ma con placide onde, un giorno, i vascelli Portoghesi e Britanni veleggianti alle Indie orientali lambisti, amico il seno agli Spagnuoli per le stragi americane schiudesti. Mi attristai nel profondo, considerando come gli uomini, la natura e tutto congiurassero in danno del debole: pensai l'oceano anch'egli fosse lusinghiero del potente, e il mio spirito fu dipartito dal mare.

Conobbi la fiera dal sembiante umano: erano le sue imprese la calunnia delle altrui virtù, interpretava come oltraggi i consigli di amore, si tormentava l'intelletto per ravvisare nel benefizio una offesa onde trarne argomento di ricompensarlo con l'odio; vituperò come misfatti i voti più puri dell'anima ardente in fiamma di carità, chiamò la scienza dei grandi follia, avvelenò affetti santissimi, punì il pensiero, insidiò vite e le spense; uguale rimaneva pur sempre l'amico stendere della mano e il sorriso soave e la parola cortese e l'umile invocare dell'Eterno... Io vo' vederti il cuore, o creatura perversa! E un giorno pure ebbi tra le mani un cuore. Egli mi apparve di fuori lucido e liscio, sì che quasi affascinava a vagheggiarlo. Lo tagliai per ispiarne l'interno. Oh! chi descrive la serie infinita delle fibre che vanno l'una confondendosi nell'altra? Chi la serie portentosa delle vene disgradanti senza numero? Con la punta del coltello presi a seguitare la traccia di un filo, vi applicai argutamente il tatto e la vista; nondimeno lo perdei, nè mi riuscì seguitarlo fino al suo principio o al suo termine. Risi della scoperta... Così... così e non altramente doveva essere composto il cuore dell'uomo!

Ma il dolore concetto dissimulava, e quantunque volte un pietoso ufficio mi chiamò a favellare alle turbe, volgendomi ai giovani solamente, però che i tempi mi avessero insegnato come i capelli bianchi non sieno aureola di pazienza a' vecchi capi, ed ogni anno saccheggi una virtù, e l'uomo prima assai di morire diventi cadavere, volgendomi, dico, ai giovani soltanto, gli ammoniva: «Fratelli! io vi conforto ad essere grandi: certo nel proferire sì fatta parola tremo nelle ossa; pure a Dio piaccia che per viltà mi rimanga del manifestare altri sentimenti. Regge il creato una legge dura che impone: Sii grande e infelice: ma un'altra legge impera più universale che comanda: Sii uomo e muori. Ora se nessuna forza può tôrvi la bella morte, che cosa mai presenta la vita onde la conserviate a prezzo del vituperio? Invidiereste voi forse la stilla del cielo che scende tacita e si confonde inosservata nel mare? Chi non amerebbe piuttosto un giorno dell'esistenza dell'uccello, esistenza di canto e di volo; chi non più tosto il minuto del fulmine, minuto di fragore e di luce che il secolo del verme dei sepolcri? Gravi mali vi aspettano, il vostro cuore lacerato si romperà; morrete: ma presso il morire ricorderete l'esilio di Dante, le catene del Colombo, la corda del Machiavelli, il carcere di Galileo, i delirii del Tasso (e non ricordo le morti per ferro, per laccio, per veleno e fin anche per fame, perchè le sventure dei grandi sono troppe e troppo dolorosamente copiose), e di queste memorie vi farete zona di costanza intorno ai reni per durare imperterriti nella miseria, traverso la quale la stirpe dei tormentatori vi travolgerà. La tirannide umana che vi appariva dianzi quasi colosso di bronzo, ora la schernirete vedendo le sue piante di creta, e la sperderete con quella stessa agevolezza con la quale l'angiolo di Dante si sgombrava dal volto il fumo dell'inferno.»

Così favellavano le labbra; l'anima intanto inaridiva nell'amarezza.

Ora dentro di me si levò una voce che disse: «Non sempre Dio si pentì di avere creato l'uomo. Tu vivi in secolo che vinse il paragone di tristezza con ogni più vile metallo[6]. Ricerca per le storie, e troverai tempi secondo il tuo cuore. Circondati di memorie. Dalla virtù dei morti prendi argomento di flaggellare le infamie dei vivi. Le opere famose dei trapassati ti daranno speranza del valore dei posteri: imperciocchè nulla duri eterno sotto il sole, e la vicenda del bene e del male si alterni continua sopra questa terra. Tu vivrai una vita di visioni degli anni passati e dei futuri.»

Apersi il volume della storia, investigando questa epoca di umana felicità, e lessi con l'anelito del moribondo che sospira la luce. Oh quanti giorni consumati invano! Oh quante volte caddi col capo sulle pagine funeste, dolente, non disperato, esclamando: Sarò più avventuroso domani! Venne il domani e il giorno appresso e l'altro, nè da alcun lato si diradava la tenebra. Questa è la storia delle fiere del bosco! Gittai il libro, ma col libro non gittai la conoscenza del male. Notti vegliate su i volumi di coloro che mi hanno preceduto, irresistibile agonia di sapere, qual frutto apportaste all'anima mia? Con l'avvilimento e il dolore ho tessuto il manto funerario alla speranza.

Guardai l'Italia, e vidi sorgere una gente, sparpagliarsi pel mondo a incatenare la creatura di Dio; poi la pazienza degli oppressi convertirsi in furore, l'antica iniquità caduta, giunti i giorni dell'ira; popoli barbari, come fanno degli armenti i mandriani, cacciarsi davanti altri popoli barbari alla volta delle nostre contrade: inonda il torrente dalle Alpi a Reggio, un trono è leva per sovvertire un altro trono; noi infelicissimi, vinti, portiamo la impronta della caduta di tutti. Dopo le contese sacerdotali succedono le civili. Guelfi e Ghibellini; Bianchi e Neri; Montecchi e Cappelletti; Maltraversi e Scacchesi; Bergolini e Raspanti: sangue gronda ogni sasso alla campagna, sangue ogni torre in città; repubbliche discordi, misere, perpetuamente guerreggianti tra loro; interni ed esterni tiranni, lascivi, avari, paurosi delle tenebre stesse, e pure senza misura crudeli; traditori e traditi; braccia poste all'incanto, anime italiane vendute; città nobilissime patteggianti coi turpi masnadieri; alti inteletti sotto la feroce ignoranza dei sacerdoti curvati; per ultimo, come la tempesta si leva dagli abissi del mare, ecco sorge la tirannide, Briareo maledetto, che le cento mani distende, il cielo e la terra arraffando contamina, snatura anime e corpi, semina il deserto e sta.

E tu, Firenze, figlia generosa di nobile madre, cedesti alla onnipotenza dei fati, come conveniva all'ultimo santuario della italiana libertà! Inclita per magnanime geste, consacrata dal sangue dei martiri, la tua caduta farà sospirare il nostro cuore finchè la creta animata si scaldi al sole dell'opre magnanime. Ahimè! pur troppo la vita dei reami e delle repubbliche è misurata come quella degli individui! Però non ti valse prodezza nè consiglio de' tuoi; giacque la tua libertà sepolta con essi, e luminosi di gloria immortale vivete insieme nello stesso sepolcro.

Non confidate nella speranza: ella è la meretrice della vita.

Dunque un destino inesorato ci condanna, come il serpente antico, a nudrirci per sempre di cenere, a traversare il futuro non movendo altro suono che quello del tergo percosso dalle verghe e del piede avvinto dalle catene?

Chi disse questo! La forza non ha concluso un patto eterno con veruna nazione del mondo. Qual mano di uomo strappò l'ale alla vittoria? A Roma gliele troncava il fulmine, ma tornarono a crescere co' secoli, ed ella fuggì via. Finchè sollevandosi al cielo le vostre braccia sentiranno il peso dei ferri nemici, non supplicate.... combattete: anche col ferro in pugno si prega; anzi cotesta preghiera è la sola che si addica agli oppressi. Iddio sta co' forti! La vostra misura di abiezione è già colma: scendere più oltre non potete: la vita consiste nel moto, dunque sorgerete. Ma intanto abbiate l'ira nel cuore, la minaccia su i labbri, nella destra la morte; tutti i vostri dii caschino in pezzi, non adorate altro Dio che Sabaoth, lo spirito delle battaglie. Voi sorgerete, cadrete, tornerete a sorgere: la vendetta e l'ira vi renderanno immortali. La mano del demonio settentrionale, che osò stoltamente cacciarsi tra le ruote del carro del tempo per arrestarlo, indebolita vacilla e sarà infranta. Se potessimo porgli una mano sul cuore, conosceremmo la più parte delle sue pulsazioni muovere adesso dalla paura. Ma se ci fosse dato di porgli una mano sul cuore, certo non sarebbe per sentirne le pulsazioni... Oh no! viva per morire sotto le rovine dello edifizio che ha fabbricato; prima di restarci sepolto intenda il grido di obbrobrio che mandano gli oppressi sul tormentatore tradito dalla fortuna. La morte percuote del pari gli eroi della virtù e gli eroi del delitto: Ma Epaminonda tenne l'anima chiusa col ferro finchè non conobbe la vittoria della patria, e morì trionfando; lui poi trapassi la spada sul principio della battaglia, e non gli sia tolta dalle viscere finchè non sappia la nuova della sua sconfitta; perisca, soffocato dal fumo dei cannoni che annunzieranno la nostra vittoria; si disperi nell'udire i tamburi che saluteranno l'aurora del nostro risorgimento. Sventolerà un'altra volta la nostra bandiera su le torri nemiche, terribile ai figliuoli dei Cimbri; scoperchierà lo spettro di Mario l'antica sepoltura; un'altra volta trascineremo per la polvere al Campidoglio le corone dei tiranni dei popoli... Ma saremo allora felici? Che importa? Tornino, oh tornino desiderati quei giorni all'orgoglio italiano! Amaro è il piacere di opprimere, ma è pure un piacere; e la vendetta delle atroci offese rallegra ancora lo spirito di Dio...

Qui sorge una voce amica e mormora queste parole: «La scienza del dolore non ha mestiere d'insegnamento, perchè nacque congiunta col cuore dell'uomo.»

Ed io rispondo: «Bada, la prosperità è proterva, la mestizia pensierosa, e nel pensiero sta il principio delle imprese: a Cesare davano ombra i foschi nel sembiante, nelle chiome scomposti e scinti; i lieti poi e gli azzimati non curava; umana arena questi a cementare i fondamenti di tirannide.»

Altre voci, e non amiche, ora parmi che si levino e dicano: «Noi non intendiamo donde muovi nè dove vai.»

Ed io rispondo: «Peggio per voi; le vostre sono anime invano.»

Se tu dunque che leggevi fin qui ti senti il cuore e lo inteletto sicuri, se le lagrime non ti tolgono la vista delle miserie umane, vieni, mi segui nel dolente pellegrinaggio del pensiero: ti narrerò storie feroci, ti dirò cose che ti suoneranno terribili quanto le strida di un dannato, e pregherò Dio che non valgano a persuaderti. A te poi comando di non compiangermi e, se ti piace ancora, di non maledirmi; gemi soltanto sopra la dura necessità che produceva i casi i quali verrò raccontando: non gli ho inventati già io. Se tu potessi smentirli, se cancellarli dalla memoria, dove stanno impressi con parole di sangue, oh! io ti saluterei consolatore della umanità.

Io scrittore lascio questa prefazione come prima la dettai, se togli che in più parti la corressi per quello concerne lo stile, conciossiachè mutarne i concetti oggimai non tornerebbe efficace. Tuttavolta però, più pacato ora, meglio perito nei casi della vita, di non pochi anni più prossimo al sepolcro, io giudico com'essa non esponga dottrine affatto buone nè vere. Sapienza è non disperare mai; e nello attendere e nello sperare stanno le virtù supreme dei popoli. In quanto all'odio poi, se un dì fie dato inalzare lo edifizio della umana felicità, certo non su l'odio, bensì sopra il fratellevole amore che Cristo insegna avrà da fondarsi: ciò nonostante, adesso ci corre obbligo di odiare; che lo schiavo non può volgere la mente grata a Dio, e Dio abborre vedersi supplicato da mano gravi di catene.

Passate le Alpi, e tornerem fratelli.

L'Assedio di Firenze

CAPITOLO PRIMO NICOLÒ MACHIAVELLI

Perchè egli è ufficio di uomo buono quel bene che per la malignità dei tempi e della fortuna tu non hai potuto operare insegnarlo agli altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.

Machiavelli.

Che se la voce sua sarà molesta

Nel primo gusto, vital nutrimento

Lascerà poi quando sarà digesta.

Dante.

Il suo passo era di uomo libero in terra libera, grave e solenne: ma sembrava sviato, come di persona improvvida o poco curante dei luoghi che gli si paravano dinanzi in suo cammino. Vestiva abito straniero: la cappa soppannata di pelli, il giustacuore di velluto bruno, calze di panno strettissime di colore scuro; le scarpe, il collarino e ogni altra parte in somma del suo abbigliamento rammentava la foggia di Francia. Portava avvolta intorno al berretto certa catena d'oro dalla quale pendeva una medaglia parimente d'oro ove stava effigiata una salamandra nelle fiamme, col motto: ardo, non brucio; impresa e motto inventati per Francesco I da madama d'Alençon sua sorella, valentissima in coteste arti cortegiane.

In cotesti tempi dame e cavalieri si affaticarono a indovinarne il significato; ma, per quello che la tradizione lontana ci tramandò, pare che madama d'Alençon intendesse, mediante sì fatta impresa, ammonire Francesco allora duca d'Angoulème, quando prese ad amare la giovane sposa di Luigi XII, Maria d'Inghilterra, dalla fecondità della quale correva pericolo di rimanere escluso dal reame di Francia.

Lunghi i capelli cadevano oltre le orecchie allo straniero e quivi tagliati in giro; costume anch'esso nato in Francia da brutta necessità. Imperciocchè i monarchi, disegnando abbattere la potenza dei baroni, per superarli di forze non abborissero chiamare in aiuto loro gente condannate ad avere mozze le orecchie (specie di pena oltre modo infamante usata in quei tempi): e pervenuti poi a miglior grado di fortuna, cotesti usciti dalle galere con quella usanza tentarono ricoprire la propria vergogna[7]. Ciò che in principio fu turpe bisogno diventò subito presso quegli strani ingegni dei Francesi vaghezza di costume; appunto come, sul declinare del secolo passato, dalle stragi della rivoluzione ricavarono nuove foggie di abbigliamento del sesso gentile[8].

Ma se straniere erano le vesti, il volto lo diceva italiano, nato alla grandezza e alla sventura. Sopra la sua fronte sublime potevano la gioia e il dolore spiegarsi nell'ampiezza della loro potenza; e certo sovente se ne alternarono il dominio: se non che la gioia fugace la percosse appena col ventilare delle sue ali leggerissime di farfalla, mentre il dolore vi lasciò la impronta delle sue varie procelle, a guisa d'iscrizioni funerarie sopra la fascia dei sepolcri. Quel suo sguardo acuto manifestava ingegno prepotente, un ingegno capace di fissare lo splendore dei cieli, volgerlo alla terra e in un baleno d'intelligenza comprendere i pensieri, le sensazioni, gli affetti che passano tra i pianeti e la terra, fra il creatore e la creatura, e quindi sollevato dal fango tornarlo di nuovo a fissare nel firmamento, come protesta immortale contro lo spirito che accolse l'idea della stella e del fango, del piacere e dell'angoscia, del palpito dell'amore e del verme della putrefazione, del tiranno e dello schiavo; e ne lanciò a piene mani la moltitudine nel mondo quasi in retaggio di maledizione alla stirpe che si pentì di aver creato con anima e lingua bastevole a rimandargli contro una maledizione[9]. Da molto tempo la sua bocca obliò il sorriso che nasce dalla vista della bellezza, dai racconti delle imprese onorate, da quando insomma, commovendo, ha virtù di esaltare l'anima umana. L'affanno inaridisce tutti senza distinzione gli affetti, la lacrima del pari che il sorriso, come fa delle piante e dei fiori il vento del deserto. Ben egli ancora rideva, ma un brivido del cuore sembrava cagionasse cotesta crispazione convulsa delle labbra; le morbide curve disegnate dalla bocca quando susurra parole di amore erano sparite; invece si scomponeva in triste linee angolari, come colui che gusta per errore una bevanda amara.

E non pertanto, malgrado segni così profondi di rovina spirituale, due corde vibravano eterne in quel cuore: — la poesia e la speranza. Egli aveva provato il pane dell'esilio, nè quel suo passo incerto nasceva da noncuranza, no; quando prima lo mosse, ebbe in pensiero di recarsi a un punto determinato; poi la gioia di rivedere, dopo gli anni incresciosi dell'esilio, i luoghi diletti della sua giovanezza lo vinse sì che, dimentico di ogni altra cosa ora si aggirava alla ventura per le vie di Firenze. Oh quanto è funesta amica la memoria al povero esiliato! Quanto mal destra consolatrice! Invece d'infondere sopra la piaga olio e vino come il Samaritano dell'Evangelo[10], senza volerlo vi sparge zolfo infiammato. La memoria i casi più riposti della vita ricerca limpidissima, senso comparte ed affetto ai luoghi cari per un ricordo di amore, cari eziandio per lo stesso dolore: e poi tutte queste cose rallegrando col raggio più puro che mai scintillasse in cielo italiano, ad ora ad ora ne abbaglia lo spirito all'esule, non altrimenti che il fanciullo, per giuoco raccolta la luce del sole entro uno specchio, si compiace rapire per un momento la vista al passeggero con un oceano di splendore. Però l'esule si strugge nell'agonia di un desiderio febbrile e, consumato da cotesta ardente contemplazione, comprende in qual maniera i Greci antichi potessero imporre alle furie il nome di Eumenidi, che significa dolci[11]. E perchè dovea una parte della città preporre all'altra? Non componevano tutte la diletta sua patria? Errava così alla ventura, perchè dovunque si volgesse incontrava argomenti di pietà, di piacere e di travaglio.

Se i luoghi percorsi un qualche bel fatto cittadino o una strage fraterna gli rammentassero, avresti potuto conoscere dal passo, che ora procedeva più lento ed ora si accelerava come se premesse lastre di fuoco. Adesso notava le masse portentose dei palazzi baronali, fatte più smisurate dalle tenebre, e gemeva su gli odii che gli ostelli destinati al quieto vivere civile tramutarono in fortezze; e più lungamente ancora si tratteneva a considerare le umili case dei popolani appoggiate a coteste superbe dimore per averne sostegno, nel modo stesso che nel mondo i deboli si raccomandano ai potenti per conseguirne tutela; e nel modo stesso che nel mondo i deboli, dal continuo curvarsi, acquistano soltanto avvilimento e abbandono, cotesti abituri per la prossimità delle soverchianti magioni venivano a perdere la luce e il vivido circolare dell'aria. Procedendo oltre, penetrava con gli sguardi dentro le officine degli artefici; e tentennando il capo, contemplava quei volti plebei che la necessità colorisce e corruga, e quelle mani che muove il bisogno di un pane e la passione di un eroe; quelle mani che mosse dalla piena del cuore guadagnano una corona al capo o una catena ai piedi.

Però la virtù non si era anche fatta inusitata sotto i tetti signorili, nè la misura dell'anima procedeva alla rovescia con la larghezza dei luoghi che la ricettano: pure ella fin d'allora le modeste più che le sublimi case si compiaceva visitare.

Così di pensiero in pensiero trascorrendo e per diverse vie camminando, venne a riuscire appiè del Ponte Vecchio. Andava oltre; e giunto che fu a mezzo del ponte, si affacciò alle spallette, dove declinato il capo, si pose a considerare il corso del fiume. In quel punto la sua mente era tolta alla visione dei tempi passati. Vide un barone vestito di bianco sopra un bianco palafreno arrivare con lieti sembianti in capo del ponte, all'improvviso prorompere una mano di armati, stringersegli addosso e, senza pur dargli tempo di raccomandarsi a Dio, rovesciarlo dal palafreno e rompergli la persona di mille ferite; vide sgorgare larga vena di sangue, macchiare le pietre del ponte e la statua del nume che i pagani proposero alla guerra; ed a lui stesso sentì spruzzarsene il volto, onde atterrito recava ambedue le mani alla fronte a rimuoverne il sangue fraterno. E poi apparve il demonio della discordia, che quel sangue raccolse e, mescolato con l'ira di Dio, tornò a diffonderlo, quasi rugiada di delitto, sopra una terra sacra alla sventura: allora, fecondate dall'umore mortale, scorsero generazioni che, rinnovando il caso degli uomini usciti dai denti del serpente di Cadmo, sembrò venissero alla luce per trucidarsi soltanto: d'ira ebbre e di sangue, si lacerarono le membra, delle proprie viscere composero miserandi flagelli; le antiche sepolture, baccanti di strage, scoperchiarono, e strinsero le ossa degli avi onde percuoterne il capo ai nipoti.

Nel fragore delle acque rompentisi per le pile, echeggianti sotto gli archi del ponte, a lui parve sentire il grido lanciato dalle trascorse generazioni nei tempi futuri; suono orribilmente confuso, voragine di dolore, di pianto, di delitti e di memorie. Come narra la fama che all'imperatore Pertinace dentro la piscina si affacciasse spaventevole uno spettro a minacciarlo di morte[12], così in quelle rapide onde del fiume egli pensò vedere i secoli passati, in forma di truci gladiatori, fuggire dalle arene sanguinose e correre verso l'eternità, incalzati colla spada nei remi dei secoli succedenti. I lumi accesi sopra la riva mandavano obliquamente per la superficie del fiume lunghe strisce di luce, sicchè le onde grosse e veementi, nel trapassarle, riflettevano un raggio sinistro che bene si rassomigliava al corruscare dei ferri parricidi.

Il pellegrino non vale a sostenere i fantasmi della propria immaginazione, e gli occhi solleva al firmamento. Il cielo in parte era ingombro di nuvole, ma vi scintillava una stella splendida come la libertà, bella quanto la speranza. Quale misteriosa corrispondenza passasse tra il pellegrino e la stella io non saprei; però ei la fissava con immensa alacrità, aveva tutta l'anima trasfusa nello sguardo, e sollevò la destra come per invocarla. La stella parve battere l'ale a guisa di colomba e tremare luminosa e ingegnarsi a fuggire la nuvola nera che di mano in mano divorava oscurando il bello azzurro del cielo; invano: il nuvolo l'aggiunse, e il firmamento pianse perduto quel soave raggio d'amore. Egli allora declinò lo sguardo, dalla parte più lontana del cuore disciolse un sospiro e, vinto dalla passione, fuggiva a corsa dal ponte per sottrarsi al doloroso presentimento.

L'affanno cerca il consorzio degli uomini, la gioja spesso gli oblia: in molti ciò accade per raziocinio, e vuolsi biasimare; in moltissimi per natura, e vuolsi compatire. Il pellegrino, adesso vinto dalla passione, si risovenne dell'uomo per cui si era mosso da prima e che aveva dimenticato nella dilettevole contemplazione. Sceso il ponte, camminò per gran parte della via chiamata dei Guicciardini: già era prossimo alla fine del suo pellegrinaggio, quando gli parve vedere, e vide certo, una figura immobile davanti la casa dell'amico. Siccome avviene per la notte si presentava disegnata in nero sopra un fondo men bruno: la veste talare, che chiamavano lucco, descriveva cadendo bellissimi contorni; una mano le pendeva giù lungo la persona, l'altra sottoposta alla fronte e appoggiata allo stipite, in sembianza di statua che pianga sopra l'urna dei defunti.

Il pellegrino soprastette alquanto col cuor chiuso, aguzzò lo sguardo e sentì suo mal grado agitarsi; riprese a camminare più lento, mormorò alcune parole, levò strepito: invano; lo sconosciuto, assorto in profonda meditazione, non pareva cosa viva. Si fa più appresso, più appresso ancora: coteste forme non gli tornano ignote; esita nel ravvisarle, le ravvisa, e con tale una voce che svelava una piena immensa di affetto, una speranza adempita, forte sclamò:

«Buondelmonti.»

Lo sconosciuto anch'egli, quasi desto per forza, balzava indietro gridando:

«Alamanni.»

E l'uno nelle braccia dell'altro precipitava e sentiva sopra il suo cuore palpitare il cuore dell'amico col palpito più generoso che mai fosse concesso ai nati della creta.

Troppo gli agitava profonda quella intima melodia onde potessero significarla con parole. Come la virtù visiva per solenne splendore si acceca, così l'altissimo sentimento smarrisce la via della favella; però precorre il linguaggio dei labbri mortali un colloquio dello spirito che forse non morrà, colloquio di arterie frementi, di effluvii di vita trasfusi da una mano all'altra, dall'una all'altra guancia. Stettero muti e giubilarono e quasi benedissero i travagli sofferti da Dio che volle sgorgasse la dolcezza della gioja dall'amaro dell'angoscia, in quella guisa che finsero i poeti con le lacrime di una donna disperata si componesse la mirra, profumo soave agli uomini e agli dêi.

Quando poi si fu alquanto quetata la veemenza della passione, Zanobi Buondelmonti prese a interrogare dicendo:

«E donde vieni, Luigi?»

«Vengo di Francia, ove trovai favore presso il Cristianissimo; ma la grazia dei re all'anima repubblicana è tale un supplizio, Zanobi, che l'Alighieri nostro non avrebbe dovuto dimenticare di metterlo giù nel suo Inferno.»

«E come ti si volsero gravi gli anni dell'esilio? Ti piacque ella la terra? Ti si mostravano i cittadini cortesi?»

«L'esule, amico, e tu lo sai a prova, conserva gli occhi per piangere, non già per vedere; il cuore gli vive, ma per sentire la propria sciagura. Il pane dell'esilio mi parve amaro, e certo parve anche a te; incresciosa la casa dove non ti richiama affetto di vivente o di defunto. Il sole in sembianza di fuggiasco trascorre per quell'aere caliginoso e raccoglie a sè tutti i suoi raggi, quasi per timore di contaminarveli dentro; egli comparisce su l'emisfero come spossato dalle fatiche di aver vinto le tenebre; per gran parte dell'anno egli guarda quei luoghi colle palpebre socchiuse, ma non li veste con la magnificenza della sua luce, nè le cose riempie e gli uomini di vita e di poesia. Anche coteste terre traversano ampie riviere, ma invano cercai gli argini fioriti del patrio fiume, nè vidi percuoterne le sponde i piè leggieri di donne o di donzelle innamorate, nè riflesse in quell'onde le infinite ville di cui va lieta la prossima campagna: la Senna mi apparve a guisa di un fiume di piombo che senza fremito di acque, senza riflesso d'immagini, unito, opaco, si accostasse pesantemente al mare. Per gli uomini poi, nè il cielo nè la terra amano i miseri e l'odio degli avventurosi ti prostra del pari che il beneficio. Astero di Anfipoli tolse un occhio, lo sai, a Filippo di Macedonia con una freccia d'argento. Il potente dona per ozio, per fastidio, per tracotanza; dona ancora per debolezza o per ira, di rado per la benignità di natura o per amore del prossimo; e quando egli si avvisa di cacciare fuori un lamento sopra la ingratitudine umana, il mondo gli crede, perchè non sa o non vuole comprendere come sovente la mano che finge stendersi al beneficio meriterebbe di essere tagliata. Al misero poi che sotto la sferza dell'elemosina trae doloroso un rammarico maledicono tutti, perchè non pensano che con un fiorino può maggior ferita apportarsi che con un pugnale. Da ogni parte odi muovere lagnanze di uomini ingrati: potresti tu annoverarmi coloro i quali sanno beneficare? L'anima del cane non bada al volto di cui gli getta l'osso, ma l'anima dell'uomo rimane profondamente contristata dal modo del beneficio. Ora tu intendi come il disprezzo mi gravasse, nè meno la pietà altrui mi riuscisse importuna. Nello stato al quale venimmo condotti il cuore sta chiuso nè lascia entrarvi od uscirne un affetto. Infelice colui che in questa terra non seppe inspirare altro che odio; ma infelicissimo quegli che abbisogna della pietà degli altri!

«Alamanni.» e l'uno nelle braccia dell'altro precipitava... Cap. I, pag. 5.

«Veramente, Luigi», rispose il Buondelmonti, «la miseria flagellando scuopre la carne viva, sì che le fibre spasimano ad ogni lieve crudezza: però non vuolsi negare come l'uomo di rado e malvolentieri perdoni qualunque sorta di superiorità, e il felice beneficando si dichiara coll'atto superiore allo sventurato. — Qual merito è il suo per vivere più contento di me? — nella rabbia del cuore si domanda l'offeso dalla fortuna: e, la ingiustizia confondendo con l'uomo che la rappresenta, trasuda odio per tutti i pori del corpo. I beni acquistati per accidente di fortuna più di leggeri egli assolve che gli altri concessi per fatalità di natura: la ricchezza quindi più agevolmente della grazia, la grazia della forza, la forza della bellezza, la bellezza dell'ingegno. Pel genio poi non vi ha perdono in questa terra: gli volgano i casi favorevoli o avversi, egli è solo. Messo sul capo de' suoi fratelli, ben egli ha potenza di pestarlo o illuminarlo, ma gli è vietato baciarlo; dove si chinasse un momento, sarebbe una stella caduta, avrebbe tradito il suo officio per pochezza di cuore: soffra, sia grande e tacia. Dalle angosce della sua solitudine usciranno insegnamenti a migliorare il vivere degli uomini tra loro: intanto sè stesso nudrisca divorandosi; sublime di grandezza e di dolore, si apra il petto e, a guisa di mistico pellicano, le schiatte dei fratelli rigeneri con un battesimo di sangue e di scienza. Così, per certo, si mantiene dal destino in giusta lance cui ebbe troppo, e cui troppo poco; così forse merita pietà chi maggiormente pensiamo degno d'invidia. Sempre a sè medesimo gravoso, spesso ai suoi fratelli, funesto, vilipeso, sconosciuto, perseguito, il genio è condannato ad una perpetua ebbrezza di angoscia e di gloria.»

«Forse è così, come dici, o Zanobi: e l'una parte e l'altra avranno torto o più tosto ragione; però che l'esperienza m'insegnasse queste due parole non corrispondere a cosa effettuale di per sè stessa stante, sì bene essere modificazioni di cose secondo i tempi o le sorti o gli uomini diversi. Francesco Sforza tolse via la repubblica di Milano; e poichè i cittadini non sentirono virtù da impedirlo e da spegnerlo, fu duca ed ebbe ragione: se lo tentava quando i Lombardi con la creta e con la paglia contrastarono all'imperatore Barbarossa, sarebbe stato ridotto in pezzi e avrebbe avuto torto. Arnaldo da Brescia, Giovanni Hus e Martino Lutero intesero ad un medesimo fine: i primi due vennero al mondo troppo tosto e capitarono male; il terzo nacque in tempo giusto, ed ogni giorno, come tu vedi, prospera. Ma, lasciando per ora di ragionare intorno a sì fatto argomento, dimmi tu pure come e quanto pativi: è cosa dolce sopra la terra dei nostri padri discorrere insieme gli affanni dell'esilio. Di te non intesi novella mai: e quando mi ricorreva al pensiero la tua cara immagine fraterna, involontarie le labbra mormoravano la preghiera dei defunti.»

«Ed in vero io non vissi. In quella guisa che gli antichi credevano lo spirito dipartito dal corpo non sapesse o non potesse abbandonare i luoghi dove giacea sepolto il compagno della sua vita, così io mi aggirai per le varie contrade d'Italia. A Roma poi, più sovente che in altre parti traeva come a sicurissimo asilo. La luce abborriva e gli uomini, perchè io non ho cuore da sopportare la vista di un popolo caduto sì basso. E pure coloro i quali adesso mangiano e bevono e dormono in Roma ardiscono vantarsi sangue latino, chiamarsi figli degli antichi Romani! Sì certo, come i vermi potevano dirsi figli di Bruto diventato cadavere. La notte invocava che col suo più denso velo ricoprisse le infamie d'Italia, e la supplicava eterna; usciva pel buio a vagare, simile ad un insetto, traverso le infinite volte del Colosseo, monumento sul quale i secoli, poichè invano tentarono distruggerlo, si posano come sopra un trono conveniente alla loro maestà; ma nell'insetto era potenza d'immaginare, e quindi riempiva cotesta arena di aneliti, di grida e di strage, e quei gradini popolava di una gente a cui porgeva acuto diletto un colpo mortalmente ferito, un'agonia fortemente sofferta; e da cotesti spettacoli vedeva sorgere la gente romana e correre a portare nell'universo catene e seme di futura vendetta: però le larve sparivano, e tremendo mi stava davanti gli occhi il sepolcro delle rovine di Roma; sì, dico, sì, anche le rovine sono state sepolte: chi ne conobbe fin qui tutte le sue ossa! Se rimanessero intere le rovine della superba città, ne uscirebbe una voce di spavento allo straniero, una voce di risurrezione ai nostri stolti e codardi: grandezza, gloria, popolo, costumi e rovine di Roma, tutto precipitò nella morte. I numi muoiono anch'essi. Del tempio di Giove avanza una colonna sola, quasi cippo sepolcrale di religione defunta. Ahimè! l'aspetto dell'antica miseria non giova a confortare la nuova. Cessiamo dal piangere sopra le glorie passate; piangiamo più tosto, e a maggiore ragione, la odierna viltà che ci contende di sollevare l'anima dalla terra. Ogni popolo trama il proprio destino; ogni uomo può violentare la sua Parca. Non è questo il terreno dove vissero i Romani? non è questo il cielo che li copriva? non queste le stelle che tante volte scintillarono sopra i nostri trionfi? Nulla è mutato; noi solo siamo fatti diversi. Ecco, io diceva a me stesso, giunse nella terra dei padri miei il giorno d'ira e di abiezione, nel quale i popoli portano le catene come ghirlande di fiori e credono non avere mai la testa tanto bassa, la voce tanto dimessa, il dorso tanto curvo da prostituirsi al proprio simile: ora che più resta all'uomo nato libero? Avventi contro Dio la sua anima, come saetta dall'arco, e mora incontaminato. Moriamo. E a corsa m'incamminava verso la patria, chiuso nel tremendo pensiero di maledirla e di spegnermi. Valicai furente i gioghi dell'Appennino: l'anima mia si accordava con gli urli dei lupi vaganti pe' boschi e li vinceva in ferocia; le mani atteggiate ad imprecare, mi affacciai dalla sommità dei colli, giù per le valli lanciai uno sguardo infocato quanto il fulmine del cielo.... Ahi la patria! la patria! nel giorno del dolore più leggiadra mi apparve che in quello dell'esultanza, siccome grazia aggiunge e vaghezza al volto della donna il pallore che la mestizia vi diffonde coll'alito gentile. Occorrono sopra la terra creazioni di così incorrutibile bellezza su le quali la traccia della sventura non si manifesta come oltraggio, ma quasi un bacio; e la nostra patria, o Luigi, è tra queste. Gli occhi mi s'ingombrarono di lagrime, mi caddero le mani; ed in quel modo che Balaam, chiamato a maledire il popolo di Dio, lo benedisse tre volte, io le invocai bellezza sempre uguale, destini diversi. Scesi dai colli con l'ansia d'una madre la quale, spaventata dai lunghi sonni del figlio, si curva sopra le sue labbra a spiarne la vita, ed entrai nei casolari degli agricoltori: colà vidi accendersi volti alla memoria della nostra abiezione, quivi udii suonare la parola della libertà: allora mi accôrsi che la patria non era anche morta; onde, prostrato sopra la terra de' miei padri, con le viscere del cuore supplicava: Desta, o Signore, la bella addormentata. Tu, padre, schiudi le dimore celesti, a tutti ospitale: l'anima del forte e quella del debole sono parte dell'anima tua; perchè dunque tu soffri la schiatta dei tormentatori? Le mani strette dalle catene non possono sollevarsi verso di te. Vedi, i fratelli hanno contristato lo spirito dei fratelli, gli hanno percossi, gli hanno fatti piangere: perchè tanto splendide creasti le sfere, così squallida la terra? Manda la figlia migliore del tuo pensiero, la libertà, ad albergare tra gli uomini; e la terra fie che emuli di magnificenza il firmamento: allora queste due creazioni alterneranno in tua gloria un cantico nuovo, e i cieli, fino ad ora cupamente muti, palpiteranno di echi divini. Lévati dunque giudice e comanda che lo svegliarsi di un popolo sia come quello di un leone e non riposi finchè non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi[13]. Ora, ecco, Iddio ha esaudito la preghiera dell'esule; e di forza, di amore pieno e di ardire, a pena giunto qui, piegai i passi a salutare il grande, che da noi vuolsi onorare dopo Dio prima, perchè, se da lui avemmo la vita e la patria, egli c'insegnava ad amarla ed a morire degnamente per lei.»

«E già tardammo anche troppo», soggiunse Luigi Alamanni; e così favellando prese pel braccio il Buondelmonti e salirono.

Non incontrarono persona nè udivano muovere passo o articolare parola: una lampada appesa alla volta della sala ardeva solitaria e prossima a morire. Appena v'ebbero posto il piede i due amici, si avvivò, mandò su le nudi pareti un getto di luce, quasi volesse dire: — contemplate la povertà di Nicolò Machiavelli —, e si spense. Allora ristettero pensosi e meditarono se quella miseria o il grande che la soffriva maggiormente onorasse, o i suoi concittadini che gliela lasciavano sopportare avvilisse. Percossi dallo insolito silenzio, si avvolgono per lunga serie di stanze prive di lume; alla fine giungono in parte dove vedono scaturire una striscia di luce; si accostano all'uscio ed aprono.

Nicolò Machiavelli giace vicino all'ultima sua ora; la contesa tra la distruzione e l'esistenza era già scorsa; la distruzione aveva prevalso e spiegava su quel corpo le sue insegne come sopra terra presa; la pelle livida, le tempie cave, la fronte arida, il naso attenuato e recinto di un cerchio nericcio, la calugine delle narici sparsa di polvere giallastra, il pallore, il sudore e quiete inerte foriera del sepolcro; — egli tendeva le labbra a guisa di assetato, come anelante di un sospiro che gli rinfrescasse le viscere; gli occhi lucidi di vetro, senza sguardo di cosa terrena, però intenti alla contemplazione degli oggetti posti oltre i confini della vita: ora solenne nella quale l'anima, non bene uscita dalla spoglia mortale nè ancora volata alle dimore celesti, sembra soffermarsi sopra la soglia dello infinito, esitante tra le gioie promesse e gli effetti goduti; colloquio misterioso fra il Creatore e la creatura che niuna mente vale a comprendere, nessuna lingua a descrivere, forse di amore, forse di rabbia, ma certamente pieno d'ineffabile amarezza.

Un giovane di vaghe sembianze, genuflesso a canto il letto, si cuopre il volto con la destra abbandonata del moribondo e la bacia e tacito vi sparge sopra largo rivo di pianto: un dolore senza fine amaro si ostina a prorompere urtandogli impetuoso le fauci; la pietà del moribondo stringe il giovine a comprimerlo, sì che si ripiega fremente a spezzargli sul cuore, e il corpo si agita tutto di scossa convulsa.

A capo del letto, dalla parte diritta, sta un frate di volto severo, stringe i labbri tra i denti, guarda il moribondo e non fa atto di pietà o d'impazienza; se non che la fronte, con vicenda continua, ora gli si corruga ed ora gli si spiana; come i nuvoli sospinti dalla bufera davanti al disco della luna, tu puoi scorgere i pensieri procellosi che l'attraversano.

Dalla sinistra, un uomo membruto di persona, con le braccia conserte sul petto, tiene il capo chino al pavimento; copiosi capelli rossi gl'ingombrano la fronte e parte delle late spalle, la barba fulva gli oltrapassa scendendo la cintura; dal mezzo dei sopraccigli orribilmente aggrottati sorge quasi un fascio di rughe le quali vanno, a modo di raggi, dilatandosi per l'ampiezza della fronte: male quindi sapresti indovinare se quivi il dolore ristretto lanciasse coteste linee rodenti ad occupare le facoltà del cervello, o se piuttosto, dalle varie regioni del cranio partendo, colà esse si condensassero; veramente stavan fitte in quel punto atroci a sentirsi quanto le sette spade raccolte a trafiggere il cuore della madonna dei dolori: non atto, non gemito lo chiarivano vivo, nè il muovere dei peli estremi dei labbri per respirare; solo tu avresti veduto a poco a poco comporsi due grosse lacrime nel cavo de' suoi occhi, tremolare incerte lungo le orbite e sgorgare dalle palpebre giù per le guancie, come secreta vena di acqua tra massi di granito. A prima giunta quella testa ti appariva feroce, quindi ancora atta a esprimere la pietà; finalmente, senza pure accorgertene, ti sentivi disposto ad amarlo; aspetta ch'ei parli e lo conoscerai.

Appiè del letto occorreva un'altra figura vestita di corazza d'acciaro, con ambe le mani coperte di manopole di ferro soprammesse al pomo della lunga spada; anche il suo volto rendeva decoroso largo volume di capelli cadenti, le guance rase ed i labbri, la fronte purissima, dove avrebbe potuto, come sopra il santuario, deporre un bacio l'angiolo della innocenza; ed egli stesso sembrava un angiolo che i credenti affermano vigilare intorno i letti dei giusti moribondi a respingere gli assalti dello spirito infernale. Cotesto era un corpo che gli anni passando non guastano, soltanto modificano a generi diversi di bellezza, e cotesta era un'anima che l'angoscia piega alquanto, non rompe, — la gioia rallegra, non esalta: anima e corpo, in somma, di rado concessi da Dio alla terra per far fede tra uomini degenerati quale nel suo pensiero divino avesse concepito la creatura, prima che una colpa senza perdono la diseredasse del paradiso terrestre: anelante di sacrifizio, egli avrebbe notte e giorno supplicato che i misfatti e le pene degli uomini la giustizia eterna sopra il suo capo accogliesse e vittima di espiazione l'accettasse; ed egli non avrebbe mica diviso la croce col Cireneo nè per viltà rimosso dalle sue labbra il calice della Passione; per tutti i regni della terra non ne avrebbe ceduto una stilla. Lui, onde cara e onorata cadesse la patria tra noi, disposero i cieli ad essere il martire della libertà, l'ultimo dei generosi Italiani.

Egli mosse le labbra e favellò: «Io vi aspettava:... Cap. I, pag. 16.

Varie altre persone stavano sparse per la stanza atteggiate in modi diversi e pur tutti esprimenti dolore: onde quando io considero quante abbia maniere a manifestarsi l'angoscia e quante poche la gioia, come via unica per venire nel mondo ci fosse dato il seno materno e per quante infinite riusciamo al sepolcro, mi turba il pensiero che una forza maligna ci abbia lanciati nel mare della vita col sasso della miseria legato intorno al collo. Non disperiamo però: imperciocchè quantunque a noi non soccorra rimedio altro che le lacrime, tuttavolta la stilla perenne ha virtù di cavare il diamante, e le generazioni succedendosi in questa opera possono piangere a bell'agio e cancellare il decreto inciso nel granito per la mano del fato.

Marietta, moglie di Nicolò, e tre dei suoi figli, Guido, Piero e Bernardo, si erano da molto tempo ridotti a dimorare in campagna; nè, per essere il male sopraggiunto improvviso al padre loro, avevano potuto riceverne notizia. Forse in cotesto punto insieme raccolti discorrevano delle cose della patria e sorti migliori speravano pel padre, il quale, con tanto pericolo suo e vantaggio di lei, l'aveva di opera e di consigli sovvenuta in tempi grossi, ed ora per certo non egli avrebbe voluto negarle i suoi ammaestramenti acquistati dalla esperienza degli anni e dalla lunga pratica nei pubblici negozii; ma in quel punto la speranza levava l'áncora di casa Machiavelli, lasciandola in balia della miseria. Disegni umani!

I due amici, osando appena alitare, s'inoltrano nella stanza; procedendo vengono a posarsi traverso la linea visuale degli sguardi del moribondo. I suoi occhi cessano subitamente dalla fissazione, le pupille quasi smarrite ondeggiano da un angolo all'altro, poi tornano consapevoli a fermarsi sopra gli oggetti circostanti; allora l'esultanza salutò di un estremo sorriso quel volto pieno di morte, come il sole dall'orlo del giornaliero sepolcro di un raggio languidissimo colora il sommo delle basiliche, delle torri e dei monti già a mezzo ingombri dagli orrori crescenti della notte. Egli mosse le labbra e favellò:

«Io vi aspettava: silenzio! Parole ho a dirvi degne che per voi si ascoltino, per me si favellino, nè alla umanità nè alla patria inutili affatto e per la mia fama necessarie. La natura mi chiama, ed io sto disposto a rispondere. Perchè piangete? Chiamerà anche voi; e poichè la vecchiezza precede la morte, considero la morte pietà; io però bene devo ringraziarla di questo, che ella non volle chiudermi gli occhi, se prima non avessi contemplato il giorno della risurrezione; adesso sì che mi sento capace da vero d'invocare col cuore il nome di Dio, poichè la mia bocca, sopra la piazza della Signoria, davanti la faccia del cielo, ha gridato: Viva la libertà!... Silenzio! onde il senno dei tempi non vada disperso. Le schiatte umane passano come ombre; se non che, prima di ripararsi sotto il manto di Dio, nelle mani delle schiatte sorvegnenti consegnano la fiaccola della scienza: a guisa del fuoco sacro di Vesta, quantunque ella muti sacerdoti, pure arde sempre e cresce nei secoli nè ormai più teme vento di barbarie. Accostatevi e raccogliete l'estreme parole, però che vi aprirò il mio pensiero come se fossi davanti al tribunale dell'Eterno.»

I due amici, compresi da senso religioso, si appressano e, salutati appena d'uno sguardo i circostanti, si pongono ad ascoltare.

Nicolò riprendeva:

«La fortuna trama in gran parte la tela degli umani avvenimenti. I Romani, i quali quasi quanto vollero fecero, più che agli altri dii are innalzarono e tempii alla Fortuna; e con ciò dimostrarono sapientemente conoscere una forza superiore alle forze mortali che spesso si compiace secondare sovente ancora i disegni loro impedire. La fortuna sola vuolsi molto più accetta tenere della virtù sola: imperciocchè quella vedemmo tal volta condurre a lieto fine le imprese, la seconda capitare sempre male. Siccome la vita dei popoli si prolunga nei secoli, così la prosperità loro non si comprende da una o due imprese avventurose, sì bene da una serie di fatti prudentemente concepiti e virtuosamente operati: per la qual cosa giudico la fortuna fuori di misura giovevole nella vita breve di un uomo poco avvantaggiare il governo degli stati ed anche riuscirgli nociva, se la virtù non ponga il chiodo alla sua ruota. La fortuna in molti casi si mostrò favorevole ai Fiorentini: più volte li preservava dalla servitù, come al tempo di Castruccio e dei Visconti; più volte gli restituiva a libertà, come nel passo di Carlo VIII e adesso. Nel 1494 i meglio saputi cittadini tenevano la patria spacciata; e invece rimase Piero dei Medici sbandito, il cuore del dominio salvo. Ora nel 27 pareva volesse il Borbone rovesciare Fiorenza, e invece assaltò Roma, depresse il papa e ne fece abilità di toglierci giù dalle spalle quello increscioso giogo dei Medici. Furono questi doni della fortuna; e appunto perchè doni, o poco gli avemmo cari, o ci curammo poco di custodirli, siccome dovevamo e meritavamo pur troppo; se ci avessimo speso dintorno sudore e sangue, gli avremmo per certo più diligentemente mantenuti; gli Ebrei presero in fastidio la manna, comechè soavissimo cibo si fosse, perchè gliela mandava il cielo, e senza fatica a sazietà la raccoglievano; agli uomini poi non riesce mai sgradevole quel pane che con molto travaglio essi ottengono. Le cose della fortuna si distendono molto, approfondiscono poco; quelle della virtù diversamente procedono: onde, tutto ben ponderato, io prepongo alla fortuna la virtù non infelice. Non ragionerò dei provvedimenti buoni negletti, dei pessimi seguiti dal 1494 al 1512, spazio nel quale durò la seconda cacciata dei Medici; già la storia i tempi, gli uomini e le colpe loro incise sopra le sue tavole di bronzo e le dava in custodia alla memoria. Il tempo stringe, lunga è la via; nè già si tratta adesso di speculare sopra le azioni antiche, bensì somministrare consigli per le presenti e per le future. La fortuna, poichè volse la ruota ora favorevole ora avversa ai Medici, parve romperla per loro nel 1527; rimasero uomini a pena eredi del sangue di cotesta famiglia, diseredati affatto della virtù. Andava e va tuttavia la città divisa con diverse maniere fazioni: eravi chi teneva pei Medici, e tra questi parte la monarchia assoluta desiderava, parte voleva i Medici non già signori ma capi di governo largo; della fazione avversa alcuni più odiavano i Medici di quello che amassero la repubblica, altri più amici della repubblica che nemici dei Medici, altri finalmente la tirannide al pari dei Medici detestavano. Dall'un canto e dallo altro stoltezza, tranne gli ultimi: imperciocchè nei rivolgimenti degli stati bisogni mirare a fine preciso, e le sfumature non giovano; sicchè, quando i tempi grossi incalzano, tu ti trovi senza concetto, sospinto là dove aborrivi precipitare. Il popolo rimaneva come il cammello giacente sotto il peso; lo sentiva grave, ma, scarrucolato dagl'inetti novellatori di consigli mezzani, non sapeva a qual partito appigliarsi per gittarselo giù dalle spalle. Correva l'aprile del 1527 quando Dio, accecando i nostri oppressori, consigliò al cardinale Passerini da Cortona di lasciare Fiorenza e andarsene in compagnia d'Ippolito e di Alessandro e della Corte a Castello per complire il duca di Urbino, il quale si era quivi ridotto con l'esercito della lega. Valicate appena le porte, i giovani, come quelli che nella mente loro concepivano un disegno assoluto e virile, levarono rumore, uscirono armati dalle case Salviati e, tratti i gonfalonieri delle compagnie, si recarono ad assaltare il Palazzo. Nessuno si oppose; però che gli stessi avversarii, discordando nei pensieri, argomentassero nel tempo in che faceva bisogno adoperare ferocemente le mani. Il popolo restava inerte, chè la tirannide lunga lo teneva assopito; ben era aperta al lione la gabbia, ma non osava lanciarsi; era la sua catena spezzata, ma non ardiva scuotersi per gittarne lungi i frammenti; guardava, non sapeva e, gridando libertà, libertà! applaudiva. Baccio Cavalcanti, salito in Palazzo a nome dei giovani, impose al gonfaloniere e alla Signoria bandissero i Medici: alcuni dei Signori che, per godere il benefizio del tempo, s'ingegnavano interporre indugi rimasero feriti; mandato a voti il partito, nessuno dissenziente, i Medici ebbero il bando. Consiglio audace, provvidenza infelice. I cardinali Cortona, Cibo e Ridolfi, avvisati del caso, tornarono spediti a Fiorenza, il conte Noferi li precedeva con mille fanti: facendo loro spalla i partigiani dei Medici, senza nessuno impedimento trovare, penetrano in Fiorenza e procedendo incontrano davanti la chiesa di San Pulinari Tomaso Ciacchi della repubblica svisceratissimo; toltolo in mezzo, comandano gridasse: Viva i Medici! rifiutava; percosso, nel rifiuto si ostinava; ferito mortalmente sul capo, più e più sempre esclamava: Dio e libertà! Il popolo guardava, non sapeva e gridando: Palle, palle! applaudiva. Insanguinata la terra di quel nefando omicidio, assaltano il Palazzo; i giovani, comechè in tutti avessero sette archibusi, deliberano a difendersi. I Palleschi, i quali poc'anzi paurosi si nascondevano, adesso prorompono, più infesti, come suole, coloro che si mostrarono più vili; arde la porta del Palazzo dalla parte degli Antellesi; all'altra puntate le picche, le spingono di forza, sicchè le imposte curvandosi meglio di un braccio si scostano dagli stipiti. Se in quell'ora di turpe baldanza i soldati dei Medici entravano in palazzo, la patria nostra avrebbe pianto lacrime amare sul fiore della sua gioventù trucidato. A Dio piacque che quel santissimo e forte petto d'Iacopo Nardi quivi a sorte si trovasse rinchiuso; in quel fiero trambusto, punto egli smarrendosi di animo, confortò i compagni a far testa anche un momento, e dipoi, salito sul ballatoio (come colui che di ogni particolarità spettante alla patria era indagatore e conoscitore solenne), scopriva certe pietre colà a disegno raccolte e in modo disposte che, leggermente intonacate al di fuori, sembravano un fermo parapetto; allora rotti i lastroni delle buche, uniti nel proponimento di salvare la patria, precipitarono cotesti sassi sul capo agli assalitori[14]. Se alla improvvisa rovina fuggissero coloro, non è da dire; lasciarono le porte, l'incendio fu estinto, e, peritandosi di accostarsi da capo, presero a sbarrare le strade. Sopraggiunsero intanto i signori della lega; Federigo da Bozzolo intervenne mediatore in nome di Francia, e chiariti i giovani intorno la vanità delle difese, assicurati di universale perdono dal cardinale Cortona e da Ippolito concesso, dal duca di Urbino guarentito, dopo alcune pratiche, ottenne il Palazzo restituissero. Io non incolperò di siffatto evento veruno; imperciocchè, quantunque non fossero presi i necessarii provvedimenti a mantenere la libertà, tuttavolta, anco presi non avrebbero, atteso il tempo breve, giovato; quello di cui riprendo i cittadini più savi si è questo, che o il moto non impedissero, o insieme non cospirassero prima, onde o potesse sostenersi meglio, o venisse con più onore a mancare. La caduta di un popolo deve essere tale, carissimi miei, che lasci memoria di terrore ai tiranni, legato di vendetta ai figliuoli degli oppressi; tra il popolo sommosso e un re bandito, unico patto il sepolcro; sta sulla sua spada il perdono; affetti, giuramenti, onore e Dio sono onde che rompono nello scoglio dell'interesse di regno. Questo per lo addietro si è visto, e tolga Dio che si veda anco in futuro: però torno a ripetervi che, tratto il ferro una volta, il popolo ha da gettarne via il fodero; dove tanto si acciechi da riporlo finchè il suo nemico non giaccia cadavere, invece di cacciarlo nel fodero, se lo caccerà nelle viscere; e di questo stia certo. Invece il cardinale Cortona, a ciò indotto dal conte Pietro Noferi, mandava a Roma una nota di gente da uccidere, comechè perdonata; e se la paura di maggiori disastri non tratteneva Clemente, avreste veduto un po' voi, come diceva Luca Albizzi, se sapeva ben egli schiacciare il capo ai colombi rimessi in piccionaia. La fortuna ad ogni modo ci voleva liberi: il 12 maggio giunse notizia del sacco di Roma dato dagli imperiali, il papa a stento rifuggito in castello. Il cardinale Cortona, povero di consiglio, nè voleva fidarsi altrui nè da sè era bastante a prendere un partito: i soldati chiesero le paghe; Francesco del Nero cassiere del pubblico nega i danari e ripara a Lucca; il Cortona, di natura miserissimo, piuttostochè rimetterci del suo, si sprovvede di quella estrema difesa e dichiara volere lasciare il governo della città. I giovani, immemori del passato pericolo, tornano ai tumulti; per questa volta la fazione degli ottimati, incapace a muoversi, riesce a trattenerli. La Clarice moglie di Filippo Strozzi va a casa Medici ed aspramente ripresi Ippolito e Alessandro di aversi voluto fare tiranni, li consiglia a partirsi; s'ella non era, nessuno ardiva abbattere cotesta tirannide cadente: nè in lei fu tutta virtù, sibbene o petulanza donnesca, o rancore contro il sangue illegittimo di casa sua, o sdegno contro papa Clemente che non volle creare cardinale Piero suo figlio, e mandato il marito Filippo a Napoli per ostaggio dell'accordo conchiuso con i Colonnesi, non lo aveva poi atteso, ponendolo così in pericolo presentissimo della vita, o finalmente speranza, cessato il governo dei Medici, di vedere la sua famiglia principale in Fiorenza. Mentre la Clarice, accesa nel volto con voce alta così favellava, si levò rumore tra i soldati della guardia; un archibuso fu sparato contro di lei, sicchè tra crucciosa e atterrita quinci si dipartiva, accompagnandola i più notevoli cittadini. Intanto si raguna in Palazzo la pratica per deliberare intorno ai casi presenti. Filippo Strozzi, a grande istanza pregato da Ippolito, si reca alla Signoria per ritirare la dichiarazione del Cortona intorno all'abbandono del governo di Fiorenza; ma la pratica aveva già vinto una provvisione per la quale si convocava il consiglio grande e, creatosi intanto un reggimento che tenesse gli uffici fino al 20 di giugno, i Medici in condizione privata si restituivano. Senonchè i giovani, prudentemente pensando, cessato il regno, non potere il principe più oltre abitare la città, tranne morto, accennano prorompere. Allora Nicolò Capponi, Filippo Strozzi, Giovanfrancesco Ridolfi ed altri maggiorenti, i quali, siccome corse fama, già da buon tempo innanzi si erano concertati a Legnaia, confortarono i Medici a dare campo su quella prima caldezza alle ire popolari, ritirandosi al Poggio. Filippo deputavano a scortarli sotto pretesto della sicurezza loro, invero poi per farsi restituire le fortezze di Livorno e di Pisa: fin qui la colpa tutta del popolo; imperciocchè, se egli avesse sostenuto la fazione dei giovani, nè i Medici sarebbero usciti, nè gli avrebbe lo Strozzi accompagnati. Consigliava la ragione di stato i Medici e i cardinali Cortona, Cibo e Ridolfi si sostenessero per cambiarli poi con alcuno dei più notabili nella guerra futura, o, come fecero i Romani della testa di Asdrubale, balestrarne i capi mozzi tra le genti del papa, quando ei si fosse attentato assediare Fiorenza, mettendo così tra il popolo e il suo tiranno il sangue e la disperazione: quello che maggiormente nuoce in simili imprese è tenere l'animo vôlto agli accordi; perchè i codardi vanno rilenti alle offese, le difese o poco curano o del tutto abbandonano, e la patria rovina. Bentosto se ne raccolsero gli amari frutti; Filippo Strozzi, per tale una causa che la fama bisbigliò sommessa, e la storia tacerà vergognando, perocchè ella sia vergine e musa, lasciò fuggire Ippolito a Lucca; e per ricuperare le fortezze, oltre alla perdita del tempo, tra Piccione contestabile della fortezza di Pisa e Galeotto da Barga di quella di Livorno vi si spesero meglio di quindicimila scudi. Francesco Nori e la Signoria depongono l'ufficio; non aspettano il giugno per convocare il consiglio; determinato il modo di eleggere il gonfaloniere, l'adunano sul finire di maggio e creano Nicolò Capponi. Il consiglio eleggeva, il Capponi accettava; fallo grave nel popolo, nel Capponi gravissimo: errò il popolo, il quale andava immaginando che, come egli aveva ereditato dal padre Pietro le sostanze, così pure avesse dovuto redarne quell'impeto che valse a salvare la città dalle cupidigie francesi e rendere il suo nome immortale; errò ancora, perchè non conobbe la temperanza e la moderazione di Nicolò, in tempi quieti lodevoli, avrebbero a mal partito ridotto la città nei casi presenti, dove si chiedeva consiglio audace ed opera piuttosto avventata che gagliarda: ma sopratutto il Capponi e sè stesso mancava ed alla patria: forse Dio, che può leggere nei cuori, e le colpe misura dalla intenzione, lo perdonerà, non derivando i suoi falli da mal volere; ma non può perdonarlo la storia: ardua cosa e per avventura impossibile alla mente umana investigare le cause segrete dell'animo; e poco rileva conoscere se l'effetto sinistro si parta o da talento pessimo o da mancanza di cuore; ella giudica dall'utile o dal danno: per la qual cosa tu puoi sentenziare in coscienza che Nicolò Capponi fu traditore alla patria. L'uomo che si reca sopra le spalle il carico tremendo di porsi a capo dei tumulti dei popoli e indirizzarli al risorgimento si metta una mano sul cuore e senta se col buon volere Dio vi trasfuse la potenza: tale egli deve accogliere e tanto cumulo di qualità diverse, discordanti ed anche contrarie, ch'io per me raccapriccio in pensarvi; un cuore infiammato di carità, poetico quanto quello di Platone nel contemplare la bellezza del fine, ed una mente severa come un teorema d'Euclide; egli buono, alle umane miserie soccorrevole, amico e padre di tutti, quando il bisogno lo stringa, deve con fronte imperturbata tal dare principio alla sua orazione nel consiglio dei padri: «Anche ventimila capi recisi, e la repubblica è salva!» — Se gli si parano nelle vie i figli, Giunio Bruto gli spense; se il padre, Marco Bruto l'uccise: e i posteri entrambi hanno salutato sublimi. Nelle cose politiche il delitto comincia soltanto là dove la necessità cessa. Quindi consideri con profondo consiglio le condizioni del popolo: dove la morte della parte corrotta valga a fruttare libertà, lui celebreranno gli uomini salvatore e Dio se ci adoprerà la scure: dove poi i partiti sanguinosi rimangano inerti se le genti prima di morire, renunziato l'alito divino, si convertirono in creta, se la speranza, rivolta a terra la fiaccola, la spenge piangendo su quella città come sopra un sepolcro, allora, la fama di crudele evitando, lasci arbitro della morte chi creava la vita; ad esempio delle vergini di Sion, l'arpa appenda al salice e pianga, o del tutto si taccia, perocchè nei regni della disperazione ogni suono rincresca, anche quello del pianto. Nicolò Capponi non ebbe la mano forte da cacciarla nei capelli di un popolo assopito e squassarlo ferocemente affinchè si svegliasse; i Medici non aborriva; un governo di ottimati desiderava; però i Palleschi non ispengendo, lasciavali vivere a macchinare danni alla patria: offendere gli uomini per volontà o per necessità è trista cosa, pessima poi offenderli e lasciarli in condizione da vendicarsi; avesse almeno tolta loro la roba! Chè con minore efficacia si sarebbero allora travagliati contro la repubblica, ed egli provveduto di pecunia, la quale come avvantaggiava le cose nostre, così quelle degli avversarii riduceva a mal termine. Onde in processo di tempo convenne aggravarsi sui cittadini amorevoli della repubblica, balzello aggiungere a balzello, vuotare in somma le borse di pochi privati senza potere a gran pezza rispondere alle pubbliche spese. Correva pertanto a Nicolò Capponi strettissimo l'obbligo di togliere la vita ai nemici dello stato; se non voleva la vita, le sostanze; se non le sostanze e la vita, almeno la reputazione: nulla fece di questo, che anzi i Palleschi si onorano e tengono in pregio per modo che con esempio pessimo sembra, a volere ottenere favore dalla repubblica, bisogni dichiararsi amorevole al principato[15]. La Signoria, procedendo nei primi decreti cieca e codarda, ai popoli concesse armarsi: il gonfaloniere non solo concederlo, sibbene doveva con severissime pene ordinarlo e a tutti dai quindici ai sessant'anni; la patria dichiarare in pericolo, egli primo donando ogni suo avere, promuovere i sacrificii privati, nella salute della repubblica riporre la speranza estrema dei cittadini; siccome narra la storia di Alessandro Magno, il quale, le munizioni ardendo e i bagagli, costrinse i suoi soldati alla necessità del vincere o del morire. Sovente dall'amore più e meglio conseguiamo che dalla paura; ma se l'amore non basta, vi si adoperi il ferro; abbia il popolo a forza il proprio bene: a forza il tiranno gli mette la mannaia sul collo; sarà misfatto dunque mettergli a forza la corona della libertà sul capo? Il Capponi invece esitò, come uomo che diffida e già disegna l'accordo, e non si accorse che quello sarebbe stato la sua sentenza di morte; non che largheggiare alla patria del suo, tra i concetti atti di reggimento accogliendo la bassa cura di minuti interessi, egli non vergognò avvolgersi per gli opificii della seta e invigilare il compito de' suoi operai; bandiva gli Ebrei dal dominio, raccoglitori acerrimi di danaro e all'occasione o volontarii o costretti sovventori; leggi emanava su le femmine, le taverne e le bestemmie, inutili o perniciose, imperciocchè i costumi non si migliorino in virtù di una legge penale, e perchè chi tutto intende riformare spesso nulla riforma; dipoi, convertito in frate, predicando in Palazzo le orazioni del Savonarola, gridava misericordia e faceva sì che fosse eletto Gesù Cristo re di Fiorenza. L'aiuto divino ottimo: buono non pure, ma necessario invocarlo; però non devono gli stati tanto fidare nel cielo da porre in disparte i provvedimenti terreni. Mentre ogni dì ardevano ceri e cantavano salmi, nè armi raccoglievano nè vettovaglie. Aiutati, che Dio ti aiuta[16]. Certo, ben può il Signore rinnovare il miracolo di Gedeone; ma ella è prudenza questa, commettere alla salute della patria a' soprannaturali sussidii? Quando i cieli mente per concepire e mani per operare compartirono all'uomo, non intesero forse ch'egli di per sè provvedesse alla propria tutela? Nè vuolsi biasimare meco, e sia con pace di voi, fra Benedetto da Foiano, che l'ordinaste (continuava Nicolò piegando alquanto la faccia verso il frate di austere sembianze, il quale stava al diritto lato del giacente), la processione della Madonna della Impruneta per la ricuperata libertà, avvegnachè le diligenze messe in opera nei reggimenti nuovi ad allontanare i tumulti non saprebbero mai essere troppe; ed anche perchè, non essendo cessata la peste, la vedemmo aggravare per quello insolito mescolarsi del popolo. Ma di ben altra riprensione era degno il Capponi quando non pure trascurò afforzare la città, ma ben anche suscitò impedimenti di ogni maniera al divino nostro Michelangelo, il quale intendeva circondare il monte di bastioni: o sia che lasciasse svolgersi dalla opinione universale, essere i monti le mura di Fiorenza, e i pochi non potere assediarla perchè pochi, nè gli assai per mancamento di vettovaglie; o sia che più tristo consiglio lo movesse[17], tolta ogni fidanza nelle armi cittadine, si volse a procurare le mercenarie. Notate la fede! Giovanni da Sassatello, condotto dalla Signoria con ottanta cavalli leggeri, ruba le paghe e se ne fugge al papa; peggio lo strazio per avventura del danno. Don Ercole di Ferrara ebbe onore e soldo di capitano generale della repubblica; ma la repubblica pensate voi che sarà mai per avvantaggiarsi del consiglio e del sangue di un duca nelle battaglie? Ben a ragione la fama ci chiama orbi: da quando in qua vedemmo principi mettere a repentaglio lo stato e la vita a difendere repubbliche? E quasi tanti falli fossero pochi per la rovina della patria, a colmo della misura crearono Malatesta Baglioni governatore generale delle milizie fiorentine. E chi è Malatesta? Un fuoruscito della Chiesa. E donde nasce? Da una famiglia che vince in tradimenti il paragone con quella di Atreo. Or come questi, il quale non seppe mantenersi nelle sue case, vorrà insegnarci a difendere le nostre? Forse imparava egli fuggendo il modo di tener fermo? Colui che potè abbandonare ai nemici le sepolture de' suoi padri, male darà schermo alle dimore dei nostri figliuoli. Già a Dio non piaccia che le mie triste parole si avverino, com'io temo pur troppo vedere rinnovato nel nostro paese Cristo venduto, in lui Giuda venditore. Sconsigliati! Sconsigliati! prezzo del sangue è Perugia; nè sempre sarete in tempo con i traditori come lo foste con Baldaccio dell'Anguillara e con Pagolo Vitelli. Pur troppo le funeste guerre fraterne hanno spento tra noi la militare virtù come in Roma l'accrebbero: perocchè in Roma le contese cittadine terminassero con una legge, in Fiorenza poi con le uccisioni e gli esilii conchiudessero; in Roma il popolo godere dei supremi onori insieme con i grandi desiderava, in Fiorenza per esser solo nel reggimento combatteva: prevalso in popolo tra noi, i grandi disparvero e con essi i sensi generosi, la ferocia nelle armi; attesero i cittadini ai guadagni, diventarono ricchi, la roba acquistata disegnando godere, di fare coi petti riparo alla patria abborrirono, le sorti loro commisero ad anime e a braccia vendute; quindi milizie mercenarie vilissime, turpitudini di condottieri venali, il vituperio e la rovina d'Italia[18].

«Pure gli antichi ordinamenti di giustizia tanto non valsero ad abbattere la virtù militare tra noi che a ora ad ora alcuna scintilla limpidissima non prorompesse; e per tacere di più antichi capitani, non furono fiorentini quel maraviglioso Giacomo Tebalduccio e l'altro fulmine di guerra Giovanni dalle Bande Nere, e tuttavia nol sono il Bichi, l'Arsoli e una schiera che aspetta il destro per sorgere più grandi di loro? Qual è lo sciagurato che dubita non accogliere nel suo grembo Fiorenza figli che sappiano morire per lei? Questo fallo, se non ci si rimedia in buon tempo, partorirà amarissimi frutti; avvegnachè, amici miei, chiunque, e ponete mente alle mie parole novissime, chiunque commette la cura della sua libertà a mani straniere merita diventare schiavo. Nè le condizioni nostre di fuori a termine migliore ridotte che quelle dentro; la esitanza nostra ci ha fatti contennendi e sospetti; nemici molti e potenti, amici nessuno. Il papa all'antica libidine di regno aggiunge la nuova ira delle offese ricevute allorquando i giovani le armi, i simulacri della sua famiglia e la statua di lui misero in pezzi nell'Annunziata. L'imperatore, che or dianzi intendeva privare Clemente del potere temporale e convertirlo in vescovo di Roma, minacciato adesso dal Turco, prosperando Lautrec con le armi di Francia nel regno, disperato di stringere lega con qualunque governo italiano, accorto la riforma della libertà delle coscienze in Lamagna essere scala a conseguire le libertà civili, muta all'improvviso consiglio, lo libera di castello, gli spedisce fra Angelio suo confessore a tenerlo bene edificato, gli fa presentare dal Mussettola la chinea bianca e i settemila ducati pel censo del regno di Napoli, se lo rende amico, nè di presente v'ha cosa ch'ei non si mostri presto a operare per confermarlo nella nuova amicizia: noi non volemmo stringere lega con Carlo quando il tempo ci correva propizio, e i più pratici cittadini la persuadevano, ed egli per messer Andrea Doria quasi ce ne richiedeva; ora poi non osiamo dichiararglisi manifesti nemici. Abbiamo i Veneziani alienati da noi allorchè non gli sovvenimmo nel caso del Brunsvicco, il quale, tempestando si calò dalle alpi di Trento con dodicimila fanti e diecimila cavalli; onde presi da sdegno notificarono al nostro ambasciatore Gualterotti sarebbero in pari caso per fare lo stesso a noi: i Vineziani però, come sono prudenti, non vorranno trarre dagli altrui falli argomento per fallire; non pertanto l'ira vince talvolta la ragione, sicchè desideriamo vedere anche con danno proprio patire colui che stette indifferente ai nostri mali. In chi dunque fidiamo? La fede di Francia, incerta sempre, incertissima adesso. Meco medesimo considerando sovente come in ogni tempo gl'Italiani si mostrassero e tuttavia si mostrino corrivi a commettere ogni loro speranza nei Francesi e dall'altra parte quanti eglino abbiano peccati da scontare verso di noi fino dal regno di Pipino, con espresse parole scrissi: «I Francesi, quando non ti possano far bene, tel promettono; quando te ne possono fare, lo fanno con difficoltà o non mai[19].» Francesco I s'intende di stato anche meno di Luigi XII, al ministro del quale io ebbi ardimento significarlo alla recisa in faccia[20]; di rado lo muove la religione; più presto che a re non conviene, il talento; però battuto dalla fortuna adesso va più cauto alle offese e molto si lascia governare da madama sua madre, nè intelletto da concepire un disegno nè costanza gli compartirono i cieli da metterlo in esecuzione, e sopratutto stanno i suoi figliuoli in potestà di Carlo V: ora pensate s'egli possa amare o voglia la libertà vostra più di quella dell'erede del suo regno. Noi siamo soli. E che perciò? Dobbiamo noi forse piangere come perduta la nostra città? Non è mai lecito disperare della salute della patria, insegnava Focione, nè l'hanno per anche ridotta a tale da rendere ogni provvedimento tardo. Il Capponi mal si regge nel posto che non avrebbe mai dovuto tenere; forse ne scenderà per salire al patibolo; e gli starebbe bene, come colui che all'ambizione smodata accoppia ingegno per esitanza imbecille e codardia manifesta, la quale lo induce ad adombrare la natía virtù con partiti paurosi, che egli e i suoi chiamano temperati e prudenti, riprendendo quasi esorbitanze i consigli capaci di mettere con molta gloria a pericolo la vita e la sostanza dei cittadini, e perciò anche le sue; astiosamente avverso a chiunque si conosce superiore per intelletto e per animo; insomma della libertà di un popolo che voglia risorgere davvero, vergogna ad un punto flagello. Voi, giovani, nei quali tutta speranza di salute riposa, restringetevi insieme; voi, Zanobi e Luigi, consigliate i nobili; voi, Dante da Castiglione (e il membruto della lunga barba rossa, sentendosi rammentare, si scosse come destriero al suono della battaglia), adoperatevi fra i popolani; badate a non lasciarvi sedurre dalle antiche rinomanze; a' casi nuovi convengono uomini nuovi: se anima vive che valga a salvare Fiorenza, ella è certamente quella di Francesco Carducci; a me giova indicarvelo come il nostro palladio: molto mi conforta il pensiero che al nostro scampo basta non perdere, mentre ai nemici bisogna vincere; e poi noi combattiamo in casa e per noi, il nemico sopra terra dove ogni cosa gli si volgerà infesta, e con armi infedeli, mercenarie tutte e con intendimenti diversi, dacchè i capitani del papa non possono accogliere il concetto istesso dei capitani di Carlo: confido non poco nella fortuna, nella provvidenza di Dio moltissimo, il quale non soffrirà la rovina della innocente mia patria. E se preghiera alcuna trova grazia al tuo cospetto Signore, ti raccomando questo suolo, che mi raccolse infante e già mi apre il seno pietoso alla quiete eterna, con tutta l'anima prossima a comparirti davanti; te lo raccomando anche prima dei figli, anche prima della medesima anima mia!»

Dalla interna commozione agitato, qui si rimase il Machiavello; ma in quel modo medesimo che, cessati i remiganti, la navicella continua nell'incominciato cammino, così, perchè tacessero i labbri, dalla fronte, dagli occhi, da tutta la faccia non ispirava meno amore di patria e di libertà.

Come dimentico della malattia che lo aggrava, si solleva alquanto sul fianco e stende la destra verso una tazza colma di tisana a capo del letto.

Quando la morte si apparecchia a vincere con la infermità la vita, raccoglie penosamente nel corpo del moribondo la somma di ogni male sofferto, e le carni, i nervi e l'ossa corrode con infiniti dolori diversi: la morte giunge amara all'uomo; e se fosse stato un bene, come Saffo cantava, Dio l'avrebbe creata per sè; però il Machiavello appena ebbe mosso la destra, la ritornava nella prima positura, chè intorno alla scapula e giù nei muscoli gli corse uno spasimo acuto come quando fu posto alla prova della corda; la guancia sinistra si contrasse di forza verso l'occhio, seco traendo le labbra in atto di angoscia; ma si ricompose all'improvviso e sorridendo riprese: «Dante, porgetemi, prego, cotesta tazza.»

Fra' Benedetto da Foiano, sottoposto un braccio ai guanciali, solleva amorevolmente il corpo del giacente. Dante gli appressa alle labbra la tazza; e mentre egli beve, suo malgrado una lagrima gli prorompe dagli occhi e giù scendendo si mesce alla bevanda, sicchè Nicolò lo guarda fisso e dopo alcuni istanti favella:

«Nella estremità a cui mi trovo condotto, nissun liquore può meglio confortarmi le viscere, Dante, della vostra pietà: ve ne renda Iddio quel rimerito che a me non è dato; ben aveva mestiero di questa consolazione l'anima mia, prima di volgersi a considerare la ingratitudine umana. Gran mercè, Dante, gran mercè; voi mi avete apportato un bene maggiore di quello che potete immaginare: che voi mi teneste in pregio, sperava; che mi portaste affetto, forte temeva: ora poi saluterò la morte come amica, dacchè sopra la soglia del sepolcro mi accorga non avere perduto la speranza e trovato l'amore.»

Tacque, e seguì un silenzio tanto profondo che ben si udiva lo zufolio sottilissimo dell'insetto aleggiante intorno ai moribondi; dopo lunga pausa, il Machiavello, crollando il capo, continua:

«Il mio cuore non conobbe altro palpito che per la patria: queste braccia lacerò il carnefice per amore della patria...; che importa? Non sono ancora sceso nel sepolcro, e gli uomini mi calpestano il cuore come una pietra; i nervi e l'ossa dei bracci spasimano di cocentissima angoscia, e gli uomini mi accusano averli adoperati ad ammaestrare tiranni; questi bracci niegano accostare alla mia bocca una bevanda, ed essi affermano essersi distesi ad implorare l'elemosina ai miei persecutori; della fama incontaminata in fuori non lascio ai miei figli altro retaggio, e non pertanto m'invidiano anche la fama. O uomini, quanto vi avrei adorato migliori e quanto vi amo anche tristi! A voi, carissimi, affido il mio nome; difendetelo voi; e se da alcuno udrete parola che rechi oltraggio alla mia memoria, più generosi di san Pietro, non vogliate negare il vostro maestro: dove il vitupero muova da uomo invidioso, tacete, imperocchè all'odio della mia virtù si aggiungerebbe allora l'odio che nasce dal sentirsi dichiarato iniquo; ma dove comprendiate lui essere ingannato, ditegli animosi in mio nome: Nicolò Machiavelli non insegnò di tôrre ai ricchi la roba, ai poveri l'onore, a tutti la vita[21]: sappiate volersi un gran cuore per intendere un cuore grande; pochi o nessuno averlo compreso; e che quando egli potè onorare la patria, eziandio «con pericolo e carico suo, sempre volentieri lo fece perchè conosceva come l'uomo non debba avere maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dipendendo prima da lei l'essere e di poi tutto quello che la fortuna e la natura ci hanno concesso[22];» aggiungete credere io nella virtù come in una via per la tristizia degli uomini smarrita, e che essi potevano, anzi dovevano, ritrovare per indirizzarsi di nuovo al perfezionamento: la politica scevra dalla morale per me affermarsi impossibile; nè già per morale intendere io la immagine astratta della cosa, «sibbene la verità effettuale della medesima»[23], secondo i tempi, i casi e gli uomini diversa; a patto però che se la presente morale non fosse ottima, dovesse pur sempre dirigersi al meglio: la politica magnanima convenirsi ad un popolo grande, come il romano; essere in lui non solo virtù, ma necessità; non potere da questo concetto deviare senza riuscire agli occhi proprii ed altrui contennendo con danno inevitabile della maestà e forze sue; ai deboli invece convenirsi deboli consigli, e, se circondati da tristi, ordinare i casi l'uso della perfidia e giustificarlo: se non che allora devono i deboli mettere in opera l'ingegno per uscire da cotesto stremo dove è necessità la perfidia, e sollevarsi a quello nel quale sia necessità comportarsi magnanimamente. Amai la repubblica, ma, e molto più, amai la indipendenza, perocchè la seconda mi sembrasse necessità di vita, la prima poi accidente di forma. Considerai pertanto se stato alcuno italiano, governato a reggimento popolare, potesse conseguire il santissimo fine di rassettare le membra a questa misera patria: Venezia e Genova non mi parvero, come in vero non sono, libere città; volsi l'ingegno a meditare se con Fiorenza ci venisse fatto di riuscire, e non rinvenni virtù necessaria. Più che amorevoli del vivere libero conobbi i cittadini travagliati dal desiderio di dominare, disposti ancora a servire, purchè servendo potessero opprimere altrui; molti, odiatori di leggi o buone e triste ch'elleno fossero, siccome vaghi di licenza, non già del composto vivere civile; alla salute pubblica preponenti i comodi privati; più agli uomini avversi che alle cose; da vecchia e vergognosa tirannide liberati, intenti a gettare le basi di una nuova e molto più vergognosa, creando il Soderini gonfaloniere perpetuo: allora pensai essere necessaria una servitù e doversi ordinare una forza «la quale con potenza assoluta ponesse freno alla materia corrotta, le ambizioni degli individui prostrasse[24] », e la schiatta umana afferrando pei capelli la costringesse a ritemperarci nelle battaglie, ad abbandonare i vizii nella corsa faticosa verso la indipendenza. Chè se abbiosciata libertà, che indarno mentisce nome di civile, deve approdare a tirannide, meglio tirannide barbara che mette capo alla libertà. Forse chi sarebbe stato da tanto, sè troppo estimando superiore agli uomini, i quali spingeva incontro al bene a colpi di flagello, non avrebbe deposta la sferza, se non per convertirla in scettro; ciò poco doveva montare, imperciocchè la difficoltà dell'impresa consiste nell'agitare ferocemente le generazioni e cacciarle nella via del moto; all'altro provvederanno il tempo, la fortuna e la necessità delle cose. Però, favellando di coloro a cui la fortuna prestava occasione di riformare gli stati, diceva: «Questi essere dopo gli iddii i primi laudabili; e perchè pochi furono che avessero comodo di farlo e pochissimi gli altri che lo sapessero, così a piccolo numero ridursi coloro che lo facessero[25].» E fermo nel mio concetto insegnai: «Il prudente ordinatore di una repubblica che abbia animo di volere giovare non a sè, ma al bene comune, non alla sua propria successione, ma alla comune patria, doversi ingegnare di tenere l'autorità solo; nè mai savio intelletto riprendere alcuno di azione straordinaria che per ordinare una repubblica usasse: convenir bene che, accusandolo il fatto, lo scusasse l'effetto; e quando fosse buono come quello adoperato da Romolo uccidendo Tito Tazio e il fratello Remo per ordinare Roma, sempre doverlo scusare; perchè colui che è violento per guastare, non quello che è violento per racconciare, si deve riprendere; non pertanto corrergli obbligo di essere virtuoso e prudente da non lasciare ereditaria ad un altro quell'autorità che si ha presa, perchè, essendo gli uomini più pronti al male che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che da lui fosse stato virtuosamente ordinato[26].» Dipoi, celebrando coloro che intendono restituire gli uomini alla maestà della propria origine, non dubitai affermare: «Dovesse un principe innamorato di gloria desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo; e veramente i cieli non potere dare agli uomini maggiore occasione di gloria, nè gli uomini poterla desiderare maggiore. E in somma considerassero coloro ai quali compartivano i cieli una tanta occasione come fossero loro proposte due vie: l'una che gli fa vivere sicuri e dopo morte gli rende gloriosi; l'altra che gli fa vivere in continue angustie e dopo morte lasciare di sè una sempiterna infamia[27].» Per le quali cose tutte mi volsi a favorire Cesare Borgia, come quello che, per essere figliuolo di papa Alessandro e sovvenuto da Luigi XII, di voglie e di animo pronto, sembrava sortito a ricomporre le membra sparse d'Italia: nè già il Valentino, crudelissimo ai baroni della Chiesa, era tiranno del pari spietato ai popoli venuti in sua potestà; perchè racconciò la Romagna e la ridusse in pace ed in fede; la qual cosa se bene si considera, vedremo lui essere stato più pietoso dai Fiorentini, che per fuggire il nome di crudeli lasciarono distruggere Pistoia[28]: onde i popoli gli posero amore[29], avendo incominciato a gustare una vita sicura, laddove prima, per essere retti da signori impotenti, vôlti piuttosto a spogliare che a correggere i sudditi, intesi a disunire anzichè a congiungere, gemevano per quotidiane violenze e latrocinii[30]. E che le mie parole non si possano mettere in dubbio si fece manifesto quando la fortuna, di prospera che gli era, gli si volse all'improvviso contraria; imperciocchè la Romagna lo aspettò più d'un mese, nè Baglioni, Vitelli e Orsini ebbero seguito contro di lui: e se alla morte del padre non lo avesse condotto il veleno a termine estremo, non rovinava; «ed egli stesso il dì che fu creato Giulio II mi disse bene avere pensato a quanto potesse succedere morendo il padre, e a tutto avere trovato rimedio, eccettochè non pensò mai in su la sua morte di stare anche lui per morire[31].» Inoltre, che il Valentino, un tempo felicissimo tra i capitani, non fosse il più malvagio dei principi, o che alla voglia di superarlo gli emuli suoi non accoppiassero pari lo ingegno, consideratelo in Oliverotto da Fermo, spento per suo comando a Sinigaglia[32]; perditissimo uomo era costui, ladrone più che soldato, carnefice più che principe, e parricida del Fogliani, il quale con amore veramente paterno lo aveva allevato[33]. Dei Baglioni sapete i costumi: Orazio ordinò si uccidesse lo zio Gentile; e quasi dubitasse quel delitto poco a guadagnargli l'inferno, di sua propria mano trucidava più tardi messer Galeotto Baglioni, mentre si disponeva a rendersi prigione sotto la fede del duca d'Urbino[34]. Il Valentino agli occhi miei rappresentava astrattamente un uomo spaventevole; praticamente, la potenza capace di rilevare l'Italia sopra l'antica sua base; divenuto privato, forse le qualità raccolte in lui erano tali da condannarlo alla pena dei masnadieri: finchè resse da principe, poteva di fronte agli altri ammirarsi ed anche lodarsi rispetto allo scopo, quantunque la bella morte da lui incontrata in Navarra combattendo alla espugnazione del castello di Viana lo mostrasse degno di non essere affatto sbattuto dalla fortuna[35]. E sempre fisso nel medesimo pensiero, caduto il Borgia, mi volsi a Lorenzo dei Medici duca d'Urbino e lo ammaestrai delle condizioni dei tempi e partitamente gli scopersi le vie per mantenersi e crescere. S'io lo guidassi traverso le male bolge dell'inferno per quinci trarlo a rivedere le stelle, consideratelo nella esortazione a liberare l'Italia dai barbari che chiude il libro del Principe. Esaminate con mente pacata i miei scritti, e nonchè vi apparisca discrepanza veruna tra loro, comprenderete di leggieri come tutti insieme cospirino allo scopo proposto. Il Principe, a guisa di punto di partenza; i Ritratti dei popoli stranieri, le Storie e le Osservazioni intorno gl'Italiani contenute nelle mie Commissioni, siccome mezzi di appianare la via; i libri sopra la Guerra, come precetti a ristorare le milizie proprie, le mercenarie sopprimere, perpetua cagione di servitù; finalmente i Discorsi sopra le Deche di Tito Livio, come termine estremo. Dalle Lettere per me dettate a mitigare o fuggire la malignità dei tempi non deve ricavarsi argomento per giudicarmi meglio che dalle risposte fatte al cancelliere quando fui posto a esame nella congiura del Boscoli. Nè certo, dopo la casa Borgia, veruna altra in Italia pareva più acconcia di quella dei Medici a conseguire l'intento. Leone X, pontefice di singolare giovanezza, uno stato floridissimo, cresciuto per opera di Alessandro VI e di Giulio II, reggeva[36]; la repubblica nostra come signore dominava; il conquisto di Milano e di Napoli disegnava; in lui erano facoltà e mente capaci; lo circuiva numerosa famiglia. Giulio, adesso papa di meschini concetti, mostrava da cardinale attitudine maravigliosa in eseguire gli altrui divisamenti[37]. Viveva Giuliano duca di Nemours, Lorenzo duca d'Urbino viveva. Non pertanto andarono tutte queste speranze disperse. Leone morì di morte immatura, Giuliano anch'egli precipitò nel sepolcro per debolezza del corpo, vi si gettava da sè stesso precocemente Lorenzo a cagione della immoderata lussuria. Mancò papa Clemente a sè stesso, la famiglia generosa a lui. Simili eventi dimostrano non già la fallacia nello argomentare, sibbene la miseria degli umani disegni, i quali ti si nabissano sotto quando meglio ti paiono fermi. L'uomo trama, la Fortuna tesse; e se alla seconda non piace corrispondere al concetto del primo, a questo basti avere ricercato la cagione delle cose con quella prudenza che per lui si poteva maggiore. Forse così pensando la mente errava, non però il cuore; ad ogni modo tutte le cose nostre hanno un destino che l'uomo non può vincere, e il mio consiste nel contemplare la mia fama avvilita da coloro che ammaestrai ad essere grandi.... Vi aveva io forse raccomandato che voi prendeste cura della mia fama? Se pure l'ho detto, adesso mi disdico. Che giova dar di cozzo nei fati? In quella guisa che voi, Zanobi, avrete veduto a Roma gli obelischi, una volta decoro della superba città, adesso giacere infranti, mezzo coperti dalla terra e dall'erba, così deve per un tempo giacere il mio nome, finchè non appariscano anime forti da rilevarlo sublime. Intanto uomini che si vanteranno filosofi, travolti anch'essi dalla mala opinione dei tempi, esulteranno della mia morte e non dubiteranno raccontare ai posteri «essersene rallegrati i buoni e i tristi; i buoni per conoscermi tristo, i tristi più tristo di loro.[38] »; e la verità, la quale ascende tal ora animosa i roghi e i patiboli, e dalle stesse fiamme scellerate e dal corruscare dalle mannaje si compone di un aureola di luce divina, tal altra poi fugge dall'errore suo nemico tutta tremante e si ripara nel seno di Dio; la verità, dico, si rimarrà per lunga stagione di spargere il suo lume sopra la mia memoria. Quando tenebre di servitù e di obbrobrio oscureranno l'Italia, la mia fama rimarrà muta, e sarà benefizio dei cieli, chè la lode di codardi offende amara, come l'ingiuria dei generosi. Ma se mai l'alba della libertà fie che torni a diffondere raggi vitali sul fiore appassito dalla speranza, allora come la statua di Mennone soneranno le mia ossa un fremito di gloria; i posteri verranno alla mia tomba per trarne responsi di virtù, insegnamenti di civile prudenza. Intanto fatevi qui presso me, Francesco Ferruccio; il vostro cuore è un tempio della Divinità: accostatevi, e finchè Dio soffre che di voi rimanga vedovo il cielo, vi stringa amore di questo capo diletto; a voi lo confido; lo raccomando a voi: di lui mi renderete conto nelle dimore dei giusti; egli è mio sangue: stendete la mano, ecco io vi depongo sopra la facultà che mi concesse la natura di benedirlo quando mi salutarono padre; voi non avete figliuoli.... ed egli è figlio infelice di padre infelicissimo; amatelo dopo la patria primo; ed accettando voi il sacro deposito, Nicolò Machiavelli vi scongiura che operiate in maniera che egli possa al vostro fianco salvare la patria o morire gloriosamente per lei.»

Lupo, imperturbato, aggiusta il bronzo, prende la corda infocata e di propria mano dà fuoco. Cap. II, pag. 41.

Francesco Ferruccio, rimosse le mani dal pomo della spada, toltesi le manopole di ferro, scoperta la fronte, levati gli occhi al cielo, come se volesse invocare Dio testimonio della promessa, stringe con ambe le sue la mano destra al moribondo, e quindi imponendole sul capo al giovanotto Ludovico solennemente profferisce queste parole:

«Egli morrà con me!»

E Ludovico solleva dolentissimo la faccia, guarda il Ferruccio in soave atto d'amore e torna a declinarla sulla mano del padre, rompendo il freno a pianto disperato.

Piangevano tutti.

Dopo uno spazio lungo di tempo Nicolò con languida voce riprende:

«I pensieri, gli affetti, la terra cominciano a volgermisi tenebrosi intorno alla mente: il passato si oscura, il futuro mi accieca dentro un mare di luce, sento la eternità: partite. Se in cosa alcuna meritai di voi, compiacetemi, di grazia, in questa ultima preghiera; partite: a morire basto solo. Dai letti dove si addolorano i destinati a morire, male s'innalzano con riconoscenza gli occhi al firmamento. Ornai gli umani soccorsi non possono giovarmi più in nulla: io sto nelle braccia di Dio. Voi consacraste alla patria la vita: ogni istante perduto è un tradimento... un tradimento, intendete? Or via dunque andate... partite... A voi la patria... e Ludovico..., ai posteri raccomando la fama... Addio.»

I circostanti, il voto del moribondo adempiendo, si allontanarono dalla stanza; se non che ora l'uno, ora l'altro senza mostrarglisi, gli resero gli uffici estremi, finchè, aggravandosi il male, il giorno appresso 22 giugno 1527, quando pare che la campana pianga la luce scomparsa dal nostro emisfero, spirò la sua grand'anima Nicolò Machiavelli.

Con poca accompagnatura di amici, ma confortato con molte lacrime e sincere, lasciando inestimabile desiderio di sè in quanti conobbero il cuore ch'egli ebbe, scese nell'avello de' suoi padri nella chiesa di Santa Croce.

E una tenebra fitta di vituperio si condensò sopra questa misera Italia. Le ceneri del Machiavelli stettero per quasi tre secoli ignorate; e fu pietoso consiglio della provvidenza, imperciocchè altrimenti i nipoti le avrebbero date ai venti della terra. Una torma di vermi nati dalla putredine della servitù prese a contaminarne la memoria, una crociata d'infamia bandirono al suo nome, con i terrori della religione lo circondarono, lo conficcarono sopra i patiboli!... Compreso di compassione per la imbecillità della stirpe dalla quale io pure nasco, tacerò, o piuttosto ferocemente animoso le strapperò la fascia dalle piaghe, mostrandole, comunque turpi, alle generazioni future?

Io strapperò cotesta fascia e narrerò come i Gesuiti ardissero effigiare il simulacro del grande e, appostavi la seguente iscrizione: «perchè fu uomo scaltrito e subdolo, di pensieri diabolici maestro, aiutatore del demonio eccellentissimo», lo abbruciassero sopra la pubblica piazza d'Ingolstad in Baviera. E tanto crebbe cotesto osceno baccanale d'ignoranza ribalda e svergognata che fino un principe ne sentì pudore. Così è: a Dio piacque tra i prodigi della sua potenza creare un principe di cui il volto non fosse sconosciuto alla verecondia. Leopoldo austriaco, primo di nome, consentiva gli si ponesse una lapide, e nel sepolcro di lui innalzava un monumento durevole alla propria memoria.

Poichè questo principe s'inchinava a quel grande, egli avrà fama anche dopo che saranno disperse le monete effigiate con la sua immagine: monumento unico al quale il più delle volte è raccomandata la rinomanza dei principi[39].

CAPITOLO SECONDO LA RITIRATA D'AREZZO

Ne' suoi tempi è stato uomo memorabile e degno di essere celebrato da tutti quelli che hanno in odio la tirannide e sono amici della libertà della patria loro.

Giannotti, Vita di Francesco Ferruccio.

Puro è il giorno e sereno: — dalla parte di oriente un color d'oro, diafano, a mano a mano più limpido: — all'improvviso il sole sgorga dai monti con un raggio, due raggi, — un oceano di raggi, su questa terra ch'è sua delizia e suo amore: immagine di Dio, senza curarsi se nello spazio che inonda viva chi lo abborre o chi l'ama, egli veste il creato di splendore benigno; e, tutte belle diventate le cose in quel battesimo di luce, mal puoi discernere tra loro quali sieno le superbe, quali le abbiette.

In quella prima allegrezza della natura ogni ente si commuove, le anime si aprono alla pietà, come i fiori alla rugiada; diventa il buono migliore, meno tristo il malvagio.

Il sole, quanto il pensiero dell'uomo, rapidissimo si sprofonda per la immensità dello spazio e gode balenare lo sguardo infiammato per le acque della Chiana e dell'Arno. Le acque si scuotono e fremono in un continuo agitarsi d'oro e di azzurro, e direi quasi, sembrano palpitare di luce. Gli alberi al vento mattutino mormorando confondono le frasche, come giovani innamorati sussurrantisi nell'orecchio un misterioso favellio: dove te ne prendesse vaghezza, tu potresti ad una ad una annoverarne le foglie, tanto le contorna lucidissimo l'emisfero. L'iride cinge ogni erba; suona ogni pianta una voce d'armonia. Odi trasvolare per l'aria infiniti accordi divini, altri sottentrarne più rapidi e più melodiosi, nè ti è concesso distinguere donde si muovano o come ti arrivino; sicchè tu credi, ora sì, ora no, l'aura ti porti all'orecchio l'inno degli angioli, col quale al tornare della luce esaltano nelle sfere la gloria del Creatore. È un cielo puro e sereno: — un bel giorno d'Italia.

Ma e perchè a tanta esultanza della natura non si mesce la voce dell'uomo? Chi trattiene nelle sue case il colono? Perchè non esce ai quotidiani lavori? L'eco non rimanda il muggito dei bovi; non si ascolta per le valli il tintinnio degli armenti; dai focolari non sorge nuvola alcuna di fumo la quale, paurosa di deturpare la maestà dei cieli, si tinga dei colori della conchiglia marina e rammenti lo schiavo costretto a mutare sembiante all'apparire del suo signore. Sarebbero forse venuti i tempi vaticinati nei quali il sole deve splendere invano? La morte ha inaridite la fonte delle lagrime umane? Il mondo alfine si è fatto cimiterio della universa stirpe d'Adamo?

La città d'Arezzo, vuota anch'essa di gente come la campagna, — sembra la Gerusalemme di Geremia, o piuttosto Pompeia tolta dalla sua antica sepoltura di lava. Ma nella cittadella varie centinaja di uomini d'arme stanno disposte intorno alle artiglierie; silenziosi però ed immobili, come impietriti. Così la canzone moresca immagina stanziare nelle caverne dei monti di Granata per virtù d'incantesimi esercito infinito di Saracini, che sciolto un giorno da un guerriero fatale irromperà, distrutti gli infedeli, a restituire il sangue degli Abenceraggi nelle torri paterne dell'Alhambra[40]. Alzati i ponti levatoi; le sentinelle non mutano passo; non soffia alito che valga a muovere leggiermente le pieghe del gonfalone del comune di Firenze, inerte giù lungo la stacca; quivi sola par viva la corda apparecchiata a dar fuoco alle artiglierie per la colonna sottile e perpendicolare di fumo che tramanda verso del cielo.

Fra i molti quivi raccolti per vesti o per sembianze notabili si distinguono due personaggi, quantunque di forme affatto diversi tra loro; — s'impadronirono entrambi di due colubrine lunghe, spigliate, che a bocca aperta paiono anelanti di balestrare contro i nemici la disperazione e la morte. Il primo appoggia il gomito destro sopra la parte anteriore della colubrina, e vôlto il cubito al capo, vi abbandona sopra la faccia; — la mano manca sta aperta sul pomo della spada; il corpo affida al femore sporgente e sul piede sinistro forte piantato sopra la terra, mentre la tocca appena con la punta del destro posto a traverso; grande era e bello, del tutto chiuso dentro modesta, ma forbita armatura; — il capo scoperto, e quindi appariva il volto, che un arcano pensiero e una cura insistente atteggiando a malinconia lo rendeva più gentile; le palpebre socchiuse velavano il suo sguardo; — certamente, l'anima commettendo all'onda delle sensazioni, egli gusta nel suo segreto la voluttà che muove all'aspetto delle maraviglie della natura.

Tu lo incontrerai mai sempre dove si offre acquisto di gloria o pericolo d'avventura, imperciocchè egli sia Francesco Ferruccio. Udendo i Dieci della guerra come Malatesta avesse perduto Spelle e si fosse accordato di lasciare Perugia, gli mandarono Giovambattista Tanagli col protesto di seco lui condolersi per quella prima sconfitta, ma in sostanza poi per ordinare al Ferruccio e al Verazzano i duemila fanti delle milizie fiorentine ritirassero, ed in Arezzo sotto il comando di Antonfrancesco Albizzi, commissario della Repubblica nelle terre della Val di Chiana, riunissero. La qual cosa avendo il Ferruccio con molta prudenza operata, era rimasto in Arezzo con quella autorità che la virtù non manca di partecipare agli uomini superiori nei casi difficili. — L'altro, di membra maravigliosamente robuste, si assomigliava ai crepuscoli scolpiti da Michelangelo sopra le sepolture di Giuliano e di Lorenzo dei Medici, — curvo su la colubrina ne stringe i lati nelle ginocchia tenaci, ne afferra con le mani venose i manichi estremi, — il sommo del capo egli ha calvo, coperto di una pelle giallastra, se non che intorno intorno sopra le orecchie e dietro la nuca lo ricinge una corona di cappelli in parte neri, in parte bianchi, alcuni torti, tali altri irti, che ben parevano venuti in lite tra loro: le guance squadrate, la mascella e il labbro inferiore sporto in fuori, il superiore mezzo nascosto fra i denti, a cagione degli spessi morsi sanguinoso: le pupille infiammate gli balenavano tra mezzo i peli ruvidi del sopracciglio, a guisa di fuoco pei rovi d'una siepe: inoltre tutto crispato di rughe e abbronzito dal sole e cincischiato da non poche margini... davvero egli era un volto cotesto da fare nascondere spaventato un fanciullo nel seno della madre, da fare stringere sotto le vesti il pugnale al pellegrino che lo avesse incontrato per via: — e nonpertanto Giovannantonio da Firenze, bombardiere, soprannominato il Lupo, annoveravano come uno tra i pochi soldati che militando rispettasse la canizie dei prigionieri, perchè si rammentava la madre lasciata a casa, vecchia ed inferma; e ad ogni immagine della Madonna addolorata occorsa per la via si faceva devotamente il segno della croce e sospirava, perchè sentiva l'affanno della vecchia madre, sola nel mondo e priva del conforto di saperlo vivo: — uno dei pochi ai quali il nome santo di patria rabbrividisse le carni, spremesse dal ciglio dolcissime lacrime. In qual modo al cielo piacque poi balestrare quella testa sopra le spalle di Lupo bombardiere, — fosse caso o intenzione, — io per me non lo posso significare.

Lontano lontano svoltando da un colle ecco apparisce una nuvola di polvere che pare dorata ai raggi del sole. Lupo volta subito la faccia al Ferruccio e lo vede immobile. La nuvola crescendo si dilata, sempre e più sempre si avvicina. Lupo guarda il Ferruccio, nè questi ancora fa sembianza di muoversi. Davanti la polvere adesso si scorge a correre un cavaliero di splendida armatura; ha la visiera alzata e mostra un volto di adolescente; — sprona un cavallo nero di sangue generoso; — nella destra stringe un'asta con pennoncello giallo, dove stanno ricamate le armi imperiali, — l'aquila dalla doppia testa.

A giusta distanza pervenuto, egli scende dal corsiero, al braccio sinistro avvolge le briglie, con l'altro spinge di forza il calcio dell'asta e lo pianta nel terreno in segno di conquista.

Lupo, stillando sangue dagli angoli della bocca, vibra uno sguardo feroce al Ferruccio.

Chi per una notte di procella nell'onda travolta dagli dêi infernali ravviserà lo specchio del lago Trasimeno? — Certo, un dì le sue acque fremendo (e pareva che piangessero) tornarono indietro dal margine tranquillo tutte contaminate di sangue: atterrite esse videro sul campo dei Geti le reliquie misere della battaglia, dove travagliandosi ferocemente le belve umane non si addiedero del terremoto che sobissò centinaia di città italiche; e per le canne e il limo il genio del luogo sottrasse il cadavere del console Flaminio all'ultimo oltraggio per un Romano, — la pietà di Annibale; — ma per ordinario mite le blandisce il raggio della luna, e su la cheta superficie mestamente si spandono i rintocchi della campana del convento, posta nella isola maggiore del lago, che chiama i rivieraschi alla preghiera.

Chi potrà adesso ravvisare il Ferruccio? Negli occhi dilatati scintillano trucemente le pupille: il volto per l'impeto del sangue gli si fece nero, le vene tra turgide e tese: con mani potenti stretta la colubrina, la volge a seconda de' suoi desiderii, quasi fosse una spada od altro più maneggevole arnese di guerra: con tutta l'anima nello sguardo mira attentissimo, — punta la colubrina, — la ferma e con voce terribile grida «Fuoco!»

Non bene anche spirava su le labbra il comando, nè ancora i piedi tornavano a posarsi sopra la terra, donde schivandosi aveva spiccato un salto, che il bronzo balenò; — precipitando rimbombante contro del parapetto lo percosse, rimbalzò, stette; la palla mortale si era partita tra una vampa di fuoco.

Vico Machiavelli, senzachè pure se ne accorgesse il capitano, con la miccia tesa da gran tempo aspettava impazientissimo il cenno.

Il fragore del bronzo si diffuse lontano pei campi: d'eco in eco se lo rimandarono i monti circostanti, e, come se fosse stato il segno magico capace di levare l'incanto, le milizie fiorentine, d'inerti a un tratto divenute irrequiete, con sembianti diversi d'ira, di curiosità e di anelito accorsero alla spalletta per vedere; — e sopra gli altri Lupo e il Ferruccio con tutto il busto spenzolati dal muro, facendosi di ambe le mani solecchio allo sguardo contro la luce, spiavano bramosamente l'esito del colpo.

Il cavaliero nemico, compito l'atto oltraggioso, sta in forse se debba aggiungere all'atto un grido di scherno: — in questa la palla percotendolo nel ventre un poco sopra l'inguine gli dirompe gl'intestini e, via trapassando dai reni, stritola le vertebre e fiacca la spina dorsale; — allora fu vista la parte del corpo inferiore alla ferita, piegati i ginocchi, cadere per lo innanzi, la superiore indietro, sicchè la nuca venne a battere di forza su le calcagna. Il cavallo tratto da impeto irresistibile seguita il moto dell'ucciso; ma quando teso il collo fiutò dalle aperte narici l'odore del sangue, — quando con lo sguardo esterrefatto in quella massa informe di carne lacerata non riconobbe più il suo signore aombrò pauroso e si dette imperversato a fuggire pei campi, trascinando il tronco avvolto dentro la medesima nuvola di polvere nella quale vivo e baldanzoso era apparso pur dianzi.

«E tale mai sempre abbia saluto», esclamava il Ferruccio, «l'empio ladrone che vende l'anima ai nemici della libertà di un paese innocente!»

O giovanetto! la fortuna ti concedeva singolare vaghezza di forme; forte tu eri e animoso: non pativi difetto di beni terreni; scendevi raro germoglio dal sangue degli Chalons[41]: Filiberto, principe di Orange, capitano dell'esercito imperiale, in te abbracciava il suo nepote e il suo erede... Perchè dunque lasciasti i tuoi dolci castelli? perchè i tuoi genitori canuti? Tu avresti lieti fatti e soavi gli anni loro, che adesso strascineranno fra la disperazione alla morte: — te avrebbe amato una donna, a te sorriso i cari figliuoletti. O se nella tua anima ruggiva lo spirito delle battaglie, perchè muovere ai danni d'un popolo innocente? Largo campo di onore forse non ti si apriva in Palestina, dove gl'infedeli contristano il sepolcro di Cristo? Allora il tuo sangue avrebbe bagnato il sacro terreno che bevve prima il sangue del tuo Salvatore; ti avrebbero i cieli largito la palma del martirio, dato la terra lagrime e voti. Adesso il trovatore nella sua mesta ballata ti saluterebbe campione della fede, la tua prodezza esalterebbe, ti piangerebbe come una pleiade scomparsa dal coro degli astri; — per te gemerebbe la vergine ascoltante, e la tua fama rinverdirebbe nei secoli per la rugiada delle lacrime pietose. Ora, morendo, tuo ultimo desiderio fu precipitare intero nell'oblio, perchè nel cuore consapevole sentisti come per cotesta unica via ti fosse dato scampare a infamia. Te misero! che, a tanta distanza di tempo e mentre dovrebbero dormire spenti gli sdegni, la carità patria contende non solo di sciogliere un sospiro sul tuo fato infelice, ma anzi comanda di calpestare il suo teschio ed imprecarvi sopra queste parole: «Bene si ebbe innanzi tempo la sua stanza il serpente in questo vôto cranio; bene fecero i vermi della terra pasto delle tue membra giovanili; bene ti sta la morte immatura; se tu più avessi vissuto, avresti ordito maggiore trama di colpe; ti fu l'obbrobrio lenzuolo sepolcrale, ti pose lo avvilimento la lapide, il maledire dei popoli v'incise sopra la iscrizione, e la giustizia divina ve la mantiene immortale, onde facciano senno i maligni che non abborrono vendere il proprio sangue contro la libertà delle genti.»

Intanto dalle radici estreme del monte si dilatò sul piano una moltitudine meravigliosa di fanti e cavalieri levando dense nuvole di polvere, — e tra mezzo coteste nuvole sventolano bandiere con l'aquila, bandiere con le chiavi di s. Pietro; gli elmi, le corazze, le partigiane e gli altri arnesi guerreschi mandavano lampi; — l'aere d'intorno intronava un suono discorde e terribile di trombe, di pifferi e di tamburi, commovendo i petti, secondo la natura degli uomini, a rabbia o a terrore; procedevano senza osservare le ordinanze, come se poco curassero il nemico, o fossero sicuri di avere a patti il paese; — s'inoltrano spensierati; — privi di qualunque riparo si accostano alle batterie fiorentine.

Dio certamente gli accieca.

All'improvviso con immenso fragore prorompe dalla fortezza un turbine di fuoco, di ferro e di fumo: — il cielo si oscura; la faccia del sole si cuopre come un velo funerario per non contemplare la strage nefanda, — ma il vento rinforzando si porta altrove il fumo e la polvere, sicchè si fanno manifesto allo sguardo cavalli inferociti erranti senza cavaliere di su di giù per la campagna, un cumulo di morti giacenti in atti diversi, i vivi in rotta, i feriti implorare soccorso e non ottenerlo, tentare carponi con miserabili conati sottrarsi da quel luogo micidiale e non poterlo; — armi sparse e spezzate; — di membra il terreno fatto infame e di sangue.

Come vennero, sparvero; togliendo riparo dietro certi argini alzati traverso i campi, sicchè, senza quella testimonianza di strage, quanto avvenne sarebbe apparso un sogno d'infermo.

«Tal sia di loro!» dopo alcuni momenti di silenzio interruppe il Ferruccio.

«Così piacesse a Dio e a san Giovanni glorioso,», rispose Lupo; «ma, per quanto e' mi sembra, il diavolo vuol tenere in conto di caparra questa prima mandata di scomunicati... Vedete, capitano! guardate laggiù quella casa...»

«Dove?»

«Costà, costà, a piè del colle, ov'è la torre rovinata... diritto alla mia mano... la vedete voi? Diavolo! e che siete diventato cieco?

«La vedo, sì, adesso la vedo... E quando ci sono entrati? e che cosa fanno?...»

«Mettono fuori dalla finestra una bandiera... due... un'altra ancora; la prima parmi imperiale... la seconda del papa... la terza! no... sì... oh! diavolo! come c'entra cotesta?... È il cavallo sfrenato... la insegna d'Arezzo.»

«Ah! Machiavello, quanto ben dicesti, a cotesto cavallo doversi imporre un duro morso e di ferro[42]

«Ed ora che cosa significa quella turba? Sembrano gente del contado... in abito da festa... Sì, sì, è la festa dei morti.»

«O Lupo mio, in cotesta casa per certo si raccolsero i capi dell'esercito; — e mentre noi qui ci travagliamo per la libertà della terra, la gente del contado, sempre nemica alla patria nostra, va a prestare l'obbedienza allo straniero; — ed ecco come sempre, di voglie divisi, siamo fatti facile preda dei barbari. Stolti! Andate e imparerete di che sappia la signoria di Carlo! Quando mai le colombe si raccomandarono allo sparviere? Almeno Dio, allorchè vi rapiva il cuore per difendere la libertà vostra, vi avesse tolte le ginocchia con le quali vi avvilite; — o se con l'anima di Bruto ve ne fosse pure stata compartita la forma, ora io qui non dovrei vergognarmi di nascere da una stirpe comune.»

«Possa l'anima di Lupo non andare in luogo di salute, s'io non mando a costoro la diceria bella e fatta.»

In questo modo favellando, il bombardiere gira a quella volta la colubrina. I soldati gli si dispongono intorno, sicuri di ammirare un qualche tiro stupendo.

Lupo imperturbato, aggiusta il bronzo, prende la corda infocata e di propria mano dà fuoco.

Tra una rovina d'intonaco infranto precipita rotto in ischegge lo stipite della finestra; vanno in fascio le imposte, la bandiera imperiale tentenna e cade nella polvere.

Subito dopo furono viste sboccare furiosamente genti di varia maniera, e confuse, spaventate sbandarsi per la campagna. Invano, fermo sul limitare, un cavaliere, sprezzando il pericolo, con la voce e co' cenni le richiama. La paura chiude loro gli orecchi; quei codardi non hanno vita che nelle gambe.

Il cavaliere era Filiberto di Chalons, principe di Grange, capitano dell'esercito.

«Bel colpo! Viva Lupo! che tiro, eh? Non ve lo aveva detto ch'egli era un valentuomo?» si ascoltava suonare in giro a Lupo; e il capitano Gualterotto Strozzi lo baciava in volto, Mariotto Segni gli stringeva la destra, Francesco del Monte la sinistra; ed egli esultava, rideva, non capiva in sè dal contento, e:

«Ve ne farò vedere degli altri, se Dio mi dà vita», ripeteva baldanzoso.

«E sì che io avrei giurato ve ne fosse rimasto uno», mormora il Ferruccio tra sè, e fruga e rifruga dentro un borsone di velluto cremisino ricamato in oro, il quale, secondo il costume dei tempi, teneva appeso alla cintura: — mentre così favella, si accosta a Giovannantonio.

«O che pensate di fare, capitano? gli domandava quell'ultimo.

«Pensava, e certo non vorrai usarmi la scortesia di rifiutarlo, pensava donarti un bello scudo d'oro dal sole, che mi pareva esser rimasto qua dentro.»

La faccia di Lupo diventa vermiglia, biechi torce gli sguardi, si morde per ira le labbra: il Ferruccio invece pacato continua a cercare lo scudo, ma non lo rinvenendo comincia ad arrossire egli e a turbarsi. Lupo, a mano a mano che vede il Ferruccio confuso, compone il suo sdegno; finalmente si risovenne Ferruccio averlo la sera innanzi donato a certo povero soldato il quale, infermo pei travagli sofferti, se ne tornava, ottenuta licenza, a Firenze; onde si pose a guardare fisso Lupo, Lupo, lui, e proruppero entrambi in uno scoppio di riso.

«Valgami il buon volere, Lupo: per questa volta almeno bisognerà che tu te ne chiami contento.»

«E sempre il buon volere basterà a Lupo», rispose gravemente il bombardiere, «e ringrazio la fortuna di avervi impedito cosa nè a voi nè a me convenevole; perchè, credete, capitano, quantunque io sia povero e rozzo e di poca levatura, pure sotto questa grossa corazza batte un Cuore che ama la patria davvero e conosce, capitano, essere ai buoni figliuoli di lei anche troppa mercede potere operare un fatto che le ridondi in vantaggio e in onore.»

«Senti, Lupo: sull'anima mia, io non pensava pagarti la tua virtù; no, Lupo. Se avessi qui avuto due spade, te ne avrei offerta una, intendeva darti una memoria la quale valesse a rammentarti sovente questo nostro incontro, e, morto me, tu potessi, mostrandola ai tuoi compagni, raccontare: Il capitano Ferruccio me la donò in Arezzo quando con un colpo di colubrina gettai nella polvere la bandiera tedesca.»

«E chi ve lo ha detto che morirete prima di me? Avreste per avventura imparato negromanzia? Io non spero sopravvivere a voi nè lo desidero, capitano..., e neanco lo voglio. Oh! io ho camminato più passi di voi sulla strada della fossa.»

«Me lo ha detto il cuore: ad ogni modo, prendi questa borsa vuota e conservala per amor mio; onde tu l'abbi cara, sappi ch'io vi riponeva le paghe delle Bande Nere quando, in compagnia di messer Giovambattista Soderini commessario della Repubblica, seguitai il campo di monsignor di Lautrec all'impresa di Napoli[43].

«Ma che ho da farmi io di cotesto borsone? Sono forse diventato il doge di Venezia o il soldano di Babilonia? Se io non l'empio con le ghiaje del Mugnone, già non pensate voi ch'io possa empirlo mai d'altra roba in questo mondo!»

«E perchè no? Co' tuoi peccati...»

«Tradimento! Tradimento!»

Questa voce terribile interruppe all'improvviso quei loro discorsi, e voltandosi, videro comparire Iacobo Altoviti, capitano della cittadella, il quale, ansante, disfatto, come percosso da subita pazzia, non poteva proferire altra parola.

«Tradimento! Dove? — Come? — Di chi? — Tu' se' il traditore!» grida inferocito il Ferruccio; e senza altro aspettare, gettagli addosso le mani poderose, forte lo stringe nei fianchi e, digrignando i denti, lo porta levato da terra a precipitarlo dai muri della fortezza.

«Per Dio! Ferruccio, non mi ravvisate voi? sono Iacopo... Io vi dico che la patria è tradita; il commessario ha dato volta; fugge quel codardo... maledizione sopra di lui...»

«Qual commessario? — Chi fugge» e lo lasciava il Ferruccio, ma gli occhi stravolgeva pur sempre, nè aveva membro che gli stesse fermo, e fremeva e ruggiva in modo spaventevole.

«Non io, Ferruccio... e lo vedrete. — Mentre altri abbandona il suo posto io corro al mio.»

«Chi dunque fugge?»

«Non avete guardato la città?»

«Messere Iacopo, Arezzo mi stà alle spalle, il nemico di faccia...»

Allora l'Altoviti, afferrato pel braccio il Ferruccio, seco lo mena alla parte opposta della fortezza, e, gli additando la città, diceva:

«Vedete!»

«Cristo!»

Egli vede le milizie fiorentine in rotta; — i fanti, abbandonate le insegne, sbandarsi dove meglio loro talenta; — per correre più spediti gittare alcuni l'armatura per terra; — invano trattenerli i capitani; inutili le preghiere e le minacce: avviluppati nelle spire della moltitudine, abbandonare anch'essi loro malgrado quella terra che avevano disposto difendere finchè l'anima gli bastasse: e sì che molti furono allevati alla scuola del signor Giovanni delle Bande Nere, la morte da vicino animosi contemplarono, pericoli presentissimi affrontarono e vinsero. Qual fiero caso adesso sovrasta? Chi dunque li caccia? Nessuno. La paura è un contagio. Purchè possono più velocemente sottrarsi, si riputano i cavalieri beati; — spronano, — sferzano i cavalli, come se il ghiaccio della spada sentissero penetrarsi nei reni: ah! cotesta è una gara di corsa di cui sarà dato in premio l'infamia.

Precorre a tutti il commessario Antonfrancesco Albizzi, come quello che migliore destriero cavalca, e cui stringe più forte la paura. Se lo sapesse il nemico, rimarrebbero oppressi tutti, senza potersene salvare uno solo! Di quanto scherno non darebbe cotesta fuga argomento, se la sapesse, al nemico! Il Ferruccio declinando per vergogna la faccia, gli viene fatto di posare lo sguardo sopra la città. Una testa si affaccia alla finestra, — poi due, — poi cento, come le rane in palude, passato il rumore di che hanno avuto paura, si levano sulle acque contaminate e ritornano al gracidare increscioso. Di lì a breve le porte delle case si schiudono, e vedi uscirne uomini ratti ratti che traversando le strade si recano ora da quel cittadino, or da quell'altro, nel modo stesso che il serpe vibra la lingua, o i ramarri, nei giorni canicolari, si lanciano rapidissimi di cespuglio in cespuglio: — cominciano a radunarsi i capannelli; ci ascolta una sorda agitazione; la plebe prorompe; lontano si diffonde un trambusto, uno schiamazzo, un battere di tamburi, un urlare: Viva san Donato! Viva l'imperatore! Morte a Marzocco[44] morte a Marzocco! O popolo, quante volte hai gridato e dovrai ancora gridare — Viva la morte, e morte alla vita! Dalla tua ignoranza acciecato, e dalle lusinghe altrui sedotto, per quanto tempo ancora il tuo destino sarà quello del bove — vita di bastone, morte di macello!

S'innalza una bandiera imperiale col verso di Zaccheria scritto all'intorno: ut de manu inimicorum nostrorum liberati serviamus tibi; cresce il tumulto; le armi della repubblica Fiorentina atterrate: l'onda del popolo bramosa di mettere le mani nel sangue allaga le strade: ogni cosa in confuso; amici tremano e nemici; la fiera ha rotta la sua catena; guai a chi la incontrerà!

Un tanto evento non sembrava partorito dalla occasione, e veramente non era. Di lunga mano i cittadini cospiravano: le occulte trame adesso si discoprivano.

Arezzo, un tempo dai marchesi e dai conti governata, dopo il secolo undecimo, a guisa delle altre città di Toscana e la più parte d'Italia, in repubblica si costituiva. Nei padri nostri la virtù difettasse o la sapienza, non seppero legarsi in vincolo federativo, il quale come la quiete interna assicurasse, così potenti di fuori gli rendesse e temuti. Della libertà civile praticarono un solo argomento, quello della partecipazione di qualsivoglia cittadino agli uffici supremi dello stato; la sicurezza individuale, nè statuirono nè per avventura conobbero. Eternamente con miserabile guerre si lacerarono; e quando lo straniero venne a ridurre in servitù le belle contrade, invano chiamarono i figli generosi; giacevano spenti, — nè i sepolcri restituirono i morti. In coteste scellerate contese, sopra tutti insanirono i popoli aretini; oltre misura rissosi, il nome ebbero di cani botoli, e l'Alighieri vi aggiunse:

Ringhiosi più che non chiede lor possa[45].

Poichè nei casi dei governi la libertà disordinata mena sempre alla licenza, e la licenza genera tirannide, tosto comparvero i signori. Guglielmo Ubertini, vescovo, conquistò Chiusi, vinse i Sanesi alla Pieve al Toppo: abbandonato dalla fortuna, rimase vinto a sua posta e morto nella giornata di Campaldino, dove il nostro maggior poeta si trovò a combattere tra le prime schiere. Meglio per lui, se non avesse mai il pastorale mutato con la spada; o se, avendo cinta la spada, l'adoperava in impresa più santa, perocchè egli fosse uomo prode di guerra e di virtù antica.

Dove vivono genti disposte a servitù, i padroni si rinuovano; chè, cessato il tiranno, rimangono le cause della tirannide: agli Ubertini subentrano i Tarlati. Guido Tarlato di Pietramala, stretta lega col Castruccio, continua a travagliare Firenze. Non pertanto Arezzo, vuota di sangue, si piega al dominio fiorentino. Piero Tarlati, più noto nelle storie col nome di Pier Saccone, tentato invano ogni estremo rimedio per mantenere indipendente la patria, si accomoda col comune di Firenze e gliela vendè per trentanovemila fiorini d'oro; mostruoso accoppiamento di virtù e d'avarizia! Nel 1343, cacciato da Firenze il duca di Atene, gli Aretini ricuperarono la libertà; ma al buon volere mancando la potenza per sostenersi, non istette guari che in sua potestà li ridusse Ludovico duca d'Angiò. Lui morto, i Fiorentini con quarantamila fiorini di nuovo la comprano dal capitano che in nome del duca la governava. Il popol vile, venduto a guisa d'armento, stette nel dominio di Firenze fino al 1502; allora si ribellò, non per virtù propria, ma instigando Vitellozzo Vitelli generale del papa Alessandro VI; il quale, sotto colore di vendicare la morte di Paolo suo fratello, condannato dai Fiorentini ad avere mozza la testa pel tradimento di Pisa, invero poi per allargare lo stato a Cesare Borgia, che lo pagò più tardi a Sinigaglia[46], si condusse con l'esercito su quel di Arezzo. I Fiorentini, d'armi sovvenuti e d'istanze presso papa Alessandro da Luigi XII di Francia, lo riconquistarono. Nicolò Machiavelli, nella presente occasione consigliando sul modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, scriveva dovesse la Signoria assicurarsene nel modo prescritto dai Romani[47], i quali pensarono: «che i popoli ribellati si debbano beneficare o spegnere; essere ogni altra via pericolosissima; a lui non parere nessuna di queste cose avessero praticata, perchè non si chiama benefizio far venire gli Aretini a Firenze, toglier loro gli onori, venderne le possessioni, sparlarne pubblicamente, tener loro soldati in casa; nè chiamarsi assicurarsene lasciare le mura in piedi, lasciarvi abitare i cinque sesti di loro, non dar loro compagnia di abitatori che li tenessero sotto, e non si governare in modo con essi che, nelle guerre che fossero fatte a Firenze, non avesse più a splendere in Arezzo che contro il nemico:» onde, bene considerato il termine col quale la Signoria la teneva, egli formava questo giudicio sicuro: «Che come fosse assaltata Fiorenza, di che Iddio guardi, o Arezzo si ribellerebbe o darebbe tale impedimento a guardarla che la sarebbe spesa insopportabile alla città.» I modi praticati dalla Signoria nè amore rivelavano nè vigore, e il popolo presuntuoso, anzichè attribuirli a benevolenza d'indole o ad esitanza, gli attribuiva recisamente alla paura e si faceva più pronto alle offese. Accostandosi i nemici, ordinarono ai cittadini sospetti sgombrassero le città, a Firenze si presentassero: tardo e debole provvedimento. Nelle commozioni dei popoli voglionsi bene esaminare le cause per le quali accennano muoversi, e secondo la diversità di quelle usare degli opportuni rimedi. Se il popolo, agitato dalla passione di una famiglia o di un uomo s'infiamma, cotesto ardore dura poco, e tolta via la famiglia o l'uomo, può stare sicuro che in breve si quieterà; dove poi il popolo si muova per passione propria, a nulla giovano i bandi o le morti di alcuni cittadini; di tutti i semi quello che abbiamo veduto partorire maggiore copia di messe è il sangue dei martiri della libertà versato sopra la terra della oppressione, egli troverà sempre un Lando e un Masaniello; nè al potere riescirà spegnerli tutti, imperciocchè troppi sieno coloro nel petto dei quali arde un fuoco divino che aspetta tempo a manifestarsi. Allora bisogna o nei suoi desiderii compiacere il popolo, o con molte soldatesche frenarlo, o, snaturandone gradatamente lo spirito, assuefarlo a servitù, come fece Cosimo I a noi Toscani, o diroccarne le mura, gli abitatori disperderne, seminarne il terreno di sale, come fece Federico I ai Milanesi, i quali due ultimi spedienti, oltre all'essere tirannici, talvolta riescono incerti, ed invero valsero a Cosimo, a Federico no. E poi, alle cause interne di ribellione si aggiungevano gli stimoli di fuori. Il conte Rosso da Bevignano, citato come sospetto a comparire davanti Simone Zati commissario, fuggì di Arezzo e prese soldo nel colonnello di Sciarra. Divenuto caro al principe di Orange per la sua piacevole natura e più per l'ingegno maravaglioso col quale sapeva condurre le imprese avviluppate e difficili, cominciò, secondo il costume dei fuorusciti, a dargli ad intendere che avrebbe ribellato Arezzo, che stava in sua mano il destino della città, che la voleva consegnare a lui solo; e a queste aggiunse altre più cose assai, a cui il principe o credendo o piuttosto simulando credere, gli diede patente amplissima per vedere che cosa e' sapesse fare. Il conte si abboccò con i suoi partigiani, gli adescò con l'antica lusinga della libertà, come se ribellarsi a Firenze per vivere nel dominio del principe potesse chiamarsi libertà, apparecchiò armi, raccolse danari, e le bandiere notate da Lupo alle finestre della villa erano il segno convenuto pel quale i congiurati, mosso rumore in città, dovevano dare campo a quei di fuori di assalire le mura senza troppo lor danno. Veramente, se la codardia dell'Albizzi non fosse stata, cotesta impresa avrebbe avuto il termine a cui vediamo ogni giorno capitare i tentativi dei fuorusciti; ma in ogni modo adesso si facevano manifesti i prudenti consigli di Nicolò Machiavelli e la imprevidenza dei capi.

... tutto affannato in suono di pianto supplicava il Commissario... Cap. II, pag. 50.

Il capitano Ferruccio, a cotesto spettacolo doloroso, diventò pallido come la morte: grondava sudore; all'improvviso traendo l'Altoviti davanti una immagine riposta in certo tabernacolo sopra le mura dei quartieri, parlò:

«Iacopo, giuratemi per questa immagine benedetta che voi non renderete la cittadella, se prima non ne venga l'ordine dai Dieci. Dal tenere questa fortezza forse dipende la salute della patria...; della vergogna non parlo...»

L'Altoviti levò gli occhi e conobbe rappresentare la immagine san Donato, protettore degli Aretini.

«Qui nel mio petto, Francesco, io serbo miglior santo che non è costui», e si accennava il cuore. «I due ultimi bariloni di polvere saranno adoperati a mandar all'aria la fortezza e me...»

«Sta bene, addio!»

E profferite le parole, il Ferruccio si caccia giù per le scale; alcuni gii tengono dietro senza ch'ei se ne accorga: scende in città e se ne corre rapidissimo all'albergo. Siccome in quel punto ei non teneva ufficio pubblico, non si era ridotto ad abitare i quartieri. Certo ospite antico della sua famiglia lo aveva accolto in casa; se ciò non fosse stato, nella fuga dei Fiorentini d'Arezzo gli avrebbero condotto via la cavalcatura. Irrompe nella scuderia; il buon destriero turco, nel sentire appressarsi il suo signore, si commove tutto e nitrisce; egli, dato di piglio agli arnesi, comincia ad adattarglieli intorno al corpo con incredibile ardore; siccome accade in quella furia, ora gli cascano di mano, ora l'uno scambia con l'altro e, invece di affrettarsi, ritarda; il cavallo freme irrequieto, squassa la testa, percuote il terreno, impaziente di lanciarsi.

«Sta, sta, Zizim; non è un giorno di esultanza questo; se tu potessi vedere il cuore del tuo padrone come geme contristato, ne avresti pietà; tra poco ti converrà far prova di quanto sei veloce; ingegnati di correre, di volare, ma comunque tu voli, non ti risparmierò i fianchi; te li sentirai pungere; il tuo bel candore sarà contaminato di sangue... Per Dio! non ti addestrava a tal prova; nè tu vi ti aspettavi... ed io nemmeno. Avevamo disposto a morire insieme in un giorno di battaglia...; ora..., prima che venga la stagione dell'onore, il vituperio ci affoga. Corri non per acquisto di gloria... ma per fuggire vergogna...; nonpertanto, sia per procurarle decoro, sia per salvarla dall'obbrobrio..., sempre ben muore il cittadino per la sua patria... or sei sellato... va'!

Gli balza in groppa, tira la spada e con la voce e con gli sproni lo spinge: il buon corsiero, compresa la voglia del suo signore, corre, vola, divora la via; par che non tocchi la terra, e par saetta scoccata dall'arco. Il cavaliere trascorre rapido tanto che gli oggetti gli fuggono vertiginosi, sformati; dinanzi gli occhi; l'aria rotta violentemente su i labbri non gli concede articolare parola... eppure urla in maniera spaventevole: giunge dove una turba di popolo adunata dintorno alla bandiera imperiale esultava baccante di allegrezza; il buon cavallo la fende come fiumana; l'onda della plebe si frange clamorosa e volta le spalle sopraffatta dal terrore; giace la bandiera deserta, e già tra i gridi discordi si ode mormorare; «Viva Marzocco!»

Poichè fu la paura un poca quieta, si domandarono le genti chi le avesse sbarattate, chi fosse, come si chiamasse; non seppero dirlo: alcuni affermarono con giuramento essere comparso uno spirito infernale che non aveva forma di cosa conosciuta; per furia, per rumore e per luce terribile; solo una chioma tesa per ventilargli dietro per l'aria a guisa di cometa, di augurio funesto: altri invece sostennero avere veduto un volto di angiolo, un cavaliere celeste, certamente san Giorgio.

Il cavallo, dell'impeto rovinoso punto rallentando, arriva alla porta; In cotesto istante una mano di cittadini, recati sassi e travi, tentava sbarrarla. Ferruccio, rinforzando la voce, tale manda fuori un urlo che anch'essi atterriti si danno alla fuga; irrompe pei campi; tende lo sguardo e, lontano lontano, riconosce il codardo Commissario.

Dai fianchi del cavallo sgorga un nuovo spruzzo di sangue; di più non può correre, nondimeno sente più e più sempre trafiggersi. Ecco raggiunge le milizie disperse, le passa, le ha passate.

Dietro al cavaliere si leva un rumore: «È il Ferruccio! Anche il Ferruccio si salva!» Ei non lo intende, o non lo bada... continua a precipitare dietro le tracce del Commissario. La strada svolta e rasentando una macchia si curva, sicchè all'improvviso costui gli scomparisce dagli occhi. Il Commissario di troppo ha precorso; difficilmente gli riuscirà raggiungerlo: tutto è perduto!

Antonfrancesco Albizzi, senza cappuccio, con le vesti scomposte, pallido, lo sguardo fisso, tolto fuori di sè, rabbiosamente spronava, quando ad un tratto gli balza indietro il cavallo, forte squassato pel morso, e una voce minacciosa gli grida:

«Fermatevi!»

«Per la Madonna santissima della Impruneta», tutto affannato in suono di pianto supplicava il Commissario, «non mi ammazzate! Non vi mettete l'omicidio sull'anima! Sono un povero marraiuolo... un fante di stalla...; a buona guerra non mi potete toccare un capello..., vorreste dire ch'io sono un nemico preso con le armi alla mano?... Frugatemi in nome di Dio...; io non ho armi... Le vesti... le vesti non mi appartengono. Lasciatemi andare, e ve le darò... mi basta andarmene in farsetto... con i fiorini che troverete in tasca... un riscatto da principe in verità..., ma lasciatemi... lasciatemi per tutti i santi del paradiso...»

Per quanto s'ingegnasse o dicesse, il cavallo non poteva avanzare, una mano di ferro lo teneva fermo al terreno.

Vico Machiavelli, quantunque avesse sotto peggior cavallo del Ferruccio, avendo notato più quieto come tirando diritto dentro la macchia si venisse ad acquistare considerabile spazio di cammino, vi si era messo alla ventura, e, trovatala sgombra, potè riuscire ad arrestare il Commissario.

Quando il Ferruccio ansante ebbe trascorsa la curva descritta dalla macchia ed ormai immaginava il Commissario lontano, con somma sua maraviglia se lo trovò di subito davanti, e, preoccupato com'era, dall'Albizzi in fuori, non gli venne fatto di vedere null'altro:

«Commissario!... Commissario!...» prese a favellare il Ferruccio, così come l'anelito glielo concedeva; «se alla salute e all'onore della patria non si potesse, come spero, riparare, la tua testa rotolerebbe adesso per la polvere della strada.»

«O capitano! siete voi! Venite, difendete il nostro Commissario. Voi siete valentuomo, voi, e l'ho sempre detto. Difendete il vostro Commissario; mi vi raccomando...»

«Vile uomo! difenderti io? Di' piuttosto, perchè fuggi? Così tieni il posto alla tua fede commesso? Perchè hai lasciato Arezzo? perchè?...»

«Signore! O che anche voi mi uscite fuora nemico? Voi eravate nella cittadella e non potete aver veduto il tumulto della città... Io stavo sopra un vulcano... la terra mi si franava sotto... tutti insorti... tutti armati e minaccianti la morte...; o che doveva far io?»

«Morire.»

Questa risposta percosse il Ferruccio, il quale, essendosi alquanto rimesso da quel primo furore, declinò lo sguardo e si accorse della presenza di Vico; onde, geloso com'era della militare disciplina, increscendogli che altri avesse ascoltato le acerbe rampogne profferite contro il Commissario, con mal piglio rivolto al giovane, gli disse:

«Anche voi qui? Partite.»

«Ma io...»

«Partite, vi comando! Davvero, voi andrete molto oltre nel mestiere delle armi, se al primo incontro abbandonate così la vostra bandiera...»

«Mente per la gola chi lo sostiene», rispose Vico vermiglio fino al bianco degli occhi, traendo mezzo fuori la spada...

Sentì il Ferruccio a quell'atto superbo commuoversi l'anima, e per poco stette che non lo abbracciasse e baciasse; pur, sempre mantenendo il sembiante severo, riprese:

«Tornate, Vico, alla vostra ordinanza e quivi con l'esempio mostrate quello che tanto bene sapete raccomandare con parole.»

Vico, a capo dimesso, traendosi dietro per le briglie il cavallo, mestamente si allontana e pensando come il capitano, di cortese e benigno che gli si era fino a quel giorno mostrato, a un tratto avverso gli si facesse e oltraggioso, sospira nel profondo del cuore, e gli prorompe il pianto dagli occhi.

Il Ferruccio, accompagnandolo col guardo, non potè impedire che a sua posta gli si velasse di lacrime, perocchè dentro gli si sporgesse un pensiero il quale diceva: Crescono i figli nostri migliori di noi, e forse, ahi! indarno.

«Dove scorgessi in te parte alcuna di uomo, spécchiati, comanderei, in cotesto giovanotto e vergognati. O casa Albizzi, funesta sempre a Fiorenza, sia che nascano da lei genti feroci, come Pietro, Maso e Rinaldo, o codarde, come sei tu...[48]. Or via, scendi da cavallo...»

«Voi mi volete uccidere...»

«Tolgo io forse le sue giustizie al carnefice?»

«Ma perchè devo scendere?»

«Perchè quando i Dieci ti deputarono alla salute della patria furono o stolti o ebbri o ribaldi; perchè, durante il tempo che nome conservi e comando di magistrato della Repubblica, ogni turpitudine tua ridonda in onta di lei; e perchè finalmente devi riparare al mal fatto, lasciandoti poi, quando sarai tornato Antonfrancesco Albizzi, facoltà ampia di vivere e di morire infame a tuo senno.»

«I vostri modi, capitano Francesco Ferruccio, passano il segno...»

«Taci, obbedisci, o ti taglio la gola.»

E l'atto col quale accompagnò le parole indusse l'Albizzi a scendere senza farglielo ripetere due volte. Ferruccio si lanciò giù dal suo cavallo ed accennò al Commissario che salisse su quello; dipoi, assicuratosi per questa guisa che Antonfrancesco gli avrebbe tenuto dietro, balzò in groppa al palafreno donde era sceso costui e, tormentandolo nella bocca e nei fianchi, lo costringe ai più strani contorcimenti che mai abbia fatti cavallo nel mondo; — poco dopo lo abbriva di tutta carriera contro le compagnie disperse, le quali come prima ebbe incontrato, cominciò ad esclamare in questa maniera:

«Che vi caccia, soldati? Procedete in sembianza di fuggitivi, e nessuno v'incalza. — Almeno aspettate, per Dio! che vi sopraggiunga il nemico alle spalle. Il Commissario, ordinandolo i Dieci, comanda la ritirata, e voi fuggite? Davvero io non avrei mai creduto che le milizie allevate alla scuola del signor Giovanni, — le reliquie delle Bande Nere, ignorassero qual corra differenza tra una ritirata e la fuga. I Dieci deliberarono, presidiate le cittadelle del dominio, raccogliere quel cumulo d'arme che si potesse maggiore intorno a Fiorenza... Parvi questo pauroso o improvido consiglio? Su via, ordinatevi, e ben per voi che il Commissario, trasportato lontano da questo mal domo animale, — e qui, ferendolo lo costringeva a inferocire, — non si accorse della vostra vergogna: — presto, — presto, — ordinatavi, che già sopraggiunge, — ognuno al suo pennone; — i sergenti a capo delle compagnie; quattro per fronte; — date nei tamburi; — torni a sventolare la bandiera... Viva la Repubblica! Viva!»

E quivi nasceva una confusione in apparenza maggiore di prima, ma indi in breve squadronate in bell'ordine comparvero le milizie.

Intanto il Ferruccio spronando di nuovo alla volta dell'Albizzi, piegato il corpo dalla sella, gli susurrava sommesso all'orecchio:

«Commissario, la tua onta è coperta, — giustificata la fuga; n'ebbe colpa il cavallo; — dacchè non hai virtù, fa di mentirla; — mostrati in parole valente. Nota bene, contro gl'insegnamenti della milizia io ordinai la ritirata, ed io l'ho fatto a posta onde tu salvi la reputazione di magistrato della Repubblica...; però biasima il comando..., raddoppia di fronte le file..., manda gli archibusieri alla coda..., ai fianchi due squadroni di cavalli per tentare la campagna. L'Altoviti tiene fermo nella cittadella finchè gli basti la vita; — comanda al marchese del Monte, uomo animoso e dabbene, insomma diverso affatto da te, di prendere mille fanti e affrettarsi in soccorso dell'Altoviti. Per onestare la tua infamia, basta che tu mentisca, e di leggieri il farai, imperciocchè i codardi sieno maestri di menzogna. — Addio. — Ora cesso cittadino e, ridivenuto soldato, ti obbedisco.»

Machiavelli nostro, massimo conoscitore di questa umana natura, scrisse in alcuna parte delle opere sue, difficilmente occorrere uomo del tutto buono, come del pari riesce difficile incontrarlo affatto tristo: però l'Albizzi sentì pungersi il cuore di rimorso profondo più adesso, che il Ferruccio vedeva studioso di giustificarlo, che quando con parole acerbe lo rampognava pur dianzi; e poi cominciava per prova a comprendere quello spirito altissimo; e sè a lui paragonando, lo agitava un gruppo di passioni così diverse, di ammirazione per esso, di avvilimento per sè, di rimorso, di vergogna e di terrore, che il sangue a guisa di marea ora gli si spingeva sul volto, ora, ritraendosi verso il cuore, glielo tramutava in colore di defunto.

Ma se il suo onore era perduto davanti alla sua coscienza e al Ferruccio, poteva e doveva sostenerlo in pubblico per reverenza della patria: — quindi, composto quanto gli riuscì meglio il sembiante, trasmise con voce sonora gli ordini consigliati e comandò a Francesco marchese del Monte, tolti seco i mille fanti, accorresse in aiuto dell'Altoviti, accompagnandolo con sì calde raccomandazioni di travagliarsi in pro della Repubblica, e parole sì ardenti di sacrifizio e di zelo che molti, persuasi della sua fuga, si ricrederono, prestando fede alle parole del Ferruccio.

Cotesta ora fu piena di amarezza per l'Albizzi, un'ora di passione; mai croce al mondo tanto pesò sugli omeri mortali: sicchè il Ferruccio, sottilmente investigando quel volto che a mano a mano a fior di pelle s'increspava per lo interno lacerarsi dell'anima e il fremito fitto che gli investiva le membra al pensiero terribile che di repente gli suonasse negli orecchi la parola: — cervo, lascia la pelle del lione; — insieme a disprezzo prese ad averne pietà, sempre più imprecando sventura sul capo dei Dieci, i quali, il nome anteponendo alla virtù, lo avevano scelto a Commissario.

Così senz'altro accidente procederono fin presso a poche miglia da Firenze: andavano mesti e taciturni, perchè pesava a tutti il dolore di cotesta fuga, e, al rivedere che facevano adesso le mura dilette della patria, sentivano più fieramente tormentarsi la coscienza... Che cosa sarebbe stato di lei, se, come principiarono, avessero continuato a difenderla? Sopra gli altri dimesso nell'animo s'innoltra l'Albizzi, col mento abbandonato sul petto, stordito da pensieri senza séguito, — da dolori senza nome; — chiunque lo avesse incontrato per la via, lo avrebbe detto un masnadiere condotto a guastarsi.

Giunti che furono in parte dove il sentiero si divide in due diversi cammini, l'uno dei quali mena a Firenze, l'altro ai borghi e alle ville circostanti alla città, il Ferruccio, frenando all'improvviso il cavallo, chiamò:

«Messere Antonfrancesco!»

L'Albizzi, assorto nella sua meditazione, non lo intendeva, sicchè egli poco dopo più forte replicava:

«Messere Antonfrancesco!»

«Chi mi vuole?»

«Se non vi fosse gravoso, piacerebbevi dirmi qual cosa divisate di fare?»

«L'ufficio mio, capitano: andarmene ai Dieci ed esporre loro un ragguaglio fedele della mia commissione.»

«Allora più poca via vi rimane a fare in questo mondo: — dai Dieci al bargello, dal bargello ai sepolcri della vostra famiglia.»

«E perchè, Ferruccio, perchè? Forse non ebbi consiglio da Malatesta di abbandonare Arezzo? Forse non è vero, ch'essendo debole, mal si poteva tenere, e, perdute queste genti, la città nostra diventava affatto disarmata[49]? Forse la cittadella non si trova adesso convenientemente presidiata?»

«E vi gioveranno siffatte difese quando là presso ai Dieci troverete un uomo che prenderà a perseguitare la vostra vita, come veltro la fiera, e narrerà la fuga, la paura, la viltà vostra, sostenendo la vostra morte all'onore e alla salute della patria necessaria; senza il vostro sangue tutta disciplina militare spenta, ogni vincolo sciolto; a cagione dell'esempio pessimo i valenti diventare deboli, vilissimi i vili; il vostro capo, in ogni tempo per la colpa commessa giustamente reciso, doversi adesso mozzare per giustizia e per ragione di stato; i principii delle repubbliche avere ad essere inesorabili, testimone Roma? E quando gli esempi e gli argomenti non bastino, cotesto uomo si squarcerà le vesti, si cuoprirà il capo di cenere; prostrato a terra, con le mani giunte, piangendo dirotto, nel nome santo di Dio implorerà che la scure del carnefice vi percuota la testa...»

E siccome l'Albizzi, esterrefatto, si guardava attorno e poi i suoi occhi negli occhi del Ferruccio fissava, quasi per domandare chi fosse quel suo implacabile nemico ed in qual modo lo potesse accusare dopo che egli con tanto sottile accorgimento gli aveva onestata la fuga, il Ferruccio, forte percotendosi il petto, esclamò:

«Io sono quel desso!»

L'Albizzi, profondamente avvilito, non riusciva a formare parole. Stettero alquanto in silenzio, e quindi riprese il Ferruccio a favellare così:

«Io però non vi odio, Antonfrancesco... nè voi... nè altrui...; odio la colpa... il colpevole non posso...; nè vorrei che voi moriste disonorato, no... non vorrei; il vostro delitto è certo, certa la pena...; se il piè ponete in Fiorenza, il palco infame vi aspetta; ponetevi in salvo pertanto, cercatevi un asilo finchè vi si offra modo di morire onoratamente combattendo per la patria..., dico morire... dacchè vivere più non potete; quando pure vi poneste sul capo gli allori di Alessandro e di Cesare, non basterebbero a gran pezza per ricoprirvi il brutto segno che l'ultima vostra azione v'impresse nella fronte; solo può rigenerarvi il battesimo di sangue..., perocchè allora i cittadini, l'andata vita tacendo, incideranno sopra la vostra lapide queste parole: Morì per la patria; e i posteri, senz'altro cercare, l'anima vi conforteranno di suffragi e la memoria con le lodi serbate ai valorosi...»

E stava per continuare, quando, per la via traversa che mena alle castella del contado, ecco apparire un uomo di villa accorrente a gran fretta, levando dietro a sè un lungo polverio. Venuto presso ai nostri personaggi, il Ferruccio, accennandogli prima con la mano sostasse, lo interrogò dicendo:

«Donde vieni e dove vai?»

«Io vado, messere, per una trista novella..., trista in verità..., una novella che nessuno vorrebbe portare, e pure bisogna che qualcheduno porti, perchè la è cosa che riguarda l'anima; e un figliuolo mal può dipartirsi contento da questo mondo, se prima non lo abbia benedetto suo padre. Vengo da Nipozzano.»

«Nipozzano!» esclama Antonfrancesco Albizzi alzando di subito la faccia, «casa mia!»

«Domine! ho io le traveggiole, o siete ben voi messer lo padrone! Oh non vi aveva mica riconosciuto! Ma dacchè la è andata così, fatevi animo e raccomandatevi al Signore, perchè lo hanno spacciato...»

«Chi dunque? chi?»

«Messere Lorenzo, il padrone giovane... il vostro figliuolo si trova in extremis...»

«Dio eterno, qual castigo mi dài!...»

Francesco Ferruccio, del tutto fisso nella sua idea di onore patrio, di decoro della milizia italiana, oltre la quale le cose altrui poco curava, le proprie nulla, quasi lieto diceva:

«Messere Antonfrancesco, nè più onesto nè meglio conveniente motivo di questo vi potea parare la fortuna davanti per abbandonare la ordinanza e ritirarvi lontano dalla città.»

L'Albizzi, udite le parole, immaginando irridesse al suo dolore, lo guardò in atto di rampogna e poi levò disperato gli occhi lagrimosi verso il cielo. Allora sentì il Ferruccio il detto inconsigliato, e la sua anima gentile n'ebbe rincrescimento profondo; onde con voce piena di pietà, toccandolo leggermente sul braccio, soggiunse:

«Nè più doloroso..., messere, nè più per un padre desolante davvero...; e se Dio ve lo mandava in pena delle vostre colpe..., parmi anche troppo.»

L'Albizzi, riconciliato, gli strinse la mano, — e senza altre parole aggiungere, traendo un gemito, si allontanò.

Durante l'assedio egli stette ritirato in campagna. Un po' per paura, un poco per vergogna, non ardì prendere parte alcuna negli sforzi gloriosi operati da' suoi concittadini in difesa della patria; la sovvenne di pecunia, ma poca: scrivono mille scudi[50]. Spenta la libertà, la tirannide istituita, mal potendo l'animo suo comportare i nuovi modi, cospirò contro Cosimo I, Tiberio toscano: preso a Montemurlo cogli altri congiurati, dannato nel capo[51], troppo tardi imparava dovere gli uomini liberi mettere a repentaglio le sostanze e la vita a mantenere la libertà quando ha fiore di verde; l'occasione nelle cose politiche condurre con una mano la buona fortuna, con l'altra la morte; i provvedimenti intempestivi come non procurano la gratitudine altrui, così quasi sempre cagionano la rovina a cui li tenta. Morì per le mani del tiranno, non per la libertà; lo mosse insofferenza di servitù, non amore del bene del popolo, sicchè i posteri gli negarono per fino quel sospiro di pietà, — tenue mercede eppur cara, — di cui tanto si confortano le ombre dei grandi infelici[52].

Il cavallo di Arezzo[53] insaniva sfrenato, ma non per durare, il conte Rosso promise la libertà agli Aretini, e non gliela potè mantenere; promise al principe di Orange il dominio libero della città, e non gliela potè consegnare.

I superbi disegni di Filiberto di sposare Caterina dei Medici, che i cieli destinavano alla corona di Francia, farsi signore di Toscana e forse d'Italia[54], vennero meno. L'imperatore fu per ragione di stato costretto a mantenersi leale col papa.

Clemente VII, occupando in processo di tempo Arezzo e al governo di Firenze lo ritornando, considerato come i principi nuovi non devano sopportare gli uomini capaci di sollevare a piacimento loro i popoli soggetti, impiccò il conte Rosso. La sua morte insegnava che se talvolta i principi adoperano l'antica lusinga della libertà a guisa di leva per conseguire il fine proposto, ottenuto che l'abbiano, se ne servono per rompere la testa a chi ci ha creduto. Ammaestramento rinnovato le cento volte dopo e nei tempi recentissimi eziandio, nondimanco sempre invano per questa nostra stirpe umana, nata a fidarsi, a pentirsi e a fidarsi di nuovo in chiunque abbia voglia ed ingegno d'ingannarla.

Abbandonato il contado di Arezzo dalle milizie fiorentine; presa dai nemici Cortona; Montevarchi perduto e Figline; gli uomini di Castelfiorentino sopraffatti; — la guerra si riduce sotto le mura di Firenze.

CAPITOLO TERZO IL PAPA E L'IMPERATORE

Darà l'Italia in preda a Francia o Spagna

Che, sossopra voltandola, una parte

Al suo bastardo sangue ne rimagna.

Ariosto, Satira II, alludendo a Clemente VI.

Adesso dormono polvere; — forse nè anche polvere: — ma allora erano due fra i più potenti della terra, — un papa ed un imperatore.

E fino a quel punto di odio mortalissimo si aborrirono. Il più lieto pensiero in cui si assopissero la notte, — la immagine più cara che alla dimane sul guanciale del riposo ritrovassero, porgeva loro la speranza di potere un giorno l'un l'altro incontrare giacente sui gradini del proprio palazzo, — nudo, — assiderato dal freddo, — supplicante una elemosina, — che l'imperatore nella mente superba esultava concedere larga ed amara, — e il papa invece si compiaceva negare, via procedendo in sembianza di non accorgersi di quel caduto. Imperciocchè, quantunque il cardinale di Richelieu non avesse ancora insegnato la regola, il cuore di Clemente VII aveva per istinto sentito, le donne e i sacerdoti non dovere perdonare giammai[55].

E non pertanto adesso stavano intesi a comporre gli antichi rancori, a discutere che cosa avrebbero guadagnato a mutare l'odio in amicizia, a stringersi le mani per quindi insieme aggravarle più peso sopra il collo dei popoli.

Gli accoglieva magnifica sala, di seta splendida e d'oro, con la vôlta dipinta da uno dei più valenti artefici che resero quel secolo singolare nella storia dell'arte.

E il dipinto della vôlta rappresentava il concilio dei numi, il convito degl'immortali che pure erano morti, Giove l'antico onnipotente, che adesso non poteva più nulla, e le altre divinità bandite dalle dimore dei cieli. Eppure cotesta religione ebbe una volta adoratori, martiri, voti, preghiere, superstiziosi, dileggiatori, olocausti di bestie, olocausti di uomini e sacerdoti crudeli; ora poi non se ne rinviene memoria in nessun cuore, ed è forza cercarla sui libri: religione da eruditi, religione da pittori per decorarne le vôlte o le pareti delle sale.

Cotesta religione doveva dileguarsi davanti un'altra religione di amore e di pace che gli uomini predicò fratelli e maledì l'uomo il quale tormentando faceva piangere la creatura di Dio. Ma il tristo seme d'Adamo, sfidata la maledizione celeste, contaminò l'opera dell'Eterno; la nuova religione circondò di terrori, di superstizioni, di scherni, di vittime umane, di sacerdoti crudeli e, per aggiunta, dei papi — re e sacerdoti, — i quali si cingono con tre corone la testa, come per simbolo che pesano funesti alla terra tre volte più dei re, somiglievoli in tutto all'antica chimera, congerie mostruosa di drago, di capra e di lione, però non come la chimera favolosi, ma vivi pur troppo e palpitanti e laceranti nelle sedi del Vaticano.

Clemente VII e Carlo V insieme ristretti s'ingegnano a ordire un patto che valga a costringere le generazioni per sempre dentro un cerchio fatato, dentro una rete di diamante; si affaticano a rinnovare l'esempio di Prometeo, apparecchiando all'umano intendimento catene eterne e l'avoltoio divoratore. — Stolti! Se gli occhi declinavano al fuoco che ardendo loro davanti nel marmoreo camino aveva ridotto in cenere copia di legna, se verso la vôlta gli rialzavano dove erano effigiate le immagini degli dêi come caratteri d'una lingua che più non s'intende, avrebbero compreso: «le cose nostre tutte hanno lor morte, — siccome noi[56],» e l'opra infaticabile del tempo rompere le trame orgogliose degli uomini non altrimenti che fossero veli di ragno.

Seduti entrambi, Clemente da un lato, Carlo dall'altro di una lunga tavola coperta di velluto cremesino a frangie d'oro, con le insegne della Chiesa ricamate in oro; e sovr'essa carte e pergamene di ogni maniera, — brevi, diplomi e capitoli quivi spiegati, quasi museo e satira delle scambievoli loro insidie, quali col suggello di Spagna, quali colle armi dell'impero, parte con le palle dei Medici, parte ancora con la immagine di san Pietro che pesca[57] e invano rammenta al superbo pontefice la povertà della chiesa primitiva di Cristo.

E qui i suoi negli occhi di Carlo V fissava, il quale imperturbato se ne sta con le spalle volte al camino... Cap. II, pag. 67.

Con benigne sembianze si contemplano: ma l'anima di Clemente nel suo segreto si strugge d'invidia per Gregorio VII, a cui fu tanto la fortuna cortese che gli trasse davanti nella rôcca di Canossa l'imperatore Arrigo IV con i piè nudi e il capestro al collo, ad implorare tutto umiliato misericordia per Dio: Carlo poi forte gemeva di desiderio nel cuore rammentando la felicità di Filippo il Bello, il quale non pure potè mettere le mani addosso a Bonifazio VIII in Alagna, ma fare anche in modo che, siccome era vissuto da volpe e regnò da lione, così morisse da cane[58].

Egli era potente di giovanezza e di forza, sicchè le imprese delle varie sue armi potevano denotare in quel tempo gli attribuiti diversi dell'animo e del corpo di lui; in esso la vigoria del lione di Borgogna, in esso la tenace immobilità delle torri di Spagna, in esso finalmente lo sguardo dell'aquila austriaca, — sguardo di preda, — sguardo di cupidigia insaziabile. Quanto gli acutissimi suoi occhi sopra le carte geografiche del mondo potevano contemplare, tanto bramando il suo pensiero abbracciava. Se il Creatore aveva dato alla terra una cintura di mari, egli, la corona del suo capo dilatando, intendeva racchiudervi dentro la terra e l'oceano; — a guisa di cancelli eterni disegnava porre le punte del suo imperiale diadema là dove il creato termina, e l'abisso incomincia.

Fronte ampia, dove i pensieri incalzavano del continuo altri pensieri, come fanno le onde del mare. All'improvviso però cotesta fronte di rugosa diventa piana, i concetti vi si aggirano sconnessi nel modo appunto ch'è fama volassero con sùbita vertigine per l'antro della sibilla le foglie ove stavano scritti gli oracoli del dio. — Cotesta vicenda istantanea rammentava il metallo, il quale, prorompendo infiammato dalla fornace per fondere la statua di un eroe, spezza talora la forma e si disperde nelle viscere della terra. Aveva con i regni eredato i vizii del sangue de' suoi maggiori. Il padre, Filippo, gli trasfuse nelle vene l'anelito perpetuo di dominio dei principi austriaci e l'ardimento dei duchi di Borgogna[59]. La madre, Giovanna, gli dava la cupa penetrazione dei sovrani di Spagna e il germe della infelicità che oppresse la vita di cotesta infelice regina.

Esultino i popoli! il dolore si posa anche sulla corona dei re; — anzi più sovente sopra le sublimi che non sopra le teste dimesse, in quella guisa che l'uccello di sinistro augurio presceglie a sua dimora la torre del barone in preferenza dal tetto della capanna del povero; — il dolore si spande sopra le gemme dei diademi e fa parere anch'esse lacrime o gocce di sudore affannoso; il dolore corrode internamente il cerchio d'oro e stringe inosservato le tempie, come la striscia di ferro della corona lombarda[60].

Esultino i popoli! perchè i potenti gemono, ed eglino possono rifiutare l'elemosina della compassione, — o rispondervi con un eco di scherno.

Giovanna, figlia di Ferdinando e d'Isabella, moglie dell'erede di Massimiliano imperatore, signora delle Spagne, dell'Indie, dei Paesi Bassi, forse di mezza Europa, non ha chi la uguagli in miseria. Almeno Niobe fu convertita in pietra e cessò a un punto le lacrime e la vita: ella poi deve durare lungamente in tale uno stato che non può dirsi vita e non è morte, — a piangere la sua ultima lacrima, a bevere l'ultima stilla di un calice senza fine amaro. Costei delirava d'amore per Filippo, e Filippo la fuggiva, ed in breve consunto da amplessi che non erano suoi, sul primo fiore di giovinezza le morì tra le braccia. Le tolse la mente l'angoscia: stette muta, ordinò prima si seppellisse il cadavere; poi, cambiato consiglio, volle si imbalsamasse; lo vestì di abiti magnifici, lo stese sopra un letto di broccato, e quindi si pose ad aspettare che si svegliasse, imperciocchè aveva sentito dire di un re il quale era resuscitato dopo quattordici anni dalla sua morte; preso da geloso furore, non consentiva che donna alcuna si accostasse a quel letto; se ministro o consigliero andava per consultarla, il dito gli ponendo sui labbri, bisbigliava sommessa: «Aspettate che il mio signore si svegli.[61] »

Tale fu la madre di Carlo, e tale fu egli stesso quando, dalle infermità domato e dagli anni, mutò la porpora imperiale in cocolla da frate, e rotta la corona sopra la soglia di un convento, dei bricioli se ne fece un rosario per contarvi sopra i paternostri e le avemarie. Dopo tanto sorso bevuto alla coppa del potere, la gettò via lontana da sè, quasi lo avesse inebbriato di fiele. Miserabile! Chè quando a Laredo in Biscaglia baciò la terra dicendo: «O madre comune degli uomini, nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo ritornerò nel tuo[62] », cotesto grido non mosse mica da anima fortemente contristata, bensì fu lamento neghittoso di pellegrino il quale si lascia cadere sull'argine della via e quivi aspetta piangendo la morte. Nè quando volle innalzarsi il feretro e assistere vivo alle sue esequie[63], lo vinse ira o disprezzo o fastidio degli uomini, come Silla e Diocleziano, sibbene la paura dell'inferno. Prima che lo cancellasse la morte dal libro dei viventi, il demonio dello scherno aveva spento con un soffio la fiamma di cotesto spirito superbo, e sopra la fronte nuda di capelli, di corona e di pensiero, ridendo scriveva: «Qui dentro giace sepolto l'intelletto di Carlo V imperatore!»

Però da questo tempo a quello in cui si era ristretto a parlamento con Clemente VII ci correranno trent'anni: adesso egli gode meditando che ne' suoi regni non tramonta mai il sole: — anela portare il mondo sul pugno come dal paggio si costuma il falcone; due soli potenti intende che abbiano a temere i mortali nel creato! lui in terra, Dio nel cielo.

Clemente papa, scuoti la polvere del tuo sepolcro, rompi la lapide e mòstrati qual eri allora e quali disegni concepivi: mòstrati insomma quale apparrai nella valle di Giosafatte. Ricusi forse svegliarti dal tuo sonno di marmo? Dirai che al cospetto dell'Eterno soltanto vuoi comparire il giorno del giudizio? Esci: la storia apparecchia il giudizio di Dio e rimuove dalle tombe degl'iniqui la mala erba dell'oblio, onde vi cada intera la maledizione delle schiatte succedentisi nei secoli. Vorrai forse minacciare me de' tuoi fulmini? Ben altri fulmini che non furono i tuoi stanno spenti a Sant'Elena. I nostri pargoli adesso getterebbero via le tue scomuniche come trastulli vieti, — i giullari non vorrebbero rammentarle neanche come facezie. — O san Pietro glorioso, sarebbe il mondo diventato tutto luterano? Mi pare che strilli dal fondo del suo avello cotesto snaturato figliuolo di Firenze. — No, no, confórtati, papa Clemente; te, Lutero, Calvino, quanti vi hanno preceduto, quanti vi hanno seguito, mitre, corone, porpore, cappucci, Numa, le leggi delle XII tavole, sant'Ignazio da Loiola, Leopoldo I, san Domenico, e tutto quello che fu, il Destino ripose dentro immanissima urna, e l'agita, l'agita, finchè la sorte o la ragione non venga ad estrarne l'arcano della umana felicità. — Esci dunque, Clemente. Ecco, secondo il costume dei papi e dei re, tu vesti un manto vermiglio. A quanti oppressori vissero di sangue talentò mai sempre il colore rosso, — certo perchè non vi si distinguesse sopra quel sangue! O sciagurati! Dio discerne il sangue del popolo dal sangue della porpora. La tua barba diventò bianca per gli anni, il tuo volto rugoso, le pupille ti tremano sotto le ciglia come alla lepre, il corpo hai irrequieto, ogni rumore ti mette spavento. Nessuno ti sta alle spalle; chiudesti di tua mano le porte, e non pertanto ti volgi improvviso dubitando che sopraggiunga Alarcone[64], il quale, prigioniero fuggitivo, ti riconduca in castello Santo Angiolo; o il più fiero Giorgio Frandesperg, che adempiendo al suo giuramento ti getti al collo il capestro d'oro[65]. La fama di prudente, conseguìta in tanti anni di ministro di Leone X, ti sei divorato in un giorno di papa[66]; su la cima delle umane grandezze la vertigine ti ha preso; la tua mente è sabbia dove il pensiero fabbrica, la paura rovina. Tu giaci sull'orlo dell'avello, ma i tuoi concetti non appartengono alla pace eterna; se innalzi un braccio, lo fai per percuotere; se stendi una mano, lo fai per rapire. Nel naufragio del tuo pensiero rimase a galla solo un'idea, e tu la vieni afferrata come la tavola di salute. — Tu ami il tuo bastardo, e tu pure, Clemente, sei tale[67]: papa Lione ti concesse la dispensa, sicchè tu potesti arrampicarti per tutta la scala della gerarchia ecclesiastica; però in faccia al mondo non v'ha cosa che valga a salvarti dall'onta degl'illegittimi natali; — il tuo bastardo è camuso, ha i capelli crespi, le labbra tumide, brutto di corpo, di anima più brutto.... Beatissimo Padre, ti saresti per avventura mescolato in amore con una schiava africana[68]? Ah! quantunque illegittimo figlio di Giuliano dei Medici, io mi aspettava da te gusto migliore pel bello; — pure sei padre e lo ami. Dura condizione dei potenti, che, buoni sieno o tristi i loro affetti, tornino del pari perversi ai propri simili! Stravolto adesso da cotesto amore, che cosa gl'importa il giusto e l'onesto? Ad ogni costo egli vuole deporre una corona su quel capo di moro. Se lo poteva, avrebbe lui convertito la tiara di pontefice in diadema da re; non riuscendogli, si volse altrove a lacerare il manto d'Italia per girargliene un brano sopra la spalle; gli si offerse la patria libera, bella e innocente, o se pure delitto alcuno era in lei, colpevole di avergli dato la vita. — Non importa: quand'anche del metallo della croce che soprasta la cupola del duomo di Firenze, quando anche dei merli del Palazzo Vecchio, — quando delle ossa de' suoi concittadini dovesse formargli la corona, basta ch'ei sia coronato! Fra brevi anni di lui rimarrà un pugno di polvere; — i presenti lo malediranno e i futuri; — che importa? Lo esecrino, purchè lo temano; diventi polvere, perchè coronata.

« Gloria in excelsis Deo, et in terra pax!» riprese Carlo V, come continuando un discorso interrotto, e si alzò accostandosi al fuoco. «La pace è fatta. Vi pare egli che quanto promisi all'arcivescovo di Capua in Barcellona vi confermi adesso, Beatissimo Padre? Sebbene nella impresa di vostra casa occorrano i gigli di Francia[69], i Medici domineranno Fiorenza.»

«Ma fin qui io non veggo....», interruppe il pontefice, e poi si rimase esitante a librare se il concetto che stava per esprimere potesse riuscire di troppo sgradito all'imperatore; — pure essendogli forza aprire manifestamente l'animo suo, con voce un poco più dimessa soggiunse: «Ma fin qui io non veggo che promesse di promesse, mentre per me si devono di presente adempiere le condizioni del trattato.»

«L'esperienza lunga che avete, Beatissimo Padre, degli umani negozii vi farà di leggieri comprendere non derivare da mala volontà l'inadempimento momentaneo delle mie promesse; ciò avviene perchè di natura loro riguardano a tempo successivo. Onde preporre la vostra famiglia alla suprema autorità di Fiorenza, bisogna adoperarvi le armi; onde restituire alla Chiesa Ravenna, Ferrara e gli altri Stati perduti, bisogna ancora adoperarvi le armi; perchè il ducato di Milano prenda il sale dai vostri dominii, fa di mestieri che il tempo gliene apparecchi la necessità.»

«Sì, ma finalmente le guarentigie non guastano nulla.... e l'arcivescovo di Capua ve ne dovrebbe avere toccato a Barcellona...., e la Maestà Vostra dava il suo imperiale consenso....»

«Non basta forse a papa Clemente la promessa di Carlo imperatore?»

«Promesse! trattati!» replicò il pontefice con maggiore stizza di quello di cui altri lo avrebbe creduto capace e che non avrebbe voluto egli stesso, alzandosi in piedi; ed accennando sdegnoso varie carte spiegate sopra la tavola. «Ecco, nel 1525, prima della battaglia di Pavia, mi dichiarai neutrale tra la Maestà Vostra e il Cristianissimo; padre comune dei fedeli, mi parea, ed era il partito da praticarsi migliore tra due principi cristiani dei quali non mi era riuscito prevenire le sanguinose contese; la battaglia avvenuta, Lanoia vostro stipula meco questo trattato di pace, riceve centocinquantamila fiorini d'oro, — e la Maestà Vostra nè ratifica il trattato nè restituisce il danaro; nel 27, Lanoia vostro mi sottoscrive quest'altro trattato, col quale si obbliga allontanare il contestabile di Borbone da Roma quando io gli paghi ottantamila fiorini; — ritirato il danaro, il Borbone non pure si accosta a Roma, ma con barbarie inaudita la manda a sacco.... ora lascio giudicare a voi se le promesse e i trattati mi affidino.»

E qui i suoi negli occhi di Carlo V fissava, il quale imperturbato se ne sta con le spalle volte al camino e con una mano si liscia il mento, — forse per nascondere un sorriso sottilissimo che suo malgrado gli scomponeva i peli dei labbri. Poichè rimasero per uno spazio di tempo in silenzio, Carlo con lente parole riprese:

«Santità, appunto perchè ricusai ratificare i trattati, mal vi dolete di fede rotta. Il vicerè di Napoli Lanoia, i limiti del suo mandato eccedendo, non poteva obbligarmi; — dove per me fossero stati approvati i patti illegalmente conclusi da lui, ora non vi dorreste voi di averli veduti inadempiti. Col sacco di Roma io rigetto lontana da me l'accusa. Borbone il fece, e Borbone certo ne pagò la pena cadendo ucciso sotto le mura della sacra città. Qual cuore fosse il mio alla notizia, pensatelo voi, Beatissimo Padre. Per tutti i miei regni ordinai pubbliche preghiere per ottenere dal cielo la vostra liberazione...»

«Ma poichè stava in potere della Vostra Maestà, meglio delle preghiere, a mio parere, valeva un ordine a don Ferdinando d'Alarcon mio carceriere di liberare il vicario di Cristo e...»

«Orsù! riconduciamo la consulta al suo primo punto, dacchè, in modo diverso procedendo, noi verremmo a smarrire del tutto la dritta via. Intende la Beatitudine Vostra abbattere la libertà di Fiorenza, me commette all'impresa e da me chiede sicurezza. Santo Padre, vi sareste per avventura dimenticato essere io l'imperatore Carlo V? Ad assoluto signore domandate voi guarentigia per abbattere repubbliche? Già troppo le nostre contese hanno fatto crescere le petulanze dei popoli; ed io vi dico in verità che, dove non ci stringiamo in lega salda e potente, non andranno secoli che noi rimarremo divorati da cotesta idra, di cui, ponete mente, se cento capi mordono per la libertà, cento altri mordono per la eresia...»

Caso fosse o piuttosto astutezza, Carlo con siffatta sentenza veniva a porre il dito proprio sopra la piaga aperta nel cuore del papa; conciossiachè questi, messo subito da parte il pensiero del danaro, del quale come colui che grandemente misero e taccagno era, intendeva domandargli conto per industriarsi a rattrapparlo, se non tutto, almeno in parte, uscì nelle considerazioni gravissime che seguono:

«Carlo imperatore, ora io dalla vostre parole comprendo come vi abbiano finalmente toccato lo spirito i consigli della Santa Sede. Le cose medesime che adesso vi sfuggono dai labbri non vi diceva Leone X? non vostro maestro Adriano VI? non io medesimo ve le ripeteva le mille volte? È tempo che il trono e l'altare si abbraccino per sostenersi; tempo che noi ci diamo un bacio diverso da quello di Giuda, — da quello che ci diemmo troppe volte, da quello che ci siamo dati fin qui. Finchè i popoli guelfi si mantennero o ghibellini, nè crederono potere altrimenti vivere che parteggiando per lo impero o per Roma, allora la nostra lite fu contesa tra i pastori pel gregge; — ora pur cotesto gregge incomincia a conoscere che può fare a meno della vostra aquila e delle mie chiavi si tramuta in torma di lupi, la quale non pure brama divorare, ma intende divorare sola. — Quando Lamagna tolse a difendere quel figlio di perdizione, Martino Lutero, io bene conobbi, ed altri uomini pratichi delle faccende umane conobbero meco, la querela non già, come sembrava, consistere nelle indulgenze compartite, nella comunione dell'ostia e del calice e negli altri punti di dissidenza contenuti nelle tesi di cotesto maledetto; no, i cervelli tedeschi, ansiosi di libertà, vaghi di mostrare la energia da lungo tempo compressa, intesero scuotere il dolce freno di Roma, come primo anello di una soggezione, qualunque fosse per loro insopportabile; rotto questo, vorranno romperne un altro... E della catena, Carlo pensate che voi ed io teniamo i capi. La riforma religiosa è palestra dove disegnano esercitare le forze loro per quindi volgersi alla riforma della potenza imperiale. Il giorno della morte dei papi sarà la vigilia dell'agonia pei re. Ben previde la gloriosa memoria dell'imperatore Massimiliano la importanza dei casi presenti; se la morte non lo rapiva, vi avrebbe provveduto di certo. — Voi, Carlo, le ammonizioni del Vaticano dal vostro spirito rigettaste come si scuote dai sandali la polvere di terra maledetta, voi la Chiesa santissima affliggeste, voi la sposa di Cristo ne' suoi vicarii avviliste; — ma più della sua Roma saccheggiata, più del suo pontefice ridotto in ceppi, ella piange a cagione del decreto della Maestà Vostra promesso alla dieta di Spira nel 1526, il quale sanzionò la tolleranza della setta diabolica dell'empio Lutero sino alla convocazione del concilio generale: nè per sè sola ella piange, ma ed anche per voi, Carlo; e dì e notte addolora e nel santuario si raccomanda al divino suo sposo Gesù che illumini l'intelletto vostro e sensi v'ispiri di pietà e di prudenza per scambievole nostra conservazione. I perversi settatori, nella ignoranza del cuor loro, fidenti che la Chiesa stia per esalare l'ultimo fiato, continuano nel cammino preveduto e minacciano il vostro trono imperiale. Ditemi, Carlo, la lega di Smalkalda testè stretta tra loro[70] vi ha guasto mai il sonno? I principi luterani si uniscono in un sol corpo ed implorano contro voi l'aiuto di Francesco di Francia. Se gli movesse amore di setta soltanto, vi pare egli che ricorrebbero a Francesco, vostro emulo eterno, e della Santa Sede apostolica figliuolo amantissimo? Già spento nel folle loro pensiero il lione di Giuda, si avventano all'aquila di Costantino[71]. Ah! Carlo, avete seminato il vento, badate a non raccogliere la tempesta.»

Carlo ascoltava attentissimo il discorso di Clemente col collo teso e gli occhi fissi, nella guisa che il mendico guata per vedere qual moneta e quanta esca dalla mano del suo benefattore; — quindi, altamente commosso da quei raziocinii, prese a mormorare:

«Egli ha favellato da quel valentuomo che il mondo conosce essere. Nè Aristotele mai nè san Tomaso d'Aquino potevano argomentare in più acconcia maniera.»

«Ma se le vostre parole suonano sincere, Carlo, voi siete uno di quelli che il meglio vedono e approvano, mentre al peggio si appigliano. — Se quanto ne stringa bisogno d'imporre un freno ai popoli conoscete, se alle mie sentenze applaudite, se la tolleranza vostra della setta scellerata condannate, e perchè dunque, non ha guari, al Doria concedeste facoltà di rendere Genova libera? O tra i principii vostri ed i fatti manca concordia, o commetteste errore politico. Comunque sia, non giungo a comprendervi nè, considerate queste cose tutte, io posso nel solo vostro stato imperiale fidarmi abbastanza per vedere spenta la libertà di Fiorenza.»

«La barca di san Pietro si governa con poche vele, Beatissimo Padre, ma ben altra si vuole industria a condurre le faccende del mondo. Se nella Germania poco mi valse la tolleranza dei Riformati, cotesto fu consiglio meditato lungamente e molte volte discusso tra i miei più savi ministri, — e i tempi che correvano ne furono per la massima parte cagione, e infine il fulmine dell'impero non diventò ancora per pazienza contennendo quanto il fulmine del Vaticano. Voi biasimate troppo. — Intorno a Genova, rammentatevi com'ella non si governi a popolare reggimento; vedete quivi la somma delle cose ristretta in mano agli ottimati: e credete, Clemente, i popoli preferiranno sempre la signoria di un solo a quella di pochi. — Fiorenza invece, non affatto aristocratica mai, ogni dì più pende alla democrazia. In lei soltanto contemplo e temo lo spirito di conquista; — ella cadrà. — Che mi parlate voi di messere Andrea Doria? Purchè abbandonasse le parti di Francia, gli avrei, non che altro, quasi donato la mia parte di paradiso. L'avventurato Genovese ha reciso l'ale alla vittoria e se l'è fatta serva. Ma se al Doria concessero i cieli la facoltà di vincere, non gli compartirono del pari l'arte di governare; egli cede al mio genio. Sembra a voi ch'io gli abbia posto nelle mani una palma, e v'ingannate; io ho fatto come gli incantatori, i quali, affascinando, donano cenere per oro. Deluso dalle mie parole, gli porsi a stringere una spada per la punta, non già per l'elsa, sicchè egli vi si taglia la destra nè se ne accorge ancora. Può egli il Doria ritornare privato? Il cittadino che di tanto prevalse nella sua patria da rivendicarla in libertà, ond'ella si mantenga libera davvero, deve come Licurgo salire un rogo e ordinare che la sua cenere sia dato ai quattro venti della terra: — messere Andrea invece vive e governa nella sua città. Gli umori dei nobili genovesi non quieteranno mai: io già vi scorgo invidie, odii e rancori di sangue. I Fieschi le ire apparecchiano e le armi: lasciamo che il furore di cotesta famiglia si accresca; allora le fazioni cittadine diventeranno più funeste alla città, si turberanno gli ordini, andrà sottosopra lo stato e, povero di viveri, vuoto di sangue, implorerà come elemosina un braccio potente che possa farlo morire in pace. — Nè il desiderio mi trasporta a immaginare cose vane; altre volte i Genovesi ne hanno somministrato l'esempio, dandosi in balìa dei duchi di Milano e dei re di Francia; inoltre Andrea Doria percorse gran parte del suo cammino vitale; la sua famiglia procede diversamente da lui: — la sua virtù rimarrà sepolta seco. — Io vedo tempo nel quale la repubblica di Genova viene come un ruscello a portare il tributo delle sue acque nel fiume maestoso della mia potenza. — Ordisco una gran trama col pensiero, ne seguo con costanza le tracce, ne aspetto con pazienza l'esito avventuroso.»

Clemente papa, col mento sollevato, guardava Carlo V e ad ora ad ora crollava la testa tra pago e sdegnoso; sdegnoso nel conoscere l'intimo concetto di lui, contento per averlo preveduto da gran tempo: e poi offeso da quella serie di pensieri di gloria, come il tristo fanciullo gode scompigliare con una pietra le limpide e quete onde del lago, vi lanciò malignamente tra mezzo la domanda:

«E alla morte ha mai pensato Vostra Maestà?»

L'imperatore, quantunque per natura cupissimo, nondimeno a cagione della stessa intensità de' suoi pensieri lasciava vincersi talvolta dalla passione, ed esaltato, non sapeva così di leggieri reprimere la favella; sicchè continuava dicendo:

«La Francia è giglio fragile, eia mia aquila lo ha già sfrondato; — se non m'ingannava un mal genio, tu a quest'ora saresti, o Francesco, uno scudiero nella mia corte imperiale; — la mezza luna non tanto scintilla sublime nei cieli che non valga a raggiungerla il volo della mia aquila: — leopardo inglese, dacchè lasciasti comprarti le branche, apparécchiati a darmi la tua corona in cambio de' miei ducati; — e tu, san Pietro, sappi che la mia testa è capace di portare ancora... la tiara... perchè no? Massimiliano imperatore voleva farsi papa...»

«La morte! la morte!» gridò più alto il pontefice negli orecchi all'imperatore.

«La morte! proruppe Carlo V, «che fa a me la morte? I codardi soccombono a questo pensiero, gli animosi lo portano come una corona di fiori. È meglio lasciare l'opera interrotta che non incominciata... — I monumenti più grandi che il mondo conosca si devono al pensiero della morte; — parlo delle Piramidi. — La morte sta nelle mani di Dio, l'uso della vita in quelle dell'uomo. — La mia anima abbisogna che la testa del suo corpo si posi nella vecchia Europa, il tronco in Africa e in Asia, i piedi in America. Io non anche percorsi la curva ascendente della mia vita, non giungo ancora a trent'anni; e se in questo punto mi toccasse la morte, come Cesare Augusto potrei domandare ai miei amici, — ai miei nemici, — a voi stesso: — Parvi ch'io abbia ben sostenuta la mia parte nel mondo? Le imprese da me fino a questo punto operate, se non possono la mia fama a quella di Alessandro Magno anteporre, bastano ad avvilupparmi in un sudario che mi salvi dal verme dell'oblio. — Se adesso io morissi, il cuore mi assicura che gli uomini direbbero: — Meritava vivere di più. — Papa Clemente, se voi moriste adesso, che cosa pensate il mondo fosse per dire di voi? — Egli è vissuto troppo poco, od è vissuto anche troppo?»

«Ve lo dirò quando saremo morti», rispose il pontefice, continuando a muovere le labbra in un cotal riso amaro che ben dava a conoscere quanto lo avesse penetrato addentro cotesta acerba puntura: «però fino da ora io mi dispongo a lasciare novellare la gente; dove poi mutassi pensiero, ordinerò, come Diogene, che mi pongano al fianco una verga. Adesso vediamo di concludere, Carlo; — quando pure io possa confidare in voi intorno al sopprimere la libertà di Fiorenza, non devo del pari fidarmi in voi per ciò che spetta lo ingrandimento della mia famiglia. Di ciò pertanto domando guarentigia. Nicolò della Magna dovrebbe pure avervi fatto motto di sponsali da contrarsi in facie Ecclesiæ tra madama Margherita vostra figlia ed Alessandro duca di Civita di Penna: — ve ne sareste per avventura dimenticato?...»

«Io non dimentico nulla, ma non li reputava condizione necessaria per la pace: e se le mie preghiere trovano grazia al vostro cospetto, vi supplico umilmente, Padre santo....»

«No, no, Maestà, avete mal creduto: ella è una condizione sine qua non; — condizione senza la quale andrebbe scomposta ogni cosa, andrebbe tutto in peggiore stato di prima....»

«Ma perchè a cimentare la pace tra noi vogliamo imporre un destino ad un cuore che palpita appena di vita? Le labbra di nostra figlia non anche per elezione proferiscono il nome di padre, e noi vorremo costringerla a pronunziare quello di marito come una necessità? — Perchè le opere nostre, di qualunque natura elle sieno, dovranno riuscire sempre a qualcheduno dolenti?»

«Se la fanciulla non intende amore, più di leggeri potrà inspirarglielo Alessandro mio: il cuore vergine, quando prima si chiude al raggio della passione, ama il cielo, ama le acque, le piante, e tutto ama.... Pensate or voi, Maestà, se la vostra figlia si volgerà con affetto a giovane di cortese sembiante il quale le starà attorno studiosamente con ogni ossequioso ufficio dovuto al sesso, alla età, al grado di lei! — E poi, Carlo, il mio sole tramonta, il vostro ascende nella pienezza della sua luce; — la morte mi ha chiamato e la sua voce mi ha commosso le viscere. Quando io tra poco giacerò cadavere, chi prenderà cura della mia famiglia? Chi sosterrà la sua causa? Se, vivo, appena potei difendere me stesso, non dirò già da' vostri eserciti invitti, ma da un solo principe romano, da un Pompeo Colonna, pensate se il mio nome, me morto, potrà difendere altrui! Voi, Carlo, disegnate dominare sul mondo; la vostra aquila intende, voltando, far il giro del globo; il cielo ha una stella per voi, e, da quanto apparisce, sembra questo universale dominio decretato dall'alto, dacchè non valse fino ad ora argomento umano a deviarlo o impedirlo. Unite dunque la vostra famiglia alla mia, ond'ella abbia riparo sotto le grandi ale della gloriosa aquila vostra.

«Santo Padre, in che mai vi affidate? La ragione di stato non conosce figliuoli. Il re non ha cuore; per ciò che riguarda l'affetto, tanto è ch'ei palpiti vivo nella sua reggia, o giacia scolpito di marmo sopra la sua tomba. Più fabbricate in alto, e più correte pericolo di precipitosa rovina; — più accostate il fragile edificio della potenza della vostra famiglia alla mia aquila, e più vi sovrasta il caso che un suo batter d'ala la cancelli dalla memoria degli uomini. Forse la rondine, per costruire che fa il nido alle vôlte del Colosseo, gliene partecipa la immobilità? Si leva la bufera, e il nido va disperso nei turbini, mentre rimane immobile quell'eterno edifizio.

«No, Carlo, non favellate così: io conosco il vostro cuore meglio di voi stesso. Se la vostra figlia ha freddo, voi le getterete addosso per coprirla un lembo del vostro manto imperiale; s'ella avrà fame, dal vostro convito di popoli le manderete una provincia per saziarla. Nessun padre della vostra famiglia fin qui pose le mani nel sangue de' suoi figliuoli.»

«Ma un nepote le ha poste in quelle dello zio![72] » esclamò l'imperatore traendo un sospiro, «e i tempi futuri stanno chiusi nella mano di Dio[73].» Dipoi, simulando risolversi con gran pena per quello a cui si era disposto molto tempo avanti, soggiunse: «Si unisca la mia casa alla vostra, e possa il presente trattato mantenersi indissolubile, come il sacramento che statuiamo adesso tra i nostri figli...; — però — mi è corsa una voce intorno a cotesto vostro duca di Civita di Penna, e me lo hanno detto camuso, — di sembiante osceno, — rotto ad ogni maniera di libidine... figlio di schiava africana...» E qui, piegando la persona, susurra l'estreme parole nell'orecchio del papa.

«Chi ve lo ha detto?» proruppe impetuosamente il pontefice; «non lo credete! e' v'ingannano: egli è buono, prudente e cortesissimo giovane, egli vi amerà come padre... dopo Dio primo. Voi lo avrete, Maestà, ministro pronto dei vostri voleri, figliuolo ossequentissimo e servitore. Certo egli non si cura acconciarsi i capelli nè si mostra pieno di smancerie o cascante di vezzi: le fogge aborre e i costumi di cinedo: per lo contrario, valido di membra, non depone mai il giaco; e di corpo prestante, non cede a nessuno negli esercizii che si addicono a perfetto cavaliere...» E continuava tutto acceso nel volto, con gesti sdegnosi, quando si accôrse che Carlo lo fissava con tale uno sguardo indagatore e maligno ch'egli temè essersi troppo lasciato scoprire. — Si rimase in tronco pertanto senz'aggiungere altre parole.

«Io non avrei mai creduto che tanto vi stesse a cuore il vostro nepote Alessandro, Beatissimo Padre», riprese Carlo con ostentata ingenuità; «ma dacchè voi volete che sia così, e così sia. A tempo debito Alessandro condurrà in moglie la nostra figlia Margherita. In questo modo vi piace? Rimane adesso null'altro da discutere e statuire tra noi?»

Clemente, guardato prima con molta diligenza un taccuino che si cavò dal seno di sotto alla mezzetta, rispose:

«Più nulla.»

«A quando l'incoronamento?»

«I vostri ufficiali di cerimonie possono concertarne il tempo e le forme col maestro del sacro palazzo.»

«Addio, dunque, Beatissimo Padre.»

«Anche un istante, dilettissimo figlio, anche un istante», soggiunse Clemente accostandosi a Carlo V; e toltasi dal collo una croce d'oro, ne alzò la lamina superiore, ed esponendo scoperte le reliquie quivi dentro incastonate, riprese così: «Quando gl'infedeli, che osano adesso insultando minacciare la vostra Vienna imperiale, avevano tutti tremanti sgombrato il sepolcro di Cristo, un principe di Gerusalemme, un Lusignano, presentò alla Santa Sede questo frammento preziosissimo del vero legno della croce dove moriva il nostro divino Redentore. Se i giuramenti che vi si fanno sopra non si mantengono, il cielo e la terra non accolgono più cosa sacra che basti a vincolare gli uomini tra loro. Carlo, giuriamo su questo legno bagnato del sangue di Gesù di conservare inalterabile la pace statuita tra noi.»

«Santità», riprese l'imperatore commosso, ed altrove volgendo la faccia allontanava con la destra la santa reliquia, «non vogliamo, di grazia, porre la colpa traverso una via ch'ella poi non c'impedirebbe percorrere quando la necessità ne stringesse o l'utile ne invitasse: e inoltre noi non saremo a condizione pari; imperciocchè voi teniate le chiavi di san Pietro e con esse la potestà di legare e di sciogliere, mentre io non troverei in veruna parte del mondo un altro papa Clemente che me sciogliesse dal trattato di Bologna, come voi scioglieste Francesco I di Francia dal trattato di Madrid[74]. Non giuriamo pertanto; facciamo meglio, industriamoci di mantenere perenne l'utile che adesso troviamo nella scambievole unione. In ogni caso io sono fermo di non giurare.»

Il pontefice turbato si tacque.

Carlo agita un campanello d'argento. Le porte della sala si aprono strepitose, e quinci si vedono in due ale lunghissime disposti in ginocchio da una parte gli ufficiali dell'imperatore, dall'altra del papa, e in fondo, di faccia, un prelato in piedi con la triplice croce, insegna della presenza del vicario di Cristo. Carlo medesimo si prostrò davanti a Clemente e in atto di riverenza divota supplicò:

«Beatissimo Padre, vogliate compartirci la vostra apostolica benedizione.»

E il papa, sollevata la destra, susurrò la benedizione. Quali pensieri gli si avvolgessero per la mente, Dio gli sa che li vide, ma anche noi possiamo dichiarare che certamente non furono di amore. Però dei circostanti taluno ne rimase intenerito fino alle lagrime; — tal altro ne sorrise come di scena rappresentata valentemente da attori famosi; — tutti poi si accordarono nel credere che cotesti due potenti avessero trovato utile bastevole per diventare amici.

E Carlo disparve; — le porte si chiusero, — Clemente si trovò solo nella stanza. — Allora, declinato il capo sul camino, meditò, — meditò per lunghissima ora: all'improvviso si muove e si pone davanti alla sedia che occupò l'imperatore durante il colloquio:

«Carlo d'Austria!» cominciò a dire alzando il dito e comprimendolo sopra l'angolo della tempia destra, «le libertà dei comuni di Spagna, i privilegi delle città dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per divorarli; bada, Maestà, il tarlo rodendo si scava la tomba. La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il tuo spirito tramonta. Maestà, tu mi hai supplicato per ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei venuto in capo al mondo per offrirtela; — pròstrati, Maestà, umiliati, perchè mi tarda importi questa corona sul capo; — io la circonderò di punte invisibili e angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti adatterò la corona sul capo come il collare al collo dello schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana! Affrettati a prostrarti, Maestà: io m'innalzerò tanto, quanto tu l'abbasserai; e allorchè, Maestà[75], avrai baciato la polvere de' miei calzari, ti travaglierai indarno per dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua viltà e in processo di tempo se vorrai abbattere l'idolo che tu stesso avrai fatto grande, o non vi riuscirai, o rimarrai infranto sotto la rovina di quello.»

«Chi siete? donde venite e dove andate?»

Con uno strido da uccellaccio notturno gridò certa squallida figura, lanciandosi a guisa di gatto dal banco dei doganieri in mezzo alla porta di Santo Stefano a Bologna ed afferrando per la briglia il cavallo di un uomo che agli atti e alle vesti sembrava un cavallaro.

Dov'egli non avesse profferito coteste parole, non lo avrebbero reputato mai creatura umana. Siffatti sciagurati, se pure uscirono di mano, alla natura, ciò avvenne per certo nell'ora del crepuscolo, verso notte qual mal si discerne quello che si opera, e le membra spossate non si reggono dalla fatica; colpa od errore del quale ella meriterebbe riprensione, e lo dovrebbe riparare con un ammenda onorevole.

Una testa, di sotto, di sopra, tutta tonda, colorita con la serie infinita dei gialli e dei verdi che presentano le mal'erbe cresciute per la superficie delle acque corrotte, e su le mascelle più verdi a cagione della barba. La fronte poi, ingombra di capelli neri ed irti; e quella fronte, larga quanto basta per improntarvi sopra il marco dei falsarii. I suoi occhi, a vero dire, accennavano una scaltrezza intensa, ma limitata entro angustissimo cerchio; — scaltrezza da tagliaborse, da baratore di carte, e nulla più. Una testa da incutere spavento, se non avesse mosso a riso, — da mandarsi senza processo al patibolo, — o da presentarla a' fanciulli per giuoco. Le spalle aguzze, la persona rigida e piegata in avanti, le braccia aperte, quasi per equilibrare l'osceno edifizio del corpo, e le mani stese, perpetuamente moventisi a quell'atto che fa lo sparviere o uccello altro di rapina quando raspa per ghermire; — forse la continua fissazione dell'anima, — se anima può dirsi lo spirito che dentro cotesti enti rumina sempre malefizii ed insidie — partecipava quel moto alle sue mani, imperciocchè egli fosse una di quelle creature le quali in ogni tempo oscillano tra la catena, il capestro e la lapidazione del popolo inferocito, — disprezzate a un punto e abborrite, — capaci di vendere trenta Cristi per un danaro solo; vergogna della specie alla quale appartengono come un'ulcera al corpo umano; — qualche cosa più di un carnefice, qualche cosa meno di un giudice; — allora si chiamavano cancellieri criminali, — oggi commissarii, delegati, arnesi insomma di polizia.

Il cavallaro, giovane e di membra validissime, stette alquanto in forse di rispondergli, o balestrarlo venti passi lontano; pur finalmente tra sdegnoso e beffardo, disse:

«Messere, siete voi del Cottaio o del paese del prete Gianni, che non conoscete l'assisa del comune di Fiorenza? — O non vedete il giglio roseo, insegna della nostra repubblica?»

«Che gigli e che non gigli? Io non so di gigli. — Dello stato di Fiorenza non conosco nè approvo altra insegna che le palle dei Medici.»

«Sapete voi, messere, come corre il proverbio al mio paese? Se non ti piace, mi rincara il fitto.»

«Eh! se permettessero di fare a me, non vi lascerei nè anche gli occhi per piangere, non che la bocca per proverbiare...»

«Fate una cosa, messere: unite le vostre armi con quelle dell'imperatore e moveteci la guerra...»

«Io vi farei paura...»

«E ve lo credo senza giuramento; paura da sconciare le donne gravide...»

«Ch'è questo?» interruppe sopraggiungendo un secondo cavallaro assai attempato e di sembianze più mansuete del primo; «ch'è questo, messere?»

«Non si passa», risponde il cancelliere.

«Manco fatica, più sanità; e ce ne torneremo addietro...

«Non si torna addietro.»

«Saremmo per avventura ritenuti prigionieri?»

«Così fosse!»

«Dunque?»

«Scendete, aprite, le valigie, perchè i gabellieri le visitino.»

«Deh! che mal'ora scegliete a burlare, messere! lasciatene andare per la nostra via, chè siamo della famiglia dei magnifici ambasciatori spediti dalla Signoria di Fiorenza al sommo pontefice.»

«Egli è bene per questo ch'io vi debbo frugare.»

«Ma a voi, che mi parete uomo di lettere, non dovrebbe essere mestieri insegnare come presso tutti i potentati della terra, il Turco inclusive, gli ambasciatori e le famiglie loro godono franchigia di dazii e gabelle.»

«Sua Santità in casa sua ha promulgato una legge diversa...»

«Non sono leggi queste che ogni principe promulga a suo senno. Io sono vecchio del mestiere; ho accompagnato ambasciatori all'imperatore, al Cristianissimo, ai Viniziani, ai pontefici, a questo stesso papa Chimenti, e nessuno fin qui mancò di praticare l'antica usanza della franchigia.»

«Cominceremo ora.»

«Se voi siete ad ogni modo fermo del vostro proposto, a noi, come fanti, non appartiene conoscere che cosa sia conveniente a farsi. I magnifici ambasciatori ci stanno dietro il piccolo cammino; noi andremo per essi, e...»

«Non potete tornare indietro.»

«Aspetteremo.» E la voce del vecchio cominciava a infiochirsi per ira, il volto a divampargli il fuoco.

«A me tarda adempìre l'obbligo mio; non posso mettere indugi tra mezzo, bisogna che vi lasciate frugare, e subito, — e per forza.»

«Va, torna dal tuo signore e digli che se l'ordine ti commise e la insolenza per significarlo, dimenticò poi darti la forza per eseguirlo.»

Queste parole proferì il giovine cavallaro Bindo di Marco Berardi, soprannominato il Gorzerino, e al punto stesso forte percosse con la mano aperta sul petto al cancelliere, ed abbrancatoglielo quanto era largo, lo sollevò da terra, e con quel vigore che la natura aveva posto nel suo braccio, e che l'ira accrebbe, lo lanciò impetuosamente lontano da sè. Descrisse il cancelliere una curva per l'aria volando, e toccata ch'ebbe con i piè la terra, prese a muoverli celerissimi uno dietro l'altro correndo all'indietro, finchè, perduto l'equilibrio, a braccia stese e a gambe levate casca supino nel fango della via. La zimarra nera ripiegandosi gli si avviluppa sul capo; ond'egli quanto più si sforza tôrsi d'impaccio, tanto più vi s'intrica e le vesti curiali di mota e d'immondezza contamina. Amici e nemici prorompono in altissime risa.

Procedendo di alquanto spazio, prima degli altri, un ambasciatore che sembrava il meglio autorevole,... Cap. III, pag. 81.

Pur finalmente si sbrogliò costui; scomposti i capelli, livido, tremante di rabbia, lanciò attorno uno sguardo, donde parve scaturire un getto di veleno.

«Ridete eh?» prese a balbettare fissando i gabellieri. «Si tolga il demonio l'anima mia, se io non vi faccio gli uomini più dolenti del mondo. Vedremo un po' se riderete quando mastro Spedito vi acconcerà la corda attorno al collo.»

Quindi la persona volge per parte, mentre tuttavia mantiene il volto di faccia; guarda in un lato, mentre co' piè s'indirizza in un altro, siccome fanno le nottole allorchè volano per le tenebre dei cieli, e con voce baldanzosa continua a gridare:

«Fuori, sergente Montauto, arrestateli, — legateli, — menateli in prigione...»

E in meno che non si dice un amen una torma di uomini armati comparve, come se fosse piovuta dai nuvoli o scaturita dalla terra.

Bindo di Marco, staccatasi prestamente la daga dal fianco, la trasse fuori e, il fodero gettato per terra, esclama:

«Fo voto a Dio che chiunque di tanto è ardito da muovere un passo oltre quel fodero, lo stendo morto ai miei piedi.»

E fieramente turbato si pone in atto da eseguire la minaccia.

«Ah! per questa volta monna Lessandra non rivedrà più la faccia del suo marito, nè la Dianora bella la faccia di suo padre», susurrò sommesso il vecchio cavallaro passandosi una mano sopra la fronte.

Intanto il sergente Montauto, senza punto badare alle parole di Bindo, calatasi giù dalle spalle una partigiana, la spinse contra il fianco destro del giovane; e già stava per ferirlo, e lo avrebbe ucciso di certo, se il compagno, lo soccorrendo in buon punto, non avesse con un colpo di daga tagliato meglio che un palmo dell'asta della partigiana; e subito dopo con quanta aveva di voce nella gola gridava:

«Che modi sono eglino questi, messere sergente? Dove avete appreso la milizia? Da quando in qua si è inteso dire che venti uomini armati di partigiane non adontino assalire due uomini armati soltanto di daga?»

E Bindo inferocito nel medesimo tempo anche più forte gridava:

«Marrani! poltroni! venite oltre, che Dio vi mandi il mal giorno e il mal anno; — vi mostrerò ben io che le vostre partigiane sono di paglia.»

«O Bindo, per la testa di san Giovanni Battista! manda cotesta lingua al beccaio, se ami riportare le tue ossa a casa...»

«Berrovieri del papa! Scherani usciti da bastonare i pesci...»

«Deh! Bindo, ci ammazzeranno qui come cani, nè tu potrai difendere la diletta tua patria...»

E Bindo, fatto senno, alle ultime parole si tacque...

Il cancelliere, salito di nuovo sul banco dei doganieri, non cessava un istante dal replicare:

«Ammazza, ammazza!»

Il sergente Montauto, un poco atterrito dal colpo del vecchio, un poco trattenuto per la vergogna, non ardiva di stringere da più vicino i cavallari.

In questo, il popolo si spingeva, si urtava, si affollava, a mano a mano spazio maggiore di terreno occupava, come il serpente tocco dal calore del sole distende le terribili spire e striscia maestoso pei campi; — curioso, anelante domandava chi fossero — a che venissero — perchè gli molestassero.

Fra mezzo al popolo si erano intanto insinuati gli oscuri agenti del governo sospettoso, spie, sbirri ed uomini altri siffatti, pessimi vermi di società putrefatta; e ad ogni domanda rispondevano un inganno, ad ogni fatto apparecchiavano una insidia, i più clamorosi notavano ed attendevano il destro di legarli e condurli al bargello.

Il popolo deluso gridava: «Dalli! dalli! che sono contrabbandieri; — vennero ad appiccare i cedoloni in vituperio di Sua Beatitudine e di Sua Maestà cesarea; — hanno portato veleno per attossicare il papa, l'imperatore e i baroni; dentro le costoro valigie c'è il fuoco infernale, c'è la scomunica;» e infamie altre cotali.

Ma la ragione all'improvviso balenando sull'anima del popolo, gli dimostra apertamente la frode: — I contrabbandieri non si accostano di bel giorno alle dogane; il veleno non è cosa da portarsi in valigie: — il fuoco nemmeno; nè si scomunica il papa; — e allora vergognando taceva.

Per somma infelicità di questa nostra umana natura, la ragione, illuminando l'anima del popolo a modo di baleno, dura poco, sicchè presto ricade nel buio della ignoranza e nel furore, miserabili malattie, e non le sole nè le più turpi, le quali con dolcezza infinita de' suoi oppressori lo tengono del continuo travagliato; onde di nuovo più fieramente che mai il popolo prorompeva: «Giù le valigie! Aprite le valigie! Vogliamo vedere quello che sta chiuso nelle valigie! Le valigie! le valigie!»

E negl'intervalli la voce del cancelliere, come lo strido dell'uccello dal sinistro augurio, ripeteva: «Ammazza! ammazza!»

I cavallari, fermi nel proposito di non si lasciare manomettere, se ne stavano apparecchiati a morire non senza vendetta.

Il Montauto, dall'universale consenso del popolo imbaldanzito, usciva dalla sua prima esitanza e comandava ai soldati abbassassero le partigiane e quei due ostinati investissero.

Sangue italiano sta per versarsi e da mani italiane sopra terra italiana.

«Gli ambasciatori!»

Udita appena questa voce, il popolo, secondo il suo costume, si volge ai nuovi venuti, come a personaggi sopraggiunti in buon tempo a rendere più complicato il dramma. I soldati sospendono l'assalto; rimangono tutti ansiosamente aspettando ciò che stava per nascere.

Ed in vero onorevoli di fanti e palafreni i magnifici ambasciatori della Repubblica Fiorentina si accostano; — vestiti di lucchi di panno vermiglio, co' cappucci di colore più cupo e i lunghi becchetti avviluppati intorno al collo in molto maestosa maniera; — uomini di grave sembianze, contegnosi e severi, siccome conveniva a cittadini di città libera, usi a obbedire alla legge soltanto e da loro stessi proposta ed approvata.

E poi gli seguitava una bellissima accompagnatura di giovani, i quali per vaghezza di vedere la incoronazione dell'imperatore quivi erano tratti e per godersi delle feste; imperciocchè le pubbliche calamità, invece di trattenere gli uomini da simili passatempi, gli rendano anzi molto più vogliosi di prima, al naturale talento aggiungendosi il bisogno di sollevare l'animo dai presenti fastidii.

Si aperse spontanea l'onda del popolo, accolse dentro di sè i sopravvenuti, e loro si richiuse fragorosa di dietro.

Procedendo di alquanto spazio, prima degli altri, un ambasciatore, che sembrava il meglio autorevole, fissò di uno sguardo bieco i cavallari e, senza nessuna cosa domandare, senza nessuna risposta attendere, comandò:

«Riponete le daghe.»

E poi rivolgendosi al Montauto riprese:

«Soldato, perchè assalite la nostra famiglia?»

«Magnifico ed onorando signore, io non lo so...»

«E senza saperne la cagione voi eravate sul punto di spengere due uomini... due cristiani!...»

«In verità, magnifico messere, noi altri soldati facciamo sempre così. Per ammazzare gente non fa punto al caso saperne le ragioni e le cagioni. Se a voi piace conoscere più oltre, domandatene qui al mastro doganiere...»

«Che mastro o che non mastro!» interruppe il cancelliere, il quale, nel considerare come verun conto si facesse di lui, tutto si scontorceva di rabbia. «Io ho dato l'ordine, ed io intendo ch'e' venga eseguito subito. — Subito frugateli, vi comando...»

Ma il popolo, che aveva preso un tal quale diletto alle parole del personaggio, percosso ancora da certo ribrezzo per cotesto suo strido increscioso, rammentò le sevizie del cancelliere uso a infierire contro di lui; e prevalendosi della occasione di spaventare chi tanto spesso lo empiva di terrore, voltò l'immenso suo capo, terribile per mille occhi, — per mille bocche, — e lo interruppe a sua posta urlando:

«Sta cheto, ribaldo!»

E il cancelliere, umiliato, dimise lo sguardo, si morse lo labbra, sospirò: — ma quando rialzando gli occhi gli venne fatto vedere da lontano disegnarsi nell'orizzonte la cima delle forche, si fregò le mani e susurrò commosso, come il devoto che recita il responsorio al suo santo avvocato: «Là ti aspetto!» — e si tacque.

«Mastro, vorreste o sapreste voi dirmi la cagione di questo trambusto?» continua, appena gliene fu dato luogo, l'ambasciatore volgendo la favella al doganiere.

«Magnifico ed onorando messere, Sua Santità il sommo pontefice ci ha fatto, non è molto, significare il comando di sostenervi e guardarvi diligentemente nelle valigie: i vostri cavallari si sono opposti armata mano, e ser Manetta cancelliere del podestà ha chiamato la milizia per costringerli a forza.»

«Guardare nelle nostre valigie! Ciò è fuori di ogni consueto e contro la convenienza. Ci credete voi forse frodatori di gabelle?»

«Io vi ho in pregio di persona onorata e dabbene; ma voi intendete, messere, che noi siamo servitori, e ci tocca obbedire alle voglie del padrone.»

«Orsù, vediamo se troverò io il modo di acconciare questa bisogna. Immaginate pure le nostre valigie piene di mercanzia gravata di gabella qual volete maggiore; io vi pagherò il dazio a prezzo di tariffa.»

«È giusto!» il popolo interrompeva, «è giusto!»

Allora le spie raddoppiavano gli sforzi e incitavano ora questo ora quello: «No, vogliam vedere; qui dentro gatta ci cova. — Ve lo aveva assicurato pur dianzi che portano veleno, e voi non la volevate capire: — vedete come s'ingegnano a non mostrare le valigie e non sine quare, — ci hanno il veleno, il veleno...»

E il povero popolo traviato urlava di nuovo: «Vogliamo vedere! vogliamo vedere! Ci hanno dentro il veleno.»

L'ambasciatore fiorentino, turbato da cotesto schiamazzo, sciolse con atti sdegnosi la sua valigia dalle groppe del palafreno e, la gettando ai piedi del doganiere, sclamò:

«Guardate!»

Il popolo urtandosi, in punta di piedi, l'uno con le mani su le spalle dell'altro, tutto occhi, tutto orecchi, a collo teso, a bocca aperta, stette a vedere che cosa contenesse la valigia dell'ambasciatore.

Il doganiere vi stese sopra le mani, e profferite che ebbe così presto presto, come per uso, le parole:

«Mi duole recarvi dispiacere», scioglie le fibbie e ne trae fuori:

«Un lucco di panno vermiglio!»

E il popolo:

«Povere vesti sono coteste! I baroni spagnuoli e tedeschi le costumano d'oro e di seta.»

E un vecchio del popolo:

«Ma e' se le fanno co' nostri danari.»

«Due farsetti di rascia cremesina e un cappuccio.»

E il popolo:

«I baroni li portano di velluto e di broccato, con belle piume e fermagli o medaglie che costano un tesoro.»

E il vecchio:

«Sì, un tesoro, ma a noi: — ai baroni la violenza per rubarlo.»

«Una borsa piena di fiorini!»

E il popolo:

«Oh!»

E il vecchio Petronio:

«Nei fornimenti dei baroni spagnuoli e tedeschi bene avreste trovato la borsa, — ma vuota per riempirla de' tuoi ducati, popolo bestia che sei.»

«Ha ragione Petronio! Viva il vecchio Petronio! Viva!»

Continua la visita del primo ambasciatore: poi vennero con eguale diligenza frugati gli altri e la famiglia loro e l'accompagnatura, nella quale si trovò Benedetto Varchi scrittore della storia dei tempi presenti. Rimaneva di tanti un uomo solo, Guglielmo Rucellai, il quale anch'esso aveva seguitato gli ambasciatori per godersi le feste della incoronazione, giovine di piacevolissima natura e compagnevole se altri fu mai, grande amico del buon vino quando ne trovava, accomodandosi anche al tristo se non riusciva a scavarlo migliore: e la sera precedente alla osteria tanto ne aveva bevuto alla salute della libertà, tanto alla salute della patria, del Marzocco, della Signora, del Giglio, eccetera, come dicono i notari, che alla fine fu forza prenderlo in quattro e gettarlo sul letto. — Ora ei se ne stava intronato dalla ebbrezza non bene svanita, nè aveva potuto comprendere ancora la cagione di quel rovinio, quando il doganiere lo scosse dicendogli:

«A voi, messere!»

«Oh che c'è egli?»

«La valigia!»

«Basta che mi lasciate la vita, — per la valigia... o ne faremo un'altra, o ne faremo a meno...»

Il doganiere apre, fruga, e:

«Ch'è questo? — Un rocchetto!... due... dieci! — Al frodo! al frodo! Il messere ha la valigia piena di rocchetti di oro filato e tirato...»

«Davvero!» sclama il Rucellai fregandosi gli occhi: «o chi diacine ce gli abbia messi!»

Luigi Soderini ambasciatore percosse la spalla a messere Andreuolo Niccolini altro ambasciatore, e gli disse:

«Questo è il caso della coppa nel sacco di Beniamino.»

E messere Andreuolo a lui di rimando:

«Certo sì, non però con la intenzione di Giuseppe.»

Ma il popolo ingannato, senza por mente che lieve sarebbe stata la gabella frodata, e che non potevano supporsi capaci personaggi di ogni bene della fortuna largamente forniti di siffatta bassezza, proruppe:

«Oh! vedi, ve' i dabbeni ambasciatori; — e' vennero a frodare la gabella al papa! Alla riviera i contrabbandieri! alla riviera!»

E qui seguivano schiamazzi, scherni e voci disoneste.

Il capo, che sembrava, dell'ambasceria fu visto impallidire: subito gli si accesero le guance, impose con la destra silenzio al popolo, con la manca si tolse in atto sdegnoso il cappuccio. — E quel suo volto comparve venerabile alle turbe: — invero malinconico, pieno di dignità, — forse anche di grandezza. Dove poi si considerasse sottilmente, piuttosto che manifestazione presente, accennava una memoria di grandezza; tipo generoso in origine, tralignato quindi per tempo o per avvicendare di generazioni; — pareva un getto ricavato da forme sublimi, ma per uso consunto. — La fiamma del genio guizzò intorno a cotesta fronte, a guisa del fuoco fatuo sull'orlo dei sepolcri, — non vi posò, come lo Spirito sul capo degli apostoli nel giorno della Pentecoste. Il popolo, il quale non sa tanto addentro discernere, rimase percosso dalla nobile sembianza.

Egli, spingendo oltre il palafreno, ad alta voce esclamò:

«Chiunque di voi nacque italiano saprà chi fosse Pietro Capponi! Ora chi fra voi vorrà credere che io suo legittimo figliuolo, io Nicolò Capponi venga a frodare la gabella a un papa dei Medici?»

Per avventura il Montauto, tra le bande della Repubblica Fiorentina militando, non solo aveva conosciuto l'illustre cittadino Pietro Capponi, ma essendo a campo seco lui sotto il castello di Soiana, lo sorresse ferito a morte nelle sue braccia; onde a quel suono adesso sentì commuoversi le viscere, e tocco da reverenza e da stupore si trasse indietro chinando la persona. I soldati, imitando quel moto, si scostano anch'essi: e agli ambasciatori fu fatta abilità di procedere liberamente per la via.

Il popolo, mutando subito affetto e costume, innalza al cielo chi volle gettare alla riviera poc'anzi, e grida:

«Viva Pietro Capponi! Viva Fiorenza!»

I quali applausi crebbero poi all'infinito quando Nicolò Capponi e suoi compagni, messa mano alla borsa, gli gettarono dei pugni di fiorini: — non ebbero finalmente più modo allorchè, scavalcati alla prima chiesa che loro si offerse davanti, gli ambasciatori molto devotamente si recarono a ringraziare Dio del trascorso pericolo, e fatto chiamare a sè il rettore, gli consegnavano certa somma di danari affinchè provvedesse di convenevole dote due delle più povere fanciulle della cura.

CAPITOLO QUARTO LA INCORONAZIONE

Giunta l'aquila al nido ond'ella uscio,

Possiate dir, vinta la terra e l'onde:

Signor, quant'il Sol vede è vostro e mio.

Annibal Caro, Sonetto a Carlo V.

Voi lo vedete! I potenti della terra si cingono una corona di punte per avvertire i popoli ch'eglino intendono lacerare e ferire. Alcuni di loro, non so bene se io mi dica meno perfidi o più cauti, cuoprirono ipocritamente queste punte: chi con perle, come i conti; chi con gigli, come i re; chi con fronde di alloro, come gl'imperatori; ed altri con altro. Però badate, per andare coperte, le punte non cambiano natura; la tigre ha facoltà di rendere la sua branca gentile quanto la mano della vergine. Ma se un giorno le punte, volgendosi nella testa di quale cinge corona, restituissero a costoro il male che fecero altrui, se condizione di chi anela portarla fosse averne le punte confitte nel cranio; credete voi che si troverebbe per uno il quale volesse sostenere la corona appartenergli per diritto divino? E non pertanto, se a siffatti martirii non fossero serbati dalla eterna giustizia i tormentatori dei popoli, gli uomini lancerebbero contro il firmamento tale un grido che farebbe impallidire le stelle, tremare gli angioli nei loro sogli dorati, sospendere la ineffabile armonia delle sfere... gli uomini urlerebbero: — Il Creatore è tiranno!

Io per me penso esistere nel mondo enti di così strana natura i quali invidiano il trono a Lucifero, quantunque di fuoco, i quali con animo lieto stringerebbero a scettro anche uno stinco della propria madre; e perchè no? Fu ambito il regno dove i principi si cingevano le tempie con la corona di spine, e i discendenti di Goffredo Buglione non abbandonarono Gerusalemme se prima non vennero cacciati dalla lancia ottomana.

Corona di ferro! poichè, a guisa di Olla ed Oliba, le infami meretrici vedute dal profeta Ezechiello[76], ti lasciasti stuprare da contatto straniero, possi un giorno, priva di gemme sozza di fango, essere adattata per collare al collo di uno schiavo! — Tu sei stata infedele ai capi italiani, tu hai volato di capo in capo, come femmina rotta alla libidine insanisce negli abbracciamenti vituperosi; tu ti sei data a chi ti ha voluto prendere... Però, quando i popoli italiani risorgeranno alla vita di gloria, nessuno vorrà del tuo ferro per fabbricarsene un pugnale, tutti rifiuteranno il tuo oro per comporsene l'elsa della spada.

Ah sacerdoti! — E voi che la prometteste allo straniero, e voi che faceste innanzi all'occhio di lui coruscare il lume delle sue gemme come un sorriso di donna lusinghiera, e voi che gliela poneste sul capo nel modo che altri spingerebbe la femmina comprata nel talamo lascivo... come vi chiamerete voi? La mia favella ha un nome per voi, ma le labbra non osano profferire l'oltraggio che avete le mille volte meritato.

Da Desiderio perduta, voi la donaste a Carlomagno francese, poi agli Ottoni alemanni, poi a Bavari, poi a casa Lucemburgo, poi a casa Hohenstauffen; quindi la profferiste agl'Inglesi, di nuovo a Francesi, poi a casa di Habsburg; poco prima se la contesero Francesco di Francia e Carlo di Spagna: — Federico di Sassonia la ricusò[77], e tu adesso aneli, o Carlo di Gand, un diadema che altri raccolse un momento e subito dopo gittò via come cosa indegna di occupare il suo pensiero. Egli ebbe dai posteri il nome di sapiente, — per te quello di stolto è troppo poco.

E la stella della tua casa ricambiò con le gemme di cotesta corona un saluto di luce per un tempo assai lungo; poi la fortuna stese la mano e disse: Basta.

Comparve nel cielo un'altra stella che vinse la tua; venne sulla terra un Fatale destinato a far l'ultima prova se la tirannide potesse durare tra gli uomini splendida di gloria e di potenza, con l'ale del genio incerate alle spalle; — la tirannide di Napoleone: — i popoli hanno diruta la terra dagli artigli della sua aquila vittoriosa; quale altra tirannide può adesso aver vita nel mondo? Se il leone non ha potuto regnare, domineranno i lupi? Egli cacciò le mani nelle chiome agli antichi tiranni e tolse a un punto il sonno dagli occhi e la corona dalle teste di loro. — Oh! com'è miserabile cosa un re senza corona! lo sarebbe meno senza senno: — in questo modo moverebbe la nostra compassione, — in quell'altro eccita il nostro riso: egli tolse loro le corone e le gettò dai balconi della sua reggia ai parenti, ai compagni della sua fortuna, in quella guisa che un cavaliere novello sparge pugni di monete alla plebe in segno di larghezza.

Te poi, o corona di ferro, non volle donare il Fatale, e chiamò il sacerdote a imporgliela sul capo. Il sacerdote si mosse a dargliela, imperciocchè egli potesse prendersela: ma quando si accostò all'altare, e il sacerdote incominciò le sue preghiere, egli impaziente vi stese le mani poderose e da sè stesso se ne cinse le tempie; allora il sacerdozio ebbe uno sfregio nella faccia il quale ormai non varranno a coprire nè benda di tiara, nè lembo di manto pontificio, sfregio che sembra una sentenza di morte incisa con ferro rovente sopra la carne: e tu saresti già morto, o sacerdozio, se alzando un grido di terrore altri non veniva a soccorrerti. Qual soccorso però! Per impedire la tua caduta, essi ti hanno posto ai fianchi due lancie per puntelli. — Ora che cosa hai tu fatto? Ti sei procurato una lunga e dolorosa agonia; tu hai voluto funestare le genti con lo spettacolo schifoso della tua decrepitezza.

Ma se il sacerdote, quando il Guerriero fatale oltraggiò l'altare, avesse avuto il convincimento del sublime suo ufficio; dove bene avesse sentito sè essere vicario di Dio in questa terra, gli avrebbe rivolta la corona rapita e, la rompendo sopra i gradini dell'altare, avrebbe detto: — ecco io la spezzo, perchè tu la cingi alla tirannide dei popoli; — umiliati, pugno di polvere, davanti al Dio che cancella le intere generazioni col cenno del sopracciglio che solleva alitando un turbine di mondi; — e dov'egli ti avesse resistito, tu avresti levata al cielo la destra, e Dio l'avrebbe armata de' suoi fulmini.

Adesso il cielo la ridonò alla tua casa, Carlo di Gand, — ma per quanto? — Poichè nel libro del destino non è concesso penetrare come nel libro della speranza, io abbandono il presente e il futuro, e ritorno nel tempo passato.

Già ve l'ho detto: un giorno si apparecchia negli anni che Carlo vorrà liberarsi il capo da cotesto dolore di corona; — ora l'anelito dell'amante che per la prima volta aspetta la faccia desiata della sua donna è troppo poca passione per paragonarla a quella che agita Carlo.

Contemplatelo nella sala del suo palazzo: corre più che non cammina da un lato all'altro, facendo sibilare per l'aria violentemente commossa la veste grave di oro tessuto e di gemme; talvolta si ferma davanti uno specchio di argento, e la mano ponendo sopra le chiome sospira: «Oh! quanto mi tarda averle coronate... Ferdinando mi aspetta; Lutero e Maometto minacciano la mia stella...» E all'improvviso volgendosi verso un cavaliere il quale presso al balcone con un telescopio alla mano pareva speculasse il firmamento, gridava: «Or dunque, Cornelio, il tempo buono viene o non viene?»

«Divo Cesare, non è venuto.»

E Carlo riprendeva a passeggiare agitato e mormorava: «Che questo sia il giorno più fausto della mia vita non può revocarsi in dubbio: in questo nacqui... in questo vinsi a Pavia... in questo prenderò la corona reale e imperiale[78]. Apostolo san Matteo, tra tutti i santi del paradiso un buon consiglio concepisti davvero quando prendesti a proteggere l'augusta mia vita... Tosto ch'io abbia danari, ti farò cesellare un altare e sei candelabri d'oro...» E così continuava.

Cornelio Enrico Agrippa esercitava presso di Carlo l'ufficio di astrologo ed era anco medico e giureconsulto in utroque iure, facoltà le quali possono, anzi dovrebbero, andare unite insieme; ed egli ora lo aveva caro, ora lo rampognava e scherniva: ma l'astrologo, il quale troppo bene sapeva prendere il destro, nei giorni di favore gli estorceva in sì gran copia dignità e danari da consolarsi negli altri dell'oblio; e i modi di lui verso il suo reale padrone sentivano a un punto dello schiavo e del tiranno: se ruggiva il leone, ed egli blando, di parole carezzevoli, curvo col dorso; se invece esitava, ed egli superbo, rigido di persona, con la voce tonante. Non vestiva già zimarra bruna, nè intorno ai fianchi stringeva una cintura rabescata con i segni dello zodiaco, squallida la barba, in capelli scomposti, come gli altri suoi fratelli: al contrario, abbigliate le membra di bei drappi di seta alla foggia di Spagna, col collarino bianchissimo, arme e croce da cavaliere; a vedersi leggiadro. L'età sua o giungeva appena ai quarant'anni, o di poco li passava; di sembianze argute, di colore ulivigno, i capelli lucidi e neri, gli occhi più neri e del continuo agitati, le labbra tumide e accese, tremanti in perpetuo sorriso, il quale di leggieri si convertiva in sghignazzio, ed allora gli si scoprivano i denti e gran parte delle gengive, — siccome avviene a tutti gli animali che appartengono alla specie delle scimmie, quando loro accada di schiudere la bocca.

Tale fu Cornelio Agrippa; e, di natura maligno, si compiaceva adesso di fare scontare a Carlo con le torture dell'ambizione il disprezzo di cui lo avviliva sovente. Appena nell'inquieto suo moto l'imperatore gli volta le spalle, egli staccando l'occhio dal telescopio guarda dietro il divo Cesare e crollando il capo dice:

«Povera creta!»

«Cornelio, fa che si operi presto la congiunzione dei pianeti», proruppe Carlo percotendo dei piedi il pavimento.

«Sacra Maestà, io contemplo, non muovo le sfere. Però l'ora si avvicina: i miei occhi sono abbagliati dall'osservare lo splendore della vostra stella; io non ne posso più sull'anima del mio cane figliuolo[79]

«Non bestemmiare, marrano, o io ti consegno mani e piedi legati al papa nostro signore.... Perchè deponi il telescopio? Vien' qua, non temere, mio buon Cornelio; torna a guardare.... esamina bene... nota la congiunzione, la casa e il sembiante dei pianeti...»

«O Zoroastro glorioso!» rispose l'Agrippa lasciandosi andare sopra una sedia a braccia aperte, «oh come ho io a fare? Voi mi volete cieco ad ogni modo.»

«Cavaliere Agrippa, accettate di presente questi cento ducati per comperarvi del taffetà verde da asciugarvi gli occhi, — fin qui noi siamo imperatore eletto soltanto; domani, diventati imperatore consacrato, avrete dono imperiale.»

«Meglio è perdere la luce nel contemplare la vostra stella che acquistarla nel guardarne alcun'altra... Io mi ripongo all'opera.»

«Cornelio, dimmi, ma dov'è questa stella che tu affermi mia? Io ci credo senza averla mai veduta...»

«E che importa vedere per aver fede? Dio vedeste voi mai?»

«Non lo vidi, sibbene lo sento.»

«E gl'influssi della stella non sentite voi? Chi vi fece eleggere imperatore dei Romani a preferenza del Cristianissimo? Chi rese le armi vostre fortunate? Chi vi mena davanti a un pontefice umiliato?»

«Ma mostrami la stella: io voglio vederla...»

«Accostatevi, Maestà, guardate dietro la direzione del mio indice, sopra la croce del campanile di San Francesco; alzate gli occhi, piegateli a destra in quella plaga del cielo...»

«Non vedo... non vedo nulla.»

«Aguzzate lo sguardo.... tendete, stringete forte le ciglia.... colà.... la vedete voi?»

«Ahimè!» esclamò Carlo con ambo le mani cuoprendosi gli occhi, «io vedo... ho sentito il dolore di mille spade che mi pungessero le pupille, — un milione di atomi luminosi, una vertigine di fuoco....»

«Or dunque pensate, se io possa o no sostenere il lume della vostra stella....»

«Non importa... guarda... non istancarti di contemplare; io ti darò una duchea... un principato... ma guarda.» E tuttavia le mani soprapponendo agli occhi tornò a camminare di su e di giù per l'aula reale.

«Cornelio Agrippa, fissandolo dietro e con quelle sue labbra aperte malignamente sorridendo, mormorò: «Vedi, ve' che teste da portar corona! Un'accensione di sangue cagionata dallo sforzo degli organi visivi egli scambiava in splendore di stelle.... ah!»

«Agrippa!» esclama Carlo, calmata che fu la doglia delle sue pupille, «io voglio anche una volta veder la mia stella. — Additamela; io voglio...»

«Silenzio! Ecco, la mirifica congiunzione succede; — adesso si opera il portento dei cieli; il cielo della stella austriaca è compito: dapprima lambiva rasentando Saturno... apportatore, per essere frigido e uliginoso, d'infermità corporee, come chiragra, podagra ed idropisia...»

Qui Carlo trasse un gemito, perocchè una crudele podagra spesso lo tormentasse e gli facesse risovvenire che apparteneva anch'egli alla terra.

«Possano i re non avere mai col mondo vincolo meno doloroso di questo», diceva in cuor suo l'astrologo maligno; quindi a voce alta continuava: «e poco dopo si spiccò dal pianeta di Saturno, e a modo di ninfa che corre co' capelli sparsi lungo la riviera, trapassò gran parte di cielo spandendo lontano il fulgore de' suoi raggi; si fermò alquanto nella casa di Marte, il quale l'accolse nella guisa che si ricevono gli ospiti augusti; quinci si rimosse tendendo alla stella di Giove, l'aggiunse, si ricambiarono un bacio di luce; ed ecco quella parte del firmamento ormai apparirà più chiara agli occhi mortali pei due astri fratelli. — O Cesare augusto, divo, fortunatissimo, concedi ch'io primo mi prostri ai tuoi piedi. Dopo Dio chi più potente di te? Il mio cuore, come tazza di soverchio piena, non può contenere la sua gioia; i miei occhi sono costretti a piangere lagrime dolcissime di tenerezza...» E prostrato abbracciava le ginocchia di Carlo.

Stava per profferire più parole assai, quando Carlo, vinto dalla fumosità libera, prese ad esclamare:

«Sento l'influsso della mia stella. — Che in paradiso un apostolo avesse cura speciale della nostra sacra persona, cel sapevamo; — che nel cielo girassero pianeti a noi propizii, non ignoravamo; grandi cose abbiamo fatto, più grandi ne faremo in seguito. Conquistato che avremo il mondo, chi ci insegnerà la via di arrivare agli astri del firmamento?»

Cornelio Agrippa steso ai piedi di lui pensava: — Sta lieto, Carlo, con due dita di lama di Cordova tu potrai fare un assai lungo viaggio. —

«Quale indugio è mai questo? I miei momenti sono secoli per gli altri: ogni istante della imperiale nostra vita contiene il destino di cento generazioni. Che fa egli questo neghittoso di papa? s'egli non istà pronto ai nostri cenni, noi lo rimanderemo come un veterano invalido...» — E così favellando alzò i piedi per balzare, sicchè forte percosse con uno nella bocca all'Agrippa, e poi correndo ad afferrare un campanello lo agitò violentemente a più riprese.

Cornelio, sorgendo e con la mano tentandosi le labbra per vedere se lo avesse ferito, mormorava rabbioso: «Cane di Fiamingo, tu paghi le verità da re, — impiccando chi te le dice, — e le menzogne da sacerdote, con le promesse! Un giorno o l'altro, io faccio conto che tu abbia a inventare le indulgenze imperiali. Superbo e misero, io ti avrei lasciato e ti lascerò forse tra poco pel tuo emulo Francesco di Francia; un imbecille coronato al par di te, ma più prodigo di quello che rapisce ai suoi popoli: — trattanto io mi compiaccio di tormentarti... ho qui in tasca sei congiunzioni di stelle tutte funeste per te... per ora va' lieto a prendere la corona; per oggi il tuo demonio ti scioglie la catena: — ungiti del crisma; poi, unto o no, con la corona o senza, tu non sarai meno il trastullo dei miei ozii fantastici.»

Finalmente il santo padre gli cinse le chiome della corona imperiale. Cap. IV, pag. 102.

Comparve alla subita chiamata il signore di Rodi, maggiordomo maggiore; il quale, semiaperta la porta, sporgeva il capo e parte del petto, non osando penetrare più oltre. Tosto che Carlo lo vide, lo interrogò dicendo:

«Sire di Croy, qual'ora è ella?»

«L'ora che piace a Vostra Maestà.»

«No, Adriano», rispose blando Carlo, lusingato da cotesta sconcia piaggeria; «il sole non tramonta mai nei nostri regni, ma egli si mantiene pur sempre il re delle ore: se gli illustrissimi cardinali vennero, come spero, a incontrarci, dite loro che noi gli aspettiamo...»

I cardinali Ridolfi o Salviati non istettero molto a presentarsi splendidi di cappe vermiglie; e tolto ambedue Carlo sotto le braccia, con molta solennità lo condussero all'aula reale del primo piano del palazzo.

Quivi, parte delle pareti atterrando, avevano praticato certa capace apertura dove metteva capo un ponte magnifico, ornato di alloro, di mirto e con fronde verdissime di ogni ragione, decoroso per fasciature d'oro e per le armi alternate dell'imperatore e del pontefice, il quale percorrendo meglio che duecento braccia di cammino conduceva al tempio di San Petronio insensibilmente digradando; a mezzo il ponte, parata di splendidi arazzi, illuminata da mille torchi, sorgeva una cappella dedicata alla Beata Vergine fra le Torri.

Uscendo dalla reggia per la indicata apertura, primo a toccare il ponte fu un drappello numerosissimo di giovanetti nobili, i quali e per la dovizia delle vesti e per la bellezza dei volti mettevano in tutti maraviglia e contento.

Succedevano ai giovanetti, gentiluomini e cavalieri di varii ordini equestri, ognuno vestito alla sua foggia e decorato delle varie insegne dell'ordine a cui apparteneva; poi venivano baroni, conti, marchesi, duchi, principi del sacro romano impero e i primari ufficiali della corte di Carlo. Poco dopo, singolare a vedersi, compariva una immensa caterva di araldi abbigliati con svariatissime assise, spediti per assistere alla solennità della incoronazione non pure dai regni di Aragona, Navarra, Napoli, Sicilia, Granata, dalla Borgogna, dalla Germania e da molte principali provincie e castelli appartenenti a Carlo, ma ed anche da re e principi stranieri, come di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Polonia, Boemia, Austria, Savoia e altri infiniti. Passati questi, sopravvennero i maggiordomi della corte di Carlo portanti mazza di argento in segno della propria dignità; ai quali teneva dietro Adriano sire di Croy, signore di Rodi, maggiordomo maggiore, tenendo alzata la sua mazza di mole assai più grande delle altre. Immediatamente subentrano, coll'ordine che sarà per noi riferito, i principi cui incombeva l'ufficio di recare gli arnesi all'incoronamento necessarii. Primo di tutti l'illustrissimo principe Bonifacio Paleologo, marchese di Monferrato; egli veste una cappa di seta di color vermiglio, sovr'essa un manto di porpora; gran parte delle spalla e del petto gli cuopre una pelliccia di candidissimi armellini. Lasciamo senza descriverli i molti ornamenti d'oro e di gemme, che davano bagliore in chiunque li contemplava; ma non possiamo trattenerci dal rammemorare la corona marchesale, con ingegno meraviglioso lavorata, insigne per gemme d'inestimabile valore. Nella mano destra egli porta lo scettro d'oro. Viene secondo lo strenuissimo e magnificentissimo Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, non meno di gemme splendido e d'oro del Paleologo, che porta levato lo stocco imperiale d'infinita ricchezza; seguita terzo il valoroso principe Filippo dei duchi palatini del Reno e di Baviera, doviziosamente ornato della corona e della porpora ducali, il quale sostiene il mondo dorato. Finalmente succede il potentissimo Carlo, duca di Savoia, anch'egli vestito della porpora ducale e incoronato di una corona che fu pregiata meglio di cento mila ducati; a lui spettava portare con ambe le mani le due corone reale e imperiale. — Ecco Carlo: — la gioia soverchia lo tinge co' colori medesimi della paura; ha il volto pallido, le labbra pavonazze, gli occhi spenti: e' sembrava un condannato tratto a guastarsi. I cardinali diaconi, avvolti di ampio piviale, col capo coperto di mitria, gli stanno a' fianchi; il conte Enrico di Nassau gli sorregge dietro la coda del reale paludamento. Secondo l'ordine e prerogative loro seguono gli oratori di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Boemia, Polonia, del duca di Ferrara, Veneziani, Genovesi, Sanesi, Lucchesi, Fiorentini, e di altri non pochi. In ultimo luogo i consiglieri e i secretarii del consiglio di Cesare, separati dalle altre turbe sorvegnenti da una mano di cavalieri armati di corazze d'oro, e di mazze d'arme dal manico d'argento.

Giunto Carlo nella sacra cappella, il cardinale di Tortosa, commesso a tale ufficio mediante un breve del sommo pontefice, il quale fu letto dal vescovo di Malta, cominciò a salmeggiare le preci opportune alla solennità: concluse le orazioni, gl'illustri conti di Nassau e di Lanoia, custodi del corpo di Cesare, presero a spogliarlo nel petto e per le spalle di ogni sua veste, sicchè gli nudarono tutto il braccio destro e gran parte del seno. Allora il cardinale di Tortosa, non senza aggiugnere altre efficacissime preghiere, gli unse le coste e tutto il braccio coll'olio sacrosanto dei catecumeni. Il reverendo padre Guglielmo Vandanesse, vescovo di Leon, le parti unte con candido bisso gli asciuga. Ciò fatto, tornano a vestirlo con la cappa reale di teletta d'argento, con un manto velloso di porpora svariata di oro e finalmente con una stola lunghissima, o vogliamo dire sarrocchino di bianchi armellini. Condotto a piè dell'altare dai cardinali Salviati e Ridolfi, il cardinale di Tortosa prima gli cinse la spada, la quale avendo Cesare tratta, tre volte vibrò nell'aria e tre declinò a terra, poi riposatala alquanto sul braccio sinistro tornò ad acconciarla nel fodero. Siffatta cerimonia mandata a fine, Carlo si prostra davanti l'altare, e il cardinale di Tortosa, sempre recitando orazioni adattate all'uopo, ora gli consegna lo scettro, ora il globo, ora finalmente gl'impone sul capo la corona di ferro, ad alta voce proclamandolo re di Lombardia.

«Re di Lombardia!» gridarono i vicini; — «re di Lombardia!» risposero i lontani; e tanto e siffatto urlo riempì l'aere che pareva andassero subissati il cielo e la terra. I popoli alle parole aggiunsero il batter forte dei piedi, onde si levò un denso nuvolo di polvere, e la terra prese sembianza di vulcano che fuma: dai terrazzi, dai balconi, di sopra i tetti si vedevano donne, cavalieri, popolani, gente in somma di ogni maniera, sventolare pennoncelli di colore, fazzoletti bianchi, rami d'alloro o di mirto: — lungo i muri dei palazzi, dagli architravi delle porte e finestre, intorno ai fusti, su per i capitelli delle colonne si spiccavano figure a guisa di cariatidi viventi, le quali agitavano le braccia in segno di allegrezza.

Uno spirito gentile, tra tanta congerie di uomini, i desiderii, la speranza e l'alito della vita aveva posto nell'immaginare la tribolata sua patria potente e felice; contemplando adesso tanto consenso di universale esultanza, dubitò di sè; per un momento i suoi terrori ebbe vani; onde di nuovo sollevò lo sguardo per ben conoscere se straniero veramente o Italiano fosse l'avventuroso coronato a re di Lombardia; e lo considerando pur troppo straniero, pensò tra sè: — Ecco, come gli Abderitani, oggi un popolo intero è diventato pazzo furioso; quando egli avrà ricuperato il bene dell'intelletto, si troverà schiavo. La mano che un'ora prima applaudiva al signore straniero, un'ora dopo sarà grave di catene: quando le vorrà rompere sarà chiamato ribelle: l'amore della libertà gli appresterà il patibolo in questo mondo e la dannazione nell'altro, così ordinando principi e preti seduti alla mensa dove si cibano i popoli; la lima che rode le catene delle nazioni volontariamente serve è fatta di sangue e di lacrime... Ahimè! quanta copia di pianto e di sangue per consumare cotesti ferri che esultando adesso cotesti sciagurati si adattano al collo! —

E gemendo si coperse il volto per piangere lacrime solitarie sopra i destini della sua patria. O Luigi Alamanni, se tu ai tempi nostri avessi vissuto, sapresti come egualmente i popoli applaudano alla morte dei re! La fiera del popolo arrangola, sia che menino in alto Carlo Magno a coronargli la testa, sia che vi traggano Luigi Capeto per mozzargliela dal busto!

Gli archibusieri alemanni e spagnuoli in numero di ottomila spararono gli archibusi; i bombardieri, quanti poterono rinvenire a Bologna e trasportare di fuori sagri, falconetti, colubrine, smerigli, serpentini, basilischi, girifalchi e simili altre artiglierie costumate a quei tempi, così e con altri più terribili nomi appellate dagli uomini tuttavia sbigottiti dai micidiali effetti di quelle: onde, secondo che narra Cornelio Agrippa in quel suo stile ridondante di ampolle, parve che «Giove avesse dato la via a ciò che di più fragoroso custodiva ne' suoi tesori di fulmini e di tuoni.» Le campane frementi si lanciavano per l'aria, come cavalli inferociti; da un punto all'altro temevano di vedere scaturire la fiamma dai legni e dal ferro confricati in cotesto portentoso dondolio: — ahi! bronzi un tempo chiamati sacri, dacchè il vostro ufficio dimenticaste di laudare Dio, convocare il popolo al tempio, raccogliere il clero, piangere i morti, cacciare la pestilenza, onorare le feste dei Santi[80], dacchè, dico, il vostro ufficio dimenticaste o spregiaste, la vostra voce si spande pei piani e per le valli solitaria come la voce di san Giovanni nel deserto; chiama, ma nessuno risponde, imperciocchè la voce che ha celebrato l'esaltazione del tiranno e le sue stragi non possa glorificare il nome del Signore, il Santo dei santi; e nonpertanto anche voi potreste rigenerarvi; in questa giornata di tenebre e di servitù abbiamo tutti peccato, — uomini e cose; — compiangiamoci dunque e pentiamoci tutti: scendete dalle vostre torri, fondetevi in cannoni, portate nel vostro seno la morte allo straniero; — allora, purificate da questo battesimo di fuoco, quando tornerete a squillare, i popoli accorreranno, siccome consapevoli che voi li chiamate per esaltare la gloria di un Dio che protegge i liberatori della patria.

Intanto per altra parte il pontefice s'indirizzava con la sua compagnia al tempio di San Petronio. Precedevano a due a due i camerarii, gli ostiarii, i segretarii apostolici; seguivano dodici dottori dell'antica università di Bologna, ora dianzi da Cesare insigniti con ordine cavalleresco e con la dignità di conti palatini. Quindi otto patrizi della città in abito senatorio, e poco appresso il rettore della università decoroso per vesti purpuree. E gli uni dopo gli altri seguitavano il potestà avviluppato in un lucco di teletta di oro, i giudici di Rota, e cinquantatrè tra vescovi e arcivescovi venerabili pei loro manti pontificali. Secondo l'ordine delle speciali prerogative, venivano i cardinali Medici, Grimaldi, Caddi, di Mantova, Pisani, Santa Croce, Cornaro, Grimani, di Perugia, di Ravenna, Campeggio, Anconitano, di Santiquattro, di Siena e Farnese, ognuno dei quali portava la mitra e procedeva ornato di piviali doviziosissimi. Subentravano i magnifici conti Ludovico Rangone e il signor Lorenzo Cibo, entrambi gonfalonieri di Santa Chiesa, armati di tutte armi. Finalmente, assistito dagli eminentissimi cardinali Cesarini, Cesi e Cibo, compariva Clemente VII nello splendore della sua pompa pontificia, avvolte le membra nel famoso piviale, di cui i lembi si congiungono sul petto mediante il bottone non so se io mi dica più celebre a cagione del lavoro di Benvenuto Cellini, o del diamante una volta appartenuto a Carlo il Temerario duca di Borgogna[81]. — Guardate il vicario di Cristo! Il successore di Colui che andava a piedi e le più volte scalzo, ora, reputando poca magnificenza cavalcare mula o palafreno, si fa trasportare sopra un pulpito sulle spalle di otto servitori a guisa di somieri e dimostra come da gran tempo il padre dei fedeli tenga gli uomini in concetto di bestie. — Egli non può sopportare il pallido raggio del sole di febbraio, e con ampio baldacchino di seta il capo difende e la persona. — I santi, dei quali egli si dice ministro, non temerono riarsa dal sole di Siria la fronte per predicare alle turbe ed annunziare vicino il regno dei cieli. — Dietro alla cattedra pontificia si affolla la torma degli abbati, protonotari, prelati, gentiluomini, i quali il più delle volte non sono uomini gentili, e gente altra infinita di siffatta risma. Penetrati nel tempio, ognuno si dispose, conservando il grado che gli spettava, nel coro o davanti l'altar maggiore, e diedero salmeggiando immediatamente principio all'ufficio chiamato Terza; conchiuso il quale, i cardinali, cominciando dal decano Alessandro Farnese, che poi fu papa col nome di Paolo III, padre di Pierluigi l'infame stupratore di Cosimo Cheri vescovo di Fano[82], ossequiarono a Clemente la consueta obbedienza baciandogli le mani — gli arcivescovi e i vescovi fecero lo stesso; se non che il papa, invece di porgere al bacio loro la destra, presentava i piedi. Orgogliosa impudenza da un lato di cui non abbiamo esempio, tranne nelle oscene cerimonie del sabato, dove la favola narra convenire le streghe a fare omaggio al demonio in forma di becco; umiliazione dall'altro della quale pur troppo occorrono ricordanze nelle storie degli uomini.

Ma torniamo all'altro, dico a Carlo di Gand. — Per tutti i santi del paradiso, ch'è questo mai? Quale strana fantasia lo ha preso? Ella è cosa da concitare a riso, non che altri, san Bartolomeo quando lo scorticavano vivo. Carlo il re della Spagna, delle Indie, di Germania, d'Italia, Carlo, adesso comparisce vestito da canonico; così è: gli significarono non potere essere consacrato imperatore dei Romani dove prima non avesse consentito ad ascriversi tra i canonici di san Pietro! Egli dubitò un momento non lo togliessero a scherno e fu per dire a monsignore Ariosto vescovo di Berutti che gliene esponeva la necessità: — Va' via marrano[83], o ti faccio precipitare dal ponte! — Ma poichè il vescovo sosteneva senza mutare sembiante quella sua bieca guardatura, povero di consiglio, stretto dal tempo, si lasciò vincere, sicchè in un punto, spogliato dei regali abbigliamenti, da una mano passando nell'altra, fu rivestito della toga, del rocetto e della mozzetta secondo il costume dei canonici. — Roma, le tue percosse, sia che il mondo offendessero o il pensiero, erano pur gravi una volta! In questo stato, non so se io mi dica più compassionevole o ridicolo, lo condussero nel tempio di San Petronio i due mentovati cardinali, ai quali se ne aggiunsero altri due, i seniori fra l'ordine dei vescovi, cioè di Santiquattro, Lorenzo dei Pucci (il quale sosteneva tutte le cose, comunque iniquissime, non disdire al pontefice[84] ), e l'Anconitano. Appena ebbe posto piede nel tempio, con terribile fragore precipitò il ponte per la lunghezza di forse venti passi: la gente ammucchiata forte percosse sul terreno; alcuni ne riportarono sconce ferite, altri col sangue vi persero la vita.

Spesso mi avvenne considerare come in siffatte solennità che i principi danno ai popoli vi si mescoli dentro un mal genio e la faccia pagare a questi ultimi a prezzo di sangue, sia per ammonirli che non dovevano ridere, sia piuttosto, come credo, che la gioia la quale muove dai re non possa comparire vermiglia, se non si tinga col rosso del sangue.

I cardinali tenendo in mezzo Carlo, come fiera in guinzaglio, lo menarono a piè dei gradini della cattedra del pontefice e quivi stettero. Clemente gli abbassò uno sguardo dall'alto, e non potè reprimere un moto dei labbri in contemplando l'augusto Cesare in veste da canonico; il quale sguardo e il quale moto di labbri avendo troppo bene compreso Carlo V, sentì ribollirsi dentro l'orgoglio del sangue spagnuolo, gli occhi mandarono faville, e una idea gli traversò trucissima l'intelletto, di afferrare cioè per le gambe il pontefice, rovesciarlo dal trono, dalle chiome strappargli il triregno, ed imponendolo sopra il suo capo gridare: — Io sono il re dei re!

Ma sollevando di nuovo la faccia vide, o gli parve vedere, il sembiante del papa pieno così della divinità da lui rappresentata che sentiva sconfortarsi dentro dal rimorso quasi avesse meditato il parricidio.

Di subito lo trassero nella cappella dedicata a San Gregorio, dove lo avvolsero nell'amitto, nel camice e nella dalmatica, e sopra gli posero il manto imperiale di ricami e di gemme gravissimo; sicchè non avrebbe potuto di leggeri sostenerlo, se il conte di Nassau da tergo, i vescovi di Bari, del Palatinato, di Brescia e di Caria nel regno di Leone dai lati, non ne avessero sorretto i lembi: in questo modo abbigliato, lo fecero andare fino a mezzo del tempio, dov'è la ruota di porfido; quivi tre volte benedetto si accostò all'altare maggiore, costrutto ad immagine dell'altare di San Pietro in Roma. Genuflesso sopra aureo pulvinare, colà rimase finchè non ebbero cantate le litanie dei Santi; allora due nuovi cardinali, cioè Campeggio, primo dei preti, e Cibo, primo dei diaconi, lo condussero in un'altra cappella consacrata a San Maurizio.

Qui dal cardinale Alessandro Farnese, primo dei cardinali vescovi e decano del sacro collegio, furono rinnovate le unzioni per le coste, per le spalle e pel braccio destro coll'olio del crisma, e il vescovo di Caria lo asciugò. La quale cerimonia essendo condotta a fine, i cardinali Salviati e Ridolfi lo tolsero di nuovo e lo menarono a fare riverenza al pontefice. Questi allora scendendo dalla cattedra sublime, si accostò agli altari e diede cominciamento alla messa solenne: poichè egli ebbe ad alta voce intuonato per Cesare l'introito, Carlo si fece presso agli altari, dove abbracciò e baciò Clemente su la guancia e sul petto. Gli tennero dietro i principi commessi all'ufficio di portare le insegne dell'impero, e con varie cerimonie le depositarono sopra la santa mensa. Ciò eseguito, Cesare e i principi tornano ai seggi loro apparecchiati nel coro; imperciocchè il trono imperiale, in cui doveva egli sedersi dopo la incoronazione, sorgeva a destra della cattedra pontificia in cornu epistolæ dell'altare maggiore. Avanzata che fu la messa fino alla lettura della epistola canonica, la quale Giovanni Alberini suddiacono apostolico cantò in latino, e Braccio Martelli camerario di Sua Santità in greco, i cardinali Ridolfi e Salviati addussero per la terza volta Carlo al cospetto del papa. Qui si rinnovarono, presso a poco le medesime solennità di sopra descritte. Il vescovo di Pistoia prese dall'altare la spada e la porse al cardinale diacono; questi al pontefice: il quale, trattala fuori del fodero, la benedisse prima e poi la depose nelle mani di Cesare, trasferendogli i diritti della guerra con queste parole da lui latinamente proferite: «Prendi la spada santa, dono di Dio, adoprala a disperdere i nemici del popolo del Dio d'Israele!»

Se un membro del popolo miserabile d'Israele, — un Ebreo — si fosse adesso presentato all'imperatore e gli avesse detto: — Difendimi, perchè questo pontefice mi ha ridotto in condizione peggiore dei cani, e tra me e lui non corre altro vincolo tranne quello del porre ch'ei fa una volta l'anno il piede sul collo[85] ai miei rabbini, certo il figlio del Dio d'Israele sarebbe stato strizzato così che nissuno poi avrebbe potuto rinvenirne i frammenti. Il Dio d'Israele non è più Dio di Palestina, — neppure il Dio degli apostoli; il Dio d'Israele ha ripiegato le tende dalle antiche dimore e le piantò in Roma presso il palazzo del Vaticano; egli è il Dio dei preti. — I Fiorentini, da cui nacque Michelangiolo, che dopo tanto spazio di tempo sentì ed effigiò quel terribile legislatore degli Ebrei — Moisè, — i Fiorentini, che per pubblico partito si elessero Cristo principe della Repubblica, erano i nemici del popolo d'Israele, gli avversarii, i ribelli a Dio, i maledetti da lui, per l'esterminio dei quali il padre dei fedeli dava la spada santa all'imperatore. O sacerdoti, quanto fareste ridere, se non aveste fatto piangere cotanto!

E Cesare nudò il ferro e tre volte ne percosse l'aria ed altrettante ne declinò la punta verso il suolo, — forse per dimostrare ch'egli intendeva sulla terra dominare, e nel cielo. Strinse lo scettro, pegno di fede e di virtù che non aveva, colla mano destra; nella manca il papa gli pose il mondo in simbolo della facoltà ch'e' gli dava per governarlo.

Queste consegne di tutto o parte del mondo operate dai sommi pontefici, siccome efficacissime nel diritto, non furono sempre, o quasi mai, praticabili in fatto. Chi può contenderne loro la facoltà? Dio esiste signore del creato, il papa vive in Roma vicario di Dio nel mondo; dunque il papa può disporre di quanto in esso si comprende. Questo sillogismo ha la sua promessa, la sua minore, la sua conseguenza; a me pare tutto e in ogni sua parte perfetto. La luna, il sole, le stelle, le comete, poichè non sono contenute in questa terra, rimangono escluse, quantunque non sia chiarito bene: le altre cose tutte senza eccezione di sorta stanno sottoposte al papa; tanto il Lappone come l'Ascolano, l'abitante del Kamciatka come quello delle paludi pontine: — ma questi non udirono mai favellare di lui, nessuno annunziava loro il regno dei cieli, non conoscono il Dio del papa di Roma. — E che importa se non lo conoscono? Peggio per loro; andranno dannati nell'inferno, ma non per questo rimarranno meno fermi i diritti della Santa Sede Romana. Se così non fosse, si chiamerebbe ella cattolica, che significa universale? Dove la cosa non istesse per l'appunto come io la diceva, avrebbe potuto Martino V concedere al re di Portogallo tutte le terre che loro riuscisse scoprire dal capo Baiador alle Indie? Ed Alessandro VI, il papa di santa memoria, avrebbe potuto con la famosa sua bolla tirare la linea da un polo all'altro e largire ogni paese scoperto dalla parte di occidente agli Spagnuoli, l'altro da oriente ai Portoghesi? Uno scrittore eretico osserva come non occorresse alla mente del santo pontefice il pensiero, che, ciascuno seguitando dal suo lato la continuazione delle scoperte, potevano un giorno ritrovarsi a contatto e rinnovare agli antipodi la questione di proprietà[86]. L'eretico ha torto, perchè non sa essere li sommi pontefici, siccome ispirati dallo Spirito Santo, infallibili.

Finalmente il santo padre gli cinse le chiome della corona imperiale. Carlo allora, giusta le formalità, si prostrava curvandosi al bacio dei piedi santi. Era però convenuto che il papa non gli lascerebbe compire l'atto, e rilevatolo a mezzo, lo avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da rinnovare cotesto ossequio; e poi, Clemente lo aveva già detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato l'impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette lunga pezza nell'attitudine dello schiavo: in quel punto la corona gli pesò sul capo non altrimenti che se fosse stata una montagna; allora gli parve che il mondo, poc'anzi da lui sorretto nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: — come il serpente della Scrittura, egli si nudrì di cenere e la sentì amara, — senza misura amara; sicchè il suo cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla rabbia, stillò una goccia di sudore, la quale, come quella dell'anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di filosofia, secondo che racconta frate Iacopo Passavanti nello Specchio della vera penitenza, avrebbe avuto virtù di traforare da una parte all'altra con insanabile piaga i piedi del pontefice, se per avventura vi fosse sopra caduta[87].

Ciò che riferiscono intorno alla proprietà letifera dello sguardo di alcuni animali e' vuolsi tenere per favola; imperciocchè il basilisco non abbia guardato mai in maniera più truce di quello che facesse Carlo il pontefice, quando si fu rialzato; ma non gli concessero tempo di proferire parola: le reti dei successori di san Pietro avviluppano con tanto prepotente vigore, quando uomo v'incappa, che nè impeto d'ira o profondità di consiglio valgono a romperlo: — lo tolsero in mezzo, lo salutarono imperatore con tanta luce di ceri ardenti, con tanto fumo d'incenso, con tanto fragore di voci lo confusero che egli, stordito, immemore di sè, per poco stette che non cadesse svenuto sul pavimento: egli sentiva suo malgrado strascinarsi; soffriva le angosce dell'uomo vicino ad annegare, che vede approssimare la morte e non può aiutarsi.

O signore e signori qui convenuti per farmi il piacere di sentire questa storia che non oso chiamare bella, perchè spesso fa pianger me che la racconto, o ridere di un riso tristo il quale mi ha guasto il cuore e la bocca, io non so se v'abbia detto; e se nol dissi, ve lo dico adesso; la cattedra del pontefice e il trono imperiale, per velluti cremesini, per frangio d'oro, per pulvinari, per baldacchini mirabilissimi essere stati eretti alla destra dell'altare in cornu epistolæ. Ora avvenne, mentre queste cose succedevano, che un personaggio di alto affare del seguito dell'imperatore si accostasse a certa colonna sostenente l'arco della cappella. Dalla parte interna rasentavano la colonna i balaustri che racchiudevano il recinto dove si celebrava la funzione; dalla parte esterna, la colonna scendeva alquanto verso il pavimento inferiore e si posava sopra la sua base. Il personaggio, gli usi di corte non sapesse o non curasse, o qualche forte pensiero gli tenesse occupato la mente, con le braccia sotto le ascelle, una gamba sopramessa all'altra, toccava con l'omero sinistro la colonna; — erano le sue membra per robustezza singolari, — quadre le spalle, — il collo rigido e grosso, — sicchè a vederlo pareva l'Ercole Farnese appoggiato alla sua clava. Gli anni di lui giungevano forse ai sessanta; — vestiva abito positivo di velluto nero spartito a strisce di seta celeste, con manto, calze e scarpe del medesimo colore: nella sua gioventù la bellezza si era compiaciuta per certo di ornargli il sembiante; — le cure, gli anni e le fatiche adesso glielo avevano reso severo. Foltissima la capigliatura gli copriva la testa; delle tempie però era calvo, e quivi la pelle compariva più pallida per via della continua pressione dell'elmo. — I suoi capelli non rassomigliavano all'argento per la bianchezza soltanto, sibbene ancora per una certa consistenza metallica di cui sembravano dotati: e le masse della barba eziandio giù per le mascelle e pel mento gli scendevano come scolpite. I venti delle tempeste, il sole ardente e le pioggie avevano percosso quel volto; nè avendolo potuto vincere, gli erano ormai diventate amiche: teneva il labbro inferiore non poco sporgente in fuori, atto che suole imprimere l'abitudine dell'impero. — Adesso cotesto suo volto accennava il conato della spirito il quale tenta chiamare una memoria smarrita o si sforza di rompere il velo del tempo per leggere nei futuri destini. Aveva in somma l'espressione del poeta che invoca dalla sua musa un concetto che varrà poi a scuotere le anime di maraviglia o di terrore o, se vuoi meglio, l'espressione del guerriero che dall'alto della montagna dardeggia lo sguardo sulla pianura per afferrare il momento della vittoria. I suoi occhi stavano fissi nei troni imperiale e pontificio, — e il raggio sfolgorato dagli ori e dalle gemme si riverberava per modo nelle sue pupille profonde che un fuoco interno, ardente in mezzo al cervello, pareva che le accendesse.

All'improvviso una voce gli percuote le orecchie:

«Ardisci! — Muovi un passo ed occupa quei seggi vuoti.»

A lui parve il suo genio avergli bisbigliato coteste parole; — e come se fosse stato il concetto di cui andava in traccia, senza mutare attitudine, si rimase a considerare se ciò potesse riuscirli e il come e il quando. Poichè si fu trattenuto alquanto in cosiffatta disamina, la voce stessa più forte mormorò:

«Ardisci! — Occupa i seggi vuoti: — un passo e basta.»

Si scosse all'avvertimento, — si guardò attorno lento e feroce a guisa di leone, non vide nessuno; — uno sgomento ineffabile lo travagliava quando, volgendo la testa dalla parte opposta della colonna, vide di contro a sè nella medesima posa atteggiato un uomo da lui singolarmente riverito e avuto in pregio.

«Siete voi, messere Alamanni?»

«Messere Doria, son io...»

«Ditemi, Luigi, come vanno le cose della patria?»

«Il mal la preme e la spaventa il peggio...»

«Ostinati che siete! ma e perchè non accordaste con Cesare quando ve lo consigliai a Barcellona? Perchè non aderiste ai miei conforti a Genova? — Avreste allora conservata, parte della libertà, la quale adesso avrete a piangere interamente perduta...»

«Prima, perchè, se le cose vanno male, non sono mica disperate per questo; — nè abbiamo deposto tutta speranza di vincere. Un'altra volta un imperatore vide le mura di Fiorenza; le vide, ma non l'espugnò...»

«Oh! allora non adoperavano come ora le artiglierie, che a tempo fisso disfanno le più solide torri, ed ogni più arduo impedimento rendono piano agli arditi assalitori...»

«Sì; ma ora, come allora, dietro le mura diroccate stanno altri muri — più gagliardi, — i petti dei cittadini...»

«Dio vi protegga, messere Luigi; così vi conceda le sorti favorevoli com'io ve le temo contrarie.»

«Ad ogni modo, i padri hanno creduto migliore partito essere tirannide intera che non mezza servitù: imperciocchè a questa a mano a mano si adattino le anime degli uomini; ed essendo della nostra natura abituarci a tutto quanto non riesce insopportabile, la mezza libertà converte in libertà intera, la vera libertà in desiderio, poi in languida speranza, finalmente, ogni vigore spento, la patria si addormenta al suono delle catene; nella tirannide per lo contrario intera v'ha fremito implacabile, guerra a morte tra l'oppressore e l'oppresso, — tra il tiranno e lo schiavo patto unico la morte; il tradimento, virtù; studio, la strage; il popolo incatenato può con le lacrime dell'ira, con i ruggiti della rabbia consumare le catene, — comunque di ferro; — il popolo assennato non romperà i suoi ceppi mai, — comunque di seta si fossero...»

«La tirannide, Luigi, può far piangere ai popoli un tal pianto che gli anni non valgano ad asciugarlo; può di tal piaga ferirli che gli anni si consumino invano a sanarla. La tirannide semina il deserto e la morte. Sentiste voi mai muovere rumore nei campi santi?»

«Sì, io ho udito fremere l'ossa negli avelli; — e i Greci a Maratona...»

«Voi siete poeta, voi; io poi, educato nella esperienza delle armi e dei governi, conosco a prova gli stati non reggersi con siffatti entusiasmi; — alle armi conviene opporre le armi; le parole, quando inferociscono i soldati, buone; senza i soldati, siccome sempre infelici, le più volte ancora contennende. Io quando dal ponte della mia galera, il guardo teso sul mare, scorgo da lontano le vele nemiche, già non conforto i miei compagni rammentando la virtù latina, le glorie liguri: e' non m'intenderebbero; addito loro le galere e dico: — Prodi uomini, voi lo vedete, il nemico ci stringe; il vento ha in filo di rota, e a noi riesce impossibile la fuga; nè voi d'altronde avete fuggito fin qui. L'armata avversa supera di un terzo la nostra, ma la nostra è munita senza pari, governata da voi, capitanata da me Andrea Doria soprannominato Buona fortuna. Su via, apparecchiate le armi: — vincendo, nostre diventeranno le ricche spoglie, nostri i riscatti dei prigioni, la gloria nostra; perdendo, diventeremo poveri e infami per aggiunta. — Ella è più agevole cosa rizzarsi in piedi all'uomo che se ne sta a sedere che non all'altro il quale giace lungo e disteso sulla terra. Male fece la vostra città ad avventurare così grossa posta; io per me penso che ne vada della morte o della vita...»

«Ormai, messere Andrea, cosa fatta capo ha, come disse Mosca Lamberti: e voi in ogni modo potreste provvedere...»

«E come, Luigi, come?»

«Francia è vuota di sangue e di danari. L'imperatore stringono la Riforma e il Turco. Il papa si assomiglia agli antichi cadaveri conservati nei sotterranei, i quali si sciolgono in polvere tostochè gli abbia tocchi la luce. — Italia! Italia! La regina dei popoli, — la donna coronata un giorno di torri, ora di spine... deh! non vi dolga che anco una volta io dica: — Ardisci... ti stanno presso i due seggi vuoti; — un passo e basta.»

«E' pare, un passo, — ma egli è un abisso: — io ho molto bene considerata la bisogna ed ho meco stesso disaminato se le mie gambe fossero potenti a sì gran salto; non venne anche il tempo. Adesso vi perirei, e meco perirebbero le speranze. Per un passo mosso invano davanti, conviene darne cento all'indietro...»

«Se voi soccombete, nessun nome potrà pareggiarvi nella fama; se vincete, la terra non contiene creatura da paragonarsi con voi.»

«A me non garbano queste virtù di sacrifizio, nè gli anni miei mi persuadono mettermi allo sbaraglio dentro fortune dubbiose e difficili; mia divisa è il trionfo. Altri si contenti uscire dal mondo bello di fama e di sciagura; — io voglio vincere. Nè mi consolerebbe nella caduta dovessi pure, precipitando, imporre il mio nome ad un mare.»

«A voi, come ad Icaro, non giungono nuove le vie del firmamento: — i venti vi hanno trasportato mille volte il nome di Andrea Doria»

«Quindi io di tanto più temo la fortuna avversa quanto fin qui mi si mostrava favorevole. La fortuna, siccome donna, ama i giovani, dice Gianiacopo Trivulzio, e dice bene: ed io son vecchio, Luigi. La tarda età forse può disegnare gli alti concetti, ma il tempo e il vigore le mancano per condurli a fine...»

«Cominciate, Andrea; — non è poi così povera questa nostra patria di anime generose da rimanere spassionate ai nobili esempi.»

«Non oso; repugno dal mettere in avventura l'ultima spanna di terra dove la speranza può gettare la sua àncora: non mi parrà serva affatto l'Italia, finchè io lasci Genova come una porta aperta alla libertà. Finchè gli italiani uomini potranno trovare in Italia una spanna di terra dove tendere l'arco, aggiustarvi il dardo e tôrre la mira al cuore della tirannide, ogni momento della sua vita potrebbe essere l'ultimo...»

«Messere Andrea, i poeti hanno nell'anima gran parte di Dio...»

«Lo dicono.»

«Prova ne sia che io adesso leggo i pensieri più riposti del vostro cuore, nè la carne che lo fascia m'impedisce più di quello che fosse acqua limpidissima di una fonte o di un lago.»

«E che cosa vi leggete voi?»

«Vi leggo, e apertamente vo' dirlo, che a voi piace parere più ch'essere grande; che il misero pensiero di ampliare la famiglia di potestà e scemarla di fama s'insinua tra i concepimenti magnanimi di cittadino e gl'impedisce di spandersi. La patria, piuttosto che amare, non odiate; la desiderate grande, ma perchè Giannettino e gli altri vostri nepoti della sua grandezza partecipino; non ardite avventurare il bene acquistato perchè ve lo siete fatto vostro...»

«Per Dio! se non fossimo qui dinanzi gli altari...»

«Mi uccidereste, — e non per questo avreste ragione...»

«Luigi, io non voglio sdegnarmi con voi. — Le vostre parole non mi recano oltraggio; — al vostro cervello perdona il vostro cuore; — mi conoscerete quando il tempo avrà umiliata o spenta la fronte che adesso si corona.»

«Pessimo è, a parere mio, quel consiglio che conta con la morte altrui, non con la vita propria. Questo desiderio di morte è come palla che gli uomini si rimandano dall'uno all'altro tra loro: — chi le darà l'ultimo colpo? No, lasciatemi, io vo' dire tutta ed intera la verità...»

«Va' via, importuno; i popoli mi hanno innalzato una statua, come a liberatore della patria...[88] »

«Quei popoli stessi la ridurranno in mortai per pestarvi il sale; forse un giorno il popolo la getterà a terra, e la tirannide, che ti conoscerà anche traverso la caligine dei secoli, la riporrà sulla base, come simulacro consacrato a remoto congiunto. Tu hai desiderato la statua piuttostochè desiderato meritarla. Attila ordinò si gettasse sul fuoco un poema, e per poco stette non vi facesse gettare il poeta Marullo perchè lo aveva eguagliato ai numi immortali. Tu bevi l'adulazione a grandi sorsi, come tazze di vino; e, come il vino, ti ha tolto il senno. Un cittadino che amasse la patria libera davvero, non avrebbe consentito che i suoi concittadini si deturpassero ad atti convenienti soltanto fra schiavi e re...»

«Alamanni!»

«Silenzio! Tu hai cessato la tua grandezza, e la tua voce non ha più potenza di ricercarmi il cuore. Addio: — l'estreme parole furono favellate tra noi; — la medesima plaga del cielo non cuoprirà più le teste dell'Alamanni e del Doria. L'ultima stella è caduta. — Io gemerò, finchè abbia vita, sulla perduta tua fama. Dopo Camillo romano, a nessuno fu dato essere più grande di te. Vorrei lasciarti e non posso. — Ah! Doria, salva la patria. — Addio: — io ti getto, in pegno di un'amicizia che spira, la scelta di farti il più grande o il più infame degl'Italiani. Abbatti la statua e sii contento che la tua memoria viva nella nostra anima; rendi alla patria le navi con le quali la salvasti e con le quali, volendo, potresti nuovamente ridurla schiava[89]; — o se pur vuoi continuare a governarla, dirigine il corso contro ai barbari: — barbari io chiamo tutti gli stranieri in Italia. — Le Alpi passate e il mare, tornerò ad appellarli cristiani... fino allora, barbari e cani.»

«E la fede giurata all'imperatore?»

«La devi prima di tutto al tuo paese. — E al Cristianissimo non l'avevi per avventura giurata? E non per questo ti trattenevi dall'abbandonarlo. — Se il re Francesco scambiavi con Carlo, ti guadagnasti il nome di traditore... se l'uno e l'altra per la patria tu lasci, o felice o infelice, gli uomini altari t'innalzeranno e preghiere...»

E fu fatto silenzio.

«Luigi!» dopo un breve spazio di tempo esclamò il Doria, ma non ottenne risposta, «Luigi! Luigi!» replicò frettoloso, come se forte gli premesse di comunicargli un arcano.

Luigi si era pianamente di colà rimosso, lasciandogli la tremenda alternativa di essere grande od infame.

Andrea Doria fu egli grande od infame? Io non posso giudicarlo. Dirò soltanto che la profezia dell'Alamanni si avverava. Il popolo rovesciò la sua statua, il tiranno sopra l'antica base la restituiva[90]. Nè si conobbe l'Alamanni, in questo solo, profeta[91].

«Viva Carlo V imperatore dei Romani, signor del mondo! Viva Augusto! Viva Cesare!»

Queste grida discordi ed assordanti tolsero il Doria della sua distrazione: — guardò di nuovo gli scanni pontificio e imperiale, e vide Carlo e Clemente starvi nell'orgoglio della potenza loro intronizzati.

L'ufficio della messa continuando, cantano preghiere, con le quali invece di supplicare Iddio e i suoi santi per tutte le creature, gli supplicano per un uomo solo, per Carlo di Gand. Agli angioli, ai troni, agli arcangioli, alle potenze, ai cherubini, alle vergini, ai martiri ed alla rimanente corte celeste non si dice più: Orate pro nobis; sibbene: Vos adiuvate illum. E' sarebbe stata cosa gioconda vedere come in quel punto, Dio esclusivamente occupato per Carlo, il mondo si governasse senza di lui. E se, come sembra, il nostro globo continuò a vivere in pace con gli altri, il sole non rimase di scaldare, la terra di produrre, il mare di volgere l'eterne sue onde... uno scrupolo comincia a penetrarmi nello spirito, che mi farò chiarire dal reverendo mio padre confessore... un sant'uomo in verità. Ma no; tolga Dio, che per insania altrui la nostra mente vacilli: Carlo V nell'ardua superbia della sua vanità non richiamò a sè maggiore cura dell'Eterno, nè minore di quella che se avesse appartenuto alla famiglia delle scolopendre.

Recitato l'Evangelo, cantato il Simbolo Niceno della fede cristiana, pervennero all'offertorio. L'imperatore le vesti imperiali depositando, rimasto con la tonacella dalmatica, si accostò all'altare e depositò la sua offerta ai piedi del pontefice: — trenta monete d'oro del valore di scudi dieci l'una; — trecento ducati! Veramente questa donazione non giunse alla dovizia di quelle di Costantino e di Carlomagno! — Il papa la guardò sorridendo. I ricchi prelati della corte romana torsero la bocca in segno di disprezzo; — a Carlo, avarissimo siccome rapacissimo, sembrò avere dato anche troppo. I suoi cortegiani, per onestare la miseria dell'atto, inventarono avere egli il costume di offrire ogni anno tante monete di dieci ducati l'una, quanti si fossero gli anni della sua vita, ed in quel giorno appunto annoverarne trenta.

All'Agnus Dei, e' fu mestieri che egli si accostasse al pontefice e di nuovo lo baciasse sopra la destra guancia e sul petto. Almeno Giuda, — con tutto che Giuda, — baciò una volta sola e poi si appiccò per disperazione; — ora anche la sua fama si oscura.

— Ardisci... ti stanno presso i due seggi vuoti; — un passo e basta.» Cap. IV, pag. 105.

Carlo e Clemente adesso genuflessi aspettano il sacramento della Eucaristia. Il cardinal Cibo (quel desso a cui Filippo Strozzi fece il legato del suo sangue perchè se ne saziasse[92] ), sollevando la patena, mostra al popolo il santo corpo di Cristo: — il cardinal De Cesi, presolo dalle mani di lui, lo porta al pontefice, e questi si ciba in copia del pane sacramentato; l'anima e più le viscere conforta col vino generoso che il sangue gli rappresenta del suo Redentore, il quale nessuna vita sacrificò, tranne la sua. Tra pochi mesi il vicario di questo Dio, egli medesimo Clemente, comanderà che ogni giorno il pane si estremi e l'acqua a frate Benedetto da Foiano, e a lui agonizzante contenderà la breve particola del mistico pane, per paura che valga anche di un minuto a prolungargli la vita[93]. Oh! come è degno tempio della Divinità il seno di cosiffatto papa.

E poi si accinse a comunicare l'imperatore; — il conte di Nassau e il sire di Croy, tenendo i lembi di un pannolino magnificamente ricamato, lo stendono davanti il suo volto. Il pontefice sorge e aspetta che gli porgano l'ostia. Carlo solleva inquieto gli sguardi e accenna al vescovo di Caria del regno di Leone; — questi pure gli rispose col guardo, ed egli allora apre la bocca per cibare il corpo di Cristo. — Qual cosa mai significava quel cenno? Significava che Cesare stesse sicuro; avere il vescovo, suo fidato, assistito alla composizione dell'ostia per conoscere che nessuna altra materia vi si mescolasse dalla farina in fuori; imperciocchè Carlo sapesse Roberto re di Sicilia essere stato avvelenato nell'ostia, e di pari morte rimasto spento l'imperatore Enrico VII per le mani del reverendo Bernardo da Montepulciano, frate di san Domenico Guzman, di cui Dio riposi le ossa secondo i suoi meriti!

Nè altro adesso mi occorre descrivere di questa messa, tranne la fine. Carlo, dai suoi cerimonieri ammaestrato doversi in simili bisogne mostrare, anche non avendola, larghezza, combattuto da un lato dall'orgoglio spagnuolo, dall'altro dalla miseria tedesca, pensò un bel tratto, e fu di versare a piene mani titoli e onori tra i suoi famigliari: — piovvero ad un tratto baroni, conti, marchesi e duchi, che tante forse non furono le cavallette mandate da Moisè a disertare l'Egitto. — Oh! la bella cosa sarebbe, se anche noi potessimo pagare a titoli coloro i quali ci rendono servigio: io per me non dubiterei di conferire una croce di santo Stefano papa e martire il mese, per salario al mio servo: — potrei dargli di meno?

Il papa però non volle rimanere vinto, e in quel punto s'istituiva tra loro una gara di beneficenze; — sicchè, quando asceso sui gradini più sublimi dell'altare si volse al popolo e lo benedisse, aggiunse le parole: «Concediamo a tutti intiera remissione di tutti i peccati e indulgenza plenaria per quattrocento anni!!!»

Se i popoli rimanessero tolti fuori di sè per l'allegrezza, non è da raccontarsi; ed io, che dopo tanta distanza di tempo m'immagino quanto gaudio nei cuori loro dovesse scendere dall'aspetto imperiale e dalla indulgenza di quattrocento anni, non posso trattenere dolcissime lacrime di tenerezza. Potessi almeno rendere partecipi i miei nobili lettori, in benemerenza dell'avermi seguitato fin qui, dei tesori inestimabili profusi dal sommo pontefice e dallo imperatore augustissimo a chi sa quanti paltonieri e plebei! Perle veramente sciupate contro il testo espresso dello Evangelo!

Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di baccante scapigliata; perchè nessuna scintilla d'intelletto gli balenasse su l'anima, qui è pane, qui copia di vino, camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l'aquila imperiale. «Che per più divorar due becchi porta», come un giorno cantò l'Alamanni; la quale da uno de' suoi becchi versava vino rosso, dall'altro vino bianco, e giù intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicchè l'Alamanni a cotesto spettacolo ebbe a dire: — Ecco l'aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidità[94]. —

Ahi! popolo, io che ho viscere di umanità e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l'orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni. Dalle finestre, dai terrazzi egli ordina ti sieno gittati pani e vivande. — Potessi cibarti per un anno e approvvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l'assedio, saresti meno infelice; ma domani l'insolito cibo ti recherà molestia, forse anche la morte. — Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travágliati da mattina a sera, e l'opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti cuopre e il sole che ti scalda... o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporvi dentro le tue ossa, perchè non le rodano i cani, ed anco perchè morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia. Bada, non ti esca di mente che ora ingombri la piazza meno per solazzarti che per divertire i tuoi principi. Rallégrati, ma bada di non ispaventarli; però che, vedi, nella tua esultanza empi talora l'aere con tale un grido di frenesia che agghiaccia il cuore al tiranno, ond'egli battendosi la fronte accorre tutto pallido al balcone per vedere se tu balli o se meni strage delle sue lance spezzate. Anche le menadi con in pugno le fiaccole accese, trascorrendo pei boschi sacri, mettevano spavento; però furono distrutte, i misteri loro aboliti. Non obliare uomini armati, delatori ed armi recingere i luoghi dove i tuoi principi ti chiamano a festa; nella medesima guisa che la fama racconta, ai capi delle mense dei re di Babilonia stessero sagittarii con archi tesi a trafiggere chiunque osasse di levare la faccia. Infatti Antonio da Leva, di tutt'arme vestito, siede in luogo sublime per farti al bisogno fulminare da venti bombarde e da ottomila archibusieri pronti ad un moto della sua mano. Ahi! popolo, quel tuo riso in verità mi angustia il cuore; e' mi ha l'aria dello sghignazzare convulso dell'uomo il quale, posata la testa sul ceppo, aspetta la mannaia che cada.

In ristoro di ciò il re dell'armi chiamato Borgogna getta pugni di monete con l'effigie dell'imperatore da un lato e le colonne col motto plus ultra dall'altro. — Prendi cotesta moneta; — domani, o popolo, quando il tuo padrone te ne chiederà due, tu potrai in questa maniera, per un giorno almeno, allenire il tuo danno[95].

Intanto Carlo, si affretta con presti passi alle porte del tempio; la mal'aria ch'esce dai sacerdoti gli aveva cacciata addosso la quartana della superstizione; sperava dissiperebbe il cielo aperto quel fascino: il papa temeva ed aborriva; gli avrebbe in cuor suo fatto mozzare la testa e non osava sostenerne lo sguardo; le prime idee di venerazione al capo della Chiesa, al padre dei fedeli, al vicario di Cristo gli ritornavano alla mente angustiandolo: così gli sorgevano nell'anima altissimi concetti, i quali poi, non sapendo egli svilupparsi dalla caligine dell'antica ignoranza, gl'impedirono di riuscire, come altramente sarebbe stato l'uomo più grande del suo secolo.

Il subdolo sacerdote presentì le ire di quello spirito orgoglioso e gli aveva posto opportuna avvertenza. Finchè ambedue stavano agli altari, poteva dubitarsi l'imperatore avesse reso omaggio al vicario di Cristo, non già a Clemente dei Medici. Fuori degli altari gli ossequii sarebbero stati, più che al vicario di Cristo, resi a Clemente. Però ell'era cosa disagevole ottenerli; si provvide all'inganno. Varcate di pochi passi le porte del tempio di San Petronio, uno scudiere armato raffrena per le redini un bianco cavallo, inquieto, ardente, dovizioso di gualdrappa, di frontale e di ogni altro arnese consueto; cotesta non pareva cavalcatura del pontefice, solito a procedere in lettiga, o montato sopra mula o palafreni. Carlo, di aria impaziente e di luce, desideroso di rinfrescarsi il sangue nel bello aspetto del cielo sereno, perocchè un cielo sereno d'Italia in qualunque stagione sia di per sè stesso una festa e infonda tale conforto nel cuore che indarno speri da gioie artificiali. Carlo stese pronte le mani per acconciare alquanto, siccome avviene ai cavalieri, la gualdrappa e le staffe, — e quindi balzare in arcione.

Ma lo fermava pel braccio il pontefice e in suono di umiltà gli diceva:

«Non farlo, figliuolo mio e imperatore invitto; mi basta la umanità che fin qui mi hai dimostrato...»

Carlo lo guardava attonito: — all'improvviso non comprendeva; — poi si accorse essere cotesto il cavallo del pontefice, ed egli avere per errore umiliata la dignità imperiale fino a fare mostra di volergli tenere la staffa; vinto da ineffabile angoscia, aperse le labbra tremanti e favellò:

«Veramente alla persona vostra...»

«La nostra persona», interruppe il pontefice, «di per sè stessa è nulla, ma poichè ella rappresenta il Creatore di tutte cose, forza ella è che le creature ci si curvino dinanzi...» E con giovanile leggerezza salito sul destriero salutava della mano lo imperatore e da lui con lo immenso suo seguito si dipartiva.

I partigiani di Roma, i quali videro da lontano quell'atto, esultarono, immaginando rinnovarsi i bei tempi di papa Gregorio e di papa Innocenzo. Tanto vero è che spesse volte l'odio e l'amore, più che d'altro, dipendono dal modo di guardare da lontano o da presso.

Carlo punge il suo nobile corsiero; la corona imperiale sì lo molesta che talora gli prorompono le lagrime dagli occhi. Una mano di Bolognesi, Angelo Ranunzio, Giulio Cesarino, il marchese dell'Anguillara, il Rangone, il Cibo ed altri infiniti portano bandiera e gonfaloni con le chiavi, con l'aquila, rossi, bianchi, gialli e neri, e gli sventolano al cospetto dell'imperatore. Alla fantasia accesa di Carlo sembravano un turbine di spettri de' suoi antenati che gli s'avvolgesse intorno alla testa, e l'onta fatta alla memoria loro lamentasse, la viltà sua gli garrisse. Il trambusto delle voci e dei gridi, il frastuono degli istrumenti ed il suo nome ricorrente tra mezzo, urlato in tutti i suoni, lo atterrivano, come se l'inferno si fosse scatenato per dirgli vituperio.

Allora aborrì i campi aperti, il sole, la gloria terrena, e sospirò un asilo tranquillo, comunque ignorato, — allora desiderò la cocolla di frate scambiare col suo manto imperiale, e vide di passo in passo farsi più vicino alla sua imperiale magione, coll'anelito del marinaro il quale dopo un viaggio pieno di tempeste e di pericoli saluta la riva; — vi pose appena il piede, che, senza aspettare la solita accompagnatura, ogni qualunque cerimonia mettendo da parte, salì veloce e, licenziati gli altri, si chiuse nella sala privata insieme coll'astrologo Agrippa. Qui, libero da ogni sguardo molesto, spogliò le vesti imperiali e le sacerdotali di cui lo avevano avviluppato, e tempestando le gittò in questo e in quel lato, e...

«Al corpo di Dio!» diceva in suono di lamento, «come la camicia di Nesso, costoro hanno stillato il sangue nelle mie vene.»

Quindi le mani cacciando alla corona, se la tolse impetuosamente e la scaraventò[96] di contro alla parete; molti capelli essendosi attorti per le punte e pel cerchio, egli se gli strappò con acuto dolore, e prorompendo in un urlo disperato, ambe le mani portò di nuovo alla testa, esclamando:

«Ah! mi ha portato via il cranio e il cervello. — Agrippa, vieni qua, guarda diligentemente; — per certo avvelenarono la corona...»

Agrippa guardò, e vide che la corona gravissima gli aveva intorno alla fronte inciso un solco profondo in mezzo, di color di piombo, digradante ai lati in vermiglio acceso.

«Stia pur lieta la Maestà Vostra; io l'assicuro che non è veleno...»

«Per santo Iacopo di Gallizia!» esclama l'imperatore sentendo forte bussare alle porte, «chi è che osa sturbarmi?»

«Maestà!» con tal una voce che, più che ad altro, si assomigliava per la paura al belare della pecora, rispose il sire di Croy, novellamente promosso al grado di conte; «il banchetto è apprestato; — non manca che la Sacra Maestà vostra per dare acqua alle mani...»

«Aspettino! io non ho fame.» E poi di nuovo volgendosi all'Agrippa continuava: «O dunque che cosa è ella?»

«Il sangue acceso, — l'anima esaltata dall'insolito giubilo.»

«Giubilo! Hai tu mai incontrato uomo di plebe più avvilito di me? Hai tu veduto quali modi ostenti meco — imperatore e re — cotesta schiatta di mercanti? Avevano tra noi convenuto ch'io facessi l'atto del prostrarmi, ed egli mi avrebbe rilevato a mezzo... invece egli finse dimenticarmi ai suoi piedi... ha bevuto un lungo sorso di gioia del suo trionfo e della mia stupidità. — Ora tutta l'acqua dell'oceano non varrà a lavarmi dalla fronte macchia siffatta. — Dammi l'elmetto, Agrippa: — cuopri la mia vergogna sotto il ferro del guerriero: — mi abbisogna vincere almeno dieci battaglie per diventare soffribile a me stesso; — io, vedi, mi disprezzo; e dispero ormai questo mio capo possa contenere il disegno di dominare sul mondo, dacchè ha toccato i piedi d'un uomo. — E tu, Agrippa, mi hai dunque deluso quando traevi l'oroscopo? Così si avverano i tuoi presagi? Se' tu l'ingannatore, — o la tua scienza è bugiarda?...»

«Non proseguite, Sacra Corona, o le stelle si vestiranno a lutto per l'angoscia dei vostri rimbrotti. Se volete dominare sul mondo, cominciate a dominare sopra voi stesso, nè consentite che l'ira vi tragga a maledire la scienza del re Salomone, la scienza divina. — A dovere era tratto l'oroscopo; — i cieli non mentiscono; — la vostra carriera luminosa è tutta descritta lassù nel cospetto eterno: — noi per avventura male lo applicammo, e questo punto, che noi reputavamo rappresentato dalla congiunzione della vostra stella con Giove, forse era compreso dal breve scontro col tardo pianeta di Saturno. E poi voi stesso non contemplaste la vostra stella?»

«Sì, certo: — io la vidi... ma adesso, più dei miei conquisti futuri, più assai dei miei trionfi passati, forte mi stringe un desiderio intenso... un'agonia...»

«Di che cosa, Maestà? Non istanno nelle vostre mani il bene e il male? Non fate voi la pioggia ed il sereno? Ad ogni vostro pensiero non potete aggiungere il fulmine della vostra potenza per volerlo eseguito?»

«Potente come sono, in questo non posso nulla, perchè io sono d'impedimento a me stesso. — Se quando tenni questo papa prigione, lo avessi fatto rinchiudere in una gabbia ed esporre in ludibrio ai popoli!... ma ora io l'ho innalzato, alla faccia del mondo, ho sancito la sua autorità... gli posi in mano le verghe per flagellarmi.»

«Io conosco il mezzo alla vendetta.»

«Ah! io ti darei un ducato», riprese Cesare, e per poco non gli gettava le braccia al collo; «in qual parte di cielo lo leggevi? Spiegalo... io ti ascolterò senza curare di fame, nè di sonno.»

«Non l'ho letto nel cielo: — sibbene nello inferno.»

«Nell'inferno, Agrippa?»

«Non vi atterrite, Maestà; — voi sapete che dalle arti diaboliche, come ogni altro cristiano, meritamente io rifugga; voleva dire nel cuore dell'uomo. — Sapete voi che Clemente prima di esser papa fu Giulio figliuolo bastardo di Giuliano dei Medici trucidato nella congiura dei Pazzi?»

«Pur troppo lo so...»

«Sapete voi come Lione X su i primi mesi del suo pontificato lo eleggesse cardinale?»

«Anche questo sapevamo.»

«Ma voi non saprete i canoni della Chiesa sotto pena di nullità impedire che i figli nati da illegittimo connubio sieno promossi alla dignità dell'episcopato; — voi non saprete come per ovviare a siffatto impedimento s'inducessero falsi testimoni, i quali, la grazia umana alla verità preponendo, deposero la madre della quale era stato generato costui innanzichè ammettesse agli abbracciamenti suoi il padre Giuliano, averne avuto la fede segreta di diventarle marito[97]

«Va oltre...»

«E non saprete neppure come al pontificato ascendesse con manifesta simonia, però che suoni universale la fama ch'ei lo comperasse mediante una cedola segretissimamente firmata di sua mano, con la quale si obbligava di conferire al cardinale Colonna la vice-cancelleria e il sontuoso palazzo fabbricato dal cardinale di San Giorgio...[98] »

«Dunque?»

«Ed alla Maestà Vostra importa ancora moltissimo comporre le differenze dei luterani, le quali come offendono il papato, così un giorno potrebbero offendere anche voi. — Io penso che non vogliate andare tanto pel sottile intorno alle tesi di fra Martino: — la bisogna sta di porre un calcio in gola a Giovanfederigo duca di Sassonia, al langravio Filippo e a papa Clemente; — tutto ciò conseguirete in un punto.»

«E in qual modo? Spácciati: — come san Lorenzo mi pare di starmi sopra le brace...»

«Convocando un concilio ecumenico. — Quivi sarà deposto Clemente come bastardo e simoniaco, esoso all'universale; quivi perderanno la riputazione Giovanfrancesco e Filippo, alcune pretensioni concedendo, alcuni pretendenti guadagnando, poco dando ed a pochi, a tutti moltissimo promettendo; insomma adoperandovi le arti di regno, che io so per avere sentito dire, e voi per pratica diuturna molto meglio di me sapete[99]. Che ve ne sembra, Sacra Corona?» Carlo non lo ascoltava più; — accostandosi alla porta, chiamò Adriano di Croy e gli disse:

«Sire conte, — mandate ad annunziare la presenza della nostra augusta persona; — voi accompagnateci con le debite cerimonie al convito.»

«Sacra Maestà! Sacra Maestà!» — correndogli dietro gridava Cornelio Agrippa.

«A che chiamate, cavaliere?»

«E il ducato?»

«Oh! un ducato non si ha mica per le mani come un consiglio. — Abbiamo promesso conferirvelo, e lo avrete: — però noi non ci siamo prescritto spazio fisso di tempo... sperate... lo avrete... sarete consolato.»

Cesare incamminandosi al banchetto, queste diverse parole si facevano a mano a mano più languide e meno distinte, come la gratitudine dei re all'avvenante che si dilunga dal benefizio.

CAPITOLO QUINTO PAPA CLEMENTE VII

E' vi fu un tratto una donna lombarda

Che credeva che il papa non foss'uomo,

Ma un drago, una montagna, una bombarda.

E vedendolo andare a vespro in duomo,

Si fece croce per la meraviglia:

Questo scrive uno storico da Como.

Berni, Capitolo in lode del Debito.

E che il gran vecchio onde ti appelli erede,

Tiranneggiando in noi del ciel l'impero,

Vergogna il prenda, ove talor ti vede.

Alamanni, Satira II, parlando di Clemente VII.

Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza più riposta del suo palazzo: ella era di forma ottagona con bellissime colonne di ordine ionico. Da quattro lati vi fanno capo altrettante porte di rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell'arte così comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati di quadri rappresentanti martirii di santi, membra segate, capi fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza, ribrezzo; — intorno all'architrave superiore si innalza una parete che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco.

Clemente posa in ampia sedia decorosa di velluto cremesino e per bollettoni dorati: un pulvinare di velluto sottosta ai suoi piedi; dinnanzi ha una tavola ricoperta di velluto; — sopra la tavola un Cristo effigiato con tanta maestria che par che spiri; — e un messale stupendo per gl'industri lavori di fermagli e cesellature co' quali maestro Benvenuto l'ornò.

Il papa, deposta la pompa degli abiti pontificali, veste la cappa rossa, la mozzetta, o sarrocchino di velluto soppannato di pelli bianche come neve; — il capo ha coperto di un berretto che i preti chiamano camauro, di velluto anch'esso e soppannato di pelle. Gli occhi tiene fissi sopra il messale, ma come gli occhi già non vi teneva fissa la mente. Quel messale ad ogni pagina aveva una cartapecora miniata da artefice illustre, rappresentante il passo del Vangelo che ricorreva quel giorno. La cartapecora in quel punto aperta davanti al pontefice mostrava Gesù Cristo nell'orto di Getsemani sudante sangue, rifinito da incomprensibile angoscia, supplicare al Padre che rimuovesse dalle sue labbra il calice della passione; — se poi non si potesse altrimenti, avrebbe fatto la sua volontà. Come un Dio offeso sè a sè stesso sacrificasse per placarsi non si comprende: al nostro intendimento umano sembra che il meglio senza tanti andirivieni saria stato perdonare addirittura e risparmiare a sè il dolore, agli uomini il delitto. Dove per lo contrario cotesto fatto deva spiegarsi nel senso di un padre il quale per amore dei suoi figliuoli non aborre dai martirii e dalla morte, allora la storia si volge al cuore piena di tenerezza.

Ma la mente del papa era le mille miglia lontana da cotesta immagine di sacrifizio: — egli fu ne' suoi tempi delle cose mondiali speculatore arguto; nelle bisogne di stato, diligente ed assiduo; — nel deliberare grave, nel deliberato costante: — più che d'altro si pasceva di ambizione; la quale non potè mai, per impedimento di fortuna, saziare a suo talento; e quando pure lo avesse potuto, non sarebbe per questo rimasta in lui la libidine di desiderare il bene degli altri. — A tante e siffatte qualità degne d'impero mancò animo pronto, audacia e costanza nell'eseguire, — e mancò eziandio (ma questo non credo sia qualità, non che necessaria, utile ai potenti della terra) misericordia del prossimo: — ebbe viscere di granito.

La umiliazione di Carlo (sebbene contro la sua natura, la quale consisteva nel simulare e nel dissimulare stupendamente, egli non avesse potuto trattenere un sorriso di compiacenza nel vederselo così prostrato dinnanzi) non gli piacque come trionfo, sibbene come mezzo di aumentare la sua autorità: — pensava adesso a lenire la piaga di quell'anima superba; del concilio pur troppo, quantunque di cosa lontana, temeva; — più del concilio egli dubitava cesare non fosse per rendergli contrario il lodo pel quale aveva compromesso in lui insieme col duca d'Este intorno alla reversione del ducato di Ferrara alla Sedia Apostolica; — a queste e a ben altre cose egli pensava, ed attendeva a ristorare le maglie della rete di san Pietro, logore dagli anni o dalla incredulità, con un filo di violenza ed un altro di frode.

Dietro la sedia stava in piedi un uomo immobile, cosicchè lo avresti tolto per una apparizione dell'altro mondo; con la destra stringeva un pomo della spalliera, la manca abbandonava lungo il fianco; — era pallido, di capelli nerissimi, vestito di nero; — quella sua fronte non compariva pacata, ma stanca dai lunghi combattimenti morali: — la quiete di un gruppo di nuvole raccolte nel cielo durante una notte di estate, quando non soffia un alito, e il demonio delle tempeste incatenato non può cacciarsele vertiginose davanti ai danni della terra.

«Giovanni!» senza mutare attitudine e neppure volgere la pupilla dal punto dove stava fissa, cominciò il papa, «molto abbiamo fatto per voi...»

«Beatissimo Padre...»

«Non c'interrompete; — siate con noi più orecchi e meno lingua che potete: — molto abbiamo fatto per voi; e ciò vi rammentiamo soltanto perchè possiamo fare cose molto maggiori. Cavalcherete al campo sotto la nostra pa... sotto Fiorenza.»

Gli occhi del personaggio chiamato Giovanni coruscarono a guisa di baleno dall'orbita profonda.

«Colà attenderete a notare diligentemente le cose che vedrete, inviandocene debita relazione o sommario, dove la materia abbondi, per un cavallaro a posta a Roma, o a Orvieto, o a Bologna, secondo che vi terremo avvisato.»

Tranne quello dei labbri, il papa non fece altro moto fin qui: — ora della mano chiusa sopra la tavola stendeva il dito pollice quasi per annovare le diverse commissioni che conferiva a cotesto suo fidato.

«Osservate sopra tutti Baccio Valori nostro commessario al campo: egli ama sè prima; con immensa distanza dopo la libertà, poi i Medici: — noi l'adoperiamo, giovandoci il credito e l'autorità di lui; egli si pose ai nostri stipendii perchè non si affida nello stato presente di Fiorenza, e non potendo guadagnare nulla col popolo, s'industria avvantaggiarsi con cui intende dominarlo: — forse, chi sa? un giorno renderà alla nostra stirpe il danaro che ci cava di sotto con la sua testa per cambio della moneta, e non sarà troppo, ma basterà[100]. Per ora temiamo non voglia navigare con ogni vento e tenere il piede in due staffe... Spiatelo... se vedete ch'ei ponga più corde al suo arco, avvertiteci in tempo, onde anche noi possiamo mettergliene al collo una sola.»

E qui spiegato l'indice, continuava: «Vi raccomandiamo in seguito il principe di Orange: se costui avesse ingegno quanta possiede mala fede e valore, noi saremmo spacciati. Ma cotesta è stoffa di cui la trama sente di ribaldo, l'ordito del pecorone. Egli intende a grandi cose; — al conte Rosso di Bevignano ha dato ordine non consegni Arezzo ad anima viva, inoltre gli confidò in segretezza volersi instituire re d'Italia, o almeno di Toscana, sposare la duchessina Caterina e comporsi in qualche modo, dopo aver messo il becco all'oca, con lo imperatore e con noi: — il conte in segretezza lo ha confidato a quanti lo vollero e non lo vollero sapere: se noi temessimo troppo di lui, a quest'ora avrebbe un altro generale l'esercito, gli avelli della sua famiglia un altro morto... Non pertanto badatelo. — Noi confidiamo meglio sul capitano dei nostri nemici che non su quello del nostro proprio esercito...»

«Il signor Malatesta Baglioni!»

«Egli stesso, Giovanni. Vivi col tuo nemico oggi come se dovesse diventarti amico domani; vivi oggi con l'amico come se domani dovesse riuscirti nemico. Ma di lui in seguito: — ora, per procedere con ordine, udite e riponete in mente.» A questo punto stendeva il medio e poi proseguiva: «Importa moltissimo che veggiate di rinvenire modo ad appiccare qualche pratica con i cittadini: — eccovi il filo onde svolgiate agevolmente la matassa; prendete questo segno e a chiunque vi porterà il compagno date piena fede. Monsignore da Carpi già e Giovambattista Negrini vi appianavano il sentiero; voi avete ingegno quanto basta per dispensarmi da troppe parole. In Fiorenza troverete di tre sorte fazioni: Palleschi, Ottimati e Arrabbiati. Ai primi voi prometterete poco, e noi manterremo meno: primo, perchè e' presumono farci ricuperare la città quando non hanno potuto impedire che noi la perdiamo; e siccome intendono vendercela, pagandoli secondo quelle ingorde loro voglie, a noi non basterebbe, non che Fiorenza, Roma; poi, guardati molti, moltissimi sostenuti come sospetti, non possono affaticarsi senza danno manifesto della cosa in pro nostro; terzo finalmente, tutto quello potranno fare faranno senza incitamento, costretti dalla condizione in che e' si trovano: — dal governo popolesco nulla hanno a sperare; — di mutare parte ormai non è più tempo; mutando, dall'infamia in fuori, non possono guadagnare altro: — quindi ci si manterranno fedeli... — Con gli Arrabbiati perderete l'opera e il consiglio; — costoro a suo tempo convertiremo con le mannaie. Perchè quali parole ha detto Gesù Cristo nostro divino Redentore? Ogni albero che non fa buon frutto va reciso e buttato al fuoco. — Rimane la parte del Capponi, o vogliamo dire Ottimati: questi il tiranno odiavano, non la tirannide, e la mia famiglia cacciarono per ampliare la propria; — ma più del principato detestano la repubblica: ed ora che esperimentano sotto il governo democratico essere divenuti incresciosi all'universale e confusi con l'onda del popolo, non dubito che sieno per porgervi ascolto; imperciocchè l'uomo più volentieri si accomodi a servire un solo e dominare su cento che a non servire a molti e a non dominare veruno...» — Ora stende l'anulare e continua: «Nè meno vi raccomandiamo Zanobi Bartolini, uomo superbo, amante della libertà, ma di sè più assai: guadagnarlo è impossibile, ingannarlo difficile; qui conviene adoperare l'estremo dell'arte. Questi uomini di acuto intelletto presentano quasi sempre un lato da potere essere offesi, e consiste nello stimare sè troppo, — troppo poco altrui: — fingerete che noi ci abbandoniamo nelle sue braccia, che vogliamo in tutto e per tutto rimetterci in lui, che la libertà intendiamo aver ad essere salva, arbitro egli a dettarne i regolamenti, padrone di provvedere alle sicurezze e d'imporle; null'altro desiderare noi oltre quello che si concede a qualunque cittadino non omicida, non ladro, di vivere cioè e di morire nel dolce luogo ove sortimmo la vita.» — Spiegò tutta la mano e riprese: «Fuori di modo gioverà accontare la parte col signor Malatesta. Quantunque cotesti scapestrati giovani gentiluomini abbiano ridotto in pezzi la nostra statua, noi perdoneremo loro per averci ammazzato di cera, purchè si curvino ad adorarci di carne.»

... O papa Clemente, trema che cotesta effigie del Redentore non si animi... Cap. V, pag. 138.

«Beatissimo Padre, il mondo conosce la saviezza vostra; e certo quello mi dite del signor Malatesta muove da profondo consiglio. Pure se la mia audacia non vi offende, Santità, avete quanto basta pensato alla scelleraggine di costui?»

«Ella è una cosa questa di cui egli farà i conti col diavolo a suo tempo. A noi anche giova la sua nequizia. E poi imparate gli uomini non essere nè del tutto buoni nè cattivi affatto; — basta sapere adoperarli: — e qui sta l'arte. E così come voi e noi lo riputiamo scellerato e sia, credereste, Giovanni, che un giorno una intera popolazione supplicasse la Regina del cielo per la salute di lui e, conseguita la grazia, consacrasse una tavola votiva a Maria consolatrice?»[101]

«Il popolo di Dio, per quello che lamentano i profeti, non edificò altari negli alti luoghi e vi adorò Moloc? Ma se la fama è vera, il glorioso pontefice Leone X vostro cugino, ora corrono dieci anni, non fece strangolare in castello Giampagolo padre del Malatesta? Non ha egli da vendicare il sangue di suo padre sopra la vostra famiglia?»

«Certi beneficii nuovi non tolgono di mezzo ingiurie vecchie; — ora però a tale è condotto Malatesta che, mantenendocisi avverso, la vendetta perderebbe e gli stati; delle due cose, siccome savio, accomodandosi ai tempi, renunzierà ad una, — sarà la vendetta della morte paterna: noi faremo in modo che il giorno per questa non arrivi mai. E poi Nicolò Machiavelli osserva in qualche parte delle sue scritture che gli uomini la morte del padre ti perdonano, la perdita della roba no; e la esperienza ce lo fa toccare con mano.»

«Renunzierà alla vendetta!... — Ella parmi cosa indegna cotesta del nome italiano; l'inferno aspetta colui che si tura le orecchie per non sentire il grido del sangue de' suoi.»

«Voi volete dire, il cielo aprirà alla sua anima i tesori delle sue beatitudini.»

«A Malatesta?»

«Certo che sì. — Rinunziare alla vendetta è opera meritoria, — rinunziarvi a causa della maggiore esaltazione della Chiesa poi diventa opera anche più meritoria; — non bastando questo, noi gli concederemo l'indulgenza plenaria per le colpe commesse e per quelle che commetterà. — Andate ad aprire la porta...»

Si era fatto sentire un battere lieve ad una delle quattro porte della stanza: ma così sul subito non riusciva, tranne a coloro che erano pratici, conoscere a quale avessero bussato; sicchè Giovanni Bandini non sapeva come eseguire il comando del Papa. — Questi, accortosi dell'esitanza di lui, alzò la mano e gli additò la destra porta avanti di sè. Il Bandino apriva.

Dalla porta uscì un nuovo personaggio, e le imposte gli si chiusero, come per moto proprio, senza rumore alle spalle.

Egli aveva la veste, non la sembianza, di cappuccino; — si gittò giù sopra le spalle il cappuccio esclamando con ardita voce che singolarmente contrastava al mistero col quale era stato introdotto:

«In fè di Dio avrei molto meglio tolta sul capo una partigiana che questo cappuccio di frate. — E' mi pare che mi abbia spento quel po' d'intelletto che v'era rimasto dentro... Di grazia, il cappuccio di frate costuma sempre così?»

Il nuovo venuto era un capitano perugino, anima dannata di Malatesta Baglioni; si chiamava Cencio, per soprannome Guercio: alto della persona ed aiutante; di volto ignobile, di colore giallastro, intorno agli occhi un cerchio tra il verde e il violetto, increspato d'infinite rughe in segno di lascivia, e forse anco cagionate da quel continuo stringere dei muscoli visuali che l'uomo fa nei climi di mezzogiorno per le sue costumanze costretto a consumare la vita nei campi aperti inondati dal sole. Il soprannome accennava un difetto di lui; quando la pupilla destra fissava in certo punto determinato, deviava la manca in molto sconcia maniera; quando la manca andava al segno, sbalestrava la destra. Abietto come uno schiavo, arrogante come un compagno ai misfatti d'un principe, insopportabile come un plebeo che reputa l'opera sua necessaria. — Così almeno ce lo descrivono le memorie dei tempi.

Un raggio di luce piombando dalle finestre superiori circondava la persona del Pontefice. La gravità del volto, la magnificenza delle vesti, la solennità dell'attitudine, santificate, per così dire, da quel raggio solitario, lo rendevano venerabile. — Il petulante soldato gli si accostò nel modo che si usa fra antichi famigliari e non fece atto nessuno di riverenza e di ossequio. Clemente allora stese la mano quasi per vietargli s'inoltrasse più avanti; ma egli gliela prese e, forte stringendola, esclamò:

«Che Dio vi conceda il buon giorno e il buon'anno, messor lo Pontefice, Voi mi parete, con buon rispetto vostro, Lazaro resuscitato: state lieto, che presto riavrete Fiorenza: su, allegro via: se non sollevate l'animo, davvero, prima di tornare a Roma, ho paura che ve ne andiate a Scesi...»[102] E così continuava.

Il Papa ritirò la mano, e le guance per vergogna gli diventarono vermiglie. Poco fa un imperatore prostrato gli baciava i piedi, adesso un masnadiere gli stringe la mano non altramente che se fosse un fratello in ribalderia o femmina di partito. Così è: chi si compiace andare per vie fangose, non deve dolersi se s'imbratta i sandali; — e fin dalle età rimote Dante insegnava: In chiesa co' santi, in taverna co' ghiottoni.

«Santità, che vi par egli? Vi ho servito ha dovere? Avrei voluto riporre i rocchetti d'oro che mi furono consegnati per ordine nostro nel forziere di qualche magnificenza di ambasciatore, ma e' non mi riuscì mai di penetrare di notte nella loro stanza; — e poi, vedete, io non mi sapeva risolvere a perdere que' bei rocchetti d'oro; ho propriamente violentato la mia natura; in fè di Dio, non vi salti in capo un'altra volta di comandare a un soldato che si disfaccia di così ricca roba. Se si tratterà di levargliela... oh! allora la bisogna sarà diversa; di questo me ne intendo più di voi, Beatissimo Padre; avrei loro tolto anche il cuore senza che se ne accorgessero. — Comunque sia, vi ho contentato. — Voi avreste veduto come quel pecorone del Rucellai cascò dalle nuvole quando gli trovarono i rocchetti d'oro dentro la valigia; e fu una bella burla... una burla papale in verità. — Io dei rocchetti non ne ritenni pur uno; — ci potete credere, com'è vero che noi siamo qui; — ci posso giurare sul Sacramento. — Vostra Santità, che comprende il sacrifizio, — lo sforzo, — vorrà ricompensare da par suo la mia virtù.»

Il volto del Papa non dimostrava nessuna delle interne passioni; e nonpertanto un pensiero di sangue gli traversava l'anima: quel giorno era l'ultimo pel masnadiere, se la restante sua vita non avesse dovuta adoperarsi nel tradimento in favore di papa Clemente.

Il Papa, non gli bastando rendere i suoi concittadini infelici, che nel suo perfido consiglio li voleva anche infami, meditò l'oltraggio di far nascondere i rocchetti d'oro nelle valigie degli ambasciatori e come frodatori di gabelle vituperarli alle porte di Bologna, i ricordi dei tempi raccontano essersi indotto a simile turpitudine pei mali conforti di Baccio Valori. La giustizia divina vedremo un giorno premiare costui secondo i meriti suoi con un guiderdone di sangue; ora i Medici esaltano l'empio cittadino. — Alla distruzione della patria egli vigila commessario del Papa nel campo. — Cammina per la tua via; Dio non paga il sabato; intanto i Medici ti porgono la sinistra con una borsa di danaro, tu non vedi la destra; tempo verrà che ti daranno anche quella e armata di scure sul capo. — Però il fatto riuscì diverso dal come lo avevano immaginato. I soldati commossi all'oltraggio onorarono gli ambasciatori; il popolo sospinto all'insulto, accortosi dell'inganno, applauso alla venuta loro meglio non avesse fatto a Carlo V. — E il Papa, che aveva raccolto quel fango senza potere insozzarne i suoi concittadini nel volto, si rimase con le mani imbrattate.

«Orsù via», interruppe Clemente a gran pena frenando l'impeto dell'ira, e nondimeno favella con parole sommesse e gli angoli della bocca dilata quasi al sorriso, «soldato, adempi la tua commissione: — affrettati a dirci, perchè il nostro tempo ci è caro, se il tuo signore Malatesta, risovvenendosi alfine di essere figlio e suddito della Sedia Apostolica, si delibera abbandonare le parti dei ribelli che ha tolto a sostenere. S'egli vuol farle, si faccia ed in breve; dacchè, consenta egli o repugni, poco importa alla somma delle cose, la quale sia nell'arbitrio nostro; noi ci volgiamo a lui solo perchè ci punge paterna cura di vederlo rientrare nel grembo di santa Chiesa, la quale come madre amorevole le andate ingiurie dimenticando gli apre le braccia; — perchè vogliamo risparmiare l'effusione del sangue cristiano; — perchè non rimanga guasta la terra.»

«Papa Clemente, voi siete nato vestito: — a Malatesta tarda uscire di Fiorenza quando a voi tarda di entrarvi; ed anzi, quando presi commiato da lui, mi richiamò addietro e mi raccomandò significarvi... aspettate un poco che mi rammenti per l'appunto come mi ha incombenzato dirvi.... ecco, così: — Cencio, farai in modo di persuadere a Sua Santità che il giorno più bello della mia vita sarà quello in cui, mercè l'opera del suo servo Baglioni, tornerà la sua famiglia ad albergare il palazzo de' suoi maggiori...»

Clemente in questo punto tradì sè stesso: balzò in piedi, proruppe in dimostrazione di allegrezza, e, mal sapendo che cosa si facesse, si trasse dal dito l'anello pontificale e lo pose in quello del masnadiero. Cencio, come colui che astutissimo era, se lo cavò subito dal dito e lo ripose diligentemente nella cintola. Il Papa, fissandolo dentro agli occhi, interrogò:

«Guarda dall'ingannarmi. Io ti farei mettere in pezzi anche nel tempio di Cristo in Gerusalemme! Tu non mentisci?»

«In fè di Dio, e vi par'egli che vorrei commettere un tanto peccato? Forse non so che per ogni menzione conviene penare sette anni nel purgatorio? O che credete l'anima non prema anche a noi? Però il pericolo è grande, e vi abbisogna mercede proporzionata. — Sul prezzo ci accomoderemo di leggieri; sul modo del pagamento, con maggiore difficoltà...»

«Desideri Malatesta; — si sforzi a desiderare: — noi qualunque sua voglia faremo piena. Ama la salute dell'anima? — Noi gli apriremo le porte del paradiso, senza che pur di volo tocchi il purgatorio.»

«Anche questo a qualche cosa è buono, ma or si domanda», e con la mano il masnadiero faceva atto del soppesare, «e ora si domanda.... via.... meno spirituale guiderdone.»

«Ben lo sapevamo noi che senza prezzo nulla si compra: — esponi il patto.»

«Prima di tutto, il signor Malatesta vuol sangue.»

«Sangue? Di cui sangue?»

«Di Sforza e di Baccio Baglioni, seguaci, complici ed aderenti loro: oramai pretende che voi non gli abbiate a ricovrare sotto il manto della Chiesa; mandateli in pace; ognuno abbandonate nelle braccia di Dio. Sorga tra loro arbitra la giustizia della spada...»

«Avanti.»

«Tutti i capitani e soldati tanto a piè quanto a cavallo delle terre della Chiesa allo stipendio dei Fiorentini sotto la condotta del signor Malatesta sieno perdonati; i beni salvi; se presi adesso, restituiti senza spendio di sorte alcuna.»

«Ancora.»

«Il signor Malatesta, con qualsivoglia grado e dignità e con suoi parenti, seguaci, complici e aderenti, possa a suo beneplacito liberamente tornare a Perugia e quivi commorare in buona grazia di Sua Santità.»

«Questo non era mestieri domandare; — ben lo aspettavamo noi: — la presenza del signor Baglioni reca onore e decoro al dominio della Chiesa.»

«Tanto meglio: rimesso il bando al capitano Prospero della Cornia per l'omicidio di Jeronimo degli Oddi e i suoi figliuoli.»

«Il Figlio di Dio», riprese il Papa additando il Cristo, «perdonò a coloro che lo sospesero in croce; — a santa Chiesa sua sposa imitare gli esempi divini è soave: chieda il capitano Prospero col cuore pentito, il perdono del misfatto al cielo, noi lo abbiamo perdonato....»

«Si conceda indulto al conte Sforza da Scarpeto pei maleficii commessi, e gli sieno restituite le possessioni.»

«Abbia l'indulto e i beni.»

«La Santità Vostra conceda pieno assoluto dominio al signor Malatesta di Nocera sulla Valle Toppina, Bevagna, Tunigiana, Castellabono col titolo di duca; Rota Castelli e la metà di Chiusi libero; — un vescovato di diecimila scudi d'entrata l'anno per lo nipote; — la figlia del duca di Camerino per Ridolfo suo figliuolo; — e finalmente componga a suo favore le differenze pei castelli con gli Orvietani.»

«Avanti.»

«Per lui non ho a chiedere più nulla. — Se nella vostra larghezza voleste donare anche a me qualche beneficio... meglio dei vostri abbati sapremo governare una badia... ed io, vedete, sono stracco dei travagli del campo, — e sento che il cielo mi chiama proprio alla vita contemplativa...»

Il Papa, rammentandosi allora di avergli nella prima caldezza del sangue donato, un anello di troppo grande valore, e se ne pentendo adesso, punto dall'avarizia, della richiesta di Cencio, immaginava fare suo pro, e quindi rispondea:

«A questo avevamo pensato noi: — sta per pacificarsi l'Italia; e ci conviene provvedere allo stato di uomini leali che militarono in vantaggio della Chiesa: anzi, ora che ci ricorre in mente, e' ci pare che tu faresti bene a restituirci l'anello. — Egli è troppo piccolo dono ai meriti tuoi. — Per una volta che renderai adesso, ti ristoreranno in futuro dieci volte cento. Ancora avverti che te lo potrebbero trovare indosso e farti capitare male, ben conoscendosi alla forma come appartenente a vescovo o prelato.»

«Deh! Padre Santo», fingendo devozione favella Cencio, «lasciate che per la salute dell'anima mia non me ne scompagni: io m'accorgo dovere contenersi in lui virtù mirifica da salvare da incantagioni e malìe; ed io ho tanta paura del demonio che mi par di morire al solo sentirmelo rammentare davanti! — Che mi faccia capitare male non dubitate: io lo terrò celato, nè me lo terranno vivo; e quando sarò morto, voi sentite che peggio non mi potrà accadere.»

«Bene, sia. Torna tosto al suo signor Malatesta e raccomandagli si affretti; — avrà piena la mercede secondo le sue inchieste, e a noi spetta concedergliela anche maggiore: egli ci parve umile troppo e rimesso; si affidi alla larghezza medicea. Al nepote potremmo anche concedere il cappello rosso. — A lui... il gonfaloniere di santa Chiesa conta circa settant'anni; egli, se giunge, non sorpassa i quarantacinque...»

«Malatesta vi prega che la Santità Vostra, così per ricordo, si degni porre il nome qui sotto questa cedola...»

«Di gran cuore.» — E il papa firmò senza pure guardarla.

«Poi mi disse ancora: Cencio, bada, il proverbio spagnuolo insegna: parola e penne il vento le porta via, — la promessa grave sfonda la carta dove sta segnata... sicchè procura farti dare tanto in mano che mi assicuri. — Io, ben me ne accorgo, sono un mal destro negoziatore: e queste cose non ve le dovrei dire, o dirvele in maniera più soave, ma per me, quando si può andare per la piana, fuggo l'erta e la scesa. — Patti chiari, amicizia lunga...»

«Ah! Malatesta pretende sicurezze?»

«Le pretende!... no, le desidera. Siccome egli è bellissimo novellatore, costui sovente costuma di raccontarmi che male hanno dipinto i pittori il Tempo in sembianza di vecchio con la falce in mano; dovevano, egli dice, invece immaginarlo giovane e poderoso con una granata con la quale dì e notte infaticabilmente spazza stelle, spazza dii, spazza vite, amori, odii, gratitudine, e tutto spazza, e fattone mucchio lo getta dentro certa riviera che si chiama l'oblio...»

«Digli che rimarrà a Fiorenza con la sua gente finchè non abbia adempito ai trattati. Accostati! guarda quest'uomo in faccia.»

«L'ho guardato.»

«Bada non dimenticarne il sembiante.»

«State sicuro; — non potrei dimenticarlo volendo: ha qualche cosa in volto che mi rammenta il mio signore Malatesta.»

La fronte di Giovanni Bandini diventò livida; le sue labbra tremarono.

«Questi verrà in campo, nostro commissario segreto; — il tuo signore e tu stesso manterrete le pratiche con lui: — secondo che l'occasione vi si offra, corrisponderete insieme intorno alle cose a sapersi necessarie. — Or va'... va' con Dio.»

«Messer lo Pontefice, statemi sano», riprende Cencio e fa atto di stringergli la destra. Clemente la tira a sè con disdegno; e l'altro, senza pure accorgersene, continua: «A rivederci, e non in Pellicceria, come disse la volpe al suo cugino lupo: a rivederci per darci tempone e bere un gotto alla memoria della libertà di Fiorenza.»

Il Pontefice tendendo il braccio comanda:

«Giovanni, date commiato a questo capitano.»

«Mi paiono mille anni di farmi frate; — la barbuta comincia a pesarmi sulle tempie: oh la bella vita ch'è la vita da abbate...!»

«Soldato!» esclama Clemente richiamando indietro Cencio, «vorresti mutare l'anello che noi ti donammo con mille ducati d'oro del sole? — tu ci miglioreresti di un terzo.»

«Che è, che fa a me il terzo? Forse io conservo per intendimento mondano l'anello che toccò il dito della Vostra Beatitudine? Io me lo tengo caro, perchè mi preservi dalle tentazioni del demonio e dal peccare più oltre; — i miei peccati mortali, vedete, sono più di sette...»

«Or dunque vattene.»

Giovanni Bandini, posto ch'ebbe fuori della stanza costui e chiuso diligentemente le porte, tornò indietro e disse:

«Incomportabili cose a cotesti ribaldi concedeste, Santità.»

«Non rammentate voi il consiglio di Guido da Montefeltro a papa Bonifazio VIII?

Lunga promessa coll'attender corto

Ti farà trionfar nell'alto seggio[103]

«I benefizii dunque?»

«Lui ordinerò diacono, e Malatesta suddiacono, quando il demonio celebrerà la messa.»

Ed ambedue tornarono nell'attitudine prima. Dopo un silenzio non breve, fu inteso pienamente percuotere ad una delle quattro porte. Il Papa visibilmente trasalì e comandò al Bandino andasse ad aprire, dicendo:

«Ecco gli oratori fiorentini.»

Mentre andava il Bandino, egli curvò più del solito le spalle, — il messale si trasse davanti, — accomodò il Cristo; — poi stette in sembianza impassibile ad aspettare.

Si apersero le porte, e comparvero Nicolò Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Fiorenza. — Giunti appena che furono al cospetto del Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e co' gesti favellava:

«Alzatevi, messere Nicolò e voi messere Andreuolo; su via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L'imperatore ha da curvarsi al cospetto nostro e baciarci i piedi: — voi poi siete parenti, amici, tutti figliuoli della medesima madre. — Messere Nicolò, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite, parliamo di Fiorenza nostra in famiglia. A quale stato la povera città si trova adesso condotta?»

«Dentro», rispose severo messere Nicolò, «non si patisce difetto di animo nè di vettovaglia nè d'armi: — i barbari fuori, raccolti ai nostri danni, tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli uccidono o sperdono. — Tanta e sì grande ingiuria appena potrebbe cagionare il terremoto; più poca ne farà il giorno finale; — dappertutto seminano il deserto...»[104]

«O Fiorenza mia, dove ti meneranno questi sconsigliati? Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla dalla rovina. — Accordiamoci a cacciare via i barbari che la divorano... queste immani bestie tedesche, che dalla voce e dall'aspetto in fuori nessuna parte hanno di uomo, come scriveva la buona anima del nostro messere Nicolò....»[105]

«Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito nostro contristato», riprese a dire il Capponi, «l'intendere la buona mente della Santità Vostra verso la patria comune... vostra madre e mia. Brevi i patti della pace e consentanei al giusto. La libertà si conservi, si restituisca il dominio, del presente reggimento nulla s'innuovi.»

«Libertà!» interruppe il Pontefice a mano a mano infervorandosi nel dire: «e parvi libertà questa dove senza cagione parte de' cittadini s'imprigionano, molti più si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte? Paionvi modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il nostro a Careggi, proporre di spianare l'altro in Fiorenza e farvi una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Onesto ed ordinato vivere è quello della città dove i più tristi e senza pena penetrano nei tempi di Dio, le immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa Cosimino?[106] Una mano di ribaldi è prevalsa e tirannicamente vi governa; niuna signoria più grave di quella dello schiavo diventato padrone. Almeno nei tumulti dei Ciompi sorse un Michele Lando, uomo di cuore retto, di cui lo spirito camminava nelle vie del Signore. Ora chi vi regge? Un Francesco Carduccio, un fallito, un uomo che cerca, pescando nelle acque torbe, fare suo pro dell'altrui, che i beni dei servi di Dio sacrilegiamente vende per abbandonarvi un giorno, sazio dell'oro e del sangue di voi! — Sconsigliati! sconsigliati! Ravvedetevi una volta!»

«Beatitudine, questo modo di vivere piace all'universale. Allora qual cosa rimane al semplice cittadino? O accomodarsi al volere dei più, o tôrre bando volontario dalla patria. Chiunque pretende imporre un reggimento nuovo al suo paese, e sia pure migliore del vecchio, contro alla volontà dei cittadini, quegli è tiranno...»

«Or bene, messer Nicolò», riprende il Pontefice, «fate piena balìa, adunate il parlamento, e stiamoci a quanto delibererà il popolo.»

«Popolo sì, non plebe; la plebe vedemmo sempre corriva ai propri danni; voi conoscete il ricordo posto nella sala della Signoria:

Che chi cerca di fare il parlamento,

Cerca tôrti di mano il reggimento.»

«Non ci aspettavamo da voi udire citati, o messere Nicolò, i barbari versi dell'apostata Savonarola...»

«Dite piuttosto del martire della libertà.»

«Su questo proposito non favelliamo. Ora dunque proponeteci voi tale forma di governo per cui i miei parenti tornando in Fiorenza stieno sicuri che non verranno loro troncati i sonni da un ferro nel cuore; per la quale non temano che un giorno le proprie ossa e quelle dei loro padri sieno tolte dalle antiche sepolture e date miserabile pasto alla fame dei cani.»

«Siffatte abbominazioni noi non abbiamo commesso...»

«No?» sempre incalzando continua il Pontefice, «sarebbe questo il primo sangue dei Medici che bagna il terreno della patria? La prima volta questa che una madre di nostra casa piange sopra i figliuoli trucidati? — Mio padre Giuliano non giacque miseramente trafitto nel santuario? L'inclito zio Lorenzo non salvò a gran pena la vita dal pugnale nemico? Quanta mostrarono i Medici benevolenza ed amore ai Fiorentini, altrettanto questi gli ricambiarono con rabbiosissimo odio. La storia della nostra famiglia è una serie di benefizii invano prodigati, di morti, di esilii e di confisce immeritamente sofferte, crudelmente decretate. E voi stesso, messere Nicolò, diteci: qualcosa guadagnaste voi con questo ingrato popolo maligno in guiderdone delle vostre cure, degli uffici penosi, dei travagli durati? Per poco stette non vi mozzassero il capo.»

«Santità, quando mi elessero gonfaloniere, mi proibirono espressamente mantenere corrispondenze particolari coi signori stranieri: mandando lettere a Vostra Beatitudine e da lei ricevendone, con tutto che io lo facessi per bene, non disobbedivo meno all'ordine del popolo; egli poteva punirmi; non volle; — mi rimandò dall'ufficio, e in questo operò generosamente, non iniquamente.»

«Or via, nobili uomini, datemi ascolto: io voglio abbia un reggimento Fiorenza che, senza offendere la libertà, una della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come principale cittadino, voi altri ottimati della città gli componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche bisogne. Poichè le fortune e la virtù di per sè stesse distinguono l'uomo e il cittadino della povertà e dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce necessità di natura.»

«I padri nostri si legarono una volta, combatterono i grandi e li vinsero: adesso noi, degeneri dalla virtù paterna, vorremo a nostra posta istituirci grandi e porre nella nostra terra il mal germe di prossima discordia?...»

Clemente soprastette alquanto prima di rispondere, imperciocchè vedeva ogni arte riuscirgli meno; alfine, tenendo la faccia dimessa a terra favellò:

«Rimettetevi dunque nelle mie braccia: io mi comporterò con voi non come sudditi ribelli, ma come figliuoli traviati.»

Iacopo Guicciardini, troppo diverso da Francesco l'istorico di triste memoria, camminava svisceratissimo della libertà; — di animo audace, pronto di lingua; — lo avevano aggiunto quarto all'ambasceria per opera dei Piagnoni o Arrabbiati, onde con la sua avventatezza temperasse la pacata natura degli altri. Fino a quel punto, di ciò caldamente supplicato dai compagni, taceva; adesso poi, sentendosi divampare il sangue, l'ira prorompergli dai precordii, gridò:

«Sudditi ribelli! Alla croce di Dio, da quando in qua siete voi re di Fiorenza, Giulio dei Medici? Cristo solo governa come principe la nostra città....»

«Noi siamo vicario di Cristo.»

«Per proteggere», replica il Guicciardino, «non già per distruggere; per beneficare, non per uccidere. Cristo abita nei cieli: in terra quella signoria che noi gli concediamo egli prende. Sua legge è l'Evangelo, legge che predica gli uomini liberi ed eguali. E voi osate chiamarvi vicario di Cristo — mostrateci il mandato; — se stiamo all'opere, voi mi parete il vicario del...»

«Messere Iacopo!» esclamarono i suoi compagni facendoglisi attorno, — e lo tiravano per le vesti e con cento modi diversi s'ingegnavano a farlo tacere — «acchetatevi, per Dio! voi rovinerete la patria e noi...»

«Se a voi importa la vostra quanto a me la mia vita, lasciatemi favellare. Alla patria non può avvenire peggio di quello che adesso le avviene. Le mie parole rimarranno come testimonianza tra i posseri; e non sia detto che, mentre tanti liberi petti cimentano la vita in pro della patria, nessuno tra noi sia stato valente ad esprimere generose parole. — Giulio dei Medici, molti avete dedotto gravami contro la vostra terra, molte vi lasciai discorrere menzognere lodi in vantaggio della vostra famiglia. Ora sappiate la vostra casa essere stata tra noi come l'insetto della nuova Spagna, il quale penetra nella pelle sottile quanto una corona d'ago e poi s'ingrossa sì che t'uccide[107]. Tre volte in novantaquattro anni noi lo cacciammo, perchè volle i suoi concittadini ridurre in servitù, la patria convertire in mensa dove noi, i nostri figli, le facoltà nostre potesse divorare a bell'agio. Meglio per noi se i padri nostri avessero avuto più crudeltà nello spengerla affatto, o meno debolezza per richiamarla. Ogni anno la famiglia vostra ha svolto una spira per avvilupparci dentro, come fecero i serpenti di Laocoonte e dei suoi figliuoli. Lorenzo si usurpò la fama di grande, Lione eziandio: hanno eglino forse creato il proprio secolo? Nessuno uomo è potente a creare un secolo; — Dio solo lo crea, e la fortuna. Lorenzo, se ai virtuosi sovvenne, ciò fu per libidine di fama e con danari non suoi: — a Roma lo avrebbero punito come reo di peculato, — noi deboli e stolti lo salutammo col nome di ottimo, liberalissimo. A che parlate di sangue? A che rinnovate la memoria degli antichi delitti? Interrogate le tombe e, per ogni stilla di sangue dei Medici versato, sorgeranno spettri a presentarvi tazze colme del sangue loro sparso dai vostri maggiori. E per venire a noi, perchè adoperate adesso e lusinghe e ambagi e minacce? Perchè vi sta immobile nella mente il fiero disegno di fare schiava la vostra patria infelice? Se alcuni giovani protervi guastarono nell'Annunziata le statue della vostra famiglia, se la vostra immagine tolsero da San Pietro Morone, quale colpa è nello stato? Forse un reggimento sta mallevadore per le azioni dei singoli cittadini? Dove la Sedia vostra Apostolica avesse a pagare pei delitti di coloro che vi seggono sopra, ora (tacendo degli altri), pei misfatti di Alessandro VI, dove l'avrebbe condannata la giustizia di Dio? I signori Otto di Guardia ordinarono si atterrassero le vostre armi; e bene ordinarono, come quelle che non s'innalzavano a decoro della famiglia, bensì in segno di principato. — I beni della Chiesa alienammo, poichè due vostre bolle o brevi ce ne somministravano facoltà[108]. — E che? — Scrollate il capo? Forse mentisco io? Le bolle non si ponno negare, a meno che a voi non piaccia interpretarle, secondo il vostro costume, efficaci ad alienare i beni ecclesiastici per combattere la patria, non già per difenderla. — Aprite, Giulio, l'animo vostro intero. Ormai non ingannate nessuno, nè uomini nè santi. Voi intendete assoluto signore dominare su Fiorenza. Voi vorreste le nostre teste scalini per salire sul trono e quindi le prime ad essere calpestate. «Or bene, dunque sappiate, poichè la Repubblica non ha potuto impetrare mercede alcuna da voi per liberarsi da sì gran danni che le fa attorno l'esercito vostro, averci ella commesso di far intendere alla Santità Vostra, essere in tutto deliberata a sostenere la sua libertà fino alla morte. In tanto giusta causa non trovando pietà appresso voi, come si converrebbe a vicario di Cristo, ricorre al trono di Dio e lo supplica che, viste le ragioni dell'una parte e dell'altra, dia di noi quel giudizio che gli parrà giusto. Sappiamo che nella difesa che fa la città, la quale è pur vostra patria, difende in prima la libertà, dono largito da Dio ai mortali per lo più bello e più maraviglioso ch'egli mai conceda dopo la vita; dipoi vi si difende la religione, i figliuoli, la roba, cose sopra tutte carissime, le quali dal vostro esercito, composto di barbare nazioni, ci sono disperse, parte ammazzate, parte messe in pericolo, senza scorgersi in voi non dico ombra di misericordia, anzi scorgendosi in voi ognora più una grandissima crudeltà contro di lei nella quale nato, allevato e per suo mezzo a così alto grado condotto vi siete. Dalla pietà di questa condotta in tante miserie se non vi muovete, quale altra cosa vi muoverà a compassione? Non posso, rimettendomi nella memoria i crudi strazii ch'ella patisce, contenere il pianto e non dirompermi di tal maniera nelle lagrime che più non possa, non dico parlare, ma sostenere questa infelicissima vita. E voi, che dite tenere il luogo in terra del Redentore piissimo dell'universo, non vi commovete e non comandate che si lasci stare quella patria innocente, che più non si affligga con tanta rovina...»[109]

A tante e tanto gravi parole il Pontefice si era lasciato andare genuflesso davanti la immagine di Cristo, e quivi a braccia aperte, fingendo singhiozzare come preso da immenso dolore, orava;

«O mio divino Redentore, senza mormorare mi sottopongo alla dura prova con la quale intendi cimentare gli ultimi anni della mia vita. Ella è superiore però alla mia natura, sicchè vi soccombo sotto. A me la taccia di crudele? Non amo la mia patria io? Tiranno io, o coloro che, ridotta in pochi Arrabbiati la pubblica autorità, i meglio autorevoli cittadini bandirono o imprigionarono?...»

«Alzatevi! alzatevi!» esclama il Guicciardino, «tanto Dio non ingannerete voi. Oh! meglio che pregare ipocritamente il divino Redentore, a voi potenti della terra gioverebbe lealmente imitarlo...»

«Messere Iacopo, io ricevo col cuore umiliato la tribolazione che l'Altissimo per la bocca vostra mi manda. In voi discerno uno strumento della volontà divina e vi onoro. Quando pure non fosse così, questo mio Dio, che pregò pei suoi uccisori perchè non sapevano quello si facessero, mi conforterebbe a pregare per voi che non sapete quello che vi diciate.»

«Non so quello ch'io mi dica io? O papa Clemente, trema che cotesta effigie del Redentore non si animi per miracolo; temi quella lingua si sciolga e riveli intiere le cupezze dell'animo tuo. Se Cristo stacca di croce la sua destra inchiodata.... trema.... non la leverà per benedirti....»

«Orsù», interrompe il Pontefice levandosi in piedi, «tregua alle parole; oramai ne proferimmo anche troppe. Iacopo, la vostra lingua è riottosa come le acque di un torrente. Voi ponete la vostra causa nelle mani di Dio, ed ancora io ve la pongo; discerna egli e giudichi: — dacchè traemmo la spada, — la spada dunque difinisca la lite.»

«Tu hai raccolto tutti i venti del settentrione per divellere dal tronco la fronda inaridita. Come Faraone, superbisci pei tuoi cavalli, per le tue molte milizie: — bada al mar Rosso! — Dio può rendere la fronda inaridita tenace quanto la querce delle Alpi. Ai buoni è concesso dai colpi di fortuna appellare all'Eterno. — Alle vittorie dei tristi esultano i dannati. Se talvolta un consiglio profondo esalta l'empio, ciò il fa perchè senta più fiero il dolore della rovina. Tranquilli, se non lieti, ci diamo in balia degli eventi, perchè, vincendo, ci aspetta la fama di avventurosi e di onorati; soccombendo alla impresa, il mondo ci chiamerà infelici, ma onorati pur sempre. — Tu poi affacciati al futuro, ardisci con occhi aperti contemplare il tempo che viene.., e di'... qual cosa tu vedi?... Portiamo via, liberi uomini, da questa reggia, chè non ci sobbissi sul capo, dacchè l'ira di Dio ci gravita sopra. — Fin qui le preghiere e gli scongiuri furono carità patria, adesso sarebbero turpitudine e miseria. Il David del Buonarotti si moverà prima a difendervi che il cuore di questo Filisteo si ammolisca. Venite a giurare nella chiesa di Santa Maria del Fiore di liberare la patria o seppellirci sotto le rovine di lei.»

E concitato lo sdegno, da dolore e da impeto inestimabile, pone la mano sul battente della porta per uscire.

«Iacopo, fermatevi», esclama il Papa, «e udite le mie estreme parole. Sieno i Medici per autorità nello stato vostri compagni non principi; componete di quarantotto famiglie un senato, e in quello risieda il potere di governare...»

«Se il mio antico genitore mi avesse proposta infamia e delitto siffatti, io mi adopererei a fare sì che la scure del carnefice insanguinasse i suoi capelli bianchi.»

E senz'altre parole aggiungere usciva della sala.

«Voi, messere Nicolò dotato come siete di più temperata natura», riprende Clemente, «considererete col buon giudizio vostro la mia offerta; — non vogliate delle cose l'estremo: accomodatevi ai tempi; — dominiamo insieme.»

«Le insinuazioni vostre», gli rispose il Capponi, «mi suonano uguali a quelle che mosse Satana a Gesù Cristo quando dal pinaccolo del tempio gli mostrava i regni della terra: ufficio di cittadino è turarsi le orecchie e fuggire dalle tentazioni.»

Profferiti cotesti accenti, Nicolò Capponi tenne dietro a Iacopo Guicciardini.

«Dunque non mi riuscirà a farvi intendere ragione, ortinati e protervi? Messere Andreuolo, fatevi messaggero dei miei sensi agli ottimati...»

«Dove un mio figlio sapessi ambasciatore di tanta nequizia, io gli andrei contro per ispezzargli la testa alla parete.»

Ciò detto, il Nicolini scomparve.

«Almeno voi, Soderini...»

«Io vi scongiuro, papa Clemente, a spargervi le chiome di cenere, umiliarvi nel santuario e domandare mercede davvero dei vostri peccati; se pure i vostri peccati non superano la misericordia infinita.»

E lasciò solo il pontefice.

Papa Clemente per bene due volte con intensissima rabbia si morse le mani ed esclamò:

«Il mondo mi diventa la torre di Babele: quando domando vizio, incontro virtù; — quando abbisogno di virtù, trovo vizio... Pure tanta vita mi avanza da adoperare in modo che i vostri nepoti ricercando a' vostri figli libertà che significhi, quelli additando loro le vostre dimore demolite, i vostri sepolcri scoperchiati, rispondono: La libertà significa morte e rovina!»

... e intanto la poverina patisce... — Qua via, porgete il lume,... Cap. VI, pag. 149.

CAPITOLO SESTO LUCREZIA MAZZANTI

All'atto incomparabile e stupendo

Dal cielo il Creator gli occhi giù volse

E disse: Più di quella ti commendo

La cui morte a Tarquinio il regno tolse.

Ariosto, Orlando furioso, c. XXIX.

«Lupo! o Lupo! prendi il boccale — e bevi un sorso a rinfrancarti il cuore; — tu mi hai una cera da De profundis. »

Queste parole dirigeva certo soldato del dominio di Firenze, e con le parole offeriva un vaso pieno di vino a Lupo bombardiere, di cui vedemmo il bel colpo nella cittadella di Arezzo. E questa avventura succedeva a notte avanzata dentro un corpo di guardia accanto la porta di San Nicolò, unica tra le tante di Firenze che tuttavia si mantenga nella antica sua forma. Un solo lume sospeso alla vôlta rischiarava di splendore vermiglio piccola parte della vasta stanza: e tu vedevi dei soldati quivi raccolti alcuno disteso per le panche in atto di dormire, altri seduti novellare dei casi di guerra; tali altri, e questi erano i più, bevere spensierati, come uomini per cui il tempo scorso è nulla, il futuro anche meno, e si godono il presente fugace — e lieto, perchè vuoto di affanno.

Un fra loro, di volto leggiadro e, comechè giovanissimo, a tutti capo, se ne stava appoggiato con le spalle alla parete, la faccia china, immerso in pensieri i quali, a giudicarne dalle sembianze di lui, non dovevano essere buoni nè tristi: — questo era Ludovico Machiavelli. Lupo invece sedeva con le pugna strette, fortemente puntellate nelle guance sotto gli zigomi; gli occhi socchiusi: ad ora ad ora prorompe dall'intimo petto profondi sospiri. — Guizzando intanto la fiamma sanguigna sopra quei volti, — per tutta la scena, — presentava un quadro fantastico, stupenda materia ai dipinti di Gherardo delle Notti o del Rembrandt.

«Lupo!» riprese un altro soldato, «bevi: — il tuo buono umore è ito in fondo del boccale; ripescalo coi labbri e ridiventa gaio, perchè la tua tristezza ci uggisce, e troppo più della tristezza cotesti tuoi sospiri, che spingerebbero in mare il bucintoro. — Piagni forse i tuoi morti?»

«Pel Battista, lo hai detto! Io piango un morto... piango l'onore dell'Italia e di noi altri», e, siffatte parole proferendo, tal diè del pugno sopra la tavola che i distesi a dormire si svegliano di soprassalto levando la testa sospettosi di qualche sinistra avventura.

«L'onore della milizia italiana spento?» domandò ansioso il giovane Vico. «Qual cosa v'induce a giudizio sì iniquo sopra il vostro sangue?»

«Sta a voi domandarmelo, Vico? Non siete fuggito anche voi d'Arezzo? Così è — noi infelici reliquie delle Bande Nere, tanto famose nelle guerre passate, ne abbiamo or dianzi bruttata la gloria. Occhi miei tristi, che tante volte e tante vedeste dalle bande onoratissime del signor Giovannino i Tedeschi assaliti e dispersi, perchè mai vi ostinate a rimanere aperti per contemplare una fuga infame senza pure essere affrontati?... O morte! o morte!» E il prode uomo si batteva con le mani la fronte.

«Confortatevi, Lupo: col capitano Ferruccio non fuggiremo più...»

«Sentite, Vico, riponetevi bene nella mente le parole del veterano: — i peccati di viltà non hanno remissione; — la viltà sparsa una volta porta il suo frutto, — frutto di esempio pessimo e di danno alla patria, irrevocabile. — Io ho pianto due volte in questa vita: — la prima fu, quando una notte del mese di gennaio io mi scaldava al camino da una parte, e la mia povera madre filava dall'altra: mi aveva narrato le mille cose fatte e dette da mio padre e da mio nonno (che Dio gli abbia in pace), e le giostre avvenute ai suoi tempi e la congiura dei Pazzi, chè ella si trovò in chiesa alla strage e nel trambusto vi perdè il cappuccio di vaio e la collana d'argento. — La povera donna nel bel mezzo del discorso si arresta... e subito dopo, con voce mutata, mi dice: Lupo, accóstati, ch'io ti benedica... ti lascio solo... O gran Madre del Signore, ricevi l'anima mia! — Levai la faccia e vidi la povera madre con la destra in atto di benedire, — gli occhi aperti, e la bocca aperta anch'essa, ma storta da un lato. — Iddio l'aveva chiamata alla pace degli angioli. — Lupo è rimasto solo davvero sopra la terra. L'altra volta ch'io piansi fu... — Compagni miei, vi chieggo perdonanza se vi funesto con dolorosi racconti. Io mi taccio e rumino da me stesso la mia angoscia.»

«Di', di', Lupo; le parole del veterano riescono sempre gradite all'animo dei suoi compagni.»

«Ora dunque, figliuoli miei, — perchè io per età, vedete, potrei esservi padre, comechè non abbia tolto mai moglie e non mi sieno nati figliuoli; ma certa volta udii raccontare da messer Pietro Aretino[110], svisceratissimo del signor Giovanni, come un antico capitano a certo che lo riprese di non aver tolto donna, ed in questa maniera privato la patria di eredi delle virtù sue, rispondesse: Sappi che io lascio due figliuole e tali che se la patria ne imita l'esempio, diventerà non pure famosa, ma unica per la gloria delle armi nella Grecia: e ricordò due battaglie da lui virtuosamente combattute e vinte. — Fin qui Lupo non operava nulla che gli fruttasse onore; però non vi ha impresa, comunque arrisicata ella sia, per la quale non senta l'animo e le voglie disposte. Adesso mi trovo ad avere tanto detto fuori del seminato che non so più donde mi sia partito o dove io mi abbia a ritornare: — mi sembra dovessi narrarvi come piangessi le seconde lagrime in mia vita, ed ecco proprio il modo in che andò la cosa. — Il signor Giovannino... Nessuno di voi ha egli veduto il signor Giovanni dei Medici? — Ebbene, quando passate da Orsanmichele, sostatevi a guardare il San Giorgio di Donatello: immaginate voi che muova le braccia, che parli di forza, che lanci lo sguardo acuto quanto un verrettone, ed avrete la immagine vera del fortissimo capitano. — Il signor Giovannino con alquanti cavalli leggieri si pose alla caccia dei Tedeschi nel serraglio di Mantova. — I nemici, che lo chiamavano il gran diavolo, — tanto si mostrava nelle zuffe avventato e feroce, — si danno scorati alla fuga: — noi proseguiamo ardentissimi quella, più che battaglia, beccheria; — la strage della gente tedesca ci giungendo gradita, non come di nemici vinti, sibbene come di genia bestiale, oscena peste del mondo. Uno di questi scomunicati, mole gigantesca di mala carne, all'improvviso volta faccia a me che lo inseguiva, e tale mi scarica a traverso un colpo di mazza d'arme che mi avrebbe schiacciato il capo come un pinocchio. — Lupo era leggiero in cotesti tempi; mi abbandonai pertanto sul dorso del cavallo, spronai oltre e lo colsi così impetuoso della punta nel ventre che lo passai fuor fuora meglio di un palmo dal tergo. — Qui sento picchiarmi sulla corazza: — pensando vicino un nuovo nemico, mi volto con truce proponimento, e vedo il capitano Giovanni, il quale al cenno aggiungendo le parole: Prode Lupo, favellò, domani ti promoveremo a sergente delle nostre milizie... — Appena i suoi labbri tacevano che lo vidi, atterrato per forza prepotente, avvilupparsi nella polvere; — accorsi a rilevarlo, ed egli: Cristo! esclamò, la stessa gamba di Pavia: ormai è destinata a rimanere sul campo. — E così come disse fu: una palla di falconetto gli aveva rotto sopra il ginocchio la medesima gamba destra che al Barco di Pavia, scaramucciando, gli ferirono sconciamente verso la noce. Incalzando i Tedeschi, noi non temevamo delle artiglierie, sendo avvertiti che non ne avevano: ma nella notte il duca Alfonso di Ferrara, secondo che il diavolo lo persuase, nascosti dentro certe barche di vettovaglia mandava loro pel Po quattro falconetti; e in questo modo egli fu cagione prima della ferita, poi della morte del signor Giovanni. Imperocchè, trasferito a Mantova in casa Luigi Gonzaga, gli furono attorno i cerusici e deliberarono segargli la gamba. Quando io lo vidi accomodato sopra la sedia, mi tremarono i polsi, mi sentiva scoppiare il pianto, che pure trattenni per non isconfortare quel povero signore. — Egli poi guardava le seghe, i coltelli, le tanaglie e l'altro apparecchio infernale da cacciare i brividi addosso a chi non ci aveva a far nulla; e sorrideva. Intanto Abram giudeo, scamiciato fino ai gomiti, cominciò a tagliare, rasente la ferita, le carni. Il signor Giovanni siede e guarda; io, temendo non lo facesse trasalire lo spasimo, me gli accosto e lo recingo con le braccia alla cintura. Quasi gli avessi fatto ingiuria, mi si rivolge con mal piglio e grida: Ch'è questo che fate, Lupo? Andate via: io so molto bene reggermi da me senza li vostri ajuti. — A Dio non piacque salvarlo. — Dopo pochi giorni rimase spento con danno inestimabile della milizia italiana quel pro' guerriero, bellissimo di corpo, forte di braccio, ingegnoso, feroce, nella età verde di ventinove anni. Corse voce nei tempi, papa Chimenti corrompesse il cerusico giudeo, e questi gli segasse la gamba con ferri avvelenati. Intorno alla qual voce io non saprei consigliarvi a crederla e a discrederla nemmeno; di questo però vi assicuro, papa Chimenti volergli male di morte, e lui essere capace di questo o di altro; quanto al giudeo poi, io lo conobbi uomo dabbene. — In siffatti casi ho pianto, — due sole volte in mia vita... — Ma vedete, in quel modo che ieri udii predicare a fra' Benedetto, il capitano Moisè, traendo il suo popolo per lo deserto, e mancatagli l'acqua, percosse un sasso, e quinci uscì copiosissima fonte, in quel modo dico l'angoscia mi ha battuto sul cuore e ne fece scaturire lagrime e sangue. Ora poi a cagione dell'ultimo vituperio nostro il mio cuore si è del tutto spezzato; in breve spero mi sarà concesso di fuggire la vista del sole, che aborro, e sottrarmi così agli eventi futuri, che l'animo mi presagisce funesti: — se non sapemmo difendere la patria in Arezzo, come la difenderemo noi qui, no, io per me non so capire davvero: pari i muri, i petti pari...»

A cotesti discorsi i soldati tacevano siccome rimorsi dalla vergogna, o scorati da presentimento. Più di tutti il Machiavello. Uno fra loro, crollando ad un tratto la testa come per cacciarne i cupi pensieri, favellò:

«Lupo, le tue querele paionmi generose, non savie. Noi possiamo di quest'infamia lavarci le mani, e non mica come Pilato. L'onta ricade intera su l'Albizzi, il quale comandò la partita: ed ora, chiamato dai signori Otto a sindicato, dovrà renderne ragione col capo.»

E Lupo rispondeva:

«Il sangue macchia, non lava; la colpa del commessario si confonde con quella dei soldati; e nel mondo si leva un vituperio per tutti che tu non sai placare. Per Dio! così non istà bene. Se osservi il comando del capitano codardo, una condanna di obbrobrio insieme con lui ti contamina; se ti rifiuti agli ordinamenti della milizia, ti puniscono di morte: — il caso di Pandolfo Puccini informi...»

«Lupo, io ti assicuro», osservò Ludovico, «la passione aombrarti l'intelletto: al soldato, quando obbedisce il cenno del superiore, la fama è salva.»

«Poniamo via», riprende Lupo, «e che egli obbedendo allo iniquo comandamento non abbia infamia come soldato: ma fuggirà egli per avventura anche il danno come cittadino? Io per me lo ripeto, — così non istà bene. Immaginate, compagni, che, avendo noi giurato fedeltà al Palazzo di Fiorenza, domani la Signoria si avvisasse comandarci di abbattere Marzocco, gridare morte alla Repubblica, viva le palle: dovremmo, o no, obbedire? Se no, tristi soldati; se sì, pessimi cittadini. Io, non ho letto sui libri; — la disciplina in campo del signor Giovanni costringeva, fuori di misura, severa: e nondimanco ho sempre tenuto fisso in mente qui sotto giacere un qualche grave errore da doversi emendare.»

«Ogni male viene dalla testa», soggiunse Ludovico; «bisogna attendere prima di tutto a nominare buoni signori e buon capitano, poi rimetterci interamente ai comandi; — se togli ciò, nissun governo, nessuna disciplina possono reggere.»

«Sì bene: ma quando l'errore è commesso? Forse la pioggia non bagna le membra del soldato come quelle del cittadino, non le assidera il freddo, non le arde il fuoco? Il soldato che impegna le braccia ha forse venduto il cuore e la mente? Se il soldato vive nei campi, rinnega per questo la patria? Non conserva egli sempre desiderii ed affetti di cittadino? E se abbandona la cara famiglia pei rischi della guerra, ciò non fa egli appunto per tutelarla da oltraggio straniero? Ora dunque, quando conosce a chiara prova un comando imbecille o traditore, sarà obbligato ad eseguirlo e così con le sue mani procurare un fine contrario a quello pel quale mosse dal dolce luogo dove pure lo trattenevano pietà dei parenti, dolcezza di marito, amore dei figli? Ditemene quante volete e sapete, voi non arriverete a persuadermi che il soldato che mise a cimento la vita per la libertà della patria debba obbedire come bestia insensata e feroce allorquando gli ordinano di ammazzarla.»

«E per altra parte, se concedi facoltà al soldato», riprende il Machiavelli, «di ponderare, prima di obbedirlo, il comando (lasciamo da parte che molti ne farebbero pretesto di tradimento o d'ignavia), innanzi che l'uomo si fosse determinato a soddisfarlo, l'occasione andrebbe perduta; perocchè voi sappiate, Lupo, il destino delle battaglie pendere sovente da un minuto.»

«Voi siete dotto, voi, e da tale nascete che la sapeva lunga e la sapeva contare; sicchè poco sforzo ci vuole a far comparire scempie le mie parole. — Certo che in mezzo alla battaglia, quando il capitano ordina: Avanti! — il soldato si fermi e risponda: Lasciatemi pensare; — mi sembra cosa bestiale. — E se dall'altro canto considero che intendono ridurre il soldato in condizione di arnese composto di ossa e di carne, da spingerlo avanti, indietro, da parte, senza intelletto, senza cuore; e' mi par cosa anche più bestiale della prima. Tra le due estremità deve trovarsi una strada di mezzo. Io non ce la so vedere; ma il sangue mi bolle allorchè penso un soldato figliuolo del popolo possa riuscire, per disciplina, parricida e stromento di servitù nelle mani del tiranno o del traditore.»

«Veramente, dinanzi alla legge suprema di conservare la libertà, credo ancora io che la disciplina taccia; allora qualche cosa che sta sopra alla disciplina delle milizie approva la ribellione, anzi la persuade; voglio dire la patria e Dio. Però triste indagini paionmi queste. Di che temiamo noi? Noi abbiamo signori animosi, capitani provati.»

«E Malatesta?... — Ma via porgetemi il boccale, ch'io voglio bagnarmi la bocca. Ho parlato tanto! e forse, e senza forse, folli parole, — peccato della vecchiezza.» — Qui bevve e riponendo il boccale sulla tavola, continuò: «Vedete, l'uomo si assomiglia al boccale pieno di vino. Il tempo ogni anno vi beve un sorso lungo, sicchè in fondo ci rimane il peggio: colla età cascano i capelli e il giudizio. Viva la gioventù, forte, audace, fidente... Io stasera, invece di concitarvi con belle storie di guerra, vi attristava con torbide fantasie di vecchio gufo. — Ve ne domando nuovamente perdono: io me lo concedo tanto più di leggieri in quanto che penso il vostro cuore per parole non crescere nè diminuire. — Animo! su, compagni! non è la prima volta che gl'imperatori videro le nostre mura. — Le videro, non le espugnarono. Non dico vero, Ludovico? Messere vostro padre deve pure averlo scritto nelle sue storie.»

«Sì, certo, e udite come la racconta, che io me la sono serbata a mente: «L'imperatore (era Arrigo VII), deliberato di domare i Fiorentini, venne per la via di Perugia e di Arezzo a Firenze, e si pose con lo esercito suo al monastero di San Salvi propinquo alla città a un miglio, dove cinquanta giorni stette senz'alcun frutto: tanto che, disperato di potere disturbare lo stato di quella città, ne andò a Pisa. Correva l'anno del Signore 1312.»

«O perchè messere vostro padre, il quale pure sapientissimo uomo era, in così magnanimo fatto spese tanto poche parole?»

«Perchè dubitò la ignavia del secolo presente su le glorie passate si riposasse. Di vero, cavare sollievo nella presente miseria dalla memoria delle perdute facoltà senza sbracciarsi a mutare stato la è cosa da gente vile. Più lungo fu esponendo i falli e le colpe dei tempi, affinchè i cittadini ne sentissero vergogna e l'emendassero.»

Così consumando il tempo nel novellare di molti e varii argomenti, all'improvviso fu udito mosso di fuori uno schiamazzo di voci confuse, minaccevoli e supplicanti, umili, crucciose, e imprecazioni e bestemmie; — poco dopo un rumore come di carra rovesciate, di corpi caduti; e qui guaiti, urli furibondi, senza misura crescenti; quindi un celere scalpito di cavalli sopra il selciato della via.

Adesso, mentre i soldati del corpo di guardia staccavano le partigiane dalla parete per accorrere in aiuto, spalancato fragorosamente le porte, balza in mezzo della stanza una femmina, come palla briccolata dalla bombarda, la quale, corsi allo indietro tre o quattro passi, quasi compiendo l'urto di spinta impressa contro di lei, andò a percuotere supina il capo nella parete. Indifferenti a cotesta apparizione, i soldati uscirono dal corpo di guardia; rimasero Ludovico e Lupo per ragione di ufficio ed anche per vaghezza di soccorrere la misera donna. Le si accostarono pertanto e, rilevandola, la trovarono giovanissima, bella e di gentile aspetto: le sue vesti apparivano schiette, quali costumano le donzelle di contado, se non che fatte di panni più fini e con sottile lavorio ricamate di passamani e nastri di seta. Le si vedevano sul volto delicato i segni di patimenti sofferti, certo a lei più gravosi quanto più nuovi: pallida era ed aveva bianche le labbra, gli occhi chiusi siccome morta.

Ludovico, invece di porgere mano a Lupo onde sovvenire alla fanciulla, si rimase immemore a contemplarla. Ludovico toccava la età nella quale un'arcana malinconia si diffonde nel sangue: quanto una volta piaceva ora rincresce: — il ragno intreccia a festoni la sua tela intorno al tanto una volta diletto leuto; la spada anch'essa polverosa penderebbe dal chiodo, se amore di patria non gliela cingesse ai fianchi; il seno si gonfia a spessi sospiri: sovente tendeva l'orecchio, quasi aspettando una chiamata; si sentiva invogliato a piangere e non sapeva perchè; nella sua mente si avvolgevano forme indistinte e pur vaghe d'ineffabile bellezza, a guisa di volti di angioli specchiantisi sopra l'onda commossa di un lago; — ed ora quelle sembianze, contemplate a frammenti, par che gli stiano definite dinanzi; — la voce che aspettava gli si è fatta sentire, e l'eco della sua anima già vi ha risposto, la corda è vibrata, conosce il fine dei dubbiosi desiri.

Lupo, sdegnoso per la inerzia di Ludovico, così lo riprende:

«Vico, davvero io vi credeva più caritatevole verso il prossimo. — Datemi una mano perchè io non so quello che mi faccia: — fosse ella colubrina o smeriglio saprei il modo di aggiustarli io... una fanciulla così delicata... in questo stato... che cosa volete? non me ne intendo e intanto la poverina patisce... — Qua via, porgete il lume, vediamo mo' s'ella fosse rimasta ferita nel capo. — Tenete ferma la mano; — così non vedo nulla: — ma che diavolo avete nelle braccia che le vi tremano come se la quartana vi fosse venuta addosso?» — Così favellando Lupo spartiva dietro il capo il volume delle chiome alla donzella e, al moto delle dita aggiungendo il soffio, speculava se vi fosse lacero o contusione. — «Gran male io non ci veggo; ora abbisognerebbe un po' di aceto... cercate, Ludovico, se vi venisse fatto di trovare o penne di pollo o esca od anche carta, che gliela bruceremo sotto il naso e la faremo rinvenire: — io la scingerei, ma non mi attento; e' sono cose queste che non si aspettano a' maschi...»

Ludovico, come risensando, senza dar mente alle parole di Lupo, aveva già tratto un pannolino di tasca e, intintolo nell'acqua, dolcemente bagnava le tempie alla donzella. Nè stette guari che, in quella guisa che l'aere vermiglio all'orizzonte annunzia vicina la lampa del sole, il colore della giovanezza e della salute, diffondendosi sul volto alla fanciulla, presagì vicino il ritorno dell'anima agli usati offici. Alfine trasse un gran gemito, e lo splendore degli occhi si manifestò. Li volse esterrefatta d'intorno, e la prima parola che uscisse dalle sue labbra fu:

«O padre mio! Dov'è mio padre?» E chiuse gli occhi di nuovo. Di lì in breve riaprendoli, gli fissa nella faccia di Lupo, e prendendone terrore, a braccia aperte si ripara al seno di Vico esclamando: «Salvatemi, in nome di Maria santissima, da quel ceffo di fiera... difendetemi da quell'empio ladrone... uccidetelo, o uccidetemi...»

«Per la testa di San Giovambattista!» proruppe Lupo, «valeva il pregio davvero che io mi prendessi tanto impaccio di scioglierle la lingua a cotesta calandra! Che ci ho a fare io, se gli anni mi hanno mutato in bianco quello che un giorno ebbi nero, e il sole ha mutato in nero quello che dalla natura sortii bianco? Se le ferite mi hanno cincischiato il viso, ciò è avvenuto perchè, tranne una volta... una volta sola..., non voltai mai le spalle al nemico. Ed io vo' che sappiate, fanciulla mia, tornare a maggiore infamia pel soldato gli sfregi alle spalle che non si vedono che gli altri visibili sopra la faccia. — Nè sempre apparvi quale comparisco adesso; — e qualche occhio di donna pianse alle mie partenze, e qualche labbro sorrise ai miei ritorni. Ma ci corrono anni da questi a quei tempi! — Però non dubitava di avere ceffo da mettere paura, — da masnadiere, — da ladrone. Voi, fanciulla mia, avete scambiato il sorbo per noce. — Io sono Lupo bombardiere agli stipendi della Repubblica di Fiorenza... onesto e dabbene quanto può esserlo qualunque altro bombardiere in questo mondo e in quell'altro.»

Ludovico sosteneva quel caro peso; fremeva, godeva e taceva; un'arcana voluttà gl'investiva le membra. La donzella pur sempre a occhi chiusi, col capo dimesso; di repente si svelle dalle braccia di lui, palma percuote a palma, le mani si caccia tra i capelli, prorompe in dirottissimo pianto e, fuggendo verso la porta, empie l'aere notturno col grido:

«O padre mio! o padre mio!»

«Vico la seguitando veloce, la trattiene; e confortandola con dolci parole, le dice:

«Non temete; il padre vostro ritroveremo; vi ricondurremo alle vostre case... ai vostri parenti...»

Qui lo interrompe un alto riso della fanciulla: — egli allora, tra stupido e soddisfatto aggiunge:

«Sol che vi piaccia mantenere l'animo lieto e tranquillo.»

«Vuoi rendermi la casa! Oh! rendimela via, e con essa la mia cameretta linda, polita, col soffitto tinto d'azzurro, e il letticciolo con le coperte di rascia rossa e il bel capoletto di Sicilia: — rendimi la immagine della Madonna dell'Impruneta di Luca della Robbia e la lampada e il vaso dove ogni giorno mutava fiori freschi di mia mano côlti nel giardino... Ma come farai a rendermela, se quando ne uscii, il pavimento, le pareti, il soffitto tutta andava in fiamme?... Mi vuoi gettare tra il fuoco? In che peccai? Cotesta è la stanza dei dannati, ed io non ho fatto male a persona nel mondo. — Io sono innocente, io! — Tu mi hai parlato di madre: menami a vederla, e ti dirò fratello, perocchè io sappia ogni creatura nascere da una madre ed essere amata da lei sopra ogni cosa: ma io, sai? non ho conosciuta la mia... nessuno ha risposto allorchè domandai: siete mia madre voi? — ed io fin qui ho dubitato di essere venuta al mondo senza. Ben ho padre e amatissimo. — Almeno lo aveva un'ora fa; — ora poi non so più s'io lo abbia. — Deh! se lo sapete, insegnatemelo, siatemi pietosi, rendetemelo. Non conosco altro che lui nel mondo: — che cosa dovrei fare sola, orfana, abbandonata a me stessa? — Adesso poi che madonna Lucrezia è morta. — Oh! le sventure vengono sempre e troppo accompagnate. — Non credete forse che madonna Lucrezia sia morta?... Io stessa l'ho veduta, invocato il nome santo di Dio, precipitarsi a capo rivolto nell'Arno. Oh quanto era gran dolore non poterla soccorrere! e, potendo, non avrebbe mica voluto, perchè ella si uccideva per fuggire vergogna. — Io stesso per lungo tempo l'ho cercata lungo le sponde invano; e dopo trovai mio padre che sedeva sui tegoli inceneriti di casa... e corsi e corsi veloce, cosicchè le stelle del firmamento mi parevano un nastro lungo lungo di luce; — e ora l'ho perduto da capo... Signori, abbiate pietà dell'orfana; riconducetemi da mio padre... O padre mio...»

In questa le guardie della milizia fiorentina tornarono; e chi sorridendo, quale imprecando, depositano le armi: se non che, vista la desolazione della fanciulla, si acquetarono tutti, ed uno di loro soltanto raccontò: causa del trambusto una squadra di cavalleggeri uscita a foraggiare, che tornando carica di preda aveva trovato la porta ingombra di gente del contado, di carra, di somieri e di masserizie, con le quali fuggendo riparavano alla città; che, non essendo riuscita, ad ottenere per amore si slargassero per lasciarla passare, si era cacciata di forza tra quel cumulo di uomini, di bestie e di cose, sicchè sbarattandolo e rovesciandolo era passata di galoppo tra mezzo. Poco il guasto o nessuno; qualche mulo o cavallo aombrato correre alla ventura per la città, ma presto lo avrebbero ritrovato; la fanciulla di certo caduta per urto di cima a qualche carro dove si stava addormentata: trattenerla nel corpo di guardia pareva il consiglio migliore, perchè non istarebbe guari la sua gente a venire per lei.

La fanciulla porgeva attentissimo l'orecchio, fissava arguto il suo sguardo nel volto del parlante, sospettosa non la dileggiassero; e quando le parve sincero, alquanto si assicurò: allora con ambe le mani traendosi dietro il capo i molti capelli caduti sulla fronte, disse:

«Faccia Dio che presto ritorni! — Ma dove mi hanno condotta? Dove mi trovo adesso?» E vedendosi circondata da tanti uomini i quali curiosamente la guardavano, arrossì vereconda e declinò le palpebre.

«Figliuola mia», le rispose Lupo, «già non voglio dire che non potresti stare con miglior gente, perchè la sarebbe soverchia presunzione cotesta; pure così come ti trovi, sei sicura quanto nel monastero delle Murate. — Tu stai in Fiorenza presso la porta San Nicolò, tra giovani costumatissimi e ascritti alle bande della milizia cittadina. — Io poi mi chiamo Lupo e sono bombardiere preposto alla colubrina piantata in cima alla torre della porta.»

«Signor Lupo», soggiunse con umil voce la donzella, «io mi abbandono nelle vostre braccia; — fatemi da padre finchè non abbia ritrovato il mio vero. — Di ciò vi avremo obbligo infinito tanto mio padre che io; e pregherò per voi la madre mia ch'è nei cieli.»

«Sta' pure di buon animo, figliuola mia; tu sei in mezzo a' tuoi. Anzi, ora che penso, onde diminuire le ansietà di questa povera fanciulla, e' sarebbe bene alcuno di voi, con buona licenza di messere Vico, si movesse in traccia di suo padre per le prossime vie.»

«Dio ve ne renda merito», disse la fanciulla; — e poi volgendosi a Vico e per la prima volta consapevole riguardandolo, volle parlargli, e si confuse anch'ella; onde si rimase in silenzio.

«Come volete, Lupo, ci poniamo in traccia del padre suo», notarono alcuni, «se i nomi di lei e di quello ignoriamo?»

«Andate», disse la fanciulla, «e se per la notte incontrate voce alcuna di pianto che chiami Annalena, — quegli è mio padre. Se non udite la voce, il dolore lo ha ucciso.»

«Orsù dunque voi, Marco Guidi e voi Pierfilippo, aggiratevi qui d'intorno e vedete se per sorte vi ci abbatteste. — Tornate presto e non passate l'Arno.»

Due uomini obbedivano al comando di Ludovico.

«Figliuola mia», riprese a favellare Lupo, «se io non ti rinnuovo troppo disperata memoria, dimmi a che termine si trova il nostro infelice contado?»

«Ahi! trista me! — I tormenti che videro questi occhi vincono le parole. — Atti nefandi, abominazioni da demonii, immanità efferate, delitti quali non dovrebbe tollerare la pazienza di Dio. Chiunque adesso percorresse le terre già tanto fortunate del nostro contado, gli parrebbero un deserto; — le tempeste dei cieli, i fulmini, li terremoti insieme raccolti non potrebbero apportare danno uguale a quello che hanno cagionato questi empi ladroni. Le vigne svelte, gli alberi abbattuti, la terra sconvolta non serba traccia delle fatiche dei campi. Le case ardono, le chiese rovinano: e tutti questi danni ed altri maggiori non uguagliano i tormenti dei miseri abitatori. Le donne tratte in ischiavitù, ad uffici vilissimi costrette, battute, ferite... gli uomini appiccati ai pochi alberi rimasti alla campagna, miserabile spettacolo dalla lontana, più misero da vicino, perocchè allora si conosca espresso quanti abbiano patiti crudelissimi strazi prima di morire...»

«Occhi di Dio, dove dunque guardate?» Muggì piuttosto con voce di toro che non urlasse con grido umano Lupo. E la fanciulla spaventata balzò in piedi per fuggire.

«Ah!» proseguiva Lupo, «tutto questo avviene perchè fummo codardi; — se avessimo tenuto fermo in Arezzo, il nemico non iscorazzerebbe adesso il contado: bene sta, dacchè non adoperammo le braccia a difenderci, forza è che gli occhi consumiamo a piangere.»

«Oh! non versate ancora tutte le vostre lacrime, perchè tale vi narrerò una sventura a cui se il piangere non manca, vi si spezzerà il cuore per troppa compassione. Mio padre ha stanza... e devo dire, aveva, — ma l'animo non sa credere come in un giorno possano tanti infortunii accadere che appena mesi basterebbero a immaginarli, e non pertanto avvennero in un'ora sola, e noi sopraviviamo, — mio padre aveva stanza in Val di Greve presso San Giusto: in certo luogo fuori di mano, ombroso per copia di piante, era fabbricata la casa nostra, asilo d'innocenza, per me di pace non interrotta, per lui di riposo agli antichi travagli, dacchè mio padre, da me in fuori non ha parenti al mondo, e spesso piagne sopra altri e la moglie defunta, e più sovente egli versa lacrime d'ira che mi fanno paura. Ora correranno tre notti il padre, accompagnandomi alla mia cameretta, mi baciò in fronte, mi benedisse e mi salutò dicendomi: Addio, a domani. — Poi, quasi un qualche presentimento lo funestasse, rifece i passi per rammentarmi assicurassi bene per di dentro le imposte, essendo la casa bassa, la contrada piena di ribaldi, molto il pericolo dei ladroni, più che soldati, dell'esercito della lega, le difese poche o nessuna. Ond'io, maravigliando dell'insolito sospetto, domandai: Perchè tanto temete? — Ed egli a me: Perchè mi sei sola in terra. — Siccome mi aveva consigliato, chiusi diligentemente le imposte, — poi mi prostrai davanti alla immagine della Madonna e le porsi le consuete preghiere pel padre, per tutti ed anche per me; — mi giacqui pacata proponendo levarmi mattiniera avanti l'alba per cogliere fiori, destare il padre spruzzandogliene sul volto la rugiada e irriderlo dei notturni terrori. — Il sonno mi vinse: all'improvviso, comechè tenessi le palpebre chiuse, uno splendore mi offende la facoltà visiva: dubbiosa di avere oltrapassata l'ora proposta, balzo a sedere ed apro gli occhi. — Pensate voi qual cuore fosse il mio quando vidi piena di fumo la stanza, — la fiamma sguizzare spaventevole lungo il soffitto! — Preso consiglio dalla paura, fatto fastello dei panni, scinta, scalza, scarmigliata i capelli, proruppi fuori. — La Madonna aveva miracolosamente preservata la cameretta della sua devota; — la rimanente casa in fuoco; — parte della scala, la inferiore, vacillante travolta in fiamme, ma sempre in piedi; la superiore caduta; ogni indugio sicurissima morte. — L'anima mia raccomandata al Signore, mi slanciai; il divino ajuto soccorrendomi toccai uno degli scalini rimasti; — bruciavano; — volai; — dall'ultimo gradino movendo il primo passo, sentii sotto il piede un corpo morbido, e mi parve ancora intendere un sospiro; — declinai lo sguardo: — uno dei piedi mi vidi contaminato di sangue, e nel corpo mi apparve la spettacolo miserabile di un servo infranto, mezzo arso dalle fiamme — forse egli precipitava dalla parte più alta della casa, dove aveva stanza.

«Affrettai il passo, non sapendo nè curando pensare in qual parte fuggissi: — unica cura fuggire. Risensando, mi trovai dietro la siepe foltissima del giardino, e dall'opposto lato scôrsi mio padre, il quale in mezzo ad una banda di scherani con le ginocchia piegate supplicava così: — Alfine anche voi una donna ha partorito; avete sembianza umana: lasciatevi piegare; concedete ch'io vada a salvarla... la figliuola... solo, unico conforto alla mia vecchiaia; — lasciatemi: — quanto possedevo vi ho dato. — Faccio sacramento sopra tutti i santi del paradiso non essermi rimasto un picciolo per riscattarmi. A che volete ritenere un povero vecchio? A che sono buono io? — Ahimè! sentite! — è rovinato un trave... forse sul corpo della mia figliuola... scioglietemi... lasciatemi. — Ed altre aggiungeva tanto compassionevoli parole che faceva passione a sentirlo. Ma gli scherani non gli badavano, intenti a dividersi le nostre masserizie più care. Ben poteva tenermi nascosta, ma come può figliuola abbandonare il padre in balìa a tanto affanno? Disprezzato il pericolo, mi palesai e corsi ad abbracciarlo esclamando: Sono salva! — Egli non poteva abbracciarmi, che ambe le mani dietro al dorso gli avevano legate; — mi baciava... piangeva... mormorava parole per passione soverchiante confuse. Così i nostri mali obliavamo, quando uno dei masnadieri in sembianza superiore agli altri mi viene appresso, e di forza piegandomi verso lo incendio mi guarda allo splendore delle fiamme della mia casa con piglio tra ladro ed osceno, poi vôlto ad un suo cagnotto, comanda: — Menala assieme con le altre. — Stende il cagnotto le mani; — io mi riparo alle spalle del padre; e questi, siccome ira ed amore lo consigliano, privo d'ogni altra difesa, a morsi mi difende; — ed ora prega, ora impreca affannoso. — Il caporale, infastidito da coteste imprecazioni, esclama: Pieraccio, fa che il tristo corvo si accheti; — e per sempre. — Il cagnotto si trasse indietro, calò giù dalle spalle l'archibuso, tolse di mira il padre mio, ed accostando la corda accesa al focone, sparò contro di lui. — Egli cadde rotolando dentro la fossa che circondava il giardino, ed io ancora caddi, come se il colpo medesimo avesse ucciso due creature. Quanto tempo durassi in tale stato, non saprei: allorchè rinvenni, mi trovai dentro una capanna angusta, e intorno a me certe fanciulle del vicinato per lunga domestichezza mie familiari. S'ingegnavano con diversi argomenti richiamarmi alla vita. Posai pertanto di alcun poco la paura; e sopra tutto mi fu a bene cagione la vista di monna Lucrezia Mazzanti da Figline. Questa magnanima donna, di cui vi narrerò il pietosissimo caso, che aveva di qualche anno condotto a marito Iacopo Palmieri da Fiorenza, abitava in villa poco lontana dalla casa che fu nostra nel popolo di Dudda: — lei citavano esempio di domestica virtù; per santità di costumi venerata, dai poverelli per la sua beneficenza benedetta, a cagione della donnesca sua leggiadria a quanti la conoscevano gradita, discreta, ben parlante, amorevole. Io, da gran tempo priva di madre naturale, lei madre per elezione riveriva ed amava. Conveniva in sua casa mio padre; e talvolta, quando stava in villa a San Casciano, un messere di alto affare, a cui mi facevano baciare la mano per ossequio, dicendomi di lui infinite novelle e come avesse corso pericolo di vita per causa della libertà e lo avessero posto al martoro, come de' casi degli uomini fosse speculatore arguto, espositore eccellente, virtuoso, dabbene... lo salutavano col nome di messere Segretario... sovente ancora messere Nicolò...»

«Il padre mio!» esclama Ludovico.

«E sì che mi pareva osservare sul vostro volto sembianze a me già conte da tempi remoti...» E mentre così la vergine favellava, il capo declinando, arrossiva. — Poco dopo riprese: «Che fa egli? vive?»

«Dio lo ha chiamato alla sua pace.»

«Fortunato lui, che i suoi occhi non vedono le presenti miserie! — Siccome me lo dicevano della patria amantissimo, pietà divina certo lo tolse allo spettacolo di così profondo infortunio. — A lei dunque mi voltai interrogandola dove fosse mio padre: ed ella rispondevami starsi in luogo sicuro; non dubitassi; lo avrei riveduto un giorno, sotto cielo meno inclemente, circondato da creature più buone. Coteste parole non mi confortavano punto; ricordai lo scoppio dell'archibugio, il padre scomparso, e stemperandomi in pianto, più e più sempre invocava il mio povero padre. Le compagne, male sapendo come consolarmi, dolenti anch'esse per eguali sventure, piansero al mio pianto, ai miei gridi gridarono. Sola madonna Lucrezia, trattenute le lagrime, non facendo atto che apparisse vile, con soavi parole ci conforta, in mille modi diversi s'ingegna raumiliarci: — Il pianto, ci dice, ai colpi di fortuna non giova anzi gli aggrava; togliessimo animo pari ai casi con i quali il Signore intenderà provarci; rammentassimo le donne di coloro i quali con rischio della vita avevano pigliato in mano la difesa della patria non dovevano piangere; a nemico superbo opponessimo altero petto; un giorno anch'essi scontrerebbero amare queste esultanze nefande; a Dio volgessimo il cuore rassegnato e contrito; alla Madre Santissima ci raccomandassimo; serbassimo la vita finchè potevamo con onore; se no, scegliessimo la morte, e il cielo si aprirebbe a raccogliere la nostra anima cantando le glorie dei martiri. — Così accesa nel volto con occhi lucenti favellava la santissima donna, quando, schiusa la porta, apparve tra noi l'abborrito ordinatore della morte di mio padre. Le compagne mi si strinsero attorno, come colombe paurose del nibbio; io lo guardava fisso e sentiva ribollirmi nel cuore orribile sete di sangue, sicchè se mi fossi trovata in mano daga o archibugio e avessi saputo come si uccide un uomo, lo avrei trucidato di certo. — Costui, che seppi tenere grado di capitano, e chiamarsi Giovambattista da Recanati, si restrinse a colloquio con Madonna; procedevano da prima le sue parole dimesse, la persona piegava in atto di ossequio, — poi diventò a mano a mano, concitato nel dire, gli occhi gli avvamparono ardenti. Madonna rispondeva raro, come schermendosi da molesta domanda, e noi la vedevamo ora impallidire, ora arrossire a guisa di persona posta al tormento. All'improvviso quel tristo proruppe: — Fin qui pregai. Ora sappiate ch'io posso volere e voglio... — Lucrezia lo supplicava tacesse, il luogo considerasse e le persone; ma l'altro non udiva ed ambe le braccia distese per afferrarla. In quello estremo la donna gli strappa la daga dal fianco e, alquanto indietreggiando, gliel'appunta alla gola gridando: — Scostati, o sei morto. — Il capitano si trasse in disparte e, contraendo le guance, fece greppo e mostrò i denti come fiera che si apparecchia a divorare la preda. — Era il suo riso. Poco appresso rincorato, — Madonna, le disse, rendetemi la daga: voi ricambiate odio per amore; — questo fa torto alla vostra pietà. — Ed ella: — Sì, certo, io non voglio comparire davanti al mio Creatore coll'omicidio sull'anima. Non a voi, capitano, sibbene a me stessa, darò la morte, se vi accostate anche un passo. — Non ne farete niente, Lucrezia! — e si favellando si avvicina; allora ella volge la punta al proprio seno e si apre le carni, cosicchè ne spiccia larga vena di sangue. Noi alzammo un terribile grido. Il capitano urlò fieramente anch'egli e, fatto delle mani croce, supplicò si rimanesse, — sarebbe partito. E si partiva: mentre stava per oltrevarcare la porta, Madonna con voce carezzevole lo richiamò indietro, e a lui tutto lieto dell'animo che immaginava nella donna mutato, ella disse: — Pregarlo di farci respirare aere meno grave, ci cavasse per qualche ora dal carcere infame; lasciasseci vagare pei campi paterni. — Ed egli: — Purchè sia meco! — Lucrezia rispose di rimando: — Sia. — Uscito dalla stanza, corremmo alla donna, fasciammo la piaga leggiera, ed ella, come già rapita a sensi diversi, lasciava fare: — diventarono mute le sue labbra: — si nascose il volto nelle mani e così stette fino a sera, premendola un fiero proponimento. Il pianto fu a noi tutte in quel giorno cibo e bevanda. Declinando il giorno, comparve il capitano Recanati in compagnia di alquanti suoi scherani, e con esso loro noi tutti uscimmo. Lucrezia volse frettolosi i passi alle sponde dell'Arno. — Talora si ferma, il cielo considerando e la terra: e poichè il cielo appariva divinamente sereno e la terra lieta di verdi piante... — ah! gli uomini non possono contaminare la natura., — gemè dall'intimo petto. — La brezza vespertina mordeva acuta, e noi la vedemmo dilatare le narici ed aspirarla a lungo tratto, come se intendesse inebriarvisi. — Cotesta era carità di patria, pensiero di godere le voluttà di cui il natio luogo va pieno prima d'immergersi nella morte. — Ora le campane delle parrocchie annunziano la estrema ora del giorno. — Voi sapete come, in cotesta ora, in quel suono si comprenda un'arcana mestizia che vince il cuore dei più tristi e li dispone ai rimorsi della notte. Madonna si pose in ginocchio, — noi ne seguitammo l'esempio, ed ella a noi volgendosi ci disse: — L'ultima ora di un giorno e di una vita è compiuta; pregate per un'anima che sta per passare. — Il senso di quelle parole non ci era chiaro, — pure pregammo con ardentissimi voti. Cosa stupenda e a me medesima, dove non l'avessi con i propri miei occhi contemplata, incredibile. I masnadieri e il capitano, i quali ci vigilavano da vicino, commossi dallo spettacolo di amore e di fede, loro malgrado si prostrarono anch'essi, sforzandosi richiamare sui labbri l'orazione nei primi anni della vita imparata dalla pia genitrice. Noi donne stavamo sopra il ciglione dell'argine; — menava sotto vertiginose le acque l'Arno grosso per le pioggie cadute nei giorni precedenti. Madonna Lucrezia si leva: — aveva nel volto gran parte di cielo; il crepuscolo dorato lo vestiva di luce serafica: ci guardò mesta, non abbattuta; secura non baldanzosa; e aprendo la bocca favellò: Figliuole mie, che voi sceglieste piuttosto la morte con onore che la vita con vergogna, stamane con parole io v'insegnava; guardate, — adesso ve lo confermo con l'esempio. — Ah! il pianto mi toglie facoltà di raccontarvi partitamente com'ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume: — come vedessimo ora apparire su le acque, ora scomparire sotto, la santissima donna; e tanta era in lei la voglia di preporre l'onestà alla vita che quante volte l'impeto dei vortici la respinse su a galla, altrettante ella mettendosi le mani sul capo si attuffava giù nel fondo. Urlando correvam lungo le rive dell'Arno, strappandoci i capelli e invocando Dio. Il capitano, improvvido di consiglio, rimase stupido di terrore. I suoi non si movevano; — egli poi, quando si riscosse ed ebbe trovato barche e corde per riaverla, trasse dal fiume un cadavere. — Scendeva intanto la notte. — Il corpo inanimato adagiarono sopra una bara: — portavano intorno due torce infiammate; e il capitano seguiva livido e muto. — Già ci accostavamo al campo quando vedemmo, quasi scaturito dal seno della terra, un uomo sordidato di fango, co' capelli scomposti sul volto, ardentissimi gli occhi, stringere una daga ed avventarsi contro il capitano Recanati gridando: — Rendimi mia moglie! — E il capitano, quasi agitato dalle medesime furie, trasse in un baleno il suo pugnale gridando più forte: — Rendimi l'amor mio! — L'uno contro l'altro correndo rovesciano un masnadiero che porta una torcia; — di subito li circondano le tenebre; — ne segue fiero scompiglio: — i portatori fuggono, la bara precipita rovesciando la morta sopra i due forsennati... Se quel tremendo avvenimento giungesse a separarli, se più infelloniti si uccidessero, io non so dirvi, perocchè anch'io mi detti alla fuga, — e tanto corsi, tanto mi affaticai che, quando per lassezza mi rimasi, la notte era alta; — intorno a me silenziosa la terra; solo da lontano mi veniva un rumore come di acque che si rompano per le pile dei ponti. Pensai movessero dal campo; e rinfrancata, quantunque mi sentissi rifinita di forze, ripresi il cammino opposto a quel suono. — Andai per un tempo alla ventura, poi, ravvisando strade a me note, deliberai tornare dove fu la mia casa, sperando rinvenire il corpo di mio padre, dargli sepoltura e quindi commettermi alla fede di taluno conoscente od amico. — Pur giunsi, — riconobbi i cancelli atterrati, il bel giardino svelto; — ma mi premeva altra cura. Dal terrore agitata e dalla pietà cercai per le fosse l'amato cadavere. Per quanta diligenza io vi adoperassi, non mi venne fatto trovarlo. — Mi avvio dolente verso l'aia dove surse la casa, adesso ingombra di frantumi e di ceneri. — Mentre più mi avvicino, odo un sospiro fievole, e subito dopo vedo un simulacro umano in mezzo a quelle rovine; intendo più alacre il guardo... e mi parve lo spettro di mio padre. Se pure fosse stato tale, amore mi consigliava di andargli incontro, ma la paura mi vinse, e fuggii prorompendo in altissimi stridi. — Nel tempo stesso la voce paterna mi percuoteva le orecchie chiamando: — Figliuola, figliuola! — Così vicini a riunirci per miracolo del cielo, di nuovo ci dividevamo, — e forse per sempre, — se all'improvviso il cane fedele, superstite a tante sciagure, non mi avesse, afferrando il lembo della veste, impedito di correre. Ci abbracciammo dimentichi dei sofferti mali; caduto era il padre non già di palla, bensì per essergli mancato il terreno di sotto i piedi, e al tempo stesso, sparando l'archibuso, parve rimanere ucciso, mentre per divina provvidenza la palla, strisciategli le vesti, appena l'offendeva. Precipito il racconto: albergammo in casa amica; ci ristorammo della fame e del disagio; e poi, così volle mio padre, saliti sopra poderoso cavallo, per lungo circuito, correndo a precipizio, ci riducemmo a Fiorenza. — Forse dieci miglia discosto incontrammo un convoglio di carra e di gente che abbandonavano il contado: infranta nella persona, desiderai adagiarmi sopra un carro pieno di strame e di leggieri me lo concessero i villani dabbene; qui presi sonno; mi risvegliai precipitando e caddi tra voi. — Ed ora mio padre dov'è? E perchè tarda? Qualche fiera avventura gli accadde, e voi me la celate pietosi. O padre mio!...»

.... com'ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume;.... Cap. VI, pag. 159.

Una voce lontana penetrò nel corpo di guardia, che chiamava:

«Lena! Annalena!»

«Silenzio!»

«Lena!»

«Ah! padre, padre, padre!...»

E tutti uscirono dalla porta a gola spiegata gridando:

«Qua. — Da questa parte. — Venite oltre. — Qui è vostra figlia.» Cessa la voce, — s'intendono passi precipitati; arriva un vecchio ansante, si slancia con giovanile leggierezza fra le braccia della vergine, — ella di lui; e piangendo, mormorando parole slegate, alternando baci e carezze, godono piena la gioia umana, — la cessazione del dolore!

Alcuno dei circostanti piegava altrove il volto, vergognando mostrarlo lacrimoso; Lupo rideva, non capiva in sè dalla contentezza.

Poichè si furono alquanto rimesse quelle calde dimostranze di affetto, il vecchio con labbra ridenti e cuore devoto rendeva mercede agli ospiti della figlia.

«Oh!» rispondeva Lupo, «qui non ci capiscono grazie; noi non abbiamo fatto altro che dirle buone parole... e queste costano tanto poco, e tante ne sprechiamo invano e per male che davvero non meritano pregio le pochissime proferite per bene. Io ve l'ho conservata, come padre; e sebbene la presenza vostra mi tolga la dolcezza di questo nome, siate ben venuto, buon uomo. Se però non vi offendesse la proposta, e voi voleste accoglierla con quell'animo col quale ve la offeriamo noi, starebbe a voi renderci gli uomini più lieti di questa terra (perdonate il rozzo dire alla sincerità delle intenzioni)... accettando parte delli nostri danari...»

«Lupo ci vince in valore, in magnanimità, in anni, in tutto», esclamarono i giovani.

«Per gli anni, sta pur troppo e, mio malgrado, bene; pel rimanente, e nasca quello che sa nascerne, voi mentite per la gola.»

«Gente dabbene, la vostra cortesia supera la parola: io ve ne rendo con l'animo quelle grazie che so e posso maggiori. Dal naufragio della fortuna tanto ancora mi avanza da sostentare me e la mia figliuola finchè il nemico duri nelle nostre contrade. Allora spero che Dio vorrà concedermi tanto di vita da restituire in lieto stato le mie terre, rialzare la casa...»

«Amen!» risposero i circostanti.

«Però», disse Lupo, «vecchio come siete, era meglio che riparaste a Lucca o a Siena e vi toglieste ai disagi dell'assedio, come hanno fatto i nostri più doviziosi mercatanti.»

«Il mercante non conosce patria; — i suoi affetti e le sue memorie stanno nel forziere. — Agevole cosa è pertanto trasportare un forziere. L'agricoltore pone nei campi l'amore, le fatiche, le ricordanze o liete o triste della vita; nè i campi possono da un luogo all'altro trasferirsi. A me bisogna rimanere in patria o morto o vivo.

«Già non intendeva io consigliarvi ad abbandonarla, sibbene rimanervi lontano finchè durano i pericoli della guerra.»

«Lontano o vicino, i pericoli della patria mi riuscirebbero del pari dolorosi e forse più gravi stando lontano, perchè accresciuti dall'ansia, dall'incertezza e dal timore. E che? Manca forse vigore a queste braccia per adoperarle in difesa del mio paese? Quella guerra è invincibile dove combattono per soldati il vecchio di sessant'anni e il giovanetto di quindici. Me avventuroso se potrò dare al dolce loco natio gli estremi giorni di questa mia vita angustiata per mille dolori! Scaverò ai fossi, porterò terra ai bastioni, porgerò le armi ai combattenti; — e, ogni via di salute disperata, precipitando dall'alto apporterò con la mia la morte di qualche nemico. Se, come spero, le ragioni della patria prevarranno, mi sarà di conforto nel morire il pensiero che la mia diletta figliuola sia commessa alla fede di madre amantissima, — voglio dire Fiorenza. — Se invece, (disperda Cristo l'augurio); rimane spenta la libertà, il vivere che monta? Tra morire e vivere da schiavo la differenza è questa: i morti non sentono nulla, i vivi si consumano sotto il peso delle catene. Lena mia, ti faccio manifesto il mio testamento alla presenza di questi valenti uomini; dove il lione coronato rimanga insegna della Repubblica, tu vivi, serbati agli affetti di sposa, — alle santissime cure di madre; se le palle trionfano... eccoti... prendi questo coltello... comunque corto egli sia, può sciogliere un'anima dai legami del corpo.

Ludovico si muove all'improvviso e ponendosi di faccia al vecchio lo interroga:

«Messere Lucantonio, mi ravvisate voi?

«Oh! se vi ravviso», rispose tosto il vecchio andandogli incontro e abbracciandolo, «messere Ludovico, vi siete fatto fiero e gagliardo, la Dio mercede. Vedete un po' come siete cresciuto, si può dire, a giorni. Il vostro signor padre (scusate se vi rinnovo il dolore) ci ha lasciato; — povero uomo! meritava vivere più lunga vita; ma Dio sa quello che fa: — io però non me nè darò mai pace; non isperavo nè desideravo sopravvivergli. Duri tempi, figliuolo mio, ma non affatto sfortunati a chi, come voi, eredò tanta copia di domestiche virtù.»

«Messer Lucantonio, profferendovi grazie delle cortesi vostre parole per ora, favelleremo a bell'agio intorno a siffatto argomento. — Volevo dirvi un'altra cosa: — l'incomodo della via, i travagli sofferti devono rendere al vostro corpo necessario il riposo. Qui presso nel popolo di Santa Felicita è la casa del vostro amico defunto; — mia madre e i miei fratelli abitano Pisa da molto tempo, e il modo del ritorno è loro tolto. — Venite ed accettate ospitalità...»

«Io non consentirò...»

«Pensate che il figliuolo del vostro amico non merita rifiuto e che l'alterezza, quando è troppa, diventa superba.»

«Sicuro, eh! il soverchio rompe il coperchio», veniva approvando Lupo.

«Sia come volete. Messeri, amici da un istante, noi lo saremo per la vita: — porgetemi la mano; così come le mani, si uniscano le anime nostre. Lupo, io per me nulla sono... ma se voleste essere pagato col mio cuore, io ve lo manderei dentro una coppa a casa... Addio.»

E salutando con le mani, da destra a sinistra piegando la persona, si accommiatava.

Lupo, staccando il lampione e rischiarando la via, mormorava:

«Pagare! il cuore! Che diavolerie sono elleno queste? Avrei per avventura ceffo di quelli che mangiano gli uomini alle Indie? Messere Lucantonio, vedete non farvi male... andate piano... qua v'è uno scalino da scendere... a rivederci... buona notte. E voi, Annalena, rammentatevi di me nelle vostre orazioni.»

«Addio... buona notte...», si udì alternare da una parte e dall'altra. — Poi fu fatto silenzio.

Lupo rientrando depose il lampione, si avviluppò nel gabbano, e ponendosi a giacere sulla panca, mormorava — Lupo vergógnati! Quell'uomo conta un terzo anni più di te, ha veduto la sua casa incendiata, le sostanze disperse, le terre guaste; e nondimeno pieno di fede spera, o pieno di ardimento fermò nel cuore il suo fine... Tu invece, dubiti... ti sconforti e, quello ch'è peggio, sconforti altrui. — Egli non soldato, tu allevato e cresciuto nei campi. — E ciò da che nasce? Nasce dall'essere in lui il cuore buono, il senno ottimo... — Tu veramente, Lupo, cuore non hai cattivo, si potrebbe sostenere anche buono..., ma per il senno... Ah! Lupo, tra te e te puoi confessare che sei tondo come l'O di Giotto... e non vedi più in là mezza spanna del naso.[111]

CAPITOLO SETTIMO LA PRATICA

Gran cosa, che, di sedici gonfaloni, quindici

furono di tanta altezza e generosità di animo

che risolvettero veder perdere piuttosto

la roba e la vita combattendo che l'onore

e la libertà cedendo.

Varchi, Stor., lib. X.

Chi vuol veder quantunque può natura

In fare una fantastica befana,

Un'ombra, un sogno, una febbre quartana,

Un model secco di qualche figura,

Anzi pure il model della paura.

Una lanterna viva in forma umana,

Una mummia appiccata a tramontana,

Legga per cortesia questa scrittura.

Berni, sonetti.

La storia è poderosa quanto il grido dell'angiolo che deve suscitare dalle tombe le ossa inaridite; — ella evoca le ombre delle andate generazioni e le costringe al giudizio.

Ma lo spirito, insofferente del confine a lui imposto dalla forza misteriosa che chiamiamo Dio, quando s'ingegna conoscere da quello che il mondo soffriva quanto egli ancora sia destinato a soffrire, merita l'inferno comune con Satana. — I fati posero il genio del rimorso a custodia dei sepolcri, — e contendono dalle reliquie dei morti derivarsi argomento di esperienza pei vivi. Continue paure sgomentano gl'indagatori delle arti arcane vietate ai mortali, ed è la storia tra queste. Come l'albero della scienza dell'Eden, sta nella vita umana lo studio; quello produsse la morte del corpo, questo la certezza del male, ch'è la morte dell'anima.

Infelicissima vita dell'uomo giunto a penetrare gli arcani difesi! perocchè i cieli mente bastevole a separarlo dai suoi fratelli di miseria gli concedessero, tanta poi che valesse per sollevarlo alle sostanze spirituali gli negassero. Ora la superbia lo trattiene dall'inclinare lo sguardo sopra una stirpe che egli calpesta e disprezza perchè non sa migliorarla; la disperazione gli dice fissarsi invano occhio mortale nell'alto. Fin dove poteva sorgere, egli è sorto: adesso si roda le viscere. — Ah quasi per errore egli venne tra le cose create: quanta sarebbe pietà riporlo tra le disfatte!

Un tempo fu, adesso per molta età diventato antico, in cui gli uomini ordinarono al poeta adombrate dal velo delle allegorie le sentenze della dottrina morale rappresentasse; ed Eschilo allora immaginava cantando il figlio di Giapeto, salito all'Olimpo per conforto di Pallade, rapirne il fuoco celeste e vivificare con quello lo spirito umano. Geloso il tiranno dei cieli, lo condannando ad immortale supplizio, mandava l'avoltojo a pascere il fegato perenne al sapiente infelice. Incatenato alle rupi del Caucaso, chiama Prometeo[112] l'etere, la terra e il mare in testimonio dell'atroce ingiustizia. Lui incitava al meglio il grido della natura; una pietà profonda, un sublime pensiero lo spinsero a fare meno triste le sorti della bestia che parla. Ora come secondavano gli dei tanto amorevole benignità? La creatura amante e, comechè incolpevoli, le creature amate ebbero comunanza di pena. A tormentare la prima fu mandato l'eterno carnefice; — a tormentare le seconde vennero la infermità, la tristezza, ed Esiodo poeta aggiunge illepidamente le donne...

Più sicuri noi contempliamo la dura verità. Santo Agostino e Rabano[113] ci narrano come Prometeo fosse uomo inclito per dottrina, il quale meditando sulle ragioni delle cose svelava agli uomini le proprie miserie, e palpate le piaghe loro, non seppe poi con qual farmaco mitigarle. Gli uomini tratti dalla ignoranza nell'angoscia maledirono l'importuno maestro, che si consumò nell'angoscia di aver procurato irrimediabile un male con intenzione del bene.

Avventuroso lo stolto! — Bacone de Verulamio due afferma essere le condizioni della vita figurate dalla sapienza antica nelle persone di Epimeteo e di Prometeo. «E chi, egli ragiona, improvvido del futuro seguitò la scuola di Epimeteo prendendo diletto delle cose presenti, senza darsi cura dell'avvenire, placava il genio maligno e, lusingandosi di vane speranze, traeva la vita come nella dolcezza di sogno fortunato. — Gli alunni di Prometeo, per lo contrario, indagatori acuti degli uomini e delle cose, ogni letizia appassirono. Stretti alla colonna della necessità, da paure continue agitati, perderono la pace del cuore; e se pure spunta per essi un'alba di conforto, nuovi terrori sopravvengono improvvisi a disperarli con l'antica agonia[114]

Avventuroso lo stolto! La disputa se la scienza giovi a migliorare le condizioni umane pende indecisa. A Giangiacomo il suo genio disse: Nega, — ed ei negò, e le genti lo chiamarono scempio. E che monta il giudizio della gente? La storia insegna le verità maravigliose essere state mai sempre schernite col nome di follia. E sì che Gesù Cristo predicando alle turbe in Galilea tale dava principio alla sua orazione: — Beati i poveri di spirito[115], — e sì che i santi Paolo e Gregorio ordinarono l'incendio di molte migliaia di volumi: ed oh! piacesse a Dio che potessimo davvero di tutti i libri del mondo costruire un rogo per farvi sopra un atto di fede dei miserabili sofismi chiamati col nome di ragione umana.

Ma via, che cosa ella è mai nostra scienza? Un deserto senza confini e senza oasi. Presunzione soverchia di noi stessi ci consiglia di porvisi dentro alla ventura; — il dubbio ci punge sempre ad andare oltre; e se mai avviene che un qualcheduno ritorni a casa sano, mostra manifesto sul volto il segno della curiosità delusa, della stanchezza disperata per aver saputo che nulla possiamo sapere quaggiù. Il nostro intelletto va ingombro di perchè senza risposta; e se l'angiolo custode non ti riposa la mente da queste domande, tu vedi in brevi apparire la pazzia, la quale irridendoti ti scuote davanti il suo bastone co' sonagli. «La sapienza degli uomini si assomiglia alla cenere, i suoi ragionamenti superbi sono mucchi di fango[116].» Perchè dunque la bestia che parla si vanterà superiore alla bestia che la voce non modula a guisa di parola? Forse perchè la prima ha senno e mani da trucidare la seconda[117]? Non sempre si lasciò uccidere, sovente anch'ella uccise; e pel rimanente, che cosa dice lo Spirito? La condizione della bestia è in tutto eguale a quella dell'uomo; ambedue muoiono di pari morte, ambedue composti di terra si disfanno in terra. Chi può affermare che l'alito dei figli d'Adamo si volga in su e quello delle bestie si volga in giù[118]? La verità per noi è come per i re di Gerusalemme e di Cipro, come i vescovi in partibus, un segno senza idea. Ponzio Pilato, certo giorno che non aveva altro da fare, interrogò Gesù Cristo in che consistesse la verità; — poi non attese la risposta ed uscì fuori[119]. — Danno inestimabile fu che il proconsole Pilato non avesse pazienza di fermarsi un momento!

Dunque?

Vi aveva forse promesso di concludere? E se pure ve lo avessi promesso, può egli in siffatte materie tenersi la parola? Voi forse pensate ch'io sia per volgermi all'oceano e supplicarlo di nuovamente nascondere la terra, siccome uscita dai suoi precordi! invano. No, rimanga la terra, continui a lambirne i confini estremi l'oceano, la ricuopra il cielo, imperciocchè io le desideri destini migliori, ed anche, vaticinando, io gli spero. Però desiderando e sperando ho detto a me stesso due cose: gli uomini non saranno mai tutti nè in tutto felici; nel tempo in che viviamo, molte piaghe furono sanate, moltissime altre si apersero, nè giungemmo a gran pezza alla cima che i sofisti s'immaginano, nè con le slombate e pedantescamente codarde fisime loro ci perverremo mai. Se Dio levò la mano su tutte le generazioni della terra, e' non appare che fosse per benedirle tutte: alcune egli guarda con occhio ardente, come acceso di collera, e quivi tu incontri il deserto dalle arene infocate; altre egli non guarda mai, e quivi piovono nevi perenni e ghiacci eterni si addensano; ogni speranza di miglior ventura è morta tra loro. Se quello che raccontano può credersi, cioè avere la terra un cielo che si compia mediante ordine lungo di secoli, per cui la Libia un giorno diventerà Siberia, allora, mutata la vicenda della pena sembra che si possa concludere, vivranno sempre i tormentati. Noi non siamo intero sangue latino; — noi uscimmo dal fianco di madri barbare, e molto di loro ritraggono le nostre membra; — dove non mi occorresse altro argomento per confermarmi in questo mio dubbio, me ne persuaderebbe l'odio veramente fraterno che adesso portiamo ai nostri antichi fratelli teutoni. A posta loro essi si spingono verso il mezzogiorno, desiderando scambiare le brume del cielo natio coll'azzurro del nostro, anelando il grappolo delle nostre vigne, l'olivo delle valli: — Lasciate, essi ci dicono, riscaldarci le membra intirizzite ai raggi del vostro sole; — voi ne avete goduto tanti anni! — Importuni Polinici che ci domandano il trono di Tebe, e da noi odiati come Eteocle odiava. Poichè la natura si mostrò a molti matrigna e ad altri molti madre parzialissima, io penso ch'ella abbia gittato nel mondo il pomo della discordia; e qui per quanto uomo s'affatichi, invano speri di trovare rimedio. Ancora nasce il debole ed il forte, nasce l'uomo di alto intelletto e lo scemo di senno; — irreparabili ingiustizie. Con opera non interrotta di secoli l'uomo arriverà forse a bilanciare in parte siffatte discrepanze, ma pure rimane sempre l'apparizione del genio suprema ingiustizia, meteora luminosa che sè stessa arde e gli occhi ai riguardanti consuma, forza prepotente, la quale, secondo che muove Arimane od Oromaze, afferrato pei capelli il suo secolo, lo strascina precocemente verso la libera civiltà o lo risospinge nella serva barbarie. — Ora parlo di noi uomini viventi. A coloro che tra i riposi di molli origlieri immaginano il sogno facile di umana felicità, compassione. A coloro, i quali consultano i destini degli uomini sui libri dalle fodere dorate, e non palpitano per le piazze e pei trivii in mezzo alla plebe vestita il corpo di fango, l'animo di delitto, compassione e dileggio. A coloro i quali non meno vili e più dannosi dei lusingatori cortegiani adulano le moltitudini, dileggio ed obbrobrio. Non sollevate ancora gli occhi alle stelle, avvertite a non traboccare dentro la fossa adesso adesso aperta ai martiri della libertà, o se gli sollevate, fatelo per pensare che i vostri mali vincono di numero le stelle dei cieli; voi avete concetti superiori, proponimenti inferiori al bisogno; mente alta, cuore codardo, braccio infiacchito; voi ordite un secolo avaro e superbo; obliosi movete oggi la danza dove ieri surse il patibolo per i vostri fratelli; come solevano i baccanti, voi empite l'aere di gridi, perchè nè da voi nè da altri s'intendano i lamenti dei mortariati e turbino le vostre vituperose feste; se vi uccidono l'amico, non dirò che a guisa dei lupi vi lacerate a brani il corpo di lui, bensì come pecore stupide continuate la pastura spensierati e leggieri; vanitosi, celebrate i fatti progressi, e non sapete che la millesima parte della lebbra sociale non fu per anche sanata, che, qualunque parte, comechè piccolissima, della lebbra rimanga, di per sè basta a procurare la morte. Teti tuffando Achille nelle acque di Lete obliava bagnargli il calcagno, e Paride, quivi appunto percotendolo l'uccise. I vostri fratelli furono balestrati in esilio, voi appena fuori delle porte gli avete dimenticati; — i vostri fratelli furono percossi di morte, e voi avete avuto, non che d'altro, paura di gemere sopra il fato acerbo di loro... di proferirne il nome! — i vostri fratelli furono sepolti in carcere, e voi non li avete consolati. E voi i civili, voi? Voi non avete la energia della barbarie nè il senno della civiltà virile. Prima di desiderare la libertà, imparate ad essere uomini; — piuttostochè volere repubblica, attendete a purgare i rei costumi. Finchè vi state così superbi, parabolani, frivoli, obliosi, leggieri, pei mali altrui di ghiaccio, fuoco per ogni maniera di diletti, io non abbisognerò della testa di Medusa per farvi impietrire: — pietra siete da voi. — Io vorrei come dentro uno specchio mettervi dinanzi l'anima vostra: — mostro più schifo non partorì natura, nè mente di poeta immaginò.

Io troppo bene conosco che, da insidiose blandizie lunsingati, saliti adesso, pel discorso inconsueto, in furore, mi maledirete... Maleditemi... e smentitemi, se potete; — intanto io vi dichiaro codardi, frivoli insanabilmente e in tutto degni della presente servitù. — Adesso riprendo la storia.

Quando avveniva un caso grave di pace o di guerra, in Fiorenza era costume del governo di chiamare a consulta, che dicevano Pratica, oltre i magistrati, certa copia di cittadini autorevoli a fine di ricercarli della loro opinione intorno ai privati pareri. Il quale abuso biasima meritamente l'istorico Iacopo Nardi, come quello che partoriva pessimi effetti; primo, perchè, non potendo adunare tutti i cittadini che invero erano o si reputavano autorevoli, gli esclusi si rimanevano scontenti e queruli; poi quelli che sapevano, secondo la consuetudine, avere ad esser chiamati, poco pregiavano i pubblici uffici e sè non esentavano con danno della repubblica; finalmente, i condottieri e i principi, ai quali bisognava negoziare con Fiorenza, riconoscevano questi concittadini come perpetuo magistrato, e così il governo veniva a perdere di reputazione. Siffatta costumanza cominciò dal tempo delle civili discordie tra guelfi e ghibellini, bianchi e neri, nel quale avveniva che i principali della fazione fuoruscita, tornati vittoriosi a casa, volessero ingerirsi nelle consulte, trattandosi della salute propria e della parte. E quantunque nel secolo della nostra storia cotesta necessità fosse cessata, pur tuttavia continuava il costume; tale essendo la natura delle abitudini, buone o triste elle sieno, quando una volta si lasciano invecchiare nella mente dei popoli.

Il caso era grave davvero, perchè si trattava se dovesse Fiorenza accordare co' patti dettati dal Papa, o se piuttosto, rotti gli accordi, mettersi alla ventura delle armi. Inoltre il gonfaloniere Francesco Carducci tanto più volentieri aveva adunato la Pratica in quanto che col chiamarci uomini di varie fazioni pensò potere conseguire che, trattando domesticamente tra loro, venissero a dimettere alquanto della scambievole selvatichezza ed accordarsi in pro della patria comune: o se non riusciva a persuaderli di fare di per sè stessi questo bene, convenissero almeno a confermare il gonfalonierato di lui, il quale avrebbe molto acconciamente saputo provvedere alla comune salvezza. Pensò ancora di acquistarsi grazia nell'universale; però che, sebbene si sentisse atto a grandi cose; non ignorava essere giunto a quel sommo grado con sorpresa di tutti e sua, scemargli il credito le poche fortune, il fallimento della sua ragione mercantile in Ispagna, il parentado, comunque illustre (che si vantava discendente di san Giovanni Gualberto, antico barone del contado e galantuomo davvero), oggi ridotto in pochi ed umili capi. Le quali cose, come vedremo, il Carducci non solo non ottenne, ma invece acquistò le contrarie; — colpa non sua, sibbene della fortuna, la quale delle due faccie che gli umani casi presentano, sorridendo all'una, è cagione che l'altra, malgrado gli argomenti umani, vada in rovina.

Nelle stanze della Signoria assai prima che la campana, detta la Tonaia, chiamasse i cittadini in Palazzo, egli aveva convocato uomini di ogni maniera faziosi. Erano andati prontissimi tutti Iacopo Nardi, Michelangelo Buonarotti, Bernardo da Castiglione, Zanobi Buondelmonti, Lorenzo Cambi ed altri non pochi per amore di libertà: Zanobi Bartolini e Ludovico Capponi per iscoprire gli umori e governarsi a seconda del vento; Luigi della Stufa, Matteo Nicolini, Ottaviano dei Medici, Luca degli Albizzi, Francesco Antonio Nori per paura, tenendo scopertamente per le palle.

Il Carducci, a mano a mano che giungevano, con dimostranze cortesi gli accoglieva, domandava perdono se avesse loro arrecato disturbo, ma in cosa di tanto momento non credersi facoltato a deliberare senza di loro: attendessero che gli altri venissero; egli intanto esaminare i rapporti della provincia. — E così favellando si accostava ad una tavola immensa ingombra di carte, dove faceva sembiante di leggere. — Il Carduccio, per ordinario pallido, adesso era livido, sia che avesse vegliato la notte, o le cure soverchie lo travagliassero; — e Iacopo Nardi, considerando cotesta sua faccia cadaverica ricinta sotto il collo da un lucco di velluto cremesino, sentì come abbrividirsi dentro, parendogli quelle pieghe rosse rivi di sangue che scaturissero dalle vene tronche della gola: rispose al sorriso del gonfaloniere stringendogli forte la mano e sospirando profondo. Questi però, simulando di leggere, osservava attentissimo gli atti ed ascoltava i detti dei convocati, e a tal fine adoperava l'udito, che la natura gli aveva concesso maraviglioso, e la strana facoltà di potere in due punti diversi indirizzare nel momento stesso il raggio visuale degli occhi. Vide i Palleschi ossequiosi volgersi agli Arrabbiati, e questi con mali modi e peggio parole ributtarli e restringerli insieme; — notò i Palleschi e gli Ottimati rimanersi ristretti alcun tempo, ricambiarsi la favella, ma alla perfine dividersi per istudio degli ultimi a malgrado dei primi: non gli sfuggì il corpulento Bartolini fare ad ognuno e restituire saluti, e non pertanto schivati i colloquii rimanersi solo: nè il Carduccio sfuggì al Bartolino; acuti entrambi, entrambi speculatori sottilissimi degli uomini, ingegnosi, amanti di libertà; ma il Bartolino per ingiurie ricevute, quindi facile a piegare il Carduccio per ambizione e come cosa propria, quindi istrumento di libertà capacissimo e fedele. Poichè lo scopo di averli adunati per tentare se potessero mescolarsi il gonfaloniere conobbe perduto, egli, depositando sulla tavola il fascio delle lettere, quasi avesse terminato di leggerle, dirigendo la parola ai convocati, così cominciò:

«Male nuove, messeri. Il dominio per la massima parte perduto; la rimanente, secondo i rapporti dei commissari, travagliata dai partigiani dei Medici, vacilla nella nostra devozione: — pericoli maggiori dentro: l'erario vuoto.»

«Se per lo addietro», rispose tempestando Bernardo da Castiglione, fosse stato creduto a me e agli altri che sono del mio animo, forse in questo giorno noi non avremmo a consultare se si debba perdere o non perdere questa libertà; perchè se ci fossimo vendicati arditamente contro alle case, contro alla vita e contro alla roba dei nemici nostri e traditori della patria, noi non avremmo oggi tanta paura di loro in questi travagli, nè il Papa, confidato in questi perversi cittadini, avrebbe mosso la guerra per rimettere sè e loro nell'antica tirannide[120]

E l'Arrabbiato guardava bieco i cittadini palleschi.

«Cotesti vostri modi», riprese Ludovico Capponi, «messere Bernardo, ci avrebbero dato tirannide nuova, peggiore dell'antica: rammentate che ai forti piacciono i consigli magnanimi, ai deboli i crudeli. Procedendo come abbiamo fatto fin qui, ci rimane sicura speranza di accordi pei quali, sfuggita la guerra, conserviamo libertà onestamente moderata ai tempi, ai costumi ed alle voglie degli uomini possibile.»

«Libertà da Giulio dei Medici voi non vi potete attendere neppure moderatamente onesta! Sperate piuttosto mille fiorini in prestanza dal giudeo senza pagargli l'usura. Ah! Ludovico, sul letto dove si fanno cotesti sogni, si alzano le forche per cortinaggio, e pende un bel capestro per tendina.»

«Patteggiando, messere Bernardo, restiamo intieri, abbiamo forza e possiamo costringere a tenere i patti; — vinti poi, dispersi, spenti, nelle sostanze rovinati, empiremo le terre d'Italia di pianti inutili e le più volte derisi.»

«E chi vi ha detto, Ludovico, di esulare per Italia! i Saguntini non esularono; — non esularono i Cartaginesi; — non esularono i Sanniti, — non i Giudei; e intorno alla prima parte del vostro discorso, io vo' che sappiate dieci battaglie perdute non pareggiare il danno di sei mesi di tirannide.

«E quale sarebbe il parere vostro, onorando messere Zanobi?» domandò all'improvviso il gonfaloniere guardando fissamente il Bartolino.

E questi spedito rispose:

«Vi dirò, magnifico messere gonfaloniere, le opinioni di per sè stesse non valgano nulla; — tutte buone, tutte cattive: e' bisogna prima disaminare per bene i fatti; e questo, come vedete, spetta a voi: — se davvero il dominio è perduto, la fede dei cittadini e soldati vacillante, la pecunia nulla, accorderei salvando parte di quello che altrimenti mi toccherebbe a perdere intiero; se poi non per anche giungemmo a tanto estremo, non precipiterei nulla per godere il benefizio del tempo ad aspettare le nuove dei Luterani e dei Turchi.»

«Queste risposte sanno di oracoli. — Dei due fatti bisogna supporre uno: — così non verremo a capo di nulla», — mormorava a mezza voce il Carduccio; e il Bartolino, tornato alla primiera impassibilità, fingeva non intendere parola.

«La fede dei cittadini vacillante?» favellava pieno di passione Iacopo Nardi. «Sì, ma di pochi tristi. Le casse vuote? Sì, perchè non volete prendere il danaro dove si trova, ed invece lasciate adoperarlo ai nostri danni. Almeno volgetevi alla carità del popolo: i ricchi non hanno viscere, e il popolo vi porterà il suo ultimo soldo, il suo ultimo figliuolo...»

«In fè di Dio io non so chi mi tenga le mani che non te le cacci nei capelli e non ti renda più mondo dello zuccone di campanile[121] »

«Silenzio, donna! Abbiate rispetto al palazzo dei Signori.»

«Senti! O che li tolgo in dispregio io? Ma fammi almeno contenta di dire a messere Francesco da parte mia che ho da parlargli.»

«E chi siete voi?»

«Io mi chiamo monna Ghita e sono setaiuola conosciuta per tutto Borgo San Friano.»

«Or bene, monna Ghita, aspettate.»

«Aspettate! — Ella è una parola cotesta; ma noi poveri lavoranti non siamo mica come voi altri signori soldati, che ve ne state il giorno intero a baloccarvi con la partigiana in su le spalle mentre v'è chi pensa a infornarvi il pane e a mescervi il vino: a noi tocca guadagnarcelo menando le mani da mattina a sera; e tante volte non basta. Prima dell'assedio un'ora o due non guastava; ora poi il vivere è così caro che, non l'ora, il minuto assottiglia il vivere: non sapete voi che il grano costa sette lire lo staio quando se ne trova, e il vino dieci fiorini d'oro il barile? Ma voi non sapete nulla, perchè non li comprate... — Corto — andate o non andate ad avvertire messer Francesco?»

.... Io dunque ve l'ho condotto, e vi prego a volerlo accettare,... Cap. VII, pag. 176.

«Buona donna, andatevi con Dio: — vi par egli che il magnifico gonfaloniere possa lasciare la consulta per ascoltare una femminuccia qual siete voi.»

«Soldato, tu se' forestiero e servo: se tu fussi de' nostri, sapresti qui non si conoscere femminucce nè madonne, il grande contare meno del popolano; se il grande vuol tenere gli uffici, essergli forza ascriversi alla matricola delle arti: — la mia famiglia appartiene all'arte di Por Santa Maria, come quella di messere Francesco Carducci: ambedue abbiamo traffico di seta; egli la compra in balle, io gliela incanno, gliel'addoppio e gliene fo matasse... eppure intrambi eguali di condizione.»

Siffatto colloquio discorso con voce concitata le più volte sdegnosa, nella stanza antecedente alla sala dove stavano a consulta il gonfaloniere e gli altri cittadini, sospese i ragionamenti di loro; e quale più qual meno si mostrava curioso di conoscere la cagione della pressa singolare che faceva la donna. Onde il gonfaloniere, quella vaghezza leggendo sul volto ai circostanti, senza aspettare di esserne sollecitato chiamò la guardia e le ordinava lasciasse passare.

E subito dopo comparve arditamente una donna di sembianze strane; alta della persona, magra, adusta dal sole sicchè sembrava di colore del rame. I muscoli del collo grossi e protuberanti, le vene turgide, le labra vermiglie e, comunque tacessero, agitate; le narici ansose, gli occhi fulgidissimi e perpetuamente volgentisi da un lato all'altro; i contorni del volto squadrati, la faccia ossuta. Moveva le braccia a guisa di remi; e considerando le mani forti e l'unghie adunche di che andavano fornite non era da reputarsi di poco momento la minaccia fatta al soldato. — Entrò, come dissi, audace nel sembiante e negli atti; ma tosto che si vide in mezzo a quel consesso, declinò lo sguardo e si rimase muta e vergognosa. Per lo che il Carduccio, motteggiando, amorevolmente le domandava: «Ora via, monna Ghita, lasciaste voi per avventura la lingua al beccaio?»

«Messer no, bensì credeva che il soldato mentisse il consesso, nè mi aspettava trovarmi al cospetto di tanti magnifici che vanno per la maggiore...»

«E non andate anche voi per la maggiore? Il vostro nome non è egli scritto nella matricola dell'arte della seta?»

«Oh! per l'arte, dite bene; ma infine dei conti a me pare che tutte le disparità mettano capo a queste sole due: avere e non avere... E nondimeno io parlerò, e questi signori mi scuseranno: e se non mi vorranno scusare, mi rincarino il fitto, perchè io faccio opera buona. E per dirvela in breve (chè a voi altri messeri premerà il vostro tempo, ed a me preme anche il mio), ecco di che si tratta: e' mi hanno fatto sapere come qualmente la Signoria ordinò si gridasse per le strade e si appiccasse su pei muri un bando, affinchè chiunque si trovasse da avere figliuoli da diciotto a trentasei anni ed ori ed argenti, li portasse al palazzo della Signoria per essere adoperati in difesa della nostra patria... Ora mi trovo ad avere questo figliuolo... — Vieni oltre, Ciapo, e saluta i messeri.»

Qui gli occhi di tutti si fissarono sopra un garzone adolescente tuttavia, ma grande e grosso, di membra validissime, armato di spada, di partigiana e di barbuta. Egli come volle la madre, si avanzò di alcun passo e con piglio soldatesco riverì il gonfaloniere e gli altri adunati. Allora monna Ghita continuò:

«Ciapo non arriva ancora a diciassette anni, ma Ciapo è tale da fiaccare l'ossa con un pugno a quanti qui siete dentro, sia detto senza superbia. Cotesto vostro bando, con reverenza di voi tutti, messeri, non mi sa di nulla. Oh! che? son gli anni che rendono capace di portar arme e affaticarsi nel campo? il mio Ciapo di sedici anni e otto mesi, perchè deve entrare nel diciassette come si arriva alla festa di san Zanobi, può fare quello, e più, che non fa un altro di trenta. Dunque deve farlo ancora egli. Ciapo è buon figliuolo; ha il santo timore di Dio, lavora per la sua povera madre, e prega tutte le sere per l'anima di suo padre. — Da lui in fuori io meschina non ho altri nel mondo. Rimango sola; — ma che monta questo? Quando ho sentito il bando, gli ho detto: Ciapo, prendi la barbuta, la partigiana e la spada di tuo padre e vieni ad arrolarti alla ordinanza della milizia. Adesso ti bisogna difendere tua madre e la tua casa. — Qui Ciapo mi ha risposto: Non ci moviamo, madre mia: per voi, dormite sicura che nessuno vi toccherà la punta di un dito; in quanto alla casa poi, che domine volete che portino via? E' non v'è chiodo d'appiccare il capuccio. — Le quali parole mi fecero impressione, perchè Ciapo diceva la verità, essendo i miei anni tanti da rendermi ora più paurosa del demonio che dei soldati, e la casa ignuda di masserizie quanto il palmo della mano: ma stata alquanto sopra di me, soggiunsi: Va tuttavia, se non difenderai le donne e robe tue, difenderai quelle degli altri; e poi mantenendo questo stato, se un signore ti reca ingiuria, dimani diventa si può dire come te di petto alla giustizia, e tu puoi accusarlo agli Otto, mentre nei reggimenti dove un solo comanda a tutti e sempre, non sai in che modo rifarti. — E senti ancora quello che predicava il beatifico frate Girolamo, perchè non hai avuto il bene di ascoltare quella santissima bocca: — Cristiani e fratelli miei, vale meglio pane di fava in repubblica che pane d'oro sotto il principato. — E Ciapo m'interruppe esclamando: Basta... andiamo. — Io dunque ve l'ho condotto, e vi prego a volerlo accettare, ch'egli mi promesse di portarsi da valentuomo e da figliuolo degno di Bindo del Tovaglia suo padre, che Cristo abbia in gloria.»

Le guancie livide del Carduccio comparvero lievemente tinte in rosso; sciolse un sospiro, e la soverchia commozione gli troncò la parola. Gli altri, rimordesse coscienza o maraviglia esaltasse, tacevano. — La donna soggiunse:

«Solo vogliate nutrirlo, imperciocchè io non potrei fare le spese a me ed a lui. — Oh! un'altra cosa. Davvero ella è una miseria, ma ogni pruno fa siepe:» (così favellando monna Ghita si fruga per le tasche) «in fondo della cassa ho trovato questo paro di gocciole d'oro che mio zio Baccio aggiunse alla donora quand'io andai a marito; se avessi trovato di più, di più vi avrei portato; e mi ricordo che mi disse esserci il valsente di meglio che quattro fiorini d'oro, e averglielo affermato con sacramento l'orafo che sta da San Brancazio: — io non ci credo, perchè gli orafi vivono senza fede nè legge; nondimanco, costino quello che costino, varranno a pagare una settimana un uomo d'arme. — Messeri, state sani; il Signore vi dia il buon giorno e il buon anno. Badate ad avere cura della patria: io per me torno a badare al filatoio: se avete seta da filare, vi sovvenga di monna Ghita, nel borgo San Friano; tutti v'insegneranno la mia casa, perchè la chiesa conviene che campi sopra la chiesa. Ciapo, figliuolo mio, ricórdati, davanti al Crocifisso che tengo a capo del letto, avermi promesso di tornare ad annunziarmi libera patria, o non tornare più: attendi a mantenermi la promessa, perchè se mi capiti in casa vinto, io ti chiudo l'uscio in faccia e dico al vicinato averti raccolto per la strada, non già portato in questo fianco nè con questo seno nudrito: hai tu inteso? Addio.»

Il Carduccio, alzate le mani, corse ad abbracciare la donna e intenerito esclamava:

«Ghita, se la repubblica contenesse dieci cittadini dell'animo vostro, il nemico non accamperebbe adesso sotto le mura di Fiorenza.»

E gli altri, simulando od esprimendo verace ammirazione, l'erano attorno celebrandola con ogni maniera di lode. La donna, districandosi da loro, come selvatica, con alta voce gridò:

«Mal concetto, messeri, prendo di voi; ed ora incomincio a dubitare della patria davvero, perchè voi tanto non levereste a cielo il debito del buon popolano, se aveste cuore e volere da soddisfare al vostro. Badate che al cavare delle tende non si abbia a dire di voi come del perdono di sere Umido: baci di molti, e quattrini punti[122]

Iacopo Nardi, tratta fuori di tasca una carta, notava; e quando ebbe notato la piegò e se la ripose diligentemente in seno, mormorando: — Quando ogni altro esempio di virtù ai nostri tempi mancasse, questo unico basterebbe a farmene scrivere la storia[123].

Michelangiolo anch'egli non alitava, l'anima tutta gli si era trasfusa negli occhi; l'osservava in ogni suo moto nel girare dei muscoli, nello stringere delle ciglia. E non contento di starsi alla superficie, le penetrava oltre la cute e, per così dire, indovinava la recondita notomia di quel volto: dardeggiando veloce lo sguardo da lei ad un foglio e dal foglio a lei, con la mano rivelatrice dell'alto intelletto effigiava il tipo della parca che taglia la vita, la quale poi dipinse con le altre due compagne, meraviglia dell'arte, nella tavola che si conserva nella galleria di Palazzo Pitti a Fiorenza.

«Magnifici signori,» disse un mazziere della Signoria entrando in fretta, «gli oratori spediti a Bologna, arrivati a Porta San Gallo, hanno mandato un cavallaro innanzi per avvertirvi che scavalcheranno al Palazzo.»

«Ordinate che cessino di sonare la campana: — se vi aggrada, messeri, possiamo scendere in sala. — Voi, monna Ghita...» La donna era scomparsa; e quando nello scendere le scale, il gonfaloniere si accostò al balcone, la vide traversare veloce la piazza, come vogliosa di rimettere il tempo perduto.

Entrarono nella sala, assai diversa da quella che ai tempi nostri vediamo. Non per anche ella appariva contaminata su le pareti con le immagini di due atroci ingiustizie, una della Repubblica, l'altra del Principato, voglio dire le guerre di Pisa e Siena. — Non per anche i popoli, ponendo il piede dentro quel recinto, sentivano comprendersi dal ribrezzo al pensiero dell'incesto quivi commesso dal primo gran duca Cosimo dei Medici, d'iniqua memoria, sopra la sua figlia Isabella. — Ella era quale l'aveva ordinata frate Girolamo Savonarola al suo amico Simone detto il Cronaca, semplice, bassa, scarsa di lumi, col solaio scompartito a quadri di legnami, larga braccia trentotto, lunga novanta. Mai non avevano fabbricato in Italia sì vasta sala nè i Veneziani nè i papi nè i duchi di Milano o i re di Napoli. Quando la voce di frate Girolamo fece prevalere il reggimento popolare al governo dei pochi, che aveva durato sessant'anni in Fiorenza, provvidero si costruisse un locale capace di contenere tutti i cittadini adunati in consiglio generale. Il buon Simone con tanta prestezza attese si conducesse a termine che lo stesso Savonarola ebbe a dire «che gli angioli in quell'opera si esercitassero in luogo di muratori ed operai perchè più presto fosse finita[124]

Quantunque io abbia affermato poc'anzi che il Savonarola[125] predicando facesse un reggimento largo e popolare prevalere allo stretto e dei pochi, già non si creda ch'ei partegiasse a rendere la plebe signora, dominio acerbo quanto quello del tiranno. Fu pei suoi conforti composto il Consiglio prima di ottocento trenta, poi di mille settecento cinquantacinque cittadini, oltre i trent'anni, amorevoli della repubblica, netti di specchio. Imperciocchè egli sapeva essere le adunanze della plebe istrumento certissimo di servitù; epperò quando i cittadini ambiziosi non potevano vincere co' modi legali, s'ingegnavano chiamare la plebe in piazza, rimettere in lei l'autorità del governo e lusingarla o costringerla ad eleggere alquanti uomini i quali avessero soli autorità di riformare lo stato quanta ne aveva il popolo di Fiorenza tutto insieme. I quali due modi si chiamavano parlamento e balía. E la storia aveva insegnato esserne derivati pessimi effetti, simili a quelli che anticamente partorirono nella repubblica romana e in tempi più recenti nel regno di Polonia, allorchè una Polonia stava in piedi, e i popoli si eleggevano un re. Frate Girolamo, che del reggimento degli stati, se quel suo zelo soverchio per la religione non l'offuscava, intendeva assaissimo, attese molto diligentemente a persuadere altro essere libertà, altro licenza, popolo non doversi confondere con la plebe, consiglio generale differire da tumulto in piazza; ed in ammaestramento perpetuo che la sfrenata larghezza dei consigli è madre certa di tirannide, volle nella gran sala a lettere maiuscole fosse scritta la stanza seguente:

Se questo popolar consiglio e certo

Governo, popol, della tua cittate

Conservi che da Dio ti è stato offerto,

In pace starai sempre e in libertate:

Tien' dunque l'occhio della mente aperto,

Chè molte insidie ognor ti fien parate,

E sappi che chi vuol far parlamento

Vuol tòrti dalle mani il reggimento[126].

Intorno alla mura della sala avevano ritta una ringhiera col piano alto tre braccia sopra il pavimento, balaustri davanti e seggi come in teatro; quivi dovevano sedersi i magistrati della città. Nel mezzo della parete volta a levante, sopra residenza più eminente, stavano il gonfaloniere di giustizia e i Signori: — nella facciata dirimpetto era l'altare, e accanto all'altare la tribuna, in quel tempo chiamata bigoncia, per gli oratori. Nel mezzo poi della sala si vedevano panche disposte in fila per i cittadini. Tal era, nei tempi di cui narro la storia, la sala del Palazzo della Signoria, ai giorni nostri volgarmente chiamato Vecchio.

Mi sia concesso con quella brevità ch'io potrò maggiore esporre quali si fossero i magistrati che partecipavano alla Pratica, come nascessero; quanto e quale potere esercitassero. Duri tempi ci stanno addosso; sicchè all'uomo, per ristorarsi delle presenti miserie, conviene che si volga al passato o al futuro. Tra le memorie e il desiderio noi trasciniamo vita piena d'amarezza; — il futuro si distende grande, infinito davanti a noi, ma vago, illuminato da splendore incerto, dove ogni creatura immagina a suo senno un fantasma. Il passato invece si mostra circoscritto, ai bisogni nostri incompleto, pur nondimeno distinto. Il passato è irrevocabile, — il tempo caduto nella eternità uscì dal dominio degli uomini e da quello di Dio. Del futuro non ispuntò anche l'alba del giorno fatale, e le generazioni, quasi disperate della lunga notte della doppia tirannide che le opprime, tengono da secoli la faccia volta all'oriente osservando se comparisce il raggio divino. — Quanto tarda a comparire quel raggio! A cui talenta spaziare pei campi dell'avvenire, vi s'immerga intiero e ci rallegri con illusioni, con isperanze, con vaticinii e, se gli riesce, con sicurezza di meglio, onde tre quarti del genere umano continuino il travaglioso pellegrinaggio della vita. In verità la nostra misura è colma, il peso grave, l'assenzio dell'anima senza fine amaro. Io punto da diversa voglia continuerò a ricercare nelle ceneri dei padri, a interrogarne i sepolcri. Ah! padri miei, voi premete un duro guanciale di terra; voi preme una grave coltre di terra; — voi forse ora siete tutta terra... e nonpertanto v'invidio perchè riposate.

Il magistrato dei Signori ebbe origine antica, fu ordinato nel 1282; — dapprima erano tre, poi sei, essendo la città divisa in sestieri; alla fine otto, quando la ridussero a quartieri. Ma, siffatto magistrato non bastando a frenare la prepotenza dei nobili, crearono nel 1292 il gonfaloniere di giustizia, al quale dettero sotto venti bandiere mille uomini, onde si trovasse sempre parato a favorire le leggi. Primo eletto fu Ubaldo Ruffoli; e trasse per la prima volta fuori il gonfalone per disfare le case dei Galletti, avendo uno di quella famiglia ucciso in Francia un popolano. Il gonfaloniere e la Signoria esercitavano, da principio, grandissimo potere, stando nella facoltà di quelli fare o non fare quanto loro meglio piacesse. Dal 1494 insino al 1512, e dal 1527 al 1530 poi, sibbene il Consiglio Grande fosse vero e legittimo signore, nondimeno cotesti due magistrati ritenevano gran parte della sua autorità. Uscito fuori dal bisogno e per avventura dall'ira, cotesto ufficio riunì un tempo entrambi i poteri che noi diciamo deliberativo ed esecutivo; in seguito, procedendo nella scienza di governare lo stato, l'autorità del deliberare fu, come si doveva, restituita ad ampia assemblea, ed essi ritennero il potere esecutivo, il quale nondimeno divisero in altri magistrati subalterni, come sarebbe a dire i Dieci, ai quali commisero l'incarico di vigilar su le cose della pace e della guerra, i Nove preposti a provvedere alle milizie del contado, gli Otto all'amministrazione della giustizia criminale, ed altri ad altre cose.

Dopo la Signoria, nel reggimento della Repubblica Fiorentina comparivano notabili i sedici gonfalonieri. È incerto se Giano della Bella nel 1292, o il cardinale da Prato, mandato nel 1303 da papa Benedetto XI a pacificare la città, gl'istituisse. Fu da principio ufficio loro esclusivo sovvenire la Signoria e il Palazzo, correre alle case dei popolani, se vedessero i grandi assembramenti per isforzare il governo, operare in somma quanto fosse necessario onde rimanesse illesa la legge, e perchè meglio l'ufficio loro eseguissero, ebbero nel 1323 i cinquantasei pennoni, tre per gonfaloniere, ed alcuni quattro, con i quali, quando il gonfaloniere di giustizia chiamava il popolo alle armi, erano tenuti ad andargli dietro con le compagnie loro assegnate. Mutati i tempi e gli ordinamenti, non più si ebbe bisogno che uscissero in arme ad accompagnare il gonfaloniere di giustizia nella tumultuosa esecuzione di sentenza che pareva, ed era le più volte, vendetta: ma nondimeno, avendo acquistato riputazione grandissima, ordinarono che la Signoria, quando avesse a fare alcuna pubblica deliberazione (come confermare le spese commesse dai magistrati della Repubblica, creare nuove leggi, imporre gravezze), non potesse alcuna cosa eseguire senza di loro. Avevano titolo di venerabili; insieme con i dodici Buonuomini componevano i così detti Collegi, e si chiamavano ancora li Tre maggiori. Chiunque il padre o l'avo del quale non era veduto far parte di questi maggiori non poteva essere promosso agli uffici pubblici. La città andava divisa in quartieri, per la riforma che ne fu fatta dopo la cacciata del duca di Atene. Per lo innanzi fu spartita in sestieri. Ogni quartiero aveva un gonfalone collegiale e quattro particolari. San Spirito prese per gonfalone collegiale la colomba bianca con raggi d'oro fuori del becco in campo azzurro; gli altri scala bianca in campo rosso; quadro bianco seminato di nicchi rossi in campo azzurro; sferza nera in campo bianco; drago verde in campo rosso. Santa Croce ebbe in gonfalone collegiale croce rossa in campo bianco; — gli altri furono, due ruote cerchiate bianche e nere; una ruota di carro di color d'oro in campo azzurro; toro nero in campo d'oro; lione d'oro in campo azzurro. Santa Maria Novella per gonfalone primario un sole d'oro in campo azzurro; e gli altri, lione bianco in campo azzurro; lione rosso in campo verde; vipera verde in campo d'oro; unicorno bianco in campo verde. San Giovanni, il tempio in campo azzurro; gonfaloni minori, le chiavi rosse incrociate in campo d'oro; il vaio bianco e nero; il drago verde in campo d'oro; lione nero in campo bianco.

Terzo maestrato maggiore costituivano i Buonuomini; dodici di numero; istituiti nel 1321; nel qual tempo essendo la città molto travagliata dalla fazione di quelli che volevano entrare nel governo, e non provvedendo a sì fatto disordine i Priori come dovevano, furono eletti questi dodici Buonuomini, perchè assistessero i Priori, i quali d'ora in poi non potessero fare deliberazione alcuna d'importanza senza il consiglio loro: si dissero Buonuomini perchè cavati fra quelli che avevano fama, oltre la sufficienza, di grande bontà. Nella riforma del 1494, epoca della seconda cacciata dei Medici, si provvide che eglino insieme ai sedici gonfalonieri ed alla Signoria intervenissero a fare stanziamenti, creare nuove leggi ed altri ordini; nè senza la presenza loro il Consiglio Grande potesse eleggere magistrato, o far cosa altra qualunque. Incombeva loro altro ufficio, ed era la guardia della porta del Palazzo nei tempi turbolenti contro chiunque volesse sforzare i Signori. Però, durante lo spazio compreso nella nostra storia, di e notte vigilarono alla custodia della Signoria.

Dei Nove non occorre per ora parlare, i quali attendevano alla milizia del contado e del dominio fiorentino; e perduto il dominio, furono deputati sopra le fortificazioni della città.

Altrove terremo proposito degli Otto di guardia, magistrato criminale sostituito ai capitani di popolo. — Diremo adesso brevemente dei Dieci di libertà e pace.

I Dieci furono magistrato assai antico, imperciocchè se ne trovi fatta menzione nella storia delle guerre che Firenze sostenne con suo infinito pericolo contro i duchi di Milano. In pace si sopprimeva, in guerra si tornava ad eleggere. Qualche volta invece di dieci fu composto di otto, e si chiamarono di Pratica. L'amministrazione dei Dieci si estendeva oltre ogni credere; in loro stava la salute o la rovina della patria; a loro apparteneva negoziare co' principi, praticare gli accordi, promuovere le leggi rispetto alla pace o alla guerra, soldare capitani, fanterie e gente di armi; e, bisognando condurre governatore o capitano generale, a loro spettava considerare diligentemente chi per fede e valore fosse degno di tanto grado, comechè simile condotta non si tenesse per conclusa dove prima non la confermasse il consiglio degli Ottanta. Era parimenti ufficio dei Dieci apprestare le fortezze del dominio, mettervi presidii, artiglierie, polvere e di ogni maniera provvisioni. Avevano autorità di mandare commissari particolari del dominio, od anche eleggere per commissari quelli che andavano in reggimento. Gli ambasciatori e commissari generali sebbene nel consiglio degli Ottanta si creassero, nondimeno, quando andavano ad eseguire i negozi, la Signoria imponeva loro che scrivessero ai Dieci; e quanto questi comandassero, facessero: però gli ambasciatori innanzi la partita andavano per le istruzioni a quel magistrato; giunti presso i principi, a lui scrivevano tutto quello che occorreva, e i comandi che per risposta ricevevano, eseguivano. L'autorità di questo magistrato compariva in diritto eccessiva, perchè poteva muovere guerra, far pace, stringere lega con cui meglio gli pareva: nondimeno in fatto non assumeva sì grave carico, e nelle deliberazioni di momento si consigliava con la Pratica. Furono segretari dei Dieci, col titolo di Segretari della Repubblica Fiorentina, gli uomini più illustri che a mano a mano onorassero i secoli. Tanto piacque nei tempi andati ai Toscani mantenere presso i popoli stranieri fama d'ingegnosi e schivare quella di stupidi: Coluccio Salutati; Lionardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, Cristoforo Landini esercitarono l'ufficio di segretario; più grande di tutti loro Nicolò Machiavelli, a, cui, ristorato il governo repubblicano, fu per opera degli ottimati preferito un Francesco Tarugi di Montepulciano, e questo morto di lì a breve tempo, con molto migliore consiglio elessero per segretario Donato Gianotti, reputato e dabbene, dalle opere del quale sono estratte per la massima parte le precedenti notizie[127].

Già la sala era ingombra di cittadini chiamati dal suono della campana; e andavano trattenendosi in vari ragionamenti, divisi in capannelli, liberamente discutendo le proprie opinioni, sicchè ne usciva un frastuono simile al zufolio del vento per le foreste. Quando comparve la Signoria ogni uomo si tacque e si affrettò ad occupare il posto conveniente alla dignità di ciascheduno. I magistrati si posero sulla ringhiera, il popolo per le panche, il gonfaloniere con la Signoria sopra il suo seggio.

Appena seduti e ricambiato il salutare, i tavolaccini apersero l'ultima porta della sala a mano sinistra del gonfaloniere, ed uno di loro gridò:

«I magnifici ambasciatori.»

E subito dopo furono veduti entrare Iacopo Guicciardini, Andremo Niccolini e Luigi Soderini, mesti in sembiante e in gramaglia, cosicchè a molti quella improvvisa comparsa era segno di augurio sinistro. Fattisi presso al seggio dei signori, con molta solennità gli ossequiarono, aspettando per favellare che ne fosse loro trasmesso il comando.

«Quando partiste», cominciò il gonfaloniere, «da Fiorenza, eravate quattro. Donde avviene che siete scemati? Dov'è messer Niccolò Capponi? Quale cura lo trattiene adesso?»

«Nissuna: — anzi egli adesso va sciolto da tutte, rispose Iacopo Guicciardini. — In Castelnuovo di Garfagnana spirò la sua dabbene anima, invocando la patria e con preghiere caldissime raccomandandola.»

Lorenzo Segni, che per avere condotta a moglie la ginevra, figliuola di Piero Capponi, era cognato di Niccolò, udendo l'acerba novella, forte si percosse la fronte ed esclamò:

«Ahimè! perdemmo il migliore cittadino di Fiorenza.»

Lionardo Bartolini, soprannominato il Leo (il quale era uno dei Sedici; e patteggiando per la setta degli Arrabbiati, non si scompagnava mai da Bernardo, Lorenzo, Giovambattista, Dante ed altri della famiglia Castigliona; da Battista del Bene, detto il Bogia, Giovanni degli Adimari chiamato Zocone, Giovanni Rignadori, per soprannome Sorgnone, ed altri della medesima setta), mal comportando la lode smodata ad uomo, che sempre avevano ripreso mentre viveva, rispose ad alta voce:

«Ed il peggiore magistrato...»

Lorenzo, levando la faccia e torcendo nel Bartolini gli occhi dove il subito furore aveva inaridito le lacrime della pietà, come quello che arditissimo uomo era, con grande animo soggiunse:

«A me non faceva mestieri altro esempio per convincermi essere i peccati delle republiche la ingratitudine e la invidia.»

«Via il pallesco! — Taccia l'ottimato! — silenzio!...»

E queste parole con gridi deliranti si urlavano, con frequente pestare di piedi e gesti furibondi, dalla fazione degli Arrabbiati.

«Silenzio a tutti!» balzando in piede dal suo seggio prorompe il Carducci.» Non è luogo questo, nè qui foste adunati per celebrare o riprendere le azioni dei cittadini. Il predicatore al mortorio preconizzerà il defunto messere Nicolò; la storia lo giudicherà nei suoi volumi. Ambasciatori, esponete.»

«Quantunque», con voce concitata incominciò a favellare Iacopo Guicciardini, «a noi fosse più grave patirli che a voi ascoltarli, ci sia non pertanto permesso di tacere gli strazii vergognosissimi co' quali papa Clemente, il dabben cittadino, intese a renderci contennendi davanti i maggiori baroni della cristianità adunati a Bologna per la incoronazione dell'imperatore. Noi non mancammo, a seconda delle istruzioni ricevute, di visitare i cardinali Farnese, Santa Croce e Campeggio; in particolare colloquio raccomandammo la Repubblica al gran cancelliere, ma, secondo il costume di corte, avemmo cerimonie e c'industriammo ottenere la udienza promessa dal maggiordomo maggiore. Dopo lungo aspettare per bene quattr'ore, vilipesi e derisi nelle anticamere, fummo licenziati a cagione che, essendo sopravvenuto a Sua Maestà un subito negozio, non poteva darci ascolto[128]. Non mancammo però di complire monsignore di Nassau, il quale, poco intendendo, meno facendosi intendere, non so se per dileggio o per ignoranza, rispose non bisognare intercessione, però che il papa, essendo dei nostri, avrebbe certamente adoperata benignità alla sua patria. Don Francesco di Covos, commendatore maggiore di Lione, invece di confortarci, ci minacciava guai, se non avessimo convenuto con Sua Santità e presto. — Ah! cittadini miei, quanto io ami la patria, sapete; i sagrifizi che io sono pronto a fare per lei potrete uguagliare, non superare. A me poco premono gli averi, la vita nulla: e nondimanco io torrei piuttosto danni anche maggiori, se maggiori si possono apportare all'uomo, che soffrire un'altra volta tormento come questo, senza pari nel mondo. Per compire intiero l'ufficio doloroso, non volemmo tralasciare il confessore di Cesare, il quale distintamente ci rispose avere Sua Maestà fatto consigliare questa causa, tenerla giusta, tanto più poi persuadendola il vicario di Cristo e cittadino della nostra città; per la quale cosa doveva presumersi fosse non pure giusta, ma pia; inoltre avere Cesare obbligata la sua parola e non esserle per mancare giammai, sapendo egli confessore che Cesare era quanta fede fosse nel mondo. Ancora disse che la città, per avere stretto lega co' Francesi e mandato gente al campo di Lautrec a sovvenirlo nella impresa di Napoli, doveva considerarsi decaduta dai privilegi concessi dai passati imperatori.»

Un turbine di grida interuppe l'oratore, che si rimase con labbra tremanti, ansioso di proseguire; e alla domanda di Dante da Castiglione, la quale, malgrado il trambusto, gli percosse piena le orecchie al modo di tuono:

«E con qual fronte sosteneva costui siffatte scelleratezze?»

«Con fronte da frate», rispose il Guicciardino, «e con atti tali che sembrava crederle come appunto le diceva. Ma loro io non incolpo; — ai nemici non bisogna chiedere nulla: ben io mi dolgo e in pieno consiglio ricordo, affinchè i padri insegnino ai figli, i figli ai nipoti, ad abborrire eternamente i nomi dei cardinali Ridolfi, Salviati e Gaddi, fiorentini tutti, alla patria spietati, solo di sè curanti, nè a fame nè a lacrime e nè a disperazione credenti, purchè la mensa abbiano di vivande preziose imbandita e ascoltino i motteggi dei loro buffoni[129] o i suoni dei musici. Dalle istanze supplichevoli, dagli umili scongiuri che cosa acquistammo noi? Stolti conforti, come la gente chiericuta costuma di rassegnarci ai divini voleri, quasi Cristo predicatore alle turbe della libertà potesse mai volere schiavi i suoi figliuoli! — Ma qual bestemmia mi usciva di bocca? Io ti domando perdono, Gesù crocifisso, signore e padre della Fiorentina Repubblica. Tu nulla hai di comune con i preti di Roma; quando te invocano, quando te rammentono, certo col tuo stesso nome vogliono significare qualche altro Dio. Tu versasti il tuo sangue prezioso per la salute degli uomini, — i preti hanno raccolto quel sangue e lo hanno ministrato ai popoli misto di veleno...»

E proseguiva con inestimabile dolcezza di quanti Piagnoni si trovavano nella sala, i quali, ricordando il fiero piglio di frate Girolamo e quel suo ardente predicare, già cominciavano a singhiozzare sommessi, ed era da temersi che all'improvviso cadendo in ginocchio non prorompessero nelle voci di viva Cristo, e cantassero in coro la strana canzone del Benivieni:

Non fu mai più bel solazzo.

Più giocondo nè maggiore,

Che per zelo e per amore

Di Gesù divenir pazzo.

Quando il Carduccio, severamente riprendendo l'oratore, parlò:

«Messere Iacopo, la Signoria intese ieri la predica di frate Benedetto in Santa Maria del Fiore; oggi vorrebbe qui dentro favellare di negozi».

Il Guicciardino allora condusse in breve il suo dire a fine aggiungendo:

«Quanto uomo può immaginare, e bocca discorrere, tutto esponemmo al principe dei nuovi farisei; — vi adoperammo lacrime, sospiri e perfino, con manifesto pericolo di noi, minacce. Rispose Clemente alle minacce, lusinghe; alle lusinghe, minacce; tentò corromperci; pose in opera il perverso ingegno a disgiungere la nostra dalla causa della patria; e quando pieni di pietà e di sdegno uscimmo dal suo cospetto, non adontò mandarci per un suo camerario all'albergo questa carta. Qui dentro è riposta la sua mente intera. Spettabili Signori e miei onorandi concittadini, in mercede dei travagli patiti, mi concedete che i miei occhi non si contristino a leggere così fatta abominazione, nè la mia bocca si contamini a proferire gl'ipocriti sensi di questo crudelissimo nostro nemico.»

E tesa la mano presentava al gonfaloniere una carta, la quale egli prendendo fece per un tavolaccino portare a messere Donato Giannotti segretario della Repubblica; e subito dopo gl'impose:

«Ser Segretario, leggete.»

Il Giannotto, obbedendo al comando, si levò in piedi per leggere. In quella vasta sala, da tanta gente ingombra, si sarebbe inteso il ronzìo d'un insetto, — così profondo vi si diffuse allora il silenzio. E dalle ringhiere sporgevano alcuni il capo e parte del busto per meglio ascoltare: altri ritti sulle punte dei piedi appoggiavano il mento sulla spalla di chi stava loro davanti, altri atteggiati in altre sembianze e pur tutte rivelatrici dell'alta intensità dell'anima. La voce del Giannotto, comechè picciola, riempiendo la sala, diceva:

« Dilectis filiis civibus florentinis Clemens papa VII salutem et apostolicam benedictionem. — Mediante gli onorevoli vostri oratori ci avete fatto sapere essere in tutto disposti di accordare con noi; la quale disposizione, comunque giunga tardi per la nostra giustizia, arriva in tempo per la misericordia nostra. Epperò, ricevendoli nell'antico favore della Santa Sede Apostolica e trattandosi dell'onore nostro, intendiamo e vogliamo vi rimettiate intieramente nelle nostre braccia, chè mostreremo al mondo che, per essere nati nella vostra città, vi saremo fratelli; e per essere capo dei fedeli, vi faremo da padre.»

Si levò uno scoppio spaventevole di urli, di mani percosse sui banchi, di sghignazzari di scherno. La terra battuta mandò rumore e nuvolo di polvere, quasi vi sottostasse il vulcano.

Il Carduccio stende ambo le mani per comprimere il tumulto come uomo che tenti frenare l'impeto di cavalli indomati; e poichè indi a brevi momenti decrebbe (chè l'ira, l'odio, l'amore e ogni altro affetto col tempo si placa), non senza grave turbamento incominciò:

«Già voi li sentiste: — i patti coi quali ci offre pace il padre di tutti i fedeli e nostro vi sono alfine manifestamente proposti; — con la superba tirannide che non conosce vergogna, costui ve li definisce e pone dinanzi agli occhi. Gli porgano i cieli la mercede che merita; — almeno noi sapremo a qual partito attenerci, rifiutare i consigli incerti e nelle risolute deliberazioni confermarci. Volete pace? ebbene incominciate a disimparare la libera favella repubblicana, educate le labbra a proferire le parole: di umiliati al temuto trono, di supplica ossequiosa, di servo indegno e di suddito, di prostrato agli augusti piedi, e tali altre siffatte bruttissime e disoneste laidezze, che se l'uomo si attentasse adoperare verso il suo Creatore, questi di certo nol sopporterebbe, dicendo: solleva la fronte; se io avessi voluto che tanto si umiliasse la creatura, non vi avrei impresso la immagine di me; guardami in faccia, perchè i sacerdoti mi hanno calunniato, ed io sono Dio di amore. — Apparecchiate le vostre sostanze; il tesoro raccolto con industria e parsimonia da secoli il tiranno divora in un giorno; — alla libertà rifiutaste il vostro soverchio, adesso date alla tirannide anche il necessario; nè confidate schermirvi con ingegnosi partiti: la tirannide conosce tali strettoi da premere in una scossa l'oro, il sangue e le lacrime di un popolo, — e l'oro prende tutto, del sangue beve un sorso e poi lo restituisce al popolo con le sue lacrime intere perchè ritorni a piangerle. — Educate le vostre donne a compiacersi delle libidini del tiranno; voi stessi persuadete che vi tornino ad onore, e quando il principe lascerà nelle vostre case una striscia velenosa come il rettile, mostratela ai vicini, vantandovi: Il duca ci degnò della sua presenza. — Nè questo basta ancora: — noi tutti non vorrà sopportare vivi; con la morte degli uni acquistano grazia i superstiti. — I nomi nostri imborsiamo, leviamone a sorte quaranta, e le teste dei sortiti in bacile d'argento presentiamo con le chiavi della città, quando il vicario di Cristo si accosti alla dolcissima sua patria, — dono gradito a chi lo riceve, pegno di favore a cui il porta. Cittadini, ecco la pace di Clemente VII, servo dei servi di Dio. La guerra per altra parte ci si mostra piena di pericolo. — Ma evvi pericolo maggiore della pace? Noi possiamo perdere la guerra, ma possiamo anche vincerla; e quando pure la perdiamo, qual danno ricaveremo più grave della pace? E forse il vincitore, anche nella vicenda più trista, sapendo quante morti abbia sofferto in espugnarci, o rispetterà la virtù dei superstiti o temerà di ridurli a disperati partiti. Resistendo, acquistiamo tempo; e il differire, causa di sventure nelle guerre offensive, nella difesa abbiamo veduto sempre giovare. Già le cose dei Luterani in Germania molestano Cesare molto più che altri non pensa; il Turco si tiene grosso sotto Vienna, sicchè il fratello dell'imperatore, non che abbia potuto abbandonare gli stati suoi per assistere alla incoronazione di lui, a grande istanza lo chiama per divisare i ripari contro Solimano; nè le forze del papa e di Carlo sommano a tanto quanto si temeva; e le milizie nostre superano il numero che speravamo; le mura abbiamo forti, dei soldati forestieri fioritissima cerna e, meglio delle mura e dei soldati forestieri, cittadini disposti in un fermo volere. Io pertanto vi conforto a combattere. Ma voi, prestantissimi uomini, liberamente consigliate; chè, qualunque sia per essere la determinazione vostra, la Signoria e i Dieci non solamente approveranno come utile, eseguiranno come onorevole, ma eziandio commenderanno come onesta[130]

Terminata l'orazione del gonfaloniere, avvenne un momentaneo scompiglio, perchè ognuno dei cittadini adunati si raccolse sotto il suo gonfalone per discutere la proposta e dare il voto. Se non che tanto era il generale consenso che poco vi fu mestieri disputa, e tutti convennero nell'affermativa. Allora, secondo il costume, i gonfalonieri, cominciando da quello di Santo Spirito e secondo l'ordine succedendo gli altri, si recarono in bigoncia, dove esposero la risoluzione del rispettivo gonfalone con la formula breve e consueta: — Di tanti che sono, tutti dicono di sì.

Quantunque uso volesse che nel riferire la mente dei suoi il gonfaloniere adoperasse la formula concisa rammentata poc'anzi, già non s'intende mica che fosse loro proibito favellare più diffusamente: ed in fatti Lionardo Bartolini, il quale era gonfaloniere dell'Unicorno, salito tempestando in bigoncia, gridò:

«Tutti i miei dicono di sì; ma dicono ancora: i magistrati attendano a guardarli alle spalle, mentr'eglino combattono di faccia: non tutti i nostri nemici stanno in campo; molti, in città, molti, con inestimabile dolore e sconforto dei buoni, in questo stesso recinto...» Uno applauso forsennato lo interruppe; — parve ai Palleschi giunta la loro estrema ora di vita. — Il fiero Arrabbiato continuò: «Io li vedo, io li conosco; potrei nominarli o accennarli!... Che pazienza, che viltade è mai questa? Se non vogliono aiutarci, non ci nuocciano almeno. Perchè non sopportano essi in parte il carico comune? Dunque l'odio manifesto contro la patria basterà ad esentare dalle gravezze; e quanto più l'uomo si mostra alla Repubblica amorevole, più gli farete sopportare i balzelli e gli accatti? Bell'arte di governo, in fede di Dio! Utile accorgimento di stato! Or via affrancate la timida mano: con migliore prudenza vorrebbero consegnarsi al sepolcro. Se non vi piace, sosteneteli, aggravateli con le tasse, i beni interi dei frati vendete. Perchè ne avete venduto il terzo solamente? O fu giustizia venderne parte, e giustizia sarà venderli interi; o fu necessità di stato, ed allora, le cause della necessità tuttavia sussistendo, ragion vuole che pienamente il concetto vostro adempiate. Se ci pretende la Signoria animosi, cominci ella a somministrarcene l'esempio; a testa debole non mai udimmo andare congiunte mani robuste.»

Ora in un lato della sala intorno al gonfaloniere del drago verde di San Giovanni stava raccolta una mano di gente, la più parte piccoli mercanti e bottegai: soperchiati costoro dai minuti interessi, a quanto accadeva non porgevano ascolto — La repubblica stava dentro la bottega loro, — felicità suprema dormire i sonni interi, — sapienza di stato il mezzo di vendere a ingordi guadagni quello che avevano comperato a poco prezzo; ed ora detestavano la guerra, perchè se una bombarda avesse loro guasta la insegna dipinta a nuovo, sarebbe stato infortunio da far piangere una settimana monna Filippa o monna Lessandra; e se un giorno i nemici fossero penetrati in città ed avessero scomposti, guasti e vuotati i barattoli, se rubate le masserizie in casa, se poste le mani addosso a monna Filippa o a monna Lessandra, — misericordia! sarebbe stata la fine del mondo. Sicchè per loro volevano accordare in ogni modo, a qualunque patto. Sapete voi come si chiamasse o chi fosse il gonfaloniere del drago verde? Statemi a udire, chè io ve lo dirò partitamente senza pure lasciare inosservata un'iota. Egli si chiamava messer Bono Boni e apparteneva a quella trista mandra che non avrebbe pari nel mondo se non la vincessero i giudici nella nequizia, — voglio significare lui essere dottore di leggi. Aveva le spalle incurvate sotto il peso invisibile, forse delle commesse ribalderie. Quando camminava, gli era mestieri dondolare con moto a semicerchio da un piede all'altro, e questo moto accompagnare con ambe le braccia, che parevano staffe di cavallo che corra senza cavaliere: la testa grossa e compressa gli pendeva sul petto come un melone per benefizio di acque cresciuto più che non convenga al suo gambo. Non aveva un colore fisso, perocchè il fondo del volto fosse di un misto di giallo rosso, poi chiazzato di macchie vermiglie e di punti nerastri, quasi lo avessero contaminato col fango di macello: — essendo balusante, spesso aguzzava gli occhi dirigendone il raggio alla punta del naso lunghissimo, sicchè pareva che a modo dei santi indiani, i quali guardandosi la punta del naso si procurano beatifiche visioni, egli vedesse su quella estrema parte germogliare i pensieri. Come poi la natura tanto largheggiasse di naso in costui faceva meraviglia; certo nel fabbricarlo non avendogli dato cuore, poteva supporsi che avesse supplito in tanto naso: — ma la cosa non è così, ed ecco come sta la storia, la quale abbiamo trovato su libri degni di fede. Cotesto naso non gli venne dalla natura, ma dall'accidente: un giorno ch'egli si arrampicava su per gli scaffali dello studio in cerca di libri legali, mancatagli la scala di sotto, rimase appiccato pel naso traverso due codici; — pareva un pesce preso all'amo di madonna Giustizia pescatrice. Ne dubitereste voi forse? In verità vi dico che questo può darsi; rammentate la luna. Femmina e diva, ella scese talvolta in terra a prendere diletto nelle caccie; ed io vi giuro avere le mille volte incontrata madonna Giustizia ora vestita da pescatrice, ora da cacciatrice, tal'altra... in somma io l'ho veduta sotto tali aspetti da disgradarne Proteo. Il nostro dottore favellava con due voci: ora pareva, ora non pareva lui, ed era sempre lo stesso. Egli, fosse naturale inclinazione o piuttosto abitudine di mestiero, quando nulla aveva da rodere d'altrui, rodeva sè stesso, e così forte si lacerava le unghie da mostrarne sovente le mani sanguinose. Fin qui Bono Boni (di cui vedemmo il ritratto mirabile così che ci sembrasse vivo) faceva ridere: ma Bono Boni aveva poi dentro tutte le facoltà disposte a far piangere. Nel suo genere completo quanto Guccio Imbratta o ser Ciappelletto, prima di tutto si doleva poi dell'altrui bene che non si affliggesse pel proprio male; purchè gli altri perdessero un occhio solo, egli avrebbe consentito a patto di rimanere privo di ambedue: costumava portare nella tasca destra il ritratto del Frate, nella sinistra l'arme dei Medici; e se incontrava un Piagnone, torceva il collo, inumidiva il ciglio e a lungo gli commentava la profezia del Savonarola: — Florentia flagellabitur, et post flagellum renovabitur et prosperabit; — sicchè lo lasciava edificato delle dottrine e santità sue: se invece gli occorreva un Pallesco, così alla sfuggita gli Mostrava l'arme e poi, toccato il cuore, gli occhi levava al cielo e se ne andava sospirando. Se l'astio lo rodeva contro una qualche persona, egli cominciava a celebrarla: tentato il terreno, se lo trovava arrendevole, sgorgava il veleno a bocca di barile; se incerto, lo circondava, lo stringeva, con proposte continue di fede e d'amore si onestava, sicchè lo rimandava convinto; nè bastava dichiararsi contrario alle tristizie sue, imperciocchè così lene lene con la sua lingua di vipera egli blandiva e tanto sottilmente il tossico v'insinuava che pur giungeva cacciargli il sospetto nell'anima. Penetrava nelle famiglie, come il tarlo: alacre in procacciarsi donazioni e legati; fiutatore dei cadaveri solenne meglio dei corvi, e' si teneva seduto accanto il letto del moribondo non altrimenti che l'avaro sopra lo scrigno: lo spirito vacillante gli arroncigliava, nè alcuno sperasse levarglielo di sotto tranne la morte: chi lo conosceva sotto la pelle, lo affermava entusiasta della misericordia pei morti, spietato poi per la misericordia dei vivi. È fama che, essendo spirato il suo zio paterno ab intestato, egli non consentisse abbandonare la stanza mortuaria per paura che espilassero dalla eredità i pochi panni del defunto; sicchè, gittato il cadavere giù dal letto, vi si ponesse egli a dormire dicendo: buona ventura abbiamo stassera; acquistiamo robe e risparmiamo il fuoco per iscaldarci i lenzuoli. — Tali, e non tutte, erano le facoltà morali del nostro dottore di legge: siccome Guccio Imbratta, lui fregiavano certe altre taccherelle che si lasciano per lo migliore[131]. — Però non si creda che vivesse lieto tutta la sua giornata: la coscienza spesso lo infastidiva, ma finchè la luce durava, riusciva a cacciarla come mosca importuna. — Venuta la notte, non trovava riposo, dava volta su questo e su quel fianco, nè il sonno veniva; — spesso abbandonava il letto mormorando: — Alla croce di Dio, mi hanno ripieno l'origliere di pianto! — Lo spirito agitato gli mostrava cento mani di vedove e di pupilli spogliati da lui circondarlo in atto di chiedere; ed egli urlava: — Lasciate di tormentarmi; renderò quanto vi ho tolto; a voi... prendete e andatevene in pace. — E qui apriva uno stipo e immaginava mettere monete su quelle mani stese. Ma alla dimane trovando il terreno seminato di fiorini, diligentemente gli raccoglieva, irridendo sè stesso de' suoi terrori e ad ora ad ora esclamando: Se a cinquant'anni non hai saputo disfarti della coscienza, o Bono Boni, oggimai ti puoi accomodare a morire novizio.

.... non gli riuscì come la pensava, imperciocchè una mano di giovani nobili lo inseguivano dileggiando. Cap. VII, pag. 193.

Quando ebbe a riferire Bono Boni per suo gonfalone, salì in bigoncia e con un tal suo garbo che tentò rendere dignitoso, e a tutti parve di scimmia, salutò l'uditorio, stette alcun poco pettoruto sopra di sè e poi cominciò a favellare dicendo:

«Magnifici Signori e cittadini prestantissimi. — Poichè i più gravi tra i filosofanti, tra i quali a causa di onore rammento Aristotele nel suo trattatto De republica, poichè i più gravi tra i filosofanti c'insegnano doversi adoperare maturità di consiglio nelle deliberazioni dove può andarne la salute dello stato, noi abbiamo molto bene ed in ogni sua parte considerata la bisogna; avegnachè Celso, quel sommo lume della giurisprudenza, ch'è, come sapete, conoscimento delle cose divine ed umane, e scienza delle leggi avverta acconciamente non potersi decidere se prima non si esamini nell'insieme e nelle singole spartizioni il caso concreto. Onde, veduto il pro e il contro quid faciendum, quid vitandum, siamo venuti nel presente concetto che se i beni e la vita senza la libertà sono poca cosa, la libertà senza i beni e la vita è ancora meno. Vivere libero piace, ma più di tutto piace vivere. Della libertà, dei beni e della vita, prima giova porre in salvo la vita, poi i beni, poi la libertà. — Conviene procedere con ordine e misura; dovendosi perdere, si comincia dal meno necessario e si va su su verso quello che fa maggiormente di bisogno. — Il buon nocchiero assalito dalla bufera concede parte delle merci al mare tempestoso per salvare il restante. E nel caso nostro il papa è la procella, Fiorenza la nave in travaglio, e la Signoria il nocchiere. Di quaranta che sono nel gonfalone drago verde trentacinque votano l'accordo, cinque la guerra.»

«Giù da cotesta bigoncia in tua malora!» urlò Lionardo Bartolini: «se tu aggiungi un'altra parola per l'accordo, ti taglio in pezzi senza misericordia. — Giù, giù di bigoncia il tristo uccello! — E' vorrebbe rogare il testamento alla Repubblica. — Gittiamo dalle finestre.» Tra uno schiamazzo alto, discordante di voci diverse o d'ira o di scherno, più distinte si udivano quelle già rammentate. La prosunzione combatte con la paura; nè il dottor di legge, che si dava vanto di perito nel dire, sapeva indursi ad abbandonare la bigoncia; ma, crescendo il tumulto, scese a rilento, esclamando: «Anche il fiore della vera eloquenza è perduto sotto questo iniquo reggimento!»

I Signori, i più modesti cittadini e i tavolaccini imposero silenzio; il quale avendo a gran pena ottenuto, successero a mano a mano gli altri gonfalonieri, i Buonuomini e ad uno ad uno i Signori. Il Carduccio, il quale era rimasto in piedi con immensa ansietà finchè il numero dei votanti rendeva incerte il consiglio della Pratica, appena conobbe decisa la guerra, lasciò andarsi abbandonato sul seggio, quasi da giubilo che non aveva ardito sperare.

E riprendendo forza, terminati i voti, si levò in sembiante ardito e con voce più ferma che mai favellava:

«E guerra sia! Questa volevamo, questa con preghiere ardentissime dal cielo supplicavamo. Ma con gli animi pronti abbiate, o cittadini, pronte le sostanze e la vita. Se la Signoria non ricorse a violenti partiti, ciò non fece perchè la mano le tremasse o l'animo, no certo; sibbene perchè, sentendosi forte, non teme ingiuria da nemici interni: ciò fece ancora per mostrare al mondo che questo nostro stato presente aborre da rimedi estremi nelle strettezze nelle quali si trova, ed in cui spedienti siffatti non solo si scusano, ma si commendano e approvano. Ognuno conosca dal governo del tempo infelice con quanta giustizia la Repubblica sarà per procedere in tempi quieti. Però, cittadini, ora bisogna che dimostriate intera la carità vostra verso la patria. A noi non mancano milizie sì forestiere che nostre: a noi non mancano munizioni da guerra, — di vettovaglia non patiamo difetto; — solo il danaro scarseggia. A che vale la provvisione di vendere i beni delle arti, se nessuno si presenta a comperarli? Il gonfaloniere dell'Unicorno propone che, come vendemmo la terza parte dei beni ecclesiastici, così noi li vendiamo interi: — e a cui noi dovremo venderli? Simili argomenti non procacciano pecunia. Fra tasse ordinarie, accatti, gravezze e balzelli straordinarii, fin qui giungemmo a tredici. La prudenza e le leggi non ci concedono oltrepassarne il numero. Carità, carità, cittadini! Potessero uscire fiorini dalle mie vene! Il popolo minuto corre volonteroso e si disfà dei suoi pochi argenti in pro della patria: voi di molti beni provveduti dalla fortuna contemplerete il bello esempio indarno? Il cuore chiuderete e la borsa? Messere Zanobi Pandolfini spontaneo donava mille scudi, messere Alessandro Malegonelle ottocento, messere Michelangiolo Buonarroti mille....»

«Il quale non vi darà più oltre pel valore di un bagattino!» proruppe sdegnato Michelangiolo.

«E perchè, messere Michelangiolo? Perchè?» domandarono mille voci ad un tratto.

«Perchè quando mi piace dare quello permettono le mie povere facultà, come io lo dimentico, così vorrei lo scordassero gli altri — nè ci ha mestieri strombettare pei cantoni, — Michelangiolo dava tanto, quasi in dileggio della mia povertà, o in rimprovero del poco volere...» Profferite le quali parole se ne stava cruccioso.

«Lode al Signore», continuò il Carduccio levando in alto le mani, «il quale volle ai tempi nostri mostrare di che sia capace un cuore benigno unito a sublime intelletto. Michelangiolo voi siete grande; il mondo lo sa, e voi non ve ne accorgete. — Ora, signori colleghi e cittadini adunati, questi spettabili Dieci hanno inteso i vostri pareri, e anderannosi accomodando a quelli. E, per concludere le cose deliberate, vi raccomando rammentarvi la promissione fatta nel Consiglio Grande in nome di tutto il popolo fiorentino a Gesù Cristo figliuolo di Dio, di non volere altro re accettare tranne lui solo; e, della vostra promessa ricordandovi, egli molto bene si sovverrà della sua di sostenervi e difendervi. Addio. — Non sarebbe il tempo bello di gloria, ove non fosse pieno di pericoli. Verrà giorno che sopra le nostre lapidi i figli riconoscenti incideranno: E' fu di quelli che si trovò alla Pratica per difendere la libertà di Fiorenza contro Clemente papa.»

In questo modo la Pratica si sciolse; e, con fragore come di acque lontane, i cittadini sgombrarono la sala; giù per le scale andavano bisbigliando chi una novella, chi un'altra. Molti lodavano l'ardire del Carduccio, e dicevano che se Pietro Soderini avesse nel 1512 cotale animo avuto, la Repubblica non si perdeva di certo; alcuni pochi lo biasimavano, come se si fosse a troppo grave risico avventurato, ed all'opposto degli altri affermavano che, come il Soderini aveva perduto la Repubblica per essere troppo rispettivo, questi la perdeva perchè troppo avventato. Ma il popolo, amico delle vigorose deliberazioni, conosciuto l'esito della Pratica, applaudiva empiendo l'aere di gridi: — Viva la Signoria! Viva la Pratica! Non vogliamo accordi! Chi brama Fiorenza, venga per essa! — ed altri siffatti. Come il vento, quando all'improvviso soffia sopra la terra levando il turbine della polvere, gli uomini avviluppa e le cose sicchè o non si distinguono o si distinguono in confuso, la fama percorrendo tra il popolo vi sommove passioni, affetti e voleri pieni d'impeto e di fallacia: onde corse voce da prima, le contese in Consiglio essere state molte e gravi, avere i cittadini l'uno all'altro detto ingiuria, nè mancate le minaccie e le percosse; per la qual cosa il gonfaloniere, smarrito l'animo, era caduto privo di sentimento sul seggio; la parte pallesca prevalere, i repubblicani spacciati; se non fossero pronti agli aiuti, gli avrebbero trovati spenti.

«O Dio, che avverrà di messer Dante?» diceva un popolano. «A questa ora possiamo recitare un De profundis a messer Lionardo», esclamava tal altro. — E ognuno andava ricordando l'uomo in cui aveva maggiore affetto riposto. I dodici Buonuomini tenevano le porte custodite diligentemente: da qualunque lato meno impossibile penetrare in palazzo oltre le porte; quelle partigiane forbite toglievano l'animo ai più audaci. Intanto la fama diventava più limpida; una contesa era avvenuta, ma non tanta; le ferite nulle, tutti concorrere nella guerra, da uno solo in fuori, il gonfalone del drago verde: gonfaloniere del drago essere Bono Boni dottore di leggi. «Quell'uomo pio....», cominciava a favellare un Pallesco. — «Che pio e che non pio?» interrompeva un Arrabbiato: «egli è un gabbadeo, un furfante da ventiquattro carati, un ribaldo da mandarsi al mare per bastonarvi i pesci[132], un pendaglio da forca. — Alla Dianora mia zia rubò la dota; — a Braccio vaiaio divorò le campora di Brozzi; — e' inghiottirebbe la luna se gli riuscisse agguantarla.» — «Chetatevi, male lingue», parlò certo vecchio autorevole fra il popolo: «la vostra bocca fa peggio della campana del bargello, che suona sempre a vituperio,» — «Fratel mio», gli rispose un vispo popolano, «le cose e' si chiamano pei nomi che hanno. Se io vi salutassi: — Ciapo calzaiuolo; che Dio vi abbia nella sua santa guardia, — lo torreste in mala parte? Mai no, perchè vi chiamate Ciapo e siete calzaiuolo; così se diciamo: — Bono Boni dottor di leggi è ladro, — egli è perchè comprende l'una e l'altra cosa. Glielo abbiamo ordinato noi di affibbiarsi addosso cotesta giornea?»

Intanto ratto ratto traversava Bono Boni il cortile del Palazzo per uscire quanto meglio poteva inosservato; ma la cosa non gli riuscì come la pensava, imperciocchè una mano di giovani nobili lo inseguivano dileggiando.

«Sere», gli urlava dietro Alamanno de' Pazzi, «sere! badate che vi fabbrichi ben salda la corazza mastro Spada.»

«Se le ribalderie fanno imbottito», soggiungeva il Bravo da Somaia, va pur franco alla guerra; non troverai spada che ti arrivi sul vivo.»

«Bisognerebbe», replica il Morticino degli Antinori, «mandare al campo messere dottore con tre compagni a scelta per affamarlo in tre giorni.»

E Bono non rispondeva, sibbene affrettava il passo, tenendo sentiero obliquo, come i rettili fanno quando fuggendo cercano un buco dove possano riparare. — Dal suo volto spirava un misto di rabbia e di paura da mettere sospetto e indurre a riso: quei suoi occhi lustri come la lama brunita del pugnale, avrebbero desiderato dare la morte guardando, secondo che si racconta del basilisco. Il popolo, vedendolo posto in dileggio da personaggi autorevoli, ruppe il freno schiamazzando: — Ben venga il sere, che gli faremo la corona di bietole.» — «Dacchè teme la guerra, mandiamolo a Pisa, — e per Arno, — sì, per Arno: — all'acqua il barbone! — all'acqua il dottore!»

Un popolano lo afferra pei lembi del lucco e per poco nol fa stramazzare bocconi: — un altro lo tira pel beccuccio all'indietro: se lo spingono da una mano all'altra lo pestano, gli lacerano le vesti; ed egli non proferisce parola, sbarra gli occhi stralunati, la lingua grossa tiene fitta al palato; in breve lo riducevano in massa deforme di fango e di sangue, se il soccorso tardava.

A Dante da Castiglione increbbe l'atto turpe, non già per Bono, ch'ei ben sapea meritarsi anche peggio, ma per l'esempio pessimo e pel disdoro che veniva a ridondare sopra la città. E, disposto com'era impedire che il popolo si disonorasse, con mani potenti levato in aria l'infelice corpicciuolo del dottore se lo pose dietro alla persona, dipoi, opponendo il petto virile alla onda popolare:

«Che furie, che sdegni sono eglino questi?» prese a parlare; «si vede bene che del vivere libero non sapete più nulla, dacchè in così brutta maniera ne abusate. Se il dottore ha misfatto, ricorrete agli Otto o alla Quarantia e accusatelo: v'è il magistrato per ricevere la querela, vi sono le leggi per punirlo. Se il dottore mal consigliava, la Pratica concede libertà di parole; e voi rispettate i consigli tristi, se volete averne sempre dei liberi e dei buoni: e poi il dottore non può incolparsi, o poco incolparsi; colpa bensì è di loro che lo elessero a gonfaloniere o gli commisero la relazione. Sicchè lasciatelo stare. Il popolo di Fiorenza fa per impresa il lione; — imitatene la generosità. Vi pare egli subbietto di sdegno Bono Boni dottore di leggi? Miserabile creatura! lasciatela stare. Voi, Tebaldo, che sempre conobbi per uomo dabbene, date primo l'esempio. E voi, Bindo, non vi vergognate? Di bene altre ire ora abbisogna la patria. Su via, seguitemi, andiamo alle mura per vedere l'esercito nemico che tiene assediata la città: — guerra al nemico!»

Tebaldo e Bindo, i quali parevano tra i popolani i meglio clamorosi, si quietarono e, mutando voglia, si misero ad urlare quanto ne poteva loro la gola: — «Alle mura! alle mura!»

Al Morticino degli Antinori, giovane ferocissimo ed emulo antico del Castiglione, increbbe quel parlare modesto, e più del parlare l'autorità grande esercitata sopra le turbe, onde, morso da invidia, si avvicina a Tebaldo e gli susurra all'orecchio:

«E chi siete voi da lasciarvi menare così pel naso da quel Morgante maggiore? Alla statura, ma più alla durezza, e' mi sembra il fratello del Davidde di Michelangiolo: — diamo la baia anco a lui; prendiamo a sassi il protetto e il protettore.»

«Questo non faremo noi», con mal piglio, rispondeva Tebaldo: «e chiunque si attentasse di farlo, proverebbe come le mie braccia pesino. Chi siete voi, messere? Io non vi conosco. Dante mai sempre ci si mostrava amico, — anche al tempo dei Medici, sapete, egli mi domandava: Tebaldo come stai? come va la moglie e i figliuoli? e lavori ve ne sono? — e quando io era tristo e crollava la testa, mi confortava sommesso: «spera, non sempre rideranno costoro; non per anche abbiamo fatto i conti; Dio non paga il sabato e per ogni tuo bisogno fa capo a casa. Noi non nascemmo gentiluomini per essere ingrati....»

Ed un altro del popolo riprendeva:

«Aggiungi, frate, ch'io mi rammento aver veduto il messere a codazzo dei Medici e dei cardinali quando dominavano la città. Ora, dite voi altri, ci vedemmo noi mai messer Dante?»

«A che perdiamo più tempo con questa figura da campo santo?» continua un altro. — «I compagni si sono avviati, e noi arriveremo ultimi. Lasciamo il dottore, — un giorno o l'altro ci darà maggiore diletto, quando si dimenerà dentro il paretaio del Nemi[133] ».

Rimasero sulla piazza dei Signori Bono e il Morticino, — quegli salvato dal danno, questi impedito dal farglielo: — e non per tanto o non si odiavano, o si odiavano di un odio minore a quello che portavano entrambi a Dante. Se avesse potuto l'uno contemplare lo sguardo dell'altro, che tenevano ardentemente teso sopra il Castiglione, il quale si allontanava, si sarebbero abbracciati come fratelli, — per istringersi poi nel vincolo più saldo che mai possa legare due cosiffatte creature, — voglio dire il delitto.

Pensava Bono nella codarda anima sua: «Oh! potess'io pagarti la difesa con una manciata di veleno nel vino che beverai stamane.»

L'Antinori sentiva una voce fastidiosa, come di sega, mormorargli intorno alle orecchie: «Cotesto uomo nè vincerai nè uguaglierai tu mai: ti supera in tutto, fa di suscitargli querela e tenta ch'egli muoia per le tue mani o tu per le sue.

Umano cuore! Era pur meglio tu talvolta rimanessi creta!

CAPITOLO OTTAVO GIOVANNI BANDINO

Io con gli occhi dolenti e il viso basso

Sospiro e inchino il mio natio terreno,

Di dolor, di timor, di rabbia pieno,

Di speranza e di gioja ignudo e lasso.

Alamanni, Sonetti.

O paese, o paese, o paese!...

Geremia, cap. XXII, v. 22.

Se la tua mano non si contaminò giammai effigiando immagine di tiranno, — se nel tuo petto arde la fiamma del genio italiano, giovane fabbro che avesti dal cielo potenza d'imporre alla pietra sembiante umano, vieni e scolpiscimi Italia. — Prima di volgere la mente a concepirne il pensiero contempla il suo cielo azzurro e sereno, le cerulee marine, i campi floridi, i colli ridenti; — poi guarda il Colosseo, i ruderi del Foro romano, le basiliche del medio evo, il tempio di Michelangiolo; — rammenta i fieri giuochi dei gladiatori, le solenni ecatombi, il muggito dei bovi percossi dalla bipenne empire le volte del Panteon di Agrippa, Giulio Cesare pontefice massimo; ancora, — il memore intelletto diffondi sui trionfi dei re della terra incatenati al Campidoglio, sopra la lega lombarda, su Federigo Barbarossa, il Serse superbo dei bassi tempi disfatto, — all'improvviso chiudi la porta del passato e guarda un gregge di preti e di frati, sozza ftiriasi[134], brulicanti pei capelli e per le membra di una donna estenuata, — una generazione d'idioti, genuflessa davanti a mille idoli dipinti di rosso, di verde e di giallo, svolgere col volto compunto una serie di globi di legno, o di pietra... Questo è il rosario!

Domenico di Guzman, fondatore della Inquisizione e carnefice degli Albigesi, inventò il rosario... Oh! la preghiera di colui che la natura vergogna chiamare col nome di uomo, e la chiesa salutò come santo, giungerà mai gradita al Dio delle misericordie?

Sopra il trono di Augusto contempla un vecchio che non sa regnare e pure non cessa dalle libidini del regno, e vestito di gonnella muliebre stende la mano tremante a tutti i suoi nemici limosinando fra lo scherno e il ribrezzo un giorno, — un'ora, un minuto di regno.

Giovane scultore, fingi quanto ha di più superbo la grandezza, di più abietto la miseria; fingi una fortuna che superi la maraviglia, una sventura a cui non bastino lacrime, — una dimostrazione infinitamente estesa di bene e di male, — una vita che rimase sotto gli artigli che la lacerano, sotto ai denti che la divorano; — tutte queste cose immagina ed altre più assai, perchè, vedi, la mia favella manca a narrartele intere; — ponmi qui la mano sul petto, io tenterò trasfonderti nel sangue le vibrazioni del mio cuore; — poi scolpiscimi Italia. Fa ch'ella posi il fianco sopra un lione addormentato; — abbia la corona di torri, però che Dio la creasse regina, nè mano di uomo può rapirle il dono de' cieli, — ma la più parte ricoperte di edera e per lunga stagione scrollate; le stieno intorno al braccio sinistro avvolti sei aspidi dal veleno narcotico... hai bene compreso? aspidi. Se tu non indovini quello che significhino questi aspidi, vatti con Dio, non sei lo scultore che cerco. Sei aspidi che le stillano nelle vene il sonno e la morte. Il volto di lei sia solenne d'immortale bellezza e sventura, — come di persona che abbia inteso una voce dall'alto, — un comando di risorgimento. Sopra la fronte attonita apparisca la contesa tra il sopore del veleno e la vergogna, la memoria di quello che fu e la coscienza di quello che al presente ella è. Ricerchi con la destra brancolando la spada da secoli e secoli abbandonata ai suoi piedi.

Perchè no?

Cola di Rienzo tribuno strappò un giorno lacrime di rabbia al popolo romano con la pittura della Italia combattuta nelle procelle...[135]

Io innalzerei un tempio consacrandolo alla Italia sconsolata e poi chiamerei i suoi figli gridando: «Venite a confortare vostra madre che piange un pianto di secoli!»

Custode del tempio, noterei i nomi dei pellegrini, farei tesoro delle ire dei popoli; e quando avessi contato venti mila volte centomila, salirei sul giogo estremo delle Alpi medie... (Angioli del giorno finale, datemi voi la voce che risveglia i defunti!) ed urlerei con tutta la forza delle mie viscere ai quattro venti della terra: «Figliuoli d'Italia, avete pianto tutti! Tutti avete fatto rosso il terreno col sangue delle vostre vene! O Calabrese, tu hai giurato davanti al simulacro, come l'alpigiano giurò; — abitatori delle tre sponde italiche, le vostre ire qui fremerono uguali ai vostri flutti intorno alle vostre marine; qui pari suono mandarono le catene di tutti... Sorgete dunque tutti una volta in un solo volere nel nome santo di Dio!

Salute, o Firenze la bella! Fabbricata su campi lieti di fiori, appellata dal nome dei fiori, essi ti concedevano eterna la facoltà di piacere, e tu sei fiore caduto dai giardini celesti in testimonio delle magnificenze del paradiso germogliato sopra la terra. Una corona di colli ridenti ti circonda vaga a vedersi come la cintura di Venere. Colà sagrificava Lorenzo dei Medici alle grazie e alle furie, in quella parte meditò i suoi scritti Francesco Guicciardini storico sommo, pessimo cittadino; da quell'altra Gallileo, Colombo dei cieli, quantunque volte lanciò lo sguardo al firmamento, altrettanti mondi vi discoperse, sicchè forse gelosa dei suoi arcani Natura è da credersi gli chiudesse nelle tenebre l'audacissimo sguardo. A vederti su l'ora del meriggio, quando il sole ti scintilla nelle pienezze dei raggi sul capo, quando il cielo che di te s'innamora ti cinge limpido e diafano, e per le tue vie si sparge fragore di gente o di opere, tu rassomigli a una menade che stanca di correre per le balze riposa palpitante, e mentre bagna le lunghe trecce nelle onde dell'Arno, si vagheggia come consapevole della sua leggiadria nello specchio delle acque. — Verso sera poi, nell'ora mesta dell' Ave Maria, se il sole declinante ti manda da lontano un addio di fuoco ed infiamma il vapore di che il tuo fiume diletto ti cinse la fronte, quasi nimbo radiato col quale incoronano i cristiani la testa ai loro santi, allora tu sembri una vergine di Raffaello, divina per espressione di affetto materno, per luce celeste che discende dall'alto e per gloria di angioli esultanti. — Ma di', Firenze, che cosa hai tu fatto dei tuoi giorni di gloria? Dove i tuoi lioni coronati? Dove gli uomini grandi? Ahimè! Nessuna fra le tue sorelle italiche più di te comprende nel seno illustri defunti. Glorie di sepolcro! Superbia di avelli! Infelicissimo vanto! Certo un pugno della cenere di cotesti morti vale troppo meglio di mille tuoi vivi... non pertanto ella è cenere. O Firenze! dove sono i tuoi grandi? Tu ridi... veramente così com'è quel tuo sorriso par cosa creata in cielo; però una volta assai diversa ridevi. In campo l'elmo, impugnata la lancia, vergine e diva ti mostravi alle genti quale apparve Minerva uscita dalla testa di Giove; poi l'elmo t'increbbe, deponesti la lancia, facile sorridesti a chiunque passò per le tue vie; — lo straniero ti vide, si accese di te e, un giorno che tu ne stavi immemore, la mano ti pose sul core delicato... Ah! da quel giorno i tuoi occhi furono gravi di lascivia, — il tuo sorriso si uguagliò a quello della Odalisca che suo malgrado sorride al feroce sultano perchè non l'offenda con le battiture...

E se degradata fra tutte le tue sorelle italiche te continuano i popoli a salutare col nome di bella, quale eri allora che sola in questa terra di sventura vigilavi intorno ai tuoi bastioni, riparo l'ultimo delle italiane libertà? — Quando l'oste nemica, Tedeschi, e Spagnuoli si affacciarono al monte dell'Apparita e l'occhio profondando giù nella valle ti videro, stettero immoti e non proferirono parola.

Potrebbe forse l'aspetto delle meraviglie della natura accogliere potenza di placare nel cuore umano le furie della cupidigia e del sangue? Così talvolta per conforto dell'anima sconsolata immagina il poeta, — ma invero là dove si curvano più placidi i cieli, e la terra manda più soavi fragranze, quivi in copia maggiore vivono rettili velenosi e belve ed uomini pei quali la vendetta è un delirio, il sangue più dolce che l'umore della vite. La empietà, smisurato macenilliero[136], di cui le radici penetrano nell'inferno, e la cima forse nel paradiso, sparge mortale influenza sopra tutta la terra. — Volgiti a settentrione, e udrai grida disperate di offesi i quali chiamano invano il Creatore in soccorso della creatura: — volgiti a oriente, e ti percolerà un singulto a cui rispondono eccheggianti secoli senza fine, Abele non lasciò discendenza, noi tutti nascemmo dal fianco di Caino; — portiamo il peso della iniquità dei padri — e il nostro.

Sia dunque che alla vista di tanta bellezza la cupidigia dei nemici si placasse, sia piuttosto, come pare più vero, che la cupidigia rimanesse maravigliata nel considerare la preda superiore alla aspettazione, cotesto istante di quiete cessò, e all'improvviso con indicibile allegrezza stranamente atteggiando la persona, chi vibrò l'asta, chi bandì la spada, e insieme tutti esclamarono:

«Signora Fiorenza, apparecchia li tuoi broccati, che noi veniamo per comperarli a misura di picche!»

Il vicerè di Napoli Filiberto principe di Orange armato di splendida armatura si mise attonito pur egli; il suo volto esprimeva quello interno contento che ogni cuore, per poco intenda gentilezza, sente alla vista dei miracoli della natura o dell'arte, — dopo alcun tempo piegando la persona verso Baccio Valori, commessario in campo del papa, e altri fuorusciti fiorentini, addita loro la città e favella:

«S'io fossi nato là dentro... la difenderei...»

«Come noi la difendiamo», interruppe officiosamente il Valori, «imperciocchè noi siamo qui venuti per liberarla dalla insopportabile tirannide che la tiene oppressa.»

«Non sembra però la libertà che le portate troppo le piaccia, perchè si apparecchia a ributtarla a colpi di bombarda; nè in verità credo le armi nostre vengano per questo. Io ho voluto dire che la difenderei da chiunque movesse armato contro di lei... anche da mio padre.»

«Ogni uomo se la intende colla sua coscienza, io con la mia; e questa, o principe, se ne sta tranquilla nella fiducia di operare il bene della sua patria.»

«La carità di Erode, il quale mandava i pargoli in paradiso prima che peccassero![137] »

«Principe!»

«Commessario! — Io, vedete, per volontà e per obbligo sono soldato fedele di Sua Maestà Imperiale, e non pertanto uso liberamente la lingua. Abbiatelo in buona o in mala parte, vi dico che con quel vostro ingegno riuscirete ad ingannare tutti, — tranne la coscienza; — pensate al fine; — io non vidi mai traditori capitare a buon porto. L'esempio del contestabile di Borbone vi stia sugli occhi.»

E la coscienza, che pur testè vantava pura il Valori, tale gli dava acerbissimo morso in quel punto ch'ei ne rimase per molte settimane dolente, e con sentenza che non concede appello gli ordinava: Taci, ribaldo! — E Baccio taceva pensoso del futuro.

Poc'oltre a man destra del principe, immobile come pietra, sta Giovanni Bandino; il volto tiene e gli sguardi tesi verso Firenze. Dalla fronte pallida gli piovono grosse gocce di sudore; — paiono lagrime piante sopra di lui da occhi invisibili: trema forte e non proferisce parola. In campo lo spregiavano e temevano; — ma egli fuggendo ogni umano consorzio non dava luogo alle offese: — quando negli scontri di guerra vedeva bestialmente inferocire i soldati e fatti ciechi per ira, egli, scoperto di ogni arme difensiva, si cacciava là dove più spessi cadevano i colpi e gli uomini. La fortuna gli negava la morte; — sovente ebbe dalle palle degli archibusi forato il beretto o la veste, e nondimanco si rimase illeso. All'assalto di Spelle seguitò impassibile fin sotto il muro gli assalitori; fischiavano le palle intorno al suo capo, rovinarono corpi di uccisi o sconciamente mutilati, ed egli pareva nulla vedesse od ascoltasse; quando un colpo di sagro percotendo a mezzo il petto Giovanni da Urbino, tra quanti erano prodi nello esercito, valorosissimo, lo balestrò sfracellato ai suoi piedi, egli allora proruppe in altissime risa e balzò al posto dove rimase ucciso l'infelice guerriero; a tutti sembrò il demonio della strage: non perdonava a cui implorasse quartiere, o a chi resistesse; dal capo alle piante spesso appariva sordidato di sangue nemico senza che pure una scalfittura ne versasse del suo. Gli Spagnuoli, secondo l'indole loro superstiziosi, sospettavano fosse ciurmato, ma poi, sapendolo uomo del papa si ricredevano, in seguito nel sospetto si confermavano. Dovunque mostra la faccia cessano i colloquii, la gente si apre in due file per lasciarlo passare, assalita da misterioso ribrezzo. — Immemore dei circostanti, lunga pezza il Bandino dimorò nello stato di fissazione di che scriveva poc'anzi; all'improvviso, stendendo ambe le braccia, con suono angoscioso di voce prorompe:

«O patria mia!»

La quale esclamazione avendo udita monsignore di Orange, la man gli pose sopra la spalla sinistra lo interrogando così:

«E perchè dunque tra i nemici di lei?...»

Si riscuote il Bandino, — guata bieco l'Orange e brontolando fugge via a precipizio.

Scendeva intanto dal monte schiamazzante l'esercito; rotte le ordinanze procede baldanzoso, come chi va al corteo; invano lo richiamano alle insegne i capitani: invano si affaticano a riordinarlo sergenti e caporali; con più rispetto camminano i mercanti per le strade del patrimonio di san Pietro, tanto poteva in lui il sentimento del proprio coraggio e della nostra viltà; e sì, che a Spelle duro intoppo incontrava, ebbe Cortona non per forza di guerra, ma per tradimento; pure la memoria dei soldati poco si profonda, e i fatti d'Arezzo gli avevano inorgogliti. — Va, va, soldato; la valle che vedi, comunque angusta, sopravanza al tuo sepolcro.

Il principe non sapeva scendere dal sommo del monte. Baccio Valori, riappicatasi la maschera del cortegiano per un momento cadutagli dal volto, rideva e motteggiava con certe sue arguzie da rallegrare la brigata.

«Or mi dite, commessario», domanda l'Orange, «cotesta fabbrica immensa sarebbe per avventura Santa Maria del Fiore?»

«Voi l'avete detto, monsignore; ammirate di grazia la cupola del Brunellesco; e' non vi pare proprio voltata dalle mani degli angioli?»

«Fu dunque colà che i Pazzi uccisero Giuliano dei Medici e ferirono Lorenzo?»

«Certo, in quel tempio. Guardate adesso cotesta torre merlata: la fabbricò Arnolfo di Lapo, e soprasta al Palazzo della Signoria.»

«Parmi avere sentito raccontare fosse in cotesta torre sostenuto Cosimo dei Medici in dubbio di perdere il capo, e lo perdeva senza l'aiuto del buffone Farganaccio; non è vero, messer commessario?»

«Vero. Voi, monsignore principe, mi sembrate molto bene informato delle nostre storie...»

«Come no? Io ho voluto partitamente conoscere la stirpe di coloro che difendo e il molto affetto che gli lega ai concittadini loro. — Ditemi, e cotest'altra torre di forma leggiadra, tanto diversa dalle altre, come si chiama ella?»

«La torre di Badia; — la edificò il marchese Ugo insieme con altre ventitre per tutta Toscana, spaventato dalla visione ch'egli ebbe dell'inferno.»

«Il marchese Ugo accompagnò in Italia Ottone imperatore, il quale, supplicato dai Fiorentini, loro concedeva libero reggimento: ora Carlo imperatore, istando i Fiorentini, abolisce la repubblica e fonda assoluto principato. Quando foste più savii e meno tristi, ora od allora, messere commissario?» — E non aspettando la risposta, aggiungeva: «Quell'altra torre come appellate voi?»

«La torre del Bargello...»

.... fuorusciti fiorentini, addita loro la città e favella: «S'io fossi nato là dentro.... la difenderei....» Cap. VIII, pag. 200.

«Se la memoria non m'inganna, nella corte del Bargello fu già mozzata la testa ad uno dei Medici. Messere commessario, sapete voi singolarissimo amore essere quello che tra loro si portano Medici e Fiorentini? i primi anelano stringere i secondi in un amplesso di catene di ferro; i secondi poi, quando possono, i Medici o bandiscono o decollano.»

Baccio Valori stringendosi nelle spalle pensava: o Padre Santo, tu mi sembri proprio il cavallo che implorò l'aiuto dell'uomo per vincere il cervo.

Il principe, mutando all'improvviso sembiante, più contegnoso riprendeva:

«Basta, questo è affare tra voi; per me obbedisco agli ordini di Sua Maestà l'imperatore; — il soldato non deve ricercare tant'oltre; egli grida: Viva la gloria! e si fa ammazzare per quattro soldi al giorno, quando glieli danno... Fiorenza vedremo a vostro bell'agio dentro; ora conviene apparecchiare gli argomenti per prenderla. A noi le carte, a noi i colonnelli.»

E tosto gli apportarono le piante della città e le carte dei luoghi circostanti minutamente e diligentemente disegnate. Le une e le altre gli consegnò papa Clemente, il quale molto tempo innanzi aveva commesso al Tribolo e a Benvenuto della Golpaja un modello di Firenze, ed avutolo, sì l'ebbe caro che finchè visse volle tenerlo nella sua stanza da letto. Il principe, considerate le carte e riscontrando coll'occhio il paese sottoposto, domandò:

«Commessario, è nuova, o antica la fortezza su quel poggio costà...?»

«Ella è il convento e il campanile di San Miniato; credo vi abbia condotto nuove opere attorno a Michelangiolo Buonarroti.»

«Se tali sono i campanili, pensiamo un po' che cosa saranno le fortezze! E poi questo Buonarroti mi occorre dappertutto; vivono forse più uomini in Italia col nome di Michelangiolo Buonarroti?»

«No, principe; poichè Dio si riposò dal creare, a nessun uomo più che a costui concesse il creatore suo spirito; egli fu che dipinse la volta della cappella di papa Sisto, egli scolpì il sepolcro di papa Iulio; egli fonde, egli architetta, egli fortifica, egli filosofa, egli poeteggia, arringa, combatte, egli insomma fa tutto...»

«Dunque non può dirsi iniqua una causa quando la sostiene un tanto uomo. Gravi danni io temo da cotesta fortezza, commessario. — Converrà bombardarla con tutte le artiglierie al fianco... da questo poggio... che si chiama... si chiama...», e guardava sopra la carta.

«Giramonte.»

«Giramonte appunto; e quell'altra torre ch'io vedo là da lontano sorgere sopra le mura a quale ufficio immaginate voi la destinino?»

«Le mura di Fiorenza ab antiquo andavano tutte inghirlandate di torri simili a quella. Nel 1526, quando vivevano incerti sopra le mosse dell'esercito di Borbone, Federigo da Bozzolo e Pietro Navarra vennero per commessione del papa a munire Fiorenza e le abbatterono: come quella una sfuggisse la universale rovina non saprei dirvi.»

«Oh perchè non si fermarono essi agli stipendi della Repubblica! Due architetti come loro mi avrebbero risparmiate venti bombardi, nè avrei mestiero delle artiglierie di Siena o dei marraiuoli di Lucca...»

«Quel Buonarroti mi mette in sospetto più dei Côrsi del Baglioni», osservò Valerio Orsino colonello del papa.

«Ma quale odio lo muove contro Sua Santità?» — interrogava l'Orange.

«Anzi io credo che l'ami...»

«E che maniera d'uomini siete voi altri Italiani? Il Buonarroti ama il papa e si apparecchia a combatterlo?...

«Monsignore, la è piana, se pensate che il Buonarroti più del papa ama la libertà.»

«Sta bene. Or dunque», riprese il principe tenendo un dito sopra la carta e ad ora ad ora sollevando gli occhi, «in questo momento la nostra gente non basta a stringere la città da ogni lato; — circondiamo intanto la sinistra parte, occupiamo tutti questi colli che le fanno semicerchio da oriente a occidente, da porta San Nicolò a porta San Friano. Signor Giovambattista Savello, voi accamperete con la vostra gente costà a Rusciano; voi, signor conte Piermaria, al Gallo; Alessandro Vitelli fatevi forte sul Giramonte; Sciarra Colonna, occuperete il Poggio di Santa Margherita a Montici; Castaldo, Cagnaccio, monsignore Ascalino, alloggiate i vostri colonelli la presso coteste case... che leggo appartenere a messere Francesco Guicciardini. Duca di Malfi, vi condurrete a questo punto chiamata casa Taddei. Pirro Colonna, prendete luogo a casa Barducci; Orsini, a casa Luna. Presso San Giorgio andrà lo strenuissimo marchese del Guasto. I lanzi si accampino sul poggio dei Baroncelli e si distradano fino al monastero del Portico. Gli Spagnuoli si attendino parte sul medesimo colle accanto ai lanzi, parte San Gaggio, parte a San Donato in Scopeto; una banda di quattro mila occupi tutto il piano sotto Marignolle e tutto il Monte Uliveto verso occidente. Voi, messere commessario, dove intendete di porre il quartiere?»

«Io mi starò col contatore Berlinghieri sul poggio nelle case del Vacchia; e voi?»

«Io là sul piano, dov'è maggiore il pericolo, su la piazza del Mercato.»

«Veramente non parmi...»

«Prudente! vorreste dirmi, commessario? il destino dà a cómpito la lana della nostra vita alle parche; e il tuo fato ti giunge, pauroso o audace. — Acerbo bene tu lo avesti, o mio infelice nipote, caduto spento sul fiore della speranza e della vita!»

Dame e cavalieri, le quali ed i quali consumate, che Dio vi perdoni, i vostri begli occhi su queste carte fastidiose che parlano di patria, di sangue, di storie già vecchie e fuori di andazzo, avreste per avventura compreso qualche cosa della maniera in che a prima giunta l'Orange dispose l'assedio? — A dirvi il vero, finchè lo lessi su i libri non vi compresi nulla neppur io; poi trovai la maniera, ed è questa. — Il pellegrino che visita la mia bella Firenze, se lo punge vaghezza di conoscere addentro le cose ch'io narro povero novelliere, sappia trovarsi, non ricordato dalle Guide, dagli Osservatori e libri altri cotali, nel palagio della Signoria un quadro a fresco rappresentante l'assedio di Firenze; — dov'egli lo cerchi, gli occorrerà nelle stanze che chiamano quartiere di Leone X posto a mezzogiorno della sala del Savonarola, e quivi pure ammirerà, se ne ha voglia, un quadro importantissimo al subietto del quale discorso, voglio dire Clemente VII e Carlo V convenuti di amichevole parlamento; esaminato il quadro, si rechi il passeggero su al poggio San Miniato e ascenda il campanile, il quale pur tuttavia conserva le traccie delle palle balestrate contro di lui nell'assedio. Badi però di andarvi su la mattina, che a vespro non consentirebbe il guardiano ad aprirgli la torre, imperciocchè a quell'ora vi sieno rientrati i colombi di monsignore arcivescovo, ai quali, non che il suono delle bombarde, giungerebbe insopportabile l'aspetto comunque pacifico del pellegrino; e allora, rotto il sonno, prorompendo dalle aperture, andrebbero dispersi per la campagna e forse, ahi! tolga Dio tanto danno, ghermiti da mani profane sazierebbe le voglie di palato plebeo. — Così è: cotesto campanile glorioso, il quale difeso da Michelangiolo e da Lupo bombardiere sostenne per tre giorni il fulminare di quattro grossi cannoni dell'esercito imperiale, quel campanile che resse agli urti, sicchè tuttavia si mantiene in testimonio di un tempo che desideriamo molto, speriamo poco vedere rinnovato, adesso è fatto stanza di colombi, che aspettano costà dentro la degnazione di essere acconciamente arrostiti pel pranzo di monsignore arcivescovo, che Dio tenga nella sua santa guardia.

Giunto sul campanile, in un colpo d'occhio comprenderà quello che io mi affaticherei invano dargli ad intendere con molte pagine, e vedrà come se il cielo sorride a Firenze, Firenze ancora sorride al suo cielo, e il riso loro vicendevolmente ricambino a guisa d'innamorati; — gli parrà rinnovata l'antica storia dei figliuoli di Dio presi di amore per le figliuole degli uomini, nè Dio per questa volta sdegnato nel connubio — mandare a castigarlo il diluvio, sibbene benedirlo dall'alto con un torrente di luce[138].

Disposti gli alloggiamenti, le difese provviste, le sentinelle collocate, Filiberto d'Orange, diligentissimo capitano e come quello sul quale riposava la somma della guerra, non fidandosi altrui, volle di per sè stesso esaminare ogni cosa. Montato sopra generoso cavallo, lo accompagnando le sue lancie spezzate, visitò i diversi posti, suggerì opportuni provvedimenti, raccomandò ai colonnelli stessero in procinto; e quando gli parve adempito il suo debito, essendo già discesa la notte, si avviò ai suoi alloggiamenti giù al piano in certe case dei Guicciardini tra la piazza del Mercato e le forche.

Sia che memorie del passato o disegni del futuro lo tenessero inteso, allenta le briglie al cavallo e lascia che di buon tratto di strada lo precedano le lance spezzate; così s'inoltra nella notte, non badando al rumore confuso del campo nè ai fuochi accesi sopra tutti quei poggi: all'improvviso il cavallo si arresta, ed intende una voce di uomo che si lamenta.

«Ormai il dado è tratto; — tra morire infame, o morire invendicato, mi piacque la vendetta», con parole interrotte mormorava la voce; «ma per aver vendetta mi bisogna dar fuoco alla patria, — ed io l'amo questa patria; — nè l'amico di Filippo Strozzi dovrebbe travagliarsi in pro dei Medici.... non pertanto il fato ci avviluppa insieme; noi non siamo padroni del fato.»

Qui il cavallo del principe mutando passo urta una pietra, la quale smossa rotola ai piedi dello sconosciuto, che tosto rizzatosi domanda in suono superbo:

«Chi sei?»

«Non so se amici», rispose il principe, «ma non certo nemici; voi mi parete il Bandino, ed io sono Orange; il mio cavallo ha sbagliato sentiero, m'ingegnerò ritrovarlo: — buona notte, messere.»

«Ditemi, principe,» soggiunse il Bandino arrestandogli per le redini il cavallo, «in conto di che mi avete voi?»

«Ma... nel conto che mi avreste me, s'io fossi voi.»

«Principe, in mercede parlatemi aperto, in qual concetto mi tenete?»

«Fiorentino movete ai danni di Fiorenza... di uomo siffatto può essere mai dubbiosa la fama?»

«Ah! certo il nome ch'ei merita è un solo per tutto il mondo», favella in suono sconsolato il Bandino lasciando le redini del cavallo...

«Eppure!...»

«Eppure voi non siete un codardo; questo molto bene conosco, che mi furono dette novelle della virtù vostra nella guerra di Milano, dove militaste col conte Pietro Nofreri; — io non vi mescolo con messere commessario e consorti, i quali patria, affetti e Dio tengono nella borsa; una cagione profonda, a cui non potete resistere, certo vi spinge: — io vi compiango e vi lascio. — quando gli amici di Giobbe si fanno a visitarlo e seduti in terra a canto a lui piangono insieme, mi paiono consolatori divini; allorchè poi aperti i labbri lo ammoniscono o confortano, mi riescono importuni; — molte sventure per parole inasprisconsi; e tale giudicando la vostra, io mi taccio. Tra la vostra anima e Dio non deve intromettersi nessuno. Vorrei stimarvi come mi stimerei propenso ad amarvi. Ma a fine di conto i fati tirano... e voi mi sembra che lo dicevate quando prima io v'incontrai, — l'uomo non è padrone del fato.

«Così non può essere.... scendete.... bisogna che voi mi stimiate.... A chiunque tentasse indagare il mio segreto pianterei un ferro nel cuore.... a voi, che rifiutate conoscerlo, forza è ch'io il dica..... scendete.... e sedetemi accanto.»

Un non so che d'impero e di preghiera si conteneva in queste parole del Bandino, chè il principe si sentì a un punto come sforzato e commosso; aggiungi la naturale curiosità, che, malgrado le proteste in contrario, punge ogni uomo di penetrare il destino altrui; — il tempo e l'ora, tutto lo indusse a soddisfare il Bandino; — scavalcò pertanto e, legato il cavallo ad un albero, si acconciò per ascoltare.

«Conoscete l'Italia?» comincia impetuosamente il Bandino, «ella è terra di delizie e di vulcani; — conoscete il cuore dei suoi figli? due sole passioni se ne dividono il regno, demoni, credo, ambedue: amore e odio... — forse voi penserete altramente dello amore, perchè il volto ha leggiadro e favella con parole soavi, ma in verità egli è demonio, ed io l'ho provato e provo. — L'amore talvolta diventa odio, l'odio non muta mai; dei due odii terribilissimo il primo, entrambi fuoco d'inferno; ma il primo, fatto più intenso dalla gelosia, dalla vanità offesa, dalla ricordanza dei piaceri goduti, dei piaceri perduti... olio e bitume sopra fiamma di per sè stessa tremenda. — Dio mi creò per amare: io mi ricordo di un fanciullo sensitivo, vago di solitudine, abbandonare il trambusto della città, e lontano nei campi voltarsi indietro a contemplarla, come l'Alighieri descrive il naufrago che, uscito fuori dal pelago alla riva, si volge all'acqua perigliosa e la guata; egli errando pei boschi udía la voce arcana che pare mandi natura al suo Creatore, intendeva commosso le armonie degli uccelli ed invidiava la voce loro per cantare anch'egli un inno di gloria, e le ali per accostarsi al firmamento, perocchè gli avessero detto il Padre del Creato abitare nei cieli. Quanto tesoro di amore vivea nell'anima di quel fanciullo! Appena la campana della sera indicava l'ora dei morti, prosternato davanti alla immagine di Gesù Cristo, non senza lacrime lo supplicava per le anime dei suoi defunti... per tutti quelli che purgandosi aspettano di sollevarsi alle gioie divine; egli aveva una parola di conforto per qualunque sconsolato, un voto per ogni afflitto, un soccorso per ogni bisognoso, e quando incontrava sventure che non potevano consolarsi, bisogni che non potevano sovvenirsi... piangeva. Ah! quel fanciullo fui io. — E adesso la mia mente tentenna dolorosa nel pensiero che Dio non è, od è tiranno; e sento solo la vita allorchè gli uomini, diventati bestie feroci e più che bestie, si lacerano, le bombarde fulminano la morte, la terra va ingombra di uccisi, e i demoni della discordia e dell'omicidio tripudiano pei campi di battaglia a piene mani lanciando contro il cielo sangue e membri umani, in dileggio o in rampogna del Dio che sembra aver creato gli uomini per divorarsi tra loro.

«Noi altri Italiani c'innamoriamo in chiesa; colà la mezza luce che nelle ampie navate si diffonde traverso i vetri coloriti, le melodie degli organi, il profumo degl'incensi, le voci angeliche di fanciulli invisibili esaltano i sensi e ti dispongono ad amare, in cotesto punto, se i tuoi occhi, lassi di vagheggiare una Madonna creata da Raffaello, abbassandosi incontrano il tipo di cotesta Madonna..., spaventato ritorni in fretta a sollevare gli occhi alla immagine, dubbioso che discesa dal quadro siasi fatta viva.... La immagine però non si mosse, ma ormai i tuoi occhi non si alzeranno più alla immagine per adorare Dio. Lui adorerai nella vergine che piange e che ride; la vergine che movendo lo sguardo accelera o arresta le pulsazioni del tuo cuore. Finalmente Rafaello non infuse la vita nei suoi dipinti! — Allora il cielo si confonde alla terra: — il creatore adori nella creatura; — all'impeto naturale della passione tu aggiungi l'impeto della passione religiosa; — la febbre acuta t'invade le fibre e le ossa; le arterie delle tempie ti pulsano quasi volessero rompersi, vertigini di fuoco ti si avvolgono dinanzi gli occhi.... odi frequente un tintinnio negli orecchi che ti tormenta, e tuttavolta non vorresti cessato... il petto si gonfia in ispessi sospiri... uno sguardo ti ha mutato tutto: — nulla è più tuo; — ogni cosa umile ti pare superba; se il piede della donna che ami ti calpestasse..., sarebbe il sommo del tuo paradiso: — questo è italiano amore... ed io l'ho provato. Ma la donna che inspira un sì grande affetto lo partecipa ella? O Cristo, che tanto imprecasti contro i farisei, come quelli che ti parvero sepolcri imbiancati, e che altro è la donna mai se non un sepolcro imbiancato? Perchè creare così splendida la coppa che contiene veleno senza pari mortale? Dio, che ponesti nel cuore dell'uomo il ribrezzo alla vista del rettile e la paura all'incontro della fiera, ond'è che non lo avvertisti dello approssimarsi della donna con queste od altre cosiffatte passioni? Forse accoglie la femmina ingegno meno perfido del rettile, o brama meno truce della fiera? Nessuno ente mai ingannò quanto la donna ha ingannato, non tradì quanto la donna ha tradito. Michelangiolo, dipingendo la prima tentazione di Satana, la quale ci fruttò la perdita del paradiso e della vita, immaginò il tentatore mezzo demonio, mezza femmina. Satana, tuttochè Satana, non seppe trovare immagine meglio adattata alle insidie... Ahi femmina! Quantunque alla vostra stirpe imprecando io turbi le ossa della defunta mia madre.... e l'anima mi rimorda come di parricidio commesso.... maledette sieno quante posseggono sopra la terra sembianze di angiolo e cuore di demonio...»

«Ditemi principe,» soggiunse il Bandino, arrestandogli per le redini il cavallo, «in conto di che mi avete voi?» Cap. VIII, pag. 208.

E queste parole profferisce con rabbia sì intensa, e le parole accompagna con tanto convulso atteggiare di muscoli e stridere di denti che il principe si ritrasse di alcuno spazio indietro come spaventato; dopo breve silenzio egli disse:

«Bandino, i tempi di sostenere a tutta oltranza l'onore delle dame non corrono più, e nondimeno, come cavaliere cristiano e figliuolo amoroso, io prendo a provare in campo chiuso la mia genitrice per la più casta ed onorata matrona del mondo...

«Rammento il giorno e il luogo in che ella primamente mi comparve dinanzi», continua il Bandino senza rispondere alle parole del principe, fisso com'era nel suo pensiero; «per la festa di san Zanobi in santa Maria del Fiore, là presso alla parete ov'è sospeso il simulacro del divino poeta,[139] i nostri occhi s'incontrarono insieme; parve che i miei sguardi la infiammassero, perchè ella si fece accesa nel volto, come le vampe di fuoco le ardessero davanti, ed abbassò il velo: poco importa; ormai la sua immagine mi stava incisa nel cuore; dovunque guardassi io la vedeva; ed in vero ella si partì dalla chiesa, io non rimossi mai gli sguardi dal luogo che ella tenne occupato; gli uffici divini cessarono, tacquero gli organi, spensero i ceri, ed io pur sempre mi rimaneva immobile credendo tuttavia di vederla. Agevole cosa mi riuscì conoscere chi ella si fosse, a quale casata appartenesse: nobile stirpe e superba, di ogni bene di fortuna largamente provvista; ma anche i miei nacquero di gentile lignaggio, se non che gli averi erano scarsi; la mercanzia siccome aveva favorito la famiglia della donzella, aveva nabissato la mia. Secondo il costume dei giovani cominciai a passare sovente sotto alle sue finestre; presi dimestichezza con gli artefici vicini per avere onesto motivo di trattenermi nella contrada; nella notte o sul mattino, accompagnandomi sul leuto, le cantai sotto il balcone dolcissimi versi d'amore; praticai in somma quello che costumano coloro cui scalda il petto l'ardente fuoco della passione e non sanno trovare modo altro diverso da manifestarla alla amata donna. Con quanta speranza io mi moveva da casa, e come avvilito vi rientrava! Verun cenno apparve alle finestre mai; mai vidi sporgere un capo il quale indicasse intendere all'amoroso lamento; io conduceva tristissimi giorni disperato della vita. Certa volta che dopo lunga e sempre vana dimora mi era fermato a novellare con certo archibusiere della contrada, io mi tornava a capo basso, dolente; giunto che fui allo estremo della via sul punto di scantonare, una ispirazione interna mi disse: volgi la testa, — ed io di subito mi voltai: una figura si ritrasse dalla loggia alta della casa, veloce più che mano non si allontana dal ferro rovente; — amore aguzza lo sguardo, ed io la riconobbi... era ben dessa, e ne piansi di gioja. — Deh! in cortesia, monsignore, vogliatemi perdonare s'io vi trattengo con la storia di siffatte quisquilie... Se sapeste però come taglienti me le abbia incise la memoria nel cervello... se lo sapeste! non vi dirò come trovassimo modo a favellarci; non vi dirò nemmeno come per una serie di eventi ora tristi ora lieti e sempre pieni di passione venisse lo istante nel quale la fanciulla, vinto il pudore verginale, mi confessava: Io ti amo... Io vi giuro, monsignore... in che vi giurerò io? Non conosco più nulla di sacro nella terra o nel cielo. E pure gli angioli avrebbero potuto senza velarsi gli occhi con le ale contemplare cotesti colloquii, imperciocchè le parole e gli atti vi fossero casti quanto quelli ch'essi alternano in paradiso. Io ti amo! ella mi disse: ora, quando anche vi avessi fede, la vita futura non m'ispira speranze nè terrore; il gaudio dei santi e i tormenti dei reprobi io gli ho provati. — Comunque vi ponessimo diligentissima cura, non potemmo tanto cauti procedere nei nostri amori che alfine uomo non se ne accorgesse; già non si cela amore! — All'improvviso ogni via di vederla mi venne tronca nè in chiesa più nè in casa di amiche o di parenti; il suo palazzo chiuso, impenetrabilmente chiuso. Certa notte ch'io mi vi aggirava d'intorno come forsennato, sento una man forte percuotermi sopra la spalla e minacciarmi una voce: — Fa di allontanarti da queste contrade, se tu non vuoi lasciarci la vita. — Trema egli Appennino ai venti di primavera? Tale mi rimasi io alle superbe parole, e continuai a visitare di e notte quei luoghi più frequente di prima. Non corse gran tempo da questa a un'altra notte nella quale, passando vicino alla dimora dell'amata donna, di repente un colpo mi ferisce sul fianco; e fu sì fiero che, sebbene io me ne andassi riparato di giaco, il pugnale lo trapassò fuor fuori rompendovisi dentro: poco mancò non percotessi con la faccia la terra; non mi smarriva di animo per questo e, tratto di sotto la cappa la spada, mi posi in difesa; erano tre, e due fuggirono, il terzo rimase; essendo buio fitto, ci saremmo per certo uccisi ambidue, quando i vicini svegliati al rumore si affacciarono ai balconi coi lumi; io vidi allora il mio nemico armato di spada e pugnale: a mia posta strinsi lo stiletto, ed opponendo al suo stile la spada, alla sua spada lo stile, cominciammo un gagliardo combattimento; i vicini urlando raccomandavansi non volessimo insanguinare la contrada; vedute riuscire le raccomandazioni invano, chiamavano la famiglia del bargello; noi non gli ascoltavamo e tuttavia attendevamo a schermire. Egli era franco cavaliere il mio nemico e spedito così che ben ci voleva arte e prontezza per accorrere alle difese; chi fosse ignorava: — il volto tenea coperto con la maschera di velluto. Durava da un quarto d'ora il duello, nè la fortuna pendeva da una parte piuttosto che dall'altra, quando ecco accorgermi ch'ei tenta imprigionarmi la spada e strisciando col pugnale lungo là lama ferirmi; uso l'inganno e fingo lasciarmi vincere, sicchè egli, precipitando a mano destra l'offesa, allenta a mano sinistra la difesa; allora con un punto rovescio ponendo la sua spada a contrasto tra la lama del mio pugnale e la traversa, le do a leva di forza e gliela faccio balzare di mano: nel medesimo tempo indietreggio di un passo, riguadagno la mira e poi sottentro veloce tenendo a bada con la spada il suo pugnale ed incalzandolo mortalmente col mio: povero di consiglio, presago oramai del suo fine, mentr'egli cerca salute nei passi retrogradi incespica e cade. La maschera gli sfugge dal volto, le sue sembianze rivela; allora un altissimo grido mi percuote, sollevo gli occhi e vedo la donna mia scarmigliata affacciarsi alla finestra e, tese le braccia supplicare in mercede: Deh! per Dio non lo uccidete, ch'egli è mio fratello di sangue. — Già dal suo palazzo prorompevano intanto armati e il padre per aiutarlo: intempestivo soccorso perchè la sua vita stava nelle mie mani. Riposi pacate la spada e il pugnale, e la mano gli porgendo a sollevarlo. — Messère, gli dissi, potrei darvi là morte, ma penso dovere esservi molto maggiore castigo la vita; perchè tanto odiate chi vi ama? — Ciò detto partii. — Bene, nei giorni successivi e nelle notti non disusai aggirarmi per quelle contrade e di tenere fisso lo sguardo al palazzo; d'ora in poi mi fu chiuso come il sepolcro: i vicini interrogati rispondevano non avere più veduto la fanciulla nè donna altra di casa; aggiungevano alcuni: Forse la menarono in villa. Ed ecco ch'io percorro le campagne, prendo voce, indago, per iscoprire mi travesto, e sempre invano; così che alfine ne perdo affatto ogni traccia. Spesso, di animo e di corpo abbattuto, truci immaginazioni mi spaventavano: — l'avessero uccisa! — e la morte di lei in cento modi diversi e tutti terribili agitava la inferma mia mente; — appena io mi era ristorato alquanto, tornava col mattino la speranza... Voi ben sapete come sia la speranza palpitante e vitale nel giovane innamorato. — Alfine io sopravvissi alle sue lusinghe e, fatto cadavere prima di chiudere gli occhi al sonno eterno, mi distesi muto sul letto aspettando e invocando la morte. Le lagrime del povero padre mio che amava tanto e la poca vita tenace a rimanersi mi concitavano a sdegno, sicchè un giorno empiamente gli dissi: Lasciatemi in pace, padre mio: il male maggiore mi venne da voi quando mi deste la vita; ora concedete che al vostro misfatto io ripari procurandomi la morte! — Mio padre cessò il pianto, e seduto a lato del letto mi abbracciò con ambe le mani le ginocchia dicendo: — Moriamo insieme; — ed io: — Moriamo, se così vi talenta. — E certo morivamo di inedia, quando sul declinare del giorno udimmo strepito alla porta della camera, e subito dopo entrare un giovane di oneste sembianze, il quale piegatosi al mio orecchio susurrò: — Per quanto vi è cara la vita di colei che amate, sorgete e venite meco! — Lo fissai con occhi esterrefatti e immaginando la sua apparizione errore della fantasia: — Partite, risposi volgendo il fianco sopra l'altro lato, chè io non posso andare standomi in colloquio colla morte. — Ma egli si dimostrò cosa reale e parole mi disse per le quali sentendomi all'improvviso pieno di vita, mi gettai giù dal letto e gli tenni dietro. Mio padre vinto dalla stanchezza dormiva... nè io pensai a svegliarlo e per suo conforto avvertirlo; non mi venne neppure in pensiero quale e quanta sarebbe stata la disperazione del vecchio destandosi e non vedendomi più, inconsapevole di quello fosse accaduto di me... tanto è demonio l'amore! — Arrivato all'aria aperta, mancarono al desiderio le forze; e sarei caduto, se lo straniero non mi avesse sorretto e accomodato in groppa al suo cavallo. Con misteriosa diligenza giunti sul canto di Via dei Pescioni, consegna il cavallo a un famiglio quivi appostato e sorreggendomi mi conduce verso il palazzo della mia donna. Ben mi cadde in pensiero il tradimento, ma non lo temei, tanto, peggio di vivere non poteva accadermi: fu aperto un usciuolo, mi trassero silenziosamente per diverse sale e poi mi deposero dentro una cameretta: vidi un piccolo altare, sentii odore d'incenso, l'aere calda, indizii manifesti che il Viatico si era soffermato là dentro, e presso l'altare sopra un letto mi occorse giacente la donna mia, calate le palpebre, le labbra bianche e la pelle del colore di cera, come persona prossima al transito; — sentii uno stringimento di cuore e caddi privo di conoscenza, lieto pensando di toccare l'estremo momento della mia vita. — Quando rinvenni, mi percosse in prima uno schiamazzo, un pianto e preghiere e minaccie in molto terribile guisa: apersi gli occhi e vidi il padre della donna mia avvampante di sdegno, con labbra enfiate rampognare certe donne che gli stavano attorno con atti supplichevoli e lo fermavano per le braccia con parole dolcissime raumiliandolo. Il giovane a cui aveva salva la vita, quando il padre sembrava piegare agli scongiuri delle donne, se gli accostava all'orecchio e gli dicea parole che a guisa di vento suscitavano la fiamma dell'ira in quel vecchio feroce. La donna mia piangeva, ma le mancava la forza di articolare parola, ed a me pure mancava: mi provai più volte, e sempre invano: al fine fiocamente favellai: Pel sangue di nostro Signore Gesù Cristo, lasciateci morire in pace! — E quasi fosse stato sforzo superiore alla mia poca lena, svenni di nuovo. Tornato lo spirito agli uffici consueti della vita, mi vidi al capezzale il padre della donna, il quale con volto benigno, Attendete a ristorarvi, mi disse, e preparatevi ad ascoltarmi; quello che il cielo vuole forza è che uomo anche voglia! — Lo rividi verso sera, ed accostatosi quanto più presso poteva al mio volto, — Figliuol mio, cominciava, poichè umano argomento non vince l'amore che la mia figliuola ti porta, e poichè vedo a prova manifesta come anche tu ardentissimamente l'ami, e il contristarvi le nozze sarebbe certa cagione della morte di entrambi, a Dio non piaccia che in questa mia vecchia età prossimo a rendere conto della mia vita all'Eterno, contro al mio sangue mi renda micidiale. La tua stirpe è gentile, i tuoi costumi onesti: una sola cosa mi offende in te, e non è tua colpa, voglio dire il difetto dei beni di fortuna, ciò mi trattenne fin qui dal consentire che tu tolga in moglie la mia figliuola Maria: tu saprai un giorno quanto piaccia al cuore del padre allogare i figliuoli in famiglie più potenti della sua e quanto all'opposto rincresca scemare; però siete giovani entrambi, che tu non mi sembri toccare il diciottesimo anno, e la fanciulla appena ne conta quindici: la fortuna, come donna, ama i giovani; viviamo in tempi nei quali riesce di leggieri, a cui vuole davvero, metter insieme danari; sopra tutte le parti del mondo vedo prosperare i nostri mercadanti in Ispagna, fuori di misura doviziosa per l'oro che a lei mandano le Indie non ha guari scoperte. Io ti prometto la figlia: fidanzatevi, ve lo concedo: poi su questa croce giurami che te ne andrai a procacciare tua ventura in Ispagna per tornare presto a condurre donna e statuire famiglia con lo splendore conveniente alla stirpe donde esci e a quella a cui la tua moglie appartiene. — Promisi e con pieno cuore; — qual cosa non avrei io promesso? Restituito alla vita, rigoglioso di giovanezza, felice per potere consumare i miei giorni al fianco della donna amata e dirle: — Io ti amo, e sentirla rispondere: Ed io pure ti amo; — parole mille volte ripetute e mille volte ascoltate con dolcezza ineffabile... miracolo nuovo di amore! — Ebbro del presente, dimenticai la promessa, che troppo mi occupava l'anima la mia passione per conservare memoria di quello che fu, paura per quello che sarebbe stato. — Più volte mi parve esitasse il padre di turbare così lieto vivere esigendo l'adempimento della promessa: pure una notte, quando me lo aspettava meno, mi trasse in disparte; e, Figliuol mio, — così favellando piangeva lacrime forse vere e forse finte, perchè chi aggiunge l'uomo nella simulazione? — Figliuol mio, quanto più ti trattieni, e più allontani il tempo delle tue nozze: va, la stagione ti corre propizia, ed io ho ferma speranza in Dio di rivederti fra due anni tornato ricco a casa. — Vi tacerò gli augurii, i pianti, le disperazioni per trattenermi, e poi i voti, le promesse, i giuri quando fu determinata la partenza; tutte cose meste, non dolorose nè di triste presagio, come quelle che da lontano illuminava la speranza: solo l'aspetto del fratello era in quel tumulto di passioni quasi serpe tra i fiori, quasi Satana nel Paradiso terrestre: mi stese la mano, ed io la sentii umida di freddo sudore, n'ebbi ribrezzo come se avessi tocco la pelle di un rettile: — ma la gioventù è obliosa, la sperienza viene col tempo e ci fa notare questi eventi col sangue più puro del nostro cuore. La fortuna, per flagellarmi meglio, spirò un fiato favorevole nelle vele; partii, giunsi e dimorai a Cadice e a Siviglia, dove impresi traffici smisurati: nei traffici rovina agli altri, io cresceva; i pazzi consigli miei riuscivano meglio dei savi provvedimenti altrui; apparvi oracolo, e fui soltanto avventuroso; la turba m'invidiava, mi applaudiva ed adulava. Le lettere prima mi vennero frequenti da casa, poi più rade, ma affettuose pur sempre, — in seguito più rare ancora, — finalmente cessarono; ciò accadde presso al terminare del secondo anno, epoca in cui aveva statuito il ritorno; la mancanza di nuove mi tenne di mala voglia, non mi sconfortò nè fece temere infortunio, imperciocchè sapessi come Giovanni d'Albret re di Navarra, cacciato ingiustamente dal regno per opera di Ferdinando d'Aragona, avesse co' soccorsi di Francia ricuperato l'antico dominio, e quivi si agitassero terribilissimi combattimenti, a cagione dei quali il comunicare per terra di uno stato all'altro veniva rotto, e dalla parte di mare i legni di Francia e degli alleati loro, tra i quali fedelissimi si mantenevano i Fiorentini, non si attentavano farsi vedere nei porti di Spagna. Incerto del ritorno, lascio fondaco aperto in Siviglia, ed imbarcatomi sopra un brigantino giungo a Genova; travagliato dal mare che sembrava volesse impedirmi il ritorno, continuo il viaggio per terra; nessuna lettera mi precede; intendo arrivare inaspettato e sconosciuto. Oh come forte mi tremò il cuore quando prima scopersi da lontano la cupola della basilica nostra! se avessi avuto l'ale non mi sarebbe sembrato di affrettarmi a mia voglia: pur giungo e difilato mi avvio alla casa paterna; la mano mi manca per bussare alla porta, altri bussa per me, si apre, chi mi apriva non guardo, corro, corro in traccia di mio padre; la casa è vuota!.... Rifaccio i passi, e vedo il vecchio genitore genuflesso davanti un Crocifisso, e ascolto tra i singhiozzi pregare riposo all'anima mia.... — Sono io morto, perchè mi diciate il requiem? — esclamo maravigliato; e il padre piange e più che mai si raccomanda: mi accosto, ei trema e non ardisce guardarmi. Anima benedetta, egli diceva con stupenda prestezza, anima benedetta, va in pace, io spenderò in suffragarti l'ultima mia masserizia... va in pace. — Tornate le persuasioni invano, mi vinse lo sdegno, mi dolsi del modo col quale mi accoglieva, minacciai andarmene tanto lontano che mai più avrebbe riveduto la mia faccia, di poco amore lo rampognai. Egli sorse allora tra stupido e spaventato, e: Tu vivi? — mi domanda con parole interrotte... Mi tocca... mi bacia... e quando il suo dubbio fu tutto spento, crudeli! crudeli! esclama e mi cade semivivo tra le braccia. Qual io rimanessi non saprei con discorso convenevole raccontarvi. Egli rivenne tosto, e io ansiosamente gli domando: Ch'è questo, padre? e la donna mia? — La donna tua? mi risponde, — quanti ne corrono del mese? — Il dieci di febbrajo. — Il dieci, veramente il dieci? — Sì, il dieci. — Vieni a vedere la tua donna, — e con impeto giovanile mi trasse fuori di casa. Giungiamo alle porte di Santa Maria del Fiore; quivi incontrammo fanti e donzelle, i quali tenevano per le redini in copia palafreni; entriamo in chiesa, la più parte sepolta in profondissima oscurità; andiamo oltre, e pervenuti al punto della nave dove sospeso alla parete si ammira il simulacro di Dante, coronata con la ghirlanda nuziale, con lo sposo al fianco, blandita da gioconda comitiva, ritorna da legare la sua fede eternalmente ad un uomo dal piè degli altari una donna, e questa donna è la mia!... Empii di un grido orribile le volte del santuario e, stretto il pugnale, mi precipitai a trucidare la spergiura; mutati appena due passi, il ghiaccio di un ferro mi penetra nelle viscere, e precipito avvolgendomi nel mio sangue sul pavimento. Non piacque all'inferno ch'io mi morissi: udite stupenda nequizia umana! Aperti gli occhi, mi trovo giacente sopra miserabile pagliericcio, dentro una stanza vuota, le mani e i piedi stretti da funi... non mi rinveniva, cercava con la mente nè giungeva a indovinare in qual luogo mi avessero condotto e perchè così legato. All'improvviso mi spaventa uno schiamazzo confuso di minaccie, di percosse, di pianto, di preghiere e di risa; e sopra tutte queste voci tempestare un urlo che diceva: — Chiudete le porte, san Pietro! — san Paolo, di grazia, a che tenete quello spadone ai fianchi? — Or dov'è andato l'arcangiolo Michele? — I demoni danno l'assalto al paradiso.... e' l'hanno preso, — l'hanno preso, — scomunicati! — eretici! — così bussate il Padre Eterno? poveraccio! — Mi accorsi che mi avevano condotto all'ospedale dei pazzi. Nè stette guari che, aperti gli usci della stanza, vidi entrare diverse genti, che riconobbi dagli abiti pel medico, lo spedalingo e i servigiali. Il medico, lindo, aggraziato, superbo del suo bel mantello pavonazzo, si accosta al letto e, vedendomi con gli occhi aperti, mi domanda: — Come va, frate? — Oh Dio! messere, una gran doglia il fianco destro mi tormenta, e queste funi mi segano le braccia: deh! per la croce di Cristo scioglietemi, che soffro tanto che poco più si ha da soffrire nell'inferno. — Il mastro, tastandomi il polso senza altrimenti badare alle mie parole, si volge allo spedalingo e gli dice imperturbato nel volto: — Reverendo, non vi lasciate ingannare da questa quiete apparente; le arterie gli battono come se fosse un cavallo, con buon rispetto parlando; è natura di questi morbi rimettere alquanto della loro malignità per quindi travagliare più veementi di prima: non gli sciogliete le mani: perchè non ha egli preso la purgagione? Ingegnatevi fargliela trangugiare, se non per amore, per forza. Il cerusico muterà l'apparecchio alla ferita: — badate che non si agiti quando lo medica; ogni moto qualunque gli apporterebbe certissima morte. — Davvero le arterie dovevano battermi con impeto; io sentiva dentro ribollirmi il sangue, non potendo sostenere coteste parole che mi sonavano dileggio. — Scioglietemi, gridai, o me ne renderete ragione davanti gli Otto: chi vi ha detto che io sono pazzo? Dov'è questo marrano, questo ribaldo? Io fui tradito, percosso, ed ora mi legate per pazzo... ve la dirò io la storia... uditela... forse ne sentirete pietà. — Ecco, interuppe lo spedalingo dal volto di colore del piombo, i sintomi da voi presagiti ritornano; un accesso di mania lo minaccia... — È indubitato! risponde il medico aggiustandosi con sufficienza il collare, e si dispone a partire. — Forse non volendo il medico mi conservava la vita; imperciocchè se mi avessero sciolto un momento, malgrado la debolezza estrema, la piaga mortale, io sarei balzato dal letto per correre non già alla vendetta ma al sepolcro... e per avventura era il meglio. Se colà dentro io non perdei lo intelletto, ne ho l'obbligo al pensiero fisso dei miei dolori, il quale non mi concedeva che non ponessi troppa mente ai miseri rinchiusi nell'ospedale. Immaginate: da un lato mi stava una madre maniaca la quale nell'ultima piena dell'Arno aveva perduto casa, marito e due figli. Ogni notte, quando il sonno cominciava ad aggravarmi le palpebre, ecco la donna con urli lugubri gridare: — La piena viene!... la piena viene! — prendi il tuo figliuolo, Giovanni; io prenderò la bimba, e fuggiamo via... — E dopo poco mutando voce riprendeva: — Sta cheta, strega, io vo' dormire; se non ismetti di gracidare ti do della marra sul capo... — Sii maledetto! borbotta fra i denti e quindi soggiunge con voce naturale: — Lévati, prendi il figliuolo e quanta masserizia più puoi; ubriacone, lévati... senti.... senti.... ah! non è più tempo.... misericordia! che notte!.... guarda alla vampa del fulmine il fiume che precipita... fuggi... — Io vo' dormire. — Dormi: gran mercè dell'aiuto! Tancia, Lessandra, che notte! acqua e fuoco; ma la Dio grazia io tengo l'argine; costà ho lasciato in gola al fiume poche cose in verità... le masserizie e il marito.... e un figliuolo... dalle masserizie... in fuori devo ringraziarne la fortuna... mi basta la figliuola.... questa ho menata con me.... io l'amo tanto! — e qui, a dirvela in confessione, Tancia, la mia figliuola Nannina l'ho avuta dal vostro fratello Baccio; ci amavamo prima ch'io andassi a marito, e non me lo sono potuto scordare; il sere mi dice ch'è figliuola del peccato... ma oh! io amo la figliuola e il peccato.... Nina, vieni.... dove sei? Nina.... Nina.... in qual parte ti sei cacciata adesso? Se la nascondeste, donne, rendetemela per carità... se l'avete veduta, indicatemela... me ne fossi dimenticata.... no.... sì.... ah trista me! l'ho scordata. Baccio, va a salvare tua figliuola; ah! egli non si vede.... egli tarda.... e il tempo stringe.... Chi siete voi? uomini forse? andate a salvarmi la mia Nannina; non posso offrirvi nulla, la piena mi ha portato via ogni bene della terra; se vi piaccio, vi abbandono il mio corpo; se no, voi avrete per certo a rifabbricarvi la casa; le acque vi hanno affogato il giumento, io vi porterò pietre e calcina.... non siete andati? Non volete andare? Iniqui! scherani! e l'ora fugge, e la maledizione non salva la mia figliuola... Cristo, che sostenesti san Pietro sul mare, sostieni anche me povera madre! Affogo.... affogo.... — E qui si rotolava sul pavimento continuando a cacciare urli disperati, ma indistinti a guisa di singulti. — Dall'altra parte era rinchiuso un giovanetto diventato pazzo per amore; — la giovane anima sua, comparsa appena su l'emisfero della vita, si ottenebrava, ed egli ora forniva il suo corso mortale ricinto di nebbia, siccome sole nei giorni incresciosi dell'inverno; la morte aveva dopo di lui baciato le labbra alla sua donna, e il giorno appresso trovò il verme là dove poche ore innanzi aveva libato il profumo dell'amore. Nel giorno, il misero taceva; verso sera cominciava a preludiare una canzone; caduta la notte, cantava con armonia mesta, arcana, per così dire pregna degli effluvii della sua vita, perchè invero la commozione che pativa cantando lo consumava, e di giorno in giorno, secondo quello che si racconta del cigno, più dolcemente cantava e più si approssimava a morire; tutte le canzoni compiva col verso:

Luce degli occhi miei, chi mi ti asconde?

E quando la voce stanca gli rifiutava l'ufficio consueto, piangeva forte, sempre chiamando Selvaggia, e si raccomandava di ottenergli dal cielo pronta la morte, perchè egli si sarebbe ucciso; ma avendo inteso che i violenti contra sè stessi vanno dannati, non si attentava, sapendo troppo bene lei essere nel cielo; e s'egli voleva adorarla costà, gli bisognava invocare, non darsi la morte... Felice lui! Una notte cessò il canto e la vita. Dove andò la sua anima? Che importa saperlo? Nessuna creatura al mondo si spense con maggiore desiderio di morte. — Poc'oltre uno sciagurato usuraio, impazzito pel furto della male raccolta pecunia, giorno e notte contava il danaro, dieci, cento, mille, in suono profondo, monotono, da disperare chiunque l'udiva; talvolta fantasticava di avere al cospetto la vittima e ripeteva le parole che certo gli furono abituali nell'esercizio dell'infame mestiero: — Non posso, in verità non ho danaro, l'argento è caro, ne parlerò ad un amico che non vuole essere nominato; tutto in monete già non isperate di avere; voi avete una cera da giovine dabbene, m'ingegnerò di farvi servizio come se fosse per me: — tale altra raccomandava al servo frugasse la casa, avere udito rumore; oppure rampognava il fabbro su le serrature deboli e non le voleva pagare... ma quando gli ritornava al pensiero il giorno in che vide la cassa scassinata e vuota dell'ultimo soldo... oh! allora sì, che cacciava gridi presso i quali perdevano il paragone quelli disperati della madre che chiamava la figlia dell'adulterio. — Dirimpetto, un pazzo si credeva mutato in orologio, e rigido rigido lungo il muro agitava la destra a guisa di pendolo, con la bocca indicando i minuti, i quarti dell'ora, le mezze, le intere ore e così durò finchè una notte proruppe in urlo spaventevole, poi disse: Tremate! il tempo cessa, l'eternità si avvicina, io batto l'ultima ora; — e la battè, poi tacque: sentii inondarmi di sudore ghiaccio le membra, mi si rizzarono i capelli; — alla dimane il matto fu trovato morto bocconi per terra; gli si era rotta una vena sul cuore, ed aveva spirata l'anima fra un torrente di sangue. — Non vi dirò delle infinite altre miserie raccolte entro cotesto luogo di dolore; solo vi voglio rammentare quell'altro matto fisso nella idea di essere il Padre eterno; — allorchè lo schiamazzo giungeva a tale ch'egli stesso se ne sentiva intronato, dalla sua stanza mandava le voci: — Silenzio! Io sono il Padre eterno, io affliggo e consolo; creature, parlate al vostro Creatore, io sovverrò alle vostre angustie. — Subito si faceva silenzio, e indi a breve scoppiavano come tuono le grida simultanee: Rendimi Nannina! — Scioglimi dal carcere fastidioso della vita! I miei danari, Padre Eterno, i miei danari coll'interesse del venti per cento e cambi di cambio! — altri altre cose. E il Padre eterno: — Che danari? Te gli ho rubati io, furfante, chè debba restituirteli? E poi come ho io a fare, se non mi trovo un picciolo in tasca? sta cheto e muori, nell'altro mondo ti donerò la luna. Se tu vuoi morire da senno, muori: io feci appunto una sola via alla vita, mille alla morte, onde ogni uomo se ne andasse a suo bell'agio al camposanto; — perchè dunque m'introni la testa? non hai pareti per ispezzarci dentro le tua ossa? non travi per appiccarti? non vetri per segarti una vena? — E tu costinci sta cheta. Nannina è in paradiso; qui intorno al mio trono svolazza cherubino bellissimo di luce; nelle tue mani sarebbe diventato un demonio nata di adulterio, moriva in postribolo, ed io te l'ho tolta; — il peccato non dà mica padronanza sopra i figliuoli; — il cielo se la prese, e il cielo non la renderà.... — E la madre: — O Dio ribaldo, tu hai condannato l'uomo alla morte perchè non l'avesti dall'amore; tu odii l'uomo perchè lo creasti solitario, — da te — con le mani fredde — di diaccio, con la terra rossa, e gli gittasti l'anima con un soffio nel naso: — se il peccato t'incresce, perchè lo hai posto nel mondo? — E così continuava; nè gli altri proferivano meno fiere bestemmie nè in suono più dimesso. Il giovane pazzo per amore, dopo cotesto turbine di male parole, con voce soave favellava sensi i quali parevano, come l'iride, simbolo di alleanza tra il cielo e la terra, cessata la tempesta; e sovente così concludeva: — Costui schernisce non consola: dunque questi non è Dio: imperciocchè così Dio non sarebbe. Amore è Dio, e Dio altro non può essere che amore. — Senza dubbio s'io avessi dovuto lungamente rimanermi in codesto ospedale, diventava pazzo: piacque alla fortuna liberarmene in breve, e il modo fu questo: sanato ormai della piaga, certa sera agli ultimi splendori del crepuscolo, seguito dal servigiale col nerbo in mano, passeggiava per un lungo corridore, alla estremità del quale una finestra priva di ferrate concedeva vivido il circolare dell'aria: siccome spesso mi era trattenuto in savi ragionamenti col servigiale, e allorquando mi sentiva crucciato dalla memoria degli affanni antichi e dal morso dei presenti me ne stessi muto, non mai però aveva prorotto in escandescenze; ond'egli o non mi teneva del tutto matto, o almeno mi riputava matto di benigna natura; quindi, volendo andare per certe sue bisogne, mi disse lo aspettassi nel corridore, così avrei più lungo tempo goduto della buona aria: uscito appena, corsi alla finestra; quanto distasse dal terreno non bado, mi lascio andare giù lungo il muro avvertendo di rasentarlo con la persona per ammortire la caduta; percossi aspramente sul terreno, ma da una forte scossa nei visceri in fuori non provai altro male; fuggo a dirotta: la notte era calata procellosa, ed io era salvo. — Poichè ebbi corsa lunga ora a null'altro pensando che a fuggire, incominciai a divisare dove procurarmi un asilo, come sottrarmi alle persecuzioni dei miei feroci nemici; pericoloso mi parve, ed era, ridurmi alla casa paterna, ma anelando conoscere come il caso avvenisse, colà appunto mi condussi; — oscurità e silenzio; — chiamo, busso, torno a chiamare, e sempre invano; tolto di speranza da questa parte, il cuore mi augurando sinistramente, ma pur non sapendo qual male temere, mi venne in pensiero il castaldo che abitava certe casette di nostro alla estremità della via; — lo trovai con la famiglia prostrato a terra, perchè le campane avevano suonato l'ora prima di notte, a recitare il De profundis per le anime dei defunti: siccome inosservato io penetrava là dentro, udii pregare pace all'anima mia e a quella di mio padre. Sarebbe egli morto? esclamai con immenso dolore. Immaginate voi lo spavento prima, poi la meraviglia e la esultanza di quei buoni, — i soli che mi sieno occorsi nella vita. Il mio povero padre era morto pur troppo! Alle persecuzioni e all'odio del malvagio, che pei rimorsi riarde più feroce, soccombeva. Vieni, dissi al castaldo, menami al sepolcro di mio padre. — Egli mi accompagna nel camposanto di Santo Egidio, colà si ferma davanti una fossa priva di lapide e, — qui, — mi dice piangendo, — riposa messer Pierantonio vostro padre. — Già per la via il castaldo mi aveva narrato la fama sparsa della mia morte, l'eredità concessa a lontani collaterali protetti dai miei nemici, il pericolo sovrastante, la nessuna speranza di giustizia; e nè anche, la potendo ottenere, la giustizia delle leggi mi sarebbe riuscita a grado, chè i miei nemici con le proprie mani avendomi distrutto, con le proprie mie mani io mi era deliberato distruggerli; dente per dente, pelle per pelle, come insegna Moisè; presi nella destra il pugnale, nella manca un pugno della terra che l'ossa ricopriva di mio padre e giurai vendicarmi... di vendetta italiana... case sovvertite dai fondamenti, campagne arse, famiglie trucidate dal decrepito al lattante, — e poi morire. Udiste mai offesa più acerba? — Aspettate e vedrete come saprò vendicarla. Intanto solo e ramingo, non vedeva verso di condurre a fine il mio proponimento; ogni dì più la disperazione mi cangrenava il cuore, e il tempo fuggiva non maturando il frutto di sangue; — pensai adunare una mano di masnadieri, ed il feci; ruppi le strade, empii di terrore Romagna; ma quando proposi di assaltare all'improvviso Fiorenza, i compagni esitarono ed al fine non vollero: io gli abbandonai vergognoso di essermi tanto degradato invano: — condottomi in Lombardia, mi versai in quelle guerre senza gloria per noi Italiani ed ebbi fama di prode: — ma poichè il desiderio di vendetta non iscemava per tempo, il mio demonio mi consigliò nuovo modo: andai a Roma, chiusi bene nel seno l'odio pe' Medici e mi accomodai agli stipendii di papa Clemente; sperava un giorno mi avrebbe mandato in patria o magistrato o capitano di milizie o carnefice, in condizione insomma da potermi bagnare le mani nel sangue abborrito dei miei nemici: procedei come il tarlo il quale per durezza non si abbandona, ma più e più sempre laboriosamente s'inoltra; la fortuna, che presto o tardi favorisce chiunque voglia davvero, superò la speranza; avvenne la cacciata dei Medici, la pace tra il papa e l'imperatore, la guerra contro Fiorenza; eccomi in campo prossimo a cogliere il frutto a cui sacrificava affetti, avvenire, fama, salvazione forse dell'anima, tutto; della intera città io divoro cogli occhi un punto solo, e da lontano gli avvento fiamme. — Ben mi duole di avere unita la mia alla causa dei Medici, tralignati troppo da quello che furono; se fosse vissuto Giovanni dalle Bande Nere, all'odio aggiungeva eziandio l'utile della patria, e, non che mi rimordesse coscienza, menerei vanto del mio concetto; — oh in mancanza di quel grande la fortuna ci avesse dato un ambizioso, come Lorenzo duca di Urbino, o almeno un potente in negozii, come Lorenzo il vecchio! — ma i Medici, quali ora sono, conciterebbero a sdegno, se non movessero a riso...»

«E per colpa di un solo volete sommersa la barca? A parere mio, io vi terrei meno tristo, se uccideste i vostri nemici a tradimento. Per odio privato voi condannate a morte l'antica repubblica di Fiorenza.»

«Che significa repubblica? Ella è parola di largo contorno e dentro di sè comprende libertà da comizio e tirannide d'inquisitori di stato. Il governo dove impunemente si commettono misfatti quali soffersi io non può dirsi libero, e tale invero non fu mai il nostro; e poi io sacrifico volentieri la libertà passaggiera alla forza perenne, madre vera di durevole libertà.»

«Non vi comprendo.»

«Vorrei una Italia, vorrei, come Giulio II, il pontefice di gloriosa memoria, ridotta in un corpo solo questa misera patria, perocchè mi dolga.... oh! mi dolga assai il suo ludibrio di secoli.... E dopo papa Giulio, che n'ebbe volere e potere, veruna persona è più acconcia, se ne avesse il volere, di tale che voi conoscete, monsignore; — di tale che se avesse sortito dai cieli spiriti della stregua dell'alto suo grado, avrebbe a quest'ora condotta a fine tale impresa di cui per avventura non gli balenava mai nella mente il pensiero.»

«Ed io lo conosco?»

«Assai.»

«E si chiama?»

«Filiberto di Chalons, principe di Orange, vicerè di Napoli...»

«Messere Bandino, pensate ch'io sono soldato dell'imperatore, ch'io fui preposto all'esercito per ricondurre i Medici in Fiorenza...»

«Io penso Carlo V desiderare che Fiorenza sia retta da gente a lui amica, non collegata perpetuamente coll'emulo di Francia; se questo spera ottenere co' Medici, con voi l'otterrebbe di certo.»

«E se Carlo si ostinasse a mantenere il trattato con Clemente?»

«Sarebbe la prima volta che un principe si ostina a mantenere la sua fede. E poi l'imperatore per ora altre faccende ha sulle braccia. In ogni caso, il vostro esercito conosce voi soltanto, e Fiorenza ha danaro per mantenerlo in guerra.»

«E ai Medici pensaste, messere Bandino?»

«Pensai, e vidi il papa vecchio e impotente — e odiato; il duca Alessandro e il cardinale Ippolito non meno di lui tenuti in dispregio: anche i partigiani di casa Medici (e partigiani veri ne contano pochi) non amano Giulio figlio illegittimo e forse supposto di Giuliano, comecchè adesso papa Clemente, nè Alessandro figlio adulterino di lui e di schiava africana moglie di certo vetturale da Colle Vecchio, nè finalmente Ippolito figlio illegittimo del Duca di Nemours; Cosimino, se non fosse di troppo fresca età, aiutato dalla reputazione del padre Giovanni, avrebbe séguito e grande; gran danno per lui essere nato troppo tardi! — rimane la duchessina Caterina figlia legittima del duca di Urbino, giovine, vergine e prossima alla età da marito. — Principe, un sangue vale l'altro; non vi parebbe questo un vincolo da farvi amici i partigiani del nome dei Medici[140]? Del Guicciardino, del Valori ed altri simili a loro non è da parlarne; odiano la repubblica perchè nulla sperano da lei; il principato non amano, sibbene sè stessi; quando abbiano utile in voi, voi seguiranno, e voi date loro a dividere questo utile facendoli seguaci vostri....»

«Dal vostro disegno alla corona d'Italia gran tratto ci corre; e quanto potrebbe accomodarsi col duca forse si guasterebbe col re....»

«Fiorenza intanto è un bel fiore per cominciare la corona italica; al rimanente penseremo poi; nulla vede chi troppo prevede; i tempi e gli eventi dànno consiglio, e da cosa nasce cosa.»

«Udite, Bandino; dacchè avete pensato a tanto, pensaste voi starsi qui in campo Girolamo Morone?»

«Morone! — Me lo rammentereste voi forse, principe, per la proposta uguale che fece al marchese Davalo e pel modo turpe col quale il marchese sè medesimo, Italia e il Morone tradiva? Se me lo rammentate per questo, ricordatevi a vostra posta il Davalo essere morto in condizione privata, sospetto a Cesare, odioso agli Italiani, infame al cospetto del mondo e tenuto in dispregio dal divino intelletto della marchesana sua moglie Vittoria Colonna[141]. Traditemi, se volete; a me piace il supplizio, se a voi piace la infamia.»

«Pace! pace! Dove trascorrete con quel vostro ingegno di fiamma? io voleva avvertirvi che se un giorno quello scaltrissimo Morone si affaticò a ordinare col Pescara che gli Spagnuoli tutti si ammazzassero, oggi, mutato animo, sostiene con ogni sua possa le parti di Cesare.»

«E ciò a che monta? Fors'io vi consiglio a partecipargli il segreto?»

«Ei se lo parteciperà molto bene da sè stesso.»

«E come?»

«O non sapete voi messere Girolamo possedere un anello, o piuttosto un diavolo dentro l'anello il quale le cose più occulte rivela al suo padrone[142]

«Ah! non mi aspettava a questo. — Voi dunque credete nel diavolo?»

«E perchè no? — Non credete voi in Dio?»

«Chi ve lo ha detto?»

«Lo avete nel vostro discorso rammentato cento volte...»

«Rammentare non significa credere.»

«Io non conobbi mai uomini senza fede nel Signore che tengano il paragone con voi altri Italiani.»

«Ciò avviene perchè, abitando il papa in Italia, abbiamo più sicure degli altri le novelle del paradiso. — In ogni caso la credenza di Dio non induce la necessità di porgere facile l'orecchio alle voci del volgo superstizioso.»

«Comechè sia, Bandino, addio...»

«Il diavolo del Morone rompe dunque il trattato?»

«Messere, voi pensate avere gittato un germe nel mio cuore, ed egli ha già partorito da parecchio tempo il suo frutto; non pertanto grazie vi sieno della proposta. Aiutatemi: quello che non fecero i cinque e i dieci anni, lo faranno i venti; le piaghe del vostro cuore saranno sanate; — vi confidi il futuro. — Voi mio maestro e mio duca dovete vivere, amare e governare.»

«Camminate la vostra via. — Non vi trattenete a guardare i miei fati, io vi sovverrò come e dovunque possa, ma non per vivere; — se avessi intenzione di durare nella vita, il Bandino non conosce signore degno della sua servitù, tranne uno solo, e questi è il Bandino.»

CAPITOLO NONO MICHELANGIOLO BUONARROTI

Io vo per vie men calpestate e solo.

Michel. Buonarr., Madr. 50.

Sonavano le due ore di notte, quando Dante da Castiglione, armato come soleva di corazza, di bracciali e di spada, salutato il buonomo che vi stava di guardia, entrò nel Palazzo della Signoria: siccome lo conoscevano svisceratissimo di quel reggimento, lo lasciarono andare non gli dicendo altre parole se non queste une: Dio vi mandi la buona notte messere Dante, — quantunque portasse sotto il mantello cosa che tentava occultare.

Penetrato nelle più secrete stanze, bussò pianamente ad una porticciuola, e gli fu subito risposto: Avanti!

«Oh! siete voi, Dante. Io vi aspettava... mi avete portato le vesti?»

«Mai sì, messere: eccovi il tôcco e la cappa spagnuola, col cappuccio di dietro, ch'è una meraviglia: se vi avvisaste portarla di giorno, sareste riputato il maggiore sbricco di Fiorenza.»

«Orsù aiutami a svolgermi il becchetto del cappuccio dal collo: — bene; — or tiemmi la manica del lucco: — gran mercè; — porgi la cappa... qua il tocco; — ti pare egli che possano riconoscermi?»

«Mè anche mammata... direbbe messere Franco Sacchetti.»

«Andiamo.»

Uscirono: — Il magistrato chiuse con diligenza la porta delle sue camere e scese guardingo, già egli non tenne per uscire le scale comuni, bensì ne prese certe segrete per le quali giunse alla postierla del palazzo che metteva capo in via della Ninna; svoltarono subito in via dei Leoni procedendo in silenzio, e giunti che furono sul canto del Borgo dei Greci, il magistrato si ferma e, piegatosi all'orecchio del Castiglione, gli comanda:

«Separiamoci; andate per esso, conducetelo a me.»

«Dove?»

«Non ve lo aveva io detto? — Al cimitero di Santo Egidio.»

Dante tornò sopra i suoi passi, rifece la via dei Leoni, passò vicino Baldracca, e per la piazza dei Castellani venne lungo Arno, dove camminando fino al Ponte delle Grazie, lo valicò in fretta e si condusse al poggio San Miniato: quello che andasse a cercare costà vedremo poi; adesso seguitiamo il magistrato nel suo cammino notturno...

La notte era rigida e nera: — certi nuvoloni ingombravano il cielo che parevano montagne, e ad ora ad ora sprizzolavano qualche stilla di acqua ghiacciata: onde le genti che a quell'ora andavano per via si affrettavano a casa, e il subito loro apparire e sparire le faceva parere più che altro fantasime.

Il magistrato però, non che affrettasse, rallentava il cammino e porgeva attentissimo ascolto alle parole di coloro che traversavano la strada.

«O vedi mo'», diceva un passeggiero al suo compagno, «chi m'è venuto fuori a fare il san Giorgio! Messere Francesco Carduccio: in verità non lo avrei riputato da tanto.»

«Un cuore da Cesare, per san Giovambattista! un cuore da Cesare! Chi nulla ha da perdere, non può che guadagnare...»

«Mi pare che vi potrebbe perdere la testa.»

«E vi parrebbe perdita per lui?»

«Ma! non saprei.»

Cotesti erano mercanti, le più volte fango tutti per di dentro e per di fuori, senza cuore, senza intelletto e spesso anche senza l'abbaco, del quale presumono essere la pratica e la scienza. — E passano via, ed altri subentrano.

«Noi non possiamo reggere», discorre il primo, e bisogna che ci accordiamo ad ogni modo, se non per amore, per forza.»

«Ed io vi dico che reggeremo, e vinceremo i nuovi Filistei. Dominedio ci manderà Gedeone. Senza fede l'uomo passa per occhio come una barcaccia sfondata,» riprende il secondo.

«Appunto egli è per troppa fede ch'io temo così, compare mio dolce. Suora Domenica, la monaca del Paradiso, ebbe la notte scorsa una visione nella quale la Madonna Santissima della Impruneta con la propria sua bocca le profetò i Medici avere a tornare; questo essere il comandamento del Signore; confortasse i Fiorentini a prendere siffatto partito con vantaggio adesso, piuttostochè aspettare poi a soffrire violenza con danno inestimabile della città[143]

«E' sono novelle coteste. Fiorenza non patirà oltraggio; fra Girolamo ci assicurava della parte di Dio che perderemmo tutto il dominio, e la libertà della patria rimarrebbe; ed ha detto altresì che, quando gli argomenti umani venissero meno, scenderebbero gli angioli del cielo e difenderebbero la città[144]

«Le profezie del nostro frate Savonarola io per me non le valuto una ghiarabaldana, che ne danno trenta per un pelo di asino; se fosse stato profeta, avrebbe conosciuto qual morte gli serbavano in Fiorenza e se ne sarebbe fuggito.»

«O compare, voi mi sapete di eretico! Dunque, perchè Gesù Cristo si lasciò crocifiggere, non sapeva il modo e l'ora della morte sua? non lo conobbero Pietro, Paolo ed altri santi infiniti della nostra divinissima religione?»

«Ma quel vostro frate Girolamo e' non era santo; e' fu invece appeso ed arso come scomunicato ed eretico per sentenza di santa madre Chiesa.»

«Per sentenza di Roderigo Lenzuoli o Alessandro papa VI di memoria infernale; e poi non sapete che il processo fu fatto contro ogni regola, e come tale il magnifico messere Lorenzo Ridolfi ha proposto che si levi di camera per meno vergogna della città[145]

«Io per me lo tengo per un fattucchiere.»

«Ed io, sapete per che cosa tengo la vostra suora Domenica?....»

«Per che cosa?»

«Per la più solenne cialtrona che mai vivesse in Fiorenza...»

«Voi siete un Piagnone... un Arrabbiato...»

«E voi un Campagnaccio, un Pallesco.»

«Di cotesti due il Pallesco era mercante, lo Arrabbiato pittore.

Nuovi cittadini traversando la strada favellavano:

«Voi siete ingiusto rispetto a lui, messere; così ne avessimo copia, come pur troppo patiamo penuria di uomini quale si è il Carduccio; — egli ama la patria e la libertà....»

«Con buona vostra licenza, io per me lo tengo per uomo ambizioso e per cervello torbido.»

«Ambizioso! — sia, pur se lo volete, ma ella è magnanima ambizione cotesta che lo spinge a tutelare la sua città con pericolo della vita: quanti pensate annoverarne voi di siffatti ambiziosi in Fiorenza?»

«Più di quelli che non vi dà ad intendere il Carduccio, il quale co' suoi discorsi e de' suoi aderenti si dimena per essere raffermo nel gonfalonierato.»

«Se ciò avvenisse, sarebbe certissimo segno che Dio vuol bene a Fiorenza.»

«Senz'altro il Carduccio vi ha dato il comino.»

«Voi v'ingannate, — io non lo conosco, ma lo reputo ingegno antico.»

«O messere, sapete un poco che cosa si va bucinando in paese di costui?»

«Dite mo', che vi ascolto.»

«Che vuoi rifare da gonfoloniere il denaro il quale perse da mercante in Ispagna.»

«Ohimè tristi! A chiunque inverecondamente proferisce tali contumelie contro di lui vi prego, messere, dire in mio nome che se ne mente per la gola.»

«Pure sapete il proverbio? Maledetto il gancio che si trova diritto...»

«Non giudicate, se non volete essere giudicati.»

Di cotesti due il primo era maestro di tintoria, il secondo dottore di leggi.

«Io per me faccio conto andarmene,» un personaggio sopraggiunto diceva al suo compagno.

«E dove volete ripararvi?...

«A Venezia, — a Roma, — presso il Turco, pure di uscirne...»

«E non temete la confisca dei beni...?»

«La roba si rifà, non la vita; e poi in buon tempo mandai danari sui banchi di Genova e di Venezia.»

«Ed io pure mi sono provveduto così.»

«Chi si era trovato mai a vedere piovere palle di bombarda! Ieri ne cadde una sul canto della loggia degli Adimari, là dalla bottega del barbiere, la quale in primis portò via di netto tutto il calcagno al capitano Mancino da Pesaro, poi, balzata quanto è lunga la piazza del Duomo, entrò in casa del pedagogo Giovanni Del Rosso, che sta nelle casette di Visdomini; — certo non vi andava a imparare di abbaco[146]

«E per ultimo chi regge al difetto di vettovaglie? Dio vi salvi dal morire di fame. I pippioni costano una corona al pajo; i capponi stremenziti che paiono lanterne otto o dieci scudi; non istarne mai, non beccacce: questa è vita da inferno!»

«Fatevi io qua, — udite: — io ho tratto l'oroscopo, ho consultato gli astrologhi, e mi hanno profetato che Fiorenza deve cadere... badate a non mi tradire....»

«Oh! è tanto tempo che i' me n'era accorto; — non si vedono più pernici in mercato.»

«Com'entrano qui le pernici?»

«Ci entrano benissimo, perchè significa che il contado è perduto.»

«Inoltre vedete un poco a che cosa ci giova questa libertà: se, per pagare meno io gravezze, parmi ne abbiamo pagate più in un mese di repubblica che in un anno sotto i Medici; se, per vivere meglio a modo nostro, io ho vissuto sempre a bell'agio perchè di cui non dico mai nulla, di Dio poco; voglia di entrare in bigoncia non ne sento, bado al traffico e ai libri della ragione; sicchè poco m'importa o nulla che o Marzocco o Palle tengano il palazzo.»

«Vivere a bell'agio sotto la repubblica! Io non conobbi mai leggi più gaglioffe di quelle che promulgò Fiorenza nei tempi di reggimento popolare; immaginate, ogni cittadino non potrebbe usare a pranzo o a cena più che due sorte vivande, il lesso e l'arrosto; egli è vero che sotto la vivanda lesso o arrosto lasciavano adoperare di tre specie di carni, nè si computavano per vivanda i bramangiari, i mortiti, i berlingozzi, solci, pere guaste con anaci, acqua rossa, zucchero, bircoccoli e il pane e il vino era ad arbitrio; ma alla fin fine si chiamerà vivere libero quello che t'impedisce sotto la pena di fiorini dieci larghi di oro in oro mettere in pratica un qualche ritrovato che sapesse consigliarti il tuo ingegno...[147]

«Mi rimane a tentare una prova per deliberarmi in tutto alla partenza.»

«In grazia, qual prova?»

«Di consultare un profela.»

«Messere, badate, di non dar di capo nei gerundii. Dove sono eglino i profeti a Fiorenza?»

«Sonci, ed io ne tengo uno in casa mia.»

«Domine, aiutatemi! o come si chiama egli?»

«Si chiama Virgilio Marone.»

«S'io non mi sbaglio, parmi avere udito che fosse un poeta costui or corrono anni meglio di mila e cento.»

«Quel desso — ed è profeta. Come Isaia, Geremia e gli altri del popolo ebreo, ei profetò la venuta di Gesù Cristo là dove nella egloga a Pollione, invaso dallo spirito divino, cantava: Magnus ab itegro saeculorum nascitur ordo. — Jam redi tet virgo, redeunt saturnia regna; — Jam nova progenies cœli demittitur alto. — Ora la virtù profetica, rimase ne' suoi libri, e consultati secondo i riti, di rado avviene che non rispondono prognosticando il futuro.»

«Davvero! Voi mi mettete un grand'uzzolo addosso di provare...»

«Venite: entriamo senza avvisare nessuno della famiglia in casa mia nello studiolo terreno e interroghiamo l'oracolo.»

«Mi raccomando a voi...; dopo faremo un poco di cena.»

«Come volete; — innanzi di lasciare certo mio buon trebbiano arrubinato, e sarà bene tòrcene una satolla.»

«Amen! amen! I' sono con voi.»

E, aperto un usciolo, entrarono nel piano terreno; colà il padrone di casa battuto il focile, trasse dallo stipo una candela di cera gialla la quale consegnò accesa con molta solennità al compagno. Dipoi, messo sopra un leggio il volume delle opere di Virgilio ricoperto di velluto paonazzo, e raccomandato il silenzio e il raccoglimento, mormorando certe sue preci, stese attorno attorno al leggio un nastro di seta nera. Ciò fatto, chiama il compagno e lo invita a entrare nello spazio determinato dalla riga; — il compagno entra e comincia a tremare.

«Eh! dico messere Luigi, non vi sarebbe per avventura pericolo di capitare male?»

«Silenzio! Od io non vi mallevo delle vostre ossa.»

E, senza più oltre badare a lui, si cinge intorno agli occhi una benda, — si prostra, — si rialza e si volge ai quattro lati della terra; allora prende a recitare con empio e, forse direi meglio, stolto miscuglio di sacro e di profano, orazioni alla Trinità, alla Madonna, agli spiriti che vanno pel mondo quando la notte è nera, e il cielo minaccia burrasca; e sovente ricorrevano nei suoi scongiuri l' abracadabra, il tetragammaton, il pentagrammaton, e parole altre cotali da cacciare il ribrezzo della febbre quartana addosso ai meglio animosi.

«O messere Luigi, diceva l'altro in suono piangoloso, non vi venisse mica la fantasia di far comparire il demonio...»

«Silenzio! Qui non entrano per nulla gli spiriti maligni, — non vedrete nulla, o vedrete soltanto spiriti mediossumi, ombre di gente che fu; — tenete fermo il cero, — raccoglietevi, perocchè il mistero sta per operarsi.»

E ciò discorso, continua infiammandosi di mano in mano nei detti e nei gesti, sicchè in breve spumava dalla bocca enfiata e si scontorceva nella persona a modo di maniaco; all'improvviso caccia un terribile grido:

«Eccolo! eccolo!»

«Chi ecco?» risponde spaventato il suo compagno; — e preso da forte tremito lascia cadersi il cereo di mano, il quale percotendo a terra si spenge.

L'altro impetuosamente apre il volume e col dito convulso scorre diverse parti delle sue pagine, finchè quasi condotto da ispirazione lo ferma sopra un punto; tutto anelante con la manca si tira giù dagli occhi la benda ordinando al tempo medesimo:

«Accostate il torchio, ch'io legga l'oracolo.»

La stanza era buia.

«Gherardo! o messere Gherardo! Il lume! avess'io perduta la vista! Gherardo, parlate... io non ardisco muovermi per amore dell'oracolo.»

E Gherardo, per quanto glielo permette il battere dei denti, risponde:

«M'è caduto il torchietto di mano... abbiate pazienza...»

Messere Luigi non volle abbandonare il libro, ed ora con umili istanze, ora con parole concitate, gl'impone riaccenda il lume. Quando non senza molte difficoltà la candela fu accesa messere Luigi drizzò bramoso gli occhi al volume e lesse ad alta voce: Eeu fuge crudeles terras fuge! litus avarum[148]! — rimase attonito per lunga pezza; l'altro che non intendeva di latino del suo tremore tremava e non ardiva aprire la bocca; all'improvviso messere Luigi quasi uscisse dallo spavento del fantasima afferra per ambe le braccia messere Gherardo e gli dice:

«Rompiamo gl'indugi: — qui non v'ha tempo da perdere, fuggiamo...

«Oh! Dio! senza cena?»

«Se non preferite il cenare al morire.»

Con terribile impeto di repente si schiude la finestra; i vetri percossi si spezzano fragorosamente, e per tutta la stanza se ne spargono i frantumi, al tempo stesso una voce severa si fa sentire che dice:

«Codardi! voi rinnegate la patria, — la patria rinnega voi; sgombrate subito; — il nuovo giorno vi troverebbe sospesi per la gola.»

I due compagni stramazzarono sconciamente per terra; poi si riebbero, e l'uno all'altro narrò di strane apparizioni, di odore di zolfo e simili altre novelle; aggiungendo la paura nuova all'antica, fatto rifascio di quanto lor cadde sotto mano, insalutata la famiglia, in quella stessa notte fuggirono e ripararono a Lucca. La storia rammenta i nomi loro; furono Luigi Guicciardini e Gherardo Bartolini, di professione mercanti. La rampogna mosse dal magistrato, il quale salito sur un muricciuolo sottoposto alla finestra vide tutta la scena ed in gran parte la udiva.

Scese e, ingombro di tristi pensieri, s'incamminò al luogo del ritrovo, al cimitero di Santo Egidio, noto eziandio col nome di cimitero delle ossa: di questo luogo di morte adesso non si trova vestigio; giaceva sul lato di ponente dello spedale di Santa Maria Nuova; empiva chiunque si facesse a visitarlo di riverenza e di terrore. Sopra la porta era scritto, Dies nostri quasi umbra, e in minore cartello la sentenza del divino Alighieri:

Le nostre cose tutte hanno lor morte

Siccome voi, ma celasi in alcuna

Che dura molto, e le vite son corte.

In fondo dirimpetto alla porta il Frate e l'Albertinelli accumulavano, secondo lo stile della nostra religione, a larga mano immagini di spavento, con le dipinture delle severità del giudizio finale e gli strazii crudeli dell'inferno; intorno alle mura e ai colonnati con fiero ordine vedevi accatastate ossa e teschi, e talvolta fare di sè orrenda mostra scheletri interi; per ogni dove trofei di distruzione e motti dolenti, iscrizioni sepolcrali, parole di universale o di particolare dolore. In cotesti tempi, nei quali la superstizione forte agitava le menti del popolo, non è da dirsi se durante la notte aborissero volgere i passi da cotesta parte; e il magistrato la sceglieva appunto per essere sicuro di non rimanere interrotto nel misterioso colloquio.

A passi lenti il nostro personaggio percorse due o tre volte il ricinto; a mano a mano i suoi passi diventarono più celeri: i pensieri gli sorgevano e roteavano turbinosi in mezzo del capo: umana favella non avrebbe potuto significare i suoi affetti; in un baleno scorreva tempi remoti e recenti, immaginava i futuri; si sdegnava, s'inteneriva, esaltato dalla contemplazione di qualche alto disegno in regioni meno triste della terra che calpestiamo, si sublimava, o all'improvviso, morso dal dubbio, gli cadevano giù le forze e la speranza, e piangeva; finalmente gli proruppero dall'intimo seno queste parole sconnesse:

«Io cammino su le ossa di duecento e più mila uomini[149]! — Qual fiamma uscì da costoro prima che si facessero tanto mucchio di cenere? — Nulla; — e sì, che tutti sortirono un cuore per sentire, una mente per pensare, un braccio per percuotere; — nulla! e sì, che l'anima loro ondeggiava continua, come quella degli altri viventi, tra l'odio e l'amore. — La notte m'impedisce leggerne gli epitafi; se il sole con la pienezza dei suoi raggi gl'illuminasse, tornerebbe lo stesso, perocchè il tempo abbia la sua notte profonda, e l'oblio sia la sua tenebra. Eppure tante anime non possono avere vissuto invano! Chi sa quanti Alighieri dal divino intelletto, quanti Micheli Lando, quanti Pieri Capponi, quanti Giacomini Tebalducci dormono qui sotto i miei piedi! La lampada arse sotto lo staio, non iscintillò gloriosa sul candelabro. — Consumati forse dal proprio fuoco si spensero. — Ed ora che le sorti della patria apparecchiano eventi a manifestare la virtù che l'uomo ebbe in parte dai cieli... ora giacciono polvere; le generazioni mancano ai tempi, più spesso i tempi mancarono alle generazioni. — Voi siete affatto morti; la speranza o il terrore immagina prolungamento di vita oltre i sepolcri... pure se impreco pietoso alle vostre ossa pace, o scellerato le maledico, voi vi restate ineccitabili sotto le vostre lapide di marmo: — s'io gettassi sopra i vostri cadaveri il corpo di un amico o di un nemico, nè vi movereste per abbracciare il primo, nè vi scostereste dal secondo... O creatore! la mia bocca non conosce la bestemmia, e nondimeno io qui ente mortale tra i morti oso levare la faccia e dirti che non sempre hai tu fatto del bene; — e se come il pensiero potessi lanciarti contro le braccia, domanderei ragione del tuo male. — Da quando io prima apersi gli occhi consapevoli li tenni fermi al cielo per vagheggiare la stella della speranza e sentii nel mio cuore l'ardimento delle cose magnanime;... però talvolta mi si nasconde la stella, e allora sconfortato a mezzo cammino mi abbandono. Ah! Creatore, — dipartirsi dai cieli, stendere la mano onnipotente a raccogliere dalla terra un pugno di cenere, animarla onde soffrisse la stretta delle tue dita e l'angoscia della caduta per balestrarla un tratto di anni lontana a tornare cenere sulla medesima terra... certamente non fu segno di amore[150]. — Centinaia di migliaja d'uomini che dormite sotto, dov'io potessi evocarvi e costringervi a rispondere a questa mia domanda: ogni uno di voi annoveri il tempo della sua vita dai giorni che si sentì felice e mi dica quanto ha vissuto; — quanti, che giungeste agli ottanta anni, direste: — noi non vivemmo mai! — Ben con immenso sforzo potranno i mortali scuotere la catena che lega il mondo al piede della sventura come una palla di supplizio, ma romperla non potranno. Ecco questa mia patria innocente non ha difesa; — chiama dal cielo soccorso, e il cielo le sorride sopra un sorriso di scempio e non l'ajuta. — Le repubbliche italiane ad una ad una saettate dalla tirannide rinnuovano la storia dolorosa della famiglia di Niobe. Fiorenza sola rimane ultima, e sopra il suo cuore si accumula il pianto di tutte; ella eredò un tristo retaggio di gloria e d'infortunio... Cadrà!... oh cadrà! — e noi non avremo pianto, e alle nostre ossa oltraggeranno ingrati nipoti; — già noi vituperano vivi! — Possa almeno essere grande la sua caduta, come conviene all'astro che contese solo alla tenebra di errore e di tirannide la quale si addensa sopra l'universa Italia; — si spenga come la fiaccola all'impeto della bufera... — Dio, che ci neghi più efficace conforto, sovvieni almeno l'anima dolorosa in questi ultimi aneliti; — ci manda dall'alto una virtù che valga a far sì che un giorno la nostra bella morte sia argomento d'invidia a quelli stessi che vivono.»

«O neghittosi!» favellò, «non sapete voi che da questo lato domani potrebbe entrare la palla mortale per la nostra amorosissima patria?» Cap. IX, pag. 238.

Dante da Castiglione era giunto ai bastioni di San Miniato con mirabile arte condotti per industria del divino Michelangiolo. Quantunque il Varchi ci narri nel decimo libro delle sue Storie essere stati biasimati da alcuni perchè fatti con troppi fianchi, le cannoniere troppo spesse, per le quali venivano a indebolirsi, e troppo ancora sottili da non potere reggere l'urto delle grosse artiglierie, — nondimeno furono tenuti non solo per cotesti tempi stupendi, ma in epoca più recente meritarono che Vauban, celebrato ingegnere francese, ne levasse la pianta e ne prendesse le misure[151]. Questi bastioni cominciavano fuori della porta San Francesco, e salendo su pel monte circuivano l'orto, il convento e la chiesa di San Miniato; — così descritto un larghissimo ovato si ricongiungevano alla porta San Francesco. Nell'orto di San Miniato era alzato un fortissimo cavaliere che guardava il Gallo e Giramontino. Ancora poco sotto del convento di San Francesco fu fatto un altro bastione, il quale con le sue cortine scendeva giù da oriente fino al borgo di Porta San Nicolò e terminava con alcune bombardiere poste sopra Arno: altri bastioni e puntoni e cavalieri costruirono che non importa descrivere, armati di grossi panconi di quercia, ripieni dentro di terra e di stipa, di fuori fasciati con mattoni crudi composti di terra pesta mescolata con capecchio trito.

Non tutte siffatte fortificazioni erano condotte a termine nel tempo di cui favelliamo, perocchè mancassero i fossi, le vie coperte e simili altri accessorii; e poichè il nemico stava a fronte, e di giorno in giorno si temeva l'assalto, così non ismettevano mai il lavorio di giorno o di notte. Dante salendo pel poggio si fermò un momento a contemplare un numero infinito di fiaccole scorrere di su, di giù, da tutti i lati, e al chiarore di cotesti fuochi ammirò il solenne spettacolo di un popolo irrequieto per la propria difesa, pago, per mercede, del contento che l'opera stessa gli somministrava, senza secondi pensieri, senza idea comunque lontanissima di accordo, nè anche per ombra dubbioso di potere perdere la prova, fidente in Dio, fidente nel suo braccio, affatto sublime; popolo vero insomma, non già sozza, cupida, ignorante, iattante plebe e codarda; onde sospirando ebbe a dire: — Te felice, o popolo, se non ti fossi mai lasciato soverchiare dai tuoi eguali! Le mani che trattano la zappa meglio delle altre saprebbero reggere lo stato. —

Michelangiolo Buonarroti, non vecchio ancora, che di poco oltrepassava il cinquantacinquesimo anno, di membra vigorose e spigliate, con quel suo impeto terribile si vedeva trascorrere veloce da un punto all'altro senza posare un momento; pareva lo spirito agitatore di tutto il popolo quivi raccolto; lo avreste detto per quel suo roteare fantastico il genio custode della città.

Dante, comunque robustissimo uomo fosse, indarno si affaticava a raggiungerlo; ora se lo vedeva comparire sopra la testa, ora sotto i piedi, or lontano su i lati, sicchè quasi stava per disperarsi. Da qualsivoglia parte Michelangiolo si volgesse lasciava utili insegnamenti o esempi buoni o parole che poi diventavano sentenze tra quei popolani innamorati della sua virtù. Giunto presso a certo parapetto non anche condotto a termine, parendogli che troppo tardassero a compirlo: «O neghittosi!» favellò, «non sapete voi che da questo lato domani potrebbe entrare la palla mortale per la nostra amorosissima patria?» E gli operai: «l'uomo fa quello che può, maestro, noi non abbiamo mica cento braccia.» — «Cento braccia», riprende Michelangiolo, «non bastano là dove basta un sol fermo volere?» E gli operai di nuovo: «Non ci garrite, Michelangiolo; noi stiamo dietro a cotesti altri che pure hanno cominciato il cómpito quattro ore prima di noi.» — «Guai a quello», replica tosto il Buonarroti, «che cerca difesa al proprio fallo nel male operato altrui: chi va dietro ad altri non gli passa mai avanti. » — «Con voi maestro non si vince nè s'impatta: tra due ore ve lo daremo finito.» — «Oh! questo si chiama parlare; a rivederci fra due ore.» — Di lì balza a un fosso, dove gli scavatori essendo addentrati un braccio più della persona nel terreno attendevano a penetrare più oltre; la voce di Michelangiolo passando gli ammonisce: «Figliuoli, la terra su i poggi è più solla che al piano; badate che smottando non vi seppellisca: ponete due assi lungo le pareti e puntellate con una trave per traverso a contrasto, allora siete sicuri come in casa vostra.» Altrove volgendosi, ecco incontra un gruppo di uomini i quali si sforzano a portare su in cima al poggio una grossissima lastra di pietra; vi sottopongono tutte le mani; poi riunendo i conati tentano di pure una volta rotolarla; i muscoli dei bracci risaltavano nella maggiore loro tensione, protuberanti le vene delle tempie, gli occhi quasi scoppiati fuori dell'orbita. Michelangiolo si compiacque alquanto nel considerare cotesti arditi contorni; — vagheggiò quella parte dell'orditura del corpo umano, poi, soddisfatta la voglia di artista, lo prese amore dei male accorti: «Indietro!» grida, entrando improvviso in mezzo di loro, «porgetemi dei travicelli; qui, spingeteli qui dentro; ora vi adattate sotto una pietra; notate, quanto più il punto di appoggio si accosta al punto di contrasto, maggiore forza acquista la leva: — ora da questa parte, uniti insieme, pieghiamo la leva verso terra... su... su... su... ecco voltato il lastrone... continuate in questa maniera, e fra mezz'ora lo avrete posto in cima.» Di lì si stacca, e arriva ai fossi che si scavano sopra altra parte del monte: i manovali barellano la terra e, gettandola lungo i baluardi, s'ingegnano a renderli sempre più stabili; un vecchio di bell'apparenza e di sembianza degna di meno umile ufficio, rimasto solo, si sforza di recarsi in capo la barella, e senza aiuto far solo e vecchio quello che gli altri in due e giovani fanno; però la facoltà non rispondeva al proponimento, sicchè nel volto gli si legge l'ostinazione che manca, e lo sconforto che comincia. Michelangiolo gli è sopra, lo considera alquanto e poi: «Padre», gli dice, «e' parmi che voi non siate fatto per così basse opere.» — «Bassa opera!» risponde il vecchio; «quando torni in utilità della Repubblica, io non so come la si possa chiamare bassa.» — «Ma via, tra zappare, barellare la terra», soggiunge il Buonarroti, «e dettare leggi ci corre a mio parere una certa tal quale differenza.» E il vecchio: «Quando tutti i Romani zappavano, vinsero tutti.» Michelangiolo soprastette alquanto pensoso, quindi riprese: «Però le forze vi mancano... e per troppi anni siete male atto a coteste fatiche.» — «Ah! poco pietoso cittadino, perchè mi fai sentire con le tue parole l'amarezza di non potere giovare meglio alla mia patria? Era pure più degno di te, invece di consumare il tempo in vane novelle, stendere le braccia e porgermi aiuto a trasportare la terra. » — «In fè di Dio tu hai ragione.» E qui Michelangiolo, presa la barella dalle stanghe di dietro, perchè, salendo il monte, minore peso sentisse il vecchio, gli dava aiuto a portare.

Costretto Michelangiolo a procedere a lenti passi, concedeva agio al Castiglione di raggiungerlo, come infatti anelante, bagnato di sudore il raggiunse, e tostochè gli venne accanto, con voce ansiosa lo chiamò:

«Messere Michelangiolo!»

«Che ci è egli, mio bel garzone?»

E Dante, vie più accostandosegli, sommessamente gli dice:

«Il gonfaloniere manda per voi.»

«Ora non posso; bisogna prima che porti questa barella; subito dopo sarò con esso voi.»

Quando la terra fu scaricata, Michelangiolo con amorevole piglio si volse al vecchio così interrogandolo:

«Padre, vorreste voi dirmi il vostro nome in cortesia?»

«Nacqui nel contado di Fiorenza, ho lavorato i suoi campi, ho combattuto le sue battaglie, ho pianto alle sue tribolazioni; il nome nulla aggiunge o toglie alla mia vita: mi chiamo uomo.» E levatasi la barella sopra le spalle, se ne ritornava là donde si era dipartito.

«Costui», esclama Michelangiolo accennandolo col dito al Castiglione, «dev'essere uomo fatto grande dalla sventura o dalla pazzia.»

Era cotesto vecchio il padre di Annalena; se Michelangiolo indovinasse giusto, a suo luogo e tempo saprete.

«Or via ditemi, messere Dante, a che mi chiama il Carduccio?»

«Per cosa al certo di gravissimo momento, — Dacchè con molto arcano vi aspetta nel cimitero di Santo Egidio.»

«Sta bene! obbedisco; seguitemi un istante.»

Ciò detto, riprende quel terribile uomo i suoi presti passi; rifacendosi dalle falde del monte s'indirizza alla cima visitando le opere, lasciando ordini e tuttavia ammonendo, rampognando e lodando: venuto al sommo del poggio, si volta improvviso ad una forma che così al barlume Dante su le prime non ravvisò se fosse o no animata, e con affettuose parole le dice:

«Deh! in guiderdone al tuo fattore, o Vittoria, finchè io ritorni non partirti da questi baluardi.»

«Che cosa è ella, Michelangiolo?» domanda Dante.

«Vedi!» e presa una torcia di mano a un marraiuolo che passava, svela allo sguardo del Castiglione stupefatto una statua colossale rappresentante la Gloria militare o la Vittoria, scolpita in un masso di pietra serena; ella era in atto che, volgendo il capo dall'altra parte, non curava mirare la città di Firenze, che appunto le veniva a mano sinistra; aveva l'ale, in capo l'elmo, ed armi e simboli altri diversi sparsi sul monte che le serviva di base[152].

«Che te ne pare?»

«Mi pare divina.»

«La è poca cosa... Io l'ho condotta così alla grossa senza modello e di notte[153]

«Di notte?»

«Certo di notte... perocchè dormendo non mi riposo; il sonno, vedi, mi addolora la testa e mi fa cattivo stomaco[154]; io mi sono fatto una celata di cartoni, ci adatto in cima una torcia, e in questo modo lavoro alla Vittoria[155]

Dante si sentiva oppresso da tanta grandezza accompagnata da così alta modestia; se in quel punto Michelangiolo gli avesse imposto: — Curvati e adorami, — egli lo avrebbe adorato; imperciocchè le anime generose, quantunque svisceratissime della libertà, tocca profondamente la religione del genio... Dopo un breve silenzio quasi supplichevole gli domanda:

«Divino intelletto, ditemi, perchè la vostra Vittoria il capo torce dalla vista di Fiorenza?»

E Michelangelo dopo un lungo sospiro:

«Perchè? o Castiglione, che so che accogli cuore sdegnoso dentro al tuo seno, mi domandi il perchè? Mi risparmia l'amarezza di palesartelo... tu dovresti averlo già indovinato.»

«Pur troppo! Ogni antico valore nei fiorentini petti è affatto spento.»

«Lo hai detto.»

«E allora voi scolpiste in dileggio questa Vittoria?»

«Io non ho schernito mai... spesso rampogno; — io le scolpiva l'ale di pietra, perchè il suo volo fosse lento; — i Fiorentini, se vogliono, possono ancora raggiungerla. Se molto temo che fugga, più molto spero rinvenirla al suo posto; nè mai l'amore si scompagnò dal timore. Adesso andiamo.»

E qui con la mano destra si fregava la manica sinistra, e con la mano manca la manica destra, poi con ambedue forte scoteva i lembi del saio per cacciarne la polvere; ciò fatto, ripete:

«Andiamo.»

«Buona notte, messere Carducci, eccomi ai vostri comandi».

«Ben venuto, Michelangiolo. — Dante, andate a vigilare su la porta e, per cosa che accada, non lasciate penetrare anima viva qua dentro.»

Il Castiglione silenzioso pone la sua persona colossale traverso la porta del cimitero; una sbarra di pietra non ne avrebbe meglio impedita la entrata.

Il Carduccio con mano tremante impalma il Buonarroti e poi comincia in suono che profonda commozione rendeva fioco:

«Michelangiolo, se, comunque alto il sacrifizio che or vi propongo pur fosse a cuore umano possibile, già non vi chiederei io fin dove la patria possa fidare su voi, avvegnachè a chiara prova conosca il vostro nome suonare quanto di grande si comprende e di magnanimo nel mondo. Però il caso presente è tale ch'io mi veggo forzato a dirvi prima: Michelangiolo, potete voi nulla rifiutare alla patria?»

«Nulla.»

«Michelangiolo, avete bene compreso la domanda? Avete misurato intera l'ampiezza della vostra risposta?»

«Carduccio mio, quando architetto o scolpisco, io misuro: quando mi affatico in pro di Fiorenza, io sento; — il cuore che delibera è già freddo, e dai carboni spenti avrai fumo, non fiamma. Insomma, siccome voi non mi domandereste cosa che voi stesso non foste apparecchiato a fare, così ancora io mi chiamo pronto a farla.»

«Michelangiolo, io non la farei.»

«Voi non la fareste!»

«Io con queste mie mani chiunque me la proponesse ucciderei... il mio sangue a goccia a goccia e tra i più acerbi tormenti versato, la vita dei miei figli, le mie case alle fiamme... tutto questo darei... ma non mi basterebbe l'anima, oh! non mi basterebbe pel sacrificio che domando da voi.»

«Allora, Carduccio mio, voi avete dimenticato essere Michelangiolo uomo: in me i terrori e i dolori, in me i consigli incerti, la costanza poca, le passioni del cuore, la imbecillità della mente, come in qualunque altro mio fratello di morte: perchè mi domandereste cose superiori alla umana natura? Chi vi dava dritto a suppormi angelica creazione? Se voi poteste vedermi a questa ora le sette rughe[156] impresse sopra la mia fronte, comprendereste di leggieri starmi ancor io in podestà del tempo ed essere caduco e mortale.»

«Eppure quanto io domando, o da voi solo o da nessun'altra creatura nel mondo si può...»

«A Dio non piaccia ch'io mi senta men grande di quello che altri s'immagina, o il bene della mia patria abbisogna. — Magnifico gonfaloniere, parlate.»

«Da una parte v'è tale una gloria che gli angioli stessi potrebbero desiderare nei cieli, — evvi una corona splendida più che se fosse di stelle; — un'altezza quale gli uomini possono invidiare, non vincere od aggiungere giammai — una rinomanza presso cui i più famosi dei tempi trascorsi o recenti impallidiscono superati dalla nuova luce; — nessuna favella basterebbe a cantarne le lodi, qualunque nome conosciuto fin qui sarebbe poco alla sua virtù... nè liberatore nè salvatore nè ottimo massimo troveremmo sufficienti; — se gli uomini non lo chiamassero Dio, certo come Iddio lo adorerebbero e terrebbero in pregio. — E dall'altra parte una infamia perenne, un nome irrevocabilmente accompagnato a quello di Giuda, una scusa eterna ai codardi che rinnegano la virtù, una rovina senza fine e senza riparo. L'aquila delle Alpi rade con ala potente il margine del precipizio e le rupi scoscese; ella può giunta sulla vetta del monte più alto posarsi alquanto a librare nuovo volo e confondersi eccelsa pei cieli... Qualche mortale rassomiglia all'aquila.»

«Messere Carducci, apritemi il vostro pensiero.

«Ecco, io vi parlerò come al cospetto di Dio, da cuore a cuore, senza celarvi nessuno dei più riposti arcani. Michelangiolo, la patria si versa in presentissimo pericolo, ed io dispero di salvarla.»

«Oh dolore!»

«Una speranza rimane, e consiste nei soccorsi dei principati d'Italia. Il popol nostro di per sè solo opererebbe prodigi, ma il popolo crede ai suoi profeti, e molti tra questi io ne conosco falsi. Voi ben sapete i Medici essere stati banditi non in benefizio del popolo, sibbene in pro degli ottimati, i quali intendevano governare invece di loro; la parte del Cappone pertanto, non che guadagnare con la cacciata dei Medici, ha perduto e adesso desidera restituiti gli antichi signori per ricuperare almeno in parte quanto si vide portar via dalle mani cupide e fiacche. Ella non perdona la mia promozione all'ufficio supremo; già medita gli accordi e non conosce, incauta! che vuole presentarsi di suo moto spontaneo al carnefice con la corda al collo. Qualsivoglia atto del governo calunnia, ogni via impedisce, inosservata gli sega le vene e gli toglie le reliquie estreme del suo vigore; il popolo, amico sempre del bene, ma deluso dalle apparenze, nella fiducia di commettere opera pia lapiderà i suoi veri difensori, e, prima che abbia tempo di ravvisarsi, avvinto nelle mani, col frenello alla bocca, non gli sarà concesso il dire e l'operare; — sogliono poi i tiranni lasciare liberi gli occhi per piangere. Manca la pecunia perchè nascosta nelle viscere della terra, e il governo mal può adoperare gli argomenti usati dai principi per farla ricomparire. — Mi turba il sonno lo scaltrito Baglioni, non mi assicura il Colonna, vedo gli altri capitani discordi tra loro. A noi abbisognano per vincere esterni sussidii, sieno pur pochi, sieno misteriosi, anzi giova che sieno; tanto varrà perchè la parte del Cappone, dubbiosa e tremante, sospetti noi non sostenere soli la prova; — se malgrado le mostre diverse ella potesse mai credere che molti potenti aiutano copertamente Fiorenza, questo le scemerebbe l'ardire. Allora vorrà farsi merito di quello che teme non potere ovviare; il danaro che ormai non possiamo più avere per leggi, conseguiremo per via di doni, d'imprestiti, per sovvenzioni spontanee; — conviene ravvivare il credito dello stato presente. Due soli governi in Italia, se l'antica prudenza da loro non si scompagna, hanno l'obbligo d'aiutarci, il duca di Ferrara e i Viniziani; il rimanente paese divorò la fortuna di Cesare: — il papa acciecato da ira strinse lega col suo implacabile nemico; — egli pensa tenere la sua nella destra di Carlo in segno di amicizia; questi invece glie la stringe imprigionata e gli sorride in volto. Il regno cadde in potestà dell'imperatore, il ducato di Milano sta per caderci, il Doria strascina Genova come un'ancella dietro il carro della sua fortuna; tralascio gli altri; e fermo le mie speranze sopra Alfonso di Ferrara e Andrea Gritti di Venezia.»

«Datemi incarico di ambasciatore, e corro in poste fin là: ambedue mille volte mi si dissero amici; che cosa significhi amicizia dei grandi veramente non so, lo proveremo adesso.»

«Michelangiolo, amicizia è moneta che non corre tra gli stati; — il principe amico, quando non trova vantaggio in aiutarti, ti piange e ti lascia morire.»

«In ogni modo proviamo.»

«Se voi vi presenterete nelle loro città con pubblico ufficio, non che otteniate i soccorsi, vi cacceranno senza ascoltarvi.»

«O come può accadere questo?»

«Alfonso odia Cesare, ma più che odiarlo il teme; già di nemico diventato servo, a grave prezzo corrompe i suoi consiglieri; egli s'ingegna a fargli obliare le vecchie offese, e molto più si affatica ad ottenere nuovo favore, imperciocchè egli abbia insieme con Clemente papa compromesso in mano a Cesare le controversie su Modena, Reggio e la giurisdizione di Ferrara. Tra Cesare poi e i Viniziani non si è per anche asciugato l'inchiostro del trattato di Bologna pel quale formarono lega offensiva e difensiva...[157] »

«Dunque ogni speranza è perduta?»

«Oh! no. I Viniziani inoltre ci conservano rancore perchè, quando calò negli stati loro il duca Arrigo di Brunswick, non li soccorremmo; noi accusano di tradimento, come quelli che mandammo primi oratori a Cesare per accordare...»

«E più s'intristisce la bisogna.»

«Ma voi sappiate che questi non furono falli o rimessi da loro, perchè anche dopo più volte promisero non avrebbero fatto pace senza inchiudervi i Fiorentini, e il doge Gritti, richiesto dall'oratore Gualterotto, rispose: la repubblica viniziana non avere mai commesso cose brutte nè avrebbe cominciato adesso a commetterne; — ciò non pertanto si accordano con Cesare, e noi non rammentano. Il duca Alfonso ci prese tremila cinquecento ducati, non mandò don Ercole, come si era obbligato per la capitolazione; invece presta al papa le artiglierie e duemila guastatori contro Fiorenza. Di qui argomentate non già la fede poca, sibbene la servitù molta alla quale si trovano ridotti i principi italiani[158]

«Carduccio mio, come per me si possa rimediare a tanta piena di sciagure io non saprei...»

«I Viniziani e il duca devono mandarci soccorsi, e voi andare a chiedergli.»

«Ma se mi avete poc'anzi assicurato che mi cacceranno via senza ascoltarmi!»

«E vi ho detto il vero, quando vi presentaste in aspetto di ambasciatore; bisogna pertanto penetrare nelle loro città inosservati, come la goccia del cielo si confonde col mare; in modo che il papa e Cesare, uomini entrambi, se mai ne nacquero al mondo, scaltrissimi, non sospettino nulla; bisogna eziandio che le paure del duca e dei Viniziani non si destino, — ed è questa difficilissima impresa; si vuole ancora, ottenendo il soccorso, arcano impenetrabile in celare da cui muova, e quindi spedire a costoro persona nella quale essi confidino; si vuole finalmente il segreto medesimo non gli ottenendo, perchè se la città sapesse che noi abbiamo riputato insufficienti le nostre provvisioni, nè ci venne fatto aumentarle, scaderebbe dell'animo, ed ogni cosa anderebbe perduta; onde io per un mio giudizio non voglio sperdere questa tavola estrema di salute.»

«Io mi offerisco andare, ma il modo da praticarsi per la partenza e il ritorno non vedo agevole...»

«Conviene che Michelangiolo ad un ratto di animoso diventi codardo ed abbandoni la patria nel suo maggiore bisogno; — conviene che si lasci sopraffare dalla paura e fugga dalla patria nel suo estremo pericolo; — così in sembianza turpe finga ricoverarsi in Ferrara: avrà danaro per guadagnare i consigli del principe; — pessima condizione degli uomini presenti, dai quali è forza comprare il delitto e la virtù, e i quali indifferenti l'una o l'altro ti vendono! Innamorato della bellezza del fine, non volere attendere agli espedienti; bisogna prendere gli uomini pei manichi che ti presentano: i Romani avrieno lapidato Morone, la gente di oggi reputerebbe folle Catone. Così appianate le vie, entra dal signore e digli: Alfonso, tu pensi tenere sul capo una corona di duca, e noi invece di corona vi contempliamo un artiglio dell'aquila imperiale; — improvvido! non sai che luogo ella aspetta e tempo a stringerti sì che tu ne muoia di affanno. Tu ci rammenti l'antico Damocle seduto a mensa con la spada sospesa sopra la testa. — Poi va a trovare il doge Gritti e il senato viniziano e seco loro adopra queste altre parole: Cittadini, quando una repubblica esulta ai danni di una sorella, segno è certo che Dio l'ha colpita di cecità; — voi avete smarrito l'antico senno; rammentatevi i tempi passati; Fiorenza aveva guerra con Filippo Visconti duca di Melano, — la fortuna procedeva avversa ai Fiorentini. I padri vostri richiesti di aiuto negavano. Messere Lorenzo di Antonio Ridolfi oratore per la nostra città, vedute riuscire le preghiere invano presso il vostro senato, proruppe così: — Viniziani, nell'anno scorso i Genovesi da noi abbandonati Filippo crearono principe; noi nelle presenti strettezze da voi non soccorsi lo faremo re, e voi, quando sarete rimasti soli, noi vinti, e che nessuno, ancora che il voglia, potrà recarvi aiuto, lo farete imperatore. — I vostri padri ci sovvennero, Filippo non vinse, stettero le libertà italiane. — Consiglia il duca e il doge a licenziare parte delle loro milizie, e ciò potranno con tanto minore sospetto eseguire, in quanto che fermarono pace; mediante i nostri banchi di Venezia ci somministrino copia di danaro, lo renderemo alla pace; noi con quella pecunia condurremo agli stipendi nostri le milizie licenziate, e nelle nostre mura difenderemo la causa d'Italia.»

Qui tacque, ma la parola Italia scorrendo lungo le mura di quel recinto silenzioso parve, come framezzo un sospiro, ripetuta da labbra invisibili; — forse le nude ossa quivi dentro raccolte trovarono una reliquia di spirito per susurrare il nome della patria che vivendo avevano amata cotanto.

Michelangiolo tiene fitta la faccia al suolo, e in questo modo atteggiato risponde basso:

«Grave cosa mi chiedete voi...»

«E tale che non mi dà il cuore di farvene ressa.»

«Prendere un nome fin qui intemerato e strascinarlo nel fango!...»

«V'hanno materie che il fango non contamina, ma forbisce.»

«Tu chiudevi una mente altera, o Michelangiolo; novello Titano, intendevi imporre monte a monte, e salito su l'ultima vetta maravigliare con la tua gloria le genti; nè per te solo tu ambivi questo, sibbene per la tua patria diletta, perchè non ti saresti stancato mai di gridare: contemplate, o popoli, il figlio di Fiorenza; ed ora precipitare da così superba altezza, morire infame, desiderare l'oblio e non potere ottenerlo, chè il vituperio porrebbe un segno eterno alla tua tomba, presentire le contumelie e gli oltraggi che sopra vi lancerebbero anche i più tristi!... oh! è grave una lapide di maledizioni... e troppo pesa, Carduccio!...»

Il Carduccio, traendo un sospiro lungo, volge le spalle e lentamente muta due o tre passi per andare.

Michelangiolo allo improvviso scuote la testa e, risolutamente alzando la faccia, esclama:

«Su.... su, le ispirazioni vengono dal cielo... dalla terra emana il cattivo consiglio...» E non si vedendo più davanti il gonfaloniere:

«Messere Francesco, dove andate voi?»

«Voi mi avete fatto comprendere che domandava troppo... Io me ne vado al mio posto e a morire...»

«Rimanete, per Dio! egli era il lamento di una ambizione che muore; ecco ella è già morta; io ho levato al cielo il pensiero e lo sguardo e non invano, chè dal cielo mi è scesa la virtù che sublima; io mi sono innalzato faccia a faccia coll'Eterno; la vita e il tempo passarono; mi sento immortale. La religione di Cristo ebbe i suoi martiri, perchè non gli avrebbe la patria? È religione la patria. Il padre delle misericordie forse non vorrà che il mio sepolcro sia grave di tanto vituperio; — svelerà, prima che i secoli cessino, l'arcano, e raccogliendo il raggio più puro del quale rese lieta la prima stella creata, lo circonderà di luce, — lo convertirà in monumento durevole del più immenso, del più doloroso sacrificio che umano intelletto abbia mai potuto immaginare; — o se nei cieli è destinato che la mia apparente vergogna viva quanto il moto lontana, io lo pregherò in mercede della infinita amarezza sofferta che la mia anima ponga alle porte del paradiso; quivi aspetterò le anime di quelli che maggiormente mi avranno maledetto, le bacerò in fronte, le chiamerò sorelle e, scortandole al trono di Dio, io gli dirò: Signore, fa che i tuoi angioli cantino osanna a questa anima dabbene perchè mi ha odiato con ogni sua potenza. — Ora però, o Creatore, sovvieni alla tua creatura, tu fa in modo che come mi esaltasti lo intelletto a scegliere, così il cuore mi basti a condurre a fine l'alto proponimento; in te ripongo ardentissima fede; — senza la fede in Dio non si sacrifica l'uomo; — e se tanto possono le mie supplicazioni, o Signore, ti plachi il mio sacrificio, e salva la Patria.»

Dietro i nuvoli nerissimi che il firmamento ingombravano era sorta l'amica dei cuori dolenti e dei sepolcri, la luna; — quasi vogliosa di contemplare anch'essa lo spettacolo di virtù che in quell'ora si operava sopra la terra, penetrò co' suoi raggi traverso due lembi di nuvoli e ne vestì la faccia di Michelangiolo. — Quel volto terribile di grandezza e di genio apparve sublime; — sembrò che Dio gli mandasse una benedizione di luce. Così, il Battista battezzando Gesù con le acque del Giordano, si apersero i cieli, lo spirito dell'Eterno discese, ed una voce fu udita nell'alto che disse: — Ecco il mio diletto Figliuolo, nel quale io prendo il mio compiacimento. —

Dante da Castiglione udendo forte profferire patria ed Italia, si commosse a coteste parole, non altrimenti che un destriero di battaglia al suono della tromba; non potè starsi fermo al posto assegnato, si accostò pianamente e, raccolto l'ultimo discorso del Buonarroti, percosso dall'improvvisa apparenza del volto di lui, piegò involontario un ginocchio sul suolo, e recatosi in mano il lembo delle sue vesti, lo baciò con quella devozione con la quale sogliono i fedeli baciare le reliquie dei santi.

Francesco Carducci, preso da irresistibile impeto, gettò ambe le braccia intorno ai fianchi di Michelangelo e forte stringendolo esclamò:

«Tu se' l'onore della specie umana!»

CAPITOLO DECIMO FRA' BENEDETTO DA FOJANO

Indarno allor dagl'inspirati pergami

Uscìo suon d'evangelica parola

Che: Beati, gridò, beati i miti!

Cadean siccome sola

Voce in deserto.

Buondelmonte, tragedia.

Già le stelle di momento in momento diventavano più rade nel cielo; le palpebre dell'alba erano aperte, quando Lucantonio padre dell'Annalena, ristorate di breve riposo le membra, si destava per affrettarsi alle opere della difesa. — Postosi a giacere col pensiero fisso agli assalti imminenti, venne a turbarlo un sogno di palle briccolate contro la sua casa, di mura abbattute, di pietre le quali rovinando offendevano il corpo gentile della cara figliuola: — si sveglia esterrefatto e, balzato a sedere sul letto, volge bramoso gli occhi ed intende gli orecchi; — dappertutto silenzio.

La innocente vergine dorme supina sopra un lettuccio a canto quello del padre, — le mani tiene abbandonate lungo i bei fianchi, le gambe tese, il capo alquanto chino su la spalla destra in dolce atto di quiete: — la lampada solitaria che arde nella cameretta davanti la immagine della Madonna diffonde una luce pallida sopra il suo volto già fatto bianco dal riposo: — ella poi non alita. — Il silenzio, il pallore, la posatura simile a quella con la quale si compongono le membra delle vergini trapassate quando si menano al sepolcro, — lanciarono nell'anima tuttavia paurosa del vecchio tale un dubbio tremendo per cui egli alzò le mani disperatamente al cielo e si fece livido in volto; — ma in questa la donzella sciolse un sospiro, e il padre confortato lasciò cadersi con la faccia sopra i guanciali e pianse le più soavi lacrime che mai sgorgassero da occhi umani.

Si veste cauto, si accosta silenzioso al casto letto e lieve lieve curvatosi bacia in fronte la figlia, poi giunge le mani, guarda la Madonna con uno sguardo lungo, e con quel guardo meglio di qualsivoglia favella esprime la preghiera: Madre del Signore, deh! non richiamare per ora questo angiolo al cielo; — poi quinci si tolse, ed in andando mormorò sommesso le seguenti parole: «Ai ripari... ai ripari! nessuno può renderle i genitori.... almeno non le venga tolta la patria.»

E il volto della vergine addormentata era bello davvero, se non che sopra quella fronte tu vedevi un segno, — quasi orma di pellegrino sopra neve poco anzi caduta, — il segno di un dolore che aveva precorso lo intelletto: perocchè non blandiva i suoi pianti la carezza materna, nè ai suoi vagiti sorrise labbro di genitrice china sopra la culla, — primo paradiso e il più benigno (per quanto possiamo giudicarne quaggiù) che la umana creatura conosca; — su quel volto posava una mestizia misteriosa ed arcana, nè dove tu avessi ignorato il segreto del suo cuore, avresti potuto indovinare se quel suo consumarsi fosse del fiore reciso nel più vivido rigoglio della vita, o se piuttosto tocco dall'alito ardente una divina rugiada lo richiamasse ad esalare un sospiro di profumo e morire, — s'egli fosse il saluto primo o l'addio ultimo della sventura. — Ad ogni modo l'affanno la spruzzò colle sue acque lustrali.

All'improvviso schiuse i labbri e pur dormendo sorrise. — Perchè sorride la vergine? Sogna aver l'ale alle spalle ed abbracciare su i fianchi un angiolo ed esserne abbracciata. Sogna un cielo chiaro e sereno dove si avvolgono perpetuamente in moto armonioso miriadi di globi lucenti, e parle che il compagno le dica: Vieni, voliamo a raggiungere cotesta stella colà che sopra tutte le altre scintilla: — e volano, volano... l'aria percossa sibila loro dietro le spalle, e la stella è raggiunta, poi da lontano contemplano un augellino che si affretta cantando, e il compagno riprende: — Vieni, voliamo ad interrogare quell'augelletto — e in meno che non balena gli stanno sopra; — egli invano raddoppia il batter dell'ale, — ei l'hanno preso: Dove vai, uccello, chè tanto ti affretti cantando? — Mi affretto a cibare i miei pennuti, e canto lieto al mio Creatore che mi fece rinvenire l'esca con la quale nudrirli. — Va, va, augelletto; così ti sieno preste l'ale al volo e Dio ti preservi dal falco. — Poi il compagno riprese: — L'ora della preghiera è venuta; — e così dicendo comincia dolcemente un inno al Signore; — ella si volse a contemplarlo in viso... — santi del paradiso! Vede le belle sembianze di Vico, le quali, quanto egli più s'infervoriva nella preghiera, tanto più diventavano luminose, — roventi quasi, — alfine i suoi occhi come feriti non possono sostenere la vista, — ella si desta... e freme... raggio di sole penetrando traverso lo spiraglio della finestra si posava sopra le sue palpebre.

Michelangiolo tiene fitta la faccia al suolo..... Cap. IX, pag. 246.

Lascia le tepide piume, si avvolge entro un guarnelletto bianco, e tra mesta e lieta si avvia nel giardino, sua cura amorosa, qui giunta, si pone a scegliere i fiori che meglio vaghi le pareano e leggiadri, e con un ginocchio piegato a terra, come la Matilde dell'Alighieri, tesse una ghirlanda cantando una soave canzone in lingua di Spagna, la quale volta nella nostra toscana favella suonerebbe così:

«Ben venga la rosa, la superba regina dei fiori; ella deve comporre la mia ghirlanda, perchè si assomiglia alla guancia del mio gentil damigello.

«Ben venga il ranuncolo dalla foglia di porpora, venga e componga la mia ghirlanda, perchè i suoi colori vivaci si assomigliano ai labbri del mio gentil damigello.

«Ben venga il giglio candido dallo stelo slanciato: la sua bianchezza è il simbolo della purità del mio gentil damigello, il suo stelo si assomiglia alla sua bella persona.

«Ben venga tutta la varia famiglia de' fiori; io ne ho intrecciata una ghirlanda e vo' posarla sopra il suo capo: se fosse di alloro, io non ve la porrei; l'alloro troppo spesso crebbe con lagrime fatte piangere all'uomo dall'uomo che se ne incorona; troppo spesso chi porta la ghirlanda di alloro se la vorria mutare in benda sugli occhi per non vedere le miserie che seminò sopra la terra.

«Tu porta lietamente la mia ghirlanda, gentil damigello: — ella crebbe tra' sospiri della voluttà, la irrorarono lagrime di gioja — ella fu côlta dalla mano d'Amore.»

Ma invece di ghirlanda ella compose un mazzetto e se ne tornò dal giardino, siccome v'era andata, tra lieta e pensosa; quando pose il piè nella stanza, guardò la immagine, — poi il mazzetto, e diventò più trista: mentre rilevava lo sguardo, a caso le cadde sopra uno specchio e sorrise, perchè si vide bella, e si acconciò le chiome; — subito dopo arrossì quasi punta dal rimorso, corse al vaso che stava davanti la immagine, ne gittò via i fiori appassiti, e nel gittarli pensò: tale è la vita della femmina, fiorisce un giorno! — rinnova l'acqua e colloca il vaso al suo posto; — la lampada prossima ad estinguersi è riempita di olio, il domestico altare assettato.

Le diverse bisogne compiute, Annalena si prostra e prega: «Vergine santissima, il primo pensiero della mia anima risvegliandomi era tuo... ora... non più... ma tu vorrai perdonarmi... non ti ho supplicato che tu m'ispirassi per conoscere se mal facevo ad amare un ente mortale, come amo te?... e l'angiolo custode da parte tua non mi ha dissuaso, anzi egli mi parve mi confortasse ad amarlo. Madre di Dio, ti raccomando il mio povero padre; — la mia genitrice già da gran tempo al tuo fianco non abbisogna delle mie preghiere; — e poichè così piace al cielo, non meno ti raccomando il mio diletto...» Qui fissa contemplando la immagine, le parve che dal vetro dentro il quale stava custodita mandasse un baleno: volse la faccia, e...

Vico Machiavelli, splendido in vista quanto l'arcangiolo Michele, cinto di forbita armatura, le comparve alle spalle; le lucide armi riflettendo nel vetro lo avevano fatto coruscare del baleno che offese la vergine.

Annalena balza in piedi e presta più della gazzella si ricovra all'altra estremità della stanza.

Vico con occhi dimessi cominciò:

«Annalena, vi domando perdono; credeva ritrovare qui vostro padre e intendeva menarlo meco alla rassegna della milizia. Dio vi mandi il buon giorno...»

E volgeva la persona in atto di andarsene. La vergine sempre nel suo ricovero con ambe le mani si fregava gli occhi, timorosa non fosse una illusione.

Vico pervenuto sul limitare, stupefatto della strana accoglienza, si ferma ed esclama:

«Lena!»

«La vergine trasalisce, e non le riesce snodare la lingua.

«Lena!» ripete Vico e impetuoso si dirige con presti passi verso di lei così favellando:

«Tanto vi sono ad un tratto diventato increscioso che voi mi rifiutate quello che onestamente non sapreste negare a qualsivoglia cristiano vi occorresse per via, — un saluto di pace? In che vi offesi? I giorni vostri io non turbava mai. — Perchè sorrideste ai miei ritorni, alle partenze sospiraste? Perchè, secondo ch'io mi presentava o lieto o tristo, impallidiste o arrossiste? — Erano lusinghe queste? Ed io ti reputava pura, innocente, come l'alba del primo giorno che spuntò su la terra! Ahi, tristo me! tu mi hai ingannato:... a voi tutte, femmine, Eva donò l'arte di presentare all'uomo la morte sotto la specie di un frutto.»

La giovinetta rimaneva come sbigottita da cotesto linguaggio; la cagione dello sdegno non comprendeva; grosse lacrime le scorrevano lungo le guance; sentiva un immenso duolo opprimerle il cuore pronto a scoppiare: alla fine proruppe e, precipitandosi a terra, abbraccia in atto d'ineffabile angoscia le ginocchia di Vico. Questi a sua posta si smarrisce, le parole gli mancano, sta incerto su quanto dicesse o facesse.

«Oh! non mostrarmiti sdegnato,», favella la vergine: «In che ti offesi? Se non lo sapendo ti recai ingiuria, perdona; io sono semplice, e avvezza agli usi di villa... io non sorgerò da terra finchè tu non mi abbi perdonato...»

Ebbro di amore Vico le stende le braccia e,

«Sorgi», esclama, «sorgi; in questo modo atteggiata appena dovresti presentarti al cospetto della Divinità.»

«E tu, Vico, sei la mia Divinità...»

«Or dunque mi ami?...» E la solleva esultante.»

«Se amore significa sentire la vita soltanto quando io ti veggo ed essere dolente quando mi stai lontano e pregare il cielo che ti conservi; se amore significa fiamma ardente che mi scorre dal capo alle piante allorchè mi comparisci davanti, se udirti in ogni suono.., se in ogni oggetto vederti, se... se... questo significa amore, sopra tutte le cose io t'amo.»

«Mi ami?»

«Oh! tanto!... oh! tanto!...» E palma percoteva a palma.

«Or dunque vieni, prostrati qui davanti la immagine della Vergine; ecco mi prostro anch'io; giurami che tu sarai mia donna.»

«Lo giuro.»

«E che fuggirai gli sponsali di qualsivoglia altro uomo.»

«Lo giuro.»

«E che, morendo io, ti renderai monaca e finchè ti duri la vita continuerai a ripararti nel chiostro.»

«Questo non giuro io.»

«Perchè nol giuri?»

«Perchè la morte mi scioglierà subito dai penosi legami; e per la striscia luminosa che lascerà nel firmamento la tua anima al cielo volando ti seguirà la mia, fedele ancella nella morte, siccome ti fui nella vita.»

«Dio onnipotente, gran mercè!» esclama Vico, premendo con ambe le sue le mani della donzella: «qual merito avevo io mai onde tu mi compartissi tanta contentezza?»

«Ludovico Machiavelli alla rassegna!» Si udì gridare una voce forte e unito alla voce un percuotere raddoppiato all'uscio di strada.

«Ah! Il capitano Ferruccio», dice Ludovico e, balzato in piedi, lasciando le mani della donzella, precipita fuori della stanza.

Annalena correndogli dietro lo richiama:

«Vico! Vico! anche un istante... una parola.»

«Il capitano Ferruccio», rispose Vico e continua ad allontanarsi.

Annalena si fece al balcone e vide il suo diletto il quale, vergognoso in vista, seguiva un uomo d'arme per aspetto e per dovizia di armi notabile. Però non udendo Vico, siccome aveva temuto, muoversi dal capitano alcuna rampogna, riprese animo e, voltosi di repente, vide la fanciulla al balcone, e studioso di giustificare la subita partita, le mandò una voce sola, e fu questa:

«Libertà!»

La vergine, fatta delle mani croce, e dimessa la testa in atto di rassegnazione, rispose anch'ella con una parola:

«Sia!»

Ma quando si furono dilungati dalla vista della casa paterna, presso allo scendere del Ponte Vecchio, il capitano Ferruccio all'improvviso fermandosi gli favellò così:

«Patria! Libertà! Molti, o giovanetto, hanno su i labbri la patria e la libertà, pochi nel cuore. L'amore di entrambe queste sacratissime cose consiste nella continua renunzia dello amore di sè; ogni passione vuolsi sacrificare alla patria ed alla libertà, perocchè elle sieno gelose e non consentano procedere in compagnia. Se vuoi venire oltre, sappi essere il mestiere delle armi duro, incerta la tua stanza; fin d'ora apparécchiati a bagnare del tuo sangue le varie contrade di Toscana, forse d'Italia... a lasciare le tue ossa su qualche campo ignorato; — se ciò avviene, acquisterai fama di magnanimo e d'infelice; se la fortuna ti corre benigna, sarai magnanimo e avventuroso, — e così ti auguro dal cielo; — se l'amore di donna preponi al tuo paese, se le tue orecchie più e meglio odono il susurro delle parolette brevi che il frastuono delle trombe, se più ti preme piacere a femmina che alla fama, pon' giù la impresa, torna indietro, io me ne andrò solo alla rassegna e alla orazione. La patria può fare molto bene a meno di te.»

«Capitano, io non credeva avere misfatto poi tanto... lieve fallo è il mio.»

«Lieve fallo! Qualunque sia il fallo per mancata disciplina, per me è mortale. Quando Torquato percosse nel capo il proprio figliuolo per avere vinto contro lo espresso divieto, i Romani conquistarono il mondo. Lieve fallo! L'ora della rassegna è trascorsa, e il vostro posto comparve vuoto, per voi la milizia ebbe pessimo esempio, sentì grave oltraggio il vostro capitano. Lieve fallo! Al capitano toccò andarsene in traccia del suo soldato. Sono questi gl'insegnamenti che riceveste dai famosi capitani dei quali vi procurava il consorzio? Queste le promesse da voi fatte al vostro padre sopra il suo letto di morte? Ah! se lo sapesse vostro padre!»

«Capitano Ferruccio, o cessate, o io torno a mezzo il ponte e mi precipito in Arno.»

«Avanti, giovanetto, vien' meco in Santa Croce.»

I Fiorentini, banditi i Medici dallo stato, attendendo a difendersi, vinsero la provvisione di creare la milizia fiorentina. In quattro giorni, chiamati a prendere le armi i giovani dai diciotto fino ai trentasei anni, descrissero circa a tremila capi, i quali, non che andassero a tôrre le armi, di per sè stessi le portarono, e non mica comunali, sibbene, di molto valsente e di sottile lavoro; furono dapprima mille settecento archibusieri, mille picche ed il rimanente alabarde, spiedi, partigianoni e spade a due mani, la più parte difesi da corsaletti. Nella spartizione delle bande si attennero ai soliti sedici gonfaloni, non mutarono insegne; solo osarono portare certa divisa traverso alla vita di color verde, simbolo della speranza che nutrivano vivissima di liberare la patria[159]; ebbero per sargenti maggiori Giovanni da Torino, Pasquino Corso e Giovambattista da Messina, soldato di molta riputazione, come quello, che aveva atteso alla milizia nelle Bande Nere prima e dopo che il Signor Giovanni morisse; questi erano fissi, come pure era fisso il signore Stefano Colonna di Palestrina, barone romano, uomo del re di Francia, che accettò l'ufficio di comandante generale della mantovana milizia. Gli altri ufficiali avevano lo scambio e reggevano a tempo; e tanto eglino apparvero costumati e dabbene che dal grado di capitano si ridussero con animo volonteroso a fare gli uffici di semplice soldato. — Considerando in seguito di quanto vantaggio codesta milizia fosse stata cagione sì per tenere la città ottimamente custodita dai nemici, sì per frenare la licenza dei soldati stranieri agli stipendi della Repubblica, venne in pensiero ai reggitori di accrescerla; per la qual cosa ordinarono si dividesse in due classi, la prima, di uomini da diciotto a quaranta anni, la seconda da quaranta a cinquanta; sicchè per siffatti provvedimenti ella crebbe di meglio due mila altri capi. Andando poi per la massima parte composta di persone non solo della libertà della patria svisceratissime, ma eziandio delle più ingegnose fra quante fiorissero in quel tempo a Firenze, non è da dire se presto apprendessero i modi di armeggiare; e Benedetto Varchi ricorda come i soldati vecchi, vedendola ora aggomitolarsi in chiocciola, ora distendersi in drappelli, ora eseguire altro movimento militare, ne facessero le meraviglie.

Il gonfaloniere Carduccio, intentissimo ad accendere le voglie dei cittadini alla gloria militare, quantunque pei buoni effetti della milizia rimanesse contento, e sebbene in diverse occasioni l'avesse fatta rassegnare e arringare dai più valenti uomini di Firenze, dei quali piace ricondurre alla memoria i nomi di Luigi Alamanni, di Baccio Cavalcanti e di Pietro Vettori, nondimeno pensò avrebbe giovato assai per conseguire il suo scopo una nuova generale rassegna e la solennità del giuramento, accompagnata da una predica del fiero frate Benedetto da Foiano. Così destramente si maneggiava l'accorto Carduccio che i capi della milizia gli mossero istanza di quello ch'egli sentiva maggiore desiderio concedere che non avevano essi di domandare. Però attelata la milizia sotto i suoi gonfaloni su la piazza di Santa Maria Novella, splendida di armi e d'insegne, difilò gonfalone per gonfalone cominciando dal quartiere di Santo Spirito verso la piazza del Duomo, tenendo la via che viene dal canto dei Carnesecchi e di Santa Maria Maggiore.

Davanti la porta di San Giovanni avevano accomodato il bellissimo altare d'argento il quale solevano esporre nelle solennità del comune; intorno a quello erano disposti sacerdoti sostenenti ceri o turiboli; i libri degli evangeli vi stavano aperti sopra. — Di rincontro all'altare accanto alla porta mezzana di Santa Maria del Fiore sedeva la Signoria, il signore Stefano Colonna ed altri maggiorenti nel magnifico tribunale ornato di panni bianchi e vermigli con baldacchino sopra, come si costuma fare nelle feste e nelle processioni. La via sparsa di lauro e di erbe odorifere.

A mano a mano che i varii drapelli dei gonfaloni si accostano all'altare, piegano il ginocchio, declinano verso terra le armi e la insegna. Il capitano pone a nome di tutti la destra sopra l'Evangelio e proferisce la formula del giuramento, che i soldati ripetono, e quindi voltatisi alla Signoria con gesti convenevoli le rendono la debita reverenza. I trombetti e i pifferi del comune sonando restituiscono i saluti.

I gonfalonieri, svoltando dal campanile e procedendo per le vie del Proconsolo, del Palagio e del Diluvio, si conducono al tempio di Santa Croce. La Signoria, il signore Stefano con grande accompagnamento di capitani, di cittadini, mazzieri e trombe gli seguono; — il popolo, cupido di spettacoli, gli ricinge attorno densissimo.

Qui fu cantata la messa solenne dello Spirito Santo, dopo la quale il virtuoso frate Benedetto da Foiano salì in pergamo tenendo nelle mani uno stendardo nel quale era da banda dipinto Cristo vittorioso con soldati distesi per terra chi morti e chi feriti, e dall'altra la croce rossa in campo bianco, insegna del comune di Firenze.

Le tende tese avvolgevano le vaste navate in tenebre misteriose; — le turbe raccolte mandarono un fremito come di onde commosse, poi tacquero silenziose così che si udiva l'anelito del frate e il fruscio dello stendardo nelle sue mani.

All'improvviso il frate con voce formidabile cominciò:

« Cum hoc et in hoc vinces. — Il Padre nostro, che è nei cieli, creava gli uomini liberi e lieti. Lo spirito delle tenebre soffiò nell'anima dei tristi un alito infernale, e questi incatenarono le mani dietro alle spalle ai fratelli, strinsero nella destra maledetta una verga e si chiamarono principi. Allora la creatura, non potendo più sollevare le braccia al cielo per benedire Dio, la faccia contristata abbassò verso la terra e pianse. L'uomo malvagio non tenne da principio nascosa la reproba sua origine e apertamente significava sè essere figliuolo di Satana; poi, alla tristizia aggiungendo la ipocrisia, celò sotto una benda o corona la impronta di Caino incisa sopra la sua fronte, si unse col santo crisma le chiome quasi profumo e disse: io vengo da Dio. — Questa è bestemmia manifesta, imperciocchè il Signore favellando a Samuele gli dicesse: — Pon' mente, tale sarà la religione del re: — egli piglierà i vostri figliuoli, — egli piglierà le vostre figliuole, — piglierà eziandio i vostri campi, le vostre vigne, i vostri uliveti, — ed in quel giorno voi griderete per cagione del vostro re[160]. — Così ha parlato il Signore, ed aggiunse ancora al popolo ebreo: Ma io non vi esaudirò, perchè voi lo avrete eletto. — Gli schiavi volontarii increscono al mondo, a Dio ed allo stesso demonio. Noi non eleggeremo il principe, noi lo combatteremo, noi lo inseguiremo, finchè non torni all'inferno, donde l'antico nemico del genere umano lo ha dipartito. — Fiorenza, madre amorosissima, nudrì i Medici come suole i suoi figliuoli più cari, cresciuti che furono, morsero le mammelle dalle quali ebbero vita; stesa la mano parricida sopra il casto seno di lei, esclamarono: Tu ci alimentasti del tuo latte, ora abbiamo sete del tuo sangue —, e si apprestarono a divorarla. Qual segno parlò dall'alto in favore di cotesta scellerata famiglia? Qual consenso di popolo la creava tiranna? Qual diritto ella vanta? Con quali argomenti ella intende dominare su Fiorenza? Vedetela, armi barbare ella spinge ai nostri danni, sua ragione è l'offesa, suoi oratori le bombarde, feste gl'incendii, benefizii le rapine, doni le stragi. E non pertanto vive tale tra loro che non aborre affermarsi vicario di Cristo sopra la terra; non gli credete: se tu, Clemente, co' tuoi misfatti non avessi allontanato lo spirito di Dio dalla Chiesa, ora lo scisma non guasterebbe le sue membra, tu non saresti stato avvilito, non avrebbe Roma sofferto il miserevole sacco. Quando lo spirito di Dio circondava il Vaticano, mandò gli angioli con ispade infocate a difenderlo e respinse Attila atterrito dalle sue mura. Roma conserva tuttavia l'altare, ma il Dio lo abbandonò; il sacerdote innalza al cielo l'antica preghiera, ma il cielo non risponde più, perchè la voce del sacerdote è fatta impura, le mani ha intrise di sangue. Il sommo sacerdote vi chiamò davanti al giudizio di Dio: — sperate! — imperciocchè Dio lo abbia riprovato. Gesù Cristo nostro divino redentore e re nella sua divina sapienza conobbe che un giorno sarebbero insorti falsi profeti, i quali profetando nel suo santissimo nome avrebbero tratto la generazione degli uomini nello squallore e nella servitù: ond'egli vi lasciava un segno e diceva: L'Albero buono non può fare frutto cattivo, nè l'albero malvagio frutti buoni; voi dunque li riconoscerete dai loro frutti. — E quando i verecondi avessero ardito invocarlo, ei prometteva sarebbesi protestato contro di loro, gli avrebbe reietti lontano da sè come serpenti, progenie di vipere, sepolcri scialbati, operatori d'iniquità[161]. Egli vi chiamò al giudizio di Dio, — sperate! imperciocchè Dio chiederà ai suoi sacerdoti ragione del sangue dei profeti che mandò verso di loro, del sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria e di frate Ieronimo Savonarola, il quale uccisero a vituperio col patibolo infame. Papa Clemente, trema, perchè Cristo è tuo giudice, non complice, ed egli ti reciderà, la tua parte metterà con quella degl'ipocriti, laddove è pianto e stridore dei denti[162]. Ma che dico sperate! Già voi vedete della sua protezione certissimi segni; credete voi forse senza divino soccorso avere potuto assuefare gli occhi alle lunghe vigilie, le membra a prendere su la dura terra breve e interrotto riposo, la fame tollerare e la sete, soffrire l'ardore del sole e l'asprezza del freddo non più dai molli vostri corpi provata? Forse senza ajuto celeste avvezzi agli agi della vita, nudriti nelle pacifiche discipline, vi era concesso con animo immoto ascoltare le barbariche voci, sostenere gli aspetti spaventosi, opporre i ferri ai ferri, percuotere, essere percossi, terribili se vincitori, più terribili vinti? Prodigi sono questi; altri ne aspettate maggiori dal cielo, voi stessi opererete miracoli, forse tra noi già vive e si agita un nuovo Gedeone, e già nel suo cuore egli intende la voce del Dio degli eserciti; sorga! oh! sorga tosto e disperda questa empia progenie. — Voi siete soli, vi abbandonano tutti: meglio così in questo modo intera sarà la gloria nostra; così, oh! non fosse intera la infamia dei rimanenti Italiani: noi soli difendiamo l'onore, la vita e la libertà della Italia: e quando pure dovessimo soccombere, sarà splendido il nostro sepolcro, perchè ultimi cedemmo, perchè soli osammo resistere a moltitudine di gente contro le quali non valsero le armi collegato di potentissimi principi. Fu gloria al popolo ateniese abbandonare la patria terra per tutelare la libertà; quanto fia maggiore la tua, o popolo fiorentino, che giudicasti la maestà dei luoghi pubblici, la religione dei tempii, i sepolcri, le case dover esser da te costantemente difese, e la tua salute dovere andare congiunta con la salute della patria! In hoc signo vinces, gridò la voce dall'alto a Costantino imperatore, e gli fu mostrata la croce sfolgorante nei cieli: in hoc signo vinces, esclamo anch'io benedicendo questo sacro stendardo e alle tue mani affidandolo, strenuissimo Colonna, capitano della valorosa milizia fiorentina: seguitate voi giovani, codesta bandiera, tenete sempre in lei fissi gli sguardi, imperciocchè egli la condurrà sempre nella via dell'onore e della vittoria. Adesso io non vi conforterò ad esser prodi; già voi lo foste, e così l'uomo si piace nel sentirsi virtuoso che voi percorrerete intero il bene cominciato cammino: non vi raccomanderò i padri, le madri, le donne e i figli vostri; concesse ai loro labbri tale una voce natura presso cui la mia diventa debole e fioca. Di due cose con tutte le viscere dell'anima mia vi supplico, e sono: di mantenere severa la disciplina, origine vera di ogni alta gesta militare; Prospero Colonna, capitano dei nostri tempi famosissimo, di cui la gloria in te, inclito Stefano, riconosciamo, soleva dire: desiderare piuttosto imperito ed ubbidiente soldato che molto perito ed ubbidiente poco; e sopra tutto vi scongiuro di unione, pace e concordia. A concordia la patria afflitta e il vostro re Gesù Cristo v'invitano; a concordia gl'imminenti pericoli vi consigliano. Ogni città, comunque piccola, con la concordia vedemmo superare terribilissimi mali, con la discordia vedemmo le meglio fiorenti città condotte ad estrema miseria. Non gustate voi le dolcezze dell'amore? Voi non punge l'amaritudine dell'odio? Spengasi nei vostri petti lo sdegno; si accenda la fiamma di salutifero amore. Perdonate le ingiurie, dimenticate le offese, volgansi contro i nemici le magnanime vostre ire. Quali altre parole aggiungerò io? Se per cimentare la concordia vostra si domandasse sangue, ecco di gran cuore io darei quello che mi scorre entro le vene: se a stringervi in vincolo fraterno non bastano le preghiere dei vostri più cari, nè la speranza di vincere nè il timore di perdere, nè le supplicazioni della patria, nè il comandamento di Cristo, io sdegno ormai di favellare più oltre, e non mi resta più altro che piangere. Io non voglio più abbandonare questo pergamo: qui sopra mi scioglierò in lacrime, qui starò fintanto al Signore piaccia di chiudere per sempre questi occhi miei tristi. — Carità, carità, Fiorentini! Se tutti Cristo col preziosissimo sangue redense, se tutti nasceste figli di una medesima madre, perchè ricuserete abbracciarvi fratelli[163]

Tale orò fra' Benedetto da Foiano, e al terminare delle sue parole, lasciatosi cadere genuflesso, col capo appoggiato all'orlo del pulpito, dirottamente piangeva. Intanto si udivano risuonare per le vôlte della vasta chiesa singhiozzi e pianti, e un domandarsi perdono ed un concederlo; e poi vedevi uomini da molto tempo nemici abbracciarsi, baciarsi in bocca, ogni rancore deposto, salutarsi fratelli.

Tra così universale consenso di amore, sopra due cuori soli le parole del Foiano passarono senza lasciar traccia, quasi nave che scorra per acqua. Uguale l'odio in entrambi, uguale il nome. Benedetto Buondelmonti si chiamava l'uno, Zanobi Buondelmonti l'altro: il primo violento, superbo, odiatore di Zanobi per la ingiuria che gli aveva fatta; il secondo nudrito delle buone discipline, di gentile natura, modesto, giustamente sdegnato contro il parente per oltraggio ricevuto. Causa della inimicizia fu questa: che, trovandosi nel 1526 a disputare in arcivescovado tra loro intorno al diritto di presentazione a certo benefizio vacante, messere Benedetto preso da cieca ira percosse messere Zanobi nel volto. Da quel giorno in poi Zanobi si era studiato di tôrne memorabile vendetta, nulla badando alla ragione del sangue, che gli pareva messere Benedetto avesse sciolta con la bassissima offesa; ma i parenti e gli amici indagavano il luogo della posta, s'interponevano, pregavano, insomma facevano in modo che il duello non accadesse. In seguito sopraggiunsero le persecuzioni dei Medici e ad ambedue i Buondelmonti toccò esulare. Se messere Zanobi avesse voluto commettere la cura della vendetta a ferro assassino, a quest'ora messere Benedetto un lungo sonno dormiva con i suoi padri; ma, oltrechè da così vile spediente tratteneva messere Zanobi la magnanima sua indole, non si sarebbe sentito placato, se altra mano fuori della sua avesse spento codesta vita.

Eppure ambedue avevano intesa la predica del Foiano, — però come non fosse stata per loro. Messere Benedetto, col dorso appoggiato a una colonna, le braccia sotto le ascelle, le gambe sporte in avanti, la manca sopramessa alla destra, il capo chino, talora mandava uno sguardo obbliquo contro Zanobi, il quale da lontano curvo con la persona, puntellato il gomito alla spalliera di una panca, tiene il mento nel palmo della mano e con l'indice si rovescia il labbro inferiore ed a sua posta gli ricambia lo sguardo diritto e feroce: cotesti sguardi s'intersecavano lucidi d'implacabile odio, quasi scontro di spade nemiche in campo chiuso.

Ad un tratto messere Zanobi drizza la persona; una mano lo ha lievemente percosso su l'omero, ed una voce gli ha detto:

«Perdona!»

La voce e l'atto movevano da Dante da Castiglione.

Messere Zanobi lo guardò in volto, — sorrise e non rispose parola. Ma ecco che al Castiglione si aggiungono molti nobili giovani ed onorati cittadini, i quali con suono e sembianza, suplichevoli ripetono:

«Perdona! perdona!»

Messere Zanobi si turba e avvoltosi nel mantello tenta partirsi di chiesa. — Dall'altra parte, Alamanno dei Pazzi e Lionardo Bartolini, afferrato nelle braccia Benedetto Buondelmonti, gli usano violenza e lo traggono seco loro dicendo:

«Voi gli faceste offesa, e il cavaliere cristiano non si avvilisce umiliandosi a domandare mercede...»

«Io domandare mercede!» replica messere Benedetto — e sbuffa come toro indomato; ma tuttavolta andava, chè la coscienza in quel punto vinceva la superbia.

Zanobi svincolandosi dalle braccia degli amici s'ingegna guadagnare le porte, quando il gonfaloniere Carduccio accompagnato dai signori gl'impedisce il cammino e con quel suo piglio autorevole lo interroga:

«Apprendeste voi questo negli Orti Oricellarii, messere Zanobi? Il vostro maestro Nicolò Machiavelli non vi narrava mai la magnanimità di Aristide?»

«Nè a me sarebbe grave imitare Aristide se il mio avversario si fosse Temistocle.»

«E di Temistocle non vi narrava, quando percosso da Euribiade lacedemonio rispose: Batti, ma ascolta?»

«Magnifico Carduccio, non dubitate, per me non sarà messa in compromesso mai la pace dell'amatissima patria; finchè ci stanno a fronte i nemici, io sospendo ogni querela privata; remosso ogni pericolo, vi prego a non consentire ch'io rimanga il più svergognato gentiluomo che viva in tutta la cristianità.»

Frate Benedetto da Foiano avendo rilevato la testa, abbassò gli sguardi e conobbe la cagione per cui tanti spettabili cittadini si affaticavano intorno a quei due Buondelmonti. Scese dal pergamo precipitoso così che parve uno di quei santi padri trascorrenti per l'empireo cantati dalla divina bocca dell'Alighieri, cacciatosi tra la folla e rompendola giunge davanti a messere Benedetto, il quale tuttavia riluttante faceva mostra volersi liberare dalle mani del Pazzi e del Bartolino, e,

«Che sempre», incominciò garrendo messere Benedetto, «la tua progenie debba essere cagione di pianto alla nostra città, ella è pure una tremenda e incomportabile cosa, o Buondelmonti! Dobbiamo anch'oggi rinnovare l'antico voto, che meglio sarebbe stato che Dio annegasse la progenie vostra nell'Ema la prima volta che lasciando Val di Greve veniste a Fiorenza? Invece di riparare li passati danni, ne vorrete voi dunque apportare dei nuovi? Umiliati, superbo... tu sei un pugno di cenere...»

E messere Benedetto crollato da quel dire di fuoco rispondeva dimesso:

«Pur ch'ei perdoni.»

Il Foiano già sta dinanzi a messere Zanobi e,

«Figliuolo mio!» gli favella dolcemente, «in nome del tuo Redentore che perdonò ai suoi uccisori, — che pregò per loro, — che versò il suo sangue preziosissimo per la umana stirpe la quale co' suoi misfatti aveva colma la misura dell'ira di Dio... perdona! perdona!»

«Messere frate», dice il Buondelmonte sdegnoso, «io non sono Cristo.»

«Allora, messere Carduccio, rammentategli voi quel vostro glorioso maggiore san Giovanni Gualberto, narrategli come avesse morto un fratello, come venisse armato a Fiorenza per vendicare l'omicidio, come trovasse l'uccisore inerme e solo a mezza strada, il quale avendogli domandato mercè per Dio, egli, di un tratto deposta l'ira, a San Miniato il conducesse e quivi a Dio redentore lo donasse...[164] »

«Padre Benedetto, cessate, io non sono un santo.»

«Almeno sii uomo, ricórdati del buon Marzucco che baciò la mano all'uccisore del suo figlio; — la Chiesa non lo ha ancora canonizzato per santo[165]

«Ahimè! vi prego, sgombratemi il passo... in verità non posso.»

«Oh! che sì che il potrai, figliuol mio; e se i consigli e gli esempi non ti commuovono, lásciati piegare dal pianto: ecco, vedi, io mi ti prostro davanti e ti supplico col capo nella polvere, se tu perdoni, io bene mi sarò genuflesso, perocchè la creatura perdonando assomiglia a Dio; se ti ostini nel rifiuto, tu mi lasci il rimorso d'essermi inchinato al demonio.»

«Ma che vi ho fatto io onde mi vogliate il più svergognato cavaliero che abbia mai cinto spada? Oh! questo è dolore. Voi mi desiderate morto, ebbene seppellitemi, perchè io non consentirei a vivere senza onore; aprite la lapide, precipitatemi giù nell'avello, purchè la voce del perdono sia l'ultima che profferisca la mia bocca mortale.»

E Zanobi Buondelmonti, come uomo rifinito dalla fatica, si lasciò cadere seduto sopra il pavimento della chiesa, coperto, siccome correva il costume, dalle lapide dei sepolcri delle inclite famiglie fiorentine.

Come volle fortuna, egli si assise sopra la lapide appartenente ad una delle tante famiglie dei Buondelmonti; ciò era manifesto per l'arme quivi effigiata con pietre di varii colori, la quale faceva croce rossa sul Calvario in campo azzurro e bianco.

Così umiliato Zanobi con ineffabile angoscia percoteva con ambe le mani il marmo esclamando:

«Apriti, o terra, e cuoprimi!»

I circostanti contemplando quel profondo dolore stettero muti ed in cuor loro lo compassionavano forte. Al Foiano erano venuti meno gli argomenti, e si rimaneva genuflesso in atto di preghiera senza potere profferire una parola.

Si apre di repente la folla: comparisce una vergine; ella non sembra cosa terrena; la fronte tiene rivolta al cielo, quasi ascoltasse una voce dall'alto; le pieghe lunghe della veste coprivano i piedi, onde pareva che il suo incesso non procedesse dal mutare di passi, bensì dal radere, volando la terra. La ghirlanda di argento intrecciata alle sue chiome nell'agitare della persona scintillava come se fosse di raggi; la sembianza pura, la dolcezza degli atti, l'apparizione improvvisa colpirono gli astanti di maraviglia. Quando la terra d'Italia produsse vergini siffatte, il Ghirlandaio e Rafaello dipinsero gli angioli, quali forse più belli non creò mai Dio nel suo paradiso: — poichè in quanto a questa ella fosse figlia di donna, non creatura celeste.

Si accosta silenziosa a messere Zanobi, si curva alquanto e, lo toccando di lieve percossa sopra la spalla, gli mormora nelle orecchie:

«Tu giaci su l'ossa de' tuoi padri!» — e gli accenna la domestica arme: — «uomo che devi morire, perchè serberai odio mortale? Lascia un esempio di virtù e perdona.»

Messere Zanobi, vinto da tale una forza a cui non sapeva resistere, si leva tenendo il suo sguardo fisso in quello della vergine; ella presolo per la mano a sè lo trae, avvicinandolo a messere Benedetto. Questi se ne sta dimesso a capo chino; all'improvviso levandolo, si vede faccia a faccia messere Zanobi; — si guardarono, — impallidirono, — si fecero rossi fino ai capelli; poi messere Benedetto curvandosi tutto tremante, parlò:

«Zanobi, l'atroce... offesa...»

«Dimentichiamola, Benedetto... Abbracciatemi... e come vuole ragione di sangue ritorniamo fratelli...»

E si abbracciarono con incredibile affetto, tale essendo la natura di queste anime, vigorose nell'odio come nell'amore. — Non vi fu circostante per quanto di animo saldo che non sentisse a cotesto spettacolo commuoversi l'anima e inumidirsi gli occhi. Perchè anche i tristi se odiano la virtù, non possono poi fare a meno di venerarla quando nella sua gloria sfolgoreggi loro davanti.

Poichè si quetarono alcun poco coteste esultanze, tutti bramosi intesero a ritrovare la vergine operatrice della mirabile concordia... Guardarono invano... ella era sparita. Allora cominciarono i Piagnoni ad affermare essere stato un miracolo, averla il Signore mandata sopra la terra; gli altri, non prestando fede al miracolo, non sapevano spiegare quella insolita apparizione; tutti poi si sentivano tocchi di riverenza per cotesto angiolo di pace.

Ma se i cuori di tutti furono tocchi di riverenza, il cuore di un solo palpitò di amore, — il cuore di Vico, il quale nella vergine comparsa aveva riconosciuto la sua diletta Annalena.

CAPITOLO UNDECIMO IL PROFETA PIERUCCIO

Mentre che in forma fui d'ossa e di polpe

Che la madre mi diè, l'opere mie

Non furon leonine, ma di volpe.

Gli accorgimenti e le coperte vie

Io seppi tutte...

Dante.

Molto tempo innanzi che le cose narrate accadessero, Malatesta Baglioni certa notte, dopo avere dato volta ora sopra un fianco ora su l'altro, non trovando riposo, balzò da letto gridando:

«Maladetta la notte! — Finchè la luce dura, io sono più forte della mia coscienza e mi riesce a tenermela sotto; quando ella cessa, la coscienza diventa più forte di me e torna a galleggiarmi sul cuore. O notte, io ti detesto, sia che come adesso t'ingombrino tenebre impenetrabili quasi strati di lava, sia che il perfido chiarore della tua luna mi spaventi convertendomi in fantasmi i palazzi e le torri. — Quanto silenzio!» — E si accostando alla finestra, l'apriva. — «Fiorenza, dormi? Tu sei più felice di me... io non trovo riposo. Se il giorno che ci lasciò fosse l'ultimo! Se queste tenebre durassero eterne! L'eroe non vorrebbe commettere le sue opere magnanime senza sole, — forse nè anche i suoi delitti il masnadiero. Dormissero tutti la pace eterna!»

«All'erta sto! — urla una scolta; — All'erta sto! risponde un'altra; — All'erta sto!» s'intende ripetere da cento voci a mano a mano digradanti nella lontananza, finchè per troppo spazio vengano affatto a mancare. Tale è l'ufficio delle sentinelle ad ogni quarto d'ora che passa.

«Ecco», riprende il Baglioni, — «così gli anni si chiamano passando; — così dopo la vita succede la fama, — dopo la fama nulla; noi siamo l'eco dell'eco, — ombre di sogno. E allora perchè travagliarci tanto? Non ti compra mica la infamia una eternità di piacere, — anzi nè manco una scintilla di luce, — e nè un alito di fumo, ed ogni cosa finisce... Appunto perchè ogni cosa finisce, bisogna ingegnarci a godere molto nella vita... — ma veramente finisce ella la vita? — Oh! sì, finisce; godiamo e come? Con l'amore forse? Io non ci credo: e poi sta nella potenza altrui darlo o negarlo: il timore puoi incuterlo quando meglio ti sembra. Godimento vero consiste nel far paura. Sopra tutti avventuroso l'Eterno, perocchè i pensieri di sdegno gli scoppino fuori dalla fronte come fulmini. Bene mi talenta Fiorenza, ma la vagheggia il papa; la croce di questo prete percuote più forte della mia daga: ond'io, Fiorenza, comunque bella tu sia e tu mi piaccia assai, ti abbandono alle voglie del sacerdote con un sospiro; a patto però che sia nostra Perugia. — Senti... il gallo canta! — Vorrebbe forse egli dirmi essere io traditore? Il gallo cantò a san Pietro quando egli rinnegava Cristo; — io non rinnego nessuno, anzi gratifico il vicario di Cristo, e mi si deve professare amico san Pietro. — Se mai mi dannassi l'anima, san Pietro, ramméntati che il faccio proprio per la tua Chiesa, sicchè quando Dio non vede tu mi aprirai le porte del paradiso alla sfuggita. — Giuda! Chi è che ha rammentato Giuda? Ah! mi sono io stesso susurrato questo nome all'orecchie. Come entra Giuda con me? Giuda gitta via il prezzo, ed io lo prendo; Giuda s'impicca, ed io nè m'impicco nè mi lascerò impiccare... — Non mi lascerò. Bada, Malatesta, vecchia fama nel mondo dice orbi i Fiorentini; però guai a te, se di alcun poco schiudano gli occhi... e quel Carduccio, comechè gli mandi strambi, e' ci vede meglio che se gli avesse diritti; — ramméntati di Baldaccio dell'Anguillara:... non obliare Pagolo Vitelli ch'ebbe la testa mozza prima di accorgersene. Le repubbliche vegliano sospettose più degli altri reggimenti; tu hai potuto considerare a tuo bell'agio in Venezia le colonne tra le quali tagliarono il capo al Carmagnola. — Per Dio! E dove lascio mio padre Giampagolo?.. Papa Lione.., già non vi spirò lo Spirito Santo quando me lo trucidaste in Sant'Angiolo. Quanti traditi e quanti traditori! Oh![166] »

«Or dunque mi ami?....» E la solleva esultante. Cap. X, pag. 254.

Malatesta si copre con ambe le mani la faccia, e così rimane assorto da angosciose considerazioni; gemeva, ansava come travagliato da tormento insopportabile; poi scosse la testa ed agitò le mani aggiungendo:

«Male m'incoglie, se mi muovo; peggio, se riposo;.... ho il sangue avvelenato; — mi è parso.... no... no... ho veduto.... messere Gentile e messere Galeotto Baglioni i quali... mi scotevano innanzi agli occhi la camicia insanguinata... Non vi uccisi già io... voi non potete portare il vostro sangue in testimonio contro di me.... vi spense Orazio il fratel mio... Andate a tormentarlo a vostro bell'agio nell'inferno. Voi, messer Giampagolo, lasciatemi in pace... dormite nel vostro sepolcro di marmo... perchè mi mostrate il vostro capo mosso? Che ci ho che fare io? Se i Medici mi tolsero il padre, i Medici mi renderanno Perugia; e voi, padre mio, non valevate Perugia quando eravate vivo;... pensate, se la valete adesso che siete morto! — Se intendete avvisarmi... riposate tranquillo... io non mi farò ammazzare così, come un montone; in ogni estremo caso, ecco il pugnale.... Ma Cencio perchè tarda tanto a tornare? Se Cencio mi tradisse, se a quest'ora stesse davanti al gonfaloniere dicendogli: Magnifico messere Carduccio, Malatesta vi tradisce... se già si movesse il bargello.... se il carnefice.... ah! — Chi è là? — Nessuno. — Come dura lunga la notte! — Questo Cencio oramai ne sa troppe....»

S'intende lo scalpito lontano di cavallo... si accosta... si è appressato... scende il cavaliere, entra nel palazzo Serristori, salisce frettoloso le scale.

«Questi è Cencio; riconosco i suoi passi. Egli ne sa troppe.... ne sa troppe; Cencio potrebbe tradirmi, — è colmo sino alla bocca..., bisogna torcelo dinanzi... mezzo palmo di lama, o tre grani di tossico lo spingeranno tant'oltre da non temerne il ritorno. Cencio... — O Cencio, sii il benvenuto, figliuolo mio, ti aspettava....»

«Davvero? rispose Cencio gittandosi sopra una sedia, dove stirò le braccia e tese le gambe con plebea dimestichezza; — quindi a poco a poco continuava: «Ho sonno, — fame e sete.... — Malatesta, datemi da bere.»

Il sangue baronale del Baglioni si rimescolava da cima a fondo; — un moto delle labbra svelò il cruccio dell'anima, ma potente com'era a simulare ridusse quel moto in sorriso, empì una tazza di vino e, la porgendo a costui, favellava:

«Bevi, Cencio, e confortati.... la tua vita mi preme quanto la mia....»

«Ahimè tristo! sarò io a tempo domani per testare delle cose mie?»

«Ch'è questo, Cencio?»

«Nei tanti anni che facciamo via insieme verso l'inferno mi sono accorto, o Malatesta, che quando vagheggiate oltre il consueto qualche famigliare, voi lo avete già in cuor vostro condannato alla morte. Orsù, se mi deste il veleno, ditemelo, ond'io mandi in tempo pel notaro e pel confessore.»

«Lascia il motteggio, Cencio: papa Clemente accettava il trattato?»

«Più gli aveste domandato, più vi avrebbe promesso; e meno vi manterrà: la vita di Sforza e Baccio Baglioni, con tutti gli aderenti loro; indulto ai capitani e soldati che hanno militato con voi; remissione di pene amplissima al capitano della Cornia e al conte da Scopeto; a voi le terre domandate, il vescovado per lo nipote, la figlia del duca da Camerino a Ridolfo vostro.... in somma tutto.»

«E la indulgenza, Cencio, l'assoluzione?....»

«Ahi l'assoluzione.... già anche questa.... e questa, non dubitate, vi manterrà... non costa nulla... Ma, signore Baglione, chi pretendereste voi d'ingannare adesso? Il papa, me, o Dio?»

«Nessuno: anche le indulgenze sono buone a qualche cosa quando non costano nulla; a senno mio ben si avvisava colui che accendeva un cero al diavolo e un altro a Cristo; — giova serbarci amici dappertutto. E intorno alla sicurtà che cosa ti diss'egli papa Clemente?»

«Fece sembiante di scandalezzarsi che altri movesse dubbio intorno alla sua fede... tentò arrossire.... ma, per quanto ritenesse il fiato, non venne a capo di richiamare il rossore sul volto, — sentiero oramai da tempo immemorabile disusato per lui: alla fine m'impose, che da sua parte vi offerissi per sodo rimanervi in Fiorenza co' soldati finchè non adempisse alle promesse.»

«In questo modo mi metto in capo il più bel cappello di traditore che mai sia stato.»

«O che vorreste v'innalzassero un statua? Voi siete curioso voi; — a me basta che non m'impicchino... e l'ho per bazza.. — Sua Santità si raccomanda alla Vostra Magnificenza a voce, e meglio in questo scritto che sì compiaccia di tradire presto e bene, onde la città non soffra e non rovini il contado.... non vi par egli caritatevole il buon pontefice? Udiste mai carità più pelosa di questa?»

«Cencio, dimmi, ti sembra ch'io possa stare sicuro del papa?»

«Ringraziate messere vostro padre, che vi lasciò terre e castelli, perchè voi, per lo ingegno che avete, non vi trovereste a possedere tanto terreno da stendervi sopra il vostro mantello bagnato.»

«Ch'è questo, Cencio?»

«Egli è, che il papa vi ha promesso certamente, e per la facoltà datavi di tenere le milizie in Fiorenza finchè non vi abbia soddisfatto è probabile che le cose promesse egli vi abbia a mantenere; — ma andando voi ad abitare su quello della Chiesa, è del pari probabile che un giorno vi tolga la roba e la vita per giunta....»

«Ma io cercherò di non somministrargliene causa veruna.»

«Chi il suo can vuole ammazzare, un pretesto sa trovare, mi diceva mia madre, che Dio abbia in pace.»

«Or dunque, Cencio, che mi consiglieresti?»

«Oh! la Magnificenza Vostra vuole abbassarsi a tôrre consiglio da un pendaglio da forca quale sono io? E poi prima del fatto avrei forse potuto suggerire anch'io un poco d'avviso; ora a cosa finita non mi rimane altro che lodare; e' sarebbe come se un poeta venisse a domandarvi il vostro parere sopra un sonetto stampato.»

«Nondimanco parla.»

«Prima di tutto avrei bene atteso ad esaminare la mia condizione, e se mi fosse tornato a mostrarmi buono o tristo; dove le parti avessi veduto uguali o di poco inferiori pel buono, mi sarei posto alla ventura per questo; conciossiachè la fama mi piaccia, e ogni uomo senta in sè il gentile orgoglio di essere salutato magnanimo.»

«Come? tu, Cencio?...»

«Io Cencio, se fossi stato Malatesta, avrei statuito così. E quando non avessi fatto civanzo a scegliere la parte buona, avrei tolto la trista; e allora, o il papa poteva darmi sicurezza intera, e intera l'avrei pretesa; o non poteva intera, ed io avrei ricusato la mezza, perchè questa inspira diffidenza e non ti salva. Vedete come ho proceduto con voi; — vi chiesi mai pegno? Vi posi la mia vita in mano come la grù il capo in bocca al lupo.... ed ho lasciato a Dio prendere cura del resto.»

«Ma perchè non mi hai discorso di tutte queste cose avanti?»

«Prima, perchè non me le avete domandate; — poi, perchè, o buona o mala, voi siete la testa che pensa, ed io il braccio ch'eseguisce; — finalmente perchè mi vengono in capo per lo appunto adesso....»

«Qui bisogna rimediare.»

«Certo, bisogna.»

«Nel caso mio che faresti, Cencio?»

«Nel caso vostro me ne andrei a dormire; — avrei un poco di discrezione e non pretenderei da un uomo che casca dal sonno consigli da praticare quando la gente è sveglia. In conseguenza di ciò piaccia alla Signoria Vostra ch'io mi addormenti: — buona notte.»

E senz'altre parole, avviluppatosi nel mantello, si stese sopra un lettuccio, dove dopo alcuni momenti, vinto dal sonno, incominciò a russare.

Malatesta, travagliato dalle infermità e dalle cure, invano cercava riposare un istante; i suoi pensieri non potevano dormire in lui; cessata una paura, ne sorgeva un'altra; questa idra dell'anima lo lacerava con le sue cento bocche.... Ora se tale lo sconvolge la semente, che sarà mai quando in mercede dei suoi tradimenti avrà mietuto la infamia e il rimorso?

Dopo un affannoso avvolgersi per la stanza, si fermò davanti al lettuccio dove dormiva il suo tristo compagno.

«Cencio», susurrava con parole interotte, «la tua testa è troppo pesa di segreti e d'iniquità.... bisogna ch'ella ti cada dalle spalle;.... portala poi dove ti sembra, pur che non sia sopra le spalle, a me poco importa. — Cencio, tu ami tanto dormire!... io ti farò dormire a bell'agio... non più viaggi... non più ronde... non ti risveglieranno nè manco le bombarde.... cosicchè me ne andrai obbligato. Tu sei un demonio e da tempo in qua mi sei diventato ribelle, e per aggiunta mi schernisci.... bisogna che tu muoi...»

E il dormiente tra il sonno mormora:

« Nel buon vino ho fede, — E credo che sia salvo chi ci crede...[167] »

«Tanto meglio; così non andrai dannato. Però.... costui non ha chi lo agguagli tra' miei... pronto, sagace, di mano e di favella spedito... se lo potessi tuffare in Lete!»

«Santi del paradiso!» urta disperatamente Cencio, balzando a sedere sul letto e con ambedue le mani tentandosi il collo, «io mi sognava di essere strangolato! E voi, signor Malatesta, che fate costì con quel pugnale in mano?»

«Io?» riprese il Baglione giocolando con la punta dello stile, «intendevo pungerti, perchè tu cessassi lo sconcio russare che mi turba il sonno.»

«Non era dunque troppo lontano dalla morte, signor Malatesta? Però non avreste avuto buon partito. Gli astrologhi mi hanno predetto che noi moriremo lo stesso giorno.»

«Cencio, parli davvero? Perchè non avvisarmelo subito?»

«Perchè l'albero che mi deve appiccare non è anche cresciuto, e il pugnale che mi deve uccidere non è ancora fabbricato. Io torno a dormire: voi procurate di fare lo stesso, ed avvertite bene che senza il consentimento di Dio voi non potrete svellermi nè anche un capello di capo.... e buona notte di nuovo.»

Malatesta confuso finse sdegnarsi della diffidenza di Cencio, — lo chiamò ebbro; molte altre parole aggiunse, e tutte invano; — Cencio dormiva come se nulla fosse avvenuto.

«Costui ha il diavolo in corpo, seppure egli stesso non è il diavolo addirittura», disse il Baglione ed a sua posta si gittò sul letto.

Il sole, assai alto, penetrava coi lucidissimi raggi traverso le imposte della stanza del Malatesta, quando uno dei suoi fanti percosse alla porta con molto riguardo. Malatesta, il quale non ben dormiva, ma se ne stava mezzo assorto in cotesto assopimento più assai tormentoso della veglia, perchè le cause di terrore ti si mescolano confuse senza séguito nel pensiero, di subito domandò che fosse.

«Magnifico messere, un mazziere della Signoria.»

«Della Signoria! Cencio! o Cencio! odi tu? un mazziere della Signoria....»

«Che ora fa, Malatesta?»

«Un mazziere della Signoria.»

«Buona nuova.»

«Ed io la temo avversa.»

«Avete torto, s'ella fosse avversa, non ve la farebbero notificare per mezzo di mazziere. A gente come siamo noi prima mozzano il capo, fanno poi il processo; — animo, su, Malatesta, questa è una buona nuova.»

«Dio voglia che sia così. — Avanti il mazziere.»

Entra il mazziere con grave cerimonia, vestito di scarlatto, con la insegna del comune sul mantello, e salutato il Malatesta, gli espose con solennità il suo messaggio.

«Strenuissimo e magnifico messere Malatesta, essendo finita la condotta di don Ercole principe di Ferrara, piacque ai signori Dieci, ragunata la Pratica, mandarvi alle fave per subentrargli nell'ufficio di capitano generale della Reppublica. Essendo stato vinto a favore vostro il partito, il magnifico gonfaloniere mi manda a darvene avviso e a pregarvi di stare pronto a riceverne la investitura questa stessa mattina con le consuete solennità nella Chiesa di Santa Maria del Fiore.»

«Stamane! — appunto stamane! — ebbene, andate e riferite ch'io, con le ginocchia della mente chine, ne rendo loro quelle grazie che so e posso maggiori...»

Cencio a questo punto del discorso prese una zimarra di velluto di Malatesta e la spiegò sopra la tavola. —

Malatesta notò quell'atto con la coda dell'occhio e riprese:

«Che, come il cuore, ho da gran tempo il corpo parato in servizio di questa eccelsa Repubblica; che rimettendo in salute di lei le sostanze e la vita, non mi parrà a gran pezza essermi sdebitato dell'obbligo il quale a lei per gl'infiniti beneficii ricevuti mi lega. Ora vi piaccia, mio gentile messaggiero, accettare per amore mio questi pochi ducati...»

«Gran mercè, signore,» risponde il mazziere e con atto di riverenza si allontana.

«Prendete! e' sono cinquanta ducati d'oro del sole; se più non ve ne dono, attribuitelo a quel tristo di papa Clemente, il quale mi tiene sequestrati i miei beni a Perugia.»

«Sarieno anche troppi; — ma vi ringrazio, signore.»

«Come! rifiutereste voi cinquanta ducati d'oro nuovi del sole?...»

«Messere, la legge lo vieta.»

«Qui non v'è legge che vegga. Quante cose la legge vieta, e tutto giorno si fanno!...»

«La legge vede pur troppo, perchè ogni buon cittadino la serba impressa qui nel suo seno, o signore. I padri miei, quando emanarono siffatto provvedimento, lo riputarono buono; e poichè tale parve a loro buono deve parere anche a me. — Un giorno anch'io sarò chiamato a formare la legge; e se voglio accogliere speranza che i miei figliuoli la osservino, forza è innanzi tutto ch'io obbedisca a quella dei miei padri. Nelle repubbliche ad ogni cittadino preme mantenere intatta la legge, perchè creata da lui a beneficio universale; nei principati ogni suddito s'ingegna rompere la legge, perchè emanata da un solo a danno di tutti. Magnifico signore, voi dimenticaste militare agli stipendii della Reppublica di Fiorenza.»

E proferite queste parole non senza una qualche iattanza si dipartiva. A noi non giunge nuovo il mazziere, avvegnachè egli fosse Bindo di Marco, il giovane cavallaro che accompagnò gli oratori fiorentini a Bologna. Il gonfaloniere lo aveva promosso a cotesto ufficio per la sviscerata fede che aveva alla Repubblica, ed egli lo esercitava con la solita devozione. Malatesta si rimane col braccio teso, il volto tra stupido e beffardo.

«Oh! vedi ve' dove mi si caccia un Licurgo... Hai tu sentito come sdottorano questi maruffini? Cencio, dimmi, — ma che la virtù forse ci sarebbe nel mondo?»

«E perchè no? Ci sono io, ci siete voi, ci è questo giovane che rifiuta cinquanta ducati d'oro, ci è chi paga per vendere, ci è chi vende senza essere pagato, ci siamo tutti; ogni diritto ha il suo rovescio...»

«Cencio, e se un bel giorno io mi destassi virtuoso?»

«Voi non potete destarvi virtuoso, perchè la virtù non è un vestito per modo che si possa dire: — Cencio, aiutami a levarmi questo giubbone di ribaldo da dosso e ponmi la zimarra di uomo onesto; — no, non si può dire: le virtù non nascono mica come le natte sul naso, elle sono un fiore con molta cura nudrito, su terra acconcia educato; con amore continuo difeso; — all'età nostra può caderci in mente la paura dell'inferno o quella molta più prossima del capestro, e rimanerci da misfare; — tuttavolta ciò non si chiama virtù. Ma lasciate di grazia coteste ubbie, vedete mo' come il demonio vi spiana la strada; e' sarebbe ingratitudine inaudita a disertarne la bandiera; e senza il diabolico aiuto a questa ora chi sa quante volte sareste capitato male se io non era, forse il mazziere metteva gli occhi sopra la lettera del papa...»

«Dov'è la lettera?»

«Qui sopra la tavola; io l'ho ricoperta con la zimarra di velluto.»

«Tu meriti ch'io ti faccia imbalsamare: — porgimela; d'ora in poi non mi uscirà di dosso.»

E se la ripose insieme colla borsa nella tasca laterale delle larghe brache alla spagnuola. Quindi, tremante o di gioia o di qualsivoglia altra passione che adesso non importa ricercare, ordinò a Cencio lo vestisse con gli abiti meglio sontuosi che serbasse entro i suoi forzieri.

«Cencio, questa cappa mi pesa.»

«Pesano più quelle che Dante pone addosso agl'ipocriti nell'inferno.»

«Marrano! — taci una volta, — tu godi a spaventarmi.»

«Io lo faccio perchè l'inferno non vi appaia affatto nuovo quando ci entrerete. D'altronde deve il buon cristiano apparecchiarsi alla morte.»

«Allentami il collare... mi stringe troppo.»

«Strinse più il capestro il collo di Giuda.»

«Cencio, per Dio! rammenta che la tua vita pende da un filo.»

«Malatesta, non dimenticate essere destino che ambidue noi abbiamo a morire il medesimo giorno.»

Quando Cencio fu per porgergli la berretta, notò come intorno intorno vi avesse fatto ricamare in oro la parola libertas.

« Libertas!» esclama; «questa parola intorno al vostro capo si addice come la parola di onore in bocca al ladro, come la parola onestà su i labbri del dottore di legge, come la parola giustizia in bocca al giudice.»

«Tu mi riesci fuori di modo insoffribile.»

«Se troppo vi paiono gravi i paragoni, — vi dirò come il cappello da prete in capo a un senatore romano, come il cappuccio di san Francesco all'Apollo del Vaticano...»

Così continuò l'oscena tresca di motteggi insolenti da un lato, e di pazienza codarda dall'altro, finchè il signor Stefano Colonna, forse per dissimulare il mal talento concepito nel vedersi altri anteposto, con onorevole comitiva di capitani, colonnelli ed altri principali nella milizia, si recò a casa Serristori per prendervi Malatesta e accompagnarlo alla cattedrale.

Lettore mio benigno o maligno, secondo che ti parrà meglio, per questa volta io ti farò grazia risparmiandoti la descrizione del come avvenisse la investitura del supremo comando, quali cerimonie vi si adoperassero, quali giuramenti vi si proferissero. La tela è lunga, — ormai mi sono cacciato in alto pelago, nè il punto donde mossi nè quello a cui tendo ormai discerno, e il freno dell'arte mi abbandona; — mi conduca a salvamento il voto del cuore, se il concetto dell'ingegno non basta. Io pertanto non esporrò siffatta cerimonia, poichè se mai, o lettore, ti avvenisse visitare Firenze, andando al palazzo Gaddi ti occorrerà dipinta in un bel quadro del Rosselli, o del Pomarancio; solo ti dirò che il gonfaloniere nel consegnare a Malatesta le insegne della sua nuova dignità, oltre all'avergli più volte rammentato la morte acerba di suo padre Giampagolo, concluse:

«Piglia dunque, illustrissimo signore, piglia prodissimo campione ed invittissimo general nostro, con fausto auspicio di te e di noi da me gonfaloniere e da questa inclita Signoria in nome di tutto il magnifico popolo fiorentino, questo stendardo quadrato ricamato di gigli, questo elmetto di argento smaltato medesimamente di gigli, arme del comune di Fiorenza, e questo scettro di abete così rozzo e impulito com'egli è, in segno, secondo il costume nostra antico, della superiorità e maggioranza tua sopra tutte le genti, munizioni e fortezze nostre, ricordandoti che in queste insegne quali tu vedi, è riposta, insieme con la salute e rovina nostra, la fama e la infamia tua sempiterna[168]

Malatesta abbracciò quasi commosso le insegne, e tra le pieghe dello stendardo nascose la faccia, sulla quale mandò il pudore il suo ultimo addio. Certamente avrebbe arrossito anche Satana.

Poi piegò le ginocchia per proferire il giuramento solenne dinanzi all'argenteo altare, dove molti capitani avevano giurato prima di lui, come Raimondo da Cortona, Bernardone delle Serre, il conte di Pitigliano ed altri non pochi, nessuno però con animo deliberato, come il Baglione, di tradire la Repubblica. Ora volle fortuna che, mentre ei si chinava a giurare, gli uscissero dalla tasca, dove le aveva riposte, la borsa e la lettera di papa Clemente. Dove siffatta lettera fosse stata spedita in forma di breve, toccava Malatesta l'ultimo istante di vita: — fu sua ventura somma che non vi avessero apposto il suggello del pescatore, o segno altro qualunque il quale dichiarasse la sua origine. Dante da Castiglione, che gli stava vicino, raccolse la lettera e la borsa, e tentato Malatesta nel braccio, gli parlò sommesso:

«Capitano generale, vi è caduto roba di tasca.»

«Qual roba?»

«Una carta e una borsa.»

«Una carta! Ah! la lettera!» — E tinto del pallore della morte, — «Spero, proseguiva, o messere, che vorrete rispettare il segreto di un foglio capitatovi per questa via nelle mani.»

Cencio, quel suo fedele così corrivo a pungerlo di parole, eragli poi legato per la vita con le opere; senza Cencio, Malatesta non avrebbe impreso tanti avviluppati disegni, o senza fallo vi si smarriva dentro. Cencio poteva chiamarsi l'angiolo custode del delitto; ed ora vedendo lo imbarazzo dei suo signore, lo soccorse piegandosi all'orecchie del Castiglione per susurrargli con arcano:

«Egli è concio fino all'osso di male francioso, e pur non si rimane dal mantenere commercio con femmine di ogni maniera.»

«Quando anche», risponde il Castiglione al Malatesta toccando con la mano destra la lettera, «ve la mandasse papa Clemente, conosco troppo gli uffici di gentiluomo per prevalermi nel caso... Prendete, capitano generale...»

Malatesta stendendovi sopra prontissime le mani, aprendo le labbra ad un sorriso, mentre gli stavano i denti stretti pel freddo della paura, sibilò in certo modo le parole che seguono:

«E' sarebbe, messere, bene strana novella che io mi presentassi a giurare fedeltà co' patti del tradimento sopra la persona....»

«Dio solo», soggiunse Dante, «penetra nei cuori...»

«Talvolta anche l'uomo», proruppe il gonfaloniere Carducci, — e le parole accompagnò con tale uno sguardo tagliente che Malatesta si sentì come fulminato: — forse gli mancava l'animo dove per ricoprire la insolita confusione non si fosse affrettato a toccare gli Evangeli e proferire il giuramento. Furono gli Evangeli la tavola che lo salvò dal naufragio; — ma Dio non paga il sabato.

Chi va in Terra-Nova, trova per quanto corre la fama, scogli i quali, comechè di leggieri battuti, fanno sollevare le acque a spaventevole grossezza, con rumore di tuoni e spessa morte di cui si avvisa percuoterli[169]. Il popolo si assomiglia a questi scogli quando vede o sente cosa, che lo commuova forte a passione. Contemplato quel giuramento, che gli pareva sicurissimo pegno di libertà, dette in un grido... era di allegrezza o di rabbia? Già mezzo lo aveva prorotto il popolo, e Malatesta non ne ravvisava lo scopo; — piegò il capo atterrito, il grido fu pieno, ed il suo cuore esultò. Ormai il cuore di Malatesta ha messo il tallo sul delitto; i suoi fati lo tirano. E non pertanto Malatesta fu un giorno valoroso capitano e versò copia di sangue in Romagna in pro dei Veneziani. Nè però tanto ne aveva versato che una stilla non gliene fosse rimasta nelle viscere; piegando il capo, vide il popolo pronto su le armi a mettere la vita per la libertà, vide la divisa verde, insegna di una speranza ch'egli si era legato per patto a rendere inane, e il corruscare delle armi, sentì il plauso delle genti, si trasportò su' campi aperti, su le vicende della battaglia, s'infocò nell'orgoglio della vittoria, il cuore vinse la mente, e preso da entusiasmo agita la berretta ed esclama:

«Ai ripari, ai ripari, andiamo a sfidare i nemici!»

Ma quella stilla di buon sangue italiano in siffatto effluvio si consuma, e se il volto gli diventa vermiglio, ciò fu come il crepuscolo del pudore che muore. Quando la sua anima fu mutata, sollevò gli sguardi ed incontrò la faccia di Cencio; questa rideva di un riso che a Malatesta parve il De profundis della sua virtù defunta; — veramente il paragone sa del grottesco, nè io lo avrei adoperato, dove non mi avessero chiarito che al Baglione parve per l'appunto così.

La milizia, ricevuto il comando dai capi, cangia ordine; e stendendosi in lunghe file, s'incammina pel corso degli Adimari verso la piazza della Signoria, ognuno dietro i suoi gonfaloni in ammirabile apparecchio di guerra.

Ora avvenne che il capitano Francesco Ferruccio, il quale conduceva la sua compagnia, montasse in quel giorno il suo bel cavallo turco Zizim; uscito dalle angustie della Via Calzaioli presso al tetto dei Pisani, per soldatesca baldanza prendeva vaghezza a farlo corvettare, onde tutte mostrasse le stupende sue forme il nobile animale. Lì presso una femmina col suo bambino al collo tanto si era ingegnata con gli urti e con le preghiere che pure alla fine giunse a cacciarsi sopra gli altri avanti; si scorgendo adesso vicino il cavallo del Ferruccio, turbata da subita paura si volge alla fuga; di sè sola curando ella dimentica il figlio; sicchè aperte le braccia lascia caderselo dal seno. Appunto in cotesto istante Zizim abbassata la groppa e posatosi su i piè di dietro spiccava una corvetta, il fanciullo gli rotola sotto; quando Zizim poserà le zampe davanti sopra la terra, troncherà la vita di cotesta creatura.... infelice! ella, baciata appena la soglia dell'esistenza, si sentirà respinto nel deserto della morte. — Gli astanti torcono altrove lo sguardo, per non vedere il momento sanguinoso; — sola la madre alza un grido, — quale non udì mai Firenze dopo quello cacciato dall'altra donna che bastò a sottrarre dalla bocca del lione il suo figliuolo Orlanduccio. — I volti dei borghesi ritornano nella prima loro attitudine — le zampe del cavallo si sono abbassate, — ma pure hanno calpestato le selce; — il capitano Ferruccio di pallido ch'egli era, riprese i suoi colori; le sue labbra sorridono adesso. — Una vergine confusa tra il popolo non fuggì, — non urlò, — non volse altrove gli sguardi; — appena contemplato il caso, si mosse, splendida e presta come stella cadente dal cielo e pose il corpo delicato tra le zampe del cavallo e il fanciullo. — Il buon destriere, meglio che per il cenno delle redini tese, di per sè stesso conobbe doversi rimanere a mezzo il suo moto; tanto si sforzò che parve per buona pezza un modello effigiato a rappresentare la immagine di statua equestre, finchè la vergine non ebbe spazio a togliergli di sotto il pargolo, quindi si slanciò brioso, — scalpitò spedito tre o quattro volte il terreno, quasi intendesse manifestare il suo giubilo.... E perchè no? hanno le bestie anch'esse passioni e sovente meno triste degli uomini; — noi quando vogliamo oltraggiare un uomo, lo chiamiamo bestia; — se le bestie possedessero la favella, per ingiuriarsi, quante volte si direbbero uomo!.... e con più ragione di noi.

La donzella solleva in trionfo il pargolo salvato, e lo affidando alle braccia della madre, la quale stupida non sapeva ridere nè piangere, così le parla:

«Donna! io vorrei rampognarvi, se il dolore che avete sentito non superasse qualunque rimprovero. Custodite meglio il vostro figliuolo; un giorno dovrete renderne conto alla patria e a Dio.»

Il Ferruccio riconobbe la fanciulla; era quella dessa che nella chiesa di Santa Croce potè con un cenno indurre alla pace le anime superbe di Benedetto e Zanobi Buondelmonti; onde maravigliando si volge a Vico Machiavelli, il quale gli cavalcava al fianco, per domandargli chi ella si fosse. A Vico tremavano nelle mani le redini; — egli teneva fitti gli occhi ardentissimi verso la parte dov'era avvenuto il caso, — non dava ascolto al Ferruccio. Questi seguendone la direzione conobbe posarsi sopra la fanciulla, la quale a sua posta lanciò al giovane uno sguardo e sfavillò in un riso bello come il baleno della notte stellata. Allora il Ferruccio, scosso forte pel braccio Vico, gli dice:

«A voi mi raccomando, dacchè mi accorgo che avete conoscenze in paradiso.»

E Vico sempre più trema, declina la faccia, e gli manca la balía per favellare. Il Ferruccio si piega sopra la sella, ed abbracciandolo amorevolmente soggiunge:

«Beato te! chè tanto più ci è cara la patria, quanto maggior copia di affetti ci conserva.»

Continua l'ordinanza il suo cammino, — trapassa il Ponte alle Grazie, — sbocca nella piazza Serristori. Già abbiamo narrato come Malatesta sul principio dello assedio le case di questi cittadini abitasse: — dirimpetto al palazzo sopra una base di pietra serena sorgeva una croce colossale che in quei tempi stava per la città come simbolo di fede palpitante e viva, non come segno di linguaggio ormai non più inteso da nessuno. Intorno questa croce sopra la base giace con la faccia stesa a terra un uomo vestito di sacco, cinto di corda traverso i fianchi, nudo le braccia, le gambe, i piedi scalzi; le chiome folte e sordide gli si ripiegano sopra la fronte; le mani tiene giunte in atto di orare: estenuato più che a corpo tuttora vivo si sarebbe creduto possibile; se mai vedeste il san Giovanni dal Donatello condotto in bronzo[170], avrete idea più completa di questa creatura e a me risparmierete la fatica di meglio efficacemente descriverla. Costui aveva nome Pieruccio.

Chi è Pieruccio? Nessuno sa dire se venisse a Firenze piovuto dal cielo, o se ve lo avesse balestrato la terra, come il vulcano una pietra; quanti anni contasse ignoravano: la sciagura aveva prevenuto l'età nella rovina, e il tempo non trovò ruga da aggiungere o contorno da guastare; le intemperie perdevano forza sopra di lui, le infermità non l'offendevano; — forse le tribolazioni alle quali va sottoposta la rimanente specie umana volevano rispettare intanto quel santuario di dolore. Quando il Savonarola predicò, egli accovacciato in guisa di cane sotto il pergamo mandava ad ora ad ora così lugubri singulti che la gente, sul primo atterrita, immaginò scaturissero dalle viscere della terra, dove le ossa degli antichi defunti tocche dalla parola potente si commovessero. La sua voce annunziava l'alba e il tramonto della libertà di Firenze. Accostandosi il tramonto, empiva la città del suo strido sinistro e spariva; — in qual parte si nascondesse era mistero per tutti; la tirannide spesso lo cercò per farne vittima, e gittò via tempo e danaro: forse, come il serpe cessa di vivere nei giorni invernali, a lui abbisognava per respirare un giorno scaldato dal sole della libertà. I fanciulli quando lo udivano profetare per la via, gli gridavano dietro: Pazzo! pazzo! — e ai gridi aggiungevano sassate e offese d'ogni maniera. Il povero Pieruccio si volgeva e in suono pietoso domandava: Perchè mi offendete? — Ma i fanciulli, tratti da naturale vaghezza a mal fare, chè in ciò mi trovo d'accordo con santo Agostino[171], non gli attendevano, anzi vieppiù lo infestavano, sicchè talvolta, la pazienza mutata in furore, ne afferrava alcuno, la mano alzava a percuoterlo, ma, vinto all'improvviso da tenerezza, lo rimandava baciandolo e benedicendolo. In Gerusalemme per avventura lo avriano adorato, — poi forse crocifisso come profeta; — a Firenze alcuni lo salutavano santo, più molti lo tenevano matto; chi avesse ragione non saprei, e chi torto nemmeno; forse dipendeva dal punto del quale lo consideravano; — certamente amava la patria. Quando gran parte della milizia ebbe passata la croce, ecco ad un tratto egli balza in piedi come tolto fuori di sè, porge la destra mostrando un teschio umano al popolo ed esclama:

«Meglio per voi se le vostre teste fossero come questa inaridite; — almeno qui dentro stanziano le formiche e talvolta anco le vipere, nelle vostre poi non trova luogo nè anche un pensiero. La maledizione di Dio vi ha percosso; — avete gli occhi e non vedete, avete gli orecchi e non ascoltate. Guai a te, o Fiorenza! Chi vuole intendere intenda. Ei vi fu nell'età passate un barone di contado ricco dei beni della fortuna, potente di vassalli, di famiglia avventuroso, a cui, come troppo spesso accade, i suoi vicini volevano male di morte. Ora avvenne che certa notte, sendo altrove la sua masnada, e si trovando solo nella rôcca, udisse bussare la porta; si fece al balcone e vide un pellegrino che gli domandò ospizio per Dio. Abbassa il ponte, accoglie il pellegrino e lo convita a cena. Sazii di cibo e di bevanda, — Or via, dice il barone al pellegrino, i miei occhi sono gravi di sonno; ecco, prendi la mia spada e la mia lancia e guardami la rôcca mentre ch'io dormo. — Il barone si addormentò, e quando riaperse gli occhi si sentì il corpo ricinto di funi e udì la voce del pellegrino, il quale recatosi al balcone domandava a gente di fuori del castello: — Chi andate cercando? — Il barone, — rispose il suo nemico, perchè abbiamo sete del sangue di lui. — Quanto mi date, soggiunse il pellegrino se io ve lo consegno con le mani e co' piedi legati? — Furono convenuti i patti, il barone tradito... Ben egli rammentò al pellegrino, l'ospitalità profanata, il benefizio largito, lo supplicò per l'amore dei suoi morti per Cristo, pei santi, — n'ebbe scherni, percosse; e fu tradito....»

Frattanto Malatesta e la sua comitiva si accostano tanto alla croce che di leggieri possono intendere le parole del profeta. Il Pieruccio nel vederselo comparire davanti non muta aspetto, non varia discorso, anzi indirizzandosi baldanzoso al Baglione,

«Ecco», esclama, «ti riconosco all'impronta di Caino; nè cotta di arme nè carne od ossa nascondono allo sguardo di Cristo il pensiero del tuo cuore. Altri ha tradito il Figliuolo di Dio, tu ne tradisci la figlia... però che la libertà nacque del primo palpito di compassione che il Creatore sentì per la sua creatura... Pentiti! — Se Giuda è tormentato settanta volte, tu lo sarai settanta volte sette...

«Toglietemi dinanzi quel pazzo!» — grida Malatesta con labbri tremanti... «cacciatelo via... — trucidatelo...»

«Addosso! — Al matto! — Ammazzatelo! — Ammazziamolo! — È un profeta. — Se la intende col diavolo. — Tacete, impostore, avrebbe dato la posta al diavolo a piè della croce? — È un santo, vi dico. — Un ladro, — ammazziamolo.» — Così le turbe; e il Pieruccio, con tale una voce che superò il mugghio delle turbe proruppe:

«Tu sarai tormentato settanta volte sette!»

«Sta a vedere come faccio tacere io quel tristo corvo», parla Cencio ad un suo compagno, — ed agitando in mano una grossa pietra con tanta aggiustatezza la vibra che ne coglie su la tempia l'infelice Pieruccio; — questi alzò le mani verso la ferita, a mezzo l'atto gli ricascano abbandonate, piega la testa e batte di forza sul tronco della croce bagnandolo di sangue... sangue meno prezioso di quello che vi sparse sopra il Figlio dell'uomo, ma non meno innocente: — poi rovinò e scomparve dietro la base di pietra.

«Abbominazione!» gridarono alcuni cittadini inorriditi, «nella terra dove si versa violentemente il sangue dei martiri, la tirannide vive o la libertà si muore....»

«Cada dal braccio la mano che percuote colui che Dio ha percosso!» gridarono altri. — Tutti poi si sentirono tocchi da pietà: l'ira riarse nei petti dei fiorentini contemplando il misero così malconcio da braccio straniero; le mani involontarie correvano alle daghe sotto le vesti, — cominciava quel suono cupo precursore delle popolari procelle. Se un qualche animoso avesse rotto l'argine con una parola o con un cenno, cotesto era l'ultimo giorno di Malatesta, e Dio sa quali altri destini si apprestavano a Firenze; la fortuna non volle, ed invece partecipò ardimento al Baglione di spronare il cavallo e cacciarsi avanti; lo seguitarono i compagni con impeto uguale; le ordinanze antecedenti incalzate ripresero il cammino; i popolani vedendosi arrivare quella tempesta addosso sbandaronsi; l'amore della propria conservazione spense la pietà per altrui; fu sturbato il pensiero, tacque il volere; così per un punto il popolo soventi volte riesce la più magnanima o la più turpe delle cose create.

Un cavaliere solo uscì d'ordinanza, e questi fu Vico; — egli non prestava fede alle profezie del Pieruccio, e non pertanto spesso gli ricorrevano alla mente le sue sentenze; quei suoi detti non gli sembravano matti, comechè le sue opere fossero ben folli; non sapeva dire se lo amasse o no, ma nel fondo del cuore sentiva affetto per lui: ond'ei lo avrebbe coperto del suo mantello per non vederlo assiderato dal freddo, avrebbe il proprio pane spartito con esso, gli avrebbe fatto del proprio corpo riparo; — ed ora vederselo così scomparire sanguinoso davanti... incerto se fosse rimasto morto sul colpo... era per lui troppo grave dolore; si affrettò alla croce, scese.... Il Pieruccio giaceva immerso dentro un lago di sangue, — un moto convulso dei labbri soltanto lo accennava vivo; — l'anima a guardarlo ruggiva dentro a Vico di rabbiosa pietà; — declina un ginocchio a terra, si curva e, presolo di forza sotto le ascelle, lo pone seduto con le spalle appoggiate alla base della croce; — qui mentre povero di consiglio non sa in qual maniera aiutarlo, alza la faccia e mira a se davanti quell'angiolo di consolazione, la sua amante Annalena; — bianca nel volto, gli occhi dimessi e con la guancia china nel cavo della destra, sembrava il genio della malinconia pensoso su le miserie della umanità.

«Povero Pieruccio!» sospirò Annalena, e subito dopo: «Vico, andate per un po' di acqua, e sovveniamo questo sventurato.»

Vico ricambia con la vergine uno sguardo, e recatosi sul greto del prossimo Arno, empie di acqua la barbuta e ritorna con passi veloci. Annalena, lacerata parte delle sue vesti, aveva allestito le bende; — genuflessa anch'ella rimosse prima con man leggiera le ciocche dei capelli aggrupati di sangue, levatosi un pugnaletto di seno le recise; quindi lavò la ferita, speculò attentissima non vi fosse rimasta dentro o terra od altro corpo estraneo; compresse forte le margini della piaga e stringendo fasciò con amorevole cura la testa al misero Pieruccio. Ripresa poi con ambe le mani copia di acqua, glie ne rinfresca la faccia. Pieruccio scioglie un gemito e mormora:

«Perchè mi richiamate alla vita? Perchè riaprite gli occhi miei tristi? Io sono stanco di piangere su le superbe miserie, su i delitti e su i dolori della stirpe alla quale appartengo — alla quale avrei voluto non appartenere; — stirpe che aborro ed amo, — che desidero e dispero contemplare felice... Oh! mi lasciate morire in pace.»

«Su via Pieruccio, confórtati..... vedi a che ti mena lo sciogliere, come fai, il freno alla lingua! — sii cauto una volta. — Se la città può salvarsi, sarà salvata dagli uomini prudenti che la governano; se deve perdersi, allora perchè spaventi i cittadini sopra una fortuna che conosci irreparabile? Manda fuori del tuo petto una preghiera od una maledizione e nasconditi nella eternità....»

«Giovinetto, rampognerai tu il corvo perchè va vestito di piume nere, o riprenderai la nottola perchè grida con urlo dolente? Dio ci ha creati; forse posso frenare le parole che mi prorompono dalla bocca? Qui», e il Pieruccio si tocca la testa, «sovente io provo un tumulto, uno strepito di mille trombe, un'angoscia come se il cranio mi si screpolasse... Allora mi pare di scorgere il cuore dell'uomo traverso la carne e l'ossa, come se fosse dietro ad un cristallo; — immagino penetrare col guardo la terra, quasi acqua limpida di lago, e scoprire gli arcani della natura: i pensieri mi cadono irresistibili giù dal cervello, e la lingua li trasporta al sommo dei labbri... Così, quando la tempesta mugghia sul monte, si staccano i sassi dall'antico dirupo, e le acque dei fiumi li rotolano fin su le spiagge del mare.»

«Pieruccio mio, se non ti riesce tacere, almeno ti cela: le tue parole tolgono l'animo a chi ti ascolta. Se ami la patria davvero....»

«E chi dunque amerei, se non amassi la patria? O patria mia! io non conosco madre, non padre, non ebbi fratelli, sposa o figliuoli... io sono solo.... e non pertanto mi fu dato un cuore che avrebbe bastato a tutti questi affetti... un tesoro di amore.... ma io non lo potei partecipare con alcuno.... nessuno volle il mio amore... non seppero che cosa farsene.... lo hanno schifato come la veste dell'uomo morto di contagio... e allora quelle linfe purissime sono divenute stagnanti... si contaminarono e presero a sgorgarmi nelle vene avvelenandomi il sangue, in verità.... in verità il mio sangue è attossicato.... Non ci credi? Togli un insetto, pommelo sopra la pelle e vedrai come rimanga ucciso dall'effluvio mortale.»

In questo punto passavano due cittadini i quali mostravano per loro bisogne incamminarsi verso la parte meridionale di Firenze. Vico, a cui premeva correre al Monte, perchè se i nemici avessero risposto con le artiglierie, ed egli non vi si fosse trovato presente, dubitava non gliene venisse taccia di viltà, li chiamò con modi cortesi e li pregò a volere essere benigni a quel misero loro concittadino accompagnandolo all'ospedale di Santa Maria Nuova; lo raccomandassero allo spedalingo in nome del capitano Ferruccio, onde ne avesse cura come suo uomo; gli avrebbe rimunerati Dio della carità che usavano verso cotesto infelice fratello.

I cittadini sottentrando al Pieruccio lo menavano quasi sollevato da terra; al tempo stesso rivolti a Vico dicevano:

«Messere, non ci è mestieri preghiera; può egli il cristiano a piè della croce ricusare carità verso il prossimo?»

Così umiliato Zanobi con ineffabile angoscia percoteva con ambe le mani il marmo.... Cap. X, pag. 263.

Annalena levò le braccia in atto d'invocare esclamando:

«Conceda il padre degli uomini la benedizione di Giacobbe a voi, ai vostri figli, ai nipoti, fino alle più remote generazioni.»

Il Pieruccio in andando teneva fitta la faccia alla croce e favellava:

«O Cristo! molti furono i dolori che travagliarono l'anima tua, ma tu avevi intelletto divino, e tuo padre ti aspettava nei cieli... Se un Simone cireneo mi avesse sovvenuto a portare la croce, se un'amorevole Veronica mi avesse asterso la fronte del suo sudario, io avrei implorato questo supplizio per misericordia... a me i chiodi, la lancia nel costato... a me il fiele e l'aceto, purchè a piè del patibolo io vegga piangere l'amico... venir meno la madre... — un atomo di amore, — un pensiero di amore e poi una eternità di tormenti... O voi giovanetti gentili, nobili fiori di questa terra esecrata... e voi morrete su l'alba della vita... nella età delle promesse e delle speranze... voi siete dei traditi... amatevi... affrettatevi ad amare... bevete di un tratto la tazza della vostra gioia... perchè la morte sta per irrigidirvi la mano con la quale l'accostate alle labbra.»

E più altre parole egli aggiunse dai due amanti non intese o non curate; pieni entrambi di desio, ebbri del piacere di vedersi e di udirsi, godendo il presente, più molto sperando nel futuro, potevano darsi pensiero delle parole del povero insensato?

Appena il volo della rondine nel cielo vincerebbe il corso dei due amanti sopra la terra; giungono in vetta al poggio di San Miniato prima che mettessero fuoco alle artiglierie. Il campo nemico appariva deserto: tranne le scolte, non si mostravano fuori delle tende soldati o capitani; ogni cosa taciturna dintorno. Malatesta, levato in alto il bastone del comando, intimò si procedesse alla sfida degl'imperiali, volendo osservare l'antico costume pratico nella milizia. Di subito quanti accoglieva suonatori la città agli stipendii della Signoria o volontarii cominciarono a muovere incredibile frastuono di trombe, tamburi ed istrumenti altri siffatti; poichè furono rinnuovati tre volte quei fragori marziali, sempre il Baglione ordinando, appiccarono il fuoco a tutte quante le artiglierie così grosse come minute, le quali erano numero inestimabile. All'insolito rovinìo rimbombarono le acque e i colli vicini, la terra si scosse, tremarono le fabbriche; sopra tutte le bombarde tuonò spaventevole la enorme colubrina gittata da Vincenzo Biringucci da Siena, la quale pesava meglio di diciotto migliaia di libbre; l'avevano posta in cima al cavaliere innalzato tra San Giorgio e San Pietro Gattolino, e la chiamavano così per vaghezza l'archibugio di Malatesta[172]. Un fumo densissimo ingombrava cielo e terra; e quando prima cominciò a diradarsi, si vide in mezzo scaturire dai fiocchi di nebbia la terribile persona di Lupo che in cima al campanile di San Miniato caricava, scaricava, maneggiava in somma quei pesanti istrumenti di guerra come se fossero altrettante sue braccia di bronzo; per poco che lo spirito di chi lo vedeva si fosse nudrito nella lettura delle antiche leggende, lo avrebbe creduto Briareo, ossivero un demonio posto dalla gran forza delle incantagioni a custodia di un castello fatato.

Oltre la vana ostentazione descritta, Malatesta mandò fuori delle porte, al principe d'Orango un trombetto col pegno della battaglia, e il principe, presentatolo magnificamente, gl'impose riferisse: — essere suo costume combattere quando gli tornava comodo, non quando piaceva al nemico; stessero pronti in città, perchè quanto prima le avrebbe dato l'assalto. — Così ebbe fine cotesta bravata. I Fiorentini calcolarono meglio di mille libbre di polvere persa senza costrutto. Si partirono dal monte alla spicciolata; la milizia, rotti gli ordini, si partiva anch'essa in confuso; pochi uomini rimasero colla Signoria e col Malatesta.

Allora il gonfaloniere mostrò desiderio di ricondursi al palazzo. Malatesta ossequioso volle a ogni costo accompagnarvelo, e così ripresero il già percorso sentiero.

Ornai si avvicinano alla croce; Malatesta lasciandovi sopra uno sguardo obliquo, ne vede sgombra la base, cosicchè gli parve respirare più libero ma gli riesce la speranza invano: ecco di repente sorgere dalla pietra la figura di Pieruccio col capo avvolto di bende sanguinose e minacciarlo col pugno e rampognarlo feroce:

«Sarai tormentato settanta volte sette!»

Il Baglione, preso da cieca ira, si stracciò a morsi le maniche delle vesti... di nuovo stette per movergli addosso... di nuovo Cencio si apparecchiava a ferirlo per modo da non tornarci la terza volta. I cittadini svelsero a forza dalla base il Pieruccio e lo celarono in mezzo di loro. Egli era andato buon tratto di via con gli uomini ai quali lo aveva commesso Vico Machiavelli; giunto alla piazzetta dei Castellani sfuggiva loro di mano e tornava al posto periglioso per maledire di nuovo il Malatesta.

La Signoria e il Baglione procederono in silenzio. Giunti presso al palazzo, Malatesta facendosi più dappresso al Carduccio, gli favellò:

«Spero, magnifico messere, che vi darete ogni cura di porre al martore il ribaldo che in me per ben due volte oggi offendeva la maestà della Repubblica, e quindi, come conviene, gli mozzerete la testa.»

«Strenuissimo capitano, gli Otto e la Quarantia hanno potestà di far sangue, non io; provvedetevi davanti a cotesti magistrati... — Ma tornerà poi in onor vostro, messere, contendere col pazzo? — Pensateci!...»

«Se lo tenete per matto, allora chiudetelo.»

«Prima dei pazzi vorrebbonsi sostenere uomini bene altramenti pericolosi alla città, Malatesta...»

«E quali, messere?»

«I traditori.»

Qui il Carduccio, chinata la persona in atto di reverenza, pose il piede sul primo gradino del palazzo della Signoria e si allontanò.

Malatesta rimase per alcuni momenti stupefatto; poi si volta pensoso camminando in silenzio; ad un tratto egli chiama:

«Cencio!»

«Malatesta!»

«Bisogna raddoppiare le guardie al mio quartiere...»

«Bene: — sarebbe meglio però andare ad abitare presso alla porta di San Pier Gattolino. Costà avete prossimi i Côrsi e i Perugi vostri; l'uscita al campo ad ogni evento prontissima.»

«Purchè si possa fare senza destare sospetti!»

CAPITOLO DUODECIMO MARIA DEI RICCI

Amore alma è del mondo, amore è mente.

Che volge in ciel per corso obliquo il sole.

Tasso, Rime.

O giovanetti, sul lago del cuore

Vada trescando per poco l'amore.

L'abbandono, Melodie liriche.

Noi ci amavamo un giorno!... Quando prima mi comparisti davanti tutta lieta di gioventù e di bellezza, io pensai di averti già amato. Allora credei avesse compreso Platone un mistero divino quando affermò le anime destinate ad amarsi ricevere, prima di nascere, in cielo la impronta della creatura diletta. In qual parte ti vidi? — Su la primavera della vita, in un mattino di primavera, il raggio del sole, poichè ebbe benedetto la famiglia delle piante e dei fiori, si posò sopra le mie palpebre socchiuse; l'anima, repugnante dalla vita reale, or sì ora no, si affaccia alle pupille, come la vergine dubbiosa tra la voglia di conservare immacolata la sua tunica bianca e la voluttà promessa dall'amore.... in quel punto io ti vidi, o mi parve vederti a guisa di farfalla batter l'ale per quel torrente di luce: — ti vidi e ti sentii tra le melodie dell'uccello innamorato della rosa, tra gl'incensi arsi alla maestà dell'Eterno, nella voce arcana dei boschi, fra il rumore della cascata, fra le lacrime della riconoscenza, nella gentile alterezza di un'azione magnanima. — La tua immagine dava moto al creato; — confusa con tutti gli enti ella ne svelava al pensiero le secrete bellezze come il raggio della luce rinnuova l'iride dei colori nelle infinite stille di rugiada tremolanti su le foglie al principio del giorno. Bastò uno sguardo! — Al primo tocco le anime nostre, puro elettricismo di amore, si ricambiarono la stanza mortale; tu vivesti la mia anima... io vissi la tua.»

«Il figlio della terra leva gli occhi ad ammirare la grande opera della creazione quando il firmamento mena a scintillare per gli azzurri sereni tutti i suoi pianeti, e d'ora in ora corrusca di un baleno, — quasi sorriso di fuoco per esprimere l'allegrezza che sente nel contemplarsi tanto maestoso nello specchio delle acque. — Io però non levai gli occhi, li declinai, perchè — Dio mi perdoni — il tuo volto mi parve più bello del cielo.

«Tu lo rammenti? — posavi il tuo capo qui sul mio seno; l'arteria della tua tempia rispondeva al palpito del mio cuore.... stretti così che il suo calore t'infiammava le guance, le quali si facevano vermiglie con gli effluvii della mia vita. — Io poi, come chi si diletta guardare pei lavacri più puri che sgorgassero mai dall'urna della ninfa le arene d'oro giù nel fondo, con i miei occhi intenti nei divinissimi tuoi contemplava traverso il nero delle tue pupille effigiata la breve mia immagine e credeva vedertela impressa in mezzo dell'anima. Noi non dicemmo parola, — nè un sospiro, — nè un alito. Talora lieve lieve io sfiorava co' labbri la tua fronte, come per deporvi la corona dell'amore. I nostri spiriti armonizzavano splendidi quando la gemma e come lei pellegrini. Noi non giurammo di amarci, credemmo la eternità verrebbe meno nel misurare la durata del nostro amore; — stimammo il nostro affetto più immortale di Dio!....

«Il tempo che, comunque antico, sapeva dovergli bastare la vita per vederne la morte, sorrise, — il tempo che cancella le generazioni, i sepolcri e le memorie, — perchè lascerebbe intatto un sentimento del cuore? Non ha egli forse consumato i caratteri incisi sul granito orientale?

«Chi mi dirà la traccia dell'aquila traverso il cielo? Chi distingue là via del serpente sopra la terra? Chi potrà conoscere che l'amore abbia agitato le anime nostre? — Ahimè! le ceneri fanno testimonianza dello incendio. — Le corde dell'arpa si ruppero; una trama mortale la ricuopre adesso... mortale all'insetto soltanto, nondimeno mortale; — eppure un giorno il menestrello ne trasse suoni dolcissimi, di cui è fama gli susurrasse le note l'angiolo dell'armonia in un estasi di amore.

«Oh! perchè mai vuotammo intera la tazza della voluttà? Chiunque vuole che nel suo petto duri la fiamma libi, non beva. — Non vi fu amaro nel fondo, no, ma stille insipide e rare dopo il sorso lungo. — Come il filosofo che sentì sfuggirsi nelle tepide acque il sangue e la vita, il nostro affetto morì svenato nella copia del piacere.

«Ti chiamerò infedele? T'imprecherò sul capo Nemesi vendicatrice dei giuramenti traditi? No: — tu potresti mandarmi pari rimproveri, imprecarmi sul capo simili furie. — Vorrò favellarti una parola di conforto? — Tu ti sarai... tu ti sei consolata. — O tenteremo piuttosto ravvivare queste ceneri e studiare se vi fosse rimasta qualche scintilla sotto? No; — dopo le ceneri null'altro avanza che invocare i venti a disperderle. Il pensiero è impotente a resuscitare il cuore; — vedi, — siamo anime confinate dentro statue di marmo. Prometeo e Pigmalione poterono col fuoco celeste infondere la vita alla cosa inanimata, ma il nostro cuore visse anche troppo; adesso egli è morto... morto per sempre!

«Havvi una cosa nel creato che non si consuma nel fuoco e si chiama amianto, — ma non sente e non piange; — avvolge i cadaveri, onde la cenere umana non si confonda con la cenere dei carboni... perchè tu sai che non si distinguono le ceneri. Tutto così! Donna, comunque le tue mani sieno brevi, tu puoi tenere nella tua destra Cesare, nella sinistra Napoleone, — sono poca cosa i defunti! La terra pareva non dovesse bastare il sepolcro di cotesti potenti, e adesso ti avanzerebbe il cavo della mano.. — inutile insegnamento, la terra andrà sempre ingombra di tiranni e di oppressi... — e l'anima? Oh! l'anima, domandane alla nuvola che passa, ella conosce meglio di me il regno dei venti.

«Dovevano dunque i nostri cuori soltanto rinnovare il miracolo del roveto ardente comparso a Moisè? — Vieni, sacrifichiamo all'oblio...

«O scempio, frena l'ebbrezza del pensiero! Perchè tenterai nasconderti la tua maledizione? S'inganna ella forse la coscienza? il tuo spirito vide la ghirlanda della speranza calpestata su l'alba della vita. Tu sei a contemplarti doloroso, come nel deserto di Tebe la colonna rimasta sopra la base tra le mille cadute, quasi cippo della morta città. Coscienza feroce, almeno tu mi lasciassi la lusinga di reputarmi grande! Accompagni almeno la superba nel suo inferno il nuovo Lucifero! — Ahi sventura... sventura! perchè sopravissi ai funerali del mio amore?»

In fè di Dio! chi scrisse queste pagine certo fu un giovine innamorato che cominciò per credere a tutto e finì per non credere più a nulla, come ogni giorno succede; — esclamai io leggendo le riferite diavolerie, scritte di carattere minuto nelle fodere interne di un Petronio, sul quale stamane mi aveva preso vaghezza di riscontrare la storia della matrona di Efeso. Ella è cotesta una famosa storia in verità che in sostanza racconta di certa vedova la quale disse addio ai parenti e agli amici per terminare la vita nella sepoltura dove aveva riposto il corpo del marito, e indi a poche ore lo impiccò per salvare l'amante, come meglio potrete vedere, mie benigne lettrici, in Petronio scrittore latino e cortigiano di Nerone d' imperiale memoria. Voi dame e cavalieri, e sopratutto voi, dame, percorrendo i primi versi di questo capitolo avrete per avventura immaginato ascoltare la espressione dei sentimenti del poeta, la relazione intima di un qualche affetto sciagurato... e forse alcuna di voi avrà pianto su me: consolatevi, — quei versi non mi appartengono, forse non corrispondono a nulla di vero, a niente di accaduto; per me, penso che gli abbia scritti uno scolare di retorica per esercitarsi a comporre metafore, similitudini, l'altra famiglia di figure oratorie descritte dal padre De Colonia, diverso assai dell'acqua fabbricata dal Farina, di cui voi tanto e a ragione vi compiacete, mie nobili dame. Se poi mi domandaste perchè io gli abbia messi, vorrei potervi rispondere, come messere Lodovico Ariosto: « Mettendoli Turpino anch'io gli ho messi »; — ma poichè così rispondere non mi è dato, vi dirò sinceramente quasi per confessione, che non lo so neppure io: — forse perchè il presente capitolo favellerà di amore... guardate un po' voi se questo ch'io esposi potrebbe essere una buona ragione.

Parlo di amore. —

Ella era bella, ma infelice, — fuori di misura infelice.

E pure quando, giovinetta, tutta riso, menò i lieti balli o convenne alle giojose adunanze, i circostanti trattenevano fino il respiro per paura di turbare la serenità dell'aere che circondava quel caro angiolo di amore.

E qualcheduno ancora gemè considerando la fragile creatura folleggiare spensierata sul margine della vita, come fanciullo sull'orlo dell'abisso...Dio la preservi dalla vertigine!

Allorchè, bianca più della rosa che le coronava la fronte, si accostò agli altari, la gente diceva: Va, va, egli è soave affanno quello della vergine che si reca a marito! — Allorchè tremò, — abbrividì, stette per cadere in deliquio, la gente riprese: — Bene per piacere si manca! Finalmente quando un sospiro le fuggì dai labbri, — una lagrima dal ciglio, — Ah! troppo era colma, esclamarono, la coppa della gioja, e n'è traboccata una goccia. —

E non pertanto cotesta stilla spense irreparabilmente l'ultimo guizzo alla fiaccola della speranza. La incantatrice della vita mutò la veste diafana nel manto funerario e si giacque nel suo cuore come dentro un sepolcro di pietra; — quivi ella se la sentiva inecittabile, — pesa; e l'era forza tenerla così spenta del continuo davanti con quel dolore che l'Ariosto racconta di Fiordiligi, la bella sconsolata, vigilante sul corpo del suo sposo, Brandimarte ucciso in battaglia.

Ahi quante volte al cielo levando la faccia lagrimosa aveva supplicato: Signore, rimuovi da me il calice della vita, — è troppo amaro pei miei labbri mortali! — quante con la fronte toccando il freddo marmo degli avelli per temperare l'ardore della fronte, si volgendo alla cenere quivi dentro rinchiusa, esclamò dal profondo delle viscere: T'invidio perchè riposi!

Dove nella sua fanciullezza non l'avessero atterrita con le storie di luoghi pieni di pianto, di fuoco e di furore, il talamo nuziale avrebbe ella già convertito in bara; — avrebbe reciso i suoi giorni in offerta al Dio del dolore siccome fa la vergine della lunga chioma, quando abbandona il mondo per la solitudine del chiostro.

Nessuno la rammenterebbe adesso; — sarebbe scomparsa fugace quanto la promessa della felicità, — quanto il voto dell'amore; — avrebbe vissuto la vita dell'anemone svelto sull'alba, la vita del grano d'incenso caduto sul fuoco, — profumo breve e poi oblio.

Ora chiunque la contempla geme per lei, perocchè ella sia bella e trista a vedersi come la rovina degli antichi tempii dell'Attica, rovina di marmo pario, di colonne corintie, di capitelli dalle foglie di acanto, di frammenti di statue di Fidia — maraviglia dell'arte, — pianto del cuore; e la mestizia le si diffonde tenace sul volto nel modo stesso che l'edera s'insinua ingombrando quei ruderi di tempii e di numi.

Si volse alla creatura e le domandò una stilla di refrigerio alla pena che durava; la creatura o folleggiava lieta e non volle contristarsi per lei, o piangere per sè e non volle cederle nè anche una lagrima; — allora si volse al cielo, e quinci le venne una rugiada sull'anima, perchè la religione le aveva detto abitare nei cieli una divinità che fu anch'essa creatura umana ed infelice.

Ella se ne sta raccolta dentro la cappella domestica, — un luogo tristo quanto i suoi pensieri; — con le sue mani ella stessa l'aveva addobbata a lutto. Il vivido sguardo del sole attraversando le tende di colore oscuro quivi diventava lugubre. Oltre i due terzi della stanza sorgeva una balaustra di marmo, e subito dopo due svelte colonnette, su i capitelli delle quali posavano ambo i lati di un arco; — dall'arco pendono le tende raccolte a mezzo e sospese ai fusti delle colonne.

Arde nel santuario una lampada davanti la immagine della madre di Cristo.

Rafaello fu che dipinse cotesta immagine. Gl'Italiani sanno come quel portentoso nell'arte dipingesse; gli altri vengano e vedano, — dacchè per parole non si descrive l'opera di Rafaello. Davanti quel volto celeste il cuore ti si commuove di un senso che par desio e finisce in preghiera; — quel volto si confonde con quanto di arcano e di sacro ti sta riposto nell'anima, ai primi pianti consolati, — ai primi dolori di tua fanciullezza repressi, — ai primi labbri sorrisi, alla memoria del sospiro che primo l'amore suscitò nel tuo seno, — alla prima lacrima versata sopra le umane sciagure; cosa in somma affatto divina e italiana.

Ella legge un libro coperto di velluto nero rabescato con fermagli d'argento di molto sottile lavoro; un bel libro, ma di dolente argomento; — l'ufficio dei morti.

E perchè prega la donna? Ella pur sente chiamarsi dalla diletta genitrice col dolce nome di figlia; lei salutano col nome di sposa; le sue viscere tremano quando una voce le dice: Mamma! mamma! addormentami sopra le tue ginocchia. — Perchè dunque ella prega?

Prega per l'anima di un defunto a lei più caro della genitrice, dello sposo, della stessa sua figlia... ma questo è un segreto fra il suo cuore e Dio.

Sfuggito le fu appena l' amen dalle smorte labbra, chiuse il libro e lo tenne stretto tra l'indice e il pollice di ambedue le mani; — poi si pose a meditare.

E tanto si profondò in cotesta meditazione che non pareva più cosa viva; gli occhi lucidi, — intenti — aridi come di vetro incassati dentro testa di cera: — all'improvviso le balenarono, le si empirono di lagrime, e prorompendo in pianto irrefrenato fra i singulti esclamò: «Oh! questo è troppo gran tormento, Signore!»

Ed invero gravissimo era il tormento che travagliava in quel punto la povera Maria dei Ricci, moglie di Nicolò Benintendi.

Si affaccia alla porta della cappella la testa di giovane di cui le sembianze dimostrano un impeto indomabile ed una pietà profonda; i capelli lunghissimi spartiti sopra la fronte gli scendono sopra le spalle, le guance ha rase e pallide, il labbro superiore coperto di peli radi, la bocca mezzo aperta e tremante di moto convulso, le sopracciglia tese e gli occhi aridi, ma che pure si palesano usi alle lagrime; — muove un passo, — due, e tutta svela la persona alta, spigliata, di vaghissime forme; veste abito corto di velluto verde senza ornamenti, tranne la croce di san Pietro, di cui lo creò cavaliere papa Lione X; non porta collare; gli cinge i fianchi una larga striscia di corame attraversata sui remi da lunga daga; le calze di panno bianco, le scarpe di pari stoffa con la rosa di seta verde sul grosso del piede; nella destra tiene il berretto di velluto colore di fuoco, ornato con bianca piuma; — nella sinistra l'elsa della spada alta da terra fino all'ascella, mirabile pei molti fili di acciaio brunito attorti con maestria a guardia della mano. — Soprastà alquanto senza punto rimuovere lo sguardo della donna; — geme sommesso, — a mano a mano con passi leggieri si avvicina a lei; — muove la bocca per favellare, e non può — dopo alcun tempo si riprova, e neppure adesso gli riesce; — alfine, con tale una voce che parve sfuggire a forza dalle fauci strette, mormorò:

«E sempre in pianto, Maria?»

La donna solleva lentamente la faccia e risponde soave:

«È mio destino, Ludovico, — ed anche ahi! pur troppo della maggior parte dei viventi.»

«Ma perchè questo pianto? Appena vi mostrate, ogni cuore esulta; — a voi sta creare il paradiso dovunque presentate la vostra faccia bella; — vi amano tutti ed onorano; — più di una lacrima di orgoglio sparse la vostra genitrice nel contemplarvi regina della festa... perchè le fate adesso scontare quella lacrima con tanto pianto di angoscia? Perchè questo arcano e disperato dolore?»

«M'insegnò la sventura essere gli uomini curiosi e crudeli. Ora punti dal desiderio mi travagliano per sapere cosa che conosciuta poi o non curerebbero o forse ancora irriderebbero. Oh! ben provvide il cielo allo schermo dei miseri quando pose il cuore in parte dove dall'occhio di Dio in fuori alcun altro non penetra: se la carne che ci fascia fosse trasparente, — se il cuore fosse un libro che ogni uomo potesse sfogliare a suo senno, nessuno vorrebbe sopportare la sua miseria. — Crudeli! prima di porre le mani su le piaghe dell'anima, imparate a sanarle. Lasciatemi piangere sola; — io nulla chiedo da voi, — non vi turbo, — nascondo la mesta mia faccia per non contristarvi. Il mio dolore mi è sacro e non lo esporrò alla curiosità o agli scherni vostri.»

E qui, vedendo quanto coteste parole pungessero amare il giovane Ludovico, soggiunse:

«Io non lo dico per voi, Ludovico, — no; pur troppo io so che voi, come siete cortese, vorreste consolarmi anche a prezzo della vostra vita, e se io mai mi piegassi ad aprire l'animo mio ad alcuno, o voi sareste quel desso, o nessuno altro sarebbe: ma, credetelo, i miei affanni non possono confortarsi, — o se pure si possono, sta il sollievo delle mani di Dio — e della morte. Ond'io supplico il cielo a preservarvi da un dolore che — come il mio — la pietà finta dei molti detesta, e la vera dei pochi rifiuta, imperciocchè gli riesca inutile affatto.»

«E me ne ha preservato, o Maria? E che è dunque questo affetto il quale dentro di me ribolle quasi lava di vulcano? Perchè là dove gli uomini tutti sperano dolcezza, per me fu posto il delitto? Perchè l'amore, agli altri luce di vita, per me solo fuoco divoratore? Giova altrui manifestarlo: il mio deve ardermi celato nel cuore come lampada dentro il sepolcro; — se io mai ardissi domandare aita al tormento che mi opprime, voi stessa, Maria, sì pietosa e sì buona, voi stessa mi dareste per sollievo una rampogna, — o forse, chi sa? una maledizione.»

«Tacete», interrompe la donna gli ponendo una mano sui labbri; «paionvi discorsi questi da tenersi ai piedi degli altari; davanti la immagine della Madonna Santissima?»

«E perchè no? e di cui dunque la colpa, se non di Dio? O egli non doveva creare la passione, o non creare il delitto... egli ha errato; — sopporti la pena del suo misfatto...»

«Voi bestemmiate!»

«Bestemmio io! — Or via unitevi anche voi, incauta, ad esecrare il cervo perchè non ebbe forza da resistere al lione; mi circondarono le onde, Dio supplicai e gli uomini, contesi più che all'uomo non fu concesso lottare; finalmente fui sopraffatto, la passione mi ravviluppò nelle sue braccia feroce più dei serpenti di Laocoonte; — io giacqui vinto, prostrato così di ogni vigore che ardisco invocare e non darmi la morte.»

«Venitemi compagno alla preghiera. Dio affanna e consola; Dio tutto può...»

«Voi che lo stancate da mattina a sera..., ditemi, vi ascolta meglio di me che non lo prego mai?»

«Ah! egli vi ascolterà... Dio tutto può...»

«Forse nel male. — Ma io non temo nè spero nulla da lui. Quando l'aspide non aveva peranche insinuato il suo sottile veleno per le fibre della mia vita, allora dovea sovvenirmi; — adesso non è più tempo; il mio dolore compone la mia esistenza: — io non vorrei cedere un minuto di questo affanno mortale per un secolo delle sue insipide gioje celesti. Dove potesse svellermi l'Eterno questo spasimo di amore dall'anima, io lo rinnegherei, — e percuotendo alle porte dell'abisso, supplicherei a Satana: Dammi il tuo inferno e conservami il mio amore.»

«Voi mi fate pietà! — I vostri occhi un giorno incontreranno la vergine che vi placherà la tempesta dell'anima... ma perchè procedete per via con gli occhi fitti alla terra?»

«Meco stesso considero, sarebbe stato pur meglio che il Creatore per diletto de' suoi ozii immortali non avesse ricavata dalla terra la creatura che sente...»

«Ascoltatemi, Ludovico. — Molte donzelle sospirano per voi di segreto desio; — uno dei vostri sguardi esse ricercano con maggior ansietà della gemma d'Oriente. — Levate gli occhi verso la faccia di quelle, — ed amate di amore felice; — anch'esse questo sole italiano coloriva; anch'esse il fiato più dolce che spira dal nostro Apennino educava...»

«E chi vi ha detto che io non le guardi? — Le guardo, sì, per vedere se incontro in esse il tuo sorriso, i tuoi occhi, la fronte, i capelli, cosa in somma che valga a richiamarti al mio pensiero, — e quale più mi dicono femmina vaga e di forme divine, mi sembra povero raggio della tua bellezza riflesso sopra di lei; — io ti contemplo in tutto il creato, o Maria.

«Ed alla patria pensate voi mai?»

«Io per la patria darò la vita, e basta; — ma invero poi dov'è per me questa patria? Dovunque porti le ossa degli avi e i parenti e la sposa e i figli, quivi hai la patria. Ora io non ho nessuno che tremi o ch'esulti per me; — i miei parenti dormono dentro gli avelli di famiglia; — mano mercenaria mi asciuga il sudore della fronte quando torno dalla battaglia; un servo fascia le mie ferite; — se acquisto un prigione, non posso ordinargli: Va alla mia dama e dille che il suo cavaliere t'invia e che dipendi dal buon piacere di lei. — Io non ho un cuore che corrisponda col mio. — Ah! le mie mani non versarono il sangue di Abele, e non pertanto erro ramingo sopra la terra come Caino, e forse più infelice di lui, perocchè a lui fosse compagna una donna, la quale non abborrì deporre un bacio sopra la fronte dove Dio aveva scagliato il fulmine, — e gli facesse sentire che nel mondo vive cosa potente a mitigare anche l'ira di Dio, l'amore della donna.»

«Sperate dunque nel tempo, Ludovico, e abbiate fede che amore, nato di ozio o di lascivia umana, come cantava messere Francesco, rifugge dai campi aperti, dal suono delle trombe, dalla gloria; e poi la virtù sta nel sacrifizio, — la umana grandezza nel soffrire; — ed io, — vedete, — soffro!»

«Soffrite voi? Ah! voi non amaste mai; gli affetti guizzano sopra l'anima vostra a guisa di pietra lanciata su di un lago preso dal gelo; — della impassibilità vostra vi componete un cerchio magico e quinci predicate virtù. Non commossa mai nè turbata, procedendo tranquilla nel cammino della vita, ora raccogliete il dovere, ora la religione, ora il costume, e di tutto vi fate difesa. — Voi mi parete il ricco epulone dell'Evangelo che deride la miseria del povero steso sopra le scale del suo palazzo...»

In questo punto si pose fisso a guardare la donna, la quale diventava a vicenda pallida o accesa fino alle palpebre, mentre due grosse lacrime le tremolavano nel cavo degli occhi pronte a sgorgare; — ond'egli con maggior forza soggiunse:

«Voi non amaste mai...»

«Non amo io!» prorompe Maria, quasi uno scongiuro la costringesse a favellare: «non amo io! Chi sostiene che non ho amato mai? E questa mestizia ineccitabile, il pianto lungo, le notti vigili, gli altari del continuo supplicati invano, e il dolore o il furore non sono certissimi segni di amor disperato? Amo, sì, perchè mi sforzate a dirvelo, e di tale amore io amo presso il quale il vostro mi sembra fuoco di lampada davanti il fuoco dei fulmine.»

«O chi amate voi?» grida Ludovico trovandosi senza pure pensarlo nuda nelle mani la daga.

Maria ridendo amaramente risponde:

«Riponete la daga; — già non si muore due volte; quello ch'io amo raccolse da molti anni nel suo grembo la terra.»

«Un morto mi contende il tuo cuore!... Ah! egli è un tristo quel morto; dov'io fossi stato nella vita lieto del tuo amore, Maria, appena aperte l'ale alle dimore celesti, avrei supplicato l'Eterno che nel tuo seno infondesse pace, — anche con l'oblio di me, — anche con l'amore di altro meno sventurato mortale... Qual maledetta cupidigia ella è mai questa di stendere fuori del sepolcro la mano fredda a stringere un cuore che più non puoi far palpitare di esultanza? Amami, Maria... amami... i morti sono cenere, ombra, e non domandano amore; — una memoria basta loro o una lacrima, e tu ne versasti anche troppe. — Torni il sorriso al tuo pallido volto; le rose della giovanezza non si sfiorarono ancora per te, rugiadose elle aspettano che la tua mano le colga. Te chiamano le sponde dell'Arno quasi ninfa smarrita, — te desidera il nostro emisfero, come Pleiade perduta; acconciati i capelli, di profumi conspargili e di gemme... vieni a scolorare le donne per la tua assenza baldanzose, — torna a mostrare al mondo come Rafaello non vincesse la natura nel ritrarre il volto della femmina, ma neppure arrivasse a fedelmente effigiarla... vieni... oh... vieni; — l'anima mia gran parte del suo affetto consumò nell'angoscia, pur tanto ancora ne serba da poterti inebbriare di amore...»

«Ludovico, io non mi chinerò a raccogliere la religione, il dovere, il costume per gettarveli a modo di triboli a traverso il vostro cammino, — ma vi dirò soltanto amore essere corda solitaria su l'arpa dell'anima; — rotta o allentata che sia, indarno speri tornarla a quella dolcezza di suono che faceva parertela divina; — la voce dell'amore ha un eco solo nel cuore della donna; — arde l'amore una volta sola di propria sostanza; — se in séguito lo vedi riaccendersi, egli non ricava più oltre il suo fuoco da origine celeste, lo alimentano vanità, superbia, vaghezza di terreni diletti. Un'altra donna voi meritate, Ludovico; e dacchè darmi a voi come volessi non potrei, — darmi come posso non voglio.»

«Purchè l'anima tua viva per la mia, io non penetrerò negli arcani del tuo cuore... forse perchè ignorano i popoli le sorgenti del Nilo, benedicono meno alle sue acque fecondatrici?»

«Ludovico, io vi offro più pacata passione e per avventura assai più degna di noi... siatemi amico... deh! mi sii fratello...»

«No. — La donna o sente amore, o nulla. Mi s'inaridisca la lingua prima ch'ella profferisca il consenso di sottopormi al supplizio del vivente stretto al cadavere. Ben posso soffrire finchè l'anima mi regge, ma io non vorrò stipulare il mio tormento mai. No, sia dell'uomo il quale ti chiama sposa quella parte di te che avrà la tomba, purchè miei sieno i pensieri e i desiderii tuoi, i tuoi sospiri miei... il mio spirito abbisogna del tuo... amami... oh! amami, Maria...»

«Quando il serpente, tentava Eva, cessò di parlare, egli depose la sua favella sopra la lingua dell'uomo; — io ricuso diventarti angiolo e demonio, — e ti ripeto che, sentendo non potere esserti il primo, il secondo non voglio.»

Tacquero entrambi, un lungo silenzio successe. — All'improvviso la donna come oppressa prorompe in un sospiro.

«Maria, sospiri? Sentiresti per avventura pietà del mio fato dolente?»

«Di me sospiro, che reputandomi in fondo della miseria, mi accorgo adesso Dio nel tesoro della sua ira serbarmi ad altri e più crudeli tormenti. — Di voi anche gemo, perocchè io veda consumarvi ingloriosamente una vita la quale certo vi fu data per nobili destini; — gemo, — e a ragione gemo, che mi consolava nella idea mi avesse la provvidenza compartito in voi un fratello del cuore, ed ora sento dovere renunziare a questa estrema speranza...»

Ludovico pallido volge gli occhi alla terra e ve li tiene fitti orribilmente quasi volesse penetrare nelle viscere; — con voci interrotte di tratto in tratto egli esclama:

Un morto mi fa guerra!... — Io ti darei mezza mia vita se potessi stringermi teco a duello. Un morto!... Un morto!... Oh dolore!...»

La destra di Ludovico si rimane nella destra di Maria, senza comprimerla, — senza essere compressa... mute entrambe quanto le mani di marmo che occorrono scolpite sopra i sepolcri. Una inerzia pesante tiene a Ludovico irrigidite le fibre; — gli dura nel cervello la vibrazione delle estreme parole tormentosa come un cerchio di punte acutissime; — gli vanno in volta dinanzi agli occhi gli oggetti circostanti confusi e indistintamente ravvolti entro globi di luce; — gli batte le orecchie un fastidioso tintinnio; — a nulla pensa, imperciocchè cotesta passione così intensamente sentita, — così apertamente dimostrata, gli sia ricaduta su l'anima come la frana di un monte.

Cotesti sono momenti d'inenarrabile angoscia, — minuti che divorano dieci anni di vita, — minuti i quali cambiano una esistenza per modo che quando l'anima sciolta dalla sua preoccupazione intende continuare pel solco mortale l'esercizio delle proprie facoltà, si trova come smarrita dentro un deserto senza traccia e senza confini. Il sommo bene sopra tutti gli animali concesse alla creatura che ama in privilegio speciale — la pazzia.

«La tua testa è troppo pesa di segreti e d'iniquità.... bisogna ch'ella ti cada dalle spalle;... Cap. XI, pag. 271.

«Madonna!» — Ed era la quarta volta che la fante così chiamava la sua signora senza ottenere risposta.

«A che mi vuoi, Ginevra?»

«Un molto reverendo frate di san Francesco venuto testè da Roma vi domanda in mercede favellarvi segretamente alcune parole.»

Ludovico, sia che al detto della fantesca porgesse mente, sia che in quel punto un poco di vigore gli ritornasse, si alza, — con gli sguardi immobili, le braccia pendenti, — la spada dimenticando e il berretto, si avvicina alla porta.

In quel medesimo istante un soffio di vento trasportava pieno nella stanza il suono delle trombe della milizia fiorentina convocanti alla rassegna.

Maria correndo dietro a Ludovico lo raggiunge, lo afferra pel braccio e seco lo traendo alla finestra esclama:

«Sentite! sentite! — Questa è voce che certamente conosce la via del vostro cuore; — ella è voce della patria dolorosa che invoca il soccorso dei suoi figliuoli. Ludovico, quando pure acquistata a prezzo di pianto e di sangue, sembra bella la gloria; — divina poi quando vada congiunta alla pietà. Non crollate il capo, non ridete, non mi dite la gloria follia sublime, — un sogno; — chè allora tutto sarebbe sogno tra noi: — e quando anco fosse così, vi hanno nondimeno sogni splendidi di luce immortale, e sogni neri dei terrori dell'inferno escono alcuni dalle porte di avorio, altri dalle porte di ebano, come finsero gli antichi. A me donna è conteso rendermi illustre per gesti di guerra, ma se a far chiaro il mio nome la fede, la costanza e l'amore valessero, ben di altre imprese mi sentirei capace che non l'antica Artemisia, la quale si bevve la cenere del suo consorte. Io amo la gloria, — e mi era caro in vita e continua ad essermelo in morte l'amico dei miei pensieri, perchè anelava la gloria e fama ebbe di prode».

Ludovico la fissò lungamente con occhi dilatati; si accorse di non avere spada, se la cinse e senza profferire parola si allontanò da Maria.

E Maria, lo contemplando dietro allontanarsi cosi sconfortato, trasse un gemito e disse: «Egli è verace amatore!»

Due frati attendevano ridotti nell'angolo più oscuro della sala che adesso traversa non li badando Ludovico; — tengono il cappuccio abbassato sopra le ciglia, la barba folta scende loro in mezzo del petto; forse in cuore saranno — ma certo nel volto non sembravano buoni servi di Dio.

Uno dei due frati, all'apparire che fece Ludovico, alzò con impeto la testa, quasi per impulso di ordigno segreto; — gli occhi di lui balenarono lungo l'orlo del cappuccio abbassato, come la vipera dardeggia la lingua da una parte all'altra della sua bocca.

«Reverendo! inoltratevi, chè madonna vi aspetta», esclama la fantesca sollevata la tenda.

Il frate, che pareva professo, accennato con la mano all'altro, che modi avea e sembianza di converso, vigilasse la porta, passa nella cappella.

Maria, in piedi davanti una gran sedia a bracciuoli ricoperta di cuoio cordovano rabescato, leva un istante lo sguardo sul frate, torna a declinarlo verso il pavimento e si compone in atto di ascoltarlo.

Perchè trema il frate? bellissimo è il volto della donna, ma egli non lo ha ancora guardato; nè così subita si accende nei petti umani la passione, nè dalle vigilie attrito e dai digiuni tanto propende ad amare il cenobita; — di terrore non trema, perchè, se il luogo è santo, egli non deve conoscere rimorsi, — e poi non fa parte di religione egli stesso? Non pertanto le gambe gli vacillano sotto, e non ha membro che stia fermo.

«Madonna!» comincia il frate esitando; e poichè non continuava — Maria dopo lungo silenzio riprende:

«Padre, vi ascolto.»

«Madonna... compiranno... quattro mesi domani che, standomi io a Roma, dove facevo uffizio di penitenziere nello spedale di Santo Onofrio fondato dalla gloriosa memoria di Papa Lione pei poveri pellegrini del suo paese, certa sera essendomi posto a giacere, nè l'animo mio come presago di qualche sventura potendo rinvenire quiete, all'improvviso intesi battere alla porta ed una voce chiamarmi: padre, affrettatevi: — un cristiano è vicino a trapassare, — venite pei sacramenti. — Mi getto giù dal pagliericcio e seguitando la guida giungo in certe camerette dove solevano chiudersi gli alienati di mente. Quivi da lungo tempo custodivano un infelice giovane travagliato dalla più fiera mania che mai avessero veduto in cotesto luogo di dolore. — Quantunque dal disagio consunto, così ferocemente egli smaniava, tante volte aveva tentato darsi la morte, che lo tenevano legato a mezza vita, ai piedi ed alle mani. — Nei suoi urli salvatici spesso riveniva la querela di un amore tradito, — di una donna perduta, — di un padre morto, e poi rampogne e minacce contro i suoi nemici, contro tutta la specie umana, non senza offendere il cielo di terribili bestemmie... in questo modo continuava, finchè con gli occhi scoppianti fuori della fronte, la bocca spumosa di sangue cadeva rifinito di debolezza. — Dapprima quel suo misero stato mosse compassione, poi curiosità; poi ascoltarono le genti quei suoi stridi furibondi con la indifferenza medesima del canto delle rondini annidate sul tetto dell'ospedale; — perchè se gli uomini ai propri mali si fanno impassibili, agli altrui diventano di pietra. — Io lo trovai con le mani sciolte, con gli occhi velati e nondimeno lieti di un raggio d'intelligenza che tramonta; — seguendo il costume del fuoco, lo spirito prima di abbandonare la sua spoglia mortale raccolse le forze a risplendere anche una volta di luce divina. — Appena ei mi ebbe scorto, chiamatomi a sè con languida voce mi disse: — Padre ascoltate la mia confessione; — io ben mi accorgo avermi un lungo delirio travagliato, — delirio pieno d'immagini terribili, in parte vere, in parte false, — nè saprei dirvi se queste più o meno delle prime terribili; — quello che so troppo bene si è, che hanno consunto il mio corpo e la mia mente costretto a bestemmiare l'Eterno, e di ciò, padre, con tutte le mie viscere mi pento, ed ho fede la mia contrizione e le vostre sante preghiere mi varranno il perdono dal Dio delle misericordie. — Però io ho molto sofferto in questa vita... e certo il dolore non ebbe paragone con le colpe. Io amai, padre, una donna di amore santissimo, — il più profondo, il più puro che mai si accendesse in cuore umano. Lo Spirito Santo ha maledetto l'uomo che confida nell'uomo, — doveva dire nella donna;... ma presso a morte io respingo questi pensieri di odio, come tentazioni del demonio, e mentre supplico e spero Dio mi perdoni, sento che me ne renderei indegno, dov'io le proprie offese non perdonassi. Vagai in contrade remote, — vidi barbare genti, soffersi geli, ardori, di ogni maniera disagi per adunare tesoro e apparecchiare alla mia fidanzata vita copiosa dei beni della fortuna: per darmi colpo più acerbo mi si mostrava il cielo cortese, e quando, dopo un'agonia di anni, delirante di desiderio e di amore, mi ridussi alle case paterne... trovai... oh inferno!... padre, mi assolvete dall'ira... imperciocchè acerba mi percotesse la ferita... trovai la mia fidanzata donna d'altrui. Quello che dopo avvenne io non rammento, — aveva un padre, e non so com'egli mi abbandonasse; — possedeva copia di averi, ed ora non possiedo più nulla: dalla mia acconcia cameretta, desto dal sonno tormentoso, mi trovo in questa sozza caverna con i polsi e i fianchi impiagati, e non mi riesce rammentarmi il come e il quando. — Ah! da quel giorno la mia anima, a mo' di aquila in gabbia ha percosso rabbiosamente la sua carcere mortale per librarsi a regioni meno triste, meno contaminate di tradimenti e di perfidie. — Ora, padre, prendete... ecco uno scritto che nei giorni del nostro amore io ricambiai con lei, e lo vergammo io del mio sangue, ella del suo: — egli contiene una promessa di mantenersi fedele, e dentro vi pose una ciocca dei suoi capelli... ohi i bei capelli, padre, che la mia donna aveva quando l'alito di primavera si dilettava a diffonderli ondeggianti per l'aere! — e vi scongiuro, per quanto possono i preghi di un moribondo, che glieli facciate tenere, o, se fortuna vi mena a Fiorenza, glieli consegnate voi stesso: — e nel punto medesimo le direte che il mio spirito deliro sempre l'ebbe presente, e che tornato appena ai consueti uffici pensò subito a lei e per lei: ditele ch'io le perdono, — che presso a morte le invoco giorni beati, — al tutto diversi da quelli ch'ella mi fece durare, — che domando al cielo non voglia sgomentarla di rimorsi in questa vita, — e scongiuro l'oblio per lei... ed anche per me, onde un giorno davanti al trono dell'Eterno io non abbia a prorompere in voci di accusa contro lei; se pianto di offese cancella dai registri di Dio la ingiuria dell'offensore, ditele che per me la sua pagina sarà trovata bianca al giudizio finale come l'ala del cigno... ditele... ch'io muoio benedicendola... e chiamando... Ma... — Gli chiuse le labbra la morte... io le palpebre. Egli non proferiva intero il nome della donna; però dalla lettera che mi dava e che io vi consegno, madonna, compresi avere inteso favellare di voi. Sopra la povera lapide del suo sepolcro segnai queste poche parole: — Qui dormono le ossa travagliate di Giovanni Bandino! — »

Un grido terribilissimo ingombra, propagandosi, le sale del palazzo, come di persona la quale trafitta nel cuore trasfonda tutta la vita in una voce: — un grido che indusse il passaggero il quale lo sentì per via a recitare requiem per l'anima di chi lo aveva proferito.

Ed in fatti il frate compagno, rimanendone percosso, affacciò la testa alla soglia favellando con parole spedite:

«Per Dio! Se l'avete ammazzata, rompete gl'indugi e ci mettiamo in salvo.»

«Aspetta — e taci», — riprese il frate; e poi si volse a Maria giacente sopra la terra, rigida, — fredda, bianca in sembianza di statua rovesciata dalla sua base, — tratto un pugnale, glielo appuntò sul cuore.

Gli occhi del frate rilucevano di fuoco infernale, il suo volto svelava tremenda esultanza, — famelica bramosia, non altrimenti che fosse uno di quei corpi scomunicati, dalla superstizione greca detti vampiri, i quali nella notte, derelitti gli avelli, irrompono per virtù diabolica nelle stanze più segrete a pascersi col sangue delle persone ch'ebbero care in questa vita.

Ancora un palpito, e la vita di Maria sarà compiuta.

Intanto la donna non bene ancora risensata mormorò a fior di labbra: «O Giovanni!... o Giovanni!... celeste anima e cara...»

Il frate arresta a mezzo colpo la mano; — grosse stille di sudore gli scendono del continuo giù dalla fronte, — ritenta ferirla, e non gli riesce; — la guarda...

Bisognava non essere nato in Italia, avere il cuore chiuso ad ogni senso gentile per disperdere un modello di così divina bellezza: — cadono al frate le braccia, gli sfugge dalle mani il pugnale, e si rimane prostrato come uomo assorto nella contemplazione di quelle sublimi sembianze.

La donna riapre gli occhi, balza in piedi a guisa di furiosa urlando con voci interrotte:

«Traditi! — orribilmente traditi! Padre..., leggete...» E brancolando trova il libro dell'uffizio dei morti, e aperta la fodera interna, ne trasse fuori una lettera, la quale porgendo al frate continuava: «Hanno le mie lacrime quasi cancellato lo scritto, pur vi leggerete il nefando tradimento... leggete.»

E il frate leggeva: «Al magnifico messere Alamanno di Ormannozzo Spini a Fiorenza. Messere Alamanno onorandissimo. Con inestimabile dolore di quanti il conobbero, lasciando grandissimo desiderio di sè è morto in questa città di Siviglia, agli sei del corrente mese di maggio, anno 1526 della salutifera incarnazione del N. S. Gesù Cristo, Giovanni di Pierantonio Bandino di accidente di gocciola per quanto ne assicurano i fisici. Con molta accompagnatura di fraterie e di lumi venne associato al sepolcro nella chiesa di questi reverendi padri di san Domenico, dove gli furono cantate esequie dicevoli alla sua condizione. Fatto il bilancio di quello si trovava a possedere al tempo della sua morte, avemo trovato il valsente tra crediti, danaio, mercanzie in essere e masserizie, di duemila circa fiorini di oro in oro, i quali vi rimetteremo con lettera di cambio sopra la nostra ragione, affinchè li consegniate a messer Pierantonio padre del morto o a chiunque altro sarà dichiarato di diritto. Pregando Dio che vi tenga nella sua santissima guardia, ci raccomandiamo a voi. — Siviglia, li 10 maggio 1526. — Vostri — Lapo e Bindo di Pierfilippo Cambi.»

Il frate alla lettura di cotesto foglio rimane come impietrito; — sospese del tutto in lui le funzioni vitali, pareva che neppure respirasse.

Maria invece quasi furente si era distesa sul pavimento e forte percotendo con ambe le mani la terra gridava:

«Padre, perchè mi hai tradito? — Giuda tradì Cristo, ma se fosse stato suo figliuolo, non lo avrebbe tradito... Uomini, imparate pietà dalle fiere del bosco... qual belva mai generò figliuoli per lacerarli così? E tu, padre, non che lacerarmi, mi hai condannata ad una morte la quale tutti i giorni si rinnovella. — Chi ti dava diritto di rendermi tanto infelice? Io non ti aveva chiesto la vita; bene ti chiesi la morte, — ma poichè il mio morire ti nuoceva, tu fingesti atterrirti come di cosa contro natura. Ella era cosa dunque secondo natura immergermi in questo abisso di dolore? Io però non maledirò la tua cenere, ai tuoi rimorsi non aggiungerò le mie furie; ma vedi, se sopra la terra che ti cuopre il cumulo dei miei affanni io deponessi... oh! quanto ti sembrerebbe più grave! E tu, Vergine Beatissima, ch'io sempre riveriva ed amava, ov'eri allora che sì crudelmente tradivano la tua devota? Se in questo modo chi ti venera proteggi, che farai a cui ti odia? Qual frutto trarranno i mortali, se invece d'invocare il demonio innalzano al cielo le loro preghiere?... — Oh! santa Madre di Dio, abbiate misericordia, — consolate una povera afflitta; io non so quello ch'io mi dica... parmi girare su l'orlo di un precipizio. Padre, pietà! Padre, accostatevi, dacchè il cielo vi manda, udite anche la mia confessione... voi lo vedete, non ho mancato di fede... io... io sono stata tradita.»

Genuflessa la donna abbraccia le ginocchia del frate, e tra i ruvidi lembi della tonaca nasconde la faccia delicata.

«Lo vidi nella cattedrale, mi apparve in mezzo ad una bianca nuvola d'incenso, bello siccome un angiolo, e sospirai, — fu il sospiro primo di amore; uscendo di chiesa lo rividi chinato per dare la elemosina ad un mendico e consolarlo con una parola, la quale meglio della elemosina scende soave di refrigerio sul cuore del misero; — io mi fermai: — egli raddrizzò la vaga persona, — i miei occhi s'incontrarono nei suoi, gli s'infiammarono le guance, vermiglie diventarono le mie; — e da quel punto fummo legati per sempre. Dapprima i parenti si mostrarono avversi, non per viltà di sangue, ch'egli pur nacque di gentile lignaggio, sibbene per pochezza di averi, — e anche a lui increbbe non potermi offerire magnifico stato: ci fidanzammo con solenni giuramenti, e partì in cerca di ventura. Invano presaga del futuro io gli diceva: Rimanti, quello che possiedi basta ai miei desiderii; forse mi sembrerai più bello o più ti amerò io vestito di abiti soppannati di vaio con cinti e catenelle di oro? — Non mi badarono, e partì: — Voi avventuroso, padre mio, che le passioni umane sentite come onda di mare che percuota le pareti dei vostri monasteri; — ignaro dei nostri errori, non vi dirò come, partendo il mio Giovanni, mi paresse trovarmi abbandonata in una via senza principio e senza fine; — camminava sola, imperciocchè nel creato lui soltanto io vedessi. — Tacerò la serie infinita delle angosce che non hanno nome, sebbene abbiano punta; — il bel cielo di Fiorenza mi pesava sull'anima. Ah! l'occhio lieto ed il sole si ricambiano il raggio a guisa di due amici che si amino, ma l'occhio doloroso lo aborre; — l'amarezza segna con una tacca sul cuore i giorni consumati nell'ansietà. In prima qualche lettera rara venne a confortarmi; — quindi cessano affatto! Verso cotesti tempi incominciò a prendere domestichezza con la mia casa Nicolò Benintendi: — mille profferte di amore uscirono dalla bocca di lui, ed io non le udiva, essendo il mio spirito con Giovanni. Ben si mossero da Nicolò e da' miei caldissime istanze, quotidianamente rinnovate, ond'io fossi contenta di averlo per mio sposo: alle quali parole, come se non fossero discorse per me, sorrideva; qualunque argomento riuscì invano, ogni tentativo venne meno. — Un giorno.... giorno d'infamia.. nel quale un padre non aborrì rompere il cuore della figlia... egli.., mio padre, con sembianza mesta, non senza prima allargarsi in discorsi intorno alla necessità di rassegnarci ai divini voleri... mi mostrò cotesta lettera. Crudelmente pietosa, la povera madre mia, ingannata pur ella, mi salvava la vita;... dopo molti mesi potei sollevare il fianco infermo...; nella contesa tra l'angoscia e la natura, la natura prevalse... e sopravvissi. Adesso ricomincia l'assedio; mi dissero il padre mio, per mala fortuna incontrata nel traffico, sul punto di fallire, con molte lacrime mi presentarono la chiarezza della famiglia avvilita e un nobil vecchio condotto a gran vergogna in Mercato Nuovo a ricevere lo strazio dagli statuti decretato ai falliti[173]; non risparmiarono già affacciarmi alla mente gli schiamazzi della plebe, la gravità dell'infamia, il padre moribondo per l'atto obbrobrioso, — e per altra parte avrebbe tanta iattura riparato il Benintendi, quando io avessi consentito a tôrlo in isposo; non che altro, la voce del sangue volere da me questo sacrifizio; ben volontieri mio padre avrebbe data la vita, per conservarla non si sarebbe veduto supplicare i figliuoli; ma se poteva sostenere la morte, non potere la infamia: — e non rifuggirono dal chiamare in soccorso la religione, chè il confessore assicuravano sarei certamente andata perduta, se potendo, non avessi in tanto estremo soccorso i genitori — avere i giuramenti al Bandino sciolti la morte. La esitanza della sconsolata tennero per consenso, mi condussero alla chiesa... Qui mi parve le statue dei santi aprissero le labbra di pietra per rampognarmi la mia infedeltà, — le ossa dei morti si commovessero sotto il pavimento, — la cupola tenebrosa del duomo mi si rovinasse sul capo. — Mi percosse uno strido... Santa Vergine! avrei giurato fosse quello del mio diletto Bandino... poi nè intesi... nè vidi più nulla; — risensando all'aria aperta, una schiera di uomini e di donne, secondo il costume del paese, mi facevano il serraglio, impedendomi l'andare, se io prima non dava loro i soliti doni. La mia anima impaurita immaginò fossero spettri che mi si aggirassero attorno e mi chiedessero la vita; ond'io tolta fuori di me gridai più volte: — Prendetela, oh! prendetela... è mia amica la morte. — Il mio marito mi amò di breve affetto: forse quando mi ricercò sposa con tanto ardore non lo mosse alta passione, piuttosto impeto di giovanile desiderio: — forse anche gl'increbbe la moglie sempre lacrimosa e che non lo amava e non può amarlo. — O padre mio, io ho durato e tuttavia duro una molto tremenda battaglia qui dentro; — sento che dovrei dimenticarmi il caro defunto, ma non oso domandare al cielo la grazia che mi ucciderebbe di certo, — quella di obliarlo. Troppo prepotente impera la sua immagine nel cuor mio, — egli solo accelera o sospende il sussulto dei polsi... egli posa meco nel talamo nuziale, e la sua testa si pone terribile tra il mio marito e me; se mi prostro davanti al Crocifisso e lo prego di pace all'anima stanca, ecco che il Cristo si veste delle sembianze di lui... del mio Giovanni e parla... e dice: — Vedi quanto soffro per te! — Padre... vedete... tanto mi s'insinua nel sangue la contemplazione dell'infelice amante... che... ora... in questo punto mi sembra... padre... voi abbiate il suo sguardo... la sua fronte... la...»

«Donna, e se il cielo ti rendesse Giovanni lo seguiresti, abbandonata la tua casa maritale?...»

«Oh! non lo dite; il sepolcro non lasciò mai la sua preda.»

«Ma, se te lo rendesse?...»

«Pietà, padre! misericordia! Sovente il mio povero intelletto vacilla su l'orlo della follia, — non vogliate precipitarvelo a forza... io... io divento folle, se aggiungete parola.»

E il frate, gettate a terra la cocolla e la finta barba, comparve, qual era un cavaliere notabile per egregie forme del corpo.

«Donna, la tua fede ha vinto; la morte...; ecco il cielo ti rende Giovanni Bandino.»

Maria, spiccando un balzo, fugge nell'angolo più remoto della cappella, e quivi rannicchiata si coprendo la faccia esclama:

«Gran Madre di Dio, salvatemi da questa illusione del demonio.»

«Stolta!» proruppe il Bandino accostandosi a lei, e toltele a forza le mani dagli occhi, se le poneva sul petto aggiungendo:

«Ti paio spirito io? ti sembra egli morto il cuore che palpita così? Dalla feroce ira che m'invade le membra, dall'odio intenso che gli occhi mi riempie di sangue, dal tremendo anelito non mi conosci vivo?...»

«Vivo!... sì... oh tu sei vivo davvero.»

E cieca della mente, mal sapendo quello si dicesse o facesse gli si abbandona nelle braccia, baciandolo smaniosa per le mani, pel seno e pel volto.

«Mi ami, Maria?»

«Più di me... più di Dio!»

Ah.... Ora dunque vieni... non ci fermiamo un momento in queste pareti abominate; — sopra il limitare delle porte della nostra città noi ci scuoteremo la polvere dei sandali, dall'anima ogni affetto che non sia lo scambievole nostro amore: — dimentichiamo per non esecrare, — fuggiamo per non uccidere...»

«Ma! dimmi, Giovanni, dove mi meni? E donde vieni?»

«Che importa a te sapere donde vengo o dove io vado? non sono io tutto per te? — Questo però sappi che, se vivo mi sospettassero in queste mura, la mia testa penderebbe domani dalle finestre del palazzo dei Signori.»

«Oh! non dirlo.» E con ambo le mani la donna avvinghiava il collo del cavaliere, quasi per salvarlo dal taglio della scure.

«Vieni dunque...»

«Verrò...»

«Esiti forse?»

«Verrò...»

«E non ti muovi! Ti penti già avermi detto che mi ami?» grida battendo del piede la terra il Bandino.

«Oh! non isdegnarti, Giovanni... eccomi... però...» Maria la fronte si tocca e il seno: «Mi sembra essermi dimenticata qualche cosa, di cui non posso risovvenirmi adesso, e che pure mi stava fitta qui nel capo e nel cuore, — qualche cosa che mi era ben cara e che tu mi hai fatto porre in oblio...»

«Maria!» si udiva chiamare dalle stanze interne una voce fioca per età, «la tua figliuola si è desta, vieni a racchetarla che piange.»

«Ahi! me n'era dimenticata... La figlia...»

«Figlia... di chi?»

«La mia figliuola.»

«Del Benintendi è figlia!» con urlo spaventevole replica il Bandino, — e fa con la destra cenno, come se, afferrata la creatura pei piedi, intendesse spezzarle il capo alla parete.

La madre per istinto comprese quel truce cenno e si scagliò traverso la porta, dove accesa nel volto i muscoli della gola gonfi, guardando torta:

«Addietro!» gridò! «addietro! o ti straccio co' denti... addietro, o ti sbrano»; poi all'improvviso vacillando si prostra, tende le braccia al cavaliere e gli si raccomanda: «Giovanni mio, io l'ho generata; — nove mesi la tenni nel mio seno; con molte angosce l'ho partorita... io l'amo... io l'amo quanto te; — la prima parola che proferì fu Maria, — la seconda Giovanni;... ella ti ama... ella ti aspetta come un amico lontano... non farle male, via... non me la uccidere... potrei io mai più baciarti le mani, se tu le bagnassi nel sangue della mia figliuola?»

«Viva, — ma lasciala: io non potrei vederla senza che il sangue mi ribollisse nelle vene; — lasciala e seguimi.»

«Ma che! il calice del dolore è senza fondo per me?» esclama angosciosamente Maria levando al cielo le braccia; «come abbandonare una figliuola che piange?»

«Madre, — figlia, marito — ed amante... conservare tutto non puoi; — un cuore devi pur calpestare, un vincolo sciogliere... rompere un affetto... tra questi scegli: — io qui mi sto silenzioso ad aspettare la scelta.»

La donna, traboccando giù sopra la sedia, con voce cupa proferisce queste parole:

«Il mio cuore si rompe...»

La fantesca, la quale dai pianti e dai gridi aveva in parte argomentato il mistero, prorompe di repente nella cappella dicendo:

«Madonna! — messere Nicolò con molta accompagnatura di cavalieri viene su per le scale del palazzo.»

Maria dal nuovo pericolo commossa sorge, e guardando il Bandino, lo chiama con voce amorosa:

«Giovanni!»

Il Bandino con le mani sotto le ascelle rimane immobile senza darle risposta.

«Giovanni, per l'amore di Dio... nasconditi... parti...»

«Anzi starò: — egli mi deve la vita,»

«E i cavalieri che lo accompagnano?»

«Faranno testimonianza ch'io mi comporterò lealmente, quando, strappatogli il cuore, glielo batterò sulle guancie.»

«E poi chi ti salva della Quarantia e dal carnefice?»

«Questo!»

E le mostrò il pugnale.

«Oh Vergine! — E la mia fama, Giovanni!»

Intanto si ascolta lo strepito dei passi dei cavalieri e il rumore confuso delle voci gioiose. Il compagno del Bandino entra pur egli nella cappella e trema come uomo che si accosti alla sua ultima ora.

«Messeri, io vi accerto che voi non riuscirete: mi duole dirvelo, ma gitterete tempo e parole...» — così si udiva favellare Nicolò Benintendi, marito di Maria, dalla prossima sala.

«Con pace vostra, messere Nicolò, non vi abbiamo fede; — noi la sappiamo sopra ogni altra gentildonna della città nostra cortese, — nè vorrà negare alla sua amica la grazia di tenerle il pargolo al sacro fonte...»

E molte voci rispondevano: «No, certo; troppo grande villania sarebbe questa.»

Il Bandino, levati gli occhi al cielo in atto di minaccia, sospira profondo e favella:

«Ah! questa è la prima volta che deliberai nel mio pensiero la morte di un uomo e non lo uccisi; — cosa differita non va perduta.»

Così parlando insieme col compagno si ritrasse oltre i balaustri, ed abbassate le tende si nascose.

Entrano clamorosi nella cappella Nicolò Benintendi e i suoi compagni; loro apparisce davanti la povera Maria distesa sopra la terra, suffuso il volto del pallore della morte, per le tempie e pel corpo intrisa di sangue che le spicciava da un'ampia ferita fattasi cadendo nella testa: onde vinti da pietà e da terrore proruppero in altissimo grido.

Nicolò piegando le ginocchia a terra le toccò le tempie e i polsi, e li trovando freddi, senza palpito, rivolto ai cavalieri, non troppo sgomento, parlò:

«Signori, voi veniste per menare la mia donna al corteo di un battesimo, — ora io vi prego ad aiutarmi per associarla alla sepoltura.»

CAPITOLO DECIMOTERZO L'ASSALTO NOTTURNO

Atti orrendi da dir colà giù dove

Placido scorre il bel vostro Arno io vidi.

Forse d'altro uom giammai non visti altrove.

Annib. Bentivoglio. Sat.

Annibale Bentivoglio era soldato del papa e militava per lui contro Firenze. Io non so com'egli abbia potuto mettere in rima scelleraggini nefande dalle quali a pure pensare l'anima rifugge; e meco stesso dubitai se dovessi o no riferirle, parendomi che troppo grave offesa recassero alla natura umana ed alla dignità del libro: nondimeno mi sono deliberato raccontarne qualcheduna, affinchè i presenti vedano quanto si prolunghi la giornata di dolore che questa misera nostra patria travaglia e ne sentano pietà. Gli stupri, le violenze, le rapine, i santuarii rovesciati, le case arse; i campi, cura e diletto di pacifiche generazioni, devastati; le stragi medesime, come orrori consueti alla guerra, o non vorrebbonsi descrivere, o brevemente riferire per non mancare all'ufficio, ma gli strazi osceni erano tali da disgradarne quelli inventati dalla cupa immaginazione di Dante in pena dei commettitori di scandali nel suo terribile Inferno. Come i miseri contadini appiccassero agli alberi e quivi alle angoscie di una tormentosa agonia gli abbandonassero, nei precedenti capitoli fu scritto: però qui non restava la ferocia; spesso ti occorrevano corpi di appiccati aperti nel ventre e nel dorso da sconce ferite, e da quelle aperture rovesciarsi le viscere sanguinose; a quelli che trovavano portare vettovaglie a Firenze, sia che amore di guadagno o, come più spesso avveniva, di congiunti li conducesse, mozzata loro una gamba od ambedue, e le mani, gli lasciavano in mezzo della via; talvolta spiccata la testa dal busto, gliela legavano co' capelli della destra a guisa di lanterna, e il cadavere, così mutilato appoggiavano in piedi al tronco di un albero. Il Bentivoglio narra anche più osceno ed immane martirio, il quale, per non affaticare in tante miserie la mente, mi sia concesso riportare con le sue stesse parole:

Da otto (e che Spagnuoli eran mi avvidi

Dal parlare e dal volto) un villanello

Legato fu non senza amari gridi;

Che, partito dal suo povero ostello,

A vender biada e fieno iva a Fiorenza,

Di ch'era carco un piccolo asinello.

Quivi il misero fecer restar senza

Membro viril, che gli tagliàr di botto

Sordi a mille miei preghi in mia presenza.

Nè sazi fur di quel martir quegli otto

Ladri, del sangue italico sì ingordi,

Che l'arser ancor tutto col pillotto.[174]

Queste cose si commettevano in nome dell'imperatore apostolico e del vicario di Cristo padre dei fedeli! Così, tra per la paura di siffatti supplizii, tra per la perdita che ogni giorno s'ingrandiva del contado, la penuria cominciava a farsi sentire in Firenze. Penuria sofferta senza mormorare dal popolo soltanto; perchè ai soldati provvedeva il comune, e i ricchi, come suole, trovavano pei loro denari, nonchè il bisognevole le delicature della vita. L'erario pubblico era stremo; i mezzi ordinarii e straordinarii non bastavano a riempirlo. Allora, non restando altro disegno per adunare pecunia, furono per partito della Signoria deputati Lionardo Bartolini e Simone Gondi, due del numero dei collegi, a cavare dalla sagrestia di Santa Reparata la mitra pontificale ricca di molte gioie, donata da papa Lione nel 1515 al collegio dei canonici. Però l'effetto non corrispose al desiderio, avvegnacchè non se ne potesse ritrarre più di scudi ottomila, e il simile avvenne della croce d'argento ch'era in San Giovanni[175]. Il Giovio e l'Ammirato si sbracciano a maladire questo atto come scelleratissimo ed empio: il Giovio fu vescovo di Nocera, l'Ammirato canonico, entrambi preti; se tali non erano, avrebbero certamente saputo che dove i cittadini mettono la vita, possono anche mettere le splendidezze non chieste e nè anche desiderate dal Dio che vietò di fare orazione nelle sinagoghe in mezzo alla moltitudine degli uomini[176]. Non fu cotesto savio intendimento di governo, dacchè, come dissi, l'effetto non corrispose, e il modo increbbe. E sì che avrebbero potuto imitare l'esempio recente di Maria Padilla, la quale, per sovvenire ai bisogni della lega santa per le libertà spagnuole, s'impadronì, nel 1522, dei tesori della cattedrale di Toledo; questa savia donna, volendo togliere l'apparenza di empietà a simile azione, con molta accompagnatura di uomini vestiti a lutto, lacrime ostentando e dolore, si recò alla chiesa, dove, implorato prima perdono, spogliò i santi dei magnifici loro ornamenti[177]. Cominciavano ancora i partiti a diventare più vivi, e il governo non ardiva tentare adesso quello che tempo addietro avrebbe dovuto o potuto eseguire. La fazione dei Medici, scorgendo che dalla prigione in fuori non correva altro pericolo, rialzava la testa moderata e lusingatrice; la gioventù nobile, cagione principalissima di quel mutamento, non le parendo si facesse nel nuovo stato quel conto di lei che le sembrava meritare, il governo riprendeva e attraversava. Francesco Carduccio sbagliò cammino e pagò caro l'errore; se per acquistare i beni della libertà avesse voluto adoperare la forza della tirannide, forse nè egli nè la patria perivano; preferì all'azione le pratiche; si confidò troppo nell'ingegno, che aveva prontissimo, nella facilità di persuadere e nella purità delle sue intenzioni: in somma, in tempo di passione, ebbe fede ai ragionamenti; i partiti gli si infuriarono tra le mani, derisero imperversati i suoi consigli, e quando volle costringerli col rigore, trovò il suo partito debole e l'istrumento capace adesso a generare la guerra civile, non già a percuotere qualche colpo vigoroso per cui lo stato continuasse a procedere spedito nelle sue vie. — San Giovanni ci ha dato il simbolo dello spirito rigeneratore nei rivolgimenti degli stati: ponetevelo bene nella mente; egli porta nella destra sette stelle di luce, e dalla bocca gli esce una spada acuta a due tagli[178]. Il Carduccio, soprafatto, ebbe a scendere dal grado supremo; i suoi medesimi amici lo videro cadere indifferenti, qualcheduno anche con compiacenza, essendo proprio a questa nostra umana natura che non tutte le gioie dell'amico ci rallegrino nè tutte le sue sventure ci turbino. E qui pure io riprendo il Carduccio, avvegnadio l'uomo, finchè si mantiene privato, faccia cosa piena di dignità a confidare nella fede soltanto e nell'amore altrui, — diventato poi rappresentante del destino del popolo, deve provvedere quanto gli fu largito per amore gli sia continuato per dovere. — Gli sostituirono Rafaello Girolami, tenerissimo della libertà; degli spedienti che conducono a conseguirla in tempi procellosi imperito o aborrente; barcheggiatore per pochezza di animo, che dai codardi e dagl'inetti viene chiamata prudenza: ragione principale della incapacità sua a cotesto ufficio fu l'essere reputato da tutti capace; i partigiani dei Medici approvarono in lui l'antico famigliare di papa Clemente; i nobili come nobilissimo gli dettero favore; i moderati sperarono, aiutandolo, avrebbe procurato convenevoli accordi; anco i superlativi lo accolsero bene, perchè solo tornò dei quattro ambasciatori spediti a Cesare quando egli era a Genova, e nella relazione che fece si mostrò animoso nell'avvilire lo esercito imperiale, — finalmente perchè lo splendore del suo lignaggio induceva il popolo, quasi suo malgrado, ad avergli rispetto. Vinsero al tempo stesso per amore del Carduccio una legge per la quale il gonfaloniere cessato doveva intervenire alle pratiche ed avere voce; cosa che, somministrandogli comodo di vedere il male, non partecipava del pari potenza ad emendarlo.

Nè in campo si viveva meglio che in città; quivi peste era e fame e penuria di tutte; le paghe nulle; i soldati ridotti a campare di rapina.

Nella tenda di Filiberto principe di Orange giocavano chi a dadi, chi a scacchi, giuochi, se la tradizione ci racconta il vero, trovati da Palamede all'assedio di Troia; i più a carte come le inventò il Grignoart, per trastullo all'imbecilità di Carlo VI re di Francia, o modificate a tarocchi, scoperta non invidiabile degl'ingegni fiorentini, i quali vollero significare nei re, nel diavolo, nel papa e nelle rimanenti figure scherno o ira contro le fazioni prevalse nel governo della Repubblica: carte e figure le quali adesso non rappresentano più nulla, tranne un consumo di tempo che, attesa l'erpete morale della presente società, non può riputarsi male impiegato per la ragione che diversamente si correrebbe rischio d'impiegarlo anche peggio.

Oh! no; una parola mi è sfuggita dai labbri che l'intelletto riprova. Invano cercheresti nel mondo cosa che più del giuoco tornasse funesta agli uomini. Egli conduce seco per mano la ignoranza, la miseria, la disperazione, — più tardi il delitto. Vi rammentate il dipinto del Pussino il quale rappresenta il Tempo che suona la danza alle Ore? Così il giuoco canta in disparte un canto satanico, per cui quelle quattro furie imperversano baccanti, calpestando il cuore dell'uomo. Il giuoco compone un gioiello prezioso della corona dei principi e della tiara del papa[179].

Giocavano: e quivi, come nei tempi andati e successivi, avresti potuto contemplare il riso ostentato di chi perdeva la sua ultima moneta, — riso che muove a compassione e spavento; — la tristezza finta di chi vince, — tristezza ch'eccita rabbia; — poi le mani trepidanti di tutti; del perditore per passione di sapersi spogliato, del vincitore per cupidigia di rapire l'ultimo soldo; — e gli occhi riarsi di cupa fiamma nel disperato, scintillanti di vivido splendore nel favorito dalla fortuna, e gli ammicchi, e le parole brevi susurrate dentro gli orecchi, e il furtivo stringersi delle mani. — L'osservatore sarebbesi soffermato a considerare sopra ogni altro il gruppo dei personaggi seduti intorno alla tavola del principe. Ella era molto miserabile cosa vedere le facoltà del corpo ed intellettuali di questo nobile guerriero assorte intieramente in certo giuoco da fanciulli, un giuoco di dadi che consisteva nell'indovinare il tratto, se pari o dispari; eppure simile passione infuriava nell'anima di lui coll'impeto dell'uragano: — stirpe germana, di cui gli antichi maggiori secondo quello che Tacito riferisce, comunque della libertà zelantissimi, non aborrivano giocarsi armi, consorte, caval di battaglia e la stessa libertà; la memoria paterna religiosamente egli amava, e non pertanto dove gli fosse comparsa al tavoliere, avrebbe giocato anche l'anima del padre.

«Pèntiti! — Se Giuda è tormentato settanta volte, tu lo sarai settanta volte sette...» Cap. XI, pag. 380.

La fortuna camminava contraria al principe, ed egli, come caduto in furore e matto, gittava pugni di monete d'oro sopra la tavola, le quali appena percotevano il tappeto sparivano. I vincitori, seguendo l'usato costume, davano a beccare alla putta, che in favella di giuocatori significava sottrarre con bel garbo il danaro che la vittoria accumulava davanti a loro, e ripostolo in tasca, davano a intendere che poco o nulla avessero guadagnato, sicchè avveniva che perdessero tutti, e, a crederli, si sarebbe pensato il demonio, nascosto sotto il tappeto, si dilettasse operare cotesta sparizione.

«Andiamo via!» esclamò il principe con voce cavernosa uscitagli dalla gola e non modulata dai labbri; «questi sono gli ultimi scudi ch'io abbia sulla persona.»

Don Ferrante Gonzaga gli rispondeva:

«Principe, così vi veggo costantemente sfortunato al giuoco che, se il proverbio italiano non falla, vorrei consigliare ogni gentiluomo a non vi lasciare corteggiare la sua dama.»

«Pel corpo dei re Magi di Colonia! io perdo al giuoco e non vinco in amore: qui non occorrono altre donne che villane, le quali saliscono alla mia tenda passando per tutti i gradi della milizia, dal fante fino al colonnello.... Inoltre, don Ferrante, come non ho voglia d'imitare nell'arme il degno nostro avversario signore Malatesta Baglioni, così intendo non imitarlo in amore, perchè.... Sta a me, porgetemi i dadi. — Pari! tentiamo se una volta indovino.... tre e tre sei.... ho indovinato!»

«Dispari!» replicò Baracone della Nava prendendo i dadi e li traendo a sua posta; «sei e cinque, — pace.»

«Al diavolo questi dadi! — Datemene altri... Pari!» e scaraventa il principe con ira i nuovi dadi sopra la tavola, i quali, poichè alquanto ebbero ruzzolato, si fermarono e mostrarono un cinque e un quattro. Allora torse lo sguardo al cielo, come se avesse voluto in cotesto sguardo comprendere tutte le bestemmie che la umana razza proferse da Adamo in poi contro il suo Creatore.

Baracone della Nava indovinò la vicenda dei dadi e vinse gli ultimi scudi del principe. Tolto fuori di sè, come per forza del soverchio vino, Filiberto, con voce che parve piuttosto muggito che suono umano, gridò:

«Franz!»

E il valetto, per lunga dimestichezza educato a conoscere che cosa quella voce significasse, non era anche morta su i labbri che silenzioso in atto di ossequio accorse al fianco del principe.

«Franz! va nella mia stanza da letto e recami lo stipo di acciaio che vedrai sulla tavola.»

Un uomo calvo e barbuto, vestito alla foggia dei Fiorentini, fu visto a siffatto comando trasalire, farsi bianco nel volto, — e questo uomo si chiamava Baccio Valori, commessario pel papa nel campo. — Accostandosi su i piè leggiero all'orecchio del principe, gli susurrò le seguenti parole:

«Quale intendimento sarebb'egli il vostro, principe?»

«Giocarmeli, commessario.»

«Lo pensereste voi? — Io vi consegnai ieri sera quei quattromila ducati, a stento raccolti per le paghe arretrate dell'esercito...»

«Ebbene, non vado io pure creditore di arretrati! Primo mihi; voi, che siete dottore, ditemi: non significano elleno queste parole latine prima tocca a me? bisogna dunque che paghi me, — e poi verranno gli altri.»

«Oh! se fosse qui il sommo pontefice?»

«Lo avrei caro, specialmente se si presentasse vestito dei suoi abiti ponteficali, imperciocchè allora potrei giocarmi anche le sue gioie, e quasi senza rimorso, dacchè il diamante comperato da quel fero vecchio di Giulio II, che il Cellino accomodò al bottone del piviale di Clemente fu già del mio cugino Carlo il Temerario, duca di Borgogna; — un ribaldo di Svizzero glielo tolse nella giornata di Grandson, dove rimase morto della morte dei valorosi. — Messer commessario, comechè il mondo vi reputi, e veramente siate uomo savio, udite un consiglio di cui farete vostro senno: — non vi avvisate mai toccare cane che rode nè giuocatore che perde.... A me, Franz! — Vuoi tu affrettarti, Franz? che Dio ti confonda!»

Baccio Valori trasse un grandissimo sospiro e susurrò sommesso: O papa Clemente, tu hai pensato un diavolo cacciasse l'altro, ma per questa volta temo forte non ti abbiano a cascare addosso tutti due.

Fu portato lo stipo, e caso fosse od industria di giocatore, la mano del principe tante volte vi attinse danaro che alla perfino si trovò vuoto; egli però come colui che nella febbre del giuoco aveva perduto il lume degli occhi, non si accorse della perdita enorme, se non quando, cacciandovi dentro la mano, le dita strisciarono sul fondo e non poterono raccogliere che alcune rare monete; allora con grido convulso esclamò:

«Per Dio, me gli avete finiti tutti!»

E lanciò su i circostanti uno sguardo tagliente quanto il filo della mannaia: poi dopo dette in altissimo scoppio di riso, che pareva gli si dovessero rompere le vene del cuore, e con voce più impetuosa soggiunse:

«Ebbene, dov'è andato il brigantino vada la barca. Capitano Corrado, giuoco lo stipo. — Io lo valuto dieci ducati d'oro del sole. — Come, non costa egli dieci ducati? Io intendo e voglio che costi dieci ducati. — Vorresti, morte di Dio! tribolarmi per un ducato, quando me ne hai vinto le migliaia?»

«Ma che ho io a farmi del vostro stipo, Filiberto?» rispose un giovine pallido, di capelli rossi, di sguardo falso, appellato Corrado Essio.

«Che cosa hai a fartene? Se fosse grande dieci braccia, potresti riporvi i tuoi peccati: — essendo breve, ci metterai il tuo cervello.»

«E' mi pare che possa avanzarne da metterci anche il vostro.»

«In fè di Dio hai ragione!»

«Ora via, facciamo come vi piace; — ecco i dieci ducati.»

Gittarono i dadi: il tratto tornò contrario all'Orange, il quale si morse le labbra fino a cavarne sangue, e nel tempo stesso alcune gocce di sangue furono vedute scendere di sotto la veste a bruttargli le calze, imperciocchè egli si fosse con la mano sinistra abbrancata forte la carne del petto e, sopra sè stesso sfogando la immensa sua rabbia, tacito tacito l'avesse in molto sconcia maniera lacerata.

«Io ho giocato lo stipo», riprese il capitano Essio, per cortesia e per farvi buon gioco; però non intendo privarvene, Filiberto, — anzi vi prego di tenerlo per amore mio.»

«Ahi! figlio di malvagia femmina! — lo stipo mi lasci? — Ho io forse bisogno de' tuoi stipi? Non so chi mi tenga dal rompertelo sopra la testa.»

E lo faceva, ma Giovanni Bandino lo tenne.

Giovanni Bandino se ne stette tutta la sera seduto a canto del principe; dal capo chino sul petto, dagli occhi chiusi si sarebbe creduto che dormisse, senonchè un braccio teso sopra la tavola e il pugno strettamente serrato dava a supporre l'occupasse qualche profonda meditazione. — Allo schiamazzo delle prime imprecazioni del principe alzò la testa e si pose a osservare, — segue con diligente sguardo le vicende del giuoco, e quanto più le vede tornare contrarie all'Orange, tanto più esulta: simile affetto dell'anima le sue labbra dimostrano con sorrisi brevi, sfuggiti dagli angoli estremi, — come faville suscitate dalla pietra percossa; la sua gioia lo tradiva giusto in quel punto in cui, gittate le braccia intorno alla persona dell'Orange, gl'impedì dare dello stipo in testa a Corrado Essio.

Questi, côlto il destro, fuggiva l'ira bestiale; e gli altri circostanti, prevalendosi della lotta tra il principe e il Bandino, il primo per isvincolarsi dalle braccia del secondo, il secondo per trattenerlo, si allontanarono. Quando il principe risensò, si rinvennero soli, allora Filiberto, profondamente avvilito, si lasciò cadere sopra una sedia, e la faccia nascondendo in ambe le mani, singhiozzò forte senza pianto e poi cominciò dolente:

«Cristo! ieri la mia fama era anche bella... gloriosa, — era splendida, — adesso poi chi vorrebbe la mia fama? — Fosse un mantello, lo rifiuterebbe il miserello ignudo in una notte di dicembre! — Sono diventato infame! — Domani verranno i soldati a domandarmi le paghe, ed io qual cosa risponderò loro? — Le ho giocate. — Noi abbandonammo le case lontane, parmi udirli dire, il sangue nostro vendemmo per mandare il soldo alla vecchia madre, onde avesse pane. — Ebbene, io ho giocato il sangue vostro... il pane della vostra madre... Tacete... o v'impongo silenzio facendovi stringere col capestro la gola.... Villani! ringraziate il cielo dell'onore che vi concedo di potere versare l'ignobile vostro sangue in vantaggio di Sua Maestà l'imperatore.... Ah! invano mi adopro a soffocare la coscienza cacciandole in gola il mio mantello di barone... la coscienza mi morde... m'infastidisce la vita.»

«La vostra tela non è anche ordita, o principe... fatevi animo....»

«Voi siete rimasto qui per godere della mia umiliazione... voi esultate della mia caduta... Italiano d'inferno, sgombra dalla mia presenza... va presto... va... altrimenti mi faccio micidiale del tuo sangue...»

«Io non ricusai i vostri conforti, ora abbiatevi i miei, e sappiate, principe, che io conosco una via per la quale non solo non perderete, ma accrescerete la reputazione da voi acquistata meritamente e mantenuta fin qui.»

«Davvero, Bandino? Oh! io ti saluterò angiolo mio custode, — non tanto per me, vedi, quanto per la nobile madre mia; ella morirebbe di dolore, se sospettasse un simile fatto..., ella scenderebbe nel sepolcro contristata. — Copritemi il volto del lenzuolo funerario, ond'io non veda il disdoro della mia famiglia, ella direbbe. — Or dunque parla, Bandino, ridammi la vita e più che la vita...»

«Bisogna dar l'assalto a Fiorenza.»

«E quando?»

«Tra due ore.»

«Tra due ore, Bandino?»

«Nulla manca. I Sanesi provvidero quattrocento scale per salire, i ferri e gli uomini per trucidarsi sono pronti.[180] »

«E a che mena l'assalto?»

«O voi espugnate la città, e allora avrete danaro più che non basta a soddisfare le paghe...»

«E se, come temo, non l'occupo?»

«Vi moriranno tutti o parte i creditori; e in ogni caso saranno tanto importuni di meno.»

«Giovanni Bandino, voi mi oltraggiate.»

«Dio me ne guardi! — le azioni meglio magnifiche che il mondo ammira trassero spesso principio da più ignobili cause: — ormai ho passato il mezzo della vita, nè già mi sono giocato gli anni, come voi i fiorini di papa Clemente; — conobbi i grandi dell'età nostra; — piuttosto che eroi davvero, mi parvero giocolieri di fama — e così penso che fosse la maggior parte degli antichi...»

«Ma la notte è troppo scura, e Dio manda giù acqua a bigonce... in qual modo si distingueranno le insegne? Come si ripareranno dal fango? I capitani biasimeranno questo mio ordine come pessimo accorgimento di guerra...»

«I capitani prima di tutto obbediranno, — e qui sta il meglio; — poi risponderemo loro essere capitani di vecchio stile: quanto più disagiato il tempo, tanto più verosimile si trovi sprovveduto il nemico; il certame a luogo e a giorno fissi occorrere nella tavola rotonda soltanto, e dal re Arturo in poi aver progredito l'arte militare: ancora, se, giusta il costume di Fiorenza, hanno le milizie nemiche festeggiato il presente giorno, come vigilia di San Martino, a quest'ora dormono sepolti nel vino: la pioggia stessa e la oscurità vi danno favore; a cagione della prima, la polvere bagnata non concederà si sparino le artiglierie; a cagione di questa, quando pure le potessero sparare, non saprebbero in che punto colpire... Sapienza militare; accorgimento astuto, amore di gloria — e sopratutto necessità di rifare i denari consigliano ad assalire Fiorenza tra due ore.

«Siete pure i cervelli sottili voi altri Fiorentini! — Fra due ore l'assalto: — è detto!»

Nell'intervallo dei vari impeti della bufera, tra un rovescio e l'altro della pioggia turbinosa, per le vie di Firenze si ode una voce orribile e dolente, come quella che a pari ora della notte suole gittare nelle ombre l'infelice travagliato dal male della licantropia.

E la voce gridava:

«La città dove il savio dorme e il pazzo veglia è derelitta da Dio. — Sciagurati! Avete chiusi gli occhi sotto cortine di seta, — domani vi sveglierete sotto una corda di canapa. — Alle mura! — alle mura! — i nemici prorompono.»

Dal paragone che fanno spontanee le fibre dell'uomo a grande agio disteso nel letto tra il suo stato presente e quello del misero raggrizzito dal freddo, — battuto dalla tempesta, nasce un godimento il quale si potrebbe molto acconciamente da qualche misantropo attribuire alla malignità insita nella nostra natura. Però chiunque udiva la voce si avviluppava più stretto nelle coltri, esclamando con compiacenza:

«Io sto meglio del Pieruccio!»

All'improvviso rimbomba un colpo d'artiglieria. Il nostro cittadino balza a sedere sul letto e tende l'orecchio, timoroso di non essersi ingannato. — Un altro colpo, — Ch'è questo? — Qual nuovo caso ci minaccia adesso? — Comincia la campana dei Signori, rispondono le campane di santa Reparata, — tutti i campanili della città suonano a stormo; le artiglierie spesseggiano i tiri. — Misericordia! questa è l'ultima notte della mia vita! — E il cittadino poc'anzi lieto delle tepide piume si gitta giù scalzo sul pavimento, apre le imposte e nudo si espone al gelato mordere dell'aria; ode un frastuono confuso di gente che corre e che grida, ma non gli riesce distinguere cosa che valga a toglierlo dall'ansietà. Si veste in fretta, cinge la spada e, nulla badando alla pioggia, al freddo, ai pericoli, precipita sulla pubblica via. — Vi furono padri di famiglia i quali, inteso il primo colpo di artiglieria, si tolsero pianamente dal lato alla moglie, sperando e pregando ch'ella pure dormisse; ma la consorte si sveglia e desta i figli, e con essi loro si pone traverso la porta, contendendo al marito l'uscita; i figli gli stringono le ginocchia, la moglie lo abbraccia su i fianchi; pianti e singulti che spezzano il cuore: «Oh! non uscire, perderai la vita.» — «Figliuoli miei» parla blando il buon cittadino, «mia dolce consorte, s'io pur rimango, il nemico espugnerà la terra, e me ucciderà con voi, — meritamente, — invendicato, perchè mancai alla patria: se mi lasciate correre alle difese, ributteremo i barbari... o in ogni caso non morirò senza vendetta... nè i vostri occhi saranno funestati dalla mia strage... Sgombratemi il passo, — tacete — e datemi l'arme.» — Tacquero — lo armarono, e quando fu partito ripresero il pianto con l'impeto del fiume che rotto l'argine straripa. Altrove la madre destò il figlio e lo spinse fuori delle domestiche mura: non mancarono donne le quali, mentite o non mentite le vesti, vollero a ogni costo uscire a combattere con gli amanti o mariti loro. E Benedetto Varchi racconta come, occorrendo anch'egli a fare il debito suo, incontrasse presso Santa Maria delle Grazie un popolano il quale traeva a gran furia seco un figliolino, ed avendogli domandato perchè così il menasse, n'ebbe in risposta: Voglio ch'egli o scampi o muoi meco per la libertà della patria[181], atto e parole degne piuttosto di paragonarsi alle antiche romane che anteporsi alle miserabili nostre moderne. Le ombre della notte furono vinte da quantità inestimabile di torce e lanternoni: accesero i cittadini chi due, chi quattro lumi, sicchè vi si vedeva come se fosse stato di bel giorno. Tutte le vie che menano alle porte et là d'Arno e i quattro ponti si empirono di genti volte a difendere quel lungo tratto di mura che da porta San Nicolò si prolunga fino a Porta San Friano. La milizia fiorentina comparve subito, in punto di ogni arme, quasi per incanto. Non che mostrassero sbigottimento, era in tutti un ardore, una esultanza non altrimenti che se andassero convitati al festino. Il signor Stefano Colonna, l'Arsoli, il Bichi, con altri capitani di conto e soldati vecchi, non capivano in sè dalla meraviglia; allora cominciarono a tenere non pure possibile, ma certo quello che spacciato credevano dianzi, voglio dire la salute della terra; tanta prontezza, così grande perizia avrebbe stupito in uomini per lunga disciplina esercitati nelle fatiche militari. Tanto può nei petti umani il vero amore della libertà! E quinci imparino a non disperare i presenti, imperciocchè se a Dio era concesso dire: Sia luce, e luce fu: alla libertà parimente fa data potenza per ordinare, allo schiavo: Diventa eroe; — ed in quel fango prenderà ad agitarsi un'anima sorella a quella del Ferruccio, o di qual altro capitano glorioso delle passate età o delle presenti. La pioggia e il freddo non si curavano. L'artiglieria fu posta al coperto e sfolgoreggiò di fronte e dai fianchi con incredibile celerità il nemico. Con urli che andarono al cielo, l'archibuso di Malatesta dal bastione di San Giorgio spararono due volte. Non avrebbero gl'imperiali trovato così gagliardo intoppo, se fossero stati attesi. Dall'altra parte i nemici si mostrarono degni della loro fama; appoggiate le scale ai bastioni, vi salivano silenziosi e guardinghi, sperando cogliere le guardie alla sprovvista, allorchè videro una molto strana figura, angelo o demonio che si fosse, volare sopra una di quelle, e giunto in cima ai bastioni urlare con gran voce:

«All'arme! all'arme! — il nemico appoggia le scale alle mura... Pieruccio le ha salite per darvene l'avviso.»

Un orlo di fuoco manifestò il contorno delle bastite di Firenze, le palle degli archibusi fioccarono spesse quanto la pioggia; gl'imperiali, disperati potersi più oltre nascondere, fatto buon viso alla fortuna, continuarono a salire, animosamente gridando: Sacco! palle! città presa!»

«Eretici senza fede! muggiva Lupo, udendo quel grido di sopra al suo campanile, città presa! Almeno aspettate a dirlo quando porrete il piede su la piazza dei Signori; mentre si allestisce la festa, io vi mando la treggea.» — E qui, toccati i sagri con la corda accesa, lanciarono un nuvolo di schegge mortalissime contro il fianco degli assalitori.

Comechè il danno che usciva da coteste scariche fosse notabile, pure a Lupo non pareva di fare frutto conforme ai suoi desiderii: in quei tempi, non conoscendosi il modo di caricare i cannoni a metraglia secondo i nostri moderni argomenti, vi ponevano dentro certi sacchetti pieni di vetri rotti, di pietra, di ferro e simili altre sostanze; onde avveniva che cotesti volumi poco tratto passassero e, di leggeri sciogliendosi, quasi morta spandessero la contenuta materia.

«Per San Giovanni Battista! stanotte abbiamo a crepare insieme», brontola Lupo percotendo forte della mano sui sagri, e prende doppia carica di polvere, poi mette la palla di pietra, dopo la palla il sacchetto delle schegge: certo, egli corre presentissimo pericolo che i sagri dirompendosi in pezzi non lacerino lui e due uomini attenti ad aiutarlo; ma veruno di loro vi bada, e caricano e scaricano, le artiglierie con tanto mirabile prestezza che Lupo alla fine, palpandole con la mano quasi in atto carezzevole, ebbe a dire:

«Hanno predicato assai; adesso bisogna rinfrescarle. — E fattasi portare una bigoncia di acqua, procurava freddarle; poi si rimise all'opera più affaccendato di prima.

Gli Orangiani, quantunque per continue perdite si vedessero scemi, non rimettevano punto dell'ostinatezza di volere espugnare la città: pareva loro, ed era troppo grande vergogna, che, vincitori in mille scontri di milizie vecchie, dovessero ora voltare le spalle dinnanzi ad una mano di uomini pur testè intenti ai fondachi e alle arti della seta e della lana; ormai non isperavano più di vincere, ma prima di ritirarsi desideravano o vendicare la morte di qualche compagno, o di alcuno bel fatto onorarsi. Per questa volta la fortuna era disposta a camminare del tutto loro contraria. Un alfiere d'incredibile ardire e di singolare prestanza si vantò tra i suoi voler porre in cotesta notte la bandiera su le mura di Firenze o morire; per esser più spedito, non tolse altra armatura che la barbuta e la rotella, già, perigliando su l'aereo cammino, perviene al margine estremo del bastione, lo tocca, e spiccato un salto, lo preme: alza il braccio per piantare la bandiera, apparecchia nei capaci visceri il grido annunziatore del vanto adempito agli amici, quando ecco giungere tempestando a quella volta Dante da Castiglione; egli, secondo l'usanza sua antica, con ambe le mani stringe la spada, e allorchè il barbaro meno se lo aspetta, acconsentendo della persona, con tale smisurata forza gli abbriva un manrovescio che gli spicca la testa dal busto e taglia parte della bandiera; la testa e la bandiera cascarono rotolando in città, il busto mutilato, con le mani prosciolte, sgorgando delle vene recise un torrente di sangue, rovinò lungo le mal salite scale; in quel punto alcuni archibusieri fanno fuoco, e la luce che n'esce rischiara l'orrendo spettacolo. L'una parte e l'altra prorompono in gridi di spavento; — un istante si posano, — quindi ritornano ad affrontarsi molto più feroci di prima.

Un altro bel colpo fece il capitano Ferruccio; questi scorrendo di su e di giù con in mano un'accètta per tenere sgombro quel tratto di muro che egli guardava, vide sporgere il capo di un cavaliere, poi le spalle, poi ambedue le braccia, e stenderle e forte abbrancare la muraglia: «Frate, troppo pronte avesti le mani», disse il Ferruccio, e giù calando l'accètta, gliele recide fino alla giuntura; traendo costui doloroso guaio, il corpo abbandonato precipita sopra il capo degli amici sorvegnenti. — Ancora uno dei nostri si strinse in lotta su l'orlo del muro con certo soldato spagnuolo: il Fiorentino s'ingegnò traboccare l'avversario fuori delle mura; per lo contrario lo Spagnuolo tenta spingere il marzocchesco giù nella città; adopra ognuno l'estremo di sua possa; non pretermisero sforzo che l'uno all'altro potesse rendere superiore; si urtarono con la fronte, si offesero co' morsi; il Fiorentino colto il destro, pone al nemico la gamba traverso, e questi, squilibrato, rovescia: però cadendo, sì forte si appiglia alla vita del nostro che entrambi in un fascio scompaiono dai muri. Il caso ordinò che lo Spagnuolo, percotendo con le spalle sul terreno, rimanesse morto; il Fiorentino, dallo sbalordimento in fuori, non rilevò altro male, sicchè mentre tuttora i compagni si addoloravano sopra la sorte di lui, lo videro ricomparire in mezzo a loro, molto raccomandandosi che, scambiatolo per nemico, non lo uccidessero. Troppo sarebbe lungo e per me e per chi legge sazievole raccontare partitamente le strane venture di guerra che in quella notte successero. Stefano Colonna con buono intendimento si pose in disparte con quattro fra le migliori compagnie della milizia, e dovunque il bisogno vedeva maggiore di aiuto, mandava una o due compagnie, le quali giungendo fresche, ributtavano ferocemente il nemico. Filiberto, sconfortato da tante morti ordinò si ritirassero le schiere, guardando prima di portar seco i cadaveri dei compagni, affinchè i nemici, contemplata la mattina la strage, non avessero motivo di andare baldanzosi; e così, come ordinava fu fatto, tornandosi tristi là donde poc'anzi con tanta audacia d'orgoglio si erano dipartiti e maledicendo di cuor loro il misterioso signore, il quale, pochi anni avanti, gli aveva spinti ad incontrare morti e ferite contro un papa, a favore di cui mandavali adesso ad esporre la vita. Grange, camminando verso la tenda, si volse dintorno a sè, e scorgendosi prossimo il Bandino, gli disse in suono turbato:

«Or che cosa abbiamo guadagnato noi dal vostro consiglio, messer Bandino?»

«Parmi moltissimo.»

«E come?»

«Prima di tutto ci ha guadagnato il paradiso (ma questo, credo, meno di ogni altro), perchè se alcuna anima buona viveva tra noi, sciolta stanotte dai legami terreni, se ne andò diritta diritta alle dimore celesti.»

«Tregua ai motteggi... noi camminiamo sul sangue.»

«Con buona licenza vostra, messere lo principe, lasciatemi proseguire; in secondo luogo, più del paradiso per le allegate cagioni guadagnava l'inferno; — sopra tutti avete guadagnato voi, principe.»

«Io? tu mi deridi?»

«Dico da senno io; non sapete voi che il capitano Corrado Essio, venuto a morte, vi ha istituito erede d'ogni sua facoltà?»

«Corrado è morto? Ahi! mio buono, mio leale amico, io ne terrò il cuore afflitto fino...»

«A domani.»

«Dimmi, Italiano, in nome del tuo Dio, già non lo avresti tu ucciso nella notte... alle spalle... Italiano?»

«Gli assassini ci vengono di Spagna, messere lo principe. Corrado Essio lasciò le braccia recise sopra i bastoni di Fiorenza, — l'anima a cui di ragione, — li denari a voi.... onde potete dormire tranquillo la rimanente notte.»

«Oh! Chi sa domani con quanto biasimo riprenderanno la mia fama...?»

«Domani i soldati pagati vi leveranno a cielo.»

«Ma i morti..., Bandino..., i morti?...»

«Se fanno rumore, chiamatemi, — io saprò costringerli al silenzio. Su via state di buon animo; — voi mi parete fanciullo. Ch'è che dice il Vangelo? Due passeri non si vendono eglino un quattrino? Pur nondimeno l'uno di essi non può cadere in terra senza il volere di Dio[182]. Però concludo che i morti avevano a morire.»

«Sta bene: — anche sventura a qualche cosa è buona. Dio vi tenga in guardia, Bandino.»

Il Bandino, rimasto solo, stese la mano in atto di minaccia dalla parte ove giace Firenze ed esclamò:

«Quanto mi tarda la vendetta! — Pur quando dovessi rimanermi solo ad oste contro di te, Fiorenza, o per forza o per tradimento vedrai il tuo giorno finale.»

CAPITOLO DECIMOQUARTO IL MORTICINO DEGLI ANTINORI

Ma già distendon l'ombre orrido velo

Che di rossi vapor si sparge e tigne;

La terra, invece del notturno gelo,

Bagnan rugiade tepide e sanguigne.

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Per sì profondo orror verso le tende

Degl'inimici il fier soldan cammina.

Torquato Tasso.

Mostrandosi co' gesti e nel sembiante acceso di furiosissimo sdegno, si affretta Malatesta Baglioni a salire le scale del palazzo della Signoria; impedito però dal grave morbo che gli teneva attrappite le membra, egli offriva spettacolo di sè a un tempo stesso burlevole e pietoso d'ira e d'impotenza: appena era giunto con isforzo faticoso al sommo della prima scala, lo sovvenendo di appoggio Cencio Guercio; — senza di lui sarebbe per certo caduto a mezzo.

Dante da Castiglione seguitato dal Morticino degli Antinori traversano ratti il cortile del palazzo: il primo ha in mano una bandiera imperiale mozza della picca e insanguinata; l'altro porta anch'egli un involto sordido di sangue. Dante, poderoso di membra, si caccia su per la scala montando a quattro a quattro i gradini; il Morticino, di persona breve, uguaglia con la speditezza dei moti il suo gigantesco compagno, sicchè, o preoccupati non vedendo, o spregiatori non badando Malatesta, passano oltre pronti e fugaci, quasi apparizione di forza e di agilità. L'ossequio mancato non fu ciò che increbbe al Malatesta; gli morse il cuore la invidia quando notò i muscoli stupendi e le forme statuarie del corpo del Castiglione. Proruppe in cotale un suono di gola simile a quello che la volpe fa quando schiattisce, ed una crispazione nervosa gli abbrividì il corpo intero.

Cencio, che ai giorni nostri potrebbe chiamarsi il suo Mefistofele, uso, per la pratica grande che ne avea, a conoscere dai moti più lievi l'intimo pensiero di lui, con motteggio beffardo e voce lenta gli disse:

«Perchè desolarvi? ai casi nostri omai non abbisognano più le facoltà del soldato...»

«Ah! finchè fui della persona gagliardo», rispose Malatesta, «non seppi volgere l'anima a tristizia.»

E diceva bene: così poi questo apparisce vero, che, quante volte alle donne piglia il talento di farsi scellerate, assai più le proviamo malvage degli uomini facinorosi; colpa la debolezza. Nerone era vile.

Giunto nella stanza dei Signori, Malatesta quasi garrendo incominciò:

«Vicende gravi succedono in Fiorenza, ed io ne aspetto invano ragguaglio! — Si dà fuoco a tutte le artiglierie, e da me non parte ordine alcuno! — Si provoca il nemico, s'ingaggia battaglia, e non si avverte Malatesta Baglioni! — Magnifici Signori, sono il vostro capitano generale, o che sono io? Molti obblighi mi stringono a voi: qualcheduno però anche voi a me; altrimenti parrebbe molto più onorevole cosa alla reputazione mia e molto più conveniente alla fama di saviezza che di voi suona nel mondo mi ritiraste la dignità la quale poc'anzi con tanta benevoglienza voleste conferirmi; certo voi voleste, o messeri, esaltarmi, non vituperarmi per le terre d'Italia...»

«Messere Malatesta», riprese il Castiglione, «e' par che voi ignoriate come gli assaliti fummo noi; e voi intendete che se prima di ributtare l'assalto avessimo dovuto impetrare la licenza vostra o d'altrui, a quest'ora i nemici terrebbero questo nostro palazzo.»

«Voi non dite il vero, messer Castiglione: i nemici erano provocati; le nostre artiglierie spararono prime contro il campo imperiale.»

«Signor Baglione, qual conto facciate voi della parola d'un gentiluomo a Perugia io non so; ma voi è ben che sappiate, i gentiluomini a Fiorenza non aver mestieri di sacramento per essere creduti. — Guardate mo' vi par ella questa una bandiera imperiale? Cadde dalle mani di uno degli assalitori venuto sopra i bastioni in città.»

«Chi ve l'ha data, messere?»

«Ma... la tolsi io medesimo di mano al bandieraio...»

«E con la insegna gli tolse ancora un'altra cosa,... guardate!.... la testa....»

E sviluppato dall'involto un capo reciso, il Morticino degli Antinori lo lascia cadere in mezzo della sala.

«Morte di Dio» strilla il Baglioni ritirando precipitoso i piedi a sè per timore non gli s'imbrattassero di sangue: «togliete via quella testa... toglietela via. — Cencio, chiudile gli occhi! — fa che non mi guardi; — non la ravvisi, Cencio? Ella è la testa di Giorgio da Gioiella, il nostro antico compagno di arme nelle guerre di Lombardia... Ahi sciagurato Giorgio! — Magnifici Signori», riprese quindi non senza dignità, «destino del soldato è morire in battaglia; mi dolgo dell'antico commilitone, non del suo fine: ciò poi di cui massimamente mi dolgo si è questo, che non avrei mai creduto si traessero a vituperio le reliquie del soldato in tale città che sopra ogni altra d'Italia si vanta gentile; no, io non mi sarei aspettato a vedere rotolare sul pavimento della sala dei Signori e alla presenza vostra il capo reciso di un soldato caduto da valoroso.»

Dante si volse con acerbo piglio al Morticino e sì lo garrisce:

«Antinori, vi aveva pur detto lasciaste quel capo onde cristianamente lo seppellissero: Dio si ha per male che l'uomo abusi della vittoria.»

«Per me non so bene se più mi giunga gradita la vista del nemico spento, o la faccia della donna mia; e non leggermente ho creduto che l'animo di questi eccelsi Signori avrebbe preso maraviglioso diletto a contemplare la testa di chi primo osò violare le mura di Fiorenza.»

Francesco Carducci, il quale per la morte di Alessio Baldovinetti era stato eletto de' Dieci di libertà e pace, ed oltre a questo teneva l'ufficio di commissario sopra la guerra, non si dipartiva più di palazzo disperando e nondimeno affaticandosi alla salute della patria: però, trovandosi presente a cotesto caso, aveva da prudente ed acuto osservatore atteso fino a quel punto senza proferire parola ai detti e ai gesti nei diversi personaggi; allora con grave contegno, chiamato un mazziere, ordinò:

«Fa di portare cotesto capo tronco al cappellano, e impongli da parte dei Dieci lo seppellisca in sacrato; poi manda, o torna a nettare il pavimento.»

L'Antinori ravvisò in coteste parole una rampogna al suo operato, e ne sentì acerbo rammarico; amico o avverso al Castiglione, quantunque volte veniva a paragone con lui ne disgradava la fama: gli si accosta per tanto e con motteggio maligno gli susurra all'orecchio:

«Dante mio, voi mi sapete di frate un giorno più dell'altro: — io v'indetto fin d'ora per mio confessore quando vestirete la cocolla.»

«Morticino, accogli in seno un poco di carità patria: vesti l'anima tua di virtù vera, e non abbisognerai di confessore; — perchè molto più che confessore valente giova non aver peccati a confessare.»

L'Antinori alzò cruccioso le spalle e si trasse in disparte. Dante, volgendo la favella al gonfaloniere, a' Priori, ai Dieci, per cagione del sonno interrotto e dalla strana scena avvenuta sotto i loro occhi non bene ancora memori di sè, e sopra gli altri intendendo col guardo nel Carduccio, il quale vegliava per tutti, soggiunse:

«La milizia fiorentina in mio nome vi prega, magnifici Signori, affinchè voi siate contenti di lasciarle aprire le porte per visitare a sua posta il campo imperiale.»

«Signori», interruppe il Malatesta, «in verità questi giovani non sanno quello che si facciano; soldati da ieri, presumono oggi affrontarsi con milizie vecchie, use agli scontri più fieri di guerra..., nè solo affrontarsi con esse elleno ardiscono, sibbene assalirle nel campo per arte munitissimo, difeso da numerose artiglierie. Lodo l'animo pronto; soldato antico, mi piace la militare baldanza... pure, nella mia qualità di capitano generale, e voi, messeri, come difenditori di questa amatissima patria, dobbiamo frenare un moto il quale comechè generoso potrebbe partorire perniciosissimi effetti.»

«Signor Baglione, ogni uomo a cui non tremi il cuore di dentro, chiunque, come i miei compagni e me, ha disposto, innanzi che volgere le spalle, morire, fu soldato dal primo giorno che nacque.»

«Io non lo dico per voi, messer Castiglione; — ma gli altri non vi assomiglieranno.»

«Piacesse a Dio ch'io mi assomigliassi a loro! — sappiate, signore, essere eglino molto migliori di me.»

«Sia; però pensate allo svantaggio: il nemico si difenderà dietro ai bastioni.»

«Nè occasione più vantaggiosa di questa ci può apprestare la fortuna, ora che il nemico si è ritirato stanco, lacero, avvilito, e non si aspetta l'offesa.»

«Presumereste voi forse sforzare il campo?»

«Non presumo, — spero.»

«E se vi respingono?»

«Saremo pari.»

«Lasciateli stare, — a nemico che fugge ponte d'oro.»

«Ditemi questo allorquando ripasseranno gli Appennini, e vi darò ragione; ora non fuggono, — rifanno le forze,»

Il Carduccio intanto si era ristretto a consulta co' reggitori e loro esponeva con piana favella certi suoi disegni, i quali per certo incontravano favore, imperciocchè tutti assentivano con la voce e col cenno. All'improvviso, egli indirizzandosi al Castiglione, risponde:

«Il magnifico gonfaloniere, i Signori e i Dieci ringraziano la milizia della sua buona intenzione; approvano il disegno e desiderano che Dio l'accompagni, siccome l'accompagnano essi con ogni lor voto.»

«Signori», strilla il Malatesta, «voi intendete di cose militari nulla; — io non approvo la sortita; — non la posso approvare.»

«Ci duole non poter conseguire l'assenso vostro; — voi non correte in siffatta deliberazione alcun rischio, tale essendo la volontà nostra.»

«Volontà! L'ufficio e la coscienza di buon generale m'impongono oppormi con tutte le mie forze a tale rovinoso partito; anch'io amo questa terra...»

«Amateci meno ed obbedite di più», interruppe, Andreuolo Nicolini, une dei Dieci.

«Opporvi ai comandamenti della Signoria? messer Malatesta, sareste per avventura ebbro?» soggiunse il gonfaloniere Girolami.

«Oh! no, Signori», crollando il capo riprese a dire il Carduccio; — «messere Baglione non sa quello sappiamo noi, — e lo muove studio di bene: — credetelo.... io lo conosco: solo mi concediate favellargli due parole in segreto, lo renderò partitamente capace di tutto.»

«Accomodatevi a vostro agio, messer Carduccio», risposero il gonfaloniere e alcuni dei Signori.

Allora messere Francesco, tolto un doppiere, si volse al Malatesta parlando:

«Signor capitano, favorite seguirmi.»

Malatesta ondeggiava se dovesse andare o rimanere; da una parte la prudenza lo tratteneva, dall'altra l'animo superbo non gli consentiva mostrare viltà: tenne una via di mezzo, — fece cenno a Cencio lo seguitasse ed andò. Cencio, non volesse, o non capisse, o per sè temesse, non mutò passo e stette fermo al suo posto.

Il Carduccio traversò alcune stanze, e giunto in un corridore si fermò davanti a certa finestra che riesce sul cortile che fu poi della dogana, e posto il doppiere tra la faccia del Malatesta e la sua, così lo interrogò:

«Ditemi, messer Baglioni, udiste voi mai rammentare il capitano Baldaccio dell'Anguillara?»

«Cencio! — Cencio! — dove sei?»

«Tacete; — qui non vi si vuole far alcun male. Non temete: — se il vostro giorno fosse arrivato, di piccolo soccorso vi sarebbe quel vostro servitore.»

«E chi vi ha detto che abbia paura io? Chiamava Cencio per appoggiarmi al suo braccio: — mi sento stanco...»

«Appoggiatevi sul mio. Dunque, rispondetemi, udiste mai favellare di Baldaccio Conte dell'Anguillara?»

«Io? — Mai.»

«Baldaccio fu capitano ai suoi tempi prestantissimo; venuto in sospetto di macchinare cose contrarie alla Repubblica nostra, era chiamato in palazzo... in questo corridore trafitto... e giù da questa finestra precipitato.»

Malatesta rabbrividì; pure mantenne fermo viso e, sforzandosi di far bocca da ridere, soggiunse:

«Voi siete un terribile persuasore, messer Carduccio; dubitereste voi forse della mia fede?»

«Se ne dubitassi, vi avrei narrata la storia di Baldaccio? Non dubito, ma vigilo...: ed una volta per sempre sappiate che in Fiorenza comandano il gonfaloniere e gli altri magistrati eletti dal consiglio. Ora torniamo nella sala della consulta.»

Soprastà alquanto senza punto rimuovere lo sguardo della donna,.... Cap. XII, pag. 294.

E quivi pervenuti, il Carduccio, riponendo il doppiere sopra la tavola, disse con ammirabile pacatezza:

«Le ragioni addotte al magnifico messere capitano generale lo hanno persuaso; ogni difficoltà pertanto è rimossa. Messer Dante, vi sarebbe per avventura occorso in questa notte il capitano Ferruccio?»

«Messere, dove si presenta pericolo a correre o gloria a conquistare, quivi sempre troverete il buon Francesco; egli combatteva tra i primi; adesso si trattiene ai bastioni di San Piero Gattolino aspettando la risposta della Signoria.»

«Messer segretario», impose il Carduccio a Donato Giannotti, «andate per la vostra commessione.»

Il Giannotti senza porre tempo tra mezzo, tutto lieto fra sè, come quello che amicissimo era del Ferruccio, salutati gli astanti, partiva.

Salite ch'ebbero le mule loro Malatesta e Cencio, questi si volse più fiate a guardare il palazzo della Signoria, e le mani si ponendo su pel volto verso le tempie, si tentennava la testa.

«Che cosa è quello che tu hai Cencio?»

«E' mi tasto il capo; mi pare impossibile che mi sia rimasto attaccato al collo.»

«Tu dici vero! — la gru è uscita di bocca al lupo; provvederemo in séguito a non lasciarci prendere alla tagliuola: oramai questo palazzo ci accoglierà sotto ben altro aspetto. Per Dio, è tempo che questi trecconi scontino le minaccie adoperate contro di me...»

«Signor Malatesta, è tempo di far senno davvero; perchè, vedete, la testa la si perde una volta sola.»

«Capitano Francesco!» chiamava a voce alta Donato Giannotti tale che così al barlume gli era parso il Ferruccio, nè s'ingannò; ond'egli pronto rispose:

«Chi mi vuole?»

«Dalla parte dei signori Dieci di pace e libertà, ho qui ordini importantissimi a parteciparvi.»

«Parlate: — vi ascolto.»

«E' sono scritti nella lettera di commessione; — se mi accompagnate qui oltre soltanto il canto, troveremo una immagine di Madonna e al chiarore della lampada che le arde dinanzi leggeremo le istruzioni.»

«Sì, bene; — andiamo.»

Giunti al luogo designato, il Giannotto si fece sotto la tettoia, e tolta la lampada dalla lanterna dette comodo al Ferruccio di leggere; questi, rotto il suggello, conobbe la commessione essere del seguente tenore:

«Francesco, tu prenderai teco tra scoppiettieri e fanti di ordinanza quattrocento, terrai ancora cento cavalleggeri e te ne andrai in Empoli; avrai nome e possanza di commessario generale, e troverai qui dentro lettera pel potestà, Albertaccio Guasconi, con la quale gli si comanda lasciarti fare e non impacciarsi ne' casi della guerra; tu attenderai a tenere sgombre le strade, a munire la terra e mantenerla nella devozione della Repubblica; userai eziandio massima diligenza a provvedere la città nostra di vettovaglie e munizioni da guerra; ci terrai ragguagliati degli accidenti che accadono in giornata, ed eseguirai la commessione che affidiamo alla tua prudenza, con quei termini che sul fatto ti pareranno migliori. Ex palatio florentino Decemviri libertatis et baliæ Reipub. Flor. »

«Messer Donato», prosegue il Ferruccio, «direte ai signori Dieci che non mancheremo alla fede la quale hanno riposta in noi, e tra poco, speriamo, udranno novelle di cui Fiorenza si torrà contenta.»

«Commessario», riprese il Giannotti, «voi salutano i popoli Gedeone; in voi hanno riposto ogni fidanza di salvezza: il paese è desolato, le nostre terre consuma il fuoco, i forestieri divorano nel cospetto nostro le nostre facoltà, — ma che cosa ha promesso il Signore? V'è un giorno contro ogni superbo; chi piange sarà consolato, l'oppressore oppresso; — farò splendere la luce a quelli che abitavano nell'ombra della morte.»

«La bandiera di Dio», si udì una voce solenne senza potere distinguere da cui muovesse, «era innalzata sopra un monte altissimo da mano forte invano; pochi la guardarono e tosto si chinarono alla terra dell'angoscia e della caligine. — Tu sei stata recisa, come frutto immaturo, dall'albero della vita; — o stella mattutina, o figlia dell'aurora, o giglio d'Italia, dov'è l'antica tua gloria? — L'inferno stesso sente pietà di te; tu posi sopra un guanciale di vermi; i lombrici hanno posto il nido dentro alle tue chiome, ma tu starai in testimonio di grandezza tra i posteri: il sepolcro dilaterà indarno la sua bocca; — egli non potrà contenerti intera; il magnanimo non si consuma, ma scomparisce, quasi fiamma spenta per forza.»

«Egli è Pieruccio che passa», bisbigliò Vico, compagno inseparabile del Ferruccio.

Un soffio di vento gagliardo spense in questo punto la lampada; rimasero tutti sepolti nella oscurità.

«Il magnanimo non si consuma», ripeteva il Pieruccio da lontano, «ma scomparisce come fiamma spenta per forza.»

Il commessario, quantunque prode uomo fosse di guerra e di animo saldo, rimase non pertanto percosso dalle parole e del caso; stette alcun poco pensoso, poi all'improvviso proruppe:

«Sia; purchè la fiamma si spenga quando sorga l'alba di un giorno più felice alla umanità. — Or dunque, Vico, va in mio nome ai quartieri e scegli i fanti: adesso giova rammentarti gl'insegnamenti del padre tuo; sia la tua scelta, o, com'egli dice, il deletto[183], di volontarii spediti e gagliardi; io apparecchierò i cavalleggeri e i capitani; tra mezza ora ti attendo alla Porta San Friano...»

«Mezza ora!»

«Ci prevarremo del tumulto della sortita...»

«Appunto», notò il Giannotti, «io penso i Dieci l'ordinassero per questo: troppo essi intendono l'arte di guerra per credere di espugnare il campo senza uno sforzo di tutte le milizie.»

«Mezza ora!» riprese Vico in suono di voce dolorosa; e il Ferruccio, che ben si accorse donde quei mesti accenti movessero, concitato ad ira, esclamò:

«Possa il padre cacciare dalle sue case come concepito di adulterio, possa la donna amata rifiutare come infame colui che nei bisogni della sua patria ad altra cosa pensò che non fosse la patria.... Andate, Ludovico Machiavelli, in meno di mezza ora vi aspetto alla Porta di San Friano.»

Stordito per coteste parole, che gli parvero una maledizione, Vico un sospiro dette alla sua Annalena, — un solo sospiro; poi si chiuse ben dentro al cuore il suo affetto ed attese ai doveri severi del cittadino di libera città minacciata dalla tirannide.

Si aprirono le porte tutte delle mura di Oltrarno, tranne quella di San Friano. La maggior parte della milizia fiorentina esce ordinata e guardinga: alcuni soldati di condotta, ma pochi, la seguirono per farle spalle; le artiglierie cessarono di fulminare fuoco; il cielo non versa più acqua, non pertanto sta sopra la terra nero e pauroso, come se Dio non vi avesse ancora sospesi la gloria del sole, o lo splendere delle stelle. A mano a mano che escono fuori della porta, i soldati si dilatano, dai fianchi distendendosi in lunga fila: dietro ordinava il signore Stefano alcuni squadroni staccati, gli uni dagli altri per buon tratto divisi, affinchè accorressero pronti a sovvenire dove il caso lo dimandava; ordinamento per l'offesa conforme a quello che adoperò nella difesa. Giunti che furono i nostri su quella parte di terreno che comincia a salire intorno a Firenze, Dante da Castiglione, il quale camminava nelle prime schiere, sente all'improvviso stringersi il braccio.

«Vóltati», gli favella il Pieruccio, «vedi quella fiamma sopra la cupola di Santa Maria del Fiore?»

«La vedo.»

«Da quella fiamma nasce l'incendio che arderà la patria; il tradimento l'accese; noi miseri! il tradimento ci è come un tarlo nell'ossa...»

«E i traditori?»

«Io veglio, — gli saprai più tardi.»

«Ma tu, Pieruccio», interrogò Ludovico Martelli, che armato di tutte armi procede al fianco del Castiglione, «perchè ti avvolgi senza riparo in questi scontri perigliosi? Perchè nel giorno non ti mostri per le vie di Fiorenza?»

«Se io mi mostrassi di giorno nella patria che amo pur tanto, i miei fratelli mi ucciderebbero, e il mio sangue sparso, senzachè io giungessi a impedirlo, potrebbe chiedere vendetta all'Eterno: mi aggiro pel campo in traccia della morte, — io la cerco come la dama dei miei pensieri, — ed ella, superba più della bella dama, disdegna i voti del Pieruccio: anche l'avello mi rifiuta, — povero Pieruccio! — Ma quando avrò toccato il porto del sepolcro... Dio mi getterà su le spalle un manto di stelle... mi scalderà il cuore ghiacciato col suo alito... mi ridarà il senno, ed io potrò argomentare co' sapienti del cielo; — ben venga dunque la morte! — il tradimento partorisce il suo frutto; il nemico vi aspetta.»

E Pieruccio diceva il vero. Firenze conteneva in sè una perfida stirpe di parricidi i quali avvisavano nel giorno i nemici con fumate, la notte con fiamme; ed era il fuoco veduto un segnale per cui gli Orangiani apparecchiati alle estreme difese stavano di piè fermo ad aspettare l'assalto.

I nostri, insufficienti per numero, considerando tanto sforzo di guerra per la parte avversaria, malgrado l'ardore dei più giovani, pensavano a ritirarsi: Stefano Colonna prudentissimo capitano avrebbe immediatamente ordinato dar volta, se dalla singolarità del caso non fosse stato costretto a camminare in ogni modo all'assalto; qualunque fosse l'esito, del rimanersi era maggior danno il ritirarsi; in breve si farà manifesto il consiglio di lui. Cominciarono gli spari dalla lontana; se non che ai nostri rincrescendo quel modo di guerra, messa mano alla daga si stringono in più sanguinosa mischia: grande l'impeto dei nostri, la costanza dei nemici pari; avvantaggiati questi dal terreno e inanimati dai capitani, facevano buona prova; quelli poi, urlate o rotte le prime schiere, ne rinvenivano dietro altre migliori; era un muro di ferro. Intanto sorgeva terribile dintorno il palpitare, il gemere, l'imprecare e lo scontro delle armi micidiali: la morte mieteva come sopra un campo di biada. Quanti, o quali furono i morti? Chi è che lo sa? Il tempo consumò ogni memoria di secoli remotissimi, e sole ci avanzano, in testimonio di coloro che vissero, le ossa insepolte. Avevano quei defunti figli, madri, od amanti? — lacrimati scomparvero dalla terra? — l'anima loro fu tempio della Divinità? Tutto questo che importa? Occhi umani non possono piangere tutte le sventure umane: la fonte delle lacrime è ella forse inesausta come gli abissi del mare? Il numero dei morti vince quello della sabbia del deserto; chi tenne conto delle foglie cadute degli alberi dal primo inverno della creazione sino a noi? Il numero dei tormentati giunge a centinaia, e tra questi dura la rinomanza dei tormentatori: la lode si levò fievole, quasi sospiro di vergine, per celebrare gli amici degli uomini, e l'alito del tempo la divorò, — lo strido dei flagellati ruppe il cerchio dei secoli, e la fama del flagellatore fu mantenuta: fra dieci uomini celebri, nove lo sono per maladizione meritata; fra dieci uomini famosi, nove vorrebbersi sospendere alla forca.

Mentre in quella parte si sosteneva un combattimento senza fiducia di vincere, ecco si aprono le imposte della Porta San Friano, e n'esce il Ferruccio con le sue compagnie; procedono serrate, disposte a difendersi, schive di offesa, properanti al termine del loro cammino: procedevano buon tratto di via senza intoppo; già si tenevano sicure; qualche soldato cominciava a cantare la canzone di guerra per alleviare il fastidio del sentiero. Ad un tratto con grida che andarono al cielo prorompe alle spalle grossa schiera di fanti; l'oscurità non ne concedeva bene la vista, ma al rumore che movevano l'avresti giudicata di dieci e più mila: nel tempo stesso i precursori tornano frettolosi ad avvertire essere barricata la strada, e dietro ai sassi molta mano di uomini far mostra d'impedire il cammino. Certo qualcheduno ne diè lingua al nemico, ma il come era arcano; in così breve spazio di tempo quanto ne corse tra il consiglio della impresa e la esecuzione, pareva cosa soprannaturale il cenno dato agli Orangiani; l'inferno congiurava contro Firenze; — congiuri a sua posta: sta per Firenze Ferruccio, e se lo vedremo costretto dai fati tramontare, sarà il suo tramonto splendido di gloria e, morendo, annunziatore di giorno più felice: egli pertanto non devia col pensiero a immaginare come ciò fosse avvenuto; in lui non può capire idea di resa, — e d'altronde sarebbe folle il combattere.

«Vico, figliuol mio, chiamami i capitani... vola.»

I quattro capitani delle compagnie gli stanno attorno.

«Prodi uomini, bisogna andare in Empoli, e vi andremo; — adesso celeri e silenziosi sbandatevi; cuopra ogni uomo la corda accesa dell'archibuso; dalla mano destra e dalla sinistra si distende la campagna; — vi sieno asilo le fosse e i solchi; io co' cavalli mi precipito sul greto del fiume; date ordine che, quando non odano più rumore, o lo ascoltino lontano, i soldati sollevino le corde accese; — la voce del raccoglimento, — Patria e Libertà, Affrettatevi; — vive nel cielo un Dio pe' forti: — a me i cavalli....»

E come disse fu fatto: i cento cavalleggeri si cacciarono giù alla dirotta per la costa del fiume, i fanti carponi sbandaronsi; e così bene o la fortuna secondò il disegno o la prudenza degli uomini che quando il nemico si accostò come a certa preda, stupì nell'incontrare gente armata disposta a combattere: avrebbero essi certamente ingaggiato qualche sanguinosa scaramuccia e si sarieno finiti fra loro, se, l'uno all'altro intimando la resa, non si fossero accorti appartenere alla medesima bandiera; i Fiorentini erano scomparsi; bene si addiedero di quello a che avevano avuto ricorso, ma la notte tuttavia alta, la imperizia dei luoghi e il non potere procedere uniti li dissuase mettersi alla ventura.

Le acque del fiume ingrossato per la pioggia coprivano quanto era ampio il letto; disagevole quindi il sentiero e pieno di pericolo: vinse ogni impedimento la fermezza del commessario Ferruccio. Alla fine quando a lui parve bene di ritornare su la via maestra, ordinò si provassero a salire gli argini: non è da dire se incontrassero difficoltà a cagione della terra smossa e del pendio sdrucciolevole; l'unghia dei cavalli vi si affondava, nè più valevano a ritrarre le zampe dall'orma impressa. Qui gli animali non furono di aiuto agli uomini; toccò agli uomini sovvenire agli animali; tanto fecero, tanto s'ingegnarono che, brutti di fango, mézzi di acqua, pervennero sopra il desiderato sentiero senza perdere un cavallo. Il Ferruccio tese lo sguardo dintorno e non iscoperse alcun fuoco; forte gli tardava di ridursi in Empoli, pure non ardiva levare la voce, e il tempo incalzava: «Vico», chiamò egli quantunque non lo vedesse, — e Vico gli stava al fianco, — «figliuolo mio, adesso ti conviene adoperare non so se maggiore lo scaltrimento o l'audacia: scendi da cavallo, inóltrati pei campi senza rispetto, chè ormai il calzare è guasto, e vedi di ragunare gli sbandati; dilungati un quarto di miglio; poi, avventuroso o no nella ricerca, ritorna sopra i tuoi passi: io ti aspetto.»

Vico, robusto di corpo, nella età in cui la fatica appena si sente, corre e specula: andò un buon tratto senza udire e vedere cosa alcuna: all'improvviso discerne un fuoco, poi due, poi dieci, sparsi ed incerti, siccome nelle notti di estate compariscono le lucciole giù per le valli: erano ben dessi i compagni: parte già stavano adunati; altra parte, e maggiore, pervenne a raccogliere egli medesimo; sicchè quando reputò opportuno raggiungere il commessario cinque soli mancarono, quattro dei quali riguadagnarono per somma ventura la città, uno cadde prigioniero. Così senz'altro accidente fu concesso al Ferruccio di giungere ad Empoli. Di lui e de' suoi casi altrove: — adesso è mestieri tornarcene a Firenze.

Stefano Colonna teneva fermo, quantunque la sua condizione diventasse ad ogni momento più trista: scopo della scaramuccia era stato favorire la sortita del commessario; doveva volgere l'attenzione del nemico altrove, mentr'egli badava ad allontanarsi; lo avevano avvisato che, quando si fosse messo in salvo il Ferruccio, gliene avrebbero porto il segno mediante un fuoco artificiale lanciato nell'aria: non vedendo il cenno, dubitò che il Ferruccio impedito non avesse per anche abbandonato Firenze, e disposto ormai di fargli spalla, andava d'ora in ora indugiando nella speranza che il segnale apparisse.

Finchè l'ombra durò, il principe Orange stette su le difese; anch'egli sapeva cotesta essere vana mostra e confidò vincere con l'inganno l'ingannatore; aspettava ansiosamente novella della uccisione o prigionia delle milizie spedite al soccorso di Empoli.

Questa notte, comechè piena di audaci fatti di guerra, andò famosa per l'ardimento maraviglioso di un fante di Giovanni da Torino, chiamato l'Armato dal Borgo: costui prevalendosi del buio fitto, si mescolò tra gl'imperiali e, accortamente inoltrandosi, venne alle trincee de' nemici a piè la casa della Luna, dove stava inalberato il gonfalone imperiale; quivi giunto, gittò una corda con in cima un uncino di cui si era munito; dopo tre o quattro prove gli riuscì agganciarlo; allora lo trasse giù di forza, e quello cedendo rovinò dalle mura: i soldati del colonnello del Cagnaccio, udito il rumore, irrompendo fuori lo seguitarono colle archibusate; — ma egli animoso e leggiero, con la consueta accortezza, senza lasciare la bandiera, incolume si riparò tra' suoi. Se i Fiorentini ne movessero vanto è agevole a immaginarsi. Il signore Stefano volle incontanente gli fosse presentato; commendollo e gli promise mercede pari all'ardire... mercede che in vero ottenne, non però uguale alla generosità sua: dieci scudi di oro. — Ma le azioni magnanime sogliono essere ricompensa a sè stesse: se così non fosse, considerando quanto sieno rilenti gli uomini a guiderdonarle e più spesso pronti a punirle a guisa di misfatti, io non so per quale ragione i virtuosi si disporrebbero a bene operare. In questi nostri infelicissimi tempi suole la virtù chiamarsi follia: — qualcheduno, — il poeta, — aggiunge sublime: — questo è tempo di servaggio e di cuori inariditi; — quando i genitori, meglio che di sostanze, desidereranno lasciare ai figli retaggio di virtù quantunque infelice, — allora volgetevi all'oriente, — ed esultate, — però che si avvicini l'aurora di un giorno che forma il sospiro di tre secoli interi: — quell'aurora spargerà sopra la terra dei nostri padri una rugiada potente; e la rugiada non cadrà sull'erbe, ma penetrando si poserà sopra le ossa dei padri: — allora le ossa si leveranno fragorose come mare che freme, saluteranno il giorno e si addormenteranno dicendo: Adesso ci è dolce il riposo, perchè quantunque morti, ci pesava insopportabile la terra avvilita nella schiavitù del bestiale straniero: gloria al Signore!

Il gonfalone imperiale fu messo il giorno dopo dentro la sala dell'Oriolo nel palazzo della Signoria. Armato, poco dopo tentando altra simile avventura, toccò un'archibusata dentro una spalla, e di lì in capo a due giorni si morì. — Gloria ai valorosi!

Spunta il giorno, — ma fosco; la notte a ritroso abbandonava la terra; — la faccia del cielo va ingombra di nuvole: perchè così non ti mantieni, o cielo d'Italia, finchè dura questa lunga passione? Perchè splendi, o sole, e perchè splendete voi o stelle? Una volta, o sole, i tuoi raggi incontrando sul Campidoglio i domatori dei popoli, appariva più bello, riflesso tra le armi trionfali; — ora dove regnava la forza si trascina la caducità pel vestibolo della morte lasciata agonizzare in pace dalla compassione dei vincitori: e voi, stelle, che vi compiaceste vagheggiare il vostro raggio nelle lagune di Venezia, la Roma del mare, adesso che i palazzi di marmo hanno, cadendo, contaminato le lagune, le acque si stagnano, le ninfe abbandonarono coteste rive, o dormono anch'esse in quel sepolcro marino; — perchè dunque splendete? Quando l'uomo chiude i lumi al sonno, spegne la lampada; — i vermi non abbisognano di luce per consumare la loro opera di distruzione. Qual labbro vi canta? Qual cuore vi benedice? Se qualcheduno fa delle vostre lodi sonare il deserto, egli viene da terra lontana, la sua voce par quella dell'alcione — l'uccello delle remote contrade: — il cuore dello straniero palpita di magnanimo sdegno, l'aquila impennò colle sue ale l'alta immaginazione di lui, — pure voi, stelle del cielo d'Italia, non intendete cotesto inno nè vi talenta: — voi siete use ad armonizzare il casto vostro raggio con più melodiosa favella, con la favella che vince in dolcezza il mormorio delle acque, quando la luna le gonfia, e l'aure sono chete, e voi guizzate col guardo sul dorso delle onde lieve lieve commosse. — Rimanti tristo, o cielo, — versa sempre torrenti di pioggia; noi crederemo che tu pianga su questa terra di desolazione: — tuona, o cielo, con la voce di tutte le tue procelle; noi penseremo tu manifesti l'ira di Dio nel contemplare noi sue creature cotanto avvilite. Io odio i felici. I figli di questa misera contrada, te vedendo, o cielo, cotanto magnifico, vanno dicendo: Egli è bello, ma inesorabile; — bello come l'Apollo del Vaticano, — forma portentosa di nume, — effigiato nel marmo.

Spunta il giorno: ma quantunque fosco, concede agli Orangiani la vista della bandiera imperiale inalberata su l'asta sotto la bandiera del comune di Firenze, e ciò li concita a rabbiosissimo sdegno; la luce ancora manifesta al nemico il piccolo numero dei nostri, e ciò gli partecipa ardimento. Filiberto spedisce ai colonnelli lontani messaggi con gli ordini accomodati alla occorenza; crollansi le compagnie e cambiano forma: era adesso suo disegno indirizzare alle punte estreme dell'ale della nostra milizia una mano di cavalleggeri e di fanti meglio spediti per circuirla, e così divisa dalle mura tagliarle la ritirata e poi a bell'agio piombar addosso col grosso dell'esercito e sterminarla senza rimessione; se gli veniva fatto di superare l'ale, non uno dei giovani fiorentini sarebbe tornato a Firenze. Il signore Stefano, se avesse condotto numero pari di gente, o lo avesse avuto di poco inferiore, certamente avrebbe disteso le file all'avvenante che le allargava il nemico, dopo attelati gli eserciti, non si sarebbe rimasto dallo ingaggiare battaglia sopra tutta la fronte; ma essendo pochi, conobbe non avanzargli a perdere più tempo e dover mettere ogni studio a ritirarsi; attese pertanto a rendere vano lo sforzo del nemico, prevenendo il suo moto; ordina ai capitani delle due punte girino velocissimi sul fianco destro i soldati che a lui posto nel centro stavano a mano sinistra, sul manco, quelli che gli stavano a destra; e descritta sul terreno una linea sferica, si uniscano in colonna ritirandosi per alla Porta di San Piero Gattolino; egli aveva molto bene considerato come così procedendo i cavalli nemici potevano cogliere di fianco la colonna, romperla quasi serpe sul dorso e impedirle ogni via di salute; e a questo sperò provvedere con la celerità dei passi, per cui, lasciato aperto certo spazio di terreno davanti i nostri, le artiglierie delle mura senza timore di offenderli potessero fulminare gl'imperiali e trattenerli da molestare la ritirata. Io non so quello sieno per dire i presenti uomini di guerra sopra tali ordinamenti di milizia; quello che so troppo bene si è che anche con quei modi la umanità si lacerava e faceva delle sue ossa biancheggiare la campagna; miserabile nostro destino, di cui non ispero, almeno per qualche migliaio di secoli, la fine.

Non andarono falliti i concetti del Colonna: le artiglierie fecero buonissima prova; gli Orangiani, essendo stati alquanto sospesi, perderono il destro a inseguirli; posto uno spazio tra loro e i nostri, costoro diventarono segno della tempesta di fuoco e di ferro che prorompeva fuori delle mura; — quasi a morte certa correva chiunque si fosse avventurato su quel terreno. O per prudenza del capitano, o per beneficio della fortuna, vedevano gli Orangiani sfuggirsi di mano una preda ormai tenuta sicura.

Ora avvenne come tra i primi cavalleggeri spediti dal principe a circuire l'ala sinistra del nemico si trovasse Giovanni da Sassatello, soldato italiano quanto valoroso in arme, altrettanto perduto di fama; costui militò agli stipendi del duca Valentino e a lui piacque, la qual cosa ci dispensa di aggiungere altre parole intorno ai suoi costumi. La Repubblica fiorentina, quando prima ruppe il grave freno dei Medici, attendendo, come provvida, ad armarsi, lo condusse al suo soldo con ottanta cavalli; stipulata la condotta, chiese ed ottenne dai signori Dieci mille e quattrocento cinquanta fiorini d'oro, i quali appena gli furono contati, rubatigli con suo eterno vituperio, si fuggì al papa. Sebbene ei si fosse dei pericoli spregiatore e se ne vantasse, pure non si arrischiava affrontare la bufera di palle briccolate dal nemico; il suo cavallo, generoso animale, puntate le zampe, indietreggiava con le groppe, torceva altrove la testa ed annitriva furioso. Lionardo Frescobaldi, giovane d'inestimabile bellezza di corpo e di animo ferocissimo, caro sopra modo al Morticino degli Antinori più per questa seconda che per la prima qualità, veduto per caso il Sassatello, lo chiamò con gran voce:

«O ladro, fàtti oltre! — O ladro, non hai le gambe, come le mani pronte? Fàtti oltre! Le palle di Fiorenza ti talentano meno dei suoi fiorini!»

Arse Giovanni di bestiale ira, udendo quell'oltraggio recatogli da un giovanetto alla presenza di tanti uomini di guerra; parve a lui quello che suole parere agl'improbi, voglio dire che non già la colpa, bensì il rimproccio della colpa lo avrebbe fatto diventare ludibrio del campo, dove non ne avesse ricavato qualche insigne vendetta; imperciocchè sogliano simili malvagi compiacersi nel fingere la tristizia loro o sconosciuta od obliato; e se altri non gli accusa, eglino si assolvono: la coscienza gli raggiunge di rado; in ogni caso tardi.

Invano il cavallo ricalcitra, l'ostinato cavaliere gli lacera i fianchi; al fine la bestia, volendo forse emulare l'uomo si lancia a precipizio. Viene da magnanimità, da pazzia o da che altro viene l'impeto del soldato per cui irrompe in guerra contro a morte quasi sicura? Chi lo sa? Chi potente a distinguere i moti del cuore? Spesso incontrammo insigniti della stella dei prodi sul campo di battaglia tali a cui appena avremmo concesso in casa o in piazza lo intelletto del cane e, quello che arreca maggiore maraviglia, il coraggio del coniglio.

Se il Frescobaldi avesse in quel punto continuato a ritirarsi, si sarebbe chiarito valente solo a parole: la sua natura non gliel consentiva; in luogo circondato da mortali pericoli stette a dare o a ricevere la morte.

Una palla vola tra la testa del cavallo e il capo del Sassatello, un'altra gli porta via il cimiero, un'altra interrandosi presso a lui lo cuopre di fango: — ma i suoi giorni sono contati; egli procede sicuro come sotto le vôlte di Santa Maria del Fiore.

Lionardo afferra con ambe le mani la picca, che in quei tempi le fanterie usavano lunghissima, ed aspetta a piè fermo il momento di spingerla nel collo del cavallo; dove ciò gli venga fatto, il destriere stramazzerà in un viluppo col suo signore, e mentre questi grave di armatura tenterà sollevarsi, egli, stretta la spada, lo spaccerà da questo mondo. — E se il destriero non era più sagace del suo signore, senza fallo gli riusciva; ma l'animale saltando destramente da parte, schiva la punta la quale sfiorò in passando la gamba al Sassatello. Lionardo subito si volge impetuoso per timore di essere preso alle spalle; la troppa previdenza e la troppa prestezza gli nocquero; forte tenendo pur sempre nelle mani la lunga picca, imbatte nelle groppe del cavallo, che un'altra volta girandosi offerisce campo al Sassatello di ghermire il suo nemico pel collo, e così fece, e trattolo a sè, lo levò da terra. Lionardo si sentiva strangolare; tentò rompersi il collarino e non potè aiutarsi; allora si risovvenne avere la daga, la trasse fuori, e sollevato il braccio incise profondamente il cavallo nella spalla; inferocito l'animale dallo spasimo, imperversa per la campagna traendo in sua balìa cotesti due inferociti. Lionardo agita le gambe per l'aria e stretto alla gola non profferisce parola alcuna di resa; al Sassatello sbattuto dalla corsa non è concesso assestare un colpo; fuga d'inferno era quella.

Dai giovani suoi compagni, che molto lo amavano, si levò una voce: «Ahi! Frescobaldi... Frescobaldi è morto!»

Nè però alcuno si moveva di schiera; solo il Morticino degli Antinori, per ordinario pallido, adesso poi cosperso di più spaventevole pallore, accorre come forsennato, e giungendo le mani gridava da lontano:

«Capitano Giovanni, deh! per Dio, lasciatelo, — egli è un fanciullo: non gli far male, in nome del tuo Cristo; — bada.... rammentati che tu pure hai un figlio di età uguale alla sua... Lasciatelo, Giovanni, io vi verrò prigione invece di lui...»

«Vedi il gagliardo! io lo tengo come un'oca... Forse dalle oche imparò a gridare; — da cui il combattere? — Per avventura, Antinori, da te?»

«Sì, via, — ma rendilo.»

«Io non lo tengo, per soldato, — e ne voglio per riscatto mille fiorini d'oro.»

E disparve galoppando.

Rientrarono le nostre milizie sanguinose, non vincitrici nè vinte, ma, se si riguarda allo scopo ottenuto di mandare gente in soccorso di Empoli e al gonfalone imperiale rapito, superiori piuttostochè superate; non pertanto andavano meste, come quelle che si vedevano sceme di molti fratelli.

L'Antinori cammina a capo basso e non profferisce parola. Dante da Castiglione gli si era posto allato; pur, conoscendolo di natura superba, e dubbioso non si recasse in mala parte i suoi conforti, desiderava e non sapeva in qual modo aiutarlo. Giunti sotto la porta di San Piero Gattolino, l'Antinori quasi seco stesso favellando disse con un sospiro:

«Or dove trovare i mille fiorini? Il nemico occupa i miei poderi.... manderei alla zecca anche il cuore di mio padre!»

Non si potè più trattenere il Castiglione, e gli gettando le braccia intorno al collo:

«Morticino!» disse in suono affettuoso, «non hai tu un amico nel Castiglione?»

L'Antinori corrispose all'amplesso: il suo primo pensiero fu buono, poi gli venne in mente l'antica emulazione che nutriva per Dante, tremò nella idea di abbisognare dei sussidj di lui; si morse le labbra e, svincolatosi sdegnoso, si allontanò mormorando.

Dante si rimase a guardarlo dietro tentennando il capo, e dopo alquanto tempo esclamò: «Tra la virtù egli dondola e il misfatto; — possa almeno il suo orgoglio preservarlo dalla viltà.»

«A me cotesto anello!» gridava tra orribili imprecazioni il Morticino degli Antinori a certa sua fantesca; «io voglio l'anello e la collana...»

«O signore! per la collana, prendetela... ma l'anello lasciatemelo.... con lui mi sposò or corrono quarant'anni il povero Lapo.»

«L'anello!»

«E morendo mi disse: Ghita, conservati buona vedova e tienti l'anello per amor mio; — ed io mi sono mantenuta buona vedova e non ho mai dato via l'anello...»

«L'anello, o ti taglio la mano...»

«Alla vostra madre di latte! Gesù, nè anche gli orsi lo farebbero...»

«Sciagurata! Vuoi che ti ammazzi con le mie mani? Io ho bisogno d'oro, di danaro... dimmi, conserveresti per avventura qualche fiorino nella tua cassa?»

«O santo Zanobi Benedetto! il demonio si è impossessato di messer Giovanfrancesco... Non mi ammazzate... io non ho un picciolo, su l'anima mia...»

«Dov'è mia madre?»

«Badate, Giovanfrancesco, — pensate ai comandamenti della legge di Dio; io vi sono madre di latte... ma madonna v'è di sangue, non le mancate di rispetto...»

Il Morticino non l'ascoltava e prorompendo nella stanza della madre trovò seduta sopra un seggiolone la vecchia madonna assopita di un sonno leggiero. Non avendo reverenza nessuna alla grave età di lei; con gran voce comincia:

«Quanto vi trovate a possedere, madonna, d'oro e di gemme, su, datemi presto senza escludere nulla, — nè anche i pendenti che portate agli orecchi...» Ed aggiungeva alle parole l'atto violento.

La vecchia donna, altera del nobil sangue che le scorreva nelle vene, piena della reverenza dovuta alla materna autorità, si levò subito con tale una forza di cui si sarebbe riputata incapace, allontanò da sè la sedia, mosse un passo in avanti e sollevò il braccio destro in sembianza d'imprecare; una striscia di fuoco le attraversò le guancie; gli occhi le si dilatarono minacciosi e terribili: era una figura da Michelangiolo.

«Tu tronchi la mia agonia, non la mia vita; per pochi momenti vuoi tu renderti parricida? — Va... io...»

«Per Dio, arrestatevi, madre... — Io! — Qual demonio vi caccia questo pensiero nella mente? — Conoscete voi Lionardo Frescobaldi... quel nobile giovanotto che sovente usa qui in casa? Si, voi il conoscete... or egli cadde testè prigioniero, e gli hanno posto il riscatto addosso di mille fiorini d'oro: ora nel pensiero di torli in prestanza da altri la mia anima geme per immensa amarezza. — Oh! casa Antinora decaduta, quanto t'era lieve un giorno trovare nei tuoi forzieri mille fiorini d'oro!...

La vecchia madonna declinò il braccio e sciolse un sospiro; poi strinse in amplesso amorosissimo il Morticino esclamando:

«Sangue superbo — e figliuol mio! tu sei la mia consolazione... Aspetta...»

Vacillando si accostò a certo mobile volgarmente chiamato inginocchiatoio, che i nostri padri solevano tenere a canto del letto quando i nostri padri credevano ascoltasse qualcheduno nei cieli la loro orazione, — e, la manca appoggiata sull'angolo, si piega a stento e solleva il piano dello scalino; — quivi prendendo uno scrignetto, lo porta a gran pena verso il figlio, — glielo ripone nelle mani aggiungendo:

«Prendi, Giovanfrancesco; io gli aveva serbati per qualche estremo bisogno della vita... sento che la vita mi manca, e tra poco non avrò più bisogno di nulla: — quando pure la vita mi restasse a percorrere intera, questo mi sembra caso di spendere l'ultimo soldo; — l'onore della stirpe!... Spero che basteranno; — or volgono forse cinquanta anni che non gli ho annoverati, — quanti essi sieno ignoro... ma spero che basteranno. Va... lasciami in pace... — e non farmi più così paurosamente aprire le palpebre... le tengo chiuse per insegnare loro a morire.»

Il Morticino degli Antinori nella sala di casa sua attendeva a contare; aveva noverato fino a cinquecento, quando palpitante di ansietà gittò uno sguardo cupido nello scrignetto per vedere se bastassero... gli parve di sì... riprese a contare — seicento; riguarda e si conferma nella speranza; — settecento; — ottocento; — se pochi ne mancano, saprà ben egli dove trovarli; — novecento... e quell'orgoglioso Castiglione... avrebbe voluto avvilirlo... e, oh dolore! egli avrebbe dovuto piegare l'anima all'avvilimento... lo avrebbe fatto, — e si sarebbe poi ucciso... — adesso... oh ineffabile esultanza!... novecento novantanove... mille!

Un fante sollevando l'arazzo teso a guisa di portiera davanti alla porta principale della sala gridò:

«Messere Dante da Castiglione.»

«Ben venga il Castiglione — ben venga.»

Dante inviluppato dentro largo mantello bruno s'inoltra taciturno e, posato sopra una tavola certo sacchetto di danaro, si riduce a favellare coll'Antinori nel vano di una finestra:

«Morticino, io non so perchè voi mi portate rancore; avete torto: — io vi amo, e voi pure dovreste amarmi. Voi avete un nobil cuore, — e non è vile il mio; — l'uomo soffre tanto nell'odiare!... più che non tormenta egli è tormentato. — Tali angosce seminano su la nostra vita le infermità, le sciagure che davvero, per essere infelici, non fa mestieri aggiungervi dolori con le nostre mani. Porgetemi, via, la destra; siamo fratelli... e come fratello, ecco io vi offro parte del riscatto del Frescobaldi; ma che dico, vi offro? Non è concittadino mio come vostro, non compagno di arme, non amico? Dovevo dunque contribuire anch'io e contribuisco... ho recato meco cinquecento fiorini.»

«Messer Dante, tanto mi fu la fortuna benigna che me non volle condurre come Provenzano Salvani alla estremità di stendere il tappeto in piazza per raccogliere danari. Io non dovrò tremare per ogni vena onde trarre di prigione l'amico[184]. La casa Antinora non ha mestieri raschiare il campo d'oro dell'antica sua arme per riscattare Lionardo Frescobaldi[185]. Non sarà detto che alcuno della mia famiglia abbia arrossito dinanzi all'avaro mercadante.»

«Però», interruppe sorridendo il Castiglione, «i vostri maggiori e voi siete scritti sulla matricola dell'arte dei vaiai.»

«Così porta la costumanza barbara; non per tanto, mano di Antinori da secoli non tocca libri di ragione commerciale.»

«Del Benintendi è figlia!» con urlo spaventevole replica il Bandino,... Cap. XII, pag. 308.

«Industria fa ricchezza, superbia fa ozio e povertà: ed un mercante in piedi, messer Giovanfrancesco, vale assai più di un gentiluomo genuflesso. La casa Castigliona attese sempre alle pratiche della mercatanzia nè si crede tralignata per questo.»

«Voi, sì... ma voi...»

«Noi fummo, o Antinori, dei primi ad abitare la cerchia antica di Fiorenza; rammentatevi che noi nasciamo dai Catellini, cui Cacciaguida, l'avolo dell'Alighieri, trovava già nel calare illustri cittadini: — la mia casa credo valga la vostra; ma via, diamo fine a siffatto ragionamento. Io meco stesso mi vergogno andarmi trattenendo in simili quisquilie. Che direbbe di noi un buon popolano udendo le nostre parole?»

«Direbbe lui essere uomo di piccola nazione, — noi gente di alto affare e baroni...»

«Piaccia a Dio che i difensori della libertà di questa nostra repubblica non vi assomiglino! — Noi, Morticino, c'intendiamo assai meglio sul campo.»

«Erano tutti vostri i fiorini che presumevate donarmi, Dante?»

«Se gli aveste accettati, vi avrei detto la metà appartenere a Ludovico Martelli...»

«Ah! Ludovico, — il Guido Cavalcanti dei nostri tempi; — che fa egli del continuo tra le arche dei defunti?»

«Ricordatevi quello che fu risposto a Betto Brunelleschi[186].» L'Antinori sentì l'amara allusione e, immaginando vendicarsene, condusse Dante innanzi alla tavola dov'egli aveva annoverato poc'anzi i mille fiorini d'oro, e quasi trionfante glieli accennando con la mano tesa gli disse:

«Voi lo ringrazierete in nome mio, — ed a voi pure gran mercè, — e al tempo medesimo gli riferirete che in qualche suo bisogno mi sarà grato sovvenirlo; lo stesso sia detto per voi...»

«Ed io mi dichiaro obbligato alla buona volontà vostra; dico buona volontà, perchè la mano che miete e non semina, presto si trova a stringere vento. — Addio, Morticino», riprese Dante gittandosi su la spalla il lembo del mantello e riprendendo i suoi fiorini; «però persuadetevi che nel presentarvi questa moneta, ebbi volontà diversa della vostra quando la ricusaste.»

«Dio vi abbia nella sua santa guardia, messer Dante», — e in atto di ossequio lo accompagnava fino alla porta. — Dante all'improvviso tornando indietro:

«Morticino», favella, «togliete compagnia andando al campo; badate, prima di pagare il vostro danaro: vi sta di contro un traditore, nè l'antica infamia si getta giù dall'anima come una cappa logora...»

«I miei trent'anni, vedete, non me gli sono mica giocati alla bassetta nel mondo; so distinguere anch'io le vecce dalle lanterne; non per tanto mi vi si professo tenuto dell'avvertimento.»

E quando l'Antinori ritornò solo nella stanza, spiccò un gran salto, proruppe in risa, si fregò forte ambe le mani; esultava di pazza gioia.

«Oh! la conosco pur troppo la tua volontà, campanile di carne... tu intendevi avvilirmi... calcarmi sotto a' piedi... e lo avresti fatto, se l'ingegno stesse in paragone della mola. Tu mi avevi apprestata una vivanda amara, — io te la ritorno confettata di aloe... mangiala intera. Oh! se costui non fosse, la gioventù fiorentina mi terrebbe capo e principale costui mi si para davanti e toglie agli altri la vista di me, e me l'altrui... A tanti colpi di generosità, sotto i quali costui pensa prostrarmi, bisogna pure che un giorno o l'altro io corrisponda con un buon colpo di pugnale! — O madre mia, tu oggi mi hai generato un'altra volta! — Ora tu puoi morire a bell'agio. — Tu mi donavi vita, superbia e tutti i tuoi danari... a che più oltre ti trattieni nel mondo? Lacrime non posso dartene, perchè tu mi davi il cuore, — splendidi funerali nemmeno, perchè mi davi i tuoi ultimi danari.»

Aveva tolto seco un mulo ed un fante, portava in cima alla picca il pennoncello bianco e camminava, lieto cantando, verso il campo imperiale. Giovanfrancesco Antinori superbiva nel pensiero di ricondurre Lionardo a Firenze, vedeva le genti affollate sul cammino, udiva le sue lodi; era insomma contento. E fra le gioie dell'orgoglio s'insinuava ancora alcun poco di affetto pel giovine Frescobaldi. Non occorre mai notte tanto nera che in parte non mostri qualche raggio di stella, così ogni anima comechè trista, rammenta ad ora ad ora la sua origine divina. L'anima un giorno si sveglia su questa terra legata al corpo, come il condannato alla gogna; la pigra bile o il sangue ardente del suo compagno la rende malinconica o irosa, le apre la via della gloria o le porte del bagno; — povero intelletto relegato dentro un cervello umano! La vita è una battaglia continua tra le passioni che ci vengon dalla terra e l'anelito dello spirito verso i suoi sublimi destini. — Io vi domando perdono, signori, se qualche volta mi perdo in disgressioni: il racconto, lo vedo bene, allora non avanza, e sopratutto ciò non succede senza offesa delle sane regole della critica. Ritorno al soggetto.

Giovanfrancesco Antinori, giunto ai piedi della bastite nemiche, vide ad un tratto abbattere meglio di venti archibugi ed accostare le corde fumanti ai foconi; onde, sollevato il pennoncello gridò:

«Messaggero! — Rispetto al messaggero! Chiamatemi il capitano Giovanni da Sassatello, e ditegli che venga col prigione perchè il riscatto è pronto.»

Il giorno toccava i gradini ultimi del crepuscolo; il cielo si era mantenuto pioviginoso e tinto in grigio: a qualche distanza appena vi si vedeva.

Mostrandosi da' bastioni fino a mezzo petto, Giovanni da Sassatello domandò:

«Chi è che mi vuole?»

«Capitano Giovanni, ho qui meco i mille fiorini, — rendetemi il prigioniero.»

Qui apparvero due altre figure dietro al Sassatello; una di quelle era Eustacchio unico suo figlio, l'altra il Frescobaldi; questi pareva stanco o ferito, perchè stava abbandonato fra le braccia del figlio del capitano Giovanni, il quale con infinito amore lo sorreggeva.

«Di gran cuore, messere Antinori; se non che l'illustrissimo principe ha fatto chiudere di buona ora le porte del bastione e volle la chiave presso di sè, onde non trovo modo per uscire fuora...»

«Poco importa: fate scendere il prigione giù per una scala e poi vi manderò su per una corda il danaro.»

«Prima il danaro.»

«Prima il prigione.»

«Dio vi mandi la buona notte. — Andiamcene, Eustacchio...»

«Capitano, ascoltate... non partite... componiamo; mezzi prima mezzi dopo restituito il prigione.»

«Questi mi paiono compromessi da trecconi: — di più nobil sangue e di più gentile intelletto io vi stimava, messere Antinori.»

«Or via, calate la corda, e vi manderò il danaro...»

«La corda a un punto io calerò e la scala.»

Così fu fatto: — ebbe il Sassatello i fiorini; Eustachio sollevando Lionardo, lo pone su la scala, ve lo adatta, lo lascia. — Ah! tracolla giù di un colpo ai piedi del bastione.

«Per la santissima Annunziata», urla il fante dell'Antinori, «messer Lionardo è morto!»

«Morto! come morto?» ripete forsennato l'Antinori.

«Vi aveva forse promesso rendervelo vivo?» forte ridendo diceva il Sassatello; «il patto era renderlo, ed ecco, io l'ho reso; adesso vi darò anche la giunta. — Eustacchio, fa di non mancare quel gaglioffo fiorentino.»

Balenò un archibuso; — l'Antinori si sentì tocco dalla palla, ma senza dolore: — volle parlare, e non potendo, si morse le mani: — una striscia di fuoco gli solcò la guancia, — cotesto fuoco era una lacrima: — la ribevve; — non una stilla deve sgorgargli della immensa sua rabbia. — Propone avventarsi alla scala, salire sui bastioni, inebbriarsi nel sangue del traditore: ma, bersaglio a cento archibusi, sarebbe certamente rimasto ucciso; — mentre vuol muovere un passo la terra gli manca sotto, e stramazza.

Il fante, posti su le groppe del mulo il cadavere del giovane Frescobaldi e il Morticino ferito, riprese mesto la via di Firenze.

Egli era uno spettacolo pieno di compassione vedere sul declinare del giorno due nobili e valenti cavalieri pendere l'uno ucciso, l'altro mal vivo a traverso le groppe di un somiero, e dietro loro il fante che sconsolato recitava le preghiere dei defunti.

CAPITOLO DECIMOQUINTO ANDREA DEL SARTO

Oh! mercadanti, avaro, crudo sangue,

Quale han patria, qual legge e quale Dio,

Tranne il guadagno?...

Edoardo Fabbri, Sofonisba.

Se a Roma io fossi uscito dagli Scipioni, già non mi sarei gittato dalle finestre per questo. Adesso corre l'andazzo di tenere in nonnulla i padri e gli avi: a me sembra spregiare troppo i maggiori ostentazione uguale a quella di pregiarli troppo. Chi più si sbraccia a maledire una cosa, più si avvicina a desiderarla: sentenza antica, e perciò appunto vera. Il conte Vittorio Alfieri, prossimo a conchiudere la vita scriveva lettera a certo altro Alfieri di Sostegno, nella quale seco lui rallegrandosi per la nascita del suo primogenito, terminava con queste parole: e «E tanto più me ne congratulo in quanto che ho potuto a chiara prova comprendere come, per quanti sforzi che la plebe faccia, non riesce mai a conseguire l'altezza dei sentimenti, retaggio esclusivo di noi generati da nobile sangue.» Voi potrete trovare questa lettera stampata nel giornale L'amico d'Italia (Iddio ci liberi da amici siffatti!). E non pertanto questo conte Alfieri è quel desso che in altri tempi flagellò acerbamente i patrizii col verso famoso: Or superbi, ara vili, infami sempre. — L'Alighieri sentiva della nobiltà da profondo intelletto quando cantò:

O poca nostra nobiltà di sangue,

Se glorïar di te la gente fai

Qua giù, dove l'affetto nostro langue,

Mirabil cosa non mi sarà mai:

Che là dove appetito non si torce,

Dico nel cielo, i' me ne gloriai.

Ben se' tu manto che tosto raccorce;

Sicchè se non si appon di die in die,

Lo tempo va dintorno con le force.

La lunga serie di personaggi incliti nella medesima famiglia induce maggiore obbligo nel postero di continuare la splendida via tracciata da quelli. La condizione apposta da Dante è necessaria, onde la gentile prosapia si abbia a tenere in pregio appresso la gente. In nessuna epoca come nella nostra vedemmo il poco conto si debba fare delle ingiurie buttate dalla plebe in faccia alla nobiltà. Finchè durò duro l'impero di Napoleone, seguì per via dei matrimonii un cambio continuo tra nobiltà e danaro, ed anzi egli ne fece argomento della sua politica governativa[187]. Quante fraudi di mercante non ricoperse un mantello di duca! Ai giorni presenti voi conosceste l'aristocrazia dei mercanti: ditemi di che cosa vi seppe cotesta aristocrazia? più che innamorato alle sembianze della donna diletta, il mercante si strugge dietro alla frazione di una moneta. Delle cose cattive la pessima, l'uomo cambiale; arido quanto una cifra, nulla abborre, purchè possa moltiplicarsi; calcolatore di fame, di peste e di sangue, egli senza scelta comprende i tre flagelli del profeta Natan. L'anima del mercante, meglio che quella dello stoico, non ha manichi; — tu non sai da qual parte afferrarla. I nobili di sangue, fatui, se vuoi, e ridicoli e nulli, pur ti verrà fatto esaltarli con gli esempi paterni. Or via, immaginatevi un po' un gentiluomo e un mercante, entrambi accomodati nel proprio gabinetto; — entrambi se ne stanno seduti davanti al fuoco, entrambi posero sopra il camino la immagine del defunto genitore. Un infelice stretto dal bisogno ecco picchia alle porte che il Parini chiamò ardue e domanda soccorso. Il gentiluomo (mi pare udirlo) di subito dirà: — Dio l'aiuti (modo civile che significa — caschi morto di fame)! Ma il vecchio servo, nato in casa, che ha tenuto sulle ginocchia il padrone e si reputa affisso irremovibile del palazzo a un dispresso come gli arpioni della porta maestra, alzerà gli occhi al ritratto dalla parrucca impolverata, vestito di stoffa a rose, con lettera alla mano diretta alla nobilissima dama la contessa sua moglie ed esclamerà: Il conte Alamanno buona anima non rimandava mai i poveri con Dio senza l'accompagnatura di un bello scudo nuovo di zecca. E il gentiluomo guardando il ritratto, gli parrà come vederlo assentire a quella lode postuma, e cinque volte sopra dieci porrà mano alla borsa e darà lo scudo. Forse lo moverà superbia, imitazione o che altro; sarà come volete ma darà lo scudo. Il mercante invece non darà nulla: il servo preso ieri, pauroso di esser cacciato domani, oggi non dirà nulla; se alzerà gli occhi al ritratto, contemplerà un volto acerbo come un conto di ritorno, piacevole quanto la cambiale protestata. Nella casa del mercante si assomigliano tutti; le generazioni paiono canne aggiuntate; meno la legatura che forma il passaggio dall'una all'altra, sono tutte eguali. L'avo fu uomo che di quattro diventò sei, il padre di sei si moltiplicò in dodici, e via discorrendo. Qualunque azione del mercante va sottoposta a calcolo. La troppa virtù nuoce, perchè gli uomini se ne prevarrebbero a danno del rispettabile mercante; la poca virtù nuoce eziandio, come quella che mena in luogo dove si lavora pel pubblico; però lascerà scritto il padre mercante al figlio mercante nei suoi ricordi mercantili; abbi virtù quanto basta per non andare a bastonare i pesci. Ogni cosa il mercante stima a prezzo: certuno di loro udendo favellare intorno alle maravigliose conseguenze del sistema di gravitazione scoperta dal Newton, interrogava quanto rendesse per cento! — Dei governi i mercanti reputeranno ottimo quello non già che maggiore somma di libertà concede, sibbene quello che minore somma di danaro domanda; delle religioni suprema quella che gl'idoli ha d'oro, e i sacerdoti celebrano la Messa gratis; tra quanti miracoli operò Gesù Cristo, uno solo gli rapisce in estasi: — la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Dunque, delle due aristocrazie parmi meno funesta e laida e contennenda quella del sangue: molto più che questa puoi spegnere quanto ti piaccia; per provvedere all'altra del danaro, ti torneranno corti i consigli.

Con maravigliosa volubilità di parole tutte le riferite cose mi favellava il marchese di Piuma, mia conoscenza antica, in proposito della lettura ch'io gli feci ieri del seguente capitolo, e concludendo interrogava:

«Che ve ne pare? Non è egli vero?»

Ed io, che fin lì mi era dilettato a tracciare col dito dei numeri sopra la tavola, alzai il capo e risposi:

«Ma... non saprei... io per me non sono nobile nè mercante... ne consulterò quanto prima il presidente della camera di commercio di questa città.»

E lo farò: — intanto ricopiando oggi mi è piaciuto metter qui le parole del marchese, come per via d'introduzione al capitolo.

Era giunta la notte alla quarta vigilia, quando Cencio Guercio con molto riguardo introdusse nelle stanze più riposte di Malatesta Baglioni quattro frati molto diligentemente nascosti in cappucci e mantelli loro. — Quegli che camminava innanzi degli altri, appena entrato, deponendo la cocolla, si mostrò qual era, Giovanni Bandino; il secondo, quantunque più esitante, ne seguitò l'esempio; il terzo rimase incappucciato, e l'ultimo, nudando il capo soltanto, dall'acconciatura delle chiome si fece conoscere per prete. — Malatesta gli accolse con un lieve declinare del ciglio; pel rimanente rimase immobile nel volto, come se fosse stato di marmo. Il Bandino ruppe il silenzio dicendo:

«Magnifico, di commessione di Sua Santità io vi presento messer Lorenzo Soderini, padre Vittorio, frate osservante di san Francesco, e messer Filippo Mannegli cannonico di Santa Maria del Fiore: penetrati tutti del tirannico governo che di presente travaglia la comune patria, si profferiscono secondo la facultà loro, per aiutarvi nella santissima impresa di liberarnela; essi vi diranno il come intendono agevolarvi la strada: se voi scorgete espediente altro migliore, voi come più savio consigliate, ch'essi vennero qui per porsi intieramente ai vostri servizii.»

Malatesta, sbirciatili così di traverso, chiamò Cencio, gli parlò sommesso nell'orecchio, e all'improvviso quindi voltatosi al Soderini, gli domandò:

«Avete voi commessioni speciale da papa Clemente?»

«Sì, certo: eccovi lettera di credenza, strenuissimo messere Malatesta.»

Il Baglioni prende la carta, la guarda e, senza restituirla, soggiunge:

«Sta bene: — e voi altri?»

Il frate e il cannonico risposero:

«Noi non abbiamo ordine in iscritto, ma ricevemmo la commessione a voce, come può farvene fede messer Giovanni Bandini.»

«Sta bene. — Or ditemi voi, cannonico Mannegli, ed in qual modo disegnate avvantaggiare le cose del papa a Fiorenza?»

«Fin qui non ho mancato di tenere ragguagliato di quanto alla giornata accadeva in città il magnifico signor commessario Baccio Valori, mettendo con non minore pericolo che arguzia le lettere nella balestriera lungo terra presso Porta San Gallo: nei casi subiti lo avviso il dì con una sargia, o lenzuolo, o fumata dal comignolo della cupola di Santa Maria del Fiore; la notte co' fuochi, come or non ha molto lo avvisai nella occasione della sortita del signore Stefano Colonna e del capitano Ferruccio.»

«Non mi parlate di quanto avete fatto, sibbene di quanto potrete in séguito fare, spacciatevi; il tempo incalza, ed è periglioso il ritrovo.»

«I sacerdoti detestano il reggimento popolano; la Chiesa vedono offesa, e ne gemono; le sue sostanze contemplano dilapidate, e ad ogni patto poranno argine a queste empie rapine.»

«Sta bene: voi non potete amare i repubblicani eglino hanno troppo letto l'Evangelo. Ma in che cosa consistono gli aiuti co' quali vi proponete sovvenirci?»

«Noi dai confessionali bisbiglieremo una voce sommessa nei petti che sapranno ripeterla in piazza col fragore del tuono; noi susciteremo gli odii, semineremo la discordia tra fratello e fratello, porremo la spada tra padre e figliuolo; se la vita di un uomo impedisce il proponimento vostro, noi potremo darvi qual più vi piace, o Giuditta, o Ehud, — che recava i messaggi di Dio sopra la punta del coltello[188]

«Voi mi parlate come se al mondo non fosse comparso Martino Lutero. — Dov'è la vostra vantata potenza, poichè egli dimostrava avere da gran tempo Gesù Cristo fatto divorzio dalla Chiesa?»

«Voi v'ingannate; noi siamo tuttavia più che voi non credete potenti; il nostro regno durerà ancora per molti secoli: l'uomo sta molto tempo nell'errore per via dello inganno, un tempo più lungo vi rimane per presunzione di non si volere essere ingannato. Il cielo parlerà in favor nostro. Gli stolti repubblicani, come narra Omero di Ulisse, chiusero i venti negli orti, e a noi con questi concessero la facoltà di suscitare la tempesta: vi parlo io oscuro? Uditemi, vi aprirò la mia mente. La Signoria, timorosa che le immagini della Madonna dell'Impruneta e di Santa Maria Primieriana in mano dei nemici capitassero, ordinava si conducessero la prima in Santa Maria del Fiore, l'altra in Santa Maria in Campo; — ora volete voi che elle piangano? che ridano? volete che sudino sangue? volete che parlino, che scompariscano, si facciano bianche, diventino nere? Noi tutto questo possiamo ed altro ancora. Le chiavi di san Pietro non ci furono per anche tolte di mano: noi possiamo a nostra posta serrare e disserrare il paradiso...»

«Ohimè! ohimè! sorridendo interrompe il Malatesta, i popoli quasi non credono più in Dio... Cristo per poco non perse il partito...»

«Non è vero, riprese il canonico; Cristo fa eletto debitamente re di Fiorenza. E poi rammentatevi, Malatesta, che se noi minaccia rovina, non per anche cademmo; e la mano dei re, comunque agonizzante, può segnare la sentenza di morte de' suoi nemici.»

«E null'altro vi avanza?»

«E parvi poco?»

«Al contrario parmi moltissimo; e voi, padre Vittorio, che cosa ci offerite di buono?»

«Chiedete. — Quanto potrete aspettarvi da un odio che non ha pari, da una rabbiosissima ira, noi vi daremo. Voi lo sentiste... l'eretico Carduccio incitare la Pratica a spogliarci dei beni di cui la carità dei fedeli ci fece dono una volta, e di cui un antico possesso ci assicurava il dominio; — e al danno aggiungendo lo scherno, egli diceva: «noi non avere amore di patria, e ad altro non attendere noi che all'ambizione ed alla utilità nostre; esser pur giunto tempo che come noi ridemmo delle stoltezze loro, così i cittadini ridessero delle nostre astuzie, ed ai comodi propri riguardassero. — Vendiamo i beni dei frati», mi suonano ancora in mente queste empie parole; «benchè chiunque non vorrà negare il vero, confesserà che non i beni dei frati, ma i nostri si vendono, donati loro dagli antichi nostri, per tutto quello che loro avanzasse, non già nelle pompe e nei piaceri, ma in cose pie spendere si dovesse[189].» E tu potesti, senza che la terra ti si fendesse sotto i piedi...»

Malatesta, come infastidito, troncò quella parola ardente di sdegno, dicendo:

«Padre, voi predicate ai porri; e sì che dovreste sapere a che passo menarono le prediche sole di frate Girolamo Savonarola.»

«Io so che i frati di san Francesco lo menarono al supplizio.»

«Or via, stringiamo il discorso: che cosa farete?»

«Tutto: noi sopporteremo ancora le stimmate del nostro serafico fondatore...»

«Bel principio ad operare sarebbe, in fè di Dio, impiagarci le mani e i piedi!... Frate, va a farti medicare il cervello.»

«Malatesta, noi oseremo più di quello che voi non immaginate; introdurremo nel nostro convento i soldati del pontefice vestiti da frate, — noi appiccheremo il fuoco alla città, — noi faremo suonare nella notte tutte le campane, — noi inchioderemo le artiglierie, — mescoleremo veleno nelle farine e nell'acqua...[190] »

«E voi messer Soderini?» lo fissando di repente nel volto interroga il Baglioni.

«Io!» risponde questi, il quale per le cose udite si era rimasto stupito: — «ma... dopo il veleno, la strage e gl'incendii, null'altro mi avanza a fare, se non che seppellire i morti.»

Malatesta e il Bandino non si poterono tanto reprimere che entrambi in un medesimo punto non iscoppiassero in altissime risa. Poichè alquanto si furon rimessi, il Baglioni proseguì con queste parole:

«Ciononostante parlate.»

«Io sono dei grandi: gran parte avemmo nel governo dei Medici, lo desiderammo intero e mutammo reggimento; il popolo ingrato ci ha tenuto a vile e, non che piegarsi docili davanti a noi, si levò in superbia e ci ha tolto anche quella parte che possedevamo un giorno. I nobili sentirono come propria la ingiuria con la quale mi offese Francesco Ferruccio, quando io me ne stava commessario a Prato. Cotestui, pur dianzi a tutti ed a sè stesso oscuro, uso a servire in bottega, per carità riscattato dalla prigionia degli Spagnuoli dal mio consorte Tomaso Cambi[191]; costui, dico, ardiva al cospetto dei soldati sostenermi in volto ch'io non intendeva la milizia e che badassi alla mercatanzia[192]. I nobili han fermo di vendicare l'ingiuria e non sopportare altro strazio: conosco gli umori; mi sono note le voglie; io mi porrò a capo dei grandi... nissuno meglio di me lo potrebbe: io nasco di casa Soderina... voi lo sapete.»,

«Io so due cose della vostra famiglia, messer Lorenzo», favellò il Malatesta; «che Piero giunto a capo del reggimento non lo seppe tenere e adesso vive misera vita a Vicenza; e l'altra cosa da me conosciuta si è questa, che l'arme vostra troppo apparisce ornata per abbisognare di altro fregio[193]

Sentì il Soderini acerbissima la plebea contumelia e, forte commosso, stava per darle convenevole risposta, allorchè si udì dalle stanze contigue la voce di Cencio Guercio che gridava:

«I magnifici signori Dieci di libertà e pace...»

«I Dieci!» esclama Malatesta, «noi siamo tutti morti.»

«Misericordia! i Dieci!» ripresero a coro gli altri, tranne il Bandino, che disse:

«Non mi avranno vivo.»

E mentre queste diverse espressioni si manifestavano in un punto, il Baglione affrettandosi a fuggire rovescia la lampada, che cadendo si estingue.

Succede un buio pieno di paura, un silenzio rotto soltanto dallo stridore di denti dei ribaldi traditori, i quali ad ogni istante temevano rischiarate quelle ombre e vedere il primo raggio di luce riflesso sopra la spada del carnefice.

Quel buio alfine sparì, e la luce non rivelò il taglio della spada, sibbene il riso del Malatesta e del suo compagno, Cencio, i quali soprastettero alquanto a contemplare la burlevole scena.

Il frate si era rannicchiato sotto il letto del Baglione, il canonico sopra, dove si teneva avvolto il capo nelle lenzuola non altrimenti di quello che si facciano i fanciulli allorchè temono per la notte il fantasma o la versiera; il Soderini poi non si trovava in qual parte si nascondesse: il terrore gli aveva rattrappito le membra; fatto gomitolo di sè, si cacciò tra i piedi della tavola e vi si ricoperse col tappeto. Solo il Bandino con la daga nuda alla mano apparve atteggiato come uomo che vuole e sa morire combattendo.

E Malatesta beffardo incominciò:

«Fuori, canonico, che puoi vergare la sentenza di morte di tutti i tuoi nemici; — fuori, frate, che inchiodi le artiglierie e incendii la città; Lorenzo Soderini, se intendete essere la bandiera intorno alla quale si denno raccogliere i malcontenti, mostratevi almeno sopra la terra. — Uscite dalla mia presenza, codardi! — Io ho voluto conoscere la vostra mente e le vostre forze: — se non ordino che v'impicchino per la gola quanti siete, questo è perchè non valete la spesa del capestro. Poichè le finestre del palazzo ebbero il pregio di tenere sospeso l'arcivescovo Salviati, io non vo' bruttarle col corpo di te, frate Rigogolo[194]. Sciagurati! Le formiche che vivono tra le cavità della querce avranno potenza di abbatterne i rami? Voi avete delle rane la voce importuna e la stanza di fango; rimaneteci, — a voi non è lecito uscirne. Tu, canonico, torna alle immondezze della tua vita; tu, frate, a distribuire la broda ai poveri affollati alla porta del tuo convento; — di te mi prende compassione e ribrezzo, Soderini, un forestiero t'insegna carità per la patria; Fiorenza sempre onorò la tua casa, e tu macchini insidie a tradirla. Uscite, sgombrate la casa mia, e sappiate che Malatesta Baglioni è quanta fede si ritrova nel mondo.»

Il Soderini non sapeva districarsi, e fu mestieri aiutarlo, e insieme agli altri poveri congiurati, a capo basso, la rabbia nel cuore, uscì da cotesto luogo maledetto.

Quando furono giunti in parte dove non poterono essere sentiti, frate Vittorio fremendo favellò:

«Ah! volpe perugina, se non giungo a renderti pan per focaccia, rinnego anche Cristo.»

«Bisogna», riprese il canonico, «corrompergli lo scalco e fargli mescere un bicchiero di buona acquetta di Perugia; — non può aversene a male, — ella è roba del suo paese[195]

«Voi siete una perla per immaginare, ma e' converrebbe metteste fuori il danaro.»

«Santa Maria! io non potrei trovare un quattrino neanche se me lo pagaste un ducato; — mettetelo fuori voi.»

«Se le monete di cuoio andassero, mi taglierei gli usatti.»

«Perchè non levate la corona d'oro alla Madonna che avete sull'altare maggiore?

«Voi mi tenete per Calandrino, via! Questo fu fatto or corrono bene dieci anni, e con quella corona di ottone non sembra meno miracolosa alla gente.»

«O le lampade!»

«Tutte di rame.»

«Allora udite, — scriviamo un'accusa e tamburiamolo per traditore.»

«Oh il valentuomo! voi vi meritate una ghirlanda...»

«D'oro — per cambiarmela d'ottone.»

E si separarono; ma il canonico attese subito a mettersi in salvo e abbandonò la città; il frate ebbe lo stesso pensiero, se non che differiva porlo in esecuzione il giorno veniente, e, per le vicende che accaddero gli sfuggì l'occasione: nessuno di loro curò tamburare il Malatesta.

Al Soderini, gonfio d'ira e di superbia, non venne in mente cansarsi; si ridusse a casa, dove la povera sua madre non chiuse occhio tutta la notte per aspettarlo, e quando lo vide così turbato,

«Lorenzo», gli disse, «badate a non darmi qualche dolore in questi ultimi giorni di vita. Rammentatevi sempre che i Soderini attesero anche con loro pericolo al bene della patria.»

«Madre mia, Fiorenza attende il suo liberatore, e l'avrà.» Poi andò a giacere e sognò di salire sopra un gran palco in piazza, dove i popoli erano accorsi a vederlo. La mattina veniente allorchè si risvegliò risovvenendosi del sogno, seco stesso diceva: «Prima o seconda, questa mia testa è nata per alti destini.»

Infatti il sogno non lo deluse; la fortuna gli apparecchiava un destino alto.

Il Malatesta, poichè si furono allontanati costoro, facendo bocca da ridere, così favella al Bandino:

«Di tutto questo che parvene, messere Giovanni?»

«Parmi che dovrei darvi di questa daga sul capo.»

«In fè di Dio! voi avreste torto;» e sì dicendo il Baglione si allontana; «io piuttosto, e a ragione, dovrei dolermi di voi; chi diamine mi conducete davanti per cospirare? un frate e un canonico. Oltre il cattivo augurio che portano seco gente siffatta, sapete voi chi essi siano e quello che valgano? Uomini di perdutissima vita, privi di ogni bene di fortuna, così che la corda che gli appiccasse rappresenterebbe loro l'unica proprietà da essi mai posseduta nel mondo. Se avessi vite quante maggio ha foglie, io non ne porrei una all'avventura con loro. E quell'orgoglioso Soderini! Davvero l'epitafio scritto da messer Macchiavello per Piero Soderini ancora vivente si addice a tutti i membri della sua stolta famiglia. Al limbo i bambini, e non con noi per impresa di tanto momento. Voi almeno siete un uomo, voi, e nelle vostre braccia mi affido come in porto di sicurezza: — vedete in qual modo mi ha concio l'infermità non pertanto io fui un giorno, come voi, di persona prestante, e così come sono piaccionmi gli arditi.»

«Costoro molto avevano promesso, e il papa vi contava non poco.»

«Antico errore nei fuorusciti, sperare troppo nei vanti di chi meglio ne lusinga la passione.»

«Però ormai erano partecipi della congiura e se non potevano giovare, disprezzati potranno ben nuocere.»

«Guai a loro! Essi portano addosso la sentenza di morte. Domani, quando abbuia, nei tamburi di Santa Maria del Fiore io farò gittare dai miei fidati copia di spiagioni segrete a carico loro; prima che la vipera morda, le torrò i denti.»

«Chi vi assicura non vi prevengano nell'accusa?»

«La viltà loro. E poi essi hanno prova della mia fede, io invece posseggo la prova del tradimento loro. Or dunque accostatevi, concludiamo.»

«Sì, via, concludiamo, che al papa paiono mille anni di ritornare in palazzo.»

«Adagio ai me' passi; pure io m'ingegnerò a soddisfare le sue voglie. Uditemi; conviene guadagnare alle nostre parti uno di questi due cittadini, Francesco Carduccio, o Zanobi Bartolini.»

«Francesco Carduccio!»

«Ma Francesco Carduccio, comechè prudentissimo, si è scoperto troppo vivo per la parte degli Arrabbiati; la reputazione di cui gode gli viene da siffatta avventatezza; se domani si mostrasse un tantetto moderato, si demolirebbe con le proprie mani; quindi non favelliamo più oltre di lui.»

«Aggiungete ancora ch'ei non si lascerebbe comprare.»

«Tutto si compra, figliuolo mio; passioni, piaceri, vite, in somma tutto, inclusive la remissione dei peccati e l'entrata nel paradiso; i tesori delle indulgenze superano di assai i tesori di questa terra...»

«Non obliate, soggiunse ridendo il Bandino, che voi discorrete con l'ambasciatore della Santa Sede Apostolica.»

«Anzi io diceva così perchè troppo bene me lo rammentava. Rimane messer Zanobi; astuto, arguto, nei casi umani ricercatore sottilissimo e, come voi altri Fiorentini vi dite, bagnato e cimato: in lui pertanto vuolsi riporre ogni fidanza; i nobili gli fanno capo come a principale rappresentante, pendono dai suoi consigli, quanto egli vuole vogliono: ama la patria, ma più sè stesso ama; di animo gagliardo, ambisce il governo; assicurandolo che gran parte otterrebbe del nuovo stato, fingendo eleggerlo arbitro del futuro reggimento di Fiorenza, giurando mantenere salva la libertà della patria...»

«Questo è ciò che vuole mantenere papa Clemente.»

«Vi ho io forse detto che mantenga? Ho detto giuri. Il sommo pontefice può sciogliere dal giuramento con maggiore agevolezza che non iscioglie il fiocco del suo piviale.»

«Ma quel vero cignale del Bartolini che sempre tiene chiusi gli occhi e pensa sempre, lascerà cogliersi al laccio?»

«Molto pensa, più molto dorme; e poi non si dà uomo per quanto scaltro si sia, che non s'induca a credere quello che desidera; altrimenti per virtù di esperienza, ch'è vecchia e la sa lunga, gli uomini commetterebbero più errori in questo mondo?»

«E qual provvedimento consigliereste voi per placare questo cerbero?»

«Una bolla col suggello del pescatore, una promessa in buona e valida forma giurata dal commessario pontificio messer Baccio Valori, sarebbe l'ingoffo...»

«Ebbene, dov'è andato il brigantino vada la barca. Capitano Corrado, giuoco lo stipo.» Cap. XIII, pag. 319.

«I Dieci!» si ode gridare nella stanza precedente; e poi entrando affannoso Cencio Guercio,

«I Dieci, per Dio!» replica, «questa volta sono davvero, — mettevi in salvo.»

«Or non corre stagione per tue giammengole, Cencio: serbale a tempo più acconcio.»

«In verità... io non so sopra qual cosa giurare... quanto è vero che l'inferno ci aspetta... i Dieci domandano di voi.»

«Lasciami in pace: va...»

«Il caso urge per modo ch'io mi farò lecito penetrare nella sua camera da letto...»

«Un momento, messer Carduccio,» — urlava Malatesta adesso allibito e tremante, udendo le riferite parole; — «un momento solo... la decenza desidera che non venghiate qua oltre... io sono da voi.»

E, come meglio poteva aiutandosi della persona, accorse nell'antecedente stanza, dove il Carduccio in compagnia di altri quattro del magistrato dei dieci era entrato. Messer Francesco, gittando uno sguardo così alla sfuggita sul Malatesta e lo veggendo tutto disfatto, incominciò:

«Dio vi mandi il buon giorno, magnifico messere capitano generale; — ond'è che siete in volto più bianco che lenzuolo di morto? Vi sentireste male per avventura?»

«Le mie infermità mi concedono piccola salute, messer Francesco onorandissimo; pure ho fede nella Beata Vergine mia speciale avvocata, che tanta pure me ne rimanga da vedere questa patria tornata nello antico suo stato.»

«Avvertite, messere Malatesta, che due furono nei tempi trascorsi i reggimenti di Fiorenza, repubblica e principato; spiegatevi meglio, onde il cielo non prenda errore nei vostri voti; io gl'intendo benissimo e so che volgono alla repubblica. — Però temo non abbiate riguardo... così infermo passare la notte vestito! davvero...»

«Questo abito io presi nei campi; allorchè il nemico sta di fronte prudenza insegna si trovi apparecchiato il capitano; un momento perduto può dare al nemico o a voi vinta la impresa. Ma narrare a voi cose siffatte egli è come portare i frasconi in Vallombrosa; or dite su, qual causa vi mena sul far del giorno alle stanze del vostro capitano generale?»

«Ci hanno gli scorridori nostri portato sicura novella essere già comparsa in Mugello, d'intorno a Barberino, la testa del nuovo esercito, sommerà bel circa a ottomila: quattromila Tedeschi, duemila cinquecento Spagnuoli, ottocento Italiani, e lo restante cavalli; si tirano dietro venticinque pezzi di artiglieria grossa di cui parte ne concedeva loro Alfonso duca di Ferrara: portano ancora polvere e palle in gran copia. Papa Clemente, affinchè giunga questo dono alla sua patria più tostàno, ha fatto comandare per fino le mule dei cardinali...[196] »

«Ci si versano addosso tutte le forze della Chiesa e dell'impero?»

«Poco importa, strenuissimo capitano generale: quello però che molto importa si è questo, che intendendo forse il nemico di circondare la città da ogni lato, occuperà i colli di Fiesole, il piano di San Donato in Polverosa e luoghi altri consimili: ora quantunque le porte della Croce, Pinti, Faenza, San Gallo, della Giustizia e Prato siano a sufficienza munite di bastioni, e le mura abbiano argini e fosse diligentemente condotte, parve nondimeno al consiglio dei Dieci e ai tre commessarii su la difesa di Fiorenza doversi esaminare, se gli edifizii e borghi intorno alle mura potessero recare comodità ai nemici, danno a noi; e quando veramente il fatto fosse, come sembra, dannoso, siamo in tutto deliberati atterrare i borghi con ogni chiesa e casamento vi si trovasse dentro compreso.»

«Parlate voi daddovero? Rovinare quasi un terzo di città! Egli è questo negozio grave davvero e da consultarsi con maturità di giudizio: sono con voi.»

Senza metter tempo fra mezzo, tolta seco convenevole accompagnatura, di cui ormai non faceva più a meno il Malatesta, salito secondo il suo costume sopra un muletto, si condusse fuori di Porta alla Croce: prima di uscire però lasciava parte de' suoi Perugini in custodia della porta, sospettoso non fosse quello un trovato del Carduccio per escluderlo dalla città senza muovere rumore tra i soldati: e mentre ne bisbigliava sommesso l'ordine a Cencio Guercio, aggiunse con un proverbio:

«Cencio, tieni un occhio al pesce e l'altro al gatto.»

E Cencio pure con un proverbio:

«Badate a voi; che quando il vostro diavolo nacque, il mio andava ritto alla panca.»

Per ogni dove si vedeva moto, si udiva rumore; moto e rumore naturali alla maestosa onda del popolo che si agita; moltitudine di gente, munita di pali, di zappe e strumenti altri cotali, stava attendendo il comando di atterrare bellissimi edifizii, guastare ameni giardini, gioiosa così che sembrava non si trattasse della sua sostanza. Il cuore del Malatesta si commosse, ma invano, come quello del prigioniero avvinto di catene: mandò ancora un sospiro alla virtù nel modo che il leone caduto nella fossa guarda il cielo e rugge; la sua anima palpita sotto gli artigli del demonio; ormai questi v'incise la sentenza: — sei mio. —

I Dieci, i commessarii, fra i quali come capo onoravano messere Zanobi Bartolini, il Malatesta ed altri tra i maggiorenti della città cavalcarono lungo spazio di tempo, specularono i luoghi, valutarono le fabbriche, e consumata gran parte della mattina in coteste ricerche, si restrinsero poi a consulta per determinarsi a qualche provvedimento.

«Aprite il pensiero vostro, signor Malatesta», levando il capo e aprendo affatto gli occhi, che del continuo teneva chiusi o semichiusi, incominciò l'adiposo Bartolini.

«In fè di Dio! la rovina di tanti edifizii parmi una cosa matta.»

«Se pazza o savia, diranno i posteri; ma certo l'ammireranno in eterno: ora vogliamo sapere se utile...», interrompe il Carduccio.

«Un tesoro inestimabile andrebbe perduto...»

«Malatesta, cavalcando con noi per la città, avreste pur dovuto leggere su pei canti scritto con gesso o con carbone il fermo proponimento di questo popolo. — poveri e liberi[197]

«Prima di favellare io vorrei conoscere questo proponimento in maniera alquanto più sicura che i segni di gesso o di carbone non sono...»

«Con buona licenza delle signorie vostre», prese a dire un giovine fiorentino di oneste sembianze recandosi in mezzo ai magistrati e al generale con in mano un palo di ferro, «ciò non vi trattenga dal consigliare: io sono di casa Baccelli: posseggo nel Borgo di San Gallo casamenti ed orti: se il consiglio di guastare prevale, io me ne rimarrò peggiorato meglio che di ventimila fiorini d'oro; e nondimanco se tale sarà la deliberazione vostra, tengo il palo pronto per dare i primi colpi[198]

E poi si tacque il dabben giovane, modesto nel volto, non avendo messo nel profferire siffatta sentenza maggiore sforzo che se incontrando alcuno per via gli avesse detto: buon dì! fratel mio. — Il secolo nostro impari!

«Che ve ne pare, Malatesta?» interrogò il Carduccio.

«Indovinava papa Clemente quando non rifiniva di empire il mondo di quel suo volgare concetto: — avrebbero i Fiorentini renduto la città per paura di guastare gli orticini loro?»

Il Malatesta, prevenendo col desiderio il tempo futuro, pensò che gli sarebbe diminuito il premio del tradimento dove non consegnasse la città al papa così intera come egli gli aveva promesso; inoltre Clemente estimando ormai lo stato di Firenze come propria sostanza, gli aveva raccomandato badasse a far sì che lo guastassero meno che per lui si potesse. Il pregio, che in buon cittadino sarebbesi dipartito da carità, in lui nasceva da avarizia. A Dio non piacque mettere la sciagura tra le labbra e la tazza perocchè Malatesta raccogliendosi soggiunse:

«Lasciamo i vivi in disparte; ma l'ossa di tanti morti turbate nelle antiche sepolture andranno disperse pei campi?»

«Meglio disperse pei campi di un popolo libero che chiuse negli avelli sopra la terra funestata dalla tirannide», rispose Carduccio.

E Malatesta di nuovo:

«E i santi e Dio, cacciati dalle sacratissime loro dimore, esuleranno a guisa di fuorusciti, lontani dal paese che tanto fin qui predilessero?»

«Dio abita nei cieli; un cuore libero e infiammato nell'amore santo di patria è il miglior tempio cui egli si compiaccia abitare. Malatesta, voi sostenete tutte le parti, tranne la vostra: — voi vi mostrate mercante, e questa cura ci spetta; — voi vi mostrate tenero della nostra religione, e questa cura a noi soltanto appartiene; — siate una volta capitano di esercito, — e se come cristiano le mie parole vi turbano, sappiate che, quando i sacerdoti vollero, Cristo difese i tempii, — quando i sacerdoti vollero, Cristo vietò le immagini. — Iddio, che ha creato il mondo e le cose che in esso sono, essendo signore del cielo e della terra, non abita in tempii fatti di opera di mani[199]

«Orsù dunque», esclamò il Baglione guardandosi prima dintorno per assicurarsi se al bisogno i suoi fidati gli stavano appresso, «or dunque, via, vi parlerò da capitano di eserciti, poichè il mio consiglio coperto non voleste comprendere. Devo io manifestare un consiglio che compiaccia alle voglie di una fazione, o piuttosto aprire l'animo mio intero, siccome me ne fanno debito il giuramento prestato e l'ufficio di buon capitano? Qui, ben lo vedo, si vorrebbe che col mio parere confermassi il partito peggiore ormai determinato da pochi uomini torbidi; a noi, alla patria ed a sè stessi stoltamente avversi; comunque la libera favella non sia ormai senza pericolo quaggiù, io sostengo iniquo il disegno di abbattere tanti edifizii e disperdere tante facultà cittadine. Noi molti di leggieri possiamo circondare di un argine il fabbricato, e quinci difenderlo con prosperità di evento: tempo e travaglio maggiore richiede la rovina dei borghi che non l'argine di cui vi favellava poc'anzi: le mure di Fiorenza poco più valgono di un argine, voi le vedrete sfasciarsi alla batteria di quattro mezzi cannoni la riparazione dell'argine riesce meglio agevole dei muri, che per essere di pietra male sapremmo dove trovarla tagliata ed acconcia a turare la breccia. Se in Fiorenza non si contiene numero di soldati bastante a far sortite, soncene però quanti bastano a difendere qualunque più larga cinta di mura. Ciò a chiara prova si conosce; qui non fa mestieri consulta; ogni uomo che del tutto cieco della mente non sia di per sè lo comprende: — ma qui si vuole precipitare il popolo, costringerlo a risoluzioni disperate per rompergli poi ogni via agli accordi, i quali, la libertà assicurandogli e il vivere largo, gli togliessero dalle spalle questa incomportabile gravezza della guerra...»

Mentre così con veemenza arringava, un uomo inviluppato nel mantello, coperto di un feltro che gl'Italiani avevano cominciato ad usare in viaggio[200] o quando pioveva, mostrando insomma dall'apparenza di essere scavalcato pur dianzi, a furia di urti e colpi di gomito, nulla badando alle male parole che gli dicevano attorno, era giunto a porsi nella prima fila di faccia al Malatesta, e quivi stava ad ascoltarlo con atti d'ira, d'impazienza e di rabbia non altramente da quello che si facciano i cavalli quando si segnano col fuoco.

Le parole del Malatesta non partorivano troppo buon frutto per lui; il popolo conosceva l'erba pel suo seme e mormorava a guisa di vento per le forre dei monti. Allora il Baglione, cacciando fuori maggior voce, aggiungeva:

«Buoni popolani di Fiorenza, fratelli miei, credete a me che vi sono amico davvero; accettate il mio consiglio e ponetelo in opera! — vedrete poi chi v'inganna: conoscerete all'occasione chi intende rimettere la vita nella difesa della patria vostra... Se non avesse disertato dalla città Michelangiolo Buonarroti, per certo si unirebbe al mio avviso; — ma ora chi sa dove mai si avvolge quel traditore...?»

«Io traditore!» urlò lo sconosciuto, gittando il cappello e rivelandosi appunto qual era nella sua rabbia sublime Michelangelo Buonarroti, «io traditore! Per dimostrarti, popol mio, che non sono traditore, ecco io ti do un consiglio contrario a quello di Malatesta Baglione, ed oltre il consiglio, io te ne do il comandamento, imperciocchè io tengo tuttavia l'ufficio di procuratore generale sopra i ripari di questa patria comune. — Mal si potrebbe difendere cinta più larga: — quanto meglio si trovano prossimi i combattenti, e più si aiutano o con mano o con voce: le antiche mura sono tali da non sofferire batteria; e prova ve ne faccia la fatica inestimabile durata dal Bozzolo e dal Navarra quando rovinarono le torri che a guisa di ghirlanda incoronavano Fiorenza[201]; ancora ponete mente che il Mugnone riempie d'acqua i fossi intorno alle mura, e questo benefizio non avremmo intorno l'argine; ancora, le mura non istanno sole e nude, sibbene molto validamente munite; oltre i puntoni delle porte, le guardano il bastione presso alle mulina, il baluardo di Santa Caterina, l'altro non meno forte alla Mattonaia, il cavaliere tra le porte della Giustizia e della Croce[202]. Giù i borghi, dai quali i nemici possono offendere la città; aprite libero il campo al fulminare delle artiglierie; non ci calga delle ville; i nostri nemici ci torranno, non che le ville, la vita: si taglino le piante, perchè, se qui tra noi rimane la libertà rifioriranno, — se invece prevale la tirannide, che Dio non voglia, uomini e cose moriranno inaridite. — V'incresce forse dei magnifici palazzi, dei vaghi edifizii? Ecco, queste sono mani che sapranno rialzarli più belli»; e baldanzoso levava in alto le braccia: «poveri ma liberi... — Ma io meco stesso mi sdegno di consumare un tempo in parole che più acconciamente dovrebbesi impiegare in opere; roviniamo i borghi, poi vi mostrerò a bell'agio la necessità di siffatto provvedimento.»

I popoli si commossero, brulicarono e si avventarono a guastare case e giardini, amorosa cura degli avi e di loro stessi. Se in cotesto istante fossero sopraggiunti i nemici, nel vedere il furore che gli agitava, non avrebbero saputo che cosa pensare; gli olivi, le viti cadevano; sbarbavano cedri, melaranci e rosai; i tempii e i palagi rovinavano; i padroni delle case e degli orti, non che si mostrassero mesti nel sembiante e mettessero guai, inanimavano gli altri, e sopra gli altri non rimettevano dallo affaccendarsi; per quelle rovine si avvolgevano tutti polverosi, sudanti, divampanti nel volto. Dante da Castiglione, Ludovico Martelli, il Busini, Lionardo Bartolini e frotte di giovani per virtù propria e per chiarezza di stirpe cospicui. Donne e donzelle si mescevano tra la folla ed emulavano, operando, i più gagliardi, seguendo la natura loro sempre estrema così nel male come nel bene; e sì che quei luoghi erano cari alla più parte di esse per soavi ricordanze di amore: lì presso a quel rosaio venne prima il diletto garzone, là in quel viale per la prima volta gli favellarono, in quell'altro la prima parola di affetto fu mormorata, — udì quel pergolato i fidati colloqui e discreto testimonio ricoperse gli amanti dei copiosi suoi pampini; e la musa sogguardando tra le rosee sue dita, ben altri atti scoperse, e brevi sdegni e liete paci, che pure potè senza arrossire, comunque vergine cantare sopra la celeste sua lira. Per questi prati fioriti vennero spesso giovani amanti e donne innamorate; e mentre l'arancio profumava l'aria del divino suo alito, la melodia degli uccelli riempiva l'emisfero come di un inno di gloria, e il cielo era azzurro, il sole maestoso nella potenza dei suoi raggi, ripensarono all'arcano desío dei loro cuori, e in quella universale ebbrezza della natura rimasero esaltati, lo abbellirono di tutto quel riso del creato; che fosse oggetto terreno e mortale dimenticarono, lo incoronarono di rose eterne, per celebrarlo adoperarono un linguaggio che, da Platone e dai poeti fiorentini in fuori nissuno altro labbro nel mondo seppe favellare poi. Amore; carità di parenti, fede di religione, — qualunque affetto taceva; — ogni potenza dell'anima legata: il pensiero della patria tiene avaramente in sè raccolto ogni altro pensiero; la gioia sospende i suoi tripudii, l'angoscia i suoi lai: rideranno o piangeranno poi; — adesso tutti alla patria, a nulla più attendono che la patria non sia. Ludovico Martelli, siccome quegli ch'era di gentile natura e delle storie antiche non meno che nei cortesi modi cavaliereschi intendentissimo, si veggendo attorno una corona di vaghe gentildonne le quali non aborrivano le mani delicate adoperare in cotesta impresa, esclamò:

«Voi, donne, siete le stelle della terra; se mi donassero la scelta tra il sorriso della donna mia e la corona dei Cesari, io per me direi: mi sorrida la donna. — Già ricorda la storia un vostro fatto antico che salvò la patria; e la storia manderà ai posteri anche questo, che certamente salverà Fiorenza...»

«Deh! narrateci il fatto, cortese giovanotto, nè per ascoltarvi smetteremo il debito nostro», dissero a un punto le gentildonne adunate presso di lui.

«La storia è breve. Nel 1282, quando messer Giovanni da Procida ebbe ribellata la Sicilia al re Carlo, questi, avendo raccolto grosso naviglio a Napoli, mosse incontro Messina, dove postosi ad assedio, mandò ai Messinesi comando si riponessero sotto alla sua obbedienza. I Messinesi, sprovveduti di difese, vedendo tanto sforzo di esercito, col mezzo del legato della Chiesa gli domandarono per patto: perdonasse alle ingiurie; di quanto pagavano gli antichi loro per anno al re Guglielmo si contentasse; signoria latina, non provenzale, concedesse. — Alla quale domanda il re superbamente rispose: I nostri soggetti che contro a noi hanno infierito a morte domandano patti? Ebbene, io li perdonerò, ma voglio ottocento statichi, dei quali farò a mia volontà, e tengano da me quella signoria che a me piacerà siccome loro signore. — E notate, donne, i nostri padri guelfi lo chiamano il buon re Carlo.»

«Il Signore gli dia nell'altra vita mercede condegna ai meriti suoi!» soggiunsero le donne; — «ma i Messinesi qual davano risposta alle tracotanti parole?»

«Ecco, ce l'ha conservata Giacotto Malespini, storico guelfo, che Dio lo perdoni», continuò Ludovico: «Anzi volerne morire dentro alla nostra città colle nostre famiglie combattendo, che andare morendo in tormenti e in prigioni e in istrani paesi[203]

«Oh i gloriosi cittadini! Onore ai valentuomini!» con le voci e palma battendo a palma plaudivano le donne.

«Udite!... però la terra in parte non aveva mura, e il re da quel lato dette un furiosissimo assalto: i Messinesi si difesero, come si difende l'uomo il quale combatte per gli affetti più cari che la natura c'infuse nell'anima: dopo sanguinosissima battaglia ributtarono il nemico aspramente. Il re Carlo si ritirò a notte, fermo nel consiglio di espugnare alla dimane la terra o morire nella mischia. Cotesta fu una molto terribile notte pei Messinesi, e come disperati si sconfortavano: se non che le donne loro gli sostentarono, gli abbattuti spiriti ravvivarono, e rovinando case e tempii al chiarore delle fiaccole, con isforzi miracolosi nel breve spazio della notte munirono di muro quella parte di città che n'era senza. Allora un poeta del popolo fece certa canzone la quale tuttavia si rammenta. Carlo alla mattina conobbe impossibile lo assalto: mutato modo di guerra, pensò averla per fame; vi stette attorno circa due mesi invano, poi gli fu forza lasciare con sua vergogna la impresa.»

«E la canzone come diceva ella?» richiesero le donne.

«Della canzone i tempi serbarono una strofa sola.»

«Ditela su, noi la vogliamo sapere.»

«Ella dice così:

«Deh! com'è gran dolore

Le donne di Messina

Vederle scapigliate

Portar pietre e calcina[204]

«Oh! continuate, andate innanzi...»

«L'altro s'ignora...»

«Ce lo ponete di vostro, per poco che siate poeta.»

«Ma io non sono poeta.»

«Continuate... continuate... per quanto amore portate alla vostra donna.»

E Ludovico sospirando riprese a cantare: —

«Deh! quanto è gran dolore

Ruinar di nostre mani

L'arche dei padri nostri

Li tempii dei cristiani!»

Le donne per istinto di armonia ripetevano in coro:

«Deh! quanto è gran dolore»

E Ludovico di nuovo:

«Deh! quanto è gran dolore

Pensar che a tal destino

Mena la madre patria

Un papa e un cittadino.

Ma di tener Fiorenza

Non avrai, papa, il vanto,

O tu l'avrai morente

Per darle l'olio santo.»

E così continuarono finchè n'ebbero vaghezza.

Il Baglione, quando prima vide la moltitudine precipitare alla rovina dei borghi e lasciarlo spregiato, lo vinse l'ira per modo che, dato degli sproni nei fianchi al suo muletto e quindi tirate forte le briglie, lo tormentava in istrana maniera, sicchè quel misero animale scalpitava, si agitava e grondava sudore. Volendo poi tornarsene alla sua stanza, nel volgersi che fece, gli occorse Zanobi Bartolini, il quale, piegato il capo sul seno, non si era mosso; onde in passandogli da canto esclamò:

«Chi sa dove mai trarranno la patria cotesti Arrabbiati!»

«Ahi, povera Fiorenza! l'ora anche per te è venuta di essere ridotta in un mucchio di rovine.»

«Onta a voi che ne siete la colpa: — in fè di Dio, ora che corre stagione di mostrarvi più che uomo, voi mi diventate men che fanciullo. Dove lasciaste voi l'antico vigore, quando, commissario a Pistoia, col carnefice da un lato e la giustizia dall'altro, accomodaste quella scomposta città[205]

«Colpa è del papa, che non volle udire parola di libertà; e tra i due estremi del vederla o rovinata o serva noi lasciamo andare in rovina la patria.»

«E chi vi ha detto il papa non volere udire parola di libertà?»

«A me?... lo hanno riferito gli oratori nostri. Forse voi pensereste al contrario?»

«Lo penso... e forse... posso ancora saperlo...»

«Davvero? E a voi chi lo assicurato?»

«Uditemi bene, messere Zanobi...»

E così andando alternarono un colloquio nel quale i futuri destini di Firenze furono irrevocabilmente fissati.

«Michelangelo, che nuove?» tutto anelante domanda il Carduccio traendo in disparte il Buonarroti.

«Cristo morendo ci lasciò in eredità i chiodi e le spine: io nulla ho ottenuto... nulla... e, oh dolore! la salute della patria pendeva dalla riuscita dell'opera mia. — Io rientro nella mia patria, come lo spettro torna alla sua tomba su lo apparire dell'aurora...»

E poichè il Carduccio, le mani incrociate sul petto, il capo a terra chino, pareva come sopraffatto dall'angoscia, Michelangiolo lo scosse con impeto e gli domandò:

«Dunque è ben morta ogni speranza, o Francesco?»

«Il Carduccio crollò la testa quasi per iscuoterne i molesti pensieri, poi vestì la faccia di un sorriso languido e rispose:

«La speranza rinasce dalle sue ceneri, perchè questo popolo è grande.» — E così favellando gli accenna la moltitudine brulicante nella distruzione. — «Ma in breve narrami i casi tuoi.»

«Io me ne andai a Ferrara...»

«Parla sommesso; — qualcheduno, parmi, ci si avvolge d'intorno per origliare le nostre parole.»

«Egli è Andrea del Sarto; forse desidera darmi il ben tornato: — dilunghiamoci qua oltre e fingiamo non ravvisarlo; Dio non lo ha creato tristo, ma fievole di animo così ch'io volentieri gli terrei lo ingegno dell'arte. — Ora dunque me ne andai a Ferrara, riducendomi, quanto più secretamente potei, ad abitare all'osteria: il duca però, il quale per suoi nuovi sospetti si fa mandare ogni sera la lista degli osti, avendo saputo subito la mia venuta, mi mandò a levare di su l'osteria e mi usò ogni maniera di amorevolezze; di buon principio era questo; intanto presi a spandere fiorini fra i suoi cortigiani; — oh! la gran devozione che portano al nostro Battista cotesta gente tutta quanta! In ogni sguardo io vedeva un uncino, in ogni mano il ronciglio, sicchè presto mi ridussi al verde; bisognò concludere presto, altrimenti mi divoravano carne e ossa. Aveva con ogni modo studiato rendermi benevolo Alfonso; e perchè ei nulla potesse rifiutare a me, io nulla seppi ricusare a lui, fino a promettergli dipinto di mia mano un quadro rappresentante Leda col cigno: — adesso mi pento averlo promesso; ma, non essendo nato principe, fede di gentiluomo mi stringeva mantenere la parola[206]. Alfine un giorno gli scopersi pienamente l'animo mio con tutte quelle ragioni che voi sapeste dimostrarmi; al quale ragionamento egli rispose: Prima che tu parlassi, ti aveva letto nel cuore: — e poi si alzò, aperse uno stipo, ne trasse fuori una lettera e soggiunse: Leggi. — Egli era un comandamento dell'imperatore di non soccorrere apertamente nè celatamente i Fiorentini, per quanto amore portava alle cose sue; in questo modo operando, si obbligava solennemente a perorare in suo favore nelle controversie con la Chiesa: in caso diverso avrebbe dichiarato Ferrara devoluta alla Sedia Apostolica. — Quando ebbi letto, alzai la faccia ad Alfonso, che, ripiegata la lettera e messala di nuovo nello stipo, tornò alla mia volta proferendo queste poche parole: mors tua, vita mea. Non perciò pretermisi industria a persuaderlo: gli rappresentai essere agevole sovvenirci con tanta segretezza che neppure il diavolo potesse darsene per inteso. — Il demonio forse, rispose il duca, non mica i preti: per ora io dormo: ma quando mi sveglierò, partirà dai miei sguardi una favilla che incendierà il Vaticano. — Così disse: poi, come pentito di essersi lasciato troppo scoprire, si rinchiuse nelle sue ambagi, e da quel sasso non iscaturì più vena di acqua; riuscirebbe prima all'uomo di tagliare il porfido con le unghie che rimuovere quel cupo principe dal proponimento già preso.»

«E come incendierà egli il Vaticano? Questi sottili artifizii rovineranno sempre i principi italiani; la forza aperta è più generosa ed anche più efficace.»

«Per quanto mi occorse intendere da uomini prudenti, le dottrine degli eretici di Alemagna trovano favorevole accoglienza alla corte di Ferrara; le principesse, dicono, avere appreso i nuovi dogmi da un eresiarca tedesco venuto espressamente a convertirle.»

«Alfonso di Ferrara poteva vincere la Chiesa con le sue artiglierie: non lo avendo voluto, nelle argomentazioni egli perderà di certo... Inoltre cotesto tuo è concetto che non mi attaglia; imperciocchè, se le principesse sentono dell'eretico, il duca poi faccia professione di beghino. E a Vinezia?»

«Vinezia invecchia: — ama il riposo, rinunzia alla magnanimità, alla gratitudine, alle virtù senza le quali le repubbliche muoiono; ella pesa tutte le vicende dei pericoli alla bilancia dove i suoi mercanti riscontrano il peso delle monete d'oro: in lei è spento ogni alito di grandezza, altro non le rimane che diventare decrepita e morire. Il Gritti, col dorso voltato dagli anni verso la terra, vede la fossa e dubita; i suoi pensieri tendono ad abbellire la bara dove un giorno sarà composta la patria: io lo pregava di avere a cuore la libertà italiana, ed egli mi pregava a volergli fare un disegno pel ponte di Rialto[207]. Nissuna parola da voi suggerita dimenticai; non tacqui un esempio: e poichè guardando sopra la tavola mi occorse un libro manoscritto[208] che di fuori diceva: Historie de Nicolò Machiavelli, — cercai al libro quinto, dove racconta che i Viniziani stavano sul punto di abbandonarsi se i Fiorentini con presentissimo pericolo mandando loro il conte Sforza non gli sovvenivano; e gli notai col dito le parole dello storico con le quali dimostra quale e quanto effetto partorisse l'orazione di Neri Capponi al senato viniziano: — promettevano che mai per alcun tempo non che dai cuori loro, ma da quelli dei discendenti non si cancellerebbe così insigne beneficio, e che quella patria aveva ad essere comune a Fiorentini ed a loro. — Messere Andrea mi toccò su la spalla e mi favellò le seguenti parole. La ragione degli Stati procede diversa assai da quella degli individui; — i posteri biasimeranno in me doge della Repubblica viniziana ciò che tu loderesti in me Andrea Gritti. — Ed io, che a stento mi poteva frenare, gli risposi: Messere Andrea, io di queste sottigliezze non intendo, ma più di piacere ai posteri m'importerebbe piacere a Dio; e inoltre se un tal fatto reca vergogna a un uomo, non so vedere come e perchè non tornerebbe pure in onta ad un popolo, il quale si compone di una moltitudine di uomini. No: nè voi nè altri sapranno convincermi mai, che o popoli o privati non debbano pagare la colpa di riconoscenza, di lealtà, di grandezza tradite; e male argomenta colui che la durata della patria circoscrive al brevissimo spazio della sua vita. — E me ne andai fremendo. Vinezia! Vinezia! le genti ti contemplano colorita dal sole, rigogliosa di vita, ma il verme inosservato ti penetrò nelle viscere. Quando decrepita e moribonda chiamerai le tue sorelle d'Italia a consolarti nella sventura, vedrai intorno di te i principi, ai quali ti affidasti, irridere alla tua agonia ed imprecarti la morte, come eredi impazienti di raccogliere il tuo retaggio. E nondimeno, nè Alfonso di Ferrara, nè Andrea di Vinezia furono quelli che più mi fecero vergognare di appartenere alla stirpe umana; l'ira e il ribrezzo di essere nato uomo mi venne dai nostri concittadini, Carduccio, dai mercanti di Fiorenza dimoranti a Vinezia.»

«E come ti avvenne questo?»

«Io mi trovai a Vinezia allorchè giunse, mandato da Lorenzo Carnesecchi nostro commissario a Castrocaro, Pietro Borghini, il quale, accolti quanti mercadanti fiorentini tengono ragione in cotesta città riferì a costoro le imprese maravigliose di quel valentuomo di Lorenzo; narrò come sovente fosse venuto alle mani con Leonello di Carpi presidente ecclesiastico nella Romagna, e sempre con suo vantaggio, — e di Marradi, ribellato prima e tosto da lui ridotto nell'antica devozione, — dell'assedio di Castiglione sciolto, — dell'assalto di cinquemila e più fanti ributtato da Castrocaro, — della taglia posta da papa Clemente sopra il suo capo e della taglia da lui posta sul capo del papa, tutte queste cose disse, ed altre ne aggiunse non meno stupende e degne di memoria; ed infine egli aggiunse essere il Commessario deliberato di fare un servizio rilevantissimo in pro della patria, quando loro bastasse il cuore di fornirlo di denaro; e, per assicurarli avrebbe loro obbligato i suoi beni e quelli di Giorgio Ugolini tenerissimo della libertà. Capi dei mercadanti adunati erano Matteo Strozzi, Luigi Gherardi, Ludovico Nobili, Filippo del Bene, Giovanni Borgherini e Tomaso Giunta; ricchi tutti e, comechè avari, usi a sprecare in vizii e in giuochi le migliaia di ducati: e non pertanto, il sangue mi toglie il vedere nel rammentarlo, nessuno ebbe cuore di sovvenire di un solo fiorino il Commessario Carnesecchi. Matteo Strozzi allegò che la sicurezza offerta sui beni di Lorenzo e dell'Ugolini in tanta distanza era come nulla, potendo cotesti beni andare gravati di debiti sconosciuti, e così favellando parve sospettoso notaro, non fu cittadino: il Borgherini si scusò perchè aveva fondaco a Roma e temeva la vendetta del papa: più turpe degli altri, se in tanta turpitudine possono darsi screzii, Tomaso Giunta, il quale disse non essergli patria Fiorenza, ma Vinezia; imperciocchè a Vinezia avesse accumulato i danari, ed i denari comporre il vero sangue e la vera anima dell'uomo; poco importargli che la libertà della Repubblica fiorentina stesse in piedi, purchè la sua libreria non cadesse. Io rimasi esitante se dovessi rispondergli a parole o nel modo con che mi favellò, nella mia fanciullezza, il Torrigiano[209] quando di un pugno mi sfasciò il naso; pur mi rattenni e parlai: Stampatore Giunta, quando il papa e l'imperatore ti avranno strozzato la patria, pensi tu che non potranno farti smettere la stampa delle opere avverse all'impero ed a Roma, e con la quale tu ti sei arricchito? — Ed egli a me: Allora stamperò quelle che argomenteranno a loro vantaggio. — Ma, ripresi io, — ciò non basterà loro; si sforzeranno affinchè gli uomini non imparino a leggere. — Lo svergognato concluse: Di qui a quel tempo gran tratto ci corre: prima che i fanciulli diventino uomini io sarò morto; e morto io, morto il mondo; buona notte a chi resta. — Gli voltai le spalle, chè uomini cosifatti paionmi, e certamente sono scorpioni sbagliati: tornato a casa mi spogliai di tutte le veste e le gettai sul fuoco, abborrendo di più oltre portarle, siccome appestate da quei fiati velenosi. Apersi il mio Dante[210], e sopra i margini del trentesimoquarto nell' Inferno vi segnai la brutta sembianza di quei mercadanti come traditori tormentati nella Giudecca: il Giunta posi in una delle bocche di Lucifero, perocchè io non consenta punto col poeta quando mette Giuda, Cassio e Bruto a maciullare tra i denti di lui; Giuda lasciai, in luogo di Cassio vi posi il Giunta, la terza bocca rimane tuttavia vuota, e aspetto a riempirla col Malatesta. Ho sentito parecchie volte ricordare in famiglia, come uno dei nostri vecchi esercitasse il commercio di panni franceschi; or ora, come torno in casa, cercherò la sua immagine, e la velerò di un panno nero, come ho veduto in Vinezia che praticarono col ritratto del doge Marino Faliero. — di due cose, o Signore, principalmente io ti ringrazio; la prima per essere nato italiano, la seconda per non avere sortito ingegno da mercadante[211].

«Michelangiolo, ciò che tu parli il Carduccio magistrato non riferirà al Carduccio mercadante; parla sommesso, però che ai soli mercanti sia dato adesso sovvenire in tanto estremo la patria. Non tutti, come quei di Vinezia, si mostrarono iniqui al luogo dov'ebbero la vita; quei di Fiandra, d'Inghilterra e di Lione, mandarono grosse somme di pecunia. Le consorterie di per sè non hanno vizii, sibbene tu li trovi negli uomini, e questi sono più infelici che stolti, più stolti che scellerati. Il danaro tutto può...»

«Il danaro nulla può: raccogliete quanto vi pare fiorini e ditemi un poco s'essi vi scolpiranno un altro Davidde davanti il palazzo della Signoria.»

«No, ma pagheranno l'artefice che lo scolpirà. Perchè tu non hai condotto la sepoltura di Giulio II col disegno che prima intendevi? forse non perchè gli avari nipoti di Della Rovere eredarono le ricchezze del papa, non già il suo cuore di spendere nelle magnificenze?»

«Quando i Fiorentini diventarono mercadanti, posero la prima pietra della servitù.»

«I Fiorentini dovevano adunare danari e non deporre le armi: li danari soli e la virtù sola poco tratto camminano; l'ingegno solo è l'anima senza corpo, li danari soli mi paiono il corpo senz'anima. Se ti viene fatto di trovarti vicino alla chiesa di San Brancazio, Michelangiolo mio, entra nel chiostro, e vedrai sopra la sepoltura degli arcangeli effigiato il simbolo della mia dottrina: troverai una cassa con due ale tese sotto in alto di volare[212]. Virtù e pecunia, e convertirai il mondo in paradiso.»

«Quant'è vero ch'io sono figliuolo di Ludovico Buonarroti cancellerò cotesta immagine: e' mi sembra uno sfregio fatto dalla morte su la faccia dei viventi; perdio! la cancellerò, dovessi sopportare la pena di violato sepolcro; no, voi non giungerete a farmi intendere cotali novelle, Carduccio...»

«Ed io supplico Dio che tu non le intenda mai; forse altrimenti non saresti divino... — Adesso separiamoci: — tu viemmi con diligenza a trovare in palazzo; — colà mi esporrai più distesamente la tua commissione: per avventura ciò che a te parve repulsa, in sostanza può dirsi che non si abbia ad intender cosa tale; gli uomini spesso, e i capi degli Stati quasi sempre, e' son tali libri che bisogna intendere alla rovescia. Addio.»

«Messer Carduccio, uditemi; la mia parola risponde al palpito del mio cuore; — perchè esiterei davanti a voi? Voi mi parete meno assai sconfortato di quando v'incontrai nel cimitero di Sant'Egidio. Le condizioni della patria mutarono, o le vostre?»

Il Carduccio sorridendo mostrò di non si accorgere del fiele contenuto in cotesta domanda; e pacato rispose:

«Quelle della patria: — il popolo oggi mi ha levato in isperanza; — poco prima due uomini mi tolsero dalla disperazione.»

«E come si chiamano eglino questi due uomini? Io vo' conoscerli.»

«Uno ben lo conosci, perchè sei tu; l'altro si chiama Francesco Ferruccio. Cristo non ci lasciò soltanto eredità di spine e di chiodi; egli ha staccato dalla croce la lancia della sua passione, la pose in mano al Ferruccio, e nel dargliela disse: Tu vincerai. — Conosci il Ferruccio? In lui, giurerei, si agita puro il sangue romano senza miscuglio di barbaro.»

«Ferruccio!» ripete pensando Michelangiolo, tenendo fisso lo sguardo sul terreno: e il braccio destro distende col pugno chiuso ad eccezione del pollice, il quale muove a quell'atto che gli scultori fanno allorchè plasticano le figure in creta; e poi all'improvviso prorompe: — Ferruccio! Sì lo rammento; egli deve esser grande, — egli è grande davvero; lo riconosco al pensiero di audacia e di dolore che distingue le anime divine rinchiuse dentro un corpo di terra, — il pensiero che ho scolpito sopra la fronte del mio Moisè; — la forza che ci solleva sopra la natura umana e non ci vale per conseguire la celeste; — la intelligenza che percuote sempre alle porte dell'infinito; non importa... cotesto pensiero fascia, come cerchio di ferro rovente, il cranio che lo contiene..., ma luce sparge e salute agli uomini in mezzo ai quali egli nacque... ravviso il segno...»

«Capitano Giovanni, deh! per Dio, lasciatelo, — egli è un fanciullo:...» Cap. XIV, pag. 343.

In questa, la terra, come scossa da terremoto, tremò; si volsero il Buonarroti e il Carduccio dalla parte donde pareva loro il rumore movesse; il campanile della badia di San Salvi era scomparso; un nuvolo denso di polvere occupava gran tratto di paese, e dietro quel nuvolo prorompevano strida, schiamazzi e manifestazioni di gioia frenetica. All'improvviso il rumore cessa, nissuna traccia rimane del fatto, tranne una striscia di polvere che ingombra l'emisfero, e il vento si porta; e' sembra che il campanile, cadendo, abbia sprofondato la terra, traendo seco nell'abisso i demolitori. Smisero dal favellare i nostri personaggi, ed affrettando i passi piegarono a quella volta.

Nuovo spettacolo occorre adesso davanti agli occhi di loro; — cosa incredibile io narro, ma vera. I cittadini, giunti che furono con la rovina in luogo, dove si scoperse loro il refettorio nel quale di mano di Andrea del Sarto era dipinto un cenacolo di Gesù Cristo, stettero vinti da inusitato stupore nel contemplare quelle celesti sembianze, dove aveva trasfuso l'artefice tanta parte di Dio, — cotesti atti così pieni di vita presente; — essi pensarono vedere ad ora ad ora muovere la mano al Cristo per benedirli; — e pure aspettando la benedizione, qual si prostese, quale altro piegò la persona, — si composero tutti in varii atteggiamenti di umiltà e di venerazione[213].

«Miracolo dell'arte!» esclamò appena arrivato il Buonarroti.

«Gentilezza di animo bennato!» riprese il Carduccio.

E le turbe, tostochè videro Michelangiolo, ad una voce parlarono:

«Maestro, noi non possiamo andare più avanti.»

«Voi ferireste nel cuore la gloria di Andrea del Sarto. Dove si trova Andrea? — Venga, noi lo coroneremo re dell'arte; — sopra un carro di trionfo o sopra le rovine sarà sempre bella la ghirlanda, poichè gliene cingeranno le tempie libere mani...»

«Andrea del Sarto!» chiamò il popolo con tale una voce da rompere il sonno ai sepolti nel chiostro della badìa, — «Andrea del Sarto!»

E Andrea non compariva. Allora si levò una figura livida, oltremodo cresputa nel volto, parte a cagione degli anni, e parte per la continua abitudine al riso, e,

«Popolo», disse, — «Andrea del Sarto si è ritirato a casa per timore che la Lucrezia del Fede sua moglie non si accorga della sua venuta quaggiù. Ella lo ha minacciato, che tornando i Medici, gli farà la spia per aver dipinto in Condotta, nella facciata della mercatanzia, i capitani Cecco e Jacopantonio Orsini e Giovanni da Sessa, e siccome egli gl'impiccò in immagine pei piedi, ella s'ingegnerà perchè lui impicchino davvero per la gola: il cuore dell'uomo, il quale ritrasse questo volto che adorate, trema dinanzi alla più rea e sozza femmina che mai nascesse in Fiorenza.»

Ciò detto, con un riso sparì; un senso di freddo scorse per le ossa della moltitudine; rimase spento ogni entusiasmo; continuò l'opera, ma la continuò taciturna e pensosa.

«Quando», favellò Michelangiolo al Carduccio, «Andrea s'invaghì di cotesta mala femmina, il suo cuore diventò di pietra pei suoi vecchi parenti: essi morirono soli e nella miseria, — ma prima di morire imprecarono la maledizione[214] sul capo dello snaturato figliuolo. La maledizione paterna ecco si adempie: — così è; lo Spirito Santo lo ha profetizzato: — la donna valorosa è corona di gloria al suo marito: quella poi che reca vituperio gli è come un tarlo nelle ossa; — tocche dalle mani contaminate della moglie impudica s'inaridiscono le foglie della corona di Andrea; egli se le vede cadere morte prima di lui: — tutto terra, sarà reso alla terra. I posteri visitando la sua contrada natale diranno: Insegnatemi il luogo dove dipinse Andrea del Sarto, — nessuno dirà: Menatemi all'arca dove riposano le ceneri di Andrea del Sarto.»

CAPITOLO DECIMOSESTO LA VENDETTA

Non ha virtù che di corrucci e sangue:

Derisor dei mortali e dei celesti,

Nè di patria gli cal nè di fortuna

Nè di sè molto: forte nacque e pugna.

Ajace

Era compiuto un giorno, e il secondo declinava verso vespero, dacchè il Morticino degli Antinori cibo non gustava nè bevanda: la lingua arida gli sta attaccata al palato, gli cerchia la gola insopportabile bruciore; talvolta un freddo sottile dai reni gli scorre su per le vertebre della spina o gli stringe il cervello, tal'altra lo invade dal capo alle piante una ondata di sangue, quasi lavacro di metallo fuso; spesso gli sfugge di sotto la terra gli si piegano le ginocchia, ed accenna cadere, — non pertanto rimane disperatamente fisso al suo posto, immerso entro un abisso di dolore e di furore.

Accomodato il corpo del giovane Frescobaldi sopra una bara, con la sua destra gli stringe la destra e lo viene, di tanto in tanto, guardando.

Ahi com'era da quello di prima diverso! Le belle chiome, sua giovanile alterezza, ora di sangue sordidate e di fango, ne rendono orribile l'aspetto, gli occhi ha pesti; pei labbri, donde così feroce prorompeva il grido di guerra, su per le narici che aspiravano tanto largo sorso di vita, — l'insetto sorvola, — si posa, — trascorre, quasi sopra propria posessione; la morte lo abbracciò, e la putredine segna il vestigio di quell'amplesso; — la morte gli soffiò sopra e spense una vita di uomo e ne suscitò un'altra schifosa a vedersi, — la vita dei vermi brulicanti nei cadaveri corrotti. — Alla croce di Dio, cotesto spettacolo pareva incomportabile per anima viva.

Ma che forse mancano servi, amici o parenti al Morticino, i quali valgano a strapparlo da tanto orrore? — Un vecchio fante gli si era accostato sommesso e con molta pietà gli aveva susurrato all'orecchio le parole di — provvidenza, — rassegnazione, — preghiera, — ed altre consimili, le quali non rinverdirono la foglia caduta; — ed egli non vi aveva posto ascolto, se non che, travagliato dallo importuno ronzío, si scosse, si avvisò di quello che era; la parola — pazienza — gli suonò piena di amarezza nell'anima: allora tanta ira lo vinse che stretta la daga la menò con rabbiosissimo impeto contro il suo consolatore: ben pel vecchio che fu a tempo a curvarsi per modo che il taglio della daga gli recise le vesti, e così a flor di pelle gli graffiò l'epidermide del ventre — altrimenti, rovesciate le viscere sul pavimento, quivi l'infelice moriva. Dopo lui nessun altro ardì mettersi alla ventura.

All'improvviso si spalancano le porte, uno splendore di ceri, un salmeggiare di frati empie la sala: si abbassa una croce e, trapassata la soglia, torna a sollevarsi nella sua superba umiltà. I frati della cura venivano pel morto.

Così tremenda urlò il Morticino una bestemmia, che lo splendore dei lumi sparì, siccome era apparso, veloce: i frati sbigottiti, lasciatisi andare i ceri di mano, si cacciarono a precipizio giù per le scale; — il segno della salute vacillò e cadde, — quasi la bestemmia lo avesse côlto a guisa di un colpo di balestra.

Quell'urlo intronò tutto il palazzo nei penetrali più intimi e valse a scuotere la madre del Morticino dal suo consueto letargo. Aprì le palpebre gravi e domandò:

«Ch'è questo?»

«La compagnia dei frati di san Domenico venne pel morto....» le rispondevano.

«Avvisatela che si trattenga un'ora e porterà via anche me,» Ciò detto, riabbassò le palpebre e s'immerse di nuovo nel letargo della decrepitezza.

La fama dell'angoscia mortale del Morticino correva di bocca in bocca, e molti ne sentivano pietà; più molti, sapendolo fastidievole e tristo, pensavano gli avesse Dio mandata quella tribolazione per umiliarlo. Quando giunse all'orecchio di Dante da Castiglione, questi, siccome era magnanimo, deposto subitamente ogni rancore, deliberò di farsi a confortarlo: invano voleva rammentarsi la ingiuria patita; lo avrebbe odiato felice, ma lo amava misero; e parendogli ancora di potergli dire cosa che lo avrebbe richiamato da morte a vita, statuì seco stesso di non indugiare più oltre, perocchè in compagnia del Martelli, del Busini, del Bichi, dell'Arsoli e di altri illustri soldati e cittadini s'incamminò alla volta del palazzo degli Antinori.

Il Morticino non si accorse della loro venuta. Dante gli si accostò e, ponendogli una mano sopra la spalla, gli disse una sola parola. Di repente nel Morticino la virtù dello sguardo si rifece viva, lascia la mano del morto, trasalisce, guarda fisso Dante nel volto e con immensa passione esclama:

«Bada di non ingannarmi.»

«La mia bocca ignora la menzogna, ed apparécchiati.»

Allora il Morticino gli si abbandona nelle braccia, e alcune lacrime rare gli solcarono il volto bianco, quasi goccie di rugiada sgorganti dal cavo degli occhi di una statua, dove in troppa copia le depose l'aurora. Nè per questa volta si pentì dell'amplesso; — lungo si produsse e smanioso; — mosso dalla ferocia, non già dall'amore, il Morticino avrebbe abbracciato un ferro rovente.

Egli è da sapersi, che il Castiglione, amico del Carduccio, conobbe da lui apparecchiarsi in quella notte una incamiciata contro il campo nemico, ed egli aveva promesso di conservare il segreto ad eccezione di una sola persona, e questa persona fu il Morticino degli Antinori.

Il muto affanno del Morticino si converte in ebbra loquacità: cibo prende e bevanda; corre di su e di giù, chiama, urla e tempesta, allestisce le armi, tenta il taglio della spada e della daga, ora prorompe in risa sfrenate, ora in minaccie o in bestemmie. I servi non sapevano se meritasse maggiore compassione, adesso in quel folle affaccendarsi, o dianzi nella sua cupa immobilità.

Poi disse volersi riposare, impose ai servi lo chiamassero all'ora dell'Ave Maria, badassero di non obliarlo, o mal per loro: si pose in fatti a giacere sperando quiete; invano però, chè lo starsi gl'increbbe meglio del camminare: si volge sopra questo o quel lato, e forte geme e respinge con grande sforzo di respiro l'aria che pareva soffocarlo; pur chiuse gli occhi, e le vicende orribili della veglia gli rotearono pel capo più orribili ancora, scomposte o fantastiche; dopo un lungo flagellarsi su quell'aculeo di letto, all'improvviso sogna essere la incamiciata finita, ritirarsi le compagnie, giungere troppo tardo... fallita del tutto l'impresa: — si sveglia di soprassalto cacciando un grido e si precipita giù dalle piume.

Il sole non era per anche scomparso dal nostro emisfero; ma, spogliato di raggi, tinto di un funesto vermiglio, si accostava all'occaso; la terra, verso la quale pareva declinare, lo avviluppa nei suoi vapori di sangue. Questo astro benigno di amore e di vita oh come stringe l'anima dei mortali, allorchè si mostra cruccioso! In quella sera sembrava l'occhio di Satana che venga a vigilare se le angosce, le infermità e la morte adempiano il fiero mandato che loro affidò il consiglio misterioso, che a noi sembra crudele, di Dio.

Il Morticino, a cui increbbe di non lo vedere ancora scomparso, leva minaccioso il pugno al cielo esclamando:

«Un giorno ti soffermasti nel firmamento per contemplare una strage[215]; poichè la strage ti talenta, affrettati a dileguarti: adesso a noi fa di mestieri la tenebra.»

Cala la notte: di orrore si empie e di silenzio la città; Firenze sembra tramutata nel campo dei morti. — Squilla un tocco della campana: — quel tocco solitario si diffonde per la terra deserta, e pare una percossa data sul mondo dalla eternità per conoscere dal suono se sia in procinto di dissolversi sfracellato tornando nel suo caos primiero.

Il fremito del bronzo taceva appena per l'aria che fu sentita una voce lugubre che gridava:

«Adunatevi, uccelli del cielo: — la spada vi apparecchia il convito; basterà la carne a voi e agli implumi che lasciaste nel nido. — Lupi dell'Appennino, scendete, portate la vostra gran fame, — prima che l'aurora si levi, il vostro ventre sarà sazio di carne, — dico di carne umana. Uccelli, lacerate; — lupi, sbranate i corpi morti, senza misericordia, perchè il Signore ha scritto che nessuno dei difensori della patria morderà la polvere a cagione del ferro nemico.»

Era la voce del povero Pieruccio, — il profeta del popolo.

Stefano Colonna, conferito prima col Malatesta il disegno, armato di zagaglia presso il bastione di San Francesco, innanzi di sboccare dalla porta di San Nicolò, si volse alla gente che gli traeva dietro e le disse queste poche parole che la storia ci ha conservate: «Valorosi soldati, io vi meno a una certa e sicurissima vittoria; fate quello che voi vedete fare a me.»

Erano cinquecento fanti: cento archibusieri e gli altri quattrocento in corsaletto armati di partigianoni e di alabarde; ai quali si aggiunse una banda della milizia del gonfalone dell'Unicorno capitanata da Alamanno de' Pazzi; sopra il corsaletto portavano tutti un camicia bianca per distinguersi dai nemici, — motivo per cui questa impresa notturna si chiamava incamiciata.

Quanto più possono chetamente s'inoltrano; divisando Stefano Colonna incominciare l'assalto dall'alloggiamento del colonnello di Sciarra Colonna, contro il quale nudriva nimistà mortale, si apprestano a salire su pel poggio per a Santa Margherita a Montici. Alcuni più arrisicati e conoscenti del sentiero trascorrono; ecco sono giunti presso al tabernacolo delle cinque vie, dove i nemici tengono due sentinelle perdute.

«Chi viva?» gridano entrambe.

«Viva la morte!»

Si ode una procella di colpi; un suono di usberghi percossi sul terreno; — le parole: Gesù, abbiate misericordia dell'anima mia! — vengono tagliate a mezzo, così ordinando ragione di guerra; quindi un gemito roco, — e poi più nulla.

S'inoltrano per la valle che giace tra Rusciano e Giramonte, — la passano, — già toccano alla coda dell'esercito. — Apra l'inferno le sue porte! Ecco improvvisamente danno dentro all'alloggiamento di Sciarra; — molti, i più avventurosi, dal sonno si trovano balestrati nell'eternità; altri si svegliano per vedere soltanto la spada che penetra loro nelle viscere: sorge un cieco viluppo, un trambusto di gente che fugge o che muore e un gridare: — Accorruomo! — accorruomo! — arme! — aiuto! — e minaccie e preghiere, suoni compassionevoli o ferici. Smeraldo da Parma, luogotenente di Sciarra, corre forsennato per radunare le milizie, rincorarle e far testa; così al buio si scontra nel signore Stefano e lo garrisce come neghittoso; questi, accecato dalla brama di sangue, lo scambia con lo Sciarra suo consorto e gli menando un colpo di zagaglia nel petto, — «Sciarra», gli grida, — or ti parrà ch'io sia venuto troppo tosto!» — Segue una mischia atroce, — i nemici, mentre tentano difendersi, l'un l'altro, confondendosi, percuotono; dove adunarsi non sanno; non risplende lume, per ogni parte li circonda la morte. — Oh Dio! qual desolazione è mai questa! — potessimo almeno morire da soldati combattendo! — sia tradimento? — tradimento! — tradimento! — E lo scompiglio e la strage crescono terribili più, quanto meno veduti. — Dove l'affronto mena più tremendo il rumore: la voce del Pieruccio, superando i gridi e le percosse, invoca i lupi e gli avoltoi ad accorrere per satollarsi di carne battezzata.

Dentro una trabacca distesi sopra il medesimo letto dormono due; — giovane l'uno, giace nudo avvolto dentro la coltre con un braccio sotto il capo, l'altro penzolone fuori della sponda; il secondo di maggiore età, armato di tutto punto, eccetto dell'elmo; a giudicarne dal volto paiono padre e figliuolo. Giovanni da Sassatello turbava in quel punto un mal sogno; gli pareva che una moltitudine di armati circondasse il letto e ve lo tenesse su fermo; egli si sforzava svincolarsi, e non gli riusciva, dava scossoni, raddoppiava i conati, e sempre invano; grondava sudore, agitava le labbra con sordo mormorio.

Il sogno era verità, almeno in parte; una mano dei nostri penetra nella trabacca e va difilata alla sua volta per ispaciarlo di vita.

Egli continua nel sogno spaventevole; — uno degli armati con man potente gli strappa l'usbergo e gli pone una mano sul cuore; per tutte le membra gli scorre ribrezzo; batte i denti e non può proferire parola. Intanto l'armato si trae la daga dal fianco; poi, come se lo impacciasse la visiera, con la manca la solleva. La coscienza del volto del cavaliere gli presenta la sembianza di Lionardo Frescobaldi da lui ucciso, a tradimento, il quale, comechè morto, veniva a prendere la sua vendetta.

I nostri già gli stanno vicini: — la sua morte precipita giù dalla punta di un pugnale..

«Morte di Dio, fermatevi!» — urla prorompendo nella trabacca il Morticino degli Antinori, che cercando in ogni lato il Sassatello, si era a caso colà abbattuto in quel punto, e al chiarore della lampada posta sopra la tavola lo aveva ravvisato, — «fermatevi! Se lo uccidete dormendo, voi mi togliete più che mezza la vendetta. Svegliati su, Sassatello, svegliati per contemplare la strage del tuo figliuolo. — e morire.»

Si svegliò lo sciagurato, — stupidì, — stette per isvenire, — poi ad un tratto gli rende potente la persona una sopraumana gagliardia; — è sbalzato su in piedi, — ha stretto una mazza d'arme, — abbassa colpi a destra e a sinistra, si versa intorno al letto come serpente col suo corpo flessibile. Affannosa, — anelante, — pure ricupera la voce e, «Eustachio,» grida, «svegliati, difenditi, figlio mio... noi siamo morti.»

Il giovinetto sonnacchioso:

«Padre, che hai? — ma sentendo il fragore delle armi, spalanca gli occhi, vede il pericolo e, ghermita dal capo del letto una spada, si pone con un ginocchio piegato a difendere francamente la sua vita.

«Santi del paradiso, venite in soccorso di noi!» esclama il padre pur tuttavia menando le mani.

«I santi si chiudono le orecchie alle preghiere dei traditori», gli gridano dintorno.

E il padre desolato continuava:

«Sciarra, Smeraldo, — aiuto!... aiuto!»

«I tuoi gridi non gli faranno venire, — noi gli abbiamo ammazzati.»

Amor di padre lo costringe a volgere la faccia, e contempla il Morticino, il quale, copertosi con la rotella la testa, drizzata la punta della spada, spia il momento di cacciarla nel costato al figliuolo; — egli distende la manca e, forte abbrancando l'Antinori pel collo,

«Cane, indietro!» grida, — «non me lo ferire, — egli è innocente.»

Mentre così intende in altra parte, i nemici che gli stavano di fronte trovano la via a impiagarlo sul capo e su la guancia; egli però non se ne accorge o non se ne cura, badando pur sempre a tener fermo l'Antinori. Questi, inasprito dal dolore e, più che dal dolore dalla rabbia di non aver potuto condurre a fine il suo disegno, indietreggia di alcun passo e forte appoggiato il taglio della spada sulla mano di Sassatello, ne recide ferocemente i muscoli e le vene. — Il Sassatello ritira spasimando la mano, e l'Antinori si avventando presto come una pantera, contro il giovane Eustachio, che non se lo aspettava, lo colpisce presso alla forcella del petto; il sangue scorre, — listando il tenero corpo e il bianco lenzuolo di cui si avvolgeva. Egli era pietosissimo e non per tanto bello spettacolo vedere quel giovane di ben composte forme, co' capelli ventilati dietro le spalle per la rapidità dei moti, il volto pieno della morte imminente e d'indomabile coraggio, lottare contro l'ultimo fato a guisa dell'antico gladiatore che tenta guadagnarsi il plauso romano con lo spirare maestoso dell'anima. Giovanni da Sassatello, tempestando con la mazza d'arme punte e fendenti, ha respinto gli assalitori: adesso torna a vedere il figlio e l'osserva impiagato.

«Ahi! Eustachio mio, tu grondi sangue...» E dimentico del proprio pericolo sta per voltare il fianco ai nemici, i quali prevalendosi dell'atto gli si stringono addosso di nuovo. Eustachio conobbe esser quella l'ultima ora del padre, se non si parava, e:

«Padre, badatevi.... badate a voi.... a voi solo, o che io mi lascio ammazzare...»

«O Antinori, pel tuo Dio, non me lo uccidere!»

«Io non conosco Dio.»

«O Antinori, per quanto amore porti alla tua donna, non me lo uccidere!»

«Io non amo... nacqui per odiare.»

«O Antinori... Antinori, pensa lui essere il mio unico figlio!...»

«Tanto meglio... così sarà più presto distrutta la razza delle vipere...»

«Sciarra..., Smeraldo..., aiuto!...»

«Già te lo dissi... noi gli abbiamo ammazzati.»

«Satana benedetto, io ti fo voto dell'anima, se mi salvi il figliuolo!»

Tutte queste parole focose, arrangolate, erano profferite tra l'intervallo dei colpi e mentre, difendendo sè stesso, il Sassatello volgeva le spalle alla zuffa tra il Morticino e il figliuolo. Dopo un breve silenzio, — silenzio di voci, però che i ferri aspramente battuti tra loro mandassero spaventevole fracasso, — il padre in suono di pianto domandò:

«Eustacchio, come ti difendi?»

«Bene...»

Ed in quel punto il giovane toccava una seconda ferita. — Il Sassatello sentiva mancarsi la lena; la piaga della mano lo tormentava; i suoi occhi cominciavamo a perdere lume; volendosi tergere il sudore che giù li grondava dalla fronte, tenta di farlo con la manca, e il volto e la barba gli s'imbrattano di sangue; quell'orribile lavacro parve che in lui facesse riardere il furore; — si scaglia contro i nemici, i quali si scostano atterriti. Prevalendosi di cotesto istante di posa, si volge nuovamente al figliuolo... e lo mira tutto sanguinoso...

«Dio», esclama, «come me lo hai concio!» e ormai improvvido di sè si dispone ad accorrere dall'altra sponda del letto; — di repente due mani vestite del guanto di ferro gl'imprigionano la destra e gl'impediscono il passo.

Molti colpi aveva menato Eustacchio, ma invano, perocchè l'Antinori come tutti i suoi compagni, fossero chiusi dal capo alle piante dentro arme di tempra stupenda: — di cento colpi avversarii ne aveva riparato la maggior parte, non pertanto tre lo avevano tocco, e, come quello che nessun riparo difendeva, n'era rimasto sconciamente ferito: altra speranza non gli avanzava che percuotere l'Antinori con tanta veemenza sull'elmo da cacciarlo trammortito per terra; allora gli si sarebbe lanciato sopra e, insinuandogli la punta nella commessura tra il corsatello e l'elmo, confidava svenarlo. In questo disegno afferra la spada con ambe le mani e, levandosi ritto sul letto, acconsente quel colpo con tutta la persona. — Agevole fu al Morticino, destrissimo, di tirarsi da parte e mandare a vuoto la percossa; sicchè il giovane, non trovando contrasto, venne tratto fuori di bilico a traboccare dal letto spezzandosi sopra la terra le labbra e i denti. L'Antinori gli balza sopra, la mano gli pone entro i capelli, intorno al pugno gli attorce, e traendole di forza lo strascina. Il padre, visto quel caso miserabile, non già immeritato, così impetuoso scosse le braccia che mandò quei due che lo tenevano stretto lontani da sè a rotolare per terra, — ed accorreva al soccorso... Ma i due caduti urtando nella tavola su la quale ardeva la lampada, la rovesciano; — mancò la luce... ma il raggio moribondo si prolunga riflesso sopra la spada del Morticino che si abbassa sul corpo del giovane Eustacchio. Quando le amate sembianze gli scomparvero dallo sguardo al Sassatello, mancate sotto le gambe, venne meno il coraggio, gli si ottenebrò l'intelletto, — rimase immobile — pauroso di offendere le membra del figliuolo, non ardiva movere passo: i nemici lo atterrarono, — gli avvinsero di corde le braccia; — egli non mandò sospiro, — non gemito di angoscia; immerso dentro un abisso di dolore, stette muto.

In altra parte accadeva altra strana vicenda. Parmi d'avervi già raccontato come un poeta, Annibale Bentivoglio bolognese, militasse contra a Firenze nel campo pel papa; costui, siccome soventi volte accade ai soldati, abborrendo le sciagure di quella misera contrada e chi n'era cagione, non per tanto si adoperava in vantaggio degli oppressori; raccolto la sera nella sua tenda, malediceva alle infamie con quella medesima destra che aveva aiutato a commetterle la mattina; destato nello scompiglio, travolto nella fuga del suo colonnello, tolte appena le vesti e la spada, si riparava nelle parti più munite del campo, lasciando le carte sparse sopra la tavola. Ludovico Martelli, precorrendo la compagnia della milizia fiorentina di cui era capitano, entra nella tenda, e, viste le carte, lo prende vaghezza di leggere quello che contenessero. Il poeta aveva tracciato le due prime terzine della satira nella quale descrive il travaglio della città assediata; — le terzine dicono così:

Sovra i bei colli che vagheggian l'Arno

E la nostra città, che or duolsi et have

Pallido il viso e lagrimoso indarno,

Sono un di quei che con fatica grave

Al marzïal lavoro armati tiene

Quel che di Pietro ha l'una e l'altra chiave.

Arse di nobile sdegno il Martelli e, recatasi nella mano la penna, subito scrisse sotto continuando:

Ma non sarien l'empie sue voglie piene,

Se d'italico sangue alcuna stilla,

Snaturato, tu avessi entro le vene.

Poi gettata la penna, esclamò:

«In verità a chi ebbe intelletto da conoscere il malefizio, e il cuore non gli basta per sfuggirlo, la giustizia di Dio apparecchia doppia pena nell'altra vita.»

E poichè, tra tanti orrori nei quali va trattenendosi la mente, un esempio di virtù giunge gradito come aurea fresca che ristori il sangue, — giova qui ricordare — che il Bentivoglio, tornato nella tenda, avendo letto quel foglio, sentì divamparsi il volto di vergogna; gli venne in fastidio la turpe vita e, pretestata certa sua infermità, si ritrasse dal campo; perocchè la musa infonde nell'uomo con la mente arguta un senso gentile, che rifugge dalle opere inique come da sconcezze che bruttano l'armonia del creato.

Qual mai cagione impedisce al principe Filiberto d'Orange di prendere un riposo che la natura concede al più misero dell'esercito imperiale? Il rumore dell'assalto non giunse per anche in quella parte remota del campo che egli abita. Sarebbe per avventura previdenza d'infaticabile capitano? Mai no, ch'ei se ne sta neghittosamente seduto, con le guance appoggiate sopra entrambi i pugni chiusi e gli occhi fissi, — senza sguardo però, — su certe carte deposte dinanzi a lui sopra la tavola. Forse considera le mappe di Firenze e indaga il luogo più destro agli assalti, o immagina qualche nuovo accorgimento di guerra per rintuzzare l'audacia, che si hanno tolta gli assediati nelle frequenti loro sortite? No; — causa della veglia del capitano di Cesare è questa lettera che mediante un suo fidato gli fece consegnare la madre:

«Sire principe, nostro dilettissimo figliuolo. — Quella che noi viviamo lontano da voi non può dirsi vita, e morte nemmeno, avvegnachè, quantunque di questa ultima io patisca incessanti dolori, non però mi apporta l'oblio e la quiete. Tra i terrori dell'inferno e i terrori di madre vinsero gli ultimi; noi osammo scoperchiare le sepolture, profferire con la nostra bocca gli scongiuri vietati e interrogare l'avvenire. — Nè perciò disperiamo della salute dell'anima nostra per ottenere il perdono ci sarà mediatrice presso a Dio la Vergine santissima: ella come madre conosce a quali estremi sia condotta la donna per amore del suo sangue — Filiberto, le mascelle dei defunti si sono riunite, e sapete voi qual vaticinio usciva dalla loro bocca senza labbra? — Voi perirete nella guerra di Fiorenza. — Deh! figliuol mio, lasciate cotesta impresa; voi siete l'istrumento col quale un parricida intende straziare le viscere della propria madre: voi non guadagnerete gloria terrena e porrete in pericolo la salute dell'anima. Dentro un poeta italiano, e parmi fiorentino, ben mi ricordo aver letto un giorno come certo cristiano si acquistasse l'inferno a cagione dei consigli di un papa[216]. — Rimovetevi dunque da cotesta impresa; pensate tramontare con voi il sole di casa Chalons, nessun figlio potere sostenere la gloria della nobile nostra famiglia, e sopra tutto pensate che la vostra eredità caderebbe addosso a me povera inferma, già grave di anni, come un peso sotto del quale rimarrei infranta[217].» Filiberto sentiva suo malgrado tale sgomento che gli pareva una voce del Destino: — i polsi di mano in mano gli battevano più languidi, — stava come sotto la potenza del fascino; — tant'è, — aveva paura: — se la sua lingua avesse proferita cotesta parola, ei se la sarebbe tagliata co' denti; — se in cotesto punto occhi umani avessero potuto leggergli nel cuore... od egli avrebbe spento quegli occhi, o trafitto il suo cuore. — Oh! non morrò, — le foglie non cadono già in primavera, ed io son bello, forte e potente; — ora non posso morire: — bisogna che la Morte aspetti; — aspetterà... almeno finchè non mi nasca un figlio legittimo, altrimenti la gloria mia sparirebbe dal mondo a guisa di quelle statue di plastica apprestate per celebrare qualche festa, — decoro di un giorno, — poscia neglette nella bottega dell'artefice; — la mia insegna, che resi con tanto sangue famosa, si sperderebbe inquartata entro chi sa quale altra arme. I morti mentiscono, — io mi sento pieno di vita. Ma!... Filippo il Bello..., grande..., figlio d'imperatore, padre d'imperatore..., glorioso..., avventurato, cadde sul fiore degli anni; — la Morte lo spense nel modo stesso che il chierico avaro soffia sul torchio appena acceso dicendo tra sè: vo' risparmiare la cera. — I corvi non si rimasero dal bezzicare gli occhi e schiaffeggiare con le ale le guance dell'avo di Filippo, — del bisavo di Carlo imperatore, Carlo il Temerario, là presso Nancy, comunque potentissimo tra i principi cristiani; — la Morte quando entra in camera del papa, non si curva mica al bacio de' piedi, ma gli va dritto e scuote il vicario di Dio della vita con la stessa agevolezza con la quale si scoterebbe una stilla di rugiada da un fiore... Ah!...

E sollevò la faccia.

Era visione? Era realtà? Nell'alzare gli occhi il suo sguardo s'incontra in uno sguardo acuto, come di vipera; un terribile simulacro di uomo gli stava davanti; — la pelle gli s'informa dall'ossa, — i capelli scomposti gli danno sembianza del capo di Medusa; tiene levata la destra scarna stringendo un pugnale; — però non s'inoltra, sembra essere trattenuto da forza misteriosa.

«Chi sei?» interroga il principe balzando in piedi e stringendo una pesante mazza d'arme, «e da parte di cui tu vieni?»

«Vengo da parte mia. — Temerario!» col manico di un coltello percotendosi la fronte esclama il personaggio apparito; «io ben sapeva non essere la tua ora anco giunta: — quello che Dio incide sopra la pietra cancellerà l'uomo coll'alito?...»

«Chi sei? parla...»

«Io mi sono uno che vengo per dirti: Filiberto, i fati hanno contato i tuoi giorni... guàrdati dall'aquila dei nostri Appennini; ella ha il rostro gagliardo e gli artigli taglienti...»

«Torna all'inferno, donde uscisti, demonio!» E qui il principe con quanto aveva di forza nel braccio scagliò la mazza d'arme contro il fantasma.

Il fantasma disparve tra le ombre. Filiberto con qualche esitanza si recò in quella parte dove lo aveva veduto cadere, fidando trovare un uomo morto, ma non gli occorse persona; la sua mazza è lucida come se non avesse diviso altro che l'aria.

Corse nella parte anteriore della tenda; — le guardie dormivano, — una sola vigilante, interrogata, rispose non aver veduto od udito anima viva. L'Orange, quasi bisognoso di più libero respiro, uscì all'aria aperta. Il fantasma era Pieruccio; costui avanzandosi carponi tagliò la tenda in parte inosservata e vi penetrò col disegno, che gli uscì a vuoto, di uccidere il principe; quando questi gli lanciò contro la mazza d'arme avendo già disposto andarsene, prevenne il colpo distendendosi sul terreno per uscire siccome era entrato. Incolume riparò tra i suoi.

Posto ch'ebbe il piede fuor della tenda, il principe vide passare con presti passi un sacerdote accompagnato da un fante che gli rischiarava il sentiero col lampione; mosso da vaghezza di sapere a che si affrettasse, domandò:

«Dove andate, ser cappellano?»

«Ad amministrare l'olio santo al magnifico Girolamo da Morone che sta per morire...»

«Come?... che dite?... Il Morone!... Voi fate errore; — poc'anzi noi favellavamo insieme...»

«Figliuol mio, la morte non manda corrieri: il Morone si muore...»

Chi fosse Girolamo Morone ora non cade in acconcio di qui raccontare. Di lui scrivono tutti gli storici del tempo; meglio degli altri Francesco Guicciardini.

Filiberto adesso, ponendovi mente, ode rumore di guerra; — intende col guardo nelle ombre e poco si addentra; — all'improvviso un baleno illumina la città, il piano, quanto i colli circondano; e in quella subita luce vede, o pargli vedere, una zuffa, una fuga, un viluppo terribile di uomini e di cose.

Dico di cose, perchè discerne scorrere di qua e di là pel lampo certi grossi volumi bianchi che dando di cozzo alle tende, vi s'impigliano dentro e le fanno cadere: — poi la pèsta cresce; — diventano gli urli e lo strepito delle armi percosse più distinti; — di repente le mura di Firenze parvero circondate da una cintura vermiglia, e poco dopo rimbombò una scarica di cannoni grossi pel cavo dei colli. Allora si accòrse di quello che fosse; ma i capitani e i consiglieri non apparivano; — intanto il pericolo si accosta. Stava per dar fiato al suo corno, quando affannosi, mezzo armati, accorsero tutti in gruppo i principali dell'esercito in cerca di comandi. Filiberto nella urgenza del caso rinfranca l'animo smarrito; in presenza della morte il timore di morire lo abbandona; manda Pirro Colonna e il conte di San Secondo là dove più feroce conobbe essersi appiccata la mischia; spedisce messaggi ai colonnelli più lontani affinchè si armino, si stringano insieme e non si muovano se non ricevono avviso. — In questo ecco Baccio Valori come smemorato affrettarsi alla volta del principe, il quale, riconosciutolo appena al chiarore di un lampione, gli disse;

«Frate, tardi venisti... I Fiorentini non ci vonno lasciar dormire stanotte...»

«Oimè! — È il finimondo... il Morone mi spirò tra le braccia...»

«Il diavolo chiude le reti. — Vi ha egli lasciato nulla?»

E senza attendere risposta si volta a don Ferrante Gonzaga e gli comanda di calare verso il piano alla riscossa del colonnello di Sciarra; quindi riprese, come interrogando coloro che gli stavano attorno:

«Valenti uomini, guardate un po' costaggiù: — vedete quei corpi bianchi, — che cosa vi pajono?»

E tutti allora guardavano, — e non sapevano.

Allorchè meno se lo aspettano, ecco presso del principe prorompere un muggito; egli volta la testa e si contempla vicino un bove trafelato dalla corsa.

«Intendo» disse il principe, «messer Bacio; poichè il Morone è morto, il bove viene a profferirsi di compiere il numero dei miei consiglieri.»

Filiberto volse l'avventura in burla alle spalle del commessario del papa, siccome sovente costumava: non pertanto prima di riderne ne aveva avuto paura.

Ora è da sapersi che i nostri nel rompere impetuosamente gli usci delle case per uccidere coloro che dentro vi fossero, atterrarono la porta della stalla di un beccaio, donde uscite le bestie presero imbizzarrite a imperversare nel campo, spargendo per ogni dove lo scompiglio e la paura; nè vorrebbe attribuirsi ad amore del maraviglioso l'affermare che la metà del danno in quella notte venne da questi animali furiosi, i quali sbarattavano le intere compagnie, pestavano uomini, rovesciavano tende, mandavano sottosopra quanto loro si parava dinanzi[218].

«... Morto?» ripete forsennato l'Antinori. «Vi aveva forse promesso rendervelo vivo?» Cap. XIV, pag. 351.

Il disegno fermato col Malatesta fu, che il signor Orsino, rimasto a vigilare sul bastione di San Francesco, quando avesse veduto essere necessarii i rinforzi, sparasse le artiglierie ed uscisse con le sue genti dalla Porta di San Nicolò, siccome nel medesimo punto sarieno usciti Ottaviano Signorelli da Porta a San Pier Gattolini, e Giovanni da Turino da quella di san Giorgio. La bisogna avvenne nel modo che avevano divisato, e dando dentro francamente, cominciarono a tagliare; i nemici spauriti, non bene armati, appena opponevano resistenza; cotesta piuttosto che guerra giusta, era strage promiscua. Il principe d'Orange, circuito di uomini poveri di consiglio in quell'estremo, si stava presso alla porta della casa albergata dal Morone, incerto sopra i provvedimenti da opporsi all'ignoto pericolo; un paggio gli tiene fermo il caval di battaglia; — un altro gli porta l'elmo decoroso di piume: — di momento in momento si succedono messaggieri spediti da tutte le parti del campo, le ultime novelle più triste; — si raccoglie, cerca un rimedio che valga, e nulla trova; — alfine contro sè stesso sdegnoso lascia andare un terribile colpo in un pilastro della porta, schizzano — fischiando le scheggie, — scintillano vampe di fuoco, — gli rende l'ira la mente, — ordina ritirarsi i colonnelli su le cime dei colli, lasciare le tende, accendere fuochi, nessuno trattenersi a salvare uomini spicciolati o intere compagnie; chi rimane disgiunto incolpi sè o la fortuna, — ma nessuno torni indietro: — così si restringerà l'esercito, si serrerà più denso, potrà meno scomporsi negli urti, meglio respingere gli assalti; poi monta in sella al cavallo e lo spinge verso il monastero del Paradiso, dove la mischia gli parea più forte.

Michelangiolo e Lupo, anime pari con diverso intelletto, sopra il campanile di San Miniato argomentavano tra loro come potessero recare molestia ai nemici. Lupo intendeva scaricare le artiglierie, nascesse che cosa sapeva nascerne; se non che Michelangiolo lo impediva dicendo:

«Non le toccare, Lupo, veh! le palle potrebbero uccidere nella confusione qualcheduno de' nostri,»

«Lasciate fare: — se la palla uccide un nemico ed uno dei soldati perugini agli stipendi nostri, la città ci guadagna il doppio; — i soldati forestieri uscirono i primi...»

«Che monta ciò? Io giurerei che i nostri giovani della milizia, comechè ultimi a uscire, sono stati i primi ad assaltare.»

«Sentite, Michelangiolo: io tirerei; — guardate colà presso al comignolo, — vedete quei lumi fermi? — cotesto è segno certo che colà non combattono; ora levando una zeppa alziamo i cannoni, e le palle non offenderanno il mucchio che mena le mani più al basso dentro quel buio...»

«Dio ti abbia in aiuto! — fa parlare da' tuoi cannoni una parola di ferro a quella mandra di scomunicati.»

Il campanile di San Miniato sfolgorava a gloria; ora s'incorona di un cerchio di fuoco, ora scomparisce per le ombre; lo avresti creduto un gigante che venisse a prender parte nella contesa in favore di Firenze[219]; ad ogni scarica lanciava la morte dentro quelle spesse colonne di uomini, i quali, trattenuti dal contegno dei capi, dalla disciplina severa ed anche dall'amore della reputazione acquistata nelle guerre trascorse, stavano a riparare con le membra loro cotesta bufera di ferro e di fuoco non senza mormorare però ed accennare che per poco non si sbarattavano dandosi alla fuga.

«Per Dio! per Dio! — Maledetto il buio! — Qui non possiamo nè anche vedere come si muoia...»

«Che importa il come, purchè si muoia da valorosi?...» grida sopraggiungendo Filiberto; «tenete fermo, se non volete essere sgozzati come una mandra di agnelli.»

«Viva il principe di Orange! Viva!»

Alcuni soldati che portavano torcie fecero calca intorno al capitano: uno tra gli altri gli si era posto davanti alla testa del cavallo; — all'improvviso, ecco una palla coglie il soldato nel capo, glielo porta via netto dal busto... e palla e testa percuotono dentro un masso del monte; la palla schiacciata rimbalzò fischiando, — la testa si sbrizzò, ed alcune scheggie degli ossi tagliarono il collo o il volto dei circostanti; il masso rimase chiazzato di una ruota di sangue, come se vi avessero buttato dentro una spugna intrisa di cinabro. Ne sentirono i più animosi ribrezzo.

Filiberto, mentre alzata la mano vuole imporre silenzio per favellare e inanimare i soldati, sente mancargli sotto il cavallo e con grande impeto stramazza sottosopra a terra in un fascio con lui. Un'altra palla dei cannoni di Lupo aveva infrante ambedue le gambe deretane del male arrivato animale. I soldati levarono altissimo grido:

«Il principe è morto!...»

«Paltonieri! assalitori di conventi! chi vi ha detto che io sia morto?» grida a sua posta il principe rilevandosi tutto fangoso; — «la palla che deve uccidermi non è anche fusa; non vedeste mai cavalli morire in battaglia?»

Nondimeno conobbe impossibile mantenersi in quel luogo.

«Campanile sconsagrato!» disse minacciando il campanile di San Miniato, «me la pagherai.»

E poi ordinò si ritraessero e dietro il colle lontano dal tiro delle artiglierie riparassero.

Io non istarò ad affaticarmi più oltre la mente nel raccontare i molti casi avvenuti in codesta notte memorabile; sì perchè mi converrà mettere parole di altri scontri ferocissimi di guerra, sì perchè le tenebre ne celarono la maggior parte. Le storie dei tempi rammentano che, mentre i morti nemici sommarono a parecchie centinaia e i feriti a numero quasi infinito, dei nostri non ne rimase spento veruno od anche ferito: il quale ricordo non corre senza un cotal poco di esagerazione, imperciocchè Benedetto Varchi, che in quella notte colla banda della sua milizia guardava il monte, assicuri di avere veduto trasportare certo soldato con una archibusata in una coscia. Si disse che i Fiorentini avrebbero potuto rompere il campo e sciogliere l'assedio, se eglino avessero fatto prova non già di maggiore audacia, che la mostrarono smisurata, ma se il capitano generale, ormai venduta l'anima al papa, non si fosse ingegnato di mandare a vuoto la bellissima impresa.

Stefano Colonna, poichè dopo la feroce resistenza, vide così di leggieri lasciargli il terreno il nemico, conobbe com'egli volesse rendersi forte su le cime dei colli ed invitarlo in parte dove, per essere ripido il suolo, avrebbe potuto vendicare la ingiuria patita; — ebbro di quel primo successo avventuroso, non rifiutava spingere l'affronto ai termini estremi, ma per ciò fare abbisognava di maggior copia di milizie; aveva già mandato nunzii alla città, e il popolo, appena conobbe le novelle liete, menava gazzarra, correva per le strade cantando o si affollava alle chiese per render grazie a Cristo e alla Madonna. Malatesta però era deliberato di non ispedire i rinforzi, e per questa volta ai disegni di tradimento si aggiunse la invidia contro al signore Stefano. Raccolti a sè d'intorno i principali dell'esercito, espose loro il pericolo d'indebolire il presidio, già scemato per le bande di recente sparse pel dominio e per le milizie uscite col Colonna; poteva mandare, e certo mandò, il principe d'Orange avvisi al conte di Lodrone, che stanziava co' suoi lanzi in San Donato in Polverosa; e dove questi si fossero mossi all'assalto, correva rischio la città di essere presa: insomma tante ragioni dedusse, al vero così destramente mescolò il falso, tali aggiunse preteste di amore sviscerato alla libertà di Firenze che i colonelli, in parte persuasi, in parte svolti dall'autorità sua, convennero non fosse da avventurarsi la somma della guerra. Il Colonna, mentre aspettava impaziente i soccorsi domandati e con amaritudine immensa vedeva freddarsi la caldezza delle sue milizie, sente il corno che gl'intimava ritrarsi; — egli pensò sul principio essersi ingannato; poi quando più distinto lo percosse il suono, immaginò partirsi dai nemici; finalmente allorchè non gli rimase nessuna via da illudere sè stesso, fa per disperarsi, — stette un tempo esitante se, disprezzato il comando, dovesse gittarsi in balìa della fortuna: ma questo capitano di sua natura prudente ed avvezzo a dipendere, quantunque preposto a corpi di eserciti, dai comandi di un generale supremo, non osò; l'animo gli mancava all'uopo, — la indisciplina gli parve vergogna uguale alla viltà: — spirito senza genio, che ignorava gli eventi giustificare le imprese e i fatti che il mondo ammira magnanimi e veramente sono, il più delle volte essere stati condotti o contro o fuori della legge. — Ordinava pertanto la ritirata.

I Fiorentini, postisi in mezzo i prigionieri, s'incamminano verso Firenze. Il giorno gli sorprese a mezza strada, sicchè ai primi albori poterono distinguere i volti di quelli che menavano legati. Il caso volle che il Morticino guardandosi attorno scorgesse prossimo a sè Giovanni da Sassatello, il quale alla meglio fasciato procedeva col volto chino immerso dentro inenarrabile dolore. L'Antinori non conosceva quel senso di gentilezza che mai non si scompagna dai forti davvero, e che consiste, quando il nemico è caduto, ad ammollire il cuore e a dirgli: Basta. — Vendetta fino alla fossa, ed anco oltre la fossa, era la religione sua se del tossico preparato al nemico una sola stilla si fosse smarrita, a lui pareva non avere nulla ottenuto. Con pronti passi gli venne dietro, e violentemente percossolo sopra la spalla:

«Capitano Giovanni da Sassatello», gridò tra beffardo e feroce, «Dio vi mandi molti giorni simili a questo.»

Il Sassatello levò la faccia come smemorato, ma all'apparire improvviso di cotesto uomo sinistro, l'anima dolorosa rammentò distinti i casi della orribile notte; — il raggio estremo della lampada riflesso su la spada calata contro il collo del figlio torna a balenare su la tenebra del suo pensiero, — l'ira, la pietà, la paura riarsero dentro di lui, e senza profferir motto, furibondo tentò rompere i legami per darsi la morte.

«Badatelo», ordinava il Castiglione, «l'empio ladrone deve lasciare la testa sul patibolo.»

«Oh! no», risponde l'Antinori, «Dante, lasciamolo andare.»

«Siete voi, Antinori, che dite questo?»

«Sì, sono: Dio perdonò su la croce, non può perdonare anche l'uomo?»

«Antinori!»

«Dante, vicino a inebriarmi di vendetta ho conosciuto quanto costi esser crudele; — in fondo al vaso dell'ira trovai la compassione; — anche Pandora in fondo all'urna dei mali vide la speranza...»

«Antinori!»

«Forse anch'io non ebbi nascimento sopra la terra che fu patria a Giovanni Gualberto, il santo misericordioso? Lasciamolo andare, ve ne scongiuro...»

«Per me, nel caso vostro, vorrei che fosse giudicato nelle forme e poi decollato come si merita, per esempio di giustizia.»

«E sempre giustizia! e sempre giustizia. Ma che cosa diverremo noi, se Cristo invece di giustizia non ci usasse misericordia?»

Dante si strinse nelle spalle e conchiuse:

«Intendo anch'io che se la bilancia deve pendere, meglio è che penda dal lato del perdono...; però io non avrei perdonato... e non avrei creduto che voi, perdonaste...»

«Le lacrime del pentimento di questo infelice mitigheranno il fuoco dentro il quale si purga l'anima di Lionardo; e mentre così favella scioglie le funi che legavano il Sassatello, e quindi aggiunge: «Va, — pentiti, fratello mio, e Cristo ti conceda molti giorni uguali a questo.»

Avete mai veduto una rondine presa a cui si ridoni la libertà? Incerta o salvatica, non si attenta dapprima volare, — ella ch'è così desiosa di percorrere di su e di giù le vaste curve nel firmamento! Poi, tacendo ogni dubbio di schiavitù, sferza l'ale e si allontana veloce più che saetta. Tal fu il Sassatello; si fermò alquanto incredulo, — levò le braccia, — stese un piede, se lo sente libero, — all'improvviso accelerando i passi si caccia giù a fuggire alla dirotta, dolorosamente chiamando:

«Eustachio! — Eustachio!»

L'Antinori prorompe in altissimo riso; — così sinistro questo gli sconvolge il volto che Dante non potè sopportarlo e abbassò gli occhi. Il Morticino, continuando nelle dimostrazioni di gioja frenetica, chiama a sè dintorno il Bichi, l'Arsoli, il Busino ed altri uomini valenti nella milizia.

«Udite... uditemi», s'interrompeva sghignazzando, «oh! l'ingegnoso trovato... il buon consiglio che mi dava l'angiolo custode... quando fu rovesciata la tavola, spenta la lampada, il Sassatello prigione..., non so nemmeno io quante mai volte forassi da una parte all'altra quel marrano ch'ei chiamava suo figlio; — mi lavai nel suo sangue le mani, — me lo posi su i labbri e lo bevvi... Chi vanta il vino, gli è un grullo! più grullo chi vanta l'amore! Che intende pregustare nel mondo i diletti ineffabili del paradiso, arda prima di odio e si disseti poi nel sangue dell'odiato! — Pur non mi sembrava sentirmi contento... è non lo era... nè lo poteva essere... Mi cadde in mente un pensiero... una burla.., ridevole, per Dio!... e la fortuna l'ha favorita.... Accomodai il cadavere d'Eustachio sul letto dond'era caduto e gli tagliai la testa... poi i piedi., poi sul collo vi adattai i piedi e al termine delle gambe la testa;... che vi par egli? Non è arguto il trovato? Ridete. — Ridete. Pensate mo' se il Sassatello spalancherà gli occhi più della porta di San Francesco che ci sta davanti, quando vedrà il figliuolo acconcio in questa guisa...»

I valorosi soldati gli voltarono le spalle lasciandolo solo; egli distese la destra al Castiglione, favellando:

«Porgetemi la vostra, congratulatevi meco; io sono contento...»

«Antinori, le mie mani come le vostre appaiono intrise di sangue; — nondimeno io mi sento degno di toccare anche adesso l'ostia consacrata; — andate, uomo feroce... voi mi fate orrore.»

Il Sassatello, un'ora dopo, fu trovato seduto davanti la tavola, — tenendo con le mani a guisa di tanaglia grancito il cranio del figliuolo; — vollero allontanarlo da cotesto spettacolo; — egli era morto... aveva sul teschio reciso del figlio versato non lacrime, ma con un effluvio di sangue prorottogli dal petto — la vita.

CAPITOLO DECIMOSETTIMO LE BALDRACCHE

Direte non lasciar la patria noi,

Perchè madri con noi verranno e figli?

Ma il terren, le onde, gli alberi, le rupi

Care dagli anni primi, e in cui la scorsa

Pur si rivive età, ma quelle piante

Che a un dio, ad un eroe, a un dolce oggetto

Dei nostri affetti consecrar ci piacque,

Dite, verran? Dei nostri padri l'ossa.

Che a questa terra in sen dormon tranquille,

Sorgeran per seguirci?

Arminio, tragedia.

Donato Giannotti, scrivendo la vita di Francesco Mariotto Ferruccio, così concludeva: «uomo memorabile e degno di essere celebrato da tutti quelli che hanno in odio la tirannide e sono amici della patria loro, come fu egli, che, oltre a tante fatiche e disagi sopportati, messe finalmente per quella la propria vita.»

Celebriamo dunque Francesco Ferruccio; egli nacque di antica famiglia, tra quelle del secondo popolo, la quale tenne la dignità del gonfalonierato quattro volte: la prima nel 1299; priori n'ebbe venti tra il 1299 e il 1512, e fu la virtù ereditaria tra i suoi. Tuccio, fra gli antenati incliti di lui più illustre di tutti, oltre i supremi uffici della Repubblica gloriosamente esercitati, oltre l'avere dato mano alla terza cinta delle mura di Firenze ed avere combattuto in quasi tutte le battaglie dei suoi tempi, sortì dai cieli la fortuna di respingere Arrigo VII tedesco, dai muri di Firenze, e l'onore insigne di trovarsi compreso nella nota, che il respinto imperatore pubblicò a Poggibonsi, dei cittadini che più degli altri si travagliarono a cacciarlo via, dichiarandoli tutti ribelli e felloni. Antonio suo bisavo, sotto il governo del magnifico Lorenzo dei Medici, con suo onore si travagliò nella guerra di Pietrasanta e Sarzana. Simone, suo maggiore fratello, fu soprammodo accetto al Giacomino Tebalducci, il quale, finchè stette commessario alla impresa di Pisa, lo chiese sempre ai Dieci per servirsene nei casi di guerra. Francesco, da giovane, molto si dilettò di cacce; per la qual cosa gran parte dell'anno si tratteneva in certa sua possessione nel Casentino; chiamata la Tomba, dove nutricava un solo astore, di più non potendo in grazia della sostanza non troppa e della molta famiglia; poi venne a Firenze e poco fu vago di lettere, della mercanzia meno, dacchè, messo al banco di Rafaello Girolami, dopo esserci rimasto torbido e svogliato intorno a trenta mesi, toccato il quindicesimo anno, come ristucco di repente partì e non volle saperne altro. Costumava assai la compagnia dei bravi, donde mostrandosi più pronto di mani che di parole, sostenne con suo onore parecchie contese, fra le quali sporgono fuori quelle col capitano Cuio per conto di laido scherzo, e col Boccali a cagione della Sellaina, di cui chi avrà vaghezza di sapere più oltre, potrà cercarne nella vita che ne scrisse Filippo Sassetti; meglio alla lode del personaggio ed alla futura fama di lui varrà ricordare come, ridottosi a vivere in campagna, tali prove vi fece così di prudenza come di ardimento che i popoli di Romagna, per natura riottosi, a lui per arbitro delle liti soventi volte ricorrevano, ed egli in destro modo le acconciava, venendo in questa guisa a procacciarsi la reverenza e l'amore di tutto il paese. Però fino a trentotto anni non ebbe uffizii pubblici: chè tali non si vogliono chiamare le potesterie di Campi, di Radda e del Chianti, comecchè in questo ultimo magistrato palesasse la natura sua impazientissima a patire torto e la prontezza di vendicarlo; avvegnadio certi venturieri ai soldi dei Sanesi avendo fatto incursione su le terre della Repubblica e rubatovi grossa preda, egli, messi insieme alquanti archibusieri, assaltò francamente i saccardi e, menatone aspro governo, li costrinse a restituire le robe rubate. Nè di ciò deve l'uomo prendere maraviglia, vedendosi per le storie come nei tempi ordinarii e tranquilli primeggino ai governi i potenti, nei difficili i virtuosi, per essere poi rovesciati o spenti cessato il pericolo: vicenda che ogni dì si predica finita, e che ogni dì si rinuova. Fortuna fu non sua, bensì della gloria di questa patria nostra, che Giovambattista Soderini, personaggio gravissimo, avendogli posto gli occhi addosso, e piaciutegli le maniere del giovane, se lo facesse domestico, cercando sviluppare in lui quella virtù, che conobbe come un tesoro nascosto posarglisi nel cuore; intendimento e prova che superarono di gran lunga la speranza. Quando pertanto il Soderini e Marco del Nero andarono commessarii delle genti fiorentine al conquisto di Napoli con monsignor di Lautrec, lo condussero seco, e, fedele compagno nella prospera come nella contraria fortuna, nella rotta dell'esercito francese cadde co' commessarii prigione; dalla quale prigionia, secondo quello che avvertimmo, venne riscattato da messer Tomaso Cambi Importuni, ma a quanto sembra, co' propri danari.

Mentre che il Soderini visse, il Ferruccio, consapevole dovere a lui quanto sapeva ed era, gli usò grandissima riverenza: e morto, gli ebbe sempre vivissimo amore, sicchè ogni volta gli accadeva rammentarlo gli sgorgavano le lacrime dagli occhi: onde il Varchi lasciò scritto che ei fu verso il Soderino quello che si legge nei romanzi essere stato Terigi verso Orlando.

Fu adoperato ancora dalla Signoria quando il Cristianissimo convenne co' Fiorentini di mantenere Renzo da Ceri a Barletta, purchè contribuissero alla spesa; e mandato a Pesaro con seimila ducati in panni e in danari per le paghe pei Francesi, udita ch'ebbe la nuova della pace di Cambrai, deludendo la importunità dei ricevitori del signor Renzo, se ne tornò con la roba e con i danari e Firenze.

Tomaso Soderini, deputato commessario di Valdichiana, avendo bisogno di uno che lo servisse in molte azioni di guerra, come a pagare soldati, rassegnarli, ed altre cotali, fu consigliato e menare seco il Ferruccio; ed egli (sono parole del Giannotto), comechè non gli paresse la cosa secondo il suo grado, essendo anch'egli nobile fiorentino, nondimeno, per far servizio alla patria, non ricusò l'andata.

Zanobi Bartolini, succeduto nel commessario della Valdichiana al Soderini, si servì dell'opera sua nel modo che aveva fatto Tomaso; lo mandò a Perugia per la condotta del Malatesta, e parve non fidarsi di altri che a lui, quando abbisognava di uomo che alla prontezza e all'ardire aggiungesse la prudenza. Il Bartolino, nel governo della Valdichiana, per somma sventura della città, fu scambiato con Antonfrancesco Albizzi, e quello che per lui si operasse, o qual parte il Ferruccio vi prendesse, vedemmo sul principio del nostro libro. Poi si ridusse in patria; dove alcun tempo stette senza essere adoperato. Udendo i Dieci il mal governo di Lorenzo Soderini commessario a Prato, pensarono dargli un compagno e crearono il Ferruccio; il quale recatosi all'ufficio e, malgrado la obbligazione che aveva con la casa Soderina, non trovando cosa in Lorenzo che non fosse degna di rampogna, lo ammoniva con parole cortesi; e quando conobbe i suoi consigli disprezzati da cotesto ingegno vano del pari che superbo, acremente lo riprendeva. I Dieci licenziarono ambedue e poco appresso, della virtù di Ferruccio persuasi, lo elessero commessario in Empoli.

Or che fa egli in Empoli il nostro Ferruccio? Appena giunto, saldò le paghe ai soldati, li rassegnò, li ammonì che come d'ora innanzi nessuna bella azione sarebbe andata senza premio, così nessuna trista passerebbe senza pena; si tenessero pertanto avvertiti: un soldato nella rassegna uscito di fila, richiese il commessario gli fosse cortese di spedire alla sua famiglia a Firenze due ducati, e gli dette l'indicazione dei luoghi e delle persone; della quale indicazione presa nota Ferruccio rimandò il soldato al suo posto, dicendo: «Va, tienti i ducati; manderò a tuo padre un fiorino del mio.» Esaminò le mura, rinforzò le vecchie torri, ne fabbricò nuove, scavò fossi, prolungò le cortine per inchiudere nel recinto alcuni molini che rimanevano fuori: considerando poi disagevole la difesa di circonferenza sì vasta, distrasse le cortine, abbattè i molini e i borghi circostanti, copia di vettovaglie raccolse, munizioni di guerra di ogni maniera adunò; solertissimo a soddisfare alle paghe dei soldati, non sofferse rimanessero di un giorno solo in ritardo; e certa volta che da Firenze non gli vennero danari, pagò dei suoi, e restando pur tuttavia debitore, si tolse dal collo una collana di oro e, rottala in pezzi, ne presentò i capitani; invano rifiutarono questi, ch'egli insistendo favellò: «Poichè io più di voi amo la mia terra e più ne sono amato, ragion vuole che per lei spenda in cortesia»; e poco dopo vedendo che pur sempre ricusavano, «Prendete», aggiunse, «prendete; egli è ben giusto che a me si debba premio più scarso di danaro, perchè ricevo maggiore guiderdone di gloria; noi combattiamo insieme le medesime battaglie; i pericoli stessi, i patimenti duriamo, e forse il mio nome solo vivrà, rimarrà il vostro sepolto con voi.» Nè stette molto che la Signoria gli fece notificare, non che potesse spedire fuori danari, appena e a grande stento provvedeva ai bisogni della città, però cercasse il modo di aiutarsi da sè: ed egli, di capitano diventato mercante, ordinò una nuova annona di vettovaglie, cioè vino, grano, olio e biade di ogni ragione, e da quelle trasse tanto che soddisfece alle paghe senza più molestare la città[220]. Ma occupato in siffatti fastidii, non mancava poi al debito di valentuomo di guerra, che non passava giorno senza che egli scorazzando nel paese, o qualche imboscata non tendesse, o qualche scaramuccia non ingaggiasse, sovente con suo notabile vantaggio, con danno mai. Ora avvenne secondo quello che ci lasciò scritto Benedetto Varchi[221], che alcuni giovani fiorentini; ai quali più che il viver libero piacque la servitù, si avvolgessero pel dominio e sotto nome di commessarii del papa andassero commettendo male, e tra questi annovera Agnellino Capponi, giovane di poco cervello e cattivo; Giuliano Salviati, che il cervello avea nella lingua, ed uno dei Buondelmonti chiamato lo Smariuolo. A costoro venne fatto di ribellare gli uomini di Castel Fiorentino, e mostravano volersi allargare, se il Ferruccio non vi avesse posto in buon tempo rimedio; egli pertanto mosso segretamente da Empoli ed arrivato presso al castello, dichiarò ai soldati ch'ei gli menava a vincere, non a predare; badassero a non toccare le robe e le persone dei cittadini, pena la testa: dette l'assalto e vinse e ridusse di nuovo i castellani alla devozione del comune di Firenze. Qui fu che, informato come due soldati avessero trasgredito gli ordini, ponendo a sacco la casa di un cittadino, senza lasciarsi piegare dalle sollecitazioni e dalle preghiere, comandò si appiccassero; ed a coloro che gli facevano istanza per la vita dei colpevoli, «Messeri», egli disse, «molti nelle storie della mia patria lodano questo o quel fatto virtuosamente operato, dacchè la Dio grazia di belle azioni non fu mai penuria nella mia Fiorenza; ma io sopra tutti commendo e levo a cielo quello che si racconta quando i Fiorentini guardarono a Pisa negli anni di Cristo 1117, il quale è questo: i Pisani avevano apprestata una grande armata di navi per andare al conquisto di Majolica, ma essendo in quel medesimo tempo stata dai Lucchesi intimata loro la guerra, non ardivano andare e stavano per ritirarsi dalla impresa; pure vivendo essi di pessima voglia che tanto apparato avesse a riuscire invano, mandarono ambasciatori ai Fiorentini, onde piacesse loro custodire la città finchè non fossero ritornati da cotesta guerra. I Fiorentini accettarono e spedirono uomini di arme con ordine di porsi a campo due miglia fuori della città; e perchè la fede di quel buon tempo antico apparisse più chiara, sotto pena di sangue proibirono che nessuno si attentasse entrare in città; uno solo non ubbidì, entrò dentro e preso fu condannato alle forche. I cittadini pisani supplicarono il perdono e non l'ottennero; — allora vietarono sopra il terreno loro si facesse morire; ma i Fiorentini secretamente e in nome del comune comperarono un campo, e quivi per mantenere il decreto lo giustiziarono[222]; però tacete, levatemi dal mio cospetto e lasciate che la giustizia cammini la sua via[223]

Procedendo nella sua splendida carriera, venne in animo al Ferruccio tentare cose maggiori, e però scrisse ai signori Dieci gli mandassero alcuni cavalli; i quali, ormai conosciuta la virtù dell'uomo, gli spedirono Iacopo Bichi e Amico Arsoli, che volentieri vi andarono: con questi scorrendo Val di Pesa una volta sorprese e condusse prigionieri cento cavallieri spagnuoli, un'altra volta sessanta. Così fidato nel valore de' suoi, deliberò riconquistare ai Fiorentini San Miniato al Tedesco. Gli Spagnuoli, quando prima giunsero su quel di Firenze, presero cotesto castello e, messovi dentro forte presidio, quinci tenevano infestato il cammino da Pisa a Firenze. Il commessario, provveduto buon numero di guastatori e artiglierie e zappe e scale e picconi e ordigni altri di guerra, andò ad assaltarlo; le difese degli Spagnuoli, tuttochè ferocissime non valsero; gli aiuti dei terrazzani medesimi più poco giovarono; egli primo, il Ferruccio, salito sopra la breccia, sostenne l'impeto del nemico e diede abilità ai suoi di penetrare a forza e tagliare e pezzi quanti si paravano loro dinanzi. — Presa la terra, rimaneva la rôcca, dove si erano ricoverati non pochi nemici e quivi facevano le viste di rinnovare la battaglia. Il Ferruccio, insofferente di riposo, con la rotella al braccio, la spada in mano, gridò a' suoi: «Finchè la bandiera imperiale sventoli sulla roccia, noi non abbiamo anche vinto; all'assalto! all'assalto!» E si precipita il primo. Erano stanchi i suoi, erano sanguinosi, ma potevano senza infamia eterna del nome loro lasciare solo nel pericolo il prode capitano? Il Bichi e l'Arsoli, ammirando trasecolati come così virtuoso uomo di guerra si mostrasse di côlta, accesi di nobile emulazione, non consentirono parere da meno del valorosissimo commessario: — appoggiarono pertanto le scale e con incredibile ardore si avventuravano a quella aerea battaglia: molti caddero andando a sfracellarsi le ossa sul terreno; i muri della rôcca in più parti grondarono sangue: nondimanco l'ebbe a patti. Il capitano spagnuolo preposto alla difesa di San Miniato sotto buona scorta mandò prigione a Firenze[224]. In tutti questi affronti la fortuna aveva riparato il Ferruccio come di scudo invisibile; — non un colpo, non una graffiatura l'offese; parve l'uomo di Dio. L'onore delle donne, le sostanze dei cittadini rimasero intatti; modo di guerra nuovo a' quei tempi, nei quali piacque ai soldati la vittoria solo perchè fruttava la preda. Se i Fiorentini alla fama di tante imprese avventurosamente condotte a fine si rallegrassero, non è a dire; il Ferruccio lodavano, il suo nome volava per le bocche di tutti, ai più illustri capitani dell'antichità lo paragonavano, i partigiani del Frate lui essere il promesso, lui Gedeone dicevano. La vita della Repubblica di Firenze, la libertà dell'universa Italia era posta nel palpito del cuore del Ferruccio.

Certa sera due uomini vennero a cercarlo in Empoli; il primo gli recò una carta dei Dieci, ch'ei lesse attentamente e poi nascose in seno; col secondo, il quale aveva sembianza di esploratore, si ridusse in disparte a favellare sommesso, e dopo lungo colloquio ordinò al Bichi, all'Arsoli, a Niccolò di Morea detto Musacchino, e a Vico stessero pronti a mettersi in cammino due ore prima del giorno; andassero a riposarsi per mostrarsi alla dimane gagliardi; egli provvide a far mettere su le carra copia di grani, vini, e buona quantità di salnitro; vigilò al carico, esaminò se fossero le stanghe e le ruote salde, ebbe riguardo a tutto; finalmente, eseguita la consueta sua ronda, piegò il suo mantello e, postoselo sotto il capo a guisa di guanciale, si stese a giacere sul nudo terreno.

All'erta, soldati, il capitano è pronto! — Si abbassa il ponte levatoio, le compagnie passano e i carriaggi; — silenziosi cominciarono il divisato cammino. Il Ferruccio cavalca al fianco di Vico, e poichè ebbero proceduto buon tratto di via insieme,

«Vico», gli disse consegnandogli un volume di carte, — «presenterete queste lettere alla Signoria e accompagnerete la vettovaglia a Fiorenza.»

«Commissario», rispose Vico, — «ma perchè non mandaste qualche capo di bestie? In Fiorenza devono patire difetto di carne...»

«Sta di buon animo, Dio provvederà.»

«E a che quei tanti sacchi di nitro?»

«Figliuol mio, i nostri sono stremi di polveri, ed a me sembra religione mandarli, onde si rimangono dal sacrilegio...»

«Sacrilegio?»

«Sì, ma di cui il giudice eterno un giorno chiederà conto al pontefice, non a noi. I nostri lo vanno cercando per gli avelli dei padri...[225] »

Così è; in questo memorabile assedio le ossa dei defunti alimentarono la guerra, ed al Ferruccio pareva sacrilegio. Che avrebbe egli detto, se si fosse trovato nei tempi presenti a vedere sconvolgere la terra e trarne l'ossa per imbianchire lo zucchero? Gran parte di un filosofo adesso trangugiamo a colezione! Veramente, tra l'essere adoperate le nostre reliquie in offesa a nemici della patria o giovare alle delicature dei sardanapali, chi non torrebbe di trovare sepoltura dentro un cannone? — Ma dacchè ciò non sarà conteso, professiamoci contenti di chiarire lo zucchero; troppo mi sentiva umiliato nel pensiero che io, uomo, immagine di Dio (per quanto la Genesi mi assicura), albergo d'intelligenza immortale, morto una volta, non fossi più buono a nulla. A ciò provvedano chimici e filosofi; — intendano diligentemente a far sì che, se l'uomo non giunge a superare il bove marino, di cui i Camsciadali adattano ogni spoglia ai proprii bisogni, possa un giorno stare a pari col bove terrestre. Giova almeno sperarlo; i progressi quotidiani delle scienze ce ne porgono quasi la sicurezza: — in questa fiducia riprendo la storia.

Intanto i primi raggi del sole si affacciano su l'estremo orizzonte; scorre per la campagna un fremito di allegrezza; esulta il creato. Il Ferruccio ordinò alle milizie sostassero, ed egli primo, piegato il ginocchio a terra all'apparire dell'opera più stupenda della creazione, si chinò ad adorare il Creatore. Il Bichi, l'Arsoli ed altri capitani, usi alle licenze del campo, — usi in quei tempi di scisma a vedere ogni fede avvilita, pensavano trasognare; pure indotti dall'esempio si curvarono anch'essi tentando revocare su i labbri una preghiera antica; — non ricordarono le parole, ma il cuore pregò, e quando si rilevarono sentirono un conforto, come se quella voce dell'anima gli avesse fatti degni di partecipare alla benedizione della natura. Il Ferruccio, che se ne accorse, sorridendo dolcemente favellò:

«Compagni miei, in qual mai cosa lo spirito dell'uomo libero differirebbe dallo schiavo, se la nostra parola non salisse all'Eterno più accetta che quella dei nostri nemici?»

E proseguivano il cammino. — Il Ferruccio con la faccia abbassata sul seno pareva che meditasse, invece porgeva attentissimo l'orecchio per udire se da qualche parte movesse rumore; — qualche volta tendeva lo sguardo e, contemplando tanta pace di cielo, così soave bellezza di suolo, dove i borghi e i castelli avrebbero dovuto riposarsi tranquilli come pargoli sul seno materno, imprecava nel suo secreto alle cupidigie umane, le quali ogni paradiso avrebbero virtù di mutare in inferno; tale altra sostava a considerare le serie dei monti digradanti, i più prossimi lieti di verde, i mezzani brulli ed oscuri, gli ultimi bianchi di neve e confinanti col cielo, — immagine eloquentissima della nostra vita con le promesse della giovanezza, le delusioni della virilità e la impotenza degli estremi anni... ma dove la vita caduca si rimane ecco incomincia uno spazio senza fine, azzurro, misteriosamente magnifico — eterno. — Esulta! — diceva all'anima sua: — prima di batter l'ale la farfalla è un verme; forse a te fu imposta la spoglia umana prima di scintillare stella pel firmamento; diventa tale sopra la terra che il cielo t'invidii. — Così tornando alle cure della vita, ordina a Vico continui il viaggio con le salmerie, agli altri rimangano. Or sì, or no, secondochè il vento spira, si fa sentire il suono dei tamburi, — si odono più distinti, — già le prime insegne di un colonnello imperiale cominciano ad apparire.

E Ludovico sospirando riprese a cantare: «Deh! quanto è gran dolore — Ruinar di nostre mani — L'arche dei padri nostri, — Li tempi dei cristiani!» Cap. XV, pag. 372.

«Viva Marzocco!» e con questo grido di guerra i Ferrucciani rovinano addosso ai nemici. Il signor Pirro di Stipicciano, soccorso il castello di Peccioli e slargato l'assedio di cui lo teneva stretto Cecco Tosinghi commessario in Pisa, se ne tornava trionfante con grossa torma di bestiame fatta predando all'intorno il contado[226]; trovato quell'intoppo, come colui che, veramente essendo valoroso nulla contava nel mondo altrui, con maniera brava esclamò: «Orsù, cacciamo col calco dell'asta cotesti villani.» Tre volte menò all'assalto i suoi, e tre furono aspramente ributtati; — all'ultimo i Ferrucciani combattendo con impeto irresistibile sbarattarono le ordinanze, le calpestarono e cominciarono così disperse a manometterle senza pietà; lo stesso Pirro Colonna, mentre più si affaticava spinto a rifascio insieme al cavallo giù in una fossa piena di fango, dovè la vita alla fede ch'ebbero i nostri nella morte di lui, imperciocchè lo reputando affogato, ve lo lasciassero, onde egli, rilevatosi a stento, fuggendo a piede pei campi, potè salvarsi: la grande uccisione dei nemici, la poca perdita dei nostri, come fu a loro causa di pianto, così recò ai Fiorentini infinita allegrezza; caddero in podestà del Ferruccio i capitani Staffa perugino e Spirito di Viterbo, oltre molti uomini di conto; ritolse i bestiami e ogni altra preda[227]. Allora si affrettò di raggiungere Vico, di cui ormai non gli compariva più la vista; ben giunse all'uopo: — siccome spesso avviene nelle guerre, una mano di fuggitivi del colonnello del signor Pirro per poco non gli rapivano il frutto della giornata; esaminando lo scarso numero delle scorte alle salmerie, si rinfrancarono e da lontano gridarono a Vico: «Rendetevi tosto, o vi tagliamo a pezzi; il vostro capitano è stato rotto, sicchè riesce inutile qualsivoglia resistenza.» Vico, fatti accostare i carri e compostone quasi una barriera, allorchè giunsero vicino rispose a buoni colpi di picca; combatteva gagliardo, — non gli sembrava possibile avesse potuto rimanere vinto il Ferruccio, e nondimeno questo dubbio gli s'insinuava ghiacciato nel cuore e gl'intorpidiva le braccia. Il vento disperde con meno furia la polvere su le vie di quello che il Ferruccio si facesse di quel residuo di vinti; e la man porgendo a Vico gli disse:

«Dio ha provveduto: — tu menerai a Fiorenza copia di bovi — ed altro ancora.»

Poi tacque continuando a cavalcare di fianco a Vico. Vico a sua posta volentieri si compiaceva del silenzio, dacchè non si trovasse distratto da volgere tutti i suoi pensieri ad Annalena: — E che dirà al primo vedermi? — domandava a sè stesso. Quali saranno le sue parole? di rampogna? — di amore? — e chi sa quanto soffriva? — quanto piangeva? — quali notti vigili? — Ma l'angiolo custode l'avrà consolata; — sì, certo, egli le avrà susurrato negli orecchi: Cessa di tribolarti, — il tuo Vico vive e ti ama...

Mentre così seco stesso favella di amore, Ferruccio, come se la sua anima avesse tenuto arcano colloquio coll'anima di Vico, nel modo col quale si riprende un ragionamento interrotto parlò:

«Di piccolo aiuto potrà esserle il padre vecchio; — in città piena di confusione e di pericolo chi torrà cura di lei? — Sovente la fame stringe Fiorenza, e forse adesso le manca pane per sostentare la vita. Dacchè in città o in contado conviene sopportare disagi, meglio è che ella gli soffra al tuo fianco... fa dunque di condurre teco la tua Lena quando tornerai.»

A Vico parve la mente preoccupata lo ingannasse; — il Ferruccio non gli aveva mai fatto motto della sua donna, — il nome di Lena giammai era stato profferito dai labbri di lui; volge il volto per ragionare del suo amore col Ferruccio, — ma questi galoppando si era per buon tratto di via allontanato.

«....Onde io, previe le debite cautele, concludo doversi appiccare qualche pratica d'accordo.» — Così terminava la sua orazione nella consulta segreta messer Zanobi Bartolini.

Ma Bernardo da Castiglione, siccome aveva in costume di rispondere ogniqualvolta udiva favellare di pace, tutto stizzoso proruppe:

«No: — prima Fiorenza dentro il mio capello[228]

«Se, come i Piagnoni, credete debbano scendere gli angioli a tôrre la difesa di Fiorenza», — replica il Bartolino, — «allora non ho altro da aggiungere, e potete intendervela con l'anima di fra' Girolamo; se invece poi vogliamo governare secondo gli argomenti della prudenza umana, in che poniamo la fiducia nostra? Francia ci abbandona, e peggio ancora, perchè con le sue ambagi persuase noi improvvidissimi a far capitale sopra un aiuto che non ci ha mai dato e non ci voleva mai dare. Il Cristianissimo con la sua fede di gentiluomo tradisce a un punto la lealtà di cavaliere e la fede di onesto cittadino; — ingegno vario e mutabile; — ingolfato nelle lussurie — a cui forse darà fama la facile natura e lo sprecare la pecunia pubblica tra artefici e poeti, siccome vedemmo per le medesime cagioni acquistarla Augusto presso gli antichi. Dio guardi nella sua misericordia la patria nostra dall'amicizia di Francia....»

Qui tacque, — e, fatto silenzio, il rumore delle artigliere nemiche sparate del continuo contro i bastioni della città aggiungevano spavento alle sinistre parole. L'oratore trasse partito del caso, e quando gli parve tempo, butta là un'altra proposizione non meno acconcia a invilire la fermezza dei padri di quello che si fossero le palle a sfasciare le mura della sua patria.

«La fame ogni di più ci stringe nelle sue orribili braccia; — vorremo aspettare che ci sforzi a divorare l'un altro?»

E il rimbombo dei cannoni veniva quasi a commentare quei detti terribili.

«I migliori capitani caddero spenti, — gli altri vivono scorati, — del contado parte occupano i nemici, parte ci si ribella, — Castel Fiorentino si è sottratto dalla devozione della Repubblica....» Sospende di nuovo il discorso e dopo pausa non breve continua: «Le campagne messe a ruba da Pino Colonna..., Volterra ribellata.... Accordiamo....»

«No, prima Fiorenza dentro il mio cappello», ripete Bernardo da Castiglione più caparbio che mai.

All'improvviso uno schiamazzo di plebe, un suono confuso di contumelie e di scede turba la consulta: nessuno dei padri si muove di seggio, così volendo la gravità dell'ufficio; — trascorso alcuno spazio di tempo, ecco percuotono alle porte della sala, sommesso sul principio e raro, — poi a colpi impetuosamente replicati, sicchè fu mestieri aprire.

Una quantità di femmine genuflesse, atteggiate in sembianze diverse di preghiera, ingombrano le stanze antecedenti; tra mezzo a loro s'inoltra il Pieruccio, il quale, menandone una per la mano, arditamente entra nella sala della consulta.

Attoniti pel nuovo spettacolo i padri non battono palpebra. Pieruccio imperturbato, quando giunse davanti al banco intorno al quale si stavano seduti, con voce ferma favellò:

«Cittadini, con pubblico bando ordinaste le femmine di rea vita fossero cacciate dalla città[229]. Cittadini, iniquamente ordinaste; forse non bagna la pioggia, e non irrigidisce il freddo le membra delle donne di trista vita? Se le punge il ferro, non iscorre dalle loro vene il sangue? Se peccarono contro Dio, quale hanno peccato contro la città? Dio le bandisce dalla patria celeste, voi dalla patria terrena; ma voi non potrete riaprire loro le porte, se col cuore contrito si presenteranno di nuovo, mentre Dio nel suo più fiero sdegno non chiude le porte della speranza mai. Queste donne, comunque abbiettissime elle sieno, hanno affetti, — amano il luogo che le raccolse infanti, — amano i luoghi dove peccarono, amano la chiesa dove credono avere un santo mercè del quale un giorno possano acquistare il perdono del Signore, — amano il cimitero che le ossa racchiude del padre e della madre loro; quando si curvarono, prima di abbandonarla, ad abbracciare la terra diletta, udirono uscire dalle fosse dove hanno sepolti i parenti una parola che non giungeva loro alle orecchie, ma che pure le pungeva nel cuore; quando tenevano la testa alta nel sentiero della perdizione, — una parola di amore che le mutò ad una vita nuova. Quando Gesù Cristo si accorse della femmina che gli toccava la veste per ottenere il miracolo, Donna, le disse, la tua fede ti ha salvato, — ed operò il miracolo. Queste femmine abbracciarono la terra natale con ineffabile angoscia e sentono non potersene dipartire; — perchè non le salverà l'amore? Vedetele come stanno dolenti, timorose perfino di sciogliere una preghiera... ciò avviene perchè l'amore le ha rigenerate nel battesimo di virtù e di pudore. Non le cacciate via; — esse non vi saranno di carico, le membra sozze dal peccato purgheranno nelle opere, alle quali il somiero non basta; — esse non assottiglieranno il vostro pane, — andranno a procacciarsi l'alimento cogliendo erbe pei bastioni traverso lo sfolgorare delle artiglierie nemiche; — quello che ordinerete che facciano, faranno, — ma lasciatele morire nella terra dei loro padri. Perdonate alle misere pei meriti di colei che generò il nostro Salvatore, — pensate che una donna, — quando gli uomini statuivano la morte di Cristo, gli unse i piedi di olio odorifero e glieli terse con le chiome; — una donna, quando Cristo cadeva sotto il peso della croce, e Giuda lo tradiva, e Pietro lo rinnegava, e lo fuggivano i discepoli, asciugò il volto divino col suo sudario; — quando Cristo abbassò gli occhi dal patibolo sopra la terra, i suoi sguardi incontrarono una donna ai piedi della croce, poi li volse al cielo inebbriato di amore e spirò. — Non isbandite queste povere femmine; — così come paiono obbrobriose, rammentatevi che pure appartengono alla specie donde uscirono le vostre madri: La preghiera esaudita vola al trono dell'Eterno e tramutata in angiolo lo dispone ad amare il cortese che l'esaudiva; — preghiera respinta toglie la penna all'angiolo dell'accusa e segna una colpa che peserà nella bilancia di Cristo nel giorno del giudizio finale a danno dello scortese che la respinse dal cuore.»

I labbri del Pieruccio si chiusero, e per la sala si sparse un compianto sommesso, un fioco singhiozzare, quasi non ardissero le misere schiudere il varco alla piena dell'affanno che le travagliava. Il gonfaloniere, uomo di tenera indole, col dorso delle mani si asciuga una lacrima pronta a sgorgargli su le guance e mormora:

«Questo Pieruccio è un sant'uomo!»

Il Carduccio levò le mani al cielo ed esclamò:

«Io non so più che cosa possa chiamarsi grandezza, se le parole di costui muovono da follia!»

Ma il Bartolino, mente impassibile, guardando con la coda degli occhi lo strano spettacolo, mosse la bocca a certo suo ghigno di disprezzo e con lenta favella:

«L'entusiasmo offende i corpi politici, come la infiammazione i corpi umani; e poichè la scorgo scesa in tanto basso luogo, — temo forte della cangrena.»

Ma coteste parole di dubbio e di scherno non ebbero efficacia su l'animo dei padri: alla proposta segreta del gonfaloniere assentivano volenterosi; i più lontani anche prima di udirla, indovinando dai gesti, la confermavano. Il Bartolini anch'egli sorridendo l'approva. Allora il gonfaloniere si alzò e, levata la destra, con suono solenne proferisce il decreto:

«Femmine, la vostra preghiera è stata esaudita; andate in pace e pentitevi.»

Il popolo, conosciuta la causa che menava Pieruccio in palazzo in mezzo a coteste femmine, cambiato animo, apparecchia i gridi per plaudirlo e le braccia per levarlo in trionfo; ma il profeta si trafuga per una postierla che riusciva in Via della Ninna; il popolo, deluso in questa sua aspettativa, accolse festoso le donne, le quali si recarono alla cappella di Orsanmichele a ringraziare Dio. Il cielo, che prima si mostrava procelloso, finite le orazioni diventò limpido e sereno, quasi si rallegrasse di aver fatto pace con quelle traviate creature[230].

Il tempo meglio opportuno a far vacillare un'anima nelle sue risoluzioni e quello appunto in cui si trova spossata dallo sforzo commesso a sostenerle. Ciò molto bene sapeva il Bartolino, conoscitore solenne della umana natura; però, trascorsa quella prima caldezza, rinnovò sue arti, tante ragioni espose e con tanta evidenza, così sagaci argomenti dedusse, che in poca ora ebbe vinto i meno ostinati, gittato il dubbio nel cuore dei più fermi; onde, scorgendo adesso pei volti sbaldanziti, pei labbri muti, la riportata vittoria, muta stile ed attende a confermarla con impetuosa eloquenza. Un mazziere solleva la tenda — e,

«Magnifici signori», egli dice, «un corriere arrivato d'Empoli domanda a grande istanza di favellarvi...»

«Aspetti», interruppe il Bartolino, a cui doleva quel nuovo impedimento, — «aspetti tanto che i padri abbiano deliberato...»

«Anzi», insiste il mazziere, — «il corriere vi prega che non consumiate più tempo a deliberare, imperciocchè egli abbia parole a dirvi per le quali cancellereste il partito...»

«Ascoltiamolo», ordinò il gonfaloniere Girolami.

Ed ecco Vico avanzarsi anelante, la persona di fango sordidata e di sangue, consegnare le lettere del Ferruccio e non potere profferire altre parole che queste:

«Leggete..., messeri..., trattanto io mi riposerò...»

Il Girolami ruppe il suggello e, trascorrendo le carte, con voci interrotte favella:

«La ribellione di Castel Fiorentino repressa: — il contado sgombro: — San Miniato ripreso: — Empoli munito: — copia di vettovaglia raccolta: — gli armati accresciuti; — qualunque impresa non minore all'animo che gli viene fatto grandissimo dalla certezza di salvare la patria.»

«Signore!» qui esclama messere Rafaello cadendo prostrato ed ambe le mani levando al cielo, «gran mercè; — tu senti pietà dei mali nostri e ci mandi Sansone a percuotere i nuovi Filistei.»

«Aggiungete», disse Vico che aveva ripreso lena, «che qua morendo abbiamo disfatto il colonnello del conte Pirro Colonna, ritolta la preda, condotto in città carni, farine, di ogni maniera vettovaglie e munizioni da guerra; — di prigionieri è ingombro il cortile.»

Bernardo da Castiglione, oltremodo acceso, ammonisce il Bartolino dicendo:

«Poc'anzi udimmo dal Pieruccio una stupenda sentenza; la donna ebbe fede nel miracolo, ed il miracolo le fa concesso.»

«Benedetta la vostra bocca, messer Bernardo», replicò il Carduccio: «noi siamo come san Pietro; la poca fede lo faceva annegare, la speranza gli indurò sotto le acque quasi selci della Gonfolina.»

E qui si affollano intorno a Vico, la gravità consueta dimenticano, chi una cosa gli domanda, chi l'altra; alle quali, come meglio poteva, dava Vico risposta: — quindi lacrime e gridi di esultanza e lodi e conferma di volere piuttosto morire che arrendersi a patti; — in somma un giubilo da non potersi descrivere.

Il Bartolino si accorse quello esser tempo da raccogliere le vele per timore che il vento non se le portasse; e poi anch'egli volle veder meglio, dacchè, se il suo consiglio era per tornare esiziale alla patria, a ciò s'induceva non mica per animo pravo, sibbene per fallacia di calcolo e per presunzione di affidarsi soverchiamente ai proprii concetti: certo mal comportava quel governo troppo popolare, ma, innanzi di vedere Alessandro o Ippolito dei Medici a capo di Firenze, avrebbe tolto di porvi un altro Michele Lando, o qualunque altro anco ciompo dei tristi; se parteggiava per gli accordi, ciò faceva perchè, rimanendo tuttavia in piedi Firenze, Clemente gli avrebbe dettati con la penna, non con la spada; — e perchè accettando spontanei i Medici, avrebbero governato civilmente e da principi: all'opposto poi, se i Medici avessero dovuto affatto la signoria alle armi straniere, sarebbero riusciti certi tiranni: questo fu errore di messere Zanobi Bartolini.

La pratica adunata per la resa terminò coll'occuparsi a disegnare modi e provvedimenti di resistenza; — il Carduccio licenziava Vico con ordine di riposarsi e tornare all'ufficio dei Dieci di libertà e pace alle due ore di notte.

Vico, sceso dal palazzo dei Signori, raggiunse il fante che gli teneva il cavallo su la piazza dalla parte della dogana, e stava per mettere il piede nella staffa, quando lì presso vennero a passare due cittadini vestiti a lutto, uno dei quali diceva in suono di angoscia:

«Non me ne darò mai pace....»

E l'altro consolando:

«Confortatevi, — noi siamo quasi tronchi di legni gettati nell'Arno; — passa il tronco con le acque che lo menano; — la vita e il tempo si sciolgono nella eternità....»

«Sì, — ma il frutto, prima di essere maturo, non dovrebbe cadere.»

«Certo eglino erano il fiore della cavalleria... pur che volete? Ora non possiamo far altro che lodare le virtù loro ed imitarle....»

«Affrettiamo il passo, perchè temo forte che non giungeremo a tempo per udire la predica del Foiano.»

Vico, spinto da curiosità, tolse il piede dalla staffa, e ordinato al famiglio si recasse a casa, governasse i cavalli, e gli alimenti che si era portato allestisse, si mise dietro ai due cittadini, — li raggiunse a mezza piazza, e cortesemente salutatili, domandò in grazia il nome dei cavalieri che per quello ne aveva udito pareva fossero rimasti uccisi; — della sua ignoranza lo tenesse appo loro scusato l'essere giunto poc'anzi da Empoli, dove in pro della Repubblica si affaticava.

«O figliuolo mio», rispose quegli che sembrava in vista più dolente, «hai da sapere come nella notte che il signore Stefano fece la famosa incamiciata contra agli imperiali, il bombardiere Giovanni Antonio, — lo conosci di persona?»

«Sibbene il conosco e l'amo, il nostro Lupo...»

«Quel desso, con l'altro suo compagno Nannone, e Michelangiolo Buonarroti, quel cervel balzano che ora diserta la patria, ora torna a cimentarsi ai più rischievoli incontri, in cima al campanile di San Miniato conciarono in modo con le artiglierie il campo, che il principe giurò volerlo abbattere ad ogni costo; a questo fine pertanto egli piantò quattro grossi cannoni sul bastione di Giramonte e per tre giorni continui attese a sfolgorarlo, scaricando otto volte per ora. La muraglia è forte; pure, come tu medesimo potrai vedere, le palle cominciano ad ammaccarla, i cornicioni rimasero scantonati, — una palla s'incastrò nel bel mezzo quasi testimonianza dei doni che manda il papa alla sua patria. I tre ch'io ti ho detto se ne stavano in cima tra quella gragnuola di palle, come se fossero rondini di passo. Lupo, per maggior dispregio, composta una specie di mitra di carta, la pose sotto alla bandiera della Repubblica; Nannone uomo grosso, non potè frenarsi dal fare al nemico un atto di vilipendio che per onestà si tace; tu pensa se l'ira degl'imperiali crescesse! Ultimamente, essendo questa contesa venuta in gara, i nemici così spessi adoppiarono i tiri, che due dei loro cannoni si ruppero, — altri ne sostituivano, e la furia inviperiva; allora, perchè ci era tanto baldanzosamente venuto a prendere Fiorenza non pigliasse nè anco una delle sue torri, Michelangiolo lo fasciò di balle di lana, le quali appese a certe corde raccomandate in cima al cornicione sportavano un braccio circa fuori della muraglia ed ammortivano il colpo; durò, come ti dissi, tre giorni la batteria, con inesprimibile contentezza dei soldati e dei cittadini, che si conducevano a vederla in folla, quasi fosse la fiera; i moteggi, le giullerie erano infinite; messere Salvestro Aldobrandini, quantunque grave personaggio egli sia, compose un sonetto per uccellare il papa, che comincia: — Povero campanile sventurato, — il quale non senza il riso delle brigate scorreva per la bocca di tutti. La impotente rabbia del principe contro il campanile ci confortava, quasi presagio del fine della impresa. A Dio piacque mutare la nostra gioia in pianto, ed ecco il modo in che accadde la bisogna. Erano il signor Mario Orsino e il signor Giorgio Santa Croce ieri dopo desinare nell'orto di San Miniato e quivi col Baglione trattenevasi in varii ragionamenti e si godevano la festa: appena il Baglione si era partito, i nemici di Giramonte avendo veduto mucchio di gente, aggiustano una colubrina e la sparano, la palla, come volle fortuna, percosse uno dei pilastri di mattoni presso il quale i cavalieri si trattenevano; i frantumi con tanto impeto schizzarono all'intorno che il signor Giorgio colpito nel capo rimase sul tiro il signor Mario ferito in due lati poco più visse, ed oltre molti altri malamente pesti ci cascarono spenti cinque soldati e tre giovani di Fiorenza, fra i quali Averano Petrini, che sfracellato si è morto stamattina. I corpi del Santa Croce e dell'Orsino sono stati esposti tutto il giorno in Santa Maria del Fiore, e noi andiamo a baciare loro anche una volta le mani prima che abbiano sepoltura; se tu vuoi esserci compagno a questo ufficio, farai a un punto opera pia e mostrerai riconoscenza a quei due valorosi, — dacchè morirono per la nostra patria; — essi lasciano inestimabile desiderio di sè.»

Entrarono nella cattedrale: — lugubre sempre, adesso appariva più trista per le rasce nere di cui andavano tappezzatele pareti; di tratto in tratto ricorrevano scritte a grossi caratteri sentenze di morte; intorno alle colonne stavano appesi trofei di guerra; — dappertutto squallore; — in mezzo al coro, diverso in parte da quello che oggigiorno vediamo, s'innalzava uno imbasamento sul quale conducevano due scale laterali; ai quattro canti, vestiti di sopravveste sanguigna, vegliavano quattro capitani dei colonnelli dei defunti, che ad ora ad ora si mutavano; sopra lo imbasamento era la bara coperta di sciamito rosso, e quivi armati delle più splendide loro armature giacevano i corpi del signor Mario e del signor Giorgio; intorno alla bara alternarono in drappelloni le tre armi del comune di Firenze, giglio, croce e leone con le armi dei cavalieri. I cadaveri avevano intrecciati tra loro le braccia, come si costuma in socievole compagnia nella vita, volendo quasi dimostrare, colui che in cotesto atto li compose, che nè anche in morte si erano potuti abbandonare. Gli amici e i compagni d'armi cingevano di triplice corona il feretro, tutti vestiti di cotte sanguigne, colore di lutto adoperato dai maggiorenti a quei tempi, mentre i fanti, scudieri e l'altra famiglia costumava panni bruni e neri. Quanti erano quivi assembrati tenevano acceso un torchietto di cera[231].

Frate Benedetto predicava i morti, e, siccome bene avvisava uno dei cittadini, appena giunsero in tempo per ascoltarne le ultime parole: la voce maestosa del Foiano empiva le vaste navate e lo costringeva a ripetere i suoi detti coi loro echi:

«Forse», egli sclamava, «li piangeremo morti perchè quelle mani invitte diventarono inerti? Forse perchè quei cuori cessarono di battere? Vivono le anime immortali e, vestite di armi che per colpi non si falsano, combatteranno per noi; — armati di spade di fuoco si porranno terribili cherubini a custodia di questo nostro paradiso terrestre; nè già crediate, fratelli, che la mia mente immagini vaneggiando cose vane; no[232]: — le sante leggende assicurano non avrebbero mai i crocesignati conseguito il conquisto della Palestina, se per miracolo un esercito composto delle anime di tutti i cavalier cristiani morti nella Giudea, vestito di bianca armatura, con bianchi stendali, non fosse venuto ad aitare i vivi nelle battaglie. — Non gli piangiamo defunti, perchè in verità io vi affermo che vivono; — non può dirsi morto chi lascia tanta parte di sè nel cuore e nella memoria nostra, essi mutarono la patria terrena con la patria celeste, — esultiamo, eglino volano in seno di Dio e la nostra città gli raccomandano; — esultiamo! la libertà della Repubblica non patisce pericolo or che la proteggono in cielo due cosifatti avvocati.»

Il sole declinando ecco ora versa da uno degli occhi, praticati intorno al tamburo della cupola, una colonna di luce la quale cadendo giù diagonalmente investe i cadaveri dei due cavalieri; — i raggi ripercossi pei ricami d'oro della soprasberga e su per l'armatura brunita circondarono i defunti d'inusitato splendore, — parvero avvolti dal capo alle piante del nimbo luminoso col quale i pittori greci solevano rappresentare i loro santi: — gli atomi splendidi brulicavano di su e di giù per la striscia scintillante, quasi fossero sostanze intellettuali vaghe di aggirarsi per quella via segnata tra il cielo e la terra. Il frate entusiasta lasciò cadersi in ginocchio, ed atteggiato all'estasi dei beati,

«Prosternatevi, prosternatevi», gridò, «o voi a cui è conceduto assistere al trasporto di due anime dalla terra al paradiso; ecco la scala apparsa a Giacob nei piani di Betuel si rinnova, gli angioli mossero a raccogliere gli spiriti fratelli, e in cima della scala tende loro le mani l'Eterno per abbracciarli. O lingua mia trista, a che ti affatichi più oltre a predicare coloro per onoranza dei quali il cielo manifesta le sue glorie? o miei labbri mortali, assai più che a lodare quei bene avventurosi, vi acquisterete merito presso Dio baciandone le destre venerate...»

E si precipita dal pergamo, salisce su lo imbasamento del feretro; e quivi come delirante con pianto irrefrenato si pone a baciare le mani dei cavalieri defunti. Ogni uomo si sentì a forza costretto di seguitarne l'esempio; sarebbero accorsi in folla se i capitani di guardia non avessero posto ordine e modo a cotesta subita voglia; consentivano pertanto un certo numero di persone salisse, le quali, renduto quell'estremo ufficio ai valorosi, scendevano dalla parte opposta. Vico salì con gli altri; e quando fu per recarsi la mano dell'Orsino alla bocca senti giù tra la folla un grido a stento represso; guardò fisso e riconobbe Annalena; il pensiero di avere incontrato colei che amava tanto adesso che stava per baciare quella mano rigida, — morta, — gli lasciò un senso di freddo sul petto, come se un rettile gli avesse sopra strisciato: — finse baciarla ma non la toccò, e sentì irresistibile il bisogno di recarsi al fianco della sua Annalena per obliare il sinistro presagio.

Le si fece vicino e non profferse parola; uscirono entrambi di chiesa, e muti, con occhi dimessi, camminarono buon tratto di via. Vico aveva un peso sul cuore che non poteva muovere; uno sgomento interno lo sforzava al pianto, e nondimeno le lacrime gli rimanevano rapprese nel cavo degli occhi; giunto che fu a mezzo del Ponte Vecchio, le gambe gli negarono l'ufficio, e si accostò sfinito ad una colonna sclamando:

«Muoio!»

«O Vergine, non mi rapite l'amor mio, — ho pianto tanto, — e tanto ve lo raccomandai che prometteste rendermelo sano... no... voi non me lo avete ricondotto dinanzi agli occhi per vederlo morire.»

«Oh! io mi sento pieno di vita; — temeva tu avessi, o Lena, cessato di amarmi; — insalutata io ti lasciava e sola,.. Tu dunque mi ami?..»

«Se tu non fossi stato capace di preferire all'amore della donna l'amore della patria, Annalena non ti avrebbe mai amato... e da me ti allontanavi costretto...»

«Generosa donzella!» riprese Vico e le strinse la mano con passione; poi continuarono il cammino leggieri e contenti, alternando voci, sguardi e sorrisi, e così intenti nello scambievole amore che stavano per passare, senza pure badarlo, da canto al vecchio padre di Lena, il quale si era mosso loro incontro, se questi non gli avesse richiamati dicendo:

«Figli miei, ricordatevi che i miei anni mi rendono tardo, — io non posso mica tenere dietro ai vostri passi...»

«O padre mio, siete voi? Io non me n'ero accorta...»

«Ah!» soggiunse il vecchio sospirando, «la femmina abbandonerà il padre e la madre per seguitare il suo amante... tu già mi dimentichi, figlia mia... allora ditemi requie, chè la mia giornata è finita.»

«Padre mio, non mi parlate così; — vedete, noi ci affrettavamo alla volta di voi, — senza di voi non saremo lieti.» E la fanciulla carezzevole gli si abbandonava sopra di un braccio. Vico lo sosteneva dall'altro, e così andando tante care cose egli gli disse che la fronte del vecchio ridivenne serena, una goccia di sangue giovanile gl'imporporò le guance, mutò più celeri i passi, ed ora volgendosi a Vico, ora all'Annalena, li guardava, rideva, motteggiava festoso; ponendo il piede su la soglia di casa, si fregò le mani, contemplò il cielo e in questo modo espresse la interna sua contentezza:

«Il cielo invita, tanto apparisce limpido e azzurro; — non pertanto oggi non desidero morire... sento che adesso mi fa bene il vivere.»

CAPITOLO DECIMOTTAVO AMORE

Ti xe bella, ti xe zovene,

Ti xe fresca come un fior.

Vien per tutti le so lagrime;

Ridi adesso e fa' l'amor.

Barcaruola veneziana.

Belle luci di amore, siete sublimi quando l'aere si distende sereno, e l'orizzonte è azzurro. Vi saluterò io, fiori immortali della eterna primavera dei cieli? O piuttosto ninfe divine che venite a rinnovare i vostri cori per le volte eteree del firmamento? — Perchè, se ai nostri occhi è dato contemplare i vostri moti, non possiamo ancora deliziarci nei vostri suoni? Ah! forse le nostre fibri destinate a morire mal potrebbero sostenere le vibrazioni della lira celeste. Voi non usciste di mano a Dio per guardare la terra; che cosa è ella mai questa piccola massa di fango sanguinosa verso di voi tanto magnifiche, tanto raggianti di proprio splendore? No, voi non guardate la terra, altrimenti le vostre palpebre sarebbero adesso intenebrite nel pianto, — e quel vostro limpido tremolio diventato vermiglio come il pianeta di Marte. Poichè da voi emana luce, non lacrime, voi non guardate la terra, nè vi cale guardarla; ella si avvolge dentro un manto di nuvole: — ella sovente ai vostri castissimi raggi maledice. Caino invocò perenni le ombre e l'abisso sopra il suo capo fulminato. — Voi non morrete, figlie primogenite del pensiero di Dio: nel giorno della distruzione egli vi radunerà con amore e se ne comporrà un diadema per la sua fronte immortale — e quando il suo spirito, come nei secoli precedenti alla creazione si trasporterà sopra le acque, se lo prenderà fastidio della sua immensa esistenza, si guarderà nello specchio dell'oceano mostruoso e dirà: Io mi son fatto un magnifico diadema! — Dove egli spegnesse anche voi n'esulterebbe lo spirito degli abissi, come esultò il giorno nel quale vide pullulare sopra la terra la pianta avvelenata della tirannide.

Modeste come vergini, leggiadre come angioli, la mia anima vi séguita, o stelle, nei vostri notturni pellegrinaggi con sacro raccoglimento: voi avete potenza di sollevarla dalle miserie e dalle infamie della vita; da voi in lei scende virtù che la consola: — voi blandite i suoi mille dolori; — confortata da voi, ella si affretta a compire il suo pellegrinaggio, quasi un esule alla patria diletta.

Ah! se veramente composto di spirito e di corpo potrà il mio spirito sciolto avvolgersi volando tra voi, — immergersi nei tesori della luce e dell'armonia, allora fingete la morte con le sembianze dell'Ebe di Canova, coronatela di rose, le ponete nella manca un nappo gemmato, nella destra un vaso pieno di un liquore composto di speranza e di obblio, — ambrosia divina che addormenta la vita.

Ma se, invano pietose sogguardando il mio sepolcro, quanto ora di me rimase coperto della terra, se il mio occhio non potrà vagheggiarvi, il mio labbro benedirvi, allora io mi contristo su la vita che manca come di un amico che mi abbandona, di un fiore che mi si appassisce tra le mani, — dell'amore che mi si disperse in un sospiro per l'aria.

Egli dormiva, e la vergine gli vegliava a canto, e considerando quella fronte pacata, la prese vaghezza di deporvi un bacio. Il bacio ebbe virtù di svegliare Vico, che glielo rese tremante su i labbri. Gli angioli poterono vedere cotesto atto senza velarsi con l'ale la faccia, imperciocchè eglino si amino di pari amore nel cielo. — La musa rivelò al poeta la natura angelica: due anime le quali di amore continuo si sieno amate sopra la terra lassù nel paradiso formano un angiolo[233].

Ed intrecciando le braccia i due giovani si recarono nel giardino, dove la vergine gentile si deliziava nel contemplare le stelle, e sovente veniva così richiedendo il fidato suo amico:

«Come hanno nome cotesti astri tanto splendidi all'occhio?»

«Perchè fu donna che amò di forte amore, vide Berenice della sua chioma ornato il firmamento e resa per quelle stelle immortale...»

«E quell'altra così tremolante, così gioiosa, come si chiama ella?»

«I nostri padri essendo pagani, immaginarono una dea della bellezza ed a lei consecrarono la stella gioconda che tu vedi. Se come leggiadra di forme, l'avessero finta casta nel cuore nessuno dio avrebbe vinto in questa terra il culto di Venere. — Amore è anima del mondo — amore è mente che governa il creato...[234] »

«Oh! amo le stelle anch'io, — e chi le creava, — e te.»

«Lena, deh! non oppormi Dio per rivale. Io non lo voglio: può ella la creatura contendere col suo Creatore?. — Egli flagella i fianchi della montagna con i suoi fulmini; egli col soffio delle narici sconvolge l'oceano... come potrò io dunque venire in paragone con lui, — io atomo di polvere nella mano di un gigante?.

«Sta pur sicuro, Vico: perchè se quando mi volgo al cielo o lo contemplo nella sua pompa di luce a te prepongo il Creatore, allorchè poi rimiro la terra e vi scuopro il delitto e la sventura, te... Dio mi perdoni!... te sopra Dio riverisco. La tua vita è piccolo rio, e non pertanto le sue acque scorsero sempre conforto agli uomini tuoi fratelli...»

«Veramente io il dolore non avrei creato nè la morte, vedi, Annalena: quanto sta la colomba a batter l'ala, tanto duriamo noi nella vita, e nondimeno così può contristarcela l'affanno da farla parere eterna.»

«Oh! io conosco un asilo alla sventura, Vico, — il capo riposando sopra il tuo seno... ma la morte... io l'odio.»

«Sì; orribile è la sua immagine; — la sua presenza non vince l'aspettazione; — Le mani mi pongo sugli occhi per non vederla schifosa su la faccia del giovine e del vecchio; — però l'occhio del pensiero non si chiude, e quando mi figuro il verme là dove un giorno deposi il bacio dell'amore, e la putredine là dove libai un alito che mi rinfrescò l'anima... io non so accordare l'idea del sommo bene col creatore della morte.»

«E non pertanto io conosco uno stato peggiore assai della morte.

«Oh! anch'io lo conosco, — e me lo insegnò la paura.»

«Quale?»

«La vita senza te.»

«Voglia la Vergine santissima salvarmi da questo misero stato!»

«Cristo mi tenga lontana tanta tribolazione!»

«Non la desidero a te, — ma vorrei non sopportarla io. — Gemi? — Perchè gemi, Annalena? Forse ti offesi?»

«Oh! no; — mi piace gemere: tutto è mutato in me; — rideva prima, ma dacchè ti conobbi, sospiro e sento quanta maggiore dolcezza comprendano i gemiti che i sorrisi: — non gli muove timore, — non desiderio o dolore, — pure io sento un fremito interno che mi sforza a piangere, — ad amare gli uomini, gli animali, le cose inanimate, perchè tu mi ami...; di' mi ami, Ludovico?»

«E non te lo dissi le mille volte? e non lo vedi? e nol sai?»

«Lo so, — ma poichè una esultanza ineffabile mi scende al cuore nel sentire dalle tue labbra che mi ami, — così godo ascoltare perpetuamente ripetuta questa vibrazione armoniosa; i' fo come il fanciullo che mai non si stanca dal gridare un nome per intenderlo ripetuto dall'eco della caverna.

«Ma il mio cuore non è mica una spelonca vuota, — il grido che ti rimanda non è l'eco della tua voce, — egli possiede voce propria e potente come la tua,»

«Sì, — nè io voglio cederti in amore — nè desidero che tu me.... i nostri cuori sono...»

«Due creazioni gemelle di un medesimo pensiero...»

«Un suono mandato da due corde compagne. — Scambievolmente ci tengono luogo di tutto, — di padre, — di madre, — dei parenti più cari; — all'uopo ancora potrebbero tenerci luogo di paradiso — e di patria.»

«Di paradiso forse... di patria no...», disse una voce forte e profonda che spaventò i due amanti; e al tempo stesso videro sorgere dalla terra uno spettro in atto minaccioso. Annalena si stringe ai fianchi di Ludovico e glieli abbraccia trepidamente esclamando:

«Un'ombra! — un'ombra!»

«Non sono ombra, carne ed ossa bensì, come siete voi, — se non che voi sentite la vita amando, ed io per le percosse che tutto giorno ricevo dai miei fratelli....»

«O Pieruccio, siete voi? O che fate accovacciato qui dentro al giardino?»

«Pieruccio è nome di una miserabile cosa, di una infelice cosa; non vi par egli, fanciulli? Dov'è il padre del Pieruccio? — il figlio non conosce il padre, il padre il figlio... e la madre? La madre, appena nato lo depose sopra un letto di pietra, — non si voltò a guardarlo, non gli porse la mammella; s'ella non lo spense, non la mosse amore per lui, ma paura di pena per sè, imperciocchè lo aborrisse, come una testimonianza vivente della sua vergogna. Il padre del Pieruccio abita nei cieli, — nè la sua voce fioca giunge tanto alto, — e Dio non si curva per ascoltarla. I gradini di Santa Croce furono i guanciali che lo raccolsero infante, il cielo di gennaio gli fece una copertura di neve, i cani ululando per la notte salutarono la sua nascita. Ahi, povero Pieruccio! La natura mi benedisse sul capo col pugno chiuso, onde la mia mente rimase ottenebrata, quasi un giorno d'inverno breve e nebbioso. — E la sua vita? Oh la curiosa vita che mena Pieruccio! — udite e ridete: — perchè egli non ha cervello, gli uomini assicurano non appartenere alla specie umana, e percotendolo lo cacciano fuori delle loro adunanze; — i cani per via gli si avventano e il mordono, nè lo vogliono tra loro; perchè non ha quattro gambe... O Dio, concedimi mente serena e mutami anco in verme, se vuoi; — io meno la vita di Cristo flagellato alla colonna; — cotesta e' fu una dolente giornata anco per lui — seimila seicento sessantasei battiture! Io non pertanto vinco Cristo in percosse... Adoratemi, io sono il re del dolore...»

... fu trovato seduto davanti la tavola, — tenendo con le mani a guisa di tanaglia grancito il cranio del figliuolo; — vollero allontanarlo da cotesto spettacolo;... Cap. XVI, pag. 401.

E così continuava fino all'alba, se Ludovico non lo interrompeva domandando:

«Ma come qui a quest'ora, Pieruccio?»

E Pieruccio, stringendosi con ambe le mani la testa, quasi per adunare i pensieri vaganti, rispose:

«Se la mente senza mia colpa mi si è guasta, il mio cuore arde di carità per la patria: — io non ho padre che mi abbia baciato, ma amo l'Arno che dissetò la mia gola inaridita; — io non ho madre la quale mi abbia allattato, ma sopratutto mi è caro il campanile di Giotto, che mi riparò con la sua ombra nei giorni di estate. Fiorenza, tu sei la madre mia: — potessi salvarti col mio sangue, non mi parrebbe essere uscito in questo mondo invano! Un tuo figlio snaturato si muove ai tuoi danni, e le genti lo venerano vicario di Dio su questa terra: — io ti disseterei col mio sangue, e la gente mi chiama pazzo!... non importa; — potessi almeno salvarti!»

E qui taciutosi alquanto, si volge improvviso ai due amanti favellando con incredibile velocità:

«Non ve lo dissi un'altra volta? — amatevi, affrettatevi ad amare; — che significhi essere amato non so, ma il mio cuore mi rivelò essere l'amore di donna dolcezza di paradiso; — vuotate di un sorso la coppa, — inebbriatevi — e morite, perchè in verità i giorni ci sovrastano nei quali le donne diranno: Beate le sterili, beate le mammelle che non hanno allattato; — e le genti imprecheranno ai monti: — Cadeteci addosso; — e ai colli: Copriteci[235]. — Il tradimento c'inviluppa nelle sue spire, come il serpente dell'Apocalisse.»

«Tradimento! in nome di Dio, di quali traditori favellate, Pieruccio?»

«Dei traditori ch'io conosco, e qui verranno quando la campana dei Priori avrà battuto mezza notte: io gli ho ascoltati, essi favellano del papa, del Malatesta e dei maggiori cittadini di Fiorenza; convenuti ormai nel tradimento, e' pare che non si accordino sul prezzo e sul modo. Giudei che contendono per la veste di Cristo prima di metterlo a morte; veggo i sembianti, — intendo le parole, — e non so come punirli: se mostro la mia faccia al popolo, m'inseguirà co' sassi: se mi presento alla Signoria, ella, come pietosa, mi farà chiudere nell'ospedale, ed io chiuso mi sento a morire, la poca luce del mio intelletto si spegne quando manco di aria e di libertà; — solo non valgo, ch'essi sono troppi e certamente troppo bene armati; — avrei potuto tamburarli, — ed invero, quando la notte si fece nera, studiati i passi, ogni lume schivando, io mi condussi spesse volte in Santa Fiore con la cedola dell'accusa, — ma giunto alla colonna, mi venne meno il cuore.... Io non so accusare di nascosto; — mi parrebbe di restare confuso con quei tristi che uniscono all'accusa la mezza moneta per guadagnare il quarto della multa. — Io mi pasco d'erba, e non mi sembra amara; ma il pane comperato con quel prezzo mi saprebbe di sangue. — Così vedo annegare la madre mia e non posso soccorrerla; se alcuno mi avvisassi di chiamare in aiuto, mi darebbe di una mano sul volto dicendo: — Pazzo, tu sogni. — Oh! venite e vedete se fu dolore uguale al dolor mio.... La patria annega, — già sparisce, — è sparita, sola una mano tende fuori delle acque, — il vortice la travolge, — e tutto è finito.»

«Per amore di Dio, favellate, Pieruccio! Non mi celate nulla: — amo la patria anch'io, — e per salvarla darei la vita.»

«Tu un giorno mi medicasti la testa; ora mi sani il cuore: — io voglio abbracciarti; — non mi sprezzare, — non percotere, veh! il povero Pieruccio, — bada a non mi avvilire, e la mia mente si farà serena e t'insegnerà il modo di svegliare la patria su l'orlo dell'abisso. Or dunque sappi avere Malatesta Baglioni imbandito una mensa e chiamato a convito i maggiorenti della terra; sai tu di che sono composte le vivande che pose loro davanti? Delle membra della nostra patria. — Affrettati, va; colà troverai un amico del tuo defunto genitore, Dante da Castiglione: — quivi incontrerai ancora Ludovico Martelli: — di' loro che qui vengano teco, e qui verranno; se possono condurre compagnia, sarà meglio, altrimenti vengano soli, ma non dimentichino l'arme: — va, — vola.»

«Ma se venissero», soggiunse Ludovico esitando, «e non trovassero i congiurati..., non penserebbero che io mi fossi fatto beffe di loro?» Pieruccio la dubbiezza del giovane considerando e vedendo quanto poca fiducia le sue parole inspirassero, sentì assalirsi da insopportabile fastidio per la vita; onde volgendo i passi vicino ad un albero, mormorò: «Io valgo meno di un cane morto»; e sollevati gli sguardi aggiunse: «Albero, albero, prestami un ramo, io ti darò un frutto... che tu non portasti fin ora... un tristo frutto in verità... un'anima disperata dentro un corpo disfatto....»

«Consolatevi... io vado...»

«Va dunque, — ma prima ascolta queste mie brevi parole. Sai tu bene che voglia dir pazzo e che dir savio? Se pazzo è quegli che sul pericolo, addormentandosi, confida a mano ignota la spada che può ferirlo, le chiavi della città allo straniero..., già non sono io il pazzo. — Tu ti pensavi savio dubitando delle mie parole e ricusando l'andare; eppure fa il tuo conto: andando, forse getterai i passi e avviserai la gente di un pericolo vano: e per altra parte forse tu scoprirai un tradimento, la patria pericolante sosterrai, a mille cittadini la roba salverai e la vita. Or, se tu fossi savio, ti par egli che tra queste due vicende si possa tentennare, tra la permanenza e l'andata? Prima di credere pazzo il tuo fratello, pensaci due volte, e sappi che sovente i consigli di coloro che il mondo reputa savi appaiono miserabili all'alienato di mente: — adesso vola.»

E Ludovico senz'altre parole aggiungere si poneva tra le gambe la via. Intanto il cielo aveva mutato aspetto, — l'aria si era fatta uliginosa, e d'ora in ora l'agitava un vento soffocante come l'alito del deserto; via trasvolando pel cammino abbandonato, Ludovico udiva sibili spaventevoli, gemiti arcani d'ignoti addolorati. All'improvviso quel vento con subita vicenda percuote le orecchie a Ludovico di suoni e di canti; e quella vicenda, oltre all'essere súbita, riusciva ancora incresciosa, imperciocchè quel vento non sembrasse destinato a trasportare profumi e melodie, sibbene guaio di gente diserta. In fondo del sentiero ecco si mostra un palazzo di cui i contorni confondendosi col buio della notte, sembrava infinito; — dalle aperte finestre scaturiva un chiarore vermiglio, — come di sangue, — uguale a quello della mano posta dinnanzi alla fiammella del cero; — traverso a quel chiarore passavano e ripassavano rapidissimi corpi neri, di forma fantastica, sicchè la mente superstiziosa lo avrebbe creduto una dimora infernale, un pandemonio, un luogo di ritrovo dove le incantatrici si fossero adunate a celebrare il sabbato nefando.

Ludovico entra nel palazzo, e mescolatosi con la turba dei servi, gli riesce penetrare inatteso nella sala del convito.

L'animale che in prato pascola o in bosco non ti percuote mai di ribrezzo, come la mandra degli uomini seduta intorno alla mensa, dove, spento il naturale desiderio di cibo e di bevanda, attende a divorare per istupidirsi, a bevere per inebbriarsi. La più parte dei commensali di Malatesta erano ridotti in questo miserabile stato, — con gli occhi rilucenti e smarriti; dipinti in volto di un colore che sembra composto d'ira, di feccia di vino e di sangue; — i muscoli tumidi e avviluppati per entro un vapore denso uscito dai cibi, dall'alitare, dal trasudare dei corpi e dalla polvere, — l'aureola del baccanale; — e secondo quello che bene osserva uno scrittore, alla fisionomia degli inebbriati col perdere della ragione venendo meno la somiglianza umana, ti sarebbe parso vedere un convito di fiere. Chi moveva al vicino una domanda e, senza attendere risposta, tre o quattro ne replicava; chi senza essere interrogato rispondeva; — alcuno, immaginando favellare alla brigata che lo ascoltasse, narrava i suoi viaggi, gli amori e le avventure a cui niuno poneva mente; — l'altro, mugghiando con un bicchiere nel pugno, Messeri, gridava, messeri! — e subito dopo barcollando cadeva, e il vino rovesciandosegli per la faccia e pel seno, singhiozzando aggiungeva: Ahi sono morto! mi hanno assassinato! — e tutti dintorno esclamavano tra scomposti sghignazzamenti: Lo hanno assassinato!

Fu veduto uno dei Corsini, reso per troppo bere come di pietra, di repente prorompere, percuotere col pugno un vaso di cristallo, mandarlo in minutissime scheggie, ferirsi in più parti la mano, e con quanta lena gli poteva la gola si pose a gridare: «Viva Fiorenza! — viva la Repubblica, o morte!» Poi la destra accostandosi alla fronte, parve che in cotesto sforzo avesse sudato sangue.

Nel tumulto mosso da quel grido uno degli Orlandini, scoprendo l'animo suo con tanto studio fino a quel punto celato, rispondeva:

«Non importa alternare la scelta tra repubblica e morte; avremo ambedue: almeno co' Medici non ci mancava pane.»

«E i traffici andavamo meglio. — Nè i balzelli erano tanti. — E poichè abbiamo creato un re, potremmo ancora accomodarci di un duca...»

«Chi re?»

«Cristo abbiamo eletto re.»

«Con venti fave contro. A patto che i Medici vadano subito in paradiso, io darò la fava bianca per farle principi.»

Il Corsini, — quel desso del pugno percosso sul cristallo, — levandosi in piedi col volto insanguinato, — le membra gigantesche componendo in atto di lanciare una pietra nell'alto:

«Io non vo' principi; ho dato contro Cristo la fava nera nel 29, e non vo' principi. Sapete voi Cristo che è? — Cristo è un proverbio.»

Comunque da tempi remotissimi tra gli acuti cervelli fiorentini non mancassero speculatori arditi di contemplare il mondo vedovo di Dio, siccome ci racconta il Boccaccio, descrivendoci Guido Cavalcanti poeta sorpreso da Betto Brunelleschi tra gli avelli di Santa Croce a meditare che Dio non fusse, pur tante profonde radici aveva poste nel comune degli uomini la fede che valse cotesto grido a vincere la potenza dei liquori, sospendere il trambusto e far sì che il vicino, si appigliando pauroso al braccio del vicino, susurrasse devotamente: Domine, aiutaci!

Indi a poco però le menti insanirono in ischiamazzi a mille doppi maggiori, e tra quel vortice di gridi e di risa più spesse ricorrevano le voci: «Domine, aiutaci! — Fave nere, — fave bianche, — Cristo, — proverbio. — Vino, vino, coppiero.»

In questo punto Ludovico si affacciò sul limitare della porta; e dato uno sguardo di compassione a cotesto spettacolo, fissò gli occhi in Malatesta Baglioni seduto a capo della tavola: impassibile, — bianco, rassomigliava alla statua del commendatore Loiola convitato da Don Giovanni al suo ultimo festino; — la sua fronte pallida ed ampia rivelava un gran pensiero, — e poteva concepirlo grande di gloria, — ma invece lo scelse grande d'infamia; — pure era grande; — le pupille moveva del continuo inquiete da questo lato e da quello, parte per sospetto, parte come cupido di prevedere ogni cosa: malgrado la barba la quale foltissima gli scendeva dal mento, due rughe profonde agli angoli dei labbri lo denotavano uomo inclinato al dileggio e allo scherno del proprio simile, ed invero ora esultava contemplando cotesta scena di vituperevole avvilimento, la quale, giustificandolo quasi dinanzi alla propria coscienza, nella risoluzione di venderli a guisa di mandra lo confermava; — la voce interna dell'anima, mercè la prova espressa che libertà non potesse durare tra quei corrotti, placava; nè il concetto disprezzo potendo o volendo nascondere, intendeva a manifestamente straziarli, facendo imbandire vivande apparecchiate con carni di asino[236].

Ma tra tanti commensali non senza rammarico notava ai lati estremi della tavola due giovani seduti l'uno dirimpetto all'altro con le tazze mezzo vuote davanti, tristi e pensosi; il volto tenevano dimesso, accesi dalla vergogna, non dal vino, e quando uno di loro alzava gli occhi, quelli dell'altro, come se sentissero la chiamata, gli rispondevano con uno sguardo, poi insieme uniti li posavano su gli occhi del Malatesta, che sempre incontravano vigilanti sopra di loro.

In questo mentre, lo stravizzo, spossato dei suoi furori, tornava ad acquetarsi; una scolta fu intesa accennare l'ora imminente col grido: All'erta sto! — a cui, digradanti lontano, pel buio altre voci rispondono: All'erta sto!

Pareva un'ora caduta dalla mano del tempo, come pietra staccata, di vetta al monte, di roccia trabalzando in roccia, rotolasse nella voragine della eternità..

E cessati i gridi, la campana dei Signori suonò mezza notte.

«È l'ora dell'amante che avvolto nel mantello striscia lungo i muri a visitare la bella che lo aspetta palpitante alla finestra.»

«È l'ora delle ombre degli uccisi a ghiado che scoperchiano gli avelli per tormentare i loro assassini.»,

«È l'ora dei tradimenti!» esclamò uno dei giovani seduti ai lati estremi della mensa, ch'era Dante da Castiglione, e ricambiato uno sguardo con Ludovico Martelli, entrambi di conserva lo avventarono contro Malatesta, come saette scoccate.

E Malatesta, mal potendo sostenere quelle tremende guardature, per celare il suo sgomento, afferrò un'ampia tazza che gli stava davanti e, propinando alla libertà di Firenze, finse di bere e si celò la faccia.

Vico, côlto il destro, percuote la spalla di Dante e gli mormora all'orecchio:

«Levatevi tosto, che il tradimento si avvicina!»

Dante fece un segno a Ludovico Martelli, e in meno che non si dice amen furono fuori della sala.

Quando Malatesta si levò la tazza del volto, erano spariti; — si fregò gli occhi, quasi temesse d'illusione, ma non più li rivide, e la sua anima amaramente incupiva, non sapendo spiegare cotesta miracolosa disparizione.

«Dove sono eglino questi figli di malvage madri? Fo voto a Dio...», entrando nel giardino e la mano ponendo sull'elsa della spada, gridava Dante da Castiglione.

«Silenzio!» forte afferrandolo pel braccio gl'impone con voce sinistra Pieruccio; «la volpe non giunse al covo; — silenzio! chè lo schiamazzo disperde i colombi. Savio, apprendi prudenza dal folle e taci. Ora imitatemi tutti», egli proseguiva mettendosi a camminare carponi, «giù a terra, con le mani camminate o co' piedi; — passate su le foglie e non le piegate; strisciate su i fiori — e badate a non li muovere..., le vostre narici non sentano l'alito della vostra bocca..., cauti procedete come la vipera e veloci.»

I cavalieri, disdegnando cotesta umile positura, esitavano.

«Ah! ah!» ridendo prorompe Pieruccio, «imitare col corpo una sola volta le bestie aborrite, — e per bene, — voi che così sovente le imitate coll'animo per male. Tanto spaventa di alcun poco imbrattare le mani voi che tanto strascinate nel fango il vostro spirito immortale?»

«Che cosa abbiamo noi fatto!» esclamarono i cavalieri battendosi la fronte, e si disponevano a partire.

Pieruccio col suo corpo giacente attraversando loro il cammino,

«No, voi non partirete», diceva, «se prima non calpestate queste misere membra. Ah! messeri, per amore di Cristo e dei suoi santi, non ve ne andate: — se vi ho offeso, ve ne domando perdono; — oh! per carità perdonatemi; — io talvolta non so bene quello che mi dica, — ma abbiatemi fede, perchè so molto bene quello ch'io mi faccia; voi lo vedete, tutti i giorni per me si rinnuova l'aceto e il fiele; — l'anima mia rigurgita di amarezza, e mio malgrado ne sgorga una parola acerba... una parola...; o Dio mio, che cosa ella è mai una parola? Io senza lagnarmi sopporto strazii e percosse. Quando mostro la mia squallida faccia, e i fanciulli mi prendono a sassi gridando: «Da' al pazzo, — da' addosso al Pieruccio!» molto agevolmente io potrei a qualcheduno di loro staccare il capo dal collo, e nondimeno mi placo, perchè forse in quel fanciullo pose natura il germe delle imprese onorate e la gloria della patria. La patria! lei vuolsi ad ogni cosa preporre, anche alla salute dell'anima, come lasciò nei suoi ricordi Neri Capponi, — un gran cittadino in verità...»

Il Martelli volgeva le spalle per cercare altro cammino, il Castiglione esitava, e Pieruccio afferrando il lembo della veste del primo,

«Non ve ne andate», aggiungeva, «per quanto amore portate a vostra madre che non vi lasciò su i gradini di Santa Croce in una notte di gennaio. Messer Dante, ditegli che non se ne vada. Messer Ludovico, io vi conosco caritatevole e benigno; — ora ponete pur ch'io sia pazzo, — pensate pure essere questa mia voglia follia, — ma la follia è infermità, e se per mitigare un dolore pochi passi vi bastano, — che cosa potete far di meno per un vostro fratello? — Ricuserete rendermi contento? — Finalmente anch'io fui battezzato in San Giovanni, — anch'io ho una vita che spendo in pro della patria, anch'io...»

«Basta, basta», interrompe Ludovico Martelli intenerito, «va' innanzi, povero Pieruccio, io ti tengo dietro.»

«Ah! Dio vi benedica...»

Pur troppo Pieruccio aveva scoperto il vero: tre uomini stavano in agguato, e sovente con empie imprecazioni dimostravano la impazienza loro, come quelli che avevano lungamente aspettato invano.

Alla fine comparve un punto nero dalla lontana, il quale andava ingrandendosi a mano a mano che si accostava.

Pervenuto a convenevole distanza, uno di coloro che aspettavano gli messe contro la voce dicendo:

« Come ti chiami?»

« Mi chiamo Odio; — e tu

«Vendetta.»

« Vieni dunque, — sposiamoci; ci sono amiche le tenebre, e gli spettri assisteranno ai nostri sponsali. »

« Quale è il dono delle nozze che mi dai? »

« Io ti darò un pugnale. »

« Il tuo pugnale è corto. »

« Basta per giungere al cuore dei nostri nemici. »

Allora si accostarono, si strinsero le mani e stavano per cominciare il colloquio, quando, non si potendo più frenare, il Castiglione proruppe:

«Ahi! traditori, siete tutti morti.» E, balzato di un salto fuori della siepe, prese a minacciare i traditori col ferro.

Vico, Pieruccio e il Martelli lo seguono cacciando urli spaventevoli.

CAPITOLO DECIMONONO LA SFIDA

Mi dorria, se di morte altra perisse

Che di ferro — e del mio. —

Ricciarda, tragedia.

I congiurati, dalla sùbita apparizione soprafatti, dai forti gridi atterriti, mal potendo distinguere quanta gente e quale venisse loro addosso, si volsero a fuga precipitosa.

Il Martelli coll'ardore del veltro si pose alla ventura dietro le tracce di uno fra loro; — passarono il borgo di Santo Iacopo; con uguale prestezza la piazza di Santo Spirito traversarono, il canto alla Cuculia e le vie contigue della Fogna, del Leone e dell'Orto; — non profferirono parola, imperciocchè la rapidità del corso loro impedisse la voce; erano entrambi gagliardi, entrambi di piè velocissimo, sicchè l'uno poneva l'orma dove l'altro la lasciava, e spesso il fuggitivo sentì rimanersi svelti i capelli tra le dita dell'inseguente e dall'alito infiammato di lui avvamparsi le guance; — continuano la fuga e la cacciata per Camaldoli, per Borgo San Frediano, lungo le mura, e riescono al Ponte alla Carraia. — Qui lo inseguito avendo il buon tratto precorso il suo persecutore, si fermò e, quasi vergognando essersi lasciato vincere dalla paura, gitta via la veste di frate che lo impaccia, e, tratta la daga, si pone a capo del ponte in atto di difesa.

Quantunque il Martelli non avesse gridato accorruomo, pure, correndo vicino alla Porta San Friano, le milizie quivi stanziate udirono il rumore, ed alcuno di loro, mosso da vaghezza o da comando, si pose per buon rispetto a seguitarlo. Egli però travolto da quell'impeto non se n'era accorto, e comecchè al paragone dell'inseguito gli fosse mancata la lena, nondimeno precorreva di assai coloro che gli si erano fatti compagni.

Il fuggitivo, se lo vedendo accostare, stette in forse di ucciderlo e poi riprendere il corso; ma considerando come l'inseguente si avvicinasse egli pure con la spada nuda, nè dalle sembianze apparisse uomo da spacciarsi così ad un tratto, temè perder tempo a chiudersi ogni strada allo scampo, onde è che, di nuovo voltate le spalle, passasse il Ponte della Carraia.

Il Martelli, confortato dal pensiero di vederselo più vicino, immaginando costui avesse fatto sosta a riprender lena e baldanzoso per riputarsi sul punto di arrestarlo, raddoppia lo sforzo, sicchè in quella fuga rovinosa, percorrendo nel buio della notte uno spazio sospeso tra le acque e il cielo, non muovendo altro rumore che quello dei passi velocissimi, si assomigliavano alla visione della donna scapigliata inseguita dallo spirito del cavaliere Giuffredi intorno alla fossa dei carboni ardenti, esposta dal dottore Elinando di santa memoria, a conforto dei buoni e per terrore dei tristi[237].

Così trasvolando pervennero in via di Parione; — colà sul canto che mena alla Vigna Nuova stette una casa onorata di cui adesso non rimangono vestigi.

Sebbene alta fosse la notte, una finestra di cotesta casa appariva illuminata da luce solitaria, — quale si addice alla veglia di un filosofo o alla insonnia di un penitente. A quel punto si dirige il fuggitivo; e giuntogli dappresso, manda un fischio acutissimo. Allora fu veduta balenare la luce, come fiamma che si accenda nelle notti di estate, e sembra stella che tramuti luogo. Il fuggitivo scomparve voltando il canto, e Ludovico, di cui all'anelito sofferto per la fatica si aggiunse un palpito più veemente del primo, giunto a capo della via, si volse bramoso e non vide nè udì più nulla: — il fuggitivo era scomparso. Allora Ludovico pensando alla veste di frate, al luogo, ad una certa rimembranza confusa delle forme del fuggitivo, al lume mosso, — un lampo sinistro d'intelligenza gli strisciò sull'anima, sentì riardergli un'ira feroce le viscere. Intanto sopraggiungono i soldati, e Ludovico, narrando come gli fosse sfuggito un traditore tramezzo cotesto laberinto di vie, li sperde dietro le tracce di quello e torna prestamente sopra i suoi passi.

«A questa ora tu qui?»

«Salvami; — i miei nemici m'inseguono; — nascondimi, Maria», proferì a stento Giovanni Bandini saltando dietro la porticciuola segreta che gli aveva aperta Maria Benintendi tutta tremante; e richiusala con molto diligenza salirono la scala, la quale conduceva all'oratorio privato descritto nel corso della nostra storia. Tosto che vi furono giunti, il Bandino, volgendo intorno a sè gli occhi esterrefatti, domandò:

«Dove mi salvo?»

«Nelle mie braccia.»

«Le tue braccia!» rispose Giovanni impazientito. «Ma sai tu chi m'insegue? Le tue braccia cadrebbero tagliate come arbusti sotto il pennato del potatore; — nascondimi nei luoghi più riposti della casa, se non vuoi che il vento mattutino agiti domani il mio corpo sospeso per la gola alle finestre del bargello.»

E trattanto s'intende rumore di chi va e di chi viene, uno schiamazzo confuso di voci sempre crescenti; onde Maria, bianca di paura, senza potere articolare parola, lo tolse per mano e lo condusse dietro l'altare. Il Bandino, lasciandosi condurre, mormorava:

«Grave delitto deve essere tradire la patria, dacchè mi sconvolge l'anima tanta insolita paura!...» Il rumore a mano a mano si allontana; s'illanguidiscono le voci; già non si ode più nulla. — Allora Maria, di cui la vita fino a quel punto era rimasta sospesa o piuttosto trasfusa nella facoltà dell'udito, tornò alla volta del Bandini e disse:

«Esci, — è passato il pericolo; — però tu non hai capello senza una stilla di angoscia; — le tue labbra sono inaridite, — le fauci secche; — vieni, — bevi, — rinfrescati il sangue. — Ora riposati, — calma l'anelito tremendo: — il cuore ti palpita, come se stesse per iscoppiare; — posa il tuo capo qui su questo origliere; — dormi, se puoi, — io veglierò per te....»

E Giovanni Bandini, rifinito dalla fatica e dalle veementi sensazioni, si abbandonò sopra un lettuccio, come voglioso di dormire.

Maria, sedutagli al fianco con le mani incrociate su le ginocchia, lo contemplava. Oh! quel volto compariva veramente terribile. Il sopracciglio sempre teso, le labbra fisse in un sorriso amaro, e quella fronte pareva un cielo tempestoso dove si avvolgono le nuvole pregne dell'ira di Dio. La fiamma tremolante della lampada ora illumina, ora lascia nel buio quella testa dolorosa, sicchè i muscoli sembravano agitarsi convulsi nelle contorsioni dell'uomo martoriato dalla tortura; — e poi suo malgrado un'ansia cavernosa gli prorompeva dalle viscere, come se il cuore non bastasse a contenere la piena dell'affanno.

Maria lo contemplava e mormorava tra sè:

«I suoi nemici! — E chi sono eglino i suoi nemici? Se i miei parenti..., già da gran tempo i loro teschi gli han fatto cammino alle piante. — Se i tuoi cittadini ti odiano, tu avrai offeso la patria. E come l'hai tu offesa? — Due volte mi favellò di patibolo — e di carnefice, — e perchè? — il patibolo è fatto pei traditori.»

«Che stai susurrando costà? — Taci», la interrompe Giovanni con voce di sdegno.

«O mio signore! — io favellava di te... pensava a cotesti tuoi nemici....»

«Com'entri tu co' miei nemici? — Taci e lasciami riposare.»

«Ma qui dentro per certo vi ha da essere errore: da tanto tempo straniero alla tua terra, — sconosciuto da tutti, venuto sotto spoglie mentite — per avventura — ti sospetterebbero — traditore?»

«Traditore! — Chi mi ha detto traditore? Ei se ne mente.»

«Plácati, — nessuno t'incolpa, nè tu sei traditore. Un figlio non può calpestare la madre, — la mano che lo benedisse recidere — il petto che lo allattava lacerare. Io lessi un giorno di un re pagano il quale non decretò pena al parricidio, lo riputando impossibile, — e così credo ancor io. No, — tu non sei traditore. Però io fin qui non ti domandava donde venisti e dove vai. Perchè giungi sempre di notte e temi la luce del giorno? Perchè mi comparisci davanti talvolta vestito da francescano, tal altra da domenicano, ora vestito da cavaliere, ora da contadino? — Dimmi...»

«Sono io venuto forse a novellare teco stanotte? Che t'importa chi io sia, donde venga o dove vada? Io ti amo, — che cosa desideri di più? — Questo potrebbe bastarti. — Dove io ti apparissi davanti capitano di eserciti, ricco di ogni bene della fortuna, tu la mia gloria ameresti e la mia fortuna, non me Giovanni Bandini: se invece ti portassi una testa posta a prezzo... non era donna Dalila che tradì il forte di Giuda? — Ecco io ti porto davanti Giovanni Bandini solo; — amalo o aborrilo, se meglio ti piace, ma per cosa che sia in lui, non fuori di lui.»

«Se la gloria non è la testa, è l'aureola che la circonda; — se la infamia non è la testa, è la scure che la percuote: — io ti amai perchè ti seppi magnanimo; — dove adesso ti conoscessi colpevole, il mio cuore non cesserebbe di amarti, — ma vedi, si spezzerebbe contristato all'insopportabile affanno.»

«Donna!» esclamò fieramente turbato il Bandino, «e chi sei tu che ardisci dalla polvere, ove ti ponesti a giacere, sollevarti a giudicare il tuo giudice? — Amami e taci; — e rendi grazie al tuo Dio, ch'io Bandini, mi degni abbassare uno sguardo sopra di te, pugno di cenere contaminata...

Un colpo percosso alla porticella dell'oratorio impose fine alle sconce parole; e il Bandino, comecchè di animo vigorosissimo si fosse, non potendo vincere lo strano terrore che gli si era cacciato addosso, si lasciò cadere giù dal lettuccio componendo la persona in atto di fuga.

«Ah! il mio giudice fugge», prorompe irridendo Maria; e in quel punto un ghiaccio di rettile le strisciò sul seno. «Giovanni, io non ho tremato di paura, — qualche volta di compassione, — e per te. Va', — va', — nasconditi, ma pensa che dove occhio umano non giunge molto bene vi penetra l'occhio di Dio!»

Intanto nuovi colpi e di mano in mano più forti tempestavano alla porticella; sicchè la Maria, timorosa non destassero il vicinato, fattosi cuore, si reca in mano la lampada e scende:

«Ch'è questo, messeri?»

«Aprite in nome della Signoria.»

«Messeri, io sono gentildonna e sola in casa; questa magione appartiene a Niccolò Benintendi, che stanotte è dei Buonuomini al palazzo; — però avete tolto sbaglio, è lasciatemi in pace.»

«Se sola vi trovate o accompagnata, poco c'importa. Noi non iscambiamo dimora; — aprite di queto od atterriamo la porta.»

Maria per lo men reo consiglio, paventando peggio, aperse l'uscio.

Ludovico Martelli non aveva ad arte alterato la voce; in breve spazio anima e corpo gli aveva così stravolto la sua fiera fortuna ch'egli stesso, non che altri, non sarebbe giunto a riconoscersi per quello che fu; — gli occhi a mezzo chiusi e invetriati, come quelli dell'etico; — i muscoli del volto rigidamente immobili, — la bocca aperta, — i labbri cadenti, e d'ora in ora un anelito impetuoso gli prorompeva dalle narici dilatate; spaventevole a vedersi come la testa mozza che il carnefice afferra pei capelli e mostra in testimonio di ferocia ai popoli stupiditi.

E di vero Maria ne rimase spaventata: — col capo inclinato verso la spalla, pallida, — quasi vinta dal fascino, si pose a salire la scala. Il Martelli poneva il piede dove ella moveva il suo.

Pervenuti a mezzo della domestica cappella, si fermarono, — l'uno di faccia all'altra, — nè si guardavano nè movevano labbro....

Finalmente Ludovico, continuando nella sua immobilità, con voce che gli usciva dai precordii incominciò a favellare.

Così da un idolo di pietra gli antichi sacerdoti merce loro arti traevano oracoli vocali:

«Donna, io ti amai, e la memoria del passato affetto tanto può in me ch'io voglio salvarti dal vituperio. A Dio non piaccia che per Ludovico Martelli si debba vedere sozza di fango quella fronte dov'egli avrebbe deposto con un un bacio — la vita. — Donna! tu hai scherzato coll'anima mia; — per diletto delle tue ore di fastidio tu prendesti il mio cuore e me lo hai infranto... infranto per sempre... io ti perdono. Se il pentimento ti giovasse, — io mi aprirei il seno, e tale ti offrirei spettacolo di disperazione che ti farebbe piangere come san Pietro; e quando, come a san Pietro, le lacrime ti avessero scavato il solco sopra le guance, tu non crederesti di aver pianto abbastanza. Ma io qui non venni per me..., qualunque sentiero che non conduca al sepolcro non è più mio; — io vengo per la mia... per la tua patria, Maria. Oh! se quando, nudrita che hai del tuo latte la cara figliuoletta, ti assopisci al capezzale di lei e rimembri nei sogni il gentile sorriso — e la carezza — e il bacio, all'improvviso desta tu la vedessi lacerarti il seno e inebbriarsi del tuo sangue... tu inorridiresti, non è vero, Maria? Ebbene, questa figlia snaturata sei tu; la tua casa è fatta asilo dei traditori, — il viver casto velo al parricidio. — la religione pretesto all'empietà... Io non dico più nulla. — Svelami traditore che hai riparato qua dentro....»

«Traditore?» esclama Maria dimostrando col gesto altissimo sdegno, «dov'è il traditore?»

«Non te l'ho detto? — Qui.»

«Io non conosco traditori....»

«Donna, — che, piena dentro di putredine, tu ti mostrassi di fuori parete scialbata, bene sta: — ella è questa la vostra parte, femmine! — ma che in breve spazio tu abbi perduto il rimorso e il pudore, ciò, per Dio, mi spaventa. Qual è il verme velenoso che così subito guastò il bell'albero della tua vita? A me non basta il cuore per contemplare l'abisso della tua anima; — donna, mi fai paura. — Or dove ti nascondi codardo dal fiato velenoso? Esci fuori... indarno speri fuggirmi... io ti seguirò fin dentro l'inferno....»

Nessuno risponde. — Dopo lungo silenzio Ludovico continua:

«O patria mia! uomini che non ardiscono mostrare la fronte t'insidiano nell'ombra; quando la notte è più buia essi aguzzano il pugnale e ti aspettano al varco, come il ladrone sulla pubblica via!»

E di nuovo si tacque, poi con gran voce riprese:

«Esci, codardo, — esci.»

Così favellando si aggirava per la stanza, quando all'improvviso levando la faccia vide un cavaliere di truce sembianza appoggiato su l'elsa della spada in atto di quiete minacciosa: egli allora, gli si avventando addosso, interrogò:

«Tu sei un traditore!...»

«Io sono Giovanni Bandini, — e sgombrami il passo.»

«Tu di qui non uscirai, se non che morto.»

«Figlio di madre infelice tu sei, se più oltre ti ostini a impedirmi il cammino; — ritirati, — tu ne hai tempo ancora; — io non voglio vederti; — sappi che di rado ho replicati i miei colpi; — vattene... e vivi.»

«Anzi io rimango, — e muori; — domani il carnefice ti scriverà l'epitafio su la cima della forca.»

«Tu l'hai voluto... il tuo sangue ricada sopra la tua testa.»

Ed incrociano le spade.

«Cittadini, con pubblico bando ordinaste le femmine di rea vita fossero cacciate dalla città....» Cap. XVII, pag. 414.

Scarmigliata, palpitante, cieca di dolore, la troppa angosciosa Maria precipita genuflessa fra mezzo quei due furibondi, e li tenendo, quanto ella ha lunghe le braccia, discosti,

«Se d'ora in poi», ella grida, «volete fare insanabili le ferite, tingete i vostri ferri nel mio sangue, — egli è sangue esecrato, sangue di abbominazione e di orrore. — Te, Giovanni, adorai quanto Dio, — e forse, ahi misera! sopra Dio; — la vita io ti dava e la fama, e tu adesso calpesti il mio cuore come un rettile velenoso: — te, Ludovico, amai di castissimo amore, — per amico ti venerai e per fratello, — ed ecco quanto l'avvilimento comprende di più atroce raccogli e infocato d'ira me lo scagli sopra la fronte. Ah! voi siete due furie rabbiosamente convenute a disperarmi. — Ohimè misera! Ogni piede che passa mi calpesta, — ogni bocca mi dice villania.... In che cosa ha mai misfatto la infelice Maria? Maledetta l'ora, maledetto sia il giorno in che nacqui; — possa cadere dai secoli, — dimenticare il sole di averlo illuminato; — io soccombo, ma, dall'abisso dove giaccio, innalzo una voce di accusa contro il mio Creatore e gli dico: Tu non sei giusto! — Fermatevi, v'impongo... io sono innocente; — nessuna colpa è in me, tranne avere amato troppo ambidue voi, quantunque di amore diverso. La fortuna volle travagliarmi con tutti i dolori, e dopo avermi fatto piangere per morto costui, ora lo ha tolto dal sepolcro per convertirlo in flagello alla mia anima desolata; — fatemi pagare senza misura amaro questo affetto per voi, — schiudete i balconi, via, — chiamate la gente a contemplare la mia vergogna, e poichè a cagione di voi trassi giorni pieni di lutto, non mi lasciate tranquilla nè anche l'ultima ora della mia vita. La figlia mia fatta adulta, quando cercherà dell'avello di sua madre, le risponderanno: Non lo sappiamo; — e quando ella stessa diventata madre udrà favellare di me, declinerà lo sguardo, — si farà in volto vermiglia — e maledirà una madre la quale non seppe altro retaggio lasciarle tranne quello del rossore: — io mi aspetto questo da voi; — continuate, iniqui.»

E togliendo forze dal tremendo suo stato, si rilevò maestosa, con ambe le mani si asciugò le lacrime, si compose i capelli rabbuffati e stette con occhi aridi fitti nel pavimento a modo di Niobe.

«Che importa a me la tua figlia? — Nata dallo spergiuro, io la condanno dopo una vita di delitto ad una morte d'infamia. — E tu a che pensi, giovane? — Se pensi al tuo fine immaturo, alla fatalità che ti spinge sotto il mio ferro, — ritirati: — il leone non inferocisce contro il cerbiatto: levamiti davanti, io sento pietà di tua madre....»

«Mia madre! Ella mi aspetta nell'avello, e a me tarda raggiungerla. Io penso che, infelice o colpevole, a me non si addica aggravarmi su questa donna; penso che se tu sei gentiluomo, abborrirai contristare la tua donna; — se invece uomo misleale e villano, a me cavaliere corre l'obbligo d'impedirti; — penso che non so bene distinguere, se lei più misera, o te scellerato; — finalmente io penso la giusta punizione della tua colpa doverti giugnere a giorno chiaro, in campo aperto, alla presenza degli uomini, onde apprendano giustizia le genti e conoscano che al traditore sovrasta immutabile una morte di ferro o di laccio. — Esci dunque e vieni meco; — il mio odio ti salverà meglio della tenerezza di una madre, — però che alla mia vita null'altro fine rimanga, tranne quello di spegnere la tua.»

Il Bandino senza contrarre un muscolo del volto, cacciò curiosamente il suo dentro lo sguardo del Martelli, e dopo lungo alternare tra il sì e il no, con, profondo esame ponderate le diverse vicende alle quali stava per esporsi, concluse dicendo:

«Andiamo.»

E nulla curando la donna, che stupida per la violenza delle sensazioni si giace abbandonata sopra il lettuccio, si precipita giù per la scala.

Ludovico Martelli, scorgendosi solo, si accosta alla Maria, le rimuove i capelli dalla fronte, uno istante si ferma a contemplarla; — una lacrima, suo malgrado, gli scende sopra la guancia, e forte gemendo egli esclama:

«Povera Maria!»

Poi si pentì della sua compassione, — la condannò; — si sarebbe, se lo avesse potuto, morso il cuore; — tempestando raggiunge il Bandino.

Per diversi sentieri avvolgendosi, i luoghi frequentati schivando, arrivano al ponte delle Grazie, — lo passano, — e mentre avacciandosi si accostano al palazzo Serristori, dimora di Malatesta Baglioni, intendono lo strepito di persona che gli segue con passi accelerati; — non vi badano e sempre più rinforzano il camminare; ma lo inseguente lo rinforza anch'esso a sua posta: onde Ludovico per miglior partito si ferma e si volge a vedere chi fosse.

«Tu mi tradisci!» mormorò fra i denti il Bandino stringendo il braccio a Ludovico, — e questi:

«Mi chiamo forse Bandini?»

E poi scorgendo la persona che teneva lor dietro essere un donzello della Signoria, maravigliando incontrarlo in cotesto luogo a quell'ora, deliberò farglisi accosto. Per buona ventura lo riconobbe, come quello che, vivendo suo padre Giovanfrancesco e la madre sua Maria Forinieri, era stato molto famigliare di casa; per lo che prese a domesticamente interrogarlo:

«Che c'è egli, Landuccio?»

«O messer Vico! siete voi?»

«Si, sono, e vado al Monte per pregare il signore Stefano ad essere contento che questo mio cugino, venuto ieri di Romagna, si arruoli alla milizia cittadina.»

«Dio vi benedica, messere Vico, — voi siete un di quei pochi in cui rivive la semenza santa del beato frate Ieronimo; — ma ohimè! la più parte dei nostri, come predicava quella bocca di paradiso, è fradicia di lussuria e d'avarizia. — In questa notte si è veduto quanta abbominazione contenga in sè la Gomorra dell'Arno, come diceva il frate.»

«Di' su, che cosa mai avvenne, Landuccio?

«O che mi fate da Albanese, messere? — E non sapete che per poco il magnifico gonfaloniere non fece suonare a stormo? E non sapete voi essersi scoperta una congiura per la quale domani notte la terra doveva esser messa a fuoco e a sangue? Assicurano il principe Orange entrato in città; aggiungono la parte del Cappone aver fatto alleanza co' Palleschi e tutti d'accordo intendersela con lui...[238]

«Io fremo....»

«Ed io pur fremo, perchè, Vico, vedete, io non ebbi mai nè capo nè tempo a leggere su i libri che studiate voi altri messeri, ma di per me stesso ho trovato, la più brutta ribalderia di quante mai possa l'uomo commettere sta nel tradire la patria; perchè, ho pensato tra me, più o meno tutti ti fanno male nel mondo, o con intenzione, o involontariamente, ma la patria non ti fa altro che bene; non è egli vero? La patria ti dà in prima la vita e l'aria che respiri e la luce che vedi e l'amore del padre e della madre; — quando sei uomo, l'amore della tua donna e l'amore dei figli; quando il tuo dorso si curva, l'amore dei nepoti; — nè morto ti abbandona, e nel suo seno ti apparecchia requie.... Dunque la patria non ti fa mai male, e nessun cristiano presuma salvarsi rendendo male per bene....»

«Di che vi sanno queste parole, Bandini?»

«Di castrone.»

E Landuccio continuava:

«Se un cittadino ha fatto torto, come ci entra la città? Tu lo sfidi al duello, ed egli si prende la tua anima, o tu la sua. Se il tuo avversario troppo potente non accettasse la sfida, — ogni strada ha il suo canto; — spesso la notte buia buia si cala sopra Fiorenza, — e mezzo palmo di ferro al suo corpo, una brava messa alla sua anima, — la partita è saldata. Buona notte, messer Vico, o piuttosto buon giorno, chè a mano a mano deve spuntar l'alba, — io vado per la mia commessione.»

«Senti, Landuccio, e qual commessione è la tua?»

«Ella è cosa da nulla; e' mi fa mestieri portare questi due polizzotti dei signori Dieci ai capitani delle porte di San Miniato e San Nicolò, — che in sostanza comandano non si lasci uscire fino a nuovo ordine anima viva dalla città sotto pena di dieci tratti di corda ed anche maggiore secondo il caso.»

«Dacchè la bisogna stringe, Duccio, dà qua il polizzotto pel capitano di San Miniato, — tu corri a portar l'altro; — tanto per me la è tutta strada.»

«Tenete... su voi si può contare.... Addio, messer Vico.»

«A rivederci, Landuccio;» e, preso il foglio, parla sommesso al Bandino: «Or via affrettati, se vuoi salvarti la vita....»

Alla porta a San Miniato Ludovico, tratto in disparte il capitano, ch'era dei suoi amici, gli dette la parola, e di leggieri ottenne che, levata la saracinesca, lasciasse passare il Bandini, il quale gli fece intendere essere un suo fante che si recava segretamente a certe sue possessioni per cavare danaro colà sotterrato, per impiegarlo in benefizio della città. Ludovico accompagnò dieci passi forse il Bandino fuori della porta; — quivi fermatosi parlò:

«Noi non possiamo fare altro cammino insieme. Rasentate le mura a sinistra, — studiate il passo e sarete salvo. — Domani manderò la sfida e chiederò il campo a messere lo principe... badate di non ricusarla....»

«Tale e così insopportabile obbligo ho teco per avere salvata la mia vita, che in nessun altra maniera potrei sdebitamene, se non che togliendoti la tua. Il mio odio diventò, pel tuo benefizio, immortale. Apparecchiati a morire.... Addio.»

CAPITOLO VENTESIMO IL GUANTO

Il cavaliere era armato fuori che la mano e la testa, e viene avanti al re con la sua spada cinta. Egli saluta il re, anzi gli dice: — Me a te mi manda il più valente uomo che oggi viva, — e monsignore ti sfida.»

Tavola tonda, c. 54.

«Un araldo da Fiorenza domanda favellare al magnifico capitano generale:» così parlò un maggiordomo entrando con grande ossequio nella tenda dove il principe Orange stava ridotto a parlamento co' più notabili del campo.

Filiberto senza punto scomporsi rispose:

«Si presenti.»

Indi a breve, standosi i circostanti attentissimi, comparve un personaggio col quale abbiamo conoscenza antica, Bindo di Marco, detto il Gorzerino, in sembianza di araldo; vestiva la cotta dell'arme col giglio rosso sul petto, portava in mano un pennoncello bianco sul quale era dipinto Marzocco, o vogliamo dire lione incoronato; entrò con gentile baldanza, salutando con bellissimo garbo a destra e a sinistra i baroni adunati sotto la tenda del principe, non già per paura di oltraggio che gli venisse fatto, siccome talvolta avveniva ai messaggeri che felloni e misleali cavalieri giunsero perfino a seppellire vivi, ma perchè egli fu quanto animoso, altrettanto cortese; e in questo modo fattosi appresso al principe, gli consegnò una carta piegata stretta da due nastri verdi in croce con tre suggelli: — in mezzo il suggello della Signoria col nome di Cristo re della Repubblica Fiorentina; da un lato quello del Castiglione, tre cani bianchi in campo rosso; — dall'altro quelli del Martelli, grifo rampante in campo rosso. Il principe, tolto il piego, accennato col capo quasi per impetrare licenza, e poi non l'aspettando, secondo il costume dei grandi signori, ruppe i suggelli e lesse:

Stemmi araldici

«Al magnifico e strenuissimo signore Filiberto di Chalons, principe di Orange, dell'esercito di S. M. Carlo V imperatore dei Romani capitano generale, ecc. — Avvegnachè per debito di onore e per altre cause più latamente spiegate nel nostro cartello di sfida ci corra l'obbligo di provocare a duello Giovanni di Pierantonio Bandini, gentiluomo fiorentino che di presente milita nel vostro esercito sotto le mura di Fiorenza, facciamo istanzia alla Magnificenzia Vostra onde ci conceda campo franco, libero e sicuro a tutto transito, dove possiamo ognuno di noi con nostra comitiva, cavalli, armi ed arnesi, venire, stare e con le armi definire a piena oltranza la nostra querela per lo tempo che parerà alla Magnificenzia Vostra dal dì che sarà accettato dalla parte provocata, e partire liberamente; che della grazia, ecc. — Anno Domini 1529, oggi 1 del mese di marzo. — Ludovico di Giovanfrancesco Martelli, — Dante di Guido Catellini, Diotisalvi, Filettieri da Castiglione, gentiluomini fiorentini.»

Terminata la lettura, il principe soggiunse:

«Io per me sono troppo amico del giuoco, onde impedirlo altrui con giustizia; perchè finalmente, vedete, cavalieri, il duello è proprio giuoco dove invece di ducati mettiamo per posta la vita. Araldo, voi potete esibire il cartello.»

L'araldo inchinatosi umilmente domandava:

«Mi concederà la Magnificenzia Vostra ch'io faccia chiamare il provocato pel campo a suono di tromba secondo le forme prescritte dal codice della cavalleria?»

«Non importa; chiamatelo a voce sommessa, imperciocchè io pensi non debba essere molto lontano, ed egli risponderà certo alla vostra citazione.»

Allora l'araldo si recò sul limitare della tenda e ad alta voce chiamò:

«Giovanni di messere Pierantonio Bandini...»

Appena proferite queste parole, rompendo con grande impeto il cerchio delle persone affollate intorno l'araldo, a guisa di belva inferocita si mostrò il Bandino e fremente per ogni membro rispose:

«Chi mi vuole?»

L'araldo, guardatolo prima un cotal poco nel volto, si cavò dal seno un'altra carta suggellata, e spiegatala con grande solennità, lesse in suono fermo:

«Giovanni di Pierantonio Bandini, et in sua assenza a ogni et qualunque altro gentiluomo fiorentino nobile che costì si facesse o si fussi fatto bravo in parole in presenza dell'illustrissimo principe d'Orange, o d'altri suoi soldati, con haver detto, come c'è tornato all'orecchie, questa nostra Ordinanza fiorentina esser una prospettiva et non da combattere, e quella disprezzata vilmente; et si della nostra cara libertà altre parole inhoneste, che speriamo farvele ridire con arme in mano. Del che per dimostrare a ogni et qualunque persona quanto la justizia di Dio sopra tutto stimiamo, et esso et la nostra cara libertà et l'honor nostro, vi si fa intendere a tutti voi altri giovani fiorentini et nobili come di sopra, che ciò avessimo detto o pensassero di dirlo, tante volte quante hanno detto e diranno, tante si mentono per la gola; et sono prima veri nemici de Dio, per haverlo noi eletto per nostro re et principe; et di poi traditori, per venir contro alla loro cara patria che gli ha nutriti; et si nostri nemici. Del che per dimostrarvi, non solo con le parole ma cogli effetti vogliamo ciò provarvi; vi si fa intendere che Ludovico di Giovanfrancesco Martelli et Dante di Guido da Castiglione, et si Dante et io che siamo due gentiluomini vogliamo con tre di voi Fiorentini et nobili come di sopra, in tutto ciò provarvi con l'arme in mano, et combattere noi dua con tre di voi a corpo a corpo in campo franco et sicuro, con questo, che la elettione dell'arme et del campo sia nostra; con patti nientedimeno, se fra un'hora di oriuolo corrente, a pura mente da stimarsi costì da detti Signori et valenti uomini di detto campo, non ci acquisterete con l'arme in mano, o non ci caverete di campo fra detto tempo, all'hora s'intenda la giustizia di Dio essere dimostrata, et che tre di voi non habbino potuto superare noi dua, et che voi tre siate nostro prigione, con farvi intendere colle nostre acute armi vedere del sangue vostro la terra tinta speriamo. Vi si dice imperò l'arme da difendersi sarauno queste, il più duoi guanti di maglia per ciascuno, una roella o vero targa, o vero brocchiere o mezza cappa a nostra elettione, intendendosi sempre che a dette armi et cose da difendersi sopradette possiamo lasciarle et pigliarle et aggiungervi in esse quel tanto che a noi parrà. Et l'arme da offendere le vogliamo tacere, per essere tre contro a duoi. Con di più farvi intendere ch'il campo vogliamo sia 90 braccia per lunghezza; et si per larghezza: con poter far una fossa o più che si vegghino, et non cieca, che in modo che ogni picciol ronzino combattendo a cavallo la possa saltare. Et sia una leccia o più a uso di giostratore, o vero tela chiamata, d'altezza, che qualunque di noi dua combattenti potrà, volendo, da per sè salire da terra, et più piantarvi legni o simili cose, che si vedranno senza fraude. E perchè non possiate havere scusa nessuna di non combattere con non vi voler fidare in dette nostre mura, sia vostra la elettion del campo, con farci haver salvocondotto per 40 compagni, dua giorni innanzi al dì deputato del nostro combattere, il qual s'intenda essere dopo la ricevuta lettera 12 giorni; intendendosi sempre facciate fare detto campo a larghezza et lunghezza di sopra datavi, et che noi possiamo fare le dette fosse a leccie o tele come di sopra è detto. Con patti ancora, che detto campo sia in lato, che i nostri honorandi padri e cari fratelli, volendo, possino vedere dall'alte nostre mura quanto sia, primma la giustizia di Dio, di poi la virtù delle nostre arme; et per contrario vostre poltronerie et braverie fatte in parole, non riuscibili con l'effetti. Et perchè non possiate trovare scusa alcuna di non combattere, con voler dire le soprannominate cose da farsi in detto campo et l'hora dataci d'acquistarci, non intendessi o non volessi intendere: vi si replica che noi dua con duoi di voi, non volendo combattere il primo partito, et volendo combattere detta querela, liberamente vi doniamo la elettione dell'armi et si del campo a uso di leale et valente soldato a tutto transito, purchè il nostro combattere sia fra 12 giorni dopo la presente lettera, et che il campo sia in lato che i nostri padri e fratelli possino dall'alte mura vedere che essendo voi venuti contro la nostra et vostra patria, siate nemici prima di Dio, per haverlo eletto per nostro re, et di poi nostri, et che non siate sufficienti a disprezzare la nostra cara libertà et Ordinanza fiorentina, nè per alcunn modo acquistarci con l'armi in mano co' dati vantaggi. Intendendosi per ultimo, che se fra due giorni dopo la ricevuta lettera non harem da voi risposta risoluta, non intendiamo essere obbligati a nessuno de' duoi partiti dativi a sostentarvi con l'arme in mano alcuna querela in alcun modo[239]

E qui l'araldo lancia in atto di minaccia un guanto ai piedi del Bandini, il quale rilevandolo da terra con la punta della spada, sorridendo soggiunse:

«Araldo, in cortesia tu significherai a cotesto tuo Martelli che, se fosse previdente quanto audace, avrebbe dovuto mandarmi anche il compagno; imperciocchè io intenda usarli per buon tempo ambidue, ed egli così mi avrebbe risparmiato la spesa di comperarli nuovi.»

Don Diego Sermiento, battendo sopra la spalla a monsignore Ascalino, gli mormorò nell'orecchio:

«Per santo Yago di Compostella, questa è risposta sottile, fiorentina davvero!»

Intanto il Bandino continua:

«Costituito nella presenza vostra, onorandissimo principe e con buona licenza di voi, io Giovanni Bandini, gentiluomo fiorentino, dichiaro a te Ludovico Martelli che di quanto hai detto o fatto dire, scritto o fatto scrivere direttamente, indirettamente, espressamente o tacitamente sotto qualsivoglia forma di parole generale o speciale, per qualunque modo o via e sotto qualsivoglia pretesto o colore, tu hai mentito per la gola come ribaldo e marrano; — accetto la sfida a condizione che due siamo ad affrontarci per banda, e le nostre spade si aggiungano in campo chiuso, finchè di alcuno fra noi morte ne segua senza intermissione di battaglia, dovendo continuare anche di notte a lume di torce. E le armi, comecchè per le leggi del duello ne spetti al provocato la scelta, intendo che sieno uno stocco, una manopola scempia di ferro da coprire la mano fino al corpo soltanto, — in camicia e col capo scoperto...»

«Insolito acconciamento di guerra ci sembra cotesto», osservò don Diego Sermiento, «e più che a cavalieri convenevole a scherani.»

«A scherani!» rispose con impeto Bettino Aldobrandi; «io vo' che sappiate, messere lo Spagnuolo, avere questo modo di recente adoperato il conte Guido Rangone con Ugo Pepoli, entrambi fiore della italiana cavalleria[240]

«Rispetto poi», soggiunse il Bandino, «all'accompagnatura d'un cavaliere che voglia farmi da secondo nel paragone delle armi, io mi raccomanderò alla benignità vostra, cortesissimo principe, onde mi compiacciate scermelo tra la bella corona di cavalieri che vi stanno qui intorno.»

«Di gran cuore, Bandino. — Conte Londrone, piacerebbevi siffatte incontro? Vorreste alle tante vostre aggiungere anche questa bella gloria?»

Si ascolta uno strepito di armatura di ferro, si vede muovere un passo ad una specie di colosso tedesco; — avea la faccia bianca come cera, i capelli in parte canuti, in parte di un biondo acceso; la pelle gli si informava dalle ossa, — senza rughe, — tranne due sole agli angoli dei labbri ampi e scolorati; — su quella fronte liscia pareva non vi si potesse reggere un pensiero e appena nato vi sdrucciolasse via; — i suoi muscoli avevano partecipato del ferro di cui ei li portava continuamente vestiti; — il cuore gli stava nel seno come dentro un'arca di marmo; — se alcuno affetto vi sorgeva per caso, tosto vi si posava sepolto a guisa di uomo morto dentro la bara: — e nonpertanto, a dire il vero, il conte Lodrone era valente e leal cavaliere.

«Principe», con volto impassibile rispose costui, «i miei cento avi fino a Venefrido il Sassone dormono onorati nei loro sepolcri di pietra: forse la ruggine dei secoli avrà corroso i loro scudi di guerra, ma nè in vita nè in morte mai la fama obbrobriosa ne offuscava lo splendidissimo brunito. Io reputo infamia partecipare alla querela di un traditore; per gran premio o per gran pena, io non vorrei combattere con lui...»

«Conte Lodrone», interrompe il principe diventando vermiglio, «quali parole sono elleno le vostre? In questo modo, a sentir voi, quanti si trovano qui in campo Fiorentini dovrebbero reputarsi traditori? Voi v'ingannate, conte; essi combattono per i Medici, i quali sono, principi nati, per la grazia di Dio, di Fiorenza. E voi stesso, conte, non combattete per ritornarli nell'antico dominio?»

«Io combatto per Sua Maestà Carlo V mio signore», soggiunse il conte sollevando la mano verso la fronte in atto di ossequio; «pel papa e per la sua famiglia, non che dare la vita, rifiuterei abbassarmi a raccattarli cascati in terra. Nissuno fin qui ebbe i Medici in conto di principi. Quando mai ottennero il diploma imperiale d'investitura? Invece ebbe la città privilegio di franchigia per concessione di Otto imperatore. Se però Sua Maestà l'imperatore Carlo, per fellonia o per misfatto altro qualunque, intende oggi revocare l'antico privilegio, ben lo può fare; non già i Medici, stati sempre semplici cittadini e vassalli dell'impero...»

«Basta, conte», interrompeva l'Orange cotesto importuno, «basta; — scerremo qualche altro più voglioso.»

«Se basta a voi, non basta a me; e mi conviene spiegare intera la mia ragione, onde non si creda che per codardia mi trattenga dall'abbracciare una impresa onorata.»

«Di ciò non fa mestieri, conte: — tutti questi cavalieri conoscono le alte vostre prodezze...»

«No, — e' mi è forza parlare...»

«Ed io vi comando tacere...»

«Mi duole, principe, non vi potere obbedire per debito di cavalleria: — rispetto all'utile, non è permesso a privato barone imprender battaglia contro alla patria o a principi suoi, pretestando il vantaggio della patria o del principe, imperocchè, messo in balia pella sua discrezione il giudizio di siffatto vantaggio, non si potrebbe mai riprendere di fellonia. Ed in vero Goetz di Berlichingen dalla Mano di Ferro si acquistò fama di misleale, comecchè contro lo imperatore Massimiliano si armasse in pro dei diritti dell'impero; — quindi è che deva reputarsi traditore chiunque porta le armi contro la sua patria o contro il suo principe...»

«Conte!... per Dio!...»

«Lasciatemi finire, principe; più poche parole mi avanzano; — ora un simile fatto costituendo il delitto di lesa maestà, il quale, sì pei placiti dell'impero, come per le leggi dei Longobardi, le ordinanze del 1306 di Filippo il Bello, re di Francia e di ogni altro reame della cristianità, forma materia di querela combattevole in primo capo, così i Fiorentini...»

«Di grazia, conte, cessate.»

«Così i Fiorentini militanti nel nostro campo ben sono, a senso mio, provocati a tenzone, ed a me sembra infamia per qualunque cavaliere onorato prender parte a simile impresa.»

E l'onesto Tedesco aveva ragione.

Pronunziata dal valente cavaliere la sua sentenza, rimase immobile quasi macchina armonica che abbia conclusa la suonata.

Il principe di Orange, turbato in vista, si volse a Pierluigi Farnese e,

«A voi», gli disse, «Pierluigi, che non andate pel sottile, piacerà di abbracciare la bella impresa.»

«Troppo mi è superiore il conte di Lodrone nell'intendimento di quanto a perfetto cavaliere si convenga, ond'io presuma avere nella presente controversia giudizio diverso dal suo.»

«Per la morte di Dio! se alcuno mi avesse sostenuto che i miei baroni non vorrebbero accettare questa impresa, lo avrei smentito per la gola; — mi sono ingannato; — il fiore della cavalleria è spento qui nel mio campo. Ora mi rivolgo a voi, cavalieri spagnuoli, onore e lume della moderna milizia, affinchè occupiate la lizza che altri vi lascia libera. Diego di Sermiento, vorreste voi esser compagno di questo gentiluomo fiorentino?»

Don Diego, scotendo il capo superbamente come il cavallo andaluso al suono della tromba, proferisce queste orgogliose parole:

«Nel 1525 Carlo contestabile di Borbone, con grande accompagnatura di uomini d'arme, si recò nella buona città di Toledo, dove allora stanziava la corte, a visitare la Sacra Maestà dell'imperatore e re Carlo V, nostro signore e padrone. Ora avvenne che, trovandosi, per la frequenza straordinaria di principi e ambasciatori, ingombrati tutti i luoghi appartenenti alla corona, Sua Maestà si degnasse pregare l'onorato idalgo il marchese di Villena a ricettare il contestabile nel suo palazzo. Al quale invito il Villena rispose: Volentieri, purchè fin d'ora la Sacra Maestà Vostra mi conceda privilegio di rompere una legge. — Qual legge? domandò Sua Maestà, turbato la sua preghiera si ponesse a patto. — La legge, disse il marchese, — che ereditammo dai Romani, di non deturpare di rovine la città. E Sua Maestà, non intendendo la ragione di cotesta istanza e d'altronde conoscendo il cavaliero uomo savio e discreto, se ne stava tutto maravigliato; alla fine riprese: Sieti concesso, purchè ti piaccia manifestarcene la causa. — Perchè, con molto terribile voce grida il cavaliere, — perchè appena ne sia uscito il Borbone, io lo darò alle fiamme come palazzo contaminato d'infamia, indegno di essere abitato più oltre da uomini d'onore[241]

Udita la pungente risposta, il principe si rimase con ambe le mani appoggiate su le teste di grifo le quali terminavano i bracciuoli della sua sedia, — col corpo sporto in avanti — a bocca aperta, — intento nella faccia del marchese di Villafranca, come persona che cerca e non trova nella sua mente un'idea che valga per contrapporsi a quel duro racconto.

E il Bandino di baldanzoso adesso si stava spossato sotto un peso d'insopportabile infamia; era diventato colore di cenere; gli occhi teneva fitti alla terra ansioso di vedere se si fendesse per nascondervisi dentro; — pareva l'adultera del Vangelo piena di vergogna e di paura di esser colta dalla prima pietra che incominci la sua lapidazione. Nè sacerdote mai nè tiranno seppero; con la feroce loro immaginazione inventare tormenti, non che uguali, secondi a quelli che adesso soffre il Bandini; e ben gli stanno, — imperciocchè gli occhi degli uomini non si alzerebbero più al cielo, dove non fosse abitato da un Dio che rugge terribile intorno all'anima dei traditori, della patria.

Militava in campo certo giovanotto di egregie forme del corpo, chiamato Bellino Aldobrandi, di cui riferimmo poc'anzi una audace risposta; comunque appena gli spuntasse la barba, egli era di membra validissimo ed esercitato a tutto ciò che conviene a compito cavaliere. Cecchino del Piffero, fratello di Benvenuto Cellini, così chiamato per essere il suo genitore pifferaio della Signoria, caporale d'inestimabile valore nelle Bande Nere, che poi fu ammazzato in Banchi dalla famiglia del Bargello mentre con troppo furore e poca prudenza voleva combattere con tutti[242], avendo posto un grande amore addosso all'Aldobrandi, gli aveva insegnato a non conoscere paura ed a trattare maravigliosamente ogni maniera d'arme. Il volto di lui presentava la perfezione dei contorni delle statue greche; i suoi sguardi aquilini rivelavano un'anima capace di profonde passioni e di alti concepimenti, — orgoglio e speranza della patria, dov'egli avesse conosciuta una patria; — ma egli non la conosceva: — condotto da fanciullo a Roma, colà lo educava uno zio paterno accomodato in corte di papa Clemente; però tutti i suoi palpiti erano pei Medici; nè per anche aveva potuto il tempo ammaestrarlo nella scuola della esperienza; — spensierato e animoso correva alle battaglie come ad un convito; — di aria ebbro e di luce, godeva trasvolare pei campi aperti, mandare baleni dalla brunita armatura; il giovane seno gli esultava di orgoglio quando scorrendo sopra il suo corsiero turco si udiva susurrare d'intorno: Per nostra donna del Pilastro, egli è bello come san Giorgio! — Nella mischia si avventava impetuoso, gridava, menava terribili colpi, non mosso da voglia di sangue, non da odio della umana natura, ma piuttosto da giovanile ferocia, non altrimenti che se gli uomini fossero belve destinate a caccia reale. Però sovente riducendosi verso sera al campo dopo di aver vagato lontano per la intera giornata, appena asceso il rovescio dei monti che riguardano Firenze, si lasciava andare giù da cavallo, e traendoselo dietro per le briglie attorte al braccio, contemplava lo spettacolo che si offeriva al suo sguardo: — sopra un cielo di fuoco si dileguavano i contorni delle superbe fabbriche di Firenze; — la luce che manca si trattiene a brillare un momento su la cima degli edifizii, come la vita si restringe al cuore innanzi di cessare, — poi si estingue; — allora la squilla diffonde per l'aria un suono lugubre, quasi Geremia che lamenti la caduta città, ed empie il cuore di compassione e di spavento. In quel punto un fremito interno agitava Bettino, e, col pensiero percorrendo l'andata sua vita, rammentava aver sentito una simile cura certo giorno che sul crocicchio di due strade contemplò una giovane romana genuflessa davanti la immagine della Madre di Dio, ed accostandosi a lei la udì supplicare di pace per l'anima della defunta sua genitrice; — e certo altro nel quale un fanciullo lo richiese di un po' di elemosina per un vecchio soldato privo del ben della luce seduto sopra la pubblica via; — il misero logorò la vita non per l'Italia, ma per i suoi tiranni, — colpa più dei tempi che sua; — ed i tiranni, quando egli diventò cieco, toltegli le armi, lo abbandonarono mendico a tapinare su la pubblica via. — Una voce segreta lo ammoniva: patria non poter essere un uomo, sibbene un paese, una terra, una comunità di uomini, nè dovere in qualunque caso un cittadino muovere le armi contro la patria che lo ha cacciato fuori dal suo seno. — Imperciocchè o egli ne fu bandito a ragione, ed allora ha da sopportare con animo pacato il suo danno e meritarsi di venire un giorno perdonato; — o l'offesero a torto, e allora soffra, sia grande e sappia, perduta la patria, la cosa a desiderarsi maggiore essere la coscienza pura; meglio vale sventura con innocenza che fortuna con delitto. Avrà il cielo per l'uomo a torto infelice conforti divini; dappertutto vedrà, come se fosse centro del firmamento, curvarglisi intorno l'emisfero, scintillare le stelle, — dappertutto la madre terra appresterà alle sue ossa travagliate pace. Quindi pensava, un cittadino rientrato a forza in patria, non potervi più vivere se non che da tiranno, — il suo cammino procedere sul capo dei suoi fratelli. I Medici, ora sì umili, vedeva inferocire all'improvviso a modo di serpe esposto al sole, — gli odiava in quei momenti, — non sapeva risolversi a raggiungere il campo; gli occhi bramosi lanciava intorno di sè aspettando un santo eremita che venisse a consigliarlo; — intanto si trovava prossimo al campo, — l'esempio dei molti fuorusciti mescolati nell'esercito imperiale tra i quali si distinguevano Caroccio Strozzi, Bettino Cavalcanti, Sandro Catanzi, Giammoro da Dicomano, il Rosa da Vicchio, il Morna e il Pignatta amicissimi suoi, — e la costumanza antica tornava a vincerlo, — una forza fatale lo avviluppava di nuovo nella sua vertigine; la patria migliore del mondo tornava a sembrargli la groppa di un destriero che corre.

Bettino, alla miseria di Giovanni compassionando, non pensò se l'avesse meritata, non istette a pensare s'ella fosse un principio, comecchè terribile, della pena serbata dalla giustizia divina ai traditori; — vide un uomo oppresso di obbrobrio e senti bisogno di porgergli la mano soccorrevole.

E non pertanto esitando, come colui che modestissimo era, si accostò su i piè leggiero al Bandino e gli susurrò nell'orecchio:

«Accetterestemi voi per compagno alla impresa?»

Avete mai letto nella Genesi la storia pietosa di Agar, quando nel deserto di Bersabea, vinta dalla sete, gitta il figliuolo suo sotto un arbuscello, recandosi un tratto di arco lontana per non vederlo morire? — All'improvviso le apparisce l'angelo consolatore e le addita la fontana. — Tale apparve il Bandino all'offerta generosa dell'Aldobrandi; — lo guardò in faccia, — rimase alquanto sospeso, — poi gli gettò impetuoso le mani al collo e tanto forte lo strinse che per lungo tempo rimasero nella pelle delicata di Bettino le impronte violette delle dita; — e la sua fronte appoggiando alla fronte di lui versò una lacrima, — la più piena di sfinimento e di angoscia che mai sia stata pianta da occhi mortali

«Oh s'io ti accetto!» esclamò, «se ti accetto! anche un minuto che tu avessi tardato, io mi sarei trafitto come il mio più fiero nemico; — ormai la mia vita è diventata un deserto, e tu sei il solo che ti esibisci accompagnarmi in questa solitudine d'infamia; — tu ti sei attaccato al mio destino: — ora non hai più tempo di vedere quanto egli sia orribilmente truce; io non ti posso lasciare, io ti tengo come il demonio la sua preda, — io ti avviluppo nelle mie mani come con le sue spire il serpente.»

E Bettino, sorridendo di un suo angelico sorriso, rispose:

«Perchè tenti turbarmi? Non sai che chi non ha rimorso non conosce terrori?» E voltosi quindi al principe di Orange continuava: «Io con la grazia vostra, magnifico signore, soggiunse, sovverrò nella prova dell'arme questo cavaliere; piacciavi pertanto spedire la licenza del campo.»

«Di paradiso forse... di patria no...», disse una voce forte e profonda che spaventò i due amanti;... Cap. XVIII, pag. 426.

Filiberto, fatto cenno a un segretario, dettava:

Philibertus De Cialon, Orangiae Princeps, Caesareae Maiestatis Capitaneus generalis in Italia, ac in Regno Neapolis Vicerex, et Locumtenens generalis, etc.

«Havendone fatto intendere li Magnifici Joanni Bandini et Bettino Aldobrandi, nobili fiorentini, havere da finire con le arme in mano alcune querele con li Magnifici Ludovico Martelli et Dante da Castiglione, pure nobili fiorentini, et ricercatone che li volessemo dare campo franco, mediante il quale il prefato Ludovico et Dante possano uscir da Fiorenza, et venire securamente co' loro compagni, arme et cavalli in questo felicissimo esercito Cesareo a finire le ditte loro querele; et parendone tal domanda honesta; semo stati contenti concedere loro detto campo franco. Et per tenore delle presenti nostre damo et concedemo ditto campo franco ad essi sopranominato libero et securo a tutto transito; et assecurato, sub verbo et fide nostra, li sopranominati Lodovico et Dante che possono uscire da dentro Fiorenza, et ritornare con XX compagni et un patrino per ciascuno con loro arme et cavalli, et venire in questo felicissimo esercito Cesareo, in quel loco che per noi sarà ordinato, et definito le loro querele con li prefati Joan Bandini et Bettino Aldobrandi; et che poi se ne possono ritornare a loro beneplacido, senza impedimento alcuno, con ditte loro armi et cavalli. Et il giorno deputato al detto abbattimento serà alli XII del prossimo futuro mese di marzo; et lo campo franco si intenda dalla levata alla calata del sole del detto dì. Et perchè, secondo ne hanno fatto intendere detti Joanni et Bettino, per li loro Cartelli, declarano volere combattere a uno per uno, et non dua per dui; però declaramo per queste nostre, che nel detto dì ci seranno dua campi, in li quali ognuno potrà combattere con il suo inimico divisamente. Et in fede, ne havemo fatte fare le presente firmate di nostra propria mano, et sigillate del nostro solito sigillo. Datum in castris felicissimis Caes. contra Florentiam, die xxi mensis februarij M. D. XXX. »

E poichè l'ebbe il segretario munita del suggello, la presentò al principe, che la sottoscrisse del suo nome; ciò fatto, chiamò l'araldo e, graziosamente consegnandogliela, favellò:

«Molto, messere araldo, mi raccomanderete ai signori cavalieri i quali vi hanno mandato a noi, e direte loro che ci sarà mai sempre oltremodo gradita l'occasione in cui potremo compiacere ad alcuna loro richiesta, salvo sempre l'onore e la lealtà che dobbiamo a Sua Maestà l'imperatore.»

«In quanto a ciò state sicuro, messer lo principe, perchè noi non sappiamo tentare l'altrui lealtà», rispose l'araldo, ed inchinatosi toglieva commiato.

Filiberto, volgendo in mente la cortesia dei cavalieri antichi, i quali non soffrivano partissero da loro gli araldi senza presentarli di doviziosi guiderdoni, nè d'altronde avanzandogli pure un ducato, se ne stava tutto malinconoso: — declinando gli sguardi siccome avviene allorchè l'anima è contristata, si vide sul petto pendere una ricca medaglia, dono di re; — gli parve troppo; esitò; — e l'avarizia gli disse: tienti la medaglia; — ma l'orgoglio all'improvviso proruppe: meglio vale rimanere sprovveduto di medaglia che di fama la fortuna si vanti di farti povero, non iscortese cavaliere; — sicchè egli, richiamato con gran voce l'araldo, tutto acceso nel volto gli gettò al collo la collana e il medaglione, aggiungendo:

«Portateli per amor mio e perdonate se, distratto da altri pensieri, ho tardato un momento a compire il dovere di cavaliere.»

Ciò detto, senz'altra risposta aspettare, si allontanò.

L'araldo quasi stupefatto contemplava quel dono che costava un tesoro. Per la sala corse un grido che celebrò il principe di Orange pel più largo tra quanti cavalieri in quel tempo portassero arme nei reami della cristianità.

CAPITOLO VENTESIMOPRIMO LA SEPARAZIONE

Ci separi l'odio. — Sia sciolto ogni vincolo tra noi; io getto via questo amore, come un arco rotto privo di corda.

Mrithakaii, dramma indiano.

Correva la notte antecedente al giorno tredici di marzo, tempo da Ludovico Martelli e da Dante da Castiglione fissato per condursi al campo a definire la querela trasmessa al Bandini. I soldati di maggior nome che militavano sotto le insegne della Repubblica, i cittadini più notabili di Firenze si erano portati a casa Martelli per l'ufficio di amicizia verso Ludovico, non già per confortarlo ad avere buon animo, dacchè troppo bene sapevano non fargli mestieri incitamenti.

Ludovico gli aveva accolti nella immensa sala nel suo palazzo, e in quell'ora si stavano sparsi in gruppi separati, siccome avviene quando la compagnia si fa oltremodo copiosa, favellando di antiche e recenti novelle, o secondo la vaghezza loro attenendo a cure diverse.

Da un lato Amico Arsoli, soldato di buona riputazione non solo nelle armi, ma bene anche nelle lettere umane, circondato da varii nobili cittadini, raccontava la famosa disfida di Barletta tra Italiani e Francesi, e con quella franchezza che non conosce invidia levava a cielo Fieramosca e lo laudava degnissimo di poema e di storia; e poi, infervorandosi nel parlare dei grandi condottieri italiani, favellava delle azioni del Giacomino Tebalducci ed esponeva la rotta da lui data all'Aviano e la presa di Pisa. — Senza punto badare che fosse esecrabile il nome dei Medici, diventava acceso nel volto discorrendo del signor Giovanni dalle Bande Nere, del terrore che ispirava ai Tedeschi, che lo chiamavano il gran diavolo, della sua ferita a Borgoforte per causa dei falconetti del duca di Ferrara, della sua morte a Mantova, dove, Abramo giudeo tagliandogli la gamba, non volle essere tenuto da nessuno, minacciando chiunque gli si accostasse, perocchè egli sapeva molto bene tenere sè stesso: — e il prode uomo, inebbriandosi nella memoria delle imprese italiane, parlò delle guerre lombarde e di quelle del regno, dove gli Italiani combatterono con tanto onore, con tanto sangue e con punto vantaggio di loro, — e quel suo lungo favellare, non che infastidisse gli ascoltanti, così grande era la efficacia delle parole, la veemenza dei gesti, che parendo loro vedere l'urto dei cavalli, udire lo strepito della battaglia, ne sentivano maraviglioso diletto. — Poch'oltre il Carducci, il Varchi, il Busini, con altri più assai nelle storie degli uomini versatissimi, ragionavano dei giudizii di Dio; sostenevano alcuni averli ignorati gli antichi, altri invece conoscerli; nella qual disputa ricercato il parere del Varchi, come quegli che era più che non conveniva modesto, rispose esitando, in quanto a lui reputarli di origine antica, ed in conferma della sua opinione citò un passo dell'Antigone di Sofocle, dove certo uomo accusato di corruzione offre di maneggiare il ferro rovente in prova della sua innocenza; aggiunse, Eustazio descrivere certe fonti in Artochimide e in Dafnopoli nelle quali esperimentavano la pudicizia delle vergini, e Tazio rammentare nei suoi scritti la spelonca del dio Pane, dove entravano le donne accusate di atto disonesto per purgarsi dalla nota d'infamia; parlò eziandio della prova dell'acqua amara ordinata dal levitico, onde la donna incolpata di adulterio potesse difendersi dall'accusa; e finalmente tante altre belle cose seppe esporre, con tanti esempi bellissimi confermarle, che lasciò ognuno convinto. Dipoi mossero disputa, se i giudizii di Dio dovessero o no reputarsi argomento valevole a scoprire la verità: e qui non mancarono esempi pro e contra, prove di manifesta provvidenza e d'ingiustizia evidente; ricordarono quell'Ansel ladro degli arredi alla Chiesa di Laon, il quale poichè gli ebbe venduti ad un povero mercadante, lo accusò di furto e sfidatolo a duello lo uccise: citarono l'altro fatto del ciambellano del re di Borgogna, accusato di aver morto un bufalo della foresta del re, e dal popolo, comecchè innocente, messo a morte; non passarono sotto silenzio il caso del cavalier Grigio incolpato a torto dalla moglie del gentiluomo Carrouge e, per confessione di altro cavaliere venuto a morte, scoperto senza misfatto dopo aver perduto la fama e la vita; sicchè dopo molti ragionari il Carduccio concluse che, sebbene Iddio avesse talvolta con segni sensibili dimostrato il suo intervento per isvelare la verità, prudenza insegnava lasciarlo stare quando se ne potesse fare a meno.

Dante da Castiglione non diceva parole, ma operava. Tra le tante armi, di cui appariva ornata la sala, presi due guanti di ferro e due stocchi insieme col capitano Amicoda Venafro (il quale poco tempo dopo, con biasimo universale, il signoro Stefano Colonna fece, comunque solo, disarmato e ferito, presso la chiesa di San Francesco assalire e con ventisette ferite dategli dalle sue lance spezzate spegnere a ghiado) si esercitava; e questi, come apertissimo nella scherma, gli mostrava il colpo di gettarsi all'improvviso per terra, e la spada nemica lasciatasi passare sul capo, ferire l'avversario nel ventre; gli confidò ancora l'altro stratagemma da adoperarsi a caso perduto, che consisteva ad uscire di parata, e trattosi di repente in disparte, muovere veloce un passo avanti, la spada avversaria afferrare, e spingere la stoccata nella gola del nemico; insomma gli accorgimenti tutti della scuola italiana, la quale, per essersi ai tempi nostri conservata soltanto nel regno di Napoli, ha nome di napolitana.

Di repente Amico da Venafro, declinando la punta dello stocco sul pavimento e con la manca asciugandosi il sudore, favellò:

«A proposito, messere Dante, foste voi che arrestaste quello sciagurato del Soderini?»

«Io no; mi cacciai dietro ad uno di quei tristi, ma ben mi accorsi dir vero il proverbio, chi corre corre, ma chi fugge vola, per quanto mi affaticassi non mi riuscì raggiungerlo: più fortunato o piuttosto più veloce degli altri fu Vico, il figliuolo di messere Nicolò Machiavelli; egli arrestò il Soderini.».

«E lo conobbe arrestandolo?»

«Maino; quando vidi tornare vana la mia corsa, me ne andai difilato in palazzo per avvisare la Signoria e i Dieci; — entrato nella prima sala, mi occorse Vico, il quale teneva stretto così pel collo il Soderini che per poco non lo strangolava; lo confortai a lasciarlo sotto buona guardia in sala e a venir meco da messere Carduccio. — Vi rammentate voi, messere Francesco, qual volto faceste e quali parole lanciaste contro quel povero garzone?»

«Me ne rammento», rispose Carduccio, «nè poteva fare a meno, ignorando la causa della sua tardanza: il suo debito era rendersi al ritrovo alla prima ora di notte, ed io vegliando lo aspettai fin presso al giorno; molto importava spedire la commissione al nostro Ferruccio; forse, e senza forse, dipende da questa la salute della patria.»

«E la patria non perirà, se riposa sopra il Ferruccio; allora io esposi l'accaduto, perocchè il dabben giovane dall'acerbità delle parole vostre fosse rimasto come basito; voi lo abbracciaste, gli domandaste perdonanza: poi, saltando nella sala, toglieste il cappuccio dal volto del prigione e riconoscemmo lui essere Lorenzo Sederini. Lascio immaginare a voi se restassimo maravigliati.»

«Oh!» insisteva il Venafro, «come può essere avvenuto questo? Qual mai causa ha spinto lo sciagurato a tanto misfatto?»

«Vanità di spirito meschino», riprese il Carduccio, «rabbia nel vedersi trascurato dal nuovo reggimento, presunzione, superbia e tutte le altre infelici passioni le quali si ammogliano alla nullità che si crede sapiente. Io penso che non ci abbia mai perdonata l'andata del Ferruccio a Prato per correggere gli errori della sua commessaria...»

«Amici o nemici, questi Soderini furono sempre funesti alla nostra patria. Il gonfaloniere Pietro con la sua ostinata lega con Francia perse lo stato», osservò il Castiglione.

E il Carduccio tosto rispondendo,

«O Dante mio», disse, «il fallo di Pietro è ben anche il nostro; — ormai vuole il destino che le sventure passino sopra di noi senza esperienza; — il tempo andato si dilegua e non ci lascia neppure il tristo retaggio degli esempi luttuosi; — l'errore di oggi mena all'errore domani: Francia gravi colpe ha da scontare col mondo e con noi; ella in antico tolse di mano ai pontefici il vincastro di pastore e dette loro un flagello di ferro; ella cancellò l'ultimo seme dei Romani e nel sangue affogò gli estremi aneliti della libertà palpitante su le rovine del mondo[243]. La lega con Francia ci fece nel 94 perdere parte, nel 12 tutto lo Stato; rilevati dal nostro buon genio, appena ci è conceduto adoperare la nostra libera volontà, ecco ci gettiamo di nuovo nelle braccia del genio malvagio; poniamo la testa in grembo alla Francia, come Sansone in quello di Dalila, — e Francia ci tradisce pur sempre e forse con danno per questa volta irrimediabile; i fati ci menano: pressochè tutti gli animali sortirono dalla natura lo istinto della propria conservazione; noi soli, simili alla farfalla, ci ostiniamo ad aggirarci intorno ad una fiamma che ci consuma...»

«Tema la Francia il giudizio di Dio: — egli non paga il sabato, e quando visita i popoli nel suo furore, li punisce a misura di carbone...»

«Finchè Francia conterà un milione di parrocchie, ed ogni parrocchia contribuirà con un uomo di arme all'esercito del re, ella non penserà all'ira di Dio...[244] »

«Dunque cammineranno per la terra impuniti i tradimenti, la fellonia, la slealtà?»

«Il Soderini andrà sul patibolo a cagione del delitto medesimo che fa prosperare la Francia; perchè le leggi, secondo il detto di quell'antico filosofo, sono tele di ragnatelo, buone a prendere le mosche e sfondate dai bovi: — ben si può imprigionare, confinare, mozzare la testa al Soderino, non già confinare o decapitare la Francia; però ella se ne va fastosa, a testa alta, con un diadema di tradimenti, come la meretrice clamorosa e sviata folle delle sue turpitudini...»

«Quanto era meglio credere alle parole di messer Luigi Alamanni e collegarci con l'imperatore!»

«Collegarci con nessuno: chi si appoggia all'altrui spalla, segno è certo che ha le piante inferme; diffidate della libertà che vi presentano i re come dono; il veleno quasi sempre si amministra in nappi dorati; se le vostre mani non sono gagliarde da sostenere la spada non l'affidate all'altrui braccia; le catene si fanno di quel ferro che vinse per voi le vostre battaglie; la libertà è tale albero che vuolsi piantare con le proprie mani, se intendiamo che frutti davvero; se le vostre mani invece sono fiacche, prendete rosarii e pregate. Udite, Dante, queste mie estreme parole: Qualunque popolo vive in servitù, così vive non per forza altrui, sibbene per viltà propria, ed è indegno di libertà.»

E che fa egli Ludovico Martelli? Solingo in disparte passeggia per la vasta sala e per le stanze contigue; a vederlo trapassare dallo spazio illuminato dalla luce più viva là dove a mano a mano digradava e finalmente scomparire tra le ombre, si sarebbe pensato avesse voluto penetrare nei regni della morte; e quando uscito all'improvviso dalle tenebre tornava a mostrare la sua pallida faccia, lo avresti detto uno spettro evocato dalla tomba per lo scongiuro dell'incantatore. La sua anima era ingombra di sinistri pensieri. Gli occhi volgendo alle pareti, contemplava le immagini de' suoi maggiori defunti e li vedeva animarsi, e dalle loro labbra udiva suoni che non ben comprendeva, ma che pur gli parevano inviti o preghiere di ripararsi nella pace dell'eternità; — aveva il sepolcro chiuso ogni affetto di lui; colà egli padre e madre ritroverebbe e parenti; — sotto terra lo aspettava un tesoro, — tesoro di amore perduto nel mondo. A che dunque più vivere? Qualunque alito comecchè benigno, poteva adesso agitare la cenere, non suscitarla ad ardere; — l'incendio era finito, la sostanza consumata. — Ahimè! La speranza sirena ingannatrice od angiolo consolatore, la quale precorre gli uomini nel sentiero della vita e chiude loro su la testa il sepolcro; la speranza che dopo questo ufficio estremo non gli abbandona ancora, ma postasi a sedere sopra la lapide, come sopra un altare, vi canta un cantico nuovo di risurrezione e di premio; — la speranza gli aveva a mezza via stretta la mano e datogli un bacio di addio, quasi ad amico che, pronto a pelegrinare in lontane regioni, in cuore dubita di mai più rivedere. L'arco prima di tendersi si ruppe; — il fiore appassì sopra la pianta; — lo assaliva invincibile il fastidio della vita; nella stessa guisa di Giob sovente diceva al sepolcro: Tu sei il padre mio; — ed alla Morte: Tu sei mia madre, — e tutto questo perchè non aveva potuto acquistare l'amor di Maria.

E nondimeno, dove sopra tanta tenebra di pianto si fosse potuto diffondere un raggio solo di speranza, le lagrime sarieno diventate liete dei colori dell'iride, come le stille della rugiada in faccia del sole, — convertito l'inferno nel paradiso, — nè egli forse la sua condizione avrebbe scambiato col paradiso.

Vedesti mai, quando l'aura vespertina turba la placida superficie di un lago, riflettervisi dentro così confusamente, in mille maniere vorticose, fantastiche e non pertanto vaghe, le piante, gli edifizii di cui vanno popolate le sponde e i colli lontani? — nel modo stesso nella mente di Ludovico si avvolgevano idee indefinite di felicità, di affetti di sposo, d'amor di padre, egli allora avrebbe aborrito la morte — delle generazioni uscite dal suo fianco composta una splendida catena, l'avrebbe lanciata traverso il futuro per aggiungere la soglia della eternità.

Soave è il vento che spira dai patrii monti, ma a mille doppii più caro l'alito della donna amata. — Bene invogliamo a piangere di amore le voci che muovono a celebrare sul mattino le glorie del Creatore, ma nessuna voce giunge più desiderata all'anima del padre di quella del diletto suo figlio. — Bellezze della terra e del cielo, quanto mi sembrate pallide in paragone della faccia del figliuol mio! Chi dice ch'io sia morto? Ei mentisce: ecco il mio figlio col mio senno e con la mia spada. Chi sostiene che il mio figlio mi abbia raggiunto nella fossa? — Menzogna! Ecco il mio nipote che parla consigli di sapienza e combatte le battaglie della sua patria. — E tutto questo perdeva, perchè non aveva potuto acquistare l'amore di Maria.

Ma quel vaneggiare del pensiero era una perfida lusinga uguale alla calantura, specie di mania che presso alla linea equinoziale presenta al montanaro nelle onde turbate le valli e i monti dell'alpestre sua patria, i camosci, le nevi e i lavacri scorrenti giù pel dorso delle rupi, sicchè, vinto da feroce desio, si lancia fuori della prora e trova la morte nel mare. Offeso Ludovico da siffatta allucinazione morale, si sommerge anch'egli dentro un abisso di affanno.

Oh! tra coteste gioie e lui non palpita per avventura una vita? — Certamente due pensieri gli sorsero nell'anima gemelli, come due fulmini scoppiati nella medesima nuvola, — l'adulterio e l'omicidio; ma il suo cuore sentì che il bel frutto d'amore non può esser côlto da mani insanguinate. — A chiunque poi il talamo altrui insidiando s'insinua nelle case degli uomini, come serpe tra l'erbe, e, avvelenata la sorgente, confida estinguere la sua sete in acque dolci — maledizione! — A chiunque crede femmina degradata serbi eterno l'amore stretto dalla colpa, quando ella non seppe mantenere l'altro persuaso dalla religione del giuramento, — che educata alla menzogna si astenga dal mentire, — che instruita nella frode non voglia far sopportare all'infame maestro la pena de' suoi turpi insegnamenti — maledizione! — E maledizione e sventura a chi, giacendo in letto solitario, e forte vi desiderando la donna altrui, potè immaginarsela in quell'ora baciare baciata... e non balzò furibondo dalle piume e non empì le tenebre di tale un urlo che mettesse in chiunque lo udiva spavento. — A colui che non aborre accostarsi alla femmina come il mendico alla porta del convento per ottenere in elemosina la scodella piena quando la volta gli tocca, io non ho nome d'obbrobrio, nel modo stesso che Dragone non ebbe pena pei parricidi; — almeno i pomi del lago Asfaltide apparivano splendidi al di fuori; — qui invece cenere all'esterno e dentro, — abiezione umana di cui Satana medesimo sentirebbe pietà. — Sfortunato quel padre che non può chiamare liberamente un fanciullo col nome di figlio senza che vergogna ne nasca alla madre! — Infelicissima la madre alla quale riesce di rimorso il suo portato!

Quando più il tradimento s'inebria nella sua voluttà, la penitenza, comecchè stanca di correre sempre la terra, si pone in via; — il tradimento, giovane in prima ed esaltato dal vino della colpa, precede vigoroso, — poi si consuma — e invecchia presto; — la penitenza per mutare di tempo non cambia sembiante: — il tradimento dorme, le palpebre della penitenza non s'incontrarono mai;. — alfine un giorno lo raggiunge, e allora gli pone, come dentro a nido apparecchiato, un aspide nel cuore, — gli spalanca il sepolcro e glielo mostra tremendo di spaventi, peggio dell'arca di Regolo irta di ferri acuminati.

Siffatti pensieri si avvolgevano per la mente commossa di Ludovico Martelli.

All'improvviso lo percuote una voce:

«Io vi dico e vi giuro esser morto ieri notte pochi minuti dopo ch'io vi lasciai sul canto di Diamante.»

«E' mi pare impossibile. Se lo aveva veduto la mattina a terza su la piazza della Signoria!»

«Il bargello e la morte vengono a casa senza avvisi.»

«Dicono sia morto di colica per troppo mangiare.»

«Ben gli sta; — con quel suo ventre affamava Fiorenza; — le cose del papa avvantaggiava assai meglio che una compagnia di lanzichenecchi o di bisogni...»

«Per me gli porrei in epitafio: — La migliore azione operata in vita da Nicolò Benintendi fu quella di morire.»

«Chi morto? — Chi avete detto che morì ieri notte?» con immenso anelito domandò Ludovico.

«Oh! non l'avete voi inteso? — Messer Nicolò Benintendi.»

Morto! — Si è mai goduto tanta esultanza per la morte di un uomo? — Un desiderio ardente pose mai sul teschio della morte fiori sì lieti della speranza? — Torna a fluttuare per le vene di Ludovico il sangue vitale; — gli si colorano le guance, — i suoi passi si accelerano, — i suoi pensieri prorompono, si urtano e non hanno tempo di definirsi; — l'orlo del calice comparisce appannato pel contatto dei labbri di un altro uomo, pure egli contiene abbastanza liquore da invitarlo a bere; — la bocca fu baciata, — non importa, — ella potrà pur sempre proferire la parola che lo renderà il più avventuroso o il più misero degli uomini; — sopra tappeti di Siria ei non avrebbe mai mutato così soave il passo com'ora sopra la terra di recente smossa di un sepolcro. — Ah! misero! Non impunemente tu esulti della morte di un uomo; — come chi va per alpe, superato un giogo, ne incontra un secondo e un altro ancora, — il Benintendi spento, ecco, tra la donna del defunto e te sorge la testa del Bandino... oh! ma cotesti occhi possano chiudersi, quel capo abborrito nascondersi sotto terra per sempre;. — e poi usare la spada contro lui non è delitto, ma pietà; — in quel modo fie disperso il fascino che la sua donna tiene avvinta al maladetto, — lo cancellerà a un punto dal libro della vita e dall'anima di Maria col ferro. — Fisso in questo proponimento, come immemore del luogo e del tempo, gridava:

«La spada! — Su, qua la spada!»

I fanti, pensando volesse provare qualche nuovo colpo, pronti gli porgevano manopola e stocco acconcio alla scherma. Ludovico l'una e l'altro afferrando si avventa contro Dante da Castiglione; invano forza egli oppone e destrezza; — lo stocco nelle mani di Ludovico sembrava folgore; — non valeva riparo, — a destra scende improvviso e a sinistra: fendenti, punte manrovesci, finte, tutti gli accorgimenti in somma del giuoco periglioso posti in opera e con tanto turbinosa velocità che Dante ne rimase sopraffatto, e in un momento, — in un solo momento che riprendendo lena accorse meno presto alla difesa, si sentì percosso nel capo, nel petto e nella gola; onde dando di un passo indietro esclamò:

«Per Dio! mi avete voi tolto in iscambio del Bandino, davvero?»

«Ah! tu non sei il Bandino, è vero», esclama Ludovico, e buttato là lo stocco per terra, torna a passeggiare con le mani conserte sul petto.

Un vecchio famiglio che lo aveva veduto nascere entra nella sala e, incamminandosi alla sua volta domesticamente, lo chiama:

«Vico!»

Egli passa e non bada, ed il famiglio alza gli occhi al cielo e sospira. Non si attentando seguitarlo, lo aspetta. Ludovico, pervenuto alla parte estrema della parete, rifacendo i passi torna davanti.

«Vico!» ripetè in suono lamentoso.

E Ludovico con benigno volto fissandolo lo richiede:

«A che mi vuoi, Giannozzo?»

«Giù», e il servo discreto si accosta più da presso al suo orecchio, «giù nelle stanze terrene una gentildonna vi aspetta.»

«Gentildonna! — E come si chiama ella? E quali sono le forme di lei?»

«Chi ella sia non so dirvi? — la faccia ha coperta di taffetà nero...; però mi sembra senza misura dolente.»

L'uomo innamorato è divino: il suo cuore acquista tal senso che gli altri non possiedono a gran pezza. — Perchè domanda egli chi si fosse la donna? — Non glielo aveva detto l'impetuoso fluttuare del sangue? — Scende, giunge nelle stanze terrene, e correndo a braccia aperte verso la donna velata, esclama:

«Ah! siete voi, Maria?»

Ma quando stava per gittarle le braccia al collo, soprastette improvviso e, mutati atti e sembiante, con voce pacata riprese:

«Madonna! la morte ha visitata la vostra casa.... posso io esservi utile in nulla nella presente vostra strettezza?»

«O Ludovico! i tuoi labbri non contengono la piena del disprezzo di cui è colmo il tuo cuore, — non importa: — affanno, più affanno meno, ormai nulla può aggiungere al peso sotto del quale la mia anima cadde. Vorrò forse dirti essere io incontaminata quanto la tua diletta genitrice, a cui tu davi pietosa sepoltura nei chiostri di Santa Croce? — Ti giurerò che piansi morto il Bandino, il quale mi si offerse la prima volta davanti quando io ricusava partecipare il tuo amore? che mi era stato promesso sposo, — che lo amai come sa amare vergine sconsolata e sola? — No, — tu non lo crederesti, ed io abborro scendere a discolpe; — la mia alterezza di donna si è risentita; — tra la mia coscienza e gli uomini ormai desidero solo giudice Dio; — comprendo la dignità del silenzio; — per altro io venni, — venni per dirti come, essendo piaciuto a Dio rompere l'unico vincolo che mi teneva stretta alla terra, ho fermo in tutto di abbandonarla e rendermi monaca. La mia vita turbarono venti procellosi, sicchè la mente affaticata sospira riposo e non lo spera che nella solitudine di un chiostro; — mi seppellisco viva... è questa l'ultima volta che c'incontriamo sopra la terra; — io mi considero moribonda. Se presso a ripararmi sotto il manto della misericordia al nostro Creatore ti domandassi una grazia... grazia che l'ora della morte mi farebbe la più lieta della mia vita, — poichè in te sta rendermi meno amaro un momento da cui tutti rifuggono inorriditi, — s'è vero che tu mi amasti tanto... Maria... quella povera donna che ti onorò come suo unico sollievo, — ti scelse per amico, — ti salutò fratello... quella dessa, Maria, a mani giunte ti supplica che, come fu infelicissima, tu non consenta a renderla del pari scellerata.»

E qui si tacque; entrambi stettero muti, con gli occhi chini al pavimento, imperciocchè non ardissero contemplarsi in faccia. La donna alfine con parole interrotte rispose:

«Qualcheduno di voi sarà Caino...; il sangue di uno tra voi attesterà contro di me nel giorno del giudizio...; non avrò pace mai nè in questa vita nè nell'altra. O Ludovico, per amore, — per amore di tua madre, non fare che questo duello succeda.»

«Madonna, ciò non può essere; — la sfida corse e fu accettata; — la legge dell'onore lo vieta; — avete voi mai, madonna, sentito favellare di onore?»

E queste parole proferendo, leva gli occhi e le avventa uno sguardo a guisa di raggio improvviso di luce.

Maria senza punto sgomentarsi sostenne quella domanda e quel guardo — quindi prestamente rispose:

«Io conosco una legge la quale domanda non ammazzare, — un tribunale che condanna quando gli uomini assolvono, — ed assolve quando gli uomini condannano: — conosco un giudice che distingue se la mano impugna la spada per la patria davvero, o se piuttosto se ne fa pretesto pel gran desiderio che ha del sangue di una creatura, — pretesto all'orgoglio che gli divora le viscere, alla vendetta che gli riarde il cuore...»

«Madonna!...»

«Iniquo desiderio, — abbominevole vendetta e vana: nessuno di voi mi avrà; — piuttosto di porgere la mia destra alla vostra insanguinata, io me la vorrei tagliare; — ed io non ti appartengo, nè su me avesti diritto mai: — capo mortale non poserà più sul mio letto; — unico compagno d'ora innanzi il Crocifisso; — domani mi chiuderò nel chiostro, e prima di venire in potestà di uno di voi mi getterò dal campanile della chiesa...»

«Madonna, ben posso darvi la vita, non l'onore: — mille volte ho promesso che avrei volentieri, o Maria, sagrificato la vita per te... ed ecco venuto adesso il tempo di mostrartelo a prova; e tu lo ami sempre immensamente, Maria, e invano t'ingegni celarmelo; — nella tua anima vive la fiamma pel traditore: — non ti muove la religione, non il terrore che sangue si versi, sibbene paura che il sangue versato... non sia il mio... pel tuo Bandino tremi... — Va, — vivi ed esulta; io mi terrò avventuroso, se con la mia morte potrò farti contenta... esulta... va... ti prometto con giuramento di lasciarmi uccidere.»

E così, appena favellato ch'egli ebbe, quinci disparve a guisa di spettro.

Maria tentò raggiungerlo correndo, più volte lo chiamò con voce di dolore, ma i suoi passi e i suoi lamenti si perderono inani per le tenebre della notte.

CAPITOLO VENTESIMOSECONDO IL DUELLO

Italo sangue

L'un campo e l'altro: gioventù superba

Magnanima, feroce e di una madre.

Francesca da Rimini,

trag. di Eduardo Fabri.

«Che ora fa egli?» domanda per la quarta volta Ludovico balzando a sedere sul letto.

E Giannozzo, il vecchio famiglio, che adagiato su di un immenso seggiolone lo vegliava, si recò alla finestra e, speculato il cielo, rispose: «Tra un'ora sarà giorno.»

«Dammi la veste, chè voglio alzarmi.»

«Deh! Vico, rifate le forze col riposo, chè oggi ne avrete bisogno davvero; dormite: non vi date un pensiero al mondo, ch'io vi sveglierò in buon tempo.»

«Va tu piuttosto a dormire, Giannozzo... tu sei vecchio e non devi vegliare.»

«Io dormirò a bell'agio entro la fossa, o figliuol mio! perchè in questa terra il sonno di rado scende sopra le mie palpebre; — il pianto non cede la signoria degli occhi... ed io piango e veglio tutte le notti, o Vico!...»

«E perchè vegli? — E di che temi?»

«Figliuol mio — chiuso nel vostro dolore non vi accorgete del mio; — spesso tornate a casa pallido come un'anima, parlate tra voi, non rispondete; spesso vi gettate sul letto e discorrete di uccidere e di uccidervi, di una donna, di un tradimento e di altre cose che mi trafiggono il cuore. E quando tanto vi travaglia l'affanno, può egli dormire Giannozzo vostro che vi ha veduto nascere, che da voi in fuori non conosce altra gioia su questa terra?...»

Ludovico, sporgendo il fianco dal letto, gittò le braccia intorno al collo del servo amoroso, e il capo gli posando sul petto, singhiozzava forte senza favella e senza lacrime. Il vecchio invece piangeva e gli baciava i capelli; — pure alla fine Ludovico con un gran gemito disse:

«Ah! io sono misero assai... Porgimi la veste.»

«Ma perchè non riposate?»

«Giannozzo, se tu potessi immaginare i carboni sopra i quali distesero san Lorenzo essere un letto di rose in paragone di questo su cui mi giaccio, non mi consiglieresti a rimanervi di certo... non è egli vero?... Dammi la veste, imperciocchè prima di partire mi convenga soddisfare a parecchi santissimi uffici.»

Indossata la veste, si pose davanti allo scrittoio e cominciò a scrivere: la penna volava, i fogli diventavano neri con meravigliosa prestezza; con la voce sovvenendo alla memoria, ad ora ad ora proferiva quello che andava scrivendo; — rammentò i parenti, — i servi, — sua ultima volontà, perdono, — misericordia di Dio.

Il vecchio portava senza posa lo sguardo dalla penna alla faccia di Ludovico, e nel contemplarlo tranquillo, si rimaneva stupito.

«Giannozzo!» chiamò Ludovico, piegato che ebbe e suggellato il foglio; — e Giannozzo, levatosi da sedere, gli si pose dinanzi; ma Ludovico, volgendo di subito la mente a nuovi pensieri, si rimaneva immemore con la mano tesa; — poi, all'improvviso risensando, «Giannozzo,» continuo, «io ti consegno il mio testamento olografo scritto in procinto senza formalità, ma che voglio non pertanto religiosamente eseguito: — credo d'aver pensato a tutto e a tutti; — dove di alcuno mi fossi dimenticato, tu supplirai... tu avrai cura che sia la mia memoria benedetta..., non è vero Giannozzo?»

«O Gesù misericordioso!» il servo fedele rispondeva singhiozzando, «io vi ho veduto nascere e non devo vedervi morire... voi non dovete morire..., voi non annoverate ancora trentatre anni...»

«Io ho vissuto secoli, — centinaia di secoli; — i miei minuti compresero anni di angoscia, i miei anni neppure un minuto di refrigerio... Io muoio contento.»

«Su, Vico mio... messer Vico, fatevi animo; — voi vincerete; l'angiolo custode mi predice che stasera tornerete glorioso a casa vostra.»

«E chi si rallegrerà della mia vittoria? qual creatura amante ed amata mi getterà le braccia al collo?» interrogò Ludovico volgendo gli occhi d'intorno.

... Maria precipita genuflessa fra mezzo quei due furibondi, e li tenendo, quanto ella ha lunghe le braccia, discosti,... Cap. XIX, pag. 442.

E Giannozzo volge anch'egli lo sguardo per vedere se discerne qualcheduno; nè lo vedendo, susurrò a fior di labbra: «Eppure io vi amo come figliuolo.»

«Sì... ma....» nè aggiunse parola Ludovico; non pertanto il cuore del vecchio concepì intera l'amarezza di coteste parole, e gemendo esclamò:

«Pur troppo la vostra anima abbisogna di più forte affetto... e più gentile....»

Successe lungo silenzio. Ludovico, crollata prima alquanto la testa, riprende:

«Senti, Giannozzo; — io non morrò — forse; — per me sta la buona causa e Dio: non pertanto la vita è fragile cosa, — fragilissima poi quando la commetti al filo di una spada; — un passo in fallo... una tarda parata... un battere di palpebra, e il ghiaccio dello stocco nemico ti penetra nelle viscere; — e il destino sta chiuso nel pugno dell'Eterno, ed in questa incertezza di morte parmi ufficio di buon cittadino avere riguardo a tutto.... Però ascoltami.... Non volli scrivere per l'appunto ogni cosa... sarebbe parsa vanità...; molto mi è forza commettere alla tua fede. — Alla povera vedova la quale veniva ogni sabbato di nascosto per la elemosina darai cento fiorini d'oro per servirsene ad accasare la figliuola con qualche onesto artigiano il quale valga a farle le spese; ella conserva la superbia della passata fortuna, — confortala di accomodarsi ai tempi, — rammentale che il pan bigio acquistato col sudore della fronte nudrisce le viscere, mentre il pan bianco comprato a prezzo d'infamia si converte in cenere e non passa la gola. — All'uomo di arme mutilato il quale sovente si ripara qui in casa come la rondine inferma al suo nido, darai ad abitare una stanza al secondo piano e lo nudrirai non altrimenti che se fosse tuo fratello, perchè guai alla città che consente il soldato il quale per lei perdeva la mano destra stenda la sinistra. — I servi, finchè rimangono in casa, terrai come tenni io. — Nessuno cavaliere voglio che prema più il dorso de' miei cavalli, — nessuno; — manda i miei cani in campagna, tranne solo uno, Italo, il quale auguro ti faccia quella buona guardia che ha fatto sempre a me. Finchè tu viva, verun parente entri nel mio palazzo... a ciò provvidi nel mio testamento, — e te lo ripeto adesso..., stieno lontani i parenti, i quali, chiamati dalla speranza della mia eredità, mi si sono stretti alla vita, quasi una cintura di corvi all'odore dei corpi morti.... Conserva i mobili... i letti... non mutar nulla; se alle anime è concesso visitare le dimore ch'ebbero care in vita, io tornerò a visitare questa mia — e mi compiacerò ravvisarla nello stato primiero: — se mai io ti apparissi, Giannozzo, non prenderne spavento; io non verrò ad atterrirti, bensì a trattenermi teco in fidato colloquio.... — Coraggio, via, non piangere, mio buon padre Giannozzo... accostati... Gesù mio! come tremi... tieni... ristòrati... bevi questo liquore... bene! — Ora fa di ascoltarmi pacato. Quando sarò morto, mi vestirai della mia buona armatura di Milano e mi porrai nella cassa questa croce di san Pietro.... Vanità di vanità, dice il predicatore, ma io l'acquistai col mio sangue in battaglia, — nè su l'orlo stesso del sepolcro mi riesce considerare la gloria vanità... — E poi, Giannozzo, questo sopra tutto ti raccomando.... mi depositerai sul seno dalla parte del cuore questa borsa di seta cremesina... ah! no, me la rendi, imperciocchè ella non mi darebbe — nè anche morto — pace.» E ripresa dal servo la borsa, il quale come stupito la teneva sul palmo della mano, ne sciolse i legacci e ne trasse fuori due ritratti: — uno di questi lasciò cadere sopra uno scrittojo; — l'altro si accostò alla bocca e baciò con immensa passione:

«O madre mia», esclamò fisso contemplando il ritratto, «tu non avresti voluto concepirmi, se alcuno ti avesse detto che sarei stato tanto infelice! — Quando fanciulletto io dormiva, con quanta furia accorrevi a cacciare via l'insetto che scendeva a infastidirmi la guancia con la sua mite puntura... ed ora, vedi, le angosce mi hanno lacerato il cuore; — io non ne posso più.... Apri le braccia, o madre, ed accoglimi sul tuo letto di pietra.»

Giannozzo alla vista delle sembianze della sua signora che aveva amato e reverito cotanto, ricuperando la parola, le stendeva le mani in atto supplichevole e pregava:

«O madonna Maria, vi prenda pietà del vostro figliuolo, comandategli vivere, ditegli di non ispegnere seco la inclita casata vostra, ordinategli che vi dia un nipote, — ordinateglielo voi, madonna mia, perchè la voce del vecchio servo non ha potenza sopra il suo cuore..., parlategli... parlategli voi, madonna, altrimenti ei si lascia morire.»

Ludovico chiudeva gli occhi e declinava il capo, — la sua mano poco a poco calando depose il ritratto, avendo cura di voltarlo dalla parte opposta.

Giannozzo, a caso guardando sopra lo scrittoio, fissò lo sguardo sopra l'altro ritratto; egli era di donna maravigliosamente bella, ma non si ricordava averla mai incontrata; onde, dopo lungo meditare, quasi lui non volente, parlò:

«Questa donna io non conosco. — E come si chiama ella?»

Ludovico, balzando in piedi, come se lo avessero toccato con carboni ardenti, gridò imperversato:

«Si chiama angiolo, si chiama demonio; — questa donna è colei che mi toccò il cuore e me lo fece di pietra — questa è colei che nella sua mano atroce strinse i palpiti, le immagini, le soavi illusioni della mia giovanezza, e mi rese le cure nei tardi anni, la sazietà delle cose create, il fastidio di me medesimo.... maledetta l'ora in che i nostri occhi s'incontrarono... e sii maledetta tu stessa; — così potess'io cacciarti dal mio seno, come ti lancio fuori della mia casa; — qui si accostando al balcone ne schiudeva furiosamente le imposte, pur tuttavia esclamando: Va, ogni uomo ti calpesti — ogni sozzura ti contamini. — E levò la mano in atto di gettarlo, e subito dopo lasciando cadere abbandonata la mano, con parole interrotte riprendeva: «Ahi stolto me! misero me! Maria... perdono! — Io non so più quello ch'io mi dico o ch'io mi faccia; io ti amo... fuori di misura io ti amo; per te bestemmiai il mio Creatore, ma per te prima imparai ad onorarlo; — per te soffersi e tuttavia soffro tormenti di dannato, ma per te mi deliziai di voluttà divina; — ed io ti accuso a torto, — sono ingiusto con te; — tu ami il Bandino e lo detesti; colpa del destino, non tua; — tu rodi questa passione come un destriere il suo freno, e, misera! non ti giova, chè il morso del destino non si rompe... — Giannozzo, per quanto amore porti al tuo Dio, insieme a quella di mia madre farai che questa immagine mi riposi sul petto. Maria si chiamò la diletta mia genitrice, Maria anch'ella si chiama; — entrambe amai... ad ambedue eressi un tempio nel mio cuore, nè ben distinguo chi più di loro mi sia cara, — tanto l'amore di sviscerato figlio si confuse con quello di amante, — per loro io vissi, per loro io perisco: — queste due immagini deposte sul mio cuore compongono la storia della mia vita; — la prima lo ha fatto palpitare, — la seconda palpitare troppo... — e si è rotto... Ch'è questo? — ch'è questo, Giannozzo? — Il suono della tromba? — Per Dio, mi aspettano... su via... affrettati... presto. Io che ho sfidato non avrei dovuto comparire secondo alla chiesa di San Michele Berteldi.»

E tosto di armi apparecchiato e di vesti si cacciò giù a gran furia per le scale; giunto all'estremo gradino, il suo cane fedele saltò fuori della casuccia e, le zampe deretane puntando in terra, quelle davanti tenendo levate col collo teso, faceva prova di rompere la catena per arrivare al suo signore.

«Italo!» esclama il Martelli, «povero Italo! tu mi ami davvero; dicono la tua anima morirà col tuo corpo; se così è, me ne duole non tanto per te, quanto per colui che ti creava: — la tua anima meriterebbe sopravvivere al sepolcro più che migliaia di anime umane...» Così discorrendo, con la mano gli liscia la testa; e il cane si distende, si voltola sul pavimento, poi balza in piedi scrollando la testa, e come per vezzo mordendo dolcemente la mano a Ludovico; allorquando poi questi procedendo oltre si allontanava, la bestia amorosa si pose a guaire come se lo avessero ferito a morte.

Scese nel cortile; quivi lo attendevano i servi vestiti a festa; — la mestizia dei volti in molto strana maniera contrastava con la vaghezza degli abbigliamenti: — appena lo videro, lo circondarono e, piegati i ginocchi in diverse attitudini e pur tutte pietose, gli domandarono la benedizione.

«Sono io per avventura vescovo o papa, che possa darvi la benedizione?» gridava egli tentando liberare le mani e i lembi della veste dal bacio dei suoi servitori; — e mentre profondamente intenerito mal s'ingegna a sostenere cotesta scena, leva gli occhi, e gli occorre davanti l'uomo d'arme mutilato, il quale con la mano che gli era rimasta reggeva pel freno il suo bellissimo cavallo turco, e alle continue scosse del focoso animale se ne stava immobile quanto i colossi di Castore e Polluce sulla piazza di Monte Cavallo a Roma.

«Il mio destriero a me...»

Il soldato glielo guidava; egli vi salì sopra veloce come baleno, e al tempo stesso stretta la mano all'uomo di arme, gli disse:

«Gran mercè! — non vi sconfortate; — io ho ben pensato anche a voi...»

«Andate e vincete», rispose il vecchio, «e se san Giorgio non dimentica di essere santo, vi darà vittoria; io vi aspetterò qui senza bere nè mangiare finchè non siete tornato... e se non tornerete più... ebbene, io mi lascerò morire di fame...» — e non versò una lacrima nè mutò sembiante, ma si avviluppò nel mantello e si stese per terra come uomo deliberato nel suo proponimento.

Si aprono le porte; — i poveri della contrada, uomini, donne e fanciulli insieme confusi, urtantisi, affollati, erano accorsi a salutare il buon cavaliere, il benefattore di tutti: — «Dio lo benedica! — Dio gli conceda la vittoria!» si udiva mormorare da ogni parte; e quando se lo aspettava meno, si vide vicina la vedova, la quale traendo seco una giovanetta sul fiore degli anni, gliel'additava dicendo: «Vedi, cotesto è il gentiluomo che ci ha salvato dall'avvilimento e dalla infamia.» — Sicchè, gentile com'era, Ludovico si tinse di rossore e dette degli sproni al cavallo per sottrarsi a tanta confusione.

Quando il destriere, percorso buon tratto di via galoppando, si pose a passo più lento, udì dietro a sè uno schiamazzo indistinto di voci umane. — ma chiaro e continuo il latrato del cane, e,

«Odi», disse a Giannozzo, «il grido e forse l'amore del mio Italo superano quelli degli uomini; e' mi manda da lontano il suo ultimo addio.

La piazzetta di san Michele Berteldi ingombravano infinite persone. Dante, abbigliato secondo il convenuto, se ne stava circuito dalla sua comitiva, motteggiando e aspettando; allorchè gli fu presso Ludovico, smontarono entrambi, e, strettasi la mano, così il primo favellava al secondo:

«Dio ci mandi il buon giorno!

« Amen, fratel mio», rispose Ludovico, e fissava Dante nel viso come meravigliato; e Dante sorridendo favellò:

«Vi paio strano, Ludovico? E' mi son fatto radere il barbone[245], onde riuscire meglio spedito, imperciocchè ho pensato essere cosa men trista lasciare in questo duello la barba che la vita. Or andiamo via, chè frate Benedetto ci attende.»

Entrarono in chiesa, dove frate Benedetto da Foiano, ministrando loro il sacramento della Eucaristia, gli riconciliò con Dio; poi, confortati dell'acqua benedetta sparsa sopra di loro con acconce orazioni, quinci si tolsero per incamminarsi al convegno.

Comecchè immenso popolo di parenti, di amici, d'uomini di arme e di cittadini tenesse lor dietro, la compagnia destinata a seguitarli fuori delle porte si ristringeva al numero determinato nella licenza del principe. L'ordine era il seguente, secondo che narra Benedetto Varchi diligentissimo storico: andavano innanzi due paggi vestiti di rosso e bianco sopra due cavalli bardati di corame bianco, e poi due altri paggi parimenti abbigliati sopra corsieri grossi di lancia; dietro ai paggi due araldi, uno del principe di Orange, l'altro del Malatesta, i quali andavano sonando continuamente le trombe. Dopo di loro venivano il capitano Giovanni da Vinci, giovane di forme colossali, padrino di Dante, e Pagolo Spinelli, soldato vecchio di moltissima esperienza, padrino di Ludovico, e messere Vitello Vitelli, padrone di ambedue, se per sorte gli avversarii, mutato consiglio, avessero eletto di combattere a cavallo. Seguivano Dante e Ludovico sopra destrieri turchi di maravagliosa bellezza; vestivano su la corazza una casacca di raso rosso con la manica squartata di teletta; avevano calze di raso rosso filettate di teletta bianca e soppannate di teletta di argento, e in capo un berrettino rosso con un cappelletto di seta pur rosso, ornato di uno spennacchino bianco. Ai piedi di ciascheduno dei combattenti camminavano sei staffieri vestiti nel modo stesso degli altri a cavallo, cioè di raso rosso squartato il lato ritto e la manica ritta di raso bianco, e le calze soppannate di teletta bianca, e le berrette, ovvero tôcchi, di colore rosso: dietro loro, ma non per uscire, parecchi tra i più prestanti capitani della milizia fiorentina, e quindi carriaggi e muli carichi di tutte quelle cose che loro potessero abbisognare così al vivere come all'armamento tanto a piè quanto a cavallo; imperciocchè, abborrendo servirsi delle offerte dei nemici, portassero seco pane, vino, biada, paglia, legna, carne di ogni sorta, di ogni ragione uccellami, pesci di molte qualità, confezioni di tutte le maniere, padiglioni co' fornimenti e masserizie di qualsivoglia specie, infino l'acqua; — non mancarono il prete, il medico, il chirurgo e in fondo due lettighe o piuttosto bare portate a spalla da otto uomini vigorosi, onde potere in caso sinistro traslocare i feriti. In questa guisa pervennero in piazza dei Signori, dove si era adunata inestimabile moltitudine di gente per vederli passare; la Signoria, anch'ella, comunque dimesso l'abito magistrale, stava sopra i gradini del palazzo salutandoli e con ardentissimi voti accompagnandoli: piegarono in Mercato Nuovo, poi volsero a mano diritta percorrendo la strada di Borgo Santi Apostoli; svoltato il canto delle Case Buondelmonti, riuscirono in piazza Santa Trinità, non anche infame per la colonna su la quale Cosimo I poneva una figura armata di spada, quasi angiolo sterminatore di qualunque pensiero che non fosse di servitù!

Da questo punto, chè amore aguzza la facoltà visiva, a Ludovico riuscì distinguere un volto tra i tanti affacciati ai balconi e sì forte quella vista lo scosse che, a sè traendo con atto convulso le redini, costrinse il buon cavallo tormentato nella bocca a dare di uno sbalzo subitaneo indietro, per cui egli ebbe a rimanere tolto di arcione. Molti lo tennero per sinistro augurio; egli, comprimendo l'acerbità della passione, si aggiusta in sella e seguita la via. Quel volto intanto appariva più prossimo e si mostrava pallido, addolorato quanto quello della madre di Cristo a piè della croce. Giunto sotto il balcone, Ludovico levò arditamente la faccia, vibrò uno sguardo feroce, e al tempo stesso, stesa la mano, accennò una delle bare portate alla coda del convoglio. Il volto diventò bianco — ed abbassandosi sparve.

Siccome Dante e gli altri della comitiva a destra e a sinistra riverivano con le mani le gentildonne e i cittadini fattisi ai balconi, così nessuno si accorse dell'atto di Ludovico, tranne Giannozzo, il quale camminava alla staffa del suo signore. Ludovico nel declinare del capo si avvide, incontrando gli occhi del vecchio servo, che aveva ormai un testimonio al suo amore.

Quel volto era di Maria, che, mal potendo sopportare il cenno disperato, svenne cadendo sul pavimento; riavutasi dopo lunga ora, si prosternò agli altari, ma gli altari non le davano più pace: — non sapeva per cui pregare; — chi dei due combattenti vincitore desiderasse, esitava dire a sè stessa; — cominciava un'orazione ardentissima perchè i santi e la Madonna impedissero il duello; ad un tratto, presaga che non varrebbe, la smetteva; allora ne principiava un'altra, affinchè il Bandino vincesse, e la concludeva supplicando che il Martelli superasse: — cuore mortale non sostenne mai più fiera contesa; — però dal fondo dell'affanno sentì nascere una quiete, — forse foriera della tomba, — ma pure quiete: dall'incessante paragone tra Ludovico e Giovanni conobbe a prova la gentilezza del primo, l'animo scellerato del secondo: — quegli, sapendola amante di altro uomo, la propria vita sagrificava alla patria ed a lei; questi, dubitandola infedele, conservava la sua per vendicarsi, lei trucidando e contro la patria proditoriamente combattendo; — l'uno, avendo grave argomento a rampognarla, non usò parola che potesse avvilirla, o se alcuna ne adoperava, quasi suo malgrado gli era traboccata dal cuore colmo fino all'orlo; l'altro invece a piene mani le aveva gittato sopra il volto la infamia: — assai più cose penetrò col pensiero, e all'ultimo le parve la sua anima spogliarsi quasi di una nebbia incresciosa e distinguere intera la bruttezza morale del Bandini; a cagione del contrasto singolare della nostra natura, le dolse la scoperta, — volle riporsi la benda che la tenne accecata; — invano: — lo spirito, come uccello sfuggito dal carcere, abborriva riprendere i lacci della passione: — fabbro umano — nè forse divino, — vale a racconciare il giogo spirituale rotto una volta ch'ei sia; — natura ed arte non conoscono balsamo che sappia riunire i margini delle ferite dell'anima: — ella non amava il Martelli e già sentiva di abborrire il Bandino.

La cavalcata continuando il suo cammino, scorsa la strada di Parione, si avviò al Ponte alla Carraia; procedevano silenziosi in balìa di pensieri diversi, quando all'improvviso il Martelli, fermando il corsiero, si piegò sull'arcione per contemplare anche una volta la diletta sua patria. Il sole non coloriva ancora de' suoi raggi l'estremo emisfero, — la città, rischiarata dalla prima luce del giorno, appariva quasi ninfa montanina scesa su l'alba dai colli di Fiesole per bagnarsi le membra nei lavacri dell'Arno, e le infinite ville biancheggianti di cui andavano popolate le prossime colline avevano sembianza, di un gregge di capre sparse pei balzi della pastura della menta e del timo: — all'improvviso spunta la luce, e spuntata appena, ecco percuote le finestre lontane dei palagi e i merli delle torri, — balena una immensa quantità di fiammelle, si suscita quasi un incendio, e l'aspetto della città di umile diventa superbo. Allora si mostrò Firenze nella pienezza della sua gloria, quasi regina cinta la testa di corona di gemme scintillanti; — donna augusta, signora di provincie seduta sopra il dorso del leone... Onde, preso da tenerezza e da orgoglio, scese da cavallo, si prostrò a mezzo il ponte e, chinato il volto, baciò la terra esclamando:

«Salute, o patria, salute!»

Quindi, tornato a cavallo, la salutò con la mano aggiungendo:

«O patria, addio!»

Giunti a porta San Friano, tolsero commiato dai parenti e dagli amici, imperciocchè la Signoria avesse ordinato; diligente guardia, onde nessuno uscisse oltre le persone descritte, tranne il Sordo delle Calvane, che aveva il braccio al collo per una archibugiata tocca scaramucciando, e Iacopo detto Iacopino Pucci, ai quali concesse speciale licenza.

Usciti fuori della porta con le salmerie e cariaggi loro, andarono lungo le mura fin presso Porta San Pietro Gatolino, dove attraversarono in su la mano diritta e, scesi alla fonte del borgo della medesima porta, presero la via della casa del Cappone, dov'era il termine delle trincee dei nemici, e quindi si condussero a Baroncelli, correndo tutto il campo a vederli, essendosi convenuto che, infino non fossero giunti davanti al principe, non si dovessero trarre artiglierie nè grosse nè minute da nissuna delle parti; e così fu osservato[246].

Pagolo Spinelli, con certo suo piglio soldatesco, presentatosi davanti al principe di Orange, il quale, tostochè vide entrare nella sua tenda cotesta nobile comitiva, si era alzato insieme co' suoi baroni per complirla, proferì pacato le seguenti parole:

«Signor principe, sono qui il mio principale, messere Ludovico Martelli e il principale del capitano Giovanni di Vinci mio collega, messere Dante da Castiglione, i quali si apprestano al vostro cospetto con loro cavalli ed armi, in abito da gentiluomini, per entrare in campo chiuso e combattere messere Giovanni Bandino e messer Roberto Aldobrandi, che qui vedo presenti, loro avversari, col nome di Dio, di Nostra Donna e di San Giorgio il prode cavaliere, secondo il tempo e il luogo da voi medesimo assegnati con vostra patente del dì primo marzo 1529. Eglino stanno allestiti a fare il debito loro e vi ricercano che vogliate dar loro parte del campo e sicuranza, dove confidano vincere con lo aiuto di Dio e col favore dei santi. E poichè hanno i miei principali concesso agli avversarii la scelta dell'arme, si protestano di questa capitolazione, la quale, dopo che sarà da me letta, depositerò nelle mani vostre per rimanervi come giudice ad ogni buon fine di ragione.»

Qui trattasi dal seno una carta, lesse:

«Capitolazione. Messer Ludovico Martelli e Dante da Castiglione protestano, affinchè gli avversarii non portino in campo armi inusitate, sibbene secondo la costumanza di gentiluomini...

«Oh Cristo!» interruppe il Bandino, «io torrei piuttosto una stoccata nel petto che ascoltare qui siffatti fastidii; — tregua alle forme, e cominciamo il duello.»

Lo Spinello volgendosi bieco parlò severamente queste parole:

«Perdonate; io mi credeva stare tra gentiluomini intendenti delle regole di cavalleria...»

Il Bandino era sul punto di replicare, sicchè si correva rischio di vedere suscitata una querela incidentale, dove il principe non fosse intervenuto dicendo:

«Lasciate, messere Bandino, adempire il suo debito al cavaliere Spinello.»

E lo Spinello riprese:

«E cavalieri onorati, senza fraude, inganno nè vantaggio e non impediti; — item protestano che chi tocca le corde dello steccato, o si dia per vinto, o si tagli il membro col quale avrà tocco; item protestano, quando eglino non possano vincere in questo giorno i loro avversarii, che la battaglia continui la notte a lume di torcie, o il giorno seguente, finchè sieno morti o vinti. Finalmente protestano in generale e in particolare che le cose suddette valgano come profittevoli e necessarie, facendo speciale protestazione congiuntamente e separatamente in nome di tutti e di ciascheduno di loro.»

Don Ferrante Gonzaga allora si trasse innanzi col conte Pier Maria Rossi di San Secondo, ambedue patrini del Bandini e dell'Aldobrandi, e favellando il primo tal dava risposta alle dichiarazioni del capitano Pagolo Spinelli:

«Signor principe, qui stanno i nostri principali messer Giovanni Bandini e messere Ruberto Aldobrandi, pronti a scendere in campo chiuso e sostenere con lo aiuto di Dio, di Nostra Donna e di san Giorgio, a tutta oltranza, finchè morte ne segua, la querela avuta dagli attori falsa e mendace; — protestano accettare tutte e singole le cose contenute nella capitolazione avversaria; protestano voler combattere in camicia, con istocco, manopola scempia di ferro, cioè fino al polso, senza difesa in testa. Più presto fia, e meglio loro aggrada.»

«Cavalieri e baroni», favellò il principe levandosi in piedi e scoprendosi il capo, «dacchè onesto modo di composizione io non conosco tra voi oggi, giorno dedicato a san Gregorio Magno, dodicesimo del mese di marzo, mantengo e concedo il campo nei modi e termini contenuti nella mia patente del 21 febbraio ab incarnatione 1539. Assumo giurisdizione di giudice, e come primo atto della mia autorità delibero si differisca l'abbattimento per sei ore continue, affinchè i cavalieri provocatori abbiano tempo a riprendere lena. Adesso, spogliando la veste di giudice e con migliore animo riassumendo quella di cavaliere privato, vi prego, o signori, che vogliate onorarmi di ristorarvi nella mia tenda...»

E proseguiva; ma quell'austero vecchio dello Spinello gli troncò a mezzo le parole dicendo:

«Noi ci portammo anche l'acqua.»

«Fate come meglio vi talenta», rispose il principe quanto per lui più cortesemente si poteva, ma non tanto però che non comparisse in volto alcun poco turbato; e s'inchinò per accommiatarli.

Già il sole declinando oltre il meriggio segnava l'ombra delle cose da ponente a levante quando Pagolo Spinello, recatosi in compagnia di Giovanni da Vinci alla tenda del principe, disse:

«È l'ora.»

Filiberto di Orange trasmise immediatamente l'ordine sgombrassero il campo fatto apparecchiare alle radici del poggio Baroncelli sur un prato che giace a mezzo della strada che conduce al convento dei religiosi chiamato comunemente la Pace[247]; e poi mandò una guardia di Tedeschi e Spagnuoli, onde ricingesse lo steccato e, che alcuno vi si accostasse, impedisse.

Era lo steccato un luogo quadro, separato all'intorno da pali di legno fitti in terra, dai due lati paralleli aperto per lasciare libero l'ingresso e la uscita; dagli altri lati s'innalzava un palco ornato di bandiere pel principe, giudice del campo, e dirimpetto a questo un lieve rialto di terreno pel contestabile. Oltre i cancelli sorgevano due padiglioni dove i combattenti aspettavano il segnale per comparire dentro la lizza.

Poichè ebbe ogni persona occupato il luogo che secondo il suo grado le conveniva, o che per fortuna le toccava in sorte, il principe mandò l'araldo in mezzo del campo, che a voce alta e sonora pubblicò il seguente bando, di cui è notabile la evidenza:

«Per parte dell'eccellentissimo signore Filiberto di Chalons, principe di Orange, generale dell'esercito per Sua Maestà Carlo V imperatore e re, si fa divieto a chiunque qui presente che nè in fatti nè in detti favorisca alcuna delle parti combattenti, nè in qualunque altro modo, cenno, via, maniera, forma o colore avverta una parte, o mostri vantaggio o svantaggio dell'una contro l'altra, sotto pena della forca da essere allora allora eseguita, ecc.»

Ritiratosi l'araldo, e fattosi un solenne silenzio, si udiva lo squillo delle trombe; cessato che fu, comparvero fuori dai padiglioni i padrini seguiti dai loro principali, che a passi lenti e con sembianza severa s'incamminarono alla volta del principe; — seguivano dalla parte dei provocati, due araldi portanti un fascio di armi, imperciocchè spettasse loro il carico di provvedere stocchi e manopole. Venuti alla presenza del principe, i padrini posero un libro degli Evangeli sopra certo altare, e fattosi ognuno alcun poco da parte, lasciarono ai lati dell'altare Ludovico Martelli e Giovanni Bandini: — sporse il primo bramoso la mano sinistra e, stringendo la destra al secondo e tenendogliela ferma sopra il libro, proruppe con terribile impeto:

«Uomo ch'io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi la mia querela contro a te buona e giusta, e tu combattere proditoriamente contro la patria.»

Il Bandino subito svincolando la mano e afferrando a sua posta con la manca la destra del Martelli, con voce cupa rispose:

«Uomo ch'io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi essere la tua querela contro di me temeraria, e possa il tuo sangue ricadere sopra la tua testa.»

Un soldato spagnuolo si accosta quanto può meglio vicino all'orecchio di un soldato italiano che la perorazione del bando del principe aveva fortemente commosso, e susurra con voce dimessa queste parole:

«Signor soldato, non vi par egli il giuramento imperfetto?»

«Per qual cagione, Moreno?»

«Hanno omesso giurare che non avevano addosso nè pietra nè erba, incantagione, fattucchieria, la camicia della necessità[248], od altro sussidio diabolico, deliberati in tutto di vincere con l'aiuto di Nostra Donna del Pilastro e di Dio.»

«Don Moreno, voi prendete un granchio per due ragioni, una meglio dell'altra: primo, perchè la vostra Madonna del Pilastro qui non conta proprio nulla essendo posta Fiorenza e il suo contado sotto la protezione della Madonna della Impruneta e di san Giovanni Battista...»

«Ah! questa vostra ragione, signor soldato, e' pare che abbia qualche parentela col senso comune.»

«L'altra ragione si è, che il diavolo non usa più in Italia.»

«Diavolo! Oh! come non usa più?»

«Che cosa volete ch'io vi dica, don Moreno? — E' pare che il diavolo abbia abbandonata la Italia dacchè ci siete entrati voi altri fedelissimi sudditi di Sua Maestà l'imperatore d'Austria; forse perchè vi conosce più demonii di lui.»

Mentre cosiffatto colloquio avveniva, Pagolo Spinello con quel suo piglio soldatesco favellava:

«Or sarà bene che proviamo un poco le armi, dacchè ai tempi nostri abbiamo veduto inganni e malefizi infiniti: armi avvelenate, guanti che nel chiudere il pugno cacciavano fuori punte da ferire la mano, e simili altre ribalderie; sicchè la diligenza è a senso mio una delle poche cose dove il soverchio non rompe il coperchio.»

«Usate del vostro diritto di padrino», notò il conte di San Secondo con alterezza, «ed astenetevi da parole gravi all'onore di questi cavalieri.»

«Io vo' che sappiate, messere lo conte, che quarant'anni nella milizia non me gli sono mica giocati a primiera; conosco meglio di voi quanti piedi entrano in uno stivale: — parola non è mal detta, se non è mal pensata; — e se la giornéa vi fa male, allentatela come vi aggrada.»

Ed a questi aggiungendo, secondo il suo costume, più altri proverbi assai, tolse dalle mani dell'araldo una spada e, provatala, disse:

«Questo è buono stocco, e questa è buona manopola; — prendete, Vico: quest'altro è pur buono stocco, — e la manopola senza eccezione; — a voi, Dante. Signori, ho fatto il mio ufficio.»

«Concedete adesso che noi facciamo il nostro», riprese don Ferrante, volendo provare a sua posta le spade rimaste; ma lo Spinello lo arresta parlando:

«Parmi che buttate via l'opera e il tempo; — non avete portato le armi voi stessi? Or come volete provarle?»

«Lasciate», soggiunse svincolando la mano don Ferrante; «se portammo le spade, non per questo le abbiamo provate. Messere Bellino, questa ci pare spada di buona tempra, — quest'altra... per Dio! la si è spezzata... io stupisco.»

«Ed io me l'aspettava!» esclama Pagolo; «conciossiachè come dic'egli il proverbio? In chiesa co' santi, e in taverna co' ghiottoni. L'arme era falsa, e si conosce espresso; — chi portò l'arme se ne rese mallevadore; combatta dunque col troncone il Bandino; — questo caso fu preveduto dal Codice della cavalleria...»[249]

«Noi non saremo per consentire giammai che il cavaliere scenda con tanto suo vantaggio nello steccato», riprese il conte di San Secondo.

«Porti la pena del tradimento», grida Pagolo.

«Di che tradimento parlate? Voi ve ne men...», urla il conte; se non che don Ferrante gli pone la mano pronto su i labbri e gli dice:

«Tacete: volete voi fare la querela vostra? Egli è padrino...»

Intanto correva la fama celere e varia ad ogni moto, siccome si nota avvenire delle nuvole portate dal vento traverso il cielo. Le teste dei popoli quivi raccolti agitavansi rumorose a guisa delle onde di un mare in burrasca: secondo le diverse passioni diversi erano i detti, tutti però esagerati o mendaci. Lo spagnuolo Moreno, riappiccando il discorso col soldato italiano.

«Vedete, signor soldato», diceva, «ciò avvenne perchè non recitarono il giuramento intero: a qualcheduno di loro io porto opinione che abbiamo trovato addosso la fattuccheria; il diavolo usa sempre anche in Italia.»

Giovanni da Vinci e Pagolo Spinello con grandissimo impeto sostengono dovere il Bandino combattere col troncone, altrimenti ritirarsi dal duello i principali loro: questa la legge; dove presumessero non osservarla, avrebbero pubblicato la infamia degli avversarii, la querela vinta e mandato la notificazione a tutti i principi della cristianità.

«Pace!» non si potendo più frenare, grida il Bandino, «io non provvidi l'arme, si tolse questa cura il conte Piermaria qui presente; — mi smentisca, se può. — Ora tregua alle parole: io mi cimenterò col troncone... siete voi contenti? — O si finisca una volta!»

«La vittoria non mi darebbe pregio, la perdita infamia. Ludovico Martelli potrà forse chiamarsi, se così vuole la fortuna, cavaliere sventurato, ma nessuno lo potrà dire scortese; — abbia l'avversario nuova spada nonostante qualunque cosa in contrario: se fu caso, lo ripari; se malizia, mi basta la sua vergogna.»

«Cercatevi dunque, messere Ludovico, un altro padrino, dacchè io mi ritiro.»

«Vorreste voi per avventura mancarmi in questo estremo, messer Pagolo?»

«Non sono io che vi manco, sibbene voi mancate a voi stesso. Io non voglio si dica un giorno avere male sostenuto le vostre parti: — ogni uomo deve conservare la sua fama, specialmente noi vecchi, perchè il tempo ci manca a riparare un fallo, se mai avessimo la sventura di commetterlo: a voi piace il nome di cortese, a me quello di austero; a voi la rilassatezza, a me l'osservanza delle regole. Nè per la mia assenza voi scapiterete in nulla, chè vi manderò Jacopino dei Pucci. Non pertanto mi piace in questa ora porgervi un consiglio che la dolorosa esperienza del vivere tra gli uomini mi ha dimostrato buono e di cui vi desidero possiate far senno in processo di tempo: non prestate mai danaro agli amici; non dite mai il vostro segreto a femmine; non siate mai cortese verso i vostri nemici. Addio.»

Nè preghi nè scongiuri valsero a trattenere quel vecchio caparbio; mentre si partiva dalla lizza, il generoso Dante scotendo il capo diceva:

«Il popolo sostiene che la morte sopraggiunge improvvisa: — non è vero; — giunti che siamo a certa età, ogni anno ci porta via una virtù: la vecchiezza è il vestibolo della morte: prima l'uomo serve di camposanto alla sua anima, — poi la terra di camposanto all'uomo. Io udiva lodare Pagolo come uno dei più gentili cavalieri d'Italia, e ora...»

Iacopino dei Pucci, mandato dallo Spinelli a sostenere le sue veci si presenta: il momento del duello si avvicina.

Suonarono le trombe e fu fatto silenzio.

I combattenti e i padrini si divisero in due partite. Dante, Bertino, Giovanni da Vinci e il conte Piermaria si pongono da un lato del campo, — Ludovico, Giovanni, don Ferrante e Iacopino dall'altro.

Allora tesero due corde che in due lizze uguali partirono il campo.

I padrini con molta avvedutezza avvolsero e legarono i cordoni pendenti dall'elsa degli stocchi intorno al polso dei combattenti; quindi toltili pel braccio, li guidarono a mezzo il campo, dove distribuito con vantaggio eguale il vento e il sole, si ritirarono dicendo:

«Dio vi aiuti!»

Dante tiene fitti gli sguardi sopra il suo avversario, e lo vedendo così bello di forze e di giovanile baldanza, nè ricordandosi averlo più mai incontrato altrove e pensando come ora dovesse con lui cimentarsi all'ultimo sangue, se ne sta a guisa di trasognato, poi con voce che studiò rendere, quanto meglio poteva, soave, gli domandò:

«Che ora fa egli, giovanetto?»

E il Bertino, a cui parve essere tolto a dileggio, rispose con accento di minaccia:

«L'ultimo della tua vita.»

Dante con un suono pur malinconico soggiunse:

«Oh! figliuolo mio, la morte degli uomini sta nel pugno chiuso di Dio...; non potrebbe anche essere l'ultima della tua?... e allora che cosa direbbe tua madre?»

«Ciò che dirà la tua.»

«La mia? Oh! la mia direbbe: egli morì per la patria e non piangerebbe. — Ma tu ti chiami Aldobrandi e sei fiorentino, — perchè dunque Dante da Castiglione t'incontra nel campo nemico? — Vedi! nella mano mi tentenna la spada, pensando che sta per versare sangue cittadino..., e tu non pensi a nulla?

«Nel contemplarti così aitante della persona, penso al Filisteo abbattuto da David.»

«Ma David» riprese tosto il Castiglione infervorandosi nel dire, «ma David combatteva per la sua patria, e Dio lo sovveniva!»

«A me poco preme che il diavolo mi aiuti, purchè tu muoia.»

«Ma non ti sta punto a cuore la tua patria?

«La mia patria è la spada.»

«Ahi! serpente... la tua anima è un nido di vipere, — muori!» proruppe Dante; «dacchè il tuo cuore trabocca di veleno, si rompa... la tua tristizia supera i tuoi anni; — muori! — tu hai vissuto anche troppo...»

E sollevò lo stocco.

Io ho veduto questo stocco! — E lo baciai, perocchè fosse impugnato per la difesa della patria, — e lo bagnai di pianto, imperciocchè versasse sangue fraterno.

Lungi circa otto miglia da Firenze, continuando per la via che mena a Carreggi, dove morì impenitente il magnifico Lorenzo del Medici del più atroce peccato che uomo possa commettere quaggiù, e pel quale gli uomini meritamente non danno perdono nè Dio, voglio dire il disegno di togliere la libertà alla patria[250], tu incontri un'erta malagevole: percorrila intera e troverai su la cima, come aquila che riposi dentro il suo nido, Cercina castello della casa Castigliona; — davanti le si mostra Firenze, dietro ha un dirupo: — il tempo avendo cacciato la mano nelle viscere della montagna, la costrinse da questa parte ad avvallare, sicchè i muri di Cercina squilibrati, per molte frane paurosi, minacciano precipizio.

E qui l'araldo lancia in atto di minaccia un guanto ai piedi del Bandini,... Cap. XX, pag. 453.

Io imprendeva cotesto breve pellegrinaggio con uomini ai quali il cielo fu largo di arguto intelletto e, meglio dell'intelletto, di cuore gentile che sa amare la patria quanto ella è più sventurata[251].

Trovammo il castello abitato da un nepote di Dante, povero e solo. Egli ci mostrava sembianza selvatica, quasi leoncello sorpreso nella sua caverna; anni correvano ed anni che orma di piede italiano non era comparsa lassù! Ma quando egli udiva essere noi saliti a venerare l'onorata reliqua, esultò: — una stilla del sangue dei Castiglioni gl'infiammò la faccia, ci offerse cortese la tazza ospitale e trasse da un vecchio armario lo stocco, di cui all'elsa stava appeso un cartello che a lettere d'oro diceva: Questo è il famoso stocco col quale Dante da Castiglione combattè il duello... nel 1529. — Posto perpendicolare al terreno mi giungeva a mezzo il petto, — tagliava da due parti; — la impugnatura e il pomo tutto di ferro, se non che si vedeva sul pomo alcuna traccia di doratura; — il guardamano si componeva di una sbarretta di ferro posta a traverso, — sulla sbarretta un cerchio, dove insinuandosi l'indice e il medio, si potesse stringere la radice della lama in cotesto punto scavata; — e intorno la sbarra e il cerchio copia di cordone di seta bianco e rosso, forse per meglio impugnarlo e acconsentire il campo, — e questo cordone prolungandosi da ambe le parti termina in due nappe, — prolungamento il quale serviva, come vedemmo, ad avvolgerlo intorno al braccio del combattente, onde per lassezza o per altro caso non rimanesse disarmato.

O casa Castigliona, ecco quanto rimane di te! — Un castello che rovina[252] — una fama che si perde, — una spada che la ruggine consuma! — Però, qualunque tu sii, o nepote di Dante, che te ne stai come uno spettro custode delle tombe a vigilare su la spada dell'inclito tuo avo, — esulta! — esulta! — tu non sei povero! Tu hai in casa un ferro che può servire di leva al trono più superbo della terra; — tu hai un ferro che alzato può infondere un magnetismo di gloria nell'animo di un popolo — un ferro che posto nelle mani anche di un morto avrebbe la virtù galvanica di farglielo brandire minaccioso. — Esulta! la povertà di te abitante il castello de' tuoi padri commuove la nostra ammirazione, mentre la dovizia di quelli che abitano l'avvilita Firenze fa piangere. Dappertutto può concepirsi l'antica Firenze meglio che nella Firenze moderna; — colà tralignati nepoti hanno venduto l'usbergo che difese il petto ai loro parenti, — colà la spada impugnata per la patria scambiarono in scuriada. — Vuoi leggere le carte dove i nostri grandi vergarono l'eterne sentenze? Va nelle biblioteche dei popoli stranieri[253]: — questa stirpe svergognata ha venduto la sua eredità per un pugno di monete: che cosa non venderebbe ella mai? l'anima se l'avesse, — l'ossa degl'illustri antenati, se non fosse stupida tanto da ignorare dove riposano, l'azzurro e le stelle del firmamento, se le potesse stringere nelle sue mani codarde.

Miseria e sventura!

Oh! se potessero queste pagine scritte col sangue durare, io da gran tempo mi sarei aperto le vene, perocchè vorrei rimanessero in testimonianza che nel presente deserto delle anime visse un precursore di cui la voce protestò contro la tristizia dei tempi ed invocò l'aurora di un giorno di gloria; perocchè vorrei che i nostri figli, entrando per avventura in qualche antico camposanto, si trattenessero dall'oltraggiare le ossa paterne, pensando come fra tante miserabili reliquie forse si trovano mescolate quelle dell'uomo che l'amor santo di patria accettò come mandato di grandezza e di martirio, nè gli fu mai infedele finchè i suoi occhi poterono versare una lacrima, la sua bocca proferire una parola, il suo cuore mandare un sospiro per la libertà[254].

Intanto Dante e Bertino hanno mutato molti colpi senza offendersi. Bertino, agilissimo, dall'uso quotidiano esercitato, muove così veloce la spada che a gran pena la seguita l'occhio. Ora si distende sul terreno, quasi a toccarlo col petto, e là puntando la mano manca si sostiene; ora balza di un salto da un lato, ora dall'altro; — spesso aperte ambe le braccia ed abbattuta la spada, invita con perfida lusinga il nemico a ferirlo nel petto; — e' par che scherzi intorno alla spada nemica a guisa di farfalla intorno alla fiaccola senza bruciarsi mai l'ale. Certamente cotesto è giuoco pericoloso da volere spacciato il duello con un colpo solo.

Dante, accortosi non potere, a cagione della gravezza delle sue membra, reggere la prova coll'avversario in cotesto assalto procelloso, se ne sta guardingo, tutto in sè ristretto, vigilando a non perdere la misura; anzi è fama che prevalendosi della sua molta forza, lo stocco sostenesse pel pomo, e così spazio tale acquistasse per cui Bertino non sarebbe mai giunto a toccarlo nel petto, se non che deviandone fortemente la lama dalla parte destra o dalla sinistra. L'Aldobrandi, sdegnoso di resistenza così lunga, raddoppia i conati, all'improvviso finge di accennare alla spalla e di repente descrive mezzo cerchio con la punta e minaccia il torace, quindi replicando col ferro in senso inverso la curva, ferisce al Castiglione il braccio diritto verso la scapula.

«Ah!» urla Bertino, «l'ho pure veduto il tuo sangue; — ma per renderti il ben dell'intelletto mi è forza aprirti più largamente la vena.»

E prevalendosi del ribrezzo che ogni uomo prova nel sentirsi un ferro tagliente e ghiacciato penetrare nelle carni, vibra lo stocco di nuovo e lo aggiunge leggermente nella bocca.

«Dimmi, Castiglione, or che lo assapori, ti par egli buono il tuo sangue?»

Dante non rispondeva, ma digrignava i denti da mettere ai meglio animosi spavento, le sopracciglia orribilmente stringeva, gli erano diventati ritti i capelli; — non pertanto fermo osservava con risguardo il nemico.

«Per santo Jacopo!» esclama Moreno il soldato spagnuolo, «cotesto vostro gentiluomo fiorentino mi sembra lo scoglio del quale fece Moisè scaturire la fontana: — versa sangue da due ferite e non si move.»

«Guai all'Aldobrandi, se si moverà!» risponde l'italiano.

«Ei mi parrebbe tempo; — vedete, — ecco, — ha toccato un'altra ferita nel pesce del braccio sinistro.»

«O santo Giovanni Battista, assistetelo voi!» supplicò il soldato italiano, «messere Dante corre pericolo presentissimo di vita: — vedete, — per la seconda volta ha rilevato un fendente nel braccio sinistro.»

Invero Dante già da quattro ferite è impiagato; — e comecchè leggere elle sieno, non cessano per questo di indebolirlo e d'affliggerlo: — fu suo proponimento, quando prima scese nel campo, vista la furia dell'avversario, stancarlo; e quantunque egli avesse in questa parte conseguito l'intento, ciò non era avvenuto senza suo danno: ond'è che, sentendosi adesso venir meno la gagliardìa, deliberò, deposta la difesa, assaltare francamente l'Aldobrandi.

E per meglio investirlo alla sprovvista, finse indietreggiare come smarrito. Se Bertino lo incalzasse improvvidamente baldanzoso non è da dire; — già nell'accesa fantasia lo spinge ai pali dello steccato, già lo costringe a rendersi; — gli dona la vita; — le sue orecchie intendono il grido della vittoria, — la sua anima s'inebria di gloria!

Mutati anche due passi, Dante si ferma. Bertino, divampante d'ira a cagione della resistenza impreveduta, mena la spada con tanta rapidità che coruscando la lama al raggio del sole declinante toglie la vista al Castiglione.

Ah! giovanetto, tu se' prode in battaglia, ma tu potrai più presto smovere le Alpi dalla base loro che spingere vivo il tuo avversario dal posto nel quale egli ha deliberato omai di vincere o di morire; un'altra volta vibri la spada, e un'altra volta la fortuna te la tinge di sangue nemico... ultima però; — lo spazio ascendente della curva hai percorso, ti rimane lo spazio che discende e declinando conclude con la morte.

La quinta ferita colse Dante nel braccio sinistro, e forte gli lacerò la carne; onde, preso da terribile furore, cacciato via ogni riguardo, venne a mezza spada. — Molti poeti assomigliarono l'ira umana, come per dimostrarla fuori di modo spietata, a quella dei leoni, degli orsi e di altri cosiffatti animali. — Male accorti! — Il furore dell'uomo non ha paragone; egli è solo in natura. — Dante tempestava, — il battere de' suoi denti scuoteva i nervi dei circostanti: — imbrattato di sangue, sozzo di polvere, alza con ambe le mani la spada... guardati, Bertino, che ti cala adosso un colpo tremendo.

E fu tremendo davvero, chè il taglio del suo stocco scontrato il taglio dello stocco avversario, lo incise profondamente per traverso, e poi, mutando direzione, fece scoppiare un pollice di lama, la quale scheggiò via sibilando intorno al capo di Bertino, come palla di archibuso. — Il braccio di Bertino con impeto irresistibile sbalestrato lontano dal cuore lascia scoperto il seno di lui; — ci si avventa la punta del ferro di Dante bramosa di sangue.

Non pertanto schivò l'Aldobrandi l'assalto volgendosi spedilo a mancina di faccia al sole: il Castiglione si prevalse del vantaggio allargando un passo da parte e non concesse campo a Bertino di mutare cotesta posizione senza suo grave pericolo.

E cotesta situazione di per sè stessa lo esponeva a pessimo partito, dacchè i raggi del sole gli abbagliavano gli occhi, e tra quella luce scintillando la spada nemica gli balena funesta sugli occhi quanto quella dell'angiolo che allontanava dall'Eden i primi padri colpevoli.

Il conte di San Secondo, male sapendo come potere in tanto estremo sovvenirlo, immemore delle leggi della cavalleria stese l'alabarda su la quale erasi fino a quel punto abbandonato, come per accennare, e con grave voce esclamò:

«Bada al sole! — Poni mente al sole, — o tu sei morto!»

Giovanni da Vinci, padrino di Dante, il quale a cagione della immobilità e taciturnità sua aveva fatto dubitare se fosse un cavaliere vivente o piuttosto un colosso inanimato, ruppe il silenzio dicendo:

«Signor conte, per avventura dimenticaste il bando?»

«Me ne ricordo, capitano; il peggio che può andarmene è la forca.»

«No, il principe di Orange non vi condannerà ad essere appeso, ma io vi passerò molto bene da una parte all'altra con la mia partigiana.»

«Voi?»

Un urlo immenso, doloroso, troncò cotesta lite.

Tacquero entrambi ed attesero a contemplare il campo di battaglia.

Miserando spettacolo!

Giace l'Aldobrandi supino con le braccia prosciolte; — la manopola uscita dalla mano si era tratta dietro la spada che stava adesso lontana dal braccio che l'aveva impugnata; — dalla gola aperta versa un fonte di sangue.

Confuso dal bagliore, scambiò Bertino un istante il raggio del sole col baleno dello stocco avversario; — un solo istante smarrì il ferro nemico, e Dante sottentrando allungò le braccia con quanta forza gli aveva concesso natura e gl'immerse la spada nella gola: penetrò la punta omicida nell'ugula, ruppe l'osso del palato, e l'occhio sinistro si rovesciò sanguinoso fuori dell'orbita. — Un momento prima tanto bello, tanto leggiadro, — adesso orribile... orribile a vedersi!

«Arrenditi!» gli grida il Castiglione, «arrenditi, o ti finisco!»

«A molto... migliore cavaliere... che non sei tu... io mi arrendo», risponde con parole interrotte Bertino Aldobrandi; «mi arrendo... a Dio.»

Percosso il Castiglione dalla voce e dalle parole, punta a terra la spada; la sua naturale pietà adombrata come da una nuvola di furore tornò luminosa a spanderglisi su l'anima, e ridivenuta mite, si curva affannosa sopra il morente.

«Oh! io mi sento morire», riprende a gran pena Bertino, «presso a morte Dio mi rischiara l'intelletto... ahi tardi!... pure in punto che basta a pentirmi... Perdonami... e vogli una grazia concedermi... Deh! gentil cavaliere, non volermi questa grazia negare... non maledire alle mie ossa... ma le seppellisci pietoso... nell'avello de' miei maggiori... credo in Santa Maria novella... Ahi! madre mia!...»

«O giorno di dolore! o giorno d'ira!» esclama Dante appoggiando il mento sul pomo della spada; «Ecco, i fratelli uccidono i fratelli, e figli di una stessa terra si lacerano tra loro! — noi bagniamo questo suolo col sangue del parricidio, — e il suolo sconsacrato produce un frutto amaro, — il frutto della schiavitù. — O patria mia ridotta a tale che non sai se devi affliggerti maggiormente delle sconfitte o delle vittorie dei tuoi figliuoli! — miseri noi, cui la morte del nemico tormenta con i rimorsi medesimi del delitto! — la congratulazione pesa come una rampogna; — la fama turba come il chiodo che conficca il nostro nome alla storia quasi a gogna perpetua, — ormai la nostra scelta sia nel vivere codardi o nel vivere iniqui. — O giovanetto! — fossi tu spagnolo, o tedesco; la mia anima si allegrerebbe: — ora ella piange, — ella maledice la sua fortuna, — ella desidera scambiare teco il destino. — O Dante! tu che tanto amasti la patria, qual giudizio ti aspetta in faccia dei posteri! — Tu hai spento un uomo che valeva meglio di te. — E chi ha detto ch'egli sia spento? — Egli se ne mente... egli vive, ed io l'ho conquistato alla patria...» E qui, buttate via manopola e spada, s'inchina palpitante sopra Bertino; — mancandogli pannilini, straccia la sua camicia, tenta arrestare il sangue della ferita, gli fascia con amore la gola, e poi corre a raccogliere lo stocco e la manopola caduti al trapassato, e l'una e l'altro gli adattando alla destra, «Sorgi», continua con voce di comando, «tu non sei morto; — io appena ti vidi, ti amai, — come dunque posso averti ucciso io? — Stringi la spada. Fiorenza aspetta la tua difesa... affrèttati... stringi la spada, ti dico; oh! dolore... dolore... la morte gli tiene irrigidite le braccia... egli è morto!... ed io l'ho trucidato!...»

La stanchezza, il dolore e il molto sangue perduto lo facevano vaneggiare; forse sarebbe caduto, se Giovanni da Vinci nol sosteneva; con lo aiuto di alcuni staffieri accorsi egli lo trasportò fuori del campo, non senza avere prima gettato uno sguardo sopra la lizza gridando:

«Vittoria! — vittoria!»

Il conte di San Secondo, fieramente turbato, si volse con man piglio verso il capitano da Vinci e gli parlò minaccioso:

«Tu rompi la legge del bando...»

«Tu la rompesti primo, — solo faresti troppo trista figura sopra la forca: appesi insieme poi le daremo sembianza di gentildonna con le sue gioie da festa. — Vittoria, Martelli! vittoria!»

Ma la vittoria aveva abbandonato Ludovico Martelli.

Quando prima scesero in campo, Ludovico e il Bandino si gittarono giù dalle spalle un mantello che gli riparava dal freddo, nè presero cura di metterli tanto in disparte che non potessero in seguito apportare loro impedimento.

Tremavano entrambi; se alcuno dei due avesse avuto animo più pacato, al primo colpo terminava la battaglia. I circostanti mandavano un mormorio simile a quello degli spettatori mal soddisfatti di uno spettacolo scenico: — pareva che non osassero, — eppure cotesta esitanza nasceva dall'odio soverchio che infiammava ambedue; — avevano per trucidarsi mestiero che quella ardente passione si sfuocasse. — Alloraquando diventò l'ira pacatamente omicida cominciarono le disperate percosse, e furono poste in pratica le arguzie tutte, gl'inganni e le orribili arti di tagliarsi le membra.

Volle sventura che, mentre dava il Martelli un passo indietro per ischifare una botta, il piede gli s'intricasse nel mantello, sicchè venne a perdere l'equilibrio del corpo, onde il Bandino sottentrando veloce lo giunse, comechè leggermente, con la punta della spada sopra la fronte tra ciglio e ciglio. Ludovico, toltosi d'impaccio, rispose di una stoccata tesa, la quale avrebbe da parte a parte trafitto il Bandino, dove questi non avesse piegato speditamente il corpo, non tanto bene però che lo stocco nemico non gli forasse la carne sotto la poppa manca e via gli portasse una lunga brandella di pelle.

La ferita riportata da Ludovico sopra la fronte stillando sangue glien'empie gli occhi e gl'impedisce la vista: — egli fruga per trovare un pannolino: — non lo avendo o non lo trovando, tenta strappare una nappa di seta pendente ai cordoni avvolti intorno alla sua mano. Un solo istante china lo sguardo per vedere di bene afferrarla, e questo istante bastò al Bandino per sollevare la spada e calargliela sopra la testa.

Improvvido di consiglio, ma ben fermo da saltare indietro o da parte, il Martelli allunga la mano e stringe il taglio della spada nemica; il Bandino la tira a sè con forza e gliela recise fino all'osso; — intanto il sangue negli occhi si condensa più copioso; — egli comincia a scorgere mezzo gli oggetti, — confusamente, — circondati da iride sanguigna; — gli scorre un sudore ghiacciato per tutto il corpo; sente intronarsi le orecchie di un zufolio fastidievole: — due volte si vide il ferro del Bandino minacciante sul capo, e due altre volte, riportandone sempre profonde ferite, si difese con la mano sinistra; fermo di morire, ma bramoso di trascinare seco l'avversario nella tomba, punta la spada al petto e precipita là dove gli sembra che stesse il Bandino: — fu agevole a questo sfuggire quel cieco moto, — pure così rapido gli venne addosso che gl'incise buona parte del braccio di larga, non già pericolosa, ferita. Il Martelli rimane scoperto — e in qual parte siasi ritirato il suo avversario non vede; — mentre brancolando si sforza incontrarlo, una fiera percossa gli spezza la testa e lo costringe a vacillare come uomo ebbro di vino; — barcolla tre volte e quattro... sta... trema... e finalmente cade stampando della sua persona un'orma sanguinosa sopra la polvere.

«Muori!» urlò pieno di tremenda esultanza il Bandino, e curva la gamba sinistra, stesa la destra, ambe le mani levate, l'intero corpo acconsentendo all'urto, si atteggiava a fendere fino al mento la testa del caduto; — ma non ancora aveva percorso la metà del giro, che un'altra idea di vendetta più truce gliela fermò, nè gli parendo potersi ormai trattenere più oltre, chiuse le mani, e la spada cadde inoffensiva sul fianco del Martelli; — egli poi si rimase con le braccia aperte nella guisa dell'uomo che manda una maledizione: — infatti egli intendeva lasciare a quel prostrato la vita come una maledizione. — Se muore — egli pensò, — il suo tormento cessa; — se vive, gli si rinnoveranno ogni giorno i dolori della morte; non che tôrgli il sentimento, avrebbe dovuto dargli parte del suo; — se non sente, non soffre, ed egli stava per aiutarlo a riparare dietro al sepolcro! Oh! viva e racconti la sua bocca al mondo la disfatta patita, — palesi il suo aspetto al mondo la propria vergogna, — duri testimonio vivente che Dio non esiste, o, esistendo, non prende cura degli uomini; o se pure la prende, i suoi giudizi paiono oltraggi di cinico, non già consigli di suprema intelligenza.

«Vivi!» replicò il Bandino; «tu mi salvasti la vita, io te la rendo. Dio ha giudicato tra me e te: — impara a rispettare chi val meglio di te: — il cielo ti dichiara traditore... non sono eglino infallibili i decreti del cielo?»

«Tu hai vinto la persona... e non la querela....»

«Ho vinto l'una nell'altra... arrenditi!»

«Dio mi ha abbandonato... una volta abbandonò il suo figliuolo... adesso abbandona la libertà... ma che più nulla di divino deve durare sopra la terra?»

«Arrenditi!»

«Mi arrendo al marchese del Guasto...»

«A me devi arrenderti... a me che tengo sotto i miei piedi la tua testa...»

«Oh! io mi arrendo...»

E che? — Egli aveva giurato di voler morire, egli un'ora innanzi avrebbe tagliato la gola a chiunque si fosse osato proporgli di comporsi in pace col Bandino; — e adesso si arrende così? Gran parte e la migliore di sè gli sfuggiva dal cuore insieme col sangue; dianzi le arterie gli vibravano piene di vita, — adesso languidissime sembra appena che palpitino; — il dolore gli tiene l'anima ingombrata per modo che non lascia luogo a pensiero di sorte. — Quanti superbi disegni si porta via la vecchiezza! — Quanti orgogliosi proponimenti all'appressarsi della morte impallidiscono! — Gli anni penetrano nel sangue, come il mercurio, e lo irrigidiscono; — la stupidità, scacciati via l'odio e l'amore dal cuore umano, se ne compone quasi un sepolcro di pietra; — l'uomo è signore del momento presente; e tosto che conosce esserne signore, il momento è passato; quello che segue rimane fuori della sua potestà.

Ma quando assale un pensiero di orgoglio o turba la invidia, m'incammino là dove sopra lieve eminenza giace il cimitero della mia città: — quivi, appoggiando la spalla alla soglia della porta, mi volgo a contemplare la terra che abbandonai, e, immaginando essere convertito nel Tempo, esclamo: O città dei vivi, tu sei grande, ma questa città dei morti già ti contiene dieci volte, e ti conterrà venti, cento, quanto parrà a me, perchè il sepolcro è una delle cose nel mondo che non dice mai: Basta! — Io compendio tutto, — uomini e cose; — io solo posso comporre in pace nella medesima fossa l'oppressore e l'oppresso; — per me il conquistatore si contenta di tre braccia di terra, e se gli pongo al fianco un cadavere, ve lo sopporta mansueto e paziente senza dirgli: Fatti in là; — egli ve lo sopporta, mentre vivo imponeva a' popoli interi sgombrassero le provincie per lasciargli libero il passo, ordinava al mondo estendesse i suoi confini, ai cieli si allontanassero per respirare più aperto: — io riduco in essenza gli enti creati, — degli animali mi basta la cenere, — delle città la polvere; — nel cavo della mano porto l'esercito di Cambise, — su le mie spalle in un sacco Sodoma e Persepoli. — Un giorno verrà ch'io mi volgerò al sole e gli dirò: Chiudi le palpebre e dormi, tu hai vigilato assai; — e poi soffierò su le stelle e le spegnerò come fiaccole rimaste accese dopo la fine del festino... e perchè no? — Forse non ho cacciato dai cieli una moltitudine di numi, come il castaldo, terminati i lavori dei campi, licenziate le opere? — Forse non ho lasciato appesa alle volte del firmamento una serie di dii, quasi scheletri di condannati al patibolo... spettacolo pieno di miseria e di scherno? — Un giorno, stanco di distruggere creatori e creature, cause ed effetti, io staccherò dai cieli il manto azzurro e me ne comporrò un sudario funebre per addormentarmi nel seno della eternità... Eternità! — Io me ne torno alle domestiche mura salutando umilmente per via anche il mendico che mi domanda l'elemosina per l'amore di Dio.

Da ambedue le parti sconfitta: — dall'un lato e dall'altro silenzio di trombe, mormorio di voci inquiete: — i baroni tedeschi e spagnuoli irrompendo dentro lo spazio vietato ricordavano i colpi e le vicende del duello.

«È stato un nobile duello, — quale avrebbero potuto combattere due cavalieri castigliani!» esclamava uno Spagnuolo, cui uno smilzo Tedesco rispondeva:

«Certo degno di due baroni alemanni.»

La querela dichiararono non persa nè vinta, e dalle genti credule fu reputato segno che la fine della guerra avesse ad essere per ambedue le parti infelice; per la quale cosa avesse a giudicarsi la ragione stare di qua e di là, o piuttosto non fosse ragione in nessuna[255].

Dante avendo con giuramento dichiarato ultima volontà del morto Aldobrando essere stata di avere sepoltura negli avelli de' suoi maggiori, potè trasportarsi seco il suo cadavere. Lo accomodò pertanto con amore infinito dentro ad una bara, lo fece con diligenza lavare, poi gli mise attorno l'armatura completa, sicchè pareva un guerriero il quale col sonno rifacesse le forze.

Nell'altra bara composero il Martelli.

Giannozzo, il servo fedele, sostenuto dalla speranza di salvare la vita al diletto padrone, vigilava il trasporto.

Sul tôrre commiato dal principe, in segno di militare onoranza, ordinò si sparassero tutte le artiglierie; al quale frastuono la città, paurosa di sventura, rimase taciturna.

CAPITOLO VENTESIMOTERZO LA MORTE

Nelle man vostre, o dolce donna mia,

Raccomando lo spirito che muore

E se ne va sì dolente che Amore

Lo mira con pietà...

Dante, Rime.

In sull'una ora di notte, la medesima via seguitando, se ne tornarono a Firenze, dove, avvisati i capitani di guardia alle porte e fortezze, risposero con le artiglierie levando clamorosa gazzarra.

Il convoglio procedeva lentissimo; — ad ora ad ora si fermava, affinchè il moto non riuscisse funesto al Martelli; molte torcie bituminose gettavano luce vermiglia, come se per ardere si alimentassero del sangue versato in cotesta infelice giornata: si udìa pel bujo un accorrere di gente e voci confuse ricambiate alla lontana, — poi si vedevano figure avvolgersi intorno alle bare simili alla ridda dei demonii esultanti per qualche gran delitto commesso dagli uomini.

Dante con passi rigidi, le braccia fasciate, il capo pensoso rivolto a terra, cammina in mezzo alle bare; le sue forme, michelangiolesche, l'espressione che loro comunicava lo splendere sinistro delle torcie, incutevano in chiunque lo riguardava meraviglia e spavento.

Giunsero in via del Parione: la medesima gente della mattina si stava affollata alle finestre, — però non come la mattina salutante, agitante i fazzoletti per dare conforto o per causa di onore: nè al suo balcone mancava Maria... misera! gli occhi di lei per troppo piangere non distinguevano bene; — un sentimento indefinito di sventura la teneva oppressa; ma la sua testa cominciava a diventare immemore, — le idee vi trascorrevano sconnesse, o nessun altro vincolo conservavano fra loro, eccetto la continuità di tormento. Non per tanto con le pupille dilatate cercava, come per istinto, un oggetto che non le riusciva incontrare, quando Giannozzo, levando la faccia lagrimosa, le gittò tale uno sguardo che le sommerse l'anima dentro un abisso di dolore: passò l'angoscia ogni segno mortale, e dalle sue fauci ingrossate sfuggì un grido.

Forse il grido della madre che veda l'unico suo figliuolo precipitare nel torrente può assomigliarsi a quello che in cotesta ora lanciò per la notte la povera Maria. — Ma qual cosa quaggiù può assomigliare il grido della madre disperata? Io per me credo che torture d'inferno non valgano a strapparlo uguale dai labbri dei dannati. Gli astanti a quello strano lacerarsi dell'aria portarono ambe le mani agli orecchi, imperciocchè temessero di averli feriti, e pregarono il cielo che per pietà di loro non si rinnovasse. Bocca mortale non può cacciare fuori due volte un suono siffatto.

Passando dalla chiesa di San Michele Berteldi, vi depositarono il corpo di Bertino Aldobrandi: il giorno appresso che avesse sepoltura convenevole piuttosto alla pietà di chi gliela dava che ai meriti di lui curarono. Lo rammentarono pochi; — più pochi lo piansero; il cuore di sua madre, quando ne seppe la morte, sentì dolore per tutti, gli occhi di lei lo lacrimarono per tutti... misera madre! pienamente misera, imperciocchè la gloria mai si inchinasse a consolare quel pianto.

«Alzati!» grida un servo investendo co' piedi il soldato rimasto immobile nel cortile del palazzo Martelli; «alzati e cibati, perchè messere Ludovico ritorna; — e non morto...»

«Oh!» esclamò saltando da terra l'uomo d'arme mutilato; e, immemore di sè, solleva il moncherino in atto di battersi la fronte.

Di fuori si udia come fremito di mare in lontananza; — dentro si vedevano lumi correre di su, di giù, e un affrettarsi di servi e un irrompere senza saper dove. Chi mai aveva così presto apportato la notizia nella casa Martelli? — Un vento precorre l'infortunio, siccome le procelle della natura.

Il mutilato si precipita alle porte, quinci tende lo sguardo per le prossime vie; dappertutto erano tenebre, se non che all'improvviso il popolo allaga il terreno, non pure a udirsi, ma ben anche a vedersi somigliante all'onda nera di torrente infernale: poco dopo le torcie diffondono sinistro splendore, — poi appariscono le bare, — poi il gigantesco Dante da Castiglione, davanti al quale l'onda del popolo si apriva, non altrimenti che le acque del fiume grosso davanti il petto di poderoso cavallo intento a guadarlo.

Nè il mutilato potendo, atteso la gente, percorrere lo spazio che lo divideva dalla bara, mandò fuori un guaito in accento di domanda:

«Morto?»

Dante rimase percosso da cotesta voce, e sebbene non si accorgesse da cui moveva, pur comprendendo dal suono quanta angoscia travagliasse l'anima di quello che lo proferiva, rispose per tôrlo dalla incertezza:

«No: vive.»

Con infinito amore fu il Martelli portato e deposto entro al letto; — gli rinnuovano l'apparecchio; — lo circonda Giannozzo con le cure di madre: Dante non si mosse più dal suo fianco; — seduto sopra un basso sgabello, con le mani si abbracciando le ginocchia su quelle riposava la faccia ed attentissimo porgeva l'orecchio se più o meno uscisse affannoso l'anelito dal petto dell'infermo.

Le ferite erano di per sè stesse pericolose, non mortali; — ma l'anima stette percossa in maniera che forte dava a dubitare se si sarebbe rilevata più mai. Il volto gli si faceva con incessante vicenda ora bianco, ora di fuoco; — la vergogna gli spingeva il sangue alla fronte, urtandogli dolorosamente il cranio, — l'ira glielo richiamava intorno al cuore: non tregua mai nè riposo: un zufolìo acuto gli strazia i nervi, sicchè spesso si scuote e si distende rigido, come se il trisma lo assalisse; — talvolta un rapido roteare di fiamme par che lo investa e seco lo trascini; onde, temendo gli manchi sotto il terreno, sporge le mani per afferrare un oggetto qualunque, e supplica Dio che alcuno lo liberi dal precipitare. Sovente si lamentò che sua madre lo lasciasse così nudo e assiderato giacersi in mezzo a nevi insopportabili; più spesso esclamò: «Levatemi questi carboni di sotto, perchè mi arroventano le carni! — Mi avete esposto alla bocca dell'inferno! — Voi mi avete tradito! — Mi avete sorpreso in mezzo al sonno per trasportarmi nei deserti dell'Africa! — È il tormento di Busiride!...»

Questo delirio nasceva, per così dire, dai dolori fisici; a mille doppi più doloroso era quello che ei cacciava fuori stretto dallo spasimo morale, e:

«Dove mi trascinate voi?» gridava. «Io non voglio il paradiso, tenete per voi, angioli e Dio, le vostre celestiali allegrezze, — il mio cuore mortale non sa concepirle. — Tu sei, Maria, il mio paradiso; — Maria, vedi quell'aquila sopra codesta roccia dirupata?... vieni... vuoi tu che la raggiungiamo col volo?... vieni... stringimiti alla cintura... oh! come scorriamo leggieri... come andiamo in alto! — perchè gemi, Maria? — Ti offende forse quel suono lontano che pare di sospiri? Non badarvi... e' muove dal brulichio che fa su quel punto nero la razza delle formiche infernali che si chiama uomini, — la razza dei miserabili che si vanta simile a Dio e si divora sopra un pugno di terra insanguinata, — che si contende le sepolture. Maria, stringimi forte... la procella mi ha rovesciato l'ale... misericordia! la bufera mi trabalza, mi travolge peggio che filo di paglia... si fendono i cieli.... ci fulminano coll'acqua e col fuoco. — Bene! se la tempesta non avesse lampi, io morirei... ma finchè uno splendore — o di sole o di fulmine — mi mostrerà il tuo volto... io sarò lieto, Maria. — Guarda, Maria, studia il passo, imperciocchè su queste verdi erbe e odorose che tu calchi improvvida ha strisciato il serpente, — e il serpente, lo sai, insidia il piè della femmina da quel giorno in cui una donna chiamata come te, o Maria, gli calpestò la cervice.. ecco la biscia! salvati! — Gran Madre di Dio, ella non mi ascolta! — si compiace nel suo sorriso!... il sergente l'ha affascinata!... ti salverò tuo malgrado... Ahimè! sono ferito! il mio sangue si tramuta in veleno... come mi pesa il cuore! come mi pesa la testa! — Io muoio di sonno...»

E qui si addormenta, e tutto il suo corpo stilla sudore; — poi con piccola voce rispondeva:

«Ti amo tanto, Maria! — non fuggirmi... accostati... io abbisogno di sentirti alitare... se mi ponessero dove non è aria, io mi nudrirei del tuo alito... se dove non è luce, mi scalderei al tuo sguardo, — tu mi saresti il creato; — ma deh! Maria, non amare il Bandino. — In fede di gentiluomo egli non merita il tuo affetto... senti! — Io ho versato il sangue per Fiorenza! — egli trucidò la patria; me benedisse il cielo con un raggio di poesia.... costui è chiuso ad ogni senso di bello... e poi... io dico o lo taccio? — Te lo dirò... io l'ho contemplato fisso più di un'ora... ho partitamente distinto il volto e la persona... mi sono fatto qui nella mente la sua immagine con la tenacità dell'odio, e subito corsi ad uno specchio per paragonarmi con lui; — in verità io lo vinco in bellezza; — egli ha gli occhi smorti, infossati, livida ha la sembianza e truce; — i miei occhi splendono lucidissimi, — ho bianco il colore... l'aspetto benigno... amami dunque; — e se non vuoi amarmi, — sia, — ma non abbandonarmi... a me basta che tu mi tocchi con i tuoi piedi... io porto invidia al pavimento della tua cappella... detesto quasi il tuo libro di orazioni... lui beato! — Senti, io sarò qual più mi vuoi... se mi dirai: piangi, io piangerò con tutte le viscere, perchè sono nato a questo: — se m'imporrai ch'io rida.... ed io mi sforzerò, — riderò, — e sempre terrò riposto un pugnale nel seno per uccidermi quando mi dirai: sgombra da questa terra... — perchè non mi rispondi, Maria? — Dove vai? — Perchè ti allontani? — Chi è colui che ti chiama? — Ah! — s'intrecciano per le braccia... ridono forte.... bisbigliano sommessi... si volgono... si schermiscono... Morte di Dio! Il Bandino! — Maria si allontana col Bandino!»

... e spingere la stoccata nella gola del nemico; insomma gli accorgimenti tutti della scuola italiana,... Cap. XXI, pag. 465.

«Questa è cosa che non può durare!» esclamò Dante da Castiglione la sera del 3 aprile del nuovo anno 1531.

I miei lettori sanno i Fiorentini avere il costume di cominciare l'anno il 24 marzo, perchè in quel giorno cade la solennità della incarnazione di Cristo: l'uso d'incominciare l'anno dal gennaio data da epoca assai meno remota a quella che percorre il nostro racconto.

«Questa cosa non può durare!» replicò Dante, «corrono ormai venti giorni dal duello; le sue ferite appaiono rimarginate; — il corpo ha riposato... nè il delirio cessa... forse... Giannozzo!»

Dante si strinse in segreto colloquio con Giannozzo, e dopo pochi momenti, tolto il mantello, che la notte era fredda e piovigginosa, s'incamminò a gran passo verso Parione alla casa della vedova Benintendi.

«Ella è in casa madonna?» domandava il Castiglione alla fante che venne ad aprirgli l'uscio.

«È.»

«Ditele, un cavaliere desidera favellare con lei per cosa onde ne va la morte o la vita.»

«In mal punto veniste, messere; adesso sta rinchiusa in cappella nè vuole essere sturbata nelle sue orazioni.»

«Non importa: andate in ogni modo.»

«Con buona licenza vostra io non andrò, messere.»

«Va, per Dio! e dille Dante da Castiglione instare per vederla... Il caso è grave... io voglio vederla, — intendi?»

La fante obbediva, imperciocchè lo sguardo di Dante, commosso a furore non consigliava a fargli troppa opposizione, — quindi a poco tornava la fante per dirgli, non senza un qualche dispetto, entrasse liberamente.

«Madonna!» favella Dante con quei suoi liberi modi, salutata in prima Maria, «spero mi conoscerete... io mi chiamo Dante... e sono di casa Castigliona.»

«Messere, dei vostri illustri fatti così piena è la fama che...»

«Eh giusto, madonna, si tratta adesso di questo! — Io non lo diceva mica per quello che pensate voi, nè anco per ombra», interruppe Dante, il quale, comunque in campo feroce, nel foro audacissimo, manteneva nei socievoli commerci peritanza virginale, «io lo diceva soltanto per conoscere se voi mi tenevate in concetto di gentiluomo onorato.»

«Onorato! Voi mi parete quanto onore viva al mondo.»

«Bene; — e sopratutto discreto.»

«Io vi venero come padre, se non fosse peccato direi come Dio.»

«Bene via: ora dunque, Madonna, ascoltatemi se volete, non sono troppo destro nell'arte di favellare con femmine; voi mi confondete, — quasi mi fate obbliare la cagione per la quale mi condussi in vostra casa... però, siccome penso essere le vostre parole sincere, io ve ne profferisco col cuore quelle grazie che so e posso maggiori, — e di ciò basta. — Conoscete voi Ludovico Martelli? Se voi nol conoscete, non monta, — egli invece conosce, e più che non gli farebbe di mestieri, voi; — insomma egli sembra preso da svisceratissimo amore per voi, madonna Maria; — già corrono venti giorni dal duello, le sue ferite si rimarginano, ma il suo cuore ha tale una piaga alla quale eccellenza di fisico o virtù di farmaco non giovano; — il più del tempo vaneggia, e voi chiama e voi prega che non lo sprezziate, altri non gli preferiate in amore; ed invero qualora ciò faceste, voi avreste il torto, madonna, perocchè sia il più gentile cavaliere che viva in Italia. — Ora non credete voi che la presenza e parole vostre gli apporterebbero altissimo conforto? Io penso che sì, — e forse varrebbe a fargli deporre quella ostinata voglia di morire che tanto lo assale; — venite dunque, madonna, e per voi sia conservato un difensore alla patria, un amico ai suoi amici, a molti infelici un benefattore, i quali da lui in fuori non hanno sostegno altro su questa terra. — In quanto all'onor vostro non dubitatelo vi giuro in fede di gentiluomo che non solo non iscapiterà, ma acquisterà nuovo pregio; imperciocchè, se a voi piaccia, — rimarrà ad ognuno celata la cortesia vostra, o se venisse per accidente a sapersi, fu ed è sempre nobile ufficio di gentildonna sovvenire senza pregiudizio della sua onestà di pietosa aita un cavaliere prestante.»

«Messere Castiglione, che cosa mai pretendete da me?»

«Nulla, madonna, che a me non paia convenevole al vostro decoro, al giusto consentaneo ed all'onesto; io per me, quando sto in procinto di commettere azione la quale possa essere giudicata diversamente dagli uomini mi pongo una mano sul cuore e mi consiglio da lui; se egli approva, ed io con animo lieto la imprendo, imperciocchè quando l'uomo sta bene con sè, vedrete che gli altri terminano sempre di star bene con lui.»

«Non vi sia grave, messere, attendere per brevi momenti», interruppe Maria; e lasciato Dante soletto, passò in altre stanze.

Dante, rimasto senza compagnia, si pone a passeggiare turbato mormorando:

«Ma doveva pure conoscere che non vi sarei riuscito! Io non mi sento acconcio a cosiffatte bisogne; la parola stretta in quattro mura mi manca; dei concetti che penso ad aria aperta non mi riesce aprire la millesima parte dentro una stanza; avrei dovuto affidarne l'incarico a qualcheduno dei miei amici così valenti a ragionare per filo e per segno su la stagione, sul caldo, sul freddo e su tante altre belle cose che pare un incanto; — io non so quali argomenti adoperino, ma, a sentirli dire, e' ti sembra proprio vedere quello che espongono; e se ti vogliono cacciare addosso il furore, tu sbuffi come toro ferito; se piace loro farti piangere, tu piangi... Oh! se potessimo tornare a vivere due volte io porgerei ascolto a quel buon padre Zaccaria il quale sudava acqua e sangue a farmi leggere su que' suoi libri latini: — ma a quei tempi io ne facevo turaccioli per l'archibuso! Quante volte ho ammazzato un colombo con un'egloga di Virgilio e con un pezzo di piombaggine levata dalle vetriere della cappella...»

Gli troncava le parole Maria, la quale, tornando coperta di una specie di gabbano di colore sanguigno, disse:

«Deh! cavaliere, siatemi cortese di porgermi il vostro braccio, e andiamo...»

«Favellate da senno? Oh siate benedetta! Dopo Maria Santissima, e madonna mia madre, la femmina che d'ora in poi terrò più in pregio sarete voi...»

«Ludovico!» chiamò Dante con voce soave accostandosi al letto.

«O Dante mio, se' tu?»

«Ti senti un po' sollevato, Vico?»

«Sollevato? Sì... certo... sollevato verso il cielo; — il mio fine si avvicina... eppure mi parrebbe di morire contento, se potessi una volta — una volta sola contemplarla... udire dalla sua bocca che... non mi abborre... Maria!»

«Senti, Vico... e s'ella venisse?...»

«Chi venisse?»

«Colei che desideri tanto, — colei che così spesso chiami, — Maria.»

«O mio diletto, e perchè vuoi rendermi fuori di misura angosciose le ore della mia agonia? Forse non ho sofferto abbastanza? — Io manco di vigore per consumarmi nell'anelito di speranza che ha da riuscire vana...»

«Ella verrà.»

«S'ella avesse promesso di venire tra un secolo, io, vedi, Dante, amico qual tu mi sei, ti ruberei la vita per aggiuntarla alla mia e così poterla aspettare...»

«Ed io non aspetterei che tu me la togliessi... io te la donerei;... ma ella verrà prima...»

«E quando?»

«Tosto; anche adesso.»

«Oh venga!... subito... venga! — Il mio cuore non m'inganna., — io non la vedo, — ma il mio sangue sente la presenza di lei. — O Maria! — o Maria! — Guarda in che stato si trova ridotto il tuo Ludovico — Maria!»

«Ahi Ludovico! Non ti bastò vedermi sventurata, tu mi hai voluta anche iniqua.»

«Nè sventurata nè iniqua. Io ti ho mantenuta la parola. — Non ti giurai lasciarmi uccidere? Ecco, come vedi, io batto alla porta della morte; — desiderava di non arrecarti l'affanno di udirmi un'altra volta... al cielo piacque altrimenti... io non poteva fare di più... apersi il mio seno all'odiato nemico. Oh! perchè non vi spinse la spada più forte — Non pertanto, vicino a comparire davanti al tribunale di Dio, nel mio seno mortale comprimo la rabbia... ed ogni altra passione che ci viene dalla terra, per dirti che Giovanni Bandini... non è un codardo.»

«Ludovico!»

«Poichè gl'istanti della mia vita sono numerati, non mi volere interrompere, Maria. — Egli non è un codardo... bensì traditore... in ciò non lo scuso, nè Dio lo scuserà... — Io amerei poterlo avere in pregio, — vorrei potere renderlo onorato, — degno in tutto di te. Forse le lagrime del pentimento hanno la virtù del battesimo... San Pietro rinnegò Cristo... San Paolo lo perseguitò... Tu dunque imprendi a fargli detestare il suo misfatto... convertilo alla patria... almeno tentalo; e se il cielo seconda la tua opera, Maria, confida a quell'uomo la tua sorte... amalo... che bene lo amerai. — Per me poi... io era nato a morir presto — troppo gran fiamma ardeva nel mio petto perchè non mi consumasse veloce; — non mi uccide il ferro del Bandino bensì la mia passione, — il tempo mena l'oblio; — bene spesso la lapide del sepolcro seppellisce col morto gli affetti dei vivi. — Nè, quando pure mi fosse concesso, a te felice vorrei comparire dinanzi ombra dolente, nè desidero insinuarmi pensiero miserissimo a turbarti le gioie dell'anima — E' v'ha un'ora nella notte, nella quale i sepolti nei chiostri dei conventi sembra che mandino su pel campanile una voce di bronzo ai morti della prossima chiesa, e questi a quelli di un'altra, finchè quel suono si disperde nello spazio quasi per domandare a tutti se debbano continuare a dormire o se pur giunse il tempo di presentarsi al giudizio finale... ora consacrata alle meste memorie — alla ricordanza degli antichi trapassati... Maria, in quell'ora... in quella invocazione dei defunti alla preghiera pei vivi, ricordati di me che ti amai tanto... tu poi non mi ami, o Maria...»

«Io?»

«Tu non mi ami, e lo so; — perchè vorresti lusingarmi adesso? Io intendeva assuefarmi a questo veleno... egli fu assai più potente di me e mi ha divorato le viscere. — Che cosa vuoi farvi? — ormai le viscere sono corrose. — Però non dovrebbe increscerti ch'io muoia per te... anche a Dio piacciono gli olocausti di sangue... Addio! — Talora vorrei supplicare l'Eterno, che a tanto peso di sciagura condannò la mia giovanezza, di poterti mettere in oblio, Maria,... ma io non posso invocare il mio inferno... e d'altronde quanto è tremenda angoscia, mio Dio, quella di uno spirito immortale che per la durata di secoli senza fine si affanna in un amore che non può ispirare altrui... O Creatore! sovvieni alla tua creatura. O Cristo! alle spine, ai chiodi, alla lancia nel costato la tua anima spirò... io sopravvivo alle mie ferite...»

«Ludovico, confortati, vivi per essere felice; — se, come dici e come credo, tu mi ami tanto, a nome dell'amor tuo, io ti prego, — io t'impongo di vivere: — la mia vita ebbe uno splendido mattino; tu vedi come la funesti tenebroso il vespero; — beato te, a cui certamente si apparecchia una vicenda diversa!»

«E il tuo destino, Maria?»

«Io sono morta al mondo: — anche me ha consumato la mia passione; — io per me credo avere vuoto il seno, — o se alcuna cosa dentro vi avanza, ella è un pugno di cenere. — Gli affetti d'ora in poi traverseranno il mio cuore quasi pellegrini nel deserto, o affrettandosi a fuggirlo, o vi rimanendo sepolti; — ma il cielo, — e solo il cielo lo può — nella sua misericordia illuminerà con speranza questa caligine di dolore, — ravviverà lo spirito contristato col refrigerio della divina compassione.»

«Ahi Bandini! Bandini!»

«Deh! Ludovico, che questo nome non ti sfugga dalle labbra più mai; — io non ho fibra che mi stia ferma nell'udire cotesto nome d'infamia; io lo abborro: lo avrei amato infelice e perseguitato, — lo avrei seguito sposa, ancella, tutto, in qualsivoglia plaga del mondo; se il sole avesse troppo ardenti piovuti i suoi raggi, nè albero o frasca avesse portato la terra per ripararlo, io mi sarei sciolta i capelli, e, glieli diffondendo sul volto e sulla persona, gli avrei detto: Riposati all'ombra, diletto mio; — se trapassando una landa nevosa non avessimo trovato asilo nessuno, io mi sarei incisa le vene e lo avrei scaldato nel tepido lavacro del mio sangue... La vita, oh! è egli un sacrifizio dare la vita per l'uomo del nostro amore? — Adesso... io lo abborro; il traditore non potrebbe dirsi punito, se trovasse un asilo dove ricovrare il suo capo; — a lui sia padre il delitto, consorte la paura, figlio il rimorso, — in lui si rinnovi la maledizione di Caino; — viva una lunga agonia, — col terrore di essere riconosciuto e lapidato, viva una vita immortale.»

«Se come parli, tu senti, Maria, — ecco, io ti aspetto a braccia aperte... vieni... oh! vieni... a farmi palpitare di speranza e di amore...»

«Ormai io sono sacra: con giuramenti solenni io mi legava a Dio; — lo supplicai di pace, ed egli m'indicò la quiete del monastero: — tra poco queste mie chiome cadranno recise; — in breve udrò su me viva salmeggiare le preghiere dei morti: null'altra cura in me, tranne quella di scavarmi la fossa, — null'altro pensiero tranne quello di stancare quotidianamente il mio Creatore, onde gli piaccia abbreviarmi questa veglia incresciosa che si chiama vita; null'altro mi starà a cuore, Ludovico, finchè le mie labbra si chiudano alla parola, che offrire voti a Gesù e alla santissima sua madre Maria, onde ti concedano giorni riposati e dolcezza di sposa e orgoglio di figli generosi, — magnanimi, — a te somiglievoli.»

«Odi, Maria, — senza ferro, o laccio, o veleno, o mezzo altro esterno di levare me stesso dal mondo, io sento stare nella mia volontà sola il vivere o il morire; se il tuo destino vorrai, aggiungere al mio, — ecco, io vivo; se tu lo neghi, io spiro.»

«Ludovico, ho giurato...»

«Un sacerdote ti scioglierà dal giuramento e ti porrà in pace col cielo.»

«E chi mi porrebbe in pace colla mia coscienza?»

«L'amore.»

«Ho giurato! ho giurato! Lasciami... io sono sacra... Invano speriamo felicità dallo spergiuro. Dalla soglia del sepolcro, dove io m'incammino a seppellirmi viva, ti supplico a vivere... Addio! Perchè prolunghiamo questa ora piena di amarezza? Addio! Il Signore, che contempla il nostro sagrifizio, ci somministrerà forze non isperate per consumarlo... rammentati in cielo chiamarsi gloria quello che in terra si va dicendo martirio[256]

«Or dunque addio! Però, in questa ultima ora dalla quale ogni vivente tremando rifugge, una grazia ti chiedo, Maria, una grazia che può rendermela la più lieta di quante io ne abbia goduto nel mondo, tale per cui il paradiso e le sue gioie mi sembreranno una continuazione di morte...»

«Chiedila, Vico...»

«Nè io oserei domandartela, se subito dopo non dovessi avvilupparmi nel manto della eternità. Ma il volto di colui che sta per essere coperto da una lapida può animosamente svelare il suo desiderio. Il mio sangue, più che mezzo gelato, non colorirà più la mia fronte col vermiglio della vergogna...»

«Parla, via, in nome di Dio!»

«Maria, ho sete di un bacio... Maria, questa è la sete degli agonizzanti... Ah! lo rifiuta. Spinto desolato traverserò lamentando i regni della morte, siccome disperando ho consumato la vita.»

«Ludovico!» tutta tremante favella Maria e nel favellare si curva, «possa non prenderne nota l'angiolo accusatore, o cancellarlo l'angiolo della pietà... eccoti un bacio...»

«Un altro! Oh un altro!... mille altri ancora!»

E con un impeto che sembrava, ed era, rabbioso, forte le avvinghia ambedue le braccia intorno al collo: — la testa della donna tiene strettamente congiunta con la sua; l'una respira l'anima dell'altro. — Ludovico, traendo un gran sospiro, esclama:

«Questo abisso di contentezza supera la mia natura mortale!...»

La donna, immemore, non ardisce abbandonare quella bocca; intanto il suo pensiero volgendo a considerare quanto fedele amatore si fosse costui e qual tesoro di affetti nel suo cuore accogliesse, sente vacillare il suo proponimento di rendersi a Dio; spera le sia rimesso il voto, nella sua mente delibera premiare tanto amorosa costanza: — la concetta durezza le si scioglie, quasi neve tocca dal sole, e giù per le guancie le scorre uno sfogo di dolcissime lacrime. — Allora raddoppiando il delirio dei baci esclama:

«Vico, tu hai vinto Dio.... io ti amo!»

Non risposta, — non moto, — non fremito di fibra: — or come può esser questo? — Ella guarda.

Ludovico tiene gli occhi dischiusi... ma fissi... ma vitrei: — le labbra aperte, — tese, — scolorate, — fredde.

«Gran Madre di Dio, che avvenne mai?»

Ella tenta svincolarsi; — le braccia di Ludovico la stringono come tanaglie; prorompe in altissime strida, — accorrono... ahimè! ahimè!

Ludovico è morto e par che seco voglia strascinare nel sepolcro la donna amata.

Povero Ludovico! Infelice Maria!

Il giorno appresso, in mezzo alla sala del palazzo Martelli, sopra magnifico letto il corpo del defunto Ludovico era esposto alla vista dei popoli.

Giannozzo apparecchiò quel letto, l'ornò dei panni più doviziosi serbati nelle arche della famiglia; intorno intorno vi dispose i drappelloni con tutte le armi entrate per via di parentado o in altra guisa in casa, siccome correva il costume di fare ai funerali dell'ultimo fiato d'illustre prosapia; — poi lavò diligentemente il cadavere del suo diletto signore, lo profumò con acqua nanfa ed altri preziosissimi odori, gli pose addosso la vesta dei giorni solenni: — ciò fatto, gli stette accanto immobile, come ogni giorno vediamo lo scheletro davanti un feretro; — quantunque al fedele Giannozzo la vita tuttavia durasse e il dolore, nessuno oggetto avrebbe meglio di lui rappresentato la immagine della morte.

E il giorno dopo aprirono l'avello della famiglia Martelli; — ma per due. Giannozzo, colto nella notte di apoplessia, che in quei tempi chiamavano accidente di gocciola, fu trovato alla dimane ghiaccio nel letto, — e il letto era bagnato... segno certo che il buon servo non trapassò dal sonno alla morte, — sibbene dal pianto alla eternità. Dio apra le sue sante braccia a cotesta anima degna!

Su quell'avello nei tempi susseguenti furono veduti venire quotidianamente a pregare un uomo ed una donna: — erano l'uomo d'arme mutilato e la vedova.

Certo dì la femmina non comparve; — simile al corvo dell'arca, dimenticò l'asilo che l'aveva riparata. Mercè le larghezze del nobile Ludovico, le fu fatta abilità di accasare la figlia con certo giovane di onesto lignaggio. Caduta la Repubblica, istituito il principato, quel giovane ottenne di presente notabile ufficio, lo sperò nel futuro maggiore: allora, consapevole del come procedesse sospettosa la nuova tirannide, consigliò la suocera di rimanersi da coteste visite giornaliere; e la suocera cessò, imperciocchè all'utile d'oggi ci riesca lieve, oh! anche troppo lieve, sagrificare la gratitudine di ieri: — e poi tutti gli affetti hanno la propria stagione, — e adesso per quelli della vedova correva la stagione dell'inverno. La riconoscenza si stava attaccata alla sua anima come una foglia pallida al tronco inaridito, — qualunque soffio di vento bastava a divellerla e fu divelta: — inoltre quello andare incessante la infastidiva, e nondimeno senza sapersene dire la ragione continuava: — quando cessò si accorse come il cuore da gran tempo non vi contribuisse più in nulla; — le faceva forza l'abitudine: — prossima a morire, la sua anima assumea la durezza della lapide. Il mutilato invece nè per tempo sinistro nè per ingiurie, che gravi e spesse n'ebbe a soffrire sotto il duca Alessandro, nè per minaccie che contro di lui operassero, mancò un giorno solo di visitare il sepolcro del suo benefattore; — però anch'egli alfine una volta non venne, — ma la scusa non recò ingiuria alla pietà; — lo aveva trattenuto la morte.

CAPITOLO VENTESIMOQUARTO IL SACCO DI PRATO

Ma chi pensasse al poderoso tema

E all'omero mortal che se ne carca

Nol biasmerebbe, se sott'esso trema.

Dante.

Sei tu mai salito in cima alla cupola di Santa Maria del Fiore?

Se vi sei salito, ti ricorda del punto in cui, abbandonate le consuete scale, ti fu forza appigliarti alle staffe esterne di ferro per giungere alla palla che incorona la cattedrale di Firenze.

In quel momento ti venne fatto per avventura di porgere l'orecchio verso la terra? Allora tu avrai udito un rumore indistinto di voci umane che muore poco oltre i lembi del cielo. — mentre invece, quando il cielo parla alla terra, egli la scuote ne' suoi più intimi penetrali con la magnifica voce del tuono. — E se nel medesimo tempo ti piacque declinare lo sguardo, avrai veduto gli uomini, e ti saranno parsi quello che veramente sono: insetti brulicanti sopra una terra che li produce e li divora.

O superbi! Si annoverano esse le foglie che cadono nei giorni d'autunno? Voi siete meno che foglie cadute o cadenti dallo immenso albero della natura.

Se tu pertanto, sospeso tra il cielo e la terra, queste cose udisti o vedesti, e non ti strinse la paura di precipitare, — beato te! — Dio ti concesse nervi di ferro.

A me giunto in questa parte del mio faticoso lavoro sembra sentire lo sconforto che in quella occasione mi assalse: mi trema l'animo.

Fossi io potente come l'aquila delle Alpi! Dalla vetta del più alto comignolo dei monti patrii caccerei un grido che scuotesse dal capo alle piante la mia patria diletta e mi nasconderei volando nella immensità.

Ma io sono un povero novellatore; ho sbozzato un colosso, ed ora mi fa ribrezzo a vederlo; — non mi attento accostarmivi per sospetto che, debole com'è sopra la base, non mi si rovesci sul capo e non m'infranga...

Oh la vita misera ch'io meno! Il mio cuore ha sentito una voce che l'intelletto non seppe comprendere e le labbra non sanno ridire. Con pochi cannelli di carbone sopra una rozza parete mi prese vaghezza di effigiare l'Iliade... il divino poema! — Accorre la gente e ride; — pochi, i migliori, ne sentono compassione.

Dite, — pensate voi forse essere questa opera di gloria od esercizio di vanità? Voi v'ingannate, — ella è opera di dolore e di amaritudine di spirito: ella è opera di vendetta e di terrore: ella è opera di eccitamento e grido di resurrezione: io la porterò al termine senza soccorso di Cireneo, quando pure dovessi cadervi sotto tre volte, — quando pure dovesse, come la croce di Cristo, convertirsi nel mio supplizio.

Che importa poi che la sua memoria vada dispersa con le sue pagine? Nè a me nè ad altrui dorrà di certo che caschi nell'obblio; di lieto cuore invoco che la scintilla rimanga perduta nelle vampe, a patto però che desti lo incendio.

Questi libri battaglie, queste scritture agonie non ponno e non vogliono essere compresi che dalla gente oppressa da lunga, immane e abborrita tirannide, e che ha fermo di strozzare anche quando dovesse morire un'ora dopo.

Imperciocchè due cose non possono contemplarsi senza pianto come senza ira nel cielo o sopra la terra: — la morte di un Dio e la morte di un popolo.

Ma Dio dopo tre giorni risorse; — a quando la resurrezione del popolo?

Se le giornate della servitù si compongono di cento anni, — tre secoli già sono scorsi dacchè il mio popolo cadde...

Si approssima l'ora? — non so, ma gli armati vigilanti alla custodia del sepolcro tremano; non gli assicura la pietra che vi posero sopra...

Intanto io piango la morte di un popolo, perchè un altro ne rinasca.

Però alla mia mente per ora si affacciano solo sinistre fantasie, perchè il mio cuore è inebbriato delle ultime lacrime piante da una nazione caduta, perchè il sibilo delle ossa de' suoi grandi travolte dalla bufera forma il suono che accompagna la mia storia.

Tristo o beffardo, il mio grido move dallo spasimo di piaga insanabile.

Via, lasciatemi lamentare in pace sopra la terra de' miei padri, — poi mi coprirete con le ceneri delle sue desolate città.

Perchè, quando il poeta stenderà la destra al salice per istaccarne l'arpa e cantare l'inno della risurrezione, possa con la manca raccogliere i fiori che la natura avrà fatto germogliare sopra la mia fossa e comporsene una corona.

O Italia mia, tutte le miserie di Gerusalemme ora tornarono più incomportabili che mai ad aggravarsi sopra di te; — nulla ti manca della città riprovata, tranne il compianto de' suoi profeti.

A me basta l'animo per essere il tuo profeta.

«La miglior patria nel mondo è la groppa di un cavallo che corre», ha detto il poeta arabo, e il poeta per questa volta non disse la verità: buono è il cavallo che corre quando la notte ingombra la terra e la necessità ti stringe di passare tramezzo ai nemici che occupano il tuo paese all'intorno.

Allora, anche quando il corsiero divorasse la via, come nella ballata di Leonora, il cavaliero griderebbe pur sempre: All'ali! all'ali! Allora se volge gli occhi al firmamento, invidia la facoltà che Giob attribuisce al Signore di tenere suggellate le stelle, e maledice la quarta giornata della creazione.

Vico, Annalena e il padre di lei, affidati a poderosi cavalli, fuggivano traverso la moltitudine dei nemici; ogni speranza di salute ponevano nella velocità.

E a Vico, oltre quei due capi diletti, importava di porre in salvo cosa da cui forse pendeva la salute della Repubblica; — la commessione dei Dieci al Ferruccio di tentare gli estremi rimedii alla tutela della patria: — egli non aveva potuto consentire di separarsi dal fianco nei pericoli di quella fuga la sua amata Annalena; — malgrado il disagio, la volle seduta in groppa al suo corsiero e con ambedue le braccia stretta intorno alla sua vita. In questo modo correvano e non proferivano parola.

Dalla rapidità del moto nasce durante il giorno una specie di ebbrezza lieta di fiori, di luce, di cose e di animali: — nella notte, piena d'immagini sinistre e di fantasime spaventose; — e poi l'aria soffiava umida, — investiva le membra un tepore quasi alito di febbre, — il sangue si rimescolava nelle vene a modo di metallo fuso.

Annalena chiude gli occhi e sempre più forte si appiglia ai fianchi di Vico, ma indi a poco il tenerli chiusi le incresce, e li riapre non già riposati, anzi maggiormente sconvolti dalle tristi visioni del suo pensiero.

E guardando la terra, le sembra che la via le fugga di sotto, mentr'ella crede di rimanersi ferma; — gli alberi le appaiono la schiatta dei giganti resuscitata che corre al giudizio finale; — l'agitarsi e lo stormire delle frondi un piegare dei capi loro e un susurrarsi parole misteriose di favella sconosciuta; — un suono di gemiti e di preghiere di trapassati ingombra quanto è vasta la campagna. Se atterrita volge lo sguardo al cielo, ecco ella contempla rovinare da un lato le nuvole e dal lato opposto precipitarsi la luna colla foga di cavalla selvatica per le lande della Lituania; — vede ruotare vorticoso il firmamento, sicchè teme l'ordine della natura consumato, le leggi dell'armonia sospese e la creazione prorompere nell'antico suo caos.

E Vico sentendo intorno ai fianchi una stretta convulsa le domanda:

«Lena, tu tremi?»

«Sì, ma di freddo.»

In questa medesima maniera è fama rispondesse Silvano Bailly al carnefice quando lo strascinava assiderato per le vie di Parigi al supplizio; — e forse Silvano Bailly, come il mio personaggio, non diceva il vero, imperciocchè l'anima che si consacrò intera al miglioramento degli uomini, se consideri gli schiavi liberati avere convertito le loro catene non già in ispada per difendersi contro i tiranni, sibbene in mannaia per percuotere i liberatori, ha paura, — ella trema dei destini della umanità, — e se può non tremare per sè, trema per Dio!

Venuti al sommo di una altura, lanciano lo sguardo nella sottoposta vallata e vedono facelle andare in volta di su e di giù, quasi lucciole vaganti alla campagna nelle notti di estate. Da prima Vico n'ebbe sospetto; — si fermarono tutti; — all'improvviso uscendo egli dalla meditazione,

«Avanti,» esclamò, «non v'ha pericolo... indovino l'avventura.»

Nè furono andati gran tratto di strada che sentirono i passi precipitosi di uomo che fugge, e poco dopo videro trapassarsi d'accanto un'ombra, e dietro alla lontana accorrere un altro che affannosamente gridava:

«Alla croce di Dio! misleale, marrano, fermati... se ti aggiungo, ti ammazzo come un cane... ahi! tristo ladro! — Arrestate il ladrone — Al ladro! al ladro!»

Quando fu presso a Vico, questi gli domandò:

«Che hai tu, villano?»

E il villano rispondeva:

«Oh! messer cavaliere... udite la mala azione che mi ha fatta Giomo di Lapo... Eravamo andati insieme a spogliare i morti... perchè in verità nei tempi che corrono non abbiamo altro mezzo da campare la vita... ed avevamo raccolto un buon fastello... un pesante fastello in verità; ed egli disse: Mariotto, portalo prima tu, e quando ti sentirai stanco, io ti rileverò; — ed io com'ei disse feci, e non credeva mi volesse ingannare, che uguanno a maggio gli battezzai un figliuolo; — e quando mi parve essere lasso lo chiamai: — Fratelmo, dammi aita, ch'io più non posso; — e il tristo rispose: Va pure innanzi un altro mille passi, che io allora prenderò il fastello e senza darti altro impaccio lo porterò fino a casa: — ed io mi sforzai, finchè, rifinito di lena, fui per cadervi sotto. — Giomo allora, ch'è giovane ed aitante di persona, mi tolse il carico e, recatoselo prestamente in ispalla, cominciò a camminar forte e a dilungarsi da me; — alla prima svolta della strada con quanto aveva di forza nelle gambe si cacciò alla dirotta a fuggire», ed io vecchio e stanco ormai dispero raggiungerlo; — egli dimani ciberà sè e la famiglia... io, se torno a casa, vedrò morire di fame la mia... Oh! io non tornerò a casa... tanto anche qui vi è terra da seppellirmi!»

E piangendo lasciò cadersi in mezzo della via. Vico gli gittò un fiorino. Il villano, quando l'ebbe riconosciuto al tatto e al chiarore della luna in quel punto velata da nuvole meno dense, balzò in piedi e, senza rendere grazie, deposta a un tratto la vecchiezza, la stanchezza e il dolore, con alti scoppii di risa si dileguò per la campagna.

Proseguono la via, ed ecco un nuovo incontro; — due villani avviluppati insieme rotolavano sul fango; — alfine uno prevalse, e puntato un ginocchio sul petto dell'altro e forte stringendolo per la gola, gli diceva:

«La catenella dorata la voglio per me... me la darai?»

«Io la vidi primo, — dammela... o ti strangolo...»

E l'altro, quantunque dalle fauci compresse potesse appena articolare parola, ostinato nella rabbia della rapina, rispondeva:

«Io prima la presi... la voglio per me...»

«Dunque ti ammazzerò.»

«Ammazzerai tuo fratello? — E che dirai a nostro padre?»

«O scellerato!» grida Vico mettendo fuori la spada, «lascia il tuo fratello, o se' morto...»

La libidine di guadagno vinceva nel nuovo Caino la paura della morte; — sentiva il ferro penetrargli nelle carni e non abbandonava la gola del fratello: fu mestieri che Vico e il padre di Annalena scendessero e a forza gli separassero: — appena il fratello ebbe lasciato la gola del fratello, come se uscisse dal fascino gittatogli addosso dal demonio del fratricidio, si percosse la fronte e si allontanò traendo dolorosi guai:

«Ohimè! Qual confessore mi darà l'assoluzione di tanto misfatto? Ohimè! che se adesso io mi morissi, me ne anderei dannato. Tienti la roba, io non la voglio, — mi rammenterebbe il mio delitto.»

E l'altro, quasi non si accorgesse del pericolo da cui era scampato o non lo rammentasse, gli tenne dietro parlando:

«Avrai il tuo mezzo dei gabbani, delle spada, — di tutto avrai il mezzo; — ma la catenella la voglio intera per me che intendo donarla alla Ginevra mia... Che vuoi tu farne, fratello? tu non hai innamorata, nè mai ch'io sappia ti sei fidanzato con alcuna fanciulla della pieve...»

Alla fine i nostri personaggi si trovarono in parte che, per aver dato campo a mortalissimo scontro tra i soldati del Ferruccio e le bande imperiali scorrenti pel paese, era piena di uccisi; le varie e tutte miserevoli attitudini di morte offendevano la vista; più offendeva l'odorato un fetore infame di corpi corrotti; — e non pertanto queste sensazioni erano di gran lunga superate dal turpe spettacolo della umana avidità.

I saccomanni, con gli occhi cupidamente intenti a trovare cosa che loro piacesse, senza pietà scorrevano sopra le sconcie ferite; le mani rapaci senza tremare si bruttavano di sangue e di marcia; — le ultime vesti toglievano, restavano i nudi corpi in disonesta mostra nel mezzo della via; e se s'imbattevano in alcuno che portasse anella o cerchietti di oro alle orecchie, se riusciva loro agevole di quinci rimuoverli, sì il facevano; — altrimenti le orecchie e le dita ornate del metallo prezioso tagliavano e dentro lo zaino riponevano — alle figliuole e mogli loro serbavano la cura di separare con comodo a casa le dita dagli anelli, le orecchie dai cerchietti.

E videro un corvo posato con gli artigli sui labbri di un morto pascersi avidamente degli occhi di lui; — di repente balzò fuori da un folto cespuglio un lupo, stese le branche sul cadavere e ne cacciò il corvo; il quale volando altrove manifestò coll'osceno gracchiare l'ira di trovarsi sturbato nel suo festino di putredine: — e il lupo ebbe appena bevuto un sorso di sangue, stracciato un brandello di carne, che ecco gli fu sopra l'uomo, il potentissimo tra gli animali di rapina; sicchè, mal sazio e ringhiando di furore, toccò al lupo sgombrare davanti all'uomo, come il corvo sgombrava davanti al lupo.

Questa avventura illuminata dal raggio sanguigno che tramandavano le lanterne portate dai villani, durò appena due minuti, ma lasciò in coloro che la videro tale impressione da non dimenticarsi nè anche quando poseranno il capo sul capezzale di pietra dentro al sepolcro.

Vico sciolse un lungo sospiro ed esclamò:

«Ecco la storia degli uomini che furono, sono, ed ahi! Dio voglia che non sia, di coloro che in futuro vivranno.»

Davano forte degli sproni nei cavalli per lasciare il luogo maledetto da tanta e siffatta manifestazione di umana tristizia; ma la fortuna parava loro davanti un nuovo scontro.

Le zampe del cavallo del vecchio percuotono sul petto di un giacente traverso il cammino; le ossa delle costole sotto il colpo sgretolarono, — l'aria violentemente compressa si sviluppa dalle viscere e manda suono come di sospiro: — fremerono tutti e scesero precipitosi di sella.

Con molta cura furono attorno al giacente, — e lo ponendo a sedere, se residuo alcuno gli fosse rimasto di vita investigarono; male però riuscivano nei tentativi loro, sepolti com'erano d'ogni intorno nel buio. Come volle fortuna, alcuni villani carichi di preda passavano quinci poco discosto portando lanterne, — li chiamarono e li pregarono per Dio volessero essere cortesi di aiuto a cotesto infelice.

... tentando liberare le mani e i lembi della veste dal bacio dei suoi servitori;... Cap. XXII, pag. 479.

E poichè l'uomo è creatura strana, sebbene nel richiamare quel nemico alla vita corressero rischio di consumare poi a sanarlo parte e forse tutta la preda, accorsero i villani alla voce di carità e lo sovvennero.

Appena però eransi curvati, si rialzarono atterriti da un urlo spaventevole che aveva gittato il vecchio, e nel punto medesimo lo videro protendersi ferocemente, avventare le mani intorno al collo di quel corpo, quasi intendesse strangolarlo; per certo il furore gli accecava l'intelletto, dacchè, scorto il giacente alcun poco al chiarore del lume, conobbe essere da gran tempo fatto cadavere.

Il vecchio muta all'improvviso consiglio; toccato appena il giacente, si rileva da terra e, scopertosi il capo, gli occhi affissando al firmamento favella in suono ispirato:

«Dove passò la vendetta di Dio che cosa mai aggiungerebbe la mano dell'uomo? — Io aspettai lunghi anni invano questa vendetta, e poichè non la vidi, ti rigettai dal mio seno, — ora che hai posto l'uccisore del figlio sotto la zampa del cavallo del padre, io tremo tutto davanti alla tua tremenda giustizia, o Signore!»

Tacque e dopo un silenzio non breve riprese:

«Costui, non che i più scellerati tra gli uomini, vinse in nequizia le più feroci tra le belve; però la sua iniquità non toglie l'obbligo a voi di mostrarvi pietosi, dacchè egli ebbe nascendo il segno della salute: — dategli pertanto sepoltura, ma non gli ponete memoria; — il suo nome rammenterebbe delitti che per decoro della umana natura è bene s'ignori che possano essere stati commessi: — non gli dite preghiera, ella andrebbe dispersa; comunque infinita la misericordia di Dio, i suoi misfatti la superano. — Patria di quell'anima era l'inferno.»

Si allontanò precipitoso; — i villani impauriti non osarono accostarsi e le fiere lo divorarono.

Il vecchio abbandonate le redini, si lasciava in balía del cavallo; avvertito di badare alla strada, non pareva intendesse; domandato a grande istanza più volte chi fosse colui del quale gli era occorso il cadavere e per quali casi a lui noto, non dà risposta: molti argomenti adoperati e tutti riesciti a vuoto, Annalena e Vico non cercano rimuoverlo dal suo pertinace silenzio.

Annalena, volgendo il discorso a Vico, incominciò:

«Vico, quando ti curvasti a soccorrere quel corpo che tanto par che abbia in odio il padre mio, ti cadde il piego dei Dieci...»

«Ben me ne accorsi, e me lo riposi nel seno», riprese Vico, tentando con la mano se vi fosse pur sempre.

«Ma tu non ti accorgesti che cadde sopra una piaga del morto e s'imbrattò di sangue...»

«Ti sei ingannata; per certo scambiasti il suggello rosso con una macchia di sangue.

«Io non isbaglio... guarda...»

Pur troppo la fanciulla aveva ragione; il piego era macchiato. Vico nel riporselo di nuovo sotto le vesti continuò:

«Non credo si rimarrà per questo di spiegarlo il signor commissario...»

«Lo spiegherà, io ne sono sicura.»

«E tu lo dici in suono di pianto? E di che temi?»

«Non so, Vico; — ma vedi, quel sangue mi arriva di sinistro augurio...»

«Da quando in qua gli uomini di guerra tolsero per sinistro presagio il sangue dei nemici?»

«Io odio la guerra... e quel sangue mi spaventa...»

«Consòlati; — per noi una spada tagliente val meglio di un buon presagio.»

«Ah! tu non sai quanto è duro il destino.»

«So che un re di Roma recise col rasoio una pietra.»

«Sì, ma l'avrebbe egli tagliata con gli occhi? L'uomo sopra il suo destino può, io dubito, quanto gli occhi possono per tagliare le pietre.»

«E allora che importa sgomentarci? libiamo, come costumavano gli antichi, agli dèi infernali e moriamo.»

«Significate al signor commissario che Vico Machiavelli giunto or ora da Fiorenza ha da consegnarli lettere degli magnifici signori Dieci di libertà e guerra», diceva Vico, smontato in Empoli al quartiere del Ferruccio, alla lancia spezzata che v'era posta di guardia.

«Non si può. Il commissario ha comandato che per cosa al mondo non si turbasse prima dell' Ave maria del giorno.»

«Andate tuttavia; e se dorme, svegliatelo.»

«Ferruccio non dorme: — guardate quella grand'ombra sopra l'opposta muraglia, — è il signor commissario Ferruccio che passeggia su nella sala del primo piano.»

«Dunque avvisatelo.»

«Non si può; l'ordine non lo concede.»

«Almeno portategli o fategli portare questo piego.»

«Non si può; — l'ordine non lo concede.»

«Il diavolo riposi le tua ossa», mormora tra i denti Ludovico, e subito dopo riprese: «Ebbene, tostochè giunge l' Ave maria recategli questi fogli: se mi vorrà, ditegli che sono al quartiere; se mal ne avviene, il mio debito è compito.»

E quinci si partiva sdegnoso; ma appena fu in lui un poco queto quel primo impeto d'ira, ripensando come il Ferruccio, avendo tolto l'arduo incarico di ripristinare l'onore della milizia italiana, doveva mostrarsi zelantissimo della disciplina, e il danno poco ed incerto che poteva derivare dal soverchio rigore non era da paragonarsi a gran pezza al danno immenso e sicuro che sarebbe nato dalla troppa rilassatezza, — concluse, siccome gli avveniva il più delle volte, di dar torto a sè, ragione al Ferruccio.

Si ridusse ai quartieri — apre la porta rimasta socchiusa, penetra nella stanza e vede Annalena e il padre di lei seduti davanti al focolare e così sprofondati nelle proprie meditazioni che non si accorsero della sua presenza, — presa pertanto una scranna, egli si pose dall'altro lato del focolare di faccia a Lena.

Lucantonio all'improvviso, senza muovere ad atto alcuno le membra, senza quasi agitare le labbra, come se la voce partisse da precordii di pietra, in suono roco parlò:

«Annalena..., voi cesserete d'ora in poi di chiamarmi padre... perchè... perchè voi non siete mia... figlia...»

La fanciulla, presaga di sventura, teneva l'animo apparecchiato alla rassegnazione, come colei che attende di sentire una condanna: ma le parole del vecchio superarono in dolore ogni sua aspettativa; prorompe in istrida angosciose e corre a gittargli smaniante le braccia al collo.

Lucatonio stette immobile alle carezze; le lacrime della bella sconsolata cadevano invano sopra di lui, come le stille della rugiada sopra i leoni di marmo posti nella loggia della piazza dei Signori; non l'accolse, non la respinse; si sentiva impietrito.

Passò forse mezza ora di tempo, a capo della quale Lucantonio, ma questa volta con voce tremula, che l'umanità tornava a soperchiare sul cuore del vecchio, riprende:

«E' mi era così dolce sentirmi chiamar padre...! e da te, Lena! — ed ora mi chiamerai Lucantonio senz'altro, — perchè non mi sei figlia.»

La passione gittò gli argini; scoppiò da' suoi occhi irrefrenato il pianto; strinse con impeto convulso tra le sue braccia Annalena, ed Annalena lui: pareva ambedue s'ingegnassero mantenere a forza di amore quanto avesse potuto perdere per natura il vincolo che da tanti anni gli univa.

«Ahimè!» riprese il vecchio ponendo una mano sopra la fronte alla fanciulla, «questo tuo capo innocente non seppe immaginare il male neppure all'insetto che ti pungeva, ed ora dovrà contenere il germe dell'odio ch'io vi semino dentro... Dio voglia che rimanga senza frutto! — D'ora in poi, quando camminerai tra i campi nel bel mese di maggio, i fiori non avranno più profumi per te, non più canto gli uccelli, non più sorriso la natura: — occuperà l'anima intera una tremenda contemplazione di misfatti; — i tuoi sogni verginali cesseranno, atroci fantasmi ti sveglieranno nella notte, e tu stenderai paurosa la mano sul guanciale, perchè nel sogno ti sarà apparso temperato di sangue: ascoltami, io ti racconto una storia funesta; tu la crederai appena, tanto ella è truce; — io la vidi con questi occhi, con questo cuore io la sentii, e forse non ti rendo con le parole la millesima parte del vero. — Tu nasci dei Tosinghi e sei di Prato; io nacqui in Casa di tuo padre; — a lui per fortuna sarei stato famiglio, ma l'amore ammendando i torti della fortuna ci volle fratelli, imperciocchè avendo egli ucciso nascendo la madre sua, noi bevemmo la vita dal medesimo seno, e le nostre braccia s'intrecciarono da pargoli sopra un medesimo collo. — Taccio le voglie e gli studi della infanzia: giungemmo agli anni della giovinezza; percorrendo il nostro cammino egli lasciò per la via il suo genitore, — io il padre e la madre; — a lui rimase la madre di suo padre, ma non per durare; a me nessuno; egli vinceva me negli studii, io vinceva lui nell'esercizio dell'armi: — entrambi però agli studii anteponevamo il diletto di vagare pei monti, d'inseguire le fiere, di lanciare il falcone per aria, e il mantenere cani e cavalli. — Un giorno, trafelati dopo lunga corsa, perduti di vista i famigli, rinvenimmo un luogo delizioso per l'ombra che vi facevano antichissimo pioppi, — l'erba folta invitava a ristorare il corpo stanco, — ci ponemmo a giacere; non alternammo parola; da tutto il corpo aspiravamo il misterioso diletto che muove dalla faccia lieta della natura: — all'improvviso ci percuote un canto, — un angelico canto che diceva versi di amore, — li quali noi riconoscemmo fattura di Dante; — ben mi ricordo che terminavano così:

E par che dalla sua labbia si muova

Uno spirto soave e pien d'amore

Che va dicendo all'anima: Sospira[257].

E cessato il canto, udimmo più distinto il fremito delle fronde, il mormorio delle acque vicine, sicchè ci parve ch'ei tenesse bordone a quelle rime: — nè io lo proposi a lui, nè egli a me, — eppure ci levammo entrambi e c'indirizzammo colà donde usciva la voce; l'intelletto pieno di libri latini, noi pensavamo incontrare una driade o qualche altra ninfa più gentile, — ma il cuore co' suoi palpiti m'assicurava avrei trovato una sorella di amore: un ventilare di veste bianca ci fece scorti della presenza della donna... poco oltre ce ne occorse un'altra; — una cantava e l'altra coglieva fiori sopra l'argine ombroso; — spigliate entrambe di persona, di piè leggiero, di gioventù splendide e di bellezza, — questa coglieva fiori e ne tesseva ghirlande! l'altra se ne incoronava così per vaghezza il capo, quasi a santificarle col tatto delle sue chiome, e poi le appendeva ai rami degli alberi: noi ci mostrammo così umili in vista che non ne presero sospetto e ci guardarono di tale uno sguardo che parve dirci: Noi vi aspettavamo. — Simili alla rosa nascosta nella valle che attende il raggio del sole per colorirsi e per ispandersi, ambedue attendevano uno sguardo di amore; — noi le guardammo, ed esse si fecero vermiglie. Per singolare accidente erano entrambe sorelle di latte, entrambe orfane, e così strettamente unite da amoroso legame che in nessuna delle due appariva sforzo per dimenticare da una parte i troppo superbi, dall'altra i troppo umili natali. Dicono nessun maggior dolore travagli l'uomo che quello di rammentarsi dei tempi felici nella miseria; — io però non conservo idea distinta del bene goduto... tanto peso di sciagura gravitò sopra il mio intelletto! — Io scorgo confuso traverso una caligine, — la mia anima ha perduto perfino i piaceri della memoria. Taccio i dolci desiri; — io amai Selvaggia, tuo padre Tomaso madonna Ermellina; ci fidanzammo; — il giorno destinato alle nozze venne. Tomaso aveva da fanciullo avuto dimestichezza con Naldo Monaldeschi, gentiluomo del contado di Prato, dimestichezze che l'anima bisognosa di amare confonde con l'amore, e sovente non sono altro che infermità dello spirito; — costui abbandonò le case paterne, corse varii casi di fortuna, fu soldato e combattè, spada di ventura, ora per impero, ora per la Francia, nelle guerre di Napoli e di Lombardia. Rimasta la guerra, se ne tornò a casa con qualche danaro di meno, qualche anno di più e per aggiunta alcune ferite riportate sopra campi dove bene si poteva acquistare o morte o preda, ma gloria non mai. Tomaso, quasi questo tempo fosse scorso pieno di soavi cure e di esercizio di gentili discipline al compagno come a sè stesso, ricominciava l'antica comunanza di affetti, la fraterna intimità. Lo volle pertanto compagno agli sponsali, convitato al festino: — quando andammo a tôrre le spose a casa, Naldo era della comitiva; — egli non aveva mai veduto le donne: allorchè si apersero gli usci, e vestite di bianchi panni, inghirlandate di rose si presentarono alla nostra vista, Naldo le guardò, allibì e si accostò tremante alla parete, — sì forte il tremore lo assalse; io me ne accorsi e ne sentii orgoglio, comecchè non sapessi chi di loro fosse capace a recare siffatto turbamento nell'animo del soldato; ma, o movesse dalla mia o dalla donna del mio fratello, era per me la causa dell'orgoglio medesima. — Ci prostrammo agli altari, si compirono i riti: Naldo, come se fosse tramutato in uno dei santi di pietra che occupavano le nicchie, non faceva atto di seguitare la comitiva quando usciva di chiesa; — lo scotemmo per le vesti, — ei risensò e ci tenne dietro col capo chino, a passi lenti. Fu imbandita la mensa: quivi non mancarono voti di poeti che dovevano rimanersi inani ed augurii che riuscirono bugiardi. Quando una voce chiamò i convitati a propinare alla salute di madonna Ermellina, le labbra di Naldo non si mossero — la coppa gli stette colma davanti. Però da quel giorno in poi Naldo si prese usanza della nostra casa, sempre più si pose avanti nell'animo di Tomaso ed anche nel mio; imperciocchè sia l'amicizia un tesoro che per divisione non iscema, all'opposto dell'amore. In lui mi piaceva la saldezza del corpo, la faccia tinta dal sole delle battaglie, uno sfregio sopra la fronte tra ciglio e ciglio, e poi la comunanza dei diletti: — ma non andò guari tempo ch'io l'odiai, dacchè senza nessuna reverenza parlasse delle donne; le quali ci largiscono piaceri ed affetti che se durassero, potremmo esser contenti della terra senza più oltre desiderare il paradiso; — in ogni caso rispettate la donna, perchè vostra madre fu tale: — ancora, se narrava le geste passate, egli non toglieva argomento di onore dai colpi arditamente feriti, sibbene dalle insidie parate con sottile scaltrezza, dalla vittima improvvidamente caduta, dalla morte con animo tranquillo arrecata; e a caccia, quando il cervo rifinito si abbandonava in balia dei veltri, e il cavaliere pietoso allo strazio del nobile animale scende di sella e gli dà il colpo di grazia, egli invece si rimaneva immobile a cavallo contemplando le viscere di lui palpitanti sotto i denti dei cani. — Spesso lo smarrimmo per la foresta e lo trovammo tornato a casa... Insomma a che mi vado io dilungando? Egli aveva concepito ardentissimo amore per madonna Ermellina; se non che tanto lo tratteneva la virtù della castissima donna che ben si accorse sarebbe speso ogni consiglio invano di tentare apertamente l'onor suo; — sentendosi inetto a inspirare amore, ogni suo studio pose a seminare la discordia. In questa opera d'iniquità, i più tristi i migliori; — quindi egli riusciva anche troppo. — Era tuo padre superbo, tua madre timidissima; i cuori si gonfiavano, ma le labbra stavano mute; intanto la rifiniva l'angoscia — il verme rodeva il bel frutto, e da qual parte vi fosse penetrato non appariva. — Certa volta mi occorse una doviziosa catena appesa al collo della mia Selvaggia: lo domandai da cui le venisse e come; — mi disse avergliela donata messer Naldo, onde io le notai: Selvaggia, le catene di oro si adoperano a tenere schiava l'anima, come le catene di ferro a tenere schiavo il corpo; chi dono accetta padrone riceve; mal facesti a tôrla, ma dacchè l'hai presa, bada al fine. — Nè stette molto la mia povera Selvaggia che venne a me tutta tremante, dichiarandomi messere Naldo dopo molte parole e larghe promesse averle raccomandato l'amor suo presso madonna Ermellina; essere il suo amore divenuto furore; non vedere nè ascoltare più nulla; volerla sua ad ogni costo, viva o morta. — Deliberai meco stesso il giorno appresso, mentre erravamo pei boschi, dichiarare pianamente la bisogna a Tomaso e farlo scorto del pericolo che correva; ma il giorno dopo, così consigliando od ordinando Naldo, ci dirigemmo verso la foresta, dove occorreva certo ponte sopra un torrente copioso nell'inverno di acque, nelle altre stagioni arido e di letto orribilmente scabroso. Naldo prese a favellare meco e mi trattiene indietro, narrandomi alcuni fatti d'arme avvenuti tra gli Spagnuoli e i Francesi nel regno ai tempi del gran capitano Consalvo. Tomaso, come vaghezza lo consiglia, precede spronando a precipizio, — tocca il ponte, e il ponte sparisce sotto le zampe del cavallo: — tavole, pietre, cavallo e cavaliere vanno a rifascio sossopra. — Dio lo salvò; — il cavallo si ruppe tra i massi: Tomaso, in più lati ferito, ebbe salva la vita: — quando lo rinvenimmo vivo, Naldo si morse le labbra e ne fece scaturire il vivido sangue; io stetti per piantargli il pugnale nel cuore, ma subito dopo tanto amorosa sollecitudine ostentava, in così angosciosi lamenti irrompeva, ch'io bandii dalla mente il truce sospetto con la prestezza con la quale vi era comparso: — risanò e, appena ebbe alzato il fianco infermo dal letto, chiese di esser tratto nel giardino a respirare l'aria aperta; gli fu impedito quel giorno, pel seguente concesso: — venuto al barco del castello, volle dimorarvi anche dopo il tramonto per rinfrescarsi del vento vespertino; — cominciavano a non bene distinguersi le cose circostanti, quando ad un punto stesso udimmo lo scoppio di un archibuso ed il ronzio di una palla. A Tomaso fu portato via, senz'altra offesa, il tôcco di capo, e la palla oltrepassando sfiorò la pelle delle spalle di madonna Ermellina che in piedi al fianco dello sposo ne sorreggeva la testa; proruppe la donna in un grido e cadde con la faccia sul terreno. Naldo, tratto fuori di sè dall'ira soverchiante, mormorò tra i denti: Ahi! male accorto! — e cavando la spada si avventò dalla parte donde era mosso il colpo. — Io lo seguiva; uno scherano con le mani e co' piedi si affaticava arrampicarsi su pel muro che circondava il barco del castello; ei gli fu sopra e con ispaventevole soprammano dai reni lo passò al ventre, sfregiando con la punta della spada l'opposta parete; rovesciò supino lo scherano, e sollevati gli sguardi già pieni di morte vide il suo uccisore, lo riconobbe ed esclamò queste parole: Oh! come voi, messer Naldo?... Ma questi non gli diè tempo di continuare, — forte lo calcò di un piede sul petto, gli spinse dritta la spada verso la gola, e sopra appoggiandovisi con ambe le mani gli ruppe le fauci. Per quanto investigassimo, non giungemmo a scuoprire alcune traccie di delitto, — solo trovammo sul morto copia di monete, prezzo certamente del sangue. I miei sospetti si accrescevano, ma ormai non mi si offriva più comodo di restringermi a parlamento con Tomaso. Naldo gli aveva atterrita la mente: — forse i suoi nemici, forse, e con più verosimiglianza, i parenti gl'insidiavano la vita; non volergli mancare in tanto estremo non consentire ad abbandonarlo, ed altre siffatte novelle pretestando, fermò sua stanza al castello. Adesso si attacca a Tomaso come un rimorso, non gli lascia ora senza paura, gli empie le notti di angoscia; la stessa sposa Tomaso riceve sospettando, — accumula arme di ogni maniera nella sua stanza, raddoppia la spessezza dei muri, munisce di ferro le porte, prende a custode degli agitati suoi sonni un molosso delle Alpi. I servi la più parte accommiata, i ponti levatoi alzati; i cavalli percuotono invano le selci delle scuderie; i cani stanno pigramente distesi a canto del focolare. — La fortuna ordinò che, recandosi certo giorno per mie bisogne da Tomaso, il suo cane, sia che lo spingesse maligna natura o non mi ravvisasse, mi si avventa alla persona per mordermi: io tento placarlo, egli vie più s'inferocisce; allora consigliato dalla tutela di me gli sferro tale un pugno nel capo che lo mando a rotolarsi per terra: Tomaso, di cui era infermo l'intelletto, arde di sdegno, abbranca una mazza d'arme e me la lancia contro; beato me, ch'ebbi agile il fianco per ischivarmi, e l'ira gli faceva tremare le mano! la mazza dette in pieno nella porta e vi si fermò confitta. — Rimasi immobile, smarrii la vista e vacillai un istante: subito dopo rinvenuto esclamai: O Tomaso, vi sono io diventato tale che la mia posponiate alla vita di un cane? — Tu sei un cane..., tu m'insidii la vita... — E tra il fascio dell'arme afferrata una spada, si avventò contro di me; io pure trassi fuori la mia... ma Annalena, ti giuro per il tuo amore che mi è sì caro, non averla tratta ad offesa del padre tuo, soltanto a tutela di me: — a qual miserevole fine sarebbe riuscito cotesto caso non saprei dirti, se Naldo e madonna Ermellina sopraggiunti non lo trattenevano. — Io gittai il ferro e fuggii via. Giungo ansando nelle mie stanze e, fatto rifascio di quanto mi cade tra mano, esco dal castello del tutto compreso da terrore: — corso ch'ebbi grande spazio di via, la coscienza prese a domandarmi: E dove vai? Dove lasciasti Selvaggia? Come vivrai senza il tuo Tomaso? — Gittai il fastello, mi vi posi a sedere e vôlto dalla parte del maniere cominciai a vagheggiarlo, come donna innamorata; mi si sciolse il furore, e copertami la faccia con le mani piansi; — poi mi alzai e ripresi la via del castello: — qui giunto, rimisi con diligenza le cose donde le tolsi, e mi accorsi allora nella mia preoccupazione non aver badato come la più parte fossero vesti ed arnesi donneschi. — Correva l'ora nella quale secondo il costume scendeva a invigilare la profenda dei cavalli: — andai alle scuderie e attesi al governo degli animali con maggiore cura del solito. Mentre uscito dalle scuderie mi volgo a chiuderne le porte, ecco mi sento percuotere leggermente sopra una spalla: — era Naldo. Costui veniva a invelenirmi la piaga; io lo ascoltai e ormai pacato finsi assentire ai suoi detti; — che più? — Il tristo mi propone mescere nel vino di Tomaso un liquore che mi darà vendetta piena e non sospettata; tale, insomma, da bastare a qualsivoglia offesa, comunque atrocissima. Presi la caraffa e subito dopo, mutata voce a sembiante: Ahi perfido e misleale uomo! voi cristiano battezzato non abborrite dal consigliare un delitto che menerebbe alla eterna perdizione l'anime nostre? Io da gran tempo studio le vostre storte vie, e poichè la paura dell'inferno non vi rattiene, forza è che vi trattenga una scure sul capo. — Egli poi non mutò sembiante, ma, forte com'era della persona, mi venne addosso, mi abbracciò e, côlto il destro, mi tolse la caraffa di mano esclamando: Io m'infingeva: tu sei il migliore uomo che io mi abbia conosciuto; oh raro esempio di virtù vera! — ed altre siffatte parole aggiungendo, ruppe la caraffa sul selciato. — Così come l'acqua contenuta nella caraffa si disperde, egli soggiunse, si disperda ancora la memoria del fatto, o si rammenti soltanto per celebrare la virtù del servo fedele. Lucantonio, nei detti acerbi contro di me profferiti ebbi dimostrazione dell'animo tuo: — se altri tu ne avessi adoperati, a quest'ora io ti odierei; io primo narrerò a Tomaso la tua magnanimità! — E mi lasciava.

«M'ingannassi nel mio sospetto! — Guardai il selciato e vidi l'acqua innocente aver corroso la pietra; — mi feci cuore e mossi ratto alle stanze di Tomaso; mi negarono l'entrata; pregai ed anche minacciai, ma non riuscii nell'intento. — In questa scendeva la notte, ed io, pieno di rabbia, improvvido di consiglio, contemplando il male nè lo potendo prevenire, mi caccio tra gli alberi del barco del castello: immemore di me calcava e ricalcava le medesime vie, quando mi accorgo di uno stormire di fronde; mi soffermo e al tempo stesso sento percuotermi a tergo e stracciarmi violentemente e vesti e il giustacore di bufalo, — Spicco un salto, volto la faccia, e l'omicida è già lontano. Quantunque l'ombre fossero già alte, io ravvisai nel fuggente lo scudiere di Naldo. O casa dei Tosinghi a quale estremo ridotta! Il pugnale mi era rimasto fitto nel corame; ne lo trassi fuori, e al primo lume conobbi essere quel desso che Naldo portava sempre alla cintura, quel desso ch'egli soventi volte mi diceva aver avuto a gran prezzo da un mercatante saracino perchè maravigliosamente attossicato. — Deliberai di farmi a trovarlo e mi avviai al maniere; uomini sconosciuti vi stanno a guardia, — il passo precluso alla maggior parte dei vari appartamenti, — quelli di Naldo e di Tomaso sopra tutti vietati; — era per disperarmi. All'improvviso si apre fragorosa una porta, e n'esce Naldo, com'uomo cui prema altissima cura; udendo rumore, alza il torchio e mi ravvisa, — prorompe in un grido di meraviglia, e quindi, ostentando sicurezza, Lucantonio, comincia, voi qui? — Io qui; vi sorprende per avventura, messere? Io vengo a riportarvi cosa che avete smarrita. — Smarrita io? — Sì bene voi: ecco il vostro pugnale. — Pugnale! Non riconosco cotesto pugnale... e si tirava indietro per sospetto. — Colpa della poca luce: egli è il vostro famoso pugnale avvelenato; il pugnale che porta sul pomo la vostra arme di cesello... — Gran mercè dunque... e dove lo trovaste mai? — Fitto nel mio giustacuore, mentre tentava addentrarsi nelle viscere...; però ve lo riporto. Quando voi, messere Naldo, troverete il mio, non me lo riporterete, perchè vi starà fitto nel cuore: — e mi salvai, essendo egli armato di tutte armi, ed io in giustacuore di bufalo. — M'ingegno penetrare nelle stanze di Tomaso; mi vengono meno gli scaltrimenti e l'ardire, — trovo, dovunque mi volga, gente nuova e di sinistre sembianze; — si preparava il misfatto. Un buon consiglio mi venne dal cielo: — la notte aveva consumato la metà del suo corso; — scendo nel parco e cauto mi porto sotto le finestre di Tomaso. Infelice! Il sonno non iscende più sopra le sue palpebre, un'ombra nera traversa la finestra rischiarata dalla lampada interna, — la notte gli accresce i terrori. Allora io presi a cantare la canzone che udimmo nel tempo felice dai labbri di madonna Ermellina, quando prima la incontrammo sull'argine fiorito: l'ombra non comparve più, ristette il mio signore pensoso e, come mi narrò in seguito l'unico scudiere che gli avevano lasciato attorno della sua buona famiglia, e dopo avere lunga pezza porto ascolto, domandò: Ella è questa la voce di Lucantonio? — Mai sì, messere. — Mi avevano pur detto ch'egli si fosse allontanato! Va' e caccialo via. — E siccome lo scudiere non si moveva: Guai! continuò Tomaso percuotendosi la fronte, guai al signore di cui il famiglio vergogna obbedire quei comandi ch'ei non vergogna trasmettere! — E poi mutato animo, Va', ordinò allo scudiere, e digli apparecchi il mio cavallo; — mi accompagnerà a Fiorenza, dove mi chiamano a render ragione di accusa di fellonia. — Che rete infame si fosse questa non comprendeva; — di madonna Ermellina non udiva novella, di Selvaggia nemmeno; apparecchiai i cavalli e mi posi ad aspettare sopra la soglia del maniere — Silenzio e tenebre: — un'ora prima del giorno, porgendo attentissimo l'orecchio, ascolto rumore di pedate; — si accostano; — si aprono le porte, e vedo comparire Tomaso squallido, gli occhi spenti entro un cerchio colore di piombo che assai gli scendeva sopra le guance; — lo séguita il fido scudiere, da un lato ha Naldo che sembra dargli conforto, e dietro sei uomini d'arme a me del tutto nuovi. Giunto sul limitare, afferra con la manca le redini e i crini del collo del destriero, e la diritta porgendo al perfido amico, favella: Naldo, io temo che noi non ci rivedremo più; nelle cause di stato la innocenza non giova, imperciocchè non puniscano il fatto, sibbene la potenza di commetterlo, e gli stati deboli conoscemmo sopra gli altri crudeli. Avrei potuto fuggire, ma non si porta mica la patria sotto le suola delle scarpe, e a me aggrada assai meglio restarmi in patria tradito e sepolto che ramingare vivo presso popoli stranieri; abbi in custodia il mio castello, fa buona guardia a madonna..., t'ingegna celarle, quanto più puoi, il mio fato; e se i casi mi volgono siccome prevedo..., ramméntati la promessa, e addio. — Messere Tomaso! allora io proruppi di forza e tentai significargli la frode; ma Naldo, avventatomi negli occhi un suo sguardo pieno di ferocia, mi strinse la gola e sorridendo rispose: Tomaso, fatevi animo, il cuore mi dice che presto ritornerete; il vostro castello sarà ben guardato dai vostri nemici, — io vi ho messo gente che a un cenno mio si lascerebbero andare giù dai torrioni... parate a tutto, — e qui guardandomi di nuovo: — assolutamente a tutto; avrà la vostra donna leale custodia e i conforti dell'amicizia; andate presto per ritornare più pronto. — Tomaso crolla il capo in segno d'incredulità, scioglie un sospiro, solleva lo sguardo al maniere, e saltato in sella, caccia via il cavallo alla dirotta. Io mi era taciuto per timore di lui, vedendo come fosse in potestà di Naldo convertire in opera di sangue l'opera di frode, però sul punto di allontanarmi non potei contenermi dal dirgli: Naldo, badatevi; Iddio non paga il sabato. — Ed egli a me irridendo: Il diavolo è molto miglior pagatore, — ei paga in tempo debito. — Spronai il mio destriero per raggiungere Tomaso. Provveduto di più poderoso cavallo, egli mi precedeva di non poco cammino; — lo chiamo, non mi ode o non mi porge ascolto; — urlo, percuoto, mi affatico tanto che alla fine gli sono vicino: allora, tra per l'affanno della lunga corsa e per la passione che forte mi agitava, presi a parlare parole confuse a guisa di forsennato. — Tomaso temè avessi perduto lo intelletto; io quanto più m'infiammava, tanto meno riusciva a farmi comprendere; certo si perdeva un tempo oltremodo prezioso, ma, per concludere qualche cosa, era mestieri di esporre partitamente i miei sospetti a Tomaso; lo feci; dapprima egli m'interrompeva, non consentiva udire muovere dubbio sopra la fede di Naldo; poi gli parve il cumulo delle prove tanto grave che stette a intendermi pensoso; all'improvviso esclama: Ahi! tristo servo, perchè non mi hai avvisato? — Oh Dio! risposi, — quando ebbi piccola prova, non ardiva parlarvi perchè voi non mi avreste creduto; — quando invece ebbi prove anche troppe, trovai preclusa ogni via per giungere a voi. — Ma Selvaggia? — Io non so più che cosa sia divenuto di lei. — O perfido, ora conosco la cagione per cui con diversi argomenti ti sei ingegnato a tenermi lontano da madonna Ermellina... Lucantonio, diamo volta... e accorriamo... — A farci ammazzare come scomunicati neh? Non vi movete di qui, che io corro per provvedere al vostro bisogno.

«Eravamo prossimi alla casa di persona devota; la destai, in brevi parole le esposi quanto avesse a fare; — i suoi molti figliuoli giovarono; — sparsi di qua e di là per la campagna, adunarono in poco tempo buona quantità di villani; — avevano tutti chi archibuso, chi spada, che le guerre degli stranieri hanno fatto simili arnesi comuni nelle più riposte terre d'Italia. In questo modo armati, c'incamminammo cautamente alla volta del castello; — chiuse le porte principali, i ponti levatoi alzati, — nel circuirlo occorremmo alla postierla di tramontana; — quivi fuori varii scudieri tenevano allestiti alcuni cavalli, — apparecchio di prontissima fuga. Agevol cosa sorprenderli; — ordinammo loro tacessero, pena la vita. Passammo oltre e giungemmo alla sala terrena del maniero; una voce di donna ci percuote; — era Selvaggia che, svelta a forza dalla sua diletta signora, plorava sconsolata e Dio chiamava e gli uomini in soccorso della male arrivata donna. Feci atto di muovermi a cotesta volta, e meco coloro che io aveva condotto. Tomaso si stava, — non ardiva manifestarmi il suo concetto; — io lo compresi e, mutato animo, gli strinsi la mano; — i miei affissi negli occhi di lui e mormorai: Confortatevi, a me penserò dopo; ed egli, lo sguardo e le parole considerasse come il sacrifizio più grave di cui potessi dargli prova, o come rimprovero della passata ingiustizia, diventò rosso e mi tenne dietro coprendosi il volto. Madonna Ermellina erasi ricoverata nella stanza di Tomaso: colà, stretta una spada, come meglio poteva si aiutava. Noi giungemmo allorchè Naldo, smesse le dolci parole, le manifestazioni dell'osceno suo amore e le preghiere, riassumeva l'impeto della feroce natura. Alle minaccie mesceva giuramenti da subbissare il castello; — ormai, diceva, avere aspettato anche troppo; pericoloso l'indugio; lo seguisse per amore, altrimenti lo avrebbe seguito per forza; fin qui essersi astenuto dal sangue; comincerebbe adesso e al sangue aggiungerebbe l'incendio. In chi fidare costei? Il marito lontano, la casa piena di suoi fedeli; temesse che il suo amore ad un tratto per tanta repugnanza non si convertisse in odio... e, — Vieni, accostandosele aggiungeva, vieni; Naldo vale quel tuo stolto Tomaso. — La donna schivandolo rifuggiva nell'angolo opposto della stanza e lo rampognava: — Vorreste voi usarmi violenza? e non temete? — E di che ho a temere io? Nessuno qui può trattenermi. — E Dio? — Egli è troppo buon compagno per impedirmi nelle mie bisogne. — Madonna Ermellina allontanandosi da colui passava traverso la porta dietro la quale noi dimoravamo; Naldo la incalzava ardentissimo. Tomaso si pone improvviso tra la sua donna e lui. Naldo, come percosso sui capo, impallidì, vacillò, gli occhi declinò a terra, poi gli rilevò pieni della malignità dei serpente; ma avendo veduto la stanza ingombra di villani con l'arme, si conobbe spacciato. Tomaso con voce solenne gli disse: Naldo, fate che gli occhi vostri mai più s'incontrino su questa terra co' miei... potete partire. — Mentr'egli si allontanava con l'inferno nell'anima, io lievemente percotendogli la spalla gli susurrai nell'orecchie: Dio non paga il sabato; — ed egli a me: Mal ride chi ultimo non ride, ed io vivo pur sempre. — Di lui non udimmo più novella; — tornò il corso della nostra vita lieto, e se alcuna volta rammentammo i sofferti travagli, ciò fu per meglio rallegrarci delle gioie del tempo presente. Nel bel mese di maggio, quando il prato è verde e l'aria serena, giova rammentare le brume dell'inverno e la tempesta. I servi accommiatati ripresero gli antichi uffici, suonarono di nuovo le volte del castello di canti; giullari e menestrelli lodarono la cortesia del cavaliere e la beltà della dama. Finalmente per colmo di esultanza fu la nostra vita coronata di figliuoli; — voi, Annalena, con altra fanciulla e due giovanetti, formaste l'orgoglio di vostra madre... io... ahimè! ebbi un figlio... Beato me, se non lo avessi avuto mai!»

Il vecchio si tacque, come spossato dall'amarezza della memoria, quindi, ripresa lena, continuò:

«Correva l'anno 1512; — la fortuna di Francia dopo la battaglia di Ravenna scadde in Italia. — Cesare nemico a Fiorenza, perchè amica di Francia; papa Giulio avverso anch'egli alla patria nostra pel concilio di Pisa; — i Fiorentini poveri di armi, di valore e di consiglio. Giovanni cardinale de' Medici, che poi fu papa Lione, scampato come per miracolo di mano ai Francesi, incita Raimondo di Cardona, vicerè di Napoli, ai danni della patria sua: di presente gli pagava buona somma di danaro, assai maggiore gliene prometteva, conquistato il paese, perchè i Medici furono sempre generosi ladroni. L'esercito spagnuolo, superati i monti del Mugello, allaga il piano. Tomaso, devoto alla Repubblica di Fiorenza, provvede il castello di ogni cosa al combattere necessaria e si rimette in arbitrio della fortuna. Noi vedemmo dall'alto dei muri l'oste nemica e non la tememmo, perchè, manchevole di artiglieria, non avendo in tutto l'esercito che due soli cannoni, poco danno poteva apportarci; inoltre difettava di vettovaglia; — la gente del contado non lasciava occasione di tribolarla con la guerra alla spicciolata. Tentarono i soldati spagnuoli una volta l'assalto, ma, quantunque valorosamente si comportassero, furono respinti: — presto speravamo ci liberasse il flagello. Tomaso, percosso di palla d'archibuso, non potè certo giorno vigilare alle ronde consuete: finchè le gambe mi ressero, mi aggirai io sopra le mura. A notte inoltrata mi raccomando alle guardie stessero all'erta: poi me ne andai a riposare qualche ora al maniero. Mi svegliano furiosissimi colpi: confuso dal sonno, sicuro del presente pericolo, pensando fosse al di fuori sopraggiunta cosa che domandasse nuovi provvedimenti, apro le porte... Ahi vista!... Tra il chiarore di torcie bituminose, circondato da una mano di nemici, io riconosco Naldo. Appena ebbi tempo di gettare un grido; fui stramazzato al suolo, strette le mani, chiusa la bocca. Il notaio del castello, Francesco da Puglia, ci aveva traditi[258]. — Si empie il maniero di singulti e di aneliti, la infame strage incomincia; — da ogni parte sangue. Tomaso, la consorte, i figli, Selvaggia mia, a forza erano tratti nella sala dov'io mi giaceva legato. Qui, Naldo propone a Tomaso che se la moglie e i figli di sua mano trucidasse, gli salverebbe la vita. Tomaso assente, e gli dànno una spada. Le mie viscere fremevano: egli guarda prima Naldo con occhi pieni di morte, — ma vedendolo cinto di armatura di ferro, circondato da troppi scherani, all'improvviso volta la spada contro il suo petto e cade morto ai piedi dei figli. Il mio cuore riprese i suoi palpiti; un grido d'imprecazione si levò dalla bocca delle vittime contro l'empio assassinio: egli pensando che, quelle voci tacendo, tacerebbe eziandio la sua coscienza, ordinava trucidassersi. Si avventarono iniqui contra a quei corpi delicati, nei seni, nelle gole immersero i ferri, — e quelle misere creature non si difendevano, — non imprecavano, — invocavano solo il nome santissimo di Dio. Alla rabbia degli uomini si aggiungeva la rabbia del cielo; — cadeva la pioggia a torrenti, — l'uragano rovesciò edifizii, schiantò alberi, — un fulmine rovinò la cappella e, rotta la lapida di un'arca antichissima murata su la parete, sparse per la terra le ossa degli antenati della famiglia. Era il mio voto a Dio distruggitore perchè sobbissasse gli uomini e la terra che gli sostiene. — Mi si accosta Naldo e, toccatami la spalla, vi lascia la impronta delle dita sanguinose: — Mal ride, egli esclama, chi l'ultimo non ride. — Per suo comando mi levano da terra; nulla curato il furore degli elementi, mi traggono nel barco e mi legano ad un albero; — io non proferiva parola. Giunto a cotesto estremo, abborriva la vita, ed anche con isperanza di salvarla non avrei fatto mostra alcuna di viltà; e poi tra tante immagini di morte non essendomi comparso davanti il figliuol mio, consolazione ineffabile in quella ultima ora erami il pensare che, non trovato da quei feroci, vivesse... Un vortice di fiamme scaturisce dalle più alte finestre del maniero, — al chiarore dell'incendio della mia casa vedo il mio figliuolo legato... in mano dei feroci ancora esso: ogni mio proponimento venne meno; supplicai... mi avvilii... e, oh Dio! con qual frutto? Ah! io non posso dirlo... questa memoria mi abbrucia il cervello... No... dolore non fu mai pari al mio su questa terra di maledizione... ahimè!..., ahimè!»

Povero Lucantonio! doveva bene angustiarti tormentosa la memoria del caso; imperciocchè dopo diciasette anni ti agitava una smania convulsa, e fremevi e battevi i denti e percotevi dei piedi la terra, sicchè poco più avresti fatto, se in quel punto ti avessero lacerato le membra con le più crudeli torture. Poi lo sovvenne il conforto estremo della sventura, il pianto. Annalena e Vico piangevano anch'essi.

«Muori!» urlò pieno di tremenda esultanza il Bandino,... Cap. XXII, pag. 499.

«Udite... se mai fu strazio più osceno di questo... venitemi a canto... abbracciatemi... imperciocchè senta che l'animo non mi basterebbe al nefando racconto, se l'amore... se l'aspetto vostro non mi sostenessero.. Venitemi appresso... più presso al cuore... non mi lasciate... io finisco. — Me lo appiccarono... Geri... il mio bel figliuolo... l'unico mio figliuolo... che tanto rassomigliava Selvaggia... me lo appiccarono ai rami dell'albero sul mio capo... me lo appiccarono... e mi lasciarono; — e per tutta la notte m'intronò lo sghignazzare di Naldo e la sua voce che ripeteva: Mal ride chi ultimo non ride. — I piedi del giovanetto agitati dal vento mi scompigliavano i capelli; — una lastra di ferro rovente offende meno. Sforzo con tremendo conato i lacci che mi legano all'albero, — i miei polsi rimangono più dolorosamente stretti che mai, la corda cede tanto ch'io posso levarmi su la punta dei piedi... il corpo di Geri non oscilla più... i piedi del figlio riposano sopra il capo del padre! — Geri..., se sei vivo, rispondimi per amore di Dio... Geri, aiùtati con le mani... allárgati il capestro... Geri, rispondimi... — E Geri non rispondeva. Chi potrà dirvi tutte le parole ch'io proferii, — con quanti cari nomi io lo chiamai? Chi lo spasimo durato allorchè, i piedi rifiutando sostenermi in cotesta sconcia positura, mi era forza riposarli a terra; e allora io non sentendo più il corpo del figliuolo sfiorarmi, dondolando, i capelli, temeva che quel momento di sostegno cessato avrebbe potuto cagionargli la morte? Chi la lunga contesa, il disperato dolore e l'esitanza?... Rifinito di forze, mi abbandonarono gli spiriti; misericordia di Dio fu sospendermi in quel punto la vita, maggior pietà sarebbe stata tôrmela affatto. — Quando gli occhi miei tristi si riapersero alla luce, mi trovai sciolto, — molti miei conoscenti mi stavano attorno contristati; — il capo, i piedi e le mani acerbamente mi dolevano, tentai levarmi e non potei; mi posi a sedere, e gli occhi drizzai all'albero maledetto; io non vedeva bene. — O voi pietosi, io cominciai, che mi circondate, ditemi per pietà, se mio figlio pende tuttavia dall'albero! Lo avete salvato? — Mi risposero singhiozzando, e poi uno di loro riprese: Lo abbiamo sepolto accanto a voi. — Piegai la faccia, e al lato destro mi occorse una fossa coperta di piote recenti. Il delirio mi vinse, e mi atteggiai come il cane quando raspa per iscavare. — Ah! prima che la terra me lo ricuopra per sempre, ch'io lo rivegga anche una volta. — Mi levarono per le braccia onde allontanarmi dalla vista di tanta miseria. Giungemmo presso al castello; la pioggia aveva spento l'incendio, la parte superiore rovinata, la inferiore illesa: io non so come mi tornarono le forze; mi liberai da coloro che mi tenevano, e corsi alla volta della casa... penetrai nella sala... deh! mi sia concesso non ricordarvi la strage nefanda: così potesse non rammentarla l'anima mia!... Selvaggia mia, se il cuore non mi ti avesse indicata, non avrebbero saputo ravvisarti i miei occhi... come orribilmente ti avevano lacera la gola, con quante ferite guasto il castissimo corpo!... Mi prostrai... la faccia posai sul pavimento, e dai precordii sospinsi una molto terribile bestemmia, però che maledissi colui che, avendo dei fulmini pei giusti, sembrava impassibile agli scellerati. Per Dio! odo il mio nome susurrato da una voce che sorge dalla terra: — vivesse Selvaggia? La sua gola non fosse insanabilmente lacerata? — Levai la faccia... ahi dolore! pur troppo la testa appena giunta le stava al busto per la pelle della nuca... ella era morta... irrevocabilmente morta! — Caddi di nuovo, e il mio nome da capo susurrato mi percuote le orecchie... temei fosse un errore della fantasia commossa, — e non mi levai finchè una terza chiamata mi assicurò che io non m'ingannava: la voce si partiva dal cumulo dei cadaveri della famiglia del povero Tomaso: vinsi il ribrezzo e mi detti a frugare con cupide mani tra quella massa di carne sanguinosa... Tranne uno spregio sopra la spalla, tu eri rimasta illesa... la tua genitrice una volta ti porse la vita col latte del suo seno medesimo... ella riparò le tue ferite, ella ti coprì col corpo; comunque morta, ti aveva difesa, e tu cauta per istinto ti eri taciuta finchè non ti comparve davanti una faccia amica... Sventurata, e pure non del tutto misera, madonna Ermellina, se morendo potesti salvare i giorni della tua pargola... mentre io infelicissimo padre... oh!»

La fiamma del focolare all'improvviso cessa, e dalle legna vermiglie si leva una colonna larga, bianchissima: nel tempo medesimo un gran colpo fu bussato alla porta.

Vico, Annalena e Lucantonio si strinsero in un solo abbracciamento e proruppero in grido doloroso.

Passata la prima impressione del terrore, Lucantonio asciugandosi la fronte col dorso della mano, mormorò:

«Ah! mi era parso vedere l'anima del mio figliuolo.»

Annalena giunse le mani e alzandole al cielo diceva:

«O Signore, io sperava tu mi avessi conceduto la vista della mia genitrice.»

E Lucantonio riprese:

«I luoghi che prima amai m'increbbero: raccolto quanto meglio potei dal naufragio della nostra fortuna, mi ridussi ad abitare su quel di Fiorenza: a te costumi diedi convenienti alla nuova condizione; tacqui i natali e le sventure per non ti contristare la bella giovinezza: due amori suscitai nel tuo seno, quello della patria primo, poi quello di me; non perchè lo meritassi, ma perchè ne aveva immenso, irresistibile bisogno... Adesso in te se ne leva un altro il quale per certo non ispegnerà gli altri due... Se ciò avvenisse... sento che la tazza del dolore non si vuota mai. Di Naldo che avvenne? Voi lo avete veduto, or non è guari, cadavere miserabile sotto le zampe del mio cavallo.»

I giovani stavano per consolarlo, quando furono trattenuti da un secondo colpo più fortemente bussato.

CAPITOLO VENTESIMOQUINTO VOLTERRA

Tanto fischiar di strali,

Brillar di brandi ignudi,

Colpi così mortali,

Urto sì fier di scudi,

Sangue non fu mai tanto,

Nè più letizia e pianto.

Arminio, tragedia.

Era Francesco Ferruccio. Egli s'inoltrò con passi gravi, e in sembiante severo; ma quando vide la fanciulla atteggiata di dolore, quasi statuetta che un bel pensiero di artista abbia posto sul sepolcro di un primogenito o di sposa nuovamente divelta dalle braccia — forse dal cuore — dell'amato consorte quando dal volto di Vico e di Lucantonio conobbe l'angoscia esser passata colà, di severo divenne mesto ed appoggiò il gomito destro sul pomo dello spadone, sopra la mano la faccia.

E dopo alcun tratto di tempo incominciò:

«Ludovico, io sono venuto a dirvi addio. Prima che nasca il sole, mi è forza partire in servizio della Repubblica per impresa piena di pericolo e di gloria. I giorni dell'uomo sono uguali ai passi del viandante, — i giorni del soldato trovano appena paragone nei passi del cavallo che fugge.»

Ludovico alzò gli occhi attonito e rispose:

«Perchè rimango io?»

«Per ordine dei signori Dieci consegnerò la terra al nuovo commissario Andrea Giugni... Costui conobbi sempre studioso della licenza, la quale, finchè non trovi luogo a dimostrarsi nel suo brutto sembiante intera, assai sovente si scambia con la libertà, — uomo di corrucci e di sangue, non di quell'animo fermo che i gravi casi della patria domandano, — di costumi corrotto e superbo, — ogni bene riposto nei grossolani diletti della vita. La impresa a cui mi prepongono i Dieci gioverà assai alla salute di Fiorenza, perchè, vincendola, come, da Dio sovvenuto, confido, ridurrà alla sua devozione una città ribelle, e il suo credito scaduto verrà a rinverdire; in ogni caso, scemerà forza all'esercito, perchè Orange manderà gente a tentare di ricuperarla. Però il danno non compenserebbe il vantaggio perdendo Empoli: finchè conserviamo questa terra, non sarà mai spacciata la patria; la campagna ci è aperta fina a Pisa, — comodissima ci sovviene la facilità di provvedere gli assediati; — insomma il Palladio di Fiorenza si conserva qui dentro. Or dunque voi comprendete di quanta importanza mi sia lasciarvi persona sicura che vigili attentissima tutti i casi che possono accadere alla giornata e me ne ragguagli con diligenza.»

«Ma», riprese esitando Ludovico, «la promessa che voi faceste al padre mio moribondo mi suona diversa; o non prometteste voi ch'io vi sarei morto al fianco per la patria combattendo?»

«Vico, io non muto mai; ma dite: — voi da quel tempo in poi nulla vi sentite mutato? Allo amore di patria non si mescolò per avventura un altro amore? Vostro malgrado, non si levò nel cuor vostro un istinto di conservazione per la vostra vita dacchè un'altra vita vi preme molto più della vostra? È santo il vostro affetto, ed io lo approvo; pure sarebbe stato meglio che vi avesse acceso in altra stagione. Ma i fati reggono gli eventi; io poi non domando mai cose superiori alla umana natura; — male, penso, si lascia il fianco della sposa per affaticarsi quotidianamente al raggio del sole in battaglia.»

«Amaste voi mai?» una voce soave interrogò il Ferruccio, e si partiva dalla fanciulla.

«Io? — Amai mio fratello Simone, valente spada e fidato consiglio; — amai l'uno e l'altro mio genitore, ed amo le mie due sorelle, che, rimaste a casa, certo nè anche a quest'ora cessano dalle notturne preghiere per la tutela della mia vita... ma sopratutto amo la patria; — donna amata e gelosa, custodisce tutti i miei affetti... la mia anima è a Fiorenza, intorno al gonfalone della Repubblica; — la mia anima sta sulla corona che circonda la testa dei lioni del Comune... gran parte della mia anima posa eziandio su questa spada... oltre di ciò, io temo non avere anima per nessuno.»

«Misero voi!»

«Misero io! — e perchè, giovanetta?»

«Perchè», risponde Annalena sollevando all'improvviso le ciglia e con ardentissimi sguardi fissando il commessario, «perchè amando avreste appreso nessuno intelletto essere tanto grande nè cuore gagliardo ai quali il buono amore non aggiunga grandezza e gagliardia; la patria nuda di affetti a me rassembra un sepolcro: — l'uomo difenderà per religione quel sepolcro, perchè contiene le ossa de' suoi congiunti e conterrà le sue; — ma se vi aggiungi la difesa della sua sposa e dei figliuoli, allora il soldato ti parrà fulmine di Dio contro i nemici: io mi rammento avere udito raccontare dal padre di Vico come gli antichi Spartani non accettassero combattenti nella falange sacra dove non fossero innamorati...»

Ferruccio crolla, sorridendo, la testa; e la fanciulla con maggior fervore continua:

«Voi altri, perchè dotò natura di più salde membra di noi, non rifinite mai di lamentare la nostra debolezza; ci pretendete più forti e non vi restate dallo sconfortarci in ogni maniera; l'avvilimento nostro volete a un punto e rimproverate. Or dunque da che traete argomento di sospettare che l'amore sarà d'impaccio alle opere generose di Vico? Se dall'esser mio di donna, senzachè vi ricordi più remoti esempi, qual cittadino di Fiorenza fin qui ebbe virtù che potesse, non dirò superare, ma reggere al paragone di quella di Lucrezia Mazzanti? Ed io fui sua figliuola d'amore, ed io con questi occhi contemplai gli estremi aneliti della sua vita mortale. Ai giorni nostri, donna Maria di Padilla non difese vivo il consorte, non lo vendicò morto e, quando ai più animosi mancò l'ardire, non sostenne ella sola la libertà della Spagna contro lo sforzo di Carlo, che Dio confonda? Se perch'io mi sono Annalena... voi non mi conoscete ancora.»

«E che vorreste fare, giovanetta?» le domanda amorevolmente il Ferruccio.

«A lui», riprese Annalena additando Vico, «quello che spetta a moglie d'uomo che combatte per la difesa della patria; a voi quanto incombe a figliuola di padre affettuosissimo: — io per me abborro il sangue, — e la guerra è necessità che deploro con tutta l'anima; — la vita considero dono di Dio, la quale non possiamo spendere mai tanto bene quanto nella tutela della libertà...; e quindi io pregherò il Signore che volga gli occhi alla terra e favorisca non il più forte, ma il più giusto; — appresterò bende e rimedi alle ferite mentre voi vi avventurate al pericolo di riceverle; — vi veglierò infermi; — vi tempererò con freschi pannilini l'ardore delle membra quando vi travaglierà la febbre; riceverò nel mio seno il colpo che vi sarà indirizzato... vivrò con voi, e per voi morirò.»

«Padre! su, padre!» esclama il Ferruccio agitando il braccio di Lucantonio; e questi:

«Chi mi rammenta che una volta fui padre? Quale spietato rinnovella in me l'antico dolore? Sei forse Dio, per potermi rendere il figliuolo? Uomo, — intendi, — tu puoi schiudere la bocca del sepolcro, ma per traboccarvi dentro il tuo simile, non già per trarnelo fuori.»

Ferruccio attonito non sapeva che cosa volessero significare coteste lugubri parole: Vico gli espose in breve i fieri casi di lui e come non fosse sua figliuola Annalena, sibbene orfana e nata di messer Tomaso Tosinghi da Ponzano.

«La donna, comunque si chiamasse, che fu degna del tuo cuore ben poteva ottenere anche il tuo nome; e non pertanto mi piace ch'ella esca dei Tosinghi; — così per te riviverà un gentile e onorato lignaggio. — Lucantonio, io sono il Ferruccio. — A me il padre di Ludovico morendo commise la cura d'incamminarlo nella vita: vorreste voi unire la vostra Annalena col mio Vico? Pari di età e di animo, paionmi concepiti da un medesimo pensiero del Creatore.»

«Di', l'amerai come l'ho amata io?» con immensa passione Lucantonio interroga Ludovico senza badare alle parole del Ferruccio; «la sosterrai nella vita, le torrai dal sentiero che deve percorrere i triboli e le spine? Io, vedi, quando era stanca me la recava in collo e la portava finchè le braccia intormentite potevano sorreggerla: — guarda i bei piedi ch'io le ho saputo conservare; — se il freddo l'agghiadava, io le sue mani mi riponeva nel seno e col calore del mio cuore le riscaldava, sicchè il gelo non le stagnò mai il sangue sopra le dita, — ed ora nota come le ha bianche e delicate: quando camminammo nella estate per le aperte campagne, tra il sole e lei posi il mio corpo, e la sua pelle rimase intatta; — col mio fiato le inumidii i capelli; — quando ebbe sete, io le porsi tutta l'acqua della mia tazza... Abbile cura... allorchè dorme le solleva la testa, imperciocchè il suo alitare sovente sia soffocato... e in quel momento Dio ti salvi dalla tremenda paura che mi ha travagliato. Se così l'amerai, prendila; — siate due in una carne; — tu, Lena, appóggiati al nuovo sostegno; — appena io posso ormai sostenere me stesso... Ora non mi avanza altra causa per dimorare su questa terra... Accoglimi dunque nella tua pace, Signore.»

Il Ferruccio, modesto com'era, andò egli stesso pel prete. Il matrimonio fu celebrato nelle domestiche pareti, chè prima del concilio di Trento molte formalità, diventate in seguito sostanziali, si trascuravano; mancarono i riti solenni; non vi assistè la corona dei parenti e degli amici. Furono nozze dicevoli al soldato in procinto di perdere la vita, — alla donna che corre pericolo di diventare vedova prima che sposa. La religione del cuore supplì alle pompe religiose, l'amore immenso dei pochi alla proterva allegrezza dei molti convitati.

Compiti appena gli sponsali, Vico baciò in fronte la sua donna e tenne dietro al Ferruccio disposto a partire. Annalena, comunque abbattuta dalla notte vegliata e più dalle sensazioni sofferte, apparecchiò le poche masserizie a trasportarsi necessarie; Lucantonio taciturno l'aiutava senza mostrarsi affaticato. Tal era quel vecchio che gli anni non sapevano aggiungergli una ruga sopra la fronte, l'angoscia una puntura sul cuore, il disagio indebolire que' suoi nervi di ferro.

Il sole co' suoi primi raggi faceva coruscare la picca brunita in cima all'asta che regge il gonfalone del popolo fiorentino. Prossimo d'ora in poi a ricercare invano la bandiera della libertà sopra la nostra terra, pare ch'ei la vagheggi con aumento di luce. La brezza mattutina svolge agitando le pieghe del gonfalone, e n'esce un fruscio confuso che ti fa credere che, animato per miracolo, voglia all'improvviso favellare, e per troppo affetto la parola non si formi distinta, come immaginò l'Alighieri di quel suo avo Cacciaguida quando gli comparve davanti nel Paradiso.

Millequattrocento fanti stanno schierati sopra la piazza maggiore di Empoli sotto diverse insegne e divisi in sette compagnie capitanate da Nicolò Strozzi, Paolo Corso, Sprone, Balordo e Giovanni Scuccola da Borgo a San Sepolcro, Goro da Monte Benichi e Tomè Siciliano. Si aggiungevano quattro compagnie di cavalleggieri sotto la condotta dei meglio animosi cavalieri che agli stipendii della Repubblica militassero, Amico Arsoli, Iacopo Bichi, Gherardo conte della Gherardesca e Musacchino[259].

Il Ferruccio, accompagnato dal nuovo commessario Andrea Giugni e dai capitani che lasciava alla difesa di Empoli, Piero Orlandini cui egli stesso con fervidissime istanze aveva più volte raccomandato ai Dieci come prode non meno che prudente uomo di arme e della libertà sviscerato, Tinto da Battifolle, Bocchino Corso e il conte di Anghiari, percorre le file, esaminando se avessero trasgredito in nulla i comandamenti di lui.

Imperciocchè egli avesse prescritto che ogni soldato si provvedesse di pane per due giorni, apparecchiassero picconi e strumenti altri siffatti da espugnar terre, una soma di polvere d'archibuso, due some di corda cotta e tre some di scale. Quando co' suoi propri occhi conobbe essere stato obbedito in tutto, si volse ad una banda della ordinanza fiorentina distinta dalle altre compagnie per la sciarpa verde che costumavano i giovani ascritti alla medesima, in segno, dice lo storico Nardi, dello sperato frutto delle loro fatiche, e pel gonfalone del Comune, insigne di una croce bianca in campo rosso.

«A voi», incominciò egli con forza, «non dico nulla. Quando vi cadrà dalle mani la bandiera, un'altra cosa vi cadrà sul collo, — la scure del tiranno. La libertà sta impressa sopra la vostra testa, — l'una non può reggersi senza l'altra. Allorchè l'animo non vi bastasse ad essere eroi, siatelo per disperazione; da una parte troverete gloria, sicurezza, leggi buone, vita larga e tranquilla, — dall'altra, vituperio e sangue.»

Ciò detto, stese la mano e indirizzò la voce alle compagnie stipendiate:

«L'ira di Dio e i misfatti degli uomini ci hanno reso stranieri tra noi; — noi favelliamo uno stesso idioma, noi allevò una medesima terra, e tuttavolta la nostra patria non è la vostra; — ben potrei dirvi difendersi in Fiorenza la libertà dell'universa Italia, — qui essersi quasi intorno al cuore ristretti gli ultimi palpiti di lei; — fiaccola accesa sopra il faro illuminare anche i popoli che non contribuiscono coll'olio a mantenerne il lume. Ma io la vostra condizione presente comprendo e compassiono. Privi da gran tempo di libertà, ella vi sembra nome vano e senza idea; all'amore di gloria or si sostituisce in voi l'amore di un frammento di metallo coniato; — combattete senza passione perchè non avete patria. Però io non pretendo da voi cose superiori all'opera comunale del soldato pagato. Chiunque non si sentisse gagliardo abbastanza per seguitarmi nelle nuove imprese, rimanga; — adesso gli concedo facoltà ampia a restarsi; varcata che avrà di un passo la porta di Empoli, non sarà più a tempo; — un passo indietro lo spingerà irrevocabilmente alla morte. Intanto mi corre l'obbligo di saldare i debiti. Romanello, uscite di riga.»

A queste parole si fece innanzi un giovane di forme egregie, nato nel contado di Arezzo, il quale si era virtuosissimamente adoperato in quelle quotidiane avvisaglie; il Ferruccio, sorrisogli alquanto, gli disse:

«In premio delle prodezze vostre vi dono una celata ed un cavallo. La Repubblica adesso non può guiderdonarvi nè di più nè di meglio. Sta in arbitrio vostro lo stare come l'andare[260]

«Con buona licenza vostra rimarrò a provare se buon cavallo e buona celata mi donaste voi.»

Gli accenti severi e il dono onorato commossero i soldati, — i volti loro avvampavano di vergogna, — il cuore battè con violenza sotto gli usberghi di ferro, imperciocchè l'uomo, come la pietra sotto la mano del fabbro, diventi ad un tratto o la statua d'un Dio, o un mortaio da sale, — e con unanime grido risposero:

«Noi verremo tutti: — voi siete la nostra patria.»

I soldati amavano il Ferruccio più che padre, — ed io ebbi luogo di notare che il capitano giusto e severo è temuto a un punto ed amato; — i soldati riconoscono la pena non da lui bensì dalla legge, mentre il premio all'opposto, anzichè dalla legge, da lui solo derivano. Io però non affermerei questo avvertimento tanto generale che non andasse soggetto a gravi eccezioni; — nondimeno io l'ho fatto replicate volte con animo quieto e forse preoccupato da pensieri poco onorevoli alla umana natura: — certamente l'uomo è migliore della sua fama.

Il Ferruccio, agitando la destra, di nuovo favella:

«Or dunque deponete le vostre particolari bandiere, accoglietevi tutti sotto il gonfalone della Repubblica; — per ora abbiate una bandiera comune: — tra poco, Dio sovvenendoci, ci acquisteremo comune anche la patria.»

E come disse, fecero. Allora egli si strinse da parte col nuovo commessario Giugni e, prendendogli ambe le mani, favellò:

«Messere Andrea, per lo corpo santissimo di Nostro Signore vi raccomando la difesa di Empoli. S'egli non è tale, come ho scritto agli magnifici signori Dieci, che le donne, non che altri, lo possano con le rocche e coi fusi difendere, certo i soldati con le picche e con gli archibusi molto agevolmente il potranno. Questo Popolo ha buona mente verso la Repubblica; ma voi sapete bene essere il popolo voltabile cosa e pronto a levarsi al primo vento che vi soffi dentro. Il migliore spediente ond'ei non senta la fatica consiste nello affaticarlo del continuo: pensate ch'Empoli perduto darebbe vinta ai nemici la guerra; fate buona guardia; in caso di assedio, badate alle mura verso la porticciuola d'Arno e verso San Donnino; — da questi lati paionmi più deboli che altrove: — praticate un fosso interno, — a me il tempo mancò per farlo; — giù in fondo conficcatevi aguti di legno o di ferro; — innalzate un argine: in castello troverete legname a ribocco, e quando le terre possiedono legname, le non si ponno sforzare; troverete copia di munizioni tanto al vivere quanto al combattere necessarie. Addio, messere Andrea; fino dalla gioventù prima procedeste sviscerato della libertà e mille volte poneste a sbaraglio della vita per cause da nulla; adesso pertanto rammentatevi che sopra il vostro capo riposano i destini di Fiorenza e forse d'Italia; abbiate fisso nella mente che voi avete a perdere una patria e un nome che di padre in figlio a voi pervenne onoratissimo e splendidissimo. — Partiamo»

Iacopo Bichi, piegandosi sopra la sella del cavallo, mormorò nelle orecchie del Ferruccio:

«Di nemici va pieno il contado, commissario; non parrebbevi prudente, onde fuggire ogni impaccio, che ripiegassimo il gonfalone, e i tamburi e le trombe tacessero?»

«No, Iacopo», riprese il Ferruccio; «e' bisogna incamminarci al conquisto di gloria non come ladri, sibbene da eroi. — Date nei tamburi. Viva la Repubblica!»

I soldati ripeterono il grido Viva la Repubblica e si posero in via.

Volterra è città antica, posta quasi nel mezzo della Toscana, sopra un monte assai alto: sedendo sopra cinque gioghi, dicono gli storici che presenti per pianta quasi la figura di una mano. Chi prima la edificasse ignoriamo; alcuni le danno origine propria, altri straniera; tra questi chi l'attribuisce ai Lidii, chi a' Pelasgi, chi a Tirreno; non manca chi ne affermi fondatore Noè: incertezze e favole le quali nonpertanto valgono a dimostrare i suoi remoti principii.

Ciò che apertamente possono esaminare i pellegrini sono le reliquie delle mura ciclopiche che occorrono pur sempre nel suo territorio, e scritture di lingua che ormai non intendiamo più: le prime fanno fede che visse un di una schiatta di uomini dotati di forze assai superiori a quelle dei popoli moderni; — le seconde, di un tempo tanto antico che mal si accorda colla età attribuita alla nostra terra. Dicono Giano nascesse in lei; affermano quivi ancora trovasse i natali san Lino; i quali casi, se come narrano, avvennero, segno è certo avere usato sempre benigno riguardo a quella città la Idea, che i popoli posero con vicenda perpetuamente alterna nel cielo a disimpegnare le funzioni di Dio. Volterra fu delle dodici città etrusche sede dei lucumoni; qualche archeologo volterrano sostiene essere stata prima tra tutte; gli antiquari aretini scrivono lo stesso di Arezzo; altri altre cose: la quale questione di preminenza, come delicatissima, lascio alla decisione del benigno lettore.

Si resse prima con proprie leggi; e tanto i suoi antichi cittadini o amarono la libertà o abborrirono la tirannide che ordinarono nessuno di loro tenesse i magistrati, ma annualmente si concedessero agli schiavi fatti liberi: quale tradizione riportata da Aristotele non so come si accordi con l'altra che quivi ponesse sua stanza il principale lucumone di Etruria. Come che sia però, se a lei piacque la libertà, la invidiò in altrui; e gli storici ci riferiscono ch'ella, collegata con Arezzo, Chiusi, Rosselle e Populonia, tentasse restituire Tarquinio in Roma. Male incolse a Volterra provocare l'aquila romana, dacchè, quando usciva appena di nido, rimase da lei malamente ferita; fatta adulta, la divorò. Elio Vuturreno con sessantamila Toscani, comportando acerbamente il minacciato servaggio, giurarono vincere o morire: giacquero spenti sul campo di battaglia presso al lago di Valdimone. Volterra e la rimanente Etruria diventarono da prima municipio, poi colonia romana. Nelle contese tra Mario e Silla, Volterra seguì le parti del primo: superando il secondo, ne sottopose alla legge agraria il contado.

Durante il medio evo la ressero conti, marchesi e gastaldioni, poco dopo, i vescovi; ma questi più di nome che di fatto, imperciocchè nell'esercizio dell'autorità temporale li troviamo contrariati tutti, spesso banditi, uno — Galgano vescovo — trucidato.

A libertà scomposta successe tirannide sfrenata. I Belforti, congiunti finchè attesero a dominarla, si divisero poi su lo spartire della preda: i deboli ricorrono ai Fiorentini per aiuto. Secondo l'antica natura dei potenti, i Fiorentini sovvengono i deboli contro i vincitori per opprimere entrambi. Volterra, col nome di socia, diventa sottoposta a Firenze. Però, se togli qualche ingiustizia commessa dal popolo fiorentino per necessità della sua politica, se dalla parte dei Volterrani qualche impeto per rivendicarsi nell'antica libertà, tra signore e servo non vedemmo mai concordia più diuturna nè più sicura di questa.

La maggiore iniquità che avessero a sopportarvi i Volterrani venne da Lorenzo dei Medici il vecchio. Siccome il racconto di questa avventura giova a svelare l'ingegno di un uomo che la fortuna sembra proteggere anche, dopo la morte così che perfino il titolo di onoranza a tutti i cittadini comune muta in attributo singolare della sua magnificenza[261], non mi sarà grave esporla con qualche larghezza.

Mentre mi dispongo a farlo, mi occorre alla mente un pensiero importuno, ed è questo. L'unico conforto che avanza al magnanimo oltraggiato da' suoi contemporanei consiste nel confidare il proprio nome al futuro e dal sepolcro, dove precipita col cuore rotto, appellare alla fama. E pure anche questa fama diventa ancella della fortuna e dura a celebrare, per inerzia e per costume, morto colui che adulò vivente. Lorenzo dei Medici salutano tuttavia i posteri col nome di Magnifico, lui dicono grande, lui generoso e sapiente. Scrittori stranieri impallidirono sopra antichi volumi per rinverdirgli la corona e nascondergli officiosi sotto le fronde dell'alloro la impronta di tiranno che un ferro popolano gli segnava sul collo. — Quanti furono coloro che encomiarono il Ferruccio? E non pertanto questi morì per la libertà della patria, — quegli, come vedemmo, moriva senza l'assoluzione del Savonarola promessa a patto di restituire la patria alla libertà.

Or dunque si narra come Bernuccio Capacci da Siena offerisse alla Signoria di Volterra di condurre in affitto per dieci anni i pascoli del Sasso e le miniere dello allume; la quale offerta, quantunque fosse da autorevoli cittadini vigorosamente contradetta, non pertanto venne dai priori e dai collegi approvata. Il popolo cominciò a riprendere come lesivo l'affitto. Il Capacci, per assicurare il negozio, ci chiama a parte Paolo Inghirami, uomo fiero e potente, e Lorenzo dei Medici. Aperte le miniere, tanta fu la copia dell'allume che, tra per invidia di alcuni contrarii allo Inghirami e la lesione che veramente sentiva il popolo, invocato il disposto delle antiche leggi, si ottenne cassarsi il partito e di nuovo proporsi il negozio davanti il magistrato. Varie ebbe vicende questa trattativa; e forse, cresciute a termine conveniente le offerte, usata modestia e blandizie, sarebbesi condotta la bisogna di quieto a buon termine, se l'Inghirami, trasportato dalla superba natura, fidandosi nella forza, non avesse preferito ai modi benigni i riottosi. I magistrati offesi, volendo far mostra di autorità, ordinano gli operai dalla miniera si cacciassero, gli edifizii si demolissero. Paolo, bollente di sdegno, si riduce a Firenze per avvisarne Lorenzo; e questi, ne' suoi privati interessi mescolando la patria, fa decretare si rimetta ad ogni costo l'Inghirami nel possesso della miniera; i giudici che ardiscono amministrare la giustizia a suo danno s'imprigionino: Rafaello Corbinello, capitano di Volterra, provveda onde abbia forza il decreto. Paolo torna in Volterra, percorrendo le strade con accompagnatura di Côrsi armati, in sembianza e più nei modi tiranno. Il popolo, che in moltissime cose si assomiglia al bove, lo assomiglia anche in questa, che, quando è quieto, un sol fanciullo lo mena, ma quando monta in furore, cento uomini lo fuggono. Al popolo dunque un giorno scappò la pazienza; — l'accompagnatura dei Côrsi disparve, distesa appena una delle sue mille mani; — Paolo e i suoi aderenti, costretti a salvarsi, riparano nel palazzo del capitano. L'autorità e la paura di pena remota mal giovano contro a furore presente: a malgrado le dimostranze, cadono spezzate le porte; il popolo irrompe; Romeo Barbetani, che primo si oppone, riduce in pezzi, — gli altri ristretti in cima della torre collo zolfo e col bitume soffoca, — poi ne strascina per le strade i cadaveri, miserabile trofeo di cittadina discordia.

Lorenzo dichiarò la maestà del fiorentino popolo offesa per cotesta strage, pernicioso l'esempio dove si lasciasse impunita. I priori gli ebbero fede o s'infinsero, chè ormai in lui di tiranno era tutto, tranne la corona, superflua eppure ambita insegna di potenza.

Un popolo si armava ai danni dell'altro per sostenere Lorenzo dei Medici nella impresa degli allumi: fu questa guerra avaramente incominciata, crudelmente combattuta. Lorenzo mosse contro Volterra Federico duca di Urbino con poderosissimo esercito; e poi impedì che la città si soccorresse, — gli amici di lei corruppe o spense; sicchè abbandonata, soprafatta dal numero e dal tradimento, cedè alla fortuna del nemico. Con quanta misericordia si comportasse verso i vinti Lorenzo, che la posterità si ostina a chiamare Magnifico, si dimostra da queste poche parole di uno scrittore volterrano: «Io non istarò a narrarvi la universale desolazione, gli incendii e gli spogliamenti di cui vanno piene le storie del tempo. Basti dirvi che la rovina di questa patria fu tale che pochi esempi sono accaduti simili a questo, per cui non è risorta mai più[262] »

Alcuni cittadini di Volterra, i meno, — perchè i generosi non furono mai troppi, anteponendo alla servitù l'esilio, ricoverarono in varie terre d'Italia. Poco dopo sopraggiunse nella rovinata città Lorenzo con pecunia per corrompere il popolo e per innalzare la fortezza; ogni privilegio le tolse, di libera la ridusse serva, e tali e tante vi commise enormità che presso a morte la memoria di quelle lo travagliava fino al punto di disperarlo del perdono di Dio.

Il popolo fiorentino, scacciati i Medici, attese a riparare le ingiurie del tiranno, restituì ai Volterrani il governo e l'entrate; ma, ormai troppo profondamente offesi, non poterono risorgere all'antico splendore.

Però quando Firenze, venuta meno ogni speranza d'accordo, deliberò sostenere gagliardamente la guerra contro le armi collegate dello imperatore e del papa, i Volterrani mandarono ambasciatori alla Signoria per offerirle tutte le forze loro in quanto valevano. Cresciuto il pericolo ed occupato in gran parte dal nemico il dominio, ottennero licenza dal capitano Nicolò dei Nobili di armarsi e di provvedere con ogni argomento tornasse loro più destro alla difesa della città. Ma l'affezione veniva meno con la fortuna: quotidianamente cresceva il numero di coloro che dissuadevano gli animi da mettersi in mezzo a fortune per lo meno incerte e difficili, e con la speranza dei beneficii del barcamenare gli lusingavano: e l'uomo, per sua natura, senza mestieri di sollecitazioni, vediamo essere ad abbandonare l'amico infelice pel nemico avventurato anche troppo inchinevole: infida, ma potentissima paciera, — la prosperità.

A Giovanni Covoni potestà di San Gemignano parve bene lasciare cotesta terra, non avendo forze sufficienti a mantenercisi; e poi lo consigliavano a quinci remuoversi le notizie che ad ogni ora gli venivano più certe, starsi i Volterrani in procinto di dar volta e ribellarsi al Comune. Presentatosi alla porta di San Giusto con le sue quattro compagnie, i Volterrani lo accolsero con sembianze liete, — ma, per quanto ei sapesse pregare e ammonire, nol vollero alloggiare in città; solo gli concessero stanza nei borghi. Per la qual cosa sdegnato il Covoni ordinò che alla mattina seguente su l'aprire delle porte entrassero i soldati senza rumore nella terra e prendessero i canti della piazza dei Priori; e, come disse, fecero, ma non senza rumore nè senza spargimento di sangue, avvegnachè volendo contrastare i Volterrani, due di loro, ch'erano fratelli, rimanessero uccisi.

Adesso il commissario abbandona per istoltezza quanto aveva in virtù della forza conseguito. Lasciandosi aggirare dalle insinuazioni dei maggiorenti tra i Volterrani e malgrado le proteste dei più savi, impone ai capitani Goro da Monte Benichi e Paolo Côrso ritornino alle stanze fuori di Volterra. Usciti appena dalle porte, chiudono i cittadini le imposte e si fanno ad assaltare le due compagnie rimaste: insufficienti a sostenere l'impeto, uscirono anch'esse, più che di passo, di Volterra, ed accozzatesi con le altre due, piene di mal talento presero la volta d'Empoli.

Parendo, com'era, grave fatto cotesto, la Signoria di Firenze provvide ai rimedii mandandovi Bartolo Tedaldi con due compagnie; partito intempestivo quando inefficace. Avendo prevalso le parti dei Medici, al Tedaldi parve somma ventura ricoverarsi co' soldati in cittadella. I Volterrani, liberati dalla sua presenza, convengono a patti con Taddeo Guiducci commissario del papa; poi mandano oratori a Clemente e ne ottengono laudi, benedizioni e promesse, di cui non fu mai penuria in corte di Roma.

Procedendo del tutto avversi alla Repubblica i Volterrani, ed a ciò confortandoli Alessandro Vitelli, costruiscono bastioni, innalzano cavalieri, turano le bocche delle strade che menano alla cittadella, e le case opposte riducono ad archibusiere per offendere chiunque si avvisasse sortirne per irrompere nella terra. Temendo poi fossero pochi i soldati stanziati colà per sostenere le parti del papa, condussero dugento fanti, poi altri cento, finalmente chiesero ai Sanesi artiglierie e munizioni. I Sanesi dettero cinque bariglioni di polvere, le artiglierie promisero, non mandarono: onde si volsero ai Genovesi; i quali, desiderando gratificare al pontefice, concessero due cannoni, due colubrine, un mezzo cannone e un sagro, con trecento venti palle di ferro: e perchè nessuno dei popoli italiani mancasse a spegnere il focolare della libertà d'Italia, Luigi da Bivigliano dei Medici, spedito in poste dal marchese del Vasto dopo la prima ributtata dalle mura di Volterra, dette ventiquattro bariglioni di polvere[263].

I chiusi in cittadella non si restavano; e comecchè avessero piccola artiglieria, giorno e notte indefessamente traevano contro la città: per altra parte cominciavano a patire difetto di vettovaglie; sicchè, mosse parole di accordo, convennero in una tregua di due mesi, a patto che l'uno non dovesse offendere l'altro, i Volterrani pagassero al Tedaldi commessario della cittadella scudi trecento, e giornalmente pel giusto prezzo gli dessero copia di vettovaglie necessarie al bisogno degli assediati. Siccome avviene, firmati appena i patti, l'una parte e l'altra attese a non mantenerli; per la qual cosa indi a breve riassunsero le offese molto più gagliarde di prima, ed alla fine, volendo ad ogni costo il pontefice porre fine alla impresa, ragunato sforzo di gente e di arme, deliberarono venire all'assalto.

Tale era la condizione della città quando Francesco Ferruccio, ordinandolo i Dieci, abbandonava Empoli per sovvenire alla fortuna pericolante della Repubblica in queste parti del suo dominio.

Ferruccio, affrettati i passi, giunse in Volterra il giorno stesso 26 aprile che si partì da Empoli, trascorsa appena la ventunesima ora: subitamente introduce i fanti per la porta del soccorso nella cittadella; fatti smontare i cavalleggeri e cavare le selle ai cavalli, per la medesima via gli mette dentro. Se i soldati lo accogliessero con dimostrazioni di allegrezza è agevole immaginarlo; egli, come uomo a cui il tempo tardi, imposto modo a coteste gioie, favellò brevi parole:

«Attendano i soldati a riposarsi, — di cibo si confortino e di bevanda; tra mezz'ora io gli richiamo alle armi.»

Uno dei cittadini di Volterra chiusi in cittadella accostando la bocca all'orecchio di certo soldato fiorentino, mormorò:

«Ecco un comando ch'è più facile a darsi che ad eseguirsi. Come faremo a confortarci di cibo e di bevanda che in cittadella avanzano appena sette barili di vino, e dei pani forse ne avremo cento?»

E il Fiorentino ghignando:

«Sta quieto; non sai tu che il nostro capitano si è fatto imprestare il miracolo di multiplicare il pane quante volte egli vuole?»

«Ahi tristo! per poco voi altri Fiorentini non diventate luterani: tu schernisci il miracolo; non ischernirlo, perchè io, alla croce di Dio, ti giuro che l'ho veduto.»

«Lo hai veduto?» riprese il Fiorentino spalancando gli occhi; «amici, apriamogli la vena.»

«L'amore.» «Ho giurato! ho giurato! Lasciami... io sono sacra... Cap XXXI, pag. 514

«Che vena e che non vena! io ti dico che costà nella terra dentro la chiesa di San Francesco si conserva un frammento del pane moltiplicato dal Redentore, — è di orzo e fresco, come se uscisse pur ora di forno[264]

«Io non dileggio: — guarda; — il miracolo si opera.»

I soldati, aperti gli zaini, ne avevano cavato pane e vino, e stesi per terra, dimentichi dei disagi della vita, improvvidi dei futuri pericoli, motteggiando e ridendo di gran cuore, adempivano il comandamento del capitano.

Ferruccio intanto, quasi il sole non gli avesse riarsa la faccia, il cammino stancate le membra, la fatica e la polvere assetato, taciturno si aggira per le mura della cittadella, specola i luoghi, esamina i muri, nota le archibusiere avverse, poi assente col capo ad una sua interna determinazione e, percotendo della palma aperta il parapetto, esclama: «Può farsi!»

E subito dopo chiamò Vico e gl'impose portassegli una tazza di vino; si trasse l'elmo, non scosse la polvere, raddrizzò il cimiero. L'elmo pesante gli avea segnata sopra la fronte una traccia di sangue pesto; non importa: vi sovrappone di nuovo l'arnese di ferro; ei non ha tempo di sentire il dolore.

«Oh! questo è un uomo davvero», discorreva un soldato asciugandosi col dorso della mano la bocca dopo di aver bevuto; «egli principia dal principio; quando il soldato si è cibato e ha dormito, riprende allegramente il suo cammino, fosse anche per la eternità.»

«Certo, il capitano Ferruccio», discorreva un altro, «ha avvertenza a tutto: infatti qual concetto dovrebbero formarsi nell'altro mondo dei soldati della Repubblica fiorentina, se, arrivati appena in paradiso, chiedessero da mangiare?»

«Ouf!» esclama un terzo sbadigliando e stirando le braccia «muoio di sonno... Lasciatemi dormire.»

«Soldati!» tuonò all'improvviso la voce del Ferruccio, «soldati!»

E gli uomini d'arme, fanti e cavalieri, assursero come se una bombarda fosse loro scoppiata vicina.

« Mi dispiace che la necessità mi costringa a menarvi a combattere senza che vi abbiate tolto ristoro al disagio sofferto; ma la prontezza dello assalto levando ai nemici l'animo di difendersi, con poco di fatica vi procaccerete riposo durevole e sicuro[265]. Or dunque perchè vi farei io lunghi discorsi quando è duopo adoperare le mani? La mia pazienza è metà più corta della mia picca: vedete costà quella torre? la ravvisate voi?»

«Sibbene la ravvisiamo: ella è la torre del palazzo dei Priori.»

«Or dunque sappiate che stanotte voglio giacermi là dentro; aiutatemi a conquistarmi il letto; mi tarda dormire.»

«Lo pensate voi? sapete che ora fa egli?»

«Che importa l'ora? Qualunque istante è buono per combattere e per vincere i nemici della patria.»

«Ma le ventidue ore si avvicinano: siete voi Giosuè? — Pretendereste arrestare il sole su in cielo?»

«Con l'ajuto di Dio, intendo affrettare le mani sopra questa terra. Rompete gli indugi, — attelatevi, — seguitemi, — la città è nostra!»

E fece aprire le porte e si spinse avanti abbassando la testa, come uomo fa per riparare il volto dalla procella. Da una mano brandiva la picca; dall'altra teneva la rotella e una scala.

I Volterrani avevano, come narrammo, recinto intorno la fortezza con archibusieri e bastioni; e di questi ne avevano innalzato fino a tre nella strada di Santo Antonio, donde, sortendo dalla fortezza, è forza passare se vuolsi riuscire sopra la piazza e quindi nello interno della città: da cosiffatti ripari cittadini e soldati mandavano continue scariche contro i Ferrucciani; ma, o sia che le feritoie mirassero alto, o nel precipizio dei moti non aggiustassero i colpi, nessuno rimase morto su quella prima sortita.

Il capitano appoggia la scala: per meglio resistere all'urto delle pietre che gli rovinano sul capo, prende tra i denti la picca, e con ambe le mani afferra la scala. A vederlo innalzarsi di grado in grado imperturbato tra mezzo il turbine dei sassi che gli rimbalzano su l'elmo e su le spalle; a vederlo ora comparire, ora mezzo dileguarsi tra un nuvolo di terra e di polvere di calcina, non paveva cosa umana, bensì paurosa apparizione di spirito soprannaturale; amici ne tremarono e nemici.

Tentano respingere la scala dal bastione e cacciarlo riverso a rompersi sul terreno; non vi riescono; quando poterono aggiungerlo pel cimiero, s'ingegnarono tanto squassarlo che cadesse; ed anche questo fu invano; egli torna a brandire l'asta e le vibra veloce come il serpente la lingua; da destra, da sinistra spesseggiano i colpi; già il sangue colora la parete esterna del bastione; — morto il quarto ed il quinto, gli altri nemici non aspettano le percosse poderose: al Ferruccio viene fatta abilità di piegarsi col torace sul parapetto, poi mettervi la gamba destra; — eccovelo in piedi[266].

In altra parte non favorisce la fortuna i suoi soldati. Il primo che ebbe montati i gradi supremi della scala tocco in fronte da una palla precipitò sopra i suoi. Vico, appunto atterrito, gli tiene dietro sopra la scala perigliosa. Iacopo Bichi e Amico Arsoli, vergognando lasciarlo solo al mal passo, appoggiano accanto altre scale e ascendono deliberati a vincere o a morire: ben fu opportuno a Vico il sussidio, perchè a mezza scala una pietra lo colse così sconciamente sul capo che stordito sarebbe per certo caduto, dove non lo avessero sorretto e con le rotelle tutelato dai colpi succedenti quei due valorosi.

Da questo punto a quello superato dal Ferruccio era tirata una cortina senza terrapieno forse larga due palmi; simulazione di difesa piuttosto che difesa vera, — distava da terra dieci braccia circa, — piena di pericoli pel trapasso, come quella che era stata composta di varie maniere sassi lasciati nella naturale loro informità. Il Ferruccio vi si avventura: grave di armi vi corre leggiero quasi sopra un prato; — tutta la sua forma alta ed asciutta si disegna sul cielo scoperto; pareva volasse; mercè il suo ajuto anche quel punto venne sforzato: la bandiera della Repubblica sventolò sopra i bastioni volterrani.

Vinto il primo bastione, rimase ad espugnarsi più ardua difesa; tutte le case avevano ridotto a trincera, e internamente sfondate potevano scorrere dall'una all'altra ed essere pronti ai soccorsi; non visti offendevano, con ogni arnese ferivano, dal basso lanciavano fuoco e ferro, dall'alto tegoli e materie ardenti. Coteste strade anguste, paurose per tanti modi di morte, mettevano sospetto nei meglio arrisicati; e il sospetto accrebbe quando all'improvviso percosso da mano invisibile il capitano Balordo da Borgo San Sepolcro vacillò e senza pure raccomandare l'anima a Dio stramazzò spento. I soldati balenavano; anche un momento concesso al pensiero, volgeranno le spalle. Ferruccio, il quale in cotesta impresa si comportò più da soldato che da capitano, ha incorso il biasimo degli storici, principalmente del Segni. A parere nostro il Segni merita quel biasimo che troppo facile compartiva al Ferruccio: guerre erano quelle che al capitano non bastava disegnare, bensì gli correva il bisogno di propria mano in gran parte eseguire; non come ai giorni nostri il problema della vittoria poteva sciogliersi dentro un gabinetto mediante i calcoli fatti con cifre di carne e di ossa: questo vanto era anch'esso serbato a noi Italiani, ma più tardi, — parlo di Napoleone Buonaparte. In somma, il Ferruccio con la sua mente pensò quell'assalto e con le sue mani lo vinse; preso da furore, cominciò da ferire quanti tra i suoi mostravano viltà, e fatta una testa di cavalleggieri armati a piede, si caccia avanti e riesce a capo della Via Nuova. Allora presero a rompere i muri delle case e sforzarsi di entrare; la disperazione da un lato e la speranza presentissima di vincere dall'altro riaccendono la mischia; di qua e di là, morti e ferite. Pur finalmente i muri furono rotti, — i Ferrucciani si spandono nelle case. Allora comincia una guerra spicciolata su pei tetti, nelle cantine, di stanza in stanza, con molta strage dei soldati e dei cittadini di Volterra. I Ferrucciani, dalla dura resistenza inacerbiti, non serbano più modo, ed agli orrori già tanti aggiungono il fuoco, il quale apprendendosi agli antichi edifizii, come voglioso di primeggiare nella opera della distruzione, in breve ora riduce in cenere quaranta case: le avrebbe distrutte tutte, se all'improvviso squarciandosi il cielo con procella di saette e di tuoni non avesse mandato giù un acquazzone, il quale spense il fuoco e le forze degli assalitori spossati dal cammino e da sei ore di affannoso combattimento.

I capitani stavano attorno ai soldati e con ogni industria s'ingegnavano stimolarli: Ecco, dicevano loro, e dicevano il vero, più poco rimane a vincere la città, il più è fatto; un lieve sforzo, e basta; pensate quanta gloria e quanta utilità ci viene dall'acquistarla, e quanta vergogna e danno ci verrebbe dal perderla ora che i nemici sono battuti: considerate il pericolo di lasciarli ad agio onde le forze rinfranchino e gli animi; e durante la notte potranno raccogliere gente dai paesi circostanti e metterle dentro, fabbricare nuovi ripari, ricevere soccorsi dai militi che scorrono il contado: in somma chi non coglie il frutto quando e' può, pensi che mille ostacoli si metteranno poi fra la mano e quello. Non gli ascoltavano; imperciocchè dove abbia la fatica vinto il corpo davvero, nè volere proprio nè esortazioni altrui giovano nulla. Più degli altri, ma con profitto pari, procedeva acceso ad eccitare i soldati il capitano Nicolò Strozzi, strenuissimo cavaliere, a cui taluno, potendo appena aprire gli occhi, rispose:

«Vedete, anche il signore commessario ha lasciato la presa: l'uomo fa quello che può; lasciateci in pace.»

Di vero Nicolò si guarda attorno e non vede il Ferruccio: presa lingua di quello che ne fosse accaduto, seppe essersi ritirato poco prima in fortezza; e là essendosi fatto con presti passi a cercarlo, lo trovò che, avendo rilevato un embrice sul capo, temendo venir meno dallo spasimo, ed i suoi si perdessero di coraggio, si era ridotto in fortezza per prendere un po' di ristoro e poi tornare. Appena il capitano Strozzi con parole succinte gli ebbe esposto la causa la quale a lui lo conduceva, il Ferruccio, senza profferire motto, salta su in piedi e corre via; dietro a lui si mette Nicolò. Passando per le strade della città, lo Strozzi dal rinnovato traboccare dalle finestre di sassi e tegoli si accorse che i Volterrani riprendevano fiato, e si accorse eziandio come il commessario, spinto dalla sua impetuosa natura, fosse uscito senza celata, sicchè ad ogni istante correva pericolo di restar morto sul tiro. Nemico era lo Strozzi del Ferruccio e per causa onorata; e la guerra e il comandamento espresso dei Dieci avevano piuttosto sospesi che spenti gli scambievoli rancori: non pertanto, conoscendo come nella virtù di cotesto uomo fosse ormai riposta la salute della patria, si levò di capo la celata e la pose su quello del Ferruccio, senza che questi, tanto era preoccupato a rinnuovare l'assalto, ci ponesse mente.

Non era impresa umana reintegrare le forze dei soldati; nè al Ferruccio riuscì meglio degli altri impartire loro non l'animo, bensì la balìa di muovere le braccia: allora, altro non potendo di meglio, pensò di mettere al sicuro l'acquistato, ordinando ai suoi prendessero i canti della piazza di Santo Agostino e ritraessero sotto la cittadella due pezzi di artiglieria caduti in sue mani; distribuì le sentinelle, trasmise istruzioni, e nulla trascurò, dopo essersi mostrato audace guerriero, di quanto si addice a prudente capitano.

Rivolgendo con animo pacato i passi alla fortezza, come per lenire il fiero dolore di capo che lo travagliava, si cava la celata, e vede non essere la sua; guardandola meglio, la riconosce per quella del capitano Strozzi; ond'è che, scorgendoselo vicino e scoperto, gli domanda:

«Come va che la celata vostra io mi ritrovo in capo?»

«Ce la misi io, perchè usciste senza e correvate pericolo di rimanere côlto dai sassi.»

«E voi?»

«Io non sono il commessario... dei capitani se ne trova su di ogni canto.»

Il Ferruccio tacque; e andarono anche alcuni passi; poi il primo si fermò e disse:

«Nicolò, noi avemmo lite insieme e rappacciati siamo per ordine dei Dieci... Volete voi che ci rappaciamo per ordine dei nostri cuori?... il mio almeno mi comanda di fare così...»

E gli stese le braccia: il capitano Strozzi lo abbracciò e lo baciò, e si dissero amici fino alla morte[267].

Mentre i due valentuomini procedono con le braccia conserte verso la fortezza, ecco d'improvviso percuote il Ferruccio un suono di pianto e voci sconsolate che gridavano: Al fuoco! al sacco! — E levati gli occhi, mira traverso la vampa delle fiamme correre donne sbigottite co' pargoli in collo, traendosi dietro altri figliuoletti attaccati ai lembi delle vesti, e uomini carichi di varie maniere di masserizie, e finalmente un vecchio tratto sopra le spalle di due giovani, il quale dandosi di una mano nella fronte e in atto d'angoscia, sclamava: Federigo da Urbino e Ferruccio da Fiorenza, distruggitori di questa nobile patria! I miei occhi hanno veduto il saccheggio nel 1472, ma la seconda calamità supera la prima; il capitano della Repubblica ci si mostra più fiero del capitano dei Medici. Ahi! Patria mia![268] »

Divampante d'ira, il Ferruccio si spicca dalla folla dei circostanti che aspettano i suoi ordini e si precipita a furia nella Via Nuova, dove scorge ad ora ad ora le fiamme scaturire fuori dai fessi, ed ogni volta più ampie circondare le pareti; — urta chiunque gli si para davanti: — un soldato carico di preda afferra pel collo, e caccia uomo e cose a rotolare lontano da sè sopra il selciato; — ad altro, non lo potendo arrivare, avventa la picca tra le gambe, e quegli pure stramazzando percuote della faccia la terra: — feriva, mordeva; tanto fece in somma che giunse a penetrare là dove brulicavano più spessi i rapaci.

«Ah! ladroni, non soldati! Voi mi rapite la bella fama! Io non potrò domani mostrare più il volto! Davanti i traditori voi mi farete arrossire! Per Dio! spegnete il fuoco, lasciate il sacco, o vi mando al capestro, per la fede di Cristo!»

La sua voce era fioca, l'armatura coperta di polvere e sordidata di sangue, la faccia parimenti brutta di sangue e di polvere d'archibugio, sicchè i soldati non lo ravvisando gridavano:

«Morte al ribelle! — Dategli su la testa! — Un palmo di lama traverso il ventre per elemosina della predica! — Chi è costui? — Chi sei tu?»

«Chi sono io?» tuonò con voce minacciosa balzando sopra una pietra che si trovò vicina; e con ambe le mani traendosi verso le orecchie le chiome lunghe intrise di sangue, mostrò il volto terribile di furore e di grandezza: «chi sono io? sono il Ferruccio...»

Ai più protervi mancò il coraggio, e non sostennero quella vista; un profondo silenzio successe.

Ma riprendendo lingua uno più petulante degli altri:

«Capitano», soggiunse, «io vengo di Lombardia e combatto per la paga; voi nè ci date il soldo nè ci consentite il saccheggio: a quali guerre ci menate voi?»

«Questa è guerra domestica; non dobbiamo sterminare nemici, sibbene ridurre al buon cammino uomini traviati che ci furono e che ci saranno fratelli...»

«Fratelli! Si fanno ai fratelli le accoglienze col ferro e co' sassi? Credeva che voi steste d'accordo come il diavolo e la croce.»

«Taci, mercenario! Tu non puoi sentire in qual modo sei figlio di una patria comune. Io ti ho comprato, ubbidiscimi: e poichè voi tutti alla fama anteponete il guadagno, cessate dal sacco, spegniamo l'incendio, e vi prometto due paghe.»

Spensero il fuoco, si rimasero dalla rapina, e, tranne quel primo tumulto, stette incolume ogni cosa. Scrittori volterrani che esposero in processo di tempo quel caso, intendendo con iniquo consiglio a lusingare il principato calunniando la Repubblica, narrarono di orribile saccheggiamento, di ferro e di fuoco e di atti altri più nefandi[269]. Essi mentono. Il Varchi, storico dabbene, il quale, comechè dettasse le sue storie per espresso comando di Cosimo I, osò dire la verità, dichiara al libro undecimo: «Ai Volterrani fu salvata la vita e la roba, alle donne l'onore; il che veggendo i soldati, cominciarono a dolersi pubblicamente di lui... perchè il Ferruccio, parlando loro coll'aiuto dei capitani, fermò il tumulto e promise loro due paghe.»

Il giorno seguente, spuntata appena fu l'alba, mise il Ferruccio tutta la milizia in ordinanza per espugnare quanto rimaneva della terra, e la confortò ad operare animosamente. I Volterrani, perduto l'animo, avviliti per le molte morti, la più parte della terra in potestà del nemico, gl'istigatori già in salvo, mossero parole di accordo, alle quali il Ferruccio rispose si rimettessero in lui liberamente: e poichè i cittadini, avendo avuto avviso che Fabrizio Maramaldo era in via per soccorrere Volterra, cercavano con subdolo consiglio dilazionare la conclusione, Ferruccio impone si risolvessero tra un quarto d'ora, altrimenti riprenderebbe la battaglia: e' fu mestieri accomodarsi a quei patti: i soldati, con le insegne basse e ravvolte su l'aste, erano rimandati, — tutti gli altri trattenuti prigioni. Giovambattista Borghesi, capitano per la parte del papa, innanzi della partita domandò in grazia rivedere il suo fratello morto la sera precedente al bastione di Santo Agostino; glielo contese il Ferruccio acerbissimamente dicendo: «Cotesto tuo affetto perchè? chi non ama la patria non può amare persona; e in quanto al morto, fortuna sua morire così, che ai felloni della propria terra aspetta il capestro.» Indi appresso, Bartolo Tedaldi e Nicolò dei Nobili restituisce nel palazzo del capitano: egli ferma la sua stanza in quello dei Priori, che privi di ufficio rimanda a casa; — poi, ragunati i principali, favellò loro agre parole; alle quali umilmente risposero rammentasse che un cittadino di cotesta città, perchè ebbe nome Clemente e ingegno pari al nome, fu accolto da Dio nella gloria dello empireo, e gli uomini lo adorarono sopra gli altari. — E Ferruccio di rimando soggiunse che se v'era un santo chiamato Clemente, eravene un altro da tutti i popoli e da loro medesimi Volterrani adorato; e che a lui garbava meglio di san Clemente e si diceva san Giusto; che in lui non istava facoltà di far grazia: — quando pur fosse, non l'avrebbe fatta. Dicono gli adulatori dei principi essere la grazia il migliore giojello della corona: la quale sentenza forse deve intendersi che tra le cose pessime di cui si fregiano costoro sia per avventura la meno trista; imperciocchè la grazia comprenda in sè ingiustizia, offesa per quelli che ne rimangono esclusi, oltraggio alla legge, turbamento agli ordini sociali: con tutto questo non volere però egli adoperare rigore estremo; — se così intendesse, avrebbe dovuto sovvertire di cima a fondo la città e tra le macerie piantare un palo con la iscrizione: — qui fu Volterra! — Rammentarsi la passata lealtà, scusarli da un canto come traviati; sebbene per altra parte pensando che, appena veduto l'antico amico afflitto e in pericolo, lo avevano abbandonato, e rivolto contro il suo fianco il ferro traditore, si sentiva ribollire il sangue a tanta turpitudine. — Quali beni vi procacciarono i Medici? Le vostre mura portano tuttavia impresse le tracce dell'incendio che appiccarono qui dentro; forse vivono ancora femmine che alla memoria dei Medici si nascondono il volto nelle mani... Generazione tralignata e codarda, almeno uno dei tuoi padri volle col ferro vendicare le offese della sua patria[270]; — tu non pur le perdoni, ma invochi dal cielo catene, come s'invoca la pioggia su i campi inariditi: tu supplichi un piede che ti calchi il collo... Oh! io mi vergogno di avere sembianze simili alle vostre. Confessate dunque il misfatto, e se ne roghi pubblico strumento, affinchè ne rimanga memoria eterna negli annali delle infamie di questo popolo.

Piangenti, a voce mesta, confessarono, tranne due, Cornelio Inghirami e Filippo Landini; se non che il Ferruccio avendo detto loro con mal piglio: «Voi lo confesserete in ogni modo o qui o al sacerdote perchè io vi farò impiccare per la gola», confessarono anch'essi, e ne fu stipulato contratto.

Allora il commessario Tedaldi manifestò ai Volterrani essere decaduti da tutti i privilegi ed esenzioni, ed impose eleggessero dodici cittadini co' quali potere convenire intorno ai nuovi capitoli. Dipoi fu promulgato un bando, che tutti i soldati albergassero in Volterra, — che nessun cittadino andasse armato, pena la forca; — che in quel giorno medesimo gli fosse rimessa nota precisa di tutto il grano, farine e grasce, per farle con le artiglierie riporre in cittadella; — dalle tre ore di notte in poi non si suonassero campane; chiunque si era rifuggito di Volterra vi avesse a tornare sotto pena di confisca; ogni cittadino portasse la croce bianca, antica insegna del comune di Volterra, altramente andasse in prigione. — Bandi e pene, comechè incomportabili, nondimeno sopportate senza querela: ma quando si venne all'imporre seimila fiorini di gravezza, si udirono gemiti, voci d'ira a mala pena compresse e querele umilissime. Non increbbe a costoro la infamia del malefizio e neppure la turpitudine della pena; nulla i perduti privilegi, la trista condizione della città nulla, — i soli denari strapparono da quei cuori di pietra un sospiro che affetti più generosi non avevano saputo suscitare. Però inutili riuscirono le rimostranze: e perchè indugiavano a pagare, il Ferruccio, presi alcuni dei maggiorenti, li cacciò nel fondo della torre di Rocca Vecchia e fece loro intendere che non ne sarebbero usciti se non gli pagavano la pecunia richiesta. Non li potendo vincere cotesta minaccia, gli spaventò col capestro; pagarono quando videro alzare la forca, tranne solo uno, e fu Bartolomeo Falconcino, uomo abbietto, nel quale molto più potè l'amore del danaro che la paura del capestro, e si rimase in torre fino al termine della guerra.

Grave carico danno, io non lo vo' tacere, a Francesco Ferruccio, di aver mandato alla forca Buonincontro Incontri ed un altro Volterrano, e rimesso a Nicolò Gherardi molto maggiore peccato: ma le sono novelle. Innanzi tratto vuolsi considerare come i Dieci gli avessero commesso di cavare dai Volterrani ribelli non solo tanto danaro quanto bastasse alle paghe dei soldati che di presente con esso lui militavano, ma altresì sopperisse ad assoldare mille fanti, i quali, uniti co' due mila che Giampagolo di Renzo da Ceri doveva condurre a Pisa o con gli altri che in pari numero avrebbe raccolto Andrea Giugni in Empoli, e sotto la sua condotta sarebbero comparsi da qualche parte alle spalle del nemico a combattere onorate non meno che utili fazioni. Due fini pertanto ebbe in mira il Ferruccio: procacciarsi pecunia per assoldare soldati, e averli bravi e fedeli. Però impiccava l'Incontri, il quale avendo ricevuto danaro dal Ferruccio per soldare gente, vista la città sua tôrsi alla ubbidienza della Repubblica, truffò le paghe, gettandosi dalla parte nemica: questa colpa meritava, giusta la legge del tempo, la forca, ed era dovere; il Ferruccio poi, versandosi in pericoli tanto supremi, dovendo tenere osservanti tante maniere di gente di ogni risma, ed anco per la sua natura austera, avrebbe fatto errore a rimettere il castigo. Impiccò l'altro Volterrano perchè colto su l'atto della fuga, da lui massimamente abborrita, come quella che, oltre a dare indizio di animo avverso, gli toglieva il modo di procacciare danari. I ricordi dei tempi testimoniano come il Ferruccio non potesse apprendere cosa che tanto lo mettesse in furore quanto questa di sottrarsi con la fuga a partecipare, mercè poca moneta, alla salute della patria; così vero che il conte Gherardo da Castagneto soldato devoto alla repubblica, avendo chiesto licenza di menare seco fuori delle mura Flaminio Minucci suo cugino, il Ferruccio gliela concesse a ritroso, non senza molto ammonirlo che badasse a non lasciarselo scappare; e poichè avvenne appunto come Francesco dubitava, quando il conte gli si parò dinanzi tutto avvilito, egli, postergato ogni riguardo alla potenza ed ai meriti del personaggio, tratta la spada voleva ammazzarlo ad ogni modo; e lo faceva se non lo avesse ritenuto il signore Amico d'Arsoli ed altri capitani di vaglia, che con molta fatica lo raumiliarono. Perdonò al Gherardi, mosso dalle supplicazioni della moglie che con quattro figliuoli gli si era inginocchiata davanti, e perchè la colpa di tenere pratica col campo nemico non compariva del tutto chiarita, lo mosse eziandio la persuasione di Pagolo Corso capitano di valore cui gli premeva tenere insieme agli altri bene edificato; e finalmente perchè ne trasse somma notabile di argento pei servizii della Repubblica.

Però, non bastando le somme raccolte alle paghe dei soldati e agli altri bisogni della guerra, il commessario cominciò a porre mano sugli argenti delle chiese, non mica sopra i vasi necessarii al culto divino, ma sopra statue di santi condotte in metalli preziosi e sopra arredi per troppa copia superflui. Se preti, e frati subissassero, non è a dirsi; a pensare che quei bei santi di argento stavano per ridursi in moneta, e in moneta destinata non per loro ma pei soldati, erano per dare del capo nel muro. In Firenze i sacerdoti chiamavano Ferruccio Gedeone, in Volterra Acabbo o peggio; — egli però non era uomo da rimanersi; chiamati alquanti di loro, egli si fece trovare seduto davanti una tavola sopra cui stava aperto il libro degli Evangeli.

«Perchè», levandosi in piedi esclama il Ferruccio, e la destra tenendo sopra il libro aperto, «perchè ricusate partecipare alla commune difesa? non comandarono gli apostoli agli universi cristiani, e non insegnò san Pietro che, comperati a prezzo di sangue, non dovessimo diventare servi degli uomini? Guardate, questa è l'epistola che egli scrisse ai Corintii; vorreste per avventura smentirla? Di che vi lagnate? Voi mi chiamate empio, perchè statue d'argento e d'oro rappresentanti immagini di Dio e dei santi io intendo convertire in moneta in pro della patria? Empio fu chi prima adoperò la materia a figurare l'Eterno con forma che perisce! Leggeste voi mai, o sacerdoti, i libri sacri? Udite Isaia: — Gittarono nel fuoco gl'iddii loro perchè non erano iddii, anzi opera di mano d'uomini, — pietra e legno, onde gli hanno distrutti. — Porgetemi ascolto, io vi leggerò un'altra sentenza del profeta[271] «A cui assomiglierete Dio, e qual sembianza gli adatterete? Voi non avete conoscimento. Egli siede sul globo della terra, e gli abitanti di essa al suo cospetto appaiono locuste; egli stende i cieli come una tela e gli tende come un padiglione; egli riduce i principi a niente, e fa che i rettori della terra sieno come una cosa vana, come se non fossero pure stati piantati, nè pur seminati, o che il ceppo loro non fosse radicato sopra la terra; solo che soffi contro a loro, si seccano, e il turbo li porta via come la stoppa.» — A cui dunque lo agguagliereste voi? Non prendete di Dio maggior cura di quella ch'egli stesso si prenda: — pensate abbisognare egli della protezione vostra? Dio padre non isdegnerà sovvenire con le sue immagini la causa santa che difende col suo spirito dall'alto. Temete che pel cessare delle immagini d'oro e di argento venga a mancare la fede di Dio? Forse non illuminerà il sole, non isplenderanno le stelle, non lo sentirà il cuore dei generosi, non parlerà di lui tutta la natura? Andate ed assumete sensi di carità per la patria vostra; — ricordatevi che a Cristo serviamo meglio con l'esempio che non con le parole, — e Dio redentore si aperse le vene per salvarci col sangue[272]

Piegarono il capo, non ammollirono i cuori, e giù per le scale si susurrarono agli orecchi essere il Ferruccio ariano, luterano, ateo e manicheo insieme, perocchè tra tutte le ire quella dei sacerdoti come la più cieca così è la più codarda e spietata.

E poi siccome, malgrado le esortazioni, nessuno dava gli oggetti richiesti, Ferruccio se li prese: e siccome i frati di Sant'Andrea avevano celato i loro e giurato non possederne, ne mandò tre in carcere, donde non poterono uscire se prima non ebbero pagato duecento cinquanta fiorini d'oro.

Il commessario pel papa, Taddeo Guiducci, essendo rimasto prigione, Ferruccio se lo fece comparire davanti, ed è fama che appena lo vedesse con questi accenti gli favellasse:

«Messer Taddeo, se io non temessi di rincrescere a Dio col farmi micidiale del mio sangue, vi troncherei in questo punto con la vita la facoltà di commettere altri misfatti.»

Era Taddeo Guiducci zio materno del Ferruccio; uomo di lieta vita, pingue del corpo, di guance piene, ridondanti, color pavonazzo, segnate di una rete di vene chermesi e azzurre, con gli occhi sfavillanti, le labbra perpetuamente aperte al motteggiare o al bevere. A quel fiero rabuffo rimase quasi fuor di sè; di lì a poco riprendendo fiato, si attentò a domandare:

«Francesco mio, dite voi da senno? Non vi rammentate che siete figliuolo della mia sorella.»

«Io lo rammento pur troppo! Per lei nascendo mi seguita un peccato contro cui acqua di battesimo non vale; ormai la vita sarà per me una battaglia tra il voto della mia anima e il tristo germe che mi contamina il sangue; per voi io mi trovo in istato di affaticarmi non per conquisto di onore, ma per fuggir vituperio.

«Figliuolo mio», riprese amorevolmente il Guiducci, «te fino da fanciullo sconvolsero sempre queste parole prive di senso. Or odimi bene: o il principato prevale, o la Repubblica; se il principato, primi ad oltraggiarti saranno coloro nei quali massimamente confidi; — se la Repubblica, il popolo mal vedemmo sopportare sempre il benefizio: ti pagherà coll'esiglio, e Dio voglia che non adoperi il capestro.»

«Voi non intendete la fama ch'io desidero; — nella gratitudine altrui non confido nè devo confidarvi, imperciocchè operando il bene compiaccio a me stesso. L'assentimento della mia coscienza propongo alla lode di mille generazioni: sommo de' miei voti egli è questo, che, la sventura cogliendomi, io possa levare al cielo la faccia e domandare animoso: — Perchè mi opprimi?»

«Sconsigliato! Dà retta a me. Ormai la fortuna abbandona la Repubblica, — unisciti ai più forti e comanda...»

«Via dalla mia presenza; — le vostre parole non hanno facoltà di vincermi, e tuttavolta mi turbano, come i vapori della terra che non offendono, eppure velano la faccia del sole. — Soldati, custoditelo con diligenza; — quest'uomo che in altri tempi dove ci fosse offerto schiavo noi rifiuteremmo, vuolsi serbare caro adesso, perchè lo potremmo cambiare con qualche nostro fratello di arme rimasto in mano al nemico.»

«Francesco! e il sangue?»

«La infamia, come la morte, scioglie ogni vincolo; in voi ravviso un traditore, non un congiunto... vi risparmio la vita, e forse faccio male... Levatemivi dinanzi... traetelo fuori della presenza del vostro capitano[273]

Fabrizio Maramaldo napoletano ebbe indole codarda e feroce; cupido di rinomanza quanto meno si sentiva a conseguirla capace; invidioso e superbo: costui militava nell'esercito imperiale e, fortuna fosse o favore, pervenne a tenere gradi supremi. Quando gli giunse la nuova della espugnazione di Volterra, trovandosi su quel di Siena, si vantò che gli sarebbe bastata la vista per menarsi dietro legato il venditore dei panni, chè tale ei chiamava il Ferruccio; lo avrebbero riveduto tra giorni; e mosse le compagnie, si portò sotto Volterra, dove con tutte le sue genti si pose alla porta di San Giusto. Appena fermato, manda un trombetto al Ferruccio intimandogli la resa, salve le vite: al tempo stesso con ispregio così del diritto delle genti come del Ferruccio gli confidava parecchie lettere dei fuorusciti scritte ai loro consorti, onde s'ingegnassero di levare a rumore Volterra, aiutando con le mene interne gli assalti di fuori. Venuto costui alla presenza del capitano della Repubblica malgrado gli avessero fermato addosso le lettere, non rimessa punto la napolitana burbanza, superbamente espose la superba ambasciata. Il Ferruccio non gli rispose parola; bensì presolo per mano lo riconduce verso la porta, e sul punto di accommiatarlo, presentandolo di alcuni fiorini, gli favella così:

«A cui ti manda dirai che le città si prendono con le bombarde, non con le parole; che tra poco noi gli faremo in persona più ampia risposta; — te poi messaggero avverto che a soldato, quale sei tu, disconviene portare proposte infami a soldato quale sono io; e peggio poi ordire tradimenti: per questa volta hai ricevuta benigna accoglienza e doni; — non ritornare; — quest'altra tu avresti il capestro: va via.»

E senza por tempo tramezzo, messi in ordinanza alcuni de' suoi, uscì fuori di Volterra ed appiccò una grossa scaramuccia con le genti di Fabrizio. Dove i soldati nemici non fossero stati meno tristi del capitano quel sùbito assalto dava al Ferruccio vinta la impresa; ma, usi alle guerre, di per loro stessi si rannodarono, strinsero le ordinanze, e conoscendo pericoloso il luogo dove gli aveva spinti Fabrizio, a canto la porta di San Giusto, si ritirarono nel borgo, dove parve bene al Ferruccio di lasciarli stare. Ora, nel mentre ei tornava baldanzoso in Volterra, ecco farglisi innanzi il trombetto da lui testè dimesso, col duplicato delle lettere addosso dei fuorusciti ai consorti loro, e di più un bando che promettea grossissima taglia a chiunque ammazzasse il Ferruccio: ancora recava la seconda intimazione al commessario di rendergli la città; insane cose e incredibili, se le non fossero, vere[274].

«Impiccatelo!» appena lo ebbe scorto, grida con voce concitata il Ferruccio.

«Signor capitano, rammentatevi che io sono un trombetto; — l'ambasciatore non porta pena.»

«Mia non è la colpa: ti aveva pure avvertito; — ricada il tuo sangue sul capo del Maramaldo. — Impiccatelo!»

Non valsero scongiuri, non lo mossero i volti dei circostanti nè la gioventù del messaggero, nè lo spesso invocare ch'ei faceva i parenti e la madre; stette inesorabile, e fu impiccato.

Gli storici del tempo biasimano cotesta azione del Ferruccio, e Benedetto Varchi, comunque espositore pacato delle cose di cotesta guerra, e delle virtù di quel capitano innamorato, non dubita qualificarlo superba e crudele e forse finalmente cagione della morte del Ferruccio.

Io per me non dissimulo i brutti fatti; e se tale veramente dovesse reputarsi questo del capitano della Repubblica, non vorrei diminuirgli in nulla la reprovazione che merita: se non che reputo debito del mio ufficio fare presente a cui legge che, per consenso degli uomini intendenti del mestiero delle armi, hassi a reputare verace messaggero il trombetto mandato a intimare la resa della terra, allorchè questa assalita nelle regole si trovi ridotta in termine da opporre poca resistenza o nessuna; mentre per lo contrario, s'ei si presenti prima ancora che sia stata battuta, si considera provocatore, come quello che propone atto vituperosissimo, o spia: inoltre bisogna avvertire altro essere l'animo di quale disamina i casi umani per raccontarli, altro quello di colui che gli sopporta e gli vendica; e meglio ancora, — ardua impresa essersi tirata sopra le spalle il Ferruccio, quella cioè di salvare la patria pericolante con tale uno esercito al quale mancava ogni senso di moralità, ogni disciplina preordinata al vincere: effetti che possono in tempi quieti conseguirsi con l'ammaestramento e con gli esempi buoni; ma quando il tempo manca, nissuna cosa può meglio provvedervi come la manifestazione di volontà inesorata. Però prima di giudicare il nostro eroe, si ponga mente alla condizione di lui, e poi secondo la coscienza consideri ognuno se merita conferma la rampogna antica, o se piuttosto debba oggi assolversi pienamente. La quale opinione, degna di benigno riguardo a cose ordinarie, non cade più adesso che si ha come il trombetto recasse eccitamenti a ribellare la terra e ad uccidere il commissario; nel qual caso, se il Ferruccio non lo impiccò di prima côlta, hassi a reputare piuttosto trascurato che magnanimo. Per ultimo non rimarrò dallo addurre un'altra ragione, la quale comechè mi paia la meno degna dello riferire, avvegnadio la colpa altrui non valga ad escusare la propria, tuttavolta in guerra si mena buona anche oggidì e si chiama rappresaglia: e questa fu che il Maramaldo aveva impiccato barbaramente il giorno innanzi alcuni uomini del Ferruccio che gli erano capitati nelle mani[275]. Che se il Varchi avesse conosciuto questi fatti come sono chiari a noi, si sarebbe risparmiato di appuntare il preclaro uomo che a ragione salutiamo l'ultimo degl'italiani.

Fabrizio Maramaldo, inasprito per quel primo scontro e lo attribuendo a mille altre cause meno che alla vera, la imperizia propria, immaginò, e gli pareva un bel trovato, di condurre una fossa a onde fino sotto le mura di Volterra per praticarvi una cava. Invano gli dimostrarono i più savi sarebbe riuscita cotesta opera disagevole e inutile; disagevole, a cagione della natura del terreno pietroso; inutile, perchè immediatamente conosciuta dai nemici, i quali stando in parte assai alta, avrebbero, per così dire, annoverato i loro passi. Non gli ascoltava; volle ad ogni costo imprendere la cava. Il capitano fiorentino fingeva non accorgersi di codeste mene e lasciava fare; quando tempo gli parve, di notte con diligenza infinita piantò alquanti pezzi di artiglieria sopra un cavaliere, con la bocca volta verso lo spazio che correva tra la trincea ed il campo del nemico: ciò compito, divenuta la notte più nera, ordinò a Goro da Monte Benichi, soldato di molto valore, uscisse da Porta Fiorentina con la sua compagnia, e con le corde degli archibugi coperte, per non essere osservato, si conducesse alla cava e sturbasse la impresa. Andò il capitano Goro, e comecchè egli restasse sul primo incontro ferito di una picca nel petto, combatteva con tanta virtù che il nemico non seppe resistergli. Qui mentre si levava rumore grande di voci, di colpi di archibuso e di passi di fuggenti e d'incalzanti, Ferruccio col corpo steso sul terreno oregliava per sentire se alcuno si movesse al soccorso.

Maramaldo, udito il trambusto e prevedendo l'evento, si dava della mano per la fronte e su l'anca, bestemmiava Dio, se la prendeva contro le stelle, faceva cose insomma da muovere al riso chiunque gli stava d'intorno; rimesso alquanto da quel primo furore, ordinò si soccorresse la cava: sapere bene egli quello che diceva; se non gliela guastavano, doversi rendere Volterra; andassero, corressero, mostrassero all'imperatore che anche Fabrizio Maramaldo sa vincere. Nessuno mutava passo, conoscendo di andare a morte certa ed inutile. Fabrizio di pazza ira avvampava: irrompendo in parole forsennate, li tacciò di codardi. Allora quei vecchi soldati risposero: «Colonnello, voi ci spingete a morire come pecore, e ve lo faremo vedere a vostra vergogna»; e s'incamminarono verso la cava.

Gli udì Ferruccio ed esultò: non potendo contenere la interna allegrezza, replicò più volte: «Eccoli! Eccoli!» Allorchè conobbe essersi tanto inoltrati da percuoterli in pieno, sorgendo in tutta la maestà della sua persona, con terribile grido comandò: «Fuoco!»

Vico, Annalena e il padre di lei, affidati a poderosi cavalli, fuggivano traverso la moltitudine dei nemici;... Cap. XXIV, pag. 519.

E i cannoni balenarono; le palle prendendo obliquamente la colonna dei nemici vi seminarono la strage: ora, mentre, incerti di consiglio, ignorando da qual lato si partissero le offese, non sapendo, mancati gli ordini, se dovessero spingersi avanti o ritirarsi, le artiglierie lanciano di nuovo la morte tra loro, l'istinto della conservazione prevalse alla disciplina, e laceri, sanguinosi si ritirarono. Fabrizio Maramaldo chiuso nella sua tenda non lasciò vedersi da alcuno.

Qui fu che i soldati del Ferruccio, usando meno che temperatamente della vittoria, uncinarono per la pelle della schiena una gatta penzoloni fuori le mura della terra: la quale miagolando dileggiava il Maramaldo. Scrivono alcuni che questo ordinasse il Ferruccio, la quale cosa mi repugna credere di uomo così severo e feroce: ad ogni modo, o da lui lo illepido scherno movesse o da lui si sopportasse, non merita meno biasimo, conciossiachè il Sassetti, con parole che nè più gravi nè più acconce si potrieno immaginare intorno a siffatto proposito, osserva: «le facezie che mordono, lasciano cruda memoria di loro, e co' nemici più combattendo che burlando si guadagna.» Di vero i nemici voglionsi sterminare, non ischernire; ma la plebe matta e la gioventù folle questo o non sa o non vuol sapere; e tale vidi io che di venticinque anni non ardiva afferrare una spada per liberare la patria, prendere ad argomento di scena il Radetzky che vecchio di ottantaquattro e più anni spingeva il cavallo in battaglia per opprimere ventiquattro milioni d'Italiani. Non è anche l'ora di vincere; la vittoria ha da arrivare in compagnia della virtù, o vogliamo dire ferocia nelle armi; però che pei tempi che corrono di altra virtù non abbisogni la Italia.

Più fiera tempesta sovrasta al Ferruccio. Il marchese Del Vasto viveva malcontento nel campo, dove, non che i primi, i secondi onori gli erano stati negati; agli altri capitani dell'esercito cesareo era come stecco sugli occhi: per la qual cosa avendo domandato di andare a combattere pel contado, gli venne più che volontieri concesso; andò di fatti e insieme con Diego Sermiento capitano dei Bisogni prese Empoli, meglio delle armi sovvenendolo il tradimento dell'Orlandini e la viltà del Giugni; del quale infelicissimo caso favelleremo altrove con larghezza maggiore.

Venuto il marchese a Volterra, per essersi poco diligentemente accampato di prima giunta presso la Porta Fiorentina, fu subito dall'infaticabile Ferruccio assalito, — ma, accorso al trambusto, spinse il grosso dell'esercito contro ai pochi compagni del nostro capitano e così celere gli si avventò alle spalle, per mozzargli la strada, che se egli era meno veloce a ritirarsi, non ne usciva in quel giorno a salvamento; ond'è, che seco stesso considerando allora quanto lo superasse il nemico di numero, deliberò di non avventurarsi in troppo fortunose imprese, attendendo a condurre ripari di ogni maniera, siccome sono ritirate, fossi larghi e cupi, nel fondo dei quali aveva fatto mettere tavole, con certi aguti da recare certissima morte a chiunque vi fosse precipitato sopra: tutto il suo sforzo consisteva nel ben munire la parte delle mura verso San Giusto, sì perchè gli pareva dal piantarvi che vi aveva fatto i suoi cannoni il marchese volesse batterla da questo lato, sì perchè, essendo quivi copia di terra, riesciva agevole al nemico di alzare le difese.

Malgrado la previdenza di lui, l'astuto marchese muta nel corso della notte, le batterie; da San Giusto le trasporta a San Lino, provvede alle difese con sacca piene di terra, stipe e argomenti altri siffatti. Ferruccio si confuse un momento; poi, non disperando riparare alla trascuranza, moto raddoppia e vigore, — ordina si carreggino i cannoni alla parte minacciata, l'opera aggiunge al comando: apparecchiano monti di picche e di accette; ogni altra difesa presto è condotta a quella parte, — egli in piedi accanto al gonfalone aspetta l'assalto.

Cominciarono a briccolare le palle nemiche su l'aprire del giorno 13 giugno, rade da prima, poco dopo turbinose, e spesse a modo di tempesta; il muro debole s'introna, la torre della porta a Sant'Agnolo si sfascia, in poco d'ora quaranta braccia di muro rovinano; al trambusto che fecero cadendo mancò il cuore ai soldati, i cittadini pensando alla barbara avarizia degl'imperiali agghiacciarono di spavento. Ferruccio tra il fumo e la polvere comandava imperturbato; — ora tutto chiuso nel fumo si udiva soltanto tuonare la sua voce, simile a Dio quando dettò la sua legge sul Sinai; ora compariva parte del suo corpo, il capo o una mano agitantesi e il rimanente avviluppato dentro a nebbia misteriosa, quasi soprannaturale creazione che si affaccia alla mente nei sogni di terrore. Ferve la mischia; in difetto di terra, a ciò confortandoli gli stessi cittadini, sia che l'amore antico o piuttosto, com'è da credere, la nuova paura gli animasse, adoprano per riparo balle, sacca piene di lana, forzieri, casse, masserizie di tutte specie dai Volterrani sgombrate nel monastero di San Lino, molto adoperandosi in questa faccenda il capitano Morgante da Castiglione. Le palle urtando in quelle fragili difese le dirompevano con alto fracasso, — i frantumi schizzavano lontano, causa anch'essi di dolorose ferite.

Ora il marchese, imbaldanzito per lo avventuroso successo, spinge francamente i suoi soldati all'assalto: e per meglio tutelarli, mentre si accostano alla breccia, raddoppia il fuoco delle batterie; la morte passeggia nel trionfo della distruzione.

«Fermi!» urla il Ferruccio, — e il frastuono e l'anelito non gli concedono formare altre voci: «fermi! viva la Repubblica!»

E nell'estro della battaglia faceva mulinello della picca; una palla gli porta via la picca, una schiappa nel tempo medesimo lo priva del cimiero; i suoi gli cadevano attorno come pomi maturi da un albero scosso fortemente nel fusto.

«Goro!» diss'egli voltandosi al capitano Goro da Monte Benichi, «dammi la tua picca, e tu va per un'altra, perchè io non mi posso muovere.»

Una archibusata fracassa la gamba al povero Goro, che stramazza per terra e cadendo risponde:

«Messere Francesco..., anch'io non posso muovermi...; mi hanno portato via le gambe.»

Il Ferruccio si sentì bagnare il volto, — se lo asciugò pensando fosse sudore, — ma erano lacrime suo malgrado sgorgate, perchè sebbene avesse altre volte voluto impiccare questo capitano a Empoli a cagione del pronto stendere le mani su la roba altrui, ciò non guastava punto l'affetto che gli portava pel forte menare delle mani contro i nemici della Repubblica; ond'è che, piegato il capo dalla parte opposta, soggiunse:

«Signor Camillo, porgetemi la vostra...»

Colpito a mezzo del corpo da una palla di cannone, Camillo da Appiano, signore di Piombino, trae un doloroso guaito scontorcendosi negli ultimi moti vitali.

«Muoio! oh muoio!» lamentava; «almeno avessi un po' di confessore... perchè l'anima di un cristiano è troppo pesa per volare al cielo, se un confessore non la liberi dalla gravezza del peccato... Signor commessario, assolvetemi voi... Le mie colpe sono poche... nella espugnazione delle terre... quando la vittoria ubbriaca il soldato... intendete!... e poi la repuguanza irrita... e le più volte era ingiusta... perchè... L'altra è che tutto l'oro che mi trovo sopra l'armatura non lo aveva mica comperato dagli orafi di Ponte Vecchio... e... e...»

Un getto di sangue che si scoppiò dalla bocca gli ruppe ad un tratto la parola e la vita[276].

Gli assalitori si arrampicano sopra le rovine del muro, altri appoggiano le scale; le artiglierie proteggono l'assalto; nessuna palla passa senza recare offesa; d'intorno al Ferruccio, o di urto o di ferita, ad ogni istante casca gente; qualcheduno si rialzava, più molti rimanevano in terra prostesi, — era un tentare la provvidenza la più lunga dimora in cotesto luogo. Iacopo Bichi, il quale fino a quel punto non si discostava mai dal Ferruccio, adesso gli grida:

«Commessario, sgombrate di qui... il nemico ha voltato da questa parte tutte le sue artiglierie... non è il vostro posto...»

«Non è il mio? — Non vedo altro pericolo maggiore... Lasciatemi stare.»

«Messere Francesco, scansatevi per Dio!» urla da un'altra parte Vico, «voi siete ferito nel ginocchio...»

«Non me ne sono accorto; — sta cheto, figliuol mio.»

«Venite, o vi faccio portar via dai cavalleggeri di messere Iacopo.»

«Guardati dal farlo, figlio mio, ch'io ti passerei da una parte all'altra con questa picca...»

«Ah! lo sapeva... Per la testa di san Giovanni Battista!» mormorò tra' denti Iacopo Bichi nel vedere rotolarsi nella polvere Francesco Ferruccio, che, percosso nel ginocchio opposto della gamba prima ferita, non aveva saputo più reggersi in piedi.

«È morto! è morto!» battendo palma a palma, prese ad esclamare Vico Machiavelli.

«Silenzio!» lo rampogna severo il capitano Morgante da Castiglione, uomo di vaste membra e di cuore anco più vasto[277]. — «La patria preme assai più del Ferruccio; è morto da prode uomo di guerra: lo piangeremo poi; adesso bisogna celare la sua morte, altrimenti ne seguirebbe sconforto e perdita di tutta la impresa; io gli porrò il mio elmo e l'assisa; mi vestirò la sua; voi trasportatelo fuori di qui... trattenete le lacrime... a quanti ve ne domandano rispondete... è il capitano Morgante ferito.»

In quel viluppo di uomini, nella orribile confusione che sconvolgeva ogni cosa d'intorno, riuscì agevole condurre a fine il proponimento del Morgante; nessuno ebbe tempo di accorgersi della mancanza del capitano; e in quanto al menare le mani, molto bene ne teneva le veci il valente capitano Morgante da Castiglione.

Colla visiera calata, il corpo coperto di un panno, Vico in compagnia di due soldati portava il Ferruccio: egli ed un altro sottentrandogli con le spalle alle ascelle, ricingendolo con le braccia traverso la vita, lo sostenevano dalla parte del capo; il terzo postosi tra le gambe e recatelesi su gli omeri, lo teneva sollevato dalla parte dei piedi. Vico preme la immensa angoscia e morde un lembo del panno che cuopre il Ferruccio per paura di non si tradire con una esclamazione.

Lo menò nel suo quartiere; licenziò gli uomini, chiuse con diligenza le porte: e non badando ad Annalena, che pure gli corre dietro smaniosa e lo chiama co' più dolci nomi nella più soave favella che mai avesse tocco orecchio d'amante, libera il giacente dell'elmo, e scoperto che gli ebbe la faccia, incominciò a lamentare:

«O messer Francesco, perchè ci avete abbandonato? Che farò io senza guida su questa terra? Che farà la patria senza il vostro consiglio? Io non vi darò sepoltura finchè ella non sia caduta; — voi dovete entrare insieme nel medesimo sepolcro. Oh! come queste labbra, che pur dianzi sostenevano con la voce la battaglia, taciono adesso! Come questi occhi pieni di vita non vedono, non dicono più nulla! Messere Francesco, non ci abbandonate... non ci abbandonate per amore di Dio!»

A Lena, quando contemplò il volto del giacente, stette per mancare sotto il terreno; non pertanto, meno sopraffatta dalla passione di Vico, conobbe il capitano dai colori della faccia non trapassato, bensì dallo spasimo delle ferite tolto fuori di sè. Con virile animo ella gli spogliò l'usbergo e le gambiere; vide una contusione sotto le coste spurie, dal lato destro; esaminò le piaghe delle gambe, — non le parvero pericolose, — e già si accomodava a medicarle, allorchè il Ferruccio, sciolto un grande sospiro, con maraviglia e terrore di Vico, il quale si era lasciato in balìa del proprio affanno, prese a parlare:

«Cavalleggieri, a me! — stringetevi, — incrociate le picche... Schiavi, all'inferno! E tu, marchese, a tua posta schiavo, sappi che una spada nella mano dell'uomo libero taglia per sette!» E quindi si leva a sedere, volge attorno gli sguardi attoniti e grida:

«Dov'è la battaglia? Dove mi avete portato? Vico, sei tu? È distrutto il nemico?

«O commessario! ai muri si combatte asprissima zuffa; noi vi abbiamo tolto dal terreno per morto.

«Perchè mi avete tolto? Perchè non mi avete lasciato? Improvvidi! e non sapete che anche morto avrei potuto spaventare il nemico? Forse non è il campo di battaglia il letto di riposo pel guerriera? Vico, m'invidii la morte sul campo? Pensi che sosterrei la vita per terminarla tra il pianto dei congiunti e le preghiere dei sacerdoti? Su!... ridonami l'aria aperta, mi sento soffocare qua dentro; datemi la picca... menatemi contro al nemico... Non sopra inglorioso letto, — non tra lenzuola ha da morire il Ferruccio... sibbene sul campo, — avvolte le membra dentro il gonfalone della Repubblica.»

E siccome Vico non si moveva, Ferruccio concitato a profondissimo sdegno riprese:

«Nessuno sosterrà il guerriero ferito! Mi basterà l'anima... se no, piuttosto che i miei combattano senza di me, mi spezzerò il capo nelle pareti.»

Balza dal letto; le gambe addolorate e dalla perdita del sangue infievolite gli negano l'ufficio; egli cade percotendo della faccia il pavimento. Vico e Lena lo soccorrono e tentano portarlo nuovamente sul letto. Ferruccio si oppone con minacce e preghiere, — poi comanda a Vico di sostenerlo tanto che arrivi contro al nemico. Vico a mani giunte lo supplica a deporne il pensiero.

«Per l'autorità che in me trasferiva morendo il tuo genitore, t'impongo di aiutarmi per tornare alla muraglia.»

Vico esitava pur sempre.

«Rompi gl'indugi, — o io ti maledico.»

Vico lo sorregge — invano. — Ferruccio non può mutare due passi; ambedue si fermano sconfortati; all'improvviso Ferruccio grida:

«Pommi su questa sedia; chiama gente che ti dieno mano e portami così su la breccia.»

La gente venne. Lena si affaccendava a fasciargli le piaghe, ma il capitano impazientito la respinge da sè:

«Non importa... vi rimane sangue che basta a salvare la patria... Sentite!... sentite! — Viva l'imperatore! — Ah! il nemico ha messo piede su i muri... presto... affrettatevi....volate... Viva la Repubblica di Fiorenza! Morte all'impero! morte al papa!»

Il fiero capitano cacciò quel grido con tutte le viscere, sicchè il suono tonante della sua voce superò lo strepito delle armi e il fragore delle artiglierie. Tempestando e minacciando ottenne lo riponessero sulla breccia dirimpetto le artiglierie nemiche, a canto il gonfalone della Repubblica quivi il terreno appariva solcato dalle palle; i più animosi si allontanavano dal luogo reso terribile per cumulo di cadaveri: il marchese Del Vasto, disegnando spingere la sua milizia a nuovo assalto da cotesta parte, fa drizzare le scale, spinge i soldati che si precipitano, salgono e già già afferrano la estrema parte dell'argine rovinoso.

«Cavalleggeri! Lascerete uccidere qui il vostro commessario senza difesa? — Viva la Repubblica! — La vittoria è nostra! — E staccato il gonfalone, con quanto aveva di forza lo agitava continuando a gridare: «Viva la Repubblica!»

Si riaccese la mischia; l'animo inasprito a nuova ferocia non faceva sentire la stanchezza delle membra e le ferite; unirono gli sforzi, ed anche per questa volta gl'imperiali furono ributtati dalla breccia. Il Ferruccio quando li vide in fondo del fosso, si risovvenne di certo suo scaltrimento di guerra, che consisteva nell'avere allestito non poche botti piene di sassi, le quali, riputando contenere munizioni, non avevano in sua assenza adoperato; — le rotolano adesso su l'orlo dell'argine e le lasciano sopra ai nemici; forte percotendo nel fondo del fosso le botti si sfasciano con impeto immenso; i sassi schizzano violentemente, e quale offendono nel piede, quale nelle gambe, tal altro nel fianco o nel volto; pesti, infranti, non sanno come mettersi in salvo: coloro che rimangono illesi prorompono in fuga precipitosa; nuova rovina di sassi, una pioggia dolorosa di acqua e di olio bollente si rovescia sopra gli offesi; oscene morti avvengono in cotesta infame fossa: — gli urli dei dannati possono appena uguagliare, non vincere, i guai che escono quinci entro a funestare le orecchie degli amici ed anche dei nemici; — membra troncate galleggianti nel sangue.

Il marchese Del Vasto, ineccitabile quanto il ferro che gli vestiva il petto, conobbe non dovere più oltre ostinarsi nello assalto; si guardò di sfiduciare i suoi soldati dalla speranza del vincere e sonò a raccolta; volle risparmiare il sangue, non per pietà di loro ma per amore di sè, imperciocchè quel sangue fosse venduto e gli appartenesse; in quel sangue stava riposta la sua gloria e la libidine di censo più largo.

Il giorno 21 di giugno, il marchese ricomincia la batteria da più parti, a Sant'Andrea e a Sant'Agnolo; con estremo sforzo si adopera contro; caddero i muri, corsero all'assalto; — pari l'ira da una parte e dall'altra, il valore pari; — ma o sia che il valore dei soldati di libera città comprenda virtù vera, e quello dei mercenarii del principe partecipi piuttosto del furore, o sia che vicino ad abbandonarle volesse Dio circondare di luce le armi fiorentine, nei petti degli uomini trovarono gl'imperiali un muro più insuperabile dell'altro composto di pietre. Si rinnovarono le morti, i casi miserevoli, le sconce ferite; — di nuovo i muri grondarono sangue, — il cielo fu bestemmiato o invocato, — ed ei stette pur sempre azzurro e sereno.

Comecchè l'anima gli ruggisse dentro, e' fu mestieri al marchese dichiararsi vinto e ritirarsi. Ferruccio gli sorgeva contro invincibile come la necessità. Partì con vergogna; e la gloria del superbo guerriero, seppure gloria deve rettamente chiamarsi il rumor vano che l'uomo acquista combattendo per lo straniero contro la sua patria, andò a spezzarsi entro le mura di Volterra. Le parole tra lui e il Maramaldo furono molte e acerbe: crucciato non volle tornare al campo e si ridusse alla moglie nel regno; colà trasse nell'ozio e consumò nella inerzia una vita oscura, — invecchiato strumento di tirannide; — la sua morte non compiansero figli, — gli circondarono il letto parenti avidi del suo retaggio, come il demonio della sua anima. Possa Dio non concedere miglior destino a coloro che feriscono il fianco della madre che gli ha generati[278]!

CAPITOLO VENTESIMOSESTO IL TRADITORE

Riguardate e vedete

Se v'è dolore pari al dolor mio! —

Geremia.

La mia storia si approssima al fine, — ma per arrivarci meglio egli è mestieri rifare i passi e tornarcene indietro: non te ne dolga, o lettore; — vedrai una donna, e forse ne sentirai meraviglia, ad un punto e compassione, perchè questa donna sarà una madre addolorata.

La notte in cui fu arrestato Lorenzo Soderini, Cencio Guercione recò immediatamente la nuova a Malatesta, imperciocchè Cencio fosse uno di quelli che dovevano intervenire al ritrovo, ad istanza del Baglione suo signore, il quale, per istarsene appartato, non voleva meno, a guisa di ragno al sommo della tela, avere in mano le fila di quanto in Firenze si operasse o dicesse.

Appena ebbe posto fine Cencio al suo parlare, Malatesta, sporgendo fuori del letto, dove se ne stava giacente la gamba destra ed agitandola a modo di spronare un cavallo, prese a dire:

«Cencio, andiamocene; sento un'aria di forca che mi stringe la gola; va', sella i cavalli... mi pare che la terra mi manchi sotto...»

«Parlate daddovero, messero? Adesso? Sul punto di raccogliere la mercede delle onorate nostre fatiche?... io rimango.»

«Cencio, i beni senza la vita non valgono nulla.»

«E la vita senza i beni vale anche meno; addio al sangue dei Baglioni vostri crudeli parenti e nemici; — addio Bevagna, Tunigiana e le altre terre e castella: rimanga il nipote senza vescovado, — Ridolfo vostro senza la duchessa di Camerino. — Ah! voi mi fate pietà.»

«Usciamo da questo inferno, — diamo la porta al Principe e lasciamolo a sbrogliare le sue faccende con la Signoria...»

«Ma allora chi vi assicura della fede del papa? E poi per questo estremo noi siamo sempre a tempo. Abbiate pazienza, lasciate a me la cura d'ingrandirvi un tal poco; altrimenti nessuno vorrà credere che una nobile repubblica come questa sia stata condotta in rovina da un goffo come siete voi: la nostra nicchia è la ribalderia; sta bene, ma almeno occupiamone quanto basta per farci figura... che cosa direbbe il diavolo di voi?»

«Cencio... ascoltami una volta per sempre... A cui darai vanto del suono, al citarista o alla cetera? Tu sei in mia mano la cetera — ricercandoti, ne ricavo ora il basso ora l'acuto; un giorno o l'altro potrei anche lasciarmiti sfuggire di mano e mandarti a rompere sul terreno.»

«Novelle! Voi fate l'altero per isprezzarmi, ed io vi domando: va egli il cieco senza la guida? — Io sono il fidato destriero che vi mena per balze e per dirupi; voi mi tremate sopra quando muovo sul ciglione del precipizio e vi raccomandate a tutti i vostri santi; io procedo sicuro e vi tolgo dai mali passi; — sono l'anima, la mente del vostro corpo...»

«Se presumi tanto di te, — va' solo, — e vediamo...»

«Solo non posso andare, mi manca stato; la fortuna mi ha posto in tal condizione che le opere mie mi darebbero fama nella taverna che frequento o nella contrada in cui nacqui: il diavolo conta tutte le ribalderie, ma lo storico segna quelle soltanto commesse sotto l'insegna di un leone, di due pesci o di una corona; insomma anche le scelleraggini, onde non muoiano presto nella memoria degli uomini, abbisognano di una marca imperiale, reale o almeno baronale...»

«Ed in prova che, dove io non fossi, tu saresti un fantastico senza vergogna, ti osservo che, spaziando sempre nel passato e nel futuro, tu non ti risovveresti del tempo presente.»

«Ogni uomo venne al mondo col suo patrimonio di ambizione... perchè non dovrei avere ancora io la mia? Per me, vorrei acquistarmi un bel tocco di fama o d'infamia, — insomma essere rammentato, come una eruzione di Vulcano, un terremoto, un diluvio; e malgrado il mio ingegno e la potenza di fare da me, voi, pur troppo io sento, mi divorerete la esecrazione dei posteri. Dio mi ha mandato Malatesta addosso come la ruggine del ferro. Se potessi rivivere fra tre secoli, leggerei sopra i ricordi dei tempi: Malatesta il più astuto... Ah! storico, invece di spendere in inchiostro, comprati elleboro, tu sei pazzo; Malatesta fu il più innocente, il più semplice uomo del mondo.»

«Ah! mi farai dormire: Cencio, invecchi e sermoneggi. — Va', muta veste, e studia indagare quali voci corrano per Fiorenza. — Mi viene un pensiero in mente. Vedi questa carta? — È una lettera del Papa. Sai a cui è diretta? — A me. — Indovini dove intendo depositarla? Alla Quarantia. — Ne comprendi la cagione? — No. — Va', va', mio buon Cencio...; col tempo imparerai a tua posta; per ora io ti saluto col nome di novizio nell'arte del tradimento.»

Cencio alzò le spalle e, avviluppatosi entro una cappa spagnuola, si accinse a partire. Malatesta, lo richiamando addietro,

«Guarda», gli disse, «che sia bene sbarrata per di dentro la porta, e i Perugini veglino.»

Cencio alzò di nuovo le spalle con tale un atto che avrebbe potuto significare: io non comprendo nulla.

Malatesta volle avviare a certa meta i suoi pensieri, ma non gli riusciva; il timore che la porta non fosse ben custodita gli teneva la mente del tutto ingombra: si levò dal letto con pena, e aiutandosi appoggiato ad un bastone si strascinò per le stanze giù per le scale, — toccò le sbarre, le tentò con quanta forza gli era rimasta nelle mani attrappite, e, assicurato da questa parte, si diresse al corpo di guardia.

I suoi fedeli Perugini vegliavano, la noia della veglia ingannando col giuoco e col vino: inosservato egli apparve in mezzo di loro e alzò la mano per favellare. I soldati cacciarono un urlo, non di sorpresa, ma di terrore, così che Malatesta se ne sentì avvilito; un pensiero gli traversò il cervello, doloroso come ferro rovente: tu sei già più che mezzo cadavere, — la tua vista mette spavento; cuopriti di cenere e muori. — Egli non potè proferire parola, stette alquanto con la mano quasi in atto di lanciare una maledizione, — poi ritornò silenzioso nelle sue stanze.

Ad ora di notte inoltrata tornò Cencio: — la pioggia cadeva giù a torrenti; la cappa e le altre vesti di lui erano imbevute d'acqua; mormorava tra i denti mozze parole. Appena Malatesta lo vide, incominciò:

«Cencio, che nuove?»

«Mi sono bagnato fino all'ossa», e senz'altro aggiungere spremeva l'acqua dalla cappa in sembianza di uomo stupido.

«Cencio, dimmi, quali parole ti venne fatto raccogliere?»

«Il freddo mi ha preso tutto il corpo; tremo come la cicogna...»

«Vuoi tu ragguagliarmi di quanto hai ascoltalo tra il popolo?»

«Il popolo, signor Baglioni, all'ora che fa, pensa ad altro che a novellare; — egli gode ciò che non possiamo ottenere più noi, — la pace del sonno.»

«Io ti comprendo, Cencio; il dispetto ti rode; tu mi porti rancore e immagini arrovellarmi col tuo segreto: — tientelo, non so che farmene, — se l'acqua ti ha concio, peggio per te. Io ho bevuto intanto del buon vino, e mi riconfortò le viscere; poc'anzi hai confessato che senza di me non potresti andare; io invece procedo molto bene senza di te; — va', lasciami dormire.»

«Or via, udite Malatesta...»

«Non voglio ascoltar nulla. Vassallo, obbedisci al tuo signore e lascialo in riposo... i rimorsi mi fanno morbido il guanciale, — il pericolo mi serve di letto: — anima volgare, a te lascio la veglia con tutte le sue paure di questo mondo e dell'altro.»

«Non ha per ora più bisogno di me!» susurrava Cencio Guercio; «sconterai la superbia alla prima occasione.»

Venti giorni dopo il colloquio riferito qui sopra, la campana del palazzo di giustizia, chiamato volgarmente il Palagio, suonava a raccolta.

Chiamava la Quarantia al giudizio di sangue: di ciò facevano fede i leoni coronati, il gonfalone appeso accanto alla porta del Palagio, i magistrati che si vedevano traversare il cortile e salire su per la immensa scala vestiti di cappe rosse.

Quando accennammo brevemente la forma del governo di Firenze, dicemmo come levata agli Otto la facoltà di far sangue, la concedessero alla Quarantia, ed avvertimmo ancora come dei due fondamenti i quali costituiscono l'ordinato vivere civile i nostri padri, periti del primo, cioè del diritto di ogni cittadino a partecipare la suprema autorità dello stato, ignorassero il secondo, la sicurezza personale. Nel 1527, sul principio della rivoluzione, vollero in parte mettervi rimedio e lo fecero instituendo la Quarantia. Certo non conseguirono lo scopo: i popoli procedono lenti, che la verità percuote obliqua i loro sguardi; comunque sia, cercarono per trovare. I delitti, in ispecie quelli di stato, dovevano notificarsi dagli Otto alla Signoria, la quale era obbligata estrarre a sorte quaranta uomini dalle borse degli ottanta, che insieme al gonfaloniero, ad uno dei priori, tre gonfalonieri delle compagnie, due dei dodici buoni uomini, due dei dieci, uno dei nove, uno dei capitani di parte guelfa, uno degli uffiziali di monte, due dei conservatori, uno dei massai di camera, dentro i quindici giorni dal di della tratta dovevano spedire la causa. Qual procedura tenessero nel giudicare vedremo in seguito.

... il Ferruccio vi si avventura: grave di armi... Cap XXV, pag. 559

Due uomini apparivano sopra la panca degli accusati, — entrambi stretti di pesanti catene: il primo, disfatto nella sembianza, con i capelli stesi lungo le guance, come se si fosse tuffato nel fiume, imperciocchè un sudor freddo emanasse senza mai cessare dal suo corpo; — le tempie avea cave, — le labbra pendenti e colore di piombo, — gli occhi bassi circondati da un cerchio nero; tutto svelava in lui il rimorso aver precorso la pena; — questi era Lorenzo Soderini: l'altro pochi giorni avanti fu mirabile per adipe e argomento di motteggio a chiunque lo avesse veduto per via; la paura gli aveva tolto ad un tratto la pinguedine, le guance gli cascavano giù dai lati grinzose come la pagliolaia dei bovi; il vermiglio che un dì le imporporava si era mutato in una tinta violacea, e il bianco degli occhi gli appariva chiazzato di macchie gialle solite a precorrere la itterizia; egli non imitava la immobilità del compagno, — anzi irrequieto agitavasi, gli occhi rivolgeva del continuo da un lato all'altro pieni di terrore, e con la bocca facea greppo, col capo ammicava in atto di domestichezza a quanti entravano nella sala; — e siccome la più parte passava senza badarlo, e gli altri lo guardavano biechi, egli per farsi avvertire da' primi tossiva, stropicciava i piedi, si alzava ritto ritto su la persona, non ometteva industria per richiamare la costoro attenzione; ed ai secondi si sprofondava in inchini per modo che col mento quasi veniva a toccare terra. Anche il delitto può parere sventura quando il reo prossimo ad essere colpito dalla legge si mantiene composto nella sua umiliazione e mansueto come quegli che sente essere la pena effetto di causa con le proprie sue mani fabbricata; quindi mentre l'aspetto del Soderini gli conciliava favore, rifuggiva ognuno dalla impudenza fratesca del secondo accusato; — ed infatti egli era Vittorio Franceschi, nominato fra Rigogolo, minore osservante.

Seduto ognuno al suo luogo, si alza il gonfaloniere Rafaello Girolami e con voce alquanto tremula incomincia:

«La Quarantia si trova ella di presente composta nel numero prescritto dalla legge?»

Il notaio, scopertosi il capo, risponde:

«Magnifico messere gonfaloniere, i presenti superano i due terzi.»

«La Quarantia», soggiunse il gonfaloniere, «vuole ella decidere la causa in questa mattina?»

Da tutte le parti si levò la voce:

«Vuole.»

Il gonfaloniere torna a sedersi; dopo alquanto di pausa si volge agli accusati e dice:

«Lorenzo di Tomaso Soderini, lo spettabile magistrato degli Otto vi accusa di pratiche secrete con i nemici della patria, di tentativi per sovvertire il reggimento, di voler ricondurre lo stato sotto gli antichi tiranni... Che cosa potete voi opporre a questa querela?»

Il Soderini schiuse a fatica la bocca, e dalle fauci gli proruppe un singulto; — nel tempo stesso sopra i contorni dei labbri gli comparve una bolla vermiglia, — scoppiò, — e dagli angoli della bocca gli gocciò una bava sanguinosa: una volta gli tremarono gli occhi, poi stettero quasi ghiacciati; crollò la persona e cadde sul pavimento; — non sospiro, — non gemito per lui; — il fragore delle catene fu l'unico suono che si fece sentire sul traditore caduto.

«Frate Vittorio», continua il gonfaloniere, «voi siete querelato del medesimo delitto: — che avete ad opporre per la vostra difesa?»

« Domine, in adiutorium, io vi dirò, magnifico messere Rafaello, la verità tale quale ella sta; perocchè, vedete, io sia semplice come un fanciullo pur mo' nato: il gentiluomo che voi testè interrogaste, certo giorno su l'ora di vespro, mi fece chiamare in sagrestia, dove io, credendo volesse accostarsi al tribunale della penitenza, lo segnai e gli dissi: Dite su; — ma egli mi rispose: Non occorre per oggi, frate Vittorio; io vengo da parte di Sua Santità a proporvi e, in quanto bisogna, ordinarvi di porgermi aiuto per ristabilire la sua famiglia in Fiorenza...»

«Perchè non veniste a denunziare il fatto alla Signoria?»

«Onorando messere, voi sapete da noi altri frati richiedersi tre voti soltanto, di obbedienza, di castità e di povertà; — se esigessero da noi anche quello della scienza, i monasteri sarebbero vuoti, come le aie...»

«Oh! no», interruppe una voce, «voi altri frati giurereste anche questo voto, nè lo adempireste meglio degli altri.»

«Ah! ah! come vi piace, padroni miei spettabilissimi; e infatti ogni giorno una pioggia di motteggi si rovescia sopra le nostre povere spalle, e non rifiniscono mai dal proverbiarci sopra la nostra testa rasa e il piè di legno: poc'anzi entrando qui dentro ho udito due gentiluomini che mettevano a partito se io mi avessi più duro il di sotto o il di sopra...»

Siffatta plebea umiliazione di sè, anzichè movere il riso, concitò lo sdegno degli ascoltanti; per la qual cosa il gonfaloniere lo avvertiva restringersi nella difesa: — ma il Carduccio, modestamente levandosi, tal dirigeva al Girolami grave consiglio:

«Messere, sacra cosa è la difesa dei querelati: se il frate parla scempie parole, nostro danno; noi non lo ascoltiamo per diletto sibbene per dovere; lasciamogli il conforto di dedurre difese inutili, dacchè non gli è dato promuoverne delle concludenti.»

«Dunque», seguita il frate, «io credei che mi burlasse, e con mal viso gli voltai le spalle garrendolo di venire ad uccellare i religiosi nei loro sacrosanti asili, massime nell'ora di vespro, in che facciamo la siesta.»

«Perchè avete tentato, dopo l'arresto del Soderini, trafugarvi dalla città sotto spoglie mentite?»

«Eh! ma la giustizia del bargello ha l'ale alle mani per prendere, e per lasciare soffre di gotta. Quando l'uom cade tra cotesti roncigli, avviene di noi come della pecora che capita nel pruneto; quando le va bene, qualche fiocco di lana vi lascia: onde io che aveva sentito raccontare in qual modo certo villano a cui apponeva avere imbolato il campanile della pieve se ne andasse a casa e dicesse alla donna sua: Mogliema, ti avaccia a far fagotto delle masserizie e andiamcene con Dio, imperciocchè mi accusino di avere rubato il campanile. — Statti, gaglioffo, che io di qui ne vedo la croce e ne sento le campane che sonano a gloria, gli rispose la donna; — ma il villano insisteva: Partiamo tuttavia, che al bargello per udire e vedere le campane e il campanile un anno potrebbe sembrare poco, e in questo tempo meglio giova essere pollo d'aia che pollo di stia. — Per le quali ragioni e cagioni deliberai mettermi in salvo, e ch'io non argomentassi poi male lo vedete col fatto: se mi riusciva sgombrare, non sarei qui con queste smaniglie addosso.»

Cominciarono gli esami dei testimoni, nessuno a discarico; molti deponevano come frate Vittorio, convertito il confessionale in bigoncia, quinci diffondesse parole di veleno contro la Repubblica e instigazioni al tradimento; altri gli contestarono la proposta da lui fatta di accompagnarlo a inchiodare i cannoni sul poggio San Miniato; non mancarono i soldati ch'egli con impudenza pari alla goffagine s'industriò contaminare per introdurre i nemici nel convento di San Francesco vestiti a modo di frati; in somma un cumulo di prove, di riscontri e d'indizii si aggravò sopra il suo capo da convincere la mente degli uomini meglio esitanti. Per un pezzo il frate durò a gridare calunnia e vomitare contro i testimoni atrocissime contumelie; poi all'improvviso gli mancò l'ardire e si gettò genuflesso sul pavimento piangendo dirotto e gridando:

«Misericordia! misericordia! vi prenderà ira contro un cane morto? Vi appoggerete sopra la canna rotta? Abbiate compassione di un povero folle....»

«Ed io pure sono folle, ma non ho mai morso le mammelle che mi porsero il latte!» esclamò improvviso Pieruccio, il quale, introdottosi furtivamente nella sala, se ne stava accovacciato a mo' di cane sotto le panche tra i piedi dei padri, — e meglio delle parole erano rampogna il suo aspetto attrito e le sue piaghe tuttavia sanguinanti. Poi sollevando le braccia in atto solenne, così favellava ai cittadini adunati: «Voi li salverete, voi non avrete cuore di condannarli... Sventura a voi! L'albero che avete piantato non alligna nella terra dei codardi e dei traditori, — e sì, — e sì che l'albero piantato da voi, quando non frutta libertà, somministra il legno per costruire il patibolo!...»

Il gonfaloniere, supponendo offesa la maestà del luogo da quei detti acerbi, ordinava traessero altrove il Pieruccio; se non che egli, vietando ai mazzieri di toccarlo, dignitoso e superbo, sgombrò da per se stesso dalla sala. Dal rumore che si levò da ogni lato, dall'agitarsi dei capi dei cittadini, parve quasi turbine trapassato per le piante della foresta.

Intanto Lorenzo Soderini, rinvenuto dal suo sfinimento, occupava di nuovo il posto di accusato. Raffaello Girolami, con voce che studia rendere quanto più poteva soave, gli domanda:

«Lorenzo Soderini, avete da opporre discolpa all'accusa che vi danno gli spettabili signori Otto, di guardia e balia?»

Il Soderini mosse le labbra per parlare, ma non ne uscì suono; — una mano di ferro gli stringeva la gola.

Allora il Girolami si piegò all'interno domandando,

«Ecci nessuno che prenda le difese di Lorenzo Sederini accusato di tradimento?»

«Nessuno. — Mandatelo alla forca senz'altre formalità.»

«Che sensi, che voci sono queste?» riprende il gonfaloniere; «mi trovo io tra uomini civili, o...»

«Su, dite tra chi?» interruppe Lionardo Bartolini.

«O tra chi mi trovo?» ripiegò in buon tempo il Girolami avvertito dalla interruzione del Bartolini che stava per uscirgli di bocca qualche grave parola. «Perchè non avrebbe messere Lorenzo le sue difese? Finchè la legge non pronunzia sopra di lui, non può dirsi reo. E alla patria, meglio che con le ire e l'impeto, si serve coll'adempire ai buoni ordinamenti di lei.»

Questa proposizione che denotava un grado di civiltà non consentito dai tempi giunse malgradita tra quelle menti accese; parve provocazione e rimprovero; gli odii riarsero; ella fu quasi bitume sopra legna infiammate, — i cuori si chiusero alla pietà, — la sentenza non pronunziarono ancora, ma ormai la sorte del Soderino e di fra' Vittorio è decisa.

Il gonfaloniere, cui studio di giustizia moveva e forse anche amore della casa Soderina, interroga da capo:

«Chi difende Lorenzo Sederini?»

«Nessuno.»

«Affinchè i posteri», continua il Girolami, «non abbiano a dire che, la ragione postergata allo sdegno, la nostra magnificentissima Repubblica commise fatto turpe nel presente giudizio, ecce, deposta un momento la maestà del grado, io scendo alla difesa del querelato Sederini.»

«Voi non lo farete. Rimanetevi! rimanetevi!» gli gridavano d'intorno tutti commossi, come mare in tempesta.

«Quando lo statuto non lo vieta», risponde con grande animo il gonfaloniere, «staremo a vedere chi usurpa qua dentro maggiore autorità della legge!»

E si pose sotto la panca dell'accusato. Quindi acconci detti adoperando, chè fama aveva e prestanza di buon parlatore, orò fervorosamente in difesa del Soderini: disse quanto più atroce il delitto maggiore richiedersi la prova; essere contro messere Lorenzo atroce l'accusa, gli indizi incerti, perchè delle prove non ne concorreva pur una; la fuga notturna e l'arresto nulla concludere; era forse vietato uscire per la città ad ora insolita? non doveva presumersi ch'egli andasse attorno per cose da tacersi a cagion di onestà? Male condannarlo, se dal silenzio e dal pallore traessero argomento della colpa: — a cui di noi l'accusa di traditore non terrebbe, non dico la parola, ma la vita? — Lodò casa Soderina, rammentò i molti beneficii da lei operati in vantaggio della Repubblica, onorandissima famiglia la disse e tale da pregiare di sè qualunque più chiaro stato del mondo; ricordò Piero, al quale se mancò per avventura il senno, certo non ebbe difetto di volontà; ma non gli mancò neanche il senno, sol che si pensi ai tempi difficili, al viluppo dei contrari interessi, allo sforzo di principi contro ai quali non valeva potenza, e la fortuna dei quali non poteva prevedersi; che se molti lo accusano, ciò avviene perchè, come spesso ho udito dire da messere Iacopo Nardi, dopo il fatto di senno ne sono piene le fosse; e più di Piero lodò Giovambattista, di cui volendo tutti gli encomi raccogliere in uno, lo salutava col nome di maestro di Francesco Ferruccio, áncora validissima della pubblica salvezza; concludeva finalmente che, quando la coscienza dei padri fosse convinta di qualche trascorso essersi reso colpevole il Soderino, procedessero con mite consiglio, con intendimento di chi corregge per migliorare, non con pena che paia vendetta. Restituissero un cittadino alla patria, non consegnassero un cadavere all'avello.

Giunto a questa parte della sua orazione, s'intese strepito di armi e rumore di passi, come di molte persone che camminano strette tra loro a modo di soldati, — si apersero fragorose le porte, — e le lancie spezzate del Malatesta si posero sul limitare.

«Chi è il temerario che ardisce presentarsi così alla Quarantia?» — domandarono alcuni cittadini; — altri guardavano sorpresi e ansiosamente attendevano.

«Malatesta Baglioni!» rispose con gran voce Dante da Castiglione.

Infatti Malatesta comparve tutto dimesso in vista, ma circondato da spesso stuolo dei suoi più fidati, con Cencio Guercio al fianco, le sue povere membra gravi di giaco, di gorgerino ed altre armi da difendere e da offendere.

S'inoltra fino al banco dei principali magistrati, vi depone una carta dalla quale pendevano vari suggelli, e tenendovi pur sempre la mano destra sopra, in questa guisa favella:

«Figlio ossequente della Repubblica Fiorentina, a me parrebbe mancare (e mancherei certo all'obbligo che le professo grandissimo e di cui non potrò sdebitarmi, quando anche eterna mi durasse la vita) dove io nel presente caso non cercassi, per quanto è in me, chiarire la mente vostra, magnifici cittadini, e non mi adoperassi con ogni mio sforzo a far sì che per voi si dia insigne esempio al mondo del come in questa terra s'invigilino e si puniscano i traditori.»

I circostanti maravigliando aspettavano il fine delle parole. Malatesta, additato il Soderini, continua:

«Costui ardiva in nome del papa propormi il tradimento di questa diletta patria: qui, voi vedete la commessione mandatagli a così onorata impresa; io la ritenni nelle mie mani in testimonio della nequizia dei nostri nemici e della mia lealtà.»

Il gonfaloniere, udita siffatta proposizione, gesteggiando a mo' di forsennato, si stacca dal fianco del Soderino. Giunto la mezzo la sala, gli si volge contro e, alzate le mani in atto d'imprecare, esclama:

«Sventura a te ed a me, che mi hai fatto dire parole le quali peseranno contro di me sulla bilancia dell'Eterno nel giorno finale!»

Si passavano di mano in mano il breve apostolico; pur troppo egli comprendeva la commessione di un cittadino a tradire la patria, la preghiera del padre dei fedeli per le spargimento del sangue cristiano, anzi pure fraterno e innocentissimo; pur troppo la feroce dimostrazione di calpestare la testa dei suoi concittadini per qualsivoglia via, comunque snaturata. Il breve portava il suggello dell'umile apostolo che pesca, del primo vicario di Cristo redentore!

Lorenzo Soderini fece prova di favellare, ma glie ne tolse il potere lo sguardo che incontrava del Malatesta: se l'occhio del serpente affascina per la sua malignità, Malatesta superava in questo la fiera più trista che mai partorisse natura.

Quando il breve venne nelle mani di Dante da Castiglione, questi, dopo averlo letto ed esaminato molto attentamente, mosse i labbri a certo suo garbo che stava a denotare trapassargli adesso per la mente un pensiero molesto, e poco dopo con occhi bassi incominciò:

«Posso io domandare al magnifico messer Malatesta la cagione dell'avere indugiato tanto a partecipare alla Quarantia un simile fatto?»

E qui sbarrati gli occhi, glieli avventa ardentissimi nel volto. Malatesta, preso alla sprovvista, non seppe ripararsi meglio che ostentando superbia.

«E chi siete voi e con quale autorità interrogate il generalissimo della Repubblica Fiorentina?»

«Io sono uno dei vostri padroni; — io posso, quando se ne presenti il bisogno, essere uno dei vostri giudici: rispondete...»

Malatesta, percorsa con obliqui sguardi la sala, si assicurò prima se i suoi cagnotti tenevano i posti e quindi soggiunse:

«Credete voi, messere Castiglione, ch'io non abbia altro a fare che a salire in bigoncia e mettere tutto giorno male parole contro chi sento migliore di me? La Dio mercede, la mia giornata va piena di bene altre occupazioni. Se io dovessi denunziare tutte le sollecitazioni che m'indirizzano i cittadini di Fiorenza per tradire l'obbligo mio, non potrei attendere alle cure della guerra; io mi contento sprezzarle e mantenermi nel dovere senza troppo gonfiare le gote, m'intendete? Io non ho mai creduto servire bene il mio paese spaventandolo ad ogni momento con vani terrori. Le proposte del Soderini pensai che, movendo da leggerezza, non avessero séguito, epperò le obliai. Ora che, la fama m'istruisce i costui divisamenti essere più pericolosi di quello ch'io dubitava, vengo prontissimo a illuminare la coscienza dei giudici, mi affretto a destarvi dal sonno che dormite su l'orlo del precipizio: giunge sempre bene colui che arriva a tempo...».

«Ma per voi, mi sembra, avremmo potuto dormire, quanto i sette dormenti, sul margine dell'abisso...»

«Silenzio!» interruppe il gonfaloniere; «magnifici cittadini, apparecchiatevi ai giuramento ed ai voti.»

Malatesta chiese ed ottenne commiato; il gonfaloniere lo licenziò adoperando umane parole, levando al cielo la sua lealtà e l'obbligo che gli avrebbe in ogni tempo la Repubblica professato grandissimo. E non pertanto vuolsi credere che, senza gli uomini di arme i quali accompagnavano Malatesta, primo il gonfaloniere Girolami avrebbe ordinato si sostenesse e innanzi al Soderino nel capo si condannasse. Concede questa facoltà alle parole e al volto il cuore riposto in mezzo del petto e diligentemente coperto sopra di carne e di ossa.

«Che pártene? Meritai io la tua lode?» uscendo di sala appoggiato sul braccio di Cencio Guercio, gli andava Malatesta susurrando entro le orecchie.

«Avanti, — avanti», risponde quel terribile Cencio; «così continuando voi diventerete la disperazione di Dante.»

«Dante! Com'entra qui Dante?»

«Più che voi non pensate, o dolce signor mio; imperciocchè, resuscitando, egli non saprebbe in qual parte del suo Inferno riporvi; sì, voi mi pare le meritiate tutte...»

«Va', — il demonio dell'acutezza ti possiede.»

«Perchè no? In cielo e in terra tutto mi comparisce epigramma. Sapete voi che cosa ella sia la vita? Ve lo dirò ben io: — un epigramma di messere Domeneddio...»

Si allontanavano motteggiando da un luogo dove stava per condannarsi una famiglia inclita a perdere la fama, un uomo la vita. Soderini, traditore infelice e pentito, perisce; eglino traditori avventurosi e indurati si affrettano di mandare a fine il tradimento. La provvidenza li contempla dall'alto e lascia fare.

Secondo il disposto della legge della Quarantia, primo il gonfaloniere e dopo lui gli altri magistrati componenti quel tribunale, succedendosi per ordine di dignità, giurarono nelle mani dei frati di palazzo di dovere senza passione alcuna e giusta la coscienza loro giudicare. Dipoi sopra una cartuccia scrissero la pena che parve loro si meritasse la querela e la depositarono sopra l'altare; donde poi rimesse tutte le cartucce per opera dei frati e dentro una borsa raccolte, furono consegnate al notaio dei Signori, affinchè a norma delle solennità prescritte dalla legge ne eseguisse la estrazione.

Dalla estrazione resultarono più maniere di pene: a taluno pareva non dovesse applicarsene alcuna, a tal altro parve qualunque pena poca a tanto misfatto; da una parte perigliosa indulgenza, dall'altra efferata immanità, — estremi entrambi biasimevoli e consigliati da studio di parte. Poichè, non so s'io l'abbia già detto altrove, e avendolo detto, piacemi e giova ripeterlo adesso, per l'uomo di stato il delitto comincia quando la necessità delle pene cessa; i facili in ogni caso al perdono, specialmente se per motivi privati, si abbiano per traditori.

Le diverse pene dovevano mandarsi a partito; quella vinceva cui numero maggiore di voti favoriva, ma che però superasse i due terzi. Lasciarono i magistrati la sala per ridursi nelle stanze dello squittinio. I rei rimasero soli con i rimorsi e le catene.

Dopo molte ore, la porta della stanza dello squittinio si apre silenziosa su i cardini, poi si presenta improvviso come lingua di fuoco, sopra la soglia, un mazziere vestito di rosso con lo spadone dritto nelle mani; segno di morte.

Si riposero i magistrati nei seggi; i passi e i moti loro non suscitavano rumore alcuno; pareva una processione di spettri. Al cenno della mano che il gonfaloniere gli fece, il notaio dei Signori si alza e con voce tremante legge:

«Invocato il nome di Cristo Redentore, della Repubblica Fiorentina re. La Quarantia dichiara rei di tradimento contro la patria Luigi di Tomaso Soderini e frate Vittorio Franceschi, li condanna nel capo, ordina agli spettabili signori Otto di mandare ad esecuzione la presente sentenza. Data, ecc.»

Il gonfaloniere, profondamente commosso, si leva sorreggendosi con ambe le mani ai bracciuoli della sedia e indirizzatosi ai condannati, favella:

«Uomini colpevoli, la giustizia umana ha dovuto condannarvi; non perdete tutta speranza, volgetevi alla immagine di questo Cristo: egli tiene le braccia aperte per accogliervi al suo seno; il battesimo delle lacrime di penitenza basta ad acquistare il paradiso...» — Nè potè parlare più oltre, chè il singulto gli strinse la gola, e cadde a sedere di nuovo.

I cittadini componenti la Quarantia cominciarono a vuotare la sala, — alcuni con la ingiuria alla bocca, la minaccia negli occhi passando dappresso ai condannati inasprivano la sentenza col sarcasmo; altri, i favorevoli a loro, temendo essersi avventurati anche troppo, non ardivano sollevarli con parole di conforto; entrambi opprimeva un peso d'ineffabile angoscia.

Passa il nostro Dante. Egli ha dato il voto di morte, egli combattè il consiglio di più mite sentenza, e non pertanto adesso procede col sembiante compunto, la faccia tiene dimessa, sinistri pensieri lo ingombrano. Lorenzo Soderini, giunto a tale estremo, cercava con i suoi occhi velati e non rinveniva persona che lo assicurasse di pietà, — la pietà refrigerio dell'anima contristata: appena la figura di Dante gli strisciò traverso le pupille, ebbe quiete quel suo volto atterrito; — voleva chiamarlo e non ardiva toccarlo, e la lena gli mancava alla mano; pur senza accorgersene, la sua destra fece un atto, e la catena risonando aggiunse i lembi del lucco del Castiglione; questi trasalisce e si volta indietro e con voce profonda gli domanda:

«Che vuoi?»

«Una bocca che non mi maledica, un cuore che mi aiuti a morire.»

«Io!» proruppe Dante rifuggendo lontano con atto di abborrimento; se non che mutato di subito consiglio si accosta con impeto e, «Perchè?...» interroga, — e poi si rimane; quindi stringendo quanto poteva nella destra la sua barba che era tornata a crescergli foltissima, due o tre volte la squassa con violenza: «No, no», riprende, «la tua misura è colma e non ha mestieri di rampogna; io non devo aggiungere altra pena a quella che la legge ti ha dato. La colpa impunita fa bestemmiare l'Eterno, ma nello spazio che corre tra la condanna e la esecuzione della pena anche la colpa è sventurata e va soccorsa: — noi piangeremo insieme.»

Senza altre parole aggiungere gli si posa al fianco per accompagnarlo alla cappella.

Gli altri passarono; parte di loro notarono Dante, parte no: uno solo si avvisò favellargli, e fu l'Antinori; egli, ostentando maraviglia, lo richiede:

«Che fate voi qui al lato di questo traditore, messer Dante?»

E quel magnanimo senza muovere membro gli risponde:

«Qui sto a confortare un moribondo, perchè non disperi della salute dell'anima sua, e per seco supplicare Dio, affinchè egli sia l'ultimo a tradire questa dolcissima patria.»

Subito dopo si voltò dal lato opposto, come insofferente di più lunghe domande.

Lorenzo Soderini e fra' Vittorio furono condotti alla cappella.

Il maggior bene che possa farsi ad un frate sta nel non dirne nulla, ed io farò questo bene a fra' Vittorio, — non parlerò di lui. Due furono frati, per quanto io sappia, nel mondo sublimi davvero, e forse tre: — Arnaldo da Brescia e Girolamo Savonarola; e perchè i popoli le costoro ossa non convertissero un giorno in reliquie, i re mitrati del Vaticano gli arsero vivi e ne dispersero le ceneri ai venti; ma coteste ceneri ricaddero per i campi d'Italia e vi diffusero il germe del martirio e della libertà: le ceneri e il sangue ottimi fecondatori sono di libertà, e lo vediamo. Il terzo frate fu Domenico Campanella, il quale per cacciare via i barbari d'Italia intendeva legarsi co' Turchi e si sarebbe confederato col diavolo. Stupende menti e stupendi cuori furono cotesti frati; e noi ci accorgiamo che pur troppo osservarono il voto di serbarsi casti, imperciocchè morissero senza posterità!

La cappella è angusta; la luce del giorno impedita da tende nere non vi penetra dentro; molti ceri accesi sopra l'altare mandano un chiarore pallido e rendono grave l'aria che vi si respira; due battuti della compagnia del Tempio noti col nome di Neri, incappati e incappucciati, stanno genuflessi davanti l'altare recitando le preghiere dei defunti: ad ogni ora che passi, due nuovi fratelli della medesima compagnia si succedono in cotesto ufficio lugubre. Dante da Castiglione sta seduto sopra un lettuccio posto in disparte, le braccia ha incrociate sul petto e tiene il volto dimesso. Lorenzo Soderini anch'egli seduto sopra uno sgabello a piè del lettuccio vi protende abbandonate le braccia, il capo e parte della vita. Un tremito fitto fitto gl'increspa la pelle e gli addrizza la più molle calugine del corpo: dalle tempie livide e cave emana sudore perenne che scendendo giù per le ciglia si confonde su l'angolo degli occhi con le lacrime e le rende più amare.

Quali pensieri lo attristano?

Dapprima nessuno: tutto il cervello gli doleva siccome offeso da forte battitura; tentava inutilmente volgere il pensiero a un punto fisso; la fonte sembrava inaridita; si affaticava invano a suscitare la mente percossa da paralisi; — l'anima gli era morta prima del corpo; e sì che tanto breve ora gli avanzava di vita, a tante cose doveva meditare e a tante ancora provvedere... Oh Dio! questa impotenza lo contristava come i sogni sinistri, nei quali ti pare sentirti il ferro dell'assassino nei fianchi e tu non puoi aiutarti con la voce nè con la fuga. Ma di un moto convulso gli venne fatto cambiare positura, ed allora la immaginazione, quasi vento burrascoso nei campi, prorompendo sommosse un turbine di affetti e di memorie. Come baleno per notte profonda illuminando largo tratto di paese rivela allo sguardo pianure e colli e fiumane e alberi e case, obietti in somma infiniti e infinitamente svariati, così la immaginazione ricercò, — rischiarò, — vestì di bellezza i casi più riposti della vita: — sentì di nuovo il Soderini le gioie dell'infanzia, quando è dolce voltolarsi su l'erba verde, e punge cura di aggiungere correndo la farfalla, o desiderio di possedere l'uccello che canta e il pomo che rosseggia sopra i rami dell'albero: seguitarono i piaceri dell'adolescenza, — il primo cane sguinzagliato dietro la fiera, il primo cavallo stretto tra le ginocchia poderose; — e qui cominciava a mescolarsi una immagine di vergine ch'egli desiderava ardentemente, e non ne sapeva la causa, — che lo faceva sospirare, e ne ignorava il perchè; amava il suo riso pel riso, gli occhi per gli occhi; la fiumana del cuore era gonfia e non pertanto scorreva entro i suoi argini. Quanto ebbe diletto in quei giorni slanciare il cavallo di piena carriera lungo la via che passava davanti alla casa della fanciulla vagheggiata, circondarsi di un nuvolo di polvere, e traverso quel nuvolo scorrere come saetta e gittare un bacio a lei, che sporgendo dal balcone mostrava la guancia pallida pel pericolo del giovanetto! Gli si presentava alla mente il verde della campagna fresco, rugiadoso come su l'alba di un bel giorno di primavera o sul crepuscolo di un giorno di autunno, quando la pioggia lieve è caduta, e poi il cielo si fece all'improvviso sereno: vedeva l'emisfero colorito del più bell'azzurro che mai abbia sorriso sul nostro capo, e in quegli spazi rotare con magnifici giri il falco pellegrino... Oh felice, felice quel falco! Poi gli tornava alla mente la madre, o come quando curvata sopra la culla gli sorrideva e, lieve vellicando il suo corpo tenerello, convertiva in riso anche i pianti di lui povero infante, o quando, inconsapevole il padre, gli somministrava danaro per le sue voglie di fanciullo, o allorchè, amorosa troppo, celava i suoi falli giovanili per non provocare lo sdegno paterno: — povera madre! non gli aveva mai detto parola che sapesse di acerbo, — dalla sua bocca non era uscita nessuna rampogna mai, — non sapeva vietargli nulla; dov'egli si fosse ostinato in cosa che le tornasse spiacevole, — Tu mi farai piangere! — ella diceva e nulla più. Oh! come le immagini mutarono nell'agitato suo spirito! il capo volge da una guancia all'altra, non trova quiete. All'improvviso pargli vedere per mezzo sentieri ingombri di pantano e di sterpi avanzarsi penosamente una femmina; ella mostra il sembiante disfatto, spessi sospiri le prorompono dal seno, i piedi muove pel fango, le vesti ha sordidate e le membra, e la bufera le sventola dietro le spalle i capelli bianchi, cade la pioggia a rovescio; i nuvoli spinti dal vento scorrono pel cielo e rassembrano i demoni precipitati quando mossero battaglia al trono dell'Eterno. — Quella è sua madre; i suoi passi tendono ad un ampio campo recinto di mura; ella percuote sommesso alla porta: un ente senza forma, e non pertanto terribile, spalanca i cancelli e le domanda che cosa cerchi a quell'ora. — Piano! ella risponde per l'amore... è egli sacrilegio rammentare qui Dio! — Silenzio! — Ebbene, prosegue, per l'amore di Dio, sono una madre che vorrebbe piangere sopra la sua creatura; ella fu scellerata, ma io la portai nove mesi nelle mie viscere. — Cercala, riprende la voce; in cotesto spazio di terra, colà da quella parte il campo maladetto accoglie i cadaveri dei figliuoli che uccisero i propri parenti. — Non è qui. — Più in là vi sono i padri che hanno ucciso i figli, le madri che dispersero i loro portati. — Non è là. — Più oltre giacciono i fratricidi. — Nemmeno. — Là in fondo stanno i Giudei che crocifissero Cristo. — Neppure. — Femmina, o chi cerchi dunque? — Altri... altri. — O sciagurata! e allora tu cerchi un traditore della patria? — Piano! io muoio di vergogna..., sì, un traditore. — Io non tengo ricordo di costoro: corre gran tempo che la corda della forca lo ha scaraventato fuori del mondo? — Ieri all'ora del crepuscolo. — O dannati! cominciò la voce a urlare come un tuono, — o dannati! sapreste voi dire dove giaccia il corpo dell'anima che ieri cadde tra quelle che si tormentano nell'inferno? — La terra si commosse quasi la scuotesse il terremoto, e dalle fosse infinite che coprivano la campagna uscirono urli che dicevano: Lorenzo Soderini, Lorenzo Soderini! ben venga la madre sua! — scopérchiati, Soderini, fa accoglienza a tua madre! — E a lui sembrava udire sotto terra coteste parole di scherno, e con ambedue le mani afferrava la lapide per non essere scoperchiato; invano però, chè una forza irresistibile toglieva via la pietra, ed egli compariva davanti a sua madre ignudo, nero, arsiccio in mezzo di una fossa di fiamme, sicchè la madre urlava anch'essa: Ahi! povere mie carni! — e le mani cacciatesi nelle chiome, faceva atto di precipitarsi nella fornace del figlio. — Il figlio invece la respingeva, e la sua mano posta sul seno che l'aveva allattato, vi levava la fiamma e vi lasciava la scottatura, e con feroci accenti la rampognava: — Ora che hai pubblicata la mia infamia anche a' morti, va', io maledico il tuo fianco che mi ha portato. — Il condannato intanto arronciglia con le dita attratte la copertura del letto, scuote smanioso la testa e geme:

«Povera madre!»

Dante da Castiglione contemplando il nuovo spasimo, volgendo il pensiero alla femmina angosciata, ripete:

«Povera madre!»

Il Soderino temendo di beffe solleva la faccia; ma viste due lagrime scorrere giù per la barba del Castiglione, come furente strinse la destra di lui, la baciò con immensa passione e proruppe in pianto irrefrenato. Il Castiglione lo conforta e spesso gli viene ripetendo:

«Sii uomo!»

Frattanto sopraggiungono nuovi battuti per rilevar i fratelli che hanno consumato l'ora. A Dante viene fatto, senza riporvi mente, di stendere le dita quasi per contarla. Lorenzo, che si accorge del moto, domanda affannoso:

«Quanto mi avanza a vivere? — Ditemelo, — sei ore, — quattr'ore, — due, — una? — Io non voglio morire, non posso morire così presto. Questa luce mi offende gli occhi, — quest'aria mi pesa sul petto»; e correndo con impeto apre le tende e le finestre. «Oh! — egli prosegue, — aria fresca che porti refrigerio al mio sangue infiammato dalla febbre, domani per me soffierai invano; addio, patrie valli, addio, fiume patrio, addio, colline... Sopra uno di quei monti a cielo aperto, fornito lo spazio di vita che natura concede agli uomini, l'emisfero stellato sul capo, la cara famiglia d'intorno, sarebbe meno trista, forse piacevole cosa la morte; ma ahimè! tra i miei occhi moribondi e il cielo io vedrò un ferro tagliente, un uomo che non conosco e che m'uccide... ah! egli è crudele.» — E qui caccia fuori un terribile urlo e con ambe le mani si cuopre gli occhi.

Dante accorrendo gli domanda qual cosa l'offendesse.

«Colà, — colà, — ed accennava col dito, — ho ravvisato la villa della mia famiglia, — la stanza in che nacqui: chiudete le finestre, — calate per carità le tende, — io non posso sopportarne la vista.»

Continuava a percorrere la stanza. Il suono monotono dei fratelli del Tempio gli percuote da prima fastidioso l'orecchio, poco dopo insoffribile; si ferma davanti al Castiglione e in voce spenta gli dice:

«Dante, io non sono disposto a morire, e pur conviene ch'io muoia; mi sento le membra valide, i visceri sani; e tutto questo mi renderà più dolorosa la morte... Se tu immaginassi come agiti tremenda la preghiera dei moribondi profferita sopra un uomo pieno di vita, tu allora sapresti quando sarebbe pietà imporre silenzio a quei battuti: finchè non tacciano, io non potrò sollevare il mio spirito al cielo.»

Dante ristrettosi con i due neri da parte gli supplicava:

«Fratelli, vorreste voi andarvene nell'altra camera e colà pregare sommessi? — La vostra sembianza contrista il condannato.»

«Fratello», risponde un battuto, «la nostra regola ci ordina di pregare nella stanza del giustiziato.»

«Sì, sì, ma la vostra regola ha fondamento sopra la carità, fratello; il divino Maestro lo ha pure insegnato: la parola uccide, e lo spirito vivifica: voi non farete opera meno meritoria per voi nè meno giovevole al condannato, ritraendovi nell'altra stanza; i desiderii dei moribondi son sacri, — ed a lui, voi lo sapete, avanzano appena sei ore da vivere...»

«Se ci mandate via, noi ce ne anderemo; e se cotesta anima per difetto di preghiera si perde, cada il castigo sul capo di cui n'era la colpa.»

«Noi non vi cacciamo, sibbene vi scongiuriamo a non funestare quel misero...»

«O noi preghiamo qua dentro e ad alta voce, come dobbiamo, pregheremo per lui, o ce ne anderemo.»

«Andatevene dunque. Voi avete di carità la forma, vi manca il cuore: voi movete le labbra, spingete una parola, ma la fiamma manca alla voce, e la vostra preghiera ricade come un crasso vapore che non può sollevarsi fino al cielo: andate! — Dio non ha mestieri della mediazione degli uomini per soccorrere l'uomo: il Redentore, che la pecora smarrita antepone alle rimaste nel branco, gli stenderà le braccia: Cristo, per ascoltare costui, non chinerà le orecchie più di quello che si curvasse per ascoltare voi superbi ministri del Dio di umiltà. Andatevene: se voi vi ricusate pregare, pregheranno gli angioli per lui.»

Poi dopo successe un silenzio profondo tanto che si udiva il crepitare dei ceri accesi dentro la cappella.

Ecco s'inoltra un uomo vestito di nero; — le sue sembianze paiono scolpite nella pietra, — i suoi capelli sembrano metallici; dai modi lo diresti un maggiordomo, — ed è veramente tale. Io non saprei descriverti per l'appunto le sue maniere, ma potrai vederle uguali nei cortigiani e in quelli altri che chiamano diplomatici, — specie di pifferi dove non soffia Minerva per paura di sconciarsi le gote; coteste sono maniere che sbigottiscono gli affetti e respingono atterrite nel cuore le dolci espansioni pronte a sgorgare.

Il nuovo personaggio, seguito da valletto il quale gli veniva dietro recando una guantiera, fermatosi dinanzi al condannato, con voce impassibile e cerimoniosa incominciò:

«Fratello in Cristo, e' dovete sapere, come fino dal 1300 e tanti, messer Amedeo degli Amedei, in quel tempo rettore della cappella di san Giuliano in San Nicolò delle Monache, e della chiesa di San Remolo, pei rogiti di ser Giovanni del Guiduccio ordinasse che i suoi successori nel patronato della cappella suddetta accompagnassero i condannati alla morte e li confortassero con un panellino confetto di once tre. Messere Ieronimo, mio signore, abborrendo farsi vedere in cammino con un condannato, e per altra parte desiderando mantenere il lodevole costume dei suoi maggiori, mi manda a voi per presentarvi il panellino confetto, e la mancanza della sua presenza redime con l'aggiunta di questo nappo di malvagia.»

Dante credeva trasognare, ma poi l'ira lo vinse, e con dura favella domandò:

«E chi è cotestui che tu chiami signore? La prima volta è questa ch'io lo sento rammentare in vita. Non lo conosco...»

«Colpa vostra», riprese il maggiordomo; «avreste dovuto andare a trovarlo.»

«Colpa sua», interruppe con voce terribile il Castiglione; «colpa sua se, nascendo degli Amedei, ha fatto ignorare fin qui la sua esistenza in Fiorenza; — colpa sua se tanto è da poco di cuoprire la sua abiezione con la fama dei maggiori. Non so se il privilegio di cui parli sia vero; quando pure lo fosse, riporta al tuo signore il vino e il pane, e a nome di Dante da Castiglione Catellini Filettieri gli dirai essere cotesto privilegio cessato dacchè la casa Amedei si spense; ch'egli non deriva da loro, — che mentisce stirpe, e che io sono pronto a provarglielo a tutta oltranza con lancia e spada, a piede o a cavallo, prima che il sole tramonti.»

Lorenzo, curvo con la persona, gli occhi incavati, che i minuti adesso passavano gravi sopra il suo corpo come anni, si accosta al maggiordomo e con voce cupa gli dice:

«Fratello, gran mercè, — ma per qual cagione prenderei io cibo e bevanda? Non è questo un oggi senza domani per me? Nel giorno che succederà a questo dovranno le membra mie triste fare altra cosa che rimanersi ferme nella fossa? — Riprendi dunque cotesti alimenti... non versa la tesserendola nuovo olio nella lucerna quando sta per coricarsi... Riportali al tuo signore, e gli dirai dalla parte del condannato che i suoi maggiori ebbero per avventura carità, ma furono certamente stolti... forse non sapevano che al condannato non rimane altro sapore tranne quello della morte? Quel vino avrebbe sulle mie labbra il gusto del sangue; anche non fosse stato aceto e fiele quello che dettero a Cristo nella sua ultima ora, qualunque liquore gli sarebbe parso ben tale.»

«Va'», con mal piglio continua il Castiglione al maggiordomo, «e di' al tuo padrone che aggiunga quel nappo al vino che ha costume di bere: — così almeno diventerà qualche cosa, — forse un briaco!...»

Il maggiordomo uscì salutando con la solita gravità.

Passò altro tempo senza proferire parola; adesso sporgendo attento le orecchie il Soderini mormora numeri progressivi e dice:

«Anche di un'ora mi sono accostato al supplizio.»

«Io non ho inteso nulla», soggiunse il Castiglione.

«Ah! messer Dante, i sensi prossimi ad abbandonarci diventano più perfetti, come il cuore pronto a cessare di battere estende e moltiplica i suoi palpiti; voi lo sapete, anche a Dio parve fuori di misura amaro il calice della ultima ora e pregò il Padre di allontanarlo dalle sue labbra: — arguite da ciò s'egli sia angoscioso. Ma pensiamo a morire, soggiunse scotendo tristamente la testa; — venitemi accanto, messer Dante, qui; — porgetemi ascolto, chè dalla gola m'esce piccola voce, e mio malgrado la lena mi manca. — Del conforto che, abbandonandomi tutti, vi compiaceste compartirmi, vi rimeriti Dio, ch'io nè con parole nè con altro posso. — Se di tutt'altra morte io mi morissi e per diversa causa, io vi direi, — e qui si trasse un anello dal dito, — messer Dante, portate questo in ricordanza di me; e voi lo porterete per amor mio; — ma io non ho diritto di raccomandare la mia memoria; — si raccomandano ai superstiti le cose infami? — Via da me questo superbo desiderio»; e così favellando gittò in un canto della cappella l'anello: «dimenticatemi...»

Di nuovo silenzio; alla fine del quale, a voce più fioca, quasi con pena continuò:

«Messer Dante, voi ve n'andrete, vi scongiuro, da mia madre»; e poi, come se avesse fatto uno sforzo superiore alla sua lena, si tacque.

... affrettatevi... volate... Viva la Repubblica di Fiorenza! Morte all'impero... Cap. XXV, pag. 577.

Il Castiglione, con gli occhi chini al pavimento, aspettò lungo tempo che il Soderini continuasse. Poichè ebbe invano aspettato, egli stesso riprese con suono di voce che studiò rendere quanto meglio poteva soave:

«Andrò da vostra madre...»

Lorenzo trasalì, curvò la persona, gli occhi strinse e le mani e non potè proferire parola.

Chi può ridire il dolore che Lorenzo soffrì in cotesto istante supremo? Il suo corpo non meno che la sua anima stette percossa dall'atroce catalessi. Quando pure potesse descriversi, le lagrime cancellerebbero l'inchiostro, la mano tremante impedirebbe si formasse la parola; — io passo questo momento senza narrarlo.

E nondimeno volendo Lorenzo esprimere quel suo concetto, per riuscirvi cominciò da più lungo circuito e riprese a dire:

«Io già sono morto; la pena mi ha colpito prima della scure: in faccia alla legge, la terra raccolse le mie ossa; — l'estremo bene concesso ai moribondi mi è negato; — io non posso fare testamento; nè ciò mi duole perchè mi premesse beneficare amico o parente: in questa ora mi accorgo avermi circondato lusingatori pessimi, non amici; — ma sì perchè avrei voluto istituire mia erede la Repubblica. — La Repubblica, — voi mi direte, — non ha mestiere de' tuoi doni, e lo so; ma io la supplicherei, quanto meglio umilmente potessi, a non rifiutare le mie sostanze, — le accettasse come offerta espiatoria, come testimonio di pentimento che non cesserà con la vita. Ciò che mi è conteso faccia la madre mia; finchè vive ella goda dei miei beni; — ella però vivrà poco, — non istarete gran tempo a riaprire la lapide del domestico avello per lei: mal si accosta alla bocca il pane bagnato di lacrime, o se pur vi si accosta, non si converte in alimento, sibbene in veleno dentro le viscere... Messer Dante, voi andrete da mia madre e le significherete questa mia volontà; — ditele come la sicurezza mia che per lei venisse soddisfatto questo mio desiderio empiva di pace gli ultimi istanti della mia vita... Ella mi ha amato sempre..., e lo farà...»

Ad un tratto Lorenzo stende la mano verso la daghetta di Dante e trattola prestamente si allontana. Il Castiglione gliela vedendo brandire, caccia un urlo ma non si muove. Lorenzo, reciso che s'ebbe una ciocca di capelli, gliela rigetta sul letto e muove le labbra a mesto sorriso.

«Non temete, io non posso uccidermi, — sarebbe aggiungere a delitto delitto. Dopo la colpa di avere tradito la patria non mi rimane altra colpa a commettere che sottrarmi alla sua sentenza: no, il mio capo mozzo dal carnefice giova che dia salutevole esempio a chiunque tanto fosse infelice da seguitarmi nel misfatto, — ed io per certo non vorrò privare la patria di questo spediente per atterrire i traditori, perocchè, Dante, — vedete se ridotto a tale estremo io volessi ingannare nessuno! — assicuratevi che io non era il solo nè il più terribile degli altri: — guardatevi dal Malatesta. — Ora, messer Dante, voi recherete questi miei capelli alla mia genitrice e le direte che avrei voluto mandarle il cuore: — ella avrebbe allora conosciuto che se il cuore di suo figlio fu infedele alla patria, non lo è mai stato per lei, — che i suoi ultimi palpiti furono per Dio e per lei; epperò non gli dia al vento, ma se li serbi per sè sola nel seno ch'io ho ferito di tanti dolori, — che gli abbia cari, che pensi a me, — che viva, non posso raccomandarle felice, — e non mi maledica... Anche una grazia Dante, una sola grazia, — e poi le mie labbra non favelleranno più di cose terrene; — io non ho diritto a domandarvela, e non pertanto la pretendo da voi; — me la farete, Dante? — Dite che me la farete...»

«Parla, e Dio non mi accolga in luogo di salute se io non te la faccio, perocchè l'angoscia ti abbia rigenerato, e i tuoi pensieri appartengano al paradiso. Spera; — il pentimento ha il suo battesimo, come l'ha la speranza, ed anche al caduto resta una gloria, ed è questa: poter dire rilevando il capo dalla polvere: Detesto la colpa.»

«Sentitemi dunque: quando udrete insultare la mia vecchia madre..., difendetela voi, trattenete le mani dallo avventare pietre su quella testa che non ha più lacrime e pure trabocca di affanno; — fate osservare che i suoi capelli, più che per gli anni, diventarono canuti per una disperazione che non ha misura; — impedite il popolo di sfasciarle la casa[279]; se in lei albergò un traditore, adesso è stanza di madre sconsolata; — perchè io la feci tra tutte le femmine la più infelice, non dovrà avere un riparo per riparare il suo corpo dalle intemperie delle stagioni? — Ella non ebbe parte nel misfatto del figlio nè deve renderne ragione: deh! almeno morto io non le debba essere causa di amarezza. Se poi vorranno ad ogni modo sfasciare la casa..., il cielo vedrà più scoperta la sua miseria, e ne sentirà prima compassione... Oh quanto fui scellerato!...»

«Spera», riprende Dante e gli pone ambe le mani in atto amorevole sul capo; «quanto di nobile si contiene in Fiorenza consolerà la tua genitrice; — anche i tristi rispetteranno lo spasimo di una madre senza fine dolorosa; sulla testa piegata dall'Eterno non deve posarsi mano mortale.»

«Ah! consolatela! parlatele d'un premio che diventa maggiore pei patimenti sofferti, — mostratele sempre il cielo, ond'ella non abbia ad abbassare gli occhi e vedere la fossa del suo figliuolo maledetta; — beata lei, se non le s'inaridisce il fonte delle lacrime! — Infelice me, che in ricompensa dei mali per me sofferti non posso altro migliore bene desiderarti che la facoltà di piangere!... Ahimè misero!...»

E qui tornava alle lacrime e tra il pianto ad ora ad ora veniva sclamando:

«Senza speranza di salute eterna! — infamia e supplizio interminabili!...»

Dante racconsolava cotesta smania e rispondeva.

«Confortati, Lorenzo, non disperarti; Dio non ti sarà più severo di quello che ti sieno stati gli uomini... le tue lacrime hanno estinto l'accusa; mira, Cristo placato ti apre le braccia.»

Si mitigò lo spasimo nel Soderini, cessarono le lacrime, si rimasero i singulti; una specie di letargo investì quel corpo spossato.

In mezzo a cotesto silenzio squillò più acuta la voce del bronzo che annunziava la penultima ora destinata al supplizio. Dante fremè per tutte le membra, volse lo sguardo pauroso sopra al Soderini e respirò più libero lo vedendo assopito:

«Dio lo ha perdonato», pensò tra sè, «poichè gli risparmia anche questo dolore.»

Nell'alzare degli occhi ecco vede presentarsi sopra la porta due strani sembianti, — il cappuccino e il carnefice: — parvero quasi la lingua biforcata vibrata da vipera in furore: — uno, quello del cappuccino, era pieno di angelica bellezza; l'altro, del carnefice, sembrava uscito dall'inferno; eppure in quell'ora male avresti saputo distinguere qual fosse stato dei due più sinistro dell'altro.

Vedendo che s'inoltravano per isvegliarlo, Dante si fece loro incontro e prendendo ambidue per le mani li trasse indietro favellando sommesso:

«Non lo destate.»

«E la confessione?» replicò il cappuccino.

«E il supplizio?» soggiunge il carnefice.

«Uditemi», riprende il Castiglione: «l'ufficio vostro in parte è uguale; voi, frate, dovete sollevargli lo spirito, — a te, carnefice, spetta di risparmiare dolori al suo corpo. Se il suo spirito ricava d'altronde che da voi, o frate, la sua pace, il vostro ufficio torna inutile, come lo sarebbe il tuo, o carnefice, se in questo punto ei morisse. Frate, non gl'invidiate il sonno; Dio sa come l'anima nostra si consoli meglio dell'uomo assai, nè quel sopore lo addormenta senza consiglio divino; voi fareste contro al vostro ministero svegliandolo, poichè lo contristereste; pregate basso; lo sovverrete quando vi chiamerà. Per te poi, o carnefice, se il cielo abbia sede anco per te dubito forte: ma se tu speri nella misericordia divina, aspetta senza moverti dal tuo posto che la giustizia umana ti getti una vittima da sagrificare, e aspettala col cuore mesto, come se la sventura ti aggiungesse; e sappi che qualunque passo tu moverai incontro alla tua vittima, quel passo come delitto ti sarà contato nel libro delle colpe.»

Il cappuccino piegò umile il collo e rispose con voce soave:

«Fratello, la vostra parola è buona; aspetterò che mi chiami; intanto io pregherò per lui.»

Il carnefice si accovacciò come un mastino minacciato di percosse e brontolava tra i denti:

«Alla fine dei conti il mio viso somiglia quello degli altri; — prima o poi mi ha da vedere e sentire.»

Quando Lorenzo si risvegliò, si guardò ansiosamente dintorno e non vide più il Castiglione: un suono languido gli uscì a fiore di labbra che disse:

«Ahimè sono solo! — Mi hanno tutti abbandonato!»

«Dio è con te, fratello!» rispose il cappuccino, e gli pose davanti gli occhi il crocifisso, il quale preso tosto dal Soderini, lo baciò con intentissimo affetto.

Sonarono le quattordici.

La porta del palazzo dei Signori dal lato della dogana fu aperta; ne usciva prima una banda dell'ordinanza con la fronte spessa di uomini; i tamburi battevano scordati; la campana grossa del comune empiva l'aria a tocchi lenti che parevano singhiozzi, — le rispondeva la campana del Bargello, sicchè avresti detto essere coteste due campane le prefiche della patria che lamentavano la morte di un figlio scellerato. Subito dopo la milizia seguiva la compagnia dei Neri; l'antesignano portava il Cristo con la faccia rivolta verso i condannati; — dalle mani, dai piedi, dal costato e dalla testa pareva che grondasse sangue, — immagine terribile di compassione e d'orrore! — Al termine della compagnia venivano Lorenzo Soderini e frate Vittorio Franceschi. Menare un frate al supplizio non fu anche pei tempi che correvano cosa agevole e piana, avvegnadio, quantunque allora come ora i Domenicani detestassero i Minori Osservanti, questi gli Agostiniani, gli Agostiniani gli Olivetani, catena di odio interminabile, pure, fatta adesso causa comune non pel frate, dicevano essi, ma per l'ordine, scombussolavano il mondo perchè ne uscisse pel rotto della cuffia; — e le dicerie che andarono d'attorno erano state infinite: ai deboli cacciavano addosso la paura dell'inferno, agli altri il sospetto della divisione e dell'abilità fatta alle armi imperiali di penetrare in Firenze se nasceva trambusto; e sarebbe nato di certo, ma gli Otto, non badando il dire, avevano molto bene atteso a fare e mandavano il frate così vestito dei panni della sua religione al patibolo.

Si presentava appena la processione a capo di una contrada che la gente a furia chiudeva le botteghe, le donne forte sbattevano i balconi, ognuno si affrettava a ripararsi altrove, e ciò per la superstizione che se gli occhi del condannato si fossero incontrati nei tuoi, ti portavano malaventura; la quale però, anche nel caso che siffatto incontro fosse avvenuto, poteva di leggieri evitarsi col toccare immediatamente un'altra persona e rigettarla sopra di lei[280]. Le strade per cui procedevano, comparivano deserte; sembravano fuggissero tutti dall'aspetto dei traditori.

I condannati camminavano con passi incerti; frate Rigogolo poi aveva sembianza di ebro. Da una parte il cappuccino, dall'altra un battuto, i quali gli sostenevano sotto le ascelle e di qua e di là ponevano loro davanti gli occhi tavolette con immagini, affinchè non si distraessero dalla preghiera e riposassero gli occhi sopra oggetti dolenti.

Il cappuccino che confortava Lorenzo gli ripeteva con molto fervore:

«Sperate, sperate, — Dio vi apre le braccia.»

E il Soderini tutto umiliato gli andava rispondendo:

«Io spero...»

Ben altramente camminava la bisogna con frate Franceschi: — a lui pure il frate assistente favellava di paradiso, di perdono, di Cristo che lo aspettava a braccia aperte, di angioli che stavano ad ammanirgli la palma del martirio. Ma frate Rigogolo con un tal suo aggrinzamento di bocca come chi mangia limone, mostrando disdegno, con piccola voce diceva:

«Non mi state mo' a rompere il capo; assai ne ho con questo volermelo levare senza misericordia dalle spalle, perchè voi veniate a metterci la giunta delle vostre parole sceme. Eh! frate mio, rammentatevi che frate sono pure io e che conosco quanti paperi vanno al paio; se voi andaste a contare le vostre novelle ad un altro, pazienza! Lo comprenderei ancora io; — ma che veniate a contarle a me che sono del mestiere! — Davvero gli è tempo perso. — Dunque mi dite piuttosto, se a levarmi di mano a questi giudei ci hanno pensato. — Si sono uniti? Le armi le hanno pronte?»

«Affrettate il passo. Gli spettabili signori Otto hanno ordinato che alle quindici ore sia spedita ogni cosa.»

Queste parole dette dal sergente maggiore della milizia fiorentina interruppero il tristo frate.

Alle quattordici circa e tre quarti giunsero presso la porta alla Croce, dove avevano innalzato il patibolo. Lorenzo Soderini, soffermatosi a piè della scala e alzati gli occhi, gemè dal profondo.

«Fate cuore, fratello», lo avvertiva il mansueto cappuccino, «non è mai troppo dolorosa quella scala che mette al paradiso.»

Di repente, una femmina prossima alla vecchiezza, di nobile portamento, vestita a corruccio, sbuca di sotto al palco: e si pianta ferma davanti al Soderini presso la scala.

«Sgombrate il luogo, femmina....»

«Io! — Io sono colei che mette posta maggiore in questo giuoco di sangue.»

«Ahi madre mia!» urla Soderini, e si voltola smanioso ai piedi della sua genitrice.

Ella poi non muta positura e nè anche sembiante; immobile e severa favella:

«Qui ti aspettava.»

«Per pietà trascinatemi al supplizio; — chiudetemi presto gli occhi, — fate che i miei orecchi non ascoltino....»

«I tuoi orecchi non cesseranno di ascoltare prima che dentro loro risuoni una parola. Solo hanno potenza i genitori di proferire questa parola, ma ella porta seco la sentenza di morte contro l'anima — ella continua a perseguitare oltre la fossa lo scellerato che la provocò....»

«Ah! non la dite, madre, questa parola... il cielo vede il mio pentimento, — apritemi il cuore, vedetelo anche voi... e non mi maledite.»

«Donna, la polvere presumerà più del suo Creatore? Perdonate questo infelice; — Dio lo ha già perdonato», diceva il cappuccino.

«Se Dio ti ha perdonato, se detesti la tua colpa, allora anch'io ti perdonerò: tu mi nascesti dilettissimo e solo, — tu dovevi essermi corona di gloria, — tu mi sei stato corona di spine; — tu hai morso le mammelle che ti davan il latte. — Se sei pentito, il seno di tua madre ti fu di guanciale nel nascimento, te lo sarà anche in morte. Ecco, ti abbandonano tutti... anche Dio, — ma tua madre non ti abbandonerà, — salirò teco la scala del supplizio... perocchè la madre non si vergogni mai del suo figliuolo.»

Gli astanti piangevano: solo veniva interrotto quel pianto dallo stridere che faceva le scure acuita dal carnefice con la pietra nel modo stesso che fanno i mietitori.

E la madre continuava:

«Oh Vergine santissima, vedi, io sono più derelitta di te; tu sapevi il figliuol tuo morire a torto, — sapevi ancora aspettarlo risuscitato una gloria per secoli senza fine...» — E poichè il figlio continuava a piangere: — «Perchè piangi? Tu mi hai resa la più misera tra tutte le donne, — eppure io non piango. Io ti aveva dato il mio sangue perchè tu lo trasmettessi ai tuoi figliuoli e non perchè me lo rendessi esecrato sopra un patibolo; io ti aveva donato tutte le mie sostanze, ed ora vuoi che raccolga la tua lagrimevole eredità come un peso che le mie spalle non possono sostenere, come un ferro infuocato che mi brucia le mani. Vieni, ti precederò al supplizio; se io non seppi insegnarti a vivere, deh! fammi contenta imparando a morire da me....»

Nessuno ardiva opporsele. La disperazione della madre esercitava sopra tutti i circostanti virtù di fascino. Il carnefice ardì stendere la mano per trattenerla; — la donna dignitosamente superba lo respinse e subito dopo si trasse il guanto e glie lo gettò nel volto dicendo: «Carnefice, rammentati che tu devi toccare soltanto col ferro.»

Sventurata! Ora pone la mano sotto le braccia del figlio, e lo sovviene a salire.

«Pensa un po'», gli mormorava agli orecchi, «qual cuore sia il mio! Certo il piacere ineffabile che provai quando, affidando te povero infante alla balia per recarti al battesimo, le raccomandava badasse bene fosse tepida l'acqua che ti avrebbe il sacerdote versato sul capo e poco il sale che ti avrebbe posto sopra la bocca, — quel piacere, dico, è ben pagato, — troppo pagato eh! col dovere adesso raccomandare quel medesimo capo al carnefice perchè... te lo spicchi prestamente dal busto... con un colpo solo. O figli! voi non pensate alle vostre madri; imperciocchè, se la metà dei dolori che soffrono per voi vi fosse manifesta, non le travagliereste come fate. Tu sapessi quante volte, tardando a ridurti alle nostre case, se mai udiva per la notte sonare a disgrazia la campana della compagnia del Tempio, come cotesti squilli mi paressero voci interrotte della tua agonia, ed ogni squillo mi fosse una coltellata nel mezzo del cuore: ma ormai al passato non pensiamo più oltre, al presente nè anche: il nostro presente appena lo segna il sole sopra la meridiana; avvertiamo al futuro; se mai non mi uccidesse il dolore, mi aspetti la tua anima, perchè, senti, grande veramente è la misericordia di Dio, ma anche il tuo peccato è fuori di misura grande; ti sei pentito, sta bene; ma se ti accogliesse in paradiso, io temerei che Giuda mandasse dal profondo dell'inferno una voce a Dio che dicesse: Anch'io mi sono pentito; perchè non mi togli da questi tormenti, dove patisco da mille cinquecento e trent'anni? — Ma Giuda forse non ebbe madre che supplicasse per lui; aspettami, tu l'hai e oltremodo sventurata; io ti raggiungerò ben tosto... non piangere! Mi desidereresti per avventura la vita? In ciò che mancherà al tuo pentimento suppliranno i miei spasimi. La Madre celeste, che anch'ella vide pendere il suo figliuolo dalla croce, conosce a prova un'angoscia che altrimenti non si potrebbe immaginare, ed intercederà per noi. — Ecco siamo giunti.»

Il carnefice si accosta per bendargli gli occhi.

Il cappuccino, baciandolo, gli ha detto:

«Andate in pace.»

La donna parla di nuovo al carnefice:

«Fosse la tua anima dura quanto la tua accetta, ascolterà nondimeno una preghiera. Sono io la madre che nove mesi l'ho portato, che col mio latte l'ho nudrito; io, che, le intere notti ho vegliato a mitigare le sue doglie infantili, a ventilare l'aria d'intorno alla sua culla, perchè placido dormisse i suoi sonni; — io, che, lui morto, non ho più nulla sopra questa terra; io che, per dimostrargli l'amore immenso che per lui ho sentito e tuttavia sento, mi trovo ridotta a supplicarti, come si fa i santi, che tu... carnefice... assesti bene il colpo... non me lo straziare!... soffra meno che si può... se un rincalzo molle sotto al suo capo può... rendergli il colpo meno penoso, vi porrò le mani... vuoi? Non vuoi. — Ebbene, mi rimarrò. E se la preghiera non giova, prendi... questi sono fiorini... ti basteranno sei mesi a nudrire la tua famiglia... Lorenzo, l'ultimo bacio su questa terra... fra un istante ci rivedremo in cielo....»

Il Soderini si è genuflesso, il capo ha deposto sul ceppo. La madre sta in piedi alla sua destra, il carnefice dalla sinistra. Questi solleva la scure....

Perche non vibra il colpo? Qual mai forza lo trattiene a mezzo? Gli manca per avventura l'animo? No; egli ne ha spacciati ben molti da questo mondo. — Nell'abbassare la scure egli incontrava gli sguardi della madre. La virtù che immaginarono i poeti emanasse dalla testa di Medusa, e i naturalisti raccontano da certi serpenti dell'Asia, adesso provava il carnefice; quegli occhi gl'impietrano il sangue nel corpo, — gli pareva di fare, — e forse faceva disperati sforzi, nè gli riusciva pure di un pelo declinare le scure. Allora penso gli avesse soffiato addosso qualche gettatura, e per malignità d'incantesimi lo avesse costretto a rimanersi tutta la vita senza potersi punto muovere da cotesta terribile attitudine; e a questa paura straluna gli occhi — i capelli gli si drizzano come stecchi sopra la fronte.

Forse queste cose tutte avvenivano in meno di due secondi: mutata positura, il carnefice si accorse rimanergli libero l'esercizio delle membra; — non pertanto abborrì cimentarsi di nuovo sotto lo sguardo della trucissima donna; — pianamente si volta dall'altro lato e fa sì che le rimanga dietro le spalle; — guarda davanti a sè per sospetto, — non vede nessuno; — si avaccia con tale un moto che parve di rabbia, e aspirando col seno capace largo tratto di aria, solleva con ambe le mani la scure.

Il Soderini aveva cominciato una invocazione; la prima sillaba uscì chiara e distinta, la seconda no, perchè fu proferita dalle labbra di un capo che rotolava sanguinoso sul pavimento del patibolo.

La madre si mosse incontro al capo per impedirgli che traboccasse dal patibolo giù sopra la piazza, ma all'improvviso cadde quasi fulminata. Ella gittò uno strido che percosse come dardo le orecchie degli astanti; — quell'urlo corrispondeva all'ultimo palpito di un cuore spezzato.

Poi andarono pel frate: senonchè questi, sperando nel soccorso di un qualche tumulto, s'ingegna differire, quanto meglio per lui si può, il momento del supplizio. Le mani aveva legate; co' morsi si affatica, co' piedi e col capo; — prega, minaccia e bestemmia, muggisce di affanno; male gli giovano i conati; — comechè reluttante, lo trascinano a forza.

Il popolo, il quale ha sempre plaudito il gladiatore che muore con sembianze animose, vilipeso il codardo, non frenando lo sdegno alla vista di cotanta viltà, irrompeva con urli e schiamazzi da scuotere la terra: «Taglia, taglia....»

Soldati in copia avevano mosso a vedere cotesto spettacolo, e poichè sapevano i cittadini vivere in sospetto di loro, temerono fosse quello il segnale della strage; i cittadini ebbero per le medesime cause uguale paura, e tu avresti veduto all'improvviso in quel mare di popolo una frotta correre in un senso, un'altra in un altro, simile a correnti di mare; e quando venivano a urtarsi come i cavalloni che si spezzano contro gli scogli, andavano all'aria cappucci, elmi, lembi di vesti, e tra mezzo alla tempesta vedevi alzarsi e calare bastoni, coruscare qualche spada; inoltre un rovinio, un muggito simile anch'egli al fragore delle acque sconvolte. Tra le voci discordi superava quella di tradimento; la città tutta si levò a rumore, — il frastuono corse fino al palazzo dei Signori, i quali, adunatisi per provvedere al pericolo, dettero ordini di chiamare la milizia. Nel qual caso, scrive Benedetto Varchi gravissimo storico, si conobbe quanto valgano le armi bene ordinate in una città, avvegnachè i giovani ad un tratto e di quieto si ridussero ciascuno al suo gonfalone, e arrivati sul luogo, parte con buone parole, parte con migliori fatti, sedarono il tumulto. Il popolo a mano a mano si dilegua; dopo breve ora nessun altro testimonio avanzava dal naufragio tranne alcuni cadaveri talmente pesti che mal si sarebbe distinto a quale specie di animali appartenessero.

Fu biasimata molto cotesta giustizia eseguita in quel luogo ed in cotesta ora.

Il giorno appresso apersero l'avello di casa Soderina e vi calarono prima un corpo mutilato, poi una donna e per ultimo una testa. Il manigoldo aveva in un colpo troncato due vite[281].

La pubblica compassione allo spettacolo di tanta miseria rimase profondamente commossa; una mano pietosa pose alla desolatissima madre la lapide. Sul principio del secolo passato se ne leggeva ancora una parte la quale diceva così:

. . . . . . . . . . . IVSTAM. FILII. NECEM. ADPRECARI AC. FERRE. NON. POTVI. . . . . . . . . . . IN. VITA. IN. MORTE. IN TVMVLO COMITAVI. ILLVM. . . . . . . . . . . A. CAPITE. FILII. MISERRIMI MOERORE. MATERNO AVERTE. IRAM. DEI. PUNTISSIME. VIATOR.

Ai tempi nostri non m'è riuscito rinvenire questa lapide; certamente tra tanto volgere di vicende rimase distrutta con altri incliti monumenti di storia patria.

CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO IL CALCIO

«Deinde illis omnibus qui cubantes in lectulis suis somniant somnium de universali felicitate filiorum Adam in terris et expectant libertatem civitatis ab æquitate potentiam, abrumpe somnium et spem, et dic unicuique.»

«Quindi a coloro tutti i quali prostesi sui giacigli sognano il sogno della universale felicità dei figli di Adamo sopra la terra, e libertà aspettano dalla giustizia dei potenti, il sonno rompi e la speranza, e favella a ciascuno.»

Hypercalypsis Didymi Clerici, c. 18, v. 26.

Una falsa dottrina ha preso per somma nostra sventura a mettere le barbe negli ingegni della presente generazione italiana; ma tanto mi affido nel genio della bella contrada che spero non avranno tempo da diventare radici. Traviando dietro deplorabili vaneggiamenti ai quali imposero il nome specioso di scienza trascendentale, abbandonarono i severi precetti della pratica filosofia per correre dietro ad astrattezze di cui il meno che possiamo dirne si è che tornano inutili. Per me ho tenuto sempre questi strani cervelli in concetto di uomini incompiuti, ermafroditi intellettuali, cioè nè osservatori nè poeti; se osservatori, tu li vedresti speculare argutamente i casi umani, dedurne le poche conseguenze sperimentali capaci di applicarsi ai bisogni degli uomini, comporne un libro d'istituzioni accomodato allo intelletto comune, non già misteri cabalistici dove nè Dio nè il diavolo comprendono parola; se invece poeti, anzichè immaginare inabile congerie di strumenti, di ruote, di suste e ordigni altri siffatti incapaci a imprimere un moto qualunque, i morti dalle antiche sepolture evocherebbero, a favellare delle virtù e delle colpe passate con la magia dell'ingegno costringerebbero, dalla intera natura colori per avvivare i canti loro raccoglierebbero, e poi o Anfioni edificherebbero Tebe, o Timotei Persepoli incendierebbero. Essi, all'opposto, come Curzio, si cacciano nella voragine, non già per salvare, sibbene a perdere le menti in infelici sofismi: nella vertigine incomposta dei pensieri loro, afferrata una nuvola, si affaticano a foggiarla nel sembiante del Giove di Fidia, e un soffio leggiero di vento gliela converte nel più grottesco diavolo che dipingesse il Calotta nella Tentazione di santo Antonio. Icari dalle penne incerate, volano per cadere, — ogni nome di essi indica un errore, ogni sistema un grado di avvicinamento alla follia. Questa è la storia dei libri di siffatti empirici che hanno tolto il nome di filosofi. Tale tra loro in molti volumi s'ingegnò di provare l'uomo nascere incredulo, la scienza farlo scettico in prima, poi condurlo alla fede, — altri altre cose. Sortimmo noi la facoltà di pensare per disperderla in giuochi siffatti di spirito? E poi hanno preteso descrivere Dio, le leggi della creazione, e stampare la carta topografica dell'anima con la famiglia delle passioni e delle idee. Fossero stati almeno cotesti loro sogni leggiadri! Ma no, tenebrosi, confusi a guisa di deliri, spossano l'anima e la infastidiscono miseramente. Sempre nel disegno di sostituire i propri vaniloqui alla esperienza, parlarono di morale e di politica. Qual morale! Qual mai politica!

Non si adoprarono già a temperare l'orgoglio dei fortunati con la evidenza di un fine comune, — non intesero a sollevare gl'infelici con la speranza di più nobili destini, — non ispesero l'opra a provvedere all'effettuale miglioramento di tutti, — no; pretesero provare ottime le condizioni presenti della umanità; non dissero al caduto: Sorgi. — bensì invece: in cotesto fango tu stai da principe, rimantivi e godi. — Almeno il maligno di Ferney nel suo Candido rideva; questi poi favellano come se si fossero accomodati sul tripode della pitonessa.

Avrei voluto non rammentare nomi, ma non mi riesce tacere del Degerando. Immaginatevi, se vi dà il cuore, costui ridotto nella quiete di stanza riposta davanti un banco elegante, tepide le membra per un bel fuoco, il capo e i piedi coperti di pelli o di seta, senza pure sorridere, dettare le seguenti sentenze: «Il cavatore che, sepolto nelle viscere della terra, del continuo percuote il duro sasso, sembra piuttosto patire un gastigo che esercitare industria; il minatore vede la sua esistenza rianimarsi, una luce più pura di quella del giorno ch'ei contempla lo rischiarerà nel seno delle caverne sotterranee, riprenderà lietamente il grave arnese caduto dalle mani spossate e dirà a sè stesso: Ed io pure adempio alla santa legge imposta dalla natura! E per me pure la vita è preparazione a più alti destini[282]

O Degerando! non andate a tenere questo proposito al minatore; imperciochè s'egli riprenderà il martello caduto dalle mani spossate, sarà per darvelo sul capo: e farà bene. Povero minatore, intendi tu queste belle parole? Degradato alla condizione del bruto, e peggio del bruto, imperciocchè egli almeno goda l'aspetto del cielo e cibi sul prato l'alimento acconcio al suo corpo ed abbia sortito dalla natura una pelle che lo ripara dai rigori del freddo; e tu, infelice minatore, col cervello inselvatichito, con l'agonia della luce, del cibo, della bevanda, di tutte le necessità, ti placherai a siffatti conforti?

O Degerando! perchè non vi volgete piuttosto alle passioni dei potenti e non gli ammonite a rinunziare ai metalli che cava il minatore? Perchè non insegnate a costoro rispettare la immagine di Dio, rimovendone il piede dal collo avvilito? Quando celebrerete l'uomo uguale all'altr'uomo, — quando direte la umanità non essere nata onde una parte di lei sia più che numi, un'altra meno che bestie; allora sì che vi saluterò filosofo davvero. Che se le condizioni della pervertita nostra natura non consentono miglioramento, allora tacete. Non accrescete ai dolori di questa maledizione che si chiama vita il fastidio delle vostre voci. Nella schiavitù di Babilonia, le vergini di Giuda appesero l'arpa al salice — e piansero.

Negli ultimi tempi una simile filosofia, ch'io volentieri chiamerei narcotica, più che altrove intorpidì l'Alemagna. Colà il sospetto aveva posto un puntello sotto il mento degli uomini e costringeva le teste a starsi rivolte verso le nuvole, — temeva gli sguardi si chinassero alla terra. Goethe, ingannato, o ingannatore, a modo di mago aveva descritto un cerchio e contendeva agli spiriti affollati oltrevarcarlo. Allora quelle profonde menti tedesche, mancando gli argomenti pratici, consumarono la copia della interna energia in astrattezze infinite, in deduzioni di deduzioni, in serie interminabili di vertiginose fantasticherie. Ma Goethe, il quale gravitava con la propria gloria sopra il suo paese a guisa di vampiro, cessò: sciolto è l'incantesimo, il circolo rotto: il braccio della tirannide diventò paralitico, e l'ingegno tedesco già scende terribile gladiatore nell'arena del concreto. Ora volgono pochi anni, e la filosofia germanica assume forme convenienti ai bisogni; già muovono guerra agli edifizi feudali, imperciocchè quivi bene abbia il secolo crollati i castelli dei baroni, ma non ancora la ragione distrutto le leggi della barbarie. Scopo presente è la rovina; rifabbricheranno poi; ora non deve rimanere pietra sopra pietra. Secondi la fortuna i migliori! A savio cominciamento conséguiti fine propizio! Essi hanno inteso il precetto di Cristo: Guai a chi appone la toppa nuova al vestimento vecchio![283] — Le paurose riforme, i provvedimenti codardi alla immensità dei mali antichi paiono giunchi posti a riparo del mare in burrasca. Sceglievasi forse tra paralitici o tra infermi il sacrificatore che immolasse di un colpo la vittima davanti all'altare di Giove? Non è questo lavoro delle figlie di Neottolemo; qui si vogliono la forza e la clava di Ercole: non vi pare ella questa nostra società più ingombra delle stalle di Augia? Badiamo di non lasciarci andare ai sofismi; abborriamo imbiancare i sepolcri, bensì scopriamoli e diligentemente rimettiamoli dentro. Altri popoli ci hanno preceduto nel bene; pensiamo allo spazio da loro percorso e non immaginiamo potercelo risparmiare; chi dice altrimenti ci porge consigli d'ignavia e ci tronca la via alla redenzione. La civiltà non procede a mo' di saetta, di cui appena ti offende il baleno, ed una casa già cade in cenere. Le grandi verità lasciano una ruga sopra la faccia del mondo; il parto della ragione a prima giunta conturba la terra quanto la morte di Dio[284]. Innanzi di giungere al paradiso non percorse l'Alighieri tutti gli orrori dell'inferno?

La nuova generazione si guarderà dal prosternarsi all'idolo cui già disertano i meno ostinati fra gli adoratori; noi le lasciamo un retaggio di falli e di colpe; — ne faccia senno e cammini per la diritta strada a noi nati e vissuti nelle tenebre procureranno i tempi pietà, non che perdono: in loro l'abuso dell'intelletto frutterebbe infamia di traditori. Può l'uomo tradire la patria ugualmente col pravo che con lo stolto consiglio. A noi la provvidenza concesse e vita e ingegno e sostanze non come nostra proprietà, sibbene come arnesi per contribuire al maggior incremento della patria. In quella guisa medesima che il castaldo nella stagione della messe raccoglie a sera dai mietitori la falce che loro consegnava sull'alba e gl'interroga come l'abbiano adoperata e quante biade mietuto; così la patria sul finire della vostra vita vi domanderà conto dei doni che vi aveva compartito. Contro i tristi e gli ignavi ella avrà due pene, — due pene soltanto, ma ch'ella sola può dare e poi imporre ai secoli che le confermino: la vergogna, o l'oblio.

Lorenzo trasalì, curvò la persona, gli occhi strinse e le mani e non potè proferire parola. Cap. XXVI, pag. 605.

Già io lo affermava poc'anzi, la morale e la politica compongono una medesima cosa: non pertanto, avvertendo come la morale domestica possa talvolta discordare nell'applicazione delle sue teorie dalla morale pubblica, o contendere con essa, ne hanno fatto una scienza a parte; ciò poco importa. Ma qui principalmente i sofisti deviando dalle tracce severe della storia non curarono esaminare gli uomini nel modo in che esistono, sibbene in quello nel quale vorrebbero farli esistere. Composto un sistema, si posero alla cerca di qualche fatto che valesse a sostenerlo; e o sia non darsi genere di assurdità che gli uomini non abbiano commesso, o sia qualsivoglia fatto tormentandolo possa presentarsi sotto aspetto diverso dal suo naturale, o sia infine che adoperassero mala fede nel riferirlo, non mancarono di aggiungere alla regola l'esempio: ma l'assurdità non somministra fondamento a speculare, e la tortura dei fatti si assomiglia all'opera di cotesto avaro che comperava la cornice prima della pittura, e se non vi capiva, la tagliava; — rispetto a mala fede poi, i filosofi dovrieno lasciarla ai falsari. Così invertito il metodo di ricavare dai fatti la regola concreta, alle regole astratte applicarono il fatto, e a questo cumulo di superbia e di errore imposero il nome di filosofia della storia, imperciocchè di titoli pomposi non patiscano penuria. Se quei loro vaneggiamenti non uscissero dalle coperture del libro, basterebbe non leggerli, e tutto sarebbe detto: invece si avvolgono strepitose per le scuole, — le menti facili dei giovani sorprendono; e quando giungono i tempi grossi, i sofisti, chiamati dai settari a far prova dei loro sistemi, si gittano col corpo traverso la civiltà e ne impediscono il corso.

La Francia sconta troppo amaramente l'inganno dei suoi sofisti, perchè noi d'ora in poi non ci guardiamo ben da giurare in verba magistri. Colà un sofista s'ingegnava accordare la legittimità con la libertà, — politico Mezenzio[285], e immaginava un sistema nel quale fosse concessione quanto doveva resultare da contratto bilaterale tra i due poteri legislativo ed esecutivo, tra popolo e principe: invece di tenere la potestà esecutiva emanazione della legislativa, rovesciate le cose, dava al cielo l'origine di una condizione umana che Dio riprovò prima del suo nascimento per la bocca del profeta Samuello[286]. Un altro sofista in cotesto infelice paese non seppe stendere la mente oltre il suo sistema foggiato sopra le antiche forme della costituzione inglese: quei nobili inglesi ravvisandole adesso squallide e viete, si affaticano a modificarle; egli giunse tardi, — non importa, — il secolo non deve procedere di un punto oltre il segno al quale arrivava egli. Se costui fosse vissuto ai tempi in che David peccò, quattro sarieno stati i flagelli minacciati dal profeta Natan, — peste, fame, guerra e Guizot. Certo, se la Francia avesse potuto scegliere, io per me penso che avrebbe tolto qualunque altro flagello, tranne cotesto arido calvinista. Non parlo di cui non ebbe pure il merito d'immaginare l' ecclettismo[287]. I sofisti hanno logorato il tempo a disputare su la forma e sul peso degli anelli, ma non ebbero mai nè intenzione nè potenza di rimovere le catene dalle mani di un popolo che libere intendeva alzarle al cielo per ringraziarlo della ricuperata libertà. Nè a vero dire essi soli furono i malaugurati sofisti. Tal visse a cui non era amica la morte: come Cesare sul finire della vita si gittava il manto sugli occhi; — egli ritardò, chi sa per quanti anni, i destini del suo paese con quel suo ghiribizzo politico di trono circondato da istituzioni repubblicane. Sarebbe stato più agevole comporre in pace i truci fratelli i quali chiusi nel seno della madre contesero, in vita si spensero arsi sul rogo l'odio immortale manifestarono bipartendo la fiamma che gli consumava, anzichè accordare repubblica e re. Tanto giovi a quest'uomo lo splendido mattino della vita che lo salvi dal biasimo di averne in siffatta guisa ottenebrato il tramonto; come parimenti desidero che rimanga esempio perenne, onde in processo di tempo si guardino i padri dal giudicare la causa di una generazione con le arguzie e i motteggi, e abborrano i figli da confidare le sorti di un popolo a menti affralite dagli anni.

Zanobi Bartolini sopra gli altri contribuì alla perdita della libertà della patria; non già che le fosse nemico, anzi ei l'amava, ma a modo suo e non senza vantaggio di sè. Gli altri, come Baccio Valori e Francesco Guicciardini, le nocquero meno, quantunque le procedessero apertamente avversi, perchè le suggestioni loro apparvero sospette e furono respinte; quelle invece del Bartolino benissimo accolte, movendo da persona che pensavano di ottima mente verso l'attuale governo. Era l'ingegno di Zanobi in apparenza pieghevole, in sostanza poi piuttosto ostinato che fermo; avendo egli composto un modo di società al quale da gran tempo non trovava da aggiungere o da togliere più nulla, chiuse lo intelletto dentro un circolo determinato, e nella maniera medesima che aveva posto al suo spirito le colonne di Ercole, così consentiva la umanità progredisse fino a quel punto e non più oltre; di là dal segno non sapeva immaginare altro che abisso e rovine. Superbo più che ad uomo non conviene, pose la sua parola contra l'onda popolare, stimò l'avrebbe rispettata. Dio solo ha potuto porre tra il mare e la terra una parola che si mantenne dal principio dei secoli fino a noi, quasi muro di bronzo alle usurpazioni del soverchiante elemento: quando un uomo, comunque re, comunque circondato di gloria terrena, ardì imporre leggi all'Oceano, questo gli rovesciò con la spuma il suo trono, gli empì la corona di alga, e se men ratto alla fuga era costui, col più breve de' suoi flutti gli avrebbe dato una sepoltura vasta quanto i suoi regni. Parlo del re Canuto quando, insuperbito dalle parole dei cortigiani che gli dicevano potere quanto volesse, ammantato di porpora comandò al mare che non oltrepassasse il suo trono innalzato sopra la sponda. Il Bartolino commosse il popolo contro i Medici allorchè si accorse i Medici attendere a regnare soli ed assoluti signori, e la tirannide non gli piaceva; nel moto del popolo poi egli non ravvisò argomento per mutare gli ordini vecchi dello stato, bensì all'opposto occasione di modificarli, — anzichè rottura non saldabile mai, una via di transazione; immaginò che i Medici, ammaestrati dagl'inefficaci tentativi (come se i principi nelle commozioni popolari piuttostochè insegnamento da seguitare non ravvisassero sempre e poi sempre delitti da punire), si sarebbero rimasti da toccare uno scettro a cui quante volte avevano steso la mano, tante se l'erano scottata; avrebbero consentito reggere come magistrati sottoposti alla legge ch'essi insieme con gli ottimati avrebbero promulgato; il principio popolare non doveva starsene mica senza rappresentanza nel consiglio; al contrario giovava che l'avesse, ma poca, come corpo che abbisogna di perenne tutela, buono a mantenere, non reggere lo stato. Quando all'opposto si accorse che il popolo intendeva, licenziati i sopracciò, camminare speditamente senza pastoie, lo tenne perduto; non potendo con la man fiacca governare il corsiero generoso, lo calunniò sfrenato, lo bestemmiò e lo maledisse: antichi vezzi rinnovati allora, rinnovati più tardi e giù giù per i tempi diversi fino a noi: cauto ed astuto deliberò rifare i passi, ma, dissimulator potentissimo, mantenne la consueta apparenza; solo in segreto raccolse intorno a sè tutta la fazione dei Capponi, e qualcheduno della Pallesca, disse sopraggiunto il tempo dei Ciompi, sentirsi piovere addosso gli ordinamenti di giustizia, non sapere dove si andasse a finire. A cui troppo bene voleva ascoltarlo parlava. I giovani nobili, i quali tanta caldezza mostrarono da principio, commossi dall'autorità dell'uomo e dalla gravità delle parole, adesso incerti da qual parte dovessero pendere, s'intepidirono, in seguito aggirati, dubitando nuocere alla patria, tenendo le sorti loro più oltre congiunte con quelle del popolo, se ne staccarono, finalmente gli si fecero avversi, come a nemico.

Malatesta trovò il Bartolino in siffatta condizione allorchè prima fece cascare sopra l'animo di lui una parola che lietamente accolta era seguitata da altre più aperte, e finalmente compita con promesse di aiutarsi l'un l'altro. Malatesta e Bartolino, mulinava il Bartolino (tanto è vero che in pelliccieria per ordinario occorrono pelli di volpe) dovevano andare insieme uniti ai più tardi nepoti, come salvatori della patria. Bartolino avrebbe condotto gli accordi; Malatesta rimasto con le milizie in Firenze, mantenuto l'osservanza dei medesimi finchè non si fossero le cose assodate da non far temere il tradimento; in ciò il Perugino ingannava Zanobi, non già che quegli superasse quest'altro in astuzia, chè anzi di gran lunga gli restava addietro; ma perchè lieve cosa sia ingannare chi già inganna sè stesso.

La invidia che i giovani nobili, specialmente l'Antinori, portavano profonda a Dante da Castiglione, contribuì non poco a separarli dal popolo.

L'Antinori finchè mantenne la speranza di poter superare il Castiglione, lo emulò lealmente; però, sentita che ebbe la propria impotenza a pareggiarlo, non che a vincerlo, prese ad astiarlo. L'astio, siccome questa perversa passione costuma che tiene della natura del cancro, appena nato gli divorò ogni affetto del cuore, gli inaridì qualunque altro o buono o tristo affetto. Comecchè il truce astio gli ribollisse dentro al cuore ardente e furioso, quivi stette contenuto alcun tempo prima di giungere agli orli estremi: pure vi giunse, e l'alito della coscienza che muore lo soffermò anche alcun poco su questa ultima parte; poi il suo angiolo custode torse altrove la faccia, e l'astio sgorgò, come torrente di veleno, per tutte le vene dell'Antinori, — la sua lingua dardeggiò mortale come quella del serpente, e dalla menzogna, dalla calunnia, dagli altri tutti assassinii della bocca s'incamminò all'assassinio della mano. Alle vecchie cagioni di odio che venni esponendo nel corso della storia un'altra se ne aggiunse e fu questa. Correva in Firenze l'usanza di giuocare nel carnovale al calcio. Le memorie greche, latine e italiane raccolte sopra cotesto giuoco lo affermano di origine antica; la quale cosa credo di leggieri ancor io, perchè, considerando com'egli principalmente consistesse in calci ed in pugni, penso queste essere nati gemelli con le mani e coi piedi, che ogni uomo sa esistere contemporanei al padre Adamo nel mondo. Il conte Giovanni dei Bardi, tra gli accademici della venerabile Accademia della Crusca il Puro Alterato, ce ne lasciava la descrizione scritta in lingua che fa testo per l'acconciatezza delle parole soltanto, perchè in ciò che spetta alla precisione, poco s'intende e a gran pena[288]. Costumava farsi simil giuoco sopra la piazza di Santa Croce: si divideva il campo in due parti uguali e si circondava di steccato: i giuocatori, sebbene il suddetto Alterato prescrivesse dovere essere ventisette per parte, trovo nel Varchi che quello di cui mi occorre far parola fu giuocato da venticinque. Si dividevano in quattro classi: i così detti Innanzi, che stavano presso alla linea partitrice del campo, gli Sconciatori venivano dopo, succedevano i Datori innanzi, chiudevano finalmente i Datori dietro. Vestivano leggieri e spediti di colori svariati, — rossi e bianchi, verdi e gialli, o simili; premio della vittoria una gioia, una veste, una bandiera. Ai due capi del campo alzavano due tende, dove stanziavano gli alfieri o capi delle parti, i quali appartenevano alle famiglie per chiarezza di natali e per fortune maggiorenti: questi mettevano tavola ai giuocatori e con ogni ragione rinfreschi gli regalavano: in processo del tempo sotto il principato vi si mescolarono burlevoli accessorii. Io ho sott'occhio una stampa rara che dimostra il calcio fatto in Firenze il dì primo maggio 1691, per le feste delle reali nozze del serenissimo elettore palatino del Reno, colla serenissima Anna Maria Luisa principessa di Toscana, dove tra i giuocatori pronti a pestarsi di busse la persona compariscono introdotti genii e amorini, poi Giunone da un lato ed Imeneo dall'altro, la prima in guardinfante, l'altro con un immenso morione di penne, entrambi abbigliati di manti a strascico; nè qui finisce: seguitano Giunone, Flora con quattro giardiniere, Minerva con quattro amazzoni e dodici ninfe, tutte, bene inteso, con guardinfanti ai fianchi e piume in testa. Imeneo si tira dietro sei sacerdoti (e qui sta bene, perchè non vi ebbe dio che tanto fosse dovizioso di vittime come lui), le tre Grazie e per ultimo sei Virtù, ch'io a confessarmi candidamente, non giungo a comprendere; solo vi scorgo una Giustizia, ma con certi bilancioni spaiati ch'io non mi attento quasi a sostenerla Giustizia, sebbene a bilance pari io in coscienza non l'abbia mai veduta fin qui. Or dunque il giuoco incomincia col battere della palla: un mandatore vestito di ambedue i colori della livrea batte la palla al muro, talchè subito risalti in mezzo agl'Innanzi, e si ritira. Gl'Innanzi accorrono tosto, e quanto più possono si affaticano a far propria la palla; se ad uno di loro viene fatto di côrla tra i piedi, gli altri si affollano attorno e lo difendono ond'egli possa avviarla agli Sconciatori; ma quando anch'egli arriva a distrigarsi dalla mischia; non così lieve troverà la via dal suo posto a quello degli amici Sconciatori, imperciocchè gli Sconciatori avversi ecco che gli correranno sopra di fianco e lo costringeranno a lasciare la palla, dove gli Sconciatori amici non lo sovvengano di prontissimo aiuto: bolle il conflitto; se la fortuna seconda i primi conquistatori della palla, dagli Sconciatori ella passa ai Datori innanzi, e questi o col calcio o col pugno stretto le danno con forza da spingerla oltre lo steccato di faccia. Quando poi, per la prossima pugna degli Sconciatori e degl'Innanzi, i primi Datori non abbiano comodo di bene assestare il colpo, inviano la palla ai Datori indietro; ai quali, siccome posti in parte tranquilla, è concesso agio di divisare il come e il dove indirizzarla. Possono ancora gl'Innanzi quando sieno veloci di gamba e gagliardi, prendere la palla e via correndo tra gli emuli destramente serpeggiando portarla dall'opposto steccato con bell'onore di vittoria; ma ciò pochi tentano, ed a pochissimi concede la fortuna di poterlo effettuare. Come ognuno pensa, ciò non avviene senza capi rotti, nasi pesti, occhi contusi e qualche volta costole fracassate; molto più che l'onorevole accademico Puro Alterato ci fa sapere come caschi nel gioco certa rifioritura a crescergli leggiadria giovevole il prendere, quando capita il destro, a traverso la vita l'avversario e sbattacchiarlo supino a stampare la sua persona sopra l'arena, o attraversatogli il passo con la gamba insidiosa mandarlo a rompersi i denti contro la terra: gioconde venustà, piccolezze urbane che mettono proprio addosso la voglia non solo di vederle, ma di pure provarle. Due passate laterali della palla, o falli, formano una caccia a danno di chi li commetta; una palla passata oltre lo steccato opposto fa una caccia, due, due cacce; allora suonano trombe e tamburi, e i giuocatori mutano di luogo.

I Fiorentini non vollero intermettere la usanza antica di giuocare il calcio nell'anno dell'assedio, e all'amore del patrio costume si aggiunse il desiderio di recare onta al nemico. Fecero pertanto sulla piazza di Santa Croce una partita a livrea, venticinque bianchi e venticinque verdi; premio della vittoria una vitella; e per essere non solamente sentiti, ma veduti dal nemico, misero i sonatori sul comignolo del tetto di Santa Croce, dove fu loro tratta da Giramonte una cannonata, che passò alta e non offese persona.

Tra i giuocatori erano Dante da Castiglione dalla parte dei verdi Sconciatori presso il muro, e il Morticino degli Antinori dalla parte dei bianchi Innanzi nella quadriglia di mezzo. Dopo varie vicende del giuoco che qui non occorre rammentare, il Morticino, che audace era molto e di membra snelle, standosene sbrancato dagli altri, attendeva a ghermire la palla per portarla poi, correndo e schivando gli avversari, dall'opposta parte del serraglio; cosa, come vedemmo, altrettanto piena di pericolo che di gloria; gli riusciva afferrarla; ratto procedendo ed avvistato, perviene ad evitare gl'Innanzi, e già disegnava oltrevarcare gli Sconciatori tra lo Sconciatore dritto alla fossa e l'altro traverso alla fossa medesima, quando il primo correndogli addosso di fianco lo costringe a piegare verso lo Sconciatore di mezzo; poi, non gli parendo bastasse lo spazio, s'incammina verso lo Sconciatore traverso al muro, e all'ultimo, non trovando nè anche qui campo sufficiente al suo disegno, corse alla volta del Castiglione Sconciatore diritto al muro. Questi, che si sentiva grave della persona, stava a canna badata, volendo con la diligenza supplire alla tardità delle membra: onde, scorto che ebbe il Morticino indirizzare i passi alla sua posta, gli fece punta addosso correndo in linea retta mentre quegli si avanzava di scancio: ormai giunge l'Antinori al mal passo; presto curvandosi s'ingegna sottrarsi alle mani poderose di Dante, che gli cadono sopra tenaci come uncini di nave e lo tirano a sè prepotentemente. La bestiale ira che assalse l'Antinori non è cosa da potersi descrivere; pesta, sgraffia, morde, si agita in modo che poco più farebbe, se gli fosse entrata in corpo una legione di demonii. Ad ogni invito del Castiglione di metter giù la palla risponde del pugno o di un calcio, — poi si fruga, come per cercare il pugnale. Dante, venutagli meno la pazienza, comanda con con gran voce:

«Innanzi a me, — fatemi spalla; e poichè non vuole lasciare la palla costui, guadagneremo la caccia spingendo Innanzi e palla fuori dello steccato.»

Così detto, lo avvinghia intorno ai fianchi e lo leva da terra con maraviglioso piacere dei riguardanti, i quali, parteggiando pressochè tutti per lui, col battere delle mani e con voci alte e diverse applaudivano.

L'Antinori si ostina a non lasciare la palla, che anzi tiene strettissima col braccio manco, e con la mano destra continua la tempesta dei colpi sul capo al Castiglione; poi tenta nuova prova per isvincolarsi. I suoi piedi giungevano appunto alle ginocchia dell'avversario: pian piano gl'inoltra fin dietro alle giunture della gamba, e allora, raccogliendo quanto aveva di forza, sferra con i talloni tale urto che sperò ce ne fosse di avanzo per traboccare il Castiglione supino. Pari colpo, racconta Omero, fu usato da Ulisse contro Aiace Telamonio[289] nei giuochi per la morte di Patroclo, ma con diverso evento, chè Dante non cadde come il Telamonio, ed anzi, piegato appena il ginocchio, sentì invadersi i precordi di furore, e col furore nuova gagliarda. Però quella continua grandine di colpi sul capo, comechè lo riparasse non poco il berretto soppannato, glielo intronava molestamente, dalla bocca grondava sangue e dal naso; gli occhi aveva contusi in molto sconcia maniera; con le mani non poteva aiutarsi, si provò co' denti; una volta gli riuscì azzannare la manica della veste all'Antinori, — questi a sè la trasse di forza e lasciandovene un brano riprese il martellare; secondandolo meglio la fortuna una seconda fiata, il Castiglione perviene a mordergli la nuda carne; — se adesso stringesse non è da dirsi: — il sangue respinto nelle vene di sopra e di sotto al morso vi faceva greppo, e pareva che le volessero scoppiare, — i tendini rappresi non consentivano al Morticino di bene stringere o bene distendere la mano, — un'angoscia cocente gli tormenta il braccio fin lungo la scapola; sul punto di trarre un guaito per vergogna ci raffrena, ma intanto scricchiola i denti e manda fuori un sommesso mugolio.

I compagni di Dante, facendosi largo con gli urti, menando busse e calci, acquistando animo quanto gli avversari ne smarrivano, dal plauso popolare confortati, guadagnano terreno. Non fu però senza contrasto la vittoria; spesso da una parte e dall'altra uscivano di schiera giuocatori vomitando sangue e denti; più spesso accorsero per ordine del maestro del campo esperti famigli che trassero dalla calca alcuni caduti e tutti pesti, li portarono a braccia nelle tende, dove gli affidarono alle cure dei medici: pur finalmente dopo vari casi Dante si accosta allo steccato: la immensa brama di balestrare oltre il Morticino, non gli concede di appressarvisi: tuttavia allarga le gambe e tanto preme vigorosamente le piante che il terreno gli si avvalla dintorno, — stringe più forte con le braccia l'avversario, più acuti gli addentra i denti nelle carni, — quindi da sè respingendolo con veementissimo impeto, lo caccia a rotolare lontano nella polvere, al di là dei cancelli.

Il popolo assurge dai suoi seggi e quasi percosso da delirio prorompe in grida inestinguibili, la gloria del Castiglione levando a cielo. Le trombe ne suonano il tronfo. Ogni buon popolano tenne come sua la vittoria di Dante; tutti si congratulano, gli fanno festa dintorno; le donne sventolano i pannilini dai balconi e gli gettano a piene mani fronde di alloro.

Un tenebrore di morte fasciò gli occhi allo Antinori; stette alquanto come morto, ma quando gli si avvicinarono i famigli per aiutarlo, egli balzò in piedi da sè e volse attorno trucissimi gli occhi. Quel volto, per ordinario pallido, ora livido e nero, il sangue rappreso, lo sguardo torto empirono di spavento i famigli, che non si attentarono accostarglisi. Come si narra dell'antico Anteo, che quante volte traboccato a terra, tante si rialzava di nuovo vigore ingagliardite le membra, costui se cadde tristo, si levò iniquo: rotto ormai ogni freno, il pudore postergato al mal talento, irruppe nelle più brutte turpitudini per offendere il Castiglione: cospirare alla perdita della patria e della libertà, purchè fruttasse adempimento della implacabile vendetta, non solo reputa atto indifferente, ma gli parve merito e dovere; e poichè, o peccato nostro o naturale cosa, troppo più operative vediamo essere la invidia e le malnate passioni che non l'amore della virtù e gli affetti gentili, così gli venne fatto di riuscire oltre le speranze. Tanto si travagliò costui che i giovani nobili, delusi, desiderarono la tirannide dei Medici, come partito unico di emanciparsi dal giogo del popolo.

Ad atterrire le menti sopraggiunsero giorni adri per casi lacrimevoli e per sinistre apparizioni, chiamati dai volgari egiziachi o più comunemente uziachi. Il sole scurò ai ventotto di marzo, e con paura notarono che quantunque volte il sole eclissava, seguivano in Firenze tristi accidenti. Pochi giorni dopo fu decapitato Stefanino delle Doti per avere in compagnia di Piero di Giovanni del Fornajo ucciso a tradimento messere Bernardino di Arezzo, insegna dei signori Dieci, mentrechè usciva di palazzo. Otto Cocchi, senza che se ne sapesse la cagione, di per sè medesimo si tagliò la gola. Un soldato ferito, mal comportando l'acerbità della piaga, fatto caricare da un garzone lo archibuso, se lo sparò nel petto. In piazza dei Signori avvennero tre risse, ed in più parti della città si pose mano alle armi con ispargimento di sangue ed offensione di molti. Lione di Agnolo della Tosa, percosso di un sasso nel capo, mentre battevano la torre di San Giorgio, uscì incontanente da questa vita. E poco prima una masnada di Côrsi di quelli di Pasquino spensero a colpi di alabarda Andre di Lionardo Ghiori e lo rubarono. I frati corrotti spargevano veleno dai confessionali, l'animo ai più baldanzosi scrollavano. I Palleschi già procedevano a testa levata, col motteggio e la minaccia sulla bocca. Gli Arrabbiati non cessavano dal rammemorare la profezia del Frate: che lo aiuto verrebbe quando ogni speranza di soccorso fosse perduta; ma per questa volta con sembiante allibbito e a fiore di labbra.

A crescere lo scompiglio ebbe parte quella Caterina dei Medici che, allora fanciulla di undici anni, per comandamento della Signoria conservata nel monastero delle monache Murate, destinavano i cieli ad esercitare il truce ingegno sul reame di Francia. In costei la ragione sopravanzando l'età, non pretermise argomento di sovvenire alla fortuna della sua famiglia: dapprima vinse parte delle monache e le indusse a seguitare la sua fazione, sicchè il santuario sonò di preghiere discordi e più sovente di male parole e di peggiori fatti; poi divenuta alquanto più baldanzosa, mandò a presentare i sostenuti e i principali Palleschi, quasi per confortarli a tener fermo, con paniere di berlingozzi, nel fondo delle quali aveva effigiato per mezzo di fiori l'arme delle palle. Onde, quando fu deliberato in consiglio qual partito dovesse prendersi sopra di lei, Lionardo Bartolini, repubblicano avventato, non senza riprensione dei più tepidi, disse: «Quando t'imbatti nella vipera ècci forse partito altro diverso da quello di correrle tosto sopra e di romperla co' piedi? Io per me sostengo che la si abbia a mettere spenzoloni da un merlo delle mura contro le prime archibusate del nemico.» — Non pertanto vinse il più mansueto consiglio, e per tôrre via gli scandali mandarono di queto messere Salvestro Aldobrandini affinchè quinci la rimuovesse e nel monastero di Santa Lucia la traslocasse.

Ma sopratutto fu grave sventura la perdita di Empoli. Vi avevano mandato, come altrove dicemmo, per commessario Andrea Giugni, uomo conosciuto sempre svisceratissimo della libertà e nella gioventù sua piuttosto audace che animoso, ma di maniera che sogliono essere i giovani poco civili. Sul quale proposito il Nardi, santissimo petto, pone una avvertenza nelle sue storie che importa molto ripetere, onde gl'Italiani la meditino e se ne giovino: «generosità di animo, che abbiamo per esperienza di questa guerra veduto essere molto differente dal valore dell'arte militare, come ancora per l'opposto abbiamo visto molti giovani di vita modesta e civile essere diventati nella guerra valorosi soldati[290].» E al Giugni aggiunsero per capitano o sargente maggiore Piero Orlandini, il quale reputarono infellonito contro i Medici perchè un suo consorto, chiamato del medesimo nome di lui, avendo in tempo di sede vacante scommesso con Giovammaria Benintendi che il cardinale dei Medici non sarebbe papa, quando il Benintendi gli disse che lo avesse a pagare, rispose voler vedere prima s'egli era canonicamente stato fatto; quasi intendesse inferirne che, non essendo legittimo, non poteva esser papa: per le quali parole, preso e collato, gli fu dopo poco ore barbaramente mozza la testa nella corte del bargello; molto più poi che Francesco Ferruccio non rifinava nelle sue lettere ai Dieci di raccomandarlo come uomo assai pratico della guerra e che avrebbe fatto loro onore, chiedendone la promozione come ricompensa alle fatiche sostenute, che intendeva durare in pro della patria[291]; ma costui, rotto alle lascivie e solo intento ai grossolani diletti della vita, esercitava le armi come mestiero atto a procacciargli il pane giorno per giorno, parato sempre a servire quello che glielo crescesse e meglio glielo accertasse.

Il principe di Orange, considerando di quanto grave momento fosse per l'esito della impresa il conquisto di Empoli, deliberò fare ogni sforzo per ottenerlo: comandò pertanto a Diego Sarmiento vi andasse ad oste con tutte le sue bande dei Bisogni, alle quali, per dare maggior nervo, aggiunse alquanti soldati vecchi del marchese del Vasto, impose a don Ferrante Gonzaga vi cavalcasse con tutti i suoi cavalieri, e commise al signor Sampietro maestro delle artiglierie il carico di trasportarvi buona parte dei cannoni del campo; — spedì ancora con diligenza al signore Alessandro Vitelli che stanziava co' suoi su quel di Pistoia quinci si movesse, e quanto meglio avesse potuto celato e spedito si accontasse col Sarmiento sotto le mura di Empoli. Ciò fu ottimo appresto di guerra. Nè pretermise gl'inganni, in cui forse, più che nelle armi, riponeva fidanza. Avuto a sè Giovanni Bandini, gli disse: essere per commettere grave imprudenza, della quale la prospera fortuna poterlo giustificare soltanto, sprovvedere il campo dei migliori combattenti, di cavalli e di artiglierie per espugnare Empoli; volere ad ogni costo prendere quella terra e prenderla presto; lo sovvenisse in quella sua estremità; l'opera e il consiglio suoi assicurarlo meglio di venti bombarde; andasse, vedesse se v'era modo appiccare alcuna pratica con quei di dentro; nelle sue mani depositare il proprio onore e la propria vita: — e a queste aggiunse tante altre di quelle parole che i signori sanno trovare quando hanno bisogno degli altrui sussidi.

Promise il Bandini e mantenne oltre la promessa; imperciocchè, essendosi aggiunto Nicolò Orlandini, fuoruscito di Firenze e sviscerato Pallesco per soprannome il Pollo, mandò un segreto messaggio al capitano Piero Orlandini, sua conoscenza vecchia, per fargli palese che, se avesse potuto ascoltarlo, egli era per dirgli parole che lo avrebbero reso il più lieto uomo del mondo. Si strinsero tutti a parlamento, e il Bandino col Pollo, parte col mostrargli la causa della Repubblica perduta, parte con buona somma da pagarglisi di presente, molto maggiore in futuro, senza troppa difficoltà svolse l'Orlandino a fare il piacer suo. Però l'Orlandini lo ammoniva sul Giugni non potersi contare, avvegnachè ben fosse ignavo e trascurato, ma non pertanto zelantissimo della Republica; ancora doversi prima ostentare una grande dimostrazione di forza e battere furiosamente le mura, dacchè i terrazzani, le reputando insuperabili, e di vettovaglia non patendo difetto, se ne stavano baldanzosi; e poi quel Ferruccio gli aveva esaltati in modo che da senno credevano potersi, non che dagli uomini cogli archibusi, ma dalle stesse donne con le rocche difendere la terra.

Il Bandino, lasciando l'Orlandino bene edificato, conferisce partitamente col Sarmiento, e convengono piantare due batterie, una da parte di tramontana, l'altra verso ponente; alla prima comandò il Sarmiento, alla seconda il Vitelli. Il Sarmiento, cosa per quei tempi stupenda, senza punto ristarsi, trasse trecento colpi di cannone: perchè parte di un puntone e della muraglia si sfasciò con terribile rovina.

Anche a' giorni nostri chiunque ne avesse vaghezza, soffermandosi in Empoli, potrebbe contemplare le stimmate impresse sulle mura di quella terra dallo straniero in pro della tirannide domestica; ma chi passa per Empoli ad altro non attende che a sollecitare la muta dei cavalli per attingere presto la Pafo d'Italia; e sì, che se l'aspetto delle margini sul seno del guerriero reverenza ispirano e amore, amore e reverenza più grandi dovrebbero infondere negli amici le ferite della nostra città. E in questa parte sieno grazie alla tirannide, che lasciava a qualche nuovo Antonio la veste insanguinata di Cesare da agitarsi un giorno davanti al popolo raccolto in benefizio della libertà. — Io mi dilungo dal vero: non vive più popolo, bensì un tristo gregge di animali senza occhi, senza orecchi e senza cuore, — una mandra di enti abbietti assai più che lo stesso tiranno non desidera: egli cessò da gran tempo di tormentarli, perchè non riusciva a strappare loro nè anche un sospiro; li percuoteva sul capo, rispondevano con un sorriso; le mogli ne stuprava e le figlie, e gli profferivano grazie; a qualcheduno gittava la testa di suo padre recisa, ed egli curvo la riceveva e ossequioso come presente di re. Io continuo la storia.

Rovesciata la muraglia, gli Spagnuoli con furiosissimo impeto si cacciarono giù nel fosso per salire all'assalto: giunti in fondo, troppo tardi si accorgono del fallo: quivi la terra melmosa si avvalla loro sotto i piedi, sicchè rimangono inestricabilmente impantanati; e quei della terra, inanimati dal capitano Tinto da Battifolle, gli sfolgorano con gli archibusi, gli ammaccano co' sassi e spesso uccidono a un punto e seppelliscono sospingendo loro addosso interi cantoni della muraglia intronata: e' fu mestiere ritrarsi. Dalla parte di occidente il Vitelli rovesciò spazio non minore di muraglia ma, capitano più circospetto di don Diego, abborrì avventurarsi in quel fondo e si rimase contento a quella prima prova. Nella notte, che come è madre di alti partiti agli animosi così partorisce le paure e i sospetti nei codardi e i tradimenti nei perversi, si restrinsero insieme i più doviziosi di Empoli, tra i quali la storia ricorda Nicolò di Quattrino e Francesco di Tempo, e agli adunati l'Orlandino espose: — come essi dal resistere più oltre molto avessero a perdere, nulla a guadagnare; non volessero mostrarsi tenaci a difendere la libertà di Firenze più di quello che si fosse mostrata la medesima Firenze; già avere ella capitolato; Ferruccio disfatto esulare di Toscana; ormai le cose della Repubblica disperate del tutto; in quanto a sè, uomo di guerra, nulla potere aspettarsi di buono dalla pace; non pertanto increscergli forte delle loro famiglie e di loro; si accordassero ora che si trovavano in tempo buono; non vedevano lo sbigottimento dei soldati dopo che avevano veduto cascare morto su i bastioni il suo capitano Tinto da Battifolle? pensassero qual prova avessero fatto le mura della terra, che il troppo fidente Ferruccio sosteneva bastevoli a qualunque più fiera batteria. In cui fidavano? No certo nel Giugni, badassero che un giorno o l'altro cotesto accidioso, sè e i soldati acconciando con gli avversari, non lasciasse i terrazzani a distrigarsi come meglio sapessero con loro. Dessero pertanto spesa ai propri cervelli; egli ammonirli a fine di bene. — Senz'altro consiglio convennero avesse a rendersi la terra, salve le persone ed i beni; e fu tra loro fermato l'ordine della resa.

Su l'ora del desinare del giorno seguente, per cura dei mentovati cittadini, e di Piero, si tolsero le artiglierie e le guardie da certa parte di mura, e gli Spagnuoli non mettendo tempo fra mezzo corsero a salirvi sopra. Superati appena i ripari, si sparsero per le diverse vie gridando: Sacco, sacco! — e quanti cittadini empolesi capitarono loro davanti, tanti ammazzarono; e cui rammentava la capitolazione, irridendo, rispondevano non avere camminato delle miglia più di mila per non acquistare roba in Italia: le libidini tacquero, — ma di fatti crudeli, e più degli avari non ne fu penuria.

Con la perdita di Empoli comincia l'agonia della Repubblica fiorentina. I nemici accampati sotto Firenze ne fecero festa, e in segno di allegrezza spararono tutte le artiglierie; i Fiorentini all'opposto ne sentirono danno e dolore inestimabile: — persero la vettovaglia quivi in copia raccolta, — rimase loro preclusa strada a procurarsene della nuova, — l'animo dei cittadini cadde, e per prova vediamo niente contribuire tanto ad attirarci addosso una sventura quanto temerla e aspettarla.

Andrea Giugni e Piero Orlandini ebbero fama di traditori, e come tali furono dipinti; la Quarantia li condannò alla pena infame, comecchè contumaci, i loro beni posti nel fisco, le case sfasciate[292]. Tutta speranza di salute riposta nel Ferruccio. La fortuna ha deposto su quel capo la vita o la morte delle libertà italiane, tre e più secoli di progressione verso l'ordinato vivere civile o di storno verso la barbarie. Condizione dolente per un popolo, quanto gloriosa per un individuo, quando la esistenza del primo s'immedesima al palpito del cuore del secondo. Il più delle volte rovinano entrambi: quando invece riescono a stare, la vita di cotesti uomini forma un'era nuova nella durata dei secoli.

I magistrati di Firenze confermano Francesco Ferruccio commessario generale e gli conferiscono autorità dittatoria, cioè quanta n'esercitava la medesima Signoria.

Mentre si disperava del come fargli pervenire la commessione, il Pieruccio si offerse parato di portare la carta e condurre incolumi fino a Volterra Marco di Giovanni Strozzi chiamato Mammaccia, e Giovambattista di Girolamo Gondi per soprannome Predicatore, eletti commissari di cotesta città in luogo di Francesco Ferruccio. Ora stiamo a vedere quali saranno le imprese di questo uomo, che in pochi mesi ha superato in fama i capitani del tempo, e già si avvicina gli antichi.

La storia non riescirebbe piena, nè potrei acconciamente proseguirla, dove io tralasciassi di raccontare i modi adoperati dal Malatesta per ispegnere la virtù dei giovani fiorentini; molti essi furono, e tutti iniqui: cominciò ad affermare deboli i ripari, non già perchè fossero gli edificati mal sicuri, che invece erano sicurissimi, ma pochi: e siccome le ragioni ch'ei ne dava, avevano apparenza di vero, così si attese a soddisfarlo. Si alzarono nuovi puntoni e nuovi cavalieri, si trassero cortine, si cavarono fossi, nulla insomma si pretermise di quanto può riuscire necessario od utile alla maggior fortificazione della città; in ciò egli s'ingegnava, onde i giovani, spossati da coteste opere manuali, non volgessero il desiderio al combattere. I giovani per lo contrario s'infastidirono presto di simili fatiche, e considerarono che se una città senza ripari è debole, molto più debole è poi quando ha ripari, e non cittadini animosi a difenderli. Sparta difesero per molto tempo gloriosamente i petti di cittadini, non già muraglie di sassi: — le iattanze nemiche gli offendevano, — statuirono far prova di sè, anelarono i campi aperti, il sole delle battaglie.

Malatesta, assottigliandosi a trovare suoi espedienti, ora gli armava e rassegnava, prometteva condurli contro al nemico, e quando gli aveva fatti rimanere otto o nove ore in procinto di muovere, gli rimandava sotto vari pretesti; quando non poteva fare altrimenti, ingaggiava scaramucce parziali, o, come allora dicevano, badalucchi senz'altro fine che quello di scemarli con le morti e con le ferite. Però il tristo Perugino sortì esito diverso affatto da quello che si era dato a sperare: i giovani si sbigottivano meno delle perdite che non s'infiammavano pei vantaggi, accorgendosi le spade loro tagliare quanto quelle dei nemici; videro che, per essere soldati, bastava l'animo disposto a vincere o morire, — spesso cedevano alla disciplina del nemico, più spesso il nemico cedeva all'impeto di loro. Ebbe fama nei tempi un fatto di arme tra cavalieri, nel quale si portò tanto egregiamente dalla parte dei nostri Iacopo Bichi che, il principe di Orange dovè accorrere con tutti suoi capitani a rinforzare la battaglia se non voleva vedere quanti erano i suoi cavalieri disfatti. Poco dopo si presentò un trombetto a Malatesta, esponendo che un cavagliere imperiale desiderava rompere una lancia con alcuno quei di dentro. Ottenne l'onore pericoloso il capitano Primo da Siena: si scontrarono i due cavalieri presso ai fossi fuori delle mura, dove, dopo alcune scorrerie condotte con maestrevole vaghezza, che ambedue cavalcavano buono e poderoso destriero, spronarono impetuosi ad incontrarsi; la lancia del cavaliere nemico percosse l'arcione della sella del capitano Primo, e quantunque ferrato lo passò oltre più che quattro dita. Se il colpo toccava alcun poco più alto, pel capitano Primo era finita; — l'asta si ruppe rasenta al ferro, e per la gran forza il troncone uscì di mano al cavaliere. Il nostro gli pose la mira al petto con tanta possanza che la lancia si spezzò in più parti, una delle quali scorrendo infranse il bracciale e ferì il nemico nella spalla sinistra. Poco dopo avvenne altra zuffa, dove Giometto da Siena si portò con indicibile valore, e di leggeri sarebbe riuscita battaglia campale, se una dirotta pioggia sopravvenuta all'improvviso non avesse scompartito i combattenti.

Nè vuolsi lasciare inonorato il caso e il valore di Anguilotto da Pisa, di cui la fine tanto si rassomiglia a quella di Siccio Dentato, nome inclito nelle antiche storie romane. Costui, avuto sdegno col conte Piermaria da San Secondo, passò agli stipendi di Firenze con parte della sua compagnia, cosa acerbamente intesa non pure dal conte, ma dal principe medesimo, e della quale statuirono prendere, potendo, insigne vendetta. Anguilotto, come colui che ardimentoso era molto, non si rimaneva mai dall'uscir fuori qualunque volta gliene capitasse il destro, quasi per isfidare i nemici. Ora avvenne che, tenendogli le spie addosso (o come pare più verosimile, da segreti avvisi del Malatesta), furono avvertiti sarebbe Anguilotto uscito da porta alla Croce con poca compagnia per iscortare certi contadini che andavano per legna; gli tesero insidie, e trascorso ch'ebbe appena la imboscata, che avevano posto grossissima, gli si precipitarono contro i principi Orange e Salerno, il duca di Melfi ed altri dei principali con più di duemila fanti, don Ferrante Gonzaga con cinquecento cavalieri, e lo posero in mezzo. Tanto potè in costoro una brutta ira che non vergognarono andare con mezzo esercito a combattere un uomo! Anguillotto, vista la piena, si tenne morto, ma non per questo s'invilì nell'animo o si abbassò ad atto che paresse codardo; anzi, deliberato in tutto di morire da prode uomo com'era vissuto, si accostò ad un albero e quivi prese a menare le mani; lo investirono primi il conte Piermaria con sei cavalleggeri, e a quello che più lo stringeva dappresso vibrò sì gran colpo che lo trafisse da un lato all'altro: sovvenuto da Cecco da Buti, suo luogotenente, continuarono a combattere finchè durarono loro le armi ed il vigore di sostenerle. Anguillotto, poichè ebbe tagliata la punta del partigianone, trasse la spada e, pur sempre ferocemente menando, tanti ne uccise che si era innalzato come un riparo di cadaveri davanti: ma la spada ecco gli è diventata troncone, il taglio ottuso, e per parecchie ferite gronda sangue, sicchè opprimerlo adesso riusciva agevole, e non pertanto sbigottiti dalla stupenda strage gli assalitori nicchiavano. Bellanton Corso correva a soccorrerlo; — Giovanni da Vinci, il quale era a guardia di porta alla Croce, non patendo la morte di quel generoso, dimenticando l'ufficio di capitano, lascia la guardia e con certi fanti si muove ratto alla riscossa; — Iacopo Bichi apprestati i cavalli sprona in ajuto di lui; invano però; in quel punto Anguilotto percosso di una zagagliata nel petto casca a terra senza riportarne altro danno tanto lo difese il fortissimo giaco! Allora il conte di San Secondo si getta giù di sella e, sovvenuto da un suo servitore, lo scanna prima che ei si potesse rimettere in piedi. Cecco da Buti, visto morto il suo capitano, getta l'arme e chiede i quartieri. «Questi sono i miei quartieri,» risponde il conte, e gli tira a tradimento tale una stoccata nel petto che andò a riuscirgli dietro le spalle: poi tutti salirono a cavallo e fuggirono via. La coscienza dava loro il sembiante di ladroni. Italiani sperperavano soldati italiani in pro della tirannide straniera e in danno della libertà della patria.

... il capo ha deposto sul ceppo. La madre sta in piedi alla sua destra, il carnefice dalla sinistra. Questi solleva la scure... Cap. XXVI, pag. 605.

Il popolo, racconta Benedetto Varchi nell'undicesimo libro delle sue Storie, ormai infastidiva per la lunghezza dell'assedio, e i più prudenti conoscevano quanto più s'indugiava, e più si peggiorava: «perciocchè con altro vantaggio si fanno le cose quando altri può non le fare che quando uno è costretto a farle; e tale ajuta uno che si regge in piè, che, veduto sdrucciolare, non solo non lo sostiene, ma gli dà la pinta.» Mormoravano dunque in Firenze, ed una voce universale accusava Malatesta di non voler combattere; ond'egli costretto, datone prima l'annunzio agli avversari, uscì fuora «e disse, aggiunge il citato storico, che per contentare il popolo, ma in fatto per isbigottirlo e aver colorata ragione di non combattere, che voleva uscir fuora, ma che bisognava prima tentare come trovasse i nemici per poter poi con maggiore vantaggio assaltarli.» Uscì di fatto, e suo malgrado fu combattuta tale battaglia (dal Varchi con tanta evidenza, estensione e particolarità esposta da non potere aggiungervi, nè anche volendo, parola), che avrebbe dato per certo vinta la guerra e rotto il campo, se Malatesta ordinava uscissero tutti ad azzuffarsi col nemico. Nessuna occasione si era presentata migliore di questa dal principio dell'assedio in poi. Stolto al pari che iniquo, tradì a un punto l'Italia e sè stesso, come vedremo tra poco.

Un'altra fazione la quale senza tradimento del Malatesta avrebbe dato vinta la guerra, o almeno posta la città in condizione di accomodarsi a buoni patti, fu questa. Il signor Stefano Colonna, per riacquistare la grazia presso l'universale, che conosceva avere perduta pel fatto di Amico da Venafro da noi nei precedenti capitoli accennato, propose un assalto notturno, noto a quei tempi col nome d' incamiciata, contro il campo dei Tedeschi stanziati a San Donato in Polverosa, al comando dei quali in luogo del conte di Felix era stato preposto il conte Ludovico di Lodrone. Dove fosse riuscito, il danno della perdita di Empoli si ristorava, perchè veniva ad aprirsi la via di Prato e di Pistoia, donde potevano ricavarsi vittovaglie e sussidi. Che poi Prato e Pistoia, comecchè di presente sottoposte al nemico, fossero per mutare parte, non era da dubitarsi, essendosi questa ultima città già levata a rumore e cacciato via il commissario del papa con uccisione di molti soldati spagnuoli. Conferito il suo disegno al gonfaloniere e agli altri magistrati, lo commendarono assai, e gli dissero parole di conforto, onde si affrettasse di mandarlo a compimento. Richiesto Malatesta si turbò, si oppose, disse questo pensiero follìa, andasse chi voleva andare, per lui si sarebbe rimasto, le regole della milizia impedirgli di spingere a morte sicura le vite degli uomini. — Non vedevano il campo dei Tedeschi munito e insuperabile? Non sapevano starvi a guardia un capitano vigilantissimo'? — Riuscirono le sue parole invano: vollero ciò nonostante combattere: in questo mentre calò la notte. Declinava la terza alla quarta vigilia, quando due uomini appiattati dietro certe macie di sassi videro uscire dalla porta di San Piero Gattolino un uomo con molto riguardo e prendere la volta del campo nemico. Si rammenterà il lettore come Malatesta, stando in sospetto di sè, lasciasse l'orto dei Serristori sul Renaio e se ne andasse ad abitare la casa di Bernardo Bini su la strada maestra di San Felice in piazza presso a San Pier Gattolino, situazione che lo rendeva padrone della porta, e lasciava in sua facoltà introdurre e mandar fuori quanta più gente gli piacesse. I due sconosciuti trassero dietro all'uscio, e all'improvviso gli caddero addosso per fermarlo, lo tennero, gl'imposero di tacere, avrebbe salva la vita; ma siccome egli non rifluiva di chiamare ad alta voce soccorso, gli dettero delle coltella nella gola, e poi caricatoselo sopra le spalle con presti passi attinsero porta San Miniato, dove scambiati certi segni, furono loro aperte lo imposte e accolti dentro.

Erano Dante da Castiglione, di fresco eletto capitano della banda della milizia sotto la insegna dei Vaio, e il capitano Giovanni da Vinci. Costoro deposero il cadavere in mezzo della strada, e fatti portare de' torchi, di leggieri lo riconobbero per un soldato côrso, di quelli del Malatesta, travestito; lo frugarono diligentemente, ma non gli rinvennero addosso alcuna carta; agevol cosa fa argomentare mandarlo Malatesta ad avvisare il principe del prossimo assalto. Si affrettarono pertanto a portarne la nuova al signore Stefano, quando la prima persona che occorse loro davanti nei quartieri di quel capitano fu Cencio Guercio, il quale per ordine del suo signore esponeva, poichè ad ogni costo intendevano combattere, volere Malatesta essere partecipe dei pericoli di cotesta impresa, — non consentire la sua natura si dicesse: fu sotto di Firenze combattuta una fazione senza il capitano generale dell'esercito fiorentino, — manderebbe primi i più valorosi tra i suoi soldati, ne darebbe la condotta come pegno di onore a quelli tra i suoi capitani che meglio si fossero comportati nella guerra presente: alle quali parole con certo suo piglio soldatesco rispondeva il Colonna: non avere mai con mal animo sofferto di prendere i suoi compagni l'arme a parte della gloria, sol qualche volta essergli doluto di partire con loro il pericolo; venisse il signore Malatesta, sarebbe accolto con la reverenza dovuta al grado e al valore di lui. Cencio Guercio ossequiando il Colonna si partiva. Allora si trassero avanti il Castiglione e Giovanni da Vinci esponendo quanto era loro avvenuto; su di che il signore Stefano si espresse con simili parole: — «Certo cotesta volpe perugina qualche mal tiro ci apparecchia, ma come volete voi che io rifiuti il vostro generale supremo? Quando si fa quello che non si deve, c'incoglie quello che non si crede.» — E ciò disse un poco turbato, perchè in suo segreto non sapeva darsi pace che a lui avessero i Fiorentini anteposto il Baglione.

Conferito col Malatesta l'ordine dell'assalto, due ore prima del giorno il signore Stefano uscì di porta a Faenza conducendo seco Giovanni da Turino, Virgilio Romano, Ivo Biliotti, Antonio Borgianni, Gigi Niccolini, Zannone da Borgo, Piero Bolzoni, Cristofano da Fano, Domino e Parigi da Fabbriano, Morgante da Urbino e tutta la banda del Vaio condotta da Dante da Castiglione; fra tutti oltre due mila. Da porta del Prato uscì Pasquino Corso e Cencio Guercio col colonnello dei soldati del Malatesta: questi poi uscì per la porticciuola della Mulina, attelandosi con millecinquecento fanti lungo la riva dell'Arno, acciocchè se i nemici avessero voluto soccorrere i Tedeschi, non potessero varcare il fiume. Il signore Stefano e Pasquino dovevano percuotere il campo da due parti: prima il Colonna, Pasquino quando chiamato; scelse quegli la più lunga via, questi la più breve. Cencio, percorsa mezza della sua strada, disse a Pasquino, di lasciarsi dietro parte del colonnello e procedere con l'altro alla volta del nemico: il qual consiglio sembrando stolto a Pasquino, l'altro riprese andasse pure innanzi, ch'ei troppo bene sapeva quello che si facesse. S'inoltrano e, giunti presso ai ripari, Cencio, messa la corda sopra l'archibugio, lo sparò contro una sentinella, gridando ad alta voce: Svégliati, Tedesco, chè siamo venuti a portarti treggia di piombo. — Il campo, che, essendo il caldo grande e la notte inoltrata, se ne stava a dormire, fu subito sveglio, e corse frettoloso all'arme. I Perugini molto di leggieri superarono i primi ripari, ed inondati gli alloggiamenti, quivi quanti trovarono o ignavi, o vecchi, o infermi nei letti tanti ne uccisero poi secondo il mal costume dei soldati si sbandarono per saccheggiare. Il signore Stefano, tutto cruccioso per la contravvenzione all'ordine stabilito si voltò al Castiglione e gli disse. «Messer Dante, comincia a manifestarsi il Malatesta.» — Quindi accelerando i passi dette dentro i ripari, e commecchè trovasse svegli i soldati, con tanto impeto gli assalse che presto vinse le prime trincee, ed oltre procedendo prese ancora le seconde: molto più che, ad accrescere lo spavento dei nemici, Giovanni da Turino aveva portato seco alcune trombe di fuoco, le quali gittate tra mezzo ai Tedeschi sonnacchiosi partorirono effetto maraviglioso. Il conte Ludovico facendo buon viso alla fortuna formò uno squadrone dei più valorosi, ai quali impose abbassassero le picche e stessero fermi. Il signore Stefano manda subito ad avvertire Pasquino che lasci di inseguire chi fugge e si affretti a soccorrerlo, e intanto si spinge ad affrontare il Lodrone. Ivo Billiotti comportandosi con la consueta sua audacia fu quegli che gridò: «Su, valenti uomini, lasciamo gli archibugi e mescoliamoci.» — Obbedendo volonterosi al consiglio si cacciarono tra i ferri delle picche, combattendo più micidiale battaglia: pel bujo della notte si udivano gemiti, ferri cozzantisi e un chiamare affannoso che faceva l'uno dell'altro, non sentendoselo più a canto per sospetto non fosse caduto ferito. I giovani Fiorentini, per quello che assicurano gli storici, gareggiarono co' soldati vecchi, e assai chiaramente dimostrarono come per essi si sarebbe potuto salvare la patria, se un capitano meno tristo lo avesse voluto. Intanto il signor Stefano non vede comparire il soccorso di Pasquino, e ben si avvisa della cagione. Il valore dei prodi uomini che gli stanno d'intorno lo assicura di non perdere, ma, per vincere conosce abbisognare di sforzo maggiore; tuttavolta riappicca con sempre crescente avventatezza la zuffa contro i Tedeschi, che si difendono con l'estremo della possa loro; stanno davanti alle percosse saldi come muro di bronzo. Qui fu che il Colonna rilevò due ferite, una nella bocca con perdita di più denti, l'altra nelle parti pudende. Così si travagliavano da una parte e dall'altra quando, cominciando farsi giorno, Malatesta, udendo il suono delle trombe e vedendo che i cavalli nemici si apparecchiavano a guadare il fiume, invece di opporsi, come era suo officio, richiamò Margutte Perugino, che aveva mandato avanti con cento cinquanta archibusieri, e Cencio cogli altri soldati. Dante da Castiglione, accorgendosi del brutto abbandono, corre alla volta del Colonna e lo prega a ritirarsi; egli rimarrà a sostenere l'assalto. Il signore Stefano soldato vecchio, a cui pareva troppo grande vergogna lasciare il campo mentre il Castiglione, giovane e nuovo nell'arme, vi si mantiene, rifiuta. Non riuscendo Dante a persuaderlo con le parole, si volge ai circostanti ed esclama: «E che! lascerete voi finire il valente capitano Colonna così malconcio della persona? Menatelo via dal campo, conservatelo all'onore della milizia italiana.» — Lo trassero a braccia; appena raggiunse il Malatesta, che si era fermato davanti la porta della Mulina.

«Gran mercè, capitano» gli disse, «il soccorso di Perugia vale peggio del soccorso di Pisa: questo venne tardi ma il vostro non giunse mai.»

«Signore Stefano, non vedete voi che i cavalli di Orange hanno già presso che guazzato Arno? Se si spingevano tra la porta e me, dove sarei andato io?»

«All'inferno, dove dovresti essere andato già da gran tempo», gli rispose concitato il Colonna, a cui l'ira toglieva la consueta prudenza.

Indi a poco sovraggiungevano i giovani fiorentini non in sembianza di fuggiaschi o di perdenti, bensì invece di uomini che non avevano vinto come voleano. Anch'essi comparvero carichi, non già di preda a modo dei soldati, specialmente quelli del Malatesta, sibbene dei fratelli loro morti e feriti, che pietà cittadina e gentile alterezza aveva persuaso a non gli lasciare sul campo. In fondo della colonna si vedea un fitto polverio, e quinci muoveva strepito d'armi, uno sfidarsi scambievole, un dirsi ingiuria. Tentavano i più animosi tra i nemici sturbare la ritirata; più volte si avventarono, e sempre furono con molte morti respinti da Dante da Castiglione e da alquanti incliti giovani che gli faceano corona. Pur finalmente accorgendosi gli Oragiani essersi anche troppo inoltrati sotto il tiro delle artiglierie, voltarono frettolosi le spalle. I nostri si fermarono, e quelli che poterono inviarono al nemico fuggente un ultimo saluto di piombo e di fuoco.

Al termine estremo della colonna ecco comparisce Dante; gli è uscito l'elmo di testa, ha i capelli rabbuffati e sordidi di polvere, la faccia nera dal fumo della polvere; stringe nella destra un troncone di spada; preoccupato dalla intensa passione, senza pure vederlo si accosta al Malatesta. Questi raggiante in volto occorrendogli lo chiama a nome; Dante lo guarda traverso, poi torce la persona, come si fa quando a caso s'incontrano gli oggetti abborriti. Insiste il Perugino e giuntogli sopra, si curva sul mulo per abbracciarlo e baciarlo. Non lo sostenne quell'anima sdegnosa, e da sè ributtandolo proruppe:

«Va' va'; tutto questo ho già letto nell'evangelo di San Matteo, e vi ho letto eziandio un'altra cosa che tu non attendi, oppur ti sovrasta, il capestro e la infamia.»

«Messer Castiglione, uditemi per Dio.... Una forte gazzarra mi ha percosso dalla parte del monte; io mi sono tratto indietro forte temendo non assaltasse il principe di Orange i bastioni di San Miniato. Incolpatene i giovani lasciativi a guardia, che hanno messo fuoco alle artiglierie in festa della rotta dei lanzi.»

«E dell'uomo mandato stanotte ad avvisare l'Orange chi ne fu colpa, Baglione? Credi forse che Dio non sia, o credi che, essendo, non ti abbia egli a far render ragione dei prodi uomini morti in battaglia pei tuoi tradimenti? Guai a te, Malatesta! Pensa al fine!»

«Ormai mi sembra», favellava Cencio Guercio mentre il Castiglione si allontanava, «che sul conto nostro vadano tutti d'accordo.»

«Ma era quello che pensava ancor io; ecco il mal passo: ormai non possiamo ingannare più nessuno; d'ora innanzi ci conviene procedere a visiera levata.»

In questo mezzo tempo, quasi tante e siffatte sventure non bastassero, sopraggiunsero novelle di Francia, le quali diceano Sua Maestà Cristianissima negare ai mercatanti fiorentini residenti a Lione i sessantamila scudi d'oro del sole già dai medesimi a lui prestati nelle scorse urgenze, a fine di potere sovvenire con quelli la patria ridotta in tanto estremo; anzi avere usato Sua Maestà queste espresse parole; che, nel caso avessero i Fiorentini a contendere con Cesare, non volea che ciò facessero co' suoi denari; e poichè l'oratore insisteva a rappresentargli che li danari resi a chi gli ha imprestati non possono dirsi propri, ma altrui, egli, mostrando avere quei discorsi in fastidio, aveva alzato le spalle e risposto più nulla. Sapersi all'opposto, e per mille riscontri confermarsi, che il re desiderava tornasse Firenze sotto il dominio dei Medici, e in ciò adoperarsi con tutti i nervi per far quindi a Clemente papa palese pe' suoi interessi giovare meglio i trattati di un re di Francia che non le armi di un imperatore; essere egli parato per tanto a qual si voglia infamia a patto di venire a capo di nemicare Arrigo d'Inghilterra e il pontefice contro Carlo, stringere nuova lega e vendicare con nuove battaglie le offese apportate alla sua anima superba[293]. Essersi gli oratori rivolti a madama Luisa, e averle rammemorato le tante e con tanti giuramenti reiterate promesse di soccorrere i Fiorentini, restituiti appena che le fossero i nepoti: farla adesso lieta di loro presenza i nepoti; ricompensasse dunque la fede della lealissima città di Firenze, la quale col mantenere viva la guerra aveva contribuito non poco alla restituzione degli incliti principi: alle quali esortazioni la invereconda donna avere risposto non volere più guerra, essere pur tempo il mondo si pacificasse, tratta appena da un mal passo guardasi molto bene a non porre il piede in fallo; avere ella acconciato i casi suoi, pensassero i Fiorentini a' loro. «Talchè» conclude l'ultima lettera dell'oratore Carduccio, «è necessario fondarci in su l'ajuto divino e su i provvedimenti gagliardi di modo che più facilmente e con più reputazione si possa con cotestoro comporre[294]

Così brutto mancamento di fede abbiamo veduto rinnovare dai Francesi ai giorni nostri. Taccio della Polonia, parlo d'Italia: minacciati dalla lega settentrionale, concitarono gl'Italiani a levare le armi per ricuperare l'antica libertà, si fecero un riparo di animali viventi, e quando si furono apparecchiati a sostenere l'urto nemico, lasciarono precipitare chi si era levato per loro, motteggiarono sopra i supplizi, ai caduti schernirono, e quando stretti dalle imprecazioni del mondo doverono rispondere, uno di loro salì su la tribuna e al mondo stupefatto gridò: Il sangue della Francia è per la Francia!

Di ciò si rammentino gl'Italiani. Se la fortuna apparecchia al mio popolo rinnuovamento di magnifici destini, se ne rammenti, non per vendicarsene, ma invece per aiutare con tutte le sue forze la Francia se pericolasse nel suo cammino al meglio; e sovvenendola le dica: Io ti ajuto perchè ai popoli grandi è necessario mostrarsi generosi: io ti ajuto perchè quando una stella scomparisce dai cieli, il bujo diventa maggiore; ti ajuto ancora perchè, durando la lotta di due diversi principii, le nazioni che parteggiano per la libertà riunendosi in lega comporranno il fascio del littore che non si spezza: mentre se stanno divise tra loro, saranno la verga debole che rompe il fanciullo per giuoco. I Greci ebbero in costume violare i giuramenti, fu turpe fama del popolo la fede Greca; — però secoli passarono e secoli prima che un occhio piangesse sopra i destini di quella famosa contrada. Subentrò la fede punica, — Cartagine è ridotta in un mucchio di rovine che nessuno, anche potendo, vorrebbe rilevare; adesso vince le fedi greca e punica la fede francese. — Tradisci Francia, quanto più sai, — la Italia non t'imiterà per questo: — comunque serva, val meglio di te libera e fortunata, imperciocchè, sebbene le sieno incatenate le mani, volge nel pensiero alti concetti di governo, e conosce essere le nazioni sorelle in faccia a Dio, e sente che quando una nazione dice all'altra: Io mi sono composto un seggio della tua testa e ben vi sto, — allora la religione e la legge mal possono imporre ai cittadini, — non uccidete, non rapite. Ogni vincolo sociale si rompe, e la fossa di Daniele presenta appena paragone conveniente col mondo contristato da tanta perfidia[295].

CAPITOLO VENTESIMOTTAVO FINIS FLORENTIÆ

Eccomi solo

Ho il mio coraggio e la gloria meco.

Aiace, tragedia.

Cuoprirà l'erba e il tribolo

Le mute spoglie, ed irti

Per le notturne tenebre

Vagoleran gli spirti,

Che morti ancor daranno

Spavento.

Il bardo della Selva Nera.

Ferruccio, ributtata una mano di cavaleggeri che gli aveva mosso contra Fabrizio Maramaldo, il quale si era vantato bastargli la vista per impedirlo nel cammino, varca la Cecina e, seguitando la via littorale, tocca Rosignano e giunge a Livorno.

La sua grande anima così potentemente gli agitava le membra che non sentiva più bisogno di cibo o di bevanda, nè lo spossava fatica. Mirabile e misteriosa è la forza dello spirito, e quando abbiamo udito narrare le stupende gesta di qualche eroe, ci siamo compiaciuti a immaginare un'anima di fuoco entro un corpo di ferro. La storia però ci ha tramandato come gli uomini più famosi, anzichè apparire aiutanti della persona, fossero oltremodo di fibre delicate e gentili; tra i moderni basta rammentare Bolivar. Ferruccio poi era ben composto, ma non avrebbe potuto reggere fisicamente ai gravosi travagli, dove la gagliardia dello spirito non gli avesse somministrato insolito vigore[296].

I suoi soldati gli avevano posto tanto singolare venerazione che se egli avesse comandato proseguissero il cammino, comecchè rifiniti dalla stanchezza, avrebbero obbedito. Ferruccio, li vedendo trafelati, co' piedi sanguinosi riarsi al sole, e per altra parte pensando che stavano per avventurarsi in sentieri ancora più aspri, con maggiore pericolo di essere assaltati, ordinò facessero alto, di riposo convenevole confortassero le membra.

Nè in quei remoti tempi era Livorno fastidievole vista per un'anima repubblicana. Certo, non per anche il commercio l'aveva ingrassata sì da non dar luogo a sentimento altro diverso che non fosse guadagno; non le erano divenuti ancora nomi del tutto ignoti patria e libertà; non ti pareva, al primo porre il piede nella sua piazza, udire rinnuovato il caso di Babele o piuttosto il vestibolo dell'inferno rimbombante per voci alte e fioche; non ancora, onde crescesse di popolo, l'avevano convertita in asilo di ladri, falsari, di ogni risma ribaldi; no, Livorno non era anco fatta la tavola di salute a quanti mai tristi vissero nel mondo. Livorno abitava poca cittadinanza, ma pura fino all'ultimo artista; breve si estendeva il giro delle mura, ma su quell'umile castello si era posata una stella, come già sul presepio di Betelemme; i suoi bastioni erano stati consacrati col sangue dei cittadini sparso in difesa della libertà, i suoi ripari resi illustri dalla vittoria.

Tutto questo ignora Livorno popolosa, Livorno intenta ai subiti guadagni. Eppure, come Dio volle, avvenne che un uomo si ostinasse a lanciarvi dentro la voce di patria, e sentendola ripetere mille volte, esultò immaginando quivi palpitassero mille petti cui largivano i cieli il dono pericoloso di amare la patria. Grave errore fu questo, perocchè non ripetessero già la voce bocche mortali, ma l'eco: e chi non sa che l'eco tanto risuona maggiore, quanto più il luogo è deserto? Livorno se ne sta pingue, stupida, mostruosa sopra il mare etrusco, come la balena buttata alla spiaggia dall'impeto della tempesta.

Ferruccio allora contemplò con religiosa riverenza quelle bastie dalle quali era stato respinto Massimiliano I, don Chisotto fra gl'imperatori; si compiacque immaginare la pazza ira di quel superbo costretto a indietreggiare vinto da così debole castello, con la minaccia sopra le labbra, la paura nel cuore, con la veste lacera, chè una palla da falconetto gli aveva portato via una manica del suo robone imperiale di broccato d'oro trapunto di perle, la quale trovata poi fu venduta cento ducati. Il prode uomo si prostrò davanti alla statua che per ordine della Signoria di Firenze condusse di macigno Romolo del Tadda e collocata sopra la fronte del bastione del Villano in benemerenza della fede e del valore di che fece prova in cotesto avvenimento la gente del contado.

Ella era semplice come la virtù, bella come il fatto che le aveva dato origine. Rappresentava un villano con un palo in braccio, un sacco, un barile ed un cane ai piedi; denotava il palo le palizzate costruite e difese contro Massimiliano imperatore; il sacco e il barile, il pane e l'acqua, a cui stettero contenti gli assediati finchè durò l'assedio; il cane, la fedeltà pel comune di Firenze. E qui è cosa festevole assai notare come l'uomo, creatura superba, scelga un animale per significare qualche sua virtù, il cane per la fedeltà, il serpente per le prudenza, e simile. La verità scoppia la superbia, le bestie vagliono meglio di noi, forse perchè, come al creatore piacque, non compartiva loro la ragione[297].

Questo insigne monumento scomparve sotto il principato; in vece sua orna adesso Livorno la statua di un principe con quattro uomini incatenati sotto nella base, ingenua espressione della monarchia! — Chi è costui? Prima fu cardinale, poi principe della Toscana per retaggio del suo fratello maggiore morto di veleno. Quale impresa rammemora il monumento? Nessuno lo sa. La storia tace. Le statue ritte al principe vivo, più che dimostrazione di grandezza in lui, fanno testimonianza della viltà di chi gliele offriva. Non forse i Romani inaugurarono statue a Domiziano, a Nerone e a Caligola? Se i cranii dei Medici inariditi dentro le loro sepolture potessero formare un desiderio, certo vorrebbero rovesciati i propri simulacri. Oh! voi sapeste quanto è cosa dura la memoria a colui che si spense nel rimorso. I Medici già quasi avrebbero conseguito l'oblìo: le monete dalla loro effigie consumava il tempo: la storia udendo i delitti di quella turpe famiglia gittò lo stilo e non volle registrarli; chè nè tante furono nè tanto scellerate le colpe degli Atridi; e poi questi costrinse il fato, mentre nei Medici fu spontaneità di libidine e di sangue... — per altro non si ricorderebbero; stanno le statue: — in ciò che più agognarono, adesso rimangono puniti, — nella bassezza di turpi lusingatori. Durino quelle statue; non le logori il tempo, la inclemenza dei cieli non le offenda: i principi hanno elevato con le loro mani il proprio supplizio; — ogni uomo sa dove lanciare una maledizione: assai lunghi anni si conserveranno così. Quando mutilate cadranno ingombrando, masse deformi, il terreno, possa urtarvi dentro il cieco e rifiutarle, esecrandole, per seggio dove aspettare l'elemosina del popolano che passa.

Col sembiante dimesso, ravvolgendo mesti pensieri, passeggia il Ferruccio sopra la estrema sponda del mare; volge i suoi passi verso la parte di ponente, — ad ora ad ora solleva lo sguardo e geme, non trova luogo dove fissarlo senza che si rinnovi in lui un'antica memoria di dolore: guardando a man destra scorge la eminenza dove già stette Torrita, l'antica città; — in lei si agitarono alti spiriti, in lei fu copia di santi affetti, in lei care ricordanze, decoro di sapienza e di grandezza: adesso rimase ogni cosa sepolta, un denso strato di terra la ricuopre, un altro più denso di oblio; sparirono fin anche le rovine; il tempo non ha lasciato neppure una lapide dove piangere la morta città. Questo dileguarsi di città e di reami senza segnar traccia fra i posteri, — questo morire tutti e il non vedere differenza alcuna tra la estinzione di un popolo e la caduta dell'erba dei campi davanti la falce del mietitore, contristavano amaramente l'anima del nostro eroe. Nè gli giova meglio guardare a manca; quivi a breve distanza nel mare gli si presenta un monumento che richiama alla memoria un popolo italiano svenato da un altro popolo italiano, — la terribile battaglia della Meloria. Colà Pisa giacque sotto la fortuna di Genova. Oh nefande guerre fraterne!... Ferruccio dà volta e indirizza il cammino verso levante: adesso si pone a contemplare il cielo e le acque. — Magnifici elementi! Dapprima gli sembra che emuli poderosi vogliano cimentarsi percorrendo a gara il cammino della eternità sopra due parallele infinite, poi lontano lontano, quasi li prenda fastidio della corsa solitaria, — si riuniscono, — si confondono — continuano uniti il sentiero che loro avanza per giungere al punto determinato. Il mare spiana le acque perchè il cielo vi contempli dentro la propria bellezza, e il cielo ricambiando l'amore del fratello gonfia con l'influsso della sua luna le marine, col tremolìo delle stelle irradia i lembi dei flutti mormoranti; e quando la divina lampa del sole ha infuocato le sue sfere, non sembra che la deponga in grembo al mare perchè si riscaldi a sua posta? In riva al mare sorgeranno per avventura pensieri strani, se vuoi, ancora bizzarri, ma sempre grandi: nè alcuno presuma immaginare alti concetti, se prima non contempla questa gloriosa creazione di Dio: se mai tu ti affacciassi al mare, e il cuore rimanesse muto dentro di te, calca di un piede l'aratro e rompi il seno della terra, — la natura ti destinava per questo.

Lo spirito del Ferruccio per siffatte immagini si estende; concepimenti sublimi si affollano come ispirazioni al pensiero di lui, ch'egli si affatica a ridurre a tale che possa la favella significarli e l'altrui ingegno comprenderli. Quasi tratto fuori di sè, si percuote la fronte e, gli occhi fissi nell'alto, esclama:

«Magnifica, Creatore, l'anima mia, — pel mio cuore basta!»

Vico Machiavelli si accosta frettoloso al Ferruccio, grave cura lo preme, — da lontano lo chiama, — quegli non ascolta, — replica la chiamata e sempre invano; — giuntogli dappresso, lo scorge, quasi tolto a' sensi diversi, tendere ansioso lo sguardo su le acque, come farebbe la madre che affidò il figlio all'Oceano per iscoprire la vela che deve ricondurglielo tra le braccia; e poichè alla voce aggiunse il tirare della veste, Ferruccio lo guarda in volto e favella:

«Chi sei? Perchè mi togli la visione della mia gloria? Vico, tu qui?» — e, senza attendere risposta, continua: «Vieni, siimi testimonio che in questa ora Dio mi ha rivelato il disegno di poter tutelare non solo la libertà della patria, ma cambiare la faccia all'Italia, — forse anche il mondo. Vedi là oltre?» — e col dito gli accenna davanti a sè, — «là oltre è Africa; piegando alquanto a levante, quasi dirimpetto a Roma, giaceva Cartagine... Quando la fortuna di Annibale prostrava le forze romane in Italia, i padri nostri ardirono accogliere lo stupendo divisamento di portare la guerra in Africa, e Scipione mutò i destini del mondo, però che Annibale accorrendo in aiuto della patria, — all'aquila romana tornò il cuore a riprendere il fatale suo volo a traverso la terra[298]. Più che le libertà italiane premono ai Dieci e alla Signoria di Fiorenza le case e masserizie loro; la fortuna di rado favorisce i meschini concetti, spesso gli audaci. Essi mi hanno rivestito di facoltà che paiono amplissime, ma sottosposte alla condizione di volgermi più che io possa veloce alla tutela di Fiorenza: Corri, mi hanno detto, ma dentro il circolo che noi ti segniamo. — Ah! mi avessero dato balìa di movermi a mio talento, ecco, imitando l'esempio di Scipione, giorno e notte camminando con passi accelerati, mi spingo a Roma, sorprendo papa e cardinali, distruggo il papato, sciolgo il voto del Frangsperg[299], — le dottrine di Lutero, che già serpeggiano, non pure nel popolo, ma nelle reggie dei principi[300], confermo, — la mia causa aggiungo a quella dei riformatori in Germania, — scuoto il seggio di Carlo, — libero a un punto l'Italia dal giogo spirituale e temporale, — rifabbrico il Campidoglio, — resuscito il popolo romano...[301] Ahimè! questo pensiero mi ucciderà; bisogna che tenti dimenticarlo. Chiudiamoci in Fiorenza, manteniamo viva la lampada, dacchè ci è conteso suscitare l'incendio; anche qui occorre pericolo, anche qui è gloria.»

Vico, lasciato trascorrere alcun tempo, favellò:

«Signor commissario, Giampagolo Orsini a grande istanza domanda restringersi a parlamento con voi.»

«Colonna... Orsini..., che vuol da me questa lebbra d'Italia? Per bene egli certo non giunge. La Repubblica ebbe abbastanza di loro. Va' e riportagli da parte mia che s'ei viene a restituire il danaro che sotto fede di condurre dugento fanti e dugento cavalli ai servigi di Fiorenza si rubò il suo consorte abate di Farfa[302], gli renda e si vada con Dio: traditori, per somma sventura, ne possediamo anche troppi.»

«E non pertanto», soggiunse Vico, «ai modi aperti di lui e alle sembianze giovanili, avrei giurato non fosse uso a male opere...»

«Non importa; per essere giovane, non morde meno velenosa la vipera... Ma tu lo dici giovane: di lui non intesi mai novella. Come si chiama suo padre?»

«Renzo da Ceri, uomo assai riputato nella milizia, nè per quanto io sappia, contaminato da brutta fama. Almeno il Cristianissimo lo esperimentò fedele, quanto valoroso capitano.»

«È vero; — lo udrò, — mi aspetti.»

Dopo breve ora, Ferruccio si presentò all'Orsini e conobbe, come gli aveva riportato Vico, essere giovane di belle non meno che di prestanti sembianze. Lo guardò fisso in volto e con voce aspra lo interrogò:

«Orsini, che domandate voi dal commissario Ferruccio?»

«Signor commissario», risponde Giampagolo arrossendo e declinando modestamente lo sguardo, «la fama che in tanto breve spazio avete saputo meritarvi grandissima empie tutta la Italia. Qua mi trasse amore della vostra virtù e desiderio di combattere per la causa che sostenete. Ormai questa impresa diventò tale che le più inclite spade d'Italia vi sono concorse per una parte o per l'altra: ella è amara cosa pensare come non sieno tutte concorse dalla parte più giusta, — ch'è la vostra; — colpa delle nostre voglie divise ed anche del fato, imperciocchè senza intervento dei destini mal saprei dichiarare a me stesso la cecità degli Italiani raccolti nel campo imperiale, i quali guerreggiando Fiorenza par che non veggano come con le proprie mani si lacerino le viscere; — io poco offro alla libertà di Fiorenza, o piuttosto d'Italia, — ma se non offro di più, non m'incolpate; vi do quanto possiedo di danaro e di sangue.»

«Giovane, la causa che piace a me, non sembra che piaccia alla fortuna. Gli Orsini poi cercarono sempre e sopra tutto la fortuna.»

«Commissario, conosco le colpe dei miei padri e le detesto. Per quanto mi fosse concesso operare in pro dell'Italia, assai di leggieri comprendo non potrei a gran pezza ristorare il danno che le arrecarono i miei. Ma s'è folle che il nipote insuperbisca pei vanti paterni, ingiusto è del pari che a cagione del padre si abbia a disprezzare il figliuolo: e certo voi, commissario Ferruccio, non accogliete sì bassi spiriti nè contenderete che un giovane procacci con la sua spada la sua fama, nè vorrete ch'io getti via disperato una vita che potrei spendere utilmente pel mio paese, gloriosamente per me.»

«Udite, Giampagolo, giunto a questa parte della età mia, per amara esperienza, ho conosciuto che il linguaggio quanto più si mostra generoso, tanto maggiore abiezione dell'animo adombra.» — Qui il giovane alzò gli sguardi e li tenne fieramente fermi negli sguardi del Ferruccio, il quale continuava: «Però questo non dico per voi, Giampagolo, imperciocchè se la ipocrisia potesse mentire, come fate voi, non dirò favella, ma colore, sguardo e tutto in somma, allora davvero mancherebbe ogni via per iscoprire la virtù, e col timore di essere ad ogni momento tradito la vita non meriterebbe il pregio di essere conservata tra tante tribolazioni. Venite dunque a parte di quei pericoli e di quella gloria che mi destinano i cieli, certo almeno di questo, che, qualunque sia per essere la nostra fortuna, non mancherà di chiara ed onorata fama.»

L'Antinori si ostina.... Cap. XXVII, pag. 626.

Giampagolo gli strinse la mano, Vico l'altra, e fecero atto di volergliele baciare; lo impediva il Ferruccio, che commosso altamente diceva:

«No, no, venite tra le mie braccia: aveva un figlio, ora mi trovo a possederne due: non dubitare, Vico, basta a tutti l'anima mia. Orsino, buon augurio mi dai, tu mi accresci le forze alla speranza.»

Questo fatto io trovo registrato da tutti gli storici, nè io ho voluto tacerlo, e tutti quelli che con auspicio ed ingegno migliori prenderanno a parlare di questi tempi, scongiuro a non lo lasciare inonorato. Certamente lo straniero si meraviglierà di questa lode, e non saprà persuadersi come si abbia a levare a cielo azione così naturale. I comandamenti della legge di Dio non dovrebbero per avventura comprendere ancora il precetto al cittadino di sovvenire con tutte le forze la propria patria? Giampagolo Orsini non aveva forse sortito i suoi natali in Italia? Ma lo straniero cesserà la maraviglia per due cause: una che senza la mia spiegazione gli sarà nota, cioè che gli uomini in generale sogliono i comodi anteporre alla fama; l'altra poi (e quantunque mi gravi dirla, la manifesterò ad ogni modo, poichè a me non piaccia la ipocrita carità patria che dissimulando le colpe assopisce con encomii bugiardi, e ufficio vero di buon cittadino consideri la rampogna acerba che conduce all'ammenda) abbisogna di commento italiano, ed è questa, che o per ira di Dio o, come credo piuttosto, per tristizia degli uomini, fummo e siamo noi altri Italiani siffattamente divisi che il Romano crede avere che fare col Fiorentino quanto con un abitante dell'Oceania o di quale altra più remota parte del mondo. I Piemontesi si reputano così estranei alle cose d'Italia che, favellando con Toscano, Romano o Napoletano, hanno in costume di designarlo così: — Voi altri abitanti d'Italia. — Questo mal seme funestando il nostro paese nei tempi di che si parla anche più fieramente che ai nostri, l'azione dell'Orsini non parrà ufficio patrio, ma sibbene amore purissimo degli uomini e della libertà.

Il Ferruccio, lasciata Livorno, si riduce a Pisa: qui appena giunto gli scemò la speranza, non l'animo. Gli aveano dato i Signori poteri ampissimi, anche di donare terre e città, ora che da Volterra e Pisa in fuori non ne tenevano altre nel loro dominio; lo avevano eletto generalissimo degli eserciti, nè gli mandavano gente o pecunia per farne; soffriva i tormenti di Prometeo, si assottigliava l'ingegno per trovare danari, e non rinveniva il modo; n'ebbe dall'Orsino, ma pochi: egli davvero si sarebbe coniato anche il cuore. Quantunque di natura piuttosto superbo che altero: come Provenzano Salvani[303], si condusse a tremare per ogni vena supplicando fin colle lagrime i più facoltosi tra i cittadini pisani, affinchè gliene imprestassero, offrendo sicurezza sopra i suoi beni e su quelli dell'Orsino: vedendo non fruttare le preghiere nè la promessa di largo guadagno, mutata mente, impose pagassero; chi rifiutasse sarebbe carcerato; sopportassero tutti la taglia così cittadini come forestieri; e poichè uno di loro disse avrebbe sostenuto piuttosto morire di fame o impiccato che pagare pure un quattrino, comandò nessuno ardisse recargli cibo o bevanda. L'ostinato Pisano non perciò si rimuoveva[304], e il Ferruccio sempre più si fermava nel suo proponimento, e lo avrebbe per certo fatto impiccare, se i suoi parenti pagando per lui non lo avessero liberato[305].

Nè già si creda che nel Pisano ciò fosse tutta avarizia, ma in gran parte rancore contro i Fiorentini, i quali dopo ferocissima guerra più che quindicennale tolsero alla sua patria la libertà. Fu questa veramente colpa dei Fiorentini, della quale però gli avrebbe, non che assoluti, celebrati la ragione politica, se, come intendevano, riuscivano a dominare sopra la universa Italia. Tra la serie infinita di sventure volle il destino che il concetto medesimo agitassero i principi e le repubbliche d'Italia, ma le forze si trovassero così equilibrate con quelle degli altri, tanta sapienza dimostrassero gli stati a stringere lega tra loro, onde altri non crescesse, che nessuno potè condurlo a fine; sicchè le conquiste delle terre vicine, mancato lo scopo, parvero ingiustizie, l'esito non giustificò la rapina; suscitaronsi odii che non poterono poi spengersi con i vantaggi di bene universale; l'amore di municipio non si trasfondendo nell'amore di popolo italiano, diventò furore. Adesso la piaga non duole... perchè la si è fatta cangrena.

Mentre più si travagliava il Ferruccio in questa faccenda, Luigi Alamanni, istando presso la nazione fiorentina stanziata in Lione, raccolse certa quantità di pecunia e la inviò speditamente al valoroso commissario[306]. Riprese lena, si dette a levare gente, formò nuove compagnie, mescolò agli inesperti certa quantità di provati, esercitò tutti, rivide le cittadelle e le munì; scrisse lettere ortatorie agli uomini del contado e ne ottenne cavalli. Molti lavoratori si presentarono co' loro arnesi rurali, ed ei ne formò due compagnie di marraiuoli senza provvederli di altre armi, perocchè sapeva che gl'istrumenti co' quali si lavorava la terra sono eziandio molto bene acconci a difenderla; ragunò vettovaglie, apprestò cariaggi, scale, polvere, ogni maniera munizione. Considerando dovere tenere la strada per vie dirupate, alle artiglierie impraticabili, per non rimanere privo di questo potentissimo mezzo di guerra, ordinò dodici moschette o vogliamo dire spingarde, da potersi accomodare in qualunque più arduo luogo mercè alcuni cavalletti molto agevoli al trasporto, finalmente apprestò copia di trombe di fuoco artifiziato e distribuì ad ogni capitano la sua. L'antico Briareo non sembrò più favola, egli operava ratto e molteplice, come se la natura gli avesse compartito cento braccia e cento teste.

Però mentre a tante cose provvedeva, dimenticò sè stesso. La vigilia prolungata, i soprumani travagli, l'oblio degli alimenti lo fecero macro, gli occhi gli diventarono vitrei e fissi, sopra le guance pallide ad ora ad ora appariva una striscia di colore etico. Un giorno, mentre più acuto costringeva il pensiero alla meditazione, gli si turbò il cervello; come arco troppo teso si rompe, e il dardo pronto a volare nel brocco cade senza forza od obliquo, così la sua immaginazione giacque spossata; sente lo sfinimento del naufrago sopraffatto dalle onde burrascose, gli si abbuia l'intelletto; la febbre, la quale dopo le ferite tocche a Volterra quando più quando meno non gli aveva mai dato tregua, gli riarde il sangue e gli ricorda essere la sua anima legata pur sempre all'inviluppo di carne.

Lo tormentò un lungo delirio, ma anche nel disordine delle facoltà intellettuali splendè luminoso a guisa di stella che tolta all'armonia dei cieli si avvolga nella sua vagante carriera non meno lucida di prima. Furono le sue visioni di patria, di battaglie, di gloria, qualche volta di sconforto, ma rade e passeggiere, quasi tenue nuvola presto portata dall'ale dei venti traverso il disco della luna.

Risensato appena, solleva il fianco ed esclama:

«Abbiamo combattuto? Abbiamo vinto? — Ah! il morbo mi tiene giacente nel letto. — Porgetemi l'arme; io non ho tempo di trattenermi ammalato, non voglio essere infermo... anche un mese di salute, fortuna, poi a cui la vuole gli dono la vita...»

A queste aggiunse altre parole, nè i circostanti riuscirono a fargli deporre quel suo proponimento, se il medico discreto non lo ammoniva che in cotesto modo agitandosi prolungava la sua infermità con danno inestimabile della patria.

«Vico», disse un giorno al Macchiavelli, «chiamami i miei capitani, la vista di questi prodi uomini mi conforterà l'anima. Ahi quanto mi travaglia Fiorenza!»

E i capitani vennero, coperti di armi maravigliose, a vedersi; e il Ferruccio esultò e,

«Alzatemi», soggiunse, il gonfalone col motto di LIBERTÀ davanti gli occhi; se gli occhi, sollevando io non vedo le pieghe di questo venerato vessillo occupare parte dell'azzurro del firmamento, parmi vedovo il cielo, — non mi riesce di pregare Dio. — Anime generose, deh! non mi mancate in tanto estremo, obbedite adesso ad ogni mio comando.... Voi lo vedete... non ve lo chiedo per me... per la patria vostra lo chiedo... a voi tutti palpita un cuore... voi tutti avete od aveste una madre... una donna... una cosa cara nel mondo, — voi non rallegrerebbe questa dolcezza di amore senza la patria.... Amate... amate la patria.... Credete in me, — Dio non ne sarebbe geloso, se voi l'amaste anche sopra di lui.»

«Capitano Ferruccio, state di buon animo, noi vinceremo o ci faremo ammazzare con voi.»

Il giorno veniente ordinò si schierassero i soldati lungo le sponde dell'Arno; egli sorretto da Vico e da Giampagolo si accostò al balcone per contemplarli, — erano tre mila pedoni, trecento circa cavalieri, — buona gente, ma pure tre mila trecento. Ferruccio stette a considerarli con liete sembianze, poi all'improvviso si fece tristo, e tanto non potè frenare la interna passione che non prorompesse in queste acerbe parole:

«Ecco lo sforzo d'Italia per combattere lo straniero. Tre mila trecento uomini e con pene di sangue allestiti. Quanti eravate schierati su queste sponde medesime e di una sola città d'Italia, — di Pisa, — quando moveste a battaglia di morte contro una città sorella... la repubblica di Genova? Sedici mila rimaneste morti o prigioni nella terribile battaglia della Meloria[307]. E un sacerdote benedisse le armi raccolte alla strage fraterna; ma Cristo abborrì rimanersi complice a tanta nefanda scelleraggine, e poichè le mani aveva inchiodate, per farsene velo agli occhi, si staccò dal gonfalone e traboccò su le pietre con caduta più dolorosa... avvegnachè contemplasse dai cieli essere stato il suo sacrifizio indarno, — le sue parole di pace scese come rugiada sopra la sabbia del deserto... e il suo cuore si contristò... e gli angioli piansero...[308] Su, alzatevi, fratricidi, lasciate i vostri sepolcri di acqua e di terra, venite ad ammendare le colpe prima che la tromba vi chiami al supremo giudizio... Silenzio! — il sepolcro apre la bocca, ma per divorare soltanto... O forsennati! migliaia foste a trucidarvi fra di voi; — giungete appena alle diecine per combattere lo straniero!...»

Dove nacquero, come si chiamarono gli eroi che, comunque pochi, pure in cotesti tempi giunsero a tre mila trecento in Italia disposti a vincere o a morire per la libertà?

Non isbigottirti, lettore; non è questa una minaccia di rassegna d'esercito. Io non mi sento epico abbastanza da cimentare così la tua pazienza; e poi, tu il sai, io rinnego la pazienza per virtù nè vorrei che tu la possedessi, lettore, almeno per ora. — Assicurati: — le rassegne soglionsi porre nei secondi canti, e potrai, volendo, riscontrarle in Omero, Tasso e negli altri santi della poesia scolpiti in pietra e da secoli esposti entro le nicchie alla adorazione delle genti; — io me ne sono dimenticato quando ci cascava il taglio, e adesso è troppo tardi per riparare il fallo.

Dove nacquero questi eroi non so, come si chiamarono, tranne pochi, nemmeno; — ma di questi pochi, vinci il fastidio, amico lettore, se sei italiano, e leggi i nomi — nudi, — soli, — non fosse altro per gratitudine e per imporne uno al figliuolo che sta per nascerti: potresti fare di meno in onoranza di guerrieri che dettero la vita, tentando conservarti la libertà?

Vissero uomini (che Dio li perdoni) a cui talentò calunniare la gloria e dirla polizza giuocata alla lotteria della storia, fumo, sogno e mattana. — Non è forse sfrondato abbastanza l'albero della vita onde ci affatichiamo ad abbatterne le ultime foglie? — Evvi una gloria che presto si spenge, come la luce della farfalla detta lanternaia, côlta dalla morte e ve n'è un'altra nella di cui lampada il tempo versa secoli e secoli per alimentarla. Evvi una gloria per gli oppressori dei popoli, e ve ne ha un'altra pei liberatori; — la prima danno gli uomini, la seconda scende dal cielo. — Salute, o vera gloria! Nè calunnia nè dubbio potranno mai tanto accecare l'uomo che non veda questa stella polare della sua vita. Tu scintilli traverso le mura del carcere, — tu coruschi anche sul ferro della scure. Pochi anni bastano a disperdere le dovizie raccolte, — la verga del potere tosto o tardi si rompe come vetro nelle mani dei potenti, le tombe orgogliose, le piramidi stesse non salvano dall'oblío; — ma tu fedele al tuo amante irradii il suo tumulo modesto; — le generazioni che uscirono dal tuo fianco quinci derivano ogni giorno decoro, nè tu consenti che impallidisca per tempo; il tuo iride divino, volga la stagione procellosa o serena, non iscomparisce mai dal cielo dei generosi. No, — non è un sogno la gloria, se dopo tre secoli di morte e di servitù, palpitando cerchiamo i nomi dei difensori della libertà patria, se gli rinnoviamo nei nostri figliuoli, se nel pronunziarli il sangue nei suoi moti si accelera.

Si rammentano dunque Giampagolo Orsino, Vico Macchiavelli, Sprone e Balordo da Borgo San Sepolcro, Paolo, Giuliano, Francesco e Grigione Corsi, Capitanino da Montebuoni, Vaviges Francese, Antonio da Piombino, Nicolò Masi, Gigi Niccolini, Goro da Montebenichi, Bernardo Strozzi, Amico Arsoli, Alfonso da Stipicciano, il conte Carlo da Civitella, Carlo da Castro ed altri assai di cui non mi è avvenuto rintracciare memoria.

Papa Clemente, terminata la guerra, fece trasportare a Roma gran parte delle scritture concernenti l'assedio, e affermano le bruciasse. Forse un diligente esame nell'archivio delle riformagioni a Firenze potrebbe resuscitare alla fama nomi ignorati; ma cotesto archivio è diventato un altro Eden dopo il fallo di Adamo, e certo dopo la perdita del paradiso nessun'altra sventura può affliggere più crudelmente l'uomo della perdita della libertà, — un orto esperide col dragone che guarda i pomi d'oro. Bene sta; le polveri si tengono chiuse... badate alla favilla[309]!

Passati che furono davanti gli occhi del Ferruccio i soldati da lui raccolti, trovò essere, come abbiamo avvertito, in tutti tremila fanti e trecento cavalli; ondechè fidando nel fiero portamento di loro e nell'aspetto animoso, sorrise alquanto e soggiunse:

«Comunque pochi basteranno; perchè, vedete, figli miei, se incontriamo forze pari od anche una metà maggiori, noi le vinciamo di certo ed entriamo in Fiorenza: o ci muovono incontro grossi i nemici e sforniscono il campo, e allora escono i nostri e lo mettono in rotta. In ogni caso l'impresa è vinta; ma Orange si rimarrà al campo, perchè partirsene sarebbe troppo grave errore di guerra.

Era da circa mezz'ora suonata l' Ave Maria della sera. Giovanni Bandini se ne stava pensoso, tuttavia sotto l'influenza di cotesto istante del giorno in cui la luce che muore ci ammonisce che tra poco anche la nostra vita passerà così: istante solenne che ci ritrae le passate vicende come un punto luminoso o come una nuvola nera in fondo all'orizzonte; — che ci schiude le labbia ad un mesto sorriso, o ci nasconde mezzo le pupille sotto le sopracciglia aggrottate, secondochè il pensiero evoca memorie di delitto o di virtù; — istante pieno della prossima eternità.

Gli occhi del Bandino non guardano il cielo; — quivi non isplende stella per lui, — non lo conosce per patria, — dal cielo non aspetta inspirazione, ma castigo. — Se gli fosse dato di aggiungere le dimore celesti, vorrebbe pervenirvi come Encelado, o vincitore, o fulminato. — Contempla la terra: che guarda egli sì intento? — Forse l'immaginazione gli mostra le sue colpe convertite nei vermi che dovranno divorare il suo corpo? — Nè rimorso nè passione possono mutare quel suo volto... — è diventato di pietra.

Un tocco sopra la spalla gli fece cambiare attitudine, quantunque a rilento e quasi suo malgrado, ch'egli si compiaceva a pregustare gli orrori dell'inferno; nè a prima giunta ravvisando il sopraggiunto, con voce pacata interrogò:

«Chi sei?»

«Messere Bandino, io sono Pirro Colonna.»

«O Stipicciano, che volete da me? Nulla di buono per certo...»

«Forse che sì; — io vengo da Roma.»

«Volete dire dal contado. Roma ha giudici che prima di pronunciare sentenze se la intendono col papa, — e Roma ha patiboli pel vostro collo, messer Pirro.»

«E nonostante questo io vengo proprio da Roma, dove fui a baciare i piedi santi del beatissimo padre.»

«Ma non vi ha egli scomunicato?... non vi pose addosso la taglia?»

«Il cielo ei può serrare e disserrare. Sebbene quello che a me sopratutto premeva si era che non mi serrasse il collo. Non tolse il nome di Clemente in simbolo della clemenza e mansuetudine sua?»

«Ah! non ci pensava adesso.»

«Or bene, sappiate che siamo ridivenuti amici carissimi, se mai ne vissero altrettali al mondo: guardate questo segno... lo ravvisate? — Io devo conferire con voi cose che Sua Santità mi ha rivelato in arcanis. Siamo sicuri?

«Parmi di sì: favellate.»

«In qual concetto tenete il principe Orange?»

«Lo reputava meno francese: il suo cervello due terzi del giorno ha sommerso nel sonno e nel vino, l'altro terzo nel giuoco; animoso è molto, — io però ho veduto mastini molto più valorosi di lui.»

«Il papa crede diversamente, — lo reputa uomo da prendere la Toscana per sè, — da condurre in moglie la duchessina..., da lasciare insomma quel dabbene duca Alessandro come l'arme di casa Pucci, — un moro senza corona.»

«Chi disse al papa siffatte novelle?»

«Forse nessuno, — le avrà immaginate... sospettate...; or che mi ricordo, affermava essergli state riferite da tale che udì vantarsene l'Orange.»

«Il papa s'inganna.»

«Silenzio! Non vi preme ella l'anima vostra? Il papa è infallibile.»

«Orange non conserva un pensiero più di cinque minuti, per timore che non gli arrechi il dolore di testa.»

«Ma il papa non vorrebbe differirgli più di oltre il regno dei cieli: in questa faccenda ci guadagnano tutti, — l'Orange primo, che va in paradiso di volo, perchè il santo padre gli manda pel viaggio tre once di piombo e non so quante libbre d'indulgenze plenarie, — misura di carbone pesato alla stadera dell'Elba, che ha la prima tacca sul mille; ci guadagniamo noi che attrapperemo una diecina di prebende, — non furono istituite per darsi a coloro che recitano il breviario alla gloria di Dio? Noi serviamo a Dio ben altro che con uffizi. — Il papa si libera da' suoi timori; — povero vecchio! In verità abbisogna di spirito riposato per questi giorni che gli avanzano a vivere. Rimane il rimorso, ma il papa tiene i rimorsi in conto di zanzare; — con buone cortine se ne difende, e bisogna crederlo, perchè lo ha provato, povero vecchio! — Gli eredi acquistano più presto il retaggio; — gli scultori innalzano più presto il sepolcro; — i poeti percuotono la musa, come una moglie dopo dieci anni di matrimonio, per farla piangere lacrime di Elicona. Per me credo che, a dirlo allo stesso Orange, risponderebbe: Il papa ha ragione: — però il santo padre non desidera sia consultato, e afferma che quando si fa la cosa utile, non importa ottenere il consenso di colui in vantaggio del quale la operiamo.»

«Orange ha una spada... non basta... gli manca una testa, — peggio per lui; — non è vela acconcia per nessun vento, — morrà, — non mica perchè pericoloso, ma perchè a nulla buono; — per me poi... Ah! per me ormai corre buon tempo ch'io non conto più — colpa dei teologhi, i quali al primo delitto non dovevano comminare l'inferno per sempre; — ora, o dieci o mille, la eternità dura lo spazio medesimo. Orange è morto, — ho già trovato il modo. Quando giace morto qua dentro», e si toccò la testa, «poco può andare ch'egli si giaccia morto nel camposanto. — Messer Pirro, siate diligente a segnarvi con la vostra compagnia di qui a due ore tra le bande degli archibusieri che partiranno pel contado di Pistoia.»

«Ma, per quanto ho udito e vedo, — nessun si muove nel campo.»

«Buona notte, — tra due ore... intendete... anche una parola di più, sarebbe di troppo[310]

Forse due ore correvano dacchè aveva avuto luogo il colloquio riferito qui sopra, quando due uomini uscendo con molto riguardo fuori di Firenze dalla porta di San Pietro Gattolini, indirizzavano celeri i passi alla volta del campo. Percorsero un tratto di strada taciti e uniti; all'improvviso uno di loro si fermò e disse all'altro:

«Cencio, qui conviene separarci: siamo alla fine; ora sì che bisogna adoperare arte e destrezza, — è l'atto quinto; dopo di questo potremo volgerci al pubblico e comandargli, come i personaggi di Terenzio al termine della commedia, Plaudite. »

« Plaudite! E se il mondo ci saluta con tale un fischio che l'eco ne rimbombi dentro l'inferno?»

«Ci consoleremo con l'antico detto del dio Momo: Nè anche Giove piace a tutti; — parteciperemo la sorte di tutti i grandi intelletti che in vita o furono calunniati o derisi o spenti, — in morte onorati come santi. Ai Fiorentini non piaceremo di certo, almeno io; ma vi sono apparecchiato, perchè Gesù Cristo lo ha detto: Nessuno è profeta in patria sua. Tu vedi che se ti danni, ciò non avviene senza buone autorità sacre e profane.»

«E sopratutto senza compagnia. Dio vi abbia nella sua santa guardia, messere Bandino.»

Fu cotesta una notte consacrata ai tradimenti. A quattro ore di notte Cencio Guercio ritornò a Firenze, e dopo breve spazio di tempo Malatesta Baglioni e il principe Orange, senza altra compagnia che di due uomini d'arme, s'incontrano presso la porta Romana[311].

«Messer lo principe», cominciò il Baglione, «tutta la fortuna della guerra si è ridotta sopra un trarre di dadi. Si accosta il commessario Ferruccio, capitano valoroso, fortunatissimo...»

«Capitano italiano, — soldato da insidie; — noi stiamo a buona guardia, ed egli non ardirà tentare l'assalto...»

«Signor vicerè, dov'io non fossi stato, a quest'ora avrebbero rotto quattro volte il vostro campo. Adesso non corre stagione di garrire fra noi, — lasciamo le parole, che menerebbero troppo in lungo il discorso. Ferruccio ha per avventura maggiore l'audacia che il senno; però senno ha molto. Ferruccio conduce gagliardissimo esercito, e se giunge ad entrare in Fiorenza, potete pensare a ripiegare le tende.»

«Mi hanno riportata la sua gente sommare appena a duemila fanti e a cento cavalli...»

«V'ingannarono. Dai ragguagli che egli, il Ferruccio, ha spedito ai signori Dieci risulta menare seco cinque mila fanti e mille cavalli almeno.»

«Ne siete sicuro, signor Malatesta? Egli è poi vero tutto quanto mi dite?»

«Vero come un giorno dovremo andare in luogo di salute.»

«Che fa quel Baccio Valori, che mi porta sempre notizie le une più fallaci delle altre? Veramente adesso è tempo di stare a sollazzarsi coi libri greci e latini! — Egli è mestieri ch'io vi pensi sopra...»

«E mentre pensate, l'occasione fugge. Urge adesso, messere lo principe, non mettere un momento fra mezzo. Togliete con voi il fiore dell'esercito, andategli incontro e opprimetelo nei monti di Pistoia.»

«E il campo me lo guardate voi, Malatesta?»

«Pur che andiate presto, io ve lo guarderò.»

«Sono io bene sveglio? Siete voi che mi parlate, Malatesta? O mi credete così semplice da intricarmi in siffatte reti? Ben altri ingegni che non sono i vostri si richieggono, o Malatesta, per ingannare un Orange.»

«Vicerè, io non inganno. Il papa mi assicura un guiderdone che non saprei sperare nè desiderare maggiore: — ponete gli occhi su questo breve.»

E tolta di mano la lanterna ad uno de' suoi uomini d'arme, presentò all'Orango la carta dei patti firmata dal papa; — quindi, ripostasela in seno, continuò:

«La parca Fiorenza non potrebbe, nè anche volendo, darmi tanto. Ora dunque vedete che preme a me consegnarvi la città per lo meno quanto a voi preme prenderla. Non dubitate: — io mi terrò fermo finchè non torniate vittorioso.»

«Andrò — ma farò spargere voce ch'io non mi allontano; sia vostra cura confermarla; — ritornerò tra poco: — mi basta la vista, — due giorni o al più tre. Però in ogni caso fatemi una polizza con la quale con sacramento vi obbligherete a non uscire di Fiorenza finchè io non torni, — altramente non avrei scusa. — Rodolfo, andate a procurare una penna e una carta.»

«Lasciate la polizza. Non basta a voi quello che basta al pontefice?»

«Non basta.»

«Ma sentite: la carta non ha mai trattenuto nessuno; — voi capite lei essere tanto fragile cosa che non resiste alla pressione di un dito.»

«Non importa. Io la pretendo ad ogni modo.»

«Ed io la farò.»

«Scrivete. Noi, Malatesta Baglioni, sotto sacramento ci obblighiamo e promettiamo di non uscire nè lasciare che altri esca di Fiorenza prima del ritorno nel campo...»

«Ritorno nel campo...»

«Del principe Orange. In fede. — Apponete il vostro nome.»

«Dunque siete sicuro di ritornare...?»

«Al più lungo fra tre giorni.»

«Addio. Lasciate ch'io vi stringa la invitta destra. Vi accompagni la fortuna. Buon viaggio!»

«Apparecchiate le feste: ci rivedremo fra tre giorni.»

«Quando mi sono fregato la bocca, chi potrà accusarmi di aver bevuto del vino? — Buon viaggio! — Va'; — nel viaggio che imprendi nè ti si stancheranno le piante, nè ti rovescerà il palafreno. — E poi vi ha chi cerca le lame di Brescia o di Damasco! — Stolti! — La intenzione dell'uomo taglia meglio di qualunque acciaro. Qual pugnale potrebbe vantarsi di ferire più giusto delle mie parole? Tornerà fra tre giorni... ed io non devo uscire finchè ei non rivenga in campo... per Dio! ciò mi obbliga a starmi in Fiorenza per una eternità... e quello ch'è peggio, l'ho promesso con giuramento... basta, il papa mi acconcerà con Cristo. — O Cristo, tu pure per la tua parte dovresti sovvenire la giusta causa! Deh! pensa tu a far morire il Ferruccio, come io ho pensato a far morire l'Orange! Allora comincerò davvero a conoscere che ti sta a cuore la Chiesa, ed io andrò persuaso di essere accolto fra gli eletti in paradiso, alla tua delira, Amen. »

Così l'empio Malatesta scherza col delitto e con l'inferno. Dio non paga il sabbato.

Vedeste mai più immobile cosa delle arene del deserto finchè il vento tace? Le sferza il sole co' suoi raggi, — le pestano le piante dei dromedari e dei cammelli, — la caravana vi procede sopra spensierata come sul cimitero della natura: all'improvviso ecco comparisce una nuvola infuocata, — subito dopo il soffio sterminatore; e la bufera del deserto rugge più terribile della procella del mare; — qui arte di nocchiero non giova, — ogni argomento umano vien meno, — quasi serpente inferocito ravvolge la sabbia nelle sue interminabili spire uomini e animali: — dov'è la caravana? Tra un centinaio di secoli una mummia d'uomo, un osso fossile di dromedario o di cammello faranno testimonianza che un giorno fu calpestato il deserto. — Così il popolo.

Il due di agosto corre una voce, il principe Orange, lasciato il campo, aver mosso contro al Ferruccio; il fiore dell'esercito accompagnarlo; la fama, esitante dapprima, si difinisce e conferma, siccome avviene quantunque volte precorre la verità. Il popolo solleva la faccia contristata per vedere se alcuno viene a sovvenirlo di consigli o di comandi. Gli uni non mancarono nè gli altri. I giovani della milizia, e sopra tutti Dante da Castiglione, presero a dire essere venuto il tempo di combattere, porgere Dio nella sua misericordia l'occasione per liberare la città: il popolo s'infiamma, la parte migliore dei magistrati acconsente, il gonfaloniere esulta ancora egli e promette in tanto stremo non si rimarrà neghittoso a vedere.

Due dei Dieci andarono in gran fretta a trovare Malatesta Baglioni e Stefano Colonna, e a pregarli che volessero rendersi al palazzo per consultare; ambidue si mostrano rilenti a obbedire, pur vanno, — il primo in compagnia di cinquecento soldati, armato di corsaletto e di celata.

Per le scale del palazzo Zanobi Bartolino ricambia una parola col Malatesta, e con quella parola gli pone in mano il pugnale per trucidare la patria.

Stavano adunati la Signoria, i Collegi, i Dieci, i Nove e i gonfalonieri dei sedici gonfaloni. Quivi con acconce parole Rafaello Girolami espose; la mente del governo essere di rassegnare l'esercito e poi rimettersi in tutto all'arbitrio della fortuna e combattere. Malatesta a siffatta proposta rispose le seguenti parole riferite da Giovambattista Busini[312].

«Signori, io sono venuto a farvi reverenza ed ho indugiato sino ad ora perchè mi era detto che le Signorie Vostre mi volevano gettare a terra di questo palazzo; tal vedo tra voi che mi mostrò sempre aperta, la finestra dalla quale fu precipitato Baldaccio; — e pur ora, salendo, udii dire da uno dei vostri cittadini: Va' pur su, va' pur su; tu non uscirai. Io non sono traditore, ma vi affermo che poco più avete rimedio a salvarvi.»

«Noi non vi chiamiamo», riprese il gonfaloniere, «per udire discolpe, — conosciamo a prova la fede e prodezza vostre, e in queste intieramente noi confidiamo. Nei liberi reggimenti non è da farsi conto delle parole che si vanno ad ogni ora spargendo dintorno dai malcontenti e più spesso dai tristi; a voi basti possedere la fidanza della Signoria. Noi vi chiamiamo per sapere quanta gente abbiamo e per fare la rassegna[313].

«Voi avetene poca.»

«Quanta poca? Non paghiamo dodicimila paghe? Che dite voi? Perchè ci fate pagare tanti danari non avendo gente?»

«Per mantenere la reputazione a voi e a me; perchè se i nemici sapessero che noi abbiamo così poca gente, darebbero l'assalto alla nostra città.»

«Noi vogliamo ad ogni modo rassegnare la gente.»

«E come? Non c'è una picca tra' soldati.»

«E dove sono quelle di cui li provvedemmo?»

«Ne hanno fatto fuoco per cuocere pesciduovi.»

«Quante ne manca?»

«Ne mancano seimila.»

«Saranno provvedute domani.»

«Mancano gli arnesi ai cavalli per trainare le artiglierie.»

«Abbiamo gli arnesi.»

«Mancano i cavalli.»

«Abbiamo i cavalli.»

«Dunque i traditori siete voi», rispose alterato il Malatesta, «che tutte queste cose avete provveduto e meco non ne teneste parola.»

«Malatesta, a mani giunte vi supplichiamo ad assaltare il campo.»

«Questo non è possibile.»

«L'esercito è scemato, il capitano lontano.»

«Eccelsi signori, v'ingannano; poche genti mossero contro al Ferruccio. Fabrizio Maramaldo e Alessandro Vitelli lo stringono su quel di Pistoia con due eserciti due volte maggiori di quello che farebbe mestieri per opprimerlo. Qui sta il principe, e veglia attentissimo per ributtare chiunque esca.»

«No, le nostre spie non c'ingannano; sappiamo tutto: il principe ha mosso contra il Ferruccio con la gente più valorosa del campo, nove o diecimila tra fanti e cavalli; a guardare il campo rimasero da quattromila e dei peggiori; sappiamo avere ordine di non uscire a fare giornata, bensì in caso di difficoltà ridursi nel forte della piazza abbandonando il Sassetto, Musciano, Giramonte, il Gallo e gli altri luoghi forti; noi abbiamo seimila ducento settanta soldati in punto da combattere, ottomila della milizia cittadina; allestimmo ventidue pezzi di artiglierie da campo: voi lo vedete, sappiamo questo ed altro ancora[314]

«Voi non sapete nulla... voi non sapete nulla; vi mettono di mezzo, vogliono la vostra rovina..»

«Bene, sia, — noi vogliamo combattere; vostro ufficio è obbedirci.»

«Voi mi volete ammazzare, — ma ammazzerete un corpo fradicio.»

«Che parole, che pensieri sono questi vostri, messere Baglioni? Noi vi ripetiamo che vogliamo combattere.»

«Or da che parte intendete uscire, signori? Da San Friano no, perchè da Monte Oliveto ci sfolgoreggiano i nemici con le artiglierie fin sulla porta e impediscono attelarci in battaglia, e inoltre abbiamo i Tedeschi di San Donato in Polverosa alle spalle; non da San Pier Gattolino, perchè, come vedete, le batterie avversarie distano dalla città un tiro di archibuso appena. Da San Giorgio nemmeno, standoci di faccia il cavaliere del Barduccio. E quando pure potessimo stenderci in battaglia, affrontare i ripari e superarli, chi ci difenderà in quella disordinata zuffa da seimila fra Tedeschi e Spagnuoli che c'incalzeranno dietro nuovi della battaglia e composti? Uscendo dalla parte opposta dell'Arno ci mancano le forze, perchè dobbiamo tenere guardato il monte e sostenere la cavalleria, alla quale dal nostro canto non possiamo opporre cavalli. — Ora pensate voi se io, od altri v'inganna[315]

«Messere Malatesta», notò Michelangiolo Buonarroti, «non ha osservato che l'Arno è gonfio, nè così di leggeri potranno aiutarsi i nemici delle due sponde del fiume[316]. Messere Malatesta ha lasciato eziandio inosservato che per la via di Rusciano e per la valle verso il Gallo può molto bene avanzare la gente senza timore d'impedimento per le artiglierie nemiche.»

«Il signor Malatesta», riprese Francesco Carduccio, «ha pur anche dimenticato che quantunque volte i Fiorentini assaltarono il campo, stettero a un pelo di metterlo in rotta... La causa poi per cui mancammo il fine, se si partisse dalla fortuna o da che muovesse, — meglio di tutti può dirvi qui Malatesta Baglioni.»

«Carduccio, Carduccio, la vostra lingua ferisce velenosa quanto quella della vipera.»

«Piuttosto le vostre orecchie stanno tese con più paura che quelle della lepre.»

«Voi mi portate rancore, voi vorreste farmi capitare male, — un giorno verrà in cui i Fiorentini si accorgeranno chi di noi due fu traditore.»

«Ma io credo che, per saper questo, i Fiorentini non abbisognino aspettare pure un istante.»

«O signore Stefano», interruppe il gonfaloniere, «perchè non ci aprite la mente vostra? In negozio di tanta importanza certo il vostro consiglio varrebbe a farci deporre o confermare la opinione nostra; — in nome di Dio, favellate.»

«Onorando messere Rafaello, questa eccelsa repubblica possiede copia di capitani, come il signor Malatesta e il commessario Ferruccio, i quali assai meglio di me varranno a torvi d'impaccio; pure, dacchè così volete, vi dirò schiettamente il parer mio. Nei termini ai quali vi veggo ridotti, vi consiglierei ad accordare; nonpertanto io vi ho promesso difendere il poggio, e sia che si voglia, — vi terrò fede: se delibererete uscire, uscirò anch'io, non degli ultimi, ma nè anche dei primi! — è tempo che il signor Malatesta assuma questo principalissimo ufficio di capitano generale.»

«Prodi uomini», si volge il Carduccio ai capitani chiamati nella consulta, «pare a voi potersi assalire il campo con buona speranza?. Siamo da quindicimila contro quattromila, nè l'animo ci manca.»

«Non è vero... e' v'inganna», grida Malatesta.

«Tacete, Malatesta, — io ve lo impongo in nome della legge. Stanno in Fiorenza quindicimila circa soldati, — buona e animosa gente; — il principe d'Orange ha abbandonato il campo, si trae seco quattro colonnelli italiani, tutti i cavalleggeri, compresi gli stradiotti, non so quanti archibusieri, da tre mila e più fanti tra Tedeschi e Spagnoli; — arrogete il campo essere scemo delle bande del Maramaldo e del Vitelli; — ancora, devonsi aggiungere gli Spagnuoli ribellati che sotto la condotta di Cuviero stanziano ad Altopascio; — noi dunque superiamo adesso di gran lunga il nemico».

«Odilo!» proruppe Malatesta, «non par ch'ei dica la verità? Come avete saputo tutte queste cose, messere?»

«Queste sappiamo ed altre più assai, Baglione. — Noi sappiamo ancora che ieri a tre ore di notte...»

«Che ardireste?...»

«A tre ore di notte due uomini fuori di porta Romana si restrinsero a segreto parlamento; — uno di loro adesso arriva a Prato; — voi comprendete che possiamo dunque sapere dove in questo punto si trovi l'altro, — Malatesta...»

«Ah! voi mentite...»

«Soldato! Se tu sei barbaro, come Brenno, sappi che io sarei romano, come Papirio; ma rammenta che le armi di che hai cinto la persona e l'apparecchio dei cinquecento soldati coi quali tu minacci non potrebbero forse salvarti.» — E tra mezzo a un tumulto sempre crescente, allo schiamazzo universale, con maggior voce il Carduccio continua:

«Non anche noi siamo ridotti ad avere scettri di avorio e canizie per difesa; qui sotto le vesti abbiamo i nostri pugnali, — nei nostri petti un cuore che freme alla vista dei traditori...»

Si prolunga il trambusto; i capitani perugini si stringono attorno al Malatesta silenziosi e minaccevoli; — i padri si agitano sui seggi, — parlano o piuttosto gridano tutti. Veementi erano i gesti, veementi le parole; — i capi ondeggianti davano sembianza di mare commosso o di campo di spighe quando il vento soffia. Pure, adoperandovisi i migliori cittadini, lo stesso Malatesta accennando che volea parlare, si placò a mano a mano lo schiamazzo; in mezzo al digradante conturbamento fu udita la voce del Malatesta:

«Che libertà è questa vostra? Volete libero reggimento, ma soltanto per voi; — amate il favellare sciolto finchè vi giova; — quando vi nuoce, condannate il malcauto ad avere mozza la testa. Io ho aperto francamente il parere mio, perchè amo questa città davvero e perchè non vorrei vedere voi altri trucidati sotto i miei occhi.

Michelangelo Buonarroti, levandosi in piedi ed ambe le braccia stendendo verso il Baglione, profferì queste solenni parole:

«I codardi non lasciano eredità di odio o di amore. Noi vinceremo; e quando pure rimanessimo morti, sappiate che co' vermi nati dai cadaveri dei martiri della libertà le furie compongono il flagello di rimorso e di terrore col quale percuotono eternamente i tiranni.»

«Posciachè fato comune è morire», aggiunse Dante, «una palla, una piccata nelle viscere sono bene spesso infermità meno dolenti delle altre, — sempre più gloriose.»

«... Menatelo via dal campo, conservatelo all'onore della milizia italiana.» Cap. XXVII, pag. 306.

Ma il petulante Malatesta riprende: — «Questo è il parer vostro, nè, comunque vaghi, due fiori fanno la corona: or via, adunate il vostro consiglio generale; io esporrò le mie, voi le vostre ragioni, e stiamoci a quello deciderà il popolo chiamato a parlamento.»

Questo fu, come narrano gli storici, il colpo maestro del Bartolino. Egli sperò, acconsentendo i padri, suscitare le cupide passioni della plebe o sbigottirla col terrore. Pessime sempre vedemmo riuscire alla libertà della patria le deliberazioni prese in piazza: abbandonato il governo, vi avrebbe steso la mano il Bartolino, Malatesta doveva appoggiare la usurpazione con le armi; così di leggieri si conseguiva lo scopo, le palle senza resistenza si ristauravano: se poi i padri negavano, si screditava lo stato; non era il bene generale a cui miravano, bensì piuttosto la ostinazione di pochi arrabbiati; diversamente, perchè non consultare la mente degli universi cittadini? Temevano il pubblico suffragio? il popolo è ottimo conoscitore di quanto o come dannoso deve fuggire, o come giovevole seguitare.

Così colui che in tutta la sua vita non seppe rivestire un fiasco, eccolo ad un tratto sapientissimo a reggere gli stati in tempi difficili: pazze cose! ma la gente per avventatezza di sangue cieca, o per cupidità traditrice, non argomentò mai più acconciamente; e lo vedemmo pur troppo.

Però conobbero la insidia latente; composta appena l'agitazione, si scompigliò di nuovo l'assemblea, diverse voci si fecero sentire soperchiando il trambusto: Siamo dunque venuti a questo? — Il parlamento — la balìa, — questo è un volere mutare lo stato. — Non ci par farina del suo sacco. — Io ben conosco chi fa fuoco nell'orcio. — Si udì mai maggiore impudenza di questa? — Forse non costituiva il popolo questo libero reggimento, — non elegge egli i maestrati? — Guai se piegano a siffatte enormità! — la patria sarebbe perduta.

Rafaello Girolami, quando prima potè farsi ascoltare, favellò:

«Signor Malatesta, voi non siete chiamato qui come consultore, molto meno come ordinatore; voi ci dovete la fede vostra. Da voi non desideriamo sapere se dobbiamo fare o non fare una cosa, sibbene il modo di farla. Se nei momenti di maggiore urgenza, i maestrati dovessero aspettare per risolversi il consiglio di tutti i cittadini, nessun governo potrebbe rimanere in piedi tre mesi. Inoltre Fiorenza aduna il parlamento quando muta stato. Intendereste voi forse rovinare questo reggimento? Non lo crediamo. Voi tutti uomini di guerra qua dentro raccolti, vi pare egli possibile l'assalto del campo con speranza di riuscita?»

I capitani, specialmente i Guasconi, con i gonfalonieri, risposero tutti ad una voce altro non desiderare che venire alle mani con quei di fuori; essere dispostissimi a vincere con onore, o a morire senza vergogna; potersi assaltare il campo scemato com'era del fiore dei combattenti, potersi ancora, come spesso avevano provato, assaltare pieno di gente, purchè i Signori li badassero alle spalle, nè, mentre presentavano il petto al nemico, il traditore tagliasse loro per di dietro i garretti.

Tra tanto consenso di uomini di guerra, Pastrano Corso, Cencio Guercio, Biagio Stella, Margutte da Perugia ed altri tra Côrsi e Perugini fidati del Baglioni risposero essere stoltezza combattere, andare incontro a certissima morte; ne avrebbero acquistato biasimo presso il mondo, castigo presso Dio.

«No, no», proruppe Dante, «il mondo può non imitare quelli che si sacrificano, comecchè inutilmente, in favore della libertà, ma per certo li loda.»

«Che dite voi?» tonava il divino Michelangelo, «che si farebbe Dio delle sue stelle, se non le adoperasse a coronarne la fronte degl'incliti che morirono combattendo la tirannide?»

E i capitani generosi volgendosi con mal piglio ai satelliti del Malatesta:

«Al canto si ravvisa l'uccello. Avete paura? Restatevi; — noi andremo senza di voi.»

«Noi!» quasi disperati urlarono i Perugini e i Côrsi, cui morse acerba la rampogna, e comecchè corrotto, una stilla di buon sangue italiano bolliva loro dentro le vene; — si voltarono al Malatesta per conoscere dal suo viso se dovessero o no rispondere all'invito. Malatesta immobile come un faro in mezzo a mare in burrasca, non muta sembiante, o atteggia la persona a moto generoso o di rabbia.

«Noi andremo senza di voi», replicarono i capitani fedeli, «e ne facciamo sacramento sopra gli evangeli santissimi.»

E mossi da un medesimo impulso si affollarono all'altare in fondo della sala, dove stese le mani giurarono con grande effusione di cuore avrebbero difeso Firenze finchè bastasse loro la vita.

«Vieni», disse Lionardo Bartolini, gonfaloniere dell'Unicorno, a Dante da Castiglione, gonfaloniere del Vaio; «forse tu non vorresti giurare?»

«Lionardo mio, chi rinnuova non mantiene; chi giura più spesso delle femmine?»

«Certo di' bene. Quando esse giurano amarti per una eternità, — ciò si deve intendere per una settimana, con un poco del lunedì veniente, — ma poco...»

«Ho giurato una volta, e basta.»

Intanto Rafaello Girolami, guardando fissamente il cielo con le braccia aperte, non senza molto pianto e singulti esclamava:

«Invitto Malatesta Baglioni, capitani valentissimi, vi prenda amore della vostra fama, pietà di noi; non consentite che il patrio fiume e le strade di questa città nobilissima corrano sangue cittadino, — le strida degli uomini e delle donne desolate feriscano il cielo, si ardano i palazzi, si contaminino i tempii di Dio, si commettano infine quelle nefande abbominazioni le quali siccome aprono l'inferno a chi le commette, non sono meno incomportabili per chi le sopporta. Non vi diede la madre vostra viscere umane? Cristo nostro Signore non v'insegnò carità? sono le orecchie vostre di granito pel nome santo di patria?»

I fidati di Malatesta mormoravano, — non si movevano, — pure accennavano vacillare. — Tristi tutti!... ma il momento solenne, l'esempio della virtù, il pensiero della perfidia ch'esita sempre, finchè non sia irrevocabilmente consumata, e l'appello non mai del tutto rivolto invano alla particola eterea dell'uomo, gli soverchiava più poderoso di loro medesimi. Li vide il Baglioni li vide e sorrise, e con suono benigno, guardando il gonfaloniere, favellò:

«Si abbiano per non profferite le mie parole. Anche quando vi piacesse il fato dei Saguntini, la fama loro splende assai luminosa nelle storie, onde io non debba rifiutarmi parteciparla con voi. E però, quantunque volto dalle magnificenze vostre ci sarà comandato e per la parte dell'eccelso signor gonfaloniere mantenuto quanto ne fu promesso, sono disposto a mettermi a qualsivoglia manifesto pericolo, come manifestamente vedranno[317].

«Dio vi benedica!» riprese il gonfaloniere esaltato, «io verrò con esso voi armato di corsaletto e di picca.»

Il Carduccio, declinato il volto, gemeva.

Il giorno appresso Malatesta avendo sentito per fedeli ragguagli la pubblica esaltazione giunta al suo colmo, stimò bene maneggiarsi in maniera da godere il benefizio del tempo. La Signoria per tempissimo in compagnia di tutti i magistrati si recò in Santa Maria del Fiore, dove si comunicò; poscia andarono a processione per quelle medesime strade e con le reliquie medesime che sogliono portare per la festa di San Giovanni. Intanto si ragunarono i gonfalonieri, cittadini pieni di ardire e con esso loro buona parte dei soldati pagati, ai quali pareva mille anni di venire alle mani col nemico; pronti erano i Signori, pronto ed armato il gonfaloniere, disposto, secondo la sua promessa, ad uscire ancora egli.

Ad accrescere l'ardimento universale, si aggiunse un segno che, comunque naturale, nondimeno anche ai nostri tempi, in cui tanto lume di esperienza o abbiamo o vantiamo, riuscirebbe di maraviglioso vantaggio in casi difficili. Un'aquila ferita in un'ala, aiutandosi come meglio poteva, lungo il corso del fiume si rifuggì in Firenze, dove presa da un pescatore e da questo presentata al capitano Ridolfo di Ascesi, che stava di guardia alla porta San Friano, egli, ritenuto per sè il corpo, mandò per un suo soldato la testa alla Signoria. I signori, tenendo o fingendo tenere simile accidente come augurio favorevole a sè, funesto agli imperiali, ne fecero grandissima festa e al soldato, che fu Cristofano da Santa Maria in Bagno, donarono quattro ducati d'oro. E tanto più ebbero accetto siffatto presagio in quanto pochi giorni innanzi il vento aveva staccato una bandiera dalle finestre del palazzo, dove era scritto LIBERTAS, e travoltala per certe corti prossime al Baldracca, dove si durò fatiche assai per riaverla. Pareva anche il cielo volesse per questa volta intervenire per tutelare la innocente città dalla truce cupidigia del papa.

Comparve finalmente Malatesta, ma tardi, e dopo molte cerimonie cominciò a squadronare i soldati per passarli in rassegna. Il Busini, testimone oculare, racconta come Malatesta, per avvilire l'animo dei Fiorentini, adoperasse una astuzia onde i soldati apparissero pochi, e fu, che dove le file si componevano di cinque e sette uomini, egli le istituì di sette e di nove. Il quale accorgimento, non che sortisse l'effetto divisato dal Malatesta, ne sortiva uno del tutto contrario; imperciocchè i Signori ponessero in diversi luoghi molti cittadini, che annoverando uomo per uomo e fattane somma, trovarono avere nove mila soldati pagati in punto di combattere, di seimila e tanti che gli estimavano prima[318]. A tale erano ridotte le cose nella infelice Firenze.

Fornita la rassegna, che portò via buon tratto della giornata, prese il Baglione ad arringare con sì lunga diceria presso la quale le prediche di fra' Benedetto sarieno parse epigrammi; poi dispensò copia di munizioni ai soldati; chiamati in cerchio attorno a sè i capitani, molti ordini distribuì, molte diligenze raccomandò, infiniti uffici commise; — una operazione dopo l'altra, e a suo grandissimo agio. Il giorno se ne andava, e non è da dirsi con quanta passione vedessero i più animosi accostarsi il sole al tramonto. Allora Malatesta, per isfuggire il mormorio che udiva a mano a mano andare crescendo, quantunque i soldati conservassero le ordinanze, nella stessa guisa che il mare gorgoglia innanzi che il vento soffi ad agitare le sue onde, si cansò andandosene verso porta San Nicolò. Colà giunto, spedì Cencio Guercio con altri suoi fidati incombenzandoli di andare a riconoscere il sito e i forti degli imperiali; tornassero tosto per quanto avevano grata la sua grazia; capirono, come doverono comprendere, e si affrettarono co' passi della testuggine. Così il subdolo Malatesta, baloccandosi ora intorno ad una cosa, ora intorno ad un'altra, pervenne a sera. Rimanendo spazio breve di giorno, quinci egli si tolse all'improvviso, e con lui tutti i Perugini e tutti i Corsi, raccolte prima le bagaglie, onde le compagnie ne rimasero disordinate. La notte sopraggiunta non concesse luogo di abbracciare prontamente altro partito, — all'opposto nacque confusione e terrore: — temerono che i soldati del Malatesta, aperte le porte, lasciassero il nemico irrompere nella città e mandarla a ruba: i giovani della ordinanza, ancora efficacissima nelle estremità della cadente repubblica, stettero tutta la notte vigilantissimi, guardando le strade e le piazze con amorevole diligenza. — Questo stato non può durare; gli eventi precipitano al fine; egli fu deplorabile, — ma pieno di onore, di compassione e di germi di futura vendetta.

Addio, Firenze, — tornerò per vederti agonizzare, verrò per darti un viatico di lacrime prima che tu vada dove Atene e Sparta andarono, dove la romana libertà precipitava, dove tutte le tue sorelle ti precederono. Ultima stella del cielo d'Ausonia.

Perchè piangete? Arduo è bene revocarci passi dall'inferno, ma non impossibile. — Volete, e sarete.

Mi volgo al campo della Gavinana.

CAPITOLO VENTESIMONONO LA BATTAGLIA DELLA GAVINANA

Or chi ti può guardare,

Infelice castello, che non pianga?

Pietro Ricciardi, Sonetto sopra Gavinana.

Fra le alpi medie che Toscana partiscono dal Modanese, superati alquanti meno ardui gioghi, ti occorre il colle di Prunetta. Quasi penisola, questo monte s'inoltra da mezzogiorno a tramontana e nasconde la valle ov'ebbe sepoltura la Repubblica Fiorentina. Il tuo petto affannato, pervenuto una volta alla sua radice, non domanda riposo; se i tuoi occhi si volgono a misurarne l'altezza, al tuo spirito non ne deriva sconforto, bensì desiderio irresistibile di pareggiare col rimanente del corpo la velocità dello sguardo per attingerne la cima.

E quando, palpitante, il volto bagnato di sudore, tu giungi a toccarne la sommità, che chiamano le Lari, tu lanci giù nella convalle quanto hai di virtù visiva nella testa, di anelito nel cuore, e la verità non impallidisce davanti l'aspettativa; imperciocchè le magnificenze della natura sieno le sole che la umana immaginazione non possa superare giammai.

Se rialzando lo sguardo dalla valle ti venga fatto girarlo attorno, ti si presentano monti sopra monti, e parte di questi ti ricordano memorie che il tempo non ha per anche corroso dalle tavole della storia, o ti accennano col nome sventure e fatti che hanno stancata la tradizione. Da una banda sorge il colle di Mal Consiglio, dove è voce Catilina statuisse scendere a tentare la fortuna delle armi contro Quinto Metello, — e poco sotto il piano di Mal Arme, ove fu combattuto l'aspro conflitto. Vi perdeva Catilina la fama e la vita; — guai ai vinti! Se egli sforzava il destino, forse Sallustio lo avrebbe celebrato vendicatore del popolo contro la tirannide dei patrizi. — Quinci ti accennano la Selva Litana, di cui la terra nascose le ossa di una legione romana uccisa dai Galli Boi. Il giogo del Mal Passo va nomato per più recente dolore; — egli ha fatto piangere per tutta la durata della vita una madre, chè tra le balze di lui rimase miseramente infranto il figliuolo della sua tenerezza. Il Libro Aperto, i Sassi Scritti, la Croce Arcana, la Tana dei Termini, le Torri di Pompilio, sono i nomi dei monti che circondano la valle e dei quali invano tu cerchi la origine remota.

Per poco che Dio abbia benedetto la tua anima di poesia, l'aria che spira vivida su questi monti ti suscita alle visioni dei tempi trascorsi e dei futuri. Il passato è coperto di velo nero, l'avvenire di velo colore di rosa, perchè il primo lo ha tessuto l'esperienza, il secondo la speranza; ma all'occhio del poeta, come a quello di Dio, la eternità si offre intera, quasi circolo luminoso di cui i secoli compongono i punti. Al cospetto di Dio e del poeta ogni cosa sta presente. Però i grandi poeti sopra la terra si annoverano più rari dei giorni della creazione; — parte maggiore di Dio conteneva il cranio di Dante che non il giro dell'emisfero celeste.

Dall'aria che spira su i colli emanano effluvii vitali, chè di lei si nudriva la libertà infante, e di lei si compiace allorquando, cacciata meno dall'odio dei tiranni che sbigottita dalle turpi frivolezze di coloro che si dicono suoi amici, abbandona i piani per approssimarsi alla sua patria, ch'è il paradiso.

La luna sorta dall'opposto monte del Crocicchio balza impetuosa di nuvola in nuvola; e ricorda la credenza indiana che immaginò la fuga dell'astro della notte traverso i cieli per sottrarsi alle persecuzioni del serpente che la insegue per divorarla.

Da cotesto alternare di tenebre e di luce sorgevano spaventosi fantasmi.

In verità nella magnifica valle io vedeva una tomba scoperchiata dove giacesse l'immane scheletro della Repubblica; posava il suo teschio sopra di un colle, e l'altro ossame si perdeva protendendosi lontano lontano lungo la forra tenebrosa che si sprolunga dalla parte di mezzogiorno.

E nelle nere masse dei castagni secolari immaginava contemplare gli spettri degl'illustri defunti i quali traessero a lamentarsi sopra la fossa della Repubblica defunta.

Il vento cacciava zufolando giù pei declivi le foglie di castagno cadute, e gli echi dei monti ripetevano un suono somiglievole al canto dei trapassati.

Allora spontanea mi si affacciò alla mente la visione del profeta Ezechiel, — la visione delle ossa inarridite[319].

E gridai con gran voce: «Potrebbero queste ossa rivivere?»

Te avventuroso, o profeta, a cui promise il Signore di ricoprire coteste ossa di nervi di carne e di pelle, e mandare lo spirito dai quattro venti che soffiasse sopra gli uccisi, e rivivessero!

I morti dicevano: «Le nostre ossa sono secche, — la nostra speranza è perita, — e in quanto a noi siamo sterminati.»

Ma il Signore rispose: «Ecco, io apro, o popolo mio, i tuoi sepolcri, io ti traggo fuori delle tue sepolture, e ne compongo una sola nazione sopra la terra. — Io prendo la verga dove sta scritto Josef, che è in mano di Efraim, e quella della tribù d'Israel sue congiunte, e le metterò sopra la verga di Giuda e ne farò un medesimo fascio, e saranno una stessa cosa nella mia mano.»

Alla voce di Dio le ossa si accostarono ciascuno al suo osso, lo spirito entrò in loro, ritornarono in vita, si rizzarono in piedi e furono un grandissimo esercito.

Oh! perchè mi manca la fede del profeta! Qui si vuole la mano di Dio, ed io non ardisco sperare nel miracolo.

Se io esclamassi sopra i vostri sepolcri: «Sorgete!» la mia voce spirerebbe prima di giungere alle soglie della morte.

E l'eco me la rimanderebbe come uno scherno.

Almeno, poichè io vi evocava dal vostro riposo, potessi, o sacri spettri, diffondere sopra di voi la luce del canto, rivendicare il vostro nome all'oblio dei secoli ed alla ingratitudine degli uomini!

Ma di ciò degno nè altri mi crede nè io stesso; — porto le pene della mia audacia, perchè i rimorsi mi travagliano e la paura.

E sì che io visitai i luoghi dove combatteste, o miei padri, con religione pari a quella del pellegrino che muove al sepolcro di Cristo, — toccai le armi che stringeste nel conflitto[320], — bagnai la bocca alla medesima fontana dove dissetaste le labbra riarse dall'ardore della battaglia, — tolsi un pugno della terra delle vostre sepolture e me lo accostai al cuore perchè mi s'infiammasse e sapesse dire.

I raggi del sole possono trarre un suono dal granito[321]; — il cuore esulcerato dallo infortunio diventerebbe per avventura più duro della pietra!

Ma ormai quello che è scritto è scritto; giunge troppo tardi il pentimento. Se adesso io mi abbandonassi spossato, sarei meno degno di compassione che di vituperio. Dio mi sovverrà nella estrema fatica. I fatti con tanto amore raccolti non devono rimanere occultati; io gli narrerò con fedeltà di storico, invocando che nasca il poeta il quale gli sublimi del canto.

Due cose nocquero principalmente al disegno del commessario Ferruccio di liberare la patria: la prima fu, che alle ferite non bene sanicate si aggiunse la febbre venutagli addosso un po' per la troppa fatica, un po' a cagione dello ammuttinamento dei Côrsi, i quali levarono tumulto per difetto di paga; di che il Ferruccio sentendo inestimabile ira e dolore, proruppe fuori della chiesa di Santa Caterina, dove alloggiava con la testa scoperta, in giubbone da niente altro riparato eccetto le lunette di maglia, ed avventatosi in mezzo ai sediziosi, con lo stocco alla mano tre uno dopo l'altro ne uccise, restando attonito tutto il resto[322]. La seconda, che sopramodo lo travagliò, fu non avere pecunia nè trovare via per farne; imperciocchè coi danari alla mano intendeva raccogliere gente che bastasse non solo per combattere meno disperata battaglia con gl'imperiali, ma lasciare Pisa e Livorno presidiati in guisa si potessero tenere anco quando Firenze, per diffalta di vettovaglia avesse dovuto capitolare, ed i suoi sforzi per soccorrerla fossero riusciti invano. Consiglio così magnanimo come arguto; avvegnadio finchè ci è fiato ci è speranza, e per esperienza lo provammo anche ai dì nostri; invero era a sperarsi allora su gli umori di Francia, voltabili sempre, sopra la morte del papa, che ormai non poteva troppo tardare, su le molestie del Turco nella Ungheria non meno che sul mareggiare delle coscienze alemanne divise dalla Riforma[323].

Fra queste angustie il nostro eroe tanto si tribolava che i commissari di Pisa scrivevano ai Dieci in data del 25 luglio esserglisi aggravato il male in modo che i medici concludevano per qualche dì non poterlo guarire... «e per essere la presenzia sua utilissima, e quanto sia necessario il farlo presto; dall'altro canto non potere esercitare la persona per qualche giorno; ci è parso spacciare di nuovo a Vostre Signorie; avvisando tutto, acciò quelle commettino quanto doviamo eseguire[324]

I Dieci, pressurati dal popolo, il quale, non trovando più sozzure e schifezze da cibare, urlava con l'urlo della fame, scrissero al Ferruccio che per amore di Dio si avacciasse; che se non poteva andare egli, spedisse ad ogni modo tutta quella gente preponendole Giovanbatista Corsini detto lo Sporcaccino, o quale altro gli paresse più idoneo; nel qual caso davano a colui che mandasse la medesima autorità. — Presentata questa lettera al Ferruccio, dopo averla letta e poi ripiegata, tenendola in mano, la prese da un lato co' denti dicendo:

« Andiamo a morire[325]

E siccome il signore Giampagolo gli veniva raccomandando di mettersi in lettiga e così farsi trasportare con manco suo travaglio[326], egli rispose mestamente:

«No, figliuolo mio, no, pel cammino che mi avanza a fare le mie gambe basteranno.»

E senz'altro indugio il Ferruccio si pose in via, lasciata Pisa il 1 agosto 1530 e movendo per la Valdinievole: chiesta e non ottenuta dai Pesciatini la vettovaglia, fatto mostra di prendere la via maestra e piana, prevalendosi dell'oscurità della notte, tralascia l'agevole sentiero e si getta tra i monti che gli sorgono a mano dritta nelle vicinanze di Collodi. Diventando la notte più nera, ed essendo ormai pervenuto a Medicina, castello del contado lucchese, gli parve di qui rimanersi, tanto più che in questo luogo aveva dato ritrovo a certi capi di parte cancelliera, per propria prestanza e più per le molte parentele ed amicizie a sostenere le cose della Repubblica pericolante adattissimi.

Disposti gli alloggiamenti, invigilato a che ognuno fosse provveduto del bisognevole, non potendo ormai più vincere la impazienza dello attendere, si cacciò fuori solo dal castello speculando se gli aspettati giungessero.

Nè stette guari che, udendo rumore, mosse il grido consueto del conoscimento; a cui venendo data la convenuta risposta, ravvisò gli amici e con gran cuore li condusse nella sua stanza.

Ridotti così a segreto colloquio, il Ferruccio mostrava loro la commissione dei Dieci, i quali gli ordinavano valersi dell'opera e del consiglio di Baldassare Melocchi detto il Bravotto, del capitano Guidotto Pazzaglia e del capitano Domenico Belli, chè tale era il nome dei chiamati: diceva intendimento della Repubblica essere ch'egli prendesse la strada per Calamecca, Monte Berzano e Prunetta e quinci gittarsi nella valle di ponente, tra la Panche e Pontepetri, donde risalendo i Lagoni, indirizzarsi alla Badia Toana e scendere poi, come meglio gliene venisse il taglio, per Montale o per la contea del Vernio: ma la seconda, potendo, alla prima strada anteponesse, imperciocchè i conti Bardi di Vernio si erano profferti in simil caso di fare quanto spettava a cittadini amorevoli della Repubblica; finalmente a loro con tutte le viscere si raccomandava, nelle braccia loro si riponeva, dipendere da essi la salute di Firenze o la sua distruzione, e con l'abbattimento di Firenze la morte vera di qualsivoglia libertà in Italia.

Il Bravotto e il Pazzaglia con dimostrazioni infinite di benevolenza risposero — non dubitasse, avrebber eglino medesimi condotto l'esercito così sicuro come se avessero dovuto menarlo traverso i poderi; penetrato più addentro nella montagna pistoiese, non gli sarebbe venuta meno le vittovaglia, povera, ma sana e copiosa; e poi tutta la parte cancelliera, in numero da uguagliare se non da vincere, l'esercito fiorentino, si sarebbe levata in arme e lo avrebbe seguito finchè non lo avesse riposto trionfante in Firenze. — E qui non rifinivano dagli abbracciari, dalle iattanze, dalle manifestazioni di smodata allegrezza.

Intanto il Ferruccio notava che il capitano Domenico Belli, dopo le prime accoglienze, si era imbrunito del volto e, le braccia piegate sul petto, non aveva più aperto bocca. Andatogli dappresso e postegli domesticamente le mani sopra le spalle, quasi motteggiando gli diceva:

«Ora perchè tacete, capitano Domenico? Voi ci diventereste per avventura nemico?»

«Nemico no, — ma amico non posso.»

«E come non potete voi?»

«Ho dubitato della mia parte, disperai della Repubblica fiorentina e della fazione cancelliera, lo scoperto ed impunito tradimento di Malatesta mi spaventava, la discordia dei cittadini mi tolse l'animo, la imbecillità dei capi mi abbatteva del tutto; — allora pensai provvedere a me stesso. I Panciatici, mi offersero comporre le antiche inimicizie, facemmo pace obbligandoci con sagramento di non apportarci più oltre molestia...»

«Ed è ciò che vi trattiene?» lo interruppe il Bravotto.

«Null'altro...»

«E credete voi da senno che, quando saranno diventati superiori, i Panciatici vi manterranno i patti?»

«Non so di loro; io so soltanto che debbo mantenere i miei.»

«Dunque voi», riprese il Ferruccio, «mancate alla patria nel suo maggior bisogno?»

«O alla patria, o alla coscienza, — e la mia prima patria mi sta qui dentro», risponde il Belli percotendosi il seno; — «messere commessario, sull'anima di vostra padre, che fareste voi?»

«Io! — ma parmi che l'uomo debba distinguere su le cagioni per le quali è condotto a rompere la fede.... Forse talvolta dimostra maggiore magnanimità colui che la rompe che quegli che la mantiene.»

«Voi non dite la verità. Lasciate l'uomo arbitro di giudicare i casi secondo i quali deve o no mantenere la fede, ed egli vi proverà ch'ebbe sempre ragione. — Rispondete, vi prego, messere commessario, alla mia domanda; che fareste voi?»

«Io! — manterrei la fede data e mi romperei il cuore.»

«Ed io serberò la fede, e, senza pure rivedere la faccia de' miei in questa stessa notte, con le armi ed il danaro che mi trovo addosso, me ne vado in Ungheria per combattere contro il Turco e spendere la vita in favore della cristianità[327]

Il due di agosto riprese l'esercito fiorentino il sentiero per le aspre giogaie di quei monti, ed affrettando, quanto meglio poteva, il passo, arrivò a notte fitta in Calamecca, castello della montagna pistoiese, di fazione cancelliera. Ferruccio considerata la stanchezza de' suoi e il bisogno di averli ben validi nello scontro, che aspettava imminente, dell'esercito nemico, ordinò nuova posa.

Percorsa l'alba del giorno tre di agosto, che fu festa di santo Stefano, l'esercito della Repubblica continua la via. L'aria uliginosa, sollevandosi dalle valli, ingombra il cielo d'intorno, sicchè poco vi si addentra lo sguardo. Il sole quando si levò, pallido e privo di raggi, parve un occhio senza palpebra. Nessuno avrebbe ardito innoltrarsi senza la fidanza che avevano nelle pratiche guide.

In silenzio procedendo e ordinato il esercito condotto dal Bravotto e dal Pazzaglia, giunge a quella parte del colle di Prunetta che ha nome la Croce delle Lari. Qui sotto giace la terra di San Marcello, principalissima della montagna pistoiese e, come panciatica, parteggiante dei Medici. — Ella se ne sta improvvida, chè la nebbia fitta le cela qual turbine di guerra si addensi sopra di lei, quasi colomba che intenta ai dolci nati non vede il falco il quale chiuse le ali si lascia piombare sopra il suo nido. Ora tra il Melocchi e il Pazzaglia comincia il seguente colloquio.

«Bravotto», dice il Pazzaglia, «quinci poc'oltre giace il castello che alberga i nostri nemici...»

«Che così spesso ci hanno arse le case...»

«Rubato i campi...»

«E noi tante volte offeso nella persona...»

«Fatto scempio de' nostri più cari...»

«Ci verrebbe pur bene il destro di distruggere quel nido di vipere...»

«E perchè nol facciamo?»

«Ma... il commessario lo vieta; c'indicava la strada da tenersi.., e tu ricordi con quante maniere di scongiuri ne supplicava a non deviarne pure di un passo.»

«In meno di un'ora noi riduciamo San Marcello a tale che il viandante non ne ravvisi più traccia, — distruggiamo una gente che lasciata dietro di noi potrebbe molto agevolmente riuscirci molesta, diamo spirito agli amici di mostrarsi per noi, — ingrossiamo l'esercito, — spaventiamo il nemico, — e noi ci laviamo le mani nel sangue degli odiati avversari.»

E così favellando erano già scesi verso la valle di San Marcello, — l'opposta a quella che avrebbero dovuto percorrere.

Se nella rimanente Italia, con vergogna dei padri e danno diuturno di noi, la vendetta si manifestò come passione, in Pistoia fu rabbia. L'animo contristato rifugge dall'udire i fatti trucissimi che desolarono la infelice contrada, nè fu certo carità patria rendere con moderna edizione comuni le Storie pistolesi[328], che per lo innanzi occorrevano di rado. Era vanto tra i Pistoiesi offendere non il colpevole, sibbene il più reputato personaggio della famiglia di lui, il quale spesse volte mansueto in mezzo alla ferocia de' suoi deplorava l'iniquo talento. Non impietosirono i duri petti le preghiere dell'età vetusta, non i gridi delle madri, non i vagiti degl'infanti; invano i sacerdoti dai pergami esclamavano: Pace, — pace! — Segno della bestiale ira erano perfino le cose inanimate; sovente gentildonne d'inclito lignaggio congiunte agli offensori, a piedi nudi, coperte della sola camicia, col pargolo al collo, dovettero fuggire dalla casa in fiamme; e dall'alto delle torri il nipote, anzichè arrendersi nelle mani dello zio, lasciò cadersi capovolto a infrangersi l'ossa sopra la selci; ogni vincolo rotto, ogni senso di carità e di amore affatto spento; il petto più duro del ferro che fasciava i corpi loro. Quando una parte cacciava l'altra, ecco la fazione vincente scindersi anch'essa per la preda sanguinosa, e sorgerne una rete interminabile di omicidii e di rapine. Così prima i Cancellieri si divisero in Bianchi e in Neri; quindi i Bianchi in Vergiolesi e gli altri della sua parte; poi i Neri in Traviani, Ricciardi, Lazzari, Tedici, Rossi e Sinibaldi; nè qui si stette la infame rete di uccisioni, di scisme e di rapine, ma anzi si moltiplicò per modo che come mi strinse il dolore a pensarvi, così mi assale vergogna a raccontarle. E l'antico cronista fiorentino[329], il quale percosso da tanta immanità, si avvisò specularne le cause, non seppe trovare argomento altro migliore se non questo uno, che i superstiti della strage catilinaria fermandosi in cotesta contrada vi togliessero donna e di generazione in generazione il truce sangue e le furie loro senza tralignamento ai più tardi nepoti tramandassero. La quale opinione non solo deve rigettarsi come falsa, ma ed anche biasimarsi come trovata ad arte per adombrare la vera. Gran parte di colpa vuolsi attribuire ai Fiorentini, i quali, mirando al dominio della Toscana e forse della universa Italia, ebbero per accorgimento di stato tenere Pistoia con le parti, Arezzo con le armi[330]; onde, non che si dessero pensiero a sopire le antiche discordie ne suscitavano sempre delle nuove. Ma il mal seme partorì pur troppo la mala pianta; chè quinci mosse la favilla che accese sì gran fiamma in Firenze ai tempi di Corso Donati, e adesso vedremo che fu causa della rovina della repubblica. Onde quanto meglio considero la ragione delle umane vicende, tanto più mi confermo della sentenza di Focione, che la politica degli stati non deve andare disgiunta da buona morale. Un popolo nella lunga giornata dei secoli non è crudele e perfido impunemente a danno di un altro popolo.

L'avantiguardia fiorentina, scesa in fondo della valle, piegò alla volta di San Marcello, là dove anche ai giorni nostri occorre una cappella di pietra grigia dedicata alla Vergine, posta lungo la strada che da Pistoia conduce a Modena. I terrazzani non conobbero il pericolo prima che sel vedessero irreparabilmente caduto addosso; la nebbia fitta impedì loro pensassero ai ripari. Irruppe pertanto nel castello la piena dei nemici: ben s'ingegnarono chiudere le porte della Fornace e del Poggiuolo, ma non poterono; — chiusero quella del Borgo, e a nulla valse, imperciocchè gli assalitori accatastandovi davanti copia di legna suscitassero tale un incendio di cui anche ai tempi presenti occorrono vestigi. Dopo quel caso mutarono nome alla porta, e di porta del Borgo lo chiamarono porta Arsa, che tuttavia le dura. Le stragi, le rapine, i turpi fatti che così spesso e con tanto fastidio tocca riferire allo espositore delle storie umane qui si rinnovarono e più crudelmente che altrove; uccisero i vecchi, perchè avevano offeso; le donne, perchè i figli avevano nudrito alla offesa; i fanciulli, perchè crescevano a offendere; le masserizie distrussero, le case rovinarono, i ricolti serbati a mantenere la vita dispersero, pochi fuggirono, e recatisi in collo i cari figlioletti, si dettero a cercare riparo arrampicandosi su per l'ardua montagna detta la Serra o il Partitoio; alcuni si chiusero nel campanile, dove disperati di scampo attendevano, come meglio potevano, a difendersi. Poco però avrebbero potuto sostenersi, che il Bravotto co' suoi compagni sfidando la pioggia delle pietre erasi spinto a piè della torre e quivi con suoi arnesi s'ingegnava tagliarla, se non sopraggiungeva il Ferruccio. Nel contemplare la strage e l'incendio arse di sdegno, e per poco stette che, pretermessa ogni ragione di stato, non facesse lì per lì appiccare il Pazzaglia, il Bravotto e quanti si trovavano seco partigiani Cancellieri; pure compresse l'acerbità del dolore ed ordinò, pena la vita, cessasse l'infame uccisione, si spegnesse la fiamma; il vigore de' suoi si logorava non mica trucidando i nemici, bensì spargendo sangue italiano. Chiamati sotto le insegne i soldati, li trasse fuori della terra e gli stanziò sopra certa eminenza la quale e per la sua situazione e per avere prossime le mura gli parve opportuna a respingere qualunque assalto improvviso. Al tratto di terreno occupato dall'esercito del Ferruccio rimase il nome di Campo di ferro, come ne fa fede il seguente distico riportato nel manoscritto del capitano Domenico Cini:

Ferreus hic ager est, ex quo Ferrucius olim

Sive hostem statuit vincere, sive mori.

Al punto in cui il pendio cessa e la pianura incomincia, il viandante che si avvisasse entrare in San Marcello per la porta del Borgo, oggi porta Arsa, incontrava e tuttavia incontra una casa sopra le altre notabile. Vi abitava in quel tempo Antonio Albumenti Mezzalancia di Pippo Calestrini, capitano di parte Panciatica, sopra ogni altro della sua fazione temuto ed odiato; — ma egli, come colui che ardimento aveva troppo e senno poco, toglieva ad abitare quella casa fuori della mura del castello, volendo mostrare che non aveva bisogno di ripari e sapersi molto bene difendere da sè stesso.

Quando la gente del Bravotto e del Pazzaglia investirono la sua casa, ed egli, tratto dal rumore, fattosi al balcone conobbe questi suoi feroci nemici, si tenne spacciato; ma accennando nel volto quella speranza che non aveva nel cuore, vedendo ormai ingombro il terreno della casa, ordinò che la moglie, i figli, insomma tutta la famiglia si ragunasse dentro una stanza, ed egli afferrata una spada a due mani si piantò sul limitare minacciando sicurissima morte a chiunque attentasse inoltrarsi: poco gli valse cotesto disegno, chè il Bravotto, impaziente del fine, scese nella strada e, appoggiata una scala alla finestra, gli riuscì, quando meno sel pensava, alle spalle. Mentre quella stanza si empiva di urla e di strage, il prete Nanni di Pippo, fratello del misero Mezzalancia, si precipita dalla finestra opposta a quella per la quale era entrato il Bravotto e, lo secondando la fortuna, casca senza offendersi in terra: si rileva trepidante e prorompe in fuga precipitosa. Ben se ne accorsero i suoi nemici e gli spararono dietro moltissime archibugiate; non lo coglievano: alcuni cavalli lo inseguirono, e il caso (poichè la paura gli aveva rapito il lume dell'intelletto) così bene lo diresse nella fuga che i cavalieri, impediti dal cammino sdrucciolevole, trattenuti dalle molte asperità del terreno, dopo una lunga caccia dovettero rimanersi del seguitarlo. Di questo prete tra poco. — Il Ferruccio, ignaro che sopra il suo capo si era commessa tanto nefanda tragedia, co' principali dell'esercito si ferma nelle stanze terrene della casa del trucidato Mezzalancia.

Il cielo presago della sventura che stava per avvenire incupì maggiormente la sua faccia, — di grigio diventò nero e parve assumere gramaglie pel prossimo lutto. — La pioggia dirotta allaga d'improvviso la terra.

... presentò all'Orange la carta dei patti firmata dal papa;... Cap. XXVIII, pag. 664.

Per altra parte il principe di Orange, pervenuto il due agosto a Pistoia, vi si fermò tutta la giornata attendendo ad ascoltare gli esploratori e spedire di ora in ora ordini e messi a Fabrizio Maramaldo e ad Alessandro Vitelli, affinchè si stringessero alle spalle del Ferruccio senza lasciargli campo a ritirarsi; la qual cosa gli sembrò avere molto bene conseguita quando gli fu riportato che il capitano Cuviero con gli Spagnuoli ribelli di Altopascio, chiesto ed ottenuto perdono, si era congiunto con lui, e che Nicolò Bracciolino con mille armati di parte panciatica lo sosteneva e guidava. A ora di vespro, il principe, salito in cima del campanile del duomo, domandò ai cittadini pistoiesi che lo circondavano gl'indicassero la strada da tenersi fra i monti; della qual cosa, secondo che i ricordi dei tempi ci fanno fede, fu pienamente istruito da Bastiano Brunozzi[331]. Appressandosi la sera, dietro la scorta di Bastiano Chiti[332], uomo pratico del paese, si pose in via e camminando tutta la notte si condusse la mattina sotto i Lagoni, luogo quasi ugualmente distante da Gavinana e Pistoia, e si accampò in certo piano tutto ingombro di castagni che torna sopra a San Mommè, ricoperto dal poggio che riguarda Pontepetri e le Panche, adattissimo alle insidie e tale da sorprendere senza essere scoperto il Ferruccio, quando si fosse inoltrato, per la strada ch'egli disegnava tenere.

Mentre l'Orange, in questo luogo fermando l'esercito, attendeva a riconfortare gli spiriti, ecco arrivare affannoso da capo alle piante contaminato di fango un sacerdote; dalla paura turbato e dalla agonia della vendetta, trafelato di stanchezza, non trovava parole intiere; — si aiutava col gesto nè giungeva a farsi intendere meglio; — lo consigliarono a riprendere lena, lo ristorarono con vino generoso, sicchè, tornatogli l'animo, cominciò a dire: «Ferruccio, si trova a San Marcello; — la terra ormai è stata ridotta in cenere, i popoli sepolti nelle rovine... io, per la grazia di Dio appena salvo, ho veduto con questi miei occhi trucidata tutta la mia famiglia; — a che tardate? Muovetevi, se volete sorprendere il nemico come dentro una fossa[333].

Di ciò tanto opportunamente avvertito l'Orange dispose muoversi, molto più che conobbe a prova il breve riposo dopo la notte perduta sgagliardire piuttosto che afforzare il corpo; per lo che, recatosi in mezzo all'esercito accompagnato dai principali capitani, salì sopra un monticello e con lieto sembiante rivolto ai soldati disse loro:

«Soldati, si avvicina il termine dei comuni nostri fastidi. Vinta questa battaglia, torneremo a casa onorati ed anche doviziosi. Il papa, come uomo che si fida poco di voi e meno di me, non vuol pagarci, se prima non vinciamo. Vinciamo dunque; se non per volere, mostriamoci eroi per necessità. Della vittoria sarebbe piuttosto follia disperare che sperare baldanza. In ciò mi affida la prodezza vostra in tante venture provata, la dappocaggine dei Fiorentini...»

«E sopra tutto il vostro numero, sette volte maggiore di quello del Ferruccio», interruppe con gran voce il Bandini[334].

Orange abbassò arrossendo la faccia e, subito dopo rialzandola ridente, soggiunse:

«Non saremo poi tanti, Bandino. In ogni caso, anche per questa parte possiamo star certi della vittoria. Non pertanto mal ti avvenga, Bandino; interrompendomi tu hai tolto alla storia la più bella arringa che mai siasi avvisato di fare un capitano di esercito da mille anni a questa parte. Adesso non mi riesce riprendere il filo degli argomenti... Oh Dio! mi stanca tanto pensare. Meglio così, imperciocchè se ci scapita la storia, ci guadagnate un tanto voi altri soldati; — io vengo subito alla conclusione, ed è questa, — beviamo[335]

Non aspettarono i soldati a sentirselo dire due volte. Messa mano ai barili, ne empirono capacissime tazze e le mandarono in volta alternando risi, motteggi ed augurii per la vicina battaglia.

Il principe, bevuta prima una ed un'altra tazza, n'empì la terza, e considerando che il Bandino, assorto nella sua cupezza, non domandava da bere, gli porse la propria tazza dicendo:

«Bevi, Bandino, perchè potrebbe darsi che il fato ci contendesse bagnare un'altra volta le labbra nel divino liquore.»

Il Bandino, accostatasi appena la tazza alla bocca, la consegnava ad un paggio, — il poco vino libato sparse per terra; — gli parve avesse sapore di sangue.

Ora in quel luogo accadde ciò che nel medesimo punto avveniva a San Marcello. Il cielo si annuvolò ad un tratto e rovesciò sopra la terra grossissima pioggia. Orange e l'esercito stando fuori allo scoperto, ne rimasero bagnati fino alle più riparate parti del corpo; nè di questa avventura rimase per nulla sbigottito il capitano cesareo, ma anzi traendone favorevole auspicio, non senza molto riso così favello:

«Soldati! Noi non anderemo punto imbriachi alla guerra contro i nemici, poichè con tanto favore Iddio ci adacqua con le sue sante mani il vino[336]

Ciò detto, con prontezza non meno che con savio intendimento dispose l'ordine della battaglia, il quale fu questo. Mandò innanzi Teodoro Becherini, Zucchero Albanese, Rossale, Francesco da Prato e Antonio da Herrera con i cavalleggeri, e per difesa maggiore diede loro in compagnia trecento veloci archibugieri, imperando che dovunque incontrassero per la via luoghi angusti pei quali con difficoltà passasse la cavalleria, quivi ponessero certe squadre di archibugieri; onde se a caso, abbattendosi nei nemici grossi, avessero dovuto retrocedere da queste squadre appostate su i poggi, ciò potessero fare a poco a poco senza sbandarsi; e se invece il nemico fosse venuto loro sopra in luoghi piani dove scorgessero la cavalleria agevolmente adoperarsi, allora si spingessero innanzi e facessero ogni sforzo di entrare in Gavinana prima del Ferruccio, avendo avuto dagli esploratori ragguaglio il capitano fiorentino intendere ad occupare Gavinana e quivi afforzarsi contro di loro, unendosi a quanti per quella montagna parteggiavano per la fazione guelfa o cancelliera, ed erano amici alla Repubblica Fiorentina. Avrebbe seguitato l'Orange con gli uomini d'arme, i corazzieri e le fanterie.

Affrettando il passo, i cavalleggeri imperiali si accostano a Gavinana e ricercano i terrazzani aprissero le porte a nome dell'imperatore e del papa.

I principali del castello, recatisi sul ballatojo di porta Piovana, rispondono alla intimazione: aprirebbero volentieri, purchè avessero fede che sarebbero lor salve le sostanze e le vite.

I capitani dei cavalleggeri soggiungono; «Aprite tosto; di ciò vi malleviamo sotto parola del principe Filiberto di Orange capitano cesareo, che di poco tratto ci seguita.»

E i terrazzani da capo: «Di voi punto non ci fidiamo; aspettate che venga il principe, e quando egli proprio ci assicuri, vi apriremo le porte; nè l'esitanza nostra deve adontarvi, imperciocchè essendo Gavinana ab antiquo di parte cancelliera, e occorrendoci tra voi non pochi panciatici, crudelissimi nemici nostri, meno di voi sospettiamo che di loro.»

Tutte queste parole mettevano innanzi i Gavinanesi non per voglia che avessero di arrendersi, ma per dar tempo di arrivare al Ferruccio, a cui avevano mandato celerissimi messi, ed ora, per sempre più affrettarlo, si posero a suonare furiosamente le campane a martello.

I messi di Gavinana incontrano il Ferruccio nella casa del Mezzalancia.

«Affrettate i passi, per Dio! messere lo commessario; Gavinana appena si tiene, tanto l'assalgono grossi i nemici d'intorno; ma per poco che tardiate, voi troverete un mucchio di rovine. Il principe d'Orange in persona comanda all'esercito.»

«Maledetta sia la paura che vi fa vedere da per tutto il principe di Orange come se fosse il trentadiavoli e la versiera! Vi pare egli che esso avrebbe voluto o potuto abbandonare il campo sotto Fiorenza?»

«Io vi giuro pel corpo di Cristo, messere Ferruccio, che Orange vi sta incontro; molti dei nostri lo hanno veduto.»

Allora il Ferruccio trasse un sospiro e tra i denti mormorò: « Ahi! traditore Malatesta

Subito dopo il Ferruccio, raccolti i capitani, esponeva: stargli di fronte il nemico, il quale bene si avvisava incontrare, ma non già in sì gran numero, nè il principe stesso, nè così subito alle spalle; argomentare dallo stormo, essere inseguito; dicessero essi quello che in tanto estremo intendevano imprendere. — Risposero tutti: quanto a lui piacesse a loro piaceva, essere parati a mettere la vita nella imminente battaglia. — In mezzo a tanto consenso per combattere, Giampagolo Orsino, comecchè sentisse sarebbero tornate malgradite le sue parole, pure non volle mancare al debito di leale soldato, aprendo francamente il parer suo. Egli fece notare il fine di ogni loro sforzo essere la liberazione di Firenze e la salute della Repubblica; quindi ogni ingegno doversi porre a entrare sani e salvi in patria; potere questo di leggeri venir fatto seguitando su pei monti la strada tenuta dalle femmine fuggenti da San Marcello, e procedendo per gli Appennini riuscire in Mugello, donde calati a Scarperia, sarebbero venuti quasi su le porte di Firenze. — Ai quali consigli il Ferruccio oppose: che per fuggire bisognava lasciarsi dietro carriaggi e vettovaglie, sicchè non sapea di che avrebbe nudrito i soldati per quelle aspre giogaie; ancora, i nemici avere gambe pronte quanto le loro, per lo che gli avrebbe incontrati in ogni luogo forti come ora, più baldanzosi di ora, entrando in concetto di seguitare gente schiva di venire alle mani: e messo da banda il sospetto di essere perseguitato, quello che punto maggiormente aveva a temere era, che, precorrendolo nel piano di Mugello, quivi i nemici lo aspettassero e, come quelli che troppo, in ispecie cavalli, lo superavano, a mano salva l'opprimessero[337]; finalmente conchiudeva con la proposta altre volte avanzata da lui, cioè che se il nemico cui andava incontro fosse di poco od anche una metà superiore al suo esercito, egli lo avrebbe vinto di certo; oppure lo superava di sette od otto volte, ed allora i cittadini di Firenze avrebbero assalito il campo vuoto di soldati e così liberato in altro modo la patria. In ogni caso avere veduto sempre nascere pessimi effetti dalla fuga; ma la morte stessa, quando generosa, essere stata feconda. Gli audaci sforzano la fortuna. L'Orsino, persuaso dalle ragioni del Ferruccio, lo supplicava preporlo al posto più pericoloso della battaglia[338].

Il Ferruccio, uscito all'aperto, di slancio saltò in sella al suo buon cavallo e, levatosi l'elmo di testa, all'esercito, che gli stava schierato davanti come in anfiteatro, rivolse queste nobilissime parole, conservateci da Bernardo Segni al quarto libro delle sue Storie:

«So per esperienza, soldati fortissimi, che le parole non aggiungono gagliardia nei cuori generosi, ma sì bene che quella virtù che vi è dentro rinchiusa, allora si mostra più viva che l'occasione o la necessità la costringe a far prova di sè. Siamo in termine dove l'una e l'altra cosa ci si apparecchia per fare al mondo più chiara e più bella la costanza e la fortezza degli animi nostri; l'occasione vedete bellissima e sopra ogni altra onoratissima che ci si mostra difendendo con giusto petto l'onore delle armi italiane e la libertà della nobilissima patria nostra, per farvi risplendere per tutti i secoli di chiara luce; la necessità ci è presente e davanti agli occhi, che ci fa certi che ritirandoci saremmo raggiunti dalla cavalleria nemica, e che stando fermi non avremmo luogo forte da poter difenderci nè vettovaglia da poter vivere, quando bene prima entrassimo in quelle mura. Restaci adunque solo una speranza, e questa è la disperazione di ogni altro soccorso infuorchè di quello che dalla virtù delle vostre destre infino a questo giorno state invittissime e dal vostro animoso spirito procede. Questo ci farà in ogni modo vincere; nè, benchè siamo meno per numero, ci dobbiamo diffidare, per la speranza, oltre a quella della virtù vostra, maggiormente in Dio ottimo massimo; che, giustissimo e conoscitore del nostro buon fine, supplirà con la sua potenza dove mancasse la forza nostra.»

E ricopertosi il capo, con feroce sembianza brandita la spada, riprese:

«Soldati, non mi vogliate abbandonare in questo giorno.»

Carlo conte di Civitella e Amico Arsoli condottieri dei cavalleggeri spedisce innanzi, affinchè trascorrendo velocemente occupino Gavinana; seguita egli con la battaglia composta di quattordici bandiere; pone quindi le bagaglie, e la dietroguardia, ch'erano quindici insegne, commette alla fede di Giampagolo Orsino.

I cavalieri imperiali, sospettando ormai la malizia dei Gavinanesi e già vedendo apparire le insegne fiorentine, non si tennero più in freno, ma, trascorrendo a mano diritta lungo le mura di Gavinana, si fecero animosamente ad incontrare il nemico.

Il primo colpo è percosso, — ne succedono mille; uomini, cielo e campo di battaglia, tutto si presenta terribile. La strada sopra la quale combattono serpeggia a mezza costa del monte. — Da un lato il dirupo, — dall'altro l'erta scoscesa. In quelle angustie pochi prendevano parte alla battaglia, ma, sospinti dai sorvegnenti, quei pochi così si stringevano che, diventata inutile la spada e la lancia, si finivano a pugnalate, e i cavalli medesimi partecipando il furore dei combattenti si laceravano a morsi. Armi, cavalli e cavalieri precipitavano giù nel burrone, lasciando sulla schiena del monte spaventevole striscia di sangue; ed è fama che in quel giorno, l'umile rio delle Catinelle menasse giù alla valle più sangue che acqua, e la Vergine, che anche ai dì nostri scorgiamo posta a custodia della fontana dei Gorghi, vide in cotesto memorabile caso di sangue umano contaminate le caste sue linfe.

Nessuno vinceva, e si distruggevano tutti. Alcuni cavalieri fiorentini, o trasportati dall'estro della strage, o sia piuttosto, come crediamo, desiderosi col sacrificio delle proprie persone assicurare la salute della patria, scorgendo un calle su per la costa del monte, vi salirono a stento, e quando furono giunti a conveniente altezza, gridarono: «Viva la Repubblica!» — poi spinsero giù alla dirotta i cavalli, cacciando loro nel ventre intieri gli sproni. Quando eglino percossero i fianchi dei nemici, alcuni dei nostri rimbalzati dall'urto oltrepassarono volando sopra di loro e andarono capovolti ad incontrare la morte giù nel dirupo; altri caddero infranti tra le zampe dei cavalli: nondimeno così irresistibile fu l'impeto che la schiera si ruppe, e con eccidio miserabile ben molti tennero dietro nel precipizio ai nostri che tanto nobilmente si erano sagrificati. Allora crebbe il cuore ai Fiorentini: i capitani sopra gli altri volevano essere, siccome maggiori nel comando, così primi nel pericolo; sorse stupenda una gara di affrontare la morte; incalzano i Ferrucciani, piegano gli Orangeschi; indi a poco i cavalli, trovando dietro a sè bastevole spazio, si volgono e si danno alla fuga. Rifecero con veloci passi la via, piegarono di nuovo a destra di Gavinana e s'internarono nel bosco dei castagni, detto Vecchieto, sperando mantenervisi per virtù degli archibusieri appostati dietro i tronchi degli alberi. Ma nè per questo si rimase punto l'ardore dei nostri, che, scesi da cavallo, con in mano la picca conquistarono albero per albero e a palmo a palmo il terreno, sicchè pervennero a ributtarli fuori del bosco, cacciandoli oltre la fonte delle Vergini.

Il Ferruccio, trovata sgombra la via, accorre frettoloso e tra gli applausi dei terrazzani entra in Gavinana per la porta Papinia. Trasportato a festa sopra la piazza, mentre alzata la mano impetra silenzio per manifestare la gratitudine che serberebbe eterna la Fiorentina Repubblica per la divozione del popolo egregio di Gavinana, ecco volge lo sguardo alla contrada che mette capo alla porta Apiciana, e vede maravigliando comparirsi davanti la bandiera imperiale.

Fabrizio Maramaldo, il quale, come avvertimmo, aveva ricevuta commessione dall'Orange di tenere dietro al Ferruccio, giunto anch'egli sopra le Lari di Prunetti e quivi avvisato della scesa dei Fiorentini nella valle di San Marcello, piegò a mano sinistra al ponte di Mammiano, e scortato da buone guide, tenendo il cammino verso i monti che sovrastano a San Marcello, per la via sotto al Piano dei Termini, riuscì presso le mura di Gavinana dalla parte di levante. I terrazzani, accorsi ad incontrare il Ferruccio, nè da questa banda temendo l'offesa, l'avevano lasciata scoperta. Maramaldo, tentata la porta e la trovando salda, si pose a speculare la muraglia; ella era, siccome composta di muro a secco, debolissima; in breve tempo e con molta agevolezza gli riuscì atterrarne tanto spazio quanto bastasse a passarlo due uomini; un soldato, il più animoso, si provò ad entrare; non gli si opponendo nessuno, si assicurarono gli altri del sospetto d'insidia e a calca vi si affollarono. Così Fabrizio Maramaldo entrava in Gavinana da levante nel punto stesso in cui vi penetrava Ferruccio dalla parte di settentrione.

Il Ferruccio non profferì parola, ma a corsa si spinse incontro al nemico sbarrandogli lo sbocco alla piazza; gli tennero dietro Vico Machiavelli, Nicolò Strozzi, Goro da Montebenichi e molti altri dei valenti uomini che rammentammo di sopra, — oppongono una muraglia di ferro; adesso coloro che tra i nemici si mostrano più volonterosi vorrebbero ritirarsi, ma sospinti dalla piena dei sorvegnenti vanno a trafiggersi sopra le picche dei nostri; alcuni, tolto coraggio dalla disperazione, menarono orribili colpi, ma alla fine furono spenti; già d'intorno al Ferruccio si era innalzato un riparo di morti e di moribondi, sicchè gli convenne per mantenere la terribile zuffa calpestare quel baluardo di carne umana. Ad accrescere l'eccidio, uomini e donne lanciavano dalle finestre e dai tetti sassi, tegoli e di ogni maniera masserizie su le teste degl'imperiali, che vedute dall'alto avevano sembianza di palle da artiglieria disposte per entro un quadrato. Durò gran pezza la mischia, e il Ferruccio si sentiva stanco, non sazio di uccidere; l'armatura, già brunita splendidamente, appariva adesso vermiglia dal cimiero agli sproni, qua e là ammaccata, in parte fessa; pensò nuovo modo di strage, si risovvenne delle trombe di fuoco, e mandò Vico a vedere se la pioggia ne avesse lasciata illesa qualcheduna; ne rinvenne tre buone a farne uso, le portò frettoloso, le dispose con diligenza e, avvertiti i compagni affinchè si cansassero, appiccò loro il fuoco: prorompe una tempesta di palle, di scheggie, di vetri e di simili altri proietti di cui solevano i nostri antichi riempire le macchine di guerra; — la strada rimase sgombra; — di tanta gente stipata avanza un mucchio informe di membra lacere, e su le pareti delle case appaiono attaccali frantumi di cervelli umani, o impresse col sangue le forme dei corpi quivi schiacciati; l'impeto della vittoria non concesse ai nostri osservare per quale orribile rivo cacciavano le gambe, si spinsero oltre sguazzando nel sangue allo esterminio nemico[339].

Ecco arriva l'Orange, a vedersi mirabile per l'armatura fregiata di oro e di argento con sottile lavoro, pel cimiero piumato, egregia opera dell'arte, ed anche pel poderoso cavallo pure egli adorno di pennacchi e di ricca gualdrappa; il superbo animale, quasi consapevole di portare così grande barone, scalpita, sopra sè stesso si ripiega, si compiace in somma nei moti smoderati che in un cavallo comune di ordinanza sarebbero stati puniti con acerba ferita degli sproni.

Quale impeto di cieca ira agitasse il capitano imperiale contemplando scomposte le squadre dei cavalleggeri, non è da dirsi; si avvolgeva furente pel campo gridando: «Dove siete, miei cavalleggeri?» E i suoi cavalleggeri erano polvere. Ad un tratto si accorge di un alfiere che malamente ferito se ne stava acquattato dietro un castagno; — gli corre sopra, gli strappa di mano la bandiera e, dandogli dell'asta traverso la faccia, lo manda tutto pesto a rotolarsi nel fango. Sventolando poi la insegna, continua a imperversare pel campo; non mica supplichevole, ma invece garrendo i soldati con parole di contumelia gridava:

«Marrani, cani senza fede, tornate in battaglia! ringraziate Dio essere sortiti all'onore di farvi ammazzare per sua maestà l'imperatore; tornate in battaglia, o, alla croce del vero Cristo, vi faccio sterminare dalla mia gente di arme!»

In questo modo favellando, egli primo precipita giù per la china del campo delle Vergini.

Sorgono due collinette, una di faccia all'altra, fuori della porta Piovana, e con le coste presentano due piani inclinati acconci a difendersi, malagevoli ad assalirsi; quello che rimane a destra di chi entra in Gavinana si appella piano delle Vergini, l'altro che giace a manca chiamano Vecchieto. I nostri, diloggiati i nemici, stanziavano nel campo di Vecchieto, e ottimamente riparati dai castagni, che quivi anche ai dì nostri vediamo più grossi che altrove, dirigevano contro ai nemici disposti allo scoperto sul piano delle Vergini una tempesta di palle spessa e fragorosa come grandine. Pieno di pericolo l'inoltrarsi, ma l'Orange credeva che palla plebea non valesse a forare il corpo di un principe.

Tra il piano delle Vergini e Vecchieto havvi una via alpestre, e in questa strada, ma più vicina al primo campo che a quello di Vecchieto, occorre una fontana con la immagine della Madonna; ella se ne sta in mezzo a tanta rabbia di uomini, quasi colomba posata sul margine del vulcano. Perchè non placa ella i feroci? Perchè sensi mansueti non diffonde nel cuore degli omicidi? I ferri si inchinano davanti il seno delle femmine, — l'istrumento della morte rifugge dal seno onde traggono il primo alimento le creature umane. Avevano il cuore aspro come pietra i Romani e i Sabini, e non pertanto diventarono miti alle supplicazioni delle donne imploranti pace. Ma cotesti non erano figli di una medesima terra; nessuno oltraggio avevano agli assalitori arrecato i Fiorentini; essi lasciarono derelitte le mogli e le madri a casa per disertare altre madri, altre mogli; i campi abbandonarono incolti per devastare altre campagne: male dunque a loro avvenga, abbiano la tomba che si sono meritata, sieno scordati dalle mogli lontane, le quali l'annunzio della morte loro sentiranno come si ascolta la nuova delle fortune insperate. E tuttavolta, se alla Vergine non piacque separare la mischia, s'ella conobbe la giustizia della causa della Repubblica, perchè non ottenne la vittoria ai Fiorentini? Perchè con esempio memorando non dimostrò in conforto della virtù infelice prendersi su nei cieli cura e difesa della innocenza dei popoli? — Vana cosa fu sempre affaticarci la mente con domande alle quali non sappiamo trovare risposta.

Prima che il principe si avventurasse nella impresa rischiosa, monsignore Ascalino, dubitando di male, come prudente capitano pensò alla ritirata e dispose una banda di due mila tra Tedeschi e Spagnuoli in certa forra che giace tra Gavinana e il prossimo castello di Maresca; per questo caso di ora in poi la chiamarono la Forra Armata.

L'Orange muove imperversato giù sul pendio, così saldo si mantiene sopra l'arcione, così facile acconsente con la persona ai moti del cavallo che pare comporre una stessa forma con lui, — un mostro creato alla distruzione della specie umana.

Sceso in fondo del luogo ripidoso, trasse le briglie, e il buon destriero si fermò immobile. Il principe gira intorno la testa a speculare se alcuno avversario gli si presentasse davanti, ed ecco vede un cavaliere armato alla leggiera starsi presso la fontana delle Vergini senza fare atto di andargli incontro, ma ed anche disposto a non rimoversi da quel luogo. L'Orange, piegando a quella volta il cavallo e al comando della voce aggiungendo il gesto, gli grida da lontano:

«Non mi aspettare, soldato; sgombra, io ti concedo fuggire.»

Nicolò Masi di Romania, nel quale riviveva pure una scintilla di greco valore, non rispose e non si mosse. L'Orange stimolando il cavallo gli giunge appresso e rinnova la intimazione, e poichè la vide tornar di nuovo invano, gli si stringe addosso, animoso sollevando la spada.

Allora il Masi con stupenda celerità, prima che il colpo della spada calasse, si alzò su le staffe, con ambe le mani strinse la mazza di arme e ne percosse l'elmo del principe in modo che questi perdette la sinistra staffa e piegando il capo confuse i pennacchi del suo cimiero con quelli che fregiavano il frontale del cavallo. Comecchè intronato, l'Orange si rilevò furioso e menò sul Masi manrovesci e fendenti che certo gli avrebbero recato assai danno, se gli occhi abbarbagliati per entro vortici di fiamma gli avessero conceduto assestarli meglio, o se da meno fina armatura il Masi stato fosse difeso. L'astuto Greco però, seguitando il duello, a mano a mano si ritirava sperando di farlo prigione, cosa che avrebbe dato vinta l'impresa, e il principe ormai cieco della mente cadeva certo nella insidia, se il conte da San Secondo e Giovanni Bandini non avessero eccitato quanti stavano appresso di loro fanti ed uomini di arme a portare soccorso al capitano.

«Per poco che tardiamo», essi dicevano, «non saremo più in tempo. Avanti Herrera! Avanti Rossale! Dove non occorre pericolo non si acquista gloria; ove si avventura il capitano deve inoltrarsi anche il soldato.»

Herrera e Rossale si avanzano co' loro squadroni; il volto hanno pallido come codardi, e pure si mostrano animosi nei moti; passando a canto al Bandino, questi a voce sommessa dice all'Herrera:

«E bada a tirare giusto... un colpo, e basta.»

I cavalli si avventano, scomparisce lo spazio; all'improvviso s'innalza una densa nuvola di fumo; da una parte e dall'altra si sono mandati la morte scaricando gli archibusi. Chi rimase in sella? — chi ricoperse cadavere illacrimato il terreno? Non alitando soffio alcuno di vento, il fumo continua ad ingombrare il campo della zuffa. Di lì in breve però un magnifico cavallo ornato di piume galoppa, privo di cavaliere, di su di giù per le squadre dei soldati, empiendo il campo di tumulto e di spavento. È il cavallo del principe di Orange. Il suo signore giace spento nel fango trapassato da tre palle di archibuso, una nel petto, un'altra nel braccio sinistro, e la terza nel collo sotto la nuca[340].

E da un altro lato della nuvola del fumo sbucarono due cavalieri, gridando: «Salva! — salva!» — spingendo alla dirotta i cavalli. Erano Herrera e Rossale, cui la paura di comparire davanti al giudice supremo col sangue fresco di un assassinato sopra le mani rendeva codardi.

Tutta la gente di arme si disperse fuggendo, sicchè a Pistoia prima, poi a Firenze e al papa in Bologna corse la fama della disfatta e della morte del principe, sentendone, secondo i desiderii diversi, o immensa gioia, o infinita tristezza.

Per quello che abbiamo potuto indagare, sembra che da tre parti arrivasse sul principe la morte, dagli archibusieri appostati a Vecchieto, dai terrazzani schierati sulle mura della Gavinana e dagli assassini, ai quali in nome del papa era stato commesso il tradimento.

Tantavilla francese, paggio del principe, continuandogli in morte[341] quella fede di cui tante prove gli dava nella vita, malgrado la presenza del nemico e il pericolo che correva grandissimo, non volle lasciarlo, ma invece indirizzandosi al cavaliere che si vide più prossimo, e fu il valoroso Masi, lo pregò a porgergli aiuto onde caricarselo sopra le spalle.

E il Masi, magnanimo di cuore, come prode, commiserando al fato di tanto personaggio, scese da cavallo e sovvenne nel pietoso ufficio il servo fedele. Il Tantavilla, poichè si fu recato su le spalle il corpo dell'Orange, sorreggendolo con la mano manca, stese la destra al Masi e gli disse piangendo:

«Generoso cavaliere, se non vi sdegna la mano di un servo, me la stringete, vi supplico; ella è mano di servo fedele.»

«Di gran cuore», rispose Nicolò commosso, e gliela strinse con affetto; «se mai ti stringesse alcun tuo bisogno, sovvengati di Nicolò Masi. Ora parti, chè le parole sul campo di battaglia vogliono esser corte, e Dio ti tenga nella sua santa guardia.»

Il Tantavilla trasportò la spoglia del principe nella cappelletta poco lungi da Gavinana, a lato della via che mena ai Lagoni, e quivi, temendo non gli venisse tolta, l'avvolse entro una coperta di lana e la sotterrò in mezzo del pavimento, dove anche oggi si vede il segno dello scavo, benchè risarcito, per la lunghezza di un corpo umano. «E colà stette», narra il capitano Cini, «finchè, dopo acquistata la vittoria, fu da chi comandava mutato parere e considerato meglio levarlo da quel luogo ignoto e portarlo altrove; e così, quando si partì il vittorioso esercito imperiale, fu dissotterrato e involto nella stessa coperta, messo sopra un grosso cavallo. La spoglia mortale del principe, spenzolando di qua e di là le braccia e le gambe, e dimenando capo, lacrimoso spettacolo della miseria umana, giunse a Pistoia. Lo posarono prima fuori di porta al Borgo, donde il clero lo rimosse con pompa, e a grande onoranza lo trasportarono alla cattedrale. Quivi ebbe esequie solenni come vincitore. Poco dopo lo deposero alla certosa di Firenze, e quinci, dopo averlo imbalsamato, lo spedirono alla sua genitrice, che certo non si aspettava rivedere in questo modo il diletto suo figlio.»

«Vittoria! vittoria!» con immense strida gridavano i soldati del Ferruccio, respinti i nemici e dispersi per la campagna, rientrando nelle mura di Gavinana. I terrazzani dai balconi, dai tetti plaudivano battendo palma a palma e sventolando candidi pannilini. Le campane sonavano a gloria.

«Vittoria! vittoria!» rispondono i cavalleggeri fuori delle mura, i quali a posta loro, ributtati i cesarei, occupavano il piano delle Vergini. Dappertutto allegrezza. Il cielo stesso placato lasciava aperto tra le sue nuvole un adito al raggio del sole, — l'ultimo che salutasse il gonfalone della Repubblica Fiorentina.

E il prode Ferruccio, palpitante, bagnato di sangue nemico e de' suoi si appoggia all'asta della lancia sotto il magnifico castagno che sorgeva sopra la piazza della Gavinana. I suoi occhi stanno rivolti al firmamento porgendo col cuore grazie fervidissime a Dio; — non lo poteva con le labbra, chè lo impediva l'affanno.

Qui circondato dall'Arsoli, dal Masi, dai conti di Castro e Civitella, da ambedue gli Strozzi Nicolò e Bernardo, e da altri egregi difensori della Fiorentina Repubblica, udiva i vari casi della battaglia e la morte del principe.

«Dio faccia pace alla sua anima», favellò il Ferruccio, «egli è morto da valoroso. Se alcuno rinviene la sua spoglia mortale, si rammenti che il guerriero spento in battaglia è cosa sacra al guerriero. — Guai a chi l'oltraggia!»

Ahimè! Mentre si rallegrano della vittoria, ella apre l'ale per fuggire dalle loro bandiere.

Alessandro Vitelli e Mario Colonna con gl'Italiani, gli Spagnuoli ammottinati di Altopascio e il Bracciolino capo della fazione panciatica, inseguendo, secondo il comandamento ricevuto, l'esercito fiorentino, giunsero anch'essi alla Croce delle Lari. Tenne sentiero diverso il Maramaldo: piegò a mano diritta, passò il fiume Limestre e riuscì di faccia alla dietroguardia di Giampagolo Orsino.

S'incontrarono sul piano di Doccia posto a mezzo cammino tra Gavinana e San Marcello. L'Orsino, considerando non potere resistere a tanta piena di nemici e difendere così gran numero di bagaglie, ordinò ai marraiuoli che aveva in copia il Ferruccio condotti da Pisa si affrettassero ad alzare un terrapieno formato a mezzo cerchio, il quale condussero maraviglioso e con incredibile celerità. Il viaggiatore che visita quel campo può anche oggi contemplarne i vestigi per un tratto di meglio che dugento braccia. Dietro al terrapieno si difende l'Orsino; il nemico grosso minaccia di prorompere, quasi un fiume appena contenuto dagli argini; qui si rinnuovano le ferite, il dolore, il pianto dei moribondi, la strage nefanda. Il mio spirito contristato non sa che cosa più oltre deve narrare di miserabile, la fantasia cade stanca di avvolgersi tra così moltiplici immagini di morte, e al mio lettore risparmio il fastidio di più oltre affliggersi sopra le sventure e le colpe degli uomini. Forse non rimaneva rotto l'Orsino; la fortuna gli concedeva ritirarsi incolume in Gavinana, se il malefico ingegno del Bracciolino non si fosse adoperato ai danni della patria; non furono mani straniere, ma per maggiore dolore italiane quelle che consumarono il sacrificio della più nobile repubblica di questa nostra contrada. Noi dobbiamo compiangere la battaglia della Gavinana non pure come sventura, ma altresì come delitto.

La discordia percorse veloce e continua sopra la faccia della misera Italia, dalle Alpi al mare ionio a guisa di spola nelle mani del tessitore; se pose l'orma su i monti, li compresse; se sopra le pianure, le inaridì; con un flagello di vipere percosse le generazioni e trasfuse nelle vene di loro il veleno e la rabbia. Ora i figli portano il peso delle paterne iniquità; — ma durezza di fato per sospiri non muta, e il cielo arride alle mani animose, — non agli occhi piangenti. Ora i figli stanno in pace tra loro; — imperciocchè come contenderebbero i bovi gravati dal medesimo giogo? In espiazione degli antichi delitti, una volta ogni anno nella festa dell'Ascensione i monti di Gavinana risuonano di canti lugubri: due processioni muovono, una da San Marcello, l'altra da Gavinana, verso la fonte dei Gorghi. Quando s'incontrano, i cantici si rinnuovano più alti, accostano gli stendardi e fanno toccare i crocifissi tra loro; ciò chiamano — il bacio dei Cristi. I discendenti dei truci faziosi s'impalmano mansueti, più voti ricambiano con gli animi pacati; simili alle regine della tragedia inglese[342], ora che giacciono sopra la terra, le ha fatte amiche il pianto. Se questi inni e questi gemiti hanno forza di rompere il vostro sonno secolare, ossa degli antichi defunti, oh come affannosamente dovete fremere dentro ai vostri sepolcri! — Venite e vedete; — per colpa vostra gli eredi del vostro sangue altro intelletto ed altra forza non serbano che per piangere e per pregare. — Io per me, quando considero come è tumida la fortuna e corriva agli oltraggi, e quanto all'opposto consigliera di pace la sventura, tremando m'interrogo se per caso la provvidenza commise alla miseria ordire il vincolo di concordia unicamente durevole tra gli uomini. — Ma io l'ho detto, affaticarci con domande a cui non sovviene la risposta è amaritudine di spirito; e tra queste bene spesso ne occorrono di tali che percuotono le orecchie, quasi una squilla che suoni a infortunio, o piuttosto feriscono il cuore dolorose a sentirsi quanto il dardo della vipera.

Nicolò Bracciolino, che co' suoi mille faziosi procede col Vitelli a modo di lancia franca, esperto del luogo, si stacca dai compagni e per certe vie oblique a lui note celandosi dietro ai tronchi dei castagni che spessissimi crescono in questo lato, in silenzio, co' passi del traditore, si avvicina al fianco della colonna dell'Orsino. Fu agevole cosa trucidare e disperdere i pochi e meno validi soldati che vi stavano a guardia, — scompigliare le bagaglie, mandare sottosopra some e carriaggi, — empire di spavento ogni cosa. Orsino, udendo rumore alle spalle, conobbe il caso e si tenne spacciato; tuttavolta, disposto a morire da valoroso, strinse intorno a sè i suoi, ne fece gomitolo, e così ordinato, non altramente che fosse un corpo solo armato di mille spade, si dispose ad aprirsi la strada camminando sul petto dei nemici.

Sovvengati, lettore, se mai fosti in riva al mare, di aver veduta una barca per forza dei rematori rompere le onde che incessanti si accumulino contro di lei e, come se avessero senso di rabbia, fremere riottose lungo i fianchi e subito chiudersi ribollenti dietro il timone; così la virtù dei soldati dell'Orsino supera il numero dei nemici, ma il suo drappello procedendo scema, mentre da ogni stilla di sangue avversario sembra che nascano nuovi guerrieri a combatterlo; — male incolse a cui volle inseguirlo troppo dappresso, perchè sovente rivolse la faccia e balestrò la morte nelle file dei cesarei; — venuto al rivo delle Catinelle si fermò di nuovo, e di nuovo quelle umili acque si tinsero di sangue umano; finalmente lacerato dalla testa, su i fianchi, dopo avere fatto quanto e più a forza umana era concesso, ripara in Gavinana; i terrazzani non ebbero tempo per chiudere le porte, — proruppero nel castello amici mescolati ai nemici.

Per altra parte Fabrizio Maramaldo fuggendo tutto pauroso s'imbatte nella banda della Forra Armata, la quale, e per essere posta in luogo riparato e per non avere ricevuto ordine alcuno, non erasi mossa; la reputando nemica, stava per gittare l'arme e raccomandare per misericordia la vita; se non che, ravvisando l'errore, riassunse presto la superba natura, e levata la voce comandò: si muovesse a salvare i compagni messi in rotta, si affrettasse; avrebbe vinto la impresa, se si fosse comportata col consueto valore.

Si agitarono i due mila, accelerarono i passi, vogliosi di mescolarsi in battaglia; appena usciti dalla Forra, i cesarei sbandati, vedendo una bandiera levata dove potere riannodarsi, cessarono la fuga ed ingrossarono la banda, in breve sommarono a meglio di quattro mila e tutti uniti s'indirizzarono impetuosi contro la Gavinana. In cotesto cumulo di gente, comecchè mosso da passioni diverse, ardeva immenso il desiderio di vincere; — gli uni per vendicare la vergogna, gli altri, quelli della Forra Armata, per orgoglio che fosse detto di loro: il colonnello di monsignore Ascalino salvò l'esercito imperiale a Gavinana.

Ferruccio brandiva la picca, la quale per essere adoperata dagli Stradiotti cavalleggeri greci si appellava stradiotta[343], e accompagnato dall'Orsino, da Amico e Alfonso Arsoli, dai conti di Castro e di Civitella, da Agostino Gaeta dall'uno e l'altro Strozzi, da Francesco Vivages francese, da Sprone di Borgo, da Paolo e Giuliano Corsi, da Antonio da Piombino, da Giovambattista Cambiaso e dagli altri valenti capitani, giù si scaglia contro il Bracciolini, il Colonna e il Vitelli, quando, udito rumore, si volge dal lato opposto e contempla inondato nuovamente di nemici il castello. Allora gli s'intenebrò l'intelletto, gli venne affatto meno la speranza, non l'ardire nè l'animo apparecchiato alla morte magnanima; supplica gli astanti tengano testa al Vitelli finchè ritorni, e rovina dove lo minaccia maggiore il pericolo. Quasi non avesse per sei intiere ore combattuto, quasi gran parte del suo inclito sangue non gli fosse sgorgata dalle vene, apparve terribile come il Dio di Moisè. La voce, il guardo, le mani, tutta la persona insomma spirava la distruzione: «e il fatto, racconta il Cini[344], si rinnuovò con tale e tanto strepito di archibusate e di picche ch'era cosa spaventevole a sentirsi e orribilissima a vedersi, giacchè fu sì crudele e disperata battaglia che appena si poteva passare nella piazza di Gavinana impedita per i corpi morti e feriti che dappertutto v'erano ammonticchiati.»

... al cavaliere che si vide più prossimo, e fu il valoroso Masi,... Cap. XXIX, pag. 694.

E fu questa battaglia degna di Omero, — ma noi non possiamo avere un Omero. Egli cantava all'ombra dei laureti cresciuti a coronare la fronte degli eroi che ascoltavano, — noi seduti sopra un sepolcro narriamo storie alle ossa inaridite; — la traccia di quel divino sopra la terra greca assomigliava alla carriera del sole nel firmamento, splendida e sublime; — non che le case, gli schiudevano i tempii, ond'egli si santificasse col canto. — Poco gli nocque essere cieco degli occhi del corpo, dacchè le muse lo guidavano e la gloria gli rischiarava l'intelletto. — Quando le labbra frementi susurravano l'ultimo verso del canto, e la corda vibrava l'estremo tocco, egli sentiva distinto l'alitare dei petti ai circostanti, e il suo cuore si empiva di nuovo sangue e di nuova poesia, argomento di forza alle immagini future. — La vergine greca colla mano e la guancia appoggiate alla spalla del garzone, come la Psiche di Canova su quella di Amore, udendo le miserie di Andromaca, obliò un istante il suo affetto e gemè per la sconsolata regina; — la madre argiva, al racconto delle stragi di Ettore Priamide, si strinse più forte il pargoletto al seno ed abborrì la guerra, — ma quando le furono rivelate le mirabili prove di Achille, le s'infiammarono le guance, e l'entusiasmo della patria la inebriò; allora guardando con occhio scintillante il suo figlio, esclamava: Abbi la fama di Achille, — e con voce più bassa aggiunse: più provvida di Tetide, io guarderò a tuffarti interamente in Lete. — E quando un fatto comune chiamò la grande anima di Omero nel regno delle ombre, i Greci lo assunsero in cielo, are gl'innalzarono e voti, come a Dio, — sette città se ne contesero la nascita; — i sapienti loro ne derivarono leggi, politica, morale e quanto abbisogna al retto ordinamento della umana società; — lo consultarono come oracolo, ne trassero responsi. — La Grecia tutta tolse per simbolo Omero.

Male arrivato poeta nelle terre d'Italia! Alle generazioni che ti scorrono davanti pallide e vuote, siccome larve, parla di gloria, e ti risponderanno: usura; — guai a te, se ti esce incauto dalle labbra il nome santo di patria! Ti aspetta il luogo infame dove avrai per compagni la meretrice e il ladro... perchè l'amore di patria in questa terra è delitto; in verità, vi dico, delitto ricercato e punito più gravemente assai del latrocinio. — Certo il tuo nobile cuore, o poeta, non verrà meno per questo, — ma rimarrai contristato profondamente per le turpitudini dei tuoi fratelli, — la parola ti spirerà sopra le smorte labbra, e non potrai essere Omero.

Ferruccio respinge dalla Gavinana il nemico, lo disperde per la campagna, e dubbioso sia per tornargli addosso da capo, non si ferma finchè vede persona davanti a sè; allora fece sosta, ed accorgendosi che la punta della stradiotta per lo spesso ferire erasi storta, si chinò e raccolse da terra uno spadone a due mani di quelli che usavano i lanzichenecchi; poi, ordinati i superstiti a chiocciola, s'incammina al castello in soccorso di quelli che vi aveva lasciato. Le torme dei cesarei intanto si erano chiuse dentro di lui e avevano invaso tutte le strade della Gavinana: i suoi ben tuttavia vi stavano dentro, ma diventati cadaveri. In quel momento il Ferruccio alzò la voce e chiamò a nome i suoi più valorosi compagni; nessuno gli risponde; la morte aveva loro resa inerte la lingua.

Ora, mentre la sua anima pensando al fato di tanti prodi sospira, due grosse bande di nemici, imbaldanziti dalla vittoria e disposti ad abusarne quanto più furono immeritevoli di conseguirla, con minacce barbariche gl'intimano da lontano la resa.

Giampagolo Orsino, ormai disperato, si accosta al Ferruccio e gli domanda:

«Signor commessario, vogliamo noi arrenderci?»

«No», gli risponde con forza il Ferruccio; e piegata secondo il suo costume la testa, si avventa primo contro i sorvegnenti imperiali.

Nicolò Strozzi, considerando come quel valoroso, più che a mezzo morto, potesse appena reggere la spada, non volle si esponesse a sicurissimo eccidio; onde presto si pose tra il nemico e lui, riparandogli col proprio corpo le ferite.

Ma il Ferruccio, brontolando, lo trasse in disparte e in ogni modo volle pel primo affrontare il nemico[345]. Cessata la speranza di vincere, combattono per non morire invendicati. Gl'imperiali abborrenti di sostenere l'estreme ire di quei terribili uomini, si allargano e li bersagliano con gli archibusi da lontano. Ad ogni momento ne cadeva uno per non più rilevarsi, — nè i superstiti pensano ad arrendersi. Anche la Toscana ebbe i suoi Trecento e Leonida.

«Il gonfalone di Fiorenza! Gli angioli scendono a difenderlo: viva la Repubblica!»

Questo grido mandarono il Ferruccio e i suoi compagni, allorchè, alzando all'improvviso lo sguardo, videro sventolare al balcone di un castelletto posto sopra certa eminenza accanto le mura di Gavinana la bandiera del comune.

E al balcone si affacciò Vico Machiavelli, che con la voce e col cenno chiamava i compagni a riparare in cotesto estremo propugnacolo.

Non senza nuove perdite colà si condussero; stremati com'erano di forze e di sangue, quella breve erta parve loro infinita.

Sbarrarono le porte, come meglio poterono si afforzarono e dai balconi, dalle feritoie, che anche in oggi si vedono, presero a bersagliare il nemico. Gl'imperiali, sospinti dalle minacce dei capitani, che dietro loro incalzavano con la spada nuda, molte volte salirono all'assalto, e sempre sopraffatti dalla tempesta delle palle piegarono. Maramaldo, rimasto in Gavinana, sentendo riuscire i conati invano, spumava di rabbia, e all'ultimo mandò a dire che se in mezz'ora non superavano il castello, gli avrebbe appiccati quanti erano.

Si accingono all'ultima prova; — le palle vengono più rare; — arrivati a mezza costa scemano ancora; — a piè del muro cessano affatto, — stanno immobili alquanto di tempo paurosi di sorpresa, — non offesi si rinfrancano, i più timidi saliscono a gara, — insieme uniti si sforzano a rompere le imposte, a scalare i balconi.

I nostri non hanno più polvere, — non palle, e dimentichi dei pericoli e dei propri dolori, contemplano l'agonia di un valoroso.

Ferruccio giace sopra un letto di foglie castagnine; — non ha parte di corpo illesa; — invano tentarono arrestargli il sangue, — prorompe dagli orli delle fasciature, distilla dai lini temprati. — Genuflesso a destra, gli sorregge il capo Vico Machiavelli, il quale forte si abbranca il petto sotto la mammella sinistra per impedire anch'egli lo sgorgo del sangue da una ferita ricevuta in quella parte, — e dalla manca simile cura gli rende Annalena, anch'ella genuflessa.

Ardono in terra alcune lampade, le quali quando il sole illumina il nostro emisfero partoriscono effetto sempre solenne nell'uomo, imperciocchè accennino la presenza della morte — o Dio.

E intorno intorno genuflessi i pochi compagni superstiti, comecchè laceri, spicciando sangue dalle aperte piaghe, supplicano per l'anima dell'uomo forte che trapassa: Amico Arsoli percosso da tre punte nel fianco, Bernardo Strozzi sconciamente ferito nello stinco sinistro, Giampagolo Orsino, il prode Masi ed altri che non ricorda la storia.

La morte con la mano grave chiudeva gli occhi al Ferruccio, ma l'animoso, sforzandosi scoterne il peso, avventava la pupilla coruscante a modo di baleno verso il balcone.

Colà il vessillo della Repubblica, come se avesse senso d'intelletto, tentava svolgere le sue pieghe, che si ostinavano a rimanersi rigide a guisa di pietra; — il giglio se ne stava chiuso in mezzo di quelle non altrimenti che dentro un sepolcro, — lui pure opprimeva la inerzia della morte.

Fatto segno alle archibusate ed ai sassi del nemico, — ecco finalmente cade anch'egli percosso per non rilevarsi mai più.

Allora il Ferruccio non contese più oltre la potenza della morte, lasciò abbassata la palpebra e sospirò con mestissimo accento:

«È caduto! È caduto!»

All'improvviso le porte sfasciate si disfanno, — irrompe il nemico nelle sale del castello.

Di stanza propagato in istanza, ecco percuote le orecchie del nemico una cantilena di sacre preci, un singhiozzare sommesso; un suono di pianto, siccome avviene nelle case che sta per visitare la morte.

Entrarono e videro l'agonia del campione della Repubblica, — o piuttosto dell'ultimo fra i grandi Italiani.

Gli Spagnuoli, — nei quali gli orrori della superstizione non erano giunti a spegnere tutto sentimento di carità e di religione, nè il truce pensiero di Carlo V, che tormentandoli con la gloria e la rapina gli aveva sguinzagliati a mo' di veltri sopra l'Europa, poteva snaturare affatto il gentil sangue che trassero dai cavalieri antichi, a cotesta vista declinarono i ferri, l'ira deposero dai cuori, la iattanza dai labbri, e piegando i ginocchi trassero i rosarii e si unirono a pregare pace per l'anima del forte.

I Tedeschi sfilarono lungo i muri e colà si fermarono immobili così che apparvero panoplie poste a decoro delle pareti nelle sale dei castelli feudali; — nè ciò nacque in essi da pietà o da religione, ma dal non sapere che cosa si avessero a fare, imperciocchè fosse stato lor detto: Andate ed uccidete il nemico, — ed ora, trovando invece di nemico un uomo morto, non sembrava a costoro cosa buona uccidere chi già stava per trapassare.

Maramaldo, a cui durava tuttavia nel cuore la paura, impaziente degl'indugi, mandava speditissimi messi a incitare la strage e a riportargli novelle. Appena conobbe a qual punto fossero ridotti gli eventi, egli scelse tra i suoi colui che a prova sapeva più iniquo, e lo mandò con espresso comandamento di portargli morto o vivo il Ferruccio davanti.

«Su, figli di triste femmine», favella procace il messo del Maramaldo, che si chiamò Sciarra e fu di Calabria, «su, che Cristo vi mandi il malgiorno e il malanno; pare a voi che ve ne abbia date poche per pregare alla salute di costui? Se rialza le braccia, certo non lo farà per benedirvi.»

E poichè sentiva un mormorio di rimprovero, si affrettò a presto soggiungere:

«E poi voi preghereste invano; egli muore scomunicato, e qui non v'ha confessore che valga ad assolverlo.»

Moreno, il soldato spagnuolo di nostra antica conoscenza, cessò le preghiere ed accostatosi in atto solenne al moribondo,

«Io lo confesserò», disse, «perchè tutto buon cristiano può assolvere in articulo mortis, e Dio confermerà l'assoluzione del soldato che non ha mai rapito il pane dell'orfano, nè messo le mani nel sangue dell'infante e del vecchio. — Su parla, uomo prode, e non isdegnarmi, dacchè io per me sono umile cosa, ma l'ufficio che ministro presso di te è santo.»

Il Ferruccio stese, quantunque a fatica, la mano al soldato e con piccola voce rispose:

«Se alcuno io mai avessi voluto scegliere onde portasse la mia preghiera al trono dell'Eterno, sareste voi, generoso nemico... Però non ho mestieri di ministri tra me e il mio Creatore: — io favello da faccia a faccia con lui. Che parlate voi di umiltà? Davanti la spada... davanti la morte siamo uguali, soldato..., e voi non sapreste immaginare, non dico più umile, ma più miserabile condizione di me che sento portar meco nel sepolcro il destino della mia patria...»

«Tregua alle parole!» interrompe lo Sciarra, «monsignor Fabbrizio Maramaldo comanda che, ad ogni patto, morto o vivo gli si meni davanti costui; unite l'aste delle picche, adagiatevelo sopra, recatevelo in ispalla e andiamo.»

Ciò dicendo mosse per aggiungere alle parole l'esempio e già stendeva le mani su quelle sacre membra, quando Vico Machiavelli saltando all'improvviso in piedi lo respinse lontano, poi levatasi la destra dalla ferita strinse la spada ottusa nel taglio, troncata nella punta, e l'alzò per percuoterlo. Ahimè! Il sangue spiccia a zampilli fuori della ferita, egli vacilla com'ebbro e, dopo alcuni vani conati per sostenersi, stramazza duramente per terra.

Annalena gittando un urlo disperato abbandona il capo del Ferruccio e si protende smaniosa sul corpo del marito.

Dirimpetto alla chiesa della Gavinana sorge una casa, una volta Battistini, oggi appartenente ai Traversari. La porta principale essendo elevata assai dal terreno, vi si salisce mediante una scala a due branche che lasciano uno spazio di alquante braccia quadrate davanti la porta.

Qui sta Maramaldo volgendo di tratto in tratto lo sguardo verso la porta Apiciana per vedere se il Ferruccio giungesse. Finalmente l'empia voglia gli rimase soddisfatta; — si apre la folla, e il Ferruccio, tratto a vituperio con ineffabile angoscia sopra i bastoni delle picche, si avvicina alla casa Battistini.

Maramaldo con subito alternare diventa in volto bianco e vermiglio, — vuole incitarsi a furore, siccome costumano le belve flagellandosi i fianchi con la coda; e non pertanto, malgrado che provocasse l'ingegno plebeo già troppo di per sè stesso corrivo all'ingiuria, non sapeva spingergli su i labbri una contumelia qualunque; la coscienza gli mormorava dentro: Codardo! egli vale troppo meglio di te.

Glielo distesero ai piedi, ed egli stette lungo tempo a guardarlo senza potere profferire parola, poi cominciò tra lo scherno e la rampogna:

«Infelice! Vedi a che ti ha ridotto il folle pensiero di resistere alle armi di sua maestà Carlo V imperatore e re, e del Beatissimo Padre? Vedi, sconsigliato, come in mala ora lasciavi il fondaco? Credevi forse che il combattere battaglia fosse così agevole che misurare panni? Stolto! Tu hai senza scopo empito i sepolcri di tuoi concittadini. Tu, alla vanità che ti rode compiacendo, hai sagrificato migliaia di uomini. Dio ti ha riprovato, — Dio ti confonde ai miei piedi; — io potrei calpestarti, e tu lo meriteresti; — ma rispetto in te il segno del cristiano — e ti risparmio. Il Signore nella sua misericordia ti concede spazio sufficiente di vita per riparare ai tuoi falli; — adempi al comando dell'Eterno e chiedi pubblica perdonanza all'imperatore...»

Il Ferruccio aperse gli occhi e gli levò al firmamento, quasi per richiamare la mente di Dio alla bestemmia che si faceva del suo santo nome, e quindi favellò queste poche parole:

«Soldato! Renditi meritevole della vittoria, usandone con modestia. Vedi, la terra intorno è tutta ingombra di morti... e la più parte imperiali...»

«Codardo! tu sei vinto, e minacci!»

«Non sei tu che favelli colui che vidi fuggire ben cinque volte davanti a me?»

«Rendimi ragione del sangue del mio trombetto, assassinato in Volterra.»

«Mal rammenti Volterra... ella pur vide la tua viltà...»

«Or via, dacchè la poca vita che ti rimane tu adopri ad aumentare le tue colpe, Sciarra, gli taglia la gola.»

Sopra il portico della casa si erano adunati i principali dell'esercito, e con gli altri un alfiere che teneva fermo lo stendardo imperiale quasi sul capo del Ferruccio. A tutti dolevano le svergognate parole del Maramaldo, ma nessuno ardiva fargliene dimostranze; quando poi videro lo Sciarra che, tratta la daga, si disponeva a mettere in esecuzione il comando del Maramaldo, proruppero in grido di orrore, e allo Sciarra mancò l'animo di farsi innanzi.

L'odio rese il Maramaldo ingegnoso. Afferrato lo Sciarra pel braccio e trattolo in disparte, esclamò:

«Valorosi guerrieri, vi chiamo in testimonio che ho riparato la colpa. Misero me e per sempre abborrito, se avessi ad altre mani commesso la vendetta dell'inclito vostro capitano generale Filiberto di Orange e dolcissimo amico mio, condotto a morte immatura da questo vile scherano. Io stesso placherò la tua anima, spargendo le ultime stille di questo sangue esecrato. Accetta questo estremo ufficio con quel cuore col quale te l'offriamo e che ci viene fatto meno tristo dal pensiero che sia per riuscirti gradito nel seggio glorioso a cui fosti assunto. Tedeschi... Spagnuoli... Italiani..., applaudite... all'anima del principe di Orange!»

E col volto colore di cenere, gli occhi stralunati, recatosi in mano il pugnale, si avvicina a gran passo verso il Ferruccio.

E questi vedendoselo ormai venire addosso, lo guarda in volto e sorridendo gli dice:

«Tu tremi! Ecco... tu ammazzi un uomo morto.»

E il ferro dell'assassino penetrò fino al manico nell'intemerato petto del prode Ferruccio.

Mentre, dibattendosi nella morte, solleva il Ferruccio le mani, incontra il lembo dello stendardo imperiale, — apre per l'ultima volta gli sguardi, lo ravvisa, — lo afferra nella convulsione dell'agonia e, fattolo cadere, vi si avviluppa le membra.

La bandiera nemica serve di lenzuolo funerario al Ferruccio... Egli lo vede... esulta e spira l'anima immortale.

Di che mai comporrebbe l'Eterno la corona dei suoi santi, se l'anima del Ferruccio non fosse cittadina nel cielo?

Dove riposa il suo corpo? S'ignora; — non pietra, — non segno, — non iscrizione accenna il luogo dov'ebbero ultima stanza le gloriose sue ossa. Nè ciò crediate per impedimento di governanti, ma per viltà, per ignoranza, per ignavia dei posteri. Oh Dio! simili cose scrivendo, io mi vergogno d'essere nato uomo.

Dicono fosse gittato lungo la grondaia della chiesa della Gavinana, e il manoscritto del capitano Cini racconta che, scavando ai suoi tempi presso le mura della chiesa, fu rinvenuto uno scheletro di grande ossatura corrispondente al corpo robusto che aveva il Ferruccio, siccome ci attestarono gli scrittori.

Certo coteste erano bene le ossa del Ferruccio, e lo argomento dall'averle tosto riposte sotto terra: anche le ossa del Ferruccio tornate alla faccia del sole dovevano mettere spavento[346].

I morti sommarono a numero infinito. Ricordansi fra gli altri Alessandro Orsini, cugino pel signor Giampagolo, Guccio Tolomei, Tomaso Lorenzi, Giovanni Arrighetti, Francesco Covoni, Michele Uberti, Paolo Bernardini e Francesco Moretti; pochi dei feriti sopravvissero, per essersi azzuffati in luoghi angusti, a corpo a corpo. Messer Giovan Carlo Saraceni non dubita affermare essere stata questa una delle più terribili e sanguinose battaglie che mai si sieno combattute in Italia. Non si andrebbe troppo lontani dal vero calcolando che Ferruccio ingaggiasse la giornata con forze otto volte minori di quelle dei nemici, tenuto conto della parte panciatica, che si aggiunse agl'imperiali. Nelle storie a questa battaglia rimase il nome di San Marcello, ma devesi chiamare della Gavinana.

La terra data in balía dei soldati; vi fu commesso quanto la vendetta sa suggerire di più truce, l'avidità di più rapace; nè cosa nè persona rimase intatta, — fino le campane rapirono e venderono a' Lucchesi. Da gran tempo noi miseri abitatori di questa contrada ci compriamo a vicenda i nostri brani che ci strappano dalle spalle gli stranieri. Un caso avvenuto dopo la preda delle campane fece pensare che Dio volesse vendicare l'insulto fatto alla sua casa. Mentre sopra la piazza della Gavinana attendevano certi soldati a votare i bariglioni della polvere, cadde per avventura di mano ad uno di loro la corda accesa, e l'incendio che ne seguì mandò a male meglio di trecento imperiali.

Avanti che io mi allontani da Gavinana mi giova ricordare due fatti i quali, comecchè di contraria natura fra loro, meritano di non passare obliati.

Il primo (e questo narrerò più brevemente perchè torna in oltraggio alla nostra natura), il primo fu di Amico Arsoli, quell'egregio conduttore di cavalli di cui sovente abbiamo esposte le geste. Odiato a morte da Marzio Colonna, fu da lui comprato e barbaramente messo a morte. Ripreso dai suoi compagni della perfida azione, allegava in iscusa la strage operata dall'Arsoli del suo cugino Scipione Colonna, come se l'Arsoli non lo avesse morto combattendo lealmente in battaglia, e come se, incrociate una volta le spade, il nemico non dovesse ingegnarsi con ogni suo sforzo di superare il nemico. Ma al Colonna pareva non dovesse siffatta scusa bastare; imperciocchè costumasse fra i Romani di cotesti tempi degenerati vendicarsi con quanta maggiore sicurezza potevano e fare le esequie ai parenti col sangue comprato dei nemici.

Non così Giovanni di Mariotto Cellesi, il quale essendosi anch'egli partito da Pistola per comprare Nicolò Strozzi col proponimento di menarlo a mal termine, lo trovò ferito nello stinco e ridotto a tale che, mutatosi all'improvviso di animo e l'ira convertita in compassione, lo riscattò con mille ducati, lo trasportò con amorevole cura a Pistola e quivi, fattolo nella propria sua casa medicare, lo guarì, lo nudrì e, accomodatolo di danaro, con buona accompagnatura lo rese sano e salvo a Firenze.

E avverti che la ingiuria era per gli odierni costumi gravissima e deliberata; imperciocchè Nicolò insinuatosi nell'animo della moglie del Cellesi la persuadesse ad abbandonare il marito; ed ella lo fece, ma indi a breve venuta in fastidio all'adultero, si rimase con la vergogna e col danno. Bene a ragione il Cellesi pensò che per una rea femmina non dovesse mandarsi a male un uomo prode, chè tale si fu Nicolò, e, se togli questo peccato che ho detto, anche costumato cavaliere.

Durarono assai tempo i predicatori a citare dai pergami un simile atto nelle loro dicerie al popolo, favellando dell'amore del prossimo. E forse io penso che anche oggi non isdegnerebbero rammentarlo, se lo sapessero. Ma i predicatori non leggono più storie.

I giorni susseguenti alla battaglia, quando i vincitori si erano partiti trascinando i vinti, i feriti languivano lontani negli ospedali, e la terra aveva accolto i morti; — allorchè il silenzio e il terrore occupavano quei campi fatali, — fu vista aggirarsi per valli e per pendici una forma di donna palpitante, scapigliata, quasi menade ebbra di vino... Oh! ella era ebbra davvero, ma di dolore; — con la faccia ritta al cielo, battendo le palme rapida, a guisa di lingua di fuoco scorreva pei ciglioni dei precipizi, e l'aria forte percossa dal ventilare dalla sua veste bianca le fremeva dietro come persona commossa dal pericolo di qualche capo diletto. Il montanaro, la contemplando giù della forra o dalla balza vicina, chiudeva gli occhi pel terrore, e facendosi il segno della salute supplicava per l'anima di lei... se non che, sogguardando pauroso, la rimirava festante spaziare lontana dal dirupo, — quando ecco sottentra a perigliare su l'arduo sentiero altro e più compassionevole oggetto, — era un vecchio oppresso dagli anni e dalle sciagure, il quale, sebbene gli tremassero sotto le gambe, aveva ben saldo il cuore; ad ogni orma che stampa vacillante sul ciglione, scorre nell'anima di chi lo vede il ribrezzo, e la pelle rimane compresa da crispazione angosciosa..., pur nondimeno lo spirito governa il corpo, ed esce illeso dal mal passo.

La donna fuggendo e il vecchio inseguendo scorrono in piano di Doccia, rivedono la fonte dei Gorghi, il rivo delle Catinelle, si accostano a Gavinana, piegando a destra lungo le mura, e finalmente ansanti si fermano nel bosco delle Vergini a piè di un castagno.

In verità uno dei più belli che crescano in quel campo, dove ne vegetano dei bellissimi, e nel suo tronco, ad arte scortecciato, mostrava una croce.

Cadendovi davanti genuflessa, appoggiandovi le mani una sopra l'altra, e su le mani declinando la testa, stette la donna immobile, bianca e, dove il palpito del seno non l'avesse dimostrata viva, uguale in tutto a statua di marmo.

E il vecchio le veniva accanto piegando anch'egli i ginocchi e, come lei, le mani e il capo appoggiando al tronco del castagno, — senza parlarle, — senza consolarla, — senza pure toccarla; i suoi dolori erano di quelli che per parole non si placano; soltanto piangeva.

Immemore dapprima di ogni cosa terrena, la derelitta per quel pianto incessante si sentiva a mano a mano, dai truci fantasmi della immaginazione chiamata agli affanni della vita; allora si accorgeva del vecchio, che le plorava a canto e le si abbandonava nelle braccia, — con le sue guancie premeva le guancie di lui, — e confondevano insieme l'alito, i sospiri, le lagrime. — Quanta inenarrabile angoscia aveva accumulato il Signore sul capo di quelle due creature!

I montanari, indovinando la causa per cui eglino non potevano abbandonare coteste rupi, li compassionavano, ed anzi anch'essi, miti sotto il flagello di Dio, con ossequio religioso li proseguivano.

Allo approssimarsi del verno, più che altrove, diviene squallida la natura su i monti, — il vento si agita inquieto giù per le valli, — lungo le forre, e il mormorio che nasce dalle foglie cadute menate in volta e diffondentesi per tanto spazio di paese, rassembra un lamento che mandino gli alberi e la terra nel vedersi rapire la bella veste di cui andarono superbi nelle migliori stagioni dell'anno.

Una sera dei primi giorni del verno, all'ora del crepuscolo, — in quel momento in cui la luce e le tenebre si contendono il cielo, — e l'anima umana vacilla tra le cure della vita e i pensieri della eternità, — in cotesto istante, che anche all'assassino viene involontaria una preghiera della infanzia su i labbri, e nel cuore un pensiero per la madre che lo amò tanto, — in quell'ora di mestizia e di pace, Lucantonio si presentò al metato[347] della casa nuova. Teneva in collo, sorreggendola col braccio destro, Annalena, che dalla pieghevolezza dei contorni sembrava addormentata, se non che la destra le pendeva inerte lungo il fianco, la manca dietro il dorso del vecchio, — e questi si aiutava sorreggendosi forte al bastone, — il capo aveva scoperto, — i suoi capelli bianchissimi si disegnavano nella porpora del crepuscolo, gli avresti detti tinti nel sangue.

Giunto in mezzo al metato, volgendosi ai montanari quivi raccolti, con ferma voce e non pertanto sinistra domandò se alcuno di loro per amore della Madonna e per i suoi danari avesse voluto accompagnarlo al piano delle Vergini con palo e zappa, onde assisterlo in un'opera pia.

«Per amore della Vergine e vostro senz'altro», risposero i montanari, «noi vi accompagneremo»; — e le loro donne, mogli e figlie, fosse pietà, fosse voglia curiosa, o l'una cosa e l'altra, vollero ad ogni patto seguitarli.

Procederono a due a due come in processione silenziosi-; — veniva ultimo il vecchio; — egli non aveva permesso a nessuno di toccare Annalena; — e sì che quel peso doveva gravarlo, e ad ogni passo che mutava, pareva accostarsi di un anno al sepolcro.

Ad un tratto il vecchio proruppe nel cantico dei morti e supplicò al Signore perchè nella sua immensa misericordia avesse compassione di lui.

E gli altri vennero ad ogni verso rispondendogli, sebbene ignorassero chi e dove fosse il defunto.

Lucantonio gli fece fermare nel bosco delle Vergini, a piè di un castagno, ordinando scavassero colà dove additava.

Tolta alcun poco di terra, la vanga incontra stritolando ossa umane; il montanaro lascia l'arnese ficcato nella terra e rifugge inorridito.

«Continua l'opera, montanaro», con voce solenne riprende Lucantonio, «tu non profani le ossa dei morti, — io riunisco la moglie al marito, — questa ch'io tengo su le braccia è la sposa, — lo sposo giace là dentro, — il sepolcro sia il talamo di ambedue. Ieri all'alba ella svenne e diventò fredda... io la esposi al sole... l'avviluppai in caldi pannilini... col mio fiato mi sono ingegnato riscaldarle le mani, ma ella si è fatta sempre più fredda... l'ho chiamata co' nomi più cari... Vieni, le ho detto, sebbene questo pellegrinaggio mi avvelenasse il sangue, vieni, andiamo a visitare la fossa di Vico. — Non mi ha risposto... Io l'ho tenuta per morta: ella difatti è morta...»

Il montanaro continua a scavare la fossa, — e il vecchio soggiunge favellando ai circostanti:

«O madri! — questa povera creatura non conobbe sua madre: — o padri!... ella non ebbe le paterne carezze... La sua anima fu tesoro di amore... e per lungo tempo la sventura si appigliava ai lembi di questo e di quello, interrogando: Chi devo amare? — Imperciocchè io l'era servo, — e quando ella ebbe trovato un gentile garzone, prode e dabbene, Dio glielo ha tolto. — Questi giovani appena si conobbero nella vita, — ora staranno insieme una eternità. Lode al Signore!»

I montanari mal sapendo se quella lode al Signore uscisse sincera dal labbro del vecchio, o in fondo a quel discorso sonasse accento di disperazione, scherno o rampogna, — piansero, — calarono il corpo di Annalena nella fossa — e le pregarono pace.

La notte diventò profonda, i montanari tolsero commiato; Lucantonio voleva pagarli, ma si ristette, perchè le lacrime non si pagano. Il vecchio cortese chiamò un fanciullino che gli era stato sempre al fianco e, postogli nelle mani quanto si trovava a possedere di danaro, gli parlò sommesso: Quando tuo padre avrà fame, — e tu dagli questo.

Rimasto solo, così al buio incise sul tronco del castagno il nome di Annalena sotto quello di Vico, poi si accomodò a sedere con le spalle appoggiate al tronco, le mani conserte e abbandonate nel grembo, le gambe tese, il capo chino sul seno.

Il montanaro a cui il figlioletto aveva dato il danaro del vecchio, cercandolo il giorno appresso, lo rinvenne seduto a piè del castagno; lo reputando addormentato, aspettò gran tempo perchè si svegliasse, poi lo tentò per le braccia... Non si scosse, perchè era morto.

Raccontano che quel bosco si chiamasse prima della Vergine in onore della Madonna, ma dopo quel caso lo dicessero delle Vergini, in memoria ancora di Annalena quivi sepolta.

Ho cercato il castagno che protegge con le sue ombre il sepolcro di quei tre miseri, e non l'ho trovato; ma se, come assicurano, gli alberi crescono di diametro strato sovrapponendo a strato senza cancellare le incisioni del coperto, è da sperarsi che, abbattendo talvolta qualche castagno del bosco delle Vergini, il bottaio che ne farà caratelli trovi quel tronco consacrato dalla sventura[348].

CAPITOLO TRENTESIMO LA VENDETTA DEGLI UOMINI E IL CASTIGO DI DIO

La infamia seguirà la parte offensa

In grido, come suol, — ma la vendetta

Fia testimonio al vero.

Dante.

Ahi fortuna! Ci vien meno sotto i piedi la terra. Dove precipitiamo, o Cencio?» disfatto dal terrore esclamava Malatesta Baglioni, a cui Cencio riferiva rotto l'esercito imperiale, morto l'Orange, Ferruccio vincitore accostarsi a Firenze, il destino della Repubblica prevalso; — alle quali parole Cencio rispondeva:

«Ch'è questo, signor Baglione? Non dubitate; un sostegno non sarà per mancarvi giammai: se vi fugge dalla parte dei piedi, la Repubblica sta apparecchiandovene un altro dalla parte del collo.»

«Maledetto quando mi apparisti davanti! Possa la tua anima traboccare dal patibolo nell'inferno! Ma ti par ora questa da motteggiare, Cencio? Vien qua, Cencio, senti: vediamo se vi ha mezzo di salvarci la vita... la vita! e che devo farmi della vita senza la potenza, senza le dovizie... senza...?»

«Senza il sangue dei nemici?»

«Lo hai detto. — Costoro non mi uccideranno, anzi diranno al valletto: Prima che quella vivanda passi al cane, datela a Malatesta che sta di fuori seduto sopra i gradini del nostro palazzo.»

«Addio Chiusi, addio duchea di Bevagna e Tunigiana.»

«Il figlio che doveva essere orgoglio dei miei tardi anni, che stava per condurmi regal donna in casa!»

«Non che il duca di Camerino, ma il più povero artigiano non si vorrebbe mescolare con lui; voi non avrete da sodare la dota nè anco il cento ducati...»

«E il nipote, cui già immaginava ammantato della porpora cardinalizia...»

«Diventerà dopo dieci anni curato di campagna...»

«Potessi fare un patto col diavolo! Ah!...»

E gettò un grido di spavento, chè in questo punto si udì forte un rumore di uomini accorrenti, e subito dopo tutto affannoso comparve nella stanza Biagio Stella, il quale espose: la prima nuova della battaglia falsa, vera la morte dell'Orange, ma esservi pur morto il Ferruccio, e il suo piccolo esercito andare disperso pel contado toscano.

«O santo Pietro!» favella Malatesta levando le mani al cielo e poi come spossato declinandole al pavimento, «o santo Pietro! Queste due morti giovano meglio al pontefice che le tue chiavi d'oro e d'argento. Dopo tanti anni di matrimonio io dubitava a Cristo non fosse diventata incresciosa la Chiesa sua moglie; ora poi conosco a prova cotesti sponsali rimanersi pur sempre sotto l'influsso della luna del miele. Io comincio a credere in Dio... Biagio, un abbraccio; — Cencio, un bacio; — figli miei, questa è l'ultima nostra fatica; — anche il grappolo di Perugia produce vino generoso, — e la vendemmia ci aspetta. Cencio, torna la speranza del sangue nemico assai più soave del vino. Biagio, comunque adesso mi travagli il caldo, parmi rinfrescarmi all'ombra dei platani di Tunigiana, sotto i gelsi della valle Topina; — i miei occhi, Cencio, sono inebbriati di rosso, il vermiglio mi lusinga intero... rosso il sangue di Sforza, — rossa la porpora di Ridolfo, — rosso il manto ducale del figliuol mio: Cencio, Biagio, — mi sento l'uomo più avventurato del mondo; — andate per sonatori, per femmine, — oggi è un bel giorno...

«È il giorno di morte della libertà italiana!!!...»

«Magnifico messere capitano, — due magistrati che si dicono dei Dieci della guerra fanno istanza di favellarvi.»

La voce, il guardo, le mani, tutta la persona, insomma spirava la distruzione... Cap. XXIX, pag. 698.

«I signori Dieci! I magnifici signori Dieci di libertà e pace! Che vengano tosto, in miglior punto non potevano arrivare i messaggeri dei magnifici signori Dieci. Cencio, Biagio, rimanete con me, affinchè non abbiano a camminare troppo per rinvenire medico, confessore e notaio per la Repubblica che muore; o piuttosto sentite: noi rappresenteremo i tre sacramenti: io la Penitenza, Biagio l'Eucarestia, e tu, Cencio, la Estrema Unzione; — guarda mo', Biagio, non ti par egli che abbia Cencio una faccia di olio santo? E per questa volta tu l'ungerai proprio all'agonia, come raccomanda l'apostolo santo Iacopo, — la Estrema Unzione non si dovrebbe replicare una seconda volta, — ciò sta contro le regole. — Ecco i Dieci. — Ben vengano i magnifici signori Dieci. — In che e dove posso spendere l'opera mia? Cencio, porgete sgabelli. — State a vostro agio, come a casa vostra. Ci avanza ancora qualche poco di vino; vorreste saggiarne? — Vino d'assedio... ma vi do quello che ho, e di cuore...»

E tutte queste parole erano profferite con procacia e petulanza tali da movere a sdegno i più mansueti.

I Dieci però o non si sdegnarono o molto bene dissimularono l'ira concetta; onde mansueti risposero:

«Gran mercè, signor capitano generale, — noi ci staremo in piedi; la urgenza del caso è tale che non concede la perdita di un momento di tempo.»

«Orsù dunque dite: io tutto orecchie vi ascolto.»

«Malatesta, — voi siete cristiano, e vi supplichiamo per Dio; — voi siete soldato, e vi supplichiamo per l'onor vostro; — voi siete padre, e per l'amore dei vostri figliuoli vi scongiuriamo a prendere pietà del nostro infelice paese. Voi lo sapete, Orange è morto, — morto pur anche il valoroso Ferruccio; — il nostro esercito rimase rotto, ma la vittoria del nemico si assomiglia alla sconfitta; possiamo anche vincere, conduceteci all'assalto del campo, — noi confidiamo sia per riuscirci agevole opprimerlo; — vuoto dei migliori soldati, sbigottito, diviso di voglie, forse mai come ora ci stette in pugno la vittoria. L'ordinanza della milizia ad alta voce domanda mescolarsi col nemico.»

«Ordinanza! Poveri folli! Ma che? credete voi che ordinare una battaglia, esercitare il mestiere del soldato sia come cimare panni, tignere sete e sedersi in banco a dare a prestanza sul pegno al venti per cento d'interesse? Chi vi ha contato tante novelle? Così foss'io sano, com'è Orange! — Così...»

«Signor Malatesta, noi ne abbiamo sicurissimo ragguaglio.»

«Ed io vi dico che vi hanno ingannato. Voi non avete più speranza di vincere, e credetelo a me, che sono uomo di guerra: abbandonatevi nelle mie braccia; sutor ne ultra crepidam, — a voi i negozi, la spada a me. — L'ordinanza!... Voi avreste fatto un gran bene a lasciare cotesta gioventù ai suoi fondachi, che le bisogne sarieno state assai meglio amministrate...»

«L'ordinanza, messere...»

«L'ordinanza, messeri, ha fatto più male che bene, e adesso non potrebbe fare più nulla. Sentite, io vi amo, e perchè vi amo vi consiglio ad accordare: — ho già consultato don Ferrante... voleva dire il principe Orange, e promette buoni patti...»

«Chi ve ne dava la commissione?...»

«Me la sono tolta da me; io faccio la cosa utile, mi vesto da gestore di negozi, come dicono i giureconsulti... appunto perchè sono cristiano e temo Dio, voglio risparmiare la effusione del sangue e conseguire con parole di pace quello che ormai non potreste ottenere con la guerra; appunto perchè intendo l'onore, mi piace guadagnarmi la fama che nasce da salvare una città nobilissima, qual'è questa vostra; pur troppo accolgo viscere di padre, e come padre sento qual debito avrei presso gli uomini e presso Dio, se compiacendo ad alcuni Piagnoni io lasciassi andare a fuoco tanti magnifici ostelli, a sangue tanti incliti cittadini; se nulla mi premesse il decoro di tante vergini e di tante gentildonne. Io dunque ho già convenuto su i patti meglio importanti con don..., col principe di Orange...»

«Chi ve ne conferiva il mandato?»

«Continuerete voi ingrati a maledire la luce che v'illumina? Già comincia a pesarmi questa diuturna pazienza. Credete voi che ignori le vostre vociferazioni? Forse io non so che mi andate vituperando come traditore? Non conosco io che voi, in premio dei patiti travagli in pro vostro, mi torreste la testa? E non pertanto dissimulo e perdono come Cristo perdonò, e ai vostri vantaggi mi affatico dicendo, com'egli disse: io li perdono, perchè non sanno quello che si fanno. — Certo i posteri quando apprenderanno questa mia longanimità mi estimeranno codardo; avrei dovuto abbandonarvi, lasciarvi in balia del nemico, ma non me lo concede la mia natura. Io restringo molte cose in una: speranze non ve ne rimangono, io accorderò per voi; e se ostinati volete ad ogni modo combattere, datemi licenza di ricondurmi alle mie case..., dove forse mi attende la morte a cagione dell'ira del pontefice ch'io mi sono provocato contro per voi..»

«Voi dunque non volete combattere?»

«Non voglio condurre a perdizione la vostra patria...»

«E desiderate la licenza...»

«La licenza! Portatemela e vedrete.»

«Malatesta, l'avrete.»

E crucciosi abbandonarono le case di lui. Allora Cencio, volgendosi al Baglioni, favellò:

«Voi siete il libro della Sibilla: e se vengono con la licenza?»

«Non verranno.»

«Ma se venissero?»

«Al papa certa volta prese talento di scomunicare non so quale dei Visconti e gli mandò ambasciatori: questi lo incontrarono sopra un ponte del naviglio grande e gli esposero la scomunica. Udita ch'ebbe leggere la sentenza il Visconti, Messeri, disse agli ambasciatori, ora vi conviene o bevere, gittati capovolti dal ponte, l'acqua del canale, o mangiare cotesta condanna. Scelsero mangiare, e ben per loro, che avevano denti buoni e stomaco migliore, perchè il Visconti quinci non si rimosse, finchè non ebbero trangugiato l'ultimo pezzo di carta pecora, e l'ultimo frammento di piombo del suggello sub annulo piscatoris. — Mi manca l'acqua: pur tanto è alta questa magione da fare preferire il pasto della licenza al volo dalle finestre.»

Nelle insolite commozioni dell'animo di gioja o di dolore, gli uomini abbisognano mescolarsi tra loro; quindi vedevi al palazzo della Signoria un brulichío di persone, un andare e un venire, un domandare l'un l'altro; se non che scomposta appariva cotesta frequenza, paurosi i moti, inquieti i sembianti, nè v'era mestieri di lungo esame per conoscere che per questa volta l'afflizione raccoglieva la gente; il passo stesso accenna la passione dell'uomo che cammina; rimossa ogni luce, io credo che di leggieri possa indovinarsi s'egli muova ad un festino, o piuttosto ad un mortorio.

Furono per bene due volte udite le parole del Malatesta, e mentre tra il fremito universale tentava alcuno dei Signori proporre cosa che fosse buona, ecco apparire Cencio Guercio, il quale, pretermessa la debita reverenza, entrò nella sala del supremo magistrato della Repubblica, non altramente che fosse una taverna, e gittò sulla tavola un manifesto, che fu il terzo firmato da Malatesta e dal Colonna, nel quale in sostanza si replicavano con più diffuse parole i medesimi concetti.

Cencio, reso insolente dai casi, credendo ormai potergli essere lecito qualunque malefizio, alla indignazione suscitata da cotesta lettura aggiunse nuova esca, adoperando siffatto linguaggio:

«O mercadanti, sbrigatevi via: non vi par egli di avere fatto aspettare assai messer papa e messere lo imperatore, principi e baroni, di cui uno solo val meglio di tutti voi altri? I granchi mangeranno le balene? Avete per questa volta conchiuso un tristo negozio; — più che aspettate, e meno costate; — io, con buon rispetto parlando, dalla lana in fuori non darei di voi altri Signori due lire di piccioli; — la vostra testa è un'aia, — volendo ci metteremo fieno, — ma per cervello, ah! ci si potrebbe trarre d'arme da mattina a sera... Orsù via, sbrigatevi, tornate alle faccende, le botteghe vostre vi attendono; anche lì potete fare la guerra..., col braccio corto... e la menzogna lunga, alle borse degli avventori.»

Dante da Castiglione e Lionardo Bartolini si mossero concitati e levarono le mani per metterle addosso all'insolente soldato, ma al Gonfaloniere sembrando che ciò non sarebbe avvenuto senza notabile scapito della reputazione del governo, ordinò si rimanessero, e aggiunse:

«Costui certo è pazzo od ebbro: così essendo, non ci facciamo micidiali del suo sangue, quantunque l'oltraggio, per la parte del Malatesta, diventerebbe maggiore.».

«Venga il medico e il carnefice», ripresero varie voci, «ed il cagnotto vada all'ospedale o al supplizio.»

«Sentite, Signori», favella Cencio, ma sbaldanzito non poco e pur continuando nella sua procace natura, «se mi mandate all'inferno, vi scoperò le stanze...»

«Mazzieri», gridò Raffaello Girolami, «cacciate questo ebbro dal palazzo.»

E i mazzieri accorsero, e Cencio suo malgrado, spinto fuori di stanza in stanza, senza potere più oltre articolare parola, si trovò, quasi prima di accorgersene, cacciato in mezzo di piazza.

Il gonfaloniere Girolami in tanta urgenza di casi domandava consiglio; Dante da Castiglione, consultatosi prima con Francesco Carduccio, con Domenico Simoni ed altri della sua fazione, animosamente disse:

«I partiti audaci, siccome sempre dimostrano spirito sicuro, essere ancora il più delle volte favoriti dalla fortuna; per tanto consigliare l'arresto del traditore Baglioni; si adunassero di quieto le bande della milizia, stesse il Gonfaloniere in pronto a condurlo, si mandasse un uomo fidato al Monte per guadagnare in ogni maniera il signore Stefano, poi si scendesse con mille circa soldati, e si circondasse la casa Bini: preso Malatesta, con breve processo si condannasse nel capo, come i maggiori loro avevano adoperato con Giovampagolo Vitelli al tempo della guerra di Pisa, poi si rimettessero in tutto nelle braccia della fortuna sortendo a combattere, e così vincere, ovvero insieme con la vita perdere il tutto, determinando che quelli i quali rimarranno a custodia delle porte e dei ripari, se per caso avverso la gente della città fosse rotta, abbiano con le mani loro subito a uccidere le donne ed i figliuoli, e porre fuoco alle case, e poi uscire alla stessa fortuna degli altri, acciocchè, distrutta la città, non vi resti se non la memoria della grandezza degli animi di quella, e che sieno d'immortale esempio a coloro che sono nati liberi e desiderano vivere liberamente[349]

Questi consigli estremi, comecchè accolti con molto favore, non sortirono effetto, sia perchè, secondo alcuni scrivono, il Gonfaloniere rifiutasse uscire armato, sia piuttosto, come sembra più vero, che Donato Giannotti, segretario delle tratte, spedito al signore Stefano, non giungesse a persuaderlo. Per il qual fatto, se il Malatesta si guadagnò fama di traditore operando contro la patria, il Colonna se la meritò per essersi astenuto dall'operare. E di questa sua mancanza parte fu colpa l'astio ch'egli conservava pur vivo della preferenza data a Malatesta nel capitanato generale della Repubblica, parte all'invidia della gloria del Ferruccio, il quale in breve tempo era giunto ad oscurare le vecchie reputazioni; e finalmente più che ad altro vuolsi attribuire all'ordine espresso mandatogli da Francesco I di Francia, col quale s'ingiungeva partirsi dagli stipendi di Firenze quando prima, senza scapito del suo onore, il potesse.

Riuscito questo provvedimento invano, Francesco Carduccio, sebbene scorgesse la perdita della Repubblica ormai sicura, non perciò abbandonava il timone, continuando a lottare contro la fortuna, che ad ogni istante diventava più burrascosa. Egli dunque propose, poichè Zanobi Bartolini di commessario della Repubblica era diventato consigliere del Malatesta, Tomaso Soderini e Antonio Giugni andavano navigando per perduti, i quattro commessari si cassassero, ed altri più fedeli e più acconci ai tempi presenti si sostituissero. La quale proposizione venendo accolta con molto favore, in luogo dei tre mentovati elessero Luigi Soderini, Francesco Zati, Francesco Carduccio, e per quarto Andreuolo Niccolini confermarono.

Un altro provvedimento notabile e del pari promosso dal Carduccio, il quale, preso in tempi opportuni, non è da dubitarsi che avrebbe la salute della Repubblica partorito, fu questo. A ciascheduno dei settantadue capitani stipendiati confermarono la provvisione loro vita naturale durante, ancora in tempo di pace e militando ai servizi altrui, purchè non fosse contro alla Repubblica. Comecchè simile liberalità con animo grato accogliessero i capitani, i quali nell'udirla pubblicare presi da entusiasmo giurarono di nuovo difendere fino all'estremo Firenze, tuttavolta non ebbe tempo di mettere radice, e la procella dei casi sorvegnenti ne disperse, per così dire, il seme appena gittato.

Restava il danno a riparare peggiore, voglio dire il Malatesta. Francesco Carduccio esponendo per la parte dei Piagnoni, sosteneva la proposta di Dante non doversi mutare per la sostanza in nulla, soltanto andare sottoposta ad alcune modificazioni rispetto all'eseguimento per il mancato sussidio del signore Stefano Colonna; si adunasse pertanto la milizia, il palazzo del Baglione s'investisse, lui al meritato supplizio si strascinasse. Alla quale sentenza la maggior parte degli adunati, in cui assai più della speranza preponderava la paura, obiettavano immane cosa essere non pure tra popolo civile, ma eziandio presso quelli che fama hanno ed ingegno di barbari, la sorpresa armata, il violato domicilio, la strage nei moti delle scomposte passioni; potersi molto bene provvedere a tutto accommiatando Malatesta, il quale volentieri avrebbe aderito a siffatto provvedimento, imperciocchè egli medesimo aveva chiesto licenza. Dall'altra parte il Carduccio, insistendo sempre nei suoi primi raziocinii, aggiungeva: quel domandare congedo essere nel Malatesta mera apparenza, chiederlo non dato, dato poi lo ricuserebbe, e il vedrebbero; non parergli uomo il Baglione da lasciare la vendemmia quando i grappoli stavano nel tino; la milizia, pronta e vogliosa adesso, forse tra mezz'ora rifiuterebbe adunarsi; fugace l'occasione e irrevocabile; pensassero andarne grossa posta, la libertà della patria, forse anche la vita.

Orò con grande eloquenza il Carduccio, e se non avesse avuto per contradittore la paura, che, rubata la maschera alla prudenza sotto il velame della temperanza sempre e poi sempre nasconde la eterna viltà, non è a dubitarsi avrebbe prevalso il suo consiglio; statuirono invece concedere licenza al Malatesta, che in termini quanto bugiardi altrettanto magnifici compilarono amplissima e codardissima. Compilata che fu, intesero affidarla al Carduccio, onde in compagnia di altro commessario gliela recasse; ma egli da quell'uomo astuto che era, presago ormai del futuro, si cansava fuori della sala, aprendo l'animo suo al Castiglione con questo proverbio fiorentino:

«Chi ha il lupo per compare, porti il cane sotto il mantello; — e questi stati mi manderebbero a lui con la pecora.»

Allora la Signoria ne commise lo incarico a Francesco Zati ed a Andreuolo Niccolini, i quali, comecchè a malincuore, andarono vestiti in abito magistrale, montati sopra due bellissime mule, preceduti da due mazzieri del comune e seguitati dal notaro ser Paolo da Cutignano, affinchè rendesse pubblica testimonianza del fatto.

Pervenuti al palazzo del Bini, assai facilmente ottennero l'ingresso, se non che, appena entrati, vennero loro dietro chiuse le porte, e si trovarono in mezzo ad una frotta licenziosa di soldati. Dopo un attender lungo, durante il quale ebbero a soffrire gli ammicchi, i sorrisi beffardi e le minacce mezzo susurrate dei cagnotti del Malatesta, scese il comando che proseguissero. Andarono con miglior volto che animo, tanto più che salendo le scale si accorsero siccome avessero trattenuto dal seguitarli il notaio e i mazzieri.

Nel porre il piede nelle prime sale occorse loro una quantità di giovani nobili, i quali, ormai apertamente ribellati alla patria, tenevano pel Malatesta. I commessari e i giovani abbassarono gli sguardi, i primi per l'amarezza che sentivano del misero stato a cui si trovava ridotta la patria, gli altri per rimorso di tale un'azione intorno alla quale si sforzavano invano acquietare la coscienza col dire che tornava in vantaggio manifesto del proprio paese.

La stanza del Baglione era ingombra di gente. Cencio, prossimo al suo orecchio, gli versava nell'anima il fiele concepito pel severo rabbuffo e pel pericolo sofferto poco anzi dalla Signoria. Biagio Stella, Margutte da Perugia, Pasquino Côrso ed altri più assai fidati di lui davano delle giravolte intorno ai commessari investigando sottilmente se sotto le vesti portassero armi da offendere e porgendo attentissimi gli occhi alle mani. Quivi pure incontrarono Zanobi Bartolini, il quale, ormai strascinato dagli eventi e costretto (come per ordinario avviene a cui si mette sopra mal pendío) a fare più di quello che si era da prima proposto, non pensava essere sicuro, se non se nella casa del traditore della patria; e Ormanozzo Dati e Alamanno dei Pazzi con altri molti di quei giovani che furono dei primi nel ventisette a prendere le armi contro i Medici e a trascorrere in atti disordinati, come sfregiarne gli stemmi, arderli in simulacro, rimoverne le statue dalle chiese, incendiarne le case.

Malatesta se ne sta seduto in fondo della stanza sopra un lettuccio, attrappito nelle membra, con occhi viperini, di sembianze più gialle, più triste del solito, che in quel giorno un fiero dolore nelle ossa aggiungeva infinita malignità alla naturale scelleratezza della sua indole. All'apparire improvviso che fecero i commissari, un tremito gl'invase la persona, però che ebbe a prorompere in un acerbissimo ahi! — ma subito dopo, vedendo come nessuno gli seguitasse, si assicurò, cupo aspettando e silenzioso che profferissero parola.

Andreuolo Niccolini gli si accosta con atti ossequiosi, e la favella componendo al suono più dolce che per lui si potesse,

«Magnifico signore Malatesta Baglioni», incomincia cavandosi dal seno la carta della licenza e presentandogliela con bel garbo, «gli eccelsi Signori, i venerabili Collegi, il consiglio degli Ottanta e Pratica, considerando gli alti meriti vostri e il valore e la fede con la quale avete saputo difendere fin qui la nostra patria da due potentissimi eserciti, con acerbità inestimabile di animo si piegano a darvi quella che con tanta istanza domandate vostra licenza; — però i meriti vostri appunto e le infermità che vi affliggono, li consigliano ad essere discreti e non volere...»

A questa parte del discorso di messere Andreuolo, Malatesta, gittato l'argine della bestiale sua ira, strappa fremendo dalle mani di lui la licenza, la mette in brani e poi urla con ingegno plebeo:

«Figli di malvage femmine! — La licenza a me? Mi avete voi tolto per un corpo fradicio da mandarsi alla Sardigna[350]? — Io vi so dire che vivo e penso e opero, e ve ne accorgerete ben voi. — Traditori!... scellerati!... voi mi vorreste con coteste vostre parolone lunghe un miglio cacciare via per governare le cose a vostro senno. — V'ingannate a partito; ho giurato salvare Fiorenza, e la salverò in dispetto dei tristi; e tu, iniquo ambasciatore di una sinagoga di farisei, prendi la mercede che si conviene al tuo inverecondo ministero...»

Prima che il mal giunto Andreuolo se ne potesse accorgere, Malatesta, cacciato fuori un pugnale, gli tirò presto tre colpi, di cui uno solo avrebbe certamente apportata la morte al Niccolino, dove la infermità non gli avesse tenuto in quel giorno più che negli altri attrappite le braccia. Tuttavolta Andreuolo, tra lo stupore e lo spavento, non sapeva muover passo o sciogliere la lingua; sicchè il Baglione, nonostante storpio com'era, lo avrebbe finito, se Alamanno e Zanobi, forse tardi scorgendo l'inganno, non accorrevano a levarglielo di sotto.

Francesco Zati, pensando sovrastargli il suo ultimo giorno, caduto ai piedi del Malatesta, lo scongiurava a salvargli la vita; ed egli sdegnoso gli rispondeva:

«Va al diavolo! — io non voleva te, ma quel tristaccio del Carduccio[351]

Intanto nel palazzo si era levato rumore grande. I soldati, le barbarie del capo superando, gittatosi in folla sopra al mazziere e al notaro, li percuotono turpemente, tolgono loro il danaro e perfino le vesti di dosso, le mazze di argento involano, le mule dei commessari non rispettano meglio: che più? Gli stessi commessari, quantunque difesi dai giovani fiorentini, non andarono illesi dalla rapacia e dalla brutalità di costoro; toccarono percosse da vicino e da lontano, a brani a brani furono loro strappate le cappe di dosso, e non senza sforzi gagliardi poterono uscire salvi dalle mani di quei masnadieri.

Pervenuto l'osceno fatto a notizia della Signoria, commossa da immensa passione, delibera adesse per isdegno praticare il partito che avrebbe dovuto mettere in opera dianzi con prudenza ed auspicii migliori: per la qual cosa comandò si adunassero subitamente in piazza tutti i gonfaloni armati e pronti a combattere; ed avendo udito come quattrocento giovani fiorentini, sprezzata la religione del giuramento, raccolti sopra la piazza di Santo Spirito si fossero dichiarati che in caso di contesa avrebbero sostenute le parti del Malatesta, come quello che nella rovina della patria gli assicurava di oneste condizioni, mandò alla volta loro Dante da Castiglione e Bernardo da Verazzano, onde si affaticassero a ritrarli dall'esiziale proponimento. Andarono, il primo pur sempre fidente di sovvenire la patria moribonda, l'altro sfiduciato dell'esito, ma pronto in qualsivoglia ventura a soddisfare il suo debito di cittadino, — con diverso concetto egregi spiriti entrambi.

Pur troppo la migliore gioventù del paese, uscita dal più inclito sangue, stava sopra la piazza di Santo Spirito accolta ai danni della patria, non però baldanzosa, ma dimessa in vista, mesta e pensosa più di altrui che di sè stessa; alcuni favellavano a mezza voce, — non era la speranza argomento dei loro colloqui, — con sofismi intendevano assicurarsi dei sinistri presagi; altri, ragunati a capannelli, non ardivano guardarsi in faccia e non aprivano labbro; un'aria greve sembrava che ingombrasse celesta piazza. Quasi brulichio di vermi sopra il cadavere di generoso animale, tu vedevi agitarsi per quella gente una mano di codardi, parte dei quali, lodatori esagerati della libertà pur dianzi, ora con vituperii di ogni maniera la laceravano, i Medici celebravano, i beneficii loro levavano a cielo; a sentirli, stava per rinnovarsi l'età dell'oro, l'Arno avrebbe menato miele, il Mugnone latte; niuna quiete sperabile, se non se sotto ai Medici; avere i Medici mandati alla terra nella sua misericordia Dio. — Vili ed infami di cui la razza si mantiene viva anche a' dì nostri! piaga perenne con la quale la provvidenza volle contristata la stirpe umana! Susurroni famelici, in perpetuo abbaianti per un pane che gli sfami, senza badare se questo pane getti loro davanti un santo o il carnefice, senza neppure curare s'egli sia composto col frumento della rapina o con le lagrime degli oppressi, — se temprato nel sangue d'illustri cittadini: — e l'altra parte si affaccendava, mossa da invidia, da vendetta, da superba viltà, da stolida arroganza e dall'altra famiglia di truci passioni piovute sopra di noi come il fuoco del cielo sopra Gomorra. Tra questi più degli altri si sbraccia Bono Boni, dottore di leggi, e salta e strilla a guisa di gazza; non lo badava nessuno, ma egli provoca, rampogna ed anche minaccia, prosuntuoso per l'appoggio, — lo credereste? — del Morticino degli Antinori. Siffatta compagnia denotava l'ultimo grado di decadenza in questo sciagurato. Bono Boni lo tiene per le braccia e ride di tale un riso che aggrinzisce con infinite rughe tutta la pelle del suo volto dove sta scritto: forca a caratteri da speziale: certo così ride il demonio quando dopo i suoi perfidi avvolgimenti giunge a ghermire l'anima insidiata.

Maledizione e sventura! Talvolta sembra che la storia giustifichi le contumelie fulminate contro la gloria dagli infermi intelletti o dai maligni. I nomi dei generosi che si fecero compagni al Ferruccio nell'estremo tentativo di salvare la libertà della patria i ricordi del tempo non raccolsero interi, mentre all'opposto furono conservati i nomi di coloro che perfidi o traviati la impiagarono di ferita insanabile. Eravi Alamanno dei Pazzi, sangue degenere dei Pazzi, che congiuravano contro i Medici quando essi, deposta la lunga arte, si manifestarono tiranni alla ricisa; eranvi quattro dei Capponi, tralignati figli di tanta casa, i quali così illustre nome eredarono quasi peso che le forze loro non bastavano a sopportare; eravi...: ma la mente abborre l'ingrato ufficio, e la mano rifugge dal vergare cose nefande. O Memoria, quando ai lontani nepoti tramandi le geste degl'incliti avi, te meritamente salutarono i poeti genitrice delle muse; — ma quando narri la storia delle turpitudini antiche, io penso che dal tuo grembo traessero ben anco nascimento le Furie.

Il magnanimo Castiglione, percorso che ebbe col guardo la piazza di Santo Spirito, sentì mancarsi sotto le gambe, un freddo sudore gli si diffuse per la persona, ed accostandosi vacillante al Verrazzano gli disse:

«Bernardo, sostienmi...; mi cade l'anima e il coraggio; adesso conosco che la patria è perduta davvero.»

E il suo meno appassionato compagno rispondeva:

«Io lo sapeva anche prima; non pertanto proviamo.»

E Dante allora co' segni della più disperata desolazione, piangendo lacrime che lasciavano un vestigio ardente sopra le sue pallide guancie, — meglio che con le parole esprimendosi con singhiozzi, abbandonandosi nelle braccia di chi primo gli si parava davanti:

«Pazzi», diceva, «Capponi, Cavalcanti, — voi qui! Pazzi; adesso si fabbrica, non si distrugge un tiranno, — e voi qui, Capponi! — per Dio! non vi rammentate che i maggiori vostri con l'ingegno e col sangue difesero la Repubblica? — Cavalcanti... Baccio... unitevi a me... aspettate... io mi getterò a terra... calcatemi il corpo... servitevene come di bigoncia e tornate a recitare la bellissima vostra orazione composta in lode del vivere libero... io l'ho tutta a memoria... Se in parte vi fosse sfuggita di mente, io potrò suggerirvela intera... Ma che il mondo è sconvolto? Capponi, Pazzi e Cavalcanti promovitori e difensori dei Medici! Per certo si disfà la natura, ritornano le cose create alla pristina confusione. Quelli che narrano degli Abderitani, i quali per tre giorni durarono pazzi, non vuolsi ormai tenere più in conto di favola. Per Dio! vincete il veleno... quando risenserete vi starà davanti svenata la patria. Udite! la Signoria vi chiama... accorrete a sostenerla; — forse non è ancora tutto perduto, — forse può tuttora trovarsi via alcuna di salute... Se il gonfaloniere v'incresce, ci se ne andrà dal magistrato; se, non volendo, io vi offesi..., esulerò dalla patria... raggiungerò nel sepolcro i miei padri, — quanto vorrete faremo...:»

«No, Castiglione», risposero alquanti dei giovani, «la patria non può salvarsi intera; anzichè perdere tutto, noi ci affatichiamo a mantenere la libertà..., lasciamo l'addentellato per riprendere l'opera in giorni meno sinistri...»

«Ahi delusi! Quando non avrete più armi, chi vi manterrà la promessa? La mano disarmata se s'innalza verso il tiranno ad implorare cosa che non sia limosina, il carnefice la tronca: Per cui vi giureranno i Medici? — Su gli avelli dei padri? Essi hanno loro legato l'iniquo proponimento di assoggettare la patria. Sopra al capo dei figli? La lionessa educa i lioncelli alla preda; — essi crebbero nella vendetta, — le prime parole che proferirono le loro labbra infantili già non furono di padre o di madre; essi dissero al sangue: Tu sei mio padre, — e alla rapina: Tu sei la madre mia. — Vi giureranno sul Cristo? Chi, come Clemente, comprò la cattedra di san Pietro può bene anche ingannare, — può vendere Cristo. Sovvenite alla patria... o patria! o patria! Vedetela lacerata come la moglie del Levita...; e come della moglie del Levita furono mandati i brani alle tribù d'Israello, ecco io distribuisco tra voi le membra sanguinose della vostra Fiorenza. Le tribù, rammentatevi, vendicarono la donna trucidata... Nel nome santo di Dio, salvate la vostra genitrice che sta per essere manomessa...»

«Noi non possiamo.»

«Oh! come non potete? E chi vi contende morire? — Potè Leonida alle Termopili? E, più avventurosi di Leonida, poterono i Milanesi? Il barbaro ne distrusse la patria e ne seminò la nuda area di sale; ma la terra della libertà fece germogliare il seme infecondo: altre mura sorsero sopra le rovine, e Federigo le vide e non le superò... Venitemi appresso... da questo punto io vedo sopra la torre di San Miniato il gonfalone del comune svolgere il suo volume per l'aere sereno; — egli si compiace del bel cielo, — il cielo di lui, — entrambi trionfali; — venite, vedetelo; e' par che vi accenni, onde accorriate a difenderlo... vedetelo pure una volta e poi ditemi: Noi non possiamo!»

I meno inverecondi dei giovani non ardivano schiudere le labbra, — l'un l'altro mirava spiando nel volto del vicino la risposta da darsi. Allora i codardi, temendo le parole ardenti del Castiglione, proruppero in ischiamazzi plebei, col fango dell'anima loro pensarono contaminarlo dicendogli oscene ingiurie e contumelie di ogni maniera.

Boni Boni, curvandosi all'orecchio del Morticino, susurrava:

«E' farebbe mestieri cacciarlo via dalla piazza.»

«Certo che sì, — ma come?»

«Oh! non sapete che l'anima nostra fa più lungo cammino e più presto con una palla di piombo che non con sei mute di posta?»

Il Morticino declina l'archibuso, ne volge la bocca alla volta di Dante e accosta la corda accesa al focone; il colpo partiva[352].

Alamanno dei Pazzi con pronte mani strappa all'Antinori l'archibuso e, gittandoglielo a terra, così lo garrisce:

«E pârti poco quello che facciamo, onde tu vi aggiunga ancora il vanto di assassino?»

Però crebbero gli urli, e con gli urli furono lanciate pietre contro il Castiglione, il quale, conserte le braccia sul petto, sostenne l'infame oltraggio senza piegare il collo, senza stringere le ciglia; e comecchè i sassi in più parti gli rompessero la persona, i suoi labbri non si mossero ad accento che denotasse ira o dolore.

Poi all'improvviso scosse la testa ed esclamò:

«Uccidetemi, ma ascoltatemi.»

E si mescolò tra' suoi percuotitori, e quale abbraccia, qual bacia e quale strascina, pure pregando che vogliano affrettarsi in aiuto della patria.

Perchè si arresta il magnanimo? Per qual cagione alla intensa alacrità successe tanto stupida quiete? Forse gli si scoppiò il cuore e non sostenne la vista della rovina della patria?

Come Cesare, quando tra i congiurati contro la sua vita riconobbe Bruto, si avviluppò col manto la testa e ad altro non pensò che a morire dignitosamente, Dante, avendo ravvisato tra i ribelli della Repubblica il suo fratello Giovambattista, pievano di Santo Appiano, non potè proferire altre parole se non queste:

«Anche tu, Giambattista!...»

E con le mani si coperse la faccia; — ogni vigore rimase in lui affatto spento, — non vide nè senti più nulla, — stette come uomo morto. — E poichè Bernardo da Verazzano si accorse che i tristi, imbaldanziti del silenzio di lui, erano per rinnovargli qualche mal tratto, lo trasse via con dolce violenza da quel luogo; ed ei lasciò condursi immemore, a guisa di fanciullo, chiuso in tale una angoscia che non gli concedeva nè un pensiero nè una lacrima nè un atto di furore disperato.

Giunto presso al ponte Santa Trinita, incontra messere Bernardo da Castiglione, il quale, tutto smanioso, volgendo i passi alla volta di lui, da lontano gli grida:

«Sálvati, Dante, la patria è perduta.»

«Mente chi lo dice!» urla Dante, e gli occhi dilata orribilmente, il volto pel subito moto gli diventa pavonazzo, e dalle ferite torna a sgorgargli vivido il sangue.

«Ahi! mentissi davvero! — fosse quanto vidi ed udii un mal sogno!... Ma ascolta, figliuol mio: dei gonfaloni chiamati la metà appena si adunò su la piazza; dei mercenari, tranne i Guasconi, nessuno. Il gonfaloniere gridava senza posarsi: Arme, arme, a me il corsaletto e il cavallo... — All'improvviso allibbisce e tace, e seco gli altri, che una nuova giunge disperante in palazzo: Malatesta avere fatto impeto alla porta di San Pietro Gattolino, dispersa la guardia, cacciato l'Altoviti che vi stava a capitano, rotte le imposte, intromesso il nemico; le artiglierie, a lui affidate in difesa della città, averle volte ai nostri danni e minacciare ridurre i nobili palazzi, l'egregie basiliche in un mucchio di cenere: stanziare insieme con lui Baccio Valori e don Ferrante Gonzaga. In tanta confusione di eventi, in così grande imminenza di pericolo non avere potuto la Signoria o saputo abbracciare partito altro migliore che quello di rendere a Malatesta il bastone e al Bartolino il commessariato; atto primo della ricuperata autorità di ambedue questi tristi essere stato disfare la Signoria, convocare gli Ottanta ed eleggere quattro cittadini, Bardo Altoviti, Iacopo Morelli, Lorenzo Strozzi e Pierfrancesco Portinari, per fermare la capitolazione...»

«E non vi basta? — E vi par poco, Bernardo?» interruppe Dante, e poi con maligna intenzione soggiunse: «Ora in rimerito delle mille pugnalate abbiatevi questa una. Voi, che andavate tanto superbo della vostra stirpe, — voi che affermavate da memoria di uomini incontaminato il candido manto dei vostri cani[353], Bernardo, andato a casa, ardete le immagini dei padri, ardete gli stemmi, me, voi, tutti i Castiglioni e i nostri palagi sopra essi, imperciocchè la nostra schiatta siasi avvilita per sempre; — colà, — su la piazza di Santo Spirito, Giovambattista dei Castiglioni patteggia co' traditori ai danni della patria....» Il vecchio vacillò, come se forte lo percotessero sul capo, si appoggiò alla parete; dopo lungo tempo con labbra tremanti riprese: «È prete.» — E di lui non disse altro; stette di nuovo taciturno, quindi incominciò;

«Dante, tu sai se io abbia avuto viscere di padre per te; — tu sai se anche potendo io vorrei consigliarti una viltà: — la fortuna prevale: — sálvati, — consérvati a tempi meno tristi..., aspetta che il popolo torni a svegliarsi.»

«No, l'uomo stanco s'addormenta e la mattina si sveglia più gagliardo di prima, ma i popoli dormono un sonno di morte eterna; — io rinnego la speranza, come renunzio alla vita.»

«Oh! non dirlo», favella il vecchio, «non dirlo», e la mano gli pone sollecita sopra la bocca, «non dirlo, figliuol mio; queste sono bestemmie che accendono l'ira di Dio: ciò che il popolo veracemente vuole, quello anche può; — tu sei giovane assai, ma pur devi sapere che tre volte in novantaquattro anni fu cacciata di Fiorenza la casa dei Medici, e due di queste, si può dire, ai tuoi tempi, nel quattrocento novantaquattro ed ora nel ventisette...: perchè non sarebbero cacciati la quarta e per sempre?»

«E quando?»

«Quando i loro peccati diventeranno maggiori dei nostri[354]; e sarà in breve, perchè agevole è agli oppressori dei popoli passare il segno dell'ira di Dio.»

«Andiamo dunque.»

«Io rimango....»

«Avrebbe il vecchio più sangue del giovane?»

«No: appunto perchè ne ho meno, rimango; impaccio ti sarei nella fuga, carico nell'esilio, e i miei anni sono tanti che dipartirmi dalla patria a me null'altro frutterebbe tranne sepoltura straniera.»

«Che cosa direbbero i posteri di me, se, il paese natale abbandonando, io non portassi meco i miei parenti e i penati?»

«Il nostro Dio dovunque vive...»

«E voi?»

«Io vivrò, spero: vergogneranno forse insanguinare i miei capelli canuti; e per le altre persecuzioni, — io le sfido, — dacchè alla età mia ben possono arrecarmi gravi mali, non lunghi.»

«Ahimè! ahimè! Io vedo gittare nei nostri avelli prima la vostra testa, poi il busto...»

«Allora ti lascerò il legato di David[355], — la vendetta.»

«Tristo il figliuolo che altro non sa che vendicare la morte paterna! Il mondo mi maledirebbe infame.»

«Il mondo ti dirà grande; dirà che ogni affetto spogliasti per consacrarti tutto alla patria; — dirà che, per vivere intera una vita di odio e di persecuzioni contro ai tiranni, all'amore di patria aggiungesti la rabbia della vendetta; dirà che in tanta fiacchezza di animi non dubitasti lasciarti dietro a pericolare un caro capo, onde gli estremi aneliti del viver suo impiegasse a favore della patria. Voi piante orgogliose abbatterà la tirannide, noi lascerà mezzo morte e caduche; — in voi troppo alto freme lo sdegno onde sappiate dissimulare; — voi avete il dorso d'acciaio e non potete curvarvi, ma noi c'infingeremo vili e lusinghieri, gli assopiremo con dolci parole, gli ricingeremo di una rete invisibile, — con l'arte noi appianeremo la via al vostro ferro...»

In questo mentre sopraggiunsero Giovambattista Gondi, Cardinale Rucellai, Giovacchino Guasconi, Antonio Berardi, Lionardo Bartolini e Braccio Guicciardini e Marco Strozzi e il Busini ed altri più assai, dilettissimi amici del Castiglione, i quali tutti ormai disperati della salute della patria cercavano di mettersi in salvo; ed insieme gli si posero attorno e lo scongiurarono ad essere loro capo e compagno; senza di lui non sarebbero partiti; se egli rimaneva, ed essi rimanevano, e sopra il suo capo sarebbe ricaduta la morte di tutti; lo taccerebbero di codardia, se si lasciasse andare alla disperazione; presto gli imperiali sgombrerebbero dall'Italia, Clemente prossimo a morire, — allora chi difenderebbe i Medici? Ma ed allora chi anche gli offenderebbe, se essi non vivessero più? Andasse, si affrettasse; il signore Stefano avrebbe loro fatto spalla a fuggire; — ogni indugio mortale.

Aggirato, confuso, andò il Castiglione o piuttosto lasciò condursi, chiuso nel suo dolore, con le braccia incrociate sul petto, a viso chino, e pervenuto alla porta San Nicolò, levò gli occhi, la guardò una ed altra volta sospirando; — quindi chiamatosi dappresso Bernardo gli domandava:

«Bernardo, pel sangue di Cristo, ditemi il vero: dov'è Michelangiolo?»

«In salvo.»

«E il Carduccio?»

«Non si è più visto, e lo crediamo salvato...»

«Gran mercè. Ora sul limitare della porta io scuoto dal mio calzare una terra maledetta, — la terra della mia patria, perchè sta per produrre il frutto della tirannide.»

Ma quel pietoso vecchio di Bernardo curvandosi a stento ne raccolse un pugno e tornò a cospargergliene i sandali dicendo:

«No, figliuolo mio, ella è terra di sventura. Negli amari passi dell'esilio due sole cose ti rimarranno della patria — la sua memoria nel cuore, — la sua polvere sul calzare, — e allora ti sarà cara anche questa, e penserai parte di lei ricoprire i tuoi padri, — i tuoi parenti — e forse anche me che ti amai tanto; — serbala, Dante mio; noi adoriamo reliquie meno sante di lei.»

Varcarono le porte, — si dilungarono alquanto; all'improvviso Dante volge la faccia alla patria che abbandonava, e vede Bernardo sopra la porta che gli manda un estremo saluto —; poi si chiusero le imposte, e non vide più nulla. Allora lo vinse un fiero proponimento; ratto trasse fuori il pugnale e puntandoselo ai petto esclamò:

«Nessuno potrà impedirmi di morire a mio senno.»

Se non che gli amici lo trattennero, con dolci parole lo raumiliarono, gli trassero il pugnale, nè glielo resero prima che con solenne giuramento si obbligasse a conservarsi la vita.

Come finì questo magnanimo? Sortirono, o no, i suoi disegni il loro adempimento? Morì per morte di sangue, o mancò col cuore roso dalla amarezza dell'esilio e dall'ansia della speranza delusa? La febbre del desiderio lo inaridiva, o piuttosto prima di spengersi sorrise pure una volta nel rivedere la patria? Non lo dirò. I casi e la morte di lui ben possono dare nobile argomento a nuovo poema; — lascio la messe intatta a cui voglia mettervi dentro la mano poderosa. Però chiunque non si sente l'anima grande davvero si vergogni di stendervela; — gli ultimi palpiti della libertà di un popolo sono santi quanto l'arca di Dio; Rammenti Oza[356]. Il dramma storico e il poema del popolo, simili all'arco di Ulisse, chiunque gli afferra e non gli curva, — uccidono.

... Sciarra, gli taglia la gola. Cap. XXIX, pag. 705.

La città era ridotta ai suoi termini estremi. I quattro ambasciatori testè rammentati condottisi al campo intendevano sopra i preliminari stabiliti a conchiudere la capitolazione. Ora cominciano a scoprirsi le insidie; Baccio Valori s'ingegna di escludere il patto principale, salva sempre la libertà; non mica che, quantunque stipulata, pensasse l'avrebbe mantenuta papa Clemente, ma perchè quando delle vergogne se ne può fare a meno, non è male risparmiarsele; e Pierfrancesco Portinari, lo vedendo stare così sul duro, non potè tanto trattenersi che non gli dicesse:

«Si penserebbe, a sentirvi, che voi siate, messere Baccio, nato in Fiandra o in Ispagna, non già che abbiate comune con noi la patria in Fiorenza. Dio faccia che non abbiate a pentirvi un giorno di avere sotterrato con le vostre mani la Repubblica!»

E Baccio, comecchè inverecondo, chinò la faccia: allora ad una voce gli altri ambasciatori esclamarono che quel patto si aveva a mantenere, che altramente non potevano convenire e avrebbero tolto piuttosto di andare a filo di spada. Baccio, premuroso del dominio della città, non si ostinò più oltre a quistionare di apparenze e lasciò correre i patti, i quali furono rogati da ser Martino, di messere Francesco Agrippa Cherico, e da ser Bernardo di messere Giovambattista Gamberelli, alla presenza di sette testimoni, che furono il conte Piermaria de' Rossi da San Secondo, il signore Alessandro Vitelli, il signore Giovambattista Savello, Marzio Colonna, Giovanni Andrea Castaldo e don Federigo di Uries maestro del campo imperiale. Don Ferrante Gonzaga e don Giovacchino de Ric, signore di Balanzona, stipularono per l'imperatore, Baccio Valori pel papa, e tutti tre si obbligarono in proprio nome di farli dai principali loro ratificare dentro il termine di due mesi.

I principali capitoli di questo accordo sono tre, che io copio parola per parola, onde rimangano in perpetua memoria della infamia di cui gli ruppe prima quasi che si fosse seccato l'inchiostro col quale erano scritti.

«I. La forma del governo abbia da ordinarsi e stabilirsi dalla Maestà Cesarea fra quattro mesi prossimi avvenire, intendendosi sempre che sia conservata la libertà.

III. La città sia obbligata a pagare l'esercito fino alla somma di ottantamila scudi, da quaranta a cinquanta contanti di presente, e il restante in tante promesse così della città come di fuori fra sei mesi, acciocchè sopra dette promesse si possa trovare il contante e levare l'esercito.

IX. Che nostro signore, suoi parenti, amici e servitori si scorderanno e perdoneranno e rimetteranno tutte le ingiurie in qualunque modo, e useranno con loro come buoni cittadini e fratelli, e Sua Santità mostrerà ogni affezione, pietà e clemenza verso la sua patria e cittadini».

Vedrete come i principi mantengano fede; — ma poichè anche modernamente lo vedemmo, e sempre invano, così questo racconto io pongo non già a modo di esempio di cui possiamo far senno, sibbene come fatto che narrando, le presenti storie, non mi è concesso di pretermettere.

Conchiusi appena i capitoli, ecco arrivare con gran fretta messere Giovanni di Luigi della Stufa, il quale, inteso degli ottantamila scudi, prese a turbarsi e dare in escandescenza e strillare e protestare non sarebbe mai per ratificarli il pontefice, chè dugentomila, non che sufficienti fidenti al bisogno gli sarebbero parsi pochi; e a queste aggiunse tante altre parole e così o disoneste o precaci o inconvenienti alla occasione che Baccio impazientito lo prese per le braccia e, trattolo da parte, lo garrì acremente:

«Messere, voi mi parete mandato a posta per mettere in iscompiglio tutta la bisogna; voi dovreste pure pensare che in Fiorenza noi non ci siamo ancora; — se tutte le sostanze dure fossero preziose, la vostra testa meriterebbe essere legata in oro e mandata in presente al soldano di Babilonia. — Se altro non imparaste nello studio a Pisa, fatevi tornare indietro il danaro della laurea, perchè in coscienza non possono ritenerlo. — Tacete, in vostra malora. — Lasciate che delle mura di Fiorenza me ne aprano quanto una cruna di ago, io poi vi farò entrare un cammello; — io bevo grosso come le balene.» E qui strettagli famigliarmente la punta della orecchia sinistra, aggiungeva: «O dove apprendeste, dottore, a impaurirvi tanto delle promesse? Promettere da quando in qua significa mantenere? Le chiavi della Chiesa aprono molto più arduo serrame che non è questo.» Con tali intenzioni stipulavansi patti nel nome santo di Dio. Dopo la conclusione dei capitoli terminò l'assedio, — non già le stragi, come tra poco vedremo, — nel quale rimasero uccisi da venticinquemila uomini per ambedue le parti, di cui circa i due terzi appartennero ai nemici, senza però contare quelli che nel contado per fame, per peste e per ferro morirono, i quali sommarono a numero infinito. I danni patiti, non dirò da ogni terra o castello, ma quasi da ogni casa più volte saccheggiata, non sono tali che possano significarsi con parole: allora, come ai nostri giorni, lo straniero non fece grazia neppure ai chiodi. La natura, oltremodo sotto il nostro cielo feconda, in poche stagioni ristorò i danni dei campi; nelle fabbriche e' durarono assai più lungo tempo, ed in alcune durano tuttavia.

Passati otto giorni dalla capitolazione, cioè ai venti di agosto, il commessario apostolico, Baccio Valori, svolgendo la trama, comunicato prima il disegno al Malatesta, manda i Côrsi in piazza coll'arme, fa prendere i canti, quindi ordina sonassero la Tonaia a parlamento. Accorsero al suono forse trecento, la più parte faziosi, il rimanente plebe corrotta col danaro. La Signoria, sforzata dai comandi, atterrita dalla presenza delle armi, scese in ringhiera, e messere Salvestro Aldobrandini domandò tre volte agli adunati:

«Piacevi che si creino dodici uomini i quali abbiano tanta balía soli quanta ne ha il popolo di Fiorenza tutto insieme?»

«Sì, sì, risposero; Palle, — Medici, — viva i Medici!»

Baccio, montato a cavallo, con accompagnatura degli aderenti dei Medici e di quanti speravano nel nuovo governo, andò alla Nunziata a ringraziare Dio! — Di strane cose, invero, ode sovente ringraziarsi Dio; brutta e consueta ipocrisia, la quale è da credersi che assai più l'offenda della manifesta empietà.

Qual fosse Firenze, perduta la libertà, con buona efficacia di concetti non meno che con vaghezza di lingua, racconta Benedetto Varchi al libro duodecimo delle sue Storie. Io rimanderei volentieri il lettore al suo volume, se questo storico, e per essere di soverchio prolisso e per lo stile che adopera, spesso intricato ed oscuro, non riuscisse a cui lo legga sazievole; difetti però che non devono in tutto ascriversi allo scrittore, ma piuttosto alla morte che lo colse prima per lui si emendassero e si disponessero acconciamente le Storie sue, dalle quali gliene sarebbe derivata non piccola fama. La pagina però che accenno va scevra di simili falli, ed io non so come si potrebbe, non che superare, arrivare.

«Ella era (il Varchi scrive) la città piena di tanta mestizia, di tale spavento e di siffatta confusione che a gran pena, non che scrivere, immaginare si potrebbe. I vincitori, fatti superbi, guardavano a traverso e svillaneggiavano i vinti. I vinti, per lo contrario, venuti dimessi, si rammaricavano tacitamente di Malatesta e, dubitando di quello che avvenne, non ardivano di alzare gli occhi, non che di contrastare ai vincitori; i giovani, avvedutisi tardi dell'error loro, non ci conoscendo riparo, stavano di malissima voglia; i vecchi, veggendosi in dubbio la vita e l'avere, e invano delle loro discordie e pazzie pentendosi, stavano di peggiore; i nobili si sdegnavano tra sè e si rodevano dentro di avere ad essere scherniti e vilipesi dalla infima plebe; la plebe, in estrema necessità di tutte le cose, non voleva non isfogarsi almeno con parole contro la nobiltà; i ricchi pensavano continuamente qual via potessero tenere per non perdere affatto la roba; i poveri dì e notte in che modo fare dovessero a non morire in tutto di fame; i cittadini erano grandemente disperati, perchè avevano speso e perduto assai; i contadini molto più, perchè non era rimaso loro cosa nessuna; i religiosi si vergognavano avere ingannato i secolari: i secolari si dolevano di avere creduto ai religiosi. Gli uomini erano diventati fuori di misura sospettosi e guardinghi, le donne oltremisura incredule e sfiduciate. Ciascuno finalmente col viso basso e con gli occhi spaventati pareva che fosse uscito fuori di sè stesso, e tutti universalmente pallidi e sgomentati temevano ognora di tutti i mali, e ciò non senza grandissime e gravissime cagioni.»

La mala belva caccia fuori gli ugnoli, la travaglia cupidissima la sete del sangue e dell'oro; cominciava dall'oro: ostava il patto, — ma guai al popolo che non ha tutela migliore di una carta scritta! Nè al principe dei farisei, come l'Alighieri chiama il papa, voglia mancava od ingegno di giudaizzare intorno alla lettera. La capitolazione dichiara non s'impongano nuove gravezze oltre gli ottantamila scudi, nessuno impedisca che i cittadini spontanei offrano somme maggiori e più proporzionate alla mole dei presenti bisogni. Fu pertanto ordinato ai Dodici di Balía decretassero di proprio moto un accolto, ed i Dodici, mercè la persuasione del capestro, consentirono liberamente, come i senatori romani ai decreti di Tiberio: — dopo il primo successe un secondo accatto, — e di lì in breve un terzo. Guai ai vinti!

Tutti questi trovati, siccome giovavano a riempire l'erario, poco o nulla avvantaggiavano le cupidigie degli aderenti dei Medici. Baccio Valori, argutissimo in siffatta specie di negozi, fece spargere ad arte il rumore che si avevano a mandare sessantaquattro ostaggi nel campo per l'osservanza dei patti stabiliti. I nomi dei più doviziosi si rammentavano. Questi, presaghi del futuro, si affaticavano a prevenire che li colpisse la disgrazia, si raccomandavano, promettevano di grossi beveraggi, amici vi adoperavano e parenti. Baccio, non mica ipocritamente nè col mezzo di terze persone, ma egli medesimo con aperta impudenza, imponeva il riscatto, riscoteva la pecunia, dava cedole d'immunità, rimandava la gente assicurata. I più zelanti alla repubblica erano primi a sottoporsi a questo infame mercato, confidando con la devozione nuova fare dimenticare le vecchie ingiurie, quasi, per non dir troppo, non fosse nato e cresciuto tra loro Nicolò Machiavello, quasi tra loro non avesse egli meditato e scritto intorno la natura, i costumi e lo ingegno del principe.

Zanobi Bartolini, ormai sgannato, trepidava per sè; e più del danno paventando assai lo scherno, se un giorno a lui avvenisse quello che accadde all'antico Busiride, prevenne il caso di doversi riscattare la vita da quel reggimento medesimo che aveva con le proprie mani fabbricato. Si condusse con questo scopo a complire Baccio Valori, e dopo le dimostrazioni di amicizia, che tra loro intervennero grandissime, Bartolini si offerse pronto ad accomodarlo di quattromila fiorini d'oro, offerta con tanto gran cuore accettata quanto con piccolo fatta. Bartolini onestò il riscatto col titolo d'imprestito, l'altro pensò a ritirare il danaro e non renderlo mai; nè forse ciò sarebbe del tutto bastato al Bartolino, come in appresso sarà manifesto.

La pecunia spremuta dai cittadini sommava a inestimabile quantità: ora forte incresceva di spenderla al papa; l'esercito o piuttosto quattro eserciti, cioè i Tedeschi, gli Spagnuoli e gl'Italiani che militavano per lui e la gente condotta agli stipendi della repubblica minacciavano divorarsela; deliberò serbarsene per sè quella parte che potesse maggiore, e affinchè chi legge conosca di che tiri sieno capaci i vicari di Gesù Cristo, non mi sarà grave raccontarne il come. Papa Clemente, chiamato a sè quel Pirro Stipicciano che di nemico gli si era fatto esecutore dei più riposti pensieri, epperò de' più scellerati, statuì la maniera, la quale fa questa. Alcuni soldati del signor Pirro dal medesimo aizzati uccisero due Spagnuoli, allegando che quelli delle bande loro avevano messo in pezzi due Italiani e poi gettati dentro ad un pozzo. Per il qual fatto essendosi levato il rumore grande, gli Spagnuoli si armarono per vendicare i compagni; se non che, frapponendosi i capitani in quel giorno, si acquetarono, nè ebbero altro seguito le cose. Il giorno appresso gl'Italiani, avuta prima la fede dei Tedeschi che non si sarebbero mossi, ingaggiarono una terribile battaglia con gli Spagnuoli, gridando: Italia! Italia! — Prevalse la virtù dei nostri, rimasero rotti gli Spagnuoli, e tuttavia incalzando gli avrebbero del tutto oppressi, se quel malefico Pirro, di concerto con don Ferrante, non avesse con inganno persuaso Tanusio, capitano dei Tedeschi, gl'Italiani del campo procedere d'accordo co' Fiorentini; rotti una volta gli Spagnuoli, sarebbero corsi addosso ai Tedeschi — avere giurato liberare Italia dai barbari. Il Tedesco, porgendo fede alla menzogna, provvido di sè e de' suoi, assalse gli Italiani quando meno se lo aspettavano. Gli Spagnuoli, che stanziavano a San Donato in Polverosa, guazzarono il fiume e si unirono con loro. Gli Spagnuoli dispersi, si accorgendo essere così efficacemente sostenuti, fecero testa e tornarono alla zuffa. Allora agl'Italiani non valse l'ardire. Percossi da ogni lato con forze di troppo superiori alle loro, ebbero a dare volta non senza avere prima rilevata una grande uccisione. Morirono da una parte e dall'altra meglio di ottocento[357] uomini, computati anche quelli i quali per conseguenza delle ferite rimasero spenti; tra essi capitani e gente di maggior conto non piccolo numero. Così papa Clemente venne a risparmiare ottocento paghe! E forse anche più, perchè gl'Italiani andarono dispersi e, non che pensare alle paghe, si tennero avventurosi di salvare la vita. Strana infelicità del nostro paese, o piuttosto insuperabile perfidia di papa Clemente, che qualunque consiglio gli suggeriva il demonio riusciva ad un tempo stesso funesto al genere umano ed esiziale alla Italia. Dovendo conseguire con la strage il risparmio del denaro, papa Clemente, invece di procurarla ai danni dei Tedeschi o degli Spagnuoli, la volle effettuata sopra coloro che la stessa sua patria avea nudrito, che il linguaggio medesimo di lui favellavano. Ma per altra parte è giusto che quale più pecca maggior pena paghi; e forse fu disegno della provvidenza che tale riscotessero premio cotesti snaturati Italiani.

Quasi si fosse instituita tra loro gara di tradimenti, e come se il cuore non consentisse al Malatesta di rimanere in questa parte a veruno secondo, considerando ormai che se di per sè stesso non si procurava la preda il papa gliel'avrebbe data tardi e poca, ordinò ai suoi soldati, pressochè tutti Côrsi e Perugini, a fingere di ammotinarsi: e così fecero; percorrendo le vie della città tra lo spavento della cittadinanza universale gridavano: Sacco! — sacco! — Trassero a furia sopra la piazza di Santa Croce. Malatesta, simulando turbamento per quel fatto, salito sopra il suo muletto, si affrettò a quietare il tumulto; ma giunto appena, gli ammotinati lo fecero prigioniero. Di tutta quella turpe commedia il fine fu, che Malatesta disse ai cittadini che, se volevano salvarsi dall'andare a fuoco e a sangue, bisognava pagare, e subito; diecimila ducati in contanti...

In questa maniera si adempiva ad uno dei patti della capitolazione poc'anzi riferiti, cioè che la città non fosse tenuta a sborsare oltre a scudi ottantamila, per le paghe dell'esercito. Almeno era sincero lo Stufa!

Rimane il sangue. Pierodoardo Giachinotti, commessario di Pisa, dove si era condotto con rarissima fede, ebbe ordine di consegnare la città a Luigi Guicciardini; ossequente al comando, improvvido della insidia, egli la consegnò al nuovo commessario, e questi, con lusinghevoli parole assicurandolo, licenziata prima la gente della repubblica, gli pose all'improvviso le mani addosso e, gittatolo in prigione, lo martoriò con crudelissimi tormenti. Già non adoperò costui la corda, l'eculeo e gli altri strazi per fargli confessare un delitto qualunque, imperciocchè egli troppo bene sapesse non essere colpa in lui, ma perchè togliendolo subito di vita non gli sembrasse troppo mite la morte: quando poi vide non avere parte del corpo dove non fosse piaga, gli fece mozzare la testa. A papa Clemente bastava che fosse spento; Luigi vi aggiunse di suo gli strazi, e ciò per la ragione, che, essendo stato partigiano del vivere libero il gonfaloniere della Repubblica, immaginò riacquistare fede presso i Medici ostentando ferocia. I rinnegati di ogni tempo si rassomigliano tutti. Clemente papa nel suo segreto esultava, chè a lui non sarebbe sembrato aver vinto, se non giungeva ad avvilire la umana natura e rompere quel vincolo di confidenza e di amore senza del quale le compagnie, le famiglie e le cittadinanze si scompongono. I suoi nemici distruggeva nei rami e nella radice.

Frate Benedetto da Foiano, udendo che cercavano di lui per farlo morire, non gli occorrendo partito altro migliore, si fidò ad un soldato perugino il quale promise di mettere in salvo lui e le sue robe, ma egli, che della natura del suo capitano partecipava pur troppo, tolte per sè le robe consegnò il miserando frate al Malatesta, e il Malatesta alla trista derrata del tradimento aggiungendo, come bene avverte uno storico, una pessima giunta, dopo averlo martoriato prima per conto suo, con le mani e coi piedi incatenati lo mandò a Roma. Papa Clemente ordinò lo carcerassero in Sant'Angiolo, e nel consegnarlo a Guido dei Medici, che v'era per castellano, fece avvertirlo ne avesse cura secondo i suoi meriti; badasse a questo, che la sua lingua gli aveva di più aspre trafitte inacerbito l'animo che non le picche degli altri suoi nemici. Guido, di facile natura, innamorato delle virtù del Foiano e pensando la sua molta dottrina potesse avvantaggiare la Chiesa in quei tempi calamitosi, molto più che gli aveva promesso, se Dio gli concedesse vita, volere scrivere un'opera dove coi passi della Scrittura intendeva confutare l'eresie luterane, ne prese buona cura e attese a provvederlo di quanto è al vivere necessario. Così procederono per non breve spazio di tempo le cose, finchè, udendo che il papa veniva a visitare il castello, fidando placare il suo sdegno, gli pose su la via il frate, il quale prosteso, col capo chino al pavimento, le mani composte a misericordia, lo supplicava pel sangue preziosissimo di Gesù Cristo a compartirgli il perdono. I piedi del papa pestarono la barba del frate, il volume delle sue vesti pontificali s'intricò alle membra di quello, ma egli continuò il suo cammino senza badarlo, senza pur fare sembiante di vederlo, senza movere parola di lui. Terminata la visita del castello, e pervenuto sopra la soglia della porta, sul punto di prendere commiato da Guido, accostandogli le labbra all'orecchio, gli susurrò:

«Benedetto da Foiano è passato a vita migliore: monsignor vescovo, di qui a cinque giorni voi gli direte o farete celebrare l'ufficio dei morti.»

«Mai no, Santità, riprese Guido, che il Foiano vive, ed io ve l'ho posto sul vostro cammino perchè lo vedeste e gli usaste misericordia...»

«Tacete; — io vi dico ch'è morto, — e voi procurate di celebrargli l'ufficio.»

E siccome il vescovo di Civita se ne stava a guisa di smemorato, papa Clemente scotendogli il braccio con giovanile gagliardia, replicò cupamente:

«Non intendi, stolto? — egli deve morire.»

Venne l'ora consueta in cui solevano apportare al Foiano il cibo e la bevanda, ma egli attese invano gli alimenti; — pensò se ne fossero dimenticati e si pose pazientemente ad aspettare. Intanto il digiuno si prolungava, e lo stimolo della fame cominciava a tormentarlo; — si affacciò alle ferrate guatando bramoso se gli occorresse anima viva; — alla fine vide un soldato e lo scongiurò andasse dal monsignor Guido ad avvisarlo che non gli avevano portato il pane e che si sentiva fame; il soldato scosse la testa e si allontanò silenzioso. — Dopo lungo tempo ne comparve un altro, ed egli, «Fratello, in carità, si pose a gridare, — porgimi un poco di acqua, — le mie viscere ardono.» E il soldato: «Raccomandatevi a Dio; se io ve la porgessi, perderei la testa.» — Allora si rimase stupidito; poi dopo, tanta ira lo assalse per la disonesta morte a cui si vedeva condannato che a capo basso corse contro la parete per ispezzarvelo dentro, — e lo faceva; — ma il pensiero della eterna salute lo trattenne. Adesso l'istinto potentissimo della propria conservazione, l'acerbità del fine, l'occupano intero per tentare mezzo alcuno di scampo; — abbranca con ambe le mani la ferrata e la scuote cento e più volte, — e sempre invano; — allora col medesimo impeto si volge alla porta squassandola, scrollandola con quanto aveva di forza nei bracci, — e non consegue intento migliore. — Le sbarre di ferro si macchiano di sangue, — brani di pelle rimangono appesi agli arpioni della porta, — le mani ha impiagate, piene di schegge, le unghie rovesciate, — e pure non si arresta; — poi alla furia successe la quiete, e si pose sottilmente a investigare se vi fosse modo di venirne a capo con la industria. La pacatezza considerata inutile, tornò a crucciarsi; quindi di nuovo alle tranquille indagini, finchè, finita affatto la lena, gli si spense a un punto la speranza, e si tenne spacciato; si trasse verso il letto e vi cadde sopra bocconi gridando con voci di pianto: «Ahimè! questa non è morte da cristiani, e me la dà il papa!...Nei tempi andati un arcivescovo ci condannò il conte Ugolino..., ma io non gli ho ucciso i nepoti... La pena eterna dell'arcivescovo non ispaventa dunque papa Clemente? Oh! possa prima di morire il pentimento ottenergli la pace del paradiso.» — Questo pensiero di perdono volse lo spirito dell'Eterno in sollievo del derelitto; ond'egli drizzando gli occhi in alto non vide più le volte della prigione, sibbene la gloria degli angioli, il tripudio delle creature celesti intorno al trono del Rimuneratore, mentre gli apprestavano la palma dei martiri. Il frate si compose sul letto, come il morto sopra la bara, e si rimase con intenti sguardi a contemplare la visione di tanta beatitudine; — l'angiolo della consolazione gli si pose a canto del letto e col ventilare dell'ale bianche temperava l'ardore della fronte febbricitante; — assorte tutte le sue facoltà nel divino cospetto, non sente i dolori mediante i quali il corpo si avvicina alla estinzione; — non lo travagliano strette convulse, i precordi non gli straziano le trafitte della fame, — egli davvero a poco a poco manca, come lampada a cui venga meno l'alimento.

L'anima, pregustando le celesti dolcezze, non si curava affrettarsi ad abbandonare la sua terrestre dimora; imperciocchè dopo cinque giorni andando per trasportarlo al camposanto non lo trovarono, come credevano, cadavere, ma vivo e col volto pieno d'una quiete stanca, — della soavità dei santi. — «Figli miei, egli favellò con piccola voce ai sorvegnenti, — andate in carità da monsignor Guido e ditegli da parte mia ch'io sono, come vedete, in procinto dell'eterno viaggio, e che io perdono a lui e agli altri il difetto del pane corporale, solo che non mi privi del pane degli angioli, — del santissimo viatico...» — Monsignor Guido, temendo il papa non si crucciasse, mandò in fretta il suo cappellano a Clemente per sapere se dovesse concedergli i sacramenti.

Il pontefice recitava il suo breviario quando giunse il cappellano; udito che l'ebbe, rispose:

«Dunque non è anche morto colui? — Quanto tarda a morire!»

«Pochi altri momenti gli rimangono di vita; sicchè se la Santità Vostra volesse consolare cotesta anima, non può fare troppo presto a rimandarmi... pochi momenti, io vi ripeto, ha da vivere...»

«Quanti pochi?»

«Forse due ore.»

«Alla favella voi mi parete di Como.»

«Santità, sono Cremasco.»

«E come state a prebenda?»

«Santità, se non mi date commiato, io non giungo a tempo pel Foiano...»

«Voi mi parete un dabben uomo; — s'io vi creassi prelato di camera, vi piacerebb'egli?»

«Piacerebbemi, — ma adesso nulla più mi talenterebbe che giungere a tempo per consolare il frate.»

«Andate dunque, proruppe Clemente, dacchè questo frate vi preme cotanto; — non gli si amministri il viatico; — noi lo assolviamo da ogni peccato in articulo mortis. »

Il cappellano, appena simulando l'orrore che sentiva, inchinata la persona, si allontanava.

Il papa svolgendo le pagine del breviario mormora tra i denti:

«L'assoluzione plenaria anche dei casi riserbati a noi deve bastargli, l'attrizione è sufficiente a salvarci; — s'ei non si pente davvero, la colpa è sua; per me non lo impedisco d'andare in paradiso, — anzi ci ho gusto; vada pur dove vuole, purchè non si trattenga in questo mondo. — La Eucaristia non importa poi assolutamente..., la particola... ella è poca cosa... un pugillo di farina, — e non pertanto basterebbe a mantenerlo in vita anche un'ora: che cos'è mai un'ora? Quando il tempo si misura col terrore e con la sete della vendetta, un'ora è la eternità..., ed io, mi sento vecchio... e ragion vuole ch'io mi tolga affatto d'intorno le cure, e non potendo levarmele, le abbrevii. Ricevi in pace, o Signore, l'anima di frate Benedetto da Foiano...»

Frate Benedetto morì pertanto senza il pane eucaristico: non mi fa cuore tornare col pensiero intorno al letto di lui. Intanto si rammentino i cristiani che tre frati, Arnaldo da Brescia, Girolamo Savonarola e Benedetto da Foiano furono, il primo, per comandamento di papa Adriano IV, arso vivo; il secondo, papa Alessandro VI ordinandolo, impiccato e abbruciato; il terzo, papa Clemente VII imponendolo, fatto morir di fame. — O pontefici, cosa sarà di voi quando Cristo vi domanderà ragione del sangue dei suoi martiri[358]?

Pareva alla nuova tirannide, ed era vero, che sarebbe sembrata al mondo sempre bella ed egregia la impresa per la quale aveva combattuto Michelangiolo Buonarroti; e poichè troppo bene sapeva avrebbe gittato l'opera invano tentando guadagnare quello austero intelletto, così deliberò mettergli in ogni modo le mani addosso e spegnerlo. In ciò sopra gli altri si moveva ardentissimo Francesco Guicciardini, lo storico, che fu a bella posta mandato da papa Clemente, conoscendolo di aspra natura e capace di fare più e meglio di quello non gli fosse comandato. Arte vecchia di regno è questa, mandare gli Orchi Ramiri a inferocire con le rapine e le scuri nella contrada ove s'intende piantare la tirannide, — dissodare in somma col terrore la terra destinata a raccogliere quel tristo germe. Ai tempi però del Valentino, la tirannide ingenua, adoperato lo strumento, lo infrangeva, ed Orco Ramiro compariva in piazza squartato[359], — refrigerio al popolo e risparmio di mercede al principe; all'epoca di cui favelliamo adoperavansi gli istrumenti e poi si disprezzavano e lasciavano morire nella media; ai giorni nostri si usano o si disprezzano, ma si butta loro qualche brano della provincia desolata a divorare; così il lione abbandona parte della sua preda alla iena. Credono alcuni che ciò muova dall'ingentilita tirannide e da quella rilassatezza che ormai corre in andazzo appellare civiltà; ma io sostengo che nasce piuttosto dalla decadenza a cui tendono tutte le umane cose, e spero ed auguro che abbiano a ritornare i giorni avventurosi pel principe, l'età dell'oro della tirannide schietta! in cui egli poteva torsi dagli occhi un servo che aveva ben meritato dell'inferno e di lui, come usò il Valentino contro Orco Ramiro.

Michelangiolo, in buon tempo avvertito, si cansò ricovrandosi nella casa di un suo fidato, nè poi parendogli cotesto asilo sicuro, si nascose entro il campanile di San Nicolò. Ben gli valse esser pronto, chè gli otto, il bargello e i famigli si condussero nelle sue case e su pei camini e negli agiamenti perfino esaminarono minutamente ogni luogo. Il bargello e i famigli che adesso si assottigliavano l'ingegno per arrestare i partigiani della repubblica erano quei dessi che or dianzi si sbracciavano a legare gli amorevoli del principato. Alfonso re di Castiglia costumava dire che se il Creatore lo avesse avuto per consigliere nella settimana della creazione, gli avrebbe suggerito di far certe cose assai meglio di quello che egli abbia creato; — io, che non sono re, gliene avrei proposta sol una e gli avrei detto: Signore, un giorno dovranno per colpa degli uomini o per effetto della tua maledizione comparire nel mondo commissari di polizia, bargelli, sbirri, procuratori generali, giudici criminali ed altri simili che mi prende vergogna a rammentare; del peggior limo fabbrica una specie di animali, tra il rospo lo scorpione e il serpente a sonagli, o piuttosto un miscuglio di tutti questi rettili, e fino d'ora destinati ad esercitare cotesti uffici nel mondo; distruggi quando vuoi la umana stirpe, ma non la degradare poi tanto; e fallo ancora per onor tuo, dacchè l'uomo sosterrà lui essere creato ad immagine tua; e il pensiero che un commissario di polizia, uno sbirro, un accusatore e di tal risma animali possano vantarsi simili a te non ti fa drizzare le chiome immortali sul divino capo? — Il bargello non lo trovò e si morse le dita.

Intanto Clemente, sia per superbia di principe, sia per mantenere alla casa dei Medici l'antica fama di proteggitrice munificentissima delle arti, o perchè sentisse che la morte di Michelangiolo gli avrebbe concitato contro la indignazione dell'universo; sia finalmente (come altra volta Nicolò Machiavello insegnandolo lo avvertiva) — nessuno scellerato trovarsi così pienamente perfido che in sè non abbia parte alcuna di meno tristo, Clemente insomma spedì a Roma un cavallaro a posta a Firenze con ampio salvocondotto per Michelangiolo ed ordine espresso di non torcergli pure un capello. Michelangiolo, assecurato, uscì dal suo nascondiglio e salì al poggio di San Miniato per contemplare pure una volta la sua diletta Firenze; la fissò lunga pezza, e valse quella visione a stampargli sul volto i segni di dieci anni di vita consumata: scese chiuso nell'ira e nel dolore, e giunto a mezza costa percorse correndo e tempestando l'altra mezza, spesso borbottando tra i denti: Io la vendicherò; — e guardandosi le mani aggiungeva: Voi sole mi basterete allo intento.

Da quel momento non si lasciò più vedere, — si chiuse nella sua officina coi marmi, co' ferri e coi furori suoi; disse volere scolpire la tomba a due Medici, Lorenzo duca di Urbino e Giuliano duca di Nemours; cominciò il suo lavoro senz'altro modello che la idea che ne aveva concepita nella mente e con l'impeto per cui, secondo narra il Vasari, pareva che in breve ora dovesse sbrizzare masse enormi di marmo. Scolpì su quei sepolcri i crepuscoli, quasi per chiarire che i giorni nostri passano come ombra, e non pertanto quelli del tiranno, comunque brevi, si posano monumentali e solenni sopra una eternità d'infamia; scolpì Lorenzo profondamente pensieroso presso il sepolcro perchè i pensieri del tiranno vicino alla tomba sono rimorsi. Così illustrava questi avelli Giovanni Battista Niccolini; e quando egli non avesse scritto altro in onore della patria, meriterebbe che il suo nome durasse immortale quanto quei marmi; e poichè egli sortiva un'anima dai cieli capace di sentire Michelangiolo, gli fu dato ancora ascoltare la morte che da quell'arche aperte vi volgeva al tiranno pieno ancora di vita e gli gridava: «Scendi ove comincia pei potenti la giustizia degli uomini e quella di Dio.»

Benedetto Varchi, storico di volgare intelletto, scrive che Michelangiolo, più per bella paura che per voglia che egli avesse di lavorare, si pose a scolpire questi monumenti[360]. La musa negava al Varchi mente arguta e cuor gentile, onde potè imprendere la storia d'una repubblica pei comandi del principe; quindi non gli era dato intendere Michelangiolo. Bene all'opposto lo intese Niccolini nostro, — per la qual cosa egli aggiunse: «ma, fra gli esilii e le morti dei suoi, vendicare tentava coll'ingegno quella patria che non poteva più difendere colle armi, e fare in quel marmo la sua vendetta immortale[361]

Il qual concetto di Michelangiolo si ricava non mica da induzioni immaginose, sibbene pianamente dagli alti versi ch'ei scrisse in risposta a quelli di Alfonso Strozzi, che, nulla indovinando del pensiero di Michelangiolo e solo attendendo a lodarne l'ingegno, dettò la seguente quartina:

La Notte che tu vedi in sì dolci atti

Dormire fu da un angiolo scolpita

In questo sasso, e perchè dorme ha vita:

Destala, se nol credi, e parleratti.

E quel magnanimo, abborrendo la lode, cruccioso che altri non sapesse indagare la riposta sua idea, sprezzato il pericolo, generosamente proruppe, e i suoi marmi dimostrò in questo modo:

Mi è grato il sonno e più l'esser di sasso

Infin che il danno e la vergogna dura;

Non udir, non veder mi è gran ventura:

Però non mi destar, deh! parla basso.

Alessandro dei Medici, tentando avvilirlo, allorchè divisò costruire in Firenze la fortezza di San Giovanni, la quale fosse come di freno in bocca ai cittadini vaghi di cose nuove, ordinò al Buonarroti con lui cavalcasse per iscegliere il luogo acconcio. Il Buonarroti rispose che ciò poteva molto ben fare da sè solo, e non volle andare. Biasimano molti questa azione di Michelangiolo, come quella che, senza provvedere a nessun benefizio della patria, a sè apportava danno: — biasimatori codardi, imperciocchè troppo bene l'uomo giovi alla patria quando le lascia un retaggio di esempi magnanimi che inciteranno i figliuoli, o che in ogni evento diletta la renderanno e onorata finchè la virtù abbia altare nel cuore degli uomini. — Venutagli meno la speranza di vedere la libertà restaurata in patria con ordinari argomenti, si ridusse a Roma e quivi attese a por fine al più magnifico tempio che abbiano le creature innalzato al Creatore, — e ciò forse egli fece perchè, Dio avendo tanto splendida dimora sopra la terra, lo prendesse qualche volta vaghezza di volgere gli occhi su di noi, e vedesse a quali termini si trovasse l'opera delle sue mani ridotta, e ne sentisse pietà.

Cosimo I, desideroso di fregiare la tirannide, lo richiamò da Roma, gli profferse onori e ricchezze, adoperò preghiere e di ogni ragione lusinghe; — nulla poterono sopra di lui siffatte istanze nè la pressa amichevole che ogni giorno gli moveva maggiore dintorno Giorgio Vasari. Stette incontaminato e fermo nel proponimento di non piegare mai il dorso alla tirannide. Ritornò il suo spirito al bacio di Dio così puro come già se n'era dipartito. Cosimo I allora s'impadronì del suo cadavere facendolo dentro una balla di mercanzie rapire da Roma, e quanto più seppe lo deturpò con onori principeschi; però, comunque s'ingegnasse, non giunse a profanare quella gloria solenne, imperciocchè lo spirito di lui ormai fosse fatto cittadino del cielo, e la sua fama avesse già aperto ale poderose da attingere, coll'avvicendarsi delle generazioni, la fine dei secoli[362].

Raffaello Girolami, non pure fatto securo della vita, ma tenuto bene edificato, accolto simulatamente in grazia e perfino promosso all'ufficio dei Dodici, mentre va accomodando l'animo ai tempi, all'improvviso è preso e confinato nella rôcca di Volterra, — poco dopo trasferito nella cittadella di Pisa. — Un giorno, aprendo la carcere, lo trovano steso morto per terra; — le membra tuttavia attratte da orribili convulsioni, la faccia colore di piombo, qua e là chiazzata di macchie brune, i labbri laceri fanno fede del veleno a lui ministrato. Papa

Clemente fu quegli che ordinava lo attossicassero; nocquero a Raffaello le cure del suo fratello prelato in corte di Roma e le istanze di don Ferrante, il quale gli aveva dato fede di renderlo sano e salvo ai suoi. — Il veleno d'ora in poi vedremo essere mezzo del tutto mediceo per ispegnere i nemici e bene spesso anche gli amici della nuova tirannide: adesso lo adoperava Clemente per liberarsi dalle molestie fraterne e amichevoli[363].

«Dormite voi?» — tentando un giacente sopra un lettuccio nelle carceri del Palagio domandava sommesso un uomo che vi si era introdotto al buio, con lievi passi, senza pur si udisse il minimo cigolio della porta volgentesi sopra gli arpioni; e l'altro non mutando costa con voce fievole risponde:

«Sì, — l'ultimo sonno sopra la terra.»

«A Dio non piaccia, — voi vivrete, messere Francesco.»

«Chi sei? Che voce è questa? Antonio!... Dolcissimo mio cognato, anche una volta mi sarà concesso abbracciarvi! Questa è grazia che supera la speranza!»

Antonio Alberti e Francesco Carducci si tennero assai tempo stretti l'uno al seno dell'altro; e, ricuperata la favella, il Carduccio prosegue:

«I figli miei, Antonio e la moglie?»

«Vivono. Ma un ferro stesso troncherà più vite... voi non andrete solo alla patria dei giusti...»

«Ah! il mio cuore palpita per la patria, per loro, per te... ed anche per me; — il cielo disperda l'augurio; — la coscienza parteciperà loro virtù da sopportare... vivranno... Io, vedi, Antonio, non desidero la vita ai miei più cari..., eppure il cuore mi si spezza al pensiero che dovranno morire...»

«Confortatevi, essi vivranno, e voi...?»

«Ieri fui coi miei compagni condannato a morte.»

Papa Clemente, preposta la vendetta al giuramento, aveva fatto sostenere in un medesimo giorno Bernardo da Castiglione, Francesco Carduccio, Iacopo Gherardi, Luigi Soderini e Giambattista Cei, e perfino spedito da Roma la istruzione scritta di sua propria mano nel modo da praticarsi per mandare alla morte questi notabili cittadini. Non pertanto ai Guicciardini, Francesco e Luigi, al Nori e agli altri Palleschi sembrava poco la morte, e ognuno andava ingegnandosi di farla precedere da qualche suo tormentoso trovato o da plebee villanie, che le anime altere offendono meglio degli strazi. Furono tutti i mentovati messi al martoro; sospesi con la infame corda, confessarono quanto vollero i giudici iniqui, — tocca appena co' piedi la terra smentivano il detto, sè protestavano innocenti: solo le parole strappate dal dolore facevano fede, — delle altre non prendevano ricordo. Il Carduccio, tosto che vide allestita la fune, dichiarò non esser mestieri cotesto argomento per indurlo a confessare; imperciocchè non pure confessava, ma si recava eziandio ad onore avere amministrato le cose della Repubblica contro i Medici: — e non gli valse. Legato, riprese risparmiassero cotesta immanità; sapere essere venuta da Roma la sua condanna; stessero contenti alla sua morte; di più non avere comandato nè desiderato lo stesso Clemente: e nemmeno questo gli valse, — lo vollero ad ogni costo mettere al tormento. Confermato tra i tormenti il supposto delitto, lo interrogarono se avesse a dedurre discolpa.

«Discolpa per aver difeso la patria? egli rispose, — guardimi Dio dal farlo! Così avessi potuto salvarla!»

Bernardo da Castiglione, richiesto anch'egli se avesse ad allegare difesa, rispose, come nelle stragi napoletane Manthonè e Speziale[364]: «Se la capitolazione non basta, non saprei e nè anche vorrei presentarvene altra.»

Stanchi, non sazi di oltraggiarli, li condannarono. Carduccio, comecchè sentisse acerbo dolore per le sue ossa slogate, pure fieramente parlò:

«Avreste dovuto incominciare donde avete terminato, valentuomini; voi avete profferito un giudizio. — Giudici, non sapete che sopra di voi vive un altro giudice? A lui mi appello e vi cito tutti a comparire davanti al suo tribunale prima che passino cinque anni. Rammentatevi del templario Molay[365].

«Ch'è questo?» domandò trasalendo Antonio degli Alberti percosso da un sinistro fragore.

«Nulla: tentano con la sbarra di ferro le ferrate ai carcerati, per accertarsi che non le abbiano segate per ricuperare la libertà.»

«Affrettiamoci dunque: messere Francesco, alzatevi, lasciatemi prendere il vostro posto; ora verranno per me... indossate i miei panni e salvatevi.»

... e finalmente ansanti si fermano nel bosco... Cap. XXIX, pag. 708.

Il Carduccio si alzò e baciò in volto l'Alberti, quindi prese a parlare queste solenni parole:

«Antonio, ascoltatemi. La vita è una grossa moneta che non va sprecata nelle minime cose, ma generosamente spesa nelle grandi. Nè a me la fortuna potrebbe presentare occasione da impiegarla meglio che a rendere abborrita la nascente tirannide. Molti hanno nemici la libertà e la virtù. Ora a quali termini voi le vedreste ridotte, se primi gli amici loro le disertassero? Che direbbe il mondo se, a me solo provvedendo, lasciassi in carcere i compagni? Qual difesa darei se, per salvare me già vecchio e infermo, io non abborrissi dal sacrificare voi giovane e sano? Così, è vero, mi troncheranno la testa, — ma, nell'altro modo, in qual parte io la sottrarei all'infamia? E tra la sventura e la colpa nè io nè voi, Antonio, possiamo rimanerci un momento dubbiosi. — Lasciate che noi muoiamo; — egli è bene che il primo gradino del trono sia bagnato di sangue, — più facilmente vi sdrucciolerà il piede del tiranno. — Forse vi fa vergogna il patibolo? E credete voi che se io ci vedessi l'onta della mia famiglia, già non mi sarei fatto cadavere? — Nessuno è signore della morte dell'uomo. No, Antonio, qualunque scala, — anche quella del patibolo, è buona quando mena alla gloria. — La mia morte è sfregio sul volto al tiranno. — Forse chi sa che non sia questa una insidia? — Quale angoscia sarebbe la mia, quale il tuo pentimento, se prima di trucidarmi giungessero ad avvilirmi? Lasciami morire onorato. Socrate non volle fuggire, e fu divino tra gli uomini...»

Il fragore delle ferrate percosse si fa più vicino, — la porta della carcere si apre, ed una voce in suono di preghiera favella:

«Uscite, messere,... affrettatevi..., o siamo tutti morti...»

«Va' dunque, Antonio, di' a mogliema che prenda buona cura dei figli e, se l'è dato, gli meni in terra meno sinistra al suo sangue...»

«Venite, aggiunge la voce, — me perdete, e voi non salvate...»

«Va'», soggiunse il Carduccio, e sorreggendosi al braccio dell'Alberti lo accompagna; «va' e porta teco questo mio estremo consiglio: provvedi a te e alla tua famiglia; — rimuovi la mente dai pubblici negozj, dove sovente raccogli ingratitudine e odio, — qualche volta la morte, — atroci cure sempre; educa i figli nel timore delle leggi, accresci il censo domestico, vivi ignorato — e muori tranquillo; — così non maledirai nè benedirai i tuoi simili...»

«Per la croce di Dio!... affrettatevi...»

«Aspetta: che se invece ti freme l'anima dentro, — se nulla aspetti di premio da' tuoi simili, — se un impeto sublime ti sforza di compiacere all'alto proponimento di liberare la tua patria, — allora, — e da me impara, — ricórdati che, sguainata la spada contro il tiranno, vuolsi abbruciare il fodero; — tratta una volta, deve nascondersi o nelle sue o nelle tue viscere: prima di venire ai patti, vadano in rovina le case, in fiamme la città, a filo di spada i cittadini. Coteste rovine sono feconde, — lì nasce il grano di cui la libertà si fa pane; — la pace del tiranno è il camposanto. — Ramméntati la morte di Bruto, — non rammentare le sue estreme parole: — non è la virtù vile nè schiava della fortuna[366], se, presso al supplizio, col corpo intormentito da dolori acerbissimi, io posso la presente mia condizione anteporre a quella dei miei oppressori.»

Il cognato, tratto violentemente, abbandona il braccio del Carduccio, e la porta del carcere si richiuse davanti a questo. Tentoni al buio, egli riguadagna il lettuccio, dove ponendosi a giacere, esclamò:

«Oh come sono infelici i miei oppressori!»

E Dio consolatore mandò il riposo degli innocenti a quel travagliato.

Due ore innanzi giorno, buona schiera di armati precedendo e seguitando, da una parte il frate, dall'altra il carnefice, il Castiglione, il Carduccio, il Gherardi, il Soderini e il Cei erano condotti giù per la grande scala del Palagio nella corte a ricevervi la morte. Il Cei scendendo pose il piede tra mezzo una fenditura degli scalini e se lo storse in isconcia maniera.

«Ci mancava anche questa!» esclamò crucciato; «io non so, messere Francesco, perchè, quando eravate gonfaloniere, non vi deste pensiero di fare accomodare questa scala.»

«Veramente, Giambattista, io non contava di averla a scendere mai.»

«Vedete! Bisogna porre buona avvertenza a tutto; e' pare ne sia stato architetto un cerusico.»

«Giambattista», riprese il Castiglione, «un romano avrebbe tolto in sinistro augurio il vostro inciampo e se ne sarebbe tornato indietro.»

«Ormai, Bernardo mio, non ne varrebbe il pregio. Messer Iacopo, a che pensate voi? Su, animo.»

«Eh! io penso non essere questo il miglior quarto d'ora della nostra vita...»

«Perchè no? Noi ci acquistiamo un tanto; — tolto che ci abbiano il capo, per esempio, non ci dorranno più i denti...»

«E poi andremo a vedere», interruppe il Soderino, «come si risolva il gran forse.»

«Come, messere Luigi, dubitereste di Dio?» domanda Giambattista.

«Io non credo e nè anche discredo; la fede non dipende da noi, non più che avere il naso lungo o corto. — I frati mi consigliavano a digiunare, ma siffatto argomento mi faceva venire fame, non fede; — sicchè all'ultimo, conoscendo ch'io non valeva a sciogliere il nodo, mi sono condotto nella vita come se Dio fosse. — Se Dio esiste, — ho detto, — per certo egli ha viscere di misericordia, e quante volte ho potuto ho soccorso i miei fratelli. In somma se il Creatore esiste, non vorrà rigettarmi dal suo seno, perchè il mio ingegno non seppe comprenderlo; — se poi...»

«Tacete», favellò il Carduccio, «l'altro supposto non possiamo concedervi or che tra l'ombre io scorgo il nostro letto di morte.»

«Anzi, appunto per questo lasciatemi proseguire; — se poi egli non è, io ho cercato mantenermi nella vita tale da accogliere la morte tranquillo come un sonno confortatore.»

«La scala è terminata, badate alle gambe», grida il Cei che camminava in capo alla comitiva.

«Ah!» sospirò profondamente il Gherardi.

«Gemete voi?» lo interrogarono gli altri affannosi; «deh! non vi manchi l'animo al maggiore uopo!»

«Ahimè! Mi duole partirmi da questa terra senza pure contemplare un'altra volta la luce divina...»

«Meglio così; — forse più forte ci stringerebbe l'angoscia se vedessimo la cara patria rallegrata dai raggi mattutini del sole...»

«Ahimè! ahimè! Carduccio mio, come lasciamo la patria!»

«Largo le lasciamo un retaggio di virtù e di sventura; noi pregheremo del continuo l'Eterno che le asciughi le lacrime e la renda alla sua prima bellezza...»

«Chi sa quanti secoli si volgeranno invano?»

«Consólati, — noi stiamo per andare in parte dove lo spazio non si misura col tempo...»

«Non penso a me, ma a' miei figliuoli...»

«Riconciliatevi con Dio», interruppe il frate, «onorandi messeri; l'ora della vostra morte è arrivata.»

«Senti, frate», parlò gravemente il Carduccio: «noi non abbiamo mestieri riconciliarci con Dio, perchè non lo abbiamo offeso mai; e quando pure, senza volerlo, lo avessimo offeso, confidiamo non essere di bisogno il tuo ufficio ond'ei ci ascolti; próstrati con noi e adoralo: chi sei tu che ti poni tra il Creatore e la creatura? A che vesti di sacco, se la superbia ti sta fitta nel cuore? Polvere, come noi, umiliati... e prega.»

Pregarono; — nessuno ardiva sturbarli, — e quando si rilevarono, il Carduccio parlò:

«Prima di partire salutiamo le nostre dimore. Frate, in carità, porgi la tazza piena del vino dei condannati; — amici, possa io abbracciarvi tra poco alla presenza di Dio. — Ecco io propino, con l'ultimo sorso che beveranno le mie labbra mortali, alla libertà della patria!»

«Dio salvi la libertà!» risposero gli altri e s'impalmarono a vicenda.

Alcuni dei soldati, mossi da irresistibile impeto, gridarono anch'essi: «Dio salvi la patria!»

E il carnefice stese la mano, ma subito la ritrasse mormorando: «Io sono un abbietto... devo privarli del capo, ma non mi è dato toccarne la destra.»

L'occhio del capitano sfolgorò alla vampa delle torcie a vento e valse a impietrire di paura gl'incauti soldati.

Il Gherardi tremava; se gli accosta il Carduccio e gli favella:

«Iacopo mio, raccogli tutta la tua virtù... siamo soli, ne circondano le tenebre, e nonpertanto tutto l'universo ci guarda. — Va' tu primo, chè troppo ti recherebbe dolore la vista della strage de' tuoi compagni... mi aspetti la tua anima, chè moveremo compagni al paradiso... va'... va', Iacopo... In questa vita tu lasci gloria immortale... lassù ti aspetta eterna esultanza.»

Iacopo Gherardi, infiammato dall'ardente parola, si accosta animoso al ceppo, — si prostra, — vi accomoda sopra la testa.

Il carnefice gli viene attorno dicendo:

«No, messere; così male acconsentirebbe la scure, e voi soffrireste troppo.» — E con ambe le mani gli aggiusta il collo sul tronco: pietà di carnefice!

«Dio!... Libertà!...»

Del capo di Iacopo, erano rimaste sul ceppo alcune scheggiature dell'osso del collo e le cime della sua barba.

«Bravo Iacopo!» esclamarono ad una voce i compagni.

In breve ora fu consumata la strage.

Il papa, quando n'ebbe notizia, versò più di una lacrima ed ordinò un solenne ufficio di requie per l'anima di cotesti poveri defunti. — Che Dio faccia pace a quel buon papa!

E ormai insaniva la belva inebbriata di sangue: molte altre morti funestarono la città. Lionardi Sacchetti avvelenato periva, al Ciofi mozzarono il capo. Non poche condanne però riuscirono invano, come quelle di Dante da Castiglione e di Lionardi Bartolini, perchè si posero in salvo; notabilissimi cittadini stettero imprigionati nella cittadella di Pisa, nella rôcca di Volterra o nelle Stinche a Firenze; sommò a numero inestimabile la quantità dei banditi. In ogni città, in ogni castello d'Italia e qualche volta in terre straniere lasciava Firenze miserevoli brani della sua bella cittadinanza; ne confinarono su le Alpi, a Malta, nei borghi più remoti ed inospitali della Sicilia; e quello che fa maggior compassione a considerare si è questo, che molti furono o di così poca mente o di cuore tanto codardo che con disagio e spesa infinita mantennero i confini, pur confidando che la persecuzione avrebbe tregua una volta; decorso il termine del primo confine, li condannarono ad un altro più aspro; e morirono rovinati nelle sostanze, scherniti dal mondo, senza nè anche il conforto che nasce dal sentirsi incontaminati.

E perchè forse terranno alcune genti il mio racconto sospetto e lo reputeranno fatto ad arte per vituperare chi primo instituì la tirannide nella Toscana, valgami la testimonianza di Benedetto Varchi, il quale, come spesso sono venuto rammentando, scriveva storie per commessione di Cosimo I. Costui, e comecchè nè grande cuore nè peregrino ingegno si fosse, costui tuttavolta, più che al tiranno compiacendo al vero, con eterna sua lode, sposta prima la infame proscrizione, dettava la seguente pagina: «Io non so quello che a coloro i quali queste cose leggeranno sia per dovere avvenire; so bene che a me hanno elleno tanto arrecato in iscrivendole non pure di rincrescimento e compassione, ma d'indignazione e sbigottimento, che io, se le leggi della storia, le quali io, giusta mia possa, non intendo di trapassare ritenuto non mi avessino, arei in così larga occasione lungamente deplorato non meno la miseria e infelicità della natura umana che la perfidia degli uomini; conciossiacosachè queste cose fussono fatte tutte quante direttamente contro la forma della capitulazione, nella quale si perdonava liberamente a tutti coloro che in qualunche modo e per qualunche cagione avessono o detto o fatto o contra la casa dei Medici, o contra alcuni de' parenti e seguaci loro: — e con tutto questo si ritrovano al presente di coloro i quali hanno o l'animo così efferato o la lingua tanto adulatrice o la mano cotanto ingorda che, lontanissimi così da ogni umanità come da ogni verità, scrissono nelle storie loro che papa Clemente, troppo temperato in tutte le sue azioni, parendogli che fosse uficio di reputazione e pietà sua mantenere il nome il quale s'aveva preso, usando moderata vendetta, fu contento della pena di pochissimi. Del che tante più si dovrà o maravigliare o stomacare chiunche saperrà che la volontà di Clemente era che per più tempo ad ogni mano d'Otto si seguitasse di confinarne degli altri: ma le grida che si sentivano per tutta Italia e fuori, non senza grandissimo carico di don Ferrante, giunsero all'orecchie di Cesare, e questo cagionò che in confinando non si procedette più oltre[367]

Questo era il perdono di papa Clemente!

In qual modo si adempisse il patto sostanziale, salva sempre la libertà, adesso e più brevemente esporremo.

Un Giovannantonio Mussetola venne a Firenze con certa carta che fu detta bolla d'oro, fatta da Carlo V in Augusta a' 21 ottobre l'anno 1530, e visitata prima la santissima Nunziata dei Servi, secondo la vecchia arte di regno con la quale si tenta chiamare la Divinità a parte delle tristizie dei potenti, andò in palazzo seguito da moltitudine di popolo gridante: Palle, — Medici, — Carlo, ed altre simili voci. La Signoria gli andò incontra fino alla scala; egli entrato nella sala dei Dugento salì sopra un rialto tenendo a mano dritta il duca Alessandro, a manca il gonfaloniere con quattro signori per parte; drizzatosi in piedi, con reverenza lesse la bolla.

Diceva in sostanza il foglio: essere Firenze decaduta dai suoi privilegi per la temeraria guerra impresa contro lo imperatore; averla però di nuovo tolta in grazia per la clemenza propria e ai preghi di papa Clemente; ordinare che la famiglia dei Medici e conseguentemente Alessandro, duca di Civita di Penna, suo genero, si ricevessero e accettassero con quella stessa maggioranza la quale vi avevano innanzi che cacciati ne fossero, e, riformandosi lo stato come avanti il 1527, il detto duca fosse capo di tal reggimento in tutti gli uffici e magistrati, finchè durava la vita sua; e lui morto, i suoi legittimi figliuoli ed eredi e successori maschi discendenti del corpo suo; e mancata la linea legittima di Alessandro, succedesse in quella maggioranza il più propinquo parente della medesima casa.

Troppo grave offesa era questa alla libertà della Repubblica, e nonpertanto poca alla cupa libidine di Clemente. Nè già era costui ardito, come il Valentino, da porre la fortuna sopra un dado e trarne fuora Cesare, o nulla, bensì tale, conservato prima il mal tolto, da condursi per via di avvolgimenti a nuove rapine, — e nemmeno apertamente iniquo, come il conte Francesco Sforza, sibbene, il costume de' suoi maggiori seguitando, tale da mettere con arte altri innanzi, corrompere, tentare il terreno, fingere insomma d'indursi con mala voglia e richiesto a fare quello che, se meno era codardo, avrebbe a forza voluto e acquistato. — Cominciò ad usare suoi ingegni con Baccio Valori, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori e Marco Strozzi; se non che questi, non meno tristi di lui, e più di lui astuti, quantunque indovinata la sua mente, fingevano di non intenderlo, parendo a loro esorbitanza degna di eterna infamia privare affatto la patria di ogni simulacro di libertà.

Considerato allora Clemente che quel battere delle buche non faceva saltare fuori la lepre, deliberò vincere la ipocrisia e mostrare aperta la sua intenzione; cosa, la quale sebbene apparisca dovere essere agevole a cui abbia ormai conculcato la virtù, vediamo all'opposto riuscire ardua a praticarsi, certamente perchè quanto più l'uomo abbandona la sostanza, tanto maggiore sente il bisogno di attenersi alle apparenze. — Chiamava pertanto a Roma Filippo Strozzi, disegnando adoperarlo per mandare a fine il suo proponimento.

Era Filippo uomo di arguto intelletto, di modi cortigianeschi e magnifici, vago di conviti, di caccie e di ogni maniera signorili sollazzi; nelle cose di amore intemperantissimo senza considerare nè sesso nè età; d'indole varia, versatile; di principe o di repubblica poco curante, moltissimo di sè; nè tutto al vizio, nè alla virtù tutto; sebbene sul principio della sua vita più di quello studioso che di questa, all'ultimo poi più di questa che di quello, onde con la morte generosa seppe redimere molte, se non tutte le colpe commesse durante la vita. Adesso compariva ed era strumento efficacissimo di servitù. I giovani nobili rimasti a Firenze, avendo preso a schifo la parsimonia del vivere repubblicano, pur troppo si mostravano vogliosi a seguitare gli esempi di Filippo, e così con la rovina delle virtù civili si apparecchiava la morte di ogni magnanimo spirito, o vogliamo dire la vita del buon ordine del principato. Ciò che apporta non poca gravezza nel considerare la ragione delle vicissitudini umane si è questo, che la corruzione, madre sempre di tirannide, suole precederla, accompagnarla ed anche seguitarla; mentre la virtù, senza di cui ogni argomento a migliorare le nostre sorti è novella, di rado accompagna e non precorre mai la repubblica: onde Vittorio Alfieri scrisse la virtù parergli piuttosto figlia che madre di liberi stati. La quale opinione mi è piaciuto accennare non già perchè nessuno deponga la speranza, ma all'opposto per la ragione che se talora gli eventi non vanno a seconda dei desiderii, i troppo vogliosi témperino i smoderati e gli accomodino ai tempi, ai casi e all'indole di questa nostra stirpe, più assai infelice di quello che in generale noi non supponiamo.

Giunto Filippo in Roma, Benedetto Buondelmonti in nome del papa si fece ad incontrarlo e gli disse essere giunto il tempo di ricuperare la grazia del pontefice smarrita e cancellare i sospetti passati, assentendo o tutte le cose che gli verrebbero proposte, ossivero di contradirle senza profitto della città e con suo pericolo estremo. Filippo prontamente si offerse qual più lo volessero, consigliere o cooperatore. Cominciarono i segreti colloqui col papa, dove, oltre lo Strozzi e il Buondelmonti, egli raccolse Iacopo Salviati, Roberto Pucci, Bartolomeo Lanfredini ed altri pochi della casa Medici svisceratissimi. Il papa espose che, essendo in là con gli anni, voleva scendere nel sepolcro sicuro che la signoria di Firenze si mantenesse nella sua famiglia, la quale a lui pareva che bene la meritasse per gli amplissimi beneficii, così in pace come in guerra, procurati a suo vantaggio. E Filippo tosto chiosava il testo dimostrando con mirabile eloquenza tempestoso il vivere nelle repubbliche; doversi ai grandi corpi politici dare un capo, una forza unica, una rappresentanza alla quale i cittadini, non potendo pervenire, cessino d'invidiare, il governo assoluto in somma; consiglio non meno pernicioso che stolto parergli quello di lasciare a governo di Firenze, siccome era al presente, due teste, il duca e la Signoria; ciò partorire pessimi effetti e mostruosi non meno nei corpi morali che nei fisici; chiamarci alla unità la natura, con splendidi esempi manifestarcela, Dio ottimo massimo esistere solo.

Alle magnifiche parole di Filippo, Iacopo Strozzi di mano in mano veniva rispondendo: «Filippo, tu non la di' come la intendi; e se la intendi come la di', tu la intendi male.»

Lo Strozzi ciò nonostante procedeva imperturbato, e, per farsi più benigno Clemente, conoscendo l'animo riposto di lui, adesso parla della necessità di fabbricare una fortezza, arnese efficacissimo a reprimere le subite ire del popolo, a porgere asilo nei frangenti pericolosi, a tutelare, il governo; avvegnachè la sperienza abbia insegnato che i moti popolari presto si calmino, e se tu ti mantieni in parte da mostrarti quando la plebe comincia a stancarsi, di leggieri la riduci all'antica soggezione. E Iacopo Salviati, che pure era parziale e parente dei Medici, oltre il citare molti bellissimi esempi di tiranni antichi, ai quali nè le fortezze nè i giachi nè il mutare di letto nè i molossi posti a guardia dei penetrali valsero punto, ricordò l'esempio domestico e moderno dei cittadini fiorentini, che, quantunque armati alla morte di Lione papa, mantennero in podestà i Medici sprovveduti di armi e di provvisioni a difendere o ad offendere capaci; e disse ancora l'annona abbondante, la giustizia dirittamente amministrata, il buon governo in somma tenevano il popolo contento, non già le fortezze, inventate a tiranneggiare i popoli ed atte piuttosto ad offendere altri che a difender sè, piuttosto a porgere sospetti che a dare sicurezza. E poichè Filippo insisteva smanioso a ributtare cotesti argomenti e si sbracciava a persuadere il contrario, Iacopo gli ebbe a dire queste parole, conservateci dalla storia: «Voglia Dio che tu, Filippo, nel mettere innanzi il disegno della fortezza, non iscavi la fossa nella quale sotterrare te stesso.»

Detto umano non parve mai più profetico di questo. Caduto Filippo dal sommo della prosperità, tratto a gran vituperio sopra un muletto, tra lo schiamazzo della folla inseguente, per la città che seppe ridurre schiava e non valse poi a rivendicare in libertà, o di propria mano, come si disse, o per l'altrui, come meglio si sospettò, trovava morte sanguinosa nelle male innalzate mura.

Data forma al disegno, Antonio Guiducci arcivescovo di Capua, giunse primo a Firenze con la risoluzione della mente del papa, poco dopo Roberto Pucci per disporre le materie, — in ultimo Filippo Strozzi per mandare a fine il concertato tra loro.

Che importa raccontare il come? Dopo dugento cinquant'anni fu casso il gonfalonierato, — il principe assoluto istituito. — Primo duca fu Alessandro dei Medici, bastardo del pontefice Clemente e della schiava africana moglie del vetturale da Colle.

Seguì una serie di turpitudini e di delitti, per cui la casa degli Atridi, al paragone di quella dei Medici, rimase disgradata; — s'inebbriano dell'ira di Dio e del sangue del popolo; — muta indole l'uomo, — muta natura la terra. — O Firenze, tu apparirai d'ora innanzi quasi una lira a cui il poeta nel suo furore abbia strappato le corde.

E la pena fu condegna alla colpa. La famiglia dei Medici mancò priva di fama, di vigore, di discendenza, — di tutto; — lasciò eredità, — non d'ira, perchè il disprezzo da gran tempo aveva vinto lo sdegno, — ma di schifo e di abiezione. E gli ultimi Medici, quando videro imminente il sepolcro a divorare la intera stirpe di loro, e conobbero i popoli sopravvivere ai tiranni, — e, pentiti delle colpe dei padri, intesero restituire il mal tolto, — la libertà a Firenze, — altri principi tiravano giù dalle loro spalle le mal rapite vesti per ammantarsene prima che fossero morti; — il ladro prima dell'ammenda fu derubato. — Ma le proteste di Cosimo III al congresso di Londra e il testamento di Gian Gastone fanno fede della rapina del principe e del diritto imprescrittibile del popolo. Chi più ne vuole, e più ne cerchi; io ho le mie ragioni onde non raccontare per ora storia moderna.

Però Dio, anche nelle estreme miserie, non ci abbandonò intero; e nel modo stesso che il sole in un giorno d'inverno, quando sta per toccare i lembi estremi dell'Oceano, all'improvviso da qualche apertura manda lontano sopra la terra pallido e non pertanto bene augurato il suo raggio, — pegno di giorno men tristo; — così sul punto della morte della Repubblica e allorchè Carlo V, gonfio il cuore di superbia, teneva i popoli in conto di polvere da calpestarsi dai suoi piedi imperiali, e i principi per iscudieri, — nel mentre ch'ei non reputa capaci a resistergli, non che altri, gli stessi elementi, e appena concede avere un emulo in cielo, — ecco un vecchio venerabile di canizie gli attraversa il cammino, e gli dice:

«Re della terra, tu hai intorno al capo un diadema di potenza e di diamanti; — me, vedi, cinge la corona della morte, — i capelli bianchi. — Re della terra, anche tua signora è la morte: e noi occuperemo lo stesso spazio in grembo alla natura. Perchè hai misfatto alla tua parola? Perchè ci hai tradito? Credi che la voce del popolo non giunga al cielo? Io vo' che tu sappi curvarsi Dio per ascoltare le querele della sua creatura. Mantienci la libertà che ci promettesti; — restituisci la patria che ci assicurasti o almeno rimettici nella nostra terra; — rendici le armi che a patto soltanto e sotto la tua fede deponemmo; — e poi conquistaci da cavaliere e da cristiano, non da traditore e da codardo.»

E Carlo tremante, volendo e non potendo sdegnarsi, che il rimorso lo pungeva come aspide, rispondeva:

«Tornate in patria; — riavrete le vostre sostanze, purchè vi lasciate governare dal duca Alessandro.»

«Noi vogliamo patria e libertà; tu ce l'hai rapite, e noi da te le ripetiamo, — e te le richiederemo al tribunale di Dio.»

Il caso avveniva a Napoli; — era l'egregio vecchio Iacopo Nardi. — Io non mi dilungo su questa avventura: adesso cominciano tempi squallidi e che pure meritano essere esposti per insegnamento degli uomini; ed io nel sospetto che le anime gentili si sconfortino nell'udirli raccontare, considerando con occhio attonito come manchi talora all'uomo una caverna per ripararsi dalla procella della tirannide, che pure fu concessa alla belva per ischermirsi dalle tempeste della natura, gli lascio. Cominci da lei chi detterà la storia del principato; — la protesta del Nardi in cima al libro parrà quasi l'impronta di Caino sopra la fronte del tiranno. Su via, sorga qualche animoso in Italia che sappia scrivere un libro col cuore col quale combatterebbe una battaglia. Nella terra di Dante non nascerà più alcuno che valga ad apparecchiare un nuovo Inferno d'infamia a coloro che ridussero in servitù la nostra bella Firenze?

Il poema a cui non pose mano e cielo e terra, e che tuttavolta mi è sacro[368], qui ha fine. Però a me e ad altri sembrerebbe incompiuto, dove non raccontassi gli ultimi fati dei più notabili tra i personaggi del mio dramma. Adempirò a questo ufficio con anima pari a quello che, la Dio grazia, ho saputo conservare fino a questo momento.

Zanobi Bartolini, col cuore roso dal rimorso e dall'ambizione delusa, si ridusse ed abitare la sua villa di Rovezzano; qui, sospettando per sè, — il giudizio dei posteri presentendo severo, menò squallida vita. Il più delle volte tristo, solo e secondo il suo costume seduto, sonnecchiando, sopra un seggiolone ch'ei poneva obliquo al pavimento. A vederlo in cotesta attitudine nissuno avrebbe pensato qual battaglia combattessero nel suo spirito le feroci passioni; ma la settimana stampava su la faccia di lui le impronte dell'anno; — le sue labbra sovente balbutivano inintelligibili parole, — invocava la morte. Un giorno alcuni suoi famigliari, credendo ch'ei dormisse, si posero a lamentare su la Repubblica ed a rammaricarsi della cecità loro, che, lasciandosi svolgere dai sofismi del Bartolini, avevano le proprie forze adoperato a istituire la tirannide in casa. Chi ci torrà da dosso questo Alessandro che noi stessi abbiamo voluto? Che cosa più ormai gli rimane a tentare? Non è egli forse diventato assoluto tiranno?

«Assoluto tiranno! Chi assoluto? Voi v'ingannate; non capitolava Fiorenza a patto della conservata libertà?»

«E voi, uomo riputato prudente, pensate essere alla malevoglienza ed alla forza bastevole riparo una carta scritta? Stamani fu soppressa la Signoria, casso il gonfaloniere, Alessandro de' Medici proclamato tiranno.»

Proruppe il Bartolino in un gemito profondo, sollevò le mani e lasciò abbandonarsi la testa sopra le spalle; — la seggiola squilibrata tracolla, e Zanobi rovinando percuote di forza la nuca sul terreno; accorsero a sollevarlo; due sole goccie di sangue gli erano sgorgate dalle narici lungo la barba, — nel rimanente non pareva offeso. Pure gli giunse ogni rimedio tardo, — il colpo era stato sufficiente a cacciarlo fuori del mondo. Così Eli moriva quando gli fu riportato, con la sconfitta di Giuda, morti i suoi figliuoli, l'Arca di Dio cattiva[369].

Fu, come dicemmo, Zanobi amorevole della Repubblica, ma, disdegnoso, superbo, troppo in sè fidente, immaginò un concetto, presumendo poterlo sostenere da sè solo senz'altri aiuti, con tristi strumenti sperò fare opera buona; intendeva ingannare a fin di bene, e fu posto di mezzo a fine di male. Stando col popolo, non si sarebbe chiusi con le sue medesime mani gli occhi, e di certo gli veniva fatto salvarlo; onde, per istringere molte sentenze in una, Zanobi non con la intenzione, ma con l'effetto rovinò la patria. La giustizia degli uomini, a cui male si addice ricercare le intenzioni, sta al fatto e decide; — quindi di lui rimase fama come di traditore; — e a parere mio ebbero ragione i posteri. Non so se questo antico esempio ed altri che potrei allegarne vicini avranno forza d'incutere salutevole timore in coloro che, troppo presumendo di sè, pongonsi a capo dei civili negozi: — forse non l'avranno, ma in ogni caso non si potrà da loro dedurre la ignoranza. — Scopo di questo mio discorso è tenerli avvertiti.

E Pieruccio? — Egli si trovò in quasi tutte le battaglie della patria e quasi in tutte era rimasto ferito. Ora non gli avanzava più veste che lo coprisse, — non ferro per combattere, — non sangue, non parte di corpo che fosse sana. — Stava per mancargli la patria; — perchè si tratterrebbe più oltre quaggiù?

Ma anche lui prima di morire punse il desiderio di contemplare dall'alto un'altra volta Firenze, — e s'invogliò di una fossa posta sul colle più prossima al cielo per ricevervi le prime rugiade, il primo e l'ultimo saluto della luce, per sentire più da vicino la tromba dell'arcangiolo quando chiamerà i morti, imperciocchè i giusti non rifuggano dal giudizio di Dio. — Colà verso Trespiano, ove di presente giace il cimitero della mia città, alcuni marraiuoli condotti a prezzo, pochi giorni dopo la resa, scavavano fosse e vi stipavano i cadaveri dei morti sparsi alla campagna, per amore di tutelare dai maligni effluvii l'aere del contado. Qui venne alternando lento i passi Pieruccio; — a vederlo non pareva cosa umana. — Egli non piangeva, perchè aveva consumato le lacrime; — non sospirava, perchè l'angoscia lo aveva fatto di pietra: — giunse sul margine di una fossa; il marraiuolo zappando non lo badava; — intento al suo lavoro empiva l'aere di un canto sinistro, di cui il concetto era questo:

La ballata dell'uomo e del mattone.

«L'uomo è troppo superbo, e il mattone troppo umile; — non pertanto entrambi escono dal mio seno, ed entrambi vi tornano; — entrambi io terra amo come figli gemelli, — l'uomo dico e il mattone.»

«Quando la gran madre natura comandò che dal mio seno spingessi fuori l'uomo, mi disse: fammi un uomo; — e quando volle il mattone ancora, disse: fammi un mattone; — nacquero per la virtù delle medesime parole: la creta dell'uno stava accanto alla creta dell'altro, caso fu che il mattone non nascesse uomo, e l'uomo non nascesse mattone, proprio fu il caso; ora dunque perchè l'uomo insuperbisce sopra il mattone?»

«Se l'uomo calpesta il mattone, non vi lascia l'orma — e il mattone non soffre: all'opposto l'uomo si curva gemendo sotto il piede di chi lo calpesta e non sa aiutarsi. — Lunga è la vita del mattone, sicchè può sostenere, fatte cadaveri, due o quattro generazioni di coloro che lo hanno calpestato. — La vita dell'uomo passa come ombra, e spesso egli muore nella rabbia di contemplare avventuroso il suo oppressore.»

«L'uomo si consuma nell'angoscia: — quando intendeste voi che il mattone gridasse: ahimè? — Se il mattone diventa rosso, ciò è perchè il fuoco lo cuoce: — l'uomo poi si fa vermiglio a cagione della vergogna o del sangue.»

«E l'uomo è vinto dal fuoco, dall'acqua, — da tutti gli elementi, — ma il mattone gli sfida per tempi immemorabili. Però l'uomo è più duro del mattone in una parte sola, — nel mezzo del cuore.»

«E se poni il mattone accanto al mattone, vi stanno quieti, nè il fratello dice al fratello: Fatti in là. — Poni l'uomo insieme coll'uomo, e si divoreranno tra loro — ma l'uomo ragiona.»

«Il mattone rotto si tramuta in sassi; co' sassi qualche volta si uccidono i re[370], qualche volta anche i papi[371]. — I sassi somministrano armi al popolo quando un giorno lo prende fastidio di servire da gregge. I tiranni temono più i sassi dei pugnali. — Ora a che è buono l'uomo quando ha chiusi gli occhi alla luce?»

«Io sono la terra, — la terra antica, — ma figlia sommessa alla mia genitrice natura; pure il mattone è il figlio della mia tenerezza: io non mi sono mai vergognata di lui. — Se mia madre ascoltasse il consiglio della sua figlia, io le direi: rompiamo la stampa dell'uomo; creiamo invece un miliardo[372] di tigri; anch'essi mi sono figliuoli, e se non foss'altro, hanno la pelle più vaga.»

Pieruccio lasciò che il marraiuolo ponesse fine alla canzone, poi incominciò:

«Per cui scavi cotesta fossa?»

Al suono arrogante della voce il marraiuolo tenne ch'ei si fosse un barone, per lo che, prima di raddrizzare il dorso, si recava ossequioso la mano alla berretta; quando poi vide la strana sembianza, riprese come stizzito il lavoro, rispondendo:

«Anche per te, se vuoi...»

«Sia; per me. Affréttati dunque, perchè il vivere mi pesa, — aspetterò che tu l'abbia fornita, — poi morirò; — lavora di forza. Voi altri uomini, per poco che vi si mostri un fiorino d'oro, diventate terribili; — eccoti fiorini; io me li portava addosso perchè hanno impresso il giglio e il Battista, e perchè il re di Tunisi per essi conobbe il grande stato di Fiorenza, ond'ebbe a riprendere l'astio dei Pisani che ne levavano i pezzi[373]; ma tu, villano, nulla sai di ciò e nulla ti preme saperne; — io te li dono perchè tu presto mi apparecchi il letto del mio riposo; — mi sento rifinito e mi tarda a dormire.»

Disfece Pieruccio un lembo dei suoi stracci, e sulla terra diffuse copia di fiorini. A quella vista il marraiuolo balzò fuori dalla fossa; cupidi figgeva gli sguardi sopra l'oro sparso, — poi li volse d'intorno, — ed alfine brandì la zappa.

Pieruccio, indovinando il mal talento di lui, lo avvinghiò all'improvviso pel collo e ridendo gli disse:

«Perchè vuoi uccidermi? io ti affermo con sacramento che, appena terminata la fossa, io voglio morire; indugia anche un poco; — tanto la fossa dovresti pure fornirla per nascondervi dentro il tuo delitto; — va' dunque e ti affretta; la mia vita sta nelle tue mani, ma tu non devi tormela.»

E con impeto nervoso ricacciò il marraiuolo dentro alla fossa, il quale cominciando a sentirsi agitare dai vani terrori che a quei tempi ingombravano le menti del popolo, tremando forte e senza più levare la faccia da terra, si adopera a terminare lo scavo.

Pieruccio si pone a sedere su di una pietra; i gomiti appoggia sopra i ginocchi, le guance abbandona ai pugni e contempla Firenze.

«Addio, di repente proruppe, — addio, Fiorenza la bella, — addio, patria; — io non conobbi mia madre, — mio padre mi procreò nell'ora del delitto e si vergognò del suo sangue. — Tu, Fiorenza mia, non ti vergognasti di me — tu mi hai amato come figliuolo, — io come madre; — mie tutte le tue glorie, — non concittadini, ma fratelli miei gl'incliti personaggi che uscirono dal tuo fianco. — Quando ambasciatori, baroni, uomini insomma di alto affare venivano a farti omaggio, io, aggrappato al capitello di una qualche colonna e spenzolato dal cornicione di un palazzo, godeva dello splendore del corteggio e delle cerimonie usate alla Signoria, — e il mio cuore esultava come di onoranza resa alla mia famiglia: — il mio stemma faceva giglio rosso, — il gonfalone di Fiorenza era il mio pennoncello. O Fiorenza! ti versi l'Appennino acque perenni, onde tu goda di eterna fragranza, e dal tuo fiore emanino sempre effluvii di grandezza e di gloria... Tuttavolta i fanciulli della mia città mi hanno percosso nel capo, — tale altra m'insanguinarono il fianco, — ma, — vedete, — qualche dolore ci fa meglio amar la cosa diletta. E poi qual dolore non placava l'esultanza di vagare pei suoi campi in primavera, — e i piedi, le mani, la faccia, rinfrescare di rugiada, — inebbriarsi nei primi raggi del sole, con aperte narici bevere l'area che spira vividissimo dai colli paterni? — la terra morbida per erba folta ti sembra elastica sotto le piante: tu ti senti leggiero da sfidare al volo la rondinella che venne da lontane regioni a rallegrare l'anno che rinasce... — Oh come è lieta la vita! Marraiuolo, hai terminata la fossa?»

«Più poco manca.»

«Aspetterò paziente. — Adesso, o Fiorenza, i tuoi lioni hanno cessato di ruggire. — Alla repubblica arriva gradita la voce del re degli animali, — al principe giunge increscioso qualunque suono che non sia di cortegiano. — O patria mia! tu mi giaci davanti, e sei anche bella, perchè la vergine il primo giorno della sua morte, quando l'ornano di fiori, e la vampa dei ceri accesi le mantiene su le guance un crepuscolo di vita, sembra che dorma; — pure tu sei morta, — ben morta, — povera patria! — La statua equestre di Giovanni Acuto, costà in Santa Maria, par che muova le braccia in battaglia; il suo buon destriero solleva le gambe per mutar il passo; — o gente che vi trovate sotto la mensa che sostiene il simulacro dell'Acuto, non vi prenda timore, — quel passo non sarà mutato, — coteste braccia non faranno più moto nel mondo, — il prode capitano diventò una cosa inanimata. — Fiorenza ormai non cambierà più fianco, imperciocchè ella non dorma, ma giaccia morta; — tra poco il segno della putredine contaminerà la sua faccia: — chi lo nega? — forse l'arca di marmo pario scolpita di sottile lavoro e le gemme, i monili e le vesti di velluto magnifico salvarono il corpo della contessa Matilde dell'insulto del verme? Chiunque muore si disfà. — O Fiorenza! se almeno ti avessero gettato sopra le spalle un lembo di porpora e sul capo una corona di spine, e nelle mani posto una canna per iscettro... come Gesù, saresti argomento di compassione; — ma no, gli scellerati non si tennero contenti a renderti infelice, essi ti hanno voluta contennenda e giocosa. Ti hanno acconciato in capo una corona di carta e ti posero al fianco una spada da giullare, — poi ti hanno data in moglie al figlio di un prete e gli hanno imposto per patto nuziale che ti avveleni; — egli ti viene addosso e ti porta il veleno nel manto ducale; — costui è miserabile e piccolo, — eppure non meno mortale uccide il suo veleno. — La potenza di nuocere non si misura nei principi dalla grandezza dello stato, — appartengono tutti alla medesima famiglia dei serpenti, — l'aspide spegne al pari del dragone...»

«La fossa è pronta.»

... erano condotti giù per la grande scala del Palagio nella corte a ricevervi la morte.... Cap. XXX, pag. 752.

«Sii benedetto, marraiuolo; — eccomi — il mio cuore si rompe; — marraiuolo, prendi tutti i miei fiorini, — lasciamene solo uno — uno solo sul cuore; certo io non sentirò più nulla tra poco, ma l'impronta del giglio mi farà del bene: — in ogni caso, quando risusciterò, il mio primo sguardo sarà pel giglio, e la mia anima esulterà. — Marraiuolo, ponmi poca terra sul corpo, perchè voglio esser pronto alla chiamata dell'angiolo, — voglio precedere al giudizio di Dio i tiranni della mia patria che avranno sepolcro costà nella valle — e accusarli; — e se non apriranno a me povero peccatore le porte del paradiso, scongiurerò la infinita misericordia onde mi converta in demonio per tormentarli a senno mio nell'inferno. — E voglio anche precedere il tristo armento di quanti voi altri mi seppellite qui intorno, onde, quando giungeremo davanti al giudice piangolosi e supplichevoli, io possa essere in tempo a gridargli: Dio eterno, cacciali via, perchè hanno combattuto contro la libertà della mia patria. — Oh! quanto è gran dolore abbandonare la madre e la sposa, ogni cosa in somma più caramente diletta, e abbandonarla infelice! — un bacio, — un altro bacio, — un altro ancora.» — E qui si avvoltola per la terra e la bacia e ribacia con delirio smanioso, poi ripiglia: — «Dio creatore, perchè, se la terra doveva essere un luogo di pellegrinaggio, l'hai piena di tanti affetti? O perchè non ci hai fatto il cuore più duro? E se la terra era un luogo di prova, ond'è che ci adunasti tutti gli affanni dell'inferno? Perchè per un solo paradiso ci apparecchiasti due inferni? — Veramente la nostra patria è fuori di questo mondo; — qui non possiamo vivere innocenti nè illesi; — di là il ristoro delle angosce, di là il riposo, di là la riparazione dei torti, il premio e la gloria... Io chiudo le palpebre e muoio. — Nondimeno..., Dio padre..., se prima della fine dei secoli... Fiorenza mia ritorna bella e decorosa, se torna ai suoi leoni il ruggito, se il gonfalone della Repubblica alle sue torri... Dio padre, toccami gli occhi ed aprimeli, — un minuto, — un attimo, — ch'io la riveda... ch'io intenda il grido: viva Fiorenza!... e poi starò per patto un milione di secoli nel purgatorio... Fiorenza..., cuoprimi...»

La bocca del Pieruccio appariva contaminata di spuma, — la sua persona nel furente rotolarsi sul terreno sassoso era rotta in più parti nè dalle aperte ferite usciva sangue, ma poco siero sanguigno che andava rapprendendosi intorno alle margini: povero Pieruccio! sembrava percosso da epilessia; — i suoi ultimi moti erano disperati ed angosciosi come quelli del pesce trafitto dai denti della fiócina; — l'estremo atto convulso lo sorprese sull'orlo della fossa e vi traboccò dentro, tenendo le mani compresse sul cuore con un fiorino stretto tra le dita. Il marraiuolo stette alcun tempo co' capelli ritti, la persona composta a terrore, non osando nè potendo movere passo: — poi vide i fiorini sparsi e si curvò a raccoglierne uno... due... tre e tutti, non senza volgere sospettoso lo sguardo alla fossa per mirare se ne usciva il Pieruccio. Si quietò la paura, e l'avarizia prese a dominare assoluta su quello spirito tristo: allora si risovvenne del fiorino che il Pieruccio aveva tolto per tenersi sul petto, — gli venne l'agonia di possederlo, — non gli bastarono i tanti raccolti, — gli sarebbe parso di non averne pur uno, se non giungeva ad attrappargli anche quello; — però affacciarsi alla fossa non si attentava; — tra il sì e il no vacilla, — mosso appena il passo, a sè lo ritrae frettoloso, — finalmente imprime un'orma in avanti, la seconda seguita spedita, — si affaccia alla fossa. Oh Dio! — Pieruccio ha gli occhi aperti come persona viva, — come morto le pupille intente, — e la sua bocca contratta non si sa bene se rida o se minacci. — Finchè il marraiuolo vedrà quel volto, non gli riuscirà toccarlo; — concepisce nuovo consiglio, — impugna la pala e gli getta tre o quattro palate di terra sul capo; — così assicurato, si spenzola dalla fossa e, tese le braccia, s'ingegna ad aprire con forza le mani al Pieruccio e levargli il fiorino. — Sia che avanzo alcuno di vita rimanesse in questo misero, sia, come credo piuttosto, che ciò derivasse da moto spontaneo del corpo, comunque cadavere, il capo di lui si alza con violenza di sotto terra ed empie di fango gli occhi e la faccia del marraiuolo. — La paura lo vinse; — stette lungo tempo semivivo e immemore di sè, sporgente col capo, le braccia e fino al torace dentro la fossa; — mal si distingueva il vivo dal morto. Quando risensò, non potendo ricuperare l'uso delle gambe, carponi a modo bestia allontanavasi: — la cupidigia e l'avarizia sue lo avevano degradato anche sotto la condizione del bruto.

Finalmente Giovanni Bandini stampa un'orma sul terreno della patria con la esultanza del nemico che preme il seno del vinto nemico. — Ahi misero! — Adesso ha côlto il frutto della vendetta, — si accorgerà più tardi di qual gusto egli sappia, — più tardi l'agonia della offesa e il rimorso e la paura; — più tardi il cuore impietrito il volto senza pudore, il sangue tramutato in veleno: — ora il suo pensiero viene assorto dall'ansia di tenere nelle sue mani Maria.

Povera donna! oh perchè egli non la lascia in pace? Finchè l'anima di lui si mantenne innocente, fu il suo amore tutto lieto, tutto bello, come il fiore tocco dall'alito fecondo di primavera, e le sue immagini di vita serena, con la sua donna al fianco sempre amata, sempre amante, e con una corona di figli, decoro dei tardi anni; — quando poi gli s'incupì l'intelletto, — allora l'arse una fiamma d'inferno, — la passione gli stette nel seno quasi aspide nel nido, — desiderò Maria con più intenso furore, ma non per renderla felice, sibbene per tormentarla; — scopo principale della sua vita era stato sempre Maria; una volta lo agitava l'amore, adesso l'odio, e questo più forte ancora di quello, perchè aveva aggiunto al proprio fuoco le sue fiamme. Hans Verner immaginò, come altra volta avvertiva, due anime che sempre si sieno amate di santo amore nel mondo comporre un angiolo nei cieli, due anime che per amore degenerato in odio sieno costrette a cercarsi per tormentarsi; io per me penso, debbano formare giù nell'inferno un demonio.

Giovanni procede a salti a guisa di belva che si slanci sopra la preda, — giunge alla via di Parione, — tocca la soglia della casa verso la quale s'indirizzavano i suoi passi, e non si accorge due festoni di cipresso pendere dal limitare. Deserte sono le scale; — dalla parte della cappella muove odore d'incenso e talvolta un bisbiglio di voci supplichevoli. Quivi affrettandosi, penetra nella cappella; adesso gli si presenta un molto singolare spettacolo. Sopra un letto parato di seta cremesina a frange d'oro col capo inclinato su candidissimo origliere giace una pargoletta nell'atto in che dipinse Rafaello il fanciullino Gesù il quale pare che nel sonno favelli le parole: ego dormio, sed cor meum vigilat. — Ella non dormiva però; — come i fiori che la circondavano in segno della sua purità erano stati recisi dallo stelo, così ella era caduta dalla vita; — una reliquia di bellezza le rimaneva sul volto, nel modo stesso che, sparito il sole dall'orizzonte, vi si ferma alcun poco a rallegrarlo la luce del crepuscolo. E intorno al letto composti in varie sembianze apparivano alcuni gruppi di fanciulli pallidi e silenziosi, sicchè tu gli avresti tolti per uno di quei cari bassirilievi di Lucca della Robbia dove con impenetrabile magisterio effigiò i cuori degli angioli.

Il Bandino soprastette alquanto maravigliato, poi si accostò spedito, movendo all'intorno insolito strepito a cagione della armatura di che andavano gravi le sue membra. Allora i fanciulli levarono la faccia e, gittando urli spaventosi, fuggirono dalla cappella, non altrimenti che si faccia uno stormo di colombi all'improvviso turbati nei campi dove lì trattiene desio di cibo e di bevanda. Il Bandino sempre più si avvicina, e pargli che la pargola defunta tenga nella sua mano destra, — e certo tiene, — una carta suggellata indiritta a messere Giovanni Bandino, gentiluomo fiorentino. — Tristo messaggiero era quello e apportatore sicuro di sinistre novelle; — esitava a prendere la carta, pure alla fine la tolse, e apertala in furia lesse:

«Giovanni!

«Non ho più nulla che mi trattenga sopra la terra. Mia madre è morta, — mia figlia, come vedi, morta; — Ludovico Martelli, a me, come fratello, carissimo, anch'egli morto; — tu poi... avventurato te, se fossi morto! — Io rammenterò quei diletti defunti con affanno e con amore, — te poi con vergogna. — Non cercarmi; — io ormai sono fuori della tua potestà; — tu fra te e me ponesti il delitto, — io posi Dio. — E quando pure in te fosse potenza di violare il sacro asilo dove ho preso ricovero, sappi che il campanile della chiesa è smisuratamente alto, ed io, anzichè venire viva in forza tua, mi precipiterei da quello per cadere cadavere informe ai tuoi piedi. — Addio! Io scaverò con le mie ginocchia i gradini dell'altare, — la mia preghiera starà, come la lampada, eterna davanti la immagine della Madre di Dio, affinchè ti tocchi il cuore, e prima di morire tu detesti il tuo fallo. A San Pietro fu rimessa la colpa di avere rinnegato il Salvatore, ma le lacrime della penitenza gli scavarono due solchi nelle guancie, — e il rinnegare è men reo del tradire. Grande fu il tuo misfatto, pure infinita si volge alla creatura la misericordia del Signore. Gli uomini non possono più assolverti, — Dio tuttavia il potrebbe. — Io ti compiango....»

Non lesse più oltre, e con i denti e con le mani stracciò il foglio, — tanta ira lo vinse; — poi, come lo consiglia il furore, sferra un calcio alla bara, — e fiori e ceri, origliere e cadaveri manda a rifascio sossopra.

E la cercò con l'astuzia del serpente, — ma non gli valse; — la donna aveva con raro accorgimento soppresso qualunque traccia; — in qual tomba sieno state riposte le sue ossa ignoriamo; — certo la religione avrà consolato gli ultimi anni di cotesta sconsolata, — non pertanto è facile a immaginarsi ch'ella abbia affrettato co' voti la pace del sepolcro.

Il Bandino inferocì nella sua perfidia, ebbe un brano di popolo a divorare, — anco a lui toccò una verga per percotere i suoi concittadini. Sempre con l'offesa alla mano, la ingiuria alla bocca, egli raccolse ampio tesoro di abborrimento e si tenne beato: dovunque mostrava la sua pallida faccia non ardiva apparire il sorriso, e le parole compagnevoli od erano tronche a mezzo, o le terminavano bisbigliando; — i suoi detti amari non risparmiavano gli amici meglio dei nemici, più volte ne fremè lo stesso duca Alessandro; e se non lo uccise, ciò non avvenne per dubbio di essere tenuto ingrato, sibbene perchè si sentiva come sopraffatto dal fascino di quell'uomo tutto veleno. Spento Alessandro, il Bandino, punto cangiato dagli anni, praticò gli stessi modi con Cosimo. Questi, al primo sarcasmo profferito in onta di lui e della duchessa Leonora sua moglie, fece bocca da ridere, e nel cuore segnò la sua morte; e non tanto pel motto acerbo, quanto per tórsi dattorno tutti coloro ai quali pareva dovere andare debitore del suo innalzamento, attese un pretesto che togliesse a un punto la reputazione al Bandino, e a sè con la vendetta procacciasse fama di pio; — cupissimo ipocrita fu in tutte cose costui; — ad un tratto lo accusò di tale delitto del quale i modesti non assumono difesa per reverenza al pudore. Prima di farlo infelice, lo rese infame; — quando il principe accusa, i testimoni non mancano, e caso mai essi manchino, i giudici per condannare si trovano sempre, — nè forse il Bandino era del fallo imputatogli del tutto innocente, a simile turpitudine condotto dal disprezzo di questa nostra umana natura. Preso e condannato a perpetuo confino nella fortezza di Volterra, donde dopo molti anni venne trasferito nella fortezza di San Giovanni Battista, quivi morì nel 13 agosto 1568. Di qual morte finisse è ignoto; questo solo sappiamo con sicurezza, che quelle mura furono segrete, profonde e terribili come il petto di Cosimo I, che i Medici con le proprie mani dettero opera a fabbricare veleni, — che Cosimo fu ammiratore ed amico di Filippo II austriaco re di Spagna, chiamato meritamente il demonio del mezzogiorno, e finalmente che ambedue questi principi, non che fossero inesorabili ai nemici, i propri figliuoli di ferro o di veleno spegnevano!

Ora udite la fine di Bono Boni dottore di legge.

E perchè rammenterò io la morte di così ignobile uomo con larghezza maggiore di quella che adoperava fin qui ricordando l'ultimo fato di tanti personaggi più virtuosi o più magnanimamente scellerati di lui? Perchè io conosco, anche ai dì nostri, uomini simili affatto al nostro Bono Boni: e forse il fine miserevole dell'antico Bono potrebbe ispirare salutevole spavento ai Boni moderni, — e dico spavento, avvegnachè, se mai avviene anima alcuna di costoro andare in luogo di salute, ella vi perviene di certo per paura dell'inferno, non mica per amore del paradiso.

Messer Bono ebbe donna, e la tolse non già aspettandone domestica dolcezza o per posare le agitazioni della vita nella quiete degli affetti matrimoniali, o per forme venuste, o per care doti dell'animo; tutte queste ell'erano baie per lui. Egli badò se avesse parenti e quanti; — se avanzati negli anni assai; — se di retaggio provveduti e di eredi; — e quando la mente, fatti i calcoli coll'abbaco del suo cuore, trovò il conto tornargli, — allora chiese santificare, diceva egli, il vincolo col sacramento. Nelle nozze egli ebbe in mente soltanto la eredità; — le nozze egli considerò quasi prolegomeni del testamento; e pensando poi che se la moglie veniva a morte senza figli, non pure non avrebbe eredate dal socero, dai cognati e dall'altra caterva dei parenti suoi, ma gli sarebbe toccato restituire per legge di statuto metà della dote... la prima volta diventò padre per calcolo, — la seconda per briachezza — e la terza per distrazione. Dicono l'annunzio della nascita di un nuovo figliuolo ricevesse col volto col quale intese dal suo castaldo avergli il fulmine incendiato il pagliaio. Spesso fece piangere la moglie derelitta rampognandole oscenamente la fecondità del suo alvo; imperciocchè sebbene la povera donna sentisse dello scemo nel capo, nondimeno, come ogni giorno vediamo, la natura non aveva percosso di stupidità le sue viscere materne. Quegl'infelici germogli, aduggiati dalla influenza dell'odio paterno, pesti da continue percosse, sbigottiti dai rimprocci, dal vivere sottile estenuati, svennero intisichiti quasi prima di nascere. Il padre a quale andava per dolersi seco delle morti frequenti di casa sua rispondeva con serafica petrificazione: «Miseri noi, non essi, a cui prima di contaminarsi di colpa fu dato salire al paradiso, dove svolazzano cherubini bellissimi di luce.» — La madre piangeva.

Un solo, il primogenito, sopravvisse indomato alle battiture e ad ogni genere di tormento domestico. Il padre quando vide che ad ogni costo voleva vivere, intese a cavarne profitto. La educazione a cui lo crebbe fu lo sviluppo continuo di questo assioma, che piantò nell'anima del fanciullo come principio di tutta sapienza: — Il danaro è il sangue dell'uomo. — Onde, nel cervello selvatico di cotesto sciagurato, danaro e sangue diventarono due cose per cagione di vita connesse e producentisi a vicenda, l'oro era il sangue, il sangue l'oro. — Il padre poi si compiaceva compiere la educazione del figliuolo a un punto e quella del suo mastino, — pane, — acqua, — bastone —; e catena; — pensò sarebbero stati ambidue buona guardia, — amendue avrebbero morso e latrato se mai il ladro s'introduceva furtivo, notte tempo, in sua casa, — e il figliuolo meglio del cane, perchè ci aveva maggiore interesse. Dopo la sua morte non avrebbe egli eredato il suo sangue, — il suo danaro?

Dopo la sua morte! — E chi lo ha detto? — Non poteva forse il suo figliuolo morire prima di lui? — Certo poteva, ma non perciò sariensi i suoi giorni prodotti più lunghi. Oh avesse potuto rubare al figliuolo i suoi giovani anni e aggiungerli ai suoi! Egli sapeva che fisici valorosissimi avevano trovato la via di prolungare la vita infondendo nelle vene dell'uomo decrepito il sangue del fanciullo[374], ma da sè non poteva eseguire la operazione, e il segreto gli sarebbe costato troppo oro... Basta, per ora si sentiva forte e rigoglioso; — quando gli fosse venuto meno il vigore, vi avrebbe pensato.

Talvolta spezzò la catena..., non il mastino, — il figliuolo di messer Bono Boni, — ed irruppe nel fango della vita, — il vino — e il bordello. Se il suo imbestialito intelletto non pregiava più gentili piaceri, poteva forse incolparsi? — Tornato a casa, una procella di colpi gli rompeva le ossa, — ed egli quantunque si sentisse i denti capaci di lacerare suo padre, non ardiva avventarsi a cagione dell'antico terrore; solo brontolava cupo e digrignava le mascelle orribilmente.

Il figliuolo di messere Bono Boni appena conobbe che il danaro comprava il vino e la meretrice, non volle aspettare la morte del padre per possederlo; — dal germe della idea che il danaro era sangue stava per nascerne un frutto nefando.

Però l'istinto della natura, non affatto compresso dall'abbominevole insegnamento, prevalse; — prima del sangue egli scoperse il furto. Quando la notte scendeva paurosa sopra la terra, — e la grandine percoteva crepitante su i vetri, — e il tuono squarciava le nuvole del cielo, — e gli ululati dei cani empivano l'orrore delle tenebre; — nell'ore in cui la superstizione immagina spalancarsi le antiche sepolture e quinci trarre gli spettri a tormentare i colpevoli, — in cotesta ora che il meglio animoso si stringe a cui gli dorme al fianco, — e chi si giace solo si fa il segno della salute e si avviluppa nelle coltri, — il figliuolo di messere Boni con suoi grimaldelli, a passi sospesi, ritenendo l'alito, si accosta all'arca paterna e ruba in un attimo un pugno di fiorini d'oro: — erano l'agonia di dieci famiglie ridotte dal padre alla disperazione. — Così avvenne una ed altra volta. — Certa notte poi a mezzo decembre, — la vigilia di un giorno di festa, successe il caso che sono per dirvi.

Strideva acutissimo il rovaio: — di neve ogni cosa era piena e di ghiaccio, — la campana che accenna le ore batte così distinta che pare che picchi sul tetto della casa di Bono Boni. — Lo sciagurato giovane, furente di libidine per nuova meretrice, procede a procurarsi col furto il censo grancito all'orfano, per isprecarlo in prezzo di prostituzione, — oscena serie di colpe! Pon mano sopra la serratura, — apre la porta... morte di Dio! Bono Boni con una vecchia casacca tutta rattoppata addosso, un caldanuccio davanti, agli scarsi tizzi del quale andava ad ora ad ora rinfocolando le dita assiderate, — al pallido chiarore della lucerna mezzo spenta, a cui, mancato l'olio, avea messo un po' di rialzo da un lato onde l'umore rimasto in fondo sgocciolasse verso il lucignolo, — sta numerando i suoi fiorini, — i ducati del sole... li zecchini veneziani... in somma un tesoro, e per quanto scarso splendesse il lume, non pertanto le monete d'oro raggiavano.

Udendo Bono Boni rumore, solleva gli occhi.

Sovente avviene nelle Indie che, mentre ti accosti ad una siepe per cogliervi fiore o chiappare farfalla, tra fronda e fronda ti vedi all'improvviso comparire davanti il ceffo del tigre.

Così s'incontrarono padre e figlio; — non proruppero in urla, — non fecero gesto, — vivono soltanto negli occhi; e come il rospo avventa schizzando il raccolto veleno, essi l'un contro l'altro si scagliano un getto magnetico di odio, di maledizione e di morte. Il cuore si agita dentro cotesti empi petti, quasi groppo di vipere sturbate nei loro congiungimenti. Nessuno si minacciò; — il pensiero sta chiuso nel cervello loro, come il pugnale nella guaina, — non hanno armi, e non pertanto cotesto è duello a morte, — combattono con gli occhi, — riparano e studiano colpi di certa offesa e mortale.

Ma gli sguardi del giovane ferivano più trucemente intenti, — più divampati, — più pieni d'inferno; — quelli del vecchio da un angolo all'altro balenarono smarriti; — gli mancò l'anima, — si sente ferito; — allora pian piano stende la destra obliqua e saltellante, come il ragnatelo per ghermire la mosca, ad afferrare un coltello.

Prima che la mano giungesse al coltello, il figlio ha stretto la gola del padre e con voce incavernata gl'impone:

«Dammi i fiorini.»

«No.»

«Dammi i fiorini, ti dico...»

«No, no.»

«No? — prendi.»

E qui gli sferra una martellata sul capo, poi soggiunge:

«Dammi i fiorini...»

Il sangue inebria al pari del vino; e più il vino è generoso, — e il sangue ci appartiene dappresso, — tanto meglio l'uno inebria chi lo beve, — tanto meglio inebria l'altro chi lo versa: — quello che adesso sgorga è sangue di padre!

«Non vuoi tu darmi i fiorini? Prendi dunque, Bono; — prendi, messer Bono Boni; — prendi, prendi.»

Il cranio va ai fieri colpi sbrizzato, — un lembo di cervello si versa oscenamente pel viso a Bono Boni, — il rantolo prorompe fumoso di sangue dalle fauci di lui; e il suo figliuolo continua a martellargli rabbioso sul capo, — poi si fermò e gli disse::

«Ora vuoi tu darmi i fiorini? — Non rispondi? No? Io tornerò a domandartelo tre volte e poi riprenderò le percosse più forti di prima.»

E siccome dopo la triplicata, interrogazione il padre non rispondeva nulla, il figliuolo si avvisò esaminargli la testa. Vista che l'ebbe, scoppiò in altissime risa...

«Vedi ve'; — chi avrebbe creduto che questo capo contenesse tanto cervello?» E poi in suono lieto continua: «Certo ora non può egli rispondermi: prendili o lasciali stare, — non dirà più nulla mai: — io posso portarli via a bell'agio.»

E ne tolse piene le pugna e accorse alla casa della meretrice, la quale non aborrì dalla moneta insanguinata nè del contatto del parricida; — e sciolta appena dalle braccia di lui si affrettò a denunziarlo al bargello, empiendo le mani di nuovo denaro — e sanguinoso ancora egli. — Ora coloro che in versi o in prosa ebbero coraggio di paragonare l'uomo al tigre mi dicano in coscienza se non ne sentono pentimento e rimorso.

Pochi giorni dopo egli era tratto al supplizio; — andò nè superbo — nè dimesso, — ma stupido, — affatto chiuso nella sua bestialità. — Brevi momenti innanzi di morire un raggio d'intelligenza, — l'unico che in tutta la vita gli scintillasse al pensiero, gli si diffuse su l'anima, e favellò:

«Non so quale delle due infamie sia per me la maggiore, — o quando venni nel mondo per mezzo di messere Bono Boni mio genitore, — o adesso che n'esco fuori per le tue cure amorevoli, compare Taddeo.»

E toccò in atto di carezza le gobbe spalle al carnefice Taddeo.

La meretrice, dopo che fu giustiziato, venne presa da veemente scrupolo e, per mettere in quiete la coscienza, fece celebrare una messa per l'anima del defunto alla Santissima Vergine dell'Annunziata.

Se allora fosse costumata la reale e imperiale istituzione del giuoco del lotto, onore e lume della presente civiltà toscana ed anche romana, fors'ella ne avrebbe ricavato i numeri.

E forse vinto.

E forse diventata maggiordoma maggiore, — e allora avrebbe imbandito mense, convitato a festini; — i poeti l'avrebbero cantata con una procella di sonetti con la coda o senza; — crescendo poi gli anni, l'avresti veduta convertita in donna di pietà insigne, — direttrice di qualche asilo d'infanzia, o priora dell'arciconfraternita del Sacro Cuore; alla fine, — poichè tutte le cose hanno la fine, — defunta co' conforti di sette confessori, uno meglio dell'altro — e santi uomini tutti, — e munita in copia delle provvisioni spirituali necessarie pel viaggio della eternità.

E forse anche morta in odore di santità e dieci miglia d'intorno.

E operato miracoli, come sarebbe la guarigione dell'idrope alle fanciulle dopo nove mesi di enfiatura, — e così discorrendo.

Ora andate, se il cuore vi regge, a battere la cassa addosso alla reale e imperiale amministrazione del giuoco del lotto.

I filosofi lo biasimano, ed hanno torto. Date loro a tenere il banco, e lo loderanno; — lo dimostreranno ancora filantropico, siccome usa nel nostro linguaggio moderno.

Lascio del lotto e torno a messere Bono Boni, dottore di legge.

Se alcuno nel mio Bono si ravvisasse, si rammenti del discite iustitiam, moniti...

Lo troverà in Virgilio[375], ma costà lo dice Flegia ai dannati senza conclusione di nulla, perchè la predica ai perduti senza rimedio per sempre la è proprio il soccorso di Pisa; però io glielo dico prima di dannarsi, affinchè si provveda.

Ora contemplino i popoli la giustizia di Dio.

Correva il 23 di dicembre dell'anno 1531. Dentro una sala ampia, umida e buia Malatesta Baglioni e Cencio Guercio stanno ridotti davanti al focolare. Malatesta sopra una sedia baronale a bracciuoli da un lato, Cencio sopra uno sgabello dall'altro; lo spazio tra Malatesta e il suo cagnotto era occupato da due sedie vuote. Non dicevano parola; — di tratto in tratto il Guercio alzava gli occhi per guardare Malatesta, ma, non osando sostenere la vista di lui, gli abbassava pensoso, chè la paura gli si era cacciata nell'anima.

Da molto tempo abbandonò la salute le membra del Baglione, e nondimeno da pochi mesi a questa parte egli appariva l'ombra di quello che fu. La pelle gli s'informava dalle ossa, gli cadevano giù lungo le gambe le calze e ad ogni moto gli ondeggiavano; — il volto aveva bianco come il marmo; — alcune ciocche di capelli canuti gli fuggivano rabbuffate di sotto alla berretta, — la barba sordida ed incomposta, — segno certissimo in lui, tanto studioso della mondizie del corpo, di spirito agitato; — le sopracciglia irsute celavano a mezzo le pupille, le quali muovono continue per un'orbita dilatata, reticolata di vene sanguigne, — piena di colori biliosi; — e poi l'occhiaia livida gl'ingombra gran parte delle guance smunte e rugose. Le spalle tiene curve, il capo chino sul petto; — ambidue i gomiti riposa sopra i bracciuoli, — con le mani si appoggia ai pomi della sedia: — e' sono mani di cadavere; — le unghie lunghe, violette alla radice, in cima bianche; — la pelle gialla, — i nodelli sporgenti, e grosse vene di colore del piombo gliele traversano sinuose. — Sta nel dominio della morte.

Oh come tremenda travagliava cotesta ora l'anima del Baglioni! Prossimo ad abbandonare il suo corpo, lo spirito, a un punto vittima e carnefice, domandava a sè stesso ragione della sua esistenza. Truce rendimento di conto egli è questo, che pure noi tutti dobbiamo fare una volta. Costui tentava sottrarne alcune partite, altre s'ingegnava attenuarne, proponeva difese, implorava perdono. Se codesti arcani dibattimenti si fossero potuti significare con parole, in fede di Dio avrebbero disgradato le più magnifiche orazioni di Demostene; — ma la coscienza a sua posta incalzava, chè non è dato all'uomo mantenersi ipocrita con sè medesimo. E conchiuso ch'ebbe il calcolo, una voce profonda in suono di sospiro gli uscì dalle viscere che disse:

«Che cosa ho mai fatto?»

Parendo a Cencio che la domanda fosse indirizzata a lui, levò il mento per rispondere; se non che dalla immobilità del sembiante del Malatesta sospettò la volgesse a qualche larva infernale, — si tacque pauroso. Il Baglioni indi a breve replicava:

«Che cosa ho mai fatto?»

Quindi, sforzato ad aprire intero il suo riposto concetto, continua:

«Mi odiano tutti! Sono venuto al mondo in orrore... e a me stesso! Sempre mi vedo al fianco queste sedie vuote... ma che? forse non mi rallegrò mai affetto di padre? O genitore infelice sopravvissi ai miei figli? No. — I miei figli vivono, — ma sfuggono da me... sono solo... Solo? no... io sto in compagnia dei miei delitti... della mia vergogna... de' miei rimorsi...

«Ahimè! e non pertanto mi sento solo, e quando la mia solitudine mi tormenta, e vacillante... tentone alla parete... con pericolo imminente di percotere del volto la terra, io muovo in traccia della mia figliuola, la rinvengo nella domestica cappella, genuflessa davanti la immagine di Maria santissima, ed io l'ascolto tra i singhiozzi supplicare la regina dei cieli che impetri perdono della misericordia di Dio ad uno scellerato che ha venduto il sangue de' cristiani, che ha tradito una terra nobilissima, che ha condannalo la sua stirpe ad una eternità d'infamia...; e quello scellerato sono io... L'ira mi spinge al coltello la mano... Povera figlia! perchè dovrei punirti della mia colpa? — Io mi sento costretto ad allontanarmi, badando ch'ella non mi avverta..., perchè dov'ella mi scorgesse, l'ultima stilla di sangue mi tingerebbe di vergogna la faccia. — I miei figliuoli cerco a un punto e fuggo; i miei figliuoli fuggono me, essi portano in fronte una rampogna, — il padre loro la infamia...

«E tu, Ridolfo Leone, che dovevi essere l'orgoglio della mia vecchiezza... tu, sul capo del quale aveva accumulato tante speranze..., tanto tesoro di affetti..., tu, che, per farti crescere di stato, mi costi sudori, fama e perfino la salute dell'anima..., perchè lasci il padre infermo a rodersi con le sue malattie e la memoria? Il principe di Camerino lo ha respinto dalla sua casa, come un vassallo, e gli ha detto: Il mio sangue non si mescolerà col sangue dei traditori. — E la sua figlia, — la fanciulla amata da lui col delirio del primo amore, — si è chiusa in monastero per tôrselo dal cuore siccome se lo tolse dagli occhi. — Sta lontano da me, Ridolfo, perchè io temo che ad ogni istante tu venga a domandarmi. Per qual cagione mi hai procreato? — E non pertanto vorrei che prorompesse contro di me in detti amari, ancora in contumelie, versasse tutta la piena del suo furore sopra il mio capo... Ma vedi, Cencio, alla croce del vero Dio! quei suoi labbri compressi, quella sua parola fredda quando mi chiama padre, mi lacera le viscere... Pensi forse ch'io non m'accorga com'egli chiama in più dolce suono il suo cane? Pensi ch'io non veda ch'egli s'ingegna nascondere alla gente che nasce di me — e muta veste e s'infinge plebeo? Cencio, dimmi, hai per avventura osservato com'egli abbia tolto dal pomo del suo pugnale l'arme di casa Bagliona? — A quest'ora egli mi maledisce... nè Dio giudice riprova cotesta maledizione, perchè meritata.

«Intanto queste sedie rimangono vuote accanto a me.

«Una parete — e un abisso mi dividono dai miei figliuoli...

«I figli di Annibale..., ma egli mi è nipote..., e poi è prete, — finchè da me sperava il vescovato con la rendita di diecimila scudi, non mi si dipartiva mai dal fianco e non cessava dal tempestarmi le orecchie con le autorità dei santi padri e coi testi della Scrittura ond'io mi mi rendessi a fare le voglie del pontefice; — mi assicurava della eterna salute, — difensore della Chiesa mi salutava e propugnacolo della fede; — adesso volge le sue lusinghe a più potente di me; — simile agli oremus del suo breviario, egli cambia nelle sue adulazioni il nome e le applica ad un altro, — mi abbandona ai pericoli e ai rimorsi, — nè gli mancheranno citazioni per giustificare il suo operato, — perchè no? Non insegnava il suo Cristo che l'albero quando non è più buono a produrre frutto deve essere reciso? Ah! la parola di Cristo sta in bocca ai preti come il suo sepolcro in mano ai Turchi. — Egli s'ingegna nascondere il nome della sua stirpe sotto il titolo di qualche dignità ecclesiastica, — fosse anche quello di vescovo d'Aleppo. — Sta bene, nè io posso biasimarlo di sottrarsi alla torre che crolla. Dio lo esaudisca secondo i meriti suoi...

«Clemente! Clemente! Se le mie colpe saranno gravi sulla bilancia dell'Eterno, quanto mai vi peseranno le tue! Comecchè io fossi degno di avvilimento e di peggio, non per questo mi sei meno spergiuro. Tu hai falsato meco tutti i tuoi giuramenti...; solo mi gittasti davanti un brano di popolo ond'io mi v'insanguinassi le labbra, — e potere dir poi: Vedete, anch'egli è della famiglia dei lupi...

«A che mi valse il tuo consiglio, Cencio? — I miei bravi percorsero tutte le corti d'Italia, mandarono cartelli a chiunque osasse chiamarmi traditore. Sono stati derisi, e gli hanno rimandati dicendo: Non fa mestieri duello, — chi dubita essere stato traditore Malatesta?

«Clemente ha preposto al governo di Perugia Ippolito cardinale suo nepote: questi ogni giorno appresta insidie alla mia vita; — mi dolgo al papa, ed egli risponde non essere atto a fare stare a segno un cervello così eteroclito e balzano, volendo per questo modo significare che mi concede in preda al mio nemico, tanto crudele più — quanto la sua ira non nasce da passione, ma da disegno. — Odia costui la tirannide perchè non fu promosso tiranno, — ora ostenta modi ed affetti repubblicani, blandisce i fuorusciti, accarezza Dante da Castiglione, aizza contro di me i Perugini; — queste misere reliquie della mia vita contende alla infermità e desidera spingermi per morte sanguinosa dentro il sepolcro. — Ahi stolto! se tu indovinassi quali giorni io tragga, tu manderesti pel fisico più famoso del mondo onde cercasse allungarmi la vita. Qual supplizio presumi inventare più tormentoso della mia coscienza?»

E Cencio, che pochi giorni innanzi era stato preso a sassi dalla famiglia del cardinale, ed uno dei fanti aveva ardito perfino levargli la spada, romperglierla a mezzo, e quindi dargli dei tronconi nel viso, con voci di sospiro lo interrogava:

«Ma qual pensiero, quale ostinazione è questa vostra? Perchè volete rimanervi qui a farci ammazzare tutti come paterini? Avete munito di anni e di ogni sorta di provvisioni il vostro buon castello di Bettona, nè sarà facil cosa al cardinale superarne i ripari.»

«I miei capelli, comunque crescano sopra testa maladetta, sono numerati; non dubitare, Cencio, neppure uno di essi cadrà, se lo impedisce il Signore; e se per lo contrario al cardinale fu commesso dalla provvidenza di trucidarmi, le salde mura di Bettona si romperanno come vetro al suo urto; — il frutto quando è maturo bisogna che caschi. — Nessuno, Cencio, più di noi può rendere testimonio che Dio esiste... — noi sentiamo la sua esistenza come un chiodo nel cuore...»

«Ahimè! finisce il mondo, Malatesta sermoneggia», interrompe Cencio sforzandosi, comecchè inutilmente, riprendere l'antica gaiezza; «mettiamoci in salvo. Che dice il proverbio? Aiutati con due mani, e Dio ti aiuterà con una...»

«Cencio», gridò Malatesta, «non bestemmiare, vedi, o ch'io ti faccio gettare giù dai balconi...»

E alzò irato il volto per aggiungere alle parole la minaccia degli occhi.

Cencio, o sia a cagione del suo spirito abbattuto pur troppo, o sia che veramente la voce del Baglione gli sonasse più severa che mai l'avesse udita per lo tempo innanzi, levò il viso a sua posta.

E i loro occhi s'incontrarono.

La fiamma ora nascondendosi sotto i tizzoni spariva, ora scaturendo a modo di lingua di fuoco avventava un getto improvviso di luce sopra gli oggetti circostanti. E quel subito splendore gli sformava e li travolgeva in aspetti bizzarri: le cose inanimate parevano scontorcersi sotto il tormento d'inconsueti dolori. Le sembianze dei nostri personaggi disfatte e terribili davano idea del come debbano agitarsi nell'inferno le anime dei dannati. L'uno l'altro guardando, Cencio e il Baglione proruppero in un grido e al punto stesso esclamarono:

«Voi avete...»

«Tu hai...»

«Una faccia di demonio.»

E quando quella loro paura fu del tutto quieta, si celarono gli occhi con le mani, profondamene avviliti, ed esclamarono:

«A che mai siamo ridotti!»

All'improvviso il silenzio che lungo si manteneva in cotesta sala viene rotto da un alto schiamazzo, da un cozzare di ferri, da minacce; da bestemmie e grida dolorose, e poi un romore di persone qua e là accorrenti, un chiudere di porte, e quindi ancora a mano a mano appressarsi il calpestio.

Malatesta si alza tremante. — ma non per paura; però con le mani non abbandona i bracciuoli della sedia, in questo modo sostenendo l'infermo suo fianco. Allorchè il rumore sempre più appressandosi sta per prorompere nella sala, la sua destra con moto spontaneo ricorre al manco lato per cercarvi la spada; le gambe indebolite non bastano a sorreggerlo in piedi, e vacillando trabocca sopra la sedia; — sorrise e si acconciò nell'atto che gli parve più dignitoso per aspettarvi la morte.

Si spalancano le imposte, e una turba di uomini e di donne inonda la sala. Alcuni dei sopravvenuti portavano torcie di bitume, sicchè la nuova scena andava illuminata da quel sinistro splendore. Non si sapeva la cagione vera del trambusto, — urlavano tutti, e più di tutti una donna, che disperatamente si abbandona sopra un ferito trasportato dai suoi compagni; — chi quell'uomo e quella donna si fossero non si distingueva, tanto erano contaminati dal sangue che copiosamente sgorgava da una profonda ferita fatta all'uomo nella gola. In mezzo a tanti gridi il Baglioni giunse a capire che poc'anzi a bello studio era passata prossima alla sua casa una masnada di bravi della famiglia del cardinale e che, avendo rinvenuto poc'oltre un suo paggio, lo avevano preso a malmenare, — ch'egli si era rifuggito a stento dentro la porta, ma che cotesti scherani, mal sopportando fosse loro scappato di mano, avevano atteso a rompere gli usci e violare il domicilio di messere conte: — che allora essi, seguendo lo esempio di messere Ridolfo figlio di messere Malatesta, avevano aperto le porte e respinto la forza con la forza; — esserne nata una molto terribile mischia, — due della famiglia del cardinale rimasti morti sopra la strada, — il maggiordomo di casa avere tocco una ferita mortale nella gola, sicchè, come poteva vedere, più poco gli rimaneva di vita; — in breve si aspettasse a sostenere più duro assalto, perocchè i famigli del cardinale, partendo, avevano promesso sarebbero tornati in forza, per lo più tardi, tra un'ora.

Malatesta udiva il racconto impassibile come se a lui non concernesse. Intanto gli occhi del moribondo natanti nella morte lo cercavano per raccomandargli con l'ultimo fiato della sua vita la moglie e i figliuoli; — favellare ad alta voce non poteva; — con lo spirito pronto a partirsi un argomento per richiamare l'attenzione di lui cercava, e non gli occorreva; — sentendosi avvicinare il diaccio della morte sul cuore, raccolse nel cavo del pugno alquanto di sangue e glie lo gettò sul viso. Malatesta si riscosse, e vedendosi cosparso da quella terribile pioggia, girò attorno lo sguardo e s'incontrò in quello del maggiordomo, il quale con estremo conato mormorò:

«La mia famiglia...»

«È morto!» urlò la moglie; e i figli con eco straziante rispondevano: «È morto! — è morto!»

«Fuggiamo, messere Malatesta», insta Cencio Guercio tremante.

«Mettetevi in salvo, signore», supplicano a mani giunte i vassalli, «tra pochi minuti non saremo più in tempo.

«Anch'io ho figli... che mi abbandonano... e che io non posso abbandonare», favella Malatesta immemore di quello che avveniva intorno a sè.

«Io non vi abbandono», susurrò Ridolfo Leone, che gli si era posto al fianco per ricoprirlo del suo corpo; «finchè il mio braccio basterà a sostenere la spada, voi vivrete, signore.»

«Ed io non ardiva abbracciarvi, riprende la sua figlia, — per paura di affliggere il vostro corpo già intormentito. — Monaldesca vostra non sa ferire, ma pregherà Dio per voi... e riceverà nel suo seno il colpo diretto al vostro cuore.»

«Ahi, figli miei! Venite qui appresso a me.» E così favellando solleva le mani, come per imporgliele sul capo, se non che, di subito mutato consiglio, lascia caderle abbandonate. I suoi occhi tentano piangere, ma non rinvengono lacrime, — invece per lo sforzo s'infiammano e par che versino sangue. «Benedirvi! No, figli miei; la mia benedizione scenderebbe veleno sopra di voi e v'inaridirebbe la testa... Figli miei, io vi domando perdono...»

«Silenzio!» gl'impose severamente Ridolfo Leone, — «non mi fate vergognare al cospetto de' miei vassalli, — le vostre colpe stieno tra voi e Dio... i vostri figliuoli non devono saperle.»

Il giorno appresso Malatesta era chiuso nel suo castello di Bettona, ma per morirvi.

Le troppe commozioni e troppo violente durate nel precedente giorno, — il corpo ormai rifinito, — l'animo fieramente turbato, — il disagio della via che così infermo aveva dovuto percorrere a cavallo — e il rigore di una notte di decembre passata a cielo aperto, — tutte queste cose gli avevano messo una febbre intensissima unita a delirio e a spasimi che lo facevano voltolare come forsennato nel letto.

Chiamato il fisico, poichè questi l'ebbe lungamente esaminato, dichiarò quello essere l'ultimo giorno di Malatesta Baglioni.

Venne il confessore, — ma le sue parole non erano intese si pose accanto al letto recitando sue preci, pure aspettando che un istante d'intelligenza gli desse abilità ad esercitare il suo ufficio.

Cotesto istante fu atteso invano: — il delirio crebbe e con esso la smania. Calato il sole, la malattia prese a inferocire più terribile; molti degli astanti non poterono sostenere gli urli dell'infermo e lo abbandonarono. — Certo era pur truce la visione con la quale Dio giudice spaventava quel tristo.

... i suoi occhi si posano sopra la corona di conte... Cap. XXX, pag. 783.

E' gli pareva trovarsi dentro ad un immenso anfiteatro, migliaia e migliaia di volte più vasto del Colosseo. Tutte le generazioni della terra stavano sedute sopra i gradini in sembianza di statue scolpite nel granito. Occupavano i più prossimi, uomini del suo tempo, la maggiore parte a lui noti, gli altari di forme sconosciute, e quanto meglio i gradini s'innalzavano, le forme apparivano più gigantesche e più strane; orridi ceffi, appena umani, che tenevano in grembo o sotto il braccio tigri, leoni e grifoni, come i damigelli del medio evo portavano in pugno sparvieri; la estremità dell'anfiteatro andava ingombra da simulacri di più immane grandezza, — dalle razze ciclopiche che scrissero la loro storia nelle montagne... che maneggiarono l'intero abete aguzzato al cratere del vulcano per arnese di guerra... cavalcarono il mastodonte come caval di battaglia... e una caligine misteriosa le ravvolgeva a mezzo dentro di sè.

Malatesta, scorgendosi solo nell'arena, notando che gli occhi di tutti stavano fitti contro di lui come archi tesi, s'ingegnava stringersi, impiccolirsi, celarsi nelle viscere della terra, — ma la terra era di granito anch'ella impenetrabile e liscio.

Il piano di granito stava inclinato, e dalla parte ove giungeva il massimo declivio usciva un frastuono di mare in tempesta e urla disperate di naufragio, — e divampava un fuoco vermiglio ad ora ad ora rotto da fulmini, e tra i fulmini appariva un quadrante con una sola lancetta, — e un'ora sola, — l'ora della eternità.

Di sotto al quadrante, una catena infiammata pendeva nell'abisso.

Le viscere del mondo si commossero, — un terremoto empì della sua romba il firmamento; — le colonne e gli obelischi dell'anfiteatro piegarono come cime di alberi al soffio della bufera, — le statue furono trabalzate dai loro seggi, — i grifoni e le tigri, comunque di pietra, sembrarono lanciarsi nell'arena atterrite dal pericolo.

Le labbra delle stirpi vissute nel mondo si aprirono, — voci diverse e orribili favelle, che nonpertanto la giustizia di Dio volle che in cotesta ora fossero rivelate all'intelletto del Malatesta, gridarono:

«Perchè si tarda? — La eternità è poca al supplizio del traditore.»

Di repente ecco una forza irresistibile strascina Malatesta; gli trema sotto la terra, egli vacilla com'ebbro, tenta appigliarsi alle pareti dell'anfiteatro, — ma non trova luogo dove introdurre le dita; — erano perfettamente liscie e commesse, come se fossero state non di pietra, bensì di metallo fuso; — ei fu costretto a cadere, e appena caduto, quantunque agli occhi il pavimento rimanesse fermo, assunse egli pure l'impeto del torrente e travolse il Malatesta con forza irresistibile. Allora cominciò una lotta miserabile a vedersi. Il Baglioni s'ingegna trovare un qualche rialzamento dove attenersi e ritardare la caduta; — il suolo si stende disperatamente unito. Forte abbranca colle mani la pietra per imprimervi le unghie, — la pietra non si graffia, ma le unghie gli si arricciano dolorose verso la radice.

Mentre palpitante si affanna in siffatto travaglio, un vento infiammato investe l'arena e mena in giro nuvole di terribile mole, — e tra le nuvole appariscono i fantasmi di tutti coloro che egli aveva menato a morte a cagione del suo tradimento.

Prima degli altri gli si mostra lo spettro di frate Benedetto da Foiano, — scheletro affatto, — meno che negli occhi, i quali stavangli incassati sotto le ciglia ossute, come palle di vetro: — «Dannati, traditore!» gli disse dandogli una spinta e passò[376].

Segue Rafaello Girolami con le labbra nere e lacerate dall'acqua tofana, la pelle del colore di piante imputridite, chiazzata di macchie livide, e, — «Dannati! traditore! — anch'egli gli gridava, — e datagli la spinta, passò.

Poi venne Francesco Carduccio in sembianza severa, quale lo aveva sempre veduto mentre che visse, se non che intorno al collo gli ricorreva un nastro vermiglio, quasi muliebre ornamento. Allorquando egli volle curvarsi, la testa gli si staccò dalle spalle, ma non per questo gli disse meno: — «Dánnati!» — e lo cacciò con una spinta verso l'abisso.

Larve infinite lo tormentano, e tutte godono a fargli oltraggio, a precipitarlo nel vortice dell'eterno pianto; ma sopra le altre uno spettro gli sta attaccato alla vita con l'ardore del vampiro che sugge il sangue alla vittima, — e lo tira, — e vi adopera mani e piedi e denti e tutto, — e questo spettro è il Pieruccio.

Traendo dolorosi guai, il Malatesta precipita, quando, sul punto che meno se lo aspettava, occorre in certo oggetto al quale si raccomanda tenace; — sovvenuto da simile sostegno giunge a rilevarsi sopra i ginocchi. Assettatosi in questa posizione, alza la faccia e conosce essere il corpo a cui si attiene un colosso di bronzo. Egli era addobbato del manto pontificale, — portava in capo il triregno, — la destra teneva in atto di benedire; — guardando meglio, ravvisa in quel simulacro la immagine di papa Clemente.

Allora, delirante di speranze, trasse con violenza a sè i lembi del piviale, supplicando tutto dimesso:

«Beatissimo Padre, per voi servire, questo c'incoglie; salvateci in nome di Dio dalla eterna dannazione.»

Gli occhi della statua coruscarono fuoco, — apersero le labbra e divamparono fiamme, e dopo le fiamme ne uscì una voce che disse:

«Dilettissimo figlio, noi vi abbiamo pagato, — noi non possiamo altro che darvi la nostra apostolica benedizione.»

E stese la mano verso la fronte del Malatesta; — la pelle riarse a quel tocco abbrustolita, e fra una traccia di fiamma verdastra v'incise un T. Non potendo tollerare il Baglione la immensa angoscia, portò ambe le mani verso la testa. Quando gli fu quieto di alcun poco il dolore, egli volle di nuovo afferrare il piviale del pontefice, ma si accorse esserne trasportato lontano; già le sue gambe si agitavano nel vano, — più che mezzo era immerso nella voragine, tenta — gravitando le costole sull'orlo dell'abisso — rimanervi sospeso; — gli torna ogni conato indarno, — non lo reggono i gomiti, — gli sfugge dalle mani la terra; — allora rabbioso immagina mordere l'estremo margine del pozzo.

Ma invece del margine del pozzo si morde miseramente la lingua, il sangue nero gli goccia giù in copia dagli angoli delle labbra e gl'insordida la barba.

Improvvido di consiglio, si volge attorno esterrefatto, ed altra via di salute non gli si offre, tranne la catena rovente.

Vi si aggrappa con le mani e co' piedi; — la catena si distende con orribile cigolio; — la lancetta del quadrante divora lo spazio che la separa dall'ora con la velocità del cavallo sfrenato, — la squilla suona.

Si aperse la terra, — l'anfiteatro cadde disfatto, — le statue l'una sopra l'altra rovesciaronsi, precipitarono le stelle dal firmamento, — ogni cosa creata si sformò, e un gemito lungo si diffuse per la natura moribonda che diceva: — «È arrivata l'eternità.»

Malatesta si drizzò sul letto e urlò disperato:

«La eterna dannazione incomincia!»

E poi ricadde sfinito, — gli venne meno l'anelito, — prostese le braccia — e con un roco singulto declinò la testa.

Il frate confessore gli pose una mano sul petto e favellò sommesso:

«È passato.»

I circostanti, compresi da ribrezzo, abbandonarono la stanza. Non avvertito vi rimase Cencio Guercio.

Accovacciato come un cane, egli stette assai tempo immemore di sè, profondamente avvilito sotto il peso della paura e del rimorso. Alfine rinvenne e pensò al miserabile suo stato: se si fermava, lo avrebbe manomesso Ridolfo Leone che gli portava mal di morte, riputandolo istigatore dei misfatti paterni; se invece usciva dal castello, lo avrebbero messo in pezzi gli aderenti del cardinale Ippolito. Ad accrescere le sue angustie si aggiungeva che gran parte del male acquistato in Firenze sperperò giocando a carte, e quello che aveva potuto avanzare, tutto intento alla fuga, nel subito caso della sera precedente lasciò a Perugia. Come fare? Non fidava in congiunti, non avea amici, chè nei giorni della prosperità fu suo diletto l'offesa, e l'altrui danno contentezza.

Mentre in questo modo si affanna, i suoi occhi si posano sopra la corona di conte del Baglione che doviziosa di perle posava sopra un pulvinare di velluto cremesino a canto del letto: con l'atto precorse il pensiero — l'afferrò bramoso e fuggì via.

Pervenuto nell'altra stanza, si accorge che non potrà passare, con quel volume, inosservato in mezzo alle guardie del castello; pargli consiglio migliore staccarne parte delle perle, specialmente le più grosse, le quali giusta la foggia delle corone dei conti ne sormontavano le otto punte. — Ponendo portando senza intermissione ad effetto il suo disegno, trasse il pugnale e prese a scastonarle; — ad ora ad ora suo malgrado si volge verso la stanza dove si giace Malatesta, sospettando non abbia a rilevarsi e venire a strappargli la corona dalle mani.

Ed invero Malatesta non era, siccome pensava, ancora defunto; — uno svenimento cagionato dalle terribili commozioni lo aveva assalito e, trovando le membra fievolissime, lo lasciava inerte come morto; — però sentì lenta nelle vene risuscitarsi la vita e, prima che la coscienza della sensibilità lo ravvivasse, lo gravò indistinto un senso di angoscia ottusa, affatto macchinale; — poi tornò la coscienza, e con la coscienza il pensiero, sibbene deviato dal vero, quasi strale che non colga più il segno. Allora lo punsero cocentissimi cruciati, e gli parve essere steso con mani e piedi legati sopra un letto di fuoco; — ineffabili erano i suoi sforzi per muoversi, ma rimaneva irrevocabilmente confitto tra quei carboni ardenti. Schiudendo gli occhi, si vede apparire trucissima davanti la testa mozza di Lorenzo Soderini; — con occhi aperti senza palpebra lo fissava e con le labbra insanguinate lo baciava, sicchè le stille del sangue gli gocciavano in bocca e, corrosive come acido di vetriuolo, o gliela ulceravano o gliela empivano di vesciche. Si volge a destra, e la visione lo seguita, — la testa gli si pone accanto sul capezzale; — si volge a sinistra, non gli giova meglio. — Chiude gli occhi, ed ecco dagli occhi del Soderini esce uno sguardo tagliente che gli fora la pelle del ciglio e costringe la pupilla a guardare; — torna ad aprirli smanioso, — la testa mozza non si muove, — lo sguardo non cessa, — non si sospendono i baci.

Gli fremono le fibre di spasimo; — tenta disperatamente un ultimo sforzo per muoversi e vi perviene; — agita le mani, come se gli fossero rimasti attaccati intorno ai polsi i frantumi delle catene; disegna levarsi dal letto e sente un'angoscia acuta, quasi gli staccassero da dosso un panno attaccato alla piaga; non importa; si alza mormorando tra i denti stretti:

«Voglio andare al cospetto di Dio e dirgli: È troppo... io voglio domandargli la morte dell'anima.»

Cencio Guercio, avendo staccata l'ultima perla dalla corona, si accingeva a rimetterla al suo posto, allorchè si vede comparire davanti il simulacro di Malatesta Baglione.

Parte delle membra gl'ingombrava il lenzuolo che si era tratto dietro di sè, parte apparivano ignude nella loro lividezza ed estenuazione cadaverica, — le palpebre teneva socchiuse, e le pupille dentro erano color di cenere, come si osserva negli uomini a momenti trapassati; — dritti gli stavano su la fronte i capelli quasi stecchi d'istrice, — le labbra aveva peste, intorno sordidate di sangue rappreso; — con una mano si reggeva un lembo del lenzuolo sul petto, — l'altra agitava in atto di uccello grifagno, — e forte ansava preso dal rantolo dell'agonia.

Cencio appena potè articolare parola; — diventa pavonazzo nel volto e stramazza per terra, come tocco da apoplessia, — gli sfugge la corona dalle mani, che, dopo avere rotolato alquanto sul pavimento, si ferma in piano presso al Baglione.

Malatesta incespicando nello strascico del lenzuolo a sua posta rovina la faccia in avanti, con la testa percuote su la corona, — ed una punta privata della perla gli scoppia l'occhio sinistro egli penetra lacerando in mezzo al cervello.

Due mesi dopo questo fatto un boscaiuolo, tornando da tagliar legna, incontrò una testa spiccata dal busto e dopo due miglia un busto senza testa.

I bravi del cardinale, abbattutisi certo giorno in Cencio Guercio, che, bandito da Bettona, povero, pauroso, percosso nell'intelletto, si era riparato nelle macchie, dove traeva vita affatto bestiale, gli lanciarono contro i cani; — lo raggiunsero e lo tennero fermo, forte addentandogli la carne delle cosce; — sopraggiunti i bravi, senza pur dargli tempo di riconciliarsi con Dio, gli mozzarono il capo spietatamente[377].

Il mio poema è finito.

Ed ora che ho composto nel sepolcro le glorie del mio popolo, — chiuso la lapide — ed inciso sopra la iscrizione, — a che più oltre lo spirito della vita si trattiene quaggiù?

Vorrò, prefica incresciosa, sedermi sopra gli avelli a empire di singulti le tenebre? O come vaso di etere lasciato aperto consumare, — spandendolo, — il dolore?

No; — nel modo stesso che la terra nasconde nelle sue viscere la gemma preziosa, io voglio conservarmi dentro il seno il mio dolore. Perchè non dovrei prenderne cura del pari diligente? — Le foglie che compongono la corona della libertà sono nudrite col dolore, — le rugiade che l'alimentano, emanano dalle lacrime che la tirannide ha fatto piangere agli oppressi.

Io nascondo pertanto la lampana sotto il moggio. — Quando apparirà l'aurora da ben tre secoli desiderata, allora la riporrò a splendere sul candelabro; — dove le fosse venuto meno l'umore la riempirò col mio sangue.

O Speranza! o Speranza! Nel delirio del mio affanno, — nella febbre dei sinistri pensieri, io ti oltraggiai col nome di meretrice della vita. — Talvolta mi apparisti simili ai fuochi maligni i quali, — quando la notte è nera e la tempesta furiosa, — si mostrano al pellegrino smarrito e lo conducono al precipizio; — tal'altra mi sembrasti fata lusinghiera e fallace che si unisce ai passi dell'uomo, come l'ombra quando il sole tramonta, e il suo cammino volge all'oriente e lo mena lontano a insanguinarsi le piante nell'arduo sentiero della vita. — Spesso l'uomo sconfortato si abbandona a mezzo della via, e tu allora stacchi dalla tua corona un fiore stillante di rugiada e, gittandoglielo in volto, gli rinfreschi la fronte ardente di febbre, e sorridendo un sorriso di serena lo inviti a continuare di tribolo in tribolo, d'illusione in illusione fino alla fossa. Tratto che lo abbi in questa parte, tu intuoni una canzone di scherno, a cui gli angioli rispondono piangendo, e le bocche dei demonii divampano fiamme di allegrezza.

Leggendo del giuoco sanguinoso che tanto piace allo Spagnuolo, — allorchè il perfido uccisore si accosta insidiando col mantello rosso al re della mandra — e glielo para davanti agli occhi, — e lo induce a piegare il collo per cacciargli tra le vertebre la spada, — gemei e dissi: Così la Speranza!

Siede intera la umanità al convito di Tantalo, — lei la sete tormentano e la fame tra sorgenti di dolci acque che rifuggono dalle labbra inaridite, e tra frutti che si allontanano dalla mano bramosa. — Te salutai, Speranza, come il più tristo dei pensieri che nacque in mente a Lucifero — quando col cuore pieno di rabbia precipitava dal cielo all'inferno.

In cielo, in terra, in mare, tra uomini e tra belve, quanto mi occorse di perfidamente iniquo osai di assomigliartelo, o Speranza.

Io ti calunniava.

Figlia alata del desiderio, secondo che tuo padre ti genera turpe o generosa, tu ritorni a rallegrare la mente donde sei uscita, come la colomba dell'arca con l'olivo in bocca in segno di più felice avvenire, o, come il corvo, ti svii a divorare i cadaveri.

Tu nasci dal fuoco, però che il desiderio sia una fiamma, — e s'egli arda fosco e colpevole, tu ti diffondi per l'orizzonte della vita come fumo di bitume che i venti disperdono, e gli uomini maledicono; — se invece sieno sacre le fiamme che ti partoriscono, te accoglie il firmamento candidissima nuvola che la luce ama tingere nei colori della conca marina, e gli aliti della sera ondulare soavi, quasi perla sul seno della vergine che palpita. — Gli uomini desiosi tengono dietro al tuo volo perchè tu rassomigli lo spirito eletto che muove alle dimore celesti, — il voto del cuore generoso, — la preghiera di anima innamorata, — e appresso te sospirano, perocchè pensino che quel gemito a te affidato possa toccare le soglie del paradiso.

Tu, dea, conosci se i miei desiderii furono per me, — se spuntarono dalla mia testa truci, quali i serpenti da quella della Gorgone, — o se piuttosto, a mo' di raggi degni di splendere intorno alle chiome dei santi; — tu sai che io ho mai desiderato salire per le tre scale — della ipocrisia, — dell'abiezione, — e della infamia alla reggia del vituperio; — se mai mi talentò staccare dalla massa di ferro che si aggrava sul petto degli oppressi una verga onde batterne a mia posta il capo al mio fratello per fargli sapere che vivo; — se mai mi prese vaghezza stendere il cavo delle mani ebbre di cupidigia allo strettoio ove si spremono monete e sangue ai popoli — la vendemmia dei re!

Il mio desiderio si volse a tutte le nuvole pregne del fuoco celeste onde lanciassero il fulmine sul capo, — a tutte le pietre perchè si scoppiassero sotto ai piedi degli oppressori; — avrei voluto che il mare sopra ogni flutto apportasse loro una maladizione, — una maladizione cadesse sopra di loro da ogni stilla di rugiada che emana dalle foglie, — che l'universo avesse una voce di obbrobrio per quelli che fanno piangere. — O Cristo! non troverai un'altra piscina entro la quale sanare la umanità dalla lebbra dei tiranni?

Io ti chiamo in testimonio, o Speranza, se in mezzo alla più atroce delle sventure che mai possa aggravarsi sopra un cuore superbo, — la miseria, con la quale tentarono avvilirmi, — io mai abbia pensato a cosa che fosse turpe, — o se il mutamento della mia condizione abbia preposto a quello della mia patria.

Nel mio povero tetto educai un cipresso per tesserne ghirlande alla maestosa defunta, — e venni quotidianamente inaffiandolo col pianto dei popoli; ma poichè mi avanzava copia di umore — (non ho io avvertito ch'egli era pianto di popolo?) — spensierato vi piantai accanto un alloro, — e nello inacquarne le radici, spesso, quasi mio malgrado, diceva: Forse... chi sa?...

Ora accadde che la terra degl'incliti trapassati è stata potente ad alimentare ancora l'alloro. — Egli crebbe glorioso accanto il cipresso. La immagine della morte e la immagine della vita si confondono insieme, — i rami loro s'intrecciano, — e le frondi susurrano, quasi due amici che si ricambino misteriosi colloquii; — forse l'uno confida all'altro il segreto per cui vediamo che un Dio e un popolo non possono lungamente tenersi chiusi dentro il sepolcro.

La fenice è una favola, ma un popolo che rinasce dalle sue ceneri può essere verità...

O Speranza, — quando, votata la coppa dell'ira di Dio, ti contemplai nel fondo — io volli quinci rimoverti come la più amara di tutte le fecce, — ma tu mi parlasti dicendo: A che mi getteresti? Io sola posso riempire questa coppa della linfa di vita, — dell'acqua che scorre dalle fontane celesti, destinata al battesimo delle generazioni che rinascono.

Più pietosa assai delle preghiere che Omero cantò[378], per rifiuto nè per oltraggio tu ti sdegnasti; — voce mutata e sembianza, non salisti al cielo ad imprecare vendetta sopra lo inospitale, — ma sotto rigido aere, per notti procellose, ti sei posta senza lagnarti a piè della porta, pure aspettando che ti venissero aperti i domestici penetrali.

Chiusa ch'ebbi la lapide di granito sopra la tomba della patria, — io vidi la Speranza dall'altra parte del tumulo sorridente e serena. Poi levò la mano e descrisse col dito teso nei cieli l'iride dell'alleanza; — poco dopo, agitando le sue bellissime ale di farfalla, ne scosse una polvere splendida quanto il raggio della prima stella che scintillò sopra la terra, e — «Se vuoi un segno», — ella disse, — «volgiti alla terra e guarda il segno.»

Ed io declinai lo sguardo, e sul granito era cresciuta una messe degna di lui; — aveva lo stelo di acciaro forbito, la spiga a guisa d'impugnatura di spada.

«Un angiolo», riprese, «uscirà tra poco dal tempio e griderà con gran voce: — Mettete dentro la vostra falce, imperciocchè l'ora del mietere sia venuta, e il ricolto rimasto sopra terra si secca[379]

A che dunque l'angiolo indugia? La raccolta non pure è matura, ma la terra è stanca di sopportarla.

Quasi turbine di polvere cacciato dal vento, miriadi di giorni al soffio del tempo passarono sopra la faccia del mondo, — però quel giorno non cadrà immemore di mano al secolo dentro l'abisso; schiuse appena le palpebre, la eternità gli porgerà alimento con le mamelle di bronzo, — i sette giorni della creazione al suo primo apparire lo saluteranno dicendo: Quantunque nato a distruggere, tu non ci sei meno fratello; — benchè tardi venuto, ti sentiamo più grande di noi; — noi sospendemmo alle volte dell'empireo il sole, la luna e gli altri luminari, — ma ci dimentichiamo dell'astro senza del quale il sole non iscalda, non rallegra la luna; campo di morte è la terra, e che tu vieni adesso per porvi — l'astro della libertà.

Oh quanto tarda questo giorno!

Seduto sopra il colle, come i bardi di sant'Ulfrido[380], vedrò la battaglia, — l'ultima che combatteranno gli uomini tra loro, e celebrerò la vittoria, — la sola forse che il poeta potrà cantare senza calarsi la ghirlanda sul volto per nascondere il rossore.

Certo allora il mio sangue mi scorrerà languido nelle vene, ma un raggio di quel sole lo renderà più vivido che mai fosse nei tempi della giovanezza, — le sfere si curveranno al mio orecchio, e l'armonia dei cieli mi sarà rivelata, — lo spirito dei profeti scenderà sul mio capo, — gli avelli stessi degli antichi defunti manderanno un suono per rispondere al cantico nuovo, — all'inno della resurrezione e delle glorie di Dio.

E quando il cantico sarà cessato, — l'ultimo tocco delle corde e l'ultimo palpito del mio cuore spireranno insieme, — la mia anima volerà sopra l'estrema vibrazione armoniosa al principio di tutta armonia.

O figli miei, — io ho molto patito per voi; io merito un premio.

Non vi chiedo lacrime, — perchè non dovete più piangere.

Non vi chiedo sepolcro di marmo; — egli occuperebbe alcuni passi di terreno che voi adopererete meglio seminandolo di frumento; — e poi a me piace la tomba dove ogni anno la primavera rinnuova la verdura, — e fino d'ora parmi che non morrò intero se sopra il mio capo farà germogliare la natura erbe odorose e bei fiori.

E nè anche io vi chiedo la fama; — perchè v'ingombrereste lo intelletto con la ricordanza delle cose che furono? Gittate la storia nell'inferno, come il dragone dell'Apolicasse, e suggellatelo con sette sigilli sopra di lui[381]. Che cosa mai presumereste impararvi? V'imparereste come la colpa generi la vendetta, e la vendetta la colpa, come il serpe si morda la coda, ed è cerchio infame di misfatti e di errori. Abbia il tempo i suoi diritti, continuando il privilegio di Saturno di divorare i suoi figliuoli; — un giorno anch'egli sarà divorato a vicenda da sua madre; — il minuto semina l'ora e raccoglie la giornata; — la giornata semina l'anno e raccoglie il secolo; — l'eternità semina il tempo e raccoglie la morte, — e morte sia: — perchè mi dorrebbe la morte del mio nome dopo quella del mio corpo? — Il lenzuolo funerario non si consuma egli dentro il sepolcro? Perchè non si dovrebbe logorare anche la fama, ch'è il sudario funebre dell'anime?

Tutto parla di morte quaggiù. Mentre guardi il cielo, ti si apre sotto ai piedi una fossa; — mentre vagheggi un fiore sopra la terra, nel firmamento impallidisce una stella; — e se il tuo capo riposi sul seno dell'amata tua donna pensando inebbriarli di voluttà, — ecco, ecco, — bada a questo: le stesse pulsazioni del suo cuore ti misurano la vita che manca e il tempo in cui ti avvicini al sepolcro.

Dove sono o come si chiamarono gli uomini che lottarono con le mani ignude contro ai lioni e rimandarono senza denti la tigre al deserto? In qual modo si distrussero i giganti, — la razza dei feroci cacciatori al cospetto di Dio? Dove giacciono i ruderi dei loro enormi monumenti? Chi visse in Palmira e chi regnò in Persepoli? Chi cantò prima di Lino e d'Orfeo? Chi combattè prima di Agamennone[382]? — Anche il firmamento rimase vedovato dei suoi splendori, — le Pleiadi disparvero, — e non pertanto quali occhi piansero perduti que' bei raggi del cielo? Chi di noi può vantarsi più forte dell'elefante — più bello del destriero, più maestoso del cedro del Libano? — Eppure chi si curò rammentarci quando l'alligatore divorò l'elefante, — il cavaliere straziò degli sproni i fianchi al buon cavallo, — e la scure rapì alla foresta il suo più nobile figlio?

E chi dunque sono io perchè mi debba increscere la dimenticanza?

Io però merito un premio, e ve lo domando. Deh! fate che prima di chiudersi nel sonno della morte questi miei occhi possano vedervi liberi e felici sopra la terra dei vostri padri.

E questo è il premio ch'io domando da voi.

E veramente parve che questo premio avrei potuto avere correndo gli anni di Cristo Redentore 1848, ma noi Italiani uomini mancammo alla fortuna, non la fortuna a noi. Adesso vecchi ed affranti, fummo condannati al martirio di Sisifo: non importa; amici antichi siamo la sventura e noi, sicchè prima andrà sbrizzato il sasso che cessi il talento e l'opera di rotolarlo. Questo imparammo dai nostri padri, questo insegnammo ai nostri figliuoli. Nell'ora in cui scrivo, la mia anima va ingombra di molta amarezza, dacchè consideri starci il mondo intero nemico e la Francia peggio degli altri; ella non ha neanco parole per noi, o le ha stolte, qualche volta maligne; non importa: noi vogliamo essere liberi dalla oppressione straniera[383].

Fine

INDICE

A N. G. A. pag. VII

Introduzione IX

I. Nicolò Machiavelli 1

II. La ritirata d'Arezzo 35

III. Il papa e l'imperatore 59

IV. La incoronazione 87

V. Papa Clemente VII 121

VI. Lucrezia Mazzanti 143

VII. La pratica 165

VIII. Giovanni Bandino 197

IX. Michelangiolo Buonarroti 227

X. Fra' Benedetto da Foiano 249

XI. Il profeta Pieruccio 265

XII. Maria dei Ricci 289

XIII. L'assalto notturno 311

XIV. Il Morticino degli Antinori 327

XV. Andrea del Sarto 353

XVI. La vendetta 383

XVII. Le baldracche 403

XVIII. Amore 423

XIX. La sfida 437

XX. Il guanto 449

XXI. La separazione 463

XXII. Il duello 473

XXIII. La morte 503

XXIV. Il sacco di Prato 517

XXV. Volterra 543

XXVI. Il traditore 583

XXVII. Il calcio 615

XXVIII. Finis Florentiæ 645

XXIX. La battaglia della Gavinana 673

XXX. La vendetta degli uomini e il castigo di Dio 715

NOTE:

1. «Pater meus cecidit vos flagellis, ego autem cædam vos scorpionibus» Reg., lib. III, cap. 12, v. 11.2. Lord Byron.3. «Hæc dicit Dominus: Maledictus homo qui confidit in homine.» Jerem., cap. XVII, v. 5.4. «Non fuit antea nec postea tam longa dies, obediente Domino voci hominis et pugnante pro eo.» Josue, cap. X, v. 14.5. Et dixi: «Usque huc venies, et non procedes amplius, et hic confriges tumentes fluctus tuos.» Job, cap. XXXVIII, v. 11.6. «Pejoraque sæcula ferri:

Temporibus quorum sceleri non invanit ipsa

Nomen, et a nullo posuit natura metallo.»

Juven., Sat. 13.

7. Brantome, tomo X.8. Parini, a Silvia, Ode sul vestire alla guillotina. Però fu ai tempi di Francesco I che cominciò in Francia l'andazzo dei capelli corti e della barba lunga, imperciocchè cotesto re giocando il dì di Epifania a Romoralin col conte di Sanpolo con le palle di neve, rimase ferito nel capo, ond'ebbe a mozzarsi i capelli per farsi curare, ed indi in poi non se li fece più crescere secondo la foggia che usavano i soldati svizzeri e italiani. — Ad. Thiers, Histoire des perruques, pag. 23.9. «Pænituit eum quod hominem fecissit in terra.» Genesi, cap. VI. 6. — «Delebo hominem... pænitet enim me fecisse eos.» Ibid., cap. VI, 7.10. «Samaritanus misericordia motus est. Et approprians alligavit vulnera ejus, infundes oleum et vinum.» Ev. sec. Luc., cap. X, 33.11. Soph. in Œdip.12. Jul. Capitol. Pertinax imperator., in fine. «Signa interitus hæc fuerent: ipse, ante triduum quam occideretur, in piscina sibi visus est videre hominem cum gladio infestantem.»13. «Ecce populus ut leæna consurgens, et quasi leo erigitur: non accubabit donec devoret prædam et occisorum sanguinem bibat.» Num., cap. XXIII, v. 24.14. In codesta occasione si rammenta che una pietra cadendo ruppe il braccio sinistro del Davidde di Michelangiolo. Varchi, Storie, tom. I.15. Tali erano i moderati antichi, che arieggiano ai moderni come gocciola a gocciola.16. Ma non sia alcun di sì poco cervello

Che creda, se la sua casa rovina,

Che Dio la salvi senz'altro puntello:

Perchè e' morrà sotto quella rovina.

Asino d'oro, cap. V.

17. Busini, Lettere.18. Storie fiorentine, lib. III.19. Della natura dei Francesi.20. Principe, cap. III. «E di questa materia parlai a Nantes col Roano, quando il Valentino, che così era chiamato Cesare Borgia figliuolo di papa Alessandro, occupava la Romagna, perchè, dicendomi il cardinal Roano che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, io gli risposi che i Francesi non s'intendevano dello stato, perchè, intendendosene, non lascerebbero venire la Chiesa in tanta grandezza21. Busini, Lett. II.22. Machiavelli, Dialogo sulla lingua.23. Machiavelli, Principe, cap. XV.24. Disc., lib. I, cap. 55.25. Discorso per la riforma dello stato di Firenze a Leone X.26. Disc., lib. 9, cap. I.27. Disc., lib. I, cap. 10.28. Principe, cap. XVII.29. A maggior prova di questo si narra che Giulio II mandasse Pietro Oviedo, spagnuolo, al governatore di Cesena, che lo teneva pel duca, con uno scritto del Valentino, col quale gli si ordinava cederla. Il governatore rispose non potere obbedire agli ordini di un signore prigione, e meritare gastigo chi veniva pel suo disonore; per la qual cosa fece gettare l'Oviedo giù dalle mura. Tommasi, Vita di Cesare Borgia.30. Principe, cap. VII; Tommasi, Vita di Cesare Borgia.31. Principe, cap. VII.32. Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo (Baglioni) e il duca di Gravina Orsini.33. Principe, Cap. VIII.34. Varchi, Storie, Tomo I.35. Tommasi, Vita di Cesare Borgia.36. Principe, cap. II.37. Guicciardini, Storia d'Italia.38. Varchi, Storie, tomo I.39. Lord Nassau Clavering, conte Cowper e il cavaliere Alberto Rimbotti promossero ancora il monumento del Machiavelli in Santa Croce. Antonio Spinazzi scolpiva; il dottore Ferroni componeva la iscrizione famosa: Tanto nomini nullum par elogium. Merita di essere consultata sulla vita e gli scritti del Segretario l'opera recentissima del signore Artaud intitolata Machiavel, tomo II, presso Didot, Parigi, 1833. Quantunque io non partecipi affatto le sue idee intorno al mio eroe, riporto con piacere le sue parole, tomo II, pag. 494, dove, dopo di avere esaminato i diversi ritratti del Machiavelli e dimostrato come spesso lo abbiano confuso con quello di Lorenzo il Magnifico e più spesso con l'altro di Cosimo I, errore in cui cadde Morghen, e nel 1831 il Passigli nella sua edizione delle opere del Machiavelli in un solo volume, dice avere ristabilito il vero in testa del suo libro mercè il raro Ingegno del sig. Ruhierre, il quale espressa nell'incisione: «lo splendore igneo dello sguardo del nostro Fiorentino e quella specie di solenne impassibilità con la quale par che domandi ai secoli presenti che cosa aspettino da lui e per qual ragione tra tanti autori antichi e moderni sia stato scelto il suo nome, poi vilipeso e condannato a diventare una ingiuria plebea, un insulto spietato.» Alcuni fatti discorsi in questo capitolo dal Machiavelli avvennero qualche tempo dopo la sua morte.40. Canzone citata nell' Alhambra di Washington Irving.41. Filiberto fu ultimo germe maschio della famiglia degli Chalons; i suoi beni e i suoi titoli passarono alla sua sorella Claudia moglie di Renato conte di Nassau. Robertson, Vita di Carlo V, lib. V.42. Modo da praticarsi contro i popoli ribellati della Val di Chiana.43. Giannetto Donati, Vita di Francesco Ferrucci.44. Si chiamava Marzocco il lione coronato, insegna del Comune di Fiorenza. Varchi, Storie.45. Purg., canto XIV.46. Vedi c. 1. Modo tenuto dal duca Valentino per ammazzare Vitellozzo Vitelli, ecc.47. Vedi opera sopra citata.48. Ammirato, Famiglie fiorentine; Machiavelli, Storie.49. Busini, lettera XII. Parallelo fra Malatesta Baglioni e Francesco Ferruccio capitani dei Fiorentini. — Scrittura del tempo. — Codice Riccardiano. — 1826, pag. 2.50. Busini, lettera XII.51. Nerli, Stor., lib. XII.52. Nell'opera intitolata — Assedio di Firenze, illustrata con inediti documenti, occorre un passo della lettera 51 di Carlo Cappello, ambasciatore veneto presso la Repubblica di Firenze il quale annunzia come le genti di Arezzo sarieno state la sera del 19 settembre 1529 a Firenze, però che avessero deliberato di lasciarlo, onde non tenere troppi presidii e trovarsi meno forti. Sul quale proposito l'Annotatore dottissimo osserva che per queste parole andrà meno odiosa ai posteri la fama dell'Albizzi; imperciocchè il modo di questo annunzio e il silenzio dello spavento che alla notizia si dice scombuiasse Firenze porgono testimonianza cotesto abbandono essere stato prescritto, non già volontario; la quale opinione gli viene confermata da non vedere ricordato Arezzo tra i luoghi che voleva leggere la Signoria nella lettera 58 del medesimo oratore. La memoria dei defunti è cosa sacra nè va tocca con leggerezza da cui sente la religione della storia; ma nè per le allegazioni delle lettere del Cappello nè per l'avvertimento del signore Albèri parmi deva punto alterarsi il giudizio da solenni storici contemporanei portato sopra il turpe fatto di Antonfrancesco. Esaminando diligentemente la corrispondenza intera, trovo che, essendo riuscito ai Fiorentini di tenere ferma la rôcca di Arezzo, quivi quanto più poterono si ressero (lett. 52); per la qual cosa viene fatto di domandare: se cessero la città, perchè serbarono la rôcca, che pure distraeva dall'esercito 300 fanti dei buoni? Ancora dalla lettera 53 e seguenti si cava che i Fiorentini urgevano i Veneziani affinchè movessero le loro genti da Urbino, le quali, unite a 4000 fanti mandati da Firenze, facessero prova di ricuperarlo; e se i Veneziani non si volevano muovere, la Signoria, come disposta a riavere Arezzo, spediva Andreolo Zati commissario in Casentino a levare gente e tentare la impresa. Ora, perchè tanto affanno a ricuperare quasi subito quello che si era abbandonato poco anzi spontanei? Arrogi che le prime notizie, per ordinario, non esperimentiamo le meglio sicure; nè il Cappello in tutto e per tutto concorda col Varchi, informatissimo narratore e pacato: di più, l'altro documento estratto dalla Riccardiana, messo dal medesimo signor Albèri in fondo del volume, dichiara: «Accordossi adunque il Malatesta con gl'imperiali e venne con le genti fiorentine verso Arezzo: la quale terra desiderando i nostri che fosse difesa per rompere la strada ai nemici, mostrò egli al Commissario tante difficoltà in tal cosa ch'egli deliberò abbandonarla, e così tutti vennero alla volta di Firenze; ma arrivati che furono a San Giovanni, ebbero commissione dai Dieci di mettere tanta gente in Arezzo che la difendesse.» Per ultimo, ella è arte consueta dei governi dissimulare o diminuire la fama delle cose infortunatamente successe: di ciò frequenti esempi nelle storie e in quella romana durante la seconda guerra punica preclari. Antonfrancesco Albizzi fu ottimate codardo di codesti tempi, che vale quanto moderato ai dì nostri: e con la sua infamia rimanga.53. Arme del comune di Arezzo.54. Varchi, Storie, an. 1529; Busini, lettera XII.55. Armando Duplessis, cardinale di Richelieu, ministro di Francia sotto Luigi XIII, diceva che le donne e i preti non dovevano perdonare, perchè ciò in altri sarebbesi attribuito a virtù, in loro poi a debolezza.56. Dante, Parad., c. XVI.57. Però i brevi pontificii si dicono suggellati sub annulo piscatoris.58. Filippo il Bello, mercè l'opera e i consigli di Musciatto Francesi cavaliere fiorentino e di Sciarra Colonna barone romano, prese Bonifazio VIII papa in Alagna. Invano questo pontefice vestì gli abiti sacerdotali, si pose maestosamente a sedere sul trono; ch'ebbe a soffrire i più crudeli oltraggi. Sciarra con la mano coperta dal guanto di ferro lo percosse sul volto. — Onde l'Alighieri esponendo quel caso scriveva: Perchè men paia il mal futuro e il fatto,

Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,

E nel Vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un'altra volta esser deriso,

Veggio rinnovellar l'aceto e il fiele,

E tra vivi ladroni esser anciso.

Purg., canto XX.

Il popolo di Alagna, che prima aveva tenuto mano alla sua cattività, lo liberò il terzo giorno: nondimeno fu tanto lo sdegno concepito che fra brevi giorni morì come arrabbiato, e fu adempita la profezia di Celestino, il quale disse ch'egli entrerebbe nel pontificato come una volpe, vivrebbe come un lione e morrebbe come un cane. Villani, Stor., c. 8.

59. Filippo padre di Carlo V nacque dell'imperatore Massimiliano e da Maria di Borgogna, unica figlia di Carlo il Temerario.60. La corona di ferro, che si conserva a Monza, di fuori è composta d'oro e di gemme, dentro poi la circonda una lamina di ferro; dicono essere un chiodo di Cristo.61. Robertson, Vita di Carlo V, lib. I.62. Robertson, Vita di Carlo V, lib. XII.63. Detto, loco citato.64. Don Ferdinando di Alarcon ebbe in custodia Francesco I dopo la battaglia di Pavia e Clemente VII dopo il sacco di Roma.65. Giorgio Frandesperg, luterano, scese in Italia nel 1526, con 15,000 fanti tedeschi ed una moltitudine di cavalieri; egli portava in seno un laccio d'oro per impiccare il papa, ed altri di seta cremesina all'arcione per impiccare i cardinali. Varchi, Stor.66. Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane, cap. CXV; Guicciardini, Stor., lib. XVI.67. Nardi, Stor., lib. VI.68. Alessandro de' Medici, scrive Lorenzino dei Medici, fu figlio di Lorenzo duca d'Urbino e della moglie di un vetturale nativa di Colle Vecchio, serva nata in casa dei Medici: aggiunge che Alessandro la fece avvelenare perchè i fuorusciti disegnavano torla da casa, dove lavorava la terra, per menarla a Napoli e mostrarla all'imperatore, onde vedesse da chi fosse nato colui il quale ei comportava che comandasse Fiorenza (vedi Apologia di Lorenzino de' Medici ). Scipione Ammirato, Stor., lib, X, dice di avere ricavato da Cosimo I che Alessandro era figlio di Clemente VII e di una schiava africana. — Il suo colore oscuro, aggiunge il Boscone nella Vita di Lorenzo il Magnifico, tomo IV, i capelli ricciuti, le labbra tumide accrescono probabilità al racconto per parte della madre; e per quella del padre la predilezione che questi (cioè papa Clemente) gli ebbe sopra il cardinale Ippolito.69. Luigi XI con lettere patenti del 1465, concede a son amé et fêal conseiller Pierre de Mèdicis di portare nella sua arma i fiordalisi in Francia. — Comines, Stor., tomo II, pag. 565.70. Questa lega fu formata qualche tempo dopo.71. Robertson, Vita di Carlo V, lib v, § 50, 51, ecc.72. Giovanni d'Austria. Vedi Schiller, Guglielmo Tell.73. Filippo II, Schiller e Alfieri.74. Ciò avvenne nel 1526, all'epoca della lega santa. Robertson, lib. IV, § 58.75. Carlo V fu il primo sovrano che assumesse nell'orgoglio del suo cuore il titolo di Maestà: fino a quel tempo i monarchi d'Europa avevano tolto quello di Altezza, o di Grazia.76. Cap. XXIII.77. Robertson, Sismondi, ec.78. Cornelio Agrippa, De duplici incoronatione, in fine; Guicciardini.79. Agrippa teneva sempre seco un cane nero a cui aveva imposto il nome di figliuolo. Alcuni sostenevano fosse il suo demonio famigliare. Alla fine dell'opuscolo De duplici incoronatione, scritto da Cornelio Agrippa, e da cui abbiamo tratto molti particolari intorno alla incoronazione di Carlo V, si leggono epigrammi ed epitafi composti da varii autori in lode di questo cane.80. L' Estravagante unica di Giovanni XII riduce gli ufficii della campana a questi, contenuti nei seguenti versi barbari: Laudo Deum verum, plebem voco, congrego clerum:

Defunctos ploro, pestem fugo, festa decoro.

81. «L'histoire des trois gros diamans pris à Granson Mérite d'être rapportée, et la renommée qu'ils ont eue, l'espèce de vanité attachée a leur possession, témoigneront quelle était la splendeur de ces princes de Bourgogne, dont les dépouilles se sont distribuées entre les rois, qui se les sont enviées et disputées a prix d'or. — Le plus beau, celui qui fut ramassé sous un chariot, fu revendux par le curé de Montagne à un homme de Berne au prix de trois ecus: plus tard un autre Bernois, nommé Barthélemi May, riche marchand qui faisait le commerce avec l'Italie, offrit a Guillaume de Diesbac un présent de quatre cents ducats en reconnaissance de ce qu'il lui avait fait acheter ce diamant pour cinq mille ducats. En 1482, les Gènois l'achetèrent sept mille ducats et le vendirent le double à Louis Sforce le More, duc de Milan. Après la chute de la maison de Sforce le diamant passa en la possession du papa Jules II pour vingt mille ducats. La grosseur est égale à la moitié d'une noix. Il orne la tiare du pape, etc.» ( Barante, Storia dei Duchi di Borgogna, tomo XXI.) Egli erra: — quel diamante orna il bottone del piviale del papa. Vedi Vita di Benvenuto Cellini.82. Varchi, Storia, lib. ultimo.83. Marrano, parola spagnuola rimasta nella nostra lingua, significa in origine un ebreo che ostentava in palese di essersi convertito al cristianesimo ed esercitava in segreto l'antica religione.84. Varchi, Storia, lib. XII.85. Nella processione del venerdì santo il primo rabbino accompagnato da altri Ebrei aspettava il papa presso l'arco di Costantino, se non erro, dove piegava il collo sotto il piede pontificio. Adesso non si costuma più; anzi a mano a mano si accosta la probabilità del contrario, dacchè Rotschild da un punto all'altro può espropriare il pontefice del suo stato e farselo aggiudicare allo incanto: però nel secolo passato mi assicurano che si praticava.86. Washington Irving, Storia di Cristoforo Colombo, lib. V.87. «Leggesi che a Parigi fu uno maestro che si chiamava ser Lò, il quale insegnava loica e filosofia, e avea molti scolari. Intervenne che uno de' suoi scolari, tra gli altri arguto e sottile in disputare, ma superbo e vizioso di sua vita, morì. E dopo alquanti dì, essendo il maestro levato di notte allo studio, questo scolaro morto gli apparì: il quale il maestro riconoscendo, non senza paura domandò quello che di lui era. Rispuose che era dannato. E domandandolo il maestro se le pene dello inferno erano gravi come si dicea, rispuose che infinitamente maggiori, e che colla lingua non si potrebbono contare; ma ch'egli gliene mostrerebbe alcuno saggio. Vedi tu, diss'egli, questa cappa piena di sofismi, della quale io paio vestito? questa mi grava e pesa più che se io avessi la maggior torre di Parigi, o la maggiore montagna del mondo in su le spalle, e mai non la potrò porre giù. E questa pena m'è data dalla divina giustizia per la vanagloria ch'i' ebbi del parermi sapere più che gli altri e spezialmente di sapere fare sottili sofismi, cioè argomenti di sapere vincere altrui disputando. E però questa cappa della mia pena n'è tutta piena: perocchè sempre mi stanno davanti agli occhi a mia confusione. — E levando alto la cappa, che era aperta dinanzi, disse: Vedi tu il fodero di questa cappa? tutto è bracia e fiamma d'ardente fuoco penace, il quale senza veruna lena mi divampa e arde. E questa pena m'è data per lo peccato disonesto della carne, del quale fui nella vita mia viziato, e continuailo infino alla morte sanza pentimento o proponimento di rimanermene. Onde, conciossiacosachè io perseverassi nel peccato sanza termine e sanza fine, e avrei voluto più vivere per più potere peccare, degnamente la divina giustizia m'ha dannato, e tormentando mi punisce sanza termine e sanza fine. E o me lasso! che ora intendo quello che occupato nel piacere del peccato e inteso a' sottili sofismi della loica non intesi mentrechè vivetti nella carne: per che ragione si dea dalla divina giustizia la pena dello inferno sanza fine all'uomo per lo peccato mortale. E acciocchè la mia venuta a te sia con alcuno utile e ammaestramento di te, rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro. — La quale il maestro porgendo, lo scolaro scosse il dito della sua mano che ardea in su la palma del maestro, dove cadde una piccola goccia di sudore e forò la mano dall'uno lato all'altro con molto duolo e pena, come fosse stata una saetta focosa e aguta. — Ora hai il saggio delle pene dello inferno, disse lo scolaro; e urlando con dolorosi guai sparì. Il maestro rimase con grande afflizione e tormento per la mano forata et arsa; nè mai si trovò medicina che quella piaga curasse, ma infino alla morte rimase così forata: donde molti presono utile ammaestramento di correzione. E il maestro, compunto tra per la paurosa visione e per lo duolo, temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali aveva il saggio, diliberò d'abbandonare la scuola e il mondo. Onde in questo pensiero fece due versi, i quali, entrando la mattina vegnente in iscuola, davanti a' suoi scuolari, dicendo la visione e mostrando la mano forata e arsa, rispuose e disse: Linquo coax ranis, cra corvis, vanaque vanis.

Ad loycam pergo quæ mortis non timet ergo. Io lascio alle rane il gracidare e ai corvi il crocitare, le cose vane del mondo agli uomini vani: e io me ne vado a tal loica che non teme la conclusione della morte, cioè alla santa religione. — E così, abbandonando ogni cosa, si fece religioso, santamente vivendo infino alla morte.» Passavanti, Specchio della vera penitenza, Distinz. III, cap. 2.

88. E gli fu fatto in piazza per pubblico editto una statua di marmo con questa iscrizione

andrei . auræ . civi . optimo . felicissimo vindici . atque . auctori . publicæ libertatis . S. P. L. I. posuere.

Segni, Storie, lib. II.

89. «Le discordie tra la plebe ed i nobili danno agio ad alcuna famiglia d'innalzarsi: le fazioni Fregose e Adorne spente: i Francesi scacciati da Savona; Doria liberatore: ma cotesta libertà è ridicola; cambiando capo, la costituzione rimane la stessa; nobili dovrebbero essere uguali davanti la legge, le distinzioni al merito ed alla virtù. Doria renda le navi, con le quali la salvò, e con le quali può ridurla serva.» — Foglietta, Della Repubblica di Genova, lib. I, pag. 60.90. La statua del Doria era abbattuta nel 1797 dai repubblicani: la rialzò Napoleone. Carlo Botta, al lib. XXII della Storia d'Italia, declama: «Comandò si restituisse la statua di Andrea Doria: questo affronto mancava ad Andrea, atterrato dai Giacobini, rinnalzato da Napoleone I» Il popolo comprese per avventura il Doria meglio di questo storico.91. Luigi Alamanni, nella satira 12, cantando di Venezia, diceva: Se non cangi pensiero, un anno solo

Non conterà sopra il millesim'anno

Tua libertà che va fuggendo a volo.

La fortuna verificò la profezia: la elezione del primo doge fu fatta nel 797... Venezia cessò d'esser libera nel 1796, cioè un anno prima che la predizione del poeta spirasse.

92. «Prego don Giovanni di Luna, castellano, che mandi a tôrre del mio sangue dopo la morte e ne faccia fare un migliaccio, mandandolo a Cibo cardinale affine che si sazii in morte di quello che saziare non si è potuto in vita, perchè altro grado non gli manca per arrivare al ponteficato, al che esso tanto disonestamente aspira.» — Testamento di Filippo Strozzi.93. Varchi, Storia, lib. XII. «Clemente comandò che fosse messo in una buia e disagiosa prigione in Castello Santo Angiolo, dove, ancorchè il castellano, il quale era messere Guido dei Medici vescovo di Centa, avendone compassione, lo accarezzasse da prima e s'ingegnasse di mitigare la iracondia del Papa, nondimeno dopo più e più mesi, stando nella inopia di tutte le cose necessarie, ed essendogli ogni giorno per commessione di Clemente stremato quel poco di pane e di acqua conceduti, non meno di sporcizia e di disagio, che di fame e di sete miserabilmente morì.» Di frate Benedetto fu traditore il Malatesta, che lo dette per giunta al tradimento di Firenze. La lettera dell'oratore Cappello tratta dalla Magliabechiana e stampata nell' Assedio di Firenze dall'Albèri a pagina 321 dichiara: «Con tutto che si fosse perdonato ad ognuno, Malatesta aveva ritenuto Benedetto da Fojano teologo e predicatore unico, e fra Zaccheria, ambedue dell'ordine di san Domenico, osservanti della congregazione della Toscana; il che aveva fatto per fare cosa grata al papa, per essere stati questi acerrimi nemici di Sua Santità e difensori con le predicazioni ed esortazioni del governo popolare di Firenze; e Malatesta aveva già cominciato a tormentare fra Benedetto.» Questo ho voluto notare, perchè la inverecondia pretesca, gettata giù buffa ai dì nostri, nega il paiolo in capo; e avvertasi che il povero fra Benedetto non fu mica eretico; tutto altro, zelantissimo cattolico ed «uomo, aggiunge il Varchi, oltre la grandezza e venustà del corpo, di molta dottrina e di singolare eloquenza, posto a tale croce unicamente per essersi mostrato figliuolo pietoso alla patria, quella appunto che il Papa e si scuopriva empio e crudele.»94. In quel secolo credevano ai veleni capaci a produrre la pazzia. — Eustach. Rud., lib. 4, De morb. occult., cap. VI et seq.95. «Papa Clemente, trovandosi senza danaro e senza reputazione, si partì tutto malcontento agli trentuno e lasciò i Bolognesi non troppo bene soddisfatti per un taglione che aveva loro posto; i quali però avendo in tanta frequenza di principi e di prelati vendute carissime eziandio quelle cose le quali erano soliti in altri tempi, non che dare a buona derrata, gettar via, avevano oltre il solito ripieno la loro città di contanti.» — Varchi, Storia, lib. XI.96. Accrescitivo di avventare. Il Davanzali nelle postille al volgarizzamento di Tacito chiosando la voce lanciare scrive: «Avrei detto scaraventatevi; ma cappita! Il Muzio ci «grida.» Io però, che le intemerate del Muzio non temo, e parmi questa gagliarda parola, l'adopero bravamente senza scrupolo di coscienza.97. Guicciardini, Storia, lib. XII. «Era Giulio, benchè nato di natali non legittimi, stato promosso da Lione nei primi mesi del pontificato al cardinalato, seguitando lo esempio di Alessandro VI nello effetto, ma non nel modo. Perchè Alessandro quando creò Cesare Borgia suo figliuolo fece provare per testimoni (che deposero la verità) che la madre al tempo della sua procreazione aveva marito; inferendone che secondo la presunzione delle leggi si aveva a giudicare che il figliuolo fosse più presto nato dal marito che dall'adulterio; in Giulio i testimoni preposero la grazia umana alla verità, perchè provarono che la madre della quale (fanciulla e non maritata) era stato generato, innanzi che ammettesse agli abbracciamenti suoi il padre Giuliano, aveva avuto da lui segreto consentimento di essere sua moglie.»98. Guicciardini, Storia, lib. XV. «Il quale (il cardinale dei Medici) per una cedola di mano propria segretissimamente gli promesse l'uffizio della Vice-Cancelleria, che risiedeva in persona sua, ed il palazzo sontuosissimo il quale edificato già dal cardinale San Giorgio era stato conceduto a lui da papa Lione: donde acceso tanto più il cardinale Colonna indusse nella sua sentenza il cardinale Cornaro e due altri. La inclinazione dei quali come fu nota, cominciarono molti degli altri, tirati, come spesso interviene nei conclavi, da viltà o da ambizione, fare a gara di non essere ultimi a favorirlo.»99. Varchi, Storia, lib. XII. «Papa Clemente temeva il concilio, sì perchè egli era illegitimamente nato, sì perchè era stato eletto con manifesta simonia, e sì ancora perchè, quando gli eserciti imperiale ed ecclesiastico erano sotto Firenze, aveva fatto bandire per tutto il mondo che egli non aveva mosso guerra alla sua carissima patria ad altro fine che per volervi introdurre, in luogo di uno scandaloso governo e tirannico stato » (allora non correva l'andazzo delle parole demagogo, anarchico, mazzinista, ec.), «un pacifico e civilissimo governo» (la parola civile aveva corso anco a cotesti tempi); — «di poi veggendosi per gli effetti tutto il contrario, ed avendo usato una grande inumanità nel vendicarsi e non avere mantenuto i patti, stava con grande e ragionevole sospetto di non dovere essere, celebrandosi un legittimo concilio, rimosso dal papato.»

Questo accadeva trecentoventisei anni fa: ma da cotesti tempi a oggi quanta enorme disparità negl'intenti, nella fede, nei costumi, nel reggimento, nella misericordia dei pontefici!

100. Egli ebbe la testa mozza da Cosimo I. Vedi passim.101. Le genti di Coluzzone offersero un solenne ringraziamento alla Madonna per la guarigione del Malatesta, tornato a casa ferito nel 1512. Una tavola esprime il fatto di presente conservata dai signori conti Baglioni. Malatesta sta in letto adagiato: dirimpetto è la Vergine fra le nuvole, Gesù in grembo circondato da serafini, cherubini, ecc., prostrato a terra un coro di ventiquattro donne in atto di pregare. Inoltre vi si legge questa epigrafe:

Coluzonis. incolæ. divæ. Mariæ. consolatrici, ob, Malatestam. Balionum. principem. Benemeritum. e. media. morte. restitutum. ad. vitam. dum. vulnera. laudem. perpetuam. paritura. tulit.

102. Modo basso che significa morire.103. Dante, Inferno.104. «Qua sono venuti certi da Milano e da Cremona che hanno fatto tale relazione degl'imperiali, così spagnuoli come tedeschi, che non ci è nessuno che non volesse piuttosto il diavolo che loro.» Lettera di Francesco Vettori a Nicolò Machiavelli.105. «Liberate diuturna cura Italiam, extirpate has immanes belluas quæ hominis, præter faciem et vocem, nihil habent.» — Lettera di Nicolò Machiavelli, parlando degl'imperiali.106. «Vettorio di Buonaccorso Ghiberti nepote di Lorenzo di Bortoluccio, il quale lavorò le porte di bronzo di San Giovanni, dipinse nella facciata della casa Medici in via Larga papa Clemente in abito pontificale e col triregno in testa su la scala delle forche; Nicolò della Magna a guisa di giustiziere gli dava la pinta, Iacopo Salviati a uso di battuto gli teneva la tavoluccia sugli occhi, e l'imperatore a sedere con una spada ignuda in mano che in sulla punta aveva scritto queste parole: Amice, ad quid venisti?» — Varchi, Storia, tomo III, pag 281.107. Questo insetto è di Cuba e si chiama Nigua. Un frate, per farlo conoscere in Ispagna, se lo inoculava, se non che prima di giungere a Cadice tanto s'ingrossò che aveva quasi divorato il frate. Però convenne gittarli in mare ambedue. — Requiescant in pace. — Viaggio all'isola di Cuba di Eugenio Nev.108. Varchi, Storia, lib. X. Vedi la bellissima orazione di Lamberto Cambi in proposito.109. Segni, Storia, lib. III.110. Pietro Aretino era amico strettissimo di Giovanni dalle Bande Nere: cotesto uomo, comunque brutto di mille vizj, sappiamo avere avuto anima capace di amare e di sentire amicizia. — Vedasi nella Revue des deux mondes una sua biografia, degna di essere consultata anche dagl'Italiani.111. Pubblicata ch'io ebbi quest'opera, si ridestò fra miei un'alba di amore per le cose patrie. Indi in vari scritti poi furono visti comparire intorno ai fatti toccati in questa Iliade di un popolo oggimai scomparso dal mondo: fra gli altri ricordo un opuscolo breve di mole sopra il caso della Lucrezia Mazzanti, dove mi si movevano parole piuttosto acerbe per essermi dilungato soverchiamente dalla storia; e non è vero: la storia fu alquanto resa più vaga per cagione della estetica persuasa in opere di siffatta maniera; ad ogni modo, uso per natura e per consiglio a lasciare correre i giudizi sopra di me e le cose mie, non ispenderò altre parole, soddisfatto da questo, che il mio libro valse a fare viva la memoria di magnanimi defunti ormai cascata in dimenticanza, ed opera che, vergognando dell'obblio, ponessero a Lucrezia Mazzanti, una lapide commemorativa sul ponte della Incisa. Troppo più l'anima mia sarebbe stata paga, se con la memoria dei nomi avessi potuto suscitare la virtù necessaria ad imitare i fortissimi esempi dei padri nostri. Ahimè! tanto non possono i libri, o non lo possono soli. La iscrizione posta sul ponte alla Incisa dice così:

MDXXIX — Lucrezia de' Mazzanti — Donna d'alto cuore — Plebea — Dagli amplessi aborrendo — Di soldato alla patria nemico — Inviolata — Annegossi — Nè a lei — Maggiore dell'altra Lucrezia — I tempi consentirono un Bruto — E la Repubblica Fiorentina — Periva — Questa memoria — Dopo CCCXIX anni — Antonio Brucalassi poneva.

Pietro Contrucci ne fece un'altra men bella, a parere mio, ed è questa:

Lucrezia Mazzanti — Anzichè da brutale soldato nemico — Patire vituperio — Si annegava nell'Arno — O fortunata! — Che a Dio rendesti — Pura l'anima, intemerato il corpo — E lasciando sì alto esempio alle femmine — Sfuggisti ai mali — Che disertarono la tua Fiorenza.

Peggiore di tutte quella di Benedetto Varchi dettata in latino, nella quale, dopo avere narrato che Lucrezia venuta a galla tre volte, tre volte si ricacciò sotto, conclude che la Lucrezia romana rimase svergognata e morì una volta, mentre l'etrusca morì tre volte e scampò la vergogna. — Grullerie manifeste!

112. Vedi il Prometeo di Eschilo.113. Boccat., De genealogia deorum, l. 5.114. De sapientia veterum, pag. 310, § 26.115. Evang. Math., C. 5.116. Job. c. 13.117. Hypercalypsis Didymi Cler., c. 13.118. Ecclesiastes, c. 3.119. Evang. secundum Joan., c. 18.120. Segni, Storie, lib. III.121. Statua mirabilissima di Donatello, situata nel campanile del Duomo di Firenze: così venne chiamata perchè del tutto calva. Vasari, Vita di Donatelli.122. Gli è questo un proverbio antico di Firenze, nato da questo, che, per essere la chiesa di ser Umido in quartiere povero, quando vi ricorreva il perdono, copia di popolo si accalcava a baciare la reliquia, ma non lasciava quattrini.123. Questo fatto con altri è riportato dal Nardi; uno simile ne racconta il Varchi.124. Nerli, cap. 4.125. Che frate Girolamo, comunque innocente, sia stato impiccato ed arso a istigazione di papa Alessandro VI, OGNI UOMO SA: che trovato senza colpa intendevano assolverlo, ma il commissario pontificio gli ponesse il capestro al collo dicendo: Un frataccio di più o uno di meno, importa poco: vadano pur tutti e tre, SANNO MENO; che fino alla metà del secolo passato nel dì 23 maggio, anniversario della sua morte, si trovasse nella piazza della Signoria, al luogo dov'ebbe supplizio, la fiorita, o fiori diversi sparsi per la terra, NESSUNO SA. Nuovo segno di progredimento del secolo nei costumi servilmente civili e frivolmente politi. Vita e opere del Savonarola, edizione di Pisa.126. Varchi, lib. X. Agli esempi antichi i casi recenti della patria nostra vengono ad aggiungerne altri funestissimi e forse del pari per la esperienza perduti, attesa la prosuntuosa ed ignorante avventatezza di coloro ch'io non so se mi abbia a chiamare amici o piuttosto nemici della libertà.127. Discorso sulla forma del governo di Firenze.128. L'Ulloa, lib. II Vita di Carlo V, afferma che parlassero con Cesare; — lo nega il Varchi. Il secondo come testimonio oculare, doveva essere meglio informato del primo.129. Buffoni, uomini di corte. — Perchè fu UOMO DI CORTE, cioè BUFFONE. — Vita di Cola di Rienzo, tomo I, pag. 69. — Beata l'antichità! almeno allora le cose si chiamavano dai propri loro nomi, e si diceva al pane pane, al sasso sasso: oggi è diverso, gli uomini di corte non si chiamano più buffoni, ma ciambellani, maggiordomi, ec. ec.: la parola ha cessato di essere dimostrativa.130. Varchi, lib. X.131. Vedi Boccaccio, Novella del frate Cipolla.132. Modo volgare che significa da mandare in galera.133. Modo volgare che significa forca.134. Morbo pediculare, per cui tra i molti perirono Silla Felice e Filippo II di Spagna.135. Anco secondario il predetto Cola ammoniò i rettori e 'l popolo a lo ben fare per una similitudine la quale fece pignere nel palazzo di Campidoglio nanti 'l mercato, ne lo parete fuora, sopra la camera; pinse una similitudine in questa forma. Era pinto un grandissimo mare, le onde orribili e forte turbate; in mezzo a questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza timone, senza vela. In questa nave, la quale per pericolare stava, ci era una femmina vedova, vestita di nero, cinta di cingolo di tristezza, sfessa la gonnella da petto, scapigliati li capelli, come volesse piangere; stava inginocchiata, incrociava le mani piegate al petto per pietade, in forma di pregare che suo pericolo non fosse: lo soprascritto dicea: Questa è Roma. Attorno questa nave, da la parte di sotto nell'acqua, stavano quattro navi affondate, le loro vele cadute, rotti li arbori, perduti li timoni. In ciascuna stava una femmina affogata e morta. La prima avea nome Babilonia, la seconda Cartagine, la terza Troia, la quarta Gerusalemme. Lo soprascritto diceva: Queste cittadi per la ingiustizia pericolaro e vennero meno. Una lettera esciva fuora fra queste morte femmine e diceva così: Sopra ogni signoria fosti in altura,

Ora aspettiamo qua la tua rottura. Dal lato manco stavano due isole. In una isoletta stava una femmina che sedea vergognosa, e diceva la lettera: Questa è Italia; favellava questa e diceva così:

Tollesti la balía ad ogni terra,

E sola me tenesti per sorella.

Nell'altra isola stavano quattro femmine colle mani a le gote e a li ginocchi, con atto di molta tristezza, e diceano così:

D'ogni virtude fosti accompagnata,

Ora per mare vai abbandonata.

Queste erano quattro virtudi cardinali, cioè Temperanza, Giustizia, Prudenza e Fortezza. Da la parte ritta stava un'isoletta, e in questa isoletta stava una femmina inginocchiata: la mano distendeva al cielo come orasse; vestita era di bianco, nome aveva Fede Cristiana: lo suo verso dicea così:

O sommo patre, duca e signor mio,

Se Roma pêre, dove starò io?

Ne lo lato ritto della parte di sopra stavano quattro ordini di diversi animali co' le sue ale, e tenevano corna a la bocca e soffiavano come fossino venti li quali facessero tempestate al mare, e davano aiutorio a la nave che pericolasse. A lo primo ordine erano lioni, lupi e orsi; la lettera diceva: Questi sono li potenti baroni e rei rettori. A lo secondo ordine erano cani, porci e caprioli; la lettera diceva: Questi sono li mali consiglieri seguaci de li nobili. A lo terzo ordine stavano pecoroni, dragoni e volpi; la lettera diceva: Questi sono li falsi officiali, giudici e notarii. A lo quarto ordine stavano lepori, gatti, capre e scimmie; la lettera diceva: Questi sono li popolari latroni, micidiali, adulteratori e spogliatori. Nella parte di sopra stava lo cielo; in mezzo la Maiestade Divina come venisse al giudizio; due spade l'escivano da la bocca di là e di qua; dall'uno lato stava santo Pietro, e dall'altro santo Pavolo ad orazione. Quando la gente vidde questa similitudine di tale figura, ogni persona si meravigliava.

Vita di Cola di Rienzo, trib. del pop. rom., l. 1, c. 2.

136. Albero dell'isola di Cuba che dà morte con l'ombra.137. «E Orange, benchè cogli oratori che erano appresso a lui detestasse senza rispetto la cupidità del papa e la ingiustizia di quella impresa, nondimeno, ecc.» — Guicciardini, Storia, lib. XIX.138. Gen., cap. VI.139. Il Lastri scrive essere stato pensiero di certo maestro Antonio, frate di san Francesco il quale spiegava la Divina Commedia in Santa Maria del Fiore, di farvi collocare il ritratto di Dante per ricordare ai suoi concittadini che recuperassero dai Ravennati le ossa di quel grande e gli facessero onore; — cita il ms. di Bartolomeo Ceffoni nella Riccardiana. — Anche di presente il quadro pende in quel medesimo posto.140. Vedi, in proposito di questo trattato, Varchi, lib. X. pag. 161. — Qui giova riportare in brevi detti quanto occorre a pag. 103 dei documenti intorno allo assedio di Firenze raccolti dall'Alberi. — Filiberto di Chalons principe di Orange, nel quale si spense la famiglia, avendone redati i diritti e i titoli la sorella maritata in casa Nassau, aveva partecipato alla congiura del Borbone, e con lui erasi salvato fuggendo a Carlo V. Morto a Roma il Borbone, egli fu capitano dello esercito di quello e vicerè di Napoli. Pare che i suoi disegni sopra Firenze non si accordassero con quelli del Papa, e non è mancato chi ha voluto vedere nei colpi che lo ammazzarono a Gavinana la mano dei sicarii di Clemente. Cosa certa è che, professandosi egli obbligato ai comandamenti di Cesare, protestava contro l'animo del pontefice in cotesto assedio, ed è fatale, come attesta il Busini, per confessione di Baccio Marucelli, che la madre sua, scrivendogli, lo supplicasse di levarsi da quella impresa come ingiusta e perchè vi capiterebbe male.141. Guicciardini, Storia, lib. VI.142. Gioacchino di Cambray recita che Girolamo da Morone, dopo che fu cancelliere di Melano, aveva un anello che parlava, ovvero più tosto un diavolo. — Bodino, Dæmonomania, lib. II.143. Segni, Storia; Busini, Lettere.144. Segni, Storia, tomo I, pag. 259.145. Vita di fra Girolamo, estratta dal Pignotti, pag. 37.146. Varchi, Storia, lib. XI, pag. 45.147. Lastri, tomo IV, pag. 16; Leggi suntuarie.148. Varchi, Storie, lib. X, pag. 195; Dizionario infernale.149. Il monastero di Sant'Egidio fu fondato nel 1288: vi si seppellirono circa 918 morti per anno.150. Enrico Heïne nel libro di Lazaro, dettato da lui sul letto del dolore dove giacque lungamente infermo di malattia insanabile, così si esprime: «Perchè il giusto si strascina lacero e sanguinoso sotto il peso della croce, mentre il tristo col cuore pieno di superbia si pavoneggia sul poderoso destriero? A cui la colpa? Non è onnipotente il Signore? od egli nel suo senno ordinava così? Queste domande reitera l'uomo indefessamente a sè stesso finchè non gli venga chiusa la bocca con un pugno di polvere. Ma, da galantuomini, vi par ella cotesta risposta decente?» Questi concetti voglionsi considerare come stridi di anima inasprita dalle tribolazioni, e nulla più; nebbia di dolore che ogni aura di conforto porta via.151. Vedi nota dell'edizione di Roma a pag. 140 della Vita del Buonarroti scritta dal Vasari.152. Vedi nota di monsignor A. F. Gori al § 41 della Vita di Michelangiolo scritta da Ascanio Condivi.153. A. Condivi, Vita di Michelangiolo, § 65, Vasari, Vita di Michelangiolo.154. Condivi e Vasari.155. Condivi.156. Vasari, Vita, ecc.157. Fu insigne la malafede dei Veneziani in danno dei Fiorentini, e documento grande nelle presenti condizioni d'Italia: astio o viltà che gli movesse, pensarono i Veneziani far parte da sè stessi, e gli altri e loro finalmente precipitarono. La corrispondenza dell'oratore Cappello in più luoghi chiarisce com'egli si sbracciasse a tutto uomo a tenere fermi i Fiorentini nella lega co' Veneziani, mentre questi della costanza degli alleati valevansi per ottenere patti migliori da Carlo V: e siccome il Cappello assai diritto uomo era, lasciavanlo senza istruzioni per potere poi disapprovarne l'operato secondo capitava. Arti inique e antiche nè tali che vogliano smettere gli uomini di stato; almeno per ora. Più tardi i Veneziani scusaronsi incolpando Firenze di avere la prima mandato ambasciatori a Cesare, ma e' fu pretesto, conciossiachè l'ambasceria non aveva concluso nulla, e i Veneziani lo seppero, e ciò nonostante quasi ogni giorno gli andavano confortando con la promessa di soccorsi grossi e spediti; volersi mettere a repentaglio di ogni fortuna per sostenere in Firenze la libertà della Italia: insomma i Veneziani tradirono quanto Francia o Ferrara. Queste cose sappiano gl'Italiani, le sappiano, le deplorino ed imparino a camminare diritto nei nuovi casi che loro allestisce la provvidenza: non adoperandoci giudizio, il meno che può andarne è di trovarci per un altro mezzo secolo in balia degli stranieri e dei preti.158. Altra piaga d'Italia (e, ahimè! se ne annoverano più di cinque) allora come ora questi piccoli principi; ed in oggi peggio, perchè stranieri; gli stati o i popoli in mano a loro, poderi e armenti da sfruttare. Grave sempre la tirannide, ma meno incomportabile la paesana: in questa il principe sta attaccato al paese come alla terra che lo ha a nutrire e a tumulare; nell'altra il principe mette tutto in tasca, vive in piedi e col bastone in mano come una volta gli Ebrei il dì di Pasqua. La Italia dalla forza nemica, dal senno poco, dalla voglie scomposte, stette divisa col consiglio medesimo col quale si sminuzza il cuore davanti l'uccello di rapina onde se ne pasca; qual sia l'uccello di rapina nostro non importa dire, e per di più ha due becchi.159. Nardi, lib. VIII.160. Samuele, lib. VIII.161. Math, cap. 7.162. Id. cap. 23, 24.163. Quella orazione in parte è tolta da quella che recitò Baccio Cavalcanti e in parte da un frammento di predica di fra' Girolamo Savonarola.164. Ammirato, Famiglie fiorentine, dove cita l'autorità del Verini.165. Dante, Purg., VI: Quivi pregava con le mani sporte

Federico Novello, e quel da Pisa

Che fe' parer lo buon Marzucco forte.

Marzucco degli Scoringiani fu da Pisa, ed essendogli stato morto a ghiado il suo figliuolo Farinata, si rese frate minore dopo avere baciata la mano dell'omicida in segno di umiltà e di perdono.

166. Fu fatto decapitare da Lione X in castello l'11 giugno 1512; ignota la causa o dubbia: stando tra Malatesta e il Medici il sangue del padre, i Fiorentini crederono averlo fedele, e crederono male. Machiavello di già aveva insegnato che gli uomini la strage paterna perdonano, la perdita degli averi di rado o mai; in ispecie uomini come fu il traditore Baglioni.167. Margutte nel Morgante del Pulci.168. Varchi, Storie, cap. 11, pag. 28.169. Eugenio Ney, Viag.170. Questa statua si conserva nella galleria di Firenze.171. Confess., lib. 1, cap. 19.172. Questo cannone è stato distrutto perchè aveva l'anima torta; ne conservano nella fortezza di San Giovanni il calcio, il quale rappresenta la testa d'un mostro immaginario. Lastri, Osserv. fior., tomo III. pag. 82. — Nè sarà vano notare come i grossi cannoni chiamati alla Lancaster, di cui fecero molto uso nella ultima guerra taurica, non sono, secondochè vantano, trovato moderno, bensì invenzione antica, ed ebbero nome di basilischi; portavano cento e più libbre di palla e la spingevano fino a tre miglia lontano. Si tralasciarono perchè non imberciavano il tiro, nè ai nostri tempi questo difetto sembra avessero emendato.173. E perchè il fallimento fosse in orrore, come conveniva in città mercantile, si faceva ai cessanti battere il deretano in mezzo della loggia di Mercato Nuovo. Lo stesso genere di pena costumavasi altrove e nominatamente in Lione. Il Migliore cita a questo proposito le parole di Guido papa, che scrive i mercanti di Firenze pagare i loro falli ostendendo pudenda et percutiendo lapidem culo. Il Lippi alludendo a quest'uso nel suo Malmantile finge trovar nell'inferno quelle Donne che feron già per ambizione

D'apparir gioiellate e luccicanti,

Dare il culo al marito in sul lastrone.

Nota anti-romantica. Vedi Lastri, tomo IV, pag. 100.

174. Da tempi remotissimi fino ai dì nostri ci chiarisce la storia come gli uomini vendutisi agli stipendi d'un despota, ponendo giù la naturale indole, assumano quella di bestie: così tacendo la lugubre serie delle immanità recentemente commesse in Italia, giovi rammentare Carlo Zima di Brescia impeciato ed arso, come si costuma ai topi, dall'efferata soldatesca. Cotesto infelicissimo, comechè debole di forze, si avventò al collo di uno dei suoi carnefici e tanto il tenne avvinghiato con supremo sforzo che, nonostante gli argomenti per levarglielo di sotto, ebbe a morire nelle fiamme che aveva acceso pur egli. — Questo ricordi la gioventù italiana.175. Storia della casa Bartolini, compilata dal p. Ildefonso Giusti, pag. 339. — Discorda il Varchi, lib. 11, pag. 89.176. Math., cap. VI, v. 6.177. Robertson, Vita di Carlo V, cap. II.178. Apoc., cap. I, v. 16.179. L'iniquo giuoco del lotto.180. Così è: anco i Sanesi, dopo avere affermato volere correre una medesima fortuna co' Fiorentini e tentennato perfino più volte, ora richiamando, ora restituendo l'oratore presso la Signoria di Fiorenza, all'ultimo si chiarirono nemici e mandarono questi ed altri soccorsi al principe in campo. La corrispondenza del Cappello rammenta anco 8 pezzi grossi di artiglieria. In cotesti tempi maladetti gl'italiani, o per castigo di Dio, o per feroce stupidità propria, indifferenti o lieti dei mali dei loro fratelli, o alla scoperta avversi, operarono in modo che gli stati nostri cascassero uno dopo l'altro in potestà degl'imperatori di Austria come gli uccelli in bocca al serpente di Calcante. Egli è da sperarsi adesso che dopo trecento e ventisei anni facciano senno gli Italiani? Signore, grave cosa non domando nè forte dalla tua misericordia. La libertà di Siena più tardi spense Cosimo I, e ben le stette: furono quelli i meritati premii della tirannide ch'ella aveva per parte sua contribuito a fondare a Firenze.181. Varchi, Stor., lib. 10.182. S. Math.183. Arte della guerra, lib. I.184. A Provenzano Salvani fu fatto prigioniero un amico dal re Carlo nella rotta di Tagliacozzo, ed essendogli posta addosso la taglia di diecimila fiorini d'oro, egli, povero di beni di fortuna, comechè superbissimo, per mettere insieme la somma, pose un tappeto sopra la piazza di Siena e supplicava i cittadini a soccorrerlo. Egli, per trar l'amico suo di pena

Che sostenea nella prigion di Carlo,

Si condusse a tremar per ogni vena.

Dante, Purg., c. 10.

185. L'arme Antinora è spartita per traverso; la metà inferiore fa campo d'oro, la metà superiore fa scacchi azzurri e d'oro.186. Vedi novella 9, giornata VI, del Decamerone.187. Cosiffatti matrimonii fra nobilea spiantata e plebe bruttamente diviziosa Napoleone costumò chiamare: letame sparso su terra spossata per darle vigore. Di qui la nobilissima plebaglia, o la plebeissima nobiltà dei tempi miei, più che in ogni altra città italica, annidiata in Firenze. Centauri pretti, di cui più che la metà è bestia di certo, nè quello che avanza, in coscienza, può dirsi uomo.188. Judic., c. 3, 20, et passim.189. Discorso del Carducci. Vedi Varchi, Storia, libro XI. pag, 35190. Varchi, Storia, libro X.191. Ammirato, Famiglie fiorentine.192. Il Ferruccio nella lettera II pubblicata nella Dispensa 42 dello Archivio storico italiano, chiama il Soderini: animaletto fastidioso. Il Ferruccio cadde prigione a Napoli mentre militava con le Bande Nere in aiuto del Lautrech essendo infermo. — Il Varchi scrisse Antonio da Gagliano avergli imprestato i danari del riscatto, ed altri egli aggiunse esserne rimasto sempre debitore; l'una cosa e l'altra non vera, ma la seconda infame: più tardi gli astiosi della virtù del Ferruccio gli apposero essersi giocati i danari fornitigli per la taglia; ma Filippo Sassetti nella vita del Ferruccio dichiara: «crederei bene piuttosto che, in cambio di averli convertiti in liberare sè, averne a questi effetto accomodato altrui; non avendo ritratto ch'ei fosse al giuoco inclinato, ma senza cura veruna di sè stesso, quanto toccava all'interesse dei danari là dove il bisogno degli amici lo ricercasse.» — Ma veramente Tomaso Cambi fu quegli che tenendo banco a Napoli lo riscattò. Dalle lettere di Francesco Ferrucci ai Dieci di Libertà e Pace, segnatamente dalla 43, si ricava che pagò di taglia 350 ducati «nè mai, egli aggiunge, ho trovato homo che dica di volermi ricompensare come saria stato iusto, ec., perchè io non sono homo da piangere alli piè di persona: più presto mi sono volsuto stare con il danno ricevuto che parlarne.» Per le quali cose egli domanda rifarsi su di messer Piergiovanni Piloso gentiluomo di Cagli commissario imperiale preso nella espugnazione di Samminiato.193. L'arme Soderina fa tre teste di cervo d'argento in campo rosso: talvolta aggiungono la impresa della Chiesa, le chiavi d'oro; tale altra l'aquila imperiale.194. Il frate aveva questo soprannome.195. Anacronismo. — L'acquetta fu trovata dopo; vedi il Destino.196. Varchi, Storia, lib. x.197. Varchi, Storia, lib. X.198. Varchi, Storia, lib. X.199. Acta Apost. capo XVII, verso 25-29. — San Paolo, che se ne doveva intendere, dice proprio così: «Iddio, che fece il mondo e le cose che in esso sono, — non abita in tempii manufatti; — non dobbiamo credere che le sculture di arte e di concetto umano effigiate in oro, argento o pietre si assomigliano a Dio.» Non si sa comprendere come Roma non abbia messo ancora San Paolo all'indice.200. Varchi, Storia, lib. IX; Lasca, Novella V, cena I.201. Varchi, Storia, lib. I.202. Varchi, Storia, lib. X.203. Giac. Malespini, cap. 221.204. Malespini, loc. cit.205. Con patente del 21 febbrajo 1524, fu mandato Zanobi Bartolini a Pistoja nella qualità di capitano o commissario a riordinare la città perturbata dalla fazione Panciatica e Cancellieria. Il Salvi, Hist., tomo III, pag. 95, tale ci dà ragguaglio del suo governo: «Egli si accinse ad esercitare giustizia rigorosissima, e andando innanzi e indietro per la città recava gran terrore a tutti, avendo sempre seco trenta fanti armati di alabarda e trenta archibusieri (cosa non mai usata da altri) e quando egli non aveva per le mani alcuno da castigare e punire, mandava a pigliare qualche mugnaio e facevalo per man di boia impiccare, senza ricercare la cagione, e soleva dire spesso che mugnai, macellai o notai tutti son ladri; e questo faceva per dar terrore alla gente e tenere a freno i Pistoiesi per natura dispostissimi alle brighe!!!» Storia della casata Bartolini Salimbeni di fra' Ildefonso, pag. 381.206. Condivi, Vita di Michelangiolo. Questo quadro non ebbe il duca, perchè mandandolo a prendere un suo gentiluomo, costui nel vederlo disse: Oh questo è poca cosa. Onde Michelangiolo sdegnato lo cacciò via e regalò il quadro al Mini suo creato.207. Vasari, Vita di Michelangiolo.208. Il breve di papa Clemente per la stampa delle opere del Machiavelli data dal 1531.209. Nota 60 del Manni al Condivi.210. Questo Dante col Commento del Landino aveva un palmo di margine ed era tutto pieno di mirabili figure di mano del Michelangiolo; si perse presso Civita Vecchia nel naufragio di una barca che lo trasportava a Roma. Vedi Nota dell'ediz. di Roma al Vasari, pag. 163.211. Il difetto di questo danaro fece posare in Romagna il Carnesecchi e, com'egli scrive Dieci, «di lione lo mutò in lepre, perchè senza il denaro, ch'è il nervo della guerra, non si può far niente.» Assedio di Firenze, pag. 271. E sì che a tutti parve mandato da Dio per essere quasi un secondo Ferruccio.212. Borghini, Arme delle famiglie fiorentine, pag. 149.213. Varchi, Storia, lib. X; Vasari, Vita di Andrea.214. Vasari, nota dell'edizione di Roma. Alfredo di Musset ha scritto un dramma sopra Andrea del Sarto, e invito a leggerlo i miei lettori italiani.215. Josuè, cap. X, v. 14.216. Dante, Inferno, canto XXVII; il cristiano fu Guido da Montefeltro; il papa Bonifazio VIII.217. Nardi, Storia, lib. VIII. Ed è fatale che la madre sua, come attesta il Busini per confessioni di Bacio Maruccelli, gli scrivesse di levarsi da quella impresa perchè era ingiusta e vi capiterebbe male. Assedio di Firenze, pag. 108.218. Varchi, Storia, lib. X; Nardi, Storia, lib. VIII.219. Nardi, Stor., lib. VIII, pag. 216.220. Donato Giannotti, Vita di Francesco Ferruccio.221. Storie, lib. X.222. Ricord. Malisp., Stor., cap. 76.223. Nella lettera del Ferruccio ai Dieci del 26 ottobre 1520, con la quale annunzia la presa di Castelfiorentino, occorrono queste parole notabili: «Infra li prigioni v'è uno gentile homo napolitano et certi altri ricchi di Castelfiorentino, che sto fra due di appiccarli: che certamente meritano maggiore punizione gli subditi nostri che sono contro alla città, che li soldati che vengono ad oppressare quella.»224. Vedi con quanta stupenda parsimonia ragguaglia il Ferruccio i Dieci di Libertà e Pace, lettera 38, di questa fazione su la quale spesero molte e generose parole, secondo che merita, il Varchi, Storie, tomo II, e gli altri storici. Notabile è questo, che il Ferruccio nella breve lettera dimenticata perfino di annunziar la prigionia del castellano spagnuolo onde per via di proscritto aggiunse: «Mi ero scordato di dire alle Vostre Signorie quel che più vale: che in la fortezza di Saminiato si è preso un commissario spagnuolo mandato dal principe per patrone a Saminiato: el quale tengo presso di me per farne la volontà di quelle.»225. Varchi, Storie, lib. XI.226. Il Ferruccio con lettera del 7 novembre 1529 conforta il commessario Tosinghi della sua mala ventura con garbo singolare: «Per la vostra intendo voi essere ritornato in Pisa con le bande, et del non avere obtenuto Peccioli, et di esserne feriti et morti alquanti. È usanza di guerra. Basta solo avere inteso che le fanterie nostre hanno facto el debito; et del resto non si ha a tenere conto alcuno.»227. Queste diverse zuffe avvennero a Marti, a San Romano e a Montopoli; riunite in una le trasporto sopra un terreno diverso.228. Varchi, Storie.229. Varchi, Storie.230. Strana cosa: questo sviscerato amore delle meretrici per la patria occorre nelle storie. Quando Serse minacciò gli estremi danni alla libertà della Grecia, tutte le meretrici greche recaronsi a Corinto per propiziare Diana. — Donde avviene questo? Avviene perchè ogni anima non cade mai tanto basso che non senta la necessità di risorgere; e a tale intento si agguanta a qualunque canapo le venga offerto dalla fortuna.231. Diario del Monaldi in fine delle Storie pistolesi.232. Ruberto monaco, Stor., lib. V.233. Hans Werner.234. Tasso, Sonetto.235. Luca XXIV, v. 27.236. Varchi, Storie.237. «Leggesi scritto da Elinando che nel contado d'Universa fu un povero uomo il quale era buono, e che temeva iddio, et era carbonaio, e di quell'arte si vivea. E avendo accesa la fossa de carboni una volta e stando la notte in una sua capannetta a guardia dell'accesa fossa, sentì in su l'ora della mezza notte grandi strida. Uscì fuori per vedere che fosse: e vide, venire verso la fossa correndo e stridendo una femmina scapigliata e gnuda: e dietro le venia uno cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con uno coltello ignudo in mano: e della bocca e degli occhi e del naso del cavaliere e del cavallo uscia flamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva gittarsi; ma correndo intorno alla fossa, fu sopraggiunta dal cavaliere che dietro le correa: la quale traendo guai, presa per li svolazzanti capelli, crudelmente ferì per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E cadendo in terra con molto spargimento di sangue, la riprese per l'insanguinati capelli e gittolla nella fossa de' carboni ardenti, dove lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutto focosa e arsa la ritolse: e ponendolasi davanti in sul collo del cavallo, correndo se n'andò per la via donde era venuto.» — Vedi Passavanti, Specchio della vera penitenza, cap. II.238. In un manoscritto intitolato: Ambasceria di messer Baldassare Carducci alla corte di Francia, ho trovato tre lettere di Pierfilippo Pandolfini, dalle quali si recava apertamente qual fosse il consiglio di Nicolò e della sua parte, che per la morte di lui non cessò di avere seguito nella Repubblica: — poi trattandosi di giudicarlo — «et anche certi Priori si condussero in modo che non si potè ottenere che la cosa s'investigasse, benchè ognuno abbia tocco con mano havere Nicolò tenuta questa pratica con gl'imperiali, et PP. non per sapere i loro progressi, ma per indurre una parte di quell'esercito alla volta di Toscana per ridurre lo Stato in mano di pochi et suoi, de' quali lui intendeva essere principe e capo...» e più sotto: «Ho parlato con messer Antonio del Vecchio, oratore sanese, quale partì due giorni sono, e diceva havere lui saputo le pratiche che Nicolò teneva con il papa e con gl'imperiali, et scusandolo di bontà, dice che non voleva distruggere lo Stato, ma dalla partecipazione di quello escluderne tanta moltitudine.» — Lettera di Pierfilippo Pandolfini a messer Carducci Baldassare, del 26 aprile 1529.239. Avendo trovato il cartello originale quale fu mandato da Ludovico Martelli e da Dante da Castiglione, mi parve religione riportarlo per lo appunto. Lo compose messere Salvestro Aldobrandini padre di Clemente VIII, dottore solenne. Si trova stampato nell' Archivio storico, nuova serie, tomo IV, parte 2.240. Fausto, Del duello, lib. I, pag. 54.241. Guicciardini, Storia, lib. XV; Robertson, Vita di Carlo V.242. Vita di Benvenuto Cellini.243. Varchi, Stor., lib. X.244. Vedete I destini dell'Europa.245. Varchi, Stor., lib. X.246. Varchi, Stor.247. Il luogo del combattimento dicesi fosse sol poggio Baroncelli, oggi Imperiale. Vengo assicurato da persona la quale ha veduto alcune scritture della nobilissima famiglia del Caccia che il luogo del combattimento non fu veramente sul poggio Baroncelli, ma bensì alle radici dello stesso, cioè in un prato che è alla metà della strada che conduce al convento nominato la Pace. Scene di Vite e Ritratti, ecc.248. Questa camicia si componeva con esecrabili superstizioni; credevano difendesse da ogni male. Vedi Bedino, Dæmonomania.249. Varchi, Stor.250. È pregio dell'opera riportare certo aneddoto riferito nella Vita di padre Gerolamo Savonarola scritta da fra Pacifico Burlamacchi lucchese al capitolo che incomincia: Come Lorenzo dei Medici ammalato volle confessarsi da lui. — Lorenzo trovandosi infermo a morte, domandò il confessore; ed avendo appresso don Guido degli Angioli e messer Mariano della Barba, suoi famigliari, disse: Non voglio alcuno di loro; mandate per il padre priore di San Marco, perchè io non ho ancora trovato religioso alcuno se non lui. — Andò dunque un messo a chiamarlo da parte di Lorenzo, al quale egli rispose: Dite a Lorenzo ch'io non sono il suo bisogno, perchè noi non saremo d'accordo; però non è espediente ch'io venga. — Ritornato il servo con questa ambasciata, disse di nuovo Lorenzo: Torna al padre priore e digli che al tutto venga, perchè io voglio essere d'accordo con lui e far tutto quello che sua riverenzia mi dirà. — Ritornato dunque il servitore a San Marco e fatta la proposta al padre priore, egli prese subito il cammino verso Careggio, villa di Lorenzo lontana due miglia dalla città, dov'egli giaceva ammalato, e per compagno suo prese fra Gregorio vecchio, al quale per la via rivelò che Lorenzo al tutto doveva morire di quella infermità nè poteva scampare. Giunto questo al luogo ed entrato nella camera di Lorenzo, salutatolo prima con le debite cerimonie, dopo alquanto di ragionamento disse Lorenzo: Padre, io mi vorrei confessare, ma tre peccati mi ritirano addietro e quasi mi pongono in disperazione. — Al quale egli disse: E quali sono questi tre peccati? — Rispose allora Lorenzo: I tre peccati sono questi, i quali non so se Dio me li perdonerà: il primo è il sacco di Volterra, che patì per le promesse ch'io feci, — dove molte fanciulle persero la verginità, ed infiniti altri mali vi furono commessi; — il secondo peccato è il Monte delle fanciulle delle quali molte ne sono capitate male standosi in casa per non avere riavuta la dote loro; — il terzo peccato è il caso dei Pazzi, dove molti innocenti furono morti. Alle quali cose rispose il frate: Lorenzo, non vi mettete tante disperazioni al cuore perchè Dio è misericordioso ed anco a voi farà misericordia, se vorrete osservare tre cose ch'io vi dirò. — Allora disse Lorenzo: E quali sono queste tre cose? — Rispose il padre: La prima è: che voi abbiate una grande e viva fede che Dio possa e voglia perdonarvi. — Al quale rispose Lorenzo: Questa ci è grande, e credo così, — Soggiunge il padre: Egli è necessario ancora che ogni cosa male acquistata sia da voi restituita, in quanto sia possibile, lasciando ai vostri figliuoli tante sostanze che sieno decenti a cittadini privati. — Alle quali parole stette Lorenzo alquanto sopra di sè e di poi disse: Ed ancora questo farò. — Seguì allora il padre la terza cosa dicendo: Ultimo è necessario che si restituisca Fiorenza in libertà e nello stato popolare a uso di repubblica. — Alle quali parole Lorenzo voltò le spalle nè mai gli dette altra risposta; onde il padre si partì e lasciollo senz'altra confessione. Nè dopo molto spazio di tempo Lorenzo spirò e passò all'altra vita.251. Uno di questi, Giovambattista Niccolini, fiore di cuore e d'ingegno veracemente italiani, in ogni fortuna leale amico mio: gli altri cessarono essermi amici; se poi abbiano continuato ad amare la patria a me non istà giudicare: questo diranno i nostri figliuoli cessate che sieno le passioni le quali adesso contaminano gl'intelletti.252. Ahimè! adesso ne anche questo rimane più. Cercina, la casa di Dante da Castiglione, e stata venduta all'incanto per espropriazione forzata a istanza dei creditori. Durano tuttavia in fiore le famiglie di quelli che tradirono la patria o non la sovvennero... O sommo Giove

Che fosti in terra per noi crocifisso,

Son gli giusti occhi tuoi rivolti altrove?

253. L'ultima lettera che scrisse ai Dieci il Ferruccio il 1 agosto 1530 da Pescia, col poscritto in data del 2 da Calamec, si crede che sia nella Biblioteca di lord Ashburnham, a cui l'avrebbe venduta Guglielmo Libri.254. Venti anni dopo che fu dettato il libro, io lo rivedo, confitto su questo scoglio di Corsica dalla legge dura dello esilio: nè dello esilio m'incresce, bensì della perduta libertà della patria, e, più ancora della libertà perduta, della mansuetudine pecorina affatto con la quale il patrizio volgo e il plebeo sopporta questa perdita in pace.255. Segni, Stor. lib. IV.256. L'altro sorrida e mistico

Per man lo piglia e dice

Fa cuor, — sei giunto al termine

Del tramite infelice.

E gli orna il crin d'un candido

Fior vago in sullo stelo:

«Martirio» in terra appellasi,

«Gloria» si appella in cielo.

( Beatrice di Tenda, ballata di Orombello).

257. Dante, Sonetto.258. Nardi, Stor., lib. V.259. A Pisa gli si aggiunse il signor Camillo Appiano; sicchè in tutti potevano sommare a 2000 fanti e 130 cavalli.260. Sasselli, Vita di Francesco Ferruccio.261. Dicono Lorenzo il Magnifico, ed invece allora lo chiamavano magnifico messer Lorenzo, come magnifico Niccolò da Uzzano magnifico Diotisalvi Neroni, e via discorrendo.262. Dissertazione del Riccobaldi, pag. 5.263. Cronache di frate Giuliano Ughi della Cavallina, minore osservante, pag. 161.264. Giacchi, Ricerche sopra Volterra, tomo II, pag. 191. Il Buccinelli narra che nel 1493 Giuliano Cecchi, proposto di Pescia, donò con pubblica scrittura questa reliquia a Volterra.265. Vita di F. Ferruccio di Filippo Sassetti: le segnate sono parole precise di Ferruccio.266. Il Sassetti, che più distesamente degli altri parla delle cose di Volterra, narra che il primo a salire il bastione fu l'alfiere del capitano Nicolò Strozzi, detto il Contadino.267. Causa della lite fu questa. Otto da Montauto, mandato dai Dieci in Mugello a reprimere le scorrerie di Ramazzotto, prendere al Trebbio Maria Salviati ed ammazzargli il figliuolo, va, e trovato Ramazzotto partito, non cura l'ordine circa la prigionia e morte della moglie e del figliuolo di Giovanni delle Bande Nere: per la qual cosa i Signori lo sostengono in Firenze. Ragionandosi su questo fatto tra Nicolò e Francesco, quegli commendava assai Otto per non avere sofferto di eseguire opera indegna di soldato, mentre questi lo riprendeva come disobbediente e indisciplinato: su di che essendosi ricambiati parole ingiuriose, il Ferruccio mise mano allo stocco e corse addosso allo Strozzi per ferirlo; i circostanti, postisi fra mezzo, impedirono si facesse sangue. — Sul movere alla volta di Volterra i Dieci ordinarono al Ferruccio di cacciare via ogni rancore che avesse contro il capitano Nicolò Strozzi per amore della Repubblica. Vuolsi avvertire che Nicolò parlava da quel solenne galantuomo ch'egli era; ma il Montauto tradiva come si vide poi dai premii che per la sua slealtà ebbe dal papa.268. Giovanni Parelli volterrano dettò una cronaca di questi casi e le pose il titolo Seconda calamità volterrana; comparve nell' Appendice dell'Arch. stor. ital., volgarizzata per Marco Tabarrini. Badisi che questo Parelli, per essere canonico, si mostra più parziale del papa e però dei Medici che non della patria e della libertà.269. Giacchi, Saggio di ricerche, ecc. sopra Volterra, — Riccobaldi, Ragion. V.270. Il prete che ferì nel collo Lorenzo dei Medici il vecchio era da Volterra e si chiamava Antonio Maffei.271. Isaia, 40.272. Nè molti nè di grande costrutto trovo che fossero gli argenti e gli arredi sacri cavati dal Ferruccio dalla cattedrale di Volterra; eccone la nota che si conserva nel Liber omnium rerum mobilium et immobilium sacristiae Vulterrarum. 1º. Nostra Donna col Figliuolo in braccio di argento, libbre 5 con base di rame dorato. — 2.º Tabernacolo grande di argento con piè di rame dorato con 6 smalti nel nodo: smalti 6 al piede con 6 angiolletti con tutti i loro pinnacoli con crocetta insieme o crocifisso, di libbre 13. — 3.º Turibolo di argento con sette guglie nel cerchio grande, e nel secondo cerchio guglie quattro e mezzo, ad una manca la punta, libbre 7, once 2. — 4.º Un turibolo di argento con sei guglie nel primo cerchio, che v'è una spiccata, di peso libbre 3, once 9. — 5.º Una navicella di argento con due smalti et due serpenti: dentro vi è un cucchiaio di argento: libbre 2, once 2, mal peso. — 6.º Un paio di ampolle di argento con arme del Gherardi, di libbre 1, once 4, — 7.º Una pace con Nostra Donna di argento con dodici castoni et pietre 8 et perle quattro con arme del Gherardi, di peso once 8. — 8.º Una cassetta di argento da olio santo, libbre 1, once 11. Et una lingua di argento con filo di oro, once 2. — 9.º Una croce di legno coperta di argento con crocifisso di argento, libbre 2, once 10. — 10.º Una crocetta di argento con crocifisso e coralli, cinque bottoni, once 8. — 11.º L'argento che cuopriva uno evangelistario di legno. — 12.º L'argento di uno epistolario. — 13.º Una corona ad uso di crocifisso con gigli ottantaquattro, con quattro madreperle per giglio ed uno castone; et uno smalto senza pietra, libbre 1, once 6. — 14º Una tavola di legno coperta di argento ad uso dello altare maggiore con quadri ventuno. — 15.º Un bacinetto di argento coll'arme di Iacopo Gherardi, di peso libbre 1, once 5. — 16.º Una croce di argento, libbre 6, once 10. — 17.º Un calice di argento smaltato con arme del Guelfuccio, libbre 2, once 3. — 18.º Un calice grande di argento smaltato, libbre 3, once 10. — 19.º Un calice e patena di argento, libbre 2, once 2. — 20.º Un calice e patena di argento, smaltato, libbre 2. — 21.º Un calice e patena di argento all' inghilese smaltato, libbre 2. — 22.º Una patena. — 23.º Un bottone di argento, libbre 1, once 3. — 24.º Un anello con giglio, un cammeo e quattro pietre, due rubini e due smaragdi e quattro perle, legato in oro.

Nelle Cronache Volterrane, dettate con evidente stizza in vituperio del Ferruccio e dei Fiorentini, leggiamo che le milizie ferrucciane su la prima giunta a Volterra combatterono comechè stanche non mica per virtù ma per fame, non avendo recato con esso loro tanto da potersi sdigiunare — ancora che il Ferruccio, fatto prigioni quattordici Spagnoli, lasciò morirli d'inedia, dopochè taluno di loro per attutire il tormento della sete ebbe bevuto la propria orina, — di più, che il Ferruccio assalito dal marchese Del Vasto e da Fabrizio Maramaldo perse l'animo e si apprestava a fuggirsi co' cavalli fuori di porta a Selca, se Morgante da Castiglione non lo incorava persuadendolo a mostrare buon viso alla fortuna: — finalmente, che il nepote di Bartolo Tedaldi prendendo in mano la barba della statua di santo Ottaviano lavorata in argento esclamasse: «Questo vecchio provvederà;» per la quale cosa si sa di certo che gli si cangrenassero le mani, e dopo tre giorni miseramente morisse.

Così la racconta il Parelli, op. cit., p. 180; diversa il Sassetti nella Vita del Ferruccio: Non fu santo Ottaviano (secondo lui) bensì san Vittore; nè il nepote del Tedaldi lo percosse, ma gli levò il frontale di argento, e quanto stesse infermo si tace. Altri altramente: cose vecchie e non pertanto (stupendo a dirsi!) se non del pari adesso universalmente credute, del pari almeno date ad intendere. Il principe di Oranges bene altra preda fece agli altari; imperciocchè, passando per l'Aquila, ne arraffò la cassa di argento dove stava riposto il corpo di san Bernardino da Siena, convertendola in suo uso; e di lui gli scrittori la più parte servi della fortuna tacquero perchè ei sostenne le parti del papa; e nota che l'Aquila era città suddita e amica dello imperatore, Volterra ribelle alla Repubblica; e il principe faceva per sè, il Ferruccio per la patria: — nella necessità della quale (osserva il Sassetti, Vita di Francesco Ferruccio ), con lo esempio di Davitte, che ai soldati diede a mangiare la vittima mancandogli altri argomenti, non è forse impio costume adoperare le cose destinale al culto divino.» E diceva meglio se lasciava forse nella penna — Degli argenti il Ferruccio coniò monete da quattro grossi; con gli ori, mezzi ducati; ma pochi, perchè a mezzo giugno mancanti i danari per le paghe, i Côrsi gli si abbottinarono ricusando combattere.

273. E fece male a non lo impiccare, dacchè si ha dal canonico Parelli. Seconda calamità volterrana: «Mi ricordo che un giorno mentre tutti erano alla muraglia, abbandonato il resto della città, Taddeo de' Guiducci prigione del Ferruccio mi disse all'orecchio: Aiutami con quanti più puoi raccogliere, e apriamo le porte a Fabrizio, Onde Ferruccio sia oppresso, e noi vendicati. — Ed avendogli io risposto: Mancano le armi. — Non è buona ragione, — riprese; e per non dar sospetto si allontanò. Di fatto se il Ferruccio avesse avuto sentore di questo segreto colloquio, ci avrebbe senz'altro appiccati. Ed io copertamente tentai molti sul disegno del Guiducci, ma niuno volle assentire.» Pag. 351. Ah! il perdono, il perdono troppo spesso provammo rugiada caduta sopra masse di granito; tuttavolta perdoniamo sempre...274. Che la faccenda stesse come si racconta, e non altrimenti, non se ne può dubitare dopo che in questo modo la riporta Filippo Sassetti nella Vita del Ferruccio; e meglio ancora il Parelli, nemico del Ferruccio, nella Seconda calamità volterranea; il quale se lascia alquanto di dubbiezza pel suo dire avviluppato di ambage, questa viene tolta affatto dal testimonio pienissimo del capitano Goro da Montebenichi, cui ebbe tanto in disgrazia il Ferruccio che stette a un pelo di farlo impiccare. Lettera del Ferruccio ai Dieci, 30 novem. 1529.275. Sassetti, Vita di F. Ferruccio. — Seconda calamità volterrana. Diario di Camillo Incontri. — Ricordi MS. del capitano Goro da Montebenichi, nella Magliabechiana. — Appendice 14, tomo 4 dell' Archivio storico italiano.276. Altri riporta il signor Camillo morisse di archibugiata in una coscia, tocca nello scaramucciare con gl'inimici: non mancò chi disse averlo fatto il Ferruccio, comechè costui avesse congiurato di consegnare una porta della fortezza al marchese Del Vasto, e il Segni sembra inclini a questo parere. Storie, lib. IV. — Non credere niente; il Ferruccio non era uomo da cotali ripieghi scellerati, quanto codardi; se avesse colto il signor Camillo in fallo di tradimento, lo avrebbe fatto impiccare alla ricisa e forse ammazzato egli stesso, come per minor colpa stette a un pelo che non togliesse la vita al conte Gherardo della Gherardesca di Castagneto, secondo che fu raccontato di sopra.277. Ab ingentibus lacertis validissimo centurione. Lo dice il Giovio nelle Storie.278. Tutti i particolari di queste memorabili fazioni di guerra non si sono potuti riportare senza distendere a soverchia lunghezza il racconto: di questo però vada persuaso il lettore, che il Ferruccio, il quale pure aveva veduto le battaglie tra Spagnoli e Francesi nel regno, scrivendo ai Dieci li chiariva «da tre anni in qua non essersi vedute maggiori battaglie in Italia.» Nel giorno 13 giugno tre furono gli assalti: il primo con dodici compagnie, il secondo con diciotto, il terzo con venticinque, combatterono dall'alba fino alle 23 ore di sera, e dei nimici morironvi 400, altrettanti i feriti: ai nostri mancò la munizione di polvere. Il Ferruccio rimase ferito nel secondo, non già nel primo assalto: molti dicono di una sola ferita: il Varchi ne parla in plurale: nella lettera del 6 luglio scritta dai commissari di Volterra ai Dieci, oltre la percossa ricevuta alla batteria, si rammenta la cascata da cavallo: e il Diario dello Incontri riporta del pari di una mala ferita che si fece al ginocchio, per esserglisi abbattuto sotto il cavallo mentre con gran impeto si spingeva ad ammazzare un Volterrano che vide starsene scioperato invece di accorrere ai bastioni: alla quale si aggiunse la febbre: — e si fe' portare dove si combatteva per essere veduto dai soldati. Questo secondo assalto incominciò il 21 giugno, un'ora prima del giorno; dopo 500 cannonate che atterrarono in più parti le mura riparate con botti, materasse e terra, alle ore 20 salirono all'assalto: tre volte si spinsero su la breccia, e tre furono respinti così duramente che dopo quattro ore si dettero alla fuga lasciando sul campo 800 tra morti e feriti. Quando l'esercito imperiale si partì con tanta vergogna, i Ferrucciani gli corsero dietro menando rumore con teglie, padelle e corni, dicendogli villania. — Fabrizio aveva tratto seco 500 fanti e 5000 cavalli: il marchese 4000 fanti: bagaglioni e marraioli non si contano.279. Ai traditori era costume di sfasciare una lista di cima in fondo della casa che abitavano; nell'assedio ciò fu praticato contro in casa di Baccio Valori (Varchi, Stor. )280. Manni, Vita di Lapaccio da Montelupo.281. «Nous revinmes a Paris, où madame de Chèvreuse ne fut pas plus tòt arrivèe qu'on apprit l'exècution de monsieur de Chalais, qui fut fort cruelle, parce que, ayant fait evader le bourreau, on fut obligè de la faire faire par un soldat, qui le massacra de telle sorte qu'il lui donna vingt-deux coups avant de l'achever. Madame de Chalais, sa mere, monta sur l'èchafaud et l'assista courageusement jusqu'a la mort.» ( Mémoires de M. de La Porte, valet-de-chambre de Louis XIV.)282. Le perfectionnement moral, l. 3, sect. 2, chap. VI.283. Matth, c. XI, v. 16.284. Matth. c. XXVII, v. 51.285. Voyeur-Collard.286. Samuel., c. VIII.287. V. Cousin; e più dure parole gli si risparmiano per la pietà che ebbe di provvedere in tempi anco più maligni di questi onorato sepolcro a Santorre Santarosa spento a Sfatteria presso Navarino.288. Memorie del calcio fiorentino, tratte da diverse scritture e dedicate alle AA. Serenissime di Ferdinando principe di Toscana e Violante di Baviera. — Firenze, 1688.289. Iliade, lib. 23.290. Lib. 8.291. Lettere ai Dieci del 14 ottobre, 19 dicembre et 7 marzo 1529, dove si legge: «Ne ho fatti tre capitani...; uno di questi si chiama Pietro Orlandini... et non lo crederia ricompensare a donarli un castello in modo si è portato.»292. Nell' Apologia di Cappucci d'Jacopo Pitti, p. 367, si legge; «Di questa fellonia ne ricevè il capitano Piero dai Medici 6 ducati il mese di provvisione (e non furono troppo!) e il Giugni se ne andò per vergogna a finire la vita in Maremma di Pisa, essendogli stato detto da Alessandro Vitelli nel palazzo dei Medici, dove egli compariva come benemerito: — Addio, messer Andrea; voi ci deste quell'Empoli.»293. Varchi, Stor., l. 11; MS. dell' Ambascieria di Baldassare Carducci in Francia presso Gino Capponi; Nardi, Storia.294. Luigi Alamanni, comunque accolto e onorato dal re Francesco, tanto non potè trattenersi, che nella satira II non gliene facesse rimprovero: Non fu peccato il mio parer sì lieve

Non ricovrar quel dì la bella donna,

Che per voi troppo amar giogo riceve.

295. Di Francia non possiamo essere nemici mai; però non a fine di rimbeccare gli svergognati scrittori che le nostre rose, tristi o stupidi, e forse ambedue, appo i Francesi bistrattano, dei quali io so che i dabbene di cotesto popolo hanno onta e gravezza, ma sì a chiarire quale di noi ab antiquo abbia fatto governo la Francia, e vedano se meritiamo che un giorno ci dia mano a rilevarci, io porrò alcune citazioni intorno alla fede di Francesco I re gentiluomo, com'egli vantavasi.

Nel maggio del 1529 Baldassare Carducci oratore fiorentino domandandogli: «E noi, venendo Cesare, che abbiamo adunque da fare?...» Il re rispondeva: «Non vi abbandonerò; noi siamo una cosa stessa.» Lettere di Carlo Cappello oratore veneziano a Firenze, pag. 25. — Nella Legazione di Baldassare Carducci in Francia ms. presso Gino Capponi si legge: «Stringendo più volte questa maestà a ricordarsi della devozione e fede delle signorie vostre verso di lei in questa composizione, ha con tanta efficacia dimostro l'obbligo che gli parve avere con quelle che non si potria dire più; affermandomi non essersi mai per fare alcuna composizione senza total benefizio e conservazione di cotesta città, la quale reputa non manco che sua. Ed ultimamente mi ha ripetuto queste medesime ragioni di assicurazioni il gran maestro, ricordandogli io il medesimo, dicendomi: Ambasciatore, se voi trovate mai che questa maestà faccia conclusione alcuna con Cesare, che voi non siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite che io non sia uomo di onore, anzi ch'io sia un traditore. » Ancora, il medesimo Carducci scrive che Francesco I «nel consiglio voltandosi a ciascheduno di noi con le più grate ed amorevoli parole che si potesse immaginare, ne assicurava di voler mettere la vita e abbandonare il riscatto dei figliuoli per la conservazione degli stati di ciascuno dei collegati. »

Poco dopo il povero uomo, che giurista era e non uso a pescare nelle torbide acque delle corti, tutto smagato, avvisa: «Io non posso senza infinito dispiacere di animo significare l'empia ed inumana determinazione di questa maestà e suoi agenti in questo trattato di pace stretto contro mille promesse e giuramenti del non concludere cosa alcuna senza la partecipazione degli oratori, degli aderenti e collegati, come più volte si è per me scritto e significato alle signorie vostre e per gli altri oratori ai signori loro. E nondimeno, senza farne alcuno di noi partecipe, questa mattina hanno pubblicato la composizione e pace con grandi solennità ed altre dimostrazioni di allegrezza senza includere alcuno... Talchè sarà una perpetua memoria alla città nostra e a tutta Italia quanto sia da prestar la fede alle loro collegazioni, promesse e giuramenti.» (Lettera ai Dieci, 5 d'agosto 1529.)

Nella medesima lettera più oltre: «Confesso veramente in questo potermisi imputare avere prestato fede a tante affermazioni di non concludere mai senza collegati, ma parimente e più hanno peccato tutti gli altri oratori, i quali hanno dato ai loro signori molta più certa speranza che non ho dato io alle signorie vostre. E parmi avere ad essere scusato ricordando alle signorie vostre l'ultima asserzione del re, dove si trovò Bartolomeo Cavalcanti, e come anco per una sua avranno inteso, cose che certamente avrebbero ingannato ogni uomo, visto che espressamente e con giuramento disse non essere mai per comporsi con Cesare altrimenti, e piuttosto voler perdere i figliuoli che mancare ai confederati.»

E tutto questo non basta: allora, come sempre, i Francesi trascorsero all'ira e alla minaccia contro quelli che non si volevano lasciare tradire pei comodi loro; imperciocchè l'oratore veneziano avendo detto al gran maestro che alla sua repubblica bastava l'animo difendersi sola, nè per fargli piacere avrebbe lasciato le cose di Puglia, anzi nel presagio di decezione avere già mandato 50 galere ad Otranto per tenerle ferme, quegli rispose: «Guardate che, non avendo voi un nemico, non ne abbiate due.» Medesima lettera.

E questo accordo era già fatto, perchè il Trattato di Cambray non solo conteneva il patto dell'abbandono delle cose di Puglia per parte dei Francesi, ma sì anche che, intimati i Veneziani a sgombrare il regno, caso mai non avessero obbedito, il re di Francia avrebbe sovvenuto di 20 mila ducati il mese l'imperatore per cacciarneli a forza. ( Documenti, Molini, Documento 302.) Abbiamo visto che Francesco I non rendeva i danari imprestati, onde i Fiorentini non si potessero aiutare; — nè volle fermarsi qui, che, udendo come i Fiorentini di Lione stessero per mandare 50 mila ducati a casa, emanò un perfido bando proibitivo sotto asprissime pene di portare fuori del regno argento ed oro monetato. (Lettera di Carlo Cappello pag. 202.) — Così non restituiva i danari nè gli lasciava dare.

Indi a breve mutò il re di Francia, e allora, essendo morta Firenze, aizzò Siena per far morire anch'essa. I Francesi dove toccarono fin qui spensero. — Enorme cosa parve anco ai partigiani di Francia il trattato di Cambray; e Iacopo Pitti nell' Apologia dei Cappucci, pag. 368, 369, s'industria rovesciarne la colpa sopra «i cattivi ministri corrotti dal papa, che fece cardinale il vescovo di Tarbes fratello di Grammonto, principale consigliero del re, al quale avendo egli data commessione che spedisse subito per la gente domandata dal Carduccio, non ne fece altro, andando pochi giorni di poi a trovare il re in campagna, con lettere finte come i Fiorentini erano tanto stretti dalla fame che trattavano l'accordo, e però aveva sospeso l'ordine di spedire la gente di arme, acciocchè sua maestà non s'inimicasse col papa nè con Cesare, senza il benefizio degli amici fiorentini. Il che creduto agevolmente dal re seguitò nelle caccie, ma sopraggiunto dall'oratore dolente di tanta tardanza, gli manifestò la cagione: la quale mostra in contrario da lui, con assicurarlo che in Firenze era da vivere per due mesi, allora fu di nuovo data... la commessione: il quale con la medesima astuzia fermò un'altra volta quel re.» E poco dopo: «Come il re intese che egli (il Ferruccio) si metteva in punto con le genti raccolte in Pisa, si pelava la barba temendo che non fosse dalla fazione francese seguitato in Italia.» Traveggole di partigiani sono elleno queste; Francesco I sapeva bene e meglio quello che accadeva in giornata a Firenze, e rimane lettera nobilissima del vescovo di Tarbes oratore di Francia a Roma a cotesto re dove lo ragguaglia di ogni cosa. Merita cotesta lettera sia divulgata, ed io lo farò per ora di sunto e traducendo, però che nell'originale sia lunga troppo ed a comprendersi difficile; ha la data dell'aprile 1530; fu estratta da G. Molini dalla Libreria reale di Parigi, e occorre stampata nell'Appendice IX dell' Arch. Stor. Ital., pag. 473. L'oratore racconta come avessero dato ad intendere al papa che gli avrebbero condotto Firenze a chiedergli perdono con la corda al collo, ma che per ciò conseguire ci era bisogno di quattrini e di molti: però che il papa improvvido di partiti, aveva fatto disegno di vendere fino a 26 cappelli cardinalizi per cavarne un 600 mila ducati; dalle quali cose l'oratore, commosso, si era condotto il lunedì santo al papa; a cui chiesta licenza di aprirgli l'animo suo come cristiano, prete, vescovo, epperò suo sottoposto, non già come oratore, ed ottenutala disse, essere stato mirabilmente sbigottito per la impresa di Firenze pensando alla fama di lui papa e al grado eccelso che occupava, e più poi della tenacità nel proseguirla, correndo per le bocche dei soldati il detto, avere loro dato il pontefice carta bianca di fare di ogni erba fascio: considerasse che da ciò non poteva ricavarne altro che spesa, travaglio, fastidi, amaritudini e disgusto; perchè di avere Firenze per fame bisognava deporre il pensiero, ed egli poterlo accertare che ci era vittovaglia fino a novembre, durante questo tempo donde trarrebbe i quattrini? Bene avere inteso ch'egli pensava cavare 4 o 500 mila scudi dalla creazione dei cardinali, ma considerasse che con questo partito spianterebbe la Chiesa, perchè, oltre ai vituperii che poteva aspettarsene dai luterani, egli metterebbe tal peste nel collegio che di qui a cento anni se ne proverebbero gli effetti. — Il papa rispose: essere la creazione dei cardinali la faccenda che più lo noiava, anche quando si trattava di gente dabbene, per la copia grande che se ne aveva; conoscere a prova che l'oratore favellava d'incanto, ma che l'onore suo lo costringeva a questo, — Allora gli dissi che non ci era onore nè utile, perchè avendo Firenze in rovina, di qui a venti anni non ne avrebbe approfittato di uno scudo, mentre vi avrebbe speso tutto il suo e quello degli altri; e badasse che la creazione dei cardinali non avesse ad essere la sua estrema unzione, perchè, fatto questo, gli era chiusa ogni via a raccogliere pecunia, correndo rischio di non essere più obbedito come papa, cascare in obbrobrio presso i principi cristiani, e dato in balia ai suoi nemici, i quali spoglierebbero la Chiesa di quanto le avanza; ed io conosceva di tal cuore che venuto a questo si sarebbe lasciato morire di fame e di angoscia. Rispose che ben per lui se Firenze non fosse mai stata... e se poteva io consigliarlo a chinare il capo davanti sette od otto paltonieri di Firenze che avevano menato il popolo a precipizio: non dovermi essere ignoto ch'egli si sarebbe attirato l'odio dei principali cittadini che esulano fuori di patria e quotidianamente lo stimolano a tirare innanzi, che in altro modo si troverebbero diserti per avergli fatto servizio... Di qui altre parole e per ultimo la proposta di calare a composizione, auspice Francia, con promessa di condurre la pratica per modo che la domanda di accordo si movesse piuttosto dai Fiorentini che dal papa, quante volte questi lasciassero ferma la libertà, come aveva sempre detto, ed allora diceva, ma queste erano lustre, però che fine e premio della guerra mossa da Clemente contro la patria sua fosse la tirannide.

296. Ecco come lo descrive Filippo Sassetti nella sua Vita in fine: «Uomo di alta statura, di faccia lunga, naso aquilino, occhi lacrimanti, colore vivo, lieto nello aspetto, scarso nelle membra, veloce nel moto, destro e sofferente della fatica, insieme severo e di grande spirito, animoso, modesto e piacevole; ardeva nella collera e tantosto tornava in potestà di sè stesso.»297. Guicciardini, Stor.; Magri e Santelli, Cronache di Livorno.298. Tit. Liv., Histor., l. 30.299. Del Frangsperg è proposito nei capitoli antecedenti.300. Specialmente in quella di Ferrara.301. Iacopo Nardi ci conservò questa preziosa particolarità, il disegno, cioè del Ferruccio di portare la guerra a Roma. Stor., l. 2.302. Varchi, Stor., c. X.303. Dante, Purg.304. Varchi, Storia, 1.305. Dal principio della guerra in qua ebbi sempre avuto a pensare di combattere con gli nemici e di provvedere il danaro straordinariamente per pagare le genti: che mi ha dato più fastidio questo che se io avessi avuto altrettante più oppressioni dalli nemici. Lettere del Ferruccio ai Dieci. — Lettera del 10 luglio 1530, CXIX. Nelle medesime lettere occorre come sovente togliesse danari in presto per le paghe dei soldati.306. Giannotti, Vita di Francesco Ferrucci.307. Malispini, Stor., p. 207.308. Si narra che quando l'arcivescovo Ruggieri benedisse i Pisani pronti ad imbarcarsi sulle galere contro i Genovesi, il Cristo che stava sopra il grande stendardo cadde; per lo che alcuni prendendolo in sinistro augurio sclamarono: Sia pur Cristo coi Genovesi, e con noi il vento, — A denotare il gran numero dei prigioni fatti dai Genovesi nella battaglia della Meloria correva in quei tempi il detto, che chi voleva veder Pisa andasse a Genova. — Pignotti. Stor., l. 3, c. VI.309. Nel 1836 era così; poi furono aperti, e gli eruditi ci hanno frugato: adesso aspettansi storiografi e poeti che si avvantaggino dei materiali per edificare.310. Varchi, Stor., l. 11.311. Varchi, Stor., l. 11.312. Lettere, p. 178.313. Busini, Lettere; Varchi, Stor.314. Lettere di Carlo Cappello oratore veneziano 13 agosto 1530.315. Varchi, Stor., l. 11.316. Nardi, Stor., l. 9.317. Varchi, Stor., lib. 11.318. Busini, Lettere, pag. 178.319. Ezech., c. XXXII.320. Visitando il castello della Gavinana, domandai se si trovassero armi antiche. Mi risposero affermativamente e mi condussero in certa casetta a canto a quella dove fu trucidato il Ferruccio. Il proprietario della casa ci menò entro una stanza terrena dove conservava molte armi di varie forme, lance lunghe oltre un braccio foggiate a foglia di canne, alabarde e picche. Ne presi una nelle mani e proposi acquistarla offrendone in prezzo un napoleone d'oro. Il montanaro ricusò, dicendo ch'ella era povera cosa nè meritava tanto; io dubitando all'opposto che egli rifiutasse per la pochezza della offerta, promisi raddoppiarla, e il montanaro rifiutava di nuovo — venendo dalle città, dove io vedevo comprarsi a contanti — senza eccezione — tutto, aumentai il danaro per ottenerla ad ogni costo; — sperava a un punto e temeva si piegasse il dabbene uomo; sperava di possedere l'arme, temeva incontrare un mercante nel severo montanaro: alfine questi vedendo dalla mia insistenza che non comprendeva la causa del rifiuto, non senza alterezza, mi favellò le seguenti parole: «Queste armi il mio nonno ha lasciate a mio padre, e queste io devo lasciare ai miei figliuoli.» — A Firenze sono due magazzini dove i rigattieri rivendono armi antiche comprate, com'egli mi disse, dalle principali famiglie del paese.321. La statua di Memnone, comunque degradata dal tempo, occorre tuttavia nel deserto dove fu Tebe, distante una lega dalla sponda del Nilo. La tradizione, che, al comparire del sole, mandasse un suono, come di corde di lira che si rompano, non è favolosa. Secondo le ricerche dei fisici, ciò risultava dalla umidità di cui il masso s'impregnava durante la notte, la quale sviluppandosi ai primi calori del sole produceva, dilatando le molecole della pietra naturalmente sonora, un crepito che ripercotendosi su tutta la superficie, vi cagionava una vibrazione generale. Il medesimo fenomeno fu osservato dall'Humboldt nelle rocce granitiche dell'Orenoco.322. Sassetti, Vita di Francesco Ferruccio, pag. 524.323. Apologia dei Cappucci, p. 369.324. Lettera 124.325. F. Sassetti, Vita di Francesco Ferruccio, p. 526.326. Lettera de' commissari di Pisa ai Dieci, 23 luglio, ore 10, lettera CXXIII.327. MS. del cap. Domenico Cini che si conserva nella comune di San Marcello. Mentre con tanta religiosa diligenza si vanno raccogliendo reliquie di poca importanza intorno al Ferruccio, io veramente non so come non abbiano fatto capitale del ms. del cap. Cini.328. Edizione di Prato del 1835.329. Gio. Villani, Stor. fiorent.330. Macchiavelli, Modo da praticarsi co' popoli della Valdichiana.331. MS. del cap. Cini.332. MS. medes.333. «Eo modo quiescenti supervenit cursu citato fessus sacerdos qui dicebat adesse Ferruccium, eumque Sancti Marcelli oppidum intrasse, direptumque incendisse, unde ipse vix effugerit.» Giovio, Stor., l. 29; Ammirato, Stor.; Cini.334. Stando al computo dei nemici, Ferrante Gonzaga il 4 agosto scriveva al marchese di Mantova suo fratello, Allegato 1, Documenti dell'Assedio di Fire nze, p. 318: «Questa è per darvi avviso della fazione fatta per il Ferruccio contro al principe di Oranges, Fabrizio Maramaldo ed Alessandro Vitelli e tutta la fazione panciatica, cioè il plano e la montagna di Pistoia, in numero di 7 od 8 mila fanti, 1550 cavalli; e quelli del Ferruccio non giungevano a 3000 fanti e 400 cavalli.» Ma il pro' Francesco in vero non ne aveva che 2000.335. MS. Cini.336. MS. Cini.337. Sassetti, Vita del Ferruccio, p. 532.338. La casa del Mezzalancia passò in seguito nei Ciampalanti. Un discendente di questa famiglia in memoria del fatto, pose su la facciata della casa la seguente scrizione cronogrammatica

belli consilio dux hic Ferruccius acto per cita in orangem ocius arma ciet. nec procul hinc moritur centum per vulnera, quarto augusti nonas, versibus annus inest. Peregrinus Ciampalantes posuit.

339. La tromba di fuoco fu un cannone di legno o di metallo lungo da 3 fino a 9 piedi empito di polvere e di altre materie accendibili, il quale innestavasi su la punta della picca onde scagliarlo contro i nemici. Il Biringoccio dice potersi adoperare e caricare a modo di artiglieria con palle di pietra ed altri proietti da cavarne miglior costrutto che non dal solo fuoco. Grassi, Diz. Militare.340. Nel ms. del Cini s'incontra la nota seguente posta in margine: — L'armatura dell'Orange si vede anche di presente nella prima stanza della Galleria di Firenze, dove sono conservate diverse rarità di armi antiche, collocata a man sinistra, essendo fregiata di oro, e tiene attaccata una tela tessuta di oro e di argento dalla parte inferiore. Nel bracciale sinistro di essa armatura vi si vede una impressione di palla d'archibuso, lo che indicherebbe avere ricevuti tre e non due colpi, come riporta anche Lorenzo Selva, al l. 3, p. 213 delle Metamorf. riconosciute.341. MS. Cini.342. Riccardo di Shakspeare.343. Nell'allegato 1 alla lettera di Ferrante Gonzaga al marchese di Mantova suo fratello del 5 agosto 1530 si legge: «Il Ferruccio giunto lì gagliardamente si affrontò smontando a piè con l'arme bianca indosso e una stradiotta in mano. Il vocabolo stradiotta manca nel Vocabolario della Crusca e nel Grassi, Diz. militare.344. MS. Cini.345. MS. Cini, Ammirato, Varchi.346. Nel giorno 10 ottobre 1847, soffiando il vento della libertà italica, Giudei e Samaritani si congregarono a Gavinana per abbracciarsi, parlare, udir parlare, giurare e gittare campanili all'aria — Io non andai pago di avere, come Dio mi aveva concesso, narrato del Ferruccio undici anni prima mentre mi si teneva stretto nelle elbane carceri, e nessuno ricordava il Ferruccio. Disse mirabilia un Pietro Odaldi, sopratutto su la sacra necessità d'impugnare le armi pel conquisto della indipendenza nazionale: più tardi si colorì moderato, usurpando nome bellissimo a ingenerosi concetti; per ultimo moriva commissario dell'ospedale di Santa Maria Nuova, restaurato il reggimento assoluto mercè le armi imperiali. Molti, dal 1848 in qua gli epitafi dettati per onorare non già Francesco Mariotto Ferrucci eroe, bensì chi li dettava; degni tutti di oblio, togline uno, di Pietro Contrucci, che dice:

sul pistoiese appennino per tradimento di Malatesta infelice nello ardito conflitto scannato vilmente da Maramaldo da forte e glorioso periva FRANCESCO FERRUCCIO e seco la fiorentina repubblica o tu che visiti luogo di tanta memoria non giudicare l'uomo dalla fortuna.

347. Così chiamano il luogo ove i contadini pongono a seccare le castagne.348. Altri narra diversamente la morte di Vico di Nicolò Machiavelli: accordano che uscisse di Firenze col Ferruccio. — Il Ferruccio stesso ne parla nella lettera del 26 ottobre 1529 ai Dieci, 25 — come caduto prigione in mano agl'imperiali lo aveva riscattato con le armi alla mano. Finalmente affermano che nel 1530 morisse gloriosamente in una sortita tenendo stretto la insegna della sua compagnia. Che che ne sia, questo è sicuro, che i figli di Nicolò Machiavelli furono educati a spargere il sangue in benefizio della patria e della libertà.349. Basini, Lettere, pag. 157. — Carlo Cappello, Lettere, pag. 210.350. Così chiamavasi in Firenze il luogo dove si seppellivano i cadaveri delle bestie.351. Varchi, Stor., l. 11.352. Varchi, Stor., l. 11.353. Giova rammentare che la impresa dei Castiglioni porta tre cani bianchi in campo rosso.354. Il capitano degli Olandesi, conquistata Malacca nel 1614 contro i Portoghesi, domandava al generale dei vinti: «E quando tornerete? — Quando, gli rispose il Portoghese, — i vostri peccati saranno più grandi dei nostri.» — Raynal, Histoire philosoph., l. 2.355. Il testamento di David, il re santo, mette paura. Re III, c. 2, v. 5. «Oltre a ciò tu sai quello che mi ha fatto Joab figlio di Sarvi. — 6 Non lasciare scendere la sua canutezza in pace dentro il sepolcro. — 8 Ecco oltre a ciò appo te Semei, figliuolo di Gera, il quale mi maledisse; io giurai per lo Signore non lo fare morire con la spada; — 9 ma ora non lasciarlo impunito; — fa scendere la sua canutezza nel sepolcro per morte sanguinosa.» — Ecco il legato di David, santo re.356. Samuel. 2, cap. 6.357. Fra' Ughi dice 2000, e aggiunge di un bel vedere. L'annotatore si scandalizza; ma il frate, a parer mio, la pensava più giusto: Italiani venuti a combattere contro la libertà più detestabili assai erano degli stranieri, e il padre degli oppressi poteva e doveva esultare nel vederli di mala morte morire.358. Il Nardi, l. 9 delle Storie, «aggiunse: si disse poi che, vivo o morto, ebbe in sepoltura il fiume Tevere.»359. Machiavelli, Il principe.360. Stor., l. 12.361. Discorso del sublime di Michelangiolo.362. Un umile uomo, sagrestano di San Niccolò, i premi promessi e le pene minacciate disprezzando del pari, salvò Michelangiolo. La storia ne tacque il nome. Francesco Guicciardini conte lo cercava a morte, e va famoso per le bocche dei posteri; ma chi alla celebrità di costui non anteporrebbe l'oblio del povero sagrestano? Ancora i lettori pensino a questo: un conte vuol morto il Buonarroti e non riesce; un popolano lo vuol vivo e lo salva.363. S'è vera, apparirà singolare ai dì nostri la cagione della benevolenza di don Ferrante Gonzaga per Raffaello Girolami. Dicono dunque che, avendo don Ferrante infermo un suo figliuolo, Raffaello gli mandasse l'anello di San Zanobi; dal tocco del quale essendo rimasto guarito, il padre consolato gli professasse gratitudine eterna. — Narrasi eziandio che Lorenzo dei Medici spedisse al re di Francia, Luigi XI l'anello miracoloso, il quale mostrando la consueta virtù rese la salute al Cristianissimo; in guiderdone di che, Luigi rimandò l'anello dentro preziosissima cassetta, che, venduta dal Girolami, ne cavarono danaro bastevole a fondare un canonicato in duomo.364. Cuoco, Saggio sulla rivoluzione di Napoli del 1789.365. Giacomo Molay, capo dei Templari, condannato al fuoco nel 1305 dal papa Clemente V e dal re Filippo il Bello, li citò a comparire dentro l'anno al giudizio di Dio; ed è fama che ambedue nel termine assegnato morissero.366. Bruto, sul punto di uccidersi, disperato gridava: «O virtù, tu sei una vile schiava della fortuna!» ( Plutarco.)367. Stor., 12.368. Se mai continga ch'il poema sacro

Al quale ha posto mano e cielo e terra,

Sì che mi ha fatto per più anni macro.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

( Dante ).

369. Samuel, l. 1, c. 4.370. Pirro, re di Epiro, ecc.371. Lucio II.372. Tanto calcolano essere a un dipresso il numero delle creature umane nel mondo.373. «Cominciati i nuovi fiorini a spargersi per lo mondo, ne furono portati a Tunisi in Barberia e recati dinanzi al re di Tunisi, che era valente e savio uomo; sì gli piacque molto, e fecene far saggio, e trovolli di finissimo oro, e molto li commendò... e veggendo che era moneta di cristiani, mandò per gli mercanti pisani, che allora erano là franchi, e molto innanzi al re, ed eziandio i Fiorentini si spacciavano per Pisani in Tunisi; e domandògli che città fosse tra i cristiani quella Fiorenza che faceva i detti fiorini. Risposero i Pisani dispettosamente e per invidia dicendo: Sono i nostri Arabi fra terra; che tanto viene a dire i nostri montanari. Rispose saviamente il re: Non pare moneta di Arabi; o voi Pisani, qual moneta d'oro è la vostra? Allora furono confusi e non seppono che rispondere; e domandando se v'era alcun fiorentino mercatante, trovovvisi uno d'oltrarno, che aveva nome Pela Balducci, uomo discreto e savio. Lo re domandò dell'essere e dello stato di Firenze, cui i Pisani facevano loro Arabi. Lo quale saviamente rispose mostrando la potenza e magnificenza di Firenze e come Pisa, per comparazione, non era di potere nè di gente la metà di Firenze, che non aveano moneta d'oro, e che il fiorino era guadagnato per li Fiorentini sopra loro, per le molte vittorie avute.» Villani. Stor., libro VI, cap. LV.374. Il medico Petti del Casentino spese più d'ogni altro il tempo e l'esperienze per giungere a capo di simile trovato, ch'egli reputava infallibile.375. Æneid., l. 6376. Con tutto che si fosse perdonato a ognuno, Malatesta aveva ritenuto Benedetto da' Foiano, teologo e predicatore unico, e fra' Zaccheria, ambedue dell'ordine di san Domenico, osservanti della congregazione di Toscana; il che aveva fatto per far cosa grata al papa, per essere stati acerrimi nemici di Sua Santità e difensori con l'esortazioni e predicazioni loro del governo popolare; e Malatesta aveva già incominciato a tormentare fra' Benedetto. — Frammento di Lettera anonima attribuita all'oratore veneziano. Documenti su l'assedio di Firenze, pag. 324.377. Nel 1839 in Perugia fu pubblicato un libro di Giovambattista Vermiglioli professore, col titolo di: Vita e imprese militari di Malatesta IV Baglioni; nel quale per bene tre volte si lacera il mio nome e l'opera mia perchè ripetei quello che nessuno nega, e tutti, così antichi come moderni, confessano il tradimento del Malatesta: anzi neppure il Vermiglioli lo nega; se non che sostiene che a fin di conto ei lo fece per vantaggio di Firenze, ond'è giusto che gliene debba venire piuttosto lode che biasimo. Giova trascrivere in proposito quanto gravemente dichiara l'Alberi in fine della corrispondenza dell'oratore veneziano Carlo Cappello intorno l' Assedio di Firenze: «che dove pur fosse vero quello ch'è ad esuberanza provato, che cioè i Fiorentini non avessero potuto venire a capo di quella impresa l'obligo strettissimo dell'uomo che aveva giurato di dare non che le sostanze la vita per quella causa era di morire combattendo o dimettersi da quel comando. Ma il convenire e dargli lode di avere parteggiato co' nemici e trattenuto i Fiorentini dal venire a battaglia anche quando egli, il Malatesta, credeva che avrebbero potuto uscirne vittoriosi (pag. 115-116), e ciò per lo specioso titolo che quel popolo fosse poi per cadere nei pericoli delle discordie intestine, è tale spregio per la virtù che volentieri mi persuado non essersi dallo scrittore intesa la importanza delle sue proprie parole.» Ma vi è di più; neppure parto di furibonda fantasia possono dirsi gli ultimi momenti della vita del Malatesta quali vennero da me descritti; imperciocchè nelle Cronache del padre Giuliano Ughi minore osservante si legga quanto segue: «Partì Malatesta da Firenze e portonne seco molte bocche di artiglierie dei Fiorentini con grande quantità di danari, e pigliando la via verso Siena, fece peggio a San Casciano, a Poggibonsi e a Staggia che non havevano fatto i nemici Spagnuoli e Lanzi. Giunto a Perugia, incominciò un superbo et egregio palazzo al quale pose nome Firenzuola perchè lo faceva dei danari rubati alla Signoria et alli poveri soldati di Firenze; ma la divina giustizia non glielo lasciò vedere finito, perchè poco dopo un anno s'infermò di crudelissima malattia della quale morì come disperato: perchè appresso alla morte gli scoppiò un occhio con tanto strepito che si udì a più di 30 braccia lontano; e poco dopo gli scoppiò l'altro. Così rendè l'anima al diavolo (come si crede) andando a stare con Giuda e gli altri traditori. — Morì a Betona il 24 dicembre 1531 la vigilia di Natale, che cascò in domenica.»

Nè mancarono commozioni della natura le quali nella mente dei popoli confermarono l'opinione della grande ira di Dio che provocò sopra il suo capo cotesto scellerato; imperciocchè certo cronista perugino racconta come nella notte in cui passò il Malatesta «Vinero vente grandissime, cioè piovose, che non solo demustrò, che scoprì e tette e quante case se dimustraro verso el ditto vento, et portava le persone da locho allo altro, talchè come fu cessato, per le strade non si potia porre piè en terra, che non se calcasse el copertimo e rotto, et en quella notte venne pioggia, grandina e molte altre signale.» A cui piacesse avere un saggio della dettatura del professore Vermiglioli volentieri io gli porrò qui sotto una sua nota, affinchè si soddisfaccia: «Chi si sentisse voglia di grandemente adirarsi legga la relazione della ultima infermità e della morte di Malatesta nel romanzo di D. Guerrazzi. Egli la coniò a suo modo nella pazzesca e furibonda fantasia con la quale coniò l'opera stessa dell' Assedio di Firenze. Imperciocchè anche in quella narrazione la menzogna, l'audacia, il mal talento e la più sfrontata insolenza prendono il luogo della verità e vanno riunite a più modi volgari e triviali di espressioni e modi più acconci a narrare le vergognose crapule delle più vili taverne che la morte di un illustre capitano il di cui valore e militare scienza si celebrarono da tutti gli storici italiani!» Così i professori nel 1859, nè io credo troppo diversi adesso; ma la specie scema e, a Dio piacendo, cesserà del tutto, sicchè di tale maniera libri si conserveranno nelle librerie per maraviglia come nei musei, le ossa fossili delle bestie antediluviane.

378. Iliade, lib. 9.379. Apoc., XIV, v. 15.380. Sant'Ulfrido svedese chiamò intorno al cerchio degli scudi che gli facevano attorno i suoi prodi i tre bardi che lo seguitavano e disse loro: «Qui state e vedete quanto opererò di glorioso, onde, cantandolo, non abbiate bisogno udirlo dalla bocca altrui.»381. Apoc., cap. XX.382. Vixere fortes ante Agamemnona multi (Hor., lib. IV, od. 8).383. Questo fu scritto nel 1855; oggi promettono emendare il danno. Dio lo voglia; staremo a vedere; se noi camminiamo con la valigia davanti, non ne abbiamo colpa; perchè il cane scottato dall'acqua calda ha paura della fredda. Basta; fatto il miracolo, venereremo il santo.

Genova, 15 gennaio 1859.

Passarono dieci anni come l'acqua nelle grondaie. Beati quia quiescunt, esclamò Lutero entrando in un camposanto; ormai non ci avanza, che il desiderio di Lutero.

Livorno, 15 aprile 1869.